Star Trek Destiny Vol. VI: Lo Specchio infranto

di Parmandil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Spes, ultima dea ***
Capitolo 3: *** Confederazione ***
Capitolo 4: *** Sic transit gloria mundi ***
Capitolo 5: *** Si vis pacem, para bellum ***
Capitolo 6: *** La rana bollita ***
Capitolo 7: *** Veritas filia temporis ***
Capitolo 8: *** Il cigno nero ***
Capitolo 9: *** Inter arma enim silent leges ***
Capitolo 10: *** Homo homini lupus ***
Capitolo 11: *** Mors tua, vita mea ***
Capitolo 12: *** Fortuna favet fortibus ***
Capitolo 13: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Star Trek Destiny Vol. VI:
Lo Specchio infranto
 
 
LA DESTINY DOVEVA ESPLORARE IL MULTIVERSO,
MA QUALCOSA È ANDATO STORTO
E L’EQUIPAGGIO È STATO UCCISO.
ANNI DOPO, UNA BANDA DI CONTRABBANDIERI
HA ABBORDATO LA NAVE ALLA DERIVA,
VENENDO RISUCCHIATA NEL MULTIVERSO,
SENZA LE COORDINATE DI RITORNO.
AGLI AVVENTURIERI NON RESTA CHE
ESPLORARE UNA REALTÁ DOPO L’ALTRA,
IN CERCA D’INDIZI SULLA VIA DI CASA,
MENTRE CERCANO DI RISCOPRIRE IN LORO
QUELLO SPIRITO CHE CREÓ LA FEDERAZIONE...
 
 
-Prologo:
Data Stellare 2595.291
Luogo: Kurill Primo (Quadrante Gamma)
 
   I due soli di Kurill, una brillante stella di tipo F e una leggermente più fioca di tipo G, erano prossimi al tramonto. La loro luce radente tingeva d’arancio gli svettanti palazzi della città, e oltre i confini di questa, la vasta foresta primordiale che la circondava. Non poteva esserci contrasto più stridente. Da un lato vi era l’iper-tecnologica e frenetica città dei Vorta, gli amministratori e gli scienziati del Dominio, secondi solo ai divini Fondatori. Dall’altro ecco la giungla dagli alberi secolari, sui cui rami ancora si dondolavano pigramente i loro cugini scimmieschi. Tutti i Vorta erano così, prima che i Fondatori li elevassero con l’ingegneria genetica, donandogli una vita superiore... ma privandoli di tutto ciò che la rendeva degna d’essere vissuta. E ora una rampolla di quella specie cliente si aggirava sulla terrazza panoramica del complesso universitario, in preda a un’inquietudine sconosciuta ai suoi simili.
   Giely-9, nona esponente di un’illustre e ininterrotta linea genetica di cloni, si era sempre sentita diversa dai suoi simili. Fin dal giorno in cui era emersa, già adulta, dalla vasca di gestazione, aveva avvertito questa misteriosa dissonanza. Tutti i Vorta erano lieti d’ereditare il ruolo dei loro predecessori, entrando nella ben oliata macchina statale del Dominio. Tutti erano intimamente convinti che i Fondatori fossero dèi, e andassero serviti e riveriti per questo. Tutti si sentivano realizzati nel servire lo Stato, ciascuno nel proprio campo, senza l’interferenza d’interessi particolaristici. Tutti, infine, sapevano che un giorno avrebbero attivato la loro ghiandola dell’eutanasia per fare largo ai propri successori. Era l’ordine delle cose, come lo avevano stabilito i Fondatori; e gli dèi non sbagliano. Ma allora perché Giely-9 si sentiva così piena di dubbi e timori, e così vuota di risposte soddisfacenti? Cos’era quella strana sete di verità che la rendeva irrequieta, quasi febbricitante?
   La giovane Vorta passeggiò avanti e indietro sulla terrazza del palazzone in cui era vissuta per tutta la sua breve vita. Il nome esatto di quel luogo era Centro di Formazione. In pratica era una via di mezzo tra un ospedale e una scuola. Lì i Vorta erano clonati, fatti crescere in vitro ed estratti una volta maturati. Lì vivevano in camerate, rigidamente controllati, studiando per alcuni anni tutto ciò che non era inscritto nella loro memoria genetica. Lì infine affrontavano gli esami, per dimostrarsi pronti ad assumere il loro ruolo nella società. Giely-9, ad esempio, era destinata a diventare un medico. L’estrema complessità degli studi aveva richiesto una permanenza più lunga nel Centro di Formazione rispetto alla maggior parte dei suoi simili. La giovane aveva visto molti Vorta uscire dalle vasche, studiare e poi andarsene, mentre lei era ancora immersa negli studi. Ma ora il momento tanto atteso – e temuto – era giunto anche per lei. Quella mattina aveva sostenuto gli esami e presto avrebbe conosciuto l’esito. Se li aveva superati, com’era assai probabile, sarebbe partita presto per il suo luogo di lavoro. In caso contrario, beh... le conseguenze potevano essere spiacevoli. A chi falliva era data una seconda, e talvolta persino una terza possibilità. Ma se si falliva ancora, si era giudicati cloni indegni e malriusciti. E nel Dominio non c’era posto per l’imperfezione...
   Giely-9 aggrottò la fronte, osservando il tramonto. Non era preoccupata dall’eventualità di fallire. Ormai padroneggiava la medicina, era convinta d’essere andata bene. No, al contrario dei suoi compagni, lei temeva di superare gli esami. Temeva di lasciare quel posto – l’unico che avesse mai conosciuto – e d’essere spedita su un pianeta remoto, a servire i Fondatori per tutti i giorni della sua vita, senza mai conoscere altro pensiero o soddisfazione. Temeva che la sua esistenza fosse identica a quella di Giely-8, e della 7, e via all’indietro fino alla numero 1, vissuta secoli prima. Che senso aveva vivere, se la sua esistenza era identica a quelle passate e persino alle future? E dire che il mondo stesso sembrava raccontare un’altra storia, un’altra verità. Quel giorno, ad esempio, quel giorno che stava terminando, non era del tutto identico ai precedenti. E quel tramonto era una precisa iterazione del “tramonto” che non si sarebbe mai ripetuta identica. Mai più le nuvole avrebbero formato quell’esatta configurazione, con quelle sfumature di colore. Mai più il vento avrebbe stormito in quel modo preciso tra le fronde dell’antica foresta, strappando quelle singole foglie. E anche gli abitanti della città, per quanto si sforzassero di ripetere i gesti abituali, non li avrebbero mai più compiuti in quel modo esatto. Lei stessa, Giely-9, non avrebbe passeggiato mai più su quel tetto, aspettando l’esito degli esami...
   «Ehilà! Come sta la mia Vorta preferita?» chiese un vocione alle sue spalle.
   Giely-9 trasalì, non di paura ma di gioia, avendolo riconosciuto. Si voltò di scatto, con gli occhioni viola spalancati e un sorriso radioso sul visetto cereo. «Ome’tikal! Che ci fai qui? Credevo fossi ancora nel Quadrante Alfa!».
   Il grosso Jem’Hadar le venne incontro, lieto anche lui, sebbene il suo volto scaglioso non fosse fatto per sorridere, il che gli dava un’espressione strana. Se i Vorta erano i cervelli del Dominio, i Jem’Hadar erano le braccia. Ed erano braccia armate... estremamente armate. La loro ferocia in battaglia era leggendaria, la loro devozione ai Fondatori assoluta. Le loro armate avevano fatto tremare interi mondi, sgretolato intere civiltà. Eppure... come Giely-9 era una Vorta sui generis, così anche Ome’tikal era un Jem’Hadar peculiare. Mentre gli altri erano sempre seri, lui era ironico. Mentre gli altri parlavano poco, e solo di lavoro, lui talvolta si perdeva in chiacchiere, persino con gli estranei. In ciò era facilitato dal fatto d’essere un Onorevole Anziano, come si definivano i pochi veterani. Essendo progettati solo per combattere, infatti, i Jem’Hadar avevano un arco vitale assai accelerato: a vent’anni diventavano Onorevoli Anziani e nessuno aveva mai raggiunto i trenta. Ome’tikal ne aveva venticinque, un’età veneranda. Questo gli garantiva alcuni piccoli privilegi: in particolare aveva un po’ di tempo libero, da usare a sua discrezione. Volendo poteva persino lasciare la guarnigione cittadina, aggirarsi per le strade e visitare gli edifici pubblici. E il vecchio Ome’tikal sfruttava appieno i privilegi che si era guadagnato, sopravvivendo a tante battaglie. Mentre gli altri Anziani usavano il loro “tempo libero” per pattugliare le strade, non avendo altro che il dovere in testa, lui ne approfittava per andare da Giely a chiacchierare.
   La Vorta non ricordava neanche come avessero attaccato bottone la prima volta; ma non poteva immaginare la sua vita altrimenti. Il Jem’Hadar conosceva un’infinità di storie curiose, apprese in venticinque anni di servizio, su decine di mondi alieni, e non vedeva l’ora di raccontarle a qualcuno. Giely-9 era l’ascoltatrice ideale, sempre attenta ed emozionata. Quelle storie stimolavano la sua fantasia, facendole sognare altre civiltà, altri modi di vivere. Così tra il vecchio Jem’Hadar e la giovane Vorta si era sviluppata una strana amicizia; i loro incontri erano per entrambi una boccata d’ossigeno.
   «L’Ambasciatore Odo ha terminato la sua missione presso la Federazione prima del previsto. Così eccomi qui» spiegò Ome’tikal. Il veterano, infatti, faceva parte della scorta personale dell’Ambasciatore e quindi lo seguiva sempre nelle sue missioni diplomatiche.
   «La Federazione... raccontami qualcos’altro, ti prego!» fece Giely-9, quasi saltellando dall’entusiasmo. Di tutti i racconti del Jem’Hadar, quelli più suggestivi concernevano proprio la Federazione Unita dei Pianeti. Una vasta alleanza di mondi, creata non tramite la conquista militare, bensì per libera adesione dei membri! Una civiltà interstellare che condivideva risorse e scoperte scientifiche! Una società in cui tutti erano tollerati... meglio ancora, in cui tutti erano padroni della propria vita... la Vorta stentava a credere che fosse vero. Possibile che i Fondatori, con tutta la loro divina saggezza, non avessero creato nulla di così bello?
   «Beh, in realtà non ho visto nuovi mondi, piccolina» spiegò Ome’tikal.
   «Ti prego, non chiamarmi così. Ormai sono grande, ho tre anni!» rivendicò Giely-9.
   «Giusto, vecchia mia» annuì il Jem’Hadar con un sorriso sornione. «Beh, dicevo che la nostra delegazione è stata a Bajor, nella capitale. Ma i colloqui erano a porte chiuse, quindi non so di preciso cos’abbiano discusso gli ambasciatori. Qualunque cosa fosse direi che è andata a buon fine, visto com’era soddisfatto Odo durante il ritorno. Quel che posso dirti è ciò che ho visto in città. Da quand’è finita la Guerra Civile, sembra che la Federazione sia tornata agli antichi fasti...».
   Il Jem’Hadar parlò di come le numerose specie federali si fossero riappacificate, dopo la tremenda Guerra Civile che aveva quasi infranto il loro sogno di coesistenza. Descrisse come su Bajor, e stando ai notiziari anche sugli altri mondi federali, ferveva la ricostruzione. «È sorprendente vedere come si riprendono in fretta i Bajoriani» commentò, scuotendo la testa. «Del resto sono abituati alle avversità. Credo che la loro religione – sai, il culto dei Profeti – abbia giocato anche stavolta un grosso ruolo nel tenerli uniti».
   «Il culto dei Profeti... me ne hai già parlato, ma ho sempre difficoltà a farmene un’idea» commentò Giely-9, che era stata educata a venerare i Fondatori.
   «Mah, non è poi così diverso da altri che ho visto in giro nella Galassia» commentò Ome’tikal. «Ci sono queste entità divine da adorare, un vademecum su come comportarsi in questa vita... e anche la speranza di rincontrarsi tutti in una vita ultraterrena».
   «Questo a noi manca» mormorò la Vorta, a disagio. «I Fondatori ci chiedono solo di servirli... di lavorare per loro... di morire per loro, persino». Guardò di sottecchi il Jem’Hadar, che aveva visto la morte in faccia un’infinità di volte, combattendo in loro nome, e aveva visto morire innumerevoli commilitoni.
   «È vero, loro non ci aspettano in un’altra vita» convenne Ome’tikal. «Beh, forse significa che sono più onesti delle presunte “divinità” degli altri popoli. Ci dicono le cose come stanno, invece di darci false speranze».
   «Sì, però... vedi... c’è qualcosa di strano...» borbottò Giely-9. S’interruppe per guardarsi nervosamente attorno, temendo che qualcuno origliasse quella conversazione sempre più eretica. «Se i Fondatori sono dèi, come ci viene insegnato, perché hanno bisogno di noi per sbrigare tutti i lavori? Perché gli servono i Vorta per l’amministrazione e la ricerca scientifica, e i Jem’Hadar per combattere? Non possono occuparsene da soli?».
   «Immagino che potrebbero, ma noi gli risparmiamo un bel po’ di fatiche e pericoli» ironizzò Ome’tikal.
   «Ma che dèi sono quelli che si stancano, si spaventano, possono essere feriti e persino uccisi?» obiettò la Vorta. «Che dèi sono quelli che hanno perso la guerra contro la Federazione?! Non sono onnipotenti, né onniscienti, e... e... si direbbe che non vogliano nemmeno il nostro bene!». Ciò detto tacque, temendo d’essersi spinta troppo in là. Non aveva mai osato manifestare a nessuno questi dubbi; e certamente non l’avrebbe fatto con altri.
   «Talvolta, in battaglia, ho avuto quest’impressione» ammise il vecchio Jem’Hadar. «Comunque devi riconoscere che, se non altro, i Fondatori ci hanno creati e ci hanno dato uno scopo. E poiché ci hanno donato la vita, non è così irragionevole pretendere che la dedichiamo a loro».
   «Non ci hanno donato la vita» sussurrò Giely-9, pallida come un cadavere. «Le nostre specie esistevano già da prima. I Fondatori si sono limitati ad alterare il nostro DNA per adattarci ai loro scopi. Non hanno il potere di creare... solo quello di manipolare... in un modo che chiunque può replicare con la giusta tecnologia. E non è tutto...». I suoi occhioni si spalancarono, facendosi vitrei, e la voce divenne un sussurro. «Nei miei studi di medicina, ho approfondito anche la fisiologia dei Fondatori. Perché se qualche malattia li colpisse, come accadde durante la guerra con la Federazione, toccherebbe a noi Vorta curarli. Ho esaminato le loro cellule al microscopio, ho visto cosa possono e cosa non possono fare. E mi sono resa conto, al di là d’ogni ragionevole dubbio, che non c’è niente di divino in loro. Sono fatti di materia, nient’altro che materia. Certo, hanno straordinarie capacità metamorfiche, ma non sono gli unici nella Galassia; e comunque non c’è niente di sovrannaturale. Tutto è perfettamente spiegabile in termini scientifici».
   Cadde un silenzio pesante. Giely-9 temeva d’essersi spinta troppo oltre e che il Jem’Hadar l’avrebbe denunciata. Invece Ome’tikal sospirò e scrollò le spalle. «Avevo già sentito discorsi simili dai federali. Tu non fai che confermarli» disse. «Beh, sembra che io abbia dedicato la mia vita a falsi dèi, e che tu debba fare lo stesso. Però ti consiglio di non dire queste cose ad altri. Non la prenderebbero bene, e tu passeresti dei guai» avvertì.
   «Lo so» rabbrividì la Vorta. «Quasi vorrei non aver mai cominciato a farmi tutte queste domande. Ma ora che ho iniziato, non riesco più a smettere! E quelle poche risposte che riesco a darmi sono così deprimenti!».
   «Beh, il fatto che i nostri dèi siano falsi non significa per forza che lo siano anche tutti gli altri» notò Ome’tikal. «La Galassia è piena di popoli, ciascuno con le sue credenze...».
   «Già, tutte che si contraddicono a vicenda!» sbuffò Giely-9. «Come si presume che possiamo riconoscere quella giusta, nella nostra breve vita? E poi, la verità non dovrebbe essere la stessa per tutti? A questo punto è più logico pensare che siano tutte sbagliate».
   «Non so... forse è il nostro intelletto a essere limitato. O forse la logica non è lo strumento migliore per approcciarsi a questo argomento. Ci sono troppe cose che non sappiamo, o che crediamo di sapere...» mormorò il Jem’Hadar, fissando le ultime luci del tramonto.
   «Sì... più cose impariamo, più ci accorgiamo di quanto sia vasta la nostra ignoranza» convenne la Vorta. Restò a fissare il tramonto con l’amico, finché il primo sole scomparve sotto l’orizzonte. Restava solo il gemello minore a tingere il cielo e la terra di toni fiammeggianti.
   «Devo andare. Per il regolamento devo rientrare in caserma prima che faccia buio» si riscosse Ome’tikal, lasciando la balaustra.
   «Sì, scusa se ti ho trattenuto. E scusami per tutti quei discorsi; non volevo rattristarti» disse Giely-9, temendo di averlo ferito.
   «Non preoccuparti, piccolina. Parlare con te non mi rattrista mai» fece il Jem’Hadar, con un altro di quegli strani sorrisi simili a smorfie. «Arrivederci alla prossima».
   «Sì, alla prossima» annuì la Vorta. Restò a guardarlo mentre si allontanava, finché l’Onorevole Anziano scese le scale del terrazzo, scomparendo alla vista. Non gli aveva detto che, proprio quel giorno, aveva sostenuto gli esami. E che quindi, con ogni probabilità, quella era stata la loro ultima chiacchierata prima che la spedissero chissà dove.
 
   Tornata nella sua camerata, Giely si recò al terminale del computer e controllò se le erano arrivate comunicazioni personali. Come previsto ce n’era una, gli esiti degli esami. Aprì il file con dita tremanti e lesse: aveva superato tutte le prove a pieni voti. Qualunque altro Vorta ne sarebbe stato deliziato. Non che il successo fosse celebrato: non c’erano cerimonie di laurea o simili rituali nella loro cultura. Ciascuno si accontentava della soddisfazione personale e assumeva i nuovi incarichi. Ma Giely-9 non riuscì a provare nemmeno quella, anzi si sentì sprofondare. La sua vita le pareva, più che mai, un cammino tracciato da altri, in cui lei non aveva alcuna voce in capitolo.
   Fu allora che giunse la chiamata per una comunicazione audio-video. Dal codice identificativo, si trattava di una chiamata esterna; un fatto molto raro. La giovane Vorta aprì il canale e si trovò a fissare una versione più anziana di se stessa. Giely-8 era davanti a lei, coi capelli grigi e il viso raggrinzito, come un sinistro memento mori.
   «Salve, erede» esordì l’anziana Vorta in tono formale. «Mi è appena stato notificato che hai superato gli esami con ottimi voti. Me ne rallegro. Del resto non c’era motivo di temere il contrario: la nostra linea genetica si è sempre contraddistinta per la professionalità».
   «Ti ringrazio, antesignana. I tuoi successi mi hanno spronata a dare il meglio» rispose Giely-9 con un groppo in gola.
   «Ti comunico che, per disposizione del Comando Medico, sei pronta a subentrarmi» disse sbrigativamente Giely-8. «Al momento mi trovo su Karemma, dove lavoro nel reparto di tossicologia dell’Ospedale Centrale. Tra due giorni partirà il trasporto militare 610, linea diretta Kurill-Karemma; l’autorizzazione all’imbarco dovrebbe già esserti stata inviata. Prepara i bagagli e non mancare alla partenza. Sono impaziente di accoglierti e impartirti le ultime istruzioni, prima del nostro avvicendamento».
   «Vuoi dire prima che tu debba...» fece la giovane con voce incrinata.
   «C’è un tempo per ogni cosa, anche per concludere il proprio servizio» rispose l’anziana, inflessibile. «Apprezzo la tua vicinanza, ma come ben sai, la ghiandola dell’eutanasia ci dona una morte rapida e indolore. Così hanno stabilito i Fondatori, così deve essere. Non temere... come una giornata ben spesa ci dà un sonno sereno, così una vita ben spesa ci dà un sereno trapasso. Sia lode ai Fondatori!».
   «Sempre siano lodati» rispose meccanicamente Giely-9, con la bocca secca.
   «A presto, allora. Ricorda, è solo adesso che la tua vita comincia davvero. Giely-8, chiudo».
   Lo schermo si oscurò, così che al viso anziano di Giely-8 subentrò il riflesso più giovane di Giely-9. La Vorta si specchiò, chiedendosi se sarebbe diventata proprio come la sua antesignana. Anche lei avrebbe dimenticato i sogni e le speranze di gioventù, rassegnandosi alla monotona esistenza di serva del Dominio? Anche lei, un giorno, avrebbe contattato la sua erede per invitarla a sostituirla? E dopo aver sbrigato le ultime formalità burocratiche, avrebbe diligentemente attivato la ghiandola dell’eutanasia? Possibile che fosse già tutto scritto, fino all’epilogo?
   A quel pensiero, la giovane Vorta si prese la testa fra le mani. No, da quando Ome’tikal le aveva parlato della Federazione, le si era spalancato un mondo che non poteva più essere richiuso. E sebbene non credesse più nei Fondatori, Giely-9 sentì di avere una sua personalissima fede. La fede che un giorno, in qualche modo, sarebbe stata artefice del suo destino.
 
   Il giorno dopo, all’ora consueta, Ome’tikal uscì dalla caserma per la sua passeggiata serale. Contava di andare da Giely, come al solito, per fare un’altra chiacchierata. Stranamente, invece, la trovò già ad aspettarlo subito fuori dall’area militare. La giovane Vorta aveva un’aria particolarmente infelice. I suoi occhi erano arrossati, come se avesse trascorso la notte insonne.
   «Che succede, piccolina?» chiese il Jem’Hadar, intuendo subito che era qualcosa di grave.
   «Ieri, quando sei tornato, c’è una cosa che non ti ho detto» rivelò Giely-9. «Ho superato gli esami per l’abilitazione alla professione. Significa che sto per partire, per sostituire la mia antesignana su Karemma. Il trasporto parte domattina, dopo di che passerà molto tempo prima che io possa tornare. Quindi...».
   «... quindi questo è un addio» comprese Ome’tikal. Non era sorpreso; in effetti sapeva che gli esami di Giely erano imminenti, pur ignorando il giorno preciso.
   «Ieri non me la sono sentita di dirtelo, dopo che eri appena tornato dal viaggio. Ma ora devo, perché... potremmo non vederci più» confermò la Vorta, con gli occhioni lucidi dal dolore. «E ci tengo a farti sapere quanto ti sono grata per il tempo che mi hai dedicato. I tuoi racconti mi hanno aperto gli occhi. Sei il mio unico amico, e ti ricorderò con affetto finché avrò vita!» gemette.
   «È stato bello anche per me. Ho preferito di gran lunga le nostre conversazioni a... tutte le altre cose che ho fatto» mormorò Ome’tikal, adombrandosi nel ricordare la sua vita piena di battaglie e uccisioni.
   «Ma tu starai bene?» si preoccupò Giely-9.
   «Certo, sono un Onorevole Anziano e ormai ho solo compiti di scorta. Del resto non ci sono guerre, al momento» la confortò il Jem’Hadar. «La vera domanda è se tu starai bene. Conoscendoti, non credo che il tuo nuovo incarico ti entusiasmi» indovinò. I due presero a passeggiare lungo la strada, allontanandosi dalla caserma.
   «A dire il vero... sono terrorizzata» confessò la Vorta, lo sguardo basso. «Non per l’incarico in sé, ma per il fatto che alla lunga potrei abituarmi a questa vita, come tutte le altre Giely... come tutti gli altri Vorta. Mi angoscia l’idea di perdere quel poco d’originalità che i tuoi racconti hanno risvegliato in me».
   «Uhm... per te è così importante distinguerti dagli altri?» indagò Ome’tikal.
   «Mi chiedi se è egoismo, o un’infantile ribellione all’autorità? Non so che dirti. So solo che dev’esserci qualcosa di più, nella vita, che servire i Fondatori. Ancora non sono certa di cosa, ma... deve esserci!» disse Giely-9, con un’inedita determinazione.
   Per un poco i due passeggiarono in silenzio, assorti nei loro pensieri. Poi, d’un tratto, il Jem’Hadar giunse a una conclusione. «Allora non c’è tempo da perdere. Partiamo stasera stessa» decise.
   «Come?!» fece la Vorta. Smise di camminare e lo fissò con occhi stralunati.
   «Con una navicella, naturalmente» rispose Ome’tikal, con aria sagace.
   «No, intendevo... come sarebbe a dire? Partire noi due? E per dove?!».
   «Per la Federazione» chiarì il veterano. «Mi hai detto che non puoi sentirti realizzata qui nel Dominio, che devi tracciare la tua strada. E io so per certo che la Federazione accoglie i rifugiati politici. Quindi faremo così: attraverseremo il Tunnel Spaziale, raggiungeremo la Federazione e chiederemo asilo» disse con disarmante semplicità.
   «Ma... non funzionerà mai! Ci sono troppi ostacoli!» fece Giely-9, esterrefatta.
   «Senti un po’: vuoi dare una svolta alla tua vita, sì o no? Perché se accetti il mio aiuto adesso hai una speranza, ma se rifiuti e vai su Karemma, sarà molto più difficile sganciarti dal Dominio» avvertì il Jem’Hadar.
   «Può darsi... anzi, è certamente così» ammise la Vorta. «Ma non voglio coinvolgerti nel mio sogno impossibile. Hai già fatto tanto; ora meriti di vivere in pace, con gli onori di un Anziano».
   «Ho sprecato la mia vita a combattere per falsi dèi» obiettò Ome’tikal. «Ora lascia che lo faccia, un’ultima volta, per aiutare una vera amica. Se tu reclami il diritto all’autodeterminazione, perché io non posso fare altrettanto?».
   «Gli altri Jem’Hadar potrebbero ucciderti...».
   «Potrebbero uccidere anche te, se mai tenterai la fuga» puntualizzò il veterano. «Se agiamo insieme, avremo maggiori probabilità di successo. Ma dobbiamo farlo subito, perché domattina sarai già su quel trasporto, e sarà troppo tardi. Allora, sei con me?».
   La Vorta rimuginò per qualche momento. Infine parlò con grande sforzo, meravigliandosi nell’udire la propria voce, come se una nuova volontà l’animasse: «Sì, lo sono».
 
   Presa la decisione, bisognava attuarla tempestivamente. Ome’tikal snocciolò la sua idea su come lasciare il pianeta. Era un piano così dettagliato che Giely-9 si trovò a pensare che doveva averci rimuginato già da tempo, aspettando solo l’occasione buona per metterlo in atto. Per quanto lo analizzasse, la Vorta non trovò alcuna miglioria da apportare; così lo accettò in blocco. Eppure non sapeva se avrebbe realmente funzionato. Le maglie della sicurezza del Dominio erano notoriamente strette. Nessuno, Jem’Hadar o Vorta che fosse, poteva impadronirsi di una navicella e lasciare il pianeta senza aspettarsi una caccia spietata. Eppure, contro ogni buonsenso, i due erano ormai legati dalla comune decisione. Si lasciarono temporaneamente, con l’intesa di ritrovarsi di lì a poco davanti a un ingresso secondario dello spazioporto.
   Mentre tornava in fretta e furia al Centro di Formazione, Giely-9 si disse che era una follia. Non sarebbero nemmeno riusciti a salire sulla navicella; le guardie li avrebbero disintegrati prima. E se anche fossero saliti a bordo, le batterie polaroniche li avrebbero abbattuti in fase di decollo. Eppure la giovane non se la sentì di disertare il piano. Aveva promesso al suo unico amico d’incontrarlo a quell’ingresso, per tentare la sorte, e non lo avrebbe tradito.
   Tornata al Centro, la Vorta accedette ai laboratori con una scusa e s’impadronì dell’unico oggetto davvero indispensabile per la riuscita della fuga. A vederlo non pareva granché: un contenitore metallico squadrato, munito di manici per sollevarlo. In realtà era uno degli oggetti più preziosi che vi fossero nel Dominio: un dispensatore di ketracel bianco. E il ketracel era la sostanza che teneva in vita i Jem’Hadar, l’unica di cui si nutrissero. Senza di quello, i guerrieri del Dominio perdevano totalmente la ragione, diventando belve incontrollabili. Uccidevano chiunque vedessero, amico o nemico; infine si trucidavano a vicenda. Perciò ai Vorta era affidato, tra le altre cose, anche il delicato compito di gestire i dispensatori. Erano i Vorta che, una volta al giorno, li usavano per replicare le fialette di ketracel bianco, che poi consegnavano ai Jem’Hadar, con la breve formula di rito: «Ricevete questo premio dei Fondatori, possa esso mantenervi in forze». Perciò, se Giely-9 e Ome’tikal dovevano lasciare per sempre il Dominio, era indispensabile portarsi dietro un dispensatore; e solo la Vorta poteva azionarlo.
   Nascosto il congegno in un borsone a tracolla, la giovane lasciò il Centro di Formazione, eludendo con varie scuse i pochi che si fermarono a farle domande. Fino ad allora la sua condotta era stata impeccabile, e ora che aveva superato gli esami, nessuno sospettava che fosse in procinto di fuggire.
 
   Era ormai il tramonto quando Giely-9 giunse al punto d’incontro, presso l’ingresso posteriore dello spazioporto. Presto la sua assenza sarebbe stata notata al dormitorio del Centro di Formazione e notificata alle autorità. E naturalmente anche l’assenza di Ome’tikal sarebbe stata notata in caserma, provocando una reazione ancora più rapida. Se volevano fuggire, dovevano farlo subito.
   «Eccoti, finalmente!» l’accolse il Jem’Hadar, che era già lì ad aspettarla. «Hai il dispensatore?».
   Giely-9 annuì e dette una pacca al borsone.
   «Allora andiamo» la esortò Ome’tikal.
   La giovane lo seguì, col cuore che batteva all’impazzata. I due entrarono nello spazioporto, mimetizzandosi nella folla di loro simili perennemente al lavoro. Furono fermati più volte da sentinelle Jem’Hadar, ma l’Onorevole Anziano riuscì sempre a cavarsela con delle scuse. Del resto, le guardie lo conoscevano e si fidavano di lui, per quanto possano fidarsi i Jem’Hadar. Eppure Giely-9 si aspettava che da un momento all’altro qualcuno incrociasse i dati e li smascherasse, o che un allarme rilevasse il dispensatore nel suo borsone. Invece, incredibilmente, i due giunsero in un hangar secondario, in cui si trovava il mezzo che Ome’tikal aveva scelto per la fuga.
   Era un Infiltratore, ovvero una navicella militare agile e veloce, progettata per missioni di ricognizione e spionaggio. Lunga appena una trentina di metri, somigliava a una grossa cimice, grigia e viola, con le gondole di curvatura protese ai lati. Di regola aveva un equipaggio di otto elementi, ma all’occorrenza bastavano pilota e copilota per farla volare. Giely-9 intuì che Ome’tikal l’aveva scelta oculatamente. Una navicella più grande era impossibile da manovrare in due, mentre una più piccola sarebbe stata troppo fragile e non avrebbe resistito all’inseguimento. L’Infiltratore era la giusta via di mezzo, ma non era incustodito: nell’hangar c’erano un controllore Vorta e due guardie Jem’Hadar.
   «Ehi, voi due che ci fate qui?» chiese subito il controllore, alzando gli occhi da uno schermo.
   «Dobbiamo fare un volo d’addestramento, codice 389» rispose Ome’tikal, venendogli incontro con la massima faccia tosta.
   «Strano, non ho ricevuto nessun avviso» s’insospettì il Vorta. «Attendete, devo chiedere conferma al centro di comando». Le sue mani corsero alla consolle, ma Ome’tikal fu più veloce. Il veterano estrasse il piccolo disgregatore polaronico che nascondeva in tasca, colpendo prima le due guardie e poi il controllore. Era stato così fulmineo e inaspettato che nessuno, nemmeno i suoi simili, avevano avuto il tempo di reagire. Scioccata, Giely osservò i caduti. Le ci volle un attimo per capire che erano solo storditi. Ome’tikal aveva avuto tanto riguardo da prendere un’arma munita di stordimento, il che era una rarità negli arsenali Jem’Hadar.
   «Svelta, da un momento all’altro squillerà l’allarme!» la esortò il veterano, spintonandola verso la pedana d’imbarco, mentre con la mano armata teneva sotto tiro l’ingresso.
   La Vorta salì di corsa, sempre col borsone a tracolla, seguita dal Jem’Hadar. Appena furono a bordo ritirarono la pedana e sigillarono il portello dall’interno. Giely-9 gettò il borsone a terra e seguì Ome’tikal in cabina, dove sedettero ai comandi. «Sai, questo è il mio primo volo» confessò la giovane, osservando nervosamente i comandi.
   «Bah, che ci vuole a far volare un Infiltratore? Mettiti questo e segui le mie istruzioni» disse il veterano, porgendole un visore. Sulle navi Jem’Hadar, infatti, non c’era lo schermo: bisognava indossare gli appositi visori di guida per vedere cosa accadeva all’esterno. Indossato il suo, Ome’tikal prese la postazione del pilota e attivò rapidamente i sistemi. La Vorta lo imitò e prese il posto del copilota, inserendo i comandi ausiliari secondo le sue istruzioni.
   «Ehm, come apriamo quello?» chiese Giely-9, alludendo al portone dell’hangar, ancora chiuso. In teoria avrebbe dovuto aprirlo il controllore, dalla sua postazione a terra.
   «Nel modo più spiccio» spiegò Ome’tikal, attivando il cannone polaronico anteriore. Bastò un unico raggio azzurro per sfondare il portone, rendendo visibile il cielo. La via di fuga era aperta, ma ora tutti sapevano della loro diserzione. L’attimo dopo il Jem’Hadar attivò i motori a impulso.
   Con un bang supersonico, che assordò e gettò a terra tutto il personale in un raggio di centinaia di metri, l’Infiltratore schizzò fuori dall’hangar. Prima che le batterie polaroniche potessero agganciarlo, l’agile vascello prese quota, sfrecciando verso il cielo vespertino. E verso l’agognata libertà.
 
   Giunti in orbita, Ome’tikal diresse l’Infiltratore verso lo spazio aperto. Ma non era così facile lasciare Kurill Primo, una delle maggiori roccaforti del Dominio. Il pianeta era circondato da piattaforme orbitali, e solo metà di esse era rivolta all’esterno, per contrastare eventuali invasori. L’altra metà puntava verso l’interno, proprio per impedire eventuali fughe. I raggi polaronici balenarono tutt’attorno all’Infiltratore e ben presto uno lo colpì. Ma Ome’tikal aveva già attivato gli scudi; la navicella tremò mentre il colpo era assorbito.
   «Scudi all’80%, dobbiamo balzare in curvatura» disse Giely-9.
   «Sto ultimando i calcoli, dammi solo qualche secondo» rispose il Jem’Hadar. Più si era vicini a un pozzo gravitazionale, come quello del pianeta, più balzare a curvatura era rischioso. Il minimo errore poteva ridurre la navicella in atomi. Ma per dei fuggitivi come loro, non c’era tempo di allontanarsi a distanza di sicurezza. Un secondo raggio colpì gli scudi, poi un terzo.
   «Scudi al 40% e c’è un incrociatore in avvicinamento!» avvertì la Vorta. La grande astronave, dalle linee aggressive e lo scafo violaceo, era chiaramente in rotta d’intercettazione. Alcuni caccia Jem’Hadar la oltrepassarono, ancora più rapidi. Con gli scudi già indeboliti, l’Infiltratore non poteva reggere il loro fuoco.
   «Ci siamo!» fece Ome’tikal. L’Infiltratore schizzò in avanti, sfuggendo al fuoco nemico, e balzò a curvatura. Gli scossoni cessarono.
   «Ce l’abbiamo fatta?» chiese Giely-9, incredula.
   «Quasi. Ora cerco di confondere la traccia di curvatura» spiegò il Jem’Hadar, ancora concentrato sui comandi. «Inoltre voglio depistare gli inseguitori, quindi non andremo subito verso il Tunnel Spaziale. Prima ci dirigeremo verso la Nebulosa Lantar, dove spero di far perdere definitivamente le nostre tracce. Solo allora cambieremo rotta e ci dirigeremo verso l’imboccatura del Tunnel. Ci vorrà più tempo, ma è la strategia più sicura» spiegò.
   «Certo, mi fido della tua esperienza» sorrise Giely-9.
   Ome’tikal trafficò coi comandi per mezz’ora, assicurandosi che la traccia di curvatura fosse mascherata. Infine si abbandonò contro lo schienale. «Questo è il meglio che so fare, ora non ci resta che aspettare. Anche se viaggiamo ad alta curvatura, serviranno alcuni giorni per raggiungere la nebulosa, e ancora di più per andare da lì al Tunnel Spaziale. A bordo c’è un replicatore alimentare, quindi non devi preoccuparti dei pasti. Quanto a me... comincio ad aver bisogno del ketracel» disse.
   Giely-9 notò che le mani del veterano tremavano, primo segno della crisi d’astinenza. Non c’era tempo da perdere; balzò in piedi e si fiondò dove aveva lasciato il borsone. Estrasse il dispensatore di ketracel e lo portò in cabina. Naturalmente sapeva usarlo, come tutti i Vorta, e a maggior ragione come medico. Posò la mano sinistra sul lettore di DNA, mentre con l’altra inseriva un breve codice di sicurezza. «Prepara dieci dosi» ordinò, pensando che era bene fare scorta.
   Il congegnò ronzò brevemente, segno che il replicatore interno si era attivato. Allora Giely-9 rimosse il coperchio, mettendo in luce le preziose fialette. Ne prese una, porgendola all’amico. «Ricevi questo premio dai Fondatori, possa esso...» disse meccanicamente, ma si arrestò, notando il paradosso. Per dei fuggiaschi eretici come loro, era assurdo continuare a riverire i Fondatori. «Come non detto. D’ora in poi dirò solo... buon appetito» si corresse.
   Ome’tikal fece il suo strano sorriso e prese la fialetta, inserendola in un taschino dell’uniforme nera. Un sottile tubicino, collegato direttamente alla sua carotide, portò il ketracel bianco nel circolo sanguigno. Il Jem’Hadar sospirò e le sue mani smisero di tremare; allora anche Giely-9 si rilassò. La crisi era scongiurata, ed erano entrambi in fuga verso la libertà. Andava tutto bene, per il momento.
 
   I giorni successivi furono strani, ma emozionanti. I fuggitivi erano confinati sulla piccola navicella ed erano insolitamente a corto di doveri, dato che la ferrea routine delle loro vite era saltata. Quindi passavano la maggior parte del tempo chiacchierando. Giely-9 non aveva mai avuto conversazioni così lunghe, e così libere, con quello che ormai era il suo mentore. Ome’tikal aveva ancora tanto da raccontarle, soprattutto sulla Federazione. Le parlò dettagliatamente dei pianeti, dei popoli e delle leggi federali. In effetti la Vorta si rese conto che il Jem’Hadar la stava preparando a cavarsela senza di lui, una volta giunti nello spazio federale. Ad esempio parlarono di cosa avrebbe fatto Giely-9 se avesse ottenuto la cittadinanza federale. La giovane non poteva pensare ad altro che esercitare la professione per cui, ormai, si era preparata: la medicina. Pur essendo fuggita dall’asfissiante controllo del Dominio, infatti, non aveva nulla in contrario a fare quel mestiere. Anzi, se fosse riuscita a farsi accogliere le pareva un modo per sdebitarsi con la società federale.
   Ciò di cui Ome’tikal non volle mai parlare, invece, era ciò che avrebbe fatto lui. Per un veterano Jem’Hadar non c’erano molte possibilità, nella Federazione... anzi, Giely-9 non riuscì a pensarne proprio nessuna. A peggiorare le cose, Ome’tikal era già in età avanzata per un Jem’Hadar, al punto che realisticamente non gli restavano che due o tre anni di vita. La Vorta si promise di trovare impiego al più presto, così da provvedere anche al suo mentore, affinché questi potesse riposare per i pochi anni che gli restavano.
 
   Dopo una settimana di viaggio i due giunsero alla Nebulosa Lantar, dove Ome’tikal confuse ulteriormente la traccia di curvatura. Allora, finalmente, i fuggitivi poterono cambiare rotta, dirigendosi verso il Tunnel Spaziale. Il loro morale era più alto che mai: se i Jem’Hadar non li avevano ancora rintracciati, era difficile che ci riuscissero adesso. «Fra dieci giorni saremo all’imboccatura del Tunnel» calcolò Ome’tikal.
   I fuggitivi tornarono così alla loro routine, fatta di lunghe chiacchierate, inframmezzate di controlli ai sensori e ai sistemi di bordo. Giunti al penultimo giorno di viaggio, persino Ome’tikal sembrava piuttosto rilassato e convinto che ce l’avrebbero fatta. Il veterano stava descrivendo gli strani giochi dei Wadi – un popolo del Quadrante Gamma – in cui le persone facevano da pedine, quando a un tratto squillò un allarme. Il Jem’Hadar indossò il visore di guida e si precipitò alla consolle. «Allarme di prossimità» disse. Per quanto fosse poco espressivo, Giely-9 intuì dal tono di voce che era una faccenda seria.
   La Vorta gli venne accanto, col visore sghembo per la fretta con cui l’aveva indossato. Per quanto fosse poco pratica di astronavi, sapeva che un inseguitore esperto può uniformare il campo di curvatura a quello della preda, arrivando a distanza di tiro. La giovane regolò il suo visore per l’inquadratura di poppa, come il suo mentore aveva già fatto. Allora vide la sagoma inconfondibile di un caccia da guerra Jem’Hadar, l’unità base della flotta del Dominio. Somigliava all’Infiltratore, con la sua forma a scarafaggio, ma era più grosso, avendo un equipaggio di quarantadue Jem’Hadar, più un Vorta al comando. Perciò disponeva di maggior potenza di fuoco e di scudi più resistenti dei loro.
   «Eccoli lì. Ci hanno trovati, infine...» mormorò Ome’tikal. L’attimo dopo il caccia Jem’Hadar aprì il fuoco col cannone polaronico. L’Infiltratore si scosse mentre i suoi scudi posteriori assorbivano il colpo.
   «Che facciamo?!» chiese Giely-9, terrorizzata.
   «Finché restiamo in curvatura siamo un bersaglio facile. Devo scendere a impulso per poter manovrare» spiegò Ome’tikal, concentrato sui comandi. Fece quanto detto, sperando che il caccia li oltrepassasse, ma non fu così. I Jem’Hadar ebbero la prontezza di scendere a impulso assieme a loro e subito ripresero a far fuoco.
   «Scudi al 50%, in rapida diminuzione!» avvertì Giely-9, mentre la navicella sussultava sotto i colpi spietati degli inseguitori.
   «È inutile rispondere al fuoco, abbiamo meno potenza di loro. Devio tutta l’energia agli scudi e cerco di seminarli» disse Ome’tikal. «Tu manda una richiesta d’aiuto subspaziale. Ormai siamo vicini al Tunnel, potrebbero esserci navi federali nei paraggi».
   Il fatto che un veterano Jem’Hadar decidesse di chiedere aiuto era la prova definitiva di quanto fosse disperata la loro situazione. Giely-9 comprese che, se fosse stato solo, Ome’tikal avrebbe accettato la morte in battaglia. Se sopportava quell’umiliazione era solo perché c’era lei a bordo. Con mani tremanti, la Vorta inviò il segnale subspaziale, trasmettendo le loro coordinate.
   Intanto Ome’tikal compiva delle elaborate manovre evasive, cercando di schivare i colpi nemici e mettere una certa distanza tra le due navi. La gara tra piloti infuriò per parecchi minuti, tra finte e giravolte. A un certo punto il caccia Jem’Hadar rimase indietro; ma poi un raggio polaronico centrò l’Infiltratore, che sussultò e perse l’accelerazione. Il caccia tornò ad avvicinarsi.
   «Siamo senza scudi. Il propulsore di dritta è andato, non posso più tenerli a distanza» disse Ome’tikal, tirato. «Mi spiace, piccolina, ma la nostra fuga è finita». Un ulteriore colpo mise fuori uso le armi dell’Infiltratore, lasciandolo completamente indifeso e alla deriva.
   «Ci distruggeranno?!» chiese Giely-9, sentendo tutta l’amarezza della sconfitta. Essere arrivati così vicini alla libertà, solo per fallire, le sembrò un atroce scherzo della sorte. Forse i Fondatori erano veramente dèi, a cui non ci si poteva ribellare.
   «Aspetta... hanno cessato il fuoco» notò Ome’tikal. «Credo che vogliano abbordarci. Se è così, posso tentare un’ultima difesa». Si tolse il visore di guida, per non avere distrazioni. Poi aprì l’armadietto delle armi e imbracciò un fucile polaronico.
   «No, ti uccideranno!» cercò di fermarlo la Vorta.
   «Questo accadrà in ogni caso. Ma tu potresti cavartela, se li convinci che sono stato io a rapirti» consigliò il Jem’Hadar. La spinse al riparo dietro una consolle, dopo di che si appostò all’ingresso della cabina, col fucile spianato.
   «Non potrei mai...!» annaspò Giely-9, ma in quella si udì il ronzio del teletrasporto. Numerosi bagliori viola scintillarono nel comparto posteriore della navicella, meno schermato della cabina, e in un attimo ecco un plotone di Jem’Hadar, pronti alla battaglia.
   «Sei finito, traditore! Gloria ai Fondatori!» gridò il Primo, ovvero il caposquadra, aprendo il fuoco.
   «Se i Fondatori sono così in gamba, perché gli servite per fare il lavoro sporco?!» ribatté Ome’tikal, rispondendo al fuoco da dietro lo stipite. I raggi polaronici balenarono, facendo sprizzare scintille dalle paratie colpite. Dalla sua posizione riparata Giely-9 non riusciva a vedere granché, ma dalle ripetute grida capì che il veterano aveva abbattuto diversi avversari. A un certo punto, tuttavia, un raggio nemico gli colpì il fucile polaronico, facendolo esplodere. Ome’tikal cadde all’indietro, gravemente ustionato sul volto e sul petto. Allora i nemici superstiti irruppero in cabina. Erano solo due, segno che il veterano aveva eliminato quasi tutto il plotone.
   «Mi deludi, Ome’tikal. Sapevo che eri mezzo matto, ma credevi davvero di poter tradire impunemente i Fondatori?!» chiese il Primo, mirandogli alla testa.
   «Tan’turak, immaginavo che mi avrebbero sguinzagliato te alle calcagna» tossì il veterano. Anche l’altro era un Onorevole Anziano, e tra loro non correva buon sangue. «Se i Fondatori sono così potenti, è solo perché gli stolti come te continuano a servirli» aggiunse Ome’tikal.
   «Hai sentito? Il disertore ha confessato la sua eresia!» commentò Tan’turak, rivolto al suo secondo. Stava per eseguire la sentenza, ma in quella notò Giely-9. «Ah, ecco l’altra traditrice! Che peccato... tu avevi un futuro luminoso, giovanotta. Ma lo hai sprecato per seguire questo folle in una fuga senza speranza. Ora non aspettarti maggior compassione!» avvertì. Non la uccise subito, perché i Vorta erano pur sempre una casta superiore ai Jem’Hadar, e quindi Giely-9 doveva essere processata dai suoi pari.
   «Lei non c’entra, sono stato io a rapirla» disse Ome’tikal, cercando di discolparla.
   «Non mentire, le olocamere dello spazioporto mostrano che è salita spontaneamente su questa navicella!» obiettò Tan’turak. «La domanda è perché una giovane così talentuosa abbia deciso di disertare. Volevi vendere dei segreti militari alla Federazione?!» si rivolse all’interessata. «Non occorre che mi rispondi subito... lo farai con calma, durante l’interrogatorio» avvertì.
   «Esaminate pure questa navicella. Smontatela da cima a fondo, se volete; non troverete alcun segreto militare. Io e Ome’tikal volevamo solo vivere liberi» ribatté Giely-9.
   «Nella Federazione reduce dalla Guerra Civile? Poveri illusi... anche se foste riusciti a raggiungerla, non vi sareste mai integrati!» sostenne Tan’turak. In quella fu contattato dalla sua astronave. «Attenzione, siamo sotto attacco! Dobbiamo alzare gli scudi, mantenete la posizione» giunse l’ordine del Vorta. Evidentemente qualcuno aveva captato la richiesta d’aiuto ed era giunto in soccorso dei fuggiaschi.
   I due Jem’Hadar rimasero sorpresi, tanto che per un attimo non badarono a Ome’tikal, ancora steso a terra. E il veterano ne approfittò per estrarre il mini disgregatore polaronico che nascondeva in tasca. Dapprima sparò al secondo Jem’Hadar, che gli era più vicino; poi mirò il Primo. Ma anche Tan’turak, allertato dal primo colpo, reagì con prontezza. Gli avversari spararono nello stesso istante, a neanche due metri di distanza. Tan’turak fu colpito in piena fronte e cadde stecchito. Invece Ome’tikal fu colpito al petto; il disgregatore gli cadde di mano ed egli si abbandonò al suolo.
   «Ome’tikal!» gridò Giely-9, accorrendo presso di lui. Le bastò un’occhiata per constatare che la ferita era mortale. Sarebbe servita una sala operatoria attrezzata per salvarlo, ma su quella navicella c’era solo un armadietto medico, dal contenuto insufficiente.
   «I nuovi arrivati... chi sono?» rantolò il Jem’Hadar, tossendo sangue.
   La Vorta riattivò il visore di guida, che indossava ancora. Vide il caccia Jem’Hadar venire bersagliato da una strana astronave dallo scafo compatto e privo di finestre. L’astronave sparò con una sorta di cannone phaser, poi con dei raggi anti-polaronici, mettendo fuori uso le armi del caccia. Ai Jem’Hadar non restò che fuggire, perdendo plasma da una gondola di curvatura. Una ritirata ingloriosa, per un’astronave del Dominio.
   «Credo che siano i federali» disse Giely-9, togliendosi il visore. «Ce l’abbiamo fatta, siamo salvi. Ma tu resisti, ti prego!».
   «Va bene così, piccolina» sussurrò Ome’tikal. «Del resto non mi rimanevano che due o tre anni. Ma tu ne vivrai più di cento, e li vivrai libera. Sono contento... alla fine qualcosa di buono l’ho fatto» disse, guardandola con affetto.
   «Non lasciarmi!» supplicò la giovane, prendendogli la mano tra le sue.
   «Ricorda, la vittoria è vita» disse il veterano, citando il motto dei Jem’Hadar. «Ma ci sono molti tipi di vittoria. Questa mi basta. Addio, piccola mia».
   «Addio... padre» sussurrò Giely-9, con voce rotta. Non c’erano famiglie tra i Vorta, non c’erano padri né madri. Eppure quel termine, preso a prestito da altre culture, fu l’unico che le venne in mente per esprimere la sua riconoscenza.
   Udendola, Ome’tikal sorrise; l’attimo dopo era spirato tra le sue braccia. Allora la giovane fece qualcosa che non aveva mai fatto prima, qualcosa che i Vorta non facevano quasi mai: pianse. Pianse calde lacrime, accasciata sul pavimento, sorreggendo la testa del Jem’Hadar che si era sacrificato per lei. Fu così che la trovarono gli agenti della nave federale USS Keter, quando si teletrasportarono a bordo.
 
   Giorni dopo, la Keter era tornata nel Quadrante Alfa e attendeva presso la nuova Deep Space Nine, ancora in costruzione. Giely-9 era stata accolta e rifocillata, oltre a subire un controllo medico. I federali le avevano assegnato un alloggio degli ospiti sulla Keter, permettendole di aggirarsi liberamente sulla nave. Inoltre, come previsto, l’avevano sottoposta a lunghi interrogatori. La Vorta aveva confessato tutto, dalle motivazioni della fuga fino al tragico epilogo. Sapendo che il Dominio avrebbe preteso la sua estradizione, aveva subito chiesto asilo politico alla Federazione. Poi si era rassegnata ad aspettare. Se i federali avessero ceduto alle pressioni del Dominio... no, non voleva pensarci. Da quando Ome’tikal era morto, si sentiva più sola e svuotata che mai. Quando non la interrogavano se ne stava chiusa nell’alloggio, in attesa di conoscere la sua sorte.
   «Be-beep» annunciò il cicalino dell’ingresso.
   «Avanti» disse stancamente Giely-9, aspettandosi l’ennesimo interrogatorio. Ma si sbagliava. Invece di qualche ufficiale tattico della Keter, apparve il Capitano Ki’Lau in persona. Era uno Xaheano alto e smilzo, dai capelli neri pettinati all’indietro. «Spero di non disturbarla, dottoressa. So che questi sono giorni difficili per lei, ma devo parlarle» esordì.
   «Certo Capitano, si accomodi» disse Giely-9, alzandosi per riceverlo. «Notizie dal Dominio?» chiese.
   «I Fondatori esigono la sua estradizione» confermò lo Xaheano. «A dire il vero è notizia di qualche giorno fa, ma non ho voluto allarmarla, prima che ci fossero sviluppi».
   «E ora che è venuto a informarmi, che sviluppi ci sono?» chiese la Vorta, sulle spine.
   «Ho perorato la sua causa con l’Ammiraglio Hod, e l’Ammiraglio a sua volta ha fatto pressioni sul consolato federale. Sono lieto d’informarla che la sua richiesta d’asilo è stata accolta» annunciò Ki’Lau.
   «Le sono profondamente grata, Capitano» disse Giely-9, tornando a respirare. «Ma il Dominio che fa? Ha minacciato qualche rappresaglia? Perché se devo diventare la miccia di un conflitto, preferisco consegnarmi e farla finita» dichiarò.
   «Beh, è il caso di dire che lei ha un santo in Paradiso... o a essere esatti, un Fondatore nel Grande Legame» sorrise il Capitano. «L’Ambasciatore Odo ha convinto i suoi simili a rinunciare alle rappresaglie e a lasciarla stare. Lei è al sicuro, dottoressa. C’è solo una condizione posta dai Fondatori: poiché ha abbandonato il Dominio, non potrà mai più tornare. Se lo facesse, le conseguenze sarebbero – ehm – spiacevoli. Intendo che la giustizierebbero per tradimento» chiarì.
   «Questo lo avevo messo in conto» disse Giely-9. «È tutto qui? Non ci sono altre ricadute?» chiese, incredula della sua fortuna.
   «Beh, a dire il vero c’è una cosa» ammise lo Xaheano, a disagio. «Non riguarda lei direttamente, ma la sua... famiglia».
   «Come sarebbe? Noi Vorta non abbiamo famiglie» obiettò la giovane.
   «No, ma avete delle linee genetiche di cloni» puntualizzò Ki’Lau. «Lei ad esempio ci ha detto d’essere Giely-9, la nona della sua linea».
   «Sì, e quindi?».
   «Ecco, a causa di quella che considerano un’aberrazione genetica, i Fondatori hanno deciso di porre fine alla sua linea» rivelò il Capitano. «Quindi anziché clonare una Giely-10 per sostituirla, assegneranno i suoi incarichi a qualcun altro. Forse sdoppieranno un’altra linea genetica, non so bene come funzioni la cosa» ammise.
   «Sì, dovrebbero sdoppiarne un’altra, magari rimaneggiandola un po’» confermò la Vorta, assente. «Così sarò l’ultima Giely...». Era l’ennesima certezza che si sgretolava, quella della posterità. Perfino mentre fuggiva dal Dominio non si era soffermata a considerare questa possibile conseguenza. Chissà quante potenziali Giely non sarebbero nate e vissute, a causa della sua ribellione. Si chiese se questo la rendeva una persona egoista.
   «È molto grave per lei?» chiese lo Xaheano a bassa voce.
   «Non so, forse sì. Devo metabolizzare la notizia» ammise la Vorta.
   «Beh, le consiglio di concentrarsi sulla sua vita, sul suo futuro personale» esortò Ki’Lau. «Ora la porteremo al consolato federale su Bajor, per formalizzare la sua nuova cittadinanza. Sa, c’è l’iter burocratico per farle avere i documenti. Non abbia timore, ci sarà un tutor ad assisterla in ogni passaggio. Dopo di che, potrà iscriversi alle liste federali di collocamento. Ha già un’idea di cosa potrebbe fare?» indagò.
   «Beh, finora ho studiato medicina» mormorò Giely-9. «Pensavo di restare nel settore. Non so, forse dovrò studiare ancora qualche anno per specializzarmi nelle specie federali».
   «Abbiamo cittadini originari del Quadrante Gamma che beneficeranno senz’altro delle sue conoscenze» spiegò il Capitano. «Ma se vuole proseguire gli studi, si può fare. Su Bajor ci sono ottime università».
   «A dire il vero...» mormorò la Vorta, quasi vergognandosi della sua audacia, «... voi della Flotta siete stati così gentili e generosi con me, che stavo valutando d’entrare nella sezione medica della Flotta Stellare».
   «Beh, essendo di parte, non posso che augurarle buona fortuna» sorrise lo Xaheano. «Però le suggerisco d’informarsi a fondo su com’è il nostro lavoro e su quali sono i rischi. Sa, operare nello spazio profondo non è una passeggiata. Non lo faccia solo per sdebitarsi; non ha alcun obbligo nei nostri confronti. Ci pensi bene e decida in piena autonomia se è quello che desidera» consigliò.
   «Lo farò. Grazie, Capitano».
   «A presto, allora. Le comunicherò quando potrà sbarcare» disse Ki’Lau, e fece per lasciare l’alloggio.
   «Ah, un’ultima cosa!» lo seguì la Vorta. «Quando mi presenterò all’anagrafe federale, crede che potrò cambiare nome?».
   «Come? Beh, sì, credo di sì» fece lo Xaheano, un po’ sorpreso. «Ma perché vuol farlo?».
   «Oh, non lo cambierò completamente» spiegò la giovane. «Non voglio rinnegare la mia identità, mi basta togliere la cifra finale. Anziché Giely-9, sarò semplicemente Giely. Così forse non penserò a me stessa come a un clone difettoso, ma come a un vero individuo» mormorò.
   «Mi sembra un buon compromesso» sorrise il Capitano, incoraggiante. «Allora... benvenuta tra noi, dottoressa Giely» la salutò, scambiando una calorosa stretta di mano. 
 

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Capitolo 2
*** Spes, ultima dea ***


-Capitolo 1: Spes, ultima dea
Data Stellare 2612.061
Luogo: USS Destiny
 
   «Signori, questa è l’ora della verità» disse il Capitano Rivera, ritto davanti allo schermo principale, osservando i suoi ufficiali di plancia. «Abbiamo esplorato il Multiverso per due anni, cercando di tornare nel nostro cosmo. Siamo stati in luoghi che nessuno, nella Federazione, aveva mai visto né immaginato. Essere ancora qui insieme, dopo tante avventure, è già una vittoria. Sono fiero di voi, perché sebbene non abbiate avuto il lusso di frequentare l’Accademia, avete dimostrato un talento da far invidia alla Flotta. Ora, però, tutto questo sta per finire».
   L’Umano fece una pausa, osservando il suo eterogeneo equipaggio. Per la maggior parte erano contrabbandieri conosciuti sul mercantile Ishka, prima di abbordare l’USS Destiny e finire dispersi nel Multiverso. Il Primo Ufficiale, Losira, era un’aristocratica decaduta, trasformatasi in abile truffatrice. L’addetto ai sensori e alle comunicazioni, Talyn, era un ragazzo di strada trovato tra le macerie della Guerra Civile. La timoniera, Shati, era una cadetta espulsa dall’Accademia in seguito a un incidente. Anche il resto dell’equipaggio aveva storie difficili. Solo tre ufficiali si distinguevano dagli altri, essendo dei professionisti. L’Ingegnere Capo Irvik era un Voth proveniente dal Quadrante Delta, dove prestava servizio su una Nave Bastione del suo popolo. Il suo desiderio di visitare la Terra, patria comune di Umani e Voth, lo aveva portato a farsi dare un passaggio dagli avventurieri e poi a diventare, suo malgrado, responsabile della sala macchine. L’Ufficiale Tattico Naskeel era un militare tra la sua gente, gli enigmatici Tholiani dal corpo cristallino. Dapprima aveva disputato agli avventurieri il recupero della Destiny; solo dopo essersi smarriti nel Multiverso aveva accettato di collaborare, nella speranza di tornare a casa. Infine c’era Giely, la Vorta fuggita dal Dominio, nonché unica superstite dell’equipaggio originale, che aveva assunto l’impegnativo ruolo di medico di bordo. Per questi tre ufficiali il ritorno non aveva controindicazioni, poiché avrebbero ripreso le loro carriere: Irvik coi Voth, Naskeel coi Tholiani e Giely con la Flotta Stellare. Ma per Rivera e la sua banda di fuorilegge, tornare nella Federazione non era affatto una garanzia di salvezza, per quanto fosse preferibile a quell’odissea nel Multiverso.
   «Mi riferisco al fatto che, di tutte le coordinate quantiche trovate nel computer, ce ne resta solo una. Tutte le altre ci hanno deluso, conducendoci in realtà strane e pericolose. Questa è l’ultima possibilità» disse il Capitano, confermando le voci che correvano tra l’equipaggio. «Ora, so a cosa state pensando. Se queste ultime coordinate si rivelassero giuste, molte cose cambieranno, si spera in meglio. Ma se si rivelassero errate? Se quelle che cerchiamo fossero irrecuperabili?». Rivera scrutò i suoi ufficiali, riconoscendo il timore che li aveva rosi per tutto quel tempo; lo stesso che rodeva lui.
   «Ebbene, vi chiedo di prepararvi anche a questa eventualità. E vi dico che, per quanto difficile, non sarà la fine» riprese il Capitano. «Abbiamo già scoperto alcune dimensioni in cui potremmo sopravvivere a lungo; persino per il resto delle nostre vite. Ma non ci rassegneremo nemmeno a questo. Se le coordinate conosciute sono finite, ebbene, ne proveremo altre! Ogni tentativo ci darà una maggior comprensione del Multiverso e ci permetterà di correggere le prove successive, scremando le realtà più aliene e avvicinandoci sempre più alla nostra. Per questo io vi chiedo coraggio e perseveranza. E vi prometto che, finché saremo insieme su questa nave, uniti negli intenti, avremo sempre una speranza».
   Lo sguardo del Capitano indugiò su Irvik, il più ossessionato dal desiderio di tornare, in quanto aveva lasciato moglie e figli nel Quadrante Delta. Se quell’ultimo tentativo fosse fallito come gli altri, c’era il rischio concreto che il povero Voth avesse un crollo mentale. Forse avrebbe dato di matto, prendendosela con gli altri, o magari sarebbe caduto nell’apatia e nella disperazione. Il che avrebbe ulteriormente peggiorato le cose, perché lui era l’unico che ci capiva qualcosa del Multiverso, e quindi era a lui che si affidavano per tornare a casa.
   «Beh, leviamoci il dubbio!» disse Giely, con una strana leggerezza. Per il resto dell’equipaggio, la Vorta era sempre stata un mistero, fin da quando l’avevano trovata sola e senza memoria sulla Destiny alla deriva. Alcuni la consideravano squilibrata, anche dopo che aveva recuperato i ricordi, e in effetti nei primi tempi il suo atteggiamento era ai limiti dell’autismo. Ma qualcosa era cambiato in lei, man mano che legava coi colleghi; e ancor più da quando aveva intrecciato un’intensa relazione col Capitano. Essendo la prima Vorta a innamorarsi dopo millenni di clonazione e soppressione emotiva, non c’erano precedenti per il suo comportamento. Ma per chi la conosceva meglio era innegabile che fosse diventata più affascinante e sicura di sé. Ad esempio, mentre prima la si vedeva indossare sempre e solo l’uniforme della Flotta Stellare, adesso quand’era fuori servizio vestiva da civile, con uno stile sorprendentemente elegante. In generale, la Vorta mostrava più personalità di prima. Ed era una personalità eccentrica, a volte spiazzante. Ad esempio, se Irvik era il più ansioso di tornare a casa, Giely era quella che se ne preoccupava di meno; forse perché era più felice lì sulla Destiny di quanto fosse mai stata prima.
   «Sì, vamonos» convenne Rivera, scambiando un’occhiata d’intesa con la compagna, che sedeva sulla poltroncina del Consigliere di bordo. «Irvik, quando vuole» aggiunse il Capitano.
   L’Ingegnere Capo si concentrò sui comandi. In precedenza, quando la Destiny apriva una breccia interdimensionale, Irvik era in sala macchine a dirigere le operazioni. Di recente però aveva posto una nuova consolle per farlo in plancia, così da coordinarsi meglio con gli ufficiali superiori ed essere più pronto a rimandare indietro l’astronave, in caso di pericolo. «Deflettore carico» riferì il Voth, attivando i comandi con le mani tridattile. «Impulso gravitonico fra tre... due... uno...».
   Il deflettore della Destiny brillò, emettendo il raggio concentrato di particelle. Ancora una volta il prodigio scientifico si compì: i gravitoni squarciarono il velo tra le realtà, aprendo una breccia interdimensionale. Come da prassi, Irvik spedì prima una sonda con campioni biologici, per accertarsi che non ci fosse nulla di letale nelle leggi fisiche di quell’altro Universo. Solo quando la sonda fu tornata e Giely ebbe dato l’okay, Rivera dette il fatidico ordine: «Avanti a impulso».
   «Groan, ci siamo...» mormorò Shati, dirigendo la Destiny attraverso la fenditura simile a un vortice dorato. L’astronave abbandonò il Vuoto – il cosmo senza stelle in cui si rifugiava fra un tentativo e l’altro – per finire... altrove.
 
   Rivera trattenne il fiato mentre attraversavano il vortice e lo rilasciò appena furono dall’altra parte. Il primo impatto col nuovo cosmo fu buono: lì almeno c’erano le stelle. Ma ormai il Capitano sapeva che ci sono molti Universi provvisti di stelle, eppure tristemente diversi da quello in cui era nato. «Talyn, analisi a lungo raggio» ordinò. Solo un’analisi accurata delle stelle circostanti, unita all’intercettazione delle trasmissioni subspaziali, poteva sciogliere il loro dubbio. Girandosi a mezzo verso l’addetto ai sensori, tuttavia, il Capitano lo vide barcollare. «Ehi, che ti prende?!» si allarmò.
   Tutti si girarono verso il giovane El-Auriano, che era stranamente pallido e si reggeva alla consolle per non cadere. «Non so spiegare» mormorò. «Per un attimo la vista mi si è sdoppiata. Mi sono sentito come se non avessi più il senso dell’equilibrio. Ma sta passando». Staccò cautamente le mani dalla consolle, vacillando un poco mentre riacquistava l’equilibrio.
   «Vuoi andare in infermeria?» chiese Losira, sempre apprensiva verso il figlio adottivo.
   «Non occorre, ora sto bene» assicurò Talyn. «Procedo con la scansione a lungo raggio».
   «Dicci appena avrai dei risultati» raccomandò il Capitano, sedendo in poltrona. Anche se non lo dava a vedere, quella strana crisi del giovane lo inquietava. Talyn era un El-Auriano: il suo popolo aveva un’indefinibile, ma profonda comprensione istintiva della realtà. Ad esempio gli El-Auriani percepivano le alterazioni nella linea temporale, cosa che in genere riusciva solo alle entità più potenti del Multiverso. E all’occorrenza Talyn aveva mostrato altre strane capacità, di cui tuttavia non aveva il controllo, essendo cresciuto in strada e poi tra gli avventurieri. Ma solo un folle avrebbe ignorato le sue percezioni.
   «Ho i primi dati» disse il giovane di lì a poco. «Interessante... guardate un po’!». Trasferì sullo schermo le letture dei sensori, mostrando un ammasso di stelle azzurrine, ancora avvolte dalla nebulosa che le aveva generate.
   «Le Pleiadi!» riconobbe il Capitano, irrigidendosi sulla poltroncina. Mai prima d’ora avevano visitato un Universo così simile al loro da presentare le stesse stelle.
   «E non è tutto!» aggiunse Talyn, sempre più emozionato. «Oltre le Pleiadi rilevo alcuni sistemi federali, come Velara e Typerias. La posizione delle stelle e l’analisi spettrale non lasciano dubbi, siamo ai confini dello spazio federale. Dietro di noi c’è la Nebulosa del Toro, dove trovammo la Destiny due anni fa».
   «Rilevi astronavi, trasmissioni...?» chiese Rivera, non osando cantare vittoria prima di avere la certezza d’essere tornati a casa.
   «Vediamo... sì, capto la trasmissione di un mercantile Tellarita diretto a Velara!» esultò Talyn. «È disturbata per le interferenze delle Pleiadi, ma sono certamente Tellariti. Quindi...».
   «Quindi siamo tornati a casa, finalmente!» concluse il Capitano, ormai convinto. Un peso opprimente gli scivolò di dosso. Comunque andassero le cose, erano salvi. Non avrebbero dovuto vagare per il resto della vita in Universi strani e ostili. Quelli tra loro che avevano famiglia, come Irvik, sarebbero tornati dai loro cari. Gli altri... beh, per gli altri le cose erano più complicate, ma tornare nel loro Universo era comunque un bel passo avanti. E infatti la notizia fu accolta con un boato di trionfo dall’equipaggio. L’espansiva Shati balzò in piedi con un «Yu-huuu!» vittorioso e batté le mani. Persino Losira, solitamente distaccata, si concesse un caldo sorriso. E Irvik andò da Rivera per stringergli la mano.
   «Beh, Capitano... ci siamo salvati proprio all’ultimo!» commentò il Voth, giulivo. Le sue scaglie, solitamente verdi, si erano tinte di giallo, il colore della gioia per i sauri.
   «Già... grazie a lei» riconobbe l’Umano. «Se non l’avessimo avuta a bordo, non avremmo neanche ritrovato quella lista di coordinate. E di certo non ce la saremmo cavata, tutte le volte che abbiamo avuto guasti seri o siamo rimasti senza energia».
   «Già, già, siete stati fortunati ad avermi a bordo!» convenne Irvik, orgoglioso come tutti i Voth. «Beh, ora finalmente potrò tornare dalla mia famiglia. Due anni... non oso immaginare quanto saranno cresciuti i miei figli!» sospirò.
   A quelle parole, il Capitano provò una strana malinconia. Tutti loro avevano passato due anni a cercare di tornare indietro, ed erano terrorizzati all’idea di non riuscirci. Eppure, in qualche modo, quell’esperienza gli aveva dato un senso d’appartenenza e uno scopo comune che molti non avevano mai conosciuto prima. Ora che era finita, parecchi se ne sarebbero andati per sempre. «Shati, rotta per Velara, velocità di crociera» ordinò, ricordando che su quel pianeta c’era una piccola base della Flotta Stellare.
   «Ricevuto, arriveremo domani» riferì la timoniera.
   «Capitano, le ricordo la promessa che mi fece due anni fa» intervenne subito Naskeel, con la sua voce metallica resa dal traduttore. «Deve concedermi una navetta, così che io possa fare ritorno all’Annessione Tholiana».
   «Non l’ho scordato» si adombrò Rivera. «Appena avremo contattato la Flotta Stellare, e avrò qualche garanzia sulla sicurezza dell’equipaggio, avrà la sua navetta» garantì.
   «Ricevuto» disse il Tholiano, e tornò alla sua postazione. Era difficile stabilire se fosse soddisfatto, dato che il suo volto cristallino col becco da rapace non mostrava alcuna emozione. Presumibilmente lo era, avendo appena ricevuto la conferma del Capitano.
   Ma era proprio il Capitano ad essere senza pace per questo. Non gli piaceva l’idea che il Tholiano – che aveva familiarizzato coi sistemi tattici federali – tornasse dalla sua gente, a spifferare tutto ciò che aveva imparato. Tra l’altro i Tholiani avevano una memoria fotografica: Naskeel poteva rivelare così tanti segreti militari, e in modo così dettagliato, da compromettere seriamente la sicurezza federale. Scambiando un’occhiata con Losira, Rivera notò che anche lei aveva smesso di sorridere. Ricordavano entrambi la breve conversazione avuta due anni prima, dopo che il Capitano aveva preso la sofferta decisione di affidare la Sicurezza a Naskeel. A quel tempo avevano bisogno di lui per sopravvivere nel Multiverso, ma se ora avevano a cuore la sicurezza federale, allora il Tholiano doveva morire prima di tornare dai suoi simili. E Rivera non avrebbe ordinato a nessun altro di occuparsi della cosa.
 
   Quella notte il Capitano rimase sveglio a lungo nel suo letto, rimuginando su ciò che li aspettava. Il fatto che Giely fosse tra le sue braccia, forse per l’ultima volta, non lo aiutava a pensare con chiarezza.
   «Sei ancora sveglio» sussurrò la Vorta, rigirandosi tra le coperte per guardarlo in faccia. Dal finestrone sopra la testata del letto veniva la luce soffusa del tunnel di cavitazione, così che i due amanti potevano guardarsi.
   «Lo sei anche tu, querida» notò l’Umano, carezzandole un lato del viso in modo da sfiorarle l’orecchio zigrinato.
   «Siamo diretti a un mondo federale. Cosa conti di fare, una volta lì?» chiese Giely, alludendo alla sua fedina penale non proprio immacolata.
   «Beh, conosci il piano» disse il Capitano. «In questi anni ne ho parlato tante volte con quelli della vecchia banda, e sono tutti d’accordo. Non possiamo passare il resto della vita a fuggire e nasconderci. Eravamo allo stremo già sull’Ishka. Ora che abbiamo questo vascello sperimentale, la Flotta Stellare farà di tutto per riaverlo. E la Destiny è così riconoscibile che non potremo fermarci in nessun astroporto senza dare nell’occhio. Inoltre senza Irvik e Naskeel avremo difficoltà a governarla. Quindi ci consegneremo alla Flotta Stellare, restituendo l’astronave in cambio dell’amnistia».
   «Ma basterà? Voglio dire, non rischiate che la Flotta vi sbatta dentro lo stesso?» si preoccupò la dottoressa, scrutandolo con gli occhioni violetti. Lei non aveva nulla da temere, essendo a tutti gli effetti un ufficiale della Flotta Stellare; il problema erano gli altri.
   «Beh, il rischio c’è» ammise Rivera. «Comunque io e Losira abbiamo spulciato le leggi federali e il regolamento di Flotta, per capire come andranno le cose. Ci sono alcuni precedenti d’individui, e anche intere bande, che furono graziati in cambio di servigi come questo. Considera, inoltre, che non restituiremo soltanto la Destiny: c’è anche la Scorpion» disse, riferendosi alla bionave degli Undine che avevano catturato a inizio viaggio. «E c’è una montagna di dati sul Multiverso che abbiamo raccolto in questi anni. È per questo che ho sempre insistito per attardarci a esplorare le varie realtà. Così abbiamo raccolto informazioni senza prezzo per la Flotta Stellare. E ci sono le tue ricerche sulla tecnologia organica degli Undine... insomma, abbiamo un sacco di roba da scambiare» concluse.
   «Quindi sei sicuro che sarete graziati?» insisté Giely, ancora in apprensione.
   «Beh, sicuro è una parola grossa... diciamo che ci sono buone probabilità» rispose il Capitano. «Almeno per la ciurma» si lasciò sfuggire.
   «Che intendi? Perché per te dovrebbe essere diverso?!» si allarmò la Vorta.
   «Beh, essendo il Capitano ho la responsabilità delle nostre azioni, anche di quelle più discutibili» sospirò l’Umano. «Ho praticamente dichiarato guerra agli Undine, ho saccheggiato la colonia Thalassa, ho creato il caos nello Spazio Fotonico, eccetera eccetera. Per quante cose possa offrire in cambio alla Flotta, è difficile che mi perdonino tutto. Probabilmente dovrò scontare qualche pena» rivelò.
   «Intendi il carcere? E per quanto tempo?!» gemette Giely, abbracciandolo.
   «Non lo so, okay?» s’innervosì Rivera. «Forse me la caverò con una pena simbolica. Ma c’è anche la possibilità che mi vada peggio... molto peggio. Non so, non sono un esperto legale» sospirò, afflitto.
   «Stai dicendo che, dopo tutto quel che hai fatto per salvarci, potrebbero darti ugualmente l’ergastolo?!» inorridì la Vorta. «Non è giusto! Non te lo meriti. E io... io non voglio perderti!» esclamò, stringendolo ancora più forte, come se i poliziotti fossero già lì per trascinarlo via. «Ora che finalmente siamo felici, non devono dividerci!» ansimò. Non aveva mai conosciuto l’affetto di una famiglia, e anche il suo mentore Ome’tikal le era stato strappato troppo presto. Se ora le avessero tolto l’unico amore romantico della sua vita...
   «Guarda che anch’io soffro, ma non c’è alternativa!» sbottò l’Umano. «Se voglio salvare questo equipaggio, devo consegnare la nave... e anche me stesso. Almeno tu starai bene, querida. Tornerai nella Flotta Stellare, probabilmente sarai promossa per le tue ricerche. E se sarai felice... allora lo sarò anch’io» promise. Prese a carezzarla ovunque, cercando d’imprimersi quelle sensazioni nella memoria, per rievocarle quando fossero stati lontani.
   «Ma io non sarò affatto felice, se tu sarai in prigione!» obiettò la Vorta. «Continuerò a pensare a quello che c’è stato fra noi, a quanto poco tempo abbiamo avuto, e... e...!» singhiozzò.
   «Abbiamo sempre saputo che poteva finire così» le ricordò Rivera.
   «Sai, è brutto dirlo, però... vorrei che non avessimo ritrovato la Federazione» sussurrò Giely con le lacrime agli occhi. «Così le cose non cambierebbero».
   «Ormai sono già cambiate, non c’è nulla da fare» sospirò il Capitano.
   «E se tu e gli altri non vi arrendeste? Se continuaste a fare gli avventurieri?» insinuò la Vorta, dilaniata dal dolore.
   «Ti ho già spiegato i motivi per cui non dureremmo a lungo. E poi tu che faresti?».
   «Resterei con te!» dichiarò Giely con passione. Aveva già abbandonato il Dominio; poteva benissimo abbandonare anche la Flotta Stellare. In fondo era sempre stata più affezionata alle persone che non alle organizzazioni o ai principi astratti.
   «Così saresti rovinata anche tu» avvertì Rivera. «No, la mia unica consolazione, in tutta questa faccenda, è che almeno tu sarai libera. Non voglio trascinarti nei miei guai, solo per restare con te».
   «Neanche se io sono d’accordo?» obiettò la Vorta.
   «Non... tentarmi, va bene?!» fece l’Umano, ormai al limite. «Ora la pensi così, ma alla lunga te ne pentiresti. Voglio dire, continueresti ad amarmi se io fuggissi dalle mie responsabilità? E comunque stiamo parlando di un’opzione che non esiste. Non possiamo continuare a vivere da avventurieri, perché ho già parlato con gli altri e abbiamo già deciso di consegnarci. È tardi per andare a dirgli che ho cambiato idea!».
   «Allora... questa è la nostra ultima notte?» mormorò Giely, arrendendosi finalmente all’evidenza.
   «Temo proprio di sì, querida» confermò Rivera. La baciò, ripetendosi che non era sfortunato a perderla, bensì che era stato fortunato ad averla, sia pure per breve tempo.
   «Tienimi stretta» sussurrò la Vorta, cercando di prepararsi all’inevitabile addio.
 
   Il giorno dopo, prima ancora di raggiungere il sistema di Velara, la Destiny fu intercettata da un vascello federale. La trasmissione subspaziale chiedeva agli avventurieri d’identificarsi, comunicando i dati dell’astronave e le ragioni del viaggio. Era il momento tanto atteso.
   «Ci siamo, arresto totale. Alziamo gli scudi, per il momento» ordinò il Capitano, nel caso in cui qualcosa fosse andato storto. Stavolta Giely non era in plancia con lui; si era rinchiusa in infermeria, per non assistere alla sua resa davanti alle autorità.
   La Destiny uscì dalla cavitazione quantica, fermandosi del tutto. Pochi minuti dopo l’astronave federale giunse a sua volta, sostando a poca distanza. Rivera e i suoi ufficiali la scrutarono perplessi. Era piccola e così schiacciata che doveva avere pochissimi ponti. Aveva una forma compatta, con le gondole quantiche integrate nello scafo, che era scuro e stranamente privo di finestre. Le sue linee erano taglienti, specie la prua triangolare, con una scanalatura al centro in cui era alloggiato quello che pareva un cannone a impulso.
   «Non ho mai visto niente del genere» ammise Rivera. «Sembra la Keter, ma più piccola e cattiva».
   «Forse è un nuovo modello» ipotizzò Losira.
   «Oppure è un vascello segreto della Sezione 31!» ipotizzò Shati, che alle volte era un po’ cospirazionista.
   «In quel caso non si sarebbero mostrati, ti pare?» notò il Capitano. Aguzzando la vista, lesse il nome e il numero di registro della strana astronave: CSS Mistaya NX-606. Il codice NX la qualificava come un prototipo sperimentale, il che forse spiegava il numero stranamente basso.
   «Apriamo un canale» ordinò l’Umano, preparandosi a vuotare il sacco. Al cenno di Talyn, esordì: «Sono il Capitano Rivera della Destiny. Sì, proprio quella Destiny che scomparve sette anni fa, nel suo viaggio inaugurale. Avrete molte domande; sono qui per darvi le risposte».
   «Qui è l’Intelligenza Artificiale della nave-drone Mistaya» rispose un’armoniosa voce femminile, limitandosi a trasmettere l’audio. «Può chiamarmi Misty, Capitano Rivera. In effetti sono alquanto sorpresa di rivedere la Destiny. La vostra nave è stata data per dispersa e le informazioni su di essa sono strettamente riservate. Le probabilità di rivederla erano ritenute prossime allo zero, il che denota un errore nei miei calcoli. Ma l’elemento più inaspettato siete voi: le mie subroutine di riconoscimento facciale indicano che nessuno di voi era presente a bordo, al momento del varo. Devo chiedervi d’identificarvi e di chiarire le ragioni della vostra presenza a bordo».
   «Beh, è una lunga storia» sospirò Rivera. Almeno la risposta di Misty aveva chiarito il dubbio sullo strano aspetto dell’astronave. Il Capitano sapeva che la Flotta Stellare aveva fatto vari tentativi con le navi-drone, per avere vascelli a basso costo e non rischiare le vite dell’equipaggio. Ma ogni volta qualcosa andava storto e il progetto veniva ritirato. Che questa fosse la volta buona in cui i vascelli automatizzati entravano in servizio? Sarebbe stata una svolta epocale per la Flotta, ma non c’era tempo per pensarci. Nella mezz’ora successiva, il Capitano fece del suo meglio per riassumere la loro storia. Confessò che erano solo una banda d’avventurieri, che avevano abbordato la Destiny alla deriva, finendo dispersi nel Multiverso. Descrisse in estrema sintesi le loro peripezie nello Spazio Fluido e nelle altre realtà che avevano esplorato. Infine chiarì le proprie intenzioni.
   «Il motivo per cui ti abbiamo contattata è che siamo disposti a restituire la Destiny, in cambio dell’amnistia» spiegò il Capitano. «E non solo la Destiny; nell’hangar abbiamo anche una bionave appartenente agli Undine. Inoltre consegneremo tutte le informazioni sul Multiverso che abbiamo raccolto in questi due anni e risponderemo a ogni ulteriore domanda che vorrete farci. In cambio non chiediamo altro che qualche garanzia sul nostro futuro. In particolare esigo che tutto il mio equipaggio sia prosciolto da ogni accusa e riabbia la licenza mercantile. Inoltre chiedo all’Autorità Commerciale Ferengi il risarcimento assicurativo per la perdita del nostro vascello, l’Ishka, e del suo carico. Queste sono le mie condizioni non negoziabili per la restituzione della Destiny. Sul resto potremo accordarci, quando ne discuterò con qualcuno in carne e ossa».
   Ci fu un breve silenzio. Poi Misty rispose con la sua voce armoniosa: «Dalla mia analisi del diritto confederale, ritengo che le sue richieste siano accettabili, Capitano Rivera. Vi scorterò alla base confederale su Velara, dove prenderete contatto con le autorità. Finché la vostra posizione legale non sarà regolarizzata, v’invito a restare in orbita, senza lasciare la Destiny. Qualunque tentativo di fuga, individuale o collettivo, andrà a detrimento della vostra amnistia. Detto questo, mi congratulo per il vostro ritorno e per la disponibilità a collaborare con la giustizia confederale. Le vostre famiglie saranno prontamente informate che siete sopravvissuti».
   «Mi fa piacere» disse Rivera, soddisfatto nel vedere che le cose volgevano al meglio. Chissà, magari anche lui avrebbe ottenuto l’amnistia... forse le sue preoccupazioni erano esagerate...
   In quel preciso momento Naskeel lanciò una salva di siluri quantici contro la Mistaya, colpendo il suo deflettore di navigazione e disintegrandola completamente.
 
   Sulla plancia della Destiny cadde un silenzio di tomba. Il Capitano fissava inebetito la nube dei detriti in espansione della Mistaya. Tutte le sue speranze erano andate in fumo con quella nave. La Flotta Stellare non avrebbe perdonato quell’attacco ingiustificato, che aveva comportato la distruzione di un’IA, equivalente a una persona sotto il profilo giuridico. Lentamente, Rivera si riscosse e si girò verso Naskeel, che attendeva immobile e impassibile.
   «Tu... tu devi essere impazzito!» ringhiò l’Umano. «Non avrei mai dovuto metterti a quella consolle, dannato mostro! Ma qui è pieno di testimoni, pronti a confermare che hai aperto il fuoco senza il mio ordine!» avvertì, aggrappandosi all’ultima speranza.
   «Capitano, dobbiamo occultarci e andarcene subito» rispose il Tholiano, imperscrutabile.
   «Hai sentito cos’ho detto?! Sei finito, resterai in cella fino al giudizio! Arrestatelo!» ordinò Rivera al resto degli ufficiali di plancia.
   «Perché dovreste arrestarmi? Ho appena garantito la vostra libertà e forse anche la vostra sopravvivenza» sostenne l’Ufficiale Tattico.
   «Distruggendo senza motivo un vascello della Flotta Stellare?!».
   «Quel vascello non era della Flotta Stellare» ribatté Naskeel, lapidario.
   Ci fu un nuovo silenzio, stavolta perplesso. «Come sarebbe, non era della Flotta? E di che diavolo era, allora?!» chiese il Capitano, ancora alterato.
  «Ritengo che appartenesse a qualcosa d’ingannevolmente simile alla Flotta Stellare» spiegò il Tholiano. «Simile, ma non identico. Osservate la registrazione dell’incontro». Così dicendo proiettò sullo schermo l’immagine della Mistaya, com’era stata ripresa dai sensori della Destiny, prima che fosse distrutta. Zoomò sulla sezione dello scafo superiore che recava il nome e il numero di registro del vascello. «Ora vedete?» chiese a tutti i colleghi.
   «È la designazione dell’astronave, che ha di speciale?» fece Rivera. «CSS... un momento, perché CSS?» si meravigliò.
   «Vedo che ha colto il punto. Le navi della Flotta Stellare hanno la designazione USS, non CSS» confermò Naskeel. «E non è tutto. Riascoltate la nostra conversazione con l’IA. Noterete che, ogni volta che dovrebbe dire “federale”, in realtà dice un’altra cosa». Il Tholiano fece risentire il dialogo dagli altoparlanti e tutti i presenti aguzzarono l’udito, concentrandosi su questo dettaglio.
   «Dalla mia analisi del diritto confederale, ritengo che le sue richieste siano accettabili, Capitano Rivera. Vi scorterò alla base confederale su Velara, dove prenderete contatto con le autorità. […]. Detto questo, mi congratulo per il vostro ritorno e per la disponibilità a collaborare con la giustizia confederale. Le vostre famiglie saranno prontamente informate che siete sopravvissuti».
   «Dice confederale!» notò Talyn, enfatizzando la prima sillaba.
   «Esatto. Confederale, non federale. CSS, non USS. E quella nave era completamente automatizzata, cosa inusuale per la Flotta Stellare» puntualizzò Naskeel. «La mia ipotesi è che non ci troviamo affatto nel nostro Universo d’origine, bensì in uno così affine da averci ingannati. Stelle e pianeti sembrano gli stessi, ma qualcosa nella società è diverso. Ciò significa che in questo momento potrebbero esserci i nostri alter-ego, là fuori, impegnati in tutt’altre faccende. Il che rende il nostro reinserimento in società impraticabile. Dunque sarebbe pericoloso rendere nota la nostra presenza. Ecco perché ho dovuto distruggere la Mistaya prima che trasmettesse alcunché alle sue autorità».
   Ancora una volta cadde il silenzio. Gli avventurieri riflettevano sulle parole di Naskeel, trovandole spietatamente logiche. Si erano davvero ingannati, credendo d’essere a casa, quando invece erano da tutt’altra parte.
   «Beh, questo è... un duro colpo» mormorò Rivera, arrendendosi all’evidenza.
   «State dicendo che abbiamo fallito anche l’ultimo tentativo?! Perché queste erano le ultime coordinate quantiche, non ne abbiamo altre!» ringhiò Irvik. Le sue scaglie trascolorarono verso il rosso dell’ira.
   «Okay, ora si calmi...» fece il Capitano, vedendo guai all’orizzonte.
   «Col frell che mi calmo! Ho mandato avanti questa nave per due anni, ed è stato tutto inutile?! Devo rassegnarmi all’esilio, è questo che stai dicendo, piccolo mammifero?!» tuonò il Voth. Tese le mani verso il Capitano, sul punto di sparargli contro un artiglio avvelenato. Era una capacità unica dei Voth, che la usavano di rado, considerandolo un retaggio animalesco. Ma Irvik era fuori di sé per la delusione e la collera, tanto che avrebbe potuto farlo.
   Notando il pericolo, Naskeel estrasse prontamente il phaser che teneva in un comparto della consolle tattica e mirò il Voth. «Fermo, sangue-freddo! Un solo gesto e ti sparo. Vuole che gli spari, Capitano?» si rivolse al superiore.
   «No, fermi tutti!» gridò Rivera, vedendo che la situazione gli sfuggiva di mano. «Qui nessuno sparerà e nessuno scaglierà artigli! Abbiamo appena distrutto un’astronave, non è abbastanza per oggi?! Volete fare altri danni?! Perché possiamo accapigliarci fino a sera, ma poi ci ritroviamo con gli stessi problemi!».
   A quelle parole gli animi si stemperarono. Naskeel calò il phaser e anche Irvik abbassò le mani. Ma l’Ingegnere Capo era tutt’altro che rasserenato. «Ne ho abbastanza, vado nel mio alloggio. Per oggi cavatevela senza di me!» sbottò, e lasciò la plancia.
   Andato Irvik, tornò un surrogato di calma. Ma il Capitano si avvide che anche gli altri ufficiali erano frustrati dalla scoperta di aver fallito l’ultima possibilità. Shati era così stressata che la sua pelliccia era tutta arruffata, e a Rivera parve di vederla sputare una pallina di pelo.
   «Ordini, Capitano?» chiese Talyn, anche lui sconsolato.
   Osservandolo, Rivera ricordò la strana crisi che il giovane aveva avuto quando erano giunti in quel cosmo. L’El-Auriano aveva detto che per un attimo la vista gli si era sdoppiata. Alla luce della nuova scoperta, questo dettaglio assumeva una sfumatura sinistra. Forse erano davvero in un Universo simile, ma speculare al loro...
   «Occultiamoci e allontaniamoci da questa zona. Non voglio che la Flotta Stellare, o come diavolo si chiama qui, c’identifichi come i responsabili di questo attacco» disse l’Umano, alludendo ai detriti della Mistaya.
   «Sì, ma... che rotta devo inserire?» chiese Shati.
   Al Capitano servì un tempo penosamente lungo per rispondere. «Per il momento teniamoci lontani da qualunque sistema abitato» decise infine. «Però voglio che ci addentriamo nello spazio federale... cioè, confederale. Ci servono più informazioni, quindi restiamo in ascolto. Cerchiamo di captare qualche trasmissione subspaziale, o meglio ancora di connetterci alla rete Olonet, se c’è. Dobbiamo capire dove diavolo siamo capitati».
   «Pensi che ci tratterremo a lungo, Capitano?» chiese Losira, per capire le sue intenzioni.
   «Questo dipenderà da cosa scopriremo» rispose l’Umano, tormentato. «In fondo questo è l’Universo più simile al nostro che abbiamo mai trovato. Se la nostra esplorazione del Multiverso restasse infruttuosa, potremmo anche considerare l’ipotesi di stabilirci qui» borbottò.
   «Non è proprio quello che speravamo. Alcuni saranno... insoddisfatti» sussurrò Losira, alludendo in primo luogo a Irvik.
   «Lo so» annuì cupamente Rivera. «Comunque per ora non è deciso niente. Prima ci occorrono più informazioni, quindi fate come ho detto. Addentriamoci nello spazio confederale, restando occultati, e stiamo in ascolto».
 
   Fu la mattina dopo che gli avventurieri ebbero le prime risposte. Giunti al sistema di Velara, dove nel loro Universo c’era un piccolo avamposto federale, si trovarono in mezzo a uno sciame di detriti. Dovettero alzare gli scudi e scendere a minimo impulso per non mettere a repentaglio l’astronave.
   «Sono frammenti metallici. Dall’analisi delle leghe, direi che sono compatibili con scafi della Flotta Stellare. E dalla forma dei detriti più grandi è chiaro che erano navi con equipaggio, non droni» disse cupamente Talyn. Zoomò su uno dei resti maggiori, che conservava la forma della sezione a disco di un’astronave, crivellata di colpi. Un altro frammento, a poca distanza, non era altro che una gondola di curvatura, staccata dal corpo del vascello.
   «Un cimitero spaziale» riconobbe Rivera con un groppo in gola. «Dev’esserci stata una grande battaglia... ma quando?».
   «Dal decadimento degli isotopi radioattivi, direi circa trentacinque anni fa» rispose Talyn.
   «Quindi la Flotta Stellare, o il suo equivalente di questo Universo, ha combattuto una grande battaglia... e l’ha persa» ricapitolò Shati.
   «Sì, ma una battaglia contro chi?» chiese Losira. «Ci sono resti di un’altra flotta, dei loro avversari?».
   «È difficile dirlo, ma... non rilevo leghe diverse» rispose Talyn dopo qualche analisi.
   «Allora ci sono solo due possibilità. O i vincitori hanno accuratamente rimosso ogni resto della loro flotta, o si è trattato di un conflitto tra lo stesso tipo d’astronavi» ragionò Naskeel.
   «Uhm, stento a credere che i vincitori si siano presi la briga di bonificare tutto il sistema» commentò il Capitano. «Questo ci lascia con l’altra possibilità: una guerra civile».
   «Come, anche qui?!» gemette Shati.
   «Beh, se l’abbiamo avuta noi...» borbottò Rivera, sempre più accigliato. «Resta da vedere quale fazione ha prevalso, e qual è lo stato attuale del Quadrante».
   «Credo di aver trovato qualche... indizio» disse Talyn, stranamente reticente. «Attenti, non è un bello spettacolo». L’El-Auriano inquadrò un’altra porzione di spazio, amplificando al massimo. Allora in plancia scese il gelo, perché il vuoto era affollato di... corpi.
   Centinaia, migliaia di corpi umani – sia uomini che donne – fluttuavano nello spazio, perfettamente conservati dalla temperatura prossima allo zero assoluto e dall’assenza di microrganismi decompositori. Erano irrigiditi in pose agonizzanti e sui loro volti restavano, congelate, le ultime smorfie di dolore e disperazione. Tutte le vittime indossavano ancora le uniformi che avevano al momento della morte. Erano divise scure e severe, con tanto di guanti, nonché una mostrina che faceva da comunicatore. Gli avventurieri aguzzarono la vista, cercando di riconoscerne la forma.
   «Ecco, ferma!» ordinò Rivera, nel momento in cui uno dei cadaveri fluttuanti entrava nell’inquadratura. Era il corpo di un Umano, così vicino da riempire quasi tutto lo schermo, ed era anche girato in modo da rendere chiaramente visibile il comunicatore/mostrina.
   Talyn inserì il fermo-immagine. Allora gli avventurieri si sentirono accapponare la pelle nel riconoscere quel simbolo. Era un globo terrestre, come indicava il profilo dei continenti; ed era trafitto verticalmente da un lungo pugnale acuminato. Solo una potenza esibiva quell’emblema: l’Impero Terrestre dell’Universo dello Specchio.
 
   Fu Losira a rompere il silenzio. «Andiamocene, subito!» sibilò. «Non voglio restare un altro istante in questa schifosa dimensione!».
   «Aspetta...» fece Rivera, più paziente.
   «Cosa devo aspettare, Capitano?! Che arrivi l’Impero Terrestre a farci schiavi? Sappiamo come vanno le cose qui: gli Umani comandano e tutti gli altri servono!» sbottò la Risiana.
   «Senti, neanche a me piace l’idea di trovarmi in questo Universo dimenticato da Dio, ma non possiamo andarcene e basta!» rimbeccò il Capitano. «Abbiamo esaurito le coordinate quantiche, ricordi? Significa che o restiamo qui, o torniamo nel Vuoto. E sai cosa comporterebbe subire un guasto nel Vuoto: niente pianeti su cui fare scalo, nessuna risorsa con cui riparare la Destiny. Che ci piaccia o no, questa è la realtà più simile alla nostra...».
   «Sì, una realtà in cui solo tu ci guadagneresti!» insisté Losira.
   «Non dire sciocchezze. Le autorità imperiali non mi lascerebbero mai al comando di questa nave» obiettò Rivera. «Fuorilegge eravamo e fuorilegge rimarremo, perché con l’Impero Terrestre ogni speranza d’ottenere l’amnistia va in fumo».
   «Sempre che l’Impero Terrestre sia ancora al potere» notò Naskeel. «La nave-drone parlava di autorità confederali, e ora ci troviamo in un cimitero spaziale affollato di vittime imperiali».
   «Già, troppo affollato» convenne Talyn, che nel frattempo aveva proseguito le analisi. «Rilevo la bellezza di 2.200 corpi, tutti concentrati in un volume di spazio ridotto. Se fossero morti sulle loro astronavi, si sarebbero disintegrati con esse. Invece sono tutti interi... oserei dire illesi...».
   «Che stai insinuando?» rabbrividì Shati. «Vuoi dire che...».
   «Già, non penso che tutti quegli Umani siano morti durante la battaglia» confermò il giovane. «Credo invece che si siano arresi, o comunque siano stati presi prigionieri. Vedete che, pur avendo le uniformi dell’Impero Terrestre, non hanno i phaser né i pugnali in cintura? Significa che sono stati disarmati. Ma invece d’imprigionarli, o di confinarli su un mondo disabitato, i vincitori hanno preferito giustiziarli così. Credo proprio che fossero ancora vivi, quando li hanno espulsi nello spazio».
   «E dopo trentacinque anni sono ancora lì, abbandonati nel vuoto» notò Rivera, impietosito. «Anche dopo tutto questo tempo, nessuno s’è preso la briga di seppellirli».
   «Forse i vincitori li hanno lasciati lì come monito» suggerì Naskeel.
   «Beh, dopotutto quelli erano soldati dell’Impero Terrestre... insomma...» borbottò Shati, ma non riuscì a concludere la frase.
   «E quindi? Erano cattivi, quindi meritavano d’essere gettati vivi nello spazio?» commentò il Capitano. «Può darsi, Shati. Ma se chi li ha sconfitti fosse migliore di loro, non gli avrebbe fatto questo. Io temo che, chiunque sia al potere adesso, non sia meglio degli Imperiali».
   «Beh, allora dobbiamo capire al più presto chi comanda» concluse Losira, consultando il database federale dall’oloschermo della sua poltroncina. «L’ultimo contatto ufficiale tra le nostre realtà risale all’indomani della Battaglia di Procyon V, nel 2556. Sono cinquantasei anni fa! In tutto questo tempo possono essere cambiate molte cose». Spense lo schermo e si rivolse al Capitano: «Ritiro la mia precedente richiesta. Vale la pena d’esplorare questo cosmo, per capire come stanno le cose».
   «Forse ho trovato una fonte d’informazioni» disse Talyn, inquadrando un’altra porzione di spazio. Una boa spaziale campeggiò sullo schermo; la sua superficie era affollata di antenne che puntavano in tutte le direzioni. «Somiglia ad alcuni memoriali che la nostra Federazione lascia nei sistemi in cui si sono svolte grandi battaglie» notò il giovane. «Se usciamo dall’occultamento, permettendole di rilevarci, dovrebbe trasmettere informazioni storiche».
   «Uhm... non sono ancora pronto a rivelare la presenza della Destiny» borbottò Rivera. «Ma ci occorre ogni informazione, quindi ci avvicineremo con una navetta. Talyn, Shati, venite con me. Losira, a te la Destiny; mantenete la posizione fino al nostro ritorno».
 
   Di lì a poco i tre avventurieri erano su una navetta di classe Hornet, in rotta verso la boa spaziale. Procedevano a velocità d’impulso, con i sensori all’erta. Quando furono a dieci milioni di chilometri vi fu una reazione alla loro presenza.
   «Ci siamo, la boa sta trasmettendo» disse Talyn, aprendo il canale.
   Sullo schermo apparve un emblema molto simile a quello della Federazione: un quadrante circolare spruzzato di stelle, contornato da una corona d’alloro. Ma il fondo era rosso anziché azzurro e le stelle apparivano disposte in maniera speculare, come se fossero riflesse.
   «Cittadini della Confederazione, state visitando un sito storico» disse una voce femminile stranamente familiare. «Qui, in Data Stellare 2576.187, gli eroici ribelli confederali inflissero la prima grande sconfitta alle forze oppressive dell’Impero Terrestre. Dopo aver organizzato gli ammutinamenti di massa nel Settore di Mira e il raid ai cantieri spaziali di Kessic, il Capitano Garm della Garuda riuscì a radunare una flotta di venticinque astronavi. Dopo aver attirato qui la Nona Flotta Imperiale, forte di quaranta astronavi, riuscì a coglierla di sorpresa con una brillante manovra. Sebbene in inferiorità numerica, i ribelli dettero prova di maggiore abilità e dedizione alla causa, riuscendo a sbaragliare gli Imperiali, il che dimostra come fossero dalla parte giusta della Storia. Dieci astronavi furono strappate all’Impero, andando a rafforzare l’armata della libertà. E sebbene il Capitano Garm sia rimasto ucciso nelle ultime fasi della battaglia, questa vittoria è indubbiamente sua. Oggi lui e gli altri martiri della libertà sarebbero fieri di sapere che il loro sacrificio ha permesso di rovesciare il tirannico Impero Terrestre, sostituendolo con la prima vera democrazia della nostra Storia».
   Mentre la voce narrava, apparve una serie di riprese che mostravano le fasi salienti della battaglia, il funerale di Garm e le celebrazioni della vittoria. L’ultima ripresa sembrava mostrare la firma della nuova Costituzione, al termine della Guerra Civile.
   «Oggi la Confederazione Unita dei Pianeti si batte per garantire pace, libertà, giustizia ed eguaglianza ad ogni cittadino. Ma affinché questi diritti siano realmente garantiti, ognuno deve fare la sua parte, ad ogni livello della società. Dunque esorto ciascuno di voi a impegnarsi nei propri doveri civici, denunciando qualunque manifestazione di Umanità vi capiti d’incontrare. E se siete Umani, vi ricordo che la vostra espiazione per i crimini collettivi della vostra razza è appena cominciata, ed è un impegno che durerà per tutti i giorni della vostra vita, trasmettendosi ai vostri discendenti. Solo a queste condizioni avremo assicurato un avvenire luminoso!».
   Terminate le immagini propagandistiche, l’oratrice fu finalmente inquadrata. Allora Rivera capì perché la sua voce gli era parsa così familiare. L’Umano impallidì nel fissare il compiaciuto viso segaligno di Rangda, la dittatrice che aveva gettato la Federazione nella Guerra Civile... o ad essere precisi, la sua alter-ego dello Specchio, anche lei insediata nello studio presidenziale e armata con la stessa retorica velenosa. Che ironia, essere sopravvissuto alle sue persecuzioni – mentre la sua famiglia non ce l’aveva fatta – solo per ritrovarsela lì, più potente che mai! E se nella Federazione c’erano stati eroi che l’avevano sconfitta, a carissimo prezzo, ben difficilmente nel torturato Specchio vi erano individui all’altezza del compito.
   «Capitano...» mormorò Shati, intimorita. Non aveva mai visto una collera così assassina negli occhi di Rivera.
   «Torniamo sulla Destiny» ordinò l’Umano, con voce controllata. «Urge una riunione di guerra».
 
   Un’ora dopo gli ufficiali superiori della Destiny erano raccolti attorno al tavolo tattico. C’erano anche Giely, giunta dall’infermeria, e Irvik, richiamato ai suoi doveri dopo la giornata di sciopero. Il loro atteggiamento era agli antipodi. Se la Vorta sembrava lieta che non fossero tornati alla Federazione, e che quindi non dovessero dividersi, il Voth al contrario era ancora rosso di rabbia.
   «Signori, dobbiamo guardare in faccia la realtà» disse il Capitano. «Siamo nell’Universo dello Specchio e non abbiamo altre coordinate da tentare. I nostri precedenti tentativi ci hanno condotti in realtà ancora più aliene e invivibili. Questa, malgrado tutto, resta la più simile alla nostra, al punto che potremmo incontrare i nostri alter-ego».
   «No, grazie! Non ci tengo a incontrare il mio doppione!» protestò Shati. «Propongo di tornare nel Vuoto e tentare altre realtà».
   «Se le proviamo a caso, non troveremo mai quella giusta» obiettò Talyn. «E anche provare a scremarle nel modo che dicevamo è rischioso. Se facciamo troppi tentativi, qualcosa finirà per guastarsi e resteremo bloccati, magari in una realtà ancora più inospitale».
   «Sentite, odio dirlo, ma... forse dovremmo smetterla di saltare da un Universo all’altro e restare qui» disse Losira. «Abbiamo un’astronave potente, e non dobbiamo per forza stare entro i confini della Confederazione. Possiamo tenercene fuori e continuare a vivere più o meno come prima».
   «E dire addio alle nostre famiglie? Non se ne parla!» insorse Irvik. «Se qualcuno vuol restare, che scenda adesso; noialtri proseguiremo senza!».
   «Non lascerò che questo equipaggio si disgreghi» avvertì il Capitano. «Andremo tutti o nessuno».
   «Se è vero che in questo Universo vivono i nostri alter-ego, allora non possiamo tornare alle nostre vite» notò Naskeel. «E questa nave è facilmente riconoscibile, per cui ovunque andremo, attireremo l’attenzione delle autorità. Crederanno che ci siamo impadroniti della loro Destiny e per questo ci daranno la caccia, anche oltreconfine».
   «Insomma, siamo fregati!» commentò Shati. Per qualche secondo cadde il silenzio.
   «Scusate la mia ignoranza... ma vorrei capire se questa Rangda è davvero così tremenda» intervenne Giely.
   «È peggio di quel che immagini» la gelò Rivera. «Quand’era Presidente ha perseguitato la mia specie, facendone un capro espiatorio per ogni problema sociale. S’è accordata coi Voth, vendendogli la Terra in cambio dell’aiuto per distruggere la Flotta Stellare e assumere poteri dittatoriali. Ha gettato la Federazione nella Guerra Civile, lasciandola indifesa contro l’invasione Borg. E quando s’è vista sconfitta, piuttosto che restituire la Terra agli Umani ha cercato di distruggerla, non una ma due volte! A conti fatti, ha massacrato più federali di qualunque nemico esterno».
   «Ma stai parlando della Rangda del nostro Universo» puntualizzò Giely. «Questa potrebbe essere diversa...».
   «Hai sentito cos’ha detto in quel messaggio propagandistico. No, non credo che sia diversa. Certe cose non cambiano mai!» insisté il Capitano. Ricordava fin troppo bene le frustate che aveva ricevuto da adolescente quando, per ordine di Rangda, gli Umani erano stati deportati dalla Terra e costretti a lavorare in cantieri spaziali e fabbriche d’armi. Lì nello Specchio le cose dovevano essere ancora peggiori. Si chiese in che condizioni fosse l’umanità dopo la caduta dell’Impero Terrestre. La Terra esisteva ancora o era stata distrutta? Gli Umani erano forse una specie in via d’estinzione?
   «Allora che cosa proponi?» chiese Losira. «Perché se vuoi lanciarti in una crociata personale contro questa Rangda, è pura follia. La Destiny sarà anche potente, ma non siamo soldati e non possiamo combattere una guerra. Del resto, gli Umani di questa realtà hanno raccolto ciò che hanno seminato».
   «Tranquilli, non vi chiedo di scatenare una guerra contro la Confederazione» assicurò Rivera, rivolgendosi a tutti i presenti. «Non ho ancora rinunciato alla speranza di tornare a casa. Vedete, il nostro Universo e lo Specchio sono sempre stati stranamente collegati. Il fatto che vi si trovino spesso gli stessi individui, malgrado l’evoluzione storica sia diversa, sembra indicare una correlazione quantistica. Non sono un esperto, ma... quello che voglio dire è che il passaggio tra le due realtà è più facile di quanto non accada con altri Universi. Nel corso dei secoli ci sono stati molti contatti, talvolta intenzionali, ma più spesso accidentali. Incidenti di teletrasporto, interfasi di spazio... persino il Tunnel Spaziale Bajoriano s’è rivelato in grado di fare da ponte. Quel che dobbiamo fare è esaminare le passate interazioni e trovare il modo di ripeterle. Irvik, credo che lei sia particolarmente motivato a tentare» notò.
   «Sì, visto che non c’è altra strada!» sospirò il Voth. «Comincerò subito a studiare le interazioni fra i due Universi, per vedere quale è ripetibile. Intanto vi consiglio di fare rotta per il wormhole bajoriano, visto che prima o poi tenteremo anche quello».
   «Partiremo non appena sbrigata un’altra faccenda» promise il Capitano. «Visto che la Destiny attirerà l’attenzione, voglio almeno evitare che tutti capiscano al volo che veniamo da un altro cosmo. Irvik, mandi gli Exocomp a ridipingere lo scafo» ordinò, riferendosi ai robottini riparatutto che aiutavano gli Ingegneri. «Devono cambiare il registro, da USS a CSS».
   «Una giusta precauzione, Capitano» riconobbe Naskeel. «Raccomando di limitare al massimo i contatti coi nativi dello Specchio, e se proprio dovremo aprire dei canali, di limitarci all’audio».
   «Annotato» annuì Rivera. «Talyn, tieni i sensori in allerta per qualunque trasmissione. Più ci addentreremo nella Confederazione, più il traffico subspaziale sarà fitto; e ci servono ancora molte informazioni. Dobbiamo capire qual è la situazione politica».
   «Programmerò degli algoritmi di ricerca» promise l’El-Auriano.
   «Bene, avete le vostre consegne» concluse il Capitano. «Al lavoro, ci aggiorneremo quando ci saranno novità».
 
   Agli Exocomp bastarono pochi minuti per cancellare la U dipinta sullo scafo, sostituendola con una C nella stessa grafia. Dopo di che rientrarono nell’astronave attraverso gli appositi boccaporti di manutenzione. L’appena ribattezzata CSS Destiny balzò in cavitazione, lasciando il cimitero spaziale. La sua rotta portava verso il sistema bajoriano, in profondità nello spazio della Confederazione.
   Nei giorni seguenti, come previsto, il traffico subspaziale aumentò a dismisura, finché Talyn riuscì a connettersi alla rete Olonet, scaricando imponenti quantità di dati. Per il Capitano e gli ufficiali cominciò un periodo d’intenso studio: dovevano mettersi in pari con la storia locale, se volevano comprendere l’attualità politica della Confederazione. Il compito era reso difficile dal taglio fortemente propagandistico delle fonti. Rivera e gli altri, tuttavia, notarono una strana tendenza. Fino ad allora era prassi che gli stessi individui esistessero nei due Universi, in ruoli talvolta simili, talvolta specularmente invertiti. Tuttavia negli ultimi decenni qualcosa era cambiato: una buona metà delle figure di spicco del loro Universo sembravano non esistere nello Specchio, e viceversa. Anche le differenze tecnologiche, e in vari aspetti culturali, parevano sempre più marcate. Quale che fosse il misterioso legame che univa i due piani d’esistenza, pareva indebolirsi col passare del tempo; e forse un giorno si sarebbe reciso del tutto.
 
   In quei giorni, Giely si trovò spesso a chiedersi se da qualche parte là fuori c’era la sua omologa dello Specchio. Si sarebbero mai incontrate? La Vorta ne dubitava. La sua fuga dal Dominio era stata così azzardata che difficilmente la sua alter-ego poteva esserci riuscita, sempre che avesse mai tentato. Inoltre le trasmissioni locali parlavano pochissimo del Dominio, tanto che era difficile capire quale fosse la sua situazione, e quali i rapporti con la Confederazione. Per vederci chiaro sarebbero dovuti arrivare al sistema bajoriano.
   Fu così che le ricerche di Giely si concentrarono progressivamente sulla figura della Presidente Rangda. Da quando Rivera l’aveva messa in guardia sul suo conto, la Vorta voleva saperne di più. Per prima cosa consultò il database della Destiny riguardo la Rangda del loro Universo, e ne restò scioccata: Rivera non aveva affatto esagerato la portata dei suoi crimini. Poi la dottoressa consultò le informazioni recentemente acquisite sulla Rangda dello Specchio. Certo era un peccato che, mentre tante persone del loro Universo non avevano più un alter-ego, Rangda invece ce l’avesse. Forse dipendeva dalla sua età avanzata: quand’era nata, oltre un secolo prima, i due Universi erano più vicini e la loro specularità era ancora elevata.
   Seguendo la sua ascesa al potere, Giely notò che Rangda era salita alla ribalta della scena politica all’indomani della Guerra Civile, cioè quando ormai il pericolo era finito. In quel periodo, quasi tutti i protagonisti della liberazione dall’Impero Terrestre erano improvvisamente usciti di scena. Alcuni erano morti in strane circostanze, altri erano caduti in disgrazia per varie accuse ed erano stati arrestati, o comunque estromessi dal potere. Questo era oltremodo sospetto. Più s’informava, più la dottoressa si convinceva che Rangda avesse atteso il momento opportuno per cogliere i frutti delle fatiche altrui, sbarazzandosi dei veri artefici della liberazione. La senatrice di Zakdorn era stata eletta Presidente della neonata Confederazione nel 2582, cioè ben trent’anni prima. Da allora era rimasta ininterrottamente al potere, grazie a una serie di provvedimenti d’emergenza che avevano esteso il suo mandato. Un’intera generazione era cresciuta sotto il suo governo, senza mai conoscere nient’altro. Allo stesso modo, il suo partito aveva conservato la maggioranza al Senato per tutto quel tempo. Sembrava che le aspirazioni democratiche della Confederazione fossero state soffocate sul nascere...
   Sempre più inquieta, Giely consultò fonti ancora più vecchie, cercando di rintracciare gli esordi della carriera politica di Rangda. Avvertiva infatti che conoscere la giovane Zakdorn era essenziale per comprendere il suo successivo operato politico. E finalmente trovò la registrazione del primo discorso pubblico che Rangda avesse tenuto in vita sua. Risaliva a quando la Zakdorn si era appena laureata in scienze politiche sul suo pianeta natale e non aveva ancora avviato la propria carriera. In effetti il discorso non riguardava la politica: era un’orazione funebre tenuta per suo padre. Giely verificò che all’epoca, sebbene l’Impero Terrestre fosse ancora al potere, il pianeta Zakdorn non ne faceva parte. La popolazione era divisa tra filo-imperiali e anti-imperiali; entrambe le parti potevano manifestare le loro opinioni senza troppi timori di ripercussioni. La famiglia di Rangda era tra le più ricche e influenti del pianeta; e sorprendentemente il padre aveva posizioni filo-imperiali. Che fosse stato questo a scatenare nella giovane Rangda la reazione opposta?
   Incuriosita, Giely avviò la registrazione. Vide la Zakdorn, già magra e rigida come sarebbe stata per il resto dei suoi giorni, che parlava da una tribuna accanto al feretro del padre. La vasta folla comprendeva certo parenti e amici di famiglia, oltre che soci in affari del defunto; ma c’erano anche molti giovani, probabilmente compagni di corso di Rangda. La futura Presidente aveva impostato il discorso rivolgendosi idealmente al padre, ma ne aveva fatto a tutti gli effetti una dichiarazione politica.
   «Caro padre, sebbene io sia ben consapevole e grata di tutto ciò che hai dato alla nostra famiglia, resta il fatto che non mi manchi» disse la giovane Rangda, leggendo i suoi appunti. «Quando sei morto, ho sentito un vuoto dentro di me. Qualcosa mi mancava, ma non eri tu. Era l’idea di cosa saresti potuto essere. Mi manca di non poter più sperare e desiderare che un giorno avresti visto la Galassia dalla mia prospettiva. Mi manca l’idea che avresti potuto aiutarmi a combattere per le cose che valgono. Perché la tua morte ha reso ineluttabile il fatto che sei stato ciò che sei stato, e non ciò che avresti potuto essere. E non sei stato altro che un collaborazionista degli Umani, vale a dire un patetico maschio misogino, razzista e xenofobo. Questo è tutto ciò che sei stato per me. E padre, prima che tu mi dica di rispettare i defunti, ricorda che tu hai mancato di rispetto alla vita e alla morte d’intere comunità, con la tua perversa ideologia. Quindi getterò via la tua sordida mentalità, ma in compenso prenderò i tuoi soldi, e giuro che li userò per rendere il nostro mondo un posto migliore. Questo non grazie a te, ma in totale opposizione a te!».
   Gli applausi scrosciarono, segno che Rangda stava cavalcando il sentimento predominante fra la sua gente. Nessuno si fece avanti per farle notare come avesse strumentalizzato il funerale del suo stesso padre. E per quanto egli potesse essere stato davvero criticabile, magari anche pessimo, Giely avvertì un profondo disgusto per quegli insulti sputati sulla sua bara. La Vorta ricordò quanto aveva sofferto per la morte di Ome’tikal, il suo mentore. Poi vide Rangda che sorrideva soddisfatta, raccogliendo gli applausi per le accuse lanciate contro chi non poteva più difendersi.
   In tutta la sua vita, Giely non era mai stata una persona malevola. Non aveva mai augurato il male a nessuno; non era capace di odiare nemmeno coloro che l’avevano fatta soffrire. Ma in quel momento, osservando il sorriso compiaciuto di Rangda, la dottoressa sentì di disprezzarla come mai prima d’ora aveva disprezzato qualcuno. E intanto la Destiny continuava ad addentrarsi nella Confederazione, dove Rangda regnava incontrastata da trent’anni...
 

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Capitolo 3
*** Confederazione ***


-Capitolo 2: Confederazione
 
   Dopo una settimana di viaggio a cavitazione quantica, la Destiny si era addentrata nello spazio della Confederazione. I sistemi abitati erano più fitti, il traffico spaziale più intenso, tanto che mantenere la segretezza stava diventando un problema. Per ordine del Capitano l’astronave rimaneva occultata; ma Rivera si chiedeva con crescente preoccupazione per quanto avrebbero potuto evitare ogni contatto. Prima o poi, un incidente o una disattenzione avrebbero rivelato la loro presenza; e allora sarebbe cominciata la caccia.
   Il cicalino dell’ufficio lo avvertì di una visita. «Avanti» disse l’Umano, distogliendosi dallo studio dei dati raccolti sulla Confederazione.
   «Capitano, dobbiamo fermarci al più vicino sistema abitato» disse sbrigativamente Irvik, entrando nell’ufficio.
   «Perché, di grazia?» volle sapere Rivera.
   «Perché ho modificato il teletrasporto, basandomi sulle passate esperienze di contatto tra i due Universi, ed è arrivato il momento di vedere se funziona» rispose l’Ingegnere Capo.
   A queste parole il Capitano si accigliò. «Uhm... preferirei tentarlo come ultima risorsa» disse.
   «Perché, di grazia?!» fece il Voth, scimmiottando le sue parole.
   «Per varie ragioni» spiegò l’Umano. «Primo: è pericolosissimo. Finora i passaggi mediante teletrasporto sono avvenuti quando due astronavi occupavano la stessa identica posizione, ciascuna nel suo Universo. Ma dato che noi siamo già nello Specchio, è improbabile che l’altra Destiny si trovi nel nostro cosmo, per giunta nella stessa posizione. E non le consiglio nemmeno di teletrasportarsi sulla superficie di un pianeta, perché non conosciamo le condizioni del punto d’arrivo. Immagini di trasferirsi in quella che qui è una piazza, o un campo vuoto. Che succede se nel nostro Universo quel volume è occupato da un edificio, un albero o un’altra persona di passaggio?».
   «Ho modificato il teletrasporto per renderlo bidirezionale. Se dall’altra parte c’è qualcosa, sarà trasferito qui» fu la sorprendente risposta. «Comunque, per essere certo di non nuocere a nessuno, entrerò in una capsula di salvataggio e mi trasferirò con quella, vicino a un pianeta abitato».
   «Uhm... ci sono ancora grossi problemi» mugugnò Rivera. «In primo luogo non potremo sapere se il trasferimento è andato a buon fine. Non possiamo nemmeno fare delle prove con campioni organici, se dall’altra parte non c’è qualcuno pronto a rimandarceli indietro».
   «Ci sarò io; per questo mi offro volontario per l’esperimento» disse Irvik. «Se tutto va bene, contatterò le autorità federali e vi manderò un messaggio di via libera, così che possiate trasferirvi anche voi, un poco alla volta».
   «E se qualcosa va storto? Si sta sobbarcando un rischio enorme» puntualizzò il Capitano. Il sauro non gli era mai parso particolarmente coraggioso, quindi era inaspettato che ora si offrisse per fare da cavia. Solo la sua disperata nostalgia per la famiglia poteva giustificare quel salto nel vuoto.
   «Se qualcun altro vuole offrirsi volontario, per me va bene!» sbottò l’Ingegnere Capo. «Ma finora non ho visto nessuna fila. Allora, procediamo?».
   «Come ho detto, preferirei tenere il teletrasporto come ultima risorsa. Prima rechiamoci al Tunnel Bajoriano e vediamo come stanno le cose...» propose Rivera.
   «Guardi che anche quello comporta dei rischi. Come essere scovati dalla Confederazione, man mano che ci addentriamo nel suo spazio» ragionò Irvik. «Insomma, mi spiega perché è ancora così contrario al teletrasporto?».
   L’Umano esitò, ma infine decise di vuotare il sacco. «Beh... il fatto è che se riuscissimo a sfruttare il Tunnel, o se trovassimo un’interfase di spazio, potremmo portare la Destiny con noi. Col teletrasporto, invece, saremmo costretti ad abbandonare la nave. Il che ci priverebbe della principale moneta di scambio per ottenere l’amnistia dalla Federazione» confessò.
   «Ah, quindi è sempre una questione di fedina penale!» s’inalberò il Voth. Le sue scaglie si arrossarono d’ira. «Sono problemi vostri, Capitano. La mia fedina è pulita, e non intendo restare in esilio solo per i vostri comodi. Le ricordo che ero un passeggero, e ho accettato di fare da Ingegnere Capo solo perché avevate bisogno di me. Ma non ho problemi a dimettermi; o devo credere che sono vostro prigioniero?».
   «Sa bene di non esserlo» si accigliò Rivera. «E anche se non siamo le persone più – ehm – irreprensibili della Galassia, non la tratterremo contro il suo volere. Ha fatto tanto per noi, s’è guadagnato la sua occasione. Ma temo ancora per la sua incolumità, se si ostina a fare da cavia».
   «Sono pronto a correre il rischio» ribadì Irvik.
   «Allora... buona fortuna» sospirò il Capitano. «Rivera a plancia, rotta per il più vicino sistema abitato».
 
   Omicron Ceti III non sembrava diverso dalla sua controparte federale: un mondo verdeggiante, sede di una colonia e rinomato paradiso delle vacanze. La Destiny si fermò dietro un satellite disabitato prima di uscire dall’occultamento, nella speranza di non essere individuata. Teletrasportare un’intera capsula infatti richiedeva molta energia e non era possibile farlo rimanendo occultati.
   Irvik e i suoi ingegneri si radunarono nell’hangar 1, dove si trovava una pedana di teletrasporto abbastanza grande da accogliere la capsula di salvataggio. Quando Rivera arrivò, i tecnici avevano quasi ultimato i preparativi. Con loro c’erano anche parecchi Exocomp, i robottini fluttuanti che li aiutavano nei lavori.
   «Ah, Capitano!» lo accolse Irvik, un po’ sovreccitato. «Ormai ci siamo. Sto fissando le coordinate di destinazione. Se tutto va bene, mi materializzerò con la capsula nello spazio aperto e da lì potrò raggiungere Omicron Ceti. Il trasferimento sarà più lungo del solito, ma ho preso tutte le precauzioni per evitare che il segnale si degradi».
   «Uhm, bene» fece Rivera, osservando con una certa preoccupazione la consolle di teletrasporto, mezza sventrata per aggiungere cavi ausiliari. Lasciato il Voth ai suoi preparativi, si accostò a Talyn, che lo aveva assistito fino a quel momento. «Allora, c’è pericolo?» gli sussurrò all’orecchio.
   «Difficile a dirsi, questa è ingegneria quantica estremamente avanzata» sospirò il giovane. I due si allontanarono di qualche passo, per discutere più liberamente. «Finora non abbiamo individuato problemi, ma... chissà! Irvik ostenta la solita sicurezza dei Voth, ma nemmeno lui ha mai fatto nulla del genere prima d’ora. Credo che il desiderio di tornare dalla sua famiglia lo stia facendo agire in modo avventato» avvertì il giovane.
   «Anch’io ho questa impressione. Ma gli ho dato il permesso di tentare, così che non si sentisse prigioniero su questa nave» spiegò il Capitano. «Sta’ coi tecnici, durante il teletrasporto, e cerca di richiamarlo indietro se qualcosa andasse storto» raccomandò, ricordando che l’El-Auriano aveva un sesto senso per queste cose.
   Terminati i preparativi, Irvik prese congedo dagli ufficiali superiori che si erano radunati per salutarlo. Solo Losira era rimasta in plancia con gli addetti al secondo turno, per reagire prontamente se la Destiny fosse stata attaccata. «Ehi, non fate quei musi lunghi! Vedrete che andrà tutto bene» affermò Irvik. «Presto ci ritroveremo dall’altra parte e ci rideremo sopra».
   «A quel giorno» augurò il Capitano. «Resteremo in zona, finché non ci manderà un messaggio per farci sapere che il trasferimento è andato bene». Non disse però quanto si sarebbero trattenuti nel caso che il messaggio fosse tardato, suggerendo che era accaduto il peggio.
   Il sauro annuì e salì sulla pedana di teletrasporto, dove la capsula lo attendeva. Vi entrò e, dopo un ultimo saluto, richiuse il portello.
   «Incrociamo le dita» mormorò Rivera, sempre più inquieto.
   «Perché?» inquisì Naskeel, che gli stava a fianco.
   «È un gesto scaramantico, dovrebbe portare fortuna» borbottò il Capitano, maledicendo l’incapacità del Tholiano di comprendere le frasi idiomatiche.
   Invece, inaspettatamente, Naskeel sembrò accettare la risposta, tanto che incrociò le lunghe dita cristalline di ambo le mani. In quella posa restò a fissare il Capitano, che fu costretto a incrociare le dita a sua volta, per non dare l’impressione di contraddirsi. Allora, a cascata, anche gli altri ufficiali superiori si videro costretti a imitare il gesto.
   «Carica completata, gli alimentatori ausiliari reggono» disse Gort, un ingegnere Dopteriano che adesso era al comando dell’operazione. «Inizio il trasferimento». Passò la mano sul display, attivando il teletrasporto.
   La capsula fu circonfusa da un bagliore azzurrino, ma la smaterializzazione era assai più lenta del solito. Per parecchi secondi la capsula apparve semitrasparente, tanto che si poteva intravedere la sagoma di Irvik al suo interno. A un tratto squillò un allarme.
   «Frell, sto perdendo l’aggancio!» imprecò Gort, consultando i comandi. «È come se non ci fosse una destinazione. Non capisco, abbiamo fatto tutto a dovere!».
   «Il segnale comincia a degradarsi!» avvertì un altro ingegnere, un Ferengi di nome Yam. A quelle parole, Talyn si precipitò alla consolle.
   «Imposto il buffer degli schemi su un’auto-diagnostica, per impedire la degradazione» disse il giovane, lavorando freneticamente. «Ecco, è in sicurezza... per un po’».
   «Bene, ma resta il problema iniziale. Il segnale non riesce a superare la barriera quantica» avvertì Gort.
   «Se non ce la fate, riportatelo indietro!» ordinò il Capitano, pur temendo che fosse già troppo tardi.
   «Ci sto provando. É... complicato, a questo stadio» avvertì il Dopteriano. Lui e i colleghi trafficarono sulla consolle per minuti che parvero lunghi come ore, mentre a poca distanza il teletrasporto continuava a sfarfallare. In certi momenti la capsula riacquistava consistenza, in altri si sfocava fino a svanire quasi del tutto. Gli indicatori segnalavano che il consumo energetico era enormemente superiore a quello di un teletrasporto standard. A un certo punto il tecnico di nome Yam corse alla pedana, per regolare direttamente da lì l’afflusso d’energia.
   «Okay, ce l’ho... attiva i compensatori di Heisenberg!» ordinò Gort.
   «Compensatori attivati» disse Talyn, che lo aiutava. «Risoluzione entro i limiti di sicurezza».
   «Allora procedo» disse Gort, passando nuovamente la mano sul display d’attivazione.
   Con un ultimo bagliore, la capsula riprese solidità, fino a divenire del tutto opaca. Il ronzio cessò e la pedana di teletrasporto si spense. Allora il Capitano vi balzò su, per verificare le condizioni dell’Ingegnere Capo. «Irvik, tutto bene?!» esclamò. Dato che questi non apriva la capsula dall’interno, fu Rivera ad attivare il comando d’emergenza per sbloccarla da fuori. Il portello si aprì con un sibilo, mostrando il piccolo abitacolo all’interno. Il Voth era accasciato sulla poltroncina, privo di sensi.
   «Fammi controllare» disse Giely, che aveva seguito Rivera sulla pedana. Il Capitano si scostò, per permetterle d’esaminare Irvik col tricorder medico che s’era portata dietro.
   «Ha subito un certo stress sinaptico, ma non mi pare che ci siano danni» diagnosticò la dottoressa. «Il DNA è intatto, niente degradazioni. Lo porterò in infermeria e lo terrò sotto osservazione fino al risveglio, ma ritengo che non corra pericoli» spiegò.
   «Bene» esalò Rivera, liberando tutta la tensione accumulata in quei minuti. «Poi qualcuno mi dovrà spiegare cos’è andato storto».
   «Abbiamo seguito la procedura a puntino... avrebbe dovuto funzionare...» borbottò Gort, ancora alla consolle per esaminare la memoria del teletrasporto.
   «C’era tutta l’energia necessaria, nessun calo di tensione» aggiunse Yam.
   «Forse il problema non siamo noi» mormorò Talyn, meditabondo.
   «Come sarebbe? E di chi è, allora?» chiese Rivera.
   «Può darsi che, nel corso del tempo, la distanza fra i due Universi tenda ad aumentare» spiegò l’El-Auriano. «Questo significa che anche la correlazione quantistica viene meno. Quindi gli accorgimenti che una volta permettevano di passare tra le due realtà non funzionano più».
   «Sarebbe a dire che anche gli altri sistemi faranno cilecca? Il Tunnel Spaziale, le interfasi...?” si allarmò il Capitano.
   «Il Tunnel Spaziale non saprei proprio» ammise Talyn. «Le interfasi dovrebbero funzionare sempre, visto che collegano tutto il Multiverso, ma al momento non ne conosciamo nessuna che unisca il nostro Universo con lo Specchio».
   Per qualche momento vi fu silenzio. Poi dai comunicatori giunse la voce di Losira. «Plancia ad hangar 1, abbiamo attirato attenzioni indesiderate. Alcuni ricognitori sono partiti da Omicron Ceti e puntano dritti su di noi. Ho ordinato di partire».
   In quel momento una lieve vibrazione confermò che la Destiny era balzata in cavitazione quantica.
   «Groan, fantastico» mugugnò il Capitano, massaggiandosi le tempie. Non solo il loro esperimento era fallito, mettendo a rischio Irvik, ma si erano anche fatti rilevare. Del resto doveva accadere, prima o poi. Non potevano attraversare la Confederazione da un capo all’altro e aspettarsi di restare inosservati. «Portate Irvik in infermeria e riprendiamo la rotta per Bajor. Inoltre... andiamo in Allarme Giallo» ordinò, dopo una breve esitazione. «Tutti ai propri posti». Lui stesso fece per tornare in plancia.
   «Sembra che incrociare le dita sia stato inefficace» notò Naskeel, che lo seguiva.
   Rivera non ebbe la forza di rispondere.
 
   Riaperti a fatica gli occhi, Irvik si guardò attorno, cercando di mettere a fuoco la visione. Era vivo, e già questo era un buon segno. Ma la micidiale emicrania gli diceva che qualcosa era andato storto, e in effetti quell’infermeria gli sembrava fin troppo familiare. «Dove...» mormorò, cercando faticosamente di rialzarsi.
   «Mi spiace, Irvik, ma il suo esperimento è fallito» annunciò Giely, avvicinandosi tanto da permettergli di riconoscerla. «I suoi colleghi l’hanno salvata a stento. È fortunato a essere vivo».
   «Se fossi fortunato, sarei dall’altra parte!» protestò l’Ingegnere Capo, abbandonandosi sul lettino. «Ma non finisce qui. Capirò qual è il problema e tenterò di nuovo!» s’incaponì.
   «Questo è fuori discussione. Il Capitano ha proibito altri esperimenti del genere» avvertì la dottoressa.
   «E lui che ne sa?! Sono io l’esperto!».
   «Già, così esperto che stava per uccidersi» ammonì Giely. «Gli ingegneri hanno determinato che la distanza tra i due Universi è cresciuta nel tempo, così che la correlazione quantica è scemata e i tradizionali sistemi di viaggio non funzionano più. La nostra ultima speranza è il Tunnel Bajoriano, verso cui siamo diretti. Ma le prove col teletrasporto sono vietate, anche perché durante l’ultimo tentativo è probabile che i ricognitori della Confederazione ci abbiano rilevati. Infatti siamo in Allarme Giallo» disse in tono velatamente accusatorio. «Quindi ora si calmi».
   «Calmarmi! È facile dirlo, per lei!» insorse il Voth. «Non ha una famiglia che l’attende dall’altra parte. Non ha dei figli che stanno crescendo senza di lei. Anzi, non li avrà mai... quindi non saprà mai che tremenda responsabilità sia!».
   A quelle parole la Vorta, che stava consultando le letture mediche, alzò di scatto la testa. «Già, al massimo potrei avere un clone. E un clone non vale quanto un figlio, è questo che intende?!» chiese con sguardo tagliente.
   «Io non... mi spiace, non volevo ferirla» borbottò Irvik. «È solo che sono stanco e deluso, e questo mal di testa mi sta uccidendo!» lamentò, sfregandosi la fronte.
   «È tutto a posto, ora le darò un analgesico» promise Giely, ma le parole dell’Ingegnere Capo erano andate a fondo. In quanto Vorta, Giely era sterile; il massimo in cui poteva sperare era clonarsi. E finché restava su quella nave dispersa nel Multiverso, alle prese con un’emergenza dopo l’altra, anche questo era difficile. Avrebbe dovuto trovare un po’ di stabilità, prima di pensarci seriamente. Cercò di seppellire il pensiero, dicendosi che la sua vita andava bene così, e che in ogni caso era presto per pensare a un clone. Ma nei giorni successivi, di tanto in tanto, il pensiero tornò a sfiorarla. Però non ne accennò minimamente con Rivera. Per quanto fra loro ci fosse una buona intesa, la Vorta aveva la netta sensazione che l’Umano non avrebbe gradito questa faccenda della clonazione.
 
   Altri sette giorni di viaggio portarono la Destiny nel sistema bajoriano, profondamente addentro allo spazio della Confederazione. I nervi erano tesi e vigeva ancora l’Allarme Giallo. La Destiny uscì dalla cavitazione già occultata e subito diresse verso la Cintura di Denorios, la regione esterna del sistema in cui si apriva il Tunnel Spaziale.
   «Procedo a metà impulso» disse Shati.
   «Talyn, analisi sensoriale. Cerca Deep Space Nine, dovrebbe essere nei pressi del Tunnel» ordinò il Capitano, cercando di nascondere la sua inquietudine. Secondo il database federale, l’Impero Terrestre aveva ricostruito la famosa stazione presso l’imboccatura del wormhole. Ma dall’ultimo contatto era trascorso mezzo secolo; nel frattempo c’era stata la Guerra Civile col successivo cambio di regime. Forse anche nel sistema bajoriano le cose erano cambiate e queste informazioni erano sorpassate.
   «Abbiamo un problema» disse Talyn, confermando i timori. «La nuova Deep Space Nine si trova nell’orbita di Bajor, anziché nella Cintura. E il traffico spaziale è più scarso di quello che mi aspetterei se il Tunnel fosse percorribile».
   «Analizza i flussi di particelle, cerca di rintracciare direttamente l’imboccatura del wormhole» disse Rivera, sempre più teso.
   «Ci sto provando, ma... qualcosa non va» disse l’El-Auriano, concentrato sui dati dei sensori. «Non rilevo le emissioni di neutrini dei wormhole. Non ci sono nemmeno i verteroni tipici di quello bajoriano. Provo a estendere il raggio delle analisi. Invio una griglia di ricerca al timone».
   Per alcune ore la Destiny setacciò la Cintura di Denorios, in cerca della minima traccia del Tunnel. Ma l’unica cosa che trovò fu una zona in cui il subspazio era danneggiato. «Quella cicatrice subspaziale non mi piace per niente» commentò Talyn. «Ci sono precedenti di wormhole collassati che ne hanno lasciate di simili».
   «Stai dicendo che...» fece Rivera, vedendo estinguersi l’ultima speranza.
   «Temo di sì, Capitano» confermò il giovane. «In questo Universo qualcuno ha fatto collassare il Tunnel Spaziale, probabilmente con un impulso tachionico. La via del ritorno è chiusa».
 
   Di lì a poco gli avventurieri erano di nuovo riuniti in sala tattica. L’atmosfera era di pesante sconforto, forse più di quanto fosse mai capitato prima. Fino ad allora avevano sempre avuto qualche speranza: prima la lista di coordinate quantiche, poi le varie strategie per lasciare lo Specchio. Ora però ogni strada era stata percorsa invano. Non c’era più un obiettivo da perseguire. Il Capitano comprese che doveva dargliene uno, se non voleva che lo sconforto e l’esasperazione prendessero il sopravvento sulla ciurma. Era preoccupato specialmente per Irvik, che appariva prossimo all’esaurimento nervoso.
   «Non è ancora la fine» esordì Rivera, cercando di suonare convinto.
   «Ah, no? Cos’altro ci resta da tentare?» chiese l’Ingegnere Capo con voce rauca.
   «Dopo tanti contatti fra i due Universi, è chiaro che le autorità dell’Impero Terrestre conoscevano le coordinate quantiche del nostro» ragionò Rivera. «Quindi con ogni probabilità anche la nuova Confederazione le conosce. Non saranno informazioni di dominio pubblico, ma... qualcuno, in alto, le conosce» ribadì.
   «A chi si riferisce di preciso? E come conta di ottenerle?» chiese Naskeel.
   «È ancora presto per dirlo» ammise il Capitano. «È chiaro che dovremo restare per un certo tempo nello Specchio. Dobbiamo familiarizzare con la Confederazione. Dobbiamo capire chi possiede certe informazioni e chi può fornircele».
   «Sì, ma... potrebbero volerci anni» intervenne Losira. «E nel frattempo dobbiamo pur sopravvivere. Io non credo che la strategia dell’isolamento sia percorribile. Se dobbiamo familiarizzare con la Confederazione, allora non possiamo evitare ogni contatto».
   «Suppongo di no» ammise Rivera.
   «Quindi come spiegheremo la nostra presenza? Riveleremo o no di provenire da un’altra realtà?» incalzò la Comandante.
   «Non ancora» decise il Capitano. «Non vorrei che la Confederazione si sentisse sotto attacco da parte della nostra Federazione, e fosse tentata di contrattaccare» spiegò.
   «Ma se ci mostriamo, quanto ci vorrà prima che saltino fuori i nostri alter-ego dello Specchio?» obiettò Shati. «A quel punto sarà chiaro da dove veniamo. E sarà peggio che se avessimo detto fin da subito la verità».
   «Già, groan... devo rifletterci» disse il Capitano, non osando prendere una decisione affrettata. Il guaio era che entrambe le opzioni potevano avere conseguenze catastrofiche.
   «Siete proprio sicuri che non ci si possa accordare con la Confederazione? Voglio dire, dobbiamo per forza vivere nell’illegalità?» chiese Irvik.
   «Se a capo del governo ci fosse qualcun altro, tenterei» sospirò Rivera. «Ma finché ci sarà Rangda... quella stessa Rangda che ha sempre vinto con le menzogne e i tradimenti... no, non posso fidarmi. So già come andrà a finire: i suoi Pacificatori si fingeranno amichevoli, prometteranno di aiutarci se collaboriamo. E poi, alla prima occasione, ci porteranno via la Destiny. Allora sì che resteremo bloccati qui per sempre!».
   «Ma...» insisté il Voth.
   «Sono già stato in un campo di lavoro dei Pacificatori; non ci finirò di nuovo! E soprattutto non ci farò finire voi!» insisté il Capitano, rivolto a tutti i presenti; ma il suo sguardo indugiò su Giely. Era chiaro che avrebbe fatto di tutto per proteggerla.
   «Concordo con la sua valutazione, Capitano» disse Naskeel. «Considerati i precedenti, non possiamo fidarci di Rangda e delle sue forze armate». Era raro che il Tholiano lo appoggiasse, ma Rivera fu ben lieto che stavolta lo avesse fatto. Nessun altro dei presenti se la sentì di obiettare, nemmeno Irvik.
   «Quindi... adesso che facciamo?» chiese Shati.
   «Staremo qui ancora qualche giorno, tanto per accertarci che il Tunnel Spaziale non si riapra, e nel frattempo continueremo a informarci sulla Confederazione» decise il Capitano. «Talyn, tieni d’occhio il traffico subspaziale da e per Bajor, nell’eventualità che ci sia qualcosa d’interessante. Abbiamo ancora tanto da imparare su questa società, prima di muoverci con cognizione di causa».
   «Forse dovremmo trovarci un informatore, o meglio ancora una guida. Qualcuno che sappia come vanno le cose e abbia dei contatti utili» propose Losira.
   «Sì, non sarebbe male» convenne Rivera. «A patto di avere la certezza che sia un nemico di Rangda e che non ci venderebbe a lei».
 
   Nei tre giorni successivi, Talyn e i suoi colleghi del reparto sensori fecero frequenti rapporti al Capitano, informandolo sulle notizie che parevano più interessanti.
   «Allora, che mi dici oggi?» chiese Rivera nel pomeriggio del terzo giorno, quando Talyn venne nel suo ufficio per aggiornarlo.
   «Un trasporto è scomparso nelle Badlands. Il governo incolpa la Catena Cremisi, cioè le presunte rimanenze dell’Impero Terrestre» rispose l’El-Auriano.
   «Presunte?» si accigliò il Capitano.
   «Beh, la Confederazione le definisce così, ma ho l’impressione che qualunque banda di pirati sia considerata una “rimanenza dell’Impero”. Così si possono applicare le leggi speciali anti-imperiali, più severe di quelle ordinarie» spiegò il giovane.
   «Già, è nello stile di Rangda» convenne l’Umano. «Altre novità?».
   «Una vecchia centrale ad antimateria è esplosa su Setlik, le proteste contro il carovita dilagano su Klaestron... nulla di nuovo» disse Talyn, scorrendo rapidamente le notizie sul d-pad. «Ah, qui c’è una notizia di Bajor. Una nave-prigione partirà domani per la colonia penale di Tantalus V, con un carico di... li chiamano agitatori, ma credo siano solo dissidenti politici».
   Il Capitano si rabbuiò. «Uhm, fammi vedere» disse, prendendo il d-pad. Cliccò sul file, visualizzando il servizio giornalistico.
   «Anche oggi una folla si è radunata alle porte del carcere di Elemspur, per chiedere la liberazione della discussa sociologa e opinionista politica Svetlana Smirnova» disse la reporter bajoriana. Dietro di lei erano inquadrati i manifestanti che venivano dispersi dalla polizia, con metodi piuttosto brutali. Nell’udire quel nome umano, Rivera ascoltò con ancora più attenzione.
   «Negli ultimi anni la Smirnova è salita alla ribalta della cronaca. Le sue discusse lezioni all’Università di Ashalla hanno acceso il dibattito pubblico, così come i suoi podcast Olonet e le sue interviste incendiarie» proseguì la giornalista. «La Smirnova è nota soprattutto per aver negato pubblicamente l’esistenza di un perdurante Privilegio Umano nella Confederazione. Si è inoltre scagliata contro il reato di Discorsi d’Odio, sostenendo che si tratti di un limite alla libertà d’espressione e pertanto di una legge incostituzionale. Per questa ragione i suoi podcast sono stati rimossi e la pubblicazione del suo nuovo volume di sociologia è stata annullata. La Smirnova stessa è detenuta da un anno a Elemspur, dove le è stata offerta la possibilità di abiurare le sue dichiarazioni razziste, ma si è sempre rifiutata di farlo. Per questo motivo lei e altri agitatori politici saranno condotti nel centro d’igiene mentale di Tantalus V, meglio attrezzato per curarli dai loro disturbi psichici. Oggi il Primo Ministro ha ribadito che Tantalus non è un carcere, ma un luogo di cura, al termine della quale i pazienti torneranno ad essere elementi produttivi della società».
   Il Capitano sbatté il d-pad sulla scrivania, con tale violenza da farlo scricchiolare. «Eccola qui, la grande tolleranza della Confederazione! Se non sei d’accordo col regime, sei un pazzo da curare!» sbottò. Per qualche secondo fissò il d-pad, sfregandosi la barba ispida. Talyn poteva quasi vedere le rotelline che gli giravano nel cervello, mentre rimuginava. «Quando parte quella nave-prigione?» chiese a un tratto.
   «Domani sera, secondo il nostro orologio» rispose l’El-Auriano. «Non starà mica pensando di...».
   «Ci ho già pensato, ora è il momento di agire» tagliò corto Rivera. «Quella donna è esattamente ciò che ci occorre, un’esperta che può guidarci in questa società distopica. Quindi la salveremo prima che le compromettano il cervello. Come salveremo gli altri dissidenti politici» stabilì.
   «Andiamo subito a metterci nei guai, eh? Losira e gli altri non saranno contenti» disse Talyn a mezza voce.
   «La nostra mera presenza nella Confederazione ci rende bersagli del regime» ribatté il Capitano. «Tanto vale colpire per primi, finché possiamo contare sull’effetto sorpresa».
 
   Dopo aver teletrasportato i detenuti direttamente dalle loro celle, la nave-prigione Pagh lasciò l’orbita di Bajor. Lo scafo bruno era squadrato, più largo alle estremità; dalla poppa si distaccavano le gondole di curvatura. Come di consueto, il vascello rimase a velocità d’impulso mentre attraversava la Cintura di Denorios, per evitare che l’intensa ionizzazione interferisse col campo di curvatura. Era un viaggio di alcune ore, durante le quali solitamente non accadeva nulla di rilevante. Ma stavolta un’astronave assai più grande e armata uscì dall’occultamento, sbarrandogli la rotta.
   Il timoniere, che si stava rilassando ai comandi, sobbalzò nel vedere la scura sagoma che copriva le stelle. «Capitano, guardi!» esclamò, raddrizzandosi sul sedile.
   «Ma cosa... contattate quella nave, avvisatela che ci ostacola la rotta!» ordinò il Capitano Gulnar, un Axanar dal cranio grigio e calvo.
   «Non rispondono alla chiamata. Continuano ad avvicinarsi!» avvertì l’addetto a sensori e comunicazioni.
   «Allarme Ross...» cominciò il Capitano, ma in quella la Destiny aprì il fuoco. I cannoni a impulso e i banchi anti-polaronici colpirono il Pagh con precisione chirurgica. In plancia scoppiò il caos; le voci degli ufficiali si confondevano nel segnalare i danni.
   «Gondola di dritta colpita, perdiamo plasma. Curvatura offline!».
   «Gli scudi sono inattivi!».
   «Rispondere al fuoco, manovre evasive!» ordinò Gulnar, reggendosi alla poltroncina mentre il vascello era squassato dai colpi.
   «Anche i motori a impulso sono danneggiati. Mobilità compromessa al...».
   «Le nostre armi sono inefficaci, il nemico ha scudi troppo potenti!».
   «Continuano a colpirci, stanno neutralizzando i nostri armamenti!».
   «Chiamate il Comando, ci servono rinforzi immediati!» disse allora il Capitano, osservando livido gli aggressori che li tempestavano di colpi. Alcuni siluri quantici colpirono il Pagh, privandolo definitivamente della propulsione. In plancia esplose la consolle del timone; l’addetto fu scagliato al suolo dove restò a gemere, premendosi il viso ustionato.
   «Siamo alla deriva, armi e scudi disattivati!».
   «Ma insomma, chi è che ci attacca?!» volle sapere Gulnar. Attraverso lo schermo sfarfallante vide l’inquadratura che zoomava sul nome dell’astronave: CSS Destiny. «La nave perduta... sarà caduta in mano alla Catena Cremisi» mormorò.
   «Signore, la Destiny ha abbassato gli scudi. Stanno imbarcando i nostri prigionieri» avvertì l’Ufficiale Tattico. «Frell, non possiamo fermarli!» imprecò.
   «Il nostro teletrasporto funziona ancora?» chiese il Capitano.
   «Sì, signore» rispose l’addetto.
   «Protocollo d’infiltrazione 47. Dobbiamo identificare il nemico» ordinò Gulnar, osservando con astio la Destiny.
 
   Sulla plancia della Destiny, tutti erano concentrati sui loro incarichi. Shati correggeva la rotta affinché seguissero il Pagh alla deriva, mentre Naskeel metteva fuori uso le ultime armi nemiche. Talyn cercava di disturbare le comunicazioni dei Bajoriani, affinché non chiamassero rinforzi. C’era anche Irvik, alla nuova postazione ingegneristica, che controllava i trasferimenti in corso.
   «Ancora dieci secondi» disse il Voth, riferendosi al tempo rimanente per imbarcare tutti i prigionieri. Era più di quanto si aspettavano, perché i galeotti erano più numerosi del previsto. E in dieci secondi senza scudi, durante una battaglia, a un’astronave può succedere di tutto.
   La prima ad accorgersi del pericolo fu Shati, che occupava la postazione più vicina allo schermo. E fu proprio lì, tra lo schermo e la consolle del timone, che si materializzò la sonda nemica. Il corpo principale era compatto, globulare; sotto di esso si allungavano strane appendici, simili ai tentacoli di una medusa. Tutto era coperto da una corazza nera, dall’aria assai resistente. Un fotorecettore rosso si puntò su Shati, mentre la sonda-spia ronzava sinistramente.
   «Attenti!» gridò la Caitiana, buttandosi a terra. Appena in tempo: un raggio phaser scaturì dalla sonda, squarciando lo schienale della poltroncina su cui la timoniera sedeva un istante prima.
   A quella vista tutti impugnarono i phaser, che già avevano pronti in previsione di un’emergenza. Il primo a sparare fu Naskeel, che colpì la sonda provocando una cascata di scintille, ma senza perforarne la corazza. Anche Rivera e Shati misero dei colpi a segno, senza miglior esito. La sonda rispose al fuoco, costringendo tutti a nascondersi dietro le consolle. Uno degli ufficiali ausiliari, un Ferengi, non fu abbastanza svelto: il phaser lo colpì alla schiena, disintegrandolo.
   «Deve avere una corazza in tritanio» avvertì Naskeel, sparando di nuovo. Stavolta gli colpì il fotorecettore rosso, mandandolo in pezzi. La sonda sbandò, pur senza cadere al suolo, e l’elettricità sfrigolò sul suo rivestimento. Era chiaramente danneggiata; ancora qualche colpo e l’avrebbero finita. In quella però l’ordigno emise un be-beep sempre più incalzante.
   «Sta per esplodere!» gridò Shati. Doveva essere il protocollo standard, se la sonda veniva danneggiata. E con ogni probabilità la sua carica esplosiva era sufficiente a uccidere chiunque fosse in plancia.
   «Non se la rimando da dove viene!» garantì Irvik, mettendo mano ai comandi del teletrasporto. I prigionieri del Pagh erano ormai tutti a bordo, così che il raggio poteva essere adibito ad altro scopo. Il Voth agganciò la sonda danneggiata e la rispedì indietro... sulla plancia del Pagh.
 
   «La sonda ha ingaggiato il nemico, riceviamo le sue letture» riferì l’Ufficiale Tattico.
   «Bene, le ritrasmetta al Comando» ordinò il Capitano Gulnar.
   «Eseguo. Un momento, la sonda è stata danneggiata. Autodistruzione fra dieci secondi».
   «Poco male, se gli distruggiamo la plancia potremo...» fece l’Axanar, ma fu interrotto dalla voce concitata di un altro ufficiale.
   «Teletrasporto in corso... oh, no!».
   Prima che il Capitano potesse chiedergli chiarimenti, la plancia fu rischiarata dal bagliore azzurro. E in quel bagliore si delineò una sagoma fin troppo familiare.
   «Tutti fuori!» gridò Gulnar, correndo lui stesso verso l’uscita. Ma era tropo tardi. La sonda appena materializzata esplose con tale violenza da disintegrare la plancia e i suoi occupanti, aprendo un ampio squarcio sullo scafo. La fiammata si disperse nello spazio, seguita da un nugolo di detriti, risucchiati dal vuoto. I campi di forza si attivarono per isolare la sezione anteriore del Pagh, proteggendo le altre dalla decompressione. La nave alla deriva fu sospinta indietro, ruotando sul proprio asse mentre si allontanava dalla Destiny.
 
   «State bene?» chiese Rivera, uscendo dal suo riparo per osservare la plancia crivellata di colpi.
   «Noi sì... ma il povero Vir non ce l’ha fatta» disse Talyn, indicando il mucchietto di cenere fumante che era stato il suo collega.
   Il Capitano chinò il capo, addolorato. Due anni prima, all’inizio del viaggio, aveva rifiutato la proposta degli Undine, che si erano offerti di riportarli a casa in cambio della Destiny. In tal modo aveva condannato il suo equipaggio a quell’odissea in altre realtà. Così, ogni volta che qualcuno restava ucciso, Rivera si sentiva personalmente responsabile. Ma adesso non c’era tempo per il cordoglio.
   «Dieci astronavi hanno lasciato l’orbita di Bajor e puntano dritte su di noi» avvertì Talyn, che era tornato alla sua postazione. «Devono aver captato l’SOS del Pagh. E se hanno captato anche il segnale della sonda-spia, ci conoscono pure di faccia» avvertì.
   «Tagliamo la corda!» ordinò il Capitano.
   «Volentieri» disse Shati, tornando sulla sua poltroncina semidistrutta. La Destiny fece manovra, puntando verso lo spazio esterno. Il deflettore brillò e l’astronave entrò in cavitazione, lasciando la Cintura di Denorios prima che arrivassero i rinforzi della Confederazione.
 
   L’hangar 1 risuonava di un vociare confuso. Gli oltre duecento prigionieri del Pagh erano stati trasferiti lì, per il momento, ma questo poneva dei problemi per la sicurezza. Un cordone di guardie armate impediva ai nuovi arrivati di raggiungere le navette, nel caso alcuni intendessero darsi alla fuga con quelle.
   Fatto un respiro profondo, il Capitano entrò nell’hangar. Se voleva discutere con quelle persone doveva farsi vedere in faccia, rinunciando a ogni velleità di segretezza. «Un momento di attenzione!» gridò, fronteggiando la folla. I prigionieri liberati erano per la maggior parte Bajoriani, ma tra loro c’erano anche degli alieni, appartenenti a varie specie.
   «Sono il Capitano Rivera della Destiny. Io e il mio equipaggio ci opponiamo al regime ipocrita della Confederazione. So che tutti voi siete stati arrestati per reati d’opinione, ragion per cui i Pacificatori vi stavano spedendo a Tantalus V, dove vi avrebbero fatto il lavaggio del cervello. Ho ragione di credere che preferiate l’evasione, e del resto alcuni di voi potrebbero tornarmi utili, ragion per cui vi ho liberati. Ci tengo a chiarire che non siete nostri ostaggi. Per adesso vi smisteremo sugli alloggi di questa nave, dopo di che possiamo portarvi in salvo oltreconfine. E se qualcuno preferisse affrontare la condanna su Tantalus, piuttosto che diventare un esule... ebbene, non glielo impediremo. Io tuttavia v’incoraggio a opporvi al regime, come avete fatto sinora. E se qualcuno ne avesse l’ardire, oltre a competenze utili, sono pronto ad accoglierlo nel mio equipaggio!» annunciò.
   Il frastuono crebbe ulteriormente, perché le parole del Capitano avevano eccitato gli animi. Gli avventurieri cominciarono a smistare i nuovi arrivati, sotto la direzione di Losira. Ma Rivera stava cercando una persona ben precisa. «Ancora un po’ d’attenzione! Se tra voi c’è la sociologa Umana che risponde al nome di Svetlana Smirnova, vorrei che si facesse avanti!» invitò.
   Queste parole ebbero un inaspettato effetto calmante. Quasi tutti tacquero, in attesa di vedere se l’interessata avrebbe risposto all’appello. Nessuno però la indicò, segno che non volevano tradirla, nel caso avesse deciso di restare anonima. Passato qualche secondo, una donna si fece avanti. Un Risiano accanto a lei cercò dapprima di trattenerla, come a proteggerla, ma vedendo la sua determinazione la lasciò fare.
   Era una donna sui sessantacinque anni, alta e magra, vestita con la tuta grigia dei carcerati. I capelli, che scendevano lisci fin oltre le spalle, erano anch’essi di un grigio ferro striato di bianco. E grigi erano pure gli occhi dallo sguardo penetrante, che si appuntarono subito sul Capitano.
   «Sono la dottoressa Smirnova» si presentò. «A nome dei miei compagni di prigionia, la ringrazio per averci liberati. Ci avete salvati da un fato che, per molti di noi, è peggiore della morte. Come posso sdebitarmi?» chiese con voce pacata. I suoi occhi freddi indugiarono sul volto del Capitano e sulla sua uniforme paramilitare, da avventuriero. Rivera comprese che era una fine osservatrice, e aveva già dedotto molto sul suo conto.
   «Aspetti a ringraziarmi» avvertì il Capitano. «Potrò anche averla salvata da un pericolo, ma solo per tuffarla in un altro. Lei è un’intellettuale di punta della Confederazione, nonché un riferimento per chi si oppone all’attuale regime. Abbiamo molto di cui discutere... in privato» disse, facendole cenno di seguirlo fuori dall’hangar.
   «Posso prima sapere se siete affiliati alla Catena Cremisi?» chiese la sociologa, senza ancora muoversi.
   «Al momento no» ammise Rivera. Ancora non era certo se quell’organizzazione fosse davvero costituita dai resti dell’Impero Terrestre, o se le cose stessero diversamente.
   Il volto di Svetlana pareva quello di una sfinge; era impossibile dire se la risposta l’avesse sorpresa. «Capisco. Faccia strada, Capitano. Ascolterò volentieri ciò che ha da dirmi e risponderò alle sue domande, se posso» promise.
 
   Dopo che il Capitano se ne fu andato con la dottoressa, Losira rimase nell’hangar, a smistare i nuovi arrivati. Duecento persone, tutte ex carcerati, ponevano un serio problema di sicurezza su una nave che aveva un equipaggio di appena trecento elementi. Bisognava interdire loro certi ambienti, senza dargli l’impressione d’essere ancora prigionieri. La Risiana era innervosita da quella situazione. Liberare dei carcerati le pareva una scelta affrettata da parte del Capitano; una scelta che era già costata una vittima e li rendeva ancora più bersaglio della Confederazione.
   Una metà dei nuovi arrivati era stata ormai smistata; i rimanenti attendevano il loro turno. Losira li scrutò attentamente. Poco prima le pareva di aver intravisto un Risiano come lei. Poteva essere l’occasione giusta per scoprire com’era messo il suo mondo. La Comandante girò su se stessa, per guardarsi attorno... e d’un tratto se lo trovò davanti. I loro sguardi s’incontrarono. E Losira sentì il cuore sussultarle.
   «Sei viva?!» esclamò Atrevius.
   Suo marito – il suo amatissimo marito, morto anni prima – era lì davanti a lei, vivo e vegeto, con un’espressione incredula che certo doveva rispecchiare la sua. Per un attimo Losira si sentì precipitare nei ricordi di gioventù. Poi si ricompose, mentre la parte razionale del suo cervello riprendeva faticosamente a funzionare. Quello non era l’Atrevius che lei aveva amato e pianto. Era solo il suo alter-ego dello Specchio, e come tale poteva avere il carattere opposto.
   «Non ci credo... ti ho vista morire!» disse Atrevius con voce strozzata. Indietreggiò di qualche passo, schermandosi gli occhi, come per una visione intollerabile. Attorno a loro la piccola folla si scostò.
   «Chi è lei? S’identifichi» ordinò Losira, con tutta la freddezza che riuscì a radunare, pur sapendo in cuor suo la risposta.
   «Dottor Atrevius di Risa» mormorò l’interpellato, ancora sbalordito. «Mi perdoni, non volevo imbarazzarla» aggiunse, ricomponendosi. «È solo che lei somiglia molto a una persona che mi era sommamente cara, e che ho perduto».
   «Sua moglie? Per caso si chiamava Losira?» chiese Losira, assalita da una morbosa curiosità. Possibile che anche i loro alter-ego dello Specchio si fossero conosciuti e innamorati? La Galassia era davvero così piccola?
   «Sì, esatto... come lo sa? Lei chi è, se posso chiedere?» domandò Atrevius. Continuava a fissarla, come se vedesse un fantasma.
   «Sono la Comandante... la Comandante della Destiny» incespicò Losira, tacendo il suo nome. Non era ancora pronta a rivelare il loro strano legame. «Sono al corrente di molte cose. Le mie condoglianze per sua moglie. Posso chiederle com’è deceduta, esattamente?».
   A queste parole il viso del Risiano si rabbuiò. «Comprenderà se mi è doloroso parlarne» mormorò. Visto che l’altra continuava a fissarlo, sospirò rassegnato. «Io e mia moglie fummo arrestati dai Pacificatori con l’accusa di passare informazioni riservate alla Catena Cremisi. Sa, ci occupavamo di cartografia stellare e sistemi di localizzazione, quindi sapevamo dove si trovassero le navi dei Pacificatori in ogni momento. Vidi Losira mentre veniva interrogata... o dovrei dire torturata... per ore e ore. Le promisero che, se avesse confessato, ci avrebbero dato un grosso sconto di pena. E quando ebbe detto quel poco che sapeva, la uccisero» disse con l’orrore negli occhi. «Credevo che mi avrebbero fatto lo stesso, invece inaspettatamente fui rilasciato. Penso che il loro piano fosse seguirmi di nascosto, così che li portassi a una base della Catena. Ma sono passati anni, e non sono stato così incauto».
   «Però s’è fatto arrestare di nuovo» notò Losira.
   «Beh, dopo quello che ho passato, non potevo restarmene con le mani in mano» ammise Atrevius, con un mezzo sorriso sarcastico. «La ringrazio per averci fatti evadere. Se fossi finito di nuovo in un carcere di massima sicurezza... beh, credo proprio che stavolta non ne sarei uscito» confessò. «Scusi ancora per la scenata di prima. È solo che... lei somiglia a mia moglie in modo impressionante» disse, fissandola con rimpianto.
   «Può darsi che le somigli; ma tenga a mente che io sono un’altra persona» disse freddamente Losira, ben decisa a mantenere le distanze. Già una volta si era illusa di aver trovato suo marito redivivo. Ma si trattava solo di un’illusione, che l’aveva fatta soffrire ancora di più. Non poteva passare un’altra volta per un’esperienza del genere; il cuore non le avrebbe retto. No, stavolta doveva tenere una barriera fra loro.
   «Naturalmente. Alla prossima, Comandante» salutò Atrevius, col lieve inchino tipico dell’aristocrazia di Risa, sebbene non avesse vantato il suo titolo nobiliare. Probabilmente vi aveva rinunciato dopo la rivoluzione, accontentandosi del suo titolo accademico. Si lasciò condurre al suo nuovo alloggio da una guardia.
   Losira restò a fissarlo, rigida e immobile, finché uscì dall’hangar, sottraendosi alla sua vista. Solo allora la Risiana espirò a fondo e permise alla sua posa di rilassarsi.
 
   «Si accomodi» disse Rivera, quando lui e Svetlana furono nell’ufficio del Capitano. La porta si chiuse alle loro spalle, lasciandoli soli. La dottoressa sedette come indicato; la sua posa era rigida, anche se per il resto non sembrava intimorita. Il Capitano si accomodò alla scrivania e la studiò brevemente, prima di riprendere il discorso. «Sarò franco, dottoressa. Se non ci fosse stata lei, su quella nave-prigione, non mi sarei preso la briga di farvi evadere» rivelò.
   «Sono lusingata; non pensavo di valere tanto» rispose Svetlana, con un’ombra di sorriso.
   «In effetti neanch’io ne sono certo. Diciamo che ho fatto un salto di fede» disse Rivera con severità. Si era inimicato la Confederazione pur di salvarla... ma si ripeté che la loro mera presenza nello Specchio li rendeva già un bersaglio. «Sa, a momenti avrei voluto prelevare solo lei. Ma non me la sono sentita di lasciare indietro quei duecento disgraziati» proseguì. «A suo avviso qual è il luogo migliore in cui sbarcarli? Voglio dire, chi potrebbe dar loro asilo politico?».
   «La Repubblica Romulana» rispose prontamente la sociologa. «Curioso che lei non lo sappia» puntualizzò.
   «Già, e il meglio deve ancora venire» disse il Capitano con una smorfia. «Ora mi ascolti bene, dottoressa. La sua vita nella Confederazione è finita, poiché se vi tornasse sarebbe arrestata all’istante. Fermo restando che d’ora in poi sarà un’esule, deve fare una scelta. Se non se la sente di restare ad aiutarci, la sbarcherò con gli altri e fine della storia. Non mi dovrà niente e con ogni probabilità non ci vedremo più. Ma se sceglie di restare qui, condividerà i nostri stessi pericoli, che sono peggiori di quelli a cui l’abbiamo sottratta» chiarì.
   «Deve migliorare la sua captatio benevolentiae, Capitano» rispose Svetlana, sempre con quell’ombra di sorriso. «Intendo i discorsi motivazionali» spiegò, accorgendosi che l’interlocutore non aveva familiarità col latino.
   «Preferirebbe che le addolcissi la pillola?».
   «In effetti no» ammise la donna. «Io, però, sono una sociologa... o lo ero, quando essere sociologi significava qualcosa. In che modo potrei aiutarla?».
   «Mi servono informazioni» rispose il Capitano. «Per l’esattezza devo conoscere i punti di forza e di debolezza del regime. E mi occorrono dei contatti, di persone che la pensino come lei. Crede di poterlo fare?».
   «Certo, anche se non posso prometterle la collaborazione di quelle persone» si cautelò Svetlana.
   «Accettabile» annuì Rivera. «Allora, è dei nostri? Sappia che, se acconsente, si assume sostanzialmente il ruolo di Consigliere di bordo, coi diritti e i doveri connessi. Vale a dire che dovrà riconoscere la mia autorità di Capitano» avvertì.
   «Prima di rispondere, devo sapere – almeno a grandi linee – cos’ha in mente di fare» disse la sociologa. «Lei si è impossessato di un’astronave potente, ed è chiaro che avversa il regime confederale. Ma se progetta degli attentati, non posso assecondarla. Il regime non sarà abbattuto dalla sua astronave, e nemmeno da cento navi come la sua. Tutto quel che può fare è alzare ulteriormente il livello dello scontro. E come al solito, saranno i più deboli a rimetterci».
   «Non voglio lanciarmi in una crociata contro la Confederazione» ammise Rivera. «In realtà mi basterebbe accedere a certe informazioni riservate».
   «Informazioni sul Multiverso?» indovinò Svetlana.
   «Cosa glielo fa credere?» si adombrò il Capitano.
   «Seguire l’attualità fa parte del mio lavoro» rispose la sociologa. «La Destiny scomparve sette anni fa, nel suo viaggio inaugurale per esplorare il Multiverso. E ora eccola riapparire con un nuovo equipaggio. Un equipaggio che detesta questo regime, pur essendo stranamente ignorante su certe cose. Si direbbe che proveniate da... qualche altra parte» insinuò, fissandolo col suo sguardo acuto.
   «Se anche fosse, questo la spaventerebbe?» chiese Rivera.
   «No, anzi! Sarebbe l’incentivo migliore di tutti, sapervi liberi dai nostri condizionamenti culturali» rispose inaspettatamente Svetlana. «Ebbene, Capitano... alea jacta est. Intendo dire che ho preso una decisione» chiarì, vedendo la sua perplessità. «Sono con voi. In fondo ho sempre avuto un debole per... la legione straniera» ironizzò.
   «Muy bien. Benvenuta tra noi, dottoressa Smirnova» si congratulò Rivera, stringendole la mano. «Ora mettiamoci al lavoro».
 
   Due giorni dopo, la Destiny viaggiava a massima cavitazione verso il confine romulano, nella speranza che i prigionieri liberati potessero trovare asilo. Intanto Svetlana era stata messa al corrente del burrascoso passato di nave ed equipaggio. Gli ufficiali erano informati della sua decisione di restare a bordo, assumendo il ruolo di consigliera. Così nessuno si stupì di vederla alla riunione tattica.
   «Salve a tutti» esordì la sociologa, che ora indossava un abito civile, sempre grigio e austero. «Ho chiesto questo incontro perché so che vi servono informazioni sulla Confederazione. E mi riferisco al tipo d’informazioni che non si trovano su Memory Alpha. Voi volete conoscere i punti deboli di questa società e del suo regime. E avendo passato la vita a studiare queste tematiche, credo di potervi rispondere».
   Svetlana inserì alcuni comandi sull’interfaccia del tavolo tattico, facendo apparire la mappa olografica della Confederazione, nonché delle civiltà circostanti. «Se avete pazienza, comincerò con un’introduzione storica, per aiutarvi a contestualizzare».
   «Certo, proceda» la incoraggiò il Capitano.
   «La Confederazione è sorta trent’anni fa dalle ceneri dell’Impero Terrestre, dopo una sanguinosa Guerra Civile» cominciò la studiosa. «Il primo grave colpo si verificò già nel 2556, con la disfatta nella Battaglia di Procyon V. In quell’occasione l’Impero, che aveva tentato d’invadere la vostra realtà, subì una sconfitta catastrofica. Centinaia di navi furono distrutte, le altre si arresero e vennero sequestrate dalla Flotta Stellare. I prigionieri furono rimandati nello Specchio con l’Ammiraglio N’Rass, che si suicidò per il disonore. La sconfitta indebolì seriamente l’Impero, sia sul piano militare che a livello d’immagine, suscitando focolai di rivolta su decine di mondi. Quattro anni più tardi l’Imperatore Nelscott morì e si scatenò la lotta per la successione, con una serie di sovrani deboli, assassinati uno dopo l’altro.
   Nel 2575 cominciò la Guerra Civile vera e propria. Ci furono rivolte ovunque, sabotaggi delle infrastrutture e ammutinamenti di massa degli alieni che servivano nella Flotta Imperiale. Noi Umani scoprimmo d’essere pochi, troppo pochi per tenere unito un Impero così vasto. Quando le altre specie si coalizzarono contro di noi, ci trovammo sopraffatti per cento a uno. Intere colonie furono bombardate e distrutte, sebbene trasmettessero il segnale di resa. In una di queste carneficine persi mio fratello Juri» rivelò, chinando il capo addolorata. Fatto un respiro profondo, si riebbe e proseguì.
   «Nel 2580 il conflitto terminò col bombardamento della Terra, che ora giace in rovina sotto una coltre nuvolosa, e il rovesciamento dell’Impero. Sic transit gloria mundi. Al suo posto sorse la Confederazione dei Pianeti, modellata sulla Federazione del vostro Universo. La nuova Costituzione democratica garantiva pari diritti a tutte le specie, inclusi gli Umani appena rovesciati. Per una breve stagione, sembrò che la nostra società potesse accantonare gli orrori del passato e intraprendere la via della riconciliazione. Ah, quanto fummo ingenui!» commentò, scuotendo la testa.
   «Cosa andò storto?» chiese Losira.
   «Diciamo che, come al solito, le persone non furono all’altezza degli ideali» rispose Svetlana. «E il vuoto di potere faceva gola a molti. Nel giro di un anno, i principali responsabili della vittoria sull’Impero furono assassinati in circostanze opache o estromessi con varie accuse. La senatrice Rangda di Zakdorn riuscì a farsi eleggere Presidente, malgrado le accuse di brogli. Non appena fu su quella poltrona prese ad accaparrarsi poteri speciali e a varare leggi discriminatorie contro gli Umani. La vendetta contro la mia gente le ha sempre garantito il consenso popolare, che le ha permesso di rimanere al potere per trent’anni... cioè più a lungo di qualunque Imperatore! Ma siccome ha il titolo di Presidente, la gente crede che siamo in democrazia» ironizzò.
   Rivera si mosse sulla sedia, a disagio, ma non disse nulla. Per lui era come rivivere un incubo dal quale sperava d’essersi liberato. Giely se ne accorse e gli prese la mano sotto il tavolo, per confortarlo.
   «... nel decennio successivo cominciò l’epidemia di sterilità...» stava dicendo Svetlana.
   A quelle parole il Capitano sobbalzò. Doveva essersi perso una parte del discorso. «Di che sta parlando? Non abbiamo trovato niente del genere sull’Olonet!» obiettò.
   «Ah, sì, i mass media non ne parlano» rispose la sociologa, acida. «Eppure è la verità. Una misteriosa epidemia di sterilità ha colpito la specie umana, e solo quella. Se visiterete la Terra, o una delle colonie superstiti, noterete che ci sono pochissimi bambini. E quei pochi non sono figli normali... sono cloni. Perché clonarsi è l’unica strategia che resta alla mia specie, se non vuole estinguersi. E anche questo è scoraggiato dal governo».
   Udendo parlare di clonazione, Giely fremette. Gli Umani dello Specchio stavano diventando simili ai Vorta? Non poteva essere un fenomeno accidentale.
   «Anche nella nostra realtà abbiamo affrontato un problema simile» commentò Rivera. «In quel caso saltò fuori che erano i Pacificatori a sterilizzarci, diffondendo un patogeno modificato geneticamente. Per fortuna abbiamo trovato la cura».
   «L’avete trovata?!» esclamò Svetlana, tendendosi come una corda di violino. «E l’avete qui con voi, adesso?».
   «Le indicazioni per sintetizzarla sono nel nostro database medico» confermò il Capitano.
   «In tal caso... vi andrebbe di condividerla?» chiese la studiosa. I suoi occhi grigi si fissarono su di lui, imploranti. «Perché noi brancoliamo ancora nel buio. E dopo decenni di sterilità, la specie umana corre verso l’estinzione!».
   «Un attimo... non sappiamo se il patogeno sia lo stesso nei due Universi» avvertì Rivera. «Qui chi l’ha creato, sempre i Pacificatori?».
   «C’è il carcere per chi fa queste insinuazioni... ma sì, mi gioco il collo che sono stati loro, per ordine di Rangda!» sibilò Svetlana. «Non può essere un caso se l’epidemia è cominciata subito dopo la sua salita al potere, e se colpisce solo gli Umani. Se la dittatrice avesse iniziato a massacrarci, avrebbe creato resistenza. Così, invece, sembra che ci stiamo estinguendo per conto nostro. Le altre specie si dicono dispiaciute a parole, ma nei fatti si guardano bene dall’aiutarci! Sono come avvoltoi che ci osservano, in attesa di banchettare con le nostre carcasse...!».
   Trascinata dall’emozione, la sociologa aveva alzato la voce. Ma accorgendosi che lei e Rivera erano gli unici Umani seduti a quel tavolo, si fermò. Quando riprese a parlare, il respiro era più lento e la voce si era abbassata. «Come dicevo, qui nessuno ci aiuta. Se voi possedete la cura, v’imploro di condividerla. È l’unica speranza che resta all’umanità».
   Rivera stava per rispondere che sì, certamente li avrebbero aiutati. Ma Losira lo prevenne. «Pensaci bene, Capitano» avvertì. «Qui nello Specchio, gli Umani hanno creato non uno, ma due Imperi Terrestri! Entrambi hanno tiranneggiato le altre specie ed entrambi hanno fatto una fine sanguinosa. Se tu aiuti gli Umani a tornare forti, cosa impedirà che la storia si ripeta per la terza volta?».
   «Beh, non è scritto da nessuna parte che debba ripetersi» obiettò Talyn. «Qualunque cosa abbiano fatto questi Umani in passato, ora stanno soffrendo e sono a rischio d’estinzione. Se fosse la tua gente in queste condizioni, non vorresti aiutarla?».
   «Suppongo di sì» borbottò Losira. «Ma resta una decisione grave, che potrebbe cambiare le sorti della Galassia. Abbiamo la lungimiranza per prenderla?».
   «Se ne abbiamo la possibilità, credo che dobbiamo tentare» rispose Giely. «Altrimenti sarebbe omissione di soccorso. Come medico, e come ufficiale della Flotta Stellare, mi sento in dovere di provarci». Non poteva risolvere il suo problema, si disse, ma poteva aiutare gli altri. Era meglio di niente, e forse l’avrebbe aiutata a trovare pace...
   «Uhm, avete pensato alle possibili ritorsioni?» intervenne Irvik, in tono grave.
   «Cioè?» fece il Capitano.
   «Se è vero che Rangda ha diffuso questo patogeno per far estinguere l’umanità, e voi fornite la cura... non credete che la dittatrice passerà a metodi più spicci? Sì, intendo un genocidio alla vecchia maniera» chiarì il Voth.
   «C’è differenza? L’umanità si sta già estinguendo. Così almeno potrà difendersi!» ribatté Shati, sempre rapida a schierarsi.
   «Basta così!» esclamò il Capitano, prima che la discussione degenerasse in litigio. «Non sappiamo nemmeno se la nostra cura funziona. Lo verificheremo appena possibile. Se non funziona, amen. Se invece è efficace... beh, dovrò prendere una decisione difficile» ammise, tamburellando nervosamente sul tavolo. «Ma ne riparleremo a tempo debito. Per ora, dottoressa Smirnova, la invito a riprendere la sua esposizione. Le avevo chiesto quali sono i punti forti del regime, e quali le debolezze. Deve ancora rispondermi».
   «Lo farò» promise Svetlana, di nuovo padrona di sé. «Il suo maggior punto di forza è certamente la propaganda, attuata tramite scuole e mass media. Abbiamo un’intera generazione che è nata e cresciuta sotto il dominio di Rangda. Una generazione educata a credere che tutto ciò che precede Rangda sia da buttare, e tutto ciò che fa Rangda sia sempre giustificato per il “bene superiore”. Una generazione a cui è stata inculcata l’idea che sono figli dello Stato, che non devono fidarsi dei parenti, che anzi devono denunciarli se li sentono criticare il regime». La sociologa deglutì, proseguendo con una certa difficoltà.
   «A questo proposito... sapete come mi hanno incriminata? Non sono state solo le mie lezioni universitarie e le mie interviste allo Star Dispatch. No, è stata mia figlia – nata prima dell’ondata di sterilità – a registrare di nascosto le nostre chiacchierate, e a consegnarle ai Pacificatori come prove per incriminarmi. Mentre mi portavano via, mi ha detto che era fiera di avere svolto il suo dovere civico. Ecco cosa fa la propaganda della Confederazione». Il viso di Svetlana era duro come il marmo: la pelle pallida, le labbra esangui. Solo negli occhi ardevano due scintille di vita.
   «Mi dispiace» disse Rivera, interrompendo il pesante silenzio. «Continui, la prego».
   La sociologa bevve da una bottiglietta d’acqua che si era portata dietro. Fatto un sospiro, riprese il discorso. «Un altro vantaggio della Confederazione è il suo braccio armato, cioè i Pacificatori. Siccome gran parte della Flotta Imperiale è andata distrutta nella Guerra Civile, hanno sviluppato una nuova dottrina di guerra. Come avrete notato, si affidano sempre più alle navi-drone. Questa a ben vedere potrebbe trasformarsi in debolezza, se qualcuno riuscisse a sabotare il loro sistema informatico. Comunque ci sono anche astronavi tradizionali, provviste d’equipaggio.
   L’ultimo punto forte della Confederazione è... Rangda stessa, che è sempre stata abilissima a portare la gente dalla sua. Non avete idea di quanti dei suoi fedelissimi, sia nel ramo civile che in quello militare, una volta fossero suoi oppositori. Se li è comprati offrendo loro ciò che volevano, approfittando delle loro debolezze, convincendoli che non ci fosse altra via. Con lei è sempre così: o accetti di servirla, o ti fa rimpiangere d’essere nato».
   «Uhm... ormai la vecchia strega avrà più di cent’anni. La sua salute, fisica e mentale, mostra qualche segno di cedimento?» volle sapere il Capitano. «Lo chiedo perché la nostra Rangda è morta diciotto anni fa. E sebbene sia stata assassinata, negli ultimi tempi mostrava segni di deterioramento mentale. Possibile che questa stia ancora bene?!».
   «Difficile a dirsi; anche se avesse problemi, certo il suo entourage non li farebbe trapelare» rispose Svetlana, sovrappensiero. «Ma in effetti nel corso degli anni ha diradato le sue apparizioni pubbliche, fino a cessarle del tutto. Ora se ne sta rintanata nel suo palazzo presidenziale, senza mai mettere il naso fuori, e comunica alla popolazione solo via Olonet. Corre voce che con l’avanzare dell’età sia diventata ipocondriaca, per cui si sarebbe isolata per evitare i contagi, oltre che per proteggersi da possibili attentati. Ho anche sentito che ha radunato una task-force medica col solo scopo di vigilare sulla sua salute, ma non so se stia combattendo contro qualche malanno, oltre al generico invecchiamento. Comunque, Capitano, non facciamoci illusioni: se anche la dittatrice crepasse oggi, difficilmente le cose migliorerebbero. Al potere ci andrebbe qualche falco del suo entourage e tutto continuerebbe come ora».
   «Se la mette così, sembra che la Confederazione sia invincibile...» commentò il Capitano, sconfortato. Non che pensasse seriamente di affrontarla, ma gli dispiaceva l’idea che nessuno avrebbe rovesciato il regime.
   «Niente affatto!» rispose inaspettatamente Svetlana. «In realtà è uno dei regimi più corrotti e inefficienti che si possano immaginare, un vero gigante dai piedi d’argilla. E ora vi spiegherò perché». La sociologa digitò varie istruzioni sul display del tavolo, richiamando una serie di ologrammi. Erano grafici che mostravano l’andamento economico e demografico della Confederazione. Ed erano tutti a picco.
   «Il tallone d’Achille del regime è la sua dottrina politico-economica, che non funziona... semplicemente non funziona» spiegò la sociologa. «Si basa su analisi farraginose e su postulati assurdi che vengono presi come dogmi, ignorando tutti i dati contrari. Il risultato è una forma mentis che invece di adattare le teorie alla realtà, fa l’esatto opposto: parte dagli assiomi e cerca di giustificarli a ritroso, ignorando le conseguenze catastrofiche. Vi faccio l’esempio più eclatante: secondo la dottrina confederale, non bisogna esplorare lo spazio. Non si devono scoprire nuovi mondi, men che meno colonizzarli, per non danneggiare gli ecosistemi e non riportare malattie. Persino gli spostamenti tra i mondi confederali sono disincentivati».
   «E questo com’è possibile?!» chiese Rivera, stentando a credere all’ultima affermazione.
   «È il risultato di una forma molto fraintesa di ambientalismo» rispose Svetlana. «Dovete sapere che negli ultimi trent’anni si è diffusa la convinzione che la propulsione iperluce – sia curvatura che cavitazione – danneggi il subspazio. Ora, se il subspazio si rovinasse troppo, i viaggi interstellari diverrebbero impossibili e la Confederazione crollerebbe...».
   A questo punto Irvik non riuscì a trattenersi. «Che idiozia è questa?! Non c’è niente, nei sistemi da lei citati, che danneggi il subspazio! È l’affermazione più assurda che abbia mai sentito!» protestò.
   «Anche nella Federazione c’era questo allarme, molto tempo fa, ma si scoprì che era una bufala. Le fluttuazioni casuali del subspazio avevano dato una falsa impressione di danni» aggiunse Talyn. «Adesso nessuno prende più sul serio quest’idea».
   «Uhm, lo immaginavo. Anche da noi molti esperti affermano lo stesso» commentò Svetlana. «Ma Rangda ha prestato orecchio agli allarmisti e così ha posto severe limitazioni sui trasporti. Ad esempio i mercantili devono viaggiare a bassa curvatura, per limitare i presunti danni al subspazio. E quando dico bassa curvatura, intendo livello 5 al massimo. Il risultato è che i tempi di viaggio si sono enormemente allungati, facendo lievitare i costi. Ciò ha mandato in rovina i piccoli mercanti, così che il volume degli affari è diminuito e certe merci si sono fatte rare. Solo i Pacificatori hanno il permesso di viaggiare a elevata velocità. E comunque anche loro non possono esplorare nuove regioni di spazio».
   «Queste sono le politiche più autolesioniste che abbia mai sentito» commentò il Capitano.
   «Eccome se lo sono!» convenne la sociologa. «Tutti questi divieti hanno creato stagnazione tecnologica, fame di materie prime e infine una crisi economica ed energetica, che grava sulla popolazione. E come credete che vi abbia fatto fronte Rangda? Rilanciando i commerci e l’esplorazione dello spazio? Certo che no, dato che questo dimostrerebbe che si era sbagliata! Al contrario, la Presidente ha abbracciato la filosofia della Decrescita Felice. Ha annunciato che se la popolazione – non umana, badate bene, ma di tutta la Confederazione – si riducesse a un decimo di quella attuale, staremmo tutti meglio. Così ha incoraggiato ovunque le politiche anti-nataliste, al punto che ormai molti cittadini sani si fanno sterilizzare volontariamente, considerandolo un dovere civico. Il risultato è che intere culture, intere specie sono in pieno suicidio demografico. Questo ha ulteriormente ridotto l’economia, in un circolo vizioso senza fine. Vedete il paradosso? Rangda è riuscita a impoverire la popolazione e al tempo stesso a ridurla. Pensate che, in media, i cittadini sono più poveri adesso di quanto non fossero ai tempi dell’Impero».
   «E nessuno pensa a ribellarsi?» chiese Rivera, accigliato.
   «Eh, questo è difficile» sospirò la sociologa. «Vi ho detto quant’è capillare la propaganda. Rangda fa in modo che tutti i problemi della società siano addebitati agli Umani, così da avere un comodo capro espiatorio. L’unico vero movimento di ribellione è la Catena Cremisi, e Rangda lo presenta come se fossero le rimanenze dell’Impero, anche se in realtà è composta quasi tutta da alieni».
   «Quindi non c’è nessuna rivolta all’orizzonte?» insisté il Capitano.
   «Non nell’immediato, anche se devo dire che ultimamente il clima culturale sta cambiando» ammise Svetlana. «Dopo trent’anni di potere assoluto e ininterrotto, Rangda comincia ad apparire come un’imperatrice, più che come una leader democratica. E poi ci sono le guerre».
   «Quali guerre? Credevamo che la Confederazione fosse in pace!» si stupì Talyn.
   «Beh, ufficialmente si chiamano “missioni di pace”, anche se non credo che ciò sia di gran conforto alle vittime» spiegò la sociologa. «Dovete sapere che, quando l’Impero Terrestre cadde, molti pianeti non vollero entrare nel nuovo governo e si resero indipendenti. Così adesso la Confederazione cerca d’inglobarli, sia per una questione d’immagine – essere grande come il vecchio Impero – sia per incamerare nuove risorse, ovviando alla crisi energetica. Dapprima la Presidente usa i ricatti economici e le pressioni diplomatiche per indurre all’adesione i mondi riottosi. Promette immensi benefici e minaccia mali spaventosi se non lo faranno. Ma i cosiddetti “benefici” sono sotto gli occhi di tutti, quindi molti pianeti non cedono alle pressioni. E quando la carota non funziona, Rangda passa al bastone.
   I Pacificatori attaccano un mondo alla volta. Prima lo circondano in forze, bloccando traffici e trasmissioni. Poi intimano la resa... o come dicono loro, si offrono di “intervenire per riportare la stabilità e proteggere le minoranze”. Se gli assediati rifiutano parte l’attacco, con bombardamenti orbitali e successivo sbarco di truppe. Una volta asserviti, i pianeti sono saccheggiati delle loro risorse. Eppure il costo di queste continue guerre supera i guadagni in termini di bottino, dato che i pianeti sono impoveriti dall’embargo e semidistrutti dai bombardamenti. Un altro corto circuito logico».
   «Il tracollo demografico non impatta negativamente sulle capacità militari dei Pacificatori?» indagò Naskeel.
   «Non tanto, dato che gran parte della flotta ormai è costituita dalle navi-drone» rispose Svetlana. «La loro macchina bellica può andare avanti ancora a lungo. Probabilmente sarà l’ultima cosa a rimanere in piedi, quando il resto della società sarà allo sfascio. L’ironia è che tutte queste sofferenze si potrebbero evitare facilmente. La Confederazione potrebbe prosperare, se solo rinunciasse ad alcuni dei suoi dogmi ideologici. Ma le persone preferiscono morire, piuttosto che mettere in discussione le proprie certezze. Sono come la proverbiale rana bollita».
   «La cosa?» si stupì Giely.
   «La rana bollita; è una figura retorica» spiegò la studiosa. «Le rane sono piccoli anfibi terrestri, molto bravi a saltare. Gettane una in una pentola piena d’acqua bollente e quella salterà via per il dolore, salvandosi la vita. Ma se la metti in una pentola piena d’acqua a temperatura ambiente, e la scaldi molto lentamente, quella non si accorgerà che le cose cambiano e resterà a fluttuare tranquilla. Man mano che l’acqua si scalda, la rana sprofonderà nella paralisi, lasciandosi bollire fino alla morte senza alcuna resistenza. Così è con le persone: agendo in modo graduale, come ha fatto Rangda in questo trentennio, si possono normalizzare cose che in un primo momento sarebbero parse impensabili».
   Tornò il silenzio, mentre tutti meditavano su quelle parole, amare quanto solo la verità può esserlo. Infine il Capitano si alzò e prese la parola: «Ci ha dato molto su cui riflettere, dottoressa. Credo che per oggi possa bastare. Nei prossimi giorni torneremo a riunirci, per discutere più nello specifico di certi aspetti. La riunione è aggiornata».
   Gli ufficiali della Destiny presero a lasciare la sala tattica, per tornare alle loro occupazioni. Anche Svetlana stava per andare, ma Losira la trattenne. «Ancora un momento» disse.
   «Sì, ha qualche altra domanda?» chiese la studiosa.
   «No, ci tengo solo a chiarire un paio di cose» disse la Comandante, squadrandola con severità. «Credo che liberarla sia stato avventato, e che arruolarla sulla fiducia lo sia ancora di più. Lei ci ha presentato un bel quadretto commovente, in cui gli Umani sono le vittime e tutti gli altri sono i carnefici. Ma non ho scordato che lei è nata sotto l’Impero Terrestre, e prova un’evidente nostalgia per quei tempi».
   «Lei è in errore...» cominciò Svetlana, scuotendo la testa.
   «Non ho finito» l’interruppe Losira. «Pensi bene alle sue mosse, dottoressa. Non le permetterò di spingerci allo scontro con la Confederazione. Non siamo il suo esercito personale. Siamo solo degli avventurieri che vogliono tornare a casa. Il massimo che possiamo fare è portarla con noi. Se torneremo alla Federazione, potrà perorare la sua causa presso le autorità. Fino ad allora si attenga al suo ruolo» intimò.
   «Prendo atto dei suoi timori, per quanto infondati, e delle sue minacce, per quanto irragionevoli» disse Svetlana, perfettamente calma. «Ma voglio dirle una cosa: non sono una nostalgica dell’Impero Terrestre. In fondo è a causa dell’Impero se ora siamo a questo punto. Temo solo che la Confederazione possa trascinarci ancora più in basso, e che quindi ogni istante sia prezioso. Anche lei la penserebbe così, se fosse stata tradita dalla sua stessa figlia. Con permesso, Comandante» disse, e senza aspettare la risposta lasciò la sala tattica.
 
   Il giorno dopo Svetlana si recò in infermeria, su richiesta di Giely. «Si accomodi, dottoressa. Non deve allarmarsi se l’ho chiamata» la rassicurò la Vorta, invitandola sul lettino medico. «Sto esaminando tutti quelli che abbiamo liberato, per assicurarmi che stiate bene dopo la prigionia. Alcuni sono leggermente denutriti, ma finora non ho trovato nulla di grave... fisicamente, intendo. Certo le conseguenze psicologiche saranno peggiori».
   «Non tanto peggio che vivere ogni giorno sotto la Confederazione» commentò l’Umana, stendendosi sul bio-letto. «Non so se è il carcere ad essere leggero, o se è la società a somigliare troppo a un carcere. Fatto sta che non ho avvertito una gran differenza». Lasciò che il sensore semicircolare del lettino si chiudesse ad arco su di lei, iniziando la scansione.
   «Tutto a posto, anche lei è in buone condizioni» disse Giely al termine delle analisi. «Se permette, vorrei trattenerla ancora qualche minuto. Lei – ehm – suppongo sia stata contagiata dal virus della sterilità, dopo la nascita di sua figlia...».
   «Sì, qualche anno dopo» confermò la sociologa.
   «Vorrei prelevare un campione, per confrontarlo con quello nostrano. Così capirò se la nostra cura è efficace» spiegò la dottoressa.
   «Certo, faccia pure. Per me è decisamente tardi, ma se riuscisse a curare le donne più giovani...» annuì Svetlana.
   Giely prelevò un campione di sangue, poi ritirò il sensore del lettino, per consentire alla paziente di alzarsi. Svetlana si mise a sedere e restò a osservarla mentre analizzava il virus.
   «Ci vorrà qualche minuto per avere la risposta» spiegò la Vorta. «Nel frattempo vorrei farle una domanda».
   «Certo, mi dica».
   «Come sono i rapporti tra la Confederazione e il Dominio? Abbiamo notato che il Tunnel Bajoriano è collassato...».
   «Ah, immaginavo che mi avrebbe chiesto qualcosa del genere. Lei è una Vorta, non è così?» fece Svetlana, osservando le orecchie zigrinate della dottoressa e i suoi grandi occhi violetti. «Deve avere una storia interessante, se ha finito per indossare quell’uniforme» notò, alludendo alla divisa della Flotta Stellare.
   «Per rispondere alla sua domanda, i rapporti col Dominio al momento sono inesistenti» proseguì la sociologa. «L’Impero Terrestre lo aveva semidistrutto, infettando i Fondatori con un virus morfogenico, così da lasciare Vorta e Jem’Hadar allo sbando. In quel periodo molti sudditi del Dominio, trovandosi nel caos, attraversarono il Tunnel Spaziale e vennero qui da noi, cercando di sottrarsi ai controlli. Per un certo tempo l’Impero riuscì persino a creare colonie e avamposti nel Quadrante Gamma. Ma col crollo dell’Impero, i resti del Dominio si riorganizzarono e ripresero forza, distruggendo i nostri insediamenti di là dal Tunnel. A un certo punto si diffuse persino la notizia che il Dominio stava ammassando una grande flotta dall’altro lato del wormhole, come se si preparasse a invaderci, ma non so se fosse vero. Ad ogni modo, la Confederazione decise che non voleva correre rischi, così distrusse il Tunnel con un impulso tachionico. La cosa non è piaciuta ai Bajoriani, anche perché da allora i loro Cristalli si sono oscurati. Comunque, fine della storia. Suppongo che qui da noi ci siano ancora parecchi profughi, giunti prima che il Tunnel fosse distrutto; ma non so se tra loro ci siano anche dei Vorta».
   «Probabilmente no» disse Giely. «La mia specie è molto fedele ai Fondatori. Non ho mai incontrato altri Vorta che abbiano disertato. Quando me ne sono andata, lo immaginavo che avrei passato il resto della vita lontana dalla mia gente...». D’un tratto si zittì, temendo di aver detto troppo. Non voleva far sapere ad altri che l’esilio, e la difficoltà di clonarsi, cominciavano a pesarle. Si disse che era assurdo provare nostalgia per quella vita da incubo. Andarsene era la miglior scelta che avesse mai fatto. Le aveva permesso di arrivare sulla Destiny, di vivere avventure incredibili, persino d’innamorarsi. Era più felice adesso di quanto fosse mai stata prima, quindi di che si lamentava?
   «So che significa lasciare il proprio mondo, la propria gente» indovinò Svetlana, che in effetti aveva lasciato la Terra per Bajor, e adesso era esiliata pure da lì. «Anche se stai meglio, è come se mancasse una parte del tuo cuore. Ma non si può tornare indietro... possiamo solo guardare avanti» raccomandò.
   In quella il computer medico segnalò che aveva terminato di esaminare l’RNA del patogeno. Giely tornò a concentrarsi sul lavoro, dando le spalle all’ospite. Trascorsi parecchi minuti di completo silenzio, Svetlana si schiarì la voce. «Ebbene?» chiese con una certa trepidazione.
   «Ci sono alcune lievi differenze tra i due virus» rispose la Vorta. «Posso adattare la nostra cura, ma... per verificarne l’efficacia dovrei sperimentarla su Umani in età fertile. Non ne abbiamo a bordo, quindi... dovremo cercarli altrove».
   «Sono certa che li troverete, dottoressa. Ce ne sono miliardi, là fuori». La sociologa lasciò il lettino e si avviò verso l’uscita. «La ringrazio per quanto sta facendo. Il destino dell’umanità potrebbe dipendere da lei... soltanto da lei» avvertì, prima di lasciare l’infermeria.
   «Solo da me» si ripeté Giely, avvertendo tutto il peso di quella responsabilità.
 
   Tre giorni dopo la Destiny orbitava presso Rator III, un mondo della Repubblica Romulana. Gli avventurieri avevano contattato le autorità – il primo contatto ufficiale stabilito nello Specchio – ottenendo il permesso di sbarcare i prigionieri che avevano liberato. Come previsto, quasi tutti scelsero di andare, preferendo una modesta ma tranquilla vita a terra piuttosto che la travagliata esistenza di fuorilegge. Tuttavia una mezza dozzina rimase a bordo, integrandosi con l’equipaggio. Tra loro c’era la dottoressa Smirnova, ormai Consigliere a pieno titolo, tanto che in massima parte fu lei a gestire le trattative coi Romulani. E con stupore di Losira, tra i nuovi membri dell’equipaggio c’era il dottor Atrevius.
   «Perché vuole rimanere con noi?» chiese la Comandante alla successiva riunione tattica. L’interessato non era presente, così che tutti potevano parlarne liberamente.
   «Dice che ha sempre avversato la Confederazione, che non l’ha mai perdonata per la morte di sua moglie, che vuole rendersi utile... le solite cose che spingono un uomo a buttarsi nell’avventura» rispose il Capitano.
   «E tu gli credi?».
   «Diciamo che per adesso non ho ragione di credere il contrario» fece Rivera. «Tra l’altro – uhm – le sue conoscenze ci fanno comodo. È un esperto di cartografia stellare, con lui potremmo finalmente aprire il laboratorio di astrometria. Conosce la posizione di cantieri e basi confederali, il dislocamento delle maggiori flotte... sono un sacco d’informazioni utili. Se, come sembra, dovremo trattenerci qui a lungo, non posso farmi sfuggire quest’occasione».
   «Suppongo di no» ammise Losira. «Ma vorrei ugualmente che lo tenessimo d’occhio».
   «Ci sono ragioni particolari, oltre al fatto che è l’alter-ego di tuo marito?» chiese il Capitano. Dato che la Risiana non rispondeva, l’Umano riprese: «Ascolta, ricordo bene cos’hai passato, l’altra volta che ci siamo imbattuti in un impostore. Ma quella era un’illusione creata dallo Spazio Caotico. Questo invece è un individuo in carne e ossa. Non è tuo marito, ma non è nemmeno un nemico. Se vuoi tenerlo d’occhio, benissimo, lo faremo. Ma finché non avrò un valido motivo per dubitare di lui, non posso avversarlo solo per la sua faccia».
   «Sta bene, Capitano» cedette Losira. «Facciamo conto che sia un sosia e basta. Ma ora che abbiamo sbarcato gli altri, quale sarà la prossima mossa?».
   «Dobbiamo cercare un gruppo di Umani, per testare la cura contro la sterilità» intervenne Giely, che ormai aveva a cuore l’argomento.
   «Che siamo, un’organizzazione di beneficienza? La nostra missione era cercare le coordinate quantiche per tornare a casa!» obiettò Irvik. Anche se l’agitazione degli ultimi giorni era passata, rimaneva pur sempre concentrato su quell’obiettivo e trovava seccanti le distrazioni.
   «Sì, e continua ad esserlo» assicurò il Capitano. «Purtroppo i Romulani non hanno saputo illuminarci. Dottoressa Smirnova, secondo lei qual è il prossimo luogo in cui cercare quest’informazione?».
   «Ci ho pensato molto in questi giorni» disse la studiosa. «L’Impero Terrestre conosceva le coordinate; le conoscerà anche la Confederazione. Ma di certo sono un segreto militare ben custodito. Si troveranno nel palazzo presidenziale di Rangda, nel Quartier Generale dei Pacificatori e in pochissime altre basi».
   «Cioè in luoghi off-limits per noi» notò Rivera. «Non ci sono informatori che potrebbero saperlo, o talpe da contattare...?».
   «Se ci sono, io non li conosco» ammise Svetlana. «Ma c’è un posto che vale la pena visitare...».
   «Sì?» la incalzò il Capitano.
   «Ecco, vi sembrerò temeraria, ma... io vi consiglio di andare sulla Terra» disse l’Umana. «Consultate la Biblioteca del Palazzo Imperiale a Okinawa. Contiene tutto il sapere dell’Impero, all’apice della sua potenza».
   Cadde un silenzio sconcertato. Infine fu Naskeel a prendere la parola. «La Terra non è stata bombardata? Ci aveva detto che adesso è in rovina» ricordò.
   «È stata bombardata, ma non completamente rasa al suolo» precisò Svetlana. «In effetti è ancora uno dei mondi più popolosi della Confederazione, sebbene non sia più la capitale. Ci vivono otto miliardi di persone, tra Umani e alieni».
   «Uhm... quali sono le condizioni del pianeta?» s’interessò il Capitano. La tentazione di visitare la Terra era forte, sebbene non si trattasse del suo mondo natale, ma solo del duplicato dello Specchio. Forse era l’unica “Terra” che avrebbe mai rivisto. Notò che anche Irvik si era interessato, nell’udirla nominare.
   «Molte grandi città sono state distrutte. Il cielo è costantemente coperto da una cappa nuvolosa, che blocca i raggi del sole, provocando un inverno nucleare. Tra la radioattività e le piogge acide, i superstiti lasciano raramente le zone sicure. Il Palazzo Imperiale è diroccato e ha subito pesanti saccheggi, ma la biblioteca si è conservata» spiegò la sociologa. «Sapete, io sono di casa lì. L’ho visitata sia prima che dopo i bombardamenti. L’ultima volta che ci sono stata, era ancora possibile consultare gli archivi».
   «E i Pacificatori? Quali sono le loro difese?» chiese ancora Rivera, sempre più interessato.
   «Gran parte delle difese planetarie furono distrutte nella Guerra Civile e mai più ricostruite» rivelò Svetlana. «I Pacificatori hanno un quartier generale sull’Himalaya, sopra la cappa di nubi, e guarnigioni nelle maggiori città. Avranno anche qualche astronave in orbita. Ma nel complesso, la Terra è diventata così marginale da non essere tra i pianeti più sorvegliati; e nessuno si aspetta che andiate lì. Se vi preparate bene, dovreste riuscire a infiltrarvi con una missione stealth. Io sono disposta a guidarvi, data la mia familiarità col terreno. Non dico che sarà facile; ma non lo sarebbe nemmeno sugli altri mondi confederali».
   «È comunque un grosso azzardo» ragionò il Capitano. «E una volta lì, ci vorrà un esperto d’informatica per superare i codici di sicurezza. Irvik, se la sente d’accompagnarci? È la sua occasione di visitare il Mondo Perduto» lo provocò. In effetti era stato proprio il suo desiderio di visitare la Terra, patria comune di Umani e Voth, a spingere il sauro tra loro.
   «Non quello che speravo di visitare io!» sbuffò Irvik, alludendo al fatto che erano pur sempre nello Specchio.
   «No, ma se ci aiuta, forse torneremo sulla nostra Terra» insisté l’Umano.
   «In tal caso... verrò» cedette l’Ingegnere Capo, sebbene le sue scaglie trascolorassero verso il blu della fifa.
   «Verrò anch’io, per guardarvi le spalle» si offrì Shati.
   «E io, per occuparmi degli imprevisti» disse Naskeel.
   Malgrado queste assicurazioni, Giely fissò il Capitano con ansia. «Sei certo di volerlo fare? È la missione più rischiosa che ti sia mai accollato!» avvertì.
   «Il nostro scopo è tornare a casa, no? Tutto ciò che abbiamo fatto negli ultimi due anni ci ha portati a questo. Sarebbe paradossale se rinunciassimo proprio ora» disse Rivera, per convincere se stesso non meno che lei.
   «S-se vuoi... andrò io al tuo posto. Un Capitano non dovrebbe lasciare la nave» mormorò Losira, sebbene fosse bianca di paura.
   «Come, proprio adesso ti comporti da ufficiale di Flotta?» la canzonò bonariamente Rivera, sebbene in realtà fosse commosso. Losira era chiaramente terrorizzata, eppure si era offerta di accollarsi quel rischio tremendo. Lui, però, non avrebbe lasciato che si sacrificasse ancora. «No, sento che devo farlo io. La Terra è il mio mondo natale, devo tornarci almeno una volta». Dopo una breve pausa, si rivolse a Talyn. «Se hai qualche... percezione, è il momento di condividerla» lo esortò.
   «Non sono un oracolo, Capitano. Non “percepisco” niente» rispose l’El-Auriano dispiaciuto. «Spero solo che nessuno di voi si perda, laggiù».
   «Allora è deciso» concluse Rivera, alzandosi. «Non c’è tempo da perdere. Shati, rotta verso la Terra». 
 

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Capitolo 4
*** Sic transit gloria mundi ***


-Capitolo 3: Sic transit gloria mundi
 
   Quando la Terra apparve sullo schermo della Destiny, gli avventurieri la fissarono con uno strano miscuglio di sentimenti contrastanti. Negli ultimi due anni avevano cercato in ogni modo la via del ritorno. Ora finalmente avevano raggiunto la Terra... ma per ironia della sorte, non quella che cercavano. Erano in un luogo familiare e alieno al tempo stesso; un luogo sia bramato che temuto. Rivera si fece avanti, per vederla meglio, e con lui Irvik. Gli altri ufficiali, pur restando ai loro posti, la osservarono con la stessa ambivalenza. Solo Svetlana, che la conosceva fin troppo bene, tenne lo sguardo basso, sulle mani incrociate in grembo. Ma le sue labbra sussurrarono un’invocazione: «Terra firma». Si trattava dell’antico motto dell’Impero Terrestre, che era vietato pronunciare nella Confederazione.
   «Beh, signor Irvik, se voleva vedere il Mondo Perduto...» mormorò Rivera.
   «Quella sarebbe la Terra?» chiese il sauro, deluso.
   «Ciò che ne resta, quando i Pacificatori hanno finito il loro lavoro» rispose Svetlana.
   Il mondo natale dei Voth e degli Umani era coperto da una soffocante cappa grigia, dovuta ai bombardamenti orbitali, che ne celava la superficie. Non si distingueva nemmeno il profilo dei continenti. Solo le montagne dell’Himalaya erano abbastanza alte da forare la cortina nuvolosa. E lì, sul tetto del mondo, i Pacificatori avevano costruito il loro presidio planetario. Le torri e i palazzi argentei rilucevano al sole, mentre il resto del mondo era prigioniero dell’inverno nucleare.
   «L’atmosfera è satura di polveri tossiche e radioattive» disse Talyn, leggendo i dati dei sensori. «L’irraggiamento solare è così ridotto che la temperatura media globale è precipitata ad appena 8º C contro i 14 della nostra Terra. Per intenderci, sono gli stessi valori dell’ultima era glaciale. Infatti ci sono abbondanti nevicate e le calotte polari si stanno espandendo. Rilevo anche piogge acide nelle zone temperate. Le foreste stanno morendo per la scarsa illuminazione, il freddo pungente e l’acidificazione dei suoli; lo stesso accade agli ecosistemi marini. Direi che stiamo assistendo a un’estinzione di massa».
   «Non possono almeno ripulire l’atmosfera? La Federazione conosce dei modi...» disse Rivera, rivolto a Svetlana.
   «Oh, anche la Confederazione li conosce» assicurò la sociologa. «Sono già stati attuati con successo su altri mondi che dopo la guerra versavano nelle stesse condizioni. Se non l’hanno fatto con la Terra, è perché vogliono lasciarla morire. Guardi, Capitano... guardate tutti! Su quel pianeta vivono otto miliardi di persone che non vedono il cielo da trent’anni. C’è un’intera generazione che non ha mai visto le stelle... una generazione incapace di sognare un futuro migliore».
   «Uhm, sapete... con qualche modifica al deflettore, potremmo generare un impulso capace di ionizzare l’atmosfera e far precipitare la maggior parte delle polveri...» ragionò Irvik.
   «Sì, ma non lo faremo» sospirò il Capitano, tornando alla sua poltroncina. «Perché dovremmo uscire dall’occultamento. E l’occultamento è la sola cosa che ci tiene vivi. A proposito, come va?».
   «Siamo perfettamente schermati. Non rilevo alcuna variazione di rotta delle navi pattuglia, né segnali d’allarme» riferì Naskeel.
   «Bene, allora poniamoci in orbita geostazionaria sopra il Palazzo Imperiale. Abbastanza alti da far sì che non restiamo in trappola, se alzassero lo Scudo Planetario» raccomandò Rivera. Era una precauzione doverosa per la salvaguardia dell’astronave. Sfortunatamente comportava che lo Scudo, se alzato, avrebbe impedito il teletrasporto, isolando la squadra sulla superficie.
   «Siamo in posizione» disse Shati di lì a poco.
   «Squadra pronta allo sbarco. Losira, a te la nave» disse il Capitano. Lasciò la plancia con quanti aveva designato a seguirlo, mentre gli ufficiali ausiliari li sostituivano. Irvik, Naskeel e Shati vennero con lui. Venne anche Svetlana, che si era offerta di guidarli nelle profondità della Biblioteca Imperiale. Giunti nella saletta teletrasporto, adiacente alla plancia, trovarono la scorta armata ad attenderli. Erano Orioniani, Nausicaani, Letheani: gli elementi più truci di quell’equipaggio di fuorilegge. Rivera tuttavia sperò che non dovessero misurarsi coi Pacificatori. Se tutto andava bene, la missione sarebbe passata inosservata.
   «Abbiamo un problema, l’atmosfera radioattiva interferisce col teletrasporto» avvertì l’addetto, un Ferengi di nome Lum.
   «Beh, trova un modo per compensare. Non possiamo usare una navetta, o ci scoveranno» ordinò il Capitano.
   «Fammi vedere» disse Irvik, affiancandosi al Ferengi. Confabularono per un po’, facendo varie simulazioni di trasferimento. Infine l’Ingegnere Capo si rivolse al resto della squadra: «Okay, così dovrebbe andare. L’unico limite è che non possiamo raggiungere direttamente la Biblioteca, che si trova nel sottosuolo. Dovremo trasferirci in superficie e trovare un modo per scendere da lì. Dottoressa, pensa che sia fattibile?».
   «Gli ascensori funzionavano ancora... l’ultima volta che ci sono stata» rispose Svetlana.
   «Okay, preparatevi. Il trasferimento sarà più lungo del normale» avvisò Irvik, inserendo le ultime istruzioni sulla consolle.
   «Fa freddo laggiù... vi consiglio di prendere i giubbotti» aggiunse Lum.
   «Che gli dèi ce la mandino buona» mormorò Svetlana, mentre lei e gli altri prendevano abiti pesanti dagli armadietti.
   «Come sarebbe, gli dèi? Qui nello Specchio siete politeisti?» s’incuriosì Rivera.
   «Lo eravamo, un tempo» rispose la studiosa. «Veneravamo Seth, Baal, Marte, Morrigan, Odino, Kalì e compagnia bella. Ma ormai non ci crede più nessuno... io stessa l’ho detto così, tanto per fare».
   Il Capitano non volle approfondire, ma non gli era sfuggito che tutte le divinità citate da Svetlana erano dèi della guerra. Forse era per quello che gli Umani dello Specchio erano così bellicosi...
   Terminati i preparativi, gli avventurieri si disposero sulla pedana di teletrasporto. La squadra era così numerosa che sarebbe dovuta scendere in due gruppi.
   «Tenetevi pronti a tutto» disse Rivera, impugnando già il phaser. In cintura aveva anche la frusta neurale ereditata dal vecchio Capitano Grilk. Era un’arma insolita e difficile da usare, ma negli anni si era esercitato, raggiungendo una buona padronanza.
   «Siamo armati e pronti, Capitano» garantì Shati, anche lei col phaser in pugno. Se la Caitiana avesse avuto ancora la sua bella coda leonina, avrebbe scodinzolato per l’emozione. Ma aveva perso la coda un anno prima, in uno scontro a fuoco, così si limitò a muovere le orecchie e a sogghignare nella sua maniera felina.
   «Ebbene, Irvik, il suo pellegrinaggio è finito. Finalmente visiterà la Terra» commentò il Capitano, rivolto all’Ingegnere Capo che lo affiancava.
   «Già, ma questa Terra non mi garba più di quanto garbi a lei» rispose il Voth, tagliente.
   «Cerca di fartela bastare; potrebbe essere l’unica che vedrai» pensò l’Umano, ma non lo disse, per non compromettere il morale della squadra.
   «Trasferimento fra tre... due... uno... ora!» disse Lum, attivando il raggio. La sala teletrasporto svanì attorno alla squadra, cancellata dal bagliore azzurro. Come annunciato, il trasferimento fu più lungo del solito. Rivera ebbe una sensazione di solletico, ma forse fu solo uno scherzo della sua mente. Infine la luce azzurrina si estinse e la superficie terrestre si delineò attorno a lui.
 
   Gli avventurieri si serrarono i baveri dei giubbotti, per proteggersi dalle gelide sferzate di vento, e si guardarono attorno. Il sole era alto nel cielo, eppure la cappa nuvolosa era così densa da nasconderlo quasi del tutto. Solo una pallida luminosità diffusa rischiarava un settore di cielo. Attraverso le polveri, la luce gialla e malata dell’inverno nucleare pioveva sulle rovine sottostanti.
   Irvik mise un piede avanti e poi lo ritirò, osservando l’impronta che aveva lasciato sul suolo cosparso di cenere. «Un piccolo passo, per un Voth...» mormorò. Poi si chinò, raccogliendo un pugno di quelle ceneri, con cui riempì una boccetta che si era portato appresso. Era tipico dei pellegrini Voth prendere souvenir del genere, solitamente sassolini o pezzi di terriccio. In quel caso però c’erano solo le ceneri da raccogliere, poiché sotto di esse si trovava ancora la copertura in permacemento delle strade. Irvik si rialzò, riponendo la boccetta in tasca, e seguì il gruppo che varcava i cancelli schiantati del Palazzo Imperiale.
   C’era stato un tempo in cui quello era davvero il centro dell’Impero Terrestre. Se la Terra era il cuore dell’Impero, il Palazzo era il cuore della Terra e quindi di tutto. Era un luogo che alcuni riverivano con un fervore religioso, mentre altri lo temevano e lo odiavano; ma nessuno metteva in dubbio il suo potere. Lì gli imperatori trascorrevano la maggior parte del tempo, prendendo le decisioni cruciali per il destino d’intere civiltà. Lì affluivano gli arrivisti senza scrupoli, sperando d’arraffare qualche briciola di quel potere. Lì i leader sconfitti sfilavano in catene prima d’essere giustiziati. Lì affluivano i tesori più rari e preziosi di quel vasto dominio interstellare. E sempre lì – cosa più importante per gli attuali visitatori – l’Impero aveva costruito la sua maggiore biblioteca, strutturandola come un cono rovesciato che sprofondava nelle viscere della terra. I livelli superiori erano facilmente accessibili, poiché contenevano informazioni pubbliche. Ma più si scendeva e più si richiedevano autorizzazioni d’alto livello, per consultare database sempre più riservati. Era lì che l’Impero aveva seppellito i suoi segreti più oscuri e destabilizzanti. Giù, sempre più giù... fino al bunker più profondo e schermato, accessibile solo all’Imperatore.
   Le cose erano cambiate il giorno in cui le forze rivoluzionarie avevano superato lo Scudo Planetario, bombardando tutto dall’orbita. Gran parte della capitale era stata rasa al suolo e il Palazzo stesso aveva riportato gravi danni. Le torri erano crollate, le cupole si erano sbriciolate sotto la violenza dell’assalto, seppellendo gli occupanti. Poi erano venuti i saccheggi. I rivoltosi avevano rovistato fra le macerie, impadronendosi di qualunque oggetto paresse di valore, strappando persino i rivestimenti aurei dalle pareti. Le opere d’arte considerate preziose erano state razziate; le altre erano state vandalizzate in spregio all’Impero e lasciate al suolo. Il palazzo, un tempo pieno d’andirivieni e cicalecci, erano divenuto un luogo abbandonato e silenzioso. Trent’anni di piogge acide avevano macchiato e corroso le rovine, dando l’impressione che fossero ben più antiche.
   Eppure c’era ancora qualcosa di grandioso in quei resti diroccati. Le guglie infrante, simili a titaniche ossa tese verso il cielo; le facciate monumentali dalle finestre simili a occhiaie vuote; gli scuri corridoi che echeggiavano a ogni passo; tutti questi luoghi erano ancora impregnati di ricordi. L’Impero Terrestre era crollato, ma la sua leggenda di gloria e sangue perdurava; e il cuore dell’Impero era ancora popolato dai fantasmi del passato.
 
   Rivera e i suoi si addentrarono tra le rovine, coi sensi all’erta e le armi in pugno. Svetlana li guidava con sicurezza, facendo persino da cicerone, come se fosse stata una guida turistica che mostrava un sito archeologico a una qualunque comitiva di turisti. Il gruppo procedette senza gravi intoppi, salvo le macerie che in certi punti ostacolavano il cammino. Sebbene cercassero di muoversi in silenzio, i loro passi echeggiavano spesso nei corridoi.
   «Che desolazione. Tutte le grandi città sono ridotte così?» chiese Irvik a un certo punto.
   «Non tutte... ma molte sì» rispose Svetlana.
   «Questo pianeta ha urgente bisogno d’essere aggiustato. Servirebbe un esercito d’ingegneri e tecnici ambientali» sospirò il Voth, guardandosi mestamente attorno. Persino le erbacce cresciute tra le rovine erano grigie e stentate.
   «Eh sì, l’oscurità e il freddo sono problemi globali» confermò Svetlana. «Manca l’energia, quindi non si possono usare i replicatori per produrre cibo. Ma neanche l’agricoltura tradizionale è praticabile, con questo clima. Così i Terrani» usò un termine dello Specchio «campano mangiando alghe e insetti. Come immaginate, non è una dieta delle più salutari. Sarà anche per questo che i Terrani sono così malaticci e intrattabili».
   «Senti, senti! Non è un bel complimento da fare a chi ti accoglie!» disse una voce sconosciuta.
   Gli avventurieri fremettero, guardandosi attorno. Erano in una zona particolarmente accidentata del Palazzo Imperiale, piena d’anfratti in cui era facile nascondersi. E infatti si trovarono circondati da un folto gruppo d’armati, imbacuccati in abiti pesanti e con occhialoni a proteggere il volto.
   «Calmi!» disse Rivera ai suoi. Quell’incontro non giungeva inaspettato, poiché Svetlana li aveva avvertiti che c’erano dei diseredati accampati nei sotterranei del palazzo. La sociologa aveva garantito che li conosceva e poteva convincerli a lasciarli passare. Era il momento di vedere se aveva ragione.
   «Sei tu, Ray?» chiese Svetlana in tono familiare, rivolta a colui che aveva parlato. «Sono Svetta, non mi riconosci?».
   A queste parole l’interpellato si fece avanti, mentre gli altri concentravano la luce delle torce sulla donna. «Svetta... mi sembrava d’aver sentito la tua voce. Ma i notiziari dicevano che gli xenos ti avevano arrestata» disse l’uomo, usando un termine dispregiativo che indicava gli alieni.
   «Infatti era così. Mi trovavo già sulla nave-prigione, in rotta per Tantalus V, quando questi coraggiosi mi hanno liberata. E non solo me... hanno salvato tutti i miei compagni di prigionia» rivelò la studiosa.
   «E così ti fidi di loro» concluse il capobanda.
   «Gli affiderei la mia vita. Non li avrei guidati qui, altrimenti» assicurò Svetlana.
   «Immagino che tu non lo abbia fatto solo per istruirli sulle glorie passate. Che cosa gli serve?».
   «Solo qualche informazione dalla vecchia biblioteca. In cambio possono fornirvi provviste e medicine».
   «Uhm... chi è il capo?» fece l’uomo, squadrando gli avventurieri. La sua attenzione era attratta da Naskeel, in virtù del suo aspetto alieno.
   «Sono io» disse Rivera, riponendo il phaser in cintura e facendosi avanti. «Capitano Rivera della Destiny. Prima che me lo chiediate... sì, ci siamo impadroniti dell’astronave. E abbiamo gettato il guanto della sfida contro la Confederazione» dichiarò.
   «Maggiore Raymond, delle Guardie Pretoriane» si presentò allora il capobanda. Alzò il pugno, segnalando ai suoi che potevano abbassare le armi. La tensione si stemperò una volta che i due gruppi smisero di puntarsi i phaser. Raymond si levò gli occhialoni e il cappuccio, rivelandosi un uomo suppergiù dell’età di Svetlana, dai capelli grigi e incolti. «Beh, almeno ero nei Pretoriani, prima che andasse tutto in malora» ammise. «Gli amici di Svetta sono miei amici; e chiunque sfidi la Confederazione è il benvenuto. Se vi servono informazioni della vecchia biblioteca, fate pure. Però non ci dispiacerebbe avere quelle provviste e medicine. È difficile vivere accampati tra queste rovine».
   «Le avrete» promise Rivera. «Ma il tempo è essenziale, dobbiamo scendere subito nella biblioteca».
   «Cercate informazioni molto riservate? Perché noi non abbiamo tutte le chiavi d’accesso. I livelli più profondi sono sigillati» avvertì Raymond.
   «A quello ci penso io» garantì Irvik, che si era portato dietro una valigetta piena di strumenti da decodifica.
   «Uhm... certo che avete un sacco di xenos con voi» borbottò l’ex Pretoriano, osservando l’eterogenea squadra della Destiny.
   «Tutta gente fidata» garantì Svetlana.
   «E se apro i livelli inferiori della biblioteca, anche voi potreste trarne vantaggio» aggiunse Irvik.
   «Vero» riconobbe Raymond, grattandosi il mento ispido. «Venite con noi, stranieri. State per vedere qualcosa d’indimenticabile».
 
   Guidati dai Terrani, gli avventurieri raggiunsero un settore del Palazzo meglio conservato degli altri. Qui c’erano quelli che a prima vista parvero dei turboascensori, ma una volta aperti si rivelarono qualcosa di più complesso. Erano degli abitacoli sferici, muniti di sedili, che potevano accogliere otto persone. Una volta attivati dall’interno, sfrecciavano come proiettili negli appositi condotti. E la fitta rete di condotti gli permetteva di muoversi sia su e giù come ascensori, sia sullo stesso livello come vagoni della metropolitana, collegando ogni settore dello sterminato edificio.
   «Queste erano le arterie del Palazzo» spiegò Raymond. «Ora buona parte della rete è off-limits per via dei crolli, ma abbiamo riattivato alcune capsule, istruendole a percorrere i condotti rimanenti. È l’unico modo pratico di scendere, dato che il teletrasporto non ha energia e le scale di servizio, beh... sono troppe rampe per percorrerle ogni giorno. Entrate e reggetevi forte: il viaggio non è liscio come un tempo».
   Gli avventurieri e i Terrani dovettero distribuirsi su tre capsule per scendere tutti. Rivera, Irvik e Svetlana viaggiarono con Raymond. Come aveva detto quest’ultimo, il viaggio fu tutt’altro che liscio: la capsula sparata a tutta velocità non faceva che vibrare. «Mi sa che sono trent’anni che non la revisionano» si disse il Capitano, sperando che i vecchi meccanismi non scegliessero proprio quel giorno per guastarsi. Notò che il loro spostamento era quasi tutto in verticale; non riuscì a capire di quanto fossero scesi, ma erano certamente molti livelli. Infine la capsula si fermò con uno stridio e il portello si riaprì. Gli avventurieri si riunirono coi loro compagni, scesi con le altre capsule, e osservarono quello strano mondo sotterraneo.
   Erano in un ampio salone, con un’immensa ventola che portava l’aria dalla superficie; le pale erano sudice per via delle polveri. Qualcuno aveva rimosso la copertura della ventola, per favorire lo scorrimento dell’aria, anche se così bisognava stare attenti a tenersi lontano dalle pale in continuo movimento. Numerose porte, tutte spalancate, portavano ai vari ambienti della Biblioteca Imperiale. Un tempo erano camere di lettura, saloni di conferenza, laboratori per gli studenti e ambienti di servizio per il personale. Adesso erano la dimora per centinaia di senzatetto, che in superficie sarebbero morti di fame e freddo. I Terrani avevano allestito serre idroponiche per procurarsi il cibo e riuscivano a tenere una temperatura sopportabile; ma era una vita di stenti. I loro volti erano smagriti, con gli occhi sprofondati nelle orbite. Molti avevano malattie della pelle, che appariva giallognola e chiazzata; doveva dipendere dalla mancanza di luce solare e di vitamine. Altri tossivano in modo insistente, per via delle polveri tossiche che respiravano ormai da trent’anni. Anche Raymond e la sua squadra, togliendosi gli occhialoni e i cappotti che avevano portato in superficie, rivelarono volti scavati e malaticci.
   In aggiunta a tutto questo, un’altra cosa saltò all’occhio dei visitatori: la totale assenza di bambini. Come aveva detto Svetlana, gli Umani avevano perso la capacità di procreare; e questi sventurati che vivevano sottoterra non potevano permettersi nemmeno un clone. Gli individui più giovani avevano circa vent’anni, a conferma che il virus della sterilità si era diffuso gradualmente nel primo decennio della Confederazione.
   «La dottoressa ha detto il vero... povera gente» mormorò Irvik all’orecchio di Rivera. Il Capitano annuì, scuro in volto. Non voleva mostrarsi troppo emotivo, ma in effetti era angosciato dalla miseria e dalla disperazione che lo circondavano. Quelle erano persone che non avevano alcuna speranza di miglioramento nelle loro vite, e si erano ormai rassegnate a spegnersi lentamente. Il fatto di vivere tra le rovine della passata grandezza doveva rendere ancora più amara la loro agonia.
   «Seguitemi» disse Svetlana. E gli avventurieri la seguirono, sala dopo sala, corridoio dopo corridoio, fino a un portone blindato. «Ecco, da qui si scende ai livelli più profondi della biblioteca, che richiedono delle autorizzazioni» spiegò la sociologa. «Non ho mai potuto oltrepassare questa porta. Ma ciò che cerchiamo è certamente laggiù, quindi... Irvik, tocca a lei» invitò.
   «Nemmeno voi siete mai riusciti a scendere più di così?» chiese il Voth, rivolgendosi a Raymond e al suo gruppo.
   «Macché. Quando ci fu il fuggi-fuggi, durante il bombardamento, le guardie lasciarono i dispositivi di sicurezza innescati. Non siamo mai riusciti a disabilitarli, e del resto non abbiamo mai avuto grosse motivazioni per tentare» confermò il Terrano.
   «Okay, mi metto all’opera» disse Irvik, aprendo la valigetta che si era portato dietro. Conteneva i più raffinati strumenti della Destiny per identificare e disattivare gli allarmi, oltre ad apparecchi per trovare la combinazione d’apertura.
   «Pensa di farcela?» chiese Raymond, con una punta di scetticismo.
   «Beh, non all’istante» chiarì il Voth, sussiegoso. «Potrebbero volerci ore per aprire questa porta, e altrettanto per le successive. Ma non mi darò per vinto finché non arriveremo al livello più basso, ci volessero giorni!».
   «Sperando di averceli, dei giorni» si disse Rivera, pensando con preoccupazione alla Destiny, ancora occultata nell’orbita terrestre. Si augurò che l’Ingegnere Capo riuscisse a scassinare in fretta quell’ingresso, e anche i successivi, prima che i Pacificatori li scoprissero. «Andiamo, lasciamolo lavorare» disse a mezza voce, allontanandosi dal Voth col resto della squadra. Era inutile restare lì a osservarlo, mettendogli ancora più ansia.
   «Potete restare tutti, finché il vostro collega avrà finito. E con questo, credo di aver rispettato la mia parte dell’accordo» disse Raymond. «Ora tocca a voi: ci avevate promesso viveri e medicine. E se avete un dottore, gradirei che scendesse a visitare i nostri malati».
   Fino a quel momento Rivera aveva esitato a contattare la Destiny, sapendo che così rischiavano d’essere intercettati e localizzati dai Pacificatori. Ma si rese conto che non poteva più tirare la corda. Aveva promesso quegli aiuti, e ogni promessa è debito. «Quanti siete in tutto?» chiese.
   «Al momento siamo in trecentoventisei» rispose il Terrano. «All’inizio eravamo molti di più, ma...» lasciò in sospeso.
   Il Capitano pigiò il comunicatore. «Canale protetto per la Destiny. Rivera a plancia, mi sentite?».
   «Qui Destiny, affermativo. Come vanno le cose?» rispose Losira.
   «Tutto come previsto. I superstiti ci hanno accolto e Irvik si sta facendo strada verso i livelli inferiori della biblioteca. È il momento di ripagare i nostri anfitrioni con le scorte che avevamo preparato. Portatene per trecentocinquanta persone» ordinò, arrotondando all’eccesso.
   «E se avete un medico, qui c’è del lavoro per lui!» aggiunse Raymond, inserendosi nella conversazione, dato che Rivera aveva tralasciato quella parte.
   «Ho sentito bene? Posso scendere anch’io?» giunse la voce di Giely.
   «Non occorre, basta il Medico Olografico!» esclamò Rivera, irritato da quell’intromissione che metteva a rischio la sua amata.
   «Ne abbiamo già discusso, non puoi tenermi su questa nave quando servo a terra. Scendo con le scorte» insisté la Vorta.
   Il Capitano si morse la lingua. Non poteva biasimare Giely per essere solerte nel suo lavoro; era uno dei motivi per cui l’amava. E come Capitano, non poteva fare favoritismi tra i suoi ufficiali. Eppure avrebbe preferito tenerla al sicuro sull’astronave, tanto che fu tentato di ordinarglielo. Ma non poteva mettersi a discutere davanti a tutti, sia per non sembrare di parte, sia perché ogni secondo di conversazione aumentava le probabilità d’essere intercettati. «E va bene, scendi!» si arrese. «Rivera, chiudo». Fissò Raymond con durezza, come a dirgli: «Ora sei contento?!».
   «Torno su a ricevere la vostra dottoressa» disse il Terrano, facendo segno ad alcuni dei suoi di seguirlo. «Aspettate qui, non ci vorrà molto».
   «Vengo anch’io» insisté Rivera. «Naskeel, Shati, voi restate con Irvik. Non perdetelo di vista» raccomandò.
   Raymond parve indispettito, ma poi lasciò che il Capitano gli venisse dietro. Il resto della squadra, come da ordini, rimase ad attenderli nel sottosuolo.
 
   Concentrato sul suo lavoro, Irvik non si accorgeva nemmeno dei compagni di squadra che ogni tanto lo fissavano dal fondo del corridoio. Fu solo quando udì lo zampettare di Naskeel che si riscosse.
   «Ritiene che ci vorrà molto?» inquisì il Tholiano.
   «Sì, se vengo interrotto!» si lamentò il Voth. «Ascolti, è una faccenda complessa, ma non insormontabile. Mi lasci fare e ne verrò a capo».
   La risposta fu sufficiente, perché Naskeel tornò in fondo al corridoio e riprese la sua posizione di vedetta. Shati, che era con lui, si accorse che il Tholiano intendeva rispettare alla lettera l’ordine di “non perdere di vista” l’Ingegnere Capo. Lei però non aveva un atteggiamento così robotico, e voleva approfittare della sosta per esplorare quello strano ambiente.
   In quella una donna del posto – fragile e malaticcia come tutti – le si avvicinò, rivolgendole timidamente la parola. «Scusi, dobbiamo spostare dei container pesanti. Non è che sarebbe così gentile da aiutarci?» le chiese.
   «Certo, vengo subito» rispose Shati, vedendo l’occasione per gironzolare, una volta finito quel lavoro.
   «Non allontanarti troppo» raccomandò Naskeel.
   «Torno subito, okay? Non ti preoccupare!» sbuffò la Caitiana. Si separò dal gruppo, seguendo la Terrana verso una sezione della biblioteca che non avevano ancora visitato. Magari sarebbe riuscita a scaricare altre informazioni utili, prima che si facesse ora di andare.
 
   Tornato in superficie assieme al gruppo di Terrani, Rivera fu sollevato nel vedere che Giely era scesa senza intoppi. Come promesso, la Vorta si era trasferita con delle scorte di cibo concentrato e di medicinali.
   «Tutto bene?» chiese il Capitano.
   «Direi di sì. Non ero mai stata sulla Terra, è così... malata» ammise la Vorta, guardandosi attorno spaesata.
   «Non possiamo farci niente. Su, vieni» la pressò Rivera. Come da accordo, nessuno lasciò intendere ai Terrani che loro venivano da un’altra realtà, e che stavano cercando le informazioni per tornarci. C’era il rischio che non gli credessero, o che cercassero persino di fermarli.
   I Terrani raccolsero i piccoli container con le scorte. Rivera si aspettava che li aprissero per ispezionare il contenuto, e magari accampassero ulteriori pretese, ma non fu così. Raymond e i suoi presero subito la via del ritorno e agli ospiti non restò che seguirli. Dovettero essere ancora più attenti rispetto a prima, perché stava calando la notte, e nella crescente oscurità era facile inciampare tra le macerie. Nel cielo inoltre si susseguivano cupi tuoni, segno che stava arrivando un temporale. Nessuno dei presenti voleva trovarsi all’esterno, una volta che avesse iniziato a cadere la pioggia acida. Fortunatamente raggiunsero le capsule di discesa prima che iniziasse il diluvio.
   «Questa capsula è sicura?» chiese Giely, osservando l’abitacolo. Non le era sfuggito il suo aspetto deteriorato.
   «È la più sicura che abbiamo. Dentro, svelti!» fece Raymond, che sembrava avere una gran fretta di scendere. Caricate le scorte, i Terrani e i loro ospiti si chiusero nell’abitacolo e partirono. A Rivera parve che la discesa fosse ancora più precaria della precedente, con la capsula che strideva e vibrava in continuazione. Fortunatamente non ci furono incidenti e in breve il portello si spalancò sul salone ormai familiare.
   «Capitano, tutto okay?» li accolse Shati.
   «Sì, e qui?» fece Rivera, uscendo per primo.
   «Irvik mi ha appena comunicato che ha aperto il portone blindato» rivelò la Caitiana. «Dovrà scendere qualche altro livello prima di arrivare dove vogliamo, ma... è sulla buona strada!» trillò, agitando la coda per l’emozione.
   La coda?!
   «Questa è un’ottima notizia» disse Rivera con calma. Dopo di che si premette il comunicatore. «Capitano a squadra, raggiungetemi subito nella hall» ordinò.
   «Qui Irvik, come le devo dire che non devo essere interrott...».
   «È un ordine, Ingegnere, e lei lo eseguirà all’istante» disse l’Umano, in un tono che non ammetteva repliche.
   «C’è qualche problema?» intervenne Raymond.
   «Certo che no. Voglio solo dare qualche istruzione ai miei, prima di sistemarci per la notte» rispose il Capitano. «Abbiamo tutti bisogno di riposo, anche il mio Ingegnere».
   «Bene, vi farò assegnare qualche camera» promise il Terrano. «Sapete, qui di spazio ce n’è fin troppo. Da quando ci siamo rifugiati in questi sotterranei, il nostro numero non ha fatto che diminuire. A proposito, dottoressa, le andrebbe di visitare i nostri malati più gravi?» si rivolse a Giely.
   «Certo, faccia strada...» annuì la Vorta, prendendo il borsone con strumenti e medicine.
   «Solo un attimo, vorrei parlare a tutti» la bloccò Rivera.
   Giely era un po’ sorpresa, ma fece come richiesto. Invece Raymond apparve decisamente contrariato. «Alcuni dei nostri sono in condizioni molto gravi...» protestò.
   «Non ci vorrà molto» disse il Capitano, sempre tranquillo. Durante l’attesa si accostò a Shati e la prese da parte. «Secondo te, questa gente ha capito cosa stiamo cercando?» sussurrò.
   «Non credo. Io e gli altri abbiamo tenuto la bocca chiusa» assicurò la Caitiana.
   «Bene, ma... credi che dovremmo dirglielo?».
   «Non spetta a me decidere...».
   «Sei un ufficiale in gamba, voglio sentire il tuo parere» la incalzò Rivera, osservandola attentamente.
   «Beh, io... credo che ci convenga tacere» disse infine Shati.
   «Uhm, perché? Dammi una motivazione logica».
   «Beh, perché... la conoscenza è potere. E sebbene questa gente sembri innocua, non sappiamo a chi potrebbero spifferare quello che scoprono sul nostro conto» spiegò la Caitiana. «Abbiamo già rivelato nomi e volti; meglio non fargli sapere che siamo smarriti nel Multiverso».
   «Già... una buona riflessione» approvò il Capitano. Il suo sguardo indugiò per un attimo sulla coda della timoniera.
   Di lì a poco giunse il resto della squadra. Irvik era seccato dell’interruzione, gli altri apparivano più perplessi. Rivera li osservò, accertandosi che ci fossero tutti, compresa Svetlana. «Capitano, ho superato la prima barriera, ma ce ne sono altre prima di arrivare ai file top secret! Devo rimettermi subito al lavoro...» disse l’Ingegnere Capo, impaziente.
   «Un attimo d’attenzione, prego!» lo ignorò l’Umano, rivolgendosi a tutta la squadra. «Fin qui avete fatto un ottimo lavoro, mi congratulo con voi. Ma è arrivato il momento di darci un taglio». Prima che qualcuno potesse chiedere spiegazioni, il Capitano estrasse il phaser. E con gesto fulmineo, senza alcuna esitazione, sparò a Shati.
 
   Scoppiò il finimondo. I Terrani impugnarono i phaser e altrettanto fecero gli avventurieri, per quanto sorpresi dall’azione del loro Capitano. Ma non c’era tempo per fare domande: in un attimo iniziò la sparatoria. Una gragnola di colpi attraversò il salone. La maggior parte finirono contro le pareti, facendone sprizzare scintille, ma alcuni giunsero a bersaglio. Due guardie della Destiny e tre Terrani furono falciati. I superstiti cercarono riparo dietro le vecchie scrivanie, che peraltro offrivano scarsa protezione dai phaser. Rivera spinse Giely dentro la capsula da cui erano appena usciti, per proteggerla. Poi balzò di lato e rotolò a terra, evitando i colpi di Raymond. Si rialzò di scatto e gli sparò, colpendolo al braccio che impugnava il phaser.
   Nel frattempo Naskeel afferrò una scrivania, la sollevò senza sforzo e la fece volare attraverso la sala, schiacciando un paio di sfortunati Terrani. Irvik, che non era armato, si vide messo all’angolo da altri due ed ebbe la reazione istintiva dei Voth minacciati. Puntò le mani contro i Terrani, scagliando i suoi artigli. Colpì ambo gli avversari, che gridarono e cercarono d’estrarsi quegli strani dardi dalle carni, ma in un attimo crollarono privi di sensi. Gli artigli Voth, infatti, contenevano una sostanza soporifera così forte da sprofondare gli Umani in un sonno comatoso di molte ore. Su individui fragili come quelli, l’effetto era ancora più immediato. Massaggiandosi le mani doloranti, Irvik si nascose dietro a Naskeel, sperando che la mole cristallina del Tholiano lo avrebbe protetto da ulteriori attacchi.
   Vedendo che per loro volgeva al peggio, i Terrani rimasti si diedero alla fuga. Tutti tranne Raymond, che col braccio sano estrasse una vibro-lama e la puntò alla gola di Svetlana. «Nessuno si muova, o la sgozzo!» minacciò. Usò la donna come scudo, circondandole la gola col braccio e trascinandola all’indietro, verso la gigantesca ventola che continuava a girare. «Anzi, meglio ancora... se non fate come dico, la riduco a spezzatino!» gridò. Fece il gesto di gettarla nella ventola, dove le pale d’acciaio – lunghe due metri e affilate come rasoi – l’avrebbero sminuzzata. «Gettate le armi, svelti!» intimò.
   «Non fatelo» disse però Svetlana, consapevole che per loro sarebbe stata la fine.
   «Taci!» ringhiò Raymond, premendole così forte la lama sulla gola da far stillare qualche goccia di sangue. La studiosa però non emise un lamento; e gli avventurieri tennero le armi puntate. Il Terrano li fissò con odio, non osando uccidere il suo unico ostaggio. «Andava tutto a meraviglia... come hai fatto a capirlo?» chiese a Rivera.
   «A capire che avete sostituito Shati col suo alter-ego?» puntualizzò il Capitano. «È stato facilissimo. La nostra Shati ha perso la coda un anno fa, in uno scontro a fuoco. La vostra, invece, ce l’ha ancora» disse, accennando alla Caitiana stordita. «Come avete fatto a commettere un errore così stupido? E non dirmi che avevate il cuore troppo tenero per tagliarle la coda!».
   «L’errore non è nostro, ma dei Pacificatori» disse Raymond a denti stretti. «Sono arrivati qui prima di voi. Ci avrebbero sterminati, se non li aiutavamo a tendervi l’imboscata. Che altro potevo fare, se non acconsentire?!».
   «Non capisco... come fanno i Pacificatori a conoscerci?» chiese Irvik, uscendo da dietro a Naskeel.
   «Evidentemente la sonda-spia che ci ha abbordati nel sistema bajoriano è riuscita a trasmettere una ripresa della plancia, con tutti i presenti» rispose il Tholiano. «Durante lo scontro Shati è rimasta nascosta dietro la sua consolle, quindi la ripresa non mostrava se avesse o meno la coda. I Pacificatori hanno supposto erroneamente che ce l’avesse. E quando è arrivato il momento della sostituzione, e hanno scoperto l’errore, non hanno fatto in tempo a correggerlo».
   «Okay, ma come hanno fatto a precederci? Voglio dire, come sapevano che saremmo venuti qui?» chiese ancora Irvik.
   «Su questo non abbiamo indizi» ammise Naskeel.
   Rivera non prestò troppa attenzione a queste parole; era concentrato sulle successive deduzioni. «Vediamo: i Pacificatori non volevano semplicemente sopraffare questa squadra, o gli sarebbe bastato attaccarci in forze» ragionò. «Volevano sostituire Shati... e forse qualcun altro... per mandare i loro agenti sulla Destiny. Ma certo, la Destiny! L’obiettivo è sempre stato quello. E ora che non possono infiltrarsi a bordo...».
   Un lampo d’orrore passò negli occhi del Capitano, che subito premette il comunicatore. «Rivera a Destiny, i Pacificatori ci aspettavano! Comunicate il vostro status!».
   La risposta giunse molto disturbata dalle interferenze. «Qui frshhh-stiny, le loro navi sono dappertutto! Stanno facendo esplodere cariche frshhh per localizzarci. Non resisteremo a lungo!» giunse la voce concitata di Losira.
   «Cercheremo di risalire, quanto potete resistere?» chiese Rivera, preparandosi al peggio.
   «Non capisci, hanno alzato lo Scudo Planetario. Siamo tagliati fuori. Frshhh... se tornaste in superficie, non possiamo teletrasportarvi».
   Cadde il silenzio. Il loro incubo si era concretizzato: con lo Scudo attivo, non potevano in alcun modo tornare sull’astronave. E se la Destiny rimaneva dov’era, i Pacificatori l’avrebbero localizzata e distrutta. Così il Capitano non aveva che un ultimo ordine da impartire. «Rivera a Destiny, ascoltatemi bene: voglio che ve ne andiate. Losira, ora sei tu il Capitano. Hai capito?!».
   Ci fu un breve silenzio, prima che giungesse la risposta della Risiana: «Tenete duro, tornate in superficie. Frshhh... qualcosa c’inventeremo».
   «Negativo, ti ho detto d’andare. Mi hai sentito? Conferma l’ordine!» gridò Rivera, ma dal comunicatore non giunse alcuna risposta. La linea era caduta.
   «Commovente. Beh, in un modo o nell’altro, la Destiny uscirà di scena!» commentò Raymond, sempre con la vibro-lama alla gola di Svetlana. «Così restate voi. Da un momento all’altro arriveranno i Pacificatori; se ci trovano così, ci ammazzano tutti. Se invece deponete le armi, è probabile che avrete salva la vita».
   «Come ti sei ridotto!» lo accusò Svetlana. «Un tempo avversavi i Pacificatori, ora fai il lavoro sporco per loro. Potrei anche perdonarti per avermi venduta... ma non per aver venduto i nostri benefattori» disse, alludendo a quelli della Destiny.
   «Sai com’è, trent’anni a vivere nelle fogne ti cambiano!» sbottò il Terrano. «La verità è che non importa quanto ci arrabattiamo, perché ormai siamo una specie in via d’estinzione! Solo tu sei così cieca da non vederlo! Ti aggrappi a questi avventurieri come se potessero cambiare qualcosa!».
   «Ma noi possiamo cambiare le cose!» intervenne Giely. «Ho qui una cura per la vostra sterilità. Se potessimo somministrarla ad abbastanza persone, l’estinzione dell’umanità sarebbe scongiurata. Lasciaci andare e lo faremo!» promise.
   Raymond la fissò come se fosse pazza. «Una cura? E io dovrei crederci? Non importa... è troppo tardi. I Pacificatori ridurrebbero questo pianeta in briciole, prima che possa nascere il primo bambino. Giù le armi, ho detto! Se vi consegnate ai Pacificatori, forse risparmieranno la mia comunità, per quei pochi anni che le restano».
   Rivera esitò, chiedendosi se non gli convenisse davvero arrendersi. Come poteva trascinare i suoi compagni – e Giely! – in uno scontro senza speranza? D’altro canto, arrendersi significava subire interrogatori e torture; e le informazioni estorte avrebbero messo ancor più in pericolo la Destiny. Comunque la rigirasse, non c’era scampo.
   Il Terrano notò che il Capitano esitava e ne fu lieto, intravedendo una possibilità di salvezza. Quello che non vide, invece, fu Svetlana che si sfilava dalla manica uno strumento piccolo e sottile come una matita. Era un fulminatore elettrico, uno strumento d’autodifesa che le avevano dato sulla Destiny. Approfittando di un attimo in cui la stretta dell’uomo si era allentata, Svetlana riuscì a divincolarsi e al tempo stesso lo colpì col fulminatore, infliggendogli una forte scossa.
   Raymond gridò, mentre le sue dita si stringevano convulsamente sull’impugnatura della vibro-lama, che sfrigolò di cariche statiche. Svetlana gli rifilò un calcio, facendolo cadere all’indietro... dritto nella ventola. Ci fu un suono umido, come di un tritacarne, e le pale si tinsero di rosso. «Mors tua, vita mea» commentò la studiosa, a mo’ d’epitaffio. Quando si girò verso gli avventurieri, mostrò il volto e l’abito imbrattati di sangue non suo.
   «Affrettiamoci, i Pacificatori ci saranno addosso a momenti» disse con voce pacata, come se stesse ancora tenendo una lezione all’ateneo.
   Rivera dovette distogliere lo sguardo da quell’immagine disturbante. «Fermi, non possiamo fidarci di quella» ordinò, prima che i suoi potessero salire a bordo della capsula che li aveva portati nel sottosuolo. «Di certo i Pacificatori ci aspettano all’uscita».
   «Prendiamo le scale? Saranno sorvegliate anche quelle!» notò Irvik.
   «Prima cerchiamo di recuperare la nostra Shati. Con tutte le interferenze al teletrasporto, può darsi che non l’abbiano ancora portata via di qui» disse il Capitano.
   «La sto cercando» disse Giely, che aveva impugnato il tricorder e ne studiava le letture. «Ho una debole traccia, da quella parte» disse, indicando una delle uscite.
 
   Fortunatamente non dovettero fare molta strada prima di ritrovare Shati. La timoniera era stata chiusa in una stanzetta blindata, forse un vecchio archivio. Rivera stordì l’unica guardia, dopo di che lui e Naskeel tagliarono la porta coi phaser. Il portone blindato cadde in avanti con fracasso. Dentro era buio, salvo per due grandi occhi felini. Shati era furiosa come una leonessa in gabbia, ma anche umiliata per la sua cattura, tanto che restò in silenzio.
   «Meriteresti che ti lasciassi lì! Allontanandoti senza autorizzazione, ci hai messi tutti in pericolo» la rimproverò il Capitano, più severo di quanto fosse mai stato con lei. «Se ti libero, è perché non voglio che i Pacificatori scoprano altro da te. Su, esci!».
   La Caitiana fece come ordinato. I compagni non l’avevano mai vista così sfrigolante di rabbia e vergogna. Potevano solo sperare che, al momento giusto, si sarebbe sfogata sui Pacificatori.
   «Congratulazioni, furfanti, avete ritrovato la vostra complice! Ora che siete riuniti, ascoltatemi bene» disse una voce stranamente familiare. Somigliava a quella di Rivera, ma proveniva dagli altoparlanti della biblioteca. Nell’udirla gli avventurieri s’irrigidirono e si misero ancor più sulla difensiva, con le armi in pugno, ma non avevano un bersaglio.
   «Chi sei?!» chiese il Capitano.
   «Maggiore Rivera dei Pacificatori» fu la temuta risposta. «Sono io che ho costretto Raymond e i suoi straccioni a collaborare alla vostra cattura. Avrei dovuto sostituirmi a te, dopo aver infiltrato Shati, ma le circostanze c’impongono di giocare a carte scoperte. La Destiny se n’è andata e nessun altro verrà a salvarvi. Siete bloccati nel sottosuolo assieme a trecento Terrani che vi odiano e non faranno nulla per proteggervi. Potrei mandarvi contro le mie squadre speciali e sareste travolti, ma ho qui pronta una soluzione ancora migliore. Tra un’ora esatta inonderemo tutti i sotterranei di gas nervino. Se restate barricati lì sotto, perirete di una morte atroce. E con voi moriranno i trecento straccioni, in quanto danni collaterali della vostra ostinazione. Se invece salite su quella capsula e tornate in superficie, lasciandovi arrestare, avrete salva la vita tutti quanti. La scelta è vostra. Non ci saranno altre comunicazioni. Rivera, chiudo».
   Cadde un silenzio di tomba. Tutti fissavano il Capitano, in attesa della sua decisione. Ma Rivera era così annientato dall’ultimatum del suo alter-ego che restò a lungo in silenzio.
   «Capitano, non abbiamo scelta. Ne va non solo delle nostre vite, ma di questi trecento sventurati...» mormorò Irvik.
   «Non abbiamo garanzie che i Pacificatori terranno fede alla promessa di risparmiarci» avvertì Naskeel.
   «Oh, certo, per te è facile! Sei l’unico fra noi che può resistere al gas nervino!» rimbeccò il Voth.
   «Forse c’è una scappatoia» intervenne Svetlana, che si stava ancora nettando del sangue di Raymond con un fazzoletto. «Avete sentito l’altro Rivera citare i “danni collaterali”. L’ha fatto perché, come tutti i Pacificatori, segue pedissequamente il regolamento. E il regolamento dice che solo quando dei terroristi sono asserragliati con ostaggi civili si possono accettare i “danni collaterali”, cioè la morte dei civili. Ma se uscissimo dai sotterranei per un’altra via, una non sorvegliata, i Pacificatori non potrebbero più ricattarci con le vite di questi rifugiati» rivelò.
   «E c’è un’uscita che non sia sorvegliata?» chiese Shati, scettica.
   «Questo lo scoprirò subito!» disse Irvik, correndo verso il più vicino terminale del computer. Richiamò uno schema della fitta rete di condotti, evidenziando quelli distrutti o franati e quelli ancora praticabili. «Ecco, vedete? In circostanze normali, da qui abbiamo solo quattro punti d’uscita. Possiamo presumere che siano tutti sorvegliati dai Pacificatori» disse il Voth, evidenziando le uscite interessate. «Però se ci fermiamo in questo punto con l’arresto d’emergenza e usiamo i phaser per aprirci un varco nella parete, possiamo accedere a un settore isolato dei sotterranei. E da questo settore si può accedere a quest’altra capsula, che ci porta a un’uscita molto lontana dalle altre quattro. Può darsi che questa non sia vigilata». Mentre parlava evidenziò il tragitto della loro ipotetica fuga.
   «Anche supponendo che sia così, che faremo poi?» chiese Giely. «Saremo pur sempre dispersi sulla Terra, senza la Destiny che possa prelevarci. I Pacificatori continueranno a darci la caccia... ci rintracceranno nel giro di minuti».
   «Non è detto. Le interferenze atmosferiche sono così forti, specie durante i temporali, che i sensori funzionano male. Se sbuchiamo abbastanza lontani dalle loro pattuglie, potremmo riuscire a dileguarci» sostenne Svetlana. «Naturalmente non posso garantirvi il successo. Anzi, vi dico chiaro e tondo che è un’esile speranza. Ma è l’unica che abbiamo».
   A queste parole gli avventurieri si rivolsero nuovamente al Capitano. E Rivera seppe che non poteva più tentennare, perché la scadenza dell’ultimatum si avvicinava. «Vada per aggirare il blocco. Andiamo alla capsula» decise.
 
   Di lì a pochi minuti gli avventurieri erano di nuovo nella hall d’ingresso. I Terrani non si facevano vedere, dopo la batosta subita, ma probabilmente anche loro avevano udito l’ultimatum. Era il momento di andare. Ora che non erano più scortati, gli avventurieri potevano salire tutti sulla stessa capsula, se si pressavano abbastanza. Questo significava eccedere il numero di passeggeri previsto, ma era l’ultima delle loro preoccupazioni.
   Prima di partire, Rivera prese Giely da parte. Sapeva che, con ogni probabilità, quello era il loro ultimo momento insieme. «Mi dispiace, non avrei dovuto trascinarti in questa situazione» le disse, pieno di rimpianti.
   «Ehi, ehi, tu non hai nessuna colpa!» gli sussurrò Giely all’orecchio, con voce appassionata. «Hai fatto tutto il possibile per riportarci a casa. Qualunque cosa accada... sappi che ti amo e non sono pentita delle mie scelte. Mi sono sentita più viva in questi pochi mesi con te che in tutto il resto della mia esistenza» rivelò.
   «Ce la caveremo e... avremo tutto il tempo che vorremo» mormorò Rivera, pur sapendo che non poteva affatto garantire una simile promessa. Si scambiarono un ultimo bacio, come a sfidare la sorte incombente, e seguirono i compagni nella capsula. 
 

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Capitolo 5
*** Si vis pacem, para bellum ***


-Capitolo 4: Si vis pacem, para bellum
 
   Come stabilito, gli avventurieri bloccarono la capsula con l’arresto d’emergenza quando ormai erano vicini alla superficie. Impugnati i phaser, Rivera e Naskeel tagliarono una parete, aprendo un varco per il corridoio adiacente. Il gruppo lasciò l’abitacolo, abbandonandovi l’ancora stordita Shati dello Specchio, nella speranza d’ingannare i sensori dei Pacificatori. Si precipitarono alla successiva capsula e ripartirono con quella. In breve giunsero all’uscita.
   All’apertura del portello li accolsero il bagliore livido dei fulmini, il boato dei tuoni e una pioggia acida che cadeva come frustate. Il salone infatti era scoperchiato dai bombardamenti. Peggio ancora, l’intera parete frontale era crollata, così che gli avventurieri si trovarono precariamente raccolti sul ciglio di un precipizio. Rivoli d’acqua li trascinavano in avanti, verso l’abisso. Là sotto, i lampi rivelarono un intrico di lamiere deformate e arrugginite: morte certa in caso di caduta.
   «Resisti!» gridò Rivera, afferrando Giely per un braccio, così che l’acqua non la trascinasse verso il baratro. Lui stesso si afferrò con l’altra mano a un appiglio nella parete. Era una posizione precaria per tutti. Dovevano andarsene, ma il minimo passo falso li avrebbe fatti scivolare verso la morte. Tutt’intorno i fulmini balenavano intorno alle guglie diroccate del Palazzo Imperiale. Erano più numerosi del normale, per via della cappa di polveri che generava molta elettricità statica. I tuoni erano così vicini e frequenti che gli avventurieri avevano difficoltà a udirsi, nonostante fossero affiancati. La pioggia acida s’incanalava in angusti passaggi fra le rovine, andando a colmare le depressioni, così da formare pozze che sarebbero durate settimane. In tutta la sua vita turbolenta, Rivera non ricordava d’essersi mai trovato in un luogo così pericoloso.
   «Complimenti di nuovo!» gridò una voce fin troppo familiare, facendo sobbalzare gli avventurieri. «Avevo scommesso coi miei uomini che avreste tentato di fuggire da qui».
   Seguendo la voce, Rivera guardò oltre l’abisso di lamiere, verso un’altra sala scoperchiata e affacciata sul vuoto. Lì, vestiti con tute semicorazzate provviste di caschi, erano appostati i Pacificatori. Ce n’era un intero plotone, coi fucili phaser spianati. I loro caschi riflettenti nascondevano la fisionomia. Solo il caposquadra aveva il viso scoperto: l’esatto riflesso di Rivera. L’unica differenza erano i capelli: lunghi e raccolti in una coda di cavallo quelli del Capitano, corti e dal taglio militaresco quelli del Maggiore.
   «Reggiti» raccomandò Rivera a Giely, lasciandole il braccio. Si portò la mano in cintura, dove teneva il phaser.
   «Io non lo farei, Capitano» avvertì il Maggiore. «Questo non è uno scontro che può vincere».
   «Ascolti, c’è un grosso malinteso!» disse il Capitano, sebbene le parole suonassero patetiche persino a lui. «Non siamo spie né invasori. Siamo solo dispersi nel Multiverso e cerchiamo le coordinate quantiche per tornare a casa».
   «Ohibò, e quand’è che le avete perse? Prima o dopo esservi impadroniti della Destiny e averne ucciso l’equipaggio?» lo canzonò il Maggiore.
   «Non abbiamo fatto niente del genere. Quella è la Destiny del nostro Universo, non del vostro!» gridò Rivera, cercando di farsi udire sopra il frastuono della tempesta.
   «Vedremo» fece il suo alter-ego. «Resta il fatto che avete assaltato una nave-prigione, facendo evadere i detenuti. Avete portato una nave armata vicino a un mondo della Confederazione. Vi siete infiltrati in un’area interdetta e una volta scoperti avete tentato la fuga. Forse siete anche responsabili della distruzione della Mistaya. Ce n’è abbastanza per l’ergastolo. Ora deponete le armi, o apriremo il fuoco!» minacciò.
   «No, aspetti!» gridò Giely. Si staccò dalla parete e si fece un poco avanti, per farsi udire, malgrado il pericolo di scivolare verso il baratro. «Lei è Umano e la sua specie è in via d’estinzione per via della sterilità. Se le dicessi che possiamo curarvi, non accetterebbe di trattare? Possiamo garantire un futuro a tutta l’umanità, se solo ci ascolta!».
   Il Maggiore tacque per interminabili secondi, mentre la pioggia continuava a scrosciare. Infine parlò: «Devo aggiungere anche la tentata corruzione alla lista dei vostri reati. Vedo che, malgrado tutto, continuate a non prendermi sul serio. Bene... vi costringerò a farlo». Ciò detto, sparò deliberatamente a Giely, colpendola in pieno.
   Il bagliore azzurro di un lampo illuminò la scena, imprimendola a fuoco nella mente del Capitano. Giely gridò, mentre il raggio phaser la colpiva, e cadde in avanti. A giudicare dall’intensità del raggio, era tarato su uccisione. L’acqua impetuosa trascinò la Vorta verso il baratro. Prima che chiunque potesse afferrarla, Giely superò l’orlo slabbrato e precipitò con la cascata, scomparendo nell’abisso irto di lamiere arrugginite. Se ne andò come le lacrime di Rivera, perse nella pioggia.
 
   «Avremo tutto il tempo che vorremo». Quelle parole, pronunciate pochi minuti prima, risuonarono beffarde nella mente del Capitano. Inginocchiato sull’orlo del baratro, vi guardò dentro, senza vedere altro che oscurità. Mai in tutta la sua vita si era sentito così totalmente, definitivamente annientato. Per qualche attimo fu vicino – davvero vicino – a gettarsi a sua volta. Poi alzò lo sguardo verso il suo alter-ego, e capì che aveva ancora delle cose da fare.
   «Ordini, Capitano?» chiese Naskeel accanto a lui.
   «Fate quello che faccio io» rispose Rivera. L’attimo dopo impugnò il phaser e aprì il fuoco contro i Pacificatori. In un lampo entrambi i gruppi presero a colpirsi. Nessuno cercava più di prendere prigionieri, tutti combattevano per uccidere. Gli spalti del Palazzo Imperiale divennero un labirinto mortale pieno d’inseguimenti, grida, esplosioni. I raggi phaser balenavano ovunque, tagliando le lamiere, facendo crollare intere sezioni pericolanti. Tutti correvano, ora per inseguire, ora per seminare un inseguitore, ora per nascondersi e tendere nuovi agguati. Le superfici inclinate e scivolose non facevano che aggiungere pericolo al pericolo.
   Tra gli avventurieri si distinse Naskeel, armato con un phaser in ciascuna mano e per nulla infastidito dalla pioggia acida. Per la prima volta i colleghi lo videro balzare da un sostegno all’altro, con inaspettata agilità, sfruttando le sei zampe per ancorarsi quando nessun altro ci sarebbe riuscito. Era impossibile stabilire se anche lui fosse in qualche modo toccato dalla morte di Giely, ma una cosa era certa: i colleghi non lo avevano mai visto così letale.
   Ma ci fu qualcuno che combatté con furia ancora maggiore: Shati. La Caitiana, già emotiva per natura, era ancora in preda alla rabbia e all’umiliazione per la cattura di poco prima. Quando vide la sua amica scomparire nel baratro, perse ogni barlume di ragione, trasformandosi in una furia animalesca. Estrasse gli artigli e prese a balzare da un sostegno all’altro, apparendo e sparendo tra le ombre, troppo rapida per essere seguita. Superava gli abissi con balzi prodigiosi, si arrampicava sulle pareti in un modo che sfidava persino le capacità dei Caitiani. Ogni pochi attimi bersagliava i Pacificatori, incurante dei colpi che andavano a vuoto e indebolivano i sostegni già pericolanti.
 
   In quel pandemonio si aggirava Rivera, col phaser in pugno, abbattendo qualunque Pacificatore gli capitasse a tiro. Ma il suo bersaglio era uno solo, il suo alter-ego. E finalmente lo vide, al bagliore di un lampo, appostato su un livello più alto del suo. Si riconobbero nello stesso istante e si spararono con la stessa velocità. Ma nessuno dei due colpi andò a bersaglio. Quello del Capitano, troppo alto, si perse nel cielo. Quello del Maggiore, troppo basso, frantumò il camminamento sotto i piedi di Rivera. Il Capitano cadde, ma non nel vuoto: prese invece a scivolare lungo il lato di una cupola. Annaspò in cerca d’appigli, ma c’erano solo pochi rampicanti che gli si strapparono tra le mani. E poco più avanti la cupola terminava, fondendosi alla parete verticale, così che si spalancava il baratro.
   Conscio di avere pochi secondi, il Capitano mollò il phaser per avere entrambe le mani libere. All’ultimo istante riuscì ad afferrarsi a un fregio decorativo, una sorta di gargoyle urlante. Per un attimo restò sospeso sul vuoto, aggrappato con una sola mano. Poi riuscì ad aggrapparsi anche con l’altra. Infine, con enorme fatica, si issò e prese a risalire il pendio sfruttando i rampicanti, sempre con la pioggia acida che lo frustava. Si levò i capelli bagnati dal volto e guardò verso l’alto, temendo che il suo alter-ego gli sparasse di nuovo, ma non lo vide. Forse qualcos’altro lo teneva impegnato.
   Dopo una risalita lunga ed estenuante, il Capitano raggiunse di nuovo il camminamento. Un ultimo sforzo e sarebbe stato al sicuro. Ma nel momento in cui la sua testa raggiungeva il piano di calpestio, si trovò un phaser puntato in faccia.
   «Fine della corsa, pendejo» lo insultò il suo alter-ego. «Credevi di potermi battere? Saremo anche uguali per potenziale genetico, ma io ho l’addestramento dei Pacificatori! Potrei ucciderti subito, ma ti terrò a guardare, mentre i tuoi scagnozzi fanno la fine della tua sgualdrina...».
   Con uno scatto fulmineo, Rivera gli afferrò il phaser, puntandolo lontano dalla propria testa. Sentì il calore del raggio, sempre tarato su uccisione, che gli passava attraverso i capelli, mancando d’un soffio il cranio. E si lasciò cadere nuovamente lungo la cupola, trascinando l’avversario con sé.
   I due Rivera scivolarono lungo il piano inclinato, avvinghiati nella lotta. Il Maggiore perse la presa sul phaser, che andò perduto. L’attimo dopo il Capitano riuscì a immobilizzarlo, serrandogli le braccia dietro la schiena. Mentre scivolavano, gli premette un lato della faccia contro la cupola, lasciando che la superficie ruvida gliela grattugiasse. Il Maggiore gridò per quella tortura e si dibatté convulsamente nel tentativo di liberarsi.
   Accortosi che stavano nuovamente per oltrepassare l’orlo della cupola, il Capitano mollò la presa e agguantò dei rampicanti. Il Maggiore fece lo stesso. Restarono aggrappati a poca distanza l’uno dall’altro, ansanti e sconvolti. Il Capitano arrischiò un’occhiata verso il basso. Vide una piazzola in cui erano state ammucchiate alla rinfusa delle statue, più o meno vandalizzate dai saccheggiatori. Alcune erano i ritratti degli Imperatori, dai volti frantumati in segno di spregio. Altre mostravano strane creature ibride, forse mitologiche, in pose terrifiche. Per quanto il baratro non fosse profondo come gli era parso inizialmente, il fondo era troppo accidentato per sopravvivere alla caduta.
   «Ti avevamo offerto la salvezza per il genere umano. Perché l’hai rifiutata?!» boccheggiò il Capitano all’indirizzo del suo alter-ego.
   Il Maggiore rialzò la testa, e non fu un bello spettacolo. Tutta la metà sinistra del suo volto era stata spellata dallo sfregamento contro la cupola, mettendo a nudo i tessuti sottostanti. Dall’occhio cieco colava sangue misto a umori. E l’implacabile pioggia acida doveva aggiungere tortura alla tortura.
   «Intendi la cura dalla sterilità? E chi la vuole?!» rantolò il Maggiore. «La razza umana è un cancro. La cosa migliore che possiamo fare è estinguerci!». Così dicendo staccò una mano dai rampicanti e impugnò la frusta neurale. Era la variante usata dai Pacificatori, che invece di stordire si limitava a stimolare i recettori del dolore, provocando sofferenze atroci.
   Il Capitano riconobbe il tipico indottrinamento dell’ideologia di Rangda e capì che non c’era altro da aggiungere. Anche lui restò aggrappato con una mano sola, e con l’altra impugnò la frusta neurale ereditata da Grilk.
   Precariamente aggrappati com’erano, i due si frustarono selvaggiamente. Ciascuno cercava di costringere l’altro a mollare la presa, facendolo precipitare. I lampi delle fruste – blu quella del Maggiore, gialla quella del Capitano – si confusero coi fulmini. Il Capitano fu colpito più volte e, sebbene non ne restasse menomato, gridò per le fitte lancinanti. A un certo punto perse la presa sui rampicanti e cominciò a scivolare; solo all’ultimo si aggrappò al gargoyle che già in precedenza lo aveva salvato. Alzò gli occhi al Maggiore, ora più in alto di lui, dal volto simile a un teschio sanguinolento e il braccio alzato per sferrare l’ennesima frustata.
   Allora il Capitano sferrò un ultimo colpo, dando un particolare effetto alla frusta, così da avvolgerla attorno a quella dell’avversario. Tirò verso il basso, riuscendo a trascinare il Maggiore, tanto che i rampicanti gli si spezzarono nella mano. Il Pacificatore scivolò lungo l’ultimo tratto di cupola, spellandosi le mani nel tentativo di fermarsi. Ma non trovò nulla da afferrare – non c’erano gargoyle a portata di mano – e così cadde oltre l’orlo. Il Capitano ebbe la prontezza di spegnere la sua frusta neurale, per evitare che i ruoli s’invertissero e fosse l’altro a trascinarlo giù.
   Con un grido che si perse nel travaglio degli elementi, il Rivera dello Specchio cadde nella piazzola affollata di statue. E s’impalò sulla lancia di un antico dio della guerra, forse Marte. Restò lì a dissanguarsi nella pioggia, come una bambola disarticolata, mentre le statue mutilate sembravano farsi beffa di lui: l’ultima vendetta dell’Impero Terrestre.
 
   Rivera non sapeva dove avesse trovato la forza di risalire un’altra volta lungo la cupola, aggrappandosi ai rampicanti che gli si sfilacciavano tra le mani sanguinanti, fino a raggiungere il camminamento. Sapeva solo che, una volta lì, non era più in grado di proseguire lo scontro coi Pacificatori. Aveva perso il phaser ed era esausto. Il primo avversario che l’avesse scovato lo avrebbe ucciso con facilità. Da quel punto d’osservazione vide che anche il resto della sua squadra era allo stremo. Avevano sbaragliato il plotone del Maggiore, ma altri Pacificatori accorrevano da tutte le parti, a ondate. Rivera sapeva che quei fanatici non si sarebbero mai fermati, quali che fossero le loro perdite. Avevano chiamato in appoggio anche alcune navicelle, che volavano tra le guglie diroccate, fendendo l’oscurità coi fari anteriori. Stavano cercando di localizzare gli avventurieri per bersagliarli con le loro armi, abbastanza potenti da far crollare intere sezioni del palazzo.
   Stavolta era davvero la fine. Il Capitano chinò il capo, accettando la sconfitta. Si disse che forse era meglio così, morire subito dopo Giely, invece che assistere alla progressiva distruzione del suo equipaggio. Anche quelli sulla Destiny non sarebbero durati a lungo, braccati com’erano...
   Fu allora che accadde qualcosa di così inaspettato e sconvolgente da indurre Rivera a dubitare dei suoi sensi. Fu allora che il cielo si aprì.
 
   Un immane vortice si disegnò tra le nubi, attirandole verso il centro. L’aria ne fu risucchiata, come se dall’altra parte ci fosse il vuoto. Le navette dei Pacificatori sbandarono e dovettero attivare i razzi di manovra per contrastare il potentissimo risucchio. La pioggia smise di cadere e persino l’acqua che già scorreva a terra prese a sollevarsi in gocce che cadevano fantasticamente verso l’alto. I detriti più leggeri, schegge metalliche e frammenti cementizi, le seguirono. Rivera stesso si sentì più leggero, tanto il risucchio dell’aria lo attirava verso l’alto, così che dovette aggrapparsi alla balconata. Fissò il centro del vortice, di un nero assoluto e terrificante, come una finestra sul nulla. D’un tratto qualcosa si mosse in quell’oscurità... e ne uscì.
   Era la Destiny, con la sua sagoma inconfondibile: lo scafo principale squadrato, la sezione ad anello. La grande astronave si librò nell’atmosfera, ben sotto lo Scudo Planetario che aveva aggirato in modo così ingegnoso. Perché adesso la sua strategia era chiara: si era recata nel Vuoto, aveva corretto la sua posizione ed era tornata nello Specchio, sbucando all’interno delle difese terrestri. La prima cosa che fece fu aprire il fuoco contro le navicelle dei Pacificatori, disintegrandole. L’attimo dopo Rivera e il resto della sua squadra furono trasferiti a bordo. Si materializzarono in sala teletrasporto, esausti e fradici ma vivi, con la dolorosa eccezione di Giely. Infine la Destiny fece retromarcia e varcò nuovamente il vortice interdimensionale, rifugiandosi nel Vuoto.
   Di lì a poco il portale si richiuse, ponendo fine alla dispersione atmosferica. Gradualmente le nubi ripresero l’assetto consueto. La furia del temporale si placò, ora che si era creata una zona di bassa pressione. La Destiny era fuggita e i Pacificatori non avevano modo di seguirla. Le carcasse fumiganti delle navette e i corpi dei caduti erano ancora disseminati tra le rovine del Palazzo Imperiale. Ma più che le perdite, erano le implicazioni dell’attacco a scuotere la Confederazione: la Destiny poteva oltrepassare qualunque difesa, nessun luogo era al sicuro. E la prossima volta avrebbe potuto sferrare un assalto ben più devastante.
 
   Accasciato sulla pedana di teletrasporto, Rivera osservò i compagni che erano stati tratti in salvo con lui. Riconobbe Naskeel, Irvik, Shati e la maggior parte della squadra. Anche Svetlana se l’era cavata, sebbene fosse semisvenuta per il freddo e la fatica. Ma sebbene avesse molto per cui essere grato, il Capitano non riuscì a rallegrarsi. La perdita di Giely era ancora troppo vicina e dolorosa.
   D’un tratto la porta si aprì e Losira entrò tutta allegra. «Sorpresi, eh?! Scommetto che non ve l’aspettavate, questa mossa! Dovrete offrirci da bere, al prossimo...». La sua voce si spense non appena la Risiana notò l’assenza di Giely. «Lei dov’è?» chiese con tremito nella voce.
   Gli sguardi spenti degli avventurieri, e soprattutto di Rivera, furono più eloquenti di qualunque parola. Mentre i feriti erano portati in infermeria, per essere curati dal Medico Olografico, Losira si accostò al Capitano, ancora accasciato sulla pedana di teletrasporto. Gli si sedette accanto, non osando nemmeno parlare. Per interi minuti regnò il silenzio.
   «Era una trappola» disse infine Rivera, con voce roca. «Non so come, ma i Pacificatori ci aspettavano. Ci hanno attaccati prima che potessimo trovare le coordinate di ritorno, posto che fossero lì. Sanno tutto sul nostro conto. Avevano persino i nostri sosia, nel tentativo d’infiltrarsi su questa nave per prenderne il controllo».
   «Pensi che Svetlana ci abbia...».
   «No, credo sia innocente».
   «Okay». Losira respirò a fondo. «C’è la possibilità, sia pur remota, che Giely sia sopravvissuta?» mormorò.
   «No. Tieni la nave nel Vuoto, mentre curiamo i feriti. Io mi ritiro nel mio alloggio». Detto questo, il Capitano si alzò stancamente e se ne andò.
 
   Il giorno dopo Rivera non si fece vedere dall’equipaggio. Losira parlò con gli altri membri della squadra, facendosi raccontare nel dettaglio com’erano andate le cose. Nel tardo pomeriggio, dopo molte esitazioni, si presentò all’alloggio del Capitano.
   «Avanti».
   L’alloggio era immerso nella penombra. Rivera sedeva al tavolo, su cui era posata una bottiglia semivuota. A vederlo sembrava più a pezzi del giorno prima. Losira gli si avvicinò cautamente e sedette davanti a lui. Annusò la bottiglia. «Ancora la tequila? Non la bevevi da...».
   «Da prima di mettermi con lei» confermò l’Umano.
   Ci fu un breve silenzio, prima che la Risiana parlasse. «La Destiny ha bisogno del suo Capitano» disse.
   «La Destiny ha bisogno di un Capitano» puntualizzò l’Umano. «Io non ho combinato granché. Forse tu farai meglio».
   «Non dire corbellerie. Non puoi appiopparmi la responsabilità e poi chiuderti qui dentro, a ubriacarti fino a farti esplodere il fegato. Non è quello che lei avrebbe voluto!» esclamò Losira.
   «Lei avrebbe voluto vivere» rispose Rivera con amarezza. «Sai, l’ultima cosa che le ho detto era che avremmo avuto tutto il tempo che volevamo. Una ridicola menzogna».
   «Una speranza nata dall’amore» corresse la Risiana. «Io so quanto l’amavi, okay? E conosco fin troppo bene il lutto. Quando mio marito fu ucciso, mi servirono anni per riprendermi. Cominciai a star meglio dopo aver adottato Talyn, ma credo d’essermi davvero ripresa solo in questi ultimi tempi sulla Destiny. La verità è che tutti noi perdiamo coloro che amiamo, per una ragione o per l’altra. È il modo in cui reagiamo che rivela chi siamo. Dobbiamo andare avanti... se non per noi stessi, per gli altri».
   «Io non posso riportarvi a casa» disse Rivera tristemente. «O riprendiamo l’esplorazione del Multiverso, o dovremo rimanere qui nello Specchio».
   «Lo so» annuì Losira.
   «Se rimaniamo nello Specchio, saremo braccati dai Pacificatori. E ogni volta che ne vedrò uno, io penserò al mio alter-ego che le spara. È morta con quell’immagine negli occhi: io che la uccido» concluse l’Umano.
   «Ascoltami bene» disse Losira, protendendosi verso di lui sopra il tavolo. «Giely era la tua compagna, ma era anche mia amica. Quando cominciaste a frequentarvi, lei mi chiese alcuni – ehm – consigli su come essere più affascinante. Quando parlava di quello che c’era tra voi, le brillavano gli occhi. Ti amava tanto quanto tu amavi lei, e aveva accettato i rischi della vostra vita. Il suo ultimo desiderio è stato che noi fornissimo quella benedetta cura ai Terrani, per salvarli dall’estinzione. Non vuoi esaudire quel desiderio?».
   Rivera alzò gli occhi al soffitto. «I Terrani! A che serve curarli nel corpo, se mentalmente restano schiavi della Confederazione? Non gli serviamo noi, gli serve... non lo so, gli servono degli psichiatri, gli serve Gesù!» inveì, ricordando il loro perdurante paganesimo.
   «Quelli non possiamo darglieli, purtroppo, ma il siero anti-sterilità è pur sempre un inizio» insisté Losira.
   A quelle parole Rivera la fissò di sbieco. «Pensavo che i Terrani non ti stessero simpatici. Sopporti a stento Svetlana, e adesso vorresti salvarli tutti?» chiese.
   «Ci ho pensato molto» ammise Losira. «Ho deciso che, se Giely credeva in loro, io mi fiderò del suo giudizio e farò il possibile per esaudirlo. Così, forse, il suo sacrificio avrà maggior significato. Non riesco a pensare un modo migliore per onorarla».
   Ci fu ancora silenzio, più lungo dei precedenti. Infine il Capitano si riscosse. «Se ci schieriamo in questo conflitto, non potremo limitarci a “dare la cura ai Terrani”» avvertì. «Gli unici che possono distribuirla a un gran numero di persone sono i ribelli della Catena Cremisi. Se prendiamo contatto, ci chiederanno d’aiutarli in altri modi. Ad esempio, sfruttando la Destiny per infiltrarci oltre le linee nemiche e colpire obiettivi che nessun altro può raggiungere. Finora non ci avevo riflettuto, ma... diamine! Possiamo sfruttare il Vuoto per oltrepassare qualunque Scudo Planetario. Potremmo radere al suolo il Comando dei Pacificatori e il palazzo presidenziale, se volessimo. Non dobbiamo neanche esporci con la Destiny, basta lanciare i siluri attraverso il vortice. A quel punto, però, non saremo più avventurieri e nemmeno pirati: saremo soldati in guerra».
   «Dovremo fissare dei paletti con la Catena Cremisi. Mettere in chiaro fin dove siamo disposti a spingerci» commentò Losira.
   «Già, ma è facile che le cose ci sfuggano di mano» sospirò Rivera. «Anche perché la reazione dei Pacificatori potrebbe portare a un’escalation del conflitto. Invece di salvare i Terrani, potremmo condannarli».
   «La decisione è tua» ribadì la Comandante. «Spero solo che la prenderai da sobrio».
   «E se decido di restare a combattere... pensi che l’equipaggio mi seguirà?» chiese il Capitano.
   «Io ritengo di sì» sostenne Losira.
   «In tal caso... vi comunicherò presto la mia decisione. Ora lasciami, devo riflettere».
 
   «Rigenerazione dei telomeri completata. Potete alzarvi, Presidente».
   Il lettino scorrevole uscì dalla camera cilindrica in cui la Zakdorn aveva ricevuto la terapia ringiovanente. Tutti i sensori medici rientrarono negli alloggiamenti laterali. Rangda socchiuse gli occhi, infastidita dalla luce bianca sul soffitto. Si alzò dal giaciglio e si mise a sedere, sebbene le sue vecchie articolazioni dolessero per lo sforzo. Una volta si alzava da quei trattamenti arzilla e piena d’energia, ma non era più così. Adesso si sentiva debole e stanca come lo era prima di sottoporsi alla terapia.
   «Acqua» ordinò fiaccamente.
   Un infermiere si affrettò a porgerle una bottiglietta, aprendo il sigillo di sicurezza. Tutto ciò che la Presidente mangiava o beveva, infatti, era sottoposto ad accurati controlli. Rangda gli strappò la bottiglietta di mano e bevette fin quasi a vuotarla. Anche l’acqua aveva un sapore amaro, dopo essere stata sterilizzata. Ma che ci poteva fare? Alla sua età, il suo corpo richiedeva attenzioni continue. Anche ora, pur trovandosi in un ambiente del tutto sterile, portava i filtri nasali e sottili guanti trasparenti.
   «Ebbene, dottore?» chiese.
   «La terapia si è svolta regolarmente» rispose il dottor Vash’Tot, capo dell’equipe che si occupava della sua salute.
   «E allora perché mi sento come prima?».
   «Passi una buona notte di sonno, Eccellenza, e ne avvertirà i benefici» consigliò lo Ktariano. «Tuttavia in futuro dovremo accorciare i tempi tra un trattamento e l’altro. Anziché bimestrale, questo dovrà diventare un trattamento mensile» avvertì. Dietro di lui l’oloschermo mostrava i telomeri, ovvero le parti terminali dei cromosomi, che si accorciavano con l’invecchiamento, man mano che le cellule si duplicavano. Avere i telomeri consumati comportava un deterioramento del DNA, con tutte le conseguenze: errori nella sintesi di proteine, maggiori rischi di sviluppare il cancro. La terapia telomerica ricostruiva le porzioni mancanti del genoma, sulla base delle scansioni fatte in gioventù, ringiovanendo di fatto l’organismo.
   «Che cosa?!» insorse la Presidente. «Quando abbiamo cominciato la terapia, dovevo farla una volta l’anno. Poi ogni sei mesi, poi ogni due... e ora vuole aumentarla ancora?! Insomma, questa terapia funziona o no?!».
   «Tutte le vostre terapie funzionano, Eccellenza» spiegò il medico. «Ma più il tempo passa, più la loro efficacia diminuisce, perché la vostra condizione di base si deteriora. Non è colpa di nessuno, se non del tempo. Gli errori di duplicazione del DNA si sommano, il metabolismo rallenta, il corpo produce sempre più tossine». Così dicendo sfiorò un recipiente colmo di un liquido verde fiele: le tossine rimosse dal corpo di Rangda. Ad ogni appuntamento dovevano drenarne sempre di più.
   «E allora sviluppate nuove terapie! Vi pago per questo!» sbottò la Zakdorn. Nulla la irritava come il fatto di dover dipendere da qualcun altro. Quando era divenuta Presidente della Confederazione, aveva pensato che la sua autorità sarebbe stata assoluta. Invece eccola lì a dipendere dai medici, a supplicarli di tenerla in vita! Era così umiliante, così... ingiusto.
   «Vostra Eccellenza, posso parlare liberamente?» chiese il dottor Vash’Tot.
   «Mi pare che lo stia già facendo. Ma sì, parli pure» concesse Rangda.
   «Voi siete abituata a vincere, perché nella vostra carriera avete sempre prevalso contro gli avversari» spiegò il medico. «Ma ora combattete contro un nemico – il tempo – che non può essere battuto. Non ci sono sfidanti politici o armate nemiche da eliminare: è il vostro stesso corpo a tradirvi. Oh certo, possiamo curare la vostra alimentazione, ricostruire i telomeri, drenare le tossine, sostituire interi organi. Con le nostre cure possiamo prolungarvi la vita, ma... non all’infinito. Nessuno è immortale, nemmeno i Presidenti».
   «Mi risparmi gli sproloqui filosofici!» fece Rangda seccamente. «Lei è un uomo di scienza, e la scienza può risolvere tutti i problemi. Anche l’invecchiamento. Anche la morte».
   «La nostra scienza medica non è così progredita, e tutto lascia pensare che non lo sarà ancora per secoli» avvertì lo Ktariano.
   «E a me... quanto tempo resta?» chiese Rangda con un fremito.
   «Cinque anni, dieci al massimo» rispose il medico, lapidario.
   La Zakdorn restò impietrita. Dieci anni erano assai meno di quel che si aspettava. Non erano lontanamente sufficienti per completare i suoi progetti politici. «Questo è inaccettabile, dottore. Ho troppe cose da fare... mi occorre più tempo» sentenziò.
   «Io non posso darvelo, Eccellenza. Nessuno della mia squadra può» ribadì Vash’Tot.
   «Beh, allora... ampliate la squadra! Insomma, devo spiegarvi tutto io?!» esclamò la Presidente. «Avviate una campagna di reclutamento in tutta la Confederazione. Invitate specialisti da fuori; se necessario gli concederò la cittadinanza. Voglio che i migliori cervelli della Galassia si concentrino sul mio problema. Voglio dei medici giovani e creativi, che sappiano pensare fuori dagli schemi. Ecco, è questo che ci vuole!».
   «Sarà fatto, Eccellenza. Conferirò col Ministero dell’Informazione per organizzare la campagna di reclutamento» promise Vash’Tot. Fatto un lieve inchino, si ritirò.
   Solo allora la Presidente notò l’Ammiraglio Radek, comandante in capo dei Pacificatori, che attendeva presso la porta. «Spero di non aver scelto un momento inopportuno, Eccellenza, ma ho gravi notizie da comunicarvi» si giustificò il Rigeliano.
   «Le notizie gravi sono sempre inopportune» rispose la Zakdorn, infastidita d’essere vista mentre era così vulnerabile, seduta sul lettino medico come una qualunque paziente. Si alzò e venne incontro all’Ammiraglio, ostentando decisione. «Parli» ordinò.
   «Riguarda la faccenda della Destiny» spiegò Radek. «Quegli avventurieri sono più duri del previsto. L’imboscata che gli abbiamo teso nel Palazzo Imperiale è... fallita» ammise.
   Rangda s’irrigidì. «Avevo chiarito quanto fosse importante quest’operazione. Lei, Ammiraglio, aveva l’occasione servita su un piatto d’argento. Cos’è andato storto?».
   «Le informazioni in nostro possesso erano incomplete» spiegò il Rigeliano. «Quando abbiamo cercato di sostituire la loro Caitiana con la nostra agente, si sono accorti subito dello scambio e hanno recuperato la loro complice. Così il Maggiore Rivera gli ha lanciato un ultimatum, costringendoli a uscire in superficie. È allora che si è verificato il secondo e peggiore intoppo. Gli avventurieri hanno opposto una resistenza formidabile, riuscendo persino a uccidere il Maggiore...».
   «Non mi dirà che hanno sconfitto tutte le vostre squadre! Quante ne avevate?!» chiese la Presidente, incredula.
   «No, no, le nostre forze erano soverchianti» si affrettò a dire l’Ammiraglio. «Ma i fuorilegge hanno resistito abbastanza a lungo da consentire alla Destiny di teletrasportarli».
   «Come, non avevate alzato lo Scudo Planetario?!».
   «Lo Scudo era alzato, Eccellenza. Sfortunatamente non è bastato a trattenerli» rivelò Radek, sempre più imbarazzato. «Vedete, gli avventurieri sono passati in un’altra realtà, si sono spostati calibrando bene le distanze e poi sono tornati nella nostra, sbucando nell’atmosfera terrestre al di sotto dello Scudo. Una volta recuperati i loro complici, sono fuggiti allo stesso modo. Comunque non hanno ottenuto le coordinate per tornare a casa. Prima del loro arrivo le abbiamo cancellate dalla Biblioteca, come da vostro ordine» assicurò.
   «Magra consolazione!» esclamò la Zakdorn. «Mi sta dicendo che quei criminali possono superare tutte le nostre difese, compresi gli Scudi Planetari?! Che in qualunque momento possono sbucare tra i nostri cantieri spaziali, sopra centrali e fabbriche, sopra le città stesse...?».
   «Temo di sì, Eccellenza» ammise l’Ammiraglio, spostando nervosamente il peso da un piede all’altro.
   «Sta dicendo» continuò Rangda, la voce ridotta a un sussurro, «che potrebbero apparire anche qui?». Il palazzo presidenziale di Rangda, costruito sul suo mondo natale Zakdorn, era la fortezza più difesa di tutta la Confederazione. Una flotta lo pattugliava costantemente dall’orbita, torrette e campi di forza lo proteggevano ovunque. Ma era tutto inutile, se la Destiny poteva aprire un portale appena sopra il palazzo, o persino dentro di esso.
   «I nostri tecnici stanno valutando il problema, ma... in effetti si tratta di una sfida senza precedenti per la sicurezza» ammise Radek.
   «Ne convengo. E una sfida senza precedenti richiede una risposta senza precedenti» decise la Presidente. «Questo luogo non è più sicuro. Disponga immediatamente il mio trasferimento».
   «Sì, Eccellenza. In quale dei rifugi segreti desiderate trasferirvi?» chiese l’Ammiraglio.
   «Nessun rifugio è sicuro, contro un nemico che può sbucare ovunque» ragionò la Zakdorn. «Quindi non resta che spostarmi in continuazione. Prenderò dimora sulla nave ammiraglia, il Moloch. E con me verrà il mio entourage, compresa l’equipe medica. Saremo sempre in movimento lungo una rotta irregolare, con altre navi a scortarci, come un convoglio armato» stabilì.
   «Sì, è l’unica soluzione davvero sicura» convenne Radek.
   «Ma dev’essere una soluzione temporanea» avvertì Rangda, fulminandolo con lo sguardo. «Non voglio passare il resto della mia vita in fuga. Darei il messaggio sbagliato, sembrerei vulnerabile. Quindi voglio che elimini la minaccia, così potrò tornare qui, nel luogo che mi rappresenta. Cerchi di catturare la Destiny, ma se ciò si rivelasse impossibile... è autorizzato a distruggerla. Sono stata chiara?!».
   «Sarà fatto, signora Presidente» promise l’Ammiraglio. Quando la Zakdorn lo congedò con un gesto, il Rigeliano fece un rapido inchino e si ritirò. La sfida posta dalla Destiny lo preoccupava ancor più di quanto avesse fatto trasparire. Se quella nave avesse attizzato la scintilla della ribellione... no, non poteva permettere che il lavoro di tutta la sua vita fosse rovinato. Quindi avrebbe eliminato la Destiny, non solo perché glielo aveva ordinato la Presidente, ma perché era l’unica cosa giusta da fare.
 
   Da quando le sale ologrammi si erano diffuse nella Federazione, e persino sulle navi della Flotta Stellare, si era detto di tutto sull’argomento. Molti affermavano che costituissero una pericolosa fuga dalla realtà. Altri sostenevano che, se ben preparate e dosate, le esperienze con gli ologrammi potevano essere non solo un intrattenimento, ma un’esperienza catartica per risolvere i traumi e aiutare a prendere decisioni importanti. A Rivera piaceva credere la seconda teoria, sebbene non si fosse consultato nemmeno con la nuova Consigliera prima di lanciare quel particolare programma. Era una ricostruzione storica, ambientata sulla Terra di molti secoli prima, in un periodo di grandi speranze e duri conflitti. Come al solito il realismo dell’ambientazione e dei personaggi storici lasciava di stucco.
   Era una mattina assolata e il vento gonfiava le vele della flotta in navigazione nel mar Tirreno. Alcuni gabbiani stridevano tra l’alberatura dei velieri. Lontano a sud comparivano, azzurrine nella foschia, le coste della Sicilia. I mille e più volontari di Garibaldi indossavano già le camicie rosse e caricavano i moschetti per lo scontro che li attendeva con le truppe borboniche.
   «Marsala!» gridò una vedetta, riconoscendo il tratto di costa.
   «Infine ci siamo» disse Giuseppe Garibaldi, o per meglio dire il suo simulacro olografico. «Dovremo sbarcare in fretta, prima che il nemico possa radunare le forze per disputarci la costa. Tu, Nino, comanderai il primo battaglione e Carini il secondo».
   «Sarà fatto, generale» disse Rivera, ben calato nella parte. Ascoltò le successive istruzioni, restando nel personaggio, ma appena possibile si appartò con Garibaldi. «Ebbene... tutto il nostro lavoro giunge alla prova decisiva. Per quanti appoggi possiamo avere tra i patrioti locali, mi chiedo come saremo accolti dalla popolazione. Ci vedranno come liberatori o come nemici?» chiese, palesando i suoi dubbi su come i Terrani avrebbero reagito alle azioni della Destiny.
   «Non è da te avere simili tentennamenti, Nino» commentò l’Eroe dei Due Mondi, squadrandolo con gli occhi penetranti.
   «Ultimamente sono accadute cose che hanno... scosso la mia fiducia, generale. Ho perso la donna che amavo, e mi son fatto l’idea che i miei sforzi creino più ostilità che altro tra la popolazione» confessò Rivera, abbandonando la finzione per parlare dei suoi problemi reali.
   «Uhm, dopo aver perso Anita, anch’io mi chiesi se avevo la forza di continuare» ammise Garibaldi. «Ma lei non avrebbe voluto che mi fermassi, così eccomi qui. Devi perseverare, Nino».
   «Ho già guidato uomini in battaglia, ma stavolta è diverso. Stavolta rischio davvero di perdere tutto. Non so se dovrei essere più spericolato o meno. Cosa ne pensate, signore?» chiese Rivera, pensando ai prossimi scontri coi Pacificatori.
   «Penso che qui si fa l’Italia o si muore!» rispose l’Eroe dei Due Mondi, schermandosi gli occhi dal sole per osservare le coste siciliane sempre più vicine.
   Rivera sospirò, iniziando a dubitare che quella pallida imitazione di Garibaldi potesse essergli d’ispirazione. Negli atti e nelle parole era troppo legata al programma. Tuttavia volle fare un ultimo tentativo, se non altro per sfogarsi con qualcuno che non fosse del suo equipaggio. «Il fatto è che... dovrò scontrarmi con persone che credono nella loro causa, tanto quanto io credo nella mia, anzi di più» confessò. «Persone convinte d’essere dalla parte giusta della Storia e che vedono me come il demonio. Persone che credono nel loro despota e che non vogliono esserne liberate!» si sfogò.
   «Ah, come ti capisco! È sempre la storia di Socrate, di Cristo e di Colombo! E il mondo rimane sempre preda delle miserabili nullità che lo sanno ingannare» disse tristemente Garibaldi. «Eppure, a volte, un piccolo gesto può essere di grande ispirazione. È nei momenti più bui e nei luoghi più miseri che ho trovato i cuori più ardimentosi».
   «Spesso mi chiedo se sono l’uomo adatto al compito. È successo tutto così in fretta, non ho mai avuto tempo di fermarmi a riflettere su cosa facevo» confessò Rivera. «E se ora vado avanti su questa strada, non so proprio cosa otterrò. Forse il contrario di quello che speravo. Forse condurrò il mio equipaggio al massacro, e per che cosa? Siamo detestati da coloro che speravo d’aiutare. Mi spiace dirlo, ma... non tutti vogliono la libertà, non tutti la meritano».
   A queste parole l’Eroe dei Due Mondi restò a lungo in silenzio, corrucciato, lasciando che la brezza salmastra gli agitasse i capelli radi. Poi rialzò il capo e fissò Rivera con occhi vivissimi. «È il dovere di chi è libero, e vuol restare tale, di accorrere ovunque si combatta per i diritti delle nazioni. La causa della libertà è una sola, qualunque sia il nemico che la combatta, qualunque il popolo che la difende, qualunque sia il colore della bandiera sotto cui si schierano gli eserciti. Quando tutti i popoli abbiano intesa questa verità, che la storia e l’esperienza dovrebbe ormai aver loro insegnata, quando pratichiamo davvero questa santa legge di fratellanza e di comune difesa, il regno del dispotismo sarà finito per sempre sulla Terra» dichiarò con voce vibrante. Dopo di che posò la mano sulla spalla di Rivera. «E ora va’, Nino; prepara il tuo battaglione allo sbarco. Questa è l’ora decisiva, non possiamo esitare».
   «No, non possiamo» convenne Rivera, dando un’ultima occhiata alla costa sempre più vicina. «Computer, fine programma».
   Garibaldi, la flotta dei Mille, il mare rilucente e il cielo azzurro, la costa siciliana: tutto svanì nell’oblio informatico. Il Capitano si trovò in piedi al centro della sala ologrammi, tutta ricoperta da una griglia esagonale. Davanti a lui vi era l’ingresso ad arco. E Rivera lo varcò con una nuova determinazione negli occhi.
 
   Quel giorno stesso il Capitano convocò una riunione tattica. Tutti erano tesi, sapendo cosa c’era in ballo. Rivera li osservò uno ad uno. «Bene, non la farò lunga» esordì. «Il nostro tentativo di reperire le coordinate è fallito e siamo in conflitto con la Confederazione. Potremmo lasciare lo Specchio e riprendere l’esplorazione del Multiverso. Ma francamente, le probabilità di approdare a qualcosa sono scarse. Questa è la realtà più simile alla nostra che abbiamo mai trovato. Una realtà in cui i Terrani ci hanno chiesto aiuto, ci hanno chiesto una cura» disse accennando a Svetlana. «E come diceva Giely... se possiamo curarli, allora dobbiamo farlo. Perché sterilizzare una specie è l’equivalente morale di sterminarla, e non intervenire per impedirlo è parimenti un’omissione di soccorso. Ora, è vero che noi non apparteniamo alla Flotta e non siamo vincolati alle sue regole. Ma ci sono principi che travalicano i regolamenti scritti, perché senza di essi la vita stessa non sarebbe possibile. In nome di questi principi che ci accomunano tutti, noi daremo la cura ai Terrani» stabilì.
   «Sarà una grossa intromissione negli equilibri politici locali» commentò Irvik.
   «Oh, ci può giurare» convenne Rivera. «Ma non obbligheremo nessuno ad assumere la cura. Gli daremo solo la possibilità di scelta, anzi gliela restituiremo, dopo che la Confederazione gliel’ha strappata. Saranno i singoli individui a decidere cosa fare».
   «Come conta di far pervenire la cura a una percentuale significativa della popolazione?» chiese Atrevius, che come responsabile del laboratorio astrometrico partecipava alle riunioni.
   «Solo la Catena Cremisi può distribuire clandestinamente la cura su un gran numero di pianeti» rispose il Capitano. «Quindi collaboreremo con quell’organizzazione. Consigliere, finora non gliel’ho mai chiesto, ma... lei pensa di poterci mettere in contatto?» si rivolse a Svetlana.
   «Sì, posso farlo» rivelò la studiosa, con lo sguardo basso, sulle mani raccolte in grembo. «Ciò porterà a un’escalation del conflitto. Quando c’incontrammo la misi in guardia da questo scenario, ma... devo ammettere che molte cose sono cambiate. Questa cura può salvare la mia specie dall’estinzione. E la Destiny ha un vantaggio tattico insperato, potendo oltrepassare le linee nemiche e persino gli Scudi Planetari. Rangda dovrà giocare in difensiva... scommetto che ha già abbandonato il suo palazzo presidenziale, per timore di un attacco. Tutto questo ci dà una forza contrattuale che nessuno ha mai avuto col regime».
   «Pensa che Rangda potrebbe piegarsi?» chiese Losira, scettica.
   «Non lo farà» intervenne Atrevius, cupo. «È una di quelle persone che, quando rubano qualcosa, preferiscono bruciarla piuttosto che renderla al legittimo proprietario. Se la mettete così sotto pressione, le sue reazioni saranno sempre più violente» avvertì.
   «È già abbastanza violenta da cancellare la mia specie» disse Svetlana in tono pacato. «Avete visto come sono ridotti i Terrani. Volete lasciarli estinguere?».
   «Convengo che Rangda non si piegherà mai» disse il Capitano. «Ma non possiamo escludere che esca di scena. Che sia per la salute declinante, o per un regolamento di conti interno al regime, o per un attentato...».
   «Mah, sono trent’anni che ci speriamo invano» fece Atrevius.
   «... col nostro arrivo le cose sono cambiate, questa potrebbe essere la volta buona» insisté il Capitano. «Comunque ce ne occuperemo a tempo debito. Il primo passo da fare è contattare la Catena Cremisi e sperimentare la cura su un gruppo di volontari. Allora, Consigliere, qual è la rotta?».
   Svetlana alzò finalmente gli occhi, in cui aleggiava una scintilla di trionfo. «Dobbiamo recarci a Dytallix B. È lì che comincia la riscossa». 
 

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Capitolo 6
*** La rana bollita ***


-Capitolo 5: La rana bollita
 
   L’impatto con l’acqua gelida svegliò Giely dallo stordimento. La Vorta annaspò, cercando di tornare in superficie. Aveva un dolore bruciante al petto, dove il phaser l’aveva colpita, e l’acqua acida lo rendeva ancor più intenso. Finalmente riuscì a emergere, boccheggiante.
   «Gasp!».
   Si guardò attorno, smarrita. Sarebbe stato buio, se ogni pochi attimi non fossero balenati i fulmini. Quei bagliori lividi le rivelarono che si trovava in una sorta di cisterna, circondata da lamiere contorte e arrugginite. Diversi rivoli l’alimentavano, tanto che il livello dell’acqua saliva rapidamente; e altra ne arrivava con la pioggia torrenziale. Giely comprese d’essere stata estremamente fortunata. Il temporale aveva colmato quella cisterna prima che lei vi cadesse dentro, e l’acqua aveva attutito l’impatto, salvandole la vita. Se fosse caduta a pochi metri di distanza, in qualunque direzione, si sarebbe sfracellata contro i bordi metallici del pozzo. Così invece era viva... a malapena.
   Malridotta com’era, anche nuotare era difficile. Quindi la Vorta si aggrappò al bordo della cisterna, limitandosi a galleggiare. Lasciò che l’acqua lavorasse per lei, portandola sempre più in alto, verso l’orlo del pozzo. Guardò in su, maledicendo la vista non tanto acuta della sua specie. Le pareva che ci fossero dei bagliori gialli di phaser, frammisti ai lampi azzurri dei fulmini. Era il segno che i suoi compagni stavano affrontando i Pacificatori. Doveva fargli sapere che era viva, prima che facessero qualche sciocchezza... o se ne andassero.
   «Giely a Rivera, sono viva. Armando, mi senti?!» gracchiò la Vorta, premendosi il comunicatore. Le sue dita toccarono frammenti metallici contorti. Solo allora Giely abbassò il mento, fissandosi il comunicatore. E si rese conto che il phaser nemico lo aveva praticamente disintegrato, sebbene fosse rivestito in duranio. Dunque il phaser era regolato su uccisione e il comunicatore le aveva fatto da scudo, salvandole la vita. Ma con questo la sua fortuna si era esaurita. Il congegno era distrutto nei suoi fini circuiti, quindi la Vorta non poteva informare gli altri che era sopravvissuta. Levatasi i resti contorti del comunicatore, Giely constatò che sotto di essi l’uniforme era forata e la sua epidermide mostrava un’ustione di terzo grado, piccola ma dolorosissima.
   «Povera me» boccheggiò la dottoressa, iniziando a capire quanto fosse disperata la sua situazione. Se non riusciva a ritrovare i compagni, era la fine. Ma le pareti del pozzo erano troppo lisce per scalarle. Doveva aspettare che l’acqua la portasse in cima, sempre che il temporale non terminasse prima.
   Trascorsero minuti dolorosamente lunghi, mentre la pioggia continuava a cadere e l’acqua acida in cui era immersa le irritava la ferita, facendola soffrire ancora di più. Chissà che ne era degli altri; li aveva lasciati in una pessima situazione, circondati dai Pacificatori. Se fossero stati catturati... o peggio?
   Finalmente Giely arrivò abbastanza in alto da afferrare l’orlo della cisterna e trascinarsi fuori. Era bagnata come un pulcino, tremante per il freddo, sofferente per il dolore fisico e per l’angoscia. Non aveva la forza per arrampicarsi sugli spalti, sempre che i suoi compagni fossero ancora lì. A un tratto vide un vortice aprirsi tra le nubi, attirandole al suo interno. Capì di che si trattava ancor prima di vedere la sagoma familiare della Destiny che ne usciva. Davvero brillante... quelli rimasti a bordo avevano sfruttato le capacità dell’astronave per superare lo Scudo Planetario. Presto l’avrebbero teletrasportata a bordo e sarebbe tutto finito.
   La Destiny aprì il fuoco contro le navette dei Pacificatori, colpendole una dopo l’altra. Una di esse precipitò non lontano da Giely ed esplose con violenza. La Vorta fece appena in tempo a nascondersi dietro una parete per non essere crivellata dai detriti. Sperò con tutto il cuore che i compagni si sbrigassero a teletrasportarla. Ma i minuti passarono e non accadde nulla. Infine, con orrore, Giely vide la Destiny che invertiva il moto, attraversando di nuovo la fenditura.
   «No, che fate?! Sono qui!» si sgolò, pur sapendo che non potevano sentirla. L’attimo dopo la Destiny era scomparsa. Ancora poco e la fenditura si richiuse, ponendo fine al risucchio d’aria. Era andata... la Destiny se n’era andata, abbandonandola su quel mondo ostile.
 
   La Vorta si prese la testa fra le mani, cercando di razionalizzare. Irvik aveva detto che le radiazioni atmosferiche interferivano col puntamento del teletrasporto. E la distruzione del suo comunicatore la rendeva ancor più difficile da rilevare. Ciò significava che quelli della Destiny non erano riusciti a trovarla. Avevano senz’altro imbarcato il resto della squadra, ma quanto a lei... dovevano averla data per morta. E in effetti i compagni l’avevano vista venire colpita da un phaser e precipitare nel baratro. Non c’era dubbio che la considerassero spacciata. Invece era viva... e dispersa. Si trovava senza documenti, né denaro, né amici, su un mondo della Confederazione. Quanto sarebbe passato, prima che i Pacificatori la rintracciassero?
   «Beh, non gli renderò le cose facili» si disse la Vorta, radunando la determinazione. Si era già trovata in situazioni disperate e in qualche modo ne era sempre uscita. Anche se, a dire il vero, aveva sempre beneficiato di qualche aiuto. Stavolta invece era completamente sola.
   La prima cosa da fare era uscire da quell’area interdetta, prima che arrivassero altri Pacificatori. Non fu facile, perché le rovine del Palazzo Imperiale si stendevano a perdita d’occhio in tutte le direzioni. Dovette insinuarsi in passaggi che spesso erano allagati per via del temporale. Più volte scivolò sul metallo bagnato, rimediando graffi e lividi. L’unica nota positiva era che il diluvio era cessato; adesso cadevano solo rare gocce. Il cielo però rimaneva scuro, sia per la cappa di polveri, sia perché ormai doveva essere notte. E faceva freddo... maledettamente freddo. Giely ricordò che l’oscuramento atmosferico stava gettando la Terra in una nuova era glaciale. Non stentava a crederlo, mentre rabbrividiva e si frizionava il corpo per non congelare.
 
   Le servì tutta la notte per lasciarsi alle spalle i resti del Palazzo Imperiale e uscire dall’area interdetta ai civili. Più volte vide i fari di qualche navetta dei Pacificatori che sorvolava la sua zona e dovette acquattarsi tra le rovine, aspettando che fosse passata. In un’occasione udì persino le voci di una pattuglia che era scesa a terra e pensò d’essere spacciata. Invece riuscì sempre a passare inosservata. Quando l’alba rischiarò la cappa di polveri a oriente, la Vorta era fuori dall’area recintata. Davanti a lei si stendeva la vasta periferia urbana. Alcune levi-car erano già in movimento e in lontananza vide anche dei passanti.
   Era tempo di affrontare il primo problema: la sua uniforme della Flotta Stellare dava troppo nell’occhio. Se i Pacificatori l’avessero fermata, l’avrebbero certamente collegata agli intrusi federali, anche in assenza di un preciso identikit. La soluzione giunse sotto forma di una senzatetto che dormiva su una panchina. Come aveva detto Svetlana, le dissennate politiche di Rangda avevano ridotto in miseria molta gente. Giely non ebbe troppa difficoltà a convincere quella poveretta a scambiarsi gli abiti. Dopotutto la sua uniforme era in condizioni migliori – a parte il danno del phaser, che richiedeva una toppa – e più resistente al freddo, grazie alle microfibre.
   Mentre si allontanava, la Vorta si trovò a rabbrividire ancora di più. Per fortuna si era fatto giorno e la temperatura saliva; ma come avrebbe sopportato le prossime notti all’addiaccio? Doveva assolutamente trovare un riparo riscaldato, se non voleva morire di freddo. Inoltre cominciava ad avvertire fame e sete. Per adesso era un fastidio moderato, ma sapeva che ben presto sarebbe diventato il problema numero uno. E non aveva la minima idea di come affrontarlo. Fino ad allora non aveva mai affrontato questo genere d’avversità, neanche nei momenti più bui.
   Una fitta di dolore la distrasse da queste penose riflessioni. L’ustione del phaser continuava a farle male, anzi le pareva che stesse peggiorando. In mancanza dei suoi strumenti, non aveva potuto curarsela e nemmeno disinfettarla. Il contatto con l’acqua acida della cisterna aveva indubbiamente peggiorato le cose. Sbirciando sotto i nuovi, maleodoranti abiti, la dottoressa si accorse che il rossore si era allargato, segno che l’ustione si era infettata. Male... molto male.
   Col passare delle ore, Giely si addentrò nella metropoli, attraversando quartieri sempre più affollati e ferventi d’attività. Le levi-car passavano sopra la sua testa e i marciapiedi erano affollati di passanti. Come aveva detto Svetlana, c’erano pochissimi bambini; e quei pochi dovevano essere cloni. La Vorta passò davanti a una scuola pubblica, chiusa e transennata; a giudicare dallo stato di abbandono doveva essere così da anni. Del resto che bisogno c’era di scuole, se non vi erano alunni che potessero frequentarle? In compenso c’erano parecchi canili e negozi d’animali domestici, un chiaro indizio sul modo in cui la gente aveva spostato il bisogno d’affetto.
   A un certo punto Giely si accorse che la gente la fissava per via del suo aspetto malconcio e spaesato. Cercò di nascondere le orecchie da Vorta sotto i capelli, per non dare ancor più nell’occhio. Ricordò che la Confederazione non era in buoni rapporti col Dominio, tanto che aveva distrutto il Tunnel Spaziale per scongiurare un’invasione. Se qualcuno avesse riconosciuto la sua specie, l’avrebbe segnalata alla polizia. Ma forse questo era inevitabile...
   D’un tratto le ginocchia le cedettero e Giely si accasciò sul marciapiede. Il freddo, la fame, la paura, la ferita: l’insieme di queste cose la sopraffaceva. Si portò la mano alla carotide e avvertì un’aritmia cardiaca. La sua vista si sfocò e anche i suoni divennero ovattati. Si accorse confusamente che alcuni passanti le si erano avvicinati per soccorrerla, avendola vista cadere.
   «Si sente male? Vuole che contatti l’ospedale?» chiese il più vicino.
   «Sono ferita, ma non... non sono in regola coi documenti» confessò Giely. «La prego, mi aiuti» gemette, prossima a perdere i sensi.
   «Mi scusi, ma se è ferita devo chiamare l’ospedale. Lì sapranno cosa fare» disse il passante, estraendo il suo comunicatore. «Non abbia timore... si fidi delle autorità».
   «Fidarmi un corno» pensò Giely, rimpiangendo i giorni sulla Destiny. Sarebbe mai tornata su quell’astronave? In quel momento le parve impossibile. L’attimo dopo la vista le si oscurò del tutto e il suo corpo intorpidito si abbandonò sul freddo marciapiede.
 
   Giely era distesa sul pavimento, circondata dall’oscurità e dal silenzio. Era completamente sola; non c’era nessun altro che potesse aiutarla, o minacciarla, o semplicemente osservarla. Dopo molto tempo – o nessun tempo – la Vorta trovò la forza di alzarsi. Il dolore al cuore era sparito e tastandosi scoprì che non c’era più traccia della ferita. Non aveva nemmeno freddo, né fame, né sete. Dunque qualcuno s’era preso cura di lei... ma poi perché l’avevano abbandonata in quello strano luogo? Si guardò attorno, cercando di capire dov’era finita. Scoprì d’essere in un lungo corridoio dalle pareti metalliche, al termine del quale brillava una luce bianca. Che fosse l’uscita?
   Non avendo altro da fare, Giely camminò verso quel bagliore intenso, socchiudendo gli occhi finché non si furono adattati. Dopo una camminata più lunga del previsto, finalmente sbucò all’esterno. E sgranò gli occhi per lo stupore.
   Si trovava in un luogo familiare, che tuttavia non pensava avrebbe mai rivisto. Un luogo pieno di ricordi agrodolci. Era infatti sulla terrazza panoramica del Centro di Formazione in cui era nata, su Kurill Primo. Non poteva sbagliarsi: riconosceva la città dei Vorta, la giungla all’orizzonte, i due soli prossimi al tramonto. E questo non aveva senso... perché Kurill Primo si trovava nel Quadrante Gamma. Come c’era tornata, se il Tunnel Spaziale era stato distrutto? Chi l’aveva portata lì, e perché?
   «Forse mi trovo in una sala ologrammi» si disse. Se dopo aver perso i sensi era stata portata in un ospedale, poteva darsi che mentre la curavano i medici fossero risaliti alla sua identità di ricercata. Nel qual caso l’avevano consegnata ai Pacificatori... ma perché questi si erano presi la briga di allestire una simulazione? Sempre che fosse una simulazione. Sembrava fin troppo realistica... Giely percepiva persino gli odori, che in genere nelle sale ologrammi non c’erano.
   «Computer, fine programma» ordinò, senza ottenere nulla. La città si stendeva sempre attorno a lei, la brezza le agitava i capelli, i due soli la scaldavano coi loro raggi. A furia di riflettere su quella strana esperienza, un’altra ipotesi le balenò alla mente. Era passata da una condizione d’agonia e smarrimento a quello scenario tranquillo e familiare. Possibile che fosse una Near Death Experience, un’esperienza ai confini della morte? Come medico aveva studiato l’argomento, secondo una fredda logica scientifica. Tutte le testimonianze di persone che avevano vissuto esperienze di quasi-morte erano spiegabili in termini d’alterazioni neurologiche, in particolare d’ipossia cerebrale. In quelle condizioni estreme il cervello elaborava visioni auto-consolatorie e rassicuranti, basandosi in parte sui ricordi personali, in parte sul sentito dire, in parte persino sull’inconscio collettivo. Non c’era bisogno di credere nel soprannaturale per prendere atto di quell’esperienza... giusto?
   «Eccoti qui, piccolina. Quanto tempo è passato... mi sembri cresciuta» disse una voce familiare alle sue spalle. Giely non ebbe bisogno di voltarsi per riconoscerla. Per un attimo le si accapponò la pelle, sebbene fosse caldo. Infine, con grande sforzo, si voltò a fronteggiare il nuovo arrivato.
   Ome’tikal era davanti a lei, vivo e in perfetta salute. Non era invecchiato di un giorno dall’ultima volta che lo aveva visto. Il che era impossibile, perché anche se fosse sopravvissuto allo scontro con gli altri Jem’Hadar, l’Onorevole Anziano sarebbe dovuto morire di vecchiaia già diversi anni prima. «Allora, non saluti un vecchio amico?» le chiese col suo strano sorriso.
   «Io l’ho seppellito, il mio amico. Tu non so chi sei» rispose Giely, sulla difensiva.
   «Allora facciamo quattro chiacchiere – come ai vecchi tempi – così forse te ne farai un’idea» propose il Jem’Hadar. Le si avvicinò, ma solo per appoggiarsi alla balaustra e osservare il tramonto. «Ahhh... mi piace quest’ora del giorno. Allora, piccolina, ne hai fatta di strada dall’ultima volta che ci siamo visti. Hai conosciuto la Federazione, e non solo quella. L’intero Multiverso è la tua scuola di vita» commentò, osservandola come un padre orgoglioso. «Dimmi, hai trovato ciò che cercavi?».
   «Io... credo di sì. In effetti ho trovato quello che non sapevo di stare cercando» ammise Giely, riflettendo sulle sue esperienze. «Sulla Destiny ho uno scopo. Ho conosciuto gente straordinaria, ho imparato cose che nessun Vorta s’era mai sognato... e mi sono anche...» s’interruppe per pudore.
   «Ah, sì. Il Capitano Rivera sembra un brav’uomo. Ha ancora qualche lezione da imparare, ma è sulla buona strada» approvò Ome’tikal.
   Giely lo guardò di sbieco. «Se sei così bene informato, saprai pure che sono stata separata dagli altri. Devono avermi data per morta, dopo che sono caduta dagli spalti del palazzo. Questo significa che non mi stanno nemmeno cercando. E io sono dispersa sulla Terra dello Specchio. Quando mi risveglierò... voglio dire, se mi risveglierò...».
   «Ma certo che ti risveglierai» la rassicurò il Jem’Hadar. «Va’ avanti, piccolina».
   «Quando mi risveglierò, i Pacificatori mi riconosceranno e finirò i miei giorni in qualche prigione sperduta. Forse mi useranno persino per tendere un’imboscata agli altri!» si disperò la Vorta.
   «Uhm, tu dici? Io non credo che abbiano il tuo identikit. Gli unici che ti hanno vista abbastanza da vicino sono morti» notò Ome’tikal. «Secondo me, se fingi d’essere nativa dello Specchio ti crederanno».
   «Sarebbe già qualcosa, ma poi... che farei? Sono pur sempre dispersa su un mondo della Confederazione!» si lamentò Giely.
   «Un passo alla volta, piccolina» consigliò l’Onorevole Anziano. «Hai imparato molte cose, no? È il momento di metterle a frutto. Puoi farti un nome come medico, e da lì pianificare mossa dopo mossa. Se vuoi davvero tornare sulla Destiny, allora puoi riuscirci. L’importante è non arrenderti. Come dico sempre, “la vittoria è vita”. Nel tuo caso, questo è vero alla lettera. Oh guarda, i soli stanno calando... per me si è fatta ora di andare». Così dicendo lasciò la balaustra e si diresse verso la scala che portava ai piani inferiori.
   «Aspetta!» lo rincorse Giely. «Io... non ho mai avuto modo di ringraziarti. Tutto ciò che ho avuto di buono nella vita lo devo a te. E mi dispiace che tu abbia dovuto pagare un prezzo così alto! Meritavi ben altro» disse con le lacrime agli occhi.
   «Non sono pentito» la rassicurò Ome’tikal. «Riguardati... e torna dal tuo bel Capitano. Avete bisogno uno dell’altra, per affrontare le sfide che vi aspettano». Era sul punto di scendere nella scala in ombra.
   «Ci... ci rivedremo ancora?» chiese la Vorta, con un groppo in gola.
   «Perché, ci siamo mai veramente lasciati? Chi si vuol bene non si perde mai del tutto. Buona fortuna, figliola». Il Jem’Hadar scomparve nella tromba delle scale.
   Giely fece per inseguirlo, perché aveva ancora tante domande da fargli, e a parte questo non voleva lasciarlo così presto. Ma all’improvviso fu attraversata da una serie di scosse elettriche, come quelle prodotte da un defibrillatore, che la costrinsero a fermarsi. La vista le si oscurò, mentre una voce femminile sconosciuta la chiamava: «Si svegli, cittadina. Mi sente? È fuori pericolo, si svegli».
   La voce divenne sempre più chiara, mentre la Vorta ebbe l’impressione di cadere da una grande altezza. Quando riaprì gli occhi era stesa su un bio-letto, in una sala operatoria d’ospedale, circondata dai medici che l’avevano rianimata.
 
   «Mi sente, cittadina?» tornò a chiedere una dottoressa, all’apparenza il capo dell’equipe. I suoi occhi verdi spiccavano sul volto seminascosto dalla mascherina.
   «Sì, la sento» mormorò Giely, ritrovando la consapevolezza del suo corpo. «Cos’è successo?».
   «Alcuni passanti l’hanno vista accasciarsi in strada e ci hanno contattati. Siamo i medici di pronto intervento dell’Ospedale Centrale di Okinawa. L’abbiamo trasferita qui direttamente dalla strada, con un teletrasporto d’emergenza. Era in arresto cardiaco ma ora l’abbiamo stabilizzata. Non si muova, dobbiamo ancora curarle la ferita». Così dicendo prese un rigeneratore dermico ospedaliero, più ingombrante ma anche più potente di quelli manuali, e iniziò a guarirla.
   «Capisco... per quanto sono stata senza battito?» chiese la Vorta.
   «Tre minuti. Non si preoccupi, non ha subito danni cerebrali» disse la dottoressa, concentrata sul suo lavoro.
   Tre minuti. Giely avrebbe giurato che la sua strana esperienza extra-corporea era durata di più. Stava per chiedere ai medici se avevano notato qualcosa d’insolito nella sua attività cerebrale, ma si trattenne. Non voleva essere costretta a fornire i dettagli dell’accaduto. «La ringrazio, dottoressa...?» chiese.
   «Dottoressa Thorpe, primaria di rianimazione. Ma può chiamarmi Aspen» si presentò la donna, continuando a curarle l’ustione, mentre i colleghi si accertavano che le sue condizioni fossero stabili. Di lì a un minuto la primaria terminò il lavoro. «Ecco fatto, è come nuova. Le faccio un’iniezione d’inaprovalina, per fortificare le coronarie e curare il principio di congelamento alle estremità».
   «Grazie ancora» disse la Vorta, che in effetti aveva le mani blu per il freddo. Ricevuta l’iniezione si sentì subito meglio.
   «Ora devo farle alcune domande, a partire dal suo nome» disse Aspen.
   «Io... mi chiamo Eris» mentì Giely. Ignorava se i Pacificatori sapessero che c’era una Vorta di nome Giely sulla Destiny, ma non voleva correre rischi. Non doveva in alcun modo farsi collegare a quell’astronave ricercata. Eris era uno dei nomi femminili più diffusi tra i Vorta, quindi le sembrò adeguato.
   «Bene, Eris... ora mi dica perché è senza documenti. La prego di non mentire, perché questo peggiorerebbe la sua situazione» avvertì la primaria.
   «Le mie risposte saranno comunicate alle forze dell’ordine, non è così?» chiese Giely.
   «Esatto. E non può lasciare l’ospedale finché non avremo chiarito la sua posizione» confermò Aspen.
   La Vorta comprese che, se avesse taciuto, la polizia avrebbe aperto un’indagine, accrescendo le probabilità che la smascherassero. Quindi doveva fornire una risposta che suonasse accettabile. «In tal caso... devo ammettere che non ho documenti, né permesso di soggiorno. La mia posizione è irregolare».
   «Ha fatto bene a confessare» disse Aspen. «Se provenisse dal Quadrante Alfa o Beta sarebbe rimpatriata. Ma lei è una Vorta, viene dal Dominio. E da quando il Tunnel Spaziale è stato chiuso, i rimpatri sono impossibili. Questo rende la sua posizione delicata. Tra l’altro, uhm... è insolito che i Vorta disertino. Qualcuno potrebbe accusarla d’essere qui per spionaggio».
   «E a chi dovrei fare rapporto? Il Dominio è dall’altra parte della Galassia!» notò Giely. «La verità è che ho disertato, subito prima che il Tunnel fosse distrutto. Da allora ho vissuto d’espedienti, spostandomi da un mondo all’altro. Essere una Vorta non mi ha certo aiutato a mettermi in regola. Qui sulla Terra mi è andata ancora peggio, non ho nemmeno trovato una dimora. Infine stanotte sono stata aggredita da un rapinatore, che mi ha strappato i pochi crediti che avevo e mi ha inflitto quella ferita. Scriva questo nel suo rapporto, e sia quel che sia».
   Per qualche momento vi fu silenzio. Gli altri medici si erano allontanati e anche Aspen fu sul punto di ritirarsi. Ma a un tratto la primaria cambiò idea e si avvicinò nuovamente al lettino. «Che lavoro faceva, prima di disertare? Possiede competenze utili?» chiese.
   «In effetti ero un medico, proprio come lei» rivelò Giely. «Ero specializzata in tossicologia, ma con una buona preparazione generale. Perché me lo chiede?».
   «La Confederazione è sempre in cerca di talenti utili. Se riuscisse a dimostrare che può contribuire alla collettività, le sarebbe più facile regolarizzare la sua posizione» rivelò la primaria. Dopo di che si ritirò, lasciando la Vorta a riposare e a riflettere.
 
   Il giorno dopo, quando Aspen prese servizio, trovò il reparto di pronto intervento in subbuglio. I colleghi del turno di notte parlavano tra loro, animati. Alcuni parevano divertiti, altri decisamente seccati.
   «Beh, che succede? Avete avuto delle emergenze?» chiese la primaria.
   «In un certo senso... ma l’abbiamo avuta qui, in reparto!» rispose uno dei colleghi più spazientiti. «Hai presente quella giovane Vorta che ci è capitata ieri?».
   «Eris? Sì, che ha fatto?».
   «Dopo che te ne sei andata, ha passato il pomeriggio e la sera gironzolando tra i pazienti in attesa. Li ha visitati, ha fatto diagnosi e ha cercato di convincerci a curarli come voleva lei. Si comportava come se lavorasse qui. Poi, dopo poche ore di sonno, ha ricominciato come se niente fosse. Roba da matti!» sbuffò il medico.
   «Ma... le sue diagnosi come sono? Giuste o sbagliate?» s’incuriosì Aspen.
   «Tutte giuste, finora» intervenne un altro collega. «Anzi, ha persino corretto un paio di nostri errori».
   «Com’è possibile? Le sue conoscenze...» fece la primaria.
   «Si direbbero superiori alle nostre» confermò il collega. «Vai a vederla, è impressionante».
   Aspen si affrettò verso la sala d’attesa in cui erano ricoverati i pazienti, stesi su lettini separati da tendine. La Vorta era presso uno di loro, con un tricorder in mano, e discuteva animatamente con un dottore.
   «Eris, che sta facendo? Dovrebbe riposare tra i convalescenti, anziché cercare d’insegnarci il nostro lavoro» disse la primaria, venendole incontro.
   «Oh, buongiorno Aspen!» la salutò Giely, agitando la mano. «Stavo spiegando al suo collega che questo paziente ha avuto la diagnosi sbagliata. È stato classificato come “herpes andoriano” per via delle mucose gonfie nel cavo orale e degli alti livelli di cortisolo...».
   «Appunto!» fece il dottore che aveva effettuato la diagnosi.
   «... ma non ha tenuto conto del gonfiore alle estremità» spiegò la Vorta, indicando le manone del paziente. «Questa è un’infezione da pulci nelvariane. Dovete intervenire subito, prima che la sua respirazione sia compromessa. E dovete accertarvi che non abbia pulci su di sé, o tra poco tutti in questo reparto avranno gli stessi sintomi. Non sarebbe male disinfestare anche la sua casa e il suo luogo di lavoro».
   «Insomma, tutto questo è ridicolo!» fece il medico spazientito. «Dottoressa Thorpe, glielo dica lei di tornare nella sala di degenza, o dovrò chiamare la sicurezza!».
   Aspen si avvicinò al paziente e osservò attentamente le sue mani. Erano davvero arrossate e gonfie, e peggioravano a vista d’occhio. Senza dire una parola, gli prese un campione di sangue e lo analizzò. «È confermata l’infezione da pulci nelvariane» disse in capo a pochi minuti. «Dottor Okuda, mi porti il siero. Dobbiamo somministrarlo subito».
   Il medico si morse il labbro, ma fece come richiesto. Appena furono sole, Aspen fissò Giely. «Vedo che non ha perso tempo a sfoggiare le sue competenze» disse.
   «La prego di non fraintendere. Non volevo mancare di rispetto a nessuno. È solo che, vedendo dei pazienti in attesa, non posso fare a meno d’interessarmene. È più forte di me» rispose la Vorta, fissandola con gli occhioni innocenti.
   «Uhm... non sapevo che nel Dominio foste così esperti delle malattie del nostro Quadrante» notò la primaria, squadrandola con sospetto.
   «Siamo esperti un po’ di tutto. E da quando sono nel vostro Quadrante ho continuato a istruirmi, nella speranza che un giorno mi sarei messa in regola e avrei ripreso il mestiere» sostenne Giely.
   «Quanta dedizione!» ironizzò Aspen, non sapendo se crederle o meno.
   «Può ben dirlo. Noi Vorta siamo creati geneticamente per essere i migliori nel nostro campo. Nasciamo già adulti, con molte conoscenze impiantate; e il resto lo apprendiamo rapidamente, con la nostra memoria fotografica» disse Giely. Era la prima volta che si vantava del suo retaggio, e lo faceva solo come parte del suo piano.
   «Interessante» ammise la primaria. «Che ne dice d’accompagnarmi nel mio giro di visite? Sono curiosa di sentire il suo parere».
   «Volentieri» rispose la Vorta, permettendo a un lieve sorriso d’incresparle le labbra. Ormai si era resa conto che le sue conoscenze, di buon livello nella Federazione, erano superlative nello Specchio, dove nessuna civiltà aveva mai investito adeguatamente nella ricerca medica. Si trovava fra persone che, dal suo punto di vista, erano arretrate di secoli. Con po’ di buona volontà, e i mezzi adeguati, poteva rivoluzionare la medicina della Confederazione. E questo la rendeva una risorsa troppo preziosa perché la gettassero via.
 
   Tre giorni dopo, Aspen fu convocata dal direttore dell’ospedale per discutere della loro strana ospite.
   «Allora, mi sono giunti dei curiosi rapporti su questa Eris. Mi dicono che sta mettendo in mutande il reparto di tossicologia, e anche quello di pronto soccorso. È davvero così brava?» chiese il direttore.
   «É... una strana creatura» rispose Aspen. «Spesso sembra distratta, ma in realtà osserva sempre tutto. Le sue conoscenze... devo ammettere che sono notevoli. Non so proprio dove abbia imparato tutte quelle cose. Fatto sta che non ne sbaglia una. Ha già salvato un paio di pazienti che, senza di lei, se la sarebbero vista brutta... diciamo pure che sarebbero morti. Oggi ci ha mostrato una nuova tecnica per ripulire il fegato dalle tossine, che non è riportata in nessun database».
   «Uhm... è la prima volta che una Vorta condivide le sue conoscenze mediche, non abbiamo metri di paragone» ragionò il direttore. «Dottoressa, lei ha trascorso diverso tempo con questa Eris; si fida di lei?».
   «Fidarsi è una parola grossa. Io prendo atto della sua competenza medica» rispose Aspen. «Credo che possiamo imparare molto da lei, se riusciamo a trattenerla qui. Questo darà lustro all’ospedale e potrebbe attirarci maggiori finanziamenti. Dopo di che, il giorno in cui non avesse più nulla da insegnarci, possiamo sempre scaricarla».
   «Allora è deciso. Inoltrerò una petizione al prefetto, chiedendo che le conceda un permesso di soggiorno e un alloggio provvisorio, a condizione che lavori presso di noi» stabilì il direttore. «Il vecchio Scambio Medico Interspecie dovrebbe offrire una base giuridica per l’accordo. A patto che Eris voglia rimanere qui, s’intende. Non posso costringerla».
   «Oh, credo proprio che accetterà» disse Aspen, con una smorfia divertita. «Le spiegheremo che l’alternativa sarebbe la deportazione su una colonia penale, non potendo rimpatriarla. Allora sì che ci supplicherà di restare».
 
   Giely ascoltò attentamente, mentre l’avvocato d’ufficio le spiegava i dettagli dell’accordo. Firmando, la Vorta s’impegnava a prestare servizio presso l’ospedale per almeno un anno, con possibilità di rinnovo alla scadenza. Sarebbe stata assegnata al reparto di tossicologia, con un giorno settimanale dedicato alle consulenze presso gli altri reparti. Non poteva lasciare la città, se non richiedendo un permesso speciale, e doveva essere sempre tracciabile dalla polizia. In cambio otteneva il permesso di soggiorno (anch’esso valido per un anno), l’alloggio e un regolare stipendio.
   «È un accordo molto vantaggioso, sa» disse l’avvocato. «Il migliore in cui potesse sperare. L’alloggio è dignitoso, lo stipendio quello di un medico regolare e beneficerà del welfare state. Inoltre, se riga dritto, il permesso di soggiorno sarà senz’altro rinnovato e presto otterrà la piena cittadinanza. Allora, che ne dice?».
   Giely lesse le clausole riguardanti la tracciabilità. Non le piaceva essere sempre sorvegliata dalla polizia, perché questo le avrebbe reso difficilissimo tornare sulla Destiny. Ma questo era l’accordo, non poteva cambiarlo. E rifiutarlo in blocco sarebbe stato un autodafé. Così si trattava di una scelta obbligata. Si consolò pensando che, più consolidava la sua posizione, più margini di manovra si ritagliava. E non era da escludere che fossero quelli della Destiny a venirla a prendere, se avessero scoperto che era sopravvissuta.
   «Sì, sembra ottimo» disse, con un sorriso innocente. «Finalmente le cose vanno nel verso giusto. Lo firmerò subito». E firmò col nome che si era attribuita dopo il suo risveglio: Eris. Un nome falso quanto la sua lealtà alla Confederazione.
 
   Nelle settimane successive Giely si tuffò nel lavoro. Sapeva di doversi impegnare al massimo per fare buona impressione su colleghi e superiori, garantendosi la permanenza. Oltre a questo, era genuinamente interessata a curare i pazienti. Sulla Terra c’erano milioni di persone che soffrivano per aver respirato le polveri tossiche e radioattive; le sue conoscenze potevano migliorare il modo in cui erano curate. Se le nuove terapie venivano adottate anche dagli altri ospedali, ecco che la vita dei Terrani sarebbe nettamente migliorata.
   La Vorta, tuttavia, scoprì ben presto che molti altri fattori congiuravano contro la salute pubblica. Il cielo oscurato, il clima freddo e le piogge acide impedivano le coltivazioni tradizionali. A parte i pochi cibi importati, quindi, bisognava ricorrere alle serre idroponiche. E anche lì non c’era spazio per i vegetali di un tempo; men che meno per gli animali. Così i Terrani erano costretti a nutrirsi principalmente di alghe e insetti dal basso valore nutrizionale, con gravi ripercussioni sulla loro salute, sia fisica che mentale. Le droghe come il ketracel erano legalizzate e i medici prescrivevano psicofarmaci per ogni minimo problema. Essendo costantemente malnutriti, drogati e sotto psicofarmaci, i Terrani stavano letteralmente impazzendo. I livelli ormonali in particolare erano del tutto sballati, al punto che non sembravano neanche Umani. Di conseguenza l’aspettativa di vita era precipitata a livelli pre-industriali, mentre persino il crudele Impero Terrestre era riuscito a innalzarla nei secoli precedenti. Era la prova lampante di come l’incompetenza fosse persino più dannosa della perfidia. E gli oltraggi non terminavano nemmeno con la morte, perché i defunti erano trasformati in fertilizzante per concimare le serre idroponiche. Ogni volta che consumava le sue disgustose razioni, Giely non poteva fare a meno di riflettere su cosa erano cresciute.
   Almeno l’alloggio era decente, anche se la dottoressa trovava inquietante l’olografia di Rangda appesa alla parete del soggiorno. L’immagine non poteva essere spenta, a meno di togliere la corrente a tutta la casa, e ogni tanto si attivava, pronunciando slogan propagandistici. Fatta qualche domanda ai colleghi medici, Giely scoprì che le olografie della Presidente erano obbligatorie in ogni singola casa e alloggio della Confederazione. Ogni tanto la polizia ispezionava le abitazioni e se trovava l’olografia mancante, o danneggiata, o anche solo impolverata, erano guai seri per i padroni di casa, che venivano incriminati per attentato alla Costituzione. Giely sentì storie di genitori che, in occasione d’incendi o altre catastrofi, si erano preoccupati di salvare l’olografia presidenziale prima ancora di andare a prendere i loro figli – o cloni – da culle e lettini.
   Sul piano personale, la Vorta approfondì la conoscenza con Aspen. Spesso la incontrava durante la pausa pranzo, approfittandone per chiacchierare. Il loro era uno strano rapporto, sempre in bilico fra amicizia e rivalità, tra fiducia e sfiducia. Giely le era riconoscente per gli aiuti che le aveva dato all’inizio e apprezzava la sua abilità medica. Ma c’erano altri aspetti di lei che la lasciavano interdetta, anche se forse erano più problemi della società nel suo insieme che non di Aspen. In particolare notò la sua asprezza nei confronti dei pazienti Umani, coi quali era assai più scostante che con gli altri. Peggio ancora, Aspen tendeva a posticipare le operazioni sugli Umani, facendoli scivolare in fondo alla lista degli interventi, in favore degli alieni. Più volte Giely si trovò a discutere con lei, per convincerla a intervenire in base all’effettiva urgenza delle operazioni.
   Un giorno, in particolare, la Vorta assisté a un alterco fra Aspen e i parenti di un malato che pretendevano un rapido intervento. Quando la primaria spiegò che avrebbero dovuto attendere sino alla fine del mese, i Terrani andarono in escandescenze. Aspen reagì freddamente, chiamando la sicurezza dell’ospedale. Le guardie arrivarono coi phaser già in pugno.
   «Signori, ora sarete scortati all’uscita» disse la primaria. «Non opponete resistenza o sarete segnalati come perturbatori dell’ordine pubblico. D’ora in poi vi è fatto divieto d’entrare in questo policlinico, a meno che voi stessi necessitiate di cure. Quanto al vostro congiunto, sarà operato a fine mese, come stabilito. Sarete prontamente informati dell’esito dell’intervento. Buona giornata».
   Intimoriti dalle guardie armate, nonché dal tono minaccioso di Aspen, i parenti furono costretti a togliere il disturbo. Giely scambiò una breve occhiata di disapprovazione con la collega, ma lì per lì non disse niente. Durante la pausa pranzo, tuttavia, affrontò l’argomento.
   «Sei sempre molto severa con gli Umani» notò la Vorta. «Non mi riferisco solo all’incidente di oggi, parlo in generale. Non pensi che, così facendo, li metti a disagio?».
   «Oh, assolutamente! Mi piace mettere gli Umani a disagio» confermò Aspen, allegra e soddisfatta. «Vedi, come medici dobbiamo occuparci non solo della salute fisica, ma anche di quella psicologica dei nostri pazienti. Dobbiamo liberarli dal loro narcisismo, dalla loro illusione d’essere al centro di tutto e d’avere sempre la precedenza. Quindi è importante saper guardare un Umano negli occhi e fargli capire: “Io sono qui, fattene una ragione! Accetta che sono qui per metterti a disagio, e devo metterti a disagio, perché devi cambiare il tuo atteggiamento. Ed è solo quando sei a disagio, solo quando hai conversazioni difficili, che potrai guardarti allo specchio e non apprezzare ciò che vedi! Questo è il primo passo per cominciare a correggerti!”».
   Giely ragionò su questo discorso e sentì puzza di bruciato. «Stai dicendo che tutti gli Umani devono correggersi, mentre nessun alieno deve farlo?».
   «Sto dicendo che gli Umani devono mettersi in testa che la festa è finita, che i loro ingiusti privilegi devono cessare» chiarì la primaria, prima di sorseggiare un raktajino, la versione Klingon del caffè.
   Giely notò la solita ambiguità: sebbene l’Impero Terrestre fosse crollato da trent’anni, molte persone erano convinte che gli alieni fossero ancora orribilmente discriminati. E nel tentativo di rimediare a presunte ingiustizie, ne commettevano intenzionalmente di segno opposto. «Sai, è buffo che tu dica così. Non sei Umana tu stessa?» la provocò. Aspen non glielo aveva mai confermato, ma il suo nome e il suo aspetto certamente lo erano.
   «Sì, certo, ma io sono una Abolizionista Umana» spiegò Aspen con orgoglio.
   «Sarebbe a dire?».
   «Non sai proprio niente, eh? Devi sapere che ci sono precise Identità Umane correlate a schemi comportamentali. Le indagini sociologiche ne hanno riscontrate sette» disse la primaria.
   «Ah, e quali sarebbero?» chiese la Vorta, sorseggiando il suo tè alla cicuta.
   A questa domanda Aspen alzò la voce e prese a recitare meccanicamente. Giely notò che parlava in modo diverso dal solito, sia per la scelta dei termini che per il modo di costruire le frasi, ora simili a slogan. I suoi movimenti oculari, inoltre, indicavano che stava attingendo alla memoria, anziché ai centri del linguaggio. Quindi stava ripetendo a pappagallo un discorso che le era stato inculcato, probabilmente a scuola, invece d’elaborare un pensiero personale.
   «Al gradino più basso ci sono i Suprematisti Umani, cioè quei mostri psicopatici che cercano di sottomettere e distruggere le altre specie. Al secondo posto ci sono i Voyeuristi Umani, che pur non facendo attivamente danni, non si oppongono nemmeno ai Suprematisti. Nella loro immaturità, a volte i Voyeuristi si appassionano alle culture non umane perché le trovano divertenti, consumandone i prodotti senza doverne sopportare il peso. Poi ci sono i Privilegiati Umani, coloro che tengono un profilo basso e magari in privato criticano la Supremazia, mentre continuano ipocritamente a godere dei loro ingiusti privilegi. In quarta posizione abbiamo i Confessati Umani, che ammettono le loro colpe e intraprendono alcune azioni correttive, ma solo per avere vantaggi in un secondo momento. Data la loro fragilità psicologica, questi sono sempre in cerca di conferme della loro “buona condotta”. Al quinto posto abbiamo i Critici Umani, che arrivano a criticare e denunciare pubblicamente la Supremazia, cercando di non esserne complici. Al sesto ci sono i Rinnegati Umani, che rifiutano la complicità, chiamano le cose col loro nome e cercano attivamente di sovvertire la Supremazia. Costoro sono strumenti utili per smantellare le istituzioni oppressive, ma ancora non sono ciò a cui dobbiamo aspirare. La massima consapevolezza, infatti, la raggiungono gli Abolizionisti Umani come me. Noi Abolizionisti c’impegniamo attivamente per decolonizzare il pensiero, sovvertire le istituzioni, decostruire l’Umanità e impedirle di tornare al potere».
   Terminata la predica, Aspen tornò a guardare Giely e riprese il tono di voce abituale. «Ora comprenderai perché sono così severa con gli Umani fermi a un gradino più basso del mio. Posso sembrare dura, ma lo faccio per il loro bene: devo aiutarli a correggere la loro identità» disse col tono di chi si sobbarca una grave fatica per una giusta causa.
   «Ah, quindi li accusi e li minacci per il loro bene. Ma guarda un po’, come sei altruista!» commentò la Vorta in tono sarcastico. «Beh, lascia che ti dica una cosa, cara collega. In tutta questa faccenda, io vedo troppe identità preconfezionate e poca personalità individuale» disse Giely, per poi lasciare il tavolino. Il comportamento di Aspen le aveva fatto tornare in mente la metafora di Svetlana sulla rana bollita: non c’era dubbio che la collega fosse cotta a puntino. Restava da vedere se anche il resto della popolazione si era lasciata cuocere a fuoco lento.
 
   Dopo quella discussione i rapporti fra le due si raffreddarono, tanto che per un paio di settimane evitarono di pranzare assieme. Ma il lavoro le costringeva comunque a confrontarsi su una miriade di argomenti. E venne il giorno in cui Aspen chiese a Giely di visionare le tecniche di clonazione usate nell’ospedale.
   «Ah, la clonazione» commentò la Vorta, seguendo la collega verso il reparto in questione. Il solo pensarci le faceva riaffiorare brutti ricordi. «La praticate molto?».
   «Più che altro la praticano gli Umani, dato che è l’unico modo rimasto per riprodursi» rispose la primaria. Come al solito parlava degli Umani come se lei fosse qualcos’altro.
   «Sono al corrente dell’epidemia di sterilità che vi ha colpiti, per cui mi sorprende che in questo centro non ci sia nessuno che cerca di sviluppare una cura» disse Giely, sperando di scoprire di più.
   «Mah, nei primi tempi alcuni specialisti ci hanno lavorato, ma le ricerche erano molto costose e non sono approdate a niente. Così adesso facciamo cose più utili» spiegò Aspen.
   «Ma nella Confederazione ci sarà qualcuno che se ne occupa, no?» insisté la Vorta.
   La primaria ci pensò un attimo. «Suppongo di sì. Anzi, quasi certamente. Però sono passati anni dall’ultima pubblicazione scientifica sull’argomento» rispose.
   «E la cosa non ti sembra sospetta? Voglio dire... non ti allarma questo disinteresse? Stiamo parlando di un’intera specie che potrebbe estinguersi!» notò Giely.
   Aspen la fissò con aria di divertita superiorità. «E allora? L’estinzione è parte integrante del processo evolutivo. Tutte le specie si estinguono, prima o poi. Pensa che oltre il 99% delle specie mai esistite sulla Terra si sono già estinte. Magari stavolta tocca agli Umani. Del resto esistono già da 300.000 anni, che secondo me sono fin troppi» disse con distacco.
   «Ma stiamo parlando di una specie senziente, non d’animali qualunque!» insisté la Vorta, disturbata da quell’indifferenza. «Tra l’altro, tu stessa sei Umana. Non ti dispiace il fatto che la tua specie rischia l’estinzione?».
   «No, perché dovrebbe? Ci sono migliaia di specie umanoidi nella Via Lattea. Una in meno non fa alcuna differenza».
   «Ma è la tua gente!».
   A questo punto Aspen si fermò e fissò la collega negli occhi, parlandole con severità. «E quindi? Attribuire un valore intrinseco alla sopravvivenza della propria specie è un pregiudizio razzista. E la Confederazione c’insegna a combattere il razzismo».
   Giely si sentì d’un tratto minacciata, come se la collega potesse denunciarla. Cercò di correre ai ripari. «Guarda, non dico di preoccuparti più della tua specie che delle altre. Dico solo che dovresti preoccuparti di tutte, senza escludere la tua. Davvero vuoi farmi credere che l’estinzione dell’Umanità non ti dispiace?».
   «Non più di quanto mi dispiacerebbe l’estinzione di una specie sconosciuta di batteri, su un mondo sconosciuto» confermò la primaria. «Anzi, se vuoi sapere come la penso, l’estinzione della specie umana sarebbe un fatto estremamente positivo, sia per gli altri umanoidi che per l’ambiente».
   «Elabora» disse Giely, irrigidendosi a sua volta.
   «Beh, sarebbe positivo per gli altri umanoidi, perché finalmente smetteremmo di opprimerli. E sarebbe positivo per l’ambiente, perché la smetteremmo di saccheggiare e distruggere gli ecosistemi» spiegò Aspen. «In effetti, noi Umani abbiamo fatto sempre e solo danni, ovunque abbiamo ficcato le zampacce. Quindi la nostra estinzione guarirebbe molte cose, pur non potendo cancellare tutto il male che abbiamo fatto».
   Giely non sapeva se la disturbava più il fatto che Aspen fosse Umana, o il fatto che fosse un medico. Entrambe le cose rendevano ancora più sinistra la sua filosofia estinzionista. L’istinto di sopravvivenza era il più radicato in tutti gli esseri viventi, umanoidi e non. Persino i Vorta, malgrado le pesantissime manipolazioni genetiche, lo possedevano. Il fatto che certi Umani ne fossero stati privati fece rabbrividire Giely. Perché se la Confederazione poteva cancellare il più radicato degli istinti, allora poteva fare qualunque cosa. Altro che rane bollite... quei ranocchi erano saltati direttamente nella brace.
   «Fammi capire: invece d’affrontare i problemi ambientali, il meglio che sapete fare è sperare di estinguervi, contando sul fatto che questo aggiusterà le cose?!» esclamò la Vorta. «E se invece cercaste sia di sopravvivere, sia d’aggiustare il vostro pianeta? Perché io non credo che per fare una cosa si debba rinunciare all’altra. E poi, se non ci pensate voi a sistemare la Terra, non credo che lo farà qualcun altro».
   «In effetti può darsi che non lo faccia nessuno. Per fortuna ci sono pianeti assai più belli e interessanti di questo» disse Aspen, riprendendo a camminare. «Comunque la tua preoccupazione è immotivata. La specie umana non si estinguerà, almeno non a breve termine. Come ti ho detto, c’è gente che ricorre alla clonazione. Non so che gusto ci provino a fabbricare delle piccole copie di se stessi, ma tant’è».
   Le dottoresse avevano raggiunto il reparto di clonazione. Aspen guidò Giely all’interno, mostrandole le apparecchiature e spiegando i vari passaggi. Il primo passo era prelevare campioni di DNA, solitamente dalle cellule del midollo osseo. Il genoma veniva trattato, ricostruendo i telomeri per evitare l’invecchiamento precoce dei cloni. A volte s’interveniva ulteriormente, affinché il clone avesse occhi e capelli dei colori preferiti, fosse predisposto allo sport o allo studio, fosse immune a certe malattie, eccetera. Dopo di che il DNA veniva inserito in un ovulo, precedentemente svuotato del genoma originario. A quel punto l’ovulo poteva essere impiantato, ma nella stragrande maggioranza dei casi si usavano degli uteri artificiali. Così si eliminavano i disagi della gravidanza e del parto, oltre a facilitare la distruzione dell’embrione, nel caso i successivi controlli avessero evidenziato qualche difetto genetico. Giely vide coi suoi occhi un embrione che veniva incenerito in quanto le analisi avevano riscontrato una predisposizione genetica ad avere i denti storti.
   Una conseguenza della clonazione era che le coppie stavano sparendo, in quanto ogni individuo tendeva a clonare e allevare se stesso. E poiché gli impegni lavorativi lasciavano poco tempo da dedicare ai propri figli-cloni, di fatto questi erano allevati dallo Stato. Non c’era da stupirsi, se poi diventavano come Aspen...
   Alla fine del giro, Giely non poté astenersi dal commentare. «Tutto questo mi ricorda ciò che fanno i Fondatori con noi Vorta. Anche noi nasciamo come cloni, per giunta già adulti. La memoria genetica ci permette di assumere rapidamente il ruolo per cui siamo progettati, riducendo i tempi dell’istruzione».
   «Già, è straordinario!» disse Aspen. «Spero che un giorno anche la Confederazione arriverà a questo traguardo».
   «Aspetta ad augurartelo, non è tutto rose e fiori» avvertì Giely.
   «Che intendi?».
   «Beh, il fatto è che questo modo di riprodurci ci ha resi totalmente schiavi del Dominio. Non avendo famiglie, non abbiamo interessi né fedeltà all’infuori dello Stato» spiegò la Vorta.
   «Non vedo quale sia il problema. Non c’è niente di male nell’abolire gli interessi particolaristici che impediscono di occuparsi del bene collettivo» ribatté la primaria.
   «Chi decide qual è il “bene collettivo”?» la provocò Giely. «E poi la collettività si compone d’individui. Se ogni individuo deve sacrificarsi e soffrire per tutta la vita, allora dov’è il bene? Inoltre se ci ribellassimo i Fondatori smetterebbero di clonarci e noi ci estingueremmo. Infatti io, che sono fuggita, sarò l’ultima della mia linea genetica».
   «Perché dovreste ribellarvi? E tu perché sei fuggita?» s’incuriosì Aspen.
   «Perché ero infelice e irrealizzata. Volevo qualcosa di più... volevo vivere come un individuo, non come un ingranaggio facile da rimpiazzare» rivelò la Vorta.
   «E hai ottenuto ciò che speravi?» chiese la primaria. A giudicare dal suo tono sprezzante, si aspettava un bel “no”.
   Giely invece avrebbe voluto rispondere con un deciso “sì”, ma non poteva parlare della Destiny e dei legami che aveva stretto su quella nave. «Ci sto ancora lavorando. Comunque ho imparato molte cose, da quando me ne sono andata, e mi sento più libera» sostenne.
   «Mah, scusa la franchezza, ma per me tutto questo non ha senso. Se tutti facessero come te, la vostra società crollerebbe» accusò Aspen.
   «Da voi non ci sono persone infelici o che si sentono fuori posto?».
   «Certo che sì. Siamo ben lontani dalla perfezione, purtroppo».
   «E cosa fate per loro?».
   «Di certo non le esiliamo e non le induciamo a scappare; sarebbe una violazione dei loro diritti».
   «E quindi che cosa fate?!» incalzò Giely.
   «Che domande, gli somministriamo psicofarmaci o li mandiamo in terapia! E se tutto questo fallisce, abbiamo il reparto dell’eutanasia» spiegò Aspen.
   «Mi stai dicendo che praticate l’eutanasia alle persone depresse?! Anche se sono fisicamente sane?!» inorridì Giely.
   «Ci limitiamo a rispettare la loro volontà d’autodeterminazione. Se non lo facessimo, violeremmo i loro diritti».
   «Questo vale solo per gli adulti o anche per i minorenni?».
   «Anche per i minorenni, ovviamente. I diritti sono di tutti, nessuno escluso».
   «E questa eutanasia dei bambini, la praticate anche senza il consenso dei genitori?».
   «Certo, è l’unico modo per dare piena dignità e libertà a tutti» confermò la primaria. «Perché fai quella faccia? Finora ti sei lamentata perché, secondo te, la nostra società non concede abbastanza libertà agli individui. E ora che ti ho dimostrato come l’autodeterminazione sia al primo posto per noi, continui a criticarci? Devi deciderti, cara: dai valore alla libertà oppure no?».
   Giely notò la contraddizione nell’atteggiamento di Aspen, che poco prima parlava con indifferenza dell’estinzione umana e ora si presentava come paladina dei diritti. L’unico comune denominatore, in tutto questo, era la volontà – forse persino inconscia – di far diminuire la popolazione. Doveva essere quello il nucleo concettuale della propaganda confederale.
   «Come medico, devo aiutare i pazienti a vivere nel modo più dignitoso possibile. Il che significa combattere le cause della sofferenza, sia fisica che psicologica» argomentò la Vorta. «Voi invece somministrate psicofarmaci – cioè cure palliative contro i sintomi – e vi stupite che abbiano poco effetto. Poi con la scusa della sofferenza eliminate chiunque sia di peso, anzi li inducete a chiedere d’essere eliminati. Questa è eugenetica!».
   «Chiamala come ti pare, ma è la nostra deontologia, ed è il risultato di dure battaglie per i diritti. Ti conviene adeguarti, se vuoi lavorare con noi. Altrimenti c’è una bella colonia penale che ti aspetta» minacciò la primaria. «Non vuoi finire laggiù, vero?».
   «No» deglutì Giely.
   «Allora ti conviene smettere di criticare chi ti ha accolta. Vedi, anche la nostra generosità e la nostra pazienza hanno dei limiti, e tu stai per oltrepassarli» avvertì Aspen, fissandola con uno sguardo agghiacciante. «Allora, sei disposta a collaborare, oppure no?!».
   «Farò quello che posso» cedette la Vorta, sebbene in cuor suo non intendesse rivelare tutto ciò che sapeva.
   «Bene, allora mettiamoci al lavoro. Abbiamo già perso troppo tempo in chiacchiere irrilevanti» disse la primaria.
 
   Da quel giorno, Giely non osò più affrontare discussioni filosofiche con Aspen e limitò le loro conversazioni agli argomenti di lavoro. Anche con gli altri colleghi mantenne sempre una barriera, dato che non si fidava di nessuno. Ormai le era chiaro come funzionava la Confederazione. Non c’era bisogno di molta polizia, perché erano i comuni cittadini a sorvegliarsi e denunciarsi a vicenda. Ciascuno spiava costantemente il prossimo, cercando di coglierlo in fallo. Così le persone vivevano perennemente in un clima di terrore, di sospetto e di delazione.
   Presto Giely si abituò a considerare chiunque come un potenziale nemico, una potenziale spia. Divenne attentissima a ciò che diceva e persino a come lo diceva: ogni sguardo, ogni inflessione vocale erano attentamente controllati. Questo le permise di conservare il posto e, col passare del tempo, di acquisire una crescente fama nell’ambiente medico. Non rivelò granché sulla clonazione; in compenso migliorò notevolmente le tecniche per depurare gli organi dalle tossine.
   Con il passare dei mesi, la fama di Giely crebbe nella Confederazione. Cosa di cui lei era soddisfatta, perché in tal modo sperava d’attirare l’attenzione dei compagni della Destiny, gli unici che potessero venire a salvarla. Un solo cruccio la tormentava: avrebbero capito che dietro il nome di Eris si celava lei? Nel tentativo di farsi riconoscere, Giely cominciò a tenere delle conferenze pubbliche, così che il suo volto divenisse famoso. Ora non le restava che attendere e sperare. Nel frattempo si tenne informata sull’attualità, sperando di captare qualche notizia sui suoi cari. E venne il giorno in cui la Destiny finì alla ribalta della cronaca. 
 

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Capitolo 7
*** Veritas filia temporis ***


-Capitolo 6: Veritas filia temporis
 
   Dytallix B era un mondo inclemente, come tutti i pianeti in rotazione sincrona con la loro stella. L’emisfero sempre volto al sole era un deserto arroventato a 180º C, mentre quello sempre in ombra era una landa ghiacciata ad altrettanti gradi sottozero. Solo lungo il terminatore, la sottile linea del tramonto, le temperature erano sopportabili. Venti impetuosi soffiavano incessanti, nel futile tentativo di riequilibrare le temperature. A livello del terreno l’aria fredda spirava verso l’emisfero diurno, mentre nell’alta atmosfera era l’aria calda a passare in quello notturno. Queste condizioni estreme avevano impedito lo sviluppo di vita autoctona, e avevano anche scoraggiato la colonizzazione. Solo la Compagnia Mineraria Dytallix aveva sfruttato il pianeta per qualche tempo, scavandovi profonde miniere. Ma con l’avvento della Confederazione e delle sue leggi restrittive, la Dytallix era fallita. Così le miniere erano rimaste abbandonate... finché la Catena Cremisi le aveva reclamate, facendone il suo quartier generale.
   Ora la Destiny orbitava attorno a quel mondo desertico, scortata dalle navi ribelli (perlopiù incursori di classe Dal’Rok, più qualche residuato dell’Impero Terrestre). Era lì ormai da dieci giorni e finora non c’erano stati incidenti. Rivera aveva contattato i vertici della Catena ed era sceso nella base sotterranea, con Naskeel e Shati a fargli da guardie del corpo. Aveva offerto ai ribelli la cura dalla sterilità, oltre a un sostegno contro i Pacificatori, ma su questo secondo punto era stato categorico. La Destiny non sarebbe entrata a far parte della Catena, né le avrebbe venduto armi. Piuttosto Rivera e i suoi sarebbero stati alleati dell’organizzazione. Le avrebbero fornito aiuto, ma solo quando lo decidevano loro e nella misura che ritenevano opportuna. Se la Catena avesse cercato di approfittarsene, la collaborazione sarebbe cessata all’istante. L’ultima clausola prevedeva che la Catena, una volta ricevuta la cura, s’impegnasse effettivamente a diffonderla tra gli Umani. Anche in questo caso, il mancato impegno comportava la fine dell’alleanza. In tal modo Rivera sperava di costringere i ribelli a fare la loro parte.
   «Lei è un uomo implacabile nelle trattative» disse Jacob Wolff, il capo eletto della Catena Cremisi. Era un Umano sui sessant’anni, dai capelli grigi e il viso segnato di cicatrici, ma ancora forte e scattante nel corpo. Pose la sua firma sull’accordo e passò la penna elettronica a Rivera.
   «Devo esserlo» rispose il Capitano. «Ne va della sicurezza del mio equipaggio. Lei ha combattuto, quindi sa cosa intendo». Pose la sua firma accanto a quella dell’altro.
   «Lo so eccome» convenne Wolff. «Con delle condizioni così rigide, sarà meglio che la sua nave faccia davvero i prodigi che ci ha promesso».
   «Li farà, Jack» promise Svetlana, che era stata essenziale nelle trattative, facendo da paciere ogni volta che gli altri due si scaldavano. «Questa è la svolta più importante di tutto il conflitto».
   «Uhm... sempre che il vostro siero funzioni» commentò il leader ribelle, aggrottando la fronte. «Beh, ora lo sapremo. I nostri medici hanno cominciato a testarlo il giorno stesso del vostro arrivo. Adesso vedremo quant’è efficace».
   Wolff guidò i suoi ospiti in un livello ancora più profondo delle miniere, dove i ribelli avevano attrezzato la loro infermeria. I pazienti erano numerosi, a testimoniare quanto fossero frequenti gli scontri tra i ribelli e i Pacificatori. Ma un cospicuo numero di Umani d’ambo i sessi era lì per un altro motivo: si erano offerti come cavie per testare la cura.
   «Allora, dottoressa Mol? Mi dica che ha qualche risultato!» fece il leader ribelle, rivolgendosi alla caposquadra.
   «Ne ho altroché! Venite a vedere» rispose la Vidiiana, invitando i presenti a leggere i dati sugli oloschermi. «I risultati delle analisi sono inequivocabili. Tutti i volontari hanno sperimentato una completa rigenerazione dei gameti nell’arco di 48 ore dalla somministrazione del siero. Su venti coppie non c’è stato un solo caso di rigetto. E se volete una prova definitiva...» disse con una certa emozione, mostrando una dettagliata ecografia. «Quel che vedete è una blastocisti, cioè un embrione di appena una settimana, che si è appena fissato alla parete uterina. Proprio così... una delle volontarie è già rimasta incinta. Si tratta della prima Umana che riesce a concepire in modo naturale da oltre un decennio» precisò.
   A quelle parole Svetlana respirò a fondo, come se la boccata d’ossigeno potesse trasportare la notizia a ogni cellula del suo corpo. «Grazie agli dèi, la nostra specie ha un futuro» mormorò.
   «Questa è una splendida notizia» convenne Wolff, anche lui sollevato. «Grazie di cuore per l’aiuto» disse a Rivera e ai suoi.
   «Ringrazi Giely. È stata lei ad adattare la cura, prima che...» lasciò in sospeso il Capitano.
   «Il suo sacrificio non sarà dimenticato» promise il leader ribelle, che era stato informato dei fatti. «Ma ora dobbiamo pensare al futuro, alle prossime mosse. Le posso garantire che noi della Catena rispetteremo l’impegno. Useremo tutte le nostre risorse e i nostri contatti sui mondi confederali per curare più persone possibili. Certo, all’inizio si fideranno in pochi, ma quando cominceranno a vedersi i risultati spero in un’adesione di massa. Il problema, a questo punto, è la reazione dei Pacificatori» sospirò. «Temo che il conflitto stia per inasprirsi, e con così tante forze mobilitate per diffondere il siero, la Catena sarà vulnerabile. Ora più che mai ci occorre il vostro appoggio militare».
   «Lo avrete» garantì Rivera. «Ma siamo una sola nave e non possiamo vincere una guerra per voi. Quindi seguiremo un altro approccio».
   «E sarebbe?» chiese Wolff.
   «Invece di colpire la Confederazione dov’è forte – le forze armate – la colpiremo dov’è debole, cioè nell’economia» spiegò Rivera, scambiando un’occhiata d’intesa con Svetlana. «Già adesso il regime è in piena crisi economica. Noi ridurremo ulteriormente la sua produzione energetica e i suoi commerci. Faremo in modo che le condizioni della popolazione divengano ancora più insostenibili. E allora vedremo se Rangda è disposta a cambiare le sue assurde politiche, dimostrando d’essersi sbagliata... o se s’incaponisce ancora di più, attirandosi l’odio popolare. Io scommetto sulla seconda!» disse con livore. Un tempo non avrebbe adottato una strategia così cinica, che prevedeva d’impoverire ed esasperare la popolazione. Ma dopo la perdita di Giely era pronto a tutto pur di scalzare il regime.
   «Può funzionare... se Rangda non riesce a dipingervi come gli unici responsabili del malessere» avvertì Wolff.
   «Ci proverà senz’altro» convenne Rivera. «Ma ecco perché è ancora più importante che la Destiny non faccia parte della Catena. Così noi ci prenderemo il biasimo, mentre voi resterete puliti».
   «È un grosso sacrificio che vi assumete. Sarete la nave più braccata della Galassia e avrete l’odio anche del popolo» avvertì il leader ribelle. «Ma sì... è l’unica strategia praticabile. Onore a voi per averla proposta. Sappiate comunque che le basi della Catena sono a vostra disposizione, se avrete bisogno di tirare il respiro. E non escludo di lanciare attacchi combinati contro gli obiettivi più tosti. Ma di questo ne discuteremo caso per caso».
   «Bene, mettiamoci al lavoro» disse Rivera, rivolgendosi ai suoi ufficiali. «È tempo di colpire Rangda nell’unico punto che può farle male: il portafoglio».
 
   Il mercantile C-47, un trasporto statale della Confederazione, percorreva la solita rotta commerciale tra Tellar e Ferenginar. Aveva una sezione anteriore squadrata, in cui alloggiava l’equipaggio e dalla quale protendevano le gondole di curvatura. Dietro di essa si trovavano i comparti del carico, posti uno dietro l’altro come i vagoni di un antico treno. Il vascello era progettato per raggiungere curvatura 9 a pieno carico, ma a causa della Legge per la Conservazione del Subspazio doveva procedere a una penosa curvatura 5, che rendeva il viaggio dieci volte più lungo. Inoltre l’estrema lentezza del mercantile lo rendeva assai più facile da tracciare e da raggiungere.
   Tutto cominciò con un allarme di prossimità. Riscuotendosi dall’ozio del lungo viaggio, l’addetto ai sensori rilevò che un altro vascello aveva uniformato il campo di curvatura al loro e si stava avvicinando. L’inquadratura di poppa mostrò un’astronave dalla strana forma, con lo scafo squadrato avvolto da una sezione ad anello. Prima che gli ufficiali potessero aprire un canale, la Destiny aprì il fuoco. Bastarono pochi colpi mirati alla gondola di dritta per costringere il C-47 a scendere a velocità impulso. La Destiny gli fu subito addosso, sparando a tutto spiano. A poco servì alzare gli scudi e rispondere al fuoco; in pochi attimi le difese del mercantile furono obliterate. L’equipaggio non poté far altro che lanciare una richiesta di soccorso.
   «Tagliategli la borsa» ordinò Rivera, vedendo il vascello indifeso.
   Un paio di siluri quantici ben mirati tranciarono il raccordo tra la sezione di comando e il primo comparto del carico. La sezione anteriore fuggì a velocità impulso, sempre inviando SOS, mentre la lunga fila di comparti restò alla deriva. Gli avventurieri permisero ai pochi sorveglianti dei container di fuggire con le capsule di salvataggio. Approfittarono di quei minuti per analizzare il carico, teletrasportando sulla Destiny le merci che ritenevano più utili o preziose. Tra queste vi erano parecchie attrezzature mediche, che avrebbero consegnato alla Catena Cremisi.
   «Sta arrivando un vascello dei Pacificatori. Intercettazione fra cinque minuti» avvertì Talyn.
   «Allora qui abbiamo finito» disse Rivera, facendo un cenno d’intesa a Naskeel.
   Il Tholiano aprì nuovamente il fuoco contro i comparti, distruggendoli uno dopo l’altro, così che nessuna delle merci giungesse a destinazione. Appena ebbe distrutto l’ultimo comparto la Destiny entrò a cavitazione, sfuggendo alla ritorsione dei Pacificatori.
   Qualche ora dopo, sul CSS Moloch che era divenuto il suo quartier generale, la Presidente Rangda lesse un rapporto sull’attacco. Notò che, sebbene non ci fossero vittime, tutte le merci erano state distrutte, il che avrebbe fatto salire lievemente i prezzi su Ferenginar. La Zakdorn aggrottò la fronte e passò alle notizie successive.
 
   L’asteroide P-42692 era composto quasi interamente di dilitio. Questo lo rendeva un oggetto di valore incalcolabile, tanto che faceva parte delle scorte strategiche della Confederazione. L’estrazione sarebbe cominciata a breve; nel frattempo la sua posizione era tenuta segreta e due navi-drone lo sorvegliavano costantemente. Ma la Catena Cremisi aveva spie e informatori che riuscivano a carpire molti segreti. E tutto ciò che la Catena sapeva, ora veniva comunicato alla Destiny. Questo attacco, però, non poteva essere condotto in modo tradizionale. L’asteroide era così massiccio che anche bersagliandolo di siluri gli avventurieri non potevano distruggerlo: al massimo lo avrebbero frammentato. Così bisognava trovare un altro sistema per farlo sparire dalla circolazione.
   L’avvisaglia fu un insolito aumento di onde gravimetriche. Le navi-drone rilevarono l’insolito fenomeno ed entrarono subito in allerta. Alzarono gli scudi e analizzarono lo spazio circostante, cercando l’origine delle onde. Ben presto individuarono il punto esatto, poche centinaia di chilometri davanti all’asteroide. Stranamente non c’era nessun vascello. Le navi-drone mantennero la posizione, in attesa di sviluppi.
   Pochi attimi dopo si aprì la fenditura interdimensionale. Era molto più grande di qualunque altro passaggio mai aperto dalla Destiny. E infatti l’obiettivo era ben più ambizioso. Se non potevano distruggere l’asteroide, gli avventurieri se lo sarebbero portati tutto intero nel Vuoto. Così, oltre a privarne la Confederazione, avrebbero risolto l’annoso problema di approvvigionarsi quando si trovavano in quel cosmo senza stelle.
   Gli orli della fenditura sfrigolarono, ma infine si stabilizzarono. Attraverso il varco si poteva già vedere il nero assoluto del Vuoto. Le navi-drone calcolarono la traiettoria dell’asteroide e verificarono che esso avrebbe attraversato – a malapena – la fenditura nel giro di tre minuti. Attivarono subito i raggi traenti, per alterare la rotta di P-42692 affinché la schivasse. Non ne ebbero il tempo.
   La Destiny uscì dalla fenditura interdimensionale e attaccò le astronavi, costringendole a interrompere l’operazione per ingaggiare battaglia. Due navi-drone già in Allarme Rosso, con gli scudi alzati e le armi pronte, costituivano una discreta opposizione. Le tre astronavi ingaggiarono una battaglia serrata, coi vascelli confederali avvantaggiati dalla maneggevolezza e dall’uso di siluri a grappolo, che si dispiegavano subito prima dell’impatto. La Destiny, dal canto suo, aveva scudi più resistenti e un armamento più variegato.
   Mentre la battaglia proseguiva senza che nessuna delle parti riuscisse a prevalere, P-42692 continuò la sua orbita attorno a una lontana stella. Trascinato dall’inerzia si avvicinò sempre più alla fenditura... fino a sparirci dentro. Aveva lasciato l’Universo dello Specchio per entrare nel Vuoto.
   «Il malloppo è nostro!» avvertì Talyn, mentre la Destiny sussultava per lo scontro.
   «Vamonos» ordinò subito Rivera.
   La grande astronave fece manovra e si tuffò nel passaggio interdimensionale, subito dietro all’asteroide. Ma le navi drone la inseguirono, continuando a sparare. Le loro direttive prevedevano di distruggere il vascello pirata ad ogni costo. Se le loro armi si fossero rivelate insufficienti, non avrebbero esitato a tracciare una rotta di collisione, sacrificandosi pur di distruggere gli avversari.
   Fu così che entrambe le navi-drone attraversarono la fenditura ed emersero nel Vuoto. Il passaggio si chiuse dietro di loro, precludendo il ritorno. Le Intelligenze Artificiali non se ne curarono: individuarono la Destiny e partirono all’attacco. Ma non avevano previsto che la Destiny non fosse affatto sola. Ad attenderla nel Vuoto, infatti, c’erano ben otto incursori della Catena Cremisi pronti a darle manforte. E le navi-drone non potevano più fuggire, né chiedere aiuto. Non potevano nemmeno trasmettere ai Pacificatori, confermando l’esistenza di un’alleanza tra la Destiny e i ribelli. Potevano solo combattere, cercando di collidere con l’astronave nemica prima d’essere distrutte. Ed è quello che fecero, fallendo. Gli avventurieri e i loro alleati le colpirono con un fuoco così concentrato che prima l’una, poi l’altra nave-drone esplosero in una rosa di fiamme e detriti. I ribelli rimasero padroni del campo, come anche del bottino. Perché ora P-42692, l’asteroide dal valore incalcolabile, sfrecciava nel Vuoto, dove solo loro potevano raggiungerlo.
   Anche stavolta la notizia della perdita fu prontamente riferita a Rangda. Una percentuale significativa delle scorte di dilitio si erano volatilizzate, il che avrebbe alzato i prezzi. Il mercato si sarebbe innervosito, sapendo che un colpo del genere poteva ripetersi con altri asteroidi. Come se non bastasse, due navi-drone dal costo non indifferente mancavano all’appello. La Presidente aggrottò la fronte in modo ancor più marcato e digrignò i denti, ma si trattenne dall’intraprendere azioni avventate e continuò a leggere le notizie della giornata.
 
   Beta Niobe era una stella di neutroni recente, essendosi formata da pochi secoli. Il suo calore superficiale e il suo irraggiamento erano ancora intensi. Per questi motivi, la Confederazione l’aveva prescelta come sede della più ambiziosa megastruttura che avesse mai realizzato. La sfera perfetta di neutroni aveva un diametro di dieci chilometri, pur contenendo la massa di un intero nucleo stellare. Attorno ad essa la Confederazione aveva costruito un collettore anulare, sottile in proporzione, ma dal diametro di cento chilometri. Accuratamente posizionato per essere in equilibrio gravitazionale, il collettore estraeva energia radiante dalla stella, in tali quantità da alimentare gran parte del settore. In caso di necessità si poteva, con complesse procedure, estrarre persino il neutronio della stella. In tal modo era stato corazzato il Moloch, la nave ammiraglia dei Pacificatori, rendendolo virtualmente indistruttibile. La costruzione del collettore aveva rappresentato un’ardua sfida ingegneristica: si era protratta per venticinque anni, con costi esorbitanti. Solo da pochi anni la megastruttura era entrata in funzione, ma prometteva di ripagare in breve tempo gli sforzi. Era diffusa l’opinione che la Confederazione, malgrado la crisi economica, non sarebbe mai rimasta a corto d’energia finché l’impianto di Beta Niobe era attivo. Gli ingegneri stavano già progettando un secondo e persino un terzo anello da aggiungere al primo, moltiplicando l’introito energetico.
   Naturalmente il costo dell’impianto e la sua relativa vulnerabilità ne facevano una risorsa da proteggere a qualunque costo. Per questo motivo il collettore anulare era sorvegliato da decine di piattaforme orbitali, armate con phaser e siluri. In caso di necessità, inoltre, il collettore poteva alzare un poderoso scudo difensivo, più forte di qualunque Scudo Planetario in quanto alimentato direttamente dalla stella. Una suprema sicurezza regnava tra il personale in servizio, perché tutti sapevano che quello era il luogo più difeso dell’intera Confederazione. Ma come stavano per scoprire nel peggiore dei modi, avere uno scudo impenetrabile è inutile, se il nemico può apparire all’interno di esso.
   Tutto cominciò con un improvviso picco di radiazioni gravimetriche. Allertati dai precedenti attacchi, i Pacificatori alzarono subito lo scudo. Ma era uno scudo a bolla, che avvolgeva sia il collettore che la stella, perché solo così poteva alimentarsi con l’energia dell’astro. I limiti di questa difesa si palesarono quando la fenditura interdimensionale apparve dentro la bolla.
   La reazione fu rapida: lo scudo fu disattivato e le piattaforme si girarono verso l’interno, per bersagliare la Destiny non appena fosse uscita dalla fenditura. Ma la Destiny non uscì mai da quel varco. Ciò che uscì, invece, fu un violento getto di gas incandescente, come se dall’altra parte fosse sotto pressione. Ed era proprio così, perché anziché aprire un varco con il Vuoto, la Destiny lo aveva aperto con un altro cosmo esplorato in precedenza. Per la precisione si trattava di un giovane universo, nel quale l’idrogeno primordiale era ancora sottoposto a temperature e pressioni elevatissime. Non appena la fenditura gli offrì uno sfogo, l’idrogeno – in stato di plasma – eruppe in un getto interminabile.
   Sotto gli occhi increduli di tecnici e guardie, il fiotto di plasma colpì un lato del collettore anulare, facendolo tremare. E continuò a colpirlo, esercitando una notevole pressione. Gli ingegneri attivarono i razzi di manovra per stabilizzarlo, ma scoprirono di non poter contrastare la violentissima spinta. Ben presto il collettore fu spinto di lato, perdendo il suo accurato equilibrio gravitazionale. E quando ciò accadde, il lato più vicino alla stella di neutroni ne venne fatalmente attratto. Con una lentezza dovuta alle grandi dimensioni, la megastruttura cominciò a precipitare verso la sua fonte energetica.
   A bordo del chilometrico anello squillò l’allarme di evacuazione. Il personale – migliaia di persone – corse alle navette e alle capsule di salvataggio. D’un tratto la fenditura interdimensionale si richiuse, interrompendo il flusso di plasma. Tutti sperarono che fosse possibile salvare il collettore, riposizionandolo coi razzi di manovra. Ma subito un secondo portale si aprì a poca distanza dal primo, provocando un nuovo getto d’idrogeno, sempre nella stessa direzione. La stella di neutroni si arrossò mentre assorbiva il flusso di gas. Alcuni incursori da combattimento cercarono di varcare la fenditura, per affrontare la Destiny che si trovava dall’altra parte, ma furono respinti dalla forza del plasma che ne usciva. Uno fu persino distrutto da una raffica di siluri, sparati dalla Destiny attraverso il varco. Gli altri rinunciarono all’attacco e si allontanarono. Allora anche il personale del collettore perse ogni speranza e completò l’evacuazione. Appena in tempo.
   Quando un settore dell’anello entrò in collisione con Beta Niobe, la tremenda gravità del neutronio lo accartocciò, facendolo precipitare sulla superficie della stella. Gli elettroni precipitarono sui nuclei atomici, formando altro neutronio. Ci furono “stellamoti” sulla superficie dell’astro e per qualche tempo si formarono “montagne” di neutronio alte pochi centimetri. Onde gravitazionali si sprigionarono in tutte le direzioni. La gravità continuò ad attirare l’anello, deformandolo sempre più, divorandolo sezione dopo sezione. Intanto anche la seconda fenditura si era richiusa, interrompendo il getto di plasma. La Destiny non ne aprì una terza: non era necessario. Nel giro di un’ora la megastruttura fu totalmente consumata dalla stella di neutroni, che accrebbe lievemente la sua massa. Infine Beta Niobe tornò a brillare isolata nello spazio, come aveva fatto prima che la presunzione confederale cercasse d’ingabbiarla.
   «Era proprio necessario distruggere quel capolavoro d’ingegneria?» mormorò Irvik, quando tutto fu finito.
   «Era indispensabile» rispose Naskeel. «Colui che può distruggere una cosa ha il massimo potere su di essa, ne è il vero padrone. Distruggendo la più grande centrale energetica confederale, noi abbiamo dimostrato la nostra padronanza. Ora Rangda saprà che non c’è bersaglio fuori dalla nostra portata» disse con la ferrea logica dei Tholiani.
   E infatti, quando la Presidente fu informata della catastrofe, il suo autocontrollo andò in pezzi. La megastruttura era stata distrutta ancor prima di aver ripagato i costi della sua costruzione. Interi pianeti sarebbero presto andati in blackout, a meno di non riorganizzare la distribuzione d’energia dell’intero settore, e forse anche di quelli adiacenti. Ma il danno più grave era d’immagine. La Confederazione si era rivelata debole, mentre quelli della Destiny avevano mostrato di poter distruggere qualunque bersaglio. Se la prossima volta avessero colpito un pianeta abitato?! Probabilmente non avrebbero osato... ma questo la gente comune non lo sapeva. Presto sarebbe dilagato il panico. A questo pensiero la Presidente batté il pugno sulla scrivania e scattò in piedi. «Convocate il consiglio di guerra!» gridò ai suoi assistenti. «Dobbiamo affrontare la peggior crisi degli ultimi trent’anni... qualcosa che può distruggere tutto ciò che abbiamo costruito».
 
   Il consiglio fu breve, in quanto Rangda aveva un solo ordine da dare: stanare e distruggere la Destiny a qualunque costo. Fino ad allora decretò la legge marziale. L’Ammiraglio Radek, nonché alcuni ministri, chiesero il ritiro delle misure più restrittive in materia economica. In particolare volevano abolire il limite di curvatura 5 per le astronavi.
   «Signora Presidente, questa legge sta strangolando i commerci e in generale tutti i trasporti» disse il Ministro degli Interni Hod, un’Elaysiana dai corti capelli grigi. «Mi unisco alla richiesta di sospendere il limite di curvatura, almeno finché durerà lo stato d’emergenza».
   «E perdere il sostegno degli ambientalisti? È inaccettabile» rispose la Presidente.
   «Eccellenza, un crescente numero di studi sostiene che l’alta curvatura non danneggi affatto il subspazio. L’ambientalismo è un’ottima cosa, ma solo se serve davvero al suo scopo, non se ci danneggia inutilmente...» insisté l’Elaysiana.
   «Fare marcia indietro significherebbe ammettere un errore» obiettò Rangda. «Non posso permettermelo, ora che gli indici di gradimento sono in flessione. Il limite resta, Ministro Hod; questa è la mia ultima parola».
   L’Elaysiana annuì rispettosamente, ma in cuor suo maledisse la Presidente, verso cui non nutriva più alcuna stima o fiducia. Se i ribelli l’avessero eliminata, Hod ne avrebbe provato solo sollievo.
   «Signora Presidente, c’è un’altra emergenza da considerare, ancor più grave dell’attacco a Beta Niobe» intervenne il Ministro della Salute. «Mi riferisco al fatto che la Catena Cremisi sta diffondendo su numerosi pianeti il siero contro la sterilità degli Umani».
   «Avevo chiesto verifiche al riguardo. Ebbene, quel liquame funziona o no?!» chiese Rangda.
   «Stando agli ultimi rapporti... sì, Eccellenza» rivelò il Ministro. «Ovviamente è presto per le nascite, ma sono confermati numerosi casi di gravidanze umane, successive alla somministrazione del siero».
   A queste parole Rangda impallidì e i suoi occhi si colmarono d’orrore. «Dunque gli oppressori tornano a moltiplicarsi. Questo è... molto inopportuno. Dovremo applicare adeguate contromisure, se non vogliamo tornare schiavi» disse, più a se stessa che all’auditorio. «Ma com’è possibile che i ribelli abbiano trovato la cura? I migliori medici confederali mi avevano garantito che era impossibile».
   «La Destiny li ha aiutati, ecco come» disse cupamente Radek. «La tecnologia medica della Federazione è assai superiore alla nostra».
   «Ancora quella nave! La voglio ridotta in atomi!» ringhiò la Presidente. «Quanto al problema di salute pubblica, so come risolverlo. Farò in modo che quelli della Destiny si pentano di aver fornito la cura, e che gli Umani si pentano d’averla accettata» promise.
 
   Reduce dall’attacco a Beta Niobe, la Destiny era tornata presso Dytallix B. Gli avventurieri esaminavano le trasmissioni subspaziali, per vedere come Rangda avrebbe annunciato la sconfitta. «Ci siamo, trasmissione prioritaria della Presidente» annunciò Talyn a un certo punto. «Come al solito il segnale rimbalza tra vari relais subspaziali, per impedirci di risalire alla posizione del Moloch».
   «Sullo schermo» ordinò Rivera, con un certo nervosismo. Stavolta l’avevano combinata grossa: come avrebbe reagito la dittatrice? Ma con sua enorme sorpresa, Rangda non nominò nemmeno di sfuggita l’attacco a Beta Niobe.
   «Cari concittadini, mi rivolgo a voi per informarvi di una grave minaccia contro la salute pubblica» esordì la Zakdorn. «Una minaccia che colpisce in particolare gli Umani. Come sapete, un virus naturale ha privato gli Umani della possibilità di procreare, così che essi ricorrono alla clonazione. Ora però si sta diffondendo su molti pianeti una fantomatica “cura” contro la sterilità, sotto forma di un siero da iniettare. Milioni di Umani ne hanno già sentito parlare e alcuni sono stati indotti a usufruirne. Ebbene, tutto questo è un crudele inganno!» disse con voce vibrante, fissando negli occhi gli spettatori.
   «Poiché mi preoccupo per la vostra salute devo mettervi in guardia, prima che sia troppo tardi. In primo luogo, v’informo che la cosiddetta “cura” è stata sviluppata e viene distribuita dalla Catena Cremisi, l’organizzazione terroristica nata dalle ceneri dell’Impero Terrestre. Come sapete, nulla di ciò che dice e fa la Catena ha la minima validità scientifica. A conferma di ciò, ho pubblicato sull’Olonet la Petizione dei Diecimila, uno studio scientifico realizzato e firmato dai diecimila migliori genetisti e ginecologi della Confederazione. In questo saggio, gli esperti testimoniano che il siero costituisce un pericolo gravissimo per la salute delle madri, che vedono decuplicate le probabilità di sviluppare il cancro e altre patologie mortali negli anni successivi. Oltre a questo, il siero ha effetti devastanti sulla salute dei nascituri. Tutti i bambini concepiti in questo modo, infatti, moriranno entro il decimo anno di vita. Nessuna terapia in nostro possesso potrà salvarli, e non c’è ragione di credere che potranno esserne sviluppate nel prossimo decennio. Questa è la realtà scientifica che la Catena Cremisi vi ha volutamente e colpevolmente taciuto». La Presidente fece una pausa a effetto, mostrandosi addolorata e partecipe, prima di proseguire.
   «A fronte di questa minaccia senza precedenti contro la salute pubblica, dispongo un decreto d’emergenza con attuazione immediata in tutta la Confederazione. Agli Umani è severamente vietato comprare, detenere, vendere o anche donare il siero anti-sterilità. I trasgressori subiranno pene detentive dai cinque ai dieci anni, come previsto dalle leggi anti-terrorismo. Chiunque possieda informazioni utili a sventare questo traffico illegale deve comunicarle prontamente alle forze dell’ordine, pena l’essere considerato un favoreggiatore. E ora veniamo a coloro che, magari in perfetta buona fede, hanno già assunto il siero». La Presidente sospirò prima di proseguire.
   «Le donne in questione hanno l’obbligo di presentarsi in ospedale, dove subiranno un intervento gratuito d’interruzione della gravidanza, comprensivo di rimborso spese per i giorni d’assenza dal lavoro. Coloro che, per ignoranza o malafede, rifiuteranno di ottemperare saranno prese in custodia e subiranno ugualmente l’intervento. E coloro che riuscissero a sottrarsi tanto a lungo da mettere al mondo i propri figli, sappiano questo: lo Stato ha a cuore il benessere delle loro creature. Per questa ragione, tutti i bambini nati con questa terapia illegale riceveranno l’eutanasia, prima che le malformazioni congenite gli provochino una lenta e inutile agonia. Anche in questo caso l’intervento sarà a carico dello Stato e ci saranno rimborsi per sostenere le famiglie in questo difficile frangente.
   In conclusione, ricordate: se avete a cuore la vostra salute e quella dei vostri figli, rifiutate questo siero mortale. Continuate invece a ricorrere alla clonazione, che si è già dimostrata un metodo efficace – nonché rispettoso dei diritti – per assicurarvi una posterità. Tenete duro, e ricordate: la verità scientifica prevale sempre sull’oscurantismo dei terroristi».
 
   La trasmissione era terminata. Rivera restò a lungo in silenzio, seduto sulla poltrona di comando, con la testa fra le mani. Nessuno osò rivolgergli la parola; ma Losira – che gli sedeva accanto – poteva quasi vedergli il cuore che gli si anneriva in petto. In un certo senso era responsabile di quelle morti, dato che lui aveva fornito la cura agli Umani. Infine il Capitano si riscosse. «Rangda ha voluto questa guerra all’ultimo sangue e Rangda ci annegherà» promise. «Continueremo gli attacchi contro la Confederazione. E aiuteremo le madri a espatriare per mettere al mondo i loro figli sani. Così, col tempo, tutti vedranno che la dittatrice mente».
   «Ma che si aspetta d’ottenere quella megera?!» esclamò Shati. «Obbligare tutte le donne ad abortire... anche contro la loro volontà... è pura follia. Non funzionerà!».
   «Infatti non funzionerà» convenne Svetlana. «Però Rangda ci proverà lo stesso, perché è fatta così. Deve sbatterci il muso, prima di capire che qualcosa non funziona. E intanto milioni di vite innocenti saranno stroncate. Ma non si addolori, Capitano» si rivolse a quest’ultimo «perché non è colpa sua. Lei ha solo restituito agli Umani la possibilità di procreare, dopo che Rangda gliela aveva strappata. Che poi si avvalgano o meno di questa facoltà, sarà una loro scelta».
   Allora anche Irvik si avvicinò al Capitano. «So che ultimamente abbiamo avuto dissidi, ma... ci tengo a farle sapere che approvo il suo operato. Come padre, trovo odioso quel che Rangda sta facendo ai vostri piccoli. Quindi penso che sia giusto opporci. Dobbiamo concentrarci sull’aiutare le madri a espatriare, sia per salvare i figli, sia per dimostrare che la Presidente ha mentito».
   Rivera non rispose, ma annuì con gratitudine. Avere l’Ingegnere Capo dalla sua, dopo tutti i contrasti degli ultimi tempi, era consolatorio.
   «Serviranno dieci anni per dimostrare la menzogna» sospirò Losira. «Per allora, nessuno ricorderà nemmeno cos’aveva detto quella carogna».
   «Forse servirà di meno. Appena i primi bambini saranno nati, basterà esaminare il loro genoma per constatare che non ci sono mutazioni dannose» notò Talyn, incoraggiante.
   «Non sottovalutate le mistificazioni di cui è capace il regime» avvertì Svetlana. «Avranno sempre una scusa, e dei sostenitori pronti a crederci. Eppure... questa è pur sempre la prima crepa nel loro muro di menzogne. Dobbiamo allargarla con ogni mezzo, finché tutto crollerà. Veritas filia temporis... la verità è figlia del tempo».
   L’equipaggio tornò in attività. Bisognava sintetizzare grandi quantità di siero, da distribuire nelle principali basi della Catena Cremisi. E bisognava stare in ascolto, per captare eventuali richieste d’aiuto di chi voleva espatriare. Forse era anche il caso di prendere accordi con la Repubblica Romulana, dato che la maggior parte dei fuggitivi avrebbe cercato asilo lì.
   Mentre tutti si dedicavano ai loro incarichi, Talyn prese a scorrere le notizie trasmesse dallo Star Dispatch, il notiziario della Confederazione. C’erano un’infinità di nuove, ma solo poche erano d’interesse per loro e andavano quindi comunicate al Capitano. Scorrendo rapidamente i titoli, l’El-Auriano notò un articolo su una dottoressa che si stava mettendo in luce sulla Terra, sviluppando varie terapie contro le intossicazioni ambientali. La dottoressa in questione si chiamava Eris; l’articolo non specificava la sua specie e non conteneva immagini. A Talyn non parve una cosa tanto importante da doverla approfondire. Così passò oltre, senza sospettare che sotto lo pseudonimo di Eris si celava Giely, sopravvissuta all’agguato sulla Terra.
 
   Losira indugiava ormai da troppi minuti davanti al laboratorio di astrometria. Non era certa di voler entrare, e anche in quel caso, non era certa di cos’avrebbe detto. Forse la cosa migliore era lasciar perdere e tornare nel suo alloggio. Era stata una lunga giornata, aveva bisogno di riposo. In quella un paio di sottoposti svoltarono l’angolo del corridoio, venendo verso di lei mentre parlottavano dei loro incarichi. Sarebbe stato sciocco farsi vedere mentre restava lì impalata davanti all’ingresso. Così la Comandante fece un respiro profondo ed entrò.
   Il laboratorio astrometrico era all’avanguardia, come ogni cosa sulla Destiny. Metà della stanza era piena di consolle e apparecchi, mentre la metà di fondo era ricoperta da una griglia olografica, per proiettare complesse immagini tridimensionali. In quel momento gli ultimi Universi visitati dalla Destiny erano rappresentati come membrane parallele, mentre la rotta dell’astronave era un’arzigogolata linea rossa che le intersecava. L’unico scienziato al lavoro, purtroppo o per fortuna, era il dottor Atrevius. Era grazie alle sue competenze di cartografia stellare che erano riusciti a calibrare gli spostamenti con tale precisione da mettere a segno i loro attacchi. Questo lo rendeva un elemento insostituibile dell’equipaggio, se volevano lanciarne altri.
   «Ah, Comandante!» l’accolse il Risiano, venendole premurosamente incontro. «Che posso fare per lei?».
   «Ha già fatto anche troppo» rispose Losira, accigliata. «E non mi riferisco al suo lavoro qui, che è impeccabile. Mi riferisco a quella scultura in stile neo-gravettiano che ha lasciato nel mio alloggio. Perché è stato lei, non è così?».
   «Mi dichiaro colpevole» fece lo scienziato, alzando le mani con aria divertita. «I miei gusti artistici sono davvero imperdonabili».
   «Le perdono i gusti artistici, ma non l’intrusione nel mio alloggio» chiarì Losira.
   «Nessuna intrusione: ho teletrasportato la statuetta in loco» spiegò Atrevius.
   «Okay, diciamo che le credo. Ma perché lo ha fatto?».
   Il Risiano sospirò e si prese qualche momento prima di rispondere. «Perché oggi è – o era – il nostro anniversario di matrimonio. E in queste occasioni ti regalavo sempre qualcosa» disse passando a un tono più familiare.
   «Lo regalavi a tua moglie, alla tua Losira» puntualizzò la Comandante. «Ma io non sono lei. E tu non sei lo sposo che ho perso. Devi mettertelo bene in testa».
   «Sì, lo so» borbottò Atrevius, rattristato. «Suppongo di averlo fatto più per me che per te. Come se con quel gesto potessi tornare indietro nel tempo. Comunque ho capito il messaggio: niente regali, niente corteggiamento. Oh, e visto che ci stiamo togliendo i sassolini dalle scarpe...».
   «Sì?» fece Losira, presagendo tempesta.
   «... la prima volta che ci siamo incontrati, è stata una vera carognata non dirmi la verità» disse il Risiano, lasciando trapelare il risentimento. «Me ne sono rimasto lì come uno stoccafisso, credendo che tu fossi una sosia di mia moglie. Potevi dirmi subito la verità. Invece l’ho appresa giorni dopo, da un marinaio ubriaco in sala mensa. Sulle prime non volevo crederci. È solo quando me l’ha confermato il Capitano in persona che ho dovuto accettarlo. Ma tu perché non me l’hai detto subito?!».
   «Perché in quel momento il Capitano e io non eravamo certi di volerci rivelare» spiegò Losira. «Diamine, non sapevamo nemmeno se saremmo rimasti in questo Universo! La nostra speranza era trovare le coordinate del nostro e andarcene subito. Solo quando il tentativo è fallito abbiamo dovuto dire la verità ai nuovi arrivati. Prima sarebbe stato... inutilmente destabilizzante».
   «Inutilmente destabilizzate! Questa me la segno!» ironizzò Atrevius. «Ma sì, suppongo che abbia senso. Abbiamo tutti i nostri segreti. E ora tu conosci il mio... un discutibile gusto artistico».
   Losira non poté fare a meno di sorridere, pensando alla piccola mostruosità nel suo alloggio. Del resto, anche il suo Atrevius amava quello stile scultoreo. Per la miseria, quant’erano simili! D’un tratto il sorriso le svanì dal volto. «Senti, visto che siamo in vena di confessioni... c’è una cosa che ho assoluto bisogno di sapere. E ti prego di dirmi la verità».
   «Sì, lo prometto» disse lo scienziato, facendosi serio.
   «Tu e la tua Losira... avete avuto figli?» chiese la Comandante.
   Cadde il silenzio. Infine Atrevius rispose: «Ne abbiamo parlato tante volte, ma sembrava che non fosse mai il momento adatto. Le nostre carriere... beh, devo dire la mia carriera... mi teneva molto occupato. Poi i Pacificatori ci presero e tutte le speranze andarono in fumo. Quindi no, non abbiamo mai avuto figli. E non ne ho avuti nemmeno in seguito, con altre donne».
   «Bene, meglio così» mormorò Losira, sollevata. Se Atrevius avesse avuto un erede dalla sua alter-ego, e questo fosse stato in pericolo, lei si sarebbe sentita coinvolta, anche se non era sangue del suo sangue. «Anche io e mio marito non ne abbiamo avuti. Però in seguito ho adottato Talyn» rivelò, non riuscendo a trattenere l’orgoglio.
   «Ah sì, l’ho conosciuto» ricordò Atrevius, che aveva collaborato con lui per realizzare gli attacchi mordi-e-fuggi contro la Confederazione. «Sembra un bravo giovane. Molto competente, per la sua età. Sono felice per te».
   «Bene, allora... conti di rimanere sulla Destiny?» chiese Losira, indugiando nel laboratorio.
   «Penso di sì. I nostri attacchi contro la Confederazione sono stati un successo, anche se...» esitò lo scienziato.
   «Se?».
   «Ecco, mi domando fin dove volete arrivare tu e il Capitano» disse Atrevius. «Voglio dire, per quanto mi appassioni rubare asteroidi di dilitio e distruggere megastrutture, non è una cosa che si può fare da mattina a sera. Fin dove volete spingervi, cosa contate di ottenere?» incalzò.
   Losira esitò. «Il nostro obiettivo più importante è salvare gli Umani dall’estinzione» chiarì. «Quanto agli attacchi, hanno diverse ragioni. Servono a distrarre i Pacificatori, a dimostrare che Rangda non è invincibile, ad acuire la crisi economica nella tenue speranza che ciò porti a una sommossa e a un cambio di regime. E sotto sotto... anche se nessuno vuole ammetterlo... sono una vendetta per quello che abbiamo passato. Non solo in questo Universo, ma anche nei precedenti. Già, non siamo così nobili come pensavi... alla fin fine siamo anche noi delle carogne» confessò.
   «Uhm... avevo avuto questo sospetto» ammise lo scienziato. «Per questo vi avevo avvertiti fin da subito che stiamo scherzando col fuoco. Le reazioni di Rangda saranno imprevedibili e violente. Se non riesce a distruggere questa nave, si accanirà su coloro che cercate di proteggere. E non spererei in una rivoluzione... non dopo trent’anni d’indottrinamento» disse cupo.
   «Quindi secondo te falliremo?» chiese Losira.
   «Onestamente non riesco a vedere un modo in cui potremmo vincere» ammise Atrevius, sconfortato.
   «E allora perché vuoi restare con noi?».
   «Perché sarei braccato ovunque. Almeno restando qui riuscirò a fare più danni ai Pacificatori, prima della fine» rivelò il Risiano. «Poi perché, contro ogni logica, spero ancora che qualcosa possa ribaltare la situazione. E infine, se permetti, perché mi piace averti intorno, quale che sia l’esito di questa folle avventura».
   Suo malgrado, Losira sorrise per quel complimento. Non c’era niente da fare... Atrevius era sempre galante, in tutti gli Universi. «Bene, allora continuiamola, questa folle avventura. E come dice la Consigliera... il tempo ci dirà chi aveva ragione» disse prima di lasciare il laboratorio. 
 

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Capitolo 8
*** Il cigno nero ***


-Capitolo 7: Il cigno nero
Data Stellare 2613.044
Luogo: Ospedale Centrale di Okinawa, Terra
 
   Era un giorno come tutti gli altri per Giely (o Eris, com’era conosciuta adesso): grigio, squallido e deprimente. Il cielo era sempre oscurato dalla cappa di polveri e i Terrani conducevano le loro misere esistenze, sorvegliandosi e denunciandosi a vicenda. La temperatura sembrava ancora più bassa rispetto all’inverno precedente, tanto che dal cielo plumbeo cadeva un continuo nevischio scuro, simile a cenere. La Vorta lasciò il trasporto pubblico in cui si era pressata fino a quel momento e si diresse verso l’ingresso dell’ospedale. Con una mano reggeva l’ombrello, con l’altra si premeva la sciarpa contro la gola per proteggersi dal freddo pungente.
   Era passato quasi un anno da quando aveva raggiunto l’Universo dello Specchio. Ed erano passati undici mesi da quando era stata separata dai compagni della Destiny, trovandosi costretta a sopravvivere sulla Terra post-apocalittica. Il suo lavoro presso l’Ospedale Centrale, per quanto le permettesse di vivere, si era rivelato il più alienante che le fosse mai capitato, soprattutto per il clima di sospetto e delazione che regnava tra il personale. Oh certo, le sue terapie anti-tossine l’avevano resa piuttosto famosa – attirandole l’invidia dei colleghi – e avevano sensibilmente migliorato la vita dei Terrani. Ma Giely non riusciva a provare alcuna soddisfazione per il suo lavoro. Non quando, mentre lei cercava di salvare vite umane nel reparto di tossicologia, altri le stroncavano nel reparto maternità, in quei giorni più simile a un mattatoio. E a parte il lavoro, nella sua vita non c’era nient’altro: niente svaghi, niente amicizie, niente amore. Quando finiva il turno, spesso allungato dagli straordinari, la Vorta tornava al suo piccolo alloggio popolare, affrettandosi per respirare meno polveri possibile. La sera, dopo aver consumato la solita schifosa cena a base di alghe e insetti, ascoltava le terribili notizie dello Star Dispatch.
   La ribellione della Catena Cremisi infuriava più che mai e la reazione dei Pacificatori era sempre più spietata, in una spirale di violenza di cui non si vedeva la fine. La Catena continuava a contrabbandare il siero anti-sterilità e a diffonderlo sui mondi confederali. Secondo i notiziari, solo un’infima minoranza di Umani lo aveva assunto; ma Giely era convinta che le vere cifre fossero assai più elevate. Altrimenti non si spiegava l’enorme quantità di aborti forzati che venivano compiuti negli ospedali, né la continua fuga degli Umani oltreconfine, soprattutto presso la Repubblica Romulana. Nel frattempo erano nati i primi “figli della cura” da madri espatriate. I mass media ribadivano fino alla nausea che quei bambini avevano orribili mutazioni genetiche, che li avrebbero uccisi tutti in pochi anni, ragion per cui era più misericordioso sottoporli all’eutanasia. La realtà però era un’altra: i Figli della Cura erano perfettamente sani, sbugiardando Rangda. Le testimonianze cominciavano a filtrare, creando agitazione e proteste.
   Nel frattempo la Destiny continuava a colpire le infrastrutture, con attacchi mordi-e-fuggi, acuendo la crisi economica ed energetica della Confederazione. Su molti pianeti, inclusa la Terra, l’energia era sempre più razionata. I replicatori non funzionavano e persino il consumo pro-capite d’acqua era severamente regolato. In realtà per risolvere l’emergenza sarebbe bastato togliere il limite di curvatura 5 alle astronavi mercantili, così che potessero viaggiare alla velocità per cui erano state costruite. Ma Rangda si era dimostrata incredibilmente cocciuta su questo punto, così che i divieti restavano, con gran danno per tutti.
   Le due crisi – demografica ed economica – avevano piagato la Confederazione, esasperando gli animi dei cittadini. Il potere della Presidente vacillava come mai prima d’ora: c’erano proteste di piazza su parecchi mondi confederali. Alcuni, anche in Senato, chiedevano le sue dimissioni e l’apertura di un’inchiesta formale. Per adesso la reazione di Rangda consisteva nel mandare i poliziotti a disperdere le manifestazioni e arrestare i più facinorosi. Ma il futuro non prometteva niente di buono.
   Dopo aver ascoltato queste notizie sempre più preoccupanti, Giely tipicamente si buttava sul letto e cadeva in uno stato comatoso, finché la sveglia la informava che un’altra giornata era cominciata. Nei primi tempi, la Vorta aspettava sempre che Rivera e gli altri venissero a salvarla. Ma le settimane erano diventate mesi, i mesi stavano per diventare un anno, e sebbene la Destiny fosse sempre sui notiziari, Rivera non era ancora venuto a prenderla. Perché non era venuto? Non poteva farlo... o non voleva?!
   Il dubbio si era gradualmente trasformato in un sospetto ossessivo. Giely sapeva che il suo fidanzato aveva, per così dire, “l’occhio per le seňoritas”. Prima di mettersi con lei aveva avuto innumerevoli storie, perlopiù passeggere. Possibile che lei fosse solo “una delle tante”, goduta e poi accantonata? Il pensiero la faceva star male, perché lei invece aveva creduto profondamente in quella relazione. C’era un’altra spiegazione: Rivera aveva creduto che lei fosse morta e, dopo un ragionevole periodo di lutto, era andato avanti con la sua vita, mettendosi con un’altra. Così, dopo aver scoperto che lei invece era viva, era nell’imbarazzo e non si decideva a venirla a prendere. La terza e ultima possibilità era che Rivera e gli altri non avessero ancora scoperto che lei era sopravvissuta, e quindi non la cercassero nemmeno. A ben vedere, era l’ipotesi più consolatoria. Ma dopo tanti mesi, nei quali si era ritagliata una discreta fama, era possibile che ancora non avessero sentito parlare di lei? Forse lo pseudonimo Eris li aveva ingannati... ma possibile che non avessero mai visto una sua immagine?! Che non avessero mai sentito di una Vorta esperta in tossicologia, e che questo non li avesse spinti a indagare?!
   Più passava il tempo, più le speranze di Giely si riducevano al lumicino. Forse avrebbe dovuto andare lei a cercarli. Già, ma come? Il suo permesso di soggiorno temporaneo faceva sì che i suoi spostamenti fossero costantemente monitorati; non poteva lasciare la Terra senza un’autorizzazione. E anche se fosse riuscita a fuggire, non aveva idea di dove cercare la Destiny. Se i Pacificatori non riuscivano a trovarla, come poteva riuscirci lei?! No... l’unica speranza era farsi notare, così che fossero quelli della Destiny a recuperarla. Doveva rilasciare più interviste. Doveva partecipare a più eventi mondani. Doveva fare in modo che lo Star Dispatch parlasse di lei, mostrando anche la sua immagine.
 
   Con questi pensieri in mente, Giely entrò nell’ospedale, salutando distrattamente la receptionist. Scrollò l’ombrello, liberandolo dal nevischio scuro, e premette il comando sonico per asciugarlo del tutto. Lo ripiegò e lo lasciò nell’apposita rastrelliera. Fatto un sospiro, assunse l’espressione impersonale che ci si aspettava da lei e si recò nel suo ufficio. E qui, inaspettatamente, trovò Aspen ad attenderla.
   «Buongiorno. Che posso fare per te?» chiese la Vorta in tono controllato. Il suo rapporto con Aspen, già difficile, si era deteriorato da quand’era giunto l’ordine di eliminare tutti i Figli della Cura. La primaria aveva creduto subito alla storiella delle mutazioni genetiche letali e non si era mai curata di controllare che fosse vera. Evidentemente il decreto legge favoriva la sua filosofia estinzionista, e tanto le bastava. Così avevano praticamente smesso di vedersi, dato che Giely se ne stava nel suo reparto e non visitava mai gli altri.
   «Non devi fare un bel niente. Sono qui per darti una comunicazione» rispose Aspen, porgendole un d-pad. «Sai, siccome formalmente sono ancora il tuo supervisore, mi hanno informata per prima» disse con freddezza.
   Giely prese il d-pad, temendo guai. Restò sorpresa nel vedere una lettera ufficiale che veniva addirittura dal Ministero della Sanità. Man mano che leggeva, i suoi occhi si sgranarono dallo stupore. «Vogliono darmi... il Premio Confederale per la Medicina?!» esclamò infine. Era una sorta di premio Nobel che ogni anno la Confederazione elargiva ai tre medici che si erano maggiormente distinti per le loro scoperte, o per aver messo a punto nuove terapie. Analoghi premi erano assegnati a chi si era distinto in altre branche scientifiche, dalla meccanica di curvatura all’olografia, oltre che in alcune attività culturali. Ogni anno c’era quindi una grande premiazione, che aveva luogo sul planetoide Babel. Data la presenza di tante personalità di spicco, l’evento aveva grande copertura mediatica. La Vorta si rese conto che era l’occasione tanto attesa. Un’occasione unica e irripetibile per far sì che i compagni della Destiny si accorgessero di lei.
   «Ma certo che vogliono premiarti, mia cara. Il tuo lavoro qui con noi è stato prezioso. Le tue terapie hanno fatto la differenza per milioni di persone» disse Aspen, con voce untuosa. «Ecco perché devi partire al più presto per Babel. La cerimonia è tra cinque giorni appena; puoi prendere il trasporto 347 che parte domani. Naturalmente l’ospedale ti esenta dal servizio per il tempo della trasferta. Siamo tutti così orgogliosi di te...» disse, sebbene nei suoi occhi verdi balenasse l’invidia.
   «Ti ringrazio per avermi informata» disse Giely, affrettandosi a scaricare l’invito nel suo d-pad personale.
   «Ma ti pare? Ti consiglio, prima di andare, di prenderti un abito elegante» suggerì la primaria. «Sai, ci sarà un sacco di gente che conta nel nostro ambito. Sembra che ci sarà persino il dottor Vash’Tot, il medico personale della Presidente. E sarete sempre sotto l’occhio delle olocamere. Quindi cerca di non presentarti come il brutto anatroccolo... metterebbe in cattiva luce il nostro ospedale».
   Giely non capì il riferimento all’anatroccolo, ma comprese il senso generale del discorso. E soprattutto capì quanto Aspen le invidiasse quel premio. «Beh, grazie di tutto. Se ora vuoi scusarmi, mi metto al lavoro. Devo riorganizzare i miei impegni per i prossimi giorni» disse, invitandola a lasciare il suo ufficio.
   «Certo, cara. Ci vediamo» disse la primaria, e finalmente la lasciò sola.
 
   Quella sera, tornando a casa, Giely si sentì più speranzosa del solito. Per qualche giorno avrebbe lasciato la Terra, e già questo era un bene, perché non ne poteva più del cielo coperto, del clima freddo, del cibo disgustoso e degli strilli d’agonia provenienti dal “reparto maternità”. Inoltre aveva finalmente l’opportunità di attirare l’attenzione del suo bel Capitano... sempre che lui non sapesse già dov’era, e avesse deciso di lasciarcela. Ma no, ancora non voleva crederci.
   Persa nelle fantasticherie, la Vorta entrò nel suo appartamento, scrollandosi il nevischio scuro dal cappotto. Solo quando la porta si fu richiusa dietro di lei si accorse che le luci non si erano accese automaticamente, come avrebbero dovuto. Anche l’olografia di Rangda era spenta, una volta tanto. «Computer, luci!» ordinò al piccolo processore dell’appartamento, presumendo che non avesse rilevato il suo ingresso. Non ebbe risposta. Sempre più perplessa, si recò alla scrivania per vedere se il computer era in linea.
   «Lasci stare» disse una voce cavernosa alle sue spalle.
   Con un gridolino di spavento, Giely si girò di scatto. E vide due imponenti figure nella penombra, che si erano posizionate tra lei e l’unica uscita. Gli intrusi dovevano essersi nascosti nell’appartamento, aspettando il suo ritorno per tenderle quell’agguato. «Chi siete?!» chiese la dottoressa, spaventata a morte. Sapeva che, con l’aggravarsi della crisi economica, molti Terrani si erano dati al furto per sopravvivere. Ma nel suo modesto appartamento non c’erano cose di valore.
   «Non siamo ladri, se è questo che teme» rispose uno degli intrusi.
   «E non siamo nemmeno poliziotti o Pacificatori» precisò l’altro.
   «Ora può accendere la luce, se lo desidera. Ma non si metta a urlare, e non cerchi nemmeno di chiamare le forze dell’ordine» avvertì il primo.
   Con mani tremanti, Giely premette un comando sull’oloschermo, ripristinando l’illuminazione. Allora vide che gli intrusi erano due Letheani, dalla faccia simile a cuoio stropicciato e gli inquietanti occhi rossastri. «Chi siete, e che ci fate a casa mia?» chiese la Vorta, cercando di non mostrarsi spaventata.
   «Apparteniamo a una certa organizzazione, che ultimamente ha fatto ricerche su di lei» rispose il Letheano più alto e massiccio. «Lei è apparsa dal nulla un anno fa e da allora si è distinta per le sue terapie innovative, tanto da meritarsi il Premio Confederale per la Medicina».
   «Al tempo stesso, in alcune interviste ha lasciato intuire che non crede alla pericolosità del siero anti-sterilità» aggiunse il collega più basso. «Siamo in errore a credere che lei non approvi le direttive del Ministero? Magari... che non approvi proprio la Presidente Rangda?».
   «Forse ne parlerei più liberamente, se non mi foste piombati in casa» rispose Giely. «O forse neanche in quel caso. Di questi tempi non ci si può fidare di nessuno. Se criticassi apertamente il governo, e la cosa si risapesse, subirei gravi conseguenze».
   «Questo vale per tutti. Ma molti di noi non si sono rassegnati. Molti hanno scelto di combattere, diventando anelli di una Catena più grande». Così dicendo il Letheano più alto le mostrò un anello rosso che aveva al dito. Il suo collega più basso fece lo stesso. Giely sapeva che quegli anelli erano i simboli della Catena Cremisi ed erano talvolta indossati dagli affiliati, sebbene fosse la prima volta che li vedeva dal vivo.
   «Okay, siete agenti della Catena» mormorò la Vorta, sentendo il cuore palpitarle. Doveva essere il momento tanto atteso in quei mesi. «Chi vi manda?» chiese, aspettandosi che fosse Rivera.
   «Questo non ha importanza» la deluse il primo Letheano. «Siamo qui per chiedere la sua collaborazione».
   «La mia... no, aspettate un momento. Siete qui per conto della Destiny?». Vedendo l’espressione stupita degli alieni, Giely si pentì di aver nominato l’astronave.
   «Siamo qui a nome della Catena, non della Destiny. Perché, lei ha legami con quell’astronave?» chiese il Letheano più alto.
   «No, io... niente affatto. Allora, ditemi la vostra proposta» fece Giely, cercando di nascondere la delusione. Quei due non erano lì per salvarla e nemmeno per comunicarle qualche messaggio. Questo rafforzava l’ipotesi che Rivera e gli altri non sapessero nulla di lei.
   «Sappiamo che lei sta per recarsi su Babel, dove riceverà il Premio alla Medicina» disse il Letheano più basso. «Ciò significa che entrerà in contatto con molte delle personalità scientifiche più in vista della Confederazione. Tra costoro c’è il dottor Vash’Tot, capo dell’equipe medica che si occupa della salute di Rangda. È lui il nostro obiettivo. Vede, il dottore è un individuo difficile da avvicinare, dato che segue la dittatrice ovunque essa vada. Da un anno a questa parte è con lei sul Moloch, in continuo movimento lungo una rotta segreta, per sfuggire agli attacchi della Destiny. Questa cerimonia sarà l’unica occasione in cui uscirà allo scoperto, rendendosi avvicinabile dagli altri partecipanti».
   «Non vorrete mica che lo uccida!» si scandalizzò Giely. «Sono un medico, non posso...».
   «Non le chiediamo di uccidere nessuno» la calmò il Letheano più alto. «Tutto quel che ci occorre è un campione del DNA di Vash’Tot. Vede, da tempo la Catena sta cercando di determinare quali siano le effettive condizioni di salute di Rangda. Ufficialmente sta bene, ma... se scoprissimo che non è così, la nostra strategia dovrebbe tenerne conto».
   «Recentemente abbiamo acquisito un’unità di memoria che contiene la sua cartella clinica» proseguì l’altro. «Ma per leggere i dati serve un’autenticazione genetica. Se provassimo ad hackerarla, un meccanismo di sicurezza la formatterebbe, cancellando i dati. Così ci occorre il DNA di Vash’Tot. E lei è l’unica che può avvicinarsi abbastanza da scannerizzarlo».
   «Ma... come pensate che...» farfugliò la Vorta.
   «Le daremo un tricorder miniaturizzato per fare le analisi» chiarì il primo Letheano. «Non qui, ma una volta su Babel, per sfuggire ai controlli doganali. Quando sarà nella sala del rinfresco, le basterà analizzare un bicchiere dal quale il dottore abbia appena bevuto, o una qualunque superficie che abbia appena toccato con le mani. Memorizzerà il genoma nel tricorder e poi ce lo restituirà. C’incontreremo in un punto concordato, prima che lei debba imbarcarsi per il ritorno, sempre per evitare i controlli. Questo è tutto. Non le chiediamo di avvelenare Vash’Tot, né di carpirgli informazioni, e nemmeno di scambiare una sola parola con lui. Deve soltanto fare quell’analisi, dopodiché non le chiederemo altro. Allora, se la sente di aiutarci?».
   Giely esitò. «Sarebbe pur sempre favoreggiamento verso la Catena, e...» lasciò in sospeso. «E non è detto che voi terrete fede alla parola. Magari, se mi trovate utile, ricorrerete a me per altre missioni, anche più pericolosa di questa».
   «Se non se la sente, non la obbligheremo» disse il secondo Letheano. «Ma deve risponderci subito. Più aspettiamo, più aumentano le probabilità d’essere scoperti. E se ci trovano nel suo appartamento, sarà coinvolta anche lei. Allora, se la sente di fare un piccolo ma importante gesto per aiutarci?».
   «Io... va bene, vi aiuterò. Ma a una condizione!» disse inaspettatamente la Vorta.
   «Sarebbe?» chiese il Letheano più alto, un po’ sorpreso.
   «Dovete far pervenire un mio messaggio alla Destiny. Non ai vertici della Catena, ma proprio al Capitano Rivera della Destiny» puntualizzò Giely. «Potete farlo?».
   «Io... uhm... sì, è possibile» confermò il Letheano. «Che devo dirgli?».
   «Gli dica questo: “Constance Goodheart è sempre qui che ti aspetta con ansia”. Ha capito bene?» fece Giely, emozionata. Constance Goodheart era il nome del suo alter-ego, quando giocava alle Avventure di Capitan Proton sul ponte ologrammi. Era stato Rivera a introdurla a quello svago, ed era proprio in una di quelle avventure – per la verità sfuggita di mano – che si erano innamorati. Con quel messaggio, privo di significato per chiunque altro, lui avrebbe capito... e sarebbe tornato a prenderla.
   «Constance Goodheart è sempre qui che ti aspetta con ansia» ripeté il Letheano, perplesso. «Se questo è il suo messaggio, avremo cura di trasmetterlo. Ma solo dopo che lei avrà completato la missione su Babel!» avvertì, per garantirsi la sua collaborazione.
   «Mi sta bene» acconsentì la Vorta. Si accordò coi Letheani su dove incontrarsi per ricevere il tricorder miniaturizzato e restituirlo a missione compiuta.
   «Bene, per noi s’è fatta ora di andare» disse infine quello alto. «Ci rivedremo a Babel. Mi raccomando, non ne faccia parola con nessuno! E ricordi che ci battiamo per una giusta causa».
   «Sì, a presto» salutò Giely. In un attimo i due visitatori si erano dileguati, lasciandola sola nell’appartamento. Poteva quasi credere d’essersi sognata tutto. Ma no, i ricordi erano troppo vividi. Si era impegnata ad aiutare la Catena Cremisi, assumendosi i rischi che ciò comportava. Tutto per la flebile speranza che in cambio quei due avrebbero trasmesso il suo messaggio a Rivera. «Cosa non si fa per amore...» sussurrò la Vorta, aggrappandosi alla speranza che non fosse mal riposto.
 
   Babel era un modesto planetoide di classe D, simile alla Luna terrestre. La gravità era troppo ridotta per trattenere un’atmosfera e di conseguenza non c’era nemmeno acqua allo stato liquido. La superficie era un deserto craterizzato, fiocamente illuminato dalla stella, una nana rossa di tipo M. Di planetoidi come quello era piena la Galassia, tanto che spesso non comparivano nemmeno sulle mappe stellari. Eppure, contro ogni logica, Babel era diventato uno dei centri nevralgici della Confederazione. Era un luogo d’incontri, conferenze, trattati, che si tenevano sotto le cupole pressurizzate o in livelli abitativi sotterranei. Ed era la sede di varie premiazioni, tra cui i prestigiosi Premi Confederali al Merito. Così, una volta l’anno, il planetoide diveniva ancora più trafficato del solito e ancor più al centro dell’attenzione pubblica.
   Sbarcata allo spazioporto col suo leggero bagaglio, Giely superò i severi controlli doganali, dopo di che cercò d’orientarsi. Attorno a lei c’era un fitto viavai di persone e merci. Individui da ogni angolo della Confederazione, e talvolta anche da fuori, s’incontravano per sbrigare i loro affari. Le voci chiassose si mischiavano in una confusione assordante. I volti alieni, gli abiti dalle fogge e i colori più disparati si confondevano davanti agli occhi di Giely. La Vorta, che non amava la folla, cercò di allontanarsi dall’imbarco per non farsi pressare. Contava di recarsi subito al punto d’incontro coi Letheani, in una zona abbandonata della colonia. Ma dovette fermarsi quando un inserviente le venne incontro.
   «Dottoressa Eris?».
   «Sì, sono io».
   «Salve, sono il suo attendente personale. Sono qui per condurla al suo alloggio, istruirla su come si svolgerà la cerimonia e farle da guida, se lo desidera».
   Giely comprese che non poteva facilmente scrollarselo di dosso, quindi fece buon viso a cattivo gioco. Si lasciò guidare a una delle cupole maggiori, in cui si trovava il palazzo delle premiazioni. Era un edificio imponente, di forma piramidale e con grandi vetrate, sebbene il panorama non fosse dei più interessanti. La nana rossa, poi, emetteva una fioca luce sanguigna che dava un’impressione di eterno tramonto. Il palazzo comprendeva numerose camere per gli ospiti, che in tal modo non dovevano mischiarsi ai comuni turisti negli alberghi. La Vorta lasciò che l’attendente svolgesse i suoi incarichi, accompagnandola al suo alloggio e spiegandole come si sarebbe svolta la cerimonia. In realtà si era già documentata in proposito, ma ascoltò comunque con attenzione, nel caso ci fossero stati cambiamenti rispetto alla formula tradizionale. Fortunatamente non ce n’erano.
   La cerimonia prevedeva un ingresso nel salone delle premiazioni che era quasi una sfilata sul red carpet, dato che ci sarebbero stati i giornalisti a filmare i partecipanti e a far loro qualche domanda. Questo andava a beneficio di chi si era distinto nelle attività culturali, più che degli scienziati. Seguiva la premiazione nel salone, coi vincitori che salivano uno alla volta sul palco per ritirare il premio ed esporre, in estrema sintesi, il loro lavoro. Infine c’era una serata con rinfresco che si sarebbe trascinata fino a tarda ora. Era quello il momento in cui Giely contava di analizzare il DNA di Vash’Tot.
   Memorizzato ogni dettaglio, la dottoressa declinò l’offerta dell’attendente di farle da guida, con la scusa che il viaggio l’aveva stancata e voleva riposare. Ma non appena fu sola, sistemò in fretta i bagagli e lasciò il palazzo da un’uscita secondaria. Portò con sé una macchina olografica, così da potersi sempre giustificare col desiderio di visitare la colonia, se qualcuno l’avesse fermata. Ma non ebbe problemi, nemmeno quando passò dalla zona abitata a una cupola più vecchia e semi-abbandonata. Qui, nel luogo concordato – un magazzino dismesso – trovò i due Letheani ad aspettarla.
   «Eccoti, finalmente. Ti aspettiamo da ore» disse quello più grosso, emergendo dalle ombre.
   «Hai avuto problemi?» aggiunse il collega più tozzo, sbucando dietro di lei.
   «Niente affatto. Ho solo dovuto sbarazzarmi di un attendente che voleva farmi fare il giro turistico» si giustificò la Vorta.
   «Uhm, spero che non ti sia fatta seguire» fece il Letheano, estraendo un tricorder. «No, siamo soli. Metti giù!» disse al suo collega. Solo allora Giely notò che l’alieno più basso, quello alle sue spalle, aveva impugnato un phaser. Ora però lo rimise in cintura e venne accanto al suo simile.
   «Il mio tricorder miniaturizzato?» chiese Giely.
   «Eccolo» fece il Letheano, porgendole quello che sembrava un bracciale. «Non è facile nascondere qualcosa in un abito da sera, quindi è progettato per sembrare un ornamento. Per fare la scansione ti basta premere qui» la istruì, mostrandole il comando simile a una piccola borchia.
   Giely annuì e indossò il bracciale, nascondendolo sotto la manica. Scambiò ancora qualche parola coi Letheani, confermando il successivo appuntamento. Si sarebbero rivisti lì, la mattina successiva alla premiazione, prima che lei s’imbarcasse per il ritorno.
   «Cerca d’apparire disinvolta quando sarai davanti alle olocamere» si raccomandò quello alto. «Magari non parlare molto, se temi di lasciar trapelare il nervosismo».
   «E ricorda che, quando sarà il momento, non hai bisogno d’attaccar bottone con Vash’Tot. Ti basterà analizzare una qualunque superficie che lui abbia toccato» aggiunse quello basso.
   «Sono un medico, so come rilevare il DNA» chiarì Giely. «Bene, allora ci vediamo presto. E ricordate la vostra parte dell’accordo!» raccomandò, prima di allontanarsi. Fuori dalla cupola, la nana rossa cominciava già a declinare sull’orizzonte. Mancavano poche ore all’inizio della cerimonia.
 
   La premiazione ebbe luogo col solito sfarzo, nonostante la Confederazione fosse in piena crisi economica, o forse proprio per questo: le autorità volevano ostentare sicurezza. I giornalisti, con le piccole olocamere fissate alle orecchie, si assieparono negli spazi a loro destinati. Un cordone di guardie li separava dal red carpet su cui sfilarono i VIP. Questi non erano solo i vincitori dei premi, ma anche altri intellettuali e scienziati di punta della Confederazione, invitati a presenziare. Molti di loro avevano vinto le passate edizioni, altri erano in lizza per la prossima. La premiazione era un’opportunità per tutti: i più giovani cercavano di farsi conoscere, i più vecchi di non farsi dimenticare dal pubblico. Alcuni droni della sicurezza sorvolavano la zona, analizzando tutto con i sensori, pronti a intervenire se avessero rilevato armi.
   L’emozione crebbe con l’arrivo degli invitati, che spesso si fermavano accanto al cordone di guardie, per concedere brevi interviste ai giornalisti. Erano piuttosto numerosi, anche perché ogni invitato poteva portare con sé il partner, se l’aveva. Quasi tutti vestivano di bianco o con lievi tinte pastello, come dettava la moda del momento. E arrivò anche Giely, avvolta in un soprabito argenteo, col finto bracciale al polso. Passò tra le ali di folla senza fermarsi a rilasciare interviste. Era troppo intenta a guardarsi attorno, in cerca del suo bersaglio. E finalmente lo vide.
   Il dottor Vash’Tot era poco più avanti, intento a farsi intervistare. Era uno Ktariano, come indicavano i minuscoli cornini che gli solcavano la fronte, dalla punta del naso all’attaccatura dei capelli castani. Alto e magro, aveva un sorriso artefatto perennemente stampato in faccia. Si comportava come una star dello spettacolo, sciorinando giudizi disinvolti sulle questioni d’attualità e persino sui colleghi. A un certo punto Giely lo sentì confermare che il siero anti-sterilità causava malformazioni e che quindi sopprimere i nascituri era un dovere morale. Subito dopo Vash’Tot affermò che l’ultracentenaria Presidente Rangda era in perfette condizioni di salute e aveva davanti a sé molti proficui anni di lavoro. Queste due affermazioni, di cui la prima certamente falsa, fecero ribollire il sangue a Giely. Accorgendosi che lo stava fissando con troppa insistenza, la Vorta distolse lo sguardo, non volendo farsi notare. Si avvicinò ai giornalisti, rispondendo a qualche domanda sul suo lavoro. Infine, vedendo che lo Ktariano era entrato nel salone delle premiazioni, gli andò dietro.
 
   La cerimonia si svolse regolarmente, coi vincitori chiamati uno ad uno sul palco, a esporre sinteticamente la natura del loro lavoro. Il premio in sé consisteva in una certa somma di crediti – neanche troppo cospicua – che sarebbe stata depositata sul loro conto. Ciò che gli veniva consegnato sul palco era una targa commemorativa con il loro nome, la categoria per cui erano premiati e una breve descrizione delle motivazioni. Quando toccò a lei salire sul palco, Giely guardò appena la sua targa, che riportava il nome Eris. Fissò bene le olocamere, sperando che i suoi amici della Destiny riuscissero a vederla e a riconoscerla.
   «Stimati colleghi, signori della giuria, e tutti voi spettatori, salve! Sono grata per l’onore che mi è stato concesso quest’oggi» esordì. «Credo tuttavia che impegnarsi per la salute non sia un conseguimento, ma un dovere. Non vi tedierò raccontandovi i dettagli delle mie terapie anti-tossine. Chiunque sia interessato può facilmente documentarsi al riguardo. Quel che mi preme dirvi è che sulla Terra, dove vivo e lavoro, c’è ancora moltissimo da fare. Da quando il pianeta fu bombardato, l’atmosfera è oscurata da una cappa di polveri tossiche e radioattive. In mancanza di luce solare, le temperature sono crollate e l’agricoltura tradizionale è divenuta impossibile, obbligando i Terrani a un’alimentazione innaturale, con seri danni per la loro salute. Respirando le polveri, inoltre, essi contraggono gravi patologie, per cui le mie cure sono spesso insufficienti. Se la Confederazione ha a cuore la loro salute – e come potrebbe non averla, se mi conferisce questo premio? – allora deve intraprendere azioni risolutive. È di vitale importanza depurare l’atmosfera terrestre, com’è già stato fatto su altri mondi, per porre fine all’agonia degli abitanti. Solo così la Confederazione sarà all’altezza dei nobili ideali che si è preposta. Vi ringrazio dell’attenzione, confidando che tutte le persone di buona volontà si uniranno al mio appello».
   Gli applausi scrosciarono, come del resto avevano fatto per tutti gli altri discorsi. Giely però sapeva che l’intervento da lei auspicato non sarebbe mai avvenuto, finché Rangda e la sua cricca restavano al potere. Osservando il pubblico riconobbe il dottor Vash’Tot, seduto in prima fila, che applaudiva con gli altri. I loro sguardi s’incontrarono per un istante e la Vorta seppe che, volente o nolente, aveva attirato la sua attenzione.
   Poco alla volta gli applausi si placarono. Allora Giely consegnò la targa commemorativa al suo attendente, che l’avrebbe portata nell’alloggio. Infine scese dal palco, riprendendo il suo posto in platea. C’erano ancora diversi vincitori da chiamare e ciascuno avrebbe fatto il proprio discorso. Solo al termine di tutto questo ci sarebbe stato il ricevimento, e la vera missione di Giely sarebbe cominciata.
 
   Il salone era arredato nei toni del bianco e dell’azzurro, il che gli dava un’aria glaciale. Attraverso gli ampi finestroni, la vista spaziava sulla superficie craterizzata di Babel e sul cielo notturno, fitto di stelle. Dentro vi erano tavolini e sedie, a cui gli invitati potevano accomodarsi per essere serviti dai camerieri. La maggior parte dei presenti tuttavia preferiva passeggiare e chiacchierare, fermandosi solo occasionalmente per prendere qualcosa al bancone, o per accettare un aperitivo dagli inservienti. Oltre ai vincitori dei premi, in quel salone si radunavano intellettuali e personaggi famosi da tutta la Confederazione. In effetti parecchi di loro appartenevano al mondo dello spettacolo, più che a quello della cultura, e si erano procurati l’invito a suon di mazzette nella speranza che ciò giovasse alla loro popolarità. Alcuni dei più intraprendenti si erano spinti sulla pista da ballo, dove si dimenavano nel tentativo di attirare l’attenzione.
   Il dottor Vash’Tot non li degnò di uno sguardo. Per lui i ricevimenti mondani come quello erano terribilmente noiosi, tanto che ne avrebbe volentieri fatto a meno. Ma non poteva seppellirsi completamente nel suo laboratorio; ogni tanto doveva emergere, per far sapere alla comunità scientifica che respirava ancora, ed era sempre il migliore. E non era escluso che in queste occasioni incontrasse dei cervelli promettenti, che un giorno gli avrebbero fatto da assistenti. Certo, era molto più facile trovare dei parassiti che cercavano di agganciarlo per ottenere fama, contratti e chissà che altro. Era il prezzo da pagare per chiunque appartenesse alla cerchia ristretta di Rangda, e lo Ktariano lo sopportava stoicamente.
   Il fatto era che, quando Vash’Tot si guardava attorno, non vedeva degli individui, bensì dei flussi d’informazione. Le reazioni elettrochimiche dei neuroni creavano il pensiero. Altre reazioni elettrochimiche trasmesse dai nervi stimolavano i muscoli, i tendini e con questi le ossa a muoversi. Le bocche producevano onde sonore, captate dai timpani di altri individui e trasmesse ai loro cervelli, che le decodificavano. Le informazioni passavano da un individuo all’altro, affrontandosi in una lotta darwiniana per il predominio. Le idee più forti soppiantavano quelle più deboli, contagiando i cervelli, come parassiti dotati di vita propria. Nuovi dati si collegavano ai vecchi, portando a nuove visioni della realtà e innescando comportamenti imprevisti. A conti fatti, gli individui non esistevano, erano mere illusioni. I veri mattoni della realtà erano le informazioni. Poco importava che a trasportarle fossero esseri organici, androidi, ologrammi o altro. Chiunque controllasse le informazioni, controllava la realtà.
   «Un drink, signore?» chiese un cameriere, offrendogli un vassoio con un assortimento di bevande.
   «No, grazie» rispose distrattamente lo Ktariano. In un cosmo ideale avrebbe bevuto, perché aveva sete. Ma nel cosmo in cui viveva c’erano troppi rischi. Come medico personale della Presidente, aveva molti nemici. Quel cocktail poteva essere avvelenato o drogato. Ma soprattutto c’era molta gente che cercava di usare lui per arrivare a Rangda. Magari il cocktail conteneva delle nanosonde che lo avrebbero reso tracciabile. Oppure conteneva un virus ingegnerizzato per infettare e uccidere la Presidente, una volta che fosse tornato da lei. No, non poteva rischiare. Aveva persino filtri nel naso e sottili guanti invisibili agganciati alle maniche, per evitare qualunque contagio. Vanificare tutto per sete sarebbe stato di una stupidità monumentale.
   Così il medico continuò ad aggirarsi nel salone, scambiando chiacchiere coi conoscenti... o intercettando i flussi d’informazioni, come la vedeva lui. A tratti, però, qualcosa lo distraeva. Il ricordo di quella giovane dottoressa, Eris, gli balenava nella mente. Ecco, quello era un soggetto meritevole d’indagine. Le sue potenzialità andavano analizzate, quantificate e se possibile sfruttate. Appena l’avesse ritrovata, pensò Vash’Tot guardandosi attorno, non se la sarebbe fatta scappare.
 
   Se c’era una cosa che Giely non sopportava era la folla. Se poi la folla era infida come quella, ancora peggio. Fino a quel momento la Vorta aveva fatto da tappezzeria, col soprabito argenteo che in un certo senso la mimetizzava. Seguiva gli spostamenti di Vash’Tot, cercando di restargli dietro, e studiava ogni sua mossa. Aveva sperato che lo Ktariano si sedesse a mangiare, perché così sarebbe stato facile analizzare il suo DNA da piatti, posate e bicchieri. Ma lui non aveva fatto niente del genere. Diamine, stava rifiutando persino i cocktail offerti dai camerieri! A un tratto, però, posò la mano sullo schienale di una sedia mentre passava tra questa e un’ospite particolarmente grassa.
   «È il momento» si disse Giely. A passo svelto, ma senza correre, si accostò alla sedia. Prima che qualcuno potesse occuparla, o anche solo sfiorarla contaminando il DNA, vi fu accanto. Premette la borchia sul finto bracciale e ve lo passò sopra un paio di volte. Poi osservò la finta gemma che vi era incastonata. Se il tricorder avesse rilevato un genoma, il cristallo si sarebbe illuminato brevemente per due volte.
   Non accadde nulla del genere.
   Frustrata, Giely ripeté il movimento. Ancora niente. La Vorta esitava a continuare, per timore che qualcuno – magari proprio Vash’Tot – notasse il suo strano comportamento. Ma perché il tricorder non funzionava? Che si fosse guastato?! Urgeva un controllo. Giely se lo passò brevemente sulla mano sinistra, e stavolta il cristallo mandò due brevi lampi. Dunque lo strumento funzionava a dovere. Se prima non si era illuminato, significava che non aveva trovato il DNA. Perché non lo aveva trovato? Forse Vash’Tot non aveva realmente toccato la sedia, come le era parso?
   Quale che fosse il motivo, Giely doveva completare la missione prima che lo Ktariano se ne andasse. Altrimenti il viaggio a Babel sarebbe stato vano e i Letheani non avrebbero consegnato il suo messaggio. La Vorta aguzzò la vista, osservando attentamente Vash’Tot e in particolare le sue mani, mentre gesticolava nel bel mezzo di una discussione animata. Allora scoprì l’inghippo. Il medico indossava dei sottili guanti, quasi trasparenti, fissati alle maniche. Forse anche lui era ipocondriaco come Rangda e temeva avvelenamenti. O forse sapeva dell’unità di memoria rubata e non voleva lasciare in giro il suo DNA. Comunque fosse, aveva quei guanti; e tanto bastava per vanificare la missione. A meno che...
   «No, non può finire così» si disse Giely, indurendo i lineamenti. In un modo o nell’altro, gli si sarebbe accostata abbastanza da procurarsi il suo genoma. Non era più la ragazzina spaventata di un tempo, ormai le esperienze l’avevano temprata. Era ora che il brutto anatroccolo spiegasse le ali, mostrandosi per ciò che era realmente.
 
   Il dottor Vash’Tot si liberò dell’ennesimo parassita e riprese a guardarsi attorno, in cerca dell’oggetto del suo interesse. Non avrebbe lasciato il ricevimento finché non l’avesse trovata. Girò lentamente su se stesso, per osservare tutto il salone. E finalmente la vide, accanto a un tavolino. Era indubbiamente lei, con quel lungo soprabito argenteo. Ma che stava facendo?
   Con aria teatrale, Giely si levò il soprabito, deponendolo sullo schienale della sedia. Al di sotto portava l’abito da sera; e che abito! Disdegnando il bianco e l’azzurro, vestiva di un nero intenso, che la fece spiccare in mezzo al salone. L’abito senza spalline la fasciava come un guanto, esaltando il suo fisico sottile e intonandosi ai capelli corvini. Su tutto quel nero risaltava la carnagione cerea della Vorta, così geneticamente perfetta – non c’era un solo neo – da sembrare finta. Ma più inquietanti di tutto erano i suoi grandi occhi violetti, che fissavano lo Ktariano senza sbattere quasi mai. Giely mosse decisamente verso di lui, simile a uno splendido e misterioso cigno nero, mentre la folla si apriva per farla passare.
   «Dottor Vash’Tot, che onore incontrarla! Sono una sua grande ammiratrice; può chiamarmi Eris» disse la Vorta, con un sorriso smagliante. I denti bianchissimi balenarono dietro le labbra tinte di scuro. Non c’era nulla in lei che non fosse bianco avorio o nero giaietto, a parte gli occhioni viola così fissi. Trovandosela davanti, lo Ktariano ne fu colpito come non gli accadeva da tempo.
   «Incantato, Eris. Vedo che il suo talento scientifico è eguagliato dal suo fascino» disse Vash’Tot. «Devo ammettere che sono sorpreso. Credevo che i Vorta fossero praticamente asessuati, non pensavo che una di loro potesse essere così...».
   «... femminile? Ogni regola ha le sue eccezioni, dottore. Tutti i cigni sono bianchi, finché non ne trova uno nero» sorrise Giely. «Volevo solo dirle che il suo lavoro è stato di grande ispirazione per me. In effetti non credo che sarei qui, altrimenti. Quindi... grazie di tutto» mentì.
   «Non c’è di che. Sono lieto di averla in qualche modo ispirata. E siccome anch’io mi sento ispirato da lei... che ne dice di concedermi un ballo?» chiese lo Ktariano, offrendole il braccio.
   «Oh, io... ne sarei lusingata. Ma temo di non aver mai imparato a ballare, quindi non farei che imbarazzarla» avvertì la Vorta, sebbene in realtà fosse proprio quello che voleva. Contava sul fatto che l’altro avrebbe insistito. E infatti...
   «Nemmeno io sono un ballerino, quindi o c’imbarazzeremo a vicenda... o ci divertiremo nel provare qualcosa di nuovo» insisté Vash’Tot, continuando a offrirle il braccio.
   «In tal caso... accetto con piacere» sorrise Giely, prendendolo a braccetto.
   I due raggiunsero il centro della pista da ballo, attirando gli sguardi e i commenti della folla. Vash’Tot era assai influente; vederlo con quella giovane collega appena salita agli onori della cronaca avrebbe suscitato molti pettegolezzi. Al cenno dello Ktariano, i responsabili della musica fecero partire un nuovo ritmo, più sostenuto. I due si fissarono per qualche istante... e partirono.
   Giely aveva detto il vero: non sapeva ballare. Così si limitò a seguire il ritmo della musica, improvvisando movimenti strani e sempre diversi. Talvolta si allontanava da Vash’Tot, quasi scomparendo tra la folla; talvolta gli si stringeva addosso. L’attimo prima s’irrigidiva come un cadavere, l’attimo dopo ondeggiava flessuosa. Spesso dava colpi di tacco sul pavimento, mentre batteva le mani o schioccava le dita, in una sorta di bolero o di flamenco. Per sopportare tutto questo doveva fingere che davanti a lei ci fosse Rivera, e non quel medico criminale che le dava ribrezzo. Quanto a Vash’Tot, sulle prime rimase spiazzato, ma poi si unì al ballo, sia pure senza lanciarsi in un’esibizione così sfrenata.
   Gradualmente la Vorta accorciò le distanze, provocando il compagno di ballo, lasciando che le cingesse la vita. Allora gli passò le braccia attorno al collo. Mentre lo fissava con sguardo ardente, per tenerlo distratto, gli accostò il finto bracciale alla nuca e premette la borchia. Passò qualche secondo... e finalmente il cristallo brillò due volte, segno che il tricorder aveva completato l’analisi genetica. Vittoria!
   Non volendo prolungare quella tortura un istante di più, Giely si sciolse dall’abbraccio. «Mi scusi, dottore... forse ho esagerato. Non mi ero mai lasciata andare così» disse.
   «Non deve scusarsi, anzi, sono io che la ringrazio per l’esperienza» sorrise Vash’Tot, accompagnandola fuori dalla pista, in una zona più tranquilla del salone. «Quando la cercavo, non pensavo che sarebbe stato così piacevole trovarla».
   «Lei... mi cercava?!» fece la Vorta, sgranando gli occhi dallo stupore.
   «Certo, mia cara. Sono sempre in cerca di giovani talenti» confermò lo Ktariano. «Ecco perché partecipo a queste premiazioni annuali. A maggior ragione ora che la Presidente Rangda ha avviato una campagna di reclutamento, per trovare esperti che possano vigilare la sua salute. Una campagna aperta a tutti... anche a chi non possiede la piena cittadinanza, e desidera mettersi in regola» disse, fissandola con aria bramosa.
   «Avete fatto ricerche su di me?» chiese Giely, sempre più inquieta.
   «Naturalmente» confermò Vash’Tot. «Lei è apparsa dal nulla un anno fa, sostenendo d’essere giunta attraverso il Tunnel Bajoriano, prima che fosse chiuso. Però non ha mai rivelato dov’è stata e cos’ha fatto nel corso degli anni intermedi. Suppongo che le autorità abbiano chiuso un occhio, a fronte della bontà del suo lavoro. Sono lontano dal vero, se penso che prima d’arrivare sulla Terra lei vivesse nell’illegalità?».
   «Certo che lo sei, brutto fetente» pensò Giely. Ma non poteva confessare di venire dalla Destiny, la nave più ricercata di tutta la Confederazione. Piuttosto era meglio confermare l’idea di Vash’Tot. «Io... non so che dire...» mormorò, fissando il pavimento con aria colpevole.
   «Sssshhh, è tutto a posto» fece lui, alzandole il mento, così che tornassero a guardarsi. «Non sono qui per giudicarla, o minacciarla, e certo non per arrestarla. Al contrario, vorrei esserle d’aiuto. Ora sediamoci e parliamone» disse, invitandola al più vicino tavolino.
   Giely sedette tutta rigida e lasciò che Vash’Tot le si accomodasse di fonte. Per qualche attimo restarono in silenzio, studiandosi come giocatori di scacchi. Poi lo Ktariano prese la parola: «Sono mesi che sento parlare di lei, Eris. Le sue terapie anti-tossine hanno fatto la differenza per molti Terrani. Ma credo che il suo talento possa essere messo ancora più a frutto. Ha mai pensato alle applicazioni geriatriche delle sue terapie?».
   «Intende la cura degli anziani? Sì, certo. Ma sulla Terra non è l’obiettivo più urgente» rispose Giely.
   «Lo è per me, che devo preservare la salute della nostra Presidente, da cui dipende la stabilità della Confederazione. Quindi ora le farò un’offerta... che lei non potrà rifiutare» disse Vash’Tot, con inquietante sicurezza. «Mi seguirà sul Moloch, entrando a far parte della mia equipe, dove godrà di risorse virtualmente illimitate. Sperimenterà le sue terapie su volontari della stessa specie ed età della Presidente. Se tutto andrà bene, potrà applicarle su Rangda stessa. Sarà uno dei medici più in vista della Confederazione, con uno stipendio adeguato all’importanza del suo incarico. Riceverà la piena cittadinanza e nessuno le farà mai domande inopportune sulle sue attività passate. Che ne dice?».
   Giely si sentì mancare. Comprendeva che Vash’Tot le stava facendo una proposta generosa, dal suo punto di vista. Un rifiuto sarebbe stato oltremodo sospetto. Ma come poteva aiutarlo a tenere in vita quella dittatrice genocida? Inoltre, se fosse andata sul Moloch, Rivera e gli altri non avrebbero potuto salvarla, nemmeno se avessero ricevuto il suo messaggio. «Tu la chiami offerta irrinunciabile... io lo chiamo lento suicidio» pensò la Vorta, cercando una scappatoia.
   «Non sembra contenta» notò Vash’Tot. «Cosa la angustia? Se posso fare altro per lei...».
   «No, io... sono solo un po’ sopraffatta. Non mi aspettavo una tale responsabilità» si giustificò Giely. «Inoltre ho dei doveri verso l’ospedale di Okinawa. Siamo in una fase critica per implementare le mie terapie a livello globale, mi aspettavo di tornare...».
   «Farò in modo che l’ospedale abbia i fondi e il personale necessario per svolgere al meglio le sue funzioni» promise lo Ktariano. «Le assicuro che, come medico personale di Sua Eccellenza, sono molto influente» si vantò.
   «In tal caso, accetto volentieri la sua generosa offerta» disse Giely con un sorriso seducente, sebbene in realtà avrebbe voluto farlo a pezzi. Quel viaggetto a Babel si era trasformato nella sua condanna. A meno che non chiedesse ai Letheani di portarla via, prima che Vash’Tot la facesse scortare sulla sua navicella. Sì, avrebbe fatto così. Al prossimo incontro sarebbe scappata con loro, unendosi alla Catena Cremisi. E da lì, con un po’ di fortuna, avrebbe ritrovato la Destiny.
   «Magnifico!» gongolò Vash’Tot. «La mia navicella parte domani a mezzogiorno. Le manderò qualcuno un’ora prima, a scortarla col suo bagaglio. E se desidera recuperare qualcosa dal suo appartamento, sulla Terra, glielo faremo avere» promise.
   Giely fece un rapido calcolo. L’appuntamento coi Letheani, nel magazzino abbandonato, era alle otto in punto del mattino. Tre ore erano più che sufficienti per scappare con loro, prima che gli inviati dello Ktariano scoprissero la sua assenza. «Intesi, dottor Vash’Tot... o posso chiamarla capo?» disse, simulando complicità.
   «Può chiamarmi Colia, mia cara» sorrise lui, presentandosi col nome proprio. «Non vedo l’ora di avere a disposizione la sua... mente» aggiunse, anche se pareva più affascinato dal corpo, visto come la stava spogliando con lo sguardo. «Ah, sento che questo è l’inizio di qualcosa di grandioso! Insieme riscriveremo i manuali di medicina, aprendo un nuovo capitolo negli studi sulla longevità! E le nostre scoperte saranno a disposizione dei meritevoli» sostenne.
   «Cioè di Rangda e della sua cricca, non certo dei comuni mortali» comprese Giely. Aveva già visto quello sguardo esaltato negli occhi del dottor Chaotica, l’antagonista delle Avventure di Capitan Proton. Vederlo su uno scienziato in carne e ossa, con le risorse per fare ciò che diceva, le fece accapponare la pelle. Dunque la Confederazione sarebbe diventata una gerontocrazia in cui i potenti vivevano per secoli, mentre la gente comune respirava aria tossica... e i bambini Umani erano sistematicamente eliminati. No, non poteva essere complice di questo scempio. Doveva fuggire a tutti i costi.
 
   Giely lasciò il salone prima che si facesse tardi, con la scusa di doversi riposare prima della partenza dell’indomani. In realtà voleva scrollarsi di dosso Vash’Tot, prima che questi si convincesse di poter ottenere altro da lei. La giovane Vorta si sentiva in tumulto: il suo improvvisarsi agente segreto non era andato come sperava. Se solo lo Ktariano non avesse già avuto in mente di prenderla nella sua squadra! Adesso non le restava che scappare, sempre che i Letheani la prendessero con loro. «Almeno ho ciò che volevano» si disse, osservando il finto bracciale col DNA in memoria.
   Tornata nella sua camera, Giely fissò la sveglia per la mattina presto, così da avere tutto il tempo di presentarsi all’incontro. Trascorse una notte agitata, punteggiata da incubi in cui finiva sul Moloch, dove le accadevano le cose più orribili.
   Quando finalmente squillò la sveglia, la Vorta balzò in piedi e si preparò in tutta fretta, indossando gli abiti da viaggio con cui era venuta. «Computer, fammi sentire il notiziario della mattina» ordinò, volendo restare aggiornata. In realtà non vi prestò molta attenzione, concentrata com’era sui preparativi. Prese con sé solo un borsone con un cambio d’abiti, oltre a tutto il contante di cui disponeva al momento, dato che non pensava di tornare in camera. E naturalmente non tralasciò il finto bracciale, che nascose sotto la manica. Il resto dei bagagli lo lasciò lì. Mentre si preparava, pensò a come convincere i Letheani a prenderla con loro. Costruì e smontò più volte il discorso nella sua mente, cercando di renderlo più convincente che poteva. Era già davanti alla porta quando si bloccò. La sua mente, finalmente sgombra, stava ricordando ciò che aveva sentito pochi minuti prima dallo Star Dispatch.
   «Computer, fammi riascoltare il notiziario. M’interessa la parte sui Letheani» disse con voce tremante.
   «Questa notte, una brillante operazione delle forze dell’ordine ha sgominato una cellula della Catena Cremisi che si era acquartierata nella Cupola 6» disse il presentatore. «Due Letheani sono stati riconosciuti come membri dell’organizzazione terroristica. Circondati dagli agenti, i due hanno rifiutato di arrendersi. Un Letheano è stato ucciso nello scontro a fuoco, mentre l’altro è riuscito a fuggire con una navetta ed è attualmente inseguito dalla CSS Serenity. Sono ancora ignote le ragioni della loro presenza a Babel, sebbene la concomitanza con la Premiazione Confederale suggerisca la volontà di sabotare l’evento. Il governatore ha invitato la popolazione a mantenere la calma, garantendo che il pericolo è cessato, e ha elogiato le forze dell’ordine per il successo».
   Giely lasciò cadere la borsa e si prese la testa fra le mani. Tutte le sue speranze si erano incenerite con quel servizio. I Letheani, la sua sola speranza di scappare, erano fuori gioco. Uno era morto, l’altro in fuga... chissà se sarebbe riuscito a cavarsela. In ogni caso, lei non aveva fatto in tempo a consegnargli il DNA. Senza di quello, era improbabile che l’alieno si desse pena di recapitare il suo messaggio. E comunque era irrilevante, perché lei non sarebbe tornata sulla Terra. L’avrebbero condotta sul Moloch, l’astronave più impenetrabile della Confederazione. Sempre che l’indagine non avesse rivelato la sua complicità coi Letheani, nel qual caso era peggio che morta.
   Allora che fare?
   Non c’era che una linea d’azione logica. Fuggire da sola era impossibile, perché dopo lo scontro a fuoco di quella notte la polizia era certamente in allerta. Non sarebbe riuscita a rubare una navetta, né a imbarcarsi su un trasporto diverso da quello che le era destinato. Così non le restava che attendere nel suo alloggio, mostrandosi tranquilla. Se l’avevano scoperta, sarebbe stata arrestata e i suoi incubi di quella notte sarebbero divenuti realtà. Altrimenti l’avrebbero condotta sul Moloch per lavorarvi, come promesso da Vash’Tot. Curioso come l’eventualità che fino a quel momento aveva tanto temuto ora le apparisse come una salvezza. Rassegnata, Giely disfece il piccolo bagaglio e preparò al suo posto tutte le valigie. Dopo una breve esitazione, decise di conservare il finto bracciale col DNA dello Ktariano, nell’eventualità che le tornasse utile. Infine sedette sul divano ad aspettare. L’unica consolazione, in mezzo a tanti disastri, era che almeno non avrebbe più rivisto quella brutta rospa di Aspen.
 
   Alle undici in punto suonò il cicalino dell’ingresso. «Avanti» disse Giely, all’apparenza tranquilla, ma in realtà pronta al peggio.
   Entrarono due Ktariani. Non sembravano poliziotti, a meno che fossero in borghese. «Venga con noi, dottoressa Eris» disse sbrigativamente il primo.
   «Salve, signori. Vi manda il dottor Vash’Tot, non è così?» chiese Giely, col tono di chi si aspetta una risposta affermativa. «Io e lui abbiamo preso accordi ieri sera» aggiunse.
   «Certo, signorina. Siamo qui per aiutarla col bagaglio. La scorteremo alla navetta del dottore, con cui vi recherete al Moloch» confermò il secondo assistente. «Lei è una persona fortunata, dottoressa!» commentò, riferendosi alle sue opportunità di carriera.
   «Non mi ero mai vista così, ma... sì, suppongo d’essere fortunata» ammise la Vorta, e li seguì all’imbarco.
 
   «Siamo al punto di rendez-vous. Un minuto al contatto». La voce del pilota risuonò nel comparto passeggeri della navicella, non appena questa uscì dalla curvatura.
   Giely ne approfittò per interrompere la conversazione con Vash’Tot e guardare fuori dall’oblò. Lo Ktariano aveva passato gran parte del viaggio a decantare i suoi trionfi in campo medico, nel tentativo di fare colpo sulla giovane collega. Aveva anche ripetuto, con fastidiosa frequenza, quanto godesse della fiducia e del favore di Rangda. Ora però le chiacchiere erano finite. Attraverso il finestrino, Giely vide uno scafo sempre più vicino. Poi un altro e un altro ancora... c’era un’intera flotta ad aspettarli.
   «Ah sì, fa sempre un certo effetto» commentò Vash’Tot. «Ti presento la Prima Flotta, assemblata per la difesa di Sua Eccellenza. Imponente, vero?».
   Decine di navi-drone – Giely valutò che fossero almeno una cinquantina – erano poste in formazione serrata. Considerata la prua triangolare, sembravano delle zanne pronte a richiudersi sulla preda. Al centro della flotta, nella posizione più protetta, c’era il Moloch. Era un’enorme astronave dalla forma squadrata, con le gondole quantiche inglobate nello scafo per meglio proteggerle. Lo scafo stesso era rivestito con neutronio prelevato da Beta Niobe, prima che la megastruttura fosse distrutta. Questo rendeva il Moloch quasi indistruttibile, persino se avesse perso gli scudi e le navi appoggio.
   «Ecco la tana di Rangda» si disse Giely, mentre la navetta si dirigeva verso il vascello corazzato. Le navi-drone la sondarono, lasciandola passare quando i piloti inviarono il codice di riconoscimento. Un hangar si aprì sulla fiancata del Moloch e la navetta vi entrò rapidamente. Il portello dell’hangar, anch’esso blindato, si richiuse all’istante.
   «Sì, le misure di sicurezza sono stringenti» commentò Vash’Tot. «Ma non preoccuparti, mia cara, presto ti abituerai».
   Scesi dalla navicella, i viaggiatori furono accolti da un picchetto d’onore, a conferma dell’autorità di Vash’Tot. Giely non aveva mai visto un medico venire accolto in quel modo, quasi fosse un Ammiraglio. Dopo le guardie arrivarono i collaboratori dello Ktariano, per aggiornarlo sulle condizioni di salute della Presidente.
   «Signori, vi presento la dottoressa Eris, vincitrice del Premio Medico per le sue terapie anti-tossine» la presentò Vash’Tot. «È qui per adattare le sue ricerche alla nostra illustre paziente. Sarà mia stretta collaboratrice e avrà un’autorizzazione medica di livello 2».
   Giely intuì che si trattava di un livello elevato, secondo solo allo stesso Vash’Tot. Forse non aveva sbagliato a lavorarselo. Così finalmente si sarebbe fatta un quadro chiaro delle condizioni cliniche della Presidente.
   Già, e poi?
   Non le serviva essere machiavellica per immaginare uno scenario in cui, alterando di poco un medicinale, riusciva a far schiattare la dittatrice. Magari sarebbe riuscita a farlo passare come un decesso naturale. Ma fare una cosa simile andava radicalmente contro i suoi valori. Significava voltare le spalle alla persona che era faticosamente diventata nel corso degli anni. Certo, se ne andava della sopravvivenza dell’umanità si potevano trovare delle giustificazioni morali. Era la solita storia del “bene dei molti” che travalicava quello dei pochi, o di uno. Ma la morte di Rangda avrebbe davvero migliorato le cose? Oppure al potere ci sarebbe andato uno dei suoi “falchi” e tutto sarebbe rimasto immutato? Del resto, con una Presidente così anziana c’era senz’altro chi faceva piani per la successione. E se con la morte di Rangda la Confederazione fosse entrata in una fase d’instabilità, di guerre civili, o fosse persino crollata? Non sarebbe stato ancora peggio?
   Giely si disse che attentare alla Presidente, almeno in questa fase, era prematuro. Prima doveva capire in che condizioni era, cosa stava architettando, e quali erano le prospettive in caso della sua dipartita. Solo allora avrebbe deciso con cognizione di causa.
 
   L’infermeria del Moloch era così vasta e fornita che Giely giunse alla conclusione che doveva essere stata ampliata quando la Presidente si era trasferita in pianta stabile su quel vascello. C’erano interi laboratori di ricerca, con le strumentazioni più all’avanguardia che la Vorta avesse visto nello Specchio. Ogni mansione era ricoperta dal massimo esperto in quel settore; la Presidente li aveva convocati da ogni angolo della Confederazione. Un paio di medici venivano addirittura da mondi non confederali e quindi si trovavano nella stessa situazione di Giely. La Vorta familiarizzò con nomi, volti e mansioni dei colleghi. Fu affabile con tutti, ricordando la Regola dell’Acquisizione numero 48: più grande è il sorriso, più affilato è il coltello. E dopo qualche giorno di acclimatazione, finalmente fu ammessa alla presenza della Presidente.
   Diversamente dalla maggior parte degli Zakdorn, che tendevano a metter su pancia, Rangda era magra e secca, con una lunga faccia cavallina. Per quanto dimostrasse meno della sua età, grazie alle terapie ringiovanenti, era comunque anziana: i capelli erano bianchi, la faccia vizza, la schiena un po’ curva. Aveva una perenne espressione infastidita, come se tollerasse a malapena d’essere circondata da medici, funzionari e leccapiedi vari. Quando Giely la vide per la prima volta, sedeva su un complesso sedile reclinato. Alcuni sottili tubicini erano infilati sottopelle, in corrispondenza di ghiandole e nodi linfatici, e la drenavano delle tossine in eccesso. Queste colavano in un recipiente cilindrico, goccia dopo goccia, come un veleno verde scuro.
   «Eccellenza, ecco la dottoressa Eris, che ci aiuterà a ridurre i vostri livelli di tossine» la presentò Vash’Tot.
   La Vorta si fece avanti e s’inchinò brevemente. Si era preparata all’incontro studiando minuziosamente il protocollo presidenziale, che pareva in larga misura ereditato da quello imperiale. Non poteva rivolgersi alla despota, se non per rispondere alle sue domande. Non poteva darle le spalle, né uscire senza essere prima congedata, eccetera.
   «Ah, sì... la Vorta» fece la Presidente, con una voce gracchiante che la fece sembrare ancora più vecchia. I suoi occhi iniettati di sangue si fissarono sulla nuova arrivata, che la trovò sgradevolmente simile alla sua antesignana, Giely-8. «Ho sentito che hai fatto miracoli sulla Terra, bambina. Bene, bene, ora li farai qui. Mi leverai questo veleno!» disse Rangda, alludendo alle tossine che le venivano drenate.
   «Sono qui per servirla, Eccellenza» confermò Giely, imitando l’atteggiamento untuoso degli altri Vorta.
   «Già, ma non ti voglio solo per questo» rivelò la Zakdorn, leccandosi le labbra. «Tu sei un clone, vero?».
   «Io... sì, Eccellenza» confermò la Vorta, presa in contropiede. «Il mio nome completo è Giely-9, poiché sono la nona della mia linea genetica».
   «Che bellezza! E sei nata adulta, non è così?!».
   «Esatto, signora Presidente. La memoria genetica, unita a un’istruzione rapida e mirata, mi hanno permesso di prendere servizio dopo pochi anni» spiegò Giely, a disagio. Quell’interesse per le sue origini non le faceva presagire niente di buono.
   «Molto bene, bambina. Farai lo stesso per me» sentenziò Rangda.
   «Eccellenza?!» fece la Vorta, esterrefatta.
   «Collaborerai con gli altri specialisti per fabbricarmi un clone a crescita accelerata» spiegò la dittatrice. «Vedi, la vita è breve; troppo breve per portare a termine il mio progetto politico. Ci sono troppe cose da fare, per assicurare la tenuta della Confederazione. E purtroppo nessun altro è all’altezza del compito. Anche con le migliori cure mi restano nove anni al massimo. Forse tu me ne darai qualcuno in più» aggiunse speranzosa. «Ad ogni modo, prima o poi morirò. Quando ciò accadrà, ci dovrà essere qualcuno pronto a portare avanti la mia visione. Ebbene, quel qualcuno non può che essere un mio clone, giunto a piena maturazione fisica e mentale grazie alla crescita accelerata. Un clone che, debitamente istruito, possa proseguire i miei piani. Avrei dovuto pensarci prima, quando avevo più tempo; ma mi sono illusa di poter trovare un successore nel mio partito. Poiché la ricerca mi ha delusa, non resta che questa via. Una dinastia genetica assicurerà alla Confederazione quella stabilità politica che le serve per fiorire. Non è una bella idea?!» ridacchiò, fiera della sua trovata.
   «É... unica, Eccellenza» disse Giely, sebbene in realtà ne fosse inorridita. Un’interminabile successione di cloni, tutti col carattere dispotico di Rangda, tutti con la sua ideologia totalitaria, avrebbe incancrenito la Confederazione. Sarebbe stato peggio dell’Impero Terrestre, che almeno presentava una successione di sovrani, diversi per carattere e intenti.
   «E non è tutto, bambina» fece Rangda, invitandola ad avvicinarsi, come una nonna che vuol offrire un biscotto alla nipotina. «Se sarai brava, darò anche a te la possibilità di clonarti. Non è quello che hai sempre desiderato? Credo di sì... è quello che desiderano tutti i Vorta. Hai detto d’essere Giely-9, la nona della tua linea genetica. Quando sei fuggita, ti sei condannata a essere l’ultima della tua stirpe. Ma io ho pietà di te e voglio aiutarti. Ti permetterò d’allevare e istruire una Giely-10, com’è giusto che sia. Così avremo due dinastie genetiche: la mia per governare, la tua per vigilare sulla salute della mia. Infinite Rangda, infinite Giely, per tutti i secoli a venire!» disse, lo sguardo perso in quella visione. «Allora, ci stai?» si riscosse, fissando la Vorta accanto a sé.
   «Io... n-non so nemmeno se sarà possibile clonarvi con le modalità della crescita accelerata...» si cautelò Giely.
   «Beh, scoprilo. Lavora con gli altri specialisti. Producete tutti i cloni che vi servono e fate esperimenti. Avrete fondi illimitati, risorse illimitate» promise la dittatrice. «L’unica cosa che comincia a scarseggiare è il tempo, quindi mettetevi subito all’opera. Ne riparleremo appena avrete qualche risultato da comunicarmi. Puoi andare, bambina» la congedò.
   Mentre lasciava la saletta, Giely si sentì col morale a terra. Ancora una volta non temeva di fallire, ma di riuscire nel suo lavoro. E soprattutto temeva di lasciarsi corrompere da quella proposta. Perché Rangda le aveva offerto qualcosa che nemmeno Rivera, con tutto l’amore che li univa, poteva darle: un’erede. Avere una Giely-10 da allevare... era una prospettiva che credeva d’aver perso per sempre, e ora invece era nuovamente a portata di mano.
   Come aveva detto Svetlana, ormai un anno prima? «Rangda è sempre stata abilissima a portare la gente dalla sua. Non avete idea di quanti dei suoi fedelissimi una volta fossero suoi oppositori. Se li è comprati offrendo loro ciò che volevano, approfittando delle loro debolezze, convincendoli che non ci fosse altra via». Solo ora Giely comprendeva appieno quelle parole. E sperò con tutta l’anima di avere la forza di resistere alla tentazione. 
 

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Capitolo 9
*** Inter arma enim silent leges ***


-Capitolo 8: Inter arma enim silent leges
Data Stellare 2613.075
Luogo: Turkana IV
 
   I cieli di Turkana IV bruciavano. O almeno questa era l’impressione degli sventurati abitanti, quando vedevano il cielo notturno che s’illuminava di bagliori ed era rigato da stelle cadenti. La realtà era assai peggiore. Nell’orbita, infatti, si consumava una battaglia tra i Pacificatori e le forze di difesa planetarie. Turkana IV era una delle colonie umane divenute indipendenti quando l’Impero Terrestre era caduto, ragion per cui riconquistarla era un obiettivo irrinunciabile per la Confederazione. Impadronirsene significava avvicinarsi un po’ di più alle dimensioni dell’Impero, avere nuove risorse da saccheggiare... e nuovi Figli della Cura da sopprimere, secondo gli ordini di Rangda. Nessuno dei tre obiettivi era considerato negoziabile con gli abitanti, ragion per cui i Pacificatori si erano presentati in forze. La loro flotta era dieci volte più numerosa di quella dei difensori, oltre al fatto che i loro vascelli erano decisamente più moderni ed efficienti. Questo gli abitanti di Turkana lo sapevano bene, e infatti il loro obiettivo non era vincere, ma semplicemente danneggiare più possibile il nemico e ritardarne l’avanzata. Nel frattempo distruggevano le loro scorte di dilitio e le altre fonti energetiche, così che all’arrivo i Pacificatori restassero a bocca asciutta. E c’era un altro preparativo, ancora più disperato.
   Essendo indipendente dalla Confederazione e quindi non esposto alla sua propaganda, Turkana IV era uno dei mondi che avevano fatto maggior uso del siero contro la sterilità. C’erano migliaia di bambini nati grazie alla cura, e altre migliaia stavano per nascere. Sarebbero stati tutti soppressi, all’arrivo dei Pacificatori... se qualcuno non li portava in salvo. Chi poteva aveva già condotto via i propri figli sui mondi della Repubblica Romulana. Ma le navette erano finite e c’erano ancora migliaia di piccole vite a rischio. Le famiglie disperate si radunavano negli spazioporti di Turkana City e degli altri centri, invocando un’astronave ormai leggendaria: la Destiny.
   «Chissà se verranno» commentò il Primo Ufficiale, osservando la battaglia.
   «Verranno, altroché» rispose l’Ammiraglio Radek. «Ho evitato apposta di disturbare le richieste di soccorso di Turkana. Loro verranno a salvare i Figli della Cura... e noi li colpiremo. State pronti» raccomandò agli ufficiali tattici. La sua fronte si corrugò nell’osservare la battaglia, ormai giunta alle ultime fasi. I difensori erano allo stremo e anche lo Scudo Planetario stava per cedere. Caduto quello, Turkana era inerme: un’altra facile vittoria per la Confederazione. Quanto ai Figli della Cura... quelli erano uno spiacevole corollario. Radek era sempre stato contrario a sopprimerli, anche perché sapeva benissimo che in realtà erano sani. Ma gli ordini della Presidente erano tassativi: non si doveva permettere agli Umani di moltiplicarsi. Il loro numero andava severamente regolato, come quello di animali o erbacce infestanti. Forse un giorno l’Ammiraglio sarebbe riuscito a farle cambiare idea; sicuramente non oggi.
   «Ci siamo, si sta aprendo una distorsione gravimetrica nell’atmosfera del pianeta» riferì l’addetto ai sensori. «Dev’essere il portale».
   «Concentrate tutto il fuoco su quella porzione dello Scudo» ordinò automaticamente l’Ammiraglio. La sua flotta fece quanto ordinato. Nel frattempo la distorsione crebbe, trasformandosi in un vortice. E da quel vortice, puntualissima, scaturì la Destiny.
 
   «Prendo quota, siamo troppi vicini alla superficie» avvertì Shati, imprimendo alla Destiny una brusca cabrata. Il vascello sorvolò alcune montagne, facendo oscillare gli alberi in sommità per lo spostamento d’aria, e puntò verso la capitale.
   «Plancia a sale teletrasporto, cominciate il trasferimento» ordinò Losira. «Mi raccomando, prendete solo i Figli della Cura e i loro genitori. Non possiamo affollare la nave con chi non è in pericolo». La Destiny era una grande astronave, progettata se necessario per missioni d’evacuazione; ma la sua capienza aveva dei limiti.
   «Sono comunque troppi» avvertì il responsabile del teletrasporto, dopo una rapida analisi. «Che facciamo?».
   «Imbarcate solo le donne incinte e le madri coi figli già nati. Lasciate a terra i padri» ordinò Rivera, il volto duro come il marmo. Dividere le famiglie era un’atroce ingiustizia, ma il posto sulla Destiny era insufficiente per accogliere tutti. Quindi bisognava abbandonare coloro che avevano più chance di sopravvivere sotto l’occupazione.
   Losira dette un’occhiata al Capitano, ma non disse nulla. Tutti loro erano cambiati, in quell’anno d’inferno; ma l’Umano più di tutti. Persino il suo aspetto era diverso. Rivera aveva rinunciato alla fanciullesca coda di cavallo, in favore di un taglio di capelli corto, che gli dava un’aria più matura. La barbetta era sempre ispida e incolta, un po’ da pirata, ma gli occhi si erano fatti più duri. In un anno intero dalla scomparsa di Giely, non aveva cercato né accettato altre avventure galanti. Tutte le sue energie fisiche e mentali erano concentrate sugli scopi bellici. Losira non aveva cercato di dissuaderlo, ma si chiedeva per quanto ancora il Capitano potesse andare avanti, prima di crollare.
   «Lo Scudo Planetario ha ceduto!» avvertì a un tratto Talyn. «Le navi dei Pacificatori calano nell’atmosfera. Si dirigono verso la fenditura».
   «Vogliono presidiarla per impedirci la fuga» dedusse Naskeel.
   «Lasciateli fare. Non oseranno varcarla, sapendo che non potrebbero tornare» disse Rivera. «Quanto manca a completare i trasferimenti?».
   «Tre minuti, ma i Pacificatori cercano di colpirci dall’orbita».
   «Attivare gli scudi dorsali – solo quelli – e rispondere al fuoco. Allontaniamoci dalla capitale e prendiamo quota» ordinò il Capitano.
   Nei tre minuti seguenti la Destiny continuò a imbarcare i fuggitivi, mentre gli scudi dorsali la proteggevano dai colpi piovuti dall’alto. Intanto sorvolava uno dei piccoli mari di Turkana IV e s’innalzava sempre più nell’atmosfera.
   «Scudi dorsali al 50% in diminuzione» avvertì Naskeel. Il Capitano non rispose, ma gli fece cenno con la mano di pazientare.
   «Trasferimenti completati» disse subito dopo l’addetto al teletrasporto.
   «Attivare gli scudi ventrali. Andiamocene... alla vecchia maniera» ordinò Rivera.
   I motori a impulso ruggirono a piena potenza, proiettando la Destiny fuori dall’atmosfera. Dieci vascelli dei Pacificatori la inseguirono, sparando a tutto spiano. Al tempo stesso due navi-drone, che avevano aggirato il pianeta, si frapposero sulla sua rotta. La Destiny concentrò tutto il fuoco su una delle due, ignorando l’altra. Le navi-drone si allargarono, per prenderla nel fuoco incrociato. Ma la nave fuggiasca s’innalzò ancora, rivolgendo a entrambe gli scudi ventrali, quelli più saldi. Resistette alla gragnola e anzi riuscì a danneggiare il drone su cui aveva concentrato il fuoco, strappandogli una gondola. L’altro drone lanciò dei siluri a grappolo che, con ogni probabilità, avrebbero penetrato gli scudi ormai indeboliti della Destiny. Ma in quella la nave fuggiasca balzò a cavitazione, sottraendosi al fuoco nemico. Nello stesso momento la fenditura interdimensionale nell’atmosfera di Turkana si richiuse, senza che i Pacificatori avessero osato varcarla.
 
   Sulla plancia della sua ammiraglia, Radek osservò la zona in cui si era dileguata la Destiny. «Niente male» borbottò. Una parte di lui era lieta che gli avventurieri avessero salvato i Figli della Cura. Ma era una parte che non poteva mostrare ai sottoposti, se non voleva che un altro Ammiraglio di Flotta gli subentrasse.
   «Possiamo inseguirli, signore» notò il Primo Ufficiale.
   «Negativo, finora sono sempre riusciti a nascondere le tracce. E poi abbiamo un pianeta da pacificare. Occupiamoci di quello» ordinò Radek, osservando il mondo indifeso a poca distanza.
   «Ma la distruzione della Destiny è prioritaria...» obiettò il Primo Ufficiale.
   «Verrà anche il loro momento, prima di quanto si aspettano» sospirò l’Ammiraglio. «Ora fate come ho detto. Sbarcate le truppe a Turkana City, occupate i palazzi del governo e le centrali energetiche. È tempo che un altro tassello del vecchio Impero torni a far parte del grande mosaico confederale».
 
   «Non ci inseguono» disse Talyn dopo qualche minuto.
   «Hanno capito che è inutile!» ridacchiò Shati.
   «Già, proprio inutile. Ormai non ci restano molti luoghi in cui nasconderci» disse il Capitano, più cupo. L’allegria collettiva venne meno, man mano che tutti ripensavano alle loro difficoltà. Dopo un anno di continui attacchi ai cantieri e alle centrali energetiche, la Confederazione sembrava ben lontana dal crollare. A pagare il prezzo dei rincari era la popolazione, il che rendeva la Destiny e i suoi alleati sempre più invisi. A conti fatti, la strategia dei ribelli si era rivoltata contro di loro. Peggio ancora, i Pacificatori avevano scoperto ed espugnato molte basi della Catena Cremisi. Come le avessero individuate, nessuno lo sapeva. Stava di fatto che l’organizzazione era sull’orlo del collasso, nonostante i Romulani le fornissero segretamente armi e altri rifornimenti. Era il momento di ripensare la loro strategia, ma nessuno riusciva a immaginare cos’altro potesse funzionare.
   «Facciamo rotta verso il confine?» chiese infine Shati.
   «Negativo, i Romulani mi hanno fatto sapere che al momento non possono accollarsi altri profughi» rispose il Capitano. «Per il momento li porteremo a Dytallix B».
   «Anche lì avranno difficoltà ad accoglierne così tanti» avvertì Svetlana. «Inoltre mi chiedo se sia un luogo sicuro. Le basi della Catena stanno cadendo una dopo l’altra. Non mi stupirei se presto toccasse al quartier generale».
   «Lo so, ma non c’è alternativa» disse Rivera con l’amaro in bocca. «Speriamo che i Romulani riaprano i confini il prima possibile. Per adesso confermo la rotta a Dytallix».
   «E Dytallix sia» disse Shati, apportando le correzioni necessarie. Nel frattempo Losira e Svetlana lasciarono la plancia, per cercare di gestire l’enorme numero di rifugiati che avevano accolto.
   «Abbiamo vinto almeno la battaglia?» si chiese il Capitano, appena ebbe tempo per riflettere. I Figli della Cura erano salvi, certo. Ma le loro famiglie erano lacerate e con ogni probabilità molte non si sarebbero mai ricomposte. E Turkana IV era in mano ai Pacificatori, l’ennesima colonia umana a finire sotto il giogo confederale. No, decisamente non aveva il sapore di una vittoria.
 
   Di lì a poco Rivera si ritirò nel suo ufficio, a leggere i rapporti che cominciavano ad arrivare dai ponti inferiori. Trovare un alloggio per tutti i nuclei familiari si era rivelato impossibile, tanto che molti dovevano condividere la stessa camera. Alcune madri coi bambini, addirittura, avrebbero pernottato nei corridoi; erano in corso le distribuzioni di pasti e coperte. E le loro condizioni non sarebbero migliorate una volta giunti a Dytallix, anzi...
   Be-beep.
   «Avanti» disse stancamente il Capitano.
   Era Talyn, per il suo rapporto quotidiano sulle news confederali. «Lo Star Dispatch ha parlato della riconquista di Turkana come di una grande vittoria. Naturalmente ha fatto sembrare che noi abbiamo rapito queste persone contro la loro volontà» borbottò il giovane. «Per il resto, le solite cose. È esplosa una vecchia centrale energetica su Selay...».
   «Ancora? Questi incidenti succedono spesso» notò il Capitano.
   «Già, infatti Rangda preme per la transizione a forme d’energia più sicure. Vuol passare come protettrice dell’ambiente, lei! Pensi che ha nuovamente fatto disperdere le manifestazioni contro il limite di curvatura 5» rivelò l’El-Auriano. «Per il resto non ci sono notizie rilevanti. Tranne forse questa: è uscito Lotta per la Libertà, una nuova avventura per sale ologrammi. I giocatori devono impersonare i Pacificatori che lottano... beh, contro di noi, uccidendoci uno dopo l’altro in modi bruttissimi. Tanto per fare un esempio, lei viene strangolato a morte mentre è seduto sulla tazza del cesso...».
   «Okay, ho capito!» lo interruppe Rivera, infastidito. Quello era il genere di propaganda che si aspettava dalla Confederazione: brutale e volgare al tempo stesso. E milioni, forse miliardi di cittadini confederali ci avrebbero giocato con entusiasmo. Tutti quanti si sarebbero allenati a strangolarlo. Così, la prossima volta che lui avesse incontrato qualche giocatore... no, non voleva pensarci. Fu in quel momento che la Destiny sbandò con tale violenza da ribaltarlo dalla sedia, facendolo ruzzolare sul pavimento.
 
   A Rivera servì qualche momento per riprendersi. Sentiva il sapore del sangue in bocca e aveva il lato destro del corpo indolenzito per l’impatto col pavimento. Le luci si erano abbassate e l’Allarme Rosso lo rintronava. «Ma che diavolo...?!» farfugliò, cercando di rialzarsi. Guardando fuori dal finestrone, scoprì che la Destiny era tornata nello spazio normale.
   «Qualcosa ci ha sbattuti fuori dal tunnel di cavitazione» constatò Talyn, rialzandosi per primo. «Nulla di buono, temo».
   Rivera si alzò più adagio, massaggiandosi il braccio illividito e sperando di non avere ossa rotte. Seguì il giovane ufficiale in plancia, dove trovò il finimondo. Allarmi suonavano ovunque, gli ufficiali erano confusi e le stelle vorticavano sullo schermo, segno che la Destiny non era ancora tornata in assetto.
   «Beh, che succede?!» chiese il Capitano, recandosi alla sua poltrona.
   «Saperlo! Siamo fuori dalla cavitazione. Fortuna che gli smorzatori inerziali hanno funzionato a dovere, o saremmo poltiglia sulle pareti» rispose Shati, riprendendo la sua postazione. Attivò i propulsori di manovra, riportando l’astronave in assetto. Finalmente le stelle smisero di girare.
   «Ci sono contusi su tutti i ponti» avvertì Talyn, anche lui tornato alla sua consolle. «Losira e Svetlana stanno mandando in infermeria i casi più gravi. Con tutte le donne incinte che abbiamo a bordo, speriamo non ci siano state disgrazie» borbottò.
   «La causa, devo sapere qual è la causa!» lo pressò Rivera.
   L’El-Auriano consultò i diari dei sensori. «Ci ha colpiti un’immane onda d’urto subspaziale» riferì. «Adesso è passata, ma travolgerà tutte le astronavi del settore prima di disperdersi».
   «Uhm... poche cose possono scatenare un’onda subspaziale di questa portata» rimuginò il Capitano. «Puoi tracciare il punto d’origine?».
   «Credo di sì. Faccio un’analisi a lungo raggio, per ricostruire la propagazione dell’onda». Talyn lavorò per diversi minuti, mentre giungevano i rapporti dai vari ponti. C’erano lievi danni e numerosi feriti, ma fortunatamente nessuna vittima; il Medico Olografico se ne stava occupando. Infine l’El-Auriano rialzò la testa dalla consolle. «Ci sono. L’onda d’urto si è originata in un punto a 47 anni luce da qui. Non ci sono sistemi stellari, ma...» s’interruppe per controllare il database «dovrebbe esserci un pianeta errante, chiamato Despina».
   «Uhm... è una faccenda strana e preoccupante. Forse dovremmo indagare» ragionò Rivera.
   «Ne è certo, Capitano? Abbiamo migliaia di passeggeri a bordo e dovremmo portarli al sicuro. Inoltre 47 anni luce sono una deviazione non da poco» notò Shati.
   «Ehm, signore...» fece Talyn, stranamente imbarazzato. Il Capitano lo guardò. «Da quando siamo giunti nello Specchio, mi chiedete tutti se ho qualche percezione» spiegò l’El-Auriano. «Beh, per la prima volta ne ho una. Ho la netta sensazione che questa sia una faccenda grave, e che dobbiamo vederci chiaro, senza perdere tempo» disse Talyn, con una strana urgenza nella voce.
   Rivera si accigliò. Non sapeva se il giovane parlava così solo per soddisfare la sua curiosità scientifica, o se percepiva davvero qualche minaccia. In ogni caso non potevano ignorare un potenziale pericolo. «Va bene, andremo a controllare» decise il Capitano. «Shati, rotta per Despina. E occhio alle condizioni del subspazio. Fino a che non capiremo che succede, ci terremo in Allarme Giallo».
 
   Bastarono poche ore di viaggio a cavitazione quantica per accostarsi al pianeta errante. Come indicava la denominazione era un mondo sfuggito all’orbita della sua stella, per perdersi nello spazio profondo. Prima che si potesse inquadrarlo sullo schermo, tuttavia, Talyn gridò un avvertimento e Shati uscì subito dalla cavitazione.
   «E adesso che succede?» chiese il Capitano.
   «Il subspazio davanti a noi è lacerato. Non si può viaggiare più veloci della luce» spiegò Talyn. «Se non fossimo scesi a velocità impulso, saremmo stati sbattuti fuori dalla cavitazione come prima».
   «Questa, poi... cosa può distruggere il subspazio in questo modo?» si meravigliò Rivera.
   «Pochissime cose» disse Irvik, che dopo il primo incidente era salito in plancia e occupava la postazione ingegneristica. «Esistono rare anomalie subspaziali, ma non mi sembra questo il caso. Inoltre il fenomeno dev’essere collegato a quell’onda d’urto di prima, visto che siamo vicini al punto d’origine. Qualcosa ha duramente colpito il subspazio, distruggendolo in questa zona e generando un’ondata molto più ampia».
   «E cosa può essere stato?».
   «Uhm... mi riservo di rispondere quando avremo analizzato Despina, o ciò che ne rimane» rispose il Voth. La sua espressione, il tono di voce e persino il colore delle scaglie tradivano una profonda preoccupazione.
 
   Non potendo più superare la velocità della luce, servirono alcune ore a massimo impulso per raggiungere il pianeta errante. Finalmente Despina apparve sullo schermo. Non essendo illuminata da alcun sole, appariva come un disco nero che occultava le stelle.
   «Eccola. Diametro 6.900 km, gravità un terzo di quella terrestre» rilevò Talyn. «Ha una superficie di roccia e ghiaccio, pochissima atmosfera. Molti crateri, risalenti alla sua formazione... tranne questo, che è recente». Inquadrò un enorme cratere dall’orlo sfrangiato, mostrandolo all’infrarosso per renderlo visibile: le parti interne erano ancora calde. «Rilevo anche resti di leghe lavorate: duranio, tritanio, vari polimeri. C’era senz’altro una struttura artificiale qui... probabilmente un’intera base».
   «Forse era un’installazione militare in cui i Pacificatori testavano armi sperimentali» ipotizzò Naskeel.
   «E gli sono esplose in faccia? Bene!» fece Shati, battendo le mani con aria truce.
   «Bene un corno. Qualunque cosa abbia avuto quell’effetto sul subspazio è una minaccia» obiettò Talyn. «Cerco di capire se ci sono residui che possano indicarci...».
   In quella squillò un allarme mai udito prima. La consolle sensori si oscurò, così come molti altri display della plancia e persino lo schermo principale. Un singolo carattere azzurro si stagliò sul nero.
 
Ω
 
   «E questo che diavolo è?!» esclamò Losira.
   «La lettera Omega, l’ultima dell’alfabeto greco» rispose prontamente Svetlana. «Ma non so che simboleggi in questo contesto».
   Losira armeggiò con l’oloschermo del suo bracciolo, cercando di richiamare qualche dato. «Sembra che si sia avviata una fantomatica Direttiva Omega. Assurdo... solo il Capitano ha il diritto di leggere i dati! Tu ne sapevi niente?!» chiese all’interessato, in tono accusatorio.
   «No, affatto» rispose Rivera, trafficando col suo oloschermo. «Ma può dipendere dal fatto che non ho mai ricevuto l’investitura formale dalla Flotta Stellare. Se ci sono dei segreti accessibili solo dal mio grado in su, non me li hanno mai comunicati. Comunque ora ho i codici di comando della Destiny, quindi dovrei riuscire a sbloccare le informazioni».
   «È meglio se lo fa nel suo ufficio, Capitano» disse Irvik in tono grave. «Io verrò con lei e l’aiuterò a capire... perché credo di sapere con che abbiamo a che fare. Poi potrà decidere come regolarsi». Il Voth si accostò all’Umano, per fargli fretta.
   «Okay» fece Rivera, sempre più sorpreso. «Losira, a te la plancia. Mantenete la posizione» ordinò. E si recò nel suo ufficio, seguito dall’Ingegnere Capo.
 
   L’Umano e il Voth restarono rintanati per un’ora, mentre gli altri ufficiali di plancia attendevano con impazienza e si scambiavano improbabili teorie per giustificare quella segretezza. Infine Rivera e Irvik emersero dall’ufficio. «Ufficiali superiori in sala tattica» disse sbrigativamente il Capitano, facendo strada.
   Gli interessati lo seguirono, lasciando la plancia agli ausiliari. Ben presto furono tutti attorno al tavolo rettangolare. La curiosità aveva ormai raggiunto la soglia del dolore. «Allora, che bolle in pentola?» chiese Losira.
   «Si chiama Molecola Omega» rispose il Capitano, attivando gli ologrammi del tavolo. Apparve lo schema di una molecola d’incalcolabile complessità, così grande che la sua struttura poliedrica era visibile a occhio nudo.
   «Noi Voth la chiamiamo la Molecola Proibita» spiegò Irvik. «È la più complessa, energetica e pericolosa molecola dell’Universo, un concentrato di particelle esotiche che solitamente esistono per frazioni di picosecondo, e qui invece si stabilizzano. La mia gente la sintetizzò millenni orsono, sperando di ottenere un’inesauribile fonte d’energia. Ma quando ci rendemmo conto della sua pericolosità, rinunciammo a produrla e vietammo severamente ogni ulteriore studio».
   «Anche la Federazione ci lavorò, sul finire del XXIII secolo» proseguì Rivera. «Il dottor Ketteract e altri centoventisei cervelloni federali sintetizzarono una singola Molecola Omega in una base di ricerca segreta, nel sistema Lantaru».
   «Lantaru? So che il subspazio è danneggiato in quel sistema. Non si riesce a creare un campo di curvatura stabile» notò Shati, a disagio. «Avevo letto che era un fenomeno naturale, una sorta d’anomalia».
   «Quella è la copertura» disse il Capitano. «In realtà Omega si destabilizzò ed esplose, distruggendo l’intera base. Ketteract e la sua equipe perirono tutti. E quando giunsero i soccorsi, scoprirono una conseguenza del tutto imprevista».
   «Il danno al subspazio» concluse Talyn.
   «Già, una sola Molecola Omega aveva lacerato il subspazio in un intero sistema stellare» confermò il Capitano, cupo. «Poche migliaia lo farebbero in un settore, e un milione in tutta la Galassia. Capite cosa c’è in gioco?! Se si verificasse un incidente su larga scala, il viaggio interstellare diventerebbe impossibile. Tutti sarebbero intrappolati dove si trovano, che sia un pianeta, una base spaziale o un’astronave. E coi mondi isolati, la civiltà interstellare crollerebbe: non per qualche tempo, ma per sempre. Ogni pianeta diventerebbe una prigione per i suoi abitanti. Ecco perché la Flotta Stellare ha sviluppato la Direttiva Omega, così importante da prevalere anche sulla Prima Direttiva».
   «E che dice, esattamente?» chiese Losira, inquieta.
   «Se una nave della Flotta trova tracce di Omega, deve avvertire subito il Comando, affinché mandi degli specialisti a occuparsene» sospirò Rivera.
   «Come no! E se ci fosse un contrattempo, tipo essere bloccati in un altro Universo?!» sbottò la Risiana.
   «Ovviamente spetta a noi intraprendere le azioni necessarie per distruggere Omega senza farla esplodere» disse il Capitano. «Ci sono due modi, sperimentati dalla Voyager nel Quadrante Delta. Possiamo usare un siluro gravimetrico – funziona solo se le molecole sono poche – o una camera di risonanza armonica che le neutralizzi poco alla volta. E prima che mi diciate “non siamo della Flotta, quindi la cosa non ci riguarda”, vi ricordo che potrebbe esserci mezza Galassia in gioco, e che anche noi finiremmo bloccati in caso d’incidente».
   «Quindi dobbiamo scendere in quel cratere, e poi?» chiese Losira.
   «E niente, non scendiamo affatto» la sorprese Rivera. «I sensori indicano che non ci sono Molecole Omega residue dopo l’esplosione. Dovevano essercene solo una manciata e sono tutte disintegrate».
   «Beh, ma allora di che stiamo parlando?! Se Omega non c’è più...» fece la Risiana.
   «... il problema è risolto? No, non credo» obiettò il Capitano. «Questo incidente dimostra che la Confederazione sta lavorando su Omega. La vorranno come fonte d’energia, vista la crisi in cui versano. Il primo esperimento gli è esploso in faccia, distruggendo un’intera base. A questo punto un governo ragionevole farebbe come il nostro e smetterebbe di lavorarci, mantenendo il segreto. Ebbene, quanti di voi credono che Rangda e la sua cricca siano ragionevoli?».
   Sulla tavola tattica calò uno spiacevole silenzio.
   «Come vedete, abbiamo un problema» concluse Rivera.
   «Altroché! Ma questo non è risolvibile. Non sappiamo se, quando e dove quei pazzi ci riproveranno» sostenne Losira. «È arrivato il momento di guardare in faccia la realtà, Capitano. Abbiamo fatto quello che potevamo contro la Confederazione, ma ormai è finita, abbiamo perso. È tempo d’abbandonare lo Specchio e riprendere l’esplorazione del Multiverso».
   «Per tornare a casa, dici?».
   «Sì, proprio così» disse la Risiana con fermezza.
   «Vedi, è qui che le cose si fanno pessime» disse il Capitano. Dette un’occhiata all’Ingegnere Capo, invitandolo a proseguire.
   «Ho consultato le mappe stellari che ci ha dato la Catena Cremisi» spiegò Irvik. «Risulta che anche qui nello Specchio il sistema Lantaru ha il subspazio lacerato».
   «E questo che significa? Che hanno fatto esperimenti anche lì?» chiese Losira, interdetta.
   «Improbabile, visto che è così da fine XXIII secolo. Possiamo dedurre che le nostre due realtà abbiano... come dire... il subspazio in comune. Come due gemelli siamesi, con un solo cuore» rivelò il Voth.
   «State dicendo che se la Confederazione distrugge il subspazio qui nello Specchio...» inorridì la Risiana.
   «... probabilmente lo distruggerà anche nella nostra realtà» confermò il Capitano, torvo. «Quindi ci sono non una, ma due galassie in gioco. Perché anche se tornassimo a casa, saremmo sempre a rischio del disastro».
   «Che ironia» commentò Talyn. «Sarebbe il colmo se la Confederazione, che tiene le sue navi a curvatura 5 per timore di danneggiare il subspazio, finisse invece per distruggerlo completamente con questi esperimenti. Ma noi che possiamo fare?».
   «Ah, non molto!» ammise il Capitano. «Ora torneremo a Dytallix, avvertendo la Catena Cremisi del pericolo. Potremmo avvertire anche la Confederazione, ma dubito che servirebbe a qualcosa. Del resto se ne accorgeranno loro stessi, quando indagheranno su questo incidente».
   «Forse se facessimo leva sui movimenti ambientalisti otterremmo dei risultati» suggerì Talyn. «In fondo la Confederazione ha già varato leggi a difesa del subspazio, sotto pressione di questi gruppi».
   «Uhm, che ne pensa, Consigliere?» chiese il Capitano a Svetlana, che fino a quel momento non aveva aperto bocca.
   «È vero, la Confederazione ha già leggi di questo genere» ammise la sociologa. «Forse non ne servirebbero nemmeno di nuove, basterebbe applicare quelle vigenti. Il fatto è che la Confederazione si trova in una gravissima crisi energetica, nonché de facto in una guerra civile. Non so se conoscete il detto inter arma enim silent leges, “in tempo di guerra anche le leggi tacciono”. Abbiamo portato la Confederazione allo stremo, e ora... sta sperimentando estremi rimedi. Non mollerà l’osso facilmente, nemmeno dopo questo incidente. Ma dobbiamo provare, quindi ben venga ogni tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica. Certo che, finché Rangda resta al potere, la decisione finale sarà sempre e solo sua».
   Ci fu un prolungato silenzio. Visto che nessun altro prendeva la parola, il Capitano si alzò. «Bene, ci aggiorniamo. Rotta verso Dytallix, prima che mezza flotta dei Pacificatori arrivi qui a indagare. Ah, un’altra cosa. Signor Irvik, lei e i suoi ingegneri cominciate a preparare una camera di risonanza armonica e dei siluri gravimetrici. Se mai c’imbatteremo in qualche Molecola Omega, voglio essere pronto a neutralizzarla».
 
   Due giorni dopo la Destiny giunse a Dytallix B, per la prima volta da mesi. Gli avventurieri notarono subito dei cambiamenti dalla loro ultima visita. C’era un’insolita concentrazione di vascelli della Catena Cremisi. Tra vecchie astronavi imperiali, nuovi modelli rubati alla Confederazione e navi mercantili equipaggiate con armamenti supplementari, c’erano una settantina di scafi.
   «Guardate lì... sembra che abbiano radunato la loro flotta» notò Shati.
   «È stata una mossa imprudente. Se la Confederazione rintracciasse questo pianeta, potrebbe distruggere le loro forze in un solo colpo» commentò Naskeel.
   «Credo che non abbiano scelta. Con tutte le basi che hanno perso negli ultimi mesi, non gli resta che concentrare le forze presso il quartier generale» disse Rivera, ma anche lui era inquieto. «Talyn, manda un messaggio a Wolff. Di’ che ho importanti novità da riferirgli e devo incontrarlo al più presto. Niente trasmissioni, voglio un colloquio faccia a faccia».
 
   Di lì a poco Rivera, Losira e Irvik erano nei livelli più profondi della vecchia miniera, dove la Catena Cremisi aveva posto il suo quartier generale. Dietro porte chiuse e vigilate, incontrarono Jack Wolff e i suoi più stretti collaboratori. Per prima cosa il Capitano chiese di sbarcare i civili salvati da Turkana IV. «È solo una sistemazione temporanea, in attesa che i Romulani riaprano i confini. Non posso guidare la Destiny in battaglia con così tanti civili a bordo» si giustificò.
   «Lo so, ma anche per noi sarà difficile accogliere e sfamare tutti» rispose il leader ribelle. «È un periodo difficile, ora che abbiamo perso così tante basi. Comunque non voglio voltarvi le spalle, dopo tutto quel che avete fatto per noi. Potete sbarcare i vostri passeggeri».
   «Bene, cominceremo subito» disse Rivera, sollevato. «Ma c’è una faccenda ancor più importante di cui dobbiamo discutere. Avete captato l’onda d’urto subspaziale di tre giorni fa?».
   «Sì, e non ce la spieghiamo» rispose Wolff. «Un’onda così violenta dev’essere il risultato di qualche fenomeno sconosciuto. Voi avete una teoria?».
   «Altroché...» fece il Capitano. Nell’ora successiva lui e Irvik – per la verità più Irvik – spiegarono ciò che sapevano della Molecola Omega, evidenziando la sua estrema instabilità e le conseguenze catastrofiche della sua esplosione. «V’insegneremo come neutralizzarla, nel caso in cui la incontriate in futuro» promise Rivera. «Ora però la cosa più urgente è capire se la Confederazione ha altre basi di ricerca per Omega, oltre a quella distrutta. So che avete molte spie a sorvegliare i movimenti dei Pacificatori. Negli ultimi tempi vi sono giunti rapporti di qualche grosso progetto ingegneristico? Trasferimenti di personale, allocazione di risorse, finanziamenti misteriosi...?».
   «Sì, ma... cose di questo genere accadono continuamente. Non sarà facile capire quali, dei tanti progetti in corso, riguardano Omega» avvertì Wolff.
   «La boronite è un buon punto di partenza» rivelò Irvik. «È uno degli elementi più difficili da sintetizzare ed è essenziale per creare Omega. Avete notizia di qualche spedizione di boronite?».
   «Controllo subito» disse Wolff, recandosi a una consolle. Vi armeggiò un poco, finché i suoi occhi si accesero d’interesse. «Bingo! Negli ultimi sei mesi ci sono state non una, ma due grosse spedizioni di boronite. In un caso la destinazione è sconosciuta... probabilmente era quel planetoide che avete trovato, su cui c’è stato l’incidente».
   «E l’altra spedizione dove l’hanno inviata?!» chiese Rivera, sulle spine.
   Lo sguardo di Wolff s’incupì, man mano che leggeva. «Sulla Terra, presso il Centro Ricerche di Curvatura. Sapete, quello intitolato a Cochrane che si trova a Bozeman, nel Montana» chiarì.
   «Cornudos cabrones!» ringhiò il Capitano, facendosi avanti per leggere lui stesso i dati. Quando ne ebbe conferma, dette un pugno sulla consolle.
   «Quindi la Terra rischia di subire lo stesso incidente?» si preoccupò Losira. «E quali sarebbero le conseguenze?».
   «Dipende tutto da quante Molecole Omega sintetizzano stavolta» rispose Irvik. «Con una manciata di molecole, come a Despina, l’America del Nord sarà devastata e il subspazio sarà lacerato in tutto il sistema solare. Ma se le molecole fossero di più... diciamo un centinaio... beh, la Terra rischia la distruzione totale. E il subspazio sarà lacerato nel raggio di anni luce, isolando il sistema solare. A quel punto anche le colonie su Marte e sui satelliti moriranno, private dei rifornimenti».
   «Però non sappiamo con certezza se stanno creando Omega, giusto? Quella boronite potrebbe servire a qualcos’altro» notò la Risiana.
   «Beh, il Centro era chiuso fino a un anno fa. L’hanno riaperto con la motivazione che stanno sperimentando nuovi tipi di curvatura, che non danneggino il subspazio» rivelò Wolff. «Certo, potrebbe essere una copertura per Omega» ammise.
   «Dobbiamo verificarlo subito» disse Rivera. «Andremo sulla Terra con una missione stealth e vedremo che fanno in quel centro».
   «Bene, partirete appena sbarcati i civili» approvò il leader ribelle.
   «Uhm... no. La Destiny resta qui. Andremo col Centurion» lo sorprese il Capitano.
   «Perché? La Destiny è molto più munita, e una volta lì avrete bisogno di tutte le vostre risorse, se trovaste Omega» notò Wolff.
   «Se troviamo Omega dovrò teletrasportarla nella camera armonica, rischiando che esploda. Se accadesse, preferisco saltare in aria col Centurion piuttosto che con tutta la Destiny» spiegò Rivera. «Inoltre c’è un’altra faccenda...» disse di malavoglia, prendendo l’interlocutore da parte.
   «Ebbene?».
   «Carte sul tavolo, hombre. Negli ultimi mesi i Pacificatori hanno individuato parecchie delle vostre basi. Tutte basi che la mia nave aveva visitato di recente. Temo di avere una talpa a bordo, anche se non ho capito come fa a trasmettere la posizione» ammise il Capitano. «Se siamo tornati qui a Dytallix, è solo perché ci siamo già stati altre volte, per cui se ho ragione siete già compromessi. Tenetevi pronti a partire anche da qui».
   «Il sospetto mi aveva sfiorato» borbottò Wolff, lanciandogli un’occhiataccia. «Ma con tutti quei civili che ci avete portato, sarà difficile sloggiare se ci attaccano».
   «Non potevo lasciarli ai Pacificatori» si giustificò Rivera.
   «Suppongo di no. Oh, al diavolo, siamo abituati alle avversità! Abbiamo allestito uno Scudo Planetario e radunato il grosso della flotta, in qualche modo ce la caveremo» disse il leader ribelle. «Ma tu che conti di fare con la spia? Se parti col Centurion, quella potrebbe comunque avvertire i Pacificatori, che vi prepareranno una calda accoglienza sulla Terra».
   «Dirò all’equipaggio che andiamo dai Romulani, per chiedere che ci facciano avere più armi» decise il Capitano. «Gli unici a conoscere la verità, oltre a Losira e Irvik, saranno pochi compagni fidati. Losira comanderà la Destiny in mia assenza, cercando d’individuare la spia, mentre Irvik e gli altri mi seguiranno in missione».
   «Resta comunque una missione ad altissimo rischio, così senza copertura» avvertì Wolff. «Vi manderei qualche incursore in appoggio, ma il nostro occultamento non è così sofisticato e temo che anziché aiutarvi vi farei scoprire».
   «No, è meglio se andiamo da soli» convenne Rivera, pur sapendo che si stava cacciando in una missione suicida. Ma era dalla scomparsa di Giely che combatteva una guerra personale contro la Confederazione. Se quello doveva essere l’epilogo, che fosse.
 
   I tre ufficiali della Destiny stavano per ritirarsi, quando Jack Wolff li richiamò. «A proposito della Terra, prima che andiate c’è una cosa che dovete sapere» avvertì. «Di recente due miei stretti collaboratori vi sono andati in missione e... beh, è meglio che a parlare sia il diretto interessato. Dauthka!» chiamò.
   Si fece avanti un grosso Letheano, dal volto simile a cuoio e gli occhi rossi, che fino a quel momento era rimasto in un angolo. «Io e mio fratello Graush siamo andati sulla Terra il mese scorso» cominciò. «Abbiamo contattato un famoso medico, la dottoressa Eris, per chiedere la sua collaborazione. Sapete, lei stava andando su Babel a ritirare il Premio Confederale per la Medicina. In quell’occasione avrebbe incontrato i più famosi dottori confederali, tra cui Vash’Tot, il medico personale di Rangda. Le abbiamo chiesto di analizzarlo segretamente, per farci avere il suo DNA. Così avremmo potuto attivare un’unità di memoria rubata, che contiene la cartella medica della dittatrice. Purtroppo i Pacificatori ci hanno scoperti mentre eravamo su Babel e la missione è fallita. Mio fratello è stato ucciso, mentre io sono fuggito a stento, senza il DNA di Vash’Tot» riassunse.
   «Condoglianze per suo fratello» disse Rivera. «Ma come ci riguarda questa faccenda?».
   «Ecco... voi conoscete la dottoressa Eris?» chiese il Letheano.
   Il Capitano rifletté per qualche istante. «Mi pare di no» rispose. Alla sua occhiata interrogativa, anche Losira e Irvik scossero la testa.
   «Beh, sembra che lei conosca voi» spiegò Dauthka. «In cambio della sua collaborazione, mi ha chiesto di recapitarvi un messaggio. Uno indirizzato a lei personalmente, Capitano» chiarì. «Anche se la missione è fallita, voglio comunque riferirlo. Sembrava così importante, per la dottoressa... come se ne andasse della sua vita».
   «Continuo a ignorare chi sia questa Eris, ma... sentiamo!» lo esortò Rivera, incuriosito.
   «Il messaggio dice: Constance Goodheart è sempre qui che ti aspetta con ansia» recitò il Letheano. «Proprio così, furono queste le sue parole. Constance Goodheart è sempre qui che ti aspetta con ansia. Le dice niente, Capitano?».
   Rivera restò impietrito, e così anche i suoi colleghi. Sapevano fin troppo bene che Constance Goodheart era il personaggio di Giely, quando giocava alle Avventure di Capitan Proton sul ponte ologrammi. Ma Giely era morta da un anno... a meno che...
   «Questa dottoressa Eris, com’è fatta?» chiese Rivera, con un tremito nella voce. «A che specie appartiene, che aspetto ha?!».
   «È una Vorta, e già questo è strano, perché non ce ne sono molti da questo lato della Galassia» rivelò Dautkha. «Ha i capelli neri e gli occhi viola, come tutti quelli della sua razza. Ma lei è giovane ed esile di corporatura. È alta all’incirca così» disse, ponendosi la mano all’altezza della spalla, «e ha una vocetta squillante...».
   «Giely» mormorò Rivera, pallido come un cencio. La comprensione lo colpì come un pugno; le gambe gli divennero molli, tanto che barcollò per riprendere l’equilibrio.
   «Come dice?».
   «Quella che lei chiama Eris... dev’essere Giely, la mia compagna» rivelò il Capitano, ancora sotto shock. Visto che non riusciva ad aggiungere altro, Irvik si fece avanti per chiarire.
   «Giely era il nostro medico di bordo» spiegò il Voth. «La perdemmo un anno fa, nella schermaglia tra le rovine del Palazzo Imperiale. Fu colpita da un raggio phaser e cadde giù dagli spalti. Eravamo convinti che fosse... che fosse morta» ammise, osando appena guardare il Capitano.
   «Invece è viva, e ci chiede aiuto!» esclamò Rivera, riprendendosi. «Deve aver cambiato nome per non destare sospetti. È rimasta sulla Terra per tutto questo tempo, ad aspettarmi, e io... io non l’ho nemmeno cercata!» inveì, camminando avanti e indietro. Alla luce di questa scoperta, tutto quel che aveva fatto nell’ultimo anno gli sembrava un’inutile vendetta, che lo aveva distolto dal suo unico, vero dovere.
   «Non potevi sapere... nessuno di noi lo sapeva!» disse Losira, cercando di calmarlo. «L’importante è scoprirlo in tempo. E visto che hai già in programma di andare sulla Terra...».
   «Già, ma siamo davvero in tempo? Se l’avessero scoperta, dopo che ha collaborato con voi?!» chiese il Capitano, rivolgendosi a Dautkha. La sua preoccupazione si stava già trasformando in collera, sebbene in realtà ce l’avesse principalmente con se stesso.
   «Non ho notizie del suo arresto» si difese il Letheano.
   «Beh, lo scopriremo presto!» disse Rivera, fissandolo torvo. «Ora andrò sulla Terra con la mia squadra. E vorrei... anzi, esigo... che lei venga con me, Dautkha. È l’unico tra noi ad averla vista di recente, l’unico che sa dove cercarla».
   Il Letheano fissò il suo superiore, in attesa di ordini.
   «E sia, prendetelo con voi per questa missione!» acconsentì Wolff. «Partite al più presto, perché il tempo è contro di noi» raccomandò, pensando soprattutto alla Molecola Omega.
   «Lo so. Partiremo appena sarà pronta la camera armonica. La imbarcheremo sul Centurion, assieme a qualche siluro gravimetrico» disse Rivera, dirigendosi spedito verso l’uscita.
   «La finirò a tempo di record. Mi dia solo due giorni» promise Irvik, trottandogli dietro.
   «Intanto sbarcheremo gli esuli di Turkana. Grazie di tutto» disse Losira, congedandosi da Wolff prima di seguire gli altri. Anche Dautkha seguì gli avventurieri della Destiny, per guidarli all’ultimo domicilio conosciuto di Giely... senza sapere che nel frattempo la Vorta era stata costretta a trasferirsi.
 
   Come promesso Irvik superò se stesso, terminando la camera di risonanza armonica entro due giorni. Era un congegno estremamente complesso, dovendo contenere e neutralizzare la molecola più distruttiva dell’Universo. La base raggiata sosteneva una grossa bolla semitrasparente, la camera di contenimento vera e propria. Sofisticati campi di forza si sarebbero attivati una volta imbarcata Omega, sfruttando le frequenze stesse della molecola per stabilizzarla. Se qualcosa fosse andato storto, la camera di risonanza non sarebbe bastata a contenere l’esplosione di Omega. Quindi non restava che sperare nell’efficacia dei campi armonici.
   Una conseguenza del suo funzionamento era che la camera richiedeva poca energia, al punto che poteva essere alimentata dal Centurion. Quanto alle dimensioni, fu possibile collocarla nel comparto centrale del vascello, dopo aver tolto il tavolo e le sedie per fare spazio. Siccome non passava dalle porte, si dovette teletrasportarla tutta intera. Irvik la collegò al nucleo, accertandosi che fosse pronta a entrare in funzione. «Così dovrebbe andare, Capitano» disse mostrandogli il congegno che ingombrava la stanza. «Purtroppo non posso fare dei test. Non abbiamo la boronite con cui sintetizzare Omega...» spiegò.
   «Non importa, non avremmo comunque il tempo per le prove» disse Rivera. «Ora devo chiederle di accompagnarmi in questa pericolosa missione. Lei è l’unico che conosca Omega, l’unico che può neutralizzarla con quest’arnese. Se la sente di rischiare tutto per la salvezza della nostra patria?».
   «La Terra dello Specchio, eh?» sospirò il Voth. Ricordava bene quanto fosse malridotta, e quanto di stretta misura ne fossero usciti l’ultima volta.
   «L’unica Terra che abbiamo al momento. Forse l’unica che rivedremo mai» ammise l’Umano, facendo leva sulla fascinazione dei Voth per il Mondo Perduto.
   «Già, groan... lei fa sempre apparire le cose come inevitabili. E va bene, verrò» cedette l’Ingegnere Capo.
   Ora che i preparativi erano terminati, la squadra si radunò in fretta. Oltre a Rivera e Irvik c’erano Shati, che avrebbe pilotato il Centurion, e Svetlana, che era pur sempre la loro esperta della Terra. Come pattuito venne anche Dautkha, per indicare il domicilio di Giely e contribuire alla missione principale. E vennero una decina di guardie della Destiny, scelte tra gli elementi migliori e più fidati; quasi tutti erano veterani della precedente missione sulla Terra. Il Capitano tuttavia lasciò Naskeel sulla Destiny, non volendo privare l’astronave di troppi ufficiali superiori.
   Quando furono tutti radunati davanti al Centurion, Rivera fece un breve discorso. «Signori, questa può essere la nostra missione più importante. Forse scopriremo che non c’è traccia di Omega sulla Terra; ma se ci fosse dobbiamo neutralizzarla con ogni mezzo. Ne va non solo della salvezza di questa Terra, ma anche di quella del nostro Universo, che in caso di disastro si troverebbe parimenti isolata dalla Galassia per via dei danni al subspazio.
   In aggiunta a questo, sapete ormai che abbiamo una seconda missione. Dobbiamo salvare Giely, che ci ha attesi per un anno intero, confidando nel nostro ritorno. Siamo tutti in debito con lei, fin dall’inizio del nostro viaggio, quando ci salvò dalla prigionia nello Spazio Fluido. È arrivato il momento di andarla a prendere».
   «La prenderemo, Capitano» promise Shati, e salì per prima. Gli altri avventurieri la seguirono, andando alle loro postazioni.
   Quando gli altri furono tutti a bordo, Rivera si rivolse a Losira, che li aveva osservati da poca distanza. «Tieni la Destiny a proteggere Dytallix. Non allontanatevi a meno che sia assolutamente necessario» raccomandò. «Se tutto va bene, saremo di ritorno in pochi giorni».
   «A presto. Non temere, difenderò questo pianeta» promise la Comandante. «E buona fortuna per Giely. Se mai ci sono state due persone che meritano di ritrovarsi, siete voi» augurò.
   Un po’ rincuorato, il Capitano entrò nella navicella. Di lì a un minuto il Centurion decollò, pilotato da Shati. Attraversò il campo di forza dell’hangar, che tratteneva l’atmosfera, e uscì nello spazio. I raggi solari riverberarono sul suo scafo cromato. Il Centurion si allontanò dalla Destiny, manovrando in modo da non interferire con le altre navi in orbita. Infine rivolse la prua verso la Terra ed entrò a cavitazione, diretto verso la sua missione più ardua.
 
   Trascorsero tre interminabili giorni, senza che gli avventurieri avessero notizia del Capitano e della squadra. Non giunsero nemmeno notizie d’esplosioni catastrofiche nel sistema solare, e questo almeno era incoraggiante. Ma Losira sentiva che il fato dei Terrani, e forse di tutta la Confederazione, era ancora appeso a un filo.
   La mattina del quarto giorno, mentre si recava in plancia a prendere servizio, la Comandante ripassò mentalmente gli impegni della giornata. Non c’era molto da fare, ora che i profughi di Turkana erano sbarcati e la Destiny vigilava Dytallix. La intrigavano di più i progetti per la serata: una cena con Atrevius. Nonostante il suo proposito di mantenere le distanze, era innegabile che si fossero avvicinati nel corso di quell’anno. Sarà stato che erano in lotta contro una Galassia ostile, ma non potevano ignorarsi come se niente fosse. E lo scienziato, pur non facendole apertamente la corte, non aveva mai fatto mistero di tenere a lei. Dopo un anno d’attenzioni e gentilezze, si era meritato almeno una cenetta. E poi chissà, da cosa nasce cosa...
   I suoi pensieri s’interruppero bruscamente quando entrò in plancia; perché in quel preciso istante squillò l’Allarme Rosso. La Comandante guardò lo schermo e si sentì mancare. Un’enorme flotta era comparsa dal nulla e si avvicinava a gran velocità, in formazione d’attacco. Gli scafi triangolari erano inconfondibili: navi-drone della Confederazione. C’erano anche vascelli dal design più tradizionale, provvisti d’equipaggio. Nel complesso era la flotta più vasta e terrificante che la Risiana avesse mai visto; e puntava dritta su di loro.
   «Ah, sei qui! Sono arrivati adesso!» le disse Talyn, tutto agitato. «Rilevo trecentocinquanta navi-drone confederali e altre settanta con equipaggio. I ribelli sono soverchiati per sei a uno! C’è l’Hydra, la nave ammiraglia dei servizi segreti... e anche il Moloch, l’ammiraglia di Flotta!» aggiunse incredulo. Da quando Rangda vi aveva preso dimora, assieme ai suoi ministri, non era mai capitato che il Moloch si esponesse in un confronto armato. Anche adesso se ne stava al centro della flotta confederale, protetto su tutti i lati da centinaia d’astronavi. Invece l’Hydra era proprio in testa all’armata, come un ariete di sfondamento. E tra i difensori, l’unico vascello che poteva tenerle testa era la Destiny.
   «Tutti ai posti di combattimento!» ordinò Losira, affrettandosi alla poltroncina del Capitano. Prima di sedervi dette un’occhiata a Naskeel, in una muta richiesta di consiglio. In mancanza del Capitano, l’Ufficiale Tattico era il solo militare esperto che avessero in plancia.
   «Dobbiamo dare ai ribelli il tempo d’evacuare Dytallix» disse il Tholiano. «Un assedio avrebbe esito infausto, contro così tante navi, quindi devono fuggire. Imbarcheranno i civili e si disporranno dietro di noi, in ranghi serrati. I Pacificatori stanno assumendo una formazione a mezzaluna, nel tentativo d’accerchiarci. Dobbiamo sfondare i loro ranghi prima che siano in posizione ottimale e aprire la via di fuga per i nostri alleati. Anche così, questi ultimi avranno perdite ingenti» avvertì.
   «D’accordo» disse Losira, sudando freddo. Come aveva fatto una truffatrice come lei a cacciarsi in una situazione del genere? «Manteniamo la posizione, finché le navi della Catena saranno pronte a seguirci. Tenente, colpisca l’Hydra appena sarà nel raggio di tiro. Se la distruggiamo, forse il resto della flotta avrà uno sbandamento» disse, pur senza crederci troppo. La vera nave ammiraglia era il Moloch, irraggiungibile in mezzo a quello sciame d’astronavi. Passarono i secondi... lo scontro era imminente...
   D’un tratto la plancia si riempì d’allarmi; le consolle sembravano impazzite. «E adesso che succede?!» chiese Losira, i nervi a pezzi.
   Talyn corse alla postazione ingegneristica solitamente usata da Irvik. Vi dette un’occhiata e il suo volto sbiancò. «Non è possibile... rottura del nucleo quantico imminente!».
   «Che cosa?!» gemette Losira. Se il nucleo fosse esploso, la Destiny si sarebbe totalmente disintegrata. In casi del genere, l’unico modo di salvare le astronavi consisteva nell’espellere il nucleo, prima che avvenisse l’esplosione. Questo lasciava i vascelli senza energia, finché non s’installava un nuovo nucleo; cosa che loro non potevano certo fare. Quindi in ogni caso erano finiti. Ma tra i due mali, la rottura del nucleo era il più imminente e catastrofico.
   «Sala macchine a plancia, dobbiamo espellere il nucleo!» giunse la voce di un ingegnere, forse Gort. «Abbiamo solo sessanta secondi!».
   Losira si prese la testa fra le mani. Aveva promesso al Capitano di proteggere Dytallix, ma senza il nucleo non avrebbe protetto nemmeno la Destiny. Eppure che alternative aveva? Il nucleo stava per esplodere... doveva trattarsi di un sabotaggio. Se non lo espellevano, sarebbero tutti morti; non c’era nemmeno il tempo di correre alle navette. Fu così che la Risiana dette l’ordine che nessun Capitano o Comandante vorrebbe mai dare: «Espellere il nucleo».
   Gli ingegneri attivarono la sequenza, progettata apposta per essere rapida. Un portello a diaframma si aprì sullo scafo ventrale della Destiny. Le valvole d’emergenza si chiusero, i condotti si sigillarono: ogni trasferimento d’energia o materia tra il nucleo e il resto della nave fu troncato. Le ganasce d’attracco si aprirono e le micro-cariche esplosero, innescando l’espulsione. Il nucleo quantico scivolò fuori dal suo alloggiamento e si librò nello spazio, come un fragile cuore messo a nudo.
   «Dieci secondi alla rottura!» avvertì Talyn.
   «Allontaniamoci a impulso» ordinò Losira, sapendo che anche un’esplosione ravvicinata poteva essere fatale alla Destiny, ora che senza l’energia primaria gli scudi erano inattivi.
   L’astronave mosse in avanti, spinta dai propulsori. Si sarebbe allontanata in tempo? Passarono gli ultimi secondi: tre... due... uno... zero...
   Il nucleo, sempre più lontano, continuò a librarsi nello spazio. Non c’era stata alcuna esplosione.
   «Beh?!» fece Losira, quasi delusa. «Qualcuno mi spiega che frell succede?!».
   Talyn consultò ancora la postazione ingegneristica. «Non capisco, gli allarmi indicavano una rottura imminente... cause sconosciute... oh, no» mormorò. Alzò gli occhi spiritati su Losira. «Se non c’erano cause evidenti, e il nucleo effettivamente non è esploso, può significare una cosa sola. S’è trattato di un errore strumentale... anzi, di un sabotaggio. Qualcuno ha manomesso i sensori, per farci credere che il nucleo stesse per esplodere e indurci a espellerlo. Così siamo rimasti senza energia... e senza difese».
   La Comandante alzò gli occhi allo schermo. L’Hydra e il resto della flotta assalitrice erano vicinissimi. Non c’era tempo di recuperare il nucleo e reinstallarlo a bordo: questa procedura era assai più lunga dell’espulsione, richiedeva ore. Nel frattempo la Destiny rimaneva senza scudi, senza la maggior parte delle armi e senza cavitazione quantica. E ai Pacificatori bastavano pochi secondi di fuoco concentrato per distruggerla. Quindi... scacco matto.
   «Che fanno le navi della Catena?» chiese Losira.
   Talyn tornò rapidamente alla postazione sensori. «Hanno rilevato che siamo indifesi. Si stanno riposizionando su un’orbita bassa. Avranno capito che senza di noi non possono superare il blocco.
Ecco, hanno attivato lo Scudo Planetario. I ribelli sono in salvo, per adesso... pur essendo assediati».
   «E noi...».
   «Noi siamo troppo lontani dal pianeta. Ci troviamo all’esterno dello Scudo» confermò Talyn, con un groppo in gola.
   Angosciata, Losira tornò a guardare i Pacificatori, aspettandosi che aprissero il fuoco. Ma non fu così. L’Hydra si fermò a poca distanza dalla Destiny, fronteggiandola, mentre le navi-drone la circondavano.
   «Ci stanno accerchiando» confermò Naskeel. «Potrei tentare la fuga, ma non andremmo lontano con la sola propulsione a impulso».
   «Lasci stare» disse Losira con la bocca secca. Aveva comandato la Destiny per pochi giorni, e quello era il risultato. La sua decisione d’espellere il nucleo li aveva condannati.
   «L’Hydra ci chiama» informò Talyn.
   «Sullo schermo» ordinò la Comandante, intuendo ciò che li aspettava.
   Apparve un Remano, dal sinistro volto vampiresco e gli occhietti gialli. Indossava un’uniforme simile a quella dei Pacificatori, ma nera anziché bianca. «Sono il Direttore Nicrek, capo dei servizi segreti confederali» si presentò. «La vostra nave è indifesa. Avete un minuto per arrendervi, dopo di che la mia flotta aprirà il fuoco e vi distruggerà. Ogni navetta o capsula che tenterà la fuga sarà inseguita e distrutta. La vostra unica possibilità di sopravvivere consiste nella resa incondizionata. Arrendetevi e sarete risparmiati; fate gli eroi e morirete dal primo all’ultimo. La scelta è vostra, noi la rispetteremo. Un minuto, a partire da ora».
   E rimase ad aspettare.
 
   Sapendo di avere i secondi contati, Losira segnalò a Talyn d’interrompere il canale. «Mi spiace, devo cedere» disse a tutti i presenti. «Ma non lascerò che questa nave sia usata contro gli innocenti!» aggiunse.
   Per un folle attimo, Talyn temette che la Comandante attivasse l’autodistruzione. Ma no, tanto valeva rifiutare d’arrendersi. Invece Losira attivò l’oloschermo della poltroncina e inserì un codice di sicurezza per criptare i comandi. Lo scrisse, anziché dettarlo, così che nessun altro potesse rivelarlo ai Pacificatori, neanche sotto tortura. Infine passò la mano sul lettore di DNA per l’autenticazione finale. Subito le consolle si spensero, come se anche l’energia ausiliaria fosse venuta meno. Le poche interfacce ancora attive erano bloccate, e lo sarebbero rimaste finché qualcuno avesse inserito il codice di sblocco. Così almeno i Pacificatori non avrebbero potuto unire la Destiny alla loro flotta, per l’attacco a Dytallix.
   «Comandante, un’ultima cosa. Non possiamo lasciare la Scorpion in mano ai Pacificatori» avvertì Naskeel. Si riferiva alla nave organica che avevano trovato nello Spazio Fluido, e che da allora custodivano nell’hangar 2, studiandone il funzionamento.
   «D’accordo, portala via. Dovrebbe resistere al fuoco nemico» disse Losira. «Talyn, va’ con lui» aggiunse dopo una breve esitazione.
   «Ma...» protestò il giovane, che avrebbe voluto restarle accanto.
   «Andate, ho detto! Non c’è più tempo!» ordinò Losira, accennando alla flotta nemica sullo schermo.
   Talyn ripristinò il canale e lasciò la postazione, seguendo malvolentieri Naskeel fuori dalla plancia.
   Allora Losira si rivolse a Nicrek, che aveva già il braccio alzato, sul punto di ordinare l’attacco. «Qui Destiny, ci arrendiamo!» disse con voce stentorea.
   Il Remano lasciò ricadere il braccio. «Questa è la prima decisione sensata che avete preso da quando siete giunti nel nostro cosmo. Ora preparatevi all’abbordaggio» ordinò.
   «Mi levi almeno una curiosità: chi è il traditore?» chiese Losira. «Perché di certo avete infiltrato una spia a bordo. Una che vi ha trasmesso le coordinate delle basi ribelli, e che ci ha ingannati con la falsa rottura del nucleo. Allora, chi è?».
   «Non sono tenuto a risponderle» disse Nicrek. «Ma lo farò ugualmente, per farvi comprendere come la vostra insignificante rivolta non abbia mai avuto speranza di successo». Fece un cenno ai suoi ufficiali.
   «Teletrasporto in corso» avvertì un ausiliario della Destiny, che aveva sostituito Talyn. «Stanno recuperando la loro spia».
   Il bagliore del teletrasporto comparve proprio accanto a Nicrek, sulla sua plancia. Losira aguzzò la vista, per scoprire a chi dovevano la loro rovina. E quando lo riconobbe, avrebbe voluto strapparseli, gli occhi. Perché accanto al Remano c’era il dottor Atrevius, col suo sorriso gentile e rassicurante.
   «Salve, Losira. Mi spiace che tu debba scoprirlo nel peggiore dei modi, ma sì, la mia lealtà è sempre andata alla Confederazione democratica, anziché ai terroristi Imperiali che ti piacciono tanto» spiegò il Risiano, guardandola con genuino dispiacere. «In origine la mia missione era semplicemente infiltrarmi tra i detenuti di quella nave-prigione, il Pagh. Il piano era lasciare che si rivoltassero e prendessero il controllo dell’astronave. Così l’avrebbero guidata a una base della Catena Cremisi – forse proprio questa – e io avrei potuto segnalarne la posizione. A questo scopo, mi sono fatto asportare chirurgicamente una mano sana, sostituendola con questa protesi che contiene un micro-trasmettitore subspaziale». Così dicendo si afferrò il polso sinistro con la mano destra e, con un gesto raccapricciante, se lo svitò. In pochi attimi la mano artificiale venne via e lo scienziato la soppesò con l’altra.
   «I Pacificatori hanno sempre potuto tracciarmi, e in caso di necessità potevo anche inviargli dei brevi messaggi in codice binario» spiegò Atrevius, sempre sereno. «Così li ho informati che voi avventurieri avevate attaccato il Pagh, prendendomi a bordo. Era una fortuna insperata: invece di localizzare una sola base ribelle, potevo tracciarle tutte una dopo l’altra. Così è stato. Tra poco anche Dytallix cadrà e gli orrori della Catena Cremisi avranno fine». Il Risiano inspirò a fondo e sorrise, come se il pensiero lo rinvigorisse. Non c’era alcun rancore in lui, solo un profondo sollievo.
   «Oh, a proposito: sono sempre stato io a informare i Pacificatori della vostra missione nella Biblioteca Imperiale» aggiunse. «Così hanno potuto precedervi per tendere l’agguato alla squadra. Avreste dovuto capirlo allora, che non potete competere con noi, e lasciare questo cosmo. Invece vi siete lanciati in questa guerra privata, e cos’avete ottenuto? Il sostegno popolare alla Presidente Rangda è cresciuto e la Catena Cremisi sta per essere annientata. Quindi grazie per averci regalato la vittoria!» disse, agitando la mano artificiale in un bizzarro saluto.
   Losira ricadde sulla poltroncina del Capitano. Non si era mai sentita così annientata, nemmeno quando il suo Atrevius era stato ucciso e lei aveva dovuto fuggire da Risa. Come si poteva combattere un nemico che si lasciava allegramente mutilare per compiere una missione, peraltro senza nemmeno odiare coloro che condannava a morte?
   «Ha la sua risposta, Comandante» intervenne Nicrek. «Come vede, noi siamo disposti a sacrificarci per la libertà, più di quanto voi siate disposti a farlo per la dittatura. Ecco perché, anche se possiamo perdere qualche battaglia, alla fine vinciamo sempre le guerre».
 
   Fu allora che la Scorpion uscì dall’hangar della Destiny. Era piccola come una navicella, ma la sua tecnologia aliena era incomparabile. Creata dagli Undine, i misteriosi abitanti dello Spazio Fluido, era composta interamente da tessuti organici. In origine gli Undine la pilotavano creando un legame psichico; agli avventurieri erano serviti anni di studio e d’esperimenti per adattare i comandi a un pilota normale. E ora, pilotata da Naskeel, la navetta sfrecciò attraverso la flotta dei Pacificatori, schivando agilmente i grossi scafi.
   «Ma cosa... vi avevo ordinato d’arrendervi!» ringhiò Nicrek.
   «Oh, io mi sono arresa» rispose Losira, con un sorriso amaro. «Potete abbordare la Destiny senza incontrare resistenza. Ma non è colpa mia se quell’infido Tholiano ha deciso di rubare una navicella per fuggire. Sono certa che non avrete difficoltà ad abbatterla».
   «Attenzione, quella bionave è più potente di quanto sembra» disse Atrevius al suo superiore. «Vogliono impedirvi di studiarla».
   «Beh, fermatela!» ordinò il Remano ai suoi ufficiali. «Distruggetela se necessario, ma non lasciatela scappare!».
   Le navi dei Pacificatori attivarono i raggi traenti, che tuttavia non fecero presa sulla Scorpion. Questa infatti ruotava così velocemente le armoniche degli scudi da non permettere ai raggi di adattarsi. Dopo qualche tentativo infruttuoso, i Pacificatori aprirono il fuoco. Una ragnatela di raggi phaser si disegnò nello spazio, tutti diretti alla Scorpion. Ma la maggior parte mancarono lo sfuggente bersaglio e i pochi a segno si estinsero sui suoi formidabili scudi. In pochi secondi la bionave aveva già oltrepassato lo schieramento e puntava verso lo spazio aperto.
   Allora la flotta dei Pacificatori aprì il fuoco con i siluri. Decine di missili a ricerca automatica inseguirono la Scorpion, correggendo la traiettoria con la sua stessa agilità. In breve accorciarono le distanze. Ma prima che un solo siluro potesse centrarla, la bionave schizzò ad alta curvatura, mettendosi definitivamente in salvo. Privati di un bersaglio, i missili furono fatti esplodere a distanza dalla flotta; illuminarono lo spazio come fuochi d’artificio.
   Furioso, Nicrek tornò a fronteggiare gli avventurieri. «Questo affronto non resterà impunito!» minacciò. «Ora sarete abbordati. Alla minima resistenza distruggeremo la vostra nave. Se vi attenete agli ordini, passerete il resto della vita in celle d’isolamento. Se trasgredite, sarete gettati nello spazio come abbiamo fatto con gli Imperiali» minacciò il Remano. «Quanto a lei, Comandante, non vedo l’ora d’interrogarla. Ho molte domande da porle. Come funziona quella bionave, dove l’ha mandata... e soprattutto che ne è del Capitano Rivera» disse, per poi chiudere la comunicazione.
   Di lì a un attimo i Pacificatori si teletrasportarono sulla Destiny, a centinaia. Occuparono la plancia, la sala macchine e tutti gli altri punti nevralgici. Gli avventurieri dovettero alzare le mani e lasciarsi disarmare. Per il momento, tuttavia, non furono trasferiti sui vascelli nemici. Alcuni furono chiusi nelle prigioni di bordo, altri nei loro alloggi. Altri ancora furono radunati negli hangar, sotto la vigilanza armata dei Pacificatori. Allineati contro la parete della plancia, Losira e i suoi videro gli invasori che iniziavano la sequenza per reinserire il nucleo quantico nella Destiny, restituendole l’energia. Ben presto però i Pacificatori si accorsero che gran parte dei comandi era bloccata. Confabularono tra loro e cercarono di sbloccarli, passando da una consolle all’altra. Dopo vari tentativi falliti, fecero rapporto. Allora Nicrek in persona si teletrasportò a bordo.
   «Comandante, finalmente ci vediamo faccia a faccia» disse il Remano. «I miei ufficiali mi dicono che ha criptato i comandi, per impedirci di usare la Destiny. Probabilmente riusciranno a reinserire il nucleo con la procedura manuale. Ma anche con l’energia ripristinata, la nave rifiuterà di obbedirci, se lei non la sblocca».
   «E per cosa vorrebbe usarla? Magari per attaccare Dytallix? Preferirei distruggerla!» sibilò Losira.
   «È per questo che intendo tenere il suo equipaggio a bordo, finché non avrò il pieno controllo» rivelò Nicrek. «Se lei attiverà l’autodistruzione, anziché sbloccare i comandi, massacrerà i suoi sottoposti. Ancora una volta la scelta è sua».
   «E se non facessi né l’una, né l’altra cosa?» lo provocò la Risiana.
   «Non s’illuda» fece il Remano, scuotendo il capo. «Ora la trasferirò sull’Hydra, dove sarà interrogata. Sa, ho un’intera collezione di strumenti di tortura risalenti all’Impero Terrestre. La mia preferita è la Cabina del Dolore, che stimola i recettori nervosi per indurre una sofferenza inimmaginabile, pur senza danneggiare il corpo. In tal modo l’agonia continua all’infinito, senza che svenimenti o morte la interrompano. Ho visto i nemici più irriducibili che tradivano i loro cari, tutto ciò in cui credevano, e imploravano d’essere giustiziati, pur d’essere liberati da quel tormento. Sono curioso di vedere quanto ci metterà lei a spezzarsi. Oh, a proposito... a condurre l’interrogatorio non sarò io, bensì il suo caro Atrevius. È stato lui stesso a offrirsi volontario. Devo ammettere che è uno dei miei agenti migliori» commentò, con un sorriso sadico.
 
   Losira restò impietrita mentre il teletrasporto dell’Hydra la agganciava, trasferendola a bordo. Trovò ad attenderla delle guardie, che la scortarono lungo dei corridoi scuri. Per tutto il tragitto cercò di mantenere la sua dignità. Ma quando entrò nella sala di tortura e vide la Cabina del Dolore, simile a un cilindro trasparente, con accanto Atrevius che si sfregava le mani per l’impazienza, si sentì mancare. «CHE TU SIA DANNATO!» gridò, mentre la trascinavano a viva forza verso la Cabina.
   «Certo, anima mia... se questi strilli ti aiutano a sfogarti, fanne pure quanti vuoi» ridacchiò il Risiano. «Attenta allo scalino, quando entri» raccomandò.
   Losira si dibatté con tutte le sue forze, ma i Pacificatori la sollevarono di peso e la scaraventarono nel cilindro di trasparacciaio. Prima che lei potesse rialzarsi, la porta scorrevole si era già sigillata. La Risiana vi si gettò contro, tempestandola istericamente di pugni, ma sapeva che non avrebbe mai potuto sfondarla. Allora coprì Atrevius con tutti gli insulti che conosceva, ed erano tanti.
   «Mi spiace che tu pensi questo di me, anima mia» sospirò lo scienziato, recandosi alla consolle di controllo. «Ma devi capire che è stato il tuo odio irragionevole contro la Confederazione a condurti qui. Ora raccogli ciò che hai seminato». Si scrocchiò le dita e si mise al lavoro, impostando la sequenza di tortura.
   «Per parte mia, ti ho sempre amata, in entrambe le tue incarnazioni» proseguì il Risiano in tono fatalista. «Ma anche la tua alter-ego fece scelte sbagliate. Cominciò a passare informazioni alla Catena Cremisi, per aiutare i Terrani, finché io la scoprii. A quel punto non potei fare altro che denunciarla. Sai, quando ti dissi che avevo dovuto guardare mentre la torturavano a morte... non specificai che fui io a occuparmene. Accadde proprio in questa sala, con questa macchina. Beh, in realtà non la torturai proprio a morte... la Cabina non funziona così... ma abbastanza da provocarle danni cerebrali irreversibili. Dopo di che, praticarle l’iniezione letale fu solo un atto di pietà. E se ho fatto questo a lei... la mia adorata moglie, che amavo più della mia stessa vita... cosa non farò a te?!» esclamò, guardandola con sdegno.
   «Se la amavi tanto, potevi dimostrarglielo meglio» mormorò Losira, accasciandosi sul pavimento della Cabina. Le pareti ronzavano sempre più; era questione di secondi prima che si attivasse.
   «Spiacente, anima mia. Ma come dicono i Terrani, in tempo di guerra anche le leggi tacciono. Temo che questo comprenda anche la legge dell’amore» spiegò pazientemente Atrevius. Senza la minima esitazione, né rimorso, premette il comando d’avvio.
   Per un istante Losira provò un bizzarro senso di solletico in tutto il corpo, mentre le sue terminazioni nervose venivano sollecitate. L’attimo dopo le parve d’essere gettata viva in una fornace piena di metallo fuso. Strillò con quanto fiato aveva in corpo e si spezzò le unghie contro le pareti della Cabina, mentre la sua coscienza sprofondava in un Universo di puro, accecante dolore. 
 

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Capitolo 10
*** Homo homini lupus ***


-Capitolo 9: Homo homini lupus
 
   Uscito dalla cavitazione già occultato, il Centurion s’immise nell’orbita terrestre. Shati, che lo pilotava, dovette fare molta attenzione a evitare i numerosi satelliti e le astronavi in orbita. Per quanto avesse scelto una posizione sicura, ben al di sopra della zona più trafficata, e avesse impostato il computer per evitare le collisioni, non c’era modo d’evitare la spazzatura spaziale più minuta. L’Impero Terrestre, finché era durato, si era occupato di ripulire l’orbita dai rottami. Ma la Guerra Civile l’aveva lasciata ingombra di detriti, spesso finissimi: bulloni, schegge di metallo, veloci come proiettili e altrettanto perforanti. E la Confederazione non aveva mai fatto alcun tentativo di rimediare, per cui le collisioni erano all’ordine del giorno.
   «Ecco, siamo in orbita. Speriamo che quella spazzatura non ci danneggi. E speriamo che le collisioni non attirino l’attenzione» disse la timoniera.
   «Uh-uh» grugnì Rivera, osservando la Terra. Era la prima volta che la visitava, dopo la disastrosa incursione dell’anno prima, in cui aveva perso Giely. Il pianeta era sempre avvolto dalla cappa scura di polveri tossiche. Era appena iniziata la primavera nell’emisfero boreale, ma il clima era ancora rigidamente invernale, dato che la luce solare non passava. «Se penso che Giely è qui da un anno...» pensò il Capitano. Avrebbe voluto andare subito a salvarla, ma c’era una missione ancora più urgente. «Irvik, faccia una scansione approfondita del Centro Ricerche di Curvatura. Cerchi traccia della Molecola Omega» ordinò.
   L’Ingegnere Capo, che sedeva alla postazione sensori, fece quanto richiesto. Ben presto le sue scaglie si tinsero di blu, il colore della paura. «È come temevamo. Rilevo decine di Molecole Omega, e stanno aumentando. Il Centro è protetto da un campo di dispersione; dovremo infiltrarci per disattivarlo. Solo allora potremo teletrasportare Omega nella camera armonica. E c’è dell’altro: rilevo un insolito traffico spaziale. Centinaia di navicelle dei Pacificatori stanno lasciando il quartier generale sull’Himalaya e le altre caserme in giro per il mondo» avvertì.
   «Uhm, è strano che lascino la Terra così sguarnita, dopo averla presidiata per trent’anni. C’è un ordine generale d’evacuazione?» s’insospettì il Capitano.
   «Io non lo rilevo. Tra l’altro sono solo i Pacificatori ad andarsene... i trasporti mercantili e le navette private restano in orbita» notò Irvik.
   «E dove stanno andando i Pacificatori?» volle sapere Rivera.
   «Fuori dal sistema solare, di certo. Le loro navicelle balzano tutte a curvatura» rilevò il Voth. «Le direzioni sono diverse, ma paiono avere tutti una gran fretta d’andarsene».
   A queste parole Svetlana sussultò. «Stanno partendo anche dalla Luna? Da Marte? Dalle altre colonie del sistema?!» chiese con insolita agitazione.
   «Vediamo... sì, anche da quelle» si meravigliò Irvik. «Sembra un’evacuazione generale, anche se non c’è nessun avviso al riguardo, nessuna trasmissione».
   La Consigliera lasciò la sua postazione e fronteggiò il Capitano. «Se i Pacificatori stanno evacuando l’intero sistema solare, mentre tutti gli altri restano, c’è una sola spiegazione: sanno di un disastro imminente» disse. «Abbiamo peccato d’ottimismo, Capitano. Abbiamo pensato che l’esplosione a Despina fosse stata accidentale, ma non è così. Era un esperimento militare, come i test atomici di una volta. La Confederazione non ha creato Omega per avere energia illimitata. L’ha creata per impiegarla come arma di distruzione di massa. La Terra sta per essere distrutta, ecco perché i Pacificatori l’abbandonano come topi».
   «Ma i danni al subspazio...! Neanche i Pacificatori possono essere così ciechi!» obiettò Irvik.
   «I danni al subspazio fanno parte del piano!» ribatté la Consigliera. «Pensateci! Sono trent’anni che la Confederazione insegna che la curvatura danneggia il subspazio, tanto che ha imposto il limite di curvatura 5. Adesso di punto in bianco hanno riattivato il vecchio Centro Ricerche, con la scusa di sperimentare “una nuova propulsione che non danneggi il subspazio”, affermazione decisamente vaga. In realtà stanno creando Omega, non per produrre energia, ma per simulare un incidente di curvatura sulla Terra! Questo gli permetterà di ottenere tutti i loro obiettivi!». Svetlana prese a enumerare sulle dita, man mano che li elencava.
   «Primo: la Terra sarà definitivamente devastata. Così non sarà mai più un polo d’aggregazione per noi Umani e un simbolo della nostra riscossa.
   Secondo: Omega taglierà fuori l’intero sistema solare dal resto della Galassia, così che anche le colonie umane moriranno. Se le Molecole sono abbastanza numerose, persino le colonie sui sistemi stellari adiacenti verranno isolate.
   Terzo: Rangda potrà dare la colpa alla curvatura, dimostrandone la pericolosità. In tal modo potrà mantenere tutte le attuali restrizioni, accontentando le lobby ecologiste che finanziano la sua rielezione. Potrebbe persino accusare la Catena Cremisi di aver sabotato il Centro, provocando l’incidente, e così giustificare il proseguimento della guerra».
   Cadde il silenzio. Tutti ragionavano sulla teoria di Svetlana, accorgendosi di quanto fosse spaventosamente realistica. Infine il Capitano si schiarì la voce. «È un piano così diabolico che potrebbe essere vero. Del resto, Rangda non ha mai esitato a sacrificare interi mondi, pur di schiacciare il dissenso».
   A quelle parole Irvik si riscosse. «Se avete ragione, Omega sarà destabilizzata di proposito non appena i Pacificatori avranno completato l’evacuazione, cioè tra poche ore. Quindi dobbiamo agire con tempismo. Dobbiamo scendere in quel centro, disattivare il campo di dispersione, trasferire Omega prima che esploda e poi bombardare il complesso prima che ne creino altra».
   «Prima di tutto recuperiamo Giely!» fece Rivera, correndo alla consolle. Non voleva che la sua amata si trovasse sulla Terra, se – o quando – Omega fosse esplosa. «Cerchiamo segni vitali Vorta nella zona di Okinawa» disse, ricordando il suo indirizzo. Lui e l’Ingegnere armeggiarono coi controlli del teletrasporto.
   «Non ci sono Vorta in quell’area, provo a estendere il raggio» disse Irvik, inserendo le istruzioni. «Niente da fare... non rilevo un solo Vorta su tutto il pianeta. Forse Giely non è qui al momento».
   «E allora dov’è?!» sbottò il Capitano. Dette un’occhiata furiosa a Dautkha, l’ultimo ad averla vista.
   «Quando l’ho incontrata, lavorava per l’Ospedale Centrale di Okinawa e non si era mai mossa dalla Terra» spiegò il Letheano. «Poi è andata su Babel, per ritirare quel premio, ma pensavo che ormai fosse rientrata. Se non l’ha fatto, non so dove sia. Forse sta facendo conferenze su qualche altro pianeta».
   «Chi potrebbe saperlo?».
   «Vediamo... ricordo che il suo supervisore all’ospedale era la dottoressa Thorpe. Magari lei lo sa» suggerì Dautkha.
   «Aspen Thorpe?» chiese Svetlana, con una strana espressione.
   «Sì, perché? La conosce?» si stupì il Letheano.
   «Prendiamola a bordo, presto. Penserò io a interrogarla» disse l’Umana, con un’espressione indecifrabile.
   «Mi sto interfacciando coi registri dell’ospedale» disse Irvik, lavorando a velocità prodigiosa. «Questi sono gli elenchi del personale. Thorpe... Thorpe... eccola qui! Umana, 35 anni, primaria di pronto intervento. Non è in servizio al momento. Cerco di risalire al suo indirizzo... ci sono!». Il Voth s’interfacciò coi sensori, inserendo le coordinate che aveva appena trovato. «Al momento c’è una sola persona in casa sua. I segni vitali coincidono col suo profilo... dev’essere lei».
   «Energia» ordinò il Capitano.
   Il teletrasporto ronzò e nel bagliore azzurro si delineò una figura umana. Rivera impugnò il phaser, imitato da Dautkha, nel caso l’ospite avesse opposto resistenza. Terminato il trasferimento, la dottoressa Thorpe – in abiti civili – si guardò attorno disorientata. «Dove mi trovo?! Chi siete voi, perché mi avete sequestrata?!» si agitò. D’un tratto riconobbe Rivera, il cui volto era stato pubblicizzato dal gioco olografico Lotta per la Libertà in cui il giocatore doveva strangolarlo. Gli occhi della dottoressa si riempirono d’odio, d’orrore e di terrore. Per un attimo parve sul punto di gettarsi contro il Capitano, come per un riflesso condizionato; ma si trattenne nel vedere il phaser puntato contro di lei.
   «Voi! Vi riconosco, siete i macellai della Destiny!» sibilò la dottoressa. «Qualunque cosa pensiate d’ottenere sequestrandomi, non l’avrete. La Confederazione non tratta coi terroristi».
   «Non voglio un riscatto, solo un’informazione. Dov’è la dottoressa Eris?» chiese Rivera, usando lo pseudonimo di Giely.
   «Come?!» si stupì Aspen.
   «Non faccia l’indiana. Nell’ultimo anno lei è stata il supervisore della dottoressa Eris, una Vorta immigrata sulla Terra. Voglio sapere dove si trova ora questa persona!» intimò il Capitano.
   «Perché, che vuole farle? Non importa... da me non saprà niente!» dichiarò la Terrana.
   «Non sei cambiata, Aspen. La tua lealtà è sempre mal riposta, e la tua rabbia male indirizzata» commentò Svetlana in tono dolente, facendosi avanti.
   Nel vederla, Aspen rimase impietrita. «Tu! Allora è vero, ti sei unita ai tagliagole! Vecchia pazza... preferirei che tu fossi morta, piuttosto che vederti qui!».
   «Voi due vi conoscete?» si stupì il Capitano, passando lo sguardo dall’una all’altra. Solo allora notò la sorprendente somiglianza fisica tra le due. A parte gli occhi verdi e i capelli più corti, Aspen sembrava Svetlana, con trent’anni di meno.
   «Ci conoscevamo, un tempo» disse la Consigliera con malinconia. «Capitano, le presento mia figlia. Sì, proprio quella che mi ha denunciata e fatta arrestare per reati d’opinione, dopo aver registrato le nostre conversazioni».
   «Che altro potevo fare, mamma? Sei una Suprematista Umana, un pericolo per la società. E infatti ti sei unita a questa banda d’assassini!» accusò Aspen.
   «Questi assassini, come li chiami tu, hanno salvato migliaia di vite umane, che altrimenti sarebbero state stroncate da quelli come te. Hai aderito alla Petizione dei Diecimila, vero?» ribatté Svetlana, riferendosi allo studio che aveva bocciato il siero anti-sterilità, scatenando la caccia ai Figli della Cura.
   «Certo!» rivendicò Aspen con orgoglio. «Quel siero sperimentale sta facendo nascere migliaia di creature deformi, piene di difetti genetici. Sopprimerle è un atto di compassione!».
   «Noi abbiamo visto quei bambini, li abbiamo esaminati, ed è saltato fuori che sono perfettamente sani» intervenne Rivera, facendosi avanti. «È questo il vero motivo per cui li state sterminando, non è così? Non volete che la specie umana torni a crescere, volete farla estinguere».
   Per un attimo i due si fissarono negli occhi, come in una gara di volontà. Poi Aspen fece una smorfia disgustata. «Capitano Rivera... come fa a vivere con se stesso?!» chiese, sputando le parole come pezzi di ghiaccio. «Come fa a non farsi schifo da solo, ogni volta che si guarda allo specchio? Prima ha diffuso quel siero cancerogeno, spacciandolo per una cura miracolosa, approfittando dell’ignoranza della gente. Poi ci ha impedito di curare le sue vittime. Le ha prese sulla sua nave, usandole barbaramente come scudi mentre lanciava i suoi attacchi terroristici. Infine le ha deportate oltreconfine, per assicurarsi che partoriscano i mostriciattoli deformi, così che le sofferenze non abbiano fine. Lei... lei è l’essere più sadico e spregevole che sia mai esistito! Ma ciò che più mi fa orrore non è che esistano mostri come lei, no; è che quelle bestiacce le credono e le obbediscono» disse, guardando con disprezzo il resto della banda.
   Calò un silenzio teso. Fu Shati a romperlo, cercando come al solito di sdrammatizzare: «Sì, ma a parte questo, abbiamo anche dei difetti!».
   «Questa discussione non sta portando a nulla» disse Rivera, sapendo che avevano poco tempo.
«Lei, dottoressa Aspen, rimarrà in nostra custodia finché non ci dirà dov’è Eris. Se non me lo dice ora in modo civile, al ritorno sulla Destiny la affiderò al mio Ufficiale Tattico. È un Tholiano, e sa come spremere le informazioni» minacciò.
   A quelle parole, la Terrana ebbe un moto di terrore. «Finalmente ha gettato la maschera, Capitano. Se è tanto interessato alla mia collega, la informo che è oltre la sua portata. Non lavora più sulla Terra, se n’è andata da oltre un mese».
   «Dove?!» incalzò Rivera.
   «È stata reclutata nell’equipe del dottor Vash’Tot, quella smorfiosa» rivelò Aspen, gli occhi verdi pieni d’invidia. «Significa che vigilerà la salute della Presidente Rangda in persona».
   A quelle parole il Capitano si sentì perduto. Se Giely era davvero in quella gabbia di squali, quanto avrebbe resistito prima che la sua vera identità venisse a galla? E lui come poteva salvarla?
   «Rangda è sul Moloch, l’ammiraglia di Flotta» ricordò Dautkha.
   «Allora anche Eris sarà lì. Come dicevo, è fuori dalla vostra portata. Ah-ah-ah! Siete contenti, ora? Mi lasciate andare?!» sghignazzò Aspen.
   «No, dal momento che lei darebbe l’allarme» disse Rivera. «Finché non sarà tutto finito, rimarrà in nostra custodia. La tratteremo dignitosamente... per rispetto a sua madre» disse, dando un’occhiata a Svetlana. «Questo è tutto ciò che posso fare per lei. E ora, se vuole scusarci... dobbiamo salvare la Terra».
 
   Il Capitano ripose il phaser e si allontanò dalla prigioniera. Riunitosi ai compagni, prese a confabulare con loro. Negli ultimi minuti i Pacificatori avevano proseguito l’evacuazione e il numero di Molecole Omega era aumentato vertiginosamente. Ce n’erano già un centinaio e continuavano a crescere.
   «Salvare la Terra? Di che sta blaterando?!» chiese Aspen a sua madre. Svetlana glielo spiegò per sommi capi, ignorando i suoi moti d’incredulità. Dautkha rimase a sorvegliare la prigioniera, col phaser in pugno.
   Intanto Shati portò il Centurion in orbita geostazionaria sopra il Centro Ricerche di Curvatura e Irvik lo analizzò, cercandone i punti deboli. Gli avventurieri discussero del modo migliore per infiltrarsi. La fuga dei Pacificatori facilitava le cose, ma rimanevano i droni di sorveglianza. Il teletrasporto poteva portarli solo fino a un certo punto: il cuore dell’impianto era isolato dal campo di dispersione. Rivera e i suoi valutarono diversi percorsi, cercando d’individuare il più rapido; ma i sensori non penetravano la zona cieca e quindi non potevano fornire l’intera planimetria. Quale che fosse il tragitto, la squadra rischiava di trovarsi circondata dal nemico, senza poter risalire sul Centurion. E c’era l’incognita di Omega: quando sarebbe esplosa?
   Vedendo che gli avventurieri si armavano per scendere, Aspen gli si rivolse. «Allora fate sul serio! Anche supponendo che questa Molecola Omega esista, credete di poterla rubare?».
   «Non rubare. La trasferiremo a bordo e poi la neutralizzeremo» puntualizzò Irvik.
   «Come no! Io credo che vogliate rubare questa fonte d’energia e usarla come arma!» sostenne Aspen. «Ma così facendo, sarete voi a destabilizzarla e a farla esplodere. Provocherete il disastro che dite di voler scongiurare!».
   «Portatela via» ordinò il Capitano, intento a scaricare la planimetria del Centro nel tricorder.
   «Ti conviene sperare che io abbia successo, giovane ingrata!» esclamò Irvik, esasperato. «Sono l’unico in grado di gestire Omega. L’unico che possa salvare il tuo sciagurato pianeta! Se voi Terrani vedrete un altro giorno, lo dovrete a me!» rivendicò. Dopo di che tornò a concentrarsi sulla missione, ignorando la prigioniera.
   «In cella, svelta!» ordinò Dautkha, facendo segno ad Aspen di lasciare la cabina. Il Centurion, infatti, possedeva un piccolo vano isolato che in caso di necessità poteva fungere da prigione.
   Aspen si girò e finse di obbedire. Ma a un tratto gli si gettò contro e gli si avvinghiò, con la forza della disperazione. Ricordando i corsi d’autodifesa che aveva frequentato per anni, riuscì a usare la maggior forza del Letheano contro di lui, facendolo capitombolare a terra con una mossa di judo. In un attimo gli strappò il phaser e lo rivolse contro gli avventurieri. Sapeva di avere tempo per un solo colpo, prima che questi rispondessero al fuoco. E in cuor suo aveva già deciso chi uccidere: non il Capitano, bensì l’Ingegnere Capo, l’unico che poteva controllare Omega. Morto lui, gli altri sarebbero stati costretti ad abbandonare il loro folle piano.
   Nel suo stato sovreccitato, Aspen ebbe l’impressione che il tempo scorresse al rallentatore. Alzò il phaser contro Irvik, accertandosi che fosse settato per uccidere, e mirò al petto dell’Ingegnere. Vide il lampo di terrore nei suoi occhi e ne fu lieta. Era giusto che il Voth morisse così. Le dispiaceva solo di non avere il tempo per eliminare anche gli altri; ma confidava che uccidere l’Ingegnere bastasse. Premette il grilletto senza alcuna esitazione, certa di stare salvando la Terra.
   «NO!». Vista la mossa di sua figlia, Svetlana scattò di lato, facendo da scudo a Irvik. Si frappose sulla linea di tiro e ricevette il colpo sulla spalla sinistra, non lontano dal cuore. Si accasciò con un lamento soffocato.
   Per un attimo Aspen restò paralizzata. E quell’attimo le fu fatale, perché accanto a lei Dautkha si rialzò, schiumante di rabbia. Il Letheano le afferrò il polso e glielo torse, con tanta forza da spezzarlo. La Terrana gridò di dolore, mentre il phaser cadeva sul pavimento. Ma non era ancora finita. Furioso per l’accaduto, Dautkha le prese il volto tra le mani. L’elettricità si sprigionò dalle grinfie dell’alieno, crepitando sulla scatola cranica dell’Umana, che lanciò un grido straziante. Per un attimo il suo teschio balenò tra le scosse; poi Aspen si accasciò come una marionetta senza fili. Era accaduto tutto in una manciata di secondi.
   «Ma cosa...» mormorò Irvik, scioccato.
   «Quello era l’Attacco Neurale Letheano, una prerogativa della loro specie» riconobbe il Capitano. «Sugli Umani è letale nel 99% dei casi». La sua preoccupazione, tuttavia, riguardava Svetlana. Staccò la cassetta medica dalla parete e le si sedette accanto, cercando di soccorrerla. Le passò il tricorder sulla ferita, accorgendosi che le sue condizioni erano disperate. «Resisti, Svetta» disse, iniettandole un antidolorifico. Poi cercò d’arrestare l’emorragia e di stabilizzare il battito cardiaco, che era debole e irregolare. Shati lo aiutò, sebbene non fosse esperta di medicina.
   «Sono stanca... di quest’odio scellerato» mormorò la Terrana, il viso rigato di lacrime. «Gli antichi avevano ragione: homo homini lupus. Siamo come belve gli uni per gli altri».
   «Perché mi hai salvato?» chiese Irvik. Le s’inginocchiò accanto, prendendole la mano piccola e fredda tra le sue manone tridattile.
   «Perché hai dei figli a cui tornare. La figlia che avevo io, invece, è morta tanti anni fa» disse Svetlana con amarezza, guardando i resti accasciati di Aspen.
   In quella la Terrana più giovane fu scossa da un sussulto. Girò la testa verso sua madre, guardandola negli occhi. «Sono felice di ammazzarti, mamma, perché sei una Suprematista Umana e non meriti nient’altro» sussurrò, sebbene ogni parola le costasse una fatica immensa. «L’unica cosa buona che potete fare è... estinguervi... e lasciare la Galassia... a chi è migliore di voi...» mormorò. L’ultimo spasmo abbandonò il suo corpo. Gli occhi rimasero senza sguardo, un filo di saliva le colò dalla bocca. Era morta.
   «Guardate l’opera dei cattivi maestri» mugolò Svetlana, col cuore spezzato. «Vi supplico, fate che questa non sia l’ultima generazione umana. Dateci un’altra... possibilità...». Il suo corpo esile fu scosso dalle convulsioni; era in fibrillazione cardiaca e i compagni non riuscivano a stabilizzarla.
   «Ti giuro che lo farò» disse Irvik, commosso fino alle lacrime. «Salverò la Terra, la nostra comune patria. E se mai tornerò dai miei figli, gli racconterò di te, di quello che hai fatto...» promise.
   «Terra... firma...» disse Svetlana, un sussurro appena udibile. Infine chiuse gli occhi e ricadde inanimata. La sua mano sfuggì da quelle del sauro, che si ritrasse singhiozzando. Il tricorder medico emise un segnale d’allarme: la donna era in arresto cardio-respiratorio.
   Per parecchi minuti Rivera e Shati si affannarono al suo capezzale, cercando di rianimarla. Ma il Centurion non aveva le sofisticate attrezzature mediche della Destiny. Se avessero potuto portare Svetlana nell’infermeria dell’astronave, probabilmente l’avrebbero salvata. Stando così le cose, il Capitano dovette arrendersi all’evidenza. Richiuse il tricorder e si rialzò, il volto severo. «L’abbiamo persa» annunciò. «Dautkha, raccoglila e posala in una cuccetta. Se torneremo indietro, la nostra amica avrà un funerale come si deve. E già che ci sei, porta via quella... cosa» disse, accennando al cadavere di Aspen.
   Il Letheano sollevò delicatamente il corpo di Svetlana, lo portò in uno dei comparti posteriori e lo adagiò nella sua cuccetta, che richiuse. Poi tornò ad agguantare i resti di Aspen, gettandoli sbrigativamente nella prigione. Non li espulse nello spazio solo perché il Centurion era occultato e non dovevano farsi individuare. «Mi dispiace, ho fallito» ammise Dautkha quando fu di ritorno. «Giuro che se necessario darò la mia vita in questa missione».
   Rivera accettò l’impegno con un cenno del capo. Dopo di che radunò l’equipaggio del Centurion nel comparto posteriore. Oltre ai colleghi della cabina c’era anche il resto della squadra, che purtroppo non aveva fatto in tempo a intervenire durante il brevissimo scontro.
   «Avete visto cos’è accaduto. Una figlia ha ucciso la propria madre, credendo di fare del bene. Questo è l’effetto della Confederazione: oggi sui Terrani, domani sugli altri» disse il Capitano, passando in rassegna la squadra. «Dobbiamo fare in modo che il sacrificio di Svetta non sia vano. Adesso in quel Centro Ricerche ci sono centinaia di Molecole Omega, abbastanza da distruggere il subspazio nel raggio di svariati anni luce. Le raggiungeremo, distruggendo chiunque o qualunque cosa provi a fermarci. Poi le trasferiremo a bordo e le neutralizzeremo, ci volessero giorni. Nel frattempo bombarderemo il Centro, così che nell’immediato non possano crearne altre.
   So che nessuno di voi vorrebbe trovarsi qui; francamente non lo vorrei neanch’io. Ma siamo gli unici che possano salvare il sistema solare dalla catastrofe. E non solo questo sistema, badate bene! Perché se il subspazio è davvero unico, allora anche il nostro sistema solare è a rischio. Questa missione deciderà non solo le sorti dei Terrani, ma anche della nostra Federazione. Ecco perché dobbiamo farcela ad ogni costo. Ora diamoci una mossa, Omega non aspetta».
 
   Il Centro Ricerche di Curvatura era un edificio imponente, simile a una piramide a gradoni, con la sommità piatta su cui potevano atterrare le navette. Era curioso che una struttura così avveniristica avesse una forma tanto arcaica, ma in fondo era adatta a ottimizzare gli spazi. Costruito dall’Impero Terrestre, il Centro era sopravvissuto indenne alla Guerra Civile ed era rimasto in gran parte inalterato sotto la Confederazione. La vicina città di Bozeman, al contrario, era stata bombardata, trasformandosi in un ammasso di rovine abbandonate e pericolanti. Gli incendi avevano divorato i boschi circostanti. Nei decenni successivi l’oscurità, il freddo e le piogge acide avevano impedito la ricrescita della vegetazione, così che ancora adesso il Centro Ricerche sorgeva isolato in quella devastazione. Sebbene fosse pieno giorno, il sole appariva come un disco pallido nella foschia arancione.
   Un gruppo di tecnici uscì sulla cima piatta della piramide, dove li attendeva l’ultima navicella. Tutte le altre erano già decollate, portando via i loro colleghi. I ritardatari salirono in tutta fretta e partirono senza attendere alcuna autorizzazione. Spinta dai motori a impulso, la navicella prese quota e svanì nel cielo polveroso.
   Pochi attimi dopo la squadra del Centurion si materializzò sulla pista vuota, in cima alla piramide. Gli avventurieri erano scesi tutti, tranne il copilota che doveva riprenderli a bordo a missione compiuta. Avevano tutti i phaser in pugno, persino Irvik, anche se per il momento non si vedevano avversari. Rivera si guardò attorno, osservando il panorama desolato, con gli alberi carbonizzati sotto il cielo coperto. Tirava un vento gelido, come l’altra volta che era stato sulla Terra post-apocalittica.
   «Muoviamoci» ordinò il Capitano, affrettandosi verso un piccolo edificio costruito ai margini della pista. Entrò col phaser in pugno, seguito dai compagni. Lì trovarono degli ascensori che conducevano ai piani inferiori della piramide. Non fidandosi, per il timore di rimanere intrappolati da qualche sistema di sicurezza, presero le scale di servizio. Era una lunga scarpinata, ma almeno era in discesa. Dovevano scendere cinquanta piani, per raggiungere il livello giusto; e una volta lì c’erano ulteriori ostacoli prima d’arrivare alla camera di Omega.
   Come temevano, avevano appena iniziato la discesa quando squillarono gli allarmi. Restava da vedere se c’erano ancora delle guardie che potessero rispondere. «All’erta!» disse Rivera. Ogni volta che scendevano di un piano, incrociando la porta corrispondente, si aspettava un attacco. Non dovette attendere molto.
   Erano scesi di appena cinque piani quando si trovarono di fronte numerosi droni della sicurezza, simili alla sonda che un anno prima aveva attaccato la Destiny. La forma ricordava una medusa, che fluttuava grazie ai repulsori gravitazionali. Sul corpo centrale spiccavano dei fotorecettori rossi, mentre i numerosi “tentacoli” meccanici erano provvisti di armi. I droni dialogavano tra loro con un incomprensibile codice elettronico, per coordinare gli attacchi. Non appena videro gli intrusi, aprirono il fuoco; i loro phaser erano regolati per uccidere.
   La tromba delle scale divenne un campo di battaglia. Gli avventurieri colpirono ripetutamente i droni, ma questi avevano corazze in tritanio, così che servivano diversi colpi per abbatterli. I loro raggi, invece, erano letali sebbene gli avventurieri indossassero le tute semicorazzate dei Corpi Speciali.
   Vedendo alcuni dei suoi uomini migliori che cadevano attorno a lui, il Capitano si staccò un congegno dalla cintura e lo gettò in avanti, lasciando che rotolasse lungo i gradini. Non era una granata, ma una potentissima calamita, che si magnetizzò dopo aver percorso alcuni metri. I droni furono attirati, trovandosi schiacciati l’uno contro l’altro. Molti non potevano nemmeno sparare, a scanso di colpirsi a vicenda.
   «Fuego!» gridò Rivera, sparando col phaser a piena potenza. Il resto della squadra lo imitò, con phaser e fucili polaronici. I droni furono distrutti uno dopo l’altro, esplodendo con la violenza di granate. Una scheggia graffiò il Capitano sulla guancia, ma questi continuò a sparare, finché l’ultimo ordigno fu disintegrato.
   Gli avventurieri ripresero a scendere, passando fra i resti deformati e fumiganti dei droni. Shati ne colpì en passant uno ancora parzialmente attivo, distruggendolo del tutto. La discesa fu ancora lunga. Incrociarono altri droni, per fortuna isolati, tanto che non ebbero difficoltà a distruggerli con un fuoco concentrato. Infine raggiunsero il livello desiderato, il numero 47, in cui si trovava la camera di Omega.
   «Attenti» disse Rivera, accostandosi al portone che immetteva nel quarantasettesimo piano. Si aspettava che fosse sigillato, tanto che era pronto a usare gli Sfasatori Dimensionali: piccoli congegni che mettevano la materia “fuori fase”, permettendo di attraversarla. Ma si sbagliava di grosso. Appena si accostò alla porta questa si aprì, rivelando una squadra armata. Dunque non tutti i Pacificatori avevano evacuato il Centro! A capo del manipolo c’era una vecchia conoscenza: l’alter-ego di Shati, che avevano risparmiato durante l’incursione nel Palazzo Imperiale.
   «Ci si rivede, finalmente!» esclamò Shati-Specchio. Lei e la sua squadra presero di mira Rivera, che era allo scoperto davanti a loro, un bersaglio perfetto. Prima che potessero far fuoco, Dautkha si frappose, sparando a sua volta. Il Letheano falciò tre Pacificatori con un raggio prolungato, ma nello stesso attimo fu colpito dagli altri. Quattro raggi mortali lo centrarono in pieno petto, disintegrandolo. Nel frattempo Rivera si tuffò di lato, mettendosi fuori tiro. Scoppiò una nuova, feroce sparatoria. Gli avventurieri erano più numerosi, ma erano imbottigliati nelle scale e perciò non riuscivano a uscire.
   «Ve l’hanno detto che questo posto sta per esplodere?!» gridò Shati, sporgendosi temerariamente per sparare. Colpì una guardia, poi un’altra ancora. Erano rimaste solo in due, compresa la sua alter-ego.
   «Bugiarda!» ringhiò Shati-Specchio. In un impeto di rabbia spiccò un balzo felino, atterrando addosso alla sua sosia. La travolse col suo peso, facendola cadere all’indietro, nella tromba delle scale. Ma mentre si ribaltava, Shati l’afferrò per la coda, facendola cadere a sua volta. Persi i phaser, le due belve rotolarono avvinghiate giù dalle scale, cercando di lacerarsi con gli artigli e le zanne. Le tute semicorazzate le proteggevano solo in parte da quella lotta animalesca. «Andate avanti!» gridò Shati, prima che la sua voce si perdesse nei livelli inferiori.
   «Che facciamo, Capitano?» chiese Irvik, tentato di scendere per aiutarla.
   «Facciamo come dice» rispose Rivera, indurito dalla guerra. «Non abbiamo un attimo da perdere e siamo troppo pochi per dividerci in due gruppi». Abbatté l’ultimo Pacificatore, consentendo alla squadra di lasciare le scale. Con la perdita di Dautkha e Shati, erano rimasti in pochi.
   «Non so proprio come faremo, stavolta» mormorò il Voth.
   «Nemmeno io, ma non possiamo fermarci» ammise l’Umano. Dovevano neutralizzare Omega, anche a costo delle loro vite. Ciò che più lo addolorava era il pensiero che, se fossero morti lì, nessuno sarebbe poi andato a salvare Giely.
   «Mi spiace, amore mio... spero che capirai perché l’ho fatto» si disse Rivera, sempre più convinto che non sarebbe uscito vivo da lì. Corse in avanti col phaser in pugno, guidando la squadra nell’ultimo tragitto. Abbatterono ogni drone o Pacificatore che si parò loro davanti, calpestandone i resti di metallo o di carne, fino a raggiungere la camera di Omega. Il portone blindato era chiuso, ma lo superarono con gli Sfasatori Dimensionali. E finalmente sbucarono nel cuore pulsante dell’impianto.
 
   Era un vasto ambiente circolare, che sotto molti aspetti ricordava la sala macchine di un’astronave. Al centro, in luogo del nucleo, c’era la camera di contenimento di Omega. Aveva forma cilindrica ed era circondata da impalcature, su cui si poteva salire tramite scalette, per verificare la stabilità dell’impianto. C’erano consolle ovunque: sulle pareti, attorno alla camera di contenimento e anche sulle impalcature stesse. Dal cilindro semitrasparente promanava un’intensa luce bianco-azzurra: il fulgore di Omega.
   Gli avventurieri si guardarono attorno, constatando che non c’erano ingegneri. Dovevano essere fuggiti, dopo aver impostato i comandi. «Irvik, le Molecole!» ordinò il Capitano.
   L’Ingegnere Capo corse a una consolle di controllo, per verificare la situazione, mentre gli altri facevano la guardia coi phaser spianati, pronti a respingere ogni attacco. Rivera tolse gli Sfasatori dal portone, che tornò solido e impenetrabile. «Allora?!» chiese di lì a qualche minuto.
   «È peggio di quel che temevo. C’è un migliaio di Molecole Omega, abbastanza da lacerare il subspazio nel raggio di mezzo settore!» avvertì il Voth. «Per il momento sono stabili, ma c’è una sequenza di spegnimento automatico della camera di contenimento. Tra un’ora i campi armonici si disattiveranno. A quel punto niente potrà impedire a Omega di destabilizzarsi».
   «La nostra camera armonica può accogliere tutte queste Molecole?» chiese Rivera.
   «A malapena. Con l’energia limitata del Centurion, serviranno giorni per neutralizzarle tutte» avvertì Irvik.
   «Allora nel frattempo ci allontaneremo il più possibile dai mondi abitati» decise il Capitano. «Ora tolga il campo di dispersione, così potremo trasferire Omega».
   «Uhm, sì...» fece l’Ingegnere Capo, stranamente esitante. Passò da una consolle all’altra, talvolta toccando qualche comando, talvolta senza nemmeno sfiorarle. Intanto passavano i minuti.
   «Non per farle fretta, ma... c’è qualche problema?» chiese Rivera. Si passò una mano sulla fronte per togliere il sudore.
   «Temo di sì» disse Irvik con preoccupazione. «Qui non ci sono i comandi del campo di dispersione. Non riesco nemmeno ad accedere al programma, per creare un’interfaccia olografica temporanea. Dev’essere tutto criptato da una sala controllo».
   «Aspetti, che sta dicendo?!» fece Rivera. La fatica e il dolore delle ultime ore gli rendevano difficile concentrarsi.
   «Dico che qui ci sono solo i controlli di Omega!» chiarì il Voth. «Quelli del campo di dispersione devono essere altrove. Probabilmente sono nel centro di comando, al pianterreno. E se non riusciamo a disattivare il campo...».
   «... non possiamo trasferire Omega» concluse Rivera. Guardò la sua squadra, già falcidiata dagli scontri, e si sentì stringere il cuore. Sarebbero riusciti a raggiungere il centro di comando, tanti livelli più in basso? Una volta lì, avrebbero trovato i controlli del campo? E se mentre loro erano lontani Omega si fosse destabilizzata? Dividersi in due gruppi restava fuori questione: erano troppo pochi, sarebbero stati spazzati via al primo attacco. Quindi che fare?
   «Rivera a Shati, mi senti?» chiese il Capitano, premendosi il comunicatore. «Rivera a Shati, rispondi!» esclamò, sperando in un miracolo. Non ebbe risposta. «Pensiamo che i controlli del campo di dispersione siano nel centro di comando al piano terra. Se puoi sentirmi, vai lì. Noi arriveremo il prima possibile...».
   In quella squillò un allarme. Irvik corse alla consolle principale; gli bastò un’occhiata perché le sue scaglie trascolorassero al blu.
   «E adesso che succede?!» chiese Rivera, esasperato.
   «Il campo di contenimento s’indebolisce. Ma non è colpa di Omega; è che l’energia viene dirottata altrove. Credo... che stiano cercando di spegnerlo dal centro di comando, per anticipare l’esplosione» rivelò il Voth.
   «Li può fermare?».
   «Ci sto provando!» fece Irvik, già all’opera. Passò da una consolle all’altra, lavorando a una velocità impressionante. Prese a riscrivere manualmente interi programmi del computer, per dirottare i controlli alle sue postazioni, sottraendoli al centro di comando. Era una lotta informatica senza esclusione di colpi. E non era l’unica...
   Con un sibilo il portone blindato si aprì, rilasciando un nugolo di droni, che aprirono il fuoco sugli avventurieri. Questi non poterono far altro che rispondere all’attacco. Il laboratorio divenne un campo di battaglia, con raggi phaser che balenavano ovunque, rischiando di danneggiare la camera di contenimento. Sentendo il fracasso, Irvik si girò e imprecò, per poi tuffarsi di lato. Il raggio phaser indirizzato a lui lo mancò, ma in compenso squarciò la consolle a cui stava lavorando. Il Voth rotolò a terra, nascondendosi dietro a una postazione più massiccia. «Capitano, stavolta non ne usciamo vivi!» gridò.
   Rivera dovette dargli ragione. Quella missione era stata troppo audace; non erano abbastanza numerosi per portarla a termine. Del resto come potevano stabilizzare Omega, quando i loro avversari cercavano volontariamente di farla esplodere? Era come affrontare l’entropia, come sfidare la morte stessa; non potevano riuscire. Era stata una follia il solo pensarci.
   Uno dopo l’altro, il Capitano vide cadere i suoi fedeli, falciati dal fuoco implacabile dei droni. Anche molti ordigni furono distrutti, ma per ogni drone che veniva eliminato, un altro prendeva il suo posto. Dovevano essercene centinaia nella base; non li avrebbero mai distrutti tutti. Ben presto l’Umano e il Voth rimasero soli.
 
   «Beh, Capitano... chi l’avrebbe detto che sarebbe finita così?» commentò Irvik. Stava ancora cercando di stabilizzare Omega, mentre Rivera – con un phaser in ciascuna mano – lo proteggeva dai droni.
   «Mi dispiace, amigo» disse l’Umano, certo dell’imminente fine. «Non dovevo trascinarti in questa missione suicida. Ho sbagliato tutto. Mi spiace per te e per la tua famiglia» confessò.
   «Non è colpa tua, abbiamo tutti sbagliato i calcoli» riconobbe il Voth. «Anche a me dispiace per te e Giely. Eravate una bella coppia, meritavate di tornare insieme».
   Il Capitano aprì il fuoco con ambo i phaser, disintegrando l’ennesimo drone. Per il momento il loro attacco cessò, ma con ogni probabilità si stavano raggruppando per l’assalto finale.
   «Sai, prima di morire devo farti una confessione» disse Rivera.
   «Sentiamo».
   «All’inizio del nostro viaggio, durante lo scontro con gli Undine, il loro capo mi propose un accordo» rivelò il Capitano. «Si offrì di riportarci tutti nel nostro Universo, se in cambio gli avessimo lasciato la Destiny».
   «E non hai accettato?!».
   «Non mi fidavo di lui, temevo un inganno» spiegò Rivera. «E poi non volevo lasciargli l’astronave. Non volevo che gli Undine studiassero ulteriormente la nostra tecnologia, né che usassero la Destiny come esca per catturare altri equipaggi, come fecero con noi».
   «Già, già... sembrano argomenti sensati» ammise Irvik. «A chi l’hai detto, finora?».
   «A nessuno, neanche a Losira o a Giely. Tu sei il primo» rivelò il Capitano. «Sono passati tre anni da quella scelta, e non è passato giorno senza che la rimettessi in discussione. Ogni volta che perdo qualcuno dell’equipaggio, mi trovo a pensare di aver sbagliato. Ho sacrificato le persone sotto la mia responsabilità, solo per scongiurare un male ipotetico e distante. Mi dispiace per averlo fatto e anche per non avervelo detto, come se nascondere la verità potesse lavare il mio peccato».
   Ci fu un breve silenzio, dopo di che il Voth inspirò a fondo. «Hai fatto quello che ritenevi giusto, senza avere il tempo e le informazioni per prendere una decisione più ponderata. Anche se mi dolgo per com’è finita, non me la sento di condannarti. Per quel che vale, ti perdono» disse.
   «Grazie, amigo» fece Rivera, un po’ sollevato.
   «E visto che siamo in vena di confessioni... anch’io ne ho una» disse Irvik a sorpresa.
   «Su, spara».
   «Avrai notato che, anche se dico sempre di voler tornare dalla mia famiglia, in realtà non ne parlo mai. Voglio dire, non racconto aneddoti su mia moglie e i miei figli» spiegò il Voth.
   «Sì, l’ho notato. Pensavo che non ti andasse di raccontare fatti privati» disse l’Umano. Ricordava vagamente che Irvik aveva due figli, un maschio di nome Dryos e una femmina di nome Psitta, ma in effetti non sapeva altro di loro.
   «Non è solo per quello. Vedi, la realtà è che io e Maia abbiamo divorziato subito dopo la nascita della nostra secondogenita» rivelò Irvik. «All’epoca ero tutto concentrato sul lavoro, in particolare sulla progettazione dei nuovi Borg-Killer. Non mi restavano tempo ed energie per i miei cari. Pensa che spesso dormivo in laboratorio, passando interi giorni senza nemmeno vederli. E invece quello era il periodo in cui avevano più bisogno che fossi presente! Ma fui così cieco da capirlo solo quando Maia mi spedì la lettera di divorzio. Scrisse che di fatto vivevamo già separati, quindi non restava che formalizzare la cosa. La implorai di ripensarci, ma era troppo tardi; ormai l’avevo persa. Sai come funziona il divorzio, tra noi Voth?».
   «Beh, no» ammise Rivera.
   «Anche lì siamo tradizionalisti, come in tutto. I figli stanno con la madre; il padre paga un assegno di mantenimento e li vede sì e no una volta alla settimana» spiegò Irvik, scuro in volto. «Mi sono perso tutta l’infanzia dei miei figli. Non li conosco affatto, non so che persone stiano diventando. E loro non conoscono me. Sanno solo ciò che Maia gli racconta, e dubito che siano storie lusinghiere. Speravo che, quando fossero stati più grandi, avrei potuto incontrarli più liberamente e riparare il rapporto, per quanto possibile. Ma non sarà così... morirò senza averli rivisti, senza avergli detto quanto tengo a loro» disse, soffocando un singhiozzo. «Non l’ho mai detto a voi della Destiny, perché mi vergognavo d’essere stato un fallimento come padre. Dopotutto sono un Voth... e a noi non piace ammettere i nostri errori. Ah, che stupidi boriosi! Voi mammiferi fate bene a ridere del nostro orgoglio».
   «Non potrei mai ridere di te» disse Rivera. «Sei uno dei pochi professionisti nel mio scalcagnato equipaggio. Se siamo durati tanto, è merito tuo. Semmai sono io che vi ho delusi».
   Dal portone spalancato venne un ronzio e fecero capolino i droni, segno che la fine era imminente. L’Umano e il Voth si scambiarono un’occhiata d’intesa e strinsero i phaser, decisi a combattere fino all’ultimo.
 
   D’un tratto i droni si ritirarono, mentre squillava un allarme sconosciuto. «Beh?!» fece il Capitano, non sapendo come interpretare la cosa.
   Accanto a lui, l’Ingegnere Capo tornò a consultare la consolle. «Non stanno più dirottando l’energia del contenimento. Meglio ancora... il campo di dispersione è disattivato! Possiamo trasferire Omega!» disse incredulo.
   «Ma... non sei stato tu?».
   «No! Te l’ho detto, queste cose si possono fare solo dal centro di comando!» ribadì il Voth. «E ora... ci stanno chiamando». Attivò un oloschermo per rispondere. Rivera, che gli stava dietro, vide due orecchie feline drizzarsi sopra la testa del Voth per effetto della prospettiva. Gli girò attorno e vide Shati inquadrata a mezzo busto sullo schermo. La Caitiana era coperta di graffi, che le arrossavano la pelliccia, ma la luce di trionfo negli occhi gialli indicava che la sua alter-ego era finita peggio.
   «Siete vivi!» gioì la timoniera.
   «A malapena, ma tu...». Il Capitano s’interruppe, notando che Shati indossava la tuta dei commando Pacificatori.
   «Niente paura, sono proprio io. La mancanza di coda può dimostrarlo. E se non vi fidate neanche di quella, vi reciterò per filo e per segno le nostre disavventure, quando torneremo sul Centurion» promise Shati. «Per il momento, accontentatevi del fatto che vi ho salvato la vita».
   «Sei nel centro di comando? Come hai fatto?» chiese Rivera, mentre Irvik tornava ad accertarsi che le Molecole Omega fossero abbastanza stabili per il teletrasporto.
   «In realtà è stato facile. A parte quel manipolo di guardie, qui restano solo i sistemi automatici di sicurezza» spiegò la Caitiana. «Eliminata la mia alter-ego, ho indossato la sua uniforme. Quella, e l’esame del DNA, sono bastate a farmi accedere al centro di comando. A quel punto ho richiamato i droni e ho disattivato il campo di dispersione. Però non so quanto tempo abbiamo, prima che qualcuno da fuori si accorga dell’accaduto e sovrascriva i miei ordini. Fate presto!».
   «Ci siamo» disse l’Ingegnere Capo, premendosi il comunicatore. «Irvik a Centurion, rientro per la squadra!». L’attimo dopo lui e Rivera furono avvolti dal bagliore azzurro del teletrasporto. Lo stesso avvenne a Shati nel centro di comando. Si materializzarono fianco a fianco, sulla navicella.
   «Siete tornati in pochi» notò il copilota, un grosso Orioniano, che li aveva trasferiti.
   «È stata dura» confermò il Capitano, asciugandosi il sangue che gli colava dal graffio sulla guancia. Poi si rivolse alla timoniera. «Ben fatto, Shati. Stai bene?» si preoccupò, vedendo quanto la Caitiana fosse ferita e scossa dopo il confronto con la sua alter-ego. La tuta bianca, sottratta alla sosia, era macchiata di sangue.
   «Io... starò bene» rispose la timoniera, quasi accasciandosi tra le sue braccia. «Ho dovuto tirare fuori il peggio di me, là sotto. Spero... di non doverlo fare mai più».
   Rivera la accompagnò fino alla sua cuccetta, lasciandole un rigeneratore dermico affinché potesse curarsi le ferite. Poi tornò verso la cabina, ma si fermò a metà strada, nel comparto occupato dalla camera armonica. Irvik era lì e armeggiava con la consolle.
   «Ci siamo, teletrasporto in corso!» disse il sauro emozionato.
   Il Capitano vide il globo illuminarsi dall’interno di una luce bianco-azzurra, simile a quella emanata dal cilindro nel Centro Ricerche. Il teletrasporto fu più lungo del normale, data l’estrema complessità delle Molecole Omega. Diverse spie lampeggiarono sulla consolle, ma Irvik sembrava padrone della situazione. Infine tutto si calmò.
   «È fatta. Abbiamo tutte le molecole a bordo – circa un migliaio – e sono stabili» annunciò l’Ingegnere Capo.
   Rivera osservò la camera armonica e vide ciò che, fino a quel momento, gli era sfuggito. Le Molecole Omega si disponevano ordinatamente a formare un complesso poliedro, visibile a occhio nudo. Infinita complessità in infinita armonia, come aveva detto qualcuno secoli prima. Ma era un traguardo che avevano raggiunto a caro prezzo.
   «Congratulazioni, amigo. Ora ci resta un’ultima cosa da fare» disse il Capitano. Tornò in cabina e sedette alla postazione tattica.
   «Per trasferire Omega siamo usciti dall’occultamento. Una nave-drone si sta avvicinando, dobbiamo andare» avvertì il copilota, le mani già sui comandi.
   «Aspetta!» lo fermò Rivera. Se il Centro Ricerche restava intatto, ai Pacificatori bastavano pochi giorni per sintetizzare nuove Molecole Omega, e la missione sarebbe stata vana. Bisognava guadagnare più tempo. Fortunatamente il Centro sorgeva in un’area spopolata, tra la foresta carbonizzata e la città fantasma. Il Capitano prese di mira la struttura piramidale, agganciandola coi sensori di puntamento. «Scusa, dottor Cochrane, ma non ho alternativa» mormorò, e lanciò due siluri gravimetrici.
   I missili calarono nell’atmosfera polverosa, scomparendo alla vista, ma l’Umano ne seguì il tragitto coi sensori. Ben presto giunsero a bersaglio. Il Centro Ricerche di Curvatura fu obliterato da un’immane esplosione. La piramide si disintegrò fino alla base, mentre gli alberi carbonizzati caddero come fiammiferi, formando una raggiera attorno al punto dell’esplosione. L’onda d’urto investì la vicina città fantasma, abbattendone i ruderi. Una colossale fiammata a forma di fungo s’innalzò nell’atmosfera, spazzando via le polveri circostanti. Era uno schiarimento temporaneo e presto il cielo sarebbe tornato a coprirsi, ancor più di prima. Ma era l’unico modo per impedire un cataclisma assai peggiore.
   «Qui abbiamo finito» disse Rivera. Lasciò la postazione tattica, per occupare quella del timoniere. Lui e il copilota portarono il Centurion fuori dall’orbita terrestre, dirigendo verso lo spazio aperto. Ma la nave-drone era ormai vicina, tanto da aprire il fuoco. I suoi phaser balenarono due volte, colpendo gli scudi del Centurion, che il Capitano aveva alzato.
   «Groan, con la camera attiva gli scudi saranno al minimo» borbottò Rivera, cercando di schivare i raggi phaser.
   «Tranquilli» disse Irvik, entrando in cabina. «Ora che Omega è stabile, la camera produce energia. Così ho indirizzato l’output agli scudi. Vediamo... siamo al 1.000%, niente male!» lesse, consultando la consolle tattica. Il Centurion vibrò per un altro colpo, ma gli scudi dieci volte più forti del normale resistettero.
   «Ah-ah, se non ci fossi, dovremmo inventarti!» rise il Capitano, impostando la cavitazione quantica.
   Vista l’inefficacia dei phaser, la nave-drone lanciò dei siluri a grappolo, che si aprirono a metà strada. Forse nemmeno gli scudi iper-potenziati del Centurion lo avrebbero protetto da questo attacco. Ma in quella la navicella balzò a cavitazione, sottraendosi all’inseguimento. I siluri si disattivarono, perdendosi nello spazio. La nave-drone cercò di rilevare la traccia dei fuggitivi, ma senza esito. Così riprese l’orbita attorno alla Terra, trasmettendo un rapporto al Comando dei Pacificatori. Migliaia di chilometri più in basso, l’esplosione si allargava come un ombrello nella stratosfera. Il Centro Ricerche era polverizzato e il sistema solare era salvo... per ora.
 
   «È fatta» sospirò Rivera, abbandonandosi sulla poltroncina del pilota. «Saremo di ritorno a Dytallix tra due giorni».
   «Uhm, due giorni non basteranno a neutralizzare tutte le Molecole Omega» ragionò Irvik. «Comunque per allora ne rimarranno poche. Se la camera armonica non dà problemi, penso che potremo avvicinarci al pianeta».
   «Bene, fino ad allora possiamo tirare il fiato» disse il Capitano.
   I due affidarono la cabina al copilota e tornarono nello scomparto di Omega. Le molecole brillavano attraverso il guscio semitrasparente della camera armonica. Rivera non resistette alla tentazione di sfiorarlo con una mano. Poi si rivolse a Irvik: «Ehm, riguardo a ciò che ti ho detto prima... al fatto che potevo accordarmi con gli Undine... gradirei che non ne facessi parola col resto dell’equipaggio. Molti non capirebbero».
   «D’accordo, Capitano. Anch’io – uhm – apprezzerei se non raccontassi in giro la mia situazione familiare» disse Irvik. «Magari un giorno ne parlerò con altri, ma prima vorrei sentirmi pronto».
   «Intesi». I due si scambiarono una stretta di mano, dopo di che rimasero ancora per un poco a osservare Omega. Dalla camera armonica si levava un tenue ronzio ritmico, come un battito cardiaco.
   «Che succederà quando torneremo a Dytallix?» chiese a un tratto l’Ingegnere Capo. «Voglio dire, Rangda sarà informata di ciò che abbiamo fatto sulla Terra. Come credi che reagirà? Potrebbe fare qualche altra azione inconsulta?».
   «Non vedo così lontano» ammise Rivera. «Certo che da Rangda ho imparato ad aspettarmi sempre e solo il peggio. Tornati a Dytallix dovremo conferire subito con Wolff e gli altri capi ribelli. Dobbiamo pianificare le prossime mosse».
   Il Capitano pensò a Giely, e in quel momento la Vorta gli parve più irraggiungibile che mai. Era troppo stanco per progettare una missione di salvataggio, e del resto non se la sentiva di guidare un’altra squadra della Destiny in una missione suicida come quest’ultima. Avevano avuto troppe vittime, che di certo avrebbero pesato negativamente sul morale di un equipaggio già provato da un anno di continue battaglie. «E dobbiamo ancora seppellire Svetta» pensò Rivera con una fitta di tristezza. Almeno erano riusciti a esaudire la sua ultima, accorata preghiera: la Terra era salva.
   Esausti, l’Umano e il Voth si ritirarono nelle rispettive cuccette, per curarsi le lievi ferite e infine riposare. Non sospettavano che al ritorno avrebbero trovato Dytallix assediato e la Destiny occupata dai Pacificatori. 
 

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Capitolo 11
*** Mors tua, vita mea ***


-Capitolo 10: Mors tua, vita mea
 
   «Rapporto, Ammiraglio» ordinò Rangda. Come al solito la dittatrice si trovava in infermeria, impegnata nella sua vana lotta contro il tempo. Era stesa sulla poltroncina reclinata, coi tubicini conficcati ovunque, per aspirare gli accumuli di tossine. Il dottor Vash’Tot le si avvicinò con un ipospray e le aspirò un accumulo linfatico sul collo, provocandole una smorfia.
   Poco lontano, Giely controllava i parametri vitali su uno schermo parietale. Da quand’era sul Moloch, la Vorta aveva cambiato look, ispirandosi in parte ai colleghi medici e in parte a certi cattivi delle Avventure di Capitan Proton. Adesso portava sempre degli occhialini tondi e scuri, che potenziavano la sua mediocre vista, e dei guanti neri e lucidi. Sopra l’uniforme medica portava un camice bianco con innumerevoli taschini, pieni degli strumenti più disparati.
   «Dytallix è assediato, Vostra Eccellenza» disse Radek, giunto a fare rapporto con alcuni collaboratori. «Abbiamo saggiato la resistenza dello Scudo Planetario e riteniamo di poterlo abbattere nel giro di un’ora. A quel punto potremo ingaggiare la flotta nemica. La battaglia sarà impegnativa, dato che i ribelli hanno ricevuto armi moderne dai Romulani».
   «Ma è certo che vinceremo?».
   «Sì, signora Presidente. Le nostre perdite sono valutate al 20% della flotta».
   «Accettabile. Che aspetta a lanciare l’attacco?!». Rangda s’irrigidì mentre i medici prendevano a staccarle i tubicini dal corpo.
   «Siamo ancora alle prese con la Destiny, Vostra Eccellenza».
   «Ancora quella nave! Ormai è nostra, che problemi può dare?».
   «Intanto dobbiamo capire dove siano finiti il Capitano Rivera e alcuni suoi ufficiali» spiegò l’Ammiraglio. «Il nostro infiltrato sostiene che siano andati a trattare coi Romulani, o almeno questo è ciò che Rivera ha detto prima di partire. Dobbiamo stabilire se è vero. Non sarebbe prudente lanciare un assalto, per poi trovarci una flotta romulana alle spalle».
   «Bah! I Romulani non oseranno mai entrare in guerra aperta con noi!» disse la Zakdorn, sprezzante.
   «Inoltre la Comandante Losira ha criptato i comandi della Destiny, per impedirci di usarla» proseguì Radek. «Non siamo ancora riusciti a sbloccarli, dato che i loro computer – ehm – sono più evoluti dei nostri. Comunque abbiamo già reinstallato il nucleo quantico con la procedura manuale. Ci occorrono solo quei codici... il nostro agente se ne sta occupando... e potremo aggiungere la Destiny alla nostra forza d’attacco».
   A queste parole Giely si sentì stringere il cuore, anche se esteriormente non lasciò trapelare nulla. Se Losira aveva criptato i comandi, e i Pacificatori intendevano sbloccarli, ciò significava che la stavano torturando.
   «Uhm... non possiamo perdere troppo tempo per un’unica nave, sia pur di valore» rimuginò Rangda. «Vi do ancora un giorno. Se per allora la Destiny non sarà operativa, distruggetela. Possiamo travolgere i ribelli anche senza!».
   «E dell’equipaggio, che ne facciamo? Per il momento sono ancora a bordo, sotto custodia» disse l’Ammiraglio. Giely ascoltò ancora più attentamente, pur fingendosi affaccendata per l’infermeria, sfruttando l’udito finissimo dei Vorta.
   «Se riuscite a sbloccare i comandi, giustiziate gli ufficiali e mandate gli altri ai campi di lavoro. Altrimenti che restino tutti a bordo, così periranno con la loro astronave. È poetico, non trova?» fece la Zakdorn.
   «Ricevuto. Altri ordini?».
   «Solo una raccomandazione» ammonì Rangda. «Quando lanceremo l’attacco a Dytallix, e abbatteremo lo Scudo, i ribelli tenteranno certamente la fuga. Potrebbero suddividere la loro flotta in piccoli gruppi, ognuno con una destinazione diversa, sperando che alcuni la scampino. Quindi dovete impegnarvi a distruggere più navi possibile, e inseguire quelle che fuggono. In particolare è di vitale importanza eliminare il loro leader. Uccidete Jaz’Gavad e la Catena Cremisi non si riprenderà dal colpo».
   A quel nome sconosciuto, Giely aguzzò ancor più l’udito. Il capo dei ribelli non si chiamava Jack Wolff? Di chi stava parlando la dittatrice?!
   «Eccellenza... forse intendete Jack Wolff» disse l’Ammiraglio, altrettanto sorpreso. «Jaz’Gavad era il fondatore dell’organizzazione. Lo abbiamo eliminato dieci anni fa. Da allora c’è Wolff al comando» le ricordò.
   «Certo, Jack Wolff! Perché, io che ho detto?!» fece la Zakdorn, come se fosse stato l’interlocutore a confondersi. «Adesso vada a fare ciò che le ho detto. Ah, un’altra cosa: avete solo 24 ore per sbloccare i comandi della Destiny. Se non ci riuscite, silurate quella dannata astronave. Potete andare».
   «S-sì, Eccellenza» balbettò Radek, inchinandosi. Tutti i presenti avevano notato che Rangda si era ripetuta, come se avesse scordato di avere già impartito quell’ordine. Nessuno, tuttavia, osò farlo notare.
 
   I Pacificatori si ritirarono in silenzio dalla sala di cura. Quando fu il momento di lasciare l’infermeria, però, Radek fece uscire i suoi collaboratori e si trattenne. Passato qualche momento si guardò attorno, per accertarsi che nessuno lo vedesse, ed entrò in un piccolo ufficio. Di lì a pochi minuti arrivò Giely.
   «Ammiraglio! Mi perdoni, non sapevo che mi stesse aspettando» disse la Vorta con finta sorpresa. In realtà ci contava di trovarlo. Si avvicinò con aria sollecita e un po’ servile.
   «Ho bisogno di parlarle, dottoressa Eris» disse il Rigeliano. «Lei è qui da poco, ma è già diventata uno dei medici più fidati della Presidente. Passa molto tempo con lei e ha modo di osservare il suo comportamento. Ma dottoressa, deve rendersi conto che la sua lealtà, come la mia, va in primo luogo alla Confederazione».
   «Certamente, Ammiraglio. Sono fedele alle istituzioni confederali» mentì Giely.
   «Bene, vengo subito al punto. Ho bisogno di sapere se ha notato confusione mentale in Rangda».
   Giely notò che Radek l’aveva chiamata per nome, senza curarsi delle formule onorifiche come “Sua Eccellenza”. Ne fu lieta, anche se non lo lasciò trapelare: significava che l’Ammiraglio nutriva insofferenza per la Presidente. «Cosa intende di preciso?» lo pungolò.
   «Beh, ad esempio poco fa ha avuto due amnesie» spiegò il Rigeliano. «Prima sembrava convinta che il leader ribelle fosse ancora Jaz’Gavad, che è morto da dieci anni. Poi ha ripetuto gli ordini per la Destiny, come se avesse scordato di avermeli appena dati. Sono cose che fa spesso? Scordare gli ordini, confondere i nomi...?».
   «Ammiraglio, lei mi chiede di violare il segreto professionale tra medico e paziente...» si lamentò Giely, mordendosi il labbro per simulare indecisione e nervosismo. In realtà era proprio lì che voleva portarlo.
   «Come le ho detto, dobbiamo essere fedeli alle istituzioni, più che a chi le rappresenta in un dato momento» sostenne Radek. «Io devo sapere se la Presidente è ancora abile al comando. Siamo in guerra, ne va di molte vite» disse con gravità.
   «Certo Ammiraglio, capisco le sue preoccupazioni. Capisco... e le condivido» sussurrò la Vorta, accostandosi con aria complice. «In confidenza, le dirò che le condizioni di Sua Eccellenza mi preoccupano. Da quando l’ho in cura, ho notato che spesso confonde nomi, date e luoghi» disse, ingigantendo deliberatamente il problema. «Inoltre talvolta non riconosce i volti. Ieri per esempio mi ha chiesto chi ero e che ci facevo qui, malgrado sia al suo servizio da oltre un mese». Era una menzogna: in realtà Rangda non si era mai confusa sulla sua identità. Ma Giely voleva accrescere le preoccupazioni dell’Ammiraglio.
   «Uhm...» fece Radek, con l’aria di chi vede confermati i suoi peggiori timori. «E che mi dice della sua stabilità emotiva? Voglio dire, è facile all’ira o ad altri sbalzi d’umore?».
   «Che resti fra noi, Ammiraglio, ma... da quel che ho visto sì, il suo umore cambia in modo repentino e imprevedibile» disse la Vorta. Questo era vero. «Ma ignoro se sia sempre stata così, o se sia peggiorata negli ultimi tempi. Anche se...» lasciò in sospeso, fingendo incertezza.
   «Se? Avanti, finisca il discorso!» la esortò il Rigeliano.
   «Ecco, c’è l’eventualità che alcune terapie abbiano ricadute sulla sua stabilità emotiva. In fondo stiamo regolando artificialmente il suo equilibrio ormonale, per sopperire alle ghiandole» rivelò Giely. «Il dottor Vash’Tot afferma che è stabile, ma... io credo che nessuno abbia realmente considerato come tutti questi interventi – la terapia genica, la depurazione dalle tossine, la regolazione ormonale – interagiscono tra loro. L’organismo è un sistema interconnesso: non si può intervenire su una parte senza che ci siano ripercussioni su altre. Se gli interventi sono tanti e simultanei, allora le variabili aumentano in modo esponenziale, finché nessuna simulazione può prevederle tutte. Dunque io temo che nessuno sappia realmente quanto sia stabile la Presidente» insinuò.
   «Sì, capisco» fece Radek, corrucciato. «Grazie della sua collaborazione, dottoressa. Sia ben chiaro che questa conversazione è stata confidenziale. Non deve farne parola con nessuno».
   «Ma certo, Ammiraglio. Non direi mai nulla che possa metterla in difficoltà» mentì la Vorta.
   «Sarà meglio per lei» ammonì il Rigeliano. «E se notasse altre stranezze nella Presidente, voglio che me le riferisca tempestivamente. Posso contare su di lei?».
   «Sono a sua disposizione, signore».
   «Bene. Ma non usi i canali di bordo... venga a parlarmi faccia a faccia, nel mio ufficio. Darò istruzioni affinché le guardie la facciano passare» raccomandò Radek.
   «Intesi, Ammiraglio».
   Il Rigeliano lasciò l’ufficio e abbandonò frettolosamente l’infermeria. Giely si trattenne per qualche minuto, aspettandosi un’altra visita. E infatti...
   «Ah, eccoti, mia cara. Che voleva l’Ammiraglio?» chiese il dottor Vash’Tot, entrando a sua volta.
   «Mi ha fatto domande inopportune sulla salute di Sua Eccellenza» rivelò la dottoressa, tradendo immediatamente la parola data.
   «Sulla salute fisica o su quella mentale?» volle sapere il medico.
   «Entrambe. Pareva molto interessato a qualunque segno di cedimento della Presidente» rispose la Vorta, di nuovo esagerando i fatti. «Era come se cercasse un pretesto per dichiararla inabile al suo incarico... mi ha spaventata».
   «Ma tu non gli hai detto niente, vero?!» si preoccupò Vash’Tot.
   «Non una parola» mentì Giely. «Però l’Ammiraglio è stato insistente. Vuole che gli faccia rapporto sulle condizioni della Presidente... mi ha minacciata, nel caso avessi rifiutato. Sono stata costretta a dirgli di sì. Ma in realtà sono fedele a Sua Eccellenza... e a te» promise, facendosi più vicina.
   «È la scelta più saggia, credimi. Gli ammiragli vanno e vengono; solo la Presidente resta. E ora che sei nella mia squadra, sopravvivrà ancora più a lungo» ragionò lo Ktariano. «Dobbiamo appoggiarla, se vogliamo superare indenni questi tempi difficili».
   «Ma anche l’Ammiraglio è molto potente...» disse la Vorta, mostrandosi spaventata.
   «Bah! L’Ammiraglio ormai è in fase calante. Non è stato lui a localizzare le basi ribelli e a catturare la Destiny, ma i servizi segreti» rivelò Vash’Tot. «In confidenza, ti dirò che Sua Eccellenza è scontenta di Radek, al punto che potrebbe destituirlo presto. Non dobbiamo fare altro che resistere fino ad allora».
   «Mi fido della tua parola... ne capisci molto più di me, riguardo alla politica» sorrise Giely. «Povera me, è tutto così complicato! Credi che, dopo questa battaglia, le cose miglioreranno?».
   «È probabile» rispose il medico. «Eliminata la Catena Cremisi, la Presidente potrà... fare ordine in casa. Ecco perché dobbiamo accertarci di stare dalla parte vincente» disse, alludendo alla probabile caduta di Radek.
   «Starò dalla tua, in ogni caso» mentì la Vorta.
   «Brava ragazza. E chissà che, quando ci sarà più calma, avremo del tempo per noi...» insinuò Vash’Tot, cercando di baciarla.
   Giely si lasciò appena sfiorare le labbra, prima di sgusciare via. «Ogni cosa a suo tempo, Colia. Ricorda che sono una Vorta... sto ancora imparando cosa significhi l’attrazione» sorrise. Finora aveva mantenuto un atteggiamento sfuggente: aveva accettato un paio di cene con lo Ktariano, ma non aveva mai ceduto alle sue avances. Voleva tenerlo alle corde, sperando che arrivasse il momento di trarre vantaggio dalla sua infatuazione.
   «Mi sembra che tu abbia già capito l’essenziale: farsi desiderare» ironizzò lo Ktariano. «Aspetterò i tuoi tempi... sempre che non siano infiniti» avvertì, e lasciò l’ufficio.
   Giely sedette per qualche minuto alla sua scrivania, in completo silenzio, cercando di raccogliere i pensieri. Stava facendo un gioco pericolosissimo, aizzando quelle serpi l’una contro l’altra. Ma era l’unico modo per accelerare la crisi che vedeva montare fra loro, nella speranza che detonasse prima della caduta della roccaforte ribelle. Certo che, se quei tre si fossero confrontati, la verità sarebbe venuta a galla e per lei sarebbe stata la fine. Ma la Vorta aveva la netta sensazione che ciascuno avrebbe tenuto per sé i suoi sospetti, non osando scoprire le carte prima che lo facessero gli altri. Fino ad allora aveva spazio di manovra; e intendeva approfittarsene.
   «Computer, localizza la Presidente Rangda» disse a un tratto la dottoressa.
   «La Presidente si è ritirata nei suoi alloggi. Non sono ammesse chiamate» rispose il processore.
   «Invia una chiamata criptata. Dottoressa Eris, priorità 1, codice 379» ordinò la Vorta.
   «Attendere. Codice riconosciuto, resti in attesa».
   Di lì a un minuto l’oloschermo della scrivania si attivò, mostrando il viso segaligno della dittatrice. «Eris, bambina mia, perché mi chiami a quest’ora?» volle sapere.
   «Perdonate il disturbo, Vostra Eccellenza, ma mi avete ordinato di segnalarvi qualunque azione sospetta» disse Giely.
   «Ebbene?».
   «Ecco, ho appena udito l’Ammiraglio Radek che interrogava il dottor Vash’Tot sulle vostre condizioni di salute» mentì la Vorta. «L’Ammiraglio cercava segni di... perdonate il termine... cedimento da parte vostra. Voleva sapere se vi capita di scordare o confondere le informazioni e se avete sbalzi d’umore. Mi sono parse domande inopportune, alla luce della vostra alta carica».
   «Eccome! Se l’Ammiraglio ha di queste domande, deve farle a me, non certo a voi medici... che peraltro avete l’obbligo di segretezza!» sbottò Rangda. «E Vash’Tot cos’ha risposto?».
   «Vostra Eccellenza, io non vorrei mai accusare un superiore, al quale per giunta devo la mia fortuna. Ma la mia fedeltà nei vostri confronti m’impone di dire le cose come stanno» affermò Giely, untuosa. «Perciò mi duole informarla che il dottor Vash’Tot ha lasciato intendere che la vostra memoria e il vostro autocontrollo siano in declino. Forse era solo intimidito dall’Ammiraglio e gli ha detto ciò che si aspettava. Povera me... forse ho frainteso una conversazione innocente, nel qual caso vi chiedo umilmente perdono. Ma preferisco eccedere in solerzia che in negligenza».
   «No, no, hai fatto bene a riferirmelo» disse la Zakdorn. «Sapevo già che non posso fidarmi di Radek. Prima i suoi insuccessi contro i ribelli, ora questo malsano interesse verso le mie condizioni. Ciò che non mi aspettavo era che Vash’Tot gli rispondesse. Quanto ti sono sembrati complici?».
   «Difficile dirlo, Eccellenza... ho udito solo l’ultima parte della loro conversazione. L’Ammiraglio ha chiesto al dottore di tenerlo aggiornato sulle vostre condizioni e lui ha promesso che l’avrebbe fatto, ma forse mentiva, per liberarsi di lui. In fondo vi ha servita fedelmente per anni... non riesco a immaginare cosa potrebbe spingerlo a tradirvi». Per quanto il discorso della Vorta sembrasse andare in difesa di Vash’Tot, ora che il tradimento era stato nominato, esso parve aleggiare nell’aria.
   «Uhm... forse è tutto un malinteso, o forse no. Appena questo assedio sarà terminato, risolverò la faccenda» si promise Rangda. «Nel frattempo voglio che tieni d’occhio Vash’Tot. Dovrai riferirmi prontamente ogni parola, ogni gesto sospetto. Questo canale criptato ti permetterà di fare rapporto direttamente a me; non devi farne parola con nessun’altro. È chiaro?».
   «Perfettamente, Vostra Eccellenza. Io... spero solo che tutto si risolva nel migliore dei modi, così da potermi mettere al lavoro sul vostro clone».
   «Presto potrai farlo, bambina mia. Molto presto» disse la dittatrice, leccandosi le labbra. E chiuse la comunicazione.
   Giely emise un lungo sospiro. Stavolta aveva davvero giocato col fuoco. Se Rangda avesse interrogato subito i due presunti cospiratori, entrambi avrebbero ribaltato le accuse, corroborandosi a vicenda. E allora le cose si sarebbero messe malissimo per la Vorta. Così, invece, aveva ancora un po’ di tempo... ma gli eventi correvano comunque verso un finale tragico. Giely poteva solo sperare di aiutare i ribelli a salvarsi. Quanto alla propria salvezza, aveva smesso di sperare.
 
   Nella camera di tortura dell’Hydra, il tempo pareva essersi fermato. Il passato era un ricordo così nebuloso che Losira non era più in grado di dire se fosse realmente avvenuto. Il futuro non era contemplato. C’era solo il presente, ed era fatto di dolore.
   L’universo percettivo di Losira si era ridotto a quella cabina cilindrica e semitrasparente; alla voce di Atrevius che le ripeteva all’infinito le stesse domande; e alla sofferenza dei suoi nervi iper-stimolati. Del resto le Cabine del Dolore erano fatte per quello. Non ferivano il corpo, perché altrimenti i recettori cutanei sarebbero morti, facendo calare la sofferenza. Al contrario, stimolando direttamente il sistema nervoso, facevano sì che il dolore continuasse a oltranza. In certi momenti Losira aveva l’impressione d’essere avvolta dalle fiamme, come se l’ardessero sul rogo; in altri d’essere intrappolata nel ghiaccio. Talvolta si sentiva trafitta da mille coltelli, talvolta era come essere spellata viva. Eppure non aveva ancora ceduto. Ormai non sapeva nemmeno lei perché lo facesse, non sapeva da dove le veniva la forza; eppure resisteva.
   «Sai, anima mia, non finisci mai di stupirmi» disse Atrevius, interrompendo il supplizio. «È tutta la notte che soffri inutilmente, a causa del tuo orgoglio. E non sei l’unica a soffrire! Credi che mi piaccia fare questo? Credi che provi piacere nel sentirti urlare di dolore? No, anima mia, io sto soffrendo con te, proprio come se fossi dentro quella cabina. Soffriamo entrambi, tu nel corpo, io nell’animo... tutto a causa tua. Per colpa del tuo rancore insensato contro la Confederazione, della tua sudditanza verso una banda di terroristi e della tua incapacità d’ammettere che hai sbagliato tutto». Il Risiano respirò a fondo prima di continuare.
   «Ma non è ancora troppo tardi per rimediare ai tuoi errori. La Confederazione è buona, la Confederazione ti perdona. Io ti amo e sono qui per salvarti. Ma non posso farlo se tu rifiuti il mio aiuto, lo capisci? Dimmi che lo capisci, per favore» disse accorato.
   «Capisco che tu ci hai traditi» rispose Losira con un filo di voce. «Amavi l’altra Losira e l’hai uccisa. Dici di amare me, e mi torturi. Sai, vorrei davvero che ci amassi di meno!» ironizzò. Era accasciata sul pavimento della cabina, senza la forza di rialzarsi; solo il suo sguardo dardeggiò verso l’aguzzino.
   «Non ribaltare la colpa su di me; sono le tue azioni che ti hanno condotta lì dentro» ribatté Atrevius. «La Confederazione ci ha liberati, ma i tuoi amici ribelli hanno deciso di riportare le tenebre dell’Impero Terrestre. Quello stesso Impero che ha inventato le Cabine del Dolore! Non vedi il paradosso? I Terrani le hanno usate per torturarci... e ora tu preferisci subire lo stesso tormento pur di difenderli! Perché sei così autolesionista? Che potere hanno su di te?!» esclamò, esasperato.
   «I Terrani avranno anche costruito questa cabina, ma ora sei tu che la stai usando su di me» puntualizzò Losira. «In tal modo dimostri di credere che sia giusto usarla. Quindi non dovresti rimproverare i Terrani, se l’hanno usata a loro tempo».
   «Se tu assolvi loro, allora devi assolvere anche me».
   «Non assolvo i Terrani del passato, ma quelli del presente. Le persone si giudicano per le loro azioni, non per quelle dei loro padri. E le tue azioni ti hanno già giudicato!» lo sfidò Losira.
   «No, le tue azioni illegali ti hanno già giudicata, e stanno per costarti ancora di più!» minacciò il Risiano. «Sai quanti livelli di dolore ci sono su questo quadro comandi? Sette, anima mia. Indovina a quale siamo arrivati finora?».
   Siccome le labbra di Losira restavano serrate, fu Atrevius a rispondersi da solo. «Siamo arrivati appena al quarto livello. Al quinto i soggetti cominciano a subire danni cerebrali. Al sesto i danni si aggravano. E al settimo livello... beh, sarebbe meglio non essere mai nati, perché i danni diventano irreversibili. Perciò dimmi: vuoi consegnarci la Destiny, salvare il tuo equipaggio e sopravvivere? O preferisci far distruggere la Destiny, far morire il tuo equipaggio e ridurti a un vegetale? Se scegli la seconda opzione, saprò per certo che sei già pazza; e allora non avrò scrupoli ad andare fino in fondo».
   Losira tremò, sul punto di cedere. I suoi occhi lacrimarono mentre le sue labbra riarse si aprirono e chiusero senza che la voce ne uscisse. In quella il portone della sala torture si aprì, disegnando una lama di luce sul pavimento. Le guardie, che sorvegliavano l’interno del salone per impedire un’eventuale fuga della prigioniera, si scostarono. Entrarono altri due Pacificatori, con le tute semicorazzate, i fucili polaronici e i caschi riflettenti che li rendevano senza volto.
   «Cambio turno» disse uno dei nuovi arrivati. Anche la voce era alterata dal casco, per renderla identiche alle altre.
   Infastidito dall’interruzione, giunta proprio quando Losira stava per piegarsi, Atrevius fece segno alle guardie di sbrigarsi nell’avvicendamento. I due Pacificatori che avevano vigilato fino a quel momento se ne andarono, mentre i nuovi arrivati presero il loro posto, nella stessa identica posa. Il portone si richiuse, la lama di luce svanì.
   «Dunque, dov’eravamo? Ah, sì. Siamo al quarto livello; al quinto subirai danni neurologici» riprese Atrevius. «Devi scegliere se salvare te stessa e il tuo equipaggio, oppure condannarvi in nome... del niente. Decidi tu, amore; ma decidi adesso» avvertì, le mani già sui comandi.
   «Se tu fossi capace di un briciolo d’amore o di compassione, mi avresti già sparato» mormorò Losira, cercando di prepararsi all’estremo sacrificio. Non poteva fornire i codici della Destiny, o i Pacificatori l’avrebbero usata per superare le difese di Dytallix e d’ogni altro pianeta che non si arrendeva. E non poteva dire dove fosse andato il Capitano, o i Pacificatori gli avrebbero teso un agguato e il loro piano con la Molecola Omega avrebbe avuto successo.
   «Se tu amassi la nostra gente, anziché i Terrani, avresti risposto alle mie domande» ribatté Atrevius. «Mi spiace, ma non posso più salvarti. Hai scelto di soffrire senza motivo; e soffrirai fino in fondo». Le sue mani si mossero verso i comandi della Cabina, per portare al quinto livello gli induttori del dolore. Ma il Risiano non completò mai quel gesto.
   Una delle guardie appena arrivate si mosse fulminea, imbracciando il fucile polaronico. Per prima cosa sparò in testa al suo collega, prima che questi potesse reagire. Il raggio ad alta energia gli aprì un foro nel casco, e anche nel cranio. Prima ancora che il Pacificatore colpito si fosse accasciato, la guardia ribelle si girò e sparò contro Atrevius.
   Il Risiano strabuzzò gli occhi mentre il raggio azzurro gli tranciava ambo le braccia all’altezza dei gomiti. Gli avambracci mozzati caddero sul pavimento, senza che le dita avessero toccato il quadro comandi. Atrevius gridò dal dolore, ma la camera di tortura era insonorizzata: nessuno lo avrebbe udito all’esterno. Così mutilato, non poteva nemmeno premersi il comunicatore per chiamare aiuto. Comunque il raggio polaronico aveva cauterizzato le orribili ferite, bloccando l’emorragia, per cui forse sarebbe sopravvissuto.
   «Sai, non sono mai stato crudele prima» disse la guardia ribelle, avvicinandosi a grandi passi. «In effetti ho sempre pensato che tutti meritiamo un’altra occasione. Ma tu no... tu non meriti nient’altro che questo». Premette un comando della tuta, facendo aprire e ripiegare il casco. Allora Atrevius e Losira lo riconobbero, uno con orrore, l’altra con gioia.
   Era Talyn. Ma la sua espressione era la più terribile, la più furente che gli avessero mai visto. Si avvicinò ad Atrevius e gli strappò il comunicatore dalla divisa, gettandolo lontano. Poi lo colpì al plesso solare col calcio del fucile, piegandolo in avanti, e gli assestò un secondo colpo alla nuca, facendolo crollare semisvenuto.
   «Talyn! M-ma... non eri andato con Naskeel?!» balbettò Losira.
   «All’ultimo mi sono rifiutato di partire. Non potevo lasciarti in questa situazione» spiegò il giovane. Andò alla consolle, cercando di aprire la Cabina mentre continuava la spiegazione. «Mi sono nascosto nei tubi di Jefferies, in una zona cieca dei sensori, mentre la Destiny veniva occupata. Alla prima occasione ho sopraffatto un Pacificatore e gli ho preso l’equipaggiamento. Saputo che eri qui sull’Hydra, sono salito a bordo e mi sono sostituito a una guardia del cambio turno. Mi spiace di non aver fatto prima, mamma».
   Talyn usava raramente quel termine nel rivolgersi a Losira, che lo aveva adottato quand’era già adolescente, ma stavolta lo fece. Trovato il comando, aprì la cabina: una sezione del cilindro scattò in avanti e scivolò sul fusto, liberando l’apertura. Allora l’El-Auriano si accostò, raccolse la Risiana e la sollevò delicatamente, portandola fuori di lì. La condusse fino alla sedia davanti alla consolle, adagiandola sopra. «Come stai? Pensi di riuscire a camminare?» le chiese con apprensione.
   «Io... credo di sì. Non sono ferita, dammi solo un momento» mormorò Losira, ancora debole e scossa.
   Talyn annuì e si rivolse ad Atrevius, che nel frattempo si era ripreso e tentava di rialzarsi. Ma aveva difficoltà a farlo senza braccia. «Se mi uccidi, voi due non uscirete vivi da questa nave!» rantolò il Risiano.
   «Non ti strapperò la vita, anche se lo meriti» promise il giovane. «Però le braccia... quelle con cui hai torturato mia madre... non meriti di averle». Imbracciò di nuovo il fucile polaronico e sparò due volte, disintegrando gli arti mozzati, così che nessun chirurgo glieli potesse riattaccare.
   «Tu... tu...!» sputacchiò Atrevius, sempre cercando di rialzarsi.
   «Io mi assicurerò che tu non vada in giro a dare l’allarme» disse Talyn, minaccioso. Si avventò su di lui, afferrandolo per il bavero dell’uniforme, e lo trascinò a viva forza verso la Cabina, sebbene il Risiano mordesse e si dibattesse. Per brevi momenti lottarono sull’ingresso; poi l’El-Auriano scaraventò dentro l’avversario.
   Dalla postazione, Losira si affrettò a sigillare la cabina. La sezione scorrevole si richiuse con tale perfezione che non si vedevano i bordi. Atrevius prese a urlare insulti e minacce, ma Losira spense il microfono, silenziandolo. Il Risiano continuò a inveire, ma la sua voce non usciva dalla Cabina insonorizzata.
   «Allora, te la senti di andare?» chiese Talyn a Losira. «Puoi travestirti con la sua uniforme» aggiunse, accennando allo sfortunato Pacificatore che aveva dovuto uccidere.
   «Sì, ce la faccio» disse la Risiana, alzandosi lentamente. «Ma dopo che faremo?».
   «Fidati, ho un piano».
   Talyn voltò le spalle a Losira mentre questa si cambiava rapidamente. «Sono pronta, possiamo andare» disse infine la Risiana.
   «Un’ultima cosa» fece il giovane, osservando Atrevius che si dibatteva come un ossesso dentro la Cabina. «Se pensi che la sua punizione debba essere più severa, questo è il momento».
   Losira si avvicinò al quadro comandi. Per un attimo rimase indecisa, fissando Atrevius attraverso il cristallo trasparente. Il traditore scosse la testa, fissandola con occhi imploranti. Losira riuscì a leggere le sue parole attraverso i movimenti labiali: «Non farlo, ti amo, anima mia».
   «Oh, al diavolo!» sibilò la Comandante. Azionò la Cabina, impostando gli induttori del dolore sul settimo livello. Poi girò sui tacchi e seguì Talyn fuori dalla camera degli orrori. Nessuno dei due si volse a guardare l’agonia del traditore. Però sentirono dei colpi insistenti alle loro spalle. Era Atrevius che sbatteva la testa contro la Cabina, cercando di uccidersi prima che il tormento inimmaginabile gli togliesse il lume della ragione.
 
   Grazie ai travestimenti, Losira e Talyn si aggirarono indisturbati sull’Hydra. Incrociarono più volte altri gruppi di Pacificatori nei corridoi, ma non furono mai fermati, anche perché tenevano un passo sostenuto, come se avessero fretta.
   «Allora che facciamo, rubiamo una navetta?» sussurrò Losira, in un momento in cui erano soli.
   «È meglio usare il teletrasporto. Siamo abbastanza vicini alla Destiny» rispose Talyn. Fece strada fino a una sorta di cabina che si apriva nella parete.
   «Prima di venire da te, ho consultato le specifiche di questa nave» spiegò il giovane. «L’Hydra è provvista di attacco multi-vettore, vale a dire che può dividersi in tre scafi autosufficienti, ciascuno potente come una nave da guerra. Per spostarsi da uno scafo all’altro, quando il vascello è unito, i Pacificatori usano queste cabine di teletrasporto. Ma credo che possiamo usarle anche per tornare sulla Destiny».
   I due entrarono nella cabina, lasciando che la porta si richiudesse, e presero a trafficare coi comandi. Riuscirono a individuare la Destiny, che stazionava a poca distanza dall’Hydra. Talyn fissò le coordinate d’arrivo in una sezione dei tubi di Jefferies, la stessa in cui si era nascosto in precedenza.
   «Status della nave?» chiese Losira.
   «Quando l’ho lasciata c’erano cinquecento Pacificatori a bordo» rispose Talyn. «Hanno reinstallato manualmente il nucleo, ma non hanno ancora sbloccato i comandi. I nostri compagni sono a bordo: gli ufficiali nelle prigioni, gli altri chiusi negli alloggi o radunati negli hangar».
   «Uhm, sì, combacia con le minacce di Atrevius. Diceva che, se non gli avessi fornito i codici, i Pacificatori avrebbero distrutto la Destiny con dentro i nostri» ricordò Losira. «Allora, come conti di riconquistare la nave?».
   «Più o meno nel modo in cui l’abbiamo persa» rispose Talyn, con un sorriso ironico. Attivò il teletrasporto, trasferendo se stesso e Losira sulla Destiny. Si trovarono in uno snodo dei tubi di Jefferies, cioè una saletta provvista d’interfacce del computer. E non erano soli. Qualcosa si mosse nella penombra, venendogli incontro.
   «Be-beep?». Il pigolio elettronico risuonò nel vano.
   «Sono io, Ottoperotto» lo salutò Talyn.
   «Be-beep! Talyn tornato!» gli fece festa il robottino, ronzandogli attorno tutto eccitato. Ottoperotto, com’era soprannominato l’Exocomp numero 64, era uno dei droni riparatutto di cui era provvista la Destiny. Somigliava a una grossa anguria fluttuante, con un replicatore anteriore che produceva, di volta in volta, lo strumento richiesto. A differenza degli altri Exocomp, aveva sviluppato una personalità: era fedelissimo agli avventurieri e a Talyn in particolare.
   «Sì, sì, anch’io sono felice di rivederti» disse l’El-Auriano, carezzandogli il guscio pieno di lucette, che lampeggiavano a un ritmo forsennato. «Guarda, ho recuperato Losira. E tu, hai fatto quel che ti avevo ordinato?».
   «Affermativo, be-beep! Protocollo Endgame inserito. Impossibile avviare durante shutdown, be-beep!» rispose Ottoperotto.
   «Adesso Losira riattiverà i comandi. Appena lo farà, devi avviare il protocollo» ordinò Talyn.
   «Aspetta... gli hai fatto scrivere una procedura per il computer?!» si stupì la Comandante. «Gli Exocomp non sono programmati per questo!».
   «Dopo tutte le migliorie di Irvik, e le esperienze che ha passato, non lo definirei un Exocomp. Ormai è qualcosa di più!» sostenne l’El-Auriano.
   «D’accordo, è uno di noi. E che farà questo... protocollo Endgame?» chiese la Risiana.
   «Che domande, distruggerà la nave. O così crederanno i Pacificatori».
 
   Di lì a pochi minuti, le consolle e gli schermi si riattivarono su tutta la Destiny. Il nucleo quantico tornò a pulsare, i collettori Bussard s’illuminarono. I Pacificatori si riscossero per l’improvvisa attività dell’astronave e anche i prigionieri si accorsero che stava accadendo qualcosa.
   «Che succede?» chiese l’Ammiraglio Radek, che in quel preciso momento stava ispezionando la plancia.
   «Il computer si è sbloccato, la nave ha di nuovo piena energia» rispose l’Ingegnere Capo dei Pacificatori, consultando la consolle di Irvik.
   «Mi avete appena detto che era tutto spento» notò il Rigeliano.
   «Infatti non capisco... non siamo stati noi a sbloccare la nave» ammise il tecnico. «Può darsi che i ribelli abbiano lasciato un conto alla rovescia nel processore, per cui allo scadere del tempo parte una procedura automatica».
   «Se c’è una procedura in atto, voglio sapere qual è!» ordinò l’Ammiraglio, innervosito.
   Fu prontamente accontentato. Lo schermo si attivò, mostrando un’immagine generata al computer – ma ingannevolmente realistica – del Capitano Rivera.
   «Salve, pezzi di dren» disse il falso Capitano. «Se vedete questo messaggio, significa che non sono riuscito a riconquistare la Destiny. Ma non cantate vittoria. Non vi cederò mai la mia astronave. Piuttosto che lasciarla in mano vostra, la distruggerò!».
   «Sta dicendo il vero» gemette l’Ingegnere Capo, consultando la consolle. «C’è una procedura d’autodistruzione in corso. Il nucleo sta producendo antimateria, man mano che la nave si riattiva, ma i campi di contenimento sono bloccati al minimo del potenziale. Tra pochi minuti cederanno e la Destiny sarà distrutta!».
   «Dobbiamo credere che lei sacrificherà il suo stesso equipaggio?!» chiese un ufficiale, rivolgendosi a Rivera.
   «Non può risponderle, è un messaggio registrato» avvertì l’Ingegnere Capo. «Forse lui non sapeva che avremmo tenuto la ciurma a bordo».
   «A questo punto avrete capito che faccio sul serio» riprese il Capitano fittizio. «Sì, preferisco affondare con la mia nave, piuttosto che farne un vostro strumento. È così che si faceva, ai tempi dell’Impero Terrestre. Dite a quella buffona di Rangda che i suoi giorni sono contati. L’umanità rinascerà dalle ceneri, più forte che mai, e per tutti voi sarà la fine. Terra firma!». E con quel sinistro proclama il finto Rivera svanì dallo schermo.
   «Quel folle ha abbracciato l’ideologia imperiale, ci ucciderà tutti!» gridò un altro tecnico.
   «Silenzio!» ordinò Radek. «Quanto manca all’esplosione?».
   «Tre minuti al massimo. Abbiamo appena il tempo d’evacuare il nostro personale col teletrasporto» rispose l’Ingegnere Capo, lasciando intendere che avrebbero dovuto abbandonare gli avventurieri al loro destino.
   L’Ammiraglio percorse a grandi passi la plancia, rimuginando sul da farsi. Detestava l’idea di perdere la Destiny, che con la sua capacità d’oltrepassare gli Scudi Planetari sarebbe stata utilissima per conquistare Dytallix e ogni altro pianeta ostile. Ma Rivera gli pareva abbastanza ossessionato da mettere in atto la sua minaccia, e del resto i tecnici confermavano che la nave stava per esplodere. Quanto a Rangda, aveva già ordinato di distruggere la Destiny, se non potevano controllarla. Radek non condivideva questa decisione, ritenendola un grave errore tattico, che corroborava i suoi timori sulla lucidità della Presidente; ma ora non aveva scelta.
   «Signore, non c’è tempo!» lo pressò l’Ingegnere Capo.
   «Oh, frell, e va bene» imprecò il Rigeliano. Toccò un comando sulla poltroncina del Capitano, aprendo un canale con tutti i ponti. «Ammiraglio Radek a equipaggio, abbandonare la nave. Ripeto, abbandonare la nave. Lasciamo i ribelli al destino che si sono scelti».
 
   Nei novanta secondi seguenti, i vascelli dei Pacificatori teletrasportarono tutti quelli che si erano trasferiti sulla Destiny, a partire dall’Ammiraglio e dai suoi ufficiali. Poi si allontanarono a distanza di sicurezza dalla nave condannata. Il conto alla rovescia continuò: meno tre, due, uno...
   All’ultimo secondo la vera natura del protocollo Endgame si palesò: i campi di contenimento dell’antimateria ricevettero piena energia, prevenendo la distruzione dell’astronave. Nello stesso momento la Destiny entrò in Allarme Rosso. Gli scudi si alzarono, per impedire il ritorno dei Pacificatori, e le armi entrarono in linea. E non era finita. Di lì a un attimo tutti gli alloggi, le prigioni e gli hangar si aprirono, liberando l’equipaggio che vi era trattenuto.
   Pochi secondi dopo Losira e Talyn entrarono in plancia dall’adiacente sala teletrasporto, in cui si erano trasferiti. Erano ancora travestiti da Pacificatori e imbracciavano i fucili polaronici, nel caso che qualche avversario fosse rimasto a bordo. Ma si avvidero che non ce n’era bisogno.
   «Bene, tutto come previsto!» gongolò Talyn, vedendo la plancia deserta e la flotta dei Pacificatori che si allontanava. Corse alla postazione del timone, deponendovi accanto il fucile, e sedette ai comandi.
   Nel frattempo Losira sedette sulla poltroncina del Capitano. Premette lo stesso comando usato poco prima da Radek per comunicare a tutti i ponti. «Comandante a equipaggio, v’informo che siamo liberi. Abbiamo indotto i Pacificatori ad abbandonare la nave, con una finta sequenza autodistruttiva, ma presto capiranno l’inganno e ci saranno addosso. Tornate immediatamente ai vostri posti!» ordinò.
   L’equipaggio non se lo fece ripetere. Trecento avventurieri corsero alle loro postazioni in plancia, in sala macchine, nelle sale controllo e ovunque fosse richiesto durante una battaglia. Molti usarono il teletrasporto per fare prima. Nel frattempo Talyn attivò i propulsori di assetto, facendo ruotare di 180º la Destiny, così che puntasse verso Dytallix. Appena fu in posizione dette piena energia a impulso. L’astronave schizzò verso il pianeta rossastro, ancora racchiuso nel suo scudo.
   «Losira a Dytallix, abbiamo riconquistato la nave. Abbassate subito lo Scudo Planetario!» trasmise la Comandante. Era l’unico punto debole del piano, perché non sapeva se i ribelli avrebbero corso il rischio di accoglierli, dopo che la Destiny era stata abbordata.
   «I Pacificatori c’inseguono!» avvertì Talyn, che pur essendo al timone poteva consultare le letture dei sensori. L’Hydra si era lanciata all’inseguimento, assieme a un centinaio di navi-drone. Erano così veloci che stavano già accorciando le distanze.
   «Avanti...» mormorò Losira, vedendo Dytallix che s’ingrandiva sullo schermo. Se i ribelli non disattivavano lo Scudo, la Destiny avrebbe dovuto virare bruscamente, per non impattarvi. Poi avrebbe dovuto fuggire a massima cavitazione, prima che i Pacificatori le fossero addosso. Restavano pochi secondi.
   «Qui Wolff. Se lei è la Comandante, allora saprà dov’è andato il Capitano Rivera» le rispose il leader ribelle, per testare la sua identità. Ma Losira non voleva rischiare che la sua risposta fosse intercettata dai Pacificatori, dopo aver sopportato la tortura pur di mantenere il segreto.
   «Ha seguito la traccia di Constance Goodheart» rispose la Risiana, sperando che Wolff si accontentasse e i nemici non ne capissero il senso.
   Dytallix era sempre più vicino e lo Scudo rimaneva attivo; c’era ancora il tempo di virare? «Talyn...» fece Losira, temendo che fosse troppo tardi.
   All’ultimo istante il bagliore perlaceo dello Scudo svanì. La Destiny scese nell’orbita bassa, mentre la flotta ribelle si muoveva per intercettarla, nel caso ce ne fosse bisogno. Più indietro le navi dei Pacificatori aprirono il fuoco. I raggi phaser martellarono gli scudi posteriori della Destiny, ma solo per pochi secondi. Lo Scudo Planetario infatti si riattivò, assorbendo ogni ulteriore attacco. Gli inseguitori smisero di sparare e dovettero virare per evitare un impatto fatale. Le loro astronavi si aprirono a ventaglio e tornarono indietro, dove le attendeva il grosso della flotta.
   Losira si abbandonò sulla poltroncina ed emise un lungo sospiro di sollievo. Intanto gli ufficiali liberati dai ponti inferiori entravano in plancia, recandosi alle loro postazioni. La Comandante li aggiornò rapidamente sull’accaduto. Poi Talyn, tornato alla postazione sensori, aprì un canale con Wolff, così da confermare che la Destiny era di nuovo in mano al suo equipaggio.
   Poco a poco la situazione si stabilizzò. La Destiny prese posto tra le navi della Catena Cremisi, appena sotto la protezione dello Scudo Planetario. Più lontano dal pianeta, la flotta confederale si era ricompattata. Era una situazione di stallo e la prossima mossa toccava ai Pacificatori.
 
   Sulla plancia del Moloch, dov’era tornato, l’Ammiraglio Radek osservò l’inseguimento e il suo epilogo. Dunque gli avventurieri lo avevano ingannato... e lui c’era cascato come un novellino. Le conseguenze sarebbero state pesantissime. Quando il turboascensore si aprì dietro di lui, il Rigeliano intuì chi era arrivato, ancor prima di udirne la voce stridula.
   «La sua inettitudine è sconcertante, Ammiraglio. I servizi segreti le hanno consegnato la Destiny, al termine di un’operazione sotto copertura durata un anno, e lei è riuscito a farsela scappare in poche ore!» inveì Rangda.
   «Vostra Eccellenza, possiamo discuterne nel mio ufficio?» chiese Radek, girandosi rigidamente. Era grave che la Presidente e l’Ammiraglio di Flotta avessero un tale alterco davanti agli ufficiali di plancia. Scontri del genere era meglio che avvenissero nel chiuso dell’ufficio, senza testimoni.
   «Invece ne parleremo qui!» ordinò Rangda, fulminandolo con lo sguardo. Accanto a lei, come sempre, c’erano i suoi medici più fidati: il dottor Vash’Tot e la dottoressa Eris. Ormai quei due la seguivano come un’ombra, vigilando i suoi segni vitali e dandole da bere intrugli chimici a ore prefissate. C’erano anche due Guardie Presidenziali, dalla corazza scarlatta, che la scortavano in ogni spostamento.
   «C’è poco da dire, signora Presidente. Sulla Destiny è scattata una sequenza autodistruttiva, così realistica da ingannare i miei ingegneri. Ho dovuto per forza evacuare l’astronave» si giustificò Radek.
   «Astronave che ora è tutta intera, se non erro».
   «Per i ribelli farà poca differenza» sostenne l’Ammiraglio. «Il loro Scudo Planetario non è dei più potenti, ci basterà un’ora di fuoco per abbatterlo. A quel punto avremo ancora il vantaggio numerico e la superiorità di fuoco sul nemico. Annienteremo i ribelli, compresa la Destiny».
   «Lei dimentica che quella nave può fuggire in altre dimensioni» obiettò la Presidente. «Cosa le impedirà di farlo, per giunta facendosi seguire dal resto dei ribelli?!».
   A queste parole, Radek riguadagnò la sicurezza. «Mentre la Destiny era in mano nostra abbiamo sottratto alcuni componenti del nucleo, per studiarli. Serviranno ore, forse giorni per ricostruirli. Fino ad allora, la Destiny non potrà aprire passaggi inter-dimensionali» garantì.
   «Mi auguro che lei abbia ragione» disse la Presidente, un po’ rabbonita. «Se è così, approfitteremo di questa finestra di tempo. È la sua ultima possibilità, Ammiraglio. Schiacci i ribelli e riavrà la mia fiducia. Se li lasci scappare e non avrò alternativa che destituirla» avvertì.
   «Aspetto solo il suo ordine per attaccare» disse il Rigeliano, sfrigolando di collera per quell’umiliazione pubblica.
   «L’ordine è dato» disse Rangda, sedendo con atteggiamento regale sulla poltrona dell’Ammiraglio. In tal modo lo costringeva a stare in piedi accanto a lei, come un inserviente.
   «Ammiraglio Radek a flotta, procedere contro l’obiettivo. Schema d’attacco 72-theta!» ordinò il Rigeliano, cercando di concentrarsi sull’incarico.
   La flotta confederale si mosse prontamente. Le prime ad avanzare furono le navi-drone, seguite dai vascelli con equipaggio. L’Hydra si unì all’attacco, mentre il Moloch rimase prudentemente nelle retrovie. I Pacificatori si fermarono a poca distanza dallo Scudo Planetario, là dove si erano radunati i ribelli. Per un attimo le due flotte si fronteggiarono, immobili, e la superiorità numerica della Confederazione fu chiara a tutti. Poi i Pacificatori aprirono il fuoco coi phaser, i raggi polaronici e siluri d’ogni tipo. Le raffiche martellarono lo Scudo Planetario, disegnando onde d’urto sulla sua superficie, come increspature su uno specchio d’acqua. Era solo questione di tempo prima che lo infrangessero.
 
   Sotto allo scudo, la flotta ribelle era pronta allo scontro. Le navi avevano imbarcato tutto il personale della base sotterranea, così come i profughi che vi avevano trovato riparo nell’ultimo anno. Siccome molti vascelli erano sovraccarichi, la Destiny fece la sua parte, accogliendo coloro che aveva salvato da Turkana IV pochi giorni prima.
   «È una fortuna che siate di nuovo con noi» disse Jack Wolff, trasmettendo dalla sua nave ammiraglia, il Vanguard. «Potete aprire un vortice nell’atmosfera, per farci scappare tutti?».
   «Temo di avere una cattiva notizia» disse Losira, che negli ultimi minuti aveva confabulato con un paio d’ingegneri. «Prima d’andarsene, i Pacificatori ci hanno rubato alcuni componenti del nucleo. Questo non compromette l’efficienza della nave in battaglia, ma c’impedisce di aprire varchi inter-dimensionali».
   «Non potete riparare il danno?».
   «Ho già messo al lavoro i tecnici e gli Exocomp, ma si tratta d’interventi complessi. Serviranno alcune ore per ricostruire tutto» spiegò Losira.
   «Uhm, non abbiamo tutto questo tempo. Lo Scudo Planetario cederà in meno di un’ora» disse Wolff, teso. «Non resta che una possibilità. Dobbiamo riunire le navi in formazione serrata e sfondare al centro lo schieramento nemico. Se vi ponete in testa alla flotta, potremmo farcela. A quel punto ci divideremo in piccoli gruppi che andranno in direzioni diverse. Così almeno qualcuno sfuggirà all’inseguimento dei Pacificatori».
   «Sfondare uno schieramento sei volte più numeroso?!» protestò Talyn.
   «Lo so, è una mossa disperata. Ma se ci disperdiamo prima sarà peggio» spiegò il leader ribelle. «Le mie navi possono saltare a curvatura solo a una certa distanza dal pozzo gravitazionale del pianeta, e prima di allora saranno falciate dai Pacificatori. La nostra sola speranza è tenerci compatti, così che almeno le navi al centro resistano».
   «Capisco» disse Losira, presagendo la carneficina. C’erano migliaia di civili su quelle navi, quasi tutte donne incinte o con figli appena nati, che speravano di sfuggire alla persecuzione. I Pacificatori avrebbero ucciso tutti, per non far sapere che quei bambini erano sani. Un olocausto finalizzato a mantenere una menzogna. A quel pensiero la Risiana ritrovò la determinazione. «Faremo la nostra parte, Wolff» promise.
   «Grazie di tutto. Spero che ci rivedremo, un giorno» disse l’Umano, anche se lui stesso non ne sembrava troppo convinto.
   Chiuso il canale, la Comandante osservò brevemente lo Scudo sempre più debole e lo sciame di navi-drone appostate subito oltre. Poi lasciò la poltroncina e si avvicinò a Talyn. «Nessun messaggio dal Centurion?» chiese, spinta dall’irrazionale speranza che il Capitano tornasse in tempo.
   «Niente» rispose l’El-Auriano, consultando i diari dei sensori delle ultime ore. «Almeno non abbiamo rilevato nessuna onda d’urto subspaziale... è già qualcosa. Ma forse è presto per giudicare».
   «Resta in ascolto» raccomandò Losira, e tornò al suo posto. La flotta ribelle si stava compattando dietro la Destiny; la battaglia era imminente.
 
   «Lo Scudo Planetario è al 20%» disse l’Ufficiale Tattico del Moloch.
   «Bene, fate avanzare le navi-drone» ordinò Radek.
   Seguendo l’ordine trasmesso dall’ammiraglia, i vascelli automatici si fecero avanti, formando la prima linea dello schieramento. Le navi con equipaggio rimasero indietro, più al sicuro.
   «Che sta facendo?» si accigliò Rangda.
   «Mando avanti i droni, così che sopportino l’urto della flotta nemica» rispose l’Ammiraglio, un po’ sorpreso di doverlo spiegare.
   «E le altre navi?».
   «Quelle interverranno solo se necessario».
   «Mi faccia capire: lei sta mandando avanti i nostri vascelli più moderni e costosi, sapendo che ne perderemo un gran numero. E per contro lascia indietro quelli più vecchi, che tra poco andranno comunque dismessi» notò la Zakdorn. «Qual è la logica di tutto questo?».
   «La logica è sacrificare le navi-drone, anziché quelle provviste d’equipaggio» chiarì il Rigeliano, fissandola con crescente apprensione. «Cosa sta macchinando quella vecchia pazza?» si chiese.
   «Io trovo più sensato mandare avanti le astronavi più vecchie e sacrificabili, conservando quelle appena costruite» obiettò Rangda.
   «Le navi sono sacrificabili, ma gli equipaggi no» disse Radek con fermezza.
   «Sono Pacificatori che hanno giurato di servire lo Stato; e lo Stato sono io» rivendicò la despota. «Li faccia andare in prima linea, è un ordine!».
   «Ora basta!» ringhiò l’Ammiraglio. «Tutti gli ordini che avete impartito negli ultimi anni hanno avuto esiti catastrofici. Prima quelle assurde limitazioni alla curvatura. Poi la caccia ai Figli della Cura, nonostante sembrino essere sani. Poi lo sviluppo di Omega, coi rischi allucinanti che comporta. E adesso volete sacrificare i miei veterani, per salvaguardare le navi-drone?! Insomma, non v’importa dei civili, non v’importa dei militari... c’è qualcosa di cui v’importa?!».
   «Pace e diritti, e li avremo solo quando i ribelli saranno cancellati!» ribatté Rangda, incollerita.
   «Siete così ossessionata da aver smarrito il senso della misura. Un tempo eravate una guida illuminata, ma adesso... ritengo che l’età vi abbia privata della lucidità necessaria per governare!» accusò Radek.
   «Come osa! Le sue ridicole accuse, unite al rifiuto d’eseguire gli ordini, costituiscono alto tradimento!» gridò la Presidente, alzandosi di scatto dalla poltroncina. «Le mostrerò quanto sono lucida, facendo ciò che lei non ha saputo fare: estirpando la ribellione. Ma lei, Ammiraglio, ha davvero passato il segno. La dichiaro in arresto. Portatelo via!» ordinò.
   Ci fu un momento teso, perché gli ufficiali erano divisi tra la lealtà all’Ammiraglio e alla Presidente. Le Guardie Presidenziali impugnarono i fucili polaronici e fecero scudo alla loro protetta. Infine il Primo Ufficiale del Moloch impugnò il phaser, rivolgendolo contro l’Ammiraglio. «Mi spiace, signore, ma deve lasciare la plancia. La scorteremo al blocco di detenzione» disse.
   «Anche tu?» fece Radek, rattristato.
   «Si muova o sarò costretto a stordirla» fece l’altro, impassibile.
   «Questo è ciò che temevo... non i droni che pensano come persone, ma le persone che pensano come droni» sospirò il Rigeliano, rassegnato. Si staccò il comunicatore-mostrina dei Pacificatori, gettandolo via. Dopo un’ultima occhiata amareggiata alla flotta, lasciò il ponte di comando, scortato da numerose guardie. In plancia cadde un silenzio di piombo.
   «Beh, diamo un senso alla giornata!» disse Rangda, come se nulla fosse accaduto. Poi si rivolse all’Ufficiale Tattico: «Tenente, voglio il comando diretto dei droni. Disattivate i loro processori autonomi; li manovrerò via subspazio, così che i miei ordini siano eseguiti a puntino».
   «Ne è certa, signora Presidente? I droni sono più efficienti quando sono guidati dai loro processori. E se proprio dobbiamo guidarli da remoto, ho piloti con più esperienza...» osò dire l’interpellato.
   «Tenente, ho appena dubitato della lealtà dell’Ammiraglio; non mi faccia dubitare anche della sua» minacciò Rangda, fissandolo con occhi iniettati di sangue.
   «C-certo che no, Eccellenza» balbettò l’ufficiale. «Ecco, sto dirottando i comandi delle navi-drone alla poltrona dell’Amm... alla sua poltrona» si corresse. Era pallido per la tensione e le sue mani tremavano leggermente nell’inserire i codici di comando.
   «Bene, sono impaziente d’usarle» disse la Zakdorn, tornando a sedersi con aria regale.
   Nel suo angolino Giely, che aveva assistito a tutto, increspò le labbra. Come si aspettava, Rangda era scivolata nella completa paranoia. Non si fidava più di nessuno, nemmeno dei droni, ragion per cui voleva controllarli direttamente. Al tempo stesso, voleva sfoggiare la sua abilità tattica davanti agli ufficiali, così da smentire l’accusa di Radek secondo cui aveva perso lucidità mentale. Ma per quanto fosse determinata, non avrebbe mai eguagliato la potenza di calcolo e la velocità di reazione dei droni.
   «Eccellenza, è ora del suo supplemento nutritivo...» disse il dottor Vash’Tot, avvicinandosi premuroso con la bottiglietta sigillata.
   Rangda alzò lo sguardo su di lui. Ricordò l’accusa di Giely, secondo cui il Medico Capo pareva in combutta con l’Ammiraglio. Poteva bere ciò che uno le offriva, subito dopo aver imprigionato l’altro? «Non ora, non ho sete» lo respinse.
   «Ma Eccellenza, abbiamo concordato di non deviare dalla tabella per nessuna ragione...» insisté Vash’Tot in tono suadente.
   «Non ora, ho detto! Siamo in battaglia, se non l’ha notato!» sbottò la Zakdorn. «Se ne vada... andate tutti e due!» ordinò, accennando anche a Giely.
   «Come desiderate, Eccellenza» disse lo Ktariano, indietreggiando verso l’uscita. Anche la Vorta si mosse, finché i due s’incontrarono davanti al turboascensore.
   «Lascia stare, non è dell’umore» bisbigliò Giely.
   Vash’Tot annuì ed entrò nell’ascensore, seguito dalla collega. Rangda si girò brevemente, per accertarsi che avessero lasciato la plancia. Soddisfatta, si concentrò di nuovo sull’imminente battaglia.
 
   Dopo un’ora di feroce bombardamento, lo Scudo Planetario cominciò a dissolversi. Alcuni raggi phaser e polaronici lo attraversarono, colpendo le astronavi o il suolo sottostante. A un tratto la barriera indebolita fu disattivata dai ribelli stessi. Era il momento della sortita.
   Le navi della Catena Cremisi, in formazione serrata con la Destiny in testa, schizzarono verso l’alto. Aprirono il fuoco contro il centro dello schieramento nemico, nel disperato tentativo di sfondare. E si trovarono di fronte i vascelli con equipaggio, che Rangda aveva spedito in prima linea. Per quanto fossero la parte più vecchia della flotta confederale, erano comunque pericolosi, al punto che forse potevano vincere da soli, senza nemmeno il supporto delle navi-drone. E la loro nave di testa, l’Hydra, era un vascello moderno e potente.
   Lo scontro tra le due astronavi era inevitabile. La Destiny e l’Hydra si vennero contro, sparando a tutto spiano. Quando la Destiny lanciò una raffica di siluri transfasici, la sua arma più potente, l’Hydra si divise in tre sezioni longitudinali. I tre scafi sgusciarono di lato con tale agilità che i siluri li mancarono, anche se non andarono sprecati, poiché colpirono e distrussero un altro vascello che si trovava più indietro. Le tre sezioni dell’Hydra accerchiarono la Destiny, colpendola con schemi d’attacco complessi e mutevoli. Tutt’intorno la flotta ribelle non riusciva a sfondare e anzi stava venendo accerchiata.
   «Scudi al 70% in diminuzione!» avvertì l’ufficiale tattico della Destiny, un Nausicaano che sostituiva Naskeel.
   «Concentra il fuoco su una sola sezione dell’Hydra e ignora le altre!» ordinò Losira, mentre la nave tremava sotto i micidiali attacchi nemici.
   «Ci sto provando, ma non riesco a penetrare i suoi scudi!» ribatté il Nausicaano. Phaser e siluri martellarono uno dei tre scafi oblunghi, apparentemente senza risultato. In realtà dovevano avergli indebolito gli scudi, ma a quel ritmo era probabile che fosse la Destiny a restare indifesa per prima. Ascoltando gli aggiornamenti tattici, Losira si rese conto che stavano perdendo. Non riuscivano nemmeno a superare la prima linea nemica. Come avrebbero affrontato la flotta, ben più numerosa, delle navi-drone?
   In quell’attimo un raggio simile a un fulmine arancione balenò nello spazio. Colpì uno dei tre scafi dell’Hydra, quello dagli scudi indeboliti, e lo disintegrò in un lampo abbagliante. Gli altri due interruppero le loro evoluzioni attorno alla Destiny e si volsero a fronteggiare il nuovo assalto.
   «E adesso che succede?!» chiese Losira, meravigliata da quell’arma. Osservò le navi sullo schermo, senza capire a quale apparteneva. Solo quando Talyn aumentò l’ingrandimento vide un vascello piccolo e agile che si avvicinava a gran velocità. Aveva lo scafo giallastro, dalle sinuose linee organiche.
   «È la Scorpion... Naskeel è tornato!» esultò Talyn.
   Il Tholiano sparò di nuovo, colpendo un’altra sezione dell’Hydra. Stavolta lo scafo, che aveva gli scudi pressoché intatti, resistette. Rispose al fuoco, ma la bionave era così agile da sfuggire alla maggior parte dei colpi; i pochi a segno si estinguevano sugli scudi. Era il battesimo del fuoco per la nave organica, dopo anni di sforzi per farla funzionare. Pareva che soddisfacesse le aspettative.
   «Lasciamogli quella sezione, concentriamoci sull’altra» ordinò Losira.
   Le quattro astronavi si affrontarono in una girandola di attacchi, schivate e finte fughe. Se la Destiny era in svantaggio contro le tre sezioni combinate dell’Hydra, era avvantaggiata contro una sola. Anche la Scorpion reggeva bene lo scontro. I tempi di ricarica del suo cannone antiprotonico erano brevi e ogni colpo aveva una potenza devastante. A un certo punto le complesse evoluzioni dei vascelli li portarono a scambiarsi gli avversari. La Destiny fronteggiò la seconda sezione dell’Hydra, che ormai aveva perso gli scudi, e la disintegrò con una raffica di siluri quantici.
   «Fuori due, dov’è l’ultima sezione?» chiese Losira, mentre la Destiny passava attraverso la fiammata dell’esplosione.
   «S’è disimpegnata, dirige contro il Vanguard» rilevò Talyn.
   «Inseguiamola, fuoco a volontà!» ordinò Losira.
   La Destiny e la Scorpion tallonarono l’ultimo frammento dell’Hydra, che puntava dritto contro il Vanguard come se volesse speronarlo. In plancia, il Direttore Nicrek osservò la nave ribelle sempre più vicina. A differenza della Destiny, che si era rivelata un osso duro, il Vanguard era prossimo a cedere. Se fosse riuscito a distruggerlo, ne avrebbe guadagnato un tale prestigio da poter rivendicare la posizione vacante di Ammiraglio di Flotta.
   «Distruggete quella nave a ogni costo; Wolff deve morire» ordinò il Remano ai suoi ufficiali. «Alla fine ci rincontriamo, mio vecchio amico» mormorò fra sé, vedendo la sua nave sempre più vicina. «Peccato trovarci su fronti opposti, ma come dite voi Terrani? Mors tua, vita mea...» ricordò.
   Colpito duramente, il Vanguard sbandò, offrendo la fiancata indifesa. Ancora un colpo e sarebbe stato distrutto. Ma in quell’attimo i siluri transfasici della Destiny e il raggio antiprotonico della Scorpion colpirono l’Hydra. L’astronave esplose da poppa a prua, e solo i suoi detriti incandescenti crivellarono il Vanguard, aprendovi qualche falla.
   «C’è mancato poco» sospirò Losira, mentre la Destiny rallentava per affiancarsi alla nave alleata. Distruggere il vascello su cui era stata torturata le dava una certa soddisfazione, ma non se ne lasciò distrarre. «Come procede la battaglia?» volle sapere.
   «Stiamo per sfondare la prima linea dei Pacificatori, ma... dopo ci sono quelle» rispose Talyn, inquadrando le trecentocinquanta navi-drone.
   Losira comprese che non avrebbero mai superato quel secondo sbarramento. I droni erano semplicemente troppi per sconfiggerli, anche con l’aiuto della bionave. Stavolta erano davvero spacciati. «Ah, Capitano... in che situazione mi hai lasciata!» si disse, pensando a Rivera. «Ma ovunque tu sia, spero che te la caverai. Ricordati di noi, perché non credo che altri lo faranno».
 
   Dalla plancia del Moloch, Rangda osservò con disappunto l’arrivo della Scorpion e la progressiva distruzione dell’Hydra.
   «È confermato, Eccellenza. L’ultima sezione dell’Hydra è stata distrutta. Il Direttore Nicrek è morto» riferì l’Ufficiale Tattico.
   «Deludente» commentò Rangda. «Beh, se i miei gerarchi falliscono uno dopo l’altro, è un motivo in più per occuparmene personalmente. Datemi i comandi delle navi-drone!».
   «Fatto, Eccellenza».
   Un oloschermo si materializzò davanti alla Zakdorn assisa in poltrona. Le navi-drone erano in stand-by da quando aveva fatto disattivare i loro processori autonomi. Ora non attendevano che il suo ordine per riattivarsi e distruggere la flottiglia ribelle, già provata. Rangda si leccò le labbra, pregustando il piacere che avrebbe tratto dal frantumare la Catena Cremisi e il prestigio politico che le sarebbe derivato. Nessuno avrebbe più osato contestarla, men che meno ribellarsi. Era un bel sollievo, dopo quell’anno infernale. Non che avesse mai seriamente temuto di perdere: lei non perdeva mai. Le sue dita scheletriche corsero al comando d’attivazione.
   In quell’attimo l’oloschermo si spense e tutto divenne buio.
 
   «Attenzione, pericolo biologico di livello 1» disse la voce maschile del computer. «Protocollo Cenere avviato. Sistemi primari in stand-by. Questa nave è in quarantena. Restate nelle vostre sezioni e attendete ulteriori istruzioni».
   Le luci d’emergenza si accesero, ma gran parte delle consolle rimase disattivata o comunque bloccata. I Pacificatori si guardarono a vicenda, allibiti.
   «Quarantena? Rischio biologico? Ma di che sta parlando?!» protestò Rangda. «E cos’è questo Protocollo Cenere? Perché non ne sono informata?!».
   «Eccellenza, non esiste alcun Protocollo Cenere» confermò il Primo Ufficiale. «Certo, abbiamo procedure d’emergenza in caso di rischio biologico, ma... non sono così. Rapporto sezioni!». I capi sezione descrissero una situazione sconfortante.
   «Energia primaria disattivata, restano solo i generatori autonomi d’emergenza».
   «Armamenti offline. Anche gli scudi sono inattivi».
   «Non abbiamo propulsione, avanziamo solo per inerzia».
   «Le sezioni del Moloch sono isolate mediante le paratie d’emergenza. Anche gli hangar sono sigillati».
   «Comunicazioni esterne fuori uso».
   Fu quest’ultima informazione a colpire maggiormente Rangda. «Niente comunicazioni? La flotta... che ne è della flotta?!».
   «La prima linea continua a battersi, ma le navi-drone sono ancora in stand-by» riferì l’addetto ai sensori.
   «E non c’è modo di riattivarle?!».
   «Non con le comunicazioni offline» confermò l’ufficiale. «È tutto bloccato... ogni sistema chiede una password per sbloccarsi. Password di questo fantomatico Protocollo Cenere!».
   La Zakdorn osservò la sua flotta, smarrita. Le navi con equipaggio erano sul punto di cedere, mentre le navi-drone – che potevano vincere facilmente – restavano inerti. La Scorpion ne approfittò per colpirle una dopo l’altra col suo potentissimo raggio antiprotonico. E poiché le navi-drone avevano gli scudi abbassati, ogni colpo bastava a farle esplodere. Così, ogni pochi secondi, un’astronave nuova e costosissima andava in fumo.
   «Una spiegazione. Mi occorre una spiegazione» disse Rangda con una strana calma. Se l’Universo non era impazzito, doveva essercene una. «Per prima cosa devo sapere se c’è davvero un patogeno a bordo».
   Alcuni ufficiali scansionarono il Moloch coi sensori interni, ancora operativi, mentre altri impugnarono i tricorder e analizzarono i presenti.
   «Eccellenza, i sensori interni indicano una contaminazione, anche in questa sala, ma i tricorder li smentiscono» disse infine il Primo Ufficiale. «La mia ipotesi è che qualcuno abbia ingannato i sensori. E prima ancora, deve aver aggiunto questo Protocollo Cenere alle direttive del computer. Tutto allo scopo di sabotarci».
   Rangda inspirò a fondo. «Bene, ora ditemi: chi ha l’autorità per fare una cosa del genere?».
   «Oltre all’Ammiraglio Radek, che è già in cella... solo il Medico Capo, dottor Vash’Tot» fu la risposta.
   «Proprio come immaginavo. Vedendo cadere il suo alleato, il traditore ha fatto la sua mossa» commentò la Zakdorn. Osservò la pedana di teletrasporto che corredava l’ampia plancia asimmetrica del Moloch. «Quel trasporto è isolato, vero? Quindi funziona ancora».
   «Sì, Eccellenza».
   «Agganciate Vash’Tot e portatelo qui».
   Detto fatto, il medico si materializzò sulla pedana. Si guardò attorno, disorientato, finché non riconobbe Rangda nella penombra. «Eccellenza! Stavo cercando di raggiungerla, ma le sezioni sono isolate. Ho ragione di credere che non ci sia nessun rischio biologico a bordo. Qualcuno ha inserito questo Protocollo Cenere nel computer, forse già da tempo, e ora lo ha attivato per disabilitare la nave».
   «Già, siamo giunti alla stessa conclusione» disse la Zakdorn con freddezza. «Abbiamo anche stabilito che il colpevole può essere solo lei, dottore».
   A quelle parole lo Ktariano restò interdetto. «È di certo un malinteso. Sono il vostro medico di fiducia, ho mantenuto la vostra salute per anni. Non farei mai nulla che possa danneggiare voi o i vostri interessi...».
   «I sistemi di bordo sono criptati con la sua codifica genetica!» ringhiò il Primo Ufficiale. Afferrò lo Ktariano per un braccio e lo trascinò alla consolle, così che potesse verificare con i suoi occhi. «Ecco, vede? Per ripristinare la nave servono il suo genoma e la sua password. Abbiamo il primo, ora ci dia la seconda!». Gli afferrò rudemente la mano e gliela passò sul lettore di DNA. Il computer riconobbe la validità e restò in attesa del codice.
   «No, non è come credete. Qualcuno mi ha incastrato!» gemette Vash’Tot. Si guardò attorno in cerca d’appoggio, ma non ne ebbe. «Devono avermi analizzato il DNA a mia insaputa. Poi avranno spiato i miei codici, per creare questo nuovo protocollo...».
   «La sua password, dottore! Subito! O la farò giustiziare per alto tradimento!» ordinò Rangda, vedendo le sue navi-drone ormai decimate. A quelle parole, le Guardie Presidenziali imbracciarono i fucili polaronici, prendendo di mira il medico.
   Lo Ktariano rabbrividì e inserì i suoi codici di sicurezza, ma il computer li rifiutò. «Vedete, Eccellenza? Chiunque abbia ordito quest’inganno ha usato inizialmente i miei codici, ma poi ha cambiato le password per impedirmi di risolvere il problema» si giustificò.
   «O forse è lei che non vuol darci i codici giusti, e si nasconde dietro questa insulsa scusa» ribatté la Zakdorn, implacabile. «In altre circostanze la farei interrogare a fondo per scoprire la verità, ma stavolta non ho tempo. La mia flotta viene fatta a pezzi e presto anche questa nave sarà minacciata. Quindi glielo chiederò un’ultima volta. E se lei non mi risponderà, le mie guardie la giustizieranno seduta stante. Come-si-sblocca-il-sistema?!» chiese, scandendo le parole.
   Trascorsero alcuni interminabili secondi. Vash’Tot rifletteva rapidamente, mentre le Guardie Presidenziali lo tenevano sotto tiro. Il medico analizzò il problema alla luce della sua convinzione che non esistessero gli individui, ma solo i flussi d’informazione, con le idee più forti che sopprimevano le più deboli. E si rese conto che, chiunque lo avesse incastrato, lo conosceva bene. Il traditore aveva fatto in modo che tutte le prove fossero contro di lui e che nessuna sua giustificazione potesse scalfire l’opinione che ormai Rangda si era formata.
   «Sono già morto» comprese lo Ktariano, morbosamente affascinato dalla perfezione dell’inganno. Così, quando parlò in propria difesa, seppe che quasi certamente era inutile. «Eccellenza, se mi permette di affiancare i suoi tecnici, sono certo che riuscirò a sbloccare il computer. Nel frattempo deve guardarsi dal vero traditore, che è ancora libero e può colpirla in ogni momento. Ho già un’idea su chi potrebbe essere...».
   «Risposta sbagliata» disse Rangda gelidamente. Al suo cenno, le Guardie Presidenziali aprirono il fuoco. Vash’Tot cadde a terra morto, con due fori nel petto. Sul suo volto era rimasta congelata la morbosa fascinazione degli ultimi istanti. «Ecco la ricompensa dei traditori» disse la Zakdorn a mo’ d’epitaffio. «E adesso estirpate quel dannato protocollo dal computer!».
   Gli ufficiali erano già in comunicazione con la sala macchine per decidere il da farsi. «Eccellenza, stiamo reinstallando la programmazione di base del processore, così da cancellare qualunque protocollo irregolare» disse l’Ingegnere Capo, parlando tramite oloschermo. «Tra un minuto i sistemi torneranno in linea...».
   In quella risuonò un nuovo allarme. Display e oloschermi lampeggiarono, sgranandosi. Fra i tecnici dilagò l’agitazione. Alcuni agenti della Sicurezza attraversarono di corsa la sala macchine.
   «Altri problemi?» chiese Rangda, con una calma pericolosa.
   «Approfittando della confusione, un sabotatore ha iniettato un vero agente patogeno nel processore centrale» disse l’Ingegnere Capo, la fronte imperlata di sudore. «Le gelatine bio-neurali si stanno infettando a una velocità mai vista. Questo metterà definitivamente fuori uso il computer. Si tratta di un danno fisico all’hardware, non c’è procedura informatica che possa impedirlo. Questa nave è condannata».
   Gli occhi della Zakdorn si strinsero sulla faccia vizza, finché somigliarono a due tagli. O Vash’Tot aveva un complice, oppure aveva errato a giustiziarlo. «Almeno avete preso il sabotatore?» chiese.
   «Certo, Eccellenza. Aveva ancora l’ipospray in mano; per il resto non ha armi» disse l’Ingegnere Capo. La sua immagine era sempre più sgranata, man mano che le gelatine bio-neurali s’infettavano.
   «Lo voglio qui, per vederlo in faccia».
   Gli addetti tornarono ai comandi del teletrasporto di plancia, uno dei pochi sistemi isolati e ancora funzionanti. «Soggetto agganciato, trasferimento in corso» disse uno di loro.
   Rangda si avvicinò alla pedana. Voleva essere la prima a vedere il traditore, prima di farlo giustiziare. Una figura umanoide si delineò nel bagliore rosso del teletrasporto. Una figura piccola e snella, come... no, non voleva crederci...
   «Salve, Vostra Eccellenza. Allora, come procede la battaglia? Avete fatto sfracelli, come promesso? Sarete stanca... siete certa di non volere il vostro supplemento nutritivo?» chiese la dottoressa Eris, appena si fu materializzata. 
 

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Capitolo 12
*** Fortuna favet fortibus ***


-Capitolo 11: Fortuna favet fortibus
 
   Giely fronteggiò la dittatrice, con la sfrontatezza di chi non ha più nulla da perdere e vuol prendersi l’ultima soddisfazione prima della fine. Dette un’occhiata allo schermo e vide, come sperava, la flotta dei Pacificatori allo sbaraglio e le navi ribelli che si mettevano in salvo. Questo le bastava, come ricompensa.
   «Tu... eri l’ultima che mi aspettavo... il che rende il tuo tradimento ancora più infame...» mormorò Rangda, sputacchiando le parole per la collera.
   «Il tradimento, come la bellezza, è negli occhi di chi guarda» ribatté Giely con aria angelica, levandosi gli occhialini neri. «Dal mio punto di vista, siete voi ad avere tradito tutto il possibile e l’immaginabile. Io vi ho solo impedito di compiere l’ennesima carneficina».
   «Come hai potuto...».
   «Ognuno sfrutta i propri talenti, no? Alcune specie sono forti, altre veloci, altre ancora telepatiche. Noi Vorta siamo astuti e... come dire... infidi!» ridacchiò la dottoressa. «Sarà per questo che non siamo popolari. Non sono una combattente, quindi ho dovuto usare i miei strumenti». Mentre parlava si sfilò i guanti neri, lasciandoli cadere uno dopo l’altro.
   «Ti ho accolta sulla mia nave, ti ho dato la cittadinanza. Ti ho persino offerto d’esaudire il tuo più grande desiderio, un clone tutto tuo! Come puoi voltare le spalle a questo?!» inveì la Zakdorn.
   «Quel desiderio era frutto del condizionamento del Dominio. Mi avevano addestrata a credere che la mia unica prospettiva fosse allevare un clone di me stessa, in una successione infinita, ma non è così. Preferisco vivere una sola vita da individuo che cento, mille vite da ingranaggio senz’anima. Vedete come il vostro potere si dissolve, quando qualcuno rifiuta le vostre offerte?» fece Giely in tono soave.
   L’attimo dopo, tuttavia, la Vorta lasciò trasparire il suo astio. «Se avessi voluto, vi avrei avvelenata fin dal primo giorno. Ma sarebbe stato contrario al mio giuramento medico. Del resto, era più conveniente tenervi in vita. Ormai siete così demente e paranoica che danneggiate la vostra stessa causa. Prendete questa battaglia, ad esempio! Se aveste lasciato l’Ammiraglio Radek al suo posto, se gli aveste permesso di fare il suo lavoro, lui vi avrebbe servito una vittoria perfetta. Ma no, voi dovevate per forza sospettare di lui, interferire con la sua strategia, e rimuoverlo quando ha protestato! E così siete riuscita a perdere la battaglia. Naturalmente ci ho messo del mio, perché ciò accadesse. Il Protocollo Cenere è una mia creazione: ho tratto il DNA di Vash’Tot e ho spiato i suoi codici di sicurezza per impostare una procedura che bloccasse la nave».
   «E così hai fatto ricadere la colpa su di lui. Questo non viola il tuo giuramento medico, dottoressa Eris?» chiese Rangda, accennando al cadavere del dottore.
   «Io non ho ucciso Vash’Tot: siete stata voi» ribatté Giely. «Se aveste seguito la legge, lo avreste fatto arrestare e processare. Così sarebbe emersa la sua innocenza. Ma nella vostra impazienza e nella vostra ferocia lo avete fatto uccidere senza processo. Siete voi, “Eccellenza”, che vi fate il vuoto attorno. Mi è bastato acuire la vostra paranoia con qualche frase qua e là per indurvi a eliminare i vostri più validi collaboratori, quelli che potevano farvi vincere. Sapete, Eris non è solo un nome Vorta: era anche la dea terrestre della Discordia. Ironico, vero? Vi siete presa la Discordia in casa e vi stupite degli effetti».
   «Tu non sei una dea! Non sei nemmeno una persona!» ringhiò la dittatrice, perdendo l’ultimo briciolo d’autocontrollo. «Sei solo un grumo di cellule coltivate in laboratorio, che s’è rivelato difettoso e dev’essere buttato via! Una patetica creatura senza identità, senza famiglia, senza retaggio!» gridò, rivelando cosa pensava realmente dei cloni.
   «Oh, è qui che ti sbagli!» ribatté Giely, con un lampo di fierezza. «Quali che siano le mie origini, io ho avuto un padre. Si chiamava Ome’tikal e gli devo tutto ciò che sono. Gli ho voluto bene quand’era in vita e continuo a onorarlo ora che non lo è più. Tu, invece, hai saputo solo odiare e disprezzare il tuo, trasformando persino il suo funerale in una buffonata narcisista. Perciò chiediti chi fra noi è la persona, e chi è il mostro».
 
   Ci fu un lungo silenzio, mentre le luci d’emergenza del Moloch lampeggiavano e gli schermi sfrigolavano per il virus che aveva infettato il computer. Rangda non capì perché Giely avesse tirato in ballo suo padre; non che pensasse spesso a lui. Erano passati più di ottant’anni da quando aveva affrettato la sua morte col veleno, per ereditarne il patrimonio e finanziare la sua ascesa politica. Da quell’esperienza aveva imparato che nessuno, nemmeno le persone a lei più vicine, potevano impedirle di liberare la Galassia. Fortificata da quel pensiero, la Zakdorn riprese la parola: «Ti credi furba, ma il tuo misero piano s’è rivoltato contro di te. Per impedirci di riavviare il computer ti sei dovuta esporre, e così eccoti qui. Ora sconterai il prezzo delle tue malefatte».
   «Vuoi uccidermi? Accomodati. Tanto fra poco moriremo tutti» disse Giely, accennando allo schermo. La battaglia era quasi finita. Tutte le navi-drone dei Pacificatori erano state disintegrate, senza aver sparato un colpo. Anche i vascelli con equipaggio erano ormai distrutti, tranne una decina che si era assiepata attorno al Moloch, in un’estrema difesa. Quanto ai ribelli, le loro astronavi superstiti si erano messe in salvo. Restavano solo la Destiny e la Scorpion, che si avvicinavano per chiudere i conti.
   «Il Moloch è corazzato in neutronio, non lo distruggeranno facilmente» avvertì la Zakdorn, stringendosi nelle braccia. «Se sopravviviamo, non ti condannerò a morte. No, la tua punizione dev’essere più severa. Sai che ti farò?». Si avvicinò a Giely, parlando con voce strascicata e fissandola con gli occhi iniettati di sangue. «Ti farò amputare chirurgicamente braccia e gambe, tenendoti in vita. Poi ti farò asportare gli occhi, i timpani e la lingua. Ti farò completamente immobilizzare in una capsula medica, dove sarai alimentata per via endovenosa. Tutti i tuoi sensi saranno bloccati, i tuoi movimenti impediti. L’unica cosa che potrai fare sarà riflettere sul tuo tradimento, e su come si sia ritorto contro di te. Questa condizione durerà per il resto della tua miserabile vita; allora capirai quanto sei stata folle a cercare d’ostacolarmi.
   Molti mi hanno creato fastidi, ma nessuno può realmente sconfiggermi, e sai perché? Perché io dono la speranza di un futuro migliore, un futuro libero dall’oppressione umana, e la speranza non può mai essere soffocata. Se anche morissi oggi, un’intera generazione è stata educata a condividere i miei valori e a portare avanti il mio lavoro. Ecco perché, a ben vedere, io ho vinto ancor prima che tu nascessi. Addio e buona agonia».
   Ciò detto, la dittatrice voltò le spalle a Giely e si allontanò, completamente soddisfatta e in pace con se stessa. «Liberate l’Ammiraglio Radek e conducetelo qui, così che possa reintegrarlo nelle sue funzioni. E qualcuno mi levi questa roba dai piedi!» ordinò, inciampando nel cadavere di Vash’Tot.
   Alle sue spalle Giely rimase immobile, ancora sulla pedana di teletrasporto, tenuta sotto tiro dalle guardie. Se anche si fosse gettata contro di loro l’avrebbero stordita, anziché ucciderla, così da soddisfare i sadici piani di Rangda nei suoi confronti. Poteva solo sperare che la Destiny distruggesse il Moloch, prima che gli ordini della dittatrice fossero eseguiti dai suoi zeloti. Una singola lacrima scivolò sul viso d’alabastro della Vorta, al pensiero di ciò che l’attendeva. Ma Giely non chiese pietà a coloro che non ne avevano.
 
   Dopo due giorni di viaggio a cavitazione quantica, il Centurion era prossimo a Dytallix. Il Capitano Rivera avrebbe dovuto essere soddisfatto del successo, invece sentiva crescere l’inquietudine. Aveva lasciato la Destiny in una situazione difficile, a vigilare una base che forse non era più segreta. E se nel frattempo i Pacificatori avessero attaccato in forze? Se al suo ritorno avesse trovato la base distrutta, i relitti in orbita e nessun segno della sua nave?
   «Siamo quasi a Dytallix» avvertì Shati. Alla timoniera erano serviti due giorni di cure per riprendersi dalla lotta animalesca con la sua alter-ego, e ancora non si era ristabilita del tutto.
   «Bene, chiamami quando saremo lì» raccomandò il Capitano. Lasciò la cabina per recarsi nel comparto centrale del Centurion, occupato dalla camera di risonanza armonica. La luce azzurra si era affievolita in quei due giorni, man mano che le Molecole Omega venivano neutralizzate; ma era ancora lungi dall’estinguersi. «Ehilà, Irvik. Come va qui?» volle sapere.
   «Insomma... a rilento» mugugnò il Voth, chino sulla consolle. «Speravo di smaltire Omega prima che tornassimo, ma il processo è stato più lento del previsto. Ci sono ancora un centinaio di Molecole, abbastanza da lacerare il subspazio nel raggio di un anno luce. E l’esplosione in sé distruggerebbe qualunque astronave, quindi raccomando di tenerle qui, finché non le avrò neutralizzate tutte».
   «Certo, non avrei rischiato la Destiny in nessun caso» annuì Rivera. «Spero solo che gli altri stiano bene...» mormorò.
   «Oh, i nostri compagni sanno badare a se stessi» commentò Irvik. «È per Giely che ti preoccupi, non è così?».
   «Ha passato un anno sulla Terra, aspettando invano che tornassi a prenderla. E ora è sul Moloch, irraggiungibile. Certo che sono preoccupato!» ammise il Capitano. «Ormai avrà smesso di sperare in un salvataggio... crederà che l’ho abbandonata».
   «Ma non è così. E ora che sappiamo dov’è...» lo incoraggiò l’Ingegnere Capo.
   «Ma noi non sappiamo dov’è!» si disperò Rivera. «Il Moloch è sempre in movimento, per evitare agguati. Non abbiamo la minima idea di dove si trovi, di quale sia la sua rotta. In questo momento potrebbe essere all’altro capo della Confederazione. Potremmo passare anni a cercarlo, senza...».
   «Shati a Rivera, siamo arrivati a destinazione» lo interruppe la chiamata.
   «Sì, arrivo» rispose l’Umano, premendosi il comunicatore. Guardò fuori dall’oblò, dove il tunnel di cavitazione aveva lasciato il posto allo spazio normale. Quel che vide gli mozzò il fiato. Lo spazio attorno a Dytallix era ingombro di detriti d’astronavi, come nei suoi incubi. C’era stata davvero una battaglia... anzi, era ancora in corso! Aguzzando la vista, il Capitano notò un gruppetto di vascelli ancora impegnati in una lotta accanita. Strano che fossero così pochi: la flotta ribelle era fuggita, o tutti quei detriti erano ciò che ne rimaneva?
   «Oh, mio Dio» mormorò Rivera, temendo il peggio.
   Lui e Irvik si precipitarono in cabina. Vi trovarono Shati e il copilota che avevano già inserito l’Allarme Rosso, attivando armi e scudi. «Rapporto! Che navi sono quelle?!» chiese il Capitano. Sedette alla postazione tattica, mentre Irvik occupava quella sensori e comunicazioni.
   «Ci sono la Destiny e la Scorpion, che affrontano dieci navi dei Pacificatori» rispose Shati, concentrata sulla guida. Per avvicinarsi, il Centurion doveva zigzagare tra una quantità impressionante di relitti e detriti spaziali. Per quanto la timoniera fosse abile, ogni pochi attimi qualche frammento colpiva gli scudi, facendo sussultare la navicella. D’un tratto videro la bionave che apriva il fuoco, disintegrando un altro vascello confederale.
   «Nessuna traccia delle navi ribelli?» chiese Rivera.
   «Niente, ma... i relitti sembrano quasi tutti dei Pacificatori» notò Irvik, consultando i sensori.
   «Speriamo davvero. Avviciniamoci, dobbiamo aiutare i nostri» ordinò il Capitano. Sondò le rimanenti navi confederali, per decidere quale attaccare. Difficilmente l’avrebbe distrutta col Centurion, ma almeno poteva distrarla, attirandone il fuoco. In quella notò che al centro della flottiglia confederale c’era un vascello molto più grosso degli altri e stranamente inerte. Oltre a non sparare, non sembrava avere nemmeno gli scudi attivi. Procedeva per inerzia, lasciandosi centrare dagli occasionali colpi della Destiny. La sua forma compatta e squadrata, il colore scuro, erano stranamente familiari. Possibile che...
   Preso dal sospetto, Rivera lo esaminò ancora più a fondo, cercando di leggerne il nome dipinto sullo scafo. E finalmente lo trovò: CSS Moloch. La nave che si proponeva di cercare in tutta la Confederazione era lì, con gli scudi abbassati!
   «Ehi, quello non è...» notò anche Shati.
   «Caramba, se lo è! Portati nel raggio del teletrasporto!» ordinò il Capitano. «Appena saremo a distanza abbasserò gli scudi» disse, sapendo che doveva essere rapido a riattivarli. «Irvik, cerca segni vitali Vorta a bordo» aggiunse, sperando che non fosse troppo tardi.
   «Ce n’è uno in plancia» rilevò il Voth.
   Rivera sentì il cuore battergli forte. Doveva essere lei. «Sta’ pronto a trasferirla» ordinò. «Ah, un’altra cosa... apri un canale con la Destiny. Ho un’idea per smaltire le Molecole Omega».
 
   Sulla plancia della Destiny c’era concitazione. Contro ogni pronostico, le navi-drone erano distrutte e la flotta ribelle era perlopiù in salvo. Ma le ultime navi dei Pacificatori erano un osso duro, specialmente ora che la Destiny aveva accumulato danni.
   «Breccia sul ponte 9, phaser laterali fuori uso!» riferì l’ufficiale tattico. Era solo l’ultima di una lunga lista di danni.
   «Cough, c’è qualche buona notizia?!» chiese Losira, tossendo per l’odore acre delle consolle esplose e dei circuiti bruciati.
   «Gli Exocomp hanno riparato il nucleo. Adesso, volendo, possiamo aprire un passaggio interdimensionale» riferì Talyn.
   «Già, proprio adesso che non ci serve più a niente!» commentò la Risiana, reggendosi ai braccioli della poltroncina mentre la nave sussultava per un’altra bordata. Da quand’erano nello Specchio, non avevano mai subito così tanti danni. L’infermeria era ingombra di feriti e c’erano almeno tre morti accertati. Ma dovevano trattenere i Pacificatori, mentre i ribelli fuggivano. E il Moloch disabilitato era un bersaglio troppo ghiotto, anche se finora gli avevano assestato solo pochi colpi di phaser, che non avevano intaccato la sua corazza in neutronio.
   «Sta arrivando una navicella... è il Centurion!» riconobbe Talyn, levandosi il sudore dalla fronte. «Ci stanno chiamando».
   «Apri un canale» disse Losira, ansiosa di aggiornamenti.
   «Grazie a Dio siete salvi!» disse il Capitano, apparendo sullo schermo. «Non c’è tempo per raccontare, quindi ascoltatemi bene. Ho un centinaio di Molecole Omega a bordo e una mezza idea su come smaltirle. State pronti ad aprire un passaggio interdimensionale, alle coordinate che vi trasmetto...».
 
   L’appena reintegrato Ammiraglio Radek uscì dal turboascensore, entrando a passo svelto nella plancia del Moloch. Dette una rapida occhiata allo schermo, una ancor più rapida a Giely, e poi si concentrò sulla Presidente. «Mi hanno aggiornato sulla situazione. Quante navi ci restano?» chiese, con un’espressione da «te l’avevo detto che senza di me avresti combinato un casino».
   «Dieci» rispose Rangda a malincuore. Fu in quell’attimo che la Scorpion aprì il fuoco, disintegrando l’ennesimo vascello. «Nove» si corresse la Zakdorn, livida in volto.
   «L’unico modo di salvarci è ripristinare i sistemi tattici, o almeno la propulsione. C’è modo di riparare il computer?» chiese il Rigeliano.
   «I tecnici dicono che...» cominciò un ufficiale.
   «Non m’interessano i tecnici. Che ne pensa la sabotatrice?» chiese l’Ammiraglio, dirigendosi verso Giely. «Allora, dottoressa Eris, ha un antivirus?».
   «No, e anche se l’avessi non ve lo darei» rispose la Vorta. «Comunque il mio vero nome è Giely».
   «Bene, dottoressa Giely, adesso le spiego come funziona. Se rifiuta di collaborare, la frusteremo finché non cambierà idea» minacciò l’Ammiraglio, impugnando una frusta neurale. Anche le Guardie Presidenziali impugnarono quegli strumenti di tortura.
   «Crede di spaventarmi? Se sopravviviamo, Rangda mi ha già promesso una sorte peggiore della morte» rivelò Giely.
   «Ha fatto questo?!» gridò Radek, rivolgendosi alla dittatrice. «Lei è davvero una vecchia rimbambita! Adesso la Vorta non parlerà più, neanche sotto tortura!».
   «Tenga a freno la lingua, se non vuole che la rispedisca in cella!» berciò la Zakdorn. «Pensi a farla parlare, piuttosto! La scortichi viva, se necessario!» lo incitò.
   Fremente di rabbia, l’Ammiraglio si rivolse nuovamente a Giely. «Non avrei mai voluto arrivare a questo punto, dottoressa, ma lei non mi lascia altra scelta» disse, preparandosi a frustarla.
   «Davvero non voleva? Lei ha preso migliaia di decisioni in vita sua, Ammiraglio, e tutte l’hanno condotta qui» ritorse Giely. «Ogni volta che ha dovuto fare una scelta, lei ha fatto quella più spietata. Quindi non mi venga a dire che “non voleva”. S’è messo al servizio di un mostro, sapendo che genere di ordini le avrebbe dato» disse, accennando a Rangda. «E sa qual è l’unica cosa peggiore di un mostro? I mostriciattoli zelanti che fanno il lavoro sporco per lui. Siete voi che date il potere alla dittatrice!» esclamò, rivolta a tutti i Pacificatori.
   «Non ascoltatela! È una manipolatrice piena d’odio, che vuole renderci tutti schiavi degli Umani!» ululò Rangda, dal fondo della plancia. «La dovete punire! Fatemi sentire le sue urla!» ordinò con la bava alla bocca, puntando il dito simile a un artiglio.
   L’Ammiraglio e le guardie attivarono le fruste neurali e le fecero schioccare, pronti a colpire. Ma Giely fissava lo schermo alle loro spalle, su cui vedeva avvicinarsi il Centurion. E quando sentì il formicolio del teletrasporto, seppe d’essere salva. «Addio e buona dannazione» disse, mentre il bagliore azzurro l’avvolgeva, traendola dalla nave condannata.
 
   La dottoressa si ritrovò nel comparto mediano del Centurion, che stranamente era vuoto. Il tavolo da pranzo e le sedie erano stati rimossi, come per fare spazio a qualcosa di voluminoso. Ma al momento c’era solo lei. Fece qualche passo, guardandosi attorno. Stentava a credere che il suo esilio fosse terminato.
   «Giely?» chiese una voce familiare alle sue spalle.
   La Vorta si girò di scatto e vide Rivera sulla soglia; doveva essere appena giunto dalla cabina. Aveva i capelli più corti di come lo ricordava, gli occhi cerchiati dalla stanchezza e dai dolori, ma era lui. «Ti aspettavo» disse Giely con voce tremante; la sua vista si appannò di lacrime.
   «Non sapevo che tu fossi ancora... voglio dire, ho saputo di te solo pochi giorni fa» mormorò il Capitano, avvicinandosi cautamente. «Ti ho pianta per un anno, senza sapere che dovevo cercarti. Perdonami se non l’ho capito prima. Ti amo più che mai, querida, e vorrei che tornassimo insieme... se sei d’accordo».
   Giely avrebbe voluto rispondere, ma aveva un groppo in gola per l’emozione. Così si limitò ad annuire, mentre calde lacrime le bagnavano il volto. L’attimo dopo erano l’una nelle braccia dell’altro, a stringersi forte, a baciarsi, a mischiare le loro lacrime di gioia.
 
   Nello spazio, la Destiny si disimpegnò dal combattimento, allontanandosi da Dytallix. Agli occhi dei Pacificatori sembrava una ritirata. Ma quando fu a una certa distanza, la nave federale fece dietrofront e si fermò. Invece di usare le armi, attivò il deflettore. Un raggio gravitonico balenò nello spazio, superando il Moloch e aprendo una fenditura interdimensionale poco più avanti. Il vortice dorato si aprì come un imbuto, formando il passaggio verso un’altra realtà. La destinazione era quel cosmo nero, privo di stelle e pianeti, che gli avventurieri avevano battezzato il Vuoto.
   Se il Moloch avesse avuto ancora il controllo della propulsione, avrebbe deviato la sua traiettoria, schivando facilmente il passaggio. Ma era ancora paralizzato dal sabotaggio di Giely. Il suo unico moto era in linea retta, trascinato dall’inerzia. Una delle altre astronavi abbassò gli scudi, per teletrasportare in salvo la Presidente e il suo Stato Maggiore. Prima che potesse farlo, fu disintegrata dalla Scorpion. Allora gli ultimi sette vascelli confederali fuggirono, abbandonando i propri leader al loro destino.
   Il Moloch proseguì la sua corsa, attraversando la soglia tra le realtà. Prima la prua, poi le fiancate massicce, infine la poppa dai propulsori scarlatti scomparvero nel vortice dorato. Era la prima nave confederale ad aver mai raggiunto il Vuoto. Pochi attimi dopo la Destiny lanciò un secondo impulso gravimetrico, di frequenza speculare al primo. Colpì il varco e lo destabilizzò a livello subatomico. Il vortice pulsò, si restrinse, infine collassò in un lampo. Il Moloch era svanito e solo gli avventurieri ne conoscevano la sorte. I loro tre vascelli – la Destiny, il Centurion e la Scorpion – si allontanarono a massima velocità da Dytallix, lasciandosi dietro i resti contorti della battaglia.
 
   Vedendo Giely che svaniva nel teletrasporto, Radek e le guardie gettarono le fruste neurali e impugnarono i phaser. Non fecero in tempo ad aprire il fuoco. Dietro di loro, Rangda lanciò un grido animalesco di collera. Ma le sorprese erano appena iniziate. Il trasferimento della Vorta, infatti, era stato bidirezionale: una funzione che i teletrasporti confederali non possedevano. Vale a dire che Giely era stata scambiata di posto con qualcos’altro. Sembrava una camera di contenimento, posta su una base a otto raggi che occupava tutta la pedana. La camera in sé era una bolla semitrasparente, attraverso cui filtrava un’intensa luce bianco-azzurra.
   «E questo cos’è?!» chiese l’Ammiraglio, avvicinandosi cautamente. Alle sue parole alcuni tecnici e ufficiali si accostarono, esaminandolo per cercare la risposta. Prima che potessero scoprirlo, furono distratti da un allarme del timoniere: «Davanti a noi!».
   I Pacificatori si girarono verso lo schermo principale e videro avvicinarsi un vortice dorato, attraverso cui spiccava una chiazza nero pece, senza nemmeno una stella. «Ditemi che non è vero...» mormorò Radek, sentendosi le gambe molli.
   «La Destiny lo ha aperto un attimo fa, con un raggio gravimetrico» riferì l’addetto ai sensori, mentre lo analizzava. «È confermato, si tratta di un varco interdimensionale. Lo attraverseremo fra trenta secondi».
   «Cambiate traiettoria!» gridò Rangda.
   «Eccellenza, non si può. Siamo sempre senza propulsione».
   «Beh, allora... abbandoniamo la nave!».
   «Non c’è tempo, e comunque gli hangar sono ancora sigillati».
   La Zakdorn fissò l’Ammiraglio, come aspettandosi che lui trovasse magicamente la soluzione. Questi rifletté brevemente, poi dette un ordine: «Decomprimere la stiva di carico 1. La spinta dell’aria ci farà deviare».
   Gli ufficiali eseguirono, ma quando iniziarono la decompressione il Moloch stava già attraversando il varco. La spinta inoltre fu risibile, data l’enorme massa dell’astronave. Così il vascello corazzato attraversò la soglia tra le realtà, ritrovandosi dall’altra parte. I Pacificatori fissarono lo schermo, intimoriti. Davanti a loro si stendeva un’oscurità infinita e terribile.
   «E adesso dove siamo finiti?!» chiese Rangda.
   «Dove ha scelto il nemico» borbottò Radek.
   «Ammiraglio, il varco... s’è chiuso dietro di noi» disse l’addetto ai sensori.
   «Come, chiuso?!» ripeté stupidamente la Zakdorn.
   «S’è chiuso, per le stelle! È il contrario di aperto!» tuonò il Rigeliano, esasperato. «Ora siamo esiliati in questo cosmo sconosciuto, senza alcuna possibilità di tornare! Questa nave sarà pure all’avanguardia, ma non può viaggiare tra le realtà!».
   «Vuol dire che non torneremo mai più alla Confederazione? No, mi rifiuto d’accettarlo. Ho troppe cose da fare, non posso arrendermi così» disse Rangda. «Dopo aver ripulito il computer, modificheremo il nucleo e il deflettore. Abbiamo in memoria i progetti della nostra Destiny, prima che andasse smarrita. Li useremo per adattare il Moloch. Non mi credete?!» chiese, rivolgendosi a tutti i presenti. «Eppure dovreste sapere che è il destino a volermi in sella alla Confederazione. Quest’esperienza non farà che renderci più uniti. Torneremo indietro, più forti di prima, e allora...».
   Il suo monologo fu interrotto dal ronzio, sempre più insistente, della camera di contenimento. I Pacificatori se n’erano quasi dimenticati, ma quel suono preoccupante richiamò la loro attenzione. Corsero alla camera armonica, splendente d’azzurro, e la esaminarono.
   «Allora, di che si tratta?» chiese Rangda, accostandosi a sua volta.
   L’Ammiraglio le indicò una piccola consolle collegata alla camera, su cui spiccava una lettera omega azzurra. «È la Molecola Omega, Eccellenza. E qualcosa mi dice che sono proprio quelle che abbiamo prodotto sulla Terra» disse cupo.
   «Non è possibile!» ansimò la Zakdorn, chinandosi a leggere. «Come ce le hanno portate?!».
   «Ha importanza? Ci sono ancora un centinaio di molecole, qui dentro. Abbastanza da vaporizzare questa nave. E si stanno destabilizzando» rivelò il Rigeliano.
   «Beh, stabilizzatele, idioti! Non state lì impalati!» gridò la dittatrice.
   In realtà i Pacificatori erano già al lavoro, ma la camera armonica aveva una sequenza di spegnimento impostata e non sapevano come fermarla. Il ronzio divenne sempre più forte, l’agitazione crebbe.
   «Quanto tempo abbiamo?» chiese Rangda, tremando come una vecchia foglia secca, sul punto di cadere.
   Senza dire nulla, Radek le indicò un piccolo contatore. Nei suoi occhi balenava una muta accusa.
   La Zakdorn si accostò per leggere e si sentì mancare. Mancavano dieci secondi al cedimento dei campi armonici. Il tempo, il predatore contro cui aveva lottato per tanti anni, l’aveva finalmente agguantata. Nove... otto... sette...
   «Sa, l’importante non è trionfare sul campo di battaglia» mormorò la dittatrice, osservando i numeri che correvano verso lo zero. Sei... cinque... quattro... «Ciò che conta è la vittoria morale, e quella è certamente nostra» concluse. Tre... due... uno...
   «Vorrei crederci» bisbigliò l’Ammiraglio, sapendo in cuor suo che non era così. Chinò il capo e chiuse gli occhi, accettando la sconfitta.
   Zero.
 
   Cinque giorni dopo la Destiny orbitava attorno a Rator III, nella Repubblica Romulana. La flotta ribelle si era radunata lì, dopo l’evacuazione di Dytallix. Il bilancio della battaglia era pesante: su settanta navi della Catena Cremisi, trenta erano state distrutte. Le rimanenti, come anche la Destiny, avevano sbarcato i civili salvati dalle persecuzioni confederali. I Figli della Cura avrebbero potuto crescere, sia pure esiliati dai loro mondi. Ora le astronavi indugiavano nell’orbita, poiché necessitavano di riparazioni.
   La Destiny aveva subito danni considerevoli, tanto che sarebbero servite due settimane per rimetterla in sesto, nonostante l’opera infaticabile degli ingegneri e degli Exocomp. Anche la Scorpion aveva riportato danni, ma si stava riparando da sola, grazie alla sua tecnologia organica. Bastava esporla alla luce solare e fornirle alcuni supplementi organici affinché i tessuti lesionati si rigenerassero. Solo il Centurion era intatto; l’unica incombenza fu risistemare il tavolo e le sedie nella sezione mediana.
   Le vittime della battaglia, escludendo il traditore Atrevius, erano salite a cinque. Sommando i caduti nella missione sulla Terra, diventavano sedici. Si trattava della più grave perdita che avesse mai colpito l’equipaggio, da quand’era iniziata la loro odissea nel Multiverso. All’atto pratico non sorgevano problemi a governare la nave, poiché nell’ultimo anno parecchi avventurieri dello Specchio si erano uniti alla Destiny, rinsanguandone l’equipaggio. Ma era un duro colpo per il morale di bordo.
   Particolarmente cocente fu la morte di Svetlana, la Consigliera che per prima li aveva aiutati a comprendere quella realtà, guidandoli nei momenti più difficili. A Rivera dispiaceva non poterla seppellire sulla Terra, sapendo quanto lei vi tenesse. Dovette invece lasciarla su quella colonia aliena, con una lapide su cui incise il suo motto preferito: Fortuna favet fortibus, la sorte aiuta gli audaci. Al funerale partecipò una folla imponente, poiché oltre ai compagni della Destiny c’erano Wolff e altri ribelli, e persino alcuni ufficiali Romulani in borghese. Nel suo discorso, il Capitano cercò di spiegare quanto fosse stato cruciale il ruolo della Consigliera, dai suoi primi giorni sulla Destiny fino all’ultima missione. Tuttavia ricordò qualcosa che Svetlana stessa gli aveva detto: «È inutile contare sulla memoria dei posteri, giacché gli uomini non conoscono nemmeno se stessi; come potrebbero conoscere chi è già morto?».
   Al termine della cerimonia, Rivera e Giely si trattennero presso la tomba. Il Capitano aveva raccontato alla compagna le circostanze della morte di Svetlana, per quanto gli dolesse ricordare quei momenti. «Che ne è stato di Aspen?» chiese a un tratto la Vorta, rompendo il silenzio.
   «È stata cremata, le sue ceneri disperse. Qualcuno aveva suggerito di seppellirla accanto alla madre, ma...».
   «No, meglio così. Qualunque cosa fosse diventata Aspen, non era più sua figlia» disse Giely tristemente, ricordando l’odio implacabile dell’Umana per la sua stessa specie.
   «Mi dispiace che Svetta non possa riposare sulla Terra» mormorò Rivera, osservando la semplice lapide grigia su cui aveva inciso con le sue mani il motto latino.
   «Non dolerti per i morti» consigliò la Vorta, rivolgendo un caro pensiero a Ome’tikal. «Semmai fallo per i vivi che soffrono. Tu sei stato due volte sulla Terra, ma io ci ho trascorso un anno intero. Se avessi visto in che condizioni miserevoli vivono i Terrani... al buio e al gelo... nutrendosi d’insetti... contaminati dalle polveri tossiche... indottrinati a odiare se stessi. Forse è un bene che Svetta riposi qui».
   «Eppure dev’esserci un modo per aiutare la Terra!» disse il Capitano, dandosi un pugno sul palmo. «Forse possiamo fare qualcosa per il cielo coperto, da cui derivano gli altri problemi ambientali. E se i Terrani potranno rivedere le stelle, chissà che non ritrovino un briciolo d’audacia e di speranza...» rimuginò.
 
   Quattordici giorni dopo, la Destiny giunse occultata nel sistema solare. I sensori indicarono che i Pacificatori non erano ancora tornati, dopo l’evacuazione di tre settimane prima, quando avevano cercato di distruggere l’umanità con le Particelle Omega. Non c’era un solo vascello militare in tutto il sistema e anche il presidio sull’Himalaya era pressoché abbandonato.
   «Questo è strano» commentò Losira. «Non vorrei che fossero occultati, pronti a tenderci un agguato».
   «Le scansioni anti-occultamento danno esito negativo» notò Talyn. L’esperienza dell’ultimo anno aveva insegnato che, nello Specchio, i dispositivi d’occultamento erano meno avanzati, tanto che i sensori della Destiny riuscivano a penetrarli.
   «La morte di Rangda ha scatenato la lotta per la successione. È probabile che i Pacificatori siano troppo occupati a combattersi per mandare navi e truppe a rioccupare il sistema solare» disse Naskeel.
   «Dobbiamo correre il rischio. Avviciniamoci alla Terra» decise il Capitano.
   Giunta nell’orbita terrestre, la Destiny uscì dall’occultamento. Il Centurion e la Scorpion lasciarono gli hangar, per offrire copertura in caso di attacco. Ma non ce ne fu bisogno. La Destiny aveva ormai una tale fama che, in mancanza dei Pacificatori, ci fu un fuggi-fuggi di navi mercantili. Shati orientò la nave in modo che il deflettore puntasse direttamente contro il polo nord, dove c’era il massimo addensamento di ceneri. Vista da lì, la Terra era una palla grigia e smorta; si stentava a credere che sotto quella cappa tossica vivessero delle persone. Ma tutto questo stava per cambiare.
   «Lanciare l’impulso ionico» ordinò Rivera.
   «Bene, Capitano» disse Irvik, avviando la procedura dalla sua postazione di plancia.
   Il deflettore della Destiny brillò, emettendo una scarica ionizzante che andò a colpire lo strato di polveri. Dall’area colpita si allargarono dei bagliori azzurri. Erano tempeste di fulmini, dovute all’accumulo di carica statica tra le polveri. Gradualmente le nubi assunsero tonalità più calde, fra il giallo e l’arancio. Era un buon segno: le particelle volatili stavano formando plasma. Ben presto la Terra parve un globo incandescente.
   «È sicuro tutto questo?» chiese Giely, che assisteva dalla poltrona del Consigliere.
   «Sicurissimo. Il plasma si trova solo negli strati atmosferici più alti; la superficie è intatta» la rassicurò Irvik. Di lì a poco riprese la parola: «È quasi il momento. Avviciniamoci per assorbire la scarica di plasma».
   «Mettiamo il dito nella presa, così non andrà in corto circuito!» borbottò Shati, ma fece quanto richiesto. Raddrizzò la Destiny, in modo da rivolgere il ventre della nave alla superficie terrestre, e poi la calò nell’atmosfera, fermandosi a un’altitudine di 40 km.
   «A momenti il plasma ci verrà contro, attirato dagli scudi. Reggetevi, dobbiamo assorbire tutta l’energia atmosferica» avvertì l’Ingegnere Capo.
   Le nubi incandescenti si sollevarono, formando un immenso cono la cui estremità si mosse come un serpente nell’atmosfera, cercando una via per scaricarsi. Trovò la Destiny e la colpì con una scarica da milioni di terajoule. L’astronave vibrò mentre gli scudi assorbivano l’energia.
   «Non c’è pericolo per noi, vero?» chiese Losira.
   «Tsk, questa nave ne ha viste di peggio» la rassicurò Irvik. «Dobbiamo solo lasciare che il plasma si scarichi. Guardate, cominciano già a vedersi gli effetti!» disse, indicando lo schermo con la mano tridattila.
   Effettivamente nel manto nuvoloso si stavano aprendo delle chiazze, per la prima volta da trent’anni. Le schiarite divennero sempre più ampie, unendosi progressivamente tra loro. Quanti vivevano a terra alzarono gli occhi con stupore e meraviglia, proteggendosi dal sole a cui non erano più abituati. Alcuni furono presi dal panico e fuggirono in casa, o in qualunque altro luogo chiuso, come Morlock timorosi della luce. Chi aveva meno di trent’anni, ed era sempre vissuto sulla Terra, non aveva mai visto il cielo sgombro. Non conosceva il fulgore del sole, né il chiarore di luna e stelle. Ma per tanti che fuggivano dalla luce, altri – che la ricordavano o ne avevano udito parlare – uscirono ad ammirarla, gettando i pesanti cappotti. Presto il calore cominciò a sciogliere la neve e i ghiacci che imprigionavano il pianeta. Per la prima volta da trent’anni era primavera. Qua e là spuntarono le prime timide gemme, i primi germogli verdi.
   «È fatta, l’atmosfera boreale è ripulita!» esultò Irvik. «Ora dobbiamo fare lo stesso con quella australe».
   Shati riprese quota, riportando la Destiny in un’orbita stabile. Dopo un rapido controllo, che non evidenziò guasti, l’intera operazione fu ripetuta con l’altro emisfero. Solo allora l’atmosfera fu schiarita a sufficienza. In realtà c’era ancora molto da fare, poiché gran parte del suolo era avvelenato da decenni di piogge acide e dalla caduta di polveri contaminate. Ma questo era un compito di cui solo i Terrani potevano occuparsi, nei tempi a venire.
   Risalita ancora una volta nell’orbita, la Destiny stazionò a una distanza tale da consentire agli avventurieri di osservare il risultato delle loro fatiche. «Beh, ora somiglia un po’ di più alla nostra Terra» disse Rivera, commosso.
   «Ma gli abitanti faranno il resto del lavoro?» si chiese Irvik, dubbioso.
   «Speriamo. Talyn, trasmetti su tutte le frequenze» ordinò il Capitano. Fatto un profondo respiro, pronunciò il breve discorso che aveva preparato. «Salve, abitanti della Terra. Sono il Capitano Rivera della Destiny, e vi parlo a nome di tutto l’equipaggio. Non dubito che molti di voi, forse la maggior parte, ci detestano dopo ciò che la Confederazione vi ha detto sul nostro conto. Ma la verità è che, se non fosse per il sacrificio di molti dei nostri – tra cui voglio citare la dottoressa Svetlana Smirnova – la Terra sarebbe stata devastata da un disastro ecologico ordito dai Pacificatori. Se non ci credete, chiedetevi perché abbiano abbandonato il pianeta in massa, subito prima che il Centro Ricerche di Curvatura esplodesse. Abbiamo evitato le conseguenze peggiori, ma non basta.
   Siamo tornati per esaudire l’ultimo desiderio della nostra amica Svetta: offrirvi la possibilità di ricominciare. Come vedete, abbiamo ripulito l’atmosfera terrestre dalla cappa tossica che la copriva da trent’anni, e che i Pacificatori si sono sempre rifiutati di rimuovere. Ma c’è ancora tanto, tantissimo da fare prima che il vostro pianeta possa realmente rifiorire. Gli unici a potersene occupare siete voi, se decidete di rimboccarvi le maniche, anziché piangervi addosso. E ora lascio la parola alla dottoressa Giely, più nota come Eris, che ha vissuto sulla Terra e ha curato molti di voi».
   «Salve, concittadini; vi chiamo così perché anch’io sono cittadina della Confederazione» esordì la Vorta, emozionata. «Voglio dirvi solo una cosa. Ai tempi dell’Impero Terrestre, gli Umani erano orgogliosi del loro predominio e le altre specie vivevano nella vergogna della sconfitta e dell’asservimento. Ora i ruoli si sono invertiti: gli alieni sono orgogliosi e gli Umani si vergognano di se stessi. Come vedete, nessuno ha imparato niente. Se le cose continuano così, il pendolo della Storia tornerà a oscillare, finché una delle parti annienterà del tutto l’altra.
   Vi esorto quindi a rompere questo circolo vizioso, cercando la via della conciliazione. Vedete, l’orgoglio e la vergogna sono due facce dello stesso errore: l’incapacità di rapportarsi con gli altri. L’unico antidoto è una sana umiltà. Smettetela coi rancori, le vendette, le punizioni auto-inflitte, perché queste cose non hanno mai prodotto nulla di buono. Cominciate invece ad ascoltarvi, a perdonarvi, ad aiutarvi l’un l’altro. Siete gli unici che possano risanare la Terra, quindi cominciate oggi stesso, un passo alla volta. Addio, e buona fortuna!».
 
   Una volta che il Centurion e la Scorpion furono rientrati negli hangar, la Destiny lasciò l’orbita terrestre, puntando verso lo spazio aperto. Ma l’attendeva un’ultima sorpresa. Prima che potesse balzare a cavitazione, infatti, si trovò di fronte una flotta in assetto di guerra, appena arrivata.
   «Sono vascelli dei Pacificatori!» avvertì Talyn. «Quarantasette, tutti con equipaggio».
   «Allarme Rosso! Manovre evasive, andiamocene di qui!» ordinò Rivera.
   «Un momento, ci chiamano» disse l’El-Auriano. «Le navi mantengono la posizione, con le armi disattivate».
   «È un trucco, filiamo!» esclamò Losira.
   «No, un momento» fece Rivera, alzando la mano verso Shati per indicarle di aspettare. «Sentiamo che hanno da dire. Al primo cenno ostile balziamo a cavitazione».
   Sullo schermo apparve un’Elaysiana dai corti capelli grigi, con qualche traccia di biondo. «Salve, Capitano Rivera. Non mi aspettavo di trovarvi qui, ma... tanto meglio. Sono il Ministro degli Interni Hod, ora presidente ad interim della Confederazione» esordì.
   «Congratulazioni per la sua nomina» ironizzò Rivera. «Vuol ringraziarci per averle spianato la strada?».
   «In verità, devo ringraziarvi per avermi salvato la vita» rivelò l’Elaysiana. «Vedete, negli ultimi tempi ero entrata in contrasto con Rangda. Così, quando ha deciso di fare... quello che sapete alla Terra, ha fatto in modo che io mi trovassi lì sul pianeta. Se non vi foste occupati di Omega, sarei certamente morta. Stando così le cose, invece, la mia lontananza dal Moloch è stata la mia salvezza. Essendo la più alta carica dello Stato ancora in vita, ho assunto la presidenza in attesa delle prossime elezioni».
   «Il destino gioca strani scherzi. E ora che ha avuto quest’opportunità, come intende usarla?» chiese il Capitano, ancora cauto.
   «Ebbene, il maggior punto di dissenso tra me e Rangda era dato dalla Petizione dei Diecimila e dalla conseguente eliminazione dei Figli della Cura» rivelò Hod. «A mio giudizio, la Petizione manca di scientificità, per cui gli aborti forzati e la soppressione dei neonati sono un’ingiustificata barbarie. Del resto i recenti esami condotti sui neonati hanno confermato senza ombra di dubbio che sono sani. Alla luce di questi fatti, ho emanato un decreto legislativo che annulla il precedente. D’ora in poi il siero anti-sterilità sarà legale, sulla Terra e in tutta la Confederazione. Chi vuole avere figli potrà farlo in piena sicurezza, senza timore di persecuzioni. I responsabili della Petizione saranno espulsi dall’Ordine dei Medici e andranno incontro a severe sanzioni. Stiamo anche lavorando a qualche forma di risarcimento per chi è stato colpito da questa tragica vicenda, compresi quelli che hanno dovuto fuggire oltreconfine, e che ora possono rimpatriare».
   «Questa è la più bella notizia che sento dal nostro arrivo» disse Rivera. «Porterà consensi a voi, e pace alla Confederazione».
   «Naturalmente sarà difficile rilanciare l’economia, dopo tutti i sabotaggi che ci avete inflitto» aggiunse Hod, facendosi severa. «Omega si è rivelata troppo pericolosa, quindi dovremo guardare in altre direzioni. Tanto per cominciare, eliminerò quelle assurde limitazioni alla velocità di curvatura. Già questo dovrebbe sollevare l’economia d’interi settori. Sono anche pronta a intavolare trattative con la Catena Cremisi, per porre fine a questo conflitto dispendioso e togliere le limitazioni lavorative agli Umani. In sostanza voglio abolire lo stato d’emergenza e tornare alla Costituzione originale, modellata su quella della vostra Federazione».
   «Sarebbe la cosa migliore per tutti» convenne il Capitano. «Se le trattative con la Catena andranno a buon fine, posso sperare che anche noi della Destiny saremo graziati?».
   A questa domanda l’Elaysiana si rabbuiò. «Ahimè, temo che ciò non sia possibile. I vostri continui attacchi alle infrastrutture confederali vi hanno resi il Nemico Pubblico Numero Uno. E Rangda, in una registrazione diffusa dopo la sua morte, ha ordinato ai Pacificatori di braccarvi senza tregua. Già il fatto di legalizzare il siero anti-sterilità mi ha procurato dei nemici, e le trattative con la Catena me ne daranno altri. Non posso trasgredire all’ultimo ordine di Rangda, o la mia posizione si farà insostenibile. Se vincerò le prossime elezioni, forse un giorno sarò abbastanza salda da potervi graziare. Ma di certo non adesso» spiegò.
   «Beh, grazie per la franchezza» commentò Rivera. «Quindi adesso è qui per arrestarci? In tal caso, la avverto che opporremo resistenza».
   «Una nave contro quarantasette? Ma sì, credo che sareste capaci di darci battaglia» ammise Hod, con un misto di rispetto ed esasperazione. «Comunque non sarà necessario. Come ringraziamento personale per avermi salvato la vita, vi lascerò andare... per stavolta».
   «C’è un’altra strada, sa. Se ci desse le coordinate di ritorno per il nostro Universo, noi leveremmo il disturbo. Le posso garantire che non torneremo mai più a darvi fastidi» propose il Capitano.
   «Ah, poveri voi! Credete che non ci avessi già pensato?» fece Hod. «Una delle prime cose che ho fatto, una volta nominata Presidente, è stato cercare quelle coordinate per rispedirvi a casa. Purtroppo non le ho trovate».
   «Come sarebbe?! Lei può accedere alle informazioni più riservate!» s’indignò Rivera. «E sappiamo per certo che l’Impero Terrestre conosceva le coordinate della nostra realtà».
   «L’Impero le conosceva, sì. E ho ragione di credere che anche la Confederazione le sapesse, fino a poco tempo fa» convenne l’Elaysiana. «Ma adesso quell’informazione è sparita. Cancellata da tutti i database, anche i più segreti. Non posso esserne certa, ma... la mia ipotesi è che Rangda l’abbia fatta cancellare, al solo scopo d’intrappolarvi qui. È una cosa di cui sarebbe stata capace, nei suoi ultimi giorni di demenza e d’ossessione».
   «Groan... sì, è nel suo stile» convenne il Capitano, massaggiandosi le tempie. Anche da morta, la dittatrice riusciva a intrappolarli e a perseguitarli. «Allora non c’è altro da dire».
   «Temo di no, per il momento» disse Hod con tristezza. «Forse siete gli eroi che la Confederazione merita, ma non quelli di cui ha bisogno al momento. Perciò dovremo darvi la caccia, o almeno fingere di farlo. Andate, adesso. Vi darò... diciamo un’ora di vantaggio, prima di cominciare l’inseguimento».
   «Addio, allora. O forse arrivederci» concluse Rivera.
   «Arrivederci, spero, a un giorno in cui potremo incontrarci senza che uno di noi debba fuggire dall’altro» augurò la nuova Presidente della Confederazione. 
 

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Capitolo 13
*** Epilogo ***


-Epilogo:
Data Stellare 2613.106
Luogo: Sokar
 
   La Destiny orbitava presso un planetoide carbonioso di nome Sokar, celato nella Distesa di Typhon. Era il nuovo quartier generale della Catena Cremisi, dato che anche lì c’era una miniera abbandonata. Erano già cominciati i lavori per riadattarla al nuovo scopo. Il Capitano Rivera vi scese, sentendo il bisogno di consultarsi con Jack Wolff. Per prima cosa gli riferì del suo incontro con Hod, e delle promesse di quest’ultima.
   «Beh, finora sembra di parola» rispose il leader ribelle. «Ha legalizzato il siero, ed è notizia di oggi che ha tolto le limitazioni alla curvatura. Col tempo spero che farà anche il resto. In caso contrario, noi siamo pronti a continuare la lotta».
   «Voi sì, ma... non ti nascondo che io e il mio equipaggio siamo stanchi» spiegò Rivera. «Senza offesa, ma quest’anno trascorso nello Specchio per noi è stato un anno infernale. Ora che Rangda è morta, gli Umani hanno la cura e le cose cominciano a migliorare, abbiamo deciso di riprendere l’esplorazione del Multiverso» annunciò.
   «Uhm... mi dispiace. Siete stati i nostri migliori alleati, non ce la saremmo cavata senza di voi» riconobbe Wolff. «Mi mancherà la vostra compagnia. Ma capisco perché dovete andare. Capisco la vostra nostalgia» sospirò. «In tutta franchezza... quante sono le vostre probabilità di tornare a casa?».
   «Sigh... quasi nulle, in realtà» confessò il Capitano. «Ora che abbiamo esaurito la lista, dovremo provare delle coordinate a caso. È il Multiverso è immenso, forse infinito. L’unica possibilità è capire quali coordinate ci portano più vicino alla nostra realtà d’origine, in modo da mirare il bersaglio con sempre maggior precisione. Ma per questo serviranno moltissimi tentativi».
   «Se un giorno vi stancaste di provare, sappiate che qui sarete sempre bene accolti» ribadì il leader ribelle.
   «Grazie. In effetti non escludo che un giorno torneremo, per restare» disse Rivera. I due si strinsero la mano. Il Capitano stava per tornare sulla Destiny, quando l’altro lo trattenne con un gesto.
   «Ah, un’ultima cosa» disse Wolff. «Un anno fa mi hai chiesto informazioni sulla scomparsa della CSS Destiny, la vostra nave gemella di questa realtà. All’epoca non ne sapevo nulla, ma ho chiesto alle mie spie e informatori d’indagare. E pochi giorni fa, uno ha trovato qualcosa».
   «Sentiamo» s’interessò Rivera.
   «La CSS Destiny fu varata otto anni fa per indagare su un’interfase di spazio. Saprai di che si tratta...».
   «Certo, è una regione in cui due realtà s’intersecano, per cause naturali o artificiali. Un ponte tra un Universo e un altro».
   «Proprio così. Quell’interfase si aprì di colpo, inghiottendo un intero pianeta» rivelò Wolff. «La Destiny fu inviata per scoprire che ne era stato, se gli abitanti erano ancora vivi. I Pacificatori non osavano mandare una nave tradizionale, men che meno una flotta, per timore che l’interfase le si chiudesse dietro, intrappolandola in quell’altra realtà. E tutte le sonde spedite là dentro non hanno mai fatto ritorno. Così la Confederazione inviò un’astronave che, all’occorrenza, poteva tornare con le sue forze».
   «Però non è mai tornata» puntualizzò Rivera.
   «Già, e questo ha seriamente spaventato i Pacificatori. Pensa che da allora hanno messo l’intero sistema stellare in quarantena, sorvegliato dalle navi-drone. Ed è qui che le cose si fanno interessanti» proseguì il leader ribelle. «Vedi, il mio informatore mi ha dato le coordinate di quel sistema. Eccole, se t’interessano». Al suo cenno un tecnico consegnò al Capitano un d-pad con le informazioni.
   «Qui c’è tutto ciò che sappiamo sulla vicenda, anche se non è molto più di quel che ti ho già detto a voce» spiegò Wolff. «L’ultima cosa importante è questa: le navi-drone non sorvegliano più quel sistema. Sono state richiamate a Dytallix per attaccarci, e naturalmente sono state distrutte con tutte le altre. Suppongo che la nuova Presidente manderà al più presto qualche altro vascello a vigilare. Fino ad allora, però, avete campo libero... se volete osare».
   «Mi stai suggerendo di tuffarmi in quella trappola da cui l’altra Destiny non è mai uscita?!» chiese Rivera, incredulo.
   «Ti sto solo dicendo che, se mai volessi risolvere il mistero, questo è il momento migliore per tentare» chiarì il leader ribelle. «Tu e il tuo equipaggio volete migliorare la vostra comprensione del Multiverso, nella speranza di tornare a casa. Ecco, questa è un’esperienza che potrebbe esservi utile. Non dico che quell’interfase vi riporterà direttamente alla Federazione, ma... chissà! Ad ogni modo, fa’ ciò che credi giusto. Io mi sono limitato a riferirti queste scoperte. Sarai tu a scegliere come usarle, Capitano. La sorte della Destiny è nelle tue mani» disse con gravità.
   Rivera soppesò il d-pad che aveva in mano. Ecco un’altra decisione cruciale, dalla quale potevano dipendere salvezza o rovina. Gli conveniva o no indagare sulla scomparsa della CSS Destiny? I possibili vantaggi compensavano i rischi quasi certi? Ma soprattutto... potevano permettersi di esplorare il Multiverso senza sapere cos’era successo all’altra nave, e quindi poteva capitare anche a loro?
   «Mah sì, perché non tentare?» mormorò il Capitano, occhieggiando le coordinate dell’interfase.
 
 
FINE
 
 

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