Considerazioni di una vita al limite del politicamente corretto

di fiore di pesco
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione e indice ***
Capitolo 2: *** La sigaretta catartica ***
Capitolo 3: *** Un giorno di non ordinaria sporcizia ***
Capitolo 4: *** una testimonianza di depressione ***
Capitolo 5: *** Una madre che non ti aspettavi ***
Capitolo 6: *** Un viaggio che ti fa crescere ***
Capitolo 7: *** Il Decalogo della Giornata di M ***
Capitolo 8: *** Care radici ***
Capitolo 9: *** Non era solo un gatto ***
Capitolo 10: *** Un sogno troppo vivido ***
Capitolo 11: *** Giusto qualche figuraccia ***
Capitolo 12: *** Buonanotte, Katya ***
Capitolo 13: *** Sincerità non corrisposta ***
Capitolo 14: *** Di compleanni, battesimi e regali ***
Capitolo 15: *** Ciò che una donna può ***
Capitolo 16: *** Scuola, tamponamenti e investigazioni ***
Capitolo 17: *** Storie di non-uomini ***
Capitolo 18: *** Aforismi e forbici galeotte ***
Capitolo 19: *** Materinlegicidio ***



Capitolo 1
*** Introduzione e indice ***


Introduzione e indice:

Mi sono iscritta a efp nel 2011, ma ho sempre preferito leggere e scrivere solo per me stessa.

Negli ultimi 20 anni ho accumulato un bel po' di scritti che nessuno ha mai letto. Trattasi di note, riflessioni e una sorta di "breve" autobiografia. Nell'ultimo anno ho potuto scrivere poco perché sono stata molto impegnata e dopo aver portato a termine l'ennesimo corso professionale, in attesa di cominciane un altro a settembre, mi sono messa un po' a rileggere ciò che scrivevo e non so, mi è venuta voglia di condividere.

Come detto nell'incipit, non è un testo delicato, non sono una persona particolarmente morbida e quindi potreste incappare in black humor e turpiloquio: sì, quando rifletto faccio uso abbondante delle parolacce, è uno dei metodi che ha il mio cervello per sfogarsi e dato che lavorando col pubblico in realtà mi trattengo tantissimo ogni giorno tutto il giorno, potete immaginare che una volta liberi di esprimermi, non mi soffermo sulla bigotteria altrui, poi nel caso degli scritti, non li legge nessuno quindi perché censurarmi?
Questa "storia" è una raccolta disomogenea e non segue una trama, ogni capitolo è a sè e quindi non pubblicherò con scadenze, ma ho davvero molto materiale (che nemmeno io ho ancora riletto). Grazie dell'attenzione, qui sotto una breve introduzione dei capitoli così che possiate saltarli se non di vostro interesse:
  1.  La sigaretta catartica, è un capitolo che tratta del riflettere e del fumo, quindi se siete contrari al tabagismo, evitatelo
  2. Un giorno di ordinaria sporcizia, recentissima storia vera in cui io e un gruppo di amici abbiamo dovuto affrontare una sfida particolare a colpi di humor 
  3. Una testimonianza di depressione, un estratto del mio diario risalente ad anni fa, quando ero in depressione e come ho fatto ad uscirne
  4. Il Decalogo della giornata di Merda, un testo satirico che scrissi anni fa per farmi due risate sulla mia proverbiale sfiga 
  5. Una madre che non ti aspettavi, allerta violenza su minori (niente di scabroso o cruento), parla di alcuni episodi che ho vissuto con mia madre, narcisista.
  6. Un viaggio che ti fa crescere, aneddoti di alcuni dei viaggi più importanti della mia vita e riflessioni su cosa sia il viaggio di formazione
  7. Care radici, la storia della mia famiglia, tra paganesimo, guerra e qualche colpo di scena
  8. Non era solo un gatto, in memoria del gatto a cui devo la vita
  9. Un sogno troppo vivido, la storia del sogno più inquietante che abbia mai fatto
  10. Giusto qualche figuraccia, una serie variopinta di figure di merda, alcune fresche, altre meno
  11. Buonanotte, Katya, in memoria di una anziana conoscente
  12. Sincerità non corrisposta, storia di un'amicizia profonda dissolta nel nulla
  13. Di compleanni, battesimi e regali, riflessioni un po' caustiche sul mio compleanno e un battesimo cui era meglio non andare
  14. Ciò che una donna può, un'analisi del sessismo nella mia vita
  15. Scuola, tamponamenti e investigazioni, quattro chiacchiere sugli eventi insoliti capitatemi nelle ultime settimane
  16. Storie di non-uomini, una serie di vicende riguardanti "uomini" e la non consensualità che ho provato ad esorcizzare scrivendo
  17. Aforismi e forbici galeotte, riflessione su due aforismi che da qualche giorno mi ronzavano in testa e simpatici (ma anche no) eventi a cui ho potuto collegarli
  18. work in progress

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Capitolo 2
*** La sigaretta catartica ***


CLICCANDO QUI trovi l'indice, da cui è possibile vedere tutti i capitoli con una piccola introduzione, così da poter scegliere se leggerli oppure no
Come ho anticipato nell'introduzione, questa storia potrebbe urtare la sensibilità di qualcuno, quindi se avete una cattiva opinione del fumo fate un favore a voi stessi e non leggete questo capitolo. Io non voglio essere un esempio da seguire, quindi non vi farò la filippica su quanto sia sbagliato fumare e che non dovreste mai cominciare, dovreste già saperlo.

Ho cominciato a fumare ben prima dell'età consentita dalla legge.
Non essendo mai stata una fan delle norme morali e del buon costume, non mi è mai interessato cosa le persone pensassero di me e della disapprovazione dei benpensanti.
Sinceramente, adoravo la sensazione del fumo di sigaretta.
Fumavo mediamente un pacchetto di Marlboro rosse al giorno, quando ancora costavano 4 euro e 60-80 centesimi al pacchetto.

Per me c'era una netta distinzione tra le sigarette fumate per necessità, quelle fumate in compagnia e quelle che reputavo necessarie per una buona riflessione.
Le prime le fumavo per dipendenza, magari dopo ore e ore passate a studiare o lavorare, durante le quali non avevo potuto fumare. Appena mi liberavo era d'obbligo una sigaretta.
Poi c'erano le sigarette che fumavo quando mi trovavo in compagnia delle mie amiche o di una nuova fiamma. In quel caso mi aiutavano a divertirmi, ad alleviare la tensione e comunque era una gestualità che mi piaceva molto, la ritenevo elegante.
Infine, quando ero di cattivo umore, avevo appena subito una delusione o non riuscivo a dormire o ero semplicemente triste, mi mettevo in disparte, laddove nessuno potesse disturbarmi. Lì, nel silenzio della sera o della notte solitaria, mi sistemavo di norma davanti al camino, in mezzo al giardino o nel bosco e mi guardavo intorno. Apprezzavo la pace di poter assaporare un momento intimo. Tiravo fuori il mio accendino da collezione, il mio preferito, con cui accendevo la Marlboro di turno.
Era la sigaretta più lenta della giornata, era un rito. La usavo per fare il punto della situazione, una scusa per prendere una pausa dal mondo senza cellulari, computer o tecnologia intorno a me.
Nella pace della notte era tutto buio e io potevo vedere solo il rosso del tabacco che bruciava e la luce della luna e delle stelle.
Nessuno poteva giudicarmi o farmi stare male in quei momenti.
Potevo godere di ciò specialmente in estate, durante l'inverno facevo la stessa cosa, ma appoggiata alla finestra o sotto ad un ombrello a causa della neve e del maltempo.

Chiamavo quel momento "la sigaretta catartica". Il che è ridicolo dato che la sigaretta effettivamente ha l'effetto direttamente opposto alla catarsi. Non ti purifica, casomai di insozza ancora di più.

In questo modo allentavo la pressione e le aspettative che gli altri riponevano in me e prendevo fiato da questo mondo malsano.
Tutto ciò è stato possibile nel periodo in cui ho potuto assaporare la vita solitaria, senza famigliari o compagni, dopo i diciannove anni.

Nel 2013 mi fidanzai e presto andammo a convivere per questioni prevalentemente finanziarie. Anche lui era un fumatore, quindi per il primo anno insieme casa nostra sembrava un posacenere. La cosa mi faceva incazzare non poco data la mia fissazione per la pulizia e l'ordine. Fatto sta che assentarsi quella mezzora/ora quasi tutte le sere per fumarsi le sigarette in giardino era divenuto problematico.
Era bello perché nessuno sapeva cosa facessi in quei momenti, finché nessuno richiedeva la mia compagnia. Non potevo di certo lasciare solo il mio fidanzato ogni sera per una sigaretta e qualche elucubrazione del cazzo. Inoltre mi sentii improvvisamente in imbarazzo quando una sera lui mi chiese cosa andassi a fare in giardino "per davvero". Era una cosa effettivamente difficile da comprendere "la mia ragazza la sera esce di notte senza cellulare nei boschi, con uno zippo e un pacchetto di sigarette e torna dopo più di un'ora mentre io la aspetto a casa come un coglione".
Io di norma passeggiavo e poi mi fumavo una sigaretta prima di tornare, così razionalizzai e gli spiegai la situazione. Mi chiese se poteva venire anche lui, ma rifiutai perché la sigaretta catartica era tale solo se fumata in solitudine. La sua espressione mi fece capire quanto fosse egoistica la mia richiesta. È vero, a volte avevo bisogno del mio momento di solitudine, ed è una necessità umana più che condivisibile, ma dopo un intero giorno a non vedersi per lavoro, commissioni eccetera, le 2-3 ore che avevamo la sera per mangiare e stare in compagnia le volevo usare per fumare nei boschi?
Inoltre quei momenti di riflessione giungevano spontanei, liberi e fluenti. Non erano cose organizzate o scandite da tempi precisi, oltre al fatto che spesso erano momenti in cui riflettevo su cose negative, quindi con l'arrivo di un ragazzo che mi rendeva felice e una vita più tranquilla, quel bisogno divenne sempre meno frequente.
In questo modo piano piano persi quell'abitudine e le sigarette alla fine divennero una cosa piuttosto fastidiosa...

La casa puzzava anche se non fumavamo più al suo interno. Purtroppo la semplice presenza di noi fumatori al suo interno la faceva puzzare di fumo. Eravamo individui fortemente accaniti e di conseguenza mi resi conto che i nostri vestiti puzzavano di fumo. Le nostre mani puzzavano insostenibilmente di fumo. I miei capelli puzzavano di sto cazzo di fumo. Li lavavo quasi tutti i giorni, anche se erano lunghi, perché cominciavo ad odiare quell'odore e ad ogni movimento lo avvertivo di nuovo.
Al mattino mi sentivo la bocca come un posacenere anche se mi ero lavata i denti prima di dormire. Il cuscino puzzava di fumo, le lenzuola anche. Stava diventando per me un'ossessione e motivo di angoscia, e ciò era destabilizzante per me dato che prima la consideravo una fonte di catarsi.

Le persone che venivano a trovarmi in casa dicevano che non sentivano la puzza di fumo di cui parlavo, il mio fidanzato diceva di non sentirla, ma io probabilmente ero troppo fissata per crederci.
L'idea che poi dovessi per forza fumare per stare bene, mi rendeva ansiosa.
Insieme decidemmo di smettere di fumare, usando però un surrogato per i primi tempi in modo di non affrontare una traumatica interruzione improvvisa. Usammo quindi la sigaretta elettronica per perdere il contatto con il fumo e dopo qualche mese potei dire di esserne davvero uscita, scalando la nicotina a poco a poco.

In realtà, per quanto fossi d'accordo con lui, l'idea di smettere non era nata da me. La aveva proposta lui, un giorno di luglio, mentre tornava da lavoro. Io lo appoggiai perchè riflettendoci, era la cosa migliore e in due sarebbe stato più semplice perchè ci saremmo sostenuti a vicenda.
Tuttavia per anni ho ripensato a quei momenti sotto le stelle, alla sigaretta catartica, rendendomi conto che un po' mi mancava quella sensazione atavica di passeggiare nella natura con il fuoco di un accendino come unica fonte di luce. Era qualcosa di speciale che con la sigaretta elettronica non si poteva riprodurre.

In totale non fumai per oltre 7 anni. Durante quel tempo stetti con lo stesso ragazzo, sempre colui che mi aveva convinta a dare un taglio alle sigarette, alla mia vita di autodistruzione e ai miei eccessi. Descritto così potrebbe sembrare che io stessi davvero con un bravo ragazzo, un pezzo di pane che ci teneva a me e alla mia salute.
No, credetemi, era un coglione e niente di ciò che mi spinse a fare era per farmi stare meglio. Ma questa è un'altra storia.

Poi, un bel giorno, in seguito ad un burnout e ad un esaurimento nervoso nel giugno del 2021, mi resi conto che non mi interessava un cazzo di niente e di nessuno e che anzi, a fare una vita ligia al dovere nel rispetto dei desideri altrui, mi aveva solo reso frustrata, ipercritica e intollerante.
In seguito all'ennesima rottura di coglioni da parte di un partner che chiaramente non mi amava, ma che aveva paura di perdere un buon partito, un ottimo appoggio finanziario e tanti comfort, lo mandai a zappare in Burundi e ricordo bene la sensazione di quando, restituendogli l'anello mentre se ne stava spaparanzato sul divano a giocare a scoppiare le bolle con lo smartphone (sì, questo coglione non si è nemmeno alzato mentre gli dicevo che volevo porre fine alla storia e annullare le nozze), mi diressi verso la porta d'ingresso del mio appartamento e una volta fuori, sentii fortissima l'esigenza di fumare una sigaretta.
C'è da considerare che sicuramente una dipendenza psicologica da nicotina sia la causa scientifica di questo bisogno. Tuttavia non fu semplicemente questo.
Penso che a livello istintivo in quella circostanza io stessi ricercando me stessa, la vera me stessa, sepolta sotto a sessanta ore di lavoro settimanale, tre settimane di ferie all'anno, la vita salutare fatta di piatti genuini e palestra (l'ameba aveva dedicato una stanza del mio appartamento appositamente alla palestra), la gestione di due ditte, due immobili, una famiglia e sticazzi in colonna. E per assurdo, la prima immagine autentica di me stessa che mi venne in mente fu proprio me, sulla pista ciclabile che taglia il bosco di fronte alla mia casa, col volto alzato verso il cielo e una sigaretta in mano.
Non volevo tornare ad una vita di eccessi, ma presa da quello stordimento emotivo, andai a casa di una mia amica e le chiesi se potessi scroccarle una sigaretta. Per quattro minuti, sentii di essere tornata in me.

Non ho mai ripreso a fumare un pacchetto di sigarette al giorno, non ne sento minimamente l'esigenza. Attualmente ne brucio un massimo di quattro al giorno e almeno una di esse deve essere la mia catarsi. Semmai dovessi sentire l'assenza di questa sensazione, penso che smetterò perchè non vedo altri lati positivi nel fumo (oltre al fatto che mi aiutano con la colite ulcerosa, ma anche questa è un'altra storia).
Così la sera mi ritrovo da sola in terrazza con le gambe sul tavolino a fissare le fasi della luna e dopo qualche minuto arriva il mio nuovo compagno. Mi si avvicina lentamente come farebbe un'antilope con un leone e si ferma di fianco a me. Non dice niente, anche se ogni tanto mi fa girare le palle perchè mi prende la sigaretta e fa due tiri (il taccagno non vuole comprarsele e le Marlboro rosse sono troppo forti per lui, allora mi scrocca tre tiri a sigaretta).

Nonostante a volte vorrei buttarlo giù dalla terrazza, non mi irrita come il mio vecchio compagno. Rispetta i miei momenti di silenzio e forse è per questo che respira ancora.
È strano che dopo tutto questo parlare di fumo, non ne abbia voglia. Forse è la dimostrazione che non è la nicotina in sè ad attrarmi, quanto quel momento di introspezione che adesso ho sfogato con la scrittura.
Grazie per aver letto fino a qui.

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Capitolo 3
*** Un giorno di non ordinaria sporcizia ***


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Oggi, sabato 10 giugno 2023, ringrazio me e le mie idee del cazzo, sempre pronta a nuove sfide e rotture di maroni, al punto che a volte mi inerpico su per progetti che a prima vista paiono stimolanti, per ridurmi come uno straccio al traguardo. Come oggi.

Un mese fa, in seguito al fatto che mentre ero in ufficio ho sentito del cattivo odore provenire dal bar (chiuso da febbraio causa fallimento) ho fatto presente al proprietario dell’immobile che qualcosa non andava. Lui mi ha consegnato le chiavi dicendo se per favore potevo controllare io, dato che si fida di me.

Come sono entrata in quel tugurio, ho compreso immediatamente che la situazione era grave. L’odore era nauseabondo, l’aria quasi irrespirabile. In pratica, il brillante titolare del bar, per motivi che non mi va di sciorinare, una notte di febbraio se l’è svignata, lasciando TUTTO nel bar. Frigoriferi pieni, congelatori pieni, luci accese (che si sono spente a marzo per taglio della corrente)… potete immaginare che finché a febbraio e marzo ha fatto freddo, non c’erano grandi problemi di marcescenza. Ma come a maggio è arrivato il vero calore, il putridume ha raggiunto livelli tali da infestare l’intero condominio.

Avendo io la propensione quasi masochistica a cercare di fare soldi (vecchio lascito di una vita passata in cui avevo sempre le pezze al culo) ho proposto al proprietario dell’immobile di risolvere il suo problema, sgomberando e pulendo il locale alla cifra paragonabile ad un terzo dello stipendio mensile di un operaio. Non dico l’importo preciso semplicemente perché non vivo in Italia e quindi non è in euro e sarebbe difficile spiegarne il valore visto che il costo della vita è differente. Comunque una cifra abbastanza elevata per un giorno di lavoro.

Lui dapprima ha titubato, poi dopo essere entrato a vedere con i suoi occhi, ha accettato.

Ho chiesto ad una mia amica di aiutarmi, così che avremmo fatto prima e diviso il compenso.

Non potevo eseguire immediatamente i lavori, allora ho rimandato a oggi, sabato 10 giugno.

Dopo un inizio di giornata che prometteva un abbondante disagio, ci siamo ritrovati in quattro (io, la mia amica e i nostri compagni) alle 8:30 al locale e lì ci siamo finalmente resi conto di cosa avevamo accettato di fare. Come abbiamo aperto la stanza che sarebbe dovuta essere adibita a cucina, nonostante io sia atea, un solo pensiero mi ha folgorato: “Dio ha abbandonato queste terre”. La mia amica si è girata verso di me lentamente e ho letto nel suo sguardo la stessa angoscia.

Ci siamo messe sotto di buona lena, ho fatto la bellezza di quattro giri in discarica, caricando la mia auto di tutta la porcheria che i disgraziati che avevano il posto avevano accumulato.

Non ricordo più come sono le discariche in Italia, forse negli ultimi dieci anni sono cambiate, l’ultima volta che ne vidi una era il 2018, fatto sta che in sto cazzo di Paese, in discarica regnano gli assistenti ecologici. Una razza di potenti rotti in culo che ti impongono a momenti di staccare anche l’etichetta dalle bottiglie dell’acqua perché “quello è PET, quello è PP, quello è PPE, quella è la fessa di soreta” ma andate un po’ a fanculo per cortesia: ho oltre 700kg di spazzatura da buttare oggi, vogliamo analizzarla tutta tutta o pensate di darvi una mossa? Magari, visto che porco demonio vi paghiamo un fottio tra tasse sui rifiuti, tasse sul sacco, tasse sulla gran voglia di rompere i coglioni che avete, MAGARI, magari, potreste anche smistarla voi sta spazzatura. In fondo comunque state di fianco a me ad annuire come gli avvoltoi per dirmi cosa fare con ogni pezzo, forse, visto che vi ho detto diciotto volte che sono di fretta, POTRESTE ANCHE AIUTARMI OLTRE A PARLARE.

Una pignoleria castrante e controproducente perché alla fine la maggior parte degli stronzi che conosco, non così sensibili alla questione “pianeta Terra”, buttano tutto nell’indifferenziata e se ne sbattono. Nonostante io disapprovi questo atteggiamento, oggi ho pensato a loro con grande solidarietà perché ogni volta che sono andata in discarica, mi hanno trifolato la minchia al punto tale che avrei buttato loro, nelle benne, al posto dell’immondizia. Dopo un paio di badilate sulle tempie.

Come se non bastasse, al ritorno dalla prima volta in cui mi sono recata all’ecocentro, ecco davanti a me un’autocisterna. All’inizio ho pensato che no, non era niente di che, e dovevo mantenere la calma nonostante mi avessero appena fatto perdere 45 minuti per il primo viaggio del giorno e l’istinto primordiale era di farmela a fuoco per tornare ad aiutare la squadra. Invece stranamente ad un incrocio, l’autocisterna si ferma. Non capivo cosa stesse succedendo, il veicolo davanti era grandissimo e mi impediva la visuale. Sapevo solo che eravamo fermi da oltre cinque minuti. Dopo qualche altro minuto sono scesa a vedere che fosse successo e… il minchione al volante dell’autocisterna probabilmente doveva aver fatto voto di bontà, perché stava lasciando passare TUTTI, tutti, ogni cosa, persona, veicolo, ciclista, rosa di Gerico fosse nei paraggi, lui la lasciava passare, sebbene fosse lui che aveva diritto alla precedenza!

Ho percepito chiaramente la pazienza abbandonami, sono risalita in auto e, memore delle mie origini peninsulari, mi sono attaccata al clacson. Non ci crederete ma ha funzionato, il coglione è ripartito.

L’intera giornata è proceduta a ritmo di marcia, ogni cosa che spostavamo nascondeva un nuovo regno microbiotico, vere e proprie colonie e colture di ogni organismo unicellulare e poco pluricellulare che possiate immaginare. Quando abbiamo spostato i frigoriferi, il pavimento si trovava sotto a 2cm di sporco.

Dietro al bancone abbiamo dovuto usare una spatola per stucco al fine di rivedere le piastrelle. È stata un’esperienza nauseante e allo stesso tempo mistica. Senza musica, nel silenzio (eravamo tutti sotto shock), il mio cervello non ha fatto altro che filosofeggiare tutto il tempo. È stato stressante sia fisicamente che psicologicamente, alla fine non mi sopportavo manco più.

Dopo le prime sei ore, il mio compagno è entrato in uno stato dissociativo tale che la mia amica, che è una psicologa, ha ritenuto opportuno farlo sedere e dargli un po’ di caffè. Era così turbato dalla sozzura che non si è offeso nemmeno quando l’ho preso per il culo perché aveva i conati di vomito, e credetemi, lui si offende con niente. Ma non ho potuto cogliere l’occasione di essere bastarda più volte… ad un certo punto mi rendevo conto che tutti venivano a chiedermi cosa dovessero fare, manco fossi il generale alla guida di un esercito invasore in territorio nemico.

Ogni cinque minuti qualcuno mi chiamava e mi esponeva dei quesiti che ancora adesso mi chiedo “perché lo domandate a me? Ma perché io dovrei saperlo? Ma fate un po’ come vi pare!”. Al che ho espresso i miei dubbi ad alta voce, un po’ pittorescamente, per calcare il concetto che mi avevano “leggermente” stressato. In realtà è una cosa che succede molto spesso e ultimamente mi sta angosciando l’idea che tutti mi si rivolgano sempre per le mie capacità di problems solving, perché mi caricano di un lavoro mentale che esula dalla mia vita e di cui potrei fare tranquillamente a meno.

Il compagno della mia amica si è esposto con una risposta che mi ha dato da pensare per ore:

Lui: “non è colpa nostra, non siamo abituati a fare queste cose e domandiamo perché qui non si capisce dove mettere le mani prima”.

Io: “nemmeno io sono una donna delle pulizie, cosa vi fa pensare che abbia tutte le soluzioni?”

Lui: “il modo in cui ti poni. Sai quello che fai e non abbassi mai lo sguardo, trovi soluzioni velocemente e quasi sempre funzionano, fai come quando sei a lavoro e alla fine diventi il punto di riferimento (io sono datore di lavoro e amministratore della mia ditta)”.

Ah però, mecojoni. In pratica il fatto che per anni io abbia gestito un’azienda, ha modificato radicalmente il mio modo di comportami al punto che attiro l’interesse di chi non sa che cazzo fare. Bello, grazie, mi mancava alla mia lista di rotture di coglioni. La aggiungo subito.

Il bello di pulire insieme a due uomini abituati ad essere serviti e riveriti ha dato presto i suoi frutti, quando tra il fatto che avessi assunto il ruolo di leader e il fatto che fossero entrambi storditi, ho dovuto dar retta non solo al mio compagno, bensì al compagno di entrambe!

Mio compagno: “ho fame”

Suo compagno: “ehi, non trovo il caricatore del telefono… comunque, mangiamo che dici?”

Io: “Non l’ho visto. Se avete fame andate a comprarvi qualcosa…”

Suo compagno: “ok… ehi ma dov’è l’acqua?”

Io: “è sul tavolo, la vedo da qui.”

Suo compagno: “ah già. Hai visto il mio caricatore?”

Mio compagno: “io sono stanco, dove sono le tue sigarette che faccio pausa?”

Io: “non ho visto il caricatore. Le sigarette sono dove sono sempre state: nella mia borsa.”

Passa mezzora. Tornano alla carica.

Mio compagno: “Quanto manca? Cosa devo fare? Io ho ancora fame…”

Suo compagno: “Hai visto il mio caricatore?”

CAZZO. Li avrei ammazzati. Ho alzato lo sguardo verso la mia amica che stava pulendo dietro di me. La stronza ghignava. Sapeva che mi stavano rompendo le balle senza sosta ma non faceva nulla per fermare almeno la SUA piaga. La MIA purtroppo l’ho scelta e amen, me la tengo, ma anche la SUA?!

Per fortuna al mio sguardo omicida è andata a cercargli sto caricatore, che era tipo ad un metro e mezzo da lui, ben visibile dal suo punto di vista e non dal mio, in ginocchio sotto al bancone.

Nel mentre di tutto questo disagio, abbiamo potuto godere della totale assenza di discrezione della gente che passava per strada, notava la confusione all’interno e decideva di ignorare il cartello che chiedeva di non entrare, solo per venirmi a chiedere come mai stessi facendo questo lavoro dato che si discosta enormemente dalla mia figura professionale, come mai era stato chiuso il bar, perché verteva in quelle condizioni, quando avrebbe riaperto, se ero io che avevo deciso di aprire una terza attività (no Dio, ti prego no)… a questi gentili visitatori rispondeva la mia amica, con uno sguardo che sembrava spiritato e un sorriso così tirato che avresti potuto suonarci il violino. Per fortuna che fa la psicologa, se no ne avrebbe accoppato qualcuno.

La serata è finita in bellezza, con il mio compagno che perdeva copiosamente sangue dal naso e con la scusa non ha più mosso un gluteo e si è messo ad ascoltare la partita alla radio sciorinando scuse su quanto lui in realtà disprezzi il calcio, però chissà perché sta partita voleva proprio ascoltarla! La mia amica ad una certa ha cominciato a tubare col suo compagno che ripeteva da oltre otto ore di voler scappare anche lui, come l’ex titolare del bar, e io che mi sono smazzata l’ultima ora quasi da sola perché COL CAZZO CHE TORNO DOMANI MATTINA A FINIRE IL LAVORO. Manco se mi paga un’altra volta lo stesso importo. Beh no, forse per quello sarei tornata, però non era questo il caso.

Alle dieci di sera il fidanzato della mia amica ha proposto di regalare al mio compagno un teaser, così da potermi stordire all’occorrenza, come ad esempio in una situazione come quella odierna, in cui ho lavorato più di loro due messi insieme e non volevo fermarmi per il semplice fatto che preferivo fare tutto sabato piuttosto che rovinarmi TUTTO il weekend.

In totale ci abbiamo messo 14 ore. Sono arrivata a casa alle 23, con la schiena a pezzi e le mani tutte sbucciate e tagliate nonostante i guanti, lercia come una bestia selvatica e con i capelli che non si capiva più che forma avessero. Mi sono lavata e lui è crollato sul divano con i gatti, io ho voluto dedicare un’oretta a raccontare questa giornata perché a quanto pare oggi il mio cervello sentiva la necessità di raccontarsi, e visto che riesco ancora a muovere le dita abbastanza velocemente, tanto valeva cogliere l’occasione.

Comunque la prossima volta mi faccio i cazzi miei.

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Capitolo 4
*** una testimonianza di depressione ***


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Oggi mi sono alzata reduce della stanchezza e degli sforzi compiuti ieri per pulire quel locale di cui parlo nel capitolo precedente, quindi senza energie, trovo solo la forza per leggere. Decido di scrivere oggi, perché mi aspetta una bella settimana tosta e so che non riuscirò ad aggiungere granché nei prossimi giorni.

Ho aperto il mio diario per casualità al 2015, periodo caratterizzato da una depressione acuta e da un fenomeno di rimuginio psichico che oggi le persone chiamano overthinking, e sfogliando avanti e indietro negli anni, ho trovato queste testimonianze che oggi decido di condividere dato che per mia fortuna, ne sono uscita completamente.

Dal 2013:

“Durante le nostre giornate siamo sempre occupati, i giorni sono intrisi di impegni, lavoro e faccende da risolvere. In fondo non siamo abituati ad una vita più calma: se ci acquietiamo troppo, ci sentiamo in colpa perché abbiamo la sensazione di star sprecando tempo.
È così colpevolizzante rilassarsi? Nella nostra mentalità lo è perché "chi dorme non piglia pesci", insomma tutto viene valutato in base alla logica dell'utile. Se però ci fermassimo, smettessimo di lavorare e interrompessimo ogni attività per riflettere, ci renderemmo conto della pochezza della nostra esistenza.
Ringrazio Kierkegaard per avermi fatto giungere a questa conclusione perché ritengo sia illuminante ma ugualmente deprimente. È illuminante perché è vero. Quasi tutti gli uomini hanno uno spirito spento, offuscato e seppellito da mille preoccupazioni.
Maledizione, possibile che io sia vuota? Quando è accaduto? In quale momento ho smesso di essere importante? Quando ho perso il mio valore? Non me ne sono accorta...
Gli impegni, il lavoro, lo studio mi hanno sommersa e ho smesso di preoccuparmi del bene della mia anima. La cosa mi rende assolutamente inquieta, possibile che solo io me ne sia accorta? Nessun altro sembra soffermarsi su questi pensieri. Il cambiamento mi è passato tanto inosservato da non capire la sua posizione nel tempo, molto probabilmente perché non avevo mai considerato un simile rischio. Mi sono spinta verso lo studio, verso la mia densa vita sociale, verso il mio lavoro convinta che ciò mi avrebbe elevato, mi avrebbe arricchita. Come è possibile che abbia sortito l'effetto opposto?
E ora che mi resta? Dando uno sguardo freddo alla mia realtà, trovo migliaia di testi, libri, documenti, informazioni e anche molta cultura, ma è tutto ciò che ho. Gli amici appaiono in questi momenti molto lontani. Sento che non hanno il potere di sollevarmi da questo stato d'animo.
Forse è per via della superbia che non riesco a chiedere aiuto. Mi rendo conto che potrei riuscire ad uscirne da sola, come ho sempre fatto in passato... ma come?
Devo trovare un senso alla mia esistenza.
Voglio trovarlo.
Tutto ciò che mi circonda ha poco spessore. Mi accuso di tanti difetti, chissà se li ho veramente. Chi mi frequenta dice che esagero, per ciò desumo che non mi conoscano realmente. La cosa mi turba.
Ad ogni modo mi deprime parecchio questa condizione, quasi sicuramente perché non ho più una motivazione. Tuttavia ho questa vita, per cui la devo vivere. Wow, sono arrivata a pensare che DEVO vivere. Ciò è molto triste. Non mi piace troppo compiangermi sulla carta, la faccio già troppo spesso nella mia testa.
Dal momento che il mio obiettivo è trovare un senso alla mia esistenza, immagino che dovrò darmi da fare per trovare qualcosa che mi valorizzi realmente. Del resto non posso più ignorare la sensazione di malessere che mi trasmettono le mie abitudini.
Studiare, stare al computer, fare una passeggiata, tutto mi fa sentire inadeguata. Curare i miei animali mi dà la sensazione di sembrare eccentrica e nulla mi dà una reale soddisfazione. Cosa è questo male di vivere? Quando mi ha colto?
Sono perseguitata dall'idea di star sprecando il mio tempo. Lo sto davvero facendo? Non lo so, ma questa idea mi ossessiona. Tuttavia sono giunta a pensare che questo malessere avrà fine solo quando cambierò vita. Il tempo scorre inesorabilmente lento, l'esame è ancora troppo lontano, io ho poche energie mentali e la fine dell'università appare come la luce in fondo al tunnel. Voglio andarmene!!
Forse allora mi sentirò meglio.... ma non voglio farmi troppe illusioni. Non voglio finire come Leopardi, che sognava di lasciare Recanati e idolatrava Roma e poi ne è rimasto tanto deluso... Non voglio finire così.”

Dal 2014:

“È un lungo corridoio oscuro.
Ti passa accanto chi potrebbe aiutarti, ma non lo fa. Sono sempre impegnati a parlare di quanto stiano male loro e di quanto sia inutile e nullafacente tu.
È un percorso buio e pieno di macigni acuminati e vetri rotti. Non so perché lo sto attraversando a piedi nudi.
La stanchezza ti coglie ogni giorno. Vorresti dormire sempre e non svegliarti più. La morte non fa più paura e diventa immagine di dolce pace e riposo. Potrei chiudere finalmente gli occhi e tutto scomparirebbe. Posso scegliere di scappare e sopravvivere in un altro mondo, oppure fuggire semplicemente chiudendo la porta a questa vita. Che gesto coraggioso sarebbe resistere fino alla fine. Ma nessuno lo apprezzerebbe davvero perché nessuno immagina cosa voglia dire attraversare da sola questo inferno. L'inferno non è caldo e rosso.
È buio. Non c'è rumore. C'è solo una solitudine senza fine. Continuano a illuderti che non sei solo. Non è vero. Sei solo e lo sai.
Dio non ti aiuterà. Puoi credere in lui ma lui non crede in te.
Il coraggio ha bisogno di testimoni, la vigliaccheria si soddisfa da sé. E così togliersi la vita è un atto di coraggio o di vigliaccheria? Se fosse da vigliacchi, lo farebbero in molti. È coraggioso andare volontariamente incontro a qualcosa di oscuro e sconosciuto. È un atto di coraggio senza precedenti proseguire da soli.
Essere soli è una realtà certa, qualsiasi cosa dicano, non proseguiranno insieme a te. Si farciscono di buoni consigli e belle parole. Sono solo stronzate. Loro sanno come va la vita. Loro capiscono, loro ti sanno dire cosa è giusto e cosa no. Non vale la pena contraddirli perché hanno ragione a priori. Di ciò che pensi tu in fondo non fotte un cazzo a nessuno.
Qualcuno ti dirà di voler stare al tuo fianco, ma temo che mentano. Ciò che fanno in fondo è condizionato da ciò che ne guadagnano.
Ti diranno che non è vero. Qualcuno cercherà di dimostrarti che davvero ci tiene a te. Ma ci sarà sempre qualcosa ad impedirglielo e forse le intenzioni non sono le più sincere.
Risparmiati di amare e voler bene. Coloro che davvero ti amano, ti accettano così come sei.
Rifugiati in un mondo di fantasia per resistere un altro po'.
Resisti. Combatti.
Più che puoi.
Non lasciare che ti sconfiggano.
La notte ti girerai nel letto e lo troverai vuoto. Nessuno al tuo fianco. A nessuno importa.

-

Quando non si è più abituati a vivere in tranquillità per troppi anni, ogni momento di calma viene vissuto con uno stato di ansia crescente e variabile, logorante e inquietante. Quando poi capita qualcosa di negativo quasi tiri un sospiro di sollievo perché almeno puoi prendere una pausa dallo stato ansioso che ti perseguita.

I pensieri intrusivi si fanno sempre più pressanti.

La stanchezza si fa sentire ormai da mesi come un macigno.

Ho bisogno di staccare. Non mi interessa la mia carriera. Vorrei andare lontano e dimenticare molte persone, molto passato.

Si comincia a percepire la sconfitta quando non riesci ad esternare ciò che pensi, ciò che provi, con nessuno. Forse non hai voglia, forse non te la senti. È molto peggio quando non puoi.”

 

Dal 2015:

“La depressione può avere infinite cause, ognuna di queste cause può essere valida per la persona interessata in quanto ogni individuo ha una sensibilità e dei trascorsi differenti dagli altri.

Tra le cause della depressione può esserci quindi anche una relazione sentimentale malsana. Si intende malsana una relazione in cui uno o entrambi i partner vivono una condizione di malessere che può avere varie cause.

Quando una relazione non vi dà più buone sensazioni, quando l'amore si tramuta in ansia, angoscia, preoccupazione, frustrazione o anche solo in indifferenza: dateci un taglio. Sul momento potreste stare male, ma se siete consapevoli di non essere più innamorati e che non vi potrete più fidare di quel soggetto a causa di rancori, brutte esperienze e simili... lasciate perdere.

Continuando a stare con una persona che non vi rende più felici e che sentite di non amare più, potrete rimetterci molto più di quanto pensiate.

Non sto parlando di relazioni che implicano la violenza domestica, psicologica o altre cose di tale gravità, tuttavia non c'è bisogno che due si picchino o insultino per farsi del male.”

3.07.2017

“Anni fa mi fu diagnosticata una depressione caratterizzata da una tendenza ansiosa generalizzata, caratterizzata principalmente da pensieri intrusivi di cui non riuscivo a liberarmi razionalmente.

Da allora ho potuto notare che la depressione effettua delle vere e proprie fasi, una sorta di fenomeno psichico i cui apici opposti (brevi sprazzi di felicità o di lungo buio soffocante) si possono affrontare sia in modo ciclico e lento, che veloce e casuale, causato per lo più da stimoli esterni, ma che a volte compaiono proprio senza alcuna razionale spiegazione.

Nell'ultimo anno ho cercato di studiare questo mio atteggiamento, questi miei pensieri, in modo tale da poter osservare come nel mio caso si è sviluppata la depressione e cosa ho fatto per combatterla.

Nel 2015 ho subito un periodo di fortissimo stress che è culminato in un crollo emotivo alla fine dell'anno.

La psichiatra mi prescrisse delle benzodiazepine e la sertralina, un ansiolitico che mi avrebbe dovuto aiutare a gestire l'ansia e i miei pensieri intrusivi, oltre al fatto che avrei dotuto dormire meglio.

Allettata dai felici propositi, ma in parte contraria agli psicofarmaci, decisi di sottopormi a un periodo di cura giusto per vedere se veramente la mia situazione sarebbe migliorata.

Ovviamente unii la psicoterapia alle medicine. Le sedute di psicoterapia risultarono essere dei lunghissimi monologhi da parte mia, in cui la psicoterapeuta più che altro annuiva. Questa è una cosa che non sopporto. Se voglio parlare con qualcuno a ruota, scrivo su un diario, un blog, chiamo una amica samaritana, di sicuro non pago una estranea per sentire la storia della mia vita.

Ad ogni modo continuai ad andarci per qualche mese.

Mi dissero chiaramente che prima di un mese o due i farmaci non avrebbero fatto alcun effetto e quindi dovevo dimostrarmi paziente per sentire dei risultati.

Presi la sertralina per 4 mesi e saltuariamente (secondo le disposizioni del medico) presi i calmanti quali lexotan, che però temevo per paura di cadere in un circolo vizioso di dipendenza.

Ebbene, la sertralina non mi aiutò in alcun modo. Sarà che forse non le diedi molto modo di funzionare perché ero un po' un po' dubbiosa sulle sue reali capacità, ma fisicamente ho potuto constatare degli effetti. Mi sentivo più confusa, più stordita, meno impulsiva, ma non rilassata. Facevo fatica ad incazzarmi, ma un senso di frustrazione restava comunque in me. Non sentivo di stare meglio, non sentivo proprio nulla, cominciavo ad essere un po' depersonalizzata.

Questa situazione mi portò ad avere dei problemi anche dal punto di vista lavorativo, ragion per cui ho deciso di interromperla. La mia psichiatra insistette molto sul fatto che io non dovevo per nessuna ragione interromperla di colpo o fermare l'assunzione senza averla interpellata, perché sarei ricaduta nella depressione e nelle crisi di astinenza.

Io semplicemente una mattina mi dimenticai di comprare le pastiglie e fu così che interrompi la sertralina, i cui effetti di stordimento continuarono per oltre un mese e da cui non ebbi mai alcun tipo di dipendenza. Non ne sentii mai la mancanza.

Durante l'estate del 2016 subii un altro periodo di stress dal punto di vista lavorativo e della mia carriera professionale, soprattutto con sfumature di ansia e angoscia a causa di un progetto che sarebbe dovuto cominciare a settembre del 2016, ma lo stato di ansia negativo che il mio lavoro aveva lasciato impresso in me, mi portò a cominciare il mio progetto in uno stato di stanchezza (fisica e mentale) piuttosto avanzato.

L'obiettivo era tra l'altro estremamente difficile da perseguire, avevo bisogno di una mente sveglia, concentrata, veloce nell'apprendere e soprattutto in vena di sacrifici, e io non ero assolutamente in nessuna di queste fasi.

Stordita e sfiancata da tutto ciò che era stato il mio passato, non ero assolutamente nello stato d'animo adatto a voler apprendere nuove cose, a fare altre fatiche, e di sicuro non ero pronta a fare dei sacrifici dal momento che per mantenere la mia salute mentale avevo sprecato veramente tantissime energie mentali.

Ho resistito in quello stato di stanchezza fisica e mentale fino all'inizio di quest'anno, poi a febbraio 2017 ho buttato la spugna sul progetto e ho deciso di prendermi un periodo di tempo per pensare a me stessa. Il baratro si stava facendo sempre più vicino, i giorni bui erano diventati la quotidianità e non sentivo una giornata positiva da troppi mesi. Quando cominciai a sperare di morire nel sonno e considerare nuovamente l'ipotesi del suicidio, capii di dovermi fermare.

Dopo un altro paio di mesi di forte stress lavorativo, a causa del mio fallimento nel progetto, finalmente riuscii a tirarmi un po' su.

Quindi posso dire che dopo un periodo si adattamento a maggio, il mese di giugno 2017 si è rivelato per me sì ricco di impegni, ma anche un mese piuttosto felice come non capitava da anni.

Ma chi come me ha passato anni con la depressione, sa che non è un mese di felicità a fare la cura. Lei è sempre acquattata, pronta ad avvelenarti come una serpe nella sterpaglia. Per questo motivo ho deciso di monitorare i miei successivi stati d'animo in modo tale da poter analizzare il mio stato depressivo nel dettaglio.

Negli ultimi tre giorni ho infatti esperito uno strano stato di ansia, del tutto immotivato razionalmente, e voglio cercare di capire in che modo la mia mente tenterà di sabotare questa situazione di tranquillità che si è venuta a formare negli ultimi tempi.

Oggi riflettevo su questo argomento e pensavo "di preciso quali pensieri mi hanno portato ad avere un periodo più sereno?". Riflettendoci, credo che un ruolo importantissimo lo abbia giocato il superamento delle paure più gravi.

Nel mio caso, ho avuto paura di perdere il mio lavoro, di far finire la mia carriera professionale, di rimanere senza amici, senza il mio compagno, senza soldi e di conseguenza, senza casa.

Tutte queste paure si insinuavano continuamente nella mia mente, come dei trapani. Tenerli a bada costava tantissime energie. A volte il loro rumore era tanto forte da superare quello della vita reale. Passavo intere ore a pensare a questi problemi, così tanto intensamente che spesso ho avuto veri e propri buchi di memoria. Tutto ciò rendeva difficile, se non impossibile, concentrarsi e applicarsi nel modo corretto.

Ciò che davvero mi ha aiutato ad uscire dal periodo dei pensieri intrusivi, fastidiosi e dolorosi, è stato il superamento delle paure stesse e la creazione di autostima. Poche frasi sono più vere di quella espressa dal Signor Gibson “Prima di diagnosticarti depressione o scarsa autostima, accertati di non essere semplicemente circondato da stronzi.”

La mia forza vitale si è attivata sottoforma di una grande rabbia, che ha divampato con violenza.

Nel momento in cui il mio istinto di conservazione si è attivato contro il desiderio di suicidio, ho capito che in fondo non mi fotteva un cazzo di perdere il lavoro. Perdo il lavoro? Fanculo, io ho talento, so vendermi. Se dovessero licenziarmi, troverò un altro posto. Se non ci riuscissi in fretta, sarei disposta ad aprire una ditta mia. In qualche modo io continuerò a lavorare, costi quel che costi (allerta spoiler, ho fatto così nel 2020). Se in qualche modo lavorerò, sarò indipendente economicamente, avrò stima di me per esserci riuscita, la paura si affievolisce.

Ho avuto il timore di restare senza amici dato che quando si è depressi, stanchi e demoralizzati non si ha alcuna voglia di uscire, divertirsi, parlare... Si diventa monotoni e pesanti. Gli "amici" si allontanano e solo i pochi veri individui che ti vogliono bene per ciò che sei rimangono ad aspettarti. Sanno che tu lo faresti per loro.

Mi sono stupita di quante persone siano rimaste vicine a me... Meno di cinque. Eppure mi rendo conto che ogni tanto si sente di persone che non avevano nemmeno un amico vicino. In tal caso non dovrete comunque avere paura. Anche se fossi rimasta senza nessuno, mi sarei risollevata comunque.

Per una semplice ragione: si fottano gli altri, io vivo per me stessa. Adoro i miei amici e li stimo, darei la mia vita per loro, ma sono individui liberi. Liberi di stare al mio fianco, come di mandarmi a fanculo. Se i miei amici si sono legati così a me, è merito mio. Se pensate di non avere nemmeno un amico, riflettete su voi stessi e verificate se le persone non vi sono vicine perché voi tendete ad allontanarle o se caso voglia che siete davvero circondati da stronzi (anche a me è capitato di entrare in ambienti in cui proprio non sono riuscita a legare con nessuno, nonostante io di norma faccia "amicizia" con relativa facilità). Se siete circondati da stronzi, dedicate le vostre energie a metodi efficaci per liberarvi di loro. A 19 anni ho passato 2 mesi della mia vita a dormire in auto e altri 2 mesi ad alternarmi tra case di amiche e amici perché non potevo più sopportare la presenza di una madre narcisista che mi schiacciava sotto al tallone.

Se davvero vi preme stare meglio, trovate il coraggio di andare via o di scacciare chi vi danneggia. Ne va della vostra serenità.

Tutte queste risposte mi sono giunte in modo stranamente veloce. Un giorno di colpo ho preso e ho risposto male al mio datore, che come al solito stava tentando di sminuirmi e andava giù di mobbing. Improvvisamente non ero più remissiva. Improvvisamente la mia lingua si è sciolta: vaffanculo, o mi porti rispetto o puoi morire, infame. Qui svolgo il 60% del lavoro amministrativo di tutta l’azienda, cosa farai senza di me? Io me la vedrò male, tu te la vedrai di merda per trovare qualcuno che resti così sottopagato e nonostante tutto ti dia questi risultati, fidati.

Incredibilmente, la mia reazione deve aver ristabilito l'equilibrio. Ora io rispondo. E se le mie risposte non vanno bene, me ne vado. Incredibilmente, le mille minacce di lasciarmi a casa erano a vuoto. Quando ho preso io a minacciare di licenziarmi, la tormenta è svanita più veloce di un pirito nel vento.

Non temo più nessuno.

Negli ultimi mesi mi sono tolta macigni dalle scarpe e vaffanculo a tutti.

Una volta questi pensieri non mi venivano. Non so cosa sia accaduto. So che ho deciso di dire basta. Un istinto dentro di me ha finalmente funzionato e spero non si fermi ora.”

 

 

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Capitolo 5
*** Una madre che non ti aspettavi ***


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La storia che condivido oggi è ciò che in gran parte ha contribuito a formare il mio carattere, per lo meno quello di base, e su cui si basa tutta la mia nevrosi a detta del mio vecchio psicoterapeuta.

Questo capitolo è lungo, non vogliatemene, ma non penso che abbia troppo senso dividerlo in due parti: chi è interessato all’argomento, potrà leggerlo tutto qui in una volta. Si tratta di una serie di vicende che ho affrontato nei primi anni della mia vita e che ruotano attorno al tema del narcisismo nella sfera genitore-figlio, sebbene in quegli anni non avevo idea di cosa fosse e la vera conferma di cosa si trattasse mi fu data solo da uno psicologo nel 2020.

Attenzione: allerta violenza su minori, quindi se non volete sentire parlare dell’argomento, non leggete.

Non ricordo di preciso in che giorno o situazione mi imbattei per la prima volta nel termine narcisista patologico, so solo che la cosa mi folgorò seduta stante. Cominciai ad informarmi su internet, principalmente mediante video perché ascoltare in quel periodo della mia vita mi risultava più semplice che leggere. Improvvisamente, avevo tutto chiaro.

Per molti anni mi sono chiesta cosa non andasse in mia madre, per quale motivo mi odiasse e provasse piacere nell’umiliarmi, giudicarmi, sottomettermi, farmi soffrire e non sia mai stata in grado di soddisfare nessuno dei miei bisogni ad eccezione di quelli primari come farmi dormire e darmi da mangiare.

Ricordo che la prima volta che sentii parlare di narcisismo, riguardava un contesto di relazione amorosa. Ascoltai diversi video online perché l’argomento faceva vibrare in me qualcosa, e non nascondo che provai a vedere se davvero anche io avessi subito una relazione con un narcisista, sebbene mi resi conto che più che altro erano stati i miei partner ad aver avuto a che fare con le mie doti manipolatorie e non viceversa. Posso dire che quasi nessuno è riuscito a manipolarmi in amore dopo i 16 anni, quindi decisamente non ero mai stata coinvolta in relazioni d’amore con un narcisista e, dopo aver analizzato il mio comportamento e aver visto che le mie relazioni erano tutte lunghe e non finivano mai per contesti relativi a pratiche narcisistiche o manipolatorie, bensì per problemi intrinsechi alla coppia che, per quanto tristi e dolorosi, possiamo definire “normali”, capii che nemmeno io ero narcisista in amore. La conferma che non fossi narcisista mi venne data dal mio psicoterapeuta, che però sottolineò come io possegga alcuni di quei tratti dato che ho subito la famosa ferita nell’Ego che è ciò da cui nasce il narcisismo.

Il mio vissuto faceva sì che io lottassi con ogni mezzo per ottenere ciò che volevo, ma mai per far soffrire la persona che avevo accanto e sempre per un fine condiviso, quindi non si poteva proprio affermare che avessi manipolato qualcuno per sottometterlo, non ho mai fatto gaslighting, love bombing o cose del genere.

Tuttavia qualcosa di quell’argomento, nelle definizioni, nelle tecniche dei narcisisti rivedevo qualcosa che nel mio inconscio facevano risonanza. Finalmente una youtuber accennò al fatto che le relazioni narcisistiche, sebbene più comuni nelle relazioni amorose in cui per lo più è l’uomo ad essere narcisista e la donna la sua Echo, può avvenire in moltissimi contesti, uno dei più subdoli quello che sovviene nella relazione tra genitore e figlio.

Finalmente eccomi lì, davanti ad un video di mezzora che spiegava la relazione abusante che si viene a creare tra una madre narcisista ed una figlia Echo, vittima dei soprusi di sua madre e senza nessuno che la difenda.

Di seguito alcuni degli episodi che ho vissuto, seguono un “crescendo” di situazioni, partendo dalle cose che possono sembrare condivisibili ma che mi causavano frustrazione ed erano campanelli di allarme, fino ai veri e propri abusi narcisistici.

 

Non so se per via dell’atteggiamento scostante di mia madre, oppure perché fondamentalmente venivo da una famiglia di persone verbalmente violente che mi raccontavano aneddoti ancora più cruenti, però sono sempre stata una bambina aggressiva e propensa ad alzare le mani. Picchiare gli altri bambini mi faceva stare bene, forse perché provavo invidia nei loro confronti: avevano buone merende, venivano apprezzati, nessuno faceva loro del male perché i genitori li proteggevano, avevano giochi molto interessanti e soprattutto parlavano sempre tra di loro di cosa avevano visto in televisione, mentre a me era vietata.

In casa vi erano tre televisioni. Una in camera da letto dei miei genitori, una sospesa al muro della cucina, attaccata alla parete di fronte al tavolo da pranzo e una in salotto. Avevo il divieto di toccarle tutte e tre, il che mi dava una frustrazione enorme, perché era molto interessante da guardare. C’erano dei cartoni pieni di fantasia e di cose divertenti, e io non potevo guardarli. Potevo osservare la televisione solo quando la vedevano gli adulti, il che non era una cosa scorretta, quanto per il fatto che gli adulti erano sempre e solo interessati a guardare programmi che per me non avevano alcuna attrattiva.

Una delle cose che più mi urtava della televisione era che, se gli adulti la guardavano, io non potevo emettere un fiato. Dovevo tacere e farli ascoltare, senza mai poter porre domande o interrompere. A volte le mie domande, quando la curiosità che mi prendeva era troppo forte e non riuscivo a trattenermi, venivano zittite con occhiatacce, l’invito esplicito a fare silenzio o con una risposta ironica che sottintendeva l’ovvio, trasmettendo il messaggio che se non arrivavo a comprendere quella cosa che era stata appena detta in tv, ero scema. Forse loro volevano intendere che era la domanda ad essere stupida, ma non era così che lo interpretavo io, che accumulavo solo più frustrazione.

Dato che mia madre non lavorava ed era sempre a casa, la tv in salotto era inavvicinabile, anche perché si poteva accendere solo dal telecomando e lei se lo portava sempre dietro come fanno i secondini con le chiavi delle celle. Lei era teledipendente e passava le sue giornate a guardare programmi di cucina e soap opera che io non riuscivo a comprendere e difatti mi rifiutavo di guardare.

Ovviamente avevo provato a chiedere di guardare i cartoni, ma mia madre si era imposta fermamente che non avrei potuto guardarla finché non fossi diventata grande, il che era assurdo dato che lei alla mia età guardava “il carosello”, diceva mia nonna. Gli altri parenti infatti non erano molto d’accordo a questo oscurantismo tecnologico. Nonna lavorava ancora, ma quando veniva a trovarci, mi permetteva sempre di guardare i cartoni. Mia zia Sara (nome di fantasia), sorella di mia madre, invece si oppose a questa politica in quanto grande appassionata di cinematografia. Mia madre le aveva fatto promettere che non mi avrebbe mai dovuto far vedere i cartoni animati in televisione, allora Sara aveva trovato una scappatoia al proprio giuramento: io non avrei guardato le serie di cartoni in tv, ma avrei potuto vedere tutti i film in videocassetta che volevo senza farne parola con mia madre. Un film non è un cartone a puntate, giusto? Così Sara comprò decine, oserei dire centinaia, di cassette di animazione per bambini e passavamo i pomeriggi a guardarle insieme.

Quando chiedevo a mia madre perché tutti potessero guardare la tv tranne me, lei diceva che era perché i cartoni animati rendono cattivi, stupidi e aggressivi. La cosa ora come ora mi fa ridere perché non guardavo quei programmi eppure ero la bambina più violenta della scuola.

 

Mia madre era una persona con problemi di peso. Fin da quando era adolescente, aveva cominciato ad ingrassare e non è mai stata magra da allora. Metteva il dado e il burro in ogni portata e friggeva tutto il friggibile. Quando ebbi tre anni dovette farsi ricoverare per dei problemi che ebbe alla cistifellea, che le tolsero, e rimase per un paio di mesi debilitata. Non so il perché, fatto sta che per quel lasso di tempo mi affidò alle mie zie Sara e Carla, sue sorelle.

Mi hanno raccontato che mia madre mi imponeva di mangiare dosi enormi di cibo per una bambina di due anni. Purtroppo io cominciai ad ingrassare, ma le zie mi ripresero in tempo e mi fecero dimagrire. Non ero una bambina ingorda, quindi non capivano per quale motivo mia madre ritenesse necessario imbottirmi con così tanto cibo. Ho dei chiari ricordi in cui mi diceva “se non mangi tutto quello che ti metto nel piatto, morirai. Hai capito? Morirai!” e io, disperata, mangiavo fino a che lo stomaco non si tendeva dolorosamente, imponendomi poi di stare sdraiata su un fianco per riuscire a digerire. Queste cose le zie non potevano immaginarle.

Durante la permanenza con le zie mi legai a loro in una maniera particolare. Erano le mamme che avrei sempre voluto avere, il che è strano: implica che ci sono dei ricordi negativi di mia madre che io non conservo più, che però mi avevano portato ad attuare quell’atteggiamento.

Carla raccontò che un giorno, mentre stavo sul triciclo, le chiesi “Dov’è mia mamma?” e lei rispose “in ospedale”, al che io me ne uscì con molta tranquillità “Se non torna più, mi adotti tu?”. Penso che questa cosa descriva appieno il mio stato d’animo e l’angoscia che mi legava ad avere un soggetto simile come madre. Ovviamente le zie glielo raccontarono commosse, lodando cose tipo l’istinto di sopravvivenza, quando lei lo seppe invece mi guardò con odio.

Ci sono vicende di cui non ho ricordo ma cui le zie a volte hanno avuto modo di assistere, come quando avevo due anni e mia madre mi scuoteva con forza per le spalle, facendomi oscillare la testa avanti e indietro con violenza quando entrò mia zia Sara in casa e la beccò, litigarono, mia madre le lanciò addosso un biberon di latte bollente e la zia mi portò via con sé minacciandola che avrebbe chiamato gli assistenti sociali. Purtroppo non lo fece mai.

Mia madre giustificava tutti i suoi atteggiamenti deleteri nei miei confronti con la scusa che aveva sofferto di depressione post partum. Non so quanto questa scusa fosse vera o no, fatto sta che anche ponessimo come realtà che lei abbia sofferto di depressione post partum, ciò non spiega come abbia fatto ad essere una madre degenere per oltre due decenni. Dubito che una crisi dovuta al parto, per quanto traumatico, possa durare fino alla morte per vecchiaia…

Sara mi raccontò di quando non avevo ancora due anni e mia madre se n’era andata a farsi un giro lasciandomi con la babysitter, la quale mi aveva chiusa in una stanza e si era messa davanti al televisore a farsi i fatti propri, tanto mia madre non sarebbe tornata prima di sera. Non aveva previsto che mia zia quel giorno finisse di lavorare prima e tornasse a casa in gran carriera per venire a vedermi. Quando la zia entrò in casa di mia madre, sentì immediatamente le mie urla disperate. La tipa sul divano era saltata in aria ed era panicata. Sara corse verso la camera da letto dei miei genitori e lì mi trovò sul girello, disperata, col pannolino sporco e una crisi respiratoria data dal forte pianto. La babysitter accorse dicendo che mi aveva lasciata lì perché dormivo e non voleva svegliarmi, ma Sara non le credette, la insultò e la sbatté fuori di casa. Mia madre disse che lei non immaginava andasse così e tutti le credettero: la cattiva di turno fu la babysitter e pace e bene a tutti gli uomini di buona volontà.

 

Un’altra volta, quando avevo quattro anni, riuscì ad evadere da casa di mia madre e andai nell’appartamento sopra il nostro, in cui di norma veniva la nonna a passare i weekend. Lì c’erano Carla e Sara in visita e io dissi loro “Mamma dice che non dovrei raccontarvi cosa fa lei. Mi dice che vado a dire sempre tutto a quelle puttane delle mie zie, ma io dico che non è vero che siete puttane”. Le zie raggelarono ma lì per lì risero davanti a me per non farmi allarmare. Non avevo idea di cosa fosse una puttana, però dovevo aver inteso che non fosse un complimento.

Quello di cui non mi capacito, è come hanno fatto le zie a tollerare tutte queste cose senza sentire l’esigenza di proteggermi, di portarmi via da lei. Sapevano quanto lei fosse orribile: loro stesse quando erano piccole avevano avuto modo di provare sulla propria pelle le punizioni di mia madre e le sue freddure, con la differenza che loro avevano qualche anno meno di lei, erano in gruppo e lei non era la loro madre, erano sue pari. Loro potevano ribellarsi, mandare affanculo la sorella ed essere di nuovo libere. Io invece ero sua figlia, completamente succube dei suoi deliri e sadismi, non potevo difendermi, non sapevo nemmeno come si facesse e soprattutto ero completamente sola. Non avevo fratelli, cugini di primo grado, amici di alcun genere.

 

Un giorno mia madre annunciò che avendo quasi quattro anni, era giunto il momento che io andassi all’asilo perché secondo la sua teoria mi avrebbe aiutato socializzare con bambini della mia età, anche se in realtà penso che fosse soltanto una scusa per avermi fuori dai giochi: a quanto pareva ero diventata impegnativa per una donna che non lavorava e non aveva un bel niente da fare tranne pulire una casa già pulita e cucinare cose malsane.

Per me fu un vero trauma: fino a quel momento la mia vita era serena, non dovevo preoccuparmi per il futuro, finché avessi avuto la mia casa e del cibo, sarei stata bene. Il fatto di volermi spedire fuori casa così senza alcuna preparazione, mi causò ansia. Improvvisamente non ero più protetta, non ero più in un ambiente conosciuto, non avevo mai incontrato nessuno di quei bambini prima e non avevo idea di come potessero essere.  

Mia madre provava piacere nel dirmi che i miei “anni di pacchia” erano giunti al termine. Le zie mi dissero che sicuramente mi sarei divertita e avrei fatto tanti amici, ma io ero turbata: cosa erano gli amici? Perché avrei dovuto farmene? I nonni furono gli unici a comprendere almeno parzialmente il mio disagio. La nonna ancora lavorava, le mancava giusto un anno alla pensione, e il nonno era sempre a casa nostra. Si offrirono di tenermi poiché non vedevano alcuna necessità nell’asilo. Nessuno dei nonni aveva mai anche solo visitato un asilo e nessuna delle loro figlie ci era mai stata. Mia madre infatti cominciò le scuole dopo i sei anni e non prima, inoltre i nonni le fecero notare che non si trattava di una scuola di prestigio, ma di un pulcioso asilo di paese, dove non c’era alcuna sicurezza che sarei stata trattata bene né che avrei appreso qualcosa, tuttavia mia madre fu inamovibile.

La prima volta che mi accompagnò all’asilo fu uno shock. Aveva detto che sarebbe stata lì ad aspettarmi fino alla fine della giornata, non aveva immaginato che io sarei corsa alla finestra per accertarmi del fatto, sorprendendola mentre se ne andava via in auto. Piansi per tutto il giorno disperatamente. Nel trambusto del primo giorno non mi resi conto di dove mi trovavo, di chi fossero gli altri bambini, le maestre, come fosse fatto l’asilo o una probabile via di fuga. Non mi venne dato amore dalle maestre né comprensione dagli altri bambini. Mi ignorarono completamente e quando la sera lei tornò a prendermi, ero in condizioni pietose. Non la abbracciai e non le dimostrai affetto: il suo obiettivo di liberarsi di me era stato raggiunto, non provavo alcuna pietà per lei, come lei non ne provava per me.

Col tempo, venendo lasciata lì ogni giorno, non potei far altro che provare a comprendere dove fossi e come potevo liberarmi da quel giogo. L’asilo sarà stato grande almeno centocinquanta metri quadri, suddiviso in una stanza mansardata al piano superiore, in cui i bambini venivano costretti a dormire qualche ora nel pomeriggio e al piano di sotto due stanze e un atrio con l’ingresso. Le due stanze erano le aule, ognuna con una propria maestra: Marianna e Troianna. Mi dispiace, non riesco a non chiamarla così.

Io, dotata di una sfortuna provvidenziale, capitai in classe con la Maestra Troianna.

Troianna è stata a tutti gli effetti una donna aspra, arcigna, rancorosa, iraconda. Pessimo esempio da seguire, era una persona nata stanca, stufa e vendicativa, totalmente inadatta a lavorare con i bambini e soprattutto violenta. Questo personaggio era completamente incapace di dare amore, trasmettere emozioni positive e gioia. Stare con lei equivaleva a subire le sue ire e nessuna azione ribelle poteva restare impunita.

Ricordo che l’asilo era cominciato da appena uno o due mesi quando mia madre mi portò in piscina e una bolla di acqua mi entrò nell’orecchio. Il giorno dopo, all’asilo, Troianna parlava come al solito di quelle frivolezze che piacciono tanto ai bambini, pur sempre con uno sguardo di pura sofferenza. Stava spiegando che il nostro compito per quella mattina sarebbe stato colorare un bruco stampato su un foglio A4.

Io ero sovrappensiero, persa nella mia depressione e incapacità di accettare un destino tanto ingiusto, per di più profondamente infastidita dalla bolla d’acqua nell’orecchio, che attutiva il mio udito. La maestra diede inizio al compito e notai che ognuno colorava il bruco come più desiderava. A me piaceva colorare e una delle cose positive dell’asilo è che erano forniti di tutti i pennarelli che volevo, pertanto completai la mia opera con un po’ più di serenità. Il bruco era felice, aveva un bel faccione rotondo con un sorriso e le antenne, il corpo composto da sezioni tondeggianti e zampette carine.

Notando che tutti si sbizzarrivano, io colorai come più mi aggradava. Notavo che lo sguardo della maestra non si allontanava mai da me, ma non le diedi troppo peso perché a quel tempo non sapevo cosa fosse la paranoia, non ne ero dotata. Alla fine del disegno, la maestra fece una richiesta inusuale: chiese di vedere come avessimo colorato. Non chiamò tutti, solo me. Prese il mio disegno, lo guardò con disgusto e disse “È così che avevo detto di colorarlo?” e io rimasi stupita, mi guardai alle spalle per vedere i disegni degli altri e vidi di nuovo che ognuno aveva usato colori differenti, quindi in che modo aveva detto di colorarlo? Possibile che nessuno avesse capito? Io non stavo ascoltando, è vero, ma in teoria basandomi sulle azioni della maggioranza, avrei dovuto eseguire il compito correttamente. Purtroppo non ce n’erano due che avessero usato gli stessi colori, quindi quale dei trenta bambini nell’aula aveva eseguito il compito assegnato? Mi tranquillizzò anche il pensiero che, avendo sbagliato quasi tutti, la punizione dovesse essere lieve o comunque, condivisa. Risposi senza timore “Non lo so, non ho sentito.”

Quello che avvenne dopo fu del tutto inaspettato, illogico. Lei strappò il mio disegno con furore, stringendo i denti e con una smorfia di rabbia. Io rimasi allibita e sconvolta perché il mio povero bruco era stato fatto a pezzi senza motivo, era stata l’unica cosa di quel luogo capace di darmi un po’ di gioia.

Guardai addolorata il secchio dove buttò la carta e, se avessi potuto, probabilmente mi sarei abbassata a recuperare i pezzi per portarmeli a casa e riattaccarli con lo scotch, ma non ebbi tempo per fare niente. Troianna si alzò e con violenza mi afferrò i capelli, persi l’equilibrio e mi stupii del fatto che il mio peso potesse essere sostenuto per i capelli. Non provai nemmeno dolore, il mio sgomento era veramente elevato. Mi trascinò dall’altra parte dell’aula, facendomi scontrare contro banchi e sedie degli altri bambini, che erano pallidi e mi guardavano spaventati. Nessuno fiatò, lei mi sbatté di viso contro la parete in fondo all’aula dicendo che sarei dovuta rimanere faccia al muro finché non le avessi chiesto scusa per la mancanza di rispetto che avevo dimostrato nei suoi confronti non ascoltando la sua spiegazione.

Io impiegai diversi minuti prima di rendermi conto che quello che avevo subito era successo veramente. Non versai nemmeno una lacrima, mantenni lo sguardo alla parete, continuando a sentire la voce di quella donna immonda e raramente qualche intervento dei bambini, non più giocosi. Cominciò a montare in me l’odio. Odiavo la maestra, odiavo quel posto, odiavo chi mi ci aveva mandato, odiavo il fatto che il mio destino fosse già stato segnato e io non avessi alcun potere decisionale. A quel tempo non concepivo che diventando adulta avrei potuto fare ciò che volevo.

Avvertii un forte senso di ambiguità, di viscido e compresi che, nell’espressione di Troianna durante la sua sfuriata, avevo rivisto alcuni dei tratti di mia madre. Mi accorsi in quel momento che sì, la reazione della maestra mi aveva scioccato, ma era una sciocchezza in confronto ad alcune cose che avevo visto fare da mia madre. Io non avevo forza fisica per sottomettere la maestra, non avevo i mezzi per scappare, non volevo perdere la mia famiglia né la mia casa, ma non potevo nemmeno tollerare di essere annientata da una becera qualsiasi. Dovevo vendicarmi, o meglio, dovevo essere vendicata. Lì raggiunsi una epifania: mia madre.

Mia madre era più grossa, forzuta, rabbiosa, violenta, cattiva e intelligente di quella povera sfigata di Troianna. Peccato che a lei piacesse Troianna. Come fare per metterle l’una contro l’altra?

Impiegai letteralmente tutto il giorno riflettendo su queste cose. Non proferii parola con nessuno, nemmeno con i bambini che durante la pausa vennero a chiedermi come stavo. Non sentii il bisogno di andare in bagno, di bere o di mangiare. Ero focalizzata sulla vendetta. Vendetta per me, vendetta per il mio bruco sul fondo del cestino della spazzatura.

Rimasi faccia al muro per ore, anche se a me sembrarono giorni, poi giunse l’ora di andare a casa e vennero a prendermi mia madre e la zia Sara. Quando le vidi ero ancora scossa, non del tutto sicura di come cominciare il discorso. Quella fetida di Troianna finse che non fosse successo nulla, adducendo il mio comportamento al mio carattere poco incline alla socievolezza.

Salii in auto e non dissi nulla fino a casa. Zia Sara notò che qualcosa non andava e, sebbene volessi parlarne con mia madre, non riuscivo a immaginare come potessi mettere giù i fatti per farmi appoggiare. Il rischio era che lei desse ragione a Troianna e io ricevessi la punizione anche a casa. La presenza della zia fu provvidenziale, perché se non ci fosse stata avrei dovuto inventare alcuni dettagli per volgere mia madre dalla mia parte, come ad esempio che Troianna avesse detto qualcosa di brutto su di lei o cose di questo genere, ma essendo bugie avrei potuto essere scoperta e punita doppiamente. Per fortuna la zia era lì e mi bastò dire la verità per scatenare la sua reazione più eclatante. Mia madre non poteva punirmi se la zia era dalla mia parte, ero protetta.

La zia urlò, scalpitò, sciorinò una lista di insulti particolarmente fantasiosi e mia madre fu chiamata a personificare il suo ruolo di genitore senza possibilità di tirarsi indietro. Mi disse solo “non ti preoccupare, non accadrà più”.

Il giorno dopo mi portò all’asilo, ma non mi fece entrare in aula. Rimase nell’atrio con me finché non si avvicinò Troianna, a quel punto la sentii finalmente parlare e non fui l’unica a cogliere la furia che trapelava dalle sue parole, lo sguardo fisso sulla faccia della maestra, i denti serrati e gli occhi stretti. Troianna ebbe paura di lei, le cui parole stonavano con l’espressione che aveva in volto. Usava termini pacati, concisi, periodi brevi che giustificavano il fatto che il giorno prima non avevo sentito la spiegazione su come dovessi colorare a causa della bolla di acqua rimastami nell’orecchio, ma il suo cipiglio era letale. Lo percepii chiaramente, voleva pestarla e io l’avrei aiutata se ci avesse provato. In quel momento la stimai, capii che anche io volevo essere così, spietata e aggressiva. Nessuno mi avrebbe potuto sottomettere.

Mi persi nel loro discorso, tra qualche parola farfugliata di Troianna e qualche frase lenta di mia madre, che concluse il suo monologo con un semplice “ora chiedile scusa.”.

Troianna si chinò su di me e vidi che aveva perso tutto il suo livore, non era più quella stronza violenta che in classe urlava e picchiava i bambini, ora era un agnellino spaventato alla mercè di una bestia ben più terrificante: mia madre.

Io annuì e basta, giustizia era stata fatta, purtroppo solo per me. Gli altri bambini continuarono a ricevere lo stesso trattamento, ma io non venni più sfiorata. È facile manifestare potere con dei bambini, ma la vera forza si sviluppa affrontando i forti, non i deboli.

 

Se ripenso alla mia infanzia prima dei sette anni, non ricordo un solo discorso fatto da un bambino, ricordo solo le parole degli adulti e so che le mie parole erano sensate, riuscivo a comunicare con loro, ma non con i miei coetanei.

Tuttavia non posso dire che questa esperienza non mi abbia proprio trasmesso le basi delle relazioni sociali. A furia di passare il tempo con quelli che consideravo esseri inferiori, cominciai a vederli con un occhio meno arrogante e più comprensivo, arrivando a volte addirittura ad apprezzarli. Non posso negare che a qualcuno ho perfino voluto bene, di solito a chi è stato gentile con me senza volere nulla in cambio.

Mi piacevano particolarmente le acconciature che avevano le bambine, fatte dalle loro madri prima di accompagnarle all’asilo. Io avevo i capelli che arrivavano fino a metà schiena, scuri, liscissimi, fini eppure folti, che si sarebbero prestati molto bene a certe pettinature. L’unico problema si trovava alla base: chi me le avrebbe fatte? Esattamente come le madri di quasi tutte le altre bambine, anche la mia stava a casa e non andava a lavorare. Avrebbe potuto pensarci lei, sebbene non avevo un grande dialogo con mia madre e fino ad allora i miei capelli non li aveva mai tagliati un parrucchiere, ma sempre lei, le zie o la nonna in casa con delle comuni forbici.

Pensai di provare a chiederglielo, male che fosse andata, pensai, non sarebbe cambiato nulla. Notavo come gli altri si relazionavano con i genitori, alzando la voce, insistendo, buttandosi a terra, piangendo fino ad ottenere quello che volevano. In casa mia non funzionava così, fare i capricci era qualcosa di impensabile, però giunsi alla conclusione che avrei potuto fare qualche pressione senza bisogno di essere così plateale.

Cominciai con discorsi sui capelli, poi chiedendo che mi acquistasse qualche molletta a forma di farfalla, poi provai a sistemarli io, creando dei disastri e arrivando a chiedere aiuto a lei per disfare i nodi. Non comprendevo che i suoi sguardi, i suoi sbuffi, erano sintomo di insofferenza alle mie richieste: in quei momenti ero felice che la mia mamma curasse i miei capelli proprio come tutte le altre mamme facevano con le figlie.

Quando poi cominciai ad esprimere apertamente i miei desideri, ricevetti dei fermi dinieghi. Dapprima secchi, ai quali mi aggrappavo continuando a chiedere il perché di quei “no”. Le risposte spesso mi ferivano perché le spiegazioni erano sempre volte al senso di colpa. Dovevo sentirmi in colpa per il mio egoismo perché lei faceva già così “tante cose” per me, addirittura mi aveva messo al mondo, e io la assillavo con il chiaro intento di farle perdere tempo e farle venire il mal di testa.

La questione sui capelli andò avanti per qualche settimana, soprattutto in vista della fine dell’asilo. Mancava poco alla foto di fine asilo a metà giugno, che sarebbe stata scattata da un fotografo l’ultimo giorno di asilo, in vista dell’inizio delle elementari, che sarebbero iniziate a settembre.

Commisi l’errore di insistere più del dovuto e un giorno feci quelli che potevano essere considerati classici capricci da bambini. Allora lei non disse più no, in quel momento ebbe una idea malsana e se solo avessi avuto più esperienza o più intelletto, avrei capito che c’era qualcosa di strano nell’improvvisa accettazione della mia richiesta. Io, nella mia ingenuità, credetti che i capricci avessero funzionato. Mi disse che non mi faceva mai i capelli perché non era capace, ma che prima dell’ultimo giorno di asilo mi avrebbe portata dal parrucchiere e mi avrebbe fatto una acconciatura bellissima. Ero emozionata.

Fu così che, il sabato antecedente l’ultima settimana di asilo, mi portò in un salone di bellezza che si trovava in paese. Venni fatta sedere su una poltrona, ma non arrivavo a guardare lo specchio e quindi cosa mi succedeva in testa. Non ero mai andata dal parrucchiere, non sapevo come funzionava.

Vidi mia madre parlare con il parrucchiere per spiegargli, pensai, quale taglio farmi. Lui annuiva preoccupato, lei sembrava serena e io mi feci coraggio guardando la contentezza della sua espressione. Lui si avvicinò, mi mise la mantella e mi disse di stare ferma immobile qualsiasi cosa sentissi. Io mi fidai, chiesi perfino ad una delle parrucchiere lì vicino se fossi bellissima e lei mi rispose commossa che sarei sempre stata bella. Ci sono delle risposte che acquisiscono un senso solo più avanti negli anni.

Quando ebbe finito, molto velocemente, mi fece alzare dalla sedia e vidi per terra moltissimi capelli. Chissà perché non realizzavo che potessero essere i miei, anche se credo che fosse abbastanza normale dato che non avevo mai visto dei capelli tagliati dopo aver raggiunto quella lunghezza considerevole.

Corsi all’entrata del salone dove c’era lo specchio e mi guardai, ricordo che l’impatto fu tanto forte che barcollai. Non avevo più i capelli lunghi. Erano stati tagliati ad appena quattro centimetri di lunghezza. Sembravo un maschio. Mi misi le mani tra i capelli e non dimenticherò mai la sensazione di non avere più capelli lunghi. Mi venne l’affanno, cominciai a piangere e ricordo il petto che sembrava esplodermi. Le parrucchiere erano anche loro leggermente urtate dalla cosa, l’unico apparentemente insensibile fu proprio il capo del salone, che passò semplicemente alla cliente successiva dopo aver raccolto i miei capelli con lo scopino. Ecco lì la mia fiducia nel mondo che veniva letteralmente buttata nell’immondizia.

Sentii mia madre dire che aveva dovuto farlo, perché aveva sentito che all’asilo si era verificata una epidemia di pidocchi e non voleva che li prendessi anche io. Era una bugia, non c’erano stati pidocchi all’asilo, e soprattutto mi mancavano solo un paio di giorni a finire l’asilo.

Una volta fuori dovette trascinarmi, mi buttai a terra, rifiutavo di mettere un piede davanti all’altro. Mi mise in auto, ricordo che la portiera era verde scuro, il sedile color antracite. Lei salì al posto del guidatore e giurai di averla sentita dire “adesso abbiamo risolto il problema dei capelli” io mi tirai su, smisi di piangere, placai il mio petto che vibrava come le corde di un’arpa e le dissi, guardandola fissa dallo specchietto retrovisore “Questo non succederà più”. Lei rise e rispose che avrebbe potuto portarmi dal parrucchiere a tagliarmi i capelli a zero quando voleva e che così avrei imparato cosa succedeva ad assillarla. Assottigliai lo sguardo, poi dissi “Giuro che non taglierò più i capelli finché non mi arriveranno fino alle ginocchia”. Lei fece una smorfia di rabbia e schernii il mio giuramento, ridendo della mia presa di posizione.

A questo punto mi sembra d’obbligo fare un po’ di spoiler e anticipare che riuscii a mantenere la mia promessa: la volta successiva che andai dal parrucchiere per tagliare i capelli, avevo tredici anni e i capelli mi arrivavano ai polpacci.

L’ultimo giorno d’asilo feci la foto insieme a tutti e poi da sola. La foto esiste ancora, mia nonna la conservava gelosamente, dicendo che ero bellissima. Mi chiedo come mai solo io riesco a vedere la profonda sofferenza sul mio viso.

 

Vi è un altro episodio, molto più cruento che in realtà ho già scritto ma che alla fine ho deciso di non condividere, meglio evitare.

Ho sempre saputo di non poter essere l’unica ad avere a che fare con una figura genitoriale snaturata, e che nel mondo c’erano madri molto peggiori della mia, anche perché la morale cristiana e italiana in cui sono tristemente cresciuta, mi ricordava ogni giorno che “ehi, c’è chi sta peggio di te, non lamentarti che sei così fortunata!”. No, no ragazzi. Lamentatevi, fatevi sentire. Se qualcosa vi fa male, non sopportate più di quanto il vostro buon senso reputi normale. Fate casino, fatevi sentire. Forse i più vi allontaneranno, ma qualcuno vi sentirà. Qualcuno vi ascolterà e a quel punto forse la vostra situazione non migliorerà, ma almeno avrete qualcuno che vi sostiene nel disagio.

Per anni le mie zie avevano sostenuto che mia madre dovesse avere qualche malattia mentale, bipolarismo o cose di questo tipo, in realtà no… lei non è psicotica: è solo una narcisista, anaffettiva, prevaricante, vigliacca e piena di rabbia. Rabbia perché avrebbe voluto essere bella, perfetta, sagace, intelligente, geniale, lodata, lusingata, ricca, amata da tutti, l’unica con la figlia perfetta e il marito figo e perfetto, senza dover mai lavorare etc. Invece era obesa, brutta, aveva perso i capelli, astuta ma non colta perché non aveva voglia di studiare e la conoscenza non si può acquisire senza lo sforzo di applicarsi allo studio. Aveva scelto tra tutti uomini che erano belli e benestanti ma profondamente disturbati e mio padre, bello, con genio nel suo settore professionale ma incline all’uso di droghe per via della sua vita turbata, alla fine l’aveva tradita e abbandonata. Poi c’ero io, che da piccola tendevo ad essere grassottella e vivace, ma allo stesso tempo riservata e piena di passioni e soprattutto ero intelligente. Ero più intelligente di quanto lei sia mai stata, ora posso dirlo con certezza, e questo la mandava in bestia.

Non so se mi abbia mai voluto bene, sicuramente non mi ha amato ma penso che sì, provasse dei sentimenti per me. Come quando ti affezioni a qualcuno perché bene o male ci hai vissuto per tanto tempo e avete condiviso tante cose, ma no, non ho mai sentito amore per me. Questa è la mia ferita narcisistica e se avessi avuto gli stessi impulsi di mia madre, avrei potuto veramente diventare una narcisista delle peggiori. Non so perché, penso che a questo punto si tratti di una questione di carattere o di predisposizione ad un concetto di morale particolarmente complesso.

Io posso nuocere al prossimo, ma non lo faccio perché non è giusto, non voglio farlo, anche se una parte di me pensa che questa cosa sia molto affascinante. Io resterò integra, per quanto mi si possa considerare ancora integra.

Ho letto tanti libri sulla manipolazione mentale, il linguaggio del corpo, sulla comunicazione assertiva, sulla programmazione neurolinguistica e mia madre in 18 anni me ne fece passare di ogni. Questo ha fatto di me “una delle persone più refrattarie alla manipolazione di qualsiasi genere che abbia mai visto” a detta del mio psicologo. Eppure mi ha rovinato indelebilmente perché non riesco più a fidarmi di nessuno e la mia indipendenza e autonomia sono spesso controproducenti. Non riesco a chiedere aiuto e sono cocciuta e arrogante. Uso il turpiloquio come valvola di sfogo alternativa alla violenza fisica e sono sempre arrabbiata.

Però sono riuscita a scappare, alla fine ce l’ho fatta. Il giorno in cui me ne andai di casa, senza preavviso e senza che lei sapesse niente, lo ricordo come fosse ieri. Misi tutta la mia roba nel baule della mia auto, incredibilmente ci entrava tutta, non possedevo granché e lo realizzai solo in quel momento. Andai da lei che era davanti alla televisione (che non ho mai potuto vedere, il divieto in realtà è stato protratto finché non me ne sono andata) e le dissi solo “Sto andando via. Vado via di casa.” Lei tacque per qualche secondo, senza mai staccare gli occhi dalla TV. Rispose senza muovere un muscolo del corpo e senza mai distogliere lo sguardo dallo schermo “Sì ok”. Rimasi un po’ spiazzata da quella risposta ma non le diedi modo di rendersi conto che in realtà era riuscita a sconvolgermi anche con un solo “Sì ok”. Salii in auto e non la rividi per mesi.

Fu l’inizio di una nuova vita.

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Capitolo 6
*** Un viaggio che ti fa crescere ***


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La storia di oggi parla di viaggi.

Di recente il mio compagno mi ha accusato di aver dedicato troppo tempo a lavoro e studio, trascurando svago e tempo libero che di norma avrei dedicato a fare piccoli viaggi. Non ho potuto non soffermarmi sulla nota egoistica che vibrava sotto a questa critica, dato che se ho dovuto passare tanto tempo sui libri e dietro agli schermi in ufficio e a casa, non è che l’abbia fatto per qualche pulsione autolesionista, bensì perché ho dovuto e ho deciso di anteporre il dovere al piacere.

In vita mia ho viaggiato tanto, ma non si può dire che io abbia fatto i tipici viaggi che le persone amano raccontare. Partendo dal fatto che sono allergica ai raggi ultravioletti e quindi non posso espormi alla luce solare, odio la salsedine ed il mare è attrattivo per me solo quando vi è un paesaggio naturale da osservare, i miei viaggi sono stati cervellotici proprio come me.

Ho visto l’America, l’Europa, una piccolissima parte del Nord Africa e vorrei ancora visitare Australia e Asia (soprattutto Giappone e Russia), ma la maggior parte dei miei viaggi cominciava con me che stavo stretta nella mia realtà e fuggivo per qualche giorno lontano, laddove non potessi più essere disturbata da nessuno per almeno il tempo della vacanza.

Definirle vacanze è quasi scorretto, oserei dire che nella maggior parte dei casi si è trattato di esplorazioni.

 

Ricordo un venerdì sera del 2021, qualche giorno dopo aver lasciato l’uomo che avrei dovuto sposare di lì a tre mesi, alzai la cornetta e chiamai un’amica che vive nel centro Italia e che non vedevo da tre anni: “Senti, ma domani che fai?” – “Niente di che, ho due giorni di riposo, penso che starò a casa.” – “ok, non prendere impegni, arrivo.” Preparai la borsa, passai a far benzina all’auto, controllai che fosse in ordine e che potesse reggere un viaggio di 2500km (avanti e indietro) e poi partii. Dopo 9 ore di guida, arrivai da lei il sabato mattina e passammo un weekend a sbevazzare e fare le cretine come se non ci fossimo mai separate.

Ripartii la domenica per pranzo dato che purtroppo il lunedì sarei dovuta tornare in ufficio e sì, avrei potuto fare la stronza e chiamare i dipendenti per dire che mi sostituissero loro, che avevo avuto un imprevisto, ma non voglio diventare quel genere di persona. Per cui lunedì ero di nuovo lì all’apertura.

Partii domenica a pranzo, ma arrivai dopo 15 ore di viaggio. All’andata 9 e al ritorno 15? Questo perché mentre all’andata presi la strada diretta (anche per riuscire a dormire qualche ora prima di cominciare il weekend di fuoco), al ritorno seguii un percorso a spanne. Come in autostrada vedevo un’uscita che mi ispirava, la inforcavo e giravo alla ricerca di qualcosa. Durante il viaggio spesso c’era silenzio, ma non mi dava alcun fastidio. La radio dopo un po’ mi fa venire il mal di testa e la playlist sulla chiavetta non era pronta per affrontare un viaggio di così tante ore e dopo la seconda volta che ripartiva da capo, l’ho interrotta.

Tra le soste che ho preferito c’è stata il pranzo che ho fatto nelle Marche, a Fano, in cui ho conosciuto delle volontarie che si occupano di salvare gatti e ne ho adottati due, e la cena che ho fatto a Ravenna, a base di piadina romagnola che non scorderò mai più perché non era la semplice piadina che si mangia ovunque, era indescrivibile e mi ha colpito.

Così come un viaggio d’ispirazione fu quello che feci nell’agosto del 2014, quando ancora vivevo in Italia, e decisi di visitare Roma. Entrai da Milano, imboccando quella che ad un certo punto prendeva il nome della famosa A1 Milano-Napoli e il navigatore di Google mi disse cordialmente “Tra 365 chilometri, svoltare a destra”. Sentii la mandibola cascare e il mio cervello petulante riuscì solo a formulare “alla faccia del cazzo…”.

Va bene riflettere per un paio d’ore, ma sei ore su un rettilineo autostradale non le reggevo, così feci tappa nella bassa Lombardia e poi tagliai per una sosta in Toscana e finii a Siena dove, per mia proverbiale sfiga, trovai il Palio di Siena in pieno corso e ci rimasi imbottigliata per almeno due ore prima di riuscire a scappare. Ma di solito non lo facevano a luglio, sti cornuti? (scusatemi senesi, è stato un trauma) No, nel 2014 era ad agosto. All’anima…

Misi come canzone guida sul mio stereo Bomba o non bomba di Venditti e finalmente raggiunsi Roma, per la precisione la periferia di Roma Ovest, dove viveva una mia cara amica che mi fece fare un tour delle zone più suggestive della città. Non era la prima volta che andavo a Roma, ma quella la ricordo come la più importante. Anche perché ehi, avevo la patente da due anni e già guidavo nella ressa di Roma perfettamente integrata! Per uno del posto può essere considerata una bazzecola, ma ci sono differenze sostanziali tra gli stili di guida che si tengono in tutta Italia, ed attraversare una rotonda a cinque corsie con diametro di centocinquanta metri, quattordici uscite e velocità media di 50 km/h (sembra poco, ma è un dato che va applicato al contesto della rotonda) ed uscirne illesi (tu e il veicolo), tanto di cappello. O per stare nel romanesco, mecojoni! Sò botte de autostima!

 

Una volta avevo un’amica che con me aveva un rapporto quasi simbiotico e lei chiamava i miei viaggi “i tours della speranza”. Questo simpatico appellativo le era venuto dopo il giro della Scozia in cui l’avevo trascinata. Stavolta senza auto, in bus, tre settimane per girare la Scozia fino alle Isole Shetland. Visto che avevamo le pezze al culo, si andava fortemente a risparmio per viveri e pernottamenti, quindi vi lascio solo immaginare in cosa non siamo incappate lungo il tragitto…

Visitammo Edimburgo, diversi paesi secondari e Glasgow, città che ricorderò per sempre perché con la mia grazia sovrumana, durante una visita allo stadio di Hampden Park, mi stravaccai contro un muretto e mi impigliai (non mi chiedete come, ancora oggi ogni tanto penso a come cazzo sia potuto succedere) nell’allarme antincendio, che attivai e scappammo in gran carriera come se avessimo rubato la Gioconda, perché col cazzo che avremmo potuto permetterci di pagare l’uscita dei pompieri.

Da lì decidemmo proprio di virare e andare alla ricerca di paesaggi più suggestivi, sulle Highlands, e dopo una tappa al lago di Loch Ness (che ha l’acqua giallastra, ci tengo a precisarlo visto che non lo dice nessuno), passammo oltre dieci giorni sulle montagne più emozionanti che abbia mai visto, e lo dico nonostante la Svizzera l’abbia girata tutta… Le montagne scozzesi regalano emozioni. Sono naturalmente prive di alberi, giusto qualche arbusto e ricoperte da prati di un verde così accecante da lasciare senza fiato.

Se siete alla ricerca di ispirazione per l’ambientamento di un romanzo fantasy o una storia ai tempi dei vichinghi o dei celti, dovete visitare le Highlands. La pace che trasmettono quei colori, il paesaggio e l’aria che soffia tra quelle montagne è in grado di farti percepire la tua reale dimensione in confronto alla natura. E non ti viene più voglia di dire nulla, la testa si svuota e riesci a capire per la prima volta cosa è la contemplazione.

Poi un bufalo scozzese, di quelli tarchiati e con la pelliccia arancione, ci si è avvicinato e voleva caricarci, quindi ce la siamo date a gambe anche da lì. Ma son dettagli… Arrivammo fino a Aberdeen, se non ricordo male, in cui avremmo dovuto prendere il traghetto per raggiungere le famose Isole Shetland, che non riuscimmo mai a vedere: nevicava (a settembre!) e quindi le imbarcazioni non viaggiavano.

Per me fu un’emozione continua, riuscii a divertirmi anche nei momenti di fuga, anche mentre il bufalo mi faceva cadere per terra e i pompieri facevano evacuare lo stadio, mentre la mia amica ne uscì con un diavolo per capello, acciaccata per le dormite accampate, col mal di pancia e prese pure i pidocchi in un ostello nell’Highland. Insomma per lei fu un vero viaggio di merda.

 

Un viaggio può essere bello o brutto a seconda del punto di vista di chi lo vive, ma soprattutto di come lo si rielabora.

Ad esempio, da piccola ho potuto fare altri viaggi, soprattutto vacanze al mare, quando avevo ancora i genitori uniti, e li ricordo tutti con insoddisfazione e malcontento. Ricordo Lampedusa, incantevole ma di una noia pazzesca perché i miei sapevano fare solo hotel-passeggiata-ristorante-spiaggia, oppure Rodi in Grecia, dove ho visitato la Valle delle Farfalle, ed essa è il ricordo più bello che ho di quel posto, dove praticamente i miei mi lasciarono visitare il parco da sola e il contatto con la natura mi fece rilassare, per poi tornare peggio di prima nello stress della “vacanza perfetta” tipica delle ferie con la mia famiglia: mare, spiaggia, ristorante, hotel, bancarelle, passeggiatina.

Dio, che odio le vacanze di questo genere.

Che senso ha dire che sei stato a Bali, in Grecia, in Puglia, in Spagna, in Marocco, se il poco che hai visto stava su una guida turistica, ti ci hanno accompagnato e raccontato quello che volevano e il 90% del tuo tempo lo hai passato nel resort e sulla spiaggia? Eh, però che belle foto hai messo su Instagram!

Non hai visto niente che non avessi già visto prima, magari con qualche fragranza e acqua di una tonalità di azzurro leggermente diversa da quello che hai potuto ammirare dall’altro lato dell’equatore. “Però mi sono divertito, che cocktails che facevano al lounge la sera, sentissi il DJ, ho messo il reel…” Sento proprio trasudare passione da questo discorso.

Ma quanti hanno goduto della magnificenza di quel tramonto col sottofondo delle onde? Quanti si sono fermati in un campo di fiori, lontani da tutto e tutti, e si sono guardati dentro senza fare una marea di foto e video da postare sui socials con un sottofondo musicale di merda? Non che ci sia niente di male nel fare foto e video e pubblicarli, anzi, ma possibile che dalla maggior parte delle immagini che si trovano oggi non traspare nessuna profondità?

Ovvio che se lo scopo della vacanza era davvero il dolce far niente e divertirsi, va benissimo, scopo raggiunto. Ma perché andare dall’altro capo del mondo per un po’ di relax? Risparmiare tutto un anno per andare in una località fashion solo per visitare qualcosa che avresti potuto benissimo vivere vicino a te ad un prezzo più accessibile?

Ci sta cambiare aria di tanto in tanto, ma sinceramente la maggior parte dei reels e delle foto dei viaggi sui socials, con l’uso spropositato di filtri e pose per abbellire i paesaggi, mi danno la chiara sensazione che godersi quel luogo è stato l’ultimo dei loro pensieri. L’obiettivo principale era mostrare al prossimo dove si trovavano e quanto era figo il posto solo per indurre all’invidia. Cosicché alla fine si è sviluppata una vera e propria branca di turismo incentrato non su ciò che una persona può guadagnare da un viaggio, bensì sulle mete più instagrammabili (cazzo, che sofferenza scrivere sta parola…).

Al punto che per scegliere la destinazione del mio prossimo viaggio faccio proprio la ricerca su Google “vacanze instagrammabili” e mi segno i posti in cui NON devo andare.

Così i vacanzieri si dividono tra chi ne è uscito formato e chi ha solo aggiunto una tacca a quella lista di cose da fare che la società odierna impone. Una celebrazione dell’apparenza spicciola al fine di farsi accettare da un pubblico immaturo facendo a gara a chi ostenta la vacanza migliore.

 

Ricapitolando, quel disgraziato del mio compagno mi ha detto che faccio pochi viaggi, sebbene non sia vero, sono passati meno di due mesi da quando siamo andati in Spagna per un viaggio di divertimento. Gli ho chiesto cosa intendesse per viaggi e quali viaggi avesse fatto in vita sua. Anche lui si è perso in chiacchiere su posti “da fotografare” e cose emozionanti da fare, tipo andare in quelle località turistiche con qualche attrazione specifica, tipo dondolarsi dalla mano del Buddha nel Guangdong o sfondarsi di canne in Giamaica, però poi non ricorda nessuna lezione di vita. Cose divertenti, cose da raccontare, differenze tra il Paese visitato e il Paese di provenienza, e poco più.

Per curiosità gli ho domandato quali viaggi formativi avesse fatto nella vita al di fuori delle gite scolastiche, perché quando parlo di viaggi formativi non intendo itinerari didattici, ma percorsi che ti hanno cambiato dentro e ti hanno arricchito spiritualmente o psicologicamente. La sua risposta ha tardato ad arrivare e alla fine era, mi spiace dirlo, abbastanza banale. In sostanza no, non ha mai fatto un viaggio del genere, però viaggiando gli è venuta voglia di vedere il mondo per scoprire cose nuove (desiderio legittimo che tutti abbiamo, ma che non ti “cambia” dentro). 

Una delle differenze che intercorre tra un viaggio di svago, divertimento e relax e uno di riflessione è che il primo vorresti che non finisse mai, ne vorresti fare altri per continuare a divertirti, mentre i viaggi di crescita ti soddisfano pienamente. Dopo averne concluso uno ti senti una persona diversa, lasciano in te qualcosa di denso, un’esperienza corposa che va metabolizzata ed è per questo che quando finiscono hai bisogno di un attimo di pausa per “riprenderti” e non hai voglia di farne immediatamente un altro, anche perché spesso non sono affatto rilassanti. È possibile che tu non voglia farne altri anche due o tre anni di seguito (nel frattempo farai altri viaggi per divertirti), eppure ad un certo punto la tua mente ti comunicherà che è giunto il momento per cominciarne un altro.

 

Ritengo che ci siano delle cose, come ad esempio la sigaretta catartica, che si possano godere appieno solo in solitudine, poi ci sono altre cose che possono essere di valore anche in compagnia. Ho fatto viaggi in solitudine e viaggi in compagnia e penso che un viaggio possa cambiarti anche se si è in gruppo.

Ovviamente da soli c’è una introspezione molto più forte, che può diventare pesante al punto che se non sei pronto psicologicamente o non hai mai esperito una sensazione simile prima, può avere effetti devastanti e deprimenti, a tratti angoscianti. Se invece sei dello spirito adatto può portarti a vere e proprie epifanie.

Anche un viaggio in coppia o con un gruppo di amici può portare ad una crescita, basta scegliere il giusto compagno di viaggio. Qualcuno che rispetti i momenti di silenzio e che sappia come riempire quelli che necessitano delle parole, e soprattutto che sappia guardarsi dentro.

Così ho deciso che questo agosto partirò per un nuovo tour della speranza. Questo weekend devo già farmi quattordici ore di viaggio tra l’andata e il ritorno per andare a trovare una persona in Germania e a luglio andrò un weekend salto in Piemonte da amici, ma il vero viaggio senza meta fissa ho scelto di farlo in concomitanza con le ferie, quando non dovrò preoccuparmi di che giorno della settimana è e di dove mi trovo.

Verrà con me e chissà dove ci porterà il volante? Ho toccato due punti a caso sulla cartina, ad est e ad ovest rispetto a dove sono io. Posso scegliere tra Cracovia e la regione francese dello Champagne. Un bivio autostradale sarà il punto decisivo che ci condurrà da un lato o dall’altro.

Dove andremo? Quali esperienze vivremo? Cosa impareremo?

Lo scopriremo ingranando la prima.

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Capitolo 7
*** Il Decalogo della Giornata di M ***


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Questo testo lo scrissi nel 2017, in uno dei periodi più particolari della mia vita.
All'epoca sembrava che un'intera equipe di fattucchieri e iettatori si fosse adoperato con solerzia e passione nell'affatturarmi con la sfortuna più creativa che poteste immaginare.
Davvero, proponete una sfiga a caso, nel 2017-2018 probabilmente mi è capitato.
Col senno di poi posso dire che ok, ci sono persone che purtroppo sono più sfigate di altre, e io di sfortuna ne ho parecchia anche adesso, però a cavallo tra il 2017 e il 2018, il Karma si è accanito.
Forse per questo poi sono rifiorita: avevo già dato un acconto con tanto di interessi in maturazione pro-rata, ma è un'altra storia.

Ecco a voi il decalogo della giornata di Merda (con l'iniziale maiuscola se no, non rende).
Uno dei misteri del Karma, la piaga della vita del lavoratore, dello studente, di qualsiasi essere senziente.

È lei: la giornata di merda.

Giornata di merda è qualcosa di più di un modo di dire, è più di un concetto. È una vera e propria filosofia.
La giornata di Merda ti avvolge in un limbo che avrà fine soltanto all'alba del giorno dopo.
Essa è integralmente distruttiva e frustrante e permea ogni stato dell'esistenza giornaliera. Non è da confondere con "la giornata pesante" o "la giornata frenetica", no... è proprio una giornata di Merda.
Non si intende un giorno in cui sei triste o depresso, in cui vedi tutto nero o non hai vinto al lotto, essa esula dai disturbi mentali e dallo stato d'animo, sebbene ovviamente se sei depresso ne avvertirai il peso con molta più intensità.

Il numero di giornate di Merda che compongono il mese indicano la qualità della vita della persona.
Se capitano una o due giornate di Merda al mese, sei veramente fortunato! Se non te ne capitano, che culo, figliolo! Se invece cominci già ad averne una a settimana, allora il suo peso si fa sentire. Se in un periodo te ne capitano 5 di fila, forse ti hanno fatto il malocchio, ma se come succede a me, 6 giorni su 7 sono giornate di Merda, allora sei veramente sfigato.

Ma tutto ciò come si svolge? Perché accade?
Accade perché Dio mi odia.
No, scherzo, non lo so perché. Probabilmente perché nella vita passata eravano Stalin o uno dei membri fondatori del Ku Klux Klan.

La giornata di Merda segue delle regole di base, e per essere veramente tale almeno il 70% dei suoi punti deve essere stato rispettato:

1) Devi aver dormito male
O la sveglia non è suonata, o hai dimenticato qualcosa a casa, o comunque al mattino, poco prima di uscire di casa, qualcosa è andato storto.
Per esempio un attacco di cagarella fulminante, o il caffè che si rovescia sulla camicia che hai appena scelto e devi cambiarti in fretta e furia, o ti sei dimenticato di fare benzina alla macchina, o di caricare il cellulare ieri durante la notte (o meglio, avevi attaccato il filo ma il caricatore non era ben infilato nella presa), ti è scaduto l'abbonamento dei mezzi pubblici e non riusciresti a rinnovarlo in tempo eccetera.
Probabilmente non hai ancora realizzato dove ti trovi, ma già sei stressato.

2) Ti fa male qualcosa
A volte è un semplice mal di testa che si trasforma in emicrania, altre volte è quel muscolo accavallato che improvvisamente si infiamma, un colpo d'aria che ti fa venire mal d'orecchio, la cervicale, l'intestino sensibile, le mestruazioni (se sei una donna), ieri hai fatto troppo sport e oggi hai l'acido lattico, o il mal di gola, l'influenza, un eczema, una zanzara ti ha punto in fronte e senti di fare concorrenza agli unicorni o altre piccole turbe fisiche che non sono gravi di per sé, ma causano un disagio abnorme che condiziona ogni cosa che fai.
A volte stai benissimo, poi ti storti una caviglia a metà mattinata.

3) Qualcosa va storto
Di norma non è mai qualcosa di vitale importanza, ma prima che la giornata sia a metà, ecco che qualcosa si rovina.
Magari è perché ti sei accorto di aver dimenticato qualcosa a casa, o forse avevi già tanto lavoro da fare e si è aggiunto qualcos'altro di pesante e noioso che dovrai sbrigare in poco tempo e che ti succhierà via un sacco di energie.

4) Il tempo non passa più o hai troppo poco tempo per fare ciò che devi
Di norma in queste situazioni capita che si avverta la sensazione che la giornata non voglia finire. Guardi l'orologio e sono le 10:00, passa mezzora, guardi di nuovo l'ora e sono le 10:10.
Altro discorso se invece devi riuscire a consegnare un lavoro entro le ore TOT oppure devi recarti in qualche luogo entro le ore TOT. In tal caso il tempo è fulmineo, non hai modo nemmeno di andare in bagno che i minuti vengono mangiati dalle lancette in maniera eccezionale.
Nel primo caso alla fine o ti abbiocchi, o ti sale il nervosismo e l'intolleranza. Nel secondo caso ti viene l'ansia o ti sale il nazismo nei confronti di chiunque respiri.

5. Litighi con qualcuno
Questo qualcuno di norma è qualcuno di importante nella tua vita privata o professionale. Può essere un genitore, un parente, un amico o il tuo compagno, ma anche un responsabile, il datore di lavoro o il collega con cui avrai i turni insieme per la prossima decade.
In questo giorno che per te è l'apice dello stress, questa persona ti sembra improvvisamente indisponente, con un atteggiamento fastidioso, poco comprensiva dei tuoi bisogni e del tuo stato d'animo, con richieste impossibili e capricciose, appiccicosa, noiosa e chi ne ha più ne metta a seconda delle occasioni. Di conseguenza, basta una risposta data male e comincia la litigata.
Inevitabilmente, dato che sei già predisposto a sentimenti negativi dati i trascorsi della giornata, capita di dire qualcosa che in realtà non si crede davvero, o fare un casino per una piccolezza e quindi aumentare lo stress di conseguenza con qualcosa che in realtà si poteva benissimo evitare.

6. Il lavoro/scuola va male
Se vai in università, è il giorno in cui la tua lezione è stata cancellata ma tu non lo sapevi perché da bravo stronzo ieri sera non hai aperto la mail, in cui ricevi i risultati di merda del tuo scritto, in cui ti accorgi che c'è un altro paragrafo da studiare (stava sul retro del foglio, come cazzo hai fatto a non vederlo?!), in cui il compagno stronzo che doveva restituirti gli appunti non si è presentato (e tu eri andato lì principalmente per questo), etc...
Se lavori, è il giorno in cui tutto è intasato, gli strumenti di lavoro funzionano male, c'è un cliente particolarmente complesso o esigente... Vorresti semplicemente sparire da questo mondo e prendere fiato ma... sei solo a metà della giornata.

7. Incontri solo persone del cazzo
È questo il giorno in cui incontri tutti gli stronzi.
È come se avessi una calamita che li attira. In un giorno qualsiasi avrebbero tirato avanti, o ci avrebbe parlato qualcun altro, o avresti fatto una strada differente e non li avresti incontrati, e invece no. Oggi li incontri proprio tutti. Sentono l'odore di disagio e ne sono attratti, come le zanzare con i raggi infrarossi.
Se lavori a contatto con la gente, quel giorno incontrerai tutti i clienti di merda, ognuno con una richiesta peggiore dell'altra, con domande assurde e maleducazione galoppante.
Se sei a scuola, è il giorno in cui il professore è incazzato, c'è un compito a sorpresa, vengono programmate le verifiche da qui alla fine del ventiduesimo secolo, e via discorrendo.
Proprio in quel giorno, mentre magari sei in ritardo per andare da qualche parte, ti capita davanti il coglione che va a 30km/h dove il limite è 70, incontri il tuo ex, incontri quello che ti deve dei soldi (che appena ti vede, scappa in gran carriera), incontri quella stronza della tua ex amica che due anni fa si fingeva cuoricini e baci e poi ti sparlava dietro, incroci tua madre/padre/nonni/zia pettegola per strada mentre ti cade il cellulare e ti parte un bestemmione, oppure la vicina ritiene che sia quello il momento giusto per lamentarsi di quel rumore che hai fatto la sera dell'anno scorso, il tuo datore di lavoro ha le emorroidi e ti deve criticare per qualcosa, il treno è tutto strapieno e devi stare un'ora in piedi e appena trovi posto scopri che quello di fianco a te non si lava dai tempi della guerra in Vietnam.
Improvvisamente ti accorgi di quanto saresti felice se avessi un mitra nella valigetta.

8. Ti danno una notizia di merda e/o ti sei dimenticato qualcosa di importante
Questa non è una semplice notizia brutta, è una notizia tale da sconvolgere i piani dei giorni o settimane futuri, come un impegno lavorativo importante che ti farà annullare la vacanza che stai progettando da mesi, oppure l'impegno coinvolge la persona che doveva partire insieme a te e inevitabilmente va tutto a monte.
Oppure ti ricordi che entro oggi dovevi consegnare una cosa importante a scadenza e invece l'hai dimenticata a casa al mattino ed è troppo tardi per rimediare, ti hanno cambiato i turni lavorativi, o spostato le vacanze, o ridotto lo stipendio, o sono aumentate le tasse, è uscita una nuova legge inutile e controproducente oppure la tua amica si è lasciata ed è a pezzi e non sai cosa fare per aiutarla...
questa notizia si ripercuoterà anche sui giorni a venire, ma a è oggi che subirai i suoi effetti maggiori.

9. C'è un imprevisto
Non importa cosa sia, alla fine della giornata carica di sfiga, ecco che succede qualcos'altro.
Il mondo si sta accanendo su di te ed è seriamente intenzionato a schiacciarti mediante vari espedienti.
Se è una giornata di Merda colossale il gatto è stato male ed ha vomitato ovunque in casa prima che debba arrivare l'assicuratore o il tuo datore di lavoro (una volta il mio gatto ha vomitato PROPRIO sui fogli che avevo dimenticato a casa al mattino e quando è venuto a prenderli il collega ha trovato una scena in stile Tarantino col vomito e la diarrea al posto del sangue, guardacaso proprio sui fogli), o tamponi qualcuno, perdi il treno, o ti si rompe lo schermo del cellulare, prendi una multa, un richiamo, nei casi più gravi perdi il lavoro, ti lasci con il tuo compagno, ti attacchi ad una bottiglia appena torni a casa, vai su Google a cercare quale medicina che tieni nell'armadietto può ucciderti in modo veloce e indolore (non sopporti l'idea di dover uscire di nuovo per andare in farmacia anche per toglierti di mezzo).
Nel frattempo Google ti consiglia di non usare troppo veleno, altrimenti ti viene il cancro, se non ce l'hai già.

10. La sera speri di addormentarti e non svegliarti più o che domani prima di uscire di casa qualcuno ti dica che sei il nipote di un vecchio miliardario californiano e ti levi da questa vita con dito medio fieramente irto.
Invece no, arrivi a casa, mangi, pulisci, sistemi due cose, vai in bagno, doccia ed è già tardi e devi andare a dormire che domani si comincia presto.

Non resta che augurarti che il giorno dopo vada meglio.

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Capitolo 8
*** Care radici ***


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Mi piacerebbe poter dire che la mia storia comincia con la mia nascita, ma sarebbe un tantino riduttivo, dal momento che, tutto sommato, ha origine oltre due secoli fa.

Le radici della mia famiglia sono site nel profondo Sud Italia, l’entroterra siciliano, e i dati in mio possesso sono giunti a me con una tradizione orale gelosamente custodita. A volte celata così bene che molti aneddoti restano tuttora un mistero per me.

Questa storia parla delle origini della mia famiglia, sono storie rigorosamente vere, sebbene abbia oscurato alcuni dettagli e sono presenti i nomi di tante persone che potrebbero trarre in confusione. Spero di essere riuscita a non fare troppa confusione

 

Alla fine del diciannovesimo secolo viveva una mia antenata, Maria, donna nota per essere estremamente bella e capace. Rimase vedova in giovane età, con tre bambine piccole da crescere, Pia, Vincenza e Giuseppina. Un individuo del suo paesino, oltraggiato dopo aver subito un rifiuto da parte sua, la seguì mentre andava a prendere l’acqua al fiume, abusò di lei e rimase impunito.

Quello fu un fatto di tale entità da ripercuotersi tuttora sulla vita delle sue discendenti, tutte donne, che ricordano fatti del passato e tentano di utilizzare una chiave di quasi duecento anni per affrontare il futuro.

Ciò è dovuto al fatto che Maria, donna dell’epoca, non aveva i mezzi e la cultura necessaria a far fronte all’onta subita, crescendo la prole instillando loro sentimenti negativi, propositi di vendetta, pratiche poco cristiane.

 

Il segreto più recondito della mia famiglia è appunto la propensione per le pratiche cristiano-pagane. Può sembrare anacronistico, tuttavia nel profondo sud vigeva fortissima l’influenza del paganesimo, la famosa Magia Lucana, mischiato a riti cattolici. Erano socialmente riconosciuti, temuti, e tutti credevano che veramente si potesse ricevere il malocchio, che uno sguardo cattivo potesse far ammalare, che uno sfregamento delle falangi potesse guarire un moribondo o che spargere sale ed erbe potesse recare buoni auspici. La discendenza di Maria crebbe in un clima oscurantista, timoroso di forze maligne e incline all’uso di metodi poco ortodossi per ottenere gli obiettivi desiderati.

 

Una donna sola, vedova, analfabeta e tacciata di promiscuità suo malgrado, a quel tempo non poteva pensare di guadagnare molto denaro, inevitabilmente le bambine furono indirizzate ad una vita di sacrificio quando ancora non avevano compiuto dieci anni.

Pia, la più grande, andò a lavorare in fabbrica, Vincenza ad appena 6 anni, andò a fare la serva, mentre Giuseppina, la più piccola, trovò vari lavoretti finché, entro i vent’anni, furono tutte sposate e con figli. Pia, lavorando in una fabbrica tessile, aveva potuto permettersi un’istruzione di base, Vincenza invece aveva dato quel poco che poteva per mantenere gli studi di sua sorella Giuseppina.

 

I rapporti tra le sorelle col tempo si incrinarono. Pia risultò essere una persona estremamente egoista e sadica. Vincenza invece, sebbene restasse umile nel proprio mestiere, celava un grande orgoglio e non accettava di essere pubblicamente svilita. Questo portò ad una scissione tra Pia e Vincenza, che non vollero più avere contatti spontanei, sebbene la smania di Pia di impicciarsi dei fatti altrui e ledere al prossimo, fece in modo che fino alla sua morte, causasse disagi a chiunque.

 

Il marito di Giuseppina andò in America, a Boston, in cerca di fortuna e portò con sé moglie e figli. Vendendo i propri campi di ulivi in Sicilia, si garantirono un sostentamento iniziale, grazie al quale riuscirono a ingranare bene anche in un Paese totalmente differente da ciò a cui erano abituati.

 

Pia rimase fissa nel suo status sociale di madre, proletaria di fabbrica e senza ambizioni se non quella di rendere difficile la vita del prossimo.

 

Vincenza ebbe due figli da Piero, un uomo che faceva il contadino e allevava muli, maiali, conigli e polli. Dal momento che era analfabeta, di cattiva famiglia e sola, venne spesso presa di mira dalla società dell’epoca. Ricordo che quando ero piccola, negli anni novanta, mi raccontava di come per prenderla in giro le dissero che per far crescere sani dei pulcini, dovesse dar loro pane e vino. Lei così fece e i pulcini, ubriachi, si cavarono gli occhi gli uni con gli altri. Lei si disperò ma non demorse: allevò tutti i pulcini uno ad uno, imboccandoli e riscaldandoli col proprio petto quando la madre li rifiutò. Crebbero e divennero tutti polli bellissimi, che tutti le invidiarono e mi disse anche che ancora riusciva a commuoversi e a piangere quando presero i suoi galli e li uccisero per la carne. Lei non riuscì a mangiarne nemmeno un pezzo.

 

Vincenza era degli anni dieci del novecento e, negli anni trenta dell’entroterra siculo, solo le persone benestanti potevano permettersi di acquistare un immobile già costruito. Gli altri compravano un lotto di terreno e poi ci costruivano sopra di propria mano anche senza nessuna conoscenza di edilizia. Fu così che lei, senza l’aiuto di nessuno, pietra dopo pietra, costruì una casetta di circa cinquanta metri quadri. Incredibilmente esiste ancora oggi, dopo aver visto intemperie, terremoti e allagamenti. Ovviamente erano solo muri di pietra, malta e un pavimento di terra battuta, senza acqua corrente, elettricità o gas. Vincenza si rifece di questi dettagli negli anni a venire.

Ebbe due figli, Silvia nel 1931 e Giovanni nel 1934. Giovanni non conobbe mai sua sorella.

Vincenza era appena rimasta incinta di lui quando Silvia compì due anni e il braciere posto al centro della stanza, rimedio usato in inverno per scaldare le case dei poveri, le si rovesciò addosso in seguito ad una lite accesa fra i genitori.

La brace ardente si riversò interamente sulla bambina, ustionandole gravemente la parte inferiore del corpo. Vincenza agì prima che poté, bruciandosi le mani e cercando aiuto. Purtroppo, senza acqua a disposizione, il sollievo che diede alla bambina tardò ore intere. Non appena possibile, la portò dal medico, che non le diede niente se non il consiglio di attendere che guarisse da sola. L’uso degli antibiotici era comune già in quegli anni, ma in realtà non tutti potevano permetterseli e non sempre i medici ne erano forniti o, ancora peggio, non sempre i medici erano veramente medici.

Le ferite si infettarono, a Silvia venne una febbre molto alta. L’anziana sciamana del paese le disse di apporre la calce che si utilizza in muratura sulle ustioni. Vincenza si procurò della calce bianca, la applicò alle ferite della bambina, che urlò disperatamente dal dolore, e in poche ore spirò.

Vincenza all’epoca doveva ancora compiere vent’anni, ma questo fatto la turbò profondamente in un modo che non voglio nemmeno immaginare, e che si è portata dentro ogni giorno della sua lunga vita fino al suo letto di morte.

 

Fortemente traumatizzata dall’accaduto, scelse di non volere più figli dopo quello che portava in grembo, e nel 1934 partì col figlio neonato, lasciando il marito in Sicilia (causando un grande scandalo per l’epoca) in direzione dell’Inghilterra. Ripensando a lei, credo che dovesse sentirsi estremamente sola e afflitta. Aveva appena perso sua figlia, doveva occuparsi a tempo pieno di un neonato, non sapeva scrivere, non parlava altra lingua se non il dialetto stretto della sua provincia, era senza denaro, senza una cartina né una istruzione e si trovava su una nave diretta a Londra. Nonostante tutto, comunicando a gesti, tenendo la fame sotto controllo, riuscì a raggiungere l’Inghilterra.

Trovò lavoro come donna delle pulizie presso uno studio medico e lavorò lì per diversi mesi. Vincenza cominciava a capire l’inglese e a masticare qualcosa di quella lingua germanica così lontana dalla propria, quando giunse una lettera presso lo studio medico. Vincenza era purtroppo ancora analfabeta, ma il medico rimase profondamente turbato dal contenuto della missiva e licenziò Vincenza in tronco. Lei non seppe la ragione finché non le giunse all’orecchio la voce che sulla lettera denunciavano la sua persona: che lei fosse una prostituta, difatti sola, non sposata e con un bambino avuto da un cliente. Vincenza era mortificata.

Dopo nemmeno un anno, scappò dall’Inghilterra e tornò da suo marito in Sicilia, dove riprese la vita di prima, sconsolata e afflitta.

Negli anni a venire scoprì che a inviare quella lettera fu sua sorella Pia, invidiosa che Vincenza fosse tanto capace da poter affrontare il mondo da sola mentre lei non poteva nemmeno andare a prendere l’acqua al pozzo senza chiedere il permesso al marito. Vincenza litigò furibondamente con sua sorella Pia per l’affronto subito, ma purtroppo la situazione non poteva più essere risolta.

 

Giovanni crebbe come un signorotto di campagna, benvoluto, socialmente ben integrato, di bell’aspetto. Quando ancora era un bambino, conobbe Paola, una scaltra bambina dagli occhi castani, i capelli rosso fuoco e una pelle così pallida da essere quasi traslucida e piena di efelidi.

Paola, nata nel 1936 a Catania, era figlia di un tenente dell’esercito fascista. Piero, il marito di Vincenza, era stato chiamato alle armi dall’esercito fascista negli anni quaranta, e guarda caso, il Tenente era il suo superiore.

Visto che Piero era ancora molto giovane, il Tenente non se la sentiva di mandarlo al fronte, quindi gli faceva fare più che altro delle ronde del villaggio, sebbene lui non avesse nessuna voglia di farle, e più che altro alla fine passeggiava e chiacchierava con i paesani.

Un giorno arrivò l’allarme di attacco aereo e il Tenente fece evacuare il villaggio, ma i soldati non potevano abbandonare la postazione, quindi il Tenente chiese ai più giovani di andare a fare la guardia a posti che secondo lui sarebbero stati più sicuri. A Piero toccò controllare il cimitero, ma lui pensò bene che di morire per far la guardia ai morti, non ne valeva la pena. Se ne andò sulle colline con sua moglie Vincenza, con l’obiettivo di tornare al cimitero la mattina dopo alle prime luci dell’alba, fingendo di essere sempre rimasto là.

Dio volle che durante la notte una bomba cadde proprio sul cimitero. Il Tenente accorse e trovò quello che restava di tombe e cadaveri in diversi stati di putrefazione sparsi in giro. Diede per scontato che il cadavere di Piero dovesse trovarsi lì in mezzo a quei corpi, e si sentì malissimo all’idea di aver fatto uccidere il povero Piero, che nel frattempo se la dormiva nella grossa in tenda ben lontano da lì. Quando al mattino gli dissero che il cimitero era stato fatto saltare in aria e che l’avevano dato per morto, decise di darsela a gambe con la sua famiglia, per non rischiare di essere punito per aver disertato.

 

Fuggirono lontano e dopo qualche anno, alla fine della guerra, tornarono nel paesello per reclamare la casetta che avevano costruito.

Un giorno, mentre Piero era al mercato per fare compere, si scontrò per sbaglio contro un passante. Fecero per azzuffarsi ma come si guardarono in faccia, il passante svenne: era il Tenente, convinto che Piero fosse tornato dagli inferi per vendicarsi della sua morte ingiusta. Piero portò a casa il Tenente e quando si riprese, si riabbracciarono come vecchi amici, increduli di rivedersi dopo così tanti anni, sebbene in realtà prima praticamente non si sopportavano.

 

Il Tenente era spesso via per lavoro e lasciava in paese la moglie Francesca e la figlia Paola. Vincenza, colta dall’istinto materno per una figlia rubata prematuramente, riversò molto amore su Paola.

Successivamente i rapporti tra le due famiglie si fecero talmente stretti che non riuscirono più a separarsi gli uni dagli altri. Immagino che chi non abbia visto e affrontato la guerra, difficilmente potrebbe comprendere la riconoscenza che il tenente provò per la famiglia di Vincenza. Finché Paola rimase bambina, Vincenza fu una figura materna di suprema importanza per lei, poiché purtroppo sua madre Francesca era una donna aspra e anaffettiva.

Paola, mia nonna, mi raccontò di come suo padre, il Tenente, combatté in tutta Europa e anche in Africa, di come negli ultimi anni della guerra si staccò dall’esercito fascista quando i nazisti gli spararono alle gambe a tradimento. Lui si finse morto, sotto ad una catasta di suoi commilitoni deceduti. Raccontò di come i nazisti rimasero in quel campo per giorni e lui sopravvisse bevendo l’acqua che colava dai cadaveri. Si ammalò di colera e strisciò fino ad un villaggio africano, dove trovò assistenza e conobbe un bambino orfano, con cui rimase fino alla sua totale guarigione. Raccontava sempre a mia nonna Paola di quanto avesse desiderato portare con sé quel bambino e di quanto lo amasse. Le ripeteva spesso che lei, in Africa, aveva un fratello. Avrei tanto voluto poterlo conoscere.

 

Il Tenente, per quanto fosse un uomo battagliero, introverso e di tempra micidiale, non fu mai violento con le sue figlie e sapeva cosa fosse l’amore.

La nonna Paola mi raccontò un fatto che aveva segnato l’infanzia di suo padre: egli era figlio di un sociopatico, il quale appena trovò un’amante, avvelenò la propria moglie e i suoi cinque figli con lo scopo di liberarsi della sua prima famiglia per farsene una nuova. Sopravvissero solo sua madre, la quale si era attardata a mangiare perché doveva pulire la cucina, e il bisnonno, perché era un bambino capriccioso e si rifiutò di mangiare il pasto avvelenato offertogli dal padre, al quale diedero solo qualche anno di galera, con l’attenuante che un uomo avesse diritto di porre fine a ciò che era di sua proprietà: moglie e figli erano alla stregua di oggetti. Il bisnonno vide morire tutti i suoi fratelli e, dopo poco tempo, morì anche sua madre, probabilmente di dolore. Trovò accoglienza presso l’esercito fascista.

 

Paola, superata l’infanzia e la guerra, andò a studiare presso il convento delle monache, che la trattarono meschinamente e la crebbero in un clima oscurantista, causandole forti traumi che la condizionarono per il resto della sua vita. Mi raccontava spesso che, quando commetteva uno sbaglio, la chiudevano in una cella buia e sbattevano le catene dietro l’uscio chiuso, asserendo che il demonio stesse venendo a prenderla. Perfino da anziana ha mantenuto la paura del buio e i rumori di metallo la mettevano di cattivo umore.

 

Nonostante la carenza d’affetto da parte della madre Francesca, la mancanza di vera comprensione dal padre, i rapporti incrinati tra i suoi fratelli, Paola a poco più di sedici anni decise di essere sufficientemente adulta per prendere in mano la propria vita e aprì una propria sartoria. Non si allontanò mai dalla famiglia di Vincenza, al punto che, dopo qualche anno, ormai diciannovenne, si innamorò di Giovanni, il figlio di Vincenza, e decisero di sposarsi a Palermo.

Questo fatto, che avrebbe dovuto essere motivo di giubilo per tutti, venne invece preso con rigidità dall’ex ufficiale, con disinteresse da Francesca e con rabbia funesta da Vincenza, che non desiderava che suo figlio andasse via di casa. Cominciarono per Paola veri anni d’inferno, immersa nell’impotenza di poter vivere la vita che desiderava, costretta a tollerare una suocera che per lei era stata una madre e che ora la odiava e le rendeva la vita impossibile.

 

Poco dopo il matrimonio, Vincenza sancì che la loro vita in Sicilia non poteva più essere tollerata a causa dell’ambiente ignorante, ottuso, farcito delle maldicenze messe in circolo da sua sorella Pia, insoddisfacente per una donna ambiziosa e per giunta ora difficile da vivere a causa del matrimonio del figlio.

In cuor suo non aveva mai dimenticato la sconfitta bruciante impostagli dal tiro mancino di sua sorella mentre si trovava in Inghilterra. Giunse alla conclusione che il problema principale per lei era stato il non riuscire a far valere le proprie ragioni per via del divario comunicativo dato dalla sua scarsa conoscenza di una lingua straniera. Davanti ai suoi occhi però si stendeva un’intera nazione di italiani che parlavano italiano e lei non poteva perdere altro tempo. Aveva quasi quarant’anni e, per essere una donna a quel tempo, si sentiva già vecchia. Colse l’occasione al volo e, appena sentì di un’offerta di lavoro in Nord Italia, convinse il marito a levare le tende.

 

Non poteva sopportare di vivere lontano dal figlio, così lo convinse a raggiungerla in Lombardia. Acquistò un pezzo di terreno con dei ruderi che secoli prima appartenevano ad una famiglia borghese estremamente importante. La Villa un tempo doveva essere una residenza maestosa. Quando Paola la vide, raccontò di un enorme pergolato che circondava un pavimento a scacchi con lastre di marmo bianche e nere, su cui si poteva giocare a bocce. Disse di aver visto i resti di una costruzione enorme, ormai abbattuta, derubata dei pezzi delle proprie mura.

Vincenza mise a fondo tutte le sue conoscenze pagane riconobbe nella Villa un sito liminale, un luogo su cui il velo tra i mondi è più sottile e fece il possibile per assicurarsi che quella casa avrebbe portato ricchezza e benestare alla propria famiglia. La Villa sorge in mezzo a due miniere, una di oro e una di argento. Circondata da due torrenti, le cui diramazioni sotterranee scavano sotto le fondamenta della casa e si incrociano. Poco incline a movimenti ventosi, ogni tanto è possibile assistere a delle folate di Tramontana e brezze leggere. Zona pressoché priva di nebbia e circondata da vegetazione fiorente. Un amareno secolare sorgeva in mezzo al giardino della villa e ogni albero dava frutta generosamente.

 

Vincenza, suo marito e suo figlio presero temporaneamente casa altrove, ma passavano ogni momento libero della propria vita a costruire una nuova casa nella Villa. Vincenza benedisse le mura della casa e sparse su ogni soletta monete di valore, in questo modo chiunque viva lì dentro, avrà sempre entrate finanziarie.

 

Nel frattempo, Paola era incinta del suo primo figlio e non lavorava. Giovanni, suo marito, andò a fare il cameriere in una tavola calda. Suo suocero, Piero, andò a lavorare in un supermercato e Vincenza fece la domestica presso palazzi importanti.

 

Mia madre, figlia di Paola e Giovanni, nacque negli anni 60.

 

Paola, per rendere onore a sua suocera Vincenza, che per lei era stata una madre nonostante l’attrito degli ultimi anni, chiamò la sua prima figlia Silvia, come la bambina che Vincenza aveva perso prematuramente. Silvia si rivelò essere fin da subito una bambina bisognosa di attenzioni e capricciosa. Paola si sforzava di darle da mangiare ogni giorno, ma lei rifiutava il cibo e divennero famose nel quartiere poiché Silvia aveva l’abitudine di mangiare solo durante le passeggiate, ragion per cui Paola la pedinava ovunque con un piatto di cibo e il cucchiaio sempre in mano, china su di lei pronta ad infilarle un cucchiaio di pappa in bocca non appena aprisse bocca.

Agli occhi di Vincenza quella era una seconda opportunità. La piccola Silvia che aveva perso nel 1933 era tornata da lei sottoforma della Silvia del 1962. La somiglianza tra le due era enorme e questo la portò ad essere per Silvia, più che una nonna, una vera e propria madre. Silvia crebbe viziata, coccolata, idolatrata da tutti, apparentemente meritevole di lusinghe perché molto intelligente. Lei negherà sempre di essere stata viziata, colpevolizzando invece Paola per non aver soddisfatto appieno tutti i suoi desideri.

 

Paola e Giovanni ebbero in totale cinque figlie, la Villa era stata restaurata, quindi andarono a viverci. Paola, che aveva circa venticinque anni, crebbe le figlie lontano dal marito, che tornava alla Villa soltanto un giorno nel fine settimana. Nel frattempo si trovava totalmente da sola a crescere delle bambine in una casa pressoché senza vicini, senza l’aiuto di un uomo e circondata da… contrabbandieri.

 

La Villa era appunto una zona abbandonata da tutti, dove le case dei vicini erano distanti almeno due, trecento metri le une dalle altre, ben nascosta dalle alte fronde degli abeti, acacie e larici che circondavano la proprietà. Era il luogo ideale per il contrabbando di sigarette, importate dalla Svizzera all’Italia, quando ancora il tabacco costava molto poco nella Confederazione e tre volte tanto nella Penisola.

Paola era terrorizzata dai contrabbandieri, uomini nerboruti e aggressivi, che giungevano in auto cariche di cartoni con sigarette con le armi alla cintura ben visibili e lasciavano la refurtiva nelle cascine sotto casa sua, nella sua proprietà, senza che lei potesse fare niente. Se una cosa del genere capitasse oggi, ad una persona colta e conscia dei propri diritti, andrebbe immediatamente a rivolgersi alle autorità e sventerebbe un colpo illegale in tempo record, acquistando fama e rispetto dalla società. Tuttavia in quegli anni nessuno avrebbe dato molto peso alle parole di una immigrata meridionale, che a malapena biascicava qualche parola di italiano, che viveva stipata con tre bambine piccole in un appartamento di due locali, sempre incinta e senza marito. Mio nonno Giovanni, che nella sua infanzia aveva avuto modo di conoscere la mafia siciliana, considerava il problema cosa di poco conto: aveva chiarito con quelle persone che se loro non si fossero intromessi nei loro affari, nessuno avrebbe torto un capello a Paola e alle sue figlie.

Mia nonna però, peperino alto appena un metro e cinquantatré, magrissima, con i capelli rosso malpelo e lo sguardo torvo, era per i contrabbandieri degli anni sessanta fonte di ridicolo e bersaglio di canzonature.

Questa situazione forse poteva andare bene per mio nonno, ma non per Paola. Lei, figlia del Tenente, cresciuta da Vincenza a pane e punizioni psicologiche e corporali, responsabile della vita delle sue figlie e di nuovo incinta, era divenuta una donna ferma nelle proprie idee e convinta di doversi liberare in un modo o nell’altro di quella gentaglia che le appestava il vialetto di notte, svegliando le bambine e facendole temere per la propria incolumità.

Si recò in Svizzera e, senza farlo sapere a nessuno, riuscì a procurarsi una pistola Smith & Wesson con cartucce di calibro medio Magnum. Mi sembra di sentirla ancora ripetere “accattai ‘na Magnum e ci fici abbirere” (“comprai una Magnum e gli feci vedere”).

Un giorno si affacciò al balcone mentre i contrabbandieri scaricavano le auto e disse “Andatevene! Fuori dalla mia proprietà! Questa è l’ultima volta che vi avverto!!”. Ovviamente, la schernirono. Qualcuno le disse qualche porcheria, gesti osceni e inviti a raggiungerli nel capanno per divertirsi con loro. Lei si girò, prese la pistola, la puntò contro l’auto, una Alfa Romeo bianca, e fece fuoco sul cofano. Il rinculo fu tale che si fece male al braccio, quasi cadde e tremarono tutti i vetri della casa. Il rumore, assordante.

Disse che non si dimenticherà mai le facce di quegli uomini, prima così spavaldi e ora con le bocche spalancate e la sigaretta a penzoloni, attaccata ancora al labbro inferiore.

Il motore del veicolo prese a fumare, ci fu un fuggi-fuggi generale e i contrabbandieri scapparono a gambe levate, lasciando a terra qualche cartone, senza dire più nulla. O forse le dissero qualcosa, ma era rimasta intontita dal contraccolpo e dal rumore indicibile. I contrabbandieri non vennero alla Villa mai più.

Quando mio nonno tornò a casa quel finesettimana, trovò gli scatoloni pieni di stecche di sigarette che i disgraziati si erano lasciati alle spalle scappando. Invece di preoccuparsi per sua moglie, fu felice del dono ricevuto e se le fumò tutte.

Paola non mi rivelò mai che fine avesse fatto fare a quella pistola. So solo che mi sarebbe piaciuto vederla di persona. Non come arma da utilizzare contro il prossimo, ma come trofeo da mostrare per potermi vantare in cuor mio che anche una donnina smingherlina e senza nessuno che la proteggesse, se voleva, poteva vendere cara la pelle e farsi rispettare.

 

La mia antenata Maria aveva insegnato a Vincenza ad essere una donna coraggiosa e dinamica, lei lo aveva trasmesso a mia nonna Paola, che si fece sempre rispettare, impartendo alle mie zie lezioni di vita che giunsero fino a me.

Ho impiegato diversi anni ad accumulare questi racconti e molti altri che qui non ho citato, ordinandoli cronologicamente. Custodisco questi ricordi gelosamente, perché sono parte di ciò che compone la mia persona. Se dimenticassi alcuni di questi fatti, non credo che potrei comprendere la realtà in modo completo come faccio ora.

La memoria è ciò su cui si basa la nostra persona e il nostro carattere.

La consapevolezza è ciò su cui si basa il nostro sapere e le scelte che facciamo.

 

Ho sempre fatto fatica ad immedesimarmi nelle persone il cui passato è oscuro o colmo di dettagli illogici. Ritengo che per fondare una forte personalità, bisogna avere un piedistallo stabile su cui potersi issare e osservare il mondo con criterio, per questo posso capire la difficoltà e i dolori delle persone che sono state adottate o che sono orfane, prive di un passato noto e con un futuro incerto.

 

Io non dimentico ciò che è stato, penso che anche se provengo da una famiglia di montanari meridionali analfabeti, la loro intelligenza non risiedeva nel loro bagaglio di nozioni scolastiche. Sarebbe un vero peccato che tutte le loro esperienze, i loro sentimenti, i loro sacrifici, vengano dimenticati e spazzati via come se non fossero mai esistiti. Loro sono esistiti, anche se erano decine e decine di persone e io sono una degli ultimi a comporre la loro dinastia. Non ho fratelli, non ho cugini, non ho intenzione di avere figli e quindi se non metterò su carta ciò che loro sono stati, sarebbe come se fossero vissuti inutilmente.

 

Mi chiedo a quante persone toccherà questo destino e se anche io un giorno verrò dimenticata da tutti e il dolore e la gioia che ho provato, tutto ciò che ho conquistato, un giorno probabilmente non avranno alcun valore e nessuno se li ricorderà.

 

Ogni tanto mi capita sotto mano una fotografia storica, scattata un paio di secoli fa, di questa zona. Vedo case in posti dove adesso ci sono strade, alberi dove ora ci sono immobili e rifletto sulla vita di tutte quelle persone che hanno calpestato questo suolo, hanno dedicato le loro vite ad edifici, studi, emozioni che ora si sono totalmente dissolti nel nulla.

 

Ci sono individui che non ritengono che la propria vita abbia bisogno di essere menzionata, che forse sono troppo umili per pensare che a qualcuno sarebbe interessato leggere cosa abbiano pensato, vissuto, provato.

Io non sono fra loro. Secondo me la mia famiglia ha una storia ricca di retroscena, passioni, sacrifici, astuzie e coraggio e li porto con me ogni giorno, dispiacendomi per le storie di coloro che nacquero prima di Maria nel diciottesimo secolo, perché non ne so nulla se non che sono stati essenziali per farmi arrivare fino a qui oggi.

Quando ricordi così tanti fatti, quando comprendi così tante persone contemporaneamente, senza sapere nemmeno che faccia avessero, perché non sono giunte a te le loro foto eppure nonostante tutto riesci ad amarli... Ritengo che a questo punto hai guadagnato un posto di vantaggio rispetto agli altri. Il mondo odierno assume molte più sfumature e il futuro fa meno paura, anche se sai che qualsiasi cosa tu faccia oggi, è destinato a finire un domani.

 

Vale la pena uccidersi? Vale la pena soffrire in maniera indicibile per qualcosa che di qui a cinquant’anni non importerà più a nessuno? Sono quesiti per me ancora senza risposta.

Sono felice di aver immagazzinato in me tanto sentimento. Mi sembra di aver vissuto la vita di ognuno di loro e non mi ha impoverito, casomai il contrario. Sono felice che una parte di Maria, Vincenza, Paola, mio padre, i miei nonni ancora viva in me e io posso affrontare il mondo come se fossero tutti alle mie spalle, a sostenermi e a indicarmi quali sbagli loro hanno commesso che io non devo ripetere.

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Capitolo 9
*** Non era solo un gatto ***


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Era la primavera del 2013.

A quel tempo avevo trovato un piccolo monolocale di 25mq, senza riscaldamento né acqua calda, un solo divano letto, un tavolo, quattro sedie, una minuscola cucina con un frigo, un water con una doccia e un armadio a muro in cui praticamente ci doveva stare ogni cosa, a meno che non volessi lasciarle sparpagliate per casa.

Erano anni veramente bui per le mie entrate e io non facevo nulla per migliorarle dato che a quel tempo avevo una dipendenza da sigarette, alcool e di tanto in tanto tagliavo le sigarette con altro (no, non era maria…). Lavoravo in nero e riuscivo sempre a pagare tutto, non avevo debiti con nessuno, ma spesso rinunciavo al mangiare piuttosto che al bere, avevo pochissime amicizie e tanti conoscenti, con cui più che altro passavo le serate a spaccarmi.

Nonostante tutto riuscivo perfino a studiare, seguivo una facoltà scientifica e purtroppo l’ambiente universitario non è stato dei migliori per me per via del continuo accesso a sostanze che permetteva e alle famose “serate dello studente” che vigevano una volta alla settimana per ogni città e io, sebbene andassi in una università, partecipavo anche alle serate di altre due università della regione.

Non ero una di quelle persone che trascina il prossimo nel proprio girone, ma sicuramente un individuo “per bene” avrebbe fatto fatica a frequentarmi.

 

Era il 14 maggio quando una mia amica mi scrisse che aveva bisogno urgente del mio aiuto. Era al volante e non riusciva a spiegarmi meglio cosa fosse successo, ma si precipitò a casa mia.

Quando si accomodò al tavolo si tolse con cautela lo zaino, lo poggiò sul tavolo e lo aprì, tirando fuori sette gattini neonati. Lì per lì non capii se stavo ancora sotto acido lisergico dalla sera prima o se stava succedendo per davvero, quindi in quelle circostanze la mia faccia restava completamente impassibile e statica, come quella dell’attore Cillian Murphy.

Erano sei gattini neri e uno tigrato. Uno era veramente concio, senza pelo (con la pelle nera), non dava segni di vita e faceva dei movimenti ritmici e convulsi, prossimo all’agonia. Gli altri erano smunti, tremavano, avevano gli occhi malconci e le teste chine.

La mia amica raccontò che mentre era nel bosco, durante una passeggiata, aveva visto un uomo con un sacco che si muoveva e stava per lanciarlo nel fiume. Lei lo ha subito fermato, pensando dapprima che fosse un cafone che voleva buttare dei rifiuti nel fiume: disse che piuttosto l’avrebbe buttata lei la spazzatura, ma lui ribatté che era colpa della sua gatta che continuava a fare cuccioli e che se aveva i cuccioli non prendeva più bene i topi e doveva disfarsene. I gattini avevano dieci giorni di vita.

Lì per lì buttai giù una sfilza di insulti che avrebbe fatto impallidire anche un rapper di Cleveland, ma ormai era fatta: i gattini erano stati salvati dalla mia amica e ora erano nel mio salotto/cucina/bagno. Nel sacco ce n’erano nove, ma due, che vertevano nelle stesse condizioni di quel gattino senza pelo, erano già spirati.

Lei era corsa in farmacia e aveva acquistato del latte in polvere per gatti ma non poteva assolutamente tenerli perché viveva ancora con i genitori e sua madre non voleva. Io invece vivevo da sola e fin da piccola ero stata una selvaggia buttata a destra e manca tra boschi e animali e avevo anche una base di conoscenze di biologia, chimica e cazzi vari che non mi rendevano un veterinario, ma di sicuro abbastanza preparata per affrontare una situazione d’emergenza come quella.

La mia amica non poteva più trattenersi e se ne andò.

 

Non riuscii a rifiutare, la situazione era gravissima, erano disidratati e ipotermici, quindi non si poteva temporeggiare tra veterinari e cliniche: dovevo agire immediatamente con i primi soccorsi.

Uno dei metodi migliori per scaldare il corpo, oltre alle coperte e al fuoco (che mi mancavano) è l’acqua calda. Riempii una tinozza di acqua, che feci scaldare sul fornello e a 30-32 gradi (non avevo un termometro, andavo a tatto) e ci immersi i gattini che sporgevano solo con la testa. In realtà potrebbe essere rischioso bagnare un gattino, perché si rischia lo sbalzo termico dopo averli tirati fuori dall’acqua, ma il fatto che non avessi nient’altro per scaldarli nell’immediato, la rese la soluzione più pratica. Inoltre l’acqua scongiurava il rischio che tutti i parassiti esterni che avevano sul pelo cominciassero a saltarmi per casa, e dava loro anche un po’ di igiene dato che erano ricoperti di escrementi e non ero certa che non fossero feriti.

Preparai un po’ di latte in polvere e glielo diedi col cucchiaino.

Impiegai tutto il pomeriggio per lavarli, spulciarli, dargli da mangiare ogni due ore, pulirli, controllarli, asciugarli e trovare un punto caldo dove tenerli.

 

Li misi tutti in una scatola di cartone con una coperta, però avevano cominciato a miagolare e dovetti necessariamente piegare la scatola di lato per permettere loro di uscire (sebbene non uscivano, guardavano solo fuori) altrimenti non mi avrebbero consentito nemmeno qualche ora di riposo. Lì, fra tutti, il più grosso di tutti si fece avanti e mi fissò con insolenza.

Li chiamavo tutti Micio (impossibile distinguere il sesso a quell’età) ma qualcosa in lui mi fece capire che no, Micio ci chiamavo qualcun altro, non lui. Quella settimana stavo studiando gli alcaloidi e tra tutte vi era il nome di un veleno che aveva un suono bellissimo alle mie orecchie. Ricordo che la copertina del libro era prevalente nera, proprio come lui.

Lo chiamai Curaro, un veleno composto da una miscela di alcaloidi che gli indigeni dell’Amazzonia avevano sviluppato per poter catturare le prede che si muovevano velocemente tra gli alberi in quanto nella sua versione grezza esso viene assorbito solo per via ematica e non orale (muori se te lo inietti ma non se lo mangi). Gli indigeni dell’Amazzonia lo chiamavano urari, che vuol dire sia “veleno” che “chi lo riceve, cade”, in quanto è un potente miorilassante (viene usato anche come terapia d’urto per l’infezione da tetano in quanto i loro effetti sono complementari). Davanti al suo sguardo vigile e al suo piccolo torace gonfio d’orgoglio, capitolai e dentro sentii cadere le mie difese come colpite da un dardo al curaro.

In giapponese il nome Curaro (scritto con la K però) ha due significati: “misterioso e onirico”, e “presenza di enorme maestà”.

Il nome Curaro incarnava il suo spirito e tutto in lui comunicava dignità, anche se non si reggeva bene in piedi, non sapeva ancora come si cacava da solo e fino a mezzora prima le pulci gli stavano mangiando perfino gli occhi.

 

La gattina senza pelo fu in assoluto la più difficile da gestire dato che non si alimentava da sola e non tremava nemmeno più, il che è anche peggio perché il tremore è una tecnica di riscaldamento e quando il corpo smette di attuarla è perché il danno è già troppo grave e si va in riserva energetica, di lì a poco (variabile a seconda delle condizioni di salute e dei parametri ambientali) subentra la morte.

Il giorno dopo corsi dalla veterinaria e le spiegai tutto, ma non so perché alla fine non riuscì a consigliarmi nulla a cui già non avessi pensato.

Passai in farmacia e acquistai siringhe per poterli imboccare, vermifugo, collirio antibiotico, antiparassitari esterni, traversine per i loro bisogni e altro latte in polvere. 80€. Cazzo, lo ricordo come fosse ieri, mi sentii morire dentro. 80 CAZZO DI EURO a me che ne guadagnavo 200 a settimana e 50 erano per l’affitto e altri 70 per la luce, l’acqua e il cibo. Stavo sotto, avevo sforato il budget. Addio serata dello studente quella settimana.

Tornai a casa funerea, per trovarli tutti miagolanti e rompicoglioni ad aspettarmi per la poppata.

 

A me i gatti non piacevano. Io sono sempre cresciuta con i cani, i gatti erano i guastafeste che cacavano nella mia aiuola e il mio cane li inseguiva per scacciarli e nonostante tutto sfidavano la sorte per tornare a cacare proprio lì. C’è una sottile differenza tra coraggio e incoscienza, e i gatti dei miei vecchi vicini non la conoscevano.

Adesso mi ritrovavo con sette gattini che non potevo cedere altrove perché tutte le associazioni animaliste che contattai erano sature e mi chiesero di tenerli almeno un altro mese prima di poterli prendere, che tanto come li avevo tenuti e curati qualche giorno, avrei potuto tenerli ancora un po’.

La notte mi dovevo alzare ogni 2-3 ore a dargli da mangiare e per farli svuotare dato che non erano ancora in grado e nonostante io avessi già visto e toccato diverse carcasse in laboratorio, non gradivo così tanto mettere le mani nella cacca di gatto.

Ancora peggio se si pensa alla “sete” unita alla privazione del sonno che mi causarono dovendo alzarmi di continuo per allattarli, oltre al fatto che la gattina spennata (non aveva una malattia della pelle, era semplicemente troppo denutrita e i peli non le crescevano) non riusciva a scaldarsi e praticamente giravo per casa tenendola sul petto per evitare che andasse in ipotermia. Di notte dormivo letteralmente attaccata a lei e dovevo essere estremamente vigile perché rischiavo di schiacciarla nel sonno. Non riposavo un cazzo insomma.

Finalmente un giorno aprì gli occhi. Erano blu, mi guardò strabica e mantenemmo il contatto visivo per dei minuti che mi parvero ore. In quel momento non sentii più la rabbia perché avevo finito la vodka e non ero riuscita a passare a prendere le sigarette. Era il blu più variegato che abbia mai visto e la sua espressione era di pura contemplazione. Eppure non riusciva a reggersi in piedi e il pelo non le cresceva, aveva sempre la diarrea e non riusciva a mangiare da sola. Aveva qualcosa che non andava, sapevo che era malata ma non sapevo come risolvere. La portai dal veterinario ma ogni volta mi dicevano che era prematura e bla bla ma ancora qualcosa non mi quadrava.

Dopo un paio di settimane aveva preso un po’ di peso e il pelo stava crescendo, ma la situazione non migliorava, anzi arrivarono le forti febbri. Feci notare il tutto alla veterinaria, che adduceva sempre la scusa che fosse legato al fatto che era un caso eccezionale e che doveva stare con la madre fino ai due mesi e che non potevo farci niente, doveva essere colpa del latte in polvere sbagliato. Tutti gli altri invece stavano sempre meglio e almeno potevo dormire un po’ di più.

Chiesi se potesse prescriverle un antibiotico e i dosaggi, dato che non raggiungeva i 200 grammi di peso, ma si rifiutò dicendo che reni e fegato non avrebbero retto e questo mi sembrò molto strano ma non ero veterinario, quindi accettai e misi in saccoccia.

Nella mia cultura di provenienza, non devi dare il nome a qualcosa che sta per morire, quindi la chiamavo semplicemente Micia. Cominciai ad informarmi riguardo alle malattie dei felini, perché non mi davo pace.

 

Era passato un mese quando ebbe un picco di malore e quella notte la passai in bianco con lei sui palmi delle mani. Sapevo che aveva una malattia, ormai ero sicura che il coinvolgimento del sistema immunitario a quei livelli non poteva essere legato ad una intolleranza alimentare, a maggior ragione che le avevo preso il latte più specifico di tutti, che mi era costato un fottio e avevo dovuto chiedere dei soldi in prestito per prenderlo. Purtroppo l’unico che mi aveva prestato i soldi era il mio ex (una storia finita perché era senza palle e incompatibile con il mio carattere), che con la scusa si riavvicinò.

Quella notte sentii vicinissima la presenza della morte su di lei e in me sapevo che se avesse superato quelle ore, non sarebbe morta. La mattina arrivò e lei mi guardò e chiese da mangiare per la prima volta.

Yoda (la somiglianza col personaggio di Star Wars era troppa per ignorarla) era sopravvissuta.

Da quel momento fu un crescendo. Tutti i mici crescevano bene, mi spennavo le finanze per comprargli da mangiare gli omogeneizzati e, sinceramente, alle serate dello studente non ci pensavo nemmeno più.

A partire dal loro secondo mese di vita, cominciai a farli adottare a persone che sapevo li avrebbero curati bene, tuttavia Yoda era ancora troppo debole e delicata e non ritenevo mai gli altri all’altezza per prendersene cura.

La parte più egoista di me voleva liberarsene in fretta per tornare alla vita di prima, ma quando li guardavo negli occhi una parte di me molto più profonda mi urlava a gran voce che mai più avrei potuto liberarmi di loro. Era un frammento della mia anima che avevo tentato di soffocare sotto ad emozioni forti, alcool ed edonismo, solo perché ascoltarlo faceva troppo male. Erano tutte ferite ancora aperte, infette e purulente. Ma le ferite non possono guarire così. L’alcool non poteva disinfettarle e ignorandole si stavano solo incancrenendo.

Decisi di ascoltarla, perché la sua voce era sempre più forte e non si poteva mettere a tacere. Decisi di tenere Yoda, ma temetti che da sola avrebbe sofferto quando andavo in università o al lavoro, quindi dovevo tenere un altro dei mici per farle compagnia. Ovviamente scelsi Curaro.

 

Curaro non era un gatto normale. Non lo dico perché era il mio gatto, era proprio un esemplare di felis cacacatus molestus. Lui parlava dalla mattina alla sera. Rispondeva ad ogni domanda, non miagolava, erano versi e vocalismi di ogni genere.

Cominciava preso bene alle 6:30 del mattino, cominciando un monologo pieno di pathos che al giovane Werther faceva una pippa, che potremo riassumere con: alzati che ho fame, cazzo.

Yoda gli dava supporto morale e ciaone, anche di domenica ti dovevi alzare insieme al gallo se non volevi rischiare la riproduzione commemorativa della notte dei cristalli in casa.

Tutti gli altri mici erano stati adottati dopo lo svezzamento e io mi ritrovavo con due rompicoglioni che avevano sempre fame. Poi volevi che mi capitassero dei gattini a modo di taglia piccola? Ma figurati! I bastardi erano anche di taglia grande!

A quanto pare Yoda era rimasta rachitica (e nonostante tutto era ancora più grande di un gatto normale) perché la malattia che l’aveva colpita alla nascita era la panleucopenia felina, contagiata dalla madre che non era vaccinata. Dei nove gattini, sei erano portatori sani, tre erano attivi e due di loro ne erano morti. Lei è stata l’unica a superarla, con meno del 4% di probabilità di sopravvivenza.

Quando scoprii cosa era, andai dalla veterinaria a fare casino, perché la stronza sapeva cosa aveva la gatta, e me ne diede la conferma quando andai da lei per la visita di controllo e si stupì che era ancora viva! Aveva rifiutato di curarla perché secondo lei sarebbe morta comunque ed era accanimento terapeutico. Se permetti, visto che ti pago nonostante abbia le pezze al culo, tu curi il mio gatto, capito, stronza?

Non andai più da quella veterinaria, ormai i gatti stavano bene e avevo ancora diversi mesi di tempo prima di doverli sterilizzare.

 

Ormai ero praticamente pulita, non avevo più sete che non fosse di acqua e il mio unico vizio era il fumo di sigaretta. Una cosa che non immaginavo e che non so se sia legata in parte al fatto che i gatti mi abbiano fatto disintossicare insieme ad una grave privazione del sonno, era che il mio aspetto era peggio da pulita che da fatta.

Per fortuna dopo qualche mese stavo decisamente meglio e capitò che incontrai per caso delle persone del vecchio gruppo, che da qualche tempo non sentivo più perché stavo sempre dietro ai mici e onestamente, dentro di me, li disprezzavo. Mi erano utili per riempire lo spazio vuoto in cui la mia voce interiore si faceva preponderante e non riuscivo a tenerla a bada, ma come persone non le ho mai rispettate.

Insistettero per andare ad una festa con loro e io, stanca anche di ascoltare me stessa, quella sera accettai.

I gatti stavano bene, non gli sarebbe successo nulla per una notte senza di me, giusto?

Di quella notte del 13 luglio ho memoria ottenebrata, ricordo di aver bevuto almeno una bottiglia di vodka da sola e di aver tirato un cazzotto ad uno che ci provava ed è caduto nel lago, che le luci dei semafori mentre tornavo a casa erano distorte come se fossi astigmatica. Non ricordo tutta la strada e come rientrai in casa. Al risveglio sentii delle scosse partire dal braccio destro, mi svegliai intontita, ancora vestita, stavo di merda davvero, e percepii in quel momento il dolore alla mano destra: Curaro aveva preso a tirarmi per una mano, che stava ridotta male. Piena di tagli e di morsi, aveva fatto di tutto per cercare di svegliarmi. Non riuscii ad arrabbiarmi con lui, era terrorizzato e vocalizzava come se lo stessero scannando, perché doveva aver tentato di svegliarmi per ore, senza risultati, e mi aveva cagnato un po’ dappertutto.

Mi guardai allo specchio e non dimenticherò mai la mia espressione, ma non voglio raccontarla, non riuscirei a descriverla e soprattutto non era il mio aspetto a colpirmi, ma ciò che comunicava il mio sguardo.

Decisi che quella sarebbe stata l’ultima volta.

Dopo la mia sparizione, cercai accuratamente di evitare quelle persone e qualcuno della compagnia arrivò addirittura a minacciarmi per tornare a fare schifo insieme a loro. Non credeva che avevo conservato tutti gli screenshots in cui aveva detto peste e corna del suo datore di lavoro e che ero pronta a girargli tutto e fargli perdere il lavoro. Smise subito di infastidirmi e mi resi conto che quella realtà non faceva più per me.

 

Volevo scappare, non mi interessava più lo studio, non trovavo più gioia nel laboratorio e anche se nel parco botanico trovavo un po’ di pace, la presenza continua degli studenti era straziante. Sentivo il bisogno di stare sola in un ambiente differente, in un luogo ampio. Non c’era niente di simile in quella metropoli, anche gli spazi verdi erano affollati e pieni di ipocrisia. La riservatezza del mio monolocale era diventata opprimente.

Dovevo andare via, non potevo tollerare altri anni di quella vita: non vi era più senso nel sacrificio dello studio e il lavoro non dava alcuna gratificazione, era una tortura dell’anima.

 

Cominciai a cercare lavoro all’estero, nel frattempo il mio ex si era fatto sempre più vicino e insisteva su quanto lui era cambiato e come era cresciuto, che anche a lui stava stretta quella vita e che aveva desiderio di fuggire. Ammetto che povera e disperata com’ero, anche se mi avessero offerto un lavoro all’estero, non sarei mai riuscita ad andarci perché avevo 0 fondi da parte. Lui si offrì di darmi una mano, in cambio sarebbe venuto via con me.

Un giorno venne a trovarmi nel mio appartamento, in cui non entrava da oltre un anno. Lì fece la conoscenza di Yoda e Curaro. Lui lo squadrò e capii subito che a Curaro stava sul culo, ma a Curaro stavano antipatici tutti tranne me, quindi non era una grande novità. In compenso, il mio ex disse “Ehi, ma il tuo gatto sale sul letto.”

Io tornai a sfoderare il mio muso alla Cillian Murphy, perché, sei stupido forse? È un appartamento di 25mq lordi, se contiamo lo spazio occupato dai mobili, bagno e divano letto, rimangono circa 12mq di spazio. Secondo te due gatti possono camminare solo su 12mq? E poi, chiaro che sale sul letto, è il mio cazzo di gatto, non è mai uscito di casa e anche se non volessi, come faccio ad impedirglielo?

I miei animali non hanno mai sporcato in giro, sono sempre stati educatissimi e la fanno solo nella lettiera che ha davanti il tappetino igienizzante e io la pulivo dalle 2 alle 3 volte al giorno perché altrimenti la stanza puzzava. Insomma, che cazzo vuoi?

“Se vengo via con te, i gatti li dai via.”

Forse in faccia sembravo Murphy, ma dentro ho sentito chiaramente Leonida di Sparta che urlava la carica contro i persiani. “Guarda, ho un’alternativa: prendi la porta, e facci la cortesia di andare fuori da casa nostra.”

Improvvisamente i gatti sul letto andavano benissimo.

 

Alla fine l’offerta di lavoro arrivò, il coglione trovò il modo di farsi apprezzare di nuovo e decidemmo di andare via insieme come coppia, ovviamente con i nostri gatti, cui dovetti fare delle trafile enormi fino a luoghi impervi e sconosciuti della burocrazia italiana, al fine di ottenere il passaporto per farli andare fuori dalla penisola.

I primi anni all’estero furono durissimi. Mi scontrai con una realtà totalmente diversa, un nuovo settore professionale e un sessismo imperante che cozzava violentemente contro la mia natura sfrontata, a maggior ragione che io avevo mire di conquista e quindi non accettavo di essere relegata al ruolo di segretaria che portava i caffè e rispondeva docile al telefono.

 

Durante quegli anni Curaro fu la mia costante. L’amore che provavo per lui era qualcosa che non si riesce a descrivere a parole. I suoi enormi occhi che erano diventati dello stesso colore dell’oro, il suo pelo lucidissimo e nero, il suo portamento da vera pantera con i ciuffetti sulle orecchie come fosse una lince, riempivano l’anima di un sentimento di cui non ci poteva saziare. Con lui ho fatto le risate più genuine della mia vita, ho affrontato depressione e ansia, dolore e gioia.

La notte dormivamo sempre insieme, lui si metteva sotto la mia ascella sinistra, con la testa sulla mia spalla, anche quando c’erano 35°C di notte. Quando era arrabbiato con me, aspettava che mi sedessi sul water per schiacciare lo sciacquone a tradimento e schizzarmi con l’acqua (sapeva che sta cosa mi fa incazzare abbestia), mi rubava i reggiseni e li nascondeva per casa, si mangiava i miei ribes secchi che preparavo come spuntino (per poi scagazzare per giorni), imitava le voci e mi accarezzava con una zampa come se fosse una persona.

 

Il 17 dicembre 2017 ci si spezzò il cuore. Lui per l’infarto, io per la sofferenza atroce di averlo perso così. Morì tra le mie braccia, poggiato alla mia spalla sinistra, dove riposava ogni notte, avvolto nella sua copertina preferita, che ancora conservo e da cui non mi separerò mai.

Così giovane, in casa, curato, amato, con ottimo cibo e adesso aveva anche un appartamento grande tutto per sé e per Yoda ed era finalmente felice, anche se in fondo credo che fosse sempre felice, anche prima in quel merdoso monolocale di 25mq. Mi guardava, ed era felice. Lo guardavo negli occhi ed ero felice.

Mi aveva insegnato a vivere in un’altra maniera, mi ha insegnato cosa vuol dire amare davvero qualcuno e sacrificarsi per qualcosa di diverso da sé stessi. L’altruismo e le priorità, questo è stato il suo dono, oltre a quella quantità spropositata di amore che solo da lui ho ricevuto in vita mia.

E ancora oggi tutto mi comunica la sua assenza.

Quando torno a casa non c’è più il suo saluto, entro e non rischio più di inciampare perché lui mi passa tra le gambe. Ho altri gatti, è vero, ma nessuno sarà mai come lui. Li amo tutti e sono tutti speciali e con forti personalità, ma nessuno brilla di luce propria come Curaro.

 

Ogni tanto la vita ci fa dei doni inaspettati, quando forse nemmeno ce li meritiamo, o forse proprio per risarcirci, non mi è dato saperlo. So che il debito più grande che abbia fatto su questa terra, non è stato nei confronti di una persona, uno Stato o un istituto di credito. L’ho fatto nei confronti di un gatto, e non è stato un debito monetario, ma di qualcosa che vale molto di più.

Non so come sarebbe stata la mia vita oggi se non avessi risposto alla mia amica quel giorno e non avessi mai incontrato Curaro e Yoda. Talvolta le occasioni non hanno la forma di offerte di lavoro e biglietti aerei, a volte è una scelta tra un veleno buono e un altro veleno.

 

Quando tornai a lavoro il giorno dopo ero distrutta, sebbene continuassi a sorridere ai clienti, i miei occhi testimoniavano la notte insonne e il pianto ininterrotto. Diversi clienti indiscreti mi chiesero cosa fosse successo. Io dissi semplicemente che era morto il mio gatto cui ero molto legata e quasi tutti risposero “dai, era solo un gatto!”.

Se esiste la giustizia divina, questa affermazione gli deve essere costata cara.

Un paio d’anni fa entrò da me un cliente e aveva la stessa faccia. Gli chiesi solo se stava bene, è una domanda di routine che faccio spesso ai miei clienti, anche se di norma non mi interessa mai la loro risposta, capivo che lui aveva bisogno di quella domanda. Mi disse che il suo cane era morto, ed era speciale per lui. Forse perché piango ogni volta che penso a Curaro, forse perché erano passati ancora pochi anni ed ero reduce di un esaurimento nervoso, piansi insieme a lui e mi sorpresi quando mi abbracciò forte, violando tutte le restrizioni per la pandemia, di cui sinceramente in quel momento non me ne fotteva proprio un cazzo. Mi ringraziò dicendo che ero stata l’unica a capirlo quel giorno, che tutti gli avevano detto che era solo un cane e che avrebbe potuto prendere un altro, ma dai miei occhi aveva capito che io avevo condiviso il suo dolore e a volte basta solo questo per sentirsi un po’ meno soli.

Grazie ancora Curaro, perché anche se non ci sei più, riesci ancora a portare un po’ di consolazione in questo mondo.

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Capitolo 10
*** Un sogno troppo vivido ***


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Questa storia è tratta da un sogno che feci quattro anni fa, forse il più disturbante che abbia mai fatto in vita mia. Ho sognato per tutta la vita demoni, mostri, assassini, sangue e budella e questo invece è il più pulito di tutti e nonostante tutto è il più inquietante e soprattutto è sempre stato lucido nella mia memoria.

Non sono mai stata una credente cristiana, ad eccezione dei primi anni della mia vita in cui mi è stata inculcata, quindi non ho mai ritenuto che esistesse una presenza come quella classica del diavolo. Questo sogno è probabilmente una conversazione dell'inconscio tra due me stessa, ma immediatamente dopo averlo vissuto in prima persona, era molto d'impatto.

Io e il mio vecchio compagno eravamo stati a cena da mia zia, eravamo reduci di una settimana d'inferno e stanchi fino al midollo.

Come sempre lui si era prima lavato e poi messo subito a letto ben prima di me, che invece prima di concedermi il riposo meritato, sistemo casa (faccio presto, è in stile abbastanza minimalista) e curo i gatti per evitare di essere svegliata di notte o la mattina presto per le loro richieste (cibo e pulizia della lettiera).

Quando finii di prepararmi e lavarmi a mia volta, riuscii ad infilarmi sotto le coperte. Il sonno mi prese velocemente.

Ad un certo punto sentii che qualcuno mi stava chiamando, una voce lontana, chiamava il mio nome chiedendomi di destarmi.
Aprii gli occhi, ero sdraiata sul letto, la luce dell'abat jour era di un giallo caldo e stranamente meno potente della norma. Usavo una lampadina led da 5w 3000K, che però quella notte emetteva metà della luce che produceva di solito, ricordando quella di una candela.
Il mio compagno dormiva a destra, di fianco a me, girato sul fianco destro, dandomi le spalle. Stranamente nessun gatto stava dormendo con noi, il che era molto insolito visto che ne avevamo quattro ed erano tutti appiccicosi come la colla millechiodi.

La stanza era abbastanza ampia, di 30mq ma arredata in maniera semplice e funzionale: il letto matrimoniale era contro la parete opposta alla porta, ai suoi lati due comodini con lampada e piccole sveglie con orologio, a destra del letto dormiva il mio compagno, dal lato dell'armadio che prendeva tutta la parete, a sinistra dormivo io, dal lato che dà sull'ampia finestra che mi permetteva la vista sul giardino condominiale.
Mi voltai alla mia sinistra, dove prima avevo notato la lampada accesa e con difficoltà riuscii a mettere a fuoco un giovane uomo, ritengo non potesse avere più di trent'anni, seduto su una sedia in legno scuro che non ho mai visto in casa mia.
Riuscivo a vedere che era seduto a gambe incrociate ma non accavallate, con la caviglia destra poggiata sul ginocchio sinistro e la mano sinistra poggiata sulla gamba sinistra, il braccio destro poggiava col gomito sulla parte alta dello schienale della sedia. Era vestito con un completo interamente nero opaco, ad eccezione delle scarpe che erano in pelle lucida.
La luce della lampada era direzionata verso il basso e quindi la sua faccia era in ombra e sebbene provassi a guardarla con attenzione, sembrava sfocata.
Aveva i capelli fulvi come gli irlandesi, di una tonalità più arancione scuro che rossa, leggermente mossi, che gli arrivano quasi alle spalle, e sebbene di norma io preferisco gli uomini con i capelli tagliati più corti, su di lui stavano d'incanto.

Di norma avrei urlato, non so perché quella sera mi sentii più scocciata che impaurita: la mia parte razionale non sapeva chi fosse e invece la mia parte inconscia lo conosceva benissimo.
"Ben svegliata, è molto che non ti vedevo, non sapevo che fine avessi fatto, mi mancavi."
La sua voce era suadente, ammaliante, a tratti musicale e beffarda. Vidi che sorrideva ed era bellissimo, pensavo in continuazione che fosse bellissimo nonostante non riuscissi a vedere il suo viso.
Nonostante pensassi queste cose, il mio cervello registrava invece turbamento e fastidio. La risposta arrivò caustica "A me non sei mancato per niente, non so cosa tu ci faccia qui, ma puoi anche risparmiarti ulteriori visite, come vedi senza di te si sta benissimo."
Ridacchiò "Ma come? Non ti ricordi quanto siamo stati bene insieme? Quanto ti sei divertita? Pensaci, so che in fondo ti è piaciuto."
Storsi il naso, cercavo di alzarmi per vederlo meglio in viso ma era come se non ci riuscissi. Ricaddi sul cuscino e continuai "La voglia di te è sepolta troppo in fondo per essere riesumata dal tuo pallido tentativo di seduzione. Non ho più intenzione di seguire i tuoi consigli, il tuo divertimento è qualcosa di tossico, uccide il corpo e la mente. Guarda, mi sono perfino ammalata dopo ciò che ho fatto in passato e ora il mio corpo non funziona più come vorrei. Tutto grazie a te e ai tuoi consigli di merda. E poi hai tante altre signore con cui divertirti, vai da loro."

Ogni volta che dicevo "stare con te" o che lui accennava a "divertimento" sapevo che non aveva nessun connotato sessuale. Non capivo a livello razionale di cosa si trattasse con precisione, eppure una parte di me era perfettamente integrata nella conversazione e chiaramente non si trattava di avances sessuali, quanto più una proposta di collaborazione.

"Ecco, vedi! A fare questa vita di sacrificio hai finito per ammalarti, eppure ti ricordi che finché stavi con me non sentivi niente, nessun dolore, nessuna paura, nessun rimorso!" Alzó il braccio destro dallo schienale e fece un gesto di apertura da sinistra a destra verso di me. "E poi, proprio tu parli di morale? La tua morale è quanto di più compromesso ci sia nell'arco di chilometri. Ancora oggi so che ripensando a certe cose ti mordi le dita per la vergogna e ti copri il volto quando ti sembra di aver riconosciuto qualcuno nella folla. Se fossi rimasta con me non avresti avuto nessun problema di salute, nessun dolore fisico o mentale! Ma sei ancora in tempo, sai che in fondo a te ci ho sempre tenuto tanto..." Allungó la mano destra e mi sfioró il braccio sinistro.
Mi salí la nausea, non riuscivo a scansarlo perché il braccio era intorpidito quando mi toccava. Fino ad un momento prima riuscivo a muoverlo... Cercai di non distrarmi, ero focalizzata per uscire da questa situazione, sentii che in fondo temevo la sua presenza anche se non ricordavo che mi avesse mai fatto fisicamente del male.
"Anche io ho tenuto a te un tempo, ma è parte del passato che ho superato e non intendo tornare sui miei passi. Vai via adesso e resta come un ricordo piacevole e non come qualcosa di viscido."

"Viscido? Nah... Continui a perderti dietro questa facciata di integrità ritrovata, dimentichi che io ho visto veramente chi sei e so quando menti. So sempre quando qualcuno mente e tu non sei sincera quando dici che una parte di te non sarebbe pronta ora, adesso, a venire via con me." Riportó il braccio sulla sedia e continuó a sorridere, vidi il bianco dei suoi denti, erano perfetti.
"E allora ti sbagli, e sai che non sarebbe la prima volta."
Smise di sorridere, sentii di averlo infastidito. Riprese a parlare, ma ora il suo tono era meno beffardo e più indagatore, sentii che stava fingendo di essere ancora amichevole, ma stava perdendo la pazienza. "Dimmi, cosa ti ha portato a rifiutare con tanta veemenza la mia compagnia? Sono sempre stato gentile con te, ti ho sempre dato abbastanza fortuna da riuscire a fare tutto ciò che volevi. Volevi dimenticare e hai dimenticato, volevi scappare e sei scappata, volevi essere libera e lo sei stata. Pensi di esserci riuscita da sola? Non pensi che merito un po' di riconoscimento per tutto quello che ho fatto?"
Nella vita reale quando sento che qualcuno prova a manipolarmi, attivo tutte le mie difese, dentro di me sento la rabbia e il mio cervello si fa più attento. Ma qui è tutto illogico e scoppiai a ridere sguaiata. "Ah! Hai fatto tutto tu? Davvero? Sei sempre stato gentile perché volevi ottenere qualcosa, ma non hai fatto proprio niente per me oltre a farmi precipitare nell'oblio. Tutto ciò che ho guadagnato l'ho conquistato con le mie sole forze. Pensavi che avessi toccato il fondo ma non immaginavi che qualcuno potesse salvarmi."

Lo sentii digrignare i denti "Così dici che qualcuno ti ha salvato? Non sarà mica questo idiota che ti dorme a fianco..."
Non mi voltai a guardare il mio compagno, restai fissa su di lui perché sentivo che era come guardare negli occhi un animale pronto a saltarti alla gola. La tensione era elevatissima. "No, lui non c'entra niente."
"No? Allora non sarà un problema se ci liberiamo di lui per un po'?" Stavolta alzó il braccio sinistro e indicó la porta, poi si rivolse al mio compagno "Fuori."
Non resistetti alla tentazione di sbirciare con la coda dell'occhio e vidi il mio compagno alzarsi e uscire dalla stanza lentamente. Non ero minimamente preoccupata per lui, anzi, forse meglio che si fosse levato dai giochi, era una situazione pericolosa.
"Hai detto che riconosci sempre quando qualcuno mente, non mi hai creduto quando ti ho detto che non c'entra nulla? È la verità."
Tornó a poggiarsi interamente con la schiena allo schienale, scese di qualche centimetro più in basso col bacino e sciolse le gambe, lasciandole un po' larghe, in una posa che oserei definire stravaccata. "La verità è qualcosa di fittizio, sai che ne possono esistere di diverse? Per esempio i punti di vista. Ciò che è vero per uno non vuol dire che lo sia per qualcun altro, niente è statico in questo mondo, la menzogna è più tangibile della verità. La verità stessa è una menzogna. Forse per te lui non c'entra niente, e per te è la verità, così come potrebbe essere lui la causa di tutto. Intorno a te non ci sono altre persone così vicine, hai detto che è stato qualcuno, ti sei tradita."

Sebbene tutto mi comunicasse che era un pessimo momento per fare ironia del cazzo come al mio solito, non mi trattenni da un'altra risata "E invece è vero: qualcuno mi ha salvato e non è lui, ma ora è dove non potrai mai raggiungerlo e non puoi fare niente per cancellare il segno della sua presenza su di me. Adesso vattene."
Si agitó e si ricompose sulla sedia, stavolta vigile e teso. Sapeva che avevo detto la verità, perché sapevo che la verità gli provocava dolore e questa conversazione era dolorosa tanto per me quanto che per lui, me ne resi conto.

Sentii che riuscivo a muovermi meglio, spinsi con le mani sul materasso e riuscii a mettere un'ulteriore ventina di centimetri di spazio tra me e lui.
Si sporse verso di me, il suo viso sfocato si fa più vicino alla luce ma era come se i dettagli si mischiassero, non riuscivo a ricordarlo e non gli vedevo gli occhi, come se fossero chiusi ma seppi che mi stava guardando. "Non capisci che potrei darti tutto? Lascia quell'imbecille, torna da me, hai cambiato idea sul divertimento? Non ti piace più la vita di prima? Va bene, allora ti darò un'altra vita. Vuoi i soldi? La fama? Vuoi che quegli spocchiosi figli di puttana che ti hanno guardato dall'alto in basso debbano chinare la testa quando entri nella stanza?! E allora vieni con me, ti darò tutto." Allungó la sua mano destra verso di me, col braccio teso avrebbe potuto toccarmi se avesse voluto, ma sentivo che se non fossi stata io a prendergli la mano, lui non avrebbe potuto concludere nessun affare.

"Non voglio niente che tu possa darmi." In realtà dentro di me avevo già cominciato a fare una lista e soprattutto volevo sapere cosa volesse in cambio, dato che l'argomento non era stato sfiorato fin dall'inizio, ma la mia voce continuava per me "Sto bene così, l'unica cosa che tu possa offrirmi di allettante, è la tua assenza."
"Te ne pentirai, credimi, resterai ferita e malata, non ti potrà capire mai nessuno, verrai spezzata, morirai sola. Puoi evitarlo, prendi la mia mano adesso!" Quando di preciso la sua pelle era diventata così pallida? Quando i suoi capelli così rossi? I vestiti non erano più puliti e perfettamente stirati. Non era più bellissimo, incarnava l'angoscia.
Scandii lentamente "Vattene e non tornare."
Fu repentino, veloce e di impeto letale, la sua gelida mano destra si era chiusa sul mio avambraccio sinistro, attirandomi con forza verso di sé, non capii cosa mi disse ma sapevo che era un altro disperato tentativo di convinzione. Di norma avrei alzato il braccio destro per difendermi la testa, invece alzai la mano e gliela piantai con forza sul petto spingendolo, urlando solo "VIA!!"

Mi svegliai di soprassalto, immediatamente seduta nel letto nel cuore della notte. Il buio invadeva la camera da letto. Mi sporsi e accesi la luce. Fissai il punto in cui si sarebbe dovuto trovare quell'individuo e non vidi niente, era solo un sogno. Angosciante e destabilizzante, ma era solo un sogno.

Piano piano presi coscienza della realtà circostante e mi guardai intorno: nessun gatto era sul letto, e il lato del mio compagno era vuoto.
Balzai in piedi e corsi fuori dalla stanza per cercarlo. Attraversai la casa fino a trovarlo in salotto, sdraiato sul divano. Lo svegliai ed era abbastanza confuso. Gli chiesi perché si trovava sul divano. Rispose "non lo ricordo... Forse avevo caldo..."
Lui da piccolo soffriva di sonnambulismo, quindi razionalmente ho pensato che avesse avuto un episodio simile e che io nel sonno l'avessi intravisto mentre usciva dalla stanza (era buio pesto ma non lo so, forse l'avevo scorto o ne avevo percepito i movimenti) e dai lì parte del sogno.
Tornammo a letto ma non riuscii più a dormire.
Solo il mattino dopo mi resi conto di avere tre lividi sul braccio sinistro.

Comunque da mia zia non ci mangio più la sera...

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Capitolo 11
*** Giusto qualche figuraccia ***


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Avendo una personalità abbastanza discordante, spesso mi ritrovo in circostanze in cui rifletto troppo e perdo in tempismo e altre in cui agisco impulsivamente e quando mi va bene, ottimo, ma talvolta incappo nella famosa figura di merda.

 

La figura di merda non è una semplice figuraccia, non è quella cosa che dici "diamine, mi è scappato, vabbè ora provo a rimediare". No, la figura di merda è totalizzante, affossante, annichilente. Dopo averla fatta vorresti soltanto seppellirti e restare inerte sotto ad un cumulo di terra per dieci anni nella speranza che i presenti si dimentichino di te e invece no, in quei momenti non succede proprio nulla e tutti gli sguardi restano puntati su di te che desidereresti solo sparire. 

Quando sei nel fulcro di una conversazione avvincente, concentrato e dominante, capita di tutto. Gente che si intromette, il tuo interlocutore scivola e ti deconcentra, arriva il cameriere per portare via i piatti vuoti, ricevi una telefonata... No, quando fai una figura di merda tutto resta statico per permetterti di farti carico totalmente della gravità della cagata appena commessa.

That's Karma, I think.

 

Di recente ho guidato per sette ore per giungere nel cuore della Germania per rivedere una persona cara. Sono partita col mio compagno e abbiamo dovuto attraversare tre nazioni, tra cui la famosa autostrada tedesca senza limiti di velocità e oltre due ore di statali e paesini del cazzo fino al villaggio incriminato.

All’andata siamo stati completamente soli, ci siamo presi la libertà di visitare un pezzo della Foresta Nera e fare sosta solo quando ci andava.

Al ritorno non siamo stati tanto fortunati perché abbiamo incontrato lui, l’autostoppista tedesco fresco di sa il cazzo quale università che era nella merda fino al collo e aveva bisogno proprio di un passaggio e chissà perché nessuno tra i suoi connazionali tutti lindi e pinti era diretto proprio dove andava lui, in Austria. Che fai, lo lasci lì in merda e riparti sereno?

Il mio compagno ha sfoderato la sua migliore faccia da svizzero che è l’apoteosi dell’ambivalenza. Poteva essere interpretata in entrambi i modi: “cavolo, non possiamo lasciarlo qui a dormire nella piazzola di sosta fino a chissà quando…” e allo stesso tempo “ma chi cazzo se ne fotte di sto crucco, torniamo a casa e vaffanculo.”

Davanti agli occhi da cerbiatto nordico ho ceduto e ho deciso di dargli un passaggio. Fu così che si trovarono in Austria un’italiana, uno svizzero e un tedesco. Potrebbe essere l’inizio di una barzelletta e invece no, è il prologo di un trauma.

Partimmo dal cuore della Germania e lì non chiedetemi perché, la radio della mia auto non voleva proprio funzionare. Potevo mettere una playlist dal mio smartphone ma andava in conflitto col navigatore e stavo guidando. Chiesi al mio compagno se poteva mettere lui la musica col Bluetooth dal suo cellulare, ma lui da bravo elvetico se ne uscì con “Eh, no, mi si consumano i dati.” All’anima dei tuoi antenati bancari…

Guardai nello specchietto retrovisore il faccione di Peter, germanico biondo e con gli occhi azzurri alto almeno un metro e novanta “Peter, vuoi mettere tu un po’ di musica?” lui sorrise e rispose “No, io veramente volevo dormire, meglio che non si senta niente.” Tirò fuori dal suo borsone quel rotolo morbidoso che si usa tipicamente sugli aerei, se lo avvolse intorno al collo e chiuse gli occhi. Alle 4 del pomeriggio. All’anima dei tuoi predecessori nazionalsocialisti…

Non ho trovato nemmeno la forza di ribattere, anche perché in tedesco le freddure non mi escono bene e poi hanno poche parolacce, è molto più difficile far passare il concetto di incazzatura quando puoi scegliere tra pochissimi termini e gli unici papabili sono Scheisse (merda) e Arschloch (“buco di culo” ma si traduce come “stronzo”).

Tempo mezzora e ronfavano tutti e due. Ma porco Stalin, possibile mai? Vichinghi di merda.

Dopo un paio d’ore in cui Peter si era svaccato e mi aveva infilato trenta centimetri di ginocchia nel sedile del guidatore, alla fine uscirono dal coma, ma non fiatavano. Cominciai un po’ di conversazione prima che venisse sonno anche a me e poi erano cazzi, visto che stavo guidando io. Cercai un argomento di dialogo e mi resi conto che quell’autostrada era strana, grigio chiara e dava delle vibrazioni particolari a 130 l’ora, che ti facevano vibrare la voce quando parlavi. “Che strana autostrada questa… di che è fatta?”

Peter “Questa autostrada ha quasi 90 anni, fu fatta intorno agli anni 30-40, è composta da blocchi di cemento posti l’uno di fianco all’altro. Da allora non ha mai subito modifiche.”

Alla faccia! “Wow, fantastico, vorrei che anche da noi ci fossero autostrade del genere. È stato geniale chi le ha fatte, si vede che le ha costruite con l’idea di farle durare.” Peter non ribatté, ma non sorrise più. Cercai di capire se avessi detto una cazzata e poi sbam! Illuminazione! Sono le autostrade di Hitler! Non sto a spiegarne la storia ma con una semplice ricerca su Google troverete tutto.

Ecco, l’ho fatta di nuovo, la figura di merda. Speravo passasse in sordina e invece no, ecco arrivare lo svizzero “Ma dai, hanno quasi un secolo! Quanto vorrei che anche da noi ci fosse qualcuno con la stessa bravura!”

Se dentro di me mi stavo visualizzando con una pala in mano a scavarmi la fossa, ho immaginato avvicinarsi il mio compagno sorridente con la vanga per farmi compagnia. Ma no, non era contento, perché ha continuato parlando di quanto si risparmia così facendo invece di doverle ristrutturare ogni 10 anni, di quanto dovesse essere stato intelligente chi aveva ideato quel progetto. Dovevo fermarlo, avevamo scavato abbastanza “Amore, vai a vedere su internet quanto costa una multa per eccesso di velocità in Germania?”

“Perché? Hai preso un radar?”

“Eh, forse sì, prima…” certo che no, ma se vuoi distrarre uno svizzero devi fargli credere che stia per sborsare.

“Eccheccazzo! Però anche tu porco di qui, porco di lì…” oh, grazie Signore, fagli cambiare argomento.

Dopo un’altra ora di silenzio imbarazzante siamo giunti in Austria e abbiamo scaricato Peter, che in cambio ci ha fatto un rabbocco di benza e tanti cari saluti ai suoi due compagni di viaggio inconsapevolmente filonazisti. Mannaggia…

 

Un’altra volta, sette o otto anni fa, mi ritrovavo a collaborare con un chiosco che vendeva anche accessori per telefonia mobile. Stavo portando dentro degli scatoloni quando arriva lui, lo stronzo imbellettato che passa al vaglio tutto l’inventario per fare critiche e suggerimenti e poi non compra un cazzo.

Ad un certo punto mi ferma mentre avevo appunto un carico in mano, di aiutarmi non gli passa manco per l’anticamera del lobo occipitale, però ritiene opportuno fermarmi per chiedermi informazioni sulla merce.

“Scusa, ma questo caricatore qui come funziona?” indica un caricatore wireless per il Samsung.

“È un caricatore che funziona senza dover inserire la presa nel telefono.” Ansimo

“Quindi funziona a distanza? Potrei tenere il telefono in tasca e quello attaccato alla presa e si caricherebbe?”

Lì per lì non sto riflettendo, voglio solo poggiare sti cartoni di merda e tornare a lavoro, e poi ha una voce talmente tanto melliflua che mi fa girare le balle solo a sentirla. “Sì.”

“Allora mi sta dicendo che hanno inventato una maniera per condurre l’elettricità a lunga distanza?!”

Mi fermo un secondo perché non capisco che cazzo stia dicendo. Certo che no, coglione, se fossimo in grado di condurre energia e materia senza bisogno di un conduttore probabilmente avremmo già inventato il teletrasporto, la telecinesi e forse anche i viaggi nel tempo. Lo guardo e realizzo che poco prima gli ho risposto di sì, che conduceva a distanza. Oh, che due coglioni!

“No, perché se quello che dici è vero, questa è una scoperta scientifica di proporzioni…” non lo ascolto più, vorrei solo dare una testata al muro.

“Certo che no.” Lo interrompo “intendevo dire che basta poggiare il telefono sulla piattaforma per permettergli di ricaricarsi.”

“Eh ma non è ciò che hai detto prima!” continua imperterrito con aria vittoriosa.

“Mi sono espressa male, chiaramente non è ancora possibile fare una cosa del genere. Funziona per forza a contatto con lo scambio positivo dalla piattaforma di ricarica agli ioni di litio del telefono.” Borbotto.

“Ancora non è possibile? Quindi immagini che un giorno riusciremo a fare qualcosa del genere?” ridacchia, come se stesse parlando con una mentecatta che non ha studiato fisica e chimica inorganica per due cazzo di anni. Lui non può saperlo, ma sticazzi, non ti permetti di trattare qualcuno così in nessun caso, non sai mai chi hai di fronte.

“Sinceramente non sono così chiusa da escludere totalmente il progresso futuro della scienza, quindi non me la sento di affermare a priori che in futuro non sarà possibile. Intendi comprare qualcosa?” Per poco non mi scivola di mano tutto, è fortunato, perché se le avessi libere gli tirerei un cazzotto.

“No no!” continua a ridacchiare “non qui di certo...”

“Bene, allora scusami, devo andare al party di Stephen Hawking, che mi sta aspettando.” (per chi non lo sapesse, nel 2009 Hawking organizzò un party a Cambridge cui invitò i viaggiatori provenienti dal futuro, per dimostrargli che esso sarebbe esistito per davvero)

Ha fatto un’espressione confusa, gli ho girato le spalle e grazie a Dio non l’ho più rivisto, ma consapevole di aver affermato una cagata immane, per di più in faccia ad un pezzo di merda.

 

Una volta entrò in ufficio un venditore ambulante per proporre articoli natalizi e decorazioni luminose. Ci fece vedere delle colonnine con uno scheletro metallico e del filo led attorcigliato sopra che si accendevano e di notte creavano delle figure luminose. L’idea era anche bella, peccato che il costruttore in questione non fosse proprio in grado di farle. Tutti lo pensavano, solo io lo dissi “Ma chi è che le fa, ste cacate?”

“Io…” rispose il tipo chinando lo sguardo.

“Ottimo…” spalancai gli occhi tenendo lo sguardo fisso e vacuo, e tutti gli altri in ufficio si erano sentiti in dovere di acquistare qualcosa da lui perché io l’avevo profondamente offeso e da allora ad ogni Natale tirano fuori quelle decorazioni del cazzo e mi guardano storto perché sanno che sono inguardabili, ma “abbiamo dovuto comprarle (a causa tua)” cit.

Speravo che si fulminassero in fretta, a casa mia sembra fatto apposta ma le lampadine a led non durano oltre ai 24 mesi di garanzia, questo tizio invece deve aver comprato dei led di primissima qualità perché mannaggia al diavolo non se n’è mai fulminato uno…

 

A questo genere di situazioni un po’ elaborate segue invece una sfilza innumerabile di tante altre piccole figure di merda collezionate con cura certosina nel corso degli ultimi trent’anni. A cavallo tra il 2014 e il 2018 me ne sono successe di ogni, ma ogni tanto ne faccio altre, per non perdere la forma.

Passando dai rumori molesti del mio stomaco durante un esame in cui tutti sono silenti e concentrati, ad una domanda stupidissima uscita da chissà quale recondito angolo del mio cervello durante un pisolino dei neuroni, ad una battuta squallidissima mentre sono a letto con qualcuno fino a finire alle imprecazioni pittoresche che mi sfuggono quando inciampo o rompo qualcosa e puntualmente c’è qualcuno nei paraggi che non immaginava che dalla mia boccuccia potessero uscire tali floridità.

 

Una volta ero al centro commerciale col mio compagno, vedo una vecchia con i capelli metà rasati, metà azzurri, con dei ciuffi rosa shocking e viola. Di norma non commento mai, non mi soffermo nemmeno sull’aspetto del prossimo, perché quella volta sì? Forse perché su di lei stavano davvero di merda.

“Minchia, hai visto che capelli ha quella?”

“È mia madre.”

…Fanculo!

 

Alcune non riguardano nemmeno me, ma giustamente dovevo farmi coinvolgere.

Questa è tristissima eppure ancora mi fa ridere quando ci ripenso (sono una persona orribile, lo so, lo so).

Nonostante anni fa tazzassi come pochi, non ho mai perso totalmente le mie facoltà mentali da ebbra, quindi capitava che a volte scegliessi un partner per la notte.

Quella sera di dieci anni fa ne scelsi uno che aveva la mia età, vent’anni, e si era trasferito da poco dal sud Italia, ancora conosceva poco la Lombardia, ma perché rifiutarlo? Mentre guidava e canticchiavo una canzone che passava alla radio, mi disse “Senti, io ti avverto, è piccolo.”

Non capii “cosa?” lui, fissando la strada “Ce l’ho piccolo.”

Ridacchiai e gli dissi “Ma sì, l’importante è saperlo usare!” frase fatta detta da una fatta, ma dettagli.

Spesso gli uomini, soprattutto quelli giovani, pensano di essere poco dotati semplicemente perché introiettano gli ideali veicolati dalla pornografia, in cui se uno è sotto ai venti centimetri ci pensa due volte a mettersi in mostra. Insomma non gli diedi alcun peso.

Arrivati a casa sua ci abbiamo provato, ma attraverso i vestiti non lo sentivo affatto reattivo. Abbastanza scazzata dalla situazione, visto che non mi era mai successo che un uomo mi restasse totalmente indifferente, decisi di guardare io stessa. Gli calai le braghe e… e. Insomma, praticamente non ce l’aveva. Se era lungo cinque centimetri era tanto.

Cadde il silenzio. Non respiravamo nemmeno più. Se fossi stata sobria avrei avuto molto più tatto, ma lì per lì ero senza alcun filtro e la mia espressione doveva dirla lunga, ma non mi fermai a quello “Cazzo fra, mi dispiace tantissimo…” Lui si sedette di fretta e si ricoprì, io mi sedetti a fianco e gli detti delle pacche sulle spalle provando a consolarlo “Dai, non è così grave, no anzi, è gravissimo ma dai, la vita continua…” se potessi tornare indietro nel tempo e farmi andare in coma etilico prima di lasciare la festa, l’avrei fatto.

Il tipo è scoppiato a piangere e quella sera abbiamo chiacchierato tutto il tempo perché temevo che appena me ne fossi andata si sarebbe sparato un colpo in testa.

Di recente mi è uscito tra i suggerimenti delle amicizie di facebook, ho visto che si è sposato e adesso ha perfino una figlia e mi chiedo ancora come abbia fatto. Il mio compagno ha visto che gli stavo guardando il profilo e mi ha chiesto chi fosse. “Uno della mia vecchia compagnia in Italia… ha avuto una figlia per fortuna.”

“Perché per fortuna?”

“Così.” Almeno non prenderà da lui, povera crista.

 

Con questo concludo questo tristissimo capitolo su alcune delle figure di merda che ho fatto perché se dovessi elencarle tutte penso che ci uscirebbe un tomo da mille pagine, però oggi mi venivano in mente e non ho resistito a buttare giù le prime che mi sono venute in mente.

Incredibilmente, la maggior parte dei pensieri intrusivi che mi vengono in mente quando arrabbiata riguarda proprio le figuracce che ho fatto nel corso degli anni. Dal nulla mi schiaffo il palmo della mano in faccia e le persone mi chiedono a cosa stessi pensando. La risposta è sempre “Niente…”

Cerco di dimenticare quelle antecedenti al mio trasferimento all’estero, ma a volte sono proprio inarrestabili e poi sono coerente: le facevo in Italia, continuo a farle all’estero.

 

Ricordate sempre cosa diceva il Signor Bloch parlando della legge di Murphy sulla probabilità:

“La probabilità di essere ascoltati è direttamente proporzionale alla stupidità di ciò che stai dicendo”

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Capitolo 12
*** Buonanotte, Katya ***


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Era il 2020 quando conobbi Katya, una signora di circa 70 anni.

Aveva da poco perso il marito per cancro. Aveva lavorato duramente per tutta la vita e adesso che era finalmente in pensione e credeva che l’avrebbe passata col suo compagno, ecco sfumare tutti i suoi progetti di una vita.

Lui se n’era andato in maniera estremamente veloce, giusto qualche mese dalla scoperta della malattia alla sua dipartita, avvenuta tra l’altro durante la pandemia iniziale, in cui lei non aveva nemmeno potuto salutarlo a dovere.

Avevano gestito un’attività di ristorazione insieme per 45 anni e adesso che volevano ritirarsi, l’avevano messa in vendita. A causa della pandemia non sono riusciti a venderla al prezzo concordato e anzi, alla fine lei l’ha dovuta praticamente regalare pur di disfarsi delle spese dell’affitto del locale e delle tasse dato che non produceva più ma il contratto non si sarebbe potuto rescindere a meno che non trovasse un subentrante o aspettasse il 2025 per la scadenza.

Nell’arco di sei mesi era crollato tutto ciò che conosceva. In pensione da nemmeno un anno e tutto il suo mondo era andato a puttane.

Passò dal mio ufficio per una consulenza finanziaria e tra una cosa e l’altra si finisce sempre per fare due chiacchiere, anche perché dobbiamo creare un rapporto di fiducia col cliente dato che gli spulciamo il portafoglio. È il nostro lavoro, ma questa è la parte decisamente più antipatica per tutti.

Non mi piace fare i conti in tasca alla gente, non mi piace chiedergli quanto guadagnavano, cosa spendevano, per quale motivo conservano certi importi sui conti bancari eccetera, eppure è una cosa necessaria e quindi al fine di fare un bel lavoro, non tralascio quasi niente.

Katya era di origini russe, non ricordo precisamente il Paese di provenienza, ma non si sarebbe mai detto conoscendola di persona perché era estremamente fluente in diverse lingue, tra cui l’italiano, la lingua di suo marito. La conversazione col cliente spesso verte su hobby, vacanze e animali, quindi mi raccontò del suo gatto anziano, unica compagnia che le era rimasta dopo la fine di tutto.

Katya non piangeva mai, la sua espressione era sempre contrita, forse ultimo lascito delle sue origini culturalmente aspre, ma sapeva come esprimersi. Riuscivi a capire quanto valore avessero le cose che nominava anche senza che lei inondasse il dialogo di pathos. Il suo gatto Cesare doveva essere sicuramente molto importante, così come lo erano stati suo marito e la sua carriera. Come mia abitudine, per creare un rapporto di fiducia anche io racconto qualcosa di me, quindi le dissi che avevo gatti, cosa avevo studiato e alcune vicende simpatiche sui miei mici.

Per tutta la vita non aveva avuto mai bisogno di una figura professionale come la mia, ma adesso verteva in una condizione di confusione e stress abbastanza marcata, tutte le pratiche erano online e lei non aveva nemmeno un computer. Necessitava di qualcuno che le impedisse di prendere cantonate e che risolvesse il lavoro senza provocarle altri danni, perché non avrebbe potuto tollerare altre difficoltà.

Finito il lavoro e stabilito con lei il da farsi, la salutammo e se ne andò.

Nel 2020 dovetti necessariamente adattarmi anche io ai cambiamenti imposti dalla pandemia e per non perdere guadagni aprii anche una piattaforma online da cui era possibile servire i nostri clienti senza bisogno di farli venire in presenza. Non è utile per creare nuove relazioni d’affari, che devono essere sempre vidimate di persona per l’identificazione della controparte, ma a partire dal primo colloquio in ufficio era possibile gestire il cliente anche a distanza. Sul sito internet, nei contatti, abbiamo diversi metodi per comunicare con noi. Tra tutti, vi è anche la possibilità di contattarci via Whatsapp Business e io ho condiviso direttamente lì il mio numero “privato” perché da anni non facevo altro che utilizzarlo prevalentemente per lavoro e, dato che il mio lavoro mi piace, non ho mai considerato un problema eseguirlo anche fuori dagli orari d’ufficio. Se ho modo di rispondere subito, rispondo, altrimenti evito. È comunque raro che i clienti debbano aspettare più di due o tre ore, a meno che non mi scrivano di notte. In ogni caso non mi arrecano disturbo. Ho disattivato tutte le notifiche e le chiamate appositamente per evitare stress, cosicché ho accesso al mio Whatsapp solo se voglio io.

Per gli amici stretti, il mio compagno e la famiglia, ho fatto un nuovo numero con tutte le notifiche attivate, separando quindi i contatti di lavoro da quelli privati.

Immaginate la sorpresa quando una sera ricevo una chiamata (normale, non Whatsapp) sul numero aziendale proprio da Katya. Me ne accorsi solo perché avevo visto il telefono illuminarsi. Erano le dieci di sera, però consapevole della sua situazione e che fosse una persona estremamente concreta, ho fatto un’eccezione e le ho risposto. Piangeva: Cesare stava male, aveva bisogno di aiuto immediato e si ricordava che abitavo a meno di un chilometro da lei e che avevo competenze di primo soccorso. Ecco, questo non me lo sarei aspettata, ma che fai? Te ne sbatti il cazzo e lasci da sola lei che non ha figli, nipoti vicini e nemmeno un veicolo per portare il gatto dal veterinario? Disse di non avere nessun altro cui chiedere.

Andai da lei nonostante il mio precedente compagno continuasse a menarmela che era tardi, voleva dormire, ci dovevamo alzare presto l’indomani, stavamo guardando un film… ma non rompere i coglioni! Un giorno forse avrai bisogno di aiuto e troverai tutte le porte chiuse, e sapere che l’unica persona che ti ha risposto non vuole venire ad aiutarti perché sta finendo di guardare un film, consisterebbe nel perdere l’ultimo barlume di speranza che serbavi in questo mondo.

Così arrivai a casa sua e la trovai con il suo Cesare in braccio, stava avendo complicazioni renali, problema molto comune nei felini di una certa età e non riusciva a farlo stare meglio. In quelle situazioni non c’è tanto da fare, però aveva delle medicine d’emergenza che il veterinario le aveva dato proprio nel caso si fosse verificata questa circostanza.

Le chiesi se preferiva che portassimo il gatto al pronto soccorso veterinario per l’infusione di fisiologica che le aveva prescritto ma lei mi disse che no, non aveva potuto salutare suo marito per l’ultima volta, non avrebbe potuto sopportare che anche il suo gatto morisse lontano da lei. Questo discorso potrebbe sembrare egoistico ma vi assicuro che arrivati a certi livelli davvero l’unica cosa che potevano fare era forse l’iniezione letale e, soprattutto in periodo di pandemia, l’umanità del prossimo aveva lasciato molto a desiderare. Basti pensare che tutte le persone su cui poteva contare nei paraggi le avevano detto di no perché avevano sentito al telefono una voce nasale (dovuta al pianto) e non volevano recarsi a casa sua senza essere prima certi che avesse fatto il tampone e fosse negativa. Ma chi te lo fa un PCR d’urgenza alle 22 a domicilio?!

Io non ho mai temuto il Covid, (ricordo che non vivo e non lavoro in Italia, quindi non vi basate su ciò che è successo in Italia, perché non ho idea di come andassero le cose lì) non ho mai obbligato i dipendenti a vaccinarsi né ho richiesto tamponi per venire a lavoro: lavoravamo tutti separatamente, bastava stare ognuno isolato sulla propria postazione ed avere un attimo di buonsenso, cioè che qualora qualcuno non si fosse sentito bene, avrebbe preso da sé la responsabilità di tutelare il prossimo. Per mia fortuna tutti quanti presero la questione molto seriamente non incorremmo mai in un’infezione collettiva, non ci contaggiammo mai sul lavoro. Su questo ci sarebbe da fare tutto un discorso enorme a parte, ma non voglio entrare nell’argomento perché è davvero troppo pesante e ognuno ha un’opinione diversa. In breve, quando andai a casa sua, non mi interessava se fosse positiva o no. Lei aveva bisogno di aiuto e io potevo darglielo.

Era così agitata da non riuscire a dare un senso alle istruzioni lasciatele dal veterinario, quindi ci pensai io. Verificai immediatamente che il gatto era fortemente disidratato (basta prendere la collottola e alzarla di qualche centimetro e poi rilasciarla, il tempo che impiega a tornare normale indica il livello di idratazione a grandi linee), quindi tra le varie opzioni necessitava subito della fisiologica con il medicamento prescritto dal medico. Due grossi siringoni da iniettare sottocute. Quando si fa una fisiologica sottocutanea al gatto, gli si forma tipo un palloncino di acqua sul loco dell’iniezione e io l’avevo visto fare mille volte, quindi eseguii secondo istruzioni.

Nel giro di un’ora Cesare stava già meglio e il palloncino si era quasi subito riassorbito: doveva essere proprio concio. Le dissi che comunque il giorno dopo avrebbe dovuto portarlo a far vedere e che quella era stata solo una misura d’emergenza per fargli superare la notte. Mi ringraziò, mi diede della cioccolata perché aveva solo quella in casa e tornai a casa che era circa l’una di notte.

Il giorno dopo le scrissi su Whatsapp dal numero aziendale per sapere se Cesare stava meglio e disse che sì, era tornato un poco in carreggiata. Mi fece piacere e sperai che non accadesse più, perché comunque ero stanchissima e nel mio lavoro la concentrazione è molto importante, una privazione del sonno può rivelarsi un vero e proprio handicap.

Quella sera, al momento di andare a letto, controllai la chat Business come sempre e trovai un messaggio da parte sua. Era un’immagine con un testo della buonanotte. Mi lasciò abbastanza perplessa… è comunque un numero business, ma andava bene così. Ignorai il messaggio perché non volevo che rispondendole cominciasse una conversazione che a quell’ora non avrei di certo potuto sostenere.

 La sera dopo ricevetti un nuovo messaggio della buonanotte. E così la sera dopo e quella dopo ancora. Non sapevo come reagire. Cosa dovevo fare? Lei non scriveva nulla, ma ogni sera inviava una immagine con una dedica, oppure una poesia, le stelline, la luna, una candela e immancabile, la buonanotte. Non aggiungeva nient'altro e io non sapevo cosa rispondere.

Dopo una settimana capii che la situazione mi metteva un po' a disagio e andava in qualche modo fermata. Ma come? Presi in mano il telefono una sera durante il weekend, così avrei avuto modo di intrattenermi un po' più a lungo semmai avesse voluto rispondere. Fissai lo schermo dello smartphone per diversi minuti. Non riuscivo a trovare le parole per spiegarle che quello era il numero di una azienda e che non potevo ricevere ogni giorno messaggi che non fossero inerenti all'attività, inoltre le immagini mi si accumulavano sullo smartphone, occupandone la memoria. Per tacer del fatto che a me quel genere di immagini sul buongiornissimo-caffè e buonanotte-stellina mi stanno sul cazzo.

E nonostante tutto non riuscivo a scriverle niente. Ecco che sentii in testa la voce della mia coscienza, essenza della rottura di culo che parla quando non deve e la mena quando non serve. È una donna anziana, sola, vedova, triste, isolata e sta per perdere anche il suo gatto che per lei è tutto. "La ditta non può ricevere questi messaggi gne gne gne" ma se sei tu il capo, chi è che li vede? Ti dà fastidio il messaggino la sera? Ma smettila di fare la stronza!

Cazzo, aveva ragione. Porca vacca quanto odio quando ha ragione. Scollegai la memoria del telefono da whatsapp business per evitare il salvataggio delle immagini sul telefono, questione della memoria risolta. Non potevo dire che mi desse davvero fastidio, non sentivo nemmeno le notifiche e lei non scriveva mai durante il giorno, bensì solo negli orari serali in cui era attivo il silenzioso. Ero troppo smorfiosa per tollerare un "Buonanotte"?

Forse è questo che succede ad alcune persone che hanno un bel rapporto con i genitori di una certa età. Parlandone con la mia dipendente lei disse proprio questo "Sì, anche mia mamma mi manda sempre questi messaggi, però col buongiorno. Ignorali e basta, magari poi smette."

Ma Katya non era intenzionata a smettere e dopo qualche altro giorno davanti a quella chat, agii d'impulso e le risposi semplicemente "notte".

Lei visualizzò, ma non rispose. Il giorno dopo inviò di nuovo una delle sue immagini e io risposi di nuovo "buonanotte". Al terzo giorno lei inviò un'altra immagine e io risposi con una emoji.

Da allora nacque una singolare relazione epistolare dell'augurio della buonanotte. Non del buongiorno, no no, solo della buonanotte. Quello che mi stupiva di più è che Katya non usava mai due volte la stessa immagine! Doveva passare diverso tempo al computer, che si era fatta installare in casa, per cercare belle immagini, poesie, foto da inviare a chi voleva lei. E all'inizio pensavo che facesse tipo un "inoltra" collettivo a tutta la rubrica, per poi scoprire che no, il messaggio della buonanotte era solo per 4-5 persone in tutto. Nessuno dei miei parenti aveva mai fatto una cosa simile con me, nessuno si prende così tanta confidenza, sono comunque una donna abbastanza chiusa e introversa. A Katya intanto non fregava niente e mi mandava la buonanotte, un po' come il bombo, che non sa di non avere una forma aerodinamica, e quindi vola lo stesso.

Qualche tempo dopo la rincontrai, Cesare si era spento e lei aveva deciso di trasferirsi, non ricordo bene dove ma credo in uno dei Paesi dell'Europa dell'Est vicino a sua sorella. Qui non aveva più nulla per cui restare.

 

Eppure per tre anni, ogni giorno dell'anno, dalle 22 alle 23:30 Katya mi ha mandato la buonanotte. Non sempre ho fatto in tempo a rispondere, non sempre me ne sono ricordata. Se erano periodi stressanti non rispondevo anche per giorni, ma presto o tardi trovavo un momento per inviare un messaggio di testo o una emoji. Non ho mai inviato a mia volta immagini, quello no, perché avrebbe significato doverle andare a cercare, salvare, inviare... no, troppo sbatti. Non sono stronza ma nemmeno così samaritana, eccheccazzo.

 

Tutto ciò fino a settimana scorsa.

Non mi accorsi subito che non mi aveva scritto, anche perché non aveva un orario fisso, poteva benissimo essere senza dati, occupata o che fosse successo qualcosa che le avesse impedito di scrivere.

Il giorno dopo andai a lavoro, sbrigai come sempre un sacco di commissioni e non ci pensai, eppure la sera constatai che ancora non mi aveva scritto. Non era mai successo prima. Che si fosse stufata? Mi andava benissimo in caso, però non so... ho avuto una brutta sensazione.

Non potevo guardare il suo ultimo accesso di Whatsapp perché il mio è nascosto per motivi di privacy e non mi sentivo così paranoica da voler vedere da quanto non si collegava una mia ex cliente anziana!

Ieri passavo a piedi di fronte alla sua vecchia abitazione e lì vicino c'è anche il suo vecchio bar-ristorante. Guardai dentro ed entrai per bere qualcosa, lì girano sempre molte persone che, avendo vissuto nel suo stesso quartiere per cinque decadi, la conoscono bene e hanno mantenuto i contatti.

"Ciao Tizio, ciao Caio, tutto bene? L'altro giorno pensavo... vi ricordate Katya? Sapete che fine ha fatto?"

 

E così scoprii da Tizio e Caio che Katya ormai si è riunita a suo marito e a Cesare.

 

Perché questa notizia mi ha turbata tanto?

Abbiamo parlato poco, io e Katya, in questa vita. Abbiamo vissuto un solo momento di intensità emotiva in quattro anni. Non le ho mai confidato niente di profondo e di lei, come persona, in fondo non sapevo tanto. Non ricordo quando è stata l'ultima volta in cui l'ho vista e non sono andata al suo funerale e non potrò mai portarle un fiore sulla tomba.

Non ho pianto, perché per me non è stata una figura di riferimento, non abbiamo mai pranzato insieme né siamo uscite come amiche o confidenti.

Eppure chissà perché ogni sera apro la chat di Whatsapp Business, guardo la lista delle conversazioni e mi sento triste a non trovare il suo messaggio della buonanotte. Era diventata chiaramente un'abitudine, direi che spesso è stata anche una rottura di balle, eppure una parte di me ne sente la mancanza.

Forse perché so che non accadrà mai più e che la sera di giovedì 29 giugno è stata l'ultima in cui ha potuto cliccare invio e io ho fatto in tempo a salutarla per l'ultima volta, con un semplice "notte" e l'emoji di una stellina.

 

"Cos'è successo?" è il mio compagno, che mi si avvicina mentre sto fumando in balcone, ma qualcosa dalla mia espressione deve averlo incuriosito più del solito perché di norma sta sempre zitto in questi momenti.

"Ricordi la vecchietta che mi mandava la buonanotte sul numero aziendale ogni sera?"

Annuisce.

"È morta, di cuore credo, qualcosa così istantaneo. È successo venerdì, credo. Me l'hanno detto oggi."

"Ah..." china lo sguardo. Mi scrocca la sigaretta (bastardo!) e poi restiamo semplicemente in silenzio, a guardare il cielo terso.

 

Katya, ti dedico queste pagine e qualche minuto di silenzio, non ci conoscevamo veramente, eppure mancherai.

Buonanotte ⭐

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Capitolo 13
*** Sincerità non corrisposta ***


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Da piccola mi fu osteggiato l'accesso alla tecnologia per tutta una serie di ragioni opinabili da parte di mia madre che non starò a discutere in questo capitolo.

Non potei mai guardare la TV finché non me ne andai di casa, né avevo libero accesso ad un computer, ed ebbi un cellulare ed un computer miei solo a partire dai 15 anni perché riuscii a procurarmeli da sola. 

 

Era il 2009, l'anno in cui piano piano riuscii a evadere dal proibizionismo, perché finalmente cominciavo ad avere un minimo accesso al denaro, con cui potevo ottenere beni e servizi in autonomia.

Fino ai 15 anni in pratica vissi come in un convento ed ebbi modo di leggere tantissimo, ma solo materie di studio e pochi romanzi, perché in famiglia nessuno aveva la passione per le storie lunghe. Divorai intere enciclopedie e mi innamorai della scienza, in particolare materie che agli altri stavano antipatiche e chissà perché per me erano comprensibili. 

 

Il modo in cui riuscii a ricavare denaro è un po' deprecabile, ma la butto sul ridere pensando che già svettava preponderante il mio spirito imprenditoriale.

Mi ero resa conto che a scuola mancava sempre qualcosa di prima necessità. Tutti avevano bisogno di qualcosa che era difficile da reperire in quell'ambiente e facilissimo da trovare all'esterno. Quindi avevo individuato la domanda: mancava l'offerta.

La macchinetta della scuola vendeva a prezzi assurdi le merendine, una merendina a 1,50€, addirittura 2,00€... Ma una confezione da 6 merendine costava 3€. 

Le ragazze erano sempre senza assorbenti e senza antidolorifici. In una confezione maxi di paracetamolo da 1gr c'erano 40 compresse (su per giù) e la confezione veniva meno di 8€.

Nessuno riusciva a comprendere le spiegazioni di alcuni professori... Io potevo scrivere gratuitamente appunti e spiegazioni rielaborate da me, che tanto avrei fatto comunque perché è uno dei miei metodi di studio, e le fotocopie costavano 10cent a foglio. I miei appunti erano e sono tuttora qualcosa di eccezionale, non so perché, ma tutti ci si trovano benissimo e riesco a cogliere sempre i punti salienti. Poi rielaboro da diverse fonti, quindi puoi addirittura trovare cose utili che i professori non hanno detto ma che io ho letto su un altro libro di testo, esempi pratici e spiegazioni alla mano.

Vendevo le merendine a 1€ invece che a 1,50 o 2 , ricavando 3€ da ogni confezione. 

Volevi una compressa di paracetamolo? Nessun problema, ogni persona poteva prenderne massimo 2 al giorno (perché con 6gr di paracetamolo ci lasci le penne) al costo di 1€ al grammo, facendo un guadagno di 32€ ogni confezione di paracetamolo.

Stesso discorso per assorbenti e appunti: vuoi le mie fotocopie? 5€ e sono tuoi, con un guadagno di 4€ (5 meno il costo delle fotocopie). 

Poi c'erano le sigarette a 2€ l'una, con quelle sì che ero ladra, però facevo una fatica boia a recuperarle, quindi non rompete le balle e, se volete fumare, sganciate. Stessa cosa per la falsificazione delle firme sulle giustificazioni.

Mi fermo qui che è meglio.

 

Mi avevano soprannominato in una maniera molto strana, ancora oggi mi chiedo perché fossi conosciuta come "La Zia". Forse perché sarebbe stato difficile dedurre il riferimento a me sentendo due ragazzine che dire "Non hai la giustificazione? Hai chiesto alla zia?"

 

Sorvolando sull'illegalità di ciò che facevo, tiravo su circa 100 euro al mese, spese escluse. 

Pertanto mi diedi alla pazza gioia e acquistai un Nokia 5800 usato e un PC che avrà avuto quindici proprietari prima di arrivare nelle mie mani, ma era mio. Qualcosa di totalmente mio, finalmente.

Installai sopra una versione di Linux Ubuntu che a memoria credo fosse la 12.04 o giù di lì, forse anche qualcosa di più datato. Non avevo accesso ad internet a casa di mia madre, ma il computer era giustificato perché a scuola in alcune materie era richiesto e mia madre non poteva ostacolarmi. Il cellulare restò un segreto finché un giorno, a 16 anni, non me lo vide e, dopo una litigata epocale, disse solo che anche quello potevo utilizzarlo solo per due ore al giorno (ceeeeeeeeerto, come no, stai certa che mo’ smetto di usarlo solo perché me l’hai detto tu). Ma non poté fare niente perché ero troppo grande e soprattutto me l’ero acquistata da sola.

 

In alcuni posti c'era accesso ad internet, come a scuola. Appena riuscivo collegarmi, aprivo tutte le pagine che potevo e le salvavo, copiavo i testi su file di testo (Office.odt su Linux) per leggerli in altri momenti, lasciavo le finestre aperte sul browser e poi mettevo il PC in sospensione e appena potevo aprirlo avevo tipo 30 finestre sul browser da leggere. Che guaio quando finiva la RAM e mi chiedeva di ricaricare tutto ed era stato lavoro inutile...

 

Fu in quegli anni che sviluppai quello che è tuttora il mio carattere di base, sarcastico, meditabondo, ironico. Verso i vent'anni persi un po' di quella tempra sagace a causa della depressione, per ritrovarla poi migliorata in età adulta. 

Fatto sta che in quegli anni, dal 2009 al 2013 (quando me ne andai da casa) ebbi modo di conoscere tantissime realtà virtuali che mi lasciarono senza fiato. Sorvolando sui social network (con il tipo di connessione che avevo io non avrebbe avuto senso avere degli account, e poi sono refrattaria a quel genere di dipendenze virtuali), scoprii i forum e anche gli scrittori online, tra cui anche EFP stesso, cui mi registrai ad inizio 2011 e che non ho mai dimenticato.

Tra tutti i forum che ebbi modo di osservare, decisi di iscrivermi ad uno che trattava di animali un po' meno convenzionali, nello specifico pesci, anfibi, rettili e tutta una serie di simpatiche creature che tutto erano meno che pucciose eppure mi affascinavano in una maniera incommensurabile. Come si può restare indifferenti davanti alla bellezza di alcuni tipi di gasteropodi o di aracnidi, con la loro complessità e le loro tecniche evolutive che hanno dell'incredibile... ed è stato così che piano piano ho cominciato ad inserirmi in quell'ambiente, in cui già ero abbastanza ferrata perché per anni avevo letto testi scientifici, vissuto a contatto con la natura e sapevo un sacco di cose che gli altri ignoravano. 

 

C'è una grande differenza quando leggi e assorbi passivamente ogni nozione, perché il libro fa unicamente da vettore in uscita di informazioni, rispetto a quando sei tu che comunichi agli altri ciò che sai o hai un dialogo con chi è la fonte diretta di quelle informazioni. Era estremamente emozionante trovarmi ad avere a che fare con persone competenti con cui potevo avere un dialogo costruttivo su cose che amavo senza bisogno di pagarle o che fossimo vincolati da una relazione docente-alunno (che per me era molto frustrante dato che di professori decenti ne avrò avuti due in tutta la mia vita).

 

Tra queste persone trovai lei, Marica (nome di fantasia). Aveva la mia età e veniva dalla Calabria. Anche lei aveva una passione smodata per la natura e gli animali e intrattenni con lei una relazione epistolare via mail che durò dal 2009 al 2011, per poi spostarsi sul telefono quando facemmo entrambe una promo della Vodafone-Omnitel che, se impegnavi tua madre al banco dei pegni, vendevi un quarto di fegato ogni sei mesi e facevi qualche lavoretto per la criminalità organizzata albanese, ti offriva al modico prezzo di ventordicimila euro al mese 300 minuti di chiamate, 200MB di dati ed SMS illimitati.

Così cominciammo a scriverci ogni giorno e fu un'amicizia bellissima.

Abitavamo a circa 1000km di distanza ma eravamo legate da una amicizia saldissima.

Lei mi raccontava della sua realtà, di come fosse perseguitata da dei bulli e io non mi capacitavo di come fosse possibile. Lei era bella, colta, simpatica, aveva il fidanzato e non aveva niente che fisicamente potesse indurre gli altri al bullismo, eppure le facevano sempre dispetti ed era presa di mira dai compagni.

Io invece ero un soggetto molto differente, isolata, introversa, non mi truccavo né mi curavo in alcun modo del mio aspetto e alle medie e al liceo non si poteva certamente dire che fossi bella, così come ero concia, eppure avevo rispetto da tutti. 

 

Lei era il mio modo di evadere quando non avevo ancora la possibilità di farlo fisicamente. Mi perdevo nei suoi racconti, nelle sue vicende, ascoltavo i suoi problemi, le davo consigli, e ora che ci ripenso, sapevo di lei molto più di quanto lei sapesse di me. Forse anche perché io parlavo di meno, ma adesso credo che fosse perché io la ascoltavo più di quanto lei ascoltasse me.

Dal 2012 al 2014 ebbi un periodo di sbandamento abbastanza grave, eppure i rapporti con lei restarono costanti. Non le raccontai mai il peggio di me, ora che ci ripenso deve essere stato questo il mio errore.

Solo una mia amica ha conosciuto quella parte della mia vita e ancora oggi vuole avere a che fare con me. Guarda caso è la stessa amica che ha fatto schifo insieme a me, e con la quale mi sono risollevata nonostante tutto e tutti e ora siamo donne affermate e nessuno direbbe che quelle due alcolizzate violente sono finite a gestire fondi e investimenti e progettare immobili. Gli altri si sono persi in quel vortice.

Ma Marica non era come lei, Marica era delicata, fine, gioiosa, espansiva, estroversa. Adorava la moda, i trucchi, le piante e il mare. Parlava per ore dei suoi hobbies e quando nel 2013 feci WhatsApp (e addirittura una promo da 10GB che mi costò giusto un rene e mezzo), lei era un'auto da corsa senza freni e parlava di continuo. Quando inventarono i messaggi vocali, credo nel 2015, se non vado errata, lei cominciò a mandarmene una caterva.

Dapprima messaggi brevi (perché all'inizio potevano durare solo 1 minuto e venti secondi, poi hanno tolto la limitazione) e alla fine inviava veri e propri poemi orali, che se li avesse messi su carta a quest'ora avrebbe composto mille volumi di chiacchiere. Eppure le volevo un bene dell'anima e quindi non mi dava fastidio ascoltarla. Se chiunque altro mi avesse inviato un messaggio vocale da dieci minuti avrei buttato giù mezzo paradiso e invece con lei no.

 

Avevamo deciso entrambe di studiare materie scientifiche e lei amava i gatti e mi aiutò tanto anche nella cura dei miei, andando ad informarsi laddove io mi incartavo. 

Nel periodo in cui decisi di lasciare l'Italia lei mi accompagnò in quel viaggio e mi sostenne.

 

Mentre io ho avuto fondamentalmente due importanti relazioni sentimentali prima dei 25 anni, lei era sempre e soltanto stata fidanzata con un ragazzo. Lui all'inizio sembrava perfetto, lei lo dipingeva così, ma davvero questo ragazzo doveva volerle molto bene durante i primi anni.

Io in quegli anni conobbi, lasciai e ripresi, l’ex compagno con cui ho passato otto anni di relazione, con cui avrei dovuto sposarmi e con cui ho lasciato l’Italia. Lei mi spinse sempre tra le sue braccia, spezzò sempre lance a suo favore e tentava di essere sempre molto razionale nelle sue giustificazioni. Lì per lì non capivo come mai volesse proprio che io stessi con lui, ma pensavo che fosse perché io uscivo da situazioni burrascose e lei, che invece era fidanzata da quando aveva 16 anni, vedesse con più chiarezza di me. Insomma la famosa “esperienza” che a me mancava.

 

È innegabile che io mi aprii con lei sempre di più dopo il mio trasferimento all’estero, perché non avevo nulla di cui vergognarmi riguardo alla mia nuova vita e l’ho quindi tenuta informata per tanti anni, raccontandole ogni cagata che mi succedeva proprio come lei raccontava a me. Alla fine anche io avevo preso ad inviarle lunghi audio, a lei e solo a lei, perché sapevo già che chiunque altro mi avrebbe giustamente mandata a fanculo.

Lei sapeva tutto, di tutti i miei sforzi, della fatica di alzarsi ogni giorno alle 6 e tornare a casa alle 21, badare ad una casa da sola, dover mantenere due persone con uno stipendio minimo all’estero, con il pericolo che se avessi perso quell’impiego sarei dovuta tornare in Italia ed era l’ultima cosa che volevo.

Feci dei sacrifici indescrivibili. Andammo a vivere in una casa senza riscaldamento a gas, per risparmiare, in cui il proprietario ci disse “Io non sono razzista, quindi anche se siete italiani va bene, non ho bisogno che mi diate tutte quelle conferme di buona condotta, referenze e casellari: basta che mi paghiate. Il giorno in cui vedrò che non avete versato l’affitto, entrerò in casa, butterò tutto fuori e cambierò la serratura. Nessuno vi aiuterà perché non siete di qui.” Che tenero.

E pensare che se qualcuno mi dicesse una cosa del genere adesso, il mio avvocato gli farebbe il culetto a strisce e mi dovrebbe pagare i danni morali per chissà quanto.

Furono anni veramente duri, è difficile da descrivere, ma mentre io nuotavo in un mare di merda per affermarmi, il mio compagno arrancava di continuo ed era una rottura di coglioni abominevole. Per cinque anni rimase precario, con me che gli facevo da garante per non farlo tornare in Italia con un calcio nel culo e pagai affitto e bollette da sola per anni, perché lui faceva solo lavoretti saltuari e non ne aveva abbastanza soldi per tutto.

 

La mia amica Marica mi restò vicina e sembrava capire cosa mi succedeva, quindi mi consolavo pensando che non ero totalmente sola.

Nel frattempo lei cosa faceva? Beh, lei studiava. Ha sempre avuto un rapporto bellissimo con tutta la sua famiglia, all’università era riuscita a farsi alcune amiche e aveva finito una triennale, per poi cominciare una specializzazione, per poi fare un’altra triennale, per poi fare un dottorato, per poi fare il gran cazzo di boh non faceva un cazzo oltre che studiare.

Per l’amor di Dio, studiare è molto importante, ma arrivata quasi a trent’anni, con due lauree, una specializzazione e un altro titolo di studio in cantiere che sa il cazzo cosa era, io mi chiedevo davvero cosa volesse andare a fare una volta uscita dalla scuola.

Lei non rispondeva mai in maniera precisa, stava sempre sul vago. A volte, più che progetti, le sue sembravano fantasticherie. Io però non mi permettevo di giudicarla perché comunque lei non dava fastidio a nessuno: i suoi genitori erano felici che lei stesse a casa con loro, le davano paghette, auto, vestiti, trucchi… a me nessuno ha mai dato la paghetta. Anzi, a partire dalla maggiore età dovetti pagare l’affitto perfino a mia madre. Vabbè, stendiamo un velo su quest’ultima cosa, in fondo me ne sono andata che avevo quasi 19 anni, quindi alla fine l’ho pagata per nemmeno sette mesi.

 

Per la prima laurea le feci un regalo, inviato a distanza, festeggiammo, eravamo contente. Fece la specializzazione e wow, altri festeggiamenti! Un po’ meno intensi, però comunque ero contenta. Alla seconda laurea io le feci solo gli auguri, anche perché nel frattempo anche io avevo conseguito delle conquiste, nuovi titoli di studio, promozioni eccetera, ma lei aveva sempre concluso in fretta con un “Brava, complimenti!” e fine della storia. Quando poi mi disse che cominciava un percorso di abilitazione per chissà cosa e non aveva mai nemmeno fatto un tirocinio, io rimasi stranamente delusa.

 

Era l’anno del Covid, il 2020, quando lei iniziò il suo quarto percorso di studio. Io avevo all’attivo due titoli di studio importanti, patenti ed abilitazioni professionali, avevo traslocato in un appartamento con i controcazzi e divenni titolare della mia ditta. Lei mi fece solo gli auguri, come se in fondo non avessi fatto un cazzo di che.

Non è che quando uno raggiunge questi obiettivi vuole uno spettacolo pirotecnico dedicato, ma nemmeno un brava! del cazzo. Eppure, ascoltandola, non avrei mai detto che fosse invidiosa e lo riconfermo, lei non era invidiosa. Credo che non gliene fottesse proprio niente, il suo egocentrismo era supremo.

 

Il Covid piegò il mondo e mentre ognuno di noi affrontava la vita come meglio poteva, giunsero nuove sfide per entrambe. Da parte mia, cominciai a rendermi conto che la relazione con il mio compagno (che finalmente aveva trovato un lavoro fisso!! Era anche ora, stupido coglione) era davvero deteriorata e che io ero un cavallo sciolto e lui il cowboy col lazo sempre pronto ad incaprettarmi per non farmi andare più in là di quanto lui potesse arrivare.

Le amicizie dall’Italia si obnubilarono: moltissimi dei miei amici si persero in un buco nero di negatività e, mentre anche all’estero noi vivevamo con il peso della pandemia, continui messaggi di terrore mi giungevano dall’Italia. Nel mio Paese il lockdown durò solo cinque settimane, poi tutto riprese a pieno regime, invece in Italia durò mesi e mesi e tutti erano in pieno delirio.

Tutti tranne Marica, che sembrava esaltata dall’apocalisse. Divenne una fervente sostenitrice di mascherine, disinfettanti e teorie catastrofiche. Nonostante tutto restò coerente e non posso dire che avesse diminuito la sua presenza virtuale, anzi, visto che aveva più tempo libero dovendo studiare in casa, era anche più presente, ma la qualità delle conversazioni lasciava molto a desiderare.

Io ero turbata, estremamente stressata, stavo affrontando la vera ribalta, io a capo di tutto senza avere la giusta preparazione, avevo perso i miei amici storici e la mia relazione era prossima al capolinea, ed eravamo già al 2021.

D’altro canto Marica stava affrontando il vero sconcerto: le avevano imposto uno stage. Se non avesse fatto almeno sei mesi di stage, non le avrebbero mai concesso il quarto titolo di studio che voleva.

 

Ed ecco che finalmente si scoprì per ciò che era, ora posso dirlo con certezza: una ragazzina spaventata dal mondo. L’unica cosa che sapeva fare era studiare. Era convinta che avrebbe potuto studiare per tantissimo tempo e al massimo, semmai avesse dovuto lavorare, avrebbe potuto fare ripetizioni o insegnare, prima o poi sarebbe rimasta incinta del suo ragazzo, si sarebbe sposata e avrebbe fatto la casalinga a vita. Mi spingeva sempre tra le braccia del mio ex perché lei era stata tradita più volte dal suo ragazzo eppure ancora ci stava insieme. Non era per amore, era perché non aveva le palle per mandarlo al diavolo. Aveva paura di restare sola, di sparire dai riflettori perdendosi nel mare della vita di un adulto, per quello accettava docile di stare a casa di mamma e papà, perché uscire di casa, lavorare, lasciare quel coglione, avrebbe voluto dire diventare adulta e lei avrebbe fatto di tutto pur di restare nel suo angolino rosa di frivolezze e studio, perché lo studio, la scuola, le permetteva di avere una scusa socialmente accettabile per non dover lavorare e farsi mantenere.

 

Lei cominciò il suo tirocinio e io lasciai il mio compagno. Inutile dire che ebbi bisogno della sua presenza e… non la trovai. Lei non era più disponibile e io cercai di essere comprensiva, perché comunque adesso “lavorava”. Allora le mandavo un messaggio di testo per chiederle come stava, se aveva un attimo da dedicarmi in serata perché avevo bisogno di fare due chiacchiere con un’amica e lei se ne usciva con i suoi soliti vocali in cui però riusciva solo a dire quanto fosse stanca e disperata di doversi alzare ogni giorno alle 7 (alle sette, porca troia! Io mi sveglio alle 6 da venti cazzo di anni, porca Lapponia!!!) e tornare a casa alle 17 (cioè davvero lo stai dicendo a me? A quella stronza che per quattro anni si è fatta dodici ore di lavoro al giorno con tre settimane di ferie all’anno senza garanzie di riuscita?). Non esistono bestemmie o parolacce che possano esprimere la frustrazione che mi davano i suoi discorsi.

Stavo comunque soffrendo, perché una parte della mia vita se n’era andata, avevo dovuto farlo, mi ritrovavo sola non per mia scelta, ma per imposizione governativa che teneva ancora chiusi i locali e tutti i miei amici e familiari erano lontani, con una ditta sul groppo e l’ansia di farla fallire in quella crisi e lei mi raccontava di quanto era stanca a dover andare a lavorare per SEI MESI? Cioè, anche se dovessi fare questo sforzo enorme, anche se avesse dovuto alzarsi alle 3 di notte e tornare a casa alle 21, è comunque a tempo determinato! Finirà presto e poi avrai esaudito il tuo desiderio, TIENI DURO. Ma lei no, lei non la vedeva così, aveva lacrime solo per sé stessa.

Non rispondeva più ai miei messaggi a meno che non dovesse piangersi addosso e volesse qualcuno che l’ascoltasse.

Visto che mi ritrovai sola, decisi di fare una cosa che per anni avevo escluso a priori: i social networks.

 

Ho sempre odiato i social e tuttora evito di utilizzarli spesso, sono più che altro un fantasma che guarda video, legge post e si sganascia dal ridere sui meme per poi sparire nel nulla, senza commentare.

E fu allora che scoprii una cosa che mi lasciò interdetta: la mia cara amica Marica è un’influencer.

 

Niente di ciò che so di lei era sulle sue pagine, erano tutte di facciata.

Rimasi davvero senza parole. Com’era possibile che non avesse nemmeno il tempo per rispondermi ad un messaggio e poi pubblicasse un video con tanto di montaggio, dialoghi, coreografie, trucchi ogni tre giorni?

Le scrissi dicendole che non immaginavo che fosse famosa, ma lei sminuì tutto, dicendo che no, non era così importante. Non resistetti più e le feci notare che comunque la sua pagina doveva essere più importante di me dato che l’altra sera, mentre ero in lacrime, mi aveva detto che era impegnata e non poteva parlare e poi invece aveva fatto una diretta di due ore su un nuovo fondotinta!

Lei mi disse che non capivo, che quello per lei era un lavoro. Le chiesi perché non me ne avesse mai parlato, a me che custodivo così tanti suoi segreti e che l’avrei sicuramente sostenuta anche in quello. Lei disse che stavo ingigantendo la cosa e che quello era solo un mezzuccio che aveva per pagarsi qualche vestito e mangiare gratis in qualche posto, farsi i capelli o le unghie senza pagare e cose di questo genere.

 

La stima che provavo nei suoi confronti era colata a picco.

Presi le distanze anche da lei e nel passare dei mesi mi fidanzai col mio attuale compagno, con cui decidemmo di fare un viaggio in Italia nel 2022, guarda caso proprio nella regione italiana in cui lei vive. Nonostante non fossimo più amiche come prima, ero molto più serena perché ero riuscita ad ingranare nella ditta, avevo ottenuto ottimi risultati e avevo fatto un progetto di tali dimensioni che mi avrebbe portato, di lì al 2026, ad essere un pezzo grosso del mio settore. Lei aveva finito il suo tirocinio del cazzo ed era tornata mielosa, anche se non mi mandò più quei vocali lunghissimi e non toccò più l’argomento “non avere tempo per risponderti”. Aveva ottenuto il suo quarto titolo di studio, le feci comunque i complimenti, ma non troppo calorosi, in fondo lei non aveva detto niente davanti alle mie conquiste professionali.

 

La informai che di lì a sei mesi sarei stata dalle sue parti, tenendola aggiornata man mano che organizzavo il viaggio, lasciandole una disponibilità di tre giorni per incontrarci. Finalmente, dopo 13 anni, ci saremmo viste di persona. Magari ci saremmo mandate a fanculo una volta per tutte, ma almeno avrei guardato negli occhi una delle persone più importanti della mia vita.

 

Prendemmo aerei, battelli, noleggiammo auto e in una settimana feci 1500km con un’auto a noleggio per girare tutta la regione. Le chiesi di vederci il primo giorno, lei mi disse che era impegnata con la famiglia, rimandai al giorno dopo, ma aveva un impegno con le amiche, allora il terzo giorno feci 200km e andai sotto casa sua, nelle ore in cui aveva detto che sarebbe stata libera.

La chiamai e le chiesi di scendere, che ero sotto casa sua. Era sconcertata, disse che non poteva, perché stava seguendo delle lezioni online per un quinto percorso di studio (inserire bestemmia a caso).

Le dissi che comunque aveva ancora un’ora di tempo prima che cominciasse qualsiasi cosa fosse quella cazzata che stava facendo (non usai questi termini, ma ne pensai di peggiori) e lei… lei disse che non poteva, perché doveva cucinare il pranzo per suo padre, “l’uomo della famiglia che lavora e porta il pane a casa. Una donna non può esimersi da questi doveri, è importante che trovi il piatto di pasta caldo in tavola quando stacca. Se scendo non farò in tempo a fare niente e non posso far salire nessuno, mamma non vuole.” TRENT’ANNI.

 

Durante tutto questo tempo io ero rimasta sotto casa sua, sotto al sole a cui sono allergica, che mi bruciava la carne come il fuoco di un accendino, con la mia solita espressione statica alla Cillian Murphy e il mio compagno che fissava il marciapiede a braccia conserte.

Sono certa che lei mi abbia vista dalla finestra, sebbene io da sotto non riuscissi a vedere niente a causa dei riflessi sui vetri e le tendine bianche tirate.

Le mandai un messaggio di addio e lei rispose tre giorni dopo, quando sapeva che ormai ero tornata a casa mia. “Non è come sembra, io a te ci tengo davvero, ma ce l’ho con te perché quando ho preso l’ultimo titolo di studio tu non mi hai fatto abbastanza congratulazioni.”

 

Non risposi mai più.

 

I social sono veri bastardi e a volte mi escono ancora suoi video sulla home… ma non provo rabbia, solo un leggero senso di nausea e di rigetto. Allontano il telefono e vado a fumare.

Non possono essere frottole quelle che ho ascoltato per tanti anni, forse ero una delle poche a conoscerla veramente come una persona con tutte le sue debolezze e punti di forza. Eppure in pochi mi hanno deluso tanto in questa vita.

Mi chiedo cosa pensasse quando mi sentiva criticare gli influencer e lei mi dava ragione… il mio compagno dice che se mi dava ragione e negava di esserlo, è perché temeva il mio giudizio. Eravamo come sorelle e poche persone mi hanno conosciuto più di lei, possibile che non abbia mai trovato il coraggio di dirmelo?

 

Alla fine, meglio soli che male accompagnati.

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Capitolo 14
*** Di compleanni, battesimi e regali ***


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Oggi me lo sono presa di libero.

In realtà sono tre mesi che mi sento in fibrillazione, come se dovessi esplodere da un momento all’altro. Avverto su di me il peso totale di tutto ciò che mi circonda.

Ho effettuato cinquanta ore di lavoro in più dall’inizio dell’anno. Non che qualcuno mi possa dire niente, io posso farne anche mille, però uniamo il lavoro al 110% con lo studio (che ho interrotto da nemmeno un mese e che riprenderà ad agosto, ma ancora non ho smaltito lo stress), un po’ di malessere fisico e il fatto che tutti mi cagano il cazzo ed ecco qui che sento avvicinarsi il burnout.

Ho già avuto un esaurimento con burnout nel 2021, non è questo il caso, ormai so riconoscere i miei limiti, quindi non ci cascherò, però sento davvero il bisogno di piccole pause in completa solitudine. Purtroppo sono letteralmente quattro mesi che non passo un giorno da sola. Forse qualche ora da sola, ma non un giorno completo. Non dico di voler fare l’eremita, ma sento sempre più impellente la necessità di staccare dagli altri.

Fondamentalmente sono circondata da sanguisughe emotive. È brutto da dire, ma è pieno di gente che non sa fare niente. Sto organizzando questa giornata di riposo da due settimane. Domani è il mio compleanno e nonostante tutto ho fatto fatica a prendermi UN SOLO GIORNO. Sembra che io sia l’individuo più insostituibile di tutti e invece dentro di me vorrei che qualcuno provasse a sostituirmi in silenzio per un solo giorno.

Alla fine ho dovuto impormi con i miei colleghi e il socio, dicendogli che no, per un giorno riusciranno a non far fallire sta cazzo di ditta.

 

Già alle otto hanno cominciato a rompere i coglioni nel condominio accanto, quello che stanno costruendo da nove cazzo di anni. Quello che abita sopra di me lo chiama “il mausoleo”, e ha ragione. Ha ragione perché sembra che più che un condominio sia la Sagrada Familia. Ogni giorno li vedo lavorare e mi chiedo se siano del mestiere, perché non è possibile impiegare nove anni per costruire una casa di tre piani. 3, non 18.

Penso che sia dovuto ad un problema di gestione dei progetti, perché da inizio anno ho visto buttare giù e rimettere su un muretto del giardino per tre volte. Allora, decidetevi: o lo lasciate, o lo togliete. Non è che lo fate, lo buttate giù, lo ricostruite, lo ributtate giù… tutto bene? Anche perché non è che stiate solo sprecando soldi, state anche rompendo la uallera a tutto il quartiere.

Ho preso casa vicino alla Signora Winchester e non lo sapevo?!

Comincerò a preoccuparmi davvero quando vedrò il roseto in giardino e un gruppo di medium entrarci per passarvi la notte (grazie Stephen King, con le miniserie degli anni 90 Rose Red e IT ho imparato seriamente ad amarti).

Oggi quindi mi hanno svegliato questi cagacazzo con una sega elettrica alle ore otto. Mi sono alzata dopo un’oretta a letto in cui i gatti hanno fatto il possibile per ultimare la rottura di palle.

 

La casa era sporca, sono tre giorni che ho una cervicalgia da paura eppure mi sono messa dietro a pulirla, perché domani voglio andare a fare una competizione off road in Italia e quindi dovrò guidare praticamente tutto il giorno e tornerò domenica pomeriggio e lunedì ricomincerà l’inferno a lavoro, dove sto scrivendo una Privacy Policy e i Termini e le Condizioni di un sito. Avete presente quelle cose che tutti devono accettare per proseguire sul sito ma che nessuno legge? Clicchi sul visto e poi accetti tutto? Ecco, sono anche consulente e quindi sto riscrivendo ad hoc più di 30 pagine di una roba che non leggerà mai nessuno a meno che non vogliano far causa al sito internet, peccato per chi ci proverà perché lo sto rendendo a prova di bomba. Vieni pagato bene per farlo, tuttavia è un lavoro di merda, ragazzi. Fa davvero schifo, mannaggia la Polonia. Ieri avevo aperte cinque pagine di testo sul pc, due libri di legge, il nuovo testo della legge sulla protezione dei dati, le dichiarazioni firmate di quattro altre ditte che collaborano al progetto (altrimenti attesterei il falso se non fossero tutti d’accordo con ciò che sto scrivendo)… non ne potevo più e nonostante fosse un lavoro delicatissimo, tutti in ufficio continuavano a farmi domande, io perdevo il filo e dovevo rileggere il paragrafo da capo per ritrovare il senso delle frasi e poi se n’è uscito anche quel coglione del socio che lavora al 30% “Perché non lo fai a casa, dove nessuno ti può infastidire?”

Cioè tu, che lavori tre ore al giorno (se ti va male), vieni a dire a me che ne faccio 55 alla settimana, se posso sacrificare anche le mie serate libere per fare una cosa che potrei fare tranquillamente qui se tutti voi cresceste un po’?

Ma cosa cazzo è che volete di preciso? Com’è che anche quello che lavorava lì ancor prima che io nascessi ancora non sa che cazzo fare? Come avete fatto a sopravvivere per quarant’anni senza di me?

Anche oggi, alle 14, mi hanno telefonato dall’ufficio. Avevo chiesto di telefonarmi solo se fosse successo qualcosa di davvero grave, tipo che la mia assistente avesse finalmente ucciso uno dei porci che viene a farci le avanches, il fallimento della BCE o una nuova pandemia e invece…

“Non funziona la macchinetta del caffè…”

Settimana scorsa si è rotta la macchinetta del caffè, ne ho comprata un’altra ottima della Lavazza, con le capsule, perché ritengo che un ottimo caffè a lavoro possa essere un incentivo per il buon umore. Le capsule le offro io, quindi chiunque può farsi il caffè quando vuole e quanti ne vuole. Ma… non capiscono come usarla. Non è difficile, cribbio: accendi, inserisci la capsula nella direzione del segnetto, metti sotto la tazzina e clicchi il formato che preferisci. Figa, per loro sembra più semplice prendere la laurea in ingegneria meccanica.

La segretaria non riusciva ad inserire la capsula nel verso giusto. Diceva che non ci entrava. Alla fine, dopo dieci minuti di tentativi al telefono le ho chiesto “ma avete svuotato il serbatoio sotto con le capsule usate?”

Momento di silenzio…. “Aaah! Ma si doveva svuotare?” Nooooo, ma va, ci mancherebbe! Come finisce il suo scopo la capsula svanisce nell’antimateria! Figurati se vanno rimosse… ci pensa mamma a queste sottigliezze! Ho attaccato il cordless prima che davvero andassi in ufficio a strozzarla.

 

Sto ancora scendendo a patti col fatto che tante persone abbiano voluto fare qualcosa per il mio compleanno, ignorando la mia richiesta di non fare niente perché sono stanca e sinceramente non me ne fotte niente. Sono diventata più vecchia, non è una data speciale, ho altro per la testa, mollatemi! E invece no, sapendo che non organizzavo niente, tutti mi hanno fatto regali in anticipo… ma perché poi?

Ieri sera mi telefona mia suocera e mi chiede se l’indomani (oggi) sarei andata a cena da loro, per festeggiare il mio compleanno in anticipo (qui di usa, non è come in Italia che si pensi che porta male), però le ho detto che no, non me la sentivo perché sabato avrei dovuto fare uno sforzo non indifferente e avevo bisogno di riposo, casomai di farlo la settimana successiva. Si è offesa, ha chiesto a suo figlio di andare un attimo da lei. Lui è tornato dopo qualche ora carico di regali, che ho dovuto scartare e poi chiamarli per ringraziarli. La situazione mi ha causato un disagio non indifferente. Non volevo festeggiarlo con due giorni di anticipo e senza energie mentali, non volevo che una cosa che avessi chiesto di ignorare fosse stata vissuta da tutti come un pretesto per mostrarmi che mi avevano pensato e nemmeno dover scartare, ringraziare e telefonare in giro alle nove di sera. Le ho proposto di uscire al ristorante sabato prossimo e lei ha risposto “ma fai come vuoi” e io non le ho più risposto.

Allora… io ci provo ad essere una persona educata e gentile, ma sta gente non ha chiaro il fatto che io indosso una maschera. Non sono intrinsecamente gentile, non sono sensibile (l’unica cosa sensibile che ho sono le balle, che si rompono per un nonnulla), non sono paziente.

Non l’ho mandata a fanculo solo perché è la madre del mio compagno e perché mi aveva appena fatto un regalo, ma non ho alcuna intenzione di soprassedere alle mancanze di rispetto. Serberò la rabbia per il momento più opportuno.

 

Nella mia vita nessuno è mai riuscito ad organizzarmi una festa di nascosto e quando ero più piccola mi dispiaceva perché avrei voluto sentire il “sorpresa!” almeno una volta, ma alla fine mi sono resa conto che era meglio così. Meno rotture di palle, anche se poi in tanti mi hanno chiesto di organizzare i compleanni degli altri… che forse è ancora peggio.

Non mi piacciono i festeggiamenti, mi stancano e mi rendono malinconica. Li vivo con vera e propria ansia, ma non per la presenza delle persone, quanto per il tipo di persone, il tipo di discorsi e il fatto che tutto ciò che farò o dirò sarà messo al vaglio.

L’anno scorso sono stata invitata ad un battesimo e al successivo pranzo, non so nemmeno io perché. Mi hanno detto che probabilmente l’hanno fatto perché ero parente della madrina, mia zia… sei stata invitata, non hai una scusa perché i parenti ti hanno sputtanata… vai e prega che finisca presto. Il padre del bocia è di origini dell’est Europa e a tavola, invece che l’acqua, aveva messo grappa del suo Paese. Ehm… ma anche no. Alle 15 erano già tutti ubriachi e io invece stavo morendo di sete perché, cazzo, volevo un bicchiere d’acqua!

“Ma prova questa grappa, è squisita! Vabbè, se proprio non vuoi questa bevi un po’ di vino (a 24°)” ma anche no, poi devo guidare e domani lavoro… ma che problemi avete?

Ovviamente nessuno di loro poteva nemmeno immaginare che io in passato, volendo, gli avrei seccato la scorta di grappa, ma ora non volevo. Ma perché ridursi così ad un battesimo? Saranno sette anni che non mi ubriaco perché tre cocktails non mi bastano, al massimo mi provocano un po’ di rossore sulle guance, ma a priori, non voglio ubriacarmi ad un battesimo!

E poi, onestamente… la gente mi nauseava. Si erano create tre fazioni: da un lato gli “anziani”, le donne e gli uomini. Gli uomini tutti imbellettati, se ne stavano tra di loro impegnati in una gara a chi faceva più ridere e a chi beveva fingendo di non sentire le conseguenze dell’alcool. Le donne così stereotipate e tirate, che facevano a gara a chi faceva i selfie più arrapanti con la scollatura e il muso a papera mentre tenevano in braccio il battezzato. I boomers e i nonni in disparte, tutto il tempo a vantarsi dei propri figli, nipoti, bambocci di casa, che studiavano, trovavano posti di prestigio, si sposavano e facevano figli.

Mamma mia, che trash.

Stavo considerando se ci fosse abbastanza acqua nella ciotola del battesimo per provare ad affogarmici (o a berla, vista la sete) quando mi resi conto che in qualche modo ero stata isolata. Non che mi dispiacesse, assolutamente, ma non era stato merito mio e del mio carattere: nessuno mi conosceva oltre a mia zia, ero vestita bene e non avevo fatto alcuna figuraccia. La confusione iniziale mi aveva stordita e non mi ero accorta fin da subito che le donne giovani, il gruppo cui teoricamente avrei dovuto appartenere, non mi rivolgeva la parola nemmeno quando per sbaglio urtavo loro la spalla e chiedevo scusa. Possibile che nessuno avesse provato a rivolgermi la parola per oltre un’ora (ad eccezione del cameriere e di mia zia)?

Provai ad indagare per curiosità.

Il gruppo più alla mia portata in teoria sarebbe dovuto essere quello delle donne, cui provai ad approcciarmi con semplicità, notando un particolare di un vestito che mi piaceva, commentando la bontà dei piatti e il ristorante. Niente, non volevano assolutamente parlarmi, quando parlavo annuivano e rispondevano a monosillabi, non permettevano mai l’intromissione nel discorso e dopo cinque minuti che stai di fianco a persone che fanno il possibile per non farti intervenire, ti rendi conto che più che partecipare ad una conversazione, sembra che tu stia origliando quella di qualcun altro.

Mi allontanai da loro e mi diressi verso gli uomini, che al contrario delle donne stavano già alti ed è sempre più facile avere a che fare con loro, anche perché a quanto pare la mia personalità secondo il test Myers-Briggs è di tipo ISTJ il Logista, che è statisticamente molto più diffuso tra i maschi (se non avete mai provato il test MBTI, ve lo consiglio, è una cosa interessante anche da inserire nel curriculum).

Gli uomini però cominciarono a manifestare un certo disagio, perché a quanto pare non erano abituati ad avere una donna che parlasse con loro di quegli argomenti. Non era niente di sessuale o scabroso, si parlava di auto, lavoro, vacanze… ma anche se i miei interventi erano corretti e si ritrovavano a concordare annuendo e sorridendo, erano fondamentalmente sconcertati. Qualcuno mi chiese se invece io lavoravo o se ero sposata e avevo figli. La mia risposta, ossia che non voglio sposarmi né avere figli e che mi interessa solo la mia carriera, li turbò se possibile ancora di più.

Mi accorsi nel giro di pochi minuti che per loro ero una chimera. Qualcuno avrà frainteso sicuramente con il pregiudizio della donna in carriera, fredda e calcolatrice, spietata e zitella (e invece ho un sacco di pretendenti di cui farei a meno) che sicuramente mi rendeva inadatta alla loro cerchia di amicizie che si riuniva solo per vantarsi delle vacanze, delle auto e della nuova promozione (di lui, le lei non lavoravano quasi mai, o comunque in caso a tempo parziale e sempre come parrucchiere, estetiste o segretarie). Io invece stavo gerarchicamente perfino al di sopra degli uomini, ero una fonte di fastidio.  

Dopo nemmeno mezzora salutai e andai a fare un giro al tavolo dei boomers. Se mi fossi sparata ad un menisco avrei provato meno dolore, ma ogni tanto faccio scelte di merda e finisco così.

Al tavolo over 50 si parlava solo dei loro figli e nipoti e di qualche vacanza. Poco male, direte. E invece no, perché mentre tutti lodavano e imbrodavano i propri pargoli cresciuti, l’unica che era stata messa alla gogna (proprio da mia zia tra l’altro, che è senza figli non per sua scelta) ero io. All’inizio non ci credevo, ho pensato che davvero volessero prendermi in giro, invece no… davvero mia zia stava paragonando i successi degli altri ai miei, svalutandomi.

La sciura di turno cominciava con “La mia Sasha ha appena finito il corso di nails artist e adesso è stata assunta in quel famoso studio estetico in centro”.

E mia zia “Ah no, mia nipote invece sta sempre lì dietro a quello studio, pensa sempre ai soldi e non si diverte mai.” Ma tu che cazzo ne sai se io mi diverto o meno? Non ci vediamo mai se non a Natale e Pasqua.

“No, la mia Martina ora è in maternità con due bambini, il più piccolo ha sette mesi e presto battezzeremo anche lui, sono felicissima che sia riuscita a realizzarsi!” alla faccia della realizzazione, signò. Se avessi saputo che per realizzarmi avrei soltanto dovuto aprire le gambe senza preservativo, forse l’avrei fatto quindici anni fa.

“No, mia nipote doveva sposarsi e poi in piena pandemia ha dato di matto e ha mandato tutto all’aria, forse se avesse tenuto la testa sulle spalle a quest’ora avrei anche io un nipotino…” ma se ti dico da quando avevo 13 anni che non voglio figli? E comunque nemmeno i miei partner li hanno mai voluti, perché non sceglierei mai un uomo che vuole figli, sarebbe una mancanza di rispetto verso la sua persona se ha desiderio di essere padre. Non condannerei mai un uomo ad una vita infelice o alla scelta “o me o i bambini”. Inoltre lei sapeva che la mia era da tempo una relazione infelice, che il mio ex non voleva mai fare niente e non ci teneva nemmeno a me, anzi, se vedeva un uomo invaghito di me, se la prendeva con me! Dai, era un coglione! Dovresti essere felice che me ne sia liberata.

Ovviamente non stavo zitta davanti a queste cose, ribattevo e mi difendevo, ma nessuno al tavolo accennava nemmeno a dire a mia zia “Per favore Carla, smettila, la stai mettendo in imbarazzo.” No, no, sembravano quasi felici che io venissi svilita così, al punto che mi girarono fortemente i coglioni e decisi che era il momento di abbandonare la conversazione, non prima di aver detto ad alta voce “Cara zia Carla, non hai ben inteso che, a me, della tua opinione e di quella di chiunque altro… non fotte un cazzo. Buona serata a tutti.” E ho levato le tende. Che bello il silenzio sconvolto e i respiri trattenuti dopo che ho parlato.

Ammetto che a quel punto l’ho bevuto, un bicchiere di grappa albanese alle erbe. Faceva schifo e mi ha bruciato lo stomaco.

L’ora successiva la passai a passeggiare nel parco della location e, dopo il taglio della torta, diedi il regalo, salutai i genitori del battezzato e me ne andai. Non essendo particolarmente avvezza alle formalità, non feci caso al fatto che non mi avessero ringraziato per il regalo.

Qualche settimana dopo mi chiamò mia zia, per infierire “Ma cosa hai regalato per il battesimo?”

“Un lingotto da 30 grammi d’oro 24 carati, blisterato e con certificato d’autenticità e prezzo di valore di mercato, per metterlo in banca e fargli maturare gli interessi fin da subito. Gli ho lasciato le istruzioni. Quando avrà diciotto anni varrà oltre 5000 euro di questo passo.” Spiegai.

“Ma che regalo di merda! Li hai messi tutti in imbarazzo!” sbraitò lei, io avevo gli occhi fuori dalle orbite. Cosa?! Un lingotto d’oro un regalo di merda? E il pigiama che mi hai regalato tu a Natale di 4 taglie più grandi allora cosa è?!

“In imbarazzo per quale motivo? È un regalo davvero utile e soprattutto vale più adesso di quando l’ho acquistato, quindi se non lo vogliono possono rivenderselo e fin da subito potrebbero guadagnarci minimo 1’500€! Che cazzo volevano di più per un battesimo? Al matrimonio devo regalargli una villa con piscina?!” poi ho pensato che forse avevo strafatto, e che anche un lingotto più piccolo poteva andare bene, forse l’avevano presa come un’ostentazione della mia ricchezza a sfregio (ma non è vero perché sono ricchi anche loro, lui ha una concessionaria quindi forse fattura anche più di me, non lo so!).

“Non capivano cosa fosse e volevano aprire la confezione! Per fortuna c’era uno tra i ragazzi che ha capito che non andava tolto dal blister e glielo ha spiegato, ma non sanno cosa farci con un pezzo di oro! Potevi regalare qualcosa di utile!!” a me cascarono i coglioni. Avevo lasciato le istruzioni belle chiare di non aprire il blister altrimenti l’oro purissimo perde di valore, si graffia immediatamente e addio soldi. Per fortuna qualcuno tra gli uomini non doveva essere completamente ubriaco e aveva capito di cosa si trattasse, ma sul foglio c’era scritto anche il suo valore e tutte le istruzioni! Cazzo, vorrei che li regalassero a me i lingotti blisterati e i diamanti da investimento! Per chi non lo sapesse, vale molto di più un lingotto d’oro puro nel blister rispetto ad un gioiello, perché il gioiello subisce un ammortamento economico decrescente abbastanza rapido (esempio, lo acquisti a 1000, lo indossi e già ne vale 800, dopo dieci anni sei fortunato se lo rivendi a 300, invece il lingotto acquisisce sempre più valore col passare degli anni).

“Scusa e quindi che ci hanno fatto? L’hanno aperto?”

“No, ma l’hanno messo lì in un angolo perché era il regalo peggiore di tutti! Martina gli ha regalato invece dei vestitini bellissimi e ci ha fatto una figura migliore!”

Ah, bene! Spero per Martina che fossero dei vestitini Gucci e Versace extra vintage da poter rivendere in un museo, altrimenti col cazzo che potevano valere più di un lingotto d’oro.

Perle ai porci, letteralmente. Più ci penso e più mi incazzo. Ecco perché non mi hanno mai ringraziato ed ecco perché al battesimo del loro secondo figlio, che ci sarà tra un mese, non sono stata invitata. Ma santo Dio, per fortuna! Cade perfino d’agosto! Ma andate a zappare nel Burkina Faso, capre di merda…

 

Per finire la giornata di oggi in gloria, mi telefona una cliente. Per correttezza rispondo anche se sono a casa di libero. Doveva chiedere una info che stava sull’agenda, quindi in ogni caso avrebbe dovuto richiamare in ufficio perché io a casa non avevo queste informazioni. Chiaramente non doveva eccellere in discrezione, perché scriteriatamente comincia a domandarmi perché sono rimasta a casa oggi.

“È il mio compleanno” ho risposto, sebbene il compleanno sia domani. E lei, senza la minima attesa di riflessione “ma seriamente?! Sei nata a luglio??” ma cosa cazzo c’è di strano? Avevo una possibilità su 365 di nascere in quel giorno.

“Sì, perché?”

“Che strano!! Non avrei mai detto che fossi cancro! Forse vergine, forse scorpione, ma cancro noooo.”

Sento i dentriti neuronali ritirarsi di botto, ripiegati su sé stessi, le sinapsi si sono interrotte, gli impulsi elettrici si sono persi nell’etere e poi i neuroni sono implosi. “Grazie signora, buona serata e buona domenica.”

“Ah grazie! E auguriiiii.”

Dio, se esisti, fammi morire oggi, ti prego.

 

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Capitolo 15
*** Ciò che una donna può ***


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Da qualche anno a questa parte sto affrontando un problema di sabotaggio da parte della mia famiglia.

Non mi riferisco a mia madre, di cui ho già parlato in passato. Lei dopo che me ne sono andata di casa è diventata una figura completamente assente nella mia vita, la sento giusto una volta ogni due mesi e per motivi di lavoro, dato che sia io che lei abbiamo due attività e ogni tanto consultiamo la reciproca figura professionale.

La mia famiglia, sorvolando sul fatto che avessi una madre narcisista e un padre educativamente assente (purtroppo è anche morto giovane), era composta dai nonni e dagli zii. Nello specifico tre coppie di zii. Nessuno di loro ha avuto figli e quindi io sono rimasta figlia unica senza fratelli e senza cugini. Ho diversi cugini lontani di altri rami della mia famiglia, ma non mi sono mai interessata a loro e viceversa.

Quando ero piccola avevo sempre problemi con i miei familiari perché ero molto diversa da ciò che loro si aspettavano.

Purtroppo in famiglia tutti desideravano un maschio. Nonostante fossero felici che fossi nata, nessuno ne era pienamente soddisfatto.

In quanto femmina hanno provato fin da subito a inserirmi in un mondo patriarcale ed educarmi con metodi abbastanza sessisti al fine di farmi rientrare in alcuni standard sociali che oggi potremmo definire maschilisti e lesivi dei diritti delle donne.

Quello che più mi stupisce in assoluto è il fatto che la maggior parte di questi atteggiamenti e di questi insegnamenti non provenivano dagli uomini della mia famiglia, bensì dalle donne.

Mio padre non ha mai tentato di incasellarmi in uno stereotipo, come mio nonno, che per quanto potesse essere un uomo degli anni 30 non ha mai posto limiti intorno a me.

Io e il nonno ci divertimmo tantissimo insieme per i primi quattro anni della mia vita e dopo, quando andai a scuola, trascorsi con lui solo le estati.

Nel tempo libero mio nonno amava coltivare l'orto, andare a funghi e castagne e sparare con il suo fucile ai bersagli in giardino. Non avendo nessun giovane maschio vicino, si rivolse esclusivamente a me e, dopo aver visto che io ero pienamente in grado di fare ciò che faceva un maschio, non ebbe più alcun dubbio sulle mie capacità e mi coinvolse sempre come avrebbe fatto con un ragazzo. Gli sono estremamente grata perché grazie a lui non ho mai capito che cosa fosse il maschilismo finché non mi sono avvicinata alla società.

I primi problemi riguardanti il mio genere li ebbi all'asilo, quando mi proibirono di indossare il grembiule del colore che volevo io perché per una femmina doveva essere obbligatoriamente di uno dei seguenti colori: rosa, rosso, fucsia, bianco.

Io lo avrei preferito di gran lunga blu azzurro o nero, perché oltre a essere colori che mi piacevano di più, ho poi anche scoperto di essere parecchio sensibile ai colori e all'emotività che trasmettono. Ragion per cui se voglio tranquillizzarmi devo immergermi in qualcosa dai toni freddi o verdi o azzurri, ancora meglio nelle tonalità del blu, mentre se voglio agitarmi o trovare la giusta energia devo per forza essere in un contesto dai toni caldi e prevalentemente rosso o rosa. Purtroppo i colori freddi e il nero potevano portarli solo i maschi.

Non capivo per quale motivo fossi costretta ad indossare il rosa, a dover mettere la gonna o i vestitini, a non poter mangiare con le con le mani o a non potermi sedere con le gambe aperte mentre i miei compagni maschi erano liberi di fare tutto ciò che volevano non capivo per quale motivo ci fossero sempre battute sulla bellezza e sull'apparenza quando si riguardava il corpo di una donna e nessuno invece giudicava il modo di vestirsi dei ragazzi.

Fin da piccola amavo giocare con i dinosauri e le macchinine che tra l'altro sono poi diventate uno dei miei hobby da adulta in quanto mi diletto anche di motori e fuoristrada.

Uno degli argomenti che più di tutti causava dissapore tra me e la mia famiglia era il mio interesse pressoché nullo per l'estetismo, l'aspetto fisico e l'apparenza. Non ho mai amato mettermi in mostra o truccarmi e agghindarmi, questo mi ha portato ad essere parecchio vessata dalle mie zie. Mia madre invece sotto questo punto di vista non si è mai espressa, perché le faceva piacere che io non mi mettessi in mostra e che ci fosse incomprensione tra me e le sue sorelle. Lei amava dire che da giovane era molto bella e riesco a capire soltanto adesso che si metteva in competizione con me e riteneva di aver vinto perché anche se io ero più sveglia di lei, lei se non altro era più bella di me. La bellezza tuttavia è abbastanza opinabile.

Insomma, per anni sono cresciuta con lo stress di non essere adeguata fisicamente sebbene per mia fortuna io mi sono sempre considerata giusta, o comunque nella norma, e consideravo con fastidio le persone che mi criticavano.

Mia madre mi mandò in collegio dalle suore dagli 11 ai 19 anni (finii la scuola a luglio, me ne andai di casa a ottobre dello stesso anno) e lì conobbi sia il lato maschilista del mondo, sia quello femminista.

Molti pensano che il femminismo sia l'opposto di maschilismo, vale a dire che se il maschilismo implica la superiorità dell'uomo sulla donna, il femminismo secondo loro vorrebbe la supremazia della donna sull'uomo.

Invece no. La corretta definizione di femminismo punta alla parità di genere e non all'imposizione di uno sull'altro.

Ovviamente non c'è nemmeno da chiedere con quale delle due fazioni mi schierai.

Quindi non ho mai fatto mistero della mia opinione in merito, anche perché non ritengo che ci fosse niente di cui vergognarsi, anzi! Attualmente però mi ritrovo ai ferri corti con la mia famiglia, che fa gaslighting e ghosting a più riprese, con l'obiettivo di farmi provare insicurezze e sensi di colpa che ovviamente su di me non possono fare presa, per tralasciare il fatto che negli ultimi anni hanno cominciato a parlare male di me in giro e di recente questi loro commenti sono giunti fino ad intaccare (molto leggermente, ma fastidiosamente) la mia reputazione professionale.

Questo è ciò che più di tutti mi sta facendo imbestialire di recente. Come se non avessi già abbastanza cose a cui pensare, ecco che arrivano i famigliari a rompere i coglioni perché invece di essere una ragazzetta sottomessa al maschio di turno, sono un individuo indipendente e autonomo.

Non mi fu mai detta chiaramente la frase "Da grande devi trovare un uomo che ti mantenga." Eppure tante frasi collaterali volevano indicare proprio questo.

Se mi cresci dicendo che dovrei mirare ad una vita agiata, PERÒ non devo cercare posti di rilievo, perché spettano agli uomini, che non devo parlare di auto e guidare io, perché deve essere l'uomo a guidare, che non devo correggere un uomo, perché sono femmina, che non riuscirò mai a mantenere la villa da sola perché serve un uomo per certe cose... Cosa vuoi trasmettere? Intendi chiaramente comunicare che senza un maschio al mio fianco sarei menomata.

Non importava che io fossi più brillante e intelligente di molti maschi, avrei dovuto tacere di fronte all'ignoranza di un uomo per rispetto. Suona un po' come: un levriero deve gareggiare contro un carlino, per evitare di offenderlo battendolo, si amputa una zampa da solo. It makes sense.

Deve essere stato il mio carattere innatamente competitivo e da bastian contrario ad avermi fatto andare contro i loro insegnamenti e di fatto ho scoperto quello che già il nonno mi aveva fatto intuire: se ne avevo le competenze (che si possono acquisire) e la capacità, io potevo fare quella cosa.

Ad esempio io non so cucinare i dolci, ma solo salato. Volendo potrei fare un corso di pasticceria, ma ritengo di non esserne capace. Evito di farlo, perché non ho talento in questo. Qualsiasi risultato potrei ottenere, sarebbe comunque mediocre. Quando ho bisogno di una torta o dei pasticcini, vado ad acquistarli.

Pensavo che la mia famiglia sarebbe stata orgogliosa di me vedendo che io ero capace di fare anche cose che loro non credevano possibili... E invece no. Scoprii a mie spese che ognuno dei miei traguardi veniva commentato con indolenza, fastidio o svalutazione (di me o del risultato).

Di recente ho finito un percorso di studi che è durato due anni, uscendo con il massimo dei voti. Tra una settimana comincerò un altro corso professionale, l'ultimo della lista, per raggiungere il massimo delle competenze nel mio ramo professionale. Quindi, su quattro livelli, ho completato il terzo e mi manca solo il quarto.

Quando la mia famiglia lo ha saputo, hanno detto solo "Brava, sì sì ma tu sei brava a scuola, poi però devi anche saperle applicare quelle cose..."

Io già lavoro in questo ambito, già le applico da anni, solo che ora ho il titolo per poterle fare da sola senza fare supervisionare il lavoro ultimato. Di che cazzo state parlando? 

Oppure il top "Eh ma guarda che non hai fatto niente di che... C'è ancora il quarto livello, conosco un ragazzo che ce l'ha, lui avresti dovuto frequentarlo che poteva nascerci qualcosa."

Ma che minchia ti dice la testa? A parte che il soggetto in questione ha cinque anni più di me, questo implica che alla mia età anche lui era al terzo livello e doveva cominciare a studiare per il quarto proprio come me... Ma perché dovrei volerci uscire perché ha già finito la scuola che voglio fare io? Ma ascoltate le cagate che vi escono di bocca di tanto in tanto?

E poi l'immancabile commento che ricevevo (perché da anni non li informo più proprio per non sentirli) quando fallivo in qualcosa "Se ci fosse stato un uomo ad aiutarti probabilmente avresti vinto. Avere un uomo a fianco fa la differenza."

Ma la differenza per cosa? Se non ho potuto concludere un progetto perché interferiva con una legge, quale cazzo di differenza avrebbe fatto avere un uomo insieme a me? Avrebbero modificato il codice civile perché io avevo vicino un individuo con i cromosomi XY?

"Fermi tutti! Ma signora, è un uomo quello di fianco a lei?"

"Ah, sì. Ecco, ha un pene, guardate!"

"Allora cambia tutto, ecco i suoi permessi!"

Non mi stupii troppo quando, in seguito all'esaurimento nervoso nel 2021 andai da uno psicoterapeuta e lui mi fece fare vari test sulla personalità, per escludere eventuali malattie mentali, e dai risultati disse che appartenevo a quel 3% delle donne che hanno un profilo caratteriale simile ad un uomo. Le donne non sono intrinsecamente portate per avere quel carattere, infatti nell'uomo le percentuali sono molto più ampie e varie, però vengono educate e indottrinate fin da piccole per attuare un certo tipo di comportamento che devono giustificare psicologicamente. Solo il 5% di esse, forse anche meno, è sufficientemente refrattario da preferire il proprio pensiero critico a quello che gli è stato insegnato, e una parte di questo 5% tristemente ha tendenze antisociali.

Bene, bello.

Così quando oggi un cliente si è avvicinato alla mia scrivania e ha detto "Scusi, ma preferirei che questi calcoli li facesse un uomo che per natura è più portato." ammetto di aver avuto un piccolo tic al nervo trigemino del viso e aver immaginato una scena molto cruenta che comprendeva il cranio del cliente e il mio taglierino apribuste. C’era anche una sigaretta alla fine.

La mia assistente ha avuto un fremito sulla propria sedia e ha preso le distanze da me come fossi una bomba: so che deve aver pensato che l'avrei fatto a strisce, ma non oggi.

Oggi no. Oggi ho i coglioni a pezzi per i fatti miei e settimana prossima ricomincerà la scuola serale quindi davvero non ho voglia di convincere lo stronzo di turno che qui dentro nessuno ha i miei titoli e le mie competenze e la sua richiesta è tanto becera quanto offensiva.

Ho guardato il valore del tasso che avevo calcolato per sto coglione e ho sorriso "Ma certo, il cliente ha sempre ragione, guardi, le chiamo subito il mio socio. Goffrid, per favore puoi fare il calcolo del tasso al cliente?".

Goffrid, rincoglionito ma orgoglioso che nonostante sia ad un passo dalla pensione ancora sia richiesto, del tutto inconsapevole di non aver altro merito oltre ad essere nato con degli attributi sessuali secondari di favore, fa il calcolo e poi si perde un po' via nelle strette di mano e conversazione di convenienza con il pirla che ho di fronte.

Io intanto guardo i tassi, la mia assistente anche. Ben 2 punti in più. Su quell'importo sono la bellezza di 250franchi in più rispetto a quello che avevo calcolato io. Tutto bellamente sotto gli occhi di questo ritardato, che incredibilmente non riesce a capire che 10% è più favorevole di 12%.

Ma l'importante è che sia contento. Così effettuo l'operazione e poi prelevo dalla cassa la percentuale in eccesso, che stonerebbe come ricavo straordinario in contabilità se non la facessi quadrare entro la chiusura. Chiaramente Goffrid certe cose nemmeno le può immaginare.

Quando l'assistente è andata in pausa, le ho dato 50chf dei 250.

"Perché?"

"Non hai visto che il gentil signore prima ci ha lasciato una cospicua mancia?"

Lei sembrava un po' allibita, perché deve aver pensato bene alla faccia della mancia.

"Goditeli, io ci vado a cena fuori stasera."

Già non vedo l'ora di andare al sushi che serve al banco di quel ristorante che è stato aperto in centro città un paio d'anni fa, alla faccia di un coglione qualsiasi che, pur di essere servito da un maschio, sì è fatto inculare platealmente il 2% dei suoi risparmi di questo mese.

Che dire, grazie maschilisti per essere tanto idioti.

Forse ho perso la battaglia, ma con la pancia piena di manzo Kobe e tonno Otoro, oggi la sconfitta avrà un sapore oscenamente piacevole. Spero che la dolcezza del pesce possa coprire questo retrogusto amaro che sento da anni.

 

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Capitolo 16
*** Scuola, tamponamenti e investigazioni ***


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Stamattina mi sta scoppiando la testa.

C’è un forte maltempo, l’inverno si sta avvicinando in tempi da record ma il problema non è tanto questo, quanto il rincoglionimento che sta dilagando, preponderante, annichilente, tra le persone. Soprattutto tra quelle che mi circondano. Va a capire perché…

Ho capito che fino a che non avrò le ferie, tra circa tre settimane, non riuscirò a riposare.

Le fluttuazioni del mercato ultimamente sono tragiche. I tassi e gli indici sono diventati imprevedibili al punto che, mentre anni fa mi basavo su un unico algoritmo, per prevedere le oscillazioni delle valute entro le successive sei ore, adesso devo controllare cinque algoritmi per riuscire a prevedere DUE ore.

L’impegno lavorativo è aumentato e la concentrazione scarseggia perché devo dividermi anche con la scuola, che è tutto fuorché una passeggiata. Il corso che ho cominciato è considerato uno dei più impegnativi nel mio settore. Non ci sarebbe un’altra figura professionale al di sopra di essa, al massimo si possono fare ulteriori corsi di perfezionamento per andare a fare l’ispettore o l’esecutore, il controllore e simili… ma è come se fossero rami laterali dello stesso apice.

È un corso che può frequentare solo chi ha 8 anni d’esperienza e un contratto a tempo indeterminato full time, quindi potete immaginare che si svolge solo di sera, fuori dagli orari di lavoro… dalle 19 fino alle 22. All’anima di tutti i loro, siamo costretti a tenere il corso in presenza.

Visto che ho la faccia come il culo e non me ne frega niente di fare la cresta su ogni cosa, ho deciso che dato che il fisco mi obbliga ad andare DI PERSONA fino a casa di Dio e a farmi due ore di auto, una all’andata e una al ritorno, per partecipare alle sue lezioni, io voglio il rimborso sulla benzina. Conserverò ogni ricevuta di carburante e al momento di dichiarare le imposte, li voglio tutti in detrazione. Non si possono rifiutare, dato che io sono stata obbligata ad andare fino a lì.

Al contrario dei precedenti corsi che ho svolto, i signori ai vertici si danno molta importanza e ritengono che “per certe cose” sia necessario essere di persona mentre si svolgono le lezioni, in culo alla pandemia. Perché così “dimostriamo più impegno”. Ah beh, ovvio. E io che volevo farmelo da casa perché mi avanzavano 20mila franchi e non sapevo dove cazzo buttarli, mica perché volevo davvero impegnarmi… Le lezioni sono tre sere a settimana e il corso dura QUATTRO ANNI.

O per meglio dire, sarebbe dovuto durare quattro anni, ma a partire dal 2023 è stata introdotta una variazione: il corso intensivo di due anni. Un risparmio di tempo molto considerevole, così ho scelto di iscrivermi al corso intensivo dato che ritenevo di averne le capacità, avendo superato finora tutti i livelli antecedenti con il massimo dei voti.

Quello che non avevo previsto, era la disorganizzazione.

Di mio sono una persona estremamente precisa e pedante, me ne rendo conto, ma nel mio lavoro è un tratto essenziale. Per deformazione sia professionale che personale, tendo immediatamente ad accorgermi se succede qualcosa di illogico, e qualcosa lì non quadrava.

Dopo una serata introduttiva che si tenne due mesi fa, cominciammo le lezioni. La prima lezione fu talmente difficile che su 30 alunni, si ritirarono in 5. Quasi il 17% ha buttato la spugna entro il primo mese… era preoccupante. Anche perché ho capito che avevano rinunciato solo dopo un mesetto, quando proprio non li ho più visti e il loro nome è stato tolto dalle liste degli iscritti. Nessuno apriva bocca, semplicemente PUFF! e scomparivano.

Nonostante tutto, ho retto botta. Consapevole di aver intrapreso un percorso arduo, mi sono impegnata ancora di più e presto si è creato un gruppetto intorno a me, stranamente di sole donne. Di norma attiro la compagnia degli uomini, perché ho più affinità a parlare con i maschi, ma in questo ambiente ho capito di essere stata identificata come un concorrente pericoloso.

In questi settori sembra di stare in una grande vasca di squali. Nessuno condivide gli appunti, nessuno chiede aiuto al prossimo né si offre di aiutare gli altri. Solo io ho cominciato a fare schemi e, quando mancava qualcuno per una assenza giustificata, mi sono offerta di passarglieli. Questo gesto, a mio parere essenziale all’interno di una comunità, è stato sconvolgente per tante persone. Chi non li ha voluti e mi ha guardato storto, ha preso le distanze da me. Chi invece li ha accettati e mi ha ringraziato, ha detto più volte “a buon rendere, me ne ricorderò”. Sinceramente io gli schemi dovevo farli comunque, te ne mando una scansione, se ti servono, non è che mi cambia qualcosa e di sicuro non sono più al liceo, che ritengo necessario doverci fare 5 euro vendendoli… ma finora sono l’unica che ha ragionato così.

La sensazione che si ha, entrando in quella classe, è di essere in trincea. Una trincea passivamente aggressiva. Nessuno ti guarda storto, nessuno si esprimerà mai in maniera direttamente contraria o metterà in discussione ciò che dici, ma capirai comunque cosa vogliono comunicare. Forse sono troppo presi dietro alle loro tabelle per realizzare che, anche stando zitti, parlano comunque. Il silenzio punitivo, il non rispondere, il non salutare, la smorfia repentina che coinvolge i muscoli orbicolari e gli elevatori delle labbra quando do una risposta giusta… io so di non stargli simpatica. Così, senza un motivo reale (manco mi conoscono), così come so che in qualche modo mi temono. Perché, poi? Non stiamo facendo una competizione. O forse sì?

E i professori? Beh, i professori non ci conoscono per nome, siamo numeri e non ci interpellano mai. Va bene, perché io non mi faccio problemi: se qualcosa non mi è chiaro, ti fermo e me lo ripeti finché non ho capito che cosa stavi dicendo. Non torniamo a casa, stasera, se io non ho capito.

Su quattro professori, in tre sono divertiti dalla mia tempra. Forse sono felici che qualcuno in classe dia segni di vita…

Uno dei professori (il mio preferito perché quell’uomo è un genio, compensa tutta la scarsa attrattività del suo fisico con un cervello che… mamma mia…) mi si avvicina sempre alle spalle, mentre svolgiamo degli esercizi che assegna in classe. Due settimane fa mi ha detto “Tu ragioni in maniera differente da me, io non userei mai quel metodo, però… l’importante è il risultato. Tu lo fai giusto, quindi va bene anche così.” Nella mia testa c’era già il filmino “Professore, potrebbe darmi qualche lezione in privato? Però posso pagarla solo in natura…” e poi me lo trascinavo in qualche sgabuzzino per approfittarmi di lui, ma ho resistito al pensiero che mi aspettasse il mio compagno a casa.

Poi c’è un altro professore, uno che forse avrà anche un bel cervello, ma se è circondato da una testa di cazzo, quello resterà sempre. Lui non sa spiegare. Ogni persona deve essere cerebralmente uguale a lui, per poter seguire le sue lezioni. Una volta una mia compagna gli ha chiesto “Scusi, ma non mi è chiaro questo concetto.”  la sua risposta, degna di un Oscar, con la faccia stupita e desolata: “Nella mia testa è chiarissimo.”. Ma dai? E io che pensavo che fossi qui a spiegarci qualcosa di cui non capisci niente!

Tesoro mio, abbi pazienza: è nella nostra, di testa, che le cose devono risultare chiare. Di ciò che è chiaro a te, ce ne fotte poco, dato che all’esame ci dovremo andare noi.

Tornando al problema della disorganizzazione, mi sono accorta che la prima lezione, col professore 1, era difficile, la seconda lezione, col professore 2, era semplice, la terza lezione, col professore 3, era insormontabilmente difficile, la quarta col professore 4 era una cacata da quanto era facile… c’è qualcosa che non va. Forse io ho delle lacune in alcuni punti? Questo è stato il mio primo pensiero, poi mi sono confrontata con gli altri compagni. Non con tutti, con quelli che rispondono quando gli parli. In pratica, cinque persone su 25.

Ed è venuto fuori che… era un problema di tutti. Qualcosa, quindi, non funziona. A maggior ragione che la lezione col professore 3, quella difficilissima, non compariva da nessuna parte sui libri di testo assegnatici a inizio anno.

Ieri ho scelto di fare questa domanda apertamente. La risposta che mi è stata data mi ha fatto cascare braccia, gambe, testa, palle, tutto.

L’ordine delle lezioni non è in base alla didattica, per gradi, come nel corso da 4 anni. È in base alla disponibilità fisica del professore che insegna quella materia. In pratica, la lezione semplicissima, era del primo anno. La lezione un po’ difficile (la prima, tra l’altro), era un tema del secondo anno. La lezione così difficile che manco si riusciva a capire che cazzo volesse dire, era del QUARTO anno. Ma è possibile mettere una lezione del quarto anno al primo mese di corso? Un tema per cui ci darete i mezzi per comprenderlo solo di qui ad un anno?

A quanto pare, sì.

La cosa peggiore è che i libri vengono forniti parzialmente: il primo anno di corso intensivo vengono dati i libri dei primi due anni di corso normale, il secondo anno di corso intensivo ci consegneranno i libri degli ultimi due anni di corso normale. Nel frattempo, però, ci spiegheranno comunque cose del terzo e del quarto anno, pur senza avere i libri!

Questo mi ha portata ad uno stato di irrequietezza disturbante… non posso nemmeno dire che andrò a guardarmi le spiegazioni sui libri, perché non li ho! Viene da chiedersi: procurateli a parte, ma non si sa quali libri siano e comunque i libri vengono prodotti direttamente dalla scuola, quindi altrove non li potresti reperire.

L’unica opzione è chiederli in prestito a chi è già al terzo e quarto anno, ma quelli con noi non parlano perché ce l’hanno su per il fatto che facciamo l’intensivo, dato che abbiamo cominciato dopo di loro e finiremo prima. Ma sticazzi, mica è colpa nostra: abbiamo colto un’occasione, mi dispiace che quando avete cominciato voi non ci fosse, ma forse siete più fortunati, perché almeno vi insegneranno le cose in ordine, non alla cazzo come a noi!

Per fortuna, una delle persone a cui avevo passato gli appunti (“a buon rendere”), ha detto che una sua amica aveva già fatto il corso e me li avrebbe potuti prestare. Dal resto del pubblico, scena muta.

Ovviamente ho accettato, quindi adesso ho i libri in prestito e li sto scansionando in attesa di ricevere quelli dell’anno prossimo, eppure sono amareggiata. Speravo che l’ambiente fosse meglio di così, ma è chiaro che mi trovo a lavorare in un settore trincerato, popolato da individui con una voglia di socializzare dello spessore del buco del culo di una pulce.

Bene, ma non benissimo.

 

Cambiando discorso, questa estate mi è stato proposto di fare un test del DNA, di quelli che rintracciano gli antenati, ti fanno trovare parentele lontane ed eventuali problematiche di salute legate alla genetica. Visto che costava una sciocchezza, ho deciso di farlo.

Sapevo che la mia bisnonna proveniva dall’Inghilterra, ma mio padre aveva la pelle tanto scura da sembrare mulatto (nonostante io gli somigli moltissimo ma abbia la pelle bianco cadavere e sono allergica al sole). Ebbene, dopo aver fatto un tampone e inviato i campioni di saliva, ecco arrivati i risultati.

Deludenti? Non lo so. Mi aspettavo molto di più di questo.

Sono al 90% italiana, per la precisione i miei antenati erano proprio della penisola italiana, romani e latini, da oltre 40mila anni. Una percentuale così elevata mi rende praticamente uno dei pochi individui rimasti ad avere una genetica tanto poco variegata. È come se i miei antenati fiutassero altri italiani puri e si accoppiassero solo con chi era munito di pedigree. Anche quando sono emigrati nel Regno Unito, hanno selezionato altri italiani puri perché in questa genealogia, noi, non ci mescoliamo.

Alla faccia dei purosangue.

I fascisti potrebbero prendermi come mascotte, Mussolini probabilmente aveva il sangue meno italiano del mio. Razza ariana spostati, io facevo parte dell’Impero Romano. Sarà per questo che sono un tappo? Ma perché cazzo non potevano essere alti, i romani?

Poi c’è quel 10%... che tu dirai, ma almeno il 10% sarà misto. No. È beduino.

Ci rendiamo conto? Nove decimi romana, un decimo BEDUINA. Precisamente del tratto genetico della popolazione nomade araba proveniente dal Deserto Arabico, in Medio Oriente.

Come è potuto succedere? Qualcuno, circa 300 anni fa, ha deciso di lasciare il deserto e i cammelli e venire in Italia, dove l’unico antenato col fiuto guasto che avevo, ha deciso di generare prole con lui/lei ed eccoci qui.

Quando ero curiosa sull’argomento, guardai diversi video online di persone che avevano fatto questo test e avevano ricevuto i risultati più strabilianti, trovato parenti lontanissimi, scoperto cose emozionanti sul proprio passato…

Poi arrivo io, reduce di quasi 50 mila anni di cacasotto che non si spostavano dalla penisola manco per le palle. Quando l’ho realizzato, ho capito che probabilmente sono l’unica tra i miei antenati diretti ad aver girato il mondo e parlato più di tre lingue.

E non ho nemmeno parenti registrati nella banca dati, eh. Nessuno prossimo, nessuno lontano. Una linea direttissima e finissima di monotonia. È normale che io sia una pigna nello sfintere anale: è genetico.

Ma le informazioni che mi hanno turbato di più in assoluto, sono quelle dei tratti genetici. Risulta che avevo meno del 20% di probabilità di sviluppare una intelligenza logica elevata. In pratica è una casualità, se io ho buone competenze analitiche. Forse è per questo che quasi tutti i miei parenti sono rincoglioniti: non è colpa loro, sono geneticamente stupidi. È triste, anche perché se dovessi riprodurmi a mia volta, probabilmente genererei un rincoglionito. Madonna mia, per carità.

Per fortuna questa linea di sangue avrà fine con me, dato che non voglio figli.

Sono una romana in un mondo di vichinghi, però domenica scorsa sono tornata in Italia, per partecipare ad un concerto e ad una fiera del fumetto a Como. Hanno cantato la D’Avena e i Gem Boy e mi sono divertita un sacco. Ho fatto il pieno di fumetti, il mio compagno ha svaligiato il tipo con le action figures ed è una settimana che sento cantare “I Puffi sanno che il tesoro c’è… è il fiore accanto a te!” dal mio compagno che ha TRENTA anni. 30. Dice che gli è entrata in testa.

:,)

Quando siamo andati via, alla fine del concerto, abbiamo trovato un traffico Caino. Ero ferma in colonna, per fortuna col piede sul freno, quando BAM! Mi hanno tamponato. Per fortuna ero stretta col freno, altrimenti sarebbe stato un tamponamento a catena. Scendo e la mia bull bar non ha riportato alcun danno (eh, vorrei vedere, è fatta apposta).

Una sessantenne, al volante dell’auto targata svizzera che mi è venuta addosso, mi ha guardato con la faccia da triglia e ha alzato le mani come a dire “cose che capitano!”.

Ammetto che mi sia andato un po’ di sangue al cervello, giusto qualche decilitro più veloce del solito. Però, per sua fortuna, avevo appena conosciuto Cristina D’Avena, avevo saltato e urlato per due ore, avevo mangiato piatti giapponesi dalle bancarelle della fiera e avevo speso un fottio per un sacco di cose che adoro, quindi ero non di buonumore, di più. L’ho guardata male e sono risalita in auto. Ed eccolo lì, il mio compagno avvelenato, pronto a dare battaglia. A scoppio un po’ ritardato, ma inferocito.

“Ma chi è sta vecchia di merda che ci viene addosso e manco scende a controllare?! Butta la patente, stronza!”

“Oh, calmati, non ci siamo fatti niente. Lascia stare, dai.” Gli ho detto un po’ presa in contropiede dalla sua reazione. Ma niente da fare, lui doveva dare battaglia alla sessantenne, che nel frattempo era tornata a farsi i cazzi propri col telefonino.

Apriti cielo… Scontro tra titani elvetici. Qualcosa di molto poco virile.

La tipa non scendeva dall’auto, lui non si avvicinava alla sua auto… e si insultavano a distanza. Forse qualcuno ha ripreso col telefono. Lo so, che un giorno mi troverò ripresa in uno di quei video di tiktok o sui reels di instagram, con un milione di likes e una mandria di cretini che fa meme sulle mie espressioni facciali da disagiata.

Dopo aver convinto il vichingo giovane a tornare in auto, ho cambiato strada, almeno non l’avremmo ritrovata subito sulla via per tornare in Svizzera.

 

Intanto, la mia pila di libri e manga sta aumentando. C’è stato un periodo in cui ne avevo un disperato bisogno e sembrava che tutti si fossero presi una bella pausa dalla creatività. Adesso qualcosa si è sbloccato, mi piovono addosso titoli e consigli da ogni dove, e io ho meno di dieci ore a settimana libere per leggere e scrivere. Che nervoso… anche perché negli ultimi sei mesi mi è tornata l’esigenza di scrivere, che era qualcosa che non avvertivo da anni.

Sarà un chiaro moto masochistico, perché possibile che abbia voglia di passare ore davanti ad una tastiera proprio quando non ho tempo manco per mangiare a tavola?

Mentre stavo scrivendo questa frase, qualche giorno fa, è successo il finimondo e allo stesso tempo, una cosa che mi ha lasciata sconvolta e mi ha dato una botta di autostima. Potevo fare l’investigatrice per davvero :D non è solo una mia teoria da romanziera cervellotica, ho applicato le teorie investigative e FUNZIONANO!

È arrivata la mia assistente di corsa, dicendomi che un nostro cliente ha lasciato una busta piena di contanti e se n’è andato. Cosa? Chi? Come?

“Contattalo e digli di tornare a prenderla.”

“Non posso!” mi fa agitata. “è uno dei clienti nuovi, non so nemmeno se tornerà mai, era qui solo per delle informazioni.”

Eccheccazzo… “Quanto c’era nella busta?”

“2000€”

“Eh, figa, si accorgerà che gli mancano 2mila dindi. Porta pazienza che torna.”

Le ultime parole famose. Da quel giorno ne sono passati altri cinque e lui non si è più fatto vivo. La mia assistente poi si è messa a piangere, perché ha detto che in parte era colpa sua, perché lui le aveva dato la busta, lei ci aveva fatto sa il cazzo cosa, e poi avrebbe dovuto ridargliela ma l’aveva poggiata in un angolo, se n’era dimenticata e il tipo se n’era andato senza.

La questione stava cominciando a causarmi un po’ di ansia. Non so perché, ma non voglio custodire i beni di qualcuno così. Non voglio essere accusata di furto perché fondamentalmente due rincoglioniti non hanno fatto caso a una busta piena di contanti che girava a mo’ di bandiera per l’ufficio. Non mi è mai capitata una situazione del genere in dieci anni di carriera e non pensavo di poterla risolvere…

Sono andata immediatamente a vedere i video della sorveglianza per riconoscere il tipo, ma cosa si può dedurre da una foto? Poi, però, ho pensato alle telecamere esterne… e sono andata a richiedere i video che davano sulla strada in quel momento. L’ho visto risalire su un macchinone targato Italia ad oltre 40 metri dalla telecamera esterna, che anche in 4K non è riuscita a riprendere tutte le 7 cifre della targa, ma solo 5: le ultime due erano sfocate a causa di un riflesso e avevo quindi una decina di opzioni per capire quale fosse davvero il numero completo…

A quel punto mi sono ricordata di un sito di ricambi auto che ti permette di risalire al modello del veicolo dalla targa e, andando per esclusione, ho trovato il modello in questione e identificato il numero corretto.

Mentre mi prodigavo in queste ricerche, ripensavo a come un mio connazionale se ne sbatta altamente al punto da non ricordarsi di aver perso 2000€. L’ho fatto presente l’altro giorno in pausa caffè e mi hanno detto che deve essere uno di quelli che ne ha così tanti da non sapere più manco quanti sono. È possibile, ma comunque avevo qualche altro asso nella manica. Certo, se fosse stata una targa di un altro Paese, avrei avuto più difficoltà, ma era una targa italiana… le targhe italiane si possono rintracciare.

Così ho richiesto una visura online al servizio automobilistico di sa il fischio e nel giro di cinque minuti mi hanno inviato, al modico prezzo di 7€, una visura di tutto rispetto con indicati i dati del proprietario (nome, genere, data di nascita e indirizzo), quando è stata acquistata l’auto, modello, informazioni, numero degli ex proprietari… tutto. Disturbante quanto sia facile sapere i cazzi di chiunque da una targa.

Però io non avevo intenzioni maligne, volevo restituirgli i suoi soldi.

“Sì, infatti, lo abbiamo fatto per una buona causa, non daremo i dati a nessuno.” Continuava a ripetere la mia assistente. Che poi, non è che me li abbia forniti un hacker, è stato lo Stato Italiano… in culo alla legge europea sulla protezione dei dati.

Ho fatto una ricerca incrociata sui socials… problematico dato che il tipo non aveva la maggior parte dei social... ad eccezione di uno utilizzato per lavoro. Ed è lì che sono riuscita a rintracciarlo… e a scoprire che è nel mondo dello sport. Divorziato, trasferito al nord Italia da poco, so dove vive (probabilmente in affitto), ha più di un veicolo, so che lavoro fa, ho una sua foto, ho le sue visure del PRA, un indirizzo email, i suoi socials… manca solo il recapito telefonico.

E in totale, contando tutto il tempo che ci ho impiegato… sono stata dietro a questo “caso” per meno di due ore e 7€ di spesa.

Gli ho inviato un messaggio via mail e una richiesta di amicizia su quel social, a cui purtroppo non ho potuto allegare un messaggio scritto perché, per farlo, richiedeva una somma di circa 60€ al mese per l’abbonamento premium. Adesso, va bene tutto, ma andare a stipulare un abbonamento per ridarti i soldi, mi sembra eccessivo. Quando mi accetterai la richiesta, ti scriverò un messaggio gratuitamente.

Nel frattempo passano i giorni, lui non risponde. La mail sarà finita nello spam?

Mi arriva la notifica che ha visualizzato il mio profilo social ma non ha accettato la richiesta… nel weekend dovevo tornare in Italia e visto che passavo a pochi chilometri da lì, decido di andargli sotto casa e citofonargli. Il tizio era in casa, nonostante dalla cassetta della posta abbia notato che non ritira la corrispondenza da almeno una settimana. Questa è una cosa molto stupida da fare.

Se vuoi far sapere ad un ladro che non sei in casa spesso e che può passare a derubarti, la cosa più semplice che puoi fare è non ritirare la posta. Da questi dettagli, i professionisti del furto capiscono se sei presente o no. Lui, chiaramente, doveva passare poco tempo lì. Nonostante ciò, credo di aver visto uno scorcio del suo veicolo sotto alla tettoia delle auto parcheggiate nel condominio… ma non ha risposto. Non è uscito, ho citofonato e dopo cinque minuti e tre tentativi, me ne sono andata.

Adesso… tutto bene? Ragazzo, so che sei vivo, visto che mi visualizzi ogni giorno il profilo social. So che sei in casa, perché ho visto la tua auto. Possibile mai che questo uomo ombra non voglia farsi trovare da anima viva? A momenti sono risalita ai tuoi valori del sangue e tutto per restituirti i TUOI soldi, e manco rispondi alle mail? Al citofono? Non accetti la richiesta di contatto su un social?

Io davvero… boh.

Poi, un conto è se lui fosse una ragazza e io un tizio attempato su un social tipo instagram o facebook, ma non è questo il caso… TU sei un uomo di una certa età e IO sono la ragazzina, in confronto, ed è un social di lavoro, non di divertimento. Non ha nemmeno una foto di profilo, al contrario di me, che ho messo la foto proprio per fargli capire chi fossi (nel caso non lo avesse compreso leggendo il curriculum). Vuoi rispondere?

Allora anche la mia collega ha provato a contattarlo tramite lo stesso social e… stessa solfa con lei. Le visualizza il profilo, lo sappiamo perché ci arrivano le notifiche, ma non accetta la richiesta.

 

Adesso sono dieci giorni che ho in mano i soldi di questo tipo, non si è più presentato, non mi risponde alle richieste, non risponde alla mail, non risponde al citofono.

Ho stabilito che attenderò un mese dalla data del misfatto, dopodiché… boh, farò 50-50 con l’assistente?

“Credi che dovremmo andare sul suo posto di lavoro?” mi chiede lei.

“Non possiamo farlo per ragioni di privacy. Non essendo lui il titolare dell’azienda, per chiedergli colloquio dovremmo dire chi siamo e perché siamo lì e non possiamo dire a nessuno quello che è successo specificando chi sia, altrimenti violeremmo i suoi diritti.” Le rispondo accendendo una sigaretta.

“Ma perché non ci risponde? Non è strano che due donne con cui hai parlato due settimane fa ti stiano cercando di contattare con questa insistenza?”

“Perché lo chiedi a me? Io ancora mi sto chiedendo quanto di preciso devi essere ricco per non esserti accorto di aver perso 2000€”

“Hai letto poi il suo curriculum? Dice affidabile, molto attento ai dettagli, socievole, solare…”

“Ne avesse azzeccata una…”

“La mia coscienza mi dice che dovremmo attendere ancora.”

“Infatti stiamo attendendo. È ancora in tempo per riaverli. Se ci accettasse la richiesta di contatto e leggesse cosa gli ho scritto più e più volte…”

E invece no, perché il signore, chiaramente disturbato dai miei tentativi di contatto, mi ha bloccata. Ammetto di esserci rimasta male ancora di più. A questo punto, non credo che si farà vivo entro i tempi che ho stabilito prima di ritenermi a tutti gli effetti titolare dei beni abbandonati.

Per curiosità, dato che riesco ad immedesimarmi abbastanza bene in un uomo, ma non sono davvero un uomo, ho chiesto a qualche esponente col cromosoma Y come mai un uomo si comporta in questa maniera.

Io avevo pensato che potesse essere perché davvero non si è minimamente reso conto di aver perso la busta e che crede lo stia contattando perché insisto ad averlo come mio cliente.

Il mio compagno ha detto che è perché è un coglione.

Un mio amico ha detto che probabilmente pensa che sia una accaparratrice, una di quelle che dopo aver visto che guadagna bene, sta cercando di avvicinarselo per provarci e farmi lo sugar dad. Ecco, è questa l’opzione a cui non avevo pensato e che mi ha lasciato basita.

“Ma io non ho bisogno di un tizio che mi mantenga, Cristo Santo, io sono titolare della mia azienda, lui è un dipendente. Se vuoi vedere, è ad un livello più basso del mio!” ho berciato offesa alla sola idea che qualcuno possa aver pensato questo di me.

“Non ragiona in questo modo, evidentemente. Gli uomini non guardano alla gerarchia aziendale, guardano al portafoglio. Lui pensa di avere più soldi di te, quindi se una sconosciuta lo sta tampinando, è a quello che punta. Di sicuro non deve avergli nemmeno sfiorato la mente, l’idea che tu lo stia cercando per restituirgli dei soldi.”

A questo punto, cosa devo fare?

Dopo questa ipotesi, la coscienza mia e della mia collega si sono spente abbastanza repentinamente.

Tizio, se ti presenterai nel mio ufficio entro 17 giorni, saresti ancora in tempo per riavere i tuoi soldi. Se invece resterai convinto che una figura professionale quale la mia sia davvero interessata alle tue tasche… beh, grazie. I dindi mi consoleranno dall’onta subita.

E alla fine, avrebbe avuto ragione il mio compagno: sei solo un coglione.

 

 

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Capitolo 17
*** Storie di non-uomini ***


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Di recente sono stata immersa in un universo particolarmente denso di questioni di genere… il che è stato assurdo, come se il tema del sessismo si fosse fatto imperante intorno a me.

Ho incontrato un fottio di maschilisti, compro un libro di criminologia e scopro che è quasi tutto su delitti commessi a discapito delle donne, comincio una serie su Netflix e viene fuori il tema della violenza domestica, le mie autrici preferite anche su EFP parlano dell’argomento, casi di cronaca nera sul tema, esce un nuovo film al cinema (della Cortellesi, devo ancora vederlo) sull’emancipazione femminile, rimango vittima degli algoritmi dei socials che cominciano a mostrarmi contenuti femministi e voilà, questa casa da oggi è un tribunale per i pari diritti.

Scherzi a parte, è stato un periodo particolarmente intenso per la mia parte femminista. Non mi capitava da un po’ di avere così tanta pressione e alla fine ho commesso l’errore di andare anche a leggere i commenti sotto ai video.

Potevo guardare il video e poi andare a farmi una birra e invece… sono andata a leggere i commenti. Forse perché il fegato stava troppo bene e volevo farmene marcire un po’, non lo so. Un sacco di “io sono uomo e non lo farei mai!” - “non tutti gli uomini sono così!” - “perché non parlate degli uomini che vengono maltrattati dalle donne?” ... Il fatto che dà fastidio in sé non è che qualcuno dica che non tutti gli uomini sono così. Grazie al cazzo, lo sappiamo. Speriamo bene che non siano tutti così, che discorso è? Ma in che modo ritieni sia utile affermare sotto ad un video di una ragazza uccisa dall’ex perché l’ha lasciato, che ci sono anche uomini maltrattati? Non riesci a comprendere quanto tu sia fuori luogo? Cazzo, se non hai niente di intelligente da dire, non parlare!

Il colpo di grazia me l’ha dato un cliente ieri, quando è entrato nel nostro ufficio e ha visto una delle nostre dipendenti allo sportello informazioni. Io, vedendo che c’era diversa gente in fila, sono uscita dal retro dove c’è la mia scrivania e sono andata a darle una mano, recandomi presso lo sportello adiacente.

Questo bavoso che potrebbe essere mio padre ha esordito con “Non avevo visto che c’erano due mucche!”

Confesso di aver avuto un momento di blackout e ho sentito il mio cervello fare contatto. Il sorriso (di circostanza, chiaramente) mi si è congelato sul viso e quando è stato sufficientemente vicino gli ho chiesto: “Che cosa ha detto? Ripeta quello che ha appena detto.” Forse l’ho domandato con troppa aggressività, me ne rendo conto.

Lui è subito impallidito e ha risposto velocemente “Ho detto che non avevo visto che c’erano due postazioni.”

L’ho osservato truce. “È proprio certo di aver detto questo?”

“Sì, sì!” ha risposto imbarazzato.

Tutto il resto della conversazione è avvenuto freddamente e se n’è andato molto in fretta. Io però ancora non mi spiego come sia possibile entrare in un esercizio pubblico, vedere due donne e chiamarle mucche. Non ci sono bestemmie o parolacce sufficientemente forti per poter esprimere l’incazzatura che questo fatto può provocare. Ma di che cazzo stiamo parlando? Ancora mi chiedo se non ho avuto un’allucinazione uditiva ma no… non l’ho avuta. Non sono ancora schizofrenica e non mi è mai capitato di averne. Avrei preferito non sentirlo. La cosa peggiore non è che io l’abbia sentito, quanto piuttosto che lui abbia ritenuto opportuno dirlo.

Nella mia vita gli episodi di sessismo si sprecano, non potrei raccontarli tutti nemmeno se volessi. Non perché sia una paranoica che vede il marcio ovunque, figurarsi, io stessa non apprezzo il politicamente corretto e sparo un sacco di cazzate. Più che altro perché ho scelto di addentrarmi in un ambiente che fino a dieci anni fa alle donne era praticamente precluso: finanza, alte sfere bancarie, forex, trading… Le donne sono sempre state assunte in questi settori, certo… come segretarie. La segretaria qui è sempre femmina, assurdo. Questo è sessismo verso i maschi! Dove sono i segretari?! E, puntualmente, la segretaria non sa un cazzo o peggio ancora non capisce un cazzo. Al punto che perfino io preferirei che rispondesse un uomo.

Questo triste aneddoto che segue avviene mediamente una volta al mese, ogni volta con una donna diversa. “Sì, buongiorno, dovrei fissare un importo.”

“Buongiorno, con chi parlo?”

(domanda inutile, i numeri sono tutti segnati con il codice di riconoscimento, basta che guardi lo schermo e lo sai, con chi stai parlando) “Con Alessandro.” Fun Fact, il mio cognome è che un nome maschile, no, non è questo quello vero.

“Ah, lei chiama per il Signor Alessandro?”

“No, io sono Alessandro. Vorrei fissare un importo. Facciamo in fretta perché la borsa sta cambiando in questo stesso momento.”

“Ehm, sì… le passo qualcuno.” Sento che si stacca dalla cornetta e dice a qualcuno “Scusate, ho qui in linea qualcuno che chiama da parte di Alessandro, per fissare la valuta odierna.”

MA PORCO…!!!! “Signora, io SONO Alessandro. È il mio cognome. Me li vuole chiudere o no questi soldi!?”

“Ah ehm… sì… un secondo… senta, la faccio richiamare subito perché i ragazzi sono tutti occupati.”

Mi richiamano dopo un quarto d’ora, che ormai il supporto di Fibonacci è stato raggiunto, superato e ha avuto il tempo di tornare al punto di pivot. “Alessandro? Scusa ma prima non abbiamo potuto rispondere, ci hanno detto che hai fatto chiamare dalla tua assistente e sai che senza la procura lei non può fare queste operazioni…”

“ERO IO!!”

“Ah. Ma la segretaria ha detto che…”

Così, ogni mese. Io veramente, un giorno li vado a trovare in sede, laddove nessuno può entrare e appiccico una mia foto alla parete con scritto “Questa tizia È Alessandro. Rispondetele, Cristo Santo”

Purtroppo, personaggi di questo calibro non tengono alta la reputazione femminile nel mio settore, ma come “non tutti gli uomini sono così”, dovrebbe essere chiaro che nemmeno tutte le donne lo siano.

Un episodio è capitato questa settimana, una cosa davvero ridicola che mi ha lasciata basita. Io sono anche consulente, come tale analizzo polizze e contratti, per farci la cresta. Non nego che sia un lavoro caino, ma è importante che tutte le assicurazioni siano in una adeguata qualità prezzo. I soldi pagati alle assicurazioni, negli ultimi 40 anni di esistenza di questa ditta sono stati praticamente sprecati, perché non abbiamo mai dovuto aprire un sinistro. Inevitabilmente, meno ci costano e meglio è. Da dieci anni a questa parte ho cominciato a fare pressioni affinché i prezzi venissero abbassati e rientrassero in linea con quelli delle altre assicurazioni. I nostri erano palesemente gonfiati, tutto grazie al signor assicuratore, amico del socio di maggioranza. Credevo che essere amici fosse un mutuo aiuto: proprio perché sei mio amico, hai un prezzo di favore. Invece qui è l’esatto opposto. Tutte le polizze erano stragonfie, motivo non pervenuto.

Siamo due soci di minoranza e un socio di maggioranza. Due uomini e una donna, io, che sono socia di minoranza. Ho diritto di voto ma, se gli altri la pensano diversamente da me, non posso che rassegnarmi alla maggioranza, e stesso discorso per loro. Qualche settimana fa mi sono fatta fare dei preventivi da una assicurazione concorrente alla nostra attuale e ho fatto notare agli altri soci come i preventivi per il 2024 fossero di nuovo troppo elevati, e che era il caso di convocare il rappresentante per discuterne con lui per farli abbassare (cambiare assicurazioni professionali sarebbe una rottura di balle burocratica, meglio tenerci questa, ma farle abbassare i premi).

Quando il rappresentante, un sessantenne leccapiedi, si è presentato tronfio, come al solito mi ha salutata per ultima, perché per lui sono una rotta in culo. Il che mi va bene, perché io lo disprezzo. Il fatto è che sono la persona con più titoli e quindi devo parlare io per esporre questi problemi. Ho spiegato le nostre posizioni diplomaticamente e cordialmente e la sua reazione è stata qualcosa a cui non sarei mai stata preparata.

Di norma si espone il problema, si trova un compromesso, si risolve e stretta di mano! Ma no, non questa volta, perché a parlare ero io. È diventato paonazzo, ha cominciato a dire frasi che non stavano né in cielo né in terra e quella che mi ha turbato più di tutte è stata “da quando ci sei tu la situazione qui è ingestibile, e tu, una ragazza, mi metti sempre in imbarazzo di fronte agli altri uomini!”

Sono rimasta sconvolta da queste sue parole. Io, lì, non sono una “ragazza”. A parte che ormai non mi considero nemmeno più, una ragazza. Io lì sono il cliente, sono un consulente, sono una socia, sono una figura professionale con i titoli adatti a poter trattare l’argomento. Da quando sono qui ti ho fatto abbassare i prezzi e ti ho rotto le uova nel paniere? Se fossi stato onesto non sarebbe mai successo! Di cosa cazzo stiamo parlando?!

Il fatto più grave però non è stato questo, quanto che gli altri due uomini presenti, i miei soci, stavano zitti a testa bassa mentre lui mi aggrediva a parole. In tutte le riunioni a cui ho partecipato non ho mai mai MAI visto una scena analoga. È vero però che ho sempre e solo potuto osservare riunioni dove gli interlocutori erano uomini, e gli uomini tra di loro non si dicono queste cose né si esprimono con questi termini.

Ho provato ad intervenire più volte per calmare i toni perché questo individuo era fuori di sé senza una ragione valida e nessuno dei presenti faceva qualcosa, ad eccezione della mia assistente che però non poteva prendere parola e strepitava al mio fianco. Questo tizio non mi lasciava prendere parola perché “ora stai zitta che sto parlando io” come se la sua parola contasse più della mia!

Dopo un dibattito durato oltre dieci minuti in cui la mia voce è stata ripetutamente sovrastata dalla sua, sono riuscita ad impormi e a dire ciò che dovevo, rimettendolo al suo posto e ponendo fine a quella scena indegna. Il cuore mi batteva fortissimo per il nervoso e ancora nessuno dei presenti aveva aperto bocca per sostenermi, nonostante io stessi facendo gli interessi di tutti lì dentro (ad eccezione di quelli del rappresentate, chiaramente).

Il tizio ha dovuto abbassare i prezzi e poi se n’è andato oltraggiato. All’uscita, i signoroni si sono finalmente alzati e hanno trovato fiato per comunicare, tutti gioviali e bonari, dandogli pacche sulle spalle e sorridendo sornioni. Appena siamo rimasti soli, prima ancora che io potessi dire qualcosa, mi hanno sommersa di complimenti per essere riuscita a far risparmiare tanti soldi all’azienda.

“Se la pensavate come me perché nessuno è intervenuto a mio sostegno?! Perché siete rimasti zitti!?”

Si sono guardati imbarazzati. “Beh, ma tu non hai mica bisogno di essere difesa, te la sei cavata benissimo da sola.”

Non avevo più parole per rispondergli. Quante volte loro sono stati in difficoltà e io sono intervenuta? Quante volte gli ho tolto le castagne dal fuoco e li ho difesi quando erano indifendibili?! Sono profondamente disgustata dall’accaduto.

Questo fatto e, il giorno dopo, il tizio che entra e chiama me e la collega “mucche”, mi hanno fatto capire che il mio limite di saturazione era molto vicino. Mi ha fatto ripensare a tanti fatti accaduti nel corso di questa vita e che ho sempre dovuto tollerare. La maggior parte sono fatti stupidi, che fanno innervosire e basta. Altri, purtroppo, sono particolarmente gravi.

Stasera ho analizzato delle statistiche per chiarirmi quanti sono davvero i casi di donne in Italia (perché è il mio Paese di provenienza e a cui sarò sempre legata) che hanno subito molestie. In Italia ci sono circa 31milioni di donne. Quasi due milioni hanno subito molestie e violenza nel corso della vita. È una percentuale di circa il 6%. In pratica, quasi una donna ogni 10 in Italia ha rischiato le botte o lo stupro. Il 2% ha subito violenza sessuale. È una cifra enorme, e non tiene conto di tutte coloro che non hanno mai denunciato.

Io, dal canto mio, non ho denunciato perché non ho potuto e quando è successo, non ero in grado. Ad oggi ho avuto la bellezza di due stalker e un tentato stupro, ormai 13 anni fa.

Il primo stalker che ebbi, a 16 anni, lo conobbi per casualità, andando ad un incontro di D&D dove giocava il ragazzo di una mia amica. Lì, uno dei giocatori si fece avanti e ammetto che a quell’età non mi era del tutto chiaro dove volesse andare a parare, anche perché lui aveva 15 anni più di me. Da quel momento è stata una tortura. Mi scriveva di continuo cose assurde, insisteva affinché uscissimo insieme, il tutto senza però mai cadere nella molestia sessuale. Affermava di non essere innamorato di me, ma che avrebbe tanto voluto conoscermi “meglio”. Da un certo punto di vista poteva sembrare romantico, mi regalava libri ogni volta che casualmente capitava nello stesso posto in cui ero io ma anche se gli avevo detto più e più volte che non avevo alcun interesse nei suoi confronti e che mi stava mettendo a disagio, ha continuato a starmi addosso, finché un giorno non mi sono venuti a dire che, in alcune delle chat dei giochi online in cui era, non faceva altro che parlare di me e di quello che mi avrebbe voluto fare. Peccato che era capitato in linea il ragazzo della mia amica, che mi aveva girato l’intera (nauseante) conversazione. Lo bloccai, segnalai, minacciai… niente sortiva effetto. In qualche modo, riusciva sempre a rintracciarmi.

Io non avevo un padre, un fratello o un cugino che mi proteggesse. Insomma, lo affrontai per telefono, perché di persona col cazzo che ci sarei andata. Se possibile divenne ancora più pressante. La mia amica fece una cosa che non avrei mai creduto possibile e per cui le sarò sempre grata. Lo disse a suo padre. Suo padre, con un gruppo di amici, andarono a fargli una visita di cortesia. Da allora non lo sentii mai più.

Pensavo che il peggio fosse passato e che tutto sommato me l’ero cavata abbastanza bene. Credevo di aver identificato un po’ il target di personaggio da cui tenermi alla larga. Ero ancora ingenua. Il tizio sarà stato uno stalker rompicoglioni ma era fondamentalmente innocuo. Il peggio lo incontrai l’anno successivo e in una maniera del tutto imprevedibile.

Ero uscita con una mia amica, lei aveva due anni più di me e quindi aveva già patente e auto. Io, ancora diciassettenne, dipendevo da lei per tornare a casa. Lei era presa da un ragazzo stupidissimo, un vero coglione di prima categoria. Un tipo che le disse “starei con te solo se tu avessi la testa della tua amica” (disse il mio nome) ma come ti salta in mente una cosa del genere? Di fronte a me?

Fatto sta che quella sera eravamo uscite a farci una birretta quando ecco il tipo che le piaceva, insieme ad un altro tizio di almeno trent’anni, impomatato. Lei li salutò, io tirai dritta, quando eccoceli a fianco. Molto strano, di norma quello lì evitava la mia amica come la peste e stasera addirittura tutta sta voglia di stare con lei? Con la scusa che lui voleva fare due chiacchiere con lei, mi disse se potessi tenere compagnia al suo amico, Angelo. Non ci vidi niente di male, quindi accettai.

Angelo aveva delle movenze che, ora che ho trent’anni anche io, erano inequivocabili. Un certo modo di fare nel linguaggio del corpo che rendeva chiarissimo che stesse flirtando con me, nonostante da parte mia ci fosse il trasporto del Deserto del Gobi. Visto che i suoi primi approcci non sortivano tanto effetto, prese a farsi più vicino fisicamente e a mettermi un braccio sulle spalle. Era inverno, ricordo bene che faceva freddo e accettai mio malgrado le sue attenzioni, che però ero troppo piccola per capire pienamente. Un gesto, in particolare, non avevo idea di cosa volesse significare: per tre volte in totale mi prese la mano con una scusa e passò delicatamente l’indice sul mio palmo aperto. Non capivo perché lo facesse, quindi toglievo la mano perché mi dava fastidio e continuavo a parlare come se niente fosse.

Dopo quasi due ore passate a parlare con questo tizio di cui non mi fregava assolutamente un cazzo, che scoprii avere 17 anni più di me, letteralmente il doppio della mia età e un divorzio alle spalle, che abitava in Sicilia ed era venuto al Nord per trovare degli amici, mi resi conto che volevo andarmene. Gli dissi che avrei chiamato la mia amica e che mi sarei fatta accompagnare, ma lui si propose di darmi il passaggio.

Rifiutai gentilmente e feci per telefonarle ma lui disse che avrebbe chiamato il suo amico, di non disturbarli che magari stavano facendo cose… non capivo: io li avrei disturbati e lui no? Si allontanò di qualche passo per parlare con il testa di cazzo al telefono e quando tornò mi passò il telefono dicendo che era la mia amica che voleva parlarmi.

Effettivamente era lei, mi diceva che avevano chiacchierato tutto il tempo e che il testa di cazzo si stava aprendo, quindi non poteva proprio fermare l’appuntamento e di fidarmi e prendere quel passaggio che mi offriva Angelo. Ero veramente arrabbiata con lei, perché mai mi sarei aspettata che gli eventi precipitassero così e fossi costretta a farmi dare il passaggio da questo tizio appena conosciuto. L’indomani mi sarei fatta sentire, nel frattempo accettai di salire in auto con Angelo, perché era amico di amici e aveva anche 34 anni, davo per scontato che era un uomo fatto e finito e si riempiva la bocca di concetti di giustizia e rettitudine al punto che gli credetti. Ora non accadrebbe più.

Gli indicai la strada per tornare a casa, ma ad appena 500 metri da casa mia, infilò l’auto in una via secondaria che portava al bosco. In quel momento capii che c’era qualcosa di profondamente sbagliato. Ricordo ancora il battito del cuore che scalpitava nel petto. Gli dissi che aveva sbagliato strada e si giustificò dicendo che ero proprio lì vicina a casa e che gli avrebbe fatto piacere continuare a parlare con me ancora per una mezz’ora. Stranamente però, non mi guardava in faccia mentre lo diceva. L’auto su cui eravamo era una Fiat Stilo truccata e aveva le serrature che si bloccavano automaticamente quando il veicolo raggiunge i 20 km orari e si aprivano solo quando si accendeva o da spenta, se lui avesse tolto le chiavi dal quadro. Riflettei su quel dettaglio quando per istinto pensai di scappare, ma sarebbe stato difficile con le serrature bloccate per i bambini. Quali bambini? I suoi, dato che aveva un figlio di 14 anni ed una bambina più piccola.

Fermò l’auto in una strada che sapevo nessuno frequentasse ad eccezione di quelli che andavano a correre al mattino e si voltò verso di me chiedendomi cosa volessi fare.

“Voglio andare a casa.”

“Tanto sei qui, quando abbiamo finito, vai.”

“Finito cosa? Abbiamo finito, stiamo parlando da tre ore ormai, non ho più niente da dirti.”

“Pensavo fossi d’accordo, non hai detto di no quando ti ho toccato la mano.”

Non capivo a cosa si riferisse, ma lo spiegò subito dopo: il gesto che aveva fatto, quello di passare l’indice sul palmo aperto della mia mano, era una proposta sessuale. Io, tacendo, avevo acconsentito, secondo lui. Rimasi sconvolta dal fatto e gli spiegai che no, assolutamente non ero interessata e che non conoscevo il significato di quel segno e quindi avevo taciuto perché pensavo che lo facesse per boh, non lo so! Non gli avevo dato importanza.

La conversazione a quel punto è degenerata. Le espressioni sul suo viso non dimostravano più simpatia, bensì una certa frustrazione. Insisteva che non me ne sarei pentita, che era bravo, che andare con uno più grande mi avrebbe insegnato tante cose. Dio, era delirante. Mi imposi con più forza e la cosa peggiorò la situazione. Ricordo che strinse con forza il volante dell’auto spenta fino a far impallidire le nocche e mi disse la frase che non scorderò mai, tra un farfugliamento su quanto mi desiderasse e una serie di scuse ridicole su quanto stava soffrendo per il suo divorzio e che io rappresentavo la salvezza per lui: “Se non vuoi venire con me, preferisco vederti morta.”

Se ripenso a quei momenti, ricordo i contorni sfumati e opachi, come se riuscissi a vedere solo un dettaglio alla volta, quello su cui puntavo direttamente lo sguardo. Il mio campo visivo si era ristretto fortemente per un fenomeno che poi scoprii essere un coinvolgimento spropositato di adrenalina. I suoi occhi pieni di odio però sono ben impressi nella mia memoria, perché li ho guardati molto intensamente.

Parlò ancora per qualche minuto mentre io non avevo idea di cosa dire per tirarmi fuori da quella situazione. Le risposte rabbiose non avevano sortito un buon risultato, prima. Le serrature erano bloccate e finché l’auto non si fosse riaccesa o lui le avesse sbloccate dai comandi posti sulla sua portiera, non si sarebbero aperte. Dovevo fare in modo che riaccendesse l’auto. Quando fece per spostare le sue mani su di me, ho finto di assecondarlo per qualche secondo, prima di raccontargli che per me era la prima volta (era una menzogna) e che non me la sentivo di farlo in auto. Sarei stata con lui più volentieri se fossimo andati in un altro posto, nel suo hotel ad esempio.

Dovetti insistere un po’ e concedergli di toccarmi più di quanto avrei voluto prima che si convincesse a portarmi altrove. Fui istantanea. Appena accese il veicolo, sentii il rumore dello sblocco della portiera e mi fiondai fuori. Riuscì ad afferrarmi la borsetta, ma tirai e si ruppe. Gliela lasciai e scappai nel bosco.

Conoscevo il bosco, abitavo lì da tutta la vita, lui invece no. Mi rincorse al buio per meno di venti metri prima di perdermi di vista. Mi nascosi nel buio e attesi in silenzio sperando per tutto il tempo che il mio cellulare non squillasse mai per non svelare la mia posizione. Non so quanto tempo passò prima che si arrendesse e se ne andasse bestemmiando. So che rimasi lì per parecchio tempo anche dopo, ferma, immobile. In totale furono tre ore. Quando tornai a casa le dita erano rosse e quando tornarono ad essere calde bruciarono fino al giorno dopo.

Gli avevo lasciato la mia borsa con le sigarette, i trucchi e le chiavi di casa. Il cellulare con il documento di identità, per fortuna, era nella mia tasca dei pantaloni.

Per un paio di giorni rimasi in casa depersonalizzata e poi giunse un sentimento di rabbia mai provato prima. Una rabbia cieca, furiosa, furibonda. Cercai amici per sostegno e andammo a cercarlo. Lo volevo uccidere.

Il suo amico finse di non sapere chi fosse e nessuno conosceva i suoi dati. Non era di quelle parti e quindi nessuno sapeva nulla. Poi scoprimmo che era ricercato dalla polizia in Sicilia per violenza domestica e che era agli arresti domiciliari, ma se l’era data a gambe e, dopo che gli ero sfuggita, era tornato di corsa in Sicilia per avere un alibi. Non sono mai riuscita a denunciarlo, perché non avevo idea di come potessi fare. La cosa che mi ferì ulteriormente fu la mia (ex)amica, che non prese veramente sul serio l’accaduto, lamentandosi anzi che il testa di cazzo, dopo aver ricevuto la chiamata da Angelo, quella sera, l’aveva sbattuta fuori di casa, perché si era stancato di lei. L’obiettivo ero io, fin dall’inizio.

E uno può pensare che dopo fatti del genere non ci sia più fiducia nel genere maschile, ma io dopo qualche tempo trovai un altro ragazzo che, per quanto deficiente, non avrebbe mai torto un capello a nessuna donna.

Dopo 8 anni di relazione, lo lasciai e mi ritrovai di nuovo single. Non avevo grandi aspettative, però accettai di uscire anche con altri uomini, soprattutto per divertimento. Ero diventata più brava a riconoscerli e a schivare quelli che mi davano anche il più piccolo sospetto. Poi arrivò Matteo, un personal trainer bodybuilder che sinceramente non capisco come cazzo io abbia fatto ad accettare di andarci insieme, forse perché volevo provare il fascino del palestrato? Che cretina che ero, e pensare che è stato solo due anni fa.

Sembrava un ragazzo normale, ci parlavo per ore e gli ero stata molto vicina per un fatto importante che riguardava la sua carriera, sebbene da lui non cercassi altro che carnalità, ed ero stata chiara fin dal principio. Non avevo previsto che lui si invaghisse di me al punto da ossessionarsi. Sebbene non mi ritenga brutta, non ho l’aspetto di una di quelle modelle palestrate che lui allenava e che gli sbavavano dietro, quindi non capivo per quale ragione volesse me quando letteralmente poteva avere quelle ogni volta che voleva. La sua giustificazione fu che con quelle non poteva fare le conversazioni che teneva con me. Rifiutai comunque garbatamente perché no, non lo volevo. Inventai la scusa che avevo un altro e che non ero più intenzionata ad uscire con lui.

Il suo viso cambiò, somigliando incredibilmente all’espressione che aveva Angelo quella sera. Non alzò mai la voce, durante il suo discorso disse più volte che lui, le mani addosso alle donne, non le metteva. Come se avesse dovuto convincere sé stesso più che me. Le sue mani però si stringevano a pugno ripetutamente con una forza tale da sbiancare le nocche. Questo dettaglio mi fece entrare in una forte risonanza, come se fossi tornata a quella maledetta sera nel bosco. Perché questo furore? Da dove arriva questo odio? Perché non accettare che semplicemente una donna non ti voglia?

Per fortuna se ne andò, dopo diverse ore in cui mi disse anche parecchie offese, e solo quando fu fuori potei tirare un sospiro di sollievo. Continuò a scrivermi, insultandomi di tanto in tanto. Alla mia minaccia di denunciarlo, finalmente, desistette.

Non so perché stasera abbia voluto parlare di questi tre individui (chiamarli uomini mi sembra un’offesa al cromosoma Y). Sentivo da diversi giorni il bisogno di parlarne, per esorcizzarli.

Anche per questo mi trovo fortemente contrita quando mi ritrovo di fronte a certe fantasie femminili che riguardano gli stalkers e il sesso non consenziente. Cosa c’è di attraente in un uomo che ti costringe a concederti? Cosa c’è di affascinante in un tizio che ti pedina e perseguita?

Potrebbero essere anche i più belli del mondo, ma un essere umano, sia esso femmina o maschio, perde qualsiasi attrattiva quando decide di sorpassare la linea del consenso. Forse questo genere di fantasie sono tipiche di chi è troppo giovane per capire il rischio o di chi non l’ha mai vissuto e pensa che uno stalker altro non sia che un innamorato premuroso e uno stupratore un uomo che ti desidera al punto da perdere il controllo di sé.

Ragazze, uno stalker è qualcuno che non tollera di perdere il controllo su di te perché ritiene che tu gli appartieni, sei una sua proprietà. Come il suo cellulare, la moka in cucina o il bagnoschiuma in doccia: sei un oggetto, non una persona. Un oggetto che fastidiosamente non resta fermo al suo posto e quindi va monitorato. Uno stupratore non ti ama, non ti desidera pazzamente, ti vuole annientare. Non vuole che tu provi piacere e non ha pietà di te, non sei un essere umano ai suoi occhi. Non c’è niente di attraente in questo.

Quando ero più piccola credevo che il maschilismo e la violenza sulle donne fossero attribuibili specialmente alle generazioni precedenti alla mia e che, in qualche modo, noi giovani l’avremmo sconfitta. Le notizie degli ultimi tempi, le esperienze che io stessa ho fatto, mi hanno fatto capire che questa piaga è più aperta e purulenta che mai e non so come e se ne usciremo mai.

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Capitolo 18
*** Aforismi e forbici galeotte ***


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Oggi, a casa malata dopo aver contratto sfigatamente o, per meglio dire, dopo essere stata contagiata in maniera passivo aggressiva da una persona che consideravo amica, mi sono ritrovata a riflettere come al mio solito e, dato che non ho voglia di fumare per calmarmi, ho messo mano alla tastiera.

Due aforismi mi sono venuti in mente mentre osservavo il cielo terso e questo cavolo di sole che sembra non comprendere che siamo a gennaio, e non ad aprile. Così, ho intentato una riflessione e ne sono uscite più parole di quante ne avessi previste.

 

“Molti nemici, molto onore.” Frundsberg

 

“La bellezza si vede, il fascino si sente.” Roberto Gervaso

 

“Molti nemici, molto onore.” È una frase che è stata attribuita erroneamente a Benito Mussolini. Fu pronunciata da un generale tedesco, Frundsberg, cinque secoli fa.

Quanto c’è di vero in questa massima?

Dipende dal contesto, dalla persona in questione e da chi sono i suoi nemici.

Se qualcuno litiga con tutti perché è stronzo, non brilla certo d’onore. Se i nemici che si fa appartengono ad ogni classe sociale ed età e ce l’hanno con lui per i motivi più disparati, corrisponde più che altro al profilo di un attaccabrighe antisociale, non ad una figura onorevole.

Ultimamente ho avuto a che fare con un’amica, chiamiamola Toffa, che guarda caso litigava proprio con tutti. Incredibile come lei fosse sempre la vittima di tutte le zuffe. Siamo state amiche per qualche anno e non si era mai comportata così, quindi in principio credetti che aveva ragione.

Tutto partiva da momenti stazionari, in cui senza apparente motivo razionale (nella sua testa sembrava tutto logico) Toffa partiva all’attacco del malcapitato di turno e il cristiano della situazione doveva difendersi da accuse piovute a ciel sereno. Stava diventando surreale. A qualsiasi ora poteva arrivarmi un messaggio da parte sua in cui se la suonava e se la cantava, intonando l’urlo di battaglia ai sacri vincoli di sa il cazzo quale principio secondo cui la sua persona/carattere/regalo che aveva fatto/sentimenti/opinioni erano stati lesi dalla crudeltà del prossimo e lei se n’era dovuta ergere a paladina, sconfiggendo l’infido drago che tanto aveva ardito sfidarla subdolamente.

No, non sconfiggendo. Toffa non ha sconfitto un cazzo di nessuno. Tutte le diatribe avevano fine quando lei sanciva “e allora vattene per la tua strada”, che sarebbe un diplomatico vaffanculo. Ma in soldoni quello più felice era l’aggredito, che si liberava di una smerigliatrice ambulante di testicoli.

Dopo aver sancito l’addio, veniva a farmene un resoconto dettagliato. Io, sul lavoro (perché lavoro sempre, sempre lì sto, Santo…) visualizzavo il messaggio e in principio pensai che davvero stesse attraversando un periodo di sfiga. Capita a tutti di vivere intere settimane in cui frotte di sfrangipalle vengono a romperti le scatole, no? A me capita, inoltre più responsabilità pendono su di te, più rompicoglioni incontrerai.

Se esistesse l’assioma di Fiore di Pesco, sarebbe qualcosa di simile a questo:

La quantità di rompicoglioni che ti circonda è uguale e contraria alla dose di energia mentale che possiedi.

Così non notai subito che era lei a partire sempre per prima all’attacco, finché finalmente cominciò a balzarmi all’occhio che nella maggior parte dei conflitti, io stavo dalla parte dell’aggredito. Allora tentai di mettergliela giù senza ferirla troppo, spiegandole i punti relativi secondo cui se una tizia aveva deciso di lasciare il marito e si era già trovato un altro uomo, era suo diritto farlo.

Che cazzo c’entrava Toffa in tutto ciò?

“E ma povero Fabrizio, la amava tanto.” Ok, per l’amor di Dio, Fabrì ci dispiace, ma se dopo vent’anni di matrimonio Pancrazia non ti ama più e vuole il pesce d’un altro, che ci puoi fare? Meglio essere mollato piuttosto che abboffato di corna.

Ma no, Toffa non la pensava così. Veniva leso il sacro vincolo del matrimonio e dell’amore eterno. Divenne la protettrice di Fabrizio e andò contro all’amica Pancrazia.

A seconda delle situazioni, le reazioni che provocava potevano essere anche molto eclatanti. Finché la menava alla segretaria per non averle compilato la busta paga nel modo corretto, o scoppiava un litigio dal salumiere per chi era il primo della fila, tutto si risolveva con poco clamore. Ma nel caso di Fabrizio e Pancrazia, l’asse terrestre fu inclinato e da allora smise di nevicare. Pancrazia l’ha alzata di peso con tale forza che ho temuto di dover intervenire per sedarla prima che ammazzasse Toffa, e a buona ragione.

Ad ogni modo, mentre tutti festeggiavano il Natale e le vacanze invernali, io ho lavorato, stando a casa solo nei giorni delle effettive festività. Avevo poco tempo libero e quei radi momenti di pace preferisci impiegarli a fare ciò che ti piace. Toffa invece pretese da me il massimo coinvolgimento nelle sue diatribe perché lei, al contrario di me, stava a casa a grattarsela.

Dato che non ho problemi a delimitare i miei confini, le ho spiegato che durante il giorno sarei stata meno presente per il lavoro, ma il messaggio non venne recepito perché Toffa non voleva recepirlo. Arrivati al 30 dicembre, quando al 31 avremmo dovuto festeggiare Capodanno insieme, mi disse “visto che non rispondi mai ai messaggi, tanto vale che domani non vieni nemmeno. Dici sempre di essere stanca, fattelo a casa tua così ti riposi.”

Mi girarono vorticosamente i coglioni. Senza stare qui a spiegare che non è vero che non rispondevo ai messaggi (è che rispondevo solo di sera), ci fu un acceso diverbio, in cui le esposi le mie ragioni e le dissi che, in soldoni, aveva rotto i coglioni, e di farselo lei a casa da sola, che eventualmente io sarei andata da qualcun altro. Intervennero i pacieri di turno: i fidanzati.

Il di lei fidanzato “Oh ma cosa sta succedendo? Ma non dare retta a Toffa, che è in sindrome premestruale dal 97, vi ho invitati io, la casa è mia, siete miei ospiti.”

Il di me fidanzato “Oh ma dì a Toffa di non rompere i coglioni. Anzi, dammi il telefono che glielo dico io.” No, non gli ho lasciato il mio telefono e non ha potuto dirle niente. Tanto glielo avevo già detto io.

Toffa, dopo una conversazione col suo ragazzo che non mi è pervenuta, mi ha chiesto scusa per la sua reazione, giustificandosi col fatto che è un periodo brutto, tutti le fanno torti e bla bla. Ho accettato le scuse, perché comunque eravamo amiche da tanto, ci volevamo bene e balle varie. Però io me le lego al dito e dallo scoppio della prima bomba attendo segnali di altre eventuali red flags che potrebbero indicare la rottura dell’armistizio.

Ho festeggiato il capodanno con lo stomaco un po’ in subbuglio, spettatrice di un atteggiamento lievemente passivo aggressivo da parte di Toffa, che lei potrebbe credere di aver camuffato egregiamente, ma io non sono nata ieri. Poco dopo la mezzanotte ho levato le tende perché aveva voluto mettere un film che aveva disgustato tutti. Eravamo in quattro e piaceva solo a lei. Tra i conati di vomito del mio fidanzato e le bestemmie masticate dal suo, alla fine riuscii a fuggire ai titoli di coda. Ci ha disgustati al punto che ci siamo scordati che fosse capodanno e non abbiamo nemmeno fatto il conto alla rovescia…

Dato che i successivi giorni passarono abbastanza pacifici, credetti ingenuamente che il nervosismo le fosse passato. Purtroppo riemerse dopo che le dissi (dopo 48 ore dalla cena) di avere mal di gola. Si scoprì che lei era positiva al covid e che se n’era bellamente sbattuta. In realtà non proprio, disse che si era fatta un test la sera del 31, ma essendo negativo, non aveva ritenuto di avvisarci, nonostante sapesse che in questo periodo non posso assolutamente ammalarmi. Peccato che l’1 rifece il test e risultò positivo. A quel punto me ne uscii con una colorata imprecazione, non credo di dovervi spiegare il perché, e lei rispose candidamente “allora ognuno per la sua strada.”

E a quel punto ce l’ho mandata io. A fanculo, sul serio.

Dal basso del mio stato febbrile e nevrotico, con cui in questi giorni ho letto e scritto un sacco, mi è tornato in mano uno dei tomi a cui sono più affezionata: l’Arte della Guerra, Sun Tzu.

Il vecchio zio Sun mi ha fatto riflettere con alcune delle sue massime, tra le quali:

Se ti difendi, sei più forte. Se attacchi, sei più debole.

Non agire in assenza di vantaggi.

Non combattere in assenza di pericolo.

Non scatenare una guerra per sfogare la tua ira.

Non dare battaglia per il tuo rancore.

Toffa non ne ha centrata una, cazzarola… quindi tanti nemici = tanto onore? Mah… se sei Toffa, no.

 

 

“La bellezza si vede, il fascino si sente.” Disse Roberto Gervaso, aforista, scrittore e giornalista italiano che è passato a miglior vita qualche anno fa.

Sarò sorda e cieca, perché vedo distorto e non sento particolare fascino provenire da alcunché, di recente. No, questo non è totalmente vero. Nelle ultime settimane ho trovato conforto solo nella lettura/scrittura.

Ma la bellezza… niente, faccio ancora un po’ fatica a riconoscerla. Non sono passati troppi giorni da quando una mia amica mi ha girato delle foto di ragazzi (perché, poi?) con un modo di fare che mi ha ricordato molto i ragazzini delle medie che si scambiavano i giornaletti di Playboy.

Un po’ incerta sul da farsi, le ho mandato delle faccine che ridono. Quelle vanno sempre bene, quando non hai idea di che rispondere. Non era il mio giorno fortunato.

“Che ne pensi? :D”

“In che senso?”

“Eh, sono fighi o no?”

Oh merda… e adesso che le rispondo? Non me ne piace mezzo… cos’è questo odore? Disagio, sei tu? “Beh stanno bene… direi sì, rispecchiano tutti gli standard dei canoni estetici attuali.”

“-.- quanto trasporto! Non ti sforzare troppo che ti vengono le emorroidi, eh…”

Ecco, questa è una tipica conversazione che intercorre tra me e una mia amica quando mi fa vedere un ragazzo che le piace. Per l’amor del cielo, anche io ho dei gusti, ma non corrispondono quasi mai ai prototipi delle mie coetanee… Il fatto è che riesco ad essere coinvolta anche se la persona non è particolarmente attraente secondo i miei standard, come se bellezza e attrazione viaggiassero su due binari distinti.

È un tratto che ho sempre saputo di avere, di cui me ne sono sbattuta parecchio perché sembrava un problema più per gli altri che per me, e che ha trovato una sorta di risposta solo qualche anno fa, quando mi hanno detto Asperger, ma non grave… una tendenza… un alone… c’è uno spiffero di… sì insomma, sei vecchia e adesso si fa fatica a capirlo, però è sicuro che ti sei persa un lunedì per strada. Forse anche un martedì.

Da lì ho compreso che c’era un perché dietro a certi ragionamenti e mancanze comunicative. Ho cominciato ad interessarmi alla questione comunicazione, perché sono sensibile a lacune di questo genere. Ho letto un fottio di libri di comunicazione, psicologia, PNL, microespressioni… e per assurdo nella programmazione neurolinguistica viene sancito che se il contenuto del messaggio non è stato compreso dal destinatario, è colpa del mittente che non si è espresso nel modo migliore. Cordialmente dissento. Toffa, più su, è il classico esempio di chi non vuole capire, mentre nel mio caso era chiaramente il contrario, ma vabbè. Adesso fisso la gente per capire che cosa vogliano di preciso quando mi parla. Prima passavo per stronza, ora ho sbloccato il livello stronza e inquietante. Continua a non fregarmene niente, il che è fantastico.

Il senso dell’umorismo è stato qualcosa di molto particolare. Prima del totale sviluppo del senso dell’astrazione, è stato difficilissimo capire che cazzo volessero dire alcuni comici, soprattutto le vignette che giravano sui giornali negli anni 90-00. Alcune non le capisco ancora adesso, ma ciò che nessuno ha dovuto insegnarmi è il black humor. Quello l’ho sempre capito. Le cose più divertenti con cui mi sono dilettata da ragazza sono i Darwin Awards (quante risate con quelli…) e gli epitaffi comici, che vanno dalla tomba dell’ipocondriaco (Milligan) “ve l’avevo detto, che non mi sentivo bene!” a un altro (Fusaro) “ho smesso di fumare” oppure (Chiari) “è solo sonno arretrato”. Ste cose mi fanno troppo ridere. A volte rido anche davanti ad immagini che dovrebbero turbare… ridere davanti ai film horror non è sintomo di grande salute mentale e a volte mi è stato fatto notare, con quell’aria un po’ tra il confuso e il preoccupato, come se la cosa da temere non fosse più nello schermo, ma seduta di fianco a te. Eh, oh… amen.

Insomma, quando due settimane fa mi lavai i capelli che arrivavano ormai al fondoschiena (non per colpa mia, ma tra poco ci arrivo), mi sono girate le palle ad una certa intensità perché stavo fonando da venti minuti e ancora erano bagnati. Ho preso la forbice e zac, senza guardare. Via fino alle spalle.

Ho letto su un sacco di libri il valore dei capelli per la psiche umana. Nell’inconscio, per gli uomini rappresentano la virilità, per le donne la bellezza e la femminilità. Nel mio, una rottura di coglioni.

Per questo motivo i nativi americani facevano lo scalpo ai nemici, per questo per umiliare una donna le si tagliano i capelli corti, per questo alcuni uomini vivono la perdita dei capelli come un danneggiamento della propria personalità… e io li ho tagliati per un moto improvviso di rabbia, senza dispiacere.

In passato mia madre mi fece tagliare i capelli in uno dei suoi deliri narcisistici e ricordo di essere rimasta sconvolta. Crescendo ho capito che era sofferenza legata più che altro all’immagine che avevo di me, all’abitudine che avevo di portare i capelli lunghi, un pezzo della mia persona, ma riflettendoci non credo riguardasse concetti archetipici della chioma femminile. Se lo era, non so cosa sia cambiato da qui ad allora.

Guardai il mio riflesso allo specchio e fissandomi pensai “la mia immagine ne è stata lesa? Ero più bella prima?”. Meditandoci su ho pensato che, dato che la bellezza si basa concettualmente su principi simmetrici, il taglio obliquo che portavo rasentava tutto fuorché beltà.

Chiamai il mio compagno e gli chiesi di aggiustarli un po’.

“Ma che cazzo hai fatto?!” era atterrito.

“Non si asciugavano più, mi sono rotta le palle.”

“Ma esiste il parrucchiere!”

Il mio parrucchiere è uno stronzo. La mia vita si alterna tra ufficio-casa-scuola-supermercato il sabato pomeriggio e ricomincia da capo. Quindi, quando avevo ritagliato appositamente un giorno di permesso con l’obiettivo di andare a tagliare i capelli dopo quasi due anni che non andavo dal parrucchiere, lo avevo avvertito con tre mesi di anticipo.

“Tienimi l’appuntamento per quel giorno, ok? Mi raccomando: ho solo quel giorno!” perché in realtà ho un po’ la fobia del contatto (tranne quando il contatto è a fini sessuali, non so perché, ma se non dobbiamo fare niente, non mi devi toccare) e quindi vado a farli solo da lui, che ha lavorato per la televisione, è un genio nel suo lavoro e un taglio costa il quintuplo, ma non mi interessa.

E lui cosa ha pensato di fare?! “Oh, scusa, per mercoledì dobbiamo annullare… ho deciso di prolungare le mie ferie, quindi lo studio resterà chiuso.”

Ho sclerato malissimo. Mi sono tenuta i capelli lunghi per altri tre mesi, finché non ho sclerato ancora peggio e la forbice si trovava molto vicina a me mentre tutte le persone di buon senso erano lontane.

“Non so farlo…” farfugliò il mio fidanzato.

“Provaci, che ci vuole? Vai a occhio, tanto li tengo sempre legati, manco si noterà.”

“No… mi fa impressione.”

Ma cosa vuol dire che ti fa impressione? Sono capelli, cheratina, pure lavati, che cosa ti turba? Era il concetto di tagliarmi i capelli, a fare contatto nella sua testa. Sembrava che lo stessi costringendo ad una violenza fisica, non che dovesse tagliarmi qualche pelo. Non ho resistito e l’ho preso in giro. Si è perfino offeso, povero. No, non è vero, non mi è dispiaciuto davvero, ma anche lui stava un po’ recitando sulla permalosità solo per farsi coccolare. È che ho letto che quando si fa qualcosa che non è socialmente accettato, puoi recuperare subito punti dicendo “Scusa/scherzavo/era una battuta/non prendertela/non volevo offenderti/intendevo altro”, ma qui potete anche mettermi alla gogna.

Dunque il giorno dopo andai al lavoro come sempre, con i capelli legati. Nessuno notò nulla anche perché figurarsi, sono circondata da maschi. Gli uomini, sotto questo punto di vista, sono meglio. Si fanno i fatti loro, non strepitano se ti vedono una macchietta sulla camicia: sanno che è capitato per sbaglio e non te la menano. Però il mio fidanzato era rimasto turbato, quindi forse meglio nasconderlo… poi ho visto lei, la mia assistente.

Si può considerare abuso di personale? Non lo so, per sicurezza gliel’ho chiesto. Lei è più piccola di me, ma non è stupida né è una persona irrazionale. Non è la tipa che andrebbe a parlarti male alle spalle e poi ormai mi conosce… però ha strabuzzato gli occhi e non riuscivo a capire se fosse particolarmente stupita ed emozionata o terrorizzata.

“Mi daresti un’aggiustata ai capelli? Li ho tagliati male e adesso sono asimmetrici.”

Era estasiata: nessuno glielo aveva mai proposto in 25 anni. “Sì, ma io non l’ho mai fatto prima… non so se verrà bene…”

“Guarda, basta che non sembri una derubata in un vicolo di notte. Peggio di quello che ho fatto io, non puoi fare.”

Così siamo andate nel bagnetto dell’ufficio e ho chiuso la porta, non a chiave però, perché non mi sembrava il caso di sigillarci lì dentro… già l’avevo sequestrata in uno spazio angusto con un paio di forbici acuminate, almeno la sensazione di poter scappare… non so perché faccio questi pensieri. Oggi ho la febbre e quindi sto usando il flusso di coscienza, ma la mia coscienza è ambigua. Me la immagino come una vecchia stronza su una sedia a dondolo che fuma una sigaretta col bocchino lungo. La maggior parte del tempo sonnecchia, ogni tanto si desta e cerca di fare il punto della situazione, non capisce niente di ciò che è appena successo, quindi torna a dormire dopo aver blaterato qualcosa a caso.

Non ci mise tanto, forse meno di dieci minuti. In questo modo potrò attendere un po’ più tranquilla l’estate. Poi, prenderò un altro appuntamento dal parrucchiere e patti chiari amicizia lunga: vedi di tenere aperto quel cazzo di studio o ti vengo a prendere sotto casa.

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Capitolo 19
*** Materinlegicidio ***


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Mi sono alzata poco dopo le 9 del mattino, dopo un sonno ristoratore di oltre 8 ore che non mi capitava da diverse settimane. Sono tranquilla, serena. Ho deciso che mi metterò a preparare il sugo con le melanzane così a pranzo mangeremo un bel piatto di spaghetti.

Sono circa le 11, sono in cucina a leggere una storia da cellulare mentre il sugo si cuoce e il mio compagno entra sonnacchioso in cerca del caffè. Biascica qualcosa di simile a buongiorno e si fionda sul caffè che gli ho preparato, con una tonnellata di zucchero come piace a lui: imbevibile.

“Ah, amore…” dice dopo essere tornato un po’ alla vita. “Mi sono svegliato un quarto d’ora fa e guarda cosa ho trovato nei messaggi?”

“Poi mi fai vedere, ora voglio finire un capitolo che…”

“No, no, guarda qui.” Insiste piazzandomi il suo telefono davanti alla faccia.

Poggio il mio sul tavolo e prendo il suo per leggere di che si tratta. Il mittente è Mamma <3 e posso già avvertire le budella contrarsi. Quella donna non è semplicemente fastidiosa, non è dispettosa, lei è… l’undicesima piaga d’Egitto. Se Dio l’avesse usata come prima mossa, gli ebrei sarebbero stati liberati dopo mezza giornata. Scorro il testo per poter leggere il messaggio dall’inizio.

Ciao tesoro, ho organizzato due giorni in Sicilia! Solo io e te <3 offro tutto io, preparati che domani mattina partiamo! :D Non dire niente a nessuno, dì a Fiore che abbiamo bisogno di te a casa e io dirò a tuo papà che vengo a stare due giorni da voi. Ci terremo le versioni a vicenda. A lavoro non dire niente, poi quando torni martedì gli mandi il certificato medico.

Le orecchie mi fischiano violentemente. Non percepisco più il sedile della sedia contro cui sono poggiata. La mandibola si irrigidisce e sento un muscolo contrarsi spasmodicamente sotto l’occhio destro.

Tutto si fa nero.

 

“Mio Dio, cos’è stato?!” strilla Pazienza, fiondandosi sui suoi comandi e fermando il tempo.

Le luci della stanza di controllo si sono spente e l’unica fonte di luce è il desktop oltre la scrivania, che dà sull’ultima immagine visualizzata da Fiore. Sembrerebbe un messaggio di testo sullo schermo di un cellulare. Tutto ciò che vi è intorno è sfocato.

Pazienza era impegnata a tenere Fiore calma durante le pulizie casalinghe che si era prefissata di fare quella mattina, rinunciando quindi a leggere il finale di quella storia thriller che attendeva da un po’, quindi non ha ancora letto quel messaggio. Si guarda attorno, ed è lì per terra che trova il suo collega, stramazzato giù dalla poltrona davanti alla scrivania con i comandi.

“Raziocinio!” tenta di soccorrerlo, ma lui resta inerte. È ancora vivo, riesce a sentire il suo respiro flebile. “Cosa è successo…!?” alza lo sguardo sul messaggio: deve essere qualcosa di grave se Fiore ha deciso di mettere a tacere la propria razionalità…

“Oh no…” soffia spalancando gli occhi quando realizza il significato delle parole.

“Oh sì…” risponde una voce melliflua a qualche metro da lei.

Pazienza si volta sconcertata verso il nuovo arrivato. Riconoscerebbe la sua inflessione strascicata tra mille, ma è l’ombra di quel sorriso luminoso che si intravede nel buio che le fa tremare i polsi: Lei è arrivata.

La vede varcare la soglia della coscienza con passo lento, il rumore degli anfibi udibile sul pavimento della stanza, l’espressione estasiata e gli occhi fissi sullo schermo di comando.

“Cosa abbiamo qui…?” scorre velocemente lo sguardo sull’ultimo messaggio letto da Fiore prima di scoppiare a ridere sguaiatamente. “Sì, cazzo! Sono libera, mammina! Grazie!”

Nanashi si avvicina alla poltrona su cui di norma presiede Raziocinio, ancora a meno di un metro da essa. Nota qualcuno accovacciato di fianco a lui: sembra una donna con un outfit castigato e lo sguardo atterrito. La sua visione la disgusta. “Chi cazzo sei tu?” ringhia Nanashi.

L’interpellata alza il mento con una punta d’orgoglio. “Io sono la Pazienza, la virtù d…”

“…degli stronzi. Brava, puoi andartene fuori dai coglioni. Sto io ai comandi, adesso.” ghigna Nanashi con un sorriso di scherno. “Ah, e non dimenticarti di portare fuori la spazzatura.” Accenna con il mento a Raziocinio, accomodandosi sulla poltrona di controllo.

Pazienza boccheggia, stringendo la presa sul braccio di Raziocinio. Si avvicina al suo orecchio sussurrando “Raziocinio, ti prego svegliati… lei è qui… non posso fare niente contro di lei…” il suo collega stringe gli occhi nell’incoscienza. Ancora non riprende i sensi.

“Bene, direi che è il caso di aggiornarmi!” esclama Nanashi, sbattendo le mani aperte sui braccioli della poltrona e sporgendosi verso la pulsantiera della scrivania. “Ah-ah! Eccovi qui, certo le dimensioni dei pulsanti sono un po’ diminuite ma per fortuna certe cose non cambiano mai!”

“Mi hai chiamato?” Ira fa il suo ingresso nella stanza della coscienza, con l’espressione assonnata e i capelli arruffati.

Un’altra persona compare alle sue spalle. “Scusate, pensavo che oggi fossi di riposo. Stiamo scrivendo un capitolo dell’introspettiva? Perché mi avete…?” la domanda di Memoria resta sospesa nel vuoto quando scorge chi è seduta ai posti di comando. Il suo sguardo vaga da Nanashi a Pazienza e Raziocinio ancora per terra e finalmente si posa su Ira, che tiene le labbra strette e lo sguardo fisso sullo schermo con il messaggio di testo.

“Nessun errore. Memoria, Ira... Siete sempre affidabili! Lodevole!” sghignazza Nanashi sfiorandosi il profilo della mandibola con l’indice. “Vedo che il tuo carico è aumentato negli ultimi anni!” accenna alle pesanti valigie che Memoria stringe tra le dita.

Memoria china lo sguardo. “Certi ricordi sono indelebili…”

“Ed è per questo che sei così efficiente! Avvicinatevi.” Ordina Nanashi senza mutare espressione. “Ho bisogno di un piccolo aggiornamento di rancore… datevi la mano e mostratemi con chi abbiamo a che fare.”

Ira resta impassibile, Memoria tentenna, Pazienza trattiene il fiato.

“No, Nanashi, ti prego!” supplica Pazienza, stringendo ancora di più il braccio di Raziocinio. “Non farlo, siamo una persona diversa adesso!”

“Sei ancora qui?” il sorriso si gela sulle labbra sottili di Nanashi quando dirige gli occhi su Pazienza. “Personalmente ho sempre ritenuto che fossi utile solo quando dovevo attendere per trovare un cesso libero o una vendetta lenta. Ma se vuoi presiedere a questa riunione, sta pure a guardare…”

Memoria fa per ribattere ma Ira è più lesta e le afferra la mano replicando gelidamente. “Diamole ciò che vuole. Noi siamo solo strumenti nelle mani del comandante in coscienza.”

Sulla scrivania compare una pila di fogli con tutte le vicende intercorse negli ultimi tre anni tra Fiore e sua suocera. Nanashi unisce le mani con espressione gioiosa. “Finalmente! Dunque…” comincia a sfogliare i documenti leggendo sommariamente cosa si è persa dall’ultima volta che è stata sepolta.

“L’ha chiamata troia prima ancora di conoscerla perché si portava a letto il suo bambino… ahahaha! Ma la troia era lui!” ride convulsamente Nanashi mentre tutti la osservano costernati, ad eccezione di Ira, che rimane inflessibile con lo sguardo fisso sullo schermo. “Oh, ma guarda qui…! Una volta Fiore gli ha preparato il pranzo per il lavoro e lei lo ha rubato dallo zaino del figlio per mangiarselo e poter criticare la cucina della nuora! Ma è solo l’inizio! Quando qualcuno le chiede che lavoro fa Fiore, lei risponde la segretaria. Poi ha insistito per arredare la casa dove sono andati a vivere e controlla i vestiti del figlio per vedere se Fiore li lava per davvero. E non è tutto… ha richiesto al figlio gli estratti conto per vedere quanti soldi spende per la sua fidanzata e… wow! Una volta ha fatto paragoni sui loro corpi mostrandogli…”

“Basta così.” Si impone Memoria con voce ferma.

Nanashi sogghigna, incurante dell’interruzione. “Ho abbastanza materiale. Sembra che abbiamo trovato qualcuno da spezzare… e come avete deciso di affrontare la situazione?” solleva la pila di fogli diretta al finale. “Sii matura, porta rispetto, dille di sì e poi fai quello che vuoi, cambia discorso, tieni le distanze, non insultarla… oddio.” Si ferma per simulare un conato di vomito prima di dirigere lo sguardo sprezzante a Raziocinio e Pazienza. “Siete nauseanti.”

“È reciproco.” Sibila Pazienza.

“Nel senso che vi fate ribrezzo a vicenda? È comprensibile.” Il sorriso di Nanashi non le raggiunge gli occhi ma le snuda i denti.

Pazienza cerca di ribattere ma, ad un cenno della mano di Nanashi, perde totalmente la voce e le sue labbra di muovono mute. Pazienza si porta le mani alla bocca sconvolta.

“Le hai tolto la parola…” sussurra basita Memoria.

Ira stringe gli occhi spostando lo sguardo su Memoria. “È quello che succede quando non stai al tuo posto. Secondo te come ho fatto a resistere così tanto al suo fianco?”

Memoria strattona il polso che Ira le avvinghiava. “Non ti sei mai ribellata perché a te stava bene così.”

Ira non ribatte, continuando a osservare truce Memoria, che si avvicina lentamente a Pazienza e Raziocinio, ancora privo di sensi.

“Ma dov’è…?!” ringhia Nanashi, scrutando la superficie della scrivania con la pulsantiera. “Ricordo che ha sempre fatto schifo ma c’era… c’era… eccola qui! Sempre più piccola ma c’è!” preme un pulsantino e dopo poco un’altra figura entra nella stanza.

“Benvenuta, Inventiva!” bercia Nanashi agitando le mani per aria.

“Io…” dice la ragazzina appena arrivata guardandosi attorno stordita. “Io veramente… adesso mi chiamo Fantasia.”

Tutti osservano silenziosi Fantasia, che si tortura le mani ansiosa.

“Sticazzi non ce li metti?” chiede Nanashi. “Ho bisogno di te. Dobbiamo vendicarci.”

“Ma io…” bofonchia Fantasia, con espressione preoccupata. “Io so inventare cose nuove, divertenti, paurose… ho fatto da poco un lavoro enorme con una storia e mi sento molto stanca e poi… non mi hanno mai chiamato per architettare una vendetta.”

“Non hai fatto altro per anni.” replica Nanashi, ora palesemente scocciata. “Stavi proprio qui alla mia sinistra e Ira alla mia destra.”

“Non ho ricordi di quel tempo… non ho idea di come…”

“Sforzati un po’!” sbotta Nanashi picchiando un pugno sul bracciolo. “Avanti, qualcosa con cui possiamo davvero fare del male a qualcuno fuori dal tuo mondo di unicorni rosa!”

“Forse… forse possiamo tagliarle i freni?” propone incerta Fantasia.

“I freni?” Nanashi è visibilmente infastidita. “Non ti è passato per la mente che sarebbe una cosa stupida da fare? Ci beccherebbero subito, oltre al fatto che statisticamente nella realtà non funziona quasi mai: le persone si accorgono quasi immediatamente che i freni non funzionano e alla peggio fanno un tamponamento nel parcheggio sotto casa.”

“Forse… un potente lassativo nella cena?” ritenta Fantasia, sentendo su di sé la forte pressione dello sguardo di Nanashi. “Oppure… un graffio sulla fiancata…?”

“Ti hanno tirato fuori da un episodio dei Teletubbies?!” esplode Nanashi artigliando i braccioli della poltrona, causando uno scossone alla stanza e facendo sussultare Fantasia. Con la scusa, Memoria si fa più vicina a Pazienza e si inginocchia di fianco a lei e a Raziocinio. “Alza il livello, dannazione!”

Fantasia annuisce scoordinatamente. “Sì… sì… le… le facciamo perdere il lavoro. Facciamo una soffiata alla banca presso cui ha il mutuo, le facciamo scadere le cartelle esattoriali, le mettiamo acqua nell’aspirazione del motore, o il diesel nella benzina il giorno in cui partono per l’aeroporto, le…!”

“Adesso sì che ci siamo!” esordisce con macabra gioia Nanashi, stringendo un pugno per aria. “Addirittura problemi con la legge!? Da quando abbiamo queste skills?!” ruota la poltrona per tornare a vedere la nuova scrivania. “Ohoho questa qui sembra potentissima! Cos’è? Ispezione fiscale e riciclaggio di denaro?”

“Sono tutte azioni che vanno nel penale.” Borbotta Ira.

“Grazie al cazzo, l’avevo capito…” dice a denti stretti Nanashi senza degnarla di uno sguardo.

Ira storce il naso con rabbia. “Intendevo dire che bisogna portare un sacco di pazienza e non dà immediata soddisfazione. Possono volerci anni. A me non piace. Deve essere qualcosa di immediato ed efficace.”

Nanashi sbuffa. “Addirittura anni… bah, poteri elevati ma nessuno che possa essere usato a dovere. Alla fine le vecchie maniere rimangono le migliori.”

Nel trambusto della conversazione accesa, Memoria ha sussurrato qualcosa nell’orecchio di Pazienza ma nessuno ha prestato loro attenzione. “Tu vai, resto io con Raziocinio…”

Pazienza guarda Memoria con risolutezza, poi annuisce e striscia via senza farsi notare.

“Allora potremmo rispolverare la rubrica in cerca di qualcuno che possa fare al caso nostro!” riflette Nanashi, picchiettandosi il mento con un dito.

“Da quando si è trasferita ha chiuso i ponti con tutti.” replica Ira.

“Mmm… che palle.” Sospira Nanashi. “Allora, stiamo parlando di una persona che ha qualcosa da perdere. Ha un figlio, un marito, un lavoro, una casa e un’auto.”

La flebile voce di Fantasia attira l’attenzione dei presenti. “Noi abbiamo il figlio… potremmo…”

“Il figlio… lui la ama, giusto?” Nanashi si raddrizza sulla sedia, fulminando Memoria che resta in silenzio. “Ho detto giusto?”

“Giusto.” Risponde freddamente Memoria.

“Fra lei e mamma chi sceglierebbe?” continua Nanashi con tono indagatore.

Memoria prende un respiro. “Lei.”

Nanashi sogghigna. “Allora gran parte dell’opera è già compiuta. Le toglieremo quello a cui tiene di più e dovrà per forza venire a supplicarci in ginocchio per riaverlo… ma non lo riavrà perché…”

“Che cosa succede?!”

La voce tonante della Coscienza interrompe la riunione. Alcune delle luci che parevano fulminate si accendono e una lieve luminosità torna nella stanza. Raziocinio emette un lamento e comincia a destarsi.

Una vecchia arcigna con un vestito grigio, le ciabatte sbattacchianti e con in bocca un bocchino con sigaretta accesa all’apice fa il suo ingresso con le mani sui fianchi. “Che cazzo ci fai, tu, ai comandi?!” bercia furiosa.

Nanashi ringhia piena di rancore. “Che cazzo ci fai tu, qui, vecchia di merda?!”

“Pensavo di essere stata chiara con te, l’ultima volta. Questo ruolo non ti compete più.” Si impunta Coscienza, cominciando una gara di sguardi truce che porta Nanashi ad alzarsi per fronteggiarla, poiché nessuno la può guardare dall’alto in basso.

“Non sei nessuno per dirmi quello che mi compete o meno.”

Con un guizzo dello sguardo Nanashi scorge Pazienza, che tenta di rientrare nella stanza senza essere notata. “L’hai chiamata tu, brutta inetta. Aspetta che abbia sistemato questa vecchia e vedrai dove ti relegherò…”

“Non le farai proprio niente. È ora di tornare a dormire, Senza Nome!” continua la vecchia con la sigaretta, decisa.

“Sei rimasta indietro, carampana. Lei mi ha chiamato Nanashi, ora ho un nome anche io.” Sghignazza Nanashi.

“Tecnicamente…” borbotta Memoria. “Nanashi vuol dire Senza Nome…”

“Chi cazzo ti ha chiesto niente? Fa silenzio.” Ringhia Nanashi, tentando di togliere la parola a Memoria, ma Coscienza le ferma la mano.

“Non toglierai la parola a nessuno davanti a me. Basta repressione.”

Nanashi si divincola e si libera con stizza della sua stretta. Pazienza riprende fiato con sollievo, sentendo che la capacità di parlare le è stata restituita.

Coscienza si guarda attorno prima di chiedere. “Cosa è successo di prima mattina?! Possibile che qui non si possa mai riposare? E tu…” osserva Fantasia con stupore. “Tu eri… non ricordo chi cazzo eri, ma se sei qui insieme a Memoria e Ira, di certo lei stava organizzando qualcosa.”

Nanashi ghigna passandosi una mano tra i capelli e inclinando il capo di lato. “Non preferiresti lasciare il lavoro alla gioventù e tornare a ronfare su quella tua sedia a dondolo? Ti prometto che sarai sempre nei nostri pensieri. Se vuoi ti lascio anche i paggi da compagnia.” Accenna con lo sguardo a Pazienza, che sta aiutando Raziocinio ad alzarsi.

“Tante parole ma non rispondi mai alle domande.” Risponde freddamente Coscienza. “Ti ho chiesto cos’è successo. Cosa ti ha fatto tornare?”

Nanashi scrolla le spalle. “Se proprio ci tieni…” le avvolge un braccio attorno alle spalle, conducendola di fronte allo schermo con il messaggio della suocera di Fiore. “Leggi pure.”

Coscienza legge velocemente e la fronte le si aggrotta man mano che procede. Le labbra hanno un tremito e la cenere della sigaretta cade a terra, a pochi centimetri di distanza dagli anfibi di Nanashi, che storce la bocca in disgusto senza essere vista dalla diretta interessata.

“Contenta, vecchia ciabatta?” si pone di fronte a Coscienza, sorridendo estatica. “Come puoi vedere, sono stata convocata a buona ragione. È un dato di fatto che nessuno di voi sarebbe in grado di gestire a dovere questa situazione… altrimenti lo avreste già fatto negli anni passati.” Indica la pila di fogli sulla scrivania.

La bocca di Coscienza trema. Perfino lei è rimasta senza parole.

“Ed ora… ora che nemmeno tu hai qualcosa con cui ribattere…” Nanashi sembra farsi più imponente mentre le luci perdono d’intensità. “Adesso è il momento di farsi da parte, vecchia ciminiera.”

“Lui cosa vuole fare…?”

Tutti si voltano verso chi ha parlato: Raziocinio. È ancora instabile sulle gambe e sembra sudare freddo, ma Pazienza lo sorregge.

La vecchia Coscienza si rianima. “Stavi meditando vendetta prima ancora di sapere cosa lui avesse intenzione di fare?!”

Nanashi digrigna i denti fissando Raziocinio con odio. Lui sostiene lo sguardo con atavico timore ma forte coraggio.

“Prima dobbiamo chiedergli cosa intende fare.” Esala a sforzo Raziocinio. “Se vuole andare con la madre oppure restare con noi… se ci ha mostrato il messaggio, allora è probabile che non volesse…”

“Tu e il tuo merdoso relativismo… se, forse, allora, ma…” Nanashi gli si impone di fronte, sibilandogli a qualche centimetro dal viso mentre l’altro tenta di indietreggiare e va a sbattere contro alla collega Pazienza e alla scrivania. “Guarda a quali umiliazioni ci hanno condotto i tuoi farneticamenti. Farci sminuire e prendere per il culo da una cretina qualsiasi!”

Nanashi si volta e guarda tutti i presenti. “È ora di rivelare la nostra vera faccia e farla pentire duramente di ciò che ci ha fatto.”

“La nostra faccia? O la tua?” chiede Coscienza facendo un tiro dalla sigaretta.

Nanashi fissa Ira nella speranza di ricevere manforte, ma Ira tiene lo sguardo fisso sullo schermo in silenzio.

“D’accordo…” ridacchia istericamente Nanashi. “Allora sentiamo cosa ha da dire il pollo. Però sappiate bene che…” stringe l’espressione in una smorfia di odio. “Se ho ragione io, si farà a modo mio.”

Raziocinio fa per ribattere ma Nanashi è più veloce e ha già picchiato con violenza sul pulsante che fa ripartire il tempo.

 

Alzo gli occhi dallo schermo del suo telefono. Non so perché stia guardando quel povero cristo che sta insieme a me con uno sguardo colmo di odio. Non odio lui, odio sua madre.

Esiste una parola per uccidere la moglie, una per uccidere il padre, la madre… ma che parola si usa per chi vuole far fuori la suocera? In latino è Mater in Lege… materinlegicidio? Se non esiste, la inventerò io.

“Cosa hai deciso?”

“Che?” mi chiede grattandosi la barba con fare noncurante.

“Che cazzo hai deciso di fare?” ringhio tentando di controllare il mio furore.

“Niente, perché? Adesso le dico che mi ha rotto i coglioni e che non ci vado. Ma figurati se mi devo mettere in merda con la compagna e il lavoro perché lei ha voglia di una vacanza con me… che poi che cazzo vorrà da me…” riprende il telefono dalle mie mani e se lo mette in tasca. “Cosa stai preparando? C’è un buon profumo!”

 

 

Le luci tornano con forza nella stanza della coscienza, abbagliando Nanashi che si piega in avanti tentando di fermare il tempo ancora una volta, ma la vecchia Coscienza le ferma la mano ancora una volta.

Lei fa per strattonarla via ma si rende conto troppo tardi di non avere più forza e il suo tentativo di divincolamento non sembra molto differente da quello di un verme sull’amo.

“Dannati bravi ragazzi del cazzo!” sibila furiosa.

“È ora di tornare a dormire, Senza Nome.” Dice freddamente la vecchia.

“Tornerò, lo sai che…” Nanashi cade a terra.

Fantasia tira un sospiro di sollievo. “Beh, io vado, eh…”

“Vado anche io. Per oggi non intendo lavorare più.” Memoria raccoglie i propri ricordi e si allontana celere insieme a Fantasia.

Ira scuote la testa. Sembra delusa. “Io resterò ancora un po’ qui, nei paraggi, per qualche ora. Non si sa mai che possa cambiare idea.” Poi si va a mettere in un angolo in attesa di qualcosa che possa ridestare il suo interesse.

Pazienza abbraccia Raziocinio, che ancora si sta riprendendo dal brutto colpo di poco prima. “Ce l’abbiamo fatta… stavolta l’abbiamo scampata per un pelo…”

“Bene!” esclama la vecchia con la sigaretta. “Io sistemo questa qui e poi torno a sonnecchiare.” indica Nanashi che giace priva di sensi davanti alla scrivania, poi a dispetto del suo aspetto esile, se la carica in spalla e si incammina verso l’uscita.

“Coscienza, per favore… non metterla nell’inconscio come l’ultima volta: ci ha fatto avere gli incubi per settimane.”

“Oh senti, hai un’idea migliore su dove piazzarla?” sbotta la vecchia, scorbutica.

“Io… sì.” Si intromette cautamente Pazienza. “Che ne pensate di metterla su quel nervo scoperto che salta ogni volta che incontriamo un maschilista?”

“Mmm.” Commenta con un grugnito Coscienza. “Effettivamente, con quelli non serve essere razionali.”

Raziocinio scuote la testa e si rimette alla poltrona, ancora un po’ stordito. “Direi che per oggi ci siamo giocati la quiete… sarà il caso di dare a Fiore un po’ di gratificazione prima che sbrani il fidanzato al primo pelo storto.” Il suo sguardo vaga per la stanza, dove ancora si trovano Ira e Pazienza. Si rivolge a quest’ultima con un sussurro. “Resta qui per cortesia, non mi fido di quella lì…” accenna a Ira che si sta guardando le scarpe con espressione dubbiosa.

“Ma certo.” Risponde Pazienza con un sorriso.

“E adesso la gratificazione… dov’è il bisogno di nicotina? Eccolo qui.” Raziocinio preme il pulsante con l’immagine della sigaretta.

 

“Amore, tutto bene?” mi chiede il mio compagno con aria turbata. “Hai fissato il vuoto con occhi vitrei per tre minuti abbondanti…”

“Sì.” Borbotto.

“Sicura?”

“Ho detto sì. Vado a fumare. A dopo.”

“Vabbè…”

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