So won't you fall for me? | {Bakudeku}

di pansygun
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Intro ***
Capitolo 2: *** Appearance ***
Capitolo 3: *** Heavy duty ***
Capitolo 4: *** Opening ***
Capitolo 5: *** Slice of... ***
Capitolo 6: *** Pancakes and popcorn ***
Capitolo 7: *** Tsurai - Painful ⚠️ ***
Capitolo 8: *** We keep colliding losing hope ***
Capitolo 9: *** I try to figure out how to make it right ⚠️ ***
Capitolo 10: *** ...healin' my heart's confusion ⚠️ ***
Capitolo 11: *** You’ll make me better than I've ever been ***
Capitolo 12: *** Mamihlapinatapai ***
Capitolo 13: *** I cannot fix your wounds this time ***
Capitolo 14: *** I hate that it seems I am never enough ***
Capitolo 15: *** Thanatophobia* ***
Capitolo 16: *** The version of you in my head wasn’t true ***
Capitolo 17: *** I don't hate that I need you ⚠️ ***
Capitolo 18: *** You are the cure for all my scars ***
Capitolo 19: *** A new, but familiar taste I ⚠️ ***
Capitolo 20: *** A new, but familiar taste II ⚠️ ***
Capitolo 21: *** ...and goodbye for now | outro ***



Capitolo 1
*** Intro ***


Oh, girasole, affaticato dal tempo!
Tu che conti i passi del sole,
bramando anche tu quel luogo dorato
in cui il pellegrino conclude il suo viaggio.
~ William Blake ~
 

Le apparenze ingannano.

Sembrerebbe una frase fatta, ma se si dovesse guardare a Midoriya, forse sarebbe tutto tranne che un modo di dire.

Gentilezza e forza d'animo. Verrebbe in mente questo a vederlo, giusto?
Così come verrebbe da stringergli quelle guanciotte morbide e piene di efelidi che si sollevano ogni volta che sorride.

È sempre stato un ragazzino carino, Izuku. Glielo ripeteva sua madre ogni volta che qualcosa andava male, così, per farlo sorridere. Ma lui non ci credeva molto, perché le mamme sono sempre di parte.
Lui si riteneva troppo fragile da essere preso in considerazione all'inizio, poi troppo determinato nel salvare il mondo.

Solo una volta scampata la tragedia e il tracollo della società, i giapponesi lo videro per ciò che si mostrava: un eroe capace, di bella presenza e con lo stesso sorriso rassicurante di All Might.

Fu lì che anche Izuku capì di essere carino. O molto più che carino.
Ci volle la confessione di Uraraka, ubriaca, alla fine del loro secondo anno scolastico. Ci volle il suo sguardo lacrimoso e il suo bacio salato per convincerlo, in realtà.

Ma, sapete? Verrebbe anche di riempire quel suo bel faccino di sberle se solo si sapesse di che pasta è fatto in realtà.

Perché Midoriya Izuku, l'acclamato giovane eroe Deku, usa il sorriso dolce e i modi premurosi e garbati per nascondere quella parte di sé più torbida e calda, quella che mostra a piccole dosi e solo nel privato, ben attento a non lasciar passare nulla.

Quella parte che neppure ai suoi più cari amici aveva dato il permesso di vedere.

Uraraka era stata un pretesto. Forse l'aveva addirittura premeditato nei pochi mesi in cui erano stati assieme: il primo bacio, la prima volta.
Ad occhi esterni poteva sembrare tutto perfetto, la degna conclusione di un percorso di ammirazione ed affetto reciproci. Eppure, il ragazzo aveva scoperto che la giovane età fa brutti scherzi e che a volte le voglie sono dei mostri curiosi che ti divorano da dentro, ti consumano fino a quando non ti decidi ad alimentarli.

Così era successo per Izuku, la cui curiosità l'aveva spinto a lasciare la dolcezza della sua innamorata storica per concedersi esperienza di cose totalmente differenti.
Come la brace ardente che cova la fiamma al di sotto della cenere, così Izuku covava in sé il fuoco della gioventù e la smania di provare azioni sempre nuove e sempre forti.

All'età di ventidue anni, ormai sul podio della classifica nazionale, mentre tutti lo ritenevano persona retta e onesta, lui all'attivo aveva decine o forse centinaia di frequentazioni estemporanee al di fuori della sua cerchia di conoscenti stretti, collezionate solo per edonismo, per il proprio piacere personale, per l'autocompiacimento di sentirsi apprezzato e desiderato.

Nel suo essere sempre sotto i riflettori, costantemente perfetto come simbolo di pace, il sesso era diventato la sua valvola di sfogo, un modo per riconnettersi con la parte più umana di sé, quella primitiva, quella che non aveva bisogno di elogi, di titoli altisonanti, di copertine di tabloid o di conti in banca stellari. Quella che poteva essere anche crudele, a volte.

Era amato, richiesto, e gli piaceva esserlo. In un certo senso era affamato di affetto, perché l'altro lato di quella scintillante medaglia era una terribile solitudine, senza recriminazioni da parte sua, senza un vero rifiuto di quella condizione, dovuta al suo essere comunque un po' temuto.

Ci aveva lavorato molto, ma alla fine l'aveva accettata e fatta propria.
Perché tolta la tuta e il mantello dello sfavillante paladino, era solo Izuku, nudo di fronte allo specchio o alle persone a cui aveva deciso di concedersi.

Di solito erano eroi come lui, che preferivano la discrezione di un collega fidato a un civile in cerca solo di fama riflessa.

Non gli importava che avessero sembianze di maschi o femmine o qualsiasi altra strana creatura presente in quella società di persone straordinarie.
Non gli interessava, se l'altra persona gli permetteva di sfogarsi per un'ora o due o per metà del suo giorno libero o durante una trasferta oltreoceano.

S'era dato l'unica regola di lasciare stare i suoi vecchi compagni di classe. E l'aveva sempre mantenuta.

Almeno fino alla loro ultima rimpatriata di classe, un mese prima del suo ventitreesimo compleanno.
 

- - -

Perché i girasoli in copertina e la poesia iniziale?
Perché si rifanno al mito di Clizia e di Apollo.

Clizia era una ninfa innamorata di Apollo: quando si accorse che il dio la trascurava per recarsi da Leucòtoe, figlia di Orcamo, gelosa della fanciulla, decise di rivelare al padre l'unione di sua figlia con il dio del Sole, e questo la fece seppellire viva.

Apollo, però, perduta l'amata Leucòtoe, non volle più vedere Clizia, la quale, perciò, cominciò a deperire, rifiutando di nutrirsi e bevendo solamente le sue lacrime.

La ninfa trascorse il resto dei suoi giorni seduta a terra ad osservare il dio che conduceva il carro del Sole in cielo senza rivolgerle neppure uno sguardo, finché, consumata dall'amore, si trasformò in un fiore, che cambia inclinazione durante il giorno secondo lo spostamento dell'astro nel cielo.

Grazie a questo mito i girasoli sono diventati simbolo di ossessione e di amore non corrisposto.

Sunflower boy 🌻

Sunflower boy 🌻

 

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Capitolo 2
*** Appearance ***


Appearance


Ti avrei seguito
in capo al mondo
come un folle girasole,
che vuole baciare il Sole.
~ Carolina Montuori ~

15 giugno

Smack!
«A presto Izuku-chan!».

«Uh! A presto!».

Le labbra di Ochako erano morbide come le ricordava e i baci che lei gli dava sulle guance gli erano sempre piaciuti un sacco.

«Midoriya...». La voce profonda di Shoto lo ridestò dal breve momento di trance in cui era piombato nell'osservare il volto sorridente di Uraraka che passava ad abbracciare i suoi ex compagni di classe prima di andarsene.

Tese una mano al ragazzo, dall'altro lato del tavolo, impossibilitato ad alzarsi per salutarlo meglio. «Todoroki-kun! A presto!», biascicò.

«Io resto qui ancora un po'. – si sbracciò Sero, in direzione di Shoto – Non aspettarmi, amore!».
Izuku trasalì e sgranò gli occhi, sporgendosi verso Hanta, che aveva un sorriso ebete stampato in faccia. «Amore?».

Quella cena si stava rivelando interessante: era stato lontano da casa più di un anno e, da quando era tornato in Giappone, quella era stata l'unica occasione che aveva avuto per rivedere i suoi vecchi amici.

«Oh! Non te l'ha detto? Stiamo insieme!», biascicò Sero, alzando il bicchiere a simulare un brindisi a distanza che prontamente Izuku emulò con un velo di tristezza sul volto.

«No. Non me l'ha detto.». Con Shoto aveva perso i contatti già dopo un paio di mesi che stava in Russia. Aveva girato mezza Europa prima di finire in America, dividendosi tra la vecchia agenzia di Cathleen Bate, il Pentagono e il letto di Melissa Shield.

Sero gli regalò un sorriso rassicurante: «Gli sei mancato. Non voleva disturbarti perché sapeva che eri sotto copertura.».
Forse allora era per quello che tutti, a poco a poco, s'erano fatti sentire sempre di meno nell'ultimo periodo. Forse la NCNS (New Commission for the National Safety) aveva diramato una nota informativa alle agenzie degli eroi del paese. O almeno quella gli sembrava l'unica spiegazione plausibile a tutto quel ghosting da parte dei suoi amici.

Izuku annuì e mugugnò, osservando Shoto tenere la porta aperta ad Uraraka e a salutare tutti con un misurato gesto della mano.

«Credevo se la facesse con Uraraka... Era tutta la sera che stavano lì a parlottare...», gli rotolò fuori dalle labbra, prima di posarle sul bicchiere di birra e bere una lunga sorsata.

«Oh, no! – rise Sero, a voce un po' troppo alta – Sho' ha dei problemi con Dabi!».

Izuku quasi si soffocò con la birra, sbiancando: «Da-Dabi?».

«Il gatto.», intervenne Kirishima di fronte a lui, forse per fermarlo da un mezzo infarto. «Shoto ha preso un gatto e l'ha chiamato Dabi – Eijiro lo guardò negli occhi e abbozzò un sorriso – Sai che ha uno strano senso dell'umorismo, vero?».

«Seh...».

«E Ochako-chan ha preso Furr-ball. Il gemellino di Dabi. – fece Jirō, arrotolandosi sul dito una ciocca di capelli con fare distratto, le guance un po' più rosse del solito – Si scambiano foto e consigli... Cercano su internet cose... Bah!», e la ragazza prese un generoso sorso di birra per mandare giù le patatine fredde che s'era cacciata in bocca appena finito di parlare.

«Uh! Beh... Mi sono perso un po' di cose...».

«Midobro! - Kaminari, seduto di fianco a lui, gli posò un braccio attorno al collo – Non ti preoccupare! Adesso avrai tuuutto il tempo di recuper-», ma si bloccò, tastandogli le spalle ed emettendo un fischio fastidioso di approvazione. «Cazzo! Ma quanto sei diventato grosso!».

«Non ne hai idea.».

«Cosa?».

Una risatina lasciò le labbra di Izuku, le guance imporporate più per l'alcol che per l'imbarazzo. «Mi alleno Denki. Tu non lo fai?».

«Cazzo sì! Ma questa è tutta massa! – si rivolse a Kirishima, intento a scrivere al cellulare – Oi! Bro! Mi sa che Deku-kun vuole diventare piu grosso di te!» e rise, allegretto per l'alcol e la compagnia.

Quello fu il pretesto per Eijiro di distogliere lo sguardo dal telefono e farlo scorrere sulla maglietta bianca attillata che fasciava il torace di Midoriya in maniera impeccabile.

«Bro! Cazzo! Ma quanto stacchi col bilanciere?».

Ridacchiò: in fondo, neppure Kirishima era cambiato tanto. «Non ho ancora inserito i pesi nell'allenamento. – si toccò la spalla sinistra con una mano – Credo sia tutto merito degli handstand push up che mi hanno insegnato i marines...».

«Ma vaffanculo tu e i marines! Quando cazzo sei tornato?».

Izuku sussultò a quella voce graffiata e voltò la testa verso Bakugō, in piedi accanto al tavolo, con la sua solita espressione accigliata e le mani cacciate nelle tasche della tuta nera.

Izuku notò i capelli umidi e scompigliati, che seminavano ancora piccole goccioline sulla maglia arancione del ragazzo. Il suo pensiero, per un breve momento, andò ai tempi della scuola, in cui gli capitava spesso di allenarsi con lui e lo stomaco gli si attorcigliò per un istante, in una sensazione tanto piacevole quanto dolorosa.

«ECCOLOOOO!», urlò Hanta, alzando il bicchiere con foga, rischiando di lavare Kaminari con la birra.

Gli occhi cremisi di Bakugō non si staccarono dal viso di Midoriya, fissandolo con circospezione, quasi temesse che non fosse lui. Un impostore, magari.

«Ciao Kacchan.».

Il loro era un gioco di sguardi. Avrebbero potuto fare anche a braccio di ferro, ma forse sarebbe stato meno divertente.

Izuku assottigliò lo sguardo, stupito di vederlo lì a quell'ora tarda: «Finalmente hai tolto la notifica "è ora di andare a dormire" dal tuo telefono!», sputò fuori, arrotolando sulla lingua alcune consonanti, inclinando la testa per osservare la reazione alla sua provocazione.

«Tsk! E tu? Hai ancora il promemoria per la cagata delle sette del mattino?». Touchè.

Izuku scrollò le spalle e rilasciò mezza risatina, mentre si faceva un po' da parte per far accomodare l'amico accanto a lui.

Katsuki posò a terra la sacca da palestra e si sedette con poca grazia accanto all'amico di una vita, sbadigliando sonoramente, prima di osservarlo ancora di sottecchi: «Quando?».

Izuku ispirò a fondo il profumo leggero di sapone e «Qualche giorno fa. Ho voluto stare un po' con mamma.», ma quella spiegazione pacata sembrava averlo infastidito parecchio.

Katsuki catalizzò l'attenzione degli altri per un momento, in cui gli chiedevano come fosse andata la giornata, com'era stato l'allenamento o quanto fosse durato quel palloso meeting del giorno prima.

Izuku si poggiò allo schienale e li osservò tutti, la bocca tirata in una smorfia piatta, nel profondo del suo cuore un po' contrariato per non avere più tutti gli occhi su di sé. Ma forse andava bene così.

«Non ti a-azzardare a bere acqua!». Hanta biascicava e barcollava più di prima, mentre si offriva di andare a prendere l'analcolico per Bakugō.

Izuku trovò conforto anche in quello: il fatto che il suo amico d'infanzia fosse rimasto lo stesso scorbutico di sempre, nonostante la loro lontananza.

Sussultò però quando Sero battè un bicchiere colmo di un liquido rosato proprio davanti a Katsuki: «Tu e il tuo stupido analcolico!», borbottò, prima di tornare a sedersi.

Sembrava contento quando bisbigliò qualcosa riguardante la bibita di Bakugō e la vodka, facendo un occhiolino d'intesa a Kaminari, ma Izuku non ci diede troppo peso.

«Analcolico?».

«Lui non beve.».

«Esatto.».

«Da quando?».

«Deku ma sei scemo? Da una vita! – prese una lunga sorsata da quella specie di brodaglia alla frutta che aveva davanti – Il mio corpo è un tempio, cazzo!».

«Calmati, Kacchan. Ho solo chiesto, non me lo ricordavo!».

«Quando mai mi hai visto ubriaco, ah?».

Izuku frugò nella sua mente già annebbiata dall'alcol alla ricerca di un ricordo, ma non lo trovò.

«E quella volta all'ultimo anno?».

«Lì era ubriaco di sonno! Poveretto! L'abbiamo costretto a fare after!», ne rise Kirishima, prima di beccarsi una pedata da sotto al tavolo dal diretto interessato.

«Finiscila, capelli di merda!».

«Uuuuh! Raga! – Kaminari sembrò illuminarsi, gesticolando forte con le mani – Vi ricordate quella sera? Abbiamo giocato a "hai mai"! Che ridere!».

Jirō sbottò verso il biondino che aveva di fronte: «Che ridere un par di palle! Eri il più sobrio di tutti! Pure di Bakugō!».

«Oi!».

Izuku ci riflettè: «Ho un ricordo vago di quella sera...».

Tutti trasalirono quando Hanta battè con forza le mani sul tavolo: «Rifacciamolo! Dai!».

Inutile dire che il neurone condiviso tra Sero, Denki ed Eijiro permise a questi ultimi di approvare la proposta di Hanta senza batter ciglio.

«Io vi ho detto che non faccio questi giochetti merdosi.», borbottò Katsuki, alzandosi dal tavolo, ma venendo prontamente rimesso a sedere da Kaminari, allungatosi quasi del tutto contro Izuku per bloccare la fuga dell'amico esplosivo: «No! stavolta giochi! – un ghigno gli si formò sulle labbra – O sei un cagasotto?».

«Ti faccio esplodere se mi chiami ancora così, fulminato!», gli ringhiò contro Bakugō a un paio di centimetri dalla sua faccia. E da quella di Izuku, che stava osservando la scena cercando si diventare un tutt'uno con lo schienale della panca per non farsi coinvolgere da quel battibecco.

La vocina stridula di Jirō li bloccò dal mettersi a sbraitare nel privè del locale: «Smettetela voi due trogloditi!».

La ragazza rabbrividì allo sguardo che le lanciò Bakugō subito dopo che ebbe parlato e si ritrovò a deglutire per scaricare la tensione. «E che cazzo ci fa una femmina qui, ah? Le signorine per bene vanno a casa presto, non lo sai?».

Kaminari fece per aprire bocca e difendere la sua ragazza, che però sapeva ben tenere testa a quel ragazzaccio maleducato, puntandogli il dito contro e alzandosi da tavola per dare enfasi alle sue parole: «Sentimi bene, stronzetto ho visto forse più patata io di voi cinque messi assieme!».

A quella frase Izuku non si trattenne e scoppiò in una risata un po' liberatoria, forse spinta dall'alcol, dalla frustrazione di aver passato con sua madre gli ultimi due giorni o, più semplicemente, per la stanchezza di dover tenere sempre tutto per sé.

«Non credo proprio!», esalò, tirando via una lacrima con la nocca della mano destra, urtando col gomito involontariamente Bakugō.
Tutti lo guardarono, un misto di curiosità e preoccupazione negli occhi.

«A-ah! Io lo sapevo che il piccolo dolce Deku avrebbe riservato sorprese!», Hanta era su di giri, forse non solo per l'alcol.

Izuku non abbassò la testa, né arrossì, come tutti erano abituati a vederlo fare.
Il timido, dolce Deku.
Quella era solo una maschera dorata.
La verità era ch-

«Hai mai fatto una cosa a tre?». Gli occhi di Kaminari luccicavano per un mix di alcol, sonno e curiosità e si stava sporgendo un po' troppo verso di lui.

«Ah stiamo giocando?», chiese e Kaminari annuì, eccitato dal sapere la risposta.

Izuku sollevò il bicchiere, mimò un brindisi solo per creare un po' di suspense e poi lo posò di nuovo sul tavolo. Un coro di "oooh" si sollevarono dal tavolo e lui vide Sero e Kirishima bere con sguardo afflitto.
Anche quattro. Ma quel pensiero lo tenne per sé.

«Con chi? Due uomini? Due donne? Misto?», Jirō era appoggiata con i gomiti sul tavolo e la testa tra le mani, lo sguardo sognante tutto rivolto a Deku, che con un'alzata di spalle glissò la domanda: «Se vuoi giocare la domanda la dovresti fare per bene, non credi, Jirō-chan?», il tono mellifluo e gli occhi verdi assottigliati le misero un brivido. Accattivante, fu il pensiero che le sfiorò il cervello inebetito dall'alcol. Quel sorrisino di Izuku era maledettamente accattivante e le guance le si scaldarono immediatamente all'idea che quel ragazzo non fosse più come ricordava e che in realtà ci sapesse fare molto bene.

Non che lei è Kaminari fossero dei santi, ma l'idea la stuzzicò talmente tanto che provò a lanciare un'occhiata al fidanzato, che lui, ovviamente, non colse, lasciandola frustrata, con le gambe accavallate a strusciarsi le une sulle altre sotto il tavolo.

«Ok. Kyoka-chan ti sei bruciata il turno, tocca a me! – Kirishima prese fiato prima di porre la sua domanda - Hai mai subito un infortunio in camera da letto?» e bevve un sorso di birra.
«Ma che cazzo di domanda è?».

«Kiribro è partito.».

«Mai stato a posto, secondo me».

«Il mignolino sullo spigolo del comodino vale?».

Izuku ridacchiò: «Ci sta invece. Metti caso, che ne so, Denki che mentre viene fulmina Jirō!».

I due fidanzati lo guardarono bere con calma. La ragazza fece per portare alle labbra il bicchiere ma fu fermata da Hanta: «Guarda che vale anche se subisci, cocca!» e lei arrossì, abbassando lo sguardo.

«Dio se siete stronzi voi tre! Deku lo perdono, ma voi tre... Appena sono sobria le prrrendete!».

Katsuki tossicchiò, la voce impastata come se avesse bevuto birra pure lui per tutta la sera: «Da sobria non ricorderesti un cazzo, Kyoka-san.»

Tutti si voltarono verso di lui, che tentava di tirare su con la cannuccia l'ultima goccia di bibita fruttata con sguardo perso e guance arrossate.

«Bakubro! Vuoi aspirare pure il vetro?».

«Continuate a fare domande assurdamente idiote!»

«Serobro chiedi un altro giro. Uguale-uguale!».

Izuku, anche se aveva ancora il bicchiere mezzo pieno, era già con la mano sul portafoglio, ma venne fermato da Denki: «Offro io!», e lo vide alzarsi con fatica assieme ad Hanta per andare a ordinare.
 

•••


«Vai vai! Ultima e poi nanna!»
Stavolta quello su di giri era proprio il timido Deku, forse il più sobrio a quel tavolo.

«Sei un pervertito Deku!».

«No! - alzò un dito - Io sono solo un ragazzo di ventidue anni, sano e con una sana libido!».

«Sana libido non è caricarsi a molla con il Fa Jin per durare una giornata intera!», sbottó Kaminari incrociando le braccia al petto e bevendo l'ennesimo sorso di birra.

«Amore smettila! Sei solo invidioso! - biascicò Jirō distendendosi con i gomiti lungo il tavolo, sorreggendosi le guance con le mani e sfarfallando gli occhi verso Izuku - Ripetimi quanto sei durato scusa?».

«JIRŌ!» piagnucoló Denki, strappandole un sorriso e un mugolio.

«Aaawww! Ma piccolo! Daiiiiiiiii! Dimmi che non vorresti provare!».

«A me non chiedete mai di provare...».

«Kiri tu sei gay.».

«Ma divento duro. Taaanto duro! Vuoi provare?».

«Rispondigli tu Denks ora!», lo perculó Hanta, mentre continuava a ridere fino ad avere male alle mascelle.

«Io vorrei vivere Bro...».

Poi udirono un tonfo: Bakugō aveva battuto la testa contro il tavolo e sembrava crollato per il sonno, ma continuava a biascicare parole senza senso.

Izuku si sporse verso di lui, il profumo tenue del sapone si mescolava al dolciastro del caramello e provó a fare forza e sollevarlo, ma sembrava fosse solo un peso morto.
«Kacchan? Stai bene?», ma le sue guance rosse e gli occhi liquidi erano sintomi inequivocabili di malessere.

«Perché mi sono imbarcato in questa cosa con voi idioti?», biascicò con fatica, lanciando un'occhiata di sbieco a Deku, prima di crollare con la testa contro la sua spalla e mugugnare qualcos'altro relativo ad allenamento e lavoro che Izuku non colse.

Istintivamente gli posò la guancia sulla fronte umida di sudore e lo sentì bollente. «Kacchan! Ma tu hai la febbre!»

«È solo sbronzo.», se ne uscì Hanta, pacato, con quel suo sorrisetto strafottente sul volto.

«Ma se... - Izuku afferrò il bicchiere vuoto di Katsuki e lo annusò - Ma ci hai fatto mettere del liquore?».

«Vidka.», confessó Kaminari.

«Vodka?».

«Vid-hic!».

«È sempre una tale pigna in culo a queste serate! Abbiamo movimentato un po'...».

Kirishima sbuffò e lanciò un'occhiata di rimprovero all'amico: «Sero... dai! Potevi evitare no? Almeno stasera che era tornato pure Deku, no?»

Izuku era su quel confine sottile tra il ridere a crepapelle e l'incazzarsi tanto da dover urlare tutta la sua rabbia.
Come potevano trattarlo così quelli che si definivano come suoi migliori amici?

«Non sono una pigna!», provó a sbraitare Katsuki, tirandosi di nuovo a sedere con fatica, massaggiandosi gli occhi arrossati per recuperare un po' di lucidità. «Vi divertite solo se fate questi giochetti del cavolo e se vi comportate da idioti!».

Jirō roteò gli occhi e gonfió le sue guancette rosse in segno di protesta, incrociando le braccia sul tavolo, la vocina saccente e fastidiosa: «Guarda che sei tu che hai continuato a bere, tesoro! Mica ti dovevi scolare un bicchiere a ogni domanda!».

Bakugō si sporse a sua volta sul tavolo, i palmi ben piantati sulla superficie di legno e il gomito sinistro conficcato nel pettorale di Izuku, che non fece una piega, rimanendo a guardare, allibito dalle parole che udí.
«Guarda che le regole le sssso! - strascicava parole per via della bocca impastata dall'alcol - É che voi parlate sempre di sesso! Cioè ... Che diavolo ha di tanto speciale? E chi ce l'ha poi il tempo per scopare, ah?».

Tutti si ammutolirono e lo fissarono emettere un mugolio di fastidio mentre tornava a poggiare la fronte sul tavolo. «Al diavolo voi. E pure il mal di testa...».

Izuku sgranò gli occhi, incapace di reagire, fosse anche solo di posargli una mano sulla schiena. Cosa voleva dire quella frase?

«Ora capisco perché è sempre nervoso!».

«Questa è una frase sessista, Jirō-chan.».

«Beh? Per una volta non posso dirla io scusa?».

Poi le loro voci divennero ovattate, non capì bene perché quasi tutto passò in secondo piano, mentre lui continuava a fissare Katsuki che ondeggiava contro il tavolo ad occhi chiusi, mugolando, la coscia che sfregava la sua sotto il tavolo.

Fu la voce seria e profonda di Kirishima che lo riportò ad avere coscienza di dove si trovava.
«Dai, Kat. Ti riaccompagno a casa.», e lo vide alzarlo quasi di peso, prenderlo per la vita con un braccio con la stessa facilità con cui sollevava il borsone da palestra. «Ce la fai a camminare fino alla macchina?».

Non ne scorse l'espressione, ma vide solo la sua testona bionda annuire e lì si ricordò: «Eijiro-kun! Posso portarlo io a casa. Il suo appartamento non è distante da casa di mia madre.».

Lo sguardo che Kirishima gli rivolse da sopra la spalla lo lasciò interdetto e con una strana sensazione sulla bocca dello stomaco, come se aleggiassero tra loro tante parole non dette. O forse era solo perché quello che alla fin fine aveva abbandonato tutti era lui.

«Ha cambiato casa qualche mese fa... Non te l'ha detto? Credo che mi fermerò da lui per vedere come sta e controllarlo. - fece una breve pausa - Io e te facciamo i conti domani, Hanta.».

«Guarda che è stata anche di Denki l'idea!».

«Siete due idioti! E tu te la scordi almeno per una settimana!».

«Ma Jirō!».

Chiassosi.
Non era più abituato a quei loro discorsi a voce alta, campati in aria, fatti di sarcasmo e battutine a doppio senso.

E quello che gli dava più fastidio, quasi da fargli male dentro, era che Kacchan non gli aveva detto nulla di quel cambio di casa. Come se contasse di più il periodo di assenza e di lontananza tra di loro rispetto a tutti gli anni che avevano passato vicini, uno l'ombra dell'altro.

Li vide allontanarsi assieme, Kacchan sorretto da colui che, formalmente era il suo vero migliore amico dai tempi della scuola. Il fratello che non aveva mai avuto. Forse la persona migliore che potesse camminare al fianco di Kacchan in tutti quegli anni.

La voce di Denki gli arrivò lontana, ma chiara. E fu per lui una specie di manifestazione, una presa di coscienza degli ultimi atti di quella serata.

«No ma, scusate... Ma Bakugo ha sempre avuto quel culo?».

«Oh sì... | Cazzo sì!».

La sua voce uscì quasi senza volerlo, sovrastando in maniera stridula quella di Kyoka, mentre osservava il tessuto scuro della tuta infilarsi in mezzo a quelle chiappe che sembravano scolpite nel marmo. Tipo quelle del David, che aveva potuto ammirare in Italia.

A poco a poco mise assieme i pezzi di quella strana serata.
I bicchieri sul tavolo, di cui solo quello di Bakugō era l'unico davvero finito.
La sua reticenza.
Lo starsene stranamente zitto.
L'ultima battuta prima del tracollo.

Kacchan era come lui: un grumo di apparenze dietro i vestiti sfavillanti di un eroe burbero e potente.

Gli avevano sempre affibbiato flirt con modelle o qualsiasi altro eroe di sesso femminile che si ritrovasse a lavorare fianco a fianco con lui.
Ma era tutta una cazzo di facciata.

Deku, il gentile, lo scapolo d'oro da accalappiare.
Dynamight, l'esplosivo, colui che è capace di farti venire solo con uno sguardo.

Li ricordava tutti i titoli dei giornaletti di gossip, con i loro assurdi test e i trafiletti irritanti che lo dipingevano come il salvatore asessuato della società, mentre a Kacchan attribuivano prestazioni fuori da ogni grazia divina.

Ma mai era stata fatta più confusione. E mai come in quel momento gli fu chiaro.

Izuku rise, alzandosi dal tavolo e lasciando tutti i restanti amici un po' stupiti da quella reazione.
Perché era una risata che nessuno aveva mai udito uscire dalla sua bocca.

Non era la risatina isterica dopo una grande paura, dopo che la battaglia era andata bene.
Era diversa. Profonda, liberatoria tanto da farlo lacrimare.

Benedisse l'alcol, benedisse i suoi amici e si allontanò con un saluto tirato.

Al diavolo il silenzio, il tenere nascosto qualcosa che invece era parte di sé.

Al diavolo il suo cuore, che aveva sempre maciullato per un bene più grande.

Al diavolo le regole.

Perché quella sera Izuku, in barba ai principi minimi di convivenza con i propri amici, si ripromise di far cadere la fortezza di ghiaccio in cui da troppi anni si rifugiava Kacchan.

E si ripromise di liberare se stesso da quella ossessione che provava nei suoi confronti da tutta una vita.
 

A drink for the horror that I'm in
For the good guys and the bad guys
For the monsters that I've been
~ My Chemical Romance ~

 

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Capitolo 3
*** Heavy duty ***


Duty



In una folla di rose, scegli di essere un girasole.
Senza spine. Abbondante nei semi.
~ JaTawny M. Chatmon ~
17 giugno

Kaminari e Hanta erano vivi.
Ci mise un po’ a realizzarlo, chiedendosi il perché di quella clemenza. Perché Kirishima non li aveva riempiti di botte? O perché Bakugō non li aveva fatti esplodere?
Per come si erano comportati una punizione corporale sarebbe stata d’obbligo, invece eccoli lì, felici e impuniti che lo precedevano, come se nulla fosse accaduto, alla plenaria del lunedì lungo il corridoio del nuovo palazzo della QSNC (Quirk Safeguard Neo Comission).
Era la prima riunione a cui partecipava dopo essere rientrato dall’America e non aveva per nulla voglia di essere lì. Ma l’alternativa era mettere in ordine gli appunti delle sue missioni per stilare il rapporto finale, per cui una riunione era la giusta alternativa al morire di tedio tra mille fogli sparsi.
Aveva dato ascolto agli amici e ora si ritrovava entro una sala a gradoni, come quelle dei vecchi teatri o dei cinema, tirando gli occhi per trovare un posto a sedere che fosse libero, mentre la plenaria era già bella che cominciata da un pezzo, fino a che non scorse la testa bionda di Katsuki tra le prime file. Salutò eroi di cui non ricordava il nome, sforzandosi invece di rimembrarne i quirk, ma erano passati anni dalla scuola e lui aveva smesso con quella cosa da sfigati di appuntarsi ogni minima mossa di ciascun supereroe che gli capitava a tiro.
La sua mente lavorava abbastanza in fretta da farlo ragionare anche in condizioni di stress psicofisico e, qualora si fosse trovato in bisogno, avrebbe ipotizzato un piano nell’immediato. Lì, in quel contesto, non gliene fregava granché.
Ma non era presunzione la sua: aveva capito con l’esperienza che nulla è prevedibile, nulla andrà secondo ciò che hai preventivato e, se qualcosa può andare storto, lo farà nel peggiore dei modi.
«Scusi… Permesso… Oh! Ehi, ciao! Sì, anche io sì… Ehilà!», la voce era sommessa mentre salutava a destra e a manca per raggiungere Katsuki, quasi al centro della fila di poltroncine, senza alcuno attorno per almeno due posti sia ai lati sia di fronte.
La maggior parte di loro vestiva abiti civili e pochi, come Katsuki, indossavano il loro costume da eroi quasi completo.
«Ehi, Kacchan!».
Lui gli fece solo un cenno col dito di tacere, prima di indicare il palco illuminato, mentre tutta la platea e il resto della sala erano in penombra.
 Lui gli fece solo un cenno col dito di tacere, prima di indicare il palco illuminato, mentre tutta la platea e il resto della sala erano in penombra e vi era un lieve brusio che accompagnava una lunga pausa dello speaker.
Izuku rimase in piedi come uno stupido e sgranò gli occhi a vedere che colui che teneva l’assemblea e che stava armeggiando con un laptop per collegarlo al maxischermo era Hawks, vestito con un completo chiaro.
«Appena questo affare deciderà di funzionare, verranno proiettate le nuove zon- Oh! – l’eroe abbassò sul naso gli occhiali per vedere meglio da lontano - Ma ciao Deku! Bentornato a casa! Un bell’applauso di bentornato al nostro giovane eroe!», fece lui, spingendo gli occhiali sul ponte del naso e regalando al ragazzo un sorriso radioso, mentre era il primo a far partire quel battito di mani che inondò la sala.
Izuku sentì addosso centinaia di occhi curiosi e un borbottio si sostituì all’applauso non appena questo scemò. Ricambiò il saluto con la stessa cordialità e lo stesso sorriso con cui l’aveva ricevuto, ringraziando tutti per il bel pensiero e invitando Hawks a continuare, con un gesto della mano.
Se fosse stato qualche anno prima, di sicuro sarebbe morto per la vergogna. Ora invece si ritrovava solo ignorare il brusio curioso che lo circondava e a sedersi a un posto di distanza da Bakugō che, impassibile, continuava a tenere lo sguardo fisso sul loro ospite.
Izuku accavallò la caviglia sul ginocchio ed allungò un braccio sullo schienale della poltrona, occupata dai grenade bracelets di Katsuki.
«Mi sono perso molto?», ma non trovò risposta né nelle parole né tantomeno nell’espressione dell’amico. Così tornò a guardare di fronte a sé, mentre sul maxischermo veniva proiettata l’immagine idilliaca di una spiaggia dall’acqua cristallina e, subito dopo, il format ufficiale della QSNC che riportava i dati dei tassi di criminalità nelle varie zone del paese.
«Ecco! Ora ci siamo! – tossicchiò per attirare l’attenzione e fermare il brusio - Vorrei intanto fare i complimenti a Jack Mantis per l’ottimo lavoro svolto a Kagoshima il mese scorso! Come vedete è riuscito a risollevare l’indice di gradimento della QSNC nella regione del Kyushu assieme a Spiral! Bravi entrambi! Molto bravi!». Stavolta un applauso e grida di incitamento arrivarono da metà sala e Izuku sporse all’indietro la testa per osservare un vecchio gruppo di ex studenti della sezione B fare casino ed incoraggiarsi a vicenda.
«I soliti idioti.», udì mormorare alla sua sinistra.
Izuku si sporse un po’ verso Katsuki, punzecchiandogli la spalla con l’indice: «Non fare lo scorbutico come il tuo solito, Kacchan.», ma lui sembrava non badarlo.
«Fa piacere a tutti un po’ di tifo, no?», gli chiese a mezza voce, mentre continuava a punzecchiarlo sulla spalla con insistenza.
Non avevano avuto modo di parlarsi alla cena e ora cercava in tutti i modi di attirare la sua attenzione. Non gli importava delle statistiche. Voleva solo provare a intavolare un discorso con Kacchan, come una volta.
«No. Finiscila.», borbottò mentre gli schiaffeggiava la mano, mentre Izuku sbuffava, tornando a osservare le slide piene di grafici che Hawks si stava impegnando così tanto a spiegare. Sembrava di essere tornati di colpo agli anni accademici e a Izuku sfuggì un risolino, mentre reclinava la testa e tornava a osservare l’amico: «Pss! Kacchan! Te li ricordi i test d’ingresso? Eravamo vicini pure lì.», provò di nuovo, in un moto di nostalgia, forse perché il suo atteggiamento era molto simile a quello di allora.
«Rompevi il cazzo anche quella volta.», borbottò il biondo, muovendosi sulla poltroncina per prendere il cellulare, fare una foto al maxischermo e appuntare qualcosa sulle note.
Izuku lo osservò, con la guancia premuta sulla spalla e il braccio sempre allungato sullo schienale della poltroncina, disegnando cerchi sul velluto rosso, cercando di vedere cosa stesse scrivendo Kacchan, ma i caratteri erano troppo piccoli e lui troppo distante per riuscire a leggere, così alzò gli occhi allo schermo che tutti stavano osservando, dove campeggiava una cartina del Giappone con tutte le prefetture suddivise e dei grafici a torta che indicavano sicuramente qualcosa a cui lui non aveva prestato la benché minima attenzione.
«Stiamo sbagliando tutto…», si lasciò sfuggire, mentre osservava la slide successiva.
«Cosa sbagliamo intelligentone?».
Kacchan non s’era mosso, se non per le braccia conserte al petto. Lo sguardo rimaneva fisso sul palco e sullo schermo.
«L’approccio.».
Katsuki voltò solo lo sguardo, assottigliando gli occhi nella penombra: «L’approccio?», e Izuku annuì, certo che ora lui lo vedesse e ne avesse l’attenzione.
Poggiò i gomiti sulle ginocchia, chinandosi su se stesso e verso Katsuki, scandendo bene le parole per essere certo che, anche sottovoce, lui potesse sentirlo: «Se il nostro problema è quello di una nuova minaccia capillare che punta ad emulare la vecchia Humarise - e rabbrividì a quel pensiero – o la LOV… Beh, l’approccio americano mi sembra forse il più adatto.».
«Ahn? L’approccio americano? – corresse il tono un po’ troppo alto - Ma ti senti?».
«Che ho detto?», chiese, non capendo, corrucciando la fronte come faceva anche quand’era piccolo e qualcosa non gli tornava in un’equazione più difficile delle altre.
«Approccio americano? Ma sei serio?». Katsuki si stava alterando. Lo si poteva notare dalla vena che gli s’ingrossava sulla fronte e dal fatto che s’era sporto pure lui verso Izuku, entrambi tentavano di nascondersi dietro gli schienali di velluto delle poltrone, sbraitando sottovoce l’uno contro l’altro. «Ci sono studi, Kacchan! Studi che supportano le variazioni introdotte in tema di politiche penali e di strategie di contrasto! Le politiche della zero tolerance e degli hot spots and hot times…».
«Finiscila! Quello che va bene in America non è mai andato bene nel resto del mondo!», berciò, il tono alto ad attirare su di sé gli sguardi e l’attenzione di Hawks che tossicchiò nel microfono per riportare ordine e silenzio nella sala.
«Volevi approfondire qualcosa Dynamight?».
Ma prima che Katsuki potesse aprire bocca per dire qualcosa e scusarsi, intervenne Izuku, alzando la mano prima di scattare in piedi: «Three strikes and you’re out! – la voce era chiara e ben udibile nel silenzio generale - Ho potuto toccare con mano il disordine sociale che sta emergendo in America, anche se con anni di distanza rispetto a noi, e ci sono studi che riferiscono che gli aggravi di pena per i recidivi sono dei buoni deterrenti, soprattutto per i crim-».
«Stai proponendo una specie di pungo di ferro Deku?», la voce di Hawks s’incrinò leggermente.
«No! Il disordine sociale è contagioso e tende ad auto-propagarsi, favorendo l’aumento della criminalità e noi questo l’abbiamo già vissuto e sappiamo che non è una situazione gestibile con i classici metodi su cui ci siamo basati finora. È un metodo che aiuterebbe anche con la sovrappopolazione delle carceri!»
Appassionato.
Deku risultava sempre appassionato in ogni cosa che faceva o diceva ed era una cosa che Katsuki aveva sempre ammirato e detestato allo stesso tempo. L’avrebbe anche lasciato parlare, se solo la sua bocca avesse sparato meno stronzate.
«Finiscila Deku! Tutta questa roba dell’America è una stronzata! – sputò, sistemandosi meglio sulla poltroncina, le braccia conserte e lo sguardo fisso sul vecchio amico – Nessun paese è uguale ad un altro. Non puoi pensare di trapiantare un metodo gaijin qui! A malapena sai come cazzo funziona!».
Preciso, lineare e pragmatico. Annuì alle proprie parole, convinto di averlo messo a tacere.
«Allora anche All Might è una stronzata…», borbottò a mezza voce nella sua direzione, quel tanto che bastava per attirare di nuovo l’attenzione di quegli occhi cremisi su di sé, vedere la sua espressione cambiare in una collera malcelata dietro le dita strette con forza attorno al bicipite.
«Bada a cosa dici, Deku.».
Il brusio sembrava cessato attorno a loro e solo la voce di Hawks riempiva la sala, ancora carica di tensione tra i due.
L’uomo si sistemò gli occhiali dalla montatura sottile sul naso e avvicinò il microfono alle labbra tanto da farlo fischiare ed attirare l’attenzione di tutti: «Non mi aspettavo di assistere ancora ad uno dei vostri spettacolini. A saperlo, mi sarei portato i popcorn!», e una risatina si propagò per la sala, prima che riprendesse il discorso. «Diciamo che entrambe le vostre idee siano buone – e fece un gesto col braccio verso Bakugō – o percorribili. – e indicò poi Midoriya, che abbassò il capo in segno di ringraziamento. – Avevo in mente altro per il Wonder duo, ma mi costringete a cambiare i miei piani!», e subito le slides della presentazione vennero sostituite da un foglio di lavoro zeppo di codici numerici, matricole, da ciò che riusciva a intuire Izuku, e dall’indicazione del distretto di operatività.
«Stasera invieremo sulla vostra mail le nuove coppie di eroi che collaboreranno e il relativo distretto di appartenenza per il prossimo mese. Se non vi dovesse arrivare vi preghiamo di controllare nella spam. – le luci si accesero di colpo, accecando buona parte dei presenti – Grazie per la partecipazione!».
Katsuki si alzò di malavoglia e agguantò i suoi bracciali armati, scostando in malo modo Izuku per passare.
«Stavamo discutendo. Non puoi tirarmi una spallata come al tuo solito e andartene!».
«Tu stavi solo dando fiato alla bocca. E Hawks ci vuole vedere.». Un paio di eroi, più vecchi di lui di qualche anno si scostarono per lasciarlo passare, in un moto di cortesia, misto a timore. Izuku lo seguì a ruota, con la stessa foga con cui cercava di stargli dietro da piccolo e tra sé e sé ne rise, constatando che certe cose sembravano destinate a non cambiare mai.
«Guarda che Hawks non ha detto n-», ma non finì la frase, perché si scontrò con la schiena salda di Kacchan, che si era bloccato di colpo sulle gradinate per lasciar passare dei colleghi.
«Hawks non ti dice cosa devi fare. Ti guarda e sottintende. E tu fai. Punto. Sarai stato anche via, ma certe cose dovresti ricordartele.», e riprese la sua marcia mentre altre persone lo lasciavano passare. Le stesse che rivolgevano invece sorrisi e pacche sulle spalle a Izuku.
Non volle cogliere la provocazione, limitandosi solo ad un laconico: «Ricordavo che Hawks volesse smetterla con l’eroismo.».
Katsuki gli tenne aperta una porta tagliafuoco che lasciava accesso ad una seconda sala, più piccola, dietro il palco, dove Hawks li stava attendendo, consultando un tablet con uno strano cipiglio.
«Infatti. Per questo è a capo della commissione, ora».
Fu sempre Katsuki a tossicchiare per attirare l’attenzione dell’ex eroe, che era impegnato a leggere qualcosa di particolarmente preoccupante, mentre spostava il peso da un piede all’altro e tormentava con i denti l’anellino che portava come piercing sul lato sinistro del labbro inferiore.
«Siamo qui. Volevi vederci?», fece Bakugō, prima di vedersi cacciato sul petto il tablet e Hawks fiondarsi ad abbracciare Deku, tempestandolo di domande per saper se stesse bene, se le missioni erano state troppo impegnative o se avesse avuto nostalgia di casa.
«Un po’.», rispose, con mezzo sorriso, comprendendo in quella la risposta a tutti i quesiti fatti.
Gli strinse le spalle con entrambe le mani, constatando che l’avesse superato sia in altezza sia in forza: «Ogni tanto mi stupisco di quanto tu stia diventando simile a Toshinori-san.» e a quel nome entrambi i ragazzi trattennero per un momento il respiro, guardandosi di sottecchi sperando che Hawks non se ne accorgesse.
Nonostante gli anni passati, le esperienze fatte e il percorso terapeutico che entrambi avevano dovuto intraprendere fino alla fine della scuola, lui rimaneva sempre una ferita aperta. Per entrambi.
«Ogni tanto mi chiedo quando la smetterete con tutto questo battibeccare. Per carità! Sembra che tu non te ne sia mai andato così, - fece rivolto a Izuku - ma siete lo stesso pesanti se vi ci mettete eh!», e sorrise. Izuku lo imitò, perché era vero perché, se anche era passato più di un anno, per lui su certe cose sembravano passati solo cinque minuti.
Per altre invece gli sembrava di aver fatto un doppio tuffo carpiato all’indietro nel tempo. A prima della battaglia, a prima delle sue scuse, a prima che tutto quel casino finisse sulle loro spalle e le incurvasse col peso di responsabilità troppi grandi per la loro età.
«Non è affatto divertente, Deku. Ma tanto sono sempre io il cattivo, giusto?».
Eccola lì, la frecciatina numero due della giornata, che Izuku però smise di ignorare.
«Mi spieghi che ti prende? È la seconda volta che mi vedi e mi tratti di merda!».
«Appunto.»
«Linguaggio, Midoriya, per favore. Me ne basta uno di scurrile. Due Bakugō non li reggo.».
«Ci metto poco a far esplodere anche te.»
«Sarebbe impari. Sono disarmato.», e a quell’affermazione Katsuki sbuffò, mollando a terra i suoi bracciali esplosivi ed incrociando le braccia al petto come farebbe un bambino contrariato e capriccioso. «Vaffanculo Hawks!».
«Prego che qualcuno ti ascolti!», borbottò l’eroe.
«Cosa?»
«Cosa?»
A quello scambio di battute Izuku ridacchiò, nascondendo la bocca dietro la mano, perché era esilarante l’ingenuità di Bakugō in certi frangenti.
«Che volevi dirci, Hawks?», tagliò corto Bakugō.
«Ho bisogno di una squadra a Hokkaido, distretto di Hidaka, sulla costa. Volevo mandare qualcun altro, ma credo che sia una buona occasione per appianare le vostre divergenze. Sbaglio?» e i suoi occhi ambrati si fecero due fessure mentre scrutava il viso di Bakugō, alla ricerca della minima espressione di rifiuto.
Quando fu sicuro di avere la sua completa collaborazione, si rivolse a Midoriya con un sorriso ampio e cordiale: «Da quando sei partito ci siamo organizzati in maniera differente da come ricordavi. Confido che Dynamight ti aiuti con la parte burocratica e ti spieghi un po’ come funziona la nuova commissione, visto che la conosce bene! - fece una pausa per guardare una notifica sul tablet - Hodaka non è proprio la migliore delle location e forse per questo è quella più problematica. C’è una piccola banda locale che ci sta dando dei problemini…» e lasciò in sospeso la frase per osservare entrambi.
«Quando dovremmo partire?», chiese Katsuki, affiancandosi ad Hawks e guardando il tablet da sopra la sua spalla.
Entrambi avevano superato l’ex eroe in altezza ma Katsuki non s’era irrobustito troppo. Doveva essere leggero, constatò Izuku, perché altrimenti non sarebbe più stato agile o veloce negli spostamenti con le esplosioni.
I suoi quirk multipli invece l’avevano portato a irrobustire i muscoli ed essere più alto e grosso di Bakugō, mantenendo lo stesso agilità per muoversi facilmente sia con Blackwhip sia con Float. A differenza di Kacchan, lui però non era minaccioso per gli altri come lo sembrava lui.
Ma era tutta una facciata pure quella, perché il ragazzo che aveva di fronte e discuteva con l’ex number two era totalmente diverso dal bulletto che lo tormentava alle medie o dall’avversario che aveva all’accademia. 
Quel Kacchan così pacato e rispettoso per Izuku era una cosa totalmente nuova e destabilizzante. E un sacco intrigante.
«Hai sentito Deku?».
«No, chiedo scusa.».
«Ho detto che partirete già domani. Un taxi vi porterà all’aeroporto per le 10.».
Izuku annuì, continuando ad osservare Hawks che tormentava con i denti l’anellino che aveva sul labbro, mentre scrollava le e-mail sul tablet.
«Tu stai bene Hawks?», gli chiese, più per curiosità che per reale preoccupazione, mentre quello rispondeva distrattamente e Katsuki afferrava Izuku per un braccio per farlo uscire da quella stanza.
Una volta usciti da lì, fecero il percorso a ritroso, Izuku di poco arretrato rispetto a Katsuki, che ne osservava le spalle e la schiena, mentre quello si sistemava i bracciali esplosivi ai polsi, sfilando i guanti dal loro incastro tra la vita è la cintura, con un movimento tanto fluido da essere quasi ipnotico.
Gli tornò in mente una cosa è il suo cervello dimenticò di attivare il filtro verso la bocca: «Quanto pesi Kacchan?».
«Stamattina settantotto chili e trecento grammi.».
«Perché stamattina?».
«Perché mi peso al mattino.».
«Al mattino?».
«Al mattino. Dopo la cacca.».
«Giusto. Così peso di meno.».
«Vuoi fare il nutrizionista?».
«Chi? Io? Nah!».
«Allora perché lo chiedi?».
«Hai messo su massa. Volevo solo sapere se era facile prenderti in braccio.».
«Cazzo ma che sei? Alle elementari che devi fare le prove di forza? - si fermò e lo osservò da sopra la spalla sinistra, lo sguardo sottile e feroce - Riusciresti a sollevarmi facilmente in ogni caso...», smorzò la voce, che gli raschiò in gola facendo bloccare di colpo Izuku, impalato a metà dell’attimo del palazzo della QSNC, la bocca leggermente aperta per lo stupore e un brivido incastrato nella zona lombare.
Non se ne era reso davvero conto, ma quella frase e quello sguardo che sembravano solo buttati lì senza alcuna malizia, per Izuku furono una stilettata nel petto. O all’inguine, a giudicare dal fastidio che sentiva mentre riprendeva a seguirlo.
«Cosa dirai a tua madre?», gli chiese Kacchan, mentre si stiracchiava all’aria aperta e una leggera brezza tiepida gli scompigliava i capelli.
«Che devo trasferirmi un mese per lavoro. Non credo ne farà una tragedia…- controllò il calendario sul cellulare - Magari torno solo la sera del mio compleanno e festeggio con lei.».
Katsuki voltò appena il capo verso di lui, che aveva la testa china sullo schermo a digitare qualcosa: «Giusto.».
«Cosa?».
«Niente. - prese dalla tasca del costume il proprio smartphone ed entrò nei contatti, trovando quello di Deku - Il tuo numero è corretto?» e gli porse il telefono, che Izuku prese e controllò.
«Oh.».
«Oh che?».
«Hai il mio numero vecchio… - il tono era leggermente dispiaciuto mentre digitava per sostituire il numero - Ho perso il telefono durante la missione sul Baltico. Non avevo più nessun numero…».
Ma alle orecchie di Katsuki quella sembrava una scusa bella e buona per non essersi fatto sentire per tutto quel tempo. Quando Deku gli riconsegnò il telefono lui lo prese di fretta, inviando un semplice messaggio a quel nuovo numero, facendo squillare il cellulare dell’altro.
«Adesso hai di nuovo il mio numero. - borbottò, riponendolo in tasca - Ti aspetto alle otto da me.».
«Stasera?», chiese Izuku, sgranando gli occhi a quella specie di invito.
«No, guarda. Domani!».
«Ah. Ok. Devo riabituarmi al tuo sarcasmo.».
E tra di loro cadde il silenzio a quella sua battuta innocua perché, se per Izuku quella era solo una constatazione, per Katsuki era una nuova stretta allo stomaco, che lo faceva pentire di aver messo da parte la rabbia di un abbandono immotivato per venirgli incontro, per riavere un po’ il suo vecchio amico, che sembrava ormai perso in un mondo totalmente diverso da quello in cui lui aveva vissuto fino a quel momento.
L’aveva odiato per essere partito da un momento all’altro, quasi senza dirlo a nessuno solo perché la missione era classificata come “top secret”.
Poi l’aveva invidiato, perché avrebbe voluto andarci pure lui in America, lavorarci così come aveva fatto All Might.
Poi s’era rassegnato, quando non s’erano più sentiti e Izuku sembrava aver tagliato i ponti con tutti.
Così Katsuki s’era illuso che buttarsi ancor di più sul lavoro non gli avesse fatto pensare a tante cose, l’avrebbe reso appagato e felice. E così era.
Ma si era reso conto che, pur circondato dai suoi amici di sempre, Izuku gli continuava a mancargli.
«Guarda che ho cambiato casa.».
«Ehm… Me lo ha accennato Kirishima.».
«Bene. Allora appena arrivo lì ti mando la posizione. Spero di finire il turno in tempo. In caso ti avviso.».
Agli occhi di Izuku, in quel momento Kacchan sembrava un alieno: gli aveva a malapena rivolto la parola alla cena, isolandosi nel suo mutismo, l’aveva trattato male in assemblea plenaria e, ora, lo stava invitando a cena nella casa nuova?
Era stano, Kacchan. Si stava comportando in maniera strana e-
«Dimmi se devo portare qualcosa! Mi hai preso in contropiede e io n-».
«Non ho alcol a casa. Se vuoi bere portati del vino o della birra.».
«Non serve, Kacchan. - scosse il capo - Bevo volentieri dell’acqua…» e non proseguì, mordendosi la lingua per non chiedergli della sbronza del sabato precedente e non alimentare battibecchi o baruffe con Denki e Sero.
Lo vide piegare leggermente le ginocchia, allargando le braccia, mentre un leggero scoppiettio gli illuminava i palmi: «Se ci sono problemi avvisami. A più tardi.», e con una grossa esplosione schizzò verso l’alto per poi direzionare le sue detonazioni e sparire verso destra, oltre i tetti dei palazzi i che li circondavano.
Rimase col naso all’insù e un sorriso a distendergli le labbra, perché quell’invito l’aveva piacevolmente sorpreso e scombussolato.
Sua madre avrebbe capito e non si sarebbe offesa se nel giro di una settimana da quando era tornato la lasciava da sola a cenare. Magari gli avrebbe pure fatto quella sua fantastica torta con la panna e le fragole che a Kacchan piaceva tanto da bambino.
Avrebbe portato quella al posto del vino. Avrebbero riso e scherzato. O magari avrebbero solo ricordato episodi divertenti prima di guardare un film, come avevano fatto spessa prima che partisse per l’Europa.
Forse poteva ancora recuperare qualcosa e quella serata poteva essere proficua, un modo per riallacciare un rapporto che si era di nuovo incrinato.
Ma invece di pensare a rimediare ad una partenza silenziosa, a un anno di avvenimenti, di aneddoti o di confidenze mancate, mentre camminava verso casa la mente di Izuku riusciva solo a pensare se Kacchan potesse essere tanto leggero da essere sollevato e sbattuto al muro.

 
Sometimes you picture me 
I'm walking too far ahead 
You're calling to me, I can't hear 
What you've said 
Then you say, "go slow" 
And I fall behind
~ Cyndi Lauper ~
 

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Capitolo 4
*** Opening ***


Opening


Ti porterei a visitare una galleria d'arte
ma ho paura che tutti guarderebbero te,
che negli occhi
hai girasoli di Van Gogh
e sulle labbra i papaveri di Monet.
~ Michele Giorgi ~
 
 
17 giugno

 
Katsuki era sempre stato carino.
No. non solo carino. Proprio bello.
Quella bellezza strana e feroce che rapiva le persone, che si voltavano inconsciamente a osservarne i lineamenti perfetti del viso, per poi essere irrimediabilmente attirati dalle spalle ampie, che creavano un rapporto di triangolazione perfetto con la sua vita stretta.
Ricordava che zia Mitsuki s’era preoccupata molto per quella orrenda cicatrice sul lato destro del volto, che, ora, a conti fatti, non lo rendeva di certo meno bello. Forse più minaccioso, è vero, ma a quello aveva contribuito di sicuro il suo caratteraccio, smussato nel corso degli anni.
Il suo essere burbero, distaccato, molto irascibile e scurrile, era solo il riflesso di una profonda insicurezza e di una testardaggine unica, che l’aveva portato a superare spesso i propri limiti, a fare suo il motto della UA così tanto da avercelo intagliato nel corpo, in ogni singola cicatrice che marchiava la sua pelle di seta.
Katsuki era proprio bello, sì.
Il bicchiere agitato sotto il suo naso fece muovere il ghiaccio nell’acqua, distogliendolo da tutta la restante parte di pensieri inopportuni che gli si stavano formando in testa: «Ti piace?»
«Ah?»
«La casa! Ti piace la casa?»
Izuku scosse il capo: doveva smettere di fissarlo ogni cazzo di volta col luccicore negli occhi come se fosse in adorazione di una divinità. Ma Kacchan era sempre stato questo per lui: un idolo, alla pari di All Might, forse solo più raggiungibile.
«Molto carina sí! Lo stile industrial nella zona che hai ricavato per l’allenamento mi piace molto!», rispose, afferrando il bicchiere fresco e bevendone una lunga sorsata.
Non sapeva bene perché s’era ritrovato ad essere così agitato prima di andare a casa di Kacchan.
Forse perché era da un po’ che non ci parlava assieme e aveva perso quella confidenza che era riuscito a creare con lui fin troppo faticosamente.
Aveva sbagliato ad andarsene via, a cogliere un’opportunità che forse mai gli sarebbe capitata ancora nella vita, non alla sua età, almeno.
E avrebbe voluto raccontargli un sacco di cose, in barba agli accordi di riservatezza perché ci stava morendo dentro tutti quei segreti, ci stava letteralmente annegando e avrebbe voluto una mano a risalire, a prendere aria e a sputare fuori tutta la merda che aveva dovuto ingoiare per andare avanti in quell’anno e mezzo di assenza. Ma anche se le missioni erano andate tutte bene, anche se aveva riportato la pellaccia a casa, non avrebbe potuto dire nulla. Nè di quello nè di altro.
Non che provasse imbarazzo, precisiamolo. Solo… Non aveva un goccio di alcol in corpo, ed erano solo loro due in casa e dopo quella frase che Kacchan aveva sputato fuori alla cena di classe, beh…
Aveva solo bisogno di sondare il terreno.
La gamba destra cominciò a tremolare d’impazienza e finí il bicchiere d’acqua ghiacciata in un unico sorso, prima di alzarsi dal divano e raggiungere Kacchan nell’angolo cottura, posando il bicchiere sul ripiano accanto al lavello.
La casa era davvero carina e raccolta e ordinata; d’altronde Kacchan era sempre stato fissato con l’ordine e la pulizia, una totale antitesi con la caoticità del suo quirk e del suo carattere.
Pure la sua stanza al dormitorio o la camera a casa dei suoi erano sempre ordinate e minimali nell’arredo.
«Potevamo ordinare da asporto.»
«Potevi avere idee meno di merda.»
Izuku ridacchiò. Quel battibecco insulso gli dava un senso di familiarità che gli scaldò il cuore.
Incrociò le braccia al petto e si appoggiò col fianco contro il ripiano, osservando Kacchan sbattere le uova per poi tuffarci le fettine di maiale che aveva preso prima di rincasare, prima di passarle nel piatto con la farina, senza sporcare il piano di lavoro.
Katsuki osservò Deku con la coda dell’occhio: non si era reso conto che fosse cresciuto così tanto. S’era alzato in altezza e lo superava quasi di una decina di centimetri e questa cosa gli metteva una specie di… agitazione? Ansia? Non sapeva bene come definirla neppure lui. Forse era solo fastidio nel vedere attorno a lui tutti così alti o grossi o comunque che non dovevano essere fissati per forza con l’aereodinamicità del proprio corpo, con le proporzioni…
Tornò a ripassare la carne di nuovo nell’uovo per poi infarinarla una seconda volta, accantonando il pensiero che, nonostante Deku avesse messo su un sacco di massa muscolare, era proporzionato. E questa cosa gli diede uno strano sollievo, tanto da sospirare, nello stesso esatto momento in cui lo fece Deku, alla sua sinistra.
«Certo che…»
«Mh?»
«No, dico… Non mi ero mai reso conto che impanare la carne fosse tanto sexy…».
«Ah?»
«Cosa?»
«Che hai detto?»
«Che sei bravo col tonkatsu. - Izuku fece una breve pausa per squadrarlo da capo a piedi con un sorrisino sul volto - Io faccio disastri di solito.»
«Serve solo tanta manualità.»
Ecco. Forse quel tono di voce basso era la chiave per provare a forzare la mano, mentre Katsuki alzava il fuoco sotto la pentola e lasciava scivolare la prima fetta di carne nell’olio bollente.
«Ah, dici?».
«Sì. Quella che tu non hai.»
«Si cambia nella vita. Magari non sono più tanto male. - gli si avvicinò di un passo, la voce bassa e un sorrisino carico di malizia a increspargli le labbra - Vuoi provare Kacchan?».
Di tutta risposta lui gli afferrò il naso con le bacchette sporche di farina, allontanandolo di poco: «Vorrei che rimanesse tutto pulito almeno fino a domani, che arriva la signora delle pulizie.».
Izuku si tolse da quella presa fastidiosa, massaggiandosi il naso, frustrato da quel suo approccio non compreso.
«Ma se la donna delle pulizie arriva e trova pulito… mi spieghi che la paghi a fare?»
«Vorrai mica che le faccia trovare la casa sporca come un cesso? Cosa penserebbero di me?».
Che sei un ossessivo compulsivo con un carattere di merda che spaventa i bambini. Ma si trattenne dal dirlo.
«Che sei un essere umano che lavora e non ha tempo per stare dietro a tutto.».
Katsuki grugní, girando la cotoletta nell’olio per farla dorare da entrambe le parti. A Izuku sembrò una pentola a pressione, con tutti quei sospiri e gli sbuffi mentre lavava il guscio delle uova e le rompeva in una ciotola con una sola mano, l’occhio sempre attento alla pentola con l’olio che sfrigolava.
Kacchan cucinava bene. Era una delle molte cose che sapeva fare in maniera impeccabile e, ogni volta, si perdeva ad osservarne i gesti sicuri e la serietà con cui rimaneva in uno stato di sospensione, forse per fare mente locale di cosa dovesse fare o di che ingrediente aggiungere.
La frusta si mosse rapida nella ciotola, il movimento fluido e veloce del polso di Katsuki era ipnotico, forse perché il resto del braccio sembrava essere fermo e l’unica altra cosa che si muoveva erano i ciuffi biondi che gli ondeggiavano sulla fronte.
«Kacchan?»
«Mh?»
«Sai cosa potresti sbattere oltre alle uova?».
«La tua testa sul ripiano?»
«Ehm… no.».
Il ragazzo si fermò a fissarlo, prima di prendere con le bacchette la carne fritta e posarla su un pezzo di carta per scolarla dall’olio.
Un secondo pezzo di maiale venne tuffato in pentola e Katsuki gli allungò le bacchette: «Invece di fare domande idiote controlla il tonkatsu.», e fece un passo di lato, per permettergli di accostarsi al fornello.
Non l’aveva mai fatto. Non che lo ricordasse, almeno. Era una richiesta così strana che si ritrovò a tentennare prima di mettersi di fianco a lui e cominciare a tormentare la carne mentre si friggeva.
Kacchan non lasciava nessuno avvicinarsi alla cucina mentre lui era intento a fare le sue composizioni culinarie; anche se qualcuno avesse voluto aiutarlo, o lo ignorava o lo prendeva a male parole. Più spesso la seconda.
«Girala. Non imbambolarti.».
E Izuku obbedì, restando poi con le bacchette in ammollo a giocare con la cotoletta in doratura, cercando di affondarla nell’olio, che sfrigolava di più se la teneva immersa.
Lui era una frana. Se non ci fosse stata la mensa dell’esercito, forse avrebbe vissuto di panini e cibo preconfezionato per tutto il suo soggiorno all’estero.
Katsuki armeggiò col riso, porzionandolo nei piatti e versandoci sopra l’uovo sbattuto.
«Tiralo fuori.»
«Eh?»
«Il maiale. È cotto: tiralo fuori.»
«Aaah! Ok sì! - fece attenzione a non scottarsi - Lo asciugo qui, giusto?», e imitò ciò che aveva fatto lui qualche minuto prima.
«Mh.»
Katsuki lo stava guardando con le braccia incrociate al petto e lui si sentiva in soggezione, come se stesse provando a superare un esame. «Cosa?»
«Non sei male. - con un gesto del capo indicò il ceppo di coltelli mentre spegneva il fornello - Taglialo a fettine e mettilo nei piatti, sopra la frittata.».
Si rese conto solo in quel momento di quanto le mani gli tremassero e di come avesse trattenuto il fiato tutto il tempo.
Eppure Kacchan non lo stava giudicando per essere impedito in cucina; lui stava solo cercando di spiegargli come fare.
«Tieni il coltello di merda.»
«Lo sai che le volte in cui cucino le conto sulle dita di due mani?»
«Hai detto tu di avere manualità.»
«Io… Non per questo.»
«E per cosa allora?»
Izuku taglió l’ultimo pezzetto di carne prima di voltare il capo a fissarlo dritto in quei suoi occhi cremisi che avevano sempre la solita espressione indagatrice che ricordava. Deglutì.
Si sentiva un tale codardo a non riuscire a spiccicare parola, che l’unica cosa che gli uscì di bocca fu solo una patetica frase di autocommiserazione: «Per niente, Kacchan. Ti stavo solo prendendo in giro…»
Katsuki prese un profondo respiro, gonfiando il petto e alzando un sopracciglio, prima di cavargli il coltello dalle mani e con un gesto elegante prendere i pezzi di carne e deporli in maniera equa sui due piatti, aggiungendo una spolverata di qualcosa di verde in uno e di rosso nell’altro. «È pronto.».
Due parole.
Erano solo due parole e ad Izuku bloccarono i piedi e, forse, il cervello.
Mentre lo vedeva portare in tavola i piatti, la sua mente realizzò che l’indomani sarebbero partiti assieme, per la loro prima missione dopo più di un anno di separazione. Passò in secondo piano l’aspetto organizzativo della cosa, del dove avrebbero alloggiato o di cosa effettivamente avrebbero dovuto fare…
Nella sua testa rimaneva fisso il pensiero che sarebbe stato Kacchan a concedergli di lavorare con lui, non il contrario e neppure c’era una prospettiva di collaborazione.
Quel Katsudon preparato fintamente assieme era la metafora perfetta di ciò che sarebbe stato quel mese a venire: una concessione.
Se lui era contento di lavorare con l’amico, lo stesso non poteva dirlo di Katsuki. Un invito a cena col suo piatto preferito non voleva dire nulla. Aveva più il sapore di una tregua durante una guerra fredda, fatta di sguardi taglienti e mugugni.
E mentre schiodava i piedi dalle assi del pavimento per accostarsi alla tavola con un sorriso fintamente cordiale, sentì un peso gravargli sul petto e chiudergli la bocca dello stomaco appena si mise di fronte al biondo.
«Perché mi hai invitato qui?».
Katsuki alzò lo sguardo verso Deku, mentre con le bacchette gli indicava la sedia: «Stai zitto e mangia.»
«Kacchan.»
«Se ti siedi te lo dico.»
Quella sua pacatezza aveva qualcosa di inquietante. Izuku aveva visto il cambiamento di Katsuki negli anni, ma non s’era mai abituato a questa nuova versione del suo amico d’infanzia. Così si sedette, mentre un brivido gli faceva accapponare la pelle del collo, portandolo a scuotere le spalle con un’espressione di fastidio sul volto.
«Sono seduto.»
Ma Katsuki sembrava non badarlo, mentre univa le mani davanti al viso, ad occhi chiusi: «Dōzo meshiagatte kudasai.», e prendeva con le bacchette un pezzo di carne.
Izuku borbottò un “itadakimasu” poco convinto, cominciando a mangiare a sua volta, sforzandosi di non divorare il katsudon in cinque minuti, ma di gustarselo perché era la cosa più buona che avesse mai mangiato da un anno e mezzo fino ad allora.
E batteva dieci a uno quello di mamma Inko.
L’untuosità sulla lingua, il pelato dell’uovo appena rappreso e la morbidezza del riso lo mandarono in estasi, il cervello perso in una dimensione parallela, dimentico perfino dei brutti pensieri di poco prima.
«Volevo sapere che hai combinato.»
«Dove?»
«Ma sei scemo o mangi sassi? Sei tu quello che è andato a spasso per mezzo mondo mentre noi stronzi eravamo qui a farci il culo!»
Izuku divorò un altro boccone, mugolando soddisfatto.
«Guarda che manco io mi sono divertito, eh!», sbottó in risposta, con la bocca piena, ricacciando indietro la voglia di urlargli addosso che invece si era divertito come non mai.
Si era divertito a lavorare con persone che conoscevano solo la sua fama, ma di lui non sapevano un cazzo, e con cui poteva essere chi gli pareva.
E lui era stato se stesso fino in fondo, fino a quando le missioni erano finite e aveva dovuto rientrare in patria e indossare di nuovo i panni del giovane prodigio, dell’eroe perfetto, del salvatore del mondo.
Avrebbe voluto gridare che si era divertito come un matto fuori dal lavoro, aveva conosciuto persone fantastiche e aveva sperimentato cose che la mente puritana di un giapponese poteva solo immaginare leggendo fantasiosi hentai.
«Credi che mi sia stato bene dovermi allontanare da tutto?»
Katsuki masticò con calma prima di ribattere: «Non viviamo nel Pleistocene. Una mail potevi mandarla se avevi perso il telefono.». Touché.
Come poteva spiegargli che l’aver perso il telefono era stata quasi una manna dal cielo?
Come poteva dire che quel telefono aveva smesso di squillare e di illuminarsi dopo appena un mese che era partito?
Come far sembrare meno patetica la propria vita agli occhi del ragazzo che lo stava fissando?
«Hai ragione. Potevo farmi sentire di più.»
«Potevi farti sentire e basta.»
Izuku deglutì: «E tu? Potevi farti sentire anche tu, no?».
«Sei tu quello che è partito senza quasi salutare.»
Ecco dov’era il problema. Quel rancore sottile che doveva sempre avvolgergli il cuore. Un pretesto per allontanarsi, per odiarlo, per recriminare sulle scelte che faceva
La voglia di diventare un eroe.
L’essere così vicino a All Might.
Il divario tra i loro quirk.
La consapevolezza di essere solo una pedina.
Nonostante tutti quegli anni, il cuore di Kacchan era ancora avvolto in uno stretto filo spinato che gli avvelenava ciò che di buono poteva avere lì dentro.
Rilasciò una mezza risata rassegnata: «Giusto. L’avevo dimenticato.», e prese un altro boccone di carne e riso, ma il sapore non era più lo stesso; quella squisita pietanza aveva perso di gusto, un po’ come la sua vita negli ultimi giorni.
«Cosa ti è rimasto da questa esperienza?».
Alzò gli occhi verso Kacchan, aggrottando la fronte mentre finiva di masticare e deglutiva. «Lo vuoi sapere davvero?».
«Certo.».
«Allora vedi di essere meno caustico.».
«Non sono caustico. E da dove cazzo ti è uscito ‘sto termine?».
«Da dove è uscito a te il Pleistocene di prima?». Katsuki fece spallucce, afferrando il piatto e sollevandolo per aiutarsi con un boccone troppo grande.
Izuku rimase a osservarlo, le bacchette col boccone a mezz’aria e i pantaloni fastidiosamente stretti sull’inguine.
«Allora?».
«Cosa?».
«Cosa ti sei portato a casa da questa tua esperienza?».
«Di sicuro non la sifilide…», borbottò, bevendo una lunga sorsata d’acqua.
«Cosa?».
«Niente, Kacchan. Non mi sono portato a casa niente. Solo idee di merda, secondo il tuo modesto parere.»
«Non è un mio parere. È un dato di fatto. Il metodo americano porta solo più casini che benefici.», e bevve pure lui una lunga sorsata d’acqua, come in un’immagine speculare. Come se fossero uno il riflesso distorto dell’altro.
Izuku guardò il proprio piatto, che aveva deciso di gustare con tutta la calma del mondo, pentendosene amaramente appena a metà. Fece un lungo sospiro per tentare di mantenere la calma e tornò a guardare Katsuki, mentre prendeva un altro boccone, che quasi gli pareva amaro.
La serata era partita così bene, aveva pure portato il gelato! Perché ora sentiva dell’amarezza in ogni pezzo di cibo che masticava?
Alzò le spalle, come aveva fatto l’amico poco prima: «Beh, idee di merda o meno, per me è stata un’esperienza… intensa. Sotto tanti punti di vista.».
Potevi esserci tu, testone.
Lo sguardo che rivolse a Kacchan era un mix tra delusione e compassione che lui evidentemente non colse, o non volle farlo, continuando a mangiare con calma, come se non volesse finire prima di Izuku, ma aspettarlo, per finire assieme.
Finire assieme.
Izuku esplorò nella sua testa i molteplici significati di quelle due paroline che s’erano accese al pari di un’insegna luminosa nel suo cervello, solo per non dover cedere alla rabbia e al fastidio, e si ritrovò a succhiare involontariamente la punta delle bacchette, senza togliere gli occhi dal viso di Kacchan, nella vana speranza che lui cogliesse quel gesto accattivante come un qualche invito esplicito.
Ma aveva speranze troppo alte in quel frangente e ne aveva avuto un assaggio un paio di volte durante quella serata.
Katsuki incrociò lo sguardo di Deku e lo fissò mentre finiva di masticare, fino a che quell’altro non distolse l’attenzione per tornare sul proprio piatto, su un nuovo boccone. «Contento che ti sia servita.»
Si alzò da tavola per prendere dell’altro riso, che aveva finito troppo velocemente e aveva ancora un paio di pezzi di carne da consumare.
«Sai…dal momento in cui ho deciso di partire ero consapevole che, nonostante gli appoggi che avevo, per un periodo sarei stato solo e ho dovuto farmi coraggio e rimboccarmi le maniche per fare qualsiasi cosa, perché sapevo che non avrei avuto il piatto pronto e servito come a casa... Fa paura uscire dalla propria comfort zone... Ma sì, mi è servito.»
Katsuki si girò di scatto a quelle parole sommesse, non sapendo bene come reagire a quegli occhi verdi che lo stavano fissando nello stesso modo inquietantemente triste che gli aveva visto prima della guerra, e gli venne in mente una frase di una delle canzoni che ascoltava in loop durante gli allenamenti e mai l’aveva sentiva adatta come in quel momento.
Youth is broken, half of it was stolen.
«Mh.». Fu l’unica cosa che gli uscì, mentre gli tornava a dare le spalle e si riempiva il piatto. Non era bravo in quelle cose e ne era consapevole. Gli rodeva dentro questa cosa, ma ci aveva fatto l’abitudine e non si disperava nemmeno più. Non capiva se con quella frase Deku volesse essere confortato o compatito e quindi, nel dubbio, non disse nulla, per non sbagliare.
Aveva già usato un tono sbagliato poco prima e non voleva di certo litigare prima della loro convivenza forzata a Hokkaido.
Forse poteva dirgli dell’indomani, di come si sarebbero organizzati. Così, giusto per cambiare argomento e non doversi di nuovo far venire il fegato nero per la storia della trasferta di Deku e quant’altro.
Calò uno strano silenzio tra di loro quando lui si risedette per finire la cena.
Deku stava raschiando il piatto con la punta delle bacchette, la testa poggiata sulle nocche e il gomito sul tavolo, il katsudon ancora lì da terminare.
«Tu?».
«Io?».
«Sì, tu? Come te la sei passata qui?».
«Andata. – fece una breve pausa, masticando un boccone troppo grande di riso e maiale fritto - Ho tenuto un corso alla UA a dicembre.».
«Oh! Su cosa?».
«Pianificazione del lavoro di squadra.».
Izuku rise. Non ce la fece a trattenersi e gli scoppiò a ridere in faccia. Forse per l’espressione seriosa che aveva assunto a pronunciare il nome del corso o forse per l’ossimoro creatosi nella sua testa tra Kacchan e il lavoro di squadra.
«Che cazzo ridi?»
«Scusa! – provò a prendere fiato – Tu… che tieni un corso… sul lavoro di squadra… - un’altra pausa per riprendere il respiro – Sto morendo!».
«Mi credi un incapace?»
«No. Tutt’altro. Era solo… divertente, te l’ho detto. Dovresti scherzare di più.»
«Ah sì? E Tu? Tu ti credi divertente?».
«Il fatto è che tu sei involontariamente esilarante, Kacchan.», e lo disse con un sorriso ampio sulle labbra, mentre sosteneva la guancia contro il palmo della mano.
«E tu sei tornato stronzo.».
Izuku fece di nuovo spallucce, arricciando le labbra in una smorfia ed allontanando il piatto da sé, senza nemmeno averlo finito. Prese un profondo respiro prima di posare entrambe le mani sul tavolo, spostare rumorosamente la sedia e alzarsi.
«Sai che c’è?».
Katsuki mugugnò, non degnandolo neppure di uno sguardo, mentre prendeva e ingurgitava l’ultimo boccone.
«C’è che è tardi e devo ancora fare la valigia.».
«A quest’ora?».
«Mh-m!».
«Non hai finito la cena.».
«Ho lo stomaco chiuso.».
«Per?».
«Ansia da partenza. Sai… le partenze improvvise mi mettono sempre un po’ di agitazione. A te no?». Il suo tono era palesemente sarcastico, una frecciatina decisa verso di lui, che tuttavia non sembrò cogliere.
Izuku si chiese se stesse solo fingendo di non capire, mentre lo squadrava dall’alto in basso, l’interno della guancia martoriato tra i denti e il respiro che sforzava di essere regolare.
Katsuki si limitò a guardarlo, la guancia piena dell’ultimo boccone. «No.», scandì, senza sputacchiare neanche una briciola.
«Immaginavo. – fece una breve pausa – Ci si vede domani, Kacchan.».
E Katsuki rimase lì, imbambolato al tavolo mentre Izuku si avviava al genkan, rimettendosi le scarpe e uscendo.
Neppure il tonfo leggero della porta lo fece schiodare dalla sedia, mentre lo sguardo passava dall’entrata al piatto non finito di Deku.
Perché non era capace a dirgli semplicemente che nell’ultimo anno e mezzo era stato distratto dalla sua assenza, da quel sentimento di vuoto che aveva ogni volta che lo pensava o che qualcuno parlava di lui?
Sentì il collo scaldarsi, poi le orecchie e trasalì, respirando a fondo per calmarsi.
Prese i piatti e li guardò: gli era riuscito bene e lui aveva lasciato lì mezza roba. Quello stupido nerd non solo non aveva detto una parola su quel katsudon, ma neppure l’aveva finito. E, cazzo! Perché dovevano bruciargli gli occhi in quella maniera?
Poggiò i piatti nel lavello e si aggrappò al bordo del ripiano, la fronte a toccare il metallo fresco del rubinetto, una gamba tesa all’indietro come se volesse prendere la rincorsa.
Soffocò tra i denti un urlo e strinse il ripiano tanto da farsi diventare le nocche bianche.
Perché doveva sempre rovinare tutto ogni volta?

 
I've been suffering and making friends with all my sins
I need saving, I need saving, you won't save me ever again
I'm feeling counterfeit, been rolling silence 'round my lips
[…] Anytime you see me smiling it was probably for show
~ Marshmello~

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Capitolo 5
*** Slice of... ***


Slice of…


 La strada per la libertà è piena di girasoli.
~ Martin Firrell ~

 

18 giugno

Hawks adorava fare scherzi e, in quell'anno e mezzo di assenza, l'aveva purtroppo dimenticato.

Il taxi era arrivato a prenderlo alle 10.00 precise, ma non l'aveva portato subito in aeroporto, bensì s'era ritrovato con Kacchan davanti l'ingresso della QSNC senza sapere bene il motivo.
Non s'erano parlati granché e Izuku era ancora un po' deluso per come s'era comportato con lui la sera precedente, ma se ne rimase zitto, per il quieto vivere comune.
Solo dopo un quarto d'ora di attesa nella hall del grande ufficio del Presidente della Commissione, questi si era degnato di convocarli, berci un caffè assieme e consegnare personalmente due fascicoli sulla missione, con la scusa che il volo era stato posticipato.

Il viaggio in aereo, di appena un'ora e mezza, era stato tranquillo, forse perché i posti assegnati erano distanti e Izuku s'era rifugiato prima in una playlist rilassante e poi, verso la fine del viaggio, nel bagno dell'aereo con una delle hostess; non ricordava nemmeno come fosse finito in quella situazione, ma non gli dispiaceva: la straniera era carina, con quei suoi grandi occhi azzurri che lo guardavano dal basso mentre glielo succhiava e non aveva la minima idea di chi lui fosse (cosa non da poco in realtà).

L'incontro con Kacchan, la sera precedente, l'aveva lasciato frustrato su più fronti e quello era stato un piacevole modo per riconnettersi con se stesso, per cominciare quella nuova avventura meno nervoso.

Nervoso che invece era salito a Katsuki, sei ore più tardi, a vedere il piccolo appartamento messo loro a disposizione dalla Commissione.

Izuku tratteneva a stento un risolino divertito mentre lo osservava girare per le stanze, pestando i piedi sulle assi del pavimento imprecando come solo lui sapeva fare.

«Quel barbone di un pennuto!», esclamò alla fine, tornando nel salotto e guardandosi attorno per l'ennesima volta.

«Non ha più le ali.».

Katsuki si voltò di scatto verso Izuku, la faccia stanca e le sopracciglia aggrottate per il fastidio, mentre Deku se ne stava a braccia conserte, appoggiato allo stipite della porta d'entrata ad osservarlo con le labbra incurvate in un sorrisino di scherno che non gli piacque per niente.
«Lo so. Era... ah! Lascia perdere!», e tornò a grattarsi la testa guardando il salottino.

I due divani marroni, diversi l'uno dall'altro, gli davano un senso di vertigine.

Di per sé non era poi così male, forse un po' vecchiotta, col parquet color noce che non si abbinava per nulla alle porte delle stanze, di legno più scuro a incorniciare un vetro satinato con un motivo a onde molto retrò.

Izuku fece qualche passo per raggiungerlo, trascinandosi dietro valigie e borsoni: «Guarda che non è male.».

Il biondo si voltò di nuovo verso di lui, l'espressione furente degli occhi non lasciava presagire nulla di buono.
«Non è male? Cazzo! Ti sei abituato così tanto alla mediocrità dei gaijin che non riconosci più quando qualcosa fa schifo?».

«La smetti con questo odio culturale?».

«Non è odio culturale. È che hai due cheeseburger sugli occhi! Come fai a dire che una bettola del genere non è male?», s'infervorò, il collo e le orecchie pian piano cambiavano colore, arrossandosi.

Izuku fece spallucce: «Mi sembra pulito. Ed è già una buona cosa, no?», e quello mugugnò in risposta, incrociando le braccia al petto.

Izuku infilò le mani nelle tasche dei jeans e lo superò, scivolando con i piedi lungo il pavimento, guardandosi bene attorno con aria curiosa.
Sulla parete di fondo l'angolo cottura era contenuto ma ben fornito di stipetti scuri, di una piccola lavastoviglie e di tutti gli elettrodomestici basilari. «Forno, frigo e fornelli ci sono. – si voltò a guardare Kacchan – Questo vuol dire che non morirò di fame!».

«Che vuoi dire?».

Izuku si voltò di nuovo e si diresse verso destra, dove c'era un breve corridoio che portava alla toilette e al bagno con la vasca. Si sporse all'indietro, oltre lo stipite, la voce allegra, ma ferma: «Che cucinerai tu!».

«Attaccati al cazzo Deku!».

«Se è il tuo va bene.».

«Cosa?».

«Cosa?» e Izuku rilasciò una risatina. Era di buonumore e, per davvero, quella casina non era male.

Scivolò dall'altro lato, dove in una stanza dall'ampia vetrata erano stati messi un paio di letti singoli. «Oh.».
Avrebbero dormito assieme?

Si guardò in giro e vide una seconda stanza, più piccola e senza finestre, occupata solo da una scrivania con sedia e una piccola cassettiera.

Uno strano trambusto gli fece distogliere l'attenzione dal suo tour, vedendo Kacchan piegato a rovistare negli stipetti della cucina, borbottando qualcosa di incomprensibile.

«Che cosa stai cercando?».

«Controllavo.», fece lui, inginocchiandosi e aprendo le antine sotto il lavello, fino ad infilarsi con la testa e le spalle dentro il mobile, un'imprecazione stretta tra i denti.

Izuku spalancò gli occhi e trattenne il respiro a vederlo in quella posizione, i jens chiari che si tendevano su quelle natiche perfette: «Che culo ragazzi...».

«Cosa?», chiese il biondo, mentre faceva cadere qualcosa e imprecava di nuovo contro un rubinetto che non voleva aprirsi.

Izuku scosse la testa e si sforzò di tornare in sé: «Che controlli, scusa?».

«Il gas e... ngh! L'acqua. Ma è bloccata!».

«Ah, beh. – tentennò, incerto su ciò che stava per dire - Vuoi che provi io?», ma ricevette solo un mugugno in risposta.

«Ok, dai. Spostati Kacchan.», e gli si avvicinò, battendogli con la mano al centro della schiena mentre gli s’inginocchiava di fianco.

A quel tocco Katsuki fece un movimento brusco e tutto accadde troppo in fretta per capire cosa davvero potesse essere avvenuto prima, se la piccola esplosione che aveva fatto saltare il rubinetto dell'acqua o la tremenda botta che lui aveva preso per lo spavento di sentirsi toccato senza preavviso.

Il getto d'acqua lo colpì in pieno e lui provava a tentoni a fermarlo, finendo per lavarsi completamente e infradiciare pure Izuku, che a sua volta stava infilando le braccia dentro il mobile, nel disperato tentativo di aiutare l'amico a fermare quel disastro.

Alla fine, con entrambe le mani, riuscirono a bloccare il flusso, con Kacchan che respirava pesantemente, la testa tra le braccia tese, in equilibrio sulle ginocchia in una posizione talmente scomoda da fargli male i quadricipiti. Izuku, nella stessa posizione, stentava a riprendere fiato durante la risata liberatoria che si stava facendo, poggiando la guancia sulla spalla e sfiorando il braccio di Kacchan col proprio.

«Non-ridere.», scandì il biondo.

«Non ce la faccio!» e l'altro grugnì, provando a dargli una spallata, alzando la testa per guardarlo con espressione truce, nel vano tentativo di farlo esplodere con un solo sguardo. Ma Deku aveva il viso bagnato dall'acqua e dalle lacrime e Katsuki si sentiva un tale idiota... Gli sfuggì una risatina. Qualcosa di lieve, di gola, rauco. Perché la risata di Deku era sempre stata contagiosa quando era così, di pancia.

E lì c'erano solo loro due e con lui non aveva più paura di sentirsi giudicato se si lasciava andare. Rise. Rise pure lui di gusto, attirando l'attenzione di Izuku, che lo osservava, smorzando pian piano la propria risata.

La cicatrice sull'occhio destro era davvero orrenda. Non se ne era mai reso conto, forse perché non aveva mai avuto l'occasione di osservarlo da così vicino. La pelle era come raggrinzita, di una tonalità più scura rispetto al resto della carnagione, frastagliata ai bordi e lunga da arrivare fino alla mandibola e poco oltre.

Ma Kacchan era bello anche così e nulla avrebbe potuto fargli cambiare idea.

Ebbe l'impulso di sfiorare la cicatrice con le dita, di togliere le mani da quelle di Kacchan, che stringevano il tubo e ne bloccavano il flusso, per portargliele sul viso e sentire la differenza dal resto della pelle...
Ma la risata graffiata che si affievoliva frenò quel pensiero e si ritrovarono a guardarsi negli occhi, i capelli fradici che gocciolavano sulle loro fronti e sui loro visi.

«Deku?».

«Kacchan?».

«Dopo che abbiamo riso come dei coglioni, pensi di schiodarti e chiamare un idraulico?».

Izuku sfarfallò le palpebre per riprendere coscienza di sé, del proprio corpo e di quelle parole che erano state quasi come uno schiaffo, mollando subito la presa sul tubo per togliersi a fatica da quella posizione sbilanciata. «Sì, scusa...».

Si rialzò con calma: attorno a loro c'erano piccole pozzanghere d'acqua che riflettevano la luce proveniente dal grande finestrone opposto alla cucina.

Izuku obbedì a quanto gli era stato chiesto e chiamò l'idraulico.
Il problema successivo fu spiegare a Kacchan che non aveva davvero prestato attenzione a cosa stesse dicendo o su quando sarebbe passato, perché troppo impegnato a fantasticare sul suo culo, mentre Katsuki se ne stava ancora piegato, con la testa sotto il lavello e tentava di trovare sollievo per le ginocchia.

 

•••


Non avevano avuto il tempo per fermarsi un attimo: quando rientrarono in casa era ormai notte e le valigie erano ancora lì, intonse, ad accoglierli in soggiorno.

Avevano sistemato alla bell'e meglio il casino combinato da Katsuki con l'acqua e poi erano dovuti andare in fretta alla stazione di polizia, registrarsi come da prassi per la missione, fare un briefing col capo distretto per avere un quadro generale della situazione durante una cena spartana, con cibo preso da asporto di un ristorante vicino alla centrale.

Katsuki, tra i due, era avvantaggiato: in aereo aveva dato una scorsa veloce al dossier della missione e si ritrovò deluso dal fatto che Deku, invece, non s'interessasse della cosa e fosse arrivato impreparato.

Il confronto con gli anni della scuola fu immediato e un po' rimpianse quell'Izuku secchione che aveva sempre una domanda per il professore o che faceva approfondimenti non richiesti.

«Che merda.», sbottò, osservando quei due cazzo di divani marroni e afferrando il proprio borsone per poi lanciarlo di peso sul materasso.

«Oh, e dai, Kacchan! Sarai abituato a cose più d'azione, ma ogni tanto un incarico più tranquillo ci sta!».

«Mi riferivo ai divani. E comunque no, non ci sta. È colpa tua se sono qui con te a sorbirmi un lavoro di merda in cui sembra che dobbiamo dare la caccia alle formiche!». A Katsuki non andava giù il fatto che avessero mandato lui, attuale eroe numero uno in classifica, a smantellare un ramo giovane e, dai report, inesperto di una nascente organizzazione criminale. «Mi sento preso per il culo.».

«Posso pensarci io?».

«No. – disse seccamente, mentre Izuku entrava in camera a sua volta col borsone – Tu sarai la mia spalla. Nessuna iniziativa, intesi?».

Izuku sospirò e fece roteare gli occhi. «E va bene Kacchan...».

«E non usare quel tono di finta accondiscendenza con me, nerd!».

Izuku trattenne a stento un sorriso di scherno, ma gli stava dando le spalle, per cui era più divertente punzecchiarlo senza che lui realmente vedesse le sue espressioni.
«Non è accondiscendenza la mia... Ho capito. Starò al mio posto, capo!».

Lo udì ringhiare: «E non chiamarmi capo! – sospirò pesantemente – Vado a farmi una doccia.».
A quello, Izuku si voltò ad osservarlo mentre usciva, l'asciugamano su una spalla e il beutycase sotto il braccio.

Poi ritornò dentro, la testa bionda oltre lo stipite della porta: «Per domani mattina sappi che la dispensa è vuota. A cento metri da qui ho visto che c'è un konbini: tu sei l'addetto alla spesa.».

«Ma... Anche io devo lavarmi!».

«E quindi? Mica ci facciamo il bagno assieme come due mocciosi! La vasca è grande a malapena per una persona!».

«Si, ok... intende-».

«No. È la tua punizione per essere così maledettamente imbarazzante su cose burocratiche che saprebbe fare pure un bambino.».

Izuku sgranò gli occhi e lo seguì con lo sguardo mentre lui richiudeva dietro di sé la porta del bagno, prima di voltarsi e osservare i loro due letti, ancora da fare.

Fece un respiro profondo, raddrizzando le spalle e agguantando il marsupio che aveva lanciato tra il cuscino e la parete, nell'angolo del letto.

Mentre chiudeva a chiave la porta di casa per andare a fare la spesa per l'indomani, si rese conto che quel mese di convivenza forzata si prospettava più duro di quanto avesse previsto.

La riprova avvenne circa trenta minuti dopo, quando rincasò con una borsa piena di cibo. Aveva faticato a trovare qualcosa che fosse di suo gradimento, perché in quell'anno e mezzo di lontananza s'era abituato a mangiare all'occidentale e alternava volentieri la colazione salata con schifezze dolci che in Giappone costavano uno sproposito, tipo i donut alla ciliegia che già pregustava.

Mentre si toglieva le scarpe, Izuku sentì del trambusto provenire dall'interno, e sperò vivamente che Kacchan avesse trovato almeno un ventilatore, perché in quella casa si moriva dal caldo già dal pomeriggio e il condizionatore era un'altra delle cose da far riparare all'idraulico.

«Tadai-», ma quel saluto gli si arrotolò sulla lingua e finì di nuovo nella sua gola a vedere Kacchan che armeggiava con un vecchio ventilatore ingiallito.

Strinse la presa sui manici della borsa. Doveva stare calmo.
Doveva stare calmo e controllarsi, perché vederlo così, col culo strizzato in un paio di boxer neri di Calvin Klein, lo faceva urlare internamente. E non solo.

Negli anni della scuola, mentre si cambiavano in spogliatoio, aveva volutamente ignorato le due grosse cicatrici che gli deturpavano la spalla sinistra e il fianco destro. Erano un monito alla sua avventatezza e ogni volta distoglieva lo sguardo.

Ma, dopo essere partito, non ci aveva più pensato. Non le aveva più sotto il naso ogni giorno. Kacchan le definiva sempre "decorazioni" con l'orgoglio di un guerriero barbaro che si scarifica la pelle per ricordare le proprie battaglie. Ma sapeva che pure quella era una cazzo di maschera.

Purtroppo, stavolta non erano le sue cicatrici a lasciarlo agitato. Era quella schiena nel suo complesso, imperlata di un velo di sudore che riluceva sotto la luce giallastra del salotto. Erano i suoi muscoli, i trapezi e i deltoidi per essere precisi, che guizzavano ad ogni movimento delle braccia mentre le sue imprecazioni volavano silenziose.

Avrebbe voluto accarezzargliela, la schiena. E nella sua mente s'insinuó un fastidioso tarlo, che lo fece divagare a immaginarlo sopra di lui, mentre quella schiena gliela graffiava urlando il suo nome.

Ignorò la rientranza della colonna vertebrale, che creava una depressione marcata sul fondo della schiena, prima di quel culo rotondo che avrebbe volentieri strizzato e preso a morsi in quell'istante.

Col sennò di poi, l'hostess avrebbe dovuto scoparsela. Magari certi pensieri, a mezzanotte, non gli sarebbero venuti.
O forse si sarebbero presentati lo stesso. Anche un santo avrebbe voluto scoparsi quel ben di Dio che aveva di fronte agli occhi!

Deglutì saliva quasi a vuoto e raccolse un briciolo di coraggio e di lucidità solo per esalare: «Che... Che stai facendo?», mentre infilava una mano nella tasca dei pantaloni per sistemarsi un'erezione fastidiosa.

«Sistemo quest-», ma finì la frase con una bestemmia e neppure troppo velata. Poi il biondo lo guardò da sopra la spalla sinistra: «Invece di stare lì impalato potresti darmi una mano, cazzo!».

Sorrise. E finalmente mosse i suoi passi verso il frigo, passandogli dietro e di lato in maniera spudorata e soffermando lo sguardo al di sotto delle natiche, dove le gambe toniche e snelle erano tese, i piedi in equilibrio sul loro lato esterno, le dita che si chiudevano ed aprivano a uno strano ritmo.

Si sforzò di esalare un "dammi un minuto", cacciando in ferigorifero la busta intera, senza neppure prendere la briga di toglierne il contenuto e sistemarlo.

Nel frattempo sembrava che Katsuki lo facesse apposta a girare attorno al motorino del ventilatore, flettere le ginocchia e spostando in fuori il sedere.

Izuku prese un profondo respiro, raccolse la poca calma e cercò di tranquillizzare il cuore posandosi sul petto una mano, ovviamente invano.

Braccio e dita si mossero senza davvero volerlo quando gli fu vicino, sfiorando il fianco destro, appena al di sotto del cheloide che fioriva sul suo dorso, verso il centro della schiena. E, cazzo! Aveva la pelle così calda e morbida...

Quel contatto durò un secondo, forse poco meno, ma quanto bastó per far scattare Kacchan, un saltino appena accennato per evitare che il cacciavite gli si piantasse su un piede, il respiro trattenuto per non rilasciare un verso troppo acuto, che però giunse lo stesso alle orecchie di Izuku, provocandogli un brivido lungo la schiena, la maglietta sudata e attaccata fastidiosamente alla pelle ora avrebbe voluto togliersela.

«Cazzo! Sta' attento! - gli passò la grata frontale con stizza, mentre si chinava a raccogliere il cacciavite - Prendi quello è tienilo lì davanti. Foro con foro.».

Izuku era imbambolato a osservarlo girare attorno al ventilatore, mettendosi di fronte a lui, lo sguardo concentrato sul contare delle viti e dei piccoli bulloni a farfalla.

La cicatrice sul petto non la ricordava bene. Lui non l'aveva mai esibita troppo. Come una specie di tesoro che non doveva essere scoperto da occhi indiscreti.
Era quasi ironico il fatto che avesse lo stesso sviluppo frastagliato di un grosso fuoco d'artificio, con tanti piccole escoriazioni biancastre e in rilievo tutto attorno, a mimare delle scintille.

«Kacchan...».

«Stai zitto e tieni su quella roba.».

Izuku gonfió le guance, spazientito.«Volevo solo chiederti come stavi. Non abb-».

«In piedi. Accaldato. Mezzo addormentato. Basta?».

Izuku esalò un profondo sospiro, trattenuto troppo a lungo, muovendo un po' i capelli di Kacchan, che tentava di avvitare il secondo bullone.

«Devi lavarti i denti.», berciò il biondino, lanciandogli un'occhiataccia.

«Vuoi forse baciarmi?».

«Cosa?».

«E tu sei sudato da far schifo...», ma il pensiero di finire in doccia a lavare la schiena di Kacchan gli s'insinuó in testa e non si schiodò dalla sua mente neppure quando l'amico, con un sorriso trionfante andò ad attaccare la spina del ventilatore, facendolo partire.

«Cazzo sì!», e lo dissero all'unisono, ma per motivi completamente diversi: Katsuki era felice di godersi un po' di fresco almeno mentre dormiva, Izuku era felice di osservare l'amico piegarsi tanto spesso e dargli così la visione di quel suo culo di marmo.

Un fruscio davanti a sé lo distolse dalle divagazioni, mentre Kacchan portava via il ventilatore per piazzarlo in camera.

«Mi sciacquo in velocità e ti lascio il posto!», disse, sgambettando verso il bagno e aprendo l'acqua in fretta.

Izuku rimase così, imbambolato e titubante, una domanda a rotolare fuori dalle sue labbra: «Ti devo lavare la schiena?», ma non ricevette risposta, se non lo scroscio che finiva, uno stridio umido di qualcosa sul pavimento e Kacchan che riemergeva dal bagno, sistemandosi i boxer sui fianchi, mentre sembrava che l'asciugamano gli facesse da mantello.

«Libero!».

Izuku lo seguí in camera, facendo appello al proprio autocontrollo per non rimanere lì a fissarlo come un cazzo di maniaco mentre si faceva il letto e, cazzo! ci sarebbe morto sul colpo se continuava a piegarsi in quella maniera!

Deglutì e afferrò asciugamano e beauty-case in fretta, le ciabatte tenute con due dita.
Ma, come temeva, l'acqua della doccia non gli diede sollievo.

Chiuse gli occhi e rivolse la faccia al soffione, poggiando la schiena alla parete di mattonelle chiare, lasciandosi cullare dal rumore dell'acqua e dal calore del getto. Si passò entrambe le mani sul volto, tirando all'indietro i capelli fradici prima di decidersi a prendere il bagnoschiuma e insaponarsi per bene.
La schiuma scorreva morbida e lieve sul corpo, gli occhi troppo pieni delle spalle e dei pettorali di Kacchan perché la sua testa potesse bypassare quelle visioni, il ricordo fugace dei polpastrelli che gli sfioravano la pelle...

Prese dell'altro bagnoschiuma, una quantità più generosa della precedente. Di nuovo passò le braccia, le ascelle, il petto... un tocco più deciso, più indulgente del precedente, fino a che la mano destra non scivolò in basso, a lavarsi con carezze lente tra le gambe.
Troppo lente, troppo lascive, tanto da fargli tremare le ginocchia e mordere con forza il labbro inferiore, mentre il getto dell'acqua gli sferzava la testa, il petto, e lavava via la stanchezza di una giornata, ma non certo le visioni oscene che la sua mente gli proiettava sulle palpebre chiuse.

Venne nella propria mano, dopo un tempo che non seppe quantificare, troppo breve di sicuro per la voglia che aveva ancora.
Prese la doccia, sciacquò via tutto e si lavó di nuovo, in fretta e col fastidio di essere ancora duro e troppo sensibile.

L'ultimo risciacquo lo fece con l'acqua fredda, giusto per sbollire un po', per abbassare quell'erezione che stava ancora lì, a rammentargli che la sua ossessione non s'era affievolita proprio per niente.

Una volta uscito dal bagno la casa era silenziosa e buia e provó ad andare a tentoni verso la camera. C'era un piacevole giro d'aria e si rese conto, accendendo lo schermo del cellulare per farsi luce, che il suo letto era stato fatto e la sua valigia era stata riposta sulla mensola sopra il letto.

Kacchan dormiva, rannicchiato in una maniera strana, con la schiena verso la porta, l'aria del ventilatore gli muoveva i capelli.
Avrebbe voluto accarezzarlo, svegliarlo con piccoli baci e morsi su quella schiena ampia che per lui era sempre stata come un porto sicuro, una certezza in un mare di merda. Poco gli era importato, negli anni, che quella schiena fosse rivolta verso di lui per sdegno, per odio, o perché era semplicemente un posto avanti a tutti.

Sospirò prima di un profondo sbadiglio e si sedette di peso sul letto, le molle cigolarono in maniera sinistra e il materasso gli risultava un po' troppo morbido per i suoi gusti. Si accasciò di lato, la testa sul cuscino verso l'ampia finestra, guardando Kacchan muoversi e finire a pancia in giù, con le braccia sotto il cuscino.

Prese un profondo respiro e chiuse gli occhi. Forse poteva andare tutto per il verso giusto. Forse avrebbero ripreso da dove aveva lasciato un anno e mezzo prima. E quella sembrava l'occasione giusta.

L'ultimo sussurro di Izuku fu solo un "Grazie Kacchan", prima di piombare nel mondo dei sogni.

Katsuki mosse la testa e lo osservò, sollevando di poco la faccia dal cuscino: «Notte Deku.».

 

If we really wanna change
We gotta learn from our mistakes
Can we start over, start over?
With a past we can't erase
And a stain to every name
Will we find closure or circle the drain?
~ Wage war ~

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Capitolo 6
*** Pancakes and popcorn ***


Pancakes and popcorn 



Il girasole è un emblema preferito di costanza.
~ Thomas Bulfinch ~

23 giugno

L’aria condizionata era durata meno di una settimana.

E quel che era peggio è che s’era rotta la sera precedente, un sabato particolarmente afoso, dopo una giornata estenuante di pattugliamento a Obihiro, nel distretto di Kasai, a nord di Urakawa.

Anche l’aver dormito con la finestra aperta non aveva dato alcun tipo di refrigerio, costringendolo a scacciare a manate quelle tre o quattro zanzare che avevano deciso di prenderlo di mira come loro pasto.

Odiava quel posto, troppo afoso per i suoi gusti, con la casa che puzzava ancora di vecchio e stantio nonostante l’avesse pulita da cima a fondo un paio di volte i primi giorni, passando perfino le maniglie con candeggina e spray disinfettante. Ma il profumo fresco del limone aveva lasciato di nuovo spazio all’odore nauseante di una casa troppo vissuta.

In quella cornice fatta di divani spaiati e condizionatori difettosi, Katsuki aveva passato la notte in bianco, dando la colpa un po’ al caldo e un po’ a quello schifo di curry ramen che gli avevano servito nella bettola in cui si erano fermati a cenare dopo il turno, poco distante dal fiume Satsunai. Ramen che gli si era riproposto tra stomaco ed esofago fino alle quattro della mattina, costringendolo ad alzarsi per disperazione, provando, con due dita in gola, a vomitare quel pasto che era più una tortura che un piacere.

Era tornato in camera, stiracchiandosi rumorosamente, agguantando i vestiti che teneva sullo schienale di una sedia pieghevole, deciso a farsi una corsa in città prima di cominciare quella inutile giornata di riposo.

Prima di uscire aveva osservato Deku dormire in maniera scomposta sul suo letto, la maglietta grigia sgualcita e mezza sollevata oltre l’ombelico, una gamba oltre il bordo del letto, a penzoloni e le braccia messe in una maniera tanto innaturale che si chiese come facesse ad averle ancora entrambe funzionanti. Grugnì per l’invidia verso un sonno profondo che lui non poteva più permettersi da un sacco di tempo.

Aveva preso l’abitudine di correre circa mezz’ora o poco più ogni mattina, col fresco, collaudando il percorso mentre costeggiava l’ospedale e prendeva la strada a ovest, che tagliava tutto il parco Tokiwa e saliva, passando tra vecchie case lasciate un po’ a se stesse e piccole macchie di boscaglia incolta fino ad arrivare al grande cimitero, le cui tombe si affacciavano sulla strada stretta e si estendevano per duecento metri o più sia proseguendo la strada principale, sia addentrandosi nei sentieri laterali che si diramavano da essa, da parte a parte.

Ai più sarebbe risultato macabro, ma quel percorso era poco frequentato e la strada era quasi sempre deserta. Solo che quel giorno si sentiva davvero fiacco e non ce la fece ad affrontare la salita, ripiegando sul percorso alternativo, quello che di solito faceva rincasando,

Era troppo presto perché l’Asshu Cafè forse aperto. Lì facevano dei waffle molto buoni e avrebbe voluto portarne a casa un paio a Deku. Almeno non avrebbe continuato a mangiare quello schifo di donuts alla ciliegia che si ostinava a comprare al konbini!

Ma fu proprio su quel negozio che gli toccò ripiegare, perdendo cinque minuti buoni per scegliere che dolce prendere, senza però arrivare ad alcun risultato.

Alla fine, decise di pensarci da solo alla colazione.

 

•••

 

La sveglia di Izuku suonò alle 6.00 precise. Lui la posticipò di nove minuti, come se quella cosa potesse salvargli l’intera mattinata.

Alla seconda sveglia si alzò controvoglia, un po’ stranito dal fatto che non vi fossero imprecazioni rauche a salutare quella nuova giornata.

Aveva tutti i capelli appiccicati alla nuca: quella notte aveva fatto particolarmente caldo e la finestra dischiusa non gli aveva dato sollievo, tanto che pure la maglietta gli si era irrimediabilmente appiccicata addosso.

Una doccia: avrebbe fatto una doccia e poi sarebbe andato alla centrale per iniziare il pattugliamento col capo distretto. Non era il massimo passare la domenica così, ma si era offerto volontario e il compenso di un mezzo turno extra faceva sempre comodo.

In quella settimana lui e Kacchan avevano sempre fatto il pattugliamento assieme, senza grossi drammi o difficoltà.

Non era neppure stato troppo molesto con le battute, forse perché, tra una rapina e una rissa e le relative scartoffie da compilare, non aveva trovato il modo giusto per approcciarsi a lui durante il lavoro.

Si era reso conto che aveva fatto un grosso cambiamento in un anno e mezzo e che riusciva a fare squadra molto più facilmente. In un certo senso, Izuku era orgoglioso di lui e per questo avrebbe voluto scusarsi di quella battuta fatta alla cena a casa sua. Solo che… mancava l’occasione.

Mancava sempre l’occasione. O, forse, non voleva crearla.

C’era stato il pranzo di mercoledì, in cui avrebbe potuto semplicemente dire un “sono stato un cretino a parlarti così”, ma si era limitato ad alzarsi e farsi le foto con un gruppetto di fan, lasciandolo in un angolo della caffetteria a finire il suo sandwich.

Si era reso conto solo in seguito di essersi comportato da vero stronzo. Ma anche lì, l’occasione per scusarsi era passata e lui non l’aveva minimamente colta.

Sbadigliò rumorosamente, la bocca spalancata, le lacrime di sonno a bagnargli gli angoli degli occhi, una mano a grattarsi la base della schiena, mentre ciabattava verso il bagno, col beauty-case sotto il braccio e l’asciugamano posato malamente sulla spalla.

A metà del suo percorso, con la coda dell’occhio lo vide.

Era passata già una settimana, ma ancora non si era abituato a vederlo girare per casa a torso nudo e con solo i boxer, rigorosamente neri, che gli fasciavano culo e fianchi come un guanto.

Gli aveva chiesto, ridendo, se le avesse prese tutte uguali e, di tutta risposta, s’era sentito dire che fare il modello di intimo aveva i suoi vantaggi. 

Ovviamente, Izuku dapprima s’era ammutolito, sgranando gli occhi a quel mezzo sorriso strafottente che Kacchan gli aveva fatto e poi s’era rifugiato in bagno a cercare online la pubblicità e, cazzo! lui e Tsuyu erano così belli e fotogenici, ammiccanti allo spettatore e… e niente: s’era dovuto fare una doccia fredda perché le sei del mattino sono un orario infame per chiunque per farsi una sega.

Kacchan era lì, in cucina, che stava cucinando qualcosa dal profumo dolciastro e… canticchiava? Da quando lui canticchiava?

«Bu-buongiorno?», arrischiò, sforzandosi di non guardargli il culo per l’ennesima mattina di fila.

«No.».

«No?».

«Buongior-no.».

Ok. È una battuta. Ridi Izuku.

«Ahah! Buongior-NO! Carina questa! - deviò dal suo percorso verso il bagno, avvicinandosi a Kacchan - Che combini?».

«La colazione, idiota. - si ammutolì per un momento, raddrizzando la testa e lanciandogli un’occhiata torva - Cosa pensi che stia facendo?».

Izuku annuì e sorrise, nel vederlo voltare con abilità il pancake sulla padella rovente.

«Hai fatto i pancake? Per me?», gli uscì con un acuto misto a un’incrinatura che lasciava trasparire un pizzico di emozione, sporgendosi di più verso l’amico, l’istinto naturale di passargli un braccio attorno alle spalle e stringeresti contro. Ma si trattenne, finendo per posare il mento sopra la sua spalla sinistra.

Katsuki sbuffò e gli diede una spallata per allontanarlo: «Togliti che fa abbastanza caldo così! - una breve pausa ed un mugugno- E punta quell'affare da un’altra parte.».

«Quell’affa-oh! - guardò in basso, erezione mattutina che non ne voleva sapere di smorzarsi - Scusa Kacchan… ma sai, è mattina per tutti!».

E il tuo culo non aiuta! Avrebbe voluto aggiungere, ma si morse la lingua per non continuare.

«Conosco la fisiologia del pene.».

Izuku scrollò la schiena: «Il fatto che usi termini scientifici mi mette i brividi.».

Katsuki voltò la testa e incurvò le labbra in un sorriso malevolo: «Perché Deku? Hai paura che nel sonno ti sventri?».

Izuku aprì bocca e poi la richiuse, la fronte aggrottata, leggermente pensieroso. «Questa frase è fraintendibile, lo sai?».

«Ah?».

«Niente. È che non mi dai esattamente delle vibes da serial killer.»

«I serial killer non danno vibes da serial killer. Sarebbe un controsenso. Sarebbero già tutti dietro le sbarre.»

Izuku ci rifletté un momento, il tempo che Katsuki impiattasse l’ultimo paio di pancakes, prima di passare dietro il versino e posare i piatti sul tavolo addossato alla parete.

«I serial killer di solito sono “brave persone che salutavano sempre”. Giusto?». E Izuku annuì, sedendosi di peso sulla sedia, abbandonando a terra il beauty-case. «Vero. - si guardarono dritti negli occhi - Quindi mi correggo: sei solo strano. E forse più nerd di me!».

Katsuki rimase con lo sciroppo d’acero a mezz’aria, a osservare Deku che tagliava con coltello e forchetta la pila da cinque pancake che aveva composto sul piatto.

«Dimmi che non è vero.».

«Cosa?», chiese con la bocca piena.

«Hai idea delle calorie che stai buttando dentro?».

Izuku si accigliò a vedere la faccia schifata di Kacchan per poi spostare lo sguardo sui due miseri pancake su cui stava dosando il secondo cucchiaino di sciroppo d’acero. Sapeva che era molto attento alla dieta, ma anche lui si allenava duramente e avrebbe dovuto recuperare le energie.

«Kacchan… - il tono si fece tenero - OFA consuma un sacco e non ho mai avuto problemi con la dieta. Anzi, ho sempre voglia di mangiare qualcosa per recuperare le energie! Grazie per preoccuparti per me, ma… dovresti essere tu a sgarrare ogni tanto, che dici? È domenica in fondo e sei di riposo! - gli allungò un pancake in più - Avanti! Non ti farà ingrassare questo...»

Ma Katsuki scosse il capo con fermezza, allungando una mano per respingere quella di Deku. «No. Sono già a posto così.» e tornò a mangiare in silenzio, sotto lo sguardo preoccupato di Izuku, che aveva un po’ meno appetito e si sentiva in colpa per mangiare così tanto davanti a lui.

Così decise di consumare solo metà della propria colazione e di alzarsi, prendere un contenitore e riporre l’attrazione metà per lo spuntino di metà mattina.

Katsuki lo osservò con muta curiosità, mentre poi spariva in bagno a farsi la doccia.

Osservò il piatto vuoto e sporco di Deku e prese un profondo sospiro: si disse di aver fatto male a voler cucinare quella colazione. Avrebbe dovuto attendere e prendergli quei cazzo di donut e mangiarsi il suo maledetto porridge proteico invece di ingurgitare quella bomba di zuccheri e grasso!

Ma quei suoi occhi… cazzo! Come gli brillavano gli occhi ad ogni boccone!

Aveva dimenticato quanto l’espressione di quel nerd fosse adorabile quando era felice.


•••

 

 

«Allora, Kacchan… - Deku si sedette di peso sul divano alla sua sinistra – Che vuoi guardare stasera?» e affondò la mano nella terrina di pop corn appena fatti. L’aroma del burro fuso si spandeva nell’aria attorno al divano, solleticando le narici di Katsuki, che era tentato di assaggiare quella bomba calorica che stazionava tra le gambe incrociate del ragazzo. Avrebbe voluto davvero prenderne una manciata, ungersi le mani e poi leccarsi le dita: se l’odore fosse stato invitante almeno la metà del loro sapore, avrebbe volentieri fatto schizzare i trigliceridi alle stelle per un singolo assaggio!

Invece vinse il suo lato militaresco, quello che gli imponeva ritmi rigidi e pochi sgarri selezionati. Come quel gelato di riso, con solo l'8% di grassi e 190 calorie per 100 grammi di prodotto, pesato maniacalmente al centigrammo.

La schiena era tanto sudata da appiccicarsi alla pelle bruna e logora del divano e si maledisse per aver tenuto la canotta al posto della maglietta. Inspirò profondamente ed espirò, gonfiando le guance, cacciando in bocca un cucchiaino colmo di gelato.

«Prima di questa tortura…».

«Ehi!».

«…stavo facendo un rewatch degli OAV di Dragon Ball».

Izuku lo osservò con gli occhi sgranati: «Kacchan… è la quarta volta che lo fai!», e quell’altro sbuffò di nuovo.

«E quindi? È un evergreen!», e pigiò il tasto play.

Katsuki fin da bambino era stato un lettore poliedrico, in adolescenza aveva sviluppato una predilezione per gli seinen (Berserk su tutti) e per i fumetti dei supereroi americani, su tutti quelli della DC, dai toni decisamente cupi come Spawn, in netto contrasto con Deku, che invece aveva un debole per Iron Man della Marvel, e con il quale si ritrovava spesso a discutere sulla validità dei personaggi dell’una o dell’altra casa editrice.

L’unica cosa su cui avevano scoperto di andare d’accordo era Dragonball: odiavano gli stessi cattivi e analizzavano punti di forza e punti deboli dei loro beniamini.

«È roba degli anni ottanta! È superata!»

«Disse quello che è arrivato a imparare a memoria le battute di Harry ti presento Sally!», e Izuku si accigliò, prendendo una manciata generosa di popcorn e schiaffandosela in bocca con fastidio, un mugugno lugubre accompagnava il suo sguardo contrariato verso Kacchan. Perché sì, quel nerd di Deku aveva un debole per le commedie romantiche vecchio stile.

«Hai vinto… - berciò – Quale film?».

«La rinascita della Fusion.» e Izuku alzò gli occhi al cielo, sistemandosi meglio sul divano, la spalla che quasi toccava quella di Kacchan, mentre lui alzava il volume e il ventilatore faticava a tenerli entrambi freschi.

«Staccati. Fa caldo.».

«Il divano è piccolo.».

«Ce ne sono due.».

«Da qui si vede meglio.».

«Scollati.», ringhiò il biondino di rimando e Izuku strusciò il sedere sul sedile per allontanarsi un po’ da lui; non troppo, ma quanto bastava per Kacchan per potersi sentire soddisfatto.

«Spegni la luce, nerd.».

Stavolta è Izuku a sbuffare, sporgendosi all’indietro, visualizzando l’interruttore accanto all’entrata. Alzò un braccio, liberando frusta nera fino all’ingresso. Il fascio scuro d’energia colpì l’interruttore, disattivandolo e facendoli piombare in una semi-oscurità.

 

 

•••

 

Un urlo.

Un urlo disumano e prolungato lo fece alzare di scatto, la faccia grondante di sudore, i capelli umidi e appiccicati alla fronte: Katsuki era frastornato e stentava a mettere a fuoco attorno a lui, perché le palpebre erano troppo pesanti.

Di nuovo quell’urlo gutturale, forte e prolungato, come se provenisse da un posto molto vicino.

Talmente vicino che bastava allungare una mano e...

Un’esplosione forte.

Izuku si mise a sedere di scatto, colpendo qualcosa di duro e urlando per lo spavento: perché il suo Danger Sense non aveva funzionato? Eppure, erano sotto attac-

Boom!

Una detonazione attutita lo scaraventò contro la parete assieme al divano. Sentì cadere su di sé qualcosa di morbido e leggero e gli sembrò di udire la voce di Kacchan tra il fischio fastidioso che aveva nelle orecchie dopo l’esplosione. «Kacchan! Kacchan va’ via!», sbraitò, combattendo a manate contro quelle cose soffici che lo circondavano con leggerezza.

Katsuki imprecava, andando a tentoni verso l’ingresso e sbattendo un ginocchio nudo contro lo spigolo di qualcosa.

Oltre la porta finestra la luce giallastra dei lampioni filtrava dalla tenda sottile, dando un tocco tenue di colore a quel buio. Un paio di cani del quartiere abbaiarono, qualcuno gridò per farli smettere.

«Che cazzo! Ma che ti prende idiota!», sbottò, stropicciandosi l’occhio destro col palmo della mano, sbadigliando a fine frase a bocca aperta, senza alcun ritegno.

Deku era circondato da un nugolo di ovatta e brandelli di stoffa del cuscino che lui aveva usato per attutire la forte esplosione che aveva rilasciato per svegliarlo.

«Freezer voleva distruggere la terra!».

«Freezer?».

Izuku si tirò a sedere a fatica, massaggiandosi la schiena.

Dovevano essersi appisolati sul divano, perché la tv era tornata al menù iniziale del vecchio dvd. Sbadigliò pure lui e annuì: «Un incubo!»

«Tu sei un incubo, cazzo! – alzò la voce, i palmi scoppiettanti e l’espressione furente - Ma che cazzo ti salta in testa di urlare così alle tre di notte!» e calcò pesantemente i passi verso la grande finestra del salotto, scostando di poco la tenda: in strada si erano riversate delle persone, che si guardavano tra loro, assonnate e confuse, per cercare di capire cosa davvero stesse succedendo.

«Ma Kacchan! Sognavo di essere Goku! Stavo per raggiungere il quarto livello!».

A quelle parole Katsuki non ci vide più, tornando verso il divano e afferrando Deku per la maglietta, sollevandolo fino a portarselo ad un palmo dal naso: «Sì perché la tua idiozia, raggiunto il quarto livello, diventa coglionaggine! - sbuffò, passandosi una mano nell’ammasso informe di capelli che aveva in testa - Ma ti rendi conto delle lamentele che Hawks riceverà per questo?».

Izuku batté le palpebre un paio di volte e poi addolcì lo sguardo assonnato, una palese presa in giro nei confronti del biondino: «Non è che tu sia stato tanto più silenzioso sai! – fece una breve pausa, ridacchiando – E la mia coglionaggine non è al quarto livello! È over nine tousand, prego!».

Katsuki increspò le labbra e le serrò strette per non ridere a quella battuta da nerd. Gliene diede atto: aveva esagerato pure lui, ma era tutta colpa di Deku se si ritrovava in quella situazione!

Si guardò attorno, mentre gli ultimi fiocchi di imbottitura del cuscino si posavano sul pavimento e poi mollò la presa sulla maglietta chiara di Deku, che ora era sporca di una leggera fuliggine: «Ti proibisco di mangiare ancora quei popcorn con la salsa al burro! Se il tuo mangiare pesante porta a questi risult-»

«Vabbè Kacchan! Quanto la fai lunga!» e svicolò dalla sua figura per andare verso la cucina e aprire uno stiletto accanto al forno, rovistando per bene dietro a tutto quello che conteneva.

«Non avevo finito!»

«Io sì. E ho pure sonno… quindi se non vuoi vedermi ancora cercare di trasformarmi in un super Sayan mi lasci in pace a bere il mio digestivo!».

Nel suo anno e mezzo all’estero, Izuku aveva avuto la fortuna di soggiornare in molti paesi, talvolta, quando il lavoro lo permetteva, pure di visitarli.

Nel mese trascorso in Italia aveva avuto modo di ammirare la bellezza delle sue città storiche e di deliziarsi il palato con quello che tutti consideravano la cucina più buona del mondo. E a ragione!

Fu lì che imparò quella strana (e deleteria) abitudine di finire il pasto non solo con un caffè super concentrato che loro chiamavano “ristretto”, ma talvolta anche con un “digestivo”, ovvero un bicchierino di liquore.

“Par parar zó”, così gli aveva detto l’oste veneziano con un sorriso, mentre il questore sghignazzava nel vederlo fare facce improponibili.

Izuku andò oltre quel primo approccio, che era stato un digestivo alle erbe troppo amaro per la sua lingua delicata, fino a trovare i due prodotti che l’avevano fatto innamorare di quel piccolo rito culinario.

In Giappone il limoncello aveva prezzi proibitivi e non s’arrischiava a berlo se non era fatto con “vero limone di Sorrento”. Gli ricordava l’odore del mare e la brezza fresca che lo accarezzava mentre se lo gustava dopo cena, in un locale sul lungomare di quella cittadina.

Così aveva ripiegato sul secondo liquore preferito, il meno amaro tra tutti quelli che aveva provato, fatto con un mix di erbe e spezie, dall’intenso sapore di menta: al kombini vicino casa aveva trovato un’offerta vantaggiosa e ne aveva preso una bottiglia, giusto per vedere se il gusto era quello che ricordava.

«Cosa cazzo stai facendo?».

Katsuki avrebbe voluto guardare oltre le sue spalle, come facevano quando erano più piccoli, ma ora la differenza di altezza era tutta a suo svantaggio e dovette affiancarsi a Deku, agguantandogli il polso per vedere cosa stesse provando a bere.

Mai avrebbe immaginato che fosse qualcosa di alcolico!

«Lascia il braccio, Kacchan.».

«No! Stai bevendo alle tre di notte!».

«Sto bevendo qualcosa che mi faccia digerire! Cosa dovrei bere, eh? Della cola? Che contiene caffeina? Sei davvero ottuso tu!» e con uno strattone si liberò dalla sua presa, tornando a versare il liquido nel fondo di un bicchiere. Un dito, non di più.

Katsuki sbuffò pesantemente e gli diede una pacca sulla nuca, senza che Izuku fiatasse, troppo impegnato a centellinare quella specialità che gli inebriava il naso con il fresco profumo di menta. «Domani mattina voglio trovare tutto pulito!», berciò, la voce impastata dalla stanchezza. Izuku non annuì nemmeno: sarebbe stato inutile ribattere e, in ogni caso, aveva causato lui tutto quel trambusto.

Si sarebbe scusato pure con i vicini l’indomani mattina.

Katsuki invece riempì una tazza con dell’acqua e la cacciò in microonde un paio di minuti per scaldarla.

Lui non doveva digerire nulla, se non l’ingombrante presenza di Deku nella sua vita. E non sarebbe bastato nessun bicchiere colmo di digestivo per farlo.

Si mosse avanti e indietro per l’angolo cottura, gravitando attorno a Deku, che ormai aveva finito il suo dito di liquore e lo osservava vagare con un movimento rapido degli occhi: aveva ripiegato su un infuso alla camomilla e valeriana per calmarsi e conciliare di nuovo il sonno.

Izuku dapprima lo paragonò a un vecchio rompiscatole, con tutte le sue fissazioni assurde, poi gli angoli della bocca si curvarono irrimediabilmente nel vederlo sorseggiare la tisana ad occhi chiusi, la testa che ciondolava in avanti per i ripetuti colpi di sonno. Quella versione meno esplosiva di Kacchan non la ricordava, ma era tenera ai suoi occhi e si ritrovò a incrociare le braccia al petto e a osservarlo, il sedere poggiato al ripiano della cucina. Era come uno di quei bambini che vogliono stare svegli per forza, ma rischiano di finire faccia a terra per il sonno.

Katsuki, dal canto suo, per il sonno ci stava morendo, con le palpebre che, una volta capito che non vi fossero pericoli, continuavano sistematicamente a chiudersi. Non aveva la minima idea di come si fosse ritrovato con la tazza in mano a bere una tisana che sapeva di finocchio e non di camomilla. Forse aveva sbagliato qualcosa.

«Che ne dici?». Provò a guardare Deku, ma non riusciva a metterlo bene a fuoco. Immaginò il suo sorrisetto di scherno e questo gli scaldò la faccia per la rabbia.

«Che vuoi?».

La voce arrivava ovattata e strizzò gli occhi con fastidio per cercare di capire cosa quel nerd gli stesse dicendo.

Izuku lo afferrò poco prima che si sbilanciasse troppo in avanti, salvando la tazza dallo sfracellarsi al suolo: «Meglio se andiamo a letto, che dici?».

Non lo chiese con malizia, solo con una punta di esasperazione nel tono di voce: un attimo prima stavano quasi litigando e ora Kacchan sembrava un agnellino. Perché? Che cosa s’era perso? Dove la sua mente aveva fatto cilecca nel comprendere la situazione?

Ma Katsuki si liberò in fretta dalla presa salda di Deku sulle sue spalle, borbottando che non gli serviva aiuto mentre se ne andava barcollando verso la camera, Izuku dietro di lui di un paio di passi, a braccia protese per essere pronto ad afferrarlo per ogni eventualità, perché aveva la stessa andatura di un ubriaco e la stessa capacità di valutare gli ostacoli, come gli stipiti delle porte, o di valutare che il letto su cui si era lasciato cadere di faccia non fosse il suo.

Izuku sospirò, stanco dalla giornata di pattugliamento in città, gli occhi e la testa pesanti anche per lui; si sforzò di girarlo e prenderlo in braccio, ma voltare un peso morto se sei fiaccato dal sonno e dalla stanchezza non è impresa semplice nemmeno per un eroe capace come Izuku!

Desistette nel momento in cui Kacchan allungò le braccia e agguantò il suo cuscino, rannicchiandosi nel portarselo contro, strofinandoci addosso la guancia e sbadigliando forte: era la cosa più carina che gli era capitato di vedere nell’ultimo periodo e cazzo! avrebbe voluto passare la mano in quella massa disordinata di capelli biondo cenere, ma si trattenne.

Si premurò di staccare il ventilatore e ri-posizionarlo accanto alla porta, rivolto principalmente verso Kacchan, che, tra i due, era quello che soffriva di più il caldo.

Spense la tv e le luci, l’ultima fu quella della camera prima di sedersi sul letto che, per quella prima settimana, era stato sempre occupato da Kacchan. Si accasciò sul lato destro, il viso rivolto all’amico che se ne stava disteso a pancia in giù, russando debolmente.

Si rese conto che avrebbe voluto avere più momenti come quello, una quotidianità che era oggettivamente estranea a entrambi. Era una convivenza forzata la loro, con Kacchan ormai abituato a starsene sempre da solo e Deku ad essere sempre circondato da persone.

Avrebbe tanto voluto che fosse il contrario, perché a Kacchan avrebbe fatto bene un po’ di compagnia, avrebbe smussato gli ultimi spigoli del suo caratteraccio. 

Poi però, in fondo, si rese conto che a lui Kacchan era sempre andato bene così, con tutte le sue contraddizioni e le parole brusche che facevano sempre un po’ più male del dovuto.

Si erano allontanati a vicenda in momenti alterni e lui era davvero fuggito all’estero alla prima occasione utile per non dover fare i conti con i propri sentimenti e la propria ossessione per lui.

C’era riuscito a superarla, per un periodo, mascherando tutto con una libertà cercata e sofferta. Ma l’averlo rivisto alla cena… non ce la faceva. Si sforzava di non urlare internamente ogni santa volta che lo vedeva al mattino, assonnato e mezzo nudo. Si sforzava di non dirgli in faccia quanto gli fosse mancato. Lo frenava sempre quel suo maledetto distacco, quel silenzio che lo avvolgeva. 

Si stropicciò il volto con le mani, uno sbadiglio rumoroso che parve neppure sfiorare le orecchie del bel biondino addormentato. Strofinò la guancia sul cuscino e la nota amarognola di caramello gli arrivò alle narici, mescolata a un rimasuglio di sapone, di pulito: sorrise contro la stoffa e chiuse gli occhi ancora di più, continuando a respirare quegli odori evanescenti, immaginandosi in un abbraccio stretto e un po’ frettoloso, proprio come quelli di Kacchan.

L’ultimo pensiero coerente prima di piombare in un sonno profondo fu rivolto al fatto che non riusciva mai a decifrare le sue occhiate o le espressioni o gli sbuffi. Probabilmente si era allontanato troppo e non riusciva più a leggerlo. 

O, forse, s’era solo illuso di saperlo fare.

 

Searching for a destiny that's mine
There's another place, another time
Touching many hearts along the way, yeah
Hoping that I'll never have to say
It's just an illusion
~ Imagination ~

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Capitolo 7
*** Tsurai - Painful ⚠️ ***


Tsurai - Painful ⚠️


Il girasole, senza sole, non dovrebbe far altro che abbassare la testa. Ma proprio allora la drizza ancora di più, sapendo che il sole prima o poi tornerà.
~ Fabrizio Caramagna ~

26 giugno

Il Festival delle Ortensie di Urakawa era solo uno dei tanti che spuntavano in Giappone nel mese di giugno.
Tutta la città era in fermento per questo evento che richiamava migliaia di persone dalle prefetture vicine. Nulla a che vedere con quello di Sapporo, ma per molti era più vicino ed abbordabile.
Deku e Dynamight erano stati convocati dal prefetto assieme al capo del Distretto di polizia per definire gli ultimi dettagli prima della festa.

Non erano mai successi disordini durante i festival precedenti, ma la prudenza non era mai troppa con una nuova organizzazione criminale in formazione di cui nessuno sapeva molto.

«Il festival è uno dei più importanti nella regione - fece il prefetto con voce greve - e per questo abbiamo chiesto l'aiuto anche ai colleghi della prefettura di Aomori che invieranno un distaccamento di eroi con l'equipaggio di Oki Mariner.».

Katsuki alzó la testa dal cellulare su cui stava prendendo appunti e osservò il prefetto, accigliato: «Vuol dire che non faremo il lavoro da soli?».

«Un weekend intero di festeggiamenti è impegnativo anche per due eroi famosi e capaci come voi. Proprio per la vostra fama rischiamo di attirare molti più turisti e rischiate di diventare una delle attrazioni del festival. Non possiamo permetterci di lasciare la manifestazione senza protezione se voi dovete firmare autografi!», sbottó con una punta di fastidio il capo della polizia, il viso rosso per la collera trattenuta.

«Ci sta.». Fu Deku a controbattere, pacato, poggiando una mano sul ginocchio di Katsuki, prevedendolo in qualsiasi suo discorso è troncandolo di netto. Il biondo lo guardò come se volesse cavargli gli occhi con un cucchiaino. «Se potessi avanzare una proposta, potremmo trovare degli orari durante i tre giorni di festa in cui ci possiamo alternare per fare foto con i fan e firmare autografi. Dopotutto è grazie alle persone comuni che siamo ciò che siamo ed è per loro che vestiamo questi costumi, no?».

Katsuki non aprì bocca, il prefetto si limitò ad annuire.
Il capo della polizia non poté fare altro che acconsentire e, programma del festival alla mano, cercare di far coincidere gli slot orari del "momento fan" con tutte le altre iniziative della manifestazione.

A Katsuki rodeva il fatto che ci avesse pensato Deku, che fosse sempre quello accomodante, che non avesse un minimo di orgoglio o di amor proprio per capire che avere altri eroi tra i piedi era una mezza sconfitta, perché quegli altri due seduti al tavolo con loro li stavano prendendo sottogamba e, a quanto pareva, non avevano ben chiare le loro capacità.
E poi chi assicurava loro che si sarebbero fermati a firmare autografi?

Di tutto quel bel discorso nella sua testa uscì solo un «Tsk!» e un incrocio stizzito di braccia.

•••

«Izuku-chan!».

La voce pacata di Tsuyu lo fece girare e sorridere. Alla cena degli ex compagni avevano scambiato solo poche battute, ma era una delle poche con cui il tempo non sembrava essere passato: avrebbe potuto stare via una vita intera e lei l'avrebbe sempre trattato come se si fossero visti il giorno prima. La adorava per quella sua genuinità e per la sagacia che aveva sempre dimostrato.

Le lunghe trecce verdi ondeggiarono quando la abbracciò di slancio, sollevandola da terra come se fosse fatta di piume: era sempre stata piccolina e agile, ma ora che la abbracciava stretta sembrava ancora più minuta di quanto non ricordasse dalla cena.

Un colpo di tosse alle sue spalle gli fece sciogliere lentamente quell'abbraccio e Tsuyu si spostò leggermente oltre le braccia di Izuku per scorgere Bakugō che li guardava spazientito.

«Katsuki-chan!» e la ragazza fece un balzo dei suoi, finendo direttamente addosso al biondino che, un po' interdetto, fece due passi indietro per stabilizzarsi e prenderla meglio tra le braccia.

Lei sapeva che lui odiava quando faceva così ed era sempre troppo imbarazzato per prenderla a male parole, soprattutto quando gli si spalmava contro. Le piaceva dargli fastidio e il sorrisino che aveva in faccia quando gli schioccò un bacio sulla guancia era tutto un programma.

«Ma tu lo sai che ha sempre avuto un debole per Kacchan?».

Una voce argentina fece distogliere lo sguardo di Izuku da quei due che ora si stavano prendendo a male parole, Tsuyu con la punta della lingua tra le labbra e Katsuki rosso di rabbia. O di imbarazzo.
Quando si voltò vide una ragazza dai capelli biondi e gli occhi grandi e gentili, la cui pelle riluceva appena alla luce del sole che riverberava sul porto. «Ciao Deku!».

Riconosceva quella voce ma non l'aspetto di quella ragazza, fasciata da una tuta aderente azzurra.
«Ha-Hagakure?» e lei gli fece un occhiolino e la linguaccia.

«Meraviglie della tecnica, non credi?», e fece mezza piroetta col borsone in mano, prima di piegarsi in un piccolo inchino verso Izuku, che era rimasto leggermente stupefatto nel vedere la ragazza invisibile ora con delle fattezze umane e non certo trasparente.

Le gli si affiancò, alzando il capo per osservarlo: «Alla cena ci siamo a malapena salutati perché ero in turno di pattugliamento... Mamma mia quanto sei diventato grosso! - Izuku abbozzò un sorriso - Jirō mi ha detto che ti ha trovato bene!».

«Sì. Sto bene. Tu? Come...?».

E la ragazza gli sorrise, chiudendo gli occhi entusiasmo ed indicando una specie di medaglione al centro del costume, sopra lo sterno: «Mi sono concessa un piccolo lusso! Guarda!» e premette il medaglione con un dito: nel giro di un secondo scomparve dalla sua vista, lasciandolo stupefatto, mentre si guardava attorno per cercarla.
Poi si sentì toccare la spalla sinistra e la vide ricomparire con la stessa velocità con cui era sparita.

«Una tuta a rifrazione! Fico no? Almeno non devo più andare in giro nuda!» e le vide le guance tingersi leggermente di rosa.

Ecco.
Aveva dimenticato quel piccolo particolare.

«Beh...».

«Beh cosa? Non trovi che sia un costume fico?».

«No. Non intendo questo.».

«E quindi cosa intendevi?».

«Ma niente! Era solo un pensiero a voce alta.».

La ragazza socchiude gli occhi e si piantò davanti a lui, l'indice puntato al centro del petto. Ripeté il gesto un paio di volte sgranando gli occhi. «Ma questi muscoli? - e lui fece mezza risatina - Beh comunque... Non parlare a mezze frasi, golden boy!».

Izuku le sorrise e alzò leggermente il sopracciglio sinistro, non staccando mai gli occhi dai suoi.

Al diavolo le regole. Al diavolo la sua immagine da perfettino santarellino: da quando era arrivato a casa dopo l'America non aveva battuto chiodo! E le seghe erano per lui fin troppo svilenti e da sfigati.

La voce si fece tenue, udibile a malapena dalla ragazza, il cui colorito sulle guance virò progressivamente dal rosa tenue al rosso intenso per l'imbarazzo delle parole che udì: «Mi sembra solo che sia un vero peccato che tu abbia deciso di coprirti così proprio per questa missione, non sei d'accordo?».

«De-Deku! Porca miseria! - e si coprì il volto con le mani, saltellando di qualche passo via da lui - Ma che fine ha-».

«Che fine ha fatto il dolce Deku? - la canzonò prima di posarle una mano sulla testa e scompigliare i capelli biondi della giovane - Vorrei saperlo anche io, Invisible girl.», e la oltrepassò con passo lieve, richiamato ad alta voce da Tsuyu.

Hagakure Toru rimase piantata a metà del molo, gli occhi azzurri sgranati ad osservare la schiena ampia di Midoriya Izuku che si allontanava.

Quello doveva essere un clone, un impostore! Non si spiegava altrimenti quello sguardo affilato e quel sorriso che - cazzo! - l'aveva fatta sciogliere!

Si decise a seguirlo scrollando la testa ma poi lo vide arrestarsi e voltarsi ancora verso di lei, con quel sorriso che ricordava fin dai tempi della scuola, le lentiggini a costellargli le guance come fossero piccole stelle.

«Potresti stupirti di quanto certe cose siano cambiate, Hagakure. - fece una breve pausa e il sorriso divenne accattivante, magnetico, per nulla rassicurante - Se solo ne avessi voglia...».

•••

28 giugno

Il prato accanto alla centrale di Polizia era gremito di persone e Izuku stava per finire il turno e dare il cambio a Kacchan.
Era preoccupato perché quel coglione esplosivo non stava riposando bene ed era molto nervoso. Più del solito!

Forse il sarcasmo di Tsuyu contribuiva al suo fastidio, dato che, nei pattugliamenti, non gliene lasciava passare una. Da sempre quella ragazza gli teneva testa e Izuku continuava a chiedersi come ci riuscisse.

L'altra domanda che si poneva, osservando gli atteggiamenti di entrambi, era perché lui non ci avesse mai provato. Sarebbero stati una coppia strana, ma equilibrata e, in taluni momenti, gli sembrò che avessero davvero una specie di feeling, una connessione.

Mentre se ne stava in posa a fare l'ennesima foto (con le guance che gli facevano male per quanto aveva sorriso!), si distrasse imaginandoli assieme, all'epoca del loro servizio fotografico, circa un anno prima. A quel pensiero il sorriso gli si smorzò sul volto e lo stomaco sembrò chiudersi ed annodarsi in una maniera tanto stretta da togliergli quasi il respiro.

Riceveva complimenti ed elogi e pacche sulle spalle, eppure di tutti gli sguardi incrociati in quelle quattro ore, l'unico che avrebbe voluto davvero attirare su di sé era quello di Kacchan. Ma lui, quando finiva la ronda dell'isolato e passava lí accanto, non lo considerava e, anzi, sembrava mostrare lo stesso disprezzo dei loro tempi bui delle medie.

Ma se quello era il suo modo per fargliela pagare per aver assecondato il Prefetto... Beh, sarebbe stato ripagato con la stessa indifferenza e lo stesso mutismo.

La sveglia sul suo cellulare suonò sommessamente a ricordargli che la sua giornata estenuante era finita.

Kacchan gli si avvicinò, cartellina alla mano da cui tirò fuori delle stampe di una delle sue foto migliori, in cui non aveva una posa minacciosa, ma era serio e guardava l'obiettivo con sguardo fiero.

Katsuki dispose sul tavolino le foto e si rese conto che quello lì raffigurato era un viso diverso dalla sua versione stanca che mostrava in quel momento: s'era fatto mettere tutti i turni di pomeriggio o notte perché dormire gli era difficile. E non era per il caldo di un condizionatore che non funzionava quasi mai, nemmeno per le zanzare o per il russare di quello stupido Deku...
Era nervoso e basta; e sfogava il nervosismo in corse sempre più mattiniere ed allenamenti appena aveva un momento libero dai pattugliamento o dalle scartoffie.

Lanciò un'occhiata torva a Deku, che finiva di salutare i fan accorsi: anche dopo mesi di assenza era sempre lui il favorito. Poco importava alla gente se ogni mese si alternava con quel Todoroki per il primo posto nelle classifiche di gradimento. Deku era costantemente un passo avanti a lui. Sempre.

Deku lo salutò alzando una mano mentre si allontanava quasi saltellando: «Beh, allora ci vediamo a casa Dynamight!». La sua unica risposta fu un grugnito.

Se la Commissione non avesse avuto tanta penuria di soldi, sicuramente avrebbe chiesto un appartamento tutto per sé, perché s'era illuso che le cose potessero essere recuperate, a piccoli passi, ma non vedeva da parte di Deku la voglia di avvicinarsi di nuovo.

Prese un profondo sospiro, si tolse i bracciali e li posò a terra, a fianco della sedia su cui si accomodò.

La piccola folla che s'era creata per Deku si diradò in fretta, lasciando davanti a lui una fila ordinata di persone che, silenziosamente, gli portavano merchandise da firmare o che gli chiedevano una foto con la voce incrinata dal timore.

Si sforzò di sorridere e di non essere inquietante nel farlo. E in quel momento invidió Deku in maniera così viscerale che dovette ricacciare indietro le lacrime, mascherandole con una soffiata di naso e una finta menzione ad un'allergia stagionale.

Quando la gente se ne andò e lui rimase da solo ad attendere che arrivassero altri fan o altri turisti, si rese conto che quelle quattro ore non sarebbero mai passate.

•••

«Ti va di mangiare un boccone assieme?».

Izuku voltò la testa di lato per capire da dove provenisse la voce; poi una schiccherata sul mento gli fece abbassare col sguardo sulla figura traslucida di Hagakure, in piedi di fronte a lui, che lo osservava con i suoi occhioni azzurri che riflettevano le luci dell'insegna della centrale.

«Hai finito il turno? E Tsu-chan?».

Col rumore delle bancarelle gremite e della musica che si diffondeva dai baracchini di giochi tradizionali era difficile farsi capire parlando a voce normale.

«Froppy è in pattugliamento verso la spiaggia. Ma se vuoi aspettare lei...».

«No! - fece un colpo di tosse e riprese un tono meno acuto - Mangiamo assieme. Ma prendiamo qualcosa e andiamo da me. Qui c'è troppo casino e non voglio che mi fermino.».

La ragazza annuì, portando le braccia dietro la schiena e dondolando sui talloni come una bambina, un sorriso debole e sincero sembrava illuminarle il volto più delle luci della strada: «Fai strada, Deku!».

Fu così che presero qualcosa lungo la via del rientro, qualcosa da ciascun banchetto che li ispirasse, ritrovandosi così due borsette piene di contenitori di stagnola e solo due bottiglie di birra per digerire il tutto.

Toru fece i complimenti di rito per la casetta ordinata e, a suo dire, deliziosa.
«È merito di Kacchan se è così! Tu non hai idea di com'era la mia stanza al campus!».

«Quello in America?» e Izuku annuì, mentre apriva i vari contenitori e li disponeva sul tavolo, invitandola ad accomodarsi.

«Oh, sì! Parlami dell'America! - spalancò gli occhi con entusiasmo - Vorrei che mi raccontassi com'è andata! Alla cena di classe sei stato così misterioso!».

«Ho letto da qualche parte che il mistero difende le nostre vite dal voler sapere ogni cosa...», sorrise il ragazzo, sornione, osservando la giovane guardarlo di rimando con le guance leggermente imporporate.

La vide deglutire, senza mai distogliere gli occhi dai suoi: «Beh... Io ho letto che non vi è nulla di nascosto che non venga un giorno rivelato... Magari è oggi quel giorno, mh?».

Izuku le sorrise e si accomodò di fronte a lei, non rispondendole davvero, limitandosi a un lieve "Itadakimasu" e iniziarono a cenare immersi nei pochi aneddoti divertenti di Izuku nell'esercito, nei ricordi e nelle cazzate della scuola, perdendosi in un passato che era spensierato solo all'apparenza.

Finirono di cenare con calma, Toru mangiò poco o nulla e Izuku si chiese se fosse nervosa, se l'averla invitata l'avesse resa tanto tesa da quasi digiunare.

«Va tutto bene?».

La ragazza si morse l'interno della guancia ed annuì, giocherellando con una pallina di takoyaki, incerta se mangiarla o meno. «Sì. Sì va tutto bene...».

«Ma?»

«Nessun ma! Sul serio!».

Prima che lei potesse decidere, Izuku le rubó il takoyaki da sotto il naso con un sorrisetto.

«Quello è mio!», protestò Toru, mentre lo osservava portarsi quella pallina alle labbra, aprendo la bocca ma senza mangiarlo, come se volesse provocarla. A che gioco voleva giocare?

«Puoi sempre venirlo a prendere, sai!»

Dio! Era così in imbarazzo che sembrava aver perso qualsiasi dote di rimorchio che tanto aveva faticato per avere in quel breve lasso di esistenza. E Midoriya... Oh, lui era così diverso che stentava a riconoscerlo, se non fosse stato per il sorriso e le lentiggini e quella zazzera di capelli verdi e arruffati...
Vaffanculo a Jirō e ai suoi racconti molesti!

«Prima che me lo mangi io al tre...».

Cosa avrebbe dovuto fare? Assecondarlo?

«Due... sarebbe un peccato che tu non li provassi, giusto?».

In quei giorni non aveva fatto altro che punzecchiarla con battutine, trovando ogni occasione buona per sfiorarle la spalla, la gamba da sotto il tavolo, la schiena... E la scossa che sentiva era così potente ogni volta.

«Ti perdi un bel bocconcino Toru... Uno...».

Non l'aveva mai considerato. In classe era come se fossero tutti fratelli. Per lei almeno era così. Aveva avuto una breve storia con Ojiro ma nulla di serio e proprio Deku era l'ultimo dei potenziali partner. Meglio gente delle altre classi, delle altre sezioni.

Ma alla cena non l'aveva quasi riconosciuto e, stupidamente, non ci aveva manco parlato. Forse perché non s'erano mai davvero frequentati, perché non c'era un reale interesse. O una pulsione.

«Mezzo...».

Si alzò dalla sedia e si spostò di fronte a Izuku, cogliendolo di sorpresa quando gli si mise a cavalcioni sulle gambe, la schiena a spostare il tavolo per farsi spazio, inglobando tra le labbra quella pallina di polpo e, nel farlo, sfiorargli la punta delle dita con la lingua, lo sguardo fisso su quegli occhi di smeraldo, spalancati dalla sorpresa di quel gesto audace.

Masticò in fretta e gli fece un occhiolino, biascicando con la bocca piena: «Non rubare mai più il cibo ad una ragazza affamata!».

Ma quando Toru fece per sollevarsi da lui, Izuku la trattenne per i fianchi: «E se fosse un ragazzo ad essere affamato?».

Quel tono basso le fece vibrare le viscere e ringraziò di avere quella tuta o sarebbe stato ancora più imbarazzante.
Forse anche più della frase che le uscì di bocca: «Vorresti mangiare me, per caso?».

«Solo se lo vuoi anche tu.», ribatté con una scrollata di spalle, i loro visi a distanza, a scrutarsi le espressioni per sondare il terreno.

Ma le mani grandi che premevano su quella vita sottile e morbida erano un richiamo troppo forte per entrambi.

Izuku strinse un po' la presa, tirandola un po' verso di sé strofinandosela contro non tanto per farle sentire quanto fosse eccitato, ma solo per vedere la sua espressione stupita ogni volta che faceva qualcosa di inaspettato.

«Non hai risposto, Toru. Cosa vuoi, mh? - strinse e rilasciò la presa - Venirti a lavare con me o andare in albergo, da sola, a sfogare la tua frustrazione con un cameriere insipido?».

Toru deglutì e si umettò le labbra, guardando le braccia di Izuku e le sue mani sulla vita, prima di piantare gli occhi chiari nei suoi.

«In effetti... Puzziamo un po'.».

«Già. Oggi faceva davvero troppo caldo.» e mosse appena le gambe, facendola sobbalzare più vicino, le sue piccole mani appoggiate al proprio petto per cercare un appiglio.

«E con il festival e tutto mi ci vorrebbe una mezz'ora buona a piedi...».

«E sei stanca, giusto. - si sporse con la testa a sfiorarle il mento col naso - Magari ti lavi qui e poi ti riaccompagno, no?».

Toru chiuse gli occhi, godendosi quel brivido che le correva lungo la schiena dopo quel tocco.
Cazzo se ci sapeva fare!

«O magari no.», biascicò.

«O magari no. Senza impegno...».

«Sì. - annuì con leggerezza - Senza impe-», ma le parole le morirono in gola a sentire i capelli tirati con dolcezza all'indietro e con la stessa dolcezza il tocco di un bacio umido sulla gola scoperta.

Le ci volle qualche secondo prima di realizzare che lui le aveva messo di nuovo le mani sui fianchi e poteva tornare a fissare il suo sorrisino indecifrabile.

Izuku la incalzò, troppo su di giri per lasciarla andare così, senza neppure una ricompensa per essere stato un bravo ospite.

Fu Toru a sorprenderlo di nuovo, mentre le sue cosce gli stringevano le gambe e le sue braccia gli cingevano il collo, avvicinando i loro visi fino a far sfiorare le labbra in una carezza fastidiosa e sensuale, che divenne un bacio umido, un tirare la carne tra i denti, giocare con le lingue fino a perdere il fiato.

«Allora? Questa doccia?», lo incalzò lei, il respiro corto e le guance traslucide arrossate.

Alabastro. Ecco che cosa gli rammentava quella ragazza: l'alabastro tagliato sottile e ben levigato, così traslucido che la luce passa attraverso...
Ma era un pensiero forse inopportunamente romantico per quel momento, in cui Izuku la tenne stretta per i fianchi e si diede una spinta sgraziata: la sedia cadde, il tavolo quasi si rovesciò e le loro labbra non avevano intenzione di staccarsi se non per prendere fiato, mentre se la portava addosso fino al piccolo bagno.

Sotto i piedi nudi le piastrelle avevano quella frescura piacevole, che fece sorridere entrambi, quando Izuku la posò a terra. Nella mente gli balenò l'idea che quelle pareti fossero sottili, che i vicini potessero sentire ogni respiro o gemito, ma fu un lampo, un pensiero fugace che passò in fretta, così com'era venuto.

Ghignò a sentirsi spintonato da mani esili contro la porta chiusa, mentre le dita arpionavano il colletto della tuta e ne facevano scorrere la zip verso il basso.

Si stava sciogliendo dentro quel costume e la cerniera abbassata con tutta la lentezza di cui Toru era capace lo stava uccidendo. Lentamente, come un veleno.

Lei gli schiaffeggiò la mano che voleva aiutarla col cinturone e Izuku alzò le braccia, arrendevole, mentre la osservava concentrata e febbrile nei movimenti.

«Sicura che non vuoi un aiuto?».

«Taci. È già imbarazzante così.».

Serró le labbra prima di afferrarle delicatamente il mento e costringerla a guardarlo in faccia: «Se non vuoi no-».

«Oh, smettila, Izuku! È solo che hai un costume troppo complicato, cazzo!» e lui rise di rimando, scostandole le mani, slacciando la cintura e facendola cadere a terra con un tonfo.

«Vedi? Bastava chiedere.» e tornò arrendevole, mentre Toru, in punta di piedi, metteva forza nello sfilargli il costume dalle spalle tornite, sforzandosi internamente di non urlare come una stupida fangirl ad ogni centimetro di pelle che scopriva.

Si chiese quando di preciso Midoriya avesse iniziato ad avere quell'aspetto imponente e quei muscoli che guizzavano sotto la pelle mentre la assecondava nello spogliarlo.

Passò i polpastrelli sui suoi pettorali, coperti da minuscole lentiggini, la pelle leggermente abbronzata faceva risaltare le efelidi in maniera seducente e il suo tocco gli sollevava mille brividi sulla pelle accaldata e appiccicosa. Liberò le braccia dalle maniche con un gesto tanto fluido che Toru si chiese quante volte lui avesse portato qualcuno in doccia e-
Si sentì voltare con poca grazia, rischiando di scivolare se lui non l'avesse tenuta saldamente per le spalle.

Le mani di Izuku risalirono in una carezza leggera verso il collo, sfiorandole la nuca mentre le scostava i capelli a scoprire la piccola cerniera, quasi invisibile tra le cuciture del tessuto.

«Anche i vostri costumini sono abbastanza impegnativi.», esalò facendo un passo verso di lei, una mano a tenerle ferma la spalla sinistra, mentre indice e pollice tiravano giù la zip lentamente. La stessa lentezza che aveva usato lei. Solo che adesso lei aveva la schiena inarcata e, sotto il costume azzurro, la sua pelle traslucida diventava via via meno consistente, evanescente, dalla nuca sino alla fine della colonna vertebrale, tra le fossette che a malapena era riuscito a scorgere sul suo fondoschiena.

«È così strano...».

«Che-che cosa è strano?», le uscì con tono allarmato, certa di aver sbagliato qualcosa, pronta a morire di vergogna.

«La tua pelle. - le carezzò la schiena finì all'apertura della tuta, scostandola per sfiorarle la pelle trasparente - Ho sempre pensato che la tua pelle fosse fatta quasi a scaglie. O a piccoli prismi che riflettevano la luce e ti rendevano così...».

La voce bassa le solleticava le orecchie e trattenne il respiro a sentire quelle mani grandi percorrerle la vita entro la tuta ormai aperta, trattenendola a sé in un abbraccio morbido, da cui avrebbe potuto staccarsi quando voleva.

Ma adorava sentire quelle mani che le sfioravano la pelle, che quasi le facevano il solletico sopra l'ombelico.

La tuta, ancora indossata, non le permetteva di scomparire del tutto e Izuku era affascinato dal vedere come attraverso una cortina di fumo le proprie mani che si muovevano sul corpo della ragazza.

«Sono... È pelle normale. Solo che rifrange la luce e-», ma le parole le morirono in gola a sentire quelle mani che la piegavano contro il ragazzo, all'indietro, che le alzavano la testa per permettergli di baciarla.

«So come funziona. - la zittì Izuku - Solo che hai la pelle morbida-morbida e a me questa cosa fa impazzire...», le soffió sulle labbra, prima di baciarla ancora e di sfilarle la parte sopra della tuta, staccandosi da quel bacio, abbassarsi sulle ginocchia e facendo scorrere lungo i fianchi e le cosce quello che restava dell'indumento, lasciandolo poi abbandonato accanto ai suoi piedi.

Toru rimase un attimo immobile, dandogli la schiena, di nuovo completamente invisibile ai suoi occhi. Udí un fruscio e un mugugno. Avrebbe potuto girarsi e guardarlo mentre si spogliava, ma preferiva starsene lì, ad osservare la parete chiara della vasca e a chiedersi come ci fosse finita in quella situazione.

«Per favore apri l'acqua. - la voce di Izuku la ridestò dai suoi pensieri - Io prendo una cosa e arrivo subito.».

Si voltò di scatto, ma non vide altro se non la porta aperta e nessuno dietro di lei.

Aprì l'acqua, la lasciò correre e scaldare un po', fino a che un tenue vapore non la avvolse. Izuku non era ancora rientrato e si sentì un po' in difetto, perché forse lui si aspettava qualcosa di diverso, magari era il suo corpo, così trasparente, che non lo attraeva più.
Sbuffò e nello stesso momento sentì Izuku slittare sul fondo della vasca e avvicinarsi a lei, sovrastandola.

«Sotto l'acqua ti vedo!», esclamò e lei ne rise.

«Non è la scoperta del secolo, sai?» e si girò nel canzonarlo, sforzandosi di guardarlo in viso, anche se lui non avrebbe mai saputo dove lei realmente stesse volgendo gli occhi.

I capelli della ragazza erano fradici quando si avvicinò al viso di Izuku per baciarlo e chiuse gli occhi sentendo il getto dell'acqua calda che le bagnava il viso. Aveva paura che fosse un fuoco di paglia: le erano già capitati palestrati sottodotati o tutti quei bellimbusti fatti solo di parole vacue e pochi fatti! Un'altra delusione? No, grazie. Se la sarebbe risparmiata.

Ma Izuku era di tutt'altra pasta e, sotto il getto dell'acqua il suo sguardo vagava su ogni centimetro di pelle di quella ragazza invisibile e che, ora, era rivelato a malapena dal flusso della doccia, che le bagnava i capelli e scendeva, impertinente, tra i seni sodi fino a giù, tra le gambe e oltre le cosce.

Si mordicchiò una guancia e poi deglutì, allungandosi sopra di lei e afferrando il bagnoschiuma, cogliendola alla sprovvista nel versarglielo addosso, facendone colare un filo sul petto a rivelarne meglio la forma dei seni. Non aveva mai pensato a lei come partner sessuale, ma ora che l'aveva di fronte si rammaricava di non averci provato prima.

Spremette il bagnoschiuma sul palmo e lo annusò, chiedendosi dove avesse già sentito quel profumo tenue e fresco, prima di posare il flacone ed insaponarsi le mani e creare una schiuma bianca e soffice: «Sto per insaponarti, Toru...».

«Credo che a questo punto tu possa pure smettere di chiedere il permesso...» e gli prese i polsi, facendogli poggiare i palmi sul seno e a guidarlo per insaponarlo.

Quel tocco le fece socchiudere gli occhi e sospirare, lasciando la presa perché Izuku sapeva esattamente come toccarla.

Il seno, il petto, le spalle, le braccia. Ogni lembo di pelle sfiorato dalle sue dite le provocava brividi e le rendeva le ginocchia molli.

Izuku fece un passo avanti e finì con la testa sotto il getto d'acqua, costringendola a spalmarsi con la schiena contro le piastrelle fredde e a osservarlo dal basso mentre le sue mani si spostavano verso la pancia e il basso ventre, prolungando quella tortura che le faceva chiudere le cosce quando lui ritornava ad insaponarle i seni con più veemenza.

Si allungò di nuovo a prendere altro bagnoschiuma, farlo colare ancora tra di loro, cominciando poi a strusciarsi addosso a Toru, fino a sentire i capezzoli turgidi premere contro il suo stomaco, le mani che la afferravano per il collo e la nuca e se la tiravano contro le labbra in un bacio famelico, l'acqua che correva leggera su di loro e le piccole mani morbide della ragazza che lo carezzavano sui fianchi e sulla schiena, prima di afferrarlo con forza per le natiche quando il bacio si fece più profondo.

La udì ridacchiare appena riuscirono a staccarsi, per poi riprendere a divorarsi le bocche, le sue braccia forti che la avvolgevano e le sue unghie piantate nella carne delle braccia.

Di sapone non ce n'era più. Solo sospiri, risolini e un mugolio soddisfatto quando Toru si decise finalmente a prenderglielo in mano e a segarlo lentamente, come se volesse godersi il più possibile il suo premio.

Perché la ragazza, in quel momento si sentiva fortunata come se avesse vinto alla lotteria!

Lo allontanò giusto per voltarsi, far scorrere l'acqua sui capelli e la schiena e lasciare che lui la insaponasse di nuovo con quelle mani grandi e un po' ruvide.

Izuku aveva imparato, col tempo, ad avere una certa premura nei confronti dei partner che frequentava e con Hagakure non fu da meno, carezzandole i capelli, le spalle, le scapole, rivelando la forma di quel corpo formoso ogni volta che il sapone diventava schiuma candida, profumata ed evanescente.

Aveva la vita stretta e i fianchi torniti, un culo che sfidava la forza di gravità. Le fossette che aveva intravisto mentre la spogliava erano pronunciate sotto il tocco dei polpastrelli e non gli fu difficile usarle come guida, piantarci i pollici per attirarsela contro, fino a farle sbattere il solco delle sue chiappe morbide contro il cazzo, strofinandoglielo addosso, lubrificato dal sapone. La udì trattenere un sospiro, prima di sentirla muovere il bacino, venirgli incontro, vogliosa, con quel culetto che si muoveva con la chiara intenzione di provocarlo.

La allontanò e la girò di scatto, sostenendola per non farla cadere, afferrandole i seni a mano piena e baciandola, mentre lei continuava a toccargli il petto, gli addominali, facendo forza per staccarselo di dosso. Gli sorrise, ma sapeva che lui non lo poteva vedere bene o, forse, non lo vedeva proprio. E Izuku trovava estremamente eccitante dover usare tatto e gusto per capire dove fosse o cosa di lei stesse assaporando.

O cosa lei gli stesse succhiando: in quella foga, immersi nel vapore e nell'acqua che continuava a scorrere, Toru s'era abbassata, prendendogli la punta tra le labbra, baciandolo e leccandone la lunghezza, valutando se gli sarebbe stato davvero tutto in bocca. Perché Deku, alla fine, non era un fuoco di paglia. E lei non poteva essere più contenta di così.

Lo osservò dal basso, mentre con una mano si teneva al muro e con l'altra si scostava dalla fronte i capelli verdi arruffati, gli occhi smeraldini socchiusi a scrutare la sua figura, a provare a scorgere l'espressione soddisfatta che stava facendo nell'assaporarlo.
Ma tutto quello che vedeva Izuku era il suo cazzo che spariva in un calore che gli occhi non riuscivano ad associare a nulla ed era una cosa strana e complicata per la sua mente, tanto che dovette chiudere gli occhi e immaginare Toru come l'aveva vista a cena. Immaginare le guance tendersi mentre lo succhiava, i suoi occhi grandi che lo guardavano dal basso, supplicanti.

«Le mani. – fece un gesto con le dita – Dammi le mani.» e sentì il tocco sul palmo. Fece fatica a capire dove fossero i polsi, ma poi glieli strinse entrambi, l'uno sull'altro, sbattendoli contro il muro, tenendoli bloccati e strappandole un gemito quando le affondò in bocca con un movimento del bacino. Serrò gli occhi, immaginando i suoi chiusi, le ciglia imperlate di acqua e lacrime, il viso rosso per lo sforzo. La sentì, il fondo della gola sulla punta e la lingua che tentava di reprimere un conato mentre lui si ritraeva.

Voleva scusarsi, dire qualcosa perché era stato forse un po' troppo impulsivo, ma udì la risata gutturale della ragazza e subito dopo strinse un gemito tra i denti sentendola prenderlo di nuovo tutto, fino in gola, fino ad avere il naso premuto contro il pube.

«Cazzo! Toru!», e fu più forte di lui lo stringerle i polsi e muovere il bacino a scoparle la bocca, sospirando profondamente ad ogni affondo, fino a staccarsi da lei o non avrebbe resistito.

L'aiutò a sollevarsi e si baciarono, divorandosi per poi assaporarsi, fino a usare tocchi lievi di labbra prima di ricominciare, le mani che vagavano ovunque tra i loro corpi.

Izuku smise di baciare la ragazza e riprese in mano la situazione facendola voltare di schiena, con una mano la strinse a se afferrandogli un seno morbido, duttile quasi come creta nelle sue mani, spostando quel tocco deciso sulla vita e sui fianchi per capire dove fosse, sussurrandole nell'orecchio quanto fosse stata brava, prima di posarle una scia di baci lungo tutta la schiena, facendogliela inarcare sempre di più, brivido dopo brivido.

«Ti va se provo a fare una cosa?», le sussurrò sulla nuca, rendendola incapace di parlare, il ventre stretto in spasmi quasi dolorosi per l'eccitazione data dai suoi tocchi decisi.

D'improvviso Tori alzò la testa e si sentì avvolgere e stringere da qualcosa che percepì come energia pura sulla pelle, tiepida e piacevole: alle braccia erano avvinghiati fasci neri venati di verde, che producevano un leggero sfrigolio e lasciavano la pelle sensibile e reattiva. Il bagliore verdastro si rifletteva su di lei, rivelandone le forme ancor meglio dell'acqua. Si sentì divaricare le gambe e dovette poggiare entrambe le mani al muro per evitare di cadere.
«Ehi!».

«Tranquilla. Non ti faccio scivolare...», e Izuku le voltò la testa per rubarle un bacio, mordicchiarle il labbro fino a farla gemere, mentre la mano sinistra passava insistentemente nel solco fra le natiche, spingendosi più in basso, il medio ad insinuarsi tra le pieghe umide del suo sesso, giocare con la sua apertura stretta senza mai entrare, torturandola un po' mentre i fasci di energia della Black Whip si stringevano e si rilasciavano quasi ad ogni sospiro o ad ogni bacio, serpeggiando lungo le gambe della giovane, sollevandola di poco dal pavimento, ma mantenendola sempre stabile.

Izuku si staccò, chinandosi velocemente e strattonandola, per avere quel culo delizioso contro la faccia, succhiando quelle labbra ricche di umori dolci come se fossero un frutto troppo maturo, aprendole le chiappe a piene mani e stringendole di più quando lei gemeva con maggior enfasi. Gli piaceva la sua voce acuta, quei piccoli versetti, i respiri acuti trattenuti che le morivano in gola quando la sua lingua entrava e usciva da quel buco caldo.

Per Toru tutto quello era troppo ed era combattuta se trovare appiglio su quel muro liscio o se afferrare i capelli di Izuku e schiacciarselo contro, perché voleva sentire quella lingua calda lambirle le pieghe fino ad andare in profondità. Ansimava e gemeva e lo pregava di continuare. Pregava tra i denti o forse imprecava nel sentire quell'anergia attraversarla, farle contrarre le viscere e rendere ancora più molli le ginocchia, come se fluttuasse, la testa leggera e gli spasmi del piacere che la facevano muovere in maniera quasi incontrollata perfino le dita dei piedi.

Poggiò la guancia al muro tiepido, i capelli che le coprivano la faccia e che le entravano in bocca ad ogni respiro.

«Guarda che non abbiamo finito, To-ru.», scandì Izuku mentre le si accostava al viso, baciandola, facendole sentire il suo stesso sapore, che lei non aveva mai provato davvero, ma era troppo stordita per pensarci e si lasciò accarezzare la lingua dalla sua, si lasciò sollevare da quei fasci di energia scura che la voltarono verso il ragazzo, che ora armeggiava saggiamente con un preservativo.

Si sentiva un disastro, al pari di un cioccolatino dimenticato e sciolto in una tasca.

Eppure ogni bacio di Izuku era capace di risvegliarle i sensi, di farle protendere le braccia per avvinghiargli il collo e tirarselo più vicino, avida di lui, ancora pronta ad accoglierlo, sul punto di scoppiare di nuovo dall'eccitazione.
Non si chiese più che fine avesse fatto il ragazzino timido che si rompeva quasi tutte le ossa in ogni allenamento.

Quello che aveva di fronte era un ragazzo, un uomo, che era capace di rivoltarti come un calzino. E forse questa scopata epica se la sarebbe tenuta per sé e non l'avrebbe raccontata nemmeno a Mina. O forse no, perché tanto, in quel momento, tutto il resto era contorno, tutto il resto contava meno di niente.

Vide Izuku abbassarsi flettendo le ginocchia con membro in mano, stretto alla base, tanto duro che per lei poteva anche essere di marmo, e posandolo con cautela sulle sue labbra morbide, umide di saliva e di umori, e si alzò piano, in tutta la sua altezza, entrando in quella fessura come se fosse fatta di burro.

Si aggrappò a lui, la testa sepolta tra il collo e la spalla, mentre Izuku le sosteneva la gamba con un braccio e ondeggiava piano per abituarla.

«Non pensavo fossi così stretta...».

«Taci... Sei tu che sei tutto grosso, cazzo!», ma lo disse scherzando, i capelli che solleticavano il petto umido del ragazzo.

«A dire la verità non è neanche tutto dentro...» le disse Izuku, come a volerla fare eccitare di più soltanto con le parole, mentre la sollevava con il suo potere e la faceva poggiare con la schiena al muro, le gambe oscenamente divaricate.

Di nuovo quella strana sensazione, quella leggera angoscia di vedersi il pene come mozzato, scomparso, quando invece era ben protetto da un calore umido in cui sarebbe voluto affondare subito e con forza.

Lei aprì gli occhi e vide che aveva ragione, mancavano ancora alcuni centimetri e lui si era riservato un po' di spazio per farla abituare alle sue dimensioni e farla godere di più successivamente. «Cazzo!».

Le era uscito involontario, ma quell'esclamazione fece alla fine sorridere entrambi e, unita alla preghiera disperata della ragazza, diede il coraggio ad Izuku di spingersi in lei più profondamente. Chiuse gli occhi e li mantenne così per aiutarsi con la sua memoria visiva, immaginando il viso di Toru deformato dal piacere.

La giovane chiuse gli occhi e reclinò la testa all'indietro, inarcando la schiena, un urletto acuto le uscì di gola, mentre Izuku la abbracciava stretta e le lasciava piccoli morsi sulla tenera carne tra il collo e la spalla, muovendo il bacino con la stessa cadenza, inesorabile, senza uscire troppo da lei.

Erano un groviglio di gambe e braccia e fasci di energia che avvolgevano entrambi, l'acqua ormai fredda a bagnarne i corpi, i gemiti soffocati dai baci, piccole urla strette a forza tra i denti e brividi e calore che s'irradiava da quel delizioso movimento.

Ed erano stati tanto presi da quell'amplesso che avevano perso la cognizione del tempo.

«Oi!».

La voce arrivò ovattata alle orecchie di Izuku, troppo piene dei gemiti della ragazza che teneva per le chiappe e faceva saltellare sul suo cazzo senza troppo sforzo.

«Ci sei?».

Stavolta Izuku spalancò gli occhi e, a mano piena, tappò la bocca di Toru, per evitare che Kacchan li sentisse.

Katsuki, stanco morto dalla giornata, aveva trascinato i piedi sulle assi del pavimento fino in cucina, per bere dell'acqua fresca. Notò solo dopo, una volta chiuso il frigo e poggiato le terga contro il lavandino, che la sedia del tavolo era ribaltata e che il tavolo stesso non era nella posizione che ricordava, ingombro di incarti di cibo vuoto e due birre non finite a completare il quadro di un misfatto.

Udì un rumore provenire dal bagno e poi una specie di lamento: «Deku?».

Izuku imprecò a sentirsi chiamare da Kacchan, la testa sepolta nel petto morbido di Hagakure, col cuore di lei che rimbombava contro il suo orecchio. «Resisti piccola!», le sussurrò a denti stretti, mentre aumentava le spinte e lei faceva fatica a starsene buona e zitta, gli occhi semi-chiusi.

«Sono in bagno...», biascicò.

Katsuki si allarmò per il tono che aveva usato e si accostò alla porta, la bottiglia d'acqua fresca ancora in mano.

«Tutto bene, Deku?», ma il verdino soffocò un gemito, aumentando il ritmo per raggiungere il limite, mentre l'orgasmo di Toru le faceva rilasciare un gemito inequivocabile che neppure la mano di Izuku riuscì ad attutire.

Katsuki bussò alla porta e raccolse tutto il coraggio di cui disponeva, ritrovandosi a balbettare come un moccioso: «Stai... Stai bene, Izuku

Un altro gemito, più profondo, quasi un ringhio: questo uscì dalla gola di Izuku quando venne, stringendosi Toru addosso, quasi soffocandosi tra quelle tette morbide e trasparenti. La testa gli girava e sentiva tutto ovattato.

L'onda calda dell'orgasmo era stata intensa, più del solito; si convinse che fosse stata una stupida coincidenza il fatto che Kacchan l'aveva chiamato col suo nome vero, senza usare appellativi o soprannomi.

Farlo con Toru era stato strano e piacevole; sperò davvero che pure a lei fosse piaciuto.
Se la tenne tra le braccia, carezzandole la schiena con delicatezza per calmarla.
«Sono in bagno, che vuoi?», tentò di sbraitare, la voce resa roca dal troppo ansimare.

«Stai bene?».

«No.» e quella risposta secca fece spalancare gli occhi a Katsuki.

«Che hai?».

S'inventò una scusa plausibile: «Ho mangiato troppo e... e ho fatto un casino col bagno. Ho ancora crampi. Mi puoi andare a prendere qualcosa per favore?».

Katsuki guardò la porta, le dita a sfiorare la maniglia per aprirla mentre deglutiva. «Vuoi una mano?».

«No... Solo... Vai a prendere qualcosa per il mal di stomaco Kacchan...».

Katsuki ritrasse la mano, rimanendo interdetto per un momento, prima di fare spallucce e voltare la schiena alla porta. «E va bene, impiastro. Vado e torno. Non muoverti!».

Izuku tese le orecchie per capire se avesse davvero fatto come gli aveva richiesto.

«Era da una vita che non ti chiamava Izuku...», borbottò Toru, sollevandosi dalla sua spalla e provando a liberarsi dalla sua presa, sostenendosi comunque sulle sue braccia per stare in equilibrio e passare per l'ultima volta sotto il getto d'acqua.

«Credo... Credo di sì.», ribatté il ragazzo, sfilando e annodando il preservativo, prima di fare un breve passaggio a sua volta sotto l'acqua fredda, insaponandosi in fretta, mentre Hagakure rimaneva avvolta da un morbido asciugamano, appoggiata alla parete, gli occhi chiusi e il respiro ancora da regolarizzare.

«Resta qui. – sussurrò Izuku – Ti vado a prendere qualcosa da vestire.», aggiunse a bassa voce, prima di avventurarsi nudo e ancora fradicio verso la camera, sicuro di essere praticamente da solo in casa.

«Allora io va-», ma la voce alta di Kacchan lo fece bloccare a metà strada, voltando il capo verso la porta d'ingresso, scoprendo il ragazzo vestito con una tuta, che tentava di infilarsi un paio di sneakers e lo guardava di rimando, interdetto.

Perché Deku era nudo e grondante di acqua e non sembrava stare poi così male.

Izuku ci mise un attimo a realizzare che Kacchan non era ancora uscito e che era nudo come un verme davanti a lui, tanto da coprirsi subito il pube con le mani, in una posa tanto stupida quanto imbarazzante.

«Deku lascia stare. Mi rimetto la tu-», ma pure Hagakure si bloccò, stringendosi di più addosso l'asciugamano, che, agli occhi di Katsuki, fluttuava sospeso nel nulla. «Eheh... Ciaaao Bakugō-kun!»

Il biondo fece un respiro profondo e serrò le labbra e i pugni, che stavano cominciando a fumargli per il nervoso, mentre lo stomaco aveva deciso di annodarsi tanto da provocargli una fitta di dolore. Si sarebbe piegato e tenuto la pancia, ma non poteva mostrarsi così debole.

Si sentiva preso in giro da Deku e dalla sua bocca che continuava a sparare una marea di cazzate.

Annuì, arricciando le labbra: «Bel mal di stomaco, eh, Merdeku?», e a quel nomignolo a Izuku si contrasse il cuore, un battito perso, forse due e un bruciore insistente alla gola.

«E io che ero pure pronto a correre in giro come uno scemo per il tuo fottuto antiacido.». Katsuki si scoprì più deluso che arrabbiato.

Ma non era tanto per quella insulsa bugia che lui gli aveva rifilato per coprire una scopata. Si rese conto che era per la scopata in se stessa, per quella ragazza che stava immobile a guardarli. Forse. O forse no. Non l'avrebbe mai saputo e non gli importava.

«Kacchan... Senti...».

«Va bene così. Non dire altro. – spostò lo sguardo da lui a lei, per quanto poteva – Io esco lo stesso. Riportala in hotel, per favore: non gira bella gente stasera.», e detto questo prese il cellulare e le chiavi e se ne uscì, lasciando Izuku e Toru di sasso.

«Cos'è appena successo?».

«Non lo so Toru.». O, meglio, lo sapeva benissimo: Kacchan odiava le bugie e, per quanto lui l'avesse detto a fin di bene, per non dargli un qualche dispiacere o altro, gli aveva mentito. E la delusione profonda sul suo volto stanco gli strinse la gola e gli fece pizzicare gli occhi: gli sembrava di non aver fatto nulla di giusto con lui da quando era tornato e non sapeva davvero come pretendere di recuperare un rapporto che s'era irrimediabilmente incrinato. E non sapeva nemmeno se avrebbe dovuto prima accompagnare Toru e poi seguire lui, o chiamare un taxi per lei e-

Tornò con i piedi per terra solo quando si sentì sfiorare la spalla e vide la ragazza di nuovo con la tuta addosso, che finiva di sistemarsi i capelli umidi. Rivederla nella sua forma più umana e meno evanescente fu quasi un sollievo tanto quanto ricevere un bacio sulla guancia da parte sua. «Mi sono divertita, Deku. Grazie!».
Il tono era stanco, ma allegro e i suoi occhi chiari sembravano luccicare sotto le luci del salotto.

«Mi sono divertito anche io.».

Lei gli puntò il dito contro il petto e lo osservò con espressione accigliata e seria: «Vedi di rimediare!».

«Eh?».

«Vestiti e vai a rimediare! L'ho capito io che c'è rimasto male!» e Izuku abbassò il capo, pensieroso.

«E tu?».

«Io sono invisibile, ricordi?», squittì lei, sorridendogli con le mani dietro la schiena, prima di camminare lievemente verso la porta, infilandosi gli stivali.
«Credo sia stata la miglior scopata della mia vita fino ad ora, Deku!» e lui ridacchiò, ma era troppo preso da altro per stare al gioco o ribattere o evitare che se ne andasse da sola all'hotel. Avrebbe potuto riaccompagnarla. Avrebbero potuto testare pure la doccia della sua suite, se il pensiero non fosse andato costantemente a Kacchan e a quanto l'avesse visto deluso.

Mentre la ragazza apriva la porta, Izuku la richiamò: «Ehi, Hagakure! – fece una piccola pausa, certo di avere la sua attenzione - Non una parola, ok?».

«Promesso!», esclamò Toru, portando poi le dita alle labbra, simulando una cerniera.

Solo quando udì il tonfo leggero della porta chiusa Izuku si mosse, procedendo in fretta verso la camera per mettersi qualcosa di comodo, bere un sorso di birra nel tragitto tra la camera e l'ingresso e agguantare le chiavi di casa.

Doveva trovare Kacchan. E dovevano chiarire una volta per tutte.

So when you gonna tell ̶h̶e̶r̶ him
That we did that, too?
̶S̶h̶e̶ He thinks it's special
But it's all reused
~ Olivia Rodrigo ~


 

***

ANGOLO DELLE VESTIGIA

Yoichi (guardando Daigoro): «Ammetti che questo uso della tua unicità è a dir poco... stravagante!».
Daigoro: «No.».
Nana (punzecchiando Daigoro con un dito): «Oooh! Eddai! Ammetti che ad averci pensato tu prima avre-».
Daigoro: «NO!».

 

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Capitolo 8
*** We keep colliding losing hope ***


We keep colliding losing hope


Nei momenti bui della vita prendi esempio dal girasole. 
Alza la testa e cercalo tu, il tuo raggio di sole.

~ Anonimo ~

 

28 giugno

 

Un ago in un pagliaio.

Dio che modo di dire insulso! Chi mai si metterebbe a cercare un ago in un pagliaio? E poi perché ci dovrebbe essere un ago in mezzo alla paglia?

Izuku chiuse gli occhi e scosse la testa, perdendo un po' di quota.

Per quanto pensasse che quell'espressione fosse scema, la realtà dei fatti gli stava dimostrando che trovare Kacchan in mezzo alla folla che gremiva le strade accanto al porto era tanto difficile quanto scorgere davvero un ago in un pagliaio.

Fluttuava a una quindicina di metri da terra, ben attento a non farsi vedere dai civili, osservando con perizia tutte le teste che si muovevano per le strade.

Da casa loro i percorsi plausibili erano pochi e tutte le strade deserte erano tali e le aveva passate in rassegna velocemente, perdendo forse tempo prezioso.

Katsuki invece non aveva perso tempo e, una volta uscito di casa come una furia, aveva iniziato a camminare verso le bancarelle, mescolandosi a una folla sempre più compatta, scegliendo le stradine più strette, quelle che al mattino aveva già pattugliato, e che erano diventate dei percorsi obbligati fino al prato accanto alla centrale di polizia o fino al porto, dove era stato allestito il luna park. Combatteva col fastidio di sentirsi spintonato dalla gente, stringendo con forza i pugni entro i pantaloni grigi della tuta leggera, le dita che premevano tanto contro i palmi da lasciare sicuramente i solchi delle unghie al loro centro.

Fumantino lo era sempre stato, ma, col tempo, aveva imparato che la rabbia andava controllata e scaricata; così sfogava tutto ciò che non esprimeva nella corsa, negli allenamenti o, come in quel caso, in passeggiate che potessero liberargli la mente ed alleggerirgli il cuore. Inutilmente.

Si fermò in uno slargo e gonfiò il petto, cercando di rilassare le spalle e il collo, tesi fino a fargli male. Un respiro profondo ad occhi chiusi. Poi un altro, prima di aprirli e guardare in basso, sorpreso di vedere un moccioso che lo strattonava per il pantalone.

«Sei il signor Dynamight?».

Aveva gli occhi scurissimi e assurdamente grandi, la faccia tonda e un incisivo mancante. 

Fastidioso e adorabile.

Katsuki alzò un angolo della bocca e corrugò le sopracciglia; quell'espressione per lui tanto difficile, agli occhi del padre che s'era avvicinato per riprendere il figlio, sembrò benevola e non minacciosa come di solito si mostrava in pubblico e rimase interdetto per un istante.

«Sì, piccolo. Sono io.», gli rispose, flettendo le ginocchia e abbassandosi al suo livello, un ginocchio posato per terra per darsi maggiore stabilità mentre il padre del bambino sembrava sconvolto tanto quanto le altre persone che passavano accanto ed osservavano la scena, alcune anche filmando col cellulare quello che era un evento più unico che raro.

Katsuki respirava piano, regolarizzava il respiro, sforzandosi di non pensare a tutti quelli che lo circondavano, al brusio che s'era formato, concentrandosi e fissando i suoi occhi cremisi in quelli scuri del bambino che avrà avuto sì e no quattro anni o cinque.

Occhi che si spalancarono a sentire la manina calda e appiccicaticcia del moccioso che gli batteva piano sulla guancia destra un paio di volte, sfiorando la cicatrice che gli deturpava occhio, guancia e parte del collo. «Sei bravo! – fece con tono solenne – Da grande voglio fare l'eroe come te!». 

Il bambino venne strattonato e preso in braccio, rimproverato perché aveva dato fastidio ad un eroe nel suo momento di riposo, ma Katsuki guardò l'uomo dal basso e sorrise (o ci provò), più al moccioso che all'adulto, prima di alzarsi da terra e avvicinarsi ai due per pizzicare con delicatezza una guancia al bambino: «E io ci conto, intesi?», e stese le labbra a vedere il piccoletto annuire con forza, gli occhioni lucidi quasi quanto quelli del padre. Salutò con la mano a mezz'aria qualcuno che lo richiamava, prima di allontanarsi a capo chino. Avrebbe dovuto prendere un cappellino. O la felpa, anche a costo di schiattare di caldo; almeno si sarebbe risparmiato quella...cosa.

Col dorso della mano si strofinò la guancia dove aveva ricevuto quella carezza inopportuna e svicolò a passo spedito alcuni capannelli di persone, fermi in mezzo al passaggio tra le due file di piccoli stand e food truck da cui uscivano profumi deliziosi.

Ma non aveva fame: lo stomaco gli si era chiuso definitivamente quando aveva "visto" Hagakure uscire dal loro bagno.

Avrebbe dovuto aspettarselo, viste le battutine che lei e Deku si erano scambiati da quando avevano iniziato a lavorare assieme. Avrebbe dovuto aspettarselo, eppure non era preparato. Ma cosa pretendeva?

La delusione, in quel momento, permeava tutto il suo essere, dalla voce, ai gesti, pure il portamento era meno fiero, ingobbito e ciondolante.

Si fermò di nuovo in mezzo alla strada, le persone lo spintonavano e lo prendevano a male parole non prestando attenzione a chi fosse.

Era tornato ad essere invisibile. Come Hagakure.

Quello che gli faceva contorcere lo stomaco era che lei aveva attirato lo sguardo di Deku. Lui, invece, l'aveva perso.

In tutta quella faccenda, lei era il male minore. Forse era solo Katsuki ad essersi illuso che Izuku volesse recuperare il tempo perso, passarlo assieme.

Per quanto a parole o con le espressioni non lo desse a vedere, Bakugō Katsuki bramava la compagnia di Izuku; si era così abituato ad averlo sempre attorno, fin da piccoli, a tentare di allontanarlo e poi di riprenderselo, che l'anno e mezzo di separazione per lui era stato straziante.

«Dynamight? – Oddio! È lui! – Po-posso avere una foto?».

Un vociare di persone lo riportarono alla realtà: in mezzo alla folla sperava di riordinare i pensieri, ma s'era ritrovato solo ad incasinarsi la testa, cadendo in un loop di autocommiserazione mentre incrociava le braccia al petto e si posizionava al centro di un gruppetto di nerd dagli accessori improbabili per lasciarsi fotografare con loro. Perché se lo faceva Deku, pure lui ci sarebbe riuscito. E l'avrebbe fatto meglio di lui, meglio di chiunque altro.

Respirò a fondo e tirò le labbra in un sorriso forzato, ma che bastò a quegli sfigati di andarsene contenti e a lui di riprendere il suo vagare e i suoi pe-

Il terreno gli mancò da sotto i piedi, improvvisamente, facendogli cacciare un'imprecazione udibile dalla gente che aveva attorno, mentre veniva sollevato di peso in aria e spostato, tirato, reso alla pari di una marionetta da quei fasci scuri di energia che ben riconosceva.

Izuku gli sorrise, i polmoni rigonfi dal sollievo: «Ti ho trovato!», esalò, sgranando gli occhi verso il biondino che se ne stava avvolto nel suo Black Whip. E mai quella visione fu tanto perfetta e ammiccante e-

«Cosa cazzo fai, idiota?», sbraitò, appena se lo vide di fronte, fluttuante nel cielo violaceo della sera, una brezza lieve che scompigliava le sue ciocche verdi. «Che ti salta in testa di usare il quirk fuori servizio!».

Mosse le braccia con un movimento fluido, facendolo ondeggiare e fluttuare nell'aria spostando entrambi lontano dalla zona gremita di persone: Izuku voleva chiarire e voleva farlo in un posto in cui non vi fossero orecchie indiscrete. Nella sua perlustrazione aveva pensato a come scusarsi, prima per la bugia poi per... Hagakure? L'America? Aveva la testa così piena e confusa e i muscoli piacevolmente indolenziti dal sesso che pensare era stato complicato. E fame. Aveva una cazzo di fame che avrebbe svaligiato il truck dei panini se solo si fosse portato via dei soldi.

«Mollami, Deku!».

«No. Dobbiamo parlare!».

«Non ho niente da dirti!».

«Se non avessi davvero nulla da dirmi non te ne saresti andato in quella maniera!».

«Smettila di usare il quirk e mettimi giù, stupido Deku! Stai violando il regolamento!».

Izuku spalancò gli occhi, voltandosi verso il ragazzo che stava trascinando per aria, mentre quello lottava contro i fasci di energia che gli avvolgevano il busto per provare, invano, a liberarsi. La pelle dell'addome, ormai scoperto dalla maglietta sollevata, pareva sfrigolare al contatto con Black Whip, provocandogli una sensazione strana, simile a un brivido o a un leggero pizzicore. Un solletico diffuso che finiva per indebolirlo e l'unica cosa che gli era rimasta per combattere Deku e la sua stupidità era la voce graffiata che gli usciva dalla gola.

«SMETTILA!», urlò, un tono stranamente acuto, provato, che fece frenare Deku dal suo vagare e portarselo di fronte. Sotto di loro, a metri di distanza, i docks del porto, una piccola imbarcazione in riparazione e l'acqua scura, pronta ad inghiottirli se si fossero lasciati cadere.

«Io la smetto. Ma voglio parlare con te.», s'accigliò Izuku, scendendo di quota e toccando terra per primo, lasciando che la sua energia depositasse docilmente Kacchan a un paio di metri da lui, liberandolo da quella stretta e facendo un paio di passi verso di lui.

Ma Katsuki aveva altri piani e rilasciò un paio di piccole esplosioni per allontanarsi oltre la rete del cantiere e proseguire a passo spedito di nuovo verso l'area del luna park, la più vicina a dove si trovavano in quel momento. 

«Kacchan! Avevi detto che avremo parlato!», sbraitò Izuku, fluttuando fino a raggiungerlo e a camminargli a fianco.

Faticava a star dietro al suo passo ed era una cosa strana, perché non aveva di certo le gambe meno lunghe! Quella sembrava essere una costante, fin da bambini: Kacchan sempre un passo avanti a lui. A scuola, negli allenamenti, nel lavoro... 

Un sorriso amaro gli increspò le labbra al pensiero che non sarebbe mai cambiato.

Si erano sfidati, migliorandosi a vicenda, sempre lì, sullo stesso traguardo, ma, per quanto si sforzasse, la schiena di Kacchan ce l'aveva sempre davanti al naso. Sempre.

«Non ho detto un bel cazzo di niente.».

«Ma ti ho messo giù!», ribatté, allargando le braccia, spazientito.

«Era quello che avresti dovuto fare dal principio!», sbottò di rimando, voltando il capo a destra, i denti digrignati e la mascella contratta come le dita che tornavano a conficcarsi nella carne callosa del palmo.

«Ho sbagliato, ok? – alzò il tono di voce – Ma adesso fermati perché stai esagerando! Io vorr-».

«Io non sto esagerando. – tornò ad aumentare il passo, guardando la strada, scorgendo la prima via in cui si vedevano passare delle persone – E vorrei stare da solo, grazie.».

Deku lo sorpassò, piantandosi di fronte a lui, la mano aperta al centro del petto percepiva distintamente i battiti accelerati del suo cuore.

«Tu non vuoi stare da solo.».

«Ah no?».

«No. Non l'hai mai voluto! – gli occhi verdi sembravano ardere nella penombra del vicolo - A costo di circondarti di stronzi peggiori di te!».

«Ma falla finita, cazzo!» e con una manata fece abbassare il braccio a Izuku, sorpassandolo con una spallata, prima di scavalcare con un agile balzo una transenna e confondersi di nuovo tra la folla.

Izuku prese un profondo respiro e fece lo stesso, raggiungendolo ancora una volta.

«Senti... Mi dispiace, okay?» e udì il biondino esalare quella solita risata sarcastica, più di naso che di gola.

«Finiscila di sparare stronzate, Deku. – si voltò verso di lui, puntandogli il dito contro il pettorale – Non ti dispiace un cazzo e sai perché? Perché sono io lo stronzo che si è preoccupato, credendo tu stessi male.», gli occhi cremisi brillavano alla luce delle lanterne di carta appese sopra la strada, ma a Izuku parvero solo lucidi di lacrime trattenute.

«Ti costava tanto avvisare con un messaggio che avevi compagnia?».

«È che è capitato tutto un po' p-».

«Balle. Ancora! – ridacchiò e batté le mani un paio di volte in un applauso di scherno – Hai imparato bene da quegli stronzi di gaijin... Bravo! Davvero bravo!».

«Smettila di fare così!», alzò la voce Izuku, osservando di nuovo la schiena di Katsuki che si allontanava.

«Stai facendo tutto tu. Io volevo starmene per i fatti miei. Fine della sto-», ma Izuku lo agguantò per la spalla sinistra, girandolo di scatto, mantenendo la mano appoggiata sul suo braccio.

«Non pensavo che ti desse fastidio! Devo chiedere il permesso per invitare gente a casa nostra?».

A quel tono acuto gli occhi di Kastuki saettarono a destra e sinistra osservando le persone che li stavano guardando.

Odiava quella cosa. Non avrebbe voluto dare spettacolo, solo calmarsi, camminare per liberare la testa e tornare a casa più stanco di prima, ma meno incazzato, meno deluso. Invece, in quel momento Midoriya lo stava innervosendo ancor di più: la sua insistenza era infantile e il voler chiarire a tutti i costi voleva dire che aveva dimenticato quanto spazio gli dava prima, quante premure avesse nei suoi confronti come amico.

Controllò di nuovo le persone attorno a loro che passavano lentamente, mormorando qualcosa, mentre Midoriya teneva ancora la mano sul suo braccio: «Mi stai toccando.», gli uscì rauco e basso, uno sguardo di sbieco fece togliere all'altro la presa, alzando le mani, arrendevole.

«Non ti sto toccando!».

Voleva andarsene perché non gli piaceva avere l'attenzione della gente riguardo le proprie questioni personali; in realtà era una cosa che non gli era mai piaciuta e, solo crescendo, aveva capito come gestirla. Prese un altro profondo respiro: «Vattene Deku. Dico davvero.».

L'espressione di Izuku non era più dispiaciuta, ma era alterata da una sorta di collera, perché non comprendeva l'atteggiamento di Bakugō: era come se si fosse completamente chiuso nei suoi confronti e, per quanto si sforzasse di capirlo, non ci riusciva. Per un momento, un insulso momento, aveva sperato che la sua delusione non fosse solo per la sua bugia, che quella reazione esagerata nascondesse della... gelosia? Ma era una bella fiaba da raccontare alla propria anima. E si sentiva frustrato perché nessun passo nella sua direzione fatto finora era servito a farli avvicinare.

Strinse i denti e una lieve foschia serpeggiò incontrollata ai suoi piedi, restando bassa, avvolgendo le caviglie di entrambi.

«Perché devi essere tanto stronzo?», gli urlò mentre Bakugō tentava di allontanarsi per non dare ulteriore spettacolo o materiale involontario per i social. Ovviamente invano.

Katsuki sospirò e abbassò le spalle prima di voltarsi verso l'amico: «Quello che sta facendo lo stronzo sei tu, Deku. – tornò sui suoi passi e lo raggiunse - Perché non stai rispettando i miei spazi.».

Quella frase colpì Izuku peggio di un pugno: era stato lui quello impulsivo stavolta, e aveva agito senza ragionare lucidamente, senza dare davvero il tempo a Bakugō di pensare o di lasciare che le emozioni si sedimentassero un po'.

«Cos'è, mh? Ti ho finalmente aperto gli occhi sul tuo insulso atteggiamento?».

Izuku sentì un magone risalirgli la gola: «Non ci ho pensato, va bene?». Ma quel magone non era per le parole dette da Bakugō, quanto più per la consapevolezza che lui nei suoi pensieri non ci fosse minimamente stato. Come dopo il Baltico, una forma di abitudine alla solitudine.

«Non è una scusa buona questa. Ma tanto tu non pensi mai alle conseguenze di ciò che fai.».

Izuku tornò a guardarlo, l'interno della guancia stretta tra i denti tanto da fargli male.

«Questo non è vero! Sei crudele a dire così!».

«Ah, no? E Hagakure? - gli si avvicinò, i pugni ancora stretti e gli occhi vermigli di rabbia - Ti avevo detto di riaccompagnarla in hotel. L'hai fatto? No! E per quanto lei sia capace, sei un incosciente a lasciar girare una ragazza da sola in mezzo a questo casino!», la voce non s'era calmata, ma aveva comunque ripreso il solito tono graffiato che lo contraddistingueva.

«Sa cavarsela da sola!».

«E se così non fosse?».

Izuku s'irrigidì e venne pervaso da una specie di senso di inadeguatezza che gli stava ordinando di lasciare tutto e vedere se l'amica fosse arrivata in hotel, che non le fosse successo nulla. E quel pensiero gli fece male, fisicamente male tra il cuore e lo stomaco, perché si rese conto che avrebbe dato priorità ad altro, non alla persona che aveva di fronte, con la quale aveva deciso di scusarsi, di chiarire una volta per tutte i loro piccoli screzi avvenuti da quando era tornato.

Voleva chiarire senza sapere bene come fare, senza sapere bene da dove partire o cosa dire.

«Vedi? - lo indicò - Queste sono le conseguenze delle tue azioni.».

«Io-io penso benissimo alle conseguenze! - mentì di nuovo - Sei tu che sei partito e come al tuo solito non hai voluto ascoltare nulla di ciò che avevo da dire!».

«Perché sono stronzate! - ora Bakugō era a un passo da lui, tutto teso nel trattenersi - Non me ne frega un cazzo delle puttanate che escono dalla tua bocca! Perché tanto non ascolti mai! Non mi hai lasciato in pace! - lo vide digrignare i denti - Che cazzo vuoi da me, ah?».

In un'altra occasione avrebbe risposto con una battuta a doppio senso, ma in quel momento i suoi occhi verdi e il suo cervello erano tutti concentrati sul proprio interlocutore, i muscoli tesi, il Danger Sense che fremeva e gli dava segnali di pericolo imminente.

L'istinto di conservazione gli stava dicendo di fare un passo indietro, ma probabilmente quella parte interna del cervello deputata al linguaggio aveva deciso di andare in crash, di avere un malfunzionamento e aprire tutte le paratie, facendo fuoriuscire un fiume di parole per troppo tempo lasciate inespresse.

«Tu-tu mi dai sempre ordini! - sbottó - Ma quando ti chiedo io di fare qualcosa, come prima... di fermarti e di ascoltarmi, non lo fai! Non vuoi mai farlo! Solo io devo seguire te? Sempre e solo io, no? Come l'inutile Deku che sono, giusto? Perché solo tu hai la verità e le soluzioni in tasca!».

«Non ho la verità in tasca! Che pretendi? Te ne stai via mesi e credi che nulla sia cambiato? - alzò le mani e si girò su se stesso, prima di affrontarlo di nuovo - Essere in cima non ti dà alcun diritto! Non sei una spanna sopra a tutti!».

«Ma tu lo stai facendo! L'hai sempre fatto! Ti sei sempre considerato una spanna sopra a tutti!».

Bakugō si indicò il petto: «Io me la sono guadagnata quella spanna! Rispettando le regole! - indicò un punto immaginario dietro di sé - Perché quel maledetto primo posto me lo sudo ogni santa volta e non me ne vado in giro a fare il figo, a fare missioni segrete, per poi tornare e credere di essere ancora nel far west!», e lo spintonò fino a farlo indietreggiare.

Izuku lo spintonò a sua volta: «Io non sono andato in giro a fare il figo! Che c'è? Ti rode che io adesso abbia un po' di autostima? Che la gente mi cerchi e mi faccia sentire di valere qualcosa? O volevi che rimanessi il Deku di merda di una volta? Non mi fai sentire in colpa ad essere così!».

«Non sei in America! Non puoi più fare il cazzo che ti pare con i tuoi poteri! - gli urlò contro Bakugō - Hai violato il cazzo di regolamento e poi dici che non ti ritieni una spanna sopra gli altri?» e lo spintonò di nuovo, l'espressione feroce del viso accompagnò le ultime sue parole: «Ti sei solo montato la testa, Midoriya. Pure All Might sarebbe delus-»

Le scelte sbagliate si pagano. Le parole dettate dalla rabbia pure.

Fu un attimo. Lo stesso attimo in cui s'era sentito catapultato indietro nel tempo, a terra, sotto la lavagna, dopo l'ennesimo pestaggio alla fine delle lezioni pomeridiane. Lo stesso attimo in cui percepì il calore bruciante sul palmo della mano destra e lo spostamento d'aria, seguito da un coro di sorpresa e sgomento.

Alzò il mento, stringendo i denti e deglutendo a vuoto la saliva che non aveva più, osservando dall'alto in basso Bakugō, accasciato a terra, su un fianco. 

«Non ti permettere di nominare All Might... - il respiro faticava a regolarizzarsi, così come i battiti del cuore - Non tirarlo in ballo... Non ti permettere...», sussurrò a se stesso, il tono scarsamente udibile perfino dalle proprie orecchie.

Solo quando si rese conto che era a qualche metro da lui e che le persone attorno a loro lo stavano aiutando a rialzarsi, comprese che aveva esagerato, sopraffatto dalle proprie emozioni, da una rabbia velenosa, come un piccolo serpente che dimorava nelle sue viscere, pronto a scattare alla minima intrusione.

Non fece nemmeno un passo verso il biondo, restando immobile ad osservarlo scrollarsi di dosso le mani che volevano aiutarlo, pulendosi i pantaloni come poteva. Il segno rosso dello schiaffo gli colorava zigomo e guancia sinistri. 

Izuku avrebbe potuto scusarsi, ma non lo fece e quella non fu neppure un'occasione persa. Fu una sua volontà, una specie di piccola, insulsa vendetta.

Katsuki si massaggiò la guancia, masticandosi il labbro inferiore per trattenere rabbia e dolore.

«Va bene, parliamo. Ma non qui. – e passò oltre a Midoriya con una spallata – E guai a te se emetti un fiato fino a casa!»

 

•••

 

«COSA CAZZO TI È SALTATO IN TESTA!».

Il fatto che Izuku volesse essere sbattuto contro un muro da Katsuki non prevedeva certo che lui gli urlasse contro delle insolenze.

O, meglio, lo prevedeva, ma il contesto era del tutto differente.

Erano rimasti in religioso silenzio mentre svicolavano tra le persone che ancora passeggiavano per le strade di Urakawa, portandosi ai margini, accanto agli edifici, per evitare di essere fermati e, appena entrati in casa, Bakugō s'era girato e l'aveva scaraventato al centro del salotto senza preavviso, prima di afferrarlo di peso per la maglietta, slabbrandola, per sbatterlo contro la piccola parete libera tra il cucinino e il bagno, un quadro caduto a terra a causa dell'impatto, col vetro in frantumi sotto le loro scarpe e la voce graffiante che gli urlava a un palmo dal naso, con la lucetta sopra l'ingresso a illuminare l'ambiente.

«Mi-mi fai male!», esalò Izuku, mentre il biondo gli schiacciava l'avambraccio sulla gola, togliendogli il respiro. Avrebbe potuto lanciarlo dall'altra parte della stanza, se solo l'avesse voluto. Ma quella guancia arrossata, col profilo delle sue dita sulla pelle leggermente abbronzata lo aveva fatto desistere: era così dispiaciuto per essersi fatto prendere da una rabbia cieca verso quel ragazzo, con cui stava dividendo la casa e con cui voleva riallacciare i rapporti, che il suo corpo si rifiutava di reagire.

Mosse una mano per afferrargli il braccio, sentendo i muscoli tesi sotto i polpastrelli, provando a fargli allentare la presa, ma i suoi occhi cremisi lo incollavano lì, dove stava, più del suo peso o della sua rabbia. «Non me ne frega un cazzo!»

Il caldo nella casa era soffocante: entrambi erano agitati, appiccicaticci di sudore per quella passeggiata non di certo piacevole e la pelle di Bakugō, sotto il suo naso, aveva un profumo tenue e fresco. Lo stesso del bagnoschiuma che aveva usato con...

Spalancò gli occhi a quel pensiero, rammentandone solo in quel momento l'odore tanto familiare.

Un pugno forte accanto alla sua faccia lo fece sussultare.

Crack!

«Cazzo! Sei un maledetto idiota!», il tono era meno alto, ma la rabbia nella voce permaneva.

«E-e tu non mi...», biascicò, la faccia rossa per la mancanza d'aria.

«Dammi un buon motivo per non spaccarti la faccia!».

Ma a Katsuki non servivano motivi. Non gliel'avrebbe spaccata in ogni caso, perché quella faccia lentigginosa, in fin dei conti, gli piaceva, anche se in quel momento gli dava tremendamente fastidio averla lì, a un palmo dal naso.

Ad un rantolo di Midoriya lasciò la presa con stizza, massaggiandosi le nocche escoriate dopo il pugno che aveva sfondato il cartongesso della parete: «Perfetto! Pure questa...».

Izuku ansimava, massaggiandosi la gola. La fronte gocciolava sudore lungo il collo e sulla maglietta chiara. Le parole gli uscivano a fatica mentre lo guardava vagare per la stanza con le mani nei capelli: «Se tu mi avessi ascoltato...».

«Non voglio sentire le tue troiate!», scandì, parola per parola, lo sguardo furente piantato in quello di Midoriya, i pugni stretti e la guancia sinistra che pulsava ancora dopo lo schiaffo che il ragazzo gli aveva tirato. Era stato avventato: sapeva bene che All Might era ancora un argomento off limits tra di loro e si rese conto di essere stato vile a tirarlo in ballo in quella maniera. Perché quello davvero deluso dal comportamento di Midoriya era proprio Katsuki stesso; e più i suoi piedi lo conducevano verso Midoriya, più capiva che un punto d'incontro non l'avrebbero più avuto, loro due.

Erano entrambi cambiati troppo, come se improvvisamente si fossero scambiati i ruoli, perché quel fottuto nerd non l'avrebbe mai davvero colpito per primo una volta!

Quel pensiero lo rattristò molto: l'aveva colpito e non aveva neppure fatto il gesto di avvicinarsi, di tendergli una mano, ma se ne era semplicemente stato a guardare, furente, dall'alto del suo metro e ottantacinque.

Ma stavolta era lui a guardarlo dall'alto, mentre Midoriya era ancora accasciato con le ginocchia sopra i vetri in frantumi a ritrovare il respiro e a deglutire. Come tanto tempo prima.

Per quanto cresciuto fosse, Izuku sapeva bene che certe ferite faticano a rimarginarsi e lasciano cicatrici, brutte cicatrici, magari non solo sulla pelle. «Ho già detto che mi dispiace.».

«Naah. Non ti dispiace. Sei solo un'ipocrita. – incrociò le braccia al petto, assottigliando gli occhi – Hai violato il regolamento e l'hai fatto di proposito.».

«Non l'ho fatto apposta! – si rialzò appoggiando la schiena al muro – Mi è venuto spontaneo.».

«E ti è venuto spontaneo spiattellare tutto ai quattro venti, no? Hai una vaga idea del casino che verrà fuori domani? – fece una pausa per prenderlo di nuovo per lo scollo slabbrato della maglietta – Sei un fottuto idiota!».

«L'hai già detto... Non serve che continui ad offendermi!», e con una manata gli fece lasciare la presa.

«Tsk! – fece una lunga pausa, osservandolo – Aspettati una chiamata da Hawks! Cazzo! Non ho mai trovato un coglione più coglione di te.».

«Stai di nuovo offendendo!».

«Vaffanculo.».

«Vaffanculo tu, Bakugō! – e lo spinse via - Sei un coglione pure tu, certe volte!».

Katsuki lo spinse a sua volta: come si permetteva? Era lui che gli stava facendo la ramanzina, non il contrario! Midoriya avrebbe solo dovuto starsene zitto perché era in torto marcio. Assottigliò lo sguardo e alzò il mento, sfidandolo.

«Ah davvero?».

Izuku lo osservava in silenzio: sentiva di meritarsela tutta quella rabbia. L'aveva colpito solo perché aveva tirato in ballo lui e la sua capacità di esserne un degno successore.

Ma ce la stava mettendo tutta. Ce l'aveva sempre messa tutta e quella cattiveria gratuita gli aveva mosso qualcosa dentro che neppure lui riusciva a spiegare.

«Mi ha ferito quello che hai detto.», borbottò, mentre il pizzicore agli occhi tornava e lui doveva sbatterli di più per mascherare le lacrime.

«Oh, come mi dispiace!».

«Smettila di usare il sarcasmo con me!», piagnucolò e spintonò Katsuki di nuovo, ricevendo a sua volta una spinta, fino ad indietreggiare al muro, un lamento appena la schiena toccò la parete. «Sei... Sei crudele. Lo sei sempre stato! – strinse per un momento le labbra – Da quando sono tornato non hai fatto altro che trattarmi di merda!».

«Finché hai idee di merda ti tratterò come tale!».

«Non ho idee di merda!».

«Violare il regolamento è una cazzo di idea stra di merda!», gli urlò contro, goccioline di saliva gli finirono sul viso, costringendolo a strizzare gli occhi, nell'attesa che la furia passasse, come da ragazzino. Erano passati anni dalle sue scuse; anni in cui il loro rapporto era cambiato, migliorato, evoluto in qualcosa di molto simile alla collaborazione. Ma il corpo ha una memoria su cui la mente non può influire.

Per questo strizzò gli occhi e si coprì la faccia con gli avambracci, mentre le lacrime gli rigavano le guance.

«Lo vedi? Risolvi sempre tutto piangendo!».

Tornò in sé a quelle parole, tastandosi le guance inumidite e portando via le lacrime con manate stizzite, strofinandosi gli occhi per evitare di piangere ulteriormente: «Non risolvo tutto piangendo... Non risolvo un bel niente piangendo!».

«Oh, sì che lo fai! - gli afferrò la faccia con una mano, scuotendola per catalizzare tutta la sua attenzione - A te è sempre piaciuto piangere! Ti crogioli in questa... questa cosa, che hai lì dentro e ribolle e ti piace sentire che le lacrime ti rimescolano tutto!».

«Ma non è vero! So-sono anni che non piango più! – tirò su col naso, corrugando la fronte per dare enfasi alle sue parole - E comunque era un modo per sfogar-»

«Ovvio! Il prima e il dopo! Anche adesso... Dio, guardati! Grande e grosso e con 'sti occhioni da cerbiatto morente che luccicano appena io apro bocca! Ma ti vedi? Non starai mai meglio se frigni come un moccioso! Non sono le endorfine che ti calmano!».

«Beh... Almeno non sono insensibile come te!».

«Io non sono insensibile! Piango anche io e l'ho sempre fatto! Quando nessuno mi vedeva. Quando non avevo sguardi compatiti che mi facevano ribollire il sangue. E non stavo bene se piangevo. Ero debole. E patetico. E lo sei anche tu adesso, cazzo!».

«Io non sono debole. Né patetico. E lo sai anche tu!», stavolta fu Izuku ad afferrargli il colletto della maglia e attirarlo vicino, così vicino che i loro fiati avrebbero potuto confondersi e l'uno respirare quello dell'altro. «Tu, invece, sei uno stronzo abile a smuovere la merda giusta!», ma l'unica reazione che provocò fu un sorrisino di scherno sul viso di Katsuki, che ora non si pentiva più così tanto di aver toccato quella ferita aperta e ancora un po' purulenta che All Might era per Midoriya. Kastuki deglutì: neppure lui ci aveva fatto pace con quel pensiero, ma far pesare a qualcun altro la mancanza del vecchio salvatore del mondo rendeva il suo fardello un po' più sopportabile. Non lo cancellava, solo... lo alleggeriva.

«Non ho smosso merda. Ho solo detto la verità.» e il biondino si allontanò di nuovo, cercando di fare qualcosa per calmarsi, un respiro profondo ad ogni passo, mentre accendeva il ventilatore e poi apriva la porta finestra dal lato opposto della cucina, spegnendo le luci per non far entrare le zanzare.

Quel caldo lo stava soffocando e gli impediva di pensare lucidamente. Forse era per questo che era sbottato, prima. Le bugie di Midoriya, il sentirsi messo di nuovo da parte, il caldo... Ecco. Era tutto collegato.

«Perché?».

La voce alle sue spalle era dura e sembrava che quella domanda volesse davvero una risposta.

Ma non si voltò, tirando le tende leggere della finestra: «Ah?».

«Perché?».

«Perché cosa?».

«Perché ti sei arrabbiato tanto?».

Katsuki rimase col tessuto della tenda stretto nel pugno. «Tu devi essere deficiente...».

«Il vero motivo, Bakugō.», ma non gli rispose, perché non lo sapeva nemmeno lui. Credeva di averlo inquadrato, ma la camminata gli aveva confuso le idee ancora più di quando era partito e ora quel deficiente gli stava complicando le cose.

Izuku lo seguì fuori, sul piccolo portico. Le lenzuola erano ancora all'apero, stese tra una colonna e l'altra, mosse da una brezza lieve e calda, che non smorzava di certo l'afa, ma la rendeva solo più sopportabile.

Scostò il telo e lo trovò seduto sulle assi di legno, mentre guardava oltre il lembo di giardino e la siepe bassa che divideva la loro proprietà da quella del vicino. L'aria portava l'odore del fritto delle bancarelle, l'odore di carne alla griglia e di qualcosa di dolce, come lo zucchero filato.

«Perché sei arrabbiato?», lo incalzò e quello voltò di poco la testa a sinistra, vedendolo sedersi di peso accanto a lui, quasi un metro a separarli, mentre Izuku si appoggiava con una spalla alla colonna, troppo stanco perfino per stare dritto.

«Tsk!».

«Non vuoi rispondermi? – voltò il capo ad osservarlo –Ti sei fondamentalmente arrabbiato per una cazzata. Tutta la questione del regolamento e dello spettacolino che abbia-»

«Hai. Lo spettacolino che hai dato, ricordiamolo.».

Izuku alzò gli occhi al cielo: «Prima di quello. Eri deluso e arrabbiato e non hai voluto sentire ragioni. Perché? Per Hagakure?», e lo udì ridacchiare a quel nome, esasperato, come se stesse parlando con un bambino petulante e ottuso.

«Hai ragione. Sono deluso. – fece una pausa, non distogliendo lo sguardo da Midoriya – Deluso dalla persona che sei diventato.».

Il cuore di Izuku si contrasse. Gli sembrò di avere dell'uva passa al posto di quell'organo vitale, tanto gli si era contratto e ristretto. Temette perfino di lacrimare sangue, perché sentiva gli occhi pizzicare e inumidirsi e non riusciva più a controllare il tremolio delle labbra, neppure se le stringeva con i denti fino a sentire dolore.

Perché nessun dolore fisico avrebbe potuto essere paragonabile a quel buco nero in cui s'era sentito spinto a calci da Katsuki.

«Che-che persona sarei?», gli chiese, con voce incrinata, non ricevendo alcuno sguardo, solo... indifferenza.

«Una volta le bugie le dicevi solo per rassicurarmi del fatto che stessi bene. Adesso lo fai perché io non scopra... che cosa? Che te la fai con le tue compagne di squadra?».

Rimasero in silenzio, ascoltando il vociare e la musica che il vento portava.

«Se le tue priorità sono altre rispetto al lavoro, sii onesto con te stesso e con me e abbandona la missione.».

«NO!», il tono acuto fece sussultare entrambi. «Cioè... Io...», ed emise un profondo sospiro, provando a giustificarsi. «Io non voglio mollare! E la mia priorità rimane il lavoro.».

«Mi sembrava il contrario.».

«La smetti di essere così?».

«Così come, di grazia?».

«Stronzo. – prese un profondo respiro – Ho scopato con Hagakure, e allora? Che cosa ti da fastidio di preciso?».

«Niente.».

«Allora perché continui a recriminarmi questa cosa?».

Ci fu un lungo momento di silenzio, in cui nessuno dei due guardò l'altro e rimasero per un poco in ascolto dei rumori portati dal vento e del debole frinire delle cicale in lontananza.

Katsuki inspirò profondamente e si spostò accanto alla colonna che aveva a destra, appoggiandosi di peso con la spalla e la testa. La posizione era scomoda, ma trovò sollievo al collo teso e indolenzito. Prese un profondo respiro e provò a rispondere all'insistenza di Midoriya: «Perché pensi di essere tanto intelligente e poi alla fine non capisci un cazzo.».

Izuku lo guardò, incrociando le braccia al petto «Per una volta potresti essere sincero con me?».

«E tu? Tu sei sincero con me?». 

Izuku si morse l'interno della guancia, scivolando all'indietro fino a puntellarsi sui gomiti e tornare ad osservare il fogliame mosso dal venticello.

«Va bene. Vuoi davvero che sia sincero?», ma ricevette in risposta solo un grugnito.

«Sai... Ero eccitato all'idea di partire. Mi faceva sentire importante e consider-».

«Come se tu già non lo fossi!».

Izuku lo ignorò: «È una considerazione diversa da quella che ho avuto da dopo la guerra, una responsabilità diversa. Non ti ricordi più che diceva il professor Aizawa? Che ogni incarico è diverso dall'altro e va preso per come viene. Così ho fatto: ho preso ciò che veniva. - fece un profondo respiro - Anche se comportava andarmene.»

«Non hai valutato pro e contro.».

«Già. Vedevo solo i vantaggi che quegli incarichi speciali portavano, le cose fighe che avrei visto e imparato. Ora so quanto lavoro c'è dietro ogni missione, quanto ogni cosa venga pianificata nei minimi dettagli, tanto che pure la mia vita era stata pianificata fin che ero lì. Non avevo tregua, davvero. Allenamenti, spostamenti, missioni vere e proprie... Il poco tempo libero che avevo me lo sono goduto tutto.».

Katsuki rimase in silenzio, lanciandogli un'occhiata sfuggente, attendendo che lui riprendesse a parlare.

Voleva comportarsi meglio di come aveva fatto Midoriya, lasciandogli il tempo per elaborare il suo pensiero. 

«Tu potrai pensare tutto il contrario, ma è stata dura stare via da casa per tutto questo tempo. E non mi sono mai sentito me stesso come in questo anno e mezzo. - lo guardò di sottecchi per vedere la sua eventuale reazione, ma Bakugō rimaneva impassibile, gli occhi fissi sul giardino - So che forse non mi sono compo-».

«Forse? Sei sparito per un anno, cazzo!», sbottó Katsuki, colpendosi la coscia con un pugno per il fastidio.

«Non potevo fare altrimenti! - provó a giustificarsi - Tra le missioni e tutti i numeri persi... Ho preferito sentire mamma solo quando potevo, quando me lo permettevano...».

Un altro mugugno da parte del biondo lo fece bloccare, l'attesa che lui dicesse qualcosa lo snervava. Ma Katsuki non parlò, limitandosi a far dondolare i piedi oltre le assi di legno, cavando si le scarpe e i calzini con un moto di stizza senza toccarli con le mani, prima di muoversi e incrociare le gambe, piegandosi su se stesso, i gomiti sulle ginocchia e le mani incrociate sotto il mento a sostenerlo.

Chiuse gli occhi e si concentrò sul proprio respiro prima di esalare: «È questa la tua verità? Un'altra scusa?».

«Finiscila. Non sono scuse. Sto cercando di dirti le cose e tu continui ad essere...».

«Ad essere? Abbi il coraggio delle tue parole!».

«Ad essere te! Smettila di essere sempre così... Dio! Non ti si può parlare mai! - sollevandosi con fatica e voltando il busto nella direzione di Bakugō e battè il pugno sulle assi di legno - Era questo! Questo non mi era mancato di te!».

Katsuki si morse con forza l'interno della guancia, un dolore fisico acuto che gli impediva di parlare, di controbattere o di prenderlo a pugni in faccia. Cosa che in realtà avrebbe voluto fare da quando aveva rimesso piede in casa.

Ma quel bisogno violento di picchiarlo nascondeva solo la sua voglia di smetterla, finire quella insulsa conversazione che lui nemmeno voleva fare e andarsene, scappare, fuggire come il codardo che in realtà era sempre stato quando si trattava di sentimenti.

«Tu cosa credi, ah? Che me la sia spassata in terra straniera? Beh, sì! E non me ne frega un cazzo se ti rode la cosa! - Izuku era furibondo, la voce alta che gli faceva male alla gola ad ogni sillaba, gli occhi lucidi e le guance arrossate, come quando era bambino - Ho perso il telefono ed è stato un sollievo! Ho perso tutti i vostri numeri e non me ne è fregato un cazzo e sai perché? Perché siete stati voi i primi a mollarmi! Tu sei stato il primo!». La saliva gli sfuggiva agli angoli della bocca, così come un paio di lacrime dagli occhi.

Il tono improvvisamente alto della voce fece abbaiare un cane.

«Sei sempre quello che sputa sentenze senza nemmeno sapere! - si mise in ginocchio di fonte a lui, il dito puntato contro il petto di Bakugō, mentre la schiena del biondo si spalmava contro la colonna - Non sai quanta paura avevo! Non sai quanta tristezza mi sono portato dietro per tutto il viaggio a non vedere nessuno a salutarmi! Ma Deku invece deve esserci sempre per tutti, non è così? Devo essere io quello ancora in debito dopo anni? E per cosa? - deglutì - Per avermi salvato dalla disperazione, prima di gettarmi in pasto ai mostri?».

«Sei tu che ci hai avvisato all'ultimo, stupido idiota!».

Il dito rimase fermò al centro dello sterno di Bakugō: «Certo che sei bravo anche tu ad accampare scuse! Non venire a farmi la predica sulla mia partenza se tu sei stato il primo a non presentarti! Bell'amico! - prese fiato con riluttanza - Sai... Credevo avessimo fatto buoni passi avanti io e te... E credevo che avrei potuto sistemare le cose tornando. Ma ogni passo che faccio verso di te non fa altro che farmi sprofondare nella solita merda, o sbaglio?».

Katsuki se ne stava in silenzio, la mascella contratta per trattenere le insolenze.

«E tu non parlando non aiuti manco per il cazzo!», gli urlò contro, afferrando con entrambe le mani la maglietta del biondino, strattonandolo e sbattendolo un paio di volte contro la colonna.

«Vuoi la verità, ah? - e gli prese i polsi, stringendolo con forza per allontanarlo da sè, troppo vicino per potersi controllare - Ero arrabbiato con te! Ecco perché non sono venuto!».

«E perché cazzo te ne stai sempre zitto?», singhiozzò, la maglia ancora stretta tra le dita e il capo nascosto tra le braccia, mentre tratteneva le lacrime, tremando come una foglia. Si sentiva patetico. E piccolo. Di nuovo piccolo e fragile.

La voce di Katsuki uscì calma dopo un lungo respiro, la presa allentata sui polsi e la testa reclinata contro la colonna, mentre il suo sguardo si soffermava sulle mollette che fermavano le lenzuola sul filo.

«Stare zitto e non esporsi è più facile. Come è più facile sentirsi dire le cose che dirle. Dirle è difficile, perché non sai mai quale sarà il modo giusto. E io non sapevo come dirti di non partire.».

Izuku alzò lo sguardo, gli occhioni verdi liquidi di lacrime: «L'avevano chiesto anche a te e tu hai rifiutato! Cazzo! Potevamo partire assieme! È per questo, no? È per questo che mi tratti così? Perché io ho accettato e tu no?»

«No. Mi spaventava quella proposta e non ero pronto e credevo non lo fossi nemmeno tu. Ma mi sbagliavo... - corrugò la fronte e prese un profondo respiro, tremulo sul finale - Tu hai deciso di partire e lì ho capito una cosa...».

Deglutì. Perché quello che stava per dire gli costava fatica, una immensa fatica. Era come denudarsi, scavarsi con le mani nel petto e lasciargli prendere quel cuore rattoppato che gli batteva dentro per puro miracolo.

«Non sono partito per paura di perdere ciò che a fatica avevo costruito qui. Non sono come te, Izuku. Non faccio amicizia facilmente e non sono la persona più affabile del mondo. Era mollare il certo per l'incerto. E non sapevo che l'avessero chiesto anche a te.».

Izuku sbatté gli occhi un paio di volte, incredulo di sentire quelle parole uscire dalla sua bocca.

«Vuoi che sia davvero sincero? Eri tu quello che non volevo perdere.». 

Ci aveva riflettuto a lungo, con buona pace di Kirishima che si sorbiva ogni tanto i suoi deliri, inframezzati da imprecazioni o piccole detonazioni. Eijiro era un buon amico, ma Deku... Izuku era parte di lui.

«Pensavo di tenerti accanto per tutta la vita, come era sempre stato. Perché anche se ti allontanavo tu eri lì. Sei sempre stato lì. Dietro di me, accanto a me, avanti a me di mille passi.

E mi sono sentito perso quando hai accettato e te ne sei andato.

Ero distratto. Il pensiero di te mi distraeva quando si presentava. Il pensiero di te mi distraeva quando qualcuno ti tirava in ballo.

Ti pensavo. Ti pensavamo tutti, ma tu non telefonavi neppure a tua madre. Non scrivevi a nessuno. Era come se fossi svanito di colpo, come quella volta prima della guerra. Solo che stavolta era angosciante, perché non avevamo un obiettivo comune e io non avevo promesso a nessuno di tenerti al sicuro. 

Tu eri autonomo, tanto forte da poter andare in terra straniera ed affrontare una, due, tre missioni tutto da solo, con gente che non ti conosceva, che non ti aveva mai visto piagnucolare, che non s'era mai dovuta preoccupare per un tuo braccio rotto. Non c'era nessuno che ti conoscesse davvero lì fuori... Volevi quello? Volevi l'oblio?»

«Volevo essere me stesso! Volevo solo essere egoista per una volta nella mia vita.»

«Lo sei stato quando hai detto a All Might di voler diventare un eroe. Lo sei stato quando hai accettato il suo aiuto.»

«Non è vero.»

«Hai dimenticato la faccia di tua madre? Hai dimenticato la sua disperazione? Io no. Il suo viso in lacrime non è qualcosa che ti scordi facilmente! - si umettò le labbra secche - Quello è egoismo bello e buono, Deku.»

«E tu? Tu che ti sei sempre vantato di essere il più forte? Che trattavi gli altri come merde ambulanti?»

«Non ero egoista. Non lo sono mai stato. Puoi darmi dello stronzo, ma dell'egoista mai. - fece una pausa, un respiro profondo, come se facesse fatica, come se fosse durante una scalata - Se fossi stato egoista non ti avrei coperto il culo così tante volte. Non mi sarei scusato con te. Avrei fatto di tutto solo per il mio puro tornaconto. Se fossi stato egoista avrei accettato di partire, proprio come hai fatto tu! Invece eccomi qui: a farti entrare concetti per te troppo complessi in quella testolina di cazzo che ti ritrovi!».

Si alzò da terra con stizza, mezzo capogiro, per la fame e per l'essersi mosso troppo in fretta con tutto quel caldo: si appoggiò di peso con la schiena alla colonna, guardando Midoriya dall'alto in basso.

«Ma in una cosa sei stato coerente: andata e ritorno li hai fatti senza dire niente a nessuno. Credo che questo sia abbastanza esplicativo, non credi?».

«Tanto esplicativo quanto l'abbandono.», Izuku, ancora in ginocchio sulle assi di legno lo guardava dal basso.

«Abbandono?».

«Mi avete pian piano abbandonato, messo da parte. Avrò perso numeri e telefono, ma mia madre sempre lì abita. Tu hai detto che potevo avvisarti che avrei avuto compagnia stasera, ma non hai certo avuto l'accortezza di chiamare Inko per sapere se ero vivo. O mi sbaglio? - si alzò a fatica anche lui e indietreggiò, fino ad appoggiare anch'egli la schiena alla colonna del portico, speculare a Bakugō - Non fare l'ipocrita dicendo che ti mancavo, che mi pensavate e altre stronzate di questo tipo!».

Katsuki lo guardava negli occhi, provando a sondare quello sguardo furioso, mentre le sue parole erano lame affilate che gli trapassavano le orecchie.

«Speravo tu fossi cambiato un pochino. Invece no. Sei sempre il solito. Alcune volte sei peggio di quando me ne sono andato! E forse dovevo accettare di stare lì: sarei stato meno deluso...».

A quella frase Katsuki provó a mascherare il proprio stupore e Izuku se ne accorse.

«Ma tanto credo di aver già deciso cosa fare.», esalò, in un pensiero a voce alta che speró Non fosse arrivato alle orecchie del biondino.

«Allora vattene! - il tono di Katsuki era stizzito e perentorio - Che sei tornato a fare, ah? A portare qui idee di merda? A far credere a tutti di essere il migliore? A vantarti con tutti dei tuoi successi?».

«Sono tornato perché avevo nostalgia di casa! Sono tornato per la mamma e, sì, sono tornato anche per te! Perché volevo farti vedere dove ero stato, cosa avevo fatto e imparato e-e volevo che tu fossi contento per me, per la mia crescita e non ti mettessi a rinfacciarmi ogni scelta sbagliata che ho fatto negli ultimi diciotto anni di vita! Invece la tua boccaccia sputa solo giudizi e sentenze e hai le orecchie così piene di fuliggine che provare anche solo ad ascoltare ti riesce difficile!».

«Smettila di fare la vittima!».

«Non sto facendo la vittima!».

Il campanello suonò con insistenza, interrompendo il loro battibecco. Fu Katsuki a muoversi rapidamente, scostare in malo modo le lenzuola e calcare il pavimento a grandi falcate fino all'ingresso, dove lo attendeva un agente di polizia. Le luci rosse e blu del lampeggiante della volante illuminavano la stradina su cui si affacciava la loro casa.

L'agente lo salutò con un profondo inchino: «Signor Dynamight, ehm... I suoi vicini ci hanno chiamato perché state facendo troppo chiasso. Vista l'ora vi chiederei di fare piano e magari parlare in casa, non in giardino. La privacy...».

Katsuki fece un profondo respiro e lo ringrazió: «Grazie per l'avviso, Agente. Prometto che ci sarà meno chiasso.» e lo salutò con deferenza, quasi sbattendogli la porta in faccia.

Izuku stava per chiudere la porta finestra, quando Katsuki la riaprì con forza, scostandolo in malo modo per recuperare le proprie scarpe e i calzini.

Era confuso. Triste e arrabbiato allo stesso momento, frustrato per essere stato interrotto nella loro discussione, eppure stranamente sollevato perché s'era reso conto che non sarebbero arrivati da nessuna parte.

Si sentiva avvilito: gli aveva detto che gli era mancato e Midoriya, di tutta risposta, avrebbe preferito essere ancora all'estero.

Tutto quello era frustrante e gli stava facendo venire il mal di testa.

«Bakugō?».

L'aveva seguito pure in camera. Non che gli dispiacesse, ma aveva bisogno di starsene da solo, di continuare a maledirlo in silenzio e di lamentarsi di se stesso per essere sempre così debole in quelle cose.

Afferrò il cuscino mettendoci troppa enfasi, prendendo poi anche le lenzuola e uscendo dalla loro camera.

«Ti fermi un momento? Non-non abbiamo finito!».

«Io ho finito con te!», e s'infagottò le coperte addosso, prima di lanciarle contro il divano di destra, quello che dava la schiena all'ingresso. Lo stesso dove s'erano addormentati guardando l'OAV di Dragonball. 

Divano brutto, ma comodo.

«Non fare lo scemo! Già dorm-».

«Come dormo e quanto dormo non è affar tuo! Preoccupati delle tue cose. Preoccupati di finire questo incarico e di andartene al diavolo!», sbraitò, mentre si sfilava dalla testa la maglietta.

«Allora vattene al diavolo pure tu! Perché spero che questa merdata finisca il prima possibile, così non dovrò più avere la tua faccia da culo davanti al naso ogni maledetta mattina!», e Izuku giró su se stesso per andare a passo spedito in camera, chiudendosi la porta alle spalle con un tonfo che fece vibrare il lampadario, lasciando Katsuki con i pantaloni abbassati a metà coscia e gli occhi sgranati dallo stupore di sentirlo parlare in quella maniera tanto colorita che non era assolutamente da lui.

Strizzò gli occhi e si sedette di peso sul divano, le dita a stringere rabbiosamente le ciocche di capelli biondi cenere.

Sospirò a lungo, mordicchiandosi il labbro inferiore.

Perché sbagliava sempre approccio?

Perché non era capace di dire tranquillamente ciò che pensava?

Avrebbe voluto dirgli altro, in un modo differente. Vedere se quelle mani piene di cicatrici l'avrebbero accarezzato di nuovo per rassicurarlo.

Ma lui era stato così idiota, così preso dai suoi mille fastidi, dai suoi rancori, che non aveva neppure potuto parlargli in maniera semplice e diretta.

Si rialzò di malavoglia, sparendo in bagno per lavarsi i denti, bevendo sorsare d'acqua per placare i crampi della fame: voleva che quella giornata finisse in fretta. Voleva posare la testa sul cuscino e lasciarsi andare al sonno.

Ma, anche volendo, furono tutte le parole non dette a tenerlo ancora sveglio per un bel po'.

Mi sei mancato, fottuto idiota. Sei stato nei miei pensieri tutto il tempo. E sapere che io nei tuoi non ci sono stato mi rattrista e mi fa male, perché mi si crepa il cuore.
E non è vero che voglio che tu te ne vada di nuovo.
Resta qui, dove siamo stati così bene e altrettanto male.
Non andartene per farmi un dispetto. Resta qui, Deku.
Resta qui con me.

 

 

 

I've carried sadness with me
I hid it well since sixteen

And all the crying, all the fighting
You kept putting out the fire

That burned so bright within me
~ Monika Linkyte ~

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Capitolo 9
*** I try to figure out how to make it right ⚠️ ***


I try to figure out how to make it right ⚠️


Se le rose cercassero di essere girasoli, perderebbero la loro bellezza;
e se i girasoli cercassero di essere rose, perderebbero la loro forza.
~ Matshona Dhliwayo ~

29 giugno

 

“Allora?”

La faccia seria di Hawks, proiettata sulla parete della sala riunioni, li osservava entrambi: si erano seduti distanti l’uno dall’altro, ma non troppo, in modo da rientrare nell’inquadratura della videocamera.

Una video call col capo che ti fa la ramanzina alle otto del mattino, dopo una nottata in bianco: poteva esserci inizio di giornata peggiore di quello?

«Non abbiamo giustificazioni», asserì duro Katsuki, senza degnare di uno sguardo il collega, che, invece, gli lanciava occhiate dispiaciute.

Hawks prese un profondo respiro, inforcando di nuovo gli occhiali, l’espressione seria che celava a fatica la collera. “Ho i social pieni del vostro spettacolino da strada e Hero Weekly ha già pubblicato spezzoni di quella che chiamano – assottigliò lo sguardo controllando il cellulare – “scazzottata epica”.».

«Era uno schiaffo.», borbottò Izuku, osservandosi il palmo della mano destra.

“Come prego? Non ho sentito, Deku. Puoi ripetere?”

«Era uno schiaffo.», tuonò Katsuki, massaggiandosi appena la guancia sinistra con le nocche della stessa mano.

“Schiaffo o pugno non fa differenza. Siete venuti alle mani. Credo non basti altro giusto? O devo aggiungere la chiamata alla centrale per schiamazzi?”.

«No, Signore.», dissero quasi all’unisono, guardandosi di sottecchi ed abbassando il capo in contemporanea.

“Eravate molto più maturi quando eravate dei mocciosi. – fece un gesto con la mano – Guardatevi ora! Vi ho chiesto collaborazione e quasi vi scannate in pubblico!”.

«Esagerato…», borbottò a mezza voce Izuku, incrociando le braccia al petto e scivolando lungo lo schienale di quella scomoda seggiola di plastica.

“Vi ho affidato questa missione perché andaste d’accordo, perché collaboraste civilmente. Era un modo per far rientrare nel “sistema eroi” Deku. E invece che mi tocca sentire, eh? Che due eroi di fama nazionale si prendono a botte per… - si bloccò e li osservò – Per che cosa, di grazia, avete fatto su tutto ‘sto casino?”.

Ma nessuno dei due ragazzi gli rispose, limitandosi a guardare altrove per evitare gli occhi indagatori di Hawks, che fece schioccare la lingua sul palato prima di esalare una risatina nervosa.

“Futili motivi. Non so perché, ma non mi aspettavo nulla di diverso da voi due, che siete grandi e grossi, ma continuate a comportarvi come pulcini appena usciti dall’uovo!”.

Izuku ridacchiò. Perché, quando Hawks parlava così, a lui saliva quel brivido di disgusto nel sentirlo fare similitudini con gli uccelli.

“Che ti diverte, Midoriya?”.

«Ni-niente, Signore!», scattò, la faccia atterrita a vedere quegli occhi gialli farsi sottili e osservarlo con insistenza.

“Bene! Allora datemi una buona motivazione per non sollevarvi dall’incarico!”.

I ragazzi rimasero in silenzio, a capo chino, con Izuku che si torturava le mani, le intrecciava e le faceva scrocchiare, e Katsuki che tamburellava le dita sul bicipite per scaricare il nervoso.

Hawks si pizzicò la sommità del naso, sollevando gli occhiali per passarsi le dita su una palpebra. “É frustrante, sapete? E mi mettete in una posizione difficile. Devo ancora vedere il resto della Commissione, ma avete la possibilità di salvarvi il culo solo perché siete il Wonder duo. - fece una pausa in cui lo si vide fare un cenno a qualcuno fuori campo, che gli portò qualcosa a chi lui dedicò tutta la sua attenzione per un estenuante minuto - Quindi… Per me questa cosa si risolve come un primo avviso. Spero non si debba arrivare al secondo. Intesi?”.

«Sì, Signore. | Ovvio.».

Alzarono il capo verso lo schermo solo quando lo udirono esalare un profondo sospiro. “Mi auguro di non dovervi più sentire fino a fine missione…” e lo videro avvicinarsi pericolosamente alla videocamera, chiedendo aiuto a uno dei suoi collaboratori, mentre il video vorticava e faceva vedere l’ufficio, la scrivania.

L’ultima cosa che udirono prima che la comunicazione si interrompesse fu solo un laconico: “Ma perché chi può scopare non scopa invece di prendersi a sberle?”.

  

•••

 

Si sentiva un completo idiota.

Un idiota con poche ore di sonno in corpo, una nota di demerito sulla missione e un turno ancora esageratamente lungo davanti a sé.

Tuffò le mani sotto il getto dell’acqua della fontanella, passandole poi sul viso per mitigare il calore di quel sabato assolato.

«Bubble tea?».

Non si raddrizzò nemmeno, lasciando che solo la sua testa ruotasse verso quella vocina graffiata, mentre si bagnava i capelli e la fronte direttamente sotto il getto dell’acqua.

«Ah?».

«Ho del bubble tea anche per te. Lo vuoi?», lo incalzò Froppy, agitando appena il bicchiere trasparente colmo di liquido giallo-arancio, mentre sul fondo si agitavano delle palline di un arancione fin troppo finto.

Katsuki alzò di scatto la testa, spargendo goccioline ovunque mentre scuoteva il capo.

Tsuyu addentò la cannuccia, inclinando la testa, dando un’occhiata curiosa alla gente che aveva rallentato la propria marcia per osservare quello spettacolino e ne rise.

«Che hai da ridere? – allungò la mano per prendere il bicchiere – Grazie…».

La ragazza aspirò un generoso sorso di the: «Mi chiedo come tu abbia sempre questo effetto sulle persone, ‘kero…».

Katsuki aprì il coperchio e annusò il contenuto: «Che roba è?».

«The verde al mango, latte di mandorla e purea di passion fruit, così come le palline di tapioca.».

Katsuki alzò un sopracciglio: «L’hai imparato a memoria? – lei fece spallucce – E che effetto farei alle persone, scusa?».

Tsuyu si limitò a bere e masticare la pallina di tapioca al lime che le era arrivata in bocca, alzando gli occhi al cielo, le dita di entrambe le mani a tenere il bicchiere che conteneva una bevanda marroncina scarsamente invitante.

«Sì fermano a guardarti anche se ti stai solo lavando la faccia. Non l’hai notato, ‘kero?».

«Sono un eroe. Credo sia più che normale. Lecito, forse.», e prese un sorso di quella brodaglia stranamente piacevole e rinfrescante, per nulla stucchevole. «Sono ritenuto avvenente? È questo che intendi?».

La ragazza annuì con forza, prima di affiancarsi a lui e riprendere la loro ronda a passo lento sotto il sole: «I tuoi indici di gradimento sono pure saliti dopo ieri sera!».

«Ah?».

«Che c’è? La ramanzina del capo ti ha rimbambito, ‘kero?». A quella domanda lui le mise una mano sulla testa e la spinse piano, sbilanciandola quel tanto che bastava per vederla saltellare più a sinistra, verso il bordo del marciapiede e poi di nuovo verso di lui con mezza risata.

«Non sono rimbambito.»

«‘kero! Allora è lo schiaffo di Deku?», e Katsuki quasi si strozzò con una pallina, aspirata troppo in fretta.

«Ti faccio esplodere!», esalò tra un colpo di tosse e l’altro.

«Via-via, Baku-chan! Non si riesce mai a scherzare un po’ con te! Sei un tale musone, ‘kero!».

Ma stavolta lui non ribatté, limitandosi ad aspirare quella brodaglia al gusto di mango che Froppy gli aveva gentilmente offerto. Un sorso, un sospiro.

Svoltarono a destra, in una delle laterali in cui c’erano un sacco di negozi carini d’abbigliamento, davanti ai quali Tsuyu sostava qualche secondo, gli occhi che saettavano a mirare i colori e le forme di quei vestitini estivi che sembravano fatti d’aria per quanto sembravano leggeri e impalpabili i tessuti.

«Che poi… Perché avete litigato voi due?», chiese, mentre raggiungeva il biondo con una leggera corsetta.

Le labbra di Katsuki si tirarono in una smorfia piatta e provó a farla detonare con lo sguardo, non riuscendoci.

«Giusto. Domanda sciocca, ‘kero. Quando mai non litigate voi, eh?».

«Non fare l’impicciona, ranetta. Non ti riesce per niente.» e aprì il bicchiere per ingurgitare le ultime palline di tapioca rimaste, gettando malamente il contenitore vuoto nel primo cestino utile, mentre masticava con fatica quella massa gelatinosa al passion fruit.

Passion fruit, già.

«Sentì un po’… - attirò l’attenzione di Tsuyu calciando il cestino con tocchi leggeri - Quell’altra ti ha detto nulla?».

«’kero?».

«Quella invisibile.».

«Toru-chan! Sei davvero una frana con i nomi tu! ‘kero!».

«Sì-sì, come ti pare!», e sgattaiolò dietro la ragazza per proseguire nel loro giro.

Tsuyu lo raggiunse con una nuova corsetta dopo aver gettato a sua volta il proprio bicchiere: «Perché mi fai questa domanda?».

Ma lui allungò il passo è portò le braccia sopra la testa, stiracchiandosi: «Niente. Lascia stare.».

Tsuyu inclinò la testa nell’osservarlo mentre si allontanava. Quella mattina Baku-chan era più strano del solito. E non solo perché non le aveva rinfacciato che quel soprannome che lei gli dava faceva schifo.

Era fin troppo calmo, quasi fosse abbattuto. Aveva pensato che c’entrasse davvero la ramanzina di Hawks. Tanto ormai tutti erano venuti a conoscenza del mezzo casino che avevano combinato quando Bakugō aveva finito il turno!

Ma lui di solito con le lavate di capo ci andava a braccetto e nessuna di quelle da lui ricevute finora l’aveva reso tanto remissivo.

La punta della lingua le fuoriuscì dalle labbra quando si portò l’indice al mento, assottigliando gli occhi, pensierosa.

Baku-chan era sempre stato ermetico nei sentimenti e negli atteggiamenti. Esplodeva, è vero, ma lo faceva solo per mantenere la sua facciata, quell’aria da cattivo ragazzo che lo seguiva sempre.

In realtà era come una di quelle cialde strane, croccantissime fuori e con un ripieno di mou al loro interno. Così lei aveva inquadrato Bakugō Katsuki: un involucro ostinato per un ripieno buono, dolce e appiccicaticcio. 

La sua lingua si mosse in fretta e si arrotolò attorno al busto del ragazzo, cogliendolo di sorpresa nel sollevarlo e portarselo dietro.

«Ma è un cazzo di vizio però! - provó a divincolarsi - Mettimi giù!», sbraitò lui, mentre Tsuyu saltava agilmente contro un muro e poi su un tetto basso, lontano da occhi indiscreti, ma con la visuale della strada libera per poter tenere sotto controllo l’area.

«Bleah! Sai di sale!», fece la ragazza, ritraendo la lunga lingua e passandosela sulle labbra con espressione schifata. La stessa espressione schifata che deformava il viso di Katsuki che tentava di togliersi di dosso la saliva densa della ragazza, sbattendo i piedi dal fastidio.

«Due su due! Cazzo! - la fulminò con lo sguardo - È saliva! Dio che merda! Almeno la Frusta Nera di quell’altro-».

«Frusta Nera, ‘kero? Izuku-chan?».

«Ah? - sbatté un po’ le palpebre nel guardarla, increduli entrambi - Non lo sapevi?».

Tsuyu scosse la testa e incrociò le braccia al petto, la fronte corrugata e la bocca tirata in una smorfia: «No.».

«Quel deficiente ha fatto lo stesso giochetto che hai fatto tu!».

«In mezzo ai civili?». Katsuki grugnì in risposta, incrociando a sua volta le braccia al petto e guardando oltre il bordo del palazzo, controllando la strada sottostante.

Quella specie di “rapimento” che aveva messo in atto Froppy era totalmente diverso da quello di Deku. Per quanto la sopportasse poco, non gli aveva dato poi così tanto fastidio, saliva densa a parte.

Era strana quella ragazza: era curiosa e senza mezze misure nel dire ciò che pensava. Ma non era pettegola come Ashido o sarcastica come Jirō. 

E con lei si trovava bene. Avevano fatto delle pubblicità assieme e l’aveva trovata sempre molto professionale, anche come eroina. Mai una volta sopra le righe. A parte quando decideva di volergli rompere l’anima a tutti i costi.

«Ma mi ascolti?».

«Ah?».

La ragazza alzò gli occhi al cielo: «Certo che sei strano forte anche tu, ‘kero! - sbuffò - Ho detto che Izuku-chan è diverso da quando è tornato… Non l’hai notato? Alla cena non era-».

«È un coglione.».

«Uhm… ‘kero! Sei sempre troppo duro con lui.».

«Duro? Io? - si alterò, puntando il dito verso la strada, come se Deku fosse lì, in quel punto preciso - Mi ha trascinato come una marionetta fino al porto! Ha violato il regolamento!».

«Effettivamente…».

«Ma si puó essere più coglioni di così?», urlò, senza preoccuparsi che qualcuno potesse sentirlo. Perché era ancora molto arrabbiato con Deku per come si era comportato.

«Baku-chan! Siedi qui, ‘kero!».

Fu solo in quel momento che la vide seduta con le gambe oltre il bordo del palazzo e la mano che batteva sul basso muretto accanto a lei, invitandolo a sedersi.

Katsuki si passò una mano tra i capelli, sbuffando: «Guarda che cadi.».

Eccolo: quello era il lato morbidino e appiccicoso di Bakugō. E lei ne gongolò a vederlo, mentre prendeva poso accanto a lei, venti centimetri a separare le loro mani, poggiate sul muretto di cemento ruvido e polveroso. «Al massimo mi prendi tu, ‘kero!».

La smorfia che fece Katsuki sembrava l’abbozzo di un sorriso: «Scordatelo.». Ma non c’era astio nella sua voce. Sembrava tornato calmo e remissivo e, forse, Tsuyu sarebbe riuscita a capire cosa gli passava in quella testona più dura del marmo.

Il riverbero del sole dava loro fastidio, ma guardarono entrambi nei dintorni, controllando le strade, mentre un vento caldo si alzava e carezzava i loro visi.

«Quindi sei… incazzato con Izuku-chan? È questo, ‘kero?».

Katsuki fece spallucce e agitò le gambe nel vuoto. Non erano molto alti, ma un volo di una dozzina di metri non era lo stesso una passeggiata. Osservò la ragazza dondolare le gambe a sua volta, la punta della lingua tra le labbra e la faccia rivolta al sole, gli occhi chiusi a godersi quel tepore fin troppo fastidioso.

Katsuki prese un profondo respiro.

Avrebbe voluto parlare con Kirishima, ma era successo tutto troppo in fretta e pure lui era chissà dove a fare i suoi pattugliamenti… 

In realtà non lo voleva disturbare. Si era già sorbito tante volte le sue paturnie, le sue crisi in quell’anno e mezzo e anche prima… Voleva lasciarlo tranquillo. Non serviva molto tempo, solo… Solo qualche giorno.

Ma questo sentimento strano che lo consumava dentro, questa forte delusione, il sentirsi invisibile e abbandonato… Era troppo persistente per rischiare di tenerselo dentro come aveva sempre fatto per poi esplodere. Era accaduto anche la sera prima e cosa aveva ottenuto? Niente.

Tsuyu lo stava guardando, la testa inclinata e quella perenne espressione curiosa che aveva sul volto. Lei non era Kirishima, ma era una persona di cui stranamente si fidava. Forse perché era una delle poche che gli aveva sempre tenuto testa. 

Piuttosto che niente, meglio piuttosto.

Non era da lui, vero; ma quel groppo alla gola doveva pur mandarlo via. O giù o fuori. E Katsuki scelse il fuori.

«Deku non ha avvisato nessuno quando è rientrato.»

«Oh, vero! È stata una sorpresa vederlo alla ce- Oh!», si bloccò di colpo, gli occhi spalancati nel guardarlo con stupore: «Non ha avvisato nemmeno te, ‘kero?».

Katsuki tiró le labbra, abbozzando un sorriso sarcastico e tornando a torturarsi le mani che sudavano fin troppo entro quei guanti tecnici che indossava. In realtà, stava sudando per l’agitazione oltre che per il caldo. «Già.».

«Sei arrabbiato per quello, e ci sta.».

«E perché non si è fatto sentire.»

«E perché non si è fatto sentire, ‘kero?».

«Ho perso il telefono! - gli fece il verso con stizza, facendo ridacchiare Tsuyu - Ho perso il telefono nel Baltico e ho perso tutti i numeri!».

«Plausibile. Dio se lo imiti bene, ‘kero!». La risata di Tsuyu sembrava quasi un leggero gracidio.

«Plausibile sì! Non sa tenere integre le ossa, figuriamoci se è capace di non perdere un cellulare di merda!», disse fra i denti, picchiandosi con rabbia una coscia.

Il sudore gli colava dalla fronte alle tempie fin giù, lungo il collo, rendendo quella conversazione dieci volte più imbarazzante e fastidiosa.

«Cazzo! Perché tu non sudi?».

«Io sudo. Non come te, ma sudo. Che problemi ti fai adesso, ‘kero? Non stavamo parlando di Izuku-chan?». E a quelle parole lo udì sbuffare pesantemente.

La ragazza si fece pensierosa: «Non avete litigato solo perché non si è fatto sentire, ‘kero. - lo osservò con insistenza, sporgendosi verso di lui - Ci ho preso?».

Katsuki la guardò di sottecchi prima di tornare a guardare la strada sotto di loro. Faceva molta fatica a trovare le parole, ma sapeva che con lei ne sarebbe valsa la pena: «Ho… Ho fatto un mezzo casino.».

Lei non gli diede tempo di elaborare la frase che gli si avvicinò, non staccandogli gli occhi di dosso, incalzandolo e infastidendosi con la sua espressione da impicciona. «Che mezzo casino, ‘kero?».

E fammi parlare! Voleva urlarglielo addosso, ma si trattenne, troppo preso da capire come affrontare quel discorso.

Sbuffò a lungo, quasi volesse immergersi in apnea nella vasca di merda in cui era finito.

«Non fraintendermi… Per quanto mi dia fastidio non averlo saputo, sono contento che Deku sia tornato.», la voce aveva in tono basso e calmo e perfino Tsuyu sbatté un paio di volte le palpebre per l’incredulità di sentirlo in quello stato.

«Solo che non ha fatto altro che sparare una marea di cazzate sull’America e sul fatto che dovremmo seguire il-».

«Lo so. C’ero anche io alla riunione l’altra settimana, ‘kero. - fece una pausa - Ma non è neppure questo, vero?».

Katsuki prese un profondo respiro: «È che mi da fastidio che lui sia così.».

«Così come? Sei invidioso di Deku, ‘kero?», e il ragazzo abbassò il capo, continuando a torturarsi le dita.

«Odio il modo in cui gli riesca tutto facilmente. Non ha la minima idea di quanta fatica io faccia anche solo per sopportare la gente che mi chiede un cazzo di autografo… Invece per lui deve essere sempre tutto facile: sparire, ricomparire, sorridere, scopar-».

«No! Frena! Scopare?».

I due si guardarono per un momento e Tsuyu notò il collo e le orecchie di Bakugō arrossarsi, il sudore sembrava aumentato sulla sua fronte.

«Hagakure. Credevo lo sapessi.», ma la ragazza scosse il capo: quella si che era una rivelazione! Non aveva mai sentito che Izuku-chan ci avesse provato con le ragazze della classe al di fuori di Ochaco-chan. 

«Izuku e Toru? Sul serio? Ah, beh! Questa è una strana scoperta, ‘kero! - rimase pensierosa per un momento e poi sorrise, la punta della lingua stretta tra le labbra - Piccolo cucciolo geloso!».

«Ma la pianti?».

«Dai! Dimmi come l’hai saputo!».

«Li ho visti.».

«Oddio! Li hai visti mentre…».

«Cristo no! È già da vomito il solo pensiero!». 

«Peccato, ‘kero!», fece Tsuyu alzando le spalle.

«Cosa?».

«No, dico. Peccato. Sarei curiosa di capire come funziona, sai, con lei invisibile, ‘kero… Secondo te lui se lo vede lo stesso?».

Katsuki si portò le mani alle orecchie, sbraitando un «Ti prego non farmi sanguinare i timpani!».

Ma quel pensiero si fece intrusivo e si ricordò improvvisamente della figura di Deku, nudo di fronte a lui per qualche istante, prima che decidesse di avere finalmente un po’ di pudore e di coprirsi goffamente l’inguine. Sentì le orecchie andare a fuoco e allontanò le mani. Ma non era colpa del suo quirk quel calore improvviso.

La risata gracidante di Tsuyu lo riportò alla realtà dei fatti, in cui lei lo stava deliberatamente perculando.

«Non sono geloso, cazzo!».

«Ma ti comporti come se lo fossi, ‘kero!», gli urlò contro con lo stesso tono, lasciandolo di sasso.

«Continua.».

Katsuki deglutì e tornò a torturarsi le cuciture dei guantoni. «Non ero geloso, ma deluso. Se lui mi avesse avvisato… Mi ha detto una balla facendomi credere di stare male quando invece era ancora in doccia con quell’altra.».

«Se continui a chiamarla quell’altra hai poco da raccontarti di non essere geloso! - ridacchiò - Ed immagino che tu ti sia sentito offeso per l’orrenda bugia che l’infido Deku ti ha rifilato, ‘kero!», lo canzonò, alterando la voce è corrugando la fronte per imitare l’espressione accigliata del biondino che la osservava, torvo.

«Sì. E lui non mi ha lasciato i miei spazi e i miei tempi per sbollire! Ha usato quel maledetto quirk in mezzo alla folla!».

«E ti ha picchiato.».

«Mi ha dato una sberla, sì. - fece un sospiro e s’incurvó - Ma me la meritavo. Ho tirato fuori All Might e me la sono meritata.».

«Ti ha picchiato. Anche una sberla è picchiare. E il pretesto per farlo non è mai nobile o buono. Siete stati sopra le righe entrambi, ‘kero!».

«Già. - prese un profondo respiro, spostando le braccia indietro, trascinandosi giù dal basso muretto, restando seduto sulla guaina catramata del tetto, le gambe accavallate sul cordolo - Poi però è toccato a me ferirlo.».

«’kero? Non vi sarete mica presi a pugni a casa?».

Katsuki inclinó il capo e lo mosse, come a farle capire che ci era andato vicino.

La ragazza roteò su se stessa, sedendosi accanto a lui sulla guaina a gambe incrociate, le braccia conserte nell’essere rivolta verso di lui ad osservarlo con rimprovero. «Sei sempre il solito!».

«Ha iniziato lui!».

«E tu hai continuato, ‘kero! E se ti conosco un pochino tu non ci sei andato giù piano con le parole!», lo rimproverò, facendolo nuovamente sentire in difetto, così come aveva fatto Hawks quella mattina.

«Ho detto quello che dovevo.».

«E cosa gli hai detto, scusa?’kero….».

«Che mi era… mancato.»

Tsuyu spalancò occhi e la bocca nel sentire quelle parole. «Gli hai detto davvero così?».

«Tsk!», fece, evitando di guardarla.

«Immaginavo, ‘kero…».

«Il succo del discorso era quello.»

«Che poi tu gli abbia gettato addosso altra merda nel farlo lo sorvoliamo, ‘kero?».

«Stai diventando fastidiosa.».

«E lui?».

«Lui… Gli hanno proposto di tornare in America. E credo lui voglia-», ma non riusciva a continuare la frase, mordendosi forte il labbro inferiore nel disperato tentativo di trattenere quel fastidiosissimo pizzicore agli occhi. Già rischiava la disidratazione a furia di sudare; non poteva pure piangere così, come un moccioso a cui hanno strappato via a forza un giocattolo!

Venne avvolto da un tepore nuovo e solo quando abbassò lo sguardo vide Tsuyu che si avvinghiava al suo petto sudaticcio ben oltre il tessuto della tuta e se lo stringeva contro. «Ch-che fai?», balbettò, rosso pure in viso stavolta.

«Quante parole che non dici Baku-chan…».

Il tono era dolce, senza accondiscendenza o compassione. Solo genuina preoccupazione. E, stranamente, quel contatto non gli diede fastidio, ma le posò una mano sulla testa, un leggero pat-pat per rassicurarla di stare bene. Forse pure una smorfia sulle labbra, che Tsuyu ricollegò a un sorriso tenero e ne sorrise a sua volta. Senza schernirlo, sentendosi fortunata a vedere quel piccolo miracolo su quel viso perennemente serio o imbronciato.

«Come l’hai capito?».

Lei si staccò, tornando a sedersi al suo fianco.

«Intuito femminile, ‘kero?».

Pure Katsuki si rimise a sedere, le gambe divaricate con i piedi che si muovevano e spingevano contro il muretto.

«È che ci siamo fatti del male. A parole, dico. E non so cosa ne sarà…», esalò, visibilmente in difficoltà.

«E parlarvi meglio di così, ‘kero?».

«È difficile trovare il modo giusto di dire le cose.».

«Ma il non parlare é sempre il modo più sbagliato.».

«Ogni volta che apro bocca faccio casino!».

«E quindi? Sei umano, ‘kero! È nella tua natura sbagliare! È solo facendo errori che impari. O, almeno, questo dovrebbe essere l’iter. - dondolò verso di lui - Ma solo se ti interroghi e verifichi quel tuo errore, ‘kero. Vedi, Baku-chan… Ogni legame richiede una responsabilità affettiva. Non ti puoi nascondere sempre dietro i tuoi “io-io-io” e i “tu-tu-tu”. Se sei consapevole che le tue parole o i tuoi atteggiamenti fanno star male una persona e tu sei il primo che non cambi, che non li modifichi, beh… Il problema sei tu, non lui.».

 

•••

 

Izuku aveva disimparato la noia.

L’aveva capito esattamente alle 11.38 di quel sabato assolato, in cui il condizionatore faticava a raffrescare la casa e il ventilatore spostava solo aria calda dal soggiorno fino al piccolo studiolo. Era così umido che gli avambracci si attaccavano al tavolo e ai fogli ogni volta che si appoggiava. E, cazzo!, quanto era fastidiosa quella cosa!

Bakugō l’aveva svegliato scuotendolo forte, facendolo quasi rimbalzare sul letto, accompagnando quel gesto rude ad un laconico: «Alzati e vestiti! Hawks ha chiesto di vederci.». Non erano passate otto ore dalla loro litigata che già il capo li aveva convocati per una ramanzina!

Quando poi era tornato a casa per la sua mattinata libera, aveva osservato a lungo il divano su cui aveva dormito il biondino, ripensando alle cattiverie che lui gli aveva sputato addosso e a quanto invece Izuku stesso fosse stato avventato sia nei modi sia nelle parole.

Katsuki aveva le sue mancanze, ma anche Izuku fece un mea culpa. A mente fredda, dopo una lavata di capo e nella completa solitudine di quella casa troppo calda.

Aveva tentato di dirgli come si sentiva, ma s’era ritrovato davanti a un muro. Sospirò, perché oltre ad averlo accusato di averlo abbandonato e non essersi più fatto sentire, l’aveva offeso e gli aveva vomitato contro insolenze unite alla cosa meno vera che potesse dirgli: per quanto si fossero urlati contro, quella convivenza forzata avrebbe voluto non finisse mai.

Perché se le parole erano coltelli che si lanciavano addosso l’un l’altro, i piccoli gesti, le attenzioni, parlavano un’altra lingua. E l’aveva capito mentre sciacquava la tazza di caffè di Katsuki, che, nonostante tutto, gli aveva fatto trovare un donut al lampone e il caffellatte al suo solito posto. Non l’aveva aspettato per fare colazione, ma quel gesto era comunque abbastanza per farlo sentire in colpa per ciò che gli aveva detto e per il modo rabbioso con cui l’aveva fatto.

Katsuki non era un tipo da fare i dispetti, non si sarebbe abbassato a tanto. Sapeva essere fastidioso, rancoroso e farti star male con quattro parole in croce… ma i dispetti no. Quelli forse erano più da Izuku, tanto che si era domandato se l’aver scopato Hagakure non fosse stato pure quello un dispetto.

Ma quello fu l’ultimo dei pensieri che vorticavano nella sua testa: aveva risolto i suoi dilemmi con una scrollata di spalle e s’era finalmente deciso a terminare la compilazione dei rapporti dell’ultima missione americana.

Non aveva minimamente contemplato l’idea di riposarsi.

Solo alle 11.38, dopo aver risposto a sua madre, Izuku si alzò dal plico di fogli e decise di fare anch’egli qualcosa per Katsuki. Di poco conto, ma che gli avrebbe di sicuro potuto far piacere, senza alcuna velleità di poter appianare il loro conflitto, sia ben chiaro. Solo… Solo sollevargli un po’ lo spirito.

Così decise di armarsi di scopa e paletta, infilando le sue cuffie da gaming nuove (con delle orecchie buffe da gatto di cui andava particolarmente fiero!) mentre scorreva tra le playlist prima di iniziare a pulire casa. Katsuki sarebbe tornato solo a metà pomeriggio e Izuku aveva tutte le buone intenzioni del mondo di provare a chiedergli scusa a gesti, più che a parole. Ricordava di aver letto che ci sono vari linguaggi affettivi e gli “atti di servizio” erano tra questi. Leggendo quella pubblicazione aveva subito pensato a Katsuki e l’aveva ritrovato in ogni singola parola di quell’articolo. Non poteva pretendere che quel biondino irascibile capisse che per lui era importante il contatto fisico quando era il primo a rifuggirlo… Ritenne la sua una decisione più che corretta: gli avrebbe dimostrato quanto ci teneva mantenendo pulito la loro casa provvisoria.

Che poi, a quel pensiero, si sentisse il viso andare a fuoco era tutta un’altra storia!

Ma le playlist in quel momento gli facevano tutte schifo e si rese conto di star perdendo tempo prezioso, così provó ad unire utile e dilettevole, aprendo l’applicazione dei podcast e scorrendo sugli audiolibri.

«Versione rimasterizzata?», si stupì, vedendo la copertina intricata di un vecchio libro di cui sua madre era particolarmente gelosa. Ricordava il titolo, perché ogni volta che lo vedeva, lei correva subito a toglierlo da sotto il suo naso, come se a lui fosse proibito perfino sbirciarlo di lontano.

Sotto la copertina c’erano quattro stelle e mezzo e, per un libro moderno ma così datato era strano, soprattutto se corredato da una parentesi che recava un 1.793 seguito da una M. Izuku alzò le spalle e premette sul pulsante di acquisto, attendendo che l’audio libro si scaricasse prima di farlo partire,curioso di capire perché fosse tanto popolare e tanto precluso quando era solo un ragazzino.

L’audio partì con una voce femminile molto dolce: “La foresta era diventata un labirinto di neve e di ghiaccio.”.

Izuku sorrise, perché almeno nell’ambientazione c’era il fresco che in quella casa mancava! Prese un profondo respiro e impugnò con forza la scopa e iniziò a pulire dalla loro stanza.il misfatto accadde circa due ore dopo, quando l’applicazione decise di spegnersi in autonomia, crashando e lasciandolo a metà di un combattimento e a metà della sua opera di pulizia della casa.

Non aveva controllato il punto in cui s’era fermato nella narrazione e, a onor del vero s’era distratto un paio di volte nell’imprecare contro aloni ostinati di dubbia provenienza.

Izuku guardò l’ora e terminò in fretta di pulire la vasca, prima di lavarsi le mani e decidere di mettere qualcosa sotto i denti. Però faceva troppo caldo ed era troppo sudato per pensare anche solo di provare a mettersi a cucinare qualcosa; si affidò alla magia del frigorifero, sperando che, dopo averne aperto la porta, avrebbe trovato un piatto pronto o comunque qualcosa di commestibile.

Grande fu la delusione nel vedere solo mezza anguria, lasciata lì dal pranzo del giorno prima.

Sospirò sconsolato e prese il piatto e un coltello, sedendosi di peso sul tavolo, ancora ingombro di prodotti di pulizia e stracci e spugne.

Avrebbe messo a posto dopo aver mangiato.

tra un boccone e l’altro, ben attento a non ingoiare pure i semini scuri dell’anguria, tentò di nuovo di riprendere il filo di quell’audiolibro, scorrendo sulla barra per trovare il punto corretto.

“…agganciai le gambe nude contro le sue, facendo scorrere i piedi lungo i suoi polpacci duri e muscolosi…”.

No, decisamente non era quello il punto in cui qualche minuto prima s’era bloccata la riproduzione!

Inclinò la testa e masticò con lentezza, prestando particolare attenzione alle parole, spalancando gli occhi sempre di più man mano che la narrazione proseguiva.

“…i polpastrelli dell’altra mano scivolarono sotto il bordo delle mie mutandine, facendomi trattenere il respiro…”.

«Hai capito la mamma!», se ne uscì, con voce troppo alta a causa delle cuffie, restando in religioso ascolto di quell’inaspettato twist nella vicenda, succhiando via il succo zuccherino dal polpastrello del pollice, indugiando in quel gesto senza davvero rendersene conto.

La sua attenzione fu calamitata dalle parole che fluivano nelle sue orecchie e un brivido lo percorse. Uno di quelli che conosceva bene, uno di quelli che gli smuovevano un calore piacevole nel basso ventre.

Mangió un altro pezzo di anguria mentre il racconto proseguiva e lui cercava di figurarsi la scena, assaporando il frutto con lentezza, lasciando fuoriuscire i semini dalle labbra a uno a uno fino nel pugno chiuso, lambendo con la punta della lingua le pieghe della mano senza averne reale contezza.

Ebbe un flash di quella volta ad Amsterdam e ritrasse la lingua, interdetto per aver accostato quell’esperienza mistica dopo la serata allo Spijker Bar a quel gesto così naturale che aveva ripetuto così tante volte e si ritrovò ad esserne infastidito.

Come poteva un libro raccontato smuoverlo dentro in quella maniera e fargli pensare al… rimming? L’aveva definito così quel tipo, giusto?

Si alzò di scatto da tavola e si andò a lavare le mani in cucina, l’attenzione sempre verso quel racconto che gli riempiva le orecchie. 

Era preso male, si disse, se quattro parole in croce lo riducevano ad avere una fastidiosa erezione che cercava di sistemare in tutti i modi all’interno delle mutande.

Il problema vero e proprio di tutta quella situazione era che, finché si spostava tra l’Europa e l’America poteva contare su un vasto numero di persone che, potenzialmente, non sapevano nemmeno chi lui fosse. Ora, tornato in Giappone, le possibilità di essere soddisfatto calavano drasticamente, dato che tutti lo conoscevano e avrebbero fatto carte false pur di passare qualche momento con lui, dentro o fuori dal letto non faceva molta differenza.

Si era arrangiato fin troppo in quei giorni e, nonostante l’incontro bollente con Hagakure, non poteva di nuovo chiedere a lei una mano. Sbattè il pugno contro la superficie in formica del piano della cucina, la frustrazione che cresceva man mano che il racconto nel suo orecchio proseguiva. Voltò il capo e osservò da sopra la spalla il divano su cui aveva dormito Katsuki e che lui doveva ancora sistemare.

Odiava farsi le seghe, perché le riteneva un po’ svilenti, ma in mancanza di altro…

Katsuki era sempre stato la sua piccola ossessione, ed era già venuto un paio di volte in quei giorni ripensando a lui e alla sua maledetta abitudine di girare per casa mezzo nudo, soprattutto dopo la doccia.

Gli piaceva il suo profumo, o, meglio, il suo odore: era una persona pulita (maniacalmente pulita), proprio forse a causa del suo quirk, che lo portava a sudare più del normale. Se ne era reso conto fin dagli allenamenti durante gli anni delle superiori: anche se completamente zuppo di sudore, Katsuki non puzzava! Forse era qualcosa legato alla nitroglicerina delle sue secrezioni, ma ogni tanto sapeva quasi di biscotto, tipo gli speculoos che aveva più volte assaggiato a Bruxelles. Biscotto alla cannella, già.

Izuku respirò a fondo, cercando di recuperare quel briciolo di autocontrollo che sperava di avere ancora, stringendo i denti e provando a calmarsi. 

Lo fece solo quando prese di nuovo in mano il cellulare e spense l’applicazione dei podcast, terminando gli sproloqui di quell’audio libro a cui non stava più prestando attenzione.

Scelse una playlist, una qualsiasi e s’impose di finire le faccende domestiche, sistemando le bucce dell’anguria nel cestino, passando il tavolo con la spugna, sistemando i libri sul tavolino e passando il lucidante sulla pelle del divano malconcio accanto alla parete.

Quando però fu in piedi di fronte all’altro divano, più logoro e comodo, e afferrò il lenzuolo in cui Katsuki aveva dormito, sentì di nuovo un brivido percorrerlo, i peli delle braccia sollevarsi e scosse il capo per scacciare qualsiasi pensiero.

In realtà gli dispiaceva davvero che lui non avesse riposato, che avesse deciso di allontanarsi. Ad ogni piega del lenzuolo un piccolo pensiero preoccupato andava a Katsuki.

Lasciò il lenzuolo piegato sulla seduta del divano ed afferrò un angolo del cuscino, sprimacciandolo con le mani per farlo tornare in forma.

Ma invece di posarlo subito, tentennò nel tenerlo tra le mani, torcendo e la stoffa morbida, incerto se portarselo al viso o meno.

Fu un incontro a metà strada, il collo tirato verso il basso mentre annusava piano la stoffa, in più punti, provando a riconoscere quel profumo che ricordava.

Ma lì dove aveva dormito Katsuki il profumo era più evanescente e si ritrovò ad occhi chiusi a premere la faccia contro la stoffa, sedendosi di peso sul lenzuolo appena piegato, sgualcendolo di nuovo.

Inspirò a pieni polmoni. Sapeva di lui

Abbracciò forte il cuscino e si lasciò pervadere dal profumo delicato, fresco e quasi dolciastro, tanto che gli sembrava di stringere Katsuki tra le braccia e quell’idea cominciò a scaldargli le guance. 

Scivolò lungo lo schienale, le gambe allargate per non cadere, i piedi ben piantati per terra.

Avrebbe voluto averlo lì, abbracciarlo sul serio, chiedergli scusa per le cattiverie dette o fatte e poco gli sarebbe importato se la colpa fosse stata sua o meno. S’erano ritrovati e Izuku non voleva mollarlo di nuovo, non voleva farlo soffrire e la cosa dell’America…Dio! Era stato un idiota a dirglielo! 

Perché non gli aveva detto che era felice di essere a casa solo per lui? Perché in un modo o nell’altro dovevano farsi del male?

“E chi ce l’ha il tempo per scopare?”. 

Quelle parole di Katsuki lo tormentavano da quando avevano iniziato ad abitare assieme. Lo osservava la notte, quando tornava dal bagno e lo vedeva rigirarsi nel letto e mugolare. Chissà se Katsuki sognava mai di stringere qualcuno, di baciare qualcuno…

Chissà se Katsuki aveva mai davvero scopato qualcuno… Aveva mai immaginato che fosse lui? Aveva mai preteso di stare con qualcuno fingendo che fosse Izuku?

Lui l’aveva fatto. Ad Amsterdam. E a Phoenix. E a Des Moines.

Ed erano tutti biondi e belli… ma non erano Kacchan.

Kacchan era un’altra cosa.

La sua mano si mosse da sola. Sollevò la maglietta e andò ad accarezzare la pancia, salendo sempre più su a stringere il pettorale, a massaggiarlo e a sentire che pian piano il capezzolo si induriva e premeva contro il palmo. Poi scese, passando per il fianco, graffiandolo leggermente con le unghie e donandosi dei brividi che gli fecero inarcare leggermente la schiena. Strinse forte il cuscino, immaginando di sentirlo ancora più vicino. E Dio! quanto avrebbe voluto stringerselo addosso per davvero in quel momento!

La mano sinistra non accennava minimamente a volersi fermare, quasi fosse mossa di vita propria, scollegata dal corpo, e proseguí il suo cammino andando ad infilarsi dentro i pantaloni. Izuku passò le dita su quell’accenno di erezione, da sopra il tessuto, stringendo mentre frizionava con lentezza e, senza troppi convenevoli, abbassò pure l’elastico delle mutande, contorcendosi sul posto per ritrovarsi col culo nudo sul lenzuolo sgualcito e con le dita avvolte attorno al cazzo a stringere e rilasciare la carne con delicatezza e calma, in una carezza lasciva che in quel momento gli sembrava una coccola fatta da qualcun altro.

Si abbandonó alle sensazioni che la sua stessa mano gli donava, affondando la faccia nel cuscino e immaginando nella sua mente che quella che lo stava facendo godere, fosse in realtà la mano di Katsuki, le sue dita ruvide e callose, il suo fiato sul collo... In quel momento desiderò solamente un orgasmo liberatorio, per sfogare la frustrazione causata dal fallimento di una convivenza che non doveva essere perfetta, quantomeno che potesse avvicinarli nel modo in cui Izuku voleva. 

Si mosse di più per togliersi i pantaloni e gli slip, che gli risultavano solo d’intralcio, facendolo scorrere fin oltre le ginocchia, lasciando che la gravità glieli facesse finire attorno alle caviglie. Allargò di più le gambe, riprendendo a toccarsi, a spalmare quel liquido che gli bagnava la punta lungo tutta la lunghezza, giocando con le dita, premendo sulla punta del glande fino a sentire fastidio, prima di ricominciare, la cappella ritratta e poi tirata su, alternando pressione leggera e decisa. Strinse gli occhi e la stoffa del cuscino tra i denti, respirando affannosamente col naso quel tenue profumo di pulito.

Sentiva l’eccitazione salire e le sensazioni diventare via via più intense, muovendo più velocemente la mano, soffocando gemiti strascicati nella stoffa, fantasticando che non fossero i suoi stessi umori a bagnarlo, ma la lingua calda di-

«Kacchan…», mugolò, 

Aumentando il ritmo ancora, quel nome sulle labbra come una preghiera, fino a che non ne poté più, fino a che non buttò la testa all’indietro, mentre mollava il cuscino e veniva nel proprio pugno, sporcandosi un po’ il ventre in maniera maldestra, mentre il respiro pesante faticava a tornare regolare.

Sobbalzó e gli uscì un urletto ridicolo per lo spavento quando spalancò gli occhi, che fino a un momento prima erano chiusi, e vide un’ombra in piedi tra la porta d’ingresso e il divano, con la faccia arrossata e gli occhi spalancati nell’incredulità della situazione. Cazzo! Con le cuffie ancora addosso e in preda al piacere com’era, non l’aveva neanche sentito entrare!

Si tolse le cuffie lasciandole sul divano, la musica ancora alta, e si alzò di scatto, lo sperma che gli gocciolava dal pugno sinistro fino a terra e sui suoi indumenti che gli imprigionavano le caviglie e che lo resero instabile bei pochi passi che fece per girarsi, tentando di coprirsi col cuscino su cui aveva fantasticato fino a qualche secondo prima.

Sentì le guance e le orecchie bollenti per l’imbarazzo quando vide che quella figura muta e immobile era in realtà Katsuki. 

Oh, cazzo!

«Perché cazzo ti stai strusciando sul mio cuscino?», berciò Katsuki, sconvolto dalla situazione assurda in cui si era suo malgrado ritrovato: lui, fuori con ottomila gradi all’ombra, si stava scervellando sui propri sentimenti verso Izuku, che se ne stava a masturbarsi sul divano, che lui aveva deciso di usare come letto dopo la loro litigata della sera precedente.

Ma la cosa più assurda era l’aver assistito a quello spettacolo o involontariamente, perché aveva sentito il proprio nome tra i lamenti di una voce familiare e, da stupido coglione qual’era, s’era fermato per capire la situazione. Ma da capire c’era ben poco e s’era sentito avvampare fin sulla punta delle orecchie, già accaldato per la giornata assolata, con il proprio nome biascicato tra i gemiti… Dio quello era stato il colpo di grazia!

E a vederlo così nudo e colpevole, per la seconda volta nel giro di due giorni…

Prese un profondo respiro e si tolse con foga i guantoni del costume, stringendolo con rabbia tra le mani, torcendoli, mentre gli occhi fiammeggiavano sul viso e sulle spalle di Deku, le efelidi che si confondevano nel colore della pelle abbronzata.

«Ma sei coglione? - sbottó - Io sto di merda per quello che gli ho detto ieri e lui che fa?» e gli lanciò contro un guantone, colpendolo su una coscia che Izuku aveva alzato per proteggersi, portando in avanti la mano destra per fermarlo.

«Ka-kacchan!».

«Sì masturba! - gli lanciò il secondo guantone, che il verdino paró con fatica - Col mio cuscino!».

«Ti-ti posso spiegare!», squittì Izuku, un brivido lungo la schiena a vedere Katsuki togliersi il cinturone per lanciarglielo contro. Lo schivò, piegando la schiena in avanti.

«Ah? Spiegare? - berciò ancora, sfilandosi la canotta del costume, strizzandola tra le mani - Non ho bisogno che mi spieghi come sei venuto sul mio cuscino!» e lo colse impreparato, lanciandogli addosso la canotta sudata e colpendolo in faccia.

La sua mente sperò per un minuscolo istante che si stesse spogliando per lui, per raggiungerlo, ma così non fu: Izuku fece cadere il cuscino per proteggersi inutilmente da quel lancio, emettendo un urlo strozzato a sentire il tessuto intriso di sudore arrivargli in faccia e poi cadere ai suoi piedi.

Si portò le mani al viso, togliendo l’umidità dalla faccia con i palmi, un verso di disgusto accompagnò quel gesto mentre Katsuki si dirigeva a passo pesante verso il bagno, borbottando chissà quali insolenze nei suoi confronti.

Izuku si chinò a raccogliere la canotta fradicia da terra. Era zuppa da far schifo: probabilmente fuori si moriva di caldo e lui non aveva voglia di iniziare il turno proprio sotto quella calura.

Mentre teneva con due dita la canotta e raccoglieva da terra il cuscino, il suo cervello fece un’associazione di idee stupida e si ritrovò di nuovo ad annusare la stoffa morbida, avvicinando poi il naso con estrema cautela alla canotta nera che teneva tra le dita.

La cosa strana fu che non gli fece così schifo come avrebbe dovuto. Mentre avvicinava il naso alla stoffa e inspirava a pieni polmoni l’odore dolce e pungente di quel sudore, si rese conto che davvero Kacchan sapeva di pulito anche se sudato come un maiale e questa cosa gli fece così effetto che gli venne di nuovo duro.

«Guarda che è-», la voce aspra di Katsuki si fermò, come la sua figura, poco oltre la porta del bagno, con i pantaloni del costume in mano e gli occhi sgranati a vedere il proprio coinquilino che stava letteralmente sniffando la sua maglia sudata e… Era un’erezione quella?

«MA CHE CAZZO DI PROBLEMI HAI?», gli urlò dietro, lanciandogli contro con precisione millimetrica i pantaloni, centrandolo in pieno sulla faccia, facendolo vacillare per il contraccolpo.

Izuku si ritrovò a balbettare come quando aveva tredici anni, trovandoselo praticamente a dieci centimetri dalla faccia, dopo che aveva cercato di togliersi di dosso pure i suoi pantaloni impolverati che sapevano da fumo e polvere da sparo. «Ka-cchan! Io- Io posso spiegare!»

L’indice puntato contro il petto era tutt’altro che un segno di amichevole chiacchierata.

«Smettila di fare il coglione!», gli sputò contro, gli occhi cremisi fissi nei suoi. Erano anni che non si sentiva tanto vulnerabile, e non perché era mezzo nudo e avrebbe potuto fargli esplodere i gioielli di famiglia allungando una mano.

Sapeva di non dover toccare le cose di Katsuki, lo sapeva! Eppure l’aveva fatto e lui ora era furioso. Lo vedeva dallo sguardo, da come gli aveva afferrato il collo della maglietta e ora se lo stava tirando contro.

E doveva smetterla di pensare che fosse bello, che avrebbe potuto allungare un po’ il collo e provare a baciarlo. Magari ci sarebbe stato.

Magari l’avrebbe convinto. Magari quel bacio l’avrebbe ricambiato. Magar-

«Vestiti e porta il tuo culo fuori da qui! - gli ordinò - Sei solo un pervertito del cazzo!», e gli strappò dalle mani i suoi indumenti, prima di chinarsi a raccogliere pure i guantoni ed allontanarsi a passo spedito verso la lavatrice, cacciandovi dentro con rabbia tutto ciò che il suo costume aveva di lavabile, prima di rinchiudersi in bagno, la porta sbattuta con un tonfo che fece sobbalzare Izuku, ancora con i pantaloni a metà coscia, intento a rivestirsi nonostante l’erezione.

Katsuki, invece, si appoggiò alla porta chiusa, mordendosi la mucosa del labbro inferiore e passandosi una mano sugli occhi, rilasciando dal naso un sospiro che sembrava più un lamento umido di pianto. Scivolò lungo la porta, fino a sentire le piastrelle fresche del pavimento sotto il sedere, portandosi le mani alle orecchie, troppo caldo che temette potessero esplodere.

Perché a lui?

Era la sua punizione per averlo trattato male? Per non essersi fatto sentire? Imprecò e poco gli importava che lui lo sentisse, perché Deku poteva anche andarsene a fare in culo, per quel che lo riguardava.

Si artigliò le ciocche bionde, rannicchiandosi e soffocando tra i denti un urlo

Aveva parlato con Tsuyu e aveva tutte le buone intenzioni di provare a chiarire e quello stupido coglione che faceva? Invece di trovare un modo per non perdersi di nuovo, per fare in modo di chiarire, lui aveva deciso di usare il suo cuscino come svuotapalle. Il suo fottutissimo cuscino!

«Fottuto Deku!». Tiró un pugno sul pavimento, crepando la piastrella e facendosi pure un po’ male.

Perché lui si era scervellato tutta la mattina su come rimediare alle proprie parole troppo piccate, mentre il coglione si trastullava da solo senza minimamente pensare alle conseguenze delle sue parole o delle sue azioni!

Un ennesimo sbuffo prima di alzarsi e scoprire, con rammarico e fastidio, che la difficoltà che aveva nel togliersi i boxer non era legata al fatto che pure quelli fossero sudati da far schifo.

Si rese conto, suo malgrado, che lo spettacolino a cui aveva assistito non l’aveva per nulla lasciato indifferente: guardò la sua erezione, che svettava liberata dalla costrizione del tessuto e si morse il labbro, gli occhi che pian piano si inumidivano di lacrime. 

«Fottuto Deku…».


Well I guess I lied
I wear the same old mask,as everyone outside
And everybody knows about the shame I hide
That I'm really very ugly deep inside
I'm so, afraid
~ Ben Moody~


***

ANGOLO DELLE VESTIGIA

«...Ma sta- Si é-»

«Sí, si é sbattuto un cuscino.»

«Gio-Giovane Midorya…»

«E si sta sniffando la biancheria intima del suo coinquilino.»

«GIOVANE MIDORIYA!»

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Capitolo 10
*** ...healin' my heart's confusion ⚠️ ***


...healin' my heart's confusion ⚠️


 

Sei l'unica persona con cui posso parlare dell'ombra di una nuvola, della musica di un pensiero. E di come, quando oggi sono andato a lavorare e ho guardato in faccia un girasole, mi ha sorriso con tutti i suoi semi.
~ Vladimir Nabokov ~

30 giugno


Uscì dal bagno come una furia e vide Deku sgranare gli occhi, forse perché non si aspettava quell'impeto da parte sua. «Kacchan? Che succede?».
«Tu! Succedi tu! Sempre tu, cazzo! - e s'indicò i boxer - Cosa dovrei farci con questo? Ah?».
Izuku spostò lo sguardo in basso e sbattè le palpebre, inclinando di poco la testa nell'osservargli l'erezione che tirava la stoffa nera e sottile.
«Non servirmi battute a doppio senso in questa maniera, Kacchan.».
«Questa cosa è colpa tua!».
«Mia? Sono lusingato, ma credo sia più perché è mattina... Non ti capita mai?».
«No! Cazzo! È colpa tua! Sei tu - lo indicò con un gesto stizzito della mano e del braccio - che giri nudo per casa!».
Izuku si rimirò a sua volta e gli offrì un sorriso bello da fargli mozzare il respiro: «Ho solo imparato da te. Guardati.», e Katsuki si osservò, ritrovandosi completamente nudo al centro del soggiorno, i pugni stretti lungo i fianchi e il cazzo che gli faceva quasi male da quanto era duro e gonfio.
Digrignò i denti e provò a ribattere, ma le parole sembravano morirgli in gola, la bocca arsa come in mezzo alla calura di quelle giornate assolate.
Quando smise di guardare a terra e alzò gli occhi si ritrovò Deku di fronte, la sua solita espressione di compassione e gli occhi verdi che sembravano volerlo mangiare. «Non dirmi che non sai che fare...».
La mano andò ad afferrargli la maglietta, tirando il tessuto sottile. «Non sono un pervertito come te!».
«Non è questione di essere pervertiti, Kacchan. È normale toccarsi e stare bene.»
No. Non lo era. Per lui non lo era mai.
Viveva nel costante timore di farselo esplodere, perché aveva visto un paio di volte delle scintille mentre si toccava e, quando veniva, non controllava mai le proprie esplosioni.
«Io non sto bene.». Lo disse senza alcun freno, portandosi le mani alla bocca per bloccare le parole, inutilmente.
Izuku lo incalzò, posando una mano sulla sua, abbassandola, forzandolo ad intrecciare le dita con le proprie, mentre la mano destra gli prendeva il mento e lo sollevava per costringerlo a guardarlo, i nasi che si sfioravano.
«Perché non stai bene, mh? - la voce era bassa e dolce e la punta del suo naso sfiorava lentamente la propria - Non sai come fare?».
«Non mi piace farlo.».
Il sorriso sulle labbra di Izuku si allargò. «Che cosa? Masturbarti? O scopare?».
Un brivido gli percorse la schiena quando le labbra di Deku sfiorarono le sue, mentre cercava di allontanarsi. Ma non lo baciò; si limitò a infastidirlo con un leggero solletico, portandolo a umettarsi le labbra.
«E-entrambi.», balbettò in tono appena udibile, prima di soffocare uno squittio nel sentirsi strattonare la testa all'indietro, mentre le labbra morbide di Izuku gli lasciavano baci lievi sulla pelle della gola, e giù, fino alla confluenza delle clavicole, mentre le sue dita gli sfioravano i fianchi appena sopra l'elastico dei pantaloni, artigliandone la stoffa, allargandola pericolosamente per poi rilasciarla.
«C-ch-che fai?».
«Ti faccio vedere che non c'è nulla di male nel godere un po'...», disse Deku, prima di massaggiargli l'erezione da sopra il tessuto, strappandogli un sospiro profondo e grattato, mentre le sue mani, prive di alcuna forza, provavano a spingerlo dalle spalle, a staccarlo mentre lui invece lo sospingeva con dolcezza verso il divano, facendolo sedere di peso sui cuscini.
Chiuse gli occhi e un mugolio rauco gli lasciò la gola mentre i baci sul collo e i piccoli morsi lo intontivano e sentiva le mani di Izuku ovunque sotto la maglietta, a sfiorargli la pelle del torace, a strizzargli i pettorali e i capezzoli, mentre la maglia sembrava essere scomparsa, volatilizzata. Al suo posto un velo di sudore e il respiro affannoso che gli sfuggiva dalle labbra. «Fe-fermati... Izuku... Fermati...», esalò, mentre l'altro non accennava ad ascoltarlo ma gli parlava a fior di pelle, tra un bacio e l'altro.
«Sai di buono, Kacchan. Te l'ha mai detto nessuno che sei come una caramella?», e gli leccò un capezzolo, facendogli inarcare la schiena, già appiccicata alla pelle del divano per il sudore e l'eccitazione.
Baciò ogni avvallamento del suo addome, passando la lingua nel solco dei suoi muscoli, stampando le labbra con delicatezza sul suo ombelico, prima di abbassargli pantaloni e boxer lungo le creste iliache, a scoprire quel lembo di pelle sottile appena sopra il pube, dove la leggera peluria bionda spariva sotto gli indumenti, a creare una pista nascosta verso il paese delle meraviglie.
Izuku posizionò entrambi i pollici nelle fossette create dagli addominali obliqui, percorrendo quelle dolci depressioni più volte, premendo quanto bastava perché Katsuki sussultasse, privato della parola e reso solo boccheggiante dalle sensazioni che quelle dita gli stavano donando.
Ogni centimetro di pelle che toccava reagiva a lui, lo rendeva morbido come creta, plasmabile, abbandonato completamente al ragazzo che lo stava pian piano spogliando della sua ultima barriera.
«L'hai mai fatto?», gli chiese Izuku, un bacio dopo l'altro sull'inguine, mentre le sue guance piene di efelidi gli sfioravano l'erezione e ne sentiva il fiato caldo sulla pelle. «Te l'hanno mai succhiato, Kacchan?», e si guardarono. Gli occhi verdi di Izuku parevano innaturali per quanto erano belli e luminosi e desiderosi di lui.
«Eijiro... - riuscì a confessare - E Mina...». Deku fece un mugolio soddisfatto, prima di leccarlo per tutta la lunghezza senza mai staccargli gli occhi di dosso. Katsuki trattenne il respiro a vedere quella lingua umida lambirgli la punta.
«E com'è stato?».
Ma non rispose, perché si vergognava a dire che era stata una prova con entrambi e che era servita più agli altri due per fare pratica che per lui per sentire davvero qualcosa. Voleva dirglielo, spiegargli perché non ci trovava niente di bello, ma le parole si fermarono sulla punta della lingua passata sul labbro inferiore, mentre la testa si reclinava all'indietro a sentire il calore della bocca di Izuku che lo avvolgeva, succhiandolo quel poco che bastava per farlo gemere di gola.
Una mano si mosse e s'infiló nella chioma verde di Izuku, strattonando e le ciocche quando percepì il naso toccagli la pelle, la saliva che gli colava giù per l'inguine a mescolarsi col sudore. Sentiva caldo, e umido, e i brividi sulla schiena ad ogni affondo di quella bocca bollente su di sé.
Era tutto nuovo. Tutto troppo per lui.
«Oh, Dio... Izuku... Ti prego...», mugolò, stringendogli di più i capelli, incurante di fargli male, sentendo i palmi scaldarsi, così come il ventre, contratto da spasmi ogni volta che Izuku lo succhiava con più forza.
«Mi preghi adesso? Di cosa mi stai pregando, Kacchan? Di smettere o di continuare?», e gli massaggiò la base, mentre la lingua lo lambiva per tutta la lunghezza e poteva vedere piccoli bagliori verdi su di essa, percependo un leggero pizzicore sulla pelle.
La sua risposta fu a malapena udibile: «Continua...», soffiò, perché mai aveva provato quella sensazione di benessere, quel vuoto alla pancia che ti fa chiedere aria e volere più bocca, più lingua, più tutto.
Ai suoi gemiti fecero eco i mugolii di Izuku, un vibrato sulla sua carne che gli aumentava i brividi. Poi il calore frizzante di quella bocca lo lasciò e gli uscì una specie di acuto, condito con tutta la disapprovazione di cui era capace in quel momento: «No!».
«Non vuoi che mi fermi?» e Katsuki scosse la testa con forza, un vuoto nella gola ad ogni respiro e il sangue che gli formicolava nelle vene ogni volta che la mano di Izuku si muoveva su di lui con lentezza. Si ritrovò ad inarcare la schiena e muovere le gambe appena lui aumentò il ritmo: «Avanti, pregami. Dimmi cosa vuoi, Kacchan. - gli leccò la punta guardandolo negli occhi - Guardami e dimmi cosa vuoi.».
«Fammi... - esitò e rilasciò un gemito, le mani a stringere i pantaloni abbassati lungo le cosce - Fammi venire...», mugolò, le labbra dischiuse che rilasciavano piccoli versi e il fiato corto che gli muoveva in fretta il petto.
Izuku ghignò. Lo vide bene prima di tornare in un limbo fatto di calore e di estasi, mentre la mano del ragazzo si muoveva sulla sua lunghezza con più velocità, lasciandolo boccheggiante, inarcato sul divano, la schiena umida che si staccava a fatica dai cuscini in pelle. Voleva di più, sapeva di averne bisogno.
La voce divenne una litania sommessa che si alternava ai respiri: «Fammi venire... Oh, per favore... Fammi venire... Ti prego...».
«Bravo Kacchan, bravo! Ecco...lasciati andare...». Quella voce sembrava di averla a un soffio dalle orecchie, gli s'incastrava in testa sempre più a fondo a ogni sua ripetizione.
«Izuku... Izuku ti prego... Fammi-».


Baboom!


Quando Katsuki si svegliò, tirandosi a sedere di colpo sul divano le sue mani fumavano e udiva dei lamenti ovattati poco distante da lui. Sbattè le palpebre un po' di volte per mettere a fuoco la penombra del salotto.
Notò un lampo verdastro e la luce si accese di colpo, accecandolo.
«Ma porca puttana! Volevi farmi esplodere la testa?», gli ringhiò contro Deku, verificando se sulla mano, oltre alla fuliggine, non ci fosse pure del sangue.
Stava rientrando dal bagno e l'aveva già sentito lamentarsi nel sonno. Solo quando aveva udito tra i lamenti il proprio nome aveva tentato di scuoterlo un po' per svegliarlo. Katsuki gli aveva messo entrambe le mani in faccia e gliel'aveva stretta, forse perché voleva che smettesse, ma, invece, aveva detonato.
Un'esplosione tanto forte che pure le orecchie gli continuavano a fischiare mentre osservava Kacchan praticamente spaesato, che continuava a fissarlo, rosso in volto, muovendo la bocca, ma senza che ne capisse realmente il suono.
«Ma puttana galera! Non ti basta tormentarmi nella vita reale? Cazzo! Pure nei sogni! Fottuto Deku!». Katsuki stava imprecando in maniera colorita contro Izuku, che continuava a massaggiarsi le orecchie con i palmi e a fare movimenti strani con la bocca per cercare di compensare il fastidio dato dalle esplosioni troppo vicine alle orecchie.
In quel breve momento di totale incomunicabilità tra le parti, Izuku ben si accorse dell'espressione di sgomento che stava facendo Katsuki nel sistemarsi senza alcun ritegno l'erezione che gli spuntava dall'elastico dei boxer.
Perché, sì, aveva avuto un sogno umido e si ritrovava umido per davvero e duro da far male, appiccicoso sul ventre di sudore e di muco, mentre collo, orecchie e faccia sembravano andare a fuoco. Quando alzò gli occhi e incontrò lo sguardo di Deku si sentì avvampare ancora di più.
Che fosse rabbia o lo strascico dell'eccitazione dovuta al sogno aveva poca importanza.
«Che hai da guardare, ah?», berciò alzandosi in fretta dal divano, le mani che fremevano e scoppiettavano.
«Mi-mi sono preoccupato!», fece Izuku, alzando le mani e indietreggiando verso la cucina, arrendevole. Ma l'attenzione era sempre lì, su quel rigonfiamento che faceva infuriare l'amico.
«Continuavi a lamentarti... - ghignò - Ma lamenti non erano, vero Kacchan?» e abbassò le mani, portandole alla vita, sporgendosi verso di lui a sfidare la sua furia.
E fu quel sorrisino a bloccarlo, a frenare l'avanzata del giovane che rimase interdetto e con gli occhi spalancati, il viso arrossato e i pugni stretti lungo i fianchi.
Sbuffò, ma sembrava più lo sfiato di una pentola a pressione misto ad un grugnito, mentre faceva dietrofront e si dirigeva a passo spedito verso il bagno.
«C'entravo io?», sentì dire ad alta voce dietro di sé, una punta di scherno nel tono. Non gli rispose, limitandosi a sbattere la porta nel chiuderla.
Si rese conto dello stato in cui era solo dopo essersi guardato allo specchio. Si spogliò completamente e si buttò sotto il getto di acqua fredda, insaponandosi in fretta, sperando che la doccia gelata lo aiutasse, ma niente.
Quello che era ancora più frustrante era che quell'idiota l'aveva svegliato sul più bello! Avvampò, pure sotto il getto d'acqua e si guardò l'erezione che non ne voleva sapere di scendere, toccandosi le palle per lenire un po' il fastidio. Doveva fare qualcosa. Qualcosa che non fosse tentare la sorte con la masturbazione solitaria, rischiando di evirarsi con una esplosione. Già stava per far saltare la testa a quello stupido Deku!
Sapeva di dover chiedere consiglio a qualcuno e fare qualcosa.
Uscì dalla doccia, asciugandosi in fretta, legandosi in vita l'asciugamano e dirigendosi a passo svelto in camera, accendendo la luce senza troppi convenevoli e frugando nel borsone alla ricerca di intimo e vestiti puliti.
Izuku si mise a sedere sul letto: «Ehi...», la voce era di nuovo calma e si ritrovò ad essere seriamente preoccupato per Katsuki, che si limitava solo a sbuffare. «Stai bene?».
Avrebbe davvero voluto aiutarlo. La parte maliziosa e perversa di lui avrebbe voluto dargli realmente una mano, ma si trattenne dal fare battute di dubbio gusto. Ma quel silenzio... Lo stuzzicava l'idea che l'avesse sognato, che si fosse eccitato per lui. Era una cosa abbastanza perversa da pensare, ma lo lusingava.
In fondo, quel pomeriggio era venuto sul suo cuscino pensando proprio a Kacchan e, forse, questa cosa l'aveva smosso un po'. Era bello crederlo, era bello convincersi che fosse così, tanto che si sentì le guance calde, mentre lo osservava lanciare vestiti sul letto con ringhi sempre più spazientiti.
«Vuoi... Vuoi che ne parliamo? Ti vedo... Uhm... Adirato?».
«Va' al diavolo, Deku!», ribatté, prendendo la porta della camera e uscendo con la stessa furia con cui era entrato, lasciando la luce accesa e Izuku che osservava il letto di Katsuki completamente sottosopra.


•••


Chiavi, portafoglio e cellulare già sull'orecchio, una chiamata in corso, la seconda. Odiava il fatto che quel demente avesse il sonno così maledettamente pesante. Come Deku.
Al settimo squillo udì un fruscio, un tonfo e mezza imprecazione.
Una voce impastata dal sonno gli rispose in maniera lugubre: "Eeeehhh?"
«Capelli-di-merda!», ma dall'altro lato nessuna risposta, solo un mugugno di disapprovazione.
«Svegliati cazzo!»
"Bro... che vuoi? Sono le... Sono le quattro..." e udì un forte sbadiglio.
«Cazzo! Kirishima! Mi vuoi ascoltare?»
"Uh? Oh... Niente soprannomi? Merda! - di nuovo del trambusto - Che-che è successo? Stai bene? É morto qualcuno?". Sorrise. Quel ragazzo si preoccupava sempre troppo. E sentire la sua voce, seppur roca e impastata dal sonno, lo stava già aiutando.
«No. Cioè sí.».
Dall'altro lato ci fu una pausa prima che l'amico riprendesse a parlare: "Chi hai fatto saltare in aria?"
«La mia dignità.».
"La tu-ah! Ahah! E... Ehm... Che é successo?"
Si pizzicó la sommità del naso con due dita, fermando il suo peregrinare per le strade buie e deserte di Urakawa, prendendo un profondo respiro. Come spiegarlo? Avrebbe dovuto fare un giro di parole o essere diretto?
«Ho sognato Deku.»
"Bro? Non capisco."
«Ho sognato Deku.», scandì, calcando le parole e sperando che quel decerebrato del suo migliore amico cogliesse le sfumature anche se stava morendo di sonno. Il dover dire realmente le cose come stavano lo imbarazzava così tanto da continuare a sentire il caldo salirgli dal petto fino in faccia.
"Oh. - fece una pausa - Non ho mica capito sai? Ma l'hai sognato tipo quando sognavi All Might?".
Sbuffò, spazientendosi, urlando sottovoce nel microfono: «L'ho sognato tipo che mi si stava facendo, porca troia!».
"Che te lo stavi facendo?"
«Lui si faceva me!».
"Aaaaah! Ora è tutto più chia- Cosa?"
«Eh.».
"Eh. - pausa - Quindi nel sogno Deku si faceva te?"
«Sì.».
"E tu ci stavi?"
«SÌ PORCA TROIA!»
"Non urlare. Sono sempre le quattro Bro!"
«E tu piantala con le domande a raffica.».
"Beh è fantastico!".
«Fantastico un par di palle!».
"Se sei venuto sì.".
«Cos- No!».
"No, non é fantastico? O no, non sei venuto?".
«Mmmmh.».
"Oh. Mi dispiace."
«Non compatirmi.».
"Beh... Mi sembra comunque una cosa buona no? Era da un po' che non sognavi o sbaglio? Vuol dire che dormivi profondamente!".
«Perché ho un amico così idiota?».
"E che ti dovrei dire, scusa? - cambiò tono di voce - Yeah! Ti sei fatto Deku in sogno! Ora devi solo scopartelo nella vita vera!".
«Kirishima!».
"Che c'è?".
«Ti chiamerò Cervello-di-merda. - fece una pausa - Ma come puoi dire certe stronzate!».
"Broooo... Sei l'unico che non l'ha ancora capito mi sa...".
«Cosa?».
"Che Izuku ti piace. - lo udì sospirare - Sei così limpido da leggere, amico mio...".
Katsuki si piantò in mezzo al marciapiede deserto, il cuore che sembrava impazzito. Ripercorse quei giorni trascorsi assieme, lo strano sentimento di rabbia e gelosia nel vederlo con Hagakure, il modo in cui si accorgeva di tutte le piccole cose che di lui gli erano mancate in quell'anno e mezzo.
«Dici?».
Lo sentì sbadigliare: "Dico. Dico.".
Ma Kirishima non ricevette risposta né lo udì continuare il discorso, solo mugugni di disapprovazione.
"Bro! Frena la testa, ok? Puoi riassumere cosa è successo? Non nel sogno, eh!".
«È troppo lunga da spiegare.».
"Mh... Va bene. E tu come ti senti ora?"
Ci pensò un po' su. «Arrabbiato.».
"Quello lo sei sempre, non fa testo. Poi? Elabora.".
«Scombussolato?».
"Mh. Frustrato? Ti sei fatto un seghino per venire?"
«Cos- NO! Cristo santo! Deku mi ha svegliato e mi ha visto in quello stato e sai che, cazzo!, non riesco!».
"Sì, giusto. Boom, ciao pistolino sì.".
«Non dirlo come se fosse una stronzata.».
"Ma è una stronzata!".
«Ti stavo per far saltare le braccia, cazzo!».
"Ne abbiamo già parlato. Non farmi tirare fuori di nuovo l'argomento! - un sospiro esasperato - Ti devi sfogare. Devi trovare un modo.".
«Torno a casa, mi cambio e vado a correre.».
"No. Torni a casa, ti spogli e ti scopi Deku!".
«No.».
"Non fare il bambino, Katsuki! A furia di reprimerti ti scoppieranno le palle per davvero, cazzo!".
«Finiscila!».
"No! Tu la devi finire! Sai bene cosa devi fare e continui a non farlo! Quanto tempo hai bisogno di far passare prima di trovare una soluzione a tutto questo? Perché non vuoi farti aiutare?"
«Perché non ho intenzione di far sapere al mondo che soffro di incontinenza esplosiva!»
Silenzio dall'altro capo del telefono. Forse era stato un po' troppo duro.
Riprese a camminare e, per quasi un minuto nessuno dei due disse nulla.
"Trova il modo per sfogarti, Katsuki. - ruppe il silenzio Kirishima - E lo dico perché ti voglio bene e perché non ho intenzione di raccoglierti col cucchiaino perché finisci col distruggerti.".
«Mmmh.».
"Grazie. Anche se un 'Ti voglio bene anche io, stronzo' mi sarebbe piaciuto di più.".
«Fanculo.».
"Va bene anche questo. Grazie! Ora... Che farai? Ti metterai a correre?".
Katsuki guardó avanti a sé, scorgendo la nave di Selkie, la Oki Mariner, alla fonda nel porto di Urakawa. «Più o meno.».
"Più o meno? Cosa vuol dire più o-", ma Katsuki chiuse la chiamata, dirigendosi a passo spedito verso la zona degli imbarchi portuali.


•••


«'kero?».
Quando Tsuyu aprì la porta della propria cabina era chiaramente appena scesa dal letto: la lunga treccia un po' arruffata e la maglietta oversize gialla (chiaramente del merchandise di Chargebolt) tutta stropicciata, una mano a strofinarsi l'occhio e la punta della lingua tra le labbra.
L'ufficiale di ronda aveva bussato più volte e ora si stava scusando con lei per l'orario.
«Sì-sì! L'abbiamo capito! Ora levati! Ho detto che è un'emergenza!», e Katsuki lo scostò in malo modo, sospingendo Tsuyu di nuovo all'interno dell' alloggio e chiudendo la porta in faccia al povero marinaio, senza che questi avesse il tempo di replicare.
La cabina era piccola e spoglia e il mobilio era tutto in legno chiaro. A destra dell'ingresso vi era una piccola scrivania ingombra di carte e un piccolo ripiano con dei libri assiepati in maniera disordinata, con tutte le altezze e le copertine non ordinate né per casa editrice né per colore, cosa che lo infastidì. Come potevano le persone non essere ordinate? Era così semplice e appagante catalogare i libri per colore dei dorsi...
La porticina bianca alla sua sinistra era semi-aperta e poteva scorgere il profilo del water nella penombra.
Le due cuccette, una sopra l'altra, erano esattamente di fronte alla porta, con la luce di quella più in basso accesa. Sopra la tenda di panno blu era tirata a celare qualcosa o qualcuno.
Un gracidio lamentoso uscì dalla gola di Tsuyu dopo un profondo sbadiglio: «'kero... Sono le quattro passate, Baku-chan... Che c'è di così urgente da non poter attendere almeno altre tre ore?», fece la ragazza biascicando per il sonno, osservando il ragazzotto biondo che sembrava troppo grande per quell'alloggio minuscolo.
Lo vide raccogliere delle carte sulla scrivania, metterle un po' da parte per appoggiare portafoglio, chiavi e cellulare, prima di sfilarsi la maglietta con difficoltà in quello spazio angusto.
«Che-che fai?».
«Scopiamo.».
«Cos- No!», disse simulando una mezza urlata a bassa voce, facendo fermare Katsuki con le braccia intrappolate davanti a sé dal tessuto della maglietta.
Il biondino alzò il mento ad indicare la cuccetta con la tenda tirata: «Se vuoi troviamo un hotel e la lasciamo dormire.».
Il tono pacato con cui pronunciò quelle parole la fece rabbrividire e, complice il sonno e la scarsa lucidità, si ritrovò a rispondergli nella maniera peggiore in cui avrebbe potuto: «Chi?».
«La tua compagna di stanza.».
«Io non ho una- merda! Nononono! Che fai, 'kero?» e sgranó gli occhi portando le braccia avanti nel tentativo di fermarlo, ma Katsuki si era già sfilato le scarpe e si stava abbassando i pantaloni della tuta.
«Meglio.».
«Ma cosa meglio? 'kero! Rivestiti subito!», e gli lanciò addosso la sua stessa maglietta che aveva raccolto dal pavimento.
«Perché?», chiese lui, accigliandosi.
«Perché sono le quattro di mattina, 'kero! E perché sono lesbica!».
«Non me ne frega un cazzo! È un'emergenza!» e la ragazza lo guardò, basita.
«Sono les-bi-ca, 'kero! Comprendi?».
Katsuki sbuffò e la osservò, sempre più accigliato, con i pantaloni in mano: «Clitoride e pene si sviluppano dal tubercolo genitale. Quello che cambia è il pattern genetico. Se la vedi così sono più o meno la stessa cosa. - fece una breve pausa, infilando i pollici nell'elastico dei boxer, spingendoli verso il basso - E ora aiutami!».
Quello che il ragazzo non riuscì a prevedere fu lo scatto fulmineo con cui Tsuyu gli finì contro, bloccando le braccia con le sue, impedendogli di proseguire in quello spogliarello improvvisato.
Guardò verso il basso quella faccina tondeggiante che ora sembrava volesse ucciderlo sul posto. E quegli occhi grandi e vacui che ora si assottigliavano, arrabbiati, lo fecero deglutire a vuoto.
«Tu che parli con termini scientifici rendi tutto meno eccitante, lo sai? - prese un profondo respiro e sentì il suo fiato caldo all'altezza dello sterno - Cosa cazzo ti prende, 'kero?».
Katsuki continuó a osservarla, accigliato pure lui, perché nella sua testa stava già cercando di spiegarle che cosa fosse successo da quando aveva finito il turno fino a quel sogno assurdo e alla telefonata con Kirishima, ma tutto quello che riuscì a dire fu solo un convintissimo «Ecco.» alla fine del suo lungo monologo interiore.
«'kero? Sto aspettando...», lo incalzò la ragazza, la faccia sempre più cupa e minacciosa.
Perché aveva così timore di lei?
Ne avevano parlato la mattina precedente, perché ora si sentiva così bloccato?
Aveva scelto lei perché si fidava, perché in fondo era come Kirishima. E se Kirishima l'aveva provato ad aiutare quella volta, perché lei non avrebbe potuto farlo adesso?
Bastava parlare, no? Far uscire dalla gola quelle maledette parole!
«Ecco... Sono... Successe un po' di cose...», e Tsuyu lasciò pian piano la presa, mentre Katsuki sospirava pesantemente e indietreggiava, fino a poggiare testa e schiena contro la porta della cabina, provando a raccontare come meglio poteva quello che era capitato.
«Quindi, sostanzialmente, mi stai dicendo per la seconda volta che Deku sarebbe una specie di pervertito, 'kero...».
«Lo è! Si stava strusciando sul mio cuscino!».
«E invece tu? Che ti presenti qui di notte, abbassandoti i pantaloni prima ancora di toglierti le scarpe e mi dici che vuoi scopare, cosa dovresti essere?».
«Disperato.».
Tsuyu incrociò le braccia al petto e alzò un sopracciglio, mentre con un piccolo gesto del capo lasciava cadere la treccia dalla spalla lungo la schiena.
Sbuffò rumorosamente, più per trattenere mezza risata; perché, in tutta quella situazione, quell'uscita esasperata di Baku-chan le era sembrata tanto pura da sciogliere di colpo tutta l'incazzatura e voler fare un passo verso di lui in qualche modo.
«Baku-chan... - cercò di addolcire la voce il più possibile, avvicinandosi a lui con i suoi pantaloni in mano, porgendoglieli affinché si potesse rivestire - Sul serio. Sono lesbica. Credevo lo sapessi, 'kero...».
Katsuki tentennò prima di afferrare i pantaloni e tenerli stretti nel pugno.
«E l'uccellaccio?».
Scosse la testa, sconsolata e divertita: «Tu e i nomi... È stato solo un flirt, 'kero. Una cosa da nulla.».
«Ma con lui l'hai fatto, no?».
Lei strinse i denti, trattenendo un'imprecazione: «Giuro che strappo la lingua a Ochaco-chan!».
Katsuki trattenne una risatina, lasciandola fuoriuscire dal naso quasi fosse un colpo di tosse, per poi ricomporsi e tornare a fissarla, serio: «Fallo con me. Non sono tanto diverso no?».
«Da una donna? Lo sei eccome, 'kero!».
La ragazza lo vide stringere la mascella e assottigliare gli occhi, sembrava quasi tremasse nello sforzo di trattenere la rabbia e stava per dirgli di calmarsi, che non voleva casini sulla nave di Selkie e che non era proprio l'ora per fare scenate, ma lo vide piegarsi in un profondo inchino, le punte delle orecchie arrossate che spuntavano tra le ciocche bionde. «Ti... Ti prego... Aiutami...».
Tsuyu rimase pietrificata a vedere quella scena: «Baku-chan? Sei sicuro di non aver bevuto?», e lo vide sussultare e stringere i pugni, udendo un "sì" soffocato, quasi singhiozzato.
Lo prese per le spalle e lo forzó ad alzarsi, ma lui stentava a guardarla in faccia, completamente in imbarazzo così gli afferrò il volto con entrambe le mani e lo costrinse a fissare gli occhi cremisi sui suoi.
Era troppo buona, si disse. Troppo buona per uno stronzo come lui. Ma la sua espressione, l'atteggiamento, le sue parole... L'aveva comprata, ecco cos'era. Ma non l'aveva fatto apposta perché Baku-chan poteva essere irascibile, scurrile e violento, ma non era di certo un manipolatore. Ed era dal giorno prima che lo vedeva sinceramente tormentato per il suo rapporto con Izuku-chan.
«Allora facciamo uno scambio: io ti aiuto, ma tu mi prometti che risolverai la situazione. Io domani riparto, 'kero. Non voglio venire a sapere da Hero Weekly che vi siete presi a botte un'altra volta perché tu sei geloso e non glielo dici chiaro e tondo!».
«Non solo geloso.», biascicò Katsuki, le guance ancora premute fra le mani di Tsuyu e gli occhi che sbattevano, forse perché ormai non sperava più nel suo aiuto.
Tsuyu lo osservò, stringendo ancora di più le braccia al petto: l'aveva visto molte volte seminudo mentre posavano per le pubblicità e, come in quel caso, non gli aveva fatto alcun effetto. Dopo Fumikage non era più stata con un ragazzo. Non era stata un'esperienza traumatica, anzi: lui era stato tenerissimo e tutto però lei s'era resa conto che l'idea di essere presa, posseduta da un uomo le faceva schifo ed era svilente. Aveva acconsentito a quella cosa e pure lei non sapeva bene come fare.
Baku-chan era un bel ragazzo, pur con le cicatrici e il viso sfregiato. Ma non era quello che la fregava.
Forse doveva mettere tutte le carte sul tavolo ed essere chiara per evitare qualsiasi incomprensione.
«Ti avviso, 'kero. Non è detto che io ci riesca, ok? E non è perché sei tu, come Katsuki, ok? Tu come persona non c'entri in questo, 'kero. - fece una breve pausa e sciolse le braccia, allungandole lungo i fianchi - Ci provo perché sei mio amico e sei in difficoltà, 'kero. Se non ci riesco è perché sei un ragazzo, ok?».
Katsuki non la smetteva di fissarla, attento a quello che diceva, troppo grato per esprimere a parole come si sentiva.
«Quindi non restarci male se qualcosa non dovesse andare, va bene? Annuisci per favore, perché mi sembra di parlare in arabo se non mi dai alcun cenno, 'kero...», e Katsuki annuì piano, un mesto sorriso a muovergli le labbra mentre la ragazza gli si avvicinava, fino a postargli una mano sul petto, esalando un sospiro.
«Quindi come vuoi fare?».
«Facciamo che intanto ci penso, 'kero. - e fece scorrere i polpastrelli sulla pelle dell'addome di Katsuki - Non è così semplice...».
Il ragazzo guardò quella mano passare uno ad uno i suoi addominali: era così morbida e delicata e non sapeva bene se trattenere o meno il respiro o meno.
«Baku-chan... - gli sussurrò, mentre il suo indice s'infilava nell'elastico dei boxer, tirandolo – Rilassati, 'kero...».
«Facile.», gli uscì in un soffio, facendola ridacchiare e rilasciare l'elastico per tornare su, muscolo dopo muscolo, a provocargli brividi su tutta la pelle, come in quel maledetto sogno, che era la causa principale della sua presenza in quella minuscola cabina.
«Che strano...».
«Che cosa?».
«Hai la pelle molto morbida, 'kero. È tipo quella di una ragazza... - si guardarono - Ed è un mezzo punto a tuo favore.».
«Mezzo punto a mio favore?», e la vide annuire, avvicinando il viso alla cicatrice che aveva sullo sterno, toccandola col naso e inspirando.
«'kero! E profumi di fresco...».
«Mi sono lava-a-a-», ma la parola gli morì in bocca a sentire la punta della lingua viscida che lo leccava appena su un capezzolo, cogliendolo di sorpresa.
«...e sai di caramella!», si stupì lei, facendolo avvampare con quelle quattro parole, mentre ripensava al sogno e sentiva di nuovo fastidio all'inguine.
La prese per le spalle e la allontanò, il fiato corto e il petto che si alzava e abbassava troppo in fretta.
«Che ti prende ora, 'kero? Ho fatto qualcosa di sbagliato?».
«N-no! Solo...», ma si ritrovò a sgranare gli occhi nel vederla togliersi con calma la maglia oversize senza alcun pudore, quasi fosse abituata a cose del genere.
«Non stare lì impalato, 'kero. - gli rivolse la schiena e scostò la treccia – Dammi una mano.».
Katsuki deglutì, staccandosi dalla porta e raggiungendola, mentre lei lo osservava da sopra la spalla e rimaneva con la schiena rivolta verso di lui.
Le passò i polpastrelli sulle spalle, il tocco così leggero da poter vedere la sua pelle alzarsi in preda a brividi prolungati. Passò le dita sulle scapole un po' sporgenti, convergendo lungo la colonna vertebrale, fino al confine dato dall'elastico delle sue mutandine bianche.
«Il reggiseno...», la udì pronunciare e le sue mani tornarono su, lo stesso percorso a ritroso fino a raggiungere i ganci dell'indumento. Si piegò un po', le ginocchia flesse e la schiena incurvata per poter vedere e non fare errori perché quei cazzo di gancetti erano lo strumento del demonio!
Alla fine, furono le dita affusolate di Tsuyu che sganciarono il reggiseno e lo gettarono nella cuccetta, mentre lei rimaneva voltata di schiena, in attesa, i polpastrelli di Katsuki che non si staccavano dalla sua pelle e tra di loro aleggiava un silenzio carico di imbarazzo.
«Sei... Sei morbida anche tu.», borbottò, provando con quelle parole ad essere gentile, carino, dolce o qualsiasi altra cosa potesse farla star bene; ma più la sfiorava, più la vedeva sussultare sotto i suoi tocchi ed emettere piccoli sospiri quando imitò quel gesto impertinente che lei gli aveva rivolto prima, infilando i pollici nell'elastico delle mutandine, allargandolo e abbassandolo di poco, quel tanto che bastava per lasciarle scoperte le fossette sul fondoschiena e vederla agitarsi e aiutarlo ad abbassarle di più con le proprie mani.
«Mi stai torturando, 'kero!», sbottò lei, piegandosi in avanti per sfilare gli slip e fargli fare la stessa fine del reggiseno, direttamente tra le lenzuola sfatte della cuccetta.
Era nuda.
Nuda davanti a lui, che non sapeva bene cosa cazzo fare, se non metterle le mani bollenti sui fianchi e stringere, incapace di capire se la voleva allontanare o meno.
Perché c'era chi avrebbe fatto carte false per trovarsi in quella situazione, ma lui...
Che idea stupida!
«Ti sei spogliato?».
«Cos- no... Ora... Ora lo faccio.», e staccò le mani dalla sua pelle per sfilarsi goffamente i boxer e calciarli verso la parte accanto alla piccola scrivania, prima di avvicinarla di nuovo, tirandola a sé quasi a farla perdere equilibrio.
«'kero!».
Nell'abbracciarla stretta la fece sussultare, passandole una mano tra i seni e il braccio attorno alla vita, in naso sepolto nell'incavo tra il collo e la spalla, chiudendo gli occhi e regolarizzando il respiro.
Per Tsuyu era strano e imbarazzante sentire quel membro che le sfregava tra le natiche. O forse era strana e imbarazzante tutta quella situazione, in cui Baku-chan la stava stringendo a sé come se fosse una specie di pupazzo o chissà cos'altro.
«Cosa stai facendo, 'kero?».
«L'amplesso.».
Il fatto che lui lo disse con quel tono tanto calmo e che la stringesse di più, la fece mugolare di sorpresa.
«Non si accoppiano così le rane?».
Tsuyu ci mise un momento per elaborare: «Le rane?».
«Eh. Le rane!».
«Mmmh... Le rane, non io! – si prese qualche secondo per elaborare, mentre lui allentava di poco la presa - Baku-chan... Tu lo sai come è fatta una ragazza, 'kero?».
Lo sentì allentare ancora di più la presa.
«Che domande...».
«Intendo... Lì sotto...», ma non ricevette alcuna risposta, solo le dita del ragazzo che la stringevano più forte.
Roteò gli occhi al cielo e gli carezzò le braccia con tenerezza: «In tutto questo, hai almeno portato i preservativi?».
«No.».
«Come no? 'kero!».
«E a che servono? Basta che non deponi uova!».
«Che non depong-».
La ragazza si dimenò tra le sue braccia e lui non poté fare altro che lasciarla andare. Quando Tsuyu si girò lui abbassò lo sguardo.
In un moto di fastidio, girandosi verso di lui, gli puntò l'indice al petto, sospingendolo verso la porta: «Va bene, Baku-chan, chiariamo questa cosa, 'kero: io posso fare alcune delle cose che fanno le rane. Non sono una rana. Non depongo uova negli stagni, ok? Sono umana. U M A N A!».
«Va bene! Va bene! Ho afferrato il concetto! - la osservò - Quindi tu non nei hai?».
Tsuyu prese un profondo respiro e cercò di non soffocarlo con le sue stesse mani: «Bakugō Katsuki, perché una lesbica, nota bene L E S B I C A, a cui piace la vagina, dovrebbe avere degli involucri di lattice per peni?».
«Mmmh... Esco prima?».
«No! Esci direttamente da questa stanza!», e gli indicò la porta con un dito, esasperata da tutta quella situazione.
Lui non si mosse, continuando a fissarla di rimando, le braccia incrociate al petto.
Alla fine, dopo quel momento di silenzio teso, Tsuyu roteò gli occhi e alzò le braccia in segno di esasperata resa: «'kero! Tanto ho già capito!».
«Capito cosa?».
«Che è meglio che ti siedi lì e lasci fare a me. Tanto, conoscendoti, sarai pulito.».
«Ehi! Io sono pulito! Hai idea di quanto sudo e di quante volte al giorno io mi lavo?».
«Non in quel senso, 'kero. E comunque questo depone a favore della mia teoria...».
«Teoria? Che teoria?».
«Che sei praticamente vergine o non saresti venuto a chiedere aiuto a me.».
«Non sono vergine!».
«Quindi l'hai fatto?».
«Sì che l'ho fatto! - una pausa colpevole - Credo...».
Di nuovo Tsuyu si trattenne dall'urlargli contro: «Cosa vuol dire credo?», sbottó.
«Lei voleva assolutamente provare e io avevo un sonno da morirci. Ha fatto tutto da sola!».
«Una ragazza te l'ha data e tu dormivi? Ma che cazzo, 'kero! Sei irrecuperabile!».
«Non è colpa mia! Era stata una giornata stancante e quella deficiente ha insistito! Io le avevo detto di no!».
Katsuki alzó le spalle, allargando un po' le braccia, cercando di guardare la ragazza in volto.
«É come hai fatto ad addormentarti che resta un mistero, 'kero...».
«Te l'ho detto: ero stanco morto. Sono cose che capitano.».
«A me non è mai capitato! E non dovrebbe capitare a un ragazzo come te, ameno che tu non vada in giro a pungerti con l'ago di un fuso o a mangiare mele avvelenate, 'kero!».
«Oi! Mi stai dando della principessa per caso?».
«Lo stai facendo da solo, 'kero... - berciò Tsuyu, incrociando le braccia sotto il seno - Almeno ricordi di aver fatto qualcosa?».
Katsuki alzò la testa e guardò il soffitto, le orecchie sembravano dovessero prendere fuoco mentre borbottava qualcosa.
«Non ho capito, 'kero.».
«Ho detto che gliel'ho leccata! Cazzo! Ma sei sorda?».
«Sei tu che bisbìgli! - gli sorrise - E comunque è già un passo avanti! 'kero!».
«É stato strano.», azzardò lui, osservando di sottecchi Tsuyu, distogliendo subito lo sguardo dal suo petto.
«'kero? Non ti è piaciuto?».
«No. Cioè sì... Ma era tutto strano con quel coso lungo e viscido con cui poi agganciava le palle...».
«Baku-chan penso tu debba ripassare un po' di anatom- Oddioaspetta! La ragazza era Mina!».
«Ah? E tu com- Oh. - l'espressione di Tsuyu lo fulminò sul posto - Oooohhh! Te la sei fatta pure tu!».
«Non fare quell'espressione da pettegolo! - gli puntò il dito contro il petto - No! Nonononono! 'kero! Non ammetto giudizi da chi si addormenta durante il sesso!».
E Katsuki sbuffò, a metà tra il colpevole e il divertito, col cuore stranamente leggero e a proprio agio, nonostante quella ragazza-rana fosse ora nuda che passeggiava in tondo davanti a lui, prima di salire la scaletta delle cuccette, ancheggiando e tirando la tenda blu che nascondeva il letto superiore.
«Allora, Baku-chan... Prima di fare qualsiasi cosa, dato che sei venuto qui a disturbarmi nel mio riposo e dato che mi sa che sei molto a corto di esperienza, 'kero...», ma si bloccò, un po' perché non sapeva come dirlo e un po' perché Katsuki si era avvicinato a lei e le aveva baciato entrambe le ginocchia con delicatezza, carezzandole i polpacci con tocchi leggeri.
Aveva dimenticato quanto quel ragazzo fosse intelligente e sapesse anticipare le mosse e questa cosa l'aveva colta impreparata, tanto quanto la morsa allo stomaco quando le sue dita erano salite lungo le gambe, forzandola ad aprire le cosce mentre pronunciava con voce arrochita un semplice: «Insegnami.».



And all the things that we dream about
They don't mean what they did before
I just wanna get back to us
'Cause we used to have more
~ 5 Seconds of Summer ~
 

 

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Capitolo 11
*** You’ll make me better than I've ever been ***


You’ll make me better than I've ever been


 

Portami un girasole impazzito di luce.
~ Eugenio Montale ~



 

30 giugno

 

Izuku era preoccupato per Katsuki.

Non era tanto perché non l’aveva visto per tutta la loro mattinata libera.

Avrebbe voluto chiarire quello che era successo quella notte, alle quattro, quando stava davvero per fargli esplodere il cervello. Sapeva di essere stato sopra le righe e avrebbe voluto rimediare, in qualche modo.

Non era neppure perché aveva saltato il pranzo col Prefetto o il brief alla Centrale, il primo una palla assurda (e forse un po’ lo invidiava per non esserci stato!), il secondo perché propedeutico alla loro ronda congiunta di quella sera. 

Nessuno s’era preoccupato che fosse assente. “Ah, sì. Ci ha avvisato che non sarebbe potuto venire”, aveva detto con tono distratto il Capo del Distretto, come se la mancanza di Dynamight fosse normale, come se non servisse a nulla.

Gli aveva dato fastidio quell’atteggiamento, perché senza Kacchan neppure lui ci sarebbe stato. Forse il mondo intero si sarebbe sgretolato se lui…

La preoccupazione di Izuku salì quando, alle quattro del pomeriggio, l’eroe Dynamight si presentò in tutta la sua fierezza alle porte della centrale di polizia di Urakawa, pronto per iniziare la ronda durante l’ultima serata del festival.

Non capì nulla di ciò che il poliziotto gli stava dicendo in quel momento perché era tutto preso dall’osservare l’amico e coinquilino annotare qualcosa sul suo telefono dopo un breve colloquio col Capo del Distretto.

Solo quando gli agenti se ne andarono assottigliò gli occhi verdi e incrociò le braccia al petto, gonfiando i muscoli mentre inspirava a fondo.

C’era qualcosa di strano in lui, che però non riusciva a comprendere bene. Gli avrebbe di sicuro parlato, se lui non l’avesse preceduto, avvicinandosi e porgendogli uno dei tablet in dotazione: «Oi! Memorizzati i turni. Io vado adesso a fare presidio per gli autografi, poi tocca a te. Quando hai finito abbiamo da fare il giro assieme nella strada principale… - allargò la mappa – Per poi andare giù di qua… Fino ai docs. Chiaro?».

Izuku rilasciò un sospiro: «Chiaro.», anche se il percorso non l’aveva minimamente imparato e l’unica cosa che aveva memorizzato era il suo orario di inizio e fine presenza allo stand.

Quando lo vide riconsegnare il tablet a uno degli agenti e allontanarsi, tentò la sorte: «Dynamight!» e gli rispose con un brontolio, voltandosi a malapena verso sinistra, osservandolo da sopra la spalla. «Stai… Stai bene?».

«Sì.», e allungò il passo per raggiungerlo ed uscire assieme dalle porte a vetri della centrale.

Sul piazzale antistante l’edificio Selkie parlava animatamente con Tsuyu e Hagakure, ma non ci diede peso

«Non ti ho visto per tutta la mattina… Mi sono preoccupato.».

Katsuki fermò i suoi passi per rivolgergli di nuovo uno sguardo sfuggente: «Preoccupato? – si accigliò – Nah. Non credo.», e portò i mignoli alle labbra, emettendo un fischio fastidioso. «Tsu-chan! Se davvero vuoi quel caffè ti conviene sbrigarti! Il mio turno inizia fra un quarto d’ora!».

Quando poi Katsuki tornò con l’attenzione rivolta a lui, Izuku poté notare lo sguardo stanco sotto l’espressione accigliata che aveva di solito. La voce era calma, ma le parole tradivano un profondo fastidio: «Se ti fossi davvero preoccupato mi avresti chiamato, dico bene?», disse, appena prima di venire raggiunto e salutato da Tsuyu, che si era sporta a salutare pure Izuku, sorridente come al solito, gracidando appena mentre seguiva il biondino verso la caffetteria a due passi dall’edificio.

Izuku era rimasto spiazzato dal tono, più che da quella domanda passivo-aggressiva che Katsuki gli aveva rivolto. Fu il tocco insistente di Hagakure sulla sua spalla a destarlo dalla sequenza di mugugni di disapprovazione che uscivano dalla sua gola: «Sembri una pentola di fagioli che borbotta! Che ti prende?».

«Kacchan è strano…».

«Avete litigato di nuovo?».

«Non che io sappia! Cioè… Ha fatto un sogno stanotte, probabilmente brutto, e se ne è andato via di casa dalle quattro di stamattina. Pensavo fosse andato a correre, perché di solito lo fa per sfogarsi… Ma non è rientrato. Erano dodici ore che non lo vedevo…».

«E l’hai chiamato?».

«No.».

Toru sbuffò e gli diede un piccolo pugno sul petto: «Allora sei un idiota.», e lo sfilò, lasciandolo di fronte alle porte della centrale di polizia a riflettere su quanto fosse stato poco attento nei confronti di Kacchan.

 

•••

 

Aspettava diligentemente il proprio turno, seduto sul bordo di una delle panchine provvisorie che avevano installato nel prato dove si sarebbe svolto l’inizio della parata.

I denti si strinsero contro la cannuccia, cercando sollievo al nervosismo con quel gesto infantile.

Reputava quasi miracoloso che nessuno fosse ancora venuto ad importunarlo per chiedergli una foto o un autografo, ma forse era meglio così.

Il sole era ancora alto, ma il cielo era coperto a tratti da sottili nuvole candide che smorzavano un po’ la luminosità e una brezza dolce e dal profumo salmastro limitava il caldo.

Da quella posizione poteva osservare Kacchan, seduto allo stand per i fan, tutto preso dal cellulare, curvo sul tavolo e con la testa sostenuta solo da un paio di dita.

Faceva ancora troppo caldo e pochi si avventuravano così presto lungo le strade assolate di quella domenica pomeriggio: la parata sarebbe cominciata solo all’imbrunire e si sarebbe concluso con uno spettacolo pirotecnico che tutti definivano come “assolutamente degno di nota”.

Ma a Izuku importava poco.

Gli importava di più capire perché stava sorridendo nel guardare il telefono e perché, a tratti, si mordeva il labbro inferiore, scuotendo capo e spalle.

Dio… Cosa avrebbe dato per sapere chi lo faceva sorridere in quella maniera!

Tirò su rumorosamente l’ultima goccia di bibita, dandosi dello stupido, perché magari era solo Kirishima e-

E se Kacchan e Kirishima… Non aveva collegato subito, ma in quel momento spalancò gli occhi al ricordo della cena di classe, alla premura che il rosso ci aveva messo per prendersi cura di Kacchan, allo sguardo che gli aveva rivolto… Ecco! E lui era il solito idiota che non era riuscito a far combaciare i pezzi!

Però… Però se la ricordava bene la faccia imbarazzata di Kacchan quella mattina, si ricordava bene della sua erezione e del suo culetto mezzo svestito che scappava in bagno… Che si fosse solo illuso di essere lui l’artefice di tutto quell’imbarazzo?

Poi vide Katsuki alzare la testa dal telefono e guardare verso di lui, aprire una mano e scuoterla appena, in segno di timido saluto.

Izuku aggrottò la fronte e strabuzzò gli occhi, interdetto da quel gesto e da quel… sorriso?

Kacchan gli stava davvero sorridendo?

«Katsuki mi aveva detto che ti avrei trovato qui, ‘kero!», fece una vocina rauca alle sue spalle, costringendolo a voltarsi di scatto, ancora con la cannuccia in bocca, solo per vedere Tsuyu alzare una mano e salutare con un gesto delle dita aperte proprio Kacchan, prima di prendere posto accanto a lui, sulla panchina.

Con la coda dell’occhio vide il biondo tornare con l’attenzione al cellulare, mentre Tsuyu riponeva il proprio in una taschina interna della sua casacca, sorridendogli come il suo solito, con la punta della lingua tra le labbra.

«Katsuki?», le chiese.

«Katsuki. - gli rispose, bevendo un sorso dalla bottiglietta d’acqua che si era portata appresso – Ho fatto male a chiedere a lui?».

«No. solo che è da stamattina che non lo vedo e mi sembra così strano…».

Tsuyu incrociò le gambe sulla panchina e osservò l’amico con attenzione: «Che intendi con strano, ‘kero?».

Izuku alzò le spalle e allargò le braccia sullo schienale della panchina: «Strano! Era lì col telefono che sorrideva. Sorrideva! E non nella sua solita maniera inquietante! – buttò la testa all’indietro con un verso esasperato – E prima… Prima mi ha risposto male, ma era stranamente calmo… Capisci che sono, come dire… Preoccupato?».

«Se sei così preoccupato, ‘kero, chiedigli che cos’ha.», fece lei, inclinando un po’ la testa e osservando il biondino a sua volta mentre posava con dei fan nella sua tipica mossa minacciosa, i palmi scoppiettanti di piccole esplosioni controllate.

Inspirò a fondo, incrociando le braccia al petto prima di esalare un sonoro sospiro.

«Tsuyu-chan? Stai bene?». Izuku l’aveva osservata, notandone l’espressione pensierosa, la faccia provata e delle occhiaie che non le aveva mai visto tanto pronunciate sul viso

«’kero?».

«Sembri stanca…».

Emise un gracidio e mosse il collo e le spalle: «Le cuccette di una nave sono un po’ scomode, ‘kero.».

«Perché non sei andata in hotel con Hagakure?».

«Perché la mia agenzia non può permettersi di pagare un hotel a tutto l’equipaggio. E abbiamo una nave apposta, ‘kero.».

La sveglia insistente sul telefono di Izuku suonò, a ricordargli che quelli erano i suoi ultimi cinque minuti di tranquillità prima di dover ripetere per l’ennesima volta quella recita fatta di sorrisi e strette di mano, di foto e pose imbarazzanti.

«Stai un’ora lì, giusto?», gli chiese la ragazza, prendendo un altro sorso d’acqua.

«Sì, perché?».

«Abbiamo tutti e quattro una mezz’ora libera prima di iniziare la ronda serale, ‘kero. Se ti va possiamo mangiare un boccone assieme, che ne dici?».

Provó a riflettere, ma si ritrovò ad annuire e basta mentre osservava Kacchan scompigliare i capelli ad un bambino con un sorriso. Ed era la cosa più adorabile che avesse visto nella sua vita fino a quel momento, tanto che addentò di nuovo con forza la cannuccia per non dover urlare tutto quel marasma di sensazioni che provava solo nel guardarlo da lontano, come una volta.

«Sei un caso perso, ‘kero!».

«Nh?», mugolò con la plastica tra i denti e gli occhi verdi spalancati e luccicanti e Tsuyu pensò che certe cose non cambiano mai per davvero e ne sorrise.

«’kero! Sei grande e grosso, ma con lui non sei cambiato di una virgola. - gli puntò l’indice sulla guancia morbida - È una cosa che non ho mai capito di te.».

«Che cosa?».

«Non ho mai capito come potessi ammirare uno come lui, che ti trattava malissimo e che non aveva per nessuno una parola dolce.». Tsuyu parlò con tono pacato, osservando anche lei il ragazzo biondo che finiva di salutare gli ultimi fan e sistemare qualcosa dentro una cartellina. «Poi, con la tua fuga, lui è cambiato. È cambiato tanto e credo che lo abbia fatto per te. È cresciuto bene in questo senso, è maturato. E forse tu eri l’unico tra di noi che era sempre riuscito a vederlo per ciò che era veramente. - fece una breve pausa e sorrise, gli occhi che si inumidivano - Katsuki è un ragazzone fragile che ha ancora bisogno di te, ‘kero.»

Izuku la fissava, pensieroso, ascoltando quelle parole con attenzione, come faceva sempre con lei, che non diceva mai una parola fuori posto e la apprezzava per quello.

Pure lei si ritrovò a guardarlo di rimando, gli occhi fissi nei suoi smeraldi, sospirando mentre provava a trovare le parole giuste: «Cerca di non romperlo più di così, ‘kero, o rischierai di non riuscire più a raccogliere i pezzi e perderlo per sempre.».

La metafora era corretta, si disse, perché erano l’uno lo specchio dell’altro. Uno specchio strano, di quelli delle fiere che un po’ ti distorcono, e a volte fanno vedere più i difetti che le forme perfette. E lei li aveva inquadrati così, loro due e aveva riflettuto sull’avvertimento da dare a Izuku-chan per buona parte della mattina, mentre accarezzava una a una le ciocche morbide di Katsuki che le dormiva addosso.

Izuku rimase ammutolito da quelle parole tenere e la sua bocca si mosse solo per lasciare un respiro lungo, senza che alcun suono lo accompagnasse. Non sapeva come rispondere e non ne aveva il tempo, perché l’oggetto di quel discorso s’era già avvicinato alla panchina, afferrando la bottiglietta che Tsuyu gli stava porgendo.

«Tocca a te, Deku. - e Izuku annuì con forza, scattando in piedi col suo solito cipiglio determinato - Tsu-chan ti ha detto della cena?».

Il suo sguardo era stranamente morbido e Izuku pensò che avrebbe dovuto essere così più spesso, perché era davverodavvero carino. Si morse l’interno della guancia ed annuì, confermando la sua presenza per quel pasto fugace, osservando poi Kacchan dare un buffetto in testa a Tsuyu, sorridendole. L’aveva chiamata con un diminutivo e questa cosa era strana e sospetta.

Perché Bakugō Katsuki aveva un’avversione atavica per i nomi delle persone e preferì e affibbiare i suoi nomignoli sgradevoli alla prima occasione utile. 

E Tsuyu era sempre stata per lui “Lingua” o, al massimo, “Ranetta”, ma solo se era in giornata estremamente buona!

«Passo un attimo in spogliatoio. - poi si rivolse a Izuku - Ci vediamo dopo, allora…», e si allontanò col solito passo pesante, lasciando Izuku a sbattere le palpebre in maniera innaturale per capire cosa fosse successo.

Solo quando Froppy si alzò dalla panchina, portando in alto le braccia e stiracchiandosi in un allungo, Izuku riversò su di lei la sua perplessità: «Lo vedi che è strano? Dimmi che hai visto anche tu quello che ho visto io!».

«’kero! É solo Katsuki!».

«Non è solo Katsuki! Hai visto? Ha sorriso! S O R R I S O! - indicò col dito il punto in cui il biondino era fino a poco prima - Per me è un clone! Non ho altre spiegazioni!».

Tsuyu dovette mantenere la sua faccia impassibile: non poteva permettersi di ridere o quel piano sarebbe andato in malora ancor prima di aver fatto effetto.

Perché le commedie di buona fattura vanno sempre recitate in due e lei non poteva di certo abbandonare un collega e amico che le chiedeva aiuto!

«Izuku-chan stai un po’ esagerando! Probabilmente è solo un po’ più rilassato…».

«No! Ma non ti sembra che stoni qualcosa?»

“L’eroe Deku allo stand 1!”

La voce gracchiante di un megafono lo fece sussultare, ma non voleva schiodarsi da lì prima di aver capito sotto che strano sortilegio fosse finito Kacchan!

“L’eroe Deku allo stand 1!”

«Spiegati, ‘kero, perché non capisco…», ma in realtà Tsuyu se la stava solo ridendo sotto i baffi, mascherando il tutto con un’espressione dubbiosa e una mano sotto il mento.

“L’eroe Deku allo stand 1!”

Si ritrovò a sbraitare contro l’agente che insisteva col megafono: «ARRIVO! ARRIVO! - poi, più concitato, si rivolse alla ragazza - È che sento che gli manca qualcosa. - gesticolò - Sai… Gli occhi no? Quello sguardo così… dolce? Non ha quella sua perpetua incazzatura… L'irritabilità… No, ok quella sí, ma meno…  Gli istinti omicidi…».

 

«La frustrazione sessuale…», aggiunse lei, raccogliendo la bottiglietta e voltandogli le spalle.

“Deku allo stand 1 per favore!”

«La frustrazione sess- ASPETTA! - Izuku sgranó gli occhi e fece un passo verso di lei, provando ad afferrarla -  COSA? COME? QUANDO? PERCHÉ?», s’impanicó, iniziando a tremolare.

 

“Deku! Allo stand 1! SUBITO!”

 

•••


«Questa cosa non me l’aspettavo da te.», sussurrò Katsuki all’orecchio di Tsuyu, mentre lei gli passava davanti e lui le scostava la sedia per farla accomodare al tavolo.

Avevano trovato uno stand defilato con cinque o sei tavolini e non avevano avuto alcuna difficoltà a farsi riservare un posto solo per loro quattro.

«L’hai già detto, ‘kero.».

Le si accomodò di fianco, sporgendosi un poco e osservandola con la coda dell’occhio, la voce bassa: «E porta il tuo livello di stronzaggine da top a super-top.».

«Ah-a.».

Le regalò un sorrisino accattivante, mentre alzava la mano per attirare l’attenzione di Deku, che però non l’aveva neppure visto.

«E da quando saresti così?»

«Da quando frequento Mina, ‘kero!.», disse, con nonchalance, mentre osservava Katsuki togliersi i guanti e osservarla di rimando con un sopracciglio alzato.

«E tu che ti lamentavi del mio cazzo! Lei ha quel coso e non dici n-», urlò sottovoce, prima che la ragazza gli tappasse la bocca con la mano.

«Sssshhh! - poi lasciò la presa e sussurrò, gli occhi scuri piantati nei suoi cremisi - Clitoride, Baku-chan. Il coso é un clitoride. Un po'  lungo del normale, ma sormonta una vagina… Zero rischi, infinite possibilità!».

Katsuki rimase accigliato anche quando arrivarono finalmente gli altri due e si unirono a loro, ordinando qualcosa di fresco da bere.

Concentrarsi sul menù lo aiutava a distogliere la mente da quel pensiero intrusivo che Tsuyu gli aveva insinuato.

Scorse in fretta i nomi dei piatti, puntando il dito su un nikuman, prima di sporgersi verso Tsuyu, l’espressione distesa e le labbra tirate in un debole sorriso: «Cosa prendi, Tsu-chan?».

All’udire di nuovo quel diminutivo Izuku quasi si strozzò con la birra che stava bevendo direttamente dalla bottiglia.

«Uh? Deku? Tutto bene?», Hagakure si era sporta verso di lui mentre gli assestava due sonore pacche al centro della schiena.

«S-sì! A meraviglia!», rispose, tossendo e agguantando il menù, portandolo in verticale a coprirsi buona parte della faccia. Tranne gli occhi. Quelli li usò per sbirciare di fronte a sè quei due che avevano un comportamento fin troppo sospetto.

Come sospetta era stata quell’uscita tagliente di Tsuyu, che l’aveva lasciato con una pungente curiosità per tutto il turno allo stand, lasciandolo distratto ed irritato pure con i fan.

Adesso, ad averli entrambi lì davanti ai suoi occhi, cercava di trovare una conferma a ciò che ipotizzava. O forse solo una smentita.

Perché, se davvero loro due…

«Prendi il katsudon?», gli chiese Hagakure, osservandolo mentre le ciglia lunghe e traslucide sfarfallavano su quei suoi occhioni chiari.

«No… Non ho molta fame in realtà…».

A quella frase laconica, Katsuki voltò appena il capo verso di lui, l’espressione indecifrabile nascondeva un velo di preoccupazione.

«Prendi un nikuman anche tu. È più leggero e bilanciato.».

Izuku mugugnò qualcosa, tornando a osservare quei due.

Forse Tsuyu lo aveva preso in giro: dai! Non era possibile che se la intendessero in quel senso perché tutti in classe loro sapevano che la ragazza aveva fatto coming out al terzo anno e che, attualmente, stava con Mina. 

Lo sapevano tutte le testate di gossip e Katsuki… Ci aveva fatto pure delle pubblicità assieme!

E poi… Da quando quei due erano così in confidenza?

«Signori! Cosa vi porto? - il cameriere bloccò le chiacchiere di tutti e le elucubrazioni di Izuku - Ovviamente è tutto offerto dalla casa!».

Hagakure ringraziò con un ampio sorriso e partí ad ordinare, seguita da Tsuyu, poi Katsuki alzò indice e medio: «Due nikuman al manzo,una porzione di patate fritte e una di verdure grigliate. Acqua liscia, due bicchieri. - si bloccò e sorrise al ragazzo moro che scriveva la comanda - Se quando torni mi lasci pure ill tuo numero ne sarei felice.». Il cameriere avvampò e balbettò un ringraziamento mentre indietreggiava e inciampava contro un altro tavolo, prima di corricchiare verso il proprietario del baracchino, trattenendo a stento l’agitazione.

Tsuyu giró di scatto la testa, sorridendo al biondo mentre Izuku lo guardava basito.

Ma da quando Kacchan era così sfacciato? Non era lui quello che non capiva nessuna battuta a doppio senso?

Tsuyu prese le guance di Katsuki e gliele strizzò con una mano, strofinandogli il naso contro il proprio, lasciandolo con le oreccchie rosse e le braccia incrociate al petto, mentre non staccava gli occhi di dosso dal cameriere.

«Waaaa! Cosa ho appena visto? - si agitò Hagakure, visibilmente su di giri - Oh questa sí che la devi raccontare ai bro!».

«Tu non farai un bel niente, fantasmina!», berciò Katsuki, provando la lanciarle un’occhiataccia, che risultò più supplichevole del previsto. Poi si sentì fare una ginocchiata da sotto il tavolo e Tsuyu che lo guardava in maniera eloquente. «Vediamo almeno se rimedio il numero, no? Magari non sono neppure il suo tipo.», aggiunse, portando le braccia dietro la testa, contraendo i muscoli e tornando ad osservare il povero cameriere vittima del suo assurdo giochetto.

Deku sbuffò, picchiettando le dita sul tavolo con insistenza, per poi afferrare la bottiglietta d’acqua fresca senza che il cameriere avesse tempo di posarla sulla superficie.

Non credeva che fosse davvero il Kacchan che conosceva, quello che sedeva di fronte a lui, tutto moine e sorrisi per uno sconosciuto che aveva visto sì e no trenta secondi.

«Sei patetico.», gli uscì senza alcun rimorso, attirando gli occhi cremisi su di sé, mentre Kacchan già salvava sul telefono il contatto di quel povero ragazzo, troppo in soggezione per dire di no all’eroe numero due.

«Come, prego?».

«Ho detto che sei patetico.», rimarcò, posando l’acqua sul tavolo.

«Ma davvero? - si sporse verso di lui, i gomiti appoggiati al tavolo e un ghigno malevolo sul volto - Credevo fosse più patetico strusciarsi su un cuscino che provarci direttamente con qualcuno, o sbaglio?».

Anche se patetico non era esattamente la parola corretta e Katsuki l’aveva trovato inquietantemente arrapante, ma non poteva certo dirlo. 

Izuku tentò di mantenere il respiro regolare mentre lo guardava negli occhi.

In quel momento lo stava odiando dal profondo del cuore, perché il ghigno era lo stesso di quando erano alle medie, anche se su quella faccia da schiaffi stava maledettamente bene.

Avrebbe voluto colpirlo, come un paio di giorni prima, metterlo a tacere per evitare che quella lingua tagliente dicesse altro. Ma rimase fermo e zitto nella sua incapacità di ribattere ad accuse pressoché vere.

Poi ci provò, ma gli uscì solo un misero: «Meglio un cuscino di una persona che fa di tutto per evitarmi.».

In tutto quello Hagakure non capiva nulla delle frecciatine che si lanciavano, mentre Tsuyu aveva incrociato le gambe sulla sedia e stava osservando la scena, divertita di quanto potesse essere infame Baku-chan senza realmente volerlo.

«Forse dovresti smettere di fare la puttana.», borbottò Katsuki, addentando il suo nikuman.

«Cosa?», si alterò Izuku.

«Cosa?», gli rispose calmo il biondo.

«Non sto capendo un cazzo!», piagnucoló Hagakure, addentando una pallina di takoyaki.

«Mi hai dato della puttana?», si sporse Izuku, un urlo serrato tra i denti.

«Lavati le orecchie perché io non ho detto un bel niente.», gli rispose Katsuki, tornando a mangiare come se nulla fosse, mentre gli occhi verdi del ragazzo cercavano una conferma o un aiuto in quelli di Tsuyu, che pian piano masticava la sua omelette e non sembrava badare nessuno in quel tavolo.

Izuku si risedette, guardando il suo nikuman ancora intonso, lo stomaco più chiuso di quando erano arrivati al tavolo.

«E tu ti dovresti levare il palo dal culo.», borbottò più a se stesso che a Kacchan, mentre decideva di alzarsi dal tavolo, prendendo e addentando di malavoglia la sua cena, mentre si allontanava, senza ribattere neppure all’ultima provocazione di Katsuki.

«Sì, bravo. Tanto sai solo scappare dai tuoi problemi, no?».


•••


Mutismo. Da entrambe le parti.

Così era cominciata quel turno in cui Izuku e Katsuki dovevano lavorare assieme e dare una parvenza di collaborazione.

Ma l’uno si sentiva offeso per le cattiverie gratuite che l’altro gli aveva rivolto e Katsuki, arroccato nel proprio orgoglio, non aveva chiesto scusa all’amico né aveva tentato di chiarire il perché di quelle frecciatine piccate.

Così avevano passato le ultime due ore a camminare con calma tra le vie della città, talvolta fianco a fianco, salutando i passanti, soccorrendo vecchie traballanti sui loro sandali di legno tradizionali o recuperando bambini che si erano allontanati troppo dalle loro madri.

«Pensi di andare avanti tanto?».

«Ah?».

«A non parlarmi… Pensi di continuare ancora per molto?».

«E tu? Hai da dire qualcosa tu?», e Katsuki lo superò con una spallata.

«Avrei delle cose da chiederti in effetti.».

«Se sono cose intelligenti…».

«Oh! Ma la pianti di fare il sostenuto?», alzò la voce Izuku, raggiungendolo con un paio di falcate.

L’occhiata che gli rivolse Katsuki lo fece ammutolire: «Vedi di non fare altre scenate. Non voglio un demerito sul curriculum per colpa tua e delle tue paturnie del cazzo!».

Izuku si morse la lingua, letteralmente, stringendo i pugni e seguendo il biondo tra la folla, mentre si dirigeva verso un capannello di persone che stava discutendo un po’ troppo animatamente attorno ad un piccolo chiosco.

«Oi!».

A quel richiamo basso e graffiato, quattro uomini si voltarono verso di lui, le espressioni incredule sulle facce arrossate più dall’alcol che dal caldo della serata.

La piccola folla assiepata che sbraitava si fece di colpo silenziosa e si divise al suo passaggio, qualcuno indietreggiando tanto da riuscire a svignarsela.

«Che sta succedendo qui?», chiese l’eroe, in maniera retorica, afferrando per il retro della maglietta uno degli uomini palesemente ubriachi, strattonandolo nello scostarlo dalla malcapitata vittima che ancora stava piegata a terra su se stessa, fintanto che il tocco leggero sulla spalla non lo fece trasalire. «Alzati, vecchio.».

Lo sguardo sollevato dell’uomo sulla sessantina si tramutò in una maschera di paura e balbettii sommessi gli uscirono dalle labbra a vedere sopra di sé la figura possente di un eroe dal volto sfigurato che conosceva bene e che ora lo stava sollevando di peso come se fosse una piuma, rimettendolo in piedi, tutto tremante, passandogli una mano sui pantaloni a togliere la polvere di dosso.

Katsuki non era mai stato un esempio di affabilità, neppure con i civili, e la nomea di eroe dal temperamento scoppiettante e poco incline al dialogo o ai gesti caritatevoli lo precedeva ovunque andasse. Anche se provava ad essere diverso, quei giudizi, come uno stigma o una pustola purulenta, lo accompagnavano e molti, moltissimi, preferivano non avere nulla a che fare con uno come lui.

Come quel malcapitato ometto, vittima innocente di quattro ubriaconi, che lo accusavano di aver saltato la fila al chiosco e avevano iniziato a prendersela con lui solo per il gusto di farlo.

«Va tutto bene? Nulla di rotto?», tentò di essere gentile Katsuki, prendendo dal venditore il cartoccio che l’uomo aveva ordinato, cacciandoglielo in mano con poca grazia, mentre allungava una banconota verso l’oste. 

«Va-a tu-tutto be-bene!», fece l’ometto, in tono avuto, prima di indietreggiare, ringraziando l’eroe a mezza voce, urtando contro un paio di persone nel fuggire via.

Katsuki guardó in alto, un respiro profondo lasciò le sue labbra, prima di tornare con la sua solita espressione dura e il dito puntato contro i quattro ubriaconi, che sghignazzavano per un motivo a lui sconosciuto: «Finitela di fare le teste di cazzo con i vecchi! - li redarguì - Mi ricordo bene le vostre facce: alla prossima cazzata vi spedisco dentro, intesi?», ma quelli trattenevano a stento le risatine, mentre le altre persone stavano ben a distanza da quel gruppo.

Il venditore gli allungò delle monete, ma il giovane eroe scosse il capo e, con un gesto della mano, lo invitò a tenersi il resto.

Compì pochi passi nella direzione di Deku, quando sentì qualcosa di gelido colpirlo forte in testa e bagnargli capelli e nuca.

Si portò una mano laddove era stato colpito, girandosi di scatto verso i quattro ubriaconi, che continuavano a ridere e a indicarlo, come dei mocciosi fastidiosi.

«Vi avevo avvisa-», ma non riuscì a schivare la seconda ciotola di kakigori che lo colpì direttamente al petto, schizzandogli sciroppo zuccherino verde fino in faccia.

«Ahahahah! Neppure con la granita diventi passabile, mostro!», udì distintamente uno degli uomini ridere sguaiatamente e camminare nella sua direzione, spremendogli contro del topping blu, continuando a schernirlo.

«Vattene da qui che spaventi pure i vecchi!», lo canzonò un altro dei quattro, poco più basso di lui, mentre gli girava attorno e lo colpiva alla nuca con un ventaglio chiuso.

Del suo lavoro odiava una cosa solamente: non poter reagire come voleva mentre era in mezzo ai civili.

Li guardò uno a uno, mentre la folla era incerta se rimanere e filmare quello spettacolo degradante in attesa che Dynamight scoppiasse di rabbia, o andarsene, principalmente per lo stesso motivo.

Izuku, a qualche metro di distanza, lo guardava stare fermo e immobile, gli occhi cremisi fissi su coloro che lo schernivano, i muscoli tesi nel trattenersi.

Perché non reagiva? Perché non diceva nulla e si lasciava prendere in giro in quella maniera?

Rimase con un vuoto nel petto e il respiro così affievolito da non avere neppure il petto che si muoveva, sospeso in quella specie di assurda bolla in cui si sentiva incapace di reagire a sua volta, atterrito dalla cattiveria gratuita delle persone verso quell’eroe che, per quanto deturpato potesse essere, non s’era mai tirato indietro. Mai.

I suoi piedi si mossero da soli. Forse era il senso di colpa che costantemente lo divorava dall’interno ogni volta che lo vedeva, ogni volta che lo osservava in viso.

«…e sai cosa è più patetico? Che il mostro non può fare niente!».

«Già! E non ha neppure i soldi per sistemarsi lo sfregio che ha sulla faccia!».

«Con che coraggio ti fai vedere ancora in giro?».

«L’ho pure visto fare le foto! Ah! Perché? Pensi che la gente voglia vedersi assieme alla tua brutta faccia?».

La gente attorno a loro mormorava, alcuni indignati, altri che lo incitavano a reagire, ma Katsuki si limitò a guardare quelle persone con disprezzo, girando i tacchi e provando ad andarsene.

Fu una mano a trattenerlo saldamente per la spalla, un formicolio che conosceva bene si propagò nel punto di contatto fin lungo tutto il braccio sinistro.

«Ehi! Non vi sembra di esagerare?», sbottó Izuku, intervenendo e zittendo per poco i mormorii.

«Deku non serve. Andiamo via.», lo esortò Kacchan, perentorio. Ma non lo ascoltò; se gli avesse sempre dato ascolto non sarebbe mai diventato eroe e, forse, starebbe marcendo sottoterra da almeno otto anni.

«Ah! Il ragazzino prodigio? - continuò uno dei quattro, forse il più vecchio del gruppetto - Ehi! Mostro! Sei talmente incapace che devi portarti dietro il cane da guardia?».

«Probabilmente l’hanno fatto Hero solo per tenerlo sotto controllo visto il carattere di merda!».

«Ah si! Il ragazzino col carattere da Villain! Ahahaha! Chissà a chi hai dovuto succhiare il cazzo per avere la licenza!».

«Se succhi bene anche il mio magari ti rimedi una gift card!», e continuarono a ridere senza che Katsuki muovesse un muscolo.

«O magari perché era davvero lui la spia! Ahahah! Si capiscono molte cose, vero, Hero?»

Katsuki si irrigidì a quelle parole e cercò disperatamente gli occhi di Deku che, sfuggenti, lo osservarono per un secondo o poco meno.

In tutti quegli anni nessun civile aveva saputo chi fosse davvero la spia della UA e le congetture si erano fatte dicerie, tanto che non era la prima volta che una storia del genere veniva fuori e la colpa ricadeva sempre su Bakugō e sul suo atteggiamento molto borderline. E lui ci ripiombava sempre nel senso di inadeguatezza, in quella sua spirale oscura di autocompatimento ogni volta che qualcuno gli muoveva quelle accuse; perché voleva gridare al mondo che lui s’era fatto il culo per tutti quegli ingrati del cazzo. Era lui ad aver sfiorato la morte, non loro! 

«Signori! - tuonò Deku con il timbro di voce più basso che poteva uscire dalla sua bocca - Disperdetevi! Non costringetemi ad intervenire!».

Tirare un calcio sui denti a tutti e quattro a Izuku avrebbe dato più soddisfazione di tutte quelle formalità da manuale operativo. Ma neppure lui voleva un demerito sul curriculum al suo primo incarico in patria.

«Uuuuhhh! Che paura eroe! - lo scimmiottò un altro, girandogli attorno come un pescecane - E come vorresti intervenire? Non ci puoi fare proprio nulla!».

Per quanto quelle parole lo ferissero, Katsuki provó ad ignorarle, come gli aveva insegnato la terapista, ripetendosi nella testa, come un mantra, che lui era più di un’impressione agli occhi degli altri. 

«Deku! - Kacchan gli poggiò una mano sulla spalla con fermezza - Lascia perdere questa feccia. Chiamo una volan-», ma fu qualcosa di tiepido ed umido che lo interruppe, facendogli chiudere gli occhi e la bocca a protezione di uno sputo improvviso sulla guancia destra.

«Mi sembra che l’unica feccia qui sia tu!».

«Vattene traditore!».

«Ti denuncio per diffamazione, brutta merda!».

Dynamight tolse con calma la saliva dalla guancia col dorso della mano, l’espressione schifata e carica di odio nei confronti del più basso dei quattro che gli aveva sputato addosso.

Fece un passo verso quell’ubriacone, determinato a far finire quella pantomima, ma un lampo verdastro lo precedette e vide Deku sollevare da terra i quattro malcapitati con Black Whip, mentre muovevano le gambe e tentavano invano di liberarsi.

«Questa rientra nelle offese a pubblico ufficiale e voi siete ufficialmente nei guai! - berciò, con lo sguardo cupo e luminescente che vagava su ognuno degli astanti assiepati attorno a loro, che riprendevano con i loro cellulari quell’avvenimento.

«E statemi bene a sentire perché non lo ripeterò una seconda volta! Questo festival… E voi, ingrati! Siete tutti vivi solo grazie a Dynamight! Se fosse per me non dovreste neppure essere degni di respirare la sua stessa aria! Siete vivi grazie a persone come lui, che hanno rischiato la vita per permettervi di tornare alle vostre patetiche esistenze! - alzò il tono di voce e strinse i pugni e, con essi, la presa sui quattro uomini che fluttuavano a un paio di metri da terra - Dove eravate tutto mentre il mondo crollava? Dove eravate tutti mentre lui salvava i vostri culi? Cosa avete fatto tutti voi mentre si spaccava la schiena a rallentare Shigaraki?».

I suoi occhi, di un verde brillante, emanavano piccole scintille e scie luminose ogni volta che muoveva la testa a osservare chi ancora non si era dileguato attorno a loro. «A giudicare, ecco dove eravate! A giudicare come fate adesso senza nemmeno sapere un cazzo! Avete giudicato me è state giudicando lui! Comodo, vero? Comodo giudicare quando tornate dalle vostre famiglie e il mondo non sembra poi così pieno di merda, giusto?».

A quelle parole molti abbassarono il capo, perfino uno degli uomini che avevano importunato Kacchan lo stava implorando sottovoce di lasciarlo andare, che aveva due figli piccoli a casa.

«Il prossimo ingrato che si permetterà anche solo di dire una singola sillaba contro questo eroe straordinario se la vedrà direttamente con me!», e strattonò per un braccio un ragazzo lì accanto: «Chiama la polizia e assicurati che prenda in custodia questi quattro pezzenti!», e li lasciò cadere a terra, doloranti e intontiti, mentre si volgeva a guardare ancora la gente attorno a loro: «Lo spettacolo è finito! - i suoi occhi tornarono gradualmente al loro colore naturale - Circolare!».

Non attese neppure che il ragazzo chiamasse qualcuno che già Izuku si stava allontanando da quel chiosco, le spalle rigide e il respiro trattenuto, mentre si osservava le mani che ancora formicolavano, aprendole e chiudendole mentre cercava di calmarsi.

C’erano poche cose che lo mandavano in bestia. Una su tutte i riferimenti a  All Might e qualsiasi allusione sulle sue decisioni passate. L’altra era Kacchan.

Forse perché il senso di colpa continuava a ribollirgli dentro e a corroderlo come acido dopo tutti quegli anni come se fosse ancora su quel maledetto prato.

Non s’era dato pace per mesi per entrambi quei sacrifici, di cui solo uno riusciva a respirare, a camminargli a fianco, chiamandolo con insistenza fino a voltarlo con forza e prenderlo per le spalle, scuotendolo dai suoi pensieri.

«Sei un coglione!».

«Lo so.».

Katsuki rimase spiazzato dal suo sguardo basso e sfuggente e da quel moto di fuga che lui ebbe appena lasciò la presa.

«Non serviva che tu intervenissi! E non in quel modo! - indicò un punto indefinito dietro di sé - Mi hai fatto passare per un deficiente!».

«Sei tu che non ti sei mosso! Cosa volevi? Che continuassero ad umiliarti? - alzò la voce - Dov’è finito il tuo amor proprio?».

Katsuki si guardó attorno, sperando che nessuno li sentisse, strattonando Deku verso un vicolo e sbattendolo contro il muro con rabbia.

«L’amor proprio non c’entra un cazzo! Dio… - si passò una mano tra i capelli, nervoso - Mi hai fatto passare per un patetico idiota! Non potevi startene zitto e lasciare che ci pensassi io? Ti ho detto che devi fare quello che dico! Mi sembrava di essere stato chiaro all’inizio!».

Izuku tolse con ferocia la mano che gli teneva la spalla ancorata al muro: «Non potevo lasciare che continuassero! Lo capisci? Non ci sono riuscito!».

Il mio corpo si è mosso da solo.

Fu un pensiero che li attraversò entrambi e le loro espressioni parvero distendersi un poco.

«Sta di fatto che hai combinato un altro casino! Cazzo!», e vide Kacchan camminare in tondo, le mani nei ciuffi biondi a tirarli, innervosito.

«È questo che ti da fastidio? Che abbia preso le tue difese?».

«Sì, cazzo! Non sono mica un moccioso, cosa credi? È tutta credibilità persa! Porca puttana! - si puntò l’indice al centro del proprio petto - Hai idea di quanto io abbia faticato, ah?», ma Izuku aveva quasi smesso di ascoltarlo, osservando il punto che lui stava indicando.

Lo sapeva. Oh, se lo sapeva!

«Kacchan… Ho capito. Mi… Mi dispiace, va bene? Ma non ce l’ho fatta! Non ce la faccio mai se ci sei di mezzo tu!».

Katsuki sgranó gli occhi a quelle parole.

«È stato più forte di me… Come quando ti ho colpito quando hai detto quella cosa su All Might… - abbassò il capo - Quando si tratta di voi due mi monta una rabbia dentro che non so come spiegare… Ed è come se ci sia un blackout. Li avrei fatti a pezzi. Li avrei fatti sparire dalla faccia della terra se avessero continuato…», confessò, osservandosi le mani, prima di alzare di nuovo la testa e guardare Katsuki con occhi liquidi e un sorriso tirato sul volto: «Mi rendo conto di aver esagerato e di averti mancato di rispetto, Dynamight.», e si piegò in un profondo inchino, mentre il biondo indietreggiava di un paio di passi.

Al di là del fastidio e della rabbia che aveva provato per essersi sentito debole e incapace per aver avuto qualcuno che prendesse le sue difese, a Katsuki quell’atteggiamento protettivo di Deku aveva fatto anche piacere.

No. Più che piacere in effetti.

Aveva sentito il suo cuore rattoppato battere stranamente più forte e un sorriso salire al volto senza che però si manifestasse sulle labbra.

Izuku aveva esternato pensieri dettati dalla sua rabbia, ma Katsuki ne aveva percepito la veridicità. Sapeva che ciò che aveva urlato era reale e veniva dal profondo del cuore. E questa cosa gli aveva chiuso la bocca dello stomaco, rendendolo incapace di reagire, forse ancora più delle offese, perché s’era reso conto di quanto Deku ci tenesse. A lui. E a quella strana amicizia fatta di allontanamenti e riappacificazioni.

E si sentiva uno stupido ad aver cercato aiuto al di fuori di loro due. Si sentiva un perfetto idiota ad averlo offeso e voluto allontanare ancora una volta, incapace di fare voce a ciò che realmente sentiva.

Così come era incapace di affrontare in quel momento tutta quella sincerità improvvisa, quell’apertura di anima che lo faceva tornare piccolo, che lo faceva rivivere di nuovo quegli occhi verdi, enormi, spalancati su di lui e carichi di aspettative che non voleva disattendere.

Allungò una mano e gliela posò, pesante, sul capo, muovendola lieve tra i suoi capelli morbidi e arruffati.

«Adesso alzati, stupido idiota.», e tolse la mano, come se si fosse bruciato col fuoco.

Izuku si raddrizzò, tirando su col naso nel vano tentativo di nascondere quella frustrazione che si tramutava sempre in lacrime e moccoli.

«Sei… Sei ancora arrabbiato?».

«Sono infastidito perché mi hai fatto fare la figura del coglione. Ma va bene così. In fondo non ho reagito, hai ragione tu.».

Izuku sbattè un po’ le palpebre mentre lo vedeva allontanarsi a passo lento da quel vicolo, la schiena ampia che creava una macchia scura contro i colori che si intravedevano alla fine della via.

«Datti una regolata, però. Non posso farti da babysitter ogni volta che perdi le staffe! - lo guardò da sopra la spalla - Ricomponiti e poi raggiungimi. Ti aspetto dal palco principale.», e si allontanò con un piccolo scoppio e un salto, inghiottito poi dalla fiumana di persone che percorrevano la via principale nell’ultimo giorno del festival.

E quella frase, per Izuku, aveva così tanto il sapore di tregua e di pace che si passò con foga la manica sugli occhi e sul naso, incespicando nei propri passi per raggiungerlo il più in fretta possibile.


I feel like you could save me now
I know I hurt you
I don't deserve you, no
~ James Arthur ~



 

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Capitolo 12
*** Mamihlapinatapai ***


Mamihlapinatapai*



 

Tu, girasole impazzito di luce,
ogni volta che i tuoi occhi si sollevano si accende il firmamento.

~ La tigre e la neve ~



 

30 giugno

La gente accorsa per l’ultimo giorno di festival era davvero tanta.

Ricordava di aver visto così tante persone solo a Roma, dove c’era quella bellissima fontana piena di statue e le monetine nell’acqua.

L’aveva tirata pure lui, una monetina, perché dicavano che serviva per esprimere un desiderio.

Così s’era rivolto di spalle e aveva gettato un soldino di rame oltre la spalla destra, chiudendo gli occhi. Ma non ricordava il desiderio, o, meglio, lo confondeva con tanti altri espressi nel corso di quell’anno e mezzo, come a cavallo del meridiano zero a Greenwich o deponendo pietre all’ingresso della Moschea Ak a Chikment.

Non era superstizioso, ma gli piaceva provare a dare una mano alla propria fortuna (o a combattere le proprie sfighe, che forse era cosa più logica da fare, visto ciò che era successo fin da quando era bambino!).

Così Izuku si lasciò trasportare dalla folla, fluttuando ad una ventina di centimetri dal manto stradale alla spasmodica ricerca di una testa bionda in mezzo a tutto quel casino.

Non voleva volare più in alto: aveva già fatto fin troppo quella sera e, di certo, il giorno successivo Hawks gli avrebbe fatto una bella ramanzina. Ma non gli importava.

Non aveva litigato con Kacchan per qualcosa di stupido, o per delle incomprensioni o delle prese di posizione infantili. L’aveva difeso, e a lui era andato bene. Solo per questo avrebbe sopportato tutti i demeriti del mondo, se fosse stato necessario!

E l’avrebbe rifatto, forse altre mille volte.

Rimise i piedi a terra e continuò a camminare, chiedendosi dove fosse il palco principale e maledicendo il fatto di non aver letto con attenzione né i dettagli del programma né la piantina del festival.

Guardò verso sinistra per un istante e notò uno stand senza troppa coda: un piccolo tiro al bersaglio fatto con vecchie lattine che ormai non stavano neppure in piedi. Appeso sulla parete di destra vi era un pannello pieno di portachiavi di ogni forma e dimensione.

Ne vide uno che gli piacque e deviò il percorso. “Cinque minuti.”, si disse, sorprendendo l’uomo che gestiva il baracchino.

«De-Deku! Quale onore averla qui!».

Izuku sorrise e indicò la parete: «Quanti punti per un portachiavi?».

«Ma… Ma non serve! Mi dic-».

«Vorrei vincerlo. Mi dica per favore quanti punti.».

«Cinque. Un punto a lattina.».

L’eroe allungò duemila yen sul bancone: «Allora mi dia dieci colpi, per favore. E tenga pure il resto».

 

•••

 

Aveva provato una strana sensazione quando quella signora l’aveva preso per mano e gli si era ancorata al braccio, sorridendogli e parlandogli come se fosse suo nipote. Non gli arrivava alla spalla e aveva i capelli canuti raccolti in una specie di nido voluminoso e ordinato sopra la testa e profumava di fiori.

«Sono stati davvero dei villani!».

Il ragazzo trattenne una risata a quell’espressione: «Decisamente.».

«E mi vergogno che siano miei concittadini!».

Katsuki mugugnò, rallentando ancora per stare al passo con la vecchia, che, evidentemente, l’aveva braccato appena uscito dal vicolo o non si spiegava tutta quella improvvisa confidenza. Certo, poteva essere sua nonna vista l’età, ma erano perfetti estranei e lui sapeva di essere odiato da quei vecchi di merda che lo ritenevano solo un mascalzone dalla parlata troppo colorita per dare il buon esempio. Ecco.
Tutti tranne la signora appollaiata come un’arpia al suo braccio destro, mentre lo conduceva fino al cancello di una delle casette affacciate sulla via che fiancheggiava il palco.

«E quel tuo collega è stato troppo duro.».

Katsuki alzò un sopracciglio: «Sì. Ma aveva le sue buone ragioni.».

«Non ho mica detto che ha fatto male!».

«Oh... Va bene.».

«Ho solo detto che certe cose vanno dette con le parole giuste. Ecco, tesoro. Siamo arrivati.», e la signora aprì il portoncino in legno laccato di casa sua.

«Non doveva prendersi questo disturbo…», bofonchiò Katsuki, armeggiando con gli stivali per entrare.

«Tienili addosso o perderai il doppio del tempo! Il bagno è in fondo al corridoio sulla sinistra. Gli asciugamani puliti sono sul ripiano accanto al lavandino.».

Il ragazzo la osservò dall’alto: «Perché lo fa?».

La signora lo guardò di rimando con un sorriso dolce a deformargli le guance: «Hai salvato i miei nipoti. E il mondo, come ha detto Deku.».

«Io non ho salvato il mondo. È stato lui a farlo.».

«Ma c’eri pure tu e l’hai aiutato. Hai reso possibile il miracolo. E noi a volte diamo tutto troppo per scontato e ci dimentichiamo che eravate solo dei ragazzini. In realtà lo siete ancora. Quanti anni avrai? Venti?».

«Ventitré.».

«Ecco. – la donna gli toccò appena il braccio, invitandolo a proseguire – Hai un anno in meno del mio Kentaro. Potete atteggiarvi a uomini fatti e finiti, mostrare con orgoglio tutte le vostre cicatrici. Ma siete solo dei ragazzini che stanno ancora imparando a capire come si sta a questo mondo. E noi ce lo dimentichiamo fin troppo spesso. – fece una breve pausa e con un gesto della mano gli indicò il bagno - Darti la possibilità di ripulirti un po’ dallo schifo che ti hanno gettato addosso mi sembra il minimo che io possa fare per ringraziarti. È una cosa che dovremmo imparare a fare tutti.»

Katsuki non sapeva bene come controbattere e si limitò a chinare il capo e tirare le labbra con un mugugno, muovendosi oltre la soglia del bagno.
Non era abituato a quelle gentilezze. Non lo era mai stato.
Di solito erano gli altri ad essere cercati dalla gente, che leccava il culo ad eroi meno scontrosi di lui.

Mentre si insaponava la faccia pensò un po’ a quei giorni di festa, in cui aveva visto crescere il numero di persone che si approcciavano allo stand dove era stato messo a fare il pupazzo. Avevano paura di lui, ma lo cercavano, i ragazzini gli sorridevano tremolanti mentre allungavano foto o copertine di riviste in cui lui figurava a tutta pagina.
La fama era una cosa collaterale a cui non aveva pensato. Perché l’unico obiettivo era primeggiare, essere “una spanna sopra gli altri”, come l’aveva accusato Deku.

Già, Deku.
Quel ragazzo lo destabilizzava, perché non lo riusciva a comprendere.

Era tornato dall’America con la testa piena di stronzate, lo sguardo inquieto e ogni volta gli sembrava di parlare con un estraneo sia che si affrontassero argomenti inerenti alla società o al loro lavoro, sia che provassero ad essere normali. Due ragazzi normali che provano ad affrontare la vita. Era Deku, ma al contempo non lo era.

O, forse, era solo lui ad essersi fossilizzato in dinamiche che l’avevano reso solo più statico di prima. Come la paura di affrontare le novità. Come le occasioni perse per stupide prese di posizione. O come il loro rapporto, congelato a prima della partenza di Izuku, ma che li aveva trovati entrambi cambiati al suo ritorno.

Si sciacquò il viso, osservando il riflesso nello specchio, sfiorando i contorni della cicatrice lungo la guancia destra, sentendo la pelle raggrinzita sotto i polpastrelli. Passò una mano sul viso umido e poi fin nei capelli, inspirando profondamente con gli occhi chiusi.

A mente fredda, aveva compreso che, entrambi, per ogni cazzata che facevano, c’era qualcosa che però riuscivano a controbilanciare. Di poco, eh, ma ci provavano.

E di fronte al suo riflesso stanco in quel vecchio specchio di una casa sconosciuta, Katsuki si disse che, forse, ora toccava a lui controbilanciare.

 

•••

 

Adorava i festival.
Amava parteciparvi da civile, ma, anche con la sua tenuta da eroe, quell’evento aveva il suo fascino.

C’era qualcosa di magico in ciascun festival: ogni matsuri è unico e si distingue dagli altri per la sua storia, i suoi rituali e le sue danze.
Più che le processioni, adorava i figuranti, in costumi variopinti, che ballavano lungo la strada.
A volte gli piaceva unirsi alle danze, come facevano tanti altri e come stava avvenendo il quel momento, mentre il sole calava piano e colorava tutto il cielo di arancio e viola e il frinire delle cicale del parco si mescolava al vociare della gente, alle risa, ai battiti di mani e dei tamburi, al suono acuto dei flauti.

I festival giapponesi gli erano mancati.
Nulla a che vedere con le feste dei piccoli paesi dell’Italia, con le processioni spagnole o con le feste nelle aperte campagne del Texas, ugualmente emozionanti. Ma casa era... casa.

Costeggiare l’ultimo pezzo di strada prima del palco gli mise una strana allegria, tanto che ondeggiava la testa a ritmo e improvvisava un breve fischiettio, salutando di rimando chi lo salutava.
Anche i figuranti danzavano e sorridevano ed era tutto così bello e sgargiante e-

«E che ti avevo detto che ci saremmo visti dal palco!».
La voce aspra di Kacchan gli arrivò come una stilettata dritta nelle orecchie, prima ancora che si potesse girare e vederlo.
La faccia era stanca, ma sembrava stare meglio.

«Stavo arrivando.».

«Lo so. Volevo solo romperti le palle. Andiamo! Dobbiamo finire il giro di ronda.», e lo osservò fare un gesto d’invito col capo e sgomitare tra la folla.

«I tuoi gauntlet? Dove li hai lasciati?», gli chiese, affiancandolo. Istintivamente inspirò, ma non percepì il solito odore di Kacchan. Che aveva fatto?

Izuku si era attardato a uno dei chioschi di giochi e aveva fatto qualche foto con i fan… Ma lui?

«Ho fatto un salto in centrale. Li ho lasciati lì. Sono troppo ingombranti con tutta questa folla.».

«Oh. Capisco.».

«E tu? Perché ci hai messo tanto?», gli chiese il biondo, voltandosi appena verso di lui, che stava armeggiando con una delle tasche sul cinturone, rallentando il passo.

Izuku attirò di nuovo la sua attenzione con una leggera gomitata: «Per questi.» e aprì il palmo della mano.

Katsuki arrestò il passo, le persone che lo sfioravano non gli importavano.

Sul palmo del guanto bianco di Deku erano adagiati due portachiavi.

«Ho pensato che fossero carini.».

Due orrendi portachiavi, probabilmente scarti dei rispettivi merchandise, perché quel Dynamight aveva un difetto di attaccatura tra la testa grossa e il resto del corpo e il pupazzetto di Deku aveva il costume di un pantone totalmente sbagliato, troppo sbiadito. L’occhio destro gli tremolò. «Carini?». Dio! Erano davvero obbrobriosi!

Ma Deku continuava a sorridere con le labbra tirate e gli occhi luccicanti e ci rivide il bambino che per la prima volta lo osservava emanare scintille dalle mani.

«E che ci vuoi fare, scusa?». Domanda scema, ma lui idiota non era e aveva già intuito.

«Le chiavi di casa – e gli porse il piccolo Dynamight – Così non confondiamo le mie con le tue, no?».

Katsuki diede un’occhiata intorno a sé e lo stesso fece Deku, ma la folla si muoveva tranquilla e la sfilata sulla strada principale stava quasi per iniziare. Poi tornò a osservare i due portachiavi fatti male (malissimo) e snobbò con disgusto la sua raffigurazione in miniatura, agguantando in fretta il piccolo Deku, tenendolo tra due dita e ruotandolo per osservarlo con più attenzione: aveva pure un’orecchia del cappuccio sbeccata!

«Prendo questo. – decretò e gli puntò l’indice sulla spalla – Anche se il colore è sbiadito ed è mezzo crepato.».

«È il meno sgorbio dei due, insomma.», lo corresse il verdino, trattenendo una risata e stringendo nel pugno il pupazzetto di Dynamight, avanzando di qualche passo, facendogli un cenno col capo per proseguire.

«Non montarti la testa.».

«Va bene.».

«E non dire va bene con quel tono!», berciò il biondino, faticando nel raggiungere il compagno di squadra, che lo stava palesemente prendendo in giro.

«Va bene, Kacchan.».

«E non chiamarmi così in pubblico, cazzo!»,  e gli diede una spallata, oltrepassandolo in mezzo al casino di persone che si erano affollate attorno al palco principale per vedere lo spettacolo.

Spettacolo che pure loro due si gustarono da distante, sempre in allerta verso la folla che assisteva all’esibizione variopinta e musicale.

«È bello questo festival!».

«Tsk! Devi metterti gli occhiali!».

«Oh! Eddai! Ma guardali! - e con un gesto della mano Izuku indicò i figuranti sul palco - Sono bravi! E guarda come si muovono! Non dirmi che non ti viene neppure voglia di ballare!».

«No.».

«Sei un musone, Kacchan.», e incroció le braccia al petto, strappando una flebile risata a Katsuki, che scosse la testa, forse preso da esasperazione.

«Sei sempre il solito…».

«Ah?».

«Oh! Ed dai! Ma guardali! - e con un gesto della mano Izuku indicò i figuranti sul palco - Sono bravi! E guarda come si muovono! Non dirmi che non ti viene neppure voglia di ballare!».

«No.».

«Sei un musone, Kacchan.», e incrociò le braccia al petto, strappando una flebile risata a Katsuki, che scosse la testa, forse preso da esasperazione.

«Sei sempre il solito…».

«Ah?».

«Niente. Schiodati da lì. Dobbiamo finire il giro.».

Izuku lo seguì, un occhio sempre rivolto a quel palco variopinto, o alla strada, dove la processione stava scemando e ricominciava la sfilata danzante.

Katsuki lo osservava da sopra la spalla, due passi avanti a lui, e si maledisse perché il suo viso non rispondeva ai comandi del cervello e sentiva le labbra costantemente tirate in un sorriso.

Come poteva un ragazzone di ventidue anni, quasi un metro e novanta di muscoli e un concentrato di superpoteri, avere la stessa espressione di un bambino di quattro anni? Come poteva avere gli stessi occhi luccicanti e ricchi di meraviglia dopo tutti gli orrori che aveva visto?

O forse era solo lui ad aver perso la meraviglia e aver messo a tacere quel suo bambino interiore che diceva più cose giuste del suo psicologo? La signora Okade (così aveva scoperto chiamarsi quella vecchia tanto gentile) aveva avuto ragione: egli stesso s’era dimenticato di essere un ragazzo, un marmocchio che giocava a fare l’adulto.

Il mix di canzoni reggaeton gli fece riportare lo sguardo sulla strada, assieme alle urla e a piccoli scoppi di coriandoli che accompagnavano quella musica irritante.
Alzò gli occhi al cielo e sbuffò a vedere tutta la crew maschile della Oki Mariner fare un balletto a tempo di una vecchissima canzone di Daddy Yankee (impossibile da dimenticare per quanto gli aveva fatto ribrezzo). Con sue dita si premette una tempia, un’espressione di puro fastidio e disgusto in volto, impossibilitato a distogliere lo sguardo dalle camicie in stile hawaiano dai colori improponibili che indossavano Selkie e Mick, il suo secondo in comando e che ai suoi occhi fecero perdere almeno un milione di punti, oltre ad impressionargli la retina con mossette e sculettamenti raccapriccianti.

Inspirò profondamente dal naso e si sforzò di proseguire con il proprio percorso, ma si bloccò di nuovo a sentire dei cori che inneggiavano a Deku e si voltò, appena in tempo per vederlo trascinato in mezzo alla strada proprio da Selkie, che ora gli stava spiegando un paio di mosse in modo che potesse seguirli per un pezzo della parata.

«DEKU! - prese fiato - DEKU TORNA SUBITO QUI!», urlò, con le mani a coppa per amplificare quel suono, fallendo miseramente. Così si avvicinò alla transenna e alzò le braccia al cielo: piccole esplosioni controllate che parevano fuochi artificiali attirarono finalmente l’attenzione del proprio collega, che alzò le spalle mentre ballava in un muto segnale di “non è colpa mia, mi hanno incastrato”.

Avrebbe bestemmiato, ma c’era gente e non poteva: le note di demerito erano sempre dietro l’angolo!

La musica sfumò e ci fu uno scroscio di applausi e di fischi e piccole urla mentre una nuova canzone partiva e anche altre persone si buttavano in strada a ballare.
E quello era davvero un bel guaio. Scavalcò la transenna con un balzo agile, con l’unico obiettivo di recuperare Deku e la sua stupidità in una volta sola.

D’un tratto vide le orecchie azzurre di Shiriusu e sperò – sperò davvero – che almeno le ragazze di quella ciurma di idioti avessero più sale in zucca. Invece pure lei era stata contagiata dalla stupidità degli altri e ballava schiena contro schiena con Toru, o a quello che si intuiva di lei: indossava uno di quei top striminziti che andavano tanto di moda e lasciavano la pancia scoperta, le maniche lunghe in rete e un paio di pantaloni aderenti, neri, lunghi fino al ginocchio.

Poi, d’un tratto, si sentì strattonare per la canotta e si sbilanciò in avanti, afferrando le spalle esili di Tsuyu, che l’aveva trascinato in pista.

Sentì il suo nome urlato in più punti della folla e un applauso, unito a un «Vai Kacchan!» urlato al suo orecchio da un Deku fin troppo sorridente e su di giri, che faceva volteggiare con una mano una ragazza che sembrava più sconvolta dello stesso Katsuki in quel momento.

«Balla Baku-chan!», lo incitò Tsuyu afferrandogli le mani e alzandole, intrecciando le dita con le sue e muovendo le braccia a tempo, i piedi che danzavano piano facendole muovere i fianchi. Almeno lei era vestita decentemente, combat boot neri, cargo mimetici larghi sulla gamba e una specie di canotta bianca, corta e aderente.

Katsuki si sporse verso di lei mentre la musica cambiava ancora e partiva uno strumentale di percussioni in crescendo: «Non farmi questo…».

«Sciogliti un po’, Dynamight! – si rivolse alla folla, le mani che battevano a tempo sulla sua testa, incitando la gente – DY-NA-MIGHT! DY-NA-MIGHT! DY-NA-MIGHT!», e il pubblicò la seguì nel battito e in quel coro folle e imbarazzante, che lo fece fermare in mezzo alla strada, pizzicandosi il naso con due dita, mentre la ragazza gli sorrideva con la lingua dalle labbra, ondeggiando al ritmo che aumentava.

«Rendi fiero Sero-bro!», gli urlò Hagakure mentre strusciava la spalla sulla sua, rigorosamente a ritmo, prima di dargli piccoli colpetti con i fianchi sui suoi.

Tsuyu gli riprese le mani e seguì il testo della canzone, invitandolo a muoversi: «Con calma, yo quiero ver cómo el lo menea… Mueve ese boom-boom, boy!».

Se uno sguardo avesse avuto la capacità di uccidere, in quel momento Katsuki avrebbe fatto una strage.

Ma tutti si stavano divertendo…

Fanculo!

Cominciò a muovere le braccia a tempo, poi i piedi, improvvisando dei passi di salsa e provando a guidare Tsuyu, facendola volteggiare con una mano prima di riprenderla di nuovo per la vita, dedicandole un sorrisino sardonico prima di cantare un pezzo di quel ritornello che gli stava entrando in testa: «Es un asesina cuando baila, quiere que to’ el mundo la vea… I like your boom-boom, girl!».

Quando Izuku si voltò per un momento verso di lui, a canzone quasi finita, lo vide ondeggiare i fianchi in cerchi concentrici, flettendosi sulle ginocchia, richiamando accanto a lui e afferrando per la vita sia Tsuyu che Hagakure, che gli si spalmarono addosso, tenendosi sulle sue spalle, un sorrisino soddisfatto su quelle labbra perfette quando quegli occhi cremisi si fissarono nei suoi per un soffertissimo momento.

E gli mancò il respiro per un attimo quando vide entrambe le ragazze girargli attorno e strusciare il culo su di lui. Semplicemente perché avrebbe voluto essere al posto loro.

Il suo cervello non registrò altro, né la musica che si affievoliva, né gli applausi o le urla o i cori.

Registrò solo Kacchan, che veniva verso di lui, il volto lucido di un velo di sudore e le guance rosse, forse più per l’imbarazzo che altro.

Si sentì afferrare per un braccio, lo sentì alzarsi e udì solo un: «Saluta e sorridi, coglione. A casa facciamo i conti.». E quelle parole lo riportarono alla cruda realtà della cazzata madornale che aveva appena fatto.

Finirono il giro di ronda in silenzio. Salutarono gente, ritrovarono Selkie e la sua crew, risero con le ragazze e percularono Katsuki per il suo talento come ballerino da strip club.
Ma Kacchan non se la prese e a Izuku sembrò strano. Quella minaccia subito dopo il loro essersi resi totalmente ridicoli cos’era? Solo un modo per schiodarlo da quella pista improvvisata?

Lui s’era sentito per un momento libero.
Libero da etichette. Libero da incombenze e da responsabilità.
Tre minuti di libertà erano troppi?
Non si era forse sentito libero anche quel musone di Kacchan? Non si era divertito?

Si chiese, mentre camminavano in silenzio fino ai docs del porto, se a Kacchan sarebbe piaciuto ballare, in discoteca magari; a tutte le feste lui non c’era mai. Pure al loro ultimo anno, a quella specie di prom ripreso dalle feste americane fatto in onore di All Might lui era venuto e poi era andato via presto, quasi subito.

Non l’aveva mai capito.

«Ti sei divertito?».

«Ahn?».

«Prima, ballando, ti sei divertito?», e lo vide alzare le spalle e fare una piccola smorfia con le labbra.

«Dura divertirsi mentre si è in servizio.».

Izuku roteò gli occhi: «Che palle che sei!». E a Katsuki sfuggì un risolino di naso, che non passò inosservato.

«Che ti ridi?».

«Mi hanno detto una cosa, oggi.»

Izuku rabbrividì a ripensare a quei quattro ubriaconi del cazzo e provò a incalzarlo, sperando che tutte le cose brutte che gli avevano urlato contro non l’avessero reso di cattivo umore. Ma non gli pareva proprio. «Cioè?».

«Che siamo solo… Solo dei ragazzini che stanno ancora imparando a capire come si sta a questo mondo.».

«Non capisco il nesso…».

Il biondo scosse la testa e guardò Izuku di sbieco, l’espressione stranamente serena per uno come lui. «A volte mi dimentico di quanti anni ho. Forse perché mi sembra di aver vissuto troppe cose e troppo brutte… - si grattò il centro del petto – Dovrei schiodarmi un po’ di più. Lasciarmi… Darmi tregua, ecco.».

«Darti… Tregua?».

«Darmi tregua. Lasciarmi un po’ andare. Vivere la mia età.».

Izuku si fermò, accigliato, lasciandolo andare un po’ avanti, da solo, osservando quella schiena che per lui era sempre stata un punto fermo.

«Quindi non ti sei arrabbiato? Per il ballo?».

Kacchan si voltò: «Oh, sì. Perché sei il solito idiota che si fa trascinare in cose stupide. – prese un profondo respiro – Ma è stato divertente come fuori programma, te ne do atto.», e inclinò la testa, un cenno impercettibile del collo per invitarlo a proseguire.

Izuku incespicò nei propri passi, come faceva da bambino, lo stupore negli occhi a vedere di nuovo Kacchan tanto calmo e quasi… sereno?

Si addentrarono fino all’ultimo capannone lungo il porto, scortando le poche persone che volevano godersi i fuochi d’artificio della fine del festival in santa pace, senza il chiasso del centro cittadino.

Dopo lo spettacolino, alla ciurma della Oki Mariner era andato il compito di sorvegliare le postazioni più vicine al cuore del festival. Katsuki, invece, aveva richiesto con largo anticipo quella zona defilata perché sapeva di mal sopportare la troppa calca, i bambini urlanti e la puzza di fritto da quattro soldi che s’era dovuto sorbire sulla strada principale.

Lì era calmo, e l’aria salmastra che saliva dal mare gli raffrescava un po’ la pelle appiccicaticcia.
Andò più avanti, lontano dall’ultimo lampione, dove c’erano le transenne e i cancelli per raggiungere le barche alla fonda.

Si tolse i guanti e li infilò nella cintura, arpionando il metallo fresco della ringhiera con un sospiro di sollievo, dondolandosi un po’ sui piedi, stirando un po’ le gambe nel portarle indietro.
Quella missione si stava rivelando troppo statica e, con molta probabilità, tutti i timori della Commissione sui criminali di quel luogo erano solo fuochi fatui.

Partì un primo petardo, un botto luminoso che illuminò la baia, accompagnato da un coro stupito della gente assiepata molto distante da loro.

Deku gli si affiancò appena partì un altro fuoco d’artificio: «Adesso ho capito perché hai voluto questo pezzo della ronda!», lo canzonò con una gomitata, prima di portarsi alla sua sinistra e incrociare le braccia al petto mentre lo spettacolo cominciava e partivano pure i razzi dalle piattaforme galleggianti sull’acqua, creando fontane colorate e scintillanti.

«Ehi, Kacchan.».

«Mh.».

«Ma secondo te… È più spaventoso rimanere da soli o finire con la persona sbagliata?».

Perché fai queste domande proprio adesso?

Katsuki voltò di poco la testa, osservando il profilo del ragazzo che aveva preso posto alla sua sinistra e s’era chinato, posando gli avambracci sulla transenna di metallo.

I colori degli scoppi gli illuminavano il volto e facevano brillare i suoi occhi grandi, spalancati di ammirazione verso quello spettacolo.

Odiava le domande a bruciapelo di Deku. «Perché lo chiedi?», e Izuku alzò le spalle.

«Dai rispondi…».

Dove voleva andare a parare quell’idiota? «Non lo so.».

«Oh, andiamo! Non è possibile! Non ci credo che tu non abbia un pensiero al riguardo!», sbottò Izuku, voltandosi a sua volta, beccandolo a guardarlo, poco prima che lui voltasse di scatto la testa a osservare i fuochi.

«Finire con la persona sbagliata. – disse il biondo dopo una breve pausa in cui ci aveva riflettuto un poco - Credo che sbagliare persona in amore sia facile come bere un bicchier d'acqua. E sarebbe spaventoso esserne consapevoli.»

«Mah… Sognare una persona con cui stare bene è lecito ed è quello che tutti cercano di fare. Non credi?».

«E allora che fai, ah? Continui a sbagliare fino a che non trovi quella giusta?».

«La vita è fatta di tentativi, Kacchan. Non può sempre essere un “buona la prima”.».

«E se non la dovessi trovare mai?».

Izuku alzò le spalle e sporse in avanti il labbro inferiore, prima di arcuare le labbra in un’espressione di stupore per dei fuochi particolarmente elaborati e coreografici.

«Se non la dovessi trovare mai? Bah… Meglio che restare da soli.».

«Tu e le tue idee del cazzo.».

«Perché?».

Si osservarono l’un l’altro, di sottecchi. La posizione che avevano assunto sulla transenna era la stessa. Il riverbero degli scoppi dei fuochi d’artificio riempiva la baia, dove tutti osservavano in religioso silenzio quella meraviglia pirotecnica.

«Se in questa vita non esistesse la persona giusta?».

«Esiste. Esiste per tutti. Solo che non l’abbiamo incontrata. Allora saremo più fortunati nella prossima.».

«Bella merda.».

«Perché dici?».

«Perché magari la tua persona giusta è impegnata con la persona sbagliata. E tu non lo saprai mai, perché la tua esistenza si è fottuta appresso a tutte le persone sbagliate nella spasmodica e vana ricerca dell’unica anima gemella, che ha l’esistenza fottuta da un altro stronzo come te.».

Izuku mugugnò e affondò la bocca tra le braccia conserte, chinandosi di più, lasciando che solo gli occhi si perdessero nei riflessi dei fuochi sull’acqua.

«Meglio stare da soli. - decretò Katsuki – Da soli si sta bene. Al massimo puoi fare del male solo a te stesso.».

«La solitudine è spaventosa, Kacchan.», bofonchiò l’eroe, guardando l’amico per un interminabile minuto in cui anche Katsuki s’era perso a guardarlo a sua volta, non prestando più attenzione ai colori nel cielo.

«Lo so. Poi però ci si abitua.».

Izuku mugolò e tornò a fissare i riflessi colorati nella baia.

«…a volte vorrei essere un pesce rosso.»

«Un pesce rosso?»

«Il pesce rosso è l'animale più felice della terra e sai perché? Ha una memoria di 10 secondi.».

«Tsk! Non citare Ted Lasso come se non conoscessi la reference.».

«Giusto. Dimentico che a volte sei più nerd di me.».

«Devo pur fare qualcosa se non esco la sera, no?».

Izuku lo osservò ed arricciò le labbra in una specie di sorriso forzato, annuendo, prima di tornare a guardare i fuochi d’artificio che illuminavano il mare antistante alle bocche di porto di Hamacho dove la gente s’era assiepata per lo spettacolo pirotecnico. «Sta di fatto che non vorrei ricordare questa conversazione nei prossimi dieci secondi, Kacchan. E vorrei che tu chiudessi la tua bocca per il resto della sera. Hai già parlato abbastanza per oggi.».

«Sei tu che mi hai fatto quella domanda.», e udì un grugnito esasperato provenire dal ragazzo al suo fianco. «Non fare il bambino, Deku.».

«Sono deluso. Ma la tua risposta avrei dovuto aspettarmela.».

«Perché?».

«Perché non sei cambiato di una virgola. E perché so benissimo che ami stare da solo e che questa convivenza forzata ti sta logorando. E mi dispiace. Mi dispiace sul serio. – si guardarono di nuovo – Perché ero contento di questa missione con te. Contento e spaventato.».

«Spaventato? Da cosa? Da me? Non ritira-».

«No. – Izuku scosse la testa e si alzò, stringendo con forza la transenna - Non fraintendermi. Non ero spaventato da te. Ma da… Questo. Da noi che litighiamo, come se non ci fosse stato tutto un percorso o una presa di coscienza dietro. Ero spaventato perché so come sono, mi conosco… E perché non avevo più la libertà di prima e nemmeno tu ce l’avevi… - si passò le mani nei capelli - E sto parlando a vanvera e dicendo cose senza senso come al mio solito… Ma nella mia testa hanno un senso!», e si accasciò di nuovo sulla transenna con gli avambracci che ne sostenevano il peso del busto e le mani che si torturavano l’un l’altra.

«Se ti fa stare più tranquillo ero spaventato pure io. - disse Katsuki con calma, senza neppure guardarlo, anche se sentiva i suoi occhi di smeraldo addosso - Perché con poche battute ti avevo inquadrato e sapevo che non sarebbe stato facile convivere con te. Solo… Non pensavo fosse così…».

«Così?».

«…snervante.», e rimase in silenzio a vedere i colpi sparati in aria che scoppiavano in volute dorate con un sibilo acuto.

«Scusami, Kacchan.».

«Non saresti tu, giusto?», e Izuku annuì a stento, gli occhi umidi che erano fissi sul cielo e gli rendevano tutte le luci tremule e liquide.

Poi cinque colpi vennero sparati, uno dietro l’altro, mentre fontane colorate sul bordo del molo dipingevano di rosso e blu il riflesso dell’acqua.
«Questi! - esclamò Katsuki, con la stessa enfasi di un bambino - Questi sono i miei preferiti!».

Lo scoppio dei fuochi, alti nel cielo, creò fontane eleganti di luce aranciata, le scie che si mescolavano l’una sull’altra, in un intreccio luminoso che sembrava volesse toccare la terra o la superficie nera del mare.
Ad ogni scoppio, l’aria tratteneva il fumo, creando una cornice evanescente dietro i nuovi fuochi, più numerosi, più frizzanti nel loro espandersi, dai colori vivi e dai suoni assordanti.

«Li ho visti anche mentre ero via…», azzardò Izuku, continuando ad osservare il tripudio di colori che illuminava il cielo notturno, mentre le scintille, effimere come farfalle, precipitavano spegnendosi a varie altezze. «E un po’ mi ricordavano te.».

Ma dal posto accanto al suo non arrivò altro che un sospiro, sovrastato da uno scoppio potente. Poi un altro. E poi l’ultimo, un boato forte che sembrava far tremare pure la transenna.

Era finito.
Il festival. La ronda. Quella giornata.

«Se tu fossi davvero un pesce rosso e perdessi la memoria ogni dieci minuti…Cosa vorresti?».

«Che intendi?».

«Hai dieci minuti, poi la tua mente si azzera. Vorresti che qualcuno ti facesse ricordare qualcosa?».

Deku si alzò dalla transenna, fronteggiando Katsuki, mentre si passava le mani nei capelli per poi massaggiarsi il collo, pensieroso. Katsuki, di contro, la transenna la stringeva forte con la mano, eco del nervosismo che aveva accumulato.

I fuochi, per quanto belli, erano stati per lui solo immagini colorate, frame che aveva osservato senza averle veramente vissute. Ed era la prima volta che gli succedeva.
Di solito li apprezzava molto, ma quella sera erano stati solo scoppi distanti che non gli avevano causato alcun brivido o critica delle sue.
Erano stati splendidi e perfetti e lui li aveva quasi snobbati.

«Mh… Non so nemmeno se potrei vivere qualcosa di significativo in dieci minuti!».

Katsuki guardò l’ora sul cellulare: «Due minuti.».

«Eh?».

«Da quando ti ho fatto la domanda sono passati circa… Due minuti. Prendiamoli come convenzione. Elencami le cose che potresti fare nei prossimi otto minuti.».

E Izuku spalancò gli occhi, colto alla sprovvista: «Oh, mamma! Eeehm… Cucinare un uovo! No, ma non sarebbe significativo! Ma ho fame, quindi potrebbe… No! - e si mise a camminare attorno a Katsuki, che lo osservava un po’ divertito - Potrei chiamare mamma, ma la telefonata durerebbe più di otto minuti!».

Katsuki controllava l’ora mentre Izuku sproloquiava e gesticolava, e ridacchiava talvolta, dandosi dello stupido.

«Dio! Neanche del buon sesso si può fare in dieci fottutissimi minuti!», sembrò incazzarsi, prendendo per le spalle Katsuki, scuotendolo più per nervosismo che per altro. «Quanto manca?».

«Tre minuti. Circa. - Katsuki lo osservò torturarsi l’unghia del pollice - Deve essere qualcosa che vorresti ricordare. Che ti raccontassero dopo che hai resettato la memoria…». Adorava metterlo in difficoltà, vedere quasi fumare quella testa dura piena di idee di merda.

Izuku era lì che provava a trovare qualcosa da ricordare, di cui valesse la pena mantenere viva la memoria. Smise di camminare e si mise a riflettere, incurvando di poco la schiena, una mano a sostenere il mento e gli occhi fissi a terra, accigliato, mentre borbottava infinite possibilità di azioni da compiere in dieci minuti.
Passò in secondo piano il sadismo di quella domanda che era stata posta più come una sfida, una di quelle un po’ bastardelle alla Katsuki maniera, che, il più delle volte, l’aveva lasciato pensoso e se l’era svignata. Forse l’aveva fatto pure quell-

Una pressione lieve sulla spalla destra e un tocco umido sulla guancia, dallo stesso lato. Il piccolo suono di uno schiocco gli arrivò all’orecchio.

Le ombre lunghe, proiettate dal lampione dietro di loro, gli permisero di capire solo che Kacchan gli si era avvicinato e aveva posato un bacio delicato sulla sua guancia, tenendosi alla sua spalla per mantenere l’equilibrio sulle punte dei piedi.

Ed era durato poco, una frazione di secondo forse. O forse di più, ma non lo capiva, perché il tempo sembrava essersi improvvisamente dilatato.

«Grazie per oggi. Dico sul serio.», avvertì in un sussurro, mentre percepiva il naso che premeva morbido sulla sua guancia.

«Ti aspetto a casa.», gli aveva detto poi, così vicino all’orecchio da provocargli un brivido lungo tutto il collo e la schiena.

E il suo tocco sulla spalla si fece evanescente, quasi un ricordo, mentre osservava l’ombra di Kacchan allontanarsi con calma.

«Ka-acchan! - balbettò - Ma che…».

«Ah! I dieci minuti sono scaduti, lo sai? Meglio se muovi il culo da lì! - il biondo lo osservò da sopra la spalla - E smettila di fluttuare che abbiamo finito il turno!».

Izuku tornò con i piedi per terra, rintronato da una cosa di cui non aveva ben capito né il senso né tantomeno la dinamica.Che scherzo gli aveva giocato?
O era una vendetta?

Mentre affrettava il passo per raggiungerlo si ritrovò a sorridere e a toccarsi con la mano il punto della guancia dove lui l’aveva baciato, sentendosi davvero come una scolaretta delle medie.
Ma invece del solito imbarazzo, mentre il suo cuore sembrava aver ripreso a battere regolarmente, si ritrovò ad essere divertito e compiaciuto della sagacia del giovane.

«Ti muovi!», berciò Kacchan, alzando un braccio e facendogli cenno di raggiungerlo, senza mai voltarsi.
Aumentò il ritmo e il con esso il sorriso che gli illuminava il volto.

«E pesce rosso sia.»
 

Steal it with a kiss
Our fate engraved
Scar enslaved
As we mutually destruct
Repose, my love, I've sinned enough
For the both of us
~ Motionless In White ~


 

 

- - -

 

* Mamihlapinatapai è una parola della lingua degli Yamana (tribù quasi estinta della Terra del Fuoco, tra Patagonia, Cile e Argentina)..

Il vocabolo è noto per essere una delle parole più concise e di difficile traduzione al mondo.

Il termine descrive l'atto di «guardarsi reciprocamente negli occhi sperando che l'altra persona faccia qualcosa che entrambi desiderano ardentemente, ma che nessuno dei due vuole fare per primo».

 

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Capitolo 13
*** I cannot fix your wounds this time ***


I cannot fix your wounds this time



La mia volontà si ruppe al suono della sua voce e la mia testa girò con la stessa inevitabilità di un girasole che girava la faccia al sole.
~ Patricia Briggs ~


1 luglio

Izuku attese che Katsuki recuperasse i suoi gauntlet senza però entrare alla centrale.
Seduto su uno dei blocchi di cemento che fungevano da paracarro, la schiena curva e gli avambracci mollemente posati sulle cosce, la tuta da eroe aperta fin sotto lo sterno: si stava godendo la brezza che arrivava dal mare, tiepida, che trasportava odore di salsedine e di polvere da sparo e che gli smuoveva i capelli con leggerezza.

Chiuse gli occhi e alzò il volto al cielo. Era pervaso di una piacevole calma, il cuore gonfio di qualcosa di molto simile alla felicità, le guance che si scaldavano ogni volta che ripensava a quel debole bacio che aveva ricevuto non molto tempo prima.

E Kacchan era stato scaltro, doveva rendergliene merito: usare quello sciocco espediente dei dieci minuti... Ne sorrise.

Altro che pesce rosso! Quella insignificante cosa, in realtà, era ormai scavata dentro di lui, nello stesso modo in cui si incide la corteccia di un albero con un opinel.

«Deku!».
La voce grossa di Mick gli fece aprire gli occhi, trovandosi di fronte l'omaccione biondo e il suo capitano, vestiti in maniera perfettamente coordinata con delle camicie hawaiane sui toni del blu.

«Ciao ragazzi!».

«Ti unisci a noi?».

«Per?».

«Festaaaa!», esclamò Shiriusu, sbucando da dietro Selkie con le braccia alzate e un sorriso pieno ad illuminarle il volto.

«Abbiamo organizzato una piccola festa pre-partenza sulla nave. Pensavamo di prendere un po' il largo e guardare l'alba. Ci state? Vi va?», chiese Selkie, con lo sguardo rivolto oltre le spalle di Izuku, che si sporse all'indietro, incredulo, a sentire la voce graffiata di Dynamight pronunciare un laconico: «Va bene.».

«Ma... Ma non sei stanco? È mezzanotte passata! Riesci a resistere fino all'alba?», e vide Kacchan fare spallucce.

«Sì è giovani una volta sola, giusto? O non mi vuoi tra i piedi?».

Izuku sbattè le palpebre più volte mentre lo guardava indossare i suoi bracciali esplosivi, ricordando il discorso che lui aveva fatto mentre andavano sul molo. «No! Ma che dici? - si rivolse ai tre che aveva di fronte - Ve-veniamo con voi. Così ci salutiamo come si deve!».

«Frena Deku. - lo oltrepassò Katsuki - Io devo passare per casa a darmi una sistemata. Tu fai un po' come ti pare...».

Izuku lo osservò allontanarsi e si mise a seguirlo, parlando ai tre che lo stavano guardando, interdetti.

«Vado anche io a sistemarmi! - alzò una mano per salutarli - Ci-ci vediamo più tardi!».
 

Cinquanta minuti dopo, in caffè doppio per Katsuki, entrambi puliti e cambiati, erano già di fronte alla passerella d'imbarco della Oki Mariner.

Mentre attraversavano la stretta fascia di metallo transennata per poter salire sulla nave, Izuku stava ancora cercando di capire se la camicia di lino bianca stesse davvero bene infilata nei pantaloni leggeri color écru provando a guardarsi da ogni angolazione possibile, tentando di specchiarsi sulla prima superficie riflettente che trovava. Era stato preso da una strana, stupida agitazione, tanto che, lungo tutto il tragitto verso casa e poi mentre andavano in direzione del porto, aveva più volte domandato a Kacchan se quella serata "fuori dagli schemi" gli andasse davvero bene, tanto da spazientirlo fino a farsi zittire con una bestemmia.

«Su chi devi fare colpo, ah?», gli chiese Kacchan senza neppure voltarsi, mentre saliva piano la ripida scala di metallo che collegava l'imbarco al ponte superiore, da dove si sentiva arrivare della musica ritmata.

Izuku avrebbe voluto rispondergli con un semplice "su di te", ma si limitò a dire: «Nessuno. È che non usciamo mai e volevo vestirmi bene...».

Lo udí grugnire, proseguendo con la sua avanzata, un gradino alla volta dietro il biondo, che aveva optato per un pantalone leggero nero, una t-shirt aderente del medesimo colore e delle vecchie Vans in tinta.

Opposti. Anche in quello.
Il chiaro e lo scuro.
Lo Ying e lo Yang, che si toccano, ma non si fondono. Mai.

«Guarda che puoi uscire la sera. Non hai quindici anni.».

«Sai che gusto uscire da soli in una città dove non c'è un cazzo da fare!».

Katsuki si voltò un attimo a guardarlo raggiungerlo sul ponte quattro, dove la musica era più forte e un paio di marinai erano fuori dalla mensa per fumare.
«C'è un karaoke. E un pub. Un paio di locali dove fanno musica e drinks. Basta che fai un giro e guardi, stupido Deku.».

Izuku alzó un sopracciglio, masticando con più forza la chewing-gum che teneva in bocca per scaricare quella assurda e inutile agitazione.
«E con chi andrei scusa? Uscire da solo? Nah, grazie.».

Il biondo era già con una mano sulla porta della mensa quando si voltò di nuovo verso di lui, assottigliando gli occhi: «Se smani così tanto per uscire di sera ti posso accompagnare io.».

Cosa?
Izuku sbattè le palpebre cercando di limitare il proprio stupore, ma quelle parole l'avevano colpito come uno schiaffo, come se qualcuno l'avesse preso per le spalle e l'avesse scrollato con forza.

«Beh?».

Izuku scosse la testa: «Sul serio? Nonno Bakugō mi accompagnerebbe?», gli sorrise, gli occhi ridotti a fessura e il tono canzonatorio nella voce.

«Ah! Fanculo Deku!», e Katsuki spinse la porta per entrare in quella che, ai suoi occhi, era la rappresentazione in terra di una bolgia infernale.

Deku gli mise una mano tra le scapole, provocandogli un brivido strano, e lo costrinse ad entrare nella stanza, dove l'equipaggio stava brindando, i bicchieri e le bottiglie sollevate e risate che riempivano la stanza di un'aria di festa che sembrava contagiare chiunque varcasse quella porta.

«Bakugō! - lo chiamò Selkie, il muso già arrossato dall'alcol - Allora sei davvero venuto, vecchio brontolone! Bravo che te lo sei trascinato dietro, Midoriya!».

«Ehm... Veramente è stata un'idea sua...», farfugliò, indicando Kacchan che, stranamente, non s'era incazzato per essere stato apostrofato come un brontolone (cosa vera, in realtà), ma che gli era passato di fianco e gli aveva dato un lieve pugno sul braccio, dirigendosi direttamente verso il tavolino delle bevande.

Strano.
Kacchan era strano.
Strano, perché gli aveva dimostrato affetto in maniera inaspettata.
Strano, perché aveva acconsentito a partecipare ad una festa fino all'alba.
Strano, perché era troppo calmo e rilassato e non rispondeva a tono come il suo solito.

Mentre lo raggiungeva per prendersi da bere a sua volta, lo udí chiedere al marinaio che riforniva le scorte due bottigliette d'acqua.
«Oh, grazie. Ma io volevo una birra.».

Katsuki alzó un sopracciglio, squadrando il ragazzo al suo fianco: «E prenditela. Queste due sono per me!», e si allontanò in direzione di Mick che lo stava chiamando.

Sì: Kacchan era fin troppo strano!

Appena aperta la sua agognata birra e bevuto il primo sorso, sentì qualcuno appendersi al suo braccio sinistro.

«Ehi!».

«Già affondi i dispiaceri nell'alcol, 'kero?».

Mugugnò, osservando prima la bottiglia e poi Kacchan, che continuava a bere piccoli sorsi dalla prima bottiglia d'acqua, parlando con calma con Mick e con un altro marinaio.

«Non dispiaceri, solo... Pensieri.».

Tsuyu lo osservava, spostando poi gli occhi sul biondino prima di riportare l'attenzione sul suo amico.
«Vuoi...?», e Izuku se la ancorò al braccio e la trascinò di peso ad un tavolo un po' defilato.

«É tutta oggi che Kacchan è strano e tu ne sai qualcosa!», la additò, sedendosi di peso sulla panca, scomoda e troppo stretta per uno della sua stazza.

Tsuyu prese posto di fronte a lui: «Beccata!», e gli rubó la birra, bevendone un lungo sorso senza che lui protestasse.

«La scenetta a cena...».

«La scenetta a cena.», ripeté lei.

«È opera tua?».

Mise l'indice sul mento e finse di pensarci un po' su, prima di esporsi: «In realtà no. O, meglio, io ho solo detto cosa avrebbe potuto fare. Lui ha fatto a modo suo.».

«È stato imbarazzante.».

«Il termine corretto è cringe. Per uno come lui quel comportamento è cringe.».

Izuku prese un sorso di birra, affilando lo sguardo: «E il discorso di oggi pomeriggio? Perché è venuto da te?».

«Per sfogarsi. Aveva bisogno di una mano e io gliel'ho data.».

«Una mano?». Tsuyu annuì.

«Solo una mano?», e Tsuyu fece spallucce, prendendo la birra di Izuku e bevendone un piccolo sorso, guardando l'amico dritto in quei suoi occhi verdi che si stavano spalancando sempre di più. «COSA?».

Quel ragazzo non era stupido e Baku-chan di sicuro non aveva seguito l'ultimo consiglio che gli aveva dato.

«Senti... Da qualcuno doveva pur andare no?».

«Ma c'ero letteralmente io! Perché venire da te?», piagnucolò.

«'kero... Alle volte mi chiedo se ti sia davvero così intelligente...».

Il ragazzo smorzò quel sarcasmo con un gesto della mano: «Sì, beh... Ma scusa... Ma non sei dichiaratamente lesbica?».

«E quindi? Un dildo é sempre un dildo, 'kero. - lo osservò sgranare i suoi occhioni verdi - Oh! Tu volevi la risposta politically correct?».

«Diosanto!».

La ragazza ridacchiò, buttando indietro il collo e finendo con un paio di sorsate la bottiglia di birra.

«E-e-e... Mina?».

«Lo sa. Lo sa. Ti risparmio le battute che ha fatto.».

Izuku si accasciò sul tavolo, un mugolio di disperazione soffocato dalle sue stesse braccia.
Tsuyu osservò Baku-chan guardare verso di loro e tornò a guardare Izuku. «Perché tutta questa disperazione, 'kero?».

«Perché sono frustrato! Perché non lo capisco...».

«Cosa c'è da capire?».

«Che sono sicuro che abbia sognato me in un qualche...modo, ecco. - la vide annuire - E viene da te e scopate... E gli consigli di fare cosa? Farmi ingelosire? Perché? Perché se poi fa tutto il carino con me, mi bacia e non si arrabbia con ness-».

«Frena, 'kero! Ti ha baciato?».

«Sulla guancia! Un bacetto innocente sulla guancia...», si affrettò a correggersi, le guance che si scaldavano senza che se ne rendesse conto e Tsuyu che si spalmava una mano sulla faccia.

«Ho a che fare con due bambini, 'kero!», e batté poi entrambi i palmi sul tavolino per alzarsi, spazientita: «Per fortuna che domani salpiamo e non devo più stare appresso ai vostri tira e molla! - roteò gli occhi e fece per allontanarsi - Puoi fare tu la mossa successiva o dobbiamo fare il gioco della bottiglia come al liceo per schiodare la situazione, 'kero?».

Izuku si ricordò di quella serata in camera di Tokoyami in cui aveva baciato Uraraka e tutto fu un po' più chiaro.
«Oh!».

«Eh! Oh un gran cazzo, Izuku. - il tono di lei era duro, spazientito - A flirtare per ottenere quello che vuoi sei tanto bravo, ma con lui? Perché ti blocchi? Oh, andiamo! 'kero!».

«Ma chi...».

«Sempre lui.».

«Dio che pettegolo!».

«No. Dio che idioti!» e si allontanò a passo spedito verso il tavolo degli alcolici, agguantando un'altra birra e sparendo dietro le porte di quella che doveva essere la cucina.

Tsuyu era sempre calma, a volte emotiva, ma mai l'aveva vista tanto alterata e, forse, aveva ragione.
Voltandosi, incrociò lo sguardo di Kacchan, sussultando nel vedere che lui alzava la bottiglietta nella sua direzione, come a simulare un brindisi a distanza. Ricambiò, alzando la bottiglia vuota e accennando un sorriso.

E se Kacchan aveva fatto un primo, insignificante passo, il secondo sarebbe toccato a lui.

•••

Non era nelle sue corde vedere tutta quella spensieratezza in un unico posto. E tutto quell'alcol.

Per lui divertimento voleva dire allenarsi. O starsene in pace a guardare un film o una serie tv. Leggere, magari.
Al massimo uscire con quei quattro svalvolati dei suoi amici, giusto per farli contenti una volta al mese. Un weekend al mese lo passava con loro. Ma solo perché dovevano essere presi a piccole dosi.

Prese il telefono e fece una foto della pista da ballo, inviandola poi sulla chat della Bakusquad, che s'era ritrovata la sera prima in un locale a metà strada tra tutte le loro location di missione.
Lui? Lui era a ore di viaggio da tutti e il suo sabato sera era stato...

Scosse il capo e il messaggio che seguí la fotografia fu un po' un "Che non si dica che non vi penso, stronzi".

E attese invano che qualcuno rispondesse, perché erano le tre del mattino e quei decerebrati avevano di sicuro cambiato i loro turni per trovarsi, per cui stavano di sicuro dormendo tutti e tre.

Mise in tasca il telefono e tornò a guardare fuori dalla finestra della mensa: il mare era scuro e calmo e gli metteva addosso una strana, nostalgica tranquillità.

Non l'avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma avrebbe voluto uscire con i suoi amici. Farsi prendere in giro per essere troppo bacchettone su tante cose, incazzarsi col fulminato per ogni cagata che usciva dalla sua bocca, ascoltare faccia piatta in preda ai suoi deliri da marijuana, dire a Kirishima cosa era successo in quei giorni concitati...

Sospirò a lungo, un piccolo alone di vapore appannò il vetro poco prima che venisse preso per un gomito e trascinato di peso in pista.

«Non di nuovo!», ringhiò a Tsuyu che se la rideva e lo tirava così in mezzo alle altre persone che qualcuno lo urtò e lo fece sbilanciare.

Il suo naso cozzò contro la schiena salda di Deku, che porcatroia! come facesse a profumare ancora così tanto dopo aver ballato per un'ora e mezza non lo capiva!

Il ragazzo si voltò di scatto lasciando Shiriusu a ballare con i suoi colleghi e sfoderando un sorriso così pieno e luminoso che a Katsuki venne una irrefrenabile voglia di tirare un pizzicotto su quelle guanciotte piene di lentiggini.

Deku alzò una mano e gli chiese, a gesti, se fosse tutto a posto.

Il marinaio che s'era offerto di pensare alla musica (e che aveva una sfrenata passione per le canzoni un po' vecchie e super ritmate!) lasciò sfumare il brano, aumentando il volume della seconda canzone gradualmente, un repeat di un vocale e un beat che ti entrava fin nelle vene e ti costringeva a muoverti anche se non volevi o se eri un totale incapace.

Katsuki si sentì afferrare per i fianchi, per voltarsi e vedere Tsuyu obbligarlo con le mani ad ancheggiare.

Si chinò su di lei, liberandosi dalla sua presa e raggiungendo il suo orecchio: «Che cazzo stai combinando?», le urló per sovrastare la musica.

«Fai vedere anche a lui come ti muovi, 'kero!» e gli diede un colpetto sulla guancia, prima di sfilarlo e raggiungere Toru, che ballava dietro la schiena di Deku, passandogli le mani sul petto fino alla vita, seguendo l'ondeggio dei fianchi al ritmo delle parole della canzone.

Katsuki non aveva bevuto un goccio di alcol, ma avrebbe voluto.
Così magari avrebbe dimenticato quella scena.
Oppure ne avrebbe preso parte senza troppi indugi.

Perché quello stronzo sapeva muoversi fin troppo bene!

E sembrava volerlo sfidare, mentre gli sorrideva, sollevando le spalle, piccole mosse rivolte verso di lui per spronarlo a ballare, a lasciarsi trasportare.

«Datti tregua.», arrivò a pronunciare vicino al suo orecchio mentre la musica cambiava di nuovo e veniva trascinato da Deku per un braccio, più vicino, nella calca, fianco contro fianco, le ragazze che danzavano loro davanti,
Selkie, già brillo da un pezzo, che gli aveva messo un braccio attorno al collo e lo sospingeva involontariamente contro il petto saldo di Deku, costringendolo a inspirare a fondo, a chiudere gli occhi e lasciarsi andare a un ritmo più incalzante, in quella mensa che, in mezzo al silenzio del mare, sembrava essere la brutta copia di una piccola discoteca.

La schiena di Izuku era poggiata su quella di Katsuki, uno che seguiva il ritmo dell'altro, il movimento dei fianchi sincronizzato e piccole occhiate fugaci tra i due, condite da un sorrisino compiaciuto di Izuku quando Hagakure si mise a sculettare davanti a un Kacchan fin troppo imbarazzato, piegando il busto, fasciato dalla sua tutina azzurra, e agitando il culo, twerkando spudoratamente mentre Il malcapitato teneva le mani alzate e guardava quello spettacolino fuori programma, prima che la ragazza si tirasse su in fretta e continuasse a strusciarsi su Katsuki spudoratamente, voltandosi verso di lui, le mani sul suo petto che vagavano su tutto il torso, mentre lei si abbassava con calma, non staccandogli gli occhi di dosso, agitando i fianchi fino a piegarsi sulle ginocchia, rimbalzare un po' sui polpacci per poi alzarsi e spalmarsi sul biondino, che non riusciva a fare altro che ondeggiare col bacino per assecondare il ritmo.

D'improvviso si sentì avvolgere da dietro da un paio di braccia decisamente troppo tornite per essere quelle di una delle altre ragazze, che gli passarono in vita, arrivando a tenere in quell'abbraccio anche Hagakure.
Izuku, dietro di lui, continuava a seguire il ritmo, a guidarlo da vicino, così attaccato a lui da inspirare il profumo delicato del suo shampoo.

Non era realmente quello che voleva fare, ma si accontentò.

Alla fine qualcuno gridò qualcosa e si sentì avvolgere da altre braccia, due paia esili come quelle di Tsuyu e di Shiriusu, mentre quel groviglio di corpi e braccia si inspessiva in un abbraccio collettivo con Katsuki al centro, pietrificato, non tanto perché era stato preso alla sprovvista da quel gesto improvviso, quanto perché era schiacciato tra il seno morbido di Hagakure sull'addome e tutto Deku, dietro di lui, che sembrava stringersi di più contro il suo corpo, un ondeggio a ritmo e il fiato caldo del ragazzo sulla nuca che gli provocava brividi ovunque.

Sentì i palmi scaldarsi tanto quanto l'inguine.
Incrociò gli occhi traslucidi di Hagakure e prese un profondo respiro, uno «Scusa.» detto a denti stretti, volgendo lo sguardo al soffitto per evitare ulteriori imbarazzi, anche se, da come lei lo stringeva, non sembrava essere dispiaciuta.

Quell'abbraccio collettivo durò un minuto o poco più, in cui Selkie si mise a piangere e sproloquiare di cameratismo e di quanto fosse orgoglioso della sua ciurma.

Appena ebbe la possibilità di essere più libero, Katsuki sembrò tornare a respirare, scostando bruscamente la povera Toru e uscendo a passo spedito oltre le porte della mensa, mentre il cuore stentava a decelerare i battiti.

Aria. Prendi aria e tutto andrà bene.

Così svoltò a sinistra, percorrendo in fretta una ripida scaletta che portava al ponte superiore e poi più su, sotto l'arco delle antenne e dei comunicatori: il tetto della cabina di comando formava una specie di grossa vasca trapezioidale su cui si sedette di peso.
Si osservò le mani sudate, scuotendole, soffiandoci sopra per raffrescate, passando i palmi sui pantaloni per togliere quel fastidioso velo di sudore che le rendevano tanto pericolose.

Doveva solo calmarsi un po', poi sarebbe sceso di nuovo. Si sarebbe dato di nuovo tregua, avrebbe preso un altro caffè e atteso l'alba, anche se poteva tranquillamente fare un sonnellino lassù.

Probabilmente non avrebbe neppure dovuto acconsentire a tutta quella cosa.
Che idea del cazzo era stata quella festa!

Si portò le mani al volto e soffocò un urlo, tutto il suo corpo si contrasse.

Perché non riusciva a controllarsi? Perché tutti ci riuscivano e lui no? Perché non poteva avere una vita fottutamente normale?

Un altro urlo stretto tra i denti, le dita che premevano sul cuoio capelluto, le ginocchia flesse e i piedi tesi.

«Kacchan?».

Dio no! Non lui di nuovo!

Ringhiò d'insoddisfazione quando lo sentì prendere posto alla sua destra, il ginocchio che toccava la sua coscia.

Izuku s'era seduto a gambe incrociate accanto a lui e lo osservava, tentando di capire che gli fosse preso.
Era stato lui? Aveva fatto il passo più lungo della gamba? Era questo?

«Kacchan? Che hai? Mi stai facendo...».

«Stai zitto, Deku!».

E Izuku rilasciò un lungo sospiro, allungando le gambe e puntellandosi con i palmi sul pavimento dove s'era seduto, la musica che arrivava attutita dai due piani inferiori e una brezza leggera e fresca che gli accarezzava il viso e il torace, passando il leggero tessuto di lino della camicia umida.

Rimase in silenzio accanto all'amico, ad osservare le stelle, così luminose da lasciarlo senza fiato.

Un fruscio accanto a lui gli fece voltare il capo, vedendo Kacchan sciogliere quella sua posizione rigida e quasi rannicchiata e posare prima le braccia sulle ginocchia per poi, irrequieto, imitare Izuku nella posa e alzare il capo verso l'alto, gli occhi chiusi a godersi il fresco di quel refolo di vento sulla pelle.

Inspirò a fondo e assieme al profumo del salso gli arrivò, evanescente, una nota fresca. Come quando camminava su un sentiero di montagna e percepiva, tenue, l'odore della menta selvatica che per sbaglio aveva calpestato.

Inclinò il capo a destra, grattandosi la guancia contro la spalla, inspirando ancora, capendo che quell'aroma fresco proveniva da Deku.
La sua mente fece una strana associazione di idee e le sue labbra si mossero quasi senza volerlo davvero.

«Ti ricordi il diploma?».

«La cerimonia? Quella fatta in onore di All Might?». Katsuki scosse il capo, aprendo gli occhi e fissando il cielo stellato.

«No. Quella che abbiamo fatto anche se il tempo era incerto.».

«Ah! Quella all'aperto e senza genitori! Sì, la ricordo bene. Ha diluviato quel giorno... Siamo fuggiti tutti...», e chinò il capo, una punta di amarezza nella voce.
«Quel giorno... - tentennò - Quel giorno mi sono dato tregua. Come oggi.».

Izuku lo guardò: il volto era sereno, quasi sorridente, per gli standard di Kacchan.
«Sono rimasto sotto la pioggia battente.».

«Lo so. Ti ho visto. Non ho mai capito perché l'avessi fatto. Tu hai sempre odiato la pioggia!».

Katsuki voltò il capo e osservò Izuku negli occhi: «Non sempre.», e tornò a guardare il mare calmo e scuro su cui la luna che calava si specchiava in splendidi riflessi, numerosi come le piccole increspature della superficie.

«Ero rimasto lì... - fece una lunga pausa, come a cercare parole nel marasma che ribolliva nella sua testa e nel petto - Sai quando si dice che il tempo che passa a volte non lascia niente?».
Izuku si limitò a un mugugno breve, guardando il mare, con l'orecchio teso ad ascoltare l'amico.

«Non è vero. In quel momento avevo capito che non era vero. Anche se non c'era più nessuno oltre a me, su quelle sedie si erano seduti sogni, speranze, dolori e rimpianti. E ho pensato che ci sarebbero volute anche delle sedie vuote, per chi ci aveva lasciato. E il sapere di andarmene da lì, di lasciare quella scuola che mi ha tolto e dato tanto... È stato più forte di me e ho pianto. Ho pianto finché Eijiro non si è seduto di fianco a me e mi ha messo la giacca sulla testa. Lui sapeva e mi ha protetto. Come ha sempre fatto in tutti questi anni. È rimasto in silenzio, alla mia sinistra, a prendersi la pioggia con me. Poi è arrivato Denki, poi Sero.».

Izuku aveva voltato il capo a guardarlo. Non era in lui, evidentemente, o non avrebbe detto correttamente i nomi di tutta la sua compagnia con quella dolcezza nella voce e con l'occhio reso lucido dal ricordo di quella giornata. E ci fu un momento in cui l'amarezza la sentì salirgli per bene dallo stomaco alla gola, allappargli la bocca e fargli pizzicare gli occhi. Perché sapeva che, dopo che era partito, un trattamento di quel tipo avrebbe solo potuto sognarselo...

«In armadio ho ancora la tua giacca. Accanto alla mia.».

Izuku lo guardò dritto negli occhi, perché pure Katsuki s'era girato a fissarlo, con la solita espressione distesa che l'aveva accompagnato per tutto quel discorso.

«Oooh! Non fare quella faccia, nerd. L'ho capito da solo che era la tua!».

Izuku abbozzò un sorriso e tornò a guardare il mare, dritto davanti a sè, dove una tenue luce aranciata iniziava a colorare le nuvole in lontananza. «Ah! Non ti credo. Kirishima deve avertelo detto...».

«Lui non mi ha detto proprio un cazzo, invece. Avrei riconosciuto ovunque quel merdoso profumo di zucchero filato che ti mettevi al liceo!».

«Ehi! Non era profumo, ma bagnoschiuma! E, per la cronaca, me lo aveva regalato Ochaco! Come potevo non usarlo?».

«Dicendole che ti faceva cagare!».

«Ma cosa ne sai tu, scusa?».

E Katsuki rispose solo con un sibilo basso, prima di parlare di nuovo: «Quello che usi adesso è meglio.», borbottò.

«Cosa?».

«Cosa?».
E Izuku sorrise di quella sua uscita fuori luogo e senza filtro, che gli ricordava tanto le battute che si scambiavano appena iniziata la loro convivenza forzata.

«Mi è venuto spontaneo dargliela quando ho visto che ti stava raggiungendo.».

«Potevi darmela tu stesso.».

«Eh?».

Si guardarono di nuovo.
«Perché non sei venuto tu a portarmi la giacca?».

Izuku tentennò: «Perché già venendo lui e-».

«Balle!».

I suoi occhi lo incatenavano. L'avevano sempre fatto.
Quello era il potere che aveva su di lui: bastava uno sguardo e smetteva di parlare.

Poi lo vide abbassare di poco il capo prima di guardarlo nuovamente negli occhi: «Perché non l'hai portata tu e non ti sei seduto accanto a me?».

«Avevo paura che mi mandassi via.», sussurrò.

«Ma mi sembrava di averti dato prova di essere un po' cambiato, no?».
Il tono era calmo, come quando si parla ad un bambino che ha fatto una marachella di poco conto e non lo si vuole far piangere. «Non ti avrei sgridato. Neppure mandato via. - fece una pausa - Tra tutti, mi sarebbe piaciuto che ci fossi tu, accanto a me.».

Come stasera, avrebbe voluto aggiungere, ma serrò le labbra e lo scrutò in volto, vedendo i suoi occhi aprirsi di più per l'incredulità di quelle parole.

O forse era il modo che aveva per leggergli nella mente, perché venne sbilanciato dallo slancio che Deku si diede per buttargli le braccia al collo e tenerlo stretto in un abbraccio impacciato e tenero.

«Oh, Kacchan...», gli sussurrò contro il collo, provocandogli un brivido lungo le braccia, che s'erano mosse con calma, a cingergli il torso, le mani che si muovevano in su e in giù come una carezza, lenta e misurata.

Faceva caldo, ma lui in quella stretta muscolosa ci stava bene.
Anche negli abbracci di Eijiro stava bene, ma era... Diverso, ecco.

Si sentiva compresso, tra il pavimento e il corpo di Deku, gli batteva all'impazzata il cuore e gli mancava il respiro, ma non come prima, non come durante il ballo.
Lì stava bene e si sentiva tranquillo, un po' contrariato quando lui si scostò, sfiorandogli la guancia destra con la propria, una specie di coccola durata troppo poco, quando invece avrebbe voluto sentire ancora quella carne morbida contro la propria, ad alleviare il fastidio di quella cicatrice che non aveva mai voluto far togliere.

Si ritrovò quegli occhi verdi e grandigrandi a un palmo dal naso, un'espressione dolce e liquida che non riusciva a interpretare e un istinto irrefrenabile di alzare da terra la testa e avvicinarsi.

Incontrarsi a metà strada, come mai erano riusciti a fare.
Bastavano cinque centimetri a testa, e forse...

«Izuku...», parve soffiargli contro un respiro trattenuto, la voce indebolita da troppe cose.
E a Izuku non parve vero sentire di nuovo, dopo tutto quel tempo, il suo nome pronunciato con una dolcezza tale da farlo sciogliere, o da renderlo leggero come una piuma.

Cinque centimetri a testa.
O quattro.
O tre.

«Ah! Qui siete!».

Una piccola esplosione sulla faccia fece fluttuare Izuku distante da Katsuki, che si stava mettendo a sedere con velocità fulminea. Il vocione di Selkie li aveva interrotti poco prima che la sua facciona da foca spuntasse oltre il parapetto. Da come biascicava per l'alcol, probabilmente non si era reso conto di nulla: «Venite giù che siamo tutti pronti per il brindisi all'alba!».

Katsuki si alzó come una furia, sistemando la maglietta e dando una pulita ai pantaloni, prima di scendere di due ponti, tentando di ricomporsi, invano.

Dietro di lui, Deku tentava di pulirsi la faccia dalla fuliggine con un fazzoletto.

«Perché Izuku sta fluttuando?», chiese Hagakure, inclinandosi di poco verso Tsuyu, entrambe con i bicchieri pieni di spumante, appoggiate con il sedere alla ringhiera di babordo, quella che dava proprio verso la ripida scala da cui il biondo stava scendendo.

Tsuyu accennò un sorriso all'amica, indicando Katsuki con un cenno del capo: «Credo sia per lo stesso motivo per cui Baku-chan è rosso fino alla punta delle orecchie!».
 

Si spengon le luci rimaniamo noi
Che cosa avremmo fatto se non ci fossimo incontrati qui
Seduti per terra a pensare che poi
Alcune strade si dividono e chissà dove vanno
~ Eugenio in Via di Gioia ~

 

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Capitolo 14
*** I hate that it seems I am never enough ***


I hate that it seems I am never enough


 
Scegli.
La confortante normalità del ciclamino 
o la verticalità provocatrice del girasole?
~ Fabrizio Caramagna ~
 
1 luglio 
 
L’alba era stata bella.
Ne aveva viste di migliori, certo. Ma quella era bella. E calda.
Ma non per il calore dei raggi del sole sulla pelle, o per i corpi stretti accanto a lui che silenziosamente ammiravano quello spettacolo.
Era stata bella perché lui l’aveva vista riflessa nel profilo affilato di Kacchan.
Aveva visto i suoi capelli tingersi quasi di un rosa aranciato, la stessa tonalità che gli colorava le guance e, Dio!, quegli occhi sembravano rubini scintillanti!
Era rimasto curvato sul parapetto, con la testa tra le braccia un po’ incrociate e un po’ a penzoloni oltre il bordo, dondolando un piede per il nervoso, mentre il suo sguardo vagava dalla lieve foschia giallastra sul mare calmo a quel ragazzo, defilato da tutti che si godeva l’alba in santa pace.
Era come se la sua ossessione per lui fosse tornata fuori tutta in una volta, prepotente come un pugno in pieno viso, come quando erano piccoli e lui non vedeva nessuno, oltre a Kacchan.
La sua serenità, il suo aprirsi dopo giorni di mutismo selettivo, di cattiverie dette tra urla e scossoni: quelle erano state le micce che avevano fatto esplodere di nuovo tutto.
Non era stata quella stupida sfida con se stesso, quella voglia pettegola di sapere perché lui non…
No, ok: quello l’avrebbe scoperto lo stesso, ma non era più un obiettivo fine a se stesso!
L’aveva baciato e s’era lasciato abbracciare!
E se Selkie non li avesse interrotti…
Aveva affondato di più il viso nelle braccia e, se anche Tsuyu se ne fosse accorta non gli importava.
Tanto lei aveva ragione: erano solo due bambini troppi cresciuti che fanno un passo verso l’altro e poi corrono all’indietro per cento metri e si allontanano di nuovo.
Ma lui non voleva allontanarsi di nuovo! Voleva rincorrerlo stavolta. Rincorrerlo e buttarlo a terra e dirgli che scappare non vale, scappare non serve a nulla, che lo sapeva, che ci aveva provato e aveva fallito miseramente.
Perché ovunque andasse, qualcosa gli rammentava sempre lui.
Durante la navigata di rientro lui e Kacchan s’erano tenuti distanti e l’aveva visto con la testa ciondolante, seduto mezzo appisolato su una cassa di munizioni sotto una mitragliera a prua.
Gli aveva fatto tenerezza, perché aveva trovato un punto non di passaggio, in cui nessuno l’avrebbe disturbato. Ma ogni volta che ripensava a quel contatto mancato, Izuku si ritrovava a fluttuare a una ventina di centimetri da terra.
Gliel’aveva fatto notare uno dei marinai, prima che pure il ragazzo se ne rendesse conto.
E, a ripensarci, anche durante i fuochi gli era capitato…
Così, fluttuando più in alto, l’aveva trovato e svegliato con calma, solo per avvisarlo che erano approdati.
S’era pure offerto per portarlo in volo fino a casa, dato che non riusciva a reggersi in piedi dal sonno.
La risposta? «Non violare il regolamento.».
Nessuna imprecazione colorita, nessun insulto, solo la presa salda sul braccio di Izuku durante tutto il tragitto dal molo alla loro abitazione.
Venti minuti di imbarazzante silenzio, in cui Izuku se lo trascinava appresso senza sforzo, un mezzo sorriso sulle labbra e un borbottio nella sua testa, in cui veniva imbastito un discorso senza senso che mai gli avrebbe fatto, ipotizzando ogni mossa, ogni risposta che l’altro avesse potuto dargli.
Così erano arrivati a casa, fin troppo in fretta a detta di Kacchan, che stentava a reggersi in piedi, come se avesse bevuto mezzo open bar.
In realtà era solo ubriaco di sonno.
Izuku lo aiutò a togliersi le scarpe da ginnastica, dandogli piccoli colpi per guidarlo verso il divano, dove le lenzuola erano ancora sfatte dalla sera precedente.
«Sicuro di dormire qui?», si preoccupò, ricevendo solo un’occhiataccia e un mugugno come risposta. «Dico… Potresti tornare a dormire sul tuo letto, come tutte le persone normali.».
«Non avevamo litigato?», biascicò il biondo, stropicciandosi gli occhi prima di osservarlo, come fanno i bambini che non riescono più a resistere e stanno per crollare addormentati.
«Sì, Kacchan. Ma abbiamo anche fatto pace, credo. - si chinò e si scrutarono - Sei così strano oggi che non riesco a capirti.».
«Parlo strano?».
«No. - gli sorrise - Sei strano. Ma va bene, dai. Mi piaci quando sei strano.».
«Ti piaccio?», biascicò ancora, ciondolando appena, cercando di agguantare le coperte e appallottolarle, ma ci si era seduto sopra ed era esilarante vedere la sua frustrazione.
«Sì. Da un po’. Forse da sempre in realtà.», confessò candidamente Izuku, consapevole che, in quello stato, l’elettroencefalogramma di Kacchan era praticamente piatto e non si sarebbe ricordato nulla al suo risveglio.
«Anche tu.», e quella frase si concluse con il tonfo della testa di Kacchan sul cuscino del divano, il corpo tutto accasciato di lato e il respiro pesante.
Izuku ignorò quelle parole. Troppo stanco anche lui per dare peso a ciò che diceva o sentiva o, forse, consapevole che non valessero in quell’occasione: «Nonononono! - lo sollevò di peso per le spalle, riportandolo seduto - Tu qui non dormi! In realtà oggettivamente non riesci a dormire. E sei intrattabile. - stava iniziando a blaterare mentre lo sollevava, agguantava le coperte e lo sospingeva verso la camera - E ti ho comprato un cuscino nuovo, così non ti inquieti!» e lo sedette di peso sul proprio letto, mentre gli strappava di mano le coperte per sistemargli il giaciglio, mentre il biondino era sempre in bilico tra l’accasciarsi di lato e il finire spiaccicato a dormire con la faccia a terra. In entrambi i casi a Kacchan, stanco morto com’era, non gliene sarebbe importato. A Izuku sì.
Una volta terminato, gli si mise di fronte per alzarlo ma un “vestiti”, brontolato a mezza voce, l’aveva bloccato.
«Vestiti? Devo toglierti i vestiti?», e quello annuì con un cupo brontolio.
Non fu l’imbarazzo a fermarlo e a controbattere, ma solo la stanchezza e le energie in esaurimento.
«Ma non puoi dormire così? Per una volta? Una!».
«…por… - uno sbadiglio rumoroso - …co…».
«Non sei sporco Kacchan! Finiscila e andiamo a letto… Ti prego! Non fare il difficile adesso… Sono le otto del mattino e stiamo morendo di sonno tutti e du-».
«…pú…».
«Sì, vabbè, ok. Tu di più! Cristo che pigna nel culo che sei certe volte!», e gli afferrò con poca grazia la maglietta, sollevandola oltre la testa, intrappolandogli le mani nello sfilarla con una risatina, forse perché solo in quel momento si stava rendendo conto dell’equivocabilità di quella situazione.
Ma non doveva pensarci, o sarebbe stato peggio. Molto peggio.
E non aveva voglia di farsi una sega dopo che era stato in piedi da più di un giorno, non stop e con l’alto rischio di addormentarsi nel farsela!
Scosse la testa ancora una volta, gettando la maglietta a terra, verso la finestra, afferrando Kacchan per le spalle per evitare di farlo schiantare al suolo per l’ennesima volta, spingendogli la schiena contro il muro, unica superficie che lo poteva sostenere mentre provava a slacciargli i pantaloni.
«Ma guarda te che…», borbottò sempre a testa bassa, mentre tentava di far scorrere il tessuto leggero dei pantaloni neri oltre i fianchi, oltre il sedere e lungo le cosce, con un’imprecazione stretta tra i denti nel cercare di non trascinarsi dietro quei cazzo di boxer neri. Se pure quell’ultima barriera di tessuto si fosse staccato dalla pelle eburnea di Kacchan, lui sarebbe capitolato.
Quanto poteva essere debole la volontà umana? Quella di Izuku in quel momento era come un orsetto gommoso gigante con la gelatina che tremolava ad ogni passo, pronto a crollare su se stesso.
Per fortuna (o purtroppo, dipende tutto dal punto di vista) riuscì a togliergli i pantaloni senza ulteriori imbarazzi, passando poi ai calzini, tirandosi in piedi a osservarlo respirare lievemente, gli occhi mezzi chiusi che sfarfallarono lenti verso di lui. Forse non lo stava neppure guardando, ma poco importava, mentre si sbottonava la camicia di lino e la appendeva alla maniglia della porta.
Quei tre giorni di festa erano stati lunghi, assurdi e gli avevano rimestato i sentimenti nel petto. E non sapeva bene se fosse effetto delle birre, del vino o del ragazzo che giaceva scomposto e seminudo sul suo letto, ma la pelle sembrò sfrigolare sulle braccia, piccoli brividi che gli suggerivano, subdoli, di prende Kacchan, stringerselo contro come aveva fatto quella sera in un moto di tenerezza, affetto e riconoscenza, tutti shakerati assieme come un cocktail troppo dolce e dissetante.
Si posizionò tra le sue gambe aperte e gli prese con delicatezza le mani, salendo col tocco lungo i polsi, afferrandogli i gomiti per staccarlo dalla parete.
«Dai scemo… Questo non è il tuo letto.», e se lo tirò contro, la guancia di Kacchan premuta sulla propria spalla, mentre gli passava le braccia sotto le scelte e faceva forza sulle gambe per sollevarlo di peso, caricandomelo addosso, inerme e bollente a contatto con la pelle.
Lo strinse di più, si auto convinse che era solo per non farlo cadere, ma la realtà era un’altra.
Le dita premevano sulla sua schiena e gli sentì muovere la testa, strisciare la guancia contro il pettorale e s’irrigidì a quel gesto.
Erano appiccicosi di quel velo fastidioso di sudore dato dall’afa che sembrava fungere da adesivo, altrimenti non si spiegava quel contatto prolungato e quel cullarlo improvviso, registrando il movimento nella sua testa solo dopo un paio di minuti buoni.
Un timido raggio di sole stava giungendo dalla finestra e bastó quel tenue bagliore a scuoterlo.
Mezza piroetta e un passo avanti dopo, depose Kacchan sul suo letto, aiutandolo a stendersi, coprendolo dolcemente col lenzuolo, prima di osservarlo rannicchiarsi, abbracciato al cuscino.
Un sospiro.
Un altro.
Poi decise di togliersi i pantaloni chiari, abbandonandoli a terra prima di sedersi sul letto ad osservare per l’ultima volta il ragazzo biondo che ora si voltava, dandogli la schiena. Per l’ennesima volta.
Inspirò a fondo mentre chiudeva gli occhi e l’ultimo pensiero andava a Kacchan.
Quanti ultimi pensieri erano andati a lui nell’ultimo periodo?
Provò a contarli, ma finì solo con l’addormentarsi più in fretta.
 
 
•••
 
 
Katsuki si svegliò con calma, strusciando il viso sul cuscino che profumava di pulito in una maniera così piacevole da immaginare di essere disteso nel sottobosco, l’aria fresca della montagna che portava l’aroma delicato del ciclamino.
All’ennesimo piccolo mugolio di soddisfazione, decise di muoversi, di stiracchiarsi con calma, abbracciando ancora il cuscino mentre si trascinava all’indietro, piegato sulle ginocchia, sporgendo il sedere e allungando la schiena il più possibile.
Udì un rumore sommesso, senza fiato, un grugnito di insoddisfazione.
Si fermò di colpo, spalancando gli occhi e guardando il corpo che occupava il letto accanto alla porta, illuminato dal sole che filtrava dalla tenda della finestra.
Disteso a pancia in su, Deku dormiva ancora, anche se la luce inondava in pieno il suo letto, il lenzuolo gettato allentato sopra la vita. Il pulviscolo in controluce sembrava avvolgerlo di minuscole particelle luminose.
Si mise seduto sui talloni, il cuscino ancora stretto tra le braccia e la testa rivolta verso Deku, lo sguardo ipnoticamente catturato dalla sua espressione tranquilla. Come faceva a dormire sempre così? Pure col sole che lo scaldava… Come faceva a essere così maledettamente tranquillo?
Abbandonò il cuscino sul materasso, scendendo dal letto con calma, spostandosi a sinistra e poi in avanti, e fissò il suo corpo, la curvatura del suo petto che si alzava e si abbassava ad ogni respiro, un leggerissimo luccichio di sudore sulla sua pelle abbronzata; la delicata spolverata di lentiggini sulle spalle ora sembrava essere più definita e scura contro la pelle che aveva preso colore. I suoi riccioli verdi prendevano le sfumature brillanti dello smeraldo sotto i raggi del sole. La stessa sfumatura di colore anche sulle lunghe ciglia che si muovevano in maniera quasi impercettibile, seguendo forse il filo di un sogno che continuava a fargli emettere mugolii dalle labbra socchiuse.
Katsuki si ritrovò a contrarre le mani lungo i fianchi per trattenere il desiderio di allungarsi e toccarlo e sentire quanto era calda la sua pelle.
Non s’era mai concesso di guardarlo tanto a lungo e, di certo non mentre era calmo e pacifico nel sonno, perché era lui che lo svegliava in malo modo la mattina.
Gli passò per la testa che si fosse perso a fare una cosa troppo inquietante e che avrebbe dovuto tirargli una cuscinata in faccia e svegliarlo. Ma non ci riuscì.
Così andò a passo svelto in bagno, a lavarsi la faccia appiccicosa di sonno e sudore.
Tornò in camera e indossò la sua divisa da corsa, continuando a guardarsi alle spalle per vedere il ragazzo che stava ancora dormendo.
Era perfetto nel sonno, sembrava a suo agio. Sembrava completamente contento, con le labbra rosee e leggermente lucide per la saliva. C'era del rosa anche tra le lentiggini sulle sue guance.
Avrebbe potuto sfiorargliele, quelle guance, leggermente, senza svegliarlo.
Avrebbe potuto accarezzargli la pelle con un dito, magari sfiorargli il labbro con il pollice.
Il ricordo prepotente di quel bacio mancato, poche ore prima, gli irrigidì le spalle e gli fece andare a fuoco le orecchie.
Strisciò in avanti, attento a non fare rumore mentre muoveva i piedi sul legno, per non far scricchiolare nulla e allungò la mano prima di potersi fermare.
L’istinto, il bisogno di toccarlo si fece insopportabile.
La mente sembrava immersa in una bolla, col cuore che pulsava nel petto e sembrava suggerirgli che non ci sarebbero state ripercussioni per quello che voleva fare, perché Izuku era beatamente inconsapevole e senza pretese.
Deglutì, combattuto con se stesso, perché il corpo continuava a disobbedirgli, portandolo ad infilare due dita sotto il bordo del lenzuolo per scostarlo, tirarlo indietro.
Il ragazzo addormentato nel letto non si mosse nemmeno nel sonno, ancora completamente addormentato mentre il lenzuolo veniva staccato dalle sue cosce, mettendolo da parte per avere uno sguardo perfetto sulle sue gambe. La pelle abbronzata della curva delle cosce spiccava sul rosso del tessuto e, anche se scomposto, Katsuki lo fissava, con le labbra dischiuse e le guance arrossate dalla vergogna e dall’imbarazzo per aver indugiato con lo sguardo sui suoi slip grigi.
Si stropicciò il volto con le mani: «Cazzo…», sussurrò, alzando di nuovo lo sguardo verso il viso di Izuku, e si sporse leggermente in avanti, cercando di guardarlo meglio in faccia. I suoi lineamenti erano completamente rilassati, e rimasero tali anche quando Katsuki gli mise la mano sul petto, dapprima sfiorando con le dita la pelle umida per appoggiarvi poi il palmo piatto, premendo per sentire l’eco del proprio cuore battere in asincrono col suo.
Chiuse gli occhi ed emise un sospiro sollevato. Non aveva temuto neppure per un momento che non fosse vivo, ma quel gesto sembrò comunque rassicurarlo, come se fosse la conferma ultima che Deku era lì, davanti a lui, e non era più uno scherzo della sua testa.
S’erano presi a schiaffi e abbracciati, ma fu quel contatto a farlo rendere conto che Izuku fosse di nuovo lì, a casa.
Un brusco respiro, seguito da un gemito silenzioso, gli fece staccare la mano all’improvviso, come se quella pelle fosse fuoco, mentre il ragazzo si muoveva sul letto, arcuando il collo contro il cuscino, trovando una posizione più comoda della precedente.
Basta.
Doveva smetterla e andare a correre, perché erano le due del pomeriggio e aveva già mandato a puttane la sua routine giornaliera!
Ma più la sua testa dava ordini, più il suo corpo disobbediva, subdolo, mentre brividi leggeri gli danzavano sulla pelle delle braccia.
La mascella di Izuku era ancora allentata, le palpebre restavano chiuse, la testa inclinata di lato sul cuscino, e Katsuki proprio non poteva resistere, allungando ancora una mano, uno sfiorare leggero sullo sterno, per poi muovere i polpastrelli in una carezza dolce sulla pancia, spingendo con le dita nei suoi addominali rilassati, scorrendo i polpastrelli verso il basso, oltre l’ombelico, ingoiando un gemito sommesso non appena incontrò l’elastico delle mutande e qualcosa di umido bagnargli i polpastrelli.
La stoffa grigia era così tesa che uno spazio si era allargato tra lo slip e il suo pube.
Il pensiero di ciò che gli aveva detto di fare Tsuyu gli fece scaldare le guance e le mani più del dovuto, tanto che portò velocemente i palmi sulle proprie cosce, asciugando il sudore sui pantaloncini e scuotendo le mani per evitare spiacevoli incidenti.
Vide Izuku muovere le gambe nel sonno, con le cosce più divaricate e fu per lui una stilettata diretta al centro del petto, tanto da abbassare la testa e mordersi ferocemente il labbro inferiore per trovare una valvola di sfogo a tutta quella frustrazione.
Perché non voleva ammettere a se stesso che quella poteva essere l’occasione giusta, anche se si sentiva alla stregua di un pervertito.
Udì il respiro di Izuku farsi affannoso per un momento, finché un dolce, lieve gemito uscì dal basso della sua gola, la testa premuta appena sul cuscino e il sedere che si strusciava di poco sul materasso per sistemarsi; non si era girato e l’espressione sul suo viso era cambiata a malapena, corrucciando solo le sopracciglia.
Katsuki non riusciva a sopportare la vista di quel ragazzo che, l’aveva capito solo in quel momento, stava sognando qualcosa di decisamente inopportuno.
Ed era proprio lì, aperto e disinvolto sotto i suoi occhi. Ed eccitato anche se non era nemmeno maledettamente sveglio!
Dio! Ma come cazzo fa?
Strinse gli occhi, per invidia e per tentare di recuperare se stesso e la propria erezione che spingeva per essere liberata, stringendo i pugni ai lati del corpo per ricercare un contegno che aveva perso.
E sapeva esattamente anche dove e quando l’aveva perso (circa un giorno prima, in una cabina minuscola su una nave di merda).
Scivolò un po’ più avanti sulle assi di legno, attento a non produrre alcun suono mentre si sporgeva verso di lui, il fiato trattenuto e gli occhi spalancati per controllare che non si svegliasse proprio in quel momento.
Premette le labbra sullo zigomo del ragazzo, che emise un mugolio e mosse il busto, sprofondando di più nel materasso.
Le guance di Katsuki erano in fiamme e, probabilmente, sarebbe morto per autocombustione spontanea se Izuku avesse emesso un altro verso del genere.
Aveva capito che i gemiti gli piacevano, non solo sentire i propri, che ovattavano tutto il resto, ma soprattutto quelli degli altri.
E la voce di Izuku sembrava premere il tasto giusto, produrre la nota perfetta per farlo sudare freddo e fargli finire il cuore nello stomaco.
Deglutì e si umettò le labbra, prima di premerle su quelle di Deku, una punta di disperazione nel respiro a sentirlo rispondere a quel tocco, sporgendo le labbra morbide ad accompagnare quel tocco.
Si scostò in fretta, temendo di essere stato colto in flagranza di reato, senza alcuna possibilità di appello. Ma il ragazzo sembrava solo alla ricerca di aria.
Uno solo ancora.
Si sporse a baciarlo di nuovo e, stavolta, il gemito fu completamente soffocato dalle sue labbra, mentre Izuku inarcava la schiena per andargli incontro, premendo la bocca sulla sua, respirando la sua stessa aria.
Piccoli baci, uno dietro l’altro, le labbra appena separate, inumidite solo con le punte delle lingue che si sfioravano e le orecchie di Katsuki riempite di gemiti che gli regalavano fitte al basso ventre e troppo calore alle mani e al collo.
Si staccò in fretta, gli occhi sbarrati a sentirlo mugolare e sistemarsi sul letto con calma. Il rumore che era uscito da lui era come un fottuto cigolio, e il suo viso addormentato era tornato disteso, la pace scritta dipinta su quelle guance arrossate e le labbra tumide.
Katsuki si coprì la bocca con la mano
Si vergognava come un ladro per ciò che aveva fatto.
Un ladro di baci.
Ma lo voleva. Dio! Ogni fottutissima cellula del suo corpo lo voleva e gli stava dicendo di distendersi accanto a Deku, di rimanere con lui e dormire.
Voleva tanto dormire bene come lui, avere il suo stesso sonno pesante.
Si morse l’interno della guancia mentre passava entrambe le mani prima sul viso e poi in alto, a incastrarsi in quella massa informe di capelli biondi che era ancora più disordinata del solito dopo il risveglio.
Lo osservò dall’alto, le guance che ancora erano tanto calde da poterci cuocere le uova, pensò, e, in un momento di assurda lucidità, il suo cervello gli lanciò un segnale che assomigliava più ad un campanello d’allarme, a una sirena della contraerea, a un megafono puntato sull’orecchio mentre qualcuno strillava forte “abuso”.
A quel pensiero il cuore sembrò fermarsi e si ritrovò a sudare freddo, mentre con mani tremanti prendeva il lenzuolo e lo copriva alla buona, cercando di non dare peso alla macchia scura su quegli slip grigi che Dio solo sa come facciano a tenerglielo!
Uscì dalla stanza e da quella casa con la morte nel cuore e un senso di colpa che gli stringeva lo stomaco e gli faceva pizzicare gli occhi.
Il sole delle due e mezza era impietoso, ma non gli importava, perché avrebbe preferito sciogliersi come burro, piuttosto che pensare di dover affrontare Izuku dopo quello che aveva fatto.
Mentre correva verso la collina del cimitero, si ripromise di dirglielo.
Era suo diritto sapere quanto stronzo era stato!
Eppure, un piccolo tarlo, a destra, appena dietro l’orecchio, chiedeva, fastidioso, alla sua coscienza che senso avesse vergognarsi quando Deku non era nemmeno sveglio per saperlo?
A casa, Izuku si rigirò nel letto, di lato e poi con la pancia sul materasso, abbracciato al cuscino, immergendosi maggiormente nella luce del sole che filtrava dalla finestra e da quella posizione non si mosse più, semplicemente immobile, col respiro pesante e regolare, dando la schiena al muro, continuando a respirare pesantemente.
 
•••
 
Izuku non ricordava l’ultima volta che aveva dormito fino a tardi, forse dalle medie. Che poi, alla fine, aveva riposato quasi sette ore e il fatto che fossero le tre del pomeriggio gli aveva dato la falsa sensazione di essere un lavativo. Ma era il suo giorno libero, giusto? 
Perché allora si sentiva tanto in colpa?
Che c’entrasse quel sogno così maledettamente invitante che aveva fatto e di cui, cazzo!, ricordava a malapena dei flash, delle immagini slegate tra di loro.
Ora, mentre vedeva il pavimento avvicinarsi pericolosamente al naso durante flessioni in salotto, si stava solo dando dell’idiota per essere venuto nel sonno come se fosse uno stupido adolescente senza controllo!
S’era ritrovato con le mutande bagnate e aveva pure dovuto mettere a lavare le lenzuola su cui si era evidentemente strusciato senza un briciolo di coscienza.
Portò il braccio destro dietro la schiena nuda e continuò con un’altra ripetizione da venti push-ups, lo stomaco che iniziava a brontolare per la fame mentre cambiava braccio e ricominciava il conto, focalizzandosi sul respiro e sulle venature del parquet, una musica incalzante in sottofondo nella stanza per darsi un boost di motivazione.
Non sentì il lieve cigolio della porta, neppure Katsuki entrare e fermarsi sulla soglia.
Il ragazzo era rimasto immobile, la schiena contro la porta chiusa e il sacchetto del kombini stretto febbrilmente nella mano sudata.
Non si aspettava di trovarlo sveglio, in realtà: tra loro due era Deku che aveva problemi a svegliarsi e che al mattino era molto più lento e pigro.
Trovarlo a terra, intento a far flessioni, con quei pantaloncini che, impertinenti, gli si erano infilati in mezzo al culo…
Deglutì. La casa era diventata improvvisamente più calda e si ritrovò a sudare, stupendosi di avere ancora liquidi in corpo, vista la temperatura esterna e quella visione all’interno del loro salotto.
«Deku!», pronunciò con voce ferma e una strana calma nel tono.
Izuku, colto alla sprovvista mentre si dava la spinta per cambiare braccio a mezz’aria, lanciò un riletto stridulo, dovuto più alla sorpresa che a una reale paura, perdendo l’equilibrio e finendo con la faccia sul pavimento umido di sudore.
Dopo un primo momento di stordimento, fece forza e si rialzò da terra, mugolando per la botta presa sul naso, mettendosi in ginocchio e maledicendo Kacchan e gli spaventi che gli faceva prendere.
«Ho le chiavi: entro quando mi pare, idiota.».
«Sì ma ero concentrato! Sentì! - si mise una mano sul petto - Mi hai fatto prendere uno spavento…».
Il ragazzo fece schioccare la lingua sul palato, dandogli ancora una volta dell’idiota nel togliersi le scarpe.
Poi, mentre raggiungeva Izuku, piegato a fare dello stretching a terra, Katsuki alzó un sopracciglio, mentre lo sguardo indugiava con insistenza appena sopra il suo fondoschiena, attirato da un segno rosaceo che spuntava dall’elastico dei pantaloncini e saliva su, seguendo la colonna vertebrale per una decina di centimetri o poco più.
«Quella è nuova?».
Il ragazzo di fronte a lui sobbalzò a sentire quella voce graffiata ora tanto vicina. «Cosa?».
«La cicatrice.».
Izuku ridacchiò, tirandosi in piedi agilmente e pulendosi il volto e il collo dal sudore con la maglietta raccattata dal divano: «Ne ho un sacco di nuove!», sembrò vantarsi, visto il tono sprezzante della voce mentre si avviava verso il frigorifero per prendere da bere.
Katsuki fece un profondo respiro e rilassò le spalle prima di raggiungerlo, poggiando la borsa della spesa sul ripiano vuoto accanto ai fornelli.
Aveva detto bene: la pelle di Deku era costellata di cicatrici, più o meno estese (come quella sul suo braccio destro), il cui colore variava di tono a seconda di quanto fossero vecchie o profonde e, talvolta, quelle più piccole e chiare di confondevano con le sue lentiggini.
«Questa, idiota.» e allungò una mano, fino a sfiorare delicatamente con i polpastrelli quel segno sulla sua pelle.
Izuku trasalì a quel contatto e fece un passo di lato per togliersi da quel tocco, che di per sé non era neppure fastidioso, solo… Invadente.
E si sentì un po’ uno stronzo perché l’invadenza era una delle sue peggiori caratteristiche e affibbiare quel pensiero a Kacchan era ingiusto.
Forse sperava solo che lui non se ne accorgesse mai, scioccamente.
«Aah! - si ritrovò a ridacchiare come il suo solito, preda del nervosismo - Questa! Bah… Niente! Ecco, sì. Niente di che!».
Perché ogni volta quello sguardo accigliato riusciva a fargli quell'effetto? Perché con lui si sentiva costantemente sotto esame?
«Mh.».
Un mugugno e un sopracciglio alzato, un ultimo sguardo prima di tornare a togliere i prodotti dalla busta del negozio e riporre le cose in frigo.
Izuku fu svelto ad agguantare la vaschetta di gelato e aprirla, cercando un cucchiaino nel porta-posate.
Kacchan odiava chi parlava con la bocca piena e lui avrebbe potuto evitare domande scomode con quello stratagemma (oltre a mangiare qualcosa, perché stava letteralmente morendo di fame!).
Il primo boccone freddo gli fece chiudere gli occhi ed emettere un mugolio soddisfatto. Quando riaprì gli occhi, Kacchan era poggiato al frigo con una spalla e lo stava guardando, quasi a volergli soppesare ogni pensiero.
«Niente di che? Allora, se è niente di che… Perché non mi racconti che è successo? Cos’è? Top secret come il resto delle tue missioni?».
«Le mie missioni non sono tutte top secret!», sbottò.
«Allora perché non mi racconti? Devi ancora dire nulla sul tuo meraviglioso anno e mezzo all’estero, che ti ha reso così illuminato da avere quel tuo cervello pieno di idee di merda!».
Izuku sbuffò: «Ancora con questa storia?».
Katsuki strinse di più le braccia al petto e, senza mai staccarsi dal frigorifero, continuò a punzecchiarlo: «Ah no? Fammi cambiare idea! Raccontami la tua bellissima esperienza! Parti… - alzò il mento nella sua direzione - Parlami di questa missione che non è niente di che
A Izuku le gambe sembravano di gelatina e pure il gelato sembrava aver perso di gusto dopo qualche boccone.
Perché solo con lui era così? Perché solo con Kacchan si sentiva sempre come un bambino colto in flagrante dopo una marachella?
«Maaa… Niente ti ho detto. È saltato solo un incidente… Una svista!».
«Una svista?».
«Una svista, sì.».
«Una svista bella grossa, Deku. Cos’è? Hai calcolato male un atterraggio come i principianti?».
Ma Deku non rispose, distogliendo prontamente lo sguardo dal suo, prendendo un’altra generosa cucchiaiata di gelato, mugugnando qualcosa di incomprensibile.
«Sei poco collaborativo.».
«Mi stai facendo il terzo grado!».
«Ti ho solo chiesto come te la sei fatta. Mi sembra ancora in fase di guarigione. Dato che era una cosa di poco conto pensavo avessi un aneddoto stupido su cui riderci sopra.».
«Aneddoto stupido un paio di palle!», berciò Izuku, riempiendosi di nuovo la bocca.
«Ah? Che significa?».
Fu in quel momento in cui Izuku si rese conto che la sua brutta abitudine di fare ragionamenti a mezza voce l’aveva trascinato in un bel guaio, soprattutto perché la mano sudaticcia e bollente di Kacchan gli stava strizzando le guance con forza, facendogli sputare a terra cucchiaino e gelato in un colpo solo.
«’acchan… ‘ai ‘ale!», biascicò, poco prima che lui mollasse la presa e lanciasse nel lavandino la confezione di gelato mezza sciolta e quasi finita.
«Cosa cazzo hai combinato?», scandì il biondo.
Non sapeva bene come spiegarlo, ma gli era sempre sembrato che Kacchan avesse uno strano, secondo potere, tipo una premonizione o un sesto senso, che funzionava solo con lui e che impediva ad Izuku di provare a raccontargli qualche frottola. 
In quello, non sapeva chi tra i due fosse più bravo a scovare le sue bugie, se sua madre Inko o Kacchan.
Si massaggiò il viso per cercare un po’ di sollievo.
«Molotov...», esalò Izuku, a testa bassa, guardando il coinquilino solo di sottecchi.
«Che cazzo c’entrano le bombe adesso, ah?», fece Katsuki, spazientito, con la voce che già raschiava la gola per uscire, perché sentiva puzza di stronzate da un miglio di distanza.
«Non… Non è una bomba. Non solo, almeno. È il nome con cui si faceva chiamare il villain Matvey Tomaševič, in arte Molotov
Katsuki sbatté le palpebre qualche secondo, interdetto: «Dovrebbe dirmi qualcosa?».
Izuku prese un profondo respiro e, prima di ricominciare a parlare, fece una smorfia e guardò in alto, incrociando le braccia al petto. E per Katsuki fu davvero difficile non spostare lo sguardo su quei bicipiti.
Come cazzo faceva ad averli così grossi se non faceva pesi?
«In realtà no. Era un criminale lituano, che spesso operava assieme ad una cellula resistente dei Lupi di Tambov a San Pietroburgo.».
«Il nome non mi è nuovo…»
«Kacchan… Sono in contatto anche con la Yakuza! Come fai a non saperlo?».
«Non mi hanno dato un brief al riguardo, per cui non è una cosa per me fondamentale da sapere.».
«Ahia! Qui mi scadi un po’, Mister So-tutto-io!».
Katsuki si mosse di scatto, cogliendolo impreparato, puntandogli un dito contro lo sterno: «Attento a come parli, Deku! – e si toccò poi la tempia, continuando a parlare con tono calmo - Non hai idea delle informazioni che devo memorizzare.».
Izuku sospirò ancora e lo guardò in faccia, mentre lui continuava a fissarlo con la sua solita espressione dura e accigliata. E, in quel momento, gli mancava un po’ il Kacchan ubriaco di sonno, molto più dolce e rilassato di quello che aveva di fronte in quel momento.
«Beh… Sta di fatto che con l’Interpol si è decis-».
«Chi l’ha deciso?».
«Il CCC. – lo vide separare le labbra per parlare, ma lo precedette – Centro di Comando e Coordinamento. Funziona un po’ come da noi con la QSNC. Fai conto che a capo vi sia il corrispettivo europeo di Hawks… Ecco, lui aveva deciso di affidarmi ai colleghi di stanza in Estonia per aiutarli a stanare questo supercriminale perché io avevo già esperienze con quirk simili...».
Si guardarono per un momento che a Izuku parve un’eternità, perché non voleva dire apertamente che l’avevano mandato lì perché “quel pazzo ha un potere molto simile al tuo collega Dynamight” (testuali parole).
Ma Katsuki era sempre stato un ragazzo sveglio e non ci mise molto a collegare il nome del villain con il potere, anche se non lo conosceva.
«Ah.». E fu l’unico suono che uscì dalle sue labbra, mentre quelle di Deku si curvavano in un sorrisino imbarazzato.
«Insomma… L’abbiamo trovato. Solo che… È stato, come dire… Più difficile del previsto? Ecco, sì.», e mise le mani su fianchi, portando in fuori il petto, stiracchiandosi fino a tirare i polpacci stando in punta di piedi, sembrando ancora più grosso e imponente agli occhi di Katsuki, che stava pian piano collegando piccoli pezzi.
«Era questa la tua missione top secret?».
«Già.».
«E quella ferita, allora?».
«Ho voluto strafare. Come il mio solito… - si grattò la nuca e distolse lo sguardo da quello di Kacchan – Quello è un incidente.».
«Deku…», ma quel tono era solo carico di impazienza e rabbia.
«Ehm… Ti ricordi che ti ho detto che ho perso il cellulare nel Baltico?».
«Era una balla?».
«NO! No… Tutto vero… Molotov stava… Stava per esplodere e fare una strage e-», ma si bloccò, vedendo Kacchan incurvare le spalle e togliergli quasi le parole di bocca.
«E tu l’hai preso e ti sei lanciato con lui in acqua...».
«E tu come…».
«Sei fottutamente prevedibile, Deku.». lo disse con quel mezzo sorriso che gli incurvava solo un angolo delle labbra mentre inarcava il sopracciglio, che Izuku avrebbe dato via un rene solo per poterlo baciare fino allo sfinimento.
Forse era malato, perché quell’espressione di scherno era la stessa da almeno dieci anni ed era passato dal temerla, all’odiarla, fino a volerla vedere tutti i giorni, come in quel momento.
Fu solo quando lo sguardo di Katsuki indugiò più a lungo sul viso di Deku che lo vide sussultare, come se stesse nascondendo qualcosa. Perché era lampante che fosse così, anche dalle lettere che cercava disperatamente di non balbettare fuori dalla bocca come quando aveva tredici anni.
«E-e poi… Il problema è stata l’onda d’urto, in realtà…».
E così gli raccontò che non ricordava nulla di più di quella missione: s’era svegliato qualche giorno dopo in un letto d’ospedale in Finlandia, sorvegliato a vista da almeno quattro agenti speciali.
«Il medico mi ha detto che me l’ero vista brutta e che la cicatrice sarebbe rimasta, perché i suoi guaritori non avevano potuto fare di più, preferendo salvare ossa e muscoli…».
Izuku era un fiume in piena di parole e di gesti e Katsuki rabbrividì a quel racconto riportato, figurandosi nella mente la scena di Deku che veniva scaraventato all’interno di un vortice d’acqua fino a sbattere con la schiena contro un gasdotto, sul fondo del mare. Provava dolore per lui. E una sottile apprensione che gli faceva gradualmente spalancare gli occhi a ogni parola che il ragazzo di fronte a lui diceva.
Era sopravvissuto a un’esplosione subacquea, ma aveva rischiato di perdere la vita in un modo tanto stupido, guidato unicamente dalla sua perenne sfortuna.
«Cazzo! Se non ti rompi qualcosa non stai bene tu, eh?», provò a stemperare, ma gli uscì più rauca del previsto quella frase. E più dura, fin troppo.
«Senti da che pulpito! Parla quello che stava per avere un braccio bionico!», ma pure a Izuku quella frase uscì male. Malissimo. Perché il suo sguardo saettò dritto al centro del petto di Kacchan, dalla cui canotta s’intravedeva il bordo frastagliato della cicatrice. «Io… Scusa, non intendev-».
«Lo intendevi benissimo invece.», sbottò Katsuki, riprendendo colore dopo quel racconto che gli sembrava più un film dell’orrore.
«Senti… Mi dispiace, ok? – e provò ad avvicinarsi – Non volevo offenderti. O tirare fuori cose vecchie, va bene? Sto solo cercando di dirti che poi è stato tutto in discesa… - sorrise, sghembo - Più o meno…».
«Più o meno? Dio… Ma ti senti? - s’alterò – Ma ti hanno mandato in missione per cosa? Per istigare i tuoi istinti suicidi?  - fece un mezzo giro su se stesso e si mise le mani nei capelli – E lo dici come se stessi parlando di quante volte caghi in un giorno!».
La bocca di Izuku si tirò in una smorfia dubbiosa «Dalle tre alle quattro?».
«NON ME NE FREGA UN CAZZO DI QUANTE VOLTE CAGHI!», e mentre gli urlava contro aveva fatto un paio di passi verso di lui, facendolo arretrare verso la parete. «Ti rendi conto che ti hanno mandato in giro a fare il lavoro sporco per gli altri e a rischiare la pelle in maniera idiota?».
L’espressione serafica di Deku lo fece alterare ancora di più. «Sì. Lo so. Ma mi ha permesso di superare i miei limiti. Spostare l’asticella più in alto.».
«E cosa hai ottenuto, ah? Non vedo tappeti rossi quando passi! Non vedo la tua faccia sulle copertine della stampa internazionale!».
«A me non interessa. Ho fatto il mio lavoro e l’ho fatto con passione. E mi sono divertito. Mi sono fatto male ma mi sono anche divertito nel fare il mio lavoro. Sono cresciuto, Kacchan. Ho trovato l’occasione per formarmi anche al di fuori del Paese. Stando qui… Sarei rimasto sempre uguale…», e alzò le spalle, come se tutto ciò che pronunciava fosse ovvio, banale. Non voleva essere una critica verso Kacchan, ma solo una constatazione, un punto di vista espresso nella maniera più pacata che conosceva per contrastare la rabbia che vedeva salire nell’amico.
E Katsuki fece difficoltà a restare lucido a quelle parole, un po’ perché era alterato da quel discorso, interpretato come una critica diretta, e un po’ perché si sentiva ancora ferito dall’ultima discussione che avevano avuto. Alla fine del discorso di Deku, la cui pacatezza aveva tanto il sapore di una presa per il culo, non riuscì più a trattenersi; ma non lo accusò di nulla. Su quello entrambi avevano già dato.
Il marasma di sentimenti che si agitava dentro di lui lo portò a parlare a ruota libera, stupendo Izuku per la sincerità con cui stava, finalmente, esprimendo ciò che provava.
«Quindi tu pensi che stando qui io sia sempre uguale a prima? Io? IO? – Katsuki gli puntò l’indice contro il petto premendo con tutta la forza di cui era capace - TU, merdosissimo nerd! Tu non hai idea di quello che ho passato qui! Non hai una stracazzo di idea di quello che continuo a vivere ogni giorno! Non hai idea di cosa significa dover essere bloccato sotto ad una maschera che ogni giorno l'avvoltoio di turno cerca di scalfire!», e lo spinse, o, almeno, ci provò.
Ma Izuku era ben fermo sui propri piedi, l’espressione accigliata mentre lo lasciava sfogare.
In fondo, era stato lui a iniziare e, per ogni azione c’è sempre una reazione uguale e contraria. Alla fine della fiera, la terza legge di Newton si può applicare anche alle relazioni umane.
«Ma che cazzo ne vuoi sapere, ah? No! Per te è sempre stato tutto facile! Beh, news del giorno: NON PER TUTTI É COSÍ! - quello sguardo carico d’astio dardeggiò verso il volto di Deku - Non tutti sanno esprimersi, non tutti sanno comunicare. Alcuni poveri stronzi devono pensarci, prima di respirare… - prese fiato pure lui, la voce meno ferma di prima - Perché basta un attimo di esitazione per apparire debole e succede quello che hai visto anche tu ieri!».
Izuku deglutì e strinse i pugni al pensiero di quegli stronzi, che sperava tanto fossero ancora in custodia alla centrale di Polizia.
«Sei tanto bravo tu, ah! Hai la tua faccia pulita, la reputazione di nuovo simbolo della pace. Quindi a te che ti importa? Tanto sono IO l'hero-villain, Deku! Sono io quello che tutti credono essere stato la spia della UA. Lo pensano tutti da una vita, ma quasi nessuno ha il coraggio di dirlo a voce alta! Ma glielo lascio dire, glielo lascio pensare… Sai perché? Perché non sei l’unico che salva il culo alle persone! E mentre tu eri chissà dove a rischiare la pelle nei modi più idioti vivendo del riflesso di una vittoria, IO ho dato tutto me stesso in ogni fottutissima missione!».
La voce era più bassa e graffiata del solito, gli occhi arrossati, così come il collo e le orecchie. Le mani stringevano forte il tessuto dei pantaloncini, da cui proveniva del leggero vapore.
«Non hai idea di quanto mi sia impegnato per lavorare in gruppo! Mi sono impegnato a contare fino a dieci anche quando le comparse scadevano negli errori più banali. Non ti permetto nemmeno di insinuare che l’unico stronzo a non essere cambiato sono io! Non quando la tua assenza ha raddoppiato il MIO carico di lavoro. – s’indicò il petto con rabbia - E io non parlo solo delle aspettative che hai disatteso andandotene, non parlo neppure della delusione che provavo ogni fottuta volta che dicevano che nessun altro meritava di essere il numero uno al suo posto! – gli rivolse di nuovo il dito contro, avvicinandosi ancora, le parole strette tra i denti quasi digrignati -No, mio Golden Boy del cazzo! Perché mentre tu rischiavi una paralisi in mezzo a un branco di idioti gaijin, qualcuno qui viveva col costante pensiero rivolto a una testa di cazzo dispersa chissà dove, irreperibile, che è praticamente scomparso dai radar!», la voce si era alzata di tono, spezzata in più punti da piccoli singulti trattenuti, mentre gli occhi a stento riuscivano a trattenere le lacrime.
Ne scese una, a destra, un percorso tortuoso fino a metà della guancia, prima che il dorso della mano di Katsuki la togliesse con stizza, il respiro che faticava a regolarizzarsi, la gola che bruciava per aver parlato così tanto. Troppo, quasi da pentirsene. «Mi spieghi che cazzo di senso ha avuto fare tutto questo, sopportare tutto questo, se tu non eri qui? – piagnucolò, preda di una morsa che gli stringeva il petto – Sei solo un maledetto stron-.».
Ma quell’offesa morì direttamente sulle labbra di Izuku, che con presa decisa gli aveva afferrato la gola e l’aveva tirato a sé, baciandolo.
Fu solo un bacio di un paio di secondi, in cui Katsuki parve perdersi, a occhi spalancati, colto alla sprovvista dal gesto.
Izuku, commosso da quello sfogo, s’era ritrovato sia a volerlo zittire, sia a volergli dire che ciò che gli stava urlando addosso era vero, che aveva fatto un buon lavoro su se stesso e che gli dispiaceva di averlo lasciato a fare tutto il lavoro come un povero stronzo.
Ma le parole non erano uscite e, se anche l’avessero fatto, avrebbero avuto una forza minore rispetto a quel gesto.
Si staccarono di poco, un respiro e poi di nuovo un contatto dolce, leggero, con le labbra che sapevano di sale e di gelato, morbide e umide, mentre la presa sulla gola si faceva più leggera, fino a lasciarla del tutto.
«Sei stato bravo, Kacchan…», gli sussurrò contro prima di allontanarlo con calma, gli occhi fissi in quelli cremisi dell’amico. Una frase che riassumeva un pensiero più articolato, fatto di affetto, di incoraggiamenti e di scuse per aver lasciato che lui interpretasse male le sue parole, che però quelle labbra morbide e sottili avevano mandato all’aria in tempo zero.
Attese un’esplosione, che non arrivò mai. Attese anche qualche imprecazione, ma il silenzio che continuava ad aleggiare tra di loro si stava caricando di un imbarazzo sempre crescente.
«Scusa, Kacchan… - provò a giustificarsi Izuku, preso da un improvviso panico, realizzando ciò che aveva fatto - È che mi è venuto spontaneo per dirti che mi sei mancato… E che mi sono comportato da stronzo…»
«Deku…».
«E che non ho pensato alle conseguenze…»
«Deku! Va bene così. Credimi.».
«Non sei… Arrabbiato?».
«Sono calmo.».
«Okay… Sei furioso. – si piegò in un inchino, le mani giunte sopra la testa – ODDIO SCUSA! Scusa! Scusa! Scusa! Laverò tutta casa per la prossima settimana per farmi perd-».
«DEKU!», e quello alzò la testa, cercando con lo sguardo Kacchan, che s’era già allontanato dalla cucina, come se nulla fosse successo, indicandogli il bagno con un cenno del capo.
«L’unica cosa che devi lavare per il momento è te stesso. Puzzi da far schifo!».
«Ma io-».
«Muoviti! O vengo lì e ti ci porto a forza!», minacciò, lasciando i palmi in bella mostra, mentre piccole scintille scoppiettavano su di essi.
«Beh… Non sarebbe una cattiva idea…», borbottò con un sorrisetto mentre gli passava davanti.
«Cosa?».
«Cosa?».
Katsuki allungò una gamba cercando di tirargli un calcio che prontamente Izuku schivò, affrettando il passo verso il bagno: «Deku giuro che ti prendo a calci nel culo se non ti muovi a lavarti!».
Soltanto quando Izuku chiuse la porta del bagno dietro di sé, Katsuki trovò la forza di rannicchiarsi sulle proprie ginocchia, mentre il cuore riprendeva a battere come un forsennato nel portarsi una mano alla bocca, sfiorando con i polpastrelli le labbra e il sorriso in cui esse si tendevano.
 
 
I miss you, took time but I admit it
It still hurts even after all these years
And I know that next time, ain’t always gonna happen
I gotta say I love you while we’re here

~ Blink 182 ~
 

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Capitolo 15
*** Thanatophobia* ***


Thanatophobia*


Chi ti ama ti strappa dagli occhi la malinconia,
e ci semina campi di girasoli.
~ Barbara Brussa ~
8 luglio

Un lunedì per un lunedì.
Ecco... Izuku avrebbe fatto volentieri a cambio.
Oppure avrebbe preso una macchina del tempo e sarebbe tornato altrettanto volentieri ad una settimana prima, ripetendo in loop quel bacio.
Era però vero che, in quella settimana, niente sembrava essere cambiato.
Non l'abitudine di Kacchan di portargli un donut alla ciliegia ogni mattina. Neppure la sua di abitudine, di fargli trovare la cucina ordinata e il letto fatto.
La cosa che l'aveva sconvolto, e che continuava a farlo dopo tutti quei giorni, era che non vi era stato mai tra di loro un momento di imbarazzo, ma neppure un cercarsi, in verità.
Era tutto maledettamente come prima!
Un passo avanti, due passi indietro.
Anche in quel momento, mentre entrambi sfrecciavano in aria tra i palazzi della zona amministrativa all'inseguimento di un furgone bianco carico di soldi e malviventi, proprio durante l'orario di punta.
«Vai a destra!», gli ordinò Kacchan, l'urto quasi coperto da una nuova esplosione, che l'aveva fatto avvitare su se stesso per infilarsi in una strada laterale, mentre lui faceva come gli era stato detto, usando il Black Whip come aveva sempre sognato di fare: se avesse avuto un costume più attillato avrebbe potuto essere al pari di Spider-Man!
Senza mai perdere di vista il furgone che sfrecciava e zigzagava tra le auto, scese di quota, tanto veloce da arrivare a terra quasi come un proiettile, lasciando l'asfalto incrinato prima di mettersi a correre e saltare all'inseguimento del mezzo.
Non vedeva più Kacchan, ma non ci diede peso, troppo concentrato a schivare auto e pali della luce, che usava come piccoli trampolini per continuare la sua corsa.
Con un balzo più lungo piombò sul tetto del furgone, la sua massa e il contraccolpo lo fecero sbandare, appena dopo aver divelto la barra del casello e imboccato l'autostrada contromano.
Un pugno forte e la lamiera del tetto si spaccò, permettendogli di rimanere attaccato saldamente al mezzo, mentre tentava, con i suoi fasci di energia, di creare degli ancoraggi col guardrail e i lampioni, nel vano tentativo di fermare quella corsa spericolata.
Schivò per un pelo un proiettile, poi un altro, appiattendosi sul tetto, costretto a lasciare la presa per aver salva la vita.
Uno dei malviventi era uscito dal finestrino e tentava in tutti i modi di colpirlo nonostante gli sbandamenti, mentre qualcuno, da dentro il furgone, gli tirava il braccio, trattenendolo.
Sembravano ben organizzati e imprecò, provando ad estrarre l'avambraccio dalla lamiera prima che potesse andare tutto a rotoli. «Merda!».
Qualcosa di non previsto lo colpì, lo fece ruzzolare sull'asfalto per diversi metri, prima di udire un'esplosione accanto a sé e avere solo il tempo di vedere Kacchan sfrecciargli accanto in una nuvola di denso fumo nero.
Si alzò a fatica e si diede una spinta, saltando in aria, inarcando la schiena e aprendo le braccia per frenare un po' la sua marcia.
«Dynamight!», urlò, ma quello aveva già preceduto il furgone, un braccio teso, e il movimento del polso troppo veloce perché Izuku riuscisse a coglierlo, mentre una scarica di piccole sfere luminose si staccava dalla punta delle sue dita e finiva contro il mezzo in fuga, detonando sulla carrozzeria e sul vetro, mandandolo in frantumi e facendo sbandare pericolosamente il veicolo.
Izuku aggrottò le sopracciglia e Black Whip fece appena in tempo a far presa sul furgone, sollevandolo dalla strada mentre era in bilico su due ruote.
Nell'altro senso di marcia arrivarono a sirene spiegate quattro volanti della polizia, il traffico bloccato almeno cinque chilometri a monte e a valle di quel tratto di strada, mentre gli agenti scavalcavano il guardrail e si ritrovavano pronti, ad armi spiegate, per acciuffare i criminali ed assicurarli alla giustizia.
Katsuki scese a terra con un tonfo sordo e improvvisò una corsetta per raggiungere il furgone tenuto ancora a mezz'aria da Deku.
Uno dei rapinatori, incastrato nel finestrino, stava cercando disperatamente di fuggire, arrivando perfino a calciare il compagno per trovare un appiglio.
Patetici.
Il biondo afferrò la maniglia, strattonando la portiera malconcia e aprendola, lasciando cadere a terra il criminale, che tentava in tutti i modi di strisciare via e fuggire.
Fu agguantato per la maglia, sulla schiena, sollevato di peso e scaraventato ai piedi di due agenti che indietreggiarono di un paio di passi.
«Beh? Lo ammanettate o no?», berciò Katsuki, mentre afferrava per le gambe il tizio che era alla guida, trascinandolo a terra tra urla e piagnucolii. Una volta sull'asfalto, il trattamento fu lo stesso del compagno.
«Posso mollare giù?», domandò Izuku, stanco di fluttuare e tenere il veicolo sollevato da terra.
Ma Kacchan sembrava non ascoltarlo, un ghigno soddisfatto sul volto mentre si apprestava ad aprire il portellone sul retro.
Il suo Danger Sense gli fece accapponare la pelle: solo in quell'istante Izuku si ricordò che qualcuno prima lo stava trattenendo, bloccandogli il braccio dall'interno. «NO!».
Quel grido rimase bloccato lì, fluttuante nell'aria come lo era lui, Katsuki distratto per una frazione di secondo, quel tanto che bastava per vederlo scaraventato all'indietro da un energumeno che gli si era avventato contro.
Spalancò la bocca e lasciò che Black whip fluisse da essa come una lingua, ad avvolgere in fretta il malvivente, prima che potesse effettuare qualsiasi mossa.
Si rese conto solo dopo di una figura magra e nervosa, che se ne usciva dal furgone di soppiatto, guardando tutti con occhio sbarrato, come se avesse paura della propria ombra.
Mugugnò qualcosa, per mettere in guardia Kacchan che si stava rialzando da terra e si preparava a sferrare un pugno forte sullo stomaco al criminale che Deku stava ancora stritolando con la sua energia.
«Ehi! Voi! Sì. Dico anche a te!!», gridò quell'uomo dai capelli grigi e arruffati, il volto scavato come quello di All Might nell'ultimo periodo.
Tutti quanti, a terra, si voltarono a quello strano richiamo che aveva lo stesso tono di una richiesta di aiuto e rimasero come immobili.
Poi lo udì ridere sguaiatamente e iniziare a correre a gambe levate trattenendo al petto una valigetta grigia.
Izuku lasciò cadere il furgone e si precipitò all'inseguimento, ben intenzionato a bloccare anche l'ultimo componente della banda.
Ma quando udì un colpo di pistola e un grido si voltò di colpo, atterrito, il sangue gelato nelle vene.
Uno degli agenti aveva sparato a un collega sul braccio. Questi stava urlando come un ossesso per il dolore, gli occhi spalancati e terrorizzati a vedere il sangue che gli imbrattava la divisa.
«Ma che-».
Poi lo vide.
Kacchan, rannicchiato accanto al furgone distrutto, la testa tra le mani e il corpo scosso da tremori.
Spalancò gli occhi e fece una capriola in aria, aiutandosi con Black Whip ad essere più veloce, tornando indietro verso quello che doveva essere il luogo della loro vittoria, ma che, ora, sembrava solo una baraonda di urla e gente che piangeva.
Atterrò un agente armato, troppo agitato per capire cosa stesse accadendo, attivando Smokescreen per impedire che altri facessero sciocchezze, strappandogli dalle mani l'arma per stringerla nel pugno e distruggerla.
Agguantò la trasmittente del poliziotto e provò a utilizzarla, ordinando a chiunque si fosse trovato in ascolto di raggiungere la loro posizione con dei rinforzi e, possibilmente, delle ambulanze. «E fate in fretta!», sbraitò, mentre il poliziotto sotto di lui provava a liberarsi, inutilmente.
Tra il fumo basso udiva i lamenti degli altri agenti, voltando la testa nervosamente, attendendo che la nebbia si diradasse un poco solo per riuscire a scorgere Kacchan.
Non lo riusciva neppure a udire e questa cosa gli stava facendo mancare il fiato e tremare le mani e premere più forte col ginocchio contro la schiena del povero uomo a terra, la cui unica colpa era quella di trattenerlo lì.
Si tranquillizzò a sentire le sirene in lontananza solo qualche minuto più tardi. Minuti che gli erano sembrati un'eternità, in cui la nebbia si diradava a stento a causa dell'umidità.
I nuovi agenti accorsi e i paramedici presero in consegna i colleghi, impauriti e sotto shock, mentre lui fu quasi assalito dal Prefetto, giunto sul posto al seguito del capo della polizia, entrambi allarmati già dall'inizio dell'inseguimento. Rispose a monosillabi, un occhio attento sempre a dove si trovasse Kacchan, che se ne stava ancora rannicchiato accanto al furgone, le mani premute sulle orecchie, sordo ai richiami, inamovibile ai tentativi di un paio di infermieri di farlo alzare e medicargli le escoriazioni sulle braccia e sul viso.
Si congedò bruscamente, le sopracciglia aggrottate e l'espressione troppo seria e indurita. In realtà la sua mente stava lavorando a ottantotto miglia all'ora, cercando di capire chi fosse quel villain e, soprattutto, come funzionasse quel potere che aveva confuso perfino Dynamight, tanto da renderlo un grumo di tremori e lamenti, rannicchiato su se stesso come a volersi proteggere dal mondo. O scomparire.
Quella sua posizione gli ricordò tanto un episodio della loro infanzia, quando ancora giocavano assieme e c'era stata una forte scossa di terremoto. Le maestre dell'asilo li avevano portati tutti all'esterno, nel cortile della scuola e Kacchan, in barba alle indicazioni e al buon senso, s'era andato a rannicchiare contro le radici del grande albero accanto alla recinzione, tenendosi la testa e digrignando i denti allo stesso modo.
Lo sguardo terrorizzato, tuttavia, era quello che gli aveva visto addosso mentre tentava invano di salvarlo dal mostro fangoso, alle medie.
Solo che, stavolta, non piangeva di disperazione, ma lo scuoteva con forza, chiamandolo, provando a fargli staccare a forza le mani dalle orecchie: «Dynamight! Coraggio! – la voce era seria e impostata – Devi farti medicare!».
All'ennesimo tentativo, quando praticamente tutti gli agenti coinvolti nello scontro erano stati caricati sulle ambulanze e restavano solo loro due e un pugno di soccorritori, Izuku rilasciò un sospiro rassegnato e si rivolse agli infermieri che, pazientemente, lo stavano attendendo: «Non vi voglio trattenere oltre. Ci penso io a portarlo all'ospedale. Avete la mia parola, okay?».
«Ma Deku, anche lei dovrebbe farsi ricucire il braccio!», protestò un paramedico, le braccia conserte e uno sbuffo impertinente a chiudere la frase.
Fu solo allora che Izuku diede un'occhiata veloce al proprio braccio sinistro, la manica della tuta lacerata e zuppa di sangue a tratti rappreso, mentre lunghi tagli gli ferivano la carne, slabbrandola in alcuni punti. Provava fastidio, ma non quel bruciore intenso che si sarebbe atteso, forse perché l'adrenalina e la preoccupazione per Kacchan avevano avuto la meglio e tutte le sue cellule erano concentrate in un unico pensiero. Rilasciò un sospiro rassegnato e, dopo aver staccato cautamente il supporto metallico esterno che scendeva dalla spalla sino al gomito, con un unico gesto strappò del tutto il tessuto, lasciando scoperto il braccio, allungandolo verso l'infermiere: «Allora fate in fretta.».
Fu così che Izuku si sedette a terra, di fronte a Kacchan, ancora tremolante, immobile nella stessa posizione in cui l'aveva visto, ormai quasi un'ora prima.
I due paramedici si guardarono allibiti e ci misero qualche secondo prima di scattare e recuperare garze e disinfettante dall'ambulanza.
Attese che lo medicassero, che lo riuscissero a vivo, l'interno del labbro inferiore stretto tra i denti per trattenere i lamenti.
Si stava rilassando e questo gli faceva percepire chiaramente il filo di sutura che, millimetro dopo millimetro, scorreva nel foro dell'ago nella carne.
Chiunque avrebbe urlato, o sarebbe svenuto. Ma per lui era solo un fastidio più accentuato del solito. Dopotutto, quante ossa aveva rotto nel corso degli anni?
A malapena ringraziò i due uomini, rassicurandoli ancora una volta che sia lui sia Dynamight sarebbero passati in ospedale.
Solo quando se ne furono andati, il suo torace si svuotò e si piegò verso l'amico, una mano teneramente premuta sulla massa di capelli biondi, umidi di sudore e impiastricciati di fuliggine e polvere.
«Kacchan?», si ritrovò a pronunciare, il tono fin troppo ammorbidito dalla spossatezza. Ma se non aveva funzionato con le maniere forti, allora...
Fu come una formula magica, quel richiamo: le mani guantate di Katsuki si staccarono dalle orecchie e il viso si mosse piano a fronteggiare lo sguardo benevolo di Deku. Che era lì, davanti a lui, e non sembrava un sogno ed era normale, nessun potere sfrigolante ad avvolgerlo, l'espressione distesa in uno di quei suoi sorrisi stanchi che aveva imparato ad amare.
«Ma che-».
Allungò le braccia verso Izuku, sporgendosi del tutto, finendogli contro, allacciandosi al suo corpo, il volto sepolto nell'incavo del collo, sbilanciandolo tanto da farlo finire a terra, dolcemente.
Non ci fu contraccolpo, solo la leggera capocciata di Izuku contro l'asfalto, gli occhi spalancati dallo stupore e le braccia doloranti a mezz'aria per qualche istante prima che si chiudessero contro la schiena di Kacchan, strizzandoselo addosso e rilasciando una breve risata che faceva eco al singhiozzare sommesso di Katsuki, che pareva volesse togliergli il respiro, tanto lo stava stringendo.
L'amico farfugliò qualcosa contro la stoffa sporca del suo costume, stringendo di tanto in tanto, come se fosse un monologo interiore sfuggito al filtro della mente e Izuku, curioso, tentò di comprendere quella sfilza di suoni e mugugni senza alcun senso.
«Ehi! Stai mugugnando! Di solito sono io quello che si perde in discorsi a mezza voce e senza sens-ugh!», una stretta più forte gli mozzò le parole in gola.
«Sono vivo?».
Izuku aggrottò le sopracciglia a quella domanda sussurrata tanto vicina alla pelle da procurargli un brivido lungo tutta la schiena.
«Certo che sei vi-ngh! Ka-cchan! No- respiro...».
La presa si fece meno ferrea e lo percepì crollare, i singhiozzi farsi sempre più lievi, il peso abbandonato sul suo corpo, il naso che gli respirava sul collo e le labbra che gli sfarfallavano leggere tra la pelle e la stoffa.
Con fatica riuscì a rotolare di lato, puntellandosi con le mani sulle sue spalle per staccarselo di dosso, gli occhi verdi spalancati e preoccupati a vedere il viso di Kacchan rigato dalle lacrime, la bocca deformata da una smorfia che sembrava dolore puro, le dita guantate che gli arpionavano il costume.
«Che ti prende? Che hai?», gli chiese in un soffio, qualcosa di simile ad artigli acuminati sembrava stringergli le viscere a vederlo tanto disperato.
La mano di Kacchan lasciò la stoffa del suo costume e si aprì sul suo petto, premendo tanto forte da sbilanciarlo, come se volesse spingerlo via. «Sei vivo?».
«Certo che sono vivo! Siamo entrambi vi-», si bloccò. Le sinapsi che avevano ripreso a funzionare correttamente gli rimandarono le tremende immagini della guerra e di lui che-
«Cristo santo... Kacchan! Alzati! Dobbiamo andare in ospedale!».
Aveva messo assieme i pezzi rovinati di quel puzzle e forse aveva intuito di cosa fosse capace quel villain che gli era sfuggito come se fosse un eroe di primo pelo.
Fluttuò, aggrappandosi a Kacchan per tirarlo su di peso, stringerselo addosso saldamente e salire, metro dopo metro, sino a librarsi in aria e attivare Fa Jin per sfrecciare alla volta dell'ospedale civile.


•••


Come aveva fatto a non capirlo prima?
Non ci voleva certo un genio per dire che quello che aveva colpito Kacchan e gli agenti era un potere psichico abbastanza subdolo.
Guardò per un momento il ragazzo biondo, seduto accanto a lui, sospirando nel sentire come stava rilasciando e contraendo la stretta della mano sulla sua: s'era rinchiuso in un mutismo selettivo da quando era stato medicato in ospedale per delle escoriazioni di poco conto e non l'aveva mollato per un secondo, fosse stato uno sguardo o una semplice stretta di mano, come in quel momento.
«Bakugō non è in sé. – asserì con una smorfia lo psicologo del dipartimento – E avrebbe bisogno di riposo.», concluse, guardando l'orologio che aveva sul polso.
«Questo lo so bene pure io.», sbottò Izuku, sentendo Hawks, in vivavoce sul telefono dello studio, mugugnare in disapprovazione.
"Sapete dirci altro sul villain?", chiese, la voce dell'altoparlante gracchiava.
Il Prefetto prese un profondo respiro e scartabellò alcuni fogli, mentre allungava il passo dietro lo psicologo: «Sappiamo che si fa chiamare Syren, ma non abbiamo nulla nel database su di lui. Non un nome, non un'anagrafica. Nulla. Magari voi avete un archivio più fornito alla QSNC.», ma il tono tradì tutto il suo fastidio.
«Posso ipotizzare – intervenne Izuku – che il quirk funzioni ad ampio raggio, perché anche gli agenti al di là dello spartitraffico sono stati colpiti.».
"Ma tu no, Midoriya.".
«Io ero sollevato dal piano stradale. Credo funzioni in base a ciò che il soggetto è capace di vedere. All'inizio, quando Bakugō ha aperto il furgone, quel tizio si è fermato a cercare l'attenzione di chi gli stava attorno...». Era frustrante dover provare a fare un'analisi con così pochi elementi a disposizione e andare avanti solo per supposizioni.
Era stato tutto troppo veloce e confusionario! «Però mentre avevo iniziato a inseguirlo, lui si è voltato a guardare anche me... - mormorò, assorto – Quindi magari... funziona con la voce?».
"Ho una cosa qui, nel database. - la voce di Hawks calamitò l'attenzione di tutti - Non un'anagrafica, ma la registrazione di un vecchio caso, una rapina. Qui dice che l'effetto è durato sei ore. Uhm...".
«Cosa?». Izuku s'era perfino sporto verso l'altoparlante, come se questo potesse far parlare più in fretta Hawks.
"Pare che il tipo sia cresciuto in un riformatorio in Cina, un postaccio. Sto guardando la scansione di una vecchia cartella clinica e, da quello che posso interpretare, sembra che il suo potere funzioni in base ai livelli di no-norepi... Noreprif-".
«Norepinefrina. – lo corresse Izuku – È anche chiamato ormone dello stress: il corpo lo rilascia in risposta ad un severo stress fisico o psicologico, come un'importante emorragia o esperienze paurose.».
Nella stanza rimasero tutti in silenzio per qualche secondo.
"Eri tu il secchione della classe, Midoriya?".
«Il quarto, in realtà.».
"Mi spaventi ragazzo. Ogni tanto, non sempre.".
«Ehm... Mi scusi.».
"Quindi, genio incompreso, dicci: come funziona secondo te?".
Izuku sorvolò sul palese sarcasmo e si prese del tempo per riflettere, anche se sentiva la testa di Kacchan pesargli sulla spalla, i tremolii ormai andati. «Da quello che ho visto, il tizio mi sembrava esaurito. Ma, dopo quello che ha trovato, credo fosse più spaventato. Probabilmente più agitato è e maggiore è il raggio d'azione del suo potere. Questo spiega gli ultimi agenti colpiti in maniera lieve. Bakugō era troppo vicino per non prendere in pieno la maggior parte dell'effetto.».
"Quindi, se funziona con la paura, provoca anche...paura? Corretto?".
«Probabile. Non lo escluderei, visto la sua reazione.», e indicò con un cenno del capo proprio Kacchan, che osservava tutti quietamente, ma con gli occhi sbarrati, carichi di timore.
«Un quirk prettamente psico-chimico. Interessante davvero!», esclamò lo psicologo, appuntando qualcosa su un quaderno.
"Quindi che si fa, Dottore?".
«L'ho detto prima: riposo. L'effetto potrebbe svanire tra quattro ore come tra ventiquattro. In ogni caso, Dynamight è inservibile.».
Inservibile.
Come un oggetto di poco conto.
Izuku strinse la mano di Kacchan con forza, tanto che lui rilasciò un singulto e alzò la testa, guardando l'eroe che ora stava parlando con tono fin troppo serio e piccato: «Allora anche Deku sarà inservibile. Non lo lascio da solo in queste condizioni. Non potrei comunque.», e alzò la mano, mostrando a tutti le loro dita intrecciate saldamente.
"Perché?".
«Perché se lo mollo trenta secondi fa una scenata che pare un bambino, Hawks! – sbottò – Ha paura della sua ombra e sembra che solo la mia presenza lo renda quieto. Ci hanno messo quasi un'ora a convincerlo a farsi medicare, poi mi hanno fatto entrare in ambulatorio e si è calmato un po'.».
Udì Hawks ridacchiare: "Ah! Sei la sua fottuta coperta di Linus! – prese fiato – E sia! Deku è in riposo fino a che l'effetto del villain non finisce. Poi entrambi recupererete le ore perse e i turni verranno modificati dal Prefetto. Intesi?".
Izuku annuì: gli sembrava un giusto compromesso. «Intesi.».
Hawks non salutò nemmeno quando chiuse la chiamata, così lui si ritrovò gli occhi del Prefetto puntati addosso.
«Le lascio il mio numero di telefono – lo psicologo strisciò con un dito il proprio biglietto da visita sulla scrivania - qualora dovessero esserci problemi con Bakugō.».
«Non credo ce ne saranno, ma grazie. – prese il biglietto – Lo terrò da conto.».
Si congedò con un inchino distratto appena alzato dalla sedia, tirando a sé Kacchan, per invitarlo a seguirlo. «Adesso andiamo a casa, va bene?».
Katsuki si limitò ad abbassare il capo e a poggiare la fronte contro la spalla sinistra di Deku, che si portò una mano sul volto, principalmente per nascondere la propria frustrazione.
Perché Izuku, anche se era clinicamente vivo, in realtà stava morendo dentro pian piano, perché la fragilità e il terrore che Kacchan provava ad ogni passo li trovava adorabili, in totale antitesi con il normale carattere dell'amico.
Una parte di lui voleva indietro il vecchio Kacchan, ma questo... Più che Katsuki, era Izuku a non voler lasciare la presa in quel momento: avrebbe voluto stringerselo addosso, cullarlo e dirgli che tutto sarebbe andato a posto, che era vivo, anche se un po' ammaccato dopo lo scontro. Gli posò una mano sulla testa, lasciando una lieve carezza prima di muovere i propri passi fuori da quell'ufficio.
Gli balenò in mente che avrebbe dovuto passare per gli spogliatoi e ritirare i loro borsoni prima di rincasare, perché non aveva certo l'intenzione di rovinare l'immagine pubblica di Kacchan. E poi, molti poliziotti lo stimavano e vederlo in quelle assurde condizioni sarebbe stato svilente.
Faticò per farsi lasciare la mano, prima di entrare nello spogliatoio in fretta e furia per riagguantare le loro cose e uscire dalla centrale di polizia.
Una volta fuori, Katsuki si aggrappò al braccio di Izuku, cercando di mantenere l'equilibrio mentre uscivano dalla centrale di polizia. I rumori della città erano travolgenti per lui, e quel potere che l'aveva colpito faceva sembrare ogni suono forte una minaccia per la sua vita o per quella di Deku. Quando la mano di Katsuki raggiunse di nuovo la mano di Izuku, lo guardò con gli occhi colmi di lacrime e un sussurro sulle labbra: «Sei davvero qui?».
«Sono qui, Kacchan. Adesso andiamo a casa. – le viscere si contrassero e un brontolio umido gli arrivò alle orecchie – E mangiamo. Che per colpa tua abbiamo pure saltato il pranzo...».


•••


Izuku si ritrovò ad essere frastornato nell'aprire lo stipetto più basso della cucina, quello accanto al lavandino: tutte quelle pentole e padelle gli mettevano ancora più confusione del frigorifero aperto, verso cui lanciava occhiate preoccupate. In quei giorni di convivenza lui non aveva mai messo mano in cucina, perché quello era un compito che spettava solo a Katsuki. Era il biondino burbero che preparava pranzo e cena e si premurava di conservare in contenitori ermetici le varie porzioni per entrambi, così da lasciare sempre del cibo a disposizione a Izuku, notoriamente negato fin da quando erano alle superiori.
Katsuki sussultò sulla sedia a sentire lo stridore provocato dalle pentole, le une sulle altre, rilasciando un doloroso lamento mentre si portava le mani alle orecchie e Izuku si voltava di scatto a quel suono.
«Kacchan? – si allarmò – Che succede?».
Ma come poteva spiegare che quel rumore gli ricordava le lame affilate che gli avevano oltrepassato il ventre? Un brivido di disgusto lo colse, tanto da smuovergli lo stomaco e stringere forte il labbro inferiore con i denti a trattenere il conato di vomito e un nuovo lamento, fino a che non si sentì afferrare i polsi con presa decisa e, riaprendo gli occhi, vide Deku, chinato su di lui, guardarlo con apprensione. «Kacchan! Che hai?». Ma quello non parlò, limitandosi solo a stringere gli occhi, facendo fuoriuscire un paio di lacrime.
Izuku non sapeva cosa fare, perché Kacchan s'era ammutolito quasi del tutto e le uniche cose che si limitata ad esprimere erano domande, forse ai suoi occhi stupide, e rassicurazioni sul fatto che lui gli stesse vicino.
«Ehi! Kacchan! Sono qui, vedi? – spostò le mani sulle sue guance, per forzarlo ad alzare il viso e a guardarlo – Sono qui e stiamo bene, ok? Adesso preparo qualcosa da mangiare.», ma pareva che ogni suono fosse per lui un pericolo imminente da cui proteggersi.
«No rumore...», borbottò, distogliendo lo sguardo.
«Va bene. No rumore, promesso! – sfoggiò un sorriso incoraggiante – Devi stare tranquillo. Vedrai che tornerai in te, un passo alla volta.», e si alzò, privando Katsuki di quel confortante calore che l'aveva calmato per un momento.
Katsuki guardò Izuku con occhi ansiosi, ma sentiva di potersi fidare. Ricominciò a tremare quando la porta del frigorifero si chiuse con un lieve cigolio.
Izuku si sentiva osservato: ogni tanto girava la testa e scopriva Kacchan guardarlo con attenzione, seguire con gli occhi spalancati ogni sua mossa, un sibilo di fastidio quando l'incarto del pane veniva aperto o quando il coltello cozzava contro il tagliere. Ogni gesto brusco o rumore improvviso era accompagnato dal tono calmo di Izuku: «Ehi, tranquillo! È solo la plastica del pane affettato.» oppure un «Guarda che taglio la verdura, non spaventarti, va bene?».
C'era premura nella sua voce. E una punta di leggero divertimento, non di quello maligno, sia chiaro. Era una sensazione strana quella che provava Izuku, che non sapeva definire o nominare. Ricondusse quel sentimento alla benevolenza di sua madre, allo stesso sguardo dolce, allo stesso tono di quando, da bambino, attendeva la cena e si fermava a osservarla, le guance poggiate sui palmi e i gomiti sul bancone della cucina.
Kacchan era in una posa simile, con la testa sepolta tra le braccia incrociate sul tavolo, mentre i suoi occhi cremisi non lo mollavano nemmeno per un secondo.
Izuku ne sorrise. Uno di quei suoi sorrisi morbidi che regalava a poche persone, di quelli che gli increspavano le guance e gli illuminavano teneramente lo sguardo.
Se vivere e spendersi per gli altri come eroe lo appagava, quello... Quello non sapeva definire cosa fosse, ma gli riempiva il cuore di qualcosa che a lui sembrava molto simile all'amore.
Il formaggio era stato tagliato con precisione e venne adagiato sul pane, seguito da fette sottili di prosciutto e da qualche verdura croccante: Izuku s'era sforzato di fare piano ed essere preciso, come alcune volte Kacchan gli aveva spiegato. Aveva rimestato nella memoria e recuperato piccole e semplici indicazioni che lui gli aveva dato e che, puntualmente, mai aveva seguito. Fino a quel momento.
Forse la sua coscienza gli stava solo dicendo che anche quelle inezie avrebbero fatto bene a Kacchan, anche se non l'avrebbe mai saputo.
Quando gli mise sotto il naso il piatto con il sandwich riscaldato, Katsuki tirò su la testa e guardò con diffidenza il cibo che aveva davanti.
«Itadakimasu!», gli fece Deku, sorridente, mentre addentava con voracità il suo pasto.
Le mani erano infilate tra le cosce, strette tra loro e preda di continui ondeggiamenti o tremolii e il suo sguardo di fuoco correva dal panino all'amico affamato, che gli stava versando dell'acqua nel bicchiere: «Mangia Kacchan! Mi è riuscito bene, sai? È semplice ma buono! - tentennò - Vuoi che te lo tagli?», ma alla vista dell'innocuo coltello a seghetto con la punta arrotondata, Katsuki incassò la testa delle spalle e tremò ancora, un mugolio doloroso gli uscì dalla bocca a sentire la lama stridere contro il piatto.
Izuku sospirò e si avvicinò piano a lui con la sedia, il ginocchio a cercare la sua coscia sotto al tavolo e la mano poggiata mollemente sulla testa del biondo, in una carezza delicata e rassicurante: «È solo un coltello Kacchan. Non ti fa nulla, vedi?», e si passò la lama sul palmo, provocandogli un leggero solletico a quel gesto, fermato prontamente da Katsuki, che aveva fatto volare a terra la posata e aveva preso la mano di Deku tra le sue, premendo le nocche rovinate contro le labbra e guardando il ragazzo al suo fianco con occhi grandi e preoccupati.
«Va-va bene, scusa. Non lo faccio più, promesso. - l'imbarazzo nella voce di Izuku lo faceva balbettare - Se-se lasci la-a mano, vedrai che non mi sono fa-atto nulla, mh?».
Kacchan obbedì docilmente, osservando prima la mano del ragazzo accanto a lui e poi il proprio piatto, avvicinandosi ad annusare il sandwich che, almeno all'aspetto, sembrava commestibile.
L'occhiata sospettosa che lanciò a Deku di sottecchi celava tutta una serie di domande nella sua testa, preda ancora di un terrore sordo che gli stringeva lo stomaco e gli chiudeva il cervello in una morsa.
Strizzò gli occhi e prese con titubanza il panino, provando a convincere se stesso che Deku non l'avrebbe mai avvelenato.
Il primo morso fu strano, amaro, ma non per il cibo in se stesso, quanto più perché la paura falsava tutto: suoni, odori e gusti. Poi, a poco a poco, riuscì a sentire la dolcezza del pane e lo scrocchiare fresco delle verdure sotto i denti. Masticò piano e a lungo ciascun boccone, reclinando dolcemente la testa sulla spalla sinistra di Deku, mentre quello gli passava una mano sulla schiena. «Così va bene, Kacchan. Mangia tutto il panino, da bravo, mh?».
Izuku si domandò per quanto l'effetto di quel quirk subdolo sarebbe rimasto, non sapendo bene cosa volere in realtà; vedere Kacchan tanto vulnerabile, quando invece sarebbe stato in grado di far esplodere pure il mondo intero, beh... Lo straniva. Lo straniva sul serio.
Lo osservava, un misto di stupore ed apprensione negli occhi, mentre quello continuava a sbocconcellare il panino tenendo lo sguardo fisso in un punto della tavola e la tempia appoggiata sulla sua spalla, come se quella scomoda posizione fosse per lui vitale.
Trovava adorabile quella sua strana dipendenza, ma, al contempo, aveva una tremenda paura di non riuscire più a rivedere l'animo combattivo, fiero e indipendente di Kacchan.
Izuku prese un profondo respiro, spostando la mano ad accarezzare lievemente la testa di Katsuki, giocherellando con le sue morbide ciocche ribelli. «Ho avuto paura anche io oggi. Quando ti ho visto lì, rannicchiato, piangente... Avrei voluto correre da te subito, ma non potevo. Lo capisci?».
Katsuki annuì, stringendo gli occhi per evitare di piangere, soffocando l'ennesimo lamento: «Qui...», biascicò, strofinando la guancia sulla spalla dell'amico.
«Hai ragione. Adesso sono qui. Conta questo, vero?».
Non seppe bene come accadde o come Kacchan ci fosse riuscito tanto in fretta da quella scomoda posizione. Capì solo che il ragazzo s'era girato e gli si era avvinghiato al collo, stringendo tanto forte da mozzargli il respiro per un attimo.
Sentire il fiato caldo di Kacchan sull'incavo del collo era una tortura che gli regalava scosse dalla nuca fino alle caviglie, rendendogli le guance bollenti. Sarebbe morto, di tachicardia probabilmente. Ma sarebbe morto contento, stritolato da quell'abbraccio così disperato che lui a malapena ricambiò. Non perché non lo volesse, ma solo per mantenere un adeguato contegno.
Gli batté sulla schiena, qualche colpetto per tranquillizzare i suoi singhiozzi, mentre lo sentiva borbottare una litania di "non andartene" e di "non lasciarmi".
«Kacchan... Dai. Non ti lascio, va bene? Ora però devi finire di mangiare. Un po' di frutta, va bene? – provò a scostarlo con delicatezza – Se mi lasci ti sbuccio la mela, mh?».
Fu un tacito accordo, il loro, che permise a Izuku di liberarsi, preparargli la frutta come promesso e risedersi al tavolo, attendendo che anche lui finisse il pasto.
Il vero trauma, per entrambi, arrivò dopo aver mangiato, quando fu il momento di provare a convincere Katsuki a lavarsi.


«No! - gemette Katsuki – L'acqua no!».
Katsuki era seduto sul pavimento del bagno, tremante e con una mano ancorata alla tuta all'altezza del petto, come se cercasse di proteggere il suo cuore da un destino imminente.
Izuku lo osservava dall'alto, i pugni sui fianchi e l'espressione di chi ne avrebbe pure le palle piene, ma non si può permettere di gettare la spugna.
Era preoccupato perché entrambi avevano bisogno di farsi una doccia per rimuovere lo sporco e il sudore accumulati durante la missione, ma quella che aveva capito essere una profonda fobia della morte, rendeva Kacchan riluttante a lasciare il "sicuro" asilo del suo corpo sudicio.
Izuku sapeva che Katsuki stava solo cercando di evitare l'angoscia della sua fobia, ma era anche consapevole dell'importanza di farlo pulire. Con rinnovato spirito, disse: «Kacchan, so che hai paura, ma non puoi rimanere così.».
«Non posso fare la doccia. L'acqua è fredda... - si portò le mani a proteggere lo stomaco, accartocciandosi su se stesso e continuando a piagnucolare - E poi morirò!».
«Guarda che è una doccia, non un bagno in mare! Se fai una doccia calda ti garantisco che non ti farà niente.».
Katsuki scosse la testa freneticamente. «No, Deku, no!».
Izuku capì che doveva essere risoluto e si rese conto che la decisione che stava per prendere sarebbe stata al pari di scavarsi da solo una fossa.
Con gentilezza si avvicinò a Kacchan, le mani poggiate sulle spalle a fare forza nel raddrizzarlo, un'espressione rassicurante dipinta sul volto a mascherare quel misto di imbarazzo ed esultanza per ciò che doveva fare, mentre gli passava i palmi sulle braccia, fino a prendergli i polsi e a slacciargli dalla presa salda che stavano esercitando sul suo addome.
Notò che aveva la pelle del collo arrossata e l'attaccatura dei capelli sudata. «Andiamo, Kacchan. Ti aiuterà a sentirti meglio.», supplicò, cercando di non sembrare preoccupato.
«Non voglio farmi la doccia!».
Izuku sospirò dolcemente a quell'ennesima rimostranza: «Non è bene che tu resti tutto sudato e appiccicoso in questo modo. – fece una breve pausa - Inoltre, hai un cattivo odore.», aggiunse con tutta la gentilezza di cui era capace, arricciando il naso per far credere a Kacchan che puzzasse, ma non era vero.
Katsuki borbottò qualcosa di incoerente prima di chiudere gli occhi, cercando chiaramente di ignorare la conversazione.
«Oh, andiamo...», provò di nuovo Izuku, stringendogli di più le braccia, «Ti fidi di me, Kacchan?», gli domandò poi, piegando la testa per cercare di allacciare il suo sguardo al proprio; anche solo per un breve istante sarebbe stato per lui una conquista.
Katsuki però sembrava ipnotizzato da quel sorriso rassicurante e, con molta probabilità, avrebbe accettato anche un cucchiaino di cianuro se fosse stato Deku a darglielo in quel preciso momento. Annuì piano, distendendo l'espressione sofferente, lasciandosi guidare dai movimenti lenti del ragazzo che gli stava di fronte, che con le dita gli percorreva il tessuto umidiccio della canotta fino alla cintura, increspandola per farla uscire dai pantaloni: «Allora va bene se comincio a spogliarti?».
Izuku lo vide spalancare gli occhi cremisi e tentare di fermare con tutta la propria forza la corsa di quelle mani che gli stavano sollevando la canotta ormai oltre i pettorali, una sequela di "no" piagnucolati a mezza voce, mentre le lacrime tornavano a rigargli le guance.
Il cuore di Izuku saltò un battito a quella vista, sentendo il calore diffondersi nel suo petto per l'intimità del momento. Certo, l'aveva spogliato anche dopo il festival, ma era diverso, la loro stanchezza era diversa. E l'aveva solo messo a letto, non l'aveva certo accompagnato in doccia terrorizzato! Si trattenne dal mostrare qualsiasi reazione mentre combatteva contro quelle mani che lo stavano intralciando.
«Adesso basta!», gli ringhiò contro Izuku, indurendo lo sguardo, facendo bloccare tutte le sue proteste e i suoi movimenti, permettendogli di sfilargli la canotta dalla testa e dalle braccia, lasciandola cadere ai suoi piedi con un fruscio umido.
«Ecco, bravo. Non farai le stesse storie se adesso slaccio questo?», pronunciò, la voce bassa che accompagnava le dita che sganciavano la fibbia del cinturone sui fianchi, facendolo scendere delicatamente lungo le gambe, mentre i suoi occhi di smeraldo restano incollati ai due rubini che lo osservarono con una punta di apprensione quando Izuku iniziò a slacciare il bottone dei pantaloni neri di Katsuki e ad abbassargli la zip.
Katsuki gemette quando sentì il tessuto scivolargli lungo le gambe, assottigliando gli occhi per guardare Deku con aria minacciosa. «Avrò una congestione...», lo udì mormorare con labbro tremulo. «Non voglio morire.».
Izuku alzò gli occhi al cielo dopo che l'aiutò a togliersi i pantaloni dalle caviglie: «Quanto sei melodrammatico! – li raccolse assieme alla canottiera e li appallottolò, gettandoli in un angolo del bagno – Aprirò l'acqua calda ora.», decretò, avvicinandosi al rubinetto della vasca, azionando il getto d'acqua affinché si scaldasse, prima di tornare di nuovo di fronte a Kacchan e gli sorrise.
S'era auto-imposto di lasciargli addosso solo i boxer neri, nel disperato tentativo di salvare la dignità di entrambi da un gelido imbarazzo, sia sul momento, sia quando l'effetto di quello strano quirk avrebbe lasciato la mente di Katsuki. E Izuku, malignamente, sperò che durasse ancora per un bel po', non tanto per la visione paradisiaca che aveva dinnanzi, quanto più per la remissività di Kacchan a certi comandi, che lo facevano, in piccola parte, sentire potente e gli davano la vana sensazione di prendersi la sua piccola rivincita.
Tuttavia, quello era anche un momento di estrema fragilità e lui non voleva affatto essere colui che si approfittava di un amico in un momento di debolezza.
«Vedi? Ti aiuterà a non morire di congestione, promesso.», e nel pronunciare quelle parole gli passò le dita lungo le braccia chiare, un tocco delicato sulla sua pelle di seta, interrotta da piccole e grandi cicatrici ormai vecchie, che si confondevano col resto del pallore della sua carnagione, e piccole escoriazioni di quella intensa e strana giornata.
Le dita gli afferrarono i polsi, trascinandolo piano verso la vasca. «Niente bagno, ok? Solo doccia. – allungò una mano a saggiare la temperatura dell'acqua – Una doccia bella calda!», e provò a farlo entrare da solo, invano.
Katsuki si stava comportando come un gattino spaventato, che faceva qualsiasi tipo di resistenza per non entrare in vasca, arrivando perfino ad aggrapparsi al bordo con le mani per evitare che Deku lo facesse andare a forza sotto il getto d'acqua.
Così si ritrovò a pensare al volo un'altra strategia, evitando di guardare Kacchan che s'era seduto, mezzo nudo, sul pavimento fresco, a braccia conserte che si teneva la pancia con espressione sofferente.
Izuku sentì un nodo alla gola, mentre tirava giù la zip del costume e si sfilava lentamente la tuta, calciandola via in un angolo e rimanendo anch'egli solo con gli dei boxer verde scuro addosso.
Si sentiva esposto ed in parte vulnerabile, ma anche più libero, molto più libero di quello quanto non credesse possibile. Sorrise imbarazzato mentre Katsuki lo guardava entrare in vasca con gli occhi leggermente spalancati
L'acqua era piacevolmente calda, come aveva promesso a Kacchan, e iniziò a scorrergli addosso come una pioggia di benedizioni. Voleva lavare via il sudore e tutta la polvere e sperava ardentemente che Kacchan lo seguisse.
L'acqua calda gli scendeva tra i capelli e gli inzuppava l'intimo, mentre Kacchan non si decideva a fare altrettanto.
Katsuki per un attimo sussultò a sentirlo slittare sul fondo della vasca e si tirò in piedi di scatto, un movimento troppo brusco e veloce perché Izuku se ne rendesse davvero conto: anche il biondino era entrato con lui nella stretta vasca, ma gli si era avvinghiato contro con una tale impetuosità, che l'aveva fatto sbattere contro il muro alle sue spalle, il rubinetto dell'acqua piantato nelle reni e il getto chiuso per quel contatto improvviso.
«Ma che cazzo!», sbottò, ma senza riuscire ad essere arrabbiato sul serio col ragazzo che lo stava tenendo stretto in un abbraccio fin troppo saldo.
«No! Deku no! No-non fa abbastanza caldo!», piagnucolò, iniziando a farsi prendere dal panico.
Izuku allungò un braccio e alzò immediatamente la temperatura, sentendo il corpo del suo amico teso sotto le sue mani, quando gli toccò la schiena per rassicurarlo.
La pelle chiara di Kacchan era liscia come seta e Izuku si rese conto di avere le mani troppo ruvide e rovinate per tutta quella tenerezza, ma fu più forte di lui strofinargli la schiena in modo rassicurante, cercando di calmarlo. «Va tutto bene, ho capito. Rilassati.», mormorò dolcemente, allungando la mano verso la confezione di bagnoschiuma.
Esitò appena, mordendosi con forza l'interno del labbro inferiore per scacciare col dolore tutte le immagini lascive che gli si erano presentate alla mente a ricordare come avesse usato quel bagnoschiuma poco più di una settimana prima.
Prese un respiro lento assieme al flacone di plastica, prima di aprirlo e capovolgerlo: sulla schiena chiara di Kacchan ora vi era una sottile striscia biancastra che colava, impertinente, tra le sue scapole, accarezzando le piccole sporgenze della sua colonna vertebrale e provocandogli la pelle d'oca solo per la differenza di temperatura.
«Anche questo dovrebbe aiutare...», aggiunse Izuku mentre strizzava tra le mani la piccola salvietta di spugna gialla che Kacchan usava di solito per lavarsi, versandoci sopra abbondante bagnoschiuma e iniziando a passarla sul suo corpo con delicatezza, dapprima sulle spalle ampie e poi sulla parte alta di quella schiena perfetta, facendo attenzione a non esercitare troppa pressione laddove la pelle era arrossata da escoriazioni fresche o da ecchimosi.
Katsuki ringhiò di nuovo nel suo continuo e vano tentativo di protestare contro la pratica abominevole e mortale di bagnarsi dopo i pasti, ma non si allontanò dal tocco di Izuku. Invece, si avvicinò di più ed emise un sospiro quando l'acqua calda lo colpì in pieno. I suoi muscoli si rilassarono un poco sotto le dita attente di Deku, che ora lo scostavano piano e lo facevano raddrizzare con una dolcezza che sarebbe riuscita a sciogliere anche il più tremendo dei suoi avversari.
Il ragazzo, la salvietta infilata nell'elastico dei boxer, versò una noce di shampoo sul palmo della mano sinistra e poi cominciò ad insaponare piano i capelli color grano dell'amico, i polpastrelli che sfregavano con più forza sulla cute gli strapparono un mugolio soddisfatto, di gola, facendogli chiudere gli occhi. Ma quella insulsa paura, quella voragine che gli divorava il cuore, boccone dopo boccone, lo fece tornare alla cruda realtà e indietreggiare nel tenersi lo stomaco con le braccia, la schiena bollente premuta contro le piastrelle fredde, il respiro mozzato da quell'improvviso contatto fuori luogo.
«È solo una doccia, Kacchan. – aveva ancora della schiuma sulle mani e se la portò nei propri ricci ormai irrimediabilmente bagnati - Fai peggio con gli sbalzi termici e lo sai.», gli sorrise Izuku, finendo di lavarsi velocemente i capelli.
Salvietta alla mano, allungò poi il braccio per passare delicatamente il tessuto sul suo petto, dirigendo con l'altra il getto d'acqua calda verso l'amico.
Sorrideva, sì; ma quei suoi occhi di smeraldo a stento riuscivano a mascherare quel fuoco che lo stava pian piano consumando dall'interno, un acido corrosivo che gli mangiava le vene ogni volta che osservava quel petto glabro alzarsi e abbassarsi in respiri affannati. O i suoi addominali contratti e inumiditi dall'acqua.
Perché aveva davanti a sé l'occasione di una vita e non poteva coglierla?
Perché la sua parte buona e dolce e premurosa doveva sempre prevalere?
Però...
Però Kacchan ai suoi occhi era così vulnerabile e fragile e perso che decidere di approfittare di lui non era mai stata davvero un'opzione, nemmeno in quel momento, mentre passava quello straccio bagnato e insaponato sulle clavicole e sui pettorali, forzandolo ad alzare le braccia per lavargli anche le ascelle.
«Che fai?», borbottò il biondino, gli occhi spalancati ed increduli seguendo i movimenti imposti da Deku come se fosse una marionetta.
«Ti sto ripulendo perché tu non collabori. – fece una pausa – Ti va bene la temperatura dell'acqua? È ancora troppo fredda per te?» e Kacchan sembrò scosso da un brivido, i peli biondissimi sul suo addome che si rizzavano a seguito del passaggio della lavetta sul suo addome, indugiando sull'ombelico, fino a sfiorare l'elastico fradicio dei boxer.
Katsuki gemette in risposta a quel tocco, le mani libere di chiudersi contro gli avambracci di Deku per fermarlo, i palmi che si surriscaldavano facendo rilasciare al ragazzo dai capelli verdi un mugolio di fastidio stratto tra i denti.
Staccò di colpo le mani e le chiuse a pugno, irrigidendosi di nuovo su tutto il torso, digrignando i denti nel tentativo di trattenere quelle fastidiose esplosioni e pregando che Deku non vedesse quanto quelle attenzioni lo stavano eccitando; non ora, che si stava chinando di fronte a lui, passando quel fottutissimo pezzo di stoffa tutto attorno sulla coscia destra, fino a sfiorargli con la punta delle dita la parte bassa della natica e il bordo del gambale del boxer nella sua parte più interna. Chiuse gli occhi e lasciò andare la testa contro le piastrelle colpite dal getto d'acqua bollente, il vapore che saturava il piccolo bagno e rendeva l'aria pesante da respirare, anche a causa del profumo fresco e delicato di fiori del bagnoschiuma che sembrava penetrare ogni poro della loro pelle. Nonostante il caldo, i muscoli di Katsuki erano ancora più tesi e nervosi, soprattutto quando Izuku lo obbligò a sollevare la gamba, una presa salda nell'incavo del ginocchio e il piccolo asciugamano che gli insaponava delicatamente polpaccio, caviglia e piede, con una meticolosità che non sapeva davvero da dove derivasse.
Non che di solito non si lavasse per bene, ma Kacchan era un vero maniaco in questo. E Izuku lo sapeva ed era per questo che indugiava, dito per dito, in quella pulizia accurata, senza mai alzare lo sguardo verso l'amico. Sapeva di avere i suoi occhi cremisi piantati sulla nuca, me si sforzò di non darci peso.
Dopo alcuni minuti del tocco calmante di Deku, Katsuki iniziò a rilassarsi di nuovo, consapevole che Izuku non avrebbe lasciato che gli succedesse nulla.
«Deku?».
«Kacchan.».
«Non mi lascerai da solo di nuovo?».
Il ragazzo inginocchiato ai suoi piedi bloccò ogni movimento, irrigidendo le spalle con un movimento impercettibile, prima di prendere un profondo respiro tra l'acqua e sapone che gli bagnavano i capelli e correva sul suo viso troppo caldo. «No, Kacchan. Sono qui.», e gli depositò un bacio leggero sulla pelle bollente della coscia sinistra, prima di adagiarvi contro la fronte bagnata e chiudere gli occhi. «Sono qui.».
Una carezza. Pesante e incerta, ma pur sempre una carezza fu quello che ricevette Izuku, le dita di Kacchan che provavano a pettinargli i capelli all'indietro e un po' lo costringevano a staccare la fronte da quella pelle bollente e a guardarlo, dal basso, in quella posa che avrebbe potuto tranquillamente essere equivoca, o preludio di ansiti e gemiti e di un sogno che poteva diventare realtà in uno sfarfallare di ciglia. Ma si rifiutò categoricamente di guardare verso il tessuto nero che lo stava tentando da un tempo indefinito, dilatato. Perché sembravano sotto quella doccia da secoli, anche se erano solo una decina di minuti o poco più.
«Hai ancora freddo?», ma quello scosse la testa.
Kacchan era bello da morire anche così, col sapone ormai lavato via e i capelli schiacciati sulla testa, le guance rosse per il troppo caldo e gli occhi lucidi. Se per il sapone o quel terrore latente non avrebbe saputo dirlo.
«Hai davvero paura che vada via di nuovo?». Katsuki tentennò e piegò la testa di lato, facendo rilasciare a Izuku un sospiro di esasperazione, mascherato in una smorfia che gli sollevava le guance piene di efelidi mentre tornava ad alzarsi, sciacquando e strizzando a lavetta prima versarci sopra altro bagnoschiuma e porgerglielo, gli occhi che saettavano veloci ed eloquenti verso il basso, prima di fissarlo nuovamente in quei suoi rubini maledettamente attraenti.
«... Ti arrangi.», esalò, e col fiato forse sen ne andò pure la sua forza di volontà: quello non l'avrebbe sopportato. A tutto c'era un limite e il suo era un sottile tessuto nero marchiato Calvin Kline.
Si voltò, per dargli quella parvenza di privacy che in realtà nessuno dei due lì dentro aveva e provò a insaponarsi a sua volta, dalle orecchie al collo, il torace, in fretta, per non dare il senso di abbandono al ragazzone che sospirava pesantemente dietro di sé, tanto che pure con lo scrosciare dell'acqua riusciva a udirlo.
Alzò una gamba, s'insaponò per bene, la stessa cura che aveva messo per lavare Kacchan, gli stessi movimenti. Gamba destra, la sinistra.
Rimase a fissare l'ultima noce di bagnoschiuma che aveva versato sul palmo, sapeva dove era diretta la mano e strinse gli occhi, l'autocontrollo che stava per andare a puttane quando le dita oltrepassarono l'elastico blu dei propri boxer e indugiarono per qualche secondo sulla pelle liscia dell'addome, sulla leggera peluria alla base, mentre lo percepiva teso da far male. Chiuse gli occhi e aggrottò la fronte, deglutendo durante quel lavaggio frettoloso e-
Si sentì avvolgere da un paio di braccia bollenti e forti, le mani aperte sui suoi addominali che lo stringevano come se non lo volessero far scappare, la guancia calda di Kacchan premuta contro la pelle sottile tra la nuca e le scapole, un uggiolio sommesso gli giunse alle orecchie.
Reclinò la testa all'indietro, a sfiorare il capo biondo con il proprio, le mani ancora insaponate si spostarono velocemente a fermare il peregrinare di quelle di Katsuki, che gli si stavano arpionando ai pettorali, riportandole più in basso, intrecciando le dita come a rassicurarlo, a tenerlo più stretto, più vicino di quanto non fosse. «Ehi! Non voglio andare da nessuna parte, se non qui.».
Sentire il calore di Kacchan contro la sua pelle ormai raffreddata fece rabbrividire Izuku, ma non fu spiacevole. In effetti, era stato carino. O un po' più che carino.
O talmente carino che l'istinto prese il sopravvento e si voltò, senza sforzo, prima di chinarsi e premere le labbra su quelle di Kacchan in un morbido bacio. All'inizio era semplice e casto, ma, mentre respiravano l'uno l'odore dell'altro - un misto di paura e sapone - si faceva più profondo, le lingue danzavano insieme in un ritmo lento che faceva girare la testa a Katsuki. Il calore dei loro corpi era quasi perfetto ora, e lui gemette nel bacio, le sue mani trovarono disperatamente la strada verso i fianchi di Izuku, che emise un piccolo sussulto a quel tocco sfacciato, quando sentì le dita di Kacchan premergli la carne con urgenza, scaldandosi in maniera esagerata mentre quel bacio si faceva disordinato e appassionato: la lingua di Izuku schizzò fuori per esplorare la bocca di Katsuki, e le mani di quest'ultimo gli scivolarono lungo i fianchi e poi su, sulla schiena per tirarselo contro.
Katsuki aveva un sapore così buono, che Izuku si ritrovò anche a mordicchiargli il labbro inferiore, strappandogli dal fondo della gola un mugolio di piacere che l'avrebbe fatto venire nelle mutande anche senza toccarsi se solo l'avesse rifatto. Il bacio si fece più profondo e divenne più disperato mentre entrambi cercavano di avvicinarsi, di mettere in contatto più pelle possibile, e le loro lingue danzavano in un groviglio bisognoso. Il cuore di Izuku gli batteva forte nel petto e poteva dire con certezza che quello di Katsuki stava battendo allo stesso ritmo.
L'acqua calda si era notevolmente raffreddata, ma il vapore riempiva ancora la stanza, rendendola ancora più intima e sospesa nel tempo, dove si sentivano solamente i rumori provenienti da entrambi: gemiti sommessi dagli schiocchi umidi delle labbra incollate le une alle altre.
Almeno fino a quando Izuku non interruppe il bacio, scostando Katsuki un po' troppo bruscamente e facendo un respiro profondo per calmare l'incendio che stava divampando nel suo ventre. «Katsuki! Basta! – la voce era rauca di desiderio - Mi stai facendo male!». Un sibilo tra i denti accompagnò le sue ultime parole.
Kacchan piagnucolò a sentire quel tono duro e staccò immediatamente le mani dalla pelle di Izuku, che ora aveva piccole scottature a ricordare dove quelle dita erano passate ed emise un gemito di frustrazione mentre cercava rassicurazione in quegli occhi verdi che lo guardavano ora con severo rimprovero.
«Perché non me lo hai detto? – lo sguardo dubbioso di Kacchan era eloquente – Perché non mi hai detto di questo?», e gli afferrò i polsi con forza, portandoli sotto il getto dell'acqua per togliergli il fastidio delle micro-esplosioni che gli avevano arrossato la pelle dei palmi.
«Io... avevo paura...», esalò, gli occhi di rubino sempre fissi in quelli di Deku, che ora si stava sciogliendo come una pallina di gelato al sole.
L'avrebbe mangiato di baci, divorato se necessario. Perché mai nella vita – mai! – l'avrebbe lasciato andare. Poteva anche tornare il burbero villano che era di solito, ma questo... Questa visione nessuno gliel'avrebbe più tolta: sarebbe rimasta impressa nella parte più profonda del suo cervello, un segreto solo per loro due.
Allungò le braccia, gli afferrò la nuca e se lo strinse contro, la guancia premuta appena sotto la clavicola, l'orecchio che poteva auscultare il cuore e capire di che patologia sarebbe morto di lì a breve, perché non era normale avere le palpitazioni in quel modo!
«Kacchan, non ti preoccupare. – gli carezzò dolcemente i capelli– Ci sono qui io, no? Ti sentirai meglio, te lo prometto.», sussurrò, pressando la guancia su quell'ammasso disordinato di capelli biondi ed umidi, a volergli dire silenziosamente quanto gli volesse bene. Perché a Kacchan bastavano i gesti, non inutili frasi fatte a cui si poteva cambiare a proprio vantaggio il significato.
Katsuki si sciolse sotto quel tocco confortante, il suo corpo rispondeva abbandonandosi di più contro Deku nonostante il nervosismo. Sentì di nuovo le dita passargli tra i capelli e rilasciò un sospiro caldo contro la pelle di Izuku, una sensazione familiare di benessere che lo avvolgeva lentamente.
«Ti va se usciamo? Se ci asciughiamo?».
Quella voce lo riportò a una realtà strana, nebulosa e profumata, sollevando di poco le palpebre mentre annuiva piano contro la pelle calda di Deku, ogni tanto a sfiorarla col naso o con le labbra in una carezza stanca.
Ed era una tortura, sul serio.
Non che facesse male. No, assolutamente no.
Ma gli tirava. Dio se gli tirava! E Izuku tentava in tutti i modi di scostare il proprio bacino da quello di Kacchan perché non ci sarebbe stato nulla di più inopportuno di uno sfregamento. Neppure uno piccolo, perché ci sarebbero state scintille, e dalle scintille sarebbe potuto divampare un incendio pure in mezzo a tutta a quella opprimente umidità.
Fu difficoltoso scostare Kacchan, avvinghiato stretto contro il suo torace, così bisognoso di un contatto fisico che fosse rassicurante. Sembrava un'altra persona, davvero.
Gli tese una mano per dargli la sicurezza di non dover cadere una volta uscito dalla vasca. «Prendila. Così non ti spacchi l'osso del collo.», ghignò, pronunciando quelle parole solo per il gusto di vedere gli occhi sottili di Kacchan spalancarsi in apprensione e sentire la presa salda della mano sulla sua, le dita intrecciate nel disperato tentativo di non scivolare e raggiungere il tappetino candido sano e salvo.
Il suo cuore probabilmente aveva deciso di dargli il benservito, altrimenti non si spiegava quel leggero mancamento che ebbe quando gli mise l'ampio asciugamano sulla testa e lo frizionò per bene sui capelli, scoprendo quell'espressione adorabile e corrucciata che gli aveva visto fare solo una volta, da bambini.
La ricordava fin troppo bene quella faccetta bagnata ed imbronciata, mentre Zia Mitsuki lo asciugava, con la grazia che contraddistingueva la famiglia Bakugō: s'erano attardati a giocare in giardino e un acquazzone li aveva colti di sorpresa.
Il naso era arricciato per il fastidio, gli occhi strizzati e le labbra sottili increspate in una linea dritta che avrebbe voluto baciare ancora, e ancora, e ancora, fino a consumarle; ma si accontentò solo di guardarlo, di prenderlo in giro con una risata e di lasciargli il telo da bagno sopra le spalle, come un mantello.
Scosse la testa per togliere dalla fronte i ricci verdi che s'erano appiccicati alla pelle, prima di recuperare il suo asciugamano e passarlo su tutto il corpo, lo sguardo attento di Kacchan a non perdere alcuna sua mossa.
«Beh? - lo apostrofò con una punta di giocosità nella voce - Io mica ti asciugo sai? Già ti ho dovuto lavare...», ma quello sembrava una statua di sale.
«Guarda che se non ti asciughi prendi freddo. - lo incalzò - E se prendi freddo poi magari ti ammali...», ma non finí la frase per frenare una risata, una di quelle che gli nascevano dalla pancia e lo scuotevano tutto: Katsuki, allarmato dalla miriade di conseguenze nefaste a cui probabilmente aveva pensato, s'era mosso a scatti nel cercare di afferrare il telo per asciugarsi, avvolgendosi al suo interno come se fosse un umido burrito.
Izuku però si rese conto troppo tardi che quel suo ridere sommesso gli aveva fatto scordare un po' in che situazione fosse, soprattutto quando udí un gemito strozzato accanto a lui mentre tentava con noncuranza di scollarsi di dosso i boxer fradici.
«Oh, merda! - borbottò, tirando di nuovo l'intimo al suo posto - Scusa Kacchan!», il rossore ben visibile su entrambi i loro visi.
Si diede dell'idiota ed indietreggiò con calma fino alla porta, aprendola e venendo investito dall'aria fresca del resto della casa. Rabbrividì. Lo fece anche Katsuki, mentre si stringeva di più in quel bozzolo fatto di pregiata spugna di cotone.
«Sentì... Io vado in camera a cambiarmi, va bene? Non scappo né ti lascio da solo! Vado solo a vestirmi e a prenderti qualcosa di pulito!», mise le mani avanti, i palmi aperti e lo sguardo addolcito per essere il più rassicurante possibile.
Katsuki stavolta obbedì: non lo seguí fisicamente nel suo percorso, ma si limitò ad osservarne i movimenti con lo sguardo, appoggiato con la pancia e il torace allo stipite della porta, la sua testa bionda e arruffata che sbucava, curiosa, a verificare cosa stesse facendo in camera.
Katsuki tornò a respirare normalmente quando lo vide spostarsi di nuovo in direzione del bagno: s'era davvero cambiato, una maglietta scura, larga in vita e lunga da coprire a malapena le creste iliache. Teneva in mano dei vestiti e quasi glieli sbatté in faccia: «Maglietta, mutande e pantaloncini. - esitò un momento - Sono i miei... Non mi andava di frugare tra la tua roba, scusami.».
Il biondino continuava a spostare lo sguardo tra lui e i vestiti, muovendo appena le orecchie, le labbra tirate in un'espressione scettica. Poi allungò una mano e li prese, tornando lentamente in bagno.
«Mi aspetti?», brontolò a voce più alta.
«Sì. Ti aspetto qui fuori.», esalò Deku in risposta, la stanchezza di quella giornata che si stava facendo sentire in maniera prepotente quando si appoggiò con la schiena al muro. «Ma fai in fretta, ti prego... Sto morendo di sonno...», borbottò pure lui in risposta.
Poi, con la coda dell'occhio, notò la testa bionda di Katsuki tutta arruffata spuntare dalla porta e, con espressione preoccupata sul volto, mugugnare un semplice «Stai bene?».
«Sto bene... Era solo un modo di dire Kacchan! Sei... Sei pronto?».
Lo vide annuire ed esitare prima di uscire dal bagno e seguirlo, mesto verso la camera, con gli occhi che scrutano lo spazio con circospezione mentre passavano accanto all'angolo cucina, i piatti sporchi ancora da lavare.
Pure la loro camera era in disordine e attese che Deku raccogliesse i vestiti e li cacciasse sulla sedia nell'angolo, alla rinfusa, senza prestare davvero attenzione se fossero suoi o di Katsuki, ma non gli diede fastidio, perché, in quel momento, aveva solo una paura fottuta di non svegliarsi più l'indomani.
Si sentì spostare con delicatezza, le mani forti e rovinate di Deku lo tenevano per le spalle e lo costringevano a indietreggiare fino a farlo sedere sul proprio letto, le lenzuola fresche dli restituivano una sensazione piacevole sotto le cosce.
«Io mi metto lì. – Izuku indicò il proprio letto – E ci resterò per tutta la notte, va bene? Sono vicino a te, quindi non devi avere paura.», disse con tono pacato, mentre il suo sguardo si spostava febbrilmente dagli occhi cremisi di nuovo inumiditi di lacrime alle dita, che Kacchan continuava a stropicciare, a tirare, a scrocchiare per scaricare la tensione. «Puoi annuire per favore?».
Katsuki lo guardò e si sforzò di muovere il capo e di distendersi, rannicchiato col viso verso la porta, a non perdersi alcun movimento di Deku, neppure quando aveva fatto il giro della casa per spegnere tutte le luci rimaste accese, prima di chiudere pure quella della camera, il ventilatore posizionato sulla porta per far circolare più aria.
Izuku si lasciò cadere sul materasso, stremato e scomposto, un lungo e rumoroso sospiro a svuotargli il petto, gli occhi chiusi, rivolti al soffitto: non riusciva a smettere di pensare a quello che era successo in quella giornata concitata e strana, in cui si era sentito profondamente combattuto tra il proprio buonsenso e il bruciante desiderio di avere Kacchan tutto per sé.
Una cosa però era certa: gli era piaciuto prendersi cura di Katsuki. Gli era piaciuto il modo in cui il suo respiro si interrompeva quando si disperava per un rumore troppo forte sentito per strada, gli erano piaciuti persino i morbidi piagnistei che echeggiavano ancora nelle sue orecchie. Era stato tutto così... intimo. Fece del suo meglio per scacciare le ultime immagini di Kacchan umido e arrossato dall'acqua calda, ma la sua mente continuava a vagare indietro, ripercorrendo tutti i piccoli momenti in cui avrebbe voluto solo divorarlo di baci.
Fu un fruscio prolungato a riportarlo alla realtà di quella stanza, al caldo sulla pelle; voltò la testa, delineando, nella semi-oscurità della camera la figura di Katsuki che, in piedi accanto al letto, lo fissava con le braccia conserte.
Ed era estremamente inquietante.
«Che succede Kacchan?».
«Ho paura.».
«Paura di cosa?». Aveva notato che, col passare del tempo, quel mutismo selettivo che aveva manifestato appena colpito dal villain, stava perdendo di intensità e, a parte mugugni e piccoli ringhi, Kacchan stava lentamente riprendendo a formulare piccole frasi che avevano un qualche senso.
«Di addormentarmi.», sussurrò, mentre un'angoscia marcia gli correva dentro, si aggrappava all'intestino e allo stomaco e poi su, ancora più su a bloccargli il respiro con un dolore lancinante che mascherò solo con un gemito trattenuto.
«Hai... Paura di addormentarti?», e lo vide annuire, prima di esalare solo cinque parole che furono come un pugno nello stomaco di Izuku: «E di non svegliarmi più.».
Quanto poteva essere subdolo quel potere? E quanto stava soffrendo quel povero ragazzo?
Izuku stavolta non sorrise, né cercò parole dolci per rassicurarlo o per provare a convincerlo a starsene sul suo letto a tutti i costi, come invece aveva fatto con la doccia. Un sospiro pesante gli uscì di nuovo dalle labbra, mentre strisciava più in là sul materasso e, con un gesto fluido del braccio, accarezzando lo spazio vuoto accanto a lui: «Vieni qui allora... C'è un sacco di spazio.».
Katsuki esitò prima di sedersi, il materasso che si piegava sotto il suo peso.
Dapprima si distese, teso nei movimenti, i respiri controllati, gli occhi spalancati nel buio come se pure quelli lo aiutassero a prendere aria, a fargli battere il cuore e sentirsi vivo.
Fu Izuku, un po' stanco di tutto quel combattere come farebbe una madre contro un bambino capriccioso, ad avvolgergli il braccio attorno alla vita, farlo rotolare di lato contro di sé, un urletto spezzato per la sorpresa e un letto a una piazza troppo piccolo per entrambe le loro fisicità.
«Adesso sei qui con me, Kacchan. - sussurrò Izuku, con la voce appena al di sopra di un soffio mentre si chinava per strofinare il naso contro i capelli del biondino - Va tutto bene adesso, puoi dormire.», e inspirò profondamente il suo profumo familiare. Era confortante ed eccitante allo stesso tempo.
Katsuki, passato un primo momento di smarrimento, si accoccolò sul petto di Deku. C'era un caldo asfissiante in quella stanza, e né il condizionatore né il ventilatore riuscivano a mitigare quella sensazione. O forse era tutto nella sua testa, perché avevano solo la pelle accaldata dopo la doccia e quella cosa a Katsuki non stava dando poi così tanto fastidio.
Cercava quel calore, si aggrappava forte alla maglietta di Deku come se fosse un salvagente in un mare in tempesta, con l'orecchio premuto sul suo petto e il rimbombo costante del suo cuore che lo cullava e lo calmava, un battito dopo l'altro, inesorabile, incessante.
E quel suono era musica, una dolce ninna nanna che gli fece chiudere gli occhi nel rilasciare un profondo, caldo sospiro, prima di parlare: «Mi piace.».
«Che cosa?». Izuku passava le dita tra i capelli biondi, umidi e disordinati, in modo rassicurante, cercando di dormire un po' prima del suono della sveglia. Nella penombra, osservava la schiena di Katsuki alzarsi e abbassarsi a ogni respiro tremolante, il suo cuore si strinse al pensiero di ciò che aveva passato Kacchan.
«Questo...», e il biondo aprì la mano, spostandola al centro esatto del petto, una lieve pressione per far capire di cosa stesse parlando. E Izuku sentì più caldo, le guance andare a fuoco per qualche stupida parolina.
«Kacchan... – ma le parole che stava per pronunciare gli sembravano solo superflue – Hai ancora paura?», ma il biondino rispose solo con un dolce mugolio soddisfatto, la presa attorno al suo torace si fece più stretta.
Di tanto in tanto, le dita di Izuku sfioravano la schiena di Kacchan da sopra il tessuto, tracciando disegni fantasiosi mentre ne assaporava la vicinanza. E Katsuki capiva di essere al sicuro tra quelle braccia, tanto che il suo cuore sembrava battere più forte quando le dita di Deku lo sfiorano.
Le loro gambe si aggrovigliarono come tralci di edera, le une alle altre, alla ricerca di una posizione comoda per entrambi.
A Izuku non dava fastidio il contatto con la figura bollente di Kacchan, anche se avrebbe comunque voluto che quelle strusciatine gentili fossero di tutt'altra natura, ma si accontentò.
«Oggi è come se fossi stato la tua badante!», se ne uscì, tutto d'un tratto, ridacchiando sommessamente, il suono cupo della sua voce bassa stimolava l'orecchio di Katsuki, facendolo sorridere e strofinare di più la guancia sul tessuto morbido della maglietta.
Entrambi i ragazzi rimasero in silenzio per un po', assorbendo il calore l'uno dell'altro, in ascolto dei deboli suoni notturni provenienti dall'esterno o del battito incessante di un cuore.
L'unica fonte luminosa della stanza era la finestra, coperta da una spessa tenda, ma che faceva comunque filtrare la fastidiosa luce giallastra dei lampioni lungo la strada, proiettando lunghe ombre sulle lenzuola disordinate e sui loro corpi avvinghiati.
«Giornata strana, non credi?». Un mugugno in risposta, che sembrava un invito a continuare, la presa sul suo corpo più salda.
«Sì. – ridacchiò – Volevi solo stare con me, lo capisco. È stata dura per entrambi.». Il caldo peso del corpo di Katsuki che premeva contro di lui era confortante. Tracciò le linee della mascella del ragazzo con la punta delle dita prima di chinarsi per dargli un morbido bacio sulla testa, i capelli che profumavano di fiori.
«Sai... Era successo anche a me una volta. Di avere paura di non svegliarmi più. – fece una pausa, in cui sbadigliò rumorosamente e Katsuki ripeté quel gesto di riflesso – Mamma quella volta mi aveva cantato una canzone per farmi stare meglio. Vuoi che provi a cantare per te?».
Non attese una risposta, ma improvvisò un sommesso mugolio a labbra serrate, di gola, lievemente stonato.
Era tenera quella cosa; tenera e maledettamente carina e Katsuki si disse che, dopo quello, avrebbe anche potuto morire, a giudicare anche da quanto il proprio cuore galoppava nella cassa toracica alla ricerca di una via di fuga, di schizzare fuori e lasciarlo lì, esangue. Ma ne sarebbe valsa la pena, morire felice.
Quando però percepì che il gorgheggio si affievoliva e a tratti cessava, alzò di poco la testa verso Deku, e il suo movimento sembrò ridestarlo, gli occhi pieni di preoccupazione fecero formulare a Deku una domanda stupida: «E adesso che succede?».
«Ti prego, non dormire. O non...». Si preoccupava che anche Izuku non fosse in grado di non svegliarsi più l'indomani mattina se si fosse addormentato. Lui poteva anche morire, Deku no.
Perché nella sua mente, in quel casino fatto di terrori immotivati e paure adolescenziali riesumate, la vita di Deku era più importante.
«Non morirò nel sonno, Kacchan!», sussurrò quasi scherzando Izuku, con la voce appena al di sopra di un soffio udibile, la mano a carezzare pesantemente la testa di Katsuki «E starò di guardia, controllerò che tu sia vivo... Così puoi provare a riposare un po', che ne dici?».
Il battito cardiaco di Katsuki accelerò, tremando leggermente sotto il tocco di Izuku che gli scostava piano i capelli dalla fronte, nell'attesa che arrivasse un bacio, che però non giunse mai.
Le unghie corte affondavano nel tessuto della sua maglietta mentre cercava di rimanere fermo a guardarlo. La testa aveva ricominciato a pulsare e i suoi occhi erano pesanti, ma la paura di chiuderli, la paura di non svegliarsi più...
Katsuki abbassò di nuovo la testa, cercando ancora quel calore confortante e la rassicurazione delle carezze lievi di Deku sulla schiena.
«Hai sempre un odore così buono...» borbottò, con la voce ruvida per il sonno e il naso strofinato sulla maglietta che ricopriva i pettorali saldi di Deku, prima di avvolgere il braccio sinistro più stretto attorno al suo addome.
Izuku se lo strinse forte contro, il respiro pesante che accompagnava un lieve dondolio sul materasso.
«Sei al sicuro con me, Kacchan...», mormorò Izuku, in un ultimo sprazzo di lucidità in mezzo alla stanchezza che gli rendeva le membra pesanti, esalando un respiro più profondo, a cui fece eco quello di Katsuki, la stessa pesantezza nelle palpebre e nel corpo, che si abbandonava del tutto contro quello di Deku, facendo sprofondare entrambi tra le evanescenti braccia di Morfeo.
 
Do you know I can never leave you?
And no I can never beat you?
And if I, I could never find you,
Never mind, I will not forget you.
Can I stay alive forever?
Forever.
⁓ Breakin Benjamin ⁓





- - -
* La thanatofobia è un'intensa paura della morte o del processo che porta alla morte. Un altro nome per questa condizione è anche "ansia da morte", che si manifesta verso la propria o per la morte di qualcuno a noi caro.

 

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Capitolo 16
*** The version of you in my head wasn’t true ***


The version of you in my head wasn’t true



 
Bisognerebbe fare come i girasoli.
Girarsi solo per ciò che conta veramente.
⁓ SilviaSplash ⁓
 
9 luglio

 
Il sole del mattino iniziava a filtrare attraverso la tenda della camera, illuminando i loro corpi ancora intrecciati, i respiri rallentati e la stanza silenziosa. All'esterno si iniziavano a udire i cinguettii sommessi degli uccelli, che segnalavano, allegri, l'inizio di un nuovo giorno.
Izuku, che da sempre aveva avuto il sonno pesante, stavolta fu il primo a muoversi, soffocando tra le labbra uno sbadiglio. Aveva ancora le braccia avvolte strettamente intorno alla vita di Kacchan, il petto premuto contro la schiena dell'altro. Una delle mani si mosse finendo al centro del petto di Katsuki, sentendo il battito costante del suo cuore sotto di essa. Erano così da ore.
Aveva dormito male, ma non per Katsuki. O, meglio, anche per colpa sua.
Quella stupida promessa di controllarlo che non morisse nel sonno l'aveva reso irrequieto e s'era svegliato più volte, quasi ad ogni ora, per posargli una mano sulla schiena o sotto il naso o due dita sul collo solo per verificare che fosse vivo.
Si chiese se anche Kacchan l'avesse sentito, provato sollievo a quei tocchi delicati nell'oscurità.
In uno dei brevi momenti in cui aveva tentato di riposare s'era pure svegliato di soprassalto: aveva sognato che Kacchan venisse ferito, quasi ucciso, come durante la guerra. Quando poi aveva controllato, il suono ritmico del respiro dell'amico lo aveva calmato abbastanza da permettergli di riaddormentarsi per un'ora o due.
Non era sicuro di niente ormai, perché quella giornata passata ad accudirlo l'aveva smosso nel profondo e il continuare a rimestare i sentimenti che gli ribollivano nel petto sembrava come affondare il mestolo in una pentola di minestrone.
Emise un profondo sospiro e strinse e rilasciò la presa su quel corpo sudaticcio che lo stava scaldando all'inverosimile, prima di affondare la testa di più sul cuscino e provare a dormire ancora un po'.
Mentre cercava di riaddormentarsi, si chiese se quello che era successo a Kacchan avesse intaccato anche i suoi ricordi e si ritrovò combattuto tra il sollievo di sapere che tutto sarebbe sparito al risveglio dell'amico, e il dispiacere che quella giornata che avevano appena passato fosse al pari di un sogno evanescente per lui. Quest'ultimo terrore sottile, che lui si svegliasse e avesse dimenticato tutto, gli serpeggiò nelle viscere, ansa dopo ansa nell'intestino, fino a chiudersi in piccoli crampi fastidiosi.
Allentò la presa senza davvero rendersene conto e fu in quel momento che fu come se Katsuki percepisse il malessere interiore di Izuku e, borbottando qualcosa di incoerente, si mosse con poca grazia nel suo dormire, il materasso che saltellava sotto il peso delle spinte che lui dava con spalle e bacino per voltarsi, finendo per fronteggiare Izuku, rannicchiarsi di lato contro di lui, muovendo le gambe per intrecciarle di nuovo con quelle del ragazzo al suo fianco.
Izuku spostò la testa appena in tempo per schivare una testata da Kacchan, che si stava di nuovo accoccolando contro il suo petto con un mugugno infastidito.
Il cuore di Izuku accelerò i battiti alla sensazione del respiro caldo di Kacchan che passava la maglietta sottile e s'infrangeva sulla sua pelle, inviandogli una scossa di elettricità da quel punto a diramarsi in ogni muscolo.
Spalancò del tutto gli occhi a sentire la coscia sinistra del biondino farsi strada tra le proprie e premere contro le sue palle, che, cazzo!, già gli facevano male per tutte le volte che quell'idiota gli si era strusciato addosso col sedere, e ora...questo! Trattenne un sospiro e lo rilasciò, leggero e prolungato, tra i capelli di Kacchan che sapevano ancora di fiori.
Quando percepì le labbra di Katsuki premute sulla parte di pelle morbida che stava tra le clavicole, i brividi seguirono lo stesso percorso di quelle piccole scosse elettriche che lo stavano risvegliando pian piano, e si sforzò di restare calmo quando sentì che si muovevano più di lato e che gli succhiavano dolcemente la pelle.
Scosse leggermente la testa, cercando di schiarirsi le idee e scacciare qualsiasi pensiero che risultasse sopra le righe per quel momento, che, alla fin fine, era al pari di una tregua. O di un idillio effimero pronto a sgretolarsi col risveglio di Kacchan.
Ma dentro di sé, il cuore batteva all'impazzata per l'eccitazione e il nervosismo e aveva paura che l'altro lo sentisse, che quelle labbra fossero rivelatrici di cose che lui voleva tenere chiuse, sopite. Con risultati pessimi in realtà, perché più la bocca di Kacchan si muoveva lungo la sua gola tesa, più tutto il suo autocontrollo vacillava miseramente.
Poi i baci finirono e ci fu solo il respiro profondo di Katsuki a scaldargli la pelle, lo strusciare leggero del suo naso contro la giugulare che pulsava impazzita, un mugolio sommesso e uno sbadiglio non trattenuto.
«Non lasciarmi...», lo udì borbottare, con la voce ruvida per il sonno, prima che il braccio di Kacchan si avvolgesse più stretto attorno a lui, avvicinandolo ancora di più, la mano, passata sulla schiena, premeva delicatamente.
Sollievo.
Fu tutto quello che provò Izuku,  stringendolo addosso a sé, lasciando che il suo corpo muscoloso e accaldato aderisse a quello di Kacchan, la mano passata a scompigliarglistringendoselolui teneramente i capelli biondi. «Sono qui. Non ti lascio.».
Senza aprire gli occhi, fece scorrere delicatamente le dita tra i capelli disordinati di Katsuki, sentendo le ciocche setose scivolare tra le sue dita. Il materasso scricchiolava mentre spostava il peso, cercando di trovare una posizione più comoda, e Izuku non poté fare a meno di inalare il profumo unico che lo avvolgeva e sembrava essere sorprendentemente confortante, nonostante lo strano e unico miscuglio di emozioni che s'intrecciavano nel suo petto, facendo quasi male. Cercò di calmare i propri pensieri, di concentrarsi sul momento, godendosi la vicinanza che stavano condividendo.
Però la consapevolezza che l'effetto di quel quirk subdolo fosse ancora lì, ad aleggiare in quel corpo forte lo rincuorò, forse perché temeva un risveglio normale, in cui tutto tornava a prima, in cui tutto era più difficile.
Mentre la barba corta sulla mascella di Katsuki gli sfiorava il collo, lasciando un leggero raschio, ricordò di tutte le volte in cui avevano litigato, anche durante la loro convivenza forzata. Tutte le volte in cui, negli anni avevano provato a far pace, tutte le volte che avevano pianto l'uno per l'altro e tutti i momenti in cui avevano condiviso risate.
Loro due erano famiglia. E lo erano sempre stati senza davvero saperlo.
Forse, avrebbero potuto trovare un equilibrio tra amicizia e... qualcos'altro.
Perché qualcosa nel modo in cui il corpo di Kacchan si adattava al suo sembrava giusto, come se fossero fatti l'uno per l'altro.
Il lieve gemito che uscì dalla gola di Katsuki gli mandò ancora brividi lungo la schiena.
La testa bionda sfuggì alle sue carezze, le gambe si mossero di più tra le sue, il piede nudo ad accarezzargli il polpaccio, la fronte che si strusciava contro il petto, piccoli versi che sembravano fusa che precedevano un altro sbadiglio rumoroso che gli scaldò lo sterno da sopra la maglietta.
Un sospiro soddisfatto lasciò le labbra del biondino, che gli si accoccolò più vicino. «Sei così caldo...», mormorò dolcemente prima di tornare a dormire.
Bene, era deciso: sarebbe esploso. Pure senza l'aiuto della nitroglicerina di Kacchan.
Izuku non riusciva a spiaccicare nemmeno una parola, tanto secca era la sua gola in quel momento, arrossì per quel commento così intimo, ma non poté fare a meno di soccombere all'ondata di felicità che lo stava travolgendo.
Sentiva il cuore battere forte mentre le parole si registravano nella sua mente. I suoi pensieri correvano mentre cercava di dare un senso a quello che aveva appena sentito: quelle parole sembravano di natura quasi romantica, portando Izuku a credere che tra loro stesse accadendo davvero qualcosa di più.
Rimase lì ancora per qualche istante, assorbendo il calore innaturale irradiato dal corpo di Kacchan e permettendo a se stesso di provare a sentirsi sicuro e protetto nel suo abbraccio così come lui aveva sperimentato per tutta la notte quel senso di protezione che Izuku aveva cercato di dargli. Alla fine, però, sapeva bene che avrebbero dovuto alzarsi. E uscire da quella piccola bolla senza alcun concetto di tempo voleva dire anche capire cosa poteva significare quello che avevano passato, capire come potevano andare avanti insieme senza rovinare nulla di ciò che già non fosse fragile e in equilibrio precario.
Strofinò il viso contro la guancia di Kacchan, inspirando profondamente, assorbendo l'odore familiare - un misto di shampoo e di lieve sudore dolciastro - e il suo cuore batté forte a quel contatto.
Baci morbidi si susseguono lungo la mascella di Katsuki, presa tra le dita e fatta voltare a suo piacimento, tracciando i contorni frastagliati della cicatrice sino alla guancia, per depositare un tocco gentile sul suo occhio destro chiuso, guadagnandosi un lieve piagnucolio da parte di Katsuki.
Sentirlo remissivo al suo tocco era così strano ed eccitante che si rese conto di non volersi davvero fermare a baciargli la fronte, inspirando una volta di più quel lieve sentore di fiori, di pulito, che Kacchan si portava dietro in quella bolla fatta di lenzuola stropicciate, caldo e tenerezza.
«'giorno...».
Quella voce graffiata lo fece allontanare con la testa di scatto, una parola soffiata dalle labbra che stava per baciare.
«'giorno...», rispose, incerto, un sussurro e un grumo di saliva che stentava a scendere lungo la gola. Katsuki mormorò qualcosa di incoerente in risposta, ancora mezzo addormentato, ma che fece gonfiare il cuore di Izuku di sollievo e d'affetto.
Rimasero così ancora per un po', rannicchiati sotto il lenzuolo, con il respiro rallentato in sincronia. Era pacifico, confortante stare lì nonostante il caldo, e Izuku si ritrovò a riaddormentarsi, ascoltando il battito del cuore di Katsuki sotto la sua mano.
Qualche tempo dopo, fu Katsuki a muoversi di nuovo, stringendo istintivamente il suo braccio attorno a Deku, stavolta spalancando gli occhi cremisi, sbattendo più volte le palpebre, svegliandosi completamente ancora avvinghiato all'amico, un braccio intorpidito tra i loro corpi vicini.
Mise a fuoco e osservò il muro, cercando di capire in che posizione fosse, un capogiro lo costrinse a strizzare gli occhi e riaprirli, guardando la tenda, da cui filtrava molta luce, prima di concentrarsi su Izuku: un piccolo sorriso tendeva le labbra dischiuse e un lieve rossore sulle guance rendeva più scure le sue lentiggini, che sembravano moltiplicarsi sulla pelle abbronzata. «Sei ancora qui...», mormorò.
«Mh-m.», canticchiò quell'altro, un occhio verde aperto pigramente ad osservarlo. «Sei sveglio.».
«Anche tu.», mormorò, con la voce ruvida per il sonno.
Izuku strofinò la guancia sul cuscino provando a stiracchiarsi un poco, per quanto la loro scomoda posizione potesse permetterglielo. «Io non ho propriamente dormito. Ma tu...».
Katsuki aggrottò le sopracciglia sentendo le labbra umide di Deku posarsi sulla pelle accaldata della fronte. «Non credevo riuscissi a dormire così profondamente!», lo canzonò.
In effetti, non aveva ricordi di aver dormito così bene nell'ultimo periodo e mai si era sentito così a suo agio come in quel momento, anche se si stava stringendo addosso a Deku.
Izuku si passò una mano sul viso, coprendo uno sbadiglio: «Non che avessi una reale scelta, visto cosa ti era successo e lo stato in cui eri.», gli occhi verdi lo scrutavano, pensierosi: «Non potevo lasciarti solo. Mi hai chiesto di stare con te e io mi sono solo assicurato che stessi bene.».
Katsuki sospirò, alzando il braccio e facendo scorrere le dita tra i capelli verdi disordinati di Izuku. Aveva sempre odiato avere quel nerd tanto vicino, ma, nell'ultimo periodo...
«Sì... lo apprezzo.», mormorò. «Probabilmente ti ho fatto preoccupare.».
«Abbastanza.», rispose Izuku, chiudendo gli occhi per godersi quella specie di carezza che Kacchan gli stava lasciando sulla testa e sulla guancia, dove aveva lasciato che la sua mano pesante e ruvida gli scaldasse la pelle già bollente.
«Mi dispiace per ieri.», mormorò Izuku strusciando contro la pelle del palmo di Katsuki. «Mi dispiace che tu ti sia sentito così perso. Io...», tentennò, incerto e spaventato di sapere che ricordava tutto. O forse più terrorizzato all'idea che non ricordasse nulla.
Rimasero di nuovo in silenzio per un momento, contenti di essere semplicemente l'uno in presenza dell'altro. Alla fine, Izuku riprese: «Dovremmo parlarne, però.».
Le parole di Izuku rimasero sospese nell'aria per qualche istante, e Katsuki sentì il cuore balzargli in gola. Sapeva cosa intendeva Izuku: stava parlando di tutti i sentimenti che si erano accumulati tra loro ormai da giorni. Katsuki ci aveva pensato un milione di volte prima, ma non era mai stato abbastanza coraggioso.
«Di cosa?», chiese, scrutandolo dentro quegli occhi chiari che ora si aprivano e chiudevano con un velo di tristezza a inumidirli. «Di quello che è successo dopo lo scontro?».
Guardò Izuku, meravigliandosi di quanto fosse bello anche con quei solchi scuri ai lati del naso che lo rendevano ancora più trasandato di quanto l'ammasso di riccioli verdi non lo facesse sembrare. «Di come mi hai accudito come farebbe mia madre?».
Gli occhi verdi di Deku si spalancarono un poco, le labbra si separarono in una piccola espressione di sorpresa. Cosa credeva? Che non ricordasse nulla? Stupido, bellissimo, idiota.
«O di come ci siamo limonati in doccia?».
Il cuore di Izuku si contrasse per la vergogna, perché, al di là di quella che era una sua ossessione che si portava dietro dall'adolescenza, alla loro amicizia teneva più di ogni altra cosa. E per quanto sperasse che ci fosse qualcosa di finalmente più profondo e significativo, l'idea di aver sgretolato tutto per un capriccio gli faceva mancare l'aria.
Katsuki fece un respiro profondo prima di parlare ancora. «Sì.», disse tranquillamente, «Dovremmo parlare.» e Izuku sentì le dita di Kacchan sfiorare leggermente il suo braccio e il calore gli riempì il petto mentre intrecciavano le dita insieme. Izuku irrigidì la schiena per un momento, quando la realizzazione di cosa ciò potesse significare lo colpì con tutta la sua forza.
«I-io...», Izuku balbettava, colto alla sprovvista da quelle domande tendenziose, dal tono stranamente calmo di Kacchan, che anticipava di sicuro una tempesta di proporzioni epiche. Però gli faceva ben sperare il fatto che fossero ancora lì, distesi faccia a faccia in quel letto troppo stretto e che lui fosse ancora vivo e non esploso in mille pezzetti.
«Rilassati.», gli soffiò contro Kacchan, l'espressione distesa di chi sembra aver dormito un sonno ristoratore dopo anni.
Caddero ancora una volta in un silenzio pensoso, persi nei loro pensieri. L'aria nella stanza era densa di parole non dette e sentimenti non riconosciuti. Ma entrambi sapevano di amarsi a vicenda, ed era qualcosa che non potevano permettersi di perdere.
«Questa cosa... Questa cosa del quirk sembra una barzelletta.», esalò, una punta di esasperazione nella voce graffiata. «Ma tu non hai idea di come mi sia sentito.».
«Mi dispiace, Kacchan. Credimi.», e il biondo annuì, un profondo respiro prima di riprendere a parlare.
«Mi sono reso conto, in quel delirio, che ne ho passate tante.». Rimase in silenzio, immagini terrificanti dietro gli occhi chiusi lo fecero sussultare e preoccupare Izuku, che strinse di più la sua mano. «Troppe. Tu ed io ne abbiamo passate troppe.», disse a bassa voce, ripercorrendo tutte le loro avventure, sia quelle belle che quelle brutte.
Izuku provò a sorridergli dolcemente prima di rispondere a quella che non era neppure una domanda, solo una pura e semplice ricerca di conferme: «Sì, l'abbiamo fatto, Kacchan.». La sua voce suonò piena di comprensione, di sfortune condivise e sfide superate sempre fianco a fianco e Katsuki sentì un'ondata di calore travolgerlo con quella risposta.
Katsuki intrecciò strettamente le loro dita mentre guardava quei luminosi occhi verdi. «E ho capito che non importa cosa succede.», iniziò con fermezza, la determinazione trapelava in ogni parola: «Tu sei sempre lì, tra i piedi, a combattere per me.».
Izuku fece una piccola risata: «Anche tu l'hai fatto per me, o sbaglio?».
«Già.».
Rimasero in quella bolla di silenzio confortevole, fino a che un sospiro pesante di Katsuki anticipò delle parole che sembravano come pietre gettate a forza in uno stagno solo per vedere l'espandersi delle increspature sull'acqua.
«Voglio che tu sappia che anche io sono qui per te, come hai fatto tu per me. E lo sarò sempre.».
Izuku si ammutolì, scrutando il profilo di Kacchan che ora guardava il soffitto, le guance così adorabilmente arrossate.
«Lo so, Katsuki.», forzò con una mano il suo viso a fronteggiarlo, fissandolo dritto negli occhi: «Non serviva esplicitare l'ovvio.».
Lo udì schioccare la lingua sul palato, la solita espressione diffidente che gli assottigliava gli occhi e che era così sollevato di vedere che il sorriso sulle sue labbra si distese, sollevandogli le guance fino a fargli quasi male. «È bello che sei tornato, Kacchan.».
Katsuki ruppe il silenzio schiarendosi la gola. «Ora dovremmo parlare anche di quello che è successo nella doccia.».
Izuku annuì in accordo, sentendo un'ondata di nervosismo travolgerlo al pensiero di ciò che sarebbe scaturito da tutta quella apparente calma.
«Io... Ecco: mi dispiace Kacchan! Io so che non avrei dovuto approfittare così della situazione, scusami...»
«Tranquillo io volevo solo... parlarne.», e fece un piccolo sorriso che non raggiunse i suoi occhi cremisi.
Izuku esitò un attimo prima di annuire. «Mi sta bene. Parlarne, intendo.» Fece un respiro profondo, cercando di calmare i nervi, con scarsi risultati: «È che i-io davvero non so cosa mi sia preso!».
«Deku... Stai iniziando a blaterare.».
«Giuro! Eri lì ed è successo!».
«Deku.».
«È che, Dio!, tu eri così carino, e bisognoso di protezione e hai smosso una parte di me che mi ha porta-a-».
Ma la presa salda della mano di Kacchan sulla sua nuca e le sue labbra morbide sulla sua bocca fermarono ogni sproloquio di Izuku, che rilasciò un piccolo gemito in quel bacio, prima che il contatto venisse interrotto, troppo bruscamente per i suoi gusti.
«Izuku... Smettila.», e gli strinse i capelli sulla nuca con forza, fino a farlo gemere per quel dolore improvviso. «Sei sempre il solito nerd...», mormorò, a un soffio di distanza da quelle labbra.
Guardò Izuku negli occhi con un'intensità che fece rabbrividire il ragazzo a cui stava ancora avvinghiato, nonostante il calore delle lenzuola che li circondavano. In quel momento, tutto ciò che Izuku poté fare fu annuire silenziosamente in segno di consenso, sopraffatto dalle emozioni che gli scorrevano nelle vene. «Scusa.».
Katsuki increspò le labbra prima spostare la mano dalla nuca alla guancia bollente di Deku, il pollice a sfiorare lo zigomo, lasciando dietro di sé una scia calda e frizzante sulla pelle piena di lentiggini: «Finiscila di scusarti. Ti avrei fatto esplodere se non l'avessi voluto. Già una settimana fa.».
E con quelle parole ancora nell'aria, caddero ancora una volta in un silenzio pensieroso. L'aria nella stanza sembrava densa di caldo e di parole non dette e sentimenti non espressi.
«Ho anche io una domanda per te, Katsuki.». Gli occhi verdi si assottigliarono e il tono si fece improvvisamente più deciso: «E ho bisogno che tu mi dica la verità.», aggiunse, stringendo il polso del biondo per togliersi la sua mano dal viso.
Gli occhi cremisi di Katsuki lo scrutarono con diffidenza, la dolcezza del momento svanita di colpo, stavolta non per colpa sua. «Va bene.».
Izuku aveva cercato le parole adatte, sperando di non offenderlo e che lui gli rispondesse con sincerità. «Quando ci stavamo baciando in doccia...», e si bloccò perché un brivido gli percorse la schiena a quel ricordo: «Mi hai bruciato con delle esplosioni. Ed era come se non le controllassi.».
Katsuki strinse forte la mascella e guardò altrove, evitando volutamente gli occhi indagatori di Izuku. «Era una situazione particolare. Scusa se ti ho fatto male. Non l'ho fatto di proposito.», borbottò, cercando di minimizzare la questione, il cuore ormai di ghiaccio all'idea che la sagacia del nerd avesse scoperto il suo scomodo problema.
Un mugugno, le labbra serrate e gli occhi verdi fissi a controllare l'espressione imbarazzata di Kacchan. «Una situazione particolare?».
«Già.».
Il letto scricchiolò sotto il peso di Izuku che si spostava, sgraziato, e costringeva Katsuki a rotolare sulla schiena, gli occhi rossastri spalancati a vedere Deku puntellato con il gomito sinistro contro il materasso, la coscia che spingeva chiaramente contro il suo inguine. «Che stai facendo?».
Nei suoi occhi si accese una fiamma intensa e improvvisa: «Una situazione particolare.».
«Ma ch-», ma le parole furono soffocate dalle labbra di Deku, premute sulle proprie, accompagnate da un soffio leggero mentre riprendeva a parlare: «Lasciami capire, Kacchan...», il tono quasi implorante, mentre lo baciava di nuovo.
Che fosse un esperimento era vero.
Che quell'esperimento nascondesse una piccola rivincita, beh... Non gliel'avrebbe certo detto!
E, contrariamente a ciò che si era imposto, Katsuki si ritrovò travolto dalle sensazioni, inebriato dal modo in cui inclinava la testa per baciarlo meglio e come lo provocava, divorando la sua bocca fino a farla vibrare tutta di eccitazione, costringendolo ad inarcare la schiena sul materasso per andargli incontro in un gesto disperato, le mani che gli afferravano saldamente la maglietta e il braccio che, ora lo sentiva, seguiva i movimenti della mano che vagava su tutto il torace, a stringergli il fianco con possesso.
Non aveva ipotizzato un'evoluzione del genere di quella mattinata. Lui... Lui voleva solo chiarire.
Avrebbe dovuto aspettarselo da Deku.
Ma lo lasciò fare. Staccò le mani e le passò febbrilmente sul lenzuolo per poi allacciare le braccia al collo di Izuku affondare le dita nei capelli umidicci e scompigliati, passarle sulle spalle, sulla schiena, i palmi sempre più caldi e umidi che si aprivano sulla sua maglietta, cercando di asciugarli.
Almeno fino a che il suo cervello non andò in corto circuito, quando i baci passarono al collo e la mano di Deku si spostò sul suo inguine, toccandolo da sopra il tessuto dei pantaloncini di cotone, strappandogli un gemito gutturale a quella piacevole frizione, il calore che risaliva dall'inguine allo stomaco e lo stringeva in una dolce morsa.
«Ahi!».
Il lamento di Izuku lo fece ripiombare nella realtà quando il peso accanto alla testa non c'era più, come neppure le labbra umide sul suo collo e i suoi occhi misero a fuoco con difficoltà la figura di Deku, inginocchiata tra le sue gambe, le braccia dietro la schiena per sfilarsi in maniera goffa la maglietta, scoprendola bruciacchiata esattamente dove aveva tenuto le dita.
Katsuki cercò di recuperare un respiro regolare con fatica, lo sguardo che vagava dal torso nudo di Deku alla maglietta che osservava e si rigirava tra le mani.
«Esperimento fallito.», decretò il ragazzo, passando la mano tra i riccioli verdi, rilasciando un sospiro rassegnato. «Sei un bugiardo, Kacchan.».
«Omettere non è mentire.».
«No. Hai ragione. È peggio.».
A quelle parole, Katsuki ebbe l'impressione di aver rovinato definitivamente tutto, come il suo solito.
Quando invece percepì il materasso abbassarsi e il letto scricchiolare mentre Deku gli si ristendeva accanto, il suo cuore sembrò riempirsi di nuovo di una tenue speranza.
«Sei uno stupido, lo sai?». Il biondo voltò la testa per un momento, solo per scoprire quei due fanali verdi che scrutavano il suo profilo affilato. Sentì le orecchie andare a fuoco prima di tornare a fissare il maledetto soffitto bianco che, in quel momento, sembrava estremamente più interessante di quel nerd dallo sguardo curioso.
«Lo so.».
«Quindi?».
«Quindi cosa?».
«Come si chiama? Questa cosa che hai... Come si chiama?».
«Ha un nome impronunciabile. Kirishima la chiama "incontinenza esplosiva". Per me ormai è quello il nome.».
Izuku annuì e gli diede una schiccherata lieve sulla guancia destra, provocandogli un leggero fastidio che gli fece fare una smorfia e scoprire i denti con un sibilo.
«Da quando?».
Katsuki roteò gli occhi: «Ma ti si può tenere nascosto qualcosa?».
Izuku ghignò: «Ho un buon maestro.».
Il biondino si trovò a ridacchiare: «La forza scorre potente in te.», e Izuku lo seguì con una risata sommessa, prima di strusciare la fronte contro la sua guancia deturpata.
«Da dopo la guerra.». Erano in vena di confessioni? Forse. Ma Katsuki si sentiva al sicuro con Deku lì vicino. Aveva dormito bene e si sentiva riposato: quella forse era la giusta ricompensa per averlo aiutato. «Non sono mai sato interessato a quelle cose...».
«Sesso. Chiamalo col suo nome, Kacchan. Altrimenti sembri solo un bigotto!».
«...al sesso. Contento?», gli lanciò un'occhiata in tralice prima di continuare: «Solo che mi sono lasciato trascinare e ho voluto provare. E l'ho scoperto così.».
Il tono era calmo, forse un po' troppo basso e graffiato, ma Izuku lo udì bene e un lieve moto di gelosia gli attanagliò le viscere.
Certo, non avrebbe mai preteso di essere la sua prima volta, ma...
«Con chi?».
«Ah?».
«Con chi è successo?». Silenzio. «Oh, beh. Se fai così lo conosco!», ridacchiò.
«Kirishima. È stato Kirishima!».
«Attivo o passivo?».
«Deku!».
«Senti è una domanda lecita!».
Katsuki si puntellò sul materasso con i gomiti, guardando il ragazzo con espressione torva: «Non è un cazzo di pigiama party delle medie!».
Deku fece spallucce: «Quelli difficilmente li avremmo fatti assieme. Sto recuperando.».
Quella battuta fece male, forse anche troppo, soprattutto quando Izuku incrociò gli occhi tristi di Kacchan. «Scusa. Sono stato inopportuno.».
Katsuki prese un profondo respiro e si girò, fronteggiando l'amico: «Voleva solo, ecco, fare pratica. In realtà non è successo gran che con lui.».
«Pratica di che?».
Il biondo roteò gli occhi ed evitò lo sguardo curioso di Izuku, la voce un sussurro flebile: «Pompini.».
La risata di pancia che scaturì da quella confessione lo imbarazzò ancora di più, tanto che posò una mano sulla faccia di Deku e rilasciò un'esplosione controllata, piccola, solo per affumicargli un po' i neuroni e far finire quella sganasciata in piccoli colpetti di tosse nervosi. «Sei un coglione.».
«E tu sei diventato uno spasso, Kacchan!», prese fiato a fatica, sforzandosi di tornare serio, anche se la faccia arrossata del biondino era troppo adorabile per non farlo sorridere come un ebete.
«Non prenderti gioco di me, stronzetto! Non vengo a farti il terzo grado sulla tua vita sessuale promiscua!».
Il sorriso di Izuku si trasformò in un ghigno di soddisfazione: «Percepisco dell'invidia!».
«Per cosa? Le malattie veneree? Guarda: ti sbagli alla grande!», sbottò, un sorrisetto crudele a increspargli le labbra.
«Per quelle ...non ci proveresti con me?».
«Ah?».
«Niente. Lascia stare.».
«Non lascio stare. Borbotti. E non capisco quando borbotti!».
Izuku si morse l'interno della guancia e prese un profondo respiro. «Era solo un pensiero a voce alta. Stai tranquillo.».
Il sopracciglio biondo di Katsuki saettò verso l'alto, diffidente, fino a quando Izuku non lo fronteggiò di nuovo, i nasi a toccarsi e le orecchie del biondino che avrebbero potuto prendere fuoco per autocombustione per quanto erano calde.
Fu sempre Izuku a riprendere l'iniziativa, a ricominciare quel bacio interrotto bruscamente, un movimento dolce delle labbra su quelle di Katsuki, e piccoli colpi di lingua a umettare un contatto che entrambi si aspettavano di approfondire con calma.
«Sai... Sono sempre stato ossessionato da te.», ammise tranquillamente Izuku, mentre passava il pollice sullo zigomo liscio di Kacchan, lo sguardo che vagava tra le labbra gonfie di baci e i suoi occhi, di un rosso cupo talmente magnetico che era difficile staccarsi. «Ma ieri... Ho capito tante cose. Ho avuto di nuovo paura di perderti. E non era quel quirk di merda. Soffrivo con te. Soffrivo per te. E, come se non ne fossi già consapevole, ho capito che quello che abbiamo è più... più importante per me di quanto pensassi.».
Katsuki sbuffò dolcemente, cercando ancora di riprendersi da quel bacio profondo e dalle parole tenere di Deku.
Izuku fece di nuovo un respiro lento e misurato, raccogliendo tutto il coraggio che riusciva a trovare: «E penso che i miei sentimenti siano più... più complicati di una semplice ossessione.». Non voleva che sembrasse una presa in giro, non voleva che fraintendesse nulla, nessuna parola. Anche se ancora il coraggio di dare un nome a quello che provava per lui non ce l'aveva. E, forse, la cosa era reciproca.
Alla fine, Katsuki gli regalò un sorriso genuino, uno di quelli rari, che sembrava rispecchiare perfettamente i sentimenti che provava Izuku in quel momento e illuminare la stanza al pari di una supernova. «Beh, qualunque cosa ci sia... Vediamo di affrontarlo un passo alla volta.».
Izuku percepì qualcosa di accorato, di affettuoso in quelle parole dette di fretta da Kacchan, come se non volesse davvero pronunciarle.
Annuì con forza, prima di scaraventarlo di peso giù dal letto e obbligarlo a fargli la colazione.
Un passo alla volta.



 
 
Oh, babe, I really need you
My feelings getting deeper
My mind is in a free fall
But there's nothing I can do when it comes to you
⁓ Sam Smith ⁓


 

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Capitolo 17
*** I don't hate that I need you ⚠️ ***


I don't hate that I need you ⚠️



Il girasole ha i capelli distratti,
il viso di sole, le gambe altissime
e un vestito di luce e di vento.
Fabrizio Caramagna
 
11 luglio


L’afa era insopportabile e la pioggia, caduta a sprazzi lungo la giornata, aveva solo acuito la problematica.
La gola di Izuku si strinse mentre si trovava di fronte alla porta dello spogliatoio della centrale di Polizia, il cuore che sembrava sparito dal petto, risucchiato in una voragine piena di disperazione.
Si sentiva patetico. E preoccupato, perché, per quanto desiderasse farsi una doccia e mettere qualcosa sotto i denti, temeva dover rivedere Kacchan.
Un passo alla volta.
Ma di passi ancora non ne avevano fatti: dopo l’incidente con quel villain, Kacchan s’era comportato normalmente, salvo per gli sguardi che gli lanciava più spesso e che lui non riusciva a decifrare, troppo preso dal mendicare attenzioni che non arrivavano.
Un passo alla volta un par di palle!
Kacchan aveva scombinato i turni di tutti per evitarlo in quei due giorni e Izuku non poteva fare a meno di chiedersi se Katsuki lo stesse evitando di proposito o se si trattasse solo di una serie di sfortunate coincidenze.
Mentre la sua mano tremava nell’abbassare la maniglia ed entrare, la porta gli si spalancò di colpo davanti con un cigolio stridulo e la figura di un poliziotto che si aggiustava la divisa nei pantaloni lo fece indietreggiare. «Oh! Buonasera!».
«Tenente…», mimò un inchino nel lasciarlo uscire, prima di infilarsi all’interno dello spogliatoio, chiudendo piano la porta dietro di sé, poggiando la fronte sul legno fresco.
Strinse gli occhi e le labbra, su cui poteva ancora sentire la sensazione di formicolio dovuta al loro bacio, condiviso appena un paio di giorni prima, e questo non faceva altro che aumentare il suo nervosismo e anche la sua frustrazione.
Le emozioni contrastanti lo facevano sentire stordito, come se fluttuasse nell'aria.
Voltò la testa con calma, il corpo seguì la rotazione fino a posare la schiena contro la porta e spalancare gli occhi: Kacchan se ne stava in piedi lì, in tutta la sua gloria, nell’angolo in fondo a sinistra, quello defilato e scomodo, che nessuno mai voleva prendere. Anche da quella distanza poteva ben notare come il velo di sudore facesse risaltare i suoi muscoli tonici, facendolo sembrare ancora più irresistibile.
Izuku si diede dell’idiota e deglutì, incerto su cosa fare di se stesso; aveva già tentato una volta di forzarlo a parlare e cosa aveva ottenuto? Giorni di guerra fredda. Pertanto, la cosa più giusta da fare sarebbe stata quella di girare i tacchi e andarsi a fare un giro, ma non voleva. Non si era arrovellato il cervello nel suo pomeriggio di riposo solo per desistere dal suo intento.
Fu Katsuki a notare quella figura silenziosa sulla porta, uno sguardo sfuggente che si spalancò di stupore a vederlo lì e, cazzo!, non ci voleva!
«Deku? Che ci fai qui?».
Il lampo di calore in quello sguardo di fuoco fece sussultare Izuku, perché sembrava deluso di vederlo lì, oltre che sorpreso.
C'era un silenzio imbarazzante che aleggiava tra loro mentre entrambi cercavano di comportarsi come se due giorni prima non fosse successo nulla. Come se non si fossero mai parlati a cuore aperto. Ma era chiaro che qualcosa era cambiato: l’aria sembrava carica, elettrica. Ogni sguardo che si scambiavano sembrava avere più significato di prima: faceva battere forte il cuore di Izuku e poteva sentire il suo cazzo contrarsi nei pantaloni, alla disperata ricerca di attenzioni.
«Passavo di qua.», mentì Izuku, che si costrinse ad allontanarsi dalla superficie della porta, camminando verso Katsuki con un sorriso incerto. «Volevo solo sapere che fine avevi fatto.», continuò, la voce resa stranamente dolce. «Sembra quasi che tu mi voglia evitare.», aggiunse, cercando di non fissare il culo perfettamente scolpito dell'altro o il modo in cui la sua schiena si tendeva mentre si sfilava i pantaloni.
Katsuki sorrise, l'angolo delle sue labbra si arricciò in maniera accattivante: «Sono solo stato occupato, Deku. Devo recuperare la giornata persa.», gli rispose prima di uscire del tutto dai pantaloni, mentre Izuku deglutiva e fingeva disinteresse, anche se la vista del culo perfetto di Kacchan strizzato in quei maledetti boxer attillati era difficile da dissimulare.
«Sì, lo so. È solo che... mi sei mancato, tutto qui.», gli rispose Izuku, guardando altrove per un momento.
Katsuki si sentiva un po’ uno stronzo, tanto che le parole ci misero un bel po’ prima di uscire dalla gola, tipo il tempo di controllarsi l’escoriazione ancora arrossata sullo zigomo sinistro nello specchio dell’armadietto o prendere con molta calma il doccia-shampoo dal beauty case o capire perché l’asciugamano di spugna morbida avesse quel simbolo a cerchio barrato che non aveva mai notato prima sull’etichetta grigia.
Izuku si aspettava una risposta e mugugnò, frustrato, le mani ficcate nelle tasche dei pantaloni scuri. Aver confessato a Kacchan come si sentiva l’aveva reso molto più esigente, come se l’onere della consapevolezza fosse ora tutto in capo al biondino e lui stesse solo attendendo la prossima mossa. Ma conosceva abbastanza bene quel ragazzo da comprendere che, da solo, lui non avrebbe fatto nulla. Ci voleva una spinta. Ed era solo compito di Kacchan coglierla e ripartire. Ma sembrava tutto inutile.
Un passo avanti, due passi indietro.
«Ti devo aspettare a casa?».
Katsuki si voltò di scatto e lo osservò con più attenzione: i pantaloni scuri gli fasciavano le gambe, che sembravano ora più lunghe di quanto non fossero, e la maglietta grigia… non poteva prenderla di una taglia più grande? Dannazione!
«Stai uscendo?», e lo vide alzare le spalle. Un moto di fastidio gli fece incurvare le labbra in una smorfia strana; con una mano si grattò le sopracciglia, sperando che Deku non lo notasse.
Poi prese un profondo respiro e rilassò le spalle, perché, in fin dei conti, era lui il primo ad essere scappato dopo quei due giorni strani e la confessione che si erano fatti. Se confessione si poteva definire.
La sua mano ruvida passò sulla nuca, strofinando per lenire parte dell’imbarazzo che provava e che gli stava facendo scaldare in maniera innaturale le orecchie.
Spostò il peso da una gamba all’altra, mosse le dita, stringendo di più il pezzo di plastica dell’infradito, sbuffando alla ricerca del coraggio di giustificarsi.
«Izuku… Senti… Mi dispiace se ti ho evitato.», alzò debolmente lo sguardo sull’amico, abbassando la voce: «Non è perché non voglio vederti, okay? È solo... Sai com'è.».
Izuku ci mise più tempo del dovuto a capire quelle parole, dopo un interminabile silenzio.
Passò in rassegna tutte le possibilità, pure la vergogna di farsi vedere in atteggiamenti intimi col suo rivale di sempre. Ma era un pensiero stupido e, solo quando notò la punta delle sue orecchie farsi quasi scarlatta, capì. «Oh.».
Il problema di incontinenza esplosiva di Katsuki sembrava essere l’elefante nella stanza, ormai impossibile da ignorare per entrambi, un punto dolente per il biondino che sapeva bene quanto potesse essere imbarazzante, tanto da fargli prendere le distanze da Deku prima ancora che tra loro potesse svilupparsi qualcosa e far peggiorare le cose. «Eh.».
Izuku ci pensò un momento, distratto dal continuo ondeggiare di Kacchan sui piedi, dai suoi boxer neri, dagli addominali definiti, da quei capezzoli rosa che spuntavano sul candore di quella pelle morbida.
Izuku sospirò dentro: «La tua condizione…» disse senza mezzi termini, riferendosi al problema di Kacchan. «Devi solo lavorarci su…».
«Credi che non ci abbia mai provato?», berciò, infastidito dall’ovvietà delle parole di Deku, che scosse il capo con espressione tenera e rassegnata.
«Dobbiamo lavorarci insieme. Se vogliamo provare a far funzionare questo…», e indicò entrambi con le mani.
Gli occhi di Katsuki si spalancarono, e avvertì un misto di vergogna e rabbia salire dentro di lui. Non gli piaceva che gli venisse ricordata la sua debolezza, soprattutto non da qualcuno a cui teneva, come Izuku.
«Ci ho provato.», replicò con un sospiro sconsolato. «E non ci sono riuscito».
«Il problema è che ci hai provato da solo. Il problema è che provi sempre a fare troppe cose da solo e gli altri ti sono solo da contorno.», esalò, il fiato che rincorreva le parole per uscire, ma che, ogni tanto, decideva di spezzarsi, di mancare. «Io non voglio essere un contorno per te. Non voglio che mi eviti per questo!», e gli afferrò i polsi, scuotendoli, lasciando che dalla sua presa scivolassero a terra i due flaconi che stava tenendo in mano da prima. «Posso aiutarti, Kacchan.», ingentilì il tono. «Voglio aiutarti.».
Sapeva che Izuku aveva ragione: era sempre stato lui quello testardo e indipendente, ma forse era giunto il momento di ammettere che, a volte, chiedere aiuto non l’avrebbe reso meno forte, solo… più assennato. In più, avere Deku al suo fianco... non era poi così male.
«Izuku…», Katsuki scosse la testa: «Grazie. Ma non sei obbligato a farti carico anche dei miei problemi.».
L’altro, invece, spostò le dita per intrecciarle con le sue, per afferrare delicatamente le mani ruvide e sudaticce di Katsuki. «Per favore, lascia che ti aiuti.».
Katsuki era combattuto tra il voler respingere Izuku e il voler appoggiarsi al suo tocco. Alla fine, cedette, stringendo a sua volta quelle mani rovinate da troppe cicatrici, lasciandosi toccare con tenerezza.
«Come vorresti aiutarmi?», ma forse era una domanda stupida, dettata più dalla confusione che da una reale curiosità, tanto che il biondino se ne rese conto troppo tardi: Deku aveva condotto le sue mani verso l’orlo della maglietta grigia, oltrepassandolo e facendogli toccare la pelle accaldata dell’addome e dei fianchi, mentre si sporgeva a sfiorargli il naso col proprio.
«Secondo te?», gli sussurrò sulle labbra, provocandogli brividi lungo le braccia e la schiena.
«Deku…», Katsuki scosse la testa, cercando di tirare via le mani dalla vita del ragazzo che aveva di fronte, Izuku si limitò a rafforzare la presa dai suoi polsi, trattenendo i palmi caldi al loro posto e guardandolo con determinazione nei suoi occhi vermigli. «Per favore….», e gli sfiorò le labbra in un bacio lento, agognato da entrambi dopo due giorni in cui s’erano incrociati a malapena a casa.
Kacchan sembrò tremolare sotto quel contatto, un respiro troppo pesante rilasciato nell’abbandonarsi a un bacio morbido, senza lingua, tanto sensuale da star male, da sentire i palmi scaldarsi a dismisura e lo stomaco chiudersi, testimonianza dell'intensità della situazione in cui si trovavano.
Quando si staccarono, il cuore di Katsuki batteva forte mentre fissava il volto serio di Izuku. «Questo è un ottimo punto di partenza.», mormorò assottigliando gli occhi verdi.
«Deku… Per favore… Non posso.», grugnì infine, girando la testa dall'altra parte. Non voleva ammettere quanto avesse bisogno di aiuto, ma le parole gli rimasero in gola.
I loro respiri si mescolarono, caldi e dolci, in un altro bacio a labbra sfiorate, all’inizio gentile ed esplorativo, ma, man mano che si perdevano l’uno nell’altro divenne più profondo, le lingue che si intrecciavano, i denti che torturavano le labbra.
Le mani di Katsuki si facevano strada sotto la maglietta di Deku e lungo la schiena, pelle contro pelle, provocando formicolii a entrambi. Izuku si sporse in avanti, facendolo indietreggiare fino a d andare a sbattere con un tonfo metallico contro la fila di armadietti addossati alla parete, gemendo nel bacio.
Quando si separarono per prendere aria, Izuku sussurrò: «Dimmi, Kacchan: non ne vorresti ancora?»; i suoi occhi erano pozze verdi scurite dal desiderio, e Katsuki annuì, incapace di parlare quando lo vide staccarsi e sfilarsi dalla testa la maglietta con estrema calma. Uno spettacolino improvvisato solo per lui, che aveva il petto scosso da respiri troppo affannati.
Probabilmente stava avendo un infarto. Ma sarebbe morto felice: le luci al neon non rendevano giustizia a Deku, alla sua abbronzatura quasi perfetta, alla miriade di efelidi che, col sole, erano spuntate sulle sue spalle.
«Posso?», gli chiese, senza realmente aspettarsi una risposta: le dita di Izuku gli si posarono sul petto nudo di Kacchan, tracciando dei cerchi leggeri con i pollici attorno ai suoi capezzoli, facendo sussultare Katsuki. I suoi fianchi cedettero a quel tocco e lui si rese conto troppo tardi di quanto fosse duro mentre Deku riprendeva a baciarlo.
«Izuku…», la voce era un soffio tra un bacio e l’altro. «No-non qui…».
Izuku ridacchiò, piano e malizioso, prima di lasciargli un bacio leggero sulle labbra, lasciandolo appoggiato all’armadietto come un ebete.
Lo osservò piegare per bene la maglietta che aveva tolto e liberarsi anche di scarpe, calzini e pantaloni, prima di fronteggiarlo di nuovo.
Sembrava troppo bello, irreale, tanto da non poter credere che stesse accadendo.
Izuku non aveva premeditato la cosa. Si era lasciato trasportare. Dal proprio cazzo in primis e, in secundis, dal reale sentimento di affetto che provava per Kacchan. Solo che non avrebbe mai pensato che la cornice al loro primo approccio sessuale potesse essere lo spogliatoio della centrale di polizia, ma andava bene ugualmente. Di posti strani in cui aveva scopato ne aveva una lista ben fornita!
«Cosa vorresti fare? Riprovare dopo, a casa? Procrastinare ancora? Evitarmi ancora?».
«NO!», poi Katsuki tentennò. «Certo che no.», e si lasciò baciare ancora, aggrappandosi alle spalle nude di Deku con le mani fin troppo calde, strappandogli un gemito di fastidio più che di piacere, lasciando la presa subito dopo quel verso, alzando le mani e irrigidendo la postura, facendo staccare Deku ancora una volta.
Era frustrante, non potersi lasciar andare come avrebbe voluto.
«Posso… Posso farti una domanda indiscreta?», gli chiese Deku, con tono serio, ma indeciso, come se avesse davvero paura a porre un quesito scottante.
Katsuki alzò con un gesto nervoso il mento, in assenso, e piantò gli occhi in quelli di Izuku, che lo osservava con un misto di ansia e curiosità. Curiosità morbosa, in realtà; perché la domanda che aveva sulla punta della lingua gli era saltata al cervello nell’esatto momento in cui aveva sentito la pelle sfrigolare sotto le sue esplosioni incontrollate.
«Come hai fatto con Tsuyu?».
Diretta, una stilettata perfetta tra cuore e stomaco; una lama rovente che aveva fatto immediatamente salire il calore alle guance di Katsuki, costringendolo a stringere i denti e a irrigidire mascella e muscoli del collo. E, in quel momento, Izuku un po’ si pentiva di aver tralasciato la sua innata timidezza per così tanto tempo a favore di una sfacciataggine immonda verso l’amico di una vita.
«Vaffanculo, Deku!», berciò il biondo, una spallata poderosa nel passargli a fianco per andare a passo spedito verso le docce.
«Ehi! Non era una presa in giro!», ma la voce gli uscì stridula con quella giustificazione, il momento irrimediabilmente rovinato, mentre la rabbia verso se stesso e la sua lingua sfacciata l’aveva portato ad alzare il pugno e a colpire il muro accanto agli armadietti, crepandolo.
Un respiro.
Due.
Tre.
Prese fiato per calmarsi prima di camminare in direzione delle docce e provare a spiegare a Kacchan cosa in realtà voleva sapere.
«Katsuki... Devi imparare a rilassarti.» disse Izuku dolcemente quando lo raggiunse, i suoi occhi si spostarono verso il punto in cui le dita del suo amico si stavano ancora contraendo nervosamente sulla maniglia del box doccia. «Non l’ho detto con sarcasmo. La mia era solo curiosità.».
«Chiedilo a lei, allora.».
Izuku sorrise, rilasciando un piccolo sbuffo infastidito: «Ci sei tu qui, davanti a me. E sei il diretto interessato.».
Il biondo grugnì in risposta, ma non disse altro, continuando semplicemente a fissare il pavimento tra di loro.
Facendo un respiro profondo, Izuku si avvicinò, posando con fare rassicurante una mano sulla spalla di Katsuki. Il contatto sembrò spaventare per un momento l'altro, ma non si tirò indietro. «Ascolta.», ricominciò a parlare: «Sapere cosa aveva fatto Tsu-chan mi serviva solo per capire come procedere, ma se ti imbarazza, non toccherò più l’argomento, va bene?» e rimase a fissare Kacchan, alla ricerca di un segno di riavvicinamento, un cenno del capo, un grugnito. Qualsiasi cosa che gli facesse capire di non aver mandato definitivamente tutto a puttane.
«Va bene.», esalò il biondo, gli occhi che saettavano dal pavimento al volto di Deku, evitando volutamente di soffermarsi sugli addominali obliqui che sparivano oltre il bordo delle sue mutande grige. Deglutì a vedere il sorriso calmo sul viso lentigginoso di Deku, il cuore in gola come se si trovasse davanti ad un pericolo imminente. Perché Izuku era testardo e se si metteva in testa una cosa…
«Ho un’idea.».
Katsuki alzò un sopracciglio con aria scettica nel fissargli gli occhi di smeraldo. «Del tipo?».
«Inizieremo con qualcosa di semplice.», ricominciò Izuku, facendo scivolare la mano su quella di Katsuki e abbassando la maniglia del box doccia. «Entri e apri l’acqua?».
Un bambolotto. O una marionetta. Non vi era molta differenza per Katsuki, in quel momento, che, rapito dal sorriso luminoso di Deku, s’era lasciato comandare, sospingere nello spazio angusto, seguendo le sue direttive.
Forse era solo stanco. O, forse, in un angolo recondito del suo cervello voleva davvero che Deku lo aiutasse, che fosse lui a sbloccarlo, senza prese in giro, o giudizi o sguardi di compassione.
Gli rivolse la schiena, il capo chino sotto il getto di acqua fredda che pian piano si intiepidiva, un sospiro di sollievo a sentire l’acqua che iniziava a lavare via la stanchezza.
«Sapone.».
«Ah?».
«Passami il tuo sapone. Ti lavo la schiena.».
Lo guardò da sopra la spalla: «Perché?».
«Perché l’ho già fatto l’altro giorno. E mi serve per iniziare pian piano.». La sua voce era bassa e rassicurante. «È una cattiva idea, Kacchan?».
Katsuki sbatté appena le palpebre a quella richiesta, mettendo nella mano aperta di Deku il flacone di doccia-shampoo. «Credo… Credo di no.».
«Volevo…», tentennò il ragazzo dietro di lui: «Ti aiuterò a controllare le emozioni e le tue reazioni...». Esitò solo per un momento prima di spremere una dose generosa di sapone sul palmo e sporgersi in avanti, rimettendo il flacone sul minuscolo ripiano nell’angolo, premendo il petto contro la schiena umida di Kacchan, sentendo il calore della pelle di Katsuki mescolarsi con la sua. Ed era bello, inebriante quasi quanto il lieve profumo di fiori che veniva dalla sua mano. Più caldo di quanto si aspettasse. Si staccò solo per permettersi di toccarlo con i palmi, spalmare il sapone su quella schiena ampia, tocco deciso su ogni centimetro di pelle, mentre poteva percepire i muscoli di Kacchan rilassarsi al passaggio delle sue dita su di essi. «Vedi? Proprio così.», incoraggiò, annuendo col capo e cercando di mantenere le cose alla leggera.
Il cuore di Katsuki batteva forte mentre sentiva le mani di Izuku muoversi lungo il suo corpo, lavando via con acqua e carezze parte della giornata pesante, delle preoccupazioni, anche se non poteva fare a meno di sentirsi imbarazzato ed esposto, ma allo stesso tempo provava uno strano senso di sollievo nel sapere che qualcun altro si stava prendendo cura di lui, come forse lui non aveva mai fatto.
Izuku notò una lieve tensione in Katsuki e si fermò per un momento. «Stai bene?», chiese a bassa voce, la preoccupazione evidente.
Katsuki annuì, non rischiando di parlare. Non voleva ammettere quanto si sentisse vulnerabile in quel momento, forse ancora di più del giorno dell’incidente col villain.
Era grato per la comprensione e l'accettazione di Izuku, provando di nuovo un senso di conforto e sicurezza di cui non sapeva di aver ancora bisogno.
«Ora proveremo qualcos'altro.» disse Deku, mentre premeva sulle sue spalle insaponate per farlo voltare, un sorriso dolce a tirargli le labbra, mentre tracciava il contorno della mascella di Katsuki con le dita, sfiorando la sua barba corta e ruvida di fine giornata, mandandogli brividi lungo la schiena. Amava quella sensazione, anche se non lo avrebbe mai ammesso a voce alta.
Deku gli si appoggiò contro per un momento, solo per prendere altro sapone e versarselo direttamente sul palmo sinistro, prima di sfregare tra loro le mani, creando schiuma soffice e profumata prima di passare a lavargli il petto e le braccia, costringendolo ad alzarle per lavargli le ascelle con calma innaturale, seguendo la curva del muscolo pettorale, sia da una parte sia dall’altra.
«Cosa ne pensi di questo?»
Il respiro di Katsuki si bloccò leggermente al tocco, ma non si oppose. In effetti, vi si appoggiò, chiudendo brevemente gli occhi per la sensazione. «Questo…», esalò: «Questo non è il posto adatto, Deku…», farfugliò, poco prima di aprire di nuovo le palpebre, lasciandole a coprire per metà le iridi cremisi, fissando lo sguardo in quello del ragazzo che gli stava di fronte, troppo vicino, i fiati caldi che si mischiavano col vapore leggero dell’acqua in quello spazio ristretto.
«Non pensarci.», sussurrò Izuku, che passò a sfiorare la mascella di Kacchan con baci leggeri e lenti, facendoli scendere fino al collo, alla sporgenza pronunciata del pomo d’Adamo. Poteva sentire il battito lì, forte e rapido sotto le sue labbra. E la cosa gli fece correre un brivido lungo la schiena. «Rilassati.», e pizzicò la pelle lì, tra i denti, dolcemente. «Lo senti? Il modo in cui il tuo cuore batte forte? È solo eccitazione. Non deve essere spaventoso.».
E Katsuki era eccitato, mugolando piano ogni volta che quelle labbra gli torturavano la pelle, ogni volta che le dita di Izuku passavano in rassegna il suo corpo con una delicatezza che mai in vita sua aveva sperimentato. Strinse i pugni, i palmi che iniziavano a scaldarsi troppo man mano che lui sentiva quel nodo che gli attanagliava il ventre sciogliersi, le ginocchia reggere a malapena il suo peso. «Questo non aiuta, nerd…», ammise, mordendosi nervosamente il labbro. «Forse semplicemente non mi piacciono queste cose.».
Le mani di Izuku tornarono a percorrergli le braccia, afferrandogli con delicatezza i pugni, aprendoli uno dopo l’altro e portandoli sotto l’acqua calda, offrendo un po’ di sollievo a quei palmi arrossati, prima di chinarsi a baciarli, lasciando Katsuki interdetto e lievemente scosso.
«No.», asserì con fermezza, «Non è questo. Semplicemente non hai trovato la persona giusta, tutto qui.».
Katsuki restò per un lungo momento in silenzio, occhi negli occhi con Deku, che continuava a massaggiargli i palmi con i pollici, in una carezza decisa e rilassante.
E, per una volta, avrebbe ammesso a gran voce che quel ragazzo fastidioso aveva ragione.
Si era illuso che fosse Eijiro la persona giusta. Poi Mina. Ma solo perché erano quelli a lui più vicini e fidati. Ma non era così.
Non lo era stata neppure Tsuyu, vissuta solo come una parentesi, uno sfogo, un diversivo, quando i capelli verdi che inseguiva da una vita erano ben altri.
Gli occhi di Katsuki raccontavano di un desiderio sopito, cacciato in un luogo irraggiungibile anche per lui stesso, anche se non voleva ammetterlo.
Quando Izuku tracciò la linea della sua mascella col pollice prima di chinarsi e posargli un bacio tenero sullo zigomo destro, Katsuki trasalì il pollice. «Fidati di me.», gli sussurrò l’altro. L'aria tra loro era densa di tensione, e il cuore di Izuku batteva forte nel suo petto. «Penso di poterti aiutare in questo.» disse, con la voce bassa e roca. Le sue mani si spostarono sui suoi addominali, sui fianchi, tirandolo a sé con forza quasi a farlo sbilanciare, slittando i piedi sul piatto della doccia, un bacio lieve, morbido e dolce sulle labbra del biondo, mentre quello, titubante, alzava le braccia e gliele allacciava al collo, i talloni staccati dal fondo bianco di ceramica, i polpacci tesi per andare incontro a quel bacio, renderlo meno dolce, meno tenero. Affamato e arrendevole, con l’acqua che scorreva sulle loro palpebre chiuse, finiva a tratti nelle loro bocche, facendoli staccare un poco, ridacchiare, riprendere.
«Con calma…», esalò Deku sulle sue labbra gonfie di baci, infilando gli indici tra il tessuto fradicio dei suoi boxer neri e la pelle liscia del fondo della sua schiena, le fronti premute assieme e gli occhi incatenati in quelle iridi verde cupo. «Se va bene a te.».
Katsuki strinse le labbra e mosse appena i fianchi, assecondando il movimento delle mani di Izuku, che gli sfilavano l’intimo con lentezza, umido e incollato alla pelle del culo e delle cosce, chinandosi solo per aiutarlo nel toglierli dalle caviglie e gettarli in un angolo, un bacio lieve posato sulla cicatrice del fianco lo fece sussultare.
Izuku non poteva credere che ciò stesse accadendo; aveva fantasticato su Katsuki innumerevoli volte, ma non avrebbe mai pensato che le cose si sarebbero evolute tanto in fretta. O che succedesse davvero.
Era contento, sia chiaro.
Contento e oltremodo eccitato, perché Katsuki gli stava provando a togliere le mutande fradice, l’imbarazzo visibile sul suo volto, che cercava in tutti i modi di non lasciar cadere lo sguardo sul suo inguine. «Lascia. Faccio io…» e l’intimo di Izuku fece la stessa fine di quello di Kacchan, appallottolato in un angolo del fondo della doccia, rivelando la propria erezione pulsante. Il calore dei loro corpi sembrava intensificare l'atmosfera già piena di vapore della doccia.
Senza una parola, Izuku lo avvicinò, finché i loro fianchi non furono a livello l'uno contro l'altro, le loro intimità che si toccavano, tese, le mani di Kacchan che lo tenevano per la vita come lui stava facendo col biondo, entrambi col volto rivolto verso il basso a osservarsi i membri, vicini.
Izuku si mosse, ondeggiando dolcemente, uno sguardo veloce al volto arrossato di Katsuki. «Ti va bene così? Toccarsi un po’?».
Lo notò annuire, il labbro inferiore torturati dai denti, i palmi sulla sua vita che scaldavano troppo. «Respira, Kacchan.», e se lo portò di più contro. «Metti le mani sotto l’acqua.» e il biondo obbedì, staccando i palmi arrossati dalla sua pelle per trovare sollievo sotto il getto della doccia.
Alzò appena il volto, l’espressione imbronciata di Kacchan aveva un che di adorabile: «Cristo, Deku. Come ti sta tutta quella roba nella tuta?».
Izuku lo osservò, sbattendo le palpebre e rilasciando una risata nasale, le guance che si gonfiavano, arrossandosi lievemente. «Spandex!», rispose, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «Dovresti provare.».
«Tch!».
Spostò le mani ad afferrargli saldamente le natiche: «Questo bel culetto ci starebbe bene in una tutina di spandex, lo sai?», pronunciò all’orecchio arrossato del biondo, con voce bassa, seducente, mentre le dita sprimacciavano il sedere di Kacchan con una certa soddisfazione, mantenendolo sbilanciato contro di sé.
Il piacere attraversò il corpo di Katsuki mentre i loro membri si sfregavano l'uno con l'altro e contro i loro ventri, bagnati dall'acqua e dal sapone della doccia. I gemiti sfuggirono da entrambe le labbra mentre Izuku se lo dondolava addosso, le mani del biondino che gli tenevano saldamente gli avambracci, il fiato corto, le guance arrossate nello sforzo di scollarselo di dosso. «Izuku… Ti prego…», disse, riuscendo ad allontanarlo, l’acqua della doccia a dividerli per un momento.
Un breve momento di calma, prima che fosse Izuku ad afferrargli il membro, scoprendone la cappella arrossata. «Allora? Vuoi che ti aiuti, Kacchan?»
Katsuki gemette forte a quella sensazione; i suoi fianchi si piegarono in avanti, spingendo nella mano di Deku. Quel suono fece venire i brividi lungo la schiena di Izuku: non aveva mai sentito niente di così erotico prima. Mai, neppure nelle sue fantasie.
E fu quello il pretesto, l’assenso sperato per poter afferrare anche il proprio membro, stringerlo tra le mani assieme a quello di Kacchan, cominciando ad accarezzarli insieme.
Katsuki non ne poteva più.
Sentiva caldo, caldo ovunque.
Un caldo diverso rispetto a quello che aveva provato con Tsuyu. E non era per l’acqua fastidiosamente calda o per l’imbarazzo che i gesti del nerd gli provocavano.
Aveva un caldo terribile, le orecchie ovattate dal rimbombo del proprio cuore nella giugulare e voleva qualcosa di più di una semplice sega da Deku. Con il respiro tremante, allungò dietro di sé un braccio e prese la bottiglia di bagnoschiuma, spremendone un po’ sulla mano, lasciandola cadere con un tonfo sul piatto doccia. Iniziò a passare le mani bollenti sulle spalle di quel ragazzo che lo torturava con lentezza, provando a ripagarlo con lo stesso trattamento; le mani insaponate passarono sui pettorali gonfi di Deku, strappandogli un gemito gutturale al passaggio sui suoi capezzoli inturgiditi dal piacere, mille brividi che alzavano pure a lui la peluria chiara sulle braccia. Procedette verso il basso, addominale dopo addominale, l’attenzione calamitata a quei due cazzi stretti tra le mani grandi di Izuku, che, con movimenti lenti, cadenzati, gli facevano roteare gli occhi di tanto in tanto.
Non poté fare a meno di sporgersi in avanti, uno slancio con i polpacci e le punte dei piedi a catturare le labbra di Deku in un bacio profondo.
Le loro lingue si intrecciavano mentre continuavano a muoversi l'uno contro l'altro, i loro corpi lucidi di sudore e sapone. Mentre lo costringeva a indietreggiare con la schiena sulla parete del box doccia, una mano di Izuku cercò quella di Katsuki, intrecciando le loro dita e riportandole ad avvolgere le loro intimità, aumentando il ritmo con la stessa fame con cui si divoravano le bocche.
La presa di Izuku sui loro cazzi si fece più forte mentre si sentiva avvicinarsi al limite. Interruppe il bacio e con un grugnito seppellì il viso nel collo del biondo, mordicchiandone e succhiandone la pelle.
«De-ku...» ansimò, «Aspetta... aspetta, sono vicino…»
Izuku si tirò indietro, guardandolo con gli occhi socchiusi. «Lasciami continuare…». La sua voce era roca per il bisogno e gli mordicchiò il lobo sinistro per irretirlo.
«S-sì.» riuscì a gracchiare Katsuki, chiudendo gli occhi, arreso a quella sensazione di completo benessere, gemendo forte, mentre una mano rimaneva saldamente ancorata al braccio di Deku per non perdere stabilità, perché le ginocchia stavano cedendo e sentiva un fuoco propagarsi dal suo inguine, avvolgerlo come una coperta, portandolo in una specie di dimensione parallela in cui non sentiva altro che bene, onde calde di piacere e il fiato bollente di Deku sulla pelle sottile sotto il suo orecchio a procurargli mille maledetti brividi.
Izuku aumentò di poco il ritmo e Katsuki si perse in una spirale di calore e vapore, la testa reclinata contro le piastrelle umide. Le sue ginocchia tremarono, e inarcò la schiena contro la parete, venendo nella mano di Izuku, sul proprio stomaco, sui pettorali di quel demonio. Perché sì, non vi era nessun’altra spiegazione: Izuku doveva essere un demonio, o non avrebbe continuato a stimolarlo, entrambi i membri stretti tra quelle mani forti, mentre lui doveva ancora riprendersi da forse una delle seghe più belle di tutta la sua fottuta vita.
«Cazzo, Kacchan!», ansimò il ragazzo, spingendo i fianchi contro la mano di Katsuki, calda, caldissima come non l’aveva mai sentita prima. «Io-».
Prima che potesse finire la frase, raggiunse l'apice, riversandosi sulle proprie mani e sullo stomaco, schizzi traslucidi raggiunsero i loro petti, prima di essere trascinati via dall’acqua intiepidita della doccia.
Katsuki mosse il capo e posò la tempia tra i capelli umidi di Izuku, strofinandola a simulare una carezza, una coccola, mentre sentiva entrambe le loro intimità che pulsavano ancora tra le dita, ancora duri, ancora terribilmente bollenti.
Rimasero lì per un momento, ansimando pesantemente dopo aver raggiunto l'orgasmo, con Katsuki che però fu il primo ad allontanarsi da quell’abbraccio, obbligando Izuku a fare lo stesso, di malavoglia.
Il biondo prese il flacone di doccia-shampoo e cominciò ad insaponarsi i capelli e il corpo, dando le spalle a Izuku. Visto ciò che era appena successo, forse il nerd lo avrebbe aiutato o almeno avrebbe cercato di parlare di più, ma sembrava perso nei suoi pensieri, la sua mente vorticava con le sensazioni che avevano appena condiviso.
Rilasciò un lungo sospiro e rilassò le spalle, mentre lavava via le ultime tracce di sperma dal ventre, giocandoci un po’ con i polpastrelli prima di pulirsi del tutto.
«Deku?», esalò, senza preavviso, voltando la testa e osservandolo da sopra la spalla. Anche lui era voltato e gli rivolgeva la schiena ampia. La lunga cicatrice sulla parte bassa risaltava contro la pelle arrossata dall’acqua calda. Si sporse un poco a sfiorargli la scapola con la propria, facendolo sussultare a quel contatto: «Cosa c'è che non va?» chiese, con voce bassa e preoccupata.
«Nie-niente!» balbettò Izuku, colto di sorpresa dall'improvvisa intimità di quel tono e il cuore di Izuku perse un battito a sentirsi avvolgere il torso dalle braccia forti di Kacchan, sentire la sua guancia ruvida che premeva sulla schiena, le dita delle mani intrecciate appena sopra l’ombelico; non era sicuro esattamente dove stesse andando a parare la conversazione.
«Sicuro?» lo incitò nervosamente, stringendoselo contro, incurante del fatto che quella posizione fosse equivoca per entrambi.
Forse aveva annuito solo con la testa, le mani rovinate a premersi sulle sue, per evitare che lo lasciasse, perché quella pelle bagnata sulla sua l’aveva attesa da tutta la vita. «E tu?».
«Volevo solo dirti… Grazie.», cominciò Katsuki, sembrando quasi timido mentre gli si stringeva contro, le membra che tremolavano, le parole che faticavano ad uscirgli di gola.
«Grazie?», ripeté Izuku, confuso.
«Per essere stato paziente con me...». chiarì Katsuki.
Izuku chiuse con forza le palpebre, sentendo le lacrime pizzicargli gli angoli degli occhi. Si sarebbe girato e l’avrebbe abbracciato. Probabilmente l’avrebbe baciato fino allo sfinimento, perché lo strano sentimento caloroso di gioia che aveva nel petto gli stava ordinando di compiere quei gesti. Ma sapeva bene anche che a Kacchan serviva tempo.
«Grazie per avermi compreso.».
Erano parole che non avrebbe mai pensato di sentire da Katsuki. Era sempre stato chiuso ed esitante nel condividere i suoi stessi sentimenti e le sue vulnerabilità. Ma eccoli qui adesso, uno di fronte all'altro a conversare onestamente sui loro sentimenti.
«Pensavo…».
«Mh?».
«Pensavo di aver forzato la mano.».
«Non hai forzato la mano, Izuku
Un brivido caldo s’insinuò nel peto di Izuku a quel tono calmo, una nota amorevole nel sentire il proprio nome. Rilasciò un sospiro sollevato.
«Se l’avessi fatto ti avrei fatto saltare in aria molto prima!». C’era ilarità nella voce. E calore. E Izuku sentì il cuore più leggero, perché per quanto sapesse essere cocciuto e persuasivo, per quanto volesse bene a Kacchan e lui gliene volesse di rimando, in certe cose non era mai un bene affrettare i tempi come aveva fatto lui.
Poi il calore cessò, come l’acqua e percepì Kacchan chinarsi a raccogliere le loro mutande e scostarlo per uscire dal box doccia. «Muoviti, Deku. Ho fame.».
Ci fu un momento, in cui Deku l’aveva seguito con un sorriso ebete stampato in faccia, prima di vederlo frugare nel proprio armadietto alla ricerca di un asciugamano.
Aveva la stessa espressione giocosa di quando era piccolo, di quando lo ricordava saltellargli attorno, di quando lo venerava perché era “fortissimo”.
Che strane strade prende la vita.
Si rivestì lentamente, forse troppo, tanto che lo stupido nerd era già pronto, vestito così com’era arrivato, le mutande strizzate per bene nel lavandino, il culo perfetto strizzato in quei pantaloni scuri. Arrossì fino alla punta delle orecchie nel realizzare che, sotto, non indossava intimo.
Intimo che gli venne lanciato, umido, nel borsone: «Io sono pronto. Prendiamo da asporto? Ti va? Offro io!», sparò a raffica Deku, esaltato probabilmente dall’orgasmo appena avuto, facendolo sorridere, sciogliendo il velo d’imbarazzo che si era creato.
«Vai avanti tu. Ordina quello che vuoi.», gli propose. «Ho due scartoffie da sistemare. Mezz’ora e ti raggiungo, mh?».
Quando Izuku uscì dallo spogliatoio, Katsuki si appoggiò con la schiena contro gli armadietti, una mano passata sul volto stanco.
Odiava mentire. E odiava sentirsi un ipocrita e un incongruente.
Ma erano due giorni che ci stava pensando, che si stava arrovellando il cervello per provare a trovare un nuovo punto di partenza con Izuku, cercare di funzionare nonostante quello che avevano passato, nonostante i caratteri e le loro visioni divergenti.
Dopo quello che era successo, per cui aveva ancora la testa ovattata e non si capacitava ancora di ciò che aveva sperimentato, il suo proposito divenne chiaro.
Tracciare una nuova strada.
Partire da dove tutto era andato a puttane, iniziare a rimediare per davvero ad anni di torti, stupidi allontanamenti, occasioni mancate.
S’infilò le scarpe uscendo dallo spogliatoio, il cellulare in una mano a cercare in rubrica un numero da chiamare.
Provò un paio di volte, ma la linea continuava a cadere.
Quando fu davanti alle porte scorrevoli della centrale e vide che stava ricominciando a piovere, imprecò. Poi il telefono squillò forte, ridestandolo dallo stato catatonico in cui s’era ritrovato, investito dal vento tiepido che portava la pioggia a cadere obliqua, bagnando le gradinate d’ingresso e la punta delle sue scarpe di tela nere.
«Alla buon’ora, Takai!».
La voce concitata dell’interlocutore era stridula e affannata. “Mi perdoni, signor Dynamight, ma oggi sembra che tutti vogliano venire da noi a scaldarsi la pancia!”.
Katsuki ridacchiò: «Ti ho chiamato giusto per questo. Fra… Uhm…», e contò con le dita della mano sinistra: «Cinque giorni? Hai posto?».
“Tutta la sala?”.
«Mmh…», Katsuki tentennò, passandosi una mano sul collo. «Solo un posto tranquillo. Orario di cena.».
Ci fu un attimo di silenzio dall’altra parte e poi un piccolo tonfo: “Allora le confermo per il 16 luglio, ore 20!”.
«Perfetto!».
“Buona serata, signore!” e gli staccò il telefono in faccia, strappandogli mezzo sorriso.
Fece un lungo passo in avanti e venne investito dalla pioggerellina leggera.
16 luglio.
Forse quella sarebbe stata l’occasione giusta per rimediare a vent’anni di errori, di silenzi, di regali non dati, di auguri non fatti.
Non sarebbe stato molto, lo sapeva, perché era come mettere un cerotto su uno squarcio putrescente. Ma era pur sempre un inizio.
Si avviò allora verso la pasticceria più vicina, sorridendo come un ebete.
 
I've waited so long for someone like you to come along
Oh, what I would give, give for one kiss on your open mouth
Green, your eyes are so green
So emerald green, Siena dream
So I'll hold it all down
I hang around 'til you come around, you come around
⁓ Nothing but thieves ⁓

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Capitolo 18
*** You are the cure for all my scars ***


You are the cure for all my scars


 

ATTENZIONE!
Il vecchio capitolo "Never alone" che avete già letto è stato inglobato in questo, come da idea originale.
Mi urtava il fatto di aver dovuto pubblicare per forza una cosa non completa...
Vi chiedo pertanto di portare pazienza e rileggervi la prima parte per avere un po' un quadro generale e il senso di tutto il capitolo.
Non vogliatemene, ma quando l'autore si mette in testa certe cose sapete bene che è difficile smuoverlo...

Portate un po' di pazienza, perché spero ne valga la pena ^^
Buona lettura

____________________________


Guarda i girasoli: s’inchinano al sole, ma se vedi uno che è inchinato un po’ troppo significa che è morto. Tu stai servendo, però non sei un servo. Servire è l’arte suprema. Dio è il primo servitore; Lui serve gli uomini, ma non è servo degli uomini.
⁓ da “La vita è bella” ⁓

13 luglio
 
 
Il sole era alto nel cielo e la pioggia afosa di un paio di giorni prima sembrava un lontano ricordo, perso nei meandri del tempo.
Oltre le punte delle sue scarpe rosse la città sonnolenta sembrava ridestarsi dal riposino pomeridiano ad un ritmo estremamente lento. Cosa che lui non aveva minimamente fatto e che agognava dal giorno prima.
Non aveva chiuso occhio, ma non tanto per il caldo infernale dato dal condizionatore rotto per l’ennesima volta, quanto più perché era stato sveglio a finir di compilare i report conclusivi del periodo di affiancamento con Dynamight, per il proprio reintegro nel “sistema eroi” giapponese. In questo, forse, apprezzava di più l’America e le sue procedure più snelle e meno burocratiche.
Sentì un breve scoppiettio e vide sfrecciare alla sua sinistra un lampo arancione, seguito da denso fumo grigiastro: «Muoviti schiappa!».
Sbuffò. «Ho sonno!».
Lo vide voltarsi, a mezz’aria, i capelli biondi arruffarsi ancora di più mentre un ghigno accattivante gli si dipingeva sul volto, mentre dai palmi cominciavano ad essere rilasciate piccole esplosioni controllate. «Non è una scusa, Merdeku!».
Fu una delle rare volte in cui quel nomignolo non lo infastidì, perché sapeva che non c’era cattiveria nelle sue parole.
Non si erano più sfiorati in quei due giorni, anche se Izuku avrebbe voluto prenderlo perfino sul lavandino della cucina mentre sciacquava le tazze. Ma sapeva di essere un caso perso e che l’astinenza prolungata gli giocava brutti scherzi. E no, una sega condivisa non contava.
Così incurvò le spalle e si decise a muovere le gambe, simulare un piccolo scatto prima di fluttuare a velocità crescente verso quel terremoto biondo che se la rideva e lo incitava a raggiungerlo, facendo quasi a gara a chi andasse più veloce, mantenendo un occhio sempre vigile sotto di loro, scrutando le strade trafficate e i vicoli deserti.
All'improvviso, però, fu Deku a udire una cacofonia di rumori e urla che echeggiava anche a diversi metri dal piano stradale, tra i palazzi. Un’occhiata d’intesa e un boato più forte: Dynamight aveva fatto dietrofront con un’esplosione, precedendolo. Digrignò i denti, frustrato, perché, per quanto fosse diventato forte, Kacchan era più veloce. Ogni. Volta.
Si appoggiò a un’insegna spenta, sentì il plexiglass scricchiolare sotto le scarpe, prima di darsi la spinta con Fa Jin e raggiungere l’amico a tutta velocità, sfruttando i fasci scuri di energia di Black Whip per virare all’ultimo su una laterale, provando una scorciatoia per raggiungerlo.
Fu questione di secondi, tra il suo arrivare sulla strada principale e l’udire il fragore di un’esplosione e di vetri in frantumi che coprivano le grida dei passanti.
Le sirene della polizia erano vicine, ma non riusciva a vedere molto con la nuvola di polvere, se non un veloce lampo arancione passava nel grigiore del fumo.
«Dynamight!», si ritrovò ad urlare, sospeso a fluttuare a mezz’aria per qualche istante, prima di scrollare la testa e scendere velocemente, le braccia alzate ad accompagnare la caduta dolce contro l’asfalto, correndo poi a mettere in salvo alcuni civili, afferrando chi per la vita, chi trasportandolo in braccio in un posto sicuro.
Posando a terra un ragazzo impaurito, si voltò, le orecchie tese a un lamento, gli occhi tirati in due fessure per vedere chi barcollava tra i detriti di quello che, un tempo, era un edificio basso tra i palazzi alti della zona amministrativa di Urakawa.
La punta del piede si piegò sull’asfalto, energia che sfrigolava ancora sotto le suole pesanti delle scarpe e lo portava a scattare verso l’uomo magro, in giacca e cravatta, che stava per accasciarsi al suolo. «Ehi! Coraggio!», lo incitò, mentre quello respirava a fatica e indicava la voragine nel muro da cui ancora piovevano calcinacci e fiotti d’acqua dai tubi divelti.
«Il ca-caveu…».
«Caveu? - anche Deku guardò in quella direzione - Era una banca?»
L’uomo annuì, tremante, non staccando gli occhi vitrei dal volto dell’eroe che l’aveva soccorso, che però continuava a cercare nella confusione il collega eroe e a controllare che non ci fossero altri feriti gravi. «Hanno fatto saltare il caveu! Hanno preso degli ostaggi.», esclamò l’uomo dalla zazzera di capelli brizzolati, tenendo saldamente Izuku per le braccia, a volersi aggrappare a lui con tutte le sue forze.
«Ti porto in un posto sicu-».
Fu questione di millesimi di secondo, qualcosa simile a un battito di ciglia, a un respiro trattenuto. Di uno sguardo e di un ghigno.
Di un grido, che lo fece ruzzolare tra i detriti e la polvere con la stessa forza di un proiettile sparato ad alta velocità contro un muro.
Dolore. Dolore un po’ ovunque: le spalle, la testa, la schiena, le gambe aggrovigliate ad altre gambe, un peso avvinghiato al petto e qualche colpo di tosse.
«Cristo se sei idiota!».
La voce graffiata di Kacchan lo rimproverava e lui non aveva capito neppure bene perché. «Alza il culo e inseguiamolo!».
«Inseguire?».
Si sentì sollevare di peso per la tuta, un gridolino di sorpresa soffocato da un gemito di dolore nel rimettersi in piedi con così poco preavviso, con la testa che pulsava, intontita dalla botta ricevuta.
«Il villain!», si ritrovò la faccia urlante di Kacchan a un palmo dalla propria: «Che cazzo, Deku! Sei talmente imbambolato che non riconosci neppure un villain quando ce l’hai di fronte?», lo incalzò, sputacchiando saliva sulla sua pelle impolverata e sudata.
«Un vi-villain?».
«Sì, cazzo! Quello del portavalori!», e indicò la figura magra che si allontanava in fretta, dando ordini a destra e a manca ai complici, che emergevano dal fumo con borsoni colmi di denaro; uno di loro, più grosso degli altri, aprì la bocca e un fascio di energia pura rischiò di colpire i due eroi che si scansarono appena in tempo, sciogliendo invece il muso della macchina dietro di loro.
Stavolta il tempo si dilatò, con la stessa velocità con cui quel criminale si posizionava su una moto e partiva per mettersi in salvo: Izuku era caduto in uno stato quasi catatonico e seguiva febbrilmente il movimento di quella figura magra che si allontanava man mano.
I suoi piedi si mossero, pronto per lanciarsi all’inseguimento, ma la mano guantata di Katsuki lo bloccò: «Deku!».
Gli occhi verdi di Izuku acquisirono un bagliore innaturale, un verde elettrico, mentre onde di energia lo avvolgevano e sfrigolavano attorno alla sua figura, piccole lingue scure che pian piano si formavano sulla pelle del volto. «Mollami.», gorgogliò a denti stretti, la mano che stringeva con forza quella di Katsuki per fargli lasciare la presa, prima di scaraventarlo dall’altra parte della strada nel tentativo di salvare Dynamight da un nuovo attacco di plasma sparato ad alta velocità.
Quando Katsuki si rialzò, un paio di costole sicuramene incrinate, si guardò attorno. «Merda!», gli sfuggì, voltandosi a vedere i danni che quel fascio di energia aveva provocato, prima ancora di realizzare che Deku era sparito
«Cazzo!», e batté un pugno per terra, frustrato per quell’assenza, prima di rialzarsi con fatica.
Si guardò attorno e vide un pugno di agenti scendere dalle volanti che erano appena arrivate sul posto, completamente attoniti e spaesati. Lanciò un grido per attirare la loro attenzione: «Ehi! Voi!».
Quelli voltarono la testa nella sua direzione. Poteva vedere la confusione nei loro volti. La stessa confusione che c’era in quei trecento metri quadri di strada, calcinacci e urla spaventate. «Invece di stare lì come statue muovete un po’ il culo e seguite Deku!». I tre agenti si guardarono l’un l’altro, incapaci di capire se dovessero ubbidire a quell’ordine dato da uno eroe o se seguire le direttive del capo del Distretto.
Incassarono la testa nelle spalle a sentire un nuovo grido di Dynamight: «Cristo santo! Vi muovete o no?». Fu quello a farli smuovere, a farli risalire sulla volante e ad attivare il tracciatore della tuta di Deku sul computer di bordo.
«Vediamo di darci una mossa, mezza sega!», berciò Dynamight, tornando a respirare e attivando delle esplosioni potenti sui palmi delle mani, visibilmente alterato e pronto a lanciarsi nello scontro con quel villain fuori misura, che stava di nuovo prendendo fiato per vomitare ancora plasma nella sua direzione. «Ho cose più importanti da fare che stare dietro a te e alle tue stronzate!».
 
 
«FERMATI!».
La gola gli faceva male quando gridava, perché l’aria tiepida gli seccava l’ugola ad ogni respiro affannato che faceva, mentre tentava di star dietro a quella moto, lanciata a una velocità folle lungo le strade su cui il traffico si intensificava e su cui lui non riusciva più a correre come voleva.
Aveva provato a usare il suo Black Whip per fermarlo, per frenare quella corsa e disarcionare il conducente. Ma nulla. Sembrava tutto inutile.
Aveva paura che la moto finisse di traverso, che prendesse una macchina, magari una familiare, con dei bambini come passeggeri, e che l’impatto uccidesse sul colpo tutti quanti.
Pur nella sua corsa forsennata era cauto e il suo cervello, forse, correva anche più veloce di lui, ipotizzando ogni pericolo, ogni disastro.
Non si rese nemmeno conto di aver oltrepassato il centro, la zona commerciale che cominciava a ripopolarsi dopo la sonnolenza del pranzo. Non si era reso conto di star fiancheggiando la baia, i capannoni, i cantieri, fino ad arrivare alla zona del porto, dall’altra parte della città.
Distante da tutto e da tutti.
Imprecò mentalmente. Si diede dell’idiota, perché quella aveva tutta l’idea di essere una trappola. E mentre saltava da un tetto all’altro senza perdere di vista la moto, si disse anche che tornare indietro non poteva.
Non avrebbe lasciato che scappasse anche questa volta. Non a due giorni dalla sua partenza.
Non poteva avere un demerito proprio alla fine del suo nuovo periodo di prova…
Le ginocchia gridarono pietà quando aumentò la frequenza dei passi prima di saltare con Fa Jin e oltrepassare la moto con quel balzo. L’asfalto si crepò all’impatto, ma non gli importava, perché lì non c’era nessuno e non avrebbe avuto chissà che grosse conseguenze se avesse distrutto qualcosa. Forse.
Sperò con tutto il cuore che tutti gli operai fossero a pranzo, che non ci fosse nessuno. Che se distruggeva un capannone, sotto le travi che sarebbero crollate, on ci fosse un buon padre di famiglia che si spacca la schiena per portare a casa quattro soldi.
Le ruote della moto slittarono, mentre l’uomo provava a schivarlo quasi in derapata, ma perse il controllo del mezzo e lo lasciò andare, uno stridio metallico nel suo scivolare contro dei container e schiantarsi contro di essi con un boato sinistro di lamiere piegate.
Izuku ebbe il tempo solo di osservare distrattamente quell’impatto, prima che l’attenzione fosse di nuovo tutta sul villain che ora faticava a rialzarsi, ammaccato e dolorante.
«Sei in arresto, Shui!». disse con voce alta e ferma. Aveva dato una letta veloce al fascicolo che Hawks gli aveva passato, ma quel nome gli era rimasto impresso più di tutto il resto.
Shui.
Lo pronunciò con un tono carico di tutto il disprezzo di cui era capace.
«La violenza verso un eroe durante il servizio attivo è punita con la reclusione da sei mesi a cinque anni.», recitò poi con perizia.
«Oh, ma io non ho proprio fatto un cazzo, Deku!», tentò di giustificarsi il criminale che, preda di un terrore sordo che lo attanagliava nel profondo, che gli scorreva nelle vene e che gli lasciava gli occhi spalancati e puntati contro l’eroe; e fece l’unica cosa di cui fosse capace: lo chiamò ancora, guardandolo dritto nei suoi occhi verdi, sperando che il suo potere psichico facesse effetto subito e che lo mettesse fuori uso con solo un attacco.
Si aspettava una reazione simile a quella del biondino di qualche giorno prima: panico, terrore, impossibilità a muovere un muscolo. Un ghigno gli si formò sul volto, mentre se ne stava ancora seduto a terra, un braccio mollemente posato sul ginocchio piegato, con la spavalderia di chi sa bene di avere già la vittoria in tasca.
Ciò che purtroppo non aveva previsto era la velocità con cui l’eroe aveva rilasciato una fitta nebbia, che l’aveva fatto tossire come un dannato, facendogli dubitare perfino di averlo colpito col suo quirk.
«Sei stato tu, Shui?», ma la domanda era pura retorica, pronunciata con un tono più basso, più serio. Più inquietante, perché non sapeva da che parte arrivava.
A-a fare cosa?», chiese, strizzando gli occhi alla ricerca dei lampi verdi che Deku emanava e il panico si fece ancora più strada nelle sue viscere e lo costrinse ad alzarsi, preda di un nervoso che gli faceva addirittura battere i denti, voltandosi a più riprese per vedere dove fosse finito quel maledetto eroe.
«A ferire Kacchan.», esalò. La voce ora calma, quasi atona, che ancora non capiva da dove provenisse.
«Chi? Non so di che cazzo stai parlando, Deku!».
All'improvviso però una strana sensazione travolse Izuku. Era come se qualcosa di pesante e cupo lo sopraffacesse e gli gelasse il cuore nel petto. Non riusciva a respirare bene e non per colpa del fumo: non riusciva a pensare correttamente e gli sembrava di non potersi muovere se non come un automa.
Fu come se nella sua mente serpeggiasse un sentimento pronto a corroderlo, una paura che voleva consumarlo completamente. Non riusciva a dargli un senso, non riusciva a capire perché all'improvviso provasse tutto quel terrore da essere quasi paralizzato, da non controllare più la cortina di fumo che lo avvolgeva e che, ora , si stava diradando a vista d’occhio.
«Cosa c'è che non va, grande eroe?», lo provocò il villain, barcollando e godendosi la vista del paladino che se ne stava in piedi, immobile, attonito, confuso dal suo subdolo potere. «Dov'è tutta la tua spavalderia adesso?».
Strinse gli occhi e si prese la testa con le mani, tirando i capelli per tornare in sé.
"Izuku."
Cercò di respingere la paura, di trovare una parvenza di forza nel proprio cuore. Ma non servì a niente: si sentiva completamente sopraffatto.
Poi, proprio quando pensava di non poterne più, una voce fece breccia nel caos nella sua mente.
"Ragazzo."
All'inizio era una voce debole, che a malapena sovrastava i propri lamenti, lo stridore dei denti sui denti, serrati dai muscoli della mascella contratta.
«Sei debole anche tu, in fondo.».
Quel richiamo si confondeva con quella voce roca, aspra, ed era debole quella vocina, appena udibile sopra il battito del suo cuore che pulsava forte. Ma poi la voce divenne più nitida, più chiara, finché non fu tutto ciò che riuscì a sentire.
 
"Giovane Midoriya!"
Alzò gli occhi e le iridi chiare di All Might lo guardavano con apprensione, mentre la sua presa salda gli teneva il volto, il resto del corpo avvolto da denso fumo nerastro. Provò a parlare, ma non ci riuscì. Era come la prima volta in cui era entrato in quella dimensione, in cui un denso fumo nero lo avvolgeva, lasciandogli scoperti solo gli occhi verdi.
Solo che ora di anni ne aveva otto in più e gli sembrava stupido essere tornato tanto indietro, aver regredito in tutti i suoi piccoli, sudati progressi.
"Izuku, puoi farcela."
Era la voce di Nana quella che ora udiva, forte e ferma accanto a lui, una mano poggiata su quella che doveva essere la spalla. Un sostegno silenzioso arrivò anche da parte del sesto possessore, che lo fissava con le sopracciglia arcuate in un’espressione serena, quasi canzonatoria. “Siamo qui, Izuku”, lo incoraggiò En.
E pian piano gli si fecero tutti attorno, uno alla volta, con ogni parola che gli rivolgevano, Izuku sentiva una scintilla di speranza accendersi dentro di sé.
"Non sei solo, ragazzo mio.", Daigoro gli affondò una mano nei capelli, in una carezza rude, con un sorriso bonario sul volto: "Ti sei allenato tanto anche per questo e sei più forte di quanto pensi."
Izuku chiuse gli occhi e fece un respiro profondo, concentrandosi sulle parole delle vestigia. Lentamente sentì la sua paura iniziare a placarsi, il cuore battere con maggiore calma, il respiro farsi meno affannato.
"Ci faremo carico di questo per te, ti aiuteremo. Ma tu non devi mollare.", disse fermamente All Might, tenendogli una mano sulla guancia, in un gesto paterno che gli era mancato così tanto in tutti quegli anni. Riuscì ad annuire, sentendosi più leggero, mentre anche Bruce gli posava il pugno sulla spalla, un gesto distaccato e uno sguardo indecifrabile. Fu solo quando Kudo gli toccò la mano con riluttanza che avvertì una sorta di brivido lungo tutta la schiena.
“Sai, non serve che ti affanni così.”, gli disse, con quel tono aspro che aveva ormai imparato ad apprezzare. Izuku non riusciva ancora a parlare e lo guardò, interrogativo, sentendo le dita gelide intrecciarsi e stringersi alle proprie, come se quella, più che un incoraggiamento, fosse una carezza cercata e gradita da entrambi.
Kudo gli si avvicinò all’orecchio e la sua voce si fece un sussurro perso nello sfrigolamento dell’energia che lo avvolgeva: “Credi che non abbia mai visto cosa fai, ragazzino?”. E Izuku si irrigidì a vedere il sorrisetto di scherno su quel volto sfregiato, mentre a circondare quella specie di stanza diroccata c’era solo la proiezione di ciò che in realtà stava pensando: una sfilza di imprecazioni e di balbettii.
Oh cazzo!
“Oh cazzo si! Però è stato divertente, vero Kudo?”
“Per niente, Nana.”, abbozzò quello, un arrossamento lieve su quel volto sempre impassibile.
Li sentiva ridacchiare tra di loro e, improvvisamente, si rese conto che, forse, l’idea che aveva avuto per anni che quella fosse una dimensione del tutto separata dal suo pensiero e fosse una sorta di subconscio, non era poi così esatta.
D’un tratto, però, la sua attenzione cadde su Yoichi, il primo possessore, accasciato in ginocchio accanto a lui, che aveva lasciato la presa sul suo corpo d’energia per prendersi la testa tra le mani. Kudo, al suo fianco, si limitava ad accarezzargli la testa e parte della schiena ad ogni invocazione del suo nome. “Sono qui, Yoici. Sono qui. È solo una cosa passeggera…”, ma la convinzione era scarsa nel suo tono di voce e lo sguardo affilato che rivolse a Izuku gli fece quasi gelare il sangue nelle vene, mentre quel fumo denso e scuro pulsava e lo stringeva ancora.
“Possiamo solo alleviare l’effetto della paura, per cui vedi di muoverti, ragazzino!”, gli ricordò Kudo. E fu come se un lampo partisse da quegli occhi così simili a quelli di Kacchan, risvegliandolo e riportandolo prepotentemente indietro…
 
Gli occhi di Deku si strinsero forte prima di riaprirli e osservare quella figura trasandata che gli puntava un coltello alla gola. Per quanto aveva perso conoscenza?
Per quanto era stato lì, fermo, in balia di quel villain?
«Non sono debole.», scandì, a denti stratti, paralizzato ancora sul posto senza sapere bene come fare a schiodarsi da lì.
«No? Allora perché sei fermo e ho io il coltello dalla parte del manico?».
Si guardò attorno e vide un altro paio di scagnozzi che erano accorsi al porto per dargli man forte, mentre la punta dell’arma gli pungeva la pelle e un rivolo di sangue gli colò da sotto il pomo d’Adamo fino allo scollo della tuta, mescolandosi al sudore e alla polvere. «Non fare lo stupido con me, Shui.», lo avvertì, la voce bassa e pericolosa, le iridi verdi scurite dalla palpebra abbassata e dall’ombra delle sopracciglia. «Hai quasi ammazzato degli innocenti con quella moto oggi. E non ti conviene puntarmi un’arma contro. Lo sai anche tu.». La mano destra si mosse con calma innaturale fino a prendere il polso del villain senza alcuna forza.
«Tutti sono deboli contro Mahi, eroe!».
«Ma-mahi?».
La risata che ricevette in risposta lo fece rabbrividire, quasi quanto la punta del coltello che gli sfregava di nuovo la pelle, lasciandogli un taglio poco profondo ma che bruciava terribilmente la pelle, mentre Shui si allontanava di un paio di passi, lasciando campo libero ai due energumeni che, lo vedeva, pregustavano solo il fatto di avere Deku lì, alla loro mercè.
Vide Shui voltargli la schiena, li coltello lanciato brevemente in aria, come se fosse un giocattolo, la voce alta per farsi udire a distanza: «Mahi è un bel potere, anche se tu lo sopporti bene.». Lo vide voltarsi di nuovo nella sua direzione nell’esatto momento in cui l’omaccione pelato gli afferrava i capelli e lo strattonava, provocandogli una smorfia rallentata di dolore. «Credo mi godrò la scena da qui, Palsy. Tu e tuo fratello fate pure come se io non ci fossi! Ah!».
Le mani facevano fatica a raggiungere il braccio dell’uomo che lo teneva per i capelli, un dolore atroce alla testa e al braccio che cercava disperatamente di alzare ma che qualcuno di più alto e grosso di lui aveva già strattonato prima di sferrargli un potente destro sull’addome. Un’ondata di dolore attraversò il corpo di Izuku, che sussultò in agonia. I suoi tentativi di reagire furono inutili, limitati da quel potere subdolo che lo teneva incatenato, rallentato.
“Ragazzo!”
Izuku alzò lo sguardo a colui che lo teneva ancora quasi appeso, le punte dei piedi che sfioravano l’asfalto rovinato e macchiato di quello spazio tra i capannoni.
E lì, indifeso e vulnerabile, non poté fare altro che sopportare l'assalto di quei pugni che arrivavano, poderosi, e s’infrangevano sulla sua carne senza sosta.
L'abilità di Shui che induce paura aveva già fatto il suo lavoro, amplificando i suoi terrori a livelli insopportabili. La combinazione della paralisi di quell’altro villain e dei colpi che stava subendo… Era tutto troppo da gestire per il giovane eroe, che si sentiva scivolare via, la sua energia che defluiva a ogni colpo feroce, come se quello fosse il potere di colui che lo stava trattenendo.
Izuku strinse i denti e i pugni, combattendo contro se stesso, perché ogni volta che stringeva gli occhi gli sembrava di vedere le vestigia, a una a una, che si accasciavano come fiori esangui. E quella visione era tanto raccapricciante da costringersi a tenere gli occhi aperti, spalancati, che bruciavano tra la calura e il sudore, mentre riusciva a malapena ad alzare le braccia e a proteggersi il volto dai pugni.
“Izuku! Reagisci!”.
Ogni colpo che riceveva era un grido disperato nella sua testa.
Si sentiva patetico. E, per quanto non fosse così, lui si sentiva debole. Più debole di quando i poteri manco ce li aveva.
All'improvviso, un'esplosione assordante echeggiò nel vicolo ed entrambi i cattivi si immobilizzarono, evitando per un pelo un proiettile vagante che si conficcò nel muro dietro di loro. Approfittando della loro breve distrazione, Izuku fece appello a ogni grammo di forza che ancora possedeva e si costrinse ad avvicinare le dita, schiccherando l’aria, provocando un rinculo breve e decisamente poco potente per i suoi standard, facendo però cadere i due criminali distratti come i birilli di un bowling malandato.
Crollò al suolo con un lamento soffocato, le costole forse rotte, il dorso della mano a pulirsi piano la bocca dalla saliva e dal sangue. Provò a rialzarsi nel più breve tempo possibile, ma i suoi movimenti erano lenti e faticosi, anche se sapeva che doveva scappare, recuperare forze e fiato.
Mentre si trascinava per terra, Izuku lanciò un'occhiata alle sue spalle e vide i due criminali fare fatica a rialzarsi e ne fu compiaciuto, tanto che un sorrisetto gli incurvò le labbra a vedere pure Shui visibilmente scosso, i suoi occhi spiritati ancor più spalancati e guardinghi, l’espressione carica d’ansia nel guardare verso la direzione dello sparo.
«Mani in alto!».
«Siete in arresto!».
Ma Izuku lo sapeva che la voce tremolante di quei poliziotti, per quanto alta fosse, avrebbe attirato solo disgrazie e non avrebbe mai fatto da deterrente per quei criminali, così come le pistole che stavano puntando contro i due scagnozzi.
Uno dei due agenti, vedendo un criminale alzarsi troppo in fretta, sparò di nuovo, colpendo l’uomo alla gamba, strappandogli un urlo disumano, mentre perdeva d’equilibrio e tornava a terra, a premersi le mani già insanguinate sulla coscia per fermare il fiotto rossastro che ne usciva.
La paralisi che aveva colpito Deku si indebolì e lui percepì in quello un'opportunità: usò l'adrenalina che gli scorreva nelle vene per tirarsi su goffamente e barcollare. Le sue gambe tremavano ad ogni passo, ma si rifiutava di arrendersi, tenendosi l’addome con il braccio sinistro, il destro puntato avanti a sé, le dita pronte a dare un nuovo colpo all’aria nella direzione di Shui.
La testa gli pulsava, la faccia era calda e lo zigomo destro doleva tanto da temere fosse rotto, cosa che lo era sicuramente il labbro. O il naso.
«Sei finito, Shui. Arrenditi!». La faccia di Izuku era un grumo di dolore che si confondeva con quello al costato o al torace, che gettava scariche ad ogni ansito e gli rendeva difficoltoso parlare.
Era questa la sensazione che aveva avuto Kacchan? La serpeggiante paura di morire era questa?
Davanti a lui, il sinistro Shui sfoggiava un sorrisetto arrogante prima di voltare il capo verso i due poliziotti, spalancare gli occhi e richiamare la loro attenzione per poi attivare il suo subdolo quirk sugli agenti accorsi, che erano fuggiti a gambe levate subito dopo, in preda al terrore.
Fatta eccezione per loro tre e per le armi abbandonate che gli agenti si erano lasciati dietro, la zona sembrava deserta. Izuku chinò il capo, un respiro profondo, più doloroso del previsto, decretò la sua rassegnazione, tanto da fargli chiudere gli occhi per un istante.
 
 
Kudo era ancora lì, in piedi accanto a lui, così come Daigoro, la mano premuta saldamente sul suo collo nudo, tanto da poter sentire la pressione di ogni singolo polpastrello non solo nell’anima ma anche realmente, sulla propria pelle.
«Devi concentrarti, giovane Midoriya!», disse disperatamente All Might, accasciato al suolo, ma ancora aggrappato al fumo che gli avvolgeva la gamba.
Non sapeva cosa dovesse fare.
Nonostante la sua stanchezza, Izuku sapeva di non potersi permettere di tirarsi indietro. Era arrivato troppo lontano e non poteva lasciare che Shui o qualsiasi altro cattivo vincesse. Ma il pensiero di fallire proprio ora, quando aveva realmente qualcosa da perdere, quando si sentiva così completamente realizzato, lo riempiva di un terrore che non aveva provato nemmeno durante la battaglia con Shigaraki. Le sue mani tremavano, non solo per la stanchezza, ma per la paura schiacciante che gli attanagliava il cuore.
 
 
Evocando ogni grammo delle sue forze rimanenti, Izuku strinse i pugni e fissò il cattivo davanti a lui. Tutto lo splendore di quel potere che aveva ricevuto era stato neutralizzato, lasciandolo impotente contro un nemico che s’era rivelato astuto e spregevole.
Aveva giurato di essere un simbolo di speranza per tutti, un simbolo del fatto che anche gli impotenti potevano fare la differenza.
Non sapeva come, ma avrebbe trovato un modo per fermare Shui e la sua banda prima che diventasse potente. Per proteggere gli innocenti e dimostrare che c'era sempre un modo per combattere l'oscurità.
Lo scagnozzo, barcollando nella sua corsa disperata l’aveva quasi raggiunto e proprio mentre la mano del cattivo si allungava per afferrarlo di nuovo, Izuku fu improvvisamente inghiottito da un inferno accecante: un'esplosione scosse perfino i capannoni che li circondavano, la sua onda d’urto lanciò via il criminale e lasciò Izuku in piedi, le braccia a proteggersi il volto tumefatto. Prima che potesse rendersi conto di ciò che era successo, una figura atterrò davanti a lui, ansimante e fumante, ma molto viva.
I loro occhi si incontrarono per un breve, teso momento prima che Dynamight gli ringhiasse contro: «Ti avevo detto di inseguirlo insieme, idiota!». Detto questo, si voltò verso il villain, con i pugni serrati e uno sguardo determinato negli occhi.
«Tu... Tu non devi essere qui…», riuscì a dire Izuku, le gambe che ancora tremavano mentre faceva qualche passo verso l’amico.
«Potevi dirlo che volevi divertirti da solo, Deku!», ghignò l’altro, mentre piccole esplosioni si formavano su suoi palmi. Il cuore di Izuku trovò uno spiraglio di gratitudine in quell’angoscia cieca che lo continuava ad avvolgere, come una coltre pesante.
Dynamight e Deku si voltarono l'uno verso l'altro, respirando affannosamente, scrutandosi in volto per un istante di puro sollievo: erano entrambi feriti, ma erano vivi. La tensione che sentiva Izuku, la paura e l'adrenalina, cominciarono a defluire, sostituita da una strisciante stanchezza che minacciava di inghiottirlo del tutto.
«Bene-bene». ghignò Shui, facendo volteggiare abilmente il coltello con una mano per poi riprenderlo e giocarci così un paio di volte. «Due piccioni con una fava!».
Le labbra dell’uomo erano curvate in un sorriso sinistro mentre avanzava verso i due eroi, con evidente disprezzo nello sguardo.
Alzò la mano e a Izuku sembrò che l'aria stessa attorno a lui si deformasse, l’energia si condensasse, opprimendolo, schiacciandolo come un peso soffocante.
«Si stava così bene qui senza voi eroi. Tutti sorrisi e ammirazione e autografi. Patetici. Pensavate di intromettervi per che cosa? Per ristabilire un ordine inesistente?», sibilò Shui, le sue parole grondavano malizia. Concentrò la sua attenzione su Dynamight, che se ne stava un passo di fronte a Deku, le braccia allargate, le gambe divaricate pronte a scattare, in un atteggiamento protettivo verso il ragazzo prodigio, di poco arretrato rispetto all’eroe esplosivo. Lanciò ancora una volta in aria, il coltello, prendendosi tutto il tempo che voleva, mentre Katsuki lo studiava in ogni minimo movimento.
«Sei tu che vai contro l’ordine, testa di cazzo!», lo rimbeccò Dynamight, un braccio portato lentamente di fronte a sé, il palmo aperto e un piccolo anello formato dal pollice e indice dell’altra mano, come se volesse mirare direttamente a quel farabutto.
«Non ti vuoi divertire un altro po’ come l’ultima volta, eroe?», e così dicendo lanciò più forte il coltello in aria, allargando poi le braccia, un ghigno sul volto mentre guardava entrambi.
Stavolta però Deku fu più veloce: un lampo verde, luminoso, brillante, sembrò accecare per un momento entrambi, con Katsuki che si sentiva colpito al centro della schiena e poi preso per la testa e fatto sbilanciare in avanti, un tonfo sordo al suolo senza che avesse facoltà di capire cosa davvero stesse succedendo, mentre un attacco di Deku si affievoliva sul nascere e quell’eroe impavido si bloccava di nuovo, le mani tra i capelli e l’espressione sofferente; il villain rideva sguaiatamente, il coltello di nuovo nella sua mano, un passo dopo l’altro verso di loro.
Fu il turno di Katsuki di rialzarsi in fretta, uno slancio atletico con le braccia e piccole esplosioni che lo riportavano in piedi, il solito ghigno feroce sul volto. Lo stivale grattò sull’asfalto del piazzale, il polpaccio teso da far male, una questione di millesimi di secondo, mentre gridava a pieni polmoni e le esplosioni lo facevano alzare dal suolo e caricare il villain a tutta potenza.
Avrebbe oltrepassato Deku, fatto esplodere il coglione che se la stava ridendo e tut-
La gravità fece il suo sporco dovere, trascinandolo in basso, incapace di muoversi, tanto che ruzzolò di qualche metro, dolorante ed ammaccato, imprecando mentalmente perché neppure la voce sembrava uscirgli dalla gola. Era paralizzato da costrizioni invisibili, tenuto fermo e, di nuovo, fatto piombare in ciò che lui temeva in situazioni come quella: l’impotenza, l’essere totalmente inerme di fronte a un criminale che gli era ora di fronte e continuava a osservare alle sue spalle. Katsuki non riusciva neppure a voltare la testa, iniziando a respirare a fatica, provando solo a socchiudere gli occhi per un attimo per calmarsi… Ma era impossibile.
Un mugugno di dolore gli uscì dalla gola quando Shui, chinato su di lui, gli piantò con forza il coltello nella coscia. «Non sei così arrogante adesso, vero?», a quella presa in giro Katsuki sembrò ringhiargli contro, incapacitato nel reagire. Shui, ridacchiò in modo maniacale.
«Quanta stupidità!», sputò. «Mi chiedo ancora con quale coraggio vi abbiano definito tra i migliori eroi in circolazione. Patetici!».
Poi qualcosa cambiò. Nel mezzo di quel sadico divertimento, il corpo di Izuku, immobile e irrigidito da quel quirk subdolo, cominciò a fremere, a tendersi. I muscoli che si ribellavano a una costrizione tanto forte ed innaturale. I suoi occhi si aprirono di scatto, il capo voltato verso quell’energumeno che già prima l’aveva picchiato e che possedeva il potere Mahi: lo vide allungare una mano, seppur in ginocchio, con la testa insanguinata e malconcio quanto lui. Era quell’uomo che li stava trattenendo entrambi, che impediva loro di muoversi e combattere. Era lui che stava trattenendo così forte Kacchan da quasi farlo smettere di respirare. La rabbia si sostituì alla paura e alle voci nella sua testa che lo supplicavano di non fare nulla, di resistere a quell’istinto primordiale che stava velocemente prendendo il sopravvento su di lui.
Lanciò un urlo disumano, tanto che Katsuki, con la gamba dolorante da cui sgorgava sangue, provò con tutte le sue forze a voltarsi per guardarlo, per gridargli di fermarsi, di stare fermo. Ma le parole morirono in gola assieme al suo respiro.
Izuku si era liberato da quella costrizione invisibile, scattando avanti e a destra come un fulmine, incurante del bruciore ai muscoli per lo sforzo compiuto.
Colpì il villain con una spallata, una potenza d’urto tale da scaraventare l’uomo lontano, sfondando le mura di almeno tre capannoni; un potere che Katsuki non gli aveva mai visto usare contro una scartina di quel calibro… E gemette di dolore per la gamba ferita, accasciandosi di più al suolo e ritrovando aria e respiro prima di estrarre il coltello e premere a fondo sul taglio, piccoli scoppiettii usati per provare a cauterizzare la pelle e limitare la perdita di sangue, pregando che quel coglione (e la sua mira del cazzo) non avesse reciso vasi sanguigni importanti… Tuttavia, appena alzò lo sguardo alla disperata ricerca del villain e di Deku, vide qualcosa che gli gelò il sangue nelle vene e che lo portò a rialzarsi con fatica e dolore, sfregandosi le mani sulle anche prima di portare le braccia all’indietro, caricando una forte esplosione per spostarsi da lì e intercettare il poderoso salto di Deku.
Lo afferrò per la vita con entrambe le braccia, affondando la testa nel suo ventre per ripararsi nella caduta successiva. Ruzzolarono assieme per diversi metri, l’asfalto rotto nell’impatto che si sgretolava in micro-frammenti e pulviscolo che li fece tossire. Il contraccolpo fu forte, ma Katsuki si rese conto che, in quello stato, Deku sembrava inarrestabile, una furia.
«Fermati idiota!», gli urlò in faccia, bloccandolo a terra tenendolo saldamente per le spalle, caricando sul suo torace parte del proprio peso per fermarlo. «Non fare cazzate!».
Ma si rese conto, tardi, che sarebbero state parole vane. Lo vedeva dagli occhi verdi resi vitrei e luminosi dal potere del OFA, da quelle labbra che pronunciavano il suo nome come una litania silenziosa.
Kacchan. Kacchan. Kacchan.
Lo poteva sentire perfino nella sua testa.
Izuku non era più in sé, non agli occhi sgranati di Katsuki che s’era pure azzardato a tirargli uno schiaffone, ricevendo in cambio solo una spinta mentre Deku si alzava e lo contrastava in ogni sua mossa, fintanto che non lo prese per la gola con una mano. La morsa era salda, soffocante, e Katsuki gli graffiò le mani per farlo smettere, afferrandogli e stringendogli il polso, fregandosene pure del romperlo. Ma Deku non voleva soffocarlo, solo lanciarlo distante, lontano, come un insetto fastidioso, facendolo atterrare contro la saracinesca del capannone a fianco.
La rabbia ribolliva dentro Izuku come lava, minacciando di consumarlo completamente. Sembrò quasi che un potere oscuro lo attraversasse mentre allungava la mano con il suo Black Whip attivo, che serpeggiava lontano da lui e raggiungeva Shui, che stava tentando invano di fuggire chissà dove, per agguantarlo e sbatterlo contro il muro di un capannone lì accanto; viticci scuri di energia pulsante avvolsero l’uomo come il glicine fa col suo supporto, stringendolo a formare quasi un bozzolo, interrompendogli la fornitura d'aria quando gli strinsero la gola.
La stessa energia nera che usciva dai manicotti ai suoi polsi lo stava avvolgendo, ricoprendolo di qualcosa di sfrigolante e spaventoso, che sembrava crepargli le braccia e le gambe, l’intero torso, estendendosi perfino alla pelle del volto.
«Ti ricordi adesso?», gridò Izuku, prima di digrignare con rabbia i denti, gli occhi verdi che ora lampeggiavano pericolosamente: «Hai di nuovo ferito Kacchan!», aggiunse, la voce bassa e spaventosamente rabbiosa, un passo ad ogni parola, mentre si avvicinava al villain con aria minacciosa e quei fasci di energia scura sfrigolavano attorno al corpo dell’uomo, in una tortura lenta e dolorosa, fatta di attimi di sollievo e infiniti momenti di dolore.
L'uomo provò a schernirlo, nel breve istante in cui l’aria gli fluiva di nuovo nel petto: «Vuoi che ti chieda scusa, ragazzino?».
«Pensi che le scuse siano sufficienti dopo quello che gli hai fatto passare?» sbottò Izuku, voltando la testa alla ricerca di Katsuki, notandolo riverso a terra che tentava di rialzarsi.
L'uomo rise di nuovo, piano e minaccioso. I suoi occhi parevano brillavano della stessa follia che pervadeva quelli dell’eroe che aveva di fronte, che strinse di nuovo la presa con quei fasci scuri, sollevandolo di mezzo metro da terra, in modo da fissarlo dritto nei suoi occhi grigi, aggiungendo, con voce lugubre: «Non permetterò a nessuno di fare del male a Kacchan.».
 
 
Katsuki si stava rialzando con fatica, col cuore che gli batteva forte nelle orecchie, il sudore gli colava dalla fronte. Si rifiutava di credere a ciò che stava vedendo.
Si rese prepotentemente conto, in quel momento, di essere davvero il punto debole della morale di Deku. E si sentì stupido a non averlo capito prima, durante le esercitazioni a scuola, durante le battaglie o la guerra… Perché aveva pensato che le parole di Shigaraki fossero vuote e non vere?
Deku avrebbe messo da parte tutto ciò in cui credeva per lui, tutto ciò per cui aveva lottato tanto, solo per vederlo salvo.
I miei piedi si sono mossi da soli.
No. non era altruismo. Non con lui. Non dopo tutto quello che gli aveva fatto passare.
E quattro baci e una sega non cambiavano le cose; forse le acceleravano e basta.
Tuttavia, al di là del loro rapporto dell’ultimo periodo, quella consapevolezza fu per lui come una doccia gelata: sapere che Deku avrebbe scelto Kacchan sempre e comunque, anche a dispetto del bene comune, della società, dei civili… Lo destabilizzava. E si sentiva colpevole per questo.
Sentiva di essere per lui una zavorra, un ostacolo e, per quanto fosse lusinghiero il fatto che Deku, il simbolo del bene, avrebbe potuto mandare tutto a puttane solo per lui, per il suo Kacchan… Lo smosse.
Lo smosse tanto nel profondo che si risvegliò dallo stato catatonico in cui era finito dopo essere stato scaraventato contro una saracinesca.
Dynamight si rialzò a fatica, dolorante e sussultò nell’osservare il collega e amico perdere il controllo in quella maniera tanto feroce che stentava a crederci: Deku, l'eroe spensierato e gentile che conosceva, era ridotto a questo?
Non avrebbe mai permesso che rovinasse tutto: né la sua carriera, per aver ucciso un uomo, né la propria per non aver prestato il giusto soccorso. No, non lo avrebbe permesso. Così Katsuki si lanciò in avanti con una breve detonazione, afferrando uno dei viticci e tirando con tutta la sua forza. «Deku, fermati!», gridò.
Uno strattone più forte, come se stesse giocando al tiro alla fune, i palmi delle mani che sfrigolavano a contatto con tutta quell’energia incontrollata.
La punta dello stivale sull’asfalto e uno slancio, agile e disperato, per raggiungere Deku e colpirlo con una forte esplosione sulla nuca, tanto da sbilanciarlo in avanti, fargli sbattere la testa contro il muro e allentare finalmente la presa di Black Whip sul collo del villain.
Lo prese per i capelli e lo staccò dal muro, la faccia sanguinante per un taglio sotto l’attaccatura dei capelli, gli occhi e gli zigomi gonfi per le botte.
«Se ti lasci travolgere dall'odio, allora chi vincerebbe, ah?» gli urlò contro con tutto il fiato che gli rimaneva, pregando gli Dei che quegli idioti dei poliziotti rintracciassero i loro GPS e arrivassero ad arrestare i malviventi in tempi stretti. «Chi vince, ah? Tu o il villain? Non puoi farlo vincere! Non ti puoi permettere di farlo!», e lo scosse forte, scrollandolo ancora dai capelli, incurante se gli stesse facendo male o meno. Glieli avrebbe staccati a ciuffi pur di farlo rinsavire!
«Ma lui…lui…».
«Smettila di balbettare!», lo strattonò ancora, facendolo finire con il culo per terra. Come quando erano ragazzini. Come quando a picchiarlo, a fargli male ci provava un gusto malsano.
«Io sono qui, stupido idiota! Mi vedi?» e gli prese una mano e se la portò sulla faccia «Mi senti? SONO QUI!».
Le parole di Kacchan penetrarono nella corazza di rabbia e paura di Deku, che sospirò profondamente, cercando di controllare la tempesta che si agitava dentro di sé. Black Whip si ritirò con calma, un’ansa alla volta, come un serpente che si rintana nell’oscurità della propria tana. Izuku tremava come una foglia, ma il suo sguardo sembrò tornare lucido. «Se-eei qui, Kacch-an…», balbettò Deku con voce contenuta.
«Non devi permettere a questa cosa di vincere. Tu non sei oscurità, Deku. Non lo sei mai stato! Sei luce. Io e te siamo luce. Siamo eroi, e dobbiamo proteggere tutti, non solo chi amiamo. Me lo hai insegnato tu, giusto?» e Izuku annuì piano a quelle parole, mentre Kacchan, il suo Kacchan, era lì che gli teneva il volto tra le mani. E aveva gli occhi belli e stanchi e la sua voce sembrava come una coccola in quel rimbombo di paure che aveva in testa. «E proteggere tutti significa anche lasciar vivere anche chi non ritieni degno, perché non sei il giudice di niente. Tu non sei il boia! Stai solo aiutando la giustizia. E non è uccidendo un villain che ti sentirai meglio solo perché ha ferito chi ami. Hai capito?».
Katsuki attese. Attese che quegli occhi verdi che lo fissavano, spauriti, si chiudessero e si riaprissero. Attese che quel nerd che aveva di fronte annuisse ancora, con il labbro inferiore stretto tra i denti e le lacrime pronte a sgorgare. «Non è vendetta, Deku. Non lo è mai stata.».
Izuku si sporse in avanti, contro Katsuki. La testa tra le mani e un singhiozzare disperato, mentre la fronte si strofinava contro il petto saldo e affannato del biondo. «Dio… Cosa stavo facendo…», ripeteva come una litania, mentre era Dynamight a lasciare il suo fianco e afferrare per la maglia il pover’uomo che arrancava terrorizzato via dall’eroe, gattonando come un bambino, le gambe che tremavano.
«Non hai intenzione di usare il tuo potere di nuovo, vero?» lo minacciò Katsuki con voce greve e quello scosse il capo, piagnucolando e pregando che nessuno dei due gli torcesse un capello in attesa dell’arrivo della squadra di polizia per la sua presa in custodia e il suo arresto.
 
 
Izuku si sedette su una panchina in sala d’attesa, la schiena appoggiata al muro freddo. Le botte e i lividi che gli deturpavano il corpo stavano pian piano guarendo, grazie a quella brodaglia che gli avevano propinato.
Tuttavia, la ferita che gli faceva più male era dentro, scavata a metà via tra il cuore e lo stomaco, entrambi sembravano suturati a doppio filo, tirati tanto da continuare a dolere anche dopo una dose di calmante doppia rispetto a quella che veniva somministrata a pazienti normali.
Non riusciva a capire perché, nella sua mente, l'immagine di Kacchan in pericolo fosse tanto viva, quando, razionalmente, sapeva che così non era.
Lui era solo nella stanza di fronte, a farsi suturare il taglio sulla fronte e la ferita alla gamba.
Non c’erano villain lì, solo infermiere amorevoli e paramedici indaffarati a prestare le prime cure ai feriti della rapina.
Sapeva che non serviva più essere così guardingo, neppure provare quella rabbia sfrenata che lo aveva consumato al punto di perdere conoscenza tra le braccia di Kacchan.
Il peso di aver quasi ferito il proprio amico, quando invece cercava solo di proteggerlo, di fare in modo che il mondo non glielo portasse via… Quel peso gravava su di lui come una tonnellata di mattoni. Tremò, portando istintivamente le ginocchia al petto e stringendole forte, premendo la fronte sulle ginocchia e martoriandosi il labbro inferiore con i denti. Riaprì la ferita sul lato del labbro, il sapore metallico del sangue gli invase la bocca. Si strinse ancora di più in quel bozzolo di tremori e lacrime trattenute.
Come aveva potuto? Come si era permesso di fargli male?
Non si accorse della porta scorrevole né del brusio leggero accanto a lui.
Si accorse solo di una mano pesante, passata in mezzo a quel groviglio di nodi, sudore e polvere, che erano diventati i suoi capelli: Katsuki gli si era avvicinando zoppicando appena, un sibilo di fastidio ogni volta che caricava involontariamente il peso sulla gamba sinistra.
«Ehi…».
Fu come il canto di una sirena: Izuku alzò il capo, mostrando all’amico gli occhi rossi e gonfi di pianto, il volto ancora arrossato ed escoriato per i pugni ricevuti, e a Katsuki si strinse lo stomaco.
Si era recriminato il fatto di averci messo troppo tempo a raggiungerlo, troppo lento ad intervenire.
La mano calda e ruvida del biondo si spostò sulla guancia gonfia, sfiorandola con una delicatezza di cui non pensava di essere capace, strappando comunque una smorfia di dolore a Deku. «Sto bene.».
Lo vide annuire, mentre lo guardava dal basso con quegli occhioni smeraldini così liquidi e sinceri. «E tu? Tu stai bene?».
Izuku scosse il capo, tuffando di nuovo la faccia tra le ginocchia. «Ti ho fatto del male…», piagnucolò, ancora in parte sotto l’effetto del quirk di Shui.
Gli rimise la mano tra i capelli e tirò un poco, giusto per avere ancora il suo viso e la sua attenzione tutta per sé: «So che non volevi farmi del male.», e fece una pausa lunga, in cui i loro occhi non si staccarono gli uni dagli altri. «E non me ne hai fatto, Izuku. Non più di quanto te ne abbia fatto io.».
Gli si sedette accanto, di peso, spalla destra contro spalla sinistra, mentre Izuku ne seguiva i movimenti come un girasole che segue la sua unica fonte di vita. «Hanno dato quella brodaglia ignobile anche a te?». I capelli verdi di Izuku ondeggiarono mentre lui annuiva e tirava la bocca in una smorfia piatta.
Katsuki ammise a se stesso che non sarebbe mai riuscito ad essere forte come lo era stato Deku con lui. Più che una presa di coscienza, quella si rivelò una recriminazione. Ma non ci diede peso, non mentre gli passava la mano destra sulla fronte e gli sollevava e portava indietro quei riccioli sporchi dal viso, incatenando i suoi occhi vermigli a quell’abisso verde brillante che aveva davanti.
«Scusa se ti ho colpito così forte.», provò a parlare, con tono più basso, cercando di mantenere con lui il più possibile il contatto visivo.
Izuku alzò lo sguardo, i suoi occhi cerchiati di stanchezza e di lividi. «Io… Avrei dovuto controllarmi meglio. Avrei potuto...», e i suoi singhiozzi finirono incastrati in gola e tra i denti.
Per Katsuki era sempre stato così strano vederlo piangere.
Quand’erano piccoli non lo capiva perché piagnucolava sempre, perché diventava così emotivo per un nonnulla.
Quando erano a scuola assieme, forse il male che gli faceva era troppo da sopportare e, anziché urlare o scappare, se lo ritrovava davanti a frignare. E il non reagire lo faceva andare in bestia. Come poteva una persona rendersi al pari di uno straccio solo per avere un briciolo di attenzione?
Poi aveva capito. Alle superiori aveva capito che Deku, forse, sentiva tutto amplificato e non sapeva bene come dare un senso a tutto ciò che provava, incanalando ogni emozione, positiva o negativa, in quei martoriati condotti lacrimali. Allora lì l’aveva compreso, nel suo non riuscire ad esprimersi al meglio, nel suo essere all’esatto opposto rispetto a lui. Ugualmente forti, ma diversi.
In antitesi.
E ora che comprendeva cosa volesse dire avere un terrore cieco che ti dilania, quelle lacrime lo facevano sorridere, perché era quello stupido idiota a produrle: un supereroe di quasi un metro e novanta, muscoli tonici e sorriso sempre smagliante, che frignava come un moccioso per non essere riuscito a controllarsi. C’era oggettivamente dell’ilarità in tutta quella scena.
«No.», lo interruppe Katsuki, passandogli una nocca sotto l’occhio a raccogliere qualche lacrima. «Non eri te stesso. Shui era forte. E subdolo e sapeva bene che tasti premere per farti crollare. Ma lo abbiamo fermato insieme, Deku. Questo è ciò che conta. Non la tua rabbia, o la mia stupidità nell’averti lasciato da solo.».
Izuku riuscì ad abbozzare un debole sorriso, annuendo piano, e Katsuki gli rivolse un raro mezzo sorriso. «Siamo il Wonder duo, giusto? Siamo partner, io e te.».
Rimasero qualche istante in silenzio, l’uno accanto all’altro, gli unici suoni erano dati dal vociare sommesso delle persone nei corridoi o dai loro passi, mentre entrambi avevano la testa reclinata al muro, fissando il soffitto candido. L’odore dei medicinali e del disinfettante che li avvolgeva non dava più così fastidio.
Fu Izuku a strisciare il capo sul muro, avvicinandosi a Kacchan, toccando la testa con la propria. «Non so cosa farei senza di te.».
«Hai fatto tante cose senza di me.».
Izuku gli diede una leggera spinta, per poi cercare di nuovo quel contatto, lo stesso che voleva il dorso della sua mano a contatto con la coscia calda di Kacchan, mentre tirava lentamente a terra le gambe, togliendosi da quella scomoda posizione di auto-protezione.
«Sai che intendo…».
Ci fu un momento di silenzio, di respiri pesanti rilasciati per sollievo. Da entrambi.
«Dopo oggi ne ho una vaga idea…».
Adesso capiva. La rabbia, l'impotenza, il bisogno di proteggere coloro a cui si tiene.
È come un fuoco nelle vene. Un fuoco che si pensa di poter controllare, ma in realtà non è così, perché è lui che controlla te.
Ci fu una pausa pesante, un deglutire ostico per Katsuki prima di porre una domanda scomoda: «Anche quella volta è stato così?».
«Mh?».
«In guerra, dico…». Izuku chiuse gli occhi e si spinse di più contro il suo fianco a quel ricordo doloroso, la gamba sinistra che toccava con forza quella di Katsuki, come a volersi sincerare che fosse davvero lì con lui.
«Peggio, credo. Ho un ricordo vago.», mentì, piegandosi di più contro di lui, accoccolandosi al fianco fino a posargli il capo sulla spalla. «Ma quella volta non ho colpito te…».
Una risatina rilasciò le labbra di Katsuki, la mano destra che andava ad accarezzargli la guancia, in un gesto carino e affettuoso che ad Izuku non sembrò reale, tanto che alzò di scatto la testa e gli afferrò il volto con le mani.
Sotto il palmo sinistro sentì chiaramente la ruvidezza di quella cicatrice che deturpava il volto di Kacchan, che lo rendeva più minaccioso e più attraente ai suoi occhi. Poi lo sguardo, dalla pelle raggrinzita sulla guancia e attorno all’occhio, si spostò sul taglio che aveva sulla fronte, ancora arrossato e stretto tra steri-strip bianchi di sutura.
«Ti ho lasciato un’altra brutta cicatrice…».
«Quali altre mi avresti lasciato, scusa?».
I polpastrelli di Izuku tracciarono i contorni di quella ferita, tornando poi a toccare la pelle ruvida sulla fronte, sullo zigomo destro, fino a dove quella grossa cicatrice si interrompeva, sul collo. «Questa…».
«Non sei stat-», ma Katsuki si interruppe, sentendo un bacio lieve sullo zigomo e poi la fronte di Deku che si poggiava con calma contro la sua guancia.
Il mondo intorno a loro si congelò. Non esistevano infermiere che correvano, né bambini urlanti, o persone che piangevano. Non esistevano gli odori pungenti dei disinfettanti o il ronzio insistente di una ventola d’areazione fuori asse.
Non esisteva nulla se non quel calore condiviso.
Katsuki si mosse di poco, il braccio destro che si spostava lentamente all’indietro, a cingere in una presa salda e sudaticcia la schiena di Izuku, la mano passata avanti e indietro su quella superficie ampia, muscolosa e calda come l’inferno.
Non aveva il coraggio di parlare, non aveva il coraggio di fare null’altro se non stringerselo addosso. Poi sospirò, e con quel sospiro raccolse un po’ di dignità, di forza e una buona dose di imbarazzo: «Alla fine… Mi piace.».
«La cicatrice?».
Katsuki annuì. «Ah-a.».
«Serio?».
«Fa figo.».
«Sei un’idiota.».
Katsuki ondeggiò, un ghigno accattivante sul volto, le orecchie che iniziavano a scaldarsi: «Piace anche a te, ammettilo.».
«Ah-a.», gli fece il verso Izuku, muovendo la fronte sulla sua guancia, arrivando a strusciare il naso contro il tessuto cicatriziale ruvido, l’odore di bruciato che gli irritava le narici. Un sorriso piccolo e genuino gli si formò sulle labbra. «E mi piacciono le tue orecchie da stegosauro…».
Katsuki si scostò bruscamente, accigliandosi: «Orecchie da stegosauro?», berciò, un lieve fastidio nel tono, mentre osservava Deku ghignare.
«Hai presente gli stegosauri, no?».
«Sì. Ma che cazzo c’entra? Hanno le orecchie che sono due cazzo di buchi!».
«Ok.», e gli accarezzò con due dita la sommità dell’orecchio destro. «Ma le placche servono per disperdere calore… Come le tue orecchie, Kacchan!», ridacchiò poi nel vedere l’espressione basita del biondino, prima che gonfiasse le guance e voltasse la testa, incrociando le braccia al petto con un sonoro sbuffo: «Quel quirk ti ha fottuto il cervello… Cristo sei davvero un nerd di merda!».
«Anche tu, visto che sai come sono fatte le orecchie di uno stegosauro!».
Katsuki pensò che allungare una mano sulla faccia di Deku e fargliela esplodere sarebbe stata la giusta punizione per l’ultima di una sfilza di cazzate che aveva fatto in quella giornata. Ma non lo fece.
Si limitò ad essere contagiato da una risata cristallina, gentile, di quelle che piacevano a lui e che gli erano tanto mancate…
Si ricompose solo quando vide Deku passarsi i palmi sulle guance per tirare via le lacrime di quello stupido momento di ilarità.
Battè i palmi sulle cosce e fece forza sulle ginocchia, alzandosi con calma, dolorante, sforzandosi di non esalare neppure un lamento, osservando però l’amico che non smetteva di piangere. «Che hai adesso?».
«Ni-niente… So-sono solo fe-e-elice…», singhiozzò quell’altro.
Katsuki corrugò la fronte, perché non capiva tutta quella immotivata emotività in quel momento: «E piangi? Perché?».
Lo vide tirare su col naso, strofinandolo col dorso della mano: «Perché sei qui, Kacchan.».
Ci mise un po’ per schiodarsi dallo stato catatonico in cui era finito, probabilmente qualcuno avrebbe potuto vedere la sua faccia da ebete, il collo arrossato, le sue orecchie da stegosauro… Ma non gli importava.
Allungò una mano e la passò in quella massa informe che erano i ricci di Deku, strofinandola in una carezza un po’ rude, giusto per attirare la sua attenzione e sorridergli.
«Va bene. Va bene. Ora però che ne dici se andiamo a casa, fenomeno
Lo vide annuire, un sorriso disteso sul suo volto sporco e tumefatto: «Abbiamo sul serio bisogno di una doccia. E di riposo. Perché il tuo piccolo fuori programma mi costerà di sicuro una pila di carte da compilare domani mattina.».
Gli occhi verdi di Izuku si socchiusero e il sorriso divenne una piccola smorfia carica di malizia, consapevole che ciò che sarebbe uscito dalle sue labbra, probabilmente avrebbe reso la sua permanenza in ospedale un po’ più lunga: «Abbiamo? O sei tu che vuoi una doccia come quella dell’altro giorno?».
 
 
I feel the reason as it's leaving me
No, not again
It's quite deceiving
As I'm feeling the flesh make me bad
All I do is look for you
I need my fix, you need it too
⁓ Korn ⁓
 

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Capitolo 19
*** A new, but familiar taste I ⚠️ ***


A new, but familiar taste I ⚠️




...e nel tempo che l'alba diventi tramonto,
nel tempo che i girasoli sorridano e poi muoiano...
mille volte ti amerò
e per amarti ancora
al prossimo stupore di un giorno che nasce!
Claudio Bentivegna

15 luglio

I primi raggi di sole filtravano attraverso le tende sottili, gettando una calda luce dorata sul viso di Izuku, che si mosse nel dormiveglia del sonno, sentendo il calore opprimente del lenzuolo di cotone appiccicarsi al suo corpo come una seconda pelle. Nonostante il disagio, si rifiutava ostinatamente di alzarsi dal letto, girandosi e rigirandosi, avviluppandosi nel tessuto blu scuro nel vano tentativo di trovare una posizione più comoda.

La sveglia sul telefono era stata posticipata almeno tre volte nell'ultima mezz'ora così che Izuku si ritrovò a fissare il soffitto, con le lenzuola aggrovigliate attorno alle gambe. La luce del sole proiettava strisce calde sul suo viso e sul suo torace nudo. Doveva alzarsi, iniziare la giornata, ma gli sembrava di avere membra pesanti come piombo.

Non che fosse poi così stanco, solo...

Solo non voleva.

Avrebbe dovuto essere felice.

Ma aveva anche una strana amarezza nel petto, perché tutto ciò a cui riusciva a pensare era l'imminente fine di quella avventura, la fine della missione, il ritorno in città e il separarsi di nuovo da Kacchan.

Kacchan.

Quel nome gli rigirò tra i pensieri con la stessa fatica con cui il suo corpo si rigirava nel letto.

«Ugh! Perché deve fare così caldo...» gemette, strofinando la fronte contro il cuscino che teneva tra le braccia, asciugandosi il sudore sulla stoffa. La temperatura in quella piccola camera condivisa aumentava costantemente, rendendogli sempre più difficile restarsene a letto. Probabilmente il condizionatore s'era bloccato ancora.

Izuku strinse le braccia, stritolando il cuscino tra di esse, la faccia premuta contro il tessuto e un mugolio infastidito.

Non è giusto.

Era un pensiero amaro, perché, dopo tutti quegli anni di lontananza e di non comprensione, avevano finalmente trovato un terreno comune lì, a Urakawa. Avevano litigato insieme, riso insieme e si ritrovavano alla fine di un viaggio a prendere di nuovo strade separate.

E Izuku non poteva sopportare il pensiero di perdere Kacchan, non dopo tutto quello che avevano passato, da rivali, da compagni, da amici, da...

Lasciare quella cittadina sopita accanto al mare voleva dire lasciare tanti ricordi, gioiosi o meno. Vi aveva trovato un senso di pace che non avrebbe mai creduto possibile. E ora tutto stava per finire.

Diede colpa al suo essere abitudinario solo per nascondere il fatto che non sarebbe riuscito ad immaginare di non svegliarsi con lo scontroso cipiglio mattutino di Kacchan, o di stare alzati fino a tardi a guardare vecchi film assieme.

Era stato un mese intenso, impegnativo, e alzarsi dal materasso avrebbe voluto dire di ammettere che tutto stava finendo.

Izuku strinse le lenzuola nel pugno, sentendole accartocciarsi sotto le sue dita, col cuore dolorante. «Non è giusto...», borbottò, ripensando a tutti gli anni in cui non si erano capiti, in cui erano stati lontani, a quella breve parentesi in cui stavano finalmente costruendo qualcosa. Perderlo adesso...

Mugolò, prima di rilasciare uno sbuffo dalle labbra increspate: «Va bene, mi arrendo!» mormorò, spingendo finalmente via il lenzuolo, liberando le gambe e facendole dondolare oltre il bordo del letto. I suoi piedi toccarono il pavimento fresco, mandandogli un brivido lungo la schiena mentre si alzava e si stiracchiava, cercando di scrollarsi di dosso i resti di quel sonno che ancora lo intontiva.

Si passò i palmi delle mani sugli occhi, stropicciandoli per bene, perché non poteva restare a casa, in letargo, dispiaciuto per se stesso. Era il suo compleanno dopotutto!

E avrebbe assaporato ogni momento con Kacchan fino a che non fossero tornati a Musutafu.

Si passò le mani tra i ricci stropicciati, grattandosi la testa con un sonoro sbadiglio.

Kacchan.

Si bloccò appena prima della soglia della camera, un girarsi lento a vedere il letto sfatto di Kacchan, che probabilmente s'era svegliato di buon'ora ed era andato a correre. O, forse, era solo andato al lavoro prima.

Magari gliel'aveva anche detto, la sera prima, ma si era ritrovato a crollare dalla spossatezza dopo una ronda sotto l'afa asfissiante di Urakawa.

Scosse la testa. In fondo, perché doveva aspettarsi di trovarlo in casa?

Alla fine, non c'era stato un compleanno in cui lui fosse stato presente, uno in cui si fermasse davvero a festeggiarlo...

Mentre attraversava la cucina per dirigersi verso il bagno con le mani a grattarsi una spalla e il petto, qualcosa sul tavolo attirò la sua attenzione: una piccola busta bianca, sistemata in maniera ordinata davanti alla tazza vuota. La tovaglietta pulita, il cucchiaino sistemato a destra, perfettamente allineato a un paio di centimetri dal bordo di stoffa. Il bicchiere era pieno di succo d'arancia, posizionato in alto a sinistra rispetto alla tazza, su cui spiccava un post-it giallo, vergato con una calligrafia fin troppo familiare.

«Auguri nerd.», lesse a mezza voce, il foglietto tenuto con due dita

Izuku ridacchiò tra sé, riconoscendo la miscela unica di affetto e presa in giro di quell'amico che gli aveva sempre riservato un trattamento tutto particolare durante quella stessa giornata nel corso degli anni.

Prese il sacchetto e lo aprì per sbirciare dentro, mentre un sorriso si allargava sul suo viso.

Un donut alla ciliegia.

Era lo stesso donut che gli faceva trovare, a giorni alterni, a colazione e a tutti gli effetti, non aveva nulla di speciale. Ma era un gesto semplice, una premura che, per quanto reiterata, lo faceva sentire... amato? Era quella la parola giusta?

Non lo sapeva con certezza, ma era una piccola cosa che continuava a gridare "io ci tengo".

E l'aveva fatto quando avevano litigato e quando avevano passato giorni tranquilli.

Lo so che ci tieni, testone...

Anche se l'anno prima non c'era stato nulla e l'unico augurio l'aveva ricevuto da sua madre... Era un piccolo gesto, sommato ai tanti altri fatti in quei vent'anni in cui si conoscevano.

La dolcezza persistente del profumo di quella insignificante ciambella alla ciliegia gli riportò alla mente un'ondata di ricordi, e Izuku si ritrovò a chiudere gli occhi, la testa cullata da un aroma stucchevole di zucchero.

Non era mai stato particolarmente affezionato al suo compleanno.

Quando erano bambini, ricordava che Kacchan era solito spingergli tra le mani un regalo avvolto in modo rozzo prima di andarsene sbuffando, palesemente obbligato da sua madre nel consegnarlo. Crescendo, Kacchan smise non solo di fargli regali, ma sembrò dimenticare del tutto quella giornata, rendendo Izuku estremamente triste.

Nonostante il carattere solare, non era mai riuscito a farsi troppi amici e il compiere gli anni a ridosso delle vacanze estive non aiutava di certo a organizzare festicciole o altro...

E lui voleva Kacchan.

Aveva sempre voluto Kacchan nella sua vita, anche se, da un certo punto della loro storia in avanti, il biondino lo disprezzava a tal punto da tagliarlo fuori da tutto, sfogandosi su di lui solo quando gli comodava.

Però, nel corso degli anni, aveva messo in ordine, uno dopo l'altro, tutti quei piccoli episodi, insignificanti a suo dire, che per buona parte della sua vita non sembravano avere un nesso logico. Come le borracce passate durante le ultime lezioni di educazione fisica alle elementari. O le caramelle alla menta per i cali di zuccheri dovuti al caldo che magicamente Kacchan tirava fuori dalla tasca e gli lanciava addosso con un borbottio sommesso, difficilissime da scartare per quanto appiccicose erano, ma per Izuku erano buone da morire.

O come quel pomeriggio al doposcuola, alle medie, in cui aveva preso di forza i suoi amichetti sbraitando di lasciarlo in pace; evento più unico che raro.

Piccole cose per qualcuno di altrettanto piccolo e insignificante, giusto?

Piccole cose, come quella ciambella, gettate lì, a caso, in una giornata assolata di luglio, ma che l'avevano resa un po' meno pesante, un po' meno faticosa.

Prima che partisse per l'Europa e l'America c'era stato un videogioco (che non aveva neppure finito), che conservava a casa di sua madre come un tesoro inestimabile.

Prima di quello? Non lo sapeva con certezza, forse un libro, datogli senza troppa cura, passato come se fosse solo un prestito. O forse lo era?

Non si aspettava nulla. In quell'occasione, per quel punto del loro rapporto, si sarebbe anche solo accontentato di un bacio in quella giornata. Un bacio e un sorriso.

«Grazie, Kacchan...» sussurrò Izuku, dando un morso alla ciambella, il sapore dolce che gli riempiva la bocca e gli scaldava il cuore. Poteva non sembrare una grande celebrazione, ma per lui era sufficiente: un piccolo promemoria del fatto che, anche nel mezzo delle loro vite frenetiche da eroi, dopo essersi persi, si prendevano ancora, in un certo qual modo, cura l'uno dell'altro.

Assaporò il momento, assieme alla soddisfazione, nella sua testa, di immaginarsi la voce arrochita di Kacchan sussurrargli un "Buon compleanno, Izuku," sorridendogli.

Cosa impossibile? Ovvio. Ma si crogiolava in quel pensiero effimero e gioioso e si sforzò di posare la ciambella per non finirla subito.

Sarebbe andato in bagno, si sarebbe lavato e preparato come al solito prima di fare colazione.

Guardò il tavolo, gli occhi ancora impiastricciati dal sonno.

Fanculo! E si sedette di peso, strisciando la sedia sul pavimento, trangugiando un paio di sorsi di succo d'arancia e tornando a mangiucchiare il donut alla ciliegia con una strana, dolce sensazione nel cuore e la consapevolezza che, forse, quel compleanno potesse essere diverso.

•••

Il cielo crepuscolare si sciolse in un brillante arazzo di arancioni e viola, proiettando un tenue bagliore sulle strade di Urakawa.

Dynamight e Deku non avevano fatto ronde in quella giornata, ma solo ore interminabili in ufficio, a riempire moduli e documenti preparatori alla fine del loro periodo di missione in quella cittadina.

Gli stivali neri di Katsuki calcarono la breve scalinata d'ingresso del distretto di polizia, mentre la sua mente faticava ancora a liberarsi del vortice di pensieri di quella noiosa giornata trascorsa in ufficio. Si fermò sul fondo, con la ringhiera di metallo ancora calda per il sole sotto la punta delle dita, e voltò la testa verso Izuku, il cui sguardo era fisso a terra e sembrava perso nel suo mondo come quando era adolescente.

«Che cosa ti succede, ah? Troppe scartoffie per un nerd come te?», lo canzonò, cercando si attirare la sua attenzione e di iniettare un po' di leggerezza nell'atmosfera che sembrava essersi fatta improvvisamente tesa.

Il ragazzo dai capelli verdi sollevò la testa e gli rivolse un debole sorriso: «Sono un po' arrugginito con la burocrazia... E oggi non volevo proprio venire a lavorare...», rispose lui, con la voce appena udibile sopra il ronzio lontano del traffico.

Katsuki alzò gli occhi al cielo: sapeva che il cuore di Izuku apparteneva all'azione, al brivido dell'eroismo, e non era fatto per stare semplicemente dietro una scrivania a rimestare carte. Non che lui la pensasse diversamente, sia chiaro; però aveva capito, col tempo, l'importanza di tutto il lavoro che stava dietro alle missioni che venivano affidate agli eroi.

Katsuki si umettò il labbro inferiore, pensando a come sollevare il morale di Deku, mentre quello ciondolava, un gradino alla volta, verso la sua direzione. Notò il modo in cui i suoi occhi verdi sembravano offuscati dalla stanchezza, e questo gli fece stringere lo stomaco.

«Oi.».

«Mh?».

«Ho... Ho prenotato in un posto...», esalò, quasi avesse paura di dirle, quelle parole.

Fu un momento fugace, una specie di lampo, in cui quei grandi occhi verdi si aprirono su di lui e gli tolsero il fiato. Poteva vedere la sorpresa e la curiosità che turbinavano dentro quelle iridi, ma c'era qualcos'altro... Un barlume di eccitazione, forse?

«Tu cosa?».

Gli rivolse un debole sorriso, sentendo già le punte delle orecchie scaldarsi, mentre scrollava le spalle con noncuranza, la punta dello stivale a battere il porfido del gradino: «Sì, ecco... Ho prenotato in una bettola poco lontano da qui. Sapevo che avremmo finito tardi col lavoro.», mentì spudoratamente, perché invece era riuscito a pianificare ogni cosa. «E sinceramente non ho voglia di cucinare.». Ma anche quello non era vero, perché, se Deku gliel'avesse chiesto, gli avrebbe fatto il curry kastudon più buono della sua vita. Invece aveva una paura fottuta che lui gli dicesse di no; così trattenne il fiato, senza nemmeno rendersene conto. Poi, quando Izuku gli sorrise, annuendo, lo rilasciò e tirò le labbra.

«Oh, sì, Kacchan!», e il tono era lo stesso di quando da piccolo lo invitava a casa a giocare. «Però dobbiamo passare per casa! - aggiunse poi Izuku - Dobbiamo cambiarci e-».

«Non serve. Va bene...», e sentì le orecchie bollenti a indugiare così tanto su quei jeans chiari e slavati che gli fasciavano le cosce in modo tanto sfacciato. «Va bene così come sei, Izuku.». Perché era vero. E sembrava che lui lo facesse apposta a non rendersi conto di come si vestiva con casualità misurata, di come il bianco ottico di quella t-shirt gli stesse così bene addosso, con la pelle lievemente abbronzata e le lentiggini marcate. «E poi è davvero un posto di merda...», ma la frase suonò peggio di come l'aveva immaginata, scorgendo la perplessità nel volto dell'amico. «Cioè... Intendo... Ah! Lascia perdere, cazzo!», e si voltò, rosso d'imbarazzo, lasciando indietro Izuku di qualche passo, sorridente.

Uno di quei sorrisi sornioni che ogni tanto gli uscivano in maniera così audace ed accattivante, che Katsuki faticava persino a guardarlo in faccia.

«Mi stai portando ad un appuntamento, Kacchan?», pronunciò, con tono volutamente scherzoso, incrociando le braccia al petto, aspettando che il biondino si voltasse. Anche se, con quei cargo neri senza tasche posteriori, sarebbe rimasto volentieri a vita a osservargli il culo. Però, come aveva previsto, quello s'era voltato ed era tornato indietro di qualche passo, la faccia seria e un dito puntato nella sua direzione: «Non è un appuntamento.», scandì le parole quasi con furia, prima di schiarirsi la voce e ritornare ad una parvenza di compostezza, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni. «È solo una cena fuori. Per distrarsi un po'.»

«E per il mio compleanno.». Eccolo: colto in flagranza di reato. Ma il ghigno di Kacchan gli smorzò l'entusiasmo.

«Ah, giusto. È anche il tuo compleanno...», la pausa che fece fu lunga, quanto il loro scrutarsi con insistenza. «Volevo pagare io, ma se la metti così...» e lo vide riprendere a camminare a passo spedito.

Izuku lo raggiunse con una piccola corsa, senza però azzardarsi ad afferrarlo, solo affiancandosi al biondo, che se la rideva sotto i baffi: «No! Ehi! Come scusa?».

«Vecchiaia tua, paghi tu!».

«Ma non è giusto!».

«Ti ho preso la ciambella per quello. Non ti pago la cena!», mentì ancora, divertito dall'espressione delusa di Deku che quasi piagnucolava, giustificandosi che quella era la sua giornata e che già era stata rovinata dal dover lavorare e altre cose blaterate a voce troppo alta in mezzo a una strada che si stava affollando.

Katsuki gli fece un cenno col capo verso una stradina laterale: «Facciamo una scorciatoia... E smettila di fare così! Se continui non te la pago la cena!».

«A-ah! Fregato!», esclamò Izuku, allungando un passo e parandosi di fronte all'amico con un sorriso pieno sul volto. «Sapevo che ci sarei riuscito!».

«A fare cosa?».

«A scroccarti la cena.».

Katsuki fece spallucce e lo scostò con una spallata: «Sai che novità. Come se le altre volte non l'avessi fatto!».

«Ehi! Non è corretto rinfacciare le cose!».

Però risero, entrambi, di quel finto battibecco fatto solo per stemperare la tensione e l'imbarazzo.

Izuku avrebbe voluto fermare l'incedere di Kacchan, obbligarlo quasi a fagli gli auguri, però sapeva anche che le tempeste non si possono imbrigliare e pensò che già quello era tanto. Per entrambi.

Rovistò nella memoria, non trovando un solo 15 luglio in cui, dalle elementari in poi, avessero mangiato assieme, fosse anche uno stupido pezzo di torta.

Quindi, si disse Izuku, quello era un grande primo passo per Kacchan e ne andava fiero a tal punto che l'avrebbe abbracciato.

Ma non poteva, non in quel momento, in cui sbucarono di nuovo su una delle strade principali che conducevano nella zona del porto, a nord.

Mentre camminavano verso la piccola trattoria tradizionale, scovata quasi per caso nella prima settimana di soggiorno a Urakawa, Katsuki non poté fare a meno di provare un senso sottile di realizzazione. L'umore di Izuku era migliorato notevolmente, e tutto grazie al suo suggerimento. Si lasciò crogiolare nel calore del momento e dalla luce dorata del sole al tramonto, che proiettava lunghe ombre sul marciapiede e riflessi aranciati su quelle guance piene di efelidi che continuavano a gonfiarsi ad ogni sorriso che Izuku regalava ai passanti che li salutavano.

Ma accanto alla soddisfazione, c'era anche una crescente attesa che si faceva strada dentro di lui, perché, per quanto ci avessero scherzato sopra lungo quel breve tratto di strada, gli sembrava in qualche modo una cena diversa dalle altre che avevano condiviso in quelle settimane, più intima dei loro soliti ritrovi casuali. Il pensiero gli fece correre un brivido lungo la schiena, a metà tra l'eccitazione e la paura.

Perché chiamarlo per come davvero era lo spaventava.

Mi stai portando ad un appuntamento, Kacchan?

Si passò una mano sul volto, rilasciando un sospiro lungo.

«Va tutto bene?», gli chiese Izuku, notando la sua improvvisa preoccupazione. O imbarazzo, difficile capire in quel momento cosa davvero provasse.

«Perché non dovrebbe?», lo rassicurò, mettendo da parte la sua incertezza. «Ho solo fame. E tu sei una lumaca. Muoviti!», berciò, allungando il passo, rigirando tra le dita quell'insulsa idea che aveva deciso di mettersi in tasca.

Mentre camminavano fianco a fianco lungo la strada affollata, Katsuki cercò di concentrarsi sui suoni che li circondavano, piuttosto che sul calore che irradiava dalla presenza di Izuku accanto a lui. Ma ogni volta che si voltava, scorgendo la sua espressione gioiosa, nella sua cassa toracica sembrava agitarsi un colibrì, intrappolato all'interno, cercando di liberarsi per quanto il cuore batteva forte.

Gli occhi verdi di Izuku lo guardarono con curiosità. «Sei sicuro che vada bene come siamo vestiti per dove dobbiamo andare?».

Katsuki sbuffò: «Fidati di me.», lo rassicurò poi, cercando di nascondere la vulnerabilità nella sua voce e lo sguardo che ricadeva troppo spesso sui pettorali fasciati da una maglietta che, più che una barriera, sembrava rappresentare la sua condanna per quella sera. Fece un respiro profondo, cercando di stabilizzarsi.  «E poi... Hai sempre un bell'aspetto.».

Izuku si fermò sul posto per qualche secondo, giusto il tempo di elaborare: «Un complimento?».

«Ah?».

«Era un complimento quello, Kacchan?», lo incalzò, incredulo e un po' commosso: sapeva che il grande e potente Dynamight non era una persona che esprimeva affetto, e questo piccolo gesto per lui significava più di quanto potesse immaginare.

«Muoviti.».

Izuku, col sorriso ancora sul volto, gli punzecchiò la spalla col dito: «Lo sapevo io che sei un tenerone!», lo provocò ancora, solo per il gusto di vederlo arrossire ancora, per vedere quei suoi occhi farsi lava fusa quando lo guardava.

«Chiudi il becco o ti faccio esplodere!», grugnì quell'altro, aumentando il passo tra le risatine dell'amico.

La pausa di calma e silenzio tra di loro durò solo fino a quando Izuku sbatté contro la schiena di Katsuki, fermo ai bordi del marciapiede, pronto ad attraversare la strada.

«Arrivati.».

Di fronte a loro un edificio basso, di cemento grigio e anonimo, era ravvivato da una serie di piccole vele con piantana e bandierine pacchiane e colorate, che presentavano le specialità del giorno.

«Qui?».

Katsuki fece spallucce e guardò Izuku, ora di nuovo al suo fianco: «Te l'ho detto. Niente di che.».

«Non ci darei due soldi, lo sai?».

Fu il turno di Katsuki di guardarlo in quegli occhioni verdi e scettici, ghignando: «Lo so. Ma se ci pensi bene pure l'ametista è racchiusa in un guscio di roccia inutile.».

Izuku alzò un dito e assottigliò lo sguardo: «Non fare il nerd così con me.», scandì. «Rischio di eccitarmi...», aggiunse, con voce roca e un'espressione idiota sul volto.

Il biondo ci mise un po' per ingranare con quella battuta, troppo preso dalla propria agitazione, tanto da scoppiare in una risata imbarazzata e sguaiata, tenuta a freno da entrambe le mani. Una reazione esagerata, era vero. Ma quando mai Katsuki Bakugō non era stato esagerato in qualcosa?

Frenò quella ridarella a forza, ricomponendosi come meglio poteva, per poi sentirsi addosso l'attenzione insistente di Deku.

«C'è qualcosa che non va?».

«No, per niente.» lo rassicurò lui con un sorriso. «Solo... Non l'avevo mai notato davvero, ma il nero ti sta proprio bene. Soprattutto quei pantaloni.».

Katsuki notò quella punta di malizia nella voce del nerd, e la sentì arrivargli come una stoccata alle reni, come se quel bastardo gli avesse schiaffeggiato il culo in corsa. Non che fosse una sensazione spiacevole, solo... Non c'era abituato.

E irrigidì le spalle alle ultime parole che Deku disse, prima di attraversare la strada come un fulmine.

«E sei molto carino anche tu, Kacchan.».

•••

Izuku aveva vissuto l'ultimo anno e mezzo col cellulare praticamente in silenzioso. Da quando aveva perso quello vecchio nel Baltico e, con esso, numeri e brevi istantanee felici dell'adolescenza, per lui era inutile tenerlo attivo.
Aveva orari fissi in cui chiamava sua madre e, se anche ci fossero state delle emergenze, lei avrebbe avuto sempre tutti i numeri delle caserme in cui lui alloggiava.

S'era illuso che qualcuno lo contattasse, anche su altri canali social, per ricordarsi di lui, l'anno prima. Ma non era successo.
Aveva festeggiato, certo: il suo carattere gli aveva permesso di stringere legami, di passare il compleanno con i commilitoni con cui aveva legato di più. Ma non era stato abbastanza.

Ora che era tornato, si stava illudendo che qualcuno si ricordasse di lui. Ma nulla.

Non biasimava nessuno, solo se stesso, per essere stato un po' sciocco a non lasciare il suo contatto agli altri durante la cena di classe.

Sospirò mentre si accomodava sulla sedia e toglieva dalla tasca il telefono, un'occhiata veloce allo schermo privo di notifiche. Forse non avrebbe dovuto neppure spendere così tanti soldi per uno smartphone che gli serviva solo per giocare quando si annoiava a stare seduto sul water. Il cellulare venne spinto di lato un altro po' dal suo gomito e finì, come spesso accadeva, nel dimenticatoio.

Al "Katsumeshi" il tavolo che il proprietario, il signor Takai, aveva riservato loro era defilato, in un angolino silenzioso di quel locale semi deserto. La superficie di legno chiaro era lucida e graffiata, logora come quasi tutte le suppellettili di quel locale tradizionale, ma gli piaceva. Gli dava un senso di familiarità, di casa. E per quanto la faccia di Kacchan sembrasse dire tutto il contrario, lo vedeva rilassato mentre si accomodava di fronte a lui.

Diede una rapida occhiata alla sala, lunga e stretta, alla fine della quale si intravedeva l'angolo del bancone di servizio.

«Ci sei venuto spesso qui?».

«Qualche volta, sì. Il vecchio è discreto e nessuno mi ha mai rotto troppo le palle, neppure se mi vedeva vestito da eroe.», borbottò, senza alzare gli occhi dal menu. «Un pasto decente, spendendo il giusto.», minimizzò. Ma non era davvero così e lo sapeva. Per quello non si azzardava a guardare Deku negli occhi.

Aveva scelto quel posto appositamente per lui, perché era l'unico ristorante di tutta Urakawa che faceva il pollo fritto come quello di zia Inko.

Katsuki alzò lo sguardo verso i suoi occhi verdi, che continuavano a curiosare in giro, soffermandosi su una foto appesa, che ritraeva il proprietario tra due atleti, vestiti con una maglia azzurra e nera. «Oh! Hai visto, Kacchan? Sono passati pure i Nippon Ham-Fighters!», e il suo viso sembrò illuminarsi.

«Ah?».

«La squadra di baseball! Dio... Ho visto una loro partita l'anno scorso sul satellite...».

Katsuki lo guardò un po' perplesso: «Non sapevo ti piacesse il baseball.» e Deku sollevò le spalle con noncuranza, sfilandogli dalle mani il foglio plastificato con i piatti del giorno.

«Cose da gaijin, sai com'è...», ma abbozzò un sorriso e un'occhiata veloce al biondino che gli stava di fronte, senza malizia, senza cattiveria alcuna. Un modo per dire che, forse, c'erano cose che aveva voglia di condividere, di nuovo.

«Giusto. Ogni tanto dimentico che sei stato via per un bel po'...», lo rimbeccò Katsuki, il tono calmo e le braccia incrociate al petto con lentezza mentre si appoggiava allo schienale scricchiolante della sedia. «Prendi il katsudon.».

Non era un ordine. Neppure una minaccia. Era solo un consiglio, fermo e deciso, che a Izuku fece sbattere le palpebre un po' troppo in fretta mentre lo guardava, pensando tra sé di poter anche cambiare pietanza ogni tanto...

«Uh? È buono?», chiese, senza pensarci, prima che il respiro gli si mozzasse in gola.

«Provalo. Fidati.», disse Kacchan, alzando un braccio senza neppure voltarsi per attirare l'attenzione del cameriere, la sua bocca tirata in un sorriso, bello e tenero, tanto da fargli assottigliare pure quei suoi occhi fatti di braci ardenti. Un sorriso di quelli rari, rarissimi. Di quelli che i padri stanchi regalano ai figli rompiscatole la sera. Di quelli che valgono più di mille giochi o carezze.

Izuku prese un respiro profondo e strinse le labbra tra i denti, un moto di commozione che gli risaliva alle iridi ed eseguì un cenno col capo. Affermativo.

Probabilmente l'avrebbe preso lo stesso, si disse, ma l'unica cosa che uscì da quella bocca fu solo un concitato: «O-ordina per me allora. Va-ado a lavarmi le mani.».

Takai, il proprietario, venne investito da tutta quella foga, preso per le spalle, sollevato da terra e spostato, come se fosse un fuscello, lasciandolo più sconvolto dal gesto che non di essersi trovato l'Hero Deku davanti all'improvviso. «Quanta fretta!».

«Perdonalo.», gli fece Katsuki con voce bassa e calma. «Vorrei ordinare, se non ti dispiace...», e prese dalla tasca il cellulare con noncuranza, entrando nella chat che avevano usato per la rimpatriata di classe, cambiando velocemente il nome nelle impostazioni.

L'uomo si ricompose, passandosi un fazzoletto di stoffa sulla fronte prima di estrarre un blocchetto liso e con pochi foglietti sgualciti: «Bene... Cosa volete da bere?».

«Acqua. E una birra media.», rispose, osservandolo scrivere, prima di pigiare sullo schermo in fretta un messaggio e aggiungere un numero in quel gruppo.

«Poi?».

Tornò ad osservare l'uomo: «Un katsudon. Uno dei tuoi, di quelli speciali, mi raccomando.».

Takai lo osservò da sotto le sopracciglia nere e cispose: «E per lui?».

«Il katsudon è per lui. Per me...».

«Il solito?».

Tirò le labbra in un sorriso fugace, mentre s'intascava il cellulare: «Il solito, sì. Grazie.», e lo osservò allontanarsi, brontolando come l'aveva visto fare altre volte, mentre quasi si prendeva una spallata da Deku, pensieroso e distratto di ritorno dal bagno, il capo chino, la faccia leggermente arrossata.

«Che hai nerd?», gli chiese il biondo, una volta che il ragazzo gli si sedette di fronte.

«Solo...», e si osservarono, occhi negli occhi come se si sfidassero, nessuno dei due pronto a cedere per l'altro. «Grazie...»

Katsuki esitò, forse un po' troppo, muovendo le dita a ripercorrere i tagli e i bozzi sulla superficie appiccicosa del tavolo. Alzò le spalle per un attimo, distogliendo lo sguardo dalle iridi di smeraldo che lo fissavano alla ricerca di una risposta.

«Io...», mormorò, evitando il contatto visivo tormentando il bordo del tavolo con l'unghia corta del pollice. «...era da un po' che non passavamo il tuo compleanno assieme. Mi sembrava...corretto... E ho pensato che una cena sarebbe stata una cosa carina.».

«Carina?», Izuku sbatté le palpebre. «Non l'hai detto sul serio.».

«Dio mio! È una parola come un'altra!», sbuffò il biondino, incrociando le braccia al petto, mentre Izuku si grattava nervosamente il lobo dell'orecchio con due dita, il signor Takai che posizionava silenziosamente le bevande e le tovagliette di fronte a loro.

Fu in quel momento che la sua attenzione venne catturata dallo schermo illuminato del suo telefono. Un messaggio, poi un altro.

Sei

Sette.

Prese il cellulare, incuriosito e vide l'invito in quella chat di gruppo, in cui stavano arrivando solo messaggi di auguri per lui da numeri sconosciuti.

Rimase sul momento interdetto, poi capì.

E accanto ai messaggi di auguri, accanto a sfilze di cuori, torte e trombette, notò altre emoticon che stonavano con tutto il resto. Piccoli messaggi in codice per ciascuno dei suoi vecchi compagni di classe.

Una roccia. Un dolce. Un corvo. Un fulmine.

Un libro. Un cubetto di ghiaccio. Degli occhiali.

Il piccolo sorriso si allargò, alzandogli gli zigomi, arrossandogli le guance e il ponte del naso, facendogli luccicare gli occhi a ogni piccolo, fastidioso vibrare.

Katsuki appoggiò il gomito sul tavolo e la guancia sulla mano, rimanendo ad osservarlo con un piccolo ghigno compiaciuto.

Per poco non ci rimase secco, quando quello stupido nerd sentimentale alzò lo sguardo e piantò quegli occhi verdi e lucidi nei suoi.
«Sei stato tu?», e si limitò a scrollare le spalle con noncuranza.

«Beh... Allora, grazie...», ammise lui, con la voce appena sussurrata, chinando il capo e tornando a osservare lo schermo, a scorrere col dito di nuovo, uno per uno, i messaggi che stavano arrivando.

Katsuki vide chiaramente una lacrima bagnargli l'angolo dell'occhio, ma non lo prese in giro, limitandosi solo a un flebile: «Buon compleanno, nerd.».

 

•••


 

Izuku e Katsuki camminavano lungo le strade silenziose di Urakawa. Una leggera brezza frusciava tra gli alberi che costeggiavano la strada, portando con sé il debole profumo dei fiori di lavanda che adornavano le aiuole.

Passeggiavano tranquillamente, senza fretta, come se entrambi stessero cercando di prolungare il tempo da trascorrere insieme. I suoni della città intorno a loro si affievolivano, sostituiti dal battito ritmico delle loro scarpe sul marciapiede e dal lieve ronzio dei lampioni sopra le loro teste.

Izuku aveva le guance tirate in un debole sorriso, persistente e sognante, mentre osservava il ritmo dei propri passi essere uguale a quello di Kacchan, di fianco a lui, con le mani ficcate nelle tasche dei pantaloni neri. A volte i loro gomiti si sfioravano, ma la cosa era piacevole e dava ad entrambi un senso di vicinanza che non li disturbava.

«Kacchan?» ruppe in silenzio, quasi senza pensarci davvero.

«Mh.», e i passi del biondo rallentarono, andando fuori sincrono con i suoi.

«Ascolta, riguardo a stasera... Beh... Voglio solo dirti grazie...».

«L'hai già fatto. Più e più volte.».

Izuku gli sorrise, quella sua solita espressione innocente che lo accompagnava da quando Katsuki aveva memoria di lui e del suo viso tondo e lentigginoso. E ringraziò la luce giallastra dei lampioni che mascherava sicuramente il rossore che gli scaldava orecchie e guance. «Non è mai abbastanza!», ne rise il ragazzo accanto a lui, tirandogli una leggera gomitata solo per sbilanciarlo scherzosamente.

«Ti direi che sei ubriaco...».

«...ma se ho bevuto solo una birra!».

«E il vino.».

«Sì, ma col dolce!», e si prese un momento per guardarlo, puntandogli il dito contro: «E pure tu hai bevuto vino Kacchan!».

Il biondino fece spallucce e riprese la sua andatura: «Solo per brindare.».

«Ah-a!», e Deku gli passò davanti, un sorrisino giocoso a illuminargli gli occhi: «Due bicchieri non sono solo per brindare!» e gli puntò un dito al centro del petto, premendolo quel che bastava per fermarlo. «Dico bene?».

«Ho voluto festeggiare.».

«Aaaawww! Che tener-».

«La fine di questo supplizio.»

«Sei ingiusto!», e Katsuki lo oltrepassò con un ghigno sul volto a vedere la sua fronte corrucciata e l'espressione fattasi improvvisamente triste.

Allungò una mano e gli afferrò il bordo inferiore della maglietta, tirandola un poco per farlo voltare. «Ho detto solo la verità, nerd. Questa missione con te è stata un inferno...».

«Dai! Non è vero.».

«Oh, sì. Sei stato una spina nel fianco di proporzioni galattiche!».

«Non si dicono queste cose, Kacchan. Non quando la gente compie gli anni e sei stato carino tutto il giorno!», s'imbronciò Izuku, confuso per questo cambio repentino, non capendo se Kacchan fosse serio o meno nel suo esporsi. E forse lui aveva davvero bevuto troppo, non solo due semplici bicchieri di vino, ma l'intera bottiglia a cui mancavano i calici bevuti da Katsuki.

Alla fine, fu proprio Katsuki a rilasciare mezza risata: «Abbassa la voce, idiota...», e strattonò la maglietta chiara verso di sé, sbilanciando l'amico quanto bastava per avercelo addosso, le mani rovinate a sostenersi alle spalle di Katsuki per cercare un equilibrio malfermo. «Sei stato una vera testa di cazzo, lo sai?».

La voce di Kacchan era bassa, come se si vergognasse anche solo a dirle quelle cattiverie con tono tanto dolce e sospirato che Izuku pensò di esserselo sognato.

«Lo so...», Izuku corrugò la fronte, le sopracciglia quasi si toccavano da tanto era contrariato: «Tu non sei stato da meno.».

«Lo so.». Izuku strinse le labbra e li notò, quegli occhi di rubino che seguivano il movimento della sua bocca prima di piantarsi di nuovo nelle proprie iridi annacquate dall'alcol e da una strana mistura di emozioni a cui in quel momento non era intenzionato a dare un nome. «Con oggi volevo rimediare un po'...», sussurrò poi, trascinandoselo dietro con delicatezza, la presa sulla maglietta che non sembrava voler diminuire. «Dai, idiota, si sta facendo tardi. Andiamo.», berciò infine.

Izuku sospirò, accelerando con riluttanza. «Sì.».

«Sì cosa?».

«Hai rimediato un po'...», e con gesti delicati gli afferrò il pollice, stringendolo un poco perché mollasse la maglietta, lasciandosi trascinare così, con una stretta di mano che non era tale, ma che andava bene ugualmente. Per entrambi.

Mentre si avvicinavano al loro appartamento, i passi di Katsuki rallentarono ancora una volta. «Avevo paura te ne andassi.».

Izuku sbatté le palpebre più volte. «Per cosa? Per la storia del festival?», e Katsuki annuì senza voltarsi.

«Esatto. Sono stato esagerato. E ti chiedo scusa.».

Izuku mosse la mano, stringendo quella di Kacchan con più forza, fino a sentire il palmo umido contro il suo. «Ci siamo già perdonati, no?», fece con tono giocoso. «Siamo qui, no? entrambi. Io non me ne sono andato. Tu nemmeno...».

Raggiunsero la porta d'ingresso della loro casa condivisa. L'oscurità e i lievi rumori della città dormiente erano confortevoli, così come il silenzio che, per gli ultimi metri, li aveva avvolti, caricando i loro passi di qualcos'altro, della consapevolezza pressante che questa loro avventura stava per finire.

E mentre Izuku armeggiava con le chiavi, il cuore di Katsuki aveva deciso di mettere il turbo, di agitarsi così tanto da renderlo quasi intontito.

Udì Izuku sbadigliare forte, mentre si toglieva le scarpe ancor prima di accendere la luce.

«Izuku...».

Il ragazzo lo guardò da oltre la propria spalla, con le sopracciglia alzate per la confusione. «Sì?».

Katsuki prese un profondo respiro, raccogliendo aria e coraggio in un solo colpo. L'aveva premeditato, era vero. Ma era altrettanto vero che avrebbe potuto tirarsi indietro, che la parte razionale del suo cervello non lo stava obbligando a procedere col piano suicida che aveva in mente.

«Che succede Kacchan?».

E se lui l'avesse continuato a chiamare con quel nomignolo strascicato...

«Ho... Ho un regalo per te.»

«U-un altro?», si ritrovò a balbettare Izuku mentre si tirava di nuovo in piedi, imbarazzato. Perché alla fine la cena non se l'aspettava. Né tutti i messaggi calorosi che gli erano arrivati. Né la torta, quel pan di spagna panna e fragole che sembrava quasi quello di sua madre, come il katsudon... «No-non serve, davvero. Hai già fatto troppo e io-».

Ma non finì la frase.

Incapace di resistere oltre, più per paura di mollare tutti i suoi buoni propositi e farsi così sfuggire l'occasione, Katsuki aveva fatto un passo avanti e gli aveva preso il viso tra le mani, attirandolo a sé, le sue dita che gli sfiorarono delicatamente gli zigomi caldi, come per memorizzare ogni curva e contorno. Poi aveva avvicinato le loro labbra, in un bacio febbrile e appassionato.

Bacio che, senza nemmeno chiederlo o volerlo, si fece più profondo, alimentato dal desiderio represso e doloroso che aveva ribollito tra loro per così tanto tempo.

Izuku si mosse rapidamente, avvolgendo un braccio intorno alla vita di Katsuki e avvicinandolo a sé con prepotenza, mentre univa i loro fianchi. I loro respiri erano irregolari e si mescolavano tra di loro appena si staccavano per cercare un minimo d'aria.

Il cuore di Katsuki gli batté forte nel petto a sentire la mano di Izuku scivolargli con destrezza sotto la maglietta, accarezzargli la schiena, provocandogli brividi lungo la pelle.

Le mani di Kacchan scivolarono dietro, sulla nuca di Izuku, le dita infilate tra le ciocche verdi arruffate per scompigliarle e stringerle ancora di più, attirandolo ancora più vicino, come se potessero fondersi, l'uno nell'altro.

Ed era una sensazione calda, che né il vino né la birra potevano in alcun modo eguagliare. Il mondo intorno a loro sembrò dissolversi per quel momento infinito in cui le loro bocche rimasero incollate, le lingue che si rincorrevano e si cercavano, come da sempre avevano fatto quei due ragazzi.

Alla fine, si separarono, ansimando per trovare ossigeno, ma le loro fronti e i loro nasi continuavano a toccarsi. I loro respiri si mescolavano nell'aria immobile, e Izuku sapeva che quello era un inizio.

Lasciarlo fare, non intervenire... Era difficile, ma non impossibile. Se lo strinse di più contro, una frizione piacevole tra di loro, uno sguardo verso il basso solo per avere la conferma che non era l'unico ad essersi agitato così tanto per una semplice pomiciata.

«Fammi...».

Quando rialzò gli occhi, lo sguardo di fuoco di Kacchan lo colpì come un pugno in pieno viso: l'espressione del ragazzo, accaldata e sofferente, era qualcosa di straordinario.
«Fammi chiudere la porta...», lo udì a malapena, tanto bassa e graffiata sembrava la sua voce. O forse era solo il sangue che gli rimbombava nelle orecchie a renderlo momentaneamente sordo a tutto ciò che non fosse il respiro spezzato di Kacchan.

Frastornato, si sentì prendere per mano con delicatezza, seguendo il biondo con cautela, con solo il bagliore del lampione di fronte al salotto a far entrare un po' di luce.

Izuku si morse la lingua per non chiedere in cosa davvero consistesse il regalo di Kacchan. Che a lui sarebbe bastata la cena, o quel bacio dato in maniera così audace per gli standard di Katsuki.
Ebbe il coraggio di parlare solo quando sentì le dita calde del biondo che gli afferravano il bordo della t-shirt bianca e gliela sollevavano: «Ka-acchan... Non sei ob-», ma una mano sulla nuca lo fece abbassare, zittito di nuovo da un bacio irruento.

«Taci, nerd. È già faticoso così...», gli sussurrò sulle labbra mentre gli sollevava la maglietta e lo spogliava, sfiorando con delicata cura ogni centimetro di pelle di Izuku, dalle spalle all'addome, fino a strappargli un sospiro pesante, quando le dita slacciarono il bottone dei jeans e abbassarono la cerniera, una parte maggiore della pelle calda al di sotto dei suoi vestiti venne rivelata, e il battito cardiaco di Izuku accelerò di colpo, facendo eco a quello di Katsuki che, con abili gesti, aveva abbassato i pantaloni lungo le cosce, inginocchiandosi davanti a lui.

Le dita percorsero, impazienti, la pelle bollente delle gambe, arrivando al bordo delle mutande grigie di Deku, il tessuto leggermente umido di umori e così tanto piene da tirarsi, sollevando l'elastico sul ventre teso.

Era proprio quello il punto di non ritorno.  Per entrambi.

Gli occhi di Kacchan erano pozze vorticose di lava fusa, spalancati di sorpresa e desiderio.

«Kat... Non devi per foo- Cazzo!».

La lingua del biondo passò sulla sua erezione coperta di tessuto, strappandogli un gemito quando lambì la punta umida che sbucava dal bordo.

«Lo accetti il mio regalo, nerd?».

Il diavolo doveva essersi impossessato di lui.
O l'alcol.

A Izuku non importava davvero, però. Le domande le avrebbe lasciate alla fine. Forse.

Perché per il momento i suoi occhi non si staccavano da quelli di Kacchan, che continuava ad osservarlo, dal basso mentre gli leccava il cazzo a lingua piena. «Dio sì!».

E quella situazione era così assurda che stentava a credere fosse vera: lì in mezzo al soggiorno di quella casa sgangherata, Kacchan gli stava regalando un pompino.
Per il suo ventitreesimo compleanno.

Che diavolo ha di tanto speciale?

Gli mise una mano tra i capelli biondi, accarezzandoli con dolcezza, invitandolo a staccarsi con calma da lui. «Kacchan... Piano...», provò a dirgli, ma quel sorrisino compiaciuto gli diede il colpo di grazia.
«Troppo, ah?».

Izuku scosse la testa e lo aiutò a rialzarsi: «No... cioè sì.», gli passò il pollice sul mento a raccogliere una goccia di saliva, prima di portarsela alle labbra. «Io... Sei tu il mio regalo, Katsuki? È questo che vuoi?».

Lo vide stringere la mascella, gli occhi che si spalancavano un poco e il viso che si scuriva per l'imbarazzo. Un breve cenno con la testa: tanto bastava a Izuku.

Un sorriso si formò sulle labbra del ragazzo nello stesso momento in cui una carezza percorreva il viso del biondo: «Allora, lascia che lo scarti da solo, va bene?»,

Un altro cenno affermativo e Izuku si tirò su pantaloni e mutande alla bell'e meglio per poi prendere per mano Kacchan e fargli fare gli ultimi passi che li separavano dalla camera.

 

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Capitolo 20
*** A new, but familiar taste II ⚠️ ***


A new, but familiar taste II ⚠️




Katsuki rimase a fissare Izuku togliersi definitivamente i pantaloni e gettarli chissà dove, prima di lasciarsi guidare a sedersi sul bordo del letto; Izuku gli si inginocchiò davanti per togliergli i calzini. Le dita tremavano leggermente mentre massaggiava i muscoli tesi dei piedi di Katsuki, il suo tocco fermo, ma rilassante, che risaliva lungo il polpaccio, fino alle cosce, stringendo appena il muscolo al di sotto del tessuto leggero dei pantaloni.

Katsuki esalò un sospiro trattenuto, appoggiandosi al materasso con i gomiti e socchiudendo gli occhi dietro le ciglia chiare.

Izuku risalì le gambe di Katsuki, provando con quel frettoloso massaggio a sciogliere un po' la tensione che si era accumulata nel corso della giornata. Le mani del ragazzo vagarono più in alto, sfiorando l'orlo della maglietta di Kacchan, sentendo il calore irradiarsi dalla sua pelle. Si soffermò sull'orlo, fissandolo così intensamente quasi da potergli leggere nel pensiero. Kacchan non protestò, limitandosi a fissarlo a sua volta, le labbra arrossate e dischiuse nel vano tentativo di introdurre aria.

Le dita tremanti passarono sotto la stoffa della maglietta nera, sfiorando uno a uno gli addominali contratti, come se il rimbombo frettoloso del cuore di Kacchan lo portasse più in alto, toccando i bordi di quella cicatrice che l'affascinava tanto.

La maglietta venne sollevata di più e Izuku si sporse a depositare un bacio leggero su quello sterno dalla pelle ruvida e raggrinzita, sentendo il cuore di Kacchan battere forte al tocco. Katsuki si limitò a trattenere il fiato e a chiudere gli occhi quando le dita gli sfiorarono il torace.

«Toglila.», e il biondo obbedì, un po' impacciato per la posizione, in imbarazzo a veder gli occhi smeraldini di Izuku che lo contemplavano come se fosse un'opera d'arte rara e preziosa.

I polpastrelli gli sfiorarono il ventre, passando per quella cicatrice fresca, di appena un paio di giorni prima, ancora arrossata e in via di guarigione nonostante quell'elisir ricostituente che avevano dato a entrambi per le loro ferite.

Lo vide chinarsi e s'irrigidì a sentir baciare quel punto esatto, labbra umide contro pelle altrettanto umida e bollente. «Izuku...», riuscì a sussurrare Katsuki, non capendo bene se frustrato dalla mancanza di contatto o, più semplicemente, preoccupato per il cambio di attenzione di quelle labbra, che ora si muovevano verso il basso, a sfiorargli l'addome, depositando piccoli baci ad ogni gesto, sempre nello stesso punto, poco più sotto dell'ombelico, dove la pelle era più tesa, dove quella insignificante striscia di peluria biondissima segnava la via per il paradiso. O per l'inferno.

Un bacio per il bottone slacciato.
Un bacio per ogni centimetro di cerniera che veniva aperta.
Un bacio per ogni piccolo lembo di pelle che veniva liberato mentre Izuku, con fatica, gli sfilava i pantaloni.

«Impaziente, Kacchan?» fece le fusa quel bastardo, la voce grondava divertimento e promessa di piacere quando le sue dita avevano rivelato la durezza che attendeva tutte le sue attenzioni. Katsuki sentì un brivido lungo la schiena mentre le labbra calde di Izuku tornarono ad avvicinarsi pericolosamente al bordo dei suoi boxer, e non poté fare a meno di piagnucolare un «Deku...» con voce rauca, incerto se fosse per timore o per pura frustrazione.

O perché si stava semplicemente pentendo di quella scelta.
Stupida, stupida idea del rimediare ad anni di assenze con una scopata.
Perché Tsuyu gli aveva messo in testa quella cosa?

In realtà quella stronza di una ranetta aveva solo dato voce a una cosa a cui lui non aveva mai davvero fatto caso, a un bisogno. A qualcosa che anche lo stesso Deku aveva detto chiaramente: non aveva mai trovato nessuno a cui affidarsi veramente. Per orgoglio o per presa di posizione.

Anche quando aveva tutto lì, davanti agli occhi da una vita intera, ma era stato sempre troppo cieco per accorgersene.

La risposta di Izuku fu una risatina giocosa, le vibrazioni gli mandarono brividi lungo la spina dorsale, il cervello che sembrava ridursi in poltiglia e impedirgli di fare un pensiero coerente. Perché, cazzo!, quegli occhi sarebbero stati la sua rovina se continuava a guardarlo in quella maniera!

Strinse la presa sulle lenzuola mentre quelle dita, rovinate ed esperte, s'incastravano tra l'elastico dei boxer e la sua pelle, accompagnando ogni gesto deponendo baci leggeri come piume lungo tutta la sua pancia o l'inguine o le gambe, seguendo di nuovo il percorso della stoffa leggera verso il basso, oltre le ginocchia, oltre i polpacci.
Un colpetto sul calcagno e si ritrovò ad obbedire, a lasciarsi sfilare del tutto gli indumenti, lanciarli chissà dove, mentre Izuku aveva uno strano scintillio negli occhi, che lo scrutavano con un'intensità tale da farlo sentire ancora più nudo, esposto, vulnerabile. Inerme.

«Ti va di distenderti?».

Sbatté un po' le palpebre, forse pensando che quella non era esattamente la richiesta che si aspettava. «Ah?».

Poi lo vide: il labbro inumidito, lo sguardo che vagava sul suo corpo e quel rossore sulle guance che lo innervosiva così tanto da bambini e che ora trovava stranamente adorabile ed...eccitante?

Afferrò il cuscino e si sistemò sul letto, quello dove Deku era solito dormire, la testa verso la finestra, lo sguardo fisso sulla figura immobile del ragazzo di fronte a lui.

E vi fu un istante in cui, forse, s'era dimenticato di respirare: quando la pelle lievemente umida della schiena aderì a quelle lenzuola fresche gli sembrò di firmare la sua condanna e trattenne il fiato.

Una piacevole condanna, in realtà.

Spostò e allargò le gambe per fargli spazio, improvvisamente privo di qualsiasi vergogna nel farsi vedere tanto esposto o vulnerabile.

Ma quello era solo il suo corpo, l'ultimo strenuo baluardo prima della disfatta finale.

Che disfatta non era; pareva più una resa incondizionata all'unica persona che, inconsciamente, avrebbe tenuto al proprio fianco per sempre.

Non più un rivale. Non più un compagno. Un complemento. Una parte di sé che ritornava veloce e potente come un boomerang. E tornava ad incastrarsi lì dove avrebbe sempre dovuto essere.

Ogni movimento con lui gli sembrava innato, tanto naturale da chiedersi se i suoi muscoli conoscessero già le azioni da fare, prima ancora che la sua mente desse il via.

Distese le braccia sopra la testa, il petto che si alzava e abbassava irregolare e gli occhi cremisi fissi nel guardare la sua espressione incredula.

E per Izuku quel suo sguardo equivaleva ad un invito, la sua pelle chiara illuminata flebilmente era una dolcissima tentazione.

Izuku si inginocchiò tra le sue gambe e si chinò lentamente, forse ancora stupefatto da quella remissività, sostenendosi sulle braccia al lato del suo corpo, a sfiorargli le labbra con le proprie, a baciargli il mento e il collo, sfiorare con tocchi troppo leggeri i contorni della cicatrice che scendeva sulla gola. Gli lasciò un bacio leggero sul pomo d'Adamo, che aveva sempre adorato, così pronunciato e perfetto, scendendo con calma, a seguire la curva del pettorale con piccoli schiocchi delle labbra fino a depositare un bacio lieve sull'ascella, provocandogli fastidio con la punta del naso mentre tracciava una linea immaginaria verso il capezzolo, succhiandolo quel tanto che bastava per mozzargli il respiro.

Respiro che quasi cessò quando Izuku indugiò al centro del petto, su quella cicatrice raggrinzita e frastagliata che ora accoglieva il bacio più tenero di cui il ragazzo potesse essere capace, ad occhi chiusi, ispirando il profumo di quella pelle martoriata.

Quando rilasciò il fiato, Katsuki tremò, vibrò quasi nel sentire anche il capezzolo destro racchiuso tra quelle labbra morbide, bagnato e succhiato come se fosse un piccolo frutto appetitoso.

Si mosse lentamente per andare incontro a quella bocca che voleva già lasciare la sua carne e spostarsi. E più le sue labbra proseguivano quella dolce tortura verso il basso, più la sua voglia non smetteva di salire, stordendolo a tal punto da capire troppo tardi che i suoi palmi si stavano scaldando in fretta quanto il resto del suo corpo.

«I-Izuku... Aspetta...», mugolò, prendendogli le spalle e scostandolo dal proprio ventre, a malincuore.

«Che succede? Ho fatto qualcosa di sbagliato?», gli chiese Izuku, la preoccupazione nella voce e gli occhi che saettavano dal viso di Katsuki alle sue mani tremanti.

«Io... Non ce la faccio. Rischio... Rischio di-»

«Farmi esplodere?», e lo vide annuire. Non seppe bene come, ma quella premura improvvisa gli scaldò il cuore.

Gli afferrò i polsi e passò i pollici sul palmo, umido e caldo, prima di posarvi un bacio, uno per parte, uno per ciascun dito di ciascuna mano, mentre gli occhi gli si inumidivano. «Fammi esplodere, Kacchan. Se serve, fallo. – la voce era un sussurro dolce e lascivo – Non trattenerti mai con me. Esplodimi addosso... Lo sopporterò. Lo faccio da sempre, ricordi?».

Katsuki vedeva solo i suoi occhi che lo fissavano, di un verde intenso e luccicante nella penombra di quella stanza troppo calda, non più spalancati e curiosi come quelli che conosceva, ma sottili e voraci, mentre le labbra che pronunciavano quelle parole affilate e sporche erano ancora intente a baciargli le mani, leccare e soffiare sui suoi palmi. Gli s'infiammò il ventre e mugolò solo un «Deku...» come una supplica a smettere quel gioco perverso e a continuare la tortura di prima. Quella l'avrebbe accettata, l'avrebbe fatta durare anche per l'eternità se fosse stato possibile.

Fu come se Izuku gli leggesse nel pensiero, lasciandogli i polsi, percorrendo con le dita gli avambracci, la pelle sottile dell'incavo del braccio, il bicipite e la spalla, strizzandogli i pettorali prima di sfiorargli i fianchi e tornare a sostenere il ragazzo sul materasso, per permettere di riprendere da dove era stato interrotto. «Se ti scaldi troppo dimmelo... – gli lasciò un bacio sull'ombelico – Io non ho fretta...».

Furono quelle parole a farlo abbandonare sul materasso. Almeno fino a che la bocca di Izuku non sfiorò la pelle sottile del pube, la leggera striscia di peluria bionda a solleticargli le labbra, mentre con una mano gli sfiorava il membro, mozzandogli il respiro.

«Questo non...», provò a protestare, inutilmente. La sua volontà si stava sciogliendo come neve al sole.

«Cosa?».

«Il...», biascicava: «...io devo farti...».

«Hai fatto tanto stasera...». Izuku non aveva fretta. L'aveva detto, ma era una bugia bella e buona: aveva aspettato fin troppo tempo quel momento e ora l'attesa lo stava uccidendo, lo corrodeva pian piano e lui doveva imparare a controllarsi. «L'hai detto tu, di essere il mio regalo...».

E voleva farlo per Kacchan.

Voleva che stesse bene, che non scappasse, che non si perdesse nelle sue insicurezze.

Voleva gustarsi quel momento con calma, quando però il suo istinto avrebbe voluto prenderlo così, senza convenevoli. Nella sua mente lo rivoltava a pancia sotto e lo scopava con la stessa rabbia con cui lui lo picchiava da ragazzino. Legge del taglione, ma più piacevole.

«Voglio solo farti stare bene...».

«Ti prego...», biascicò Katsuki, mentre strofinava i palmi sulle lenzuola per asciugarli un po', il capo sollevato per vedere cosa Deku volesse fare, perché nella sua testa vorticavano ancora le immagini di quel sogno fatto giorni prima.

Il suo membro si contrasse a quel pensiero e Izuku sfruttò quel movimento come un invito, accogliendolo nella sua bocca senza indugiare oltre. Il gemito che uscì dalle labbra di Kacchan gli fece correre un brivido lungo la schiena e mugolare a sua volta.

Un vibrato di gola che sembrava chiudere il cerchio d'estasi di Katsuki, aggrappato alle lenzuola, con la schiena che s'inarcava ogni volta che la bocca di Izuku scendeva su di lui, come se volesse andargli incontro, come se lo cercasse, quando in realtà voleva solo di più.

Voglio ogni centimetro di te.

Più lingua, più labbra, più tutto. Come in quel sogno, che ora stava diventando realtà tangibile e di cui sperava con tutto se stesso di vedere la fine.

Le dita di Katsuki stringevano le lenzuola, le unghie affondavano nel tessuto.
La lingua di Izuku vorticava e leccava ogni punto sensibile del suo cazzo, mandandolo a spirale verso il limite dell'estasi.

«I-Izuku...», riuscì a balbettare, la voce rauca per il bisogno, i suoi fianchi che si contraevano e involontariamente seguivano i movimenti di quella bocca bollente.

«Oh, Dio... Izuku... Ti prego...», mugolò, le mani si spostarono a stringere finalmente quei capelli morbidi, tirarli senza alcuna cattiveria, incurante di fargli male, sentendo di nuovo i palmi troppo caldi, così come il ventre, contratto da spasmi ogni volta che Izuku lo succhiava con più forza.

«Izuku... fe-fermati... mani...», riuscì a dire fra gli ansimi, staccando le mani dalla sua testa, lasciando che lui ci soffiasse sopra con delicatezza, scorgendo un sorriso dolce sul suo viso.

«Sei così bello, Kacchan!», gli uscì, senza filtri, mentre si sporgeva verso di lui e gli lasciava un bacio sulle labbra. Poi un altro. E un altro, prima di tornare di nuovo verso il basso, leccandolo per tutta la lunghezza così in fretta da farlo sussultare, la mano subito pronta ad accompagnare il movimento della bocca, portarlo avanti per un po', prima di fermarsi definitivamente.

«Pe-Perché?», rantolò Katsuki in direzione di Izuku, che si era tirato di nuovo a sedere tra le sue gambe, piegate e scomposte.

«Sei caldissimo...», gli rispose, passandosi una mano sulla fronte sudata e tra i capelli, portandoli all'indietro in un gesto che tolse il fiato al biondino. «Dammi un attimo.», e lo vide scendere, improvvisare una piccola corsa fuori dalla stanza per poi tornare poco dopo con il ventilatore, accenderlo e lasciarlo muovere un po' l'aria.

Ma non mitigava il calore che Katsuki sentiva, non attenuava il bollore delle guance o il sudore sulle mani mentre osservava Izuku sfilarsi con calma le mutande e risalire sul letto, tra le sue gambe.

«Occhi a me.», gli ordinò con un sorriso, mentre si sporgeva di nuovo verso di lui, le braccia tese accanto al suo torso che ora si piegavano per avvicinarlo di più al suo volto, lasciarsi baciare teneramente, a occhi socchiusi, come se fosse normale, naturale. Come se lo facessero da sempre. Come se quel sottile filo di paura che provava Katsuki si fosse spezzato nelle loro bocche, sulle loro lingue.

«Mai tolti.», gli rispose, a fior di labbra, quando si staccarono, le fronti incollate e il sorriso tenero di Deku che gli creava dolci piccole rughe attorno agli occhi. Una cosa che non aveva notato.

Un punto in più sulla lista di cose che gli piacevano di lui, che lo rendevano più umano ai suoi occhi.

Katsuki esalò un sospiro leggero, sollevato.

"Ti amo.", pensò.
Senza riflettere sul significato reale di quelle parole, solo dando libero sfogo a quello che sentiva. Come mai aveva fatto prima di quel momento.

Perché in fondo non sapeva un cazzo dell'amore, di cosa volesse davvero dire. Ma era la cosa più naturale che era riuscito a pensare con lucidità, dietro le palpebre chiuse.

Un bacio dolce lo riportò al momento, un risucchio lieve di labbra, una scia umida che andava indietro, a ritroso, sul mento, sul collo, sul petto. E lì si fermava.

Un orecchio posato sullo sterno a sentire il battito del suo cuore.

«Deku?».

«Stai buono un po'.», e rimase così per secondi interminabili, prima di alzarsi e tornare a dare baci dolci, leggeri, fino in basso, fino a riportarlo di nuovo alle soglie del godimento con qualche abile leccata, mentre le sue mani gli s'infilavano sotto il culo e lo forzavano ad alzarlo, ad andargli incontro, a piantargli il cazzo nella gola, ripetutamente.

Alla fine, incapace di resistere oltre, Katsuki afferrò Izuku per la nuca, le mani bollenti sulla pelle accaldata, tirandoselo contro, sentendo perfino il suo naso che gli premeva contro il pube ogni volta che lo attirava a sé, sempre un po' più vicino all'orgasmo.

Izuku gli strinse i glutei a piene mani, le lacrime che gli bagnavano le ciglia e il respiro affannoso che gli usciva a stento dal naso. Strinse le guance, succhiò più forte (per quanto poteva) e quasi non sentì le parole di Kacchan, sovrastate da uno scoppiettio doloroso che gli prendeva collo e spalle quando lui venne, riversandosi nella sua gola senza preavviso, rischiando quasi di soffocarsi.

Tossicchiò mentre lo sfilava dalla bocca, le guance umide di lacrime e un sorrisino compiaciuto a sentire gemere sonoramente Katsuki, mentre si abbandonava sul materasso.

Il biondino ansimò pesantemente per riprendere fiato mentre Deku strisciava sul suo corpo, i loro petti premuti insieme, e lo baciava dolcemente. Assaporare se stesso sulla lingua di Izuku e sul fondo della sua gola fu abbastanza per provocargli un lungo brivido, portandolo di poco oltre il limite, il cazzo ancora in tiro che sembrava vivere di vita propria, sporcargli ancora un poco il ventre.

«Hai un sapore così buono...», mormorò Izuku contro le labbra di Katsuki, per poi succhiargliele, masticargliele; la lingua leniva dove i denti avevano premuto troppo forte. Il sorriso di Izuku crebbe ad ogni bacio, ad ogni piccolo ringhio del biondo, perché sapeva che non era disapprovazione, ma solo piccole note frustrate che gli uscivano dalle labbra.

Le loro gambe si sfiorarono l'una contro l'altra, e il calore del corpo di Izuku era terribilmente confortante, tanto che Katsuki per un momento dimenticò il vero motivo per cui erano lì, nudi e avvinghiati. Poi la consapevolezza lo colse e sentì le guance andare a fuoco. Non era così che doveva andare quella parte di serata!

Izuku vide il volto di Kacchan farsi improvvisamente cupo e il suo sguardo dardeggiare verso di lui. Ed ebbe paura di aver rovinato tutto, soprattutto quando, con un movimento brusco e un cigolio sinistro del letto, si ritrovò scaraventato a sua volta tra muro e materasso, le dita di Kacchan che gli strattonavano i capelli e il suo sguardo di fuoco a pochi centimetri dal viso.

«Ti ho organizzato io la festa!», berciò quello con fastidio.

Izuku fece spallucce e curvò le labbra in un ghigno: «Beh... Non ho sentito molte proteste da part-», ma Kacchan gli tappò la bocca con la propria, un bacio famelico che lo fece sciogliere, portargli la mano alla nuca, approfondendo il contatto mentre le loro lingue combattevano una battaglia di supremazia già persa da entrambi in partenza.

Con uno strattone Katsuki se lo scostò di dosso, tirandogli i capelli quanto bastava per inclinargli la testa e lasciare scoperta la gola ai suoi baci e a piccoli morsi ringhiati, il fiato bollente che s'infrangeva sulla pelle di Deku, capace a malapena di respirare dopo quella specie di attacco improvviso.

«Kacchan...».

Dio! Quel nome del cazzo...

«Kacchan... Io...».

Quell'acuto strascicato.

«Kacch-».

Gli morse un capezzolo, giusto per tramutare quell'implorazione in un mugolio sofferto. Ancora un'altra volta e avrebbe mandato all'aria tutto, se ne sarebbe fregato di qualsiasi buon proposito e avrebbe invertito i ruoli, non solo nella sua testa.

Perché in quel momento veniva tutto così naturale?

Perché sembrava che il suo corpo si muovesse da solo? Mentre con la lingua disegnava strisce umide sui suoi addominali, gli bastava tenere gli occhi fissi sul viso di Deku per sapere esattamente cosa fare, quale lembo di carne addentare dolcemente o quale leccare per sentirlo ansimare, gemere, chiamare ancora il suo nome con quel tono che gli accapponava perfino la pelle delle braccia e glielo mandava in tiro di nuovo.

Deku era rimasto scomposto sul letto, le gambe aperte e piegate, mezzo appoggiato al muro, che lo osservava fare la prossima mossa, gli occhi verdi che parevano brillare nell'oscurità.

Lui era stato dolce, prima. Katsuki non volle essere da meno, anche se l'impazienza lo seguiva, marcandolo stretto, facendogli accelerare il movimento della mano sul suo cazzo, mentre lui ne inumidiva la punta con le labbra e la lingua, il cuore che gli batteva furiosamente nel petto.

«Non... Non devi...».

«Taci.», e lo prese in bocca, aiutandosi con una mano, muovendo entrambe lentamente, senza staccargli gli occhi di dosso come lui aveva fatto non molto tempo prima.

Izuku gemette, spingendo involontariamente i fianchi verso l'alto, implorando silenziosamente di più, una preghiera che riempì le orecchie di Katsuki mentre si chinava in avanti, la lingua che roteava timidamente sulla punta gonfia di eccitazione. Izuku sussultò di nuovo quando venne risucchiato tra quelle labbra, ancora e ancora, tutto il corpo tremante per l'intenso piacere che Kacchan gli stava regalando.

Katsuki, dal canto suo, si crogiolava ancora una volta nel potere che aveva sull'amico, unica presenza costante nella sua vita sin da quando riusciva a ricordare. Lo spaventava a morte la consapevolezza di quel sentimento che li legava, che andava oltre l'amicizia, la fratellanza o il cameratismo, e che gli era entrata in testa solo quella sera.

Lo spaventava, ma sentiva come se fosse l'unica forza in grado di farlo continuare, l'unica motivazione reale e plausibile per la quale adesso aveva il cazzo di Deku stretto fra le labbra e le orecchie piene dei suoi ansiti melodiosi.

Ispirò lentamente col naso e cercò di prendere una parte maggiore della lunghezza di Izuku in bocca.

I gemiti di Izuku diventarono più forti, i fianchi si sollevarono per andargli incontro. Le guance di Katsuki si scavarono, aspirando così intensamente da far arricciare le dita dei piedi di Izuku, che affondò le unghie nel materasso per stare dietro a una sensazione troppo travolgente da sopportare.

Katsuki poteva sentire quanto Izuku fosse vicino, e non voleva altro che spingersi oltre il limite.

Con un ultimo movimento della lingua, Katsuki sentì Izuku crollare sotto di lui, stringendo il labbro inferiore tra i denti e reclinando la testa, un gemito basso e lungo incastrato nella gola, mentre una mano s'infilava tra i capelli biondi e lo scostava di prepotenza, il piacere appena al di sotto della soglia di soddisfazione.

«Ma sei idiota?», sbraitò il biondo, mentre la presa sui suoi capelli non accennava a diminuire.

Izuku se ne stava disteso, ad occhi chiusi, la bocca semi-aperta a cercare aria in quella stanza troppo calda e la mano libera che era andata a stringersi e massaggiarsi le palle.

«Non... Non così Kacchan...», esalò, prima di guardarlo da sotto le lunghe ciglia scure. «Voglio cambiare...».

«Cambiare? Cambiare cosa?».

«Il...», deglutì rumorosamente, mentre lasciava la presa sui capelli biondi e si metteva a sedere di fronte a Kacchan con fatica: «Il mio regalo.».

«Il tuo regalo?».

«Sì.».

«Cioè non vuoi più un mio pompino?».

Lo vide ridacchiare, con gli occhi socchiusi e un sorriso stanco su quelle labbra gonfie di morsi e di baci. «Quello lo voglio ogni giorno, Kacchan!», e Katsuki si sentì il viso completamente in fiamme a quell'affermazione detta con così tanta noncuranza. «Il problema è che non vorrei solo quello... Non stasera...», aggiunse, con espressione colpevole, prima di sporgersi verso Katsuki, quel tanto che bastava per essere quasi seduto di fronte a lui, prendendogli il volto tra le mani, i nasi vicini tanto da sfiorarsi e una manciata di parole sulle labbra da pronunciare a bassa voce, come un segreto.

«Stasera voglio te, Kacchan. Tutto te.», e inspirò profondamente: «Ho sempre voluto te.»

Non era sorpreso, Katsuki, ma fece per allontanarsi lo stesso. il respiro bloccato nel vedere lo sguardo smeraldino che sembrava implorarlo. Lussuria e desiderio vorticavano negli occhi di Izuku, una disperazione nella loro espressione che non aveva mai visto prima.  «Però lo capisco se mi dirai di no... Insomma, tu... Ecco...»

Ingoiando l'ansia che gli intasava la gola, posò le mani su quelle del ragazzo e annuì, senza che il suo sguardo abbandonasse mai quello bisognoso del compagno: «Va bene.», e gli carezzò i polsi con i pollici. «Io... L'avevo già previsto.».

«Cosa?», sfarfallò gli occhi Izuku, incredulo, provando a smorzare un po' la serietà di Katsuki, non riuscendoci, ma sentendo quelle mani umidicce e ruvide che gli accarezzavano gradualmente le braccia e le spalle e il viso di Kacchan che si avvicinava al proprio.

«Ti ho fregato, Deku. Ho pensato più veloce di te, stavolta.» e si sporse a baciarlo con calma, sbilanciandosi in avanti, finendogli addosso, lasciandosi girare di nuovo con la schiena sul materasso, le mani di Izuku che tornavano a toccarlo ovunque, una lieve risatina se i denti si scontravano in quella serie di piccoli, dolci baci, che riscaldavano di nuovo la pelle e il cuore.

«Lo vuoi sul serio?», e vide Kacchan annuire piano.
«Non lo fai solo per farmi contento, vero?».

«No, idiota.», e gli passò una mano in quella chioma verde e ribelle, portandogli indietro i capelli dalla fronte. «Solo... Vacci piano, ok?».

E in risposta Izuku lo baciò così teneramente che Katsuki si maledisse anche solo per aver pensato che quel nerd gli potesse fare qualcosa di sbagliato.

Percepì il tocco ruvido delle sue mani lungo il fianco, sulla coscia, la mano intrufolata tra di loro e spostata verso il basso, indietro, nel solco tra le natiche, a stuzzicarlo. «Rilassati.», gli soffiò nell'orecchio, prima di alzarsi e lasciarlo lì, stordito dalle carezze solo per vederlo rovistare a tentoni tra le sue cose, mentre bofonchiava qualcosa di incomprensibile come il suo solito.

«Che cazzo stai facendo adesso?», ma lo vide rialzarsi e tornare verso il letto, l'andatura trionfante e le mani piene.
«Lubrificante e preservativi!», il tono era allegro e caldo e Katsuki si ritrovò di nuovo le orecchie bollenti. «Così tu sei tranquillo.».

Tranquillo un par di palle!
Per quanto gliel'avesse succhiato e tenuto in mano, immaginarsi impalato dal cazzo di Deku lo fece deglutire a secco, a metà tra il sogno erotico dell'intero Giappone e il terrore puro di lasciarci il culo.

Serrò le labbra e si trattenne dal parlare, lasciando che spremesse il lubrificante sulla mano, osservando i movimenti delle dita della mano destra che si sfregavano tra loro per distribuirlo sui polpastrelli prima che le avvicinasse alla sua intimità.

Prese un respiro profondo e lo rilasciò a poco a poco, sorpreso di sentire quel liquido vischioso così fresco sulla pelle, mentre le dita di Izuku gli accarezzavano con lentezza l'entrata.

Una mano gli si premette sul petto, costringendolo a distendersi, mentre Deku lo sovrastava, un sorriso timido sulle labbra e lo sguardo tutto rivolto al minimo cambio nell'espressione del viso di Kacchan: «Se ti fa male mi fermo, va bene?».

Un cenno e uno sguardo. A Izuku non servì altro per continuare, stuzzicando quel punto con un polpastrello per poi forzarne pian piano l'apertura, sentendo Kacchan sussultare a quell'intrusione, una falange dopo l'altra, con lentezza esasperata, ogni minimo cambiamento di espressione sul volto del biondino era monitorato con cura.

Ruotò il dito, lo mosse, le nocche che premevano contro la carne morbida delle natiche di Kacchan. La sensazione di calore umido che percepiva sembrò fargli mancare il respiro o trattenerlo troppo a lungo. Prese fiato quando lo fece anche Katsuki, che mollò la presa sul proprio labbro inferiore, ormai arrossato all'inverosimile, invitante come una ciliegia. «Cristo...», lo udì esalare, a occhi chiusi e denti serrati.

I loro petti si sollevavano all'unisono. La stanza era silenziosa, fatta eccezione per i loro respiri affannosi e il lieve scricchiolio della struttura del letto ogni volta che Izuku affondava il dito, piano, vincendo la resistenza della carne, un bacio tenero ad ogni spinta, giusto per distrarlo, per non farlo pensare, per portare la sua attenzione su altro, su parole dolci sussurrate a fior di labbra, piccole risatine imbarazzate per permettergli di aggiungere un secondo dito, poi un terzo, allargando quello stretto passaggio che lo faceva contorcere sotto di lui. «Ssh... Così... Ecco...».

E tra gli insulti sussurrati e i gemiti poteva sentire i muscoli di Katsuki rilassarsi a poco a poco attorno alle sue dita, accogliendolo mentre lo preparava per ciò che entrambi aspettavano.

Il corpo di Katsuki si contorse dal piacere quando Izuku provò ad inserire anche il mignolo, i suoi gemiti diventavano più forti e disperati mentre Izuku curvava e muoveva le dita e colpiva ripetutamente la sua prostata. La mano che il biondino teneva sulla propria bocca era l'unica cosa che gli impediva di urlare.

Le unghie di Katsuki affondarono nella pelle delle braccia di Izuku, mentre si piegava contro di lui, i gemiti soffocati contro la sua spalla, i palmi che gli ustionavano i bicipiti.

«Kacchan...».

Bastò quel nomignolo sofferto a fargli lasciare la presa, a spalancare gli occhi cremisi contro i suoi, lacrime di dolore che imperlavano le ciglia di entrambi.

Perché questo c'era sempre stato tra di loro: tremendo dolore e impossibile amore.

I loro occhi s'incontrarono e in quel momento qualcosa cambiò tra loro. Non era più semplice amicizia o una pura questione carnale. Non era uno stupido regalo di compleanno.
Era qualcosa di più profondo, di più radicato nella loro anima e la soglia che stavano varcando portava direttamente verso l'ignoto. Avevano condiviso disgrazie e gioie e ora stavano condividendo qualcosa di ancora più intimo, e nessuno dei due sembrava tirarsi indietro o pentirsene.

Izuku tolse piano le dita, guadagnandosi una lamentela sofferta da parte di Katsuki, osservandone il volto arrossato. «Stai bene?».

Lo vide annuire piano, un singulto bloccato in gola e una mano che si allungava verso il viso di Izuku per portarselo vicino, incollare le labbra alle sue, avvinghiare la lingua alla sua in un bacio sofferto, ansioso, quasi avesse paura che non fosse vero, che non fosse reale.

Quando si staccarono, gli occhi di Katsuki non contenevano altro che fiducia e desiderio mentre poggiava la fronte contro quella di Izuku, agitandosi sul letto, con un piccolo sorriso sulle labbra.

«Lo desideravo da così tanto tempo...», ammise Izuku, dando un bacio gentile sul naso di Kacchan.

«Lo so.» rispose Kacchan con un sorriso. «Anch'io...».

«E credimi ch-», ma Katsuki gli tappò la bocca con la mano.

«Ssh! Non dirmi nulla. Non me ne frega un cazzo adesso...» e staccò la mano dal suo viso per portarla in basso, ad afferrare l'erezione fastidiosamente dolorosa di Deku, muovendosi sulla sua lunghezza a strappargli un gemito basso e profondo. «Vieni qui.» e lo obbligò a sistemarsi meglio tra le sue gambe aperte.

«Fammi mettere almeno...».

«Sei pulito?».

Izuku si irrigidì per un momento a quella domanda, osservandolo negli occhi per cercare un briciolo di raziocinio che sembrava totalmente mancare in quella versione di Kacchan che teneva sotto di lui. «Sì, ma-».

E si zittì quando sentì la punta del proprio membro venir premuta contro l'apertura di Katsuki, mentre lui muoveva appena i fianchi per andargli incontro.

«È il tuo compleanno no? Non è quello che vuoi?», chiese, con la voce bassa, che grattava in gola e il fiato che faticava ad uscire nel sentire quel contatto quasi bollente.

«Dio, sì...», esalò, a capo chino, a vedersi così vicino a lui, la cappella che premeva sull'apertura per entrare. Poi alzò di scatto la testa e lo osservò intensamente, gli occhi cremisi che ora erano socchiusi, semi aperti come quella labbra invitanti. «E tu?».

Si sarebbe fermato, si disse, se lui gli avesse detto di no. Se lo ripeté più volte nel breve istante in cui nessuno dei due aveva fiatato, prima che le labbra di Kacchan si curvassero in un fugace ghigno e le guance gli si scurissero.

«Ti avrei già fatto esplodere, non credi?», e gli passò la mano calda dietro il collo, attirandolo a sé in un bacio disperato, desiderato, mentre Izuku, con una spinta tesa e dolorosa entrò lentamente, frenando la propria voglia di prenderlo come davvero avrebbe voluto, riempiendolo a poco a poco, per abituarlo.

Gli occhi di Katsuki si spalancarono a quell'intrusione. «I-Izuku!» piagnucolò, agitando i fianchi per il fastidio.

Izuku chinò il capo, ansimandogli sulla gola e sul petto, sentendo le pareti di Kacchan stringersi attorno mentre entrava completamente in lui, tanto da far sussultare entrambi, piacere e dolore che si avvolgevano e attraversavano i loro corpi, obbligandolo a fermarsi lì, in quella carne bollente per non venire subito, tanto era intensa la sensazione che avvertiva nel ventre.

I loro corpi tremarono insieme appena Izuku si mosse piano, dando il tempo a Katsuki di abituarsi ancora un altro po'. I loro bacini che si univano, il calore delle natiche di Kacchan che gli scaldava le palle.

Le mani di Katsuki vagavano ora liberamente, afferrando le spalle e la schiena di Izuku mentre si dondolava contro di lui, con estrema calma, i loro corpi che si muovevano in perfetta sincronia, il letto che scricchiolava sotto il loro peso. Gli occhi del biondino rotearono all'indietro, il piacere che iniziava a riversarsi a ondate dall'inguine in tutto il resto del corpo.

I gemiti di Izuku si perdevano sul petto di Kacchan, su cui aveva poggiato la fronte, disperato, grida di estasi soffocate tra i denti e le labbra, gli occhi serrati e il fiato caldo soffiato dal naso sulla pelle bollente di Katsuki, alimentandone il desiderio.

Katsuki restava disteso sul letto, la schiena inarcata, a occhi chiusi, nel disperato tentativo di trattenere lo sfrigolare dei palmi, che ormai aveva bruciacchiato le lenzuola e lasciato piccole escoriazioni sulle spalle e sul petto di Izuku, che lo toccava ancora e ancora, come se non bastasse mai.

Lo udiva mugolare qualcosa, il labbro inferiore stretto tra i denti, qualche imprecazione di sicuro.

La dolcezza iniziale era svanita presto, tanto che le gambe del biondino erano state allargate di più, prese e appoggiate sul petto di Izuku, arrivando a toccare quasi il proprio quando si abbassava un po' per spingerlo dentro di più, fino in fondo, fino a farglielo sentire quasi nella gola, nella testa, sconvolgendo sensazioni, mentre emetteva gemiti continui di inesauribile piacere.

Oh, Izuku lo aveva desiderato davvero tanto! E aveva perso il conto delle volte in cui si era accarezzato sognando di averlo solo per sé.
Era la sua piccola vittoria, il coronamento di un'ossessione durata troppo a lungo.

Davanti a lui, sotto di lui, c'era il sogno erotico più segreto e sotterraneo di tutta la sua vita. Il corpo da lui più ambito e desiderato, ricercato senza mai davvero riuscire a ottenerlo. Ma sempre a un passo.
Un passo indietro.
Uno sfiorarsi.
Un mancarsi.

Ma quella, ora, era la coppa da cui dissetarsi, bevendola tutta, a grandi sorsate, come un assetato che giunge all'oasi.

Kacchan era la sua oasi e non la voleva prosciugare.
Voleva goderne la frescura il più possibile, perché la convinzione che tutto quello fosse un puro miraggio non lo lasciava libero di respirare.

Forse per questo tratteneva così tanto il fiato.
Forse per questo il suo era un ritmo lento, era un goderselo con la vista prima che con la pelle, prima che con tutto il corpo.

Si appoggiava a lui e lo faceva entrare quel tanto che bastava per vincere la resistenza di quell'anello di carne e farsi avvolgere dai suoi muscoli umidi, per poi scivolare di più, arrivando in un punto che Katsuki non aveva bene idea di dove fosse, ma che ogni volta sentiva avvicinarsi un orgasmo cha a fatica tratteneva, mentre sospiri e gemiti gli lasciavano le labbra senza più alcun pudore. Poi, lentamente, lo tirava indietro, indugiava un attimo ancora sul limite, lo tirava fuori e ricominciava.

Un dare e un togliere.
Presenza e abbandono.
La sottile linea che li univa e li separava.
Allontanarsi e cercarsi, con unghie che scavavano solchi che sarebbero diventate cicatrici nuove, una scarica elettrica ad ogni nuova entrata, ogni movimento diveniva piacere intenso, sempre diverso.

Katsuki spalancò gli occhi, meravigliosamente bloccato in quella posizione di massima apertura dove Izuku poteva entrare dentro di lui fino all'ultimo millimetro, possedendolo completamente, un'onda impetuosa che andava e veniva, che lo scaldava e lo raffreddava, che gli prendeva le mani, ci soffiava sopra con premura e impazienza, intrecciava le dita alle sue e lo guardava dall'alto mentre si allontanava, aggrappandosi continuamente alla sua pelle resa scivolosa dal piacere.

Ed erano brividi condivisi nei pochi istanti di silenzio, di fermo immagine in cui gli occhi di Katsuki sembravano di lava fusa e si specchiavano nel sorriso pieno di Izuku contro il suo polpaccio. Un sorriso, un bacio, una spinta.

Sarebbe morto, lo sentiva nel cuore che pompava impazzito, nelle viscere che bruciavano e formicolavano ad ogni affondo. Lo sentiva ad ogni carezza lasciva che Izuku lasciava su di lui, sul torace, sul ventre.

Sarebbe morto, aperto a metà da qualcosa di molto simile a un fulmine. Perché il calore era lo stesso, il dolore era lo stesso. Sulla sua pelle scorrevano brividi intensi, i capezzoli che quasi bruciavano tanto erano tesi dal piacere.

Non si rese conto di avere di nuovo un peso su di sé, perché Izuku gli aveva abbassato dolcemente le gambe, allargate quel tanto che serviva per avvinghiarsele alla vita e sporsi verso di lui, leccandogli il ventre e lo stomaco e il torace, assaporando quella pelle che lo faceva ragionare a stento, una scia di baci dal collo alla mandibola, alla guancia, mentre si puntellava con gli avambracci accanto a quella testolina bionda dai capelli scompigliati e le orecchie in fiamme.

Inspirò quel profumo dolciastro, quel suo aroma di pulito che non lo lasciava mai, neppure sfatto dal piacere. E mentre inspirava, una nuova spinta, un nuovo gemito che gli invase le orecchie come un canto mistico.

«Se vuoi urlare, fallo...», gli sussurrò, il naso a sfiorargli la cartilagine dell'orecchio sinistro prima di afferrarne teneramente il lobo tra gli incisivi.

Katsuki inarcò ancora la schiena, le unghie corte conficcate nella pelle dei fianchi di Izuku e poi sulle natiche, non sapendo bene cosa fare, se allontanarlo o se attirarlo ancora di più a sé, perché ora non usciva più da lui, ma ci restava, si muoveva a toccarlo nel profondo, facendogli provare ancora più calore, più abbandono e desiderio.

E le labbra si cercavano, gemiti soffocati l'un l'altro, le lingue in una rincorsa continua, l'aria rubata direttamente dai polmoni.

Ogni muscolo dei loro corpi si increspava e si tendeva ad ogni movimento, i loro volti arrossivano di desiderio e i loro occhi si fissavano in uno sguardo appassionato e condiviso.

Il sudore luccicava sulla loro pelle, i respiri arrivavano in brevi sussulti mentre l'orgasmo giungeva piano, con onde lunghe di piacere che li travolgeva. Katsuki gemette e si contorse sotto di lui, assecondando ogni movimento di Izuku. I loro cuori sembravano battere in sincronia; lo sentivano dalle vene premute sotto i polpastrelli, o forse dall'eco che quel muscolo impazzito produceva nei loro petti.

«I-Izuku...», ansimò il biondo, trattenendo con i denti un gemito più forte, il piacere che cresceva dentro di lui era troppo da sopportare. «Sto per...».

«Venire?», gli ansimò contro con un sorriso. «Dio sì! Anch'io!», e, per quanto fosse al limite, voleva assaporare il momento il più a lungo possibile, rallentando di poco, godendosi la faccia arrossata e stravolta di Kacchan, i suoi urli muti a bocca aperta, gli occhi che si chiudevano e lasciavano intravedere solo il bianco del bulbo, preso dall'estasi, dalle scosse continue che gli attraversavano le membra.

Si abbassò, catturando le labbra di Katsuki in un bacio appassionato, ingoiando un gemito basso e un sospiro lungo, mentre spingeva i fianchi in avanti ancora e ancora, con forza implacabile, rallentando davvero solo quando venne anche lui, ondate di piacere che si infrangevano su di loro come la mareggiata su scogli acuminati.

Izuku crollò su Katsuki, in un mucchio di arti aggrovigliati e respiri pesanti.

Rimasero così, uno sull'altro fino a che i cuori smisero di pulsare pure nelle orecchie, lasciandoli crogiolarsi negli strascichi di qualcosa di intenso e piacevole, con lievi carezze accennate, casuali, sulle braccia o sulla schiena.

Izuku si spostò di peso, lasciandosi cadere di fianco, accanto a Kacchan, il letto che a malapena li conteneva entrambi. Si sentì grato per questa svolta inaspettata degli eventi, in cui Kacchan aveva finalmente lasciato andare il suo orgoglio e si era permesso di essere vulnerabile con qualcuno. Qualcuno a cui teneva così profondamente, gli sottolineò la sua coscienza.

Izuku avvolse le braccia attorno a Katsuki, tenendolo stretto e sorridendogli contro la pelle della spalla, i loro occhi si incontrarono nella fioca luce della stanza.

«Sono stato...bene.», azzardò il biondo, rompendo il silenzio.

«Anch'io...», concordò Izuku, con voce dolce e sincera. «E... beh, non ci credo ancora, sai...», ridacchiò poi, piano e allungò la mano per sfiorare con le dita delicatamente contro la cicatrice sulla guancia destra di Katsuki.

Il ragazzo però non rispose e Izuku non seppe bene come prendere quel silenzio affannoso. «Sei pentito?», chiese, con una punta di preoccupazione nella voce.

Katsuki scosse piano la testa, un sorriso debole a increspargli le labbra. «No... Affatto.», ammise, allungando a sua volta la mano sinistra a scostare una ciocca umida di capelli dalla fronte di Deku.

Il sorriso di Izuku si allargò e si sporse per premere un bacio dolce contro le labbra di Katsuki: si sentiva sollevato, ma soprattutto, provava un travolgente senso di felicità per ciò che era successo e sperò con tutto il cuore che per Kacchan fosse lo stesso.

Il biondo passò a massaggiargli con movimenti rilassanti la schiena e le braccia, lasciandosi cullare dal piacevole indolenzimento.
Era stata quasi una liberazione, dopo anni passati a negarsi, a cercarsi.

«Nerd...».

«Mh....».

«Non dormire.».

«Mmmh...».

«Che farai dopo?».

«Dopo?».

«A casa. Cosa farai quando torneremo indietro?».

Izuku ci pensò su per qualche secondo: «Prima della prossima missione?».

«Ah-a.»

«Non lo so... Credo che mamma voglia festeggiare appena torno...».

Katsuki lo guardò assottigliando gli occhi, un grugnito che gli lasciò la gola, smettendo di passare i polpastrelli sulla pelle umida di Deku, facendo uno sforzo immane per alzarsi a sedere e scostare il ragazzo dal proprio petto con un mugolio di protesta. «Dove va-ai?».

«Quindi torni da tua madre?», e si mise a sedere sul bordo del letto, le gambe che ancora sembravano tremare e il culo che pulsava di fastidio.

Izuku si mise di fianco, puntellandosi con i gomiti per cercare di rialzarsi, la visione del profilo affilato e stanco di Kacchan, illuminato dalla flebile luce che entrava dalla finestra, era quasi una visione mistica. O forse era solo lo sguardo post orgasmo che glielo faceva vedere ancora più bello di quanto non fosse.

«Credo di sì. Fino a che non mi trovo un appartamento sì.», gli rispose, osservandolo alzarsi con calma e piegarsi per cercare tra gli indumenti sparsi a terra.

«Mh...».

«Ma mi spieghi che stai facendo?».

«Sta' buono, cazz-ahi!», e si mise una mano alla base della schiena, una fitta di dolore mentre si tirava di nuovo in piedi.

«Tutto bene?», ma si beccò un'occhiata truce da parte del biondo mentre si sedeva di nuovo sul letto. «Oookay! Sto zitto!».

«Tieni.», e Katsuki gli allungò un piccolo oggetto luccicante.

«Che sarebbe?», chiese, prima di sfilarglielo dalle dita. Una chiave?

Katsuki sbuffò, passandosi la mano destra tra i capelli umidi e arruffati, guardandolo di sottecchi, prima di allungare il braccio, le dita che sfiorarono la coscia nuda e calda di Deku, disegnando ghirigori immaginari tra le sue efelidi.

«Una copia delle chiavi di casa mia.», sussurrò. «Sai, no... Se ti stanchi di stare da tua madre...».

Izuku non sapeva cosa dire, limitandosi a passare lo sguardo tra quella mano lieve sulla coscia e la chiave lucida che teneva tra le dita. «Ma... Tu...».

«In realtà il tuo regalo di compleanno doveva essere questo...», ridacchiò leggero Katsuki, sorprendendo Izuku, lasciandolo con le spalle irrigidite e con gli occhi sgranati piantati sul profilo sorridente del biondino di fianco a lui.

«Kac-chan...», piagnucolò Izuku, come quando di anni ne aveva quattro, stringendo i pugni, profondamente commosso da quel gesto totalmente inaspettato, il cuore che si scaldava nel petto e un sorriso che non sembrava volersene andare dal suo viso ormai inumidito dalle lacrime. Si sporse e gettò le braccia attorno al collo di Katsuki, portandoselo dietro, sul materasso, in una stretta salda e tremolante.

«Ehi! Vacci piano nerd!».

Si sollevò da lui, il volto deformato da un pianto di gioia: «Non lo stai dicendo sul serio, vero?».

«Cosa?», ridacchiò ancora. «Che alla fine non sei così male come coinquilino?».

Lo vide scuotere la testa, tirare su col naso, prima di appoggiare la fronte sul suo petto nudo e accaldato.

«No... Che hai voglia di avermi ancora attorno...», biascicò, la chiave stretta in una mano tanto da far male e l'altra a tenergli salda una spalla, per conferma che fosse tutto reale, che non fosse un sogno, o un'illusione alcolica.

Sussultò a sentirsi avvolgere dalle braccia forti di Kacchan, che lo strinsero a sé con dolcezza, un bacio posato tra i capelli verdi arruffati, mentre nel silenzio di quella stanza troppo calda aleggiava un sussurro confortante.

«Avrò sempre voglia di averti intorno, Izuku...».




 

And I am certain, no
That you and I are crashing course
Driven by a holy force
I know you can see
That you will be mine
Yeah, you will be mine
Sleep Token

 

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Capitolo 21
*** ...and goodbye for now | outro ***


...and goodbye for now | outro



Il girasole che Van Gogh dipinge è Van Gogh, anche se Van Gogh ha bisogno del girasole per dipingere se stesso.
~ Fabrizio Caramagna ~

🌻

Un anno e mezzo dopo

La sala da ballo era elegante, illuminata da luci calde e diffuse; le tovaglie damascate in una tenue tonalità crema facevano risaltare piatti d'acciaio lucido e bicchieri senza neppure un alone. La condensa sugli champagne spezzettava la luce in piccoli diamanti effimeri.

I tecnici stavano finendo di allestire il piccolo rialzo sul fondo la sala, dove stava un leggio sfacciatamente bianco e contornato di fiori altrettanto bianchi, mentre vecchie canzoni commerciali riempivano i vuoti lasciati dal chiacchiericcio degli eroi accorsi al grande evento.

Per una volta avevano dismesso i panni variopinti delle loro tute da lavoro per lasciare spazio a smoking dai revers di raso lucente e abiti eleganti che fasciavano i fianchi tonici delle donne presenti come una seconda pelle.

Lui, però, odiava le cravatte.

Odiava ancor di più il papillon che sua madre gli aveva comprato e che aveva messo solo per non offenderla. Però ci stava: il grigio di quel piccolo accessorio risaltava sul candore della camicia e si abbinava perfettamente al panciotto grigio, a contrasto con i revers sciallati in raso nero sul suo smoking in lana rasata grigio scuro.

Il suo nervosismo era palpabile e lo si notava dal modo in cui la gamba sinistra tremava o da come si torturava le pellicine del labbro inferiore sfregandole sul bordo liscio del bicchiere, senza aver toccato ancora un goccio di champagne.

«Ehi!», sobbalzò a quel richiamo, rischiando di far cadere a terra la flûte.

«E-ehi...», salutò con titubanza, voltando il capo a sinistra. Kirishima era un cazzo di sole e invidiava quel suo sorriso incoraggiante. Sembrava che si fossero scambiati i ruoli, loro due, perché il suo, di sorriso, mancava sempre più spesso.

«Sei agitato?».

«Un po'. Credo sia normale, no?», e tornò a far finta di sorseggiare champagne con noncuranza. Vi si bagnò le labbra e provò fastidio su una pellicina più sollevata delle altre. La sapidità del vino gli arrivò alla lingua e gli fece fare una piccola smorfia, guardando il bicchiere, ondeggiandolo tra le dita, prima di berlo in un unico sorso.

«Vacci piano, Midobro!», esclamò il rosso, inarcando entrambe le sopracciglia e guardandolo con una certa preoccupazione. Di contro, Izuku fece fatica a sostenere quelle iridi rosse.

«Scusa. È che queste cose mi mettono ansia.».

«Lo so.», gli sorrise di nuovo l'amico, posandogli una mano sulla testa e scompigliandogli i ricci. «Ma vedi di non esagerare col vino per scioglierti, ok?».
Izuku annuì e si tranquillizzò un po' sotto quel tocco pesante.

Kirishima era sempre stato molto fisico, fin dalle superiori. Il loro supportarsi era fatto di abbracci virili, pacche sulle spalle e scompigliate di capelli. Ma, in quel momento, quel tocco sembrava più una carezza rassicurante.

Izuku tirò le labbra in un sorriso mesto, mentre fermava un cameriere in livrea e faceva un cambio di bicchiere. Vuoto per pieno, allungandone uno anche a Kirishima, una muta richiesta di supporto.

«Hai una domanda sulla punta della lingua, lo so.», lo incalzò il ragazzone, allentando il bottone della giacca nera, mettendo una mano nella tasca dei pantaloni del medesimo colore, lasciando scoperte solo le bretelle bordeaux, come la sua cravatta e la pochette sulla giacca. Perché lui era così a suo agio?

Izuku scosse il capo. «Nah.».

«Non vuoi...».

«No. Preferisco le sorprese.».

«No. tu preferisci l'ansia, 'kero!», sentì alla sua destra, mentre una piccola mano guantata gli toglieva dalle dita il calice e prendeva un generoso sorso di champagne. «Mh! Questo sì che è buono, 'kero!», poi Tsuyu si sporse oltre Izuku e regalò un sorriso all'ex compagno di classe: «Ciao Eiji-chan!».

«Che bello vederti Tsu-chan!», le sorrise Kirishima, di rimando. «Hai visto gli altri?» e lei gli indicò un punto lontano della sala, lasciando che si allontanasse con passo lieve verso quelli che erano stati i loro compagni di classe.
In quell'angolo defilato rimasero lei e Izuku, in silenzio, a passarsi il calice dall'uno all'altra, un sorso alla volta.

«Pensi di parlare, 'kero?».

«Scusami... Sono solo agitato.».

«'kero! Ci credo. È una bella decisione quella che hai preso e siamo tutti molto fieri di te!»

«Fieri? Tutti chi?».

«Mina, Ochaco-chan. Iida-kun... Shoto-kun...», poi fece una piccola pausa e gli sorrise: «A proposito... 'kero! Congratulazioni!», e allungò una mano nella sua direzione, stringendola in un piccolo pugno in attesa che lui ricambiasse quel saluto.

Izuku sospirò e le sorrise, di rimando, raccogliendo tutta la gioia che possedeva in quel momento di ansia pura. Ricambiò il pugno con un tocco leggero. «Grazie.», fece, prima di portare indietro la testa e bere l'ultimo sorso di champagne.

«Sembra tu stia andando al patibolo!», e la smorfia che Izuku fece la portò ad assumere un'espressione seria e ancora più composta.

Stavolta fu lei a fermare un cameriere e a prendere un nuovo bicchiere, ma solo per Izuku, strappandogli dalle mani quello vuoto con un moto di stizza.

«Vedi di farti passare quel muso lungo, 'kero! Guardati attorno: una cerimonia come questa molti se la sognano, lo sai?», e Izuku chinò il capo, osservando il perlage che saliva dal fondo della flûte. «Già.», poi tornò ad osservarla in quei suoi occhi scuri e sinceri. «Verrà, vero?».

Tsuyu sbattè un po' le palpebre: «Che razza di domande fai? Sembra che tu ti sia preso una bella commozione cerebrale, 'kero! Sicuro che ti hanno dimesso e non sei scappato dall'ospedale?».

Izuku sorrise. Stavolta per davvero. Un sorriso genuino per quella battuta e perché Tsu-chan era sempre la stessa e l'adorava per quello.

Si sentì strattonare per il mento e se la ritrovò davanti, che lo costringeva a piegarsi alla sua altezza, un cipiglio risoluto sul volto: «Bevi quella cosa, fai un respiro e raggiungi me e gli altri lì in fondo! Voglio la prima fila per la cerimonia e non voglio vedere musi e musetti, intesi?».

«Sissignora!», e la colse di sorpresa lasciandole un bacio tenero sul naso che la fece arrossire di colpo e fare qualche passo indietro, prima di voltarsi e andare a passo spedito dagli altri «Idiota! 'kero!».

Izuku seguì il consiglio, sorseggiando con calma lo champagne, rischiando però di strozzarsi quando il suo sguardo cadde verso l'entrata della sala.

La vista di Kacchan, in un impeccabile smoking, attirò la sua attenzione come una calamita fa con la polvere di metallo, tanto da farlo rimanere momentaneamente senza fiato.

L'aura di autorità che trasudava Katsuki Bakugō ad ogni passo lo faceva spiccare su tutti gli altri, un eroe tra gli eroi; ma Izuku conosceva il lato vulnerabile che si celava dietro a quell'immagine pubblica. Avevano camminato insieme, fianco a fianco, per un breve tratto, ma la strada da percorrere sembrava troppo lunga e tortuosa.

Accanto a lui notò una ragazza che forse aveva già visto nell'agenzia che gestiva con Kirishima. Ricordava fosse la sua segretaria, o forse era una sidekick assai meritevole, se si trovava ad una serata di gala come quella a fianco del favoloso Dynamight. Poteva essere anche la sua ragazza, magari, ma gli sarebbe importato poco in ogni caso.

Mise le mani in tasca, pulendo una macchiolina sulle scarpe lucide strofinando la punta destra sul polpaccio sinistro, dissimulando per un momento l'insistenza del proprio sguardo per controllare se le lunghe fughe delle piastrelle fossero dritte e pulite a dovere, tirate a lucido come ogni singolo eroe in quella stanza.

Lui aveva deciso di non presentarsi con un più uno.
Avrebbe anche avuto un paio di persone a cui chiedere, ma sarebbe stato controproducente a livello di stampa, di spiegazioni, di sguardi...

Sorrisi.

Katsuki elargiva sorrisi tirati e inchini distratti a chi lo fermava e gli rubava l'attenzione, due parole, un po' di tempo.

Ma lo sguardo di Katsuki non era per nessuno dei suoi interlocutori, perché passava febbrilmente in rassegna ogni volto che vedeva nella sala. Sapeva che ci sarebbe stato.

Entrambi sapevano che ci sarebbe stato l'altro. Lo sapevano, fin da quando era stato recapitato loro un invito su elegante carta vergata color crema, brevi manu direttamente da Hawks.

Fu uno sguardo, un singolo sguardo a cancellare i metri di distanza, le altre persone attorno a loro, i mesi di silenzi.

Katsuki chiuse gli occhi per tornare a dare attenzione alla biondina al suo fianco, distogliendo l'inopportuno contatto visivo per primo, lasciando in Izuku qualcosa di amaro dentro, come la consapevolezza che neppure quella sera avrebbero potuto seppellire un'immaginaria ascia di guerra.

Lo speaker richiamò l'attenzione di tutti con l'apertura formale della serata e con l'invito ad accomodarsi ai tavoli assegnati per la cena.
Izuku si ritrovò a sperare di essere abbastanza vicino a Kacchan per non sembrare un inquietante stalker.

I camerieri scortarono gli eroi, ciascuno al proprio tavolo, e Izuku si lasciò guidare fino a una tavola rotonda a cui erano sedute personalità di spicco del QSNC, Hawks compreso.

Il suo bicchiere fu riempito da gorgogliante vino rosso, corposo e tannico, come spiegò il cameriere.

Con lo sguardo cercò Kacchan, ma non lo scorse da nessuna parte nella grande sala, finendo per rivolgere l'attenzione al suo capo. «Bene, Deku! Che ci racconta il nostro adorato golden boy?».
Un sorriso finto gli curvò le labbra, il tono della voce era allegro e parole melense uscivano dalla sua bocca solo per compiacere i presenti al tavolo, vendendo se stesso e una buona dose di menzogne e fumo su un vassoio d'argento.

•••

Alla fine della cena, i rebbi della forchetta torturavano la superficie ricoperta di cacao di quella invitante fetta di torta che troneggiava sul piatto, bianco con un sottile bordo dorato.

Aveva parlato tanto e aveva cercato di lenire la secchezza della gola con un bicchiere di vino di troppo, le guance arrossate e la testa piacevolmente alleggerita rispetto a inizio serata.

Trasalì a sentire il microfono gracchiare e uno degli stuart deputati all'organizzazione lo prese delicatamente per un gomito, schiodandolo dalla sua staticità e dai ghirigori sul cacao. «Mi segua, Deku. La faccio accomodare vicino al palco.».

«Ma la torta?».

«Le lasciamo la torta, non si preoccupi...», disse il ragazzo, abituato a sentire richieste strane, mentre lo accompagnava e lo lasciava accanto al palco.

«Buonasera a tutti! È con immenso piacere che apro ufficialmente la cerimonia di premiazione di questo sesto Japanese Hero Award!».

I convenevoli che Hawks fece appena salito sul palco erano vuoti e sterili e neppure la sua naturale propensione ad avere la battuta sempre pronta riuscì a strappargli mezzo sorriso.

Attese con pazienza che sul palco tutti ritirassero i propri premi, le medaglie al valore per missioni o imprese speciali avvenute nell'ultimo anno, prima che partissero le premiazioni, quelle vere.
Quelle fatte più per il pubblico che si godeva quello spettacolo da casa; quasi tutto il Giappone si fermava per quell'evento che, negli anni, era diventato elegante ed esclusivo e non aveva nulla a che vedere con ciò che Izuku aspettava di vedere quando era solo un ragazzino.

Accanto a lui, Shoto attendeva a braccia conserte e gambe allargate, la stessa posa che assumeva spesso suo padre, a cui, suo malgrado, sembrava assomigliare sempre di più, soprattutto con quei capelli corti ai lati e un ciuffo laccato in maniera impeccabile verso l'alto.

«Ti dona il grigio.», si sporse l'amico verso di lui, facendolo trasalire e voltare del tutto il capo nella sua direzione.

«Grazie!», bisbigliò, un po' stranito da quell'uscita che aveva tanto il sapore di una conversazione fatta solo per attaccar bottone. «Anche a te il blu.».

Katsuki stava dall'altro lato del palco, le braccia incrociate al petto e il capo abbassato, cupo e pensieroso.

Quando poi l'occhio di bue lo illuminò, il suo cuore perse un battito nel ricevere da Kacchan uno sguardo strano, indecifrabile, con le iridi rosse che sembravano brillare sotto la luce mentre sorrideva.

E Izuku un po' si illuse che quel sorriso pieno, non tirato, fosse tutto per lui, quando invece non era così.

Saliva i tre gradini del palco con eleganza, una mano in tasca e ancora il sorriso sul volto, come se quel terzo posto non gli pesasse più di tanto, come se ormai non gli importasse più di punti o bonus o soldi.

Uno scroscio di applausi lo accolse, qualcuno dei partecipanti si alzò in piedi: i suoi amici più stretti ed eroi veterani che lo fischiavano e lo incitavano.

Izuku a stento trattenne un risolino nel vedergli il collo arrossarsi sotto i riflettori, l'imbarazzo che raggiungeva la punta delle sue orecchie e lo faceva borbottare al microfono ancora prima di prendere la parola.

«Sei riuscito a parlarci assieme?», chiese di nuovo Shoto, sporgendo appena il mento in un gesto delicato ad indicare l'eroe biondo.

«Non ci sono riuscito...»

«Pensi di farlo?».

Si guardarono negli occhi e, per un momento, Izuku vi lesse un giudizio di stupidità nei propri confronti. E questa cosa gli fece male.

Perché lo sapeva, di essere stato stupido eh.

Solo che percepirlo in qualcuno di vicino, in un amico, era peggio della mera autoconsapevolezza.

«Dovrei?», ma ricevette solo una scrollata di spalle in risposta, prima che il bicolore fosse investito da un fascio di luce e richiamato sul palco dalla voce calda e squillante di Hawks, che lo annunciava al secondo posto nella classifica.

Si stupì di vedere lui e Kacchan scambiarsi un saluto e un mezzo abbraccio, mentre gli applausi continuavano ad inondare la sala e i flash scattavano, illuminando pure lui, a tratti.

Sentì i ringraziamenti di Shoto, probabilmente rivolti ai fans o alla sua famiglia, come faceva ogni anno, ma non li ascoltò per nulla, troppo preso dall'arrovellarsi il cervello e ad osservare le mani dietro la schiena di Kacchan che si torcevano, preda di una strana agitazione, mentre la gamba destra tremolava e lo rendeva inquieto ai suoi occhi.

La sua figura era imponente se paragonata a quella di Hawks al suo fianco, che probabilmente non si era reso conto di nulla.

Ma lo capiva. Capiva l'agitazione di Kacchan, perché la stessa ansia l'aveva avuta anche lui, i giorni precedenti; e ce l'aveva tutt'ora, frammista ad un sentimento di corretta paura del giudizio degli altri e di orgoglio per essere tornato sulla vetta, come un...

«...un eroe tra gli eroi, degno successore del nostro compianto All Might. Ho l'onore di presentare di nuovo qui, su questo prestigioso palco, il nostro amato eroe Deku!».

Il fascio di luce colpì anche lui, costringendolo a chiudere gli occhi per una frazione di secondo prima di tirare le labbra in un sorriso e salire a sua volta sul palco, la sala che si alzava tutta in piedi, le voci che chiamavano il suo nome.

Ma era solo di una persona che lui voleva avere l'attenzione e che, in quel momento, gli aveva concesso solo uno sguardo di sottecchi.

«Grazie! Pe-per me è un vero onore essere qui!», iniziò, la voce rotta dall'emozione e gli occhi che cercavano un volto amico nella sala da poter fissare per sentirsi meno in ansia. Fu Ochaco a sorridergli, a fargli un gesto di coraggio con i pugni chiusi e a permettergli di continuare. Portò una mano al petto, un gesto istintivo, che anche chi lo stava guardando in televisione (come sua madre) potesse capire e sentire vero. «Vi ringrazio tutti, dal profondo del mio cuore, perché è grazie a voi che sono qui stasera. A voi, alla vostra fiducia e al mio impegno per rendere il Giappone più sicuro per ognuno di noi.».

Un nuovo applauso, un nuovo incitamento, mentre ritirava il trofeo, una piccola statua dorata di All Might nella sua posa classica, col pugno alzato. «Dedico questo premio a tutti voi! Plus Ultra!», aggiunse, prima di stringere ancora una volta la mano ad Hawks e passare a salutare Shoto con un abbraccio, un po' rigido, ma pur sempre confortante, accompagnato da gridolini, applausi e la caciara tipica degli ex studenti della sezione A.

Si stupì, quando anche Katsuki allargò le braccia e si lasciò abbracciare, un mezzo sorriso sul volto e un sussurro giocoso nell'orecchio che lo fece rabbrividire: «Bravo Deku.».

Come avrebbe dovuto prendere quell'affermazione? Come una presa in giro? O come un complimento? Cosa voleva dire quel ghigno strafottente?

La serata era iniziata in modo formale, con Deku che cercava di nascondere la propria incertezza dietro un sorriso gentile. Kacchan, invece, sembrava circondato da una barriera impenetrabile e gli era risultato sfuggente per tutta la serata, oltre che per tutto l'ultimo anno.

Allora perché quel gesto? E perché in quel momento?

C'era solo Shoto tra di loro, la sua fisicità a separarli. Eppure, era come se il divario si fosse ampliato. Di nuovo.

Ma si erano lasciati di comune accordo, no?

Allora perché aveva ancora questa sensazione amara che gli allappava lingua e gola e gli continuava a rivoltare lo stomaco, con l'unico desiderio di vomitare tutta la cena?

La voce calma di Hawks e un gesto delle mani placò la platea, prima che prendesse di nuovo in mano i suoi cartoncini e ci scorresse velocemente gli occhi sopra: « Signore e signori, stimati ospiti... Abbiamo premiato molti eroi questa sera. - volse un sorriso a Izuku - E ritrovato vecchie glorie proprio sul gradino più alto del podio...», un applauso timido partì dal fondo della sala, accompagnato da un "Vai Deku!" urlato quasi in contemporanea.

Hawks fece un gesto con la mano per calmare un po' gli animi: «Ma dopo queste premiazioni è un onore per me lasciare il leggio e la parola al nostro stimatissimo Dynamight.». Ci fu un chiacchiericcio diffuso, prima che un altro lungo applauso partisse quando l'eroe biondo si avvicinò al leggio e, con un cenno del capo, ringraziò Hawks per la gentilezza e la disponibilità nel dargli la parola.

Izuku gli guardava le spalle e ne avvertiva la tensione anche sotto gli strati di tessuto pregiato che lo avvolgevano. Notava il luccicore del sudore sulla pelle scoperta della nuca e la gamba che, traditrice, muoveva con impercettibili piccole scosse, tipiche di quando era nervoso. E, come se quello fosse un flusso invisibile, si ritrovò ad essere nervoso a sua volta, agitato, tanto che dovette mettere le mani nelle tasche per non torturarsi le dita.

Cos'era quella sensazione di freddo che provava alla base della schiena?

Lo notò pure voltare appena la testa, uno sguado fugace nella sua direzione prima di estrarre dalla tasca un piccolo blocco di foglietti. Si era scritto un discorso? Perché?

Katsuki si schiarì la voce e sistemò il microfono perché fosse un po' più alla sua altezza e non dovesse chinarsi troppo, le sopracciglia aggrottate mentre guardava il pubblico e prendeva un profondo respiro.

«Vai Bro!», urlò Kirishima dalla platea, strappando al biondo sul palco un mezzo sorriso.

«Voglio ringraziare tutti voi per lo splendido lavoro che avete fatto quest'anno. No. Che abbiamo fatto. Per la perseveranza che abbiamo avuto nella ricerca del bene e della giustizia.», e alzò gli occhi dai foglietti fino ad osservare un punto imprecisato tra il pubblico: «E ringrazio tutti i cittadini del Giappone, per il loro incrollabile sostegno nel nostro operato.».

Un applauso lo interruppe, accorato e reso breve dal suo schiarirsi di nuovo la voce, mettendo di nuovo tutti in soggezione.

Izuku pensò che fosse un bel discorso e fu fiero di Kacchan, della sua crescita, del suo essere un eroe e un uomo così intelligente e rispettato. Gonfiò il petto, in un sentimento di orgoglio positivo, buono, piantando gli occhi su quella schiena dritta davanti a lui, immaginandola sostenere tutti quanti con grazia e dignità. Non era un'immagine che avrebbe accostato prima a Kacchan, ma ora...

La voce di Katsuki tornò a diffondersi nella sala in penombra: «La serata di oggi non serve solo a celebrare i nostri risultati attuali; lo scopo di eventi come questi è anche quello di aprire la strada a un futuro migliore, per noi e per tutti quanti nel Paese.». Il frusciare dei foglietti veniva registrato dal microfono e sembrava essere l'unico suono presente in quella sala, come se tutti fossero col fiato sospeso, rapiti da parole tanto serie e vere, che pure Izuku si preoccupò che non si sentisse il battito pesante del suo cuore.

«Non è che molla, vero?», gli sussurrò all'orecchio Shoto, sbilanciandosi appena verso di lui, facendolo irrigidire.

Kacchan non può mollare. Eppure, quel pensiero era come un piccolo tarlo, entrato dal timpano per divorargli il cervello.

No. L'avrebbe saputo. Magari non dal diretto interessato, ma l'avrebbe saputo.

Strinse le labbra e alzò il mento nel tempo di un respiro più profondo, le mani che si serravano a pugno nelle tasche.

Kacchan non può mollare.

«Essere un eroe non è un'impresa facile, lo sappiamo tutti. E non parlo di allenamenti, di scontri o inseguimenti. Parlo di fiducia. Quella dei singoli cittadini. Quella della polizia. E la nostra, una fiducia reciproca che ci spinge sempre a dare il meglio. Ed è proprio la fiducia che la gente comune e che alcuni... - deglutì – Che alcuni di voi hanno riposto in me che mi ha spinto a voler raggiungere nuovi traguardi. A cambiare rotta.»

Il battito cardiaco di Izuku accelerò, un nodo si formò nel suo stomaco. Le parole di Katsuki sembravano pesanti, quasi minacciose.

«Con effetto immediato», continuò Katsuki, con voce ancora più greve, graffiata e seria, «ho deciso di intraprendere uno stage internazionale per il prossimo anno. Mi è stata proposta una collaborazione con l'agenzia di Cathleen Bate a Washington e ho accettato.».

Sussulti e grida di eccitazione e incredulità riempirono la sala, ma Izuku li sentì a malapena. Poteva sentire le pareti intorno a lui chiudersi, una sensazione soffocante che gli stringeva il petto.

Nonostante la confusione che si era creata, gli applausi, i fischi di contentezza, Katsuki non smise di parlare, lo sguardo tornò su quei foglietti sudaticci su cui le parole stampate iniziavano a confondersi: «Andrò in America, per imparare dai migliori del mondo e riportare indietro tutto ciò che ho imparato per rendere il nostro amato Giappone ancora più sicuro.»

Si ritrovò a guardare il sorriso debole di Katsuki mentre stringeva la mano di Hawks e quella degli altri membri del consiglio, saliti sul palco per congratularsi.

«Io... So che potrebbe essere inaspettato.», aggiunse Katsuki, notando solo la reazione del pubblico, sorpresa e contenta, piuttosto che l'espressione indecifrabile che mascherava il dolore opprimente provato da Izuku. «Ma so nel mio cuore che questa è la cosa giusta da fare. Il Giappone ha bisogno di qualcosa di più... Il Giappone merita una versione migliore di me, e sono disposto a fare qualsiasi cosa affinché ciò accada.».

Mentre le ultime parole di Katsuki si confondevano tra il casino, mentre Shoto si avvicinava mettendogli una mano sulla spalla e allungandogli l'altra mano per complimentarsi, la mente di Izuku tornò al tempo trascorso insieme. Tornò alle parole che lui gli aveva rivolto quando era tornato dalla sua esperienza europea.

Izuku si morse l'interno della guancia, quasi a farlo sanguinare, mentre gli occhi sembravano torturati da tizzoni ardenti per evitare che fuoriuscissero lacrime.

Era fiero di lui. E triste. Tanto triste.

Di quella tristezza che ti avvolge come una morbida coperta di lana e ti tiene caldo e ti fa prurito. Ovunque.

Fu un solo sguardo, quello che si scambiarono mentre Katsuki si girava. E i suoi occhi di rubino sembravano chiedergli scusa.

Però sapeva di meritarsi quel dolore e quella tristezza. Era il giusto contrappasso, no?

Forzò un sorriso e un cenno del capo e, con un passo e un piccolo salto, scese a ritroso dal palco, sparendo nella penombra della sala, mentre Katsuki veniva preso e stritolato da Kirishima in un abbraccio che aveva ben poco di formale o di adatto per una cerimonia ufficiale.

Izuku aveva le gambe come di gelatina mentre camminava. Aveva bisogno di aria. Aveva bisogno di respirare, perché gli sembrava di non averlo fatto fino a quel momento.

I tacchi delle scarpe buone calcavano il pavimento lucido del corridoio fino a raggiungere il bagno degli uomini; pure quell'ambiente era elegante nelle sue superfici scure, con i lastroni di marmorino nero e luccicante sotto i riflessi giallastri delle lampade a muro.

Di fronte allo specchio, Izuku lasciò che la diga si rompesse, come non faceva da un po'.

Vide le lacrime scorrere lungo le sue guance nel suo riflesso, mentre si puntellava con le mani sul ripiano del lavabo. Non staccò gli occhi da se stesso, osservando la propria faccia contorcersi nel pianto.

Era questo?

Era questo ciò che aveva provato Kacchan quando lui se n'era andato?

Nella sua mente le parole di Katsuki risuonavano come un disco rotto. Alzò un pugno, con la chiara intenzione di sbatterlo sul ripiano. Ma lo posò, con calma, stringendo le dita tanto da conficcarsi le unghie corte nel palmo, un singhiozzo che gli uscì troppo forte e il naso che gli colava come quando aveva sedici anni.

Un altro sguardo allo specchio.

"Sii fiero di lui."

Non riuscì a riconoscere a chi appartenesse la voce nella sua testa. Ma non importava, perché quella era la frase giusta al momento giusto.

Sii fiero di lui. Si ripeté.

Il pugno si allentò e la mano andò ad aprire il rubinetto.

L'acqua era gelida e ci mise sotto le mani a coppa, chinandosi per sciacquarsi la faccia.

Una.

Due.

Tre.

Tre volte. Prima di gocciolare dal mento fin sulla giacca grigia e sulla camicia, prima di raggiungere con la mano il dispenser di salviette e asciugarsi con lentezza estenuante, la mente in un momentaneo arresto per la temperatura troppo fredda sulla pelle.

Un respiro.

Due respiri.

Un tiro di sciacquone e un mezzo cigolio.

Passi che lo avvicinavano.

Tirò via la salvietta dagli occhi e si soffiò il naso. Non fece molto caso a chi lo affiancò e si lavò le mani.

Un saluto di cortesia, un inchino abbozzato solo per deferenza. Probabilmente chi era in bagno non si aspettava di trovarsi proprio di fianco al grande Deku.

Izuku trovò il coraggio e si guardò di nuovo allo specchio: le guance erano arrossate, gli occhi avevano subìto la stessa sorte. Si ravvivò con una mano i capelli e tirò su le spalle prendendo un profondo respiro.

Si voltò e fu un momento, uno sguardo verso il basso a notare il laccio allentato della scarpa destra.
Si chinò con un sospiro rassegnato e rifece l'asola, alzandosi senza nemmeno guardare.

Mai errore fu più grande.

«Ehi.».
Quella voce...

Alzò il volto: «Oh. E-ehi!».

A un metro di distanza c'era Katsuki, in piedi di fronte a lui. Bello come il sole in primavera.

«Come stai?».

Izuku alzò le spalle con noncuranza, anche se, dentro, si stava sgretolando tutto. Da quanto non si parlavano? «Sto... E tu?».

Lo vide scuotere le spalle e spostarsi verso il lavabo.
Acqua scrosciante.
Tre dosi di sapone.
Trenta secondi.
Li contava sempre, Izuku. Per vedere se era sempre uguale il tempo in cui Kacchan si lavava le mani o se sforava o se lo accorciava. Trenta-fottuti-secondi.

Il cuore rallentò quando lo vide osservarlo dal riflesso mentre scrollava l'acqua dalle mani prima di asciugarle.
Palmo. Dorso. Faceva una pallina con la carta e la gettava distrattamente nel cestino.
Non lo mancava mai.

E tutti questi piccoli gesti gli fecero stranamente bene; furono un toccasana per i suoi nervi, gli calmarono il cuore, permettendogli di respirare un altro po'. Giusto per non morire.

«Non... Non volevo prenderti alla sprovvista.».

«Non mi hai preso alla sprovvista, Katsuki.».

Vide il riflesso stringere la mascella.

Entrambi avevano deciso di concentrarsi sulla propria carriera e di crescere individualmente.
Entrambi avevano deciso che era meglio lasciar perdere la loro relazione per non arrivare a distruggersi e per non dare più modo a nessuno di trovarli deboli.

Entrambi i loro occhi, però, raccontavano una storia diversa.

Tra loro gravava un silenzio pesante e carico di parole non dette. La mente di Izuku correva, cercando di trovare qualcosa da dire, qualcosa per spezzare quella tensione imbarazzante. Qualcosa per tenerlo ancora un po' lì. Ma prima che potesse farlo, Katsuki parlò.

«Izuku...» iniziò, la sua voce più dolce di quanto lui avesse mai sentito prima. Lo vide perfino curvare le spalle mentre rilasciava un respiro trattenuto. «Volevo solo trovare il modo per dirti che sono fiero della tua vittoria di oggi. Te la meriti.».

Il cuore di Izuku si gonfiò per quel complimento genuino, ma una parte di lui non poté fare a meno di sentirsi amareggiata. Essere di nuovo il primo non era così soddisfacente come aveva pensato. «Grazie.», riuscì a rispondere Izuku con un piccolo sorriso. «Tu non...».

Il biondo alzò le spalle, quasi con rassegnazione: «Non mi interessa. Primo, secondo, terzo... È sempre stato un pro forma.». Lo vide ghignare. «Tanto lo sanno tutti che il migliore sono sempre io!».

Quell'affermazione strappò un sorriso a Izuku, che abbassò la testa per un momento, i riccioli verdi che gli ricadevano sulla fronte mentre si osservava la punta delle scarpe. «Giusto... Te ne vai davvero, quindi...», disse, a voce tanto bassa che Katsuki fece quasi fatica a sentirlo.

«Ah?».

«Qui-quindi te ne vai davvero, eh?». Izuku ruppe il breve silenzio, la sua voce tremava leggermente dietro il sorriso tirato.

«Sì.» Il tono di Katsuki era burbero, ma il suo riflesso tradiva un accenno di vulnerabilità negli occhi.

«Credevo non ti piacessero i gaijin.».

«E continuano a non piacermi. Ma io... Devo farlo. Credo che tu possa comprendere meglio di chiunque altro.».

Ed era vero. Gliel'aveva urlato, tempo prima. Aveva sottointeso che lui non avrebbe mai avuto il coraggio di farlo. Quella scelta smentiva ogni sua parola, dalla prima all'ultima. Ed era davvero felice che fosse così, felice di essersi sbagliato.«Sono contento della tua decisione. Lo meriti più di tu-».

«Me lo sono guadagnato.», sbottò. «Ed è da Urakawa che ci pensavo.».
Il suo sguardo era intenso, carico di tante emozioni che Izuku non riusciva ad allineare. Ma ci vedeva tanta determinazione e ne fu contento.
Col cuore stretto in una morsa, ma contento per lui.

«Scusa.», disse con tono fintamente scherzoso. «Credo sia colpa mia...».

Rimasero lì ancora per qualche istante prima che Katsuki rompesse di nuovo il silenzio, abbassando il capo per poi tornare con gli occhi in quelli di Deku. «Dovrei andare...» disse, voltandosi lentamente verso la porta. Izuku provò una fitta di tristezza al pensiero che Kacchan se ne andasse, che uscisse da quella porta così come dalla sua vita. Nonostante le difficoltà passate, teneva ancora profondamente a lui e odiava il pensiero di averlo così lontano per un anno intero.

«Aspetta!», sbottò prima che potesse trattenersi, prima che il raziocinio gli tappasse la bocca e mettesse a zittire i sentimenti. Katsuki si voltò nuovamente verso di lui, con le sopracciglia aggrottate per la confusione.

«Tu... hai qualche programma per stasera?» chiese Izuku, sentendosi improvvisamente audace e desideroso di passare un po' di tempo con Kacchan prima che se ne andasse. Non aveva idea di cosa fare o di cosa proporgli; sperava solo che accettasse, che anche lui volesse passare del tempo assieme. Solo un po', come una volta. Fosse anche solo una chiacchierata sul terrazzo, spalla contro spalla.
Avrebbero contravvenuto alle loro stesse regole, ma era un evento unico, era una giusta causa, si disse.

E, poi, cosa gli costava tentare? Il no c'è l'aveva già in tasca, giusto?

L'espressione di Katsuki si addolcì in un piccolo sorriso. «Nessun piano, in realtà.», rispose semplicemente.
La tensione tra loro era palpabile, densa come l'aria prima di un temporale.

«Neppure con...».

«No. Dai... Lo sai che è solo la mia segretaria.», fece il biondo, tornando sui suoi passi con esasperante lentezza. «Quindi? Avevi pensato a qualcosa?».

«Io... Non lo so...», e abbassò il capo per un momento, colto alla sprovvista e preda del battere incessante del suo cuore, manco fosse uno scolaretto alla prima cotta.

Così tornò a guardarlo, mentre lui era ancora un po' più vicino di prima, con le mani che si levavano dalle tasche e l'indice della mano destra che s'incastrava sotto il papillon di Izuku, tirandolo leggermente con l'intento di sbilanciarlo. L'espressione di Kacchan era seria, ma in quei suoi occhi color rubino ci vide un fuoco, letteralmente. Un fuoco che gli scaldava le guance e le labbra e ogni centimetro del corpo ancora vestito su cui, volente o nolente, lui posava lo sguardo.

«Sei carino...», pronunciò Katsuki con voce bassa, eco di un pensiero che era sfuggito al filtro del cervello, torturando tra le dita il tessuto pregiato del papillon.

«A-anche tu...», si ritrovò a balbettare come un deficiente, la gola riarsa e una paralisi immotivata quando Katsuki gli aveva sfiorato il naso col proprio, alzandosi di poco sulle punte dei piedi.

Izuku non seppe dire chi si fosse mosso davvero per primo, ma all'improvviso furono premuti l'uno contro l'altro, le labbra che si scontravano in un bacio disperato. I loro cuori battevano l'uno contro il petto dell'altro, scoppiando fuori sincronia come un tuono in un cielo tempestoso. La lingua di Izuku danzava con quella di Katsuki, affamato ancora di quella passione ardente che consumava le labbra di entrambi. Katsuki aveva bisogno di quelle labbra, di quelle guance calde e lentigginose. Ne aveva bisogno come l'aria, come un tossicodipendente fa con la sua dose; aveva bisogno del tocco di Izuku per stare bene.

Izuku afferrò la cintura di Kacchan, attirandolo più vicino, i fianchi a scontrarsi rudemente, a sfregarsi, a simulare qualcosa che avevano perso per troppo tempo.

Le mani che vagavano, afferrando il tessuto, cercando la pelle nuda sotto strati di abiti scomodi.

Un mugolio sfuggì dalle labbra di Izuku quando Katsuki spostò le mani sul suo sedere, afferrandoglielo a palmo pieno da sopra il tessuto, stringendolo fermamente prima di rilasciarlo per trascinare le mani verso l'alto, verso il centro della schiena, ad aggrapparsi alla sua giacca elegante. Erano spinti contro il ripiano nero dei lavandini ad ogni passo che facevano, scambiandosi la posizione, cercando una dominanza sull'altro che in realtà non c'era.

Katsuki scacciò ogni pensiero di esitazione o preoccupazione e se lo trascinò con sè.

Inciamparono all'indietro di qualche passo, nel vuoto del breve corridoio, senza interrompere il loro bacio anche quando entrarono in un angusto bagno e chiusero la porta dietro di loro. I vestiti venivano tirati a casaccio, sbottonati con foga, rivelando pelle pallida e muscoli definiti. Izuku non poteva credere che stesse succedendo tutto questo, che dopo tutto questo tempo separati e cercando di voltare pagina, adesso erano lì, aggrovigliati l'uno all'altro come se nulla fosse mai cambiato, come i tralci di un'edera che sa esattamente dove aggrapparsi.

Katsuki armeggiò con la chiusura della porta prima di spingerlo contro il muro di mattonelle fredde, con una forza tale da far sussultare Izuku di piacere.

Era un tornare all'inizio, a quando avevano il desiderio di esplorarsi, di cercarsi e viversi come mai avevano fatto.

Era rimettere in fila i giorni spesi ad ignorarsi e calciarli, uno a uno.

Le dita di Izuku affondarono tra i capelli biondi e profumati di Katsuki mentre le sue labbra scendevano lungo il collo, pizzicando tra i denti la pelle sensibile lungo il percorso di discesa.
Succhiandola nel punto più morbido tra la gola e la clavicola.

Le mani di Katsuki gli esploravano frettolosamente il torace, torturando appena i capezzoli rosei di Izuku, mentre la bocca era impegnata a tracciare linee che univano la miriade di efelidi che aveva tra lo sterno e la pancia; Kacchan gemette piano sulla pelle tesa del suo addome, slacciando con ferocia la cintura di pelle, armeggiando con il bottone e la zip e il gancio...

Imprecò a mezza voce, un po' perché stava maledicendo i vestiti eleganti e tutti i relativi orpelli, un po' perché il vociare di persone entrate nel lussuoso bagno lo stava infastidendo. Con un gesto rude abbassò i pantaloni e le mutande a Izuku, che gemette di soddisfazione nel sentirsi finalmente libero da quelle costrizioni di tessuto; solo che la voce gli uscì di mezzo tono più acuta del previsto e Kacchan si affrettò a infilargli un paio di dita in bocca, lasciandosele succhiare per farlo stare buono. «Zitto!», gli intimò in un sussurro, prima di tirare fuori la lingua, assicurandosi di avere gli occhi verdi solo su di sé, e iniziare a leccargli la punta del membro lentamente.

Li vide, quegli occhi verdi che si ribaltavano all'indietro mentre glielo succhiava ancora un po', prima di staccarsi da lui, risollevarsi afferrandogli la vita per girarlo in modo che Izuku fosse rivolto verso il muro. Mani forti e leggermente umide gli afferrarono saldamente i fianchi mentre Katsuki si aggrappava a lui da dietro, brividi che si dipanavano dai suoi polpastrelli ruvidi come una ragnatela sulla schiena e sui fianchi di Izuku. Il fresco delle piastrelle, premute contro la guancia e il petto, penetrò nella pelle nuda di Izuku solo per un attimo, donandogli sollievo, prima di essere obliterata dalle labbra morbide di Kacchan che gli si posavano sul collo, i suoi denti che gli graffiavano dolcemente la carne sensibile della nuca, mentre veniva torturato dal membro di Katsuki, sfregato con decisione nel solco delle natiche.

«Ti prego...», supplicò sottovoce.

«Taci!».

Erano ansimi, più che sussurri.

Katsuki ringhiò, basso e primordiale, mentre spingeva Izuku contro il muro, i loro fianchi che si stringevano insieme in una danza familiare.

Katsuki gli afferrò i capelli e lo costrinse ad inarcare la schiena, voltandogli la testa con forza, sporgendosi verso di lui in una posizione scomoda solo per dargli un bacio lento, umido e così ricco di saliva da averne abbastanza per sputargli tra le natiche e torturarlo con un dito, prima di avvicinarlo ancora.

Izuku gemette in quel bacio, mentre Kacchan affondava in fretta le dita in profondità per prepararlo.

Le dita di Izuku afferrarono il freddo, immacolato distributore di carta igienica, le unghie che avrebbero voluto affondare nel metallo mentre i fianchi di Katsuki sbattevano contro i suoi, implacabile nella sua ricerca di liberazione.

«Kacchan...», piagnucolò Izuku mentre Katsuki era dentro di lui, caldo ed esigente. «Più veloce.», supplicò in un sussurro.

Ansimò mentre lo penetrava, più forte e più veloce.

Il mondo si ridusse a loro due, la musica e le chiacchiere fuori dalle porte che venivano aperte, i rumori di chi entrava in bagno e poi scappava subito, intuendo cosa qualcuno stesse facendo... tutto ciò che era fuori da loro fu soffocato dai loro respiri pesanti e dai gemiti trattenuti di piacere. La mano di Katsuki si avvolse attorno al cazzo di Izuku, accarezzandolo a tempo con le sue spinte.

La vista di Izuku si offuscò e si sentì vacillare sull'orlo del baratro, pronto a cadere nell'abisso.

I loro nomi cadevano l'uno dalle labbra dell'altro come una preghiera sommessa, sembrava che tutto il resto svanisse: le loro discussioni passate e le parole offensive sembravano insignificanti rispetto all'amore e al desiderio che condividevano in quel momento.

I loro corpi si muovevano all'unisono, il loro respiro affannoso e caldo nello spazio ristretto del bagno. Il sudore imperlava la loro pelle.

Con un'ultima, forte spinta, Katsuki si seppellì profondamente dentro Izuku, il suo nome pronunciato contro la sua nuca, un brivido che li percorse entrambi e sembrò quasi bloccarli insieme. Entrambi si immobilizzarono, sospesi nel momento mentre la frenesia dell'orgasmo si riversava su di loro come un'onda di marea, cancellando ogni pensiero tranne il piacere che scorreva attraverso i loro corpi ancora uniti.

Katsuki si ritrasse con calma, permettendo a Izuku di accasciarsi contro le piastrelle fresche per cercare un po' di sollievo, mentre si affrettava a pulirlo con un po' di carta per non fare un ulteriore disastro, come lo schizzo dell'orgasmo di Deku che era finito sulle piastrelle scure e ora stava colando a terra in un percorso lento ed esasperante.

Katsuki si sistemò in fretta, uscendo dal cubicolo il prima possibile, gli occhi spalancati, la morte nel cuore.

Izuku fu più lento e lo raggiunse, scambiandosi un'altra occhiata presso il lavandino, da riflesso a riflesso.
Il bagno sembrava deserto e, davanti allo specchio, si diedero l'ultima sistemata prima di rientrare alla festa.

Izuku lo vide lavarsi le mani con la solita cura maniacale. «Dobbiamo parlare, Kacchan.».

«Di cosa?», il suo tono s'era fatto improvvisamente duro e serio.

«Dell'America. Di...questo.».

«Questo cosa? Non era così che funzionava con te? Una scopata e via?»

Una risatina nervosa uscì dalle labbra di Izuku: «Tu non sei tipo da una scopata e via!»

Katsuki si voltò, guardandolo volutamente in faccia, senza ausilio di specchi o altri artifici: «In realtà non so più che tipo sono...», disse, con la sua solita voce graffiata

«Allora perché non provi a restare?».

«Perché gli accordi erano altri e abbiamo già trasgredito. E poi non è quello che vuoi.».

«Accordi o meno, io voglio che resti. E tu? Cosa vuoi tu, Kacchan?».

«Non lo so. Andare. Restare. Alla fine... Non lo so cosa voglio Izuku. Perché ho capito che vorrei questo. Con te. Ma vorrei anche andarmene, perché... Forse perché hai sempre avuto ragione e il codardo tra noi due sono io. Quello troppo statico, fossilizzato su tante cose.».

L'espressione di Izuku sembrava quella di un cane bastonato, mentre si avvicinava a Kacchan, posandogli la fronte sulla spalla: «Dio se mi sei mancato...».

«Lo so, nerd.», gli rispose il biondino, posandogli una mano sulla testa, premendoselo contro nell'unico gesto di affetto che aveva ricevuto da lui nell'ultimo anno. «Come tu sai bene che ho bisogno andare in America...».

Un grugnito di disapprovazione fece vibrare Izuku, strappando un debole sorriso a Katsuki.

«Lo so. - mugugnò - E non te lo impedirò...», e rialzò la testa, scrutandolo in quei suoi occhi rossi che sembravano quasi brillare sotto le luci.

Una carezza inaspettata gli fece piegare la testa a posare la guancia sinistra sul palmo ruvido di Kacchan, prendendosi quella rara coccola fino alla fine. «Ma puoi portarmi in aeroporto, nerd. O venirmi a trovare...».

Adorabile.

Kacchan era adorabile anche dopo tutti gli anni che avevano trascorso più o meno vicini, con le punte delle orecchie arrossate e lo sguardo sfuggente per aver detto qualcosa per lui troppo dolce.

Izuku sorrise, prendendogli il volto con entrambe le mani e stampandogli un bacio leggero sulle labbra.

Ma a Katsuki non bastava.
«Cazzo se mi manchi anche tu...», sussurrò prima di premere le labbra contro quelle di Izuku.

E quel loro bacio era un misto di desiderio, dolore e riconciliazione. Era come se stessero cercando di recuperare in un attimo i mesi persi. Il suono dei loro respiri affannosi riempì la stanza mentre gradualmente si staccavano dal loro intenso bacio.

«Io... Ti amo ancora.» sussurrò Izuku, con la fronte appoggiata a quella di Kacchan. Le lacrime salirono agli occhi del biondino mentre annuiva, non fidandosi della propria voce per rispondere.

Un anno.
Avevano infranto una promessa che s'erano fatti un anno prima.
Ed entrambi sapevano il motivo.
Sapevano che, per quanto si sforzassero, per quanto ci fossero miglia a separarli o assurdi accordi, tornavano sempre l'uno dall'altro.

Fosse per un favore di lavoro, per restituire qualcosa di vecchio o per incrociare uno sguardo in una sala gremita di persone.

Calamite dietro un vetro, che si attraggono senza mai toccarsi.

Rimasero lì ancora per qualche istante, le braccia lungo i fianchi, le dita delle mani intrecciate, prima che Katsuki si allontanasse, passandosi furiosamente le mani sulle guance a scacciare quelle insulse lacrime. «Cristo... Devo andare.», disse piano, lo sguardo rivolto all'amico di una vita, al compagno mai perduto, all'amore ritrovato.
Il cuore di Izuku perse un battito al pensiero di lasciarsi e si strinse con forza l'interno della guancia per evitare di scoppiare a piangere.

«Mi prometti una cosa, Izuku?».
Era serio.
Mortalmente serio.
Anche se si era avvicinato di nuovo e con i pollici gli sfiorava le guanciotte che teneva schiacciate tra i palmi, rilasciandole solo per farlo parlare. «Se posso...», riuscì a borbottare.

Katsuki deglutì. «Aspettami.», pronunciò con un filo di voce e lo sguardo sfuggente.

«Aspettarti?» e lo vide annuire. Izuku ne sorrise, il cuore gonfio di sollievo.

«Accompagnami e aspettami, Izuku

Attesa.
Da parte di entrambi.
Gli occhi che si scrutavano, scintillando, umidi di lacrime, sotto quelle luci basse e fastidiose.

«Va bene.», disse infine Izuku, con filo di voce e un sorriso dolce, uno di quelli che scioglievano il cuore a Katsuki e lo rendevano malleabile come creta. «Ti accompagno e ti aspetto da una vita. Un anno in più cosa vuoi che sia?».

Katsuki emise un sospiro di sollievo prima di trascinarselo contro in un altro bacio, pieno di speranza e di promesse per un loro futuro insieme.

Per davvero questa volta.

 

Oh once in your life you find someone
Who will turn your world around
Bring you up when you're feelin' down
Yeah nothin' can change what you mean to me
Oh there's lots that I could say
But just hold me now
'Cause our love will light the way
And baby you're all that I want
When you're lyin' here in my arms
~ Brian Adams ~

 

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