Nevrè

di aurora giacomini
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Uno ***
Capitolo 3: *** Due ***
Capitolo 4: *** Tre ***
Capitolo 5: *** Quattro ***
Capitolo 6: *** Cinque ***
Capitolo 7: *** Sei ***
Capitolo 8: *** Sette ***
Capitolo 9: *** Otto ***
Capitolo 10: *** Nove ***
Capitolo 11: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 

31 agosto 2o22 - 18 luglio 2o23 

 

 

 

 

 

Spazio d’Autore: Prima che mi linciate - scherzo - premetto che il testo, nella sua quasi totalità, è volutamente gergale: trattasi dell’esperimento di ‘‘impersonare’’ un’altra persona, un’altra ‘‘scrittrice’’ che non aspira, né pretende di esserlo - almeno per un bel po’. E’ stata maltrattata quasi qualunque cosa, dall’italiano alla struttura, ma - quando non si tratta della mia personale ignoranza (speriamo in pochi punti) - è completamente voluto. Tuttavia, penso possa risultare comunque leggibile e godibile - soprattutto dopo l'introduzione dei personaggi, che ho messo proprio all'inizio - come esperimento; se ne avrete piacere, me lo farete sapere.

Nonostante le incertezze e la paura di presentare un progetto fallimentare, non mi sono arresa e mi sono trattenuta dal pubblicare l’ennesimo lavoro incompleto - brutto vizio, chiedo sinceramente scusa. 
E’ soprattutto grazie alla mia amicizia, al mio compagno d’avventura e di vita, al mio affetto più longevo, che ha letto e riletto pazientemente ogni capitolo, che mi ha consigliata e che ha messo da parte tutto, per essere il più oggettivo possibile, che oggi presento questo testo. 
Eventuali refusi sfuggiti alle revisioni, sono da imputare a me soltanto.

 


 

A te, Piciul, dedico questo lavoro e ti ringrazio ancora, infinitamente, per tutta la pazienza e la solerzia.

 

 

 

 





                                                            Nevrè

 

 

 

 

 

 

      Presentazione

 

 

Andrea non è piccola, ma non è nemmeno grande.
Andrea non ha un'identità ben precisa: il suo essere si identifica con le emozioni che prova in un determinato momento.
Andrea non ha un linguaggio che sia davvero suo o non suo. 

Andrea è confusa.
Andrea è un'adolescente.
La scomparsa di una persona cara, l'incontro con una ragazza misteriosa: piccoli e grandi misteri si mescolano al dedalo di emozioni, di rapporti interpersonali e intrapersonali nel tentativo di capire cosa sia vero e cosa no, cosa reale e cosa no.
A narrare il ricordo è Andrea, ora adulta, che ricostruisce e prova a ricordare cosa significhi essere nell'età più confusa e magica dell'esistenza.

 

 

 


        Prologo

 

 

 

«Andrea, aspettami!», urlò Lilla, con la sua voce giallo chiaro, chiarissimo, appena dietro di me. «Va' più piano, Andrea!»

Pedalai più lentamente, mi voltai e incontrai un visino imbronciato, arrossato e pronto ad accogliere nuove lacrime. E la piccola bicicletta lillà.

Liliana - detta Lilla - aveva cinque anni, dieci meno di me. I capelli biondi e gli occhi azzurri del papà; non per nulla era il suo “angioletto prediletto”. E’ figlia della nuova moglie di mio padre. La Patrizia è una donna dai modi gioviali e delicati; mi è sempre andata a genio. Devo ammettere, però, che all'inizio pensavo volesse prendere il posto della mia vera madre. Mia mamma - la Lucrezia - era invece una donna dai modi decisi, che spesso dimenticava di manifestare amore o sentimenti vari. Ho preso da lei, come ci teneva a farmi presente mio padre ogni volta che poteva; forse voleva sgridarmi, ma io lo prendevo come un complimento: la mamma era una tipa tosta - lasciando perdere i suoi drammi - che non si lasciava mettere i piedi in testa da nessuno, e anch'io sarei stata così, da adulta. Inoltre, lei e io condividevamo i duri tratti del volto, i capelli e gli occhi scuri, come la carnagione olivastra.

Il papà e la Patrizia si erano conosciuti relativamente tardi. Entrambi uscivano da un divorzio lungo e stressante - anche se quello di mio padre è stato il più semplice: pure la mamma era d'accordo sulla separazione - con persone che, a detta loro, non capivano come avessero finito per sposare; ‘‘Se non lo sapete voi’’, commentavo, quando si prendevano la briga di affrontare l'argomento con un'adolescente.

«Sto andando piano! Sei te che sei lenta!», replicai, scocciata per non essere riuscita a lasciarla a casa o seminarla dopo la prima curva. Ci avevo provato, per inciso, ci avevo provato eccome! Ma si vedeva che, persa com'ero nelle mie fantasie, avevo inconsciamente rallentato, dandole tutto il tempo di prendermi. «Perché non te ne sei rimasta con tua madre? Ho da fare, non combino di badare a te! Devo andare in paese», mentii, per scoraggiarla.

«Mamma dice che ogni tanto mi devi portare con te, Andrea!», mi urlò di rimando, impegnandosi al massimo per far lavorare i pedali e affiancarmi. «Lo devi fare, perché se no le dico che mi hai lasciata di nuovo da sola!», minacciò.

«Che mocciosa...» borbottai tra me e me. «Ho da fare le cose dei grandi. Torna a casa, fila!», le urlai invece.

«No!», strillò, riuscendo a portarsi sulla mia destra. «Anch'io sono grande e posso fare le cose da grandi!»

«No, che non sei grande! E poi sta per piovere!», rimbeccai. «Torna a casa, altrimenti Fede e Mario si arrabbieranno, perché quando ci sei te non possiamo fare le nostre robe! Non posso sempre trascinarmi dietro la sorellina! Per colpa tua non possiamo andare più dalla Cascata, perché, anche se avevi promesso di no, lo hai detto alla Patrizia!» Ce l'avevano proprio proibito, i nostri genitori, soprattutto dopo che c'era annegata una ragazza, all'inizio dell'estate; ed era quasi impossibile riunirsi lì in gruppo: c'era il ‘‘buon cittadino’’ pronto a fare la spia.

«Ma Mario si è fatto male e io ho avuto paura!»

«E bon? Hai infranto la promessa... sorellastra!» 

Avevo usato la parola spudoratamente, ben conscia che non la sopportasse. Tirandole una sberla, probabilmente, l'avrei ferita meno. Il risultato infatti non tardò a manifestarsi: si fermò bruscamente - rischiando di cadere - per portarsi le mani al viso e cominciare a singhiozzare e lagnarsi teatralmente.

Ecco la mia occasione! 

Accelerai, sentendo i muscoli delle cosce e dei polpacci tirare. Casa era a non più di qualche centinaio di metri: praticamente, si poteva dire che la stessi lasciando nel cortile.

Affiancando i muretti ad ambo i lati della stradina di terra battuta, mi piegai sul manubrio, per incontrare meno resistenza; quel trucco me l'aveva insegnato il Pietro: il più grande di noi fratelli. Era figo il Pietro. Aveva da poco preso la patente e ora aveva persino trovato la tipa - Francesca. A me non piaceva: era la classica cittadina con la puzza sotto il naso; ma Pietro le voleva bene e io ne volevo a lui, quindi mi sforzavo di tollerarla e di essere perfino civile. Era bella la Francesca, con quei suoi lunghi capelli rosa; ‘‘bella quanto stronza’’, mi piaceva dire a Pietro, che mi metteva un finto broncio, per poi ritrovare subito il sorriso. Non era davvero capace di arrabbiarsi, secondo me.

Sì, lui le voleva bene, ma mi aveva confidato di non amarla, non come aveva amato la Sharon - la prima morosa, che io non ho davvero conosciuto. ‘‘Suo padre mi ha trovato un lavoro’’, soleva rammentarmi, riferendosi al genitore della chioma rosa. ‘‘Papà potrà finalmente andare in pensione e vedere di quella schiena’’. Mi risultava indigesta l'idea di stare con qualcuno senza esserne innamorati; ma quell'estate l'amore era ancora una faccenda che poco o nulla mi riguardava. E poi Pietro aveva ragione: bisognava fare smettere papà di lavorare. Antonio Ghirrì aveva lavorato fin da quando aveva la mia età - cosa che non mancava mai di ricordarmi - e ora, che aveva da poco passato i cinquanta, pagava il prezzo di quella vita di sacrifici. Bell'affare, pensavo ma non dicevo.

 

Avevo appena raggiunto la Collina dei Salti - Mario, Fede e io l'avevamo ribattezzata così per il dosso che ci permetteva salti incredibilmente alti - quando il cellulare prese a vibrare nella tasca dei jeans, maciullati e sbiaditi.

Valutai che nel frattempo Lilla dovesse essere tornata a casa... e ora la Patrizia mi cercasse, per farmi la ramanzina - una roba pacata, per carità, ma pur sempre una gran rottura di balle - primo per averla mollata là, e secondo per averla chiamata nel ‘‘modo brutto’’.

Pedalai più lentamente e infine posai un piede a terra.

Il cellulare - un Nokia indistruttibile, che aveva però visto tempi migliori - continuava a suonare ‘‘Blessed & Possessed’’ dei Powerwolf. 

Lo presi e guardai lo schermo, scoprendo di non essermi sbagliata: era lei, la Patrizia.

«Sono gli ultimi colpi d'estate», mugugnai. «Lasciami in pace!» 

Forte della convinzione d'essere nel giusto, aspettai che finisse e spensi il cellulare: così avrebbe pensato fossi in un posto che non aveva campo e il resto del pomeriggio sarebbe stato mio. Usavo raramente quello stratagemma: meglio non abusare delle cose, se vuoi che continuino a funzionare.

Mi voltai indietro, meditando se rifare la Collina dei Salti - onorandola - ma poi decisi che avevo già perso troppo tempo dietro a Lilla, e Federico avrebbe brontolato per il ritardo.

«Sempre che brontola, quello», brontolai io, rimettendomi in marcia.

L'appuntamento, come ogni giorno d'estate dopo ‘‘aver fatto i compiti e le faccende’’, era al vecchio mulino. Un tempo ci lavorava il nonno di Mario, quand'era poco più grande di noi; e, poi, prima che la tecnologia avanzasse così tanto, anche il figlio, ovvero il padre di Mario. Ormai era poco meno di un rudere, ma le possenti mura di pietra reggevano ancora e ci fornivano riparo dalla calura estiva; quel giorno, dato che il cielo era piuttosto plumbeo, ci avrebbe protetti dalla pioggia. Sempre un rifugio era, alla fine della fiera. Il nostro rifugio.

Toccava a Mario portare le birre, e già sapevo che ci avrebbe rifilato quelle da trenta centesimi del Discount; pazienza, sempre meglio del limoncello che aveva portato Fede due estati prima! La mia anima dev'essere ancora sul pavimento, vicino la vecchia macina, dove la vomitai insieme a quella degli altri due. No, niente superalcolici; il Peppino me lo diceva ogni volta che passavo vicino al bar e mi fermavo a vedere se qualcuno mi regalava qualcosa - un bonbon, una gazzosa o un sacchetto di patatine - : ‘‘Non sta a ubriacarti con quella roba! Se hai da dimenticare i dispiaceri, bevi vino, bevi birra, ma molla quella roba, che ti trovano stecchito dopo neanche tre anni’’. Pensandoci, rifilava l'insegnamento a tutti, dai zero ai cento anni: bastava ti fermassi nel suo raggio visivo per più di tre secondi. Saggio lui.

 

Una goccia mi prese in pieno l'occhio sinistro, che chiusi istintivamente. Poi un'altra e un'altra ancora. 

In breve ci fu il diluvio. 

Mi piegai, per proteggere il cellulare col busto - in realtà avevo un sacchetto di plastica, di quelli che ti lasciano le farmacie anche se prendi solo una confezione di aspirine (poco ambientalisti, quelli) ma avevo dimenticato di inserirci il telefono - e accelerai ancor di più.

L'avevo detto che stava per piovere, alla Lilla. Poi si sarebbe lamentata che aveva freddo e mi avrebbe costretta a riportarla a casa, facendomi perdere quasi un'ora. Mi convinsi ancor di più di aver fatto bene a seminarla, anche se il modo non era stato dei più dolci... Che stava succedendo? Oh no: la maturità e la conseguente empatia alle porte! Ci misi solo qualche secondo a scacciarla: ero ancora troppo immatura ed egoista, per fare la persona matura ed empatica. Troppo adolescente. Avrei avuto tempo di dannarmi degli altrui dispiaceri, ne avevo il sentore, guardando gli adulti. C'era tempo, poco, ma ce n'era ancora, per essere l'adolescente che ero.

Fortunatamente il mulino era a poche decine di metri da me. Mi ricordava una torre degli scacchi, un pezzo nero, dal momento che si era annerito con l'incendio scoppiato nei pressi qualche anno prima; lo stesso fuoco aveva divorato la vecchia, gigantesca ruota che ormai non riuscivo più a ricordare con chiarezza. Non che ci volesse chissà quale sforzo di memoria o immaginazione: era una ruota! Ma, da qualche parte nel mio cervello, comparve il ricordo di una gara fra paesi: non solo a chi faceva il campanile più alto, forse c'entravano anche i mulini e le loro ruote. Non lo ricordavo e, francamente, non m'importava davvero.

Il fatto di non vedere la bici nera di Fede e quella verde di Mario, appoggiate al muro esterno, non mi preoccupò: probabilmente le avevano portate dentro, per evitare che la catena facesse di nuovo la ruggine e, conseguentemente, sentirle, perché avremmo nuovamente svuotato lo Svitol del genitore di turno.

Scesi dalla bici e corsi dentro, piegandomi per non sbattere la testa sull'arco d'ingresso; ero piuttosto alta, come quella serie di pietre non mancava di rammentarmi quando dimenticavo le precauzioni. La porta era andata perduta nell'incendio; a terra rimanevano i cardini e le cerniere in ferro battuto, ora carbonizzate, ora divorate dalla ruggine, o entrambe le cose.

«Eccomi!», annunciai. 

Sì, alla circolare stanza vuota, però, che ovviamente non mi rispose, se non come un'eco sconsolata che, nel tragitto di ritorno, aveva perso tutto il buon umore e rifletteva perfettamente lo stato d'animo in evoluzione.

Rimasi un momento impalata a riprendere fiato e ad assicurarmi che non fossero nascosti dietro la grossa, piatta pietra su cui una volta si faceva la farina. Ma no, non c'era proprio nessuno.

«Poi sono io quella che è sempre in ritardo, no?!», sbottai, preda dalla stizza acida che parte nel petto degli adolescenti quando viene fatto loro il minimo sgarro. Ogni gesto di mancanza viene interpretato come la più grande delle offese. E' come se ci fosse un mostriciattolo, ingabbiato nello sterno: una creatura permalosa e frustrata che, negli anni, si assopisce e muore. A volte, però, sopravvive... e lì sono uccelli per diabetici. Visualizzavo la creatura come una sorta di Muppet verde-acqua; ne esisteva uno così?

«In mona», brontolai, lasciando che la bicicletta incontrasse bruscamente il suolo di pietra, col classico suono tintinnante e oltraggiato di ferro e alluminio maltrattati. Probabilmente era anche scappata fuori la catena dalla corona; cosa che non fece che intensificare la bianca acidità nel mio petto. «'fanculo anche a te!»

Gli occhi si erano ormai abituati alla semioscurità, quindi mi mossi a passi sicuri verso la parete dove una pietra mancante era diventata la mensola delle candele e delle sigarette; entrambe le cose protette dall'umidità da un sacchetto dell'Eurospin o del Discount: il logo era così sbiadito, ormai, che non era più possibile saperlo.

Presi su una candela, il pacchetto delle MS e il decrepito accendino nero della Bic, la cui testa di ferro ospitava delle tracce marroncino-ramate, laddove la ruggine aveva cominciato a mangiarselo.

«Bon bon», mugugnai, rassegnandomi all'attesa e tentando di zittire il mostriciattolo, che mi diceva che mi avevano dimenticata, perché tanto non ero importante.

Provai ad accendere la candela - che avevo momentaneamente piazzato sulle sorelle sciolte - ma l'accendino non sembrava intenzionato a collaborare: si limitava a scintille poco convinte, che mi illuminavano d'arancio la mano e a del fumo grigio scuro, maleodorante.

«Ora ti ci metti pure te a rompere le balle? Sei inutile!», urlai all'oggetto inanimato, scuotendolo e soffiando dentro il minuscolo foro del gas. Ripetei il processo una decina di volte; infine, i miei sforzi ebbero l'esito sperato.

Mi affrettai ad accendere lo stoppino, poi, con calma, lasciai cadere qualche goccia di cera e ci bloccai così lo stelo bianco.

«Bon, domani ne porto uno nuovo io, che se aspetto Fede sto fresca», decisi.

Presi una MS, constatando che ne mancavano un paio: quei due dovevano aver fumato senza di me; poco male, dal momento che mi sentii meno criminale a farlo per conto mio, quella volta. L'accesi, sfruttando la piccola fiamma della candela.

Avevo cominciato l'estate prima, quando il fratello di Fede aveva dovuto trovare il modo di comprare il silenzio del fratellino riguardo a delle canne e alcune bottiglie di Vodka alla pesca, nel garage; aveva ritenuto che cinque euro alla settimana potesse anche spenderli, pur di farci stare buoni. All'inizio di questa, di estate, la Patrizia mi si era avvicinata e, dopo aver socchiuso gli occhi, mi aveva detto, con i suoi modi zen: ‘‘Te ne pentirai, te lo garantisco’’. Le avevo chiesto se avesse intenzione di dirlo a mio padre, e lei, per tutta risposta, mi aveva detto che se glielo chiedevo sapevo che era sbagliato, per ciò avrei agito di conseguenza. ‘‘C'è un tempo per sbagliare e un tempo per pagare’’, aveva concluso. Mi andava proprio a genio, la Patrizia.

Sulla pietra circolare, accanto a dove avevo messo la candela, c'era il sacchetto con i manga. Scelsi il numero 3 di Fullmetal Alchemist Brotherhood, anche se l'avevo letto talmente tante di quelle volte che potevo recitarlo e ridisegnarlo a memoria; inoltre, avevo preferito l'anime. Ma in qualche modo dovevo pur ingannare il tempo, no?

Avevo recentemente scoperto che il mangaka era una donna e la cosa mi era suonata ragionevole, visto il modus operandi: le donne hanno un diverso modo di scegliere, descrivere e farti sentire il dolore; affrontano le tematiche in modo diverso, celando lo stridere delle unghie con toni più dolci... ma in realtà sono artigli, non unghie. C'è qualcosa, nella fragilità del cosiddetto sesso debole che, se infranto, si trasforma in schegge aguzze e taglienti. Insomma, se le colpisci si rompono, ma ti fai male. Maneggiare con cura.

Avevo - e ho - la tendenza a riferirmi a loro come se non fossi parte della categoria; ma mi sta bene così: mi dà l'idea di essere un elemento esterno, che può ammirare in pace l'opera, che può coglierne le diverse sfumature, da quelle pastello a quelle violentemente acide. Perché è questo che sono le donne: violento, seppur armonioso contrasto.

Dopo la decima pagina cominciai a rompermi. Ebbi la tentazione di riaccendere il cellulare, per vedere se quei due mona mi avessero scritto qualcosa. Scelsi di non farlo: non avevo voglia di sentirmi dire che dovevo tornare a casa e scusarmi con la Lilla. Le avrei pagate la sera, le conseguenze della mia scelta. Ora erano appena le due e qualcosa del pomeriggio, un lunghissimo pomeriggio, fra le altre cose, dal momento che non avrebbe fatto buio prima delle nove o giù di lì.

«Bon, mi son proprio rotta di aspettare!», informai le pareti di pietra; e chiesi loro: «Che siano andati dalla Cascata?» 

Invero, se così fosse stato, avrebbero lasciato le bici lì, al sicuro, ma magari se le erano portate dietro per lo stesso motivo per cui mi avevano dato buca, ovvero: ignoto.

Guardai la mia, di bici, constatando che la catena era effettivamente saltata fuori. Decisi me ne sarei occupata al ritorno: in quel momento la priorità era scoprire se quei due pirla fossero effettivamente là, con le birre che dovevamo condividere.

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Capitolo 2
*** Uno ***


      Uno

 

 

La pioggia aveva già smesso il suo capriccio e il sole era tornato a far capolino. Per sicurezza, comunque, avevo infilato il cellulare nella piccola busta trasparente - insieme alle sigarette che avevo dimenticato di riporre - : meglio non fidarsi dell'estate.

Mi accompagnò l'odore leggermente gommoso che rilascia la terra quando inizia a piovere o lo fa con poca convinzione, dopo aver assorbito tanto calore; quel vapore che pare quasi solido ed è molto odoroso. Tutto intorno a me, le foglie scintillavano per via delle gocce d'acqua che riflettevano i raggi; le stesse foglie che, con la loro umidità, mi inzupparono daccapo le scarpe e il fondo del pantaloni.

Alzando la testa vidi ben tre piccoli arcobaleni, che ornavano il campo con i loro colori: era tanta l'umidità che continuava a essere rilasciata e quella ancora intrappolata nell'aria.

Feci il giro largo, ovvero quello fra rovi e ortiche, per non farmi vedere dal Luigi: il ‘‘buon cittadino’’.

Sì, alla fine non era impossibile sgattaiolare senza essere visti, se si avevano i jeans - come avevo più e più volte fatto notare a Fede e Mario. Quel ricordo, fra le altre cose, mi fece ulteriormente dubitare che li avrei trovati dov'ero diretta. Ma dove altro potevano essere, se no? Eh!

Mi dispiaceva ci fosse annegata una ragazza, non dico di no; ma la Cascata era un luogo bellissimo! Tra le tre e le tre e mezza del pomeriggio, tra luglio e agosto, si poteva vedere un arcobaleno che dalla cima arrivava fin dentro la pozza, dove si specchiava, dando vita a infiniti mini arcobaleni. Calcolai che sarei arrivata in tempo e avrei potuto assistere alla fine dello spettacolo naturale.

Persa in quei ragionamenti, dimenticai di badare a dove mettevo i piedi e, inciampando, riuscii ad avvolgermi un rovo attorno alla caviglia. Un dolore rosa, incredibilmente bruciante e luminoso mi costrinse quasi a invocare invano il Creatore.

«Me la pagano anche per questa! Si po' perdona, ma no dismentea!», brontolai acidamente, incolpando i due della mia distrazione, perché sì. «E non me lo scordo no, parola mia!»

Cercando di mantenere l'equilibrio e fregandomene di uggiolare come un cucciolo di umano, cercai il coltellino nella tasca posteriore dei jeans. 

Liberarsi fu doloroso come lo era stato incastrarsi, dal momento che mi ero - quasi - abituata alla sensazione. Era un tipo di dolore che mi dava proprio sui nervi, con quel suo farmi formicolare le tempie; era qualcosa che punzecchiava il mostriciattolo che avevo nel petto.

«Va' sul mus!», sbottai quando, raggiunto uno spazio relativamente aperto, mi fermai a controllare i danni: il sangue era colato e aveva macchiato il calzino che, già sapevo, sarebbe rimasto chiazzato di marroncino, e alcune spine mi erano rimaste dentro. Imprecai per ognuna delle tre che mi tolsi e, rimanendo a contemplare l'ultima, la più grossa, decisi per l'ennesima volta fosse uguale alle unghie di Leonardo - il nostro gatto - : stessa identica forma ad artiglio.

«Che son 'ste lagne? Ora vado alla pozza, mi lavo e bon, basta. Forse riesco a far venire pulito il calzetto, se mi sbrigo.» 

Così rimisi al suo posto il demonietto che mi albergava dentro, lui e la sua acidità. Un po' di autodisciplina!

Alla fine del campo di rovi e ortiche iniziava un boschetto, e, da quel boschetto, scorreva il fiumiciattolo che una volta faceva girare le pale del mulino; bastava costeggiarlo per giungere alla Cascata, ma avevo dovuto abbandonarlo, per non passare dietro la casa del Luigi, che se ne stava sempre lì a fumare la pipa e a vedere se qualcuno o qualcosa gli dava motivo di chiamare i Carabinieri. Mi ero distrutta una caviglia, sì, ma intanto glielo avevo messo in quel posto! Ah-ah, uno a zero per la ‘‘mocciosa’’!

Le fronde nascosero completamente il sole e, mio malgrado, dovetti ammettere di sentire un po' freddo; le gocce d'acqua, che cadevano dritte sul mio collo, non miglioravano la situazione. Ma presto mi consolai, pensando alle facce di quei due quando li avrei scovati e buttati in acqua con tutte le scarpe. Ci sarebbe stato di che ridere, per me! E poi, quella sera sarebbe andata in onda la mia serie preferita, con un episodio che aspettavo dalla scorsa primavera. 

Sì, trovai il modo di farmi rispuntare il sorriso, fra una cosa e l'altra.

 

Il sorriso, dicevo? Bene, quello mi si dileguò dal volto quando, svoltando insieme al corso d'acqua, vidi che lì non c'era nessuno. Non era una questione di avvicinarsi o meno: la pozza era proprio davanti a me, così come le due pietrose spiaggette, ai lati.

Il mostriciattolo si agitò e mi piantò qualcosa di freddo e acuminato, decisamente chiaro e acido al centro dello sterno: delusione, in parole povere; delusione e ira. Ebbi la sensazione di sentire le sue zampette attorno alla gabbia d'osso: strattonava le sbarre e ruggiva.

Ero così arrabbiata, che dimenticai di apprezzare gli ultimi istanti degli infiniti arcobaleni.

«Sai cosa? Chissenefrega!», esplosi, pestando i piedi e rischiando di prendermi una bella storta su sassi instabili e ricoperti di fradicio muschio, o di rompermi direttamente il cranio. «Ma che mi frega, dico io. Che mi frega. Non ho bisogno di loro. Sono capacissima di stare da sola. Chi ha bisogno di due mona come loro? Mì no, di certo!»

Man mano che avanzavo, il rombo dell'acqua che cadeva nella pozza si faceva gradualmente più impetuoso, ma non abbastanza da impedirmi di sentire le mie stesse lamentele.

«Perché sì, viene un'ernia a dire: ‘‘Ehi, Andrea, oggi non possiamo venire’’! Viene il cagotto o ci si rompe il pollice a scrivere un messaggio! Proprio così, parola mia! E non c'entra niente che c'ho il cellulare spento, perché prima, quando mi chiamava la Patrizia, l'ho guardato: c'era qualcosa di loro? Nossignore!»

Raggiunsi la spiaggetta sulla destra, quella maggiormente incorniciata da cappelloni - quale sia il nome scientifico lo ignoravo e lo ignoro tutt'ora: sono semplicemente delle piante a foglia molto, molto larga, più della ruota di un piccolo trattore, a volte - e mi tolsi scarpa e calzino, per vedere di pulire il tutto; e intanto continuai col monologo:

«Che poi, no, i marroni vanno sempre in coppia. E io cosa sono? Eh, la testa di ca-» Mi interruppi, perché con la coda dell'occhio mi era parso di cogliere un movimento, sulla sommità, dove nasceva e cadeva la cascata. 

Valutai per un momento se potessero essere quei due, ma poi ricordai che c'eravamo promessi di non risalire lì, se e quando fossimo riusciti a tornare dalla Cascata.

«Sto messa proprio bene: come se la parola di quei due avesse un peso. Certo! No, non potevano essere quei due: se la farebbero nei pantaloni a salire senza di me», sghignazzai perfidamente. «In ogni caso, è stata sicuramente un’allucinazione.»

Immersi l'arto offeso e l'acqua gelida mi diede insieme piacere e dolore, che si irradiarono dal piede fin la nuca. Poi mi impegnai a lavare il tessuto macchiato di sangue; ci voleva olio di gomito, poco da fare.

«Anche la zia Alberta, pensandoci», ripresi, «ha cominciato così: vedeva le ‘‘sagome’’ e... bam!, tre anni dopo era al manicomio. O clinica... o centro di salute/igiene mentale, se vogliamo a tutti i costi fingere sia così diversa, la cosa; ma sì, politically correct prima di tutto! Se la follia è ereditaria - cosa probabile, visto anche l'altro membro della mia famiglia - sono sulla buona strada, dal momento che lassù non c'è proprio nes-»

«Tu aimes parler seule!»

Il mio corpo ebbe uno scatto, qualcosa di del tutto involontario, e scivolai, sbattendo brutalmente il ginocchio sulle pietre. Quella volta, mi spiace dirlo, invocai qualcuno invano.

Con uno scatto non dissimile da quello che mi aveva atterrata, ma di completa diversa natura, poiché volontario, balzai in piedi; cosa che non fu apprezzata dalla mia gamba, dal momento che visualizzai il mio ginocchio come una cerniera - da mobile - di un bianco abbagliante: dolore. E volsi la testa alla cima, dove prima mi era parso di vedere qualcosa.

O la mia testa è veramente andata, pensai, oppure quella è una ragazza...

La guardai per un po', aspettando che svanisse - come faceva la zia Alberta con le sue ''sagome'' - ma quella non sembrava averne voglia. Oppure era reale, anche se la pozione e l'ombra non mi permettevano di andare oltre la constatazione del sesso - che era stato chiarito più che altro dalla voce, invero.

Ricordando che non si era rivolta a me in italiano, abbassai la testa e mi misi a pensare - dandole, se voleva, anche il tempo di svanire.

«What... Ahm...» bofonchiai, cercando di ricordare; poi tentai ad alta voce, dal momento che era ancora lì: «What are you doing? You speak Italian, by chance?»

Grazie, serie canadese! Cominciavo, però, ad avere l'impressione che non avessimo usato la stessa lingua...

«Oui, posso parlare un peu italiano!», mi urlò di rimando, cercando di sovrastare il fragore dell'acqua.

Francese: ecco che lingua aveva usato! Dato che il mio francese non era - e non è - pervenuto, mi convinsi che quello fosse un indizio: non me la stavo immaginando! Dai, forse la mia testa non stava ancora così male: ottima notizia!

«Grandissima! Ehi, che ne dici di scendere da lì?» Accompagnai la domanda con gesti inequivocabili; noi italiani siamo maestri, in questo: piazzaci nel Paese che vuoi, a suon di gesti ci faranno presidenti... di qualcosa. «E' pericoloso!», rincarai poi. Già, perché, dal basso dei miei stereotipi, lei non mi sembrava il tipo di ragazza da fare quelle robe spericolate con successo: non era come me!

Forse alzò il pollice, forse me lo immaginai, fatto sta che si voltò e prese il ‘‘sentiero’’ per scendere. Io, dal canto mio, cercai di riprendermi dalla figura meschina che in quel momento mi resi conto di aver fatto - essere scivolata, per lo spavento, e aver imprecato - e cercai di rivestirmi. 

C'era un solo problema: non avevo un calzino, io?

Eh sì, l'avevo, appunto...

D'istinto volsi l'attenzione alla corrente e, con un misto di stizza e sollievo, vidi che il mio candido indumento era stato trascinato fino a incastrarsi in un dedalo di foglie morte e rami. Bene, ora non mi restava che scegliere se avanzare con un piede nudo fra pietre aguzze, vetri e tutta la porcheria umana... o tornare sulla riva, recuperare l'altra scarpa e, nel frattempo, pregare che la corrente rimanesse di flusso costante e non mi portasse via il calzino.

Che rogna...

Decisi, guidata dell'ingenuità, che quella giornata non potesse storcersi più di così e che, comunque, la natura si era accanita a vonde sul mio povero piedino. Era ingenuità, sì, ma io decisi di pensare alla statistica: avanzai.

Arrivata in prossimità del mucchio umido, mi chinai a recuperare il calzino e, prendendo sufficiente aria nei polmoni, mi preoccupai della ragazza-non-immaginaria:

«Combini?!»

«Cosa combinato? Rien!»

Non mi resi subito conto che la replica era arrivata dalla mia prossima, immediata destra, dunque riformulai: «Ce la fai?»

«Me voilà!»

Poi mi accorsi, probabilmente più grazie alla sua esclamazione che altro.

Mi voltai e incontrai la figura alta e piena di una ragazza; sì, insomma, non era il solito smilzo di femmina che ero abituata a vedere: non era grassa, per nulla, ma aveva una sua importanza fisica. Aveva un cespuglio di capelli ricci, neri e crespi - cosa incrementata dall'umidità del posto - due grandi occhi scuri e labbra carnose, il tutto racchiuso in un viso tondeggiante e pieno. Indossava un semplice vestito bianco-sporco, forse giallo particolarmente pallido, che le lasciava completamente esposte le braccia e le arrivava fin quasi alle caviglie: una roba molto estiva e femminile. Ai piedi aveva delle semplici scarpe da ginnastica, non dissimili dalle mie, ma in condizioni notevolmente migliori. 

«Come fai a essere già qui?», brontolai, dimenticando le buone maniere. Un razzo, zio bon! «Hanno messo un ascensore a mia insaputa?»

In risposta ottenni una risata, che fu seguita da un amichevole «ciao».

«Sì, scusa... Ciao...» mormorai, forse troppo piano per coprire il suono della corrente.

Indicò l'acqua che mi sommergeva le gambe fin quasi alle ginocchia: «Aiuto?»

«No, no! Combino, grazie», replicai, più per orgoglio che altro.

Tagliai e, col mio trofeo, tornai a riva, nascondendo abilmente il dolore che camminare scalza sui sassi mi stava procurando.

«Ma sul serio, spiegami: come hai fatto a scendere così in fretta?» Eh niente, non mi andava giù, dal momento che il mio record era un minuto e tre secondi; e lei ci aveva impiegato quanto? Trenta, quaranta secondi? Forse meno: quello era solo il tempo che avevo impiegato ad accorgermi di lei...

Alzò e mi mostrò i palmi, che erano color rosa-castagna; mi ricordarono proprio quando, d'inverno, si mettono ad arrostire o si fanno bollire, e l'interno di quelle cotte in acqua è di quel particolare rosa-giallo strano.

«Magie!»

«Magia? Eh, direi, sì...» 

La contemplai di nuovo per un lungo momento, decidendo fosse carina. Poi ritrovai l'abilità di fare conversazione come un essere civile: 

«Come ti chiami? Io sono Andrea.»

«Je m'appelle Nevrè. Bello conoscere te, Andrea!»

Valutai che la cosa assomigliasse a ‘‘mi appello’’, quindi poteva stare per ‘‘mi chiamo’’... ma l'ultima parte?

«Non ho capito il suono del tuo nome», dissi infatti, avvicinandomi alla scarpa che avevo abbandonato poco distante e cercando un punto dove non infilzarmi le chiappe.

«Ne-vrè», ripeté, scandendo con cura.

«Non l'ho mai sentito. E' molto particolare», commentai, decidendo fosse un nome africano o francese. «Potrebbe succedere che te lo richieda, sai?»

«Tu pensare ‘‘neve nera’’, oui?», mi consigliò, e io mi trovai d'accordo sull'associazione. «Afin de ne pas oublier... Euh... Così tu non dimentichi, oui? Neve nera.»

«Ma la neve nera non esiste!», protestai poi, per una ragione conosciuta solo a... boh, nessuno, invero.

«Et moi? J'existe?»

«Se esisti? Mah, vedi te... Certo che ne dici di robe strane!» 

Strizzai il calzetto e mi tolsi anche l'altra scarpa, per farli asciugare un poco. Ormai non avevo più nessuna missione, quindi mi sembrò ragionevole potermi fermare un po' con quella strana ragazza che, stavo realizzando, mi stava facendo sentire la paura e l'eccitazione di un nuovo incontro. Effettivamente il tutto era successo davvero in fretta e, ora che mi ero davvero fermata, potevo rendermi conto di quanto strana mi apparisse l'intera vicenda. 

Ripensai anche a quello che aveva appena detto.

«Prima credevo tu non fossi reale, sai? Ho visto uno strano movimento e poi più nulla; e allora mi sono messa a pensare a mia zia Alberta, che vedeva le ‘‘sagome’’.»

«Parlez plus lentement: non capisco bene», mi pregò.

«Hai ragione», mi scusai. «Era una cosa cretina, quindi forse è meglio che tu non mi abbia capita...» 

E, anche questa volta, ottenni una risata.

Mi si era messa poco distante, scegliendo saggiamente una liscia seduta, levigata ad arte dalla corrente. Aveva incrociato le gambe sotto di sé e aveva appoggiato le mani sulla gonna formata dal vestito, in modo davvero delicato e pudico; al contrario di me, che avevo le cosce belle larghe ed esponevo senza pudore il cavallo dei pantaloni. Quella fu la seconda volta in vita mia che pensai alla questione. La prima volta fu guardando un Western in cui la donzella cavalcava con le gambe al lato della sella, all'amazzone; allora andai da mia madre, la Lucrezia, e le chiesi perché la tipa volesse a tutti i costi farsi male.

“Per far arrivare il belloccio di turno?”, avevo ipotizzato; e lei mi aveva risposto che non era signorile, soprattutto un tempo, andarsene in giro a gambe larghe. 

Quel ragionamento mi spinse al successivo, che risultò in una domanda:

«Quanti anni hai?»

«Dix-sept ans... diciassette: un et sette, oui? Tu?»

«Oui! Ahm... sì, volevo dire. E' giusto! Io ne faccio sedici fra un paio di mesi...»

Più agile di me, più grande di me, che altro? Se avessi avuto quei tipi di complessi, avrei incluso “più bella di me”.

Non sembrava esserci un reale motivo per rimanere lì a parlarci, ma lo facemmo, quasi senza rendercene conto, credo. Penso che la percezione del tempo e delle dinamiche, fino a una certa età, sia sballata; qualcosa che agli occhi di un adulto può sembrare quasi forzata o nonsense, come effettivamente un po' appare alla sottoscritta, ora che rammenta quel tempo. E' vero che non avevo più nulla da fare - nessuno da scovare e cazziare - ed è vero anche che la sua presenza, in quel luogo appartato e un po' sperduto, mi intrigava - inoltre era veramente carina, come man mano mi rendevo sempre più conto - ma... ma niente: è la mia percezione da adulta, ripeto, che mi fa vedere le cose in modo diverso. 

Però, in tutto questo, qual era il suo, di motivo, per rimanere a parlare con una che non aveva neppure provato a venirle in contro con la lingua?

«Che facevi lassù? E' pericoloso, sai? A giugno c'è annegata una ragazza della nostra età, o via di lì: pensano sia caduta dalla cima.»

La stavo guardando, per cogliere l'espressione di sorpresa e interesse nei miei confronti, avendole rivelato una cosa un po' macabra. Ma la vidi solo farsi un po' triste.

«Oui, caduta», confermò. «Elle a voulu sauter... Euh... Ella voluto saltare, oui? Saltare da altra parte», mi spiegò, dimostrando di saperne più di me in merito.

«Ah... non sapevo. Come le sai 'ste robe? Non credo tu sia di qui; da dove vieni?»

«De France», palesò, giocando con un filamento del vestito. «Maman, papa, Nicole et moi en vacances. Estate viene qui. Vacanza, oui?»

In tutto quello, mi ero fermata su un dettaglio in particolare: il modo in cui aveva pronunciato quel nome.

«Mi piace un botto come dici “Nicole”!», ci tenni a farle sapere. «Guardo una serie dove c'è una che si chiama Nicole. Gli americani lo pronunciano in un modo, noi italiani in un altro; mi piace il modo in cui lo pronunci tu, che penso sia anche quello più giusto, di modo, quindi lo farò anch'io. Mi piace, perché in questo modo, dicendo “Nicole”, il suono fa come un giro su un ottovolante... mezzo giro, invero: qualcosa che quasi scivola, come ci fosse dell'olio sotto!»

Aggrottò le fini sopracciglia: «Qu’as?»

«Niente. Roba da sinestetici, penso...» borbottai, rivivendo il litigio con la maestra, alle elementari, che non ne voleva proprio sapere di capire che il rosso fa solo finta di essere un colore caldo; l'aveva ingannata per bene, come del resto aveva fatto con la maggior parte delle persone. Ma non li biasimo più che tanto, ormai: è furbo il rosso! Non per nulla: di che colore sono le volpi? Eh, vedi!

«Quoi? Voglio capire.»

«E come te lo spiego? E' una roba che ad alcune persone fa vedere delle cose o sentire degli odori; tipo vedi il verde e pensi al numero tre o viceversa. Robe così.»

«Et tu?»

«Immagini, forme, colori... e sento odori, oppure gli odori mi fanno vedere delle immagini... ma funziona anche con i suoni: la tua voce, per esempio, mi fa vedere una linea color vaniglia su uno sfondo biancastro, con qualche piccola screpolatura, come quando la vernice non fa presa o ci versi qualche solvente.»

«Capito un di trois di quello che tu ha detto; mais c'est cool!»

«Un terzo.»

«Pardon?»

«No, dico... uno di tre, ovvero un terzo.»

«Oui, penso tu ha ragione. Mon italiano non très buono. Capisco mieux di come parlo... Euh... Capisco un peu, ma non brava a parlare, oui?»

«Il mio francese non esiste», la rincuorai. «Ti capisco solo quando dici cose che assomigliano all'italiano. E il tuo italiano è buonissimo, non ho problemi a capirti!»

«Je suis contente, merci!»

«Ecco, tipo questo suonava veramente come uno strano e pigro  “contento”, quindi ti ho capita!» 

Con mio grande piacere, il commento l’aveva fatta ridere. 

Mi piaceva la sua risata e il suo colore; mi piaceva proprio lei, cominciavo a sospettare. Volevo dirle qualcosa di carino e ci provai:

«Grazie che fai lo sforzo di parlare con me, per di più in una lingua diversa dalla tua.»

«J'étais sola et tu sei arrivate. Ora non più sola! Merci... Grazie te!»

Le sorrisi e abbassai lo sguardo, improvvisamente imbarazzata. 

Probabilmente avevo le orecchie color barolo, nonostante il fresco generato dalla particelle d'acqua che mi arrivano addosso; e il cuore mi batteva un po' forte, almeno da farmi rendere conto che stava battendo.

Forse fraintese la direzione del mio sguardo, che in realtà vagava su colori e forme: le sensazioni di stare lì con lei.

«Beau le tua T-shirt.»

Pinzai la maglietta nera con ambo le mani, per mettere in mostra la stampa: «Ti piace? Sono i Lordi! Conosci?»

«Non...» mi sorrise, piegando un po' la testa di lato.

«Non se li caga quasi nessuno. Bon, son per l’élite della narrazione romantica dell’orrore - no, non fanno rock gotico - e a me piacciono un botto: le loro canzoni sono una figata! Ne ho cinque nel cellulare - quello che riesce a tenere la memoria - le mie preferite», continuai, imperterrita e sollevata dal cambio di discorso e atmosfera. «Vuoi sentire?»

«Oui, sûr!»

Decisi che potevo anche riaccenderlo, il cellulare, tanto era un miracolo se prendeva mezza tacca. Quindi lo tirai fuori dalla plastica, che ospitava anche le sigarette - gliene offrii una e lei fece anche per prenderla, poi però cambiò idea e rifiutò garbatamente.

Ero indecisa se far partire prima “Evillove” o “The Ghosts of the Heceta Head”, quando accadde l'imprevedibile: una tacca di copertura e, con essa, una miriade di notifiche!

Avevo ben ventitré chiamate perse, fra la Patrizia, mio padre e il Pietro... Un po' troppe e troppa gente, per una ramanzina, decisi; contemporaneamente, un palloncino argentato cominciò a gonfiarsi un po' nel petto, chiedendo posto al mostriciattolo: era un sentore di paura e allarme.

«Che quella piccola peste non sia rientrata?», bofonchiai, col fiato improvvisamente corto, tentando di richiamare Pietro. Neanche a dirlo: la tacca era scomparsa con la stessa velocità con cui era comparsa.

«Tu va bien?», mi chiese, evidentemente preoccupata per il cambiamento che era avvenuto in me e che si era manifestato anche fuori da me.

«Non lo so», ammisi. «Forse è meglio che vada a vedere di mia sorella: ho paura non sia tornata a casa», spiegai, rimettendo il cellulare nel sacchetto. 

Decisi che al mulino avrei avuto una possibilità di avere copertura, altrimenti dalla Collina dei Salti, ma a quel punto tanto valeva correre direttamente a casa e controllare che Lilla non fosse per strada. Chissà, magari l'aveva sorpresa la pioggia e aveva cercato un riparo, e poi si era persa; era plausibile, dal momento che il suo senso dell'orientamento lasciava parecchio a desiderare.

«Combini a venire qui alla stessa ora, domani?», chiesi, rimettendomi le scarpe.

«Perché sempre devo combinare qualcosa? Oui, toutefois, domani qui ancora.»

«Non ti ho mai accusata di nulla: è dialettale... credo. Sarà dura togliersi il vizio», spiegai, alzandomi. «Ora vado. E' stato bello conoscerti, Nevrè!»

Sentii appena la sua risposta, perché ero partita in una corsa folle.

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Capitolo 3
*** Due ***


 

      Due

 

 

Per far prima usai direttamente il torrente, tanto l'acqua si faceva man mano più bassa: il letto si allargava. E me ne fregai di passare proprio davanti al Luigi, seduto nella veranda sul retro. Credo mi abbia urlato qualcosa che comprendeva le parole ''genitori'' e ''Carabinieri''; ma in quel momento non me ne importò proprio: ero super preoccupata per la Lilla.

Lilla era una rompiballe come poche, ma le volevo bene e avrei fatto di tutto per lei, anche se non gliel'avrei mai detto; non negli anni della cosiddetta innocenza. Era piccola e fragile, e io sentivo l'innato desiderio di proteggerla; tanto per cominciare, nessuno poteva azzardarsi a trattarla male, solo io e solo a parole - che poi sono quelle robe che fanno più male: non lasciano il segno fuori, ma dentro ci mettono tanto a guarire, quando ci riescono. Il solo pensiero di andare da lei e dirle: “Lilla, ti voglio bene”, mi mandava in crisi. La crisi dell'imbarazzo più totale e catastrofico! Per lo stesso motivo, due o tre anni prima, avevo smesso di dirlo al papà e alla mamma.

Quando il papà mi aveva presentato la Patrizia, la Lilla era già dentro di lei: sapevo già, al tempo, cosa significasse quel pancione e come si fosse gonfiato. Mamma mi aveva fatto il discorso in quarta elementare, poco prima che iniziasse la separazione col papà; era stata una cosa come: “Quando un maschietto e una femminuccia diventano curiosi...” e poi era scesa abbastanza nei dettagli, usando comunque termini pseudoscientifici. Pensandoci, le ero grata per avermi fatto quella lezione quando ancora guardarla negli occhi, mentre mi diceva cose importanti e profonde, non mi metteva a disagio. Al tempo pensavo ancora che i genitori sapessero tutto, che fossero perfetti e infallibili, di conseguenza i loro discorsi erano preziose lezioni di vita. 

Ricordo ancora con quanta spudorata disinvoltura aveva usato la parola “sesso”, spiegandomi che non c'era assolutamente nulla di male e che, con la morte, è la roba più naturale della vita. Papà la vedeva diversamente: quando il termine era piombato nella stanza, lui si era improvvisamente ricordato di aver finito le sigarette... e lui non ha mai fumato in vita sua.

Comunque, io quelle robe non le avevo mai fatte e, man mano che passava il tempo, mi convincevo che non le avrei fatte con un ''maschietto curioso''.

 

Ero nei pressi del mulino, ormai, e lì rallentai un po'; non perché la sorte della mia sorellina mi fosse improvvisamente indifferente, proprio il contrario: magari era arrivata fin lì.

Le calze e le scarpe zuppe mi facevano slittare di continuo i piedi: ormai avevo le dita massacrate, a suon di sbatterle contro la punta, e il ginocchio mi mandava fitte bianco-gialle. Quel senso di disagio incrementò quello che avevo dentro, quello del palloncino argentato che stava schiacciando il mostriciattolo d'un lato.

Aguzzai la vista, per vedere se scorgevo la bicicletta lillà: in quel mare giallo e verde avrebbe dovuto essere facile, no?

E se un furgone avesse preso su lei e la bici? E se l'ultima cosa che ha sentito da me è ''sorellastra''? Oddio, che roba orribile... che persona orribile, sono!

Ingollai le lacrime - anche se una mi scivolò comunque sulla guancia - e il groppo in gola, rimettendomi a correre. Puntai direttamente al vecchio mulino, nel vicino orizzonte: magari si era rifugiata lì, in attesa che la trovassi.

Rivivendo quei momenti ora - quindici anni dopo - continuo a chiedermi quale meccanismo mi abbia impedito di chiamarla, quale forza abbia impedito alla mia gola di emettere mezzo suono. 

Non sarebbe cambiato molto, comunque: solo l'inizio di una determinata interazione.

 

Ricordando per miracolo di piegarmi, feci irruzione.

«Te la lì, mea!», esclamò Federico, sfoggiando le sue origini genovesi. «Belin, fino a Gemona, ancora un po', per vedere di trovarti!» 

In quel momento, nonostante tutto, mi passò per la testa che la Liguria confinasse con la Francia.

«Avete visto la Lilla?», chiesi, ricordando le mie priorità e dimenticando di essere incazzata come una vipera.

Fede e Mario, che erano seduti sulla macina ed erano intenti a giocarsi una Briscola a lume di candela, si scambiarono uno sguardo.

«La Lilla è a casa: l'abbiamo vista prima», mormorò Mario. «Mi dispiace per tua madre, Andrea», aggiunse, con lo stesso colore.

Il palloncino aumentò improvvisamente di dimensioni, come se qualcuno avesse avuto uno scatto d'ira e avesse soffiato forte, fortissimo: mi schiacciò mostriciattolo e diaframma, facendomi venire voglia di rimettere.

«Madre...?», gli feci eco. Fu un suono incerto e strozzato, carico, no, grondante di terrore e disagio. «Che c'entra mia madre?!»

«Eeeh...» fece Fede, alzando le spalle.

«Forse è meglio se torni a casa, sai?», mi consigliò Mario, che era in assoluto quello più dolce e pacato del trio. «Ti ho rimesso su la catena...» aggiunse, indicando il muro dove la mia bici rossa era stata appoggiata; mentre lo faceva, vidi del grasso marrone scuro sul suo avambraccio. 

Quella striscia scura fu l'ultima cosa. 

Poi è tutto nero: non ricordo di aver preso la bici, non ricordo di essere uscita e non ricordo neppure come fossi arrivata alla Collina dei Salti, dove la memoria riappare.

 

Il ginocchio mi bestemmiava dietro, perché a pedalare mi faceva due volte più male che a correre, ma non avrei rallentato!

Volevo prendere il cellulare - che nel frattempo aveva suonato due volte - ma ogni volta che partivo con l'intento, una colonna squadrata, forse d'acciaio, mi passava dalla sommità del capo allo stomaco. Non potevo reggere in contemporanea il palloncino e la colonna, o avrei perso i sensi.

La testa scoppiava di pensieri, immagini e forme aguzze; per non impazzirci dietro, o forse perché era una sensazione forte, mi concentrai sulla fronte e la sella del naso, che mi formicolavano come se delle efelidi si fossero trasformate in formiche esagitate e mi fossero penetrate fin dentro: dovevo aver pianto, una roba violenta, perché quella cosa la sperimentavo - a volte la sperimento ancora - quando le emozioni mi travolgono, il pianto si fa dannato e la respirazione collassa nel caos.

Avevo pianto, sì, ma non sapevo esattamente perché: “Mi dispiace per tua madre” è così generico. “Mi dispiace che tua madre stia male”, “Mi dispiace che tua madre abbia avuto un incidente”, “Mi dispiace che tua madre sia-”

No, neanche da provare a concludere quella frase!

Mi sentivo... Come definire la cosa? Diversa da come mi ero sentita fino a quando pensavo che fosse Lilla il problema, perché era un'ipotesi che avevo decorato con paure e quant'altro; avevo fatto tutto da sola. Più spaventata, ecco. Mentre per mia madre - qualunque cosa fosse successa - era... tangibile? Perché uscita dalla labbra di qualcuno esterno a me? Credo di sì.

Non avevo neppure avuto il tempo di provare sollievo per Lilla, pensandoci, che... bam!, mia madre. Mia madre cosa? Lo ignoravo e, come per Lilla, la cosa lasciava spazio a immagini e pensieri. Tante immagini, tanti pensieri. Tanta paura. E ora avevo un motivo per avere davvero paura, perché le ipotesi avevano ceduto il passo alle parole: cose che hanno un loro suono e colore, una loro forma, un loro odore... sono concrete, perché al tatto mi danno una sensazione, cosa che i pensieri non fanno.

 

Mi fermai sulla collinetta: un'altura con un dislivello di cinque, forse sei metri, non di più, cui sotto c'era la mia casa, sola e circondata dal verde: un tempo era un agriturismo, ma il papà e la Patrizia l'avevano riconvertita a dimora quando avevano capito di fare sul serio, ovvero quando mio padre era ancora sposato con mia madre...

Nel vasto cortile davanti casa c'erano la Peugeot 2o6 ramata di papà, la Panda verde chiaro di Pietro e la bicicletta nera della Patrizia. La Panda mi allarmò, perché era sabato pomeriggio e il Pietro doveva essere a lavoro; la bicicletta mi calmò, perché, per un momento, considerai che la Patrizia non andava da nessuna parte senza quella bici - non valutai che a uno le cose possono succedere anche in casa, mi rendo conto. Ma poi mi ricordai che lei non era mia madre; nessuno aveva mai provato a definirla così: lei era uno dei miei tutori, la moglie di mio padre, un'adulta calma e responsabile. Era la Patrizia. Ma non era mia madre.

Ci volle tempo e volontà per alzare il piede e rimetterlo sul pedale, per lasciare che discesa e alluminio mi portassero alla verità.

 

Mollai la bici vicino quella della Patrizia con una certa delicatezza: in quel momento, un rumore forte mi avrebbe rotto qualcosa dentro. Quel qualcosa che forse mi spingeva a indagare, invece di scappare via, fingere che fosse solo un sogno, magari tornare da Nevrè. Mi consolò pensare a lei; mi fece addirittura venir voglia di sorridere e sentii un formicolio allo stomaco, appena sopra il palloncino. Durò poco: fu ucciso dal senso di colpa e inadeguatezza.

Scrollai braccia e mani, che mi formicolavano come fossero addormentate, e, a piccoli passi, avanzai verso la porta d'ingresso.

 

Nonostante l'ora, Peppa Pig non mi trapanò i timpani con le sue urla e il suo grufolare enfatico; mi arrivò appena, nel silenzio irreale di quella casa che improvvisamente mi pareva estranea e minacciosa, come se le avessero strappato via l'anima, o ci fosse ancora, ma non riconoscesse la mia. Mi sentii un'intrusa e la voglia di fare dietro front si fece quasi imperativa.

Non lo feci.

Attraversai il piccolo atrio e, ignorate a malincuore le scale che conducevano alla sicurezza della mia cameretta, mi voltai a destra, verso il salotto.

Erano tutti lì.

Lilla fu la prima che guardai: se ne stava seduta sul tappeto, a un metro o meno dalla TV, dove la maialina faceva cose con un albero, forse un melo, forse un ciliegio. Aveva gli occhi rossi, il naso e il labbro superiore umidi di muco. Accanto a lei c'era anche Leonardo, che era impegnato a leccarsi l'asterisco.

Al tavolo c'erano seduti il papà e la Patrizia. 

Mio padre si era tolto gli occhiali - cosa che mi diede fastidio, perché era un ulteriore dettaglio fuori posto - e una vena verdastra gli partiva da sopra l'orecchio, gli attraversava la tempia e gli svaniva nell'attaccatura dei capelli biondastri, ormai ingrigiti. La Patrizia, accanto a lui, si limitava a strofinargli l'avambraccio e lo guardava come fosse un uccellino ferito.

Sul divano, dietro la Lilla, c'erano il Pietro e la Francesca. 

Fu con quest'ultima che incrociai lo sguardo, dato che si voltò, forse cogliendo un movimento con la coda dell'occhio. Nonostante il momento, Masini ci tenne a sussurrarmi: “Bella stronza, che hai distrutto tutti i sogni della donna che ho tradito...” Sì, era bella pure con la ricrescita nera, sotto il rosa shock.

«Eccola», annunciò, senza smettere di guardarmi, come se perdermi di vista avesse potuto comportare il farmi svanire o trasformarmi in qualcosa di piccolo e strano, che sarebbe potuto scappare o infilarsi in una crepa. O forse voleva solo la gloria di avermi scovata e catturata. Come una regina cattiva, mi teneva ferma con il potere del suo charm.

Tutti gli occhi furono d'improvviso su di me; perfino quelli giallo-verde di Leonardo, che di solito mi cagava solo quando aveva fame. L'annuncio di Francesca aveva interrotto la sua toilette, forse troppo bruscamente, dal momento che rimase storto e con un buon mezzo centimetro di lingua di fuori.

Avrei voluto gridare loro di non guardarmi, di disperdersi, di non fare così, di non essere così radunati e statici: mi dava contro, mi allarmava, mi soffocava!

«Andrea!», esclamò Lilla, che mi corse incontro e mi abbracciò la gamba. Quella reazione, quel gesto mi diede una strizzata al cuore: l'avevo trattata male e l'avevo scaricata come spazzatura; ma lei si comportò esattamente come un cane: non importa quanto gli dai giù, quello continuerà ad amarti e venerarti. Mi fece male, mi fecero male entrambe le cose: Lilla e l'immagine di un cane maltrattato. Mi venne voglia di piangere e le formiche sulla sella del naso mi ostruirono la via respiratoria. Mi trattenni e le posi una mano sulla sommità del capo.

«Andrea», mormorò mio padre, che aveva ora la voce marrone e mi ricordò un vecchio giradischi. «Vieni qui, dai.»

«Sto bene qua», replicai, sentendo il palloncino muoversi o gonfiarsi. 

Dovevo aver emanato qualcosa di nero o verde estremante scuro; era sceso dalla mia testa come una specie di nebbia - tipo quella che si manifesta quando apri il freezer - ed era finito su Lilla, che si staccò da me per correre da lui e farsi prendere in braccio. I bambini, proprio come i cani, le sentono certe cose, secondo me.

«Purtroppo, la mamma»

Boom! 

Il palloncino era tuonato: un'esplosione di coriandoli bianco-argentati che si sparsero per tutto il petto, fino alla gola e poi dietro, scivolando lungo la spina dorsale, gelidi e aguzzi. Le tempie bruciarono acide e roventi mentre il resto del cranio si faceva gelido. Mi mancò il respiro e il cuore dimenticò di battere per un istante, per poi accelerare bruscamente. Ebbi la sensazione di cadere su me stessa, come se non avessi più le ossa delle gambe.

Tutto questo avvenne nella frazione di secondo che impiegò a concludere la frase:

«è nei guai.»

Tre parole con un effetto micidiale prima, tre parole con effetto opposto poi.

Nei guai, non morta... nei guai, non morta... mi ripetei mentre assaporavo il sollievo, che era un vapore arancione, tiepido; quasi mi tolse le forze, come quando ti immergi nell'acqua calda. Ebbi la tentazione di abbandonarmici, ma se l'avessi fatto probabilmente sarei svenuta.

«Hanno trovato la sua automobile sulla statale, vicino la Conad, ma non trovano lei», continuò mio padre, guardandomi senza vedermi davvero; seriamente, ebbi la sensazione che mi guardasse attraverso e che la credenza dietro di me, comunque, non gli interessasse davvero.

Non ebbi problemi a visualizzare la Punto nera di mia madre nel piccolo spazio di sosta creato da un camion, che era uscito di strada, ribaltandosi, e aveva rancato via tutti gli alberelli, una decina d’anni prima. In quella piazzola, quand'ero piccola, mia madre accostava per farmi fare pipì. Mio padre non mi aveva detto fosse quello il punto; ma lo sapevo, e più avanti avrei avuto conferma di ciò. 

Come dicevo, visualizzai tutto, nitidamente, come se stessi osservando la scena. Ma lo stesso non capii.

«E dov'è?», fu quello che mi venne da chiedere. Poi mi accorsi, e allora partii con le ipotesi: «Forse le è di nuovo cascata la frizione, no? Sarà a casa! Lo zio andrà a prendere la macchina domani o dopo; tanto gli basta trainarla, come l'anno scorso.»

«Andrea...» esalò mio padre.

«Cosa?!», esplosi, un po' per la brutta sensazione che mi aveva dato il suo tono, e un po' perché sembrava avesse ignorato tutto quello che avevo detto.

«Ha lasciato tutto in macchina», si sentì in dovere di intervenire la Francesca, come se le sue parole fossero risolutive e geniali.

Feci per voltarmi verso di lei e dirle qualcosa di poco carino, ma mio padre parlò ancora:

«I Carabinieri mi hanno detto di essere stati allertati da alcune persone, che hanno visto lì la macchina per giorni e giorni... una settimana, più o meno.»

«E bon?», sbottai. «Si sarà dimenticata di dirlo a zio! Sarà andata dalla zia, come fa quando non combina con la testa! Non l'Alberta, ovviamente... La Lucia. Sarà dalla zia Lucia!»

Lilla cominciò a singhiozzare, spaventata dalle mie urla, e la cosa mi diede sui nervi. Grazie a quel fastidio, comunque, seppi che il mostriciattolo non era morto nell'esplosione, come avevo invece temuto.

«Non la trovano, Andrea. Non la trovano», ribadì mio padre, e la vena verde si gonfiò, facendogli strano il contorno dell'occhio destro.

Lilla si ruppe definitivamente in pianto e il mostriciattolo, che aveva fatto sollevamento pesi, nel caso avesse dovuto affrontare un'altra calamità nella sua grotta, ruggì.

«Che ti frigni, te?!», le urlai, preda dell'ira più acida. «Non è tua madre e non è morta!», scoppiai. Mi sentii debole per aver usato quel termine ad alta voce.

«Ma io voglio bene alla zia Lucrezia!», strillò, e il viso si fece quasi viola.

«Non è manco tua zia, stupida!»

«Andrea!», mi sgridò papà. «Le parole!»

«Cosa vuoi, te?!», gli urlai, così forte da farmi diventare la gola color della cenere. «L'hai tradita e ora fai come se t'importasse?! Se è sparita, la colpa è solo tua!» Era la prima volta che mi rivolgevo così a mio padre: la cosa mi fece sentire potente e perduta, tutto insieme.

«Ou!», irruppe Francesca, sentendosi di nuovo in dovere di fare sentire la sua voce color pesca. «Figa, calmati un po'!» E di sfoggiare quel suo finto, ridicolo accento milanese; fossi stata della Lombardia, mi sarei sentita scimmiottata.

Avevo tutti gli occhi addosso; solo quelli di Pietro e Patrizia non mi accusavano, come invece sembravano fare pure quelli di Leonardo.

Non potevo vincere, non riuscivo a ribellarmi e non avevo la maturità per perseverare nel confronto.

«Andate in mona, tutti quanti!», strillai e corsi verso la porta.

Potevo solo scappare.

 

Corsi a perdifiato nel campo dietro casa. Lì c'era un piccolo trattore arancione, abbandonato e arrugginito da quando ne avevo memoria. Sulla fiancata a protezione del motore, seppur mezza scrostata, si leggeva ancora ''Fiat 1'' e poi c'era forse un otto o qualcosa del genere. Quella scritta era sicura, era fisica e non c'entrava nulla con le mie emozioni: la fissai per un po'.

Salii su, sedendomi sul sediletto a conchiglia di cui ormai rimaneva solo il metallo, dato che l'imbottitura di spugna era andata a farsi benedire anni prima.

Sentii partire qualcosa da sotto il diaframma: per un momento pensai che avrei rimesso, ma invece mi uscì un lamento e poi le lacrime.

Piansi per paura e piansi per vergogna. Piansi tanto e violentemente. 

A tratti mi fermavo e mi consolavo: ''Niente corpo, niente omicidio'', mi sussurrava il detective di turno; poi però diceva, lui o un altro: ''In caso di rapimento, le prime quarantotto ore sono decisive''. Però il sospetto era che mia madre si fosse tolta la vita, ed era passata una settimana, come minimo; quindi il detective poteva andarsene in mona e io ricominciare a piangere. 

E poi mi consolavo di nuovo, perché di colpi di testa mia madre ne aveva avuti a vonde! Tipo quella volta che siamo diventati matti a cercarla, e poi era andata dalla zia Alberta - prima che la ricoverassero - e le aveva proibito di dire a chiunque che era da lei. Ma la cosa era durata una giornata, poco meno, non una settimana. E quindi turna giù lacrime.

Un loop infinito. Un limbo.

A quell'età è tutto così drammatico e confuso. Un sussurro diventa un'eco amplificata; è come mettersi in centro a una navata, lo spazio è tanto e vuoto: manca l'esperienza.

La depressione di mia madre mi metteva a disagio e mi faceva paura: era un gigantesco mostro nerastro che gravava sempre sulla sua figura. E poi c'erano le due gemelle pallide, quasi senza colori, identiche a mia madre, che ruotavano intorno a lei e il mostro nero; quell'immagine si era creata due o tre anni prima, quando avevo sentito mio padre parlare con la Patrizia e dire: ''Bipolare. Lucrezia è bipolare''.

La sinestesia è capace di mostrarmi incredibili scorci sul mondo, ma le creature che lo popolano sono quasi sempre sinistre e raccapriccianti.

Pensavo che mia madre fosse depressa e bipolare, sì, ma probabilmente era anche pazza, ai livelli della zia Alberta. Per quel motivo non ero rimasta con lei e avevo invece scelto papà, Patrizia e Lilla: mi davano l'idea della famiglia che desideravo. Solide certezze, niente mostri e niente malefiche sorelle omozigote.

Cercai di calmarmi e tirai fuori il sacchetto della farmacia, dove ancora risiedevano il cellulare e le sigarette. Volevo fumare. Una volta, in una storia, ho letto che fumare ci rimanda alla poppata, di conseguenza ci ricorda il contatto con la madre e ci calma. Mi sembrò una scusa sufficiente, per mettermi in bocca la seconda cicca di quella giornata che, contrariamente a quello che avevo pensato prima, poteva e si stava storcendo ancora; e, dal momento che avevo quel mal di pancia ed ero più isterica del solito... quella giornata avrebbe continuato a storcersi. Quant'è scomodo essere una donna! Non dico sia così per tutte, però: c'era la madre di un mio amico che con le sue cose diventava super amichevole e zen, stile Patrizia. Misteri. Io comunque non ero e non sono fra quelle: sono fra quelle che si contorcono e imprecano per il male e per quella brutta sensazione di umido, di sporco.

Provai e riprovai a far funzionare l'accendino nero, ma ottenni solo scintille, fumo maleodorante e dolore al pollice, a suon di grattarlo contro la rotellina.

«Se me ne dai una, te l'accendo.»

Ebbi un micro scatto e mi uscì un lamento: qualcosa di piccolissimo, che si trasformò in un suono differente verso la fine; della serie: mi avete beccata a fumare? Bon? Non m'interessa: la mamma è scomparsa e questa è una situazione di crisi, fuori dall'ordinario, dunque le regole di ieri, e fino almeno a domani, non valgono.

Pietro si era avvicinato, silenzioso come un gatto, e ora mi guardava come fossi un topo pronto a schizzare via.

Ci guardammo per una manciata di secondi, immobili e silenziosi; poi si mosse: usò la piccola ruota anteriore per darsi la spinta e salire agilmente sul cofano, accanto al piccolo comignolo di ferro. Aveva proprio le movenze di un giovane uomo: qualcosa di sinuoso eppure rigido; qualcosa che mi faceva pensare ai nervi, più che ai muscoli.

«Quando hai deciso di dichiarare guerra ai polmoni, sorellina?», mi chiese e intanto frugò prima nella tasca destra dei jeans, poi in quella sinistra, da cui estrasse un accendino uguale al mio, ma senza ruggine.

«L'anno scorso», gli rivelai e aggiunsi, quasi aggiustasse tutto: «Una al giorno... oggi però due.»

Quel pomeriggio, più che mai, mi ricordò quello Youtuber che parla di cinema e recensisce film, a volte ciofeche a volte roba bella: si era rasato i capelli e aveva solo baffi e barba scuri a incorniciargli le labbra sottili. Non era né grasso né magro; come diceva la Francesca ''né carne né pesce''. Era poco più alto di me e forse sarebbe rimasto così, dato che aveva ormai ventidue, quasi ventitré anni.

«Ho capito», si limitò a dire, senza provare a farmi la lezione o sfoggiare qualche stupidissima frase tipo: ''Senti qua, piccola sapientona: io sono un genio e tu sei scema, io sono grande e tu sei piccola, io ho ragione e tu hai torto!'' - Matilda 6 Mitica: che bel film! Aveva smesso di fare il ''grandone'' attorno ai diciassette o diciott'anni, sostituendo il tutto con un vero atteggiamento da adulto. Mi chiedevo spesso se anch'io sarei maturata, se mi sarei calmata così, di colpo, da un anno all'altro. Spoiler: sì. Dopo quell'estate cominciarono dei profondi cambiamenti in me, ma questa è un'altra storia.

«Come ti senti?», mi chiese dopo avermi acceso la cicca e averne presa una per sé.

Replicai con una domanda: «Da quand'è che fumi, te?»

Aspirò e, tossendo un po', mi rispose: «Da ora, pare. Ma, stando con la Francy, è come se fumassi da un paio d'anni: tutto il fumo passivo che mi son respirato!»

Provai una stilettata d'ira e fastidio e il mostriciattolo si dimenò. Mi contenni e decisi di usare la sua stessa frase: 

«Ho capito.» 

Presi anch'io una boccata, poi una seconda, infine mi decisi a dirgli: «Ho paura che non rivedrò più la mamma...» 

A tradimento, il pianto mi mozzò il respiro.

Pietro non provò a toccarmi e non parlò neppure, limitandosi a fumare un po' a bocca e un po' a petto: sapeva che in quei momenti avevo bisogno dell'immobilità e del silenzio, perché ogni cosa mi agitava il doppio, dandomi l'impressione di perdere totalmente il controllo. E la perdita di controllo mi mandava - e manda - ai matti.

«Pensi», singhiozzai, «che sia morta?» Mi era costata una fatica immane porre quella domanda, ma ne avevo bisogno.

«No, Andrea, non lo penso», mi rispose, usando un tono pacato anche se velato d'angoscia. «Credo lo sentiremmo, dentro, se mamma non ci fosse più.»

Avrei voluto saltargli al collo e ringraziarlo per averlo detto, perché il mio corpo rilasciò qualcosa di simile al vapore arancione di prima. Rimasi però ferma e mi limitai a concordare con un cenno del capo: sì, se la mamma fosse morta, io l'avrei sentito. Mi aggrappai disperatamente alla cosa, decidendo di crederci con tutta me stessa.

Stavo per chiedergli cosa pensasse fosse successo, ma arrivò la voce color pesca:

«Cumò viodi! Allore?!» Questa volta aveva deciso andasse bene il friulano. «Andrea, fumi?! E tu, Pietro, glielo permetti?!» E l'italiano e un atteggiamento da mammina che le stava malissimo.

Mi voltai verso di lei, che era sopraggiunta alle spalle del vecchio trattore arancione proprio come aveva fatto mio fratello; stavo per dirle di farsi gli affaracci suoi, ma intervenne Pietro:

«Non ora, Francy.»

«Di' bon che vi ho visti io!», continuò, come se il Pietro non avesse fiatato. «E' una bambina!»

«Ha tosto sedic'anni: sa che il fumo uccide», replicò mentre lei si spostava sotto di noi, di fianco al biroc. «Lassâ fâ, che avrà tempo di pentirsi, come tutti noi, di tutte le scelte.» Forse fu una frecciatina, non lo capii mai. «Aspettami in macchina, 'rivo subito.»

Lei gli rivolse un ghigno che forse voleva essere un sorriso. 

«Bon bon...» ringhiò. 

E Masini, nella mia testa, partì con: “Bella stronza che sorridi di rancoreeeh... Ma se Dio ti ha fatto bella come il cielo e come il mare, ma a che cosa ti ribelli, di chi ti vuoi vendicare?!”. Bella domanda, Marco, davvero! Quella lì aveva tutto: bellezza, ricchezza e perfino un bravo ragazzo, premuroso e gentile.

Pietro era andato a vivere con lei l'anno prima, così era a un tiro di schioppo dalla fabbrica dove suo padre lo aveva messo a lavorare. Lei aveva un appartamento tutto suo - ''un regalo del babbo per aver preso il diploma'' - che aveva arredato come immaginavo fosse la stanza di Lady Gaga da adolescente. Seria.

Mentre lei si allontanava, io provai un misto d'orgoglio e rispetto per mio fratello: aveva rimesso a posto la Francesca senza arrabbiarsi e senza trattarla male: così doveva fare un uomo - o una donna - secondo me.

«Ti giuro che le voglio bene», mi assicurò Pietro, saltando giù, «ma è una tipa impegnativa!»

«Le femmine sono quella roba con cui non puoi stare, ma che non puoi manco stare senza, giusto?»

«Preciso! Sta' lontana dalle donne, Andrea. Almeno per qualche altro anno», mi sorrise, complice.

Istintivamente pensai a Nevrè e mi venne voglia di raccontare a Pietro dello strano incontro, ma lui aveva già aperto le braccia, in attesa che lo salutassi.

Mi strinse forte mentre mi piegavo su di lui. Il suo odore naturale di muschio - o sottobosco - e ferro si mischiò a quello del dopobarba, che era di un verde-azzurrognolo.

«Se c'è qualcosa, mi chiami, va bene?», mi disse, staccandosi da me per guardarmi in faccia. «Qualsiasi cosa, a qualsiasi ora!»

Glielo promisi e lo guardai allontanarsi, sentendomi di nuovo sola e vulnerabile.

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Capitolo 4
*** Tre ***


      Tre




Vidi la Panda verde del Pietro risalire la collina e scomparire oltre il terzo tornante, che passava dietro a essa. Mi voltai poi dalla parte opposta, verso est, dove la distesa di grano incolto si estingueva con le montagne; prima delle rocciose alture c'erano le colline e, come ogni volta che prendevo posto sulla conchiglietta metallica del trattore, mi concentrai su quello che ritenevo essere un abete o un larice: rompeva la linea già di per suo frastagliata con la sua imponenza, costringendomi a pensare a un dito medio. Quell'invito ad andare a quel paese era per me, mi convinsi quel giorno.

Rimasi sotto l'acquerugiola per qualche minuto, meditando se tornamene al rudere o chiudermi in stanza.

Decisi per il rifugio domestico: quel mal di pancia stava aumentando d'intensità.


Entrai in casa come una ladra e schizzai su per le scale, sperando che Peppa Pig, che ora grufolava a tutto volume, coprisse i miei passi e lo scricchiolare delle assi nuove, che ancora non avevano capito come adattarsi allo scheletro preesistente. Non avevo voglia di avere a che fare con la mia famiglia; non a causa della vergogna, non a causa dell'improvvisa stanchezza che aveva assopito perfino l'esuberante mostriciattolo, semplicemente volevo cessare di esistere per il mondo, sperando che esso mi riservasse medesimo trattamento. Solo per un po'.

Mi gettai sul letto vestita, avendo però la premura di lasciare le scarpe a penzolare oltre il bordo, lontano dal lenzuolo che fungeva da coperta per quelle calde notti. Fissai il soffitto bianco e il pianto mi sorprese a tradimento ancora una volta.


Fu il dolore al basso ventre a svegliarmi, a strapparmi dall'incubo che stavo avendo; le immagini sfumavano man mano che riprendevo coscienza di me, ma il senso era ben chiaro: mia mamma e tutto ciò che non volevo in alcun modo collegare a lei.

Il pianto stava per salirmi di nuovo, alimentato da quel dolore persistente ma altalenante; a fermarlo ci pensarono tre semplici colpi alla porta. La Patrizia, al contrario di Lilla e spesso anche di mio padre, aveva a cuore la privacy di una giovane donna.

«Posso entrare, Andrea?»

«Vieni...» mugugnai dopo essermi sollevata a sedere. Non volevo farmi trovare distesa e sconfitta: mi avrebbe fatta sentire troppo vulnerabile e, in ogni caso, non mi pareva modo di accogliere una persona.

Patrizia entrò lentamente, come volesse la sicurezza assoluta di poter invadere quel mio spazio.

«Hai fame?», mi chiese, fermandosi sulla porta.

Ci pensai per un lungo momento.

«Non molta, però ho bisogno di prendere un Oki, ne hai?», dissi infine.

Mi guardò e strinse le labbra.

«Ti sono arrivate», constatò.

«Ed è una delle volte brutte», conclusi io.

Lei annuì, si voltò e si chiuse la porta alla spalle.

Sì, lei ci teneva veramente al rispetto, e la cosa mi piaceva. Probabilmente era stato quel suo trattarmi come una sua pari, ciò che realmente mi aveva conquistata. Aveva dei modi morbidi e giocosi, ma riusciva sempre a farsi prendere sul serio, perché nella sua calma c'era la solennità di chi sa come si sta al mondo e non ha bisogno di mettere i piedi in testa a nessuno, per sentirsi migliore o potente.

Una volta, dal momento che lei dava lezioni di yoga e meditazione in generale, le avevo chiesto se avesse raggiunto il nirvana. Non l'aveva raggiunto. Secondo lei, gli uomini e le donne di questo secolo, soprattutto nella nostra civiltà, non ne sarebbero in grado: troppe preoccupazioni, troppi averi, e l'avere causa sofferenza.

“Perché?”, le avevo chiesto.

“Perché il desiderio è ciò che più ci allontana dalla calma interiore”, mi aveva risposto. “Soffro, perché ho paura di perdere ciò che possiedo; soffro, perché desidero ciò che non possiedo.”

In quel momento mi aveva fatto visualizzare il Cavaliere d'Oro Virgo, precisamente quello dei Cavalieri dello Zodiaco, quando anche lui ammette di non aver raggiunto lo stato supremo. Ah, come l'avevano rovinata quella serie! Dopo il cambio del direttore del doppiaggio, le citazioni Dantesche e il linguaggio cavalleresco erano finiti nel dimenticatoio, con solo pallide imitazioni poi... Pazienza. Che poi, era stata lei a farmi notare la cosa, dal momento che quella serie l'avevamo guardata insieme.

Un giorno era arrivata ed era rimasta immobile e silenziosa fino alla pubblicità, poi mi aveva chiesto se poteva sedersi con me a guardare anche lei. Avevo accettato, anche se inizialmente la prospettiva mi aveva messo a disagio; e poi, cosa vuoi che ne capisca un'adulta, di certe cose? Ma quello non era un cartone per bambini e lei si divertì molto, contagiandomi. La nostra saga preferita è - sì, ancora oggi - quella del Santuario; dove abbiamo visto le rappresentazioni dei nostri segni sotto forma di Cavalieri: lei Aquario - invero è cuspide: Aquario-Pesci - io Scorpione.

“Credo che al creatore non vadano molto a genio il Cancro e i Pesci”, aveva commentato a un certo punto. “Però ha trattato peggio Death Mask, piuttosto che Aphrodite.” Eh sì, aveva perfino imparato i nomi di tutti! Poi, dopo una breve ricerca, aveva concluso, ridendo: “E ora capisco anche tutta la cosa di Micene: il creatore è del Sagittario!”

Nei giorni successivi avevamo parlato e analizzato tutto, giungendo, fra le altre cose, alla conclusione che il protagonista è un pirla.

Quello è uno dei miei ricordi più felici. Fu bello perdersi in quelle immagini, in quei suoni e in quelle sensazioni. Mi fece stare meglio... e anche ora è riuscito a strapparmi un sorriso.

Tre nuovi colpi alla porta furono seguita da: «Di nuovo io. Posso?»

«Vieni.»

La porta si aprì e sulla soglia comparvero di nuovo la Patrizia e la sua chioma leonina. Aveva un bicchiere con un liquido biancastro, un panino e una borsa dell'acqua calda; come avesse fatto a bussare e aprire, è per me ancora un mistero... Secondo me è una creatura magica, poco da fare.

«Mangiane almeno metà», mi disse, porgendomi un sandwich con marmellata e burro d'arachide; quelle americanate piacevano a entrambe. Poi posò il bicchiere sul comodino e la borsa rossa sulle mie gambe, verso il basso ventre, dove avevo male.

«Grazie», mormorai, mordendo il pane adeguatamente farcito. «Sei sempre gentile.» Forse era stato il ricordo, che mi aveva scaldata e consolata, a indurmi a quell'esternazione per nulla da me.

Mi sorrise e mi fece una carezza sui capelli.

«Essere una donna può rivelarsi davvero deprimente, ma se ci aiutiamo fra di noi è tutto più semplice, vero?»

«Sì», annuii, deglutendo il primo bolo.

«Ti lascio tranquilla.»

Fece per andarsene, ma io non volevo rimanere sola.

«Ti va di stare un po' con me?», le chiesi; poi aggiunsi, dato che c'era una strana calma: «Il papà e la Lilla?»

«Ha portato Lilla a prendere un gelato e a vedere un film... di principesse, credo», disse, sedendosi accanto a me sul letto. «Tuo papà apprezza quei film quanto, se non più di Lilla», concluse, ridacchiando.

«E' vero», ne convenni; e aggiunsi: «A me fanno venire il mal di vivere...»

Ricevetti un'altra carezza sulla testa e il suo supporto: «Annoiano anche me.»

Quella fu probabilmente la prima volta che non provai rancore o gelosia per essere stata lasciata a casa, non aver ottenuto anch'io un gelato e un film. Mi concentrai su quella nuova esperienza, realizzazione mentre finivo, senza quasi accorgermene, il panino.

La Patrizia aveva preso a strofinarmi la schiena, me ne accorsi quando emersi da miei pensieri, tornando alla realtà della stanza. Aveva un tocco delicato ma deciso che mi piaceva moltissimo, forse al pari di quello del suo calore corporeo, che assomigliava a quello di mia mamma; ma non li avrei mai e poi mai confusi.

Ascoltai il suo respiro calmo e provai a sincronizzarmi.

E così rimasi interi minuti a pensare alla sua mano sulla schiena e ai nostri respiri, finalmente uguali.

Apprezzai molto il fatto che anche lei rimanesse silente: non aveva bisogno di colmare quel silenzio, perché non la metteva a disagio. Mi rassicurava e calmava.

La mia mente si perse ancora; andò a Nevrè, e fu allora che vidi i contorni del mio ginocchio.

«Abbiamo per caso del Voltaren o una pomata di quel tipo?», le chiesi, toccandomi istintivamente il punto offeso. «Ho preso una bella tega.» Poi sorrisi, primo perché ricordai la figura meschina, e secondo perché quella sera stavo facendo collezioni di medicinali.

«Posso vedere?»

Non si era minimamente scomposta, come invece faceva mio padre quando gli rivelavo di essermi fatta qualcosa. Non è che non le importasse, al contrario, ma giustamente non vedeva motivo di creare del panico, dal momento che stavo palesemente bene.

Senza non poca fatica, alzai la gamba dei pantaloni ancora umida; quel dettaglio mi ricordò che mi ero fatta male dove non avrei dovuto essere. Così, mentre esponevo la zona ormai violacea, inventai: «Ero lì del mulino. Sono caduta nel rigagnolo.»

«Domani avrai l'articolazione un po' dura, ma non è così gonfio», constatò. Ebbi idea che avesse colto la menzogna, ma non fece o disse nulla a riguardo. «Prendine un po', una noce, e spalmala per bene. Trovi il tubetto nell'armadietto al lato dello specchio, in bagno.» Poi si raccomandò: «Rimettila lì quando hai finito, se no tuo papà non potrà usarlo per la schiena, va bene?»

Feci di sì con la testa.

Mi leccai le labbra e decisi di parlare di quello che era avvenuto quel pomeriggio, ripromettendomi di fare attenzione ai dettagli della location.

«Ho conosciuto una persona...»

Mi guardò per un po'; poi, vedendo che non aggiungevo altro - perché ero impegnata a costruire uno scenario diverso - mi chiese: «E' simpatica?»

Avevo esordito con soggetto indefinito, neutro, ma lei aveva replicato col femminile, perché lei è capace di cogliere le sfumature nella mia voce che, a quanto pare, variano quando mi riferisco a uno o l'altro sesso.

Inoltre, lei sapeva.

Era successo l'inverno di due anni prima: stavamo guardando un film, lei e io, e a un certo punto mi era uscito un commento piuttosto esplicito - non volgare - riguardo un'attrice. Mi ero morsa la lingua e avevo sbirciato nella sua direzione, ma lei non aveva avuto la minima reazione; ma io sapevo che mi aveva sentita: lo avevo detto bello forte, presa com'ero dalle vicende.

Avevo aspettato la pubblicità e avevo balbettato qualcosa riguardo la mia esternazione. Lei mi aveva lasciato finire, poi mi aveva detto che non capiva assolutamente i motivi della preoccupazione e del disagio. E allora mi si era sciolta la lingua, e le avevo detto che pensavo fermamente che mi piacessero le ragazze.

Quella volta ottenni una delle sue carezze sulla testa e la rassicurazione che andasse tutto bene. Non ho mai davvero avuto un conflitto interiore, per questa mia natura, ma mi ero guardata bene dal farne parola con mia madre o mio padre, di cui, comunque, ignoravo la possibile reazione.

Non avevo paura e non ero a disagio con me stessa: per me era - ed è - naturale come naturale era - ed è - che fossi nata donna, punto. Ma quell'argomento era intimo e personale e non mi andava di urlarlo ai quattro venti; non in quel momento della mia vita, dove l'amore, e soprattutto il sesso, non mi riguardavo.

“Ci sarà sempre qualcuno che verrà a dirti che questo o quello non va bene”, mi aveva detto infine. “Ma non possiamo e non dobbiamo stare dietro agli altri e le loro idee; anche perché, te lo giuro, piacere a tutti è impossibile: potrai piacere o non piacere a molti, a pochi, ma tutto e nulla non esistono”.

Nonostante tutto, alla fine avevo un po' pianto; avevo pianto di sollievo e avevo capito che, in fondo in fondo, quella cosa era davvero importante per me, dunque sentirmi capita e minimamente rifiutata fu bellissimo.

«Forse la parola che voglio scegliere per lei è: dolce», risposi infine. «Non ho avuto molto tempo per capirla e osservarla, perché poi ho visto le vostre chiamate e mi è preso il panico, e allora sono corsa a cercare la Lilla, perché pensavo fosse successo qualcosa a lei, ma posso dire che mi ha fatto una buona impressione», dissi tutto d'un fiato, e conclusi, più calma: «E posso dire anche che è veramente carina...»

«Vuoi descrivermela?»

Gliela descrissi nei dettagli; le parlai anche del fatto che fosse francese e del modo buffo in cui avevamo comunicato.

«Però non ho idea se a lei piacciano le ragazze o i ragazzi», conclusi, con un po' meno entusiasmo. Ma mi rincuorai subito e spiegai il motivo: «Non ha tutta quest'importanza, pensandoci: potremmo essere amiche in ogni caso!»

«Di per suo, conoscere persone nuove è un'esperienza arricchente», commentò. «Fare la conoscenza di qualcuno che viene da un Paese diverso, con un'altra cultura, è ancora meglio.»

«E' vero», ne convenni, «lo penso anch'io.»

E poi, all'improvviso, mi si riempirono gli occhi di lacrime e nel petto si formò una nebulosa bianco-argentata.

«Non devi sentirti in colpa», mi disse la Patrizia, come se mi avesse letto nella mente. «Rimuginare e rimuginare riguardo qualcosa su cui non abbiamo alcun potere, è inutile. Hai il diritto di distrarti, e quel diritto non può togliertelo nessuno. Neppure tu.»

Mi voltai e l'abbracciai con tutta la forza che avevo.

Le fui estremamente riconoscente, per aver detto quello che aveva detto: mi aveva liberata da un peso, mi aveva dato il permesso di sorridere, di sentirmi felice per qualcosa, nonostante tutto.

Affondai il volto nell'incavo della sua spalla e piansi; piansi anche di sollievo, piansi per quel senso di liberazione che diceva: “Tu non hai il potere di fare nulla, di certo non con la mente: la tua è una tortura inutile. Non sei cattiva solo perché non vuoi soffrire”.


«A volte anche gli adulti non sanno bene cosa fare», soggiunse quando, ormai più calma, mi staccai da lei. «Non siamo infallibili, anche se ci piacerebbe. Anche noi abbiamo paura e spesso ci sentiamo persi, nonostante l'enorme bagaglio che ci siamo costruiti nel corso degli anni: siamo umani. Tua mamma ha una fragilità più forte, rispetto a molte persone, ma lei non è una donna fragile: non siamo le nostre fragilità.» Mi guardò negli occhi: «Anche a te sarà capitato di voler fuggire, di volerti nascondere, vero?»

Annuii, ma non fui capace di dire nulla, perché parlare mi avrebbe di nuovo indotta al pianto.

«Il problema, è che gli adulti hanno perso il diritto di scegliere se fare o meno parte della società, almeno a piacimento, perché sono una colonna, e quella colonna regge infinite dinamiche, dal valore più o meno importante. Quel peso, a volte, ci sembra troppo, perché siamo fatti di carne, ossa ed emozioni: non siamo marmo, non cemento e neppure acciaio. Forse dovremmo semplicemente ricordarcelo.»

Mi soffermai su quelle parole e mi chiesi se avrei potuto rafforzare la colonna di cui parlava la Patrizia. L'ultimo messaggio che avevo scritto a mia mamma risaliva a una decina di giorni prima, l'ultima chiamata a due settimane prima. Non l'avevo cercata, non mi ero preoccupata per lei: volevo solo godermi l'estate e stare lontana dal mostro nero e dalle gemelle; non volevo avere a che fare con lei e la sua malattia. Ma queste cose me le dicevo ora, ora che davvero ci riflettevo. Volevo molto bene a mia mamma, certo che le volevo bene; ma il disagio era stato evidentemente più forte di quell'amore che si pensa incondizionato. Mi sentii meschina e macchiata di tradimento, del tradimento più grande: verso coloro che ci hanno dato la vita. Sentii il bisogno di rimediare, ma sapevo di non avere il potere per farlo... forse non avrei mai potuto fare ammenda, togliermi quel peso dal petto. Forse era troppo tardi. Troppo tardi: una roba violenta e agitata, qualcosa di quasi insostenibile.

«Pietro e io pensiamo di no, ma...» Dovetti deglutire e lottare, per ricacciare indietro le lacrime che non ero neppure certa di avere, dal momento che pensavo di aver svuotato la cisterna. «E se fosse morta...?»

Patrizia mi guardò per un lungo momento e accennò qualcosa di simile a un sorriso.

«Non lo so, Andrea. Se tua mamma non dovesse tornare, tu saprai cosa fare, così come se lei dovesse tornare. Non spetta a me dirti o fingere di rivelarti una verità che potresti non condividere: troverai la tua. E credimi, so che queste mie parole potrebbero apparirti senz'anima, ma non posso darti risposte che non ho, non posso né voglio illuderti che lei stia bene, perché non lo so. Però posso dirti, e te lo dico con tutto il cuore, che spero che Lucrezia stia bene e che torni da noi, sana e salva, magari con una nuova prospettiva, con una nuova forza.»

«Cos'hai fatto quando è morta tua mamma?»

Ricordavo me l'avesse accennato qualche anno prima, quando le avevo chiesto dove fossero i suoi genitori. Era stata sua mamma a crescerla, tutta da sola, perché il fidanzato l'aveva lasciata quando aveva scoperto della gravidanza. Un classico intramontabile, pare, sia per un sesso che per l'altro: a volte i bambini sono un legante, altre volte un cuneo.

«Pensai fosse tutto finito», mi rivelò. «Pensai che non ce l'avrei fatta, che il dolore prima e l'inadeguatezza poi mi avrebbero sopraffatta. Avevo vent'anni e del mondo e delle sue dinamiche non capivo assolutamente nulla; inoltre, lei era tutto ciò che avevo.» Mi sorrise. «Ma sono qui, perché i giorni sono trascorsi, sono diventati mesi e anni; il dolore non è mai scomparso, ma ha assunto sfumature diverse. Nuovi dolori e nuove gioie, e tutto si è mischiato. Forse viviamo per abitudine, ma viviamo, perché è l'ordine imperativo della natura.»

Quella sera mi apparve immensamente fredda; ma quello che disse, scoprii, aveva senso anche per me. Quelle parole, quelle considerazioni crearono una base d'appoggio, solo la bozza di fondamenta, però: sarebbe toccato a me decidere ed essere in grado di costruirci qualcosa sopra. Apprezzai la sua sincerità, apprezzai il fatto che non avesse cercato di ingannarmi e mentirmi su qualcosa che, come aveva detto, non poteva sapere. Sì, forse una parte di me, più precisamente il mostriciattolo, sentì di non aver ricevuto la giusta compassione, ma non era di quella che avevo bisogno: forse la volevo, ma non mi serviva.

E, comunque, ricominciai a piangere; il pianto era salito senza che potessi farci nulla: le emozioni mi avevano travolta, il senso di colpa minacciava di divorarmi.

E mi calmai di nuovo, ricordando di non avere potere. E fu per quella sensazione d'impotenza che, pochi istanti dopo, fui investita da una nuova ondata di pianto.

Sembrava non esserci via d'uscita.

Patrizia rimase accanto a me, a strofinarmi la schiena e ad assistere alla mia altalena.

«Ha senso, se dico che la mamma ora non è né viva né morta?», chiesi in un momento di consolazione. «E' come il gatto in quella scatola: finché non ci guardiamo dentro, non è nessuna delle due cose... o entrambe, giusto?»

«Sì», confermò, «teoricamente è esattamente così. Tua mamma è scomparsa; nessuno sa dove si trova, ma qualcuno invece sì, e quel qualcuno potrebbero essere diverse persone o solo lei.»

«E' come se mi fosse caduto addosso un mantello da cui non riesco a liberarmi», decisi di dirle, «mi intrappola e mi soffoca, ma a tratti mi consola...»

«Hai il diritto di sentirti fragile, triste o arrabbiata, ma anche tutto insieme; così come hai il diritto di farti consolare da questa sensazione di irrealtà che ti spinge a pensare di non avere obblighi, perché nessuno potrebbe pretendere nulla da te. E' un sistema di difesa ed è giusto che tu ne faccia uso; solo fallo saggiamente: è un'illusione che inganna la mente e distorce la realtà.»

Da quel suo discorso, capii che lei sapeva esattamente di cosa stavo parlando; e se una parte di me ne fu annoiata, perché mi toglieva di unicità, l'altra ne fu felice e appagata.

Scoppiai a piangere un'ultima volta in sua presenza, quella sera, perché, per un breve istante, mi ritrovai a pensare che avrei voluto fosse lei, la mia mamma. Ma semplicemente perché avrebbe reso tutto più semplice, meno doloroso, più logico e meno inquietante, sporco, disarmonico e precario.

Prima di andarsene mi chiese se volessi guardare un film o una serie con lei, o leggere o fare qualcosa insieme, insomma. Le dissi che avrei chiamato i miei amici e poi sarei andata a letto, perché, nonostante avessi dormito qualche ora, mi sentivo esausta.

In realtà non chiamai i miei amici: chiamai solo Mario, perché era con lui che mi sentivo di voler parlare.

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Capitolo 5
*** Quattro ***


      Quattro



«... e poi ci siamo arresi e siamo tornati lì del mulino», finì di raccontare Mario; ma prima ribadì: «Però noi ti cercavamo in paese, perché la Lilla ci ha detto che eri andata là.»

«Ho capito», mi limitai a dire. 

Cominciavo a chiedermi perché non mi fossi semplicemente messa a guardare l'episodio che aspettavo - ma di cui non sembrava importarmi più così tanto - o direttamente a dormire. Poi mi ricordai.

«Sono andata dalla Cascata e lì-»

«Ma!», m'interruppe Mario. «Ma avevamo detto-»

«Lo so!», lo interruppi io. «Non era nei miei piani: stavo cercando voi due!»

«Non è colpa nostra se tu spegni il cellulare e i tuoi chiamano noi, per vedere di trovarti...» mugugnò. «Noi cercavamo di aiutare...»

Mi passò brevemente per la testa che avrei potuto ringraziarlo. Scacchiai l'idea: ero ancora piccata per essere stata piantata in asso... anche se ora ne conoscevo le ragioni.

«Bon», liquidai. «Ho incontrato una tipa francese.» Mi venne da sorridere, ricordando quei pochi momenti trascorsi con lei. «Mi ha detto che la ragazza che è annegata voleva saltare dall'altra parte; a lei non è andata bene come a te, che ti sei solo sbucciato un ginocchio.» 

«Aperto, slabbrato!», mi corresse, e il riverbero mi offese i timpani; ai cellulari, proprio come alle persone, non piace quando ci urli addosso. «Sei punti di sutura!»

«Bon», replicai. «Hai una bella cicatrice. Alle ragazze piacciono: di che ti lamenti?» Questa l’avevo sentita dalla mia serie preferita; anche se la protagonista, parlando con la sorella, aveva detto “ai ragazzi” e l’altra, a cui piaceva la poliziotta, le aveva chiesto: “E alle ragazze?”. 

Bon, sto inserendo robe che interrompono la narrazione e basta.

«Dici?» Ora aveva assunto un tono quasi sognante; cosa che si intensificò quando aggiunse: «Pensi che alla Clarissa potrebbe piacere?»

Clarissa: puah! Tutti - i maschi - a dire che è la più gnocca della scuola, ma dove? Un manichino rinsecchito che sta sempre a guardarti come fossi una cacca sulla sua - finta - borsa firmata! Avesse un altro atteggiamento, forse, potrei rivedere la mia posizione. Ma comunque non potrebbe competere con Nevrè, in nessun caso.

«Non lo so», ammisi. «Lei non funziona come le ragazze normali. Io punterei più sulla Martina: lei, come me, è il tipo che apprezza quelle robe. E poi si vede che le piaci.» E ci avevo visto bene, ma di questo parlerò alla fine.

«Ma c'ha i brufoli», si lagnò. «Sulla fronte c'ha la Costellazione del Cigno!»

«Perché, tu no?»

«Ma io sono un maschio! Quelli me li tiro dietro fino ai trenta, a sentire mio cugino!»

Feci un gesto spazientito con la mano, anche se lui non poteva vederlo: «Bon. Possiamo parlare di quella tipa, ora?»

«Eh dimmi!», sbottò, infastidito, dato che avevo probabilmente disintegrato i suoi sogni di gloria e di conquista. 

«E' in vacanza con i suoi: viene qui ogni estate, da quello che ho capito. Solo a me sembra un po' strano, che una si faccia un viaggio dalla Francia al Friuli?» Quello era il primo momento in cui davvero riflettevo sulla cosa, invero.

«Boh», si limitò a commentare. Eh niente, l'avevo proprio atterrito. «Fatti loro.»

«Va bene. Sai cosa? Vado a dormire.» 

Quel suo atteggiamento mi stava dando sui nervi, e io avevo già dato sui nervi a lui, quindi tanto valeva finirla con quella farsa.

«Aspetta!», mi fermò. «E di tua mamma?»

Lo odiai profondamente per avermi fatto quella domanda: mi ero finalmente distratta! Perché diavolo aveva dovuto tirare fuori l'argomento?! 
In fondo, però, la sua era preoccupazione, gentilezza, come minimo. Decisi dunque di non arrabbiarmi e, respingendo le lacrime, dissi: 

«Non so... Ora vado, son stanca.»

Esitò per un lunghissimo momento; poi: «Scusami, volevo solo... non lo so. Non lo so.» Poi cambiò argomento, sfoggiando un tono esageratamente gioviale e spensierato: «Allora domani ci vediamo? E riporta le sigarette, che Fede mi ha fatto una testa così! Manco fossi stato io... Okay?»

«Non so», replicai. «Magari passo solo per restituire il maltolto: mi devo vedere con Nevrè. Ho promesso.» Non era andata esattamente così, ma quello era il succo.

«Chi è Nevrè?» 

Mi diede quasi fastidio il fatto che lui avesse colto la pronuncia al primo colpo.

«La ragazza francese!», sbottai. «Quella di cui cercavo di parlarti!»

«Ma l'hai incontrata dalla Cascata?» Sembrava scettico.

Il mostriciattolo si tirò su le maniche e gonfiò il petto. 

«Ma mi ascolti?!», esplosi.

«Ma non sta a incazzarti con me!», strillò di rimando. «C'è già Federico che mi urla per qualsiasi cosa! Prima mi dici che eri dalla Cascata, poi parti a parlarmi di 'sta qua! Mica mi avevi detto che erano robe collegate!»

«Se non m'interrompevi, magari!» E poi si capiva, secondo me.

«Bon!»

«Bon!», gli feci eco.

Passò forse un minuto, che riempimmo con i nostri respiri mezzo affannati.

«Che ci faceva lì?», mi chiese, tornando tranquillo e pacato. 

«Non ne ho idea», ammisi, ora anch'io più calma. «Non ho avuto tempo di chiederglielo: stavo per farle ascoltare i Lordi, poi ho visto le chiamate...»

«Strano posto, per una ragazza», commentò. «Per di più tutta sola. Ho capito bene?»

«In effetti...» dovetti convenirne. 

Ci perdemmo in alcune ipotesi, tutte piuttosto fantasiose, e non concludemmo davvero nulla.


«Bon, allora buonanotte», mi salutò infine. «E ricordati le cicche, se no quello non mi lascia più vivere.»

«Sì, sì...» brontolai.

Terminai la chiamata e mi misi a guardare lo schermo, che si scurì per poi spegnersi completamente. Sullo specchio nero vidi la mia immagine riflessa: avevo gli occhi gonfi e cerchiati da profonde occhiaie. Quegli occhi non mi appartenevano. 

Mi contemplai per un po', chiedendomi se il giorno successivo Nevrè avrebbe potuto coglierne i rimasugli; se l'avesse fatto, le avrei detto il perché, da un pomeriggio all'altro, il mio volto apparisse tanto diverso? Non lo sapevo ancora. Forse no, pensandoci: Nevrè avrebbe dovuto essere la mia distrazione, qualcosa da non inquinare con le mie preoccupazioni. 

Nevrè. 

Pensai a lei anche mentre mi facevo la doccia, mi lavavo i denti e poi anche mentre mi spalmavo la pomata sul ginocchio.


«Sei davvero... evanescente, Nevrè...» commentai, spostando il bicchiere dove c'erano i rimasugli dell'Oki, per fare posto al cellulare, sul comodino. 

Avevo pensato a lei per tutto il pomeriggio, a intervalli irregolari, in momenti casuali, l'avevo inserita in tutto, eppure avevo avuto così poco a che fare con lei. Richiamavo alla mente quei momenti con lei e, più lo facevo, più mi apparivano confusi, slegati, quasi come fosse stato un sogno. Ma lei non era stata sogno. Giusto? 

Mi addormentai pensando che l'indomani l'avrei rivista e che avrei avuto certezza che era reale.


Mi svegliai che mancava un quarto alle tre. Meglio: fu il dolore a svegliarmi. Il magico effetto dell'antidolorifico era ormai finito. Ero tutta sudaticcia, e la cosa mi diede dieci volte più fastidio del solito. Mi sentii proprio lezza e misera.

Gemendo e imprecando scesi dal letto. Con la mente mezza annebbiata dal sonno e dal male, feci le scale: ero diretta in cucina, per riempire di nuovo la borsa, che ormai conteneva solo un pallido ricordo dell'acqua calda che mi aveva portato la Patrizia.

La TV era accesa, ma l'unico spettatore era addormentato. Mio padre sosteneva che la schiena gli facesse meno male sul divano, che nel letto. Boh. Ormai la Patrizia dormiva quasi sempre da sola; non che mi dispiacesse: mi infastidiva pensare a loro due a fare robe. 

Gli passai davanti senza preoccuparmi di svegliarlo: uno perché tanto non lo svegliavano manco le cannonate, ma solo il male all'ernia, e due perché avevo fretta di fare le mie robe e ottenere sollievo.

Sul tavolo della cucina trovai un piatto coperto da un altro piatto e una bustina dell'Oki. Dio, quanto volevo bene alla Patrizia! Mi commosse un po' il fatto che si fosse preoccupata per me fino al punto di prevedere l'epilogo della mia notte. Non era cosa rara, la sua gentilezza, ma mi commosse comunque.

Mangiai la mela e le due fette di formaggio, e subito dopo presi il medicinale. Mi sedetti sulle caviglie e attesi i fatidici cinque, sei minuti.

Il sollievo mi fece quasi venir voglia di urlare, ma ebbi la decenza di mantenere un contengo. 

Il primo giorno era quasi andato, dopo sarebbe stato tutto in discesa... fino il mese prossimo...

Stavo per uscire dal salotto, quando mio padre parlò:

«Stai male?»

«Sono in fiore», replicai. Quella cosa l'avevo sentita dalla Patrizia, e da quella volta la usavo quando dovevo spiegare la determinata condizione al sesso maschile.

Feci per andarmene, ma lui parlò ancora:

«Andrà tutto bene.»

Deglutii a vuoto un paio di volte e pensai: Non lo puoi sapere. 

«Sì, lo so...» mormorai invece, ostinandomi a guardare le scale che volevo salire.

«Ti voglio bene, Andrea, lo sai, vero? Ci sarò sempre per te.»

Un giorno morirai, come tutti, pensai. Non ci sarai per sempre. Un pensiero cinico e lapidario, valutai, così poco da me. Inoltre, le tre del mattino non mi parvero il momento per lo sfoggio di quei sentimentalismi... però in cuor mio apprezzai. 

«Anch'io ti voglio bene, papà...» mi costrinsi a dire. Era vero, ma morivo d'imbarazzo! Cos'erano? Tre anni, che non gli dicevo una roba del genere? «Ho sonno», aggiunsi, per farla finita.

Non potevo, ma in qualche modo lo sentii annuire e sorridere. 


Richiusi la porta e ci appoggiai le spalle. Stringendo convulsamente la borsa rossa, mi abbandonai a un pianto pacato e lento, più simile a quello di un adulto.


Mi svegliai verso le nove e mezza. Avevo solo un lieve dolore: qualcosa che potevo tollerare; ma mi diede fastidio doverlo e poterlo fare. 

Ci avevo messo parecchio ad addormentarmi; avevo passato gran parte di quelle sei ore su YouTube a guardare gente che costruisce ripari nel bosco e gente che intaglia il legno, per farci mestoli o ciotole.

Alienante il giusto.

Andai in bagno a fare quello che dovevo e poi mi misi alla scrivania. Contemplai per un cinque minuti buoni lo schermo nero del PC, concentrandomi più che altro sul mio volto, esattamente come avevo fatto la sera prima col cellulare.

Specchi neri. 

Mi venne da pensare a un film: se ricordo bene, parlava di bullismo ed emarginazione, forse di un'arte e un dolore incompresi, mescolati con le solite cagate da horror... che comunque a me piacciono. E, seguendo quel pensiero, mi chiesi se volessi vedere quel benedetto episodio. Infine decisi che sarei andata avanti con la lettura de La Ragazza Drago di Licia Troisi; forse ero un po' grande, per quello, ma tanto chi mi vedeva? Non riuscivo a empatizzare con la protagonista, perché io ero decisamente più sicura di me; ma nondimeno mi risultava godibile, l'insieme.

A fare i compiti non ci pensai neppure; avevo finito italiano, storia e scienze, matematica e inglese potevano aspettare anche il giorno prima del rientro in classe. Inglese... le prime frasi che avevo rivolto a Nevrè. 

Il suo volto cominciò a sostituire quello di Sofia, anche se lei aveva i capelli rossi e gli occhi verdi, e dopo poco non riuscii più a concentrarmi sulle vicende. Rimasi imbambolata sulla pagina 313: non vedevo l'inchiostro, vedevo la cascata, non vedevo i punti, vedevo i suoi occhi.

Che mi fossi presa una cotta? 

Scossi la testa: Sto facendo tutto da sola!

Avevo passato un pomeriggio e una notte a disegnare, inventare e definire immagini che non si erano verificate, se non nella mia testa. Quanto c'ero stata con lei? Dieci, venti minuti? Come poteva, dunque, il film nella mia testa durare ore? No be', se per quello poteva: come quella volta che avevo macchiato i pantaloni bianchi dell'Eleonora - una compagna delle elementari che avevo perso di vista alle medie - con della tempera rossa; una frazione di secondo che avevo vissuto e rivissuto per mesi. La goffaggine è traumatizzante, soprattutto se entra in collisione con la tua prima crush. 

Bon.

Tornai alla lettura: ero a una trentina di pagine dalla fine.


Arrivò l'una e mezza e mi tirai su dal letto. 

Avevo finito il primo libro e iniziato il secondo, poi mi ero gettata sul giaciglio notturno, dato che mi ero sentita immensamente stanca. Ero riuscita a dormire un paio d'ore, minimo. Bene. Volevo essere in forma e apparire fresca.

La casa era silenziosa: di domenica si usciva tutti insieme a pranzo; si andava in pizzeria.

Forse, la volta prossima, potrei invitare Nevrè a unirsi a noi.

Non mi dispiacque l'essere stata lasciata ancora una volta a casa, anzi! Apprezzai il fatto che, vista la mia notte, mi avessero lasciata in pace. Tanto poi mi avrebbero portato uno o due tranci di quella al tonno e cipolla, già sapevo. E poi fu rassicurante il fatto che fossero comunque usciti, che avessero rispettato la tradizione: mi diede un senso di normalità ed equilibrio. Probabilmente i due adulti l'avevano fatto più che altro per la piccola, ma l'importante era solo e unicamente il risultato.

Di solito non badavo troppo alla cascata di spaghetti neri che avevo in testa, ma quella mattina mi impegnai a spazzolarli con cura; provai pure a farmi una crocchia, ma poi mi sentii idiota e la sciolsi. 

Mi lavai i denti - cosa che di solito facevo solo la sera, indispettendo la mia dentista. Ebbi persino la cura di pulirmi la lingua, usando il bastoncino dei cotton fioc, e usai quell'orrendo collutorio che mi faceva lacrimare.

Tornata in stanza indossai una maglietta nera, simile a quella del giorno prima - dato che a Nevrè era piaciuta - e sopra misi una camicia bianca, senza maniche. Forse avrei patito un po' il caldo, ma ne valeva la pena, per fare bella figura. 

Jeans, scarpe e il gioco era fatto.  

Rimasi un po' davanti allo specchio, decidendo fossi okay.


In cucina trovai due arance, un limone e lo spremi agrumi, con la confettura di mirtilli e delle fette biscottate lì accanto. Storsi il naso, perché avevo ancora l'anestesia mentolata del collutorio. No, niente colazione: erano già le due passate e poi avrei avuto della pizza, al ritorno. 

Anche quel giorno era nuvolo; non mi dispiacque, dal momento che avevo indossato la camicia.

Vidi che la mia bici era stata rialzata e poggiata al suo piedino. Era accanto a quella della Patrizia: solo con le uscite di famiglia rimaneva lì. Quella della Lilla doveva essere dietro la casa, nel suo posto speciale.


Mi ricordai del salto solo dopo che la Collina dei Salti fu ben dietro di me; non sarei tornata indietro neppure quel giorno: avevo fretta e dovevo fare una strada un po' più lunga, per evitare sia il ''buon cittadino'' che i rovi.

Pedalai a ritmo sostenuto, dato che il ginocchio non mi dava chissà che problemi, inserendo una sorta di pilota automatico. 

Mi venne in mente che invece di starmene a guardare video di cose che non avrei mai fatto, avrei potuto impiegare quel tempo per imparare un po' di francese. Almeno le basi della conversazione. Sul tubo è pieno di gente che ti fa tutorial su tutto: non avrei avuto problemi a trovare qualcosa. Perché non ci avevo pensato prima? Sai che bella figura, avrei fatto, a sfoggiare qualche convenevole nella sua lingua!

«Che occasione sprecata...» mugugnai, risentita. «Son proprio mona...»

Il sacchetto col cellulare e le sigarette mi premeva contro la coscia, al ritmo della pedalata: quella sensazione mi ricordò che dovevo passare dal mulino, per tornare le cicche ai quei due mona. Ma, avendo scelto un'altra strada, il mulino era da tutt'altra parte. 

Ci avrei pensato al ritorno.


Lasciai la bicicletta in un prato, proprio prima dell'inizio del bosco, e mi inoltrai. 

Questa volta non mi misi a camminare nel torrente, visto che non ce n’era motivo; lo fiancheggiai. 

L'ombra e l'umidità di quel posto non mi fecero pentire di aver messo la camicia. Un po', però, mi dispiacque fosse nuvolo: non avrei potuto guardare gli infiniti arcobaleni con Nevrè.

Mi persi in quelle immagini e annullai la distanza che mi separava dalle spiaggette.


Il mostriciattolo cambiò posizione; una che gli risultasse congeniale per brontolare: lì non c'era nessuno, esattamente come il giorno prima.

Mi fermai un paio di metri oltre la pietra su cui si era seduta Nevrè e guardai in alto, verso la cima: niente.

Effettivamente il mostriciattolo prese a brontolare, ma più che una roba irosa fu una roba piagnucolosa. 

«Mi sono illusa come un mona...» mormorai. «Probabilmente mi ha detto che ci saremmo riviste solo per educazione, ma in realtà le ho fatto una pessima impressione e le sono-»

«Dico ancora: tu aimes parler seule!»

Mi sfuggì un gemito e mi voltai di scatto.

Nevrè era a un metro da me; mi sorrideva e mi guardava come fossi una cosa strana, seppur puccia. Indossava lo stesso vestito del giorno prima, credo... o forse era un po' più scuro. Boh, a me pareva uguale.

«Je suis contente tu venuta qui ancora», rincarò, dal momento che la fissavo in completo silenzio.

Da dove diavolo era sbucata? E va bene il rombo dell'acqua, ma proprio non l'avevo sentita arrivare...

«Te l'ha mai detto nessuno che sei un po' inquietante?», fu il mio saluto. Mi pentii subito del termine e del tono brusco; cercai di rimediare: «Anch'io sono contenta che tu sia tornata.»

Il sorriso, scomparso dopo la mia prima domanda, tornò a ornarle il bel viso.

S'indicò l'orecchio col dito - in quel momento notai che neppure lei aveva i buchi - : «Più lontano, oui?» 

Annuii: effettivamente era difficoltoso avere una conversazione così vicino alla cascata.

Lei tornò padrona della pietra liscia, io cercai un punto simile.

Restammo in silenzio per un tempo che non saprei quantificare. Ogni tanto sbirciavamo nella direzione dell'altra e sorridevamo; poi, però, abbassavamo subito lo sguardo.
Il giorno prima l'interazione era stata spontanea e naturale, oggi pareva ci fosse dell'imbarazzo. Penso che nella testa di entrambe passò la scritta ''che diavolo ci faccio qui?''.

«Ahm...» feci, giusto per rompere il silenzio.

«Oui?»

Alzai la testa e mi costrinsi a guardarla. 

Il formicolio allo stomaco si manifestò nell'istante in cui cominciò a sostenere il mio sguardo.

«Mi dici cosa ci facevi qui, ieri?» Glielo volevo chiedere in ogni caso, quello mi sembrò il momento opportuno, forse il migliore, per iniziare davvero una conversazione. 

«E' un posto fuori dal tempo. Triste, ma bellissimo.»

«Hai ragione», annuii. 

Poi mi accorsi e uno strano brivido mi corse lungo la spina dorsale. Le cose erano due: o mi aveva sempre presa per i fondelli, oppure il suo italiano si era evoluto per... magie.

«Cos'è successo al tuo italiano infrancesato?»

Prese a ridere di gusto.

Il mostriciattolo non gradì e si trasformò momentaneamente in Zanna Bianca, il quale proprio non poteva soffrire il riso, lo scherno dell'uomo.

«Tu devi guardare il tuo visage, mon amie!», ridacchiò, e si asciugò pure una lacrima. «Visto fantôme?»

Il mio cervello spese qualche secondo in una traduzione inutile; poi ricordò le priorità... o forse fu il mostriciattolo. Chissà.

«Cos'era quello? Perché hai usato un italiano perfetto e poi hai ricominciato col misto? Ti stai prendendo gioco di me?»

«Non», affermò. «Tu ti stai prendendo gioco di me.»

Questa volta non mi preoccupai e non mi feci troppe domande, perché aveva semplicemente ripetuto quello che avevo appena detto.

«Perché dici?»

«''Il tuo italiano è buonissimo, non ho problemi a capirti''», mi fece il verso. «Ora tu detto non buono più. Voir? Tu ti stai prendendo gioco di me.»

«No, no, no!», sbottai, gesticolando come un buon italiano. «Cos'era quello? Poi parliamo anche del tuo registratore incorporato, ma prima rispondi alla mia domanda!»

Scosse mestamente la testa e il suo sguardo mi fece venir voglia di scomparire sotto una pietra.

«C'est l'ère d'Internet! Pensato tu mi fai quella domanda, imparato risposta. Studiato un peu et migliorato, per parlare con te, Andrea. Voilà!», esclamò, spalancando le braccia.

Perfetto...

Non mi sarei mai più ripresa da quella figura, sapevo già. E il bello è che, andando lì, mi ero pure rimproverata di non aver sfruttato quel tempo per imparare un po' di francese. Lei non aveva commesso lo stesso errore e, invece di un po' di apprezzamento, aveva ricevuto la mia stupidità...

Non potevo reggere la situazione: mi sentivo esattamente come il giorno prima, quando tutti mi guardavano, accusavano e giudicavano. 

Avevo un'unica mossa disponibile, solo un pelo più utile dello ''splash'' di Magikarp.

Mi alzai e, tenendo lo sguardo sui sassi che mi sarei voluta dare in testa, mi voltai per andarmene. 

Andrea usa ''fuga'', ma solo perché non è un allenatore che disponga di una Fune di Fuga.

«Andrea!»

Il suo richiamo non fece altro che farmi venire voglia di correre - cosa che non avevo fatto per il solo motivo che avrei rischiato di rompermi il cranio. Invece mi fermai, ma non osai voltarmi.

«Non via, s'il vous plait... Euh... Per favore. Non voglio tu vai. C'est bon.»

Ma non sta a essere gentile, zio ladro, pensai, ma dissi: «Bon?»

«Euh... Buono... bene... Oui?»

«Anche noi lo usiamo, ma non è proprio italiano...»

«Viens ici, Andrea, per favore. Je ne suis pas en colère.»

«Non sei in... collera?», chiesi, voltandomi.

Effettivamente, i suoi occhi mi parvero limpidi e rassicuranti.

I nostri livelli di maturità non erano paragonabili. 

«Perché? Hai tutti i motivi di essere in co- arrabbiata con me!», insistetti.

«Non», mi sorrise.

«Tu lo capisci che mi sento un'idiota di quarto livello, vero? Non so cosa fare... e la tua gentilezza... Bon. Sai cosa? Scusami: questa è l'unica cosa che dovrei dire...» farfugliai.

«Tu es pardonné!»

«Grazie...» mormorai. 

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Capitolo 6
*** Cinque ***


      Cinque

 

 

Avevo appena scoperto la data del suo compleanno - perché volevo sapere di che segno fosse senza chiederglielo direttamente - quando il cellulare prese a suonare. A quanto pareva, Nevrè aveva il potere di estendere il raggio del ripetitore...

Col fantasma del palloncino argentato, tirai fuori il tutto e guardai lo schermo: Mario. 

Bon. 

Misi fine alla chiamata e tornai a concentrarmi mentalmente su Nevrè, che avevo scoperto essere del Cancro. Scorpione e Cancro: perfetto! Se non avessi trovato altri modi per offenderla, avrei potuto cominciare a pensare a come conquistarla.

Con la coda dell’occhio la vidi osservare il cellulare che stavo riponendo nel sacchetto; forse avrebbe voluto chiedermi qualcosa al riguardo, ma evidentemente decise diversamente. Quindi fui io a parlare, e lo feci pensando al soggetto che lei non aveva indagato:

«Con quel vestito, ti sarà impossibile portarti dietro il cellulare. I tuoi non ti costringono a farlo?»

«Non», replicò garbatamente. «Non mi piace quelle cose: volent... Euh... Rubano l’intelligenza.»

«Effettivamente», annuii, pensando alla mia notte. «Però non devi pensare che io stia sempre lì a guardarlo. Se mio padre non mi costringesse, non me lo porterei dietro d’estate. Ma ora devo averlo, perché...» 

No, niente riferimenti a cose brutte. 

«Bon. Ce l’ho perché così i miei non si preoccupano. Lo so che sono grande, ma sai... insomma... lo faccio per loro. Bon.»

«Je comprends. Non devi sentire imbarazzo, Andrea.»

«Non sono in imbarazzo...» mentii.

«Tout rouge», ridacchiò; poi disse: «Et la tua petite... Euh... Sorellina? Ella è bene? Ieri tu molto preoccupata, oui?»

«Un falso allarme», liquidai. «Grazie per esserti preoccupata, però!», mi affrettai a dire.

«Euh-»

L’inizio di qualunque cosa stesse per dire, fu interrotta dallo squillo del cellulare.

Mi sentii un po’ ipocrita a ritirarlo fuori, dato il discorso appena avvenuto, ma se ci fossero state novità, volevo saperlo subito.

Era di nuovo Mario. 

Buttai giù e guardai Nevrè: «Scusami. E’ solo che...»

«Non devi dire niente, Andrea. Tu ancora preoccupata, posso vedere nei tuoi occhi.»

Prima di dire qualcosa, pensai che quando non la facevo agitare era più facile per lei provare a parlare quasi interamente in italiano. La ringraziai mentalmente, per quello sforzo per nulla ricambiato.

«Davvero riesci a vederlo nei miei occhi?»

Lei annuì.

Mi misi a studiare i suoi, di occhi, dimenticandomi l’imbarazzo.

«Forse anche i tuoi occhi mi dicono che sei preoccupata... no: sei triste. Perché sei triste?»

Mi sorrise, piegando leggermente la testa di lato. 

«Tu vuole parlare di tuo male?»

Scossi la testa.

«Aucun de nous ne veut parler de sa souffrance.»

Annuii. Ero riuscita a decifrare grazie all’ultima parola, più che altro.

«Mais je suis aussi contente, perché tu qui, Andrea. Pesavo meglio sola, mais meglio con te.»

Già, lei era rimasta sola, chissà per quanto tempo, e poi, a caso, ero spuntata a disturbare quella quiete. Effettivamente, non mi aveva respinta e non aveva fatto nulla per farmi capire che probabilmente quello era il suo posto; un posto per la sua solitudine e il suo dolore. Ma mi sentii colpevole.

«Scusa, non ti ho mai chiesto... Non importa. Grazie, sei molto dolce.»

«Tu molto dolce, Andrea.»

«No, dico dav-»

Di nuovo il cellulare.

«Ma porco di quel cane!», sbottai, irosa, e ancora una volta misi fine alla chiamata.

«Forse bisogno di te», ipotizzò Nevrè.

«No, no. Non preoccuparti, è solo un mona.»

«Euh... Come Monnalisa?»

Non riuscii a trattenermi e mi misi a ridere, perché nella mia testa partì: ‘‘Ora ridateci la nostra Gioconda, perché siamo noi, i campioni del mondo’’. Appropriato, vista la mia interlocutrice. Fu difficile trattenersi dal cantarlo ad alta voce.

«Non proprio, Nevrè», ridacchiai. «Però mi hai fatto ridere. Grazie, ne avevo bisogno.»

«Je suis contente, anche se non capito perché tu ride.»

«Un giorno te lo spiego, promesso.»

In quel momento arrivò un messaggio:

Federico mi sta fracassando il fracassabile. Vieni dal mulino, ora! >:(

Alzai gli occhi su Nevrè: «Senti, possiamo rivederci dopo? Il mona non mi lascerà in pace finché non risolverò questa cosa.» Mi alzai e aggiunsi: «Scusami, sai. Spero che tu non pensi che io sia una maleducata o robe. O che non mi piaccia stare qui con te... perché mi piace molto...»

Mi sorrise e mi assicurò che non ci fosse problema.

Nonostante il permesso e l’obbligo di andare via, me ne stetti impalata a fissarle le mani: volevo un contatto fisico con lei, volevo sapere di che colore fosse il suo calore, volevo... toccarla e farmi toccare da lei, forse per rendere tangibile tutto quanto.

«Andrea?»

Alzai lo sguardo sui suoi occhi, che mi fissavano con perfino più curiosità del solito. 

Dopo aver ragionato un momento ancora su quanto effettivamente mi apparissero tristi, cercai di capire se potessi chiederle una stretta di mano o qualcosa, e farlo senza apparire una maniaca.

Niente, non riuscivo a produrre nessun suono e il mio corpo rifiutava ancora di muoversi. Così avrei finito solo per inquietarla e traumatizzarla.

Fa’ qualcosa, pirla d’un cervello!

«Sei davvero bella, Nevrè.»

Ma che cacchio?! No! Peggio ancora, peggio ancora! 

Non guardai la sua reazione e non sentii, se c’era stata, la sua replica: schizzai via, stavolta senza preoccuparmi del mio cranio, che avrebbe potuto frantumarsi sulle pietre.

 

«Sei davvero bella, Nevrè», mi scimmiottai, quando fui a qualche centinaio di metri. «Ma son robe da dire?! Be’, robe brutte non sono, ma... zio bon! Nicole quanto ha impiegato a dire una cosa del genere a Waverly? Tipo due stagioni, e quelle due si corteggiavano da metà della prima. Bon, ma quelle due erano un caso disperato, per quello mi piacciono. Non sapevano parlarsi chiaro, ma sapevano quello che volevano dal principio.»

Stetti un momento zitta, quasi sperando che Nevrè mi avesse raggiunta, per ripetermi che ‘‘amo parlare da sola’’. Sperandolo e temendolo. 

Comunque c’era solo il rumore del fiume, che ora costeggiavo.

«Forse, a livello inconscio», ripresi, «speravo davvero di vivere un’avventura simile.» 

Certo, pensandoci ora, è proprio quello che speravo.

«Ma non potevo semplicemente chiederle di stringerci la mano o, meglio ancora, andarmene e basta, salutandola come una persona normale? Eh, si vede proprio di no!»

In breve decisi fosse tutta colpa di quei due mona, perché mi avevano messo premura. 

Me l’avrebbero pagata.

 

Recuperai la bicicletta. 

Prima di mettermi in marcia, però, scrissi a quel mona di Mario, così non mi avrebbe più fatto suonare il cellulare e gonfiato il fantasma del palloncino. Se il mio cellulare avesse squillato, sarebbe stato per la mamma.

Qualcosa si mosse sopra il mostriciattolo, che si allarmò non poco, temendo che il soffitto gli arrivasse in testa: mi stava di nuovo venendo da piangere.

«Pensarci non serve. Non ho potere. Lei è come quel gatto», mi ripetei, tentando di calmarmi. 

Ci riuscii quel tanto che bastava. 

 

Appoggiai la bicicletta contro il muro esterno del mulino con un po’ di malagrazia: volevo annunciare il mio arrivo. Un arrivo non pacifico. 

Guardai la bici nera di Fede e, per un lungo momento, meditai di bucargli una ruota. Decisi di non farlo, perché il tempo in più mi serviva per pensare a come ripresentarmi da Nevrè. 

Per trovare il coraggio di farlo.

 

«Ecco!», urlai, facendo irruzione. «Tabagista del cazzo!»

Invece di incazzarsi - come mi ero vividamente immaginata - Fede recuperò il pacchetto che gli avevo lanciato addosso e mi guardò come fossi una bambinetta scema.

Avrei semplicemente potuto girarmi e andarmene, ma quel suo ghigno stuzzicò il mostriciattolo, che faceva proprio schifo a lasciar perdere.

«Che c’è?! Vuoi un poster?»

«Come sta il tuo fantasma?», chiese, usando lo stesso tono che usava sua madre quando, da piccoli, ne combinavamo una delle nostre.

Aprii la bocca, per vomitargli addosso ogni sorta d’insulto, ma mi bloccai, perché stavo analizzando la domanda. Una domanda che non aveva il minimo senso, fra le altre cose.

«Ma sì», continuò, col tono color lavanda della signora Parodi, «il fantasma.»

«Ma si può sapere che minchia ti sei fumato, mona?»

«Fede...» boccheggiò Mario, che si era fossilizzato al momento della mia irruzione. «Finiscila, per favore.»

Feci girare lo sguardo fra i due. Uno si stava accendendo con tutta calma una sigaretta, continuando a ghignare; l’altro fissava il vuoto siderale, bianco come un cencio. 

«Non eri dalla tua amica morta?», fece, soffiando fuori il fumo come fosse stato un gangster o Doc Holliday. «Belin», ridacchiò poi, «ho sempre pensato che tu fossi un po’ storta, ma arrivare a inventarsi questa storia. Non ti hanno insegnato a lasciare in pace i morti, a rispettarli?»

Dal momento che il mio cervello non riusciva a trovare un modo per ordinare al mio corpo di fare qualcosa, una qualsiasi cosa, lui continuò:

«Tua madre è scomparsa: non ti bastava questo, per avere l’attenzione su di te? Come se l’attenzione non fosse sempre su di te. Ora ti inventi pure di parlare con la ragazza morta affogata lì dalla Cascata.»

«Nevrè è viva e vegeta, mona!» 

Ma un dubbio, un piccolo tarlo cominciò a rosicchiarmi qualcosa alla base della nuca.

«Già», fece Federico. «La ragazza di cui stiamo parlando non è forse nera, di origini francesi, sui sedici o diciassette anni?» Mi guardò ed esultò con lo sguardo, probabilmente a causa dello sgomento che avevo dipinto in volto.

Quella cosa la stava costruendo sulla base di quello che avevo raccontato la sera prima a Mario, di sicuro! Solo che non gli avevo detto che era nera e neppure che era più grande di noi, per le stesse ragioni per cui non avevo menzionato la rottura del mio record nel scendere: irrilevanti.

Piantai lo sguardo su Mario, che sembrò percepirlo come una forza fisica, dal momento che rabbrividì. Ma fu su Federico che riversai la mia collera:

«Sta’ zitto, deficiente!»

«Effettivamente, non puoi replicare con altro, se non insulti», ridacchiò. «Lascia in pace i morti, Andrea. Non appari più interessante, solo più stupida», concluse, con voce stentorea.

«Ci sarà stato un motivo se ho telefonato a te e non a lui, no?!», urlai a Mario, che ancora fissava il vuoto oltre la macina. «Testa di mona che non sei altro!» Forse non aveva senso, ma volevo aggrapparmi a qualcos’altro; qualcosa di... reale e dimostrabile.

«Gli avevo detto di non dirti nulla e lui aveva promesso», mormorò Mario. «Però l’articolo l’ho visto anch’io, Andrea... ha senso...»

«Cosa ha senso? Che articolo?»

«Secondo te? Quello dove si parla della tua amica morta, ovviamente», precisò Federico. «Quando Mario mi ha detto che hai incontrato una ragazza, dalla Cascata, mi sono venuti dei dubbi, così sono andato a cercare l’articolo online in cui se ne parlava. Non ci ho messo molto a trovarlo: non sono molti gli stranieri che vengono a morire in un posto sperduto del Friuli. E siamo nell’era di Internet: tutto è pubblico.»

Il fatto che avesse, in parte, utilizzato la stessa frase di Nevrè, mandò il sangue al cervello del mostriciattolo.

«In realtà», proseguì Fede, «sapevi benissimo che Mario sarebbe venuto a dirmelo e che avremmo indagato. Volevi che pensassimo che puoi vedere e parlare con i fa-»

Non aveva avuto occasione di finire, perché lo avevo afferrato per la camicia e schiacciato sulla macina, bloccandolo col mio peso.

«Fìggia de ’na bagàscia! Mollami!», strillò.

Alzai il braccio destro e la mia mano si chiuse a pugno. 

Ero perfettamente lucida, quindi sapevo cosa stavo per fare, ma sapevo anche che dall’esterno sarebbe sembrata come una totale perdita di controllo, quindi la mia azione poteva essere giustificata. 

Ero lucida ma incazzata nera. 

Era la mia occasione per sferrare finalmente un cazzotto sul grugno di quel mona. Ma non ci stavo riuscendo. 

Non volevo farlo. 

Volevo farlo.

Lo faccio! Frega niente! Sono ancora minorenne!

«Prendi questo, stro-»

La mia esitazione aveva dato tempo a Mario di riscuotersi e di afferrami da dietro, esattamente come un wrestler che stesse per eseguire una Masterlock. Anzi, lui me la stavo proprio facendo.

Il collo, piegato in modo innaturale, mi faceva un male bestia e i polmoni non riuscivano a gonfiarsi come avrebbero voluto. Ma lo stesso riuscii ad avvertirlo:

«Mollami immediatamente, o ti arriva un calcio nelle balle!» 

Non ero certa di riuscire a mettere in atto la minaccia, perché è praticamente impossibile uscire da quella presa; ma l’alternativa era di usare la macina come punto di spinta a schiantarlo contro il muro. E forse quella che si sarebbe fatta davvero male, comunque, sarei stata soprattutto io...

Ma Mario non era né un sadico né un masochista, e mi mollò immediatamente.

«Scusa», mormorò. «Avevo paura che-»

«Andate in mona!», lo intruppi. «Voi avete chiuso con me! Chiuso! Se mi comparirete ancora davanti, vi ucciderò entrambi!» 

Un’esagerazione che sapevo non avrei mai messo in atto. Anche perché, solo una settimana più tardi, me li sarei ritrovati davanti per una media di cinque ore al giorno, per i successivi nove mesi...

Prima di andarmene, ebbi il cattivo gusto di recuperare la sigaretta che Federico aveva lasciato cadere durante il mio assalto e il pacchetto di sigarette. Un piccolo affronto, quasi a sfidarli a fare qualcosa. 

Nessuno fece nulla. 

Federico aveva le lacrime agli occhi, anche se cercava di nasconderlo; Mario si torturava le mani, senza avere il coraggio di guardarmi.

Sei un tiranno, ragazza mia”, mi disse il mostriciattolo, orgoglioso di me. “Non ti rispettano: hanno paura di te!

Credo sia stata la prima e unica volta che l’ho sentito usare un linguaggio umano. E, per la cronaca, non mi sentivo affatto fiera di me.

 

 

«Sono una persona violenta», mormorai, pedalando senza meta. «La Patrizia ha speso intere ore a spiegarmi quanto sia bello il dialogo, quanto sia troppo facile e vigliacco ricorrere alle mani. Gioco di mano, gioco di villano... già. Se ne avessi avuto il tempo, gliel’avrei davvero dato, un cazzotto? Credo di sì. L’avrei fatto. Tanto mi ero detta, e ne sono convinta, che sono ancora minorenne. Però così avrei messo nei guai il papà e la Patrizia... bella vigliaccata. In fondo-»

Mi bloccai, ricordando improvvisamente il perché lo stessi per menare. In qualche modo, riuscii a far scivolare il piede sul pedalino e la parte centrale tra le mie gambe prese una botta assurda sul telaio. Non avrò avuto le sfere, ma posso assicurare che fa un male del diavolo lo stesso. 

Finii a terra e riuscii anche a graffiarmi l’interno del polpaccio con la corona.

Una nebbia di acida ira bianca si espanse dentro il petto, il cranio divenne rosso e vidi nero. Dovevo sfogare il dolore e la rabbia, dovevo, o sarei impazzita o morta: era quella la sensazione.

Citai mezzo calendario e sbraitai cose senza senso compiuto. Infine sollevai la bicicletta e la scaraventai a terra. Mollai un calcio al sellino, cosa che non fu gradita dal mio ginocchio, che mi ricordò di essere ancora offeso.

 

La pioggia aveva cominciato a cadere una decina di minuti prima, credo, ma io rimasi seduta a terra a piangere e mugugnare.

Il mostriciattolo era in preda al panico e non sapeva più che consigli - sotto forma di sensazioni - darmi.

Non ce la facevo più, stavo impazzendo... o ero già pazza. Mia madre, i miei amici, il mostriciattolo, le mie emozioni, Nevrè. Nevrè. Nevrè.

Nevrè era un fantasma? 

NO! 

Io non l’ho mai visto, un fantasma! I fantasmi non esistono!

Pensaci, Andrea”, disse una vocina inedita, “è davvero impossibile che lo sia?”  

E si mise a snocciolarmi i fatti, uno dopo l’altro, in ordine cronologico:

-Tutta sola in un luogo sperduto. E che luogo, poi.

-E’ scesa dalla cima in tempi inumani.

-Ti ha chiesto se esiste.

-Sa esattamente cosa voleva fare la ragazza che è morta, perché era lei.

-Non ha accettato la sigaretta, perché non poteva prenderla.

-Ti è apparsa dietro dal nulla.

-Indossa sempre lo stesso vestito (forse).

-Ha come un registratore incorporato.

-Ha gli occhi più tristi che tu abbia mai visto e non vuole assolutamente dirti quale sia il suo dolore (neppure tu, ma siete due persone estremamente diverse). Il suo motivo è quasi sicuramente che non può dirti che è morta, perché la abbandoneresti, lasciandola da sola in eterno.

-Oh, e non dimentichiamoci la copertura di rete che, magicamente, quando c’è lei funziona.”

«Tutte illazioni», mugugnai. «Non dimostrano nulla. Nulla!»

Va bene”, proseguì la voce, “allora preferisci la versione che ti vede persino più pazza della zia Alberta e di tua madre messe insieme?

«Che vuoi dire?»

Per te lei è reale, giusto?

«Certo che sì!», sbottai. «L’ho vista, le ho parlato, ho sentito la sua voce! Ovvio che è reale!»

Allora permettimi di spiegarti questa versione, quella della follia, appunto.” Fece una pausa ad effetto; poi: “E’ controproducente dirci che tu non abbia una sorta di fascinazione per il macabro, no? Eccellente. Forse non riesci a ricordarlo, ma quando hai saputo della ragazza che vi aveva impedito di tornare alla Cascata, sei andata su Internet e hai letto l’articolo: questo ha permesso alla tua immaginazione di costruire ogni dettaglio, il colore della pelle, l’età, la provenienza, tutto. Potrebbe essere successo, no? A livello conscio sapevi solo che aveva più o meno la tua età e che era straniera, nient’altro, ma sono anche abbastanza sicur che pensavi fosse tedesca o svizzera, perché sono quelli i turisti che abbiamo di solito da queste parti. Sei così pazza, che sei riuscita a proiettarla davanti a te e vederla, addirittura a sostenerci una conversazione.

«La tua ricostruzione è fallace: ieri ho capito che non era frutto della mia immaginazione, perché io non conosco una sola parola di francese!», esultai. «Non avrei combinato neppure a tirare fuori mezza cosa, in quella lingua.»

Già già”, ridacchiò. “Ma tu conosci alcune parole di francese: ricordi lo scambio culturale, alle medie? In ogni caso, chi lo sa se quello che chiami francese lo sia davvero: magari ricordi solo come suona e, per tutto il tempo, hai inventato suoni simili, spacciandoli per frasi di senso compiuto.”

«No, non è così. Posso assicurarti che non è così...»

Non ci credi neppure tu, è manifesto! Allora, Andrea, scegli: è un fantasma o sei pazza?

«Nessuna delle due robe! C’è una terza spiegazione, e la troverò!»

Se vuoi la mia opinione...

«Non la voglio.»

... propendo per la follia. Non sei mai stata particolarmente bene: pensa alla tua sinestesia, come ti piace chiamarla. Pensa alle cose che ti fa vedere: sono davvero così diverse da Nevrè?

«Certo che sì! Tanto per cominciare, la mia è una forma di sinestesia: ce ne sono tantissime! Poi lei non è mostruosa, anzi, e sono capace di scindere le immagini nella mia testa da quelle esterne!»

Ma davvero? E cosa mi dici del cane marcio che ti seguiva ovunque?

«Avevo sei anni. Rin Tin Tin era appena morto... Non avrei dovuto guardare quel film di zombie...»

Ma tu lo vedevi davvero. Si sedeva accanto al letto, sul tappeto, e ti guardava tutte le notti.”

«Anche allora sapevo che non era reale!»

Non è quello che dicevi alla mamma e al papà.”

«Avevo sei cazzo di anni, porco Giuda! Quante volte lo devo ripetere?!»

Puoi arrabbiarti, Andrea, ma non puoi scappare da te stessa. Non puoi farlo. Ti auguro di scoprire che Nevrè è davvero un fantasma, perché in caso contrario dovrai vedere se c’è posto dove attualmente risiede la zia Alberta.”

«Sta’ zitta, o ti faccio stare zitta io, maledetta voce!»

Effettivamente, ora che ci penso, il dialogo che stai avendo è perfettamente normale, da persona completamente sana... già già.”

«Non ti sento davvero: sto facendo tutto da sola!»

Questo è certo...

Mi guardai attorno, per vedere se qualcuno avesse assistito. 

Per mia fortuna non c’era nessuno, quindi forse potevo rimandare - per un altro pochino - la visita al manicomio di zia.

Doveva esserci un’altra spiegazione, ne ero convinta, e l’avrei trovata a qualunque costo. Non potevo essere così pazza, e, forse ancora meno, potevo accettare l’esistenza del mondo invisibile.

Forse avrei potuto partire cercando l’articolo di cui parlavano quei due mona - che avevo la certezza di non aver mai cercato né tanto meno letto, perché non mi interessava più che tanto - e vedere se effettivamente trovavo qualcosa. Cosa speravo di ottenere, così facendo? Non lo sapevo. Forse avrei scoperto che Federico, convincendo sotto minaccia Mario a collaborare, si era inventato la storia... anche se era un po’ inquietante, il fatto che sapesse così tante cose su Nevrè. 

Coincidenze! 

Sicuramente, la ragazza annegata era o tedesca o svizzera. Per forza. E poi una sola roba sapeva, pensandoci: che era nera. Il resto l’avevo detto io a Mario e Mario a lui.

Doveva essere solo un brutto scherzo, aiutato da coincidenze completamente fortuite o dal fatto che, in realtà, senza rendermene conto, avevo descritto Nevrè a Mario... anche se ero convinta di no, ma non si sa mai. In fondo ero davvero sconvolta e stanca: magari l’avevo fatto senza pensarci.

Mi venne voglia di farlo subito, ma mi ricordai abbastanza presto che il mio cellulare non aveva la possibilità di connettersi ad Internet fuori da casa - devo ancora capire che differenza gli facesse, se usavo il Wi-fi o la connessione dati. Quella mancanza non mi era mai pesata, e lo fece ancora meno in quel momento: avevo bisogno di tempo e non volevo sminchiarlo con la pioggia.

Tornata a casa, avrei confermato si fosse trattato del peggior scherzo di sempre. Lo scherzo di due ragazzini, piccati perché la loro amica aveva trovato qualcun altro con cui passare gli ultimi giorni d’estate. Aveva assolutamente senso: quanto siamo dannati e mona a quell’età? Di brutto.

 

Tirai su la bici, che non potevo utilizzare, perché la mia ferocia aveva completamente storto la ruota davanti, e me la trascinai fino a casa. 

Non valutai neppure per un momento di tornare da Nevrè e provare a toccarla o robe del genere: se avessi fallito, probabilmente mi sarei gettata io stessa dalla cima.

 

Era ormai quasi il tramonto, quando varcai la porta d’ingresso.

Peppa Pig aveva finito, per quel giorno, ed era il turno del Trenino Thomas.

«Andrea.»

La voce di mio padre mi bloccò sul terzo scalino. 

Mi voltai a guardarlo, senza badare troppo allo sguardo torvo o ai pugni chiusi che aveva sui fianchi.

«C’è qualcosa che mi vuoi dire?»

Per farti chiamare qualche clinica? Anche no...

«No.»

«Mi ha telefonato la mamma di Federico: gli hai messo le mani addosso? E’ vero?»

Feci di sì con la testa.

«Ma santo Dio, Andrea!», sbottò. «Perché lo hai fatto?»

«Perché mi ha fatto veramente incavolare. Volevo tirargli un pugno, pensando pure che se lo meritasse, ma l’ho solo preso per la camicia e tenuto giù. Non gli ho fatto del male. L’avrò umiliato, ma non l’ho picchiato.»

Mio padre aprì la bocca, ma si trovò incapace di parlare. Probabilmente, il mio atteggiamento insolitamente calmo e remissivo lo aveva spiazzato. 

Non avevo proprio la forza di lottare. Tutto quello che volevo era una risposta, e mi servivano le poche energie che ancora sentivo in corpo.

«Scusa se ti ho deluso, papà.» 

Non aggiunsi altro e neppure lui, così salii le scale e mi chiusi in camera.

 

Mi misi alla scrivania e presi a fissare lo schermo del PC. Non trovavo il coraggio di cliccare sull’icona di Edge; non lo trovavo da nessuna parte.

Cominciai a convincermi di averla già, la soluzione, di aver trovato un’altra strada, la migliore di tutte: far finta di niente. Non avevo una pistola puntata alla testa e nessun diavolo cercava di minare al mio libero arbitrio.

Ero libera di scegliere di fare come se nulla fosse.

Non era vero.

«Smettila di tergiversare, Andrea», mi dissi. «Ora trovi l’articolo e vedi che avevi ragione: non si tratta di Nevrè, perché è assolutamente impossibile. Sei tanto stanca e provata da questi giorni assurdi. E’ normale essere un po’ fuori fase, assolutamente normale. E’ come quando dormi poco e la stanchezza ti fa avere pensieri lugubri e strazianti.»

Annuii, per darmi ragione da sola... 

... da brava pazza. 

«No, io non sono pazza!»

«Avanti!», esclamai poi, e cliccai. 

Provai con qualche parola chiave e, per i primi due minuti, non trovai assolutamente niente, nessun riferimento a morti recenti in Friuli, non inerenti ai miei criteri di ricerca. Anche se doveva per forza esserci.

Infatti...
 

 

IL PICIUL 

 

Tragedia in Friuli Venezia Giulia. 
Ennesima ragazzina perde la vita nei nostri fiumi.

 

Si spengono le speranze. E’ di N. Morell il corpo senza vita recuperato questa mattina dal torrente (censura) dai sommozzatori della Protezione Civile di (censura). La diciassettenne, secondo le prime ricostruzioni

 

 

Smisi di leggere, perché, scorrendo, cominciavo a intravedere il bordo superiore di una fotografia.

Il cursore rimase fermo sulla colonnina di destra e miei occhi sull’iniziale e il cognome. 

Non significava ancora nulla: di nomi con la N ce ne sono a bizzeffe, sia italiani che stranieri. Così come il mondo è pieno di diciassettenni, e poi sapevo già che la ragazza annegata aveva grosso modo la mia età. 

Il punto era la foto: quella avrebbe chiarito tutto.

«Adesso vai giù e vedrai una ragazza pallida, con trecce bionde, con grandi occhi blu e il naso spruzzato di efelidi; come ogni buon tedesco stereotipato, avrà anche un bel boccale di birra stretto in pugno.»

Mi scoprii a sorridere e mi diedi immediatamente del mona insensibile: si stava parlando comunque di una ragazza morta.

Il volto che mi fissava sorridente era tutto fuorché pallido. I capelli erano neri, ricci e voluminosi. Gli occhi grandi, sì, ma scuri come la notte. Nessuna efelide.

Quello era il volto di Nevrè.

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Capitolo 7
*** Sei ***


      Sei
 

 

La porta si spalancò e la Patrizia e la Lilla si precipitarono dentro - data la rapidità dell'azione, probabilmente stavano per bussare. La fetta di pizza al tonno e cipolla, che la piccola stava trasportando su un piattino di plastica, finì a faccia in giù - ovviamente - sul pavimento della mia camera.

«Andrea!», esclamò la Patrizia. Era la prima volta che il suo tono assumeva la consistenza della ruggine. «Che succede? Perché hai urlato così?»

Avevo urlato? Probabile, ma non ne conservavo ricordo.

Guardai prima la Lilla, che stava per scoppiare a piangere, come testimoniavano il visino rosso, gli occhi semichiusi e le labbra serrate; poi la Patrizia. 

Non mi uscì mezzo suono.

Mi concentrai sugli occhi marron-verde della Patrizia e mi ritrovai a pensare che fossero bellissimi, soprattutto con quella sfumatura inedita di feroce angoscia e spavento. Stentai a riconoscerli come suoi.

«Ti sei fatta tanto male?»

In un primo momento, la domanda non ebbe alcun senso. Allora seguii lo sguardo della Patrizia: sotto la sedia, accanto alla scarpa sinistra, si era formata una piccolissima pozza di sangue, annacquata dalla pioggia che mi aveva inzuppato i vestiti. Giusto: mi ero ferita con la corona della bici.

«Vieni da me, ti prego», fu tutto quello che mi uscì.

Non avevo dei pensieri molto razionali, al momento, ma sapevo di avere il bisogno di un contatto fisico con qualcosa che sapevo - che doveva - essere reale.

Mi si avvicinò e mi circondò la testa con le braccia. Non disse nulla, ma la sentii voltarsi verso la Lilla, che ora singhiozzava senza ritegno e chiamava il papà, alternando con ‘‘mamma’’ e ‘‘Andrea’’.

«Stringi più forte», la supplicai, schiacciando il viso sul suo petto forgiato da anni e anni di yoga. «Stringi con tutta la forza...»

Lo fece e, per un momentino, me ne pentii, perché era davvero forte e non sapevo se sarei riuscita a respirare. 

Ci riuscivo. Perfetto. Assolutamente perfetto.

L’ultima cosa che ricordo con sufficiente chiarezza è la voce del papà, che si era precipitato in stanza.

Poi è tutto confuso. Solo frammenti. Robe tipo ‘‘sotto shock’’, ‘‘Pronto Soccorso’’ e così via.

 

So che riuscii a non farmi portare al Pronto Soccorso, perché mi ritrovai nel mio letto.

La Patrizia si era seduta accanto a me, sul bordo, con la Lilla sulle gambe. Papà mi stava fasciando il polpaccio. Mi dispiacque vederlo piegato a quel modo, considerando le condizioni della sua schiena, ma fu anche bello sentire le sue forti mani, così delicate quando aveva a che fare con uno di noi.

 

«Te la senti di dirmi cos’è successo?», mi chiese la Patrizia quando il papà uscì con la Lilla, promettendole un gelato. Se le cose in quella casa non si fossero calmate, a quella povera creatura sarebbe venuto il diabete, a suon di gelati.

Mi limitai a muovere piano la testa, cercando di farlo apparire come un no, e continuai a fissare il soffitto di perlinato. 

«Vuoi che rimanga qui con te?»

Feci di sì con la testa e riuscii a dire: «Toccami, ti prego.» 

Avvampai, rendendomi conto di quanto ambiguo potesse suonare. Se una cosa del genere l’avessi detta a mia mamma, non ci sarebbe stato il minimo pericolo che la mia testa prendesse in considerazione altro. Ma la Patrizia non era la mia mamma. La Patrizia era una donna adulta con cui non condividevo neppure una goccia di sangue, e che poteva dunque pensare che intendessi chissà cosa. Maledii il mio cervello sghembo e incapace di capire quando non è il momento per certi stupidi, demenziali, imbarazzanti pensieri. Non che li potessi controllare, ci tengo a precisare. Ma non ho mai pensato alla Patrizia in quel modo, sia chiaro.

La Patrizia non era idiota e certo prese quelle parole nel modo giusto: come quelle di una figlia - o figliastra - che vuole solo delle coccole.

Comunque, per sicurezza, aggiunsi: «Tipo un abbraccio o una carezza sui capelli...»

Mi si stese accanto e io le diedi la schiena, così che mi potesse stringere.

 

«Pensi che io sia matta?»

La sentii sollevare appena la testa dal cuscino, forse per guardarmi il profilo del viso.

«Certo che no, Andrea», mi assicurò. «Perché me lo chiedi?»

Non le risposi, mi limitai a stringerle l’avambraccio che mi aveva posato sulle costole.

Una parte di me voleva parlarle della ragazza morta che forse era un fantasma o che forse era una proiezione del mio cervello ormai degradato, intaccato da una malattia che non sapevo di avere, di cui ignoravo il nome ma che, per comodità, potevo semplicemente definire follia.

In ogni caso, seppure di mente aperta, apertissima, non mi avrebbe mai creduta se avessi scelto l’opzione fantasma. Nessuno l’avrebbe fatto e io non riuscivo a biasimarli, perché neppure io ci avrei creduto. E avevo il terrore che, invece, mi avrebbe creduta fin troppo bene sull’opzione follia, visti i miei parenti.

Considerai fosse per quello che non avevo mai voluto partecipare a qualche stupida sfida di coraggio in qualche casa abbandonata o a robe davanti allo specchio: non avrei mai tollerato di vedere davvero qualcosa che non avrei dovuto vedere, di cui rifiutavo l’esistenza, perché poi il mio mondo sarebbe stato una bugia priva di logica; un luogo dove davvero tutto era possibile e che, dunque, non aveva regole che potessi applicare per proteggermi da esso. E avevo ragione: non potevo accettarlo.

Comunque, l’opzione fantasma mi piaceva di più, ma solo perché quella della follia mi faceva avere pensieri violenti contro me stessa: non avrei passato il resto dei miei giorni in manicomio!

«Non ce la faccio più», pigolai prima di abbandonarmi a un pianto stremato. «Non... ce la... faccio più... Non ce la... faccio...» singhiozzai.

La Patrizia mi strinse più forte, e quasi sperai che lo facesse al punto di impedirmi di respirare abbastanza bene; non al punto di uccidermi, solo da farmi perdere i sensi. Ma lei era perfettamente padrona del suo corpo e usò la giusta forza: quanto bastò a farmi sentire un po’ più protetta.

«Lo so che... lo so che non è così... ma dimmi che sto sognando...»

Esitò molto a lungo: non andava d’accordo con le menzogne, quando toccava a lei dirle. 

Sospirò e non disse nulla.

«Dimmi che tra un po’ mi sveglio!», insistetti, quasi preda dell’ira.

«Sai cosa diceva Aristotele?» Non attese risposta, perché sapeva che non sarebbe arrivata. «‘‘Se c’è una soluzione, perché ti preoccupi? Se non c’è una soluzione, perché ti preoccupi?’’. Dimmi, Andrea, il tuo problema ha una soluzione?»

In qualche modo doveva aver capito che quella mia nuova crisi non era stata dettata da qualcosa che aveva a che fare con la mamma. Come ci fosse riuscita, comunque, è tutt’ora un mistero. Io lo ripeto: secondo me è una creatura magica.

«Non lo so. Forse non lo voglio sapere.»

Ancora una volta la Patrizia era riuscita a farmi calmare, dandomi qualcosa che non sapevo di volere: raziocinio. 

«Quando ti senti meglio, va’ e scoprilo. Non puoi permettere che il dolore e la paura siano già la tua culla di cemento fresco: sei troppo giovane.»

«Mi vuoi bene?» Una domanda che poteva apparire quasi come un’accusa, ma era solo una cosa che volevo sentirmi dire, contando sul fatto che non sapesse mentire. Proprio per questo, una domanda estremamente pericolosa.

«Come fossi mia, Andrea.»

Il pianto che mi sorprese era di un bel arancione, soffice soffice, come un nuvola.

Più avanti, cinicamente, pensai però che, in fondo in fondo, fosse capace di mentire: non potevo essere come la Lilla, per lei. 

Ora sono madre di un bimbo che non ho sentito crescermi dentro e posso dire che no, quasi sicuramente quella volta non tradì la sua natura, non la inquinò di menzogna. Di questo parlerò poi, alla fine, ora è troppo presto.

 

Mi ero addormenta, in qualche modo.

Mi svegliai che mancava poco alle undici. 

Il primo pensiero riguardò l’assorbente, che non avevo cambiato da quel pomeriggio.

Il fatto di non aver macchiato né pantaloni né letto rappresentò una vittoria, un motivo di gioia e soddisfazione.

Mi resi conto fossi disposta ad aggrapparmi a qualsiasi piccolezza. 

Che poi, dai, non son robe così insulse: sono le piccole gioie di tutti i giorni, per noi... persone normali.

«Non ora», mi imposi, dirigendomi verso il bagno.

La gamba, tra botta e taglio, mi faceva un po’ male; ma trovai una roba per cui sorridere: Se alla fine di quest’avventura avrò ancora una gamba, sarà stata la più grande delle vittorie!

Un’avventura, eh? Ma taci, mona.

Non ho detto nulla di male...

Hai ragione. Scusa.

«Così non va...» mormorai. «Devo trovarmi un hobby, perché a suon di parlare da sola, fuori e dentro di me, non finirà bene.»

Sono d’accordo.

«Appunto...»

 

Aprii il getto d’acqua, regolandolo verso il freddo; le mie cose non avrebbero gradito, ma avevo troppo caldo.

«Non sono pazza e Nevrè non è un fantasma, non importa quel che c’è scritto in quell’articolo, non importa se quello è, senz’ombra di dubbio, proprio il volto della ragazza che mi piace.» 

Non avevo smesso di parlare da sola - non son mica robe che puoi fare così, di botto - ma dormire un po’ mi aveva aiutato e mi sentivo immensamente più calma.

«E se neppure l’articolo fosse reale? Se avessi visto proprio quello che temevo di vedere? Dopo ricontrollo, ma posso dire fin da ora che ne dubito fortemente. Anzi, ho un’idea migliore, ma avrò bisogno di ogni briciola di autocontrollo...»

 

Uscii dalla doccia e, prima di attuare il mio piccolo piano, ebbi la decenza di mettere a lavare i vestiti che avevo usato quel giorno. Mi accorsi e recuperai il sacchetto col cellulare e le sigarette, dalla tasca. 

Portai tutto in camera e mi vestii; poi mi diressi verso la stanza che la Patrizia usava come studio. Da qualche mese, infatti, aveva cominciato a lavorare a un romanzo; si era rifiutata di dirmi qualunque cosa: se volevo sapere, avrei dovuto attendere che fosse finito.

Bussai piano, perché a quell’ora non si metteva gli auricolari, nel caso la Lilla avesse chiamato, quindi non c’era bisogno di fare casino.

La risposta mi giunse un po’ ovattata, ma compresi che potevo entrare.

Lo studio della Patrizia rispecchiava perfettamente la sua personalità: c’era un disordine solo apparente, in realtà ogni soprammobile, ogni confezione di incenso e ogni raccoglitore aveva il suo perché esattamente dove li aveva posizionati.

«Stai meglio?», mi chiese.

Aveva girato la sedia girevole verso di me e abbassato lo schermo del PC; l’unico modo che avevo per intuire i suoi lineamenti, era la piccola lampadina da comodino che la illuminava d’arancio, un po’ dietro di lei, sulla sinistra.

«Sto cercando di capire come risolvere il mio problema, credo. Voglio cominciare da qualche parte, più che altro.»

Non sentì il bisogno di dire nulla. Attese semplicemente che continuassi.

«Sono venuta da te, perché so che non mi riempirai di domande, ma ti limiterai a semplificarmi la vita, come hai sempre fatto, col tuo fare pratico e preciso.»

«Dimmi pure.»

«Devo chiederti un piacere. Una roba assurda.»

«Non importa. Se posso, ti aiuterò.»

«Per quanto assurdo sarà quello che ti chiederò?»

«Certo», mi sorrise.

«Ho bisogno che tu sia i miei occhi. Puoi farlo?»

Sollevò un solo angolo della bocca, piegò leggermente la testa di lato e socchiuse gli occhi. Più che turbata, mi parve incredibilmente divertita. O forse, molto più semplicemente, si stava dicendo: ‘‘Tale madre, tale figlia’’.

«Sarò sincera: non so esattamente come risponderti. Ma sono sicura che tu abbia una buona ragione.»

«Ho bisogno che digiti queste precise parole nella barra di ricerca», dissi, avvicinandomi. «Quando l’avrai fatto, potresti leggere il testo e guardare la foto che c’è sotto, senza dirmi nulla?»

«Dimmi», disse, voltandosi e alzando lo schermo, avendo premura di ridurre a icona il documento che stava usando per scrivere.

Qualsiasi altra persona mi avrebbe fatto una miriade di domande o si sarebbe rifiutata o mi avrebbe mandata in mona... tutto insieme, probabilmente. Ma non la Patrizia.

Le voltai le spalle e dissi: «Il Piciul. Ragazza muore o perde la vita nel torrente (censura).»

La sentii esitare, ma poi sentii anche i tasti, premuti rapidamente e precisamente.

«Ho fatto», disse, un minuto o poco più dopo.

«Qual era il nome della ragazza?»

«Non so dirtelo: c’è solo una N e poi il cognome. Immagino perché fosse minorenne.»

Il cuore mi scalpitava nel petto e mi ero già pentita di tutto. Ma non avevo intenzione di lasciar perdere. Non avrei lasciato perdere. Dovevo arrivare in fondo a quella storia, a cominciare dai miei dubbi.

«Quanti anni aveva?»

«Solo diciassette.»

Eh già... Ora la parte più difficile...

«Mi puoi descrivere quello che vedi nella foto?»

«Andrea...» Era la prima volta che nel suo tono coglievo qualcosa di storto. «C’entri con l’incidente di questa ragazza? Me lo puoi dire, lo sai.»

Deglutii e temetti di perdere il controllo. 

Mi controllai.

«Ti giuro di no.»

A meno che io non sia un’assassina senza saperlo, certo... 

No! Ora non ci faremo venire anche questa turba!

Non dubitò della mia parola.

«E’ una ragazza che, sì, può avere diciassette anni. Sta sorridendo alla camera; sullo sfondo ci sono delle anatre. Ha capelli e occhi neri, un viso tond-»

«Di che colore è la sua pelle?»

«Di un mogano che tende al nero.»

Mi resi conto di star piangendo perché mi arrivò il salato in bocca.

Mi voltai, per incontrare ancora una volta il viso di Nevrè. 

Non avevo ancora capito se fosse un fantasma o se fossi pazza, ma almeno potevo mettermi via il fatto di non essermi immaginata l’articolo. Era qualcosa, e a quel qualcosa mi aggrappai con tutta me stessa.

«La conoscevi?», mi chiese dolcemente la Patrizia, che stava anch’ella osservando l’adorabile Nevrè. 

Mi fece un po’ strano che, ora, anche lei sapesse come era fatta, che stesse guardando qualcosa di indefinibile, di molto grazioso e dolce. Stava guardando la ragazza di cui le avevo parlato il giorno prima; ma non poteva saperlo, perché io avevo fatto riferimento a una persona viva... cosa che Nevrè, inutile negarlo, non era più da giugno.

«Non so rispondere alla tua domanda...» Come avrei potuto? C’era una risposta giusta? «Dimmi un’ultima cosa: che tu sappia, ho mai parlato di quest’articolo o della sua morte quando ci avete proibito di tornare dalla Cascata? O nei giorni successivi, comunque.»

«Non mi sembra. No, tesoro.»

Annuii. 

Non dimostrava che io non avessi mai visto quell’articolo prima di quel pomeriggio, ma era qualcosa che mi spinse a pensare sempre di più al fatto che forse non ero pazza. O, comunque, così la volli vedere. Perché quanto sana è una persona che accetta i fantasmi, dopo averli rifiutati per tutta la vita? Poco. Niente.

Non avevo niente contro coloro che ci credevano, che sostenevano fermante la loro esistenza. Assolutamente nulla. Ma io non ero fra quelli. Punto.

Non sono fra quelli.

Lo saremo presto...

Staremo a vedere.

L’alternativa è il manicomio, lo sappiamo, no?

Fin troppo bene...

«Vorrei che tu ti sentissi libera di parlare con me, Andrea.»

Non me n’ero accorta, ma ora la Patrizia mi stava davanti.

Alzai lo sguardo sui suoi occhi, che non potevo davvero vedere ma solo indovinare, a causa della luce troppo fioca.

«Mi sento libera di farlo. L’ho appena fatto... Ho scelto te. Non i miei presunti amici. Non Pietro. Non papà. Te...»

«Hai ragione», disse, e mi fece una carezza sulla testa. «Quando avrai sconfitto i tuoi demoni, mi fornirai i pezzi che mi mancano, se vorrai. Per ora, lascia che ti dica che sono fiera di te, Andrea, perché qualunque cosa tu stia facendo, quella non è scappare.»

Mi portai una mano agli occhi e li torturai con le dita mentre cominciavo a singhiozzare, ancora una volta avvolta dall’arancione.

La Patrizia stava sostituendo la figura più importante della mia vita, ma lo faceva senza egoismo, senza malizia e senza pretendere nulla. Lo stava facendo perché io glielo permettevo, glielo chiedevo, e non c’era rabbia in tutto questo.

Non nei suoi confronti.

«Posso... abbracciarti?»

«Non me lo devi chiedere, tesoro. Puoi farlo ogni volta che vuoi», disse, avvolgendomi. «Sei orgogliosa, Andrea, lo so, ma se scoprirai che è qualcosa di troppo grande, qui ci sono delle persone pronte a sostenerti. Non aver mai paura di chiedere aiuto, perché è quello il vero coraggio.»

Il coraggio di fare un’ultima cosa, quello mi serviva, ma prima...

«Tu credi che quella ragazza sia da qualche parte, ora?»

«Oh...» sospirò, e il soffio caldo del suo alito mi solleticò lo scalpo. «Mi stai chiedendo se credo al Paradiso?» Era piuttosto raro che prendesse tempo; perché sentivo che era esattamente ciò che stava facendo.

«Non esattamente...»

«Essendo qui, mi è precluso sapere cosa ci sia poi. Ma se la tua domanda è questa, allora sì: credo all’esistenza dell’anima e rifiuto di credere che tutto questo sia stato inutile. E tu cosa credi?»

Che le cose sono due: o sono pazza o ho interagito con un fantasma... per ben due volte. Un fantasma per cui ho una cotta, fra le altre cose.

«Non lo so...» mormorai, staccandomi da lei. «Vado a dormire. Va bene?»

«Ma certo. Buonanotte. Se hai bisogno, mi trovi qui o in camera, va bene, tesoro?»

Sapevo già che non le avrei più dato fastidio, per quella sera, ma dissi di sì e la ringraziai.

 

Mi misi alla scrivania e alzai lo schermo - evidentemente l’avevo abbassato prima, senza ricordarmene, quando avevo strillato.

Nevrè mi guardava e io guardavo lei.

«Sei sei davvero un fantasma... No, scherzavo! Non hai sentito nulla, perché non ho detto nulla!»

Ci mancava soltanto che si muovesse, che uscisse dallo schermo o che mi comparisse in camera. Solo quello, davvero, mancava.

Richiusi tutto e mi gettai sul letto.

«Ma perché non mi sono fatta gli affari miei? Perché sono andata a cercare quei due mona dalla Cascata, quando sapevo benissimo che non potevano essere là? No, ancora meglio: perché non ho risposto alla Patrizia, lì della Collina dei Salti? Se l’avessi fatto, ora potrei limitarmi a penare per mia madre, a chiedermi soltanto...» soltanto? Cristo... «... se è viva...»

 Le lacrime ricominciarono a scorrere e mi si insinuarono nelle orecchie, facendomi il solletico e alterando il frinire delle cicale, il battito del mio cuore e i miei mugugni. 

«Questa te la potevi proprio risparmiare, Lucrezia... mamma...» 

Soffocai un urlo nell’incavo del braccio. 

«Se tutto quello che mi rimarrà di te sarà una follia ereditaria, io... Non è giusto!»

 

Attesi di sentire la Patrizia chiudere la porta della camera padronale e mi misi le scarpe.

Avevo preso la decisione di andare dalla Cascata e affrontare Nevrè: se fosse stata un fantasma, sarebbe stata sicuramente lì, perché quello era il luogo in cui era morta. O così dicevano le fonti con cui mi ero informata e inquietata.

Non volevo pensare a cosa avrei fatto se non l’avessi trovata, perché probabilmente mi sarei dovuta sforzare e proiettarla, dandomi certezza di essere pazza.

In ogni caso, io con quel dubbio non potevo più vivere.

Misi in tasca cellulare e sigarette e uscii dalla stanza.

 

Nonostante il fatto che manco le cannonate - e in TV c’era un film di guerra - scesi piano le scale e ancor più piano aprii la porta d’ingresso, spingendo indietro Leonardo, attratto dal volo inquieto di un pipistrello.

La mia volontà vacillò nel momento stesso in cui misi i piedi in cortile e alzai gli occhi al cielo: era una notte di novilunio... ed era pure nuvolo.

Anche utilizzando la torcia del cellulare - che comunque non avrebbe retto fin là e mi avrebbe fatta sgammare dal ‘‘buon cittadino’’, perché figurati se dorme, quello - non sarei riuscita a percorrere tutta quella strada a piedi e, ancora meno, probabilmente, a uscirne viva. Mi sarei probabilmente ammazzata, lì dalla Cascata, e a quel punto i fantasmi sarebbero stati due...

Che femminucce!

No, per una volta che valuto saggiamente, non te lo permetto.

Bon, ci sta. Ci andiamo domani, dunque?

Sì, ma sempre verso la solita ora: quella in cui, sicuramente, è morta: avrò più probabilità di vederla.

Sempre che sia un fantasma e non frutto della nostra immaginazione.

Sempre quello, sì...

Mi guardai un momento attorno e decisi di provare a raggiungere il biroc arrugginito, dietro casa: avevo fallito ogni proposito, ma almeno potevo fumarmi una sigaretta.

 

Mi misi seduta sulla conchiglietta metallica e mi accesi la cicca.

Il frinire di grilli e cicale era quasi assordante e, per un paio di volte, mi sembrò di sentire la voce di mamma, che mi chiamava e si scusava.

«In mona. E’ solo la mia immaginazione, suggestionata dalle cose sui fantasmi che ho appena cercato.» Rabbrividii. «E se anche lei, ora, fosse un fantasma?»

Schiacciai la bronza contro il cofano e saltai giù. Volevo solo tornarmene nella sicurezza della mia stanza. Solo quello.

 

«Andrea.»

Per poco non cacciai un urlo.

«Dove sei stata?»

Mi voltai verso il salotto. Mio padre mi apparve più stanco e sconfitto che mai; la luce del televisore non aiutava a smorzare il cereo pallore del suo volto, anzi.

«Solo a prendere una boccata d’aria.»

Alzò un braccio: «Vieni qui. Ho da parlarti.»

Sa qualcosa sulla mamma? No, me l’avrebbe detto immediatamente.

Esitai molto: volevo andarmene in camera e, soprattutto, avevo appena fumato.

Sii donna, Andrea.

E questa da dove spunta?

Qualcosa fece spallucce e io mi rassegnai a raggiungere il divano.

Il calore e l’odore di dormito di papà mi avvolsero; fu rassicurante. Mi piaceva il suo odore, anche quando alterato, perché era arancione scuro.

«Che cosa è successo? Pomeriggio, dico.»

Ah, è dunque questo il motivo per cui sei così... Scusami. Non bastava la mamma, ora mi ci metto pure io...

Valutai di essere stata brava a rinunciare alla mia scampagnata notturna: papà si sarebbe preoccupato, se avesse pensato che fossi scappata. O sarebbe morto, se fossi morta.

«Sono in fiore e do fuori di matto, come ogni volta. Questa volta, più del solito.» Strinsi i denti e mi obbligai a guardarlo negli occhi: «La mamma ha sempre dato fuori di matto? Se sì, come hai fatto a innamorarti di lei? Perché tu eri innamorato di lei, giusto?»

«Certo che ero innamorato di mamma, Andrea. Certo. E le voglio ancora molto bene, perché lei è ancora la mia migliore amica.»

«La tua migliore amica? La tua ex moglie?» Eh, non mi sconfinferava.

«Prima di capire che ci piacevamo anche in quel senso e di voler provare a costruire la nostra vita insieme, la mamma e io eravamo compagni di scuola. Sempre i due che venivano messi in fondo, col cappello da asino, perché rompevamo l’anima alla classe. Non te l’ho mai raccontato?»

«No, me lo ricorderei...»

«Ogni giorno, tornando a casa, facevamo a gara per vedere chi avesse le dita più nere», sorrise.

«Non ho capito...»

«Eh, perché il maestro o la maestra, ai miei tempi, ti davano giù con la bacchetta. Oggi si prenderebbero una denuncia o qualche genitore andrebbe a mettere loro le mani addosso. Ma, un tempo, molti genitori - compreso mio padre - davano le botte, se venivano a sapere che eri stato irrispettoso con l’insegnante.»

«Non riesco a provare invidia. Anche perché se qualcuno dei miei professori mi mettesse le mani addosso, gli tornerei tutto con gli interessi.»

Mio padre ridacchiò.

«Lo so.»

«Senti, ma io pensavo che una volta maschi e femmine fossero separati. Com’è che tu e la mamma eravate insieme? Non è che devo sapere qualcosa? Perché io non ho pregiudizi di quel tipo, ma se uno dei miei ge-»

«Andrea!», esclamò, tra il divertito e l’imbarazzato. «No, no! La mamma è sempre stata Lucrezia e io sono sempre stato Antonio.»

«Vabbè, però siamo d’accordo sul fatto che non ci sarebbe stato nulla di male? Tranne per il fatto che avreste dovuto avere la decenza di dirmelo prima, certo.»

«Sei una sagoma...» Si schiarì la gola e mi spiegò la storia: «Sai quant’è piccolo il paesino in cui sono nato e cresciuto, no? Ecco. In classe eravamo in totale sei. E pensa che solo quattro di noi venivano da lì direttamente, gli altri due - come mamma - arrivavano dal paese vicino e si facevano sei chilometri all’andata e sei al ritorno.»

«Ma hai detto che andavate a casa insieme... Vuol dire che pure tu ti facevi i chilometri?»

«Sarà stato per quello che, al tempo, ero persino più magro di te.»

«Non sono così magra», affermai. «Sono una finta magra. Non ti faccio vedere, perché sei mio padre, ma fidati.»

«Comunque lo facevo volentieri, di accompagnare la Lucrezia a casa. Alcune volte, d’estate, l’andavo persino a prendere. Pensa.»

Spesi qualche momento a immaginarli, giovani e felici.

«Cosa è successo a quel grande amore?» 

Sospirò e per un po’ non disse nulla, guardando senza vedere i soldati che saltavano per aria.

«L’amore, se è vero, non finisce mai, Andrea. Quello che ho per mamma si è solo trasformato.» 

«Anche quello che hai per Pietro, Lilla e me cambierà?»

«No, quello mai, perché è una cosa diversa.»

Abbassai la testa e cercai il coraggio.

«Neppure se tu dovessi scoprire che non sto bene di testa...?» 

«Non è quello il motivo per cui è finita, tra mamma e me. Voglio che tu lo sappia.»

«Non mi hai risposto...»

«Cosa succede? Mi fai preoccupare, Andrea.»

«Mi puoi semplicemente dire se mi vorrai bene per sempre, per favore?»

Mi posò la mano sul ginocchio - quello sano, fortunatamente - e strinse.

«Per tutta l’eternità, amore mio.»

Gli picchiettai la mano con la mia, improvvisamente imbarazzata da morire.

«Pure io», dissi, alzandomi. «Bon. Ora vado a dormire. Buonanotte, papà. E non preoccuparti per me, perché io starò bene.»

«Andrea», disse quando misi il piede sul primo gradino, «non fumare.»

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Capitolo 8
*** Sette ***


      Sette

 

 

Non avevo passato una bella notte, ma verso mattina ero comunque riuscita ad addormentarmi.

Questa volta non avevo impiegato il mio tempo a guardare gente che fa robe col legno o cose simili: mi ero informata di più sulle apparizioni di fantasmi ed eventi correlati. 

Ne sapevo quanto prima. Anzi, ero più confusa di prima: gli ‘‘esperti’’ si contraddicevano fra loro. Era stralunante la quasi consapevolezza di esserci andata molto più vicina di chiunque di loro.

Non capivo perché Nevrè avesse deciso di manifestarsi - sempre, lo ripeto, che non fosse una mia proiezione mentale - a me: io non potevo rappresentare nulla per lei, dal momento che non l’avevo conosciuta in vita. Forse, avevo deciso prima di chiudere gli occhi, l’aveva fatto perché avevamo un’età simile e voleva mitigare la sua solitudine.

Avevo deciso anche che, se fosse venuto fuori che era davvero un fantasma, mi sarei impegnata ad andarla a trovare ogni volta che potevo, perché mi faceva soffrire il fatto che fosse tutta sola in un Paese straniero. Da qualche parte avrei trovato il coraggio di superare la mia paura e il mio rifiuto, perché lei era stata dolce e gentile con me, e io volevo ripagarla.

Certo, mi stava un po’ sul culo il fatto che non mi avesse detto subito di essere morta. Ma d’altra parte, io l’avrei fatto? No. No, non l’avrei fatto. Per ottenere cosa? Spavento e rifiuto.

E’ evidente, ma sì: stavo propendendo sempre più per la tesi fantasma, perché le parole della Patrizia, dopo un po’, erano tornate e avevano cominciato a ronzarmi in testa: lei credeva all’esistenza dell’anima. E io credevo in lei.

Forse le avrei presentato Nevrè, dopotutto.

 

Aprii gli occhi e sbirciai l’ora sul cellulare: le 1o:45.

Richiusi gli occhi e ascoltai il brusio che proveniva dal cortile; non coglievo il senso del discorso, ma sapevo trattarsi delle voci del papà e della Lilla.

Il palloncino si gonfiò, così, random. 

Mi tirai su di scatto e cercai di capire perché provassi dolore e freddo al petto, perché quell’argento fosse ora così tangibile e cercasse di comprimermi cuore e polmoni. Era pesante e insieme vuoto. Vidi una specie di tornado muoversi sul mio sterno. Un pesantissimo, piccolissimo tornado argenteo.

Va’ nel rifugio, mostriciattolo! Salvati almeno tu...

In quel momento lo ignoravo, ma avevo cominciato a soffrire d’ansia e attacchi della stessa. Me li sarei tirata dietro per tutta la vita. Di questo, magari, parliamo poi.

Cercai di capire perché fosse successo. Indagai il mio subconscio. Ne venni a capo - o così mi dissi - : sentir parlare mi aveva fatto pensare alla mamma, al fatto che fosse successo qualcosa e che qualcuno fosse venuto a riferire.

Il palloncino si sgonfiò poco a poco e la tromba d’aria si disperse, ma il mostriciattolo cominciò a intuire che quel suo antro diventava, di giorno in giorno, sempre più inospitale. Un po’ mi dispiaceva per lui, però era quasi ora che andasse a nanna... per sempre. In ogni caso, brontolò, perché si erano messi a parlare sotto la nostra finestra. 

Un attacco d’ira, al momento, non mi pare opportuno. Controllati.

Annuii e decisi di andare a scoprire il perché fossero sotto la mia finestra a quell’ora del mattino, col sole a cuocerseli per bene.

Bon, prima però magari vado in bagno e vedo del polpaccio.

 

«Andrea! Andrea!», mi accolse la Lilla, senza darmi neppure il tempo di abituare gli occhi al cambio di luminosità. C’era davvero un sole che spaccava le pietre e l’aria era quasi irrespirabile. «Guarda, Andrea! Guarda cosa ho fatto col papà!»

Seguii il suo ditino e vidi la mia bici a gambe all’aria, privata della ruota anteriore.

La stilettata di fastidio e d’ira non ebbe realmente tempo di manifestarsi davvero: mi ricordai quasi subito di averla ammaccata, il pomeriggio precedente, per colpa del mio scatto di nervi.

«Che fate?», chiesi, accorgendomi del papà, piegato nel bagagliaio della sua Peugeot 2o6. Non c’erano requie, per quella schiena...

«Siamo andati a comprare le cose per la tua bici rotta, Andrea! E il papà mi ha comprato un campanellino per la mia bici!»

Volevi dire: ‘‘Papà ha trovato un nuovo modo per lesionare i nervi di tutta la famiglia!’’. 

«Dopo me lo fai sentire, Lilla?»

Eh? Figo... riesco a esprimermi con garbo!

La novità mi fece vedere arancione, e non c’entrava il fatto che avessi chiuso gli occhi e che il sole, attraverso le palpebre abbassate, rendesse tutto di quella tinta.

«Lo faccio adesso!» 

Infatti non attese risposta e corse verso il retro della casa, dove c’era il posto speciale della sua bici.

Mi sorprese il fatto che non l’avesse già fatto o che la sua bicicletta lillà non fosse accanto alla mia. Poi valutai che il papà le avesse detto di non fare troppo rumore, visto che dormivo ancora. Poteva anche essere, però, che quella piccola, adorabile peste si fosse preoccupata più per la mia roba che per la sua. La verità stava probabilmente nel mezzo e nessuna delle due robe escludeva l’altra.

«Non sta a piegarti», dissi a mio padre, raggiungendolo. «Dammi, faccio io» e presi la ruota nuova, la casetta degli attrezzi e una scatolina dal bagagliaio. «Grazie che sei andato a vedere della mia bici», mi ricordai di dire, prima che il ‘‘drin-drin’’ bianco invadesse il cortile e violentasse i miei timpani.

«Hai visto» drin-drin «Andrea?»

Più che altro, ho sentito... Devo escogitare qualcosa, perché quel suono non lo sopporto già più...

«Meraviglioso! Ehi, Lilla, mi aiuti tu con la mia bici?»

Il ‘‘drin-drin’’ e la scorrazzata si bloccarono di colpo; i suoi enormi occhi blu presero a fissarmi come fossi un unicorno, forse un po’ storto.

«Vuoi che sto con te, Andrea? Lo vuoi per sul serio davvero davvero?»

Sorrisi per il suo buffo e sghembo modo di esprimersi; poi valutai che la sua sorpresa mi ferisse e commuovesse: non la volevo mai trai i piedi. 

«Per sul serio davvero davvero», confermai. «Possiamo farcela, noi due insieme, vero? Il papà può andare a riposare al fresco.»

«Il papà può andare!», trillò. «Facciamo io e Andrea, insieme!»

Papà mi posò una mano sulla spalla.

«Brava Andrea, coinvolgila», mi sussurrò; poi, a voce fin troppo alta: «Il papà è vecchio e va a riposarsi! Ci pensa Lilla ad aiutare la sorellona! E’ vero?!»

«Sììì!», strillò ancora la Lilla, felice come una Pasqua, e mi corse incontro.

 

Tres robis impussibilis: fà sta férs i fruts, fà cori i viei e fà tasé lis feminis (ci son tre robe che son impossibili: far star fermi i bambini, far correre i vecchi e far star zitte le donne), dice il detto - non io: io mi limito a pensare quel che c’è da pensare. Ma nella prima roba ebbi successo; nel senso, manipolai il suo movimento in modo che mi fosse utile e non nuocesse ai miei poveri, stanchi nervi.

«Vedi se trovi una come questa, che qui abbia il tredici», le dissi, indicandole un’estremità della chiave inglese. «Ma portami anche una col dodici, che forse è troppo grande quell’altra.»

Lilla corse dalla casetta degli attrezzi e ci frugò dentro. Pensai che intanto potevo metter su la ruota nuova, incastrandola nelle mortase di ferro, ma poi decisi di aspettare lei e di farlo insieme, così l’avrei fatta contenta.

«Uno e tre e uno e due, Andrea?», mi urlò, sventolando due chiavi.

«Sì, brava. Vieni, che ho bisogno di te, per metterla su con precisione.»

Tirammo su la ruota e poi cominciammo ad avvitare i bulloni, dimenticandoci però le rondelle... quindi svitammo e avvitammo di nuovo, prima con le mani poi con le chiavi.

«Mi vai in casa a vedere che ora è, per favore?»

«Subitissimo! Ma aspetta me per finire, va bene, Andrea?»

La guardai correre e sparire. Ne approfittai per stringere fino in fondo il suo bullone, senza che se ne accorgesse: non volevo rischiare che mi partisse via la ruota in movimento e non volevo neppure deluderla.

«Quasi la mezza, Andrea!», annunciò, tornando nel cortile con due piccoli brick di tea alla pesca.

«Bene, facciamo un momento pausa, che poi c’è da mettere su anche la dinamo.» 

Mi chiese cosa fosse, allora recuperai la scatolina che avevo preso prima dal bagaglio - papà me la prometteva da mesi, ma me ero ormai dimenticata, perché ci avevo rinunciato - e tornai da lei.

«Vedi questa rotellina qui nera?», dissi, sedendomi accanto a lei per terra. «Quando la ruota della bici la fa girare, lei porta quel movimento qui, nel corpo, e fa una magia: la trasforma in elettricità. Poi l’elettricità va nei fili e finisce nella lampadina, che si illumina.»

«E se ci prendiamo la scossa, Andrea?», mugugnò, con la bocca impegnata a torturare la cannuccia.

«Ti giuro di no.»

«Allora lo facciamo! Poi mi fai vedere la luce, Andrea?»

«Sì. Sarai tu a farla, va bene?»

 

Stavamo appena vedendo dei fili, quando la Patrizia ci chiamò per mangiare.

«Finiamo dopo», dissi alla Lilla. «Sai mica che c’è per pranzo?»

«Melone e prosciutto, Andrea! Il papà lo stava tagliando quando sono andata a vedere l’ora e a prendere il tea!»

«Buono...» Quasi sbavai. 

Mi ricordai che l’ultima volta che il mio stomaco aveva accolto del cibo, era stato due notti prima: la mela e il formaggio che la Patrizia mi aveva lasciato con l’Oki.

 

«Io e Andrea stiamo facendo funzionare la di... di... Come si chiama, Andrea?», disse Lilla, correndo verso il tavolo già apparecchiato e i suoi genitori.

«Dinamo», le venni in aiuto.

«Brave le mie ragazze», sorrise papà, dando una sculacciata alla Lilla. «Poi mi raccontate. Ora andate a lavarvi le mani. Svelte, che si fredda tutto!»

Feci di sì con la testa e mi voltai verso il lavandino. Ma poi mi bloccai.

Un momento...

Mi girai verso papà, che stava sghignazzando, tutto fiero della sua battuta.

Scossi la testa, ma gli sorrisi.

 

La Lilla non fu avara di dettagli e, per i primi cinque minuti, riportò ogni nostro gesto, secondo la sua interpretazione, eroico.

«Sono sicuro che Andrea sarebbe stata molto in difficoltà, se non ci fossi stata tu, amore. Vero, Andrea?»

Ingollai la sesta fetta e risposi affermativamente, guadagnandomi un occhiolino dalla Patrizia e un sorriso fiero dal papà. Poi tornai a concentrarmi sul cibo, ignorando Leonardo che, come sempre, si aspettava da me qualche filo di grasso di prosciutto. Niente da fare: tutto mio! Troppa fame.

Il pasto era delizioso e la famiglia che... 

Famiglia...

Mi si chiuse lo stomaco.

Quanto vorrei che la mamma fosse qui...

«Perché non mangi più, Andrea?»

Guardai la Lilla e sfoggiai un sorriso da oscar, falso come una banconota da due euro.

«Ho mangiato come un purcel e ora scoppio!», feci, dandomi qualche manata sulla pancia effettivamente un po’ gonfia.

Lei rise a crepapelle.

Se i due adulti notarono qualcosa, scelsero di non inquinare quel bel momento e si riprese a scherzare e parlare allegramente.

Finito di mangiare, la Lilla e io tornammo nel cortile. 

Un po’ mi pentii di aver mangiato tanto e in fretta, perché ora mi sarebbe toccato star piegata in quella fornace che chiamavo cortile. Fu la giornata più calda dell’intera estate, che io ricordi.

 

Non fu affatto difficile collegare la dinamo alla lampadina, anche se ci misi il triplo del tempo necessario, perché stavo ancora coinvolgendo la Lilla.

Sono uno Scorpione ascendente Capricorno - ‘‘il guerriero’’, secondo alcuni siti - : il senso pratico non è mai stato un problema, anzi! Io proprio mi divertivo a fare quelle robe... be’, mi diverto ancora oggi. Far andare le mani, fra le altre cose, è un ottimo modo per far tacere il cervello. In tutta sincerità, me la godei davvero un sacco. Ero contenta di essermi svegliata ed essere scesa prima che mio padre potesse privarmi di quel piccolo, grande piacere. Certo, è ovvio che l’avrebbe fatto per me, per farmi un piacere, ma così è stato meglio meglio.

«Allora», dissi, «il piano è questo: tu giri forte il pedale, lo lasci e corri qui, così vedrai la luce. Pronta?» 

Misi le mani a coppa attorno alla lampadina, così che si potesse vedere anche col sole, e attesi che la Lilla compisse il suo dovere.

Fu bello osservare la sua reazione di stupore, meraviglia e orgoglio.

 

«Andiamo a provare le bici, Andrea? Vuoi?»

Valutai ci fosse poco da provare, ma non volevo deluderla e non volevo nemmeno ancora rinunciare a quel nostro momento speciale, in cui finalmente mi comportavo come una brava sorella maggiore.

«Va’ a chiedere alla Patrizia. Ti aspetto qui.»

La Lilla mi guardò per un po’. Forse, come sempre, un po’ stralunata perché chiamavo la donna per nome... e forse anche per controllare che non la stessi prendendo in giro, intenzionata ad andarmene per conto mio e mollarla lì, come il solito.

«Non vado senza di te», promisi. 

E lei, rassicurata, corse in casa.

 

«Oggi stai bene, Andrea?»

Stavamo percorrendo la strada verso il mulino in tutta calma: nonostante l’eccitazione e il buon umore, faceva troppo caldo per agitarsi oltre il dovuto.

Mi voltai appena a destra, verso il basso, ma non incontrai gli occhi della mia sorellina, perché guardavano davanti a sé.

«Perché dici? Io sto sempre bene!»

Fece spallucce.

«Dai, dimmi», la esortai.

«E’ che ieri hai fatto l’urlo e piangevi... e l’altro gio-»

«Oh!», la interruppi. «Sai cosa? Hai presente quel labirinto che, alla fine, ti salta fuori il mostro? Quello che ti ho fatto vedere la settimana scorsa? Scusami, a proposito... Comunque, mi ero dimenticata del mostro e mi sono presa uno spavento!»

Alzò la testa per guardarmi e, per un istante, ci vidi quasi della pietà: come se avesse capito tutto e stesse giudicando le mie doti attoriali.

I Pesci e la loro geniale, intuitiva sensibilità, pensai. 

Era effettivamente un po’ presto, per determinare se le caratteristiche del segno fossero o meno coerenti con lei, perché era ancora molto piccola. Ma, ripensando alla nebbia nera o verde scuro, decisi che la Lilla avesse già la sua geniale sensibilità, solo che non sapeva esattamente come usarla o non era ancora avvezza all’utilizzo dello strumento.

C’è una triste consapevolezza di fondo, negli occhi dei nati sotto il segno dei Pesci. Qualcosa che intravedo anche negli occhi della Patrizia, perché anche se ‘‘legalmente’’ è Aquario, è comunque una cuspide; la Cuspide della Sensibilità - come Mr. Lordi e De André. Comunque, quel qualcosa mi dà l’idea che nella loro testa passi l’intero Universo, avanti e indietro, in una frazione d’istante; contemplano l’Universo, ma vedono te, se gli stai davanti, e ti vedono davvero.

Immagino sia un po’ ridicolo leggere con quanta passione e serietà considerassi le questioni astrologiche, dal momento che per la questione fantasmi ero chiusa come un riccio di castagna acerba. Come immagino il fastidio per le mie continue interruzioni alla narrazione - presenti in tutto il testo, mi rendo conto - costantemente col dubbio se a parlare sia la me del passato o la me del presente. Un confine labile.

Ad ogni modo, l’indagine dei suoi occhi risultò come domanda:

«Non mi stai dicendo una bugia, Andrea?»

«Perché dovrei dire le bugie alla mia sorellina preferita? Spiegami!»

«Ma non ne hai altre! Ci sono io e basta!», rise, dimenticando ogni malumore e tristezza.

«Cavolo, hai ragione!», esclamai, dandomi una teatrale manata in fronte. «Ma saresti la mia preferita lo stesso!»

«Anche tu sei la mia preferita, Andrea! Anche se avevo ventisei sorelle!»

Mi chiesi se fosse il caso di correggerla, ma decisi in fretta che non fosse il caso di rovinare tutto per una cavolata del genere.

Stare con la Lilla, mi rendo conto, mi impediva di pensare troppo; infatti non riesco a ricordare alcuno sproloquio celebrale, da riportare, avvenuto in quelle ore con lei.

 

Giungemmo in fretta dalla Collina dei Salti. 

Fui tentata di onorarla, ma poi capii che la Lilla mi avrebbe imitata e c’era il rischio che si facesse male. 

Collina dei Non Salti: ecco come la devo chiamare...

«Sei stanca?», mi preoccupai, forse più per scacciare la roba della collina che altro.

Lilla scosse vigorosamente la testa, ma la sua espressione mi disse che qualcosa c’era.

«Che hai?»

«Andrea...» mormorò, senza però aggiungere nient’altro.

«Eh, dimmi...»

«Andrea, devo farla...»

«Cosa? Mica quella grossa, vero?», chiesi, poggiando un piede a terra.

«No, la pipì, Andrea...»

«Ah!», esclamai, sollevata. «Bon, che problema c’è? Non ti guardo, ma non sta ad andare vicino il muretto, che potrebbe esserci qualche carbone o qualche poskok, e non abbiamo la sgnape.» *

«Ma mi devi aiutare, Andrea!»

Dal momento che stava per mettersi a piangere, addolcii il tono fino a renderlo nauseante: 

«Sì, sì, non ti preoccupare!» Scesi dalla bici e mi avvicinai a lei. «Sai cosa? Ti insegno come fare senza l’aiuto di nessuno e senza mettere il popò vicino a terra, che ti ho già detto che ho paura ci sia qualche biscia. Ti insegno a fare come la nonna, va bene?»

«E come faceva la nonna, Andrea?»

«Eh, sai che quando era giovane e andava a fare il fieno in alto, nei pascoli, la faceva come i maschi.»

Non sembrava per nulla convinta, anzi, mi parve pure un po’ schifata.

«Non mi puoi aiutare come fa la mamma, Andrea?», mugugnò infatti.

E io che ne so di come usa fare lei?, pensai, ma dissi: «Non vuoi il metodo dei grandi? Perché tu sei grande, o no?»

Sul suo visino, non scherzo, era quasi possibile leggere l’intero processo mentale.

«Come devo fare, Andrea? Veloce, però, se no la faccio...»

«Eh, ti levi le mutandine e la molli. Ma tieni le gambe larghe, se no ti schizzi tutta.» 

La nonna non le aveva e basta, le mutande, quando doveva fare quelle robe, anzi, a volte manco fermava la falce. Oh, me l’ha raccontato mio padre...

Mi guardò per un po’, forse chiedendosi se fossi davvero in grado di ricoprire il ruolo dell’adulta. Poi, però, fece come le avevo detto; tanto, anche se arrivava qualcuno, era apposto: era una bambina e aveva la gonna del vestitino a coprire tutto.

Così lei fu libera e io non dovetti né toccare la sua biancheria né farmi pisciare sulle mani: un successo!

«Due robe, Lilla», dissi, rimontando in sella, «questo metodo solo quando sei con me; seconda roba: sei stata bravissima!»

«Sono stata brava, Andrea? Sono stata brava per sul serio davvero davvero?»

«Eh certo! E cosa ho appena detto? Brava! Brava che mi hai dato ascolto, brava che non hai fatto capricci e brava che non ti sei neppure sporcata! Però, quando torniamo a casa, bagnetto. Va bene?»

«Con Paperina?»

«Con Paperina, sicuro!» 

Paperina era la paperella da bagno; l’avevo chiamata così quand’ero poco più grande della Lilla, e le era rimasto. Quella papera decrepita aveva visto perfino i bagnetti di Pietro: penso giri in famiglia da sempre...

 

Non arrivammo fin dal mulino - cosa che non avevo intenzione di fare dal principio, perché guai se mi capivano davanti quei due mona. 

La posizione del sole mi diceva che era tempo di riaccompagnare Lilla a casa e affrontare, come li aveva definiti la Patrizia, i miei demoni.

 

 

Di nuovo sola, presi su la bici e mi avviai.

Mi sentivo un po’ stordita; ma in modo bello, perché mi sembrava di aver finalmente ripreso respiro dopo due interi giorni d’apnea.

Avrei semplicemente potuto dire che la Lilla e il papà erano andati a prendermi una ruota nuova, che l’avevo messa su con la Lilla e che poi ci eravamo fatte un giro, sì, ma volevo rivivere nel dettaglio quelle due orette con lei. Anche ora che butto giù il tutto, mi fa stare bene e sono contenta che, magari, fra un’altra quindicina d’anni potrò tornare e ricordare vividamente il momento.

Ad ogni modo, la ricreazione era finita e una lezione di vita era pronta per me.

 

Mi preparai tutto il discorso, nei minimi dettagli, tenendo conto di qualsiasi cosa. Che Nevrè fosse una mia proiezione mentale o un fantasma, avevo già pianificato tutto.

Per sicurezza, mi ripetei il discorso... ad alta voce.

«Va bene, sei una mia proiezione mentale. Quindi ora sei pregata di sparire. Mi dispiace che tu sia morta, ma che io te lo dica o meno, a te non fa differenza, perché non sei davvero qui e non puoi sentirmi. Ora andrò dalla Patrizia e, insieme, cercheremo aiuto, provando a non farmi rinchiudere da nessuna parte. Anzi, se dovessero dire qualcosa a riguardo, farò semplicemente finta di essere guarita, perché sono sufficientemente lucida e sveglia da sapere cosa le gente vuole sentirsi dire. O, forse meglio ancora, farò finta di essermi inventata tutto: ‘‘Volevo l’attenzione su di me, gente, scusate tanto’’. Del resto, la gente - tipo Federico - mi ritiene capace di arrivare a tanto. Problema risolto! 
E così sei un fantasma... Mi dispiace sinceramente che tu sia morta, Nevrè, dico davvero. Dimmi, hai provato dolore? Ah, capisco. Senti, ho deciso che non ho paura di te e che non ti voglio abbandonare. Possiamo essere amiche lo stesso, vuoi? Grandissima! Senti, posso presentarti una persona... magari più avanti? Dovrai farti vedere anche da lei, però, se no davvero mi mettono con la zia Alberta... Eh, in manicomio. Grazie, sei davvero gentile, esattamente come ho sempre pensato. Sono sicura che la Patrizia, che è tipo la mia matrigna, ma una di quelle buone, potrebbe sapere anche come farti passare oltre. Sì, ne sono sicura, perché la Patrizia sa risolvere ogni tipo di problema, parola mia!
Può andare.»

 

Arrivata nel prato, come il giorno prima, misi giù la bici.

Fu a quel punto che la mia sicurezza cominciò a vacillare. Ma non su uno o l’altro discorso, perché quelli erano a prova di bomba. Mi venne l’ansia e mi convinsi che, quella volta lì, non l’avrei trovata e non avrei mai scoperto la verità. Poteva essere, perché no?

Triggerato da chissà cosa di preciso, il mostriciattolo si agitò e se la prese con Nevrè.

Lo rimisi a posto: avevo già l’ansia a cui badare.

Sta a vedere: non ci sarà! 

Ma non può assolutamente succedere una cosa del genere! Come faremmo a continuare con la nostra vita, se quel dubbio non andasse mai via?

E che ne so... Forse si potrebbe entrare in qualche casa abbandonata e vedere se vedo qualcosa di simile... o mi rassegno al fatto di essere pazza, vé.

Non mi piace per nulla! Anzi, mi fa proprio schifo! E’ finita! Per noi è finita!

Eh, come se a me piacesse! Cosa devo fare?

«Silenzio! Tutte e due, me e me stessa!», ordinai.

Contrariamente a quanto mi aspettavo, l’ansia rifiutò di andarsene. Eh, non ero abituata ad averla; ero ancora troppo verde - e ‘sta volta non c’entrava la sinestesia: intendevo troppo acerba.

Bon. L’importante era finirla con quel monologo travestito da dialogo - con i ruoli indefiniti - perché mi stava mandando ai matti.

Mi inoltrai nel bosco.

Il cielo, in lontananza, cominciò a brontolare.

Be’, vuoi che non ci sia una tempesta, in occasioni come questa? 

Avevo anche letto che i fantasmi trovano più facile manifestarsi durante i temporali, perché possono assorbire l’energia necessaria. Effettivamente, in quei due giorni, in un modo o nell’altro, c’era sempre stato il temporale. Il fantasma di Nevrè, in caso contrario, avrebbe avuto vita dura a cercare altre fonti di energia, lì dalla Cascata, dal momento che era isolata da tutto.

Elettricità e acqua: indispensabili per ogni fenomeno paranormale...

Grazie a quei pensieri, il bosco mi apparve tetro e ostile, cosa che prima di quel giorno non aveva mai fatto. Ogni fronda, ogni cespuglio e ogni sporadico rovo sembravano comparire sul mio percorso, per rendermelo impervio; quasi a volermi fermare, a suggerirmi di lasciar perdere.

Fantasma o meno, non era un consiglio malvagio: mai stare sotto gli alberi, durante i temporali.

 

Non so come metterla giù, invero... Quindi la farò semplice: arrivata in prossimità delle due spiaggette, la vidi.

Era seduta sulla sua solita pietra e guardava la spiaggetta di fronte, persa nella contemplazione di chissà quale mistero, forse solo rapita dalla triste bellezza di quel luogo.

Bello e triste, sì, proprio come lei...

Ma che bella, ma che triste?! Ma ti pare il momento per ammirarla e pensare con gli ormoni? Potrebbe essere un fantasma o la prova che siamo fuori di testa, mona!

Il cuore mi balzò in gola e i polmoni divennero due prugne rinsecchite, che sai quanta aria potevano tenere...

Controllati. Non si è accorta di te. Hai tempo. Calmati.

Ma sei te che mi hai fatto agitare daccapo! Sai cosa? Ma ci serve davvero la verità? Perché io credo di essere apposto così!

Non farmi incazzare, Andrea! E’ innocua.

Per la parte fisica, sì, senza dubbio.... ma la mia mente non reggerà, lo so...

«Andrea!», esclamò, voltandosi e sventolando il braccio.

Merda... Gambe? Sì, voi! E’ il momento di correre come se non ci fosse un domani!

Le gambe riuscirono solo a farsi molli. Nient’altro. 

Avevo paura e non vedo assolutamente mezza ragione per negarlo. La mia mente, qualunque fosse la verità, stava per essere irrimediabilmente violentata.

«Andrea!», urlò ancora Nevrè, lasciando la sua liscia seduta. «Sei tornata! Ho pensato che non ti vedevo più!»

Dalla mia bocca non uscì altro che il fiato mozzo.

«Perché tu non tornata più ieri?», mi chiese, fermandosi a un metro e mezzo da me. «Detto qualcosa che non va bene? Scusa se ho detto qualcosa male...»

Il suo italiano è migliorato ancora, hai notato? E’ un fantasma, te lo dico io.

Frega niente di cosa sia, al momento!

Bon. Ricorda il discorso. Te lo ricordi?

Voglio solo scappare...

Ma le gambe non collaborano. Affronta il tuo demone! Il discorso te lo ricordi o no?

Me lo ricordo...

Parti con quello del fantasma. Avanti! E sii cortese! Sii cortese!

Annuii.

Mi sentivo mancare, ma presi coraggio.

Le puntai il dito addosso e urlai: «Io non so cosa tu sia! Ma una cosa è certa: sei morta come morto è il chiodo di una porta!»

 

 

---

N.d.A: * Carbone, carbon, carbonas è come da queste parti - in Friuli - sento chiamare il biacco (coluber viridiflavus). 

La poskok  - chiamata così nei paraggi della ex Jugoslavia -  invece, è la vipera col corno (vipera ammodytes); non so altrove, ma qui si usa o usava metterla nella ‘‘sgnape’’, ovvero grappa.

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Capitolo 9
*** Otto ***


      Otto

 

 

Che ne era stato del discorso provato e riprovato, perfino ad alta voce? Boh. Svanito, dileguato, estinto... un po’ come il vecchio Marley... Capito, no?

‘‘Il vecchio Marley era morto come il chiodo di una porta. Badate! Con questo io non intendo dire che so di mia propria scienza che cosa ci sia di particolarmente morto nel chiodo di una porta; personalmente, anzi, propenderei-’’ 

Bon, ci siam capiti.

Scacciai la storia con i tre fantasmi e tornai al mio, di fantasma.

Nevrè mi fissava dritta negli occhi; le labbra lievemente dischiuse tremolavano appena, senza però fornirle supporto per quello che voleva dire. Qualunque cosa le passasse per la testa in quel momento, certo.

Noi che diremmo, se qualcuno venisse a farci notare che siamo morte?

Forse mi muterei in uno spettro malvagio e tenterei di rubare il corpo della persona che ho davanti; giusto per farmi un giretto.

Nevrè non lo farebbe mai!

Chi lo sa. In ogni caso, non siamo ancora certe che sia un fantasma.

Be’, il fatto che non abbia ancora reagito è una prova, secondo me: io so come avrei reagito... più o meno. D’altra parte-

«Qu’est-ce que je suis?»

Che faccio, le ripeto la cosa del chiodo di porta? Non mi pare il caso...

«Eh...» feci.

«Morte comme un clou de porte...» mormorò, continuando a fissarmi a occhi socchiusi. 

Poi, senza preavviso, una sorta di ghigno le deformò i bei lineamenti.

Si è incazzata! Che ti avevo detto riguardo lo spettro malvagio?! Scappa! Fuggi, sciocca!

Non mi mossi, perché le gambe continuavano a limitarsi a tenermi su... Il che, pensandoci, era già qualcosa.

«Dickens!»

La sua esclamazione, improvvisa quanto il mutare della sua espressione, mi aveva colta alla sprovvista e mi aveva terrorizzata; inoltre, nello stesso momento e non così in lontananza, era esploso un tuono.

Prima che avessi il tempo di capire o di rendermi conto di non essere più stabile, il mio fondoschiena incontrò le pietre. Non ricordo altro dell’impatto, ma penso di aver visto bianco.

«Andrea!», strillò, cambiando ancora faccia e muovendo un paio di passi verso di me.

Usai mani e piedi per strisciare all’indietro, come uno strano, zoppo granchio a pancia in sopra. O la fanciulla in qualche film horror, quando l’assassino o il mostro sta per prenderla.

«Non sta a venirmi vicino, sai!», strillai a mia volta. «Se ti avvicinerai, non risponderò delle mie azioni!» Giusto per dare forza al discorso, presi su una pietra: «Visto?»

Mona! Così la fai incazzare il doppio! La pietra le passerebbe attraverso e lei avrebbe un ulteriore incentivo per rubarci il corpo!

Ma Nevrè non sembrò più incazzata, anzi, sembrò triste e spaventata. Si fermò e si limitò a guardarmi.

Bon dai, è qualcosa... almeno non ci sgraffignerà l’involucro... sembra.

«Via, s'il vous plaît...» Mi voltò le spalle e si allontanò, mormorando: «Scusa se dico, Andrea, mais... Euh... mais tu matta da buttare via la clé... chiave...» 

Cosa...?!

Balzai in piedi con un’agilità non dettata dalla mia giovane età, ma bensì dalla rabbia.

«Solo io posso darmi della matta! Hai capito, sottospecie di fantasma o quel diavolo che sei?»

Si voltò a guardarmi e io persi tutta l’ira, tutta la baldanza: c’era nuovamente solo spazio per la paura... e il dispiacere, perché ora piangeva.

«Che vuoi da mia vita?!», strillò. «Pensato tu qui ancora per dire perché ieri non tornata! Poi pensato tu volere fare cool, dicendo di Un Chant de Noël! Poi prendi une pierre e vuoi fare male a me, che non ho mai fatto male a te!»

«Anche se avessi deciso di tirartela, non ti avrebbe fatto niente! Certo, forse ti saresti incazzata, come Mirtilla col diario di... Bon. Non te l’ho tirata, e ripeto che non ti avrebbe fatto nulla, se non passarti attraverso, perché sei incorporea!»

«Silence! Je ne tolérerai pas ton insolence!»

«Me ne sbatto di cosa tolleri e cosa no! Perché non mi hai detto che eri morta?!»

Ormai avevo deciso che non stavo discutendo con una mia proiezione: quello era solo - si fa per dire - un fantasma.

L’ira sul suo volto si acquietò, lasciando posto allo sgomento.

«Ce qui?»

«Hai capito benissimo, Nevrè Morell!»

«Come sai mon nom de famille?!»

«Ho letto l’articolo in cui si parla della tua morte!» Tirai fuori il cellulare dal sacchetto - non mi sono mai fidata dell’estate e poi sapevo che sarei tornata dall’acqua - e cercai la foto che avevo fatto al PC.

«Guarda!», urlai, rivolgendo lo schermo con la sua faccia verso di lei. «Non ha senso continuare con questa farsa e...» 

Mi calmai ancora, di colpo.

«... e mi dispiace, comunque...» 

Tutta la rabbia stava evaporando come neve al sole, lasciandomi di nuovo capace di provare umana empatia.

Scosse mestamente il capo e, cogliendomi completamente alla sprovvista, si voltò, decisa a mollarmi lì.

«Nevrè!», chiamai. «Senti, mi dispiace! Ho paura e mi sono lasciata andare! Torna qui!»

Non accennò a fermarsi e neppure a voltarsi.

«Nevrè!»

Niente, voleva proprio andarsene... Bon, non che la si potesse biasimare...

Non ricordo quale pensiero, di preciso, mi mosse, ma so che scattai verso di lei.

«Aspetta...» la supplicai, prendendola per il polso. «Non m’importa se sei un fantasma, va bene? Prima di perdere la testa, avevo deciso che volevo provare ad aiutarti. Lo voglio ancora!»

Stavo per partire a parlare della Patrizia, ma lei si voltò.

«Non tocca, s'il vous plaît.»

«Scusa!», esclamai, lasciandola andare.

In quel momento, nel momento in cui la mia mano si separò dal suo polso, mi resi conto di averla toccata e di conservare sul palmo la sensazione della sua pelle, il suo calore e il suo colore: un pallido blu.

«Io no bisogno di aiuto, tu bisogno qualcuno aiuta te, Andrea.»

«Sì, è probabile», liquidai. «Com’è possibile che sia riuscita a toccarti?» Quello, mi interessava.

«Stanca di tue absurdité, Andrea...» sospirò.

Però, almeno, si era completamente voltata verso di me.

«Sì, e c’hai pure ragione... Ma mi spieghi perché riesco a toccarti?»

«Ah, oui!», esclamò. «Io morta come chiodo di porta. Avevo dimenticato.»

«Eh, appunto!», annuii, con veemenza.

«Je suis sarcastique!», sbottò. «Io no morta! Come fai pensare cosa così?!»

«Ma... Eh...» mugugnai. Non ci stavo capendo più niente. «Forse non sai di essere morta... No... non sei morta...»

«Cosa detto io?»

«Eh, ho capito... Ma come spieghi l’articolo con la tua morte? Mi hai confermato tu che il tuo cognome è Morell, o no?»

«Leggi nome!», mi ordinò.

«Ma non c’è il nome! C’è la N, come Nevrè. Nevrè Morell! Il tuo nome è o non è Nevrè Morell?»

«Basta ripetere mio nome! So quale è mio nome!»

«Eh, ho capito, ma così non andiamo da nessuna parte, Nevrè...»

«Dove vuoi andare?»

«No, è un modo di dire...»

«Capito questo! Chiesto dove vuoi andare con tue parole!»

«Ma da nessuna parte! Aaah! Mi sembra di impazzire!», urlai, voltandomi per avvicinarmi alla pozza e bagnarmi la faccia.

Non mi bagnai il volto: lo immersi direttamente nell’acqua gelida.

Meglio. Molto meglio...

Mi tirai su e mi voltai.

Nevrè era sparita.

E no eh...

«Sono qui...»

Riuscii a non strillare per lo spavento.

Mi accorsi che si era solo spostata al mio fianco, dalla parte opposta a quella che avevo scelto per voltarmi.

«Nevrè... senti, perché lì ci sono il tuo nome e il tuo volto...?» Ero esausta. Completamente sfinita.

Non mi rispose, continuò a guardare in profondità, dove cadeva l’acqua.

«Se hanno fatto un errore...» tentai. «Non lo so, magari...» riprovai. Ma non sapevo neppure io cosa avrei voluto dire. Volevo solo che mi spiegasse perché si trovava su quell’articolo, nient’altro.

«Guarda bene, Andrea...» disse, e finalmente mi guardò. «C'est que je ne suis pas elle...»

Socchiusi gli occhi e mi ripetei la frase in testa.

«Non sei... lei? Lei chi? La ragazza della foto? Be’, mi spiace, ma sì, sei tu, Nevrè...»

«Non.»

«Nevrè...»

«Andrea...»

Continuare a ripeterci i rispettivi nomi non avrebbe portato a molto.

«Va bene, facciamo che non sei tu... Allora chi è?»

Sospirò e pensai che non avrebbe detto altro.

Mi sbagliavo.

«Nicole...»

Che c’entra Nicole, ora? Potrà essere anche lei una fan della serie, ma non mi pare il momento di- Oh...

Improvvisamente ricordai.

«Mi hai parlato di lei... E’ stato per quello che ti ho raccontato della mia sinestesia...»

Annuì.

Mi ero completamente dimenticata di lei. Se solo me ne fossi ricordata prima, le precedenti ventiquattrore avrebbero avuto tutto un altro senso... un altro colore... un altro tutto. Sì, perché alla fine sapevo che il mio cervello avrebbe scelto la strada più logica, in quel caso. Non mi sarei chiesta se fossi pazza o se avessi visto un fantasma... be’, magari all’inizio inizio sì, ma poi, ricordandomi della Nicole-non-poliziotta, avrei cominciato a pensare quello che c’era da pensare.

Io l’avevo detto che c’era un’altra spiegazione, una terza opzione, alla vocina inedita, ma poi... poi le cose sono andate come le ho descritte, per quanto mi imbarazzi ammetterlo.

Ancora prima di farmi domande, avevo la risposta. E’ sempre stata nella mia testa, sepolta nell’inconscio. 

«Tua sorella Nicole...»

«Sœur jumelle.»

«Sorella gemella?»

Annuì di nuovo.

Ritirai fuori il cellulare e guardai per l’ennesima volta il volto di Nevrè. Ma quello non era il suo volto. 

A quel punto notai davvero gli orecchini dorati a forma di tartaruga. Alzai lo sguardo su Nevrè: niente buchi, come infatti avevo pensato il giorno prima. Giù di nuovo sulla foto e osservai il neo, appena sopra il sopracciglio sinistro. Nevrè non aveva nei. 

Comunque, per il resto erano identiche.

Okay... Dio, okay un corno, ma comunque...

«Non so cosa dire, Nevrè...»

«Non c’è da dire niente.»

No, qualcosa da dire c’era eccome.

«Mi dispiace da morire per... tutto... Il mio comportamento...»

«No in collera con te, Andrea: capito tu tanta paura. Capito cosa tu pensava. Capito.»

Oh, se tu sapessi che pandemonio ho tirato su...

«Vorrei che tu ti arrabbiassi. Ma sul serio, questa volta...»

«Più arrabbiata perché tu preso pierre: brutto gesto.»

«Se potessi tornare indietro, non lo rifarei. Ma se avessi avuto il potere di tornare indietro, Nevrè, tu e io non ci saremmo mai neppure incontrate, perché avrei fatto qualcosa per impedire che mia madre finisse chissà dove e non avrei dunque avuto motivo di venire a cercare quei due mona qui... Invero, non ho mai avuto bisogno di quel potere: mi sarebbe bastato essere una figlia migliore...»

L’avevo detto senza quasi rendermene conto. Ma mi sentii meglio, ora che l’avevo detto ad alta voce.

«Sono un disastro, in tutto... E sono pure stata terribile e perfida con te, che sei... che sei... sempre stata gentile con me...» 

«Non», disse, avvolgendomi fra le braccia. Si irrigidì e chiese: «Posso toccare te, Andrea?»

Non le risposi verbalmente, perché avevo cominciato a piangere, ma ricambiai l’abbraccio.

Il muco, che mi ostruiva le vie aeree, mi impedì di identificare fino in fondo il suo odore, ma posso dire che era buono, anche con quel lieve sentore di sudore fresco.

«Tu solo bisogno parla con qualcuno amico, poi tutto meglio, Andrea, oui?»

 

Le raccontai tutto: di mia zia Alberta, di mia madre, dei miei amici, delle mie teorie. Tutto quanto, tutta la verità. Fu molto imbarazzante, ma ritenni di doverglielo.

Lei, in cambio, mi raccontò di Nicole.

 

Nevrè e Nicole, all’inizio di giugno, quando erano arrivate qui in Friuli per dare inizio alla vacanza, avevano conosciuto un ragazzo più grande, proprio al bar dove di solito stava il Peppino; infatti, mi disse, il ragazzo era intervenuto perché Peppino stava facendo loro il discorso sull’alcol e non le mollava più.

Questo ragazzo più grande - di cui non ha rivelato il nome e neppure una descrizione sufficiente a farmi capire se lo conoscessi o meno - si è subito mostrato interessato a Nicole. E’ stato lui a proporre a Nicole di andare dalla Cascata - Nevrè non era stata esplicitamente invitata, ma non si fidava di lasciare sola la gemella con un ragazzo più grande e sconosciuto, non in un luogo così appartato. A costo di rendersi sgradevole, come solo i terzi incomodi, li aveva seguiti.

Sono saliti in cima e lui ha saltato, per far colpo su Nicole. Nicole, per lo stesso motivo, ovvero far colpo sul ragazzo, ha saltato anch’ella.

Nevrè, dal basso, li ha osservati far avanti e indietro un paio di volte... fino a quando ha visto la sorella precipitare nel vuoto. Non ha neppure avuto il tempo di urlare; nessuna delle due, in realtà.

Si è buttata in acqua e anche il ragazzo è sceso subito, per vedere di aiutarla. Ma non c’è stato niente da fare, perché, cadendo, Nicole aveva sbattuto la testa sul masso in mezzo alla pozza; lo stesso su cui Mario si era sbucciato il ginocchio, ma lui aveva frenato la caduta prima, aggrappandosi a delle radici.

Ricorda di averla portata a riva e poi è tutto confuso, fino a quando si è trovata circondata da Carabinieri, Forestali e personale della Protezione Civile.

 

«Domani portare di nuovo Nicole a casa», disse. «Indagini finite.»

«Mi dispiace tanto, Nevrè...»

«No triste, Andrea. Nicole morta come vissuto: libera, facendo quello che voleva, con la sua mente e no con quella di altri. E poi questo posto è bellissimo... anche me piacerebbe morire in posto così.»

«Lo so che ci sarebbe di meglio da dire, ma devo chiederti una roba: davvero non sei arrabbiata con me?»

«No voglio sprecare mio tempo a essere arrabbiata, Andrea. Nicole mi ha fatto vedere che vita può andare via d’improvviso, senza dire o chiedere permesso; non voglio sprecare mio tempo con pensieri et emozioni brutte, non serve a niente, solo vivere male poco tempo che abbiamo. Tu tanto dispiaciuta, capito questo, come capito tu no cattiva. No in collera con te. No in collera con ella. No in collera con ragazzo. In collera con nessuno.»

«Neppure per la storia della pietra...?»

«Non. Passato. C'est bon.»

«Non credo che te l’avrei tirata, comunque, anche se ero convinta che eri incorporea...»

«C'est bon, Andrea. Non serve parlare più.»

«Adesso so che non sei un fantasma, ma alcune tue robe... Insomma, ci sono ancora un paio di cose che vorrei capire...»

Il perché si trovasse lì l’avevo capito da me: voleva stare un po’ nell’ultimo posto in cui aveva vissuto con sua sorella, forse il posto dell’ultimo sguardo, dell’ultimo sorriso.

Mi spiegò come aveva fatto a scendere così in fretta dalla cima: aveva legato una corda, sopra, così, mi disse, magari le persone avrebbero trovato più interessante provare la corda, piuttosto che saltare dall’altra parte. Forse non ci sarebbero stati altri morti - per ora è così. Me la fece vedere. Dalla spiaggetta non era visibile, perché stava in una scanalatura, di fianco alla cascata. Le promisi che, nel giro di qualche anno, se mi fossi accorta che si era deteriorata, l’avrei cambiata io.

La domanda sul fatto che esistesse o meno? Non c’era una vera e propria spiegazione, mi disse; l’aveva detto così, pensando a quello che le avevo detto io sulle ‘‘sagome’’ delle zia Alberta.

La sigaretta? Era stata tentata, ma aveva deciso di smettere dopo la morte di Nicole. Tutto lì.

La volta che mi era apparsa da dietro? Si era imboscata per fare pipì dietro un cumulo di rami e altre robe portate dalle corrente. Il rumore dell’acqua aveva fatto il suo ma, comunque, lei aveva fatto piano per cogliermi di sorpresa; così, giusto per scherzare. Una roba innocente che le circostanze - soprattutto la mia mente - avevano distorto come sappiamo.

Il suo registratore incorporato? Niente, Internet e una predisposizione naturale all’apprendimento delle lingue - parlava fluentemente francese (be’) inglese e tedesco; l’italiano lo studiava solo quando veniva qui in Friuli, così, per vedere quanto si imparasse solo sul territorio, per tre mesi l’anno.

Dimentico qualcosa? Sì: i vestiti e la copertura di rete.

Inizialmente, quel giorno, non vi avevo badato, ma si era cambiata: il vestito - o i vestiti, devo ancora saperlo - giallo era stato sostituito da una camicetta di colore simile - il giallo le piaceva un botto - e da un paio di jeans bianchi. I colori simili a quelli che ero abituata a vederle addosso e il fatto che fossi un po’ partita di testa, mi avevano impedito di farci caso.

Riguardo la copertura di rete... quello l’avrei scoperto anni dopo, ma sul finire di quell’estate stavano mettendo un ripetitore. Fu grazie a Nicole: il ragazzo era dovuto arrivare quasi fin in paese, per poter chiamare aiuto; così il sindaco aveva deciso che quell’area dovesse essere coperta, dal momento che era l’unica davvero isolata. Lo stesso sindaco aveva diramato degli avvisi, rilasciato interviste eccetera, in cui pregava i suoi concittadini di prestare massima attenzione, di essere prudenti e non andarci da soli, visto quello che era accaduto. Quelle robe me le ero perse, impegnata com’ero a godermi l’estate.

C’era una spiegazione a tutto, eppure è stato così facile creare il malinteso che mi ha cambiato la vita. No, non sto esagerando: sono una persona diversa, grazie a quello che avvenne quell’estate; e Nevrè ricopre più del cinquanta percento, in tutto questo.

A prescindere da mia madre - di cui parlerò dopo - la mia vita era sempre stata una linea retta, così la vedevo; poi... bam!, Nevrè. Linea, poi Nevrè. Un masso sulla mia strada, che mi aveva costretta per sentieri assurdi, al limite della fantasia più sfrenata.

Mi do ancora della cretina, per aver pensato alla follia; ma del resto, vista la mia storia famigliare... I fantasmi, eh, con quella roba ci devo ancora fare pace, perché non so bene cosa pensare; in fondo, per un intensissimo giorno, ci ho creduto.

Comunque, in tutto quello, mi dimenticai di chiederle perché proprio in Friuli: perché attraversare tutto il settentrione, per imboscarsi qui. 

Non l’ho mai scoperto.

 

«E così domani riparti...» dissi.

«Oui. Aereo... Euh... domani pomeriggio. Sperato tu oggi torna qui, perché volevo dire addio, Andrea.»

«Ma tornerai, no? L’anno prossimo, dico.»

Scosse piano la testa.

Non ce ne sarebbe stato bisogno, ma mi disse che i suoi non volevano tornare, non dopo quello che era successo a Nicole.

«Quindi non ci rivedremo mai più...» mormorai.

«Possiamo scrivere messaggi, oui?»

«Hai Facebook o robe simili?»

«Non», sospirò.

«No, neppure io... non mi piace che la gente debba farsi i fatti miei o che possa rintracciarmi random. Ma potremmo scambiarci i numeri di telefono!», esclamai poi. «Posso segnarmi il tuo numero, dato che ho il cellulare qui!»

«Euh, domani: non so mio numero a mente et niente per scrivere.»

«Già... Allora domani vengo a salutarti per bene, va bene?»

«Prima di midi... Euh... Prima di mezzogiorno, oui? Valigie, viaggio con macchina et poi aereo, oui?»

«Sarò qui alle dieci. Va bene o è troppo tardi? Effettivamente, non è che io abbia altro da fare, quindi posso venire anche prima, pensandoci... E poi, voglio un’altra occasione per vederti...»

«Dix c'est parfait!», mi sorrise.

«Perfetto!»

Dovevamo salutarci, perché si stava facendo tardi e lei aveva cose da fare; inoltre, il cielo ci aveva risparmiate, ma continuava a brontolare sopra di noi. Meglio non farsi beccare da un fulmine, sopratutto con tutta quell’acqua attorno.

«Prima di andare... Nel senso...» farfugliai, senza trovare il coraggio di chiederle quello che volevo.

«Vuoi ancora abbracciate, oui?», mi chiese e rise.

«Eh... mi piacerebbe, sì... Possiamo?»

«Viens ici, Andrea!»

E io andai da lei.

«Aïe aïe, timide Andrea!», ridacchiò, stringendomi e sballottandomi appena.

Questa volta riuscii a cogliere il suo odore: sapeva di vaniglia, ma non di ciambelle, come l’agente Haught - secondo la visione di Waverly - più di vera vaniglia. E confermo il suo colore: blu pallido; non azzurro, proprio blu pallido.

«Allora a domani, Nevrè...» dissi, lasciandola, mio malgrado, andare.

«A domani, Andrea. Au revoir!»

«Arrivederci...» mormorai, osservandola scattare via.

Adesso non ci resta che tornare dalla Patrizia e dirle che abbiamo sconfitto i nostri demoni...

Qualcosa annuì e io mi voltai, dal momento che oramai Nevrè era stata inghiottita dalla vegetazione.

 

 

La pioggia mi sorprese sulla soglia di casa, quindi, almeno quel giorno, riuscii a non inzupparmi.

Nel salotto trovai il papà e la Lilla, intenti a seguire le avventure del Trenino Thomas.

Lilla - profumatissima e freschissima di bagnetto - mi corse in contro e mi disse che prima si era tanto divertita. Le risposi che, sì, anche per me era stato lo stesso.

Chiesi a mio padre se la Patrizia fosse nello studio e, ricevuta conferma, salii al piano di sopra.

 

La Patrizia e io ci spostammo nella mia camera; lei sul letto e io alla scrivania.

Pensavo sarebbe stato difficile raccontarle tutto, trovare il modo di ricostruire gli eventi e non fare confusione; invece dalla mia bocca sgorgò tutta la storia, con facilità, quasi con naturalezza.

 

«Non sei sorpresa... non quanto mi aspettavo, almeno...» commentai.

Una parte di me, in realtà, si aspettava di vederla prendere su il cellulare, per chiamare qualche clinica; questo prima di ricordare che lei era la Patrizia, certo.

Sorrise e si strinse nelle spalle.

«Almeno ora ho capito perché mi fossi convinta che la ragazza di cui mi parlavi e quella che, purtroppo, ha avuto l’incidente fossero la stessa persona; anche se così non è.»

«E come avresti fatto a capire la cosa, scusa?»

«Tesoro, mi hai parlato di una ragazza francese e, guarda un po’, Morell è un cognome francese.»

«Ah... Bon, ha senso.»

«Mi dispiace tu abbia avuto un momento così difficile, così spaventoso; ma puoi vederla come un’avventura. Sei d’accordo? Potresti scriverci una storia.»

«Non penso: a me piace leggere, ma non sono capace di scrivere.» 

Le cose sarebbero andate diversamente, ma non potevo saperlo - e con questo non intendo dire che ora sappia scrivere, ben inteso.

La Patrizia stava per aggiungere qualcosa o forse stava per venire ad abbracciarmi, ma sentimmo i gradini scricchiolare oltraggiati sotto il peso di qualcuno piuttosto di fretta.

Papà spalancò la porta e, appoggiando il cellulare al petto, ci disse che avevano ritrovato la mamma.

Ricordo di aver sperimentato la stessa cosa di un paio di giorni prima, solo che ‘sta volta il palloncino si era gonfiato ed era esploso in una frazione d’istante.

 

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Capitolo 10
*** Nove ***


      Nove

 

 

Non ero pronta. Non lo ero affatto.

Era successo quando avevo la guardia completamente abbassata, preda del sollievo di aver risolto l’arcano di Nevrè e raccontato tutto alla Patrizia. Quello era un momento di calma assoluta, di pausa da tutto, era la Svizzera... eppure, la Svizzera era appena stata bombardata.

Nessuno mi aveva avvisata, ma la scatola era stata scoperchiata e tutti stavano guardando che ne fosse stato di quel gatto. Tutti tranne me, che non avevo il coraggio di sbirciare o di prestare l’orecchio per un eventuale miagolio.

Sentii mio padre e la Patrizia parlare, ma non ricordo assolutamente niente, nessuna loro parola; c’erano solo i miei pensieri alla rinfusa. Fra quei pensieri, ignoro il preciso perché - anche se posso intuirlo - c’era l’immagine di Federico e Mario, vestiti di nero che, tenendomi un ombrello sopra la testa, mi facevano le loro condoglianze. In fondo eravamo amici da sempre: una simile tragedia poteva, doveva appianare e scacciare ogni conflitto.

Mio padre mi afferrò per le spalle; la mia prima tentazione fu quella di spingerlo via, perché odiavo profondamente essere toccata quando ero a un passo dal perdere il controllo di me e delle mie emozioni.

«Vieni con me, Andrea? Andiamo dalla mamma?»

Lo trovai disgustoso, mi dispiace dirlo, ma fu così: come poteva avere il desiderio di avere a che fare col cadavere di una persona cara?

No, col cavolo che avrei trasformato, inquinato l’ultima immagine della mamma; l’ultima immagine era quella di lei che sale in macchina, qui, nel nostro cortile, che mi sorride e mi fa ciao con la mano. Un’immagine così bella e rassicurante.

Non ci saranno altre immagini, dopo questa. Se mi chiederanno di darle l’ultimo saluto, con la bara aperta, rifiuterò. Frega niente. Ci devo convivere io, con la mia mente, mica gli altri.

Non sto piangendo... Perché non sto piangendo? Ho voglia di farlo, ma non ci sto riuscendo. E’ la conferma di tutto: sono sempre stata una pessima figlia... Sfido io che mi abbia lasciata...

«Resto io con Andrea», disse la Patrizia, interrompendo i miei pensieri. «Portati Lilla.»

Ma sono impazziti, ‘sti due? Ho sempre avuto a che fare con dei sadici? Una bambina davanti il cadavere di quella che lei chiamava zia?!

«La porto qui. Lo avvisi tu Pietro?»

«Ci penso io, non preoccuparti, tesoro. Vai.»

Non possono essere seri. Non possono essere le persone con cui ho condiviso la vita!

Poi si confonde di nuovo tutto. Ricordo solo di aver piantato lo sguardo negli occhi della Patrizia, che mi si era inginocchiata davanti.

 

«Tra poco potrai rivedere la tua mamma, Andrea», mi sorrise a un certo punto.

«Io non lo voglio vedere, un cadavere!», esplosi. «Non m’interessa quali strane-»

«Tesoro», m’interruppe, «cosa stai dicendo? Lucrezia sta bene, Andrea. Non hai sentito? Tuo papà e Lilla la stanno andando a prendere, in commissariato.»

E lì, in quel preciso istante, scoprii di non aver perso l’abilità di piangere.

 

Mi rendo perfettamente conto che avrei potuto omettere tutta questa parte, soprattutto quella delle mie assurde riflessioni, dal momento che sono tutto fuorché lusinghiere o appartenenti a una persona apposto; ma ho sempre raccontato esattamente le cose per come sono andate, sempre, per tutto il testo, non vedo dunque ragione per smettere ora.

Comunque, dopo aver capito che mia madre stava bene, mi sono lasciata travolgere da tutto: sollievo, rabbia, paura... così, in loop.

Ho sfogato tutto sul petto della Patrizia, che mi ha tenuta stretta e salda per tutto il tempo.

 

Quando la Patrizia è scesa per andare a chiamare Pietro, mi sono chiusa in camera, a chiave.

Non volevo saperne, almeno per un po’.

Nel mio petto si stava svolgendo una guerra, in cui a esplodere erano palloncini d’argento.

Avevo bisogno di calma, di riordinare le idee, di tornare padrona del mio interiore.

Ero felice, ma ero anche terribilmente incazzata.

Avevo dei sensi di colpa, in particolare per il fatto che fossi così arrabbiata con mia madre. Non lo doveva fare, mi dicevo. Poi mi facevo pessima, cattiva, e pensavo che a quel punto non doveva neppure prendersi il disturbo di ricomparire. Non erano cose che pensavo davvero, ma un po’ sì. Erano pensieri intrusivi su cui avevo e non avevo potere. Non saprei neppure io.

 

Un paio di ore dopo, quando sentii tornare la macchina del papà, il palloncino diventò enorme e dovette adattarsi alla forma del mio tronco; in contemporanea, si scatenò una tromba d’aria.

Avevo la sensazione di svenire, perché il cuore minacciava di esplodere e mi sembrava che l’aria fosse stata risucchiata via dalla stanza.

La cosa si fece quasi intollerabile quando bussarono alla porta. Non so chi fosse, non me lo ricordo, so solo che urlai di voler essere lasciata in pace.

Mi gettai sul letto e, presi su cellulare e cuffie, feci partire i Lordi a palla; così forte, che non riuscii neppure a sentire i miei pensieri: perfetto.

 

Ma, a un certo punto, i pensieri riuscirono a sovrastare perfino la poderosa voce del cantate finlandese; la corteccia rivestita di muschio - la sua voce - fu sostituita e rimpiazzata da due linee, una rossa e una blu: la mia voce interiore.

L’abbiamo punita a vonde.

Chi? La mamma? Non la sto punendo...

Sì, invece, e lo sappiamo benissimo.

Anche se fosse? Col brutto tiro che m’ha tirato, meriterebbe di peggio!

Tipo di essere davvero morta.

Ehi! No! Non è quello che intendevo! Sto solo dicendo che bisogna farle capire che non è che può fare come le pare. Non può scomparire e riapparire a suo piacimento, non dopo più di una settimana! Cosa sono io, un hotel?

Avremo potuto impedire che lo facesse, se ci fossimo dimostrate delle figlie migliori. O, sai cosa? Ricevere una sua chiamata, in cui ci diceva che voleva del tempo per sé, ma che intanto ci chiamava perché si fidava di noi. Non ha potuto fidarsi di noi, perché siamo state delle figlie terribili.

La smetti di fare Gollum?

Sei sempre te, che parli, ricordatelo.

 

Il dialogo/monologo interiore andò avanti per molto tempo, forse un paio d’ore, forse più. Fatto sta che alla fine avevo capito quello che dovevo capire e, soprattutto, mi ero calmata. 

Ero finalmente giunta alla pace e sapevo esattamente cosa fare. Inoltre, dovevo andare in bagno, dunque i cancelli del mio fortino dovevano aprirsi in ogni caso.

 

Aprendo la porta, il fatto di trovarmela davanti, seduta sul pavimento, fallì di sorprendermi.

Era vestita nel mio modo preferito: camicia bianca e jeans neri. Le avevo sempre detto che, quando vestiva così, mi ricordava l’eroina di una della mie storie preferite: una vampira mossa dalla sete di vendetta che, però, poi scopre di... be’, di aver sbagliato quasi tutto, in buona sostanza. Però trova l’amore e tutto...

La trovai perfino più magra del solito, ma non come avevo temuto.

«Ciao...» gracchiò mamma. Doveva aver versato qualche composta lacrima, non molto di più; ma la sua gola doveva essere ancora impiastrata di muco e le sue corde vocali, di conseguenza, vibrarono male.

Mi stava fissando i jeans, all’altezza del ginocchio, senza trovare il coraggio di portarli neppure un poco più in alto.

Io, dal canto mio, le stavo guardando la piccola cicatrice bianca, di lato alla riga dei capelli: da piccola - poco più che neonata - le avevo tirato addosso un vaso. Ero fra le sue braccia, stando al suo ricordo, e cercavo di afferrare tutto ciò che vedevo... su una mensola trovai il grosso oggetto di cristallo e feci in modo di fargli conoscere il cranio di mamma.

«Devo fare pipì», dissi, infrangendo il denso, grigio silenzio. «’spettami in camera, così parliamo.»

Lei annuì e si alzò; io andai verso il bagno.

 

Mi misi seduta sulla tazza e, espletato il mio bisogno, presi della carta igienica. Rimasi lì per un po’, a guardare il pallido rosa della materia che mi sarebbe servita per detergermi, senza decidermi ad alzarmi e usarla.

E’ il momento.

Lo so.

Siamo pronte?

Chi può dirlo? Penso di sì, dai...

Questa volta non dimenticheremo il discorso che abbiamo scritto nella nostra mente.

Non trovi sia un po’ calcolata, come cosa, un po’ fredda?

Nah! Ci serve per non commettere errori. E poi, sono cose sincere che pensiamo davvero, no?

Sì, hai ragione.

 

Mi fermai sulla soglia della mia stanza.

Mamma si era seduta sul bordo più corto letto. Aveva appoggiato gli avambracci sulle cosce e congiunto le mani, intrecciando le dita. Teneva la testa china e la folta chioma nera le ricadeva tristemente giù. I suoi occhi stavano studiando i ghirigori del mio tappeto; o forse no, non guardavano nulla di esterno alla sua mente. Chissà.

La vidi guardarmi negli occhi, alzarsi e venirmi incontro, stringermi e dirmi che mi voleva bene, che non mi avrebbe mai lasciata.

Lo vidi solo con gli occhi della mente, perché quelli non erano atteggiamenti da mia madre. 

Sembrò accorgersi di me, perché la sua testa ebbe un piccolo scatto: forse, per istinto, stava per sollevare il capo. Non lo fece. Rimase in quella posizione, in attesa.

Entrai e mi chiusi la porta alle spalle, anche se odiavo intrappolarmi col mostro nero e le due malefiche gemelle.

Mi misi seduta alla scrivania e presi a fissarla. Questa volta mi concentrai sulle mani, scure, magre e piene di vene gonfie. Mi erano sempre piaciute, le sue mani. Da bambina, me lo ricordo bene, non facevo che chiederle se anche le mie sarebbero state così.

Seguendo quel pensiero, mi guardai il dorso delle estremità: Sì, dai cominciano ad assomigliarci.

Il discorso...

Ci sto arrivando...

«Sono incazzata nera con te...» mormorai, tenendo lo sguardo fisso dov’era prima.

«Lo capisco», replicò. «An-»

«No, Andrea niente», la intruppi. «Ora parlo io. Parlerò facendo finta che tu non sia qui, altrimenti non mi uscirà mezza cosa, so già. Okay?»

Silenzio.

«Grazie», approvai. 

Mi presi poi un secondo. Giusto uno.

«Dicevo», ripresi. «Sono incazzata nera con te, mamma. Sono incazzata, perché mi sono sentita tradita e abbandonata. Sono incazzata, perché ho creduto che te ne fossi andata via per sempre, senza neppure dirmi addio. Senza neppure ricordarmi che mi volevi bene... sempre ammesso che tu me ne voglia davvero, certo...»

«Certo che te ne voglio, sciocchina!», guaì. «E’ stato solo... un...»

Mi vidi costretta a interromperla ancora:

«Sta parlando Lucrezia o sta parlando Andrea?»

Con la visione periferica, intuii che stava annuendo.

«Mi risultava inaccettabile il pensiero che m’avessi fatto una cosa del genere, mamma. Non potevi aver fatto una cosa del genere, né a me né al Pietro... e, un po’, neppure alla Lilla, che ti considera come zia. Il papà... bon... per lui sei ancora la sua migliore amica, ma è un’altra roba.»

«Ha detto così?»

Decisi di non arrabbiarmi; l’assecondai:

«Sì, ha detto così. Ieri notte mi ha raccontato di quando eravate ragazzini e tutto. Bon. Posso andare avanti, ora?» 

Non fiatò.

«E non ero solo arrabbiata, ero soprattutto triste e ferita. Come avrebbe potuto essere diversamente, no? Zio bon, sei mia madre!»

«Andreana...»

«Non è una bestemmia, solo licenza poetica furlana, forse anche veneta! E non sta a usare il mio nome intero: non è a me che va la predica, Lucrezia! E non interrompermi più, o giuro che ti mollo qui!», sbottai. «Zio bon», ribadii, perché sì.

La sentii sospirare piano, ma non aggiunse nulla.

«Hai una vaga idea di cosa succede, nella mente di una ragazza, quando pensa al cadavere della propria genitrice? Non rispondere: era una domanda retorica. Sono del parere che ognuno abbia il diritto di vivere e morire come più aggrada loro, ma santo Giuda, ci saran dei limiti, no? Anche questa era retorica.»

Sospirò ancora, probabilmente nel trattenersi dal dirmi che, sì, aveva capito di non dover rispondere.

Ora la parte più difficile...

«Oltre a tutto questo, mamma, ho capito di esserti grata...»

Mi bloccai, perché qualcosa si agitò sotto il diaframma: mica facile, mostrare emozioni ‘‘positive’’, eh...

«Per il tuo colpo di testa, o il cacchio che t’è preso, ho conosciuto una ragazza...» Esitai qualche momento; poi presi coraggio e dissi, tutto d’uno fiato: «Bon già che ci siamo mi piacciono le ragazze mi sono sempre piaciute!»

«Lo so, Andrea.»

Non era la reazione che mi sarei aspettata, ma neppure quella che non mi aspettavo: non ero mai riuscita a figurarmela. Ma forse rimasi un po’ delusa: mi aspettavo un po’ di drammaticità... o qualcosa del genere, insomma. Bon, meglio così, eh...

«Davvero...?»

«Sei mia figlia.»

«Quando ti fa comodo», sibilai, velenosa. Mi pentii subito: «Scusa. Questa potevo risparmiarmela...»

«Non preoccuparti. Lo capisco: sei arrabbiata, me l’hai appena detto... Per quanto riguarda l’altra cosa: voglio che tu sappia che-»

«Dopo», la bloccai. «Dopo parliamo delle mie preferenze e, se ci sarà tempo, anche del genere umano in generale. Ora ho altre robe da dire.»

Riordinai un momento le idee.

«Bon. Ho conosciuto questa ragazza - poi vedrò anche di raccontarti l’assurda vicenda in cui sono capitata e tutti i malintesi - ed è lei che devi ringraziare, se ora ti sto parlando. Lei ha un modo di intendere la vita che un po’ mi ricorda quello della Patrizia: molto zen. Le ho fatto quasi di tutto, l’ho offesa in ogni modo e sono stata di una stupidità e di un’infantilità da farmi schifo da sola... Ma lei vuol ancora essere mia amica.

«Pomeriggio mi ha detto una roba, delle parole che, sul colpo, non hanno fatto molto... ma prima, mentre pensavo - oh, adesso le voci nella mia testa sono due, giusto per dirti - mi sono tornate e mi hanno fatto capire che sono vere anche per me: la vita è tanto breve, perché sprecarla a essere arrabbiati? Io non voglio più essere arrabbiata con te, mamma, perché metti che ci succede qualcosa, un qualsiasi incidente e non ci rivediamo mai più... Non voglio che muori e non voglio morire senza essere in pace con te. Non voglio mai più sentirmi come mi sono sentita in questi ultimi giorni. Mai più, cascasse il mondo!»

Alzai gli occhi su di lei, che teneva ancora i suoi sul tappeto... dove, notai, c’erano dei cerchietti scuri.

«Non volevo farti piangere...» mormorai, sentendomi improvvisamente miserabile e perduta. Tutta la rabbia del mondo, non avrebbe mai potuto oscurare l’amore che avevo per lei: vederla soffrire mi spezzava il cuore... meglio, vederglielo palesare, lo faceva.

Tirò sul col naso e mi mostrò il palmo della mano, mentre con l’altra cercava di asciugarsi gli occhi.

«Va tutto bene, Andrea... Hai ragione tu...»

«Per aver ragione, so d’aver ragione... ma mica volevo farti piangere... Mica facile, farti piangere, dico io, cazzuta e cattiva come sei...»

Ridacchiò. Una risata leggera, infantile, bagnata di lacrime. Un suono bellissimo e rassicurante, seppur, in qualche modo, sbagliato...

Lottai contro ogni forma d’imbarazzo e mi misi seduta accanto a lei.

Il lato destro del mio corpo assorbì e accolse immediatamente il caro calore. Faceva un caldo bestia, in quella stanza, ma provai il desiderio di starle ancora più vicino, perché quello era il calore della mia mamma; il calore che mi aveva circondata da sempre, da quando neppure avevo una coscienza mia. Per nove mesi, i nostri calori sono stati uno; e poi hanno continuato a cercarsi, ancora e ancora, quasi come fosse un tornare a casa o l’unire due metà.

Mi mise la mano sulla coscia e strinse un po’. Non disse nulla: era ancora impegnata a cacciar via le lacrime.

Posai il palmo sul suo dorso e, con l’estremità dei polpastrelli, sfiorai l’anellino d’acciaio che le avevo regalato qualche anno prima: una piccola lamina opaca che avevo raccolto da un torrente, che chissà per quando e da dove l’aveva trascinato. Non se l’era mai tolto; non l’avevo mai vista senza. L’aveva promesso, dopotutto, che non l’avrebbe mai fatto. Era una promessa differente da quella che aveva fatto al papà: della schiavetta e della fede non c’era neppure più la traccia più chiara. Ma un marito è un marito, una figlia è un’altra roba. 

Del suo colore non parlerò, perché è una cosa che vedo solo io, che non so come si chiama e son gelosa.

 

«Cosa hai fatto per tutto questo tempo?», le chiesi dopo un po’, quando il suo respiro fu tornato normale e i suoi occhi smisero di lacrimare. «Vorrei la verità. E non sta a indorarmi la supposta - non la pillola, la supposta, proprio - eh, perché non sono più una bambina. Puoi, anzi, devi dirmi le robe per come stanno... che tanto, immagini più brutte di quelle proposte dalla mia testa, non ne puoi cavar fuori, parola mia», aggiunsi poi.

«Lo so, Andrea, lo so che non sei più una bambina», disse, senza ancora trovare il coraggio di guardarmi in faccia, vergognosa come si sentiva. «Non mi aspettavo quel discorso... meglio: la prima parte, sì, ma anche peggio, con la seconda... mi hai sorpresa e commossa.»

«Sì, bon... eran robe che bisognava dire...» borbottai, imbarazzata.

«Sono d’accordo», annuì. «E voglio impegnarmi affinché non rimangano solo parole.»

«Pure io», assentii. «Altrimenti non le avrei dette. Ora dimmi che è successo...»

 

Mi disse di non ricordare precisamente il momento: sapeva che stava tornando indietro dal supermercato - da cui, però, alla fine non aveva comprato nulla - e di essersi sentita poco bene; ‘‘un cerchio strettissimo attorno alla testa’’, lo definì, accompagnato da pensieri sconnessi. Per non rischiare un incidente, aveva accostato lì dello spiazzo, dove poi han trovato la sua macchina.

Disse di aver cominciato ad avere pensieri sempre più brutti, di essersi sentita sempre più inutile, perfino nociva per chi aveva intorno.

Era scesa dalla vettura, con l’intenzione di farsi tirare sotto da qualcuno... Però, le ingiurie e le pivettate che le tirava la gente al volante, evitandola, non facevano che incrementare il mal di testa e spaventarla. Così si era messa a camminare sul ciglio della strada, senza una reale meta. Senza più ricordare perché lo stesse facendo. Andava e basta, un piede davanti l’altro.

Sapeva di aver dormito nei rifugi, nei boschi e perfino sotto un ponticello, il cui torrente, al disotto, s’era estinto una ventina d’anni prima

Aveva avuto il momento di rinsavimento, suppone, due o tre giorni dopo, in una mensa della Caritas, o roba simile. 

Il suo primo istinto era stato quello di chiamare casa o di dire al personale d’accoglienza chi fosse, dato che probabilmente qualcuno la stava cercando - in realtà no, non ancora. Ma poi non l’aveva fatto, perché si vergognava, perché si sentiva di peso e troppo malata per essere salvata.

In una di quelle mense aveva fatto amicizia con un signore, uno che si faceva chiamare Brizio il Tizio. Brizio le aveva detto che, se non sapeva dove andare, lui aveva una casetta, seppur in malora, ma che era sua e aveva ancora il tetto.

Seppur restia, alla fine aveva accettato, perché sentiva di potersi fidare di quell’uomo disgraziato quanto gentile. Infatti la trattò bene, sempre con gentilezza e premura. Le ha anche raccontato la sua storia; di come fosse passato da imprenditore a senzatetto. Fu una scelta, le aveva garantito, e mia madre non aveva obbiettato né trovato ragioni per non crederlo vero, visto come va il mondo.

 

«Le gentilezze, i doni te li fanno sempre quelli che hanno di meno», commentò. «Non è una frase fatta, credimi. Brizio non aveva neppure i soldi per vestirsi decentemente, ma quel poco che aveva l’ha diviso equamente con me.»

«Te l’ho sempre fatto notare che davanti i discount ci sono più che altro macchinoni... forse è perché son così tirchi e attenti ai soldi, che son, se non ricchi, benestanti», commentai, cercando di concertarmi su quello e non sulla prima parte della sua storia. «Bon, che è successo poi?»

Mia madre sospirò piano. Era evidente che le dispiacesse mettere da parte quella parentesi che era, per lei, stata umana e accogliente.

«Mi sono lasciata convincere a tornare...»

«Da Brizio?»

Annuì.

«Ah... Se no, fammi capire, quanto l’avresti durata?»

«Non lo so, Andrea. Certo non per sempre», rispose. «Mi ha accompagnata davanti alla Caserma dei Carabinieri, a Cividale o provin-»

«Fin là, sei andata?!», strepitai. Eh, non ci potevo credere!

«Fin là, sì», annuì.

«Ma son tipo più di cinquanta chilometri!»

«Passando per Tarcento, sono una quarantina, a piedi.»

«Ah, beh», feci. «Cambia tutto!» Poi mi resi conto che, bon, non era quello il punto. «Che ti han detto?»

«Che dovevano dirmi? Hanno chiamato qua, a Gemona, e cercato di capire se stessi dicendo il vero e chi fossi in realtà. Da qui hanno avuto conferma che una donna, che corrispondeva alle generalità che ho fornito loro, era effettivamente data per dispersa. Sono stati molto gentili - o spaventati che potessi sparire di nuovo - e mi hanno accompagnata fin su. Da lì ho chiamato papà.»

«Adesso stai bene?», m’informai, rendendomi conto che non mi appariva così lucida da anni.

«Mai stata meglio, Andrea... Sai che penso ci sia qualcosa che non vada con le medicine? Perché sono senza da più di una settimana, esclusi alcuni ansiolitici, e mi sento benissimo.»

Un paio di settimane dopo, infatti, si scoprì che i nuovi antidepressivi non solo erano troppo forti, ma facevano pure macello con gli altri farmaci che prendeva - per le emicranie e per la gastrite.

Un leggerezza che mi stava per costare la madre... 

Il vecchio bacucco decrepito che era il suo medico, guarda caso, decise che era tempo di andare in pensione e godersi i soldi del duro lavoro in qualche calda località - forse parlò di qualche Tropico - proprio qualche giorno prima che partissero delle vere e proprie indagini, dato che mio padre aveva sporto denuncia; anche perché si sospettava che anche altre sue crisi fossero state scatenate da prescrizioni superficiali.

 

Mamma e io passammo tutta la notte a parlare e raccontarci tutte le nostre robe.

Verso le cinque e mezza, quando ormai stava albeggiando di brutto, le chiesi di dormire con me, come quando ero bambina, stretta stretta a lei.

«Ho chiesto anche alla Patrizia di abbracciarmi come stai facendo tu...» le confessai, sentendomi colpevole. «Però tu sei tu...» aggiunsi, quasi aggiustasse tutto.

«Voglio bene a Patrizia, ed è giusto che anche tu gliene voglia, perché è una brava persona e si è presa e si prenderà cura di te.»

Le avevo raccontato tutto anche di lei, alla mamma, mancava solo quella parte lì dell’abbraccio.

«Poi», soggiunse, «del fatto che la tua mamma sarò sempre io, non si discute!», esclamò, giocosa, stringendomi più forte e dandomi un bacio sulla guancia - un po’ troppo vicino all’orecchio: mi assordò un po’; ma non non mi lamentai.

 

Tutto era magnifico e si era risolto bene.

Quasi tutto, in realtà: mi svegliai attorno alle quattro del pomeriggio, ovvero sei ore dopo il momento in cui sarei dovuta essere da Nevrè... Ero convinta di aver messo una sveglia, ma forse mi ero sbagliata... o era stata spenta. 

Non ho mai scoperto la verità.

Anche precipitandomi a Ronchi - l’unico aeroporto del Friuli - non avrei mai fatto in tempo, perché il pomeriggio sarebbe mutato in sera, ovvero dopo quando mi aveva detto sarebbe partita... non ci sarebbe stata occasione per una scena da film... 

La Patrizia si offrì comunque di portarmi di corsa là, per vedere se all’ultimo ci fosse la possibilità di un saluto, ma - anche per consiglio di mamma - lasciai perdere.

Il giorno seguente, più per disperazione e infantilità che altro, tornai alla Cascata.

Attesi fino alle prime avvisaglie di buio, ma Nevrè, ovviamente, non venne mai.

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Capitolo 11
*** Epilogo ***


      Epilogo

 

 

Questa storia, questo ricordo l’avevo scritto, come detto, quindici anni dopo le vicende.

Ci rimetto mano oggi - cinque anni ancora in avanti - dopo averlo abbandonato in una chiavetta USB e aver rinunciato a ogni proposito di pubblicazione - anche amatoriale - perché non mi sentivo di pubblicare un lavoro del genere, con una fine che non era davvero una fine... per me sì, ovviamente, ma penso sia chiaro ciò che voglio esprimere.

Ci rimetto mano perché ora ho l’occasione di scrivere l’ultimo capitolo, la fine, il vero epilogo di una storia agrodolce.

Rileggendo e correggendo il testo, ho deciso di non cambiare nulla: ho solo aggiunto qualche dettaglio, per esempio il fatto che ora sono mamma e poco altro.

 

In questi vent’anni sono successe molte cose, ma per raccontarle tutte e come si deve, ci vorrebbe una storia a sé; non ho intenzione di tediare nessuno, dunque mi ricollegherò alla storia principale nel minor numero di battute possibili.

Prima, però, due parole le devo spendere, altrimenti sarà arduo per l’eventuale lettore capirci qualcosa.

 

All’età di ventinove anni ho preso la decisione di prendere e partire: mi sono trasferita in una cittadina a sud del Canada, verso il confine; chissà, forse seguendo l’esempio di qualcuno che, a quanto pare, trovava tutto troppo stretto...

Per un po’, però, ho dato la colpa alla mia Luna Nera in Ariete: ho demolito il mio passato e ricostruito il mio presente; stadio dopo stadio, senza mai trovare la pace, l’equilibrio che cercavo.

Poi è arrivata Svenna, e tutto ha cominciato ad avere un senso.

 

Svenna e io ci siamo conosciute un paio d’anni dopo il mio arrivo, nel paesino che ora chiamo casa. 

Ero seduta ai tavolini di un bar, sorseggiando il cappuccino che si era gelato non appena me l’ero portata fuori - erano gli ultimi di marzo, ma faceva un freddo becco - e lei aveva attirato da subito la mia attenzione.

Ma guarda questa, mi ero detta, perché scuoteva la testa e vocalizzava a caso suoni incomprensibili, ascoltando qualcosa dalle cuffiette.

Me n’ero stata buona per un po’; poi, vinta dalla curiosità, mi ero avvicinata con la scusa di chiederle se avesse da accendere.

Per ovvi motivi, la conversazione si svolse in inglese, ma tradurrò il tutto.

«Scusami, hai l’accendino?»

Non riaprì neppure gli occhi.

Sfido io che non mi senta... pensai, dato il volume che mi permetteva di ascoltare perfettamente la canzone, anche se le cuffiette erano nelle sue, di orecchie.

Bon, in fondo volevo sapere cosa stesse ascoltando, e ora lo so: Mina. Brava, ottima scelta.

Mezza soddisfatta, dunque, feci per girarmi, ma lei mi parlò:

«Posso aiutarti?»

Mi voltai e incontrai due lucidi - per il freddo - occhi nocciola spruzzati di un verdognolo scuro, un po’ tristi, un po’ furbi e indagatori, racchiusi in un volto pallido e incorniciato da capelli biondissimi. Prima ancora di chiederglielo, avevo già capito fosse della Bilancia: quello specifico modo di guardare ce l’hanno tutti i segni d’aria, con alcune distinzioni fra i tre che non mi metterò a elencare.

Le dissi che mi ero avvicinata per chiederle da accendere - in seguito, le avrei rivelato il vero motivo.

Non aveva da accendere, dato che non fumava.

Ma mica demorsi! Nossignore: quegli occhi mi avevano catturata... e poi stava ascoltando Mina, voglio dire!

Feci tanto, che mi invitò a sedermi con lei.

«E così ti piace la musica italiana, eh?»

La replica la lascio così, com’è stata pronunciata, perché se no non avrebbe senso:

«Per me the best! Mi piaciii Mina! Ti amo pazza, mamma mia!», esclamò, congiungendo tutte le dita e agitando le braccia.

Era il momento di spiegare una cosa, al popolo d’oltreoceano, una benedetta volta:

«Quel gesto serve a dire ‘‘cosa dici?’’, ‘‘cosa vuoi?’’ eccetera, non per ogni frase, per quanto enfatica...»

Credo di averla conquistata nel momento esatto in cui le ho detto di essere italiana. Potrei chiederglielo, dal momento che ce l’ho davanti - è stravaccata sul divano e penso che ormai il libro serva solo a ripararla dalla luce - ma mi piace troppo la mia teoria e non intendo farmela rovinare da una possibile verità scomoda.

Parlammo per tutta la mattina e pranzammo insieme. Alla fine del pasto, le chiesi se potessi invitarla a uscire per cena. 

Ovviamente accettò. Accettò molte volte - non sto dicendo che pagassi solo io, ben inteso... anche se non mi avrebbe fatto differenza: volevo solo stare con lei.

Se dovessi mettermi a parlare di lei e del perché mi sia innamorata, non la finiremmo mai più; quindi dico solo questo: ha un’anima millenaria - sulla teoria delle anime vecchie e nuove ho in mente di scriverci un romanzo - è intelligente, ironica e, ai miei occhi, la donna più bella dell’Universo. Il colore del suo calore è un verde smeraldo molto scuro: la cosa più rara che mi sia mai capitata di vedere a quel modo, anzi, unica.

 

A tre mesi dal nostro primo incontro, cominciai a notare fosse più tonda. Me lo tenni per me, perché è da aprir bocca solo per dire che sono dimagrite, se no è da tacere - scherzo. 

Man mano, però, cominciai a capire non fosse colpa delle nostre cenette...

Comunque, quella piccola creatura, lì dentro, non ce l’avevo messa io... Lo so, è scioccante, ma giuro di non essere stata io.

E’ un cliché dire che mi trovai di fronte alla decisione più difficile della mia vita? Sì? Molto bene, perché quella fu la decisione più semplice della mia vita!

Ben è nato il giorno di Santo Stefano: un Capricorno - ascendente Ariete.

Rintracciammo il padre - un bravo ragazzo con cui, però, le cose con Svenna non avevano funzionato - e vedemmo di capire se voleva avere un ruolo nella vita del piccolo. Non lo voleva, anche perché progettava di partire per l’Europa - dov’era nato - e di restarci. Così Svenna dichiarò di non conoscere l’identità del padre e... pace, vé.

Tre anni fa ho potuto adottare ufficialmente Benjamin e dormire tranquilla, senza il terrore che, per qualche assurda ragione, il padre biologico cambiasse idea e avanzasse pretese. A far parte della vita di Ben glielo permetteremmo sempre, ovvio; ma che ognuno stia al suo posto, perché i figli non sono robe che molli e riprendi a piacere... e questa non era una frecciatina casuale. Bon, ne parliamo dopo.

 

Sto scrivendo quest’ultimo capitolo dalla mia vecchia casa, in Friuli. Il perché è presto detto: la Lilla si è sposata! Sì, quella bestiolina bionda che manco mi arrivava al bacino - non che ora sia chissà che più lunga, eh: un metro e cinquantaquattro con le scarpe, per capirci.

Ha sposato un toscano - del Leone o della Vergine, mica l’ho capito, ma dopo glielo chiedo per bene, una volta per tutte - che devo ancora decidere se mi vada o meno a genio; finché la tratterà con rispetto e la farà ridere, di sicuro da me non avrà rogne... in caso contrario... Oh, c’avrà pure ventisei anni, ma quella rimane la mia sorellina! 

Se non altro, però, il Massimo mi fa crepare dal ridere ogni volta che apre bocca: l’hai mai sentito parlare, un toscano? Ecco! Quando si emoziona - e succede spesso, da quel che ho visto - per me è la fine.

Al momento, mio suocero, la mia sorellina e la mia creatura sono nel cortile: dagli schiamazzi, direi che si stanno divertendo un botto. Eh niente, Ben si è innamorato da subito della zia Lilla - ho idea sia per la statura simile... scherzo... più o meno.

Svenna si è addormentata, esausta com’era. La lascio dormire e vedo di continuare e di finire.

 

Erano i primi di agosto di quest’anno, quando la Lilla mi ha chiamata per dirmi che, sì, si sposava. Per tutto l’anno precedente mi aveva fatto una testa così su questo Massimo, ma non mi aspettavo finisse per sposarselo davvero, o meglio: per sul serio davvero davvero!

Mi aveva chiesto se volessi farle da testimone... come se ce ne fosse stato bisogno, dico io! Chi altri, se non la sorellona, no? Eh!

Due giorni prima del matrimonio, la mia famiglia e io abbiamo fatto le valigie e siamo partiti. Sia per Svenna che per Ben era il primo volo in assoluto: la mia compagna ha passato l’intero tempo di volo artigliata un po’ al bracciolo e un po’ al mio braccio, bianca come un cencio; Ben, invece, era preso d’un bene che non saprei manco descrivere. Sarà un pilota, da grande, so già!

Arrivati a Ronchi - dopo l’ennesimo scalo - ho noleggiato una macchina e siamo saliti.

A casa ho potuto riabbracciare tutti: il papà, la Patrizia, la Lilla e il Pietro; e rifilare una carezza al Leonardo - no, non è immortale: all’inizio della storia aveva poco più di un annetto; è solo un distinto vecchiaccio.

Massimo, vedendo che abbracciavo tutti escluso lui - perché avrei dovuto, dico io - mi ha detto: «La venga quie sellaunvò’ piglià la scahaiòla!» e subito dopo mi ha stretta. Ho ricambiato, seppur un po’ imbarazzata, chiedendomi se avessi capito giusto il riferimento ai problemi intestinali che avrebbe potuto causarmi il privarlo del mio affetto. E ne ho avuto quasi conferma, quando stessa sorte è toccata alla Svenna.

Il papà e la Patrizia hanno sequestrato immediatamente Benjamin - Beniamino, per il papà - e se lo sono portato in salotto, a mostrargli i balocchi che gli avevano preso per l’occasione. Già un paio d’anni prima, quando erano volati a conoscerlo, ci avevano riempito casa di peluche, macchinine e libri... questa volta, mi sa, dovrò noleggiare una seconda macchina...

Svenna, Pietro e Massimo si sono uniti al resto della famiglia, mentre io sono uscita con la Lilla, in cortile.

 

«E tu, Andrea, quand’è che le chiedi la mano?», mi ha chiesto Lilla, sedendosi in veranda accanto a me, sulla panca.

«Eh, ché non lo sapevo, io?», ho fatto. «Non sta a cominciare con i soliti riti di famiglia: e quando ti sposi, e quando fai fi- Ahi!», ho ridacchiato, perché la Lilla mi aveva dato una spallata.

«Sei tutta scema, Andrea! Sempre detto, io! Il figlio ce l’hai, ora ti tocca di sposarti!»

«Non c’è fretta...» ho brontolato, evitando di dirle che per me il matrimonio è solo una firma su un pezzo di carta; non mi è parso il caso, visto quello che si stava apprestando a fare. «La vedo più come il Pietro: con calma, le cose.»

«Bon, allora dimmi, Andrea: hai pensato a quell’altra cosa?»

«Di tornare stabile in Italia, dici? Non so. Ne ho parlato con la Svenna e lei, lo sai, è innamorata del nostro Bel Paese; però penso voglia che Ben faccia le prime scuole in Canada.»

«E tu cosa vuoi?»

«Non conservando un bel ricordo, anch’io preferisco faccia fin le medie là. Poi si vedrà, anche perché, finite le medie, sarà abbastanza grande da vedere cosa vuol fare. Sono intenzionata ad ascoltare il parere della mia creatura; sai, come la Patrizia ha fatto con noi.»

«Non ti riesce ancora di chiamarla mamma, eh?»

Apro una piccola parentesi, che poi è il motivo per il quale sto riportando il dialogo: a diciassette anni ho chiesto alla Patrizia di adottarmi; ma lo vediamo dopo, in caso.

«Eeeh», ho sospirato, senza aggiungere altro.

«Scusami, Andrea», ha mormorato.

Le ho messo un braccio attorno alle spalle e me la sono tirata addosso, stringendola a me, per farle capire che era tutto apposto.

Abbiamo passato il resto del pomeriggio a parlare, prima lei e io, poi tutti insieme, facendo i preparativi.

 

Non mi dilungherò troppo sul matrimonio, anche perché ho già fatto danni sopra, con la mia narrazione sconclusionata.

E’ stato celebrato in chiesa, per forte desiderio di entrambi gli sposi - soprattutto Lilla, che era da quando aveva otto anni che disegnava il suo bianco vestito.

Per l’occasione ho rivisto Mario, anche lui con la fede e con una bambina dell’età di Ben. Si è sposato con la Martina - che avevo detto, io? Eh! - che ora sulla fronte non ha più la Costellazione del Cigno.

Credo che il cuore di mio figlio sia diviso in due metà: la zia Lilla o la Benedetta - la figlia di Mario e Martina - davvero un bel dilemma, dico anch’io!

 

Prima di arrivare a quello che è successo ieri pomeriggio, ovvero la ragione per cui ho ripreso in mano questo testo, vorrei spendere due parole sulle persone che hanno ornato questa storia, giusto un breve riassunto delle loro vicende, in questi vent’anni.

 

Il papà è andato in pensione l’estate dopo quella in cui ho conosciuto Nevrè e si è fatto operare; ora cammina col bastone, ma cammina.

La Patrizia continua a dare lezioni di yoga e meditazione. Dieci anni fa ha ultimato e pubblicato il suo romanzo ‘‘L’Io curioso, l’Io dimenticato’’: un racconto spietato come solo la verità, sulle dinamiche umane e i suoi demoni. L’avrò riletto venti volte, minimo. E’ stato accolto bene sia dalla critica che dal pubblico, mancando per un soffio il Premio Strega. Continuo a vederlo nelle vetrine, anche in Canada.

Il Pietro, dopo il fallimento della fabbrica, ha trovato lavoro come imbianchino e muratore giù a Roma, dove attualmente convive con la Scarlett - il pesciolino rosso che ha deciso essere una lei. Continua a guidare la Panda verde chiaro.

La Francesca? E chi lo sa! Io, dal canto mio, ipotizzo abbia messo il culo sul Ferrari di qualche essere arrogante; eh, Marco, che dici?

Con Federico sono rimasta in contatto fino la primavera di due anni fa, quando è partito come missionario da qualche parte in Asia. Non so che ne sia stato di lui, ma voglio immaginarlo felice e appagato, mentre svolge la sua missione.

Il Peppino è scomparso sei anni fa, alla veneranda età di novantatré anni; fino il giorno prima di addormentarsi per sempre, mi han raccontato, in paese, ha rifilato l’insegnamento. Be’, mi dà che avesse ragione.

Il Luigi, il ‘‘buon cittadino’’ è sempre su quella veranda a vedere se qualcuno o qualcosa gli dà motivo di chiamare i Carabinieri; lo so, perché ieri, passando di lì, ci è stata rivolta la minaccia.

Il mostriciattolo si è assopito molto tempo fa. Credo abbia brontolato un’ultima volta durante l’esame per la patente: l’istruttore era un isterico e un incompetente, parola mia; persino l’esaminatore aveva dovuto dirgli di stare un momentino calmo e di lasciarmi fare.

Di Lilla e di Mario ne ho appena parlato, dunque possiamo andare avanti.

 

Ieri pomeriggio, dopo esser passata in un negozio di articoli sportivi, per trovare una corda d’ottima qualità - non ho mai dimenticato la promessa fatta a Nevrè - ho chiesto alla Svenna se volesse venire con me, a conoscere il luogo di cui le avevo tanto raccontato. Mi son sentita rispondere che, se ci avessi messo ancora un po’ a chiederglielo, mi avrebbe mollata... chissà se scherzava - scherzo. Così abbiamo lasciato Ben ai nonni - tanto non c’era scelta: l’avevano di nuovo sequestrato; e poi è ancora troppo piccolo per la Cascata e la sua storia.

Mano nella mano come due ragazzine, Svenna e io ci siamo incamminate.

L’ho portata dapprima al mulino, così che potesse vedere coi suoi occhi fisici la struttura-rifugio della mia infanzia e adolescenza. 

Le ho svelato il segreto di quel luogo, ovvero l’incendio: era stata colpa mia, ora posso anche dirlo. Non l’avevo fatto apposta, ovviamente: stavo bruciacchiando qualche filo d’erba secca, tendomeli in mano, ma mi erano scappati per un soffio di vento; da una roba grande come un pallone da calcio, era diventato l’intero campo nel giro di qualche minuto, dato il vento che tirava quel giorno. Non aveva fatto troppi danni, perché da una parte c’era il torrente, dall’altra il sentiero di terra battuta. Fino ieri, lo sapeva solo la Patrizia.

Tornando lì, giorni dopo, avevo visto fra i verdissimi germogli nuovi una coppia di carboni... un po’ carbonizzati, ancora aggrovigliati per l’atto. Anni dopo, parlandone col mio terapeuta, era uscito fuori che la cosa avesse contribuito ai miei disturbi comportamentali, alle mie ansie e al mio disturbo post traumatico da stress... incredibile. Ovviamente quello ricopriva solo una piccola parte, nel tutto, dal momento che ben altri fattori, soprattutto nell’estate di Nevrè e dopo, mi avevano arrecato danni ben più gravi.

Svenna e io siamo passate, come dicevo, davanti al ‘‘buon cittadino’’. Lei, non capendo che lui non voleva semplicemente che la gente andasse dalla Cascata, ma pensando a un insulto perché ci tenevamo per mano, gli ha mostrato il medio. Il Luigi è filato dritto in casa, a chiamare i Carabinieri - non li ho ancora visti... poveri cristiani: chissà quante decine di migliaia di chiamate, in tutti questi anni...

Poi gliel’ho spiegato, eh, che non è un omofobo, ma solo un... buon cittadino.

 

Ci siamo inoltrate nel bosco, che in questi anni si è fatto a dir poco selvaggio: nessuno lo sta curando e molti alberi, soffocati dagli altri, si sono seccati in piedi. Ci ero stata, l’ultima volta, una decina di anni prima e già allora avevo cominciato a intuirne il destino.

«E’ lugubre», ha mormorato Svenna, rabbrividendo appena.

Le ho fatto un cenno, per concordare.

Dopodiché nessuna delle due ha più detto nulla, fino alla Cascata. Lei era impegnata a guardarsi attorno, io a ripercorrere i ricordi. 

 

Arrivando in prossimità delle due spiaggette, per un fugace momento, ho rivisto Nevrè, seduta sulla sua solita pietra a contemplare chissà che cosa.

Tornando lì, come ogni altra volta, mi aspettavo davvero di vederla.

«Aspettami qui», ho detto alla Svenna. «Cambio la corda e torno giù.»

Lei ha guardato un po’ me e un po’ la cima che le stavo indicando, smarrita e preoccupata.

«Starò bene», ho assicurato, prima di darle un bacio.

Lei ha stretto le labbra, come ogni volta che non è sicura se le mie siano o meno delle buone idee. Alla fine, comunque, ha annuito.

Da quando era diventata mamma si era fatta più apprensiva; non la biasimo, dato che anch’io mi sono molto calmata e fatta più responsabile.

 

Sono arrivata su, passando per il sentiero nel bosco. 

Il vento ha cominciato a soffiare, richiamando a sé suoni e immagini lontane.

Guardando giù ho visto una giovanissima me, che brontolava e che lavava un calzino. 

Di fianco a me, Nevrè ha esclamato: ‘‘Ti piace parlare da sola!’’

Da sotto, l’altra Andrea: ‘‘Che cosa stai facendo? Parli per caso italiano?’’

E Nevrè: ‘‘Sì, parlo un po’ di italiano!’’

Poi sono svanite entrambe, in un nuovo soffio di vento, dissolvendosi e tornando al passato a cui appartengono; lassù sono rimasta solo io, laggiù è rimasta solo Svenna. 

Le ho fatto segno che andasse tutto bene e mi sono messa a cambiare la corda che, probabilmente, avrebbe retto ancora qualche annetto. Ma non sapevo quando avrei avuto occasione di tornare, e poi ormai ero lì.

 

Stavo osservando compiaciuta il risultato, arrotolando la corda vecchia per portarmela via e buttarla nelle immondizie, quando un luccichio ha catturato l’attenzione della mia visione periferica.

Ce n’erano tanti, di luccichii, invero, dal momento che ero accanto a un corso d’acqua; ma quello lì era in qualche modo diverso... più fioco e artificioso.

Mi sono avvicinata, capendo che proveniva dalla parte più stretta della scanalatura nella roccia, allontanandosi dalla cascata.

Mi sono inginocchiata e ho infilato il braccio, non riuscendo a capire che cosa fosse solo con gli occhi, dato che da quella nuova prospettiva era piuttosto buio.

Dapprima ho toccato qualcosa di estremamente liscio e bagnato, poi una superficie più concava, anch’essa bagnata. Due materiali diversi, ma nessuno dei due mi è parso pietra o roccia.

Già mentre lo stavo afferrando, avevo cominciato a farmi un’idea; tirandolo fuori, ho visto che effettivamente non mi ero sbagliata: era un barattolo. In parte ricoperto di muschio e di calcare, ma integro.

Prima ancora di poter formulare la bozza di un pensiero riguardo l’inquinamento, ho visto che sul tappo c’era stato inciso qualcosa. L’acqua aveva levigato e cancellato, ma si potevano ancora intuire delle lettere.

L’ho scosso: dall’interno è venuto un suono leggero e un po’ appuntito, ma nulla che mi dicesse che ci fosse qualcosa di davvero duro, al suo interno.

Stavo per mettermi a grattare il calcare, per vedere di capire meglio, ma Svenna mi ha chiamata, preoccupata perché ero sparita completamente dalla sua vista.

Sono tornata subito verso la cima e le ho fatto capire che stavo scendendo.

 

«Che cos’è?»

«Vorrei saperlo», ho risposto, rigirandomelo fra le mani. «Dimmi, me lo sogno, oppure qui si può intuire il mio nome?»

«C’è scritto ‘‘Andrea’’, senza dubbio», ha confermato Svenna, osservandolo attentamente e curiosamente. «Chi può averlo lasciato?»

«Vorrei sapere anche questo. Se solo riuscissi ad aprilo... Niente, torniamo a casa e proviamoci là, magari con qualche attrezzo.»

Sì, perché il vetro si era così deteriorato e colorato che, anche grattando via il calcare, rimaneva bianchiccio e continuava a nascondere l’eventuale contenuto. Il tappo, tra calcare e ruggine, era impossibile da aprire. 

 

Le due spiaggette stavano per scomparire dietro di noi quando, d’improvviso, ho avuto l’istinto di voltarmi... e meno male!

«Amore, guarda!», ho esclamato, prendendola per mano e invitandola a girarsi.

Era da vent’anni che aspettavo quel momento... ma alla fine, con qualcuno che non sapevo neppure esistesse fino a cinque anni prima, ero riuscita a vedere gli infiniti arcobaleni...

 

«Che faccio, lo spacco?», ho chiesto ai presenti - il papà, la Patrizia e la Svenna; Ben era con la Lilla e il Massimo, dato che era stato il loro turno di sequestrarlo.

«Decidi tu, tesoro», mi ha detto la Patrizia. «E’ destinato a te. Da molto tempo, sembra.»

«Spaccalo! Un colpo secco!», ha esclamato papà, forse persino più curioso di me, agitando il bastone.

Svenna ha semplicemente annuito, guardando un po’ l’oggetto e un po’ la finestra, oltre la quale si vedevano i tre, intenti a giocare a palla.

«Bon», ho sospirato, avvolgendolo nello straccio e alzando il martello.

«Che c’è scritto?», ha chiesto papà, che è stato il primo ad accorgersi del foglio - rivestito di quello che sembrava scotch; chiunque fosse stato, aveva preso ogni precauzione, affinché si conservasse.

L’ho preso su.

«Non so, ora te lo dico...» 

«Allora?», mi ha esortata papà.

«Amore, lasciala fare», ha consigliato la Patrizia, poggiandogli la mano su quella che lui aveva sul legno ricurvo.

«E’ di... Nevrè...» ho esalato, incredula.

Papà non voleva saperne, ma la Patrizia è riuscita a trascinarlo via, per darmi un po’ di privacy.

«Vuoi un momento?», mi ha chiesto Svenna, dolce.

L’ho presa per mano e le ho chiesto di rimanere. Anche nella vita di coppia, il singolo ha e deve avere i suoi segreti, ma quello non era uno di quelli.


 

Chère Andrea,

 

temo proprio che dopo non verrai... 
Ho questo fortissimo presentimento da tutta la notte e quasi non mi ha fatto dormire. 
Ho preso un barattolo e ci metterò dentro questa lettera per te, nel caso i miei timori dovessero rivelarsi fondati. Se ti vedrò arrivare, però, lo nasconderò e tu non saprai mai nulla, perché non servirà, oui? Così non saprai mai che ho dubitato di te... Scusa xD
Voglio che tu sappia che ho passato proprio dei bei momenti con te, nonostante tutte le tue assurdità e il tuo essere matta da buttare via la chiave ;)
Ero tutta sola col fantasma del mio dolore; ma sei arrivata e hai dato un altro senso a quegli ultimi tre giorni e a quel bellissimo posto fuori dal tempo, di questo ti sono tanto grata.

Ti scrivo qui la mia e-mail. Aspetterò con ansia tue notizie! 

 

Ti sto abbracciando <3

 

- Nevrè 

 


«Devo essere gelosa?», ha scherzato Svenna.

Ho mandato fuori una risatina a scoppio, rendendomi conto fosse umida.

«Uh, Signor...» ho sbuffato poi. «Mi sono commossa...»

«Lo vedo... Non fare così...» e ha preso a sfregarmi la schiena.

«E’ che per vent’anni mi sono mangiata il fegato, per non essere riuscita a dirle addio...» Ho tirato su col naso. «Per vent’anni, questa lettera è rimasta là, in attesa di essere trovata. Vent’anni, Svenna... ti rendi conto? Sai quante volte sono tornata lassù, a cambiare la corda? Non l’avevo mai visto...»

«Mi piace pensare che solo ora fosse il momento giusto. Anzi, ne sono sicura.»

«Perché dici?»

«Pensaci: se tu l’avessi trovata prima, magari saresti volata in Francia o chissà dove, invece che in Canada... non ci saremmo mai conosciute. Un effetto farfalla che sono felice tu non abbia mai attivato prima.»

Mi sono girata e l’ho baciata, per poi tenermela stretta, provando il desiderio di non separarmi più da lei.

 

«Hai una mail da scrivere», mi ha detto, dandomi un bacio sulla guancia e cercando i miei occhi. «Sono vent’anni che aspetta di essere scritta.»

Ho fatto di sì con le testa e ho riletto le poche righe.

«Pensi mi dovrei firmare col nome intero - Andreana Paolina Ghirrì - o come Andrea o, ancora, solo Apg?»

La risposta la lascio come l’ha detta, senza tradurla - tanto ci ha pensato lei - perché mi spacca:

«Dude, the fuck? Cazzo dici?», ha sbottato, ridendo e radunando le dita.

Visto? Alla fine ha imparato come usare il gesto!

Sono innamorata pazza di lei, soprattutto perché mi ribalta. Adoro il fatto che un momento sia lì, tutta ninnina... e quello seguente diventi una bestia! Mi uccide... non ci posso fare niente.

Comunque non ero seria: volevo solo smorzare il momento e fare la cretina. E’ ovvio che avrei firmato solo col mio nome... come mi ha conosciuta.

 

Un’ora fa, più o meno, Nevrè mi ha risposto.

Fino all’ultimo l’ho creduto inutile, invero, perché in vent’anni ne succedono di cose e se ne cambiano di indirizzi. Ma lei aveva aspettato, sicura che prima o poi le avrei scritto.

Anche lei è caduta precocemente nella trappola del matrimonio ed è pure mamma: due gemelli identici, come lo erano lei e Nicole.

Mi ha raccontato di essere tornata una sola volta qua in Friuli; una settimana col marito e i figli, in occasione del compleanno suo e di Nicole. Tornata dalla Cascata - dopo aver appeso una collanina con una tartaruga (non l’ho vista; forse è caduta o qualcuno l’ha presa su) aveva visto che il barattolo era ancora dove l’aveva lasciato otto anni prima. Non l’ha rimosso e non ha provato a cercarmi, ha solo sperato nel caso. E il caso, dodici anni dopo, aveva risposto all’appello.

Ora finisco di scrivere e le allego tutto il PDF di questo racconto nella risposta: varrà più di mille spiegazioni.

Voglio che sappia cosa lei abbia significato per me e mostrarle quanto sono felice e appagata con la mia famiglia, ora più grande e unita che mai.

 

E’ arrivato il momento. C’è un’ultima cosa che devo scrivere, solo una. Riguardo qualcuno di cui non ho più parlato...

 

Dopo l’episodio degli antidepressivi, Lucrezia ha cercato di essere una madre più presente: le domeniche uscivamo tutti insieme, per la pizza; i compleanni li passavamo insieme, così come i Natali e i Capodanni.

Le riunioni sono diventate chiamate, che sono diventate SMS, che sono diventati cartoline dalla Sicilia, che sono diventate... silenzio.

Sono diciott’anni che Pietro e io aspettiamo di sapere dove sia Lucrezia, nostra madre.

Cinque anni fa, mentre scrivevo di quell’estate, avevo ancora un’idea romantica di quella donna, ero ancora innamorata come solo una figlia può essere innamorata della propria madre. 

Mi ero detta che ero stata io a scegliere il papà, la Patrizia e la Lilla: non è mai stato vero. Forse me n’ero convinta perché, una parte di me, sapeva già allora che avrei ottenuto in cambio solo rifiuto.

Scrivendo del suo ritorno, mi ricordo, ho riportato fedelmente i fatti, come avevo fatto fino a quel punto... ma a parte le mie idee, le mie idealizzazioni e le mie riflessioni, cosa c’è di lei? Cosa si capisce di Lucrezia, del suo carattere? Quello che ho capito io: niente. Non c’era davvero nulla da dire. Quella parte è asettica e distaccata, non sembra la descrizione di una madre e di una figlia che si ritrovano... Sul finale ho scritto che ‘‘abbiamo parlato delle nostre robe’’ ... Io, ho parlato e pianto, lei non mi guardava neppure in faccia, limitandosi a qualche ‘‘sì’’ ogni tanto.

Nonostante tutto, come ho detto prima, il testo l’ho solo corretto: non ha senso cambiare quello che fu il mio sentire, per quanto patetico e disperato.

I farmaci erano sbagliati, questo è stato dimostrato; ma non sono mai stati i farmaci o i suoi disturbi: è sempre stata lei, che non ha mai voluto essere madre. Chiaramente, sono serviti due figli, per capirlo.

Oggi dubito persino che Brizio il Tizio sia davvero esistito - a Cividale nessuno l’ha mai sentito nominare (l’ho cercato, perché cercavo lei) - e chissà quante altre bugie, mi aveva rifilato quella sera, chissà se stava già progettando di sparire per bene... chissà se, quella volta, quella settimana, fu solo una prova, prima del gran finale.

Cinque anni fa ero solo ancora figlia, ora sono anche madre... e riesco a vedere le cose per come stanno.

‘‘«Il sangue non è così forte, (...), spesso non significa nulla: le persone dobbiamo sceglierle, affinché per noi sia davvero possibile amarle o farci amare da loro»’’*, scriveva una che si firmava Esmeralda; forse non riesco a condividere totalmente la sua visione, ma ora credo d’aver capito la sua rabbia, perché è la mia: violenza, fisica o psicologica, sempre violenza rimane.

 

Alla fine, in questa storia c’era davvero un fantasma: il suo amore.

 

 

 

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N.d.A: Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.

‘‘IL PICIUL’’ (Cap. 5-6) non esiste: è stato inventato per la storia e pensato per ricordare un famoso giornale; significa ‘‘piccolo’’.

Nessun francese è stato maltrattato durante la stesura di questo lavoro... non si può dire lo stesso della lingua, mi rendo conto. Je suis désolé.

* E’ un riferimento a un mio lavoro, in parte già pubblico e in parte inedito (la seconda parte, che però è un prequel) dato che ci sto ancora lavorando; il discorso compare e comparirà in tutte e due le parti.


Rivolgo un ringraziamento speciale alla dolcissima e forte donna, nata sotto il magico segno dei Pesci, a cui mi sono liberamente ispirata per creare il personaggio - come direbbe Andrea - della Patrizia.

 


-Agp.

 

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