Sette Giorni

di Eurinome
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Giovedì ***
Capitolo 2: *** Venerdì ***



Capitolo 1
*** Giovedì ***


Sette giorni_ Giovedì

 

 

Sette Giorni

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Lo so che dovrei terminare l'altra long-fic ma ho voluto iniziare a scrivere questa "storia" e mi ha sorprendentemente preso come MRA non faceva più da tempo...

Ora, non ho grandi pretese per questo testo, che tra l'altro devo ancora terminare (per quanto per una volta ho tutta la trama definita) ma la prendo più che altro come un... esercizio.

Nonostante ciò mi farebbe piacere sapere come va questo esercizio che ho in ogni caso intenzione di terminare, ahivoi.

 

 

1.Giovedì

 

La spiaggia è assolata, ma un piacevolissimo venticello rende l’aria fresca e mi impedisce di trasformarmi in un arrosto umano nel giro di due secondi. Alzo lo sguardo e vedo l’acqua cristallina infrangersi in onde delicate sulla battigia dove la gente cammina con aria rilassata e felice.

 

 

Beh, un vero e proprio paradiso.

 

 

Poi sbatto le palpebre e il mare cristallino verde-azzurro torna a essere il muro tristemente verdognolo, la sabbia fine come cipria: il linoleum rovinato di un terribile beigiolino.

Per quel che riguarda la gente felice e rilassata, ora che sono tornato alla realtà, è sparita cedendo il passo alle facce assonnate dei miei compagni di scuola, rassegnati a rimanere in classe per un altro interminabile paio d’ore.

La  Iacovilli dal canto suo, del tutto inconscia delle fantasticherie mie e dei miei compagni, continua imperterrita a spiegare di non so quale teoria di non so quale filosofo, o è l’ora di storia?, una delle tante lezioni che sarebbero irrimediabilmente scivolate via per essere riesumate solo in vista delle interrogazioni.

 

 

Di fianco a me Giovanni si scarabocchia tranquillo un polso disegnando un tribale niente male. Quando si accorge che lo osservo mi avvicina la sua opera d’arte sorridendo orgoglioso. Alzo un pollice sotto il banco per comunicargli il mio apprezzamento per le sue doti artistiche mentre lui strappa un pezzo di carta dal quaderno degli appunti, su cui posa la penna solo per disegnare, e butta giù un paio di righe con la sua bella calligrafia.

 

 

“Oh certo che la Iacovilli è peggiorata, pure d’Alberti sta dormendo!”

 

 

D’Alberti è il secchione in carica della nostra sezione, famoso per il suo infervorato latinismo e per conoscere a memoria quasi tutte le opere di Seneca, oltre che per il suo abbigliamento da nerd tipo; il suddetto sta disperatamente cercando di resistere all’effetto soporifero della Iacovilli prendendo appunti, ma neanche quello è riuscito a salvarlo.

Sghignazzo piano guardando di sottecchi Giovanni che ostenta la più innocente delle espressioni mentre continua bellamente a farsi gli affari suoi.

 

 

Provo a tornare nel mi paradiso privato, ma niente, il muro e il linoleum continuano testardamente ad essere loro stessi, lasciandomi intrappolato nella realtà. Rassegnato butto un occhio all’orologio: l’una e mezza, manca ancora mezz’ora prima di fuggire da questa sottospecie di Alcatraz formato adolescenti. Maledizione a me e al giorno in cui ho deciso di fare il liceo classico. Maledizione anche ai miei che mi hanno lasciato tuffare in quest’avventura per niente piacevole.

 

 

Sbadiglio e torno a guardare Giovanni che apporta le ultime modifiche alla sua opera d’arte, poi decido di fare qualcosa anch’io, giusto per passare il tempo. Mi sfilo gli occhiali (passare giornate su un dizionario di greco o latino nuoce gravemente alla vista, dato che sono diventato miope tanto da non distinguere più le scritte alla lavagna) e apro il quaderno che deve essere imparentato con quello di Gio’ visto e considerato che lo uso solo per disegnare. A dire il vero c’è anche qualcosa riguardante la scuola ma si tratta di frasi di varie materie mescolate fra di loro in modo del tutto insensato.

 

 

Frugo nell’astuccio, amabilmente decorato da ghirigori di Gio’ in questi cinque mesi di convivenza forzata, fino a trovare un mozzicone di matita, la biro nera e un pezzo di gomma sbranata a colpi di righello, reduce da una lezione di greco particolarmente terrorizzante (quando mi trovo sotto pressione tendo ad essere piuttosto distruttivo) pronto a mettermi all’opera.

 

 

Sbircio l’orologio: l’una e trentacinque, ben venticinque minuti per affinare il mio talento artistico.

La prospettiva di avere qualcosa di mio gusto da fare, ha cambiato diametralmente il mio punto di vista.

 

 

Mentre finisco di sbozzare il profilo del mio modello immaginario, un suon paradisiaco mi giunge ai timpani: l’ultima campanella del giovedì, quella che annuncia la fine di sei ore di tortura, la più amata della settimana, seconda solo a quella che segna il termine delle due terrorizzanti ore di greco del venerdì.

 

 

Veloci come razzi ventidue adolescenti infilano libri e varie negli zaini schizzando fuori dall’aula biascicando un vago “Arrivederci” alla prof. che, forse più felice di noi, raccatta tutta la sua roba per seguire il nostro esempio e fuggire.

Ecco forse questo è uno dei pochi pregi di quella donna: a differenza di molti colleghi al suono della campanella non continua sadicamente a spiegare ma se la dà a gambe a tutta velocità.

 

 

Solo Giovanni, al suo solito, impiega quella che mi sembra un’eternità a riporre le sue quattro cose con metodica precisione nell’Eastpak mezzo scassato.

 

 

-Guarda che se ti scoccia aspettarmi puoi anche andare- borbotta mentre mette i libri in ordine di altezza. Sembra quasi che lo faccia apposta a metterci un’eternità per il semplice gusto di irritarmi.

Mi siedo sull’angolo del banco vicino e lo guardo rassegnato, tanto lo sa che non me ne vado, lo aspetto sempre, e afferro il pacchetto maciullato di sigarette che si è ficcato sul fondo dello zaino, l’accendino al solito è disperso.

Constatando lo stato del pacchetto mi lascio uscire un’esclamazione di sconforto

 

 

-Ed è esattamente per questo che io tengo le mie cose in ordine- esclama tirando fuori le sue perfettamente integre con l’accendino riposto accuratamente nel pacchetto.

 

 

Guardandolo storto mi infilo il pacchetto nella tasca dei jeans e acchiappo lo spallaccio dell’Invicta buttandolo su una spalla di malagrazia.

Gio’ si infila il piumino e butta un’occhiata alla finestra sospirando: il tempo è veramente orrido tra le nuvole quasi nere e il vento gelido ma grazie al cielo non piove, non ancora almeno. Il mio amico mi guarda e impietosito al pensiero di me alla fermata dell’autobus sotto la pioggia mi chiede se voglio uno strappo fino a casa.

 

 

-Io e te su quell’ affare con la pioggia?- già lui non è precisamente Valentino, oltretutto il suo è lo scooter più scassato che abbia mai visto, una specie di catorcio che si muove grazie ad un motore asmatico, di cui Gio’ si è, inspiegabilmente e perdutamente, innamorato.

 

 

-Chiamalo ancora affare e ti lascio a fare la muffa alla fermata- mi risponde senza neanche voltarsi piazzando quel mattone che è il libro di filosofia -e comunque mamma mi ha prestato la sua macchina-

Ecco, di bene in meglio, la macchina in questione è una Fiat Punto immatricolata nel ’98 circa il cui colore originale è ormai andato dimenticato, leggenda vuole che fosse verde ma io ho sempre creduto che fosse più sul celeste (Tra l’altro: lo scooter sta a Gio’ come la Punto a sua madre)

-Va beh scusa ma se vengo a studiare da te è un problema?- non mi va di tornare subito a casa.

 

 

Nel mentre siamo riusciti a superare l’orda dei nostri “colleghi” ammassati nell’atrio (chiamarlo atrio non è un’iperbole e puro ottimismo: un trenta o quaranta metri quadri con tanto di scale ad ostruire) usciamo finalmente dal portone. La prima cosa che facciamo e infilare la mano in tasca e accenderci una meritata sigaretta.

 

 

-Leo, scusa, ma da quand’è che noi studiamo a casa mia?- sghignazza mentre tiro la prima boccata. Espiro e lo guardo –Dillo che hai paura che ti faccia a pezzi-

Mi riferisco ai nostri tornei di videogame quasi tutti disputati a casa sua visto che è riuscito a mettere le mani su una Play 3, a mia differenza che sono rimasto alla Play 1, un reperto bellico praticamente.

 

 

-Ma vattene! Da quando tu sei in grado di battere me, Supremo Re dei Videogiochi?!- esclama sottolineando le sue parole con movimenti circolari della mano con cui tiene la sigaretta.

Schivo uno dei suoi fendenti e gli do uno spintone ridacchiando –E piano co’ sta sigaretta che prima o poi becchi qualcuno…-

Alza gli occhi al cielo e scrolla la cenere –E va, bene vieni da me se proprio ci tieni barbone- dice con la sua migliore aria da stronzo

–Grazie della concessione Vostra Altezza- ribatto mentre scaraventiamo gli zaini nel bagagliaio. Butto il mozzicone e lo spengo col tacco dello stivale mentre mi siedo sul sedile e ne accendo un’altra.

-Ciminiera- commenta Gio’ sedendosi al volante.

 

 

Mentre mette in moto mi guardo riflesso nello specchietto laterale e poi sbircio Gio’, quasi confrontandoci. Non c’è storia. Lui con la sua faccia da angelo bastardo e i boccoli di un biondo chiarissimo (presente quel tipo di capello che non è riccio ma nemmeno mosso, insomma roba da dipinto di Raffaello, che può vantare solo l’un per cento della popolazione? Ecco quello.), apparentemente impermeabili all’umidità che mi ha trasformato nella controfigura di Simba, è capace di far venire un complesso di inferiorità a chiunque non appartenga alla sua stessa specie. Faccio un tiro nervoso e cerco di far uscire il fumo dallo spiraglio del finestrino aperto.

 

 

-Scusa, ma non devi avvertire i tuoi?- Chiede mentre ingrana la marcia maltrattando il cambio.

-Ah, sì- mugugno distrattamente mentre comincio a mandare l’SMS; chissà perché ho sempre l’impressione che a mia madre faccia piacere non avermi troppo intorno… -ok, fatto- poi passo ad una cosa più urgente –Takeaway di Mac’Donald o del cinese?-

-Hm. Bella domanda…- fa concentrandosi e tamburellando le dita sul volante –Pizza e crocchette?- propone poi, memore dell’ultima volta che abbiamo mangiato cinese.

-Mica male… vada per la pizza- rispondo pensando ad una margherita filante di mozzarella.

 

 

Torno a scrutare il mio riflesso nello specchietto. Vedo un diciottenne con una massa di capelli selvaggi tra il castano e il nero che circondano un viso dai lineamenti un po’ troppo duri e marcati per essere propriamente bello. Ho gli occhi grandi ma leggermente sporgenti di un comune marrone chiaro, nulla di eccezionale; secondo mia sorella (che ha invece un bel viso ovale, ma i miei stessi capelli e può sbizzarrirsi, tuttavia, con decine di prodotti per capelli senza sentirsi una deficiente) sono quel che si definisce un “tipo di bellezza particolare”, secondo me cerca semplicemente di essere gentile.

 

 

Gio’ fa un sorpasso un po’ azzardato mentre accelera improvvisamente, il che mi fa smettere di pensare alla mia faccia costringendomi a prestare attenzione alla sua guida da pazzo.

 

 

-Piano, va piano…!- lo supplico, cominciando a preoccuparmi, reggendomi alla maniglia della portiera con tutta la mia forza

-Non è colpa mia se quel cretino ci mette due ore per fare tre metri!- sbraita facendo un gestaccio all’altro conducente che si è, in risposta, attaccato al clacson.

-Sì ma tu va piano lo stesso non siamo mica sulla pista di Monza!- ribatto sentendomi schiacciare contro lo schienale per via della brusca accelerazione.

Penso che, grazie al cielo, casa di Gio’ è a soli venti minuti di macchina e non dovrò sottostare alla sua guida folle ancora a lungo.

 

 

 

Venti minuti e dieci anni di vita in meno dopo, tra sorpassi al limite dell’illegale e frenate da farti finire nel parabrezza (continuo a credere che l’esaminatore della la prova pratica per la patente fosse mezzo ubriaco quel giorno, o col cavolo che gli lasciavano guidare una macchina che non fosse una di quelle delle giostre di autoscontri, ed anche lì ho i miei dubbi!) arriviamo a destinazione, le pizze prese a metà strada spandono un aroma tanto meraviglioso che il mio stomaco comincia a ruggire d’aspettativa. 

 

 

-Senti ma…-  mi fa ammiccante Giovanni arraffando una scatola di pizza –poi con Letizia? Ci hai combinato o no?- chiede nel suo tipico tono da maniaco .

-Dritto al punto tu, eh!?- Gli dico un po’ imbarazzato, forse perché non ho di che vantarmi, cercando anche di prendere tempo per inventarmi qualcosa che mi eviti di fare la solita figura dell’imbranato con le ragazze.

-Eddai su, che voglio i particolari!- sghignazza mentre mi butta il braccio libero intorno al collo quasi strangolandomi. Mentre gli intimo di aprire il portone e farla finita con quell’atteggiamento da scemo, ripenso con fastidio allo scorso fine settimana.

 

 

Letizia (-Chiamami pure Titti!- si era presentata così) è una nostra comune conoscenza, l’abbiamo incontrata la prima volta un paio di mesi fa al solito bar dove ci infiliamo il sabato sera da tre anni a questa parte. Ricordo che quando l’aveva vista per la prima volta, Gio’aveva tirato fuori il suo sorriso lubrico e l’aveva  indicata con eloquenti cenni del capo: quando avevo guardato nella direzione che mi indicava entusiasticamente avevo scorto in mezzo ad uno stuolo (o forse stormo e il termine più adatto) di ragazze una che non era particolarmente bella ma che aveva un gran bel paio di… occhi e un… sorriso da perdere la testa. Il fatto che quella sera (ma ore che ci penso è una sua piacevole abitudine) indossasse una mini talmente corta da sembrare quella di una Barbie, che non lasciava nulla all’immaginazione, non c’entra per niente col nostro, quasi esageratamente, positivo giudizio di adolescenti, schiavi dei nostri ormoni.

 

 

Inutile dire che Titti aveva puntato il mio amico da subito, lui con i sui boccoli biondi e gli occhi verdi, facendomi sentire al solito la spalla sfigata: un po’ come Batman e Robin.

Eppure il mio personale Bruce Wayne non le aveva prestato attenzione nonostante l’ammirata occhiata iniziale (condita da una serie di commenti degni della peggiore delle osterie) e aveva dichiarato che se volevo provarci con Letizia avevo campo libero. 

 

 

Non era una novità il suo atteggiamento: tutte le volte che una ragazza ci prova con lui non mostra il minimo interesse per lei anche se in un primo momento sembrava che volesse saltarle addosso. Quando cerco di capire il perché e gli chiedo spiegazioni per quell’atteggiamento, a mio parere un po’ schizofrenico, mi guarda con un sorriso da sfinge e mi dice –Tu non ti preoccupare che mi tengo impegnato…- come a dire che aveva già fatto conquiste di chissà che livello.

 

 

Tornando a quel sabato: ero arrivato lì tutto tronfio come il peggiore dei galletti di periferia, chiuso nel mio giubbotto di pelle nero e con la sigaretta accesa in bocca, contavo su un’entrata trionfale, ma lei ancora non c’era e avevo dovuto rinunciarci, oltretutto avrei dovuto aspettare quasi quaranta minuti lì, in piedi, come uno scemo, a morire di freddo, era pur sempre Gennaio, a maledirmi per la mia fissa per le giacche di pelle (pensavo con malinconia al piumino chiuso nell’armadio) e a dare nervosamente fondo al pacchetto di Marlboro. Quando poi era arrivata, tutta in tiro strizzata in una giacchetta di denim rosa col cappuccio un pelliccia sintetica e due dita di cerone, che non avevo mai notato con le luci soffuse ad arte del bar, ero talmente fuori di me che non l’avevo praticamente salutata, facendo anche la figura del maleducato ed offendendola anche. Anche se, obiettivamente, dopo che uno è stato a congelarsi per quaranta minuti e si vede arrivare la figlia segreta di Moira Orfei (odio le ragazze che si truccano troppo, mi sembra di girare con un clown) che esordisce sorridendo ebete e tranquilla con un –Eh, scusa mi sa che sono un po’ in ritardo!-  potrà anche irritarsi leggermente…O no?

 

 

-Eh ma sei permaloso forte!- commenta Gio’ guardandomi di sbieco dopo che ho rinunciato a inventare balle e ho iniziato a raccontare della serata.

-No dico solo che poteva pure poteva evitare farmi rimanere lì a morire di freddo…!- esclamo sostenendo la mia posizione a oltranza

-Senti Leo è una cosa perfettamente normale che una ragazza ci metta una vita ad arrivare e poi tieni presente che si muove con i mezzi pubblici, e tu sai perfettamente che la sera è un incubo girare con l’autobus- mi fa notare lui cercando di farmi essere obiettivo –E poi non è colpa sua se tu sei un idiota che in pieno Gennaio continua a girare con la giacca di pelle!- ridacchia indicando la giacca incriminata buttata su una delle poltrone ultramoderne con cui la madre di Gio’ ha riarredato recentemente l’ampio salone.

-Poteva avvertire!- controbatto senza sentire ragioni

Gio’ alza gli occhi chiari al cielo e azzanna un altro pezzo della sua quattro formaggi innaffiandolo poi di birra chiara. Ingoia il boccone e dopo essersi schiarito la voce cerca ancora di farmi ragionare.

-Ma se ti dava tanto fastidio perché sei rimasto lì?- poi annuisce guardandomi e riprende prima che possa rispondergli –Perché sei cocciuto come un mulo, ecco perché…-

Ferma le mie proteste mi chiede di andare avanti con il resoconto.

Borbotto che non c’è molto altro da dire. –Abbiamo finito il drink e poi è schizzata via dicendo che non dovevo disturbarmi a richiamarla…- concludo sotto il suo sguardo allucinato.

-Dimmi che le sei corso dietro e poi vi siete appartati a fare del sesso selvaggio su una panchina- mi chiede non so se scherzando o se seriamente. La butto sullo scherzo.

-Sì con un barbone che faceva il tifo- gli dico mentre afferro un pezzo di margherita e lo faccio sparire in due morsi.

 

 

Giovanni sospira e si siede più vicino a me sul tappeto dove ci siamo accampati, ignorando bellamente il grosso tavolo di vetro che fa sfoggio di sé al centro del salone, appoggia la testa sulla mia spalla ed anche se non lo vedo so, sento, che sta sghignazzando malevolo. –Il mio grizzly…- mi dice con un tono che vorrebbe suonare intenerito ma puzza di sarcasmo lontano un chilometro –Non è neanche capace di lasciar correre una sciocchezza per uno scopo nobile…- continua aggrappandosi con una mano alla spalla su cui è appoggiato. Io lo guardo di traverso e gli chiedo di cosa stia parlando. –Ma di un po’ di sano sesso a buon mercato, no?- risponde con il tono che in genere si usa con i bambini stupidi.

Me lo scrollo di dosso infastidito sibilandogli un –Porco- e prendo l’ultimo pezzo della pizza guardandolo male, lui continua a ghignare divertito e mi da del bigotto e continua a mangiare anche lui sempre al mio fianco come un’immobile folletto maligno –E comunque piantala di stare lì con quell’aria da guru del sesso, cosa credi che non sappia come funzionano le cose?- borbotto irritato dalla sua aria compiaciuta, ma ovviamente lui deve avere l’ultima parola ad ogni costo –Se tu ti dessi da fare ed evitassi di mandare all’aria tutte le occasioni che ti si presentano…- ribatte mentre attacca il supplì e lo finisce in tre morsi rapidi. –Ok, Gio’, mettiamola così: non mi viene da farlo con una come chiamami-pure-Titti -  gli dico sottolineando con disgusto le ultime tre parole. Lui mi guarda senza dire niente e fa una smorfia cercando di trattenersi dal dire qualcosa, poi non regge –Ho capito Leona’ ma ultimamente non ti viene da farlo con nessuna!- poi fa il suo solito sogghigno da bimbo pestifero –Non è che niente niente tu sei un po’…- fa insinuante e  io lo guardo allibito: ha parlato quello che non si fa vedere con una ragazza da secoli. Glielo faccio notare ma anziché fare il solito sorriso da sfinge che mette su quando gli chiedono perché non esce con nessuna, lui mi guarda (ed è la prima volta che vedo nei suoi occhi uno sguardo del genere: uno sguardo cupo e incredibilmente stanco) e prende fiato come se volesse iniziare un discorso piuttosto lungo e mi guarda per una frazione di secondo, poi fa riapparire il solito sorriso e prende una lunga sorsata di birra, cambiando idea.

 

 

Quell’atteggiamento non mi piace –Stai bene?- annuisce –Sicuro, mi era sembrato volessi dire qualcosa…- gli dico ma lui ignora il mio tono preoccupato, anche se si irrigidisce appena, e sostiene che non voleva dirmi nulla.

Io non insisto anche se vorrei fargli sputare il discorso che si è ingoiato e chiedergli dell’espressione che aveva pochi secondi fa a costo di tirargli fuori le parole con le tenaglie, però lo conosco e so che cocciuto com’è non riuscirei a cavargli nulla di bocca, anzi, riuscirei solo a farlo arrabbiare e a farmi dare della “mamma orsa”.

 

 

Vuoto la mi bottiglia di birra e tiro fuori le sigarette per accendermene una, Gio’ che continua a essere più strano del solito mi allunga un posacenere finendo la sua pizza con aria meditabonda. Tiro la prima boccata e con il braccio sinistro me lo stringo addosso spinto dall’impulso irrefrenabile di proteggerlo fisicamente da qualsiasi problema abbia, anche se un po’ rigidino si lascia andare contro il mio fianco.

 

 

Giovanni è una delle due persone che senta veramente vicine. Lui e mia sorella. Punto. Io e Gio’ ci conosciamo dalla prima media quando io giocavo a fare il piccolo teppista e lui lo studente modello. Secondo il copione lui avrebbe dovuto essere la mia nemesi e io avrei dovuto essere il suo tormento, eppure nonostante la storia sembrasse dall’esterno null’altro che la classica lotta tra il bravo bambino giudizioso e il delinquente in erba le cose non erano neanche lontanamente così. Gio’ era tutt’altro che un bravo bambino giudizioso, anzi era, forse allora più di adesso, uno spiritello malvagio e combinaguai: quasi tutte le mie malefatte erano realizzate in coppia col piccolo demonio dai boccoli biondi, io mettevo l’idea e lui la realizzava in modo strabiliante. Solo che lui era più bravo di me a mentire e a non farsi beccare con le mani nel sacco.

Col tempo però gli adulti avevano mangiato la foglia e il mio malefico amico era stato libero di dare sfogo alla sua natura distruttiva senza dover più impersonare l’angelico studente perfetto, anche se tutt’ora rimpiange la libertà d’azione che viene dall’essere insospettabili agli occhi altrui.

 

 

Passati gli anni delle medie siamo entrati in questa fossa di leoni che è il liceo. Il nostro piccolo mondo era impazzito e mutato sotto l’azione micidiale degli ormoni che scorrevano frenetici nel nostro sangue. E non solo quello, anche dal punto di vista fisico stavamo cambiando: non mi ero reso conto di quanto fosse bello il mio amico finché non avevo visto tutte le nostre compagne rivolgergli attenzioni e cure che non riservavano ad altri, chi lo invitava a pranzo chi a uscire, bionde, more, rosse tutte addosso a lui. Io, mentre lui diventava sempre più richiesto dal gentil sesso, mi limitavo a diventare sempre più alto: nel giro di un paio d’anni avevo dovuto ricomprate quasi tutti i miei vestiti. Pantaloni, magliette non mi stava più nulla.

Alla fine non sembravamo più solo due ragazzini pestiferi, ma il divo e il suo bodyguard, Batman e Robin, l’eroe e la spalla fedele. Non ci ho mai fatto troppo caso in realtà, le cose mi sono state sempre bene così come sono, anche se secondo la mia amabile sorella (oh Becca!, un giorno dovrai spiegarmi come funziona quel buco nero che è la tua testa…) il giorno in cui mi libererò del mio imponente (nonché presunto, aggiungo io) complesso di inferiorità nei suoi confronti l’equilibrio precario in cui io e Gio’ viviamo andrà a farsi benedire.

 

 

Me lo stringo più forte e cerco di comunicargli fisicamente quello che non riesco a dire (e che lui non riesce ad ascoltare) a parole cioè che può dirmi qualsiasi cosa e che se ha un problema allora potremmo risolverlo insieme.

Anche la fisicità spontanea che c’è fra noi non mi è mai appartenuta con altre persone, Becca compresa, ma con lui sono me stesso e posso concedermi di essere il sentimentale che sono in realtà sotto la scorza.

Alla fine lui si lascia andare contro di me completamente per poi avvinghiarsi al mio petto.

 

 

In quel momento, come tutte le volte che siamo così vicini, sono assolutamente sicuro che nulla potrà mai dividerci o incrinare il nostro rapporto.

 

 

Eppure dovrei saperlo che Giovanni è un terremoto ambulante e che con lui il mondo cambia come plastilina nelle mani di un bambino capriccioso. Perché con un frase riesce a sconvolgere il nostro mondo scuotendolo nelle fin fondamenta.

 

 

-Leo, non esco con nessuna ragazza perché sto con un uomo…- sospira e mi guarda –Hai capito ora qual è il problema?-

 

 

Ho capito, ma non posso impedire a tutta l’aria che ho nei polmoni di bloccarsi nella mia gola e  di rimanere lì.

Perché con uno schianto profondo sono crollate tutte le mie convinzioni e non mi sono mai sentito tanto istupidito.

 

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Capitolo 2
*** Venerdì ***


2

Hey ciurmaglia! Ecco il secondo capitolo, che ci terrei ad avvisare contiene un alto tasso di seghe mentali, prima di iniziare vorrei ringraziare in particolare AngelinaSpring

che ha speso una piccola parte del suo tempo per lasciare una recensione. In più ringrazio anche chi ha messo Sette Giorni tra le storie seguite.

Chissà forse un giorno dopo questa mi darò allo slash.

[inutile informazione di servizio]

 

 

 

2. Venerdì

 

Alla fine ieri ero tornato a casa decisamente prima del previsto, camminando senza vedere realmente dove andavo. Dopo che Gio’, il mio amico che faceva battutacce da scaricatore di porto davanti ad ogni bella ragazza, aveva sputato il rospo ero rimasto lì totalmente rincretinito ad ascoltare i pensieri urtarsi e scontrarsi per poi cadere nel vuoto.

 

-Ti prego fa qualcosa, dì qualcosa- aveva sussurrato con vece sepolcrale con la testa ancora sulla mia spalla

-Che cosa dovrei dire?- avevo soffiato fuori senza riuscire neanche a pensare a cosa dire, e cosa c’era da dire in fondo?

-Quello che vuoi! Che ti faccio schifo, che sono un pervertito, che…-

-Sta zitto!- avevo esclamato poi.

Sconvolto o no, pensare che credesse che potessi dirgli crudeltà del genere mi stava irritando. Ma la cosa che più mi stava sconvolgendo (oddio il coming-out, o com’è che si chiama, rimaneva al primo posto in ogni caso…) era che non me l’aveva detto.

A me.

Il suo migliore amico, praticamente un fratello.

Ed ecco che una dopo l’altra le domande si erano affastellate nella mia testa, un caotico ciclone di cose da chiedere per capire se ero stato io il cieco o lui a non volermi far capire.

-Perché non me l’hai detto- ecco una cosa per volta, partiamo dalle domande più urgenti.       

-Non lo so perché non te l’ho detto, io…- aveva cominciato e si era scostato da me allungando le gambe davanti a sé –Avevo paura, della tua reazione- aveva aggiunto piano.

-Avevi paura di me?!- gli avevo chiesto incredulo

-Oh andiamo!- aveva esclamato lui recuperando un po’ della sua tipica baldanza –Hai sempre fatto quello a cui gli omosessuali non sono mai piaciuti, non dico che sei un omofobo ma… non mi sembra neanche che tu non l’abbia presa molto bene…- aveva aggiunto accendendo una sigaretta nervosamente.

-Ma cosa pensavi?! Che ti avrei dato una pacca sulla spalla e la mia… “benedizione”… così come se nulla fosse? Accidenti!, siamo quasi fratelli e tu hai avuto paura di me!- avevo controbattuto mentre lui si riprendeva dalla cupezza di poco prima: il battibecco stava stimolando il suo lato bisbetico, in barba all’atteggiamento triste e sconsolato di poco prima.

-Avevo paura di perderti! Mi credevi lo spaccone puttaniere mentre invece mi piace…- lo avevo interrotto.

–Sì, sì ho capito…- a mia volta avevo acceso rabbiosamente una sigaretta ed aspirato con violenza sentendo il fumo entrare nei polmoni con forza. Non avevo detto più nulla per un po’ limitandomi a fumare con foga crescente mentre lui stava in silenzio a scrutarmi cercando di capire cosa mi passava per la testa esattamente come avevo fatto pochi istanti prima io con lui. Stavo vivamente rimpiangendo di non essermi fatto gli affari miei per una volta, avrei dato qualsiasi cosa per… tornare indietro, per ricucire il tremendo strappo che si stava creando fra me e una delle persone che più amo al mondo, o anche solo per continuare a chiudere gli occhi e non capire la verità delle cose. Beata ignoranza…

 

Poi aveva deciso di anticipare le mie domande. Aveva cominciato a dirmi che era poco in fondo che aveva “scoperto” (ma si può scoprire una cosa del genere? Non la si dovrebbe sapere?, eppure è pur sempre qualcosa che fa parte del più profondo del nostro essere) le sue tendenze, neanche un anno. Al che avevo alzato un sopracciglio come a dire che quasi un anno era un bel po’ di tempo in cui avrebbe potuto dirmelo, poi mi era venuta in mente una cosa.

 

-Perché oggi?-  al momento il racconto della sua presa di coscienza non mi interessava

-Perché… Perché sì, ecco!- aveva sbuffato un po’ di fumo come un draghetto seccato –perché tu… eri qui e io non ce l’ho più fatta a tenermi tutto dentro, mi è…scappato.- borbotta

-Ah- Gli è scappato? Cioè avrebbe potuto continuare a non dirmi nulla per un altro anno? Non sapevo se arrabbiarmi o meno…

 

Avevo guardato l’ora: stavamo discutendo da quasi un’ora e un quarto tra pause e battibecchi. Decisi che per quel giorno ne avevo abbastanza. Spenta la cicca nel posacenere che iniziava ad essere pieno, a differenza del mio pacchetto, avevo notato stupidamente, mi ero alzato guardandomi intorno per cercare le mie cose.

Come uno zombie mi muovevo per l’ampio salotto mentre tutte le domande che fino a poco prima si moltiplicavano nella mia testa ora tacevano svanite nel nulla in cui la mia mente annegava. Gio’ mi guardava preoccupato.

-Dove vai?- aveva chiesto ansiosamente

-Sto andando a casa.- avevo risposto distrattamente come se fossi stato già per strada, lontano da quella casa, da quella situazione, da lui e le sue rivelazioni.

 

Solo una cosa ronzava nel mio cervello Basta.

Avevo bisogno di pensare.

 

-Aspetta! Ti do un passaggio a casa…- aveva fatto per alzarsi

-No, tranquillo non mi serve, ho… ho solo bisogno di stare per conto mio- avevo borbottato gelido, paralizzandolo.

 

 

Così me n’ero andato. Scappato come un coniglio.

Del tragitto tra casa sua e casa mia non ricordo praticamente nulla se non un vago senso di colpa, che si sarebbe poi acuito, per averlo mollato lì a quella maniera e l’acqua che mi ero preso perché alla fine aveva deciso di mettersi a piovere proprio mentre ero alla fermata. Ma che bella giornata…

 

Una volta a casa mi ero sfilato lo zaino di spalla per poi dirigermi in camera mia per poi chiudermici dentro, al sicuro da tutto quello che era successo quel pomeriggio con la speranza di ignorare per un po’ le macerie fumanti delle mie certezze più  granitiche. Appena messo piede a casa mi ero sentito incredibilmente stanco, sfilata la maglietta e i pantaloni bagnati mi ero messo un paio di vecchi calzoni felpati, calzini di lana e pail multicolore per poi tuffarmi, come un naufrago all’unico appoggio disponibile, sul letto coperto da testa a piedi dal plaid. In breve un benefico tepore era corso a lenire i miei nervi scossi, complici il calduccio e il cuscino morbido mi ero irrimediabilmente addormentato.

 

--

 

Rumore di buste di plastica e dell’anta del frigo che si apre e chiude, una risata gutturale che conosco bene, Che ci fa Becca qui?, un cerchio alla testa mi costringe a rimettere giù la testa.

 

Avevo fatto il punto della situazione: mia madre era tornata con la spesa e c’era Becca a cena, in un angolino della mia testa avevo pregato non si fosse portata dietro l’uomo. Il resto era avvolto da una specie di nebbia dolorante, tra l’altro stavo tremando di freddo. Vuoi vedere che con tutta quell’acqua… 

Avevo cercato di mettermi a pancia in su distendendo gli arti che sembravano ricoperti di cemento, l’operazione era stata più lunga del previsto dato che il mio corpo non voleva collaborare.

 

Mentre cercavo di capire bene perché ero ridotto così male una testa piena di capelli castani era apparsa nella mia visuale e mi aveva passato una mano fredda sulla fronte, Oh meravigliosa sensazione!, poi visto che ero sveglio e si era seduta vicino a me sulla sponda del letto.

 

-Ehi dormiglione! Lo sai che ore sono?- Mi aveva chiesto sussurrando, io avevo provato a scuotere la testa ma il dolore si era acuito ed era stato come se un branco di spiritelli maligni mi saltasse con scarponi chiodati sulle tempie, mugolato un ahi!, Becca mi aveva guardato e riappoggiato la mano fresca sulla mia fronte portando un po’ di sollievo -Eh sì, sei bollente. Così impari a non coprirti decentemente a Gennaio- aveva ridacchiato, e si era messa a riordinare il marasma che avevo lasciato.

 

Tona qui, avrei voluto dirle osservandola mentre faceva un po’ d’ordine, lascia stare quella roba e sta qui con me… Avevo un disperato bisogno di parlare con qualcuno. Al mio borbottio inconsulto si era girata e aveva sorriso -Se la mamma vede questo macello ti stronca- e aveva piegato i panni, da me lasciati a terra, sulla sedia, poi mi aveva tira il telefono che era arrivato pericolosamente vicino alla mia testa, non ha mai avuto una buona mira.

 

-Non è stato zitto tre secondi quel coso- aveva mugugnato mentre osservava lo stato pietoso dei jeans ancora fradici dal polpaccio alla caviglia -A proposito hai una suoneria orrenda…!-

Ignorata l’ultima frase avevo mosso faticosamente un braccio e afferrato il telefono stringendo le palpebre infastidito dalla luce del display che irrompeva allegramente nella penombra della mia stanza. Tolto il blocca tasti avevo scoperto di avere cinque chiamate senza risposta e un messaggio. Quattro chiamate erano state effettuate a distanza l’una dall’altra di venti minuti circa e tutte dalla stessa persona, quella più recente era di papà.

 

Com’è ovvio le chiamate erano di Giovanni e credo anche il messaggio, ma avevo avuto né la forza né la voglia di leggerlo, mi ero limitato a uno sbuffo spazientito e avevo appoggiato il cellulare sul comodino lanciando nel contempo un’occhiata alla sveglia.

 

Le otto meno venti. Le otto meno venti?!

 

Avevo dormito quasi tre ore. Cercando di alzarmi avevo scoperto che la testa faceva troppo male per alzarla dal cuscino.

Stavo uno schifo.

Becca era tornata a sedersi vicino a me e mi accarezzava piano una guancia guardandomi in silenzio.

 

Mia sorella è tutta la mia famiglia. Ha quasi dieci anni più di me e da quando sono in grado di ricordare lei c’è sempre stata, che volessi propinarle l’infinita serie di Perche?! tipica dei bambini, o avessi paura del temporale o tante altre piccole cose. Era lei ad aiutarmi con i compiti, a venirmi a riprendere da scuola, a prepararmi il pranzo…

La grande differenza d’età non è un caso: io sono un fuori programma, il bicchiere di spumante di troppo per essere chiari.

 

Una volta ho ascoltato una conversazione di mia madre per caso, io ero piccolo e non ricordo bene l’interlocutore o come fosse nata la discussione.

Ricordo bene quel che disse, cioè che mi voleva bene, ma non abbastanza.

Il suo amore lo aveva già investito tutto su Becca e per me non erano rimaste che le briciole. Esistevo per puro caso, solo perché non aveva avuto il coraggio di liberarsi di quell’esserino che le cresceva dentro.

 

Quanto dolore mi abbiano dato quelle parole lo ricordo ancora meglio, perché mio malgrado si fa vivo tutte le volte che per caso mi ritornano in mente, tuttavia col tempo ho imparato a conviverci e a gestire la rabbia che causano. Anche se so che non è giusto. E lo sa anche Becca, chissà forse è per questo che mi è stata così vicina… Per un’inestinguibile senso di colpa, che bello!

 

O forse dovevo piantarla con la lagna.

Normalmente mi sarei scrollato di dosso pensieri del genere, pensieri deliranti nonché offensivi nei confronti della mia sorellona che mi è sempre stata accanto.

Osservavo i suoi occhi, identici ai miei, e avevo alzato una mano per passarla tra i suoi capelli mossi (doveva averci dato giù di piastra la maledetta) e le avevo battuto un colpetto affettuoso dietro la nuca. Ci eravamo guardati con un sorrisetto sghembo, poi mi aveva aiutato a mettermi seduto districando il groviglio di coperte in cui mi ero legato le gambe. Aveva borbottato un sembri una mummia! mentre mi stringevo le tempie trafitte da quelle che sembravano lame infuocate, gli spiritelli maligni di prima dovevano essersi presi una pausa.

 

Spiritelli maligni… Me ne era venuto subito in mente uno, ma avevo scacciato il pensiero dalla mente e aggirato anche quello dell’sms che con ogni probabilità mi doveva aver mandato lui, stavo già abbastanza male non volevo curarmi anche di quella… faccenda.

 

Mentre io mugugnavo e Becca mi sosteneva, ci eravamo incamminati verso la cucina ed era stato così che avevo riconosciuto l’imponente figura di Adriano, il suo compagno, che tentava senza successo di intavolare un discorso con papà che, al solito, cercava di non tirargli qualcosa di contundente. Non è che ce l’abbia proprio con lui, ce l’ha con qualsiasi esponente di genere maschile si avvicini troppo alla sua bambina.

 

Il povero uomo osservava costernato l’aria truce del “suocero” che rispondeva ai suoi vani tentativi di conversazione con monosillabi buttati fuori a forza dai denti, era così disperato che quando ci aveva visto arrivare un’incredibile sollievo gli aveva illuminato gli occhi e sembrava quasi dire “Vi prego salvatemi!”.

Era abbastanza divertente vedere la sua faccia di bronzo mentre veniva tiranneggiato dagli sbalzi d’umore di un uomo di mezz’età. Mia sorella lo troverà pure affascinante ma per me è solo un emerito…

 

-Stai male Leo?- mi aveva chiesto con serio interesse, sì ma era interessato a cambiare discorso.

-Tu che dici?- gli avevo risposto così piano che mi aveva sentito solo mia sorella che aveva fatto, tuttavia, finta di nulla

 

Stramazzato sulla sedia, immediatamente i miei genitori mi avevano guardato storto: non ci si siede così Leo! era la frase non detta a voce. Poi papà mi aveva passato una mano sulla fronte e detto marziale -Quanto è alta?-

-Papà si è appena svegliato non l’abbiamo ancora misurata…- era stata la risposta di Becca -Scotta ma avrà solo preso freddo-

-Un po’ di aspirina e passa tutto- aveva aggiunto il capellone incapace di non dire la sua. Avrei tanto voluto dirgli che con l’aspirina in quel momento non ci risolvevo nulla e poteva anche mettersela in un certo posto ma mi ero trattenuto e avevo frenato il mio cattivo umore. Papà lo aveva guardato omicida, lo odia poverino.

 

 

Alla fine era iniziata la cena, e visto che stavo male mi era toccata la minestrina con buona pace delle mie papille gustative, tra le pessime battute di Becca e della mamma, e gli sfoggi di cultura di Adriano, che sarebbe pure simpatico non fosse per la sua abitudine di mettersi sul piedistallo, mentre io e papà mangiamo a testa bassa.

 

Il pensiero di Gio’ mi tormentava. Stava lì accompagnato da una miriade di scomode domande e un bel senso di colpa per il mio atteggiamento.

 

A livello teorico, in qualità di “fratello adottivo”, non avrei dovuto comportarmi a quella maniera, avrei dovuto incassare elegantemente (e non stare lì come uno stoccafisso appeso all’amo) e dire una frase del tipo Non importa, sei sempre tu, indipendentemente dalle tue  tendenze sessuali.

Ma a livello pratico tanta lucidità non mi riusciva proprio. Il fatto è che non è più lui, o almeno una buona parte di lui non è più quella che conoscevo, è qualcosa di diverso, una macchia sulla pagina, una nota stonata…

 

A mettere il dito nella piaga ci aveva pensato mamma -Poi con Giovanni? Tutto a posto?-

Lei adora Gio’, perché lui sì che è un bravo ragazzo…

 

Per un istante sono stato tentato di smontare anche le sue di convinzioni sul mio amico (quindi in fondo lo considero ancora tale?) e  risponderle “Oh sì mamma, tutto a posto, solo che oggi pomeriggio si è confessato finocchio e che sa di esserlo da più o meno un anno ma aveva paura di dirmelo perché mi considera uno stupido omofobo…” ma avevo capito che non era proprio il caso, così avevo annuito e bofonchiato qualcosa mentre mi versavo la polverina dell’Oki nel bicchiere buttando poi giù l’acqua al gusto di menta, o di chi sa che altra porcheria.

Però Becca mi aveva intercettato, doveva aver visto il lieve irrigidimento alla domanda di mamma. Non le sfugge nulla, ma avevo sperato di essere graziato per il momento viste le mie condizioni non ero in grado di reggere uno dei suoi leggendari terzi gradi.

 

Finita la brodaglia insipida che avevo nel piatto buttato giù un sorso d’acqua e mi ero alzato rumorosamente da tavola facendo stridere le gambe della sedia sul pavimento. Ero scappato da quella bella riunione familiare sotto l’occhio invidioso di papà che avrebbe dato qualsiasi cosa pur di non avere sottomano Adriano e di non poterlo massacrare.

Mentre le passavo vicino Becca mi aveva battuto un colpo sul fianco col dorso della mano ad indicare che sarebbe passata più tardi a tormentarmi con le sue manie da psicologa, io avevo annuito rassegnato mentre barcollavo verso la mia stanza dove mi ero infilato definitivamente a letto a fissare il soffitto. Dopo poco era stato come se avessero acceso un proiettore e il film della giornata era partito sotto i miei occhi: fotogrammi che si rincorrevano insensatamente l’uno con l’altro, ora una mano e per audio una frase slegata, Gio’ che disegna un tribale e la Iacovilli che spiega, il sapore della pizza e il suo sguardo incupito, il fumo che grattava in gola mentre faceva l’affermazione più importante della nostra amicizia.

Ma io non volevo vedere nulla, non volevo rivivere ancora quella giornata, volevo solo che finisse in fretta per farmi una dormita decente.

 

Ero quasi stato sopraffatto dal senso di protezione delle coltri col profumo delle lenzuola fresche di bucato nel naso quando un’insistente vibrazione era giunta dal comodino a disturbarmi. Grazie al cielo l’Oki stava facendo effetto e non avevo fatto troppa fatica nell’allungare il braccio e afferrare con rabbia il telefono. Due messaggi.

Ero andato nel menù e aperto il primo dei due, che mi aveva mandato poco dopo che ero crollato nel mondo dei sogni.

 

Dopo averli letti, avevo deciso di averne avuto abbastanza e rifoggiata la testa sul cuscino mi ero nuovamente addormentato.

 

--

 

-Però… Va bene che c’era qualcosa di strano in lui ultimamente… ma addirittura un coming-out!- sento lo scatto dell’accendino e penso che vorrei accendermene una anche io, ma se la virago mi becca a fumare adesso sono morto.

 

Sono tre quarti d’ora che faccio il resoconto di ieri a mia sorella e non sono ancora riuscito a capirci qualcosa. Finora lei si è limitata ad ascoltare in silenzio senza commentare, ed anche se non la vedo capisco perfettamente che ha aggrottato le sopracciglia e sta mordicchiando il filtro tirando e soffiando il fumo nervosamente senza prestarci troppa attenzione.

Mi passo una mano sulla fronte umida, sto morendo di caldo sotto le coperte. Le scosto con un movimento quasi rabbioso.

 

-Non me l’ha detto… Ha avuto paura. Paura di me!- insisto, perché è una delle cose che mi ha ferito di più è stata proprio la sua totale mancanza di fiducia nei miei confronti

-Lo posso capire- borbotta però Becca e subito vorrei dirle qualcosa ma mi precede -Ha sbagliato, è vero, ma proprio perché sei una persona a cui tiene in modo incredibile non voleva correre il minimo rischio di perderti, anche se è successo comunque… o no?- chiede

Un attimo di silenzio -Non lo so- rispondo sedendomi sulla sponda del letto -Non so più nulla in questo momento…- lei mugugna in tono comprensivo poi sbuffa.

-Cosa dice il messaggio?- si informa allora, la correggo - I messaggi, ne ha mandato un altro-

-Va bene. Cosa dicono i messaggi?- quel tono condiscendente mi sta un po’ innervosendo.

 

Apro il menù dei messaggi ricevuti e cerco quei due messaggi che ho letto di sfuggita ieri sera prima di crollare.

 

Le leggo il primo: “Leo, lo so che è difficile da capire: io stesso non volevo ammetterlo all’inizio. Ma non ci possiamo fare nulla, io non ci posso fare nulla sono fatto così. Per favore cerca di capirmi…

Il tono del secondo è decisamente più tipico di Gio’, meno supplichevole e assolutamente più deciso: “Non ho la lebbra, potresti almeno rispondere alle mie telefonate o anche soltanto mandare un sms…„

 

Becca rimane in silenzio qualche secondo -Dovresti rispondergli Leo, o quantomeno digli che hai bisogno di pensare…-

Sbotto -Ma che pensare e pensare!- la gola indolenzita protesta per lo sforzo di strillare -Io non ho nulla su cui pensare… Il mio migliore amico non ha nulla a che vedere con… questa persona!-

Mia sorella fa uno dei suoi risolini sarcastici e io mi preparo allo scontro.

Le nostre visioni del mondo tendono a differire costantemente, io sono il classico italiano medio forse poco più sveglio ma sempre un po’ borghese e perbenista, Becca al contrario sembra piovuta dal cielo in questo. Non ho mai conosciuto nessuno con una mente tanto aperta, per questo può accettare il mio stato d’animo ma non la mia ultima uscita.

 

-Non è questa persona Leo. È sempre Giovanni, che vada a letto con le donne o con gli uomini. È sempre il tuo amico, quello che c’era quando ti sei rotto la gamba sciando, quando ti sei preso la prima cotta, quando hai dovuto comprare un preservativo e ti sei ritrovato allucinato davanti allo stand!- esclama mentre prende sempre più a cuore le difese di questa ‘nuova versione’ di Giovanni.

-Io non…- tutti quei ricordi perché vorrei tanto che Gio’ fosse rimasto la stessa persona ai miei occhi, ma le cose sono cambiate. Per quanto vicini, per quanto ci possiamo volere bene fra noi gli equilibri sono cambiati, le tacite regole del nostro mondo sono state distrutte e le fondamenta del castello di carte mi sembrano dolorosamente troppo fragili per poterlo ricostruire da capo.

Da dove vengano quest’amarezza, questo risentimento, questa rabbia, non saprei spiegarlo.

-Tu non, cosa?- chiede inquisitoria

-Io non ci riesco- esalo -Non ci riesco a vederlo alla stessa maniera, non… è diverso da quella persona-

-Diverso da chi? Diverso in che senso?- continua lei senza darmi tregua e sento il mio respiro accelerare, sento me stesso spinto contro un muro, sostenuto dall’inevitabile caduta solo da qualcosa di irrazionale e mi sento esplodere, sento il petto gonfiarsi seguendo il respiro più faticoso, come se una bolla piena di un liquido corrosivo si gonfiasse nella cassa toracica fino al limite estremo. Fino all’esplosione.

-Diverso nel senso che mi ha raccontato un sacco di puttanate, che mi ha preso per il culo facendo lo spaccone e facendomi sentire un imbranato quando lui in realtà… - il cuore palpita a ritmo folle e la vibrazione si propaga per le vene fino alle tempie, ma la bolla è scoppiata e devo tirare fuori quel liquido o ne verrò soffocato -Io… io mi sono sentito sempre in sua soggezione lo vedevo come un grande, mentre tutte quelle storie… era tutto un bluff, una presa in giro… Tutte quelle fisime per nulla-

Becca tenta inghiottire i rimproveri e i tentativi di farmi vedere le cose a suo modo -Leo, non ha senso. Sei furioso e cerchi giustificazioni, cerchi di crearti un alibi per quello che pensi-

 

Scuoto la testa rabbiosamente come se potesse vedermi -Ciao Becca- la saluto esasperato.

Non voglio ragionare, essere obiettivo, voglio solo dare retta al caos che mi si agita dentro, alla rabbia che cresce minuto dopo minuto.

 

E allora cerco di fare il silenzio nella mia mente.

 

Scappare dai problemi è molto più facile che affrontarli, e io ne ho abbastanza di cose complicate.

 

Un quieto vibrare, soffocato dalla coperta mi scuote dalla piacevole apatia in cui ero scivolato per una manciata di minuti. Guardo il soffitto a occhi sgranati mentre lo stomaco si stringe in un nodo, non so di chi preferirei fosso il messaggio, ma più che di Giovanni mi aspetto una replica di Becca, che all’ultima parola non  vuole mai rinunciare. E infatti…

 

“Lo so che ti senti preso in giro, che vorresti solo che le cose tornassero come prima senza dover più ragionare su tutto questo. Ma non è la fine del mondo! Cerca di capirlo e accettare le cose. Un bacio, Becca„

 

Chiudo gli occhi e deglutisco a secco. Becca si sbaglia.

Per una volta si sbaglia.

 

Perché per me è la fine del mondo: del mio mondo.

Naufragato contro silenzi e menzogne.

 

Giovanni non è più la stessa persona, per quanto crudele possa sembrare. Di lui avevo un immagine che evidentemente non corrispondeva alla realtà delle cose, ma davvero ho voluto bene a un ‘fantasma’, un sogno a occhi aperti? O ho solamente chiuso gli occhi a un certo punto del tragitto ignorando i cambiamenti che si stavano verificando tra di noi, in noi.

 

La caccia al colpevole non da frutti e non so con chi prendermela, se con me con lui o con chissà cosa.

In tutto questo una vocina che ha una strana affinità con la voce di Becca si chiede se ci sia davvero una colpa o qualcosa da far scontare, che magari non esistono colpevoli e che è solo la realtà delle cose, che sono un testone e devo smetterla di comportarmi come un bigotto troglodita. Ma è così debole questa vocina (è forse la voce della ragione, e perché accidenti l’ho personificata in Becca che è l’Anticristo della ragionevolezza?) che viene uccisa, o comunque azzittita, dal turbinio oscuro di altre voci, di altre domande che non sanno contro chi o contro cosa indirizzare la loro rabbia, la frustrazione per quel castello di carte che era così bello e che è stato crudelmente distrutto in una sola frase.

 

Dapprima è un piccolo sentiero che si scava silenzioso e indisturbato nel disordine generale, e poi diviene sempre più grande, il letto del fiume. Tutta la rabbia, la frustrazione si adagiano su questo canale e il filo di pensieri è sempre più chiaro fino a che rimane un solo pensiero:

 

Se LUI fosse stato zitto ora non starei qui a rimuginare, ma col mio amico!

 

La sottile vocina riemerge e cerca di urlare che la causa di quella rabbia è proprio il silenzio in cui si era chiuso, l’assenza di parole e spiegazioni. Che quel bel castello non era affatto splendido e accogliente ma basato su una mutua accettazione della mia inferiorità. La sorgente di tutta la mia frustrazione.

Che magari anche lui doveva pensare e capire come difendersi da certi idioti, fra i quali ci sono anche io…

 

Tale è il fastidio che reca la ragione al mio orgoglio (sia mai che io possa essere un idiota dalla mentalità ristretta o che possa avere un complesso di inferiorità nei confronti di qualcuno!) che la ammutolisco, preferendo lo strano sollievo che mi da incanalare tutta la rabbia contro un’unica persona.

 

E la mia mente sgombra carica sulle spalle di colui che ho considerato fratello il fardello di tutte le colpe decretando che il nostro mondo idilliaco è stato distrutto senza pietà da lui.

 

Ma così facendo, sussurra la ragione dall’angolo in cui l’ho relegata, sono io e nessun altro che distrugge quel mondo, che in fondo era tutt’altro che idilliaco.

 

E allora, tanto per cambiare, la tacito una volta di più.

 

 

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