I nostri oscuri sentieri

di drisinil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Numero Trecento [UshiOi - 2015] ***
Capitolo 2: *** Afa [UshiOi/IwaOi - 2018] ***
Capitolo 3: *** Floor is lava [IwaOi 2008] ***
Capitolo 4: *** Quattro tovaglioli [UshiOi - 2018] ***
Capitolo 5: *** Oltre la soglia [UshiOi - 2012] ***
Capitolo 6: *** A volte capita [UshiOi - 2019] ***



Capitolo 1
*** Numero Trecento [UshiOi - 2015] ***


Ciao Tooru,
questa è la trecentesima lettera che ti scrivo. E sarà l'ultima.
Potrebbe sembrare simbolico che sia una cifra così tonda, ma non l'ho fatto apposta. Lo sai che sono una persona pratica.
Quindi, ci sono dei motivi precisi per cui questa lettera è l'ultima. E ci ho pensato parecchio, perché ormai, la domenica sera, sedermi qui davanti alla finestra e scriverti è una costante della mia vita, fa parte della routine. E a me piace la routine, è una cosa necessaria. Però ormai siamo arrivati a un punto di svolta, oltre il quale, se continuo a scriverti, c'è solo, da parte mia, un masochismo irragionevole e pericoloso.
Il masochismo, a dire il vero, c'è da sempre (a parte forse quella prima lettera ingenua, che ti ho consegnato davvero) e, francamente, non è mai stato un problema. Sono bravo a gestirmi.
Non è perché ho paura di farmi del male che questa lettera è l'ultima, la mia soglia del dolore è molto alta. E' l'ultima perché te ne sei andato dall'altra parte del mondo e a questo mi devo arrendere. Se ti scrivo, se penso a te, se immagino cose e però poi tu non ci sei, se non sei qui in carne e ossa a smentirle una a una con la tua presenza, allora sì che potrebbero iniziare a sembrarmi vere.
E invece io voglio essere certo di distinguere bene ciò che è reale da ciò che non lo è.
Voglio potermi tenere stretto quello che è stato reale.

Quando ti ho scritto la prima volta, ero nella mia stanza al dormitorio. Mi piaceva molto starci d'estate nei periodi di vacanza, quando era mezzo vuoto. Faceva caldissimo, avevo la finestra aperta, la penna in mano, e pensavo a te.
Mi sentivo tutto scombussolato. Una sensazione nuova. Ero tornato dalla colonia la sera prima, e non avevo chiuso occhio tutta la notte. E il giorno dopo avevo saltato tutti i miei impegni, semplicemente perché il tempo era volato via senza che me ne rendessi conto. L'intera giornata mi era passata negli occhi e io neanche me ne ero accorto.
Però lo capivo, che era una situazione fuori dal comune. Lo avevo capito già mentre succedeva. Avevamo studiato primo soccorso a scuola e quindi avevo subito riconosciuto i sintomi di una folgorazione: disorientamento, arresto cardiaco, blocco della respirazione, movimenti incontrollati dei muscoli (specie in mezzo alle gambe). Una folgorazione da manuale, sulla spiaggia di Sendai, davanti a un ragazzino magro e delicato, che sembrava un po' una femmina.
Quando ripenso a quella scena, mi rendo conto che non c'è nessun altro. Il che è quasi impossibile. Eravamo sei squadre, quindi trentasei ragazzini da tutta la provincia. Dove erano finiti gli altri trentaquattro?
Svaniti nel nulla.
Del resto, le folgorazioni sono eventi straordinari, che spazzano via tutto.
Per quello l'ho accettato. Era una cosa fuori dal mio controllo. Potevo solo tenerla in considerazione, da quel momento in poi. Però, come dire, rispetto all'enormità della faccenda, ero piuttosto tranquillo, e anche molto sicuro di quello che mi stava succedendo.
Avevo compiuto quattordici anni da nove giorni, ero alto centosettantasette centimetri, pesavo sessantanove chilogrammi, la mia dieta era di tremilacento calorie in allenamento e duemilasettecento a riposo, e mi ero innamorato.
Non ho mai cercato di spiegarlo. Non avrebbe avuto alcun senso.
Mi ero innamorato. Punto.
Di un maschio. Semmai questo un po' mi aveva dato da pensare. Non perché ci vedessi chissà quale dilemma morale. Ma perché non me lo aspettavo.
Le femmine le avevo messe in conto. Sapevo che avrebbero potuto distrarmi. E allo stesso tempo, se quello che credevo di aver capito del mio corpo che cambiava era vero, avrebbero anche potuto calmarmi.

Finché non siamo cresciuti un po', diciamo un paio d'anni dopo quell'estate, il lato fisico della faccenda era ancora parzialmente in ombra. Però poi si è imposto, com'era naturale che fosse. Al sesso si dà troppa importanza. Socialmente, intendo. Ma ha un suo valore. Biochimico, principalmente. E' una funzione importante, fa parte dell'equilibrio psicofisico, impossibile, e stupido, escluderla dall'equazione di se stessi. Il problema è quando si lega all'emotività, lì si complicano le cose.
Tu complichi le cose. Tutte quante. Sempre. E' la tua natura.
Hai cominciato da subito. Guardandomi.
Gli occhi, le labbra, le spalle, le braccia, il petto, l'addome. Mi guardavi come una radiografia, come il medico sportivo a scuola, a un certo punto pensavo che mi avresti chiesto di levarmi la maglietta. Sei arrivato alla cintura, appena un po' più giù e poi hai alzato lo sguardo e hai fatto un sorrisetto. Un sorrisetto perfido, da uno che aveva capito benissimo cosa mi stava succedendo.
Probabilmente avevo la bocca aperta e l'aria da idiota. Sicuramente avevo la lingua impastata, respiravo a fatica. Qualche migliaio di volt mi aveva appena attraversato. Stavo ancora cercando di capirci qualcosa.
Opposto, hai detto. Come se quella singola parola mi definisse.
Hai sbattuto gli occhi una volta. Due volte.
Ushijima Wakatoshi ho balbettato, come se avesse senso presentarmi.
Lo so. Shiratorizawa.
Perché io non sapevo chi eri? Perché tu mi conoscevi e io no?
E tu?
Alzatore, hai risposto. Anche se lo avevi capito, che volevo sapere il tuo nome.
Ho annuito, ma ancora sentivo la corrente sfrigolare nella carne, ancora avevo il battito del cuore a mille.
Il tuo alzatore, hai detto poi, sottolineando con gli occhi il possessivo. Come fai a parlare con gli occhi, non lo capirò mai, ma è una cosa potente.
E io lo sapevo, che ti stavi riferendo alle squadre della colonia. Ci avevano messo le magliette colorate, per fare le squadre e noi avevamo la stessa maglietta rosa. Lo sapevo, giuro. Ma un'eccitazione fisica paragonabile a quella suscitata da tre semplici parole uscite con leggerezza dalle tue labbra, non l'avevo mai provata.
Ti stava larga, quella maglietta rosa. A me corta, e il risultato era imbarazzante.
Ma io non sono uno che si imbarazza. Non per il mio corpo. E' uno strumento. Un ottimo strumento. Le sue reazioni non mi imbarazzano mai, e non mi imbarazzavano allora. Mi imbarazzano molto di più le parole, gli atti consapevoli, ma un'erezione è un'erezione, sangue che affluisce a un corpo cavernoso. E' involontario. Ed è naturale. Perché uno dovrebbe sentirsi a disagio? Di cosa?
Se fossi arrossito, se avessi cercato di nasconderlo, se fossi scappato, credo che sarebbe andato tutto diversamente. Ti saresti dimenticato che esistevo. Avresti alzato per me, avresti pensato che ero forte. Saresti, o meno, venuto a scuola da noi. Ma sarei stato uno fra mille, identico a ogni altro suddito della tua corte.
Invece, io non ero imbarazzato. E a te non andava giù. Non lo capivi, non ti tornava. Tu volevi controllarmi, piegarmi, mettermi al muro, come facevi con tutti quelli a cui sapevi di piacere.
Ma con me, non ci sei mai riuscito. Questo mi ha reso diverso ai tuoi occhi.
Però sei ostinato e hai continuato a provare a sottomettermi. Ti ho sempre amato, per quei tentativi. Ti ho amato per la strafottenza con cui hai insistito, senza pietà, per anni. Ma non sono mai scappato. Neanche una volta.
Neanche quando poi quella prima lettera sono venuto a dartela a scuola. E tu l'hai letta ad alta voce. Hai riso. E Iwaizumi mi ha tirato un pugno, ma io non ho reagito. Me lo ricordo bene, come mi sentivo. Ero deluso, Tooru. Deluso da te. Io non avevo niente di cui vergognarmi, tu sì.
Lo so bene cosa sembrava dall'esterno. Sembrava che io fossi uno grande, grosso e stupido, che si stava umiliando, senza nemmeno il buon gusto di scappare via. Di capire come si incassa un rifiuto del grande Re. Ero uno che non avrebbe neanche dovuto pensare di provarci. Ma a me non importa cosa pensa la gente. Chi sono per me? Chi se ne frega, cosa pensano. La verità, Tooru - te l'ho scritto tante volte e te l'ho anche detto a voce - la verità è che a ognuno di noi interessa veramente di pochissime persone e quello che proviamo per tutti gli altri è solo curiosità. Molto meglio farsi i fatti propri e le cose tenersele dentro.
In quel momento, un sacco di persone stavano ridendo di me. Ma non mi interessava. Mi interessava cosa pensavi tu.
E tu l'hai vista la mia delusione. L'hai riconosciuta, tanto che poi sei venuto a chiedermelo. E sì, ero deluso. E te l'ho detto. E neanche quello ti è andato giù. Volevi vedermi umiliato. Volevi vedermi morire di vergogna, perché avresti saputo cosa fare, in quel caso.
Ma, purtroppo per te, neanche i sentimenti mi imbarazzano, Tooru.  Anche quelli sono involontari. E non ho nessuna colpa, di provarli.
Questa semplice cosa, l'indulgenza per i propri sentimenti, tu non riesci a capirla. Sei una delle persone più intelligenti che conosco, ma la vanità ti impedisce di essere in pace con te stesso.

Per questo sei partito stamattina. Per questo, mentre partivi, piangevi.
C'ero, naturalmente. Non avrei mai potuto lasciarti andare dall'altra parte del mondo senza venire a vederti, fino all'ultimo secondo. Finché sei sparito oltre i metal detector, piangendo di nascosto.
Non ho ancora capito come mi sento.
Male. Mi fa soffrire l'idea di non poter più prendere la macchina, guidare qualche ora e bussare alla tua porta, in piena notte. L'ho fatto solo una volta, e probabilmente ho sbagliato. Ma fino a ieri, avrei potuto farlo quando volevo.
C'è una grande differenza, fra pensare qualcosa e farlo. Fra la potenza e l'atto. Non ho mai pensato che fosse necessario frenare i pensieri. Quindi, ogni giorno, tornando dagli allenamenti, quando mi chiudo la porta di casa alle spalle, ci penso. Penso a come sarebbe scendere in garage, accendere l'auto, scivolare nel buio con i finestrini aperti, lasciar correre la strada sotto le ruote, arrivare a Sendai, proseguire senza leggere i cartelli. E parcheggiare lì. E mandarti un messaggio, sempre lo stesso.
Sono qui.
Ho bussato una volta sola. Ma in quel parcheggio ci ho passato parecchie notti.
Lo sai che lo facevo anche prima, quando eravamo a scuola. Allora, ci venivo a piedi. Ci volevano un paio d'ore.
Una volta Tendou non è riuscito a coprirmi e ho preso un richiamo formale per il coprifuoco. Non ci potevano credere che uno come me avesse fatto una cosa del genere. Mi hanno fatto mille domande e non ho risposto a nessuna. Mi hanno punito.
Ma ho continuato a venirci, sotto casa tua. Sempre, dopo le nostre partite.
Hai iniziato tu con un messaggio, la prima volta che avete vinto, te lo ricordi?
Ora che ho vinto, vorrei vedere la tua faccia frustrata.
Non sono frustrato. Avete giocato meglio di noi.
Non ci credo non che sei frustrato.
Sono venuto sotto casa tua per dimostrartelo. Mi sembrava logico. Pensavo fosse quello che volevi. Ma neanche tu lo sapevi, cosa volevi da me.
Sono qui ti ho scritto. E tu hai capito. Ti sei affacciato. Mi hai visto. E sei rientrato dentro, ma non hai chiuso le imposte. Mi hai lasciato lì' a contemplare la tua ombra in movimento. Curiosamente, mi bastava.
Anzi, mi piaceva. Starmene lì, sapendo che tu sapevi che io c'ero. Credo che piacesse anche a te. Era un modo di esercitare il tuo potere, visto che con me non ci riuscivi altrimenti.

Anche stamattina ti ho scritto che c'ero, in aeroporto. Tu mi hai cercato con lo sguardo, e mi hai visto. Non mi sono avvicinato. Non ti ho parlato. Non avrebbe avuto senso.
Ti ho guardato sorridere, fare fotografie, salutare con la mano tua sorella e tuo nipote, abbracciare Iwaizumi. E poi piangere.
Non so se potrò mai perdonargli quelle lacrime.
L'ho aspettato fuori e gliel'ho detto.
E' colpa tua, se è partito.
Lui ha alzato lo sguardo ed era chiaro che la pensava come me. Quindi, mi ha tirato un altro pugno. A sei anni e mezzo di distanza dal primo. Questa volta, però, l'ho restituito.
Gli sanguinava il naso. A me sanguinava il labbro.
Con uno schiacciatore più forte, sarebbe già in nazionale.
Io ti ammazzo! mi ha urlato, ma poi non si è mosso. Aveva i pugni stretti, guardava in basso. Tremava tutto.
Non c'era bisogno che dicessi altro, tanto lui lo sa benissimo che è vero.
In quel momento, un aereo è decollato, passandoci sopra la testa. Lo abbiamo guardato entrambi, ed entrambi abbiamo pensato che fosse il tuo.
E ce ne siamo andati così, senza dire altro, con le nostre solitudini. E la tua, sopra le nostre teste.
Lo sai? A me piace Iwaizumi. Te l'ho scritto più di una volta. Penso che non sia colpa sua se starti così vicino e non poterti avere gli ha bruciato il cuore. Invece è colpa sua amarti in modo così sconsiderato. Ed è sicuramente colpa sua aver creduto di essere abbastanza per te.
Anche io ti amo. Non meno di lui, ma con molto più buon senso.
E se fossi venuto a Shiratorizawa, adesso saremmo entrambi in nazionale. Spero che tu lo sappia. Non penso che al livello sentimentale le cose sarebbero andate diversamente. Ma la maglia del Giappone, con me, non te l'avrebbe levata nessuno, non lo avrei mai permesso. Invece, parlano di prendere Kageyama l'anno prossimo. Se lo merita, quindi va bene così.
Tu però te lo meritavi di più. Sei il migliore alzatore che abbia mai visto giocare. E non per un motivo tecnico. Dal punto di vista tecnico, Kageyama non si batte. Ma tu sei il migliore, perché per capire le persone hai un dono. Nella vita è un dono che sprechi e qualche volta usi contro te stesso; ma in campo, quel dono ti rende un prodigio. Un prodigio che coglie le piccole emozioni e le converte in occasioni, che regala momenti di gloria anche a chi non li merita, che infiamma il morale e lo lancia alle stelle. Costruisci la squadra dal nulla e ne moltiplichi il valore.
Me la ricordo perfettamente, quella settimana con la maglietta rosa della colonia. L'ebbrezza di giocare con te la sento ancora agitarsi nei muscoli, se ci ripenso. Schiacciare un'alzata perfetta, nel momento perfetto, a un'altezza e una velocità che variano in base al tuo stato fisico e mentale. Tu spingi ognuno a dare il meglio, a bruciare dal desiderio di compiacerti, di farti vincere. Se non è perfezione questa, Tooru, allora nella pallavolo non esiste perfezione.

Eppure, non è per la pallavolo che ti amo. Non è per la pallavolo, non è per la tua disarmante bellezza. Non è per nessun motivo in particolare. Riconosco i tuoi pregi, così come i tuoi difetti, e li amo tutti nello stesso modo.
Forse amo di più i difetti: la vanità, l'orgoglio, la fragilità nascosta, quel pensiero fisso che hai di dover sempre arrivare a qualcosa troppo in alto, quando potresti solo guardare giù e capire che hai già tutto. Sei così umano, Tooru, così indifeso contro te stesso, che il mio cuore trema di fronte all'idea di tenerti fra le mani.
Eppure, è successo. Sono le cose vere che ho bisogno di essere certo siano vere.
Abbiamo fatto sesso cinque volte, io e te. Le ho impresse in mente parola per parola (anche se parlavi solo tu, e a me piaceva), momento per momento, come un film proiettato nel mio cervello e sui miei sensi.
Ci ripenso, ogni tanto. Non troppo spesso. Ma quando vado a letto con qualcuna ci ripenso sempre. Mi eccita, ovviamente. Migliora la mia prestazione, cosa che penso sia positiva.
Vado solo con le ragazze, ultimamente. E' più semplice, per tanti motivi. Lo metto in chiaro subito, che non devono aspettarsi niente, a parte un'esperienza fisica soddisfacente. Mi sembra onesto. Loro dicono di sì, sorridono. E poi però si lasciano sempre dietro delle cose: biancheria, bigliettini, biscotti fatti a mano con un pessimo bilanciamento di zuccheri e grassi. Butto tutto, insieme ai preservativi usati. Sono solo residui inutili.
Se leggessi le mie lettere, se io le spedissi, sapresti tutte queste cose. Sapresti anche che tengo un diario del mio stato fisico. Ho iniziato a sedici anni, e ci sono segnati pasti, allenamenti, peso, temperatura e anche tutti i rapporti sessuali e le masturbazioni, perché le variazioni della libido possono essere un sintomo di tante cose, quindi voglio poterle tenere d'occhio.
Le cinque volte che abbiamo fatto sesso sono scritte lì.
La volta che abbiamo fatto l'amore no.
Non ho bisogno di scriverlo da qualche parte, per ricordarmelo. E preferisco non pensarci. Mi viene sempre da piangere, quando ci penso. E in effetti, ho pianto anche allora. Ti ho pianto addosso, di disperazione, di felicità, o forse piuttosto per la miseria della mia condizione. Avevo vissuto un'esperienza sovrumana e tutto ciò con cui potevo ripagarti era un triste, banale orgasmo.
E' stato un momento basso della mia vita. O forse troppo alto. Non ho mai deciso.
E' meglio, se non ci penso. E' meglio se non mi domando cosa ne pensi tu.  Non me lo hai detto. Non posso più chiedertelo.
E' finita stamattina, con te che parti e io che mi faccio spaccare il labbro.
Addio. 
Addio mio paradiso, come disse quella volta Tendou, quando si rese conto che non avrebbe mai più giocato. Ci ho ripensato oggi, mentre l'aereo mi passava sulla testa. Erano le parole perfette.

Tooru, smetto di scriverti, ma non di amarti.
Non posso più venire sotto casa tua, ora serve che attraversi l'oceano. Per te, lo farò. Verrò in un altro continente e cercherò le uniche due persone al mondo di cui veramente mi importa. Te e mio padre.
Parcheggerò sotto casa tua, dovunque sarà, e ti scriverò che ci sono.
Ci sono sempre, Tooru.
Smetto di scriverti, ma un giorno parleremo. Non so se avrò cose nuove da dire, ma dirò ancora una volta le vecchie: che sei l'unico amore che conoscerò mai. Che non è troppo aspettarti una vita, o più di una. Sono paziente.
Sii felice, in ogni modo.

Ti amo, come sempre.
Ti voglio, come sempre.
Ti sono grato, come sempre.
Questo è reale.

W.

 

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Capitolo 2
*** Afa [UshiOi/IwaOi - 2018] ***


La calura intrappolata nel cemento di Tokyo aspetta il buio per levarsi a tradimento dalle strade e dai palazzi e ghermire alla gola chiunque sia abbastanza incauto da affrontare la notte.
«Ciao. Cosa posso portarvi?»
La cameriera è giovane e carina e prima che la serata finisca lo avranno notato in molti, ma, purtroppo per lei, non i due ragazzoni atletici seduti al tavolo tre. 
«Caffè americano» risponde quello grosso.
«Caffè americano? Non si brinda a caffè americano» obietta l’altro.
Wakatoshi alza le spalle. «Acqua tonica?»
«Prendiamo due Long Island.»
«E’ alcolico?» La ragazza ridacchia mentre scrive e gli strizza l’occhio. 
«Noccioline? Patatine? Qualcos’altro dal menù?»
«No!» rifiuta scandalizzato Wakatoshi.
«Noccioline e patatine, grazie» dice contemporaneamente Hajime.
La cameriera ha già capito a chi dei due dar retta; segna ancora qualcosa e poi si allontana, senza nemmeno prendersi il disturbo di ancheggiare: non servirebbe a niente. Peccato.

Wakatoshi tira fuori il cellulare e inizia a digitare qualcosa. «Cosa hai ordinato? Long Island? Guarda qui: rum, gin, tequila, triple sec. Che diavolo è triple sec? Davvero, non capisco perché dobbiamo riempirci di schifezze. Lo sai che se supero le tremilaseicento calorie… » 
«Taci Waka. Stasera non contiamo le calorie.»
Wakatoshi solleva gli occhi di scatto. Iwaizumi non lo ha mai chiamato per nome prima, figurarsi con un diminutivo. 
«Stasera non contiamo le calorie» riprende Hajime. «Stasera ci ingozziamo di roba fritta e ci chiamiamo per nome. E ci sbronziamo di brutto.»
«Non so se mi va di sbronzarmi. Domani ho la sveglia alle cinque. Anche tu. Comunque, com’è che ti chiami?» Wakatoshi non se lo ricorda. Non si ricorda mai nulla che non abbia un’utilità pratica.

Ti ho mai detto che mi piacciono i pettirossi? 

Nulla che non abbia un’utilità pratica o che non gli sia rimasto aggrappato al cuore.

«Hajime. Mi chiamo Hajime.»
Certo. Hajime. E’ scritto anche sulla targhetta dell’ufficio, sull’opuscolo informativo, sul sito web della federazione. Wakatoshi sta pensando ai pettirossi: chissà dove vanno a finire a luglio, i pettirossi.
Un piccolo robot di servizio si ferma al loro tavolo. Prendono dal vassoio due bicchieri larghi che traboccano cubetti di ghiaccio e liquido scuro. Le cannucce sono gialle, come la fetta di limone sul bordo. Anche le ciotole di stuzzichini sono gialle.
«Iwa…. Hajime-san, sul serio, mi sentirei meglio se le contassimo le calorie.»
Iwaizumi non risponde. Agita il liquido con la cannuccia, poi la toglie dal bicchiere e beve un lungo sorso. Si pulisce le labbra con il dorso della mano.
«Io mi sentirei meglio se Tooru non fosse mai nato. O se potessi scoparmelo tutti i giorni. O se potessi picchiarlo.»
«Non te lo permetterei.»
Hajime solleva un lato delle labbra. «Di scoparlo o di picchiarlo?»
La risposta richiede un po’ di tempo. Wakatoshi, del resto, è fatto così. Mai domandargli qualcosa se non si hanno le spalle (e le palle) per una verità senza filtri.
«Di picchiarlo.»
«Quindi ti va bene che scopiamo?»
Waka ci pensa. I suoi occhi restano fissi sui riflessi del ghiaccio, su due goccioline di condensa che scendono pigre lungo il bicchiere. Le asciuga con il tovagliolo prima che sfiorino il piano del tavolo.
Iwaizumi lo scruta. Sembra che nessuna emozione gli arrivi nello sguardo. L’esatto opposto degli occhi di Tooru, che vivono di vita propria, parlano interi discorsi, gridano promesse, sussurrano allusioni. Ushijima sembra un automa. Sembra.
«Non posso decidere io con chi Tooru vuole scopare.»
«Già.»

«Non puoi deciderlo nemmeno tu.»
Colpito e affondato.
Sembra anche che il discorso debba morire lì. Bevono qualche sorso molto amaro, si guardano intorno, pensano pensieri simili senza condividerli.
«Sai? Non mi piace la parola scopare» dice Ushijima, così, dal nulla, mentre nel locale suona una stupida canzone d’amore.
«Neanche a me. Ma come lo chiami quando uno prende l’aereo, vola trenta ore e si presenta a casa tua alle tre di notte solo per farselo mettere nel culo?»
«Mi dispiace molto» commenta Wakatoshi, corrucciato. E se uno lo conosce, sa che è una cosa che dice solo quando gli dispiace veramente.
La compassione di Ushijima è un oltraggio e al contempo un tributo, Hajime sta imparando a conoscerlo. «Ti dispiace per me? Addirittura? Beh, grazie.»
«Per te?» Waka allarga gli occhi, con tutta la sorpresa di chi si scopre frainteso. Gli succede piuttosto spesso, a dire il vero. E la cosa lo perplime ogni volta, perché è certo di esprimersi molto chiaramente. «A te vorrei spaccare la faccia. Ma è un pessimo impulso: non sarebbe giusto dal punto di vista morale e neppure da quello professionale, visto che lavoriamo insieme. E sei anche piuttosto bravo. Ma è per Tooru che mi dispiace: se fa così, significa che è infelice.»
A Iwaizumi scappa una smorfia che somiglia un po’ a un sorriso. E’ difficile confezionare una risposta. «Sono bravo?»
«Come preparatore atletico? Sì. Ma dovresti saperlo. Non è che la federazione assuma gente a caso.»
«Hanno assunto Kuroo Tetsurou.»
Wakatoshi valuta l’obiezione con un sospiro. «Sono umani, qualche errore lo fanno anche loro.»
Hajime ride. L’ironia di Wakatoshi è involontaria, ma a suo modo acuta. «Anche tu sei bravo.»
Sta dicendo bravo, come a un bambino, a Ushijima Wakatoshi: il capitano della nazionale, il cannone del giappone, il giocatore più forte, più solido, più affidabile, più determinato del paese. Forse del continente. Forse del mondo.
«Grazie. Lo so. E’ il mio lavoro.»
«Il tuo lavoro è spaccare culi.»
Wakatoshi scuote il capo. «Il mio lavoro è starti ad ascoltare. Te, il nutrizionista, il fisioterapista, il medico sportivo, i manager, il direttore tecnico, i tattici, tutti quanti. Vincere è una conseguenza, e nemmeno ci puoi sempre contare. Il mio lavoro è fare del mio meglio. Ecco perché tutte queste schifezze stasera non dovrei mangiarle.»
«Se bevi e basta senza mangiare niente, finirai per crollare.»
«Non è quello lo scopo?»
«Allora lo sai perché siamo qui.»
«So che giorno è. Non sono stupido, Hajime. Anche se lo pensano in parecchi.»
Una volta anche Iwa lo pensava. Ma ora non più. 
«Ti manca?» chiede Hajme a bruciapelo. E’ una delle domande che ha sempre voluto fargli.
Waktoshi tira un respiro profondo. Beve. Mastica una nocciolina. «No.»
«Davvero?»
La domanda è retorica, Ushijima non sa mentire.
«All’inizio pensavo mi mancasse. Poi ho capito che non fa nessuna differenza dove sta. Penso che neanche se morisse farebbe differenza. Sarei addolorato, certo, ma non cambierebbe niente.»
Hajime lo fissa. E vorrebbe ucciderlo, per quelle parole. Per il fatto che sono vere. 
«A te manca?» continua Wakatoshi.
Hajime ha una mano intorno al bicchiere e un’altra stretta a pugno. Non risponde.
Wakatoshi si infila in bocca un pugnetto di arachidi. Il suo palato ritrova fra le memorie d'infanzia quel sapore sapido, la consistenza oleosa, la resistenza della superficie della nocciolina contro i denti. Le manda giù prima di parlare. «Non hai mai saputo amarlo nel modo giusto. E’ questo il problema.»

«Invece tu sì? Tu lo sai amare nel modo giusto?»
Wakatoshi fa spallucce. «Sì, credo di sì.»
«Chiudi quella cazzo di bocca» abbaia Hajime a mezza voce. Ma pensa che in fondo quello stronzo di Ushiwaka abbia ragione. Alzando gli occhi, incontra uno sguardo senza ombre e per la prima volta, gli sembra di trovarsi davanti a uno specchio. Due estranei che condividono le stesse cicatrici, i segni nascosti della stessa brutale violenza.
«Quando è tornato l’ultima volta?»
«Sei settimane fa.»
«Come stava?»
Una domanda semplice solo in apparenza.
«Elettrico.»
«Più del solito?»
Hajime ripensa agli occhi illuminati, alle mani febbrili sulla pelle, a quel sorriso che scardina il tempo e raccoglie come una coppa tutta la felicità e tutta la tristezza del mondo. «E’ dimagrito» dice.
«Quanto?»
«Non molto. Ma io lo vedo. Si sente benissimo sotto le dita.»
Wakatoshi abbassa lo sguardo e fissa il bicchiere pieno a metà. A raccogliere la provocazione neanche ci pensa. Pensa al corpo di Tooru, invece, alla sensazione tattile della sua pelle calda, alle vertebre che si sgranano sottopelle, ai muscoli tesi, al cuore consumato dai suoi sospiri e dai suoi gemiti.
«Ha pianto?»
«Un po’.»
Se c’è una cosa di cui entrambi si sentono in colpa è il fatto di amare le lacrime di Tooru. Non la sofferenza che le provoca, ma le lacrime in sé, la fragilità che evocano, le esitazioni e le debolezze che hanno dentro. Asciugarle, baciarle, sentirle sulla lingua.
Amano anche il suo sorriso, è ovvio, ma i sorrisi di Tooru sono diversi, complicati, ipnotici, ingannatori. In qualche modo e in qualche misura, prima o dopo, feriscono sempre. Le lacrime mai.
Per un bel po’ non parlano. Wakatoshi ha perso la misura di quanto sta mangiando e bevendo. Lo sta facendo apposta, per avere un buon motivo a cui attribuire l’insonnia e il bruciore di stomaco con cui avrà a che fare stanotte.
«Wakatoshi?» 
«Sì?» 
«Dimmi perché lo ami. Perché lui. Perché.»  Hajime forse non vuole davvero saperlo. Ma non ne può più di tenersi dentro questo tarlo, dopo tutti quegli anni.
Non è il tipo di domanda che richiederebbe una sfida di sguardi. Eppure è quello che succede. Si fissano dritto negli occhi per un tempo molto lungo. Le dita di Hajime grattano il tavolo, quelle di Wakatoshi scivolano lungo il vetro freddo. 
«Non lo so» risponde Waka onestamente. «Mi ha toccato nel profondo. E’ stato l’unico a farlo e non so neanche perché» confessa, con una magnifica tenerezza e una possessività sproporzionata al senso della frase. Hajime distoglie gli occhi, perché fa troppo male.
«Sai una cosa che ho sempre voluto fare con lui?» riprende Wakatoshi, pulendosi le mani unte sul tovagliolo.
Hajime appoggia il bicchiere senza garbo. «Stupiscimi.»
«Correre.»
Le spalle di Hajime si abbassano, le sopracciglia si aggrottano. E’ bravo Ushiwaka a stupire la gente.
«Vorrei correre con lui al mattino. Penso che le persone mostrino sempre molto di se stesse quando corrono. E penso che il ritmo della corsa sia una cosa profonda da condividere. Hai corso spesso con lui?»
Hajime annuisce. 
Molto spesso. Quasi ogni giorno, per quasi sei anni. Delle mille cose che hanno fatto insieme, sembrerebbe la meno significativa.
All’improvviso, Hajime si trova proiettato in quelle corse all’alba, prima di scuola. Tooru che cerca sempre di starti mezzo passo avanti. Tooru che corre all’indietro, facendoti le linguacce e rischia di farsi investire se non lo tieni d’occhio. Tooru che rallenta e sorride anche ai muri. Tooru che mentre sorride si preoccupa del ritmo cardiaco, delle pendenze, dell’uniformità del passo. E poi inizia a sprecare fiato parlando a vanvera di qualsiasi argomento. Tooru che allarga gli occhi di fronte a una vetrina. Tooru che si sfonda di allenamenti e proteine, conta le calorie, si massacra di addominali, finché gli viene la botta di tristezza e allora ti costringe a ordinare una coppa enorme di gelato e la mangia tutta lui. E dopo vuole correre. E anche vomitare, ma non ci riesce. E una volta, gli hai pure messo le dita in gola. Ed è stato meno schifoso di quanto ti piaccia ammettere.
La somma di quei momenti che si riversano tutti insieme nel cuore di Hajime ha il valore e il peso di una lacrima all’angolo dell’occhio.
«Lo sapevo» sospira Wakatoshi. E non si cura di nascondere l’amarezza.
Ripiombano nel silenzio. Accarezzano ricordi.
Intorno c’è meno gente, la musica è cambiata, la cameriera carina - Hajime si accorge all’improvviso che è carina - sembra stanca.ù
«Si è fatto tardi. Domani sempre sveglia alle cinque. Dovremmo brindare adesso» dice Hajime. Il suo bicchiere è quasi vuoto.
«Che ore saranno a Buenos Aires?»
«Quasi mezzogiorno.»
L’immagine di Tooru che si allena nella luce spiovente di una palestra metropolitana li abbaglia entrambi. Il fotogramma successivo è un momento privato, se avessero il coraggio di parlarne - e un giorno lo avranno - scoprirebbero che è un momento molto diverso, e anche molto simile. 
Hajime alza il bicchiere verso Wakatoshi, che lo colpisce con un po’ troppa energia, il rumore è cristallino, ma qualche goccia schizza via.
E’ un brindisi muto, che prevede di ingollare d’un fiato tutto il contenuto del bicchiere.
Lo fanno e poi restano lì a guardarsi, aspettando ciascuno che sia l’altro a fare qualcosa. Ma a parte prenotare un biglietto per l’Argentina, o prendersi a calci, c’è ben poco da fare.
Le lancette scattano lentamente, finché si trovano una sull’altra, strette in un coito temporale che serve a cancellare un giorno e farne nascere uno nuovo nel giro di un secondo.

E’ il 21 luglio. Un qualunque sabato d’estate, giusto in mezzo alle tre settimane di ritiro annuale della nazionale di pallavolo.
«Come va la spalla?» domanda Iwaizumi.
Ushijima la ruota senza sforzo. «Molto meglio.»
«Vacci piano per un altro paio di giorni.»
Wakatoshi annuisce, poi solleva la mano per chiamare la cameriera. «Una bottiglia d’acqua grande e due bicchieri, per favore.»
«Naturale. A temperatura ambiente. Niente ghiaccio» aggiunge Iwaizumi. «La roba gelata ti fa male Ushijima-san. Non me ne frega niente se fa caldo.»
E’ vero, fa caldo. Un caldo tremendo, umido e stremante. 
Ma l’afa è sparita all’improvviso. Il mondo si è incrinato e dalle fessure è sfiatata via la pressione in eccesso e si è perduta nella notte, nel sale delle noccioline, nelle decine di migliaia di chilometri delle rotte transoceaniche.
Fa caldo, ma adesso si respira.

 

***

NdA -  Buon compleanno Tooru! Anche io, come loro, ti odio e ti amo. Fai questo effetto, purtroppo.

 

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Capitolo 3
*** Floor is lava [IwaOi 2008] ***


Questa storia nasce all'interno della challenge comeasyouarenot2023 del gruppo fb "Non solo Sherlock - gruppo eventi  multifandom", su un prompt originalissimo di Francesca Merloni: "puoi uscire dal bagno per favore?"/"Ma non ho finito!"
RATING: verde

 
 
FLOOR IS LAVA


Con lui finisce sempre così.
Ti ritrovi a inseguirlo affannato durante la corsa del mattino perché accelera come un matto fregandosene di tenere il ritmo, a spintonarlo in fila per la mensa perché s’incanta a guardarsi riflesso nel vetro del bancone, a coprirlo di insulti perché prima si lamenta di avere grasso inesistente sulla pancia e poi si ingozza di gelato (e si mangia anche il tuo).
Se il tuo migliore amico è cintura nera di esagerazione drammatica e masochismo, rientra fra i tuoi doveri prenderlo a calci ogni volta che supera il limite.
Tipo adesso; per questo ti ritrovi a tempestare di pugni la porta del bagno dello spogliatoio. Per fortuna l’allenamento è finito da un pezzo e quindi gli altri se ne sono andati tutti.

“Esci da questo cazzo di bagno, Tooru, o vedi che butto giù la porta!”

“Lasciami in pace Iwa-chan. Non ho ancora finito!” miagola querulo, tirando per la terza volta lo sciacquone.

Sta piangendo, ovviamente.
Per la miseria, quanto piange! Dovrebbe essere illegale per un maschio piangere così tanto, così all’improvviso. A quattordici anni compiuti poi.
Tooru ha il cuore cucito sulla manica, che è una cosa che hai sentito dire da sua mamma alla tua quando eri piccolo, e non te la sei mai più dimenticata, perché come immagine è azzeccatissima: tutto lo tocca, tutto lo colpisce sul personale, lo punge nel vivo e lo fa sanguinare.
Detesti vederlo sanguinare così tanto e non poterci fare niente.
Detesti vedere come lascia a tutti, anche alle persone che proprio non se lo meritano, dei bersagli così enormi per colpirlo. Qualche volta ti viene da pensare che voglia essere colpito, il che non ha senso. E ti fa incazzare di brutto, che poi è il motivo per cui ti trovi di continuo a picchiare calci e pugni contro le porte chiuse.
“Piantala di frignare. E’ per quello lì?”

“No!”

“Invece sì. Mi stai facendo incazzare. Vieni fuori! Te lo do io un motivo per piangere…”

“Lasciami stare Iwa-chan, tu non capisci come mi sento… “

No. Non capisci. Non lo capisci proprio perché quel tipo grosso e stupido della colonia estiva debba avere il potere di ridurlo in questo modo. Va bene, è forte a schiacciare, ma è ovvio, ha due braccia e due spalle che pare uno di diciott’anni, ma a parte quello, è solo un tizio qualsiasi che si è preso una gigantesca cotta per Tooru. Sai che novità. Al limite è imbarazzante.
All’inizio pensavi che il problema fosse quello, perché, insomma, un maschio che ti corre dietro e ti scrive certe lettere senza neanche il pudore di evitare di consegnartele a scuola, beh, un po’ ti può anche far girare le scatole.
A te sono girate parecchio, e visto che Shittykawa se ne stava lì impalato e la lettera aveva cominciato a girare per tutta la palestra in un'eco di risatine soffocate, un bel pugno in faccia al tizio glielo hai tirato tu. Non ha reagito, non si è mosso di un millimetro: continuava a guardare Tooru, come se non gli sanguinasse il labbro, come se non ci fosse una palestra piena di gente che rideva di lui.
Poi se n’è andato e tutta la faccenda doveva finire lì. E invece no, Tooru per qualche motivo incomprensibile gli è corso dietro e quando è tornato, con la testa bassa e gli occhi gonfi, rosso come se stesse per esplodere, è corso a chiudersi in bagno a frignare.

E’ vero che non lo capisci.
Non lo capisci più e non sai quando è successo.
Ti sembra ieri che saltava sul divano urlando “Iwa-chan, aiuto, il pavimento è di lava!” e tu dovevi inventarti le cose più strane per salvarlo, perché Tooru - questo è ancora vero - vuole sempre essere salvato.

Ma tu lo sai benissimo che sotto quell’aspetto fragile un po’ da femmina, quelle scemenze, quella mania stupida di chiamare tutti con i diminutivi, è nascosto un nucleo durissimo, un’anima d’acciaio dentro una spada di gommapiuma, che sembra innocua e poi a furia di colpirti ti lascia i lividi.
Hai dieci anni di lividi, come medaglie al valore. Lui anche di più.

Davvero dovresti deciderti a lasciarlo perdere, Oikawa Tooru. Forse non ne vale (più) la pena. Ormai le retine per farfalle si sono bucate, i pavimenti sono diventati solidi e sicuri e i supereroi hanno fatto il loro tempo; però a mettere spazio fra voi tu non ci riesci.

Ci hai provato, l’anno scorso. Hai pensato che ormai, alle medie, potevate anche allentarlo un po’ questo laccio così stretto. Che sono più le volte che lo detesti che quelle che gli vuoi bene (e a volte neanche distingui una cosa dall’altra). Che quel codazzo di ragazzine adoranti che lo seguono ovunque ti strina il sistema nervoso. Che non ti va più di fare il bagno insieme e detesti quando fa carte false per obbligarti, che ti sta sempre troppo addosso, che continua a metterti in mano il pennarello quando si accorge che ha colorato il muro. Non ti va più neanche di giocare a pallavolo, forse. Magari è il momento di cambiare sport, di cambiare amicizie, di diventare grandi.
Davvero, ci hai provato, però non ha funzionato. E, in coscienza, nemmeno puoi dare la colpa a Trashykawa, perché lui ti aveva lasciato fare.
Il problema è stato solo tuo e quando ti sei messo a pensarci sopra…
Cavolo! Non ha funzionato e basta. Crappykawa è come un herpes, quelle robe schifose che non vanno mai via davvero. Rompersi la testa per capire esattamente perché e percome è una perdita di tempo.

Picchi altri tre o quattro pugni violenti contro la porta del bagno, che vibra forte, da dentro senti un singhiozzo controllato, il rumore del naso soffiato nella carta igienica. E di nuovo tira lo sciacquone: la crisi idrica mondiale dipende chiaramente da Oikawa Tooru.
Cerchi di dominare la voce, di calmarti. “Perché fai così? Spiegamelo! E’ perché ridevano tutti? Guarda che ridevano di lui, mica di te. Shittykawa, lascialo perdere quel tipo: è solo uno che ti viene dietro. Che te ne frega che è un maschio? Fai finta di no, fai finta che sia una ragazza, solo molto racchia.”

La risposta è una mezza risatina, strana, ambigua, che però si spegne subito. “Sai che ha detto?”

“No. E non me ne potrebbe…”

“Ha detto che era deluso da me.”

“Ma chissenefrega!”

“Ha detto che io…”

“Tooru, basta! Non me ne frega niente cosa ti ha detto. Specie se sono smancerie.”

“No! Ascoltami! Ha detto che sono troppo vanitoso.”

“E’ un po’ meno stupido di quel che pensavo.”

“Ma poi ha detto che come alzatore sono straordinario.”

Questo è vero. Ma Tooru è uno che si beve le lusinghe come ramune e per una cosa del genere è capace di sciogliersi per l’eccitazione e poi fare schifo due mesi e poi allenarsi venti ore al giorno finché non si spacca il ginocchio. O finché non diventa troppo bravo.

“... il migliore che ha conosciuto, della nostra età. Ha detto così.”

“Si vede che a scuola sua sono tutti sfigati.”

“Iwa-chan, va alla Shiratorizawa. La loro squadra di liceo ci ha messo le tende ai nazionali.”

“Quello va alle medie come noi.”

“Tu pensi che sia vero?”

“Che sei bravo? No, Shittykawa, fai schifo come sempre. E se te ne stai barricato nel cesso da mezz'ora per sentirti dire bravo da me, sei anche cretino.”

“Non che sono bravo, che sono il migliore. Lo sono per te?”

Certo che è il migliore. E se non lo fosse, se spuntasse fuori un cazzo di genio del male che non sbaglia mai un servizio e alza all’indietro facendo le capriole, per te non farebbe nessuna differenza. Perché tu vedi cose di Tooru che altri non vedono, sai cose di lui che altri non sanno. E la medaglia d’oro gliel’hai già messa al collo da un pezzo, punto e basta. Ma se glielo dicessi, Assikawa passerebbe il suo tempo a cercare di dimostrarti che ti sbagli, che il mondo è pieno di talenti inarrivabili, che lui non potrà mai farcela, che ha bisogno di essere salvato, perché il pavimento dove camminano i suoi sogni è sempre di lava.

“Vuoi sapere cosa sei? Sei un piagnone e un rompipalle, un egoista e qualche volta anche un codardo. Purtroppo, sei anche il mio migliore amico. E se non alzi subito le chiappe da quel water ti batto cento servizi in testa.”

Si sente soffiare di naso e frusciare di stoffa e tirare per l’ennesima volta lo sciacquone. Poi il fermo si sblocca e Tooru compare, strofinandosi la faccia con il dorso delle mani. E’ imbronciato, pallido e gli brillano gli occhi come fari. E che tu te ne stia lì a notare queste cose anziché tirargli una sberla, davvero non ha senso.

“Pensi che se facessi domanda l’anno prossimo, mi prenderebbero alla Shiratorizawa?”

La sberla arriva a te, così forte che ti viene da tossire. “Penso di sì.”

“Verresti con me, Iwa-chan?”

“Che c’entro io? Vacci tu a giocare con quei fanatici. Io andrò all’Aoba Johsai, così quando ci vediamo ai tornei, ti schiaccio sui denti.”

Fa una smorfia di finta paura, con l’angolo delle labbra sollevato e gli occhi pieni di malizia. “Meglio che andiamo tutti e due al Seijoh. Il tiffany mi sta molto meglio del magenta.”

“Che cazzo è il tiffany?”

“Il colore della divisa dell’ Aoba, no? Quel celestino che dà un po’ sul verde.”

“Sei tutto scemo.”

“Iwa-chan, pensi che tornerà quel tipo?”

Il tipo tornerà. Lo sai come sai che stasera tramonterà il sole, che ti beccherai un’insufficienza a matematica e che Tooru vuole che lui torni. Conosci tutte le sfumature della sua voce e l’inclinazione dei suoi sorrisi: li hai subiti tutti.
“Spero di no.”

“Spero anch’io.”

Sta mentendo. Ultimamente, fa anche quello. E inizia a pesarti fare finta di non capirlo.

Si lava le mani con un quintale di sapone, le asciuga sotto il getto dell’aria e poi si volta a guardarti, la testa inclinata, l’espressione riflessiva. “Pensi che sia così strano baciare un ragazzo? Così tanto diverso da una ragazza? Io sarei curioso… ”
Quel tono di voce e quegli occhi che parlano, da qualche tempo a questa parte, colpiscono duro in qualche punto dove fanno sempre malissimo.
Lo spintoni verso l’uscita, lui di fronte a te, tu che lo segui, come sempre.
Quando abbassi lo sguardo, ti accorgi che il pavimento ribolle e ci stai affondando dentro fino al ginocchio, ma nessuno verrà a salvarti.

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Capitolo 4
*** Quattro tovaglioli [UshiOi - 2018] ***


QUATTRO TOVAGLIOLI (più uno)
 


Sono qui.
Te lo scrivo su un tovagliolo del bar, perché ho scoperto che non sono capace di farlo sul telefono. Che non so più qual è il tuo numero.
Che non so niente, Tooru, se non che ho capito che ero nel posto giusto quando ho visto la maglietta stesa ad asciugare davanti all’oceano, l’ombrello violetto che pende dalla maniglia della portafinestra sulla spiaggia, e un’altra cosa, che una volta era mia, e davvero non sapevo avessi tu.
Però so con certezza quando l’hai presa.
Di quella notte al ritiro dei primini, quando avevamo sedici anni, ho un ricordo che si è depositato sul fondo della memoria e il tempo che ci si accumula sopra è trasparente, così lo vedo come fosse sotto un cubo di ghiaccio, con i contorni deformati ma i colori ancora vividi.
Credo che tu abbia sempre saputo che nella mia stanza, sul letto a castello sopra il mio, non c’eri finito per caso. Tendou aveva deciso di ammalarsi proprio quella settimana e io dissi al coach Washio che volevo studiarti. Non era una vera bugia.
Che mia madre mi avesse negato il permesso di andare al raduno della nazionale giovanile a Tokyo, ecco, quella era una vera bugia. Grossa.
Ed erano bugie ancora più grosse la mia indifferenza e la tua ostilità.
Ho scritto anche sul retro. Forse mi servono tutti e due i tovaglioli.
 
*
 
La tua vicinanza mi confondeva fino alle ossa, mi smarriva, mi eccitava. Steso sul letto, fissavo a occhi sbarrati il rigonfiamento del materasso sopra la mia testa e ascoltavo il fruscio dei tuoi movimenti fra le lenzuola.
Mi addormentavo ascoltandoti respirare e sperando che mi parlassi.
Una sola parola, pensavo. Di’ una parola, di’ una parola.
Ma tu tacevi e tacevo anch’io.
Avevo deciso che l’ultima notte avrei parlato. Non ero sicuro di cosa ti avrei detto; sapevo quali parole avrei voluto usare, ma non ero certo che mi uscissero come le avevo pensate. Volevo solo dirti la verità. Ma penso che tu già la sapessi.
Mi dispiace.
Lo dicesti in un soffio, ma io ti sento sempre, Tooru. Ti ascolto così forte che nessun bisbiglio potrebbe mai sfuggirmi. Quel bisbiglio mi si piantò nello stomaco.
Di cosa?
Di un po’ di cose.
Quali?
Per esempio, di aver ritirato la mia domanda qui.
Hai sempre giocato a stupirmi. Ci riesci ogni volta.
Avevi fatto domanda? mi tremava la voce.
Sì, te l’ho appena detto.
Perché?
Perché l’ho ritirata?
Il bar è ancora aperto. Vado a prendere un altro tovagliolo.
 
*
 
Perché l’avevi fatta?
Non è la scuola migliore di Miyagi?
Lo è.
Sei uno stupido, Ushiwaka. Avevo fatto domanda per te.
Era un altro bisbiglio, ma detonò fra le pareti del mio cuore come una bomba.
Ero sicuro che potessi sentirne il battito, era impossibile che non lo sentissi, sicuramente lo sentivano anche nelle camere di fianco.
E poi? mi tremava ancora la voce, più di prima.
E poi niente. Ho ritirato la domanda. Non ci sto a farmi mettere in ombra, a stare a guardare mentre ti prendi tutto lo stadio, la partita e anche la maglia con il numero uno. La voglio io.
Anch’io la voglio, dissi.
Me la cederesti se venissi a scuola qui?
Certo, non dissi. Me la strapperei di dosso, non dissi. Ti cederei l’aria che respiro, non dissi.
Forse avrei detto una di queste cose, se tu avessi avuto la pazienza di aspettare che riprendessi a connettere. Ma non sei paziente, lo sappiamo.
Sono troppo piccoli, questi tovaglioli.
 
*
 
Lo vedi, Toshi? Non può funzionare.
Il mio nome, in quella versione inedita fra le tue labbra mi ridusse al silenzio. Scoprii che Toshi era muto.
Ehi? Non ti addormentare mentre parlo con te. Fra noi, dicevo. Non può funzionare. In campo, intendo.
E invece fuori?
Era un momento mistico. Parlavo col cuore rivolto alle stelle e le tue parole gocciolavano su di me dall’alto. Per questo avevo la faccia bagnata.
Fuori non esiste, per noi due, è sempre dentro.
Avevi ragione. Lo capii subito. E lo dissi.
Quindi da domani è guerra, rispondesti in un sussurro.
Perché guerra?
Perché con te se non è guerra… lo sai anche tu perché.
Non lo sapevo; speravo, volevo, ma non sapevo un bel niente.
Credevo di aver perso quel teru teru bozo che tenevo allora alla finestra. E’ proprio lui, riconosco l'henohenomoheji tutto storto e sbaffato: l’ho dipinto io alle elementari.
Credevo che il vento l’avesse portato via e forse è andata proprio così.
Oggi ho scoperto dove il vento l’ha portato, dall'altra parte del mondo, nello stesso posto in cui ha portato anche me.
Ci sono due parole che non c’entrano sul quarto tovagliolo.
Già le sai, ma io sono venuto a dirtele lo stesso.



***
Questa storia nasce all'interno della challenge  #mayIwrite del bellissimo gruppo fb Non solo Sherlock, fonte di ispirazione, divertimento e splendida condivisione.

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Capitolo 5
*** Oltre la soglia [UshiOi - 2012] ***


Oltre la soglia

 

Con i piedi affondati nella neve, Wakatoshi guarda verso l’alto.
E’ un continuo guardare verso l’alto, quando si tratta di Tooru. Guardare e aspettare, come si aspettano i doni del cielo: la pioggia, il tramonto, le stelle cadenti.
Ha i piedi bagnati, inizia a fargli male il collo, mentalmente si segna di fare un lunghissimo stretching per la cervicale domattina.
La sagoma di Tooru è scolpita nell’aria della sera da una tavolozza di azzurro e di vento leggero e gelido, che porta fiocchi di neve e li sbriciola in polvere bianca. E’ chino sulla balaustra del minuscolo balcone della sua stanza, gli avambracci contro la ringhiera, gli occhi che vagano inquieti e parlano lingue straniere, il respiro leggero.
Da quanto tempo sono in silenzio?
Minuti, ore, il tempo lo governa Tooru, muovendo il polso, inclinando il viso, abbassando le palpebre per un attimo e increspando le labbra. Quando decide di parlare, si fermano tutti gli orologi del mondo.
«Ushiwaka, tu lo sai dove vanno a finire i pettirossi d’estate?» gli chiede.
Waka non ne ha idea. Impiega qualche istante a dare un senso alla frase, si fa assalire dalla confusione, dal rammarico di non avere la risposta a una domanda così semplice. Non le ha quasi mai, le risposte. Probabilmente non le avrà mai.
«No, non lo so. Ma possiamo cercarlo da qualche parte. Posso cercarlo, poi te lo dico.»
«Mi piacciono i pettirossi» sussurra Tooru, e le parole sono un frullo d’ali, un alito di vento caldo, una promessa d’estate che fa rabbrividire Wakatoshi sotto la sciarpa color porpora. La neve diventa sabbia, il corpo avvampa di calore. Dove vanno a finire i pettirossi?
«Non ne posso più di vederti lì sotto impalato. Non hai freddo?»
«No.» Sta ancora bruciando.
«Sei proprio un robot del cavolo. Io mi sto congelando.»
Allora rientra. Vorrebbe dirlo, ma non ne ha le forze.
Waka si slaccia la giacca a vento, la sfila e la porge verso l’alto, in un gesto talmente spontaneo da sorprendere entrambi. La stanza di Tooru è al primo piano, se si sporgesse in giù potrebbe afferrarla. Ovviamente non lo fa.
Ride, invece. Ride di lui, e va benissimo così.
«Perché devi essere così stupido e ostinato?»
Wakatoshi abbassa gli occhi a terra, la giacca stretta in mano. La neve sciolta intorno ai piedi forma una pozza in cui si sente affondare, insieme alle sue ragioni, alla logica, alla prudenza minima che gli imporrebbe di evitare di beccarsi una polmonite a due settimane dalla finale delle eliminatorie.
Alza lo sguardo, piovono stelle cadenti.
«Perché ne vale la pena.»
«Di ammalarsi sotto la mia finestra?»
Di togliersi la giacca, la camicia e la pelle. Di perdere la salute, di perdere il sonno, di perdere il senno. «Anche.»
«Si può sapere che ci vieni a fare qui? Cosa vuoi da me?»
Tutto. Niente. Anche solo le briciole. La voce non esce, le corde vocali non vibrano, Wakatoshi apre la bocca, ma il cuore è un macigno che spinge in basso le parole.
Resta lì a bocca spalancata, come un pesce, fissando il gancio di metallo con sopra l’esca che fra poco gli trafiggerà il palato.
«La devi smettere di starmi sempre tra i piedi. Siamo nemici naturali, Ushiwaka. Mettitelo in testa.»
«Avversari, non nemici. E solo perché hai scelto la scuola sbagliata.»
«Ancora questa storia? Te l’ho spiegata due anni fa, mi pare, la scelta che ho fatto. E non me ne frega niente se hai capito o no.»
«Io ti avrei portato in nazionale.»
«Quanto sei stronzo. Non mi serve nessuno che mi porti. Ci vado da solo dove voglio andare.»
«Non con uno schiacciatore mediocre, una ricezione inesistente, senza preparatore atletico, mangiando roba schifosa piena di zucchero ogni volta che vinci.»
«Come lo sai?»
So tutto. «Il posto dove vai a strafogarti di gelato è giusto di fronte alla mia fermata dell’autobus.»
«Davvero?» Il viso di Tooru è impassibile, infastidito, ma qualcosa nei suoi occhi sussurra, provoca e irride. E’ un caso che la gelateria sia proprio lì? Wakatoshi resta impigliato in quello sguardo e in quella domanda stupida, la cui risposta non cambierebbe nulla, eppure sembra importante. E’ un caso? Dev’essere un caso.
La mano elegante che pende dalla ringhiera è così vicina che alzandosi sulle punte dei piedi potrebbe toccarla. La immagina tiepida, leggera, morbida ma non perfettamente liscia, come la superficie curva della palla, quando aderisce alla mano e la riempie, subito prima di schiantarsi al suolo oltre la rete.
Ecco, vorrebbe riempirsi le mani di Tooru, ingozzarsi di lui, lasciarlo sciogliere nel sangue come un veleno dolce e tossico, come gli antidolorifici, come lo zucchero.
Vorrebbe offrirgli il gelato. Vorrebbe correre con lui sulla spiaggia, guardare le stelle, giocare fino a crollare di stanchezza. Vorrebbe allacciargli le scarpe, per bene, senza quel mozzicone di laccio che sporge e minaccia di sciogliersi da un momento all’altro. I desideri più assurdi dondolano nel suo cuore come fa la mano di Tooru nell’aria, spostando l’acqua di un mare immaginario in cui Wakatoshi affogherà.
«La squadra non c’entra» protesta Tooru.
No, la squadra non c’entra. Non servono affatto sei persone per tutto quello che ha in testa Wakatoshi in quel momento.
«Mi ascolti? La squadra non c’entra proprio niente. Tobio-chan è in una squadra di merda, ma lo hanno convocato al ritiro della giovanile, no? Senza che ce lo portassi tu.»
«Kageyama? Kageyama è molto promettente. Anch’io lo avrei scelto. E la squadra non è così di merda: vi hanno battuti, dopotutto. Sono imprevedibili. Forse anche interessanti.»
«Non ti fa paura?»
«Chi? La Karasuno? Kageyama? E’ un ragazzino.»
«Il talento degli altri, Ushiwaka.»
«Il talento degli altri è una risorsa. Per la nazionale, per la pallavolo, per me. Perché dovrebbe spaventarmi?»
«Perché c’è un solo vincitore e tutto il resto del mondo deve perdere.»
«La pallavolo è uno sport di squadra.»
Tooru sbuffa, storce la bocca, alza gli occhi al cielo. «Essere il migliore non è uno sport di squadra.»
«Tu sei unico, non ti serve essere il migliore.» Lo dice con una semplicità che non conosce dubbio, una convinzione che non ammette repliche.
Tooru sorride suo malgrado, e gli si accendono di rosa le guance, sempre suo malgrado. La neve si ferma sospesa nell’aria, il mondo brilla per un attimo di una luce che prima non c’era.
Poi un calcio fa vibrare la ringhiera, un calcetto leggero, simbolico. Wakatoshi si riscuote.
Tooru governa il tempo e il tempo riprende a scorrere.
«Toshi, ti ho mai detto che ti odio?»
Toshi.
«Tante volte.»
«E la cosa non ti fa incazzare?»
«No.» Per questo sono qui.
«Ha ragione Iwa-chan: sei davvero uno stupido. Io però sto gelando. Mi verrà un colpo.»
«Allora dai, rientra.» Stavolta lo dice. E si ricorda di infilarsi la giacca.
«Tu resti lì?»
«Solo un altro po’.»
Tooru riflette, ha le mani ancorate alla ringhiera, le spalle dritte, guarda per aria, qualche fiocco gli turbina intorno. «Vuoi salire?»
Sono soltanto due parole ma spalancano un milione di porte, che sbattono tutte insieme. Il boato è assordante, le equazioni dell’universo convergono a una manciata di incognite. A Waka sudano le mani, una nuvola di farfalle furiose gli si libra alla bocca dello stomaco.
Per superare la soglia di quella casa basta un passo. Mentre lo compie, Waka si accorge dei calzini bagnati, delle mani bagnate, dell’erezione compressa e dolorosa, della pelle d’oca su tutto il corpo. Si accorge dei muscoli e dei tendini che si contraggono per spingerlo oltre quel confine invisibile. Si accorge dell'amo conficcato nella guancia, del sangue sulla lingua.
Si accorge di Tooru, una sagoma netta, colorata ad acquerello di sfumature impossibili, non più azzurre, ma tutte rosse. Così vicino.
Si accorge del prezzo che pagherà.
Si accorge di tutto e se lo lascia alle spalle, oltre la soglia.
Ne vale la pena.

***
Questa OS è stata scritta per la challenge MayIwrite del gruppo fb "Non solo Sherlock" grandissima e inesauribile fonte di ispirazione.

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Capitolo 6
*** A volte capita [UshiOi - 2019] ***


Ogni tanto, gli capita.

Così, all’improvviso, apre gli occhi e scopre che la coscienza è rimasta indietro, arenata a ricordi talmente lontani e assurdi che forse non sono nemmeno i suoi.

Succede al mattino, quando si sveglia intorpidito da ore e ore di sogni turbolenti, che scompaiono all’alba e di cui non ricorda nulla. 

Mentre corre sulla battigia, coperto di sudore, dopo aver abbassato le palpebre per riposarsi un attimo da tutta quella luce abbagliante e salata, che piove senza tregua dal cielo e dal mare e rende le cose sempre troppo reali; vere e squallide, proprio come sono.

Gli capita anche quando è a letto con uno dei suoi amanti occasionali, o con quello che ultimamente sta vedendo (troppo) spesso, perché è generoso e divertente, e ha le mani grandi. Gli piace sentirle sulla schiena o aggrappate forte ai fianchi, gli piace più di quanto non gli piaccia guardarlo in viso, per questo si rifugia spesso nel buio delle palpebre serrate. Non pensa a nulla. Non pensa a nessuno.

Poi le riapre e, a tradimento, tutto si fa chiaro e tenero, morbido, soffuso, la custodia di un segreto. E il segreto è lì, con gli occhi finalmente chiusi, addormentati, che non pretendono e non chiedono,placati, arresi al sonno, al piacere, alla stanchezza. 

E a lui è permesso, in un tempo che forse non esiste, sorridere e innamorarsi.

E’ già innamorato, perché agli stupidi succede, ma è bravissimo a negarlo e a fingere con se stesso. E’ innamorato, ma ha diciott’anni e l’effetto è quello di un frullatore, un gorgo oceanico, uno spaventoso pozzo senza fondo. 

E’ innamorato della persona sbagliata, o forse di due persone insieme, o forse anche quelle sono bugie che si racconta e la verità è nitida e fredda come la neve che c’è fuori, e altrettanto umida e sporca, come la paura che si porta stretta addosso.

E’ innamorato, ma non vuole affatto esserlo e quindi smetterà, perché Oikawa Tooru è uno che pensa che la volontà smuova i continenti (e quando non si smuovono loro, forse è proprio il caso di prendere un aereo e attraversarli).

Ma sì, è innamorato e il suo amore lo chiama rivalità, perché è una definizione più facile, e più giusta. E’ innamorato e ha solo mezzo minuto per fantasticare, prima che arrivi l’alba e, battendo un martello di luce, assegni un nome a tutte le cose, visibili e invisibili, rendendole giuste o sbagliate. 

Quella lì di fronte è sbagliata, Tooru lo sa.

Ma possiede ancora il lusso di mezzo minuto, in cui non è giorno e non è notte, e in quel mezzo minuto il futuro si condensa fra le sue dita, mentre percorrono la curva di una spalla nuda e squadrata, il rilievo solido di un bicipite su cui spicca un graffio scarlatto, un mano grande tesa verso di lui anche nel sonno. 

Per trenta secondi la paura svanisce, la confusione si scioglie e cola via. E loro due indossano la stessa maglia, spartiscono lo stesso talento, la stessa smania di vincere, la stessa violenta ostinazione manifestata in opposti caratteri. Hanno lo stesso scopo nella vita, lo stesso anello al dito, lo stesso tetto sulla testa, un corpo solo che si tende da un cuore all’altro a ogni respiro condiviso, pelle contro pelle, come stanotte. Cose impossibili e proibite, anche un po’ crudeli; vere solo per una manciata di secondi, una mattina d’inverno. Fuori ci sono i pettirossi.

E’ successo davvero?

E’ successo, tanto tempo fa.

 

******

La palestra è vuota, perché, a stagione finita, un sabato al mese è libero e c’è solo un giocatore del San Juan che considera i sabati liberi come momenti buoni per allenarsi. 

La palla ormai gli obbedisce; ogni muscolo del corpo gli obbedisce e quelli più riottosi sono stati domati uno a uno, rimodellati, asserviti a una volontà implacabile e spaventosa. A un'irrequietezza divorante.

Lanciare, correre, saltare, colpire. Ripetere un milione di volte, cercando la minuziosa perfezione di ogni gesto, la ripetibilità assoluta, l’estetica più sottile. L’idea che l’atto di raggiungere qualsiasi tameni sia una forma d’arte è talmente giapponese da fargli venire male al cuore. 

Ormai hai firmato, Tooru. 

E' scritto a lettere grandi e nere. Nazionalità: argentina.

La palla, addomesticata, ruota veloce fra le sue dita e Tooru pensa ai paralleli e ai meridiani, alle tratte oceaniche, al mondo che imperterrito ruota intorno al sole, che a sua volta ruota intorno al centro della galassia, che intanto corre a folle velocità, e con lieta inconsapevolezza, verso il bordo dell’universo e verso la morte, che poi è dove tutti andiamo. Con lieta inconsapevolezza, appunto. 

Tooru lo odia il tempo che passa: è la somma tangibile delle occasioni mancate, di tutto ciò che non ha fatto, non ha vinto, non ha voluto con abbastanza forza. Quello che si è lasciato sfuggire, quello che gli è scivolato fra le dita. Quello che gli manca.

Che ore saranno in Giappone? 

Lo sa, ma finge con se stesso di doverlo calcolare ogni volta: il fuso è di dodici ore, esattamente agli antipodi, quindi sono le undici di sera passate e al suo compleanno manca meno di mezzora.

Quando il telefono squilla, sa che non è Iwa-chan.

Iwa-chan chiamerà stasera, perché gli fa gli auguri sempre alle otto del mattino (ora di Tokyo), come quando erano bambini e quella era l’ora più antelucana che la signora Iwaizumi considerava accettabile per andare a bussare ai vicini.

La mamma ha già chiamato, perché l’orologio del suo cuore batte il tempo del figlio, dovunque si trovi, e nelle sue parole affettuose la nostalgia è una lama che non perde mai il suo filo diabolico.

Quindi… 

«Ciao Tooru.»

Tooru chiude gli occhi, li riapre e, maledizione, succede di nuovo: il cielo è bianco, la notte e il giorno si sfiorano, Toshi è addormentato nel candore delle lenzuola, i pettirossi cinguettano sul davanzale e Tooru ha diciott’anni e per trenta secondi è innamorato.

«Tooru? Ci sei?»

«Ci sono.»

«Dobbiamo parlare.»

«E hai scelto un giorno a caso? Il venti di luglio?»

«Veramente è il diciannove.»

«La gente normale in questi casi dice cose tipo: “auguri”. E poi, se è educata, quando capisce di non essere gradita, riattacca.»

«La gente normale non sa mai assegnare correttamente le priorità alle cose.»

«Quale sarebbe la priorità?»

«Tu.» Lo dice perplesso, come se fosse ovvio, una domanda che non ammette alcuna altra opzione.

«E quindi?»

«E quindi ho delle cose importanti da dirti. Ho preso un biglietto.»

«Del cinema? Della metro? Di un club di spogliarello?» Ushiwaka è incapace sia di mentire che di esprimersi, una combinazione letale e a volte comica.

«Un biglietto aereo.»

Tooru inspira e trattiene il fiato, per quattro secondi,  poi lo lascia andare dal naso, lentamente e silenziosamente, fino a svuotarsi i polmoni: lo yoga è l’ultima spiaggia dei disperati.

«Buon viaggio, Ushiwaka. Dove vai di bello?»

«A Varsavia.»

«Dove?» Tooru batte le palpebre. Che cavolo significa Varsavia? Doveva essere Buenos Aires la risposta. Come possa una persona priva di fantasia come Ushijima risultare sempre, immancabilmente, spiazzante è un mistero destinato a restare irrisolto.

«A Varsavia» ripete Waka, a voce più alta, come se fosse un problema di linea.

Tooru si rende conto di non sapere esattamente dove si trovi Varsavia. E di non sapere cosa dire, cosa pensare, né chi sia davvero Ushijima Wakatoshi.

«Ho capito che hai ragione» prosegue Ushiwaka. «Hai ragione su tutta la linea, Tooru.» 

La sua voce non trema mai, ma questa volta sì, un tremito sottilissimo, che però si infila come una spina fra le giunture dell’indifferenza di Tooru. «Io ho ragione - cosa che a dire il vero non mi sorprende  - e tu te ne vai a Varsavia? Ci vedi un nesso?»

«Certo. Ho lasciato gli Adlers.»

«Cosa hai fatto?»

«Ho lasciato gli Adlers e ho firmato con Orzel Warszawa» conferma Wakatoshi tranquillo. «La stagione è finita, abbiamo vinto il campionato e i miei obblighi contrattuali…»

«Sembrerai itterico.»

«Come?»

«La divisa deli Orzel. E’ gialla, no? Un giallo tipo mal di fegato.»

«Il mio fegato è in condizioni eccellenti e la divisa mi è sembrata piuttosto comoda. Non stringe sulle cosce, odio quando stringono sulle cosce.»

«Forse sono le tue cosce il problema. Che numero di maglia hai preso?»

«Undici. Il solito.»

Tooru si ritrova a fissare il diciassette della propria maglia riflesso nel vetro.

 

Posso sedermi?

E’ una spiaggia libera.

Lo sai che quel budino è pieno di grassi e di conservanti? Dovresti mangiare uno yogurt con il miele, se ti piacciono così tanto i dolci.

Sei qui per farmi la predica?

No, volevo chiederti una cosa.

Chiedimela e smettila di guardare quello che mangio.

Okay. Volevo sapere, Oikawa-kun, tu sulla maglia che numero vorresti?

Che domanda stupida: voglio l’ Uno, la maglia del capitano.

Ma io intendevo da grande. Che numero vorresti, quando sarai professionista?

Sempre Uno, anche in nazionale.

Non si può mica passare al professionismo e fare subito il capitano. Prima di diventare capitano, che numero vorresti?

Undici: due volte uno. E tu?

Tredici o Diciassette.

Ma portano sfiga! 

Voglio farlo capire a tutti che la sfortuna nello sport non esiste. Esistono quelli che non hanno talento, che non hanno disciplina o che non prendono gli allenamenti sul serio. E io non voglio essere uno di loro.





«C’è altro, Ushiwaka? Mi pareva di averti detto mesi fa di infilarti il mio numero di telefono dove non batte il sole.»

«Preferisco tenerlo in rubrica, è più pratico.»

«L’idea era che non mi chiamassi più.»

«Non credevo che mi avresti risposto. Comunque, sì, c’è un’altra cosa molto importante. Volevo dirti che hai fatto bene, Tooru. A firmare. Volevo congratularmi.»

C’è sempre stato qualcosa, nella voce uniforme e seria di Toshi, qualcosa di fluido che scivola dentro Tooru e smussa tutti gli angoli che incontra, riempie le crepe, arrotonda i bordi. E in questo caso ha l’immediato effetto calmante, quasi anestetico, di un'infiltrazione al cortisone sparata dentro l’anima.

Hai fatto bene, Tooru.

Gliel’hanno detto in tanti. Lui stesso ne è convinto, ma fino a un attimo fa bruciava dappertutto.

«Quindi l’hai saputo. Te l’ha detto Iwa-chan?»

«Iwaizumi e io non parliamo mai di te. Quasi mai. E poi, lui non tradirebbe la tua confidenza, dovresti saperlo.»

«Chi è stato?»

«Kuroo-san.»

«Che impiccione del cazzo.»

«Già. E’ l’unica cosa che sa fare. Credo che la federazione lo abbia assunto per questo.»

«Lascia perdere Kuroo e dimmi la verità, Ushiwaka, ti ho fatto infuriare?»

«All’inizio sì, ero furioso. Mi sentivo tradito. Ma poi ci ho pensato bene e ho capito. Te l’ho detto prima: ho capito che avevi ragione, e che hai fatto bene. Che sbagliavo io.»

«Puoi ripeterlo?»

«Cosa?»

«Oikawa-san, sono grosso e stupido: tu hai ragione e io avevo torto. Aspetta un attimo che premo REC.»

Ride. Ushijima Wakatoshi ride al telefono e fuori non sta neanche grandinando. Tooru guarda verso l’alto: la luce che filtra dalle vetrate non affatica più e non ferisce, è leggera e bianca, amichevole, benevola.

«Sai, avevo pensato di arrivare a Varsavia per la tratta pacifica.»

«Una brillante scorciatoia.»

«La strada più ragionevole, per uno scalo a Buenos Aires.»

Tooru insipira, trattiene, rilascia, ma stavolta neanche lo yoga può funzionare.

«E quindi?»

Dillo, Toshi. Di’ che vieni. Di’ che sei già qui, che è un regalo di compleanno. Fammi fare un po’ di scena, due insulti, due minacce a vuoto e poi mi precipito all’aeroporto. E ti porto a casa e… 

«Ho cambiato idea.»

«Fottiti.»

«No, ascoltami: quando ci vedremo, voglio che sia diverso. Voglio essere io diverso, voglio essere pronto. Ho un sacco di cose su cui lavorare. E anche tu. Ti amo, ma…»

«Ho detto: fottiti.»

«Io invece ho detto che ti amo.»

Hai detto ma… 

«Fottiti Ushiwaka. Alle olimpiadi ti faccio a pezzi.»

«Non vedo l’ora.»

«Manca solo un anno. Inizia a tremare.»

Anziché tremare Toshi sorride. I suoi rari sorrisi hanno un suono discreto ma inconfondibile, anche a mezzo mondo di distanza. Un suono alieno e ostile, invece, è il trillo digitale di un allarme.

«Che c’è? Si è fatta l’ora di mangiare dodici uova e un frullato antiossidante all’alga spirulina?»

«Le uova sono piene di colesterolo, nessuno sano di mente ne mangerebbe dodici.»

«Sei sempre l’uomo più noioso del mondo, Toshi.»

«Dici? Ma sai, non ero per niente sicuro di riuscire a tenerti al telefono fino all’ora giusta, quindi se non sono diventato interessante io, vuol dire che perdi colpi tu.»

«Fottiti.»

«Buon compleanno, Tooru.»


***
Buon compleanno, Tooru, anche da parte mia. Ti si ama sempre, qui.

 

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