I Figli di Prometeo

di A_Typing_Heart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Gatto ***
Capitolo 2: *** Nido ***
Capitolo 3: *** Trattative ***
Capitolo 4: *** Rete ***
Capitolo 5: *** Berlino ***
Capitolo 6: *** Armonia ***
Capitolo 7: *** Buio ***
Capitolo 8: *** Traccia ***
Capitolo 9: *** Incursione ***
Capitolo 10: *** Significato ***
Capitolo 11: *** Rondine ***
Capitolo 12: *** Rarità ***
Capitolo 13: *** Caduti ***
Capitolo 14: *** Autonomia ***
Capitolo 15: *** Figli ***
Capitolo 16: *** Vincolo ***
Capitolo 17: *** Signorina ***
Capitolo 18: *** Famiglia ***
Capitolo 19: *** Coscienza ***
Capitolo 20: *** Essenziale ***
Capitolo 21: *** Redenzione ***
Capitolo 22: *** Seguito ***
Capitolo 23: *** Miracoli ***
Capitolo 24: *** Favola ***



Capitolo 1
*** Gatto ***


Il giovane uomo ignorava del tutto i rantoli dell’anziano dentro la gabbia sulla quale stava seduto. Era preso ad analizzare le sue statistiche sullo schermo del tablet, e finché quei lamenti non fossero stati forti abbastanza da impedirgli di concentrarsi sui numeri non erano altro che rumore bianco.

Passi sul legno annunciarono l’arrivo di qualcuno. Dall’ombra della stanza emerse la figura di una donna con la coda di cavallo, che si bloccò prima di avvicinarsi.

«Che cos’è quella roba?»

Gli occhi scuri dell’uomo fissarono la smorfia della donna, che divenne subito un ghigno.

«È davvero un Hamilton 25? Quel coso è più vecchio di te, Katze. Non ti paghiamo abbastanza per comprartene uno più al passo coi tempi?»

Katze diede un colpetto affettuoso alla cover rinforzata del suo tablet.

«Fa il suo lavoro. Come me. Quindi nessun problema, giusto? Finché uno strumento lavora vale la pena di tenerlo.»

La donna ridacchiò, secca come rami calpestati nel bosco. Si chinò a guardare la gabbia e il vecchio, i cui occhi scorrevano intorno senza soffermarsi su nulla.

«Ma è Nothdurfter? Il vecchio Nothdurfter?»

«Detto “Sterling”, l’alchimista scomparso dodici anni fa. Ho sentito dire che qualcuno dei suoi sarebbe contento di regolare certe questioni con lui.»

Lei si passò la punta della lingua sul labbro e prese ad appuntarsi qualcosa sul libretto che aveva nella tasca della giacca.

«Sei la Sanders, vero?» buttò lì Katze, con aria guardinga. «Irge Sanders?»

«Certo che lo sono. Ma ti consiglierei di regolare i conti con me quando non è il mio turno sul palco. Ai Maestri non vanno giù bene gli imprevisti.»

«Non ho nessun conto con te. Sono già stato pagato.»

Katze salvò gli aggiornamenti sul suo terminale e balzò giù, allontanandosi a lunghi passi.

«Quindi non è un problema se ho battuto tuo padre?»

Lui si fermò solo per lanciarle un’occhiata e notare il suo sorriso innaturale.

«Non batterai me. Questo è quello che mi interessa.»

Uscì dal magazzino e si trattenne in un angolino per fumare una sigaretta. A giudicare dalla voce della Sanders che riecheggiava dal microfono, lo spettacolo era cominciato.

Gettò via il mozzicone e abbandonò il teatro, ma nel parcheggio dell’area di scarico le due guardie in abito nero che gli avevano aperto i cancelli l’aspettavano impettite, mentre Josip giaceva a terra in una pozza di sangue scuro. Allibito guardò gli altri.

«Ma che è successo?»

«Desolato, signore. Il suo collaboratore non ha rispettato le istruzioni. Gli era stato detto chiaramente di non scendere dal veicolo.»

Katze abbassò gli occhi su Josip e sospirò passandosi la mano sulla testa perfettamente rasata.

«Maledizione.»

«Non si dia pensiero, signore. Lo smaltimento è a carico nostro. A meno che non voglia disporne lei stesso.»

Sospirò ancora una volta, grattandosi la fronte.

«Lo lascio a voi, ragazzi.»

«Molto bene. Ma se posso darvi un consiglio» aggiunse la guardia più anziana, «la prossima volta scelga con più cura i suoi collaboratori. Se continuasse a portare qui persone che non sanno rispettare le istruzioni e ficcano il naso, diventerebbe un… ospite sgradito lei stesso.»

Katze non replicò a quel consiglio, ben sapendo che cosa significasse. Salì sul furgoncino – questa volta al posto di guida – e fece retromarcia per uscire dal cortile. Mentre la guardia più silenziosa richiudeva il cancello con il catenaccio Katze teneva gli occhi fissi su Josip, riflettendo. Infine si decise a prendere il cellulare e a fare una chiamata.

«Sono io… senti, per caso sei ancora dell’idea di lavorare per me?»

Il chiasso al di là del telefono lasciava intendere che fosse sul posto di lavoro, e gli venne voglia di passare a bere qualcosa.

«Te l’ho già detto, però: i miei non sono dei manovali, che eseguono gli ordini, come un cane che corre a raccogliere l’anatra a cui spari. Trovami qualcosa di raro e discutiamo tutti i dettagli. È la volta buona, Stephan.»

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Capitolo 2
*** Nido ***


Yuu ne aveva fin sopra i capelli di quelle strade di campagna che si snodavano tra campi punteggiati di fienili, dopo più di un’ora passata a cercare di raccapezzarsi tra biforcazioni senza indicazioni e la stessa città in cui finiva per tornare come in un girotondo molto poco divertente.

Esasperato inchiodò nel parcheggio dell’emporio – dove aveva già fatto manovra due volte per tornare all’esplorazione della campagna – e cacciò la mano sotto il sedile. Doveva esserci una bottiglia d’acqua, lì da qualche parte.

Dal negozio uscì un uomo. Era sulla cinquantina, con capelli corti che sembravano tagliati da un barbiere con problemi di vista, e con una salopette di jeans scolorita e rammendata in più punti con delle toppe di tessuti diversi: lo stereotipo del bifolco.

Quando incrociarono lo sguardo lui gli fece un sorriso cordiale. Yuu abbandonò il suo proposito di bere e abbassò il finestrino.

«Ehi, puoi aiutarmi?»

«Che succede, amico? Ti sei perso?»

«Sto cercando Mikaela. Mi hanno detto che vive in una casa qua intorno, ma non riesco a trovarla.»

«Ma va’! Cerchi Lucky? Io lavoro là» l’informò l’uomo, animato di gioia all’improvviso. «Dammi uno strappo che ti indico la strada. Non è difficile trovarla, ma il temporale dell’altra sera ha rotto il cartello al bivio.»

Già rassegnato a rilavare gli interni della macchina Yuu gli fece un cenno della testa.

«Sali.»

Prima di lasciare i confini cittadini sapeva già che il suo passeggero si chiamava Gary, che viveva lì da quarant’anni, che aveva coltivato quella terra da trenta e che ora viveva alla Lucky farm house, lavorando come mezzadro insieme ad altri tre.

Fermò il suo monologo solo per indicargli la strada un paio di volte e allora Yuu capì che doveva aver rinunciato troppo presto al tentativo precedente: lo guidò più avanti dello spiazzo in cui aveva fatto inversione convinto di essersi allontanato troppo.

«Non veniva nessuno da un pezzo a vedere Mikey. Però tu non sei della Chiesa dell’Acqua, no? Non hai i vestiti dell’ordine né la croce.»

Yuu gli lanciò un’occhiata in tralice. In dubbio tra due domande scelse quella dai risvolti potenziali più allarmanti.

«Vengono quelli della chiesa, qui?»

«Chiamano spesso per chiedergli una cosa o un’altra… ogni tanto qualcuno è venuto a trovarlo. C’è una ragazza che si chiama Gloria, lei viene ogni anno prima del Ringraziamento, e in primavera. L’accompagna sempre qualcuno, tutti amici di quando ha fatto il noviziato.»

Yuu non commentò questa scoperta, ma almeno fu sicuro che non sarebbe stato un giro a vuoto.

«Se non sei della chiesa, come lo conosci Mikey?»

«Abbiamo frequentato la scuola insieme» replicò lui, asciutto.

«Ah, sì. Mikey non parla di quel periodo, però. Dice solo che era una canaglia, ma si fa fatica a crederci… ecco, quella» fece Gary, indicando la casa di legno scuro in fondo alla strada polverosa. «Lucky farm house!»

Un cartello dipinto in bianco su assi rosse come i granai della zona recava appunto il nome della proprietà. Yuu parcheggiò nello spiazzo sul lato della casa e, mentre Gary saltava giù dall’auto come un bambino che non vede l’ora di andare dalla mamma, poté notare i piccoli cartelli aggiunti sul palo di destra: bed & breakfast, confettura, uova, miele. Un’altra targa pendeva sotto, attaccata con delle piccole catene rugginose, e recava un numero di telefono per le lezioni di equitazione.

In che razza di posto si è andato a nascondere?

«Che fai, non entri?» gli urlò Gary dalla veranda. «Vieni di qua!»

Incuriosito e repulso al tempo stesso Yuu si decise a muoversi e attraversò lo spiazzo guardandosi intorno. C’era un furgoncino scassato accanto a un paio di pick up a ridosso di una costruzione che aveva l’aria di una rimessa. Una veranda correva tutt’intorno alla casa a due piani.

L’ingresso sul lato aveva una doppia porta con la zanzariera e appena l’ebbe superata Yuu si trovò in un angusto disimpegno dove erano abbandonati degli stivali impolverati, diversi cappelli a tesa larga e un secchio di metallo maleodorante. Lì dentro alcune spazzole con le setole di nylon erano ammollate nella candeggina.

«Gary, sei qui? Chi ti ha accompagnato?»

Sentire quella voce – al di là di una porticina tagliata che poteva essere chiusa a mo’ di cancelletto con solo la parte inferiore – a Yuu sembrò di fare un passo nel vuoto. Per un attimo, un folle e potente istinto gli urlò di andarsene. I piedi, comunque, non erano in grado di andare avanti né indietro.

«Ho incontrato uno che ti cercava all’emporio e son salito con lui per fargli strada. Sta qui nella scarpaia.»

«Me? Un cliente, dici? Perché non l’hai fatto entrare dal davanti, Gary, insomma» fece la voce, abbassata in un rimprovero fin troppo delicato. «Far entrare gli ospiti in mezzo alle scarpe da lavoro…»

Una figura apparve dalla cucina, e non era Gary. Quando rivide i suoi occhi azzurri gli sembrò di respirare qualcosa di più pesante dell’aria. Lo vide spalancare la bocca per la sorpresa e poi tendere un sorriso di bellezza straordinaria.

«Yuu! Oh, Dio, ma che fai tu qui?»

Si irrigidì, a disagio come non era stato mai tra le sue braccia. Rivedere Mika era stupendo e atroce insieme. L’emozione lo bloccava, impedendogli di comportarsi in maniera naturale, per prendere delle distanze o per ricambiare il suo affettuoso benvenuto. Mika, però, non sembrò accorgersi del suo imbarazzo.

«Vieni, vieni… ti offro qualcosa di fresco, fa un caldo tremendo oggi. Gary, sei veramente imperdonabile! Come osi far entrare il mio amico Yuu dalla porta di servizio? Ti prenderei a sberle!»

«Scusa, Mikey» bofonchiò lui, con la bocca piena.

«Non mangiare le focaccelle, sono per i bambini!»

L’ira di Mika sfumò come il profumo di una candela da pochi spiccioli all’ennesima scusa borbottata e accontentò il mezzadro con del pane casereccio e una fetta di formaggio dall’odore intenso, poi lo spedì a farsi il bagno. Yuu ricordava di essere stato strigliato molto più duramente anche solo per essere entrato nudo in una cucina in cui c’era soltanto il suo ragazzo.

Si è candeggiato anche la rabbia…

Caricò un vassoio di crostata dalla marmellata scura e focaccine con formaggio e lo sollevò con una mano, usando l’altra per arraffare una bottiglia dal frigo e due bicchieri. Sembrava avere più dita di una persona normale.

«Vieni, andiamo sulla veranda di dietro… tira un bel venticello, a quest’ora!»

Da un lato avrebbe preferito parlare della questione che gli premeva e andarsene, dall’altra però si era chiesto così a lungo come stesse e dove fosse che avrebbe voluto sapere di ogni minuto di ogni suo giorno da quando se n’era andato da New Oakheart.

Lo seguì in veranda e sedettero a un tavolo di legno grezzo che sembrava essere stato ricavato da un blocco unico di un tronco di dimensioni inimmaginabili per la gente di città. Mika sembrò cogliere lo sguardo al tavolo e sorrise con orgoglio.

«Bello, vero? L’abbiamo fatto io e Lucky quando abbiamo comprato la tenuta. C’era un albero morto nel bosco, là» e indicò una macchia di alberi al di là dei campi. «Era un peccato sprecare del buon legno, quindi l’abbiamo usato per qualcosa che restasse qui con noi. Ma dimmi qualcosa di te, Yuu. Dimmi qualsiasi cosa, non hai spiccicato una parola!»

Yuu non riusciva a staccare gli occhi da Mika. Il tempo sembrava quasi non essere passato per lui: aveva conservato la sua bellezza e l’eleganza dei suoi tratti, anche se una vita in campagna aveva leggermente intaccato il suo modo di sedersi, di muoversi, e un poco il suo accento. Neanche i vestiti sciupati, come i suoi jeans slavati e la camiciola stampata a quadri rossi, riuscivano a infiacchire il suo bel viso d’angelo. Era ancora una splendida Cenerentola, solo dormiva di nuovo nel caminetto.

«Non sei cambiato quasi per niente» commentò allora Yuu, quasi deluso.

«Trovi? Io non mi sento più la stessa persona che prese l’autobus nel luglio del 2021.»

«Di sicuro quella persona non starebbe mai qui di sua volontà» osservò lui, guardandosi intorno. «Si lamenterebbe del caldo, della polvere, delle mosche e del menù. Quel Mika non mangiava mai il formaggio, e stava a dieta due settimane per un pacchetto di biscotti.»

Mika rise divertito.

«Anche per questo dico che non sono io quel ragazzo lì. Come mi hai trovato, comunque? Te l’ha detto Ferid dove sto?»

«No, ho… controllato un po’ di dati. Ho trovato la tua macchina, e poi la residenza sulla tua patente.»

Lui reagì ridacchiando e gli versò da bere. Quella bevanda odorava di pesche.

«Non c’era bisogno di arrivare a tanto, in fondo non mi sto nascondendo. E come mai sei venuto proprio adesso, dopo tanto tempo?»

Evitò la domanda ancora una volta, bevendo un sorso. Sembrava un tè che sapeva di pesche e di albicocche, ed era dolce.

«Sei felice, qui?»

La domanda prese di sorpresa Mika. Dopo un momento di stupore, tuttavia, si sciolse in un sorriso e a Yuu sembrò che gli occhi gli si inumidissero.

«Che bello che mi hai fatto questa domanda prima di tutte le altre» commentò lui, passando il dito sulla condensa del bicchiere. «Sì. Sono felice.»

Nel profondo del cuore non era la risposta che sperava di sentire. Lottò interiormente tra la delusione di essere un capitolo chiuso senza rimpianti e il disgusto che provava per se stesso per avere dei sentimenti tanto egoistici, ma un vociare di bambini da dentro casa impedì a Mika di accorgersi del suo disagio.

«Oh, sono già qui! Serviti con comodo, Yuu, e se ti serve il bagno è al primo piano in fondo a destra. Devo dare la merenda ai bambini, poi torno da te. Scusami tanto!»

Mika sparì dentro la cucina e Yuu ringraziò una divinità generica per quell’intervento provvidenziale. Restare un momento da solo, avere forse anche la possibilità di andarsene senza dare delle spiegazioni e sparire per altri sette anni, era quello che gli serviva per acquietare la mente.

Aveva ragione. Sette anni fa mi ha detto che aveva bisogno di cercare, senza sentirsi obbligato a tornare… e non è mai tornato. Non aveva bisogno di me… non ha avuto bisogno di me per trovare la felicità.

Girò lo sguardo tutt’intorno, ma non vide altro che campagna, una campagna sconfinata. Campi su campi, macchie di bosco, un cielo immenso dello stesso colore degli occhi di Mikaela. Sentiva solo uccelli, frusciare di piante mosse dal vento, cicale lontane, e odore di cucina rustica mista a un vago odore di erba e paglia.

Quando posò lo sguardo sulla sua auto tastò le chiavi dentro la tasca, con la voglia di alzarsi, saltare su e tornare a casa sua; una casa che non aveva una singola cosa in comune con quella Lucky farm, alla sua vita che non aveva un punto di contatto che fosse uno con quella che Mika si era scelto e aveva così tanto voluto.

Solo il pensiero della posta in gioco lo persuase a rimanere seduto lì dov’era. Bevve quell’intruglio di frutta, mise i piedi sulla sedia accanto e si ficcò in bocca il panino al formaggio, ammorbidendo il suo rigetto istintivo inculcandosi l’idea di essere ospite a un campeggio estivo per ragazzini.

 

*

 

 

Yuu fu obbligato a partecipare alla cena della grande famiglia della Lucky farm e la tollerò a malapena, con quell’atmosfera felice e amichevole. Gli ricordava lontani tempi alla tavola di Crowley ed era un dolore flebile ma perpetuo dentro il petto.

Accolse quindi con gioia l’invito ad accomodarsi fuori – con una bottiglia di birra – e lasciare che Mika sparecchiasse e finisse le sue faccende serali. Si insediò in veranda, sorseggiando, ad ascoltarlo accordare la colazione con gli ospiti del bed&breakfast, dare la buonanotte ai suoi mezzadri uno ad uno, e infine a scusarsi con Lucky.

«Resto un po’ fuori a chiacchierare con Yuu. Non ti dispiace, no?»

«Amore, certo che no. Non ti preoccupare di far tardi, faccio io la colazione agli ospiti domattina quando mi alzo.»

«Grazie, tesoro, ma non ce n’è bisogno» fece lui, e gli diede un bacio. «Faccio io, tanto si alzano verso le nove. Buonanotte.»

Lucky gli mormorò parole così sdolcinate che Yuu non trattenne una smorfia e affogò il suo fastidio con un sorso di birra amara. Quando la porta cigolò aprendosi si stampò il miglior sorriso possibile sulla faccia per accogliere Mika, che aveva in mano una birra e si sedette con lui.

«Scusami se non sono stato molto ospitale… è un periodo pieno per noi. Sono aperte le lezioni di equitazione, siamo ancora in periodo di raccolto, e abbiamo ospiti al bed&breakfast…»

«Tranquillo. In fondo, non ho mica avvisato.»

«C’è una cosa che ti volevo chiedere, Yuu, già da oggi pomeriggio…»

Ebbe un leggero fremito ed esitò nel portarsi alla bocca la bottiglia.

«Cioè?»

«Ma dove accidenti sei stato? Hai preso un accento veramente strano!»

La tensione scese di colpo. Si aspettava una domanda molto personale, forse su di loro, o su come avesse superato la rottura. Il suo sorriso uscì più simile a un ghigno.

«Un po’ qua, un po’ là. Ho visto tanti posti anche io… e tu… dove sei stato, prima di venire qui?»

Credeva, quasi temeva, di coglierlo in fallo e scoprire che non era stato da nessuna parte, che l’aveva semplicemente mollato per stare con un altro uomo e non per andare a cercare chissà cosa, in giro per il grande mondo.

Invece Mika gli raccontò di Miami, poi di Los Angeles, di un paio di settimane passate in Arkansas e di veloci tappe a Chicago, Columbus, Dallas, poi del suo approdo in Kentucky. Fu però molto vago riguardo a che lavori avesse fatto, dove avesse abitato o – Yuu non si dava risposte scontate in merito – con chi.

A quel punto pensò che fosse il caso di mettere la barra a dritta verso l’argomento che contava di più. Iniziò raccontandogli di Quantico e Mika rimase sbalordito di scoprire che aveva preso il suo posto nell’FBI.

«Yuu, è straordinario! Io m’ero convinto che ormai fossi detective a New Oakheart, che magari stessi puntando alla carica di tenente com’era stato Crowley… e invece tu eri un agente speciale! Straordinario…»

Mika fece un sospiro sognante, e Yuu ne percepì un genuino orgoglio.

«Congratulazioni in ritardo, Yuu. Sono molto fiero di te… anche se so che quando vuoi qualcosa alla fine la ottieni sempre, è bello vedertelo fare.»

Mika si abbarbicò di sbieco sulla sedia, sporgendosi un po’ sul tavolo.

«E una storia, ce l’hai? O adesso pensi solo alla carriera?»

Iniziò a pensare a cosa rispondere per non sbilanciarsi, ma l’arrivo di una macchina di colore chiaro interruppe la loro conversazione. Dopo aver parcheggiato un po’ più velocemente del consigliabile l’uomo alla guida scese e con passo malfermo venne loro incontro.

Mika mollò la bottiglia sul tavolo e gli corse incontro, come se non fosse la prima volta che capitava che gli arrivasse a casa un ubriaco. Con una mossa che a Yuu sapeva di falso l’uomo gli collassò addosso appena gli fu a portata di braccia, aggrappandoglisi.

Incapace di ignorare del tutto una fitta di gelosia, seppur ovattata come un suono sott’acqua, Yuu sollevò un sopracciglio quando vide la mano di quell’uomo strizzare il sedere di Mika come tastasse una prugna per sapere se era matura.

Prima che decidesse se lanciargli un avvertimento generico o no Mika spinse l’alticcio indietro e gli tirò uno schiaffo dritto in faccia. La sua espressione però non era stupita, né rabbiosa: era come se per lui un ceffone di quel tipo fosse un saluto del tutto ordinario.

«Vattene a letto, Steven.»

«Ah, mi hai fatto male, Mikey…»

«Tieni le mani a posto, se non vuoi che ti faccia male… e che lo dica a tuo fratello.»

«Mhh… ma è solo un gesto affettuoso, davvero…»

«Va’ a letto, Steven, non dare spettacolo davanti al mio amico.»

Solo allora Steven, un uomo alto e ben piazzato, sollevò un paio di occhi chiari su Yuu. Non gli diede più peso di quello che avrebbe dato a un vaso di primule e tornò a guardare Mika con quello che – secondo lui – era uno sguardo fin troppo lascivo.

«Sono ubriaco, mi accompagni?»

«Se sei capace di trovare il mio culo a botta sicura troverai anche la tua camera. Fila dentro, imbecille.»

Steven barcollò meno vistosamente fino alla porta e non lanciò neanche un’occhiata a Yuu, che invece lo fissava come un corvo. Scomparve in cucina e i suoi passi si persero nello scricchiolio della scala mentre Mika tornava a sedersi.

«Chi è?»

«Steven, il fratello maggiore di Lucky… lavora in una distilleria qua vicino e lo alloggiamo qui da un po’ di tempo. È una specie di ospite a lunga permanenza, paga la stanza come gli altri.»

«Ho l’impressione che abbia dimestichezza» commentò Yuu, con un ricercato tono neutrale. «Come se ti toccasse spesso.»

«Sei diventato bravo a leggere le persone» lo lodò, con una vena di acredine non diretta a lui. «Sì, è che… io e Steven siamo stati a letto una volta. Qualche anno fa… oh, Lucky lo sa, glielo abbiamo detto. Da allora però allunga le mani quando è brillo…»

Gli emerse un sorrisetto di amaro divertimento. In qualche perversa maniera si sentì gratificato di non essere l’unico a cui Mika avesse riservato una coltellata.

«Il tradimento ce l’hai per vizio, allora.»

L’espressione di Mika si indurì appena.

«Non credo che debba importare a te, se non importa a mio marito.»

L’enfasi che mise sulle ultime due parole voleva essere un colpo di risposta alla sua stilettata. Yuu reagì dipingendosi in faccia un sorriso finto, inquietante, soprattutto nella luce pallida della lampada della veranda.

«Lucky ha cinque fratelli, mi pare d’aver capito… Steven è l’unico o è solo l’unico di cui si è accorto?»

«Non fare lo stronzo, Yuu. Non ti ho mai chiesto di perdonarmi per quella relazione che ho avuto con lui, sei stato tu a dirmi che una situazione speciale richiede regole speciali, così dicesti. Non te ne fregava un accidente allora, e dopo sette anni me lo rinfacci?»

«Sai, Mikey, non m’importa… ma pare che a te bruci, e molto. Non sarà che nonostante tu sia stato perdonato due volte sai di non meritartelo?»

Mika si alzò con un movimento brusco che mandò all’aria la sedia.

«Sei venuto fin qui solo per pungolarmi? Non posso credere che proprio tu mi dica qualcosa di così orribile!»

«Già che ci siamo, c’è una cosa che ho qui in gola da un po’, che ti voglio dire.»

Era ancora più facile di allora capire Mika. Sapeva che quell’esca lo incuriosiva e lo spaventava in egual misura, tanto che non accennò a sedersi né ad allontanarsi.

«Ci hai messo cinque mesi ad arrivare in Kentucky… hai fatto in fretta a vedere il resto del mondo e decidere che l’uomo col grosso pene era quello che volevi.»

Dar voce a quel pensiero era come liberarsi di un calcolo renale che lo tormentava da anni. Scoprire che alla fine Mika l’aveva lasciato non per un desiderio di scoperta e di indipendenza ma per mettersi con un uomo che non lo conosceva, che non sapeva neanche il suo vero nome, solo perché era un amante migliore di lui l’aveva torturato per tante notti insonni da non poterle neanche contare.

«Ma come puoi pensare che sia stato questo? Tu mi conosci, mi conosci meglio di chiunque… come puoi pensare che fosse solo per sesso che ho cambiato vita?»

«Proprio perché ti conosco so quanto ti piace.»

«Santo Dio, Yuu» sbottò lui, e rimise in piedi la sedia. «Certo che mi piace, e allora mi piaceva fin troppo, ma non puoi credere veramente che fosse quella la ragione! Sei pazzo o stai solo convincendoti che dipende da qualcosa al di fuori del tuo controllo come la dimensione del tuo pisello?»

«Ahh, ora risento un po’ del vecchio Mika psicologo. Allora, dottore, dopo sette anni di tormento spiegami il perché. Il vero perché.»

Mika si era seduto e lo guardava. L’imbarazzo era scomparso e al suo posto aleggiava un’aria di compassione che l’urtò più del suo risentimento vecchio di anni.

«Perché io, quando immaginavo la nostra vita insieme a trent’anni, ti vedevo sempre al lavoro. A chiudere un caso dopo l’altro, a lavorare di notte e di giorno, come faceva Crowley nei suoi periodi peggiori… e vedevo me fare lo stesso, inseguito dall’urgenza di salvare un altro bambino, un altro genitore, un’altra famiglia dall’ennesimo culto ossessivo e distorto. Vedevo te inseguire un idolo e io che seguivo la mia angoscia… noi due, fantasmi dello stesso castello, morti senza neanche accorgercene. E non la volevo questa fine.»

Yuu restò senza parole, con la mano stretta intorno a una bottiglia bagnata di condensa e gli occhi fissi sul volto afflitto di Mika, più drammatico nella luce della lanterna.

«T-tu… Mika… tu vedevi… davvero questo nel nostro futuro?»

I suoi occhi azzurri rimandarono il riflesso della luce del portico sulle lacrime che tratteneva mentre annuiva. Yuu, stravolto da una realtà del tutto diversa da qualsiasi spiegazione si fosse dato in quella lunga separazione, ammutolì e rimuginò, con lo sguardo fisso sull’etichetta della birra e la mente ai ragazzi Hyakuya che erano stati.

Passarono minuti su minuti prima che riuscisse a comprendere ogni parola ed elaborarla.

«Cosa… che cosa… ti ha fatto pensare che… lui ti potesse rendere felice, invece?»

Mika prese un sorso, lo deglutì, posò la bottiglia. Girò l’etichetta e asciugò la condensa. Poi finalmente rispose.

«Lucky… non aveva mire ambiziose. Non si considerava speciale, né degno di me, se è per questo… ma prima ancora di sapere chi fossi, quando pensava che non avessi nessun altro e nessun posto dove andare fuori da Bluefields, mi disse che avrebbe dedicato la sua vita a me. Che non mi poteva offrire molto, ma che mi avrebbe dato tutto quello che mi serviva… e…»

Sollevò la bottiglia per bere ma ci ripensò.

«Ho pensato che, se era sincero, allora io sarei sempre stato quello più importante… che nessun lavoro, nessun sogno o progetto sarebbe mai stato sopra di me… che lui… non sarebbe mai arrivato a ignorarmi. Immaginavo la mia vita adulta con lui esattamente come ho vissuto la mia adolescenza con te, Yuu: al centro del suo mondo…»

Era fin troppo da sostenere. Se bruciava l’idea che un amante migliore se lo fosse portato via, quella che fosse bastato tanto poco a persuaderlo tagliava come un rasoio sulla pelle.

«Credi che non valesse lo stesso per me?» sbottò allora, sbattendo appena la bottiglia sul tavolo. «Credi che, se me lo avessi chiesto, non ti avrei messo al di sopra di qualsiasi cosa?!»

«Ma tu non l’hai fatto, Yuu… mi hai lasciato andare, senza neanche provare a trattenermi, senza neanche una di quelle stupide promesse che si fanno quando si è disperati… non mi hai cercato, non mi hai mai chiamato… non hai mai provato a riprendermi.»

Il tono di Mika non era accusatorio. Era quasi dolce e questo, se possibile, inaspriva Yuu anche di più.

«Quando me ne sono andato tu sei andato dritto a Quantico, inseguendo la carriera… hai messo l’avanti veloce ai tuoi progetti, quando non ti ho rallentato più. Questo mi dice che lasciarci era la scelta giusta» aggiunse con quella voce setosa. «Abbiamo potuto mettere a fuoco quello che davvero cercavamo e diventare quello che volevamo essere.»

La rabbia di Yuu, che stava montando come una mareggiata, si spense di colpo. Ripensò ai suoi ultimi anni, alla sua casa, la sua città, i suoi conoscenti, il suo lavoro. Si portò la birra alle labbra e scolò quel che ne restava. Si era scaldata.

Era questo quello che volevo essere? O sarò una persona diversa, quando il cappio che viene dal mio passato mi lascerà libero?

«Ti prendo un’altra birra.»

Yuu fissò lo sguardo su Mika che si alzava. C’era un solo modo per rispondere a quelle domande.

«Dove si trova l’Acqua di Cristo, Mika? Tu lo sai?»

Lui si bloccò mentre gli passava accanto con le bottiglie vuote in mano. Sul suo volto non c’era confusione né perplessità, ma paura. Yuu fu certo di essere andato a chiederlo alla persona giusta.

«Mi serve per la mia missione. Mi serve come esca per far uscire allo scoperto persone che cercano roba di quel genere. Tu sai dove si trova adesso, no?»

«Io… non ho idea di che cosa sia.»

«Certo che lo sai. È una reliquia della Chiesa dell’Acqua, che era a Bluefields» insistette Yuu, con un’inflessione minacciosa. «Un’acqua con dei poteri misteriosi, dicono…»

«Non c’era niente del genere a Bluefields, né nessuno ha mai parlato di una reliquia che la Chiesa dell’Acqua custodisse» tagliò corto Mika. «Non posso darti né farti trovare qualcosa che non esiste.»

Yuu artigliò l’avambraccio di Mika per trattenerlo.

«So che esiste. Lo so per certo. Quello che non so è se l’hai portato via tu da Bluefields o se ce l’ha Ferid…»

«Lascia Ferid fuori da questa storia» sibilò lui, divincolandosi. «Lui non ha niente. Lui non sa niente. Non osare presentarti da lui a dargli fastidio per delle voci di corridoio che avrai sentito da chissà chi.»

«Non me ne andrò di qui finché non l’avrò o non saprò dove si trova. Come hai detto tu, Mika, se voglio una cosa io la prendo, non importa quanto ci vuole. E quell’Acqua, qualsiasi cosa sia, io la voglio.»

Il volto di Mika si fece pallido, poi le sue sopracciglia assunsero l’esatta forma delle ali di un falco e quasi lo stesso vigore della sua picchiata.

«Ah! Ecco perché ti sei fatto rivedere! Non sei venuto qui per vedermi, o per sapere come stavo… sei venuto pensando che bastasse fare due moine perché ti dessi questa cosa che vuoi e che pensi che io abbia! Beh, perdi tempo, Yuu!»

Ebbe uno scatto esagerato non appena si sentì sfiorare la spalla e gli puntò la bottiglia contro come fosse un’arma carica.

«Anzi, sai cosa? Vorrei averla solo per potertela negare ancora, ancora e ancora, per la faccia tosta con cui mi hai preso in giro!»

Yuu, seccato, abbassò la mano e gli lanciò uno sguardo di sufficienza.

«Hai le tue cose? Datti una calmata. Non sopporto la gente isterica.»

«Fuori da casa mia» gli sibilò, dandogli una spinta contro il petto. «Non m’interessa dove vai. Dormi in macchina, se ti pare, ma spostala dalla mia proprietà. Fuori dalla mia vista.»

Mika rientrò in cucina e si sbatté la porta alle spalle così forte che il cartellino lì accanto – con la scritta “per l’ufficio la porta a destra” – cadde sulle assi del portico. Da solo in mezzo ai grilli e a campi di coltivazioni che non riconosceva Yuu scese i gradini diretto alla sua auto, sospirando.

Beh, lo sapevo che non poteva essere così facile…

Alzò lo sguardo su qualcosa che non aveva mai visto tanto nitidamente in vita sua: uno sconfinato manto scuro punteggiato di stelle. Rimase un po’ lì fermo a guardarlo, con le mani in tasca, almeno finché l’aria calda e umida della notte non ebbe la meglio su di lui.

Il piano C faceva probabilmente al caso suo.

 

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Capitolo 3
*** Trattative ***


Il giovedì era il giorno in cui Crowley, salvo emergenze, rientrava subito dopo pranzo; e a Eanverness di emergenze ce n’erano di rado. Scese dall’auto quasi davanti alla porta di casa, si caricò la spesa a braccia e spalle come un mulo da soma e rientrò in casa, pregustando già la poltrona, un programma rilassante in televisione e una birra, come si concedeva ogni settimana.

«Sono a casa» annunciò, lottando con la rete dell’anguria che era rimasta incastrata nella porta a zanzariera. «Ferid?»

Era lì, nel salotto, troppo immerso nella lettura per sentirlo. Notò immediatamente il libro che teneva fra le mani e il suo cuore sprofondò un poco. Posò la spesa sul ripiano della cucina e si mosse in automatico per prendere il bollitore.

«Ferid, vuoi una tazza di qualcosa? Camomilla, o…»

Lui alzò gli occhi dal libro, spaesato, e quando lo trovò gli sorrise.

«Sei già a casa, Crowley caro? Non ti ho sentito entrare!»

«Guarda che ho fatto anche tardi, per fare la spesa.»

Sotto lo scroscio dell’acqua del rubinetto lo sentì commentare qualcosa sull’orario. Mise l’acqua a bollire e prese dalla busta tutto ciò che andava sistemato in frigorifero.

«È questo libro, sai… Punti di luce, s’intitola, è davvero avvincente! Dovresti leggerlo anche tu!»

Crowley si accorse che il bicchiere di Ferid e il flacone delle medicine erano come lui li aveva lasciati quella mattina: l’orario non era la sola cosa che aveva dimenticato di controllare preso dal suo libro.

Prese la pillola nel palmo e il bicchiere d’acqua e si avvicinò a lui sulla poltrona, mentre gli raccontava l’ambientazione del romanzo.

«Lo so già, Ferid… l’ho già letto, il libro. E anche tu.»

Il suo entusiasmo si spense. Guardò la copertina con occhi vacui, disorientato. Crowley soffrì quella vista come ogni altra volta.

«L’ho già letto… quando?»

«Ieri, tesoro» gli fece Crowley con dolcezza, mettendogli in mano la pillola. «Tutto d’un fiato, come fai sempre quando un libro ti piace.»

La mano di Ferid strinse la pillola. Abbandonò il tomo in grembo per prendere il bicchiere e senza un commento prese la sua medicina, ma le rughette tra le sue sopracciglia tradivano il suo tentativo di ricordare il giorno precedente. Un altro giorno perduto della sua vita.

«Ho… combinato qualcosa?»

Crowley riprese il bicchiere e gli accarezzò la testa, sorridendo.

«No, capriccioso come al solito… Eden ha preparato una merenda per tutti e ha imbrattato di cioccolata tutta la cucina, ma a parte questo è stato un giorno come tanti.»

«Di cosa abbiamo parlato? Di qualcosa di importante?»

Elencare tutti gli argomenti e fargli sapere che l’intera pianificazione della festa del raccolto era sprofondata nell’oblio avrebbe solo peggiorato il suo senso di colpa, quindi scosse la testa.

«Solo chiacchiere. E ti ho detto che ti amo, te lo dico tutti i giorni.»

Ferid si aggrappò al suo braccio mentre gli dava un bacio sulla fronte. Teneva gli occhi chiusi e le sopracciglia contratte, fattori che gli fecero pensare che cercasse di trattenere un pianto.

«Crowley?»

«Dimmi.»

«Che cosa ho bevuto ieri?»

«Tè nero all’albicocca, quello che ti ha regalato Krul per il tuo compleanno. Freddo, con il ghiaccio.»

«Fammi un bicchiere di quello, per favore.»

«Yes, my lord» replicò Crowley in tono allegro. «Che ne dici se metti via il libro e ti porto il tuo diario, così leggi tu stesso che è successo ieri?»

Ferid soppesò l’idea, e con sollievo Crowley vide la sua espressione rischiararsi mentre riprendeva in mano Punti di luce.

«Prima finisco il libro, così me lo godo due volte.»

Crowley si sentì meno oppresso davanti alla sua veloce ripresa, ma non riusciva a sentirsi del tutto tranquillo: nonostante Ferid fosse diligente nel tenere il suo diario quotidiano e facesse tutti gli esercizi consigliati dal medico i giorni di oblio si erano ripresentati, anche se saltuari.

Se nei mesi successivi all’annegamento Ferid dimenticava un giorno su tre – a causa dei danni riportati per la mancanza di ossigeno – dopo due anni si era stabilizzato al punto di saltare un giorno o due all’anno… ma Crowley poteva ormai contare il settimo giorno perso in quell’anno 2029, e l’aumento improvviso lo spaventava.

Preparò con cura il tè nella teiera preferita di Ferid, appartenente al servizio che era stato di Claude, e prese la birra per sé dal frigorifero. Guardandola gli tornava in mente Ferid, appena conosciuti, che lo supplicava di non bere per sopportare il dolore… e si angosciava, chiedendosi che cosa mai avrebbe potuto alleviargli il dolore se Ferid fosse peggiorato più rapidamente di quanto i medici avessero ipotizzato e si fosse perso, senza più trattenere alcuna memoria dei giorni che trascorreva.

«Crowley, dici che l’assassino potrebbe essere il vecchio sceriffo in pensione?»

Con l’accenno di un sorriso lo raggiunse con il tè e il bicchiere del ghiaccio già pronto e si accomodò – o per meglio dire, sprofondò – nella vecchia poltrona.

«Anche se avessi indovinato, non vale. Chi mi dice che non hai fatto finta di dimenticartelo per vantarti che hai risolto il caso prima della fine?»

«Oh, ma che pessima idea hai di tuo marito, sceriffo Eusford?»

«Dopo che mi ha costretto a sposarlo tre volte? La peggiore possibile.»

«Volevi tu che ci fossero gli O’Brian e anche tutti i tuoi amici di New Oakheart, che cosa dovevamo fare? Non potevamo mica portarli via da casa e lavoro per due giorni!»

«E cosa anche peggiore, ci siamo sposati con le streghe al loro sabba.»

«Guarda che la mia memoria funziona molto bene al riguardo» rimbeccò Ferid. «Sei stato tu a proporlo, e l’hai organizzato tu con la tua amichetta.»

«Da quando Krul è l’amichetta mia?»

«Beh, io ci ho fatto sesso ma non l’ho mai aiutata a fare quelle sue cose da wiccan.»

«Forse dovresti, visto che le sole donne che frequenti sono streghe… e comunque, quello al Beltane è stato il nostro matrimonio migliore. Ammettilo.»

Ferid gli lanciò un’occhiata truce da sopra il libro, che lui fece finta di non vedere mentre ripescava il telecomando tra il cuscino e il bracciolo. Non comprese tutto del suo borbottare, ma udì distintamente “me l’ha traviato”.

Avrebbe potuto ribattere riguardo il fagotto nascosto sotto la cantina, la croce di Brigid di paglia appesa in veranda e la vetrinetta dove tenevano le erbe secche, gli incensi e una piramide di cristallo grande quanto una mano, ma preferì accendere la tv e lasciare che Ferid tornasse al suo romanzo per la seconda volta, per scoprire che lo sceriffo veniva ucciso dall’assassino al penultimo capitolo.

 

***

 

Mika marciò fino al recinto dei cavalli e si appollaiò lì sopra, con le braccia e le gambe annodate come una cima sul ponte di un veliero. Apparentemente ignaro il cavaliere abusivo continuò a spingere il cavallo roano grigio al trotto, finché i loro sguardi non si incrociarono dopo la curva dello steccato. Mika non distolse lo sguardo né si mosse anche se il destriero venne rallentato all’ultimo momento e si impennò a un metro da lui.

«Hai ancora sangue freddo, Mika» osservò Yuu, divertito.

«Non montare il mio cavallo. Non voglio che prenda abitudini pericolose da altri fantini.»

«Oh, non ci crederai, ma avrei detto lo stesso a Jonathan!»

Il suo sibilo invelenito fu coperto da uno sbuffo del cavallo e dal rumore di Yuu che smontava – non senza qualche difficoltà – dalla sella. Mika balzò giù e prese le redini di Kismet, accarezzandogli il muso.

«Quanto hai intenzione di restare qui ancora?»

«Oh, finché non avrò quello che sto cercando, Mika. In fondo alla puzza ci si abitua, ma almeno l’aria qui non è quella che respiro in città. La puzza di cavallo non è tossica.»

«Non voglio che resti a ronzare qua intorno alla mia famiglia. Non con quell’atteggiamento sgradevole che hai.»

Yuu non si toglieva quel sorriso canzonatorio dalla faccia.

«Tu che parli così a un cliente pagante, non è un atteggiamento sgradevole? Ho pagato un mese in anticipo, dovresti trattarmi coi guanti bianchi.»

«A questo proposito, le lezioni e le cavalcate si pagano a parte» fece Mika, asciutto.

«Pensa, fino a ieri i tuoi accoliti mi dicevano che il tuo cavallo non si poteva usare neanche a pagarlo. Se resto qui un mese forse sarai in vendita persino tu.»

«Non dire ‘ste cose schifose, Yuu. A sentirti parlare mi si sbriciola tutto il bello che ricordo di te.»

Lo sentì ridere dietro alle sue spalle e sospirare qualche parola, fra sé e sé, in una lingua che non capiva. Mika si voltò a guardarlo, corrucciato, chiedendosi dove Yuu avesse imparato quella che a lui sembrava essere la lingua tedesca e come mai – finalmente aveva capito – ne aveva preso un accento così persistente.

Yuu piantò quegli occhi verdi nei suoi tanto che non riuscì più a distogliere lo sguardo. Qualcosa nell’animo di quel ragazzo era cambiato e adesso Mika vi percepiva un’oscurità che gli faceva paura.

«Dammi l’Acqua di Cristo, Mika, e potrai dimenticarti di me e delle mie maniere e tornare alla tua allegra fattoria… almeno finché dura. Dammela ora e me ne sarò andato prima di pranzo. Il mio mese in anticipo lo potete tenere come regalo di nozze.»

Un colpetto di muso di Kismet ruppe quella specie di incantesimo che gli impediva di vedere Yuu come un essere umano suo pari e non come il Diavolo dei Cherokee capace di ipnotizzare. Riconoscente al suo destriero diletto l’accarezzò.

«Ti ho già detto che non esiste. Chi ti ha messo in testa quest’idea?»

«Secondo te, chi?»

Yuu estrasse dalla tasca della giacca di pelle un contenitore metallico e pensò volesse mostrargli qualcosa, ma poi si accorse che era un portasigarette. Ne sfilò una, ma non l’accese.

«Emil Mackham ti ricorda qualcosa? Ha raccontato un bel po’ di storie bonus, anche su suo fratello, per uscire con la condizionale. S’è innamorato della donna che stava con Ferid, ci credi?»

Emise una risata vuota e accese la sigaretta.

«Le storie degli esseri umani si intrecciano in modi assurdi… con l’amore che arriva come una pioggia estiva e se ne va. E tutti orientano le vele per prendere questo vento pur sapendo che dura un istante… è così stupido.»

Sentì vibrante il disprezzo e l’amarezza nella voce dall’accento tedesco, ma nonostante lo ferisse ogni frase di quell’uomo che non riconosceva si sentì sollevato.

«Padre Vann ti ha parlato dell’Acqua di Cristo?»

«Non ricordo come lo chiamavano.»

«Emil Mackham. Lui te l’ha detto?»

«Non te l’ho mica detto in tedesco, no?» si spazientì lui. «È quello che t’ho detto un secondo fa.»

Mika sospirò senza suono, sentendosi le spalle più rilassate. Ponderò la situazione più freddamente, con le sue paure a debita distanza, e prese una decisione.

«Bene. Dimmi che cosa intendi farne e io forse ti dirò dov’è.»

Un sinistro brillio illuminò lo sguardo di Yuu, che si raddrizzò come elettrificato dal recinto.

«Quindi ce l’hai tu!»

«Che cosa intendi farne?»

La spiegazione non fu esaustiva come Mika sperava, ma mentre riaccompagnava l’animale nella stalla Yuu gli delineò una misteriosa missione in Europa – a giustificazione del suo accento – e di un’organizzazione che commerciava in reliquie esoteriche e religiose per membri di sette e culti di ogni foggia. Una sfumatura di voce più che una scelta specifica di parole suscitò in Mika un sospetto atroce.

«Yuu… Yuu, sono le persone a cui tuo padre ha provato a venderti quando eri bambino?»

Il suo volto era di gesso come un manichino e annuì rigidamente. Più che tenere i suoi sentimenti dentro sembrava cercare di tenere la compassione di Mikaela fuori, perché non lo sfiorasse. Conscio di questo suo desiderio evitò di esprimerne.

«Alla fine li hai trovati… Vuoi portargli l’Acqua di Cristo per incastrarli?»

«Mi permetterà di sapere chi autentica i pezzi per loro. Sono in rapporti di conoscenza con uno dei loro mediatori, un americano che vive da tempo a Berlino. Mi farà entrare nel loro giro se gliela porto e avrò accesso a più informazioni sui membri, su dove si incontrano, come pagano.»

Mika accarezzò il crine di Kismet mentre era abbassato a bere.

«E dopo? Dopo aver… esorcizzato il tuo passato… resterai un agente dell’FBI?»

«Non verrò a spalare il letame dei tuoi cavalli, se era quello che pensavi.»

Scosse la testa.

Non lo sa ancora, neanche lui lo sa. Come me. Non sapevo che una volta scomparso il mostro avrei perso la molla che mi spingeva a essere un agente di polizia, un esperto di psicologia… ho trovato un altro mondo e un altro scopo. Forse accadrà anche a lui, ma non lo sa, adesso. Il traguardo è troppo distante.

Si sentì gli occhi addosso mentre usciva dalla stalla.

«Vieni. Ti mostrerò l’Acqua di Cristo… dopo colazione.»

 

***

 

Yuu rimase intrattabile, suo malgrado, per tutta la durata della colazione. Gli riusciva ancora intollerabile vedere come quelle persone si comportavano con Mika – o, come lo chiamavano loro, Mama Mikey – e come lui reagisse; con quell’allegria, con quel sorriso, con una confidenza che il vecchio Mika non avrebbe tollerato per un minuto. Aveva l’impressione di guardare una voliera di gioiosi pappagallini.

Alla fine, uno per uno, tutti i mezzadri, Lucky e Steven partirono per sparpagliarsi in città o nella tenuta per i loro lavori, ma non prima di baciare Mika sul viso alla consegna delle loro scatole del pranzo al sacco.

Appoggiato al davanzale Yuu fumava la sua terza sigaretta, torturato da quella situazione come se gli conficcassero aghi incandescenti sotto le unghie. A peggiorare il suo umore, l’innegabile certezza che era geloso di Mikaela come il giorno della sua partenza.

«Yuu? Vieni. Ti mostro l’Acqua.»

Preso di sorpresa si raddrizzò in fretta e spense la sigaretta contro l’interno del suo portasigarette e conservandone la metà ancora da buona. Lo seguì dentro la dispensa, curioso di vedere dove si fosse ingegnato di nascondere qualcosa di così prezioso.

Anziché spostare mobili o barattoli, Mika sollevò il tappetino che copriva il pavimento e prese a pugni le assi finché non trovò il punto giusto: un pannello si alzò abbastanza da poter scoperchiare la botola. Yuu si avvicinò sbirciando dentro, ma vide solo un fagotto impolverato e una piccola scatola. Mika tirò fuori quest’ultima.

«Che c’è nello straccio?»

«Un amuleto. Me l’ha dato Ferid, protegge la casa dal male.»

Dalla scatola emerse un polveroso velluto blu e una boccetta di vetro sigillata con la ceralacca, molto più piccola di quanto Yuu si fosse immaginato: il suo flacone di acqua di colonia da viaggio era più grande di quella.

«Tutto qui?»

«Cosa ti aspettavi? Scie di luci, cori d’angeli e i fulmini come l’Arca dell’Alleanza?»

Yuu prese la bottiglia e la studiò. Non poteva negare di essere deluso dall’ordinarietà di quella reliquia, tanto che si chiese come convincere il suo contatto che non fosse della banale acqua dentro un’ampolla.

«E cosa fa?»

«Ah, cosa faccia non lo so. Se mi chiedi se abbia qualche potere non so cosa rispondere… ma l’ho vista, prima di sigillarla. Questa non è banale acqua.»

«In che senso?»

«Non so che cosa sia… ma galleggia sopra l’acqua del rubinetto come olio, eppure non si mescola neanche con l’olio. Galleggia sopra l’olio.»

Non conosceva abbastanza chimica da svelare il mistero su due piedi, ma se era vero quello che Mika raccontava aveva una chance di provare l’autenticità del suo prodotto. Questo significava avere un accesso garantito alla cerchia dei Figli di Prometeo.

Mika riprese la bottiglia per riporla nella scatola, dopo averne spolverato il velluto.

«Perché la chiamate Acqua di Cristo? Perché cammina sull’altra acqua?»

«Bella immagine… ma no. Si dice che sia l’acqua che è scorsa sulla testa di Cristo quando è stato battezzato nel fiume Giordano. Però non so chi possa averla raccolta, i pochi documenti che trattano dell’Acqua non lo specificano.»

Yuu allungò le mani per prendere in consegna la scatola, ma Mika la tenne sotto il braccio.

«Mi dispiace, ma non posso consegnartela così. La reliquia appartiene alla chiesa di Bluefields.»

«Ma la chiesa non c’è più.»

«Certo che c’è. L’organizzazione della Chiesa dell’Acqua è crollata con gli arresti dei federali, ma Bluefields è stata riscattata quando è stata venduta all’asta ed è un monastero della nuova Chiesa dell’Acqua. Anche se la custodisco qui l’Acqua appartiene alla comunità.»

Yuu iniziava a sentir montare la rabbia, ma fece del suo meglio per controllarla.

«Hai detto che me l’avresti data.»

«Ho detto che te l’avrei mostrata. Devo chiamare Nicodemo e parlargliene. Se mi darà il suo benestare potrai averla.»

«Chiamalo adesso, allora.»

«Ha una celebrazione a Fort Royal. So che rientrerà in giornata e lo chiamerò quando sarà tornato. Perché, nel frattempo, non vieni con me a controllare le arnie?»

«Le… cosa?»

«Le arnie. Le mie api da miele. Di solito fanno tutto da sole, ma devo controllare che non si siano allargate troppo con i telai.»

La sola idea più folle di Mika che allevava api da miele era che Mika gli chiedesse di andare a vederle insieme come se non fosse accaduto niente tra loro.

Lanciò uno sguardo alla distesa di campi, immobili nel sole. Se Mika usciva a controllare le api aveva due opzioni: annoiarsi a morte aspettando il momento della chiamata o prendere la scatola e saltare in macchina per fare ritorno a casa.

Devo essere impazzito con questo caldo.

Sospirò e senza entusiasmo seguì Mika fuori, lungo un sentiero che conduceva a lontane casette colorate.

 

***

 

Il cagnolino scorrazzava nell’erba, troppo eccitato dagli odori sconosciuti per pensare a fare della pipì la sua priorità. Crowley si sedette sul ceppo della legnaia in attesa che si calmasse.

La serata era fragrante, calda ma non insopportabile, con un vento frizzante e in cielo non c’era una nuvola: era dall’inizio dell’estate che non avevano una nottata così piacevole. I dintorni della casa in fondo a Brewer road, nei sobborghi tranquilli di Eanverness, offrivano come musica i grilli e come spettacolo le lucciole che si muovevano nell’erba alta.

Quella sera sopra ai grilli Crowley sentiva qualche cosa in più che veniva dal primo piano, dove un paio di finestrelle erano illuminate: della musica hip-hop attraversava il cortile fino alla legnaia e due piccole sagome si agitavano davanti al vetro.

Lo sta facendo di nuovo, quel bugiardo… aveva promesso di non farli più saltare sul letto.

Crowley sospirò. Cercando il cane con gli occhi non lo trovò e si alzò di scatto per scovarlo, e riuscì a vedere quella sua piccola codina bianca agitarsi a più non posso mentre annusava sotto dei cespugli, dieci metri più in là dello steccato.

«Plum, non scappare!»

Ma il piccoletto era tutto preso, forse aveva visto un rospo o qualche animaletto sparire tra le foglie. Non fuggiva e Crowley rallentò il passo. Per sicurezza riagganciò il guinzaglio al collare e poi indugiò sulle finestre, distinguendo nitida la sagoma di Ferid che teneva in braccio Emma.

Non sono sicuro che sia una buona idea agitarli prima di mandarli a letto… però, è anche vero che non si svegliano mai di notte. Hanno preso da Ferid.

In pochi attimi le luci giallastre vennero opacizzate dalle tende e poi lasciarono il posto a un bagliore azzurrino tenue: le luci da notte dei bambini. Ancora un poco e si accese la luce nella stanza accanto, dove Ferid si sedeva ogni sera a scrivere la sua giornata prima di andare a dormire. Tante volte si era chiesto se il giorno seguente aggiornasse il suo diario quando facevano l’amore, una o due ore dopo la scrittura del suo resoconto. Per delicatezza non gliel’aveva mai domandato.

Non lo facevano da un po’ di tempo e decise che al rientro avrebbe buttato lì quella domanda per vedere se ne usciva un dibattito abbastanza stuzzicante. Era soddisfatto della vita di famiglia, gli piaceva fare il padre e anche essere lo sceriffo di una piccola città, ma non voleva che lui e suo marito smettessero di essere amanti prima della vecchiaia.

 

***
 

Con la valigia già in macchina e le chiavi nel cruscotto, Yuu sedeva sul cofano a fumare. O piuttosto, a fissare occhi vacui sulla brace luminosa nel buio, preso tra un profondo senso di vuoto e la smania di voltare le spalle a quella casa detestabile: andarsene avrebbe chiuso del tutto il libro della sua storia con Mikaela, perché non avrebbe più avuto ragioni di sentirlo e lui non intendeva tornare sui suoi passi.

Come la metteva la metteva, era una storia finita, e stare lì a fissarne le ultime righe come se potesse apparire magicamente un altro finale era da illusi. Solo qualche giorno prima quasi sperava di arrivare lì e scoprire che Mika era infelice e tormentato, e portarselo via come nelle migliori favole. Ora che era certo di aver preso un doloroso abbaglio non vedeva l’ora di mettersi in viaggio, tornare alla sua missione e dimenticarsi di averlo conosciuto.

«Lächerlich» borbottò, sdraiandosi sul cofano.

Ridicolo era la parola giusta, secondo lui. Lui stesso era ridicolo, disgustato da Mika un momento e geloso di lui quello subito dopo, incapace di decidere se volesse lottare per riaverlo o lottare per dimenticarlo, e restava lì, in un limbo che non faceva che impedirgli di andare avanti e di tornare indietro.

Come un cavallo nelle sabbie mobili.

Sbuffò a quel paragone assurdo e dal recinto dei cavalli, poco distante da lì, gli arrivò in risposta un verso molto simile. Strizzò gli occhi, ma nel buio non riusciva a distinguere il manto delle bestie che ciondolavano muovendo pigramente le code.

«Non stai dormendo, vero, Yuu?»

Yuu si voltò dall’altro lato. Mika teneva in mano il cellulare con la torcia accesa che illuminava il suo sorriso, la valigia che portava con sé e – ci mise un attimo di troppo a notarlo – abiti blu decisamente non adatti al lavoro in campagna.

«Was zum Teufel ist das?»

«Non ho la più pallida idea di che cosa tu mi abbia detto» l’informò Mika, placido.

Spalancò lo sportello e mise dentro la sua valigia prima che Yuu riuscisse, in modo straordinariamente goffo, a scendere dal cofano.

«Che diavolo è?» ripeté in inglese.

«Una valigia, non si vede? Ho avuto l’approvazione di Nicodemo, quindi ti cederemo temporaneamente l’Acqua di Cristo, ma ha insistito che non venisse mai persa di vista, se possibile.»

Yuu emise solo una sorta di gorgoglio, preso di sorpresa da quelle circostanze.

«Uno dei Padri della chiesa ti accompagnerà per controllare che l’Acqua rimanga intatta e non venga esposta a più rischi del necessario. Non ti preoccupare, cercherò di non starti tra i piedi. Guarderò da lontano.»

Mika era già sistemato sul sedile del passeggero. Yuu affondò la mano attraverso il finestrino aperto e bloccò la cintura di sicurezza.

«Perché tu?»

«Perché gli altri Padri sono impegnati a tempo pieno. Bluefields è in fermento in questo periodo dell’anno, e c’è molto da fare.»

Yuu serrò la presa, con una sensazione di freddo gelido alla bocca dello stomaco.

«Mikaela… intendi… tu…?»

«Io non ho mai lasciato la comunità di Bluefields come ha fatto Ferid. E completati i miei studi sono diventato Padre. Non vivo lì, ma faccio ancora parte della Chiesa dell’Acqua, e se non lo avessi notato per colpa del tuo atteggiamento, lo sono anche tutti i ragazzi della Lucky farm.»

Confuso, allentò abbastanza la stretta da permettere a Mika di liberare la cintura e allacciarsela.

«Mikael. Se non lo ricordi, mi hanno ribattezzato Ezekiel durante la mia missione, ma con la nomina a Padre si cambia di nuovo nome… beh, è così che si faceva prima. Ora non è più un obbligo cambiare durante il Battesimo.»

«Unsinn» gli sfuggì di bocca senza pensare. «È… assurdo, sei un prete che sta con un uomo e lo tradisce con altri uomini.»

«Giudicami quando avrai fatto la mia stessa strada con le mie scarpe.»

«Dal Vangelo di chi?» fece Yuu, salendo al volante.

«Dei Sioux. Non so quale versetto.»

Si allacciò la cintura immaginando di bloccare con essa anche la sua lingua. Stava per tornare a casa, ma in quel momento la presenza di Mika era irritante come uno spray per ambienti dall’odore pungente. Non sapeva che cosa avrebbe dato per poterlo piantare in mezzo a una strada di montagna, e con lui il suo ricordo.

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Capitolo 4
*** Rete ***


 

Ferid sbadigliò mentre finiva di scrivere il suo diario. Spesso trovava mortalmente noioso quel compito e si chiedeva come avesse fatto per tanti anni, dalla morte di Claude, a tenere delle registrazioni tanto accurate ogni sera senza mancare mai.

Non avevo tre figli, tanto per cominciare.

Di certo quello influiva molto sulla sua stanchezza serale, e il fatto che all’epoca avesse dai venti ai dieci anni di meno era un fattore rilevante. Era ancora in grado di andare al lavoro presto e tutto il giorno e poi folleggiare in uno dei suoi locali preferiti, qualche volta anche senza dormire, quando si preoccupava di scrivere ogni noioso attimo della sua vita su un quaderno.

Concluse la pagina scrivendo che cosa aveva fatto sentire ai bambini prima di metterli a dormire e che cosa Emma – la loro piccola adottata – gli aveva chiesto sugli opossum. Depose la penna con un dolore tremendo al polso e se lo massaggiò.

Vorrei poterlo fare con il computer…

L’occhieggiò sul lato sinistro della scrivania, ma il suo medico gli aveva detto che scriverlo di suo pugno era importante: aiutava il suo cervello a trattenere i ricordi e, nel caso al mattino si fossero dileguati, era necessario che riconoscesse quegli appunti come suoi dalla calligrafia.

Massaggiandosi il polso vagò con gli occhi sulle scritte che riempivano le pagine di fitte righe.

E quando sarò troppo vecchio? Quando inizierò ad avere… che ne so… l’artrite, o qualcosa che non mi permette di scrivere o di tenere la penna?

Mosso da inquietudine si alzò dalla sedia, ma non fece che pochi passi per poi tornare indietro. Con un sospiro chiuse il diario.

Per quanto ne so potrei essere al punto di non ricordare più chi sono molto prima dell’artrite…

Se un tempo la sua paura più grande era stata di trovarsi un giorno vecchio e completamente privo di affetti, ora il suo incubo era che i suoi cari e i bambini dovessero trovarsi ad avere a che fare con una persona che non li ricordava più.

Avrebbe di gran lunga preferito andarsene come nonna Nancy: serenamente, inaspettatamente, nel sonno ristoratore dopo aver passato una lunga giornata con i nipoti e una sera a teatro…

Il rintocco di mezzanotte dell’orologio da tavolo lo strappò a quei pensieri angoscianti. Fece finta di niente, come se ci fosse qualcuno a guardarlo, e si asciugò l’occhio con un gesto furtivo.

«Crowley non è tornato ancora?»

Guardò il giardino, ma non lo preoccupò non trovar traccia del cagnolino di Eden: più volte aveva trovato Crowley – dopo essersi svegliato in un letto da solo – addormentato sul divano con il piccolo Morgan da un lato protetto dai cuscini e Plumcake che ronfava dall’altra parte.

A quell’ora suppose che si fosse addormentato davanti alla televisione di nuovo. Scese nel soggiorno sicuro di trovarlo lì, ma non vide né lui né il cane, e il televisore era spento. La sola luce accesa era quella sul lavabo della cucina e, fuori, quelle della veranda.

«Sta’ a vedere che anche stasera Plumcake non fa i bisognini.»

Ferid uscì sulla veranda a guardare, ma non vide nessuno. C’era la possibilità che si fosse spinto più in là del solito se il cane non voleva saperne, e che fosse arrivato fino alla proprietà di Giselle Newport, la donna anziana loro vicina, per vedere come stava. Gli vennero in mente almeno quattro spiegazioni sensate e un paio di improbabili ma non impossibili, eppure…

Si strofinò le braccia. Era una notte caldina, ma lui si sentiva i brividi addosso. Fu questo a spingerlo a prendere il cellulare sul tavolo e chiamarlo, ma sentì solo squilli a vuoto.

Crowley, niente scherzi… dove diavolo sei?

Preso dall’angoscia guardò in cima alle scale, restio a lasciare i bambini in casa da soli. Ogni tanto, quando lasciava una finestra aperta per un soffio d’aria fresca, aveva ancora l’ombra del pensiero di Bobby che apriva la sua finestra difettosa ed entrava in casa sua, a leggere le sue memorie e avvelenare il suo infuso… ma a Eanverness il peggio che poteva capitare era di litigare con qualcuno e arrivare alle mani per una manovra goffa nel parcheggio del pub, quindi si assicurò di chiudere le doppie porte e ridiscese la Brewer road a passo svelto.

«Crowley?»

Rallentò speranzoso vicino al bivio in cui la strada diramava un sentiero sterrato verso i campi più vicini, ma non vide nessuno e non ebbe risposta. Accese la luce del cellulare, perché quello era l’ultimo lampioncino stradale della città.

«Crowley? Sei qui?»

Aveva mosso solo qualche passo che un rachitico cespuglio secco vibrò facendolo sobbalzare, e da sotto ne emerse Plumcake. Il cagnolino si precipitò da lui scodinzolando e facendo feste tali che fece fatica a prenderlo in braccio.

«Buono… buono, Plumcake, shh» gli fece, e lo placò abbastanza perché non gli cadesse. «Dove l’hai messo Crowley? Sai, quello grande che viene a passeggio con te.»

Più che preoccupato al momento era un po’ irritato. Per lo spavento che gli stava facendo prendere e per il fatto che avesse lasciato Plumcake senza tenergli il guinzaglio, rischiando che scappasse e si perdesse. Immaginò si trovasse lì intorno, o magari in mezzo al campo a cercare il cane, e tentò di nuovo di chiamarlo.

La sentì. Il suono dello squillo nell’auricolare, ma anche la suoneria country del cellulare di Crowley. Ignorando il cane che gli leccava la faccia guardò le ombre confuse tutt’intorno, cercando di vedere una luce. Al buio mosse qualche passo avvicinandosi al suono.

Il cuore gli martellava già nel petto quando alla cieca calpestò qualcosa di duro. Si tuffò come un martin sul cellulare che era sotto il suo piede e vide la sua chiamata in entrata. Preso dal terrore ogni secondo di più accese entrambe le torce per illuminare i dintorni.

«Crowley!» gridò nel buio. «Dove sei? Crowley!»

Capì da solo che era inutile. Se Crowley non era a pochi metri dal suo cellulare non si era sentito male. Da quella distanza si vedevano le luci del portico di casa e se avesse perso il telefono sarebbe tornato indietro, per prendere una torcia e magari chiedergli di aiutarlo a cercare il cane.

Pensava a ogni raccapricciante scenario mentre componeva il numero con le dita che tremavano. Questa volta ebbe risposta al secondo squillo.

«Virgil, non trovo Crowley» gli disse col cuore in gola. «Non è… ti prego, Virgil, ho trovato il suo telefono per terra qui nella Meadows, e c’è anche il cane… per favore, vieni qui subito!»

Virgil biascicò qualcosa sul “portare Charity” e mise giù. A Ferid quella nottata calda sembrò diventare come una di novembre.

Con il cuore pesante quanto le gambe si costrinse a rientrare a casa e controllare i bambini finché non fosse arrivato suo cognato per aiutarlo a cercare, mentre Charity teneva al sicuro i piccoli.

 

***

 

Nella quieta cittadina di Manshurst, stato della Virginia, era una giornata soleggiata e molto ventosa. Horn Skuld accostò le tende della cucina, perché i raggi del sole battevano sul parabrezza dell’auto e l’accecavano come un flash.

Si versò una tazza di caffè fumante e la prese, ma poi la appoggiò e prese la zuccheriera dalla credenza. Aggiunse due cucchiaini di zucchero, che le parvero un buon compromesso: aveva davanti alcune ore di lavoro per preparare la sua prossima lezione sulle sfumature di comportamento criminale tra psicopatia e sociopatia.

Il telefono squillò nel suo studio e filò a passo svelto a rispondere: a quell’ora poteva essere o una chiamata d’emergenza da scuola o una di lavoro, e non era saggio perdere nessuna delle due. Quando rispose però non sentì alcuna voce né suoni. Riagganciò e attese una seconda chiamata, ma quella non arrivò.

Ponderò potesse essere la compagnia telefonica che controllava le linee, perché era già successo l’anno prima a seguito di una forte tempesta. Inserì la segreteria telefonica per non essere disturbata, prese il computer e una cartella di appunti e tornò in cucina per riprendere il suo caffè.

Nella sua cucina c’era un uomo, che dava le spalle alla porta. L’allarme fece scattare meccanismi istintivi nella donna, che prese l’arma carica dalla cassettiera vicino alla porta d’ingresso, tolse la sicura e la puntò verso l’intruso.

«Fermo dove sei!»

«Ahh… i tuoi pargoli, vero? Sono proprio carini. Assomigliano a te, per fortuna.»

L’uomo si voltò con il sorriso stampato in faccia, la sua tazza di caffè nella mano sinistra e un portafoto nella destra: la foto dei suoi figli che era sul ripiano in corridoio.

«Oh, amo gli agenti speciali… splendido come riescano a puntarti contro un’arma ancora prima di pensare di farlo.»

Sbalordita, sbatté gli occhi come se il sole la stesse ancora abbagliando e abbassò la pistola.

«Ismael… sei tu, vero?»

Il sorriso scomparve e la sua occhiata divenne distaccata, come si fosse accorto che non stava parlando con la persona che cercava.

«Stai scherzando, Becka? Non fa ridere. Non sono invecchiato così tanto.»

«Ah… n-no, infatti, scusa…»

Scosse la testa e rimise la sicura, ma poi il momento di confusione passò. Non aveva nulla di cui scusarsi con un uomo che le entrava in casa dopo vent’anni dall’ultimo incontro.

«Che cosa fai qui?»

«Non posso passare a trovare una vecchia amica?»

«Non direi che fossimo amici nel senso proprio del termine, Ismael» obiettò lei, e gli tolse la tazza e la foto dalle mani. «E anche se lo fossimo stati, gli amici non si introducono in casa tua senza bussare.»

Per nulla toccato dalla critica Ismael si spostò verso i ganci dove erano appese altre tazze e tra tutte prese quella con il cagnolino, la tazza preferita di suo figlio. I suoi occhi verdi indugiarono a lungo sui suoi disegni attaccati al frigorifero con delle calamite colorate.

«Mh… Brie.»

Passò il dito sul nome scritto sopra la raffigurazione della sua figlia maggiore.

«Brie sta per Briana, vero?»

«Che cosa sei venuto a fare?»

«E Leonart… il cui nomignolo, se non sbaglio, è Lenny

Horn fissò l’uomo finché non si decise a ricambiarle lo sguardo.

«Hai chiamato i tuoi figli come i tuoi genitori… Non ti facevo così sentimentale, Becka.»

«Non chiamarmi così. Sono Horn, da molto tempo. Lo sai.»

«Per Lanny tu eri Rebecka, quindi per me sarai sempre Rebecka.»

Horn si massaggiò la tempia, esasperata. Parlare con lui era frustrante esattamente come lo era quando erano ragazzi, e non le era mai piaciuto parlare ai muri di gomma.

«Facciamo che ti offro del caffè e tu smetti di cianciare e mi dici cosa vuoi?»

Prese la brocca dalla caffettiera e gli riempì la tazza. Gli indicò la zuccheriera, ma lui non si servì.

«Nah, a me piace amaro come la vita.»

Bevve un sorso e chiuse gli occhi, come se fosse appena uscito da una prigione in cui non gli era stato concesso il conforto di un caffè caldo per anni.

«Ora la tua parte dell’accordo, Ismael. Cosa ti porta qui? Perché so che non è una riunione degli ex alunni.»

«Mh… mi chiedevo se volessi aiutarmi.»

«A far cosa?»

«Crowley è rimasto impigliato in una rete… dei Figli di Prometeo. Mi chiedevo se volessi venire con me a tirarlo fuo—»

«Scordatelo.»

Ismael la guardò a occhi spalancati, muto come un pesce. La guardò per alcuni secondi, forse aspettando una giustificazione, e quando non l’ebbe si riscosse.

«Ah… uhm… beh, mi hai spiazzato, Becka. Credevo che visti i vostri trascorsi ci avresti almeno pensato su…»

Horn posò la tazza prima che un gesto troppo brusco le facesse spillare il caffè.

«Non è che non mi importi di Crowley. Anche se non abbiamo avuto più contatti dopo il caso del Vampiro è un brav’uomo, migliore della maggior parte delle persone che ho incontrato in vita mia… se non la più leale e altruista in assoluto. Ma non credere che non lo sappia.»

«Cosa?»

«La Chiesa dell’Acqua. Hai coinvolto Ferid Bathory e quel ragazzino nella tua vendetta, e scommetto quanto vuoi che è colpa tua anche questa volta. Non aggiusterò i tuoi casini, Ismael.»

«Bella faccia tosta, questa! La Chiesa dell’Acqua ha ucciso tuo padre, Becka!»

«Forse» concesse lei fredda. «Ma io non vivo per la vendetta. Non faceva parte della mia vita, come la mamma. Avevano scelto la fede e io la mia strada… Gettare la mia vita al vento per vendicarli sarebbe stato uno schiaffo in faccia a loro che mi hanno tenuto a distanza per proteggermi, a mio marito e a mia figlia.»

Per la prima volta da quando lo conosceva Ismael sembrava così arrabbiato da non sapere neanche come mostrarlo: aprì la bocca due o tre volte senza emettere suoni, iniziò ad andare verso sinistra e poi fece dietrofront, prima di ficcarsi le dita tra i capelli d’ebano.

«Quello che ho fatto è giustizia! Hai letto cosa facevano? Quante persone fragili avrebbero spezzato, dopo tuo padre e quel ragazzino di Nashville?»

«Ismael. Sappiamo entrambi che avresti dovuto farlo tu. Per chiamarla giustizia, per rivendicare la salvezza di quelle anime, saresti dovuto andare tu. Hai usato Ferid Bathory perché eri sicuro che lui avrebbe vinto. Senza curarti di cosa avrebbe potuto perdere.»

Ismael serrava il pugno davanti alla bocca e la fissava come un gatto selvatico pronto a soffiare. Horn emise un sospiro e si avvicinò, stringendogli appena il braccio sopra il gomito.

«Io capisco cosa hai provato… per te era più padre che per me. Ma entrambi sappiamo quali sono le regole… non le hai rispettate. E tu lo sai, per questo ora provi questo senso di colpa.»

«Non psicanalizzarmi, Becka. Sarebbe inutile.»

«Infatti. Sai già tutto… ma io non posso aiutarti. Questa volta devi farlo tu. Hai mezzi e capacità che io non ho… e soprattutto, hai bisogno di riscattarti. Per la tua pace.»

«È la tua ultima parola?»

«Pregheremo per te… e per Crowley.»

Ismael lasciò la tazza sul ripiano – quasi buttandocela – e lasciò la cucina a grandi falcate. La porta dell’ingresso sbatté forte e Horn scostò la tenda per guardarlo attraversare il viottolo in mezzo al prato tagliato di fresco.

Il vento gonfiava la sua camicia leggera e scompigliava furiosamente i suoi capelli, più castani e con un riflesso ramato sotto il sole pieno. Si voltò a guardarla mentre inforcava i suoi Rayban.

«Questo è un addio, Becka. Perché se riuscirò a riscattarmi è là che ci rivedremo.»

Horn lo guardò salire in macchina e partire, e tornò ai suoi affari: prese un’altra tazza piena, mise il computer sul tavolo e la cartella accanto, ma tutti i suoi buoni propositi e la sua concentrazione sembravano essere finiti lontano nel vento furioso.

Solo la fotografia dei suoi figli, ancora appoggiata fuori posto sul tavolo, le impedì di prendere la borsa e le chiavi e correre ad aiutare Ismael.

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Capitolo 5
*** Berlino ***


Immerso tra giochi di luci colorate e penombra, sprofondato nel suo divanetto preferito dal quale vedeva tutta la sala, Yuu si sentiva finalmente a casa. Dopotutto era il posto in cui lavorava – in cui, cioè, svolgeva la sua attività di copertura – da quasi quattro anni.

Conosceva ogni sedia di quella sala, ogni punto in cui la vernice era stata ripresa, tutti gli acciacchi di un locale che aprì la prima volta negli anni ottanta. Per lui, quel posto era la pace e quelle persone famiglia, come per Mika lo erano quella fattoria sperduta e quegli zotici che aveva a servizio.

Il drink era quasi finito, ma aspettò a ordinare. Tra pochi minuti sarebbe entrato in servizio il suo socio Gunter Blum – un brav’uomo di quasi quarantacinque anni, con un debole per le belle ragazze e un’indole inoffensiva quanto il suo faccione da bambino barbuto – e avrebbe potuto cominciare con qualcosa di alcolico.

Aveva sentito il rumore dei tacchi anche sopra alla musica, e per un qualche genere di dono sapeva a chi appartenevano.

«Che c’è, Nikia?»

«Scusami, scusami tanto, Stephan» esordì lei, angosciata. «Posso andare via prima? Ho visto la macchina di Katze, e…»

«Deve parlare con me di un affare. Ho una cosa vecchia che spero si voglia comprare» la tranquillizzò lui. «Non ti darà fastidio.»

«Oh, ti prego, Stephan… io… senti come tremo!»

Non era necessario che gli piazzasse la mano sul braccio o altrove; la ragazza tremava come un pulcino bagnato e sapeva bene il perché. Non se la sentì di insistere, soprattutto perché non voleva che Katze vedesse Nikia così sconvolta.

«Okay, okay. Stai calma, dai.»

Si tastò la giacca e sfilò un fermasoldi dalla tasca interna. Le allungò due banconote.

«Ecco, tieni. Su, prendi. Sono per il taxi. Non vorrai andar via da sola a quest’ora?»

Con un sospiro tutto consolazione e riconoscenza Nikia tornò a sorridere e intascò i soldi.

«Sei un mito, Stephan, grazie!»

Lui si schermì dei complimenti cinguettanti della ragazza e cercò di districarsi con delicatezza dal suo abbraccio.

«Non avevi fretta un attimo fa? Su, vai, vai. Buonanotte.»

Quasi nello stesso momento Yuu individuò Katze che scambiava qualche convenevole con Gunter all’ingresso. Il tempo di notare questo e Nikia era scomparsa nel suo camerino, per raccogliere le sue cose e saltare sul taxi prima che Katze si chiedesse dov’era finita.

Lo raggiunse quando le luci colorate sul palco cambiarono da rosa e verdi a blu e gialle. Sapendo che cosa significava Katze fece una smorfia prima di sederglisi di fronte.

«Dovevamo vederci proprio qui?»

«Ero già qui. Ho fatto il primo turno.»

«Allora andiamo al Ringe, dai. Ho visto Gunter, lascia la baracca a lui.»

«Vuoi farmi andar via dal mio locale per bere dalla concorrenza? Ma neanche morto.»

Alzò il braccio per farsi notare da una qualsiasi delle cameriere intorno al bar. Katze, invece, guardava sconsolato la pista che passava accanto al tavolino.

«Ma stasera che non ci sono le ragazze…»

«Oh, falla finita, sei qui tutti i giorni quando ci sono le ragazze. Avanti, guardati intorno. Vedi qualcuno che scappa?»

Allargò le braccia e come l’altro uomo guardò per la sala. Se un paio di uomini stavano uscendo un gruppetto era appena entrato e tutti gli altri avventori non si erano mossi.

«Non se ne vanno perché io scelgo bene. Si tratta di estetica. Trova la bellezza in tutto, Katze, è il segreto di una vita vissuta come si deve.»

Katze rise, ma aveva assunto una posa più rilassata.

«Va bene, va bene. Stasera passo un po’ di tempo a bere col mio amico.»

«Un amico che sarà distratto. A me i miei ragazzi piacciono.»

Kiko, una delle sue cameriere, venne a prendere i loro ordini. Iniziò una musica più alta e ritmica per l’esibizione e alcuni dei ragazzi che Yuu aveva sul libro paga del locale iniziarono a sgusciar fuori da dietro la tenda nera dello sfondo del palco.

Katze rimase silenzioso a guardare dove l’amico guardava, come un cultore della regia moderna che cerca di capire il fascino del cinema muto con volti in bianco e nero. Prese un sorso di Ratzeputz e birra dopo aver tolto la fetta di arancio essiccato a decorazione e si arrese all’idea di non capire i gusti del suo amico.

«Con quanti vai a letto di quelli che lavorano per te?»

«Con quelli che lavorano per me? Nessuno.»

«Non ci credo» replicò subito.

«Non mi cerco complicazioni sul lavoro» asserì Yuu, che guardava un ragazzo di nome Matz intorno al palo. «Ci vado a letto quando mollano il lavoro. Beh, non con tutti.»

«Ah, dopo… oh, sì, furbo. Molto acuto. Meno complicazioni, dopo.»

«Sì» convenne Yuu, e voltò le spalle a Matz per guardare Katze. «Però, c’è una cosa di cui voglio parlare prima che beviamo entrambi troppo…»

Katze batté la mano sul tavolo.

«Allora c’era qualcosa! Non mi vorrai dire che hai già qualcosa per me? È vero che cerco un nuovo collaboratore, ma non voglio che ci roviniamo la reciproca compagnia per una proposta deludente.»

«No, infatti non lo voglio neanche io.»

Yuu fece un sorriso. Pregustava già l’espressione che avrebbe avuto quando gli avesse detto che aveva qualcosa di davvero raro per il suo catalogo… ma poi, vide qualcosa che gli fece uscire di testa Katze, i Figli di Prometeo e l’Acqua di Cristo come una saponetta bagnata dalle mani.

«Quel…»

Emise una breve risata secca e si appoggiò allo schienale, fissandolo senza sbattere gli occhi.

«Che diavolo ci fa lui qui?»

«Mh?»

Katze si girò seguendo la linea del suo sguardo, o almeno ci provò: guardò a destra e sinistra senza cogliere l’oggetto del suo commento.

«Di che parli?»

Si accorse subito di stare facendo un errore madornale, così distolse lo sguardo.

«Quello con il costume rosso. L’ho licenziato la settimana scorsa e si è ripresentato.»

Gli dispiaceva doverlo licenziare senza una ragione, quindi cominciò a pensare a che storia raccontare a Katze se mai avesse notato che Corey continuava a comparire sulla passerella nonostante il licenziamento.

«Sta venendo da questa parte?»

Il cuore di Yuu sprofondò in acqua e ghiaccio quando vide Corey avvicinarsi a un tavolo con un solo spettatore, quello che aveva cercato di nascondere all’attenzione di Katze.

«Ciao, faccia nuova» esordì Corey con la sua usuale spigliatezza. «Mi stavi guardando fisso fisso, ti piace il mio costume? Adoro il rosso.»

«A-ah, n-non… non capisco che cosa dici…»

Katze, che stava tornando a pensare agli affari, si lasciò distrarre dalla sua risposta in inglese. Puntò gli occhi su Mika, che cercava di allontanare Corey dal suo spazio personale con ben poco successo, accigliandosi oltre la soglia della curiosità per entrare in quella della paranoia.

«Scusami, Katze. Il mio maschietto sta esagerando, vado a rimetterlo in riga.»

In quel momento dominare un istinto bestiale richiese tutta la sua lucidità e tutta la sua consapevolezza di essere umano, ma una volta dominato lo scoppio riprese del tutto il controllo. Riuscì addirittura a sorridere, anche se un attimo prima non chiedeva di meglio che buttarlo fuori dal locale di peso.

«Corey, non tampinarlo. Non è un bordello, questo.»

Lui, che era seduto per metà in braccio a Mika che era diventato dello stesso colore del suo costume, sbuffò.

«Dai, Stephan! Me lo sto lavorando!»

«È fatica sprecata» tagliò corto Yuu, facendogli cenno di allontanarsi. «Lui è come te, gli piace prenderlo, non darlo.»

Invece di abbattersi Corey si illuminò come un albero di Natale.

«Fantastico! Puoi chiamarci Nickel? Ci divertiremo con lui!»

«Primo, io non sono la tua segretaria. E secondo, ti ho già detto che non è un bordello. Non rimorchiare i clienti, vuoi farmi finire nei guai? Mi arrestano se arriva un poliziotto qui e ti paga per toccarglielo.»

«Ma è già successo, mica ti hanno arrestato!»

«Vattene e non discutere, cazzo.»

Non dubitava che quell’aria rabbuiata fosse più per l’extra sfumato che per l’occasione persa di mettere le mani su un po’ di pelle diafana, anche perché bastò il cenno di un altro cliente e Corey veleggiò via con un gran sorriso.

Mika, invece, era del colore del ribes. Se avesse tardato un altro minuto a salvarlo sarebbe scoppiato in lacrime.

«G-grazie, Yuu… Dio, che imbarazzo…»

«Che cazzo ci fai tu qui?»

«I-io… volevo tenere d’occhio la situazione. N-non pensavo… perché ci sono degli spogliarellisti nel tuo club?!»

«Perché questo è il mio locale e io faccio ballare chi mi pare. Ora vattene, prima che la tua goffaggine rovini tutto» gli intimò con un cenno del capo verso la porta. «Questa volta non ci sarà Ferid a tappare i buchi dei tuoi stupidi piani, e io non ho intenzione di farlo. Non ti ho chiesto di seguirmi.»

«Ma hai chiesto di portarti via una cosa che mi appartiene!»

«Almeno non mettermi i bastoni tra le ruote, accidenti a te! Non farti notare!» sbottò tenendo la voce più bassa che poteva. «Sei capace di fare finta di non essere diventato una massaia di campagna scordandoti tutto quello di decente che eri prima?!»

Mika serrava le dita tra loro tanto che le punte gli stavano diventando violacee.

«Non… non serve che mi tratti così.»

«Evidentemente sì, altrimenti non ascolti. Fila via di qui.»

Si allontanò dal tavolo e tornò da Katze sull’altro lato, che non si era perso un solo secondo. Yuu, che conosceva la sua paranoia patologica, aveva avuto l’accortezza di mettere il braccio in modo da coprire il labiale di Mika.

«Ma chi è quel fiocco di neve?» gli fece Katze, con occhi sospettosi malcelati da un sorriso divertito. «Che cosa vi siete detti? L’hai rimorchiato?»

«Oh, è tuo se vuoi. Mettigli un bel collarino e portatelo a casa. Mi sa che ti seguirà, è completamente perso.»

«Sembra un pesce fuori dall’acqua, quel poveretto. Ma che ci fa in questo posto? Quello sembra uno che il sabato va in parrocchia.»

«Vero? Mi fanno quasi disgusto quelli così immacolati. Li butterei in una pozza di fango per abbellirli un po’.»

Katze scrollò le spalle.

«Spruzzaglielo tu un po’ di fango. Sembra il tuo tipo, no?»

Yuu emise una risata amara e affogò la sua replica nell’alcol. Non poteva dire a Katze quanto fosse accurata la sua osservazione.

 

***

 

«Tieni, ti calmerà.»

Ferid alzò gli occhi su Charity e poi guardò la tazza di tè che gli stava porgendo, ma non accennò a muovere neanche un dito. Alla sua sinistra qualcuno gli prese la mano, vi ficcò dentro un bicchiere e poi ci versò due dita di liquido trasparente.

«Butta giù, questo sì che ti calmerà.»

«Flo!»

Ma prima ancora che finisse quell’unica sillaba di disappunto Ferid aveva già il gin che scendeva lungo la gola. Era il primo momento da due giorni in cui si sentiva più o meno connesso al corpo, e mentre Florence gli versava un’altra dose si accorse di quanto fosse disordinato il soggiorno. Il secondo bicchiere lo bevve d’un fiato, ma lo gustò più coscientemente.

«Rid, ti prego, non è il caso di bere…»

«Per la miseria, Charity! Il tè va bene quando ti perdi il cane, o quando scopri che una collega scollata e sfrontata fa le moine a tuo marito sul lavoro» fece Florence, onesta e diretta fino alla rudezza come al solito. «Se ti sparisce il marito serve l’alcol, porco demonio! Un altro goccio, va’.»

Versò altre due dita di gin a Ferid e pensò bene di fargli compagnia, attaccandosi alla bottiglia per prendere belle sorsate.

«Flo… ti prego… Rid non dovrebbe neanche bere con le medicine che prende…»

Questo ricordò a Ferid che aveva saltato le medicine della sera prima e quelle della mattina, ma lì per lì, con quell’angoscia che gli pesava sul cuore, preferiva davvero svegliarsi la mattina dopo senza ricordare un altro giorno senza Crowley.

Ma lui ci sarà, domani?

Charity forse capì cosa gli passava per la testa, perché gli strinse la mano.

«Virgil e i ragazzi lo stanno cercando dappertutto… Andrà tutto bene, lo troveranno.»

«Oh, no… Di sicuro, non ora… non così.»

Ferid si trattenne a fatica dal bere altro gin e posò il bicchiere per togliersi la tentazione.

«Non c’è un motivo per cui si sarebbe allontanato a piedi e senza telefono… senza avvertirmi… e se si fosse sentito male sarebbe stato qui intorno, l’avremmo già trovato. No, qualcuno me l’ha portato via… e non so perché… Non so che cosa gli voglia fare.»

Non riuscì a evitare che la voce gli calasse a quel pensiero agghiacciante. Charity gli strinse forte la mano e Florence posò la sua, così ferrea nella presa, sulla spalla.

«Se fosse un rapimento… ah, se fosse solo questo sarei davvero felice… Basterebbe una cifra, una qualsiasi, gliela darei e sarebbe tutto a posto… ma…»

Le due donne attesero in silenzio il seguito. Ferid inspirò profondo ed espirò per cercare di calmare almeno i segni visibili della sua angoscia.

«Ma non si mira un poliziotto, e uno grande e grosso come lui, per un riscatto. Io… per avere un riscatto da me, avrei preso i bambini. E poi, perché lasciar passare tanto tempo?»

«Quindi… che cosa pensi che sia successo?» domandò Charity, riflessiva.

«Penso che… forse qualcuno che ce l’aveva con lui dai tempi di New Oakheart lo ha raggiunto qui… o forse ha solo visto qualcosa che non doveva vedere mentre era fuori col cane…»

«Ma… che c’è da vedere, qui a Eanverness? La cosa più grave che è mai successa è stato un incidente di caccia venti anni fa…»

«Oh, ti sbagli, qui sono morte un sacco di persone. Sparatorie, rapine, omicidi in mezzo alla strada…»

«Florence, santo cielo, era la rivolta del whisky!»

Ferid sfuggì al battibecco tra cognate portandosi alla finestra. I prati verdi, i bordi dei campi ornati di fiori colorati e il cielo azzurro gli sembravano più inquietanti di una notte cupa di vento ululante. Aveva la sensazione che là fuori, nel bucolico scenario in cui giocavano con i loro bambini, fosse in agguato un mostro, nelle ombre più insospettabili.

Poi, imprevista come uno scroscio di pioggia di maggio, una figurina comparve in fondo al vialetto. Agitato e felice al tempo stesso si mosse verso la porta – incespicò nel bruco di peluche di Eden senza neanche rallentare – e la spalancò, ignorando le domande delle due cognate.

«Krul!»

«Ah, Ferid!» fece lei, con un’espressione troppo addolorata per essere casuale. «Abbiamo fatto più veloce possibile…»

Ferid ricambiò il suo abbraccio con altrettanta forza. Quando Liam si avvicinò alla veranda con le bambine al seguito non fece altro che liberare un braccio per stringere anche lui. Fu confortato da quell’arrivo tempestivo e da quell’abbraccio, e soprattutto dalle domande che non gli facevano.

«Zio Ferid!»

«Ci spiace tanto, zio Ferid!»

Naisha, la giovane e bellissima copia di Krul con i colori di suo padre, lo abbracciò con trasporto. Chandra, che aveva una straordinaria quanto inaspettata somiglianza con suo zio Ash, era così piccola che si aggrappò alla sua gamba come un piccolo lemure.

Le accarezzò sulla testa e quello fu il momento in cui si sentì meglio da quando aveva trovato il cellulare di Crowley nel campo.

«Grazie di essere venuti fin qui… io… l’apprezzo, ma non avreste dovuto… Non potete fare niente, e io ho già aiuto coi bambini…»

«Krul aveva già fatto le valigie per tutti prima ancora che rientrassi dal lavoro» l’informò Liam. «Voleva venire a tutti i costi. Non ti preoccupare, ho preso qualche giorno di ferie al volo, e le bambine non hanno scuola.»

Ferid annuì appena. Le bambine non lo mollavano.

«Entrate, vi prego. È più fresco dentro…»

Naisha seguì i genitori in casa, Chandra restò aggrappata alla tasca dei pantaloni di Ferid finché non arrivarono in salotto, e seguirono brevi presentazioni e scambi di strette di mano. Charity fece gli onori al posto di Ferid portando il tè di prima – opportunamente raffreddato col ghiaccio – e del succo per le bambine.

Lui era perso in congetture fumose e si accorse solo una volta seduto che il bicchiere e la bottiglia del gin erano stati fatti sparire dalla sua cognata più morigerata. Gli dispiacque la mancanza di un altro sorso di liquido conforto, ma non voleva mostrarsi tanto fragile davanti a Krul e Liam.

«Ci sono delle novità?»

Con fatica incrociò gli occhi di Krul. Con un sospiro affranto scosse la testa.

«Già» fece lei, come se lo sapesse già. «Servirà un po’ di tempo. Un po’ d’aiuto.»

Sorseggiò il suo tè guardando fuori, come se avesse solo commentato il clima piacevole del West Virginia. Liam aggiustò il tiro delle frasi vaghe di sua moglie quando Flo sollecitò una spiegazione, ma Ferid capì subito il motivo per cui erano lì: aspettava che fossero soli per dirgli che cosa aveva visto nella sabbia e nelle conchiglie sulla scomparsa di suo marito.

Che fosse venuta di persona poteva voler dire che era molto grave, ma il fatto che aspettasse con quella tranquillità che le sue parenti li lasciassero suggeriva che non c’era una minaccia incombente. Non sapendo quale opzione fosse la più solida restò in bilico, nervoso, con le labbra che si scollavano a fatica per rispondere a monosillabi. In attesa.

 

***

 

Con un gesto distratto fece lampeggiare i fari nel parcheggio due volte. Portandosi lentamente la sigaretta alla bocca tenne gli occhi un filo al di sopra dello schermo del cellulare, per studiare il comportamento di un uomo che stava da troppo tempo da solo in una vecchia macchina nel parcheggio di un night club. Forse aspettava una delle ragazze, ma Yuu era certo che fosse lì per lui.

Lo sportello del passeggero si aprì e Mika si accomodò. Bastò un’occhiata fugace per vedere quanto fosse nervoso.

«Perché mi aspetti qui fuori?»

«Perché, hai per caso qualcun altro che ti riporti a casa?»

Mika si mordicchiò il labbro.

«Il tuo contatto ha… sospettato qualcosa?»

«Che tu fossi uno della parrocchia al tuo primo night club» ammise Yuu scrollando le spalle. «A questo punto immagino che sia vero. Jonathan non è un tipo che si striscia, eh? Mi suona di più come quel tipo che ti tira giù i pantaloni e lo fa in piedi lì in cucina.»

«Finiscila.»

Evitava con tanta ostinazione il suo sguardo che Yuu ebbe un’illuminazione inaspettata e ghignò.

«Davvero? Lo fa davvero così? Che primitivo.»

«Con che diritto gli critichi qualcosa? Hai un night club pieno di spogliarellisti! Lo sa solo Dio che cosa hai combinato in questi anni in un posto del genere!»

Yuu prese un tiro e dondolò la testa.

«Beh, sì. Non mi sono annoiato… ma non qui dentro. Io sono serio sul posto di lavoro.»

«Il tuo posto di lavoro non è questo, e lo sai» commentò acido. «Che facciamo con quello lì?»

Yuu guardò Mika sbirciare con la coda dell’occhio l’uomo nel furgoncino nell’angolo in ombra.

«Ah, te ne sei accorto anche tu?»

«Anche se lo credi, non sono solo una massaia di campagna. Da quanto tempo è lì?»

«Era già lì quando mi sono messo qui ad aspettarti. Probabilmente è qui da quando Katze è andato via.»

«Perché ti controlla? Non era tuo amico?»

«Certo che lo è… ma se c’è una cosa che ho imparato di quel bastardo è che è paranoico in modo patologico. Sospetta di qualsiasi cosa. Non crede alle coincidenze, mai, non finché non ha controllato ogni possibilità. Non dà neanche confidenza alle ballerine se prima non sa tutto di loro. Per questo penso che sia qui per te… per vedere che relazione c’è tra noi due.»

Una lieve incertezza incrinò lo sguardo di Mika.

«Per questo mi avevi detto di aspettare alla safe house?»

«Sì, dannazione a te, per questo non volevo che ti facessi notare da lui. Mi hai appena incasinato la piazza, e se non trovo una storia convincente per noi due non mi farà entrare nel suo giro. Non lo chiamano gatto perché fa le fusa se l’accarezzi, sai.»

«Katze vuol dire gatto?»

«Già, e lo chiamano così perché quel bastardo è diffidente e cade sempre in piedi» commentò lui, amareggiato. «Non posso credere che Guren ti abbia permesso di venire fin qui. Dev’essere un inizio di demenza senile.»

«Non doveva permettermi proprio niente. Sono un libero cittadino e posso fare un viaggio in Germania quando mi pare.»

«Anche entrare in un night è un tuo diritto, ma non significa che fosse una buona idea, dannazione.»

Mika sospirò sconsolato.

«Volevo soltanto un posto più vicino per controllare… sono responsabile della reliquia che ti ho dato, e tu non mi hai dato alcuna garanzia. E neanche sei tanto affidabile, mi hai lasciato in aeroporto da solo sapendo che non capisco una parola di tedesco!»

A Yuu parve che l’uomo iniziasse a muoversi nell’ombra dell’abitacolo, e poi notò il chiarore di uno schermo: un telefono, un tablet, un qualche dispositivo. Forse comunicava direttamente con Katze per riferire che il suo amico e il fiocco di neve della parrocchia stavano facendosi una lunga chiacchierata.

Yuu gettò la sigaretta dal finestrino.

«Che cosa facciamo?» gli mormorò Mika, come lui agitato dal movimento. «Si chiederanno perché siamo qui a parlare in macchina. In teoria non ci conosciamo.»

«Non ci conterei» commentò Yuu, reso aspro dal nervosismo. «Credo che Katze abbia dei sospetti.»

«Potresti portarmi a casa da te. Penseranno che abbiamo fatto… beh, qualcosa. Lui lo saprà che ti piacciono gli uomini.»

«Non porto mai i miei amanti da me. Se ti porto a casa si chiederà perché tu sei speciale…»

L’espressione che fece diceva chiaramente che non gli piaceva quella risposta, ma a Yuu non importava del giudizio morale di qualcuno che tradiva il partner più spesso di quanto lui controllasse l’estratto conto.

«E se andiamo alla safe house e poi tu te ne torni a casa?»

«Sei matto? Non posso bruciare la safe house così. Guren mi spella vivo.»

«E allora cosa facciamo?»

Yuu si mordicchiò il labbro e allungò la mano sul collo di Mika.

«Non reagire male, o finisci di affondare quattro anni di missione.»

Le sue silenziose preghiere furono esaudite: Mika si lasciò baciare con solo un lieve sussulto, poi rispose al suo approccio con lo stesso impaccio misto ad ardore con cui aveva risposto la prima volta in cui si era fatto avanti seriamente. Divenne più nervoso quando gli affondò la lingua, ma durò solo un momento.

«Y-Yuu… che…»

«Stai al gioco e basta.»

Si rimise seduto contro lo schienale e tirò appena i capelli biondi. Mika si limitò a protestare sottovoce quando gli premette la testa contro la gamba ma non fece nessun tentativo di rialzarsi.

«Yuu, è imbarazzante!»

«Perché mai? Sono vestito. Hai fatto molto di peggio, e non solo con me.»

«È davvero… ridicolo» borbottò Mika. «Quanto devo stare qui?»

«Di sicuro un po’, non vorrai che mi faccia la nomea di uno che viene subito?»

«Perché, adesso ne hai una diversa?»

«Halt den Mund, verdammt.»

Yuu appoggiò la testa contro il sedile. Stava pensando se non fosse meglio abbassare il sedile per evitare che la sentinella notasse che non aveva delle reazioni oltre l’irritazione, quando Mika sospirò.

«Dopo questo, ci seguiranno ancora? Posso tornare alla safe house?»

«Credo proprio di no, in realtà.»

Mika brontolò qualcosa di incomprensibile prima di sospirare ancora. Sentire la sua mano sulla gamba e il suo respiro così vicino a una zona intima era abbastanza da fargli venire voglia, anche se non era un approccio erotico. O forse proprio perché non lo era lo stuzzicava in modo particolare.

«Se ti annoia aspettare senza far niente, puoi sempre mettertici d’impegno. Io non mi lamento.»

Era più una provocazione divertente che una proposta, ma Mika lo fulminò.

«Sono sposato, e non con te.»

«Non è stato un problema scoparti lui quando eri fidanzato con me, no? Ah, ma forse è il matrimonio che… ora che ci penso, Steven te lo sei scopato prima o dopo esserti sposato?»

«Era… stavo sotto copertura! È vero, ho sbagliato, ma era una… situazione anomala.»

Le scuse malferme di Mika gli stavano facendo risalire l’acido che gli era fermentato dentro per anni. Serrò le dita sul bracciolo in un fiacco tentativo di controllarlo.

«Sei sotto copertura anche adesso, o no?»

«Non sono più un poliziotto, non è la mia missione.»

«Bluefields era una missione che ti sei scelto da solo, come questa!»

«Ahi!»

Yuu mollò la presa. Non si era neanche accorto di aver stretto le dita intorno al suo braccio anziché al bracciolo del sedile. Mika alzò la testa un poco, per restare al di sotto della visuale del loro pedinatore, e si massaggiò dove l’aveva strizzato.

«Vuoi parlare di questo, di nuovo? Vuoi che te lo dica? Mi dispiace, va bene? Mi dispiace essere stato troppo debole per resistere anche solo qualche mese! Mi dispiace di aver pensato che non era un problema fare sesso con un altro! Mi dispiace che non sono riuscito a dimenticare Bluefields! Mi dispiace che tu non riesca a fartene una ragione dopo tanto tempo! Ti senti meglio, adesso?»

Yuu perse del tutto la percezione di dove fossero e di chi li stesse guardando. Prese Mika per il collo e lo spinse contro il finestrino del passeggero.

«Scoparti finché non decidi di mollare quel tuo marito bifolco e poi lasciarti come un cane per strada mi farebbe stare meglio! Anzi, andare in Kentucky e scoparmi lui finché non lo convinco a lasciare te e la vostra allegra fattoria, ecco che cosa mi farebbe sentire meglio! Così capiresti quanto male fa!»

Mika si massaggiava il collo e gli lanciò lo sguardo di un cane appena preso a bastonate: a mezza via tra la sottomissione e il bestiale istinto di reagire con rabbia alla violenza.

«Se questo è l’uomo che sei diventato ho fatto bene ad andarmene quando ho potuto!»

Spalancò lo sportello e schizzò fuori dall’auto senza neanche richiuderlo. Chiamarlo fu inutile e a Yuu non rimase che guardarlo correre via dallo specchietto retrovisore.

 

***

 

«Ferid?»

Si trovava in cucina, preso dalle pulizie che aveva trascurato nei due giorni precedenti. Mentre sciacquava piatti buoni e i bicchieri di plastica dura dei bambini era completamente assorto nel suo tormento di punta: chi avesse preso suo marito e che cosa gli volesse fare che richiedesse di portarlo da qualche parte per due giorni. Non si accorse della voce di Krul, né della sua presenza finché non gli scrollò il braccio.

«Eh? Che c’è?»

«C’è una visita per te. Non vuole entrare. È fuori vicino al prugnolo.»

«Una visita… ma chi…?»

«Se vai fuori è meglio» fu l’unica risposta di lei.

Si asciugò le mani quanto bastava a non sgocciolare sul pavimento e andò fuori. Vide la figura alta di un uomo dietro il tronco dell’albero e puntò ad essa, ma a ogni passo il suo battito aumentava di frequenza: gli sembrava di conoscerlo, ma non era del tutto certo…

Un paio di occhi verde chiaro si posarono su di lui e anche nella sua disperazione un fuoco d’artificio di gioia esplose. Attraversò di corsa i metri di prato restanti e gli buttò le braccia al collo stringendolo. Era rigido nella posa, ma non bastò a convincerlo a lasciarlo.

«Ismael, ma dove sei stato tutto questo tempo? Non sei mai venuto a fare neanche un weekend a scrocco… non è da te. Eravamo preoccupati.»

Non colse la sua ironia, o forse non era dell’umore per darvi peso. Aveva un’aria seriosa, preoccupata. Mancava sul suo volto quel sorriso sardonico, quello sguardo irriverente che era insieme il suo tratto più molesto e più affascinante.

«Siete sposati. Avete famiglia e figli… ero di troppo.»

«Non essere ridicolo» lo rimbeccò Ferid. «Non sarai mai di troppo.»

Sentì le sue spalle meno rigide e qualche attimo dopo le sue mani scorrevano sulla sua schiena.

«Sono venuto per Ginger» mormorò vicino al suo orecchio.

«Hai saputo? Da chi?»

«Sono venuto a dirti che non devi angosciarti. Ginger è vivo.»

Ferid scostò la testa per guardarlo in volto, ma la sua espressione era illeggibile come un blocco di marmo ancora da sbozzare.

«Sai dov’è? L’hai coinvolto in qualche… missione o altre diavolerie?»

«Non sono stato io… ma ho una traccia. Se ho ragione so esattamente dove trovarlo.»

Braci tiepide sotto la cenere presero a divampare dentro di lui: speranze concrete che suo marito fosse vivo e che potesse tornare presto.

«Dove? Dov’è?»

«Partirò fra un’ora.»

Il tono di Ismael era monocorde come il messaggio preimpostato di una segreteria telefonica.

«Andrò a Londra, dove metterò in allerta alcuni amici che saranno i miei occhi e le mie orecchie. Questione di poche ore, poi volerò a Berlino.»

«Be… Berlino? Che cosa c’è a Berlino?»

«Più cose di quanto si possa immaginare. Se ho ragione il posto giusto è Berlino. Se Crowley non è lì, è comunque il posto in cui posso sapere dove sia.»

«Ismael… ti prego, non puoi essere più chiaro? Mi fai paura dicendomi solo questo.»

«Non posso essere più chiaro o rischio di metterti più in pericolo di quanto tu non sia, e credimi, lo sei, se si accorgono di chi viveva insieme all’uomo che hanno preso» replicò lui, severo. «Cercavano Crowley per una ragione e si sono sbagliati. Se si accorgono dell’errore prima che arrivi da lui è un uomo morto, quindi tu devi smettere di cercarlo. Non smuovere le acque più di così. Niente annunci nazionali, niente ricompense per informazioni. Fa’ finta che Crowley sia in vacanza.»

La speranza, così calda e piacevole, aveva lasciato il posto a un freddo, strisciante terrore.

«Is… che cosa vuol dire? Non lasciarmi con le briciole della tua verità, così io… come faccio?»

«Vorrei poter dire di più. Te lo dirò quando sarà finita… ma adesso fai come ti dico: non sollevare un vespaio. Se necessario di’ agli O’Brian che gli ho chiesto io un favore personale e che c’è stato un fraintendimento. Di’ loro che è con me e che sta bene.»

«Ma io so che non è vero!»

Ismael sospirò stancamente e gli strinse le spalle.

«Se fai rumore su questa storia qualcuno si accorgerà dell’errore. Quando si cerca una persona scomparsa c’è una rete di cacciatori di taglie che inizia a scavare. Se rivuoi tuo marito la tua parte è tenere le acque calme.»

Con suo stupore Ismael lo strinse in un abbraccio.

«Per me tu e Ginger siete la cosa più vicina a una famiglia. Fidati, farò qualsiasi cosa per riportarlo a casa…»

«Mi fido» mugugnò Ferid, pressato contro la sua spalla.

«Se le cose dovessero mettersi al peggio ti chiederò di raggiungermi per aiutarmi» gli sussurrò all’orecchio. «Trova qualcuno che terrà i bambini al sicuro, così non perderai tempo se arrivasse il momento.»

Ferid esitò: aveva troppe domande e troppe paure per riuscire a esternarne una su tutte. Lanciò uno sguardo confuso e afflitto a Ismael quando lo lasciò, e il suo animo non si rassicurò nel vederlo così austero.

«Nel frattempo, prega.»

Le dita di Ismael gli accarezzarono il viso catturandogli una lacrima solitaria, poi lui gli voltò le spalle e raggiunse a grandi passi il suo SUV nero. Non sapeva nulla di più della condizione di Crowley se non che era probabilmente vivo, ma l’invito a pregare da parte di un uomo anti-religioso come lui non fece che approfondire la sua angoscia.

La minaccia era così grande che Ismael confidava in un aiuto celeste per sventarla.

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Capitolo 6
*** Armonia ***


Yuu frenò al semaforo più bruscamente che mai. Scosse la testa cercando di snebbiarla dai pensieri e ritrovare almeno la concentrazione necessaria per non investire passanti e tamponare automobili.

Ma dov’è finito? Dove può essere, se non parla una parola di tedesco?

Una parte di lui, dopo diciassette ore di silenzio, era propensa a credere che fosse salito su un aereo e se ne fosse tornato a casa; forse a quell’ora era già tornato alla sua camicia a quadri, alle sue api da miele e al suo devoto marito.

Si accorse che il semaforo aveva cambiato colore e si rimise in marcia.

Ma io conosco Mika… lui non molla. È la persona più testarda che esista.

Tormentato dall’incertezza e con l’ombra del dubbio che gli potesse essere successo qualcosa prima che arrivasse alla safe house Yuu arrivò fino al parcheggio dell’internet café, il primo posto libero per fermarsi.

Non riusciva a togliersi dalla mente l’aggressione a Nikia di un mese prima e iniziò a temere che l’uomo nel furgone non cercasse affatto di sapere qualcosa di loro, ma aspettasse uno qualsiasi degli spogliarellisti.

Lo dovevo seguire fino a casa. Dovevo accertarmi che arrivasse…

Lanciò una chiamata a un numero che non faceva da qualche tempo. La risposta fu pronta, da parte di una persona che biascicava come se stesse mangiando.

«Frank, sono io.»

«Lo so, Stephan. Cosa ti serve?»

«Ho perso Mika. Puoi rintracciare il suo telefono? Devo trovarlo subito, potrebbe essere—»

«È sulla Saltgerstrasse vicino alla chiesa di Santa Elisabetta» l’interruppe lui, sgranocchiando qualcosa che faceva un gran rumore.

«Sei stato veloce… che posto è?»

«Non ne ho idea, ma è l’indirizzo che ha lasciato Mikaela quando ha chiamato stamattina.»

Con un picco di frustrazione dopo una lunga angoscia, Yuu mise giù senza ringraziare né salutare e ripartì di gran carriera verso la chiesa.

L’unico edificio era un comprensorio della chiesa di Santa Elisabetta, un edificio basso con molte strette finestre. Quando scese dalla macchina una suora gli venne incontro.

«Mi scusi, ma ha parcheggiato nella zona riservata. Le spiacerebbe spostarla sull’altro lato?»

Interdetto, Yuu fissò il cartello che li identificava come riservati con la stessa furia con cui avrebbe guardato qualcuno che sputava sul suo cofano.

«Riservati a chi?»

«Al reverendo padre e al vescovo, per le auto di servizio.»

«Beh, questa lo è. Sono venuto a prendere…»

Esitò un momento, alla ricerca nella sua memoria della frase esatta che Mika gli aveva detto prima di partire.

«Mikael. Padre Mikael. Mi hanno detto che è venuto qui stanotte, o stamattina presto.»

La suora parve confusa, e Yuu si chiese se non si fosse inventato qualche altra panzana per nascondersi nel comprensorio sotto falso nome.

«Credevo che non volesse ancora andare via… si è unito a noi per le Lodi e ha chiesto in che cosa potesse essere utile mentre approfittava della nostra ospitalità.»

«Posso parlarci?»

«Credo che sia in chiesa adesso.»

«Posso entrare?»

La suora sorrise indulgente.

«Tutti possono entrare in chiesa. Non abbia fretta di andarsene.»

Non appena gli voltò le spalle Yuu rabbrividì di un istintivo ribrezzo. Aver perso Mika per un culto cristiano non aveva lasciato in lui dolci sentimenti nei confronti di quel gruppo di dottrine, e fu con un senso di repulsione che si decise a varcare la porta della chiesa.

Non gli fu difficile trovare Mika, seduto alla panca più vicina alla porta. Più difficile da elaborare fu vederlo con l’abito blu, raccolto in una preghiera che lo assorbiva completamente.

«Mika.»

Lui aprì gli occhi, ma non lo guardò.

«Che cazzo ci fai qui? Credevo andassi alla safe house. Ti ho cercato dappertutto.»

«Non hai rispetto per i tuoi amanti e per i tuoi amici, almeno ce l’hai per un luogo di culto?»

«Scherzi, vero?»

Lui gli lanciò uno sguardo truce, di rabbia soffocata a malapena, e Yuu si accorse del segno che aveva sul collo: un’impronta visibile abbastanza da capire che era una mano, stagliata in un brutto violetto sulla sua bella pelle chiara. Sapeva di avergli fatto lui quel livido quando aveva perso la testa e l’aveva sbattuto contro lo sportello.

«Hai detto che Guren si sarebbe arrabbiato se l’avessi bruciata per me. Così sono venuto qui. Le chiese sono sempre aperte, soprattutto per qualcuno con lo stesso Dio.»

Aveva idea che quelle care suore non avrebbero apprezzato quello che Mika faceva con un marito e qualche amante dello stesso sesso, ma non gli interessava discutere di teologia. Alzò la mano e sfiorò il suo mento, solo per vederlo ritrarsi con lo scatto di un animale abituato alle percosse. Si sentì come morire nel rendersi conto che aveva paura di lui.

Avvicinò la mano ancora, lentamente, come per guadagnare la fiducia di un cane spaventato. Seppur rigido Mika si lasciò toccare, lo lasciò sfiorare quel brutto segno scuro.

«Mi dispiace, Mika. Ho perso la testa. Non volevo farti male.»

«Ma se stavi vomitando atrocità su quello che avresti voluto fare per ferirmi? Non fingere che ti dispiaccia. Mi faresti molto peggio di questo.»

Yuu non seppe cosa rispondere, sul momento. Aveva fantasticato anche troppo su vendette che andavano dal puerile al criminale, arrivando a estremi agghiaccianti quando aveva il cervello immerso in un miscuglio di alcolici e frustrazione, ma vedere quel segno sul collo di Mika gli faceva provare solo una devastante vergogna per se stesso.

Ero un poliziotto… un buon agente di pattuglia, una volta. Molto tempo fa ero ancora un umano decente.

Lo sguardo di Mika gli sembrava specchiare perfettamente il biasimo che provava per se stesso.

«Mi dispiace davvero… Penso molte cose. Dico tante cose. Tutte stupide, volgari, e deprecabili. Purtroppo Crowley si sbagliava e tu eri la metà migliore di me… quello che vedi oggi è quello che resta. Non è un granché.»

A Yuu parve di vedere un cedimento nella freddezza di Mika e osò dargli una carezza tra i capelli, quei suoi bei capelli dorati come il sole.

«Perdonami se sono diventato qualcosa di cui vergognarti. Ho paura di non essere niente più di quello che vedi, da solo.»

Mika distolse lo sguardo per primo, alzandosi dalla panca e segnandosi. Anche se aveva sperato che fosse buono abbastanza da contraddirlo e incoraggiarlo, non si stupì che neanche lui trovasse delle virtù in Stephan Hirsch.

«Ho paura che nessuno di noi due sia più di quello che si vede. Se non siamo completi da soli, non lo saremo mai… per quanti altri pezzi possiamo tenerci vicino.»

Non lo accettava. Non poteva accettare che Mika si mettesse al suo livello, o anche solo a uno vicino. Forse non era il partner dalla perfetta lealtà, ma lui almeno non lasciava lividi sul collo a persone che diceva di amare o avere amato.

«Non è vero. Tu… Mika, tu sei più di quello che si vede. Mi dispiace di averti detto quelle cattiverie ieri sera. Io… non le penso. Ho perso la testa e…»

«E mi hai fatto male. Al collo, e anche dentro» concluse lui. «Però ti sbagli. Hai sempre avuto poca testa… è il cuore quello che hai perso per strada, Yuu. E mi distrugge saperlo… era quella la tua parte migliore.»

Mika lasciò la chiesa, ma Yuu non aveva il coraggio di seguirlo. Rimase lì, a guardare l’altare e il trionfo di icone sacre dorate che per lui erano senza significato. Non avevano alcun conforto da dargli.

 

***

 

Yuu arrivò fino al club e parcheggiò sul retro, accanto all’ingresso di servizio per i dipendenti, con il piede troppo pesante sul freno. Se non fosse stato per la cintura di sicurezza che lo strattonò avrebbe sbattuto contro il volante.

«Cazzo» borbottò a denti stretti.

Non era ancora iniziato il suo turno al club, ma pensare di smaltire la vodka prima che iniziasse era ottimistico al limite della follia. Arrancò fuori dall’auto e si prese qualche attimo per cercare di snebbiare la mente, ma aveva esagerato trascinato dalla discussione poco edificante con Mika alla chiesa.

Devo fare… devo riprendermi. Ficcherò la testa nella macchina del ghiaccio se necessario…

In qualche modo si ritrovò dentro, nel corridoio dei camerini, senza che si fosse reso conto di essere strisciato su per i gradini. Sentiva il chiacchiericcio delle cameriere che preparavano il locale, il tintinnio di bottiglie e bicchieri, il ronzio lontano dell’aspirapolvere… e tutto gli sembrava estraneo. Non capiva come mai l’alcol gli fosse andato su invece che giù.

«Oh, Stephan, sei venuto presto! Qualcosa non va?» gli fece Gunter, apparso dallo stanzino dei fusti dietro il bar. «Hai bevuto? A quest’ora? Non va bene, amico mio.»

«Sto bene.»

Si sentiva la bocca secca e biascicò, come se masticasse un marshmallow grosso e pastoso.

«Se stai bene, vieni a conoscere il nuovo ragazzo.»

Passare davanti alle luci del backoffice bastò per infastidire i suoi occhi sensibili. Yuu si passò la mano sulla fronte.

«Ragazzo? Quale ragazzo? Non vedo nuovi ragazzi a colloquio da mesi.»

«No, è del mio reparto» commentò lui allegro. «Un altro cameriere, non hai detto che ne serviva uno di più?»

«Ah… sì.»

Era anni luce dall’essere reattivo e interessato a che cosa succedesse nel suo stesso locale, ma ammetterlo era come dire a Gunter che aveva un socio inaffidabile, così lo seguì in silenzio fino al bar. Emise un’esclamazione di sbigottimento tale che tutti i presenti lo guardarono.

Mika era lì, tutto concentrato su un taccuino su cui stava scribacchiando. Lo fissò a bocca aperta anche se le cameriere e il barista li stavano guardando, e non gli tolse gli occhi di dosso finché Gunter non andò a consegnargli il grembiule corto delle cameriere.

Mika, ben più posato di lui, si limitò a lanciargli uno sguardo di educata perplessità per un attimo e poi l’ignorò.

«Per oggi, lavori con questo su tuoi vestiti, ma devi avere la nostra camicia in prossima settimana, okay?» gli spiegò Gunter, con quel suo inglese di buona pronuncia e grammatica traballante. «Lascia le tue case in camerino, va bene?»

«Case? … Ah, le mie cose… sì. Okay.»

«Stephan fa a te la strada. Vero?»

Gli diede fastidio intercettare quello sguardo di Gunter – quasi si fosse accorto che erano più intimi di due sconosciuti – ma si sforzò di riprendere il controllo e fece strada a Mika da dove era appena arrivato, fino al locale stipato di specchi, armadietti e appendiabiti.

«Mika, che cosa diavolo fai?»

«Resto nei paraggi. Non sarà così strana la mia apparizione, se stavo solo dando un’occhiata prima di chiedere un lavoro, no?»

«Mika… tu non parli tedesco. Come pensi di fare?»

«Me la posso cavare. Quasi tutti i cocktail che hai in carta hanno i nomi ufficiali in inglese.»

Dubitava sarebbe stato così facile per lui, ma non era la sua vera preoccupazione. Scosse di nuovo la testa per concentrarsi su un solo pensiero per volta.

«Io non… perché lo stai facendo? Se è per l’Acqua di Cristo, non vale la pena esporti così. Ti prometto che te la restituisco alla fine di questa faccenda.»

Mika tacque e mise i suoi averi – un telefono e un portafogli – dentro l’armadietto più scarabocchiato di tutti, che fino a un mese prima era di una drag queen dalla personalità oltremodo ingombrante.

«Se è vero che sono la tua metà migliore, dovresti essere felice che io sia qui.»

Gli passò accanto e qualcosa gli solleticò il naso, come il profumo di una pietanza. Poi ricordò dove l’aveva sentito, e riemerse un bel ricordo del primo loro anno a Satbury.

Lo trattenne per il braccio, e fu felice di non sentirlo irrigidirsi, tremare, o provare a sottrarglisi.

«Sono felice che tu sia con me… ma so che ti ho costretto a farlo. Con quello che ho detto di te.»

Mika sospirò e gli spostò la mano.

«Nessuno può obbligarmi a fare qualcosa che non voglio. Sapevo da tempo che questo giorno sarebbe arrivato. Che qualcuno che amavo mi avrebbe chiesto la reliquia e che significava che un pericolo incombeva. Ero pronto a questa chiamata… per questo sono venuto con te. Io non accetto catene da nessuno.»

Uscì dal camerino lasciandosi dietro quell’odore dolce. Yuu chiuse gli occhi, cercando di ricordare che sapore avessero i Vatrushka che Mika gli aveva preparato il primo sedici ottobre passato insieme nella loro nuova casa.

 

***

 

Intorno alle undici Katze fece la sua apparizione al locale. Dal suo divanetto ad ampia visuale Yuu lo vide arrivare, ma con sua sorpresa non badò a nessuna delle ballerine – neanche alla sua prediletta, Nikia – né alle cameriere, ma puntò come un falco su Mika, che era in attesa di un ordine da portare a un tavolo.

Yuu lo fissò, diffidente, chiedendosi che cosa avesse in mente. In quel momento, nella penombra del suo angolino e con quello sguardo negli occhi verdi, sembrava lui un gatto.

La conversazione tra i due fu molto breve. Mika annuiva, e appena conclusasi Katze lo raggiunse, con un ghigno storto in volto.

«Che è successo al gattino?»

«In che senso?»

«Gran brutto segno ha sul collo… non è che sei un po’ irruento, Stephan? Sembra una bambolina di porcellana, quella.»

«Perché dovrei essere stato io a farglielo, scusa?»

Katze si sedette. Aveva quell’aria in volto, quella di chi sa di che cosa parla, e Yuu capì che l’uomo nel furgone aveva riferito con dovizia.

«Mi ha fatto incazzare. È stato un momento» confessò allora.

«Che ha fatto, te l’ha morso?»

«Non mi va di parlarne.»

C’era una possibilità che in virtù di una lunga conoscenza Katze decidesse di non approfondire un argomento marginale, ma se Yuu aveva visto giusto su di lui i suoi livelli di paranoia l’avrebbero costretto a fare altre domande, a sufficienza per sentirsi tranquillo o per confermare dei sospetti. Se era bravo come pensava nelle coperture, sarebbe riuscito a ottenere il primo effetto.

Apparve Mika in persona a servire loro da bere e Katze non perse un singolo dettaglio, studiandolo come se si aspettasse che estraesse dal bicchiere il bastoncino appuntito della liquirizia per tentare di assassinarlo.

Mika non vacillò e mantenne il controllo finché non si spostò al tavolo vicino a raccogliere bicchieri vuoti. Katze, tuttavia, spostò gli occhi attenti da lui al suo compagno di bevute, con un’espressione resa particolarmente truce dalle luci verdi sulla sua pelle scura.

«Voi vi conoscete già, vero?»

«In quale senso?» domandò Yuu, atono.

«In quel senso. Te lo scopavi già prima. Per questo eri sorpreso di vederlo qui… non stavi guardando il ragazzo col costume rosso, stavi guardando lui seduto al tavolo.»

«Perché ti importa di chi mi scopo o mi scopavo, scusa? Sono fatti miei, io non ti chiedo quante e quali donne hai, e non voglio che lo chiedi a me.»

Katze si sporse in avanti sul tavolo. A Yuu diede la stessa sensazione di un grosso serpente che strisciava verso di lui.

«Quel fiocco di neve compare proprio quando tu trovi qualcosa da vendermi, e non mi vuoi dire come lo conosci… Capisci che io, per far bene il mio lavoro, devo capire chi sei tu e chi c’è intorno a te, prima di metterti in mano cose importanti?»

«Ma che c’entra lui?» sbottò Yuu, in una controllata esplosione. «Senti, non è nessuno, okay? È stato il mio primo ragazzo, così tanto tempo fa che non sapevamo ancora dove mettere la lingua quando ci baciavamo. A te che t’interessa di questo?»

«Mh mh. E che ci fa qui, adesso?»

«Un tizio a cui ho trovato un lavoro gli ha detto che poteva venire da me se aveva bisogno di aiuto, e gli ha pure anticipato i soldi del biglietto» inventò sul momento lui, dandosi un’aria rancorosa. «Non lo vedevo da anni, Misha, e mi ricompare davanti nel mio club, senza un soldo, senza un posto dove stare e neanche parla tedesco, quell’idiota.»

Katze non si sbilanciò. Sorrideva e sorseggiava.

«Quindi cerca un lavoro? Così lontano da casa?»

«Si è messo nei casini col fisco, non vuole dirmi come, ma pensa che venire di nuovo a letto con me mi convinca a dargli una mano. Per questo mi sono incazzato ieri sera.»

«Mmh.»

Katze sorrideva. Non riusciva a capire se sapesse più di quanto dicesse e ridesse delle sue storielle per imbrogliarlo o se fosse la situazione che gli aveva dipinto a divertirlo.

«Senti, Katze… ci conosciamo da parecchio. Dimmelo chiaramente: ti dà fastidio? Perché per me non è niente. Preferisco fare questo affare con te, e altri se ci stai, e se lui ti dà pensiero lo rimetto sull’aereo e lo rispedisco a casa.»

Scoppiò in una risata, fragorosa come se non ce la facesse più a tenerla. Yuu si accigliò appena, ma rimase immobile.

«Stephan, sei impazzito? Ehi, siamo amici, avanti…»

Rise ancora, si massaggiò sopra la camicia come se gli facesse male l’addome per il divertimento. Alzò il braccio schioccando le dita alcune volte, finché non attirò l’attenzione di Mika; non fece in tempo a chiedere loro che cosa gli servisse che la mano di Katze lo prese dal sedere e lo trascinò sul divanetto, quasi in braccio a lui.

A Yuu salì un’ondata di pelle d’oca dalla schiena alle braccia, ma nessuno dei due guardò dalla sua parte per notare quanto forte stesse stritolando il bicchiere.

«Un mio amico esce di prigione venerdì, gli sto organizzando un festino misto. Tu gli piaceresti. Ti interessa?»

Passò il pollice sulle labbra di Mika, che rimaneva immobile come una statua.

«Fai un prezzo. Ci accordiamo. Se non hai paura dell’uomo nero…»

Le viscere di Yuu si strizzarono alla stregua di un mocio da pavimenti. Aveva paura che Mika scoppiasse e lo prendesse a pugni, ma accettare quella proposta anche solo per gioco aveva lo stesso potenziale mortale.

«Io… c-credo che ci sia un fraintendimento» fece alla fine Mika, con un soffio di voce. «Io non… faccio questo tipo di lavoro.»

«Ma ti posso pagare molto più dei tuoi datori di adesso… soprattutto, di quello di sopra.»

In quel momento fatale, Mika lanciò a Yuu un’occhiata terrorizzata che svelava completamente il bluff. Yuu era inconsapevole di aver perso almeno due toni di colore e di confermare la sconfitta.

«Ho saputo che lavoro fai davvero. Ora, perché un prete fa il cameriere in un night club così lontano da casa? È una crociata contro i peccatori? O vuoi mescolarti con noi?»

«Katze… lascialo.»

Una mano gelata era stretta intorno alle sue viscere. Yuu aveva terrore che se non avesse strappato Mika da quel braccio in pochi secondi Katze gli avrebbe piantato un coltello nella schiena, come nella scena di un horror.

«Stephan, diglielo» gli fece Mika con la voce che tremava.

Dirglielo? Dirgli che cosa? Che cosa vuole che gli racconti?

Vagava da un viso diafano a uno nero come la notte nelle luci basse del locale, in cerca di una risposta.

«Che cosa devi dirmi, Stephan? Non è una cosa carina tenere i segreti agli amici. Vuoi che me lo dica lui? Magari posso portarlo dal mio amico e vedere se riusciamo a convincerlo con le buone…»

«No!»

Se non fosse stato per la musica l’avrebbero sentito fino al bar. Aveva il cuore che batteva come una bestia selvatica contro lo sterno, ma non riusciva a muoversi.

«Sono venuto fin qui per stare con lui!»

Sia Yuu che Katze spostarono lo sguardo su Mika.

«Sono scappato e sono venuto fino qui per stare con lui… Non… non sono più un prete adesso.»

Yuu fece in tempo a spostare gli occhi su Katze prima che lui scoppiasse in una grassa risata, persino più sguaiata di quella precedente.

«Cazzo, Stephan, adesso te la fai con un prete! Sei una sagoma, davvero!»

Mika scivolò via dal divanetto e Yuu istintivamente si alzò e con il braccio lo spinse dietro di lui. La loro paura alimentava le risate di Katze come sterpaglie sul fuoco.

«Perché me lo nascondevi, Stephan? A me piacciono le storie romantiche! È una storia che vorrei sentire dall’inizio, però, così fa più pathos…» commentò lui, apparentemente ignaro del terrore che seminava. «Ehi, perché quelle facce?»

Yuu non gli tolse gli occhi di dosso, ma strofinò la mano sul braccio di Mika.

«Dai il tavolo a Kiko… tu… vai. Me la vedo io.»

Mika annuì ai margini del suo campo visivo e scomparve nella saletta.

«Come l’hai saputo?»

«Te l’ho già detto, no? Prima di darti in mano degli affari importanti devo sapere tutto di te. Ho visto come hai guardato il gattino ieri sera, e ho tenuto gli occhi aperti. E ho visto dove è andato a leccarsi le ferite.»

Katze sorrise e accennò al divanetto.

«Siediti, dai. Perché sei così teso? A me non importa se ti scopi gli uomini. Non sono prevenuto, e non sono neanche cattolico, quindi chissenefrega se derubi la chiesa di uno dei suoi pedoni. Io la depredo continuamente dei suoi tesori!»

Yuu sedette guardingo e non sbatteva neanche gli occhi mentre lo fissava. Mescolò il suo drink con il bastoncino di liquirizia, chiedendosi quante possibilità avesse di ucciderlo ficcandoglielo nell’occhio fino al cervello, ma purtroppo era un’altra delle sue fantasie impraticabili.

«Ma pensavo… l’hai trattato maluccio» continuò lui, indicandosi il collo. «Vuol dire che l’hai scaricato? Che spietato, dopo che ha fatto un viaggio così lungo solo per te…»

Yuu abbandonò il drink e alzò le mani in segno di resa.

«Okay! Non so perché ti diverti tanto a tormentarmi, ma va bene, hai vinto! Lui mi piace, ma visto come mi aveva mollato per le cazzate religiose dei suoi gliela volevo far sudare. Volevo tenerlo sulla corda abbastanza da non fargli pensare che gli avrei dato tutto a comando. Contento?»

Katze gli allungò un paio di pacche sulla spalla.

«Tirar fuori i segreti fa bene, Stephan: tenersi la rabbia dentro fa morire giovani! Andiamo, un brindisi» l’incalzò lui, mettendogli il bicchiere in mano. «A te e al tuo gattino innamorato, che abbiate un lieto fine!»

Yuu scolò mezzo drink, ma in mente aveva solo la paura che Katze arrivasse a Mika per strappargli di bocca la verità a qualsiasi costo. Il lieto fine era l’ultima delle possibilità che vedeva.

 

***

 

Se aveva creduto che due anni di lavoro da Mandy’s fossero stati stressanti, Mika dovette rivedere quel giudizio alla luce del suo impiego come cameriere ai tavoli di un night club dove le luci basse confondevano i lineamenti delle persone, tutti parlavano una lingua incomprensibile che la musica copriva in parte e le ballerine che ci mettevano del loro a distrarre i clienti.

Almeno l’ultima cosa credeva che gli fosse venuta a favore: aveva portato un drink del tutto a caso a un paio di clienti, ma quelli l’avevano tracannato senza neanche sentirne il gusto mentre una spogliarellista di nome Anais Stacy faceva il suo numero.

Si sentì sfiorare la schiena mentre riponeva i bicchieri nella lavastoviglie e artigliò quel polso, ma in qualche modo riconobbe a chi apparteneva.

«Ah, sei tu» fece, quando in effetti vide Yuu. «Mi hai spaventato. Non toccarmi senza farti prima vedere.»

«Non ti avvicinare più a Katze.»

«Perché no? Ha mangiato la foglia?»

«Credo che farà le sue ricerche. Sosterrò la tua storia, che sei venuto da me per amore. Forse gli dirò che è stata l’Acqua di Cristo a farci incontrare dopo tanto tempo.»

«Non vedo quale sia il problema, è vero.»

«Il problema è cosa succede se scava di più su Padre Mikael. Se scopre che eri un poliziotto prima, e con chi vivevi… è finita per me.»

Non conosceva la rete d’informazione di Katze e fin dove fosse capace di arrivare, ma se poteva scavare liberamente anche oltre oceano c’erano buone probabilità di aver dato il colpo di grazia all’indagine del destino di Yuu, impedendogli di abbattere il mostro della sua infanzia.

Il senso di colpa gli attanagliò lo stomaco.

«E se… s-se io ci andassi? Se…»

«Non voglio neanche che lo pensi.»

«Potrei vedere o sentire qualcosa che ti può servire… se è solo una questione di tempo, potrei scoprire qualcosa che ti aiuti ad andare avanti comunque…»

«Quello che vedresti e sentiresti finendo in uno dei suoi festini non te lo scorderesti finché campi» ribatté lui. «E per quanto gli uomini ti piacciano, questo è tutto un altro genere.»

«Non è mica il primo uomo nero con cui vado a letto.»

Si accorse di aver detto una sciocchezza, ma ormai gli era già uscita di bocca. Subì con un certo imbarazzo il suo sbalordimento, ma per fortuna durò poco.

«E quand’è che sarebbe successo, questo?»

«No, questo non ti riguarda, davvero. Non volevo neanche dirtelo, m’è scappato.»

Rimettersi a caricare il cestello non fu sufficiente a evitare la conversazione.

«Tuo marito lo sa?»

«No, e non lo riguarda, è stato prima.»

«E prima quando?»

Si mordicchiò il labbro maledicendo quell’uscita infelice. Aveva giurato che nessuno a parte lui avrebbe mai saputo che cosa aveva fatto da quando aveva lasciato New Oakheart a quando aveva ritrovato Jonathan in Kentucky.

«Senti, non è il caso che parliamo di cose del genere adesso. Non è il caso che ne parliamo proprio, non ti riguarda.»

«Prima di tuo marito c’ero io, quindi se permetti mi riguarda eccome!»

Mika guardò i dintorni, poi spinse Yuu nell’angolo opposto, più distante dal barman.

«Dopo. In quei cinque mesi su cui ti arrovelli tanto ho fatto cose e conosciuto persone, e non ho intenzione di farti una lista. Sappi che Katze non sarebbe né il primo né il secondo uomo di colore che conosco.»

Yuu gli strinse il braccio così forte da strappargli un gemito.

«Non m’importa di quali taglie e colori hai nella tua collezione» gli sibilò all’orecchio. «Katze è un sadico. Non un sadico soft, di quelli che piacciono a te. È uno di quelli che si eccitano a sentir chiedere pietà, e che hanno fin troppi giochi che lasciano cicatrici nel corpo e nell’anima. Non lo vuoi avere un uomo come quello, non importa per quale nobile intento.»

La sua stretta si allentò e si trasformò in qualcosa che assomigliava a una carezza. In quel preciso momento il respiro di Yuu sul suo collo fu come una scossa elettrica che faticò a ignorare.

«Non ti permetto di farlo. Se ti mette le mani addosso ti rovina per sempre, come ha fatto con la mia ballerina. Stagli lontano, qualsiasi cosa succeda.»

Ancora disorientato da quella sensazione che gli era rimasta in corpo Mika non pensò che Yuu si aspettava una risposta. Gli diede una leggera scrollata.

«Mi hai capito, Mika?»

Annuì, incapace di parlare.

«Quando finisci il turno aspettami. Non andare via da solo. Dopo quello che ha detto prima non voglio che tu ti avvicini alla safe house e neanche alla chiesa. Starai da me.»

«Cosa… ma…» balbettò Mika, e si schiarì la voce con un colpetto di tosse. «Non hai detto che non ti saresti mai portato gli amanti a casa?»

«Ora non importa più. Fai come ti ho detto.»

Yuu scivolò via come un’ombra, lungo il corridoio e al di là delle tende. Mika si rimise al lavoro, continuando inconsciamente a toccarsi il collo dove il suo respiro l’aveva sfiorato.

 

***

 

Al tavolo Katze teneva il mento posato sulle nocche della mano e gli occhi sull’abito luccicante di Gabi, con la stessa fascinazione con cui guardava i quadri futuristi e le fotografie d’artista alle mostre che gli piaceva così tanto frequentare.

Yuu posò sul tavolo la scatola di legno, ma non riuscì a fargli scollare gli occhi neanche per un momento. Più che un gatto sembrava un cane da caccia che puntava una preda, perciò si arrese all’evidenza di non potergli parlare prima della fine dello spettacolo.

Lo annoiavano. Per la prima volta in quattro anni le ballerine che selezionava e gli spettacoli che lui stesso approvava non gli davano emozione né sensazione. In quel suo periodo tedesco aveva avuto rapporti molto frequenti e soprattutto con delle donne, ma le movenze conturbanti di Gabi erano solo una fonte di disagio, dal quale cercò di fuggire sorseggiando il drink e guardando gli altri clienti. Con una miscela torbida di compassione e frustrazione che gonfiava come un impasto lievitato imputava questa improvvisa insensibilità alla presenza di Mika.

Avevo messo in conto che non volesse rivedermi. Avevo messo in conto anche che lo avrei detestato, dopo quello che mi aveva fatto… ma non credevo… di volerlo ancora. Non credevo che mi avrebbe preso così tanto.

Seguirono le esibizioni musicali di Shelly, di Isobel e di Irina, e Yuu fece consumare le suole delle scarpette lucide di Kiko per tanti bicchieri che le chiese di portargli. Alla fine di quelle esibizioni le passerelle furono occupate dalle più inesperte ragazze, quelle che muovevano i fianchi a ritmo per invogliare qualcuno a dar loro qualche mancia nell’elastico degli slip, e Yuu si rese conto di essere pericolosamente alticcio dalla fatica che fece ad appoggiare il bicchiere dritto.

«Stephan? Ti senti bene?»

«Ho bevuto» fece lui, con la voce impastata come i suoi pensieri.

«Ehi, ti ho detto che lo lascio stare il tuo gattino… a me i maschi non interessano, per femmineo sia il loro faccino» lo tranquillizzò lui, e fece cenno a Kiko. «Tu, acqua con ghiaccio per il capo!»

Yuu inspirò profondo e raddrizzò la testa, cercando di ignorare l’eccesso di vodka nel suo sangue. Mise la mano sulla scatola e – in completa onestà – si stupì di riuscire a farlo come se il suo campo visivo non ondeggiasse come la cera colorata di una lava lamp.

«Che cos’è?»

«Quello che volevo mostrarti.»

«È il caso di farlo qui?»

«Va bene. Non è niente di troppo appariscente.»

La notizia sembrò raffreddare l’interesse di Katze, ma si avvicinò la scatola e con la lentezza appropriata a un mistero da svelare sollevò il coperchio. La sua espressione non cambiò vedendo la boccetta, né tendendo all’entusiasmo né scadendo nella delusione. Abbassò il coperchio.

«Cos’è?»

«L’Acqua di Cristo.»

«Acqua di Cristo» scandì lui, pensieroso. «L’Acqua di Cristo… non mi dice nulla, questo nome. Che cosa sarebbe, secondo te?»

«L’acqua del fiume del battesimo… uh…»

Yuu scosse la testa per snebbiarsi abbastanza da spiegarsi meglio. Fu difficile ricordare, anche perché non era mai stato cristiano e non sapeva che poche storie di pubblica conoscenza della religione, come il peccato originale, l’apocalisse, l’apertura del mar Rosso e poco altro.

«L’acqua che ha toccato la testa di Cristo… nel suo battesimo al fiume.»

Katze riaprì la scatola e stavolta vide più interesse nel suo sguardo.

«Acqua del Giordano… ma come si può affermare che quest’acqua sia quella che ha toccato il capo di Cristo? Acqua di fiume caduta nel fiume, più di duemila anni fa.»

«Non si mescola con l’acqua normale, e non si mescola con l’olio. Galleggia sopra a tutto. È così che l’hanno potuta raccogliere.»

Katze non replicò e fissò la bottiglia a lungo, la prese per agitarla e per studiarla in controluce, ci batté piano le unghie contro come per accertare il materiale della boccetta. La rimise a posto con cura e spinse la scatola indietro verso Yuu.

«Che c’è? Non ti interessa?»

«Non ho mai sentito parlare di una reliquia come questa. Non posso dire di essere intenzionato a comprartela, almeno finché non raccolgo informazioni.»

«Pensi che ti tirerei un bidone? Davvero?»

«No. Ma penso che qualcuno potrebbe averlo tirato a te.»

Yuu si strofinò gli occhi, un po’ per cercare di smorzare quella distorsione e un po’ per l’esasperazione: se l’Acqua di Cristo non fosse stata accettata come una vera reliquia, un pezzo di valore, che cosa gli restava? Si sarebbe dovuto inventare un Santo Graal, tirar fuori dal fondale oceanico un pezzo di Atlantide, o si sarebbe dovuto mettere alle costole di altri cacciatori per portar via dalle loro grinfie qualcosa che a Katze andasse bene?

«Tienila ben nascosta e al sicuro finché non sento i miei esperti. E se non esiste… ti darò una mano a far passare la voglia alla tua fonte di raccontare palle. Sai com’è. La prossima volta potrebbe provare a rifilare un falso ai miei cacciatori.»

Katze si alzò in piedi e buttò sul tavolo i soldi della sua consumazione, per sottolineare una distanza ulteriore nei loro rapporti. Yuu sopportò a fatica quell’affronto, perché gli stava dicendo che lui non era nel suo giro e che con quella figuraccia poteva sognarsi di entrarci mai.

«Non tornare a casa da solo, Stephan, mi sembri un po’ alticcio per guidare. Non vorrei che facessi un incidente e rompessi la tua reliquia… o ti rompessi un braccio, che di sicuro vale di più.»

Con l’ombra di un sorriso di scherno Katze lasciò Yuu a digrignare i denti.

 

***

 

La porta si aprì con il consueto grattare, ma al primo passo dentro l’appartamento si irrigidì guardando l’uomo con la faccia pallida e gli occhi pesti che lo fissava.

Merda, che brutta faccia…

Yuu si avvicinò allo specchio studiandosi la faccia e concluse che troppe notti di poco sonno e molto alcol lo stavano già sciupando. Richiuse la porta con il piede continuando a guardarsi e cercando di ricordare da quanto tempo quello specchio era sepolto sotto memo vecchi di mesi e panni buttati lì sopra.

Mollò le chiavi e la posta su un mobiletto immacolato, e chiuse gli occhi. Vide con gli altri sensi un pavimento lucido lavato con detersivo alla lavanda, una pentola che ribolliva lentamente stuzzicandolo con l’aroma di affumicato, Mika che leggeva qualcosa che sfogliava in fretta…

Aprì gli occhi e si diresse nel soggiorno, incredulo più di quanto sapesse dire. Se quando era uscito quel mattino Mika aveva iniziato a metter mano ovunque buttando – se possibile – ancora più confusione nell’appartamento, ora sembrava la casa di un qualche catalogo: pavimenti, ripiani e vetri erano lucidati, i mucchi dei suoi vestiti sparsi erano spariti, la fodera del divano era come nuova e le uniche tracce di utilizzo della casa erano una ciotola di bucce di patate e un tagliere appena usato vicino al lavandino in cucina.

Al centro di questo regno rassettato e lustro c’era una regina che aveva poco a che vedere con quella che aveva visto in Kentucky: Mika stava sul divano in accappatoio, fresco di doccia, a sfogliare alcune delle riviste che Yuu aveva comprato forse mesi, forse anni prima.

«Togli le scarpe, Yuu, per favore.»

Si accorse di aver lasciato le impronte di acqua fangosa nel tragitto fin lì. Non era più abituato a preoccuparsi dello stato di casa dato che non era mai entrato nessuno per quattro anni, ma si tolse le scarpe e prese uno strofinaccio per ripulire le orme. Avere qualcuno in casa era come uscire dalla tana buia della sua missione di copertura e restare accecato dal sole.

«C’è un buon odore» fece, impacciato.

«Molto meglio di prima, no?» replicò Mika, mettendo via la rivista. «Dove sei stato?»

«Ah… da nessuna parte. Voglio dire, sono andato a fare un po’ di giri per il locale… scartoffie contabili, posta, cose del genere. Sono i miei giorni più simili a una vita normale. Che c’è in pentola?»

«Ti ho fatto lo spezzatino. Era il tuo preferito, ti piace ancora?»

«Ah… sì. Sì.»

«So che è estate, ma mi sembrava una giornata adatta…»

Yuu guardò dalla finestra la pioggia scrosciante. Raro avere una pioggia così continuativa in piena estate, ma almeno il clima era ideale per un piatto di spezzatino caldo e piccante.

Mika si alzò dal divano stringendo meglio la cintola.

«L’ho appena messo su, ci vuole tempo… è presto per mangiare. Hai bisogno di qualche pasto decente, ma per adesso ti posso dare un po’ di caffè, se ti va.»

Mentre aspettava e Mika preparava il caffè, Yuu pensava all’appartamento a Satbury. A quel tempo era soprattutto Mika che faceva le pulizie, che decideva quando era ora di cambiare le lenzuola e le tende, quando lavare i vetri e pulire a vapore il divano, e lui forniva assistenza. Però lavava i piatti e faceva il bucato nel seminterrato, e a volte lo faceva anche per Crowley che non aveva mai tempo.

Ero meglio a quel tempo… parlavo una lingua sola ed ero inesperto come agente, ma ero migliore.

Si strofinò gli occhi, appesantiti dal sonno arretrato.

«Ehi… Mika.»

«Cosa?»

Era rientrato a casa con l’idea di mettersi subito a tavolino e mettere a punto ogni dettagli di come e quando si fossero incontrati nella storia da raccontare a Katze, ma ora non gli sembrava più così urgente.

«Sei… ancora in contatto con Ferid?»

«Sì… non ci sentiamo spesso come prima, ma lo chiamo ogni due settimane, più o meno… non starai pensando di tirarlo in mezzo, vero? Ha dei bambini, lascialo stare.»

«No… io… mi chiedevo… lui e Crowley sono ancora…?»

Il tono di Mikaela si ammansì subito.

«Sono sposati… che hanno adottato la bambina lo sapevi?»

Yuu scosse la testa. Aveva lasciato New Oakheart prima che gli giungesse qualche notizia in merito.

«Si chiama Emma… è il soffio vitale di Crowley, veramente. Dovresti vedere come la guarda… E qualche anno fa Ferid ha speso un sacco di soldi per una nuova procedura, e adesso hanno un figlio che è biologicamente figlio di entrambi. Si chiama Morgan. È bellissimo.»

«Sembrano… felici.»

«Credo proprio che lo siano… Crowley ha lasciato una promozione a capo della squadra crimini maggiori del West End per fare lo sceriffo a Eanverness, ma Ferid dice che non se n’è mai pentito. È felice di avere tutto il tempo di fare il papà.»

Sapere che l’uomo che aveva voluto emulare fin da ragazzo aveva buttato la carriera dalla finestra e che era felice con l’uomo che amava e i figli che aveva sempre voluto lo fece sentire ancora più miserabile, a consumarsi all’inseguimento di fantasmi, da solo, in un fetido appartamento a migliaia di chilometri da chiunque potesse chiamare “amico”.

Si passò la mano tra i capelli, gli occhi fissi sui piedi. Non riusciva a incrociare gli occhi di Mika in quel momento di fragilità, per paura di lasciarsi trascinare dai resti inceneriti dei sogni che aveva avuto per la sua vita con lui.

«Cerchiamo di finire questa missione in fretta, Yuu… tu non puoi continuare così. Devi tornare a essere te stesso e… andare avanti. Trovarti amici, una casa, una comunità… dei punti fermi.»

Gli mise in mano un bicchiere di caffè e gli sorrise sedendogli accanto.

«Tu non sei davvero quello che sei ora. Ti sei cucito addosso pezzi di un’armatura che non è tua, e non ti calza bene. E neanche ti protegge a dovere. Devi tornare ad avere dei rapporti reali con persone vere.»

«Non so se ne sono in grado, adesso. Di… avere delle relazioni normali.»

«Non ho fatto neanche sei mesi di copertura, parlando la mia lingua e insieme a Ferid, posso immaginare quanto peggio sia fare quello che fai da quattro anni…»

Le budella di Yuu si contorsero sentendo le sue braccia stringerlo, gli salì un nodo in gola mentre respirava l’odore di shampoo dei suoi capelli.

«Finiamo questo lavoro» gli ripeté, più tenero di quanto fosse stato dal loro incontro alla fattoria. «Andiamo a casa e… andiamo insieme a trovarli. Crowley e Ferid. Io non ho ancora conosciuto il piccolo, e tu non hai visto nessuno di loro.»

Poteva voler dire che c’era spazio per ricostruire qualcosa tra di loro, oppure essere una semplice offerta di pace per rivivere, dopo sette anni, la sensazione di essere tutti insieme, loro due con Crowley e Ferid, come erano stati all’epoca del Vampiro di West End. Entrambe le opzioni gli facevano un solletico tiepido al cuore.

Si portò il caffè alle labbra. L’aroma forte, il gusto più dolce: un’ondata scura di nostalgia.

Il caffè di Mika…

Si appoggiò allo schienale del divano e reclinò la testa, con gli occhi chiusi e il retrogusto nocciolato ancora in bocca. Neanche a palpebre serrate riuscì a impedire l’uscita delle lacrime, ma Mika non chiese e non commentò: gli diede una carezza delicata sul braccio e si alzò per rimestare lo spezzatino.

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Capitolo 7
*** Buio ***


La residenza Lynch assomigliava più a un castello che a una villa: piazzata in cima a una tortuosa strada, svettava su un trionfo di natura che faceva invidia agli Appalachi. Il cielo cupo di un altro giorno estivo di cattivo tempo rendeva l’atmosfera irreale, regalando alle finestre e ai decori dorati un baluginio che variava in intensità e colore, come riflessi sulle bolle di sapone.

«Ehi, Katze» fece Yuu, mentre guardava con la testa fuori dal finestrino, «non sono mai stato a casa tua. Non è che stai anche tu in un posto del genere?»

Lui scoppiò in una gran risata, e attese che il brano di Bach terminasse prima di spegnere la radio.

«Io amo la gente e la vita. Mi piacciono le città che palpitano e brulicano… non mi chiuderei mai così lontano dal fermento.»

«Quindi non andresti mai a vivere in campagna?»

Katze ci rifletté più di quanto si aspettasse.

«Dovrebbe essere una campagna molto interessante» rispose infine. «Hai in mente qualche posto?»

A Yuu venne spontaneo un verso disgustato.

«La campagna è tutta polvere, mosche, donne malmesse in camicie di flanella, un pessimo wi-fi e chilometri tra te e il negozio di liquori più vicino. No, meglio morto, davvero.»

«Puoi sempre metterti su una distilleria in cantina, non fanno così?»

«No, sai che cosa metterei su in cantina, io? Un cappio e uno sgabello.»

Sfogò in quei minuti le sue lagnanze sulla campagna – per lo più maturate nel suo breve soggiorno alla Lucky Farm – e divertì moltissimo Katze finché non arrivarono al cancello. Dovette schiarirsi la gola prima di presentarsi al videocitofono.

Il parco al quale ebbero accesso era un vasto piazzale di pietra cinto di belle siepi ordinate e vasi straripanti di fiori dai colori intensi. Yuu non disse una parola, secondo istruzioni precedenti di Katze, mentre parlava con quel bodyguard o quel servitore, e alla fine vennero condotti dentro tra sale di colonne e affreschi, finestre alte e strette, scalinate enormi e la più smodata quantità di tappeti che Yuu avesse mai visto.

«Ce l’hai, vero?»

Batté sulla borsa a tracolla in tela, un cimelio acquistato di recente con cui aveva cercato di consolidare l’idea che Stephan Hirsch avesse ricevuto l’addestramento dell’esercito qualche anno prima. Katze bussò con ritmo peculiare sulla porta, poi l’aprì e gli fece segno di entrare.

«Vai tu. La merce è tua.»

«Io… sì.»

Non voleva mostrarsi poco sicuro del prodotto che cercava di vendere, quindi entrò immediatamente tenendo alto il mento e saldo lo sguardo.

Lo studio era arredato di mobilio scuro e fodere rosse, con abbondanti spruzzate di decorazioni dorate. Le pareti erano coperte di libri fino al soffitto, c’era un enorme caminetto di pietra chiara con un parascintille dorato e una sontuosa scrivania; era tre volte la scrivania da tenente che Crowley aveva avuto alla centrale di Satbury.

Anche l’esperto di Katze era tre volte Crowley: se erano alti uguali lui era talmente largo che, affondato in quella poltrona e con quella giacca nera con panciotto, a Yuu sembrava di vedere una miniatura da torta nuziale che stava sciogliendosi.

L’uomo si alzò non senza sforzo e gli allungò una mano dalle dita grassocce e corte.

«Sono Derrickus Parmentier-Lynch. Herr Hirsch, presumo?»

Il suo tedesco sembrava rugginoso, e lo sorprese visto che viveva nel lusso nel cuore della Germania. Strinse la sua mano.

«Stephan Hirsch. Possiamo usare l’inglese se è più comodo.»

«La mia lingua madre è il francese» l’informò l’uomo, indicandogli la sedia. «Ma approfitto dell’offerta. Ho studiato e vissuto a Londra a lungo.»

Yuu sedette sulla poltroncina rossa. Era comoda nonostante l’aspetto rigido.

«Gradisce un goccio? Whisky, brandy… vino, magari?»

«No, grazie.»

Sperava che il rifiuto accelerasse la fase delle cortesie per passare agli affari, ma Lynch intendeva servire almeno se stesso e si versò un abbondante bicchiere di brandy alle pesche. Rimpianse di non aver accettato, se il tempo doveva essere perso comunque.

L’uomo sprofondò nella poltrona, con le pieghe che inglobarono i braccioli in modo che a Yuu fece venire in mente un vecchio film d’animazione in cui appariva un mostro di informe, di fango, che fagocitava tutto quello che gli stava intorno. Sorseggiò il suo liquore con beatitudine dipinta sulla faccia barbuta e schioccò le labbra mentre posava il bicchiere.

«Dunque… non ci siamo mai visti, questo può significare che o lei si occupa di tesori che non hanno avuto a che fare con la cristianità fino ad oggi, oppure che lei ha fatto qualsiasi altra cosa tranne cacciare tesori.»

«È una domanda?» fece Yuu, indolente.

«Mh, sì, capisco… la prima volta che Katze è venuto da me era arrogante nello stesso modo. Devi piacergli… ma temo che per me non valga lo stesso.»

Derrickus si mosse sulla sedia con fatica e una serie di respiri rauchi, ma riuscì a issarsi più dritto, solo per poter intrecciare i suoi grassi salsicciotti adorni di anelli sullo stomaco sporgente.

«Buon per voi ragazzi che io sia imparziale. Che cosa mi hai portato?»

Qui il cuore di Yuu iniziò a dare battiti più energici. Sfilò la scatola per mettergliela di fronte – alla portata delle mani grassocce – e aprì il coperchio con la sensazione che gli stesse sottoponendo a giudizio il suo stesso destino.

«Uhm… che cosa sarebbe, secondo te?»

Erano le stesse parole di Katze e capì che era da quella montagna che il suo amico aveva imparato a fare un esame preliminare: prese a studiarne il vetro e il liquido quasi nello stesso modo.

«Questa è l’Acqua di Cristo. L’acqua con cui battezzarono Gesù Cristo nel Giordano.»

L’occhiata che gli lanciò Derrickus era penetrante, ma non scettica: ciò riaccese le speranze di Yuu.

«La boccetta è certamente recente. Veneziana, del 1800 al massimo. Di per sé non ha valore, ma ciò che vendi è ciò che contiene…»

«Sì.»

Derrickus ripose la fiala e arrancò per districarsi dalla sua stessa sedia, con rantoli tali che Yuu si chiese se non fosse il caso di chiamare un medico: aveva l’aria di qualcuno che sarebbe stato stroncato da un infarto entro sera.

Una volta in piedi l’uomo ondeggiò verso una libreria, scorse il dito mignolo sui dorsi e andò alla scala fissata con una guida a ruote sulla sommità degli scaffali, facendola scorrere. Yuu scattò in piedi come una molla.

«Forse è meglio se salgo io. Cosa cerca?»

Solo allora Derrickus gli lanciò uno sguardo carico di sufficienza e l’ignorò, arrancando sui pioli. Incredibilmente lo reggevano, e pur con il respiro pesante l’uomo salì fino a metà e spulciò alcuni volumi, scorrendoli velocemente come se cercasse un foglietto tra le pagine invece che leggerli: aveva la stessa aura di Ferid, in quel momento di concentrazione nel suo elemento.

Attese alcuni minuti prima che tornasse giù con un libro che gli mostrò: recava un disegno schematico con molti simboli sconosciuti.

«Sono molti i testi che citano acque dagli straordinari poteri e proprietà. Fin dall’alba dei tempi l’acqua è stato considerato l’elemento della magia… unico in natura, in armonia con tutto il creato e indispensabile alla vita… Quello che vedi è lo studio di un alchimista tedesco, il primo che chiamò una specifica sostanza liquida “Acqua di Cristo”.»

«Un… alchimista?»

Ma quella prima spiegazione aveva logorato le energie dell’uomo, che bevve avidamente il suo brandy e lanciò un’occhiata disperata a una bottiglia troppo lontana. Anche questa volta Yuu si alzò e allungò la mano.

«Molto obbligato» esalò lui, dandogli il bicchiere.

«Posso servirmi, già che ci sono?»

«Naturale.»

Riempì un bel bicchiere di brandy per lui e per sé scelse un liquore chiaro che non aveva mai provato, in un bicchiere basso per il whisky che gli sembrò adatto. Dopo che ebbe bevuto anche quel brandy Derrickus parve riprendere forze e si mise più dritto.

«Dicevo… sì, dicevo dell’alchimista. L’Acqua di Cristo è una leggenda più per alchimisti che per i cristiani, perché fu il nome attribuito a una sostanza pura, incapace di mescolarsi a qualsiasi altro composto naturale. Conosci i gas nobili? L’Acqua di Cristo è una sorta di liquido nobile: non si combina e non cambia stato. Come dicevo, una leggenda per alchimisti.»

«Quindi… non ha niente a che vedere con Cristo?»

Derrickus passò il dito sulla fiala, lento, voluttuoso, come Yuu aveva fatto con la pelle di fin troppe donne e uomini.

«Questo va oltre il mio campo. L’Acqua di Cristo è una materia di alchimia, e se davvero esistesse… nessuno ne ha mai descritto l’origine. Non esiste, che io sappia, menzione sulla fabbricazione o sul dove reperirla, e appena un paio di alchimisti e uno storico la citano. Hai trovato qualcosa di davvero raro, signor Hirsch. Forse… anche troppo raro.»

Il sorriso gli si spense come un neon fulminato.

«Cosa… che vuol dire, troppo raro

«Non è una reliquia sacra, e noi commerciamo soprattutto in materia di spiritualità… e questa è rara anche per gli alchimisti, che potrebbero non essere disposti a pagare molto qualcosa di tanto ambiguo. È più plausibile che sia un’invenzione di un paio di alchimisti che forse volevano qualcosa di sensazionale da insegnare a dei discepoli.»

«Vuol dire che non posso venderla?»

«Detto francamente, ci faresti più soldi a venderla online.»

Come un pesce che si ritrova fuori dall’acqua, Yuu non riusciva a respirare. Aprì e chiuse la bocca, coi pensieri paralizzati tanto da non ricordare neanche come fare a buttare dell’aria giù nei polmoni. Le orecchie gli ronzavano.

Buttò giù tutto il liquore che aveva nel bicchiere d’un fiato e il bruciore lungo l’esofage l’aiutò a tornare presente al suo corpo, che Derrickus stava guardando con una versione tiepida della preoccupazione.

«Stai bene?»

«Sì. Certo» esalò lui.

Derrickus chiuse la scatola della reliquia e la spinse piano dall’altro lato, per quanto glielo consentisse il pancione che metteva distanza tra lui e la scrivania.

«Permettimi di darti lo stesso consiglio che diedi a Katze quando venne da me la prima volta: essere un cacciatore di tesori non è qualcosa che si improvvisa. Serve molto studio, una rete di contatti nei posti giusti e una preparazione adeguata a quel ventaglio di possibilità che si presentano quando si cerca qualcosa che potrebbe essersi perso in fondo al mare, dentro una catacomba inaccessibile o semplicemente tra le pieghe del tempo e di un documento andato distrutto. È una vita per pochi, signor Hirsch.»

Yuu si aggrappò al bracciolo per mettersi in piedi. Era il caso di ritirarsi e pensare al passo successivo… ma la realtà era che non sarebbe mai andato da Mika a chiedergli quella reliquia se non fosse stata la sua ultima spiaggia. Non aveva più cartucce, dopo quella.

«Non… non c’è niente che possa fare per aiutarmi?»

Derrickus sospirò accarezzandosi la barba, ma poi scosse la testa.

«Forse un altro mediatore te la prenderebbe… ma a meno che non ti servano soldi per pagare un creditore a corto di pazienza, davvero non vale la pena di farti la reputazione di un rigattiere. Non se ci tieni a entrare in questo giro. Se un cacciatore si fa conoscere come uno che trova roba da poco è difficile che ci si fidi qualora mettesse le mani su qualcosa di davvero prezioso.»

Yuu chiuse gli occhi mentre si alzava dalla sedia: gli sembrava di aver preso una coltellata nel petto. Scambiò una stretta di mano con Derrickus quando riuscì a sgusciare fuori dalla sedia di nuovo e si salutarono con distaccata cortesia, consuetudine di ogni colloquio d’affari andato meno che bene.

Mentre scendeva l’enorme scalinata di marmo non riusciva a non fissare la scatola rabbioso, neanche fosse stata lei a giurargli che usandola avrebbe finalmente superato l’impasse in cui si trovava da due anni. E, ancora peggio, doveva affrontare il viaggio di ritorno con Katze che non gli avrebbe lasciato passare indenne quel fallimento.

«Ora posso passare?»

In fondo alle scale c’era una donna, alla quale le guardie bloccavano il passaggio. Era una bella donna – vicina alla quarantina, a giudicare dalla pelle del collo e delle mani – con abiti bianchi che fasciavano la sua figura elegante senza scoprire un centimetro di pelle più del funzionale, anche se era piena estate.

La guardia guardò Yuu scendere e abbassò le braccia.

«Per favore, Milady, non si indispettisca. Ora annuncio il suo arrivo al signor Lynch.»

«Gli lasci qualche minuto» intervenne l’altro uomo di guardia. «Ha appena avuto un ospite. Gli dia modo di riceverla in condizioni impeccabili, Milady.»

L’argomento non la interessava quanto Yuu: fu quando i loro sguardi si incrociarono che lei depose quell’aria da amazzone e accennò quasi un sorriso. Lui non la ricambiò e non si voltò per guardarla ancora mentre lasciava il castello.

Negli occhi di quella donna scorgeva qualcosa che il suo istinto gli gridava di evitare.

 

***

 

Yuu cadde di peso sul marciapiede con un lamento soffocato. Si girò sulla schiena guardandosi intorno, abbagliato dai lampioni, poi scosse la testa come un cane bagnato che si scrolla. Si accorse di avere una gamba ancora dentro il taxi e una bottiglia di birra quasi vuota nella mano destra.

«Tutto intero, signore?» gli chiese in un tedesco incerto l’autista, un giovane dall’accento strascicato che Yuu non riconosceva. «Io aiuta, dia me la mano!»

«Per chi mi hai preso… per un… idiota?» biascicò lui, a fatica. «Vattene… ti ho pagato?»

Lui neanche si ricordava di aver chiamato un taxi, o di esserci salito. Il giovane tassista dovette rinunciare al buon proposito di aiutare il suo cliente, che cercava di girarsi carponi goffo come una cimice rovesciata.

«Tuo amico pagato me e messo te su mio tasì» fece questi, con tono gentile. «Prego, io aiuta te a entrare…»

«Non provarci!» sbottò Yuu respingendolo. «Ti credi meglio di me? Non lo sei! Guidi un taxi, per la miseria, e il tuo tedesco fa schifo… il mio tedesco era meglio del tuo dopo due settimane, lo sai?!»

A nulla valse un nuovo tentativo gentile del ragazzo, quindi questi si limitò a chiudere lo sportello del passeggero e guardarlo con apprensione. Yuu nemmeno se ne accorse, preso com’era a cantare ad alta voce – e parole impastate – una celebre canzone popolare tedesca.

Il suo bagaglio era pieno di proverbi, canzoni popolari e motivetti celebri di pubblicità che i suoi insegnanti madrelingua gli avevano insegnato affinché potesse sfoggiare anche la cultura di un tedesco oltre che un accento perfetto.

Il taxi ripartì e allora il suo sfoggio di lingua divenne solo un picco di frustrazione e lanciò la bottiglia dietro all’auto, senza conseguenze tranne i cocci sulla strada. A quel punto anche la rabbia sparì e Yuu guardò il cielo sopra di lui, specchio perfetto del suo umore: scuro e uniforme. Non si vedevano le stelle a Berlino.

Ricordò quell’ultima sera alla fattoria, con quel manto di stelle e i versi buffi dei cavalli nel recinto vicino. Pensò alla routine di Mika, della sua famiglia allargata, e si sentì più misero e inutile che mai.

Primo del corso! Primo, per la polizia e a Quantico! Sono stato addestrato apposta! Apposta per quello che non riesco a fare da quattro anni!

Stizzito e frustrato cercò di tirare un calcio alla scatola con i giornali della raccolta differenziata, ma scoordinato com’era la prese appena di striscio. Imprecò e si accorse, pur nella sua nebbia, che lo faceva in tedesco. Persino ubriaco, forse persino nel sonno parlava tedesco.

«Tedesco di merda! Germania di merda! Vita di merda!»

Smise di imprecare solo quando decise che doveva togliersi dalla strada prima di avere problemi con la polizia – da ubriaco la sua diplomazia non era un granché – e raccogliere le energie per mettersi in piedi, salire al primo piano ed entrare in casa.

Si tenne in piedi fino al portone appoggiandosi alla ringhiera, si accasciò contro la parete dell’ascensore mentre saliva e dopo quella che gli sembrò un’eternità raggiunse la porta di legno stinto dell’appartamento.

E adesso devo dire a Mika che non so neanche vendere qualcosa… sono patetico…

Se non fosse stato per la vicina fin troppo impicciona del piano di sopra che scendeva ogni mattina alle cinque per portare in giro quel suo insopportabile microcanide, Yuu avrebbe preferito dormire lì nell’atrio. A malincuore prese le chiavi e con fatica le inserì per aprire la porta.

Lo specchio pulito, impietoso quanto la sua autocritica, gli mostrava che era un disastro: aveva la camicia riabbottonata storta, la cintura fuori dai passanti e la faccia di uno che era stato a mollo in un barile di birra come le salsicce dell’Oktoberfest.

«Che schifo» bofonchiò, rivolto a se stesso. «Fai pena, Stephan.»

Barcollò verso la cucina – teneva le sue aspirine da post sbronza in una credenza, accanto al caffè – senza accendere le luci, ma non ebbe bisogno per accorgersi di Mika.

Al contrario di lui era bellissimo; addormentato a pancia in giù sul divano e la faccia affondata nel cuscino sembrava un bambino immerso nei sogni. Una striscia di luce passava tra le tende illuminando proprio il suo viso, con quei suoi capelli biondi un po’ mossi e quelle ciglia lunghe e chiare. Yuu gli si avvicinò e si sedette – quasi si accasciò – sul bordo del divano, per godere quella vista.

Con il cuore che gli batteva forte allungò la mano per sfiorargli i capelli.

«Scusa, Mika… ho fatto casino. Ti ho fatto venire fin qui per niente… perché non sono capace di fare il lavoro per cui ti ho lasciato andar via.»

Non era proprio un sussurro, ma il sonno di Mika era pesante come lo ricordava: non diede neanche un battito di ciglia che facesse pensare che avesse sentito qualsiasi suono.

Yuu passò la punta delle dita sulla sua schiena, pian piano.

E se fosse questo il senso? Se tutto fosse servito ad arrivare ad adesso… a farmi capire che sono un idiota qualsiasi? Se lascio l’FBI posso andare a casa e… dargli tutto quello che vuole…

Con movimenti goffi resi più lenti dall’alcol Yuu scavalcò la schiena di Mika affondando il ginocchio in un cuscino e lo guardò dall’alto, in un modo che aveva potuto rivedere solo nei suoi ricordi dei loro tempi più intimi. Piano piano abbassò la testa e lasciò un bacio sulla pelle del collo.

«Se torniamo insieme non me ne vado più» gli sussurrò. «Faccio tutto quello che vuoi… solo quello che vuoi… Mi prendi ancora con te, Mika?»

Le palpebre di Mika tremarono un po’, ma non aprì gli occhi. Si mosse per girarsi sul fianco e lo sfiorò, mentre il suo sospiro rilassato solleticò qualcosa di molto più profondo, qualcosa di molto oscuro che non andava bene a braccetto con un alto tasso alcolico.

Affondò la testa nella piega del collo, baciandolo e mordendolo. Stavolta Mika si svegliò e gli piazzò la mano in faccia, prima di rendersi conto che fosse lui. La sua reazione violenta si spense e quella rigidezza svanì, dando a Yuu un segnale che gli sembrava più che chiaro.

«Yuu, ma che diavolo… m’hai spaventato a morte! Ma che accidenti fai?»

«Mika, non pensi che doveva andare così?»

«Così come…? Mio Dio, Yuu, puzzi come una distilleria! Sei ubriaco di nuovo…»

Sotto la sua mano la schiena di Mika rabbrividì. Secondo dopo secondo era sempre più sicuro che sentisse quello che sentiva anche lui, così con un gesto deciso gli tirò giù i pantaloni. La sua reazione fu uno scatto da cavallo imbizzarrito, ma riuscì a restare sopra di lui e a piegargli il braccio dietro la schiena.

«Che cosa diavolo fai?! Lasciami!»

«Non cominci a sentire la voglia? Ti succedeva sempre così…»

Le proteste e le reazioni aumentarono d’intensità, ma Yuu era rafforzato dalla rabbia che aveva provato per sette anni, nutrita dalle ipotesi e dalle fantasie che aveva creato intorno a Mika e Lucky per tutto quel tempo. Da quella posizione di vantaggio era il peso stesso della sua gelosia a impedire a Mika di ribellarsi.

Dopo un buon minuto di lotta serrata in un piccolo spazio Yuu riuscì a immobilizzare il braccio di Mika dietro la schiena e usare il gomito per tenergli la testa contro il cuscino, così da avere una mano libera.

«Non lo capisci, Mika?» gli fece, abbastanza forte da sovrastare le sue proteste nel cuscino. «Tutto intorno a me… non ha senso niente. Se con questi sette anni io… ne cavo fuori solo che ho di nuovo te, non è tempo perso… è… più che abbastanza…»

La mano passò tra i suoi capelli biondi prima di scivolare giù, ad accarezzargli la gamba.

«So che ti piace un po’ forte, ma non voglio farti male, Mika… se ti calmi va meglio. Ti calmi?»

Come aveva immaginato sentì cadere a zero la resistenza. Tranquillo e totalmente convinto che quella fosse una situazione del tutto ordinaria come un gioco tra persone concordi mollò la presa sul suo braccio e lasciò che alzasse la testa.

Non fece in tempo ad aprire bocca, né la patta: Mika gli tirò una testata contro il naso e con un movimento fulmineo fece perno con la gamba rovesciandolo giù dal divano; urtò dolorosamente il tavolino con il gomito e la sua testa rimbombò come un hangar vuoto per il colpo contro il pavimento.

«Stronzo!» inveì Mika, schizzando in piedi. «Fatti una doccia fredda!»

Gli lanciò in faccia qualcosa, da un bicchiere che non aveva neanche notato sul tavolo, e sparì nel buio fuori dal suo campo visivo. Tentò di girarsi, ma si sentiva peggio di prima sul marciapiede.

«Mika» chiamò, con una voce che non riconosceva come sua. «M-Mika…»

Non riusciva ad alzarsi, neanche a carponi, né a strisciare. La stanza ondeggiava come una nave in piena tempesta, e anche la nausea era la stessa che avrebbe avuto a bordo.

«M-Mika… non… non mi sento bene…»

La porta che sbatteva sottolineò che Mika aveva cercato rifugio nella camera da letto, chiudendovisi dentro. Con una violenta nausea e un profondo disgusto per se stesso posò la fronte sul tappeto e chiuse gli occhi. Sperava che finisse presto. Che fosse la sbronza, la missione, o la vita gli era indifferente.

 

***

 

Il cellulare squillò nel buio. Ferid, che guardava dalla finestra dello studio, lasciò passare un po’ prima di voltarsi e il nome sullo schermo fece fare un bizzarro saltello al suo cuore. Rispose in fretta, prima che la linea cadesse.

«Ciao, Mika. Uno strano orario per una telefonata.»

«Ah… scusami, è… che ora è? Le quattro… le… dieci, vero? Mi spiace, ti ho svegliato?»

Il suo tono non era normale. Conosceva Mika da tempo, abbastanza a fondo da cogliere le sue sfumature di voce, e capiva che qualcosa non andava.

«Che succede? Qualcosa non va?»

«Ah… n-no, sono solo stanco. È tutto okay…»

Ferid attese, ascoltando i rumori dall’altra parte. Non sentiva praticamente nulla, né voci né rumori ambientali, e immaginò che fosse fuori casa, vicino ai campi.

«S-senti… Ferid… posso chiederti una cosa?»

Che tentennasse tanto significava che non aveva saputo del rapimento di Crowley e la ragione della chiamata serale era un’altra.

Lui però si trovava in conflitto. Ismael voleva che non ne parlasse a nessuno, ma Mikaela era un amico a lui caro, legato anche a Crowley. Aveva sedato le reazioni della famiglia O’Brian alludendo a un favore a un vecchio amico in polizia della narcotici – sperando che nel caso pensassero a De Stasio – ma non era sicuro di voler rifilare quella storia a lui.

«Spara» fece allora, il più naturale possibile.

«Ti è mai successo che… Crowley o… un altro tuo ragazzo ti toccasse anche se non ti andava? Magari… quando aveva bevuto un po’?»

Ferid si bloccò nel buio, e con più cautela si sedette senza far scricchiolare la sedia girevole.

«Mika, che cos’è successo? Parli di Lucky o di Steven?»

Ci fu un silenzio così lungo e denso che Ferid controllò che la chiamata fosse ancora in corso e il segnale presente.

«No, no… non hanno fatto niente, nessuno dei due… Beh, Steven allunga sempre una mano quando è alticcio, e come sai è sempre alticcio. Ormai non ci faccio neanche caso…»

La risata di Mika uscì più fasulla di un gatto che abbaia.

«Non ti preoccupare. Io sto bene» insistette, fomentando ulteriormente i dubbi di Ferid. «Mi ha chiesto aiuto una persona e… io… non so che cosa dirle, Ferid… Che cosa dovrebbe fare?»

«In che senso? Lo sai bene che è un crimine. Se fossi ancora un poliziotto l’arresteresti quell’uomo, e ti assicureresti di stringergli troppo le manette.»

Un altro silenzio. Troppi pensieri per i guai di qualcun altro.

«Anche se lui avesse bisogno disperato di aiuto? Lei dovrebbe andarsene?»

«Ha davvero bisogno di aiuto o è solo un uomo irrecuperabile con una persona troppo innamorata accanto?»

«Pensi che… solo una persona innamorata passerebbe sopra a una cosa del genere?»

«Questo… o… una persona completamente distrutta. Una abituata a essere maltrattata. In ogni caso, non credo che sia sano restare vicino a una persona così, che sia per indole o per problemi di alcol.»

Ferid guardò dalla finestra, verso il bivio dove aveva ritrovato il cagnolino e il cellulare. Rifletté, cercò di essere onesto con se stesso, e sospirò.

«Ma lo posso capire… forse… se Crowley lo facesse a me, per colpa dell’alcol… sì, forse una volta ci passerei sopra. Penso che lo farei… forse non dovrei, ma non penso che me la sentirei di buttare via tutto il tempo insieme per un fraintendimento da alcolici. Sono stato usato tante volte da persone a cui non importava niente di me, e non credo che dovrei reagire male proprio con l’unica che mi ama.»

«Capisco il tuo punto di vista… Sì, credo di sapere che cosa dirle, adesso. Grazie.»

«Ma credo che la tua conoscenza dovrebbe valutare bene la situazione.»

«Non ti ho nemmeno chiesto come state, prima di mettermi a martellare! Come vanno le cose? Come sta Morgan? Sono mesi che non mi mandi delle foto!»

«Ah… è vero… ho il telefono mezzo rotto, Eden me l’ha fatto finire in acqua almeno tre volte. Funziona, ma non la fotocamera, quindi video e foto le fa tutte Crowley. Ti mando qualcosa domani, se vuoi.»

«Mi piacerebbe… Anche ai ragazzi piacerebbe vedere qualcosa di Morgan. È una piccola meraviglia. Non vediamo l’ora che sia grande abbastanza da venire alla fattoria a cavalcare.»

«Penso che… lo porteremo presto. Li porteremo tutti. I capelli gli stanno diventando rossi, e sta sempre insieme a Eden… e con Crowley quando è a casa…»

Il nodo in gola era così stretto che non riusciva ad aggiungere niente sulle nuove parole, sulla velocità alla quale già correva o su quanto fosse bravo a riconoscere le formine e i colori nei suoi giochi di formazione. Il pensiero che fosse di là con il suo grande scoiattolo di peluche anziché, come sempre, nel letto con suo padre lo angosciava.

«Mika… ti devo dire una cosa» fece, interrompendo i suoi commenti. «Non ce la faccio a far finta di niente.»

«Cos’è successo?»

«Crowley è scomparso… è sparito» fece Ferid, con solo un filo di voce che gli usciva. «La sera di venerdì scorso. Ho trovato solo il cagnolino che portava a spasso e il telefono. Non ho nessuna pista su dove sia… solo… Ismael mi ha detto che poteva essere a Berlino, Dio solo sa perché dovrebbe essere finito là…»

Il silenzio attonito di Mika lo fece pentire di avergli detto la verità, ma anche lui aveva bisogno di qualcuno a cui dire come si sentiva, e non poteva farlo davvero con persone che credevano che fosse solo andato a New Oakheart per una consulenza urgente.

«Ismael?»

Quella domanda prima di ogni altra fece scattare una miriade di allarmi, come le campane di un paese sulla rotta di un tifone tropicale.

«Mika, tu sai qualcosa?»

«Ti pare che non direi niente se sapessi che tuo marito è scomparso?» replicò lui, aspro. «Non so dove sia… Ti richiamo io, Ferid, scusami se ti lascio così. Buonanotte.»

«Mika!»

La chiamata si staccò mentre cercava di trattenerlo. Fu inutile cercare di richiamarlo, perché squillò a vuoto per minuti e minuti. Stizzito buttò sulla scrivania il telefono. I suoi occhi celesti dardeggiavano su ogni macchia di colore e forma riconoscibile nella penombra della stanza mentre era preso da ragionamenti febbrili.

Si alzò in piedi e scese di sotto, in giardino. Accanto alle braci morenti del barbecue sedeva Krul, vigile sotto il cielo stellato come un animale notturno.

«È Mika, vero?»

«Mika che cosa?» domandò lei di rimando.

«Mika sa qualcosa. Ismael mi tiene dei segreti, e Mika sa qualcosa. Mi stanno tenendo in disparte.»

Krul emise un mugugno meditabondo, con uno sguardo assorto alle braci.

«Si muovono più velocemente del previsto…»

«Se hai visto qualcosa di più chiaro è il caso che tu me lo dica, Krul.»

Con sua frustrazione lei scosse la testa.

«Il gioco continua a cambiare. Ma c’è un uomo giovane che ti aiuta… potrebbe anche essere Mikaela. Ci sono grandi influenze sul tuo Grand Tableau… non posso essere precisa senza aver paura di depistarti, Ferid.»

«Non hai mai avuto problemi a vedere il mio futuro! Con Bobby, e prima di andare a Bluefields, hai sempre indovinato!»

«Ma la visuale era sempre limpida» replicò lei senza scomporsi. «In questo caso… è come vedere figure che emergono nella nebbia. Non sono chiare e non è possibile capire come sono collegate. Vorrei poterti aiutare di più, ma ho paura. Ho davvero paura di dirti la cosa sbagliata.»

Ferid strinse i pugni, con un mare mosso di rabbia che correva in ogni direzione: verso Ismael, verso Krul che non sapeva dargli un’indicazione, verso Mika che non parlava chiaro e Crowley che ovunque fosse continuava a tacere e aspettare…

«Quand’è così, troverò io la verità.»

Contro ogni sua previsione Krul annuì.

«È il momento. Penseremo noi ai tuoi bambini. Vai senza paura.»

Paura non ne aveva. Ferid infilò le scale facendo meno rumore possibile e andò all’armadio a muro della sua stanza, spostando scatole di scarpe e giocattoli per ripescare la valigia piccola. Le luci del guardaroba illuminarono una valigetta di metallo con il lucchetto a combinazione e senza rifletterci l’infilò dentro la valigia prima di qualsiasi altra cosa.

Aveva già perso un marito senza poter fare altro che guardare e pregare che qualcuno riuscisse a salvarlo. Non l’avrebbe lasciato succedere di nuovo.

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Capitolo 8
*** Traccia ***


L’ultimo ricordo che aveva era il quadrifoglio tatuato che si muoveva sul seno di una spogliarellista, e lui lo seguiva come ipnotizzato. Come mai fosse accasciato scomposto in bagno, con la testa e il braccio appoggiati alla tavoletta del wc, non lo ricordava.

«Ugh… merda…»

L’indolenzimento del corpo, il dolore al collo e il rimbombare della sua testa: non sapeva dire quale dei tre fosse la parte peggiore. Si aggrappò al bordo del lavandino per mettersi prima in ginocchio e poi in piedi.

Era giorno e il sole era tornato splendente su Berlino. Non era una notizia allegra per i suoi occhi, resi sensibili dalla sbronza epica. Li serrò stretti e li coprì con le dita, ma anche concentrandosi in quel buio confortante non focalizzava niente di cosa fosse successo dopo quella spogliarellista.

Si strappò di dosso gli abiti buttandoli dove capitava e si infilò sotto la doccia fredda: rinvigorì il corpo e schiarì la mente, ma più si svegliava più pezzi di memoria emergevano dalla nebbia, finché non ne ebbe abbastanza da aver paura delle parti ancora in ombra.

Bloccò il getto, uscì dalla cabina e arraffò un accappatoio nero.

«Mika?»

Chiuse gli occhi toccandosi la tempia. Rimbombava tanto da stordirlo. Alla cieca raggiunse il soggiorno e aprendo solo una fessura per guardare scoprì che Mika non era lì. Tornò indietro verso la camera, ma anche quella era aperta e vuota. Se n’era andato di casa.

«Cazzo!»

Subì una fitta per la sua imprecazione. Sempre a occhi chiusi usò la mano per orientarsi nell’appartamento, evitando spigoli e il divano, e trovò un bicchiere nella credenza e la sua scatola di aspirine.

Ne aveva appena trangugiate due con abbondante acqua quando sentì scattare la serratura. D’istinto si lanciò alla cassettiera e ficcò la mano tastando buste di carta e pacchetti di fazzoletti.

«Cercavi questa?»

Da dietro l’angolo del soggiorno apparve Mika, con in mano la sua semiautomatica. Restò immobile davanti alla canna, ma poi lui allentò la presa e lasciò che l’arma ruotasse intorno all’indice, per poi prenderla per la canna e appoggiarla sul tavolino.

«Chi… ti ha detto che avevo una pistola qui?»

«Nessuno, l’ho trovata mentre riordinavo casa.»

Mise il piede sul bordo del tavolino e sfilò la piccola Sig Sauer 238 dalla cavigliera quel tanto che bastava per fargliela riconoscere come sua.

«Invece, la combinazione per la valigetta dov’era chiusa questa me l’hai detta tu un’ora fa. Se non ti spiace la tengo per difesa personale.»

Yuu lo fissava, incredulo. Aveva davvero rivelato la combinazione per un’arma carica sotto l’effetto di alcol? L’idea di essere un facile chiacchierone nei momenti di vuoto costruì castelli inquietanti, ricordando quante volte Katze fosse stato presente quando beveva molto.

«Siediti. Ti preparo qualcosa che ti rimetta in forze.»

Confuso da pezzi di memoria non collegati e da paure fosche Yuu obbedì, sedendosi rigido sul divano. Anche quello, il giaciglio di mille notti e più, gli sembrava minaccioso.

«Mika… ieri sera…»

«Eri ubriaco.»

«Non mi ricordo quasi niente…»

«Eri molto ubriaco» ribadì Mika, mentre spacchettava e armeggiava in cucina.

«Io… ti ho fatto qualcosa?»

La gola era secca. Aveva immagini confuse, sensazioni mescolate. Non riusciva a capire se l’eccitazione che aveva sentito era stata precedente, nel suo incontro con quella ragazza con il quadrifoglio, eppure aveva ancora nel naso l’odore di Mika, della sua pelle… ma quello poteva risalire a tempi felici in cui non c’era limite a quanto potesse goderne.

«Intendi questo?»

Mika gli stava mostrando un segno rossastro tra il collo e la spalla. Si sentì arrossire alla vista di quel succhiotto, peggio della prima volta che gliene aveva fatto uno senza neanche sapere come. Lui si sistemò la maglietta per coprirlo, con un vago accenno di sorriso.

«Eri ubriaco marcio e infoiato come un coniglio. Comunque è bastata una spinta per buttarti giù e lì sei rimasto. Inzuppato com’eri mi aspettavo schizzassi tequila come una spugna che cade dal terzo piano…»

«Mi dispiace» fece Yuu, con la mano sugli occhi. «Mika, mi dispiace… io… non ricordo neanche come sono tornato a casa…»

Mika non sorrideva più. Abbandonò le uova accanto alla padella e gli si avvicinò; quando gli toccò la testa Yuu incassò il collo come se si aspettasse un attacco.

«A me dispiace che tu ti sia ridotto così, Yuu… perché al di là della missione, al di là di quello che ti ho fatto io sette anni fa, tu sei il nemico di te stesso, oggi. Vivere nella confusione, isolato da tutti, e bere fino a non sapere più chi incontri, cosa dici e cosa fai… Ti stai sabotando da solo.»

Il senso di colpa si estese dal singolo episodio all’intera condotta dei suoi ultimi anni. Cercò di trattenere lacrime di vergogna anche se aumentava la sua emicrania e prese la mano di Mika per baciarla.

«Mi puoi perdonare, Mika?»

«Mi hai fatto un succhiotto e mi hai tirato giù i pantaloni, non è qualcosa per cui mi sento di tirare dalla finestra tutto quello che siamo stati. Ma non ti perdono che tu sia così distruttivo verso…»

Mika esitò e ritrasse la mano.

«Verso il ragazzo che ho amato tanto.»

Girò i tacchi senza incrociare il suo sguardo e un momento dopo l’appartamento si riempì dello sfrigolio delle uova e della pancetta in padella, e del loro profumo tentatore.

Yuu si era convinto che Mika a un simile comportamento avrebbe reagito con altrettanta violenza, con una fuga immediata e un abbandono definitivo o vendicandosi. Non si aspettava che sarebbe rimasto lì, confortante, di sostegno, tenero. E saldo nell’affermare che non accettava quella sua condotta.

«Prima di mangiare bevi questo.»

Gli mise in mano un bicchiere caldo con liquido fumante scuro come caffè, ma l’aroma tostato e profondo era diventato erbaceo e pungente, come erba marcia. Gli accoltellata le narici come un’arma.

«M-ma che è?»

«Non sai che fatica sia farsi capire da un erborista tedesco quando cerchi qualcosa di specifico come questo… Bevilo tutto. Ti sembrerà di non aver mai toccato alcol.»

«Mi stai avvelenando per ripicca?»

«Se mi volessi vendicare ti riempirei di botte con il manico di una scopa. Sai che non sono raffinato quando supero la soglia della violenza. Bevi e smettila, l’ho data anche a Ferid una volta. E più volte a Lucky, o a Steven, che si sbronza quanto te tre volte a settimana.»

A naso tappato e coraggio virtualmente a due mani Yuu bevve. Era molto caldo ma soprattutto molto amaro; emise un verso strozzato dopo quel sorso.

«Se si fredda diventa più amaro. Bevilo in fretta… il ricordo di questo gusto ti aiuterà a limitarti la prossima volta.»

Yuu era convinto che non sarebbe riuscito a prendere un terzo sorso se avesse esitato ancora, quindi raccolse il coraggio e tracannò tutto il bicchiere. Riuscì a soffocare la reazione a quell’amaro da veleno con lo stesso contegno di quando, da ragazzo appena maggiorenne, aveva inghiottito il suo secondo shot di tequila dopo che il primo l’aveva quasi stroncato.

Rafforzato dalla tremenda emicrania e dall’amaro che si allungava dalla lingua allo stomaco, decise di non ubriacarsi mai più, e che alla fine della missione avrebbe anche smesso di bere alcol.

 

***

 

Il tavolo era in legno robusto, un vecchio tavolo da cortile fatto a mano con legno di recupero, ma si spaccò come fosse di cartone sotto il peso dell’uomo che ci finì contro. Volarono ovunque le carte da gioco e i mozziconi dal posacenere.

«Bloccalo!»

Il ragazzo impallidì a quell’ordine ed esitò a muoversi. L’uomo che aveva scagliato il suo collega contro il tavolo si raddrizzò e lo caricò come un toro impazzito, schiantandolo contro il muro con una spallata che bastò a tramortirlo: si accasciò a terra come un sacco vuoto.

Crowley emise un ringhio bestiale anche con la bocca chiusa da nastro adesivo forte, e l’uomo ancora in piedi si ritrasse nonostante reggesse un manganello. Da quando si era svegliato aveva seguito solo un istinto ferino e abbattuto tre dei suoi carcerieri senza alcuna esitazione. Non analizzava la situazione, non elaborava strategie, né usava il buonsenso. Nulla che un uomo poteva imparare in società gli serviva, in quel limbo.

Il cuore gli martellava nel petto e nelle orecchie: il monito costante del motivo per cui era ancora vivo e per cui doveva restare in vita finché non fosse stato Dio stesso a strapparlo dalla terra. Il ricordo dell’uomo che aveva impedito che un proiettile glielo spaccasse in una tempestosa notte di luglio.

Mosse passi decisi verso l’uomo che gli urlò qualcosa di incomprensibile, agitando il manganello come un bambino che prova il baseball per la prima volta. Seppe a pelle di avere su di lui un vantaggio più schiacciante dell’uso delle braccia o di un’arma. Cacciò un urlo a pieni polmoni, potente abbastanza da farlo sussultare anche con la bocca tappata. Era l’apertura che serviva.

Prese la corsa. Il manganello sibilò sopra la sua testa mentre si lanciava in scivolata; attanagliò le gambe del nemico con una presa salda e gli piegò le ginocchia facendolo crollare di lato. Il suo urlo sfumò in un lamento quando la sua faccia urtò una cassa di legno da spedizioni lasciandovi una striscia di sangue.

Crowley mollò la presa e arrancò per mettersi in piedi senza poter usare le mani, ma il suo avversario non fece altro che mandare un lamento muovendosi appena. Appoggiò la schiena a una scaffalatura d’acciaio da magazzini e sospirò per calmarsi. Quando riaprì gli occhi erano di nuovo umani, con l’assennatezza di un uomo lucido.

Si trovava in un magazzino scarsamente illuminato, pieno di casse di legno, alcune grandi abbastanza da contenere veicoli, molte altre invece più adatte a singole bottiglie di vino o piccoli oggetti. Non c’era traccia di computer, lettori né, in effetti, etichette con codici di spedizione.

La scaffalatura a cui si era appoggiato era in acciaio, uno scaffale per grandi pesi, di tipo industriale. Posizionò le mani sul taglio del metallo e strofinò finché non riuscì a incidere il nastro e liberarsi, e si strappò via il bavaglio.

«Finalmente» bofonchiò, massaggiandosi la mascella.

Si avvicinò all’uomo che aveva atterrato per ultimo e lo tirò su per il bavero solo per sbatterlo contro la cassa. Il suo sguardo era del terrore più profondo che Crowley avesse mai visto negli occhi di un essere umano.

«Dov’è la mia famiglia?»

«Ich weiß nicht!»

«Rispondimi, maledetto, lo so che mi capisci!» ringhiò lui, con uno strattone. «Dov’è la mia famiglia? Sono qui anche loro?»

«La tua famiglia non è qui.»

Crowley saltò in piedi serrando la presa sul manganello, ma l’abbassò quando la figura avanzò fuori dall’ombra gettata da casse impilate.

«Ismael! Dio, grazie…»

In tutti quegli anni non era mai stato tanto felice di vederlo.

«Ismael, sai dove sono? Portami da loro!»

Lui non cambiò espressione, che era molto seria e cupa, ma gli mise la mano sulla spalla. I suoi occhi verdi sembravano riverberare in quella luce fredda.

«Pepper non è prigioniero… e i bambini stanno bene. Sono con Estelle adesso. Sono al sicuro. Mi hai capito?»

«Io… Ferid… Ferid sta bene? Perché non è coi bambini?»

«Perché ti sta cercando, quello stupido… e fermarlo prima che ti trovi non sarà facile. Quando si accende è un maledetto carro armato…»

«Ma… non… ah–»

Crowley sussultò e si toccò il collo, con gli occhi fissi sull’ago della siringa che scintillava tetro. Guardò il volto di pietra di Ismael, si aggrappò alla sua spalla e cercò di parlare, di chiedergli che cosa stesse facendo, ma il sedativo non gli diede abbastanza tempo: crollò a terra in mezzo alle carte da gioco.

Ismael brontolò e intascò la siringa dopo averla tappata.

«Guarda che razza di macello hai combinato, Ginger. Sembrano passati i separatisti ceceni, che diamine.»

Mentre si muoveva a passi lenti per la stanza valutò l’occorrente per ripulire, dai sacchi alla candeggina. Un lavoro di non più di tre orette potendo prendere in prestito un altro paio di mani, ma lui non aveva il lusso di poter usare il tempo con tanta leggerezza: aveva degli affari da curare, comunicazioni da dare e un’altra questione importante che doveva monitorare personalmente.

«E come se non bastasse, devo rallentare la Spada prima che si metta di traverso…» borbottò, con la mano nei capelli e un sorrisetto amaro in faccia. «Maledizione, Pepper… quando mi hai schiacciato la mano nella porta non immaginavo che sarebbe stato il fastidio minore che mi avresti dato.»

Un lamento soffocato accanto a lui lo strappò alle sue riflessioni. L’uomo atterrato da Crowley contro la cassa mugugnava sconnesse richieste d’aiuto, con la mano tremante tesa. Ismael sorrise.

«Ah, scusa, me ne stavo dimenticando.»

Tirò un calcio contro la mandibola ferita dell’uomo e il rumore secco del collo rotto spense il suo mugolio. Ismael guardò con distacco il corpo accasciato scomposto contro la cassa come una marionetta coi fili tagliati. In silenzio si spostò sotto la luce per controllare che la sua scarpa non si fosse sporcata.

 

***

 

Hugo era il bartender che meglio parlava l’inglese e quello che aveva più in simpatia Mika, ma quando lo vide tornare col vassoio carico di cocci, cannucce, spicchi di agrumi e una miscela di ghiaccio e cocktail non l’accolse con calore.

«Ma che hai combinato, Misha?»

«Mi spiace… con quelle luci dello spettacolo di Anais non si vedeva un cazzo, ho sbattuto contro Kiko» si spiegò Mika, buttando le decorazioni nel secchio dell’umido. «Mi sono rovesciato addosso tutto… forse ho uno spicchio di lime della scarpa.»

Hugo brontolò e gli prese il vassoio dalle mani.

«Faccio io, togliti di torno, che abbiamo da fare. Vai a cambiarti.»

Discutere non serviva. Seguì il consiglio poco cortese e andò allo spogliatoio del personale, dove si cambiò camicia e calzini il più in fretta possibile: il locale era strapieno nelle serate del weekend.

Uscì e girò l’angolo, dove sotto lo spazio della caldaia avevano ricavato un piccolo mobile per le attrezzature di pulizia della sala. Si inginocchiò per cercare l’opzione migliore per il disastro che aveva fatto quando sentì una musica classica alle sue spalle.

Katze passò rapido davanti alla nicchia senza notare che era accucciato lì. Si fermò vicino alla porta antincendio in fondo, dove la musica del locale non lo disturbava.

«Sei in ritardo. Spero che tu abbia una spiegazione, e soprattutto buone notizie.»

Mika si stupì che rispondesse al telefono in inglese, ma l’argomento sembrava interessante e tese le orecchie.

«Stai scherzando? Che è… sei? Sei uomini? Da solo?»

Al tocco della mano sulla schiena il cuore di Mika salì alla gola e tornò giù quando incrociò gli occhi verdi di Yuu.

«Mika, tutt—»

Lo trascinò nella nicchia tappandogli la bocca e gli fece cenno con la testa; i suoi occhi si fecero attenti quando capì chi stava ascoltando.

«Deve arrivare in magazzino stanotte. Ci vuole tempo per i controlli… No, non mi interessa! Eusford è in lista per la prossima!»

I loro occhi si incrociarono. Avevano sentito entrambi quel nome e Yuu chiuse gli occhi come se sopportasse un dolore fisico. Mika si aggrappò alla sua spalla in un conforto muto, perché cercava ancora di ascoltare.

«Lo voglio qui per lo scambio. L’iter di sempre, dannazione, c’è ancora bisogno di fare delle domande stupide?»

Mika si aggrappò alla schiena di Yuu stringendolo.

«Baciami» gli sussurrò.

«Eh?»

Gli si incollò alle labbra in un bacio come quelli prima di Bluefields, e lui restò rigido solo un attimo prima di ricambiarlo. Sentì la mano scendere sul gluteo e sulla gamba, e si sorprese che fosse così facile, così naturale lasciarsi coinvolgere da Yuu dopo la loro separazione poco amichevole e i difficili giorni che avevano attraversato in Europa.

«Ma che cazzo– Stephan!»

Yuu si staccò da Mika all’istante e alzò le mani come se Gunter gli stesse puntando un’arma addosso. Non ne aveva, anche se il suo cipiglio era minaccioso.

«Devi proprio scopartelo qui, e adesso? Il locale è pieno!»

«Beh, anch’io» replicò Yuu, asciutto.

«E la tua politica? Niente sesso coi dipendenti? Ed è l’orario di punta!»

Mika non aveva capito quasi nulla di quello scambio in tedesco, ma poi Gunter si rivolse a lui.

«Niente sesso con titoloni, capito? Qui devi rispettare i regoli! Shh, torna a lavoro!»

«Non ti arrabbiare, Gunter, facciamo una cosa a tre se vuoi~»

Per bella risposta Gunter lo strattonò per il braccio e lo trascinò verso la sala con una sfilza di parole in tedesco dal suono poco cortese. Il teatrino aveva destato l’attenzione di Katze, e a Mika non restava che sperare che, come Gunter, credesse che si erano solo appartati in un angolo intimo e che non avessero idea che lui fosse là, al telefono, a parlare di un loro caro amico.

 

***

 

La Elettraride F5 era in assoluto la migliore attrezzatura che Yuu avesse avuto per la sua missione: motocicletta elettrica in vernice nero opaco, era la compagna ideale di pedinamenti notturni perché silenziosa e quasi mimetica in penombra a fari spenti.

In sella al suo destriero che non puzzava di letame Yuu osservava la strada e la piccola piazzetta davanti al pub da una distanza di sicurezza, senza togliersi il casco. La Jaguar di Katze era ferma da un paio di minuti mentre parlava al telefono e sembrava sempre più nervoso.

Yuu aumentò lo zoom del cellulare per seguire meglio le sue mosse, ma era troppo sgranato per consentirgli di leggergli le labbra. Per lo più, Katze ascoltava e dava brevi risposte, e durante i suoi silenzi controllava qualcosa sul suo tablet tamburellando le dita sul bordo.

Un’auto alla fine si avvicinò e Yuu capì che erano i suoi contatti quando chiuse la chiamata. Puntò la videocamera sui nuovi arrivati.

L’uomo che scese non lo conosceva, ed era convinto di conoscere ogni cacciatore di tesori sul libro paga di Katze. Ponderò l’idea di spostarsi davanti al pub, dove sarebbe stato più esposto ma anche abbastanza vicino da leggere le loro labbra, e aveva deciso di farlo quando la discussione si interruppe all’improvviso.

Il guidatore sconosciuto aprì lo sportello mostrandogli qualcosa e Katze annuì. Evidentemente Katze aveva avuto abbastanza conferme dalla sua consegna, perché digitò qualcosa sul tablet e salì in macchina.

Yuu abbassò la visiera oscurata, pronto a seguirli fino al magazzino. Non poteva mollarli né perderli finché non fosse stato sicuro di che cosa o chi fosse la merce. Le auto si infilarono su per una strada a senso unico che risaliva verso una delle vie più trafficate di Berlino, il che gli faceva gioco per passare inosservato. Gli lasciò qualche secondo di vantaggio e poi partì all’inseguimento.

Come supponeva, non si erano infilate in quelle strette stradine e marciavano dritte per la via principale. Quando l’auto chiara, quella del consegnatario, svoltò a sinistra Yuu fece altrettanto; accelerò subito dopo per passarle accanto e sbirciare.

Si trovò davanti un uomo che stava fumando e teneva il finestrino abbassato abbastanza da consentirgli, in quell’attimo del sorpasso, di vedere un uomo con i capelli rossi sul sedile accanto, con la bocca coperta da un pezzo di nastro argentato.

Allertato dal sorpasso silenzioso il fumatore chiuse il finestrino oscurato e Yuu si mise davanti, in attesa di un buon punto in cui svoltare per togliersi dalla loro vista prima di risultare sospetto, per poi riprenderli più avanti: girò infatti in una strada dove c’era una fornita panetteria e vi si fermò di fronte come un cliente notturno qualsiasi.

Non posso crederci… era Crowley? Era veramente Crowley? Com’è finito qui?

Con un nodo allo stomaco guardò varie auto sfilare sulla corsia. Un van, una, due, tre utilitarie, una Mercedes… ma la Jaguar di Katze non c’era.

Ripartì tanto veloce da impennarsi un poco e tornò sulla strada come aveva pianificato. Fu in vista dell’auto chiara dopo pochi minuti e rallentò, ma la Jaguar non era nella fila: o aveva curvato a destra mentre lui fermava alla panetteria o si era diviso dal consegnatario quando aveva accelerato per superarli.

Yuu girò la testa per guardarsi alle spalle.

Forse sta rientrando a casa. È da quella parte… ma se lascio andar via quella macchina non saprò mai dove lo tengono!

L’auto rallentò e fermò a un semaforo. Yuu ne approfittò per richiamare velocemente Mika, ma la chiamata cadde prima di squillare. Il secondo tentativo fece lo stesso. Al terzo udì il messaggio di numero non raggiungibile.

Il ragazzo si morse il labbro, lo sguardo fisso sul lunotto posteriore scuro.

Perdonami

Allo scatto del verde Yuu tagliò la corsia – suscitando un coro di clacson inferociti – e partì di gran carriera nella direzione opposta. Finché Crowley era un articolo in vendita non era in pericolo di vita, ma non poteva dire lo stesso per Mika.

 

***
 

La finestra laterale era meno difficile da aprire di quella della sua rimessa degli attrezzi. Mika riuscì a vincere la resistenza della chiusura in pochi minuti e scivolò dentro l’appartamento, silenzioso come un’ombra.

Era entrato dalla zona notte. C’era un grande letto, troppo grande per pensare che non ne facesse uso diverso dal riposo. A tentoni Mika trovò gli spigoli di un comodino, poi un cavo elettrico, infine l’interruttore della lampada e l’accese.

L’arredamento era piuttosto minimale, ma esprimeva il suo gusto con la precisione di un cecchino: l’unico quadro, torreggiante sopra la testata del letto, raffigurava nudi femminili avvinghiati nella più esplicita raffigurazione pittorica che Mika avesse mai visto.

Aprire i cassetti e l’armadio non fece che scurire i toni già palesi. Oltre a vestiti in ordine di colore Mika rinvenne una grande scatola portaoggetti con ogni genere di giocattolo per soli adulti, e nel comodino tre flaconi di lubrificanti diversi, tutti quasi finiti, e preservativi in buste colorate sparpagliati come coriandoli.

Sembra che sia questo il suo passatempo preferito… ma niente di sadico. Forse Yuu mi voleva spaventare per essere sicuro di tenermi lontano da lui…

Uscì nel corridoio e cercò al tatto un interruttore. Mentre la luce si accendeva qualcosa urtò il suo polso e si inclinò vertiginosamente, ma con uno scatto da puma lo salvò prima che si rovesciasse. Osservò la statuetta di vetro colorato per qualche secondo e si affrettò a riporla, disgustato.

Santo cielo!

Un suo amante del “periodo di transizione”, come lo chiamava lui, ne aveva una quasi identica nella sua bella casa e gli aveva insegnato che si trattava solo dell’ultima moda per nascondere in bella vista giocattoli erotici: surrogati di un membro in vetro che sembrasse un pezzo d’arte. La sola idea che Katze l’avesse adoperata lo portò a strofinarsi le mani sui pantaloni ripetutamente.

Il soggiorno non era immune dallo stile che aleggiava nel reparto notte. Statue di persone avvinghiate in posizioni contorte erano su ogni superficie piana e molti nudi di donna coloravano il fondo bianco delle pareti.

Ha paura che una donna non colga le sue intenzioni appena supera la porta?

A parte il gusto dell’arredamento, l’abitazione di Katze era praticamente asettica: perfettamente in ordine, come se neanche ci vivesse qualcuno, e l’unica traccia di frequentazione che trovò furono asciugamani ancora umidi nel cesto del bagno e biancheria sporca. Doveva aver fatto una doccia prima di uscire.

Se si appoggia qui ci dev’essere qualcosa… non può portarsi via tutto come stesse in albergo!

Il primo controllo che fece lo scelse d’istinto, memore da certe letture di procedura d’indagine di quando era nella polizia. Andò al telefono fisso e cercò di controllare le chiamate in uscita, ma il registro risultò vuoto. Impossibile dire se non chiamasse mai da una linea fissa o se cancellasse sistematicamente le tracce.

Entrambe le opzioni, però, lasciavano Mika perplesso riguardo il taccuino nero accanto all’apparecchio. Aprendolo scoprì che non era una rubrica ma una piccola agenda, accessorio personalizzato di una banca, quasi completamente in bianco. Si era quasi arreso all’evidenza che non la usasse quando si imbatté in un’annotazione.

A 7p BH. 4.

Era un’annotazione tanto priva di senso per Mika che si chiese se non si trattasse di lettere cirilliche, ma anche leggendole così non aveva alcun significato per lui. Tuttavia, estrasse il cellulare per fotografare la pagina del quindici marzo, poi sfogliò oltre. Trovò altre lettere e numeri, anche di sole tre cifre, e si assicurò di immortalarle tutte.

Rinvigorito dalle tracce trovate, anche se ancora misteriose, prese a frugare in qualsiasi angolo della zona giorno: sotto i cuscini del divano e i tappeti, dentro il pannello del caminetto elettrico, controllò persino che il tavolino non serbasse qualche sorpresa come piccoli scompartimenti nascosti. Guardò sotto le basi di ogni statua – badando di riporle al loro posto al millimetro – e setacciò i muri in cerca di un punto vuoto. Purtroppo non ottenne altri risultati incoraggianti e decise con poca convinzione di sbirciare dietro i quadri prima di spostarsi in un’altra stanza.

Dietro il primo non trovò neanche la polvere, dietro il secondo una sottilissima ragnatela. Il terzo, che era rimasto leggermente più nascosto tra gli scaffali di un piccolo angolo bar e una verdeggiante pianta tropicale, Mika non riuscì neanche a toccarlo.

Con il cuore in gola i suoi occhi scorsero sulle pennellate che riempivano di colore e struttura due corpi umani, uno chiaro e uno scuro avvinghiati, e scesero sulla firma nell’angolo destro. Le sue dita si strinsero a mezz’aria, quasi potessero afferrare un velo astratto e gettarlo sull’opera.

Santo cielo… non può essere…

Non si era ancora ripreso dallo shock quando sentì un’auto dal motore potente frenare davanti alla casa. Un brivido di orrore del tutto diverso salì sulla schiena come un ratto allo sbattere dello sportello.

Schizzò fuori dal salotto per raggiungere la camera da letto e saltar fuori dalla finestra, ma un sottile bip annunciò l’apertura della porta. Non poteva raggiungere la camera senza passarvi davanti, così si lanciò sulla destra e poi dentro il bagno di servizio. Saltò dentro la piccola vasca e restò in attesa con il cuore che gli martellava in gola.

La voce di Katze era rabbiosa e parlava in tedesco ad alto volume, forse al telefono. Poi colse una parola che conosceva: Schlafzimmer, la camera da letto. I passi andavano da quella parte.

Saltò in piedi e con fatica fece scorrere la finestrella del bagno, bassa e stretta come quella di un seminterrato per garantire la privacy a una stanza vicina a un marciapiede. Era davvero piccola, ma era la sola opportunità.

Se mi prende qui dentro mi ammazza, e scoprirà anche chi è Stephan per davvero!

Gettò un braccio fuori, poi la testa, ma si trovò quasi intrappolato. Spinse e tirò per far passare le spalle, la parte più larga del suo corpo tutto sommato sottile, ma si sentiva come un topo bloccato nei rovi. A costo di lussarsi una spalla doveva spingersi fuori, atterrare sull’asfalto di quel viottolo e correre via.

«Mika!»

La figura in nero che gli si avvicinò di corsa portava il casco, ma sapeva chi era. Yuu si avvinghiò a lui e prese a muoverlo e tirarlo come una zip inceppata: fu costretto a mordersi le labbra per non imprecare per il dolore o per non mandarlo al diavolo.

«Coraggio… coraggio, devi uscire, prima che ci trovi! Ci sei quasi!»

Mika sentì il suo braccio sinistro scivolare – non senza doloroso attrito – fuori dall’intelaiatura; il resto del corpo lo seguì al pari di una saponetta bagnata. Piombò addosso a Yuu sulla strada.

La luce nel bagnetto si accese. Yuu lo strinse e rotolarono sotto la finestra da cui, un momento dopo, Katze guardò su e giù nel vicoletto. Mika restò immobile, con il fiato sospeso, a fissare Yuu che a sua volta guardava in su verso la luce.

Il pannello scorse con la stessa fatica, poi la luce si spense. Yuu chiuse gli occhi con un sospiro quasi del tutto muto e Mika fece lo stesso, appoggiando la fronte contro il suo petto. Anche il suo cuore batteva a mille.

«Togliamoci di qui» sussurrò allora Yuu. «Prima che a quel pazzo venga l’idea di controllare da fuori.»

Mika si alzò con il suo aiuto – tra la spalla e la gamba non si sentiva più il lato sinistro del corpo utilizzabile – e si allontanarono più veloci che poterono, tenendosi nelle ombre finché non furono certi di essere fuori visuale. Mika zoppicava un po’.

«Meno male che sono tornato indietro… ti avrebbe trovato, e…»

Pur accaldato dall’agitazione Yuu rabbrividì.

«Cos’è successo? Non è andato alla consegna?»

«Sì, ma ha dato solo un’occhiata. Volevo seguirli al magazzino, ma mi sono accorto che Katze tornava indietro… e sono venuto qui. È colpa mia» aggiunse, e sbirciò verso la casa. «Ero convinto che per portarci le sue donne, paranoico com’è, non ci tenesse niente di compromettente… e neanche un allarme. Invece ce l’aveva. Ha ricevuto una notifica all’attivazione ed è tornato a casa.»

«Ma tu l’hai visto? Era… stava parlando di…?»

«Era Crowley. Sì. Ne sono sicuro… ma che cosa ci faccia qui… questo non lo so. Immagino che sia merce, ma non capisco perché…»

«I Figli di Prometeo vendono davvero persone, allora…»

«Oh, sì. Persone rare… persone speciali. Come me. Per questo mio padre cercò di vendermi a uno dei loro mediatori.»

Yuu si accorse che la camminata di Mika era sempre più difficoltosa, così lo mise seduto sul gradino di fronte a un negozio chiuso. Si accovacciò per controllare i danni.

«Ho saputo che hanno rapito persone di ogni tipo, negli anni. Leader di sette che erano scappati sono stati presi e rivenduti, nuovi nati in particolari giorni dell’anno, con allineamenti di pianeti rilevanti per un gruppo o un altro… discendenti di famosi leader, o maghi, o medium. A questa gente interessano le più idiote coincidenze che puoi pensare.»

«Forse è… La sua famiglia non discende da dei templari?»

«Credo che Ferid abbia detto così una volta. Ma, diciamocelo, Ferid non è molto più interessante?»

Forse Yuu scambiò la smorfia di dolore di Mika per disappunto, perché cercò di correggersi precipitosamente.

«Voglio dire, è il mistico di Bluefields, no? A loro piace questa brodaglia di esoterismo e cazzate magiche. I cacciatori di tesori viventi hanno dei dossier su chiunque. Di sicuro sanno che Ferid è una specie di guaritore e che ha avuto delle visioni. Anche se era con un altro nome non è uno che ti puoi confondere, se lo vedi una volta lo riconoscerai sempre.»

«Questo è vero… ma forse… beh, forse è troppo importante per essere toccato. Dopotutto è un visconte.»

«Andare a prendergli il marito non è che sia molto meglio. Se Ferid viene a sapere dei Figli di Prometeo gli sfonderà il rifugio a colpi di bazooka.»

Mika emise una risata stroncata da una fitta di dolore alla gamba.

«Che ne dici se lasciamo fare a lui e ci prendiamo una vacanza? Andiamo a Monaco di Baviera.»

«Non che non vorrei… ma mi sa che dobbiamo cavarcela da soli. Non c’è modo che Ferid venga a saperlo e che sappia dove trovarli… Su, in piedi!»

Tirò Mika in piedi e gli passò il braccio intorno al fianco, per sorreggerlo senza dare nell’occhio tra i nottambuli di Berlino.

«Ho la moto poco più giù. Resisti ancora un pochino.»

«Sto bene… però, sai, credo di aver trovato qualcosa.»

Gli occhi di Yuu mandarono un bagliore. La luce della speranza, senza dubbio.

«Che tipo di cosa?»

«Beh… mi chiedevo… tu… conosci il nome di Katze? Insomma, quello vero.»

«Sai il suo vero nome?»

«Diciamo che… forse potrei saperlo» replicò Mika, tenendosi sul vago. «Hai un telefono da cui posso chiamare Los Angeles?»

A quel punto il seme di gioia infantile di Yuu appassì e le sue sopracciglia scure si aggrottarono.

«Chi vuoi chiamare laggiù?»

«Beh… uhm… forse… i miei viaggi senza meta uno scopo ce l’avevano, dopotutto.»

Non era affatto una risposta esaustiva, ma Mika stesso doveva ancora riprendersi dallo shock. Faticava a vedere una coincidenza nel trovare nell’appartamento di Katze uno dei quadri dipinti dall’uomo che aveva avuto per amante nel periodo della transizione. Soprattutto, uno di quelli per cui aveva posato.

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Capitolo 9
*** Incursione ***


«Ti puoi spiegare più chiaramente?»

«Meglio di no, tanto ti arrabbieresti, ti dovrei calmare, e ti arrabbieresti di nuovo mentre chiamo» abbozzò Mika, sistemandosi i capelli. «Tanto vale che ti arrabbi una volta sola. Meno fatica per tutti.»

Già borbottava in misto tedesco da venti minuti. Mika non aveva abbastanza pazienza per spiegare tutto una volta e poi vederlo drizzarsi come un serpente a sonagli durante una chiamata che prometteva qualche scintilla di troppo su una tanica di benzina scoperta.

«Fai silenzio, ora.»

Mika si sistemò sul divano e avviò la videochiamata tramite il computer di Yuu. Era da qualche parte in cucina, dietro di lui, ma gli sembrò di vederlo borbottare e fissarlo in cagnesco quando si scoprì di proposito la spalla.

Non fu deluso e ricevette risposta. Sullo schermo apparve il viso di uno splendido uomo afroamericano che non sembrava cambiato affatto dall’ultima volta che lo aveva visto, e che l’accolse con quel suo smagliante sorriso bianchissimo.

«Blondie baby!»

Nella sua immaginazione – che stimava poco distante dalla realtà – Yuu sibilava senza suoni a quell’appellativo. E non poteva che peggiorare.

«Ciao, Dyonté, tesoro mio. Mi chiedevo se mi avresti risposto…»

«Scherzi? Alla mia musa risponderei anche durante un intervento chirurgico! Sei sempre più bello, Mika. Dammi il nome del diavolo con cui hai firmato.»

«Ah, adulatore della domenica» sospirò Mika con sottile enfasi. «Come te la passi, Dyonté? Sembri in forma.»

«Me la cavo. Guarda un po’!»

Sullo schermo vide Dyonté allontanarsi dal computer, sbottonarsi la camicia e fare sfoggio dei suoi addominali ancora perfettamente scolpiti. Una parte selvatica del suo spirito, dormiente da qualche tempo, annusò l’aria chiedendosi se non fosse ora di svegliarsi dal letargo.

Ah, Dyonté, perché devi sempre fare così? Metterai Yuu di malumore per settimane…

«Ti sembro in forma? Fammi vedere se lo sei anche tu…»

«Non ti ho mica chiamato per fare camsex, dai.»

«Peccato» fece lui, con un sorrisetto divertito. «E perché hai chiamato dopo tutto questo tempo?»

Era il momento buono. Mika si appoggiò allo schienale, seduto in modo da assicurarsi che nell’inquadratura della webcam entrasse un po’ della lunghezza delle sue gambe.

«Oh, vedi, è successo che—»

«Oh, chi è quello?»

Lanciò un’occhiata corrucciata a Yuu, che aveva invaso lo spazio privato per guardare meglio quel Dyonté di cui non aveva voluto dirgli quasi niente. Dal canto suo, il suo ex amante lo ricambiava con altrettanto interesse e nessuna traccia di gelosia.

«Ah, lui? Nessuno, siamo coinquilini… sai, sto facendo un viaggetto in Europa, e divido un alloggio con questo strambo. Credo abbia qualche handicap sociale, non gli badare.»

«Non ho nessun handicap» sbottò Yuu a mezza voce.

«Fidati, ce l’hai, anche se ora non lo vedi» tagliò corto Mika a voce anche più bassa. «Su, togliti, e zitto.»

Brontolando in tedesco Yuu si allontanò andando in cerca di una tazza di caffè. Mika sorrise come se non fosse accaduto nulla se non il passaggio di un gatto impertinente davanti al monitor.

«Dicevo che ho incontrato un uomo un paio di giorni fa. Ero a casa sua, sai, con un gruppetto di amici comuni, e scopro che ha un tuo quadro!»

«Ma davvero?»

«Oh, davvero! Ha il quadro per cui ho posato, te lo ricordi?»

Al di là del monitor Yuu abbassò la tazza come se qualcosa che aveva detto l’avesse appena insultato.

«Ma certo, il quadro per cui avete posato tu e Damarko… Ah, che bei ricordi che mi hai svegliato! Due settimane incredibili quelle. Io, mio fratello e te da soli tutto il tempo in casa, e tu eri quasi sempre con niente addosso!»

Solo la maschera di bronzo più coprente poteva impedire a Mika di scappare e chiudersi in bagno per la vergogna. Tra tutte le persone del mondo, Yuu era l’ultima a cui avrebbe voluto raccontare quella parentesi dentro la parentesi.

«Dyonté, ti prego… c’è il mio coinquilino.»

Yuu attraversò l’area soggiorno e sparì da qualche parte dietro l’angolo, con l’espressione da poker e gli occhi fissi davanti a sé. Come immaginava, sarebbe stato difficile calmarlo, ma forse c’erano più possibilità con delle informazioni consistenti.

«Scusa, pensavo se ne fosse andato.»

«Ora sì» sospirò Mika. «Come ti dicevo, comunque, quel quadro…»

«A quanto ne so, ce l’ha mio cugino Leroyce. Gliel’ho regalato poco dopo che te ne sei andato. Sei arrabbiato perché non l’ho tenuto?»

«Eh? Ma no… Perché dovrei? Il quadro era tuo. Potevi farne quello che volevi» lo rassicurò, con il battito lievemente in accelerazione. «Leroyce, hai detto? Non mi hai parlato di lui. Dove vive?»

«So che Leroyce vive a Berlino da un bel po’. Ha finito le scuole lì, perché è andato a vivere con mio zio che ci lavorava… sei a Berlino, ora?»

«Non vorrai dirmi che sono finito a casa di tuo cugino, vero, tesoro?»

Iniziava a capire come si era sentito Ferid arrivando a Bluefields e trovandosi braccato dalla vecchia fiamma del liceo e da un parente stretto di un amante. Non era un granché come sensazione.

«Se non ha la pelle nera, no, non è mio cugino» ironizzò Dyonté. «Scherzi a parte, sospetterei proprio di sì. A meno che non si sia venduto il mio quadro. Venere e Marte non vale un granché, forse quattro o cinquemila dollari… Sai, l’ho dipinto un po’ distrattamente.»

Si manteneva calmo, tendeva ancora il sorriso, ma il cuore gli batteva contro le costole. L’indice tremava mentre scorreva le foto sul display.

«Di’ un po’… è questo tuo cugino?»

Non fu facile mettere il cellulare alla distanza giusta perché la webcam mettesse bene a fuoco, ma alla fine Dyonté studiò la fotografia. Le sue sopracciglia erano così curvate da portarlo a credere che fosse tutto sprecato, come i codici sull’agenda: indizi, collegamenti fumosi che bisognava approfondire sperando che avessero un significato.

«Accidenti quanto è dimagrito! L’ultima volta che l’ho visto era almeno quindici chili in più. Ma è insieme al tuo coinquilino?»

«Ah, devo scappare, sono arrivati degli amici del mio coinquilino! Mi ha fatto piacere rivederti, tesoro, davvero. Se al ritorno dal mio viaggio facessi uno scalo a Los Angeles ci vediamo, magari. Ti piacerebbe?»

«Moltissimo» replicò lui immediatamente.

Il sorriso accennato di Mika non fu artificiale. Dopotutto, l’evidenza gli dimostrava che era un amante difficile da dimenticare, e il suo lato più vanitoso non poteva che trarne soddisfazione.

«Mi faccio sentire quando sono di ritorno. Ci vediamo presto.»

«Non vedo l’ora!»

La videochiamata si chiuse con un suono distintivo dell’applicazione e Mika sospirò, chiudendo il pc. Aveva scoperto la vera identità di Katze, ma forse quella conquista l’avrebbe pagata a un prezzo salato.

«Yuu? Ho finito…»

Si alzò dal divano con un altro sospiro, cercando di decidere se affrontare l’argomento Dyonté e Damarko e sbrogliarlo subito o intavolare subito le novità pertinenti il caso. Si bloccò, notando che Yuu era davanti allo specchio dell’ingresso e lo fissava.

«Yuu… senti…»

«Sei proprio un ipocrita, Mika. A me non mi lasciavi girare nudo in casa, ma tu lo fai.»

Mika esitò, finché non notò quell’accenno di sorriso un momento prima che si mettesse in bocca la sigaretta.

«E ti sei persino fatto ritrarre… quasi quasi cambio lavoro.»

«E vuoi fare il pittore?»

«No, il ladro di quadri. E comincerò dall’appartamento di Katze.»

Suo malgrado, Mika rise e scosse la testa.

«Potresti essere serio e pensare a qualcosa di più importante? Per esempio, al fatto che Katze è un cugino di Dyonté Prince, un famoso artista, e di Damarko, un compositore per il cinema?»

«Un bello scivolone da questi due al contadino, non trovi?»

Gli occorsero alcuni secondi per capire che stava parlando di Lucky.

«Quello che intendevo è che forse la rete di contatti di Katze… Leroyce, anzi, potrebbe servirsi anche di questi campi. Forse per qualche contatto è solo un parente di questi importanti figure, ci hai pensato? C’è molto da controllare. Smetti di pensare ai miei amanti e lavoriamo!»

«Lavoriamo. Ma non ho mai smesso di pensare a te con i tuoi amanti, mai.»

Con noncuranza spulciò i foglietti fissati con le calamite sul bordo metallico dello specchio, e ne sfilò un paio.

«Passerò la granata a Frank, ma io ti devo ragguagliare su qualcosa, prima. Indiano, cinese o italiano?»

Mika guardò i volantini del take-away quanto bastava per individuare una lanterna rossa e scelse quello.

«Ordino da mangiare e ti spiego tutto. Ma sai una cosa?» fece lui, mentre rimetteva gli altri menù sotto la calamita. «Quando flirti sembri veramente Ferid.»

Accusò il colpo, ma era deciso a non darlo a vedere.

«Sfotti quanto vuoi, ma c’è un motivo per cui Ferid scopava come un coniglio da giovane!»

Yuu rimase inebetito qualche attimo, con gli occhi fissi sulla sua immagine riflessa, poi scosse gli occhi con la smorfia di uno che aveva addentato un limone.

«Schrecklich

Non aveva la minima idea di che cosa avesse detto, ma il discorso sembrava concluso con quella battuta alla quale non poteva replicare. Però, qualcosa era rimasto inceppato tra i suoi pensieri pratici e le sue sensazioni, e dovette tirarlo fuori via voce.

«Yuu… ci hai almeno provato ad avere una relazione vera, dopo di me?»

Yuu lo guardò con quegli occhi intensi, ma quando parlò di nuovo fu in tedesco, al telefono con il ristorante cinese.

 

***

 

Yuu collegò il portatile alla presa di corrente e sistemò un sacchetto di carta con il logo del ristorante sul pavimento, da parte. Mika era sdraiato sul divano e non sembrava avere molta voglia di alzarsi.

«Avanti, fammi posto, Mika.»

Riluttante come un gatto viziato Mika spostò le gambe sullo schienale per lasciarlo sedere vicino al bracciolo. Gli vedeva gli slip sotto la camicia lunga, e gli ricordava le giornate calde di New Oakheart in cui girava per casa con quelle splendide gambe in bella vista sotto magliette lunghissime.

«Ti vedo tutto.»

«Non dovrebbe essere un problema» replicò lui asciutto. «Credo di aver capito che ti piaccia.»

«Mh. Se ti conosco come penso, sei un po’ arrabbiato. Con me?»

Mika sospirò e si girò sul fianco.

«Con nessuno… è… questa situazione» fece lui, più morbido. «È angosciante. Andavo a letto col cugino di Katze, mi ha rappresentato in un quadro che è nel suo appartamento e… Dio, com’è imbarazzante!»

«Piuttosto, come ha fatto a non riconoscerti, se ti ha appeso in soggiorno da anni?»

«Non mi si vede la faccia in quel quadro…»

Basito, si girò a guardarlo scandalizzato.

«La testa di Damarko mi copre la faccia! Non è mica una roba spinta! Non… e-eccessivamente…»

«Ti prego, Mika, ogni volta che provi a giustificare l’ingiustificabile lo fai sembrare anche peggio. E poi, non mi devi spiegare. Non eri più con me. Potevi fare quello che volevi con chiunque.»

Prese il sacchetto del pranzo, ma non aveva più appetito. Dopo aver ricamato per anni su Lucky e una serie di sconosciuti senza volto e senza colore che potevano aver tenuto le mani su Mika, ora aveva una chiara immagine di almeno uno di loro. Lo aspettava una nottataccia, quantomeno.

«Ti sarà utile, almeno questo? Da quando sono qui ti ho causato più danni che altro» proseguì Mika, con la voce incerta. «Speravo di aver trovato qualcosa di più interessante nell’agenda… se neanche questo nome ti aiuta, allora io… ti ho dato solo fastidio, vero?»

Lo stupiva quell’improvvisa incertezza da bambino, e quella supplica che aveva negli occhi. Non lo vedeva così dagli anni delle scuole medie.

«Invece è molto importante il contenuto dell’agenda, Mika. Sono le date delle aste e delle consegne, ben nascoste. Da prudente qual è, le trascrive nel caso il suo tablet venga rubato o smetta di funzionare. Corrispondono a quello che ho osservato io, quindi per una volta siamo in vantaggio, perché sappiamo qual è la prossima asta.»

«Ma lui è una specie di fornitore… ci andrà all’asta?»

Yuu aveva finito la scorta di buone notizie, e poteva solo fare ipotesi ottimistiche.

«Sappiamo che consegna la merce sul posto. Prima di quella data ci dovrà andare per consegnare Crowley.»

Il viso di Mika si contrasse.

«È raccapricciante… no? Trattare delle persone come animali di contrabbando.»

Lui, che aveva dossier su che cosa fosse successo ad alcune persone che sapeva essere passate per le loro mani, lo trovava anche più raccapricciante visto che vendevano esseri umani disinteressandosi di che cosa ne avrebbero fatto poi gli acquirenti.

Ma vista la missione in programma non voleva peggiorare l’umore di Mika e annuì soltanto.

«Possiamo fare qualcosa per Crowley? Trovare il posto in cui lo fanno, o… dove lo tengono adesso. Dev’essere qui a Berlino, forse più vicino di quanto pensiamo.»

«Sì, probabilmente… ma solo Katze e i suoi collaboratori stretti conoscono i suoi nascondigli. Ne ho scoperti un paio, ma sono depositi temporanei che usa per lo più per permettere ai suoi di cambiare auto, per stiparci gabbie, attrezzature varie…»

«Hai detto che ha un computer» fece Mika. «Un tablet che non lascia mai. Non possiamo prenderglielo? Per esempio, se io lo distraessi per un po’…»

«Ti ho già detto che tu devi stargli lontano. E sarebbe anche inutile… Non l’ho mai visto mollarlo, neanche con una spogliarellista seduta in braccio. Se ti dicessi che cosa gli ho visto fare con la mano sopra quel dannato tablet neanche ci crederesti.»

«Ho quasi voglia di chiedertelo.»

«Fattela passare, non ti rispondo» tagliò corto Yuu, digitando sul pc. «In compenso, la mia rete mi ha fruttato un nome d’oro che tengo da conto da un po’, in attesa del momento migliore di usarlo. Potrebbe essere arrivato.»

Mika quasi gli tirò un calcio per tirare giù le gambe e strisciare più vicino allo schermo. Yuu fece finta di non sentire dove toccasse l’esterno della sua coscia e gli aprì un file dal suo computer; file riservati che Mika non avrebbe neanche dovuto sapere esistessero, figurarsi leggerli.

«Chi è questo tizio?»

«Indrek Kotka. Il Concierge.»

«Tipo quello degli alberghi?»

«Lo chiamano così. I Figli di Prometeo hanno un sistema a compartimenti: i Maestri tirano i fili, i Battitori gestiscono le vendite e hanno i contatti con i Mediatori che autenticano la merce, e loro ne hanno con i Cacciatori di tesori. A loro volta i Cacciatori hanno un sistema piramidale, per cui Katze ha una schiera di gente che fa il lavoro per lui, gente che non ha idea di che fine faccia quello che vendono.»

La serietà dell’espressione di Mika gli diceva che comprendeva la complessità della sua indagine, e questo almeno lo fece sentire un poco meno patetico come agente.

«Organizzandosi così, sono in grado di tagliare via un ramo malato senza che la pianta ne risenta. Se dei Cacciatori vengono presi gli basta tagliare dall’anello superiore a loro e rimpiazzarlo. Per questo è così difficile arrivare in alto, ad avere i nomi che contano davvero…»

«Questo Concierge dove si colloca?»

«Per nostra fortuna, in alto. Quest’uomo è il contatto tra i clienti e i Battitori. È quello che dice ai clienti quando l’asta è pronta, quando e dove, e che cosa c’è nel catalogo. Lui controlla anche il registro, che sembra essere l’unico documento esistente delle transazioni, e la lista dei membri. Sono entrambi documenti segreti, così tanto che non so neanche come sia fatto. Non so se sia digitalizzato o cartaceo, per esempio…»

«Yuu, fantastico! È un gran colpo avere un nome del genere!» commentò Mika, colpito. «Come mai non lo state torchiando, allora?»

«Per paura che faccia sparire il registro, o che i Figli di Prometeo abbiano già pronto un sostituto che prelevi il registro al minimo sospetto che Kotka sia compromesso.»

«Ah… sì. È giusto. Al posto loro anche io avrei un sostituto per un ruolo così rilevante… Al di là della polizia, potrebbe morire per un qualsiasi incidente.»

Yuu annuì.

«Però, vedi, si dà il caso che io abbia un piano che può funzionare, con le giuste circostanze.»

«Vale a dire?»

«Il vecchio Kotka ha un vizietto in particolare. Gli piacciono i maschietti e gli piacciono giovani. Si serve da anni da un’agenzia in cui ho un paio di occhi complici.»

Mika avvicinò le ginocchia al petto per appoggiarci i gomiti, lanciando uno sguardo gelido alla foto di Kotka.

«Tch, si vedeva dalla faccia che era uno viscido.»

«Altroché. Quindi, se un bel ragazzo andasse da lui a lusingarlo a sufficienza, non pensi che riuscirebbe a scucirgli qualche informazione sul registro?»

«Non è un piano… un po’… semplicistico?»

«Alcol e sesso sono sempre un’ottima combinazione per conquistare i segreti di un uomo. C’è qualcosa che un uomo non direbbe, appannato dall’alcol, per fare colpo su qualcuno che vuole portarsi a letto?»

Mika alzò lo sguardo, pensieroso, e con una smorfia scosse la testa.

«No, credo proprio che spiattellerebbe di tutto.»

«Appunto. E dimmi, secondo la tua esperienza da psicologo…»

Prendendo un po’ di coraggio ficcò la mano dentro la busta di carta nascosta dietro il pranzo cinese e ne tirò fuori un groviglio di lacci e piccoli pezzi di stoffa rossa, per mostraglieli meglio che poteva.

«Secondo te uno come quello può resistere a un ragazzo sexy che gli fa le fusa con questo addosso?»

«Dio santo, Yuu, sei proprio caduto in basso! Buona fortuna» commentò con la bocca distorta dal disgusto. «Non posso credere che ti metterai quella cosa… Il rosso non è il tuo colore. Te lo dissi già quando ti scegliesti quel costume da succuba per Halloween.»

«Lo so» fece Yuu, tendendo l’elastico degli slip con gli indici. «Ma a te sta divinamente.»

Ci volle qualche secondo perché a Mika arrivasse il messaggio subliminale, e più l’indignazione gli trasudava in faccia più Yuu allargava il suo ghigno.

«Oh, no, non pensarci neanche!» sbottò, abbarbicandosi sul bracciolo del divano. «Prima provi a stuprarmi e poi mi vuoi usare come prostituta per un vecchio viscido?! No!»

«Ma tu sei molto più sexy di me, Mika. Pittori ti dipingono senza vestiti, amanti ti ricordano dopo anni… Su, sii collaborativo.»

«Sono un padre spirituale! Hai idea di cosa succederebbe alla chiesa se qualcuno venisse a conoscenza di questa storia?!»

«Se non lo fai non troveremo mai Crowley prima dell’asta. Potrebbe anche morire. Non sei venuto per aiutarmi? Non volevamo salvarlo insieme?»

«A-andiamo, lo sai che mi importa di lui, ma… i-io sono anche impegnato, insomma…»

«Non lo saprà nessuno, è una missione segretissima. Entri ed esci, senza che ti veda nessun altro, e lui non avrà tanta voglia di raccontare i suoi sporchi segreti in giro. Su, vuoi provartelo?»

La frustrazione di Mika cresceva, e Yuu lo conosceva abbastanza da sapere che bastava una spintarella: poteva forse dargli il benservito per la sua missione federale, ma non sarebbe mai scappato voltando le spalle a Crowley. Non dopo che lui aveva messo in fuga gli irriducibili dei Figli della Virtù che l’avevano seguito fino a Satbury.

«Sei tu quello sotto copertura! Perché non ci vai tu col vecchio bavoso?!»

Yuu fece spallucce e aprì le foto dei ragazzi preferiti di Kotka, quelli che richiamava su base regolare. Il sopracciglio di Mika si arcuò e prese a vibrare tanto che si aspettava che gli scoppiasse la vena della tempia.

«Perché gli piacciono tutti ragazzi come te. Chiamalo scemo.»

Mika esplose, alla fine, in un ringhio e gli strappò il completo dalle mani.

«Porci nazisti di merda!»

 

***

 

Mika si avvicinò al cancello della villa. La casa era moderatamente di lusso, almeno vista da fuori: spaziosa, su tre piani in mattoni, con un giardino piccolo ma curato e una bella cancellata, non dissimile da altre villette lungo le vie di quel quartiere. Dalla finestra illuminata del secondo piano colse il movimento di una figura, non definita.

I due tipi in giacca di pelle cercavano di dissimulare di essere guardie di sicurezza, ma gli si fecero incontro con un atteggiamento inconfondibile.

«Buonasera» fece loro, col suo miglior sorriso. «Sono qui per vedere il professore.»

L’uomo più alto fece un cenno al collega e gli aprirono il cancello. L’altro gli indicò il portone, senza una parola, quindi dedusse che fosse l’iter normale. Andò al portone e bussò con un pesante battente a forma di aquila.

Passi frettolosi precedettero l’apertura della porta e apparve la figura che aveva visto nelle foto del nutrito dossier di Yuu: un sessantenne magro e un po’ ingobbito, con occhialini ovali, piccoli occhi scuri e lascivi e un sorriso untuoso che bastava a fargli venire voglia di sbattergli la porta in faccia.

Quello, almeno, scomparve subito non appena lo guardò bene.

«Ma tu non sei Itkar.»

«Itkar è indisposto, il suo herpes non è guarito… Io sono Misha. Non vedevo l’ora di conoscerla, professore.»

L’uomo sembrava restio e Mika iniziò a preoccuparsi: il piano dipendeva tutto dalla fase uno, che sarebbe terminata solo una volta entrato, e il “professor” Kotka non era incline a lasciarglielo fare.

«Dacci dentro, Mika, dai il tuo peggio.»

La voce di Yuu nell’orecchio era molesta quanto una zanzara mentre si dorme, ma senza quello che il professore nascondeva non avevano possibilità di tirar fuori Crowley da quel pozzo e ribaltare uno stallo che durava da anni. Doveva seguire il piano.

Kotka fece per ritrarsi nell’ingresso. Mika afferrò l’orlo della vestaglia per trattenerlo e i due scagnozzi si avvicinarono subito, mano alle fondine che nascondevano con poco successo sotto le giacche. Tutti e quattro si fermarono come in un gioco di bambini alla fine del conteggio.

«Cosa c’è che non va in me? Non sono bello abbastanza? Io… ci tenevo davvero a venire da lei, stasera. Itkar ha detto che le sarei piaciuto…»

Mika lasciò la vestaglia e i due guardiani si rilassarono. Kotka invece lo studiò da capo a piedi, con un sorriso storto viscido quanto lo sguardo. La delusione dell’assenza del suo prediletto aveva avuto vita breve.

«Come hai detto che ti chiami?»

«Misha, professore. Le assicuro che farò qualsiasi cosa avesse in programma con Itkar… e qualsiasi altra cosa le piaccia.»

«Se ti chiude la porta in faccia posso venire a caricarti io?»

Mika si morse il labbro per non lasciarsi scappare il commentaccio che aveva in testa, e fu un gesto provvidenziale: quando lo vide Kotka cambiò espressione e si spostò, facendogli segno di entrare.

«Staremo bene. Ci vediamo domattina.»

Il professore allungò una buona mancia in contanti ai due uomini e li chiuse fuori, dando tre giri di chiave alla porta prima di intascarla. Quel gesto a Mika sembrò un presagio e si convinse che a quel tizio piacesse fare qualcosa di strano con i ragazzi che chiamava in casa.

«Sei dentro?»

Mika sorrise e si guardò intorno. Intravide belle stanze, arredate con molti oggetti, ma come l’esterno non eccessivamente lussuose.

«Siamo soli?»

«Tranquillo… nessuno ci disturberà.»

«Magnifico. Questa casa è splendida, professore.»

Mika percorse il corridoio, con il Concierge che lo seguiva a una certa distanza.

«Non mi hanno mai detto di te… È strano, visto che sei esattamente il tipo che cerco.»

«Solo perché sono nuovo… sono in Germania da due settimane. Ho un lavoro anche in un night della zona, non ci va mai? Il martedì e la domenica sera balliamo anche noi maschietti~»

«Cazzo, Mika, sembra di sentir parlare Ferid» commentò Yuu. «E credimi, sono molto a disagio ora, perché sono spaventato ed eccitato.»

Mika sollevò gli occhi al cielo, appuntandosi mentalmente di prendere a schiaffi quell’idiota appena messo piede fuori. Ne meritava tre per i suoi commenti all’auricolare e almeno altrettanti per il modo in cui lo aveva costretto a vestirsi.

Kotka era dietro di lui. La sua mano scorse lungo la schiena e inspirò col naso vicino al suo collo, come se saggiasse una nuova fragranza. Si scostò mosso dall’orrore, e Mika capì dall’occhiata contrariata di Kotka che era il tipo di uomo a cui non piaceva rincorrere pecorelle sfuggenti.

«Mi ha fatto paura, professore! Può fare quello che le pare, non c’è bisogno di correre né di prendermi alla sprovvista…»

Sopportò a malapena le sue mani che strisciavano dappertutto e trattenne una smorfia di disgusto quando tornò ad annusarlo come un cane da caccia. Doveva inventarsi qualcosa se voleva perlustrare la casa o farsi dare qualche informazione prima che fosse troppo eccitato per trattenersi.

«Lo sa» fece non appena rallentò il suo approccio, «ho un amico che adorerebbe una casa come la sua… e un uomo come lei. Ospita mai più di uno per volta? Lo potrei chiamare anche subito se le va…»

«Oh, no, non pensarci nemmeno» sibilò Yuu, decisamente meno divertito di prima. «Non me lo scopo il vecchio, neanche insieme a te!»

«Tu mi sembri più che sufficiente per quello che ho in mente» declinò Kotka. «Ho comprato una cosa per Itkar… ma penso stia bene anche a te. Perché non vai su e te lo provi? Nella camera in cima alla scala a chiocciola. Io preparo qualcosa da bere.»

Non appena gli voltò le spalle Mika schizzò su per la scala a chiocciola. L’ultimo piano era più una mansarda che un livello effettivo e ospitava una camera con un ampio letto con le coperte di raso bianco e troppi specchi perché la reputasse una scelta casuale. Sulla coperta spiccava un completo – sebbene ai suoi occhi sembrasse tutto fuorché completo – color oro pallido, non molto differente dai costumi dei ragazzi del pole dancing al club.

«Mio Dio.»

«Ti prego, voglio sapere cos’è.»

«Non è una hot line. Falla finita, che sei già in debito di cazzotti da far paura.»

«Qualsiasi cosa sia dovresti metterla» osservò con noncuranza finta come gli alberi di Natale ad aghi rosa. «Devi tenerti buono il vecchio. Spero tu sia depilato.»

«Quando esco non farti trovare, Yuu, perché ti ammazzo.»

Comunque aveva ragione, quindi si tolse tutti gli abiti e li mise su una poltroncina in un angolo per rivestirsi – un’iperbole definire vestiti quegli straccetti – con il completino dorato. Benché spinto al di là di qualsiasi cosa avesse indossato anche nel suo periodo di scelleratezze tra Miami e Los Angeles e più succinto dell’outfit rosso che si era appena tolto, doveva ammettere che quel colore gli stava bene. Impossibile non guardarsi, con tutti quegli specchi.

Scese la scala alla ricerca dell’uomo e prima di vederlo lo sentì armeggiare con dei bicchieri.

«Ah, che peccato che non ci sia nessun altro a vedermi!»

«…È una provocazione?» bofonchiò Yuu; stava mangiando qualcosa.

«Mi sta proprio bene, non pensavo.»

«In che stanza sei? Avvicinati a una finestra, ti prego, muoio di curiosità!»

Mika ridacchiò, ben deciso a tenersi lontano dalle finestre. Non che ce ne fosse bisogno, perché in vista della sua serata di svago Kotka sembrava aver accostato tutte le tende. Quando entrò nella stanza gli si avvicinò consegnandogli un calice di bollicine e passò la mano sull’addome scoperto.

«Sei incantevole, Misha. Conosciamoci un po’, che ne dici? Quanti anni hai?»

«Spara basso» suggerì subito Yuu.

«Diciassette.»

«Troppo basso!» sibilò l’auricolare.

«Soltanto diciassette?»

«Di spirito» la buttò sull’ironia Mika. «Ne ho ventidue… Ho preso un anno sabbatico dal college.»

«Mhh, interessante svolta per uno studente… E cosa studiavi?»

Mika bevve quello champagne solo per cercare di ignorare quelle dita che gli accarezzavano la gamba e il gluteo. Come se fosse stato spillato dalla fonte della Divina Provvidenza ebbe un’illuminazione istantanea e decise di seguirla.

«Archeologia, ma mi sono fermato per riflettere… Pensavo a una specializzazione in documenti antichi, da quando mi è capitato di vedere dei compagni di corso al restauro di alcuni libri di miniature medievali.»

Un lampo diverso dalla lussuria passò nello sguardo dell’uomo.

«Allora andiamo alla biblioteca, di sopra» l’invitò, spingendolo verso la scala. «Ho qualche cosa di prezioso nella mia collezione. Se farai il bravo con il professore ti farò una lezione speciale…»

«Davvero vuoi mostrarmelo?»

«Sì, se tu mostri a me qualcosa che mi piace» asserì Kotka. «La porta accanto al busto di Apollo. Arrivo in un lampo.»

Mika si limitò a sorridergli e salì le scale abbastanza lentamente da permettere al professore di guardarlo con comodo finché non arrivò al pianerottolo.

«Gran bella pensata, Mika! Se vedi la lista saltagli addosso, e quando si addormenta schizzi via di lì e io ti recupero.»

«Metti un muso lungo da qui a gennaio per un uomo che mi facevo sette anni fa. Vuoi veramente startene seduto in macchina a sentire un pervertito bavoso che prende quello che vorresti tu?»

«Scusa, scusa. Hai ragione, non mi va.»

Trovò il busto in pietra bianca ed entrò in una stanza cupa con mobilio color mogano e drappeggi pesanti alla finestra, per proteggere i libri e gli oggetti dal sole diretto. Assomigliava allo studio di Ferid nella sua tenuta di Crawley, che aveva visto in qualche sua foto, ma in scala più modesta.

«Hai visto qualcosa che ti piace?» chiese Kotka entrando, con il secchiello di ghiaccio e la bottiglia di champagne. «Perché io vedo molto che mi piacerebbe approfondire…»

«Qual è la cosa più antica che ha? Posso vederla?»

«Credo sia lui la cosa più vecchia lì dentro» commentò Yuu dall’altra parte.

«Vorrei proprio» fece allora Mika con una calcolata enfasi, «che smettessero le voci che la prendono in giro, professore. Sono sicuro che c’è qualcosa di raro e che non cerca solo di mostrarsi erudito.»

«Sto zitto» sussurrò Yuu.

«Dicono davvero questo?»

Kotka sembrava indignato. Posò il bicchiere e il secchiello senza badarvi e spostò un quadro – si aprì come una porticina – su una cassaforte grande come un frigorifero. Non si curò neanche di evitare che vedesse la combinazione.

Dopo questo forse mi chiude nella cassaforte… o mi uccide e mi seppellisce in quel francobollo d’erba là davanti.

Là dentro non teneva contanti, ma solo piccole scatole – sembravano per piccoli gioielli od orologi – e un libro, forse antico. Confusa con lo sfondo notò la teca solo quando la mosse e la girò, rivelando un libriccino di pagine antiche.

Mika si avvicinò per vederla meglio, ma il professore la mise fuori portata, accanto a una lampada dal vistoso paralume dipinto, e sorrise beffardo. Andò a versarsi dello champagne e sprofondò nella poltrona.

«Che mi dai in cambio?»

Soppesò le sue opzioni in pochi secondi e decise. Con un gesto naturale finse di spostarsi i capelli e staccò la voce della coscienza che aveva nell’orecchio. Ora che era effettivamente solo con il suo bersaglio si sentiva più libero di agire con la consapevolezza che, come a Miami o a Los Angeles, sarebbe stato il solo a sapere.

Sedette in braccio a Kotka assicurandosi di toccarlo con più pelle possibile. Bastava guardarlo in quegli occhietti bramosi per sapere che funzionava. Gli prese il bicchiere dalle mani e lo buttò giù in un sorso: quel senso di distacco alcolico gli serviva.

«Le darò tutto quello che mi chiede, professore. C’è tutto il tempo… ma dopo l’alcol non riuscirà a spiegarmi niente!»

Il professore si crogiolava nelle sue fantasie con un ghigno. Gli riempì il bicchiere e gli mostrò finalmente la teca.

«Questo registro risale al 1466. Fu firmato a Strasburgo, all’epoca parte del Sacro Romano Impero…»

Gli illustrò dettagli sulla pergamena e l’inchiostro, ma Mika era concentrato sulle firme. Erano un po’ difficili da decifrare con quel corsivo, ma gli parve di distinguere Taminsk, Salinger, Gray, Parmentier, Bartolomei.

«È una specie di atto notarile?» l’interruppe Mika.

«È molto di più. Un atto costitutivo. Un contratto di fondazione. Il documento contiene le firme dei fondatori di una società segreta» gli sussurrò. «Un gruppo di persone che giurarono di servire il bene superiore, di fornire il supporto necessario alla ricerca della verità oltre il visibile…»

Parlargli all’orecchio di una società segreta o dirgli che cosa avrebbe voluto fargli dopo per Kotka era lo stesso, e quella sua mano non smetteva di accarezzarlo e palpeggiarlo. Ignorarlo stava diventando difficile, così si alzò per sfuggirgli.

Al professore non piacque, ma Mika aveva gli occhi fissi sul libro dentro la cassaforte.

«È un libro antico, quello?»

«Ti stai prendendo troppe libertà, Misha.»

«Meglio così» fece, con un sorriso malizioso. «Come farebbe a punirmi se mi comportassi bene?»

«Ohh… sei proprio particolare, tu. Itkar è un bravo cagnolino, ma tu sei indisciplinato come un gatto selvatico.»

«Addomesticami, se ti riesce.»

Non appena lo ebbe tra le mani capì che non si trattava di un vero libro. Era un diario in bianco, con pagine di spessa carta pergamena, ed era compilato nella prima parte con caratteri simili alle rune. Sfogliando in avanti le rune diventavano simboli con stelle, sole e lune. Per oltre metà delle pagine scritte si ripetevano lettere apparentemente senza senso.

Custodiscono i loro registri su cartaceo perché non può essere attaccato dagli hacker, e li scrivono in codice… probabilmente ogni Concierge aveva il suo modo di codificare i nomi e le transazioni. Ci vorrà tempo per cavarne qualcosa…

«Non riesci a leggerlo, vero?»

Improvvisamente si ricordò che il professore era ancora lì.

«No… come si fa a leggerlo? Non è un libro, vero?»

Gli fece cenno di avvicinarsi e gli indicò il tappeto. A Mika sarebbe servito un bel po’ di moonshine per lavar via quella situazione disgustosa dalla memoria e si sforzò al massimo per sorridere mentre si inginocchiava.

«Dai, dimmi cos’è! È uno di quei manuali di codici che scrivevano durante la guerra?»

«Diciamo che se sei più bravo di Itkar ti dirò come si legge. Il sistema di ricompensa è quello migliore per addomesticare i cani.»

«Sono d’accordo.»

Con una spinta scattò in piedi e gli tirò una testata contro il naso, facendogli volar via gli occhialini ovali; lo buttò per terra sul tappeto e gli bloccò il collo con il braccio.

«Diciamo che se mi dici cos’è e come si legge ti lascio vivo?»

«N-non… tu… Itkar…»

Serrò di più il braccio, puntandogli il ginocchio sulla schiena.

«Se non perdi tempo ti lascio anche le dita sane» gli mormorò all’orecchio. «E credimi, dopo che me le hai passate dappertutto ho molta voglia di rompertele una per una.»

«È… una lista… s-solo… una lista!» balbettò Kotka. «Un… r-registro vendite… T-tutto qui… Il mio lavoro…!»

«Come si legge? Che codice usi per scriverlo?»

«P-Playfair… T-ti insegno… Feuer des Prometheus…»

Mika strinse la presa su un punto del collo per qualche secondo, finché non sentì il professore afflosciarsi. Lo mollò immediatamente e controllò il polso: si era fermato al momento giusto per metterlo fuori gioco senza ucciderlo.

Sbuffando si rimise in piedi e riaccese la trasmittente.

«Yuu, mi senti? Ce l’ho. Dammi qualche minuto per copiarlo.»

Un tonfo al piano terra anticipò la risposta.

«Avrei preferito che me lo dicessi prima che facessi irruzione!»

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Capitolo 10
*** Significato ***


 

Ferid lasciò andare un sospiro mentre si immergeva nel suo bagno caldissimo. Dopo una giornata dura, un lungo viaggio e un altro giorno decisamente pesante ne aveva bisogno. In verità, non riuscì a ricordare a quando risalisse il suo ultimo bagno ai sali.

Forse Eden aveva quattro anni ed era il compleanno di Crowley…

Sospirò di nuovo, si sciacquò il viso e si bagnò i capelli. A occhi chiusi si massaggiò la spalla per sciogliere quella fastidiosa contrattura che gli veniva ogni tanto quando portava i bambini a letto e che suo marito era così bravo a fargli passare.

Il tempo di riaprire gli occhi e davanti all’arma – agilmente estratta dalle pieghe del telo da bagno – vide Ismael alzare le mani.

«Ehi, ehi! Non spararmi, Pepper, che ti dice il cervello?»

«Dipende da quello che mi dirai tu. Dov’è mio marito?»

«Mettila via, mi mettono ansia le armi in mano a chi non sa usarle…»

Ferid appoggiò la schiena al bordo della vasca senza abbassare l’arma di un millimetro. Aveva una mano incredibilmente ferma.

«Hai avuto una settimana. Non mi hai chiamato, quindi non avevi bisogno di me, giusto? Me l’hai riportato o no?»

«Sette giorni! Mi hai preso per l’unità Missione Impossibile?»

«Non ho voglia di scherzare, Ismael. Questa volta non ti infilerai nella mia vasca da bagno, e neanche nel mio letto. Voglio sapere dov’è mio marito e perché Mika dice che è a Berlino, come lo sostieni tu.»

Il sorriso di Ismael cedette per poi tendersi ancora. Ignorò del tutto l’arma avanzando verso di lui con le mani abbassate, come se il gioco gli fosse venuto a noia.

«E quando Angel Face ti avrebbe detto questo?»

«Se me lo chiedi vuol dire che non lavorate insieme, quindi non ho ragione di darti dettagli. Ora dimmi che cosa sai di Crowley.»

Ismael si inginocchiò davanti alla vasca, con la canna appoggiata sulla fronte. Qualcosa in tutta quella situazione grottesca lo divertiva, ma Ferid non condivideva il sentimento.

«Rispondimi.»

Lui afferrò la mano con cui teneva la pistola e la spostò, puntandosi la canna sotto il mento.

«Se mi spari in fronte da così vicino ti brucerai anche tu, Pepper! Tienila qui sotto, canna in asse col mio naso, e sarai sempre sicuro di farmi scoppiare il cervello con un colpo solo!»

«Ora basta con le stronzate, Ismael. Perché mio marito è finito a Berlino? Come mai Mika sa dove si trova, ma non mi dice come lo sa? E tu, tu come sai chi ce l’ha?»

«Due di queste domande non hanno alcuna importanza. Il punto è che, Pepper, ancora una volta Dio ha scelto te per portare a termine un compito impossibile: far tramontare un impero che esiste dal 1466…»

Con uno scatto che aveva dell’azzardato coinvolgendo un’arma da fuoco carica, abbassò il braccio di Ferid puntandosi la canna verso le gambe con stizza, senza più nascondere che non aveva più voglia di giocare.

«A riprova di questo, ti ha dato l’unica cosa che neanche un agente dell’FBI o dell’MI6 ha… Una cosa che ti permette di attaccare quell’impero dall’interno con il massimo della distruttività.»

Ismael gli strinse le dita intorno all’impugnatura dell’arma mentre lo guardava negli occhi da vicino, troppo vicino. Ferid non oppose resistenza e non cercò di rientrare in controllo esclusivo della Smith & Wesson, ma quasi non respirava tanto era teso.

«Ma devi volerlo. Puoi farlo solo tu e non possiamo decidere per te. Sei disposto a distruggere una rete che ha catturato migliaia, forse decine di migliaia di persone ignare e innocenti come tuo marito per il fine di denaro e prestigio? Sei disposto a mentire, fingere, manipolare e uccidere, per spazzarla via?»

Di altre migliaia o decine di migliaia di persone non gli importava nulla. Non gli interessava quanto grande o potente fosse il suo nemico: avevano Crowley. Erano la ragione per cui la sua famiglia si era divisa per la prima volta dopo sette anni. Gli avrebbe dato la caccia fino all’inferno se fosse stato necessario.

Districò l’arma dalle dita sensuali di Ismael, inserì la sicura e la posò vicino al suo cellulare e allo scudo di San Michele ammaccato quasi dieci anni prima. Uscì dalla vasca da bagno ignorando il basso fischio di apprezzamento e si avvolse nel telo.

«Non ne resterà che cenere, te lo assicuro. Adesso dimmi dove si nascondono.»

 

***

 

In cucina Yuu si rialzò dopo l’entrata meno elegante che avesse mai fatto. Con il ginocchio dolorante zoppicò fino alla scala a chiocciola e la salì, sentendo passi frettolosi da qualche parte sopra la sua testa.

«Mika! Dove sei?»

Raggiunse la sommità della scala irrompendo nella camera da letto con gli specchi, e vedere Mika con quel metro quadrato scarso di stoffa acrilica dorata tenuta insieme da qualche laccio fu esilarante e scioccante insieme. Scoppiò a ridere.

«Oh, cazzo, Mika! Valeva la pena di rompersi un ginocchio per vederlo!»

«Ti ho detto che ce l’ho! Eravamo d’accordo di fotografarlo e lasciarlo qui, no?»

«Non il registro, parlavo del… qualsiasi cosa sia quello che hai addosso.»

Stizzito, Mika prese i pantaloni che si era dovuto togliere all’arrivo e ci ficcò dentro un piede.

«Perché diavolo sei qui?!»

«Non sentivo più niente, credevo avesse trovato l’auricolare… Dov’è quel vecchio, a proposito?»

«Di sotto, l’ho steso» replicò asciutto, abbottonandosi la patta.

«No, dai, perché tanta fretta? Se è svenuto approfittiamone! Faremo presto, lo giuro…»

«Non ho dubbi che faresti presto. Quando mai non è stato così?»

«Oh, eddai. Non è che perché abbiamo rotto devi per forza far finta che non ti sia mai piaciuto…»

«Non ci arrivi, vero?»

Si era rivestito del tutto, tranne le scarpe che aveva in mano.

«Non mi scoperai più, Yuu. Non succederà mai più. E se ci provi di nuovo, sobrio o no, ti stendo come quel vecchio bavoso.»

Yuu rise mentre Mika gli passava davanti per scendere frettolosamente la scala. Trovava ancora divertente punzecchiarlo quando scopriva un bersaglio rosso, un punto di fragilità.

«Vedo che non te lo sei tolto, però. Vuoi tenerlo? Lo usiamo a casa?»

«Sbrigati e vieni giù, idiota!»

Ridendo scese la scala solo per scoprire che Mika era al primo piano. Risalì l’altra rampa e lo trovò in quella specie di biblioteca, a fotografare le pagine del registro con il cellulare.

«Ma com’è fatta questa casa?»

«Quella scala a chiocciola porta solo nella camera da letto in mansarda. Ha pensato bene come recintare i suoi cagnolini, quel pervertito.»

Yuu si chinò per controllare il professore, che poteva sembrare stecchito se non per il filo di fiato che emetteva regolarmente. Mentre aspettava che Mika finisse di fotografare guardò cosa teneva nella cassaforte e scoprì che la custodia da orologio conteneva polaroid.

«Per la miseria, è veramente un porco. Uno normale a cui piace il sesso non tiene le polaroid dei suoi amanti in cassaforte.»

«Prendi spunto. Almeno così te li ricordi anche se sei ubriaco» commentò Mika caustico.

«Sarà sempre così fra di noi?»

«Così come?»

«Una gara di sarcasmo e colpi bassi senza ring e senza arbitro?»

«Sì, finché continui a fare lo stronzo. Solo perché ti ho tradito sette anni fa mi tratti come se fossi stato con tutto il mondo, e se questo è quello che fai dopo avermi perdonato figurati! Mi avresti ammazzato se non mi avessi perdonato?»

Yuu sospirò, pentito di aver tirato in ballo quella discussione.

Lui stesso oscillava da momenti in cui il suo massimo piacere era pungolarlo sui suoi punti deboli ad altri in cui non voleva che buttarsi in ginocchio, chiedere perdono e ricominciare tutto da prima di Bluefields. Farlo arrabbiare aumentava il suo senso di disgusto per se stesso e la voglia di tornare a tempi più felici, ma quel desiderio inaspriva il suo rancore, in un’oscillazione continua che non riusciva a bloccare.

Frenate brusche in strada lo strapparono alle sue riflessioni. Lasciò la biblioteca e si portò a una finestra frontale; sbirciò fuori scostando le tende. Diverse auto, tutte nere, si erano fermate davanti al cancello e dall’altro lato della strada e ne scendevano uomini in abiti scuri.

Tornò alla biblioteca, arma in pugno.

«Mika, quanto ti manca?»

«Qualche pagina ancora.»

«Sbrigati, abbiamo visite.»

Mika gli lanciò un’occhiata spaventata, ma non fece domande e continuò a fotografare le pagine del registro in un susseguirsi di suoni di otturatore. Dal piano di sotto colpi sulla porta: cercavano di farsi aprire dal professore.

«Forse un allarme della cassaforte» borbottò, fra sé e sé. «L’hai aperta tu?»

«Scherzi? L’ha fatto lui, non l’hai sentito? Per vantarsi delle sue anticaglie con me.»

«Avresti dovuto chiuderla subito. Ci sono allarmi che scattano presso agenzie di sicurezza private se una cassaforte resta aperta più di qualche minuto e non sono in grado di contattare il proprietario.»

«L’ha lasciata lui aperta, che ne so io?!»

La porta d’ingresso saltò nello stesso momento in cui Mika chiuse il registro.

«Fatto!»

«Corri, andiamo!»

Yuu gli prese il braccio per trascinarlo via, senza avere idea di come potesse portarlo fuori da quella casa senza rischi. Non l’aveva mai vista, non sapeva se avesse un altro accesso, né sapeva se quei bietoloni in nero sarebbero entrati a fiume dalla porta sparpagliandosi come una squadra SWAT o se avrebbero circondato la casa.

Forse una resa sarebbe stata più sicura, ma anche se avesse cercato di prendersi la colpa del furto restava il fatto che aveva Itkar addormentato sotto un albero e un vecchio svenuto che appena ripresosi avrebbe indicato Mika come aggressore.

Deciso il piano – e la prima cosa che aveva appreso a Quantico era la necessità di decisioni immediate in quei frangenti – trascinò Mika di sopra fino alla camera con gli specchi e cominciò a tirar via le lenzuola dal letto.

«Che diavolo fai?»

«Controlla se ce ne sono altre lì, sbrigati!»

Gli uomini al piano di sotto scalpicciavano e si urlavano ordini. Dalle voci e dai passi ne identificò sette: abbastanza per non poter sperare che si portassero tutti a tiro sulla scala.

Strappò e annodò le lenzuola bianche e quelle che blu che Mika trovò nella cassettiera, in un cliché dei più banali: la fune di lenzuola con cui scappare dalla finestra.

«Funzionerà?»

«Non lo so, ma qui sopra siamo topi in trappola.»

La strana conformazione della casa aveva dato loro un vantaggio: le guardie di sicurezza non erano salite per la chiocciola che dava loro poca visibilità, ma non si erano accorti di aver saltato una camera. Quasi osò sperare che bastasse stare nascosti, ma durò poco.

«E quella? Dove porta quella scala?»

«C’è un piano mansardato!»

«Controllatelo!»

«Era troppo bello per essere vero» sospirò Mika, rubandogli le parole di bocca.

«Maledizione» rincarò allora lui.

Lanciò la corda dalla finestra dalla bizzarra forma triangolare. Non vennero urli da sotto, e la striscia di terreno era così sottile che non sarebbero riusciti a circondarli, dando loro il vantaggio di poter sparare a bersagli in fila.

«Andiamo!»

Yuu scese per primo poiché era armato, e scivolò fino a metà della fune. Serrò la mano sul raso per frenarsi, prese la mira e sparò contro la guardia appena sbucata dall’angolo.

Dall’alto Mika gli rovinò addosso e si ritrovò con la testa tra le sue gambe, con il piede avviluppato in modo tale da non riuscire a scendere. Oltre che imbarazzante era anche il momento meno opportuno per bloccarsi.

«Perché ti sei fermato?!»

«Stavo… dovevo sparare!»

«Non puoi farlo mentre scendi? Diavolo, persino io lo so fare! Sei davvero un federale?!»

Uno strappo interruppe la discussione: la stoffa cedette e piombarono giù per gli ultimi tre metri dritti sull’erba. Yuu si rigirò e rimise in piedi quasi all’istante, l’arma puntata sull’angolo.

«Mika, alzati. Sei intero?»

«S-sì… Raso pessimo, non ha stile questo Kotka. Mi fa pena quel poveretto di Itkar.»

«Assomigliavi così tanto a Ferid anche prima che andassi a Bluefields?»

Mika gli prese la mano per rialzarsi e corsero al cancello. Yuu gli fece da piolo per scavalcare l’alta recinzione di ferro nero, poi intascò l’arma per poter usare le mani e raggiungerlo, in salvo al di là delle sbarre.

Aveva già un piede dall’altro lato quando sentì un grido d’allarme e uno sparo. Si buttò impattando il marciapiede, ma non venne nessun altro colpo in cerca della sua testa. Alzando gli occhi trovò Mika con un’arma in mano – il piccolo revolver di cui si era appropriato in casa sua – e un altro uomo a terra nel cortile, in preda ai lamenti.

«Bel colpo» si congratulò. «Ora via, via!»

Spiccarono la corsa verso il quartiere più nottambulo – a qualche chilometro da lì, tuttavia – ma un nuovo colpo d’arma da fuoco li bloccò mandando in frantumi un finestrino: una delle guardie con lo stemma in bella vista sul braccio aveva fatto il giro per tagliargli la strada se avessero preso proprio quella via di fuga inusuale.

Yuu spinse Mika dietro una delle auto quando esplose un secondo colpo. Cadde a terra pesantemente e strisciò vicino a lui. Era spaventato, glielo si leggeva negli occhi chiaro come i titoloni di un quotidiano.

«Ci sparano addosso» sibilò. «Perché ci sparano addosso? È normale per la polizia tedesca sparare sui ladri?»

«Non è la polizia tedesca. Questa è la guardia di sicurezza dei Figli di Prometeo» fece, picchiettandosi il braccio. «Le agenzie collegate a loro hanno sempre l’acronimo KDP o FDP. L’ho visto sullo stemma proprio adesso.»

Altri due colpi frantumarono i finestrini e una pioggia di frammenti cadde loro addosso. Erano scoperti e altri agenti li avrebbero circondati appena riusciti a uscire dalla villa per raggiungere il collega. La situazione non era affatto buona.

«Ascoltami bene, Mika. Hai le foto. Hai le informazioni. Devi andare da Guren. Mettigli in mano tutto quello che abbiamo, e la squadra troverà il modo. Se lì dentro c’è scritto che hanno venduto anche solo un essere umano loro o l’Interpol si muoveranno.»

«Non mi piace questo discorso!»

La guardia gli urlava di venire fuori con le mani in vista, ma Yuu lo ignorò. Sapeva che non osava girare intorno all’auto per non scoprirsi finché era da solo, anche se quel vantaggio non sarebbe durato molto.

«Li costringerò a ripararsi svuotandogli il caricatore addosso. Sarà il fuoco di copertura. Tu sei veloce, quindi quando sparo il primo colpo tu riparati dietro quell’angolo e corri più veloce che puoi, allontanati il più possibile e non ti voltare!»

Controllò i colpi anche se sapeva esattamente quanti fossero: abbastanza per abbattere tutti i primi temerari, non sufficienti per fare uscire la retrovia allo scoperto. Stranamente l’alta probabilità di morire in quel conflitto a fuoco non lo turbava molto.

«Se resti, se ti fermi, se ti volti… siamo morti, i Figli di Prometeo vincono e Crowley è perso per sempre. E forse dopo morirà anche Ferid cercando di trovarlo. Ti prego, Mika» aggiunse mentre si alzava, «corri e basta!»

Yuu emerse di scatto e l’uomo che li aveva incastrati in quello stallo non se l’aspettava: lo colpì prima ancora che togliesse il dito dal bottone della radio. Mentre spianava la sua arma verso le auto che gli altri agenti usavano come scudo un lampo rosso che colse con la coda dell’occhio correva dalla parte opposta. Sorrise mentre sparava, costringendo quelle teste ad abbassarsi.

È tutto qui, Mika… alla fine, è tutto qui. Credevo che trovare la verità fosse la cosa più importante, ora… che sapere perché mio padre ha cercato di vendermi, e a chi, e prenderli tutti in trappola avrebbe dato un senso alla mia vita… ma mi sbagliavo.

Guadagnati sei secondi Yuu fu costretto ad abbassarsi; solo con gli occhi sopra la linea di difesa del cofano e l’arma puntata per abbattere più bastardi possibili prima di rendere l’anima.

Il solo senso della mia vita sei tu. Sei sempre stato tu… fin dal giorno in cui ti vidi arrivare all’orfanotrofio. Che io viva fino a mezzanotte o altri cento anni, quel senso sarai sempre tu…

Con un gemito incassò una fitta di dolore. Sparò due colpi prendendo in pieno un altro agente, ma aveva finito i colpi. Si accasciò dietro l’auto tenendosi il fianco e mollò la pistola ormai inutile, sorridendo all’angolo della strada dove Mika aveva trovato la salvezza.

Corri… corri, Mika… dai un senso alla mia morte…

I colpi sopra la sua testa erano cessati. Era certo che si fossero accorti che l’arma si era scaricata e attendevano di vedere se sarebbe riemerso con un nuovo caricatore, ma non ne aveva: quella notte non era uscito pensando di finire in uno scontro a fuoco come quello.

Un uomo sbucò da dietro il cofano puntandogli l’arma contro, ma non gli sparò. Allontanò la pistola che era abbandonata lì e Yuu, una mano sulla ferita e una lievemente alzata in vista, si lasciò scivolare sul fianco.

Altre voci si avvicinarono, parlottando. Si chiedevano se ucciderlo o se interrogarlo. Alcuni volevano vendetta per i colleghi, altri avevano più paura di scontentare i loro potenti padroni, ma Yuu non faceva che pensare che nessuno stava parlando di un altro. Nessuno di loro aveva visto Mika, quindi sarebbe stato al sicuro abbastanza a lungo perché Guren lo rispedisse a casa.

Circondato di nemici e con armi puntate addosso Yuu continuava a sorridere.

Sono felice che sia stato lui l’ultima cosa che ho visto prima di andarmene… vorrei solo… avergli mostrato qualcosa di meglio. Un ricordo migliore… uno che lo facesse sorridere, ripensando a noi.

Improvvise urla lo svegliarono da quel torpore mentale. Colpi si susseguirono rapidi e quegli uomini intorno a lui cadevano come fichi maturi: i cinque rimasti erano lì sulla strada, tutti colpiti alla testa, senza che neanche avessero capito da dove veniva l’attacco.

Yuu sussultò quando si sentì toccare, ma sopra di lui vide Mika. Era confortato dalla sua presenza ma confuso, e spaventato all’idea che ci fossero altri agenti, altri pericoli.

«Andiamo via, veloce! Tieniti a me!»

Quasi Mika lo sollevò di peso e reggendolo meglio che poteva senza toccargli il fianco lo trascinò via. Si sentivano le sirene della polizia, persone degli edifici vicini buttavano occhiate timorose. Stava per dirgli qualcosa ma Mika aveva già fatto sparire l’arma sotto i vestiti.

«Dove… dove hai preso…?»

«Dall’uomo nel cortile.»

Perciò Mika doveva aver fatto l’opposto del richiesto: era sparito dietro l’angolo per essere protetto dai colpi solo per fare il giro e rientrare nel cortile. Avrebbe potuto essere colpito da un proiettile vagante nonché dai colpi esplosi da Yuu, e poteva essere catturato o ucciso da qualcuno rimasto in casa o nel cortile. Aveva corso un mare di rischi.

«Ti avevo detto… di andare…»

«Ma io non prendo ordini dall’FBI, né da te. Lo dovresti sapere che dirmi di fare una cosa è il modo migliore per farmi fare il contrario. Ricordi quella volta, io e te da Mandy’s? Sono sicuro che te lo ricordi.»

«Mika… che cazzo…»

Gli veniva da ridere e da piangere, ma entrambi gli sforzi gli facevano dolere la ferita.

«Stavo morendo in pace perché pensavo che fossi al sicuro! Razza di… coglione…»

L’espressione cocciuta di Mika si incrinò appena un poco quando sorrise.

«Non sei felice che non stai morendo? Non sei proprio mai contento, tu.»

Un sussulto brusco fu quello che uscì da una risata e dalla conseguente fitta. Mika faticò a tenerlo in piedi quando gli cedettero le gambe.

«Dobbiamo curare quella ferita. Dove ti posso portare? In ospedale?»

«No… no» esalò Yuu, a denti stretti. «Gunter… por… portami da Gunter… lui… sa…»

La perdita di sangue o il crollo dell’adrenalina lo stavano facendo sconnettere dalla realtà. Pensava, ma non riusciva a parlare. Non si rese conto di come, ma Mika trovò la macchina perché lo fece sdraiare sul sedile posteriore e si mise alla guida.

Mentre lampioni e luci di edifici scorrevano su di lui dal finestrino chiuse gli occhi per risparmiare le forze.

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Capitolo 11
*** Rondine ***


Mika aveva le mani sporche di sangue. Aveva sangue sugli avambracci, l’aveva sui vestiti, e sotto le unghie. Guardandosi nello specchio vide che ne aveva anche sul viso.

Emise un singhiozzo strozzato e rovesciò il bicchiere degli spazzolini per la foga di prendere il sapone. Iniziò a strofinarselo addosso con furia, come se il sangue fosse un acido che gli mangiava le carni.

Non seppe quanto tempo ci mise per togliersi tutte quelle macchie dal corpo, ma era incastrato tra l’armadietto e il wc, con il fiatone come dopo una maratona estiva, quando Gunter aprì la porta del bagno.

«Stai bene, Misha?»

«Non sto bene.»

«Sentimi: la callottola è passata attraverso, va bene? Non arrivava qui vivo se gli bucava qualcosa di importante. Tu froda di me, sì?»

«Froda… se mi fido di te? Neanche so chi sei» replicò Mika, passandosi l’asciugamano in faccia. «Mi ha detto lui di portarlo da te…»

Gunter non si offese, anzi: gli sembrò più cortese e comprensivo che mai.

«Tu mi hai visto. Eri là con me, assistente, no? Non sembro un bravo doktor

Mika strinse gli occhi. Starsene lì a tenere fermo Yuu quando il dolore lo faceva muovere mentre Gunter apriva e ricuciva era stato orribile, ma aveva notato la mano ferma e l’agilità con cui eseguiva le operazioni necessarie.

«Vieni. Tu devi mangiare. Devi tenere te in forze.»

Gunter lo portò in cucina e lo fece sedere al tavolo. Gli diede da bere e gli preparò un panino grigliato, mentre Mika non faceva che fissare la porta della camera da letto.

«Lui… lui sta bene, adesso?»

«Ti assicuro, lui vive, se non si fa sporare prima di mattina» fece lui, e ridacchiò. «Mangia ora.»

L’ultima cosa che aveva voglia di fare era mangiare. Guardò il panino e scosse la testa.

«Non ce la faccio.»

«Tu devi. Il tuo corpo ha preso forte shock, capisci? Ed è stanco. Tu devi mangiare e poi riposare» insistette Gunter, delicato e gentile nel tono e nei modi. «Da’ me braccio, controllo il foro.»

Mika gli lasciò prendere il braccio e controllargli il foro dell’ago. Gli tolse il cotone per mettergli un cerotto bianco, di quelli usati in ospedale.

«Sei sicuro vero che tu e lui siete di stesso gruppo?»

«Non siamo dello stesso gruppo… ma io… posso donarglielo. Lui non può darlo a me, ma io posso, a lui» mormorò Mika, quasi confidasse un segreto. «Ma gli basterà? Dovevo dargliene di più…»

«Stephan ha sangue che gli serve» insistette lui battendogli sulla spalla. «E ha buon amico. Ha tutto quello che serve per guarire. Ora tu mangia: se devi dare ancora tu devi avere sangue anche per te. Devi riclerare

Mika guardò il panino e l’aprì, scoprendo che c’era dentro un po’ di tutto: dai peperoni al formaggio, della carne rossa e del pollo, un uovo sodo tagliato a metà e dei funghi. Ma non se la sentiva, aveva troppo peso sul cuore per sperare di inghiottire qualcosa.

«Dove hai imparato a fare quelle cose?»

«Io dico mia storia solo se tu mangia.»

Sospirò e studiò il panino come se fosse uno strano animale morto a lezione di scienze, ma alla fine riuscì a fare uno sforzo e prenderne un piccolo morso. Gunter fu soddisfatto.

«Bene! Successo è che: io, Gunter Blum, sono stato studente di medicina. Ah, anni prima, anni prima. Ma posso ancora opirare cose piccole, e Stephan lo sa. Ti piace Gunter special?»

Una volta dato il primo morso Mika aveva ricominciato a sentire la fame e la stanchezza: non aveva mai mangiato con tanto appetito dai tempi dell’orfanotrofio. Si limitò ad annuire mentre masticava un insieme di sapori troppo confusi per distinguerli.

«Bene, bene! Ora, Doktor Gunter ti distruisce su cosa fare per Stephan. Mi ascolti?»

Mika annuì di nuovo.

«Ora io vado a casa. Tu stai con Stephan fino a mattina. Se il respiro cala, se è freddo, se è bianco, se ha brividi tu chiami me subito, e io porto altro sangue che è giusto per lui. Se domani mattina Stephan è okay, tu cucina per lui bella bistecca cotta poco, patate che fa nutrienti, e dai un bel bicchiere di vino rosso. Poi voi due chiamate me e io passo e controllo. Chiaro?»

«Sì… io… grazie, Gunter…»

Gunter gli fece un sorriso che aveva un che di paterno e si alzò dal tavolo.

«Voglio chiedere io una cosa, Misha.»

Mika lo guardò mentre raccoglieva la sua valigetta.

«Tu e Stephan… da quanto vi conoscete? Perché so che tu non sei amico di suo amico, e tu non sei in funga da America.»

Mika esitò torcendo il tovagliolo, ma il suo tentennamento era già una parziale ammissione.

«Da… sempre, possiamo dire. Avevo nove anni quando l’ho incontrato… e… per un periodo… siamo stati inseparabili. Non siamo stati lontani un solo giorno per tanto tempo…»

Sentì salirgli le lacrime e avrebbe voluto avere ancora l’asciugamano per nasconderle.

«Io… Gunter, il ragazzo in quella stanza è… la persona più importante della mia vita. Ti sono grato per averla salvata.»

L’uomo gli strinse la spalla.

«Ora tu va’ di là, con tua persona importante… e se siete così gemellati, smettete di farvi dispetti. Io ho visto il vostro gioco. Un gioco molto scocco

Gunter scrisse di nuovo il suo numero e quello di casa sua sul blocchetto attaccato al frigorifero e se ne andò. Mika finì di mangiare il panino guardando la sua auto allontanarsi in strada, mentre era profondamente immerso in pensieri.

Era sempre stato consapevole che Yuu fosse la persona più importante? Lo sapeva anche quando era a Bluefields? Anche quando l’aveva lasciato per rincorrere sogni diversi, e un altro uomo? Gli era sembrato di non pensare quasi mai a lui mentre viveva la movida di Miami o se la spassava con Dyonté a Los Angeles. Anche in Kentucky, alla fattoria, gli sembrava che il pensiero di Yuu si limitasse a riaffiorare solo di tanto in tanto, quando trovava sulla sua strada qualcosa che non poteva non ricordarglielo.

Andò nella camera da letto dove Yuu riposava. Lo guardò a lungo dalla porta, ipnotizzato dal suo ventre che si alzava e si abbassava col respiro.

La persona più importante…

Eppure era certo che se costretto a rispondere a quella domanda, sicuro che la sua risposta non sarebbe stata sentita da nessuno tranne Dio, avrebbe detto che Yuu era quella persona. Una persona unica, che gli aveva impedito di sprofondare nel dolore quando era un bambino, che gli aveva mostrato che al mondo c’erano cose belle e persone buone, e anche viceversa. La prima volta che erano scappati dall’orfanotrofio erano andati alla caffetteria di un’anziana signora di colore, dal pesante accento francese, che gli aveva dato il tè e una fetta di clafoutis alle ciliegie. “Ci sono anche cose buone e persone belle, come te”, gli aveva detto allora Yuu con la bocca piena.

Si sedette sul bordo del letto. La ferita era coperta da una medicazione ben incerottata, ma lui stava guardando il tatuaggio di cui non sapeva niente finché Gunter non gli aveva tagliato via la maglietta per operare: una rondine in volo, proprio accanto al cuore. Voleva chiedergli quando e perché avesse fatto quel tatuaggio, e svariate altre cose del tutto casuali, ma avrebbe dovuto aspettare il suo risveglio.

Si sdraiò accanto a Yuu, dal lato del suo fianco sano, e appoggiò la testa sul suo torace. Voleva essere vicino abbastanza da sentire sempre il suo respiro e contare il suo battito rallentato dal sonno, al costo di restare sveglio tutta la notte per monitorarlo.

 

***

 

Quando aprì gli occhi si accorse dalla luce del mattino che si era addormentato per diverse ore. Il petto di Yuu era sotto la sua testa, ma non mandava alcun suono, non si muoveva… ed era freddo. Terrorizzato si alzò di scatto, chiamando il suo nome. Yuu era pallido e non rispondeva a nulla, neanche agli scossoni che gli dava.

Aprì di nuovo gli occhi, con il fiato corto e il terrore che gli strisciava addosso. Era addormentato sul fianco con la fronte appoggiata contro la cassetta del pronto soccorso sul bordo del comodino, e guardarla gli riportò in mente il sogno che aveva fatto.

«Yuu!»

Si girò sull’altro lato e trovò Yuu dov’era sdraiato da quella notte, con la mano appoggiata su un addome che si sollevava e si abbassava a ritmo lento. Mika emise un sospiro tremulo rendendosi conto che respirava come un bambino in un sonno sereno.

«Oh, Dio, grazie» mormorò in un sospiro.

Si appoggiò contro il suo petto ascoltando il suo battito regolare come fosse la più sublime musica al mondo e, ripensando all’orribile incubo che aveva avuto, delle lacrime sgorgarono dagli occhi.

Nonostante non avesse fatto un solo singhiozzo Yuu si svegliò con un mugugno e la sua mano andò al suo viso, quasi avesse visto le lacrime anche al buio. Le sue dita si bagnarono.

«Perché stai piangendo, Mika?»

«N-non è niente» rispose Mika, con la voce arrochita quanto la sua. «Ho… fatto un brutto sogno. Sono felice che sei vivo.»

Nel modo in cui strinse la sua spalla Mika riuscì a sentire la tenerezza e il genuino affetto di Yuu quando era ragazzo. Era la prima volta da quando si erano rivisti che aveva l’impressione di essere in presenza della stessa persona a cui aveva dato il primo bacio.

«Sono felice anch’io… adesso.»

Yuu si girò con circospezione sul fianco e gli baciò il viso, stringendolo in un abbraccio che era tutto l’opposto dei modi violenti con cui aveva cercato di prenderlo solo tre sere prima. Era tornato tra le braccia che lo avevano confortato da quando era un bambino, dopo tanti anni.

«Mika… ah, Mika…»

Yuu lo baciò sulla fronte e lasciò uscire un sospiro.

«Se solo potessi sentire quanto ti amo ancora…»

Avrebbe voluto stringerlo, ma non osava farlo. Per paura di toccargli le ferite, ma anche di quello che sarebbe potuto accadere.

«Io lo sento.»

«Ho lasciato che la gelosia me lo facesse dimenticare… ma io ti amo, Mika. Io morirei per te…»

«Stupido, io non voglio che tu muoia.»

Dalla finestra filtrava più luce, abbastanza da poter distinguere che Yuu sorrideva con occhi tristi.

«Non sono più quello che conoscevi… anche se me ne andassi non sarebbe che perdere una fotografia sfocata di quello che ero…»

Mika si sentì libero dalle catene psicologiche che gli impedivano di muoversi. Passò il braccio dietro il collo di Yuu, dove non rischiava di toccare delle ferite, e lo strinse finché non sentì il viso contro il suo.

«Resti il mio Yuu-chan… Sotto il dolore, sotto la durezza che ti ha dato l’addestramento e una copertura troppo lunga… sei ancora il mio Yuu. Io lo sento.»

Yuu non rispose a voce, ma stringendolo in un abbraccio saldo e dolce gli comunicò a pelle quanto conforto gli desse ricevere quel giudizio, quella sorta di marchio di approvazione e quanto bisogno aveva di sentire parole buone sull’uomo che era.

Mika non provò nemmeno l’ombra della repulsione di quando aveva cercato di prenderlo a forza e si lasciò stringere, con lo stesso senso di dolce abbandono. Non riuscì neanche a rimproverarlo quando si puntellò con le braccia e passò il ginocchio sopra di lui, con la goffaggine di un uomo con una ferita abbastanza seria da irrigidirgli i movimenti.

Mika alzò le mani e sfiorò i suoi fianchi con la punta delle dita, sentendo la medicazione con la mano destra. Provò una fitta di angoscia quando si scambiarono un bacio, ma fu così innocente, come quello che si diedero da ragazzini in un angolo del campo da basket, che quel fiacco senso di colpa svanì come mai esistito.

Restarono lì sul letto, stretti in un incastro che portava con sé la memoria degli amanti che erano stati ma nessuna traccia di quel desiderio. Mika non si era mai reso davvero conto di quanto forte fosse l’amore che li legava, di quanto fosse indipendente da dettagli come il frequentarsi, il vivere insieme, le relazioni intime e persino il parlarsi.

La luce del mattino rischiarava tutta la stanza e il cielo fuori iniziava a diventare rosa quando Yuu si mosse, alzando la testa.

«Devo fare pipì.»

Mika, ricordando una volta in cui gli disse la stessa cosa con lo stesso tono mentre cercava di accendergli il desiderio, scoppiò in una risata spontanea e tolse le mani dalla sua schiena.

«Oh, sì… sei proprio il mio Yuu-chan.»

Con Yuu carponi su di lui guardò quel verde stupefacente del suo sguardo, che era stato magnetico fin dal loro primo incontro. Ricatturati da quel campo si fissarono, senza parlare e senza imbarazzo per un lungo lasso di tempo, prima che Yuu si abbassasse a baciarlo di nuovo sulle labbra. Come prima, fu un bacio senza alcuna spinta di malizia.

«Mika… siamo ancora un’ottima combinazione. Tu sei ancora, dentro, l’agente che si è addestrato pensando di puntare al Bureau… Possiamo farcela, noi due.»

La sua bocca si storse in una smorfia che non riuscì a mascherare quando il fianco gli diede una fitta mentre si raddrizzava.

«Andiamo a prendere Crowley e torniamo a casa.»

Mika si mise seduto e annuì.

«Come facciamo a farlo?»

Yuu emise una specie di grugnito mentre si issava in piedi tenendosi il fianco.

«Dopo che piscio te lo dico» borbottò lui, teso in una posa innaturale. «Butta sul fuoco qualcosa da mangiare, sto morendo di fame.»

Lo Yuu che si faceva chiamare Stephan era diventato rude nel parlare e nell’agire, e non si era ancora abituato a sentire quel suo accento tedesco, ma dopo il terrore di vederlo morire ogni suo dettaglio fisico e di atteggiamento era una gioia in cui crogiolarsi. Divertito Mika saltò fuori dal letto e gli si accostò.

«Okay~»

Gli soffiò nell’orecchio e schizzò via, prima che il suo ringhio infastidito diventasse un tentativo di assestargli una sberla: nonostante i sette anni e un addestramento speciale il soffio lo faceva ancora impazzire come un gatto permaloso.

«Tier!»

Mika non aveva idea di cosa significasse, ma di certo non suonava come una parola tenera.

 

***

 

Le prescrizioni di Gunter furono rispettate alla lettera: Mika preparò per Yuu bistecca al sangue, patate sabbiate con carote e toast con confettura di fragola, e gli diede anche il vino rosso nonostante fosse mattina presto. Il mezzo medico venne verso le nove a controllare le ferite, lasciò degli antidolorifici per Yuu e gli ordinò di non andare al lavoro, né da altre parti, per almeno tre giorni. Con un certo sorriso complice, disse al suo “angelo custode” di restare anche lui a casa per vegliare.

In televisione i telegiornali parlavano dell’accaduto in città, anche se ciò che gli traduceva Yuu non sembrava la stessa storia che avevano visto loro da protagonisti: non si faceva menzione di un furto o un’effrazione in una villetta di quella strada, né di vittime e si attribuiva la causa del trambusto a una gang di stranieri legata al controllo dello spaccio.

«Sapevo che i Figli di Prometeo erano potenti» commentò Yuu serioso. «Però stavolta han fatto le cose in grande. Hanno fatto sparire i corpi e chiuso la bocca a poliziotti e testimoni. Nessuno saprà che Kotka ha esposto la lista… Tch, non mi sorprenderei se il vecchio l’avesse sparata grossa dicendo che non teneva il registro nella cassaforte del soggiorno.»

Sdraiato su un paio di cuscini dal lato della testiera e con gli occhi fissi sullo schermo con molte scritte in sovrimpressione, allungò la mano alla cieca per massaggiare il piede di Mika, che era seduto sul letto nell’altro verso.

«E pensi ci crederanno?»

«Dipende quanto è stimato dentro l’organizzazione. Io non affiderei a uno come Kotka neanche una busta con scritto il mio gusto di gelato preferito.»

«Menta con le scagliette di cioccolato?»

«Ecco perché l’ho confidato a te e non a lui» fece lui, come se mettesse il punto a un ragionamento inattaccabile. «Come procede, lì?»

Mika sospirò e passò la penna nella mano sinistra per riposare l’altro polso.

«Ormai ho imparato a memoria il Playfair che ha usato e i nomi si ripetono, quindi procedo abbastanza velocemente. I dettagli sono in tedesco, dovrai tradurli tu quando finisco…»

«Ah, mein schlaues Kätzchen Misha

«Che accidenti hai appena detto?»

Yuu rise di gusto. Non sapeva se era per merito degli antidolorifici ma era senza dubbio vivace per uno che aveva rischiato di morire dissanguato meno di dodici ore prima.

«Che sei il mio gattino intelligente… Non so perché, ma Katze continua a chiamarti “gattino”. Forse perché sei flessuoso.»

«Forse perché pensa che sono tenero e innocuo.»

«Forse perché fai le fusa se qualcuno ti accarezza il punto giusto» buttò lì allusivo.

«O forse perché mi piace il pesce.»

«Ah, questa volta te lo sei detto da solo.»

Indignato, Mika gli lanciò il quadernino in cui stava riscrivendo il registro decodificato, mancandolo volutamente di una spanna.

«Non in quel senso, che cavolo!»

Rideva tanto che anche con la dose di analgesici sentì una fitta al fianco.

«Non dovresti ridere, non dovresti far niente in quelle condizioni!»

«Quali condizioni? Sto benissimo, io.»

Yuu raccolse il quadernetto sparnazzato dall’impatto, e si accigliò. Sfogliò diverse pagine all’indietro, con uno sguardo sempre più serio.

«Che succede? Che cosa hai letto?»

«Un nome… questo. Qui in basso» fece, indicandolo sulla pagina. «C’è scritto che questi non si sono presentati. Non si presenta mai nessuno a nome di questa famiglia, e mi sa che so il perché.»

«Quale?»

«Trobiano» lesse, e alzò gli occhi per incrociare i suoi. «Non ti è familiare? Non è il nome del primo marito di Ferid?»

Mika scorse le foto del registro che aveva già decodificato e, ormai allenato al Playfair, lesse senza difficoltà il nome nella parte bassa di ogni verbale. Non aveva capito che la scritta sopra, in tedesco, indicava che quei nominativi non erano presenti all’asta del giorno.

«Non posso credere di non averci pensato… Quanto… quante probabilità ci sono che siano gli stessi Trobiano?»

«Beh, dimmelo tu. Che cosa sai di suo marito?»

Si mordicchiò le labbra, cercando di fare mente locale tra le memorie spezzettate che gli aveva raccontato Ferid negli anni e ciò che Crowley si lasciò sfuggire all’epoca delle prime indagini.

«Sono originari dell’Italia, i Trobiano, ma il padre di Claude era francese… Non so se nato in Francia o cresciuto, però. Poi sono andati in America… vediamo…» esitò, strizzandosi le meningi. «I Trobiano hanno una tomba di famiglia a Silver Waters, nel West End…»

«Non aveva dei figli?»

«No… cioè, sì. Ferid mi ha detto che ne aveva due, ma sono morti. Uno molto giovane, l’altro anni dopo, in carcere. Ricordi? Crowley lo ha cercato per sapere se era coinvolto col Vampiro.»

«Forse è per questo che non partecipano più. Non ci sono più eredi… però…»

Mika cercò di raggranellare le informazioni sporadiche che Yuu gli aveva dato in quei giorni; non molte, in verità.

«Le famiglie dei firmatari della Carta di Fondazione hanno un diritto di sangue… mi hai detto una cosa del genere. È a questo che pensi?»

«Sì, ma come con i nobili, possono essere aggiunti altri rami se fanno un matrimonio con una delle famiglie originarie… e penso che ci sia qualche modo per aggiungere anche delle nuove famiglie. I Figli di Prometeo sono molto più numerosi di quelli della prima lista, e non possono essere tutti imparentati…»

Yuu allungò il quaderno verso di lui, con il dito sopra un trattino orizzontale che precedeva l’acronimo o abbreviazione RIF.

«Guarda. Ruhe in Frieden, “riposa in pace”. La famiglia Salinger non ha più eredi diretti.»

«Però non ho trovato questa dicitura vicino ai Trobiano!»

«Certo che non l’hai trovata. Se sono gli stessi Trobiano, non sono finiti… Claude Trobiano aveva un marito. E se ricordo bene quello che hai detto, ha due figli biologici, quel suo marito.»

Mika si trovò a bocca aperta davanti a quello scenario improbabile.

«Vuoi dire che per loro Ferid è l’erede dei Trobiano, con un posto nella cerchia dei Figli di Prometeo?»

«Ho raccolto un bel po’ di storie su di loro, anche se niente con delle prove di attività criminale. Si vantano di essere un club esclusivo, uno per eredità di sangue, e so che alcuni sono intrecciati con loro perché sono le vedove o i vedovi di un membro» spiegò con enfasi. «Se non ci sono dei figli, lo stato di sangue passa al coniuge o alla persona citata come erede universale del testamento. Lo so, è assurdo, ma è così che mantengono la loro nomea di esclusività senza estinguersi quando i membri muoiono senza figli.»

L’eccitazione della scoperta, accesa come una fiammata al magnesio, si spense rapidamente. Mika capì solo guardandolo negli occhi che Yuu aveva il suo stesso problema.

«È… la nostra migliore occasione, vero…?»

«Sì. Senza dubbio lo sarebbe, poter usare Ferid per infiltrarci. Uno che non dobbiamo imbrogliare o costringere. Uno che ha tutti i diritti, secondo quelli, di andare a ricomprarsi il marito.»

«E… lui… ha anche il diritto di esserci… giusto? Voglio dire… per noi.»

«È suo marito. Tu non ti saresti già precipitato qui, se avessero preso il tuo di marito?»

Indeciso su cosa dire e come dirlo abbassò lo sguardo sulle dita dei piedi, che mosse distrattamente in un tamburellare frenetico.

«Però…»

Yuu esitò, battendosi l’angolo del quaderno contro la tempia.

«Però Ferid è un civile. Noi siamo federali. E l’unico motivo per cui tu sei qui è quella maledetta, stupida, inutile Acqua di Cristo» commentò invelenito. «Se non avessi insistito per tenerla d’occhio tu saresti ancora a far marmellata nella tua cucina.»

«Ah! Che sfacciataggine, dopo che mi hai mandato a strusciarmi su quello schifoso!»

«Che posso farci io se questi pazzi hanno la fissa per la razza ariana? Sarei andato io se gli fossero piaciuti i mori con gli occhi verdi! Guarda che non mi piace pensare che gli uomini ti guardino e ti tocchino, non mi piace per niente.»

Mika scosse la testa come a scacciare le mosche, anche se cercava solo di sfuggire a un’altra discussione scomoda.

«Oh, Yuu, non ricominciare…»

«Non posso farci niente… non sei più mio da tanto, ma non mi puoi chiedere di far finta che non lo sei mai stato. Anche se hai un marito.»

Le sue dita scorsero leggere sulla sua gamba, fermandosi sul ginocchio.

«A te non dà neanche un po’ fastidio pensare agli amanti che ho? O alle donne che ho?»

«Ma se non so neanche chi siano o quanti come mi può dar fastidio, scusa?»

«Ah… vediamo…»

«Non era un invito a snocciolare i dettagli» aggiunse subito Mika.

«L’ultima è stata una donna» continuò imperterrito Yuu, con l’aria di divertirsi. «Ero un tantino sbronzo, ma mi ricordo il suo seno. Un gran bel seno. Aveva un tatuaggio di un quadrifoglio.»

La protesta che stava per uscirgli di bocca si smontò mentre guardava la rondine sul petto di Yuu.

«La rondine… quando te la sei fatta?»

Negli occhi verdi passò uno stupore smodato, quasi Mika avesse visto qualcosa di segreto, come i messaggi che si mandavano all’orfanotrofio con le penne che si leggevano solo con la luce blu. Si toccò il petto, quasi accarezzandola.

«Quattro anni fa, quando ho accettato questa missione in Germania.»

«E cosa significa?»

Yuu tese un sorriso storto, ma con una profonda dolcezza nello sguardo che lanciò al disegno sulla sua pelle.

«Sei tu» gli rispose spiazzandolo. «La mia rondine che è partita verso sud, e non è più tornata… e sapevo che in Germania non mi avresti più trovato. Eri perso e cercavo un modo per portarti con me… Buffo, visto che ero comunque accecato dalla rabbia sapendo con chi stavi.»

Mika deglutì a vuoto, interdetto. Si era aspettato, alla menzione dei quattro anni, un senso relativo al suo addestramento, o fine alla sua copertura, ma non che servisse a incidersi un suo ricordo nella pelle. Vicino al cuore.

«Ora però non sono più arrabbiato… Avevi ragione, sai? Ho guardato solo il mio obiettivo in polizia dando per scontato che se ti avevo per me saresti rimasto mio qualsiasi cosa fosse successa… e quando hai deciso di andare via, ti ho lasciato fare senza dirti quanto ti volevo con me.»

Yuu si diede il quadernetto sulla fronte, ma Mika ebbe l’impressione che servisse a nascondergli lo sguardo.

«E mi sono messo a fare qualche altra delle mie cose aspettando che tu tornassi… senza neanche provare a chiamarti. Tu sei sempre stato sensibile al romanticismo. Forse se ti fossi venuto a prendere… se fossi venuto fin lì a pregarti di tornare con me a casa…»

La sua voce si incrinò appena e smise di parlare per non svelare il suo momento di fragilità.

Mika si trascinò pian piano dalla sua parte del letto e abbassò il quaderno con la punta delle dita. I suoi occhi verdi erano lucidi.

«Yuu… non capisci che siamo esattamente dove dovevamo essere? Se tu mi fossi corso dietro, se fossimo tornati a New Oakheart a fare gli agenti di polizia, o se tu avessi assecondato i miei capricci e fossimo stati ovunque tranne che tu qui e io con l’Acqua di Cristo nello sgabuzzino, ora chi lo saprebbe dove si trova Crowley? Chi riuscirebbe a salvarlo?»

Yuu tirò su con il naso pur con gli occhi asciutti.

«Sette anni… te lo immagini, rodersi il fegato per sette anni e poi svegliarsi ancora innamorati?»

Mika appoggiò la testa sulle ginocchia, perso in quel verde sconfinato. Tante volte, quando Crowley aveva parlato di come l’Irlanda venisse chiamata “isola di smeraldo”, aveva pensato a Yuu a quelle parole.

«Te lo immagini, soffrire per sette anni e svegliarsi ogni mattina ancora innamorati?»

Non l’aveva detta come la pensava e nemmeno come voleva dirla ma lui capì comunque: ne ebbe la certezza nello stupore sulle sue labbra socchiuse, nella conferma che cercava con quegli occhi increduli.

Alzò la mano per accarezzarlo – tentato da quelle labbra aperte voleva sfiorarle – ma al suono del campanello quella volò sulla pistola sul comodino.

«Mettila giù, Mika, forse è Gunter.»

«Ha detto che andava al lavoro.»

«Beh, forse è la mia vicina, la vecchia pazza col cane pazzo… in quel caso sparale. Anche al cane. Prima al cane.»

«Basta cazzate, Yuu» lo redarguì mentre si avvicinava alla porta. «Nasconditi da qualche parte.»

«E dove? Vivo in un bilocale che starebbe dentro la tua cucina.»

Il campanello trillò di nuovo, un po’ più a lungo. Mika alzò l’arma contro la porta, indeciso se chiedere all’avventore chi fosse o fingere che non ci fosse nessuno.

«Herr Hirsch» chiamò allora l’ignoto visitatore, un uomo. «Ich muss Sie sprechen.»

Confuso Mika si voltò verso Yuu, che stava spostandosi sul bordo del letto per alzarsi. Tra labiale e gesti gli tradusse che qualcuno lo cercava per parlargli e gli indicò lo spioncino. Mika sussultò quando sentì battere sulla porta con un ritmo che era loro familiare: era il loro modo di bussare al loro vicino Crowley. Incollò l’occhio allo spioncino e quasi non credette a quello che vedeva. Passò l’arma nella mano sinistra e senza dare a Yuu alcuna spiegazione sbloccò il chiavistello e aprì la porta.

Ferid stava proprio lì, in piedi davanti alla porta di quell’appartamento di Berlino, alto e austero come non lo aveva mai visto prima. Indossava una semplice camicia di seta con una piccola spilla d’oro e rubini all’asola del collo, pantaloni scuri e scarpe alte che non credeva si fosse portato nella rurale Eanverness; portava l’orologio d’oro, la fede alla mano sinistra e l’anello con la pietra rossa dei Cosworth alla destra, e un sottile nastro rosso gli legava i capelli.

La sua apparenza lo spiazzava quanto la sua stessa presenza e restò fermo a fissarlo, muto, finché non fu lui a reagire.

«Non posso dire di essere sorpreso di trovarti qui» gli fece, con una pallida sfumatura d’accusa. «A questo punto…»

Yuu emerse dalla stanza con passi non proprio disinvolti e si limitò a fare un sorriso teso quando vide l’ospite, come se fosse apparso all’improvviso il test a trabocchetto nell’esame decisivo.

«Herr Hirsch, presumo» esordì Ferid trafiggendolo con uno sguardo. «Mi è stato detto che dovevo parlare con te per sapere dove trovare il pezzo raro che sto cercando.»

L’espressione di Yuu era tornata quel musetto arrogante che aveva tenuto per la maggior parte di quel periodo e con un gesto del braccio gli indicò il soggiorno.

«Komm doch rein, Herr Trobiano» gli fece Yuu, scalfendo la sua serietà con un accenno di stupore. «Abbiamo qualcosa da raccontarti.»

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Capitolo 12
*** Rarità ***


Seduto nel buio, Crowley attendeva. Immobile, con il mento contro il petto come un corpo morto era invece attivo, sveglio, lucido quanto glielo permettesse un lungo digiuno.

Sentì il leggero rumore metallico di una serratura oleata e passi cauti che si avvicinavano. Tese tutti i muscoli potesse senza far trasparire di essere sveglio, e colse l’occasione non appena sentì di essere sfiorato: fece scattare la testa e colpì qualcosa che emise un lamento sottile.

Un gemito di donna.

«C-calmez, calmez! Ah, non, parli inglese, vero? Calmati, per favore!»

La voce era sottile, femminile, e gli formava nella mente l’immagine di una donna minuta e giovane. Si dimenò quando sentì che lo toccava di nuovo sulla testa, scrollò più forte che poteva quella cinghia che lo bloccava seduto contro qualcosa e ringhiò sotto lo scotch per la frustrazione: sperava di riuscire a fare come gli era già riuscito con la guardia e atterrarla, ma l’impazienza l’aveva tradito.

«Stai calmo, per favore, monsieur Crowley» continuò la voce di donna, con un buon inglese dall’accento francese marcato. «Ti tolgo la benda, sì? La luce è bassa, non ti darà fastidio.»

Dita sottili gli sfilarono la benda dalla testa e Crowley all’inizio non riuscì a vedere nulla comunque: dopo giorni con gli occhi forzatamente chiusi era tutto sfocato. Nella luce bassa di una lampada led a forma sferica intravvide la donna che gli parlava, inginocchiata accanto a lui e capì cosa stesse maneggiando solo grazie al rumore d’acqua.

«Ti bagno un poco gli occhi. Dovrebbe farti bene.»

Detto ciò gli passò un asciugamano bagnato sul viso e sugli occhi, con molta delicatezza. Continuava a non distinguere i contorni delle macchie di colore, ma gli parve di sentirsi già più lucido, più umano.

«Io sono Eméline. Mi puoi chiamare Emma, come fa la padrona. Sono qui per prendermi cura di te, non ti farò del male» lo rassicurò con dolcezza. «Ora… ti tolgo il nastro, e le cinghie… Ti prego, non farmi del male per provare a scappare. Sarebbe inutile.»

L’occhiata che Crowley lanciò alla porta aperta tradì la sua volontà di smentirla e lei sorrise, ripulendogli il viso con carezza umide dell’asciugamano.

«Se esci di qui troverai solo un labirinto di sotterranei… Se ne esci, troverai guardie… e se riesci a scappare anche a loro, troverai scarpate da discendere a mani nude e chilometri di foresta in ogni direzione. Siamo in una residenza a cinquanta chilometri dal paese più vicino, nella direzione giusta.»

Se era la verità provare a fuggire poteva essere solo il modo più veloce di finire al Creatore. Non aveva alcun appiglio per smentirla, perciò decise di capire dove fosse, chi l’avesse preso e la ragione, prima di approntare una strategia più intelligente del comportarsi come un cinghiale ferito.

«Ti tolgo il bavaglio, va bene? Non mi mordere, per favore.»

Eméline strappò in un rapido gesto l’adesivo e con la medesima cura, come un’infermiera compassionevole, gli bagnò le labbra con l’asciugamano. Dato che l’uomo cinque volte più massiccio di lei era quieto e tranquillo, fece un sospiro di sollievo e con un sorriso gli avvicinò dell’acqua perché potesse berne.

«Un poco per volta, bene» l’incoraggiò sorridendo. «Molto bene… Basta, berrai ancora fra poco.»

Crowley guardò la donna, accorgendosi che non era giovane come la sua voce la faceva sembrare: poteva avere una trentina di anni, con pelle olivastra, bei capelli castani mossi legati in una crocchia, grandi occhi molto scuri. I suoi lineamenti erano morbidi, davano l’idea di una ragazza di buon carattere.

«Emma… è il tuo nome, vero?»

«La padrona mi chiama così da tanto tempo… Sì, mi sembra che sia il vero nome ormai.»

«È un bel nome» commentò Crowley, con la voce arrochita. «Ho una figlia che si chiama Emma…»

Il viso della donna si illuminò.

«Oh, hai una figlia?»

«Sì… e due figli. Due maschi… Eden, e Morgan.»

I sequestri di persona non erano la sua specialità ma Crowley sapeva che parlare della sua famiglia non poteva che aiutarlo. Che fosse tra i sequestratori o solo qualcuno di marginale a cui spettava un compito pericoloso come accudire un uomo che aveva steso parecchie guardie, portarla dalla sua parte era un’ottima mossa.

«Oh, che bella famiglia! Sono piccoli? Vanno già a scuola?»

«Eden ed Emma vanno a scuola, sì… Morgan è piccolo. Ha appena imparato a correre… e cadere. Ha sempre le ginocchia sbucciate.»

Emma fece un sospiro sognante mentre prendeva ad armeggiare con cinghie che, a giudicare dalle manovre che faceva, erano più annodate di quanto Crowley credesse.

«La padrona adora i bambini… non vede l’ora di diventare madre. Anche lei vuole una famiglia numerosa, e io spero che vorrà farmi fare da governante ai piccoli…»

Crowley sentì la tensione cedere e portò il braccio davanti a sé, con immenso sollievo. Il suo polso era escoriato dai vani tentativi di liberarsi a forza bruta. Pochi secondi dopo vide che l’altro non era messo meglio e muoverli gli faceva male quasi più che averli bloccati.

«Sollievo, vero? Appena sei pronto a stare in piedi andiamo, c’è il bagno pronto per te. L’acqua calda ti aiuterà, ha detto il dottor Straub. Aiuta il sangue a circolare di nuovo.»

Essere prigioniero non era un’esperienza divertente, ma trovò confortante l’idea che per i suoi sequestratori la sua salute fosse importante abbastanza da avere un dottore che desse loro dei consigli. Se non aveva preso un plateale abbaglio aveva buone probabilità di sopravvivere nel breve termine e forse di tornare a casa.

«Tu… sei una specie di… cameriera?»

«Sì, una cameriera personale… mi occupo di tutto quello che la padrona vuole. Le preparo il bagno, la sveglio, curo i suoi vestiti personalmente… e mi occupo di suo marito, anche. Sei in buone mani con me, monsieur Crowley.»

Mettersi in piedi non fu facile con le gambe rigide e il fondoschiena del tutto insensibile, ma non osò appoggiarsi ad Emma, neanche quando l’invitò a farlo incuneandosi sotto il suo braccio: era come usare un paio di palette per il caffè per puntellare un cocomero maturo.

«Sì, hai bisogno di un bel bagno» commentò lei, con una risata sommessa.

«Scusami, devo puzzare come il bagno di una stazione di servizio.»

«Non, non così. Solo di uomo senza una doccia da tanti giorni» minimizzò col sorriso. «Ti pulirò per bene e ti laverò i capelli… sono più lunghi dei miei. Nel tuo paese li portano tanti uomini?»

«Cosa? Posso lavarmi da solo. Io non sono un nobile di quelli che non trovano la vestaglia senza un cameriere.»

«Sì, so che non sei nobile, ma sono ordini della mia padrona di curarti come curo lei finché non ritorna dall’estero. Non vuoi che mi punisca perché ho disobbedito, vero? La Bibbia dice che le donne hanno questa mansione, non può essere peccato se tocco il tuo corpo per lavarti.»

«Tu lavi la tua padrona dappertutto?»

«Non» replicò lei, in affanno pur sostenendo forse un decimo del suo peso, «però tu sei molto malridotto, monsieur Crowley. Lascia che faccia io mentre tu guarisci nell’acqua calda.»

Data la fatica che aveva fatto per salire la scala e percorrere un corridoio per raggiungere uno spartano bagno – una stanza dalle pareti nude con una pompa a mano per l’acqua, una stufa dove scaldarla e una grande vasca di pietra – Crowley fu lieto di essere stato ponderato e non aver tentato una fuga inutile. Sarebbe stramazzato prima di uscire da quel sotterraneo.

Non protestò quando gli fu chiesto di spogliarsi, anche perché Emma era molto pudica e si voltò mentre lo faceva, e non guardò nulla al di sotto del collo finché lui non riuscì a immergersi nella vasca.

L’acqua era così bollente che sembrava fosse stato Ferid a prepararla, con la sua passione per i bagni caldissimi che prendeva in giro chiamandoli “la sua ora dell’aragosta”. Provò una fitta di dolore e nostalgia pensando a lui, chiedendosi dove fosse, e se i bambini fossero preoccupati.

«Aspettami un secondo, per favore» gli disse Emma con un’inflessione brusca mentre raccoglieva i suoi vestiti sudici. «Prendo l’olio della signora, per i tuoi capelli. Non mi aveva detto quanto fossero lunghi…»

«Emma, aspetta.»

«Desideri qualcosa di particolare, monsieur?»

La guardò fisso in volto.

«Dove si trova Ismael?»

Le sue sopracciglia si flessero appena.

«Non so chi sia questa persona… forse deve chiederlo alla padrona, quando ritorna. Io non conosco nessuno che non sia ospitato in casa.»

Al suo silenzio Emma accennò una riverenza e uscì di fretta.

L’ignoto dottor Straub aveva ragione, perché l’acqua calda iniziava già a fare effetto sulle gambe rigide e le braccia doloranti, dandogli sollievo. Prese la saponetta nuova dentro il catino di legno e iniziò a lavarsi da sé prima che l’imbarazzante compito ricadesse sulla ragazza.

Gli occhi fissavano l’acqua, ma la sua mente era fissa sull’ultimo ricordo che aveva prima del buio e dell’arrivo di Emma: Ismael che gli diceva che Ferid lo stava cercando e gli piantava un ago nel collo. Per le sue capacità deduttive, Ismael doveva sapere esattamente chi lo aveva preso e dove fosse finito, e la prossima volta che l’avrebbe incontrato l’avrebbe trattato come un nemico.

Non poteva non sentirsi bruciare – dall’interno, stavolta – chiedendosi da quanto tempo lo fosse senza che lui e la sua famiglia lo avessero capito.

 

***

 

Il Klagenbirn era stato uno sfarzoso hotel negli anni ottanta e tracce del suo sontuoso passato erano ancora riconoscibili nell’architettura delle luci e delle finestre troppo ricercate per essere stato concepito come il centro culturale che era in tempi recenti. Yuu aveva una buona visuale dell’edificio e dal lato, con il cancello del retro sempre sott’occhio, dalla finestra di un albergo vicino.

«Aggiornatemi, siete in posizione?»

Non ricevette notizie dalla radio e usò il suo piccolo binocolo per controllare il punto più in alto di un palazzo residenziale. Individuò quasi subito la figura di Mika che stava piazzando un fucile da tiro opportunamente nascosto da una grande mappa stellare aperta. Sopra il mirino aveva sistemato una composizione di rotoli di cartone spruzzati d’argento che dava un’impressione convincente di essere un telescopio puntato verso il cielo.

«Osservatore, sei proprio sexy in rosso.»

Appena ebbe parlato vide Mika girarsi dalla sua parte e in pochi secondi lo guardava dritto nel binocolo, con un sorrisetto.

«Il rosso sta bene ai biondi, Consigliere. Ma sono io l’Osservatore, quindi smettila di fissarmi.»

«Tch, Consigliere. Bel modo di dire “inutile in contatto radio”» si lagnò lui, spostando la sua attenzione sul cancello. «Emissario, se mi senti dai conferma.»

«Purtroppo ti sento dire tante sciocchezze, Consigliere» gli rispose subito la voce di Ferid. «Sono in posizione, sempre che ti interessi più dei vestiti di Osservatore. Se siete pronti mi muovo.»

«Affermativo, Emissario. Sai che cosa fare.»

«Con prudenza, Emissario» aggiunse Mika. «Non ti possiamo seguire dentro. Se qualcosa va male usa la parola d’ordine e fuori di lì più veloce di un pop corn che scoppia

Ferid emise una risata lieve.

«Adoro come i tuoi anni campagnoli abbiano arricchito il tuo linguaggio di deliziose metafore, Osservatore.»

«Tu hai ricominciato a parlare come un damerino in un attimo, invece.»

Yuu cercò con gli occhi l’auto e quando la trovò sbirciò tra le tende con il binocolo. Vide Ferid scendere dal sedile posteriore e lo riconobbe già dal tacco che emerse dallo sportello. Non era mai stato presente a un’asta dei Figli di Prometeo ma era certo che Ferid sarebbe saltato agli occhi come un mosca bianca, letteralmente: era vestito di bianco dai tacchi agli orecchini di diamanti, con quella camicia di seta semitrasparente, e le uniche note di colore nell’oro dell’orologio e nel rosso dell’anello.

«Grazie, Emissario» commentò Yuu nella radio. «Mi sentivo in colpa per essermi perso il matrimonio. Ora mi sento meglio.»

«Percepisco un complimento nascosto sotto il sarcasmo. Claude ha sempre pensato che il bianco fosse il colore che mi stava meglio, e mi sembrava fosse una buona occasione di sfoggiarlo.»

«Sei abbagliante» commentò Mika. «Cerca di non essere troppo abbagliante o non potrai fare una mossa senza essere visto da tutti.»

«Te l’ho detto già una volta: il miglior posto dove nascondere qualcosa è sotto gli occhi di tutti.»

Yuu fu d’accordo in linea generale, ma non riusciva a pensare a come potesse passare inosservato con quell’aspetto lunare che gli dava una pelle chiara vestita di bianco con capelli d’argento mentre parlava apparentemente da solo, ma non poteva fare altro che fidarsi.

Lo vide passare i cancelli con quattro avventori che girarono la testa per guardarlo ma non venne fermato da nessuno finché non superò il portone aperto. Posò il binocolo e si spostò al computer, già pronto all’uso: aveva le inquadrature dalla strada delle due entrate e uscite dell’edificio e un grande schermo nero al centro in attesa di collegamento.

«Emissario, mettimi in linea appena puoi.»

Non venne alcuna risposta e Yuu si passò la mano nei capelli. Non riusciva a immaginare che cosa gli avrebbe urlato Crowley quando avesse scoperto che aveva acconsentito a usare Ferid come incursore, facendogli esattamente quello che gli aveva rimproverato anni prima nell’operazione Bluefields.

 

***

 

L’ingresso era tutto un marmo e quella postazione presidiata da un paio di guardie doveva essere la stessa che un tempo fungeva da reception. Un uomo dai capelli grigi e il fisico ingobbito poco migliorato dall’abito di buona sartoria salutò una donna sulla cinquantina con una riverenza quando lei proseguì verso la sala interna.

«Emissario, mettimi in linea appena puoi.»

«C’è un ometto con delle guardie. Occhiali ovali, magro, gobbo» soffiò Ferid nascondendosi la bocca. «Il Concierge di cui mi hai parlato?»

«Sì, è Kotka. Se riesci a tagliargli una mano Osservatore ringrazierà.»

«Non fare lo scemo, ti sembra il momento?!»

Ferid si mosse verso il banchetto. Kotka, così come le due guardie, non gli tolse gli occhi di dosso per un momento e fu felice che il suo fascino restasse intatto anche a venti anni di distanza da quando aveva imparato che era un’arma potente.

«Posso aiutarvi, signore?»

«Penso di sì. So che c’è un evento esclusivo in corso e vorrei parteciparvi.»

«Ah, saremmo lieti di lasciarvelo fare… se è sulla lista. Il vostro nome?»

«Trobiano.»

Nello sguardo di Kotka passò il sospetto e la paura e Ferid sapeva la ragione, essendo stato messo al corrente della rocambolesca azione con cui i ragazzi si erano appropriati della lista.

«Quindi voi siete…?»

«Ferid Bathory. Sono il vedovo di Claude Trobiano III» snocciolò con noncuranza, come fosse un dettaglio. «Non so se sia mai stato qui. Devo dire che mi aspettavo qualcosa di più… antico, come sede.»

«Io… sono desolato, ma… dovrei chiedervi di… autenticarvi.»

«Vuole la prova che siamo stati sposati? Non deve sentirsi in imbarazzo. In fondo, a presentarmi così, potrei essere chiunque… oh, dove l’ho messo?»

Non fece in tempo ad aprire la clutch metallica che sembrava una mini valigetta blindata che una delle guardie vi mise la mano sopra. Fingendo imbarazzo gliela lasciò prendere.

«Oh, che trattamento rude. Cosa pensi che abbia lì dentro? Una pistola? Una bomba? Una telecamera?»

L’uomo non rispose e tirò fuori il contenuto un oggetto per volta: prima i documenti ripiegati – il certificato di matrimonio e la copia del testamento, che Kotka consultò immediatamente – e poi una custodia per occhiali da vista e un oggetto rosa, lungo e stretto. Lui lo rigirò tra le dita e Ferid lo fermò prima che premesse il bottone bianco, mettendo la mano sulla sua.

«Fa’ attenzione con quello. È da maneggiare con cautela.»

«Che cos’è?» domandò l’uomo, che aveva un voce ruvida e un accento dell’est.

Ferid si mordicchiò il labbro lanciando un’occhiata alla seconda guardia e a Kotka prima di accostarsi all’uomo. Lo sentì irrigidirsi sotto la mano.

«Un telecomando… no?»

«Per che cosa?»

«Premilo… e sentirai dov’è che vibra.»

«Oh, mio Dio» sospirò la voce di Mika nell’orecchio.

L’uomo si scostò e ricacciò l’oggetto rosa dentro la clutch come fosse una bustina di maionese unta, insieme alla custodia e ai fogli. Al suo cenno Ferid alzò le braccia per una perquisizione che partì proprio dai polsi andando verso il basso.

«Oh, fai con delicatezza lì, per favore. Si sente già abbastanza così, se mi tocchi non so se riuscirei a sopportarlo…»

La guardia terminò la sua perquisizione toccandolo appena e si scostò rapido, come un ragazzino costretto a ricevere un bacio umido da una vecchia parente.

«È tutto in ordine, signor Trobiano… o signor Bathory, se preferite» fece Kotka, con un sorriso untuoso. «Perdonate il disagio delle procedure di controllo, se ci aveste avvertito avremmo potuto rendere più privata la questione…»

La guardia gli restituì la clutch.

«Oh, nessun disagio, quest’uomo ha delle mani di velluto» commentò, fissando lo sguardo su di lui mentre prendeva il contenitore. «A proposito… che cosa fai dopo?»

Incapace di sopportare oltre l’uomo si scostò, incurante di sembrare scortese con un membro di sangue, per uscire dalle porte e accendersi una sigaretta. Con un risolino divertito Ferid si lasciò alle spalle il terzetto e andò alle porte interne dove aveva visto sparire la donna in abito rosa.

«Gran. Bella. Performance» si complimentò Yuu, colpito.

«Non riuscirò a dormire per giorni. Tante grazie, Emissario

«Non fare il santarellino, Osservatore… sei stato tu a parlarmi dei vibratori a telecomando, non far finta di no.»

«Non significa che io li usi!»

«Nessuno di noi due ci crederà mai, Osservatore, rassegnati» commentò Yuu divertito. «Ora mettimi in linea, devo registrare. Niente più commenti spinti da adesso, capito? A meno che non vogliate che lo sappia Whisky Sour.»

«Signor Trobiano, aspetti!»

Ferid si fermò con la mano sulla maniglia. Col cuore in gola riuscì a voltarsi con un sorriso sicuro e incontrò lo sguardo dell’altra guardia, che gli porse un opuscolo di color viola chiaro.

«Non le abbiamo dato questo. Prego, si goda la serata.»

In uno slancio di cortesia gli tenne la porta aperta. Ferid prese l’opuscolo e gli passò accanto, ma quando si sentì stringere il braccio serrò le labbra per non sputare fuori la parola d’ordine subito.

«Io sono libero, dopo. Mi tenga in considerazione.»

Ferid restò basito, tanto che non trovò da replicare. La guardia si ritirò chiudendo la porta dietro di lui e si scrollò di dosso lo stupore solo quando sentì Yuu scoppiare a ridere nell’auricolare.

«Emissario, hai rimorchiato una guardia con la metà dei tuoi anni?»

«Oh, via, non sono la metà.»

«Fidati, è la metà. Guarda che mi ricordo quanti anni hai.»

«La classe non è acqua, ragazzi. Non evapora con il tempo.»

Si avvicinò a uno dei molti tavolini tondi sistemati per la sala. Notò che molti dei presenti lo guardavano e commentavano con le persone vicine, ma Ferid finse di non accorgersene e infilò gli occhiali che aveva nella clutch. Un leggerissimo suono indicò il collegamento.

«Ci sei, Consigliere?»

«Vedo quello che vedi tu, Emissario. Da adesso fino alla fine niente capate in bagno, okay?»

«Perché no? Sei l’unico che conosco che non mi ha mai visto nudo.»

«Non ci tengo!»

Con un sorrisetto divertito Ferid dedicò la sua attenzione all’opuscolo. Come aveva immaginato era un catalogo dei lotti che sarebbero andati all’asta, comprendenti delle statuine sacre africane, un anello appartenuto a una famiglia di esoteristi, una collana di opali che si diceva essere maledetta e, con sua sorpresa, l’Acqua di Cristo.

«L’Acqua di Cristo è in vendita.»

«Cosa? L’Acqua di Cristo?» ripeté la voce di Mika. «Come? Yuu, che hai combinato?!»

«N-non mi chiamare così, idiota! Stiamo registrando!»

«Cosa ci fa la mia Acqua lì?!»

«Non lo so, non… non ricordo, forse l’ho lasciata a Katze quando sono tornato ubriaco!»

«Siete peggio di un pollaio» li zittì, seccato. «Finitela o mi tolgo tutto e me la cavo da solo. A me non importa di nessuna delle vostre idiozie. Sono qui per prendermi l’oro.»

Infastidito fece per sfilarsi l’auricolare, ma una cameriera apparve come dal nulla, con un lungo vassoio tra le mani, sorridendo ammiccante.

«Scelga il suo veleno.»

Ferid scorse gli occhi su sette bicchieri con drink di colori diversi. Sul cartellino infilato sotto la base non c’erano indicazioni sugli ingredienti, ma i nomi dei sette peccati capitali.

«Che pacchiani» commentò Yuu piano.

Ferid trovava l’idea piuttosto stuzzicante, perché era sicuro che aveva un senso ai fini della serata. Passò il dito sui cartellini ponderando, incerto, la sua scelta.

«Scelga con cura… quello di cui non può fare a meno.»

Ferid scambiò un’occhiata con la ragazza e tornò ai bicchieri. Gola si presentava da sé, con il suo ammontare di panna e cioccolato sopra, come Invidia che era di un verde che ricordava l’assenzio. Pigrizia era viola e ozioso, con quelle decorazioni zuccherine.

Il primo che trovò davvero notevole fu Avarizia, un piccolo capolavoro d’appariscenza: il bordo brinato ricordava i diamanti, il liquido era di un verde pallido che sfumava nel giallo intenso, dove piccole sferette davano l’idea di un mucchio di monetine.

Seguiva Ira, un drink rosso intenso che ricordava l’intenso colore del sangue e in cui era infilato un bastoncino di liquirizia, e poi Vanità, un cocktail trasparente con una grande abbondanza di decorazioni.

«Le mie congratulazioni all’ideatore di Vanità» disse allora alla donna. «Un liquido liscio e banale arricchito di orpelli… una poesia di alto livello. Sono molto tentato.»

«Grazie» replicò la cameriera.

«Ma quello di cui non posso fare a meno è un altro.»

Senza esitazione prese l’ultimo bicchiere, Lussuria: un cocktail rosa con le bollicine e un peperoncino rosso imprigionato nello zucchero immerso al centro. La cameriera sorrise allungandogli anche il cartellino.

«Mi sono sbagliata. Credevo di fare centro con la Vanità… Godetevi la serata, signore.»

Appena si fu allontanata prese un sorso del drink e guardò il cartellino. Aveva ragione: il retro aveva un numero.

«Credo sia il numero per l’asta.»

«Tipo… quelle palette con cui fai le offerte?»

«Sì. Per fare un’offerta sollevi questo e diventa il tuo identificativo. Almeno, credo…»

Mise anche il cartellino dentro la clutch, ma prima che potesse studiare i dintorni si trovò una donna davanti, apparsa in silenzio come un fantasma, e come lui vestita tutta di bianco. Non poté non ridere della propria reazione e anche lei accennò un sorriso.

«Mi ha spaventato… Cammina come un gatto sulla neve, signorina.»

«Suppongo sia una sorta di complimento da dove viene lei, signor Bathory.»

Inclinò la testa, studiandola con più attenzione, ma non gli parve di aver mai visto quella donna.

«Ci conosciamo?»

«È la prima volta che ci incontriamo. Claire-Solenne d’Allemand.»

La donna gli porse una mano pallida girata di dorso. Ferid la sollevò per baciarla e non poté non notare l’anello che spiccava sul suo dito medio.

«Un anello antico… da Gran Maestro dei Templari. Un oggetto acquistato qui?»

Claire-Solenne ritrasse la mano e nel suo sorriso si vedeva solo lo sforzo di celare un disprezzo che Ferid non si sapeva spiegare.

«Appartiene alla mia stirpe da quattrocento anni. Da quando un Gran Maestro lo diede a un mio antenato in pegno di gratitudine per avergli salvato la vita.»

«O a un figlio illegittimo?»

Un’esclamazione di stupore venne dall’auricolare quando lei lo schiaffeggiò tanto forte da fargli cadere gli occhiali. Si riprese velocemente dallo stupore e le rivolse un sorriso, anche se questo sembrò alimentare la sua ira.

«Io li conosco quelli come lei, signor Bathory» gli fece, con una voce bassa e fredda. «Brillate di una luce falsa, riflessa da un animo nero come l’abisso. E il vostro massimo divertimento è spargere quell’oscurità intorno a voi come una nebbia che fa perdere la via.»

«Oh, è un trionfo di poetica, signorina d’Allemand… ma temo mi sfugga il senso.»

Solenne sembrò riacquistare la calma dopo quel commento. Strinse la mano sulla croce, l’ultimo pendente di una collana a molti fili che portava sull’abito, tornando a sorridere. I suoi occhi ambrati erano freddi come la brina di febbraio.

«I suoi sforzi sono inutili. Per quanto spaventoso neanche l’abisso può rubare tutta la luce. Neanche se prova a farlo con l’inganno più abile o la catena più salda» flautò lei. «Dio svela tutti gli inganni e rompe tutte le catene. Addio, signor Bathory.»

E veleggiò via, in uno svolazzare di tessuto bianco e passi silenziosi come una sposa fantasma. Perplesso Ferid si chinò a raccogliere gli occhiali e li inforcò.

«Ma chi è quella pazza?»

«Io la conosco, la pazza» fece Yuu. «Cioè… l’ho già incontrata. Era vestita di bianco anche quella volta, e non era a posto con la testa. Comunque è sulla lista: Claire-Solenne d’Allemand, unica femmina del vecchio d’Allemand.»

«Chi è lui?»

«Magnate dell’industria metallurgica in Europa, ha un pozzo di soldi e tre figli maschi… Su di loro niente di che, scandali con l’alcol, prostitute… Uno l’hanno beccato nel mio night club una volta, edè stata una seccatura.»

«E su di lei?»

Ferid bevve il resto del drink mentre Yuu spulciava nel suo computer – sentiva il rumore sulla tastiera – e mordicchiò il peperoncino zuccherato.

«Uhm… nessun precedente. È la pecora bianca, che mi sembra le piaccia essere. Fondazioni, chiese locali, scuole cristiane… wow, è più chiesarola di Crowley.»

«Ora si spiega… sa chi sono. Quindi sa che sono stato il marito di Claude… e forse che sono sposato con un altro uomo. È di questo che parlava.»

Sgraffignò un bicchiere di champagne rosé e lo buttò giù tutto in una volta.

«Ehi… vacci piano, Emissario. Devi restare lucido.»

«È disgustoso sentirsi sempre giudicati da persone che non ti hanno mai visto proprio sulla cosa che rende la tua vita degna di essere vissuta» commentò in un rancoroso sussurro. «Senza Crowley… io non so neanche se sarei rimasto in vita o mi sarei spento. Che Bobby mi trovasse o no, forse sarei morto comunque, troppo stanco per trascinare la mia esistenza.»

Prese un altro bicchiere in cambio di quello vuoto, ma non lo bevve. Il suo pensiero andò ai bambini, che per la prima volta dalla nascita non sentiva né vedeva da tre giorni.

«Invece… ora ho una vita bellissima. E anche lui ce l’ha. E devo riportarcelo, perché nessuno riesce a capire come Emma vuole farsi pettinare i capelli tranne lui.»

Girò lo sguardo dappertutto, su ogni faccia, ma non c’era nessuno che gli sembrasse familiare.

«Vedi qualcuno di noto, Consigliere?»

«Quella donna alta in nero, con la coda di cavallo, a ore dieci. È una dei battitori d’asta, si chiama Irge Sanders.»

«Sembra che stiamo per cominciare.»

Infatti la donna di nome Irge stava salendo sul rialzo in legno che formava una sorta di palco in fondo al salone che si prestava a fingersi un teatro. Ferid notò che gli astanti si aggregavano intorno ai tavolini più vicini allo scranno della Sanders e si avvicinò anche lui, restando tra un tavolo e l’altro per poter parlare ai suoi grilli della coscienza in sicurezza.

Sembrava un vero spettacolo: le luci vennero abbassate – Ferid notò una luce spenta ogni due – e fu chiaro che chi voleva fare delle offerte si avvicinava al palco per essere visto meglio dal battitore. La Sanders accolse i membri dei Figli di Prometeo spalancando le braccia.

«Benvenuti alla settantunesima asta dei Figli di Prometeo del ventunesimo secolo! Come sempre, i Figli di Prometeo portano avanti la loro missione» declamò, con una voce dal tono conturbante, come una zingara che preannuncia il futuro. «Ancora una volta il fuoco, il potere per soli dei, è stato portato a voi! Ora è il vostro turno… la vostra occasione di impossessarvene.»

È brava.

Ferid ascoltò tutta l’introduzione di Irge, che con la voce e i gesti di un’attrice di teatro molto abile si esibì in un monologo di straordinaria potenza espressiva. Quando annunciò il primo lotto Ferid aveva ancora addosso quel brivido che qualche volta aveva provato assistendo alla rappresentazione di opere liriche da parte di interpreti eccellenti.

Si strofinò il braccio con la pelle d’oca mentre entravano le statuine africane, e seguì un feroce gioco al rialzo tra due acquirenti. L’asta era iniziata sul piede di guerra e la Sanders sembrava volerne fomentare l’aspetto competitivo sottolineando quanto i “fuochi di Prometeo” non fossero tutti uguali e donassero sapienze differenti.

Con una certa impazienza continuava a controllare il catalogo a ogni cambio di lotto e stava facendo questo quando Irge batté i colpi di chiusura sulla vendita di un geode di citrino dalla forma di sole per il quale pensava che Krul avrebbe potuto fare follie.

La voce della donna che annunciava il prezzo definitivo occultò il suo singulto ai membri più vicini nella sala, ma non ai suoi grilli parlanti.

«Emissario, che è successo?»

Ma Ferid non poteva parlare liberamente. Posò gli occhi sul bicchiere che gli offriva e capì chi fosse solo dal braccio e dalla giacca che indossava, l’unica parte che vedeva dell’uomo che gli stava appiccicato contro la schiena.

«Sembra molto annoiato, signor Trobiano» gli sussurrò la guardia all’orecchio. «Perché non viene con me? Qui non troverà quello che sta cercando.»

«Ma che… ma è quello che stavi rimorchiando prima?» chiese Yuu sottovoce.

Con suo stupore la guardia gli sfilò gli occhiali appena prima di strofinare le labbra sul suo collo.

«Usciamo… e dica ai suoi angeli custodi di non spararmi addosso. Già che c’è, non mi spari nemmeno lei… oh, sì» fece, percependo forse il suo brivido. «Lo so che è armato… Anche se quella scena con il mio collega è stata molto divertente è stato un azzardo bello grosso. Mi piacciono i giocatori d’azzardo.»

Ferid deglutì, sentendosi la gola del tutto secca anche se non aveva fatto che bere da quando era entrato.

«Sento odore di bruciato.»

«È la parola d’ordine per l’abbandono o per il recupero?»

Oppose una resistenza brusca ma breve al bacio che gli diede sotto l’orecchio, perché lasciò la presa, con una risata allegra.

«Gliel’ho detto, lui non è qui… ma forse mio padre la può aiutare. Venga con me.»

Ferid guardò meglio la guardia, rendendosi conto che era davvero giovane e che poteva essere poco più che ventenne. Indizi su chi potesse esserne il padre, però, non ne aveva. Sentì Yuu rassicurarlo che stava scendendo per venire a prenderlo e il ragazzo sorrise.

«Non lo fare, Consigliere. Non gli succederà niente di brutto… ve lo riporterò sulla porta del vostro appartamento sulla Hermannstrasse all’alba, lo prometto.»

A quel punto Ferid era tanto pallido da sembrare un tutt’uno con il suo vestiario. Il ragazzo gli spostò i capelli, sfilandogli l’auricolare dall’orecchio con un sorriso che metteva la pelle d’oca.

«Passo e chiudo.»

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Capitolo 13
*** Caduti ***


La radio passò da una musica rock a una canzone italiana, poi per pochi secondi di pubblicità prima di fermarsi su un brano di classica. Sul sedile posteriore Ferid era immobile, bloccato dalla cintura di sicurezza e da un intricato passaggio di un cavo rigido tra i polsi, le gambe e le caviglie, e l’unica cosa che sapeva con gli occhi bendati era che il ragazzo continuava a guidare e canticchiare, spostando continuamente il canale.

«Non mi intendo molto di musica, ma sembrerebbe Vivaldi. Lei che ne pensa?»

«Lo è. È l’Autunno, terzo movimento.»

«Ah, alla fine sono riuscito a trovare della musica che le piace! Bene, renderà il resto del viaggio meno sgradevole.»

«Il viaggio per dove?»

L’aveva chiesto in modi diversi almeno tre volte, ma non aveva ricevuto che risposte vaghe. In certi momenti aveva avuto l’impressione di sentire musica dall’esterno e suoni ripetitivi e sospettava che il ragazzo stesse guidando lungo le stesse strade, ma non capiva perché.

«Mi spiace che sia stato necessario, signor Bathory, ma lei è proprio testardo. Mi dica la verità, non avrebbe provato ad aggredirmi anche mentre guidavo, o a buttarsi dall’auto se non l’avessi immobilizzata?»

«Voglio sapere dove mi stai portando» ribadì Ferid. «Continui a girare in tondo perché ci seguono o perché stai cercando un posto che non trovi?»

Il ragazzo rise di gusto.

«Se n’è accorto anche bendato, pur non essendo di questo paese?»

La macchina si fermò e il motore si spense. Quello fu il primo momento in cui Ferid sentì la paura sotto la pelle.

«Lei è proprio straordinario. Credevo che le storie su di lei fossero gonfiate, ma non è vero. Lei è davvero acuto, coraggioso, affascinante, e spregiudicato… L’ammiro molto, lo sa? Se solo fossi stato più grande forse avrei potuto essere io quello vicino a lei…»

Ferid scosse la testa. Non capiva di che cosa parlasse, non capiva che cosa volesse da lui; si sentiva solo terribilmente vulnerabile e per la prima volta correva il rischio concreto di morire e di abbandonare persone care che non erano in grado di andare avanti senza di lui.

Quando sentì lo sportello e il ragazzo che scendeva tese le orecchie per sentire i suoi passi, altre voci, o nel peggiore dei casi il rumore di armi cariche. Non sentì nulla finché non si spalancò lo sportello dal suo lato.

«Ho un coltello a serramanico, signor Bathory. Resti fermo se non vuole che le faccia male… Se le piace quel genere di cose invece… beh, le chiedo di trattenersi. Darle qualche morso mi piacerebbe, ma tagliare è un po’ eccessivo per me. La chiami ingenuità, se vuole.»

Mise la mano sul suo ginocchio e poco dopo le caviglie furono libere. Un pezzo alla volta demolì l’intreccio di cavi liberandogli le gambe e i polsi, e poi gli sfilò la benda.

«Mi perdoni per il trattamento da sequestratore. Ora che sono certo che i suoi angeli non ci seguono posso portarla dove l’aspettano. Posso prenderle qualcosa, per il tragitto?»

La guardia indicò una specie di tavola calda, un posto un po’ in bilico tra il vintage e lo squallido. Ferid, basito, si accorse che erano in mezzo alla strada, una percorsa da automobili e con locali frequentati da clienti serali, ben lontani da magazzini vuoti e strade buie dove temeva di essere torturato e ucciso.

«Fanno un ottimo tè marocchino qui, le andrebbe? Mi sembra ancora molto scosso, se mi permette.»

Ferid lo fissò, e scomparsa la paura di una brutta fine incombente iniziò a salirgli la bile.

«Ma di chi credi che sia la colpa, piccolo bastardo?»

«Le prendo del tè» fu la sua risposta. «Aspetti qui. Dico sul serio, non se ne vada: una vecchia conoscenza di suo marito aspetta da molto tempo di incontrarla.»

Questa vaghissima allusione bastò a inchiodare Ferid lì dove si trovava. Se un vecchio amico di Crowley era lì forse sapeva dove si trovava o come riprenderlo… e una piccola parte del suo cuore si cullò nell’idea di averlo conosciuto quando conobbe anche suo marito, nello stesso posto: una libreria esoterica nel West End.

 

***

 

«Le chiedo scusa di nuovo per la benda.»

Per la seconda volta venne sbendato, questa volta quando era già sceso a tentoni dall’auto. Per prima cosa prese il polso del ragazzo e lo torse, anche se il lamento si trasformò quasi subito in uno scoppio di risate.

«Innanzitutto, finiscila di toccarmi. Quanti punti pensi sia necessario toccare per togliere una benda dagli occhi, eh?»

«Mi dispiace, signor Bathory, non ho resistito~»

«Quanti anni pensi che abbia, ragazzo? Probabilmente ho la stessa età di tua madre.»

«Ma non è mia madre, e se permette, è molto più bello da guardare.»

«Tampina quelli della tua età, moccioso» rincarò Ferid, mollandogli il braccio. «Con delle tattiche così infantili non rimorchierai che altri mocciosi farciti di ormoni impazziti.»

Precedette il suo guardiano verso la porta che vedeva illuminata, che aveva l’aria di essere un ingresso di servizio di quella bella villa nei sobborghi. Trovò aperto ed entrò in quello che era a conti fatti un ingresso per il personale, accanto alle cucine. Sentendo un lieve rumore di acqua e stoviglie sbirciò dalla porta illuminata e vide una signora che preparava un vassoio.

Sordo agli avvertimenti appena ricevuti il ragazzo gli passò la mano sulla schiena.

«Signor Bathory, prego, per di qua.»

Gli spostò la mano bruscamente, ma riuscì solo a farlo ridere.

«Non sei disponibile come volevi sembrare al mio collega! Ti mette tanto a disagio la mia età?»

«Mi mette a disagio essere molestato, rapito e legato da uno sconosciuto, di qualsiasi età. Risponde alla domanda, ragazzo?»

Lui restò in silenzio fino in cima alla scala, poi gli sorrise.

«Mi chiamo Graham… e mi dispiace se ti ho messo a disagio. All’asta mi sembrava il modo migliore di avvicinarti, visto come ti sei posto per entrare… e… beh, non sembrava fingessi. Ci sono cascato.»

«Tengo la mia libido da parte per mio marito, quelle volte in cui riesce a non addormentarsi alla stessa ora di nostro figlio. Va da sé che si accumula a livelli vertiginosi. Ciononostante, non è per te.»

«Graham?»

La voce di un uomo li raggiunse dal corridoio, da una porta socchiusa su una stanza illuminata. Il ragazzo lo precedette e spalancò l’uscio con il sorriso gioioso di un bambino che torna in tempo per la merenda.

«Sono qui, Padre! Scusa se ho fatto tardi, mi assicuravo che non mi seguissero.»

«È qui con te?»

«Sì… signor Bathory, prego» fece, allungando la mano verso di lui. «L’aspetta… entri.»

Aveva un nodo allo stomaco mentre varcava la porta, perché nessuna persona che conoscesse bene Crowley parlava correntemente francese, almeno non che lui sapesse. Nel salottino, una stanza semplice con divani in pelle verde e bei quadri naturalistici alle pareti, un uomo anziano si alzò in piedi per accoglierlo.

«Ah… Ferid. Finalmente… finalmente ti vedo con questi miei occhi! Siedi, siedi. Questa casa è come se fosse tua. Sei il padrone qui, ben più di quanto lo sia io.»

Un’accoglienza simile lo confuse e lo turbò. Cercò gli occhi di quel folletto di Graham come appoggio, ma lui si era ritirato ed era solo con un anziano che non aveva mai visto e che gli sorrideva con gioia e curiosità infantili.

«Io… chi… chi diavolo è lei? Davvero conosce Crowley?»

«Non conosco Crowley» rispose lui con naturalezza. «Conoscevo bene l’altro tuo marito. Claude. Lui ha vissuto qui, in questa casa, per diversi anni insieme a me.»

Dopo quella risposta e il capogiro che gli provocò Ferid ritenne più opportuno sedersi.

 

***

 

L’uomo, presentatosi come Baptiste, posò la tazza del tè sul bracciolo del divano anziché nelle sue mani tremanti. Nonostante il suo evidente turbamento lo guardava con tenerezza e sorpresa, in un modo che gli ricordava sua nonna Nancy quando lo aveva conosciuto da adulto.

«Ormai mi ero rassegnato a non incontrarti mai… Sono lieto che il Signore abbia compreso nei suoi piani questo incontro. Ho sempre ripensato con una certa curiosità a quel giovane di cui Claude mi parlava» gli confessò lui, e accennò alla tazza. «White Peony. Claude mi disse che era il tuo preferito, a quel tempo. Ti piace ancora?»

Ferid si trovò a sorridere suo malgrado. Fra le molte abitudini alle quali aveva cercato di addomesticarlo, la più complessa fu fargli apprezzare il tè, che lui aveva iniziato a disprezzare perché lo associava alla casa dei genitori e alla scuola cattolica.

«Ora preferisco il Flowery Orange Pekoe e il tè di Ceylon con l’albicocca… ma il Peonia Bianca mi piace ancora. Grazie del pensiero.»

Prese la tazza – tremò solo un poco sopra il piattino – e se la mise sulle ginocchia, ma si perse a guardare la stanza. Non c’era molto da vedere ma cercava, come se sapesse di trovare i piccoli segni della presenza del suo primo marito.

«Lui… viveva davvero qui?»

«Sì, c’è stato. Frequentava l’università qui, con mio fratello. L’ho conosciuto così.»

«Non mi ha mai detto che aveva studiato in Germania.»

«Ha vissuto una vita lunga e intensa, Ferid… Sono certo che avrebbe voluto avere il tempo di raccontartela tutta, e ripetersi cento volte come facciamo spesso noi vecchi.»

«Avrei voluto che lo facesse» ammise Ferid. «L’ho perso troppo presto. Avevo ancora bisogno di lui.»

Prese un sorso per inghiottire quell’improvvisa amarezza. Il tè era delizioso e in quella nottata dall’aria frizzante era molto piacevole, per lui che indossava solo della seta. Cercò nuovamente distrazioni nell’arredamento, con poco successo.

«Sembra quasi che tu riesca a sentire il suo ricordo» commentò allora Baptiste. «Questa camera era sua, all’epoca. Ci teneva le sue tele. In quel periodo dipingeva molto, poi, con gli impegni della scuola e la famiglia, smise… Questi quadri qui sono tutti suoi.»

«Veramente?»

«Guarda tu stesso.»

Ferid lasciò la tazza sul bracciolo e si avvicinò al quadro più imponente, un lungo scorcio di un parco con acquitrino, anatre, e altri dettagli sullo spettro del verde che dava il tono all’intera stanza. Nell’angolo trovò una riccioluta, enfatica firma di Claude.

Toccò la tela e si sforzò di immaginarlo, giovane quanto Graham, a dipingere quel quadro… ma non ebbe molto successo, visto che non aveva idea di che aspetto avesse allora.

«Passava qui molto tempo, a leggere e dipingere. Mio fratello arrivava e lo trascinava fuori, per giocare a badminton, uscire con delle ragazze, o chissà che altro! Mio fratello era lo scapestrato, e lo traviava spesso.»

«Non ne avevo idea… mi parlò della sua prima infanzia, e della sua famiglia… dei suoi anni americani, spesso, ma non di questo…»

«Invece di te ci ha parlato molto. O meglio, ci ha scritto, a me e a mio fratello. So tutto di come ti incontrò, di com’eri… Parlò tante di quelle volte del tuo crine di unicorno che pensai che fosse matto, ma ora vedo che non esagerava. Hai davvero i capelli d’argento.»

«Questo posso capirlo… ma come sapevi che ero qui?»

«Mmh… suppongo che per rispondere dovrò spiegarti dal principio, o sembrerò un millantatore con le rotelle fuori posto» considerò lui, fra sé e sé. «Beh, in ogni caso, sei qui per questo motivo. Bene, spiegherò tutto, e spero nella tua comprensione.»

«Da quale principio?»

Baptiste si sistemò il cuscino dietro la schiena per accomodarsi meglio.

«Esistono ancora oggi molte società segrete, Ferid. Gruppi più o meno grandi, più o meno attivi, fondati anche secoli fa, come i Figli di Prometeo che stai tanto caparbiamente inseguendo… Io faccio parte di una di queste società.»

Ferid sentì un brivido lungo la schiena. Distratto dai ricordi di giovinezza di Claude non aveva neanche pensato di potersi trovare in un covo di vipere, e avrebbe dovuto dato che i Trobiano erano nella lista dei mercanti di rarità del vecchio continente.

«Io, come mio fratello, Claude e molti altri, siamo membri dei Caduti. Il nostro scopo sarebbe addossarci le colpe necessarie per realizzare più ampi schemi di salvezza degli uomini. Come Lucifero che cadde per adempiere il più grande piano di salvezza del Signore.»

«Prego?» fu la sola cosa che Ferid riuscì a dire.

«Eh… nella pratica, Ferid, i Caduti fanno qualche lavoro sporco, qualcosa che i buoni cristiani non farebbero volontariamente, per salvare altre anime. L’idea, o meglio la speranza, è che al momento della chiamata il Signore ci assolverà perché i nostri peccati li tolgono ad altri.»

Ferid scosse la testa, confuso.

«Ma… Claude… Claude non ha mai fatto un riferimento cristiano per tutto il tempo in cui sono stato con lui… neanche in punto di morte!»

«Non significa che non avesse fede… e l’aveva, Ferid, te lo posso giurare. Il motivo per cui teneva così tanto a te è stata soprattutto la sua fede. Credeva di essere sopravvissuto ai suoi cari e di aver perso suo figlio soltanto per poter essere sulla tua strada quando sarebbe stato il momento. Era assolutamente convinto di questo.»

«Non… capisco.»

«Vedi… noi… i Caduti, intendo, noi crediamo che il volere di Dio non è totale, ma che muove infinite persone affinché i pochi a cui affida una missione possano seguire il cammino più efficace per compierla. Claude credeva fermamente di essere una persona con il compito di fornirti gli strumenti per proseguire.»

Quella visione dell’esistenza gli sembrava più propria di Crowley che di Claude, e faticava a credere a Baptiste nonostante d’istinto lo reputasse sincero.

Di certo crede che sia la verità… ma… non sembra il Claude che io ricordo…

Dal suo canto Baptiste era convinto di ciò che affermava, ma non sembrava turbato dalla sua resistenza. Con molta tranquillità si versò altro tè e prese da un cassettino del tavolo un fascio di buste da lettere che appoggiò accanto alla sua tazza abbandonata.

«Puoi leggere le lettere di Claude. Sei pratico di francese per capirle, giusto?»

Non se lo fece ripetere e si sedette sul divano verde per trovare un senso cronologico alle missive.

«Comunque, noi Caduti crediamo che ci siano eletti del Signore, persone con specifici compiti» proseguì lui, come raccontasse la sua giornata. «Eliminare una grande fonte di male, liberare i cristiani oppressi da qualche tiranno, sostenere e rinnovare la fede… li chiamiamo Spade di Dio. Per i Caduti, Davide e Mosè ne sono esempi particolarmente…»

Baptiste si bloccò davanti alla reazione di Ferid: era sbiancato e gli erano scivolate le buste dalle mani. Il vecchio sorrise.

«Non ti è nuovo questo nome, vero? È quello che Claude pensava che tu fossi. La Spada di Dio. Un eletto dalle doti straordinarie, necessarie ad assolvere il suo compito… Lettera del giugno 2006. Claude ti chiama così per la prima volta e chiede ai suoi confratelli Caduti di vegliare su di te.»

Restò in silenzio mentre Ferid recuperava la lettera e la leggeva.

Claude parlava di lui in una lunga missiva di diverse pagine. Raccontava ai vecchi amici di alcune giornate, come quella in cui erano stati insieme a trovare la famiglia Trobiano a Silver Waters, ed era un torrente di complimenti su di lui, persino più di quanto gli dicesse a voce. Ricordava i dettagli che descriveva nella lettera e seppe per certo che era stata la sua mano a fissarli sulla carta in un tempo lontano.

Il solo pensiero delle mani di Claude, ancora forti abbastanza da fare qualsiasi cosa volessero compreso scrivere a lungo, bastò ad appannargli la vista e dovette strofinarli per riuscire a leggere il punto essenziale: l’ultimo foglio in cui associava le sue capacità a un essere speciale, e si diceva sicuro di essere diventato il custode di una Spada di Dio. Come preannunciato, chiedeva a Benoît e Baptiste di avere cura di lui se gli fosse accaduto qualcosa.

«Io però non ho mai visto nessuno di voi. Che cosa intendete per vegliare, se non fate niente?»

«Non è stato necessario… Claude ha pensato a tutto. Ti ha nominato erede universale, ti ha sposato… ti ha protetto dai Figli di Prometeo senza il nostro aiuto: non ti possono toccare se sei un loro membro di sangue. Al resto ci ha pensato il Signore, com’è giusto che sia.»

Baptiste scoppiò in una risata che sfociò in un accesso di tosse secca, ma non scalfì l’ilarità nei suoi occhi brillanti.

«Meno male che c’è riuscito, sarebbe stato difficile proteggerti da loro dopo il vespaio che hai sollevato qualche anno fa… Il mistico di Bluefields! Sapessi che cifre sono state messe sul tavolo per averti, Ferid. Chiunque sia legato a una setta mistica o alchemica in affari coi Figli di Prometeo sa tutto delle tue profezie e del tuo operato con la Chiesa dell’Acqua.»

Le parole di Claire-Solenne erano più chiare alla luce di quella rivelazione. Se da un lato l’idea di essere conosciuto da centinaia o migliaia di persone dai fini oscuri era terrificante, dall’altro però sapere che quel breve matrimonio continuava a proteggerlo dal male come un vaccino riscaldava il ricordo di Claude con un affetto nuovo.

«Però, ora tu sei qui. Perché loro hanno preso tuo marito, vero?»

Ferid annuì mesto, straziato dall’interno da una nuova consapevolezza tagliente come un rasoio.

«Lo hanno preso per colpa mia?»

Baptiste si alzò dalla poltrona più veloce che il suo fisico gli concedesse e gli porse un fazzoletto. Ferid lo prese per asciugarsi gli occhi, senza trovare un soffio di fiato per ringraziarlo. Tra rivelazioni e la tensione dell’asta a cui non aveva partecipato era sul punto di crollare, dopo giorni di glaciale efficienza.

«Non, non. Non lo hanno preso per colpa tua. Il loro cacciatore si è sbagliato, anche se di poco. Era alla ricerca di un erede maschio adulto di una certa persona… e tuo marito ne è un parente, ma solo acquisito: l’uomo in questione era sposato con una sorella di suo nonno.»

«Ma… ma quindi è tutto per… per uno scambio di persona?!»

«Sì» ammise lui, grave. «Ma questo peggiora la situazione. I Figli di Prometeo non devono scoprire di essersi sbagliati, perché lo toglieranno di mezzo come un testimone scomodo se succede. Però, non devi affliggerti pensando che sia successo per quello che tu sei.»

Non servì a farlo stare meglio: forse era sollevato dal senso di colpa, ma era indignato e sconvolto che i suoi bambini fossero da giorni a casa di Estelle senza notizie dei padri per un banale errore.

«Non perderti d’animo… ti aiuteremo noi. Siamo i Caduti. Il massimo che possiamo ambire nella vita è agire in aiuto della Spada» lo confortò Baptiste, strofinandogli la mano sul braccio. «Lascia che ce ne occupiamo noi. Tu torna a casa dai tuoi figli, non esporti qui. La Germania è una delle piazze alchemiche più grandi del mondo, e in quanto fautore della caduta dell’Alchimista del secolo Dirk Todd non sei ben visto.»

Ferid affondò le unghie nel proprio braccio, raggelato. Non aveva assolutamente collegato Bobby alla comunità alchemica che poteva essere legata ai Figli di Prometeo, e quella non era che una ulteriore ombra minacciosa sulla vita di Crowley. Se non potevano toccare lui chi gli impediva, però, di vendicare il grande alchimista uccidendo il marito del suo assassino?

«Troverò Crowley» disse allora a Baptiste, «e poi me ne tornerò a casa. Lui ha bisogno di me. Sono stato la sua spada fin da quando ci siamo incontrati, la sua spada e il suo scudo. Lo salverò un’altra volta. Io… e i bambini… abbiamo bisogno di lui.»

«Per favore, Ferid… sono persone potenti. Se ti metti contro di loro così apertamente attaccheranno tutti i tuoi cari che non sono protetti dallo stato di sangue.»

Ferid sfuggì alla presa consolatoria di Baptiste e si alzò dal divano.

«Ti ringrazio per la tua premura… Ti ringrazio anche per avermi parlato di Claude. Ma se davvero sei un Caduto dovresti sapere che niente bloccherà una Spada di Dio.»

L’uomo annuì con aria grave, ma poi sorrise.

«È vero. Se sei così determinato dev’essere il Signore ad aver pianificato tutto. Fa’ quel che devi fare, Ferid. Se hai bisogno di qualcosa ti puoi sempre rivolgere a noi.»

Ferid mosse qualche passo verso la porta, ma poi si fermò.

«È vero che Crowley non era all’asta?»

«Non era all’asta, no. La sua acquisizione è stata un affare privato. Trova il mediatore e troverai l’acquirente.»

Annuì e aprì la porta del soggiorno, trovando Graham che aspettava in corridoio con un libro aperto tra le mani.

«Ah, Ferid?»

Baptiste si alzò e tese un sorriso, ma non lo guardava.

«Quando risolverai tutto… cenate qui da me, prima di tornare a casa. Ci terrei a conoscere l’uomo per il quale una Spada di Dio combatte così strenuamente.»

«Ti farò sapere quando saremo liberi.»

Ferid lasciò il soggiorno e Graham l’accolse con un sorriso.

«È pronto per il suo passaggio a casa, signor Bathory?»

«Oh, non mi dai più del tu, adesso?»

«Spiacente, signore, sono stato rimproverato per la confidenza eccessiva. Mi è stato detto di farlo non prima di altri dieci anni.»

«Tra dieci anni questo vino non sarà più buono per te» commentò Ferid mentre scendeva le scale per le quali era arrivato. «Spingi le tue mire sull’uva, non sull’aceto.»

 

***

 

Dall’ombra del corridoio si fece avanti una figura che rimase ferma, in attesa. Solo dopo che lo scatto della porta di servizio soffocò le leziosaggini di Graham marciò decisa dentro il soggiorno.

«Non erano i patti, Baptiste. Dovevi fermarlo.»

L’uomo sorrise.

«Trovi che sia un uomo che si lascia fermare con una pacca sulla spalla e un amorevole “mi occuperò io di tutto”?»

«Certo che no, o non sarebbe neanche partito da casa. Per questo contavo su di te.»

«È la Spada di Dio. Se il Signore ha i Figli di Prometeo come nemici, o coloro che vogliono l’erede di Montague, la Spada li troverà e li annienterà. Come ha fatto con l’Alchimista del secolo, o con la corrotta catena di potere della Chiesa dell’Acqua» replicò pacato Baptiste. «Né tu né io, né tanto meno loro, potranno fermarla. Come non hanno potuto il gigante Golia, il Faraone e neanche il Mar Rosso.»

L’altro schioccò le labbra, infastidito.

«Via, Baptiste… sono storie esagerate dalla mistificazione che ha permeato tutte le Scritture.»

«Lo sono? Noi non c’eravamo, come possiamo essere certi che fosse un’esagerazione?»

«Sì, ma quello non è Mosè, va bene? Non ha mica aperto l’acqua mentre affogava nel Mississippi, è stato salvato da un altro. E neanche è veramente responsabile della scomparsa dell’Alchimista, quello s’è buttato di sotto da solo.»

«Il tuo scetticismo brusco mi suggerisce che qualcosa in questa storia ti urta. Forse… ti senti in colpa perché sai che hai messo tu il bersaglio sulla schiena di suo marito?»

Il vecchio tese un angolo della bocca in un ghigno amaro vedendolo incrociare le braccia. Lo conosceva abbastanza da sapere di aver fatto centro.

«L’hai messo in pericolo. Non hai potuto impedire che lo prendessero e neanche che lo vendessero. E ora cerchi anche di bloccare la strada a qualcuno che sta cercando di salvarlo.»

«Basta» mormorò l’altro.

«Sei un Caduto. I tuoi peccati devono salvare l’anima di altri, non distruggere le loro vite.»

«Basta, Baptiste, ti avverto…»

L’uomo si raddrizzò sulla poltrona, l’espressione ferrea.

«Servire la Spada di Dio è il compito più alto che un Caduto possa vedersi affidato nella sua vita, e tu hai già snaturato il tuo ruolo sfruttando la Spada per una tua vendetta. Ora intendi lasciare che commetta un peccato mortale a causa di quello che hai scelto di non fare?»

«Se tu l’avessi convinto a fermarsi, non—»

«Il peccato è uno strumento che usiamo quando necessario, non per istinto di autoconservazione! Noi siamo gli agnelli del sacrificio, non i lupi! È questo che hai imparato da me in tutto questo tempo?»

L’asprezza di quel rimprovero sortì finalmente l’effetto che cercava di scatenare da giorni: prima l’allievo allentò la sua difesa e infine si inginocchiò accanto alla poltrona, abbandonando la testa sulle sue gambe. Baptiste sospirò e accarezzò con fare paterno i suoi capelli colori ebano.

«Rimedia ai tuoi errori, Ismael… Sei ancora in tempo per evitare una corruzione imperdonabile della tua anima.»

Dagli occhi verde pallido da gatto scivolò via una lacrima.

 

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Capitolo 14
*** Autonomia ***


Indrek Kotka quella sera scelse uno dei locali che frequentava di meno, per bere qualcosa in modo rilassato: aveva affrontato la settimana più difficile della sua vita dopo quella in cui subentrò al concierge suo predecessore nei Figli di Prometeo.

Sedette a un tavolino d’angolo, nascosto dalla vetrina da una grossa pianta in vaso, con un bicchiere di Sazerac su un tovagliolino. Gli piaceva la musica jazz in sottofondo e si godette un paio di sorsi ascoltando il chiacchiericcio e guardando con curiosità gli altri clienti, finché non ne sbucò uno che venne a sedersi proprio di fronte a lui.

«Ahh, ecco… ci…»

Il ragazzo lo guardò sbalordito quanto lui, poi girò la testa per scandagliare il locale.

«Ma che… oh, ma dai… cazzo!»

Il ragazzo sbatté la testa sul tavolo.

«Non può essere successo di nuovo!»

Kotka intuì dai due bicchieri che portava che si aspettava che ci fosse qualcun altro al tavolo, ma visto che era già vuoto quando aveva ordinato il suo Sazerac la sua compagnia doveva aver preso il volo subito.

«Cazzo» borbottò di nuovo il ragazzo.

Sembrava sull’orlo delle lacrime. A Kotka dispiaceva sinceramente per lui; non poteva dire di non aver ricevuto dolorosi due di picche in vita sua, anche da ragazzo.

«Potresti chiamarla e chiederle di tornare. Sai, le ragazze tendono a tornare sui propri passi se sono costrette a spiegare con chiarezza il perché di un rifiuto…»

Il giovane si passò la mano nei capelli, balbettando qualcosa di incoerente. Si soffermò sui capelli biondo-castani, sulle dita, su una fronte piuttosto spaziosa.

«Il fatto è che… non era una ragazza» spiegò lui, in imbarazzo. «Ero… abbiamo… deciso di uscire, io e un mio compagno del tennis… Credevo che… beh, che almeno potessimo parlare un po’… e se passavamo una bella serata…»

Quando sorrise gli guardò le labbra, rese morbide da qualche tipo di balsamo. Fu allora che decise di non mancare quell’occasione ghiotta. I suoi occhi velati passarono al di là della vetrina, poi, così com’era arrivato, si alzò.

«Beh, non ha importanza, adesso… Scusa se sono piombato qui così. Se ti piace bevilo, a me non va più. Passa una buona serata, almeno tu.»

«Aspetta, aspetta… che fretta hai, eh?» lo bloccò Kotka. «Su, siediti. Io sono qui da solo, magari non è un caso che ci siamo incontrati. Come ti chiami?»

Il ragazzo tirò un sorriso timido e tornò indietro, ma non si sedette.

«Lukas… Lukas Spiegel.»

«Io Indrek. Dai, almeno bevi quello che hai preso. Maschio o femmina, qualcuno che ti pianta senza un saluto non merita che tu stia a piangerlo.»

Dopo una leggera esitazione annuì e si sedette. Aveva un bel sorriso, persino nell’imbarazzo. Anche se non rispondeva ai canoni rigidi che chiedeva a ogni agenzia – ragazzi biondi con occhi chiari e pelle bianca e liscia come alabastro – quel ragazzo gli piaceva. Se giocava bene le sue carte poteva anche trovare un amante gratis, e sarebbe stata la prima volta che riusciva a farlo da più di vent’anni.

«Perché non mi racconti qualcosa di te? Del tennis, per esempio… di solito chiedo se vengono spesso in questo locale, ma tu sei troppo giovane per venirci da tanto.»

Aveva preso la conversazione nel tono giusto: scherzoso, amichevole, simpatico. Lukas rise e iniziò subito a raccontargli dei suoi studi in lingue straniere e del tennis, dei tornei e dei suoi compagni d’allenamento al club sportivo. Poi venne a raccontargli del suo nuovo lavoro nella sicurezza e si accorse che erano stati all’asta la stessa sera.

Colpa mia che non guardo mai in faccia quegli scimmioni… guarda che cosa mi stavo perdendo!

Con scherzose osservazioni sulla sua distrazione andò via il primo bicchiere e poi anche l’altro, e Kotka offrì un altro giro per entrambi.

Dopo una lunga tirata su come suo padre non capisse che i suoi gusti sessuali erano per donne e per altri uomini Lukas svuotò d’un fiato il quarto bicchiere e non spostò la mano che Kotka gli mise sul ginocchio. La serata prometteva bene.

 

***

 

«Non mi porti a casa tua?»

Sopraffatto dai fumi dell’alcol e dall’inebriante sensazione di avere quel bel ragazzo seduto in braccio che si lasciava fare quello che voleva, quasi non lo sentì neanche.

«Mh… cosa?»

«Vuoi farlo qui?» chiese lui, aprendo la fibbia della cintura. «Forse a casa stai più comodo che in macchina…»

Annebbiato dall’estasi sì, ma non abbastanza da dimenticare il disastro sfiorato a casa sua per colpa di quel ragazzo subdolo. Si aggiustò gli occhiali.

«Ehm… casa mia è… al momento…»

«Sei sposato?»

Kotka soffocò un gemito. Quel ragazzo poteva anche essere giovane e goffo nell’ammaliare i suoi coetanei, ma conosceva delle buone mosse.

«Oh, no… no… Solo… custodisco delle cose in casa, per conto dell’organizzazione… Non sarebbe prudente portare in casa persone che non conosco, capisci…»

«Ah… sì, certo. Ehi, perché non andiamo al Falck? È economico, ci si fermano tanti camionisti per fare la pausa prima di mettersi sull’autostrada. Non è male, lo giuro» insistette. «Ci sono stato qualche volta. Le lenzuola sono pulite e i bagni profumano di detersivo.»

«Oh… beh…»

Si prese un buon minuto per riflettere. La lista e il registro erano nella cassaforte del seminterrato, più nascosta e avanzata di quella dietro il quadro, e aveva appena stipulato con la società di sicurezza un contratto con opzioni di controllo migliori, tra le quali un allarme sul suo telefono se fosse successo qualcosa in sua assenza. Anche se il ragazzo fosse stato una distrazione non poteva entrare nessuno in casa, nessuno che potesse trovare e forzare il suo caveau in meno di sei minuti, il tempo stimato di arrivo della sicurezza.

Accarezzò il fianco di Lukas mentre lui lo mordicchiava. Perdersi un’occasione così succulenta per un residuo di paura sarebbe stato un peccato… e da una camera di motel che cosa poteva mai prendergli di importante?

«Devi avvisare qualcuno che resti fuori?»

«Allora ci andiamo? Non te ne pentirai, Indrek. So fare cose che neanche ti immagini se mi posso muovere come mi pare.»

Era più eccitante di qualsiasi cosa Itkar gli avesse mai detto. Mise subito il GPS a caccia del motel chiamato Falck, mentre sul sedile accanto Lukas telefonava dal suo cellulare.

«La nonna crederà a tutto quello che le dico, quindi non… Ciao, nonna, sono Lukas! Ah, ciao, nonno» si corresse lui. «Ancora sveglio? Prendi la tua camomilla e vai a dormire, nonno. Io resto a fuori dal mio amico Andi… quello con gli occhiali, te lo ricordi?»

Scambiò un’occhiata con lui mentre guidava e gli fece un sorrisetto prima di allungare la mano.

«Sì, per dormire… La camomilla, nel barattolo bianco. Sette… diciamo cinque minuti in acqua bollente, va’. Buonanotte, nonno.»

Lukas chiuse il telefono e prima ancora che potesse chiedergli se era tutto a posto si gettò dal lato del guidatore. Sentiva mani e bocca dappertutto; non aveva mai conosciuto un ragazzino così. Spinse al massimo l’auto per arrivare il prima possibile.

Appena parcheggiato fu lui a saltar giù proponendosi di prendere la stanza, perché a fare il turno di notte c’era un certo suo amico che gli faceva poche domande. Con ancora i residui di sospetto dello scherzetto precedente lo attese con la chiave pronta e i finestrini chiusi, ma dopo un minuto o due Lukas riapparve con la chiave e un gran sorriso.

«Che aspetti, Indrek? Ho la chiave, andiamo! Sto scoppiando, tu no?»

Infatti non riuscì neanche a richiudere lo sportello che gli si era avvinghiato addosso con tanta foga da fargli quasi cadere gli occhiali. Suo malgrado continuava a pensare che se solo fosse stato più biondo e un po’ più chiaro sarebbe stato l’amante perfetto.

Forse lo potrei convincere a farsi biondo… potrebbe anche bastare… dopo questa serata, magari…

La porta della stanza sette si spalancò sotto il loro peso. Lukas lo spinse seduto sul letto senza neanche accendere la luce e chiuse la porta col piede, strappandosi di dosso la maglietta. Nella foga di vedere ogni centimetro Kotka tastò in cerca dell’interruttore e accese la lampada sul comodino.

La sua libido si congelò quando sentì del metallo premuto contro la testa e poi si ghiacciò anche l’animo nel vedere Lukas che non sembrava stupito né spaventato.

«Ben fatto, Graham, ma chiamami di nuovo nonno e penso che sparerò anche a te» disse una voce sepolcrale alle sue spalle. «Puoi rivestirti, adesso.»

«Se ti piace quello che vedi posso restare così» lo stuzzicò il ragazzo, Lukas o Graham che fosse.

«Sono troppo occupato per questo.»

Il ragazzo si rimise la maglietta borbottando qualcosa che sembrava, in tedesco, “tutto lavoro e niente piacere”. Una mano lo prese dal collo tirandolo giù sul letto, e da sotto in su vide un viso che gli era rimasto impresso dalla sera dell’asta.

«Ci rivediamo, Concierge. Sicuramente prima di quanto ti aspettassi.»

«S-signor… Trobiano? Ma che cosa succede…»

Fu strattonato e un groviglio confuso di mani e braccia gli fece cadere gli occhiali; si ritrovò con il collo stretto in una morsa a faccia in giù sul copriletto e il ginocchio di Graham in mezzo alla schiena. Una musica alta, di quel genere hip-hop che piace a molti ragazzi, si alzò dal fondo della stanza.

«Facciamo una cosa rapida, Kotka, e magari possiamo spendere il resto della serata in qualcosa di più produttivo. Nel tuo caso, per esempio, respirare

«C-che… che cosa vuole da me?»

«Crowley O’Brian Eusford. Chi ce l’ha?»

«C-chi?»

Ferid Bathory non assomigliava al vezzoso individuo che gli era comparso davanti all’asta: i suoi occhi celesti mandarono un lampo minaccioso che lo fece agitare nella presa di Graham, senza successo. Gli vennero spinti in faccia gli occhiali, solo perché Ferid potesse mostrargli il tagliasigari.

«Non te lo chiederò di nuovo. Tu tieni il registro. Devi sapere chi l’ha comprato.»

«N-non so niente, io… giuro che non so di che cosa parla…»

«Graham» fece allora aprendo le lame. «Trovami qualcosa da metterci dentro.»

Le proteste furono stroncate dal dolore al braccio, ma riprese a implorare freneticamente mentre la lama sfiorava il dito che avevano infilato nel tagliasigari. Graham gli affondò la testa nel copriletto mentre si chiudevano incidendo il polpastrello e l’unghia e il suo grido disperato finì soffocato lì, coperto da una biancheria sciatta color muschio e da una musica orribile.

Con la fronte imperlata di sudore, occhiali ammaccati e lacrime per il dolore lancinante alzò lo sguardo su Ferid ancora una volta.

«Non mi importa di tagliarti quello che sporge. Se a te importa tenertelo, parla.»

«N-non lo so!» urlò accorato. «Non era all’asta! Io accludo il registro del Battitore d’asta, non tengo le vendite private!»

«Chi lo fa?»

«V-vi prego… f-fa male, s-sanguina… Il mio dito…»

La lente sinistra si incrinò, schiacciata dalla scarpa che gli pressò in faccia.

«Chi si occupa delle vendite private?»

«I-i singoli Battitori!» gridò Kotka terrorizzato. «Chi fa la vendita la registra, solo loro possono farlo, con la vidimazione di un Gran Maestro!»

«Quindi tu non mi servi a niente» commentò Ferid, togliendogli il piede dalla faccia. «Pensi di potermi portare uno dei Battitori, Graham?»

«Oh, andiamo! Questo era un viscido, era facile prenderlo all’amo…» protestò lui, lagnoso. «Però, se tu mi dessi un incentivo stuzzicante, prometto di provarci con tutto me stesso!»

«Mh. Se lo ammazzo? Magari il branco si agita e nella confusione io metto le mani sui documenti…»

«No!» l’interruppe Kotka, con un fiacco sussulto. «Io… Eusford… Eusford era stato messo nella prima lista! Quella che facciamo prima dell’asta!»

Non gli importava di essere fedele ai Figli di Prometeo, non a costo della sua vita. In fondo stava dando un amichevole consiglio a un membro di sangue perché rintracciasse una merce che gli interessava presso un altro membro: in linea di massima questa non era una violazione delle regole, non finché non rivelava il nome dell’acquirente.

Sì, è lui… è lui a infrangere le regole! Attaccare il Concierge è qualcosa di… inammissibile! Il Concierge è l’ambasciatore neutrale tra i Maestri e i clienti!

Strinse i denti forgiandosi queste parole nel petto, per trovare il coraggio e la lucidità.

«Era nella lista provvisoria… era… era nella categoria della storia del cristianesimo! Abbiamo un solo genealogista d-del cristianesimo, Derrickus Parmentier-Lynch… Derrickus Parmentier-Lynch deve averlo autenticato, sa chi l’ha portato e forse anche a chi è stato venduto! Non esercita da tanto, ma è anche un Battitore, può averlo venduto lui!»

Aveva il fiato corto e lasciò ciondolare la testa, sfinito da quello sforzo. Il silenzio che quei due tennero sembrava infinito, poi Graham lo mollò. Singhiozzò come un bambino portandosi la mano ferita al petto, tremando alla vista di tanto sangue e di una falange quasi tagliata via.

«Andiamo da questo Derrickus, adesso?»

«Non so dove sia… ma un uomo simile non è difficile da trovare. Non mi serve altro.»

La musica si staccò, lasciando la stanza in un silenzio opprimente. Guardò Ferid riporre il cellulare nella tasca senza cambiare quell’espressione marmorea e lo seguì con gli occhi fino alla porta. Osò sperare che fosse finita.

«Ti farò sapere quando mi servirai ancora, Graham.»

«Signor Bathory, penso di amarti» fece lui adorante quanto un cagnolino che guarda il padrone che lo nutre. «Posso servirti per sempre?»

«Fatti una doccia fredda.»

I suoi occhi celesti, quelli di una bellissima bambola senz’anima, si fissarono su di lui. Kotka si raggomitolò come un topo che si nasconde nell’ombra.

«Ma prima smaltiscilo… con discrezione.»

Un barlume di luce mandò un riflesso argentato sui capelli quando voltò le spalle alla stanza. La porta si richiuse, l’incanto che teneva Graham ipnotizzato si ruppe e con l’aria spaesata si guardò intorno, finché non posò gli occhi su di lui.

Poi sorrise, come l’orrenda maschera Han’nya del teatro giapponese.

 

***

 

Yuu stava mangiando in un fast food delle patatine mollicce, con gli occhi fissi al di là del vetro, dove Mika aspettava con delle cuffie nelle orecchie e un bicchiere di bibita dietetica. Si dimenticò persino di quanto fossero pessime quelle patatine quando lo vide appoggiarsi coi gomiti sulla ringhiera della salita per disabili.

Di sicuro si era accorto di non essere più nel suo paesino sperduto di quattromila anime nel Kentucky: dubitava che si sarebbe messo dei pantaloni attillati e rossi, se fosse stato ancora tra contadini in salopette e manovali in camicia a quadri e scarpe da lavoro.

«Sei interessato a uno scambio?»

Yuu distolse malvolentieri lo sguardo dai fianchi di Mika per guardare Guren, e per poco non scoppiò a ridere: con i capelli biondi e quegli occhiali antiquati era a dir poco ridicolo, per non parlare del golfino di cotone.

«Certo, che cosa vuoi per il tuo letto a Eton?»

Guren si infilò sulla panca di fronte con un borbottio indistinto.

«Il proiettile che ti sei preso una settimana fa, magari. Ce l’hai ancora?»

«Lo tengo nel mio carillon portagioie» replicò lui, beffardo.

Guren aprì il pacchetto con il pezzo da collezione in regalo presso la catena di ristoranti. Il pupazzetto a Yuu pareva proprio una rapa.

«Ehi, ti si addice proprio. Tienilo tu» fece, gettandoglielo. «Il tuo regalo per il congedo.»

Yuu prese l’oggetto dentro la bustina, rigirandolo tra le dita.

«Mi hai chiamato per farmi ingoiare patatine schifose e il tuo arrivederci e grazie?»

«Non ti ho detto io di ordinare le patatine, e non ho intenzione di ringraziarti.»

Depose la maschera di indifferenza e gli lanciò il pupazzetto sul vassoio.

«Che cosa cazzo vuol dire, Guren? Sono qui da cinque anni a raccogliere informazioni. Sono stato addestrato apposta. Non puoi mandarmi in panchina.»

«Il direttore ha deciso che il caso Prometeo passa all’Interpol. Ci ha già ordinato di passare tutte le informazioni ad Agathe Randall, la nuova responsabile dell’operazione.»

«Ma ci siamo! Loro hanno preso Crowley, un cittadino americano! Basta un altro passo soltanto, e possiamo avere tutta la giurisdizione che serve per le intercettazioni, i mandati, tutto!»

«Fuori tempo limite, Stephan. Dopo il guaio che hai combinato sulla Rudolstaedter il supervisore è uscito di testa. Lo sapevi che non eri autorizzato per nessun motivo a una perquisizione in un’abitazione privata, figurarsi a usare in mezzo alla strada armi che non puoi detenere.»

«Come lo sai?»

Guren lo guardò, incredulo.

«Scherzi, vero?»

«I telegiornali hanno parlato di incidente.»

«Noi siamo i federali» fece lui in un soffio rabbioso. «Pensi che non scopriamo cos’è successo? Pensi che la bustarella al medico legale cancellasse le incongruenze? Abbiamo capito subito che hai provato a rubare i documenti al concierge.»

Yuu guardava Guren con sospetto per la prima volta da quando entrò in quella caffetteria per avere notizie di Bluefields, e non gli sfuggì che lui lo studiava con altrettanta diffidenza.

«A proposito… dov’è?»

«Dov’è chi?»

«Il concierge, Stephan. Stamattina non lo ha visto nessuno.»

«Non ne so niente.»

Mantennero sguardi fissi a lungo, finché non fu Guren a scrollare le spalle.

«Non è più un mio affare. Vallo a dire alla Randall dove hai messo il concierge, e veditela con lei. L’ho sempre saputo che eri un cane sciolto.»

«Mi avrebbe fatto ridere se ti fossi illuso di avere qualche controllo su di me, visto che io ti ho obbligato a prendermi nella tua squadra. Fin dal primo giorno sono io che uso voi, ricordalo.»

L’astio che fulminò i suoi occhi lo rese simile a una bestia per un attimo, prima che riprendesse il controllo di sé. Indifferente alla sua rabbia Yuu prese la penna regalo e provò a scrivere sul tovagliolo.

«Come osi? Non sapevi fare un bel niente. Ti abbiamo insegnato tutto, compreso quel tedesco autentico che ti ha permesso di non farti mai scoprire.»

«Mi avete insegnato quello che ho voluto che mi insegnaste, non credere. Ho imparato quello che mi occorreva per completare la mia missione. E ora non mollerò finché il mio amico non sarà al sicuro, che tu faccia qualcosa, che la Randall faccia qualcosa, oppure no.»

Yuu sbatté il tovagliolo dall’altra parte del tavolo e si alzò.

«Le mie dimissioni. Per la Randall, non ho niente da dirle. Tanto non so niente più di un mese fa, per questo scaricate un’indagine arenata all’Interpol, no?»

Se c’era una cosa che Guren detestava più di qualsiasi altra era non avere il controllo: sulle situazioni, sulla squadra, sulla sua stessa vita. A parere di Yuu, la fonte primaria di ogni suo fallimento.

«Provaci soltanto, Stephan, e giuro che rimpiangerai il giorno in cui hai portato quel diario da me!»

«Lo faccio già» replicò lui asciutto. «Fatti un favore, Guren: prendi qualche lezione di surf. Impara a stare in piedi e cavalcare le onde invece di ostinarti a cercare di appiattire il mare.»

Lo lasciò là, a rimuginare o a controllare la rabbia, e uscì dal fast food con la sensazione che la porta chiusa dietro di lui fosse quella di una vita: quella che si era scelto quando Mika l’aveva lasciato.

E adesso? Adesso che cosa rimane?

Mika non si era accorto che fosse dietro di lui. Muoveva la testa appena a ritmo di qualcosa che stava ascoltando e Yuu ne fu grato, perché poté guardarlo e pensare. Non ci mise molto, comunque: se Mika era sempre stato pronto – dall’aggressione del Vampiro a Ferid nel vicolo alla complicata copertura a Bluefields – ad agire per quella che riteneva essere la cosa giusta, allora lui non poteva essergli da meno.

Allungò la mano sfiorandogli la spalla. La sua maglietta aveva uno strano taglio che la lasciava scoperta e indugiò qualche attimo in più sulla sua pelle, ma lui non ci badò mentre si accorgeva del suo arrivo e sfilava le cuffie.

«Oh, eccoti. Quindi?»

«Mi è stato ordinato di abbandonare l’operazione. Passa tutto in mano all’Interpol.»

La notizia sembrò non scalfire minimamente Mika.

«Che cosa vuoi fare?»

«Salvare Crowley, prendere Katze con le mani nel sacco e costringerlo a cantare con l’FBI, o l’Interpol, chiunque ci sia ad ascoltarlo.»

«Mi piace. Come lo facciamo?»

Yuu afferrò il braccio a Mika. Avrebbe preferito non avere alcuno scrupolo di coscienza, tenerlo accanto ancora per giorni, forse settimane… ma non poteva.

«Mika… ho dato il benservito a Guren, e nel migliore dei casi significa solo una nota di cattiva condotta per il mio prossimo lavoro, che sarebbe a una scrivania a mandare e-mail in tedesco agli uffici esteri. Nel peggiore proverà ad arrestarmi per evitare che faccia più guai di quelli che ho già fatto.»

«Stai dicendo che vuoi tornare a casa o che vuoi nasconderti da qualche parte?»

«Andrò avanti con la mia missione finché questi sette duri anni non avranno dato frutti. Ma non posso chiederti di venire con me, Mika. Sarà rischioso e non potrò neanche prevedere se l’Interpol mi metterà un bersaglio addosso. No, è ora che torni a casa, al sicuro, dove ti può ammazzare solo la noia.»

Mika scoppiò a ridere.

«Okay. Hai fatto il bravo ragazzo, mi hai detto che non devo rischiare la pelle. Ora mettiti l’anima in pace e dimmi qual è il piano.»

«Mi stai ascoltando o no?»

«Ogni parola. Ma sono io che decido, Yuu. Mi hai detto di andarmene, mi hai detto perché pensi che debba farlo, e io scelgo di restare. Da solo non puoi fare niente tranne morire, in due possiamo sicuramente pensare a qualcosa che funzioni meglio dei tuoi colpi di testa.»

Basito, Yuu non seppe che cosa dire. Voleva insistere ma se lo conosceva come credeva non avrebbe fatto altro che indurirgli la testa.

«Tu… tu sei veramente ostinato, Mika. Ostinato e pazzo.»

«Pazzo abbastanza da andarmene da New Oakheart.»

Guren, nel suo buffo camuffamento, uscì dal ristorante guardando dalla loro parte. Mika lo riconobbe e prese Yuu per mano per allontanarlo.

Non capiva se Mika si ritenesse pazzo per essere partito alla volta di Bluefields o pazzo per essere andato a Miami, ma le due scelte avevano avuto fondamentalmente la stessa conseguenza: spezzare il loro legame. Nel suo cuore voleva credere che Mika, allegra fattoria a parte, rimpiangesse la scelta impulsiva che aveva fatto; e lì per lì un dubbio mai affacciato prima lo sfiorò.

Strinse la sua mano per bloccarlo.

«Hai mai… Mika, hai mai… provato a cercarmi a casa, dopo essere partito?»

«Di quale morte vuoi morire, Yuu? Di rimpianto perché sei partito e mi hai fatto trovare un appartamento vuoto quando sono tornato o di tormento perché non sono mai tornato sui miei passi?»

Si morse il labbro, già pentito di avergli fatto la domanda.

«Sono qui con te, adesso. Scelgo te, adesso che hai bisogno di qualcuno. Te l’ho detto» insistette Mika, abbracciandolo. «Siamo qui perché dovevamo esserci. Perché questo lavoro toccava a noi. Perché è il tuo turno di liberarti del passato.»

Il marciapiede e il parcheggio brulicavano di persone che li guardavano, straniti da quell’effusione in pubblico. Yuu chiuse gli occhi per non vedere le loro facce e dare importanza a qualcosa di esterno a loro.

«Lo fai… per me… vero, Mika?»

«Per te, sì… per Crowley, e Ferid. Per me siamo ancora una specie di famiglia, anche se tu… sei scomparso dalle nostre vite per tanto tempo. Perché voglio che ci torni.»

Mika lo lasciò proprio quando si era deciso a stringerlo e gli schiaffeggiò le guance con entrambe le mani.

«Ora puoi smetterla coi piagnistei e tirare fuori un piano? Non è che abbiamo tanto tempo.»

Yuu rise e riprese il controllo delle sue emozioni, e soprattutto della sua mente.

«Ce l’ho, un piano. Ce l’ho in mente da tempo… ma non potevo usarlo, perché qualsiasi prova avessi trovato sarebbe stata considerata acquisita illegalmente. Ora, però, non sono più nell’indagine e neanche un agente, perciò…»

Un brillio passò nello sguardo di Mika, un guizzo di entusiasmo o di follia.

«Perciò abbiamo un piano.»

 

***

 

Una risata secca come un colpo di tosse scosse Ferid mentre scendeva dall’auto. La residenza che gli avevano indicato come principale abitazione di Derrickus Parmentier-Lynch aveva uno straordinario cattivo gusto con quegli elementi barocchi incastonati un brillante esempio di architettura gotica e si fece subito l’idea di stare per incontrare un uomo vestito troppo elegantemente anche in casa, con vistosi gioielli in oro e l’aria di essere un intenditore di qualsiasi cosa avesse un alone di raffinatezza.

Che mostruosità.

La villa non aveva un arredo strabordante nel cortile, ma Ferid già notava un’accozzaglia di stili da mettere i brividi a chiunque avesse mai aperto un libro di storia dell’arte. Era attratto e repulso in egual misura da quei dettagli, tanto che non riuscì a distogliere lo sguardo da una tremenda triade di cherubini in cima a una colonna di pietra del primo periodo ellenico. Era accanto a una ripugnante scultura di testa di cavallo moderna, surrealista.

«Il signor Trobiano?»

«Sì» fece alla guardia, senza distogliere gli occhi da quella deformità.

«Il signor Parmentier-Lynch la sta aspettando. Prego» gli fece quella aprendo il cancello. «Lasci l’auto davanti all’ingresso. La sposteremo noi.»

«Non importa, non mi tratterrò che per poco. Va bene anche qui fuori… dubito che ci siano bande di ladri pronti a rubare la macchina qui in mezzo ai boschi.»

«Come desidera lei, signore. Le faccio strada.»

Ferid superò il cancello e la guardia lo richiuse alle sue spalle.

«Le piace la scultura?»

«Come?»

«Vedo che continua a fissarla. È venuto a trattare un acquisto?»

«Di quella mostruosità? Oh, Dio, no. Se dovessi spendere i soldi in qualcosa in questa residenza sarebbe per quella splendida distesa di orchidee ibridate. Sono meravigliose.»

La guardia parve incerta su come ribattere e decise di non sbilanciarsi. L’accompagnò fino al portone dove venne scortato da un grosso energumeno, che con sua sorpresa non era una guardia del corpo ma un maggiordomo.

Lo lasciò proprio sulla porta dello studio, e rimase solo davanti alla porta di legno massiccio. Al di là di quella porta c’era l’uomo che sapeva dove fosse suo marito e ancora non aveva un piano su come ottenere quell’informazione se avesse fatto ostruzione.

«Vieni avanti, signor Trobiano.»

Ferid bussò per cortesia due volte per annunciare il suo ingresso ed entrò. Posò gli occhi immediatamente sull’uomo enorme seduto alla scrivania e ogni traccia della sua facciata di buona educazione scivolò via come foglie sull’acqua di un torrente.

«Oh, cielo. La vita non è stata tenera con te, Pascal.»

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Capitolo 15
*** Figli ***


Non c’era nessun altro nella stanza, e ciò permise a Ferid di collegare i puntini facilmente.

«Derrickus Parmentier-Lynch… hai un pessimo gusto persino nello sceglierti il nome, Pascal. O hai rubato l’identità del vero signor Derrickus?»

L’uomo si mosse sulla sedia, spostandosi in avanti.

«Mi sorprende che tu mi abbia riconosciuto. Non ci siamo mai visti prima.»

«Per quanto mi disgusti dirlo ora, vi assomigliate. Non mi posso sbagliare. I suoi tratti sono stampati nella mia memoria come se lo avessi visto fino a stamattina.»

«Ma certo. Dopotutto è stato il tuo grande amore, non è così?»

Avvertì nettamente il sarcasmo velato di fredda rabbia. Pascal conservava il suo astio per il giovanissimo marito di suo padre che gli aveva portato via una grossa eredità, e ora che l’aveva davanti anche Ferid non provava per lui che disprezzo.

«È stato un insegnante dedito e un amico generoso… e un marito devoto, per il poco tempo in cui mi è stato concesso di averlo accanto. Non è stato il grande amore e neanche il mio primo amore, ma non dimenticherò mai quello che mi ha dato.»

«Questo è difficile da dimenticare, visto che ti ha dato tutto il patrimonio dei Trobiano.»

«Ed è l’unica cosa che ti importa, no, Pascal? Non ti interessava che ti avesse detto di vergognarsi di te, né che sia morto mentre tu eri in prigione… L’unica cosa che ti importa è che volevi il patrimonio di tuo padre e invece l’ho preso io.»

«Non hai fatto lo stesso?»

A quell’uscita Ferid restò senza parole. Pascal si districò dalla sedia per dirigersi a una vetrinetta di liquori. In piedi sembrava persino più enorme.

«Scappato di casa, finito in un bel filotto di guai, senza mai ricontattare i tuoi… e poi, riappari alla loro morte per incassare. Non è andata così?»

«In realtà io non sono riapparso da nessuna parte» lo corresse Ferid, glaciale. «L’avvocato mi ha trovato, e non potevo rifiutare senza causare un sacco di problemi a tutti. Quindi ho accettato. Ma ti assicuro che se i miei avessero avuto un altro figlio avrei lasciato tutto a lui. Io, di quello che ho avuto dai miei, mi sono tenuto volentieri solo la vita.»

Pascal rise mentre versava un bicchiere abbondante di whisky.

«Divertente, davvero… in quanti ci crederebbero sapendo che ti sei scopato quel vecchio pervertito per farti intestare tutto? In confronto questo—»

«Non osare, Pascal, ti avverto» l’interruppe, gli occhi ridotti a fessure. «Di’ quello che vuoi di me, ma non osare parlare in questo modo di tuo padre. Non era un pervertito e non era neanche un idiota. Non mi avrebbe dato un bel niente se avesse visto in me dell’ingordigia. Mi ha tenuto in casa con lui ma non ero il suo amante.»

«Ah, questo è interessante. Sentiamo, allora, perché ti ha accolto?»

«Perché in me vedeva quello che avrebbe voluto vedere in suo figlio… e qualcosa che gli ricordava il suo primogenito. Claude.»

Pascal sbatté la vetrinetta facendo tremare i bicchieri e le bottiglie all’interno.

«Non nominarlo in casa mia.»

«Lo so che non lo sopportavi. Claude me l’ha detto. Era il figlio ideale, lui, vero? E tu… beh, lo sappiamo. Una mela marcia.»

«Questo detesto di quelli come mio fratello e te. Vi credete migliori di chiunque altro… e per cosa? Perché siete topi di biblioteca, e belli abbastanza da prendervi tutto quello che volete senza fare fatica… ma non lo siete. Non sei migliore di me, Ferid.»

«Sono Lord Cosworth per te» commentò Ferid, acido.

«Hai soldi e titolo, sì. E sei ancora piacente per un uomo di mezz’età…»

«Bada a come parli, Pascal. Mi stai irritando.»

«Ma la realtà è solo quello che è.»

Pascal esibì un sorriso lezioso mentre si sedeva con il suo bicchiere in una mano, e con l’altra accennò alla stanza.

«La realtà è che io ho il potere di comprare e rivendere tuo marito e tu sei qui, in casa mia, per scoprire che cosa puoi provare a darmi per riaverlo. Il tuo sangue blu e il tuo matrimonio con mio padre non ti serviranno a niente. Io ho più potere di te.»

Non poteva negare che fosse vero. Per quanto gli bruciasse, il suo matrimonio con Claude aveva protetto lui, ma non gli aveva dato modo di salvare suo marito e per questo aveva fatto ricorso a metodi alternativi.

Però… io li ho. Ho dei poteri che non vengono dal mio status. Ho dei legami che mi offrono contatti che non si possono comprare e informazioni che altrimenti non potrei avere… e ho questi legami per una sola ragione.

Si sentì più saldo sulle gambe e nella convinzione di portare a casa un risultato da quella sgradevole visita.

«Hai soltanto più rancore di me, e se non la smetti di darti delle arie ciò potrebbe anche cambiare» puntualizzò allora, e si avvicinò alla vetrinetta. «Non ti dispiace se mi servo, vero? Cerchiamo di andare d’accordo.»

«Non ti direi dove l’ho portato neanche se mi vendessi i tuoi servizi erotici.»

Ferid emise un verso disgustato e raddoppiò la dose di Kirsch che si stava versando.

«Immagino che questo significhi che da qualche parte, là sotto, hai un pene?»

Rise per inasprire il risentimento di Pascal, ma quello ritrovò un’espressione più serena prima che si accomodasse sulla sedia.

«Continua pure a schernirmi, Ferid. Non ti darò quello che sei venuto a cercare.»

«Neanche se ti ristrutturo questa casa? Perché fa schifo, credimi.»

Pascal ghignò e bevve.

«Forse pensi di avere tutto il tempo per stare qui a disprezzarmi, ma non ce l’hai. L’acquirente ha già tuo marito, e visto che so che tornava a casa ieri direi che…» esitò, sbirciando l’orologio in legno sulla scrivania. «Sì, che mentre mi prendi in giro qualcuno sta già usando tuo marito per lo scopo per cui lo ha comprato.»

A Pascal non sfuggì l’improvvisa rigidità di Ferid e ne godette appieno.

«Quindi, se moderi i termini e mi offri abbastanza, forse potrei mettere una buona parola con l’acquirente per una… sostituzione di merce. E farti portar via quello che è rimasto.»

Ferid accavallò le gambe.

«Dio, Pascal. Non ti prendo a schiaffi solo perché ho paura che scoppi come una pignatta.»

«Deridermi per il mio peso non ti aiuterà, a meno che il tuo obiettivo non sia diventare vedovo per la seconda volta.»

«Oh, non mi fraintendere, non prendo in giro le persone grasse. Prendo in giro te perché sotto il grasso sei uno schifoso cumulo di letame, opportunismo e puerilità.»

«Se fossi puerile ti direi esattamente che cosa stanno facendo a quell’uomo… ma purtroppo, come Battitore, non posso svelare gli usi che i clienti fanno della loro merce.»

«Si chiama Crowley» ribatté Ferid. «Non è merce. Crowley è un uomo. È un padre meraviglioso e attento, uno sceriffo molto stimato, ed è amato dai suoi zii, cugini, genitori, nipotini e figli. E da me. Crowley è una persona, e come tale non è in vendita.»

«Eppure io l’ho venduto, e io sono l’unico che potrebbe fartelo riavere… e nonostante questo continui a insultarmi. Non ho sentito neanche una proposta, finora. Cosa speravi di fare? Venire qui e intenerirmi con le storie dei vostri figli bastardi e di quanto sia una brava persona?»

Si sporse in avanti.

«Pensi sia la sola brava persona finita in questo modo? Ci sono bambini che spariscono ogni giorno… e finiscono qui a Berlino, per arrivare fin dall’altra parte del globo. Pensi che ci intenerisca la storia di un padre? Di un uomo che tu ami?»

«Che cosa vuoi?»

Ferid bevve il Kirsch tutto in un sorso e si alzò dalla sedia imbottita.

«Ci sarà qualcosa che vuoi. Conoscendoti, sarà qualcosa di banale. Provo a indovinare che cosa mi chiederai?»

«Io ho tutto il tempo che vuoi per chiacchierare» buttò lì lui, infido.

«Mi chiederai di darti almeno il triplo di quello che ho ereditato da Claude, come risarcimento per il periodo duro che avrai passato appena uscito di prigione. Forse vorrai anche portarmi via la tenuta Cosworth, simbolo di quello che io ho dalla nascita e che tu non hai. Infine, mi chiederai veramente di fare qualcosa di erotico, con te o con qualcun altro.»

Andò verso di lui e si chinò, fissandolo negli occhi. Voleva che sapesse che non gli faceva alcuna paura.

«Per umiliarmi, naturalmente. Per portarmi via anche il corpo che non hai mai avuto. E visto che so come trattasti tuo padre… posso essere certo che useresti qualche foto o video di quello che mi obbligheresti a fare per fare a pezzi il mio matrimonio, i miei rapporti con la famiglia di mio marito e farmi perdere i bambini. Non ho ragione?»

Un fremito scrollò il corpo enorme e il suo battito di ciglia tradì la sua tensione. Ferid sapeva di aver fatto centro perfetto e di averlo turbato.

«Non ci avevo pensato a una di queste, ma è una buona idea. Grazie del suggerimento.»

Afferrò quel cravattino di seta e lo torse, strozzando il collo grasso di Pascal. Lui tossì e lo afferrò con le mani grassocce, ma tentare di staccarlo non faceva che strizzare di più.

«Accettane un altro, allora: dimmi dov’è mio marito e chi lo ha preso, perché mi basta solo un’altra ragione per dimenticarmi di Dio e ammazzarti come il cane che sei.»

«S-Se…»

Ferid allentò appena la presa per fargli prendere fiato.

«Se mi ammazzi non lo troverai mai più» rantolò lui. «Non ci sono registri delle vendite private, i documenti sono in mano ai Gran Maestri che neanche noi Battitori sappiamo chi sono!»

«Forse… o forse no. Tu credi nei miracoli?»

Ferid strinse con forza il cravattino e Pascal prese ad agitarsi, mulinando le braccia per colpirlo e cercando di alzarsi. Fu una lotta intensa e silenziosa, almeno finché non si sentì uno schianto; Ferid cadde a terra e la mole di Pascal gli crollò sul braccio destro strappandogli un grido di dolore.

Si dimenò come un pesce senz’acqua per estrarlo da sotto quel corpo, tirando e spingendo. Urtò contro la scrivania nell’eccesso di foga con cui si era liberato. Tastò tutto l’arto dalla spalla al polso: gli faceva così male che si sorprese che non fosse sbriciolato come un pacchetto di cracker pestato.

«Bastardo… quel tuo ammasso di lardo è diventato un’arma impropria!»

Si accorse solo allora, guardando Pascal, che qualcosa non andava. Ansimava in cerca di aria e la sua mano artigliava il centro del suo vasto petto. Boccheggiava e sudava, fissandolo con il terrore in ogni tratto del volto. Ferid restò lì, in ginocchio, come congelato.

«Aiu… tami… il cuore… il cuore…»

«Stai avendo un infarto?»

«Chiama… qualcuno…!»

Se qualcosa dentro di lui gli suggerì di chiamare il soccorso doveva averlo fatto sottovoce, perché Ferid non ci pensò neanche per un momento.

«Beh, con un corpo come questo alla tua età… eri una bomba a orologeria. Stai morendo, Pascal, questa volta per davvero.»

Lui afferrò il braccio dolorante di Ferid e lo strattonò. Strinse i denti per non gridare.

«Se muoio… non lo troverai!»

«Mi sottovaluti… sono pur sempre membro di sangue, Pascal. Lo troverò… ma se tu mi dicessi un nome, io potrei chiamare i soccorsi per te.»

Pascal fece un fiacco movimento che voleva essere un tentativo di girarsi per alzarsi, ma con quella mole non era in grado di rimettersi in piedi da solo dal pavimento. Strizzandosi la camicia con entrambe le mani strabuzzò gli occhi.

«C-Claire-Solenne! Mademoiselle d’Allemand… è quella che lo cercava… Ha chiesto di portarlo… gh…»

Esitò e si strappò il cravattino in cerca di aria che non riusciva a prendere. La sua pelle stava cambiando colore.

«Sarmans… il… c-castello…»

Non gli serviva altro. Il nome dell’acquirente di Crowley era abbastanza per trovarne le tracce e aveva anche incontrato Solenne; le parole che gli aveva rivolto avevano un senso più concreto alla luce della sua macchinazione.

Si ritrasse contro la scrivania per mettersi in piedi tenendosi il braccio con il sinistro: gli faceva talmente male che non riusciva a piegare il gomito né a fare forza sulla mano.

«Ai… u…»

Il rantolare di Pascal era più rasposo. Ferid lo guardò; era viola come uva.

«Mi dispiace che tu non avrai la fine lenta e dolorosa che è toccata a tuo padre… ma morirai molto, molto più solo di lui. Lui almeno ha avuto me a tenergli la mano mentre se ne andava.»

Il suono che produsse quella gola fu terribile e Ferid strinse gli occhi. In quel momento pensò di chiamare i suoi domestici e tentare di salvargli la vita, per quanto fosse stata spesa ai danni del suo prossimo, ma quando alzò il telefono sulla scrivania un paio di occhi senza vita erano fissi su di lui.

Abbassò la cornetta e deglutì il suo senso di colpa.

«Addio, Pascal.»

La parte difficile fu uscire fingendo di avere un braccio e non un’appendice dolorante appesa alla spalla, ignorando che il cuore gli batteva all’impazzata per la paura che qualcuno scoprisse il corpo prima che lui si fosse allontanato.

Fu scortato fuori fino all’auto, dove poté lasciar uscire un lamento. Strinse i denti con la fronte appoggiata al volante per trattenere un flusso di parolacce da far tremare i finestrini.

Qualcosa… dev’essere rotto. Fa troppo male!

Sibilò una soltanto delle imprecazioni che pensava e mise in moto, inserendo la marcia e girando il volante con la sola sinistra. Se solo fosse venuto con una delle sue auto inglesi sarebbe stato più facile…

Uscì dallo spiazzo e rifece al contrario la strada. Avrebbe voluto filarsela alla massima velocità possibile per non uscire di strada alle curve, ma in quella condizione fu costretto a rallentare a ogni tornante, almeno finché non raggiunse la boscaglia e la residenza fu fuori vista. Accostò bruscamente e digitò sullo schermo dell’auto per chiamare. Aveva un forte senso di nausea.

«Signor Bathory?»

«Graham… vienimi incontro, per favore» gli fece, con la sensazione di un conato imminente a ogni parola. «Porta qualcuno che possa guidare la mia macchina… io… non ci riesco adesso.»

«Sei ferito?»

«Sì.»

«Arrivo subito!»

Il ragazzo riattaccò. Si sentiva sollevato all’idea che venissero a prenderlo e che non dovesse fare quella strada così impervia con quel braccio dolorante, e si appoggiò allo schienale.

Non vedeva la residenza ma solo il sole che calava oltre la cresta. Il suo bagliore arancione stava dando il suo saluto all’ultimo dei Trobiano, disteso nello studio rivolto a ovest.

 

***

 

Crowley non vedeva uno di quei romanzi cristiani da quando frequentava la San Cristoforo e certi ragazzi se li passavano di nascosto, pensando di trovarci dentro il modo di conquistare le ragazze cattoliche. Ora che per la prima volta ne leggeva uno aveva ben chiaro che l’unico scopo di una lettura del genere era insegnare alle ragazzine come riconoscere un ragazzo cristiano da uno che fingeva di esserlo per ingraziarsele.

Chiuse il libretto e sbirciò Emma attraverso lo specchio: sorrideva mentre gli spazzolava i capelli, canticchiando con la stessa allegria della sua bambina. Non si assomigliavano nei tratti ma a Crowley piaceva immaginare così la sua unica figlia una volta cresciuta.

Ma visto che la crescerà Ferid, Emma diventerà una volpe che ottiene sempre quello che vuole e attacca se è attaccata…

Quando la sentì sospirare interruppe quegli scenari inquietanti di una teenager mefistofelica.

«Emma… posso anche fare da solo. Sono abituato, lo faccio sempre.»

«Oh, non, monsieur Crowley… non mi pesa. Ha dei capelli meravigliosi, hanno il colore del succo di melagrana.»

Era un paragone insolito, ma il colore rosso scuro era molto simile.

«Sembri allegra, oggi. È successo qualcosa?»

«Oh, sì, monsieur Crowley! La padrona è tornata stamattina» gli comunicò lei, emozionata. «Mi ha chiesto di aiutarla a prepararsi per cenare con lei. Finalmente potrà lasciare il sotterraneo.»

Girò la testa per guardarla direttamente.

«Vuoi dire che ceneremo insieme?»

«Certo. Cenerete nel salone di sopra. La signora ci ospita solo i più cari amici… e dopo…»

Inspiegabilmente Emma arrossì e si alzò per rassettare un letto già in ordine.

«Dopo che cosa succede, Emma?»

«Non intendevo essere sfacciata» si scusò lei con una voce da topolino. «Mi perdoni, monsieur Crowley… è che… anche noi, la servitù della signora, siamo molto emozionati…»

«Perché ceno nel salone?»

Il suo settimo senso coglieva qualcosa di sbagliato sotto quella conversazione poco chiara, ma non riuscì ad approfondire: dei colpi sulla porta fecero uscire Emma e quando il battente si riaprì entrò un uomo.

«Non è il caso che Emma l’aiuti a vestirsi, signore. Permetta che lo faccia io.»

«Perché no? Gliel’avete fatto fare fino ad ora» ribatté Crowley, secco.

«Ma ora la padrona è tornata ed Emma deve tornare ad assisterla» spiegò l’ometto con un sorriso montato ad arte. «Mi sono permesso di portarle qualche abito. Scelga quello che più le aggrada.»

Crowley non aveva indossato dei vestiti tanto eleganti da quando era stato invitato al matrimonio del suo capitano della narcotici, ma avrebbe indossato qualsiasi cosa – o anche niente – pur di uscire dal sotterraneo e dare un’occhiata a possibili via di fuga.

Una volta pronto venne accompagnato attraverso il dedalo di stanze e corridoi di pietra fino a una scala nuda senza corrimano; di lì emersero prima in una cantina di vini e poi salirono verso una stanza di scaffali e armadietti: una dispensa.

«Ci perdoni per questo tragitto, ma è l’unico» si scusò l’uomo. «Da domani però non vedrà più questi locali di servizio.»

Crowley si accorse dello stuolo di cuoche e aiuti che allungavano il collo al suo passaggio, ma non capì una sola parola del loro commenti.

La sola cosa chiara è che non mi trattano come un prigioniero… non proprio. E mi chiedo chi pensano che io sia…

Al di là delle cucine c’era un’altra scala che portava a una saletta vuota e dopo aver superato un’ampia porta in mogano raggiunsero il salone: una vasta sala dove sarebbe entrata persino la chiesa di Saint Thomas, con un caminetto grande abbastanza da infilarci dentro i lettini di Emma ed Eden, pareti in tinta verde scuro, drappeggi color abete e un lungo tavolo. I posti apparecchiati erano sui lati lunghi in modo da avere i commensali seduti a una distanza adatta a conversare, ma non intima.

«La signora sarà qui a momenti. Con permesso, controllo la cena.»

L’uomo scomparve, lasciandolo solo nella sala. Senza esitare Crowley si avvicinò alla finestra e guardò fuori un cielo di un blu acquerellato. Preso da una sorta di frenesia cercò a tentoni la maniglia e spalancò il vetro scoprendo un balcone a mezzaluna. Corse alla balaustra per cercare una via d’uscita e rimase lì aggrappato, paralizzato.

Sotto di lui si apriva il vuoto, uno strapiombo di roccia con il buio sul fondo. La sua antica paura delle altezze riemerse violenta fermandogli il respiro e molto lentamente, come se camminasse su un sottile strato di ghiaccio, mosse all’indietro qualche passo per tornare al di là della finestra.

Chiuse il vetro con il respiro corto come dopo una lunga corsa.

«Dove stavi andando?»

Girò la testa per guardarsi alle spalle. Accanto al tavolo stava in piedi una donna con lunghi capelli raccolti e un abito bianco, con le spalle pudicamente coperte da uno scialle e un pendente a croce in argento dalla pietra verde.

La presenza in disparte di Emma gli suggerì che era la padrona di cui gli aveva parlato.

«Io… prendevo solo un po’ d’aria. È un po’ che sono chiuso lì sotto.»

«Capisco… in effetti sei pallido.»

La donna gli si avvicinò, sorridente.

«Sono felice di vederti, finalmente… Sono Claire-Solenne d’Allemand Gautier. Puoi chiamarmi Solenne» si presentò lei. «E tu sei…»

«Crowley.»

Qualcosa nella sua risposta parve sorprenderla o indisporla, ma durò un attimo.

«È così che ti chiamano gli amici?»

«Mi chiamano in un altro modo, ma non mi presento così, di solito.»

«Ma è interessante… non me lo vuoi dire? Ti chiamerò Crowley, se preferisci, ma hai svegliato la mia curiosità.»

Mi conviene darle spago il più possibile, se voglio muovermi liberamente e trovare un’uscita da questo posto infernale.

«Ginger. Mi chiamano così per… beh.»

Solenne emise una risata, sottile e controllata, come quelle di Ferid quando lo conosceva appena. Immaginò che fosse un tratto comune tra i nobili.

«Certo… i capelli rossi» concluse lei. «Anche se non hanno il colore dello zenzero, che è giallo chiaro… somigliano più a… vediamo… une grenade, peut-être?»

«Pardon

Sapeva appena qualche parola di francese, imparata per lo più da Ferid che ogni tanto chiacchierava coi bambini per insegnare loro a parlare più di una lingua.

«Oh, scusami, il… mela… melograno?»

«Melagrana» la corresse d’istinto Crowley. «Il melograno è l’albero.»

Rise di nuovo in quel modo delicato e gli fece un sorriso raggiante.

«Sono lieta di sentirlo… Sediamoci, vuoi?»

Acconsentì e per compiacerla il più possibile le spostò la sedia. Dal sorriso compiaciuto che le vide in volto fu certo di aver fatto la mossa giusta. Sedette davanti a lei mentre l’uomo di prima, ora in livrea, si avvicinava per servire loro acqua e vino.

«Io… Solenne, io… non sono nel mio ambiente, qui. Posso darti del tu?»

«Ma certo che puoi. Il castello è medievale, ma noi no. Puoi dare del tu a una donna anche prima di averla sposata.»

«Senti, Solenne, noi dobbiamo parlare. Insomma, mi sono svegliato nel tuo seminterrato dopo essere stato rapito e drogato, e qui parlate tutti francese. Dove sono? Come sono arrivato qui?»

Solenne sospirò, ma sorrideva stringendo la croce gemmata.

«Per volere di Dio, mon cher. Hai affrontato un lungo viaggio, tormentato e spaventoso, ma adesso sei dove lui vuole che tu sia… qui con me. Con una donna che ti ha aspettato da quando è nata… in ogni senso possibile.»

In quelle ultime parole percepì una minaccia che gli fece irrigidire i muscoli.

«Non ti ho chiesto perché. Ti ho chiesto dove sono e come sono arrivato.»

«Sei nella residenza della famiglia d’Allemand, il castello di Sarmans. Il mio buon amico monsieur Parmentier ha provveduto a farti portare qui da me mentre io ero fuori per degli affari. Risponde alle tue domande?»

«Ed è… questo signor Parmentier è per caso un uomo circa della mia età, capelli scuri, occhi verdi…?»

Lei scosse la testa con quella risata cristallina.

«Oh, no, mon cher. Monsieur Parmentier è più vecchio di te, e non ha né capelli mori né occhi verdi. Dubito che tu lo abbia mai visto, visto il suo ruolo.»

Crowley era confuso. Ricordava Plumcake che scodinzolava annusando nell’erba, poi un lungo nulla fino al risveglio in quello strano deposito buio, e lì aveva visto di certo Ismael. Gli aveva parlato, e lui gli aveva iniettato qualcosa nel collo. Dopodiché non si era più svegliato fino al giorno in cui aveva provato ad aggredire Emma.

Per la prima volta provò paura. Davanti all’ignoto, e al comportamento inspiegabile di quella donna e della sua servitù, aveva paura.

«Che… che cosa vuoi da me? Che cosa ci faccio qui?»

«Sei qui per essere felice. Ora penserò io a te. Non serve che tu faccia un lavoro pericoloso come il poliziotto, o che viva in una casupola sperduta» commentò lei, allegra, come se stesse mostrando le attrazioni di un villaggio turistico. «Il castello è la tua nuova casa, la servitù è al tuo comando… io sarò la tua consorte e presto ci saranno i bambini. Potrai passare il tempo con loro come preferisci.»

Sbigottito, la lasciò parlare di quanti medici avesse per le sue cure di fertilità e di quanto fosse sicura che sarebbero riusciti ad avere una prole numerosa in poco tempo, vista la possibilità di parti gemellari. A quel punto lei smise di parlare.

«Sei d’accordo nel dare ai bambini dei nomi cattolici, vero? È usanza della mia famiglia da secoli.»

«Dico… Sei… sei pazza, è questo?»

«Che vuoi dire, mon cher

«Tu… smettila di chiamarmi così» le intimò lui, stringendo i pugni sul tavolo. «Tu stai vaneggiando. Io sono già sposato.»

«Un’unione infelice e contronatura con un uomo non è un matrimonio.»

«Chiamalo come ti pare, ma quell’uomo è mio marito. Io lo amo e ho giurato di restare con lui per tutta la vita. Non sono infelice

Solenne abbassò lo sguardo, mortificata.

«Ti prego, non essere blasfemo.»

«E ho già dei bambini» rincarò. «Ne ho tre. Non voglio figli da nessun altro.»

«Quelle creature sventurate non sono tue! Non possono esserlo, un uomo non ti può dare dei figli! È terribile che proprio tu parli così…»

Solenne si alzò dalla sedia tenendosi la mano sul petto e singhiozzò, come se ogni parola di Crowley fosse stata un crudele insulto a lei. Dalla porta alle sue spalle entrarono un paio di uomini in abiti neri, incerti sul da farsi tanto quanto Crowley.

Solenne prese profondi respiri e si asciugò gli occhi con il tovagliolo.

«Mi aveva raccontato della tua situazione… ma che… che fosse un problema così grave, io davvero non lo pensavo…»

«Senti… Solenne» fece lui, cercando di essere meno brusco. «Non avrà mica un problema a trovare un marito, una donna bella come te, no? Io non ho niente di speciale, e ho già una famiglia… non posso essere tuo marito, lo capisci?»

«Ma tu sei speciale! Per questo io ti ho cercato tanto!»

Lo prese per i lembi della giacca non appena le si avvicinò, e pianse più lacrime che mai. Troppe, secondo Crowley, per essere finte o forzate.

«Che cosa c’è di così speciale in me?»

«Tu… oh, mon Dieu, ce n’est pas possible… Crowley, tu non sai chi sei?»

Quella domanda colpì un punto scoperto nell’armatura di Crowley. Il suo pensiero fisso su Ferid che poteva essere là fuori a correre rischi per trovarlo e sui bambini che – se dava retta a Ismael – erano con Estelle e confusi dalla loro assenza, si spostò su qualcos’altro.

«Di che parli? Chi pensi che io sia?»

«Gli Eusford sono di stirpe templare, come i d’Allemand… e oltre a questo, tu discendi anche da Crowley Montague. Il fondatore della società segreta nota a pochi come “il Gregge”. Si ritirò con un manipolo di suoi seguaci da qualche parte nella Foresta Nera, e scomparve. Alcuni dicono che sia ancora lì, altri che sia asceso, che fosse la forma tornata mortale di Metatron…»

Crowley non mosse un muscolo mentre lei si tamponava gli occhi di nuovo.

«Ma non scomparve prima di lasciare una discendenza… una discendenza che arriva fino a te, Crowley.»

«Non sono mica l’unico della mia famiglia, quindi ci sono altri uomini. Perché hai puntato me?»

«Perché tu hai sangue templare, e stai con un uomo! Questo è… imperdonabile! È un trastullo del demonio corrompere così del sangue sacro!»

Fece uno scatto, ma non arrivò a spingerla. Si allontanò da lei qualche passo, le voltò le spalle cercando di riflettere. Aveva già sentito quel nome… ma dove?

«Crowley, sii ragionevole… Tu sai che è sbagliato. Nel tuo cuore tu sai che non è quello che Dio vuole per i suoi figli! Lui ha scelto una moglie per te già quando sei nato…»

Solenne si gettò in ginocchio e strinse la sua mano contro il viso.

«Ho atteso e atteso, con fede, e ora che sei qui sarò tua moglie! Non importa se hai fatto degli errori… Lui ti perdona, e anch’io…»

«Ora basta!»

Ritraendo di scatto la mano Solenne si sbilanciò in avanti. Con un singhiozzo si accasciò sul tappeto, scossa dal pianto, lasciandolo furioso sì, ma anche pieno di compassione per una donna che non aveva alcun senso della realtà.

Emma la raggiunse parlandole in fitto francese finché non riuscì a rimetterla in piedi. I due uomini dai vestiti neri lo spinsero lontano da lei come se l’avesse aggredita e uno di loro gli mise davanti agli occhi una fotografia, senza dire una parola.

Mise a fuoco un giardino dove un bambino giocava con un piccolo cane. Il cuore gli mancò un battito nel riconoscere Eden insieme a Plumcake. Con un gesto brusco gli prese la foto e scoprì che ce n’erano altre: Emma che si allenava a softball, Estelle con i bambini di ritorno dall’emporio, Emil Mackham – lo riconobbe immediatamente – con Morgan sul ginocchio mentre giocava con una pianola insieme a Madison.

Crowley guardò l’uomo che gliele aveva mostrate, sentendosi alla stregua di un sacco vuoto.

«Se non vuoi che le prossime foto siano di bare bianche, scusati con la padrona e fai quello che Dio vuole.»

Il terrore lo gelò fin dall’interno mentre guardava le fotografie ancora una volta. Chiunque fossero le persone che lo avevano portato da Solenne sapevano dov’erano i suoi bambini, probabilmente anche i suoi nipotini, e il resto della sua famiglia. Avevano il potere di far loro del male? Non poteva rischiare di sfidarli e scoprire che l’avevano.

Per la frustrazione quasi accartocciò le foto, ma poi le lisciò. Gli venne quasi da piangere a guardare Morgan, il figlio che avevano così fortemente desiderato, un figlio che col miracolo della scienza era un bambino loro, un diamante tra mucchi di oro e di perle che erano i due più grandi. Sprofondò nella disperazione al pensiero che quell’orribile storia finisse per renderli orfani e che venissero cresciuti dagli zii o da Estelle, senza che sapessero mai che cosa era successo ai loro papà.

Ferid… ti prego, Ferid, sbrigati a trovarmi… tirami fuori da questo incubo.

Non gli veniva in mente nessuno, al di sotto del cielo, che potesse riuscire a sistemare tutto se non lui. E a lui si sarebbe affidato: con i suoi mezzi e la sua ostinata determinazione non avrebbe mai smesso di cercare.

Deglutì e si avvicinò a Solenne, a passi lenti come se si avvicinasse a una belva selvatica. Allungò una mano e aspettò che lei acconsentisse a dargli la sua.

«Perdonami, Solenne» le fece allora, tremando appena. «Sono… è una situazione… confusa e dolorosa per me, lo capisci? Anche se Dio ha questo piano, non puoi importi così. Non ci conosciamo neanche.»

Emma scambiò uno sguardo con lui e Crowley cercò di comunicare senza parole con lei, di chiederle aiuto. Ebbe l’impressione che lei capisse, e disse qualcosa in francese alla sua padrona. Parlò per un lungo interludio in cui Crowley e Solenne restarono fermi tenendosi la mano, poi la vide annuire.

«Oui, c’est juste. Pardonne-moi, Crowley… Una donna dovrebbe essere saggia e paziente, e sapere come smorzare i malumori del suo uomo…»

Gli prese anche l’altra mano.

«Non c’è fretta. Abbiamo tempo. Pregheremo e avremo le risposte giuste… Sì, andrà tutto bene. La mia fede non deve vacillare.»

Crowley riuscì a tirare un sorriso e addirittura ad asciugare le lacrime a Solenne. Le propose di rinfrescarsi – quell’espressione usata dalle donne che lui non era mai riuscito ad associare a un’azione in particolare – per poi godersi la cena insieme e parlare.

Lei si allontanò scortata dalla sua ancella e l’uomo delle foto gli fece un rigido cenno di assenso: approvava il comportamento che aveva tenuto. Come premio gli fu concesso di restare solo qualche minuto nella sala da pranzo e Crowley, invece di cercare una possibile via di fuga, si sedette e unì le mani in preghiera.

L’eroe dentro di lui non aveva più il coraggio di prendere in mano la situazione. Anche se era stato quel doppiogiochista di Ismael a dirglielo, era davvero una situazione in cui non poteva salvare nessuno, neanche se stesso. Chiese a Dio di proteggere i bambini e di guidare ancora una volta la sua spada in difesa dei deboli.

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Capitolo 16
*** Vincolo ***


Gunter chiuse la valigetta con un tonfo.

«E questi sono tutti. Che te ne fai di così tanti soldi liquidi, eh, Stephan?»

«Ho preso un vizio molto costoso.»

Yuu allungò un braccio passandolo dietro la schiena di Mika. Non aveva capito nulla del loro scambio in tedesco, ma sorrideva.

«Ah, non dire altro. Ho capito.»

Gunter mise il lucchetto alla chiusura della valigia e lasciò che fosse Yuu a mettervi la combinazione, mentre lanciava al suo compagno uno sguardo tenero che strideva con il suo aspetto ruvido.

«Ti sei preso la persona più importante, eh, Misha? Scelta faggia

«Ho avuto un buon consiglio… e per ricambiarlo, ho un regalo per te, Gunter!»

«Un regalo?» s’intromise Yuu. «Spero non sia lo stesso che hai dato a me, Misha.»

Lui fece come se non avesse neanche parlato e diede a Gunter due pacchi incartati in rosso. Yuu voltò strategicamente le spalle al suo ormai ex socio mentre scartava i regali e scopriva che erano un dizionario di inglese e un libro di grammatica; si morse la lingua per non scoppiare a ridere quando iniziò a vantarsi del suo inglese perfetto.

«Hai solo una pronuncia ottima, Gunter, davvero. Butti dentro parole che non esistono neanche» lo stava rimbeccando Mika. «A volte sono così sbagliate che non riesco neanche a capire al posto di che cosa le hai dette!»

«Forse perché sono giuste! Che cosa sei tu, una lustrina

«Ecco, vedi che intendo? Su, guarda il dizionario, controlla tu stesso.»

In un certo senso a Yuu dispiaceva lasciare Berlino e il club, che ormai era diventato quello che a New Oakheart era stata la centrale di polizia o la palestra: un ritrovo abituale e un posto di lavoro, dove incontrava degli amici. Gunter era diventato come Crowley un collega più esperto e un amico fidato, i ragazzi del bar come i suoi compagni di palestra erano la compagnia più rumorosa e le ragazze, che un po’ scherzavano e un po’ si prendevano cura di lui, erano come il gruppo degli agenti di pattuglia.

Dalla sala emerse una delle ragazze, vestita tutta di verde, alla testa di cameriere e ballerine come una mamma anatra e lo accalappiò in un abbraccio soffocante.

«Stephan, me l’hanno appena detto! Non posso credere che lasci la gestione del locale!»

Difficilmente avrebbe potuto replicare qualcosa con la faccia affondata nel suo prosperoso petto, così si limitò a scrollare le spalle. La presa si allentò solo dopo che ebbe piagnucolato su chi l’avrebbe protetta da “clienti bruti” che non l’avevano mai presa di mira prima.

«Le tue tette sono indimenticabili, Gabi. Mi mancherai.»

Gabi rise e lo liberò dall’abbraccio, ma mise su subito un’arietta triste con cui spillava sempre qualche mancia in più.

«Allora non andare via! Resta qui con me e le mie tette…»

Yuu stiracchiò un sorriso.

«Non posso… vi dovrete accontentare di Gunter.»

«Ma Gunter è vecchio e noioso.»

Visto che era a due metri da loro non c’era da sorprendersi che l’avesse sentita. Come reazione le puntò il dito contro.

«Da oggi farai le pulizie nella sala prima di andartene, visto che io sono troppo vecchio per farle da solo.»

La brillante replica suscitò le risate di tutto lo staff del Diamond Jacks riunito nella zona bar, tranne quelle di Gabi: come faceva coi clienti si lanciò immediatamente da Gunter nel tentativo di arruffianarlo come aveva fatto con Yuu.

«Sarà strano vederti qui intorno e non chiamarti per litigare con quelli degli spillatori» fece Hugo. «Ma finalmente pagherai le consumazioni!»

Le cameriere esplosero in un applauso entusiasta. Yuu rise, ma dentro piangeva per quell’addio.

«No, non credo proprio. Non sarò più nei paraggi. Per questo sono venuto a quest’ora, per salutarvi.»

La notizia prese in contropiede tutti tranne Gunter, e vedere le loro espressioni gli diede un dolore e un sollievo al tempo stesso.

«Ma come…»

«Ma dove vai?»

«Già, cosa c’è di meglio di questo?»

Stephan potrà anche essere finto… ma quello che gli è cresciuto intorno non è finto. Queste persone in una piccola misura gli vogliono bene… mi vogliono bene.

Aprì bocca per rispondere a Ludwig quando Mika rese ogni spiegazione inutile: si avvicinò passandogli la mano nei capelli e lo baciò sul collo. A quel punto il barman alzò le mani.

«Okay, è chiaro.»

«Ma vendere il locale… E dove ve ne andate a stare?»

«Non lo so ancora… in America, ma…»

«Che ne dici del Kentucky?»

Yuu guardò Mika, con quel suo sorriso che aveva più di una sfumatura di provocazione.

«Virginia?»

«Dai tuoi cugini? Neanche per sogno.»

«Maryland?»

«Un posto più caldo» gli sussurrò.

Lo baciò sulle labbra come un amante e Yuu non poté non pensare quanto riuscisse a recitare bene. Anche se ci aveva rinunciato, Quantico sarebbe stato il posto per un uomo come lui.

Mika esibì un gran sorriso per lo staff.

«Un posto con tanto spazio. Ha promesso che mi avrebbe comprato un cavallo.»

«Serve da sfogo principale o ausiliario?»

La battuta valse a Hugo qualche pacca di ripicca dalle ragazze e lo scherno dei suoi colleghi che non si lasciarono scappare l’occasione di prenderlo in giro. Mika gli strinse il braccio e in quel gesto Yuu avvertì un caldo conforto, la consapevolezza che capiva che cosa significasse per lui lasciare quella sua comitiva.

«Andiamo, Misha?»

«Quando sei pronto.»

Yuu annuì e strinse la mano di Mika.

«Allora, statemi bene, ragazzi. Quando ci saremo sistemati farò uno squillo a Gunter per farvelo sapere.»

«Ma vai via così, subito?»

«Abbiamo delle valigie da fare, cose da spedire… Ah, sì. Ti farò avere i bicchieri da shot della corsa di Pamplona, Lug, se li vuoi ancora.»

La notizia quasi mandò in lacrime il barista, e dopo quello le ragazze si sentirono autorizzate a piangere un po’ mentre li salutavano, tra raccomandazioni e auguri. Yuu riuscì a trattenere a fatica le sue emozioni dietro un sorriso stampato fino al momento in cui tornarono al parcheggio.

«Dopotutto una vita qui ce l’avevi comunque… Sei sicuro di volerlo fare?»

Yuu distolse lo sguardo dall’insegna del suo locale con fatica e si stropicciò il naso per dissimulare che aveva bisogno di tirar su.

«Non posso più rimanere. Non ho più una copertura, e la missione a cui andiamo incontro ci potrebbe anche uccidere. Se deve succedere… almeno loro penseranno che siamo insieme da qualche parte, in una fattoria come la tua, a fare l’amore tutti i giorni.»

«Devi volergli davvero bene per pensare a loro in questo momento.»

Per non dare ai suoi sentimenti più peso di quanto già non avessero infilò la valigetta sotto il sedile dell’auto e sedette al posto di guida, ma non poteva non pensare a quanto rischioso fosse il cammino che aveva deciso di prendere. Era una passeggiata sulla corda sopra un abisso di fiamme, breve forse, ma con mille insidie nei pochi passi necessari.

Mika toccò il suo braccio interrompendo la crescente angoscia a quel pensiero. Cercò la sua mano e vi intrecciò le dita.

«Sei sicuro di voler venire con me, Mika? Tu… tu ce l’hai una vita. Hai amici, la chiesa, la fattoria… e un marito. Davvero vuoi rischiare di perderli per me?»

«Sì.»

Quell’unica sillaba, senza una spiegazione di sorta del suo ragionamento, turbò Yuu più di un tentennamento.

«Sei serio?»

«Insieme a me hai delle buone possibilità di chiamare i tuoi amici tra qualche settimana e mandargli foto e video della mia fattoria dicendo che è la tua» replicò lui, con un sorriso. «E soprattutto, Katze non sa niente di me… del vero me. Anche se gli dicono che siamo insieme, non mi può anticipare. Mi ha preso per un gattino, ma assomiglio di più a un puma.»

Almeno il suo non è un indistinto desiderio di morire per me. È solo molto sicuro che insieme possiamo venirne fuori vincitori.

Gli baciò la mano.

«Grazie di essere con me tutte le volte che ne ho davvero bisogno.»

«Non credo di esserci stato ogni volta… ma adesso ci sono. E resterò.»

Ma per quanto resterai?

Lo trattenne a malapena. Una volta spento quel fuoco nero che logorava il suo sentimento distorcendolo, Yuu non provava che uno sconfinato amore per Mika. Il che in realtà rendeva più amaro che una volta chiusa quella faccenda lui tornasse alla sua vita con un altro uomo.

«A che cosa pensi?»

Yuu si stupì di quanto quella sera gli riuscisse facile coprire qualsiasi cosa con un sorriso. Mise in moto e fece manovra per lasciare il parcheggio del night club per l’ultima volta.

«Se fossero le ultime ventiquattro ore della tua vita come le passeresti?»

«Ballerò finché non faranno male le gambe e scoperò finché non mi farà male tutto il resto… o almeno… era questo che pensavo.»

Mika guardava dal finestrino sfuggendo al contatto visivo.

«Quando sono partito… e sono andato a Miami… per un po’ ho vissuto un giorno per volta. Allora mi dicevo che se un giorno fosse stato l’ultimo l’avrei passato così… sfinendomi ogni fibra del corpo, vibrando fino a spezzarmi come un corda di chitarra… Cavando qualcosa da ogni minuto, così avrei saputo di andarmene sfruttando il tempo rimasto.»

Se era sempre stato convinto che Mika se la fosse spassata senza di lui quello fu il momento in cui ne dubitò. Non era il tipo di pensieri che si aspettava da un ragazzo di ventun anni che parte per una lunghissima vacanza dal sapore di Daytona Beach.

«Ma la settimana scorsa era uno di quei momenti. Uno di quelli in cui pensi che stai per morire… e i miei ultimi “vorrei” non comprendevano musica, né alcol, né sesso.»

«Avrai pensato a tuo marito» commentò Yuu, con la bocca asciutta. «A casa tua. Nel Kentucky. È ovvio, non sei più l’avventuriero di quei tuoi giorni.»

Nel silenzio che seguì fece in tempo ad attraversare un incrocio e svoltare a un secondo.

«Ho… pensato che avrei giocato a scacchi con Ferid.»

Non sapeva se era più stupito o deluso da quella risposta.

«Cioè, tu stai per crepare e pensi a Ferid? Per la miseria.»

«Mi piaceva giocare a scacchi con lui. A casa mia nessuno lo sa fare… in tutta Pinnella Pass non c’è uno che sappia che gli scacchi sono un gioco da tavolo» si lagnò Mika, senza girare la testa. «Quindi nel mio ultimo giorno giocherei con lui di nuovo. Mangerei una montagna di cookies con il cioccolato bianco… e andrei con te alla Fun Zone.»

Era un isolato intero a Red Chapel con le più abbaglianti giostre, laser game, arcade e giochi da sala immaginabili. Non c’erano stati spesso, perché la Fun Zone era molto costosa, ma si erano sempre divertiti moltissimo. La loro serata si concludeva sempre al cinema, perché quasi nessuno decideva di andarci la sera tardi e potevano stare quasi soli a vedere la proiezioni.

«Scherzi? Pensavi davvero a questo?»

«Sì. Ho pensato all’ultima volta che ci siamo stati e abbiamo detto che dovevamo tornarci presto.»

«E non ci siamo più tornati… troppo presi dai turni di pattuglia.»

«E per cosa?»

Girò lo sguardo su di lui.

«Per finire io a fare delle marmellate e tu… disconosciuto dai federali senza sapere che cosa fare se domani sopravviviamo. Ne valeva la pena?»

Per sentire quello che sento ora per te ne valeva la pena. Avrei pagato anche di più, per l’amore che sento adesso. Mi fa sentire così… vivo. Come se mi scorresse dentro un nuovo sangue, uno più caldo.

Non osò dirglielo, ma almeno ora sapeva che cosa fare. Girò senza avvisaglie a sinistra provocando lo strombazzamento di un automobilista inferocito e parcheggiò di slancio a lato di un piccolo negozietto. Mika lo guardava confuso.

«Che succede?»

«Potrebbero essere le ultime ventiquattro ore, anche se tu ti credi super fico.»

«Io sono super fico.»

Yuu rise scendendo dall’auto. Andò verso la porta e si fermò, nel dubbio.

«Li compro i preservativi? Magari c’è la possibilità che… no?»

Mika stava ridendo scuotendo la testa.

«Non comprarli, cretino.»

«No, okay. Scusa.»

«Stephan.»

Si bloccò sulla porta che si era già aperta davanti a lui e si voltò, stranito che lo chiamasse così. Aveva quel suo sorrisetto provocatorio, uno che aveva imparato stando lontano da lui in quel periodo troppo lungo.

«Se fosse l’ultimo giorno della nostra vita che senso avrebbe preoccuparsi di una malattia venerea?»

Yuu sorrise entrando nel negozio.

Una faina, sempre e comunque.

Mezz’ora dopo – con una bella scorta di cookies al cioccolato bianco e al caramello, di caramelle gommose, marshmallow e patatine al cheddar – erano seduti su due poltroncine adiacenti in una sala del cinema completamente vuota, in attesa dell’inizio di un film. Neanche a dirlo Mika aprì prima i biscotti al cioccolato.

«Siamo proprio soli, eh?»

«Certo che lo siamo. Ho comprato tutti i biglietti per questa proiezione.»

«Cosa?»

Yuu non rispose, ficcandosi in bocca una caramella gommosa di liquirizia e frutta. Mika ridacchiò e si appoggiò alla sua spalla, stendendo le gambe sullo schienale della sedia davanti.

«Non voglio morire domani» gli disse, masticando il biscotto. «Voglio fare altre cose completamente stupide come questa, con te.»

Yuu tentò di ingoiare quel nodo in gola con un po’ di limonata ghiacciata, ma non ebbe molto successo. Passò il braccio sulle spalle di Mika, pensando che non l’aveva stretto abbastanza volte al di fuori del letto.

«Non per fomentare idee suicide, ma tu hai dei barattoli molto tristi che aspettano che tu li riempia, un marito che sarà già incazzato nero e cavallini, apette e tutte quelle altre cose dell’allegra fattoria. Non hai tempo per le cose completamente stupide con me.»

«Sì, beh… vedremo.»

Nel bagliore di una schermata pubblicitaria molto chiara a Yuu parve di vedere occhi tristi sul suo bel viso.

 

***

 

Nel silenzio Emma gli stava di nuovo spazzolando i capelli. Il ritorno di Solenne non fece sparire la sua cameriera dalla segreta di Crowley, e questo era un piccolo sollievo perché, anche se fedele alla sua folle signora, quella ragazza era una presenza che sapeva di sicurezza per lui.

«Non trovi che faccia caldo qui dentro, stasera?»

«Non mi sembra… Bevi ancora. Può darsi che sia disidratazione.»

Lui si scoprì un po’ il collo e il petto spostando quella vestaglia di seta che gli avevano dato – secondo lui la causa principale del caldo – ma allungò la mano per prendere il bicchiere di tè verde freddo e svuotarlo con un tintinnio di ghiaccio.

«Ti sta molto bene questo colore, padron Crowley.»

«Non chiamarmi così, per favore… Ma veramente non senti caldo?»

Si appoggiò il bicchiere con i cubetti di ghiaccio sul collo per trovare un po’ di sollievo.

«Bevi di più, padron Crowley.»

«Non chiamarmi— Emma, che cosa c’è?»

Nello specchio la vide chinare la testa e nascondersi dietro di lui. Voltandosi la vide pallida e agitata, che sfuggiva al suo sguardo in ogni modo.

«Emma… che succede?»

«N-niente, padron Crowley» balbettò lei. «Io… sono triste che tu sia ancora qui. Pensavo che accettassi di stare con la signora nella stanza padronale…»

«Io… te l’ho già detto, non posso stare nella camera con una donna come lei prima del matrimonio… e non mi sento pronto per… Dio.»

Sospirò a fondo e si passò il bicchiere freddo sulla fronte, anche se gli pareva che il calore si diffondesse invece di dissiparsi. Un certo fastidio si aggiunse al caldo, ma non fece alcun cenno in presenza della ragazza.

«Io… porto un altro po’ di ghiaccio… finisci il tè, ti sentirai meglio.»

L’evasività di Emma accese l’intuito di Crowley. Guardò il tè rimasto – meno di mezzo bicchiere in fondo alla caraffa – e ancora lei, che stava raccogliendo le cose che portava ogni giorno per prendersi cura di lui. Quando non poté più negare la sensazione che aveva al di sotto dell’ombelico guardò il bicchiere come un coltello insanguinato e lo mollò sulla toeletta.

«Che cosa c’è dentro?»

«Y’a du thé, rien de plus!»

Emma era così agitata che rovesciò il suo cesto di spazzole e prodotti per il bagno.

«Emma! Che cosa mi hai dato? C’è lei dietro, vero?»

«Je ne sais pas» squittì lei correndo alla porta.

Il calore aumentava come se stesse correndo sotto un sole cocente, e il suo respiro si accorciava. Essere preso dalla rabbia e dal terrore e sentirsi così violentemente eccitato contro ogni logica era inconcepibile, inspiegabile se non con l’uso di qualche droga o medicina.

Schiantò la mano sulla porta impedendo a Emma di scappare. Lei sbiancò all’istante, terrorizzata, quasi si aspettasse di essere picchiata – o forse violentata – da lui.

«Come hai potuto?» le fece lui, mordendo ogni parola. «Come puoi essere complice di questo? Se al mio posto ci fosse una donna lo faresti, Emma? Se ci fosse una donna e fosse costretta a sposare un uomo che non conosce e che vuole un figlio da lei, tu faresti quello che stai facendo a me?!»

Borbottò frasi incomprensibili, a voce bassa e stridula, e tirò la maniglia con tutta la sua forza; riuscì a sbilanciare Crowley e sgusciare nello spazio.

«Emma!»

Il suo urlo si infranse sulla porta chiusa e fu seguito dal chiavistello. Con dolore misto all’eccitazione artificiale, Crowley picchiò il pugno contro la porta.

«Ti prego… Emma… tienila lontana da me! Ti prego, non permettere che mi veda stasera!»

Dall’altro lato Emma strinse il suo crocifisso con entrambe le mani e scivolò contro il muro fino a sedersi sul pavimento di pietra, scossa da lievi sussulti.

«È pronto?»

Emma alzò gli occhi su Exas, una delle guardie del corpo della padrona, ma lui non attese un cenno e spalancò la porta. Subito dietro di lui accorse Ivan e s’infilò nella stanza. Lei si coprì le orecchie ma sentiva comunque le voci concitate, il rumore di una sedia rovesciata.

«Non potete… non potete farlo! È questo il volere del vostro Dio, o è quella psicopatica di Solenne a volerlo?! Lasciatemi!»

Emma rabbrividì al rumore di un colpo pesante sulle ossa. Con le lacrime che le cadevano sul vestito e le mani sul crocifisso così strette da farsi male iniziò a pregare in un francese scosso dai singhiozzi.

 

***

 

Lo schiocco ruppe un’attesa nervosa e suscitò lamenti e scoppi di risate quando la biglia rotolò nella buca d’angolo. Guren si raddrizzò con un sorrisetto soddisfatto e intascò i soldi sul bordo del tavolo.

«Ora mi ricordo perché non uscivo più con te a giocare» commentò il suo sottoposto, Riedel.

«Non sei abbastanza assennato da evitare di sfidarmi, Frank, non far finta che sia una svista.»

«Svista per svista… raddoppiamo?»

«Sei senza lavoro adesso, sicuro che ce li hai i soldi?»

Il gruppo di giocatori rise mentre Frank contava banconote stropicciate. Quando Guren si voltò per prendere il suo bicchiere di birra quasi vuoto si trovò davanti il barista che gli posò un cocktail vicino.

«Non l’ho ordinato.»

«No, infatti, è offerto da un altro cliente» fece lui, mettendosi il vassoio sotto il braccio. «Mi ha dato anche questo. Se è un flirt, non voglio scazzottate nel mio bar, e neanche gente che scopa in bagno.»

Perplesso Guren prese il biglietto. Era la carta del blocchetto delle comande con una domanda scribacchiata a penna blu: “ti senti fortunato?”. Guardò il bicchiere e capì.

«Salto questo giro» annunciò agli altri. «Prega che quando torno sono già sbronzo, Frank.»

Ignorò le punzecchiature e le proteste mentre si allontanava con il bicchiere in mano, guardandosi intorno. A ogni passo gli tornavano in mente giri di carte così fortunati da insospettire quelli del casinò, facce confuse di persone che si accalcavano a guardare, pile di fiches su fondo verde.

Arrivò fino all’angolo più nascosto, vicino all’uscita di emergenza, prima di trovare una figura che spizzicava olive, e assomigliava a quella nei suoi flashback.

«Il fantasma del Natale passato» esordì, sedendosi al tavolo. «Yuu ha reclutato anche te?»

«Quale risposta ti urterebbe di meno?»

Guren tirò un angolo della bocca e prese un sorso di whisky sour.

«Che ti è successo al braccio, Gimlet?»

Ferid aveva il braccio destro avvolto in una fasciatura rigida scura e appeso al collo con un tutore ortopedico, ma sbuffò come se fosse qualcosa di trascurabile, come una puntura di vespa.

«Sono stato sepolto da una montagna di letame. Niente che valga la pena di raccontare.»

«Davvero? Mi sembra una storia divertente.»

«Probabilmente lo sarebbe, se la montagna di letame non fosse una metafora» tagliò corto lui, infilzando un’oliva. «Ma non sono venuto per parlare del mio braccio.»

«Allora prova a dirmi che cosa sei venuto a fare qui, visto che sei bello lontano da casa.»

Lui mangiò l’oliva e si assicurò di prendere la più grossa della ciotola prima di decidersi a rispondere.

«Sei il referente di Yuu, quindi immagino tu sappia di mio marito.»

«Sì, ma ero il referente di Yuu. La missione è passata all’Interpol.»

Il suo stupore suggerì a Guren che Yuu e Mikaela non fossero in contatto con lui, e ciò gli metteva solo dubbi più nefasti su cosa stessero combinando in segreto. Per esempio, qualcosa che avrebbe messo nei guai un padre di famiglia.

«Se proprio devo chiedermi qualcosa è come tu sappia che cosa sta succedendo qui» aggiunse Guren. «Avevo detto a Mikaela di non parlarne con nessuno.»

«Non lo ha fatto, almeno finché non sono piombato in casa di Yuu e l’ho trovato lì.»

«Ti aspetti che ti creda mentre mi dici che è tutta una coincidenza?»

Ferid fece un cenno al barista e lo guardò negli occhi per la prima volta, facendolo rabbrividire. I suoi capelli d’argento e i suoi lineamenti erano rimasti quasi del tutto invariati da quell’incontro a Las Vegas, ma non riusciva a vederci lo stesso ragazzo di allora, né lo stesso uomo che aveva espugnato Bluefields.

«Nulla di tutto questo è un caso, ma non significa che l’abbiamo architettato noi. Siamo legati tra noi dal momento in cui ci siamo incontrati, e vale anche per noi due.»

«Non sono interessato a diventare il tuo secondo marito.»

«Saresti il terzo» l’informò lui indifferente. «Ma non sto parlando di romantici fili rossi. No, siamo più… le tessere di un puzzle che si sono spostate, incastrandosi e passandosi accanto, fino a ricomporre l’immagine che ora inizia a delinearsi. Mancano ancora poche mosse in questo rompicapo, Guren.»

Sollevò un sopracciglio.

«Ma di che accidenti parli?»

«Ho un piano… e se non devi seguire i ragazzi allora puoi aiutare me.»

Un pensiero lo colpì all’improvviso, ma aspettò che il barista se ne andasse dopo aver portato loro una bottiglia di whisky.

«Questo piano è iniziato con il concierge, per caso?»

Ferid non replicò mentre apriva la bottiglia con una macchinosa manovra – dato che non muoveva il braccio destro – e riempiva due bicchierini. Guren si passò la mano nei capelli, spiazzato.

«Che fine ha fatto?»

«Troverò quello che Yuu non ha trovato… lo darò a te. Ti darò tutto quello che ti serve, com’è stato per la Chiesa dell’Acqua. Ti darò i Figli di Prometeo, e un pezzo grosso dell’Ordine dei Silenti… lo sai chi sono, vero?»

Prese il bicchiere.

«Ha tutta l’aria di un patto col diavolo.»

Ferid si lasciò andare a una lieve risata priva di allegria.

«Ho la mia merce sul piatto. Ti interessa conoscere il prezzo?»

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Capitolo 17
*** Signorina ***


Mika scrutava le persone intorno a lui, che puntualmente si giravano a guardarlo per poi fingere disinteresse non appena venivano notate. Non sorprendente che attirasse un po’ di attenzione, appoggiato allo sportello di quel bolide fiammante con la radio accesa e il volume alto.

La moto scura non tardò a farsi vedere e accostò, prima che il suo guidatore si togliesse il casco.

«Sei puntuale» osservò Mika, e abbassò un poco il volume della musica.

«Non per fare il taccagno, Misha, ma chi la paga questa bestia?»

«Se muoio oggi voglio guidare una macchina da sogno» replicò lui scrollando le spalle. «Ho sempre voluto una macchina veloce.»

«Questa mi arriva nuova.»

«Non te l’ho mai detto, infatti. Non ce la saremmo mai potuta permettere, e tu non sopportavi di non riuscire a darmi qualcosa che volevo.»

Yuu sospirò prendendo a grattare qualcosa di invisibile sul retro del casco per non guardarlo in faccia.

«È tutto pronto?»

«Sì. Tu sei pronto?» ribatté Yuu, riprendendosi. «Ricordi le strade? Se sbagli perdiamo la nostra occasione e chissà quando ne avremo un’altra.»

«Ho copiato la cartina fino a saperla ridisegnare a memoria e l’ho studiata con la streetview. Non ti preoccupare, sono un guidatore migliore di quello che pensi.»

Ma lo sguardo di Yuu era sempre più incerto.

«A questo proposito… Misha…»

Mascherò il sorriso dietro la mano. Iniziava a piacergli quel soprannome.

«Io… io credo che dovrei guidare io la macchina. È la parte più pericolosa e delicata, e… non voglio che tu ti faccia male. Penso che dovremmo scambiarci i ruoli.»

«Io penso proprio di no. So che sei preoccupato per me e che vorresti far tutto da solo per non farmi rischiare, ma non ho paura. Mi sento preparato e non ho paura, Yuu. Andrà secondo i piani.»

Yuu combatté con i suoi dubbi per un po’, poi sospirò.

«Ti prego, sii prudente.»

Questa volta Mika non riuscì a nascondere l’ilarità e scoppiò in una risata.

«No, oggi davvero non sarò prudente! Sarò accurato, però. Questo sì.»

«Sembra che tu ti stia divertendo.»

«Sarò sincero: non mi sono mai sentito tanto vivo come adesso. So che è rischioso. So anche che quello che cerchiamo di fare è importante… fondamentale. Ma non posso non sentirmi eccitato. Sono elettrizzato.»

Yuu si appoggiò con i gomiti al manubrio.

«Jonathan lo sa che sei così? Perché ora non sembri il Mika che conoscevo io, e sei anni luce da Mama Mikey che fa i cestini del pranzo a tutti.»

«Lucky non sa molte cose di me. Non le sapevo nemmeno io prima di ritrovarmi qui. Forse è quella vena ribelle che avevo al tempo della scuola media che riemerge.»

«Sei sexy da morire.»

La serietà e l’incredulità con cui lo disse – come se si sorprendesse di constatarlo – presero in contropiede Mika, che scoppiò a ridere con un velo di imbarazzo.

«Non so se ringraziare… sembri un po’ troppo stupito per essere lusinghiero!»

«Davvero, io… Vedo che lo fai per me, perché riuniamo la famiglia che eravamo in quel periodo a Satbury… ma… vederti libero dai ruoli è… Sembra assurdo anche a me a dirlo, ma sei come sognavo che diventassi.»

Un segnale sonoro dell’orologio di Yuu diede a Mika una ragione per non replicare, per sua fortuna: non aveva idea di che cosa dire. Lui stesso si riconosceva poco in quelle sue forti sensazioni, in quella feroce determinazione priva di paura e di dubbi.

«È ora di andare» annunciò Yuu, infilandosi il casco. «Spero tu abbia messo le mutande buone, Misha. Nel caso finissimo all’obitorio dovremo fare bella figura.»

«Per questo non le ho messe.»

Mentre saliva sentì Yuu borbottare imprecazioni in tedesco a denti stretti, e ridacchiò.

«Dannazione, Misha, perché mi vuoi provocare? Andare in moto con l’erezione fa schifo!»

«Oh, dubito che ti basti questo per drizzartelo. Semmai gli ho dato una scrollatina. Giusto per ricordargli che è vivo.»

«Scheiße» borbottò, e abbassò la visiera.

Mika alzò il volume della musica e partì per primo, infilandosi nel traffico con un rumore di motore che pareva un tuono contro il borbottio delle automobili comuni. Aveva guidato a sufficienza, quella mattina, per conoscere le strade e soprattutto sviluppare una sensibilità ai comandi dell’auto: la sua spinta, l’agilità, la durezza dei pedali e delle marce, la visuale che aveva dal posto di guida basso.

Strinse il volante, con il cuore che aumentava i battiti. Era nervoso ed eccitato, ma sentiva che non avrebbe potuto essere più pronto di così e che, forse, rimandare di un giorno o due avrebbe finito con l’insinuargli gli inevitabili dubbi di una mente che perde l’effetto inebriante dell’adrenalina e inizia a riflettere troppo.

Yuu lo riprese all’incrocio designato, con il semaforo rosso. Abbassò il finestrino e tacitò la musica.

«Misha, ho una domanda da farti. E voglio fartela prima che…»

Non concluse la frase, ma non era necessario.

«Quale?»

«Oggi… potrebbe anche essere l’ultimo giorno. Perché non hai chiamato tuo marito?»

Non era quello che si aspettava, ma aveva la risposta ben chiara.

«Perché il pensiero di non avergli parlato mi tenga attaccato alla vita» replicò, senza guardare Yuu. «Se non hai nessun rimpianto è fin troppo facile morire. È stato Ferid a dirmelo… e ha ragione. Chiamarlo e dirgli che sto tornando a casa… Questo obiettivo mi impedirà di spingere quando sarò già al limite.»

Senza una replica e senza vedergli la faccia non sapeva se gli avesse creduto. Allo scattare del semaforo partì prima di lui svoltando a sinistra, e Mika svoltò a destra fino a portarsi sul posto prestabilito. Parcheggiò a una certa distanza perché non desse nell’occhio sulla piazza e andò a ordinare un caffè da asporto, scegliendosi un punto all’ombra da dove controllare la Wolkswagen blu con la targa che gli era stata indicata.

Inviò un messaggio a Yuu e sorseggiò il caffè. Guardò l’orario. Mancavano dieci minuti all’incontro.

È quasi mezzogiorno a Pinnella Pass… chissà che cosa sta facendo Lucky. Chissà se è preoccupato per me o se… se pensa che non ritornerò.

A dispetto di quello che aveva detto a Yuu era tentato di mandargli almeno un messaggio; un saluto, una rassicurazione, o delle scuse perché la faccenda si stava dilungando… o magari due parole soltanto per ricordargli che lo amava.

L’arrivo della Porsche di Katze lo costrinse a staccarsi dal cursore lampeggiante sulla barra vuota dei messaggi. Improvvisamente vigile non perse una mossa mentre l’uomo scendeva e andava proprio verso la Wolkswagen. Conosceva il guidatore, perché si scambiarono un pugno come saluto e qualche parola. Velocemente chiamò Yuu, che rispose al primo squillo.

«C’è contatto con il cacciatore. Sono ancora fermi.»

«Cosa vedi?»

Mika strizzò gli occhi. Katze fece un cenno con la testa e l’altro uomo, un asiatico, andò al portabagagli per aprirlo. Non riuscì a vedere abbastanza bene.

«Stanno guardando nel portabagagli. Il pacco è nel portabagagli.»

«Riesci a vedere le dimensioni?»

«No, sembra ci sia una cassa, o… Sì, sembra una di quelle casse isolanti per trasportare gli alimenti con il ghiaccio. Ha alzato il coperchio, ma non vedo dentro. Deve aver aperto appena uno spiraglio.»

Katze sembrava soddisfatto e l’asiatico richiuse il portabagagli. Scambiarono qualche altra parola e di nuovo un pugno di saluto: si stava già congedando.

«Il gatto se ne va. Sei in posizione, Yuu?»

«Sì. Ci vediamo al punto stabilito. Sii prudente, Misha, te ne prego.»

Quando Katze salì sulla Porsche Mika abbandonò il suo angolino e il resto del caffè per recuperare la macchina. Ci mise meno di un minuto a saltare su e a ritornare sulla piazza, in tempo per vedere la Porsche tornare da dov’era arrivata. La Wolkswagen, come aveva previsto Yuu, ripartì in direzione opposta, diretta verso il magazzino della zona industriale. Mika gli si mise alle costole.

Qualsiasi cosa abbiano là dentro sembra che sia davvero surgelata, a vedere quanto corrono per portarla al sicuro!

L’auto sorpassava alla prima occasione, anche con qualche manovra avventata su strade cittadine. Rischiavano di attirare un controllo di polizia, quindi qualsiasi cosa fosse doveva essere preziosa o delicata o necessitare delle cure urgenti. Fortunatamente l’auto di Mika era in grado di stare dietro a qualsiasi altra persino su un circuito.

Rimase due veicoli dietro di loro per tutto il tragitto, fino all’ultimo incrocio: non solo il semaforo li staccò costringendolo a fermarsi, ma la Wolkswagen sgommò acquistando velocità dopo aver curvato nella direzione opposta alle loro previsioni.

Cazzo, si sono accorti di me!

Sparirono in un attimo in fondo alla Schönhauser Allee. Digrignando i denti allo scattare del semaforo fece una ripresa da far stridere le gomme e con una manovra a zig-zag superò a destra l’auto che aveva davanti sfiorando il cordolo del marciapiede. Con gli occhi fissi in avanti e una concentrazione che aveva del superumano scalò le marce e superò con agilità le auto che aveva davanti al primo spazio che gli permettesse l’azzardo; recuperò abbastanza da vedere l’obiettivo sparire sulla Charlottenstrasse. Si tuffò in una curva vertiginosa e mancò l’impatto con un furgone da trasporto per poco più di un metro.

Soffiò l’aria fuori a forza da un diaframma che sembrava essersi dimenticato di funzionare. Quando sentì lo squillo staccò la mano dal volante solo un attimo per rispondere.

«Dove siete?»

«Sulla Charlottenstrasse! Ha cambiato strada e sa che lo sto seguendo!»

«Annulla tutto, Misha, mi hai sentito? È troppo pericoloso!»

«Raggiungimi! Lo bloccherò prima che arrivi al ponte!»

«Misha, no!»

La strada di fronte era sgombra.

Ora o mai più.

Accelerò e scalò una marcia più alta con il cuore che gli martellava in gola, si portò sulla sinistra e con la sua potenza di motore superarlo in rettilineo libero fu uno scherzo. Strinse il freno a mano con il fiato sospeso. Il tempismo era essenziale.

Adesso!

Sterzò cercando di calibrare il movimento e tirò il freno a mano: la forza con cui l’auto sfuggì al suo controllo lo fece aggrappare al volante, sentì il posteriore scivolare via come se fosse dotato di una volontà propria con uno stridio di gomme da drizzare i capelli. Con un deciso movimento del volante, un cambio di marcia e una dose di pazzia ben oltre i suoi standard si trovò a guardare in faccia un esterrefatto asiatico mentre percorreva in retromarcia la strada davanti a lui. Lanciò un urlo di pura adrenalina.

«Cazzo, non ci crederà nessuno se dico in giro che l’ho fatto!»

L’euforia passò com’era arrivata e piantò gli occhi sullo specchietto retrovisore. La Charlottenstrasse era sgombra e molto breve. Gli serviva un tempismo perfetto una seconda volta.

«Chi guida meglio di noi due, eh?»

Sparò gli abbaglianti in faccia all’altro. La sua sbandata fu quasi immediata, tanto che Mika non riuscì a evitarla: gli speronò il fanale sinistro e girò il volante tutto in quella direzione per evitare di piantarsi dentro un negozio, strisciò la fiancata contro il lampione. L’auto senza controllo entrò in un altro testacoda e si schiantò di lato contro qualcosa con un fragore di vetro e lamiera. Mika fu colpito in faccia e tutto si spense.

 

***

 

Yuu stava per emergere da una strada perpendicolare alla Charlottenstrasse quando lo stridio di ruote e il fragore dell’incidente riempì l’aria.

«Misha! Misha, rispondi!»

Ma al di là del telefono non sentiva niente. Con il cuore in gola accelerò la sua moto elettrica e appena svoltò quello sprofondò nelle viscere: vide l’auto sportiva di Mika contro il muro di rinforzo della cancellata a ridosso del fiume. Avvicinandosi vide anche la Wolkswagen blu, con il cofano accartocciato contro il muro subito dopo la curva.

Quello è un pazzo, è completamente pazzo! Accidenti a lui e a quei cazzo di film da psicopatici che guarda sulle macchine!

Smontò quasi al volo dalla moto lasciandola accasciarsi e corse alla Lamborghini. Mika era accasciato contro l’airbag e non si muoveva.

«Misha! Mi senti?» gli fece, con la voce resa stridula dalla paura. «Misha… non fare scherzi, n-non…»

Gli sollevò piano la testa e gli controllò il battito, che con suo sollievo non faticò a trovare. Subito dopo aprì gli occhi, anche se gli lanciò un’occhiata intontita come se fosse sotto morfina.

«Tu, razza di rincoglionito, ma che cazzo pensavi di fare? Misha, mi senti? Mi riconosci?»

«Nh… sì… Stai urlando, certo che ti sento…»

Mika si toccò la fronte stringendo gli occhi. Prima guardò l’abitacolo, poi lui, e infine la Wolkswagen. A quel punto tese un sorrisetto soddisfatto e diede un pugno trionfante contro l’airbag.

«Sì, cazzo, hai visto che roba? L’ho preso, quello stronzo!»

«Per fortuna che non l’ho visto o mi sarebbe preso un infarto! Tu sei tutto scemo! Non ti agitare, adesso. Chiamo l’ambulanza.»

«Ma di che parli? Dobbiamo procedere prima che arrivino.»

«Hai la minima idea dell’incidente che hai fatto? Devi controllarti, potresti avere una commozione cerebrale. Sempre che tu abbia un cervello lì dentro.»

«Vista a fuoco, suoni nitidi, pensiero lucido. Sto benissimo… almeno fino a domani quando mi sentirò la faccia come se Crowley mi avesse preso a cazzotti.»

«Stai anche sanguinando!»

Mika si toccò la faccia prima di scoprire che gocciolava sangue sul mento.

«Ah… no, mi sono solo morso il labbro. Colpa dell’airbag. Aiutami a uscire.»

Ma i tentativi di aprire lo sportello furono inutili, l’impatto doveva aver bloccato il meccanismo di chiusura. Yuu allungò le braccia per tirarlo fuori dal finestrino esploso in briciole.

«Ti prego, dimmi che non tirerò fuori solo metà di te…»

«Nah, le gambe mi fanno male, vuol dire che sono ancora attaccate.»

Di peso lo tirò fuori. Mika non gli era mai sembrato così leggero e con sollievo vide che le sue gambe erano integre e attaccate al resto del corpo. Per la gioia gli avrebbe baciato le ginocchia.

«Mi metti giù, adesso? È molto romantico» fece Mika con blanda ironia, «ma tu hai ancora una ferita cucita e abbiamo un lavoro da finire.»

Aveva ragione, naturalmente, quindi pur a malincuore lo mise giù con delicatezza.

«Ce la fai a stare in piedi?»

«Oh, mio Dio» esalò affranto. «La mia povera macchina! Guarda che massacro!»

«Hai presente quando hai detto che salutare tuo marito ti avrebbe impedito di superare il limite? Beh, era una cazzata. Tu sei già un pazzo invasato suicida, e potresti avere anche dieci mariti e saresti uno spericolato lo stesso.»

«Ma guarda qui, la carrozzeria è da buttare! Oh, povera bambina…»

Di sicuro se si lagna per la macchina vuol dire che sta bene.

Iniziavano a rallentare le auto per guardare e le sirene si avvicinavano. Yuu corse alla Wolkswagen, scoprendo che l’impatto aveva piegato il portabagagli abbastanza da farlo aprire. L’alzò rapido e sollevò il coperchio della scatola, un grosso contenitore isolante come Mika aveva già notato, ma il contenuto lo fece sbiancare. La richiuse.

«Misha, muoviti. Trasbordiamo la cassa, se il tuo rottame di lusso si muove ancora.»

«Tutta la cassa?»

«Dobbiamo farlo per forza. Aiutami che pesa.»

Mika accorse e sollevarono la cassa, che pesava più di quanto lui s’aspettasse. Yuu non rispose di proposito quando gli chiese che cosa contenesse e la incastrarono sul sedile del passeggero, l’unico spazio che quel modello mettesse a disposizione per un bagaglio del genere.

«E tu?»

«Ti seguo con la moto. Vai dove avevamo stabilito e nascondi la macchina. Ti mando un taxi, fatti aiutare a mettere la cassa su e fatti portare al motel.»

«Non pensavamo fosse così ingombrante…»

«Sbrigati, avrai tutti dietro finché guidi questo razzo segnalatore con le ruote» rimbeccò lui. «Dobbiamo portarlo in motel prima che faccia sera. Vai!»

Mika si decise a dargli retta. L’auto era malconcia a vedersi ma una volta eliminato l’impiccio dell’airbag la mise in moto e schizzò via, agile tra auto di curiosi e soccorritori improvvisati. Yuu sparì sotto il casco mentre guardava il guidatore estratto incosciente dal rottame della sua Wolkswagen. Una donna controllò il battito e prese a praticare il massaggio cardiaco.

Indifferente rimise dritta la moto e si allontanò senza farsi troppo notare, protetto dall’orrore dell’incidente del quale sembrava solo uno spettatore. Il possibile decesso del Cacciatore di tesori che aveva trovato Crowley non gli diede né tormento né gioia.

Le sue preoccupazioni erano per quello che c’era nella cassa.

 

***

 

La frenata fu abbastanza brusca da scuoterlo e svegliarlo. Subito in tensione, Mika fece emergere solo gli occhi oltre il finestrino per capire dove fossero, e vide un alberghetto dall’aria trascurata con l’insegna blu scolorita: il loro punto di ritrovo prestabilito.

Non capì da dove arrivasse ma Yuu comparve nello spiazzo, andando rapidamente verso il taxi. Si raddrizzò sul sedile pronto a dirgli qualcosa di rassicurante sulla sua salute, ma lui si avventò sul finestrino anteriore a parlare in un tedesco nervoso con l’autista, senza degnarlo di uno sguardo.

Non capì una parola, ma il tassista sembrava cercare di giustificarsi o di spiegare, gesticolando ampiamente con un braccio. Alla fine Yuu lo zittì e aprì lo sportello a Mika.

«Komm raus» gli disse con un cenno spazientito.

«Yuu» ribatté Mika, infastidito. «Che cosa…»

«Ich bin Herr Hirsch für dich, Russisch» l’interruppe lui.

Un’occhiata fulminea dei suoi occhi verdi passò dai suoi al tassista e Mika comprese che non voleva fargli capire chi avesse trasportato, così tacque mentre aprivano il portabagagli per recuperare il contenitore. Fu una fortuna che l’acutizzarsi del dolore al collo gli avesse tolto la voglia di cercare di comunicare con il guidatore e l’avesse fatto addormentare.

«Einhundertsechzehn

Mika non aveva assolutamente capito, ma fece finta di non essere confuso e si accodò a loro. Passarono per l’ingresso del motel – non era squallido e intimo come quelli americani, in cui potevi entrare e uscire senza passare davanti al responsabile – ma la donna al banco non fece che rivolgere loro un benvenuto, o un bentornato: Mika non riusciva ancora a ricordare la differenza.

La stanza presa da Yuu era la numero 116. Aveva due letti separati, un paio di sedie di finto rattan ai lati di un tavolino ovale davanti alla finestra dalle tende grige. Il posto sembrava pulito, ma inospitale abbastanza da non volerci stare più di quanto necessario al cliente di passaggio lì.

Mentre Mika sbirciava il bagno – così vecchio da ricordargli quello dell’orfanotrofio – Yuu e il tassista avevano messo la cassa sul letto e quest’ultimo si era congedato dopo incomprensibili parole in tedesco masticato.

«Quanto abbiamo dato nell’occhio?» gli chiese allora Mika, tornando nella camera.

«Fin troppo, tu con quel tuo bolide e la tua guida da indemoniato. Potevi restare ucciso in quell’incidente, imbecille.»

«A che serve festeggiare le ultime ventiquattr’ore di vita se non per rendere più leggero il pensiero di restarci secco?»

Yuu fece una smorfia.

«Beh… il nostro piano era già fallito quando hanno preso la strada per il deposito a Lichtenberg. Di sicuro qualcuno ti deve molto per quella follia che hai deciso di fare.»

«Ti riferisci a Crowley? Dubito mi sarà grato, sai quant’è chioccia. Alla fine di questo casino ci dirà che dovevamo lasciarlo morire, o qualche idiozia del genere.»

Yuu lo guardò con uno sguardo molto serio, tanto che ogni traccia di ironia scivolò via da lui.

«Non hai guardato dentro la cassa prima che arrivasse il taxi?»

«Beh… no» ammise Mika, gettandole un’occhiata.

«È il momento di farlo, allora.»

Non indugiò per la suspence: sollevò il coperchio e lo rovesciò sul letto. Mika si portò la mano alla bocca, con il fiato spezzato. Dopo aver scambiato lo sguardo con Yuu – più grave che mai – si fece avanti per guardare meglio.

Dentro la cassa c’era una bambina, tutta rannicchiata in una posizione fetale. Era sporca come un porcellino che si è rotolato nel fango e altrettanto nuda, con lunghi capelli neri impiastricciati e una maschera sulla bocca collegata a una bombola di ossigeno incastrata in un angolo vicino ai suoi piedi.

«Mio Dio… una bambina… Quelle bestie schifose vogliono vendere una bambina

«Non è la prima che viene battuta a quelle aste» commentò Yuu, rabbuiato. «Ma se giochiamo bene le nostre carte sarà l’ultima. Adesso è il tuo turno, Mika.»

«Eh? Il mio turno di cosa?»

Yuu non replicò e rimosse dalla cassa la bombola, il cui indicatore era prossimo allo zero, e sfilò l’elastico che teneva la mascherina sul viso della piccola, buttandoli per terra sul tappeto. Con circospezione che Mika reputò eccessiva la tirò fuori, piano e toccandola appena come fosse un reperto antico che rischiava di rovinare. La adagiò sul letto e alzò le mani.

«Ora occupatene tu.»

«Eh? Io? Perché io?»

«Lavala e vestila, tanto per cominciare.»

«Ma… ma perché devo farlo io? Solo perché mi chiamano Mama Mikey non vuol dire che so fare da madre!»

«Senti, io detesto i bambini, va bene?» sbottò Yuu, sottovoce. «Reagiscono in modo incomprensibile e dicono e fanno cose senza senso. Non so mai che cosa dirgli.»

«Beh, adesso non devi parlarle. È svenuta.»

«Sì. E anche…»

Yuu distolse lo sguardo e andò a sbirciare dalla finestra prima di accostare le tende. Mika capì subito che era a disagio.

«E anche cosa?»

«Anche nuda. Io non la tocco. Non la voglio neanche guardare finché non è vestita.»

Non sapeva se scoppiare a ridere o arrabbiarsi, così gli uscì una via di mezzo.

«Ma scherzi? È una bambina, Yuu. Potrebbe essere tua figlia.»

«Ma non lo è, quindi non la tocco.»

Incrociò le braccia, quasi a voler mettere le mani dove non avrebbero rischiato di sfiorare neanche i capelli della piccola. Mika si grattò la testa esasperato, alla ricerca di qualche argomento che rompesse la sua cocciutaggine, quando uno strillo li fece sussultare entrambi: la bambina si era svegliata.

«Shhh!»

Mika le tappò la bocca cercando di non metterci più forza del necessario. Era comprensibilmente terrorizzata e l’ultima cosa da fare era mostrarsi aggressivi, ma non potevano neanche lasciare che urlasse e gli tirasse addosso la polizia.

«Per favore, calmati! Non urlare» l’implorò Mika. «Non urlare, non vogliamo farti male… Yuu, fa’ qualcosa, non mi ascolta!»

«E che devo fare, spararle?»

«Mamma! Mamma!» strillò lei, soffocata dalla mano di Mika.

«Shh, sta’ calma, ti prego… Yuu, forse non mi capisce! Dille tu qualcosa!»

«Certo che non capisce, ha appena detto “mamma”!»

Mika gli lanciò un’occhiata feroce.

«Se la capisci dille qualcosa, accidenti a te!»

Yuu sembrava aver paura della bambina quanto lei dei due sconosciuti, ma alla vista della piccola che si dimenava si decise ad avvicinarsi. Mika ebbe la netta impressione che le fissasse la fronte, mentre si grattava l’interno dell’avambraccio in un tic nervoso.

«Ehi… senti… va tutto bene» le disse esitante, in una lingua che Mika non conosceva. «È sicuro qui, va bene? Calmati, signorina.»

Funzionava: non aveva idea di che cosa Yuu le avesse appena detto ma la bambina smise di urlare e fissò dei grandi occhi scuri su di lui. Respirava ancora affannosamente e Mika le tolse la mano dalla faccia, lentamente.

«Le hai appena detto “signorina”?»

«Sì, è… italiano. Non me la cavo granché, comunque. Non mi ricordo come si dice bambina.»

«Meglio, è stupido chiamare un bambino “bambino”» lo rimbeccò Mika. «Chiedile come si chiama.»

«Mi hai preso per un traduttore simultaneo?» ribatté seccato Yuu, ma si strizzò le meningi con un’espressione corrucciata. «Nome… ah… il tuo nome?»

Mika aveva già recuperato il cellulare. L’incidente gli aveva crepato il vetro da un lato ma era ancora utilizzabile e aprì l’applicazione che aveva salvato la sua vita in quelle settimane tra gente dalla lingua incomprensibile: il traduttore vocale. Impostò l’italiano come lingua di acquisizione.

«Cristina» pigolò la piccola.

«Si chiama Cristina» ripeté piuttosto futilmente Yuu.

«Grazie, l’ho sentito.»

Mika cercò di sorriderle, ma si accorse dei lacrimoni in bilico sulle sue ciglia.

«Devo usare… aspetta…»

Digitò più veloce che poté per tradurre in italiano qualcosa da dirle, ma Yuu emise uno sbuffo impaziente.

«Io… Stephan» le disse, indicandosi il petto con la mano prima di toccare la spalla a Mika. «Lui… Misha. Oggi… ah, no… ora. Ora noi due… teniamo al sicuro te. Va bene?»

L’applicazione tradusse a Mika le parole di Yuu con accuratezza. Gli sorrise incoraggiante, ma gli sembrava molto più nervoso di qualsiasi altra volta l’avesse visto nel corso di qualche operazione pericolosa come agente di pattuglia tra inseguimenti e sparatorie.

«Cristina… come stai?»

La piccola iniziò a piangere, senza un fiato. Sembrava una bambola in quel momento.

«Voglio la mia mamma.»

«Dice che vuole sua madre» riferì Yuu, seccato. «Lo vedi come sono? Non puoi aspettarti di parlare con un bambino e avere delle risposte coerenti.»

«È stata rapita, è spaventata! A malapena danno risposte sensate gli adulti che assistono a un crimine, figurati dei bambini che lo subiscono. Non ti incarognire.»

Yuu brontolò qualcosa in tedesco e si allontanò dal letto.

«Non pensare che ci caschi, sai, Yuu? Non detesti i bambini. Per qualche motivo ti fa paura lei e lo scoprirò il perché.»

«Sei hai tempo per immaginare complotti falle un bagno. Te la caverai con il telefono.»

«Aspetta, dove pensi di andare?!»

«A sondare il terreno. E a prepararlo. Te lo ricordi che questa era solo la prima fase, vero?»

Mika ostentò un contegno gelido mentre digitava le frasi che voleva dire a Cristina, ma non riuscì a lasciarlo uscire del tutto indenne da quella situazione.

«Visto che esci, comprale un vestito. Non posso coprirla con una tenda.»

Senza fiatare Yuu uscì dalla stanza, portando via con sé i suoi segreti.

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Capitolo 18
*** Famiglia ***


Crowley non mosse un muscolo quando la porta si aprì, se non gli occhi per puntare uno sguardo perforante su Emma e il suo vassoio. Non aveva ancora capito se provava più risentimento per Solenne e quello che lo costringeva a fare o per lei, che la spalleggiava come se il suo comportamento fosse legittimo.

«Portalo via subito» le ordinò gelido.

«Padron Crowley… non hai fame?»

«Come—»

Crowley strinse il pugno per controllare la sua ira.

«Come osi chiamarmi padrone, quando sai che non sono padrone neanche del mio corpo? Lo trovi divertente, forse?»

L’espressione contrita vacillò e per un attimo sembrò voler girare i tacchi e uscire, ma poi ci ripensò. Il suo sguardo gli rimandò più fermezza, come volesse opporsi alla sua rabbia.

«Devi mangiare qualcosa. Non mangi né bevi da troppo tempo.»

«Non ho promesso niente a Solenne, anche se lei pensa che quella farsa sia un vero matrimonio. Non sono obbligato a vivere per lei.»

«Non parlare così» lo pregò la ragazza, accostandosi al letto. «Dio… Dio sa come deve andare. È il pittore dei nostri corpi e lo scrittore delle nostre vite. Abbi fede… se vuole che tu stia con la padrona troverai la serenità. Se non vuole…»

La sua voce venne meno e in un gesto involontario accarezzò la croce che portava al collo.

«Non devi morire. Non è la risposta. Abbi fede e resisti.»

Il mare in tempesta che aveva dentro si placò di poco. Anche se la legge e la morale umana l’avrebbero additata come una complice della sua aguzzina, qualcosa in Emma continuava a dare a Crowley un sollievo, ma quel giorno provare sollievo ascoltandola lo irritava.

«Tu non sei migliore di lei» le fece, aspro. «Forse diventerai proprio come lei tra qualche tempo. Una pazza invasata, ossessionata da un’idea perversa di Dio. Se la servirai ciecamente troverà anche a te un templare? Un discendente di un santo, o di un Papa, o che altro?»

«Padron Crowley, io merito il tuo disprezzo… lo so che lo merito. Ma non sopporto di vedere quello sguardo quando entro in questa stanza.»

«Beh, quello è il mio disprezzo, Emma. Abituatici.»

«Ti manca la speranza» sussurrò lei, dolce quanto lui era aspro. «Non ti aspetti più qualcosa di buono quando si apre la porta… e non riesco a sopportarlo.»

Era una semplice realtà, eppure Crowley non se n’era ancora reso conto. Erano passati pochi giorni eppure era già senza speranza, non si aspettava più che Solenne diventasse ragionevole, che qualcuno come Emma lo aiutasse, o che gli arrivasse finalmente la notizia che Ferid era venuto a riprenderselo.

Emma forse percepì un cambiamento nel suo stato d’animo, perché azzardò di sedersi ai piedi del letto e prese un frutto dal vassoio.

«Ti ho portato una pesca. La cuoca le ha prese fresche dal mercato dei contadini… Sembra che il calore del sole gli sia rimasto dentro! Di certo è deliziosa. Te la sbuccio.»

Prese un coltello d’argento dal vassoio e prese a sbucciarla diligentemente. Crowley non poté non guardarla con sospetto, come si osserva ogni mossa visibile di un mago per scoprirne il trucco.

«Sei disposta a restare?»

«Posso restare quanto vuoi, padron Crowley, la padrona è fuori fino a sera per vedere una sua conoscenza in visita.»

Lei alzò lo sguardo per sorridergli, ma non ci riuscì quando si accorse di come la stava fissando.

«Sei disposta a restare anche se decido di mangiare? L’altra volta con quel tè sei scappata in fretta.»

Le mani di lei ebbero un fremito e distolse gli occhi, concentrandosi sulla buccia della pesca.

«Sì, padron Crowley… la padrona non c’è fino a sera. Non ci sarebbe alcun motivo di darti delle medicine per… per qualcosa che non può essere fatto senza di lei.»

«Questo se io credo al fatto che lei non ci sia per davvero. O se penso che a te non interessi mangiare nel piatto di Solenne quando lei non può scoprirti.»

Questo non riuscì a incassarlo con una reazione minima e voltò il viso in modo che lui non potesse guardarla.

«Ti prego, non dire queste cose… Sono disprezzabile per molti motivi, ma non farei mai qualcosa di… di così…»

«Definiscilo» l’incalzò lui. «Com’è prendere qualcuno che non può sottrarsi né difendersi?»

«Spregevole» concluse lei con un filo di voce.

La sua ammissione e il tentativo di asciugarsi le lacrime senza farsi accorgere riportarono la rabbia di Crowley sotto un livello che riuscisse a controllare e a mascherare. La lasciò in pace mentre affettava il frutto per lui e assistette in silenzio alla sua prova di onestà: bere la prima tazza del tè che gli aveva portato.

«Tu l’hai mai conosciuto un uomo, Emma?»

Ogni riferimento erotico era un fremito delle sue mani e voleva capirne il motivo. Secondo la sua esperienza in polizia, una straordinaria innocenza o la colpa trascinata di un abuso.

«No, io no» rispose lei, atona. «Io vivo qui da sempre… Servo la famiglia d’Allemand e… non sono sposata, naturalmente. Mi hai spaventata molto.»

Crowley prese il piatto con le fette di pesca, perplesso.

«Che?»

«L’altra sera… io… n-non avevo mai visto un uomo… così. Ho avuto paura. La padrona mi dice spesso che gli uomini comuni sono come degli animali con le donne, e… mi sembravi un animale anche tu.»

Afferrò il piattino, che tremava tanto che la tazza tintinnava. Riuscì persino a farle un sorriso.

«Era l’effetto di quello che mi ha dato Solenne. Io non sono un uomo così bestiale, a meno che non mi venga chiesto di esserlo.»

Emma poteva anche essere cresciuta in un ambiente chiuso e improntato a una certa severità come un collegio, ma proprio la sua ingenuità le stampava in faccia un misto di repulsione e di curiosità più adatta a un’adolescente che alla donna adulta che era.

«Io ho conosciuto un po’ di uomini nella mia vita… e parecchie donne. Quindi lo so… a volte, per una ragione o un’altra, può capitare di fare sesso con una persona che non ti piace poi così tanto. Perché sono disponibili, perché ci si annoia, o sei stimolato abbastanza da iniziare e vedere come finisce. Non è molto cristiano, lo so.»

Emma ricompose la sua espressione corrucciata, ma non si allontanò come faceva ogni volta che era in imbarazzo, iniziando a rassettare qui e là.

«Non è neanche molto sensato, se vuoi saperlo. Finisci quasi sempre per pentirtene quando l’altra persona non ti piace… ma credimi, per quanto tu non veda l’ora di finire e andartene, non c’è il minimo paragone con come ti senti quando qualcuno ti costringe a farlo. Quando vieni usato come se fossi un elettrodomestico, un oggetto che usi e ributti in un cassetto.»

«Sono desolata di sentirlo» mormorò Emma, stropicciandosi le dita. «Per… per quanto poco conti… ho chiesto alla padrona di essere paziente. Perché… perché io la conosco da quando ero bambina, e so che è dolce, gentile, che aiuta tante persone… Non sgrida mai la servitù e non punisce in modo violento. Io… credevo che ti saresti innamorato di lei se avesse saputo aspettare.»

Crowley si spostò più vicino e lei irrigidì la sua posa appena si sentì toccare i capelli.

«Lei ti prende in giro, Emma. Vi ha presi in giro tutti. Mette questa maschera da quando è nata e sotto c’è la vera Solenne: una meschina manipolatrice, una viziata egoista che non accetta di non poter avere qualcosa. Una donna che ti ha instillato il terrore degli uomini per tenerti chiusa qui dove ti senti al sicuro, ma dove è lei a essere al sicuro, perché tu non puoi raccontare a nessuno quello che vedi e che senti.»

«I-io… hai una visione della padrona snaturata dalla paura… Io lo capisco, ma…»

Crowley le strinse il braccio.

«Io non ho più paura di lei. Non c’è più niente ora che mi possa portar via. Sei tu quella che ha paura di farla arrabbiare, tanto da non osare dirle che quello che voleva fare era spregevole.»

«M-mi dispiace» pigolò lei, le mani sul viso. «Pardonne-moi, je suis seulement… sono debole…»

Crowley prese i suoi polsi sottili con delicatezza e le scoprì il viso. Stava di nuovo piangendo.

«Non sono arrabbiato, Emma… Hai ragione, lo sai? Dio mi ha dato quello che serviva… mi ha dato te. E la tua debolezza è perfetta. Solenne ti conosce bene e lo sa che non ti opporresti mai… e sa che io non posso prendermela con te. Per questo lascia che tu venga qui da sola, con un vassoio di potenziali armi.»

Emma impallidì quando posò gli occhi sul coltello e la forchetta sopra il vassoio. Scosse piano la testa in una silenziosa supplica. La mano però non andò al tavolino; scese dal suo braccio fino a sfiorare il fianco sopra il vestito mentre le dava un bacio sul collo. Non sentiva qualcuno irrigidirsi tanto a un suo bacio da quando aveva baciato Ferid, in un gelido pomeriggio di gennaio, mettendogli le mani gelate sotto il maglione e costringendolo a scappare dentro casa.

«Solenne si fida di te. Portami fuori. La prossima volta che si allontana da casa per un po’, trova il modo di farmi uscire.»

«Je… je ne peux!»

«Sì che puoi» insistette Crowley. «Tu sei intelligente e lei si fida di te. Tu puoi tirarmi fuori.»

«Non posso farlo! Le guardie sono sempre all’ingresso, non posso farlo!»

«Non è un caveau, di certo ci sono delle imperfezioni… puoi sfruttarle, perché tu le conosci.»

Gli spostò la mano dal fianco con un gesto brusco inedito da parte sua.

«Io non posso tradire la padrona, non lo capisci?»

Non ricordava di aver mai giocato quella carta in vita sua, neanche nella sua carriera nella narcotici. In un altro momento – qualsiasi momento fino a tre giorni prima – non sarebbe mai arrivato a tanto, ma pur di aggrapparsi a quella speranza avrebbe usato l’impensabile.

«Non c’è qualcosa che posso darti in cambio di questo?»

«D-di che stai parlando?»

«Posso parlare di quello che vuoi… ormai sei una donna adulta. Non vorresti sapere com’è stare con un uomo? Posso insegnartelo io.»

«S-smettila, per favore…»

«Sono sicuro che neanche te l’immagini quanto posso essere delicato» la blandì lui, abbassando il volume della voce. «Ho un sacco di esperienza. So che cosa fare. Lei non c’è per davvero, no? Abbiamo tutto il tempo…»

Non voleva darle troppo tempo per pensare, per lasciare che la paura della sua padrona prendesse il sopravvento su qualsiasi istinto. La baciò, con due certezze immediate: che Emma non aveva mai baciato qualcuno prima e che non stava cercando di sfuggirgli.

Sembrò prendere la scossa quando la mano le passò sopra il seno e si scostò.

«Scusa… troppo veloce?»

Emma gli premette la mani sul petto per tenerlo lontano e girò il viso per stare a distanza di sicurezza.

«Sono debole e sciocca… ma non posso avere un uomo già sposato, anche se è bello come un angelo e tenta come il diavolo.»

«Strapparmi una sillaba o due sotto la minaccia di ferire i miei cari non è un matrimonio.»

Emma scosse piano la testa e tirò un sorriso.

«Come si chiama? Tuo marito…»

Quelle due parole furono abbastanza potenti da farlo arretrare e mettere un buon metro di distanza da lei. Il suo sorriso si rafforzò.

«Come si chiama lui? La padrona non dice mai nulla di te prima che arrivassi qui.»

«Io… Ferid… si chiama Ferid.»

«Ferid? Che strano nome» commentò lei. «I tuoi figli lo ricordo come si chiamano. Eden, Morgan… ed Emma.»

«Sì.»

«Parlami della tua vita» gli chiese lei, spostandosi più vicina. «Dove vivete? Chi alleva i bambini? Che cosa gli piace fare di più?»

«A Solenne servono informazioni?»

«Sai meglio di me che cosa le serve. Vuole dei figli, non le importa dei tuoi… Per lei… sono come gattini abbandonati. Prova pietà. Ma sono la tua speranza e devi aggrapparti a quella speranza, Crowley. Parla di loro. Fammi vedere la tua vita come ci fossi dentro.»

Quando il sospetto crollò Crowley venne investito dalla vergogna per quello che aveva appena cercato di fare. Si sentì sporco per aver cercato di corrompere la più pura e ingenua donna che avesse mai incontrato e anche peggio, perché in un certo modo gli ricordava sua figlia.

Emma non l’incalzò. Continuò a sorridere mentre gli versava un’altra tazza di tè e poi si rimise seduta, come una bambina in attesa della storia della buonanotte. Crowley si sforzò di snebbiare la mente dalle orrende sensazioni degli ultimi giorni e tornare a prima, ai suoi ultimi ricordi prima della faccia di Ismael nel magazzino.

«Viviamo in una grande casa ai margini di una piccola città. Mio… mio marito ci ha voluto costruire la veranda prima di andarci a vivere. Lui adora quella veranda… la sera, in estate, si mette sul dondolo e legge un libro ai bambini. Gli stanno intorno come i topi che seguono il pifferaio. Non riesco a mandarli a letto prima della fine del capitolo neanche promettendogli il gelato. Persino il gatto lo sta a sentire.»

Emma sorrise divertita, con una sorta di malinconia negli occhi che non gli sfuggì.

«C’est mignon

«In inverno lo trovo spesso fuori sulla veranda da solo. Sta lì, con una tazza di qualcosa di caldo e una coperta sulle spalle, e guarda la neve. È sempre lì quando torno a casa tardi dal lavoro…»

Ora che parlava di lui, che rievocava dei momenti precisi, riusciva a vederlo nella sua mente come se fosse stato lì davanti: sentiva l’odore di cocco dei suoi capelli, riusciva quasi a provare di nuovo la stessa sensazione di quando gli passava le braccia intorno al corpo e a risentire la vibrazione lieve del suo collo mentre rispondeva a una sua domanda.

Una volta iniziato non riuscì a smettere. Un ricordo dopo l’altro, un aneddoto alla volta, dipinse per Emma il ritratto della sua vita prima di essere portato via dal West Virginia, compresi i momenti più difficili in cui Ferid dimenticava giorni interi come se non li avesse vissuti.

Emma lo ascoltava e piangeva in silenzio.

 

***

 

Il movimento del letto lo svegliò come un terremoto. Yuu si guardò intorno smarrito e spaventato, per scoprire che non stava succedendo un bel niente: nel letto di sinistra Cristina era raggomitolata con le cuffiette nelle orecchie e un peluche di pinguino stretto a sé, Mika stava ancora parlando a mezza voce riguardo il piano, il che gli fece capire che il suo sonno era stato di forse un minuto. Sospirò strofinandosi gli occhi, ancora stordito dal sogno che aveva fatto in quel breve momento, che invece di svanire diventava sempre più nitido col suo carico di vergogna.

«Yuu… stai bene?»

«Stephan» lo corresse, scuotendo la testa. Si sentiva come sbronzo.

«Non ci sente adesso, ha la musica. Ti senti bene?»

«Dovrei chiedertelo io… Ti fa male il collo?»

«Ovvio che sì.»

Con un sospiro Mika si sedette sul letto e sistemò il cuscino per sorreggere la testa. Yuu, appoggiato dall’altro lato alla pediera, gli fece cenno con la mano. Lui alzò gli occhi al cielo ma allungò i piedi verso di lui.

«Non mi ero mai accorto che ti piacessero i miei piedi, prima.»

«Sette anni sono lunghi e si imparano molte cose» replicò lui vago. «Tu comunque sei perfetto. Sei sempre stato perfetto. Non c’è una parte che non sia bella.»

«Mi ricordo quando me lo dicevi prima di darmi una notizia che non mi piaceva.»

«Non ho notizie da darti. Rilassati, Misha.»

Prese a massaggiargli i piedi. Non era più così sicuro di ricordare la riflessologia plantare – uno dei suoi molti esercizi di rapidità mnemonica ai tempi dell’addestramento – ma credeva di ricordare lo schema che gli era servito a memorizzarla, quindi insistette sugli alluci.

Qualche minuto dopo pensò che Mika si fosse addormentato. Azzardò di raddrizzarsi e guardare Cristina, ma non riusciva a vederle il viso per colpa del pinguino.

«Dovremmo portarla alla polizia, così tornerà a casa.»

Il commento di Mika lo prese alla sprovvista, ma fece finta di niente.

«Non possiamo ancora. Katze dev’essere sicuro che abbiamo noi quello che vuole vendere, o non si scoprirà.»

«È lei, vero? È lei la ragione per cui non hai accettato di ritirarti dalla missione. Non è stato per Crowley.»

«Di che parli? Non sapevo che cosa avrebbero consegnato» protestò Yuu. «Lo sai com’è Katze. Prudente e paranoico. Non è che lasci le bolle di consegna in giro.»

«Avevi un piano per prelevare il carico con il minimo rischio e volevi questa spedizione. Me l’hai detto più volte che non avremmo avuto una seconda chance. Volevi la bambina.»

Mika era già in modalità d’attacco, il che suggerì a Yuu che doveva averci rimuginato sopra per tutto il tempo in cui era rimasto da solo.

«Il tono accusatorio è perché pensi la voglia crescere come mia o perché mi reputi un pervertito? Perché in realtà io l’ho salvata. Anzi, tu. Tu lo hai fatto.»

Mika si raddrizzò, con l’aria seria, ma questa volta non percepì una minaccia.

«Lo so, Yuu. Lo so chi è.»

«Chi è chi?»

Aveva la bocca asciutta, ma dare le spalle a Mika in un confronto diretto era lo stesso che esporre la schiena a una tigre.

«È tua sorella.»

«Io non ho sorelle. Lo sai benissimo.»

«Non l’avevi. Ma hai una madre biologica che è sparita dalla tua vita fin dal primo giorno.»

«Ora basta, Misha. Stai delirando.»

Mika gli tirò un calcio al mento fin troppo forte per essere un banale gesto di stizza. Non si fece propriamente male, ma il cozzare dei denti lo lasciò senza una replica per qualche secondo di troppo.

«Non prendermi per stupido, Yuu! Il nome sul certificato di nascita e sulla rinuncia alla potestà è lo stesso della madre di Cristina! E indovina un po’? Stephanie. È un caso anche che ti chiami Stephan, adesso?»

Yuu chiuse gli occhi. Non si aspettava che Mika fosse tanto sveglio da trovare abbastanza pezzi dell’enigma per coglierne un disegno e che cercasse di dargli un senso, e invece l’aveva fatto in un giorno soltanto. Non si sentiva così stupido da quando installava modem per la ditta di Satbury e perse un’ora a cercare di capire cosa non funzionasse in un modem a cui non aveva inserito la spina.

«Chi ti ha dato il mio certificato?»

«Frank, no? Il tecnico della tua squadra. Gli ho chiesto il suo numero prima di apparire nel tuo night club, nel caso avessi provato a scaricarmi e mi fosse servito aiuto.»

L’ammazzo, quella bocca larga! Scommetto che ha venduto il mio fascicolo a Mika per… cosa? Un trofeo di calcio, un abbonamento allo stadio… un giro di birra belga, una vale l’altra.

«Perché non me lo volevi dire, Yuu?» l’incalzò Mika, più calmo. «Pensavi che non avrei capito? Che non ti avrei aiutato se era per tua sorella e non per Crowley?»

«Perché tu non hai una sorella da ritrovare» sbottò Yuu, arrabbiato più con se stesso e Frank che con lui. «Tua sorella… è perduta per sempre. Non volevo che ripensassi a lei e soffrissi.»

Yuu abbandonò il letto per arrivare a prendere il succo di ananas e cocco sul tavolino, ma ne prese solo un goccio. Si era riscaldato del tutto.

«Quanto sei stupido? Io penso a Carmen sempre. Tutti i giorni. Una qualsiasi ragazza coi capelli biondi mi fa chiedere come sarebbe adesso se non fosse morta. Vedere una qualsiasi famiglia mi fa pensare che io e Carmen avremmo dovuto essere insieme. Questo non significa che non posso tollerare che tu ne abbia una… Anzi, significa che io, più di chiunque altro al mondo, sono disposto a tutto per proteggere tua sorella.»

Non c’era nulla di interessante in quell’etichetta, eppure Yuu ci incollò gli occhi sopra mentre tornava verso il letto. Mika alla fine gli prese la bottiglia di mano costringendolo a essere presente a quel confronto.

«Da quanto tempo sai di Cristina?»

«Da tre anni…»

Senza una parola Mika batté sul lenzuolo. Yuu prese posto accanto a lui e sentire la sua vicinanza gli riempì il vuoto nel petto come una cascata che si riversava dentro.

«Ho approfittato di Frank per una ricerca, dicendogli che era un nome saltato fuori parlando con un contatto di Katze. Appena ho avuto il fascicolo ho fatto una borsa e sono partito.»

«Italia, immagino.»

Yuu annuì.

«Mia madre e suo marito hanno un ristorante in Toscana… la Trattoria degli angeli. Ma ho solo guardato da lontano. Ho visto la sua auto, la sua casa, e… sua figlia. Non sapevo come superare quello che avevo visto e sono tornato a casa. Al lavoro, alla missione. Come se niente fosse successo.»

«Ma non è tutto, mh? Ti conosco» lo punzecchiò Mika, con un misto di tenerezza e malizia. «Non resisti. Non riesci a ignorare le cose. Bene o male le affronterai.»

Yuu guardò Cristina, senza riuscire a pensare di aver gestito bene quella situazione con la famiglia biologica e senza risparmiarsi il biasimo di come aveva gestito l’abbandono di Mika.

«Sono tornato l’anno dopo. Sono andato come cliente.»

«Le hai parlato stavolta?»

«Sì. È una chiacchierona. È ancora bella… ed è gentile. Mi ero fatto l’idea che fosse un’egoista, una persona irresponsabile e superficiale… Forse lo era, trent’anni fa. Ma adesso è una brava persona, e tutti i clienti l’adorano. È una brava mamma per Cristina.»

«Non dipende da te, lo sai, vero? Cristina è solo arrivata quando lei era pronta per fare la mamma.»

«Sì. Lo so.»

Gli ci era voluto un anno, tra lavoro e alcol a strapparlo da quelle riflessioni, per farsi una ragione. Alla fine, com’era successo a lui con Mika, aveva concluso che anche sua madre era semplicemente troppo giovane e bisognosa di cure per assumersi la responsabilità di un figlio nato con un marchio inquietante.

Quasi gli avesse letto la mente, Mika fece scivolare la mano sulla sua schiena fermandosi dove sapeva di avere una voglia chiara dalla netta forma di una croce rovesciata: il marchio che aveva portato suo padre a sbarazzarsi di lui. Invece di mollarlo in qualche ospedale o convento, aveva deciso di guadagnarci qualcosa vendendolo a qualche satanista per mezzo dei Figli di Prometeo.

«Ecco perché sapevi che suonava il piano… dei pinguini e del colore verde.»

Yuu annuì grave.

«Me l’ha detto mia madre quando mi ha parlato di lei. Ha una collezione di una cinquantina di pinguini in camera sua. Valla a capire.»

«I pinguini sono animali buffi. Ai bambini piacciono molto.»

Mika sorrideva. Faticava a credere che avesse davvero una reazione come quella davanti a tutte le sue mezze verità.

Il Mika che conoscevo non me lo avrebbe mai perdonato… non ha mai sopportato i segreti. Mi avrebbe urlato contro e poi lanciato solo occhiate truci per giorni.

«Sai… Misha… mi sembri così diverso. Voglio dire…»

Le parole si accartocciarono su loro stesse come una pellicola di plastica sulla fiamma e desiderò non aver parlato: Mika lo guardava e nell’azzurro dei suoi occhi brillava qualcosa di sconosciuto e adorabile.

Per un folle attimo si immaginò coraggioso, sfrontato abbastanza da chiedergli cosa pensava del loro futuro insieme, se avesse ancora quella paura di ritrovarsi fantasma con un altro fantasma: un’ombra che non aveva più lasciato la sua mente da quando gliel’aveva sentito dire.

«V-voglio… dire… hai… Hai sentito tuo marito?»

Fu uno sconforto profondo accorgersi che sembrava deluso, come se avesse sperato quanto lui che avesse finalmente il coraggio di dire quello che gli ronzava in testa da giorni. Scosse la testa.

«Non mi ha risposto oggi… ma ora il telefono ce l’ha Cristina. Non l’ho controllato.»

Anche se era una sera calda Yuu stava bene accanto a Mika e staccarsene gli diede un disagio, una sensazione di freddo sulla pelle. Gli stralci peggiori di quel suo sogno lampo, poi, contribuirono ad aggravare quel senso di colpa.

«Niente?»

Mika guardava lo schermo intensamente, ma alla sua domanda scosse la testa e sorrise. Con sua sorpresa accarezzò i capelli di Cristina.

«Oh, no. Niente di importante, mi arrivano ancora gli avvisi quando all’emporio arrivano le cose che ordino da Clayton.»

«Mika… ascoltami, per favore.»

Era sorpreso, ma non replicò.

«Finirà presto. Io… proteggerò tutti. Proteggerò Cristina e la riporterò alla mamma. Proteggerò te, e ti farò tornare sano e salvo da Jonathan. Con le informazioni che avranno quelli dell’Interpol troveranno facilmente Crowley. Io… metterò tutto a posto.»

«Nessuno di noi ti chiede di fare tutto da solo, né di sistemare tutto questo caos…»

«Mika, voglio mettere tutto a posto e voglio tornare negli Stati Uniti. Voglio… parlare con i bambini di Crowley e di Ferid anche se non so che cosa dirgli. Voglio venirti a trovare in quella stamberga puzzolente che chiami casa. Non voglio altri sette anni di niente…»

Si accorse di qualcosa che gli sfiorava la faccia e toccandosi capì che era una lacrima. Imprecò a bassa voce, ma Mika fece una risata morbida e dolce come zucchero filato e lo accalappiò in un abbraccio. Non osò opporvisi, neanche per orgoglio.

«Vogliamo tutti che torni in famiglia… e voglio anche che tu riallacci un rapporto con la tua. Alla fine di tutto, devi prima dire a tua madre chi sei. Chi dice che devi avere una famiglia sola?»

«La mamma ha una vita… forse suo marito non lo sa che io esisto. Non voglio crearle altri problemi.»

«Per questo devi parlare con lei, no? Sarà lei a decidere cosa fare… o cosa dire, se lui non lo sa. Yuu, sono i tuoi sentimenti… Negarli per la libertà di un altro ti ha lasciato da solo per sette anni, non ti basta per capire?»

Era felice che Mika gli stesse così vicino: finché avesse controllato il respiro vicino al suo orecchio non si sarebbe accorto di quanto quelle lacrime – infami e maledette – scendessero come pioggia primaverile.

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Capitolo 19
*** Coscienza ***


 

Un inusuale fermento veniva dal piano delle cantine, ed era allarmante un tale trambusto in una stanza così poco frequentata. Emma alzò la testa tendendo le orecchie ma sentiva solo voci e passi lontani. Sgusciò fuori dal letto spostando il braccio di Crowley.

«Je reviens tout de suite.»

Sussurrò così piano che quasi non si sentì lei stessa, ma era ben conscia che lui non potesse sentire nulla neanche ad alta voce o in lingua inglese. Rifece la familiare strada attraverso le vecchie segrete e a metà scala poteva già sentire il sommelier dei d’Allemand che sbraitava. Altra scena inusuale.

Riemerse nella cantina per scoprire che ce l’aveva con un nuovo attendente che aveva rotto una bottiglia di valore. Restava un mistero il trambusto nelle cucine a quell’ora.

«Ah, eccoti, Emma. Cosa facevi di sotto?»

«Il mio lavoro… Madame vuole che io continui a occuparmi di lui» replicò lei, guardando il soffitto. «Che cosa succede sopra?»

«Ah… sono quelle ragazze della cucina. Una di loro ha visto un ospite al cancello e ha cominciato a chiocciare come solo le ragazzine sanno fare.»

«Un ospite? Madame non mi ha detto che aspettava visite. Ha fatto…»

Emma si mordicchiò il labbro.

«P-preparare il signor Crowley. Non lo avrebbe fatto se aspettava ospiti.»

«Si è presentato senza invito e senza preavviso, infatti. Sarà anche un Lord ma è stato educato da una scrofa.»

Il sommelier prese una bottiglia del vino preferito dalla padrona e salì verso la cucina. Emma, con il cuore che galoppava in petto, lo seguì.

«Un Lord? Un Lord inglese, qui?»

«Già. Monsieur d’Allemand pose fine al traffico dei britannici quando buttò fuori di qui a calci Lord Bentley nel 1989. È da allora che non ne entra uno a Sarmans, a sentire il signor Rossignol.»

Oltre alla sua sfuriata anche quel torrente di informazioni non era molto da Gulles: normalmente era un sommelier che si muoveva come un’ombra e mormorava alle bottiglie più dolcemente di come facesse con le donne.

«Ma credo che il fermento qui sia più per l’aspetto del nostro Lord ospite» osservò severo, alzando il tono per intimorire le sguattere. «Credete forse sia venuto a prendere una di voi? Se lo sapete allora tanto entusiasmo è superfluo, non trovate?»

Gulles parve soddisfatto e andò alla vetrinetta dei decanter, ignaro che le ragazze si erano mostrate contrite solo per un attimo prima di scoppiare in risa da topolini.

«Non si tratta di Lord Hamilton, allora?»

«Oh, no, questo avrà la metà degli anni di Hamilton. Lord Cosworth, mi pare d’aver inteso. Uno strano personaggio davvero: è più giovane di Madame ma ha i capelli d’argento.»

«Io… salgo a vedere se Madame mi sta cercando. Dovrà cambiarsi per riceverlo.»

«Sarmans sarebbe Versaille se ogni domestica fosse come te, Emma.»

Emma volò di sopra il più velocemente lo permettesse la compostezza che era tenuta ad avere. Attraversò il salone da ballo per andare al salottino – il posto dove di norma Madame faceva aspettare i faccendieri e le persone che non riteneva amiche della famiglia – nella scia del signor Rossignol, il maggiordomo. Ebbe solo una fugace visione della figura al di là della porta prima di sentirsi chiamare.

«Emma, finalmente! Sbrigati, devo cambiarmi.»

«Ah, Madame…»

Solenne la richiamò con un gesto del capo e risalì i gradini. Aveva già indosso la vestaglia bianca che riservava alle sue notti di nozze.

«Perché mi guardi in quel modo? Qualcosa ti indispettisce, Emma?»

Deglutì e distese la sua espressione, poi scosse la testa.

«No, Madame… solo… trovo irrispettoso presentarsi senza avvisare. Il vostro ospite ha rovinato i vostri piani per i doveri matrimoniali.»

«Oh, no, solo rimandati. Lo caccerei fuori subito, ma mostrarmi in vestaglia a uno sconosciuto… mio padre si rivolterebbe nella tomba se accadesse!»

Emma non era importante abbastanza per presentarsi da sola al cospetto di un ospite per indesiderato che fosse e dovette seguire la padrona nelle sue stanze per aiutarla a cambiarsi. Qui la signora volle indossare un abito viola che usava per alcune speciali cene di beneficenza – uno fin troppo vistoso per ricevere un ospite sgradito in casa per pochi minuti – e indossò anche una preziosa collana di diamanti.

«Madame, se non sono sfacciata… non le sembra troppo?»

Solenne rise a labbra chiuse, accarezzando i diamanti con la punta del dito.

«Tu sei una ragazza pura, Emma… Grazie a Dio non devi combattere l’eterna lotta con un genere maschile corrotto, ma io, ahimè, devo ancora farlo perché il mondo appartiene a loro, come decise il Signore, nonostante abbiano lasciato imputridire le loro anime…»

«Non credo di capire, Madame.»

«Una donna che vuole mantenere il suo potere tra gli uomini dev’essere sempre bella… e mostrarsi anche più bella davanti a un nemico. Come quegli uccelli tropicali che mostrano piume e code colorate per intimidire i rivali. Dio non ci ha create con la loro forza, ma ci ha dato la grazia per contrastarla.»

Emma rifletté su quelle parole, ma non replicò. Quando Solenne fu soddisfatta del suo profumo, dei gioielli e dell’abito si avviò al salottino, con la sua attendente nella sua scia.

«Madame, mi domandavo, se posso» fece, quasi inciampando per le scale per la foga. «Potrei accompagnarvi dentro, solo per un momento? Per vedere questo Lord che è venuto a incontrarvi…»

«Perché mai ti dovrebbe importare?»

«Perché… perché giù in cucina le ragazze dicono che sia venuto per voi, Madame, per la vostra mano. Avete contratto un recente matrimonio ma l’alta società non lo sa ancora, e si chiacchiera che con la vostra bellezza devono essere molti gli uomini in lizza.»

Un vago accenno di sorriso seguì le sue lusinghe.

«Se siete tanto curiose, sia. Ma tu sei la mia cameriera, non servi gli ospiti. Potrai solo accompagnarmi dentro e poi dovrai tornare ai tuoi doveri. Non rivolgergli la parola.»

«Sì, Madame.»

Così le andò dietro fino alla porta del salottino, che le aprì. Mentre Solenne entrava Emma ebbe una fugace visione di capelli d’argento, di un viso pallido e di gambe tenute accavallate sulla poltrona. Per un attimo un paio di occhi celesti – così chiari da sembrarle quasi bianchi nella luce scarsa del salottino – la trafissero con una gelida ferocia che non aveva mai sperimentato prima. Con il cuore in gola chinò la testa e accennò un inchino prima di richiudere la porta.

Se prima non era certa che il Lord inglese fosse lui bastò vederlo per riconoscere l’uomo di cui Crowley le aveva parlato, anche se non assomigliava al tenero padre e marito che era nelle sue storie.

 

***

 

Ferid ebbe l’impressione di aver spaventato la cameriera dal modo in cui si affrettò a richiudere la porta, ma non se ne curò più di quell’attimo. Si alzò dalla poltrona in segno di un rispetto che non provava per la donna che aveva davanti, che indossava un abito adatto alla sera e una collana di diamanti poco indicata per essere portata come gioiello da casa.

«Lord Cosworth.»

«Mademoiselle d’Allemand» replicò lui, quasi con lo stesso livello di astio mal celato. «Non è facile trovarvi. Questo castello è più segreto del tesoro di Cibola.»

«Non vi siete chiesto come mai?»

«Mi sono anche risposto» ribatté, e si rimise seduto senza invito. «Ma non importa quanto lo si nasconda… un tesoro prezioso verrà sempre cercato da qualcun altro. E alla fine, trovato.»

Solenne smise di rifilargli quel sorriso finto. Con la sua vera espressione, che era venata di rabbia, era molto meno attraente.

«Che cosa sei venuto a fare qui?»

«Sono venuto a prendere mio marito.»

Era sbigottita, eppure Ferid era sicuro che sapesse chi era quando si erano incontrati all’asta. Forse non si aspettava che scoprisse che era lei l’acquirente? Se era così Ferid l’aveva decisamente sopravvalutata e lei aveva sottovalutato lui.

«Non credo di capire.»

«Capisci eccome, Solenne. Pensi che sia così stupido da non capire l’allusione che mi hai fatto? Mi hai detto chiaramente, all’asta, che mio marito non era lì. Perché tu lo avevi già comprato.»

Ferid abbandonò la tazza di tè – dal sapore, un tè vecchio abbandonato in uno scaffale umido – e si alzò dalla poltrona.

«Vuoi provare a negare? Prova. Ma io sono bravo a capire le bugie.»

«Ah, non sono sorpresa, signor Bathory. Quelli come te sono esperti delle arti più losche e raccapriccianti che possano esistere» osservò disgustata. «Non ti ho dato il permesso di chiamarmi per nome.»

«Avrei per te dei nomi molto più appropriati, credimi, ma sto cercando di mantenere il tono di questa conversazione il più vicino possibile alla civiltà» ribatté Ferid, avvicinandosi. «Non voglio niente da te. Non m’importa neanche che paghi quello che hai fatto a lui e ai miei bambini. Quello che voglio è uscire da questo castello con mio marito, e se sarà così non ci sarà nessuna conseguenza.»

«Mi stai forse minacciando?»

«Lieto che siamo sulla stessa pagina, Solenne. Sì, lo sto facendo. Dammi mio marito ora e mi dimenticherò che tu esisti.»

L’indignazione di Solenne scomparve in fretta com’era apparsa, lasciandole un sorrisetto lezioso.

«Non so chi potrebbe essere questo marito di cui parli. Che io sappia esiste solo il matrimonio davanti a Dio, e di certo tu non hai sposato un uomo davanti a Dio. Io, invece, un uomo l’ho sposato. Io un marito ce l’ho davvero.»

«Di che diavolo parli?»

«Ho un marito, e non mi risulta che tu possa averne uno. Voglio che tu esca dalla mia casa e se osi ripresentarti senza un invito esplicito ti farò arrestare.»

«Avresti il coraggio di farmi arrestare? Sapendo che cosa potrei dire di te alla polizia? Anche sapendo che siamo entrambi membri di sangue dei Figli di Prometeo?»

«Prova pure a raccontarlo. Se verrai ammazzato mi sarò tolta un pensiero.»

Solenne gli voltò le spalle per andarsene. A Ferid non servì più di un attimo per decidere e con il braccio sinistro strinse il gomito trattenendola. Una mossa ardita che lei non si aspettava.

«Come osi toccarmi?!»

«Ti metteresti contro le regole dei Figli di Prometeo? Non potrai più essere una cliente se lo fai.»

«Al macero i Figli di Prometeo! Un branco di squallidi avvoltoi, porci che si rotolano nella loro stessa avarizia! Non c’è cosa che non siano disposti a vendere, non c’è cosa che non farebbero per proteggere loro stessi… Bestie! Ma l’unico mezzo possibile per trovare il marito che mio padre sperava per me, e solo per questo li ho tollerati!»

Solenne si liberò il braccio e sistemò la manica, strofinandola come se l’avesse estratta dal caminetto coperta di fuliggine.

«Un uomo con il sangue sacro. Un uomo che mi avrebbe dato figli di una stirpe in grazia del Signore da centinaia di anni! Non come quei disgustosi fratelli che ho, peccatori della tua stessa risma. Adulteri, lussuriosi, viziosi.»

«Mi hanno detto cose peggiori. Solenne, per favore, ascoltami.»

Gli scoccò un’occhiata truce, ma non si mosse.

«Non posso dire di capire la tua ossessione sulla stirpe, ma mi sembra evidente che sei frustrata. Che la vita non ti ha dato quello che speravi di trovare… e che Crowley è… la risposta a qualsiasi preghiera. Lo so, perché io lo conosco…» spiegò Ferid, impacciato. «Se solo avessi un’idea di che cosa era rimasto di me come persona prima di incontrarlo capiresti. Lui è… straordinario. È intelligente, amabile, onesto, e ha a cuore le persone. Lavora duro e non si lamenta mai, prende il rischio al posto di chiunque altro se può, e… è un padre meraviglioso. È innamorato dei suoi bambini…»

L’espressione di Solenne era imperscrutabile.

«Vorrei che ogni persona al mondo trovasse un uomo come lui. Vorrei che ogni genitore avesse un figlio così, che ogni persona sola trovi una metà come lui… che ogni bambino avesse almeno un padre come lui. Io stesso avrei voluto avere un padre così.»

Deglutì e gli sembrò che il rumore riverberasse in quel silenzio denso.

«Però lui appartiene alla sua famiglia. Ha scelto me, più di una volta… e ogni giorno, se non me, sceglierà i suoi bambini. Io devo riportarlo a casa da loro. Fosse l’ultima cosa che farò su questa terra.»

«Oh, in questo caso, immagino dovrei essere tranquilla. Sceglierà i suoi bambini…»

Così dicendo fece un gesto appena accennato, fugace ma non abbastanza perché Ferid non lo notasse. Gli sembrò che quella mano gli si fosse conficcata come un punteruolo nello stomaco invece di accarezzare l’addome sopra il leggero tessuto viola dell’abito. Come risposta al momento di vuoto e immobilità il sangue sembrò arrivargli al cervello con la potenza di un idrante.

«Che cosa gli hai fatto?»

«Niente che non farebbe una qualsiasi moglie a suo marito. Cerchiamo di mettere su famiglia, e credo che ci siamo già riusciti» aggiunse lei, con gli occhi gelidi sopra il largo sorriso. «Ho fatto la miglior cura per la fertilità apposta per massimizzare le possibilità.»

Ferid quasi non riusciva a sentire la voce di Solenne tanto forte era il battito del cuore nelle sue orecchie. Prese un respiro profondo ma l’espirò come un bue infuriato.

«Non contarci troppo, Solenne. Per avere un figlio con la fecondazione ricombinata sono serviti tre tentativi e Crowley ha dovuto fare un lungo ciclo di cure. Se proprio bisogna trovargli un difetto, non è bravo a generare figli quanto ad allevarli.»

«Questo perché due uomini che provano ad avere bambini è un abominio, ed è—»

Le mise la mano sulla bocca e la spinse contro la parete con nessun riguardo per la condizione in cui millantava di essere. Sotto la sua mano Solenne provò a gridare senza riuscirci e si dimenò senza alcuna forza, delicata come poteva essere solo una donna abituata a uomini forti al suo servizio persino per portare un vassoio.

«Un’altra parola su questa linea, Solenne, e sarà la tua ultima» le sibilò sottovoce. «Comprare un uomo che appartiene già a qualcuno per sua libera scelta, questo è quello che io chiamo abominio.»

La resistenza fisica di Solenne era forse metà di quella che faceva la sua scalmanata Emma quando la prendeva su di peso per metterla nel letto, quindi s’infranse miseramente contro un uomo abituato a due bambini vivaci, un marito grosso il doppio di lui e un gatto pesante come il fustino del detersivo per i panni.

«Un vero peccato che tu non abbia preso me. Io ho una percentuale di successo del 100% al primo tentativo… anche con donne apparentemente sterili. Notevole, non trovi?»

L’occhiata feroce di Solenne la diceva lunga su cosa pensasse all’idea che lui avesse dei figli sparsi per il mondo: lo stesso che avrebbe pensato di un’invasione di acari della scabbia.

«Ora ti toglierò la mano, che ne pensi? Non metterti a strillare. Mi infastidiscono i suoni forti, ora che mi sono abituato alla campagna.»

Il modo in cui Solenne raddrizzò il collo e sollevò il mento, guardandolo disgustata, sembrava recriminargli di averla scambiata per una donnetta che si sarebbe messa a strillare per un uomo della sua risma. Quando tolse la mano dalla bocca se la strofinò come avesse appena mangiato qualcosa di molto unto e non gridò per chiamare aiuto.

«Ascoltami bene, Bathory: appartiene a me. Mi ha offerto le sue promesse davanti al parroco di Saint Barnout, e abbiamo passato più di una notte insieme. Tu sei parte di un passato che non vuole, un passato in cui ha rincorso fini egoistici e vizi che offendevano Dio. Ha rinunciato a tutto quello che è stato prima.»

Ogni volta che Solenne premeva su quel tasto sembrava rilasciasse un getto di sangue pressurizzato dritto nel suo cervello. Ferid chiuse gli occhi per contenere una brusca reazione.

«Dio ha voluto questo per Crowley. Ci darà tanti figli, e come hai detto tu… una volta che saprà che sono incinta sceglierà i suoi figli. Figli davvero suoi, generati da lui come gli uomini devono generare i figli. Pensi che rinuncerebbe per crescere il frutto dei lombi di qualcun altro e un figlio dell’uomo, un ibrido innaturale nato in un barattolo di vetro?»

Prima ancora che la frase fosse registrata per intero Ferid si trovò addosso a lei sul tappeto, con la mano sana serrata sulla sua gola. Era come guardare Solenne dal fondo del telescopio finto che Eden si era costruito con un tubo di cartone, la carta stagnola e un barattolo vuoto di marmellata: sembrava lontana e distorta.

«Se solo sapessi che cosa mi passa per la testa adesso non faresti tanto la spavalda con me.»

Ansimava per lo sforzo di controllare la rabbia che gli vibrava nelle ossa e nei muscoli come i colpi su una pelle di tamburo. Allentò la presa sul collo con fatica. Aveva le dita bloccate come marmo.

«Anche solo rendermi conto di cosa sto immaginando di farti mi fa vergognare di essere caduto tanto in basso» fece, con un filo di voce roca. «Ho conosciuto persone orrende nella mia vita… Mia madre soprattutto, ma… nessuna donna mi ha fatto concepire di infliggerle tanto dolore e umiliazione come te.»

Con uno slancio sorprendente – forse alimentato da una maggior paura – Solenne scostò la sua mano con uno strattone; si girò sul fianco e tossì prima di assestargli una spinta non sufficiente però a spostarlo.

«Come osi…! È la tua fine, Bathory! I Figli di Prometeo sapranno che hai infranto il regolamento, e si occuperanno loro di te! IVAN!»

Ferid barcollò, spinto sul lato del braccio che non poteva sorreggerlo. Vedeva quella donna strisciare via, pronta a chiamare le sue guardie e allertare i Figli di Prometeo, dai quali poteva aspettarsi persino una sentenza di morte e un occultamento totale, per la massima garanzia di segretezza. Non poteva essere certo che la protezione di Claude bastasse se andava loro contro a testa bassa.

Forse una buona strategia sarebbe stata ritirarsi e tentare in un altro modo, riunirsi ai ragazzi a Berlino e provare a fare insieme quello che non gli era riuscito di fare da solo. Magari tornare da Baptiste a chiedere aiuto. Radunare un esercito privato, se necessario.

Ma se la lasciava andare, se si ritirava dalla battaglia, lei avrebbe avuto un’altra notte, o molte altre notti, con suo marito. Con la minaccia, con il plagio o con chissà che altro metodo avrebbe abusato ancora di un uomo che non la voleva.

E se… fosse questo il motivo? Se quelle amnesie… fossero un dono invece di una maledizione?

Proruppe in un lamento quando forzò il braccio destro a muoversi. Si lanciò su Solenne prima che si alzasse da terra atterrandola con il suo peso sulla schiena e senza esitazione trascinò giù dal settimino un’abat-jour d’antiquariato strappandone il cavo elettrico. In un attimo l’aveva avvolto in due giri intorno al collo di Solenne.

La donna boccheggiò, artigliandosi il collo nel tentativo di allentare la stretta del cavo.

«Da qualche anno ho delle amnesie. Certi giorni mi sveglio… e non ricordo di aver vissuto il giorno precedente. Ora capisco che lo scopo di questa tortura è che domattina mi dimenticherò di averti uccisa e non sopporterò il peso di quello che ho fatto.»

Un rantolo basso e rauco fu la sola risposta mentre Solenne cercava di graffiargli il braccio o di raggiungere la gamba del tavolino per fare rumore e chiamare aiuto. Ferid strinse di più e si chinò in avanti, per ascoltare l’ultimo respiro di quella donna diabolica.

Tutto questo doveva avere un senso. Che io incontrassi Crowley, che conoscessi Mika e che andassi ad aiutarlo a Bluefields… che si concludesse tutto con quel tuffo nel fiume che mi ha quasi ucciso, lasciando una cicatrice nella mia mente. Ora, finalmente, vedo il disegno…

Il dolore esplose contro il suo orecchio quando qualcosa lo colpì abbastanza forte da farlo rovesciare sul lato del braccio debole. Gemette e rotolò oltre l’orlo del tappeto, tenendosi le mani sulla testa.

«Sono deluso, Pepper. Avevi detto che ti fidavi di me.»

L’onda della rabbia si era spezzata sul dolore lancinante all’orecchio e alle fitte del braccio. Le voci erano confuse dal colpo e dal rantolo di Solenne che riprendeva fiato tossendo. Ci mise qualche secondo a tornare lucido e aprire gli occhi, ma se possibile si sentì peggio di prima.

Ismael, vestito in completo e camicia completamente neri, stava aiutando Solenne a rialzarsi.

 

***

 

Emma attraversò la sala di servizio – un locale pieno di vetrinette che custodivano porcellane, argenteria, cristalleria e altre raffinatezze per servire gli ospiti del castello – cercando di non fare rumore e sgattaiolò fino alla dispensa senza essere notata dalla moltitudine di donne al lavoro nelle cucine. Non sfuggì però al sommelier Gulles, che era ancora intento a girare le bottiglie per smuovere i sedimenti e ripulirle dalla polvere.

«Di nuovo di sotto, Emma? Non passi troppo tempo con il padrone?»

«Faccio quello che Madame mi dice di fare» replicò Emma, pacata.

«Che cos’hai lì?»

Le dita sottili strinsero il vasetto contro il petto, accanto alla sua croce di pietre di topazio verde.

«Aloe vera.»

«Aloe vera?» ripeté lui, accigliato. «E a cosa dovrebbe servirti?»

«Sono le istruzioni di Madame per… padron Crowley. I dettagli non ti riguardano, tu sei il sommelier.»

Alzando il mento con la massima dignità lo superò e andò alle scale di pietra; prima di sparirvi lo sentì borbottare fra sé e sé sull’inutilità dell’aloe vera.

Non sentì passi seguirla né riecheggiare nel corridoio di pietra: Exas non era lì a controllare i sotterranei. Spiccò la corsa fino alla sala con la volta alta – un tempo una camera ardente per i morti di casa in attesa della sepoltura nel cimitero più a valle – e guardò con timore il complesso meccanismo di ruote dentate, cinghie, catene e tubi che sparivano nel soffitto come radici di un albero a rovescio. Quel macchinario era inquietante, come un drago dormiente nel buio della sua caverna.

Prese un profondo respiro e recitò una preghiera a bassa voce. Non appena l’ebbe conclusa si sentì animata da un inedito coraggio, da una spinta che la convinse che fosse la scelta giusta. Posò il barattolino e usò tutto il suo peso per sbloccare la leva principale e togliere i due fermi che facevano da sicura; il meccanismo cigolò un poco e poi prese a muoversi a ritmo regolare, con un paio di stantuffi che simulavano il respiro affannoso di una creatura non umana.

Con il cuore in gola riprese il vasetto e corse via, verso la stanza di Crowley.

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Capitolo 20
*** Essenziale ***


Mentre preparava il fucile con il suo cavalletto da tiro Mika canticchiava di nuovo lo stesso motivetto: non aveva mai capito una parola di quello spot di succo di frutta, ma gli era rimasta in mente la musica allegra. Accostò l’occhio al mirino scoprendo con disappunto che era fuori fuoco e prese a regolarlo.

«Non starai esagerando, Misha?»

Si piegò sul ginocchio e provò la visione notturna del mirino. Spostò il cavalletto in avanti di trenta centimetri e regolò l’altezza, senza smettere di canticchiare.

«Misha, sembri psicopatico. Dimmi che non senti voci nella tua testa.»

«Certo che la sento, ed è molto pedante» replicò a quel punto. «Sei tu a dire che è paranoico. Se io fossi paranoico mi presenterei qui con un esercito, armato, a bordo di un blindato con un cannone.»

«Non credo che sia così paranoico, mica siamo in guerra!»

«Ma se sapesse di me e sospettasse la mia presenza… beh, diciamo che io mi temerei, e molto.»

Alzò lo sguardo in tempo per vedere Yuu sollevare un sopracciglio per lo scetticismo.

«Sarò sincero: fai venire tanta roba agli uomini, ma la paura no.»

«Perché tu non vivi in Kentucky.»

Trattenne appena il sorrisetto compiaciuto al ricordo dei molti colpi che gli avevano forgiato una reputazione che batteva persino quella di essere “quel ragazzo gay di Far Water”: un traguardo notevole nel Kentucky rurale.

«Perché, là hanno paura di bellissimi ragazzi biondi?»

Mika trattenne un risolino e lo guardò dritto negli occhi. Gli piaceva che continuasse con quella specie di corteggiamento di basso profilo, soprattutto perché era il primo a subirne il contraccolpo. Era evidente nel modo in cui distoglieva lo sguardo subito dopo avergli fatto un complimento.

«Mi è parso che sottilmente volessi dirmi che sono bello, ma forse è solo una sensazione.»

«Verdammt, lo sei. Ma paura non ne fai.»

«Beh, la straordinaria bellezza che fissi ogni volta che guarda altrove ha vinto tutte le competizioni di tiro della contea di Carter negli ultimi quattro anni» l’informò con orgoglio. «E un paio di competizioni a livello nazionale. Anche per questo il mio bed & breakfast è così famoso pur essendo fuori Pinnella Pass, in mezzo al niente.»

Yuu aprì la bocca per parlare, senza che ne uscisse niente. La sua espressione si accartocciò secondo dopo secondo, fino a sembrare il broncio di un bambino.

«Mi prendi in giro.»

«Libero di controllare su internet, se vuoi. Ho una foto mentre stringo la mano al governatore del Kentucky che mi ha appena consegnato la coccarda, non l’hai vista a casa? È appesa nel soggiorno del primo piano, accanto alla teca dei fucili.»

«Non ci credo.»

«Arrenditi, Yuu: guido e sparo meglio di te» lo pungolò con un ghigno. «E sono anche più bello di te. Hai perso su tutta la linea.»

«Aber du sprichst das schlechteste Deutsch aller Zeiten.»

«Che hai detto? So che mi hai detto qualcosa del tedesco» l’incalzò Mika. «Ti stai attaccando al fatto che non so il tedesco? Deush è “tedesco”, no?»

«Appunto»

Yuu ritenne di aver fatto un punto sufficiente, e girò i suoi occhi ansiosi sul piazzale.

«Sicuro che vuoi stare qui da solo?»

Si aspettava i ripensamenti di Yuu molto prima dell’ultimo minuto, in realtà. Se quando l’aveva conosciuto nel suo nuovo habitat sembrava essersi perso, consumato da una vita fittizia e dai vizi degli abitatori della notte, dopo aver rischiato la vita era tornato a essere un uomo che assomigliava all’idealista, energico Yuu che aveva conosciuto fin da bambino. Da quando avevano ripreso Cristina, poi, si era ulteriormente evoluto verso una specie che avrebbe chiamato Yuu parentalis, o un prototipo di quella.

«Potremmo anche prendere quella cassa laggiù e cenare a lume di candela qui sopra, ma poi Katze starebbe a urlare in giro cercandoti. Seguiamo il piano, okay? Tu stai di sotto e io di sopra.»

Sorrise lanciandogli un’occhiata maliziosa.

«Immagino tu non ci sia abituato. Di solito stavi tu sopra, ma questa volta cambiamo qualcosa. Facciamolo più frizzante.»

Lo Yuu parentalis era meno sensibile alle provocazioni sessuali.

«Misha, sono preoccupato» ribatté secco. «Da te. Dall’assoluta mancanza di autoconservazione che dimostri quando ti sale l’adrenalina. Sembra che il cervello ti si spenga e fai cose da far accapponare la pelle, come quello scherzetto sulla Charlottenstrasse.»

Lasciò uscire un silenzioso sospiro.

«Non serve che ti agiti tanto. Il mio cervello non si spegne, semplicemente disattiva qualche sistema periferico che ostacola le soluzioni veloci.»

«È quello che intendevo per “mancanza di autoconservazione”, Misha» rimbeccò lui, a braccia conserte. «Perché fai così? È perché Jonathan non ti ha ancora risposto che sfoghi la ripicca in questa ostentazione di temerarietà?»

La mano di Mika ebbe uno spasmo intorno al calcio del fucile. Avrebbe preferito che usasse qualsiasi argomento tranne Jonathan, ma paradossalmente Yuu non faceva che tirarlo fuori di continuo.

«Ti è andato di traverso un dizionario o un manuale di psicologia?»

«Un dizionario di psicologia. Dico sul serio… che ti succede?»

«Dopo anni di vita tranquilla ho accumulato un po’ di irrequietezza, va bene?»

«Pensi che non me ne accorgo se qualcosa non va in te? Me ne sono accorto la prima volta, al tuo ritorno da Bluefields… e me ne accorgo ora. Lo vedo che in te c’è rabbia.»

Yuu si accovacciò accanto a lui. Mika tentò di ignorarlo meglio che poteva armeggiando con il visore per poi rimetterlo com’era, finché una mano non abbassò la sua.

«Vedo la tua rabbia come un filo fluorescente in mezzo a tutti gli altri nel buio. Quando eri piccolo non parlavi mai. Non ti esprimevi mai. E finivi per saltare addosso al primo che diceva una parola storta. Ho imparato a vederla anche quando non parli… per anticiparla prima che ti scoppiasse tra le mani.»

La mano di Yuu strinse la sua. Gli sorrideva, con un po’ di sforzo ma un sincero desiderio di venirgli incontro.

«Allora… è Jonathan? Non ti ha ancora risposto?»

«Non importa» replicò Mika secco, ritraendo la mano. «Lo so che cosa sta facendo. Lo so perché non mi risponde.»

«E perché non risponde? Non ti sente da un pezzo, non è preoccupato neanche un po’?»

«Ho lavorato per l’FBI. Sa che so cavarmela.»

«Sì, ma risponderti farebbe stare tranquillo te. Perché non lo fa?»

«Te l’ho detto, lo conosco.»

Quando fu evidente che non intendeva fornire dettagli Yuu l’incalzò, con un tono meno tenero di prima.

«Beh, io non lo conosco. Perché accidenti non ti chiama?»

«Perché Lucky è un mandrillo travestito da agricoltore. È stata una delle prime cose che mi ha detto a Bluefields, che lui aveva il bisogno di fare sesso con una certa frequenza. Lo ha detto anche a Ferid. Aveva puntato lui prima di me, lo sai? Se ci penso mi viene ancora fastidio.»

Yuu soffocò goffamente la risata.

«Beh, sì, è molto da te prendertela per questo. È molto da te anche dirlo davanti a me, e tra parentesi è piuttosto rude.»

Mika riemerse dai suoi pensieri furiosi come bollicine di una bibita agitata e schioccò le labbra contro la fronte di Yuu, lasciandolo basito.

«Ma che fai?»

«Scusami, Yuu. Giuro che allora non l’ho pensato. Sono cose a cui ho pensato dopo, quando stavamo insieme e ripensavamo a quei giorni. Mi ero anche arrabbiato con Ferid perché me l’aveva scaricato addosso…»

Sembravano passati molti più anni da quel Mika così giovane e così preso da quella che sentiva come una missione, quel giovane che non era così diverso da quello sul tetto del magazzino in quella notte tedesca: preso da una missione pericolosa che non era obbligato a gestire, con un uomo a casa a cui doveva lealtà e un altro presente che l’attirava come un magnete.

«Il fatto è che… quando sono finito a letto con Steven, Lucky si è arrabbiato veramente molto. Mi ha ricordato quanto sia difficile per lui stare a lungo senza di me, e che… no, davvero non me la sento di raccontartelo nei dettagli.»

Nella sua testa rivisse ogni istante di quella litigata, ogni parola detta – o gridata – e come il nome di Yuu riemerse dopo anni in cui non veniva fatto neanche un vago accenno a lui. Raccontare quel litigio linea per linea avrebbe messo Yuu al corrente di qualcosa che Mika non gli aveva voluto dire, girando intorno alla sua domanda già una volta.

«Non devi raccontarmi i fatti vostri se non vuoi» fece lui, scrollando le spalle. «È che è geloso, adesso? Visto che è successo una volta sotto il suo naso pensa che a migliaia di chilometri di distanza farai di peggio?»

«Probabilmente lo pensa, sì. Ma per ripicca Lucky non ha rivolto la parola a suo fratello e non mi ha toccato per mesi. Si è trovato qualcun altro per i suoi bisogni.»

L’espressione di Yuu si fece vacua.

«Cosa… aspetta… tuo marito ha un amante?»

«Ne ha due» precisò Mika, con un guizzo di veleno nelle viscere. «I fratelli Macaulay. Hanno un allevamento di bovini giù verso Far Water, e un pezzo di terreno che confina con il nostro. Immagino che con me lontano siano loro la ragione per cui non ha tempo di rispondere al telefono.»

Il sospiro di Yuu era fin troppo carico di sentimenti che Mika non voleva gli fossero rivolti, come la pietà.

«Misha, ma perché sopporti una cosa del genere? Non sarai il più fedele del mondo, ma neanche un traditore incallito. Perché non gli dici di chiudere con quei due e ricominciate da zero?»

«Perché io sono andato a letto con suo fratello. Ho fatto più danni.»

Non era mai riuscito a dire a nessuno quanto senso di colpa provasse per la sua infelice scelta. Sperò che Yuu non si accorgesse del tremore che aveva avuto la sua voce alla fine.

«E quindi devi sopportare che tuo marito si scopi i vicini di casa sistematicamente? Quante scopate servono per pareggiarne una con suo fratello?»

Le labbra di Mika rimasero sigillate.

«Questa è un’assurdità, Misha. Se Crowley lo sentisse penso farebbe lui il conto pari: cento schiaffi a te e cento a lui.»

«Tu no?» tentò di ironizzare Mika.

«Non ho mai avuto il coraggio di prenderti a schiaffi, lo sai. Non in faccia, almeno…»

«Oh, era erotico, questo? Puoi darmi cento schiaffi sul sedere se ti piace.»

Yuu sorrise, ma il modo in cui lo guardava diceva che qualche battuta piccante non sarebbe bastata a distrarlo dalla conversazione.

«Promettimi che non andrai avanti così. Quando finiremo questo lavoro… io ti prometto che andrò da mia madre a dirle chi sono, se tu prometti che non accetterai che lui si comporti così con te. Sei vanitoso, capriccioso, umorale e anche un po’ perverso, ma tu meriti qualcuno che impari come gestirti e ad amarti… e a rispettarti. Te l’ha promesso, no? Ma non lo fa.»

Deglutì per trattenere ancora una volta quel segreto.

«È la modernità. Persino a Pinnella Pass può esserci una coppia aperta.»

«Questa non è una coppia aperta. È lui che ti tradisce per farti male quanto tu ne hai fatto a lui. Che il tuo senso di colpa ti faccia stare zitto non fa di voi una coppia aperta.»

Mika si morse il labbro senza trovare qualcosa da ribattere. Fissò gli occhi su due puntolini distanti, che vedeva appannati.

«Dai, dico sul serio… È il grande amore il vostro, no? Vi siete innamorati dopo un incontro che chiamare fortunato è dir poco, avete voltato pagina per stare insieme… riuscirete almeno a perdonarvi un paio di sbagli, no? Sistema questa cosa quando torni a casa.»

Mika si passò la mano sugli occhi. Aveva le ciglia bagnate.

«È qui.»

Yuu si sporse per guardare oltre la balaustra arrugginita del magazzino. Fari da lontano si avvicinavano con cautela e il loro taglio sportivo suggeriva che fosse la Porsche di Katze.

«Metti l’auricolare. Io scendo.»

Mika infilò nell’orecchio l’auricolare che dondolava contro il suo collo come un orecchino pendente.

«Ricorda la parola d’emergenza. Ti faccio sapere come vanno le cose qui fuori.»

«Niente colpi di testa, Misha. Non ti voglio riportare a casa in un sacco per cadaveri.»

Nel silenzio il rumore metallico dell’arma caricata fu particolarmente accentuato.

«Non sarò io quello nel sacco per cadaveri, stasera.»

L’auto si avvicinava, ma Yuu non si muoveva. Lo conosceva da abbastanza tempo da capire che cosa pensava, almeno a grandi linee.

«È tardi per pensare di passare la palla all’Interpol, Stephan» lo redarguì. «Forse abbiamo fatto una scelta azzardata… Anzi, di certo l’abbiamo fatta. Ma ci siamo. È la notte del giudizio.»

«Abbiamo… C’è ancora il tempo per lasciare la zona.»

«Per chi? Per me? Per il mio grande amore? Risparmiatelo» tagliò corto Mika accostando il dito al grilletto e togliendo la sicura. «Ma se è per te, perché non sei più tanto sicuro di poter morire senza rimpianti… allora vai. Torna da Cristina. Me la caverò.»

La rigidità di Yuu s’infranse alle ultime parole: gli diede un colpetto col tallone contro la schiena, moderato per paura che gli partisse il colpo.

«Non dire stronzate. Non ti lascio finire la mia missione. Stai al tuo posto da massaia, Mama Mikey.»

Mika forzò una risata, anche se gli occhi stavano fissi sui fari e i muscoli tesi come un felino pronto ad attaccare.

«Non essere invidioso perché so fare il tuo lavoro e anche delle confetture deliziose. Ti do la mia ricetta se vuoi.»

Sentì un borbottio in tedesco indecifrabile e i passi di Yuu sulla scala metallica interna mentre scendeva e sorrise. Prese un profondo respiro, lo trattenne e lo fece uscire lentamente. Non aveva tempo per lasciarsi distrarre dai problemi che aveva la sua relazione, dai dubbi su cosa stesse facendo Lucky o su dove fosse andato a finire Ferid, che non si era più fatto vivo dalla mattina seguente all’asta che avevano cercato di insidiare.

L’auto scura si fermò a una certa distanza dal capannone: per essere sicuro di quello che vedeva Mika doveva usare il mirino.

«Vedo Katze» annunciò a bassa voce. «Ma il guidatore è un altro tizio. Non mi sembra fosse nella lista dei collaboratori che mi hai mostrato.»

«Non mi sorprende» rispose la voce nell’auricolare. «Ha decine di punti di ritrovo che solo alcuni uomini conoscono. Nessuno sa davvero tutto di lui. Anche con la mia rete non sono riuscito a trovare tutti i suoi contatti.»

«È davvero così bravo?»

«Un genio. Stiamo attaccando lui proprio perché è l’unica parte della rete che non può tagliare e abbandonare.»

Mika seguì con gli occhi Katze che muoveva verso il magazzino e poi tornò a guardare l’altro uomo: calmo fin quasi alla noia scese dall’auto solo per appoggiarsi allo sportello e prendere una sigaretta.

Tolse il dito dal grilletto.

«Il tuo amico sta arrivando. C’è un solo uomo. Vado giù a stenderlo.»

«È pericoloso muoverti di lì!»

«Prendi tempo. Lo stendo e aspetto Katze fuori. Lo prenderemo nel più semplice dei modi, il tuo genio paranoico.»

Ignorò il suo nome pronunciato con una certa veemenza e un accento tedesco che cominciava a piacergli e lasciò il fucile com’era, per recuperarlo prima che Katze uscisse. Con i molti metodi che avevano programmato per abbattere una scorta consistente e armata gli riuscì difficile decidere quale usare per il malcapitato fumatore.

 

***

 

Era un fascio di nervi. Aveva sistemato i copertoni consunti sotto l’unico neon collegato alla corrente per darsi un effetto intimidatorio, ma si sentiva come un attore su un palcoscenico, a un provino con basse probabilità di successo e una giuria annidata nell’ombra pronta a bersagliarlo con il suo giudizio.

In mezzo a un trionfo di ciarpame arrugginito ed elettrodomestici rotti, circondato da penombra e silenzio, sentiva il cuore battere contro le costole con il fragore di una tempesta di fulmini.

«Stephan, vieni fuori da lì!»

L’appello di Katze non lo scosse, né lo fece il suo tono rabbioso: non si aspettava che la sua identità restasse segreta fino all’incontro.

Tremò invece ai tonfi e rumori indefiniti che sentì all’auricolare.

«Sei pulito, Avventuriero» fece la voce di Mika. «Recupero il fucile e sono pronto per salutare il tuo amico nella mia lingua.»

Un angolo della bocca si tese a quelle parole nel momento in cui la vecchia tenda di plastica veniva scossa dall’arrivo del loro ospite. Dopo aver condiviso le bottiglie e le donne con lui per tanto tempo gli sembrava strano fronteggiarlo così apertamente, mostrargli la sua vera natura.

«Quindi sei proprio tu» commentò lui, quasi sperasse di sbagliarsi. «Ma cosa significa questo, Stephan? C’eri tu dietro quell’incidente al mio Cacciatore?»

Yuu si sporse in avanti, poggiando il mento contro le nocche.

«Sei intelligente. Dimmi che cosa pensi che stia succedendo.»

Era lo stesso sguardo con cui Katze l’aveva guardato il primo giorno, al loro primo incontro: con velata paura, diffidenza tipica di un gatto che non riconosce un nuovo umano nel suo territorio ormai familiare e sicuro.

«Quello che penso è che da un po’ di tempo vuoi troppo entrare nei miei affari. Ci hai provato con quello spruzzo di niente in bottiglia, e te l’ho detto chiaramente che non sei fatto per questo lavoro.»

«Trovi?»

«Di’ un po’, faresti il pescatore se non sapessi che pesci stai tirando su? Faresti il medico se non sapessi a che servono le medicine?»

Yuu si finse pensieroso.

«Stai dicendo che non posso trovare reliquie perché non so cosa cercare?»

«Sì, Stephan, dannazione, è questo che sto dicendo! Pensi che io abbia il tempo di insegnarti a fare quel lavoro? Non sono mica una scuola. Io prendo gente in gamba che sa cosa cercare e come recuperarlo. Tu trovi delle fantastiche spogliarelliste, ma quelle non sono merce per i Figli di Prometeo.»

«Oh, sì. Ancora una volta il fuoco, il potere per soli dei, è stato portato a voi!» recintò in tono pomposo, prima di tendere un ghigno. «Qualcosa del genere, mh?»

La pelle scura di Katze e la penombra non permettevano di dirlo, ma Yuu era certo che un po’ di sangue fosse scivolato via dal suo viso per lo shock. Non era mai riuscito ad ottenere una reazione simile da lui.

«Oh, come lo sa? Dove l’ha sentito?» lo scimmiottò Yuu. «Nessun estraneo entra all’asta se non è nella lista. Il concierge conosce tutti i membri… Ti sta scoppiando la testa, eh, Katze?»

«Ma tu chi diavolo sei?»

«Curioso che tu me lo chieda. Alcuni tuoi predecessori erano sicuri che io lo fossi. Il diavolo… o uno dei suoi. Hanno anche provato a comprarmi da un uomo patetico con più creditori alla porta che neuroni funzionanti. La cosa più buffa è che se avesse provato a vendermi a dei maniaci sessuali io adesso starei nella Buoncostume e tu staresti a farti i fatti tuoi in qualche locale dei tuoi soliti.»

Katze riprese la sua baldanza e mosse qualche passo in avanti.

«Chi diavolo sei veramente?»

«Più o meno quello che hai visto in questo periodo. Un povero idiota con troppo entusiasmo per alcol e spogliarelli… ma ora sono di nuovo intero. Non serve che tu capisca» aggiunse notando la sua perplessità. «Il tuo problema adesso, Katze, è che questa è l’ultima delle tue molte vite. Ti ho preso, e se vuoi vivere un altro po’ su questa terra vuoterai il sacco con l’Interpol sui Figli di Prometeo.»

Fu quasi comico vederlo aprire e chiudere la bocca come un pesce, passarsi la mano sulla testa e infine ridere incredulo.

«Interpol? Sei un poliziotto

«Lo trovi buffo? Non faccio fatica a crederci, con le figuracce che ho fatto da ubriaco in tua presenza.»

«Io… sono stupefatto, Stephan. Mi hai imbrogliato per davvero… Credevo di averti inquadrato: carattere collerico a scoppio veloce, influenzabile, facile da incendiare e ancora più facile da spegnere, che cerca buoni guadagni per i suoi vizietti preferiti. Come gli spogliarellisti biondi… a proposito, dov’è l’ultimo?»

«Puoi essere più preciso? Ne ho tanti con questa descrizione.»

«L’ultimo, Stephan. Misha, lo chiami così, no? Quello che aveva scritto in faccia che mi voleva cavalcare. L’hai letto anche tu, perché l’hai allontanato da me due volte.»

Sapere che era una provocazione non l’aiutò molto a ignorarla, e senza volerlo la sua memoria ripescò un commento di Mika che gli aveva mandato il sangue al cervello. Piantò le unghie nella gamba per costringersi a tornare lucido.

«Oh, beh. Non è la prima volta che Misha ne cerca uno più grosso del mio proprio sotto il mio naso. Tranquillo, non ti sto incastrando per causa sua.»

Un lieve rumore di disturbo anticipò passi di corsa e un rumore, forse la scala esterna.

«Senti… Stephan. Tu mi piaci, anche se questo scherzo mi sta costando caro. Dai ai tuoi superiori qualche pesce piccolo, qualcuno che posso sacrificare senza troppi problemi, e puoi lavorare per me. Non ci sono solo dei Cacciatori. Ho tutto un sistema di magazzini e di corrieri. Posso trovarlo un posto per te, e chiudiamola così.»

«Il problema, Katze… è che…»

Yuu allungò la mano dentro il copertone ed estrasse la semiautomatica per puntargliela addosso: anche quel gesto sconcertò Katze, e si convinse che quelle tante notti di perdizione e alcol avessero contribuito a svalutarlo agli occhi di un uomo famoso per aspettarsi una pugnalata da chiunque.

«Il problema è che tu non mi piaci. Non mi piace come ti comporti con quelli che credi inferiori a te, non mi piace come tratti Nikia, non mi piace che volevi comprare il mio Misha per far divertire il tuo amico e umiliarmi. Ma il motivo per cui il tuo culo crossfit finirà in cella è che ti sei permesso di provare a vendere mia sorella

«Che diavolo… che… Stephan, non è una questione personale! I Figli di Prometeo sono potenti, sono… i broker delle organizzazioni esoteriche e delle chiese! Non lo capisci? Se non raggiungo ogni anno i profitti più alti, se non gli porto la merce più preziosa sono finito!»

Per poco non gli sparò in un guizzo di paura quando tuffò la mano nella giacca, ma ne prese solo il suo tablet.

«Registro tutto, ogni transazione e ogni acquisizione, per essere certo di essere il migliore dei mediatori ogni anno! Perché se entri in contatto con i Battitori d’Asta e poi non fornisci più niente diventi un ramo secco! Sai che cosa fanno ai rami secchi? Quello che hanno fatto a mio padre!»

Non avrebbe mai immaginato di vedere tanto terrore negli occhi di un uomo come Katze.

«Troviamo un accordo» continuò, con il respiro più pesante. «Quella che hai portato via dall’auto era tua sorella, è così? Va bene, io… dirò che il pacco è stato perso nell’incidente. Puoi riaverla. Mi lasci andare e niente sarà cambiato. Non la toccherà nessun altro. Era una piccola vendita, un guadagno che posso reintegrare facilmente.»

«Scherzi, vero?»

«Sono molto serio, Stephan.»

«Se qualcuno rapisse tua sorella a te starebbe bene chiuderla così?»

«I Figli di Prometeo non sono una banda di strada. Se vengo arrestato, anche se non apro bocca, mi faranno fuori. Sarò un ramo malato da eliminare.»

«Allora dovrai essere molto veloce e parlare prima che loro sappiano che fine hai fatto.»

Katze abbassò le mani lentamente.

«Vuoi dire che non faremo un brindisi?»

L’artificiosità di quella domanda creò una dissonanza in Yuu, come una nota stonata. Un attimo dopo sentì due spari – uno dall’esterno e uno nell’orecchio – che gli fecero capire che quella parola era un segnale per qualcuno in ascolto.

«MISHA!»

Sentì un gemito di Mika dall’auricolare e una specie di ringhio, rumori di una colluttazione, poi più nulla. Il rumore della tenda di plastica lo richiamò al presente ma il suo colpo andò a vuoto mentre la scarpa di Katze spariva in un lampo giallo fluorescente dietro l’angolo.

Balzò giù dai copertoni con un’imprecazione pesante e spiccò la corsa per inseguirlo. Nel piazzale un’occhiata rapida gli diede la situazione generale: la Porsche in attesa con lumi accesi e sportello aperto, il guidatore privo di sensi a terra, Katze che correva per raggiungerla, mentre dall’altro lato Mika emergeva a tratti da un groviglio poco chiaro.

Anche se il suo sguardo si era puntato su Katze che scappava il suo cuore lo spedì di corsa dalla parte opposta. Alzò l’arma e gridò un avvertimento, ma non ebbe alcun effetto. Un colpo secco – che con tanti allenamenti e alcune risse da strada alle spalle riconobbe subito come doloroso – pose fine al movimento del groviglio.

Avvicinandosi in fretta vide Mika, scarmigliato e sanguinante, spingere via il corpo inerte di una donna con la coda che era nella sua scheda dei collaboratori. Si gettò a terra vicino a lui.

«Misha! Stai bene? Sei ferito?»

«Ferito io? Ma smettila» rantolò lui, con il fiato corto. «Nel Kentucky questo lo facciamo tutte le sere dopo il primo whisky…»

«Ma tu non sei del Kentucky. Tu sei il più fighetto cittadino di New Oakheart trapiantato in Kentucky, e hai anche paura dei rospi» lo raffreddò lui, controllandogli il naso e la faccia. «Ouch, picchiava forte la signora…»

«Mi sa che è del Kentucky anche lei.»

La sgommata catturò l’attenzione di Mika, i cui occhi si snebbiarono subito.

«Cos’era? È scappato?»

«Ero preoccupato per te! Ho sentito lo sparo, e—»

«Ti avevo detto che potevo cavarmela! Dovevi prendere Katze a ogni costo!»

«Non l’ho sentito, non ho sentito niente dopo lo sparo» ribatté Yuu, piccato. «Hai perso l’auricolare! Dev’essersi rotto in questa… no, non mi sento di chiamarla rissa.»

Mika si rimise in piedi a fatica, zoppicava dalla gamba destra. Yuu gli mise in mano il telefono.

«Chiama la polizia. Loro l’inglese lo capiscono. Fatti venire a prendere e fagli arrestare questi due. Io… mi farò vivo appena l’avrò ripreso.»

Andò dritto all’angolo in cui aveva parcheggiato la moto elettrica, dietro alcuni rotoli di rete metallica. Pur zoppicante Mika gli andò dietro.

«Vengo con te.»

«Non puoi. Non sei in condizione.»

«Sto benissimo, e soprattutto sono il miglior tiratore che hai a disposizione! Guida tu, che conosci tutta la zona» insistette Mika. «Portami nella posizione giusta e mi basta un colpo per fermarlo.»

Yuu avrebbe voluto qualsiasi sviluppo di quella serata tranne mettere un Mika già acciaccato all’inseguimento di una Porsche per le strade cittadine. Ma discutendo Katze sarebbe scappato. Un’altra occasione ci sarebbe stata, con un uomo tanto prudente? Se l’avessero mancato, quante altre Cristina avrebbe preso?

Inserì la sicura e gli mise l’arma in mano.

«Farai meglio a onorare la tua fama.»

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Capitolo 21
*** Redenzione ***


Arrancò nel tentativo di girarsi, ma il braccio dolorante e il colpo ricevuto alla testa gli davano un equilibrio troppo labile per rimettersi in piedi. Inoltre lo shock di vedere la forma familiare – intimamente familiare – di Ismael alzare da terra Solenne con la delicatezza di un amante lo inchiodava a terra come lo spillo in una farfalla da collezione.

«Sta bene, mademoiselle d’Allemand?»

«S-sono sposata ora» fece lei, ansimando. «Ma sto bene… grazie a lei, signor Bates! Mi ha salvata da questo… pazzo maniaco!»

«Senz’altro è pazzo» convenne Ismael con velato sarcasmo. «Maniaco… giusto un po’.»

«Ma cosa fa lei qui?»

«Ho seguito il pazzo. Stava dando dei segnali di pericolosa infermità mentale, quindi ho pensato fosse prudente tenere il guinzaglio corto.»

Ismael tendeva un sorrisetto e aveva l’inverno in quei suoi occhi verdi. Ferid non riusciva a capire come l’avesse trovato, né perché non avesse ancora salvato Crowley se già sapeva dove si trovava, e per la prima volta da molto tempo divenne guardingo nei suoi confronti.

«È il cielo che l’ha mandata qui, signor Bates! Dio sia lodato» stava dicendo Solenne, con tutti i segnali di un crescente attacco di panico in corso. «Oh, devo vedere il medico subito… Ivan… devo dire a Ivan…»

Andò all’angolo in cui si trovava quello che sembrava un vecchio telefono a disco e vi armeggiò, ma la visuale di Ferid fu coperta dalle gambe di Ismael che si accovacciò accanto a lui.

«Avrei dovuto farlo molto prima, ma… mi dispiace, Pepper. Ti ho usato, manipolandoti con tutto quello che sapevo di te, per farti fare qualcosa che avrei dovuto fare di persona contro la Chiesa dell’Acqua. Credimi, quando le cose si sono così complicate mi sono pentito di aver tirato in ballo te e Angel Face.»

«Che cosa diavolo stai facendo, Ism—»

Ismael gli schiaffò la mano sulla bocca sigillandogliela come nastro adesivo e soffocò del tutto la sua imprecazione. L’altra mano gli bloccò il movimento del braccio sano.

Alle sue spalle l’uomo di nome Ivan era sopraggiunto e Solenne gli parlava fitto fitto in francese.

«Restatene buono, con quel braccio. Ti avevo detto che ci avrei pensato io.»

Ismael alzò il braccio e lo colpì in faccia – facendo sì un gran rumore ma quasi alcun dolore – e si alzò, accogliendo la guardia del corpo con calore come un vecchio amico.

«Ah, tutto a posto, tutto a posto! Lui non vi darà problemi… Madame, perdonami, non è niente di personale.»

Si mosse più veloce degli occhi dei tre presenti. Ivan crollò sul tavolino da tè travolgendo il servizio di porcellana molto modesto con cui avevano servito l’ospite inatteso, Solenne allora lanciò un grido e si appiattì contro l’arazzo sulla parete.

Senza neanche un filo di voce Ferid restò fermo a bocca aperta e occhi sbarrati a guardare Ismael subissare Ivan di calci brutali che spaccarono prima il labbro e poi il naso dell’uomo e poi – con rumore da far rabbrividire – qualche osso del torace o delle braccia con le quali tentava di difendersi.

La sua agonia durò poco, perché in meno di un minuto cessò di tentare di proteggersi la testa e poi anche i suoi lamenti rantolanti si spensero. Il tappeto era rosso, intriso di sangue a schizzi. Ismael ansimava ma non aveva alcuna espressione in viso, come se non avesse appena ucciso – o ridotto in fin di vita – un uomo.

Ferid fu il primo a muoversi, strisciando più lontano dal tappeto e appoggiandosi contro una vetrinetta per puntellarsi. Appurato che Ismael non avrebbe attaccato alla cieca il primo essere vivente a muoversi, Solenne spiccò la corsa e scappò via dalla sala. Lui non la guardò neanche, ma Ferid la puntò come un falco.

«Dove credi di scappare?!»

Aggrappandosi alla vetrina si alzò, ma restò lì fermo a guardare il riflesso sul vetro. L’uomo che vedeva ora era spaventato, turbato, con degli schizzi di sangue di Ivan sul volto, ma un momento prima aveva visto qualcosa che assomigliava di più a un mostro.

«Te ne sei reso conto, eh?»

Ferid si girò verso Ismael. La sua espressione era meno gelida, ma pur sempre priva di compassione per l’uomo a terra.

«Ti sei reso conto della rabbia che hai dentro? Non sembravi più tu in questi giorni, Pepper. Ginger si spaventerebbe di vederti in quello stato. Lui è sempre stato convinto che tu fossi una creatura delicata, qualcosa da proteggere dal resto del mondo… ma è comprensibile.»

Mentre si avvicinava le sue scarpe lasciavano impronte insanguinate nette. Gli porse un fazzoletto dalla tasca della giacca.

«Lui ha vissuto una vita tranquilla. È stato un bambino spensierato e molto amato. Un ragazzo felice che sapeva qual era il suo posto, e un uomo piuttosto sereno. Un po’ più a suo agio con i suoi lati oscuri da quando ha conosciuto me, ma tutto sommato ha avuto una vita liscia come un lago di montagna. Lui non sa che quando nasci in una famiglia in conflitto e cresci senza amore, senza guida, ti resta dentro una rabbia che non sparirà mai. Non la riconosce in te perché non sa che può esistere quel tipo di mostri.»

Ferid strinse il fazzoletto tra le dita, tenendo gli occhi fissi nei suoi, ma aveva il pensiero altrove: in un garage allestito alla buona dentro un vecchio capannone, la mano stretta su una pinza di pesante metallo, mentre si chiedeva dove far sparire il corpo di Estelle dopo averla uccisa…

Ismael allungò la mano strofinandogli il pollice sul viso per raccogliergli una lacrima.

«Ginger è da qualche parte, di sotto. Al di sotto delle cantine. Trovalo e portatelo via, a casa, il più veloce che puoi. Non ti voltare e non ti fermare finché non rivedi quelle faccette di volpe che hai per figli.»

«E tu?»

«Neanche ammazzare un uomo davanti a te riesce a farti capire che non sono una brava persona?»

Ferid tese a fatica gli angoli della bocca, di poco.

«Neanche io lo sono.»

«Va’ a prendere Crowley, ti ho detto. Claire-Solenne non mi scapperà. Se scapperà oggi, non lo farà domani. Lo giuro su Dio.»

Restò sconcertato dal sentire nominare Dio proprio a lui, ancora più che dal sentirlo usare il nome di Crowley per la prima volta. Ogni replica fu spenta da un suono lugubre, come una sirena rallentata o piuttosto un ululato di sofferenza che sembrava venire dai muri stessi del castello.

Ismael scomparve nella scia di Solenne prima che potesse rivolgergli una sola altra parola.

 

***

 

Emma scosse la spalla di Crowley con panico crescente. Il dosaggio di medicine era tale che non riusciva in nessun modo a svegliarlo, neanche a fargli aprire gli occhi. In un mormorio misto di preghiere e recriminazioni a se stessa per non averlo svegliato prima di attivare il meccanismo, svitò il coperchio del barattolino.

«Mon Dieu, pardonne-moi, c’est une urgence!»

Lo sventolò sotto il naso di Crowley una volta, poi una seconda con più convinzione, ma lui restò immobile, immerso nel suo sonno artificiale come la principessa di una fiaba. Alle soglie della disperazione Emma prese a strofinare il fondo del barattolo per riscaldarne la pomata contenuta, con le lacrime in bilico sulle ciglia, per poi scoprire un paio di occhi azzurri sonnolenti che la guardavano.

«Emma…»

«Oh, Mon Père, merci!» proruppe lei con gli occhi al soffitto.

«Stavo facendo un bel sogno, Emma» fece lui, con l’aria trasognata, allungando le dita per sfiorarle i capelli. «Eravamo insieme al luna park di Red Chapel… Tu avevi i capelli biondi…»

«Crowley, devi alzarti» fece lei agitata, prendendogli la mano. «Devi venire con me! Sbrigati, prima che escano tutti!»

«Non voglio cenare con lei» borbottò, accigliato. «Dille che non voglio.»

Emma imprecò per la prima volta da che avesse memoria, ma era anche più disperata di quanto ricordasse d’essere mai stata. Strattonò Crowley dal braccio per metterlo seduto sul letto.

«Ti prego, Crowley! Di sopra c’è monsieur Ferid! Mi hai sentito? Ferid è di sopra, nel salotto con Madame! È venuto per te!»

Gli schiaffeggiò le guance finché non fu abbastanza reattivo da cercare di fermarle la mano e gli afferrò la testa per guardarlo in quegli occhi annebbiati.

«Écoute-moi, Crowley! Lui è di sopra, è… Ferid, mi capisci? Ton ange. Il tuo angelo è venuto a prenderti!»

«Ferid…»

Sbatté le palpebre più volte e con gioia Emma scorse un guizzo di lucidità, di energia vitale nei suoi occhi. Sembrava che l’anima fosse tornata dal suo lungo peregrinare nella vastità di quei freddi sotterranei.

«Ferid… Ferid è qui?»

«Oui, mon ami, è di sopra» gli ripeté lei con più dolcezza. «Ma Madame non ti lascerà così facilmente. Dobbiamo andare. Ti porto da lui, ma devi cercare di camminare!»

Lui l’aveva capita, era in grado di comprendere la situazione – e quindi anche il pericolo al di là di quella porta – ma le buone notizie erano solo queste. Nonostante la migliore volontà Crowley crollò sul pavimento al primo tentativo di mettersi in piedi.

«Coraggio, Crowley!»

Emma era troppo esile per sollevare un uomo così grande senza le forze per camminare, ma si passò il braccio sulle spalle e tirò più che poteva per alzarlo.

«Père, aide-le!» pregò a denti stretti.

Per volontà divina, per un pozzo segreto di forza dentro la ragazza o per una migliore coordinazione del suo corpo Crowley si rimise sulle gambe e si aggrappò al letto per non spostare il peso su di lei.

«Non possiamo… aspettare?» ringhiò Crowley nello sforzo di trascinarsi verso la porta. «V-voglio vederlo, ma… Il corpo… quasi non lo sento, Emma…»

«Dobbiamo adesso, Crowley… proprio adesso.»

Soprattutto da bambina Emma aveva svolto molti lavori pesanti e difficili, quasi sempre per punizione del severo padre di Solenne o della governante, ma non aveva mai faticato tanto come quella sera: con poche forze il corpo di Crowley era alla deriva e molto pesante da sostenere, incespicava nelle lievi irregolarità tra i blocchi di pietra del pavimento e non c’erano appigli solidi ai quali potesse aggrapparsi con il braccio libero.

Quando arrivarono in fondo alla scalinata di pietra, ripida e senza corrimano, Emma provò un devastante sconforto. Con la scusa di farlo riposare lasciò che si accasciasse lungo il muro e lei stessa si gettò sulle ginocchia con le mani strette alla croce.

Il sotterraneo era insolitamente caldo e si spandeva già l’odore del fumo. Non fu l’unica a notarlo.

«Emma… c’è del fuoco in casa?»

«Sì» ammise lei con il nodo alla gola.

«È un incendio?»

«Sì. Per questo devo portarti su.»

Inspiegabilmente Crowley sorrise.

«Non ce la farai mai, Emma. Sei troppo esile per portarmi fino lassù, fino all’uscita. È molto meglio se corri e ti metti in salvo. Io posso… sì, posso anche restare qui.»

Sgomenta lo guardò in volto, le dita sbiancate intorno al crocifisso.

«Non fare quella faccia. Io sono stato a un passo dalla morte già nove anni fa. Mi hanno sparato cinque volte al petto e… non sono morto. Sono uscito dall’ospedale di nuovo sano… e ho vissuto la mia vita con Ferid. Non mi lamento del mio tempo…»

«Che cosa stai blaterando?! Tes enfants! La tua famiglia ti cerca! Devi ritornare da loro!»

«Non se tu muori per provare a salvarmi, Emma.»

«Non-sens! Io non ho famiglia! Non ho figli! Io posso anche morire per te!»

Risoluta la giovane donna si alzò e lo strattonò come decisa a trascinarlo come un sacco fino alle cucine, ma lui le oppose una resistenza che aveva una profonda serenità al suo centro.

«Allora ero anche io così. Non vedevo la famiglia da tempo, non avevo nulla se non un lavoro che mi prendeva quasi tutto… Fra dieci anni, Emma, forse tu sarai quella con una famiglia. E soprattutto…»

La sua mano strinse la sua; era così grande al confronto che le sue piccole dita ci scomparvero dentro completamente.

«Se ora corri… se ora lo trovi, forse riuscirete a portarmi via.»

Il motivo reale per cui Emma non aveva aspettato una regolare evacuazione era che sperava di farlo sparire prima che la sicurezza di Solenne sopraggiungesse, in modo da poter approfittare della confusione per consegnarlo a Lord Cosworth.

Eppure, l’incendio doveva aver raggiunto almeno il secondo e il primo piano e nessuno era ancora sceso. Qualcosa non andava, e poteva significare che non ci fosse più nessuno in grado di aiutarla a portarlo via, ma la sconfinata gentilezza che vedeva in quegli occhi l’obbligava ad assecondare il suo volere.

«Je reviens tout de suite» gli disse per la seconda volta quel giorno.

«Je vais attendre

La sua risposta – seppur con una pronuncia migliorabile – fece sorridere Emma malgrado l’emergenza, perché l’aveva imparato da lei. Gli lasciò la mano e spiccò la corsa su per le scale, come non correva da quando era bambina.

 

***

 

Gli venne quasi voglia di ridere quando Solenne cadde a terra nel corridoio: far inciampare qualcuno tirando il tappeto sotto i suoi piedi aveva un sapore di vecchia commedia che non sapeva se trovare più divertente o più deludente.

Si avvicinò a rapidi passi. La donna gli lanciò un’occhiata atterrita ed emise una specie di cigolio; non sapeva come altro definirlo, perché quel suono Ismael non l’aveva mai sentito fare a un essere umano. Neanche uno in preda al terrore e al dolore in punto di morte, e aveva una certa esperienza di quei frangenti.

L’agguantò per la collottola e lei ripeté quel lamento.

Un gatto. Sembra un gatto in agonia.

Trascinò Solenne sulle ginocchia, senza darsi pena di immobilizzarle le braccia: era talmente debole che non riusciva a pensare che fosse una donna in salute e discretamente giovane. Aveva preso schiaffi sulle mani molto più pesanti dalla sorella della ragazzina muta che bazzicava in centrale da Crowley.

«Che cosa sta facendo?! Sono un membro di sangue dei Figli di Prometeo!» sbottò allora lei, con voce stridula. «Come osa irrompere in casa mia, aggredirmi, aggredire la mia guardia del corpo!»

«La sua guardia del corpo le stava rubando lo stipendio. Sbaglio o l’ho ammazzato a calci e ora sono qui? Non è riuscito a proteggerla neanche da Pepper. Bella presenza, certo, ma pessime capacità. Non valeva quello che lo pagava.»

Poche, sconnesse parole in francese furono rotte da un singhiozzo. Se per la paura di cosa l’attendesse o per il suo compianto quanto scarso collaboratore, non seppe dirlo.

«Ora, non sono del tutto senz’anima. Puoi pregare per la tua prima che io finisca il lavoro… anche per quell’altro, se ci tieni. Aspetto.»

Un debole tentativo di ribellarsi all’inevitabile s’infranse quando lei sentì che la presa sul collo e i capelli era salda.

«P-perché? Perché Ivan? Perché questa violenza in casa mia? Io… non sono un mostro!»

«Mi hai preso per un angelo vendicatore? Io faccio quello che devo fare. Sono un Caduto che si è macchiato di peccati suoi… e questa è la sola cosa che non possiamo fare.»

«I… Caduti? Sei uno dei Caduti?»

«Sì, ma non solo.»

Spinse a terra Solenne sulla schiena e le schiacciò il petto con la scarpa, lasciandole un’impronta sfumata di sangue sull’abito. Ci teneva a guardarla in faccia prima di fare quella confessione liberatoria.

«Io sono l’uomo che cercavi. Io sono il discendente di Crowley Montague» le rivelò, con il disprezzo inciso in ogni linea del viso. «Io e Crowley siamo cugini di secondo grado, anche se lui non lo sa. La linea di discendenza di Crowley Montague arriva a me, non a lui. Mio nonno ha fatto tre figli con la sorella di suo nonno.»

Solenne si coprì la bocca con le mani, inorridita. Per contro, Ismael tese un ghigno.

«Chi lo direbbe che uno come me ha il sangue sacro, eh? Io che i peccati mortali li ho commessi tutti…»

«Menti» esalò lei, scuotendo la testa. «Non è possibile. Tu menti.»

Ismael scoppiò in una risata acre, ceppi scoppiettanti nel caminetto.

«Ti piacerebbe che fosse una balla… ma dico il vero. Io ho anche il diario.»

Se non fosse stata già a terra Solenne sarebbe svenuta: era pallidissima.

«I diari di Crowley Montague» balbettò con un fil di voce.

«I diari di Crowley Montague» la scimmiottò lui. «Sì, i diari di quel mistico sono arrivati fino a me. Sembrava un pazzo delirante. A volte lui stesso ha creduto di esserlo… ma diavolo, ci ha azzeccato. Ha indovinato così tante cose sulla sua discendenza che ho dovuto crederci anche io alla fine…»

Lontane memorie del vecchio scrittoio del nonno tornarono chiare. Un pomeriggio caldo si era messo a sverniciare quel relitto sperando di venderlo per comprarsi uno skateboard, ai tempi in cui era ancora piuttosto spensierato. Un cassetto che non si apriva, bloccato da un vecchio diario ingiallito. L’entusiasmo con cui s’era messo a leggerlo, pensando che ci avrebbe trovato la mappa per un tesoro o dei segreti di famiglia…

«Ho scoperto solo da adulto che i superstiti del Gregge cercavano i suoi diari, ma che era un veggente l’ho scoperto molto prima. Aveva scritto dei suoi figli anni prima di averli, della loro vita da adulti, e dei suoi nipoti. Aveva già scritto la mia vita prima che mio padre venisse al mondo… Altro che vecchio pazzo. Quell’uomo vedeva mondi che ancora non esistono.»

Schioccò le labbra. Non poteva dimenticare come quella lettura gli avesse tolto una alla volta le speranze di vivere una vita libera, diversa da quella lì immortalata, finché non finì tra le mani di Baptiste d’Argental. Come preannunciato da suo nonno quasi quarant’anni prima.

Quando aveva incontrato Crowley in quel locale sapeva chi era, perché suo nonno sapeva già chi sarebbe stato: la stella cometa, la guida dalla quale non togliere gli occhi, perché la Spada di Dio sarebbe entrata in contatto con lui.

«L’aveva visto, sai? Aveva visto che Ginger… voglio dire, Crowley Eusford, avrebbe affrontato l’Alchimista del Secolo con la Spada. Sapeva che io, suo discendente Caduto, sarei veramente caduto e così è stato. Ho usato la Spada di Dio contro persone che hanno causato la morte di un amico. E sapeva che i Figli di Prometeo, per causa tua, mi avrebbero cercato.»

Solenne piangeva senza fare un solo verso udibile, lo fissava con le lacrime che gocciolavano nei suoi capelli scarmigliati.

«E io… ho provato a scappare anche da questo. Ma provarci ha mandato i tuoi cani da caccia addosso a mio cugino. A quello che ora chiami “tuo marito”. Ma quello che tu hai aspettato per una vita, Claire-Solenne, sono io.»

La liberò dall’oppressione del suo piede, ma lei non aveva più forze per tentare di sfuggire al suo destino e neanche per piangere. Non singhiozzava neanche.

«T-ti prego…»

«Quel che è fatto è fatto, purtroppo. Ma se voglio la redenzione devo tornare a essere quello che i Caduti devono essere, e perciò prenderò sulle mie spalle l’omicidio che stava per accollarsi Pepper. Il tuo.»

«Ti prego, sono incinta…»

Ismael scoppiò in una risata del tutto priva di allegria.

«Ma fammi il piacere, Solenne. Hai tenuto Ginger qui per cinque giorni. Sappiamo benissimo entrambi che nel tuo utero non c’è un bel niente. Cerca di non essere patetica e preparati alla morte come fanno i cristiani.»

Il rombo di qualcosa che si schiantava ai piani superiori soffocò il pigolio supplichevole di Solenne, che a quel punto si arrese: strinse tra le mani il crocifisso e prese a mormorare preghiere in francese. Ismael fissò gli occhi sull’orologio da polso, contando alla rovescia due minuti.

 

***

 

Il castello di Sarmans aveva tutto l’aspetto di un castello antico ricostruito e ampliato in tempi differenti: anche se lo stile architettonico era piuttosto uniforme Ferid si imbatté prima in una scala che scendeva solo contro una parete di solida pietra con un dipinto della crocifissione, poi in un corridoio il cui solo scopo sembrava essere permettere a una coppia di nascondervisi senza venir scoperti da nessuno.

Questo castello è un incubo, come si fa a trovare qualcosa? È tutto così insensato!

Tra camini murati, porte che non erano porte e specchi in punti inusuali era uno scenario perfetto per una cena con delitto interattiva, ma Ferid non si stava affatto divertendo. Il braccio gli mandava fitte lancinanti e iniziava a sentire l’odore del fumo.

Questa specie di sirena lugubre è un allarme antincendio. Forse arriverà gente molto presto.

Ancora una volta diede un’occhiata nervosa a terra – anche se aveva fatto chilometri da quel salottino – e accelerò, solo per sbucare alla fine del corridoio nello stesso salone verde con il tavolo lungo che aveva già visto. Per la frustrazione tirò per terra con un calcio un vaso d’ottone decorato che era lì accanto.

«Maledizione! Non c’è niente che scenda in questo posto schifoso!»

Si fermò vicino al tavolo, raggelato da un dubbio improvviso.

Ismael ha detto che Crowley era nel sotterraneo… ma… se non fosse vero? Se mi ha mentito per farmi restare qui a cercarlo, e…

Diede un colpo di tosse quando respirò l’odore di fumo come di tessuti bruciati, e si accorse di un fumo denso che scivolava lungo la scalinata simile a ghiaccio secco. Aveva deciso di fidarsi di Ismael, per incoerente che fosse il suo comportamento ultimamente, ma a quel punto si chiese se non avesse tratto in salvo Solenne e lasciato lui lì, a cercare Crowley, nella speranza che l’incendio lo uccidesse. Un incendio che forse era stato lui stesso a innescare.

Usò il fazzoletto che gli aveva prestato per coprirsi il naso e la bocca, che si era piegata in un sorriso privo di gioia.

Questo farebbe di lui il secondo uomo che cerca di uccidermi dopo avermi portato a letto.

Le sue amare considerazioni si interruppero quando sentì la voce concitata di una donna. Parlava un fitto francese con un accento pesante, tanto che Ferid faticò molto a comprendere che cosa dicesse, e poi una seconda voce, più acuta della prima.

Le due figure corsero attraverso il fumo senza badare alla sua presenza, ma uno zampillo di entusiasmo lo rianimò: quelle due donne avevano dei grembiuli da cucina addosso.

Si lanciò in direzione della loro apparizione, scoprendo una porta sotto la scala. Entrandovi capì di essere nel posto giusto. Si trovava in un locale che ogni casa signorile aveva: una stanza di servizio dove i camerieri potevano prendere ciò che era pronto per il pasto e dove i cuochi trasferivano pietanze da pentole e padelle a piatti di portata e zuppiere di sorta.

Posò gli occhi sulla porta doppia in fondo ma non riuscì a raggiungerla. Un colpo diretto alla schiena fermò la sua corsa e cadde bocconi sul pavimento, senza fiato, con il braccio inservibile stretto contro il petto. Inspiegabilmente, il pavimento era caldo.

«Bastardo! Che cos’hai fatto a Ivan?! Dov’è Madame?!»

Cercò di mettere a fuoco l’uomo iracondo che gli stava parlando in francese rozzo, ma non l’aveva mai visto prima e non sapeva chi potesse essere. Gli abiti del tutto neri gli suggerirono che potesse far parte delle guardie del corpo di Solenne.

«Non so dov’è» rantolò, il dolore alla schiena ancora si irradiava nel torace. «Sto cercando Crowley…»

L’uomo collerico lanciò un urlo e abbatté su di lui una pioggia di colpi con il manico di una scopa di saggina presa a pochi passi. Ferid si coprì la testa meglio che poteva con un braccio fuori uso e strinse i denti. Dopo le prime bastonate quasi non le sentì più, confuse tra loro come l’eco di percussioni non armoniche tra pareti spoglie.

Quando smise l’aggressore ansimava quanto la vittima. Non un singolo pensiero coerente attraversava la mente di Ferid, scollegata dal corpo per proteggersi dal dolore. Fluttuavano solo confuse preoccupazioni sul tempo rimasto e l’orecchino che non trovava più.

«Rispondi!» urlò l’uomo, paonazzo in volto. «Cos’hai fatto a Madame?! Parla o giuro che ti ammazzo!»

Prima che Ferid tornasse presente a se stesso lui gli ordinò di nuovo di rispondere, ma il balbettio indistinto misto tra francese e inglese non venne considerato un tentativo di obbedire. L’uomo sollevò il manico e l’abbatté contro la sua faccia in un movimento pesante come un colpo di scure a un ciocco di legna.

Dopo quello Ferid perse del tutto il contatto con la realtà. Con quel filo di coscienza che gli era rimasto vide di nuovo l’uomo che un tempo era del tutto identico a lui, che in un corridoio deserto della Belfast Arena gli scaricava addosso una pioggia di pugni mentre una ragazzina afroamericana si rannicchiava terrorizzata in un angolo.

Non è cambiato niente… neanche stavolta… Non posso mai difendermi…

Le parole rabbiose dell’uomo si sovrapponevano alla risata di Robert Warren nella sua mente. Non lo ricordava mai com’era stato alla fine, ma solo com’era stato da ragazzo e quando aveva simulato il suo stesso aspetto. E così si ripresentava adesso, schernendolo con un ghigno. Lo rivide nitido, come fatto di carne e di ossa, sedere accanto a lui accavallando le gambe come imitandolo.

«Se vedessi quanto patetico sembri da qui, Rid! A volte provo imbarazzo per te… Altre volte…»

Il viso uguale al suo guardò altrove, come se trovasse qualcosa degno di interesse al di là del salone. Nel mentre una lenta ma costante trasformazione aveva luogo nella sua forma, che si sfumava e sfocava mentre i lineamenti rubati diventavano quelli di un Robert più adulto di quello che aveva conosciuto, ma non intaccati dalla terribile malattia che gli aveva consumato corpo e anima.

«Immagino che tocchi a tutti, alla fine. Si raccoglie quello che si semina… e se anche si semina bene, possiamo essere il cattivo raccolto di qualcun altro. Non è molto giusto, non trovi?»

Le unghie grattarono sul pavimento mentre serrava il pugno. Il volto di Robert – adulto, ma abbronzato e bello com’era stato da giovane – produsse un sorriso appena accennato.

«Già, lo penso anch’io. Non preoccuparti, Rid. Nel tuo caso più è amaro e meglio sarà. La soluzione sta sempre in seno alla speranza.»

Robert si alzò e s’infilò le mani in tasca, lo sguardo perso verso quell’orizzonte che sembrava poter vedere soltanto lui, come in nervosa attesa di qualcosa o di qualcuno. Poi abbassò gli occhi a terra.

«Alzati, Rid. C’è più di una redenzione da ottenere questa notte. Avanti e su!»

Un colpo al fianco lo girò sulla schiena e lo strappò al suo delirio allucinatorio. Non vedeva nitido, forse per il colpo che aveva incassato vicino all’occhio, ma abbastanza bene per capire che il prossimo assalto gli avrebbe ridotto la testa come quella di Ivan.

«NO, EXAS!»

L’uomo girò la testa verso la voce, ma Ferid non si concesse quel lusso. Nel dolore che gli pulsava dappertutto uno valeva l’altro, quindi piantò le mani per terra e buttò il piede con tutto lo slancio possibile affondando il tallone nell’inguine di quel cavernicolo inferocito. Exas barcollò e perse la presa sul bastone viscido di sangue, ma non cadde.

Con un ringhio – più dato da sforzo e sopportazione che da rabbia – Ferid mise più forza ancora nel calcio con cui gli scardinò il ginocchio; si trascinò in piedi aggrappandosi al tavolo di pesante legno mentre Exas crollava di schiena contro una scaffalatura. I loro sguardi si incrociarono a denti stretti come cani pronti a sbranarsi.

La mano di Ferid si mosse come animata di un’intelligenza propria: raggiunse una zuppiera di terracotta sul tavolo e la lanciò in un invidiabile gesto atletico da pista da bowling, mandandola a infrangersi contro la faccia dell’avversario.

Il fragore della pioggia di cocci fu fagocitato da un silenzio irreale rotto solo dal lamento perpetuo dell’allarme. Era più simile al canto addolorato di una balena.

Ferid si raddrizzò solo dopo alcuni secondi di allerta, quando fu sicuro che Exas non si sarebbe rialzato per fargli la pelle. Si puntellò contro il tavolo e solo quando cercò di trovare qualcosa per reggersi il braccio infortunato incrociò lo sguardo della ragazza che lo fissava a occhi spalancati.

Buttò la mano verso i ganci nella speranza di arraffare almeno una possibile arma ma lei invece di scappare gli si avvicinò e gli prese il polso.

«Non, monsieur Ferid!» esclamò, lasciandolo stupito. «Sono Emma! Vi prego, non diffidate di me… seguitemi.»

Aveva l’agitazione di chi cammina sui carboni ardenti, ma la sua presa aveva una gentilezza, una delicatezza che persuase Ferid che lei non fosse un nemico. Si lasciò guidare fino alla porta doppia che dava sulle cucine, abbandonate in tutta fretta.

«Di qua, Ferid. Dobbiamo scendere per arrivare da Crowley.»

Esitò solo un momento e poi la seguì, scavalcando le carote cadute da un cesto rovesciato. Per Crowley sarebbe sceso fino all’inferno, seguendo persino zampe caprine e palchi di corna.

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Capitolo 22
*** Seguito ***


 

In fondo alla cucina una scala scendeva nella cantina dei vini e già lì a Ferid sembrò che qualcosa fosse sbagliato: era calda, troppo calda per conservarci alcunché. Emma tirò la scaffalatura che si aprì come una porta. Aveva un mimetismo perfetto e dubitava che sarebbe mai riuscito a trovarla da solo.

«Qui! Crowley!» chiamò la ragazza, correndo giù. «Crowley, dove sei?»

La vista del sotterraneo fu inquietante e affascinante per la sua enormità e la sua struttura, ma anche se si aspettava fosse l’area più fresca sembrava essere la stanza che conteneva un forno in piena attività.

Scese con attenzione la scalinata, che era ripida e priva di protezioni e corrimano, sulla scia di Emma e del suo vestito svolazzante. Accelerò quando intravide una testa di capelli rossi che gli era ben nota e molto cara.

«Crowley, l’ho trovato! Su, fatti forza, devi alzarti ora…»

Ferid barcollò dopo aver saltato gli ultimi tre gradini. Incrociò gli occhi blu di Crowley e provò la stessa emozione di quel giorno di luglio di tanto tempo prima, quando era stato in ospedale ed era riuscito a vederlo dal corridoio: una girandola di sollievo e gioia fatta ruotare dal vento forte.

«Ferid…»

Crowley non aveva affatto l’aria di essere sollevato o felice, ma Ferid si gettò lo stesso in ginocchio e lo baciò stringendolo con il braccio meno acciaccato che aveva.

«Ti ho trovato» gli fece poi, accarezzandolo e toccandolo come per accertarsi di non stare sognando. «Finalmente ti ho trovato…»

«Ferid, ma che cosa ti è successo?»

Crowley guardava da lui a Emma con crescente ansietà. Inconsapevole del suo aspetto Ferid non credeva ci fosse alcunché da spiegare.

«Si è scontrato con Exas» spiegò Emma, mortificata.

«Coraggio, andiamo via, poi ti spiego tutto quanto! Non ci crederai mai a che cosa è successo o a come sono arrivato qui.»

Istintivamente si asciugò la fronte e si rese conto di quanto caldo facesse là dentro.

«Non… non è che l’incendio viene da qui, vero?»

«No» fece Emma, indicando il corridoio. «Ma la macchina è qui.»

«Quale macchina?» chiesero all’unisono i due uomini.

«La fece costruire monsieur Maurice Alphonse d’Allemand più di trecento anni fa, per proteggere i segreti della famiglia. È una grande pompa, spinge il petrolio in tutto il castello perché bruci velocemente. Serviva a distruggere cimeli e documenti nel caso il castello fosse stato espugnato.»

Spinto da morbosa curiosità Ferid si alzò e si avvicinò al punto indicato da lei. Fece appena in tempo a dare un’occhiata al mostro di tubi e valvole prima che l’aria incandescente lo investisse, e si ritrasse di fretta.

«Non c’è modo di fermarla. Bruceremmo vivi se provassimo a toccarla… Andiamocene in fretta, prima che quella cosa decida di scoppiare!»

Ma Crowley si muoveva a malapena e fece solo un fiacco tentativo di issarsi con il braccio sfruttando la scala. Le sue gambe erano immobili e fu allora che Ferid iniziò a spaventarsi.

«Che cosa c’è? Cos’hanno le tue gambe?»

«Quella psicopatica mi droga» sbottò Crowley cercando di spostare a forza la gamba con l’unico braccio che sentiva. «Non so cosa mi abbia dato, ma non posso camminare… Emma, devi portarlo fuori.»

«Ma che diavolo–»

«Portalo fuori! Qualcuno arriverà per l’incendio. Gli dirai dove sono. È tutto quello che possiamo fare!»

Le proteste di Ferid si confusero con quelle di Emma in un inglese misto a francese, con il solo risultato di urtare Crowley. Lui artigliò il braccio di Emma.

«Portalo fuori di qui! Se hai un briciolo di amore per me, di pietà per i miei bambini, portalo via! Obbedisci!»

La spinta che le diede fu abbastanza brusca da farla inciampare e la donna buttò le mani avanti per non cadere. Un barattolino le cadde dal ritaglio di chiffon che riempiva pudicamente la scollatura del suo abito e le sue mani zampettarono come ragni nella frenesia di recuperare quello e il suo tappo schizzato via.

Qualsiasi cosa contenesse aveva un odore pungente di erbe e qualche cosa che sembrava aver fermentato; un odore che a Ferid fece tornare in mente un intruglio che Krul preparava nel suo giardinetto e che spacciava come panacea per ogni tipo di dolore o malessere.

In effetti faceva passare tutto. Era così amara che togliersi quel gusto dalla bocca diventava l’unico problema da risolvere…

Proprio mentre la menzione del gusto amaro riportava alla mente quella specie di allucinazione che aveva avuto i suoi occhi celesti si posarono su una boccetta che Emma aveva legata al collo, che tintinnava contro la croce dalla pietra verde. Un liquido giallino si muoveva dentro.

«Che… che cos’hai lì? Cos’è?»

«Uh?»

Lei arrossì tutta, come se anziché una boccetta e un crocifisso le fosse uscito dal vestito un fazzoletto unto e disgustoso.

«È s-solo… una medicina omeopatica per il mal di testa! Madame non vuole che—»

Ma Ferid aveva già stretto le dita intorno alla boccetta.

La soluzione sta in seno alla speranza… la soluzione è un liquido…

I suoi occhi si piantarono su di lei.

«Cosa contiene?»

«N-niente… voglio dire… del Silybum marianum, del fungo Merulius e–»

Più è amaro e meglio sarà! Sì!

Senza neanche lasciarla finire le strappò la catena dal collo e con i denti tolse il tappo, sputandolo via sotto gli occhi attoniti degli altri.

«Perdonami, tesoro mio, scusami. Mi farò perdonare.»

«Ma che di—»

Emma scoppiò in una protesta atterrita quando Ferid aprì di forza la bocca di Crowley – dal canto suo, si agitò come un coccodrillo preso dal muso – e gli vuotò la boccetta in gola. Gli tappò la bocca perché non la sputasse e soffocò anche una sequela di parolacce, almeno finché non trovò abbastanza forza da spingerlo via di peso.

«Ma che cazzo fai?!» boccheggiò lui, tra colpi di tosse e conati. «Q-quella roba è… Dio!»

«Stai muovendo le gambe, però» sentenziò Ferid, buttando via la boccetta vuota. «Saresti sorpreso di cosa fa un gusto terribilmente amaro al cervello. Sbrighiamoci, dobbiamo uscire di qui.»

Crowley era più sorpreso di Emma di riuscire a piegare le ginocchia, anche se gli strascichi di quell’assunzione forzata l’avrebbero accompagnato ancora per qualche ora. Appoggiandosi a Emma riuscì almeno a mettersi in piedi e a salire qualche gradino, con Ferid che li seguiva tenendosi il braccio. Gli sembrava che dovesse staccarsi dal corpo da un momento all’altro, ma era preso da misteri molto più grandi e domande più inquietanti.

Come avrebbe spiegato a Crowley come sapeva gli effetti di quel gusto? Come sapeva che i due ingredienti menzionati da Emma erano amari quanto l’intruglio di Krul? Come poteva spiegargli che Bobby, in una specie di sogno, gli aveva detto che cosa cercare?

Il terzetto riuscì a superare la scala di pietra e dopo quella Crowley non ebbe problemi a superare quella della cantina dove c’era anche un corrimano. L’odore di fumo era intenso e passarono da un inferno di calore a uno di fumo e fuliggini quando entrarono nel salone.

«Andate avanti» tossì Ferid, cercando di coprirsi la faccia con il braccio. «Non vi fermate, andate avanti!»

Si aggrappò ai capelli di Crowley per non essere separato da lui – l’occhio che Exas gli aveva colpito era così gonfio che non ci vedeva e il fumo l’accecava del tutto – ma non ne ebbe bisogno a lungo. Superato il portone raggiunsero l’anticamera in cui l’avevano fatto attendere parecchio.

Aveva appena superato il battente quando una figura l’acchiappò al volo, separandolo dagli altri due e schiacciandolo contro la porta. Si dimenò appena quando sentì la maschera sul volto e poi ci respirò dentro. Riuscì persino a tendere un sorriso accennato riconoscendo un paio di occhi viola dietro la maschera antigas, ed ebbe quasi voglia di svenire lì e lasciare tutto il resto a lui.

«Sei in un mare di guai, Gimlet!»

«Me l’hai detto anche vent’anni fa, quando mi sono svegliato nel tuo letto…»

Guren gli tenne la maschera dell’ossigeno sul viso e lo portò oltre il sontuoso portone d’ingresso, da dove vide Crowley ed Emma tratti in salvo da un paio di figure in uniforme che riconobbe come veri vigili del fuoco. Lampi rossi e blu dal parco gli suggerivano che i rinforzi erano arrivati in pompa magna.

«A proposito, è un vita che voglio chiedertelo» aggiunse, prima che Guren gli rovesciasse addosso la sua furia. «Ma quella volta abbiamo o non abbiamo fatto sesso?»

Con un gesto stizzito Guren si abbassò la maschera.

«Che cosa diavolo stai combinando, eh? Mi dovevi consegnare la d’Allemand viva, con le prove registrate che la incastravano! Invece cosa sento? Te che la strangoli! Tu e quegli altri due mocciosi, chiamarvi spine nel fianco è parlar bene di voi! Siete nati così o assumete della roba tagliata col detersivo per i vetri?»

«Cosa… due mocciosi? Parli di Mika e Yuu? Che è successo?»

«Pensa a te, piuttosto! Come pensi che ti possa salvare dopo quello che ho registrato?!»

«Non l’ho uccisa. Lui ha…»

Ferid si toccò la testa dove Ismael l’aveva colpito e, come prima, istintivamente guardò per terra.

«Mi ha colpito all’orecchio… Ho perso l’orecchino lì, credo. Forse si è rotto, mi ha preso in pieno con un calcio.»

La furia di Guren ebbe un momento d’incertezza.

«Chi ti ha colpito? La d’Allemand?»

«No, no, era Ismael… io…»

Se aveva mai avuto un’allucinazione più vivida di quella, Ferid non la ricordava. Bobby aveva parlato di redenzione. “Più di una redenzione”, per l’esattezza, e lì comprese che cosa intendeva dire.

«La d’Allemand è ancora viva, ma dobbiamo sbrigarci. Vieni con me.»

«Venire dove?! Sta andando tutto a fuoco qui!»

«Se non ci diamo una mossa lei è morta, e anche lui. È questo che voleva fare fin dall’inizio.»

Guren si limitò a emettere un ringhio e gli strappò via la mascherina per mettergli in faccia la sua maschera antigas. Ferid non immaginava che potesse essere tanto pesante e scomoda, ma il suo disagio sarebbe stato minore se non avesse avuto la faccia rimescolata a furia di calci e bastonate.

«C’è una donna dentro» annunciò a un vigile del fuoco, che gli stava passando un’altra maschera. «Dev’essere nel salottino. Vado a cercarla. Se non la troviamo subito torniamo indietro. Preparate una squadra per cercarla ai piani superiori.»

Annuendo il vigile fece cenno alla sua squadra. Guren si sistemò la maschera antigas.

«Da che parte?»

«Scusa, ma… perché mi hai messo la tua maschera per poi prenderne un’altra da quel pompiere?»

«Perché la mia sapevo già che funzionava» tagliò corto Guren. «Allora, da che parte?»

Era colpito da un lato così premuroso di un uomo che si era sempre mostrato scostante con chiunque, ma cercò di restare concentrato. Sapeva dov’era il salottino e in che direzione Ismael aveva rincorso Solenne, ma fino a dove non lo poteva sapere.

«Non lo so. Seguimi.»

Guren alzò gli occhi al soffitto, ma poi prese l’arma in pugno e lo seguì, badando ben più di lui che la via fosse libera dietro ogni angolo e portone.

«Vorrei sapere che cosa trovo in te d’interessante al punto da seguirti sempre in queste stronzate!»

«Forse hai trovato qualcosa che non ricordo di averti mostrato.»

Lui si limitò a grugnire.

 

***

 

La ruota anteriore scivolò verso sinistra fuori dal suo controllo; la sua leggerezza fu accolta da un coro di frenate e clacson di veicoli che gli passarono ai lati del campo visivo senza che ne distinguesse neanche il colore. Le dita di Mika si serrarono sulla sua maglietta all’altezza dell’ombelico.

«Che diavolo fai, Yuu?» gli gridò nell’orecchio.

«Scusa» rispose lui altrettanto forte, con il cuore in gola e deciso a non mostrarlo. «Non l’ho proprio visto arrivare.»

Si costrinse a prendere il respiro per restare il più lucido possibile: essere in preda al panico guidando una moto che poteva schizzare nelle strade urbane ai centosessanta orari non era una buona idea per chi desiderasse qualcosa di diverso da un’alta probabilità di morte.

Dove diavolo sei finito, bastardo?

Iniziava a disperare. Avevano perso tempo prima di mettersi all’inseguimento perché credeva che con l’agilità della moto sarebbero riusciti a riprenderlo. Era sicuro che nello stato di agitazione in cui era si sarebbe rifugiato nel suo magazzino più controllato nella zona di Leipziger e stava cercando di raggiungerlo, ma ora cominciava a dubitare di essere riuscito a metterlo all’angolo quanto sperava.

Poi, mentre si girava per rivolgersi a Mika, scorse un paio di fanali sulla strada parallela. Fanali di una Porsche scura. Era stato appena uno scorcio ma fu sicuro.

«È sulla Waldow!»

«Cosa?»

«Sulla Waldow!» scandì più forte. «A destra, la parallela sulla destra! Piegati, prenderemo una curva da brividi! Se siamo abbastanza veloci gli tagliamo la strada! Sei pronto?»

«Facciamolo!»

Yuu sentì la sua determinazione prima ancora di poterne dubitare: non appena furono alla curva Mika iniziò a piegarsi prima di lui per inclinare la moto a quella velocità da pazzi. Le gomme stridettero come uno stormo di corvi, il manubrio vibrava. Strinsero abbastanza da evitare lo schianto contro il muro ma Yuu sentì nettamente una spinta non sua che gli permise di raddrizzare la moto e riprendere il controllo. Il cuore gli batteva in gola, poi sentì Mika stringersi a lui e lasciare un sospiro che lo cullò nella certezza di non essere stato il solo a farsela sotto.

La Waldow incombeva, così come la luce dei fari. Una paura improvvisa – o forse un primordiale istinto – fece decelerare Yuu evitando loro di schiantarsi sul cofano della Porsche. L’auto li schivò per un soffio e in un surreale attimo Yuu e Katze si fissarono attraverso la visiera e il finestrino. La bolla venne scoppiata da Mika con tutta la violenza del caso, che aveva la pistola puntata contro il guidatore come se ammazzasse gente alla guida tutti i giorni.

«Misha, no!»

Katze colse la sua esitazione e speronò la moto. Mika non si azzardò a sparare in mezzo alla strada senza una posizione ferma e l’uomo accelerò per sfuggirgli mentre Yuu evitava di investire dei passanti terrorizzati o sbattere contro i lampioni.

«Che cazzo fai, Misha? Ci serve vivo!» lo rimproverò quando riconquistarono la carreggiata. «Non sparargli addosso!»

«Lui non sa che lo voglio vivo! Era su questo che contavo» sbottò Mika. «Ma grazie a te dovrò prenderlo nel modo più complicato! Avviciniamoci!»

«Che vuoi fare?»

Accelerò zigzagando per evitare di offrire un bersaglio troppo fermo a Katze; era fin troppo intimo con lui per non immaginare che avrebbe cercato di toglierseli di torno prima di arrivare al magazzino.

Mika si aggrappò alla cintola dei suoi jeans con la mano destra.

«Stai sulla destra prima della curva» gli urlò nell’orecchio, sopra il boato dell’aria. «Il più veloce e fermo che puoi. Devi bilanciarmi!»

«Bilan— Misha, che cazzo vuoi fare?!»

Fu costretto a fare come diceva e spostare il corpo sulla destra: Misha si aggrappò a lui con la mano e alla sella con il ginocchio. Yuu azzardò un’occhiata giusto per scoprire che la sua testa bionda era a dieci centimetri dall’asfalto e il braccio armato perfettamente teso, poi distolse gli occhi concentrandosi sul mantenere la moto dritta. Se si fosse distratto Mika si sarebbe ritrovato senza una faccia, se non addirittura senza testa.

Katze fu alla curva pochi secondi dopo e non appena Yuu vide le luci di frenata accendersi sentì tre colpi in rapida sequenza, cui fecero eco gli pneumatici posteriori e quello anteriore sinistro che scoppiarono come bombe. L’auto scodò bruscamente e Yuu girò tutto a destra per evitarla.

Sentì il sussulto quando colpì il cordolo, rumore di lamiere da ogni direzione, vide scintille, sentì Mika gridare e poi perse del tutto l’aderenza con la sella e infine con il manubrio: venne sbalzato via e rotolò, rotolò sul duro finché non venne fermato dall’impatto con una pianta.

Per un periodo non quantificabile – dai pochi secondi a qualche minuto – Yuu rimase in un limbo fluttuante tra la coscienza e l’oblio, finché gli occhi non rimisero a fuoco contorni confusi e la sua mente riaccostò pezzi di quello che aveva appena visto.

«M-Mi… Misha…»

Cercò di districarsi fin troppo a lungo e la pianta si tenne metà della sua maglietta che si era impigliata in più punti nei rami. Ansante buttò via il casco e individuò prima il relitto della sua fidata Elettra – quasi troncata in due dopo aver impattato un lampione di ferro – poi la Porsche, fumante con il muso affondato nella cancellata piegata dall’impatto.

«Misha… Misha!»

Si mise in piedi senza neanche accorgersi di come la sua mano destra penzolasse in modo innaturale. Individuò Mikaela, riverso a terra davanti alla panchina che – a giudicare dalla strisciata di vernice – dovevano aver centrato in pieno prima di essere sbalzati via. Il cuore gli martellava contro le costole così forte che gli faceva male mentre fissava quella macchia rossa sotto la sua testa.

«Misha, rispondimi» sillabò, con la bocca asciutta. «Mika!»

Ma Mika non si muoveva e non faceva neanche un verso. Nel suo panico crescente non riusciva neanche a sentire il battito o il suo respiro, e qualcosa dentro di lui si spezzò; gli parve quasi di sentirne nettamente il rumore. Si rialzò barcollando e raccolse la pistola – a qualche metro di distanza, in bella vista sul marciapiede – e marciò pur zoppicante fino alla Porsche.

Katze era lì, riverso contro l’airbag. Si lamentava sottovoce come se avesse un incubo. Senza la minima compassione né il pensiero di sua sorella che riuscisse anche solo a blandire la sua rabbia spalancò lo sportello e lo trascinò fuori per il braccio, accorgendosi che anche nel pieno della lucidità non sarebbe andato lontano: aveva le gambe rotte.

«Tu… tu, schifoso pezzo di merda! Prega il tuo dio che Misha sopravviva o giuro che rimpiangerai di non essere morto dentro quella macchina!»

Era come sordo a tutto il mondo: non sentì la supplica sconnessa di Katze, né prestava alcuna attenzione alle grida, ai motori, alle sirene tutt’intorno. Eppure la voce sottile di Mika perforò il caos del mondo circostante e quella bolla di isolamento volontario.

«Yuu-chan…»

Girò la testa verso Mika. Gli bastò vedere gli occhi aperti per abbandonare lì Katze e correre da lui, ma non osò toccarlo. Nella sua percezione distorta dalla paura gli sembrava che avesse sangue ovunque, che toccare anche solo una mano avrebbe potuto distruggerlo come un castello di sabbia.

«Yuu-chan, non ci crederai mai» gli sussurrò Mika, con un accenno di sorriso. «Ho insegnato ad Albert un’altra parola…»

Quel refolo di sollievo divenne vento pungente che lo fece rabbrividire.

«M-Misha… Albert non c’è più… È morto l’anno in cui sono entrato a Quantico.»

La notizia non turbò Mikaela, i cui occhi velati suggerivano che non fosse in grado di sentire o di vedere nulla che non fosse un suo delirio.

«Peek-a-boo… ora dice peek-a-boo. Prova… prova…»

Qualcosa di pesante scivolò giù nelle viscere di Yuu, che non sapeva più che tipo di forza tenesse dritta la sua spina dorsale. Per motivi che non capiva Mika stava rivedendo il pomeriggio in cui Yuu era tornato a casa e aveva scoperto che aveva insegnato al loro pappagallino a giocare a Peek-a-boo, ma sapeva abbastanza di medicina da capire che rivivere momenti passati come il presente dopo un colpo alla testa non era niente di buono.

Si spinse con sforzo fuori dai piedi quando tre paramedici piombarono su di loro, lasciandogli lo spazio necessario. Una donna paramedico si avvicinò per controllare le sue ferite e lo bombardò di domande alle quali non si degnò di replicare. Si allontanò subito con un grido di allarme quando Yuu sollevò l’arma per puntarsela alla tempia.

Che lo vedessero o no, gli occhi azzurri velati di Mika erano girati verso di lui.

«Se te ne vai io ti seguo, Misha» fece, mentre il gusto salato di una lacrima gli arrivava alla lingua. «Questa volta non ti lascio andare… questa volta no.»

 

***

 

Se non avessero avuto le maschere antigas sarebbe stato impossibile procedere con tutto quel fumo. Il calore era già intenso anche se al piano terra non c’era ancora fuoco vivo. Ferid attraversò il salottino dove giaceva Ivan sforzandosi di non guardare dalla sua parte e spalancò le porte che Solenne aveva attraversato per scappare. Non si sorprese di trovare l’ennesimo corridoio uguale a tutti gli altri.

«Sono Ichinose» fece Guren alle sue spalle. «A destra del salone con il tavolo c’è un salottino. Un uomo gravemente ferito. Caucasico, sulla trentina forse. Serve una barella per portarlo fuori e soccorso immediato.»

Ferid lo guardò riporre la radio alla cinta, sorpreso.

«Vuoi dire che è ancora vivo?»

«Probabilmente no. Ma di certo non lo resta se lo lasciamo qui dentro.»

«Sì… è vero.»

Non era fiero delle scelte che aveva fatto negli ultimi giorni e non lo fu neanche di aver ignorato il corpo senza neanche controllare se ci fosse un alito di vita. Guren gli strinse la spalla dal lato sinistro.

«Da che parte?»

«Lei è scappata da qui… Io ero là per terra. Non ho visto dove, ma…»

A terra, tra pietra giallastra e tappeti, erano visibili tracce di sangue con il motivo della suola delle scarpe di Ismael. Dovette chinarsi per essere sicuro, ma poi accelerò il passo. Cercava con gli occhi qualche indizio del loro passaggio e della loro presenza, ma quando le impronte scomparvero del tutto qualcosa di molto più astratto di orme e suoni gli venne in aiuto quando vide la scala in fondo.

«Avanti e su» ripeté galvanizzato. «Avanti e su!»

Non replicò alle richieste di spiegazioni di Guren e infilò le scale, salendole tre per volta. Di sopra il fumo era più denso, ma seppe di essere arrivato quando Solenne tossì.

«Ismael!»

Lui era lì, una figura scura seduta per terra contro il muro. Quando lo vide arrivare distolse lo sguardo e diede un contenuto colpo di tosse.

«Vattene, Pepper. Qui è pericoloso.»

«Sono venuto a prenderti! Andiamo via!»

«Sono un peccatore. Un assassino, e non da oggi. Se ora resti qui per colpa mia e muori sprecherai tutto.»

Guren lo superò e andò da Solenne, riversa sul fianco nel mezzo del corridoio. Ismael lo guardò accigliato, con un’espressione che Ferid classificò come disgustata.

«Mossa astuta portarti dietro la Spada, Guren.»

«Lui ha portato me. Baptiste ha detto che dovevi scegliere da solo, quindi quello che fai non mi riguarda.»

Confuso dalla loro confidenza e da quel nome Ferid li guardò entrambi più volte.

«Di che cavolo state parlando?»

Ismael tese un angolo della bocca e alzò l’indice puntandolo su Guren.

«È un Caduto, come me. Anche lui ti tiene d’occhio da un bel po’…»

«Tengo d’occhio te, è diverso» tagliò corto Guren, issandosi sulla schiena una Solenne quasi priva di sensi. «Prendo io questa donna. Mi serve in grado di parlare.»

«Per te o per Baptiste?»

«Visto che sai benissimo che ruolo ho nei Caduti la risposta dovrebbe essere ovvia.»

Ismael aggrottò le sopracciglia ancora di più e si alzò, strisciando la schiena sul muro.

«Visto che sai che ruolo spetta a me sai che non posso dartela.»

«Hai impedito alla Spada di commettere un omicidio. Se non ha più intenzione di ammazzarla tu non hai motivo di farlo a tutti i costi» ribatté Guren acido. «Questo è il motivo per cui nessuno ti sopporta! Tu pensi di capire sempre tutto, di essere un martire invece di un Caduto! Persino la vita di quelli come noi è preziosa. A questo non ci arrivi ancora?»

Ferid alzò la mano e quel gesto bastò a interrompere la loro discussione.

«Portala fuori, Guren. Lo porto io via di qui. Arriviamo subito.»

Forse Guren avrebbe trovato qualche argomento – oltre la sua testardaggine – per restare lì e sbranarsi verbalmente con Ismael se Solenne non avesse ricominciato a tossire. L’urgenza di salvarle la vita pospose qualsiasi altra questione personale e si affrettò a scendere le scale il più velocemente che poteva con la donna sulla schiena.

Ismael tossiva dietro la mano, ma tenne gli occhi su Guren finché gli fu possibile vederlo.

«Is, ascoltami» esordì Ferid, avvicinandoglisi. «Non so che cosa hai fatto fino ad ora, ma può finire qui. Il perdono è di chi lo chiede. Finché sei vivo puoi sempre ricominciare. Tutti i giorni. Io ne so qualcosa.»

Si tolse la maschera antigas e i suoi occhi furono i primi a risentire del calore e del fumo, ma la mise lo stesso a Ismael. Da come lo guardava sembrava che gli avesse forzato una museruola.

«Io e Crowley ci saremo sempre per te. Io ci sarò anche dopo questa notte. Andiamocene di qui tutti quanti… Tu, io, e anche lei.»

«Che pietà stomachevole, Pepper. È perché ti fai paura per come la stavi strangolando con un cavo?»

«Ho paura… e penso che anche tu abbia avuto paura la prima volta che è successo. Forse anche tu avresti voluto qualcuno che ti impedisse di farlo, ma non ce l’avevi… perché…»

Tossì all’interno del gomito.

«P-perché io sono un privilegiato. Perché io ho una società segreta di persone come te che mi ha protetto per tutto il tempo. Questa notte ti ho protetto io.»

Ferid sorrise e allungò la mano. Leggeva nei suoi occhi – anche dietro la maschera – che aveva già smesso di combattere.

«C’è spazio per più di una redenzione, Is. La mia, la tua… Vieni. Andiamo.»

Ismael strinse la sua mano e lo seguì verso la salvezza, senza una sola parola sarcastica.

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Capitolo 23
*** Miracoli ***


 

Il poliziotto si fermò davanti alla porta, impettito come un militare. Guren trovava buffa quell’aria austera sapendo a che cosa facesse la guardia e gli diede un contentino nella forma di una pacca sulla spalla. Entrò nella stanza e il poliziotto richiuse la porta dietro di lui.

I due pericolosi criminali nelle mani della polizia tedesca sembravano una coppia di gattini; erano così teneri che persino Guren non riuscì ad arrabbiarsi per tutti i problemi che avevano creato al suo ufficio.

Mikaela dormiva con la testa girata sul lato a causa della fasciatura della ferita, con la maschera dell’ossigeno per la respirazione assistita e un tutore rigido che gli bloccava la gamba sinistra dal piede al ginocchio. Aveva due diverse flebo nel braccio e il polso destro ammanettato alla sbarra del letto. Un altro paio di manette legava l’altro braccio a quello di Yuu, raggomitolato sul fianco accanto a lui.

Avevano l’aria di dormire il sonno dei bambini, esausti e tranquilli. Guren prese la cartella clinica e la sfogliò, anche se il tedesco medico non era il suo forte.

«Hanno anche le vite di scorta di una coppia di gatti randagi» commentò dopo averla sfogliata. «Sveglia, Stephan. Non ho voglia di tornare domani mattina.»

Gli scosse la gamba ma aveva già alzato la testa, insonnolito e confuso, per guardarlo.

«Guren» fece con voce impastata.

Tentò di stropicciarsi gli occhi con la mano legata a quella di Mika e si puntellò sul gomito per farlo con l’altra, che però era immobilizzata da un tutore rigido per una frattura del polso.

«C’è qualcosa che vuoi dirmi prima che ti rovesci addosso tutte le parolacce che conosco in sei lingue?»

«Mh… Scusami, Guren. So che ti ho messo nei guai… ma l’ho dovuto fare. Era la mia famiglia, non potevo lasciarla nelle mani di agenti che non conosco.»

«Mi hai piantato di proposito» l’accusò Guren, cercando di moderare la sua rabbia. «L’hai fatto per poter fare tutte queste cazzate illegali e far ammettere le prove alla polizia.»

«Sì. Scusami, ma tu non me l’avresti lasciato fare. Ci tieni troppo alla tua integrità. Io te l’ho detto dal primo giorno che la famiglia è la cosa più importante… solo che pensavi che non ne avevo più una.»

«Alt, basta. Basta, ho sentito sviolinate sulla vostra famiglia per tutta la notte da Ferid Bathory. Mi ha tormentato così tanto che sono scappato sul primo aereo per Berlino pur di non sentirlo più.»

«Cosa… Ferid? Eri con Ferid? Dov’è?»

«Adesso?» fece lui con noncuranza. «In una cella del reparto medico del penitenziario di Chatelet. A meno che i sedici avvocati di cui dispone non lo abbiano fatto uscire con tanto di scuse prima che io atterrassi.»

«È ferito?»

«Non è proprio nella forma splendida in cui siamo abituati a vederlo, diciamo così. Ma non è niente che non torni a posto in un mesetto o due» minimizzò scrollando le spalle. «Nel caso ti interessi saperlo, ha faticato ma l’ha trovato. Crowley Eusford.»

Yuu si mise più dritto.

«Davvero? E lui come sta?»

«Meglio di tutti quelli coinvolti in questo casino… almeno sul piano fisico. Anche per un uomo adulto, essere sequestrato non è una cosetta da ridere.»

Tornò vivido il ricordo dello smarrimento di Crowley dopo la sparatoria, dei suoi occhi senza più voglia di vivere, ma cercò di scacciarlo scuotendo la testa.

«Ce la farà, è forte. Avrei detto “l’uomo più forte che conosco”, ma adesso inizio a pensare che sia Ferid quello più forte che conosco. È uno schiacciasassi… Non ha avuto affatto bisogno di noi per salvarlo. Ha fatto tutto da solo…»

«Sì, è peggio di un bulldog con la rabbia.»

«Lui… non sta molto male, allora? Se fosse grave sarebbe in ospedale come noi…»

«Tu sembri stare benissimo» osservò Guren con un sorriso sghembo.

«Mi sono ammanettato a Mika proprio per non farmi portar via. Lui ha bisogno di stare qui e io non lo lascio finché non si riprende.»

Detto ciò armeggiò con le manette e le aprì, come un giocattolo, per stiracchiarsi liberamente. Guren lo fissava di sottecchi come se stesse per sparargli addosso un rimprovero, ma Yuu l’ignorò e lasciò un bacio leggero sopra la benda sulla fronte di Mikaela.

«Sentito, Misha? Ce l’ha fatta… Crowley è salvo e Ferid sta bene… Riprenditi presto, così giocherete a scacchi di nuovo.»

Guren incrociò le braccia e si appoggiò alla finestra.

«Quando vi guardo non so se provo più nausea o invidia.»

«Che ore sono?»

«Mh? Sono le quattro e mezzo, più o meno. Perché?»

Yuu balzò giù dal letto più rapidamente potesse con tutte le sue ammaccature e prese il cellulare infilato in mezzo agli asciugamani. Non aveva ricevuto nessun messaggio o nessuna chiamata persa mentre dormiva e bastò a incendiargli le viscere.

«Quel bastardo! Giuro che—»

Ma non finì di giurare ritorsioni delle quali potesse pentirsi e lanciò di nuovo la chiamata.

«Non dovresti avere un cellulare. Sei in arresto, lo sai?»

«Sto cercando di fare la chiamata che spetta a Mika, lui come vedi non può farlo» sbottò Yuu. «Se soltanto rispondesse, quel—»

Poi gli squilli si interruppero. Seguì una serie di scatti e infine una voce rispose.

«Ma quanto ti ci vuole a rispondere?! Sto cercando di chiamarti da ieri sera!»

Dopo un momento di perplessità lo riconobbe.

«Yuu? Sei Yuu?»

«Sì, gran pezzo di cretino! Perché non rispondi a Mika da due settimane?! Non hai visto tutte le chiamate e i messaggi che ho lasciato?!»

«No, che cosa c’è?»

«Mika è in ospedale ed è incosciente da ieri sera… nh… ieri pomeriggio, da te! Chiamagli un avvocato e porta il culo qui da lui!»

«Cosa… ieri… avvocato? Ma dov’è?»

«Come dov’è, te l’ho appena de—»

La furia si spense all’improvviso quando capì che cosa intendeva dire. Scioccato si girò a guardare Mika nel letto.

«Tu… Jonathan, tu non sai dov’è stato fino adesso?»

«Con te» replicò lui con una vena di acidità. «Questo è quello che so.»

«Non hai mai parlato con lui da quando siamo partiti? Non hai letto i suoi messaggi?»

«Lui non mi ha chiamato e non mi ha scritto un bel niente fino a… forse, l’altro giorno. Non li ho letti, però.»

«Tuo marito sparisce per due settimane e non cerchi di sapere dove sia? Ti scrive e non leggi neanche per sapere se sta bene o se ti dice che gli manchi? Che… che problemi hai, si può sapere?!»

Guren lanciò un’occhiata allarmata alla porta e gli fece segno di abbassare la voce, ma Yuu era troppo furioso per badargli.

«I nostri problemi sono affari nostri» replicò Lucky, laconico.

«Questo raccontalo a chiunque, ma non a me! Me l’hai portato via per trattarlo come se non t’importasse di lui? Per mollarlo appena diventa difficile gestirlo, o sopportarlo? Guarda che per vedere il meglio di lui lo devi guadagnare!»

«Tu non l’hai avuto dopo il tradimento. Che ne sai di com’è avere sempre in mente Mika con un altro?»

«Mi prendi per il culo? Non ho avuto in mente nient’altro per anni!»

Guren gli strappò il telefono di mano prima che potesse sentire la replica e gli diede uno spintone che fece riverberare tutto lo scheletro, di trauma in trauma in tutto il corpo.

«Sono il direttore Ichinose dell’ufficio federale. Invito caldamente a trovare un buon avvocato penalista per Mikaela. Non appena arrivate a Berlino basterà contattare la centrale di polizia più vicina.»

Guren chiuse la chiamata e gli scoccò un’occhiata fulminante.

«Ti sembra il momento di scornarti con il marito di Mikaela?»

«Che razza di marito è se non sa dove sia Mika, non gli importa di sapere perché cerca di chiamarlo da sedici ore e si trastulla con due amanti?!»

«Che tipo di marito Mikaela abbia non è affar tuo e insultarlo al telefono non lo renderà migliore, se davvero non gli importa» tagliò corto lui. «Perché non pensi a te, per una buona volta?»

«Io sto bene, e non mi importa se starò dentro per un po’. Consegnando Katze all’Interpol avrò uno sconto.»

Guren scosse la testa e accennò al ragazzo incosciente nel letto.

«Sto parlando di lui. Gliel’hai detto?»

«Detto che cosa?» fece Yuu spazientito.

«Che lo ami ancora. Lui lo sa?»

«Verrà usato contro di me in tribunale?»

«Ne dubito, visto che non ci sarò. È in mano alla polizia tedesca e all’Interpol. Il Bureau se n’è tirato fuori dicendo che eri un cane sciolto.»

Yuu sospirò sedendosi sul letto e guardò Mika, con la confortante condensa del suo respiro dentro la maschera.

«Certo che lo sa… e credo…»

Si mordicchiò il labbro. Lo aveva pensato forse cento volte nelle ultime ventiquattro ore, ma dirlo ad alta voce in presenza di qualcun altro era come dire a se stesso che quella follia era qualcosa di concreto, di possibile.

«Credo che se non fosse sposato noi avremmo ancora una possibilità. Credo che non sia tutto sparito tra di noi. È lì, dov’era prima che se ne andasse. Non è andato via perché non mi amava più, lui… aveva… aveva paura che io amassi le mie ambizioni più di lui.»

«Mi pare evidente che non è così. Se vedesse la mia scrivania lo saprebbe per certo che hai fottuto le tue ambizioni.»

«Lo so. Mi dispiace che abbia tante conseguenze su di te, Guren. Ma non mi pento della scelta che ho fatto.»

«Sembra che nessuno di voi squilibrati si penta di qualcosa, stanotte.»

Guren aprì la finestra e prese dalla tasca della giacca accendino e un paio di sigarette, che fece dondolare come un’esca succulenta.

«Non fumare qui dentro, c’è Mika.»

«Ha la maschera. Avanti, non ne vedrai per un bel pezzo.»

Era restio, ma alla fine si decise ad approfittarne. Zoppicò fino alla finestra e prese l’accendino. Quel primo tiro di sigaretta fu rigenerante come un sorso di acqua fredda in una giornata torrida. Fu certo di non essersi mai goduto tanto una fumata.

«Quindi… Crowley era in Francia?»

«Già.»

«Come ha fatto Ferid a trovarlo così in fretta?»

«Questo lo chiederai a loro quando vi rivedrete. Non dovrebbe mancare molto.»

Guren guardò l’orologio e nello stesso momento si udì un vociare fuori dalla porta. Il suo ex superiore fece sparire sigaretta e accendino sotto lo sguardo confuso di Yuu.

«Ce ne hanno messo di tempo.»

«Chi?»

Il poliziotto aprì la porta a un ometto stempiato con la ventiquattrore e a una bella donna che somigliava a Rihanna da giovane. Fu lui il primo a entrare e parlare.

«Sono Walter J. Thompson, socio anziano dello studio Thompson, Freyer & Seller, questa è la signorina Erika Boones, penalista di punta dello studio, e rappresentiamo Mikaela Shindo e Stephan Hirsch, conosciuto anche come Yuuichiro Amane, contro le assurde accuse che sono state loro mosse! Ogni dichiarazione fatta dai nostri clienti fino a questo istante è inammissibile e il giudice riceverà una mozione in merito insieme al giornale del mattino!»

Yuu sbatté più volte gli occhi, perplesso.

Non credevo che un essere umano potesse parlare così tanto senza prendere fiato…

«Sì, sì» fece Guren con un sorrisetto. «Non serve, ero il superiore dell’agente speciale Amane. Ero passato per aggiornamenti dalla Francia. Tenete pure le mozioni per l’ispettore di turno.»

«Ma chi… io non ho ancora chiamato un avvocato.»

«Perché avresti dovuto? Non ti serve quando hai per amico un bulldog pieno di soldi.»

Guren si dileguò senza aggiungere altro e schivò il guardiano che gli faceva domande sulle manette inspiegabilmente aperte di Yuu; impresa facile visto che l’avvocato Thompson era tornato alla carica per vedere immediatamente chiunque fosse a capo dell’indagine.

L’avvocatessa Boones invece aveva un temperamento calmo e composto, ignorava la discussione del suo superiore con gli agenti. Dopo aver lanciato uno sguardo pieno di compassione a Mika badò a Yuu e gli strinse la mano – la sinistra – con un sorriso sicuro.

«Risolveremo la faccenda molto presto. Ovviamente la nostra posizione è quella di respingere tutte le accuse, ma se è d’accordo vorremmo subito sapere quale versione dei fatti intendete sostenere.»

«Ce n’è una sola. A me non importa cosa mi succede…» ammise lui, e guardò Mika. «Lui, però, deve tornare a casa. Come se non fosse successo niente.»

«Il signor Bathory mi ha avvisata che avrebbe detto così. E mi ha avvisata che lui vi vuole entrambi a casa, quindi miriamo a questo risultato. Dobbiamo solo capire qual è la strada più facile per ottenerlo.»

Yuu sedette sul bordo del letto e si lasciò andare a una risata di nervi, con le dita tra i capelli. Da quando aveva dato il benservito a Guren era stato pronto a fronteggiare ogni conseguenza, dalla morte al carcere speciale per molto tempo, ma ora cullava l’onesta certezza di cavarsela con poco più del polso fratturato.

Se solo Mika si fosse svegliato avrebbe potuto anche pensare a cuor leggero a che parole usare per dire a sua madre la verità.

 

***

 

New Oakheart gli sembrava una città enorme ed estranea come se non l’avesse mai vista. Come se non avesse vissuto più di metà della sua vita lì, a scuola o in forze alla polizia di Satbury.

Crowley guardava le case e i negozi sfilare dal finestrino, immerso nei più disparati e inconsistenti pensieri; uno stato di alienazione che ormai gli era familiare e che allo stesso tempo temeva diventasse la regola dei giorni che gli restavano.

«Non siamo sulla Regent, vero?»

«No, caro. Siamo quasi nel North End. Ho preso la parallela della Madigans. È più scorrevole a quest’ora.»

Crowley guardò Ferid alla guida. Non gli succedeva mai di vederlo, perché quando erano insieme di norma guidava sempre lui. Era a suo agio, nonostante il braccio segnato dal bendaggio kinesiologico e il tutore sul gomito.

«Non ti dà problemi guidare con quel braccio?»

«Le meraviglie del cambio automatico, tesoro» fu la sua ilare risposta.

Il panorama familiare – con qualche cambiamento trascurabile negli anni – catturò l’attenzione di Crowley fuori dal finestrino di nuovo. Solo dopo qualche minuto di riflessioni senza significato tornò abbastanza lucido da chiedersi perché stesse vedendo le strade del North End meridionale anziché il West End.

«Credevo che andassimo a prendere i bambini. Perché siamo qui?»

«Perché sono dai tuoi genitori.»

Infatti Ferid rallentò e accostò davanti a una casa che Crowley non vedeva da molto tempo. Sentiva un’ansia crescergli dentro il petto, schiacciare l’aria fuori dai polmoni.

«Io… erano da Estelle. Ho visto le foto che gli ha fatto la guardia di lei. Erano a casa di Estelle.»

«Sì, tesoro, erano da Estelle, ma Madison ha preso gli orecchioni… Krul s’era offerta di badarci lei finché non tornavamo, ma poi Neil ha detto che poteva tenerli lui. Ho pensato che essendo in pensione gli avrebbero dato meno problemi che a Krul e Liam. Ho fatto male?»

In cuor suo aveva un’altra risposta, ma scosse la testa. Con la sensazione di essere sott’acqua Crowley scese dall’auto. Non vedeva l’ora di vedere di nuovo i bambini, ma vedere suo padre dopo quello che gli era successo gli dava imbarazzo; si sentiva come un adolescente che bagna il letto di nuovo.

Ferid andò per primo, imboccando il vialetto di ciottoli bianchi che attraversava il cortile sul lato del garage. Non si spiegava come fosse tanto a suo agio a casa dei suoi genitori pur essendoci stato solo due volte in occasione della presentazione ufficiale della loro prole.

Si fece coraggio e lo seguì. Sentì suo padre parlare e la risata squillante di Emma; quel suono da solo riuscì a cancellare la sua paura e persino a dissipare lo stordimento in cui si sentiva immerso da giorni.

Superò Ferid a lunghi passi, senza accorgersi che lui si fermò. Sul retro, il vecchio cortile sconnesso in cui giocava da bambino era stato trasformato in un bel giardino con prato e fiori, un tavolo in legno con le panche e un barbecue intorno al quale erano riuniti suo padre e i suoi bambini.

«Il segreto per un hamburger di soia che sembra carne è la consistenza» stava dicendo Neil. «Ora vi insegno il trucco: cipolle e patate lesse…»

Non c’era stato alcun rumore, eppure Emma girò la testolina biondo-cenere indietro e posò gli occhi scuri su di lui come se avesse saputo già che era lì.

«PAPÀ!»

Il suo strillo distrasse tutti dalle ricette del barbecue, ma lei aveva già spiccato una corsa velocissima; inciampò cadendo sul prato ma si rialzò in un lampo abbandonando le ciabattine. Vestita di giallo era come una pallina da tennis che rimbalzava.

Crowley si inginocchiò sull’erba e allargò le braccia appena in tempo per acchiapparla al volo. Emma gli strinse il collo così forte da fargli male, ma non gli importava: la strinse mentre gli si abbarbicava addosso come una scimmietta, respirò il suo odore con la faccia affondata nella sua spalla.

È già cresciuta… È più pesante, e ha i capelli più lunghi…

«Sei tornato, papà! Finalmente!» squittì lei. «Dove sei stato? Mi sei mancato tanto!»

Avrebbe voluto avere delle parole forti abbastanza per spiegare a una bambina come si sentiva un padre che era stato convinto di non poter rivedere i suoi figli, ma non ne aveva.

«Anche tu, tesoro… da morire.»

Lo mollò quanto bastava perché si guardassero negli occhi e lei gli sorridesse. Finalmente sentì quella sua angoscia persistente lasciarlo, strisciarsene via; fu come se non avesse mai incontrato Claire-Solenne.

Poi gli piombò addosso un pacchetto doppio: Eden, con i suoi capelli scuri presi da Estelle e un paio di occhietti celesti e vispi negli stessi lineamenti di Ferid, che portava in braccio Morgan con un buffo costume da bagno e una zazzera di capelli rossi umidi. Crowley liberò un braccio per stringere anche loro e baciarli in qualsiasi punto riuscisse a raggiungere dei loro visini.

«Oh, ciao, papà, che bello vederti! Sì, anche io sono felice di rivedervi, piccolini miei, siete stati bene con Estelle e i nonni?» blaterava intanto Ferid. «Neil, per favore, dammi tu un po’ di affetto! Non mi considera nessuno!»

Emma rise e anche Neil, che però l’accolse con un breve abbraccio.

«Erano preoccupati per Crowley… I bambini non sono ingenui, sapevano che qualcosa non andava. È stata dura, Ferid? Sembri reduce da una rissa sulla curva sbagliata del Belfast Stadium quando giocano i Lizards.»

«Lo stadio non è il mio habitat, sopravvivere è stata dura» abbozzò lui. «Siamo in tempo per mangiare?»

«Siete in tempo anche per cucinare e apparecchiare… Ragazzi, ehi! C’è un barbecue da preparare!» fece, rivolto ai bambini. «Andate a prendere tutto quello che c’è di pronto dalla nonna che si comincia!»

Crowley lasciò la presa. Non riusciva a non sorridere.

«Fate vedere al nonno quanto siamo bravi a cucinare all’aperto, forza.»

Con un coro di gridolini entusiasti schizzarono via – Morgan sempre accessorio di suo fratello maggiore – e Crowley si rialzò, spolverandosi i pantaloni. Erano macchiati di erba, ma vista la lieta occasione Ferid sorrise facendo finta di non essersene accorto.

«Crowley, sono felice che tu sia di nuovo a casa. Dai una strizzata al tuo vecchio… ma piano, eh.»

Non se l’aspettava, ma obbedì. Non si era mai accorto di quanto suo padre fosse diventato magro con l’età.

«Grazie, papà» gli sussurrò. «Grazie anche di aver badato ai bambini.»

«E di che? Sono i miei nipoti, e non sono tanto male come nonno. Mi sa che sono meglio come nonno che come padre.»

«La seconda volta va sempre meglio della prima. Non te ne crucciare, papà.»

Neil smise di sorridere e gli fece un cenno con la testa verso la porta sul retro.

«La mamma è in cucina. È stata in pena per te. Vai a salutarla.»

La sola idea di rivederla gli faceva ribollire le viscere al ricordo di come si era comportata con lui quando suo padre era stato ricoverato e di come si era mostrata scostante quando le aveva portato quelli che per lui erano i suoi figli a tutti gli effetti.

«Perché dovrei? Non mi parla anche se le faccio una domanda.»

«Sono passati anni… e tenere Morgan qui l’ha ammorbidita. Si è ricordata com’era avere te così piccolo in casa. Non sarà come prima…»

«Dai, tesoro, è storia vecchia. Non ci pensare più» insistette Ferid. «Io e nonna Nancy siamo stati separati per una vita, ma abbiamo ripreso quando ci siamo rivisti. Puoi ricominciare da qui con tua madre, no?»

Crowley notava delle vistose differenze tra Nancy e l’atteggiamento granitico di sua madre, ma un pensiero improvviso lo distolse dall’elenco delle colpe di Maureen Eusford: si era finalmente ricordato dove avesse sentito nominare Crowley Montague, il mistico dal quale Solenne era così ossessionata.

Mi ha raccontato di lui quando ci siamo parlati nel mio ufficio… di quel bell’uomo che portava il mio stesso nome e che era scomparso nel nulla… Lo conosceva…

Guardò fisso Ferid, che lo ricambiò preoccupato.

«Che cosa succede? Sei pallido, caro. Ti senti male?»

«No, io… dev’essere un calo di zuccheri» abbozzò Crowley. «Chiedo alla mamma se ha una bibita.»

Si allontanò da loro verso la porta sul retro, ma aspettò che i bambini ne uscissero con la teglia delle costolette e una di pannocchie tagliate. Per un momento li guardò, con i loro sette anni, mettere i guanti per cucinare vicino al fuoco e far sedere il più piccolo lontano dal barbecue; guardò suo padre, più sano di come fosse dieci anni prima, parlare in tono amorevole all’uomo che l’aveva fatto infuriare solo per essere il compagno di suo figlio.

Il pensiero di Ismael gli era ancora amaro dopo quello che era successo a causa sua, ma le sue parole gli erano rimaste in mente per anni.

Quanti miracoli puoi ancora portare nella mia vita?

Ferid si voltò verso di lui, come se avesse risposto ai suoi pensieri nello stesso modo di Emma. Gli fece un sorriso incoraggiante e Crowley aprì le porte doppie della cucina per fronteggiare sua madre.

Bastò vederla con gli occhi lucidi, come non ricordava di averla mai vista prima, per aggiungere un altro miracolo alla sua lista.

 

***

 

L’ennesimo cancello elettrico si spalancò davanti a lui. Ricambiò con indifferenza gli sguardi truci di alcune facce ammaccate da lui stesso nei giorni passati e uscì dalla recinzione con il fagotto dei suoi averi sotto il braccio.

Fin da quando era un giovane agente di pattuglia aveva creduto che la scarcerazione portasse con sé sollievo, gioia ed euforia, una sensazione di nuove possibilità ovunque come lumache dopo la pioggia, ma non sentiva nulla di tutto ciò. In verità non sentiva assolutamente niente e quasi rimpianse la tabella oraria della prigione e la lunga sequela di molestatori che riempivano i giorni.

E adesso? Che cosa faccio adesso? Dove vado?

Non che gli mancassero le possibilità: poteva restare a Berlino e riprendere un posto al Diamond Jacks, tornare negli Stati Uniti e cercare di riavvicinarsi alla bizzarra famiglia di Satbury, o andare in Italia e cercarsi un posto vicino a sua madre e sua sorella. Tutti progetti che gli davano un lieve solletico al cuore, ma aveva la sconfortante sensazione che nessuna di quelle famiglie avesse veramente bisogno di lui. Che la sua presenza si sarebbe rivelata tossica.

Peccato che Guren non sia venuto a prendermi, almeno poteva darmi una sigaretta.

Ma l’FBI era probabilmente la famiglia più intoccabile che aveva dopo la sua frittata. Una frittata che aveva comunque portato all’incriminazione di un centinaio di persone tra acquirenti dei Figli di Prometeo e manovali come Katze, con uno scandalo di risonanza mondiale su cui giornalisti montavano speciali da prima serata e qualche scrittore stava già battendo i prossimi best seller della stagione.

Un successo. Un trionfo, si può dire… considerando che ho incassato venti capi d’accusa civili e penali e dopo tre mesi sono fuori. Dovrebbero scriverlo su di me, il libro…

Eppure un vuoto esistenziale gli si era aperto dentro quando era stato separato da Mika all’inizio di agosto e non si era più riempito. Non era possibile per loro avere contatti fino alla chiusura del procedimento, e poi aveva saputo dal suo avvocato – il vecchio Thompson – che Mika era stato rilasciato i primi giorni di ottobre.

Yuu si lasciò cadere sulla panca di cemento accanto al cartello delle corse degli autobus e dei numeri dei taxi. Il cielo era grigio uniforme, ma neanche della pioggia si preoccupava.

Chissà se Misha è tornato alla fattoria… e come va. Forse lo potrei chiamare… sapere come sta e come va con Jonathan… L’ho trattato malissimo al telefono quella volta. Si arrabbierà se scopre che l’ho chiamato ancora.

Indeciso, rimase a lungo a fissare il nome di Mika sullo schermo, torturandosi con le conseguenze che quella chiamata poteva avere sulle loro vite o sulla sua psiche.

«Allora, mi chiami o no?»

Si prese un tale spavento che il cellulare gli sfuggì dalle mani. Mika scoppiò a ridere e gli si gettò al collo prima che recuperasse il telefono. L’irritazione svanì immediatamente.

«Dovevi uscire un’ora fa! Mi ero addormentato in macchina. Sarebbe stato il colmo mancarti proprio adesso…»

«Ma che cosa fai ancora qui? Pensavo fossi uscito un mese fa…»

«Aspettavo te, no, Yuu-chan?» fece lui stizzito, come se gli avesse fatto una domanda da cretino. «Non volevo andare a casa senza parlarti… senza chiarirci.»

«Chiarirci su che cosa?»

«Abbiamo fatto delle cose in questo periodo… e ci siamo detti delle cose. Penso che non dovremmo fingere che non sia successo.»

«Dove hai messo Jonathan? Spero non sia a portata di orecchio. Non ci tengo a farmi sparare appena uscito di prigione.»

Mika scosse la testa, senza smettere di sorridere.

«Non ti preoccupare di quello. È in Kentucky, non è venuto fin qui.»

«Cosa?» sbottò Yuu, indignato. «Scherzi? Sei stato incarcerato ed eri in ospedale con una commozione cerebrale e lui non è venuto?!»

«Lo sapevo che non sarebbe venuto. Ha troppa paura dell’aereo.»

«Ma chissenefrega! Tu attraverseresti una città in fiamme per lui! Una foresta di rospi! Una… città di rospi in fiamme, ecco, e lui non prende un aereo per te?!»

Mika rise della sua immagine delirante e neanche l’argomento spinoso riuscì a scalfire quel suo viso così gioioso.

«Ma Lucky non è te… non ha il tuo coraggio, o il mio. È un altro tipo di persona. È capace di corteggiarti anche per tutta la vita, di spaccarsi la schiena per te ogni giorno, ma non di questo tipo di atti teatrali.»

Infastidito Yuu incrociò le braccia ed emise una specie di grugnito in segno di disappunto.

«Però… Yuu-chan, devo dirti una cosa. Ti ho detto una bugia quando eravamo alla fattoria, e ho continuato a ripeterla… e… per chiarezza, è giusto che tu lo sappia. Lucky si è arrabbiato un po’ quando tu gli hai detto quella cosa al telefono…»

«Che è un gran pezzo di cretino? Lo ripeterei.»

«Che è mio marito.»

Mika non guardava dalla sua parte. Si rigirava le chiavi della macchina tra le dita, facendo tintinnare il portachiavi a ogni giro.

«Lucky non è mio marito. Avevamo deciso una data per la primavera, ma poi… quell’estate io l’ho tradito con Steven e… ha deciso di rimandarla. Sono passati tre anni ma non abbiamo più parlato di sposarci.»

«Ma… ma perché me l’hai detto, allora?»

«Perché tu mi stavi punzecchiando» ribatté lui, cedendo infine il sorriso. «Mi stavi dicendo che avevo il vizio di tradire… Me l’ha detto anche lui quando abbiamo litigato, e io… mi faceva male e ti ho detto qualcosa che pensavo ti desse fastidio.»

L’onda d’urto di quella rivelazione bomba passò rapida, lasciando il posto a una desolazione difficile da esprimere. Yuu sospirò, sentendosi fisicamente e mentalmente stanco.

«Misha… dobbiamo chiudere questa storia. Dobbiamo smetterla tutti e due. Siamo ancora io e te, come quando eravamo bambini, e almeno tu ed io dovremmo parlarci e discutere senza prenderci a coltellate per farci del male.»

«Mi dispiace… ma eri così irritante!»

«Te lo concedo» ammise Yuu. «Ma adesso basta, okay? Basta colpi bassi. Niente bruciature e stilettate. E devi farlo finire anche con Jonathan, con quella storia assurda degli amanti.»

«Ho parlato con lui di questo… al telefono. Credo che abbia capito che mi ha fatto molto male. Che ha esagerato a reagire così per uno scivolone da sbronza, e che la sua ripicca è durata anche troppo a lungo. Penso che possiamo riprovare da capo quando torno… e forse stavolta arriveremo a quel matrimonio.»

Capì subito cosa si muoveva nel suo stomaco e il suo primo istinto fu tacerlo, ma non avrebbe fatto nulla di buono a forza di seppellire le sue emozioni.

«Se ne sei contento, bene… io però quasi speravo che scegliesse gli amanti. Penso ancora che Lucky sia un idiota con un grosso pene. Uno che ti tratta così dev’essere per forza un imbecille.»

Con sua sorpresa Mika ridacchiò.

«È bello che tu lo dica. Non tanto bello per lui, ma per me sì.»

Cadde un momento di silenzio, durante il quale Yuu guardò in giro e vide Steven in attesa vicino alla macchina, a debita distanza da loro. Quando si accorse che l’aveva visto alzò la mano in segno di saluto. Dopo una breve esitazione glielo ricambiò.

«Quindi torni in Kentucky, adesso?»

«Sì… ti ho promesso che avrei provato ad aggiustare le cose. Io… non ho parlato con te di cosa sentivo prima di andarmene. Non voglio fare lo stesso con Lucky. Voglio parlare con lui, voglio che proviamo a salvare il nostro rapporto… perché i primi anni è stato davvero bellissimo. Scusami se te lo dico così.»

«Bello come nelle favole?»

«Bello come nelle favole. Sì.»

Il peso che sentì al centro del petto aveva poco a che vedere con la rissa più recente dentro la gabbia. Per attenuarlo si costrinse a rivolgere la mente ai suoi conti in sospeso.

«Beh, io ho promesso che se lo facevi sarei andato da mia madre, quindi è quello che farò… se Cristina non gliel’ha già spiattellato. Lo sai come sono i bambini.»

«Se l’ha fatto andrai a vedere la reazione» l’incoraggiò Mika. «Ho delle buone sensazioni. Credo che sarai felice di aver trovato il coraggio.»

Avrebbe voluto potergli dire lo stesso, ma lui aveva delle pessime sensazioni su Lucky dopo averlo sentito così indifferente al telefono. Pregò di sbagliarsi, di avere su di lui un’opinione di parte. Anche se questo significava rinunciare a Mika come amante per sempre, pur sapendo che era la sua anima gemella.

Steven apparve a pochi metri. Yuu se lo ricordava decisamente più alticcio e trasandato, invece ora era ben vestito e con un viso curato. Era più bello di Lucky, secondo lui: i suoi lineamenti erano più eleganti. Il whisky non aveva dovuto faticare poi molto per convincere Mika a cedere, se solo l’aveva visto così in tiro una volta.

«Scusatemi se interrompo, ma rischiamo di far tardi per il volo, Mikey…»

«È vero… È ora di andare. Vuoi un passaggio, Yuu-chan? Ti lasciamo a casa, o da qualche altra parte?»

«Ah… no. No, devo ancora decidere come muovermi. Ci penso su mentre aspetto l’autobus… tu vai a casa. Pinnella Pass starà piangendo sui barattoli vuoti delle marmellate che non hai fatto quest’estate.»

«Te ne mando qualcuno, invidioso. Insieme alla ricetta.»

Mika l’avviluppò in un altro abbraccio da piovra.

«Non sparire per altri sette anni, Yuu, ti prego. Chiamami quando hai parlato con tua madre… chiamami tutte le volte che vuoi. Anche se non c’è niente di cui parlare.»

«Okay.»

Mika lo lasciò andare e si avviò alla macchina in fretta. Steven, preso di sorpresa, armeggiò con l’accendino e gli strinse la mano come saluto.

«Buona fortuna, amico… Ah, prendile. Ho promesso che avrei smesso anche con queste.»

Gli mise in mano il pacchetto di sigarette tedesche e si allontanò di corsa. Yuu restò lì sulla panca di cemento a guardare l’auto che faceva manovra e una testa di capelli biondi che restò voltata verso di lui fino a che fu capace di distinguerla.

«Buona fortuna, Misha. In ogni senso, immagino.»

Aprì il pacchetto per prendere una sigaretta e con quella venne fuori un foglietto ripiegato più volte, una pagina da un blocchetto a quadretti. Si accese la sigaretta – fu un sollievo immenso dopo tre mesi senza e un simile carico sul cuore – e sbirciò il foglio, aspettandosi frasi da turisti in tedesco o numeri di telefono utili.

Era uno scritto piuttosto lungo e in calligrafia stretta, in inglese con qualche errore ortografico che saltava all’occhio. Si raddrizzò sulla panchina e lesse.

Yuu, se conosco Mikey come penso terrà quel segreto, ma penso che lo devi sapere. Jonathan non si fida ancora di Mikey, ma non per la notte che ha passato con me (anche se non l’ha presa bene). È per un’altra storia. Dopo quella notte con me Jay è diventato geloso e controllava tutto per sapere se aveva altri amanti, e ha trovato in una sua tasca il biglietto del suo viaggio a New Oakheart, nel maggio del 2026. Noi siamo stati insieme dopo, ad agosto di quell’anno.

La cosa che ha insospettito Jay è che aveva prenotato solo l’andata e ha comprato il ritorno quando era lì. Mio fratello ha pensato che Mikey fosse tornato a cercarti a casa e non ti abbia trovato, e allora è tornato alla fattoria. Non so se ti ha mai detto che ti aveva cercato, però io lo so per certo perché me lo ha detto lui quando ha bevuto con me.

Un’ultima cosa che devi sapere anche tu è che quando sei comparso e ti sei portato via Mikey mio fratello ha creduto che non sarebbe più tornato. Credo che sarà sorpreso di vederlo rientrare alla fattoria.

A questo punto sai tutto. Scusa se mi sono fatto gli affari vostri, ma quando parla di te Mikey sembra pieno di vita. Ora fai tu la scelta che pensi sia giusta.

Fissò attonito il foglio firmato da Steven e lo rilesse una seconda volta, ma non ne colse un senso diverso dalla prima volta, e rimase lì imbambolato finché non gli caddero la cenere e la brace su un dito.

«Ahia!»

Scrollò la mano e spense la sigaretta alla cieca, rileggendo alcune frasi in particolare dove saltava all’occhio un anno scritto in numeri. Era l’anno in cui aveva avuto il via libera dall’istruttore degli agenti speciali e in maggio era già arrivato a Berlino… e a quanto Steven diceva, Mika era tornato a cercarlo a casa. Per riallacciare un rapporto amichevole o perché aveva deciso che la sua favola bucolica non era più quello che voleva per la sua vita?

Raccolse il suo telefono, pronto a chiamare. Nella sua testa era già partito un film che aveva un finale molto migliore di lui da solo su una panchina e Mika sulla via del ritorno da un fidanzato che non era neanche capace di prendere un aereo per stargli vicino, ma non chiamò.

No… ora abbiamo entrambi qualcosa da fare… Se ho ragione… se ho ragione su Jonathan, finirà in ogni caso. Non serve essere così impulsivi…

Più ci pensava e più sentiva che aspettare fosse una scelta saggia, ma il silenzio non era il modo giusto. Ci rimuginò un po’ e gli scrisse un messaggio, lo corresse varie volte e alla fine raggiunse una neutralità che lo soddisfaceva.

Misha, vado verso casa in Hermannstrasse. Appena arrivo in Italia ti chiamo, e quando torno negli USA ti faccio sapere dove mi sistemo. Voglio che tu sappia sempre dove trovarmi.

Sorrise e lo inviò. Non voleva instillargli apertamente l’idea di mollare tutto e tornare a quello che erano prima – e che quell’estate tedesca aveva dimostrato potessero ancora essere – ma voleva anche essere sicuro che quel messaggio gli sussurrasse all’orecchio nel dormiveglia, se la favola non fosse ricominciata, che da qualche parte c’era un altro principe con cui riprovare.

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Capitolo 24
*** Favola ***


C’era una profonda pace in quei boschi. Un denso verde lo abbracciava, il lieve fruscio di piccoli animali e il canto di uccelli diversi accompagnava i suoi passi su un sentiero poco battuto. Il clima primaverile era perfetto per il campeggio.

Uno schiocco netto di rami spezzati lo distrasse dalla sua ricerca di scoiattoli sulle cime degli alberi. Era un rumore regolare, inframezzato da quelli che potevano essere passi. Scostò un arbusto per sbirciare in basso da dove proveniva, ma mise il piede su una radice secca che non resse e piombò giù.

Non servì provare a rallentare quella scivolata vertiginosa aggrappandosi a qualcosa, perché un ramo cedette al suo peso e ottenne solo di fare un capitombolo. Si fermò in fondo al crinale, con le gambe in aria, affossato per metà nel letto di un ruscelletto.

«Ughh…»

Scrollò la testa, intontito, e rimase immobile così a fissare Crowley, che lo guardava altrettanto basito con un fascio di rametti sotto il braccio.

«Non era un po’ ripida quella discesa, Mika? Ti potevi far male.»

«Dio ha modi creativi di riportare a casa le sue pecore» replicò Mika, cercando a tentoni un appiglio. «Mi… daresti una mano, per favore?»

Venne esaudito e comprò il silenzio di Crowley promettendogli la migliore bottiglia di bourbon su cui potesse mettere le mani. Non era molto lontano da dove la famiglia O’Brian aveva allestito il campo: se avesse continuato dritto li avrebbe notati alla prima biforcazione a sinistra.

«Morgan!» tuonò la voce di Crowley all’improvviso. «Non giocare con quello!»

Morgan, sempre più simile a un piccolo Ferid con i capelli rossi, mise giù il coltellino svizzero anche se stava giocherellando con il cavatappi e alcuni sassi. Ferid, che gli voltava le spalle per ripulire un punto del terreno per il fuoco, intascò il coltellino subito.

«Aiutami a mettere i sassi intorno al fuoco, Moe. Attento alle dita.»

Il bambino si unì entusiasticamente all’opera architettonica. Ferid alzò gli occhi quando Mika si avvicinò per accatastare i rami lì vicino.

«Sono felice che tu sia venuto, alla fine.»

«Ho pensato che mi sarei pentito di non essere venuto solo perché non ho voglia di fare niente.»

«Hai pensato bene. La vita va avanti, Mika. Anche quando pensi di essere fermo in mezzo al mare la corrente ti sta già portando altrove. Io ne so qualcosa.»

«Non mi va di parlarne, davvero» sospirò il ragazzo, mollando lo zaino a terra. «Possiamo… Divertiamoci e basta, va bene?»

«Certo che va bene, siamo qui per questo! State un po’ a sentire, campeggiatori!»

Si alzò in piedi per attirare l’attenzione di tutti. Crowley lo guardava confuso, ma Eden ed Emma – appena sbucati da dietro la tenda blu – si erano impettiti come piccoli soldati.

«Tengo a precisare che i dolcetti verranno mangiati solo se per cena avremo il pesce appena pescato, quindi dopo aver acceso il fuoco vi voglio tutti pronti~»

I bambini corsero a controllare l’attrezzatura da pesca, litigandosi i galleggianti colorati.

«Di’ la verità… il campeggio diverte più te che i bambini.»

«Ci divertiamo tutti moltissimo! E anche tu, in fondo, no? È la terza volta che vieni al campeggio annuale di famiglia.»

«Mi piace stare con voi e coi bambini. Non ci sono distrazioni e possiamo chiacchierare quanto vogliamo… e soprattutto lavoro molto meno che nei campi. A proposito, ho portato la marmellata di mele con la cannella e quella di albicocche e vaniglia.»

Il gruppo di campeggiatori aveva più dolci di una famiglia media nel giorno di Halloween, ma la sua offerta era l’ideale per consumare la quantità di fette di pane in cassetta per la colazione. Mika mise i vasetti insieme al resto delle scorte e si mise a montare la sua tenda, di un colore verde smeraldino. Quando fu pronta e le sue cose sistemate dentro, Ferid aveva adattato il fantasioso concetto di “muro” di suo figlio a uno più consono e acceso un fuoco scoppiettante.

«Papà, perché il fuoco è così felice?»

«Perché non dovrebbe esserlo? Cucinerà un sacco di cose buone e sentirà tutto quello che diciamo. Gli facciamo compagnia.»

Mika sorrise alla gioia di Morgan e andò a sedersi vicino a loro.

«Sembra una cosa che Krul potrebbe dirgli.»

«Glielo dirà di certo» confermò Ferid. «Tanto vale che lo faccia io, così saranno meno confusi quando lei inizierà a parlargli di spiriti, di energia e di ciclo delle stagioni.»

Ferid si perse a guardare in giro, tra alberi e sprazzi di cielo. Eden riapparve per prelevare il fratellino e arruolarlo per la pesca.

Congedandosi così dal falò Morgan seguì il fratello verso il fiume. Mika cercò tra le attrezzature e scovò il bollitore, lo riempì di acqua da una bottiglia e lo mise sul fuoco. Fece in tempo a trovare anche la tazza di latta di Ferid, e lui era ancora distaccato, perso come se non vedesse che nebbia.

«Stai bene, Ferid?»

«Oh, sì. Sto bene. È che… non è più andato via. Forse non andrà più via.»

«Parli di… quello?»

«Ci si fa l’abitudine… In realtà, a volte è bello. Non ti senti mai solo. È come se ci fosse sempre qualcuno, persino qui. Pensavo che sarei stato più tranquillo in mezzo ai boschi, invece… il vento canta e gli alberi parlano. Sembro pazzo?»

«Non più di quando mangiavi il formaggio pur sapendo di vomitarlo» minimizzò Mika con una scrollata di spalle. «Ma diverso lo sei sempre stato. Fin da quella volta sul tetto, che te ne stavi sotto la pioggia. O a Bluefields. Ho visto troppe cose strane da te per sorprendermi adesso.»

«Sì, è vero» convenne Ferid, lo sguardo fisso verso un acero dietro la tenda. «Hai visto molte cose difficile da spiegare.»

«Riesci a far finta di niente quando fai sesso? Dev’essere fastidioso sentirsi sempre osservati.»

L’argomento riscosse il suo amico dai tronchi della foresta – o qualsiasi cosa vedesse – ma la sua espressione si rabbuiò.

«Al momento non è un problema. Non mi è ancora successo da quel giorno. Lui… sai… è bloccato. Una specie di stress post-traumatico. Ho persino smesso di provarci, mi sento in colpa a provare e vederlo star male perché io ne ho voglia e lui no.»

«Ah… mi dispiace, Ferid. Scusa, non lo sapevo. Non ne avrei parlato se…»

«Ma per favore, Mika, tu parli sempre di sesso» lo pungolò Ferid, con un sorrisetto. «Puoi farlo, ma non quando ci sono i bambini. Non abbiamo ancora deciso se iniziare coi palliativi delle api e del miele, adottare un approccio scientifico, uno cristiano o uno pagano.»

«Perché, qual è l’approccio pagano per parlare ai bambini del sesso?»

Il ghigno di Ferid si allargò mentre spostava il bollitore con un grosso ramo.

«Che diavolo, Misha! Possibile che parli sempre di un solo argomento?»

Scattò così bruscamente che quasi si ribaltò con la seggiola pieghevole. Lì in piedi, con lo zaino in spalla, Yuu stava ridendo della sua reazione.

«C-che cosa… che… che cosa fa lui qui?»

«Ha detto che voleva passare da noi a conoscere i bambini e Crowley l’ha invitato a venire al campeggio. Non pensavamo fosse un problema passare del tempo insieme, per voi due.»

Guardò di nuovo Yuu con una vistosa sensazione di farfalle nello stomaco. Era la prima volta che lo vedeva di persona da quando l’aveva lasciato fuori da un carcere tedesco, ed era splendido: aveva preso un po’ di peso, barattato le occhiaie scure con un colorito sano, e lo sguardo era luminoso, lucido, allegro. Era molto più in salute di Stephan Hirsch, un uomo dal riposo irregolare, stress schiacciante e troppo alcol in corpo.

«Beh? Come mai mi guardi così?»

Mika scosse la testa, per scrollarsi di dosso quei ricordi.

«Stavo per fare del caffè… Ti va?»

«Il tuo caffè mi va sempre.»

 

***

 

«Ma davvero?»

Incredulo Mika cercò lo sguardo di Ferid per una conferma e tornò a guardare Crowley, seduto su una sporgenza rocciosa in attesa di pesci che abboccassero.

«Cioè, la ragazza che la pazza ha messo a badare a te è la bambina scomparsa di quel caso mai risolto da tuo padre? Quella lì?»

«Non era il caso di mio padre, ma lui fu il primo agente a intervenire sulla scena. Gli è rimasto impresso.»

«E la bambina l’avevano presa i Figli di Prometeo?»

«Sì, e venduta al padre della d’Allemand. Eméline è “Baby Hope”, come la chiamavano i giornali.»

Mika restò ammutolito di fronte alla portata degli intrecci che legavano i destini di quella specie di famiglia e ne ripercorse alcuni mentalmente mentre strizzava i suoi vestiti fradici.

«È pazzesco. Non c’è un’altra parola per dirlo. Veramente, quante possibilità c’erano che tuo padre rispondesse a un caso con minore scomparso che trent’anni dopo si occupa di te quando vieni rapito dalla stessa organizzazione che ha provato a vendere Yuu e di cui faceva parte il marito di Ferid?»

Ma sembrava l’unico a essere così interessato a quell’intreccio di destini, o almeno l’unico che aveva voglia di parlarne. Forse perché era l’unico a non essere stato toccato direttamente da quell’organizzazione.

«Mika, rivestiti» gli fece Crowley. «Non è così caldo da fare il bagno e asciugarsi al vento.»

«Di che parli, amore? È figlio della Santa Madre Russia. È calda come un bagno termale, per lui.»

Si avvolse nel telo in microfibra e sedette su una roccia dopo aver spazzato via con la mano le foglie che la coprivano. La prima volta che Ferid aveva tirato fuori la questione della sua percentuale di sangue russo erano dentro Bluefields, e quel commento riportò a galla dei ricordi.

«È il sangue, secondo voi?»

Crowley girò la testa dalla sua parte, mentre Yuu, che era il più distante, gli lanciò un’occhiata intensa, come se avesse notato dei sintomi angoscianti.

«È… non avete l’impressione che fosse tutto deciso? Fin da quando… io e Yuu siamo finiti proprio nell’appartamento accanto al tuo, Crowley, e tu… tu hai mandato via quella gente che mi cercava. E poi, è cominciata con il Vampiro…»

Fili di quattro colori si erano intrecciati tra di loro, legandosi poi con altri, e a volte a Mika sembrava di poterli vedere comporre lo straordinario arazzo della loro storia. Con fantastiche vittorie, e struggenti perdite lungo il suo corso.

«Credo che qui sappiamo tutti che non c’è stato alcun caso» commentò Crowley. «Siamo stati mossi da Dio per un disegno preciso. Abbiamo sofferto delle perdite… e ottenuto delle ricompense. Siamo stati chiamati alle armi e abbiamo risposto… e siamo ritornati.»

Lui tese un sorriso lieve e recuperò l’amo per mettervi una nuova esca.

«So che è stato difficile… Lo è stato per tutti, a un certo punto. Abbiamo avuto tutti momenti di disperazione… momenti in cui ci siamo sentiti abbandonati e soli. Ma adesso è tutto passato. Siamo di nuovo insieme… e camminiamo verso il futuro.»

Mika annuì rigidamente. Sì, forse tutti avevano fatto quei passi in avanti, ma lui si sentiva bloccato. Aveva perso Carmen da bambino, e Madison prima ancora di scoprire che era figlio della terza moglie di suo padre. Non c’era famiglia di sangue per lui, e ora si sentiva isolato, senza una strada da percorrere. Era il motivo per cui era andato al campeggio annuale: sentirsi vicino a qualcosa che assomigliasse a una famiglia. Per vedere una strada che andasse avanti.

 

***

 

Yuu aveva un’espressione che aveva bisogno della stessa sprimacciata dei cuscini usciti dalla borsa sottovuoto. Mika trovava divertente il suo imbarazzo in una situazione che per loro era la più familiare di sempre.

«Che fai lì con quell’aria da cinghiale? Vieni, ho fatto.»

«Mi dispiace… non… Il campeggio non è il mio forte» borbottò lui, facendo un passo. «Non pensavo che mi servisse… insomma…»

«Anche se l’avessi portata, a che pro mettere un’altra tenda? La mia è abbastanza grande per tre persone. Noi siamo l’orsacchiotto uno dell’altro, dormiamo insieme dai tempi dell’orfanotrofio. Di che ti vergogni?»

Ne aveva un’idea, ma Yuu non rispose e fece tutto il possibile per infilarsi nella branda senza sfiorargli neanche un centimetro di pelle. Dopo qualche minuto di silenzio sentirono Ferid coprire il fuoco e la sua ombra passò sulla tenda mentre raggiungeva Crowley e spegneva la torcia.

Un lieve piovigginare teneva il ritmo sulla tela.

«Beh, hai conosciuto i bambini» fece Mika tenendo la voce più bassa. «Come ti sembrano?»

«Per essere bambini non sono male.»

«Me lo puoi dire se ti piacciono. Non devi fare il duro con me.»

Yuu diede segni d’irrequietezza e incrociò le braccia dietro la testa.

«Sono dei bravi bambini. Sono svegli. Il piccolo è carino.»

«Sì, a Moe piaci… Non è espansivo con tutti. Non vuole ancora stare in braccio a suo nonno, per esempio.»

«Si vede che sente dall’odore che siamo entrambi animali diffidenti.»

«Forse sente dall’odore che sei una persona di cui si può fidare. Penso che dovresti ridimensionare la tua idea catastrofica dei bambini. Saresti un bravo papà.»

«Ne dubito. Io e te siamo di una categoria che non dovrebbe avere figli. Siamo sempre irrequieti, come se dopo un po’ non stessimo più bene nello stesso posto. Non siamo fatti per una routine che dura a lungo ed essere genitori è una routine da cui non si può scappare.»

Mika si trovò a ridere, ma non trovava davvero divertente il suo punto di vista. Gli sembrava molto concreto e questo lo infastidiva, perché pensava che prima o poi si sarebbe sentito pronto anche per un’adozione, un affido, o per un uomo che aveva già dei figli.

Yuu sospirò.

«Scusa… in fondo fai la stessa vita da quasi otto anni. Abbastanza per tirare su un bambino prima di un trasloco e una ventata di novità, immagino… Jonathan non sarà già al punto di pensare a mettere su famiglia con te, ma ne avete mai parlato?»

Evitare la domanda come aveva fatto sui suoi ripensamenti avrebbe portato all’ennesima catena di bugie che non si sentiva di reggere.

«Non avrò una famiglia con Lucky. Ci siamo lasciati poco prima di Natale.»

Yuu lo fissò scioccato e anche senza parole Mika seppe che cosa pensava: vedeva le tracce di un dolore e una scintilla di speranza.

«Prima di Natale? Non me l’hai detto quando ti ho telefonato.»

«Era appena successo e… non mi andava di parlarne…»

Come se la rottura con Lucky avesse cancellato delle barriere invisibili, Yuu riempì lo spazio e lo strinse in un abbraccio. Sentire il battito del cuore gli ricordò la notte in cui pensava di poterlo perdere ogni minuto e quanto si fosse sentito sicuro che lui fosse l’anima con cui doveva stare.

«Mi dispiace che non sia andata bene. Dico sul serio, Misha.»

«So che mi volevi vedere felice.»

«E adesso? Con la fattoria… Voglio dire, state ancora lì insieme?»

«No. No, me ne sono andato dopo un po’… a metà gennaio. Sto a Bluefields, per adesso. Mentre decido che cosa fare e dove andare.»

Aveva chiesto a Ferid di non dire a Yuu cos’era successo e dove vivesse nel caso l’avesse sentito. Contava di decidere per la sua vita, riconquistare una specie di dignità e indipendenza prima di dirgli della rottura, ma ora che si sentiva così solo e Ferid aveva ben altri problemi di cui occuparsi non riusciva a tenere un segreto così pesante.

«Misha… senti… Non è un granché, però—»

Mika ficcò le unghie nella schiena di Yuu quando si accorse della figura all’entrata della tenda, ma poi vide che era Morgan che s’infilava in uno spazietto da procioni per sgusciare dentro.

«Moe, che fai qui?»

Il bambino si rimise in piedi, con gli occhi semichiusi per il sonno.

«Letto» borbottò lui.

«Non stavi nella tenda con Eden?»

«Si raccontano le storie brutte» si lagnò Morgan, e si aggrappò alla branda. «Posso stare qui?»

«E i tuoi?» fece Yuu. «La tenda dei tuoi genitori.»

«C’è la luce» fu la sua spiegazione.

«Non fa niente, Moe. Stai qui con noi… Togli le scarpine.»

Morgan scalciò via le ciabattine e Mika lo mise sulla branda in mezzo a lui e Yuu. Il bambino iniziò a sbadigliare, mentre Yuu lo fissava come se potesse azzannarlo nel sonno.

«Cos’è, l’unico bambino che ha paura delle luci?»

«Tengono al luce accesa quando fanno…»

Mika si mordicchiò il labbro e abbassò la voce.

«Sanno che non devono entrare se la notte hanno la luce accesa.»

«Strategia intelligente» commentò Yuu, colpito.

Il bambino si era addormentato immediatamente, ma Mika non sentiva neanche una briciola di sonnolenza nonostante la scarpinata e la nuotata nel fiume. Non resistette alla tentazione di toccare quelle ciocche rosse spettinate.

«Ci pensi mai a come sarebbe avere un figlio?»

«No, perché i bambini non li capisco. Non sono ansioso di averne. Ma sto pensando di prendermi un cane.»

«Eppure Ferid e Crowley sono davvero felici con loro. Anche Crowley credeva di non essere tagliato per fare il papà.»

«Non ti mettere idee strane in testa, per favore. I figli non li puoi mollare quando ti stancano, come i fidanzati. E adesso non hai neanche quello. Prenditi un altro pappagallino, se ti senti solo.»

Yuu si girò sul fianco in un muto rifiuto a proseguire una conversazione. Mika, con la mano sulla testa di Morgan, aveva fin troppe fantasie quando era circondato dai bambini degli altri, ma sapeva che Yuu era saggio a non rimuginarci sopra. Almeno finché non avessero trovato un equilibrio e un posto dove sarebbero stati felici di fermarsi a lungo.

 

***

 

Ferid lasciò uscire un sospiro che aveva un che di sofferente.

«Dio, com’è stancante! Ce la faremo a portarli in campeggio finché non saranno adolescenti?»

«Stai per caso dicendo che il mio vampiro eternamente bello sta invecchiando?»

Ferid rise e scosse la testa.

«Ti prego, non raccontare mai ai bambini quella storia del vampiro…»

«E che gli racconto quando mi chiedono come ci siamo conosciuti?»

«Che hai incontrato un bellissimo libraio in un caldo giorno di luglio.»

«Questa è solo metà della storia.»

«Sì, l’altra metà è che io ho incontrato un bellissimo detective in un caldo giorno di luglio.»

Crowley gli girò il viso e gli diede un bacio come non gliene aveva dati da almeno un anno, e di certo non dopo il sequestro. Quando sentì le sue mani scendere lungo la schiena credette di essersi già addormentato e stare solo sognando.

«Crowley… caro… che cosa fai?»

«Chiaramente sto preparando una zuppa di fagioli. Ma che domanda è, Ferid?»

«Non c’è bisogno di questo sarcasmo, sai» ribatté lui piccato. «Sarà un anno che non lo facciamo, avrò diritto quantomeno alla perplessità?»

Crowley si puntellò sui gomiti e gli si spostò sopra. Anche se il suo peso restava notevole c’era quel qualcosa di eccitante nel sentirselo addosso che non era sfumato con gli anni.

«Mi dispiace… Pensare a lei mi faceva venire l’angoscia. Mi sentivo così… Non volevo farlo con te dopo averlo fatto con lei. Mi sembrava di attaccarti una malattia.»

«E ora non è così?»

Passò le mani sul suo torace, sulla sua schiena. Dopo così tanto tempo doveva esplorare di nuovo forme che prima conosceva a memoria, ma non osò buttarsi più deciso prima di essere sicuro che Crowley si sentisse davvero meglio.

«È per le bambine?»

Lui annuì.

«Vederle mi ha fatto sentire…»

Ancora una volta non trovò le parole che cercava.

«Ferid, nel momento in cui le ho viste ho capito che quel dolore… che tutto quello che ho dovuto sopportare aveva una scopo che andava molto più in là. Mi capisci? Quando hai visto Eden hai sentito la stessa cosa?»

Ferid gli accarezzò il viso.

«Sì. Avrei voluto esserci. Guardare i tuoi occhi accendersi mentre le vedevi per la prima volta.»

«Mi dispiace se non ti ho portato… Io… non ero sicuro di cosa avrei sentito. Non volevo che vedessi qualcosa di brutto.»

«Si vede che non ti conosci quanto io conosco te. Due bambine? Andiamo, non avresti potuto reagire male neanche se ci avessi provato.»

«Sei ancora sicuro, Ferid?»

Per bella risposta lui sospirò roteando gli occhi.

«Me lo chiedi dopo che ho ridipinto la mansarda e tirato fuori tutti i gingilli di quando Emma era piccola? Dopo che sono ammattito con quegli stramaledetti stencil di stelle? Odio quelle stelle storte.»

Crowley rise e lo baciò sul viso.

«Okay… prometto che quando torniamo a casa le sistemo.»

«Ecco, bravo. Due gemelle con tre fratelli maggiori sono già abbastanza snervanti senza che io esca pazzo ogni volta che guardo quel muro.»

Ferid si trovò strizzato da Crowley con un po’ troppo entusiasmo ed emise uno strano singulto, ma lui non vi badò. Non gli vedeva quegli occhi da quando l’infermiera gli aveva messo in braccio Morgan che strepitava a pieni polmoni.

«Due gemelle» ripeté, sorridendo. «Sienna e Blake. Sienna e Blake. Lo sai che più lo dico e più mi piace?»

«Lo spero, visto che lo dirai per il resto della tua vita» commentò Ferid massaggiandosi le costole. «Comunque, per essere quello che ci ha messo mesi a scegliere il nome di Cameron, hai fatto in fretta con Sienna.»

Crowley si sciolse in un sorriso più malinconico.

«È il nome che George avrebbe voluto dare a una figlia. L’ha sempre avuto in mente… Era il nome della sua prima cotta. Non l’ha mai dimenticato.»

Ferid non aveva mai conosciuto George, ma le storie raccontategli da Gilbert e da suo marito l’avevano reso una presenza familiare e gradita, tanto da avere un posto sul caminetto tra le fotografie dei cari scomparsi.

Sorrise e gli diede una goffa carezza, un tentativo di riportarlo a pensieri meno malinconici.

«E per non stare sei mesi a cercarne un altro hai fatto scegliere a me?»

«Ho fatto bene. Io adoro il nome Blake. Non sono d’accordo con zia Odette quando dice che i gemelli devono avere la stessa iniziale. Tu, da dove l’hai preso? Qualche libro?»

«Era un nome che aveva preso in considerazione Krul, ma poi ha scelto Chandra. Gliel’ho rubato.»

«Mh, confessare un reato a uno sceriffo? Sei senza vergogna, signor Bathory.»

«Bathory-Eusford, prego, sceriffo. Mio marito ci tiene.»

«È vero. È molto orgoglioso… chissà poi perché.»

«Me lo chiedo sempre… ma secondo me, è per il mio crine di unicorno.»

Vedeva il suo sorriso divertito anche con la lampada regolata alla luminosità minima. Senza una parola Crowley allungò la mano e illuminò l’intera tenda. Sapeva che cosa significava e gli stava più che bene.

Strinse la sua larga schiena ricambiando il suo bacio passionale, mentre le dita gli passavano nei capelli.

 

***

 

Il giorno dopo splendeva il sole in West Virginia. Yuu sapeva di avere un aspetto tremendo dopo una notte quasi insonne che aveva poco a che vedere con il bambino nella branda e molto col rimorso di essere stato così tagliente con Mika.

Gli ho parlato come se passasse da una storia all’altra ogni settimana… ma Misha ha ventotto anni e alle spalle solo due storie importanti. È molto più di quello che si potrebbe dire di me…

Si sciacquò il viso di nuovo con l’acqua fredda del fiume, ma non l’aiutò a mettere ordine nella testa.

Ma mi fa paura affrettare le cose con lui… Ho paura di sbagliare di nuovo. Di fare progetti che gli faranno pensare che non è la cosa più importante.

Smosse l’acqua con le dita, sfiorando la roccia liscia sul fondo.

Con Jonathan ha avuto una favola… vorrà un’altra storia così. Qualcosa di romantico, di profondo, e dei progetti di vita insieme al prossimo amore… e io non sono il tipo. Quando è stata l’ultima volta che gli ho fatto un regalo solo per farglielo? Che l’ho portato fuori per distrarlo dai suoi pensieri? Cazzo, più ci penso e più mi sembra di averlo ignorato tutto il tempo…

«Non starai pensando troppo?»

Sussultò al rumore del secchio tuffato nell’acqua e alzò gli occhi su Crowley. Aveva un’aria distesa e serena che gli invidiava terribilmente.

«Pensando troppo a cosa?»

«Non sono sicuro, ma se dovessi indovinare direi che pensi a Mika… o Misha. Adesso lo chiami quasi sempre così, no?»

«Ah… sì… in effetti, stavo pensando a lui.»

«Ma Mika ti dà un sacco di pensieri! Non è che ti vuoi sistemare?»

Yuu lo guardò stranito, ancora di più quando rise.

«Non te lo ricordi? Mi dicesti così quella sera a casa mia, quando ti parlai di Ferid. Che non riuscivo a capirlo e a comunicare con lui come volevo.»

«Ah… No, non ricordo d’averlo detto. Però avevo ragione.»

«C’è un’altra cosa che mi dicesti quella sera, e mi è rimasta impressa qui» fece, battendosi il dito sulla tempia. «Penso che tu l’abbia dimenticata. Hai detto “non so se Mika è la mia anima gemella, ma è l’anima con cui voglio stare, e questo mi basta”.»

Restò lì fermo a fissarlo e Crowley fece lo stesso, senza che il silenzio gli intaccasse il sorriso.

«Ho… ho detto questo davvero?»

«Sì, davvero. E siccome hai detto questo… forse ora stai pensando troppo.»

Lanciò un’occhiata a Mika, che stava raccogliendo la canna e l’attrezzatura da pesca dall’altro lato del campo. La nostalgia lo sommergeva a ondate, come l’alta marea.

«Era tanto tempo fa. Ero un’altra persona… e anche lui lo era. È successo di tutto da quando ci siamo separati, e… come si riprende una storia dopo così tanto tempo?»

«Non lo so… forse per quello io e Ferid abbiamo ricominciato dall’inizio. Anche se il nostro inizio è stato piuttosto intenso… Ci pensi che viveva da me due mesi dopo il primo incontro? Non so con che faccia diremo ai nostri figli di non fare le cose di fretta con il loro primo amore.»

Ridacchiò insieme a lui a quel pensiero. I bambini stavano prendendo i retini per andare a giocare vicino al fiume e per fortuna il tempo del loro primo amore sembrava lontanissimo.

«Com’è cominciata?» gli chiese Crowley a bruciapelo. «Mi hai detto che lo tallonavi perché stava sempre da solo, ma come siete diventati una coppia? Non me l’hai mai raccontato.»

Un vuoto completo lo colse mentre cercava una risposta da dare. Non ricordava nessun giorno particolarmente romantico, nessun momento che avesse causato un avvicinamento ulteriore, né un qualche gesto plateale.

«Perché… perché non lo so. Siamo solo… Eravamo bambini insieme e… siamo rimasti insieme.»

Si alzò di scatto e le sue gambe irrigidite barcollarono per trovare l’equilibro. Diede una pacca sulla spalla di Crowley.

«Grazie, Crowley. Non so come andrà, ma almeno ora so da dove riprendere.»

Corse alla tenda frugando freneticamente nelle tasche dello zaino. Recuperò quello che stava cercando e schizzò via.

«Yuu caro, vuoi del—»

Ferid ritrasse il bicchiere di caffè e guardò il marito quando tornò vicino al fuoco con il secchio dell’acqua.

«Che cosa gli hai detto?»

«Segreti del mestiere» replicò lui, baciandolo sul collo.

«Quale mestiere? Lo sceriffo? Il detective? Il papà?»

«Faccio pratica. Eden sta crescendo, non manca molto a quando chiederà consigli di cuore.»

«Ma ci sono io per questo, no?»

«No, davvero. Non dargli consigli. Non dirgli niente. I tuoi ex fanno accapponare la pelle! Non vorrai uno come quelli per tuo figlio?»

Ferid scrollò le spalle.

«Non te la prendere, Bobby.»

«Che?»

Crowley si guardò intorno e poi tornò a guardare lui.

«Hai detto Bobby?»

«Bobby? Bobby chi? Senti le voci, tesoro?»

Ferid bevve un sorso di caffè e si allontanò verso il greto, dove i bambini stavano pescando con i retini. Rimasto al campo, Crowley diede un’occhiata guardinga intorno per poi sedersi per ravvivare il fuoco. Aveva la sensazione di non essere solo.

 

***

 

Yuu uscì dai cespugli incespicando in un rovo che gli aveva intrappolato l’orlo dei pantaloni. Il fatto che gli uscissero ancora imprecazioni in tedesco era indicativo di quanto il suo addestramento intensivo si fosse radicato a fondo, anche se l’accento iniziava a sparire dal suo inglese.

«Ah, eccoti» fece Mika guardandolo dalla sua roccia. «Cominciavo a credere che fossi scappato.»

«No… perché dovevo scappare?»

«Magari pensavi che ti avrei chiesto di sposarmi, o di fare bambini.»

«Nah, perché? Io adoro fare i bambini. È il mio hobby preferito.»

Mika scoppiò a ridere. Non aveva l’aria di essere rimasto ferito o deluso da quello che gli aveva detto.

«Posso stare qui con te?»

«Hai bisogno di chiedermelo?»

Si andò a sedere vicino a lui e per un po’ finse un grande interesse per le piume gialle del galleggiante. Ci volle più tempo del previsto per raccogliere il coraggio.

«Senti, uhm… Visto che non stai più con Lucky, sei di nuovo sulla piazza?»

«Credo che per un po’ non starò sulla piazza… L’hai notato? Io non riesco a immaginare la mia vita senza un altro uomo. Ho lavorato, ho pianificato… ma avevo sempre in mente che la mia era la metà di una vita di coppia. Credo che questo sia un disturbo psicologico.»

«O è il modo in cui vuoi vivere la tua vita. Finché hai dei sogni tuoi non ci vedo niente di malato.»

Mika sorrise e gli diede una carezza sulla mano. Yuu non riusciva a ricordare una prima volta in cui un suo tocco l’avesse fatto sussultare, come succede ai giovani innamorati. Era deprimente, ma rafforzò la sua determinazione.

«Vorrei farti sentire una canzone. Ti va?»

«Una canzone?» ripeté lui sorpreso. «Sssì… sì, okay.»

Yuu srotolò le cuffie del suo lettore, spostandosi più vicino. Si mise un auricolare e l’altro lo mise a lui, che per qualche ragione rise.

«Sono anni che non vedo in giro delle cuffie col filo!»

«Sono ottime se vuoi stare vicino a qualcuno» buttò lì Yuu allusivo. «È una canzone che ho sentito quando stavo da mia madre in Toscana. A lei piace molto. Dimmi cosa ne pensi tu.»

Avviò la traccia e lasciò che Mika l’ascoltasse in silenzio, spostandosi piano, sempre più vicino.

«Sembra bella» commentò Mika alla fine. «Ma non capisco le parole. È italiano?»

«Te la traduco se vuoi.»

Riavviò il brano e si avvicinò, con il bacino contro il suo e il mento contro la sua spalla, abbastanza vicino all’orecchio da sussurrargli la traduzione della canzone. Anche se sentiva rigida la sua schiena non fece niente per spostarsi e non bloccò la mano che gli passò intorno alla vita.

«Una canzone romantica… Yuu, che ti sta passando per la testa?»

«Voglio fare una cosa con te.»

«Ah, di questo non ne ho mai dubitato» ribatté Mika, malizioso. «Ma al campeggio coi bambini non si può proprio.»

«Voglio fare con te una cosa che non abbiamo mai fatto» insistette Yuu. «Ti voglio corteggiare.»

«Cosa, scusa?»

«Noi abbiamo fatto tutto insieme solo perché eravamo curiosi. Tu ti fidavi solo di me, e io… sapevo che se c’era qualcuno che non avrebbe riso di quanto ero buono a nulla saresti stato tu. E poi siamo rimasti insieme. Non ti ho mai dovuto corteggiare, tu avevi in mente soltanto me da sempre…»

«No… Yuu, sul serio» fece lui, spostandogli il braccio. «Non devi cercare di… Non so che cosa pensi di dover fare. Se vuoi consolarmi o—»

«Voglio ricominciare con te. Mi sta bene se non vuoi una storia così presto dopo sette anni con un altro. Lasciamelo fare. Tu resisti, se vuoi.»

Gli diede un bacio leggero dietro il collo e Mika non oppose più resistenza al suo braccio.

«Non ho fretta. Riprendiamoci quello che ci siamo persi. Io che ti conquisto e tu che stai a guardare quanto posso diventare ridicolo per te.»

Nonostante il sospiro teatrale, sapeva di aver fatto breccia con i suoi argomenti.

«Beh, se davvero vuoi questo… chi sono io per impedirti di provarci?»

La vanità latente di Mika non era così ben sepolta, e come sperava aveva risposto ai suoi primi passi. Se era bastato un giuramento di devozione di Jonathan per scuotere tutto il suo mondo, non c’era ragione di pensare che un corteggiamento spietato non avrebbe espugnato le fragili mura che si era costruito intorno.

Yuu esitò. La sua testa gli diceva che stava correndo troppo, ma come Crowley gli aveva ricordato, Mika era l’anima con cui voleva stare. Se non aveva più un compagno non aveva una ragione concreta per trattenersi, se non la paura di non saper più essere un compagno.

«Non sai… non sai ancora che cosa farai? Hai detto che stai a Bluefields, per adesso…»

«Sì… non ho ancora un piano. Pensavo di chiedere a Ferid se ci fosse un posto a Eanverness. Un alloggio, un lavoro… ma non vorrei farlo. Non vorrei dipendere da loro, o dargli l’idea di essere un randagio senza casa. Anche se è come se lo fossi.»

«Allora potresti… Che ne dici di venire con me, in autunno?»

Si girò per incrociare lo sguardo.

«Dove vai? Non torni a Berlino, spero.»

«Clear Springs, Maryland» rispose Yuu con la sensazione di togliersi un mattone dallo stomaco. «Incredibile ma vero, mi hanno offerto un lavoro.»

«Davvero? Che lavoro?»

«Insegnante di tedesco. Lo so, è ridicolo…»

Ma Mika non sembrava aver voglia di riderne.

«Invece è fantastico! Hai fatto domanda? Dove insegnerai?»

«Al liceo di Clear Springs hanno corsi di lingue europee. Mi è stato offerto un posto perché erano sguarniti del loro professore di tedesco dopo il pensionamento. È soltanto per quest’anno, poi chi lo sa… Ma… se ti va, noi… potremmo andarci insieme. Dividere casa, come coinquilini… letti separati, e il resto. E vedere che cosa succede.»

Per la prima volta – forse dai tempi dell’orfanotrofio – Mika era in imbarazzo con lui. Aveva il viso arrossato e non ricordava l’ultima volta che l’aveva visto così.

«Questo è un po’ più di un corteggiamento… non trovi?»

«Scusami, so che è un passo un po’ lungo… ma non devi rispondere adesso. È aprile. C’è tempo.»

«Prometto che ci penserò. Ci penserò con tutta la serietà possibile.»

«Okay. Per adesso essere nei tuoi pensieri mi basta.»

Passò le braccia dietro la sua schiena e si toccarono fronte contro fronte, mentre Mika faceva ripartire la musica.

 

***

 

Da Montmartre il panorama della Ville Lumière era splendido. Dei molti posti che aveva visto, quello restava il preferito di Ismael Montague.

«Che cosa farai ora?»

Produsse un sorriso storto suo malgrado. Non era ancora capace di farlo spontaneamente.

«Quello che ho sempre fatto. Peccare per il mio prossimo.»

«Non sei più smarrito?»

Non guardò dalla parte di Graham, ma il suo sorriso si tese più uniforme. Il cielo di Parigi sfumava nel viola.

«No. In realtà, è la prima volta da tanto tempo che…»

Non ricordava più l’ultima volta che era stato felice. Che aveva sentito quel guizzo di energia dal cuore, quelle scintille di speranza per il futuro. Perché, finalmente, ne aveva di nuovo uno. L’epilogo trascritto dal suo onnisciente antenato non si era concretizzato, per il suo nipote più giovane. Aveva davanti pagine bianche che poteva scrivere di suo pugno, come chiunque altro al mondo. Era libero.

«Meglio così! In fondo, essere un Caduto è una vita meravigliosa.»

Graham si issò sulla balaustra del punto panoramico e spalancò le braccia, come volesse prendere il volo e planare sulla città. Rideva, l’euforia in ogni pagliuzza degli occhi.

«Ah, vorrei avere la tua giovinezza.»

«Ma non è per la giovinezza che sono felice. Ho servito la Spada di Dio! Non so se ne incontrerò un’altra, ma non dimenticherò mai il signor Bathory.»

Ismael inspirò a fondo. Dietro le sue palpebre chiuse rivide tante fugaci immagini, da una mano escoriata che lo portava lontano dal fuoco a una bianca schiena perfetta, fino a una porta blindata che si chiudeva sopra le sue dita in una palazzina di Satbury.

Ismael sorrideva assaporando le proprie memorie e si accarezzava le nocche.

«Nemmeno io.»

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