You can't die

di FiloRosso
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1 ***
Capitolo 3: *** 2. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Un anno prima.

 

Lacrime bollenti le gocciolavano sulle guance procurandole una sgradevole sensazione di bruciore. Il cuore le pompava così forte nella cassa toracica da strapparle il fiato di bocca. Rintanata al buio, nascosta dietro il divano del suo salotto, si stringeva le gambe contro il petto e tremava.

C’era qualcuno in casa sua. Di nuovo.

Non se ne era accorta subito. Un temporale si era abbattuto sulla costa e il frastuono dell’acqua contro le assi di legno del tetto le avevano confuso l’udito.

Poi, però, aveva sentito dei passi pesanti, gli stessi passi che da mesi sentiva tutte le notti.

Provenivano dagli angoli più disparati di casa sua. Delle volte dal piano inferiore, altre dalla veranda. 

Era ossessionata da quella presenza che la osservava ormai da tempo. 

«Cosa vuoi da me?», singhiozzò. 

«E’ la casa? Sono io? Dimmi cosa vuoi!».

Quelle domande erano una litania ormai. Le pronunciava ogni volta che quella presenza asfissiante, assidua, la osservava nascosta nel buio.

Stava impazzendo Jules. 

Talvolta aveva creduto di star immaginando tutto. Le accadevano cose strane, così strane che aveva incominciato a delirare.

“Sono pazza?” si chiedeva.

Poi sentiva le assi di legno del pavimento scricchiolare e subito si diceva che non era affatto uscita di senno.

Quella presenza minacciosa c’era e per qualche ragione, a lei sconosciuta, la stava perseguitando.

Spesso le era capitato in piena notte di vedere un’ombra attraverso la fessura inferiore della porta di camera sua. Aveva sentito il suo respiro innaturale e pesante infrangersi contro l’anta di legno. Le ricordava il respiro gutturale di un predatore in attesa di dilaniare le carni della preda ormai morente.

Era così che si sentiva Jules intrappolata in quella casa di periferia, lontana da tutti e tutto, immersa nella nebbia.

Quella sera però, c’era qualcosa di diverso. Jules aveva spostato lo sguardo oltre il bracciolo del divano, verso la porta della cucina. La luce era spenta. L’unico bagliore, proveniente dalla televisione alle sue spalle, non arrivava ad illuminare l’ingresso di quella stanza.

Non aveva mai provato a guardare nella direzione dei passi perché aveva paura, conscia di trovare qualcosa o qualcuno nascosto nel buio. Adesso, però, Jules non ce la faceva più. 

Una sensazione gelida le attraversò le budella.

Il respirò le morì in gola.

Per la prima volta guardò nel buio e vide due occhi felini, minacciosi, terrificanti, spezzare la penombra.

Per un solo, minuscolo, istante tutto si cristallizzò attorno a lei.

Una lacrima isolata vorticò dalla sua guancia infrangendosi sul dorso della sua mano.

Non era pazza. 

Non si era inventata tutto.

L’ombra nera non era solo frutto della sua immaginazione. Era lì, in casa sua.

Il terrore prese il sopravvento. Jules schizzò verso la rampa di scale che conduceva al piano superiore. Come ad essere il suo riflesso nel vetro di uno specchio, l’ombra si lanciò all’inseguimento subito dietro, afferrandole la spalla nuda.

Cinque dita gelide  e dalle unghie taglienti le si conficcarono nella pelle. Divincolandosi, raggiunse il piano superiore.

L’ombra era sempre più vicina. 

Jules, nonostante le ciglia imperlate di lacrime e la vista offuscata, riuscì a raggiungere la porta del bagno.

La chiuse con uno scatto della serratura un secondo prima di essere raggiunta.

L’ombra si scaraventò contro lastra lignea e incominciò a colpirla. Fu allora che la ragazza capì di essere in trappola. 

Si guardò attorno.

I sanitari, il tappettino del bagno cosparso di piccoli puntini rossi; sul lavandino, appoggiata in un angolino, c’era ancora quella lametta.

Non era la prima volta che Jules aveva pensato di farla finita, proprio come in quel momento mentre si era trovata a fissare la piccola finestrella del bagno meditando di lanciarsi giù.

Morire le sembrava ormai l’unica soluzione anche se, ogni qualvolta ci aveva provato, qualcosa le aveva impedito di arrivare fino in fondo. 

Si avvicinò alla finestra e afferrò la maniglia. Quando provò ad aprire le ante, queste sembravano incollate fra loro. Le strattonò un paio di volte con rabbia. 

«Dannazione!», gridò, portandosi le dita fra i capelli.

I pugni alle sue spalle si facevano sempre più forti.

Pugni e anche graffi contro il legno.

Il cuore le sembrò esplodere.

Si mosse come una scheggia verso l’armadietto dei medicinali.

«Se non vuoi che muoia lanciandomi da quella dannata finestra, allora morirò in un modo diverso!», gridò di nuovo, questa volta rivolgendosi all’ombra. Quell’affermazione suscitò qualcosa nella presenza dietro la porta.

Colpì ancora più forte l’anta, così tante volte che quel frastuono ricordò a Jules il fragore dei fuochi d’artificio che amava vedere con suo padre.

«Non ti permetterò di farmi ancora del male.». Raccolse nel palmo della mano quante più pasticche potesse contenere e fissando la porta le avvicinò alla bocca.

Non voleva morire Jules. Era colpa di quella presenza.

Quando ingoiò le pasticche, era certa di aver sentito un grido innaturale provenire da dietro la porta. Dolore?

Era troppo confusa per rendersi conto che anche lei stava gridando per la  frustrazione.

Si lasciò scivolare lentamente sul pavimento, la schiena contro la vasca da bagno, le braccia strette attorno all’addome.

Lentamente ogni sensazione incominciò a scemare. La pioggia smise di battere contro le persiane, la nebbia si dissipò, la quiete tornò ad inghiottire la sua casa.
Un altro tipo di buio la inghiottì.





 

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Capitolo 2
*** 1 ***


1.


Coldwater, Maine.

Oggi.

 

Centinaia di occhi vorticavano attorno a me. Mi stavano guardando tutti o me lo stavo immaginando? Mi strinsi nelle spalle infilando le mani nelle tasche del giubbotto; testa bassa per non incrociare nessuno sguardo. Il senso di disagio che stavo provando era un crescendo di sensazioni che riusciva a farmi contorcere lo stomaco.

Parlano di me.

Di cosa ho fatto. 

Mi sembrava di avere migliaia di cicale attorno tanto fastidiose da volermi tappare le orecchie con i palmi delle mani.
Per fortuna, il brusio infernale scemò in un istante interrotto dal suono della campanella.

Un capannello di studenti si accalcò verso l’ingresso dell’istituto. Poco dopo, ero davanti all’aula di biologia.

Quando entrai rimasi a bocca aperta.

Attaccati non si sa come alla lavagna, c’erano Barbie e Ken. Le braccia erano state sistemate in modo che le mani si toccassero, ed erano nudi, a parte dei piccoli ritagli di fogli piazzati nei punti strategici. Sopra le loro teste, scritto con un gessetto celeste, si leggeva: benvenuti a riproduzione sessuale.

«Ecco perché a scuola vietano l’utilizzo dei cellulari. Una foto così sul gazzettino dello studente basterebbe a convincere il ministero dell’istruzione a bandire il corso di biologia.»

Una voce femminile mi raggiunse da dietro le spalle.

La ragazza che aveva appena commentato la Barbie e il Ken in versione “come mamma ci ha fatto” con tanto di smorfia di disapprovazione, era alta poco meno di me. Occhi castani e capelli mossi di un biondo sin troppo scuro per il suo incarnato pallido.

L’avevo già vista in classe l’anno precedente ma ora, sinceramente, non ricordavo neppure come si chiamasse né di dove fosse.

Mi guardò ed io fui costretta a ricambiare quell’occhiata che sapeva di “sto aspettando un tuo commento”, con una risatina che doveva darle l’impressione che la pensassi esattamente come lei.

Il suono che emisi non sembrava affatto una risata, ma parve averla convinta.

«Sono Brownie», disse tendendomi la mano.

Guardai le dita affusolate e poi risalii il braccio fino ad incrociare nuovamente il suo sguardo.

Ci volle un istante prima di convincermi a ricambiare quella stretta.

Impacciata spostai la pila di libri da un braccio all’altro e allungai la mano verso la sua.

«Jules.»

Brownie mi sorrise e questa volta lo fece in maniera molto più cordiale.

«Nuova?». Ci avviammo verso i banchi.

«Non proprio.», diedi una rapida occhiata ai posti a sedere. Erano quasi tutti occupati e quando provai a raggiungerne uno, una mia ex compagna di corso allungò la mano sulla superficie del banco facendomi capire all’istante che -no, lì non mi sarei seduta.

Mi inumidii il labbro inferiore, anzi no, lo mordicchiai per l’imbarazzo e mi allontanai in fretta. Sapevo che tornare a presenziare alle lezioni non sarebbe stato affatto facile, ma sicuramente non mi aspettavo certi trattamenti. Probabilmente a Portland, dalla periferia alla costa, le voci avevano fatto il giro molto più velocemente di come pensassi.

«Jules, di qua!».

Mi voltai alle spalle. La mano di Brownie sventolata in aria mi avvertiva che la ragazza aveva trovato posto per entrambe. Senza pensarci due volte la raggiunsi.

«Certo che sono veramente sgarbate le persone di Portland.», commentò la bionda, abbandonando la sua borsa a tracolla accanto al piede del banco.

Scivolò a sedere e io la imitai.

«Non sei di queste parti?».

Brownie mi scrutò sorridendo calorosamente «No, sono di Palm Springs.»

«Wow, ti sei fatta un bel viaggetto.»

Rise «Già.»

Il coach McHanzie afferrò il fischietto che gli penzolava dal collo e ci soffiò dentro.

«Squadra, ai posti!».

Il coach considerava l’insegnamento della biologia un’attività marginale rispetto al suo impiego come allenatore della squadra di basket dell’università, e lo sapevamo tutti.

«Voi ragazzi potreste non aver notato che il sesso non è più di un giretto di un quarto d’ora sul sedile posteriore di un auto, in effetti è scienza. E che cos’è la scienza?».

«Una noia.», gridò qualcuno dalle ultime file.

«L’unica materia in cui faccio schifo.», disse qualcun altro.

Gli occhi del coach passarono in rassegna l’intera classe e si fermarono sulle prime file. Su di me.

«Ci siamo già visti?» aggrottò la fronte.

«Si, all’inizio dello scorso anno.»proferii timidamente.

Lui restò a fissarmi per un lungo istante fino a che non parve tornargli alla mente persino il mio nome.

«Jules.»disse con un sorrisetto vittorioso, «Sono contento di riaverti alle mie lezioni.»

Ricambiai il sorriso, seppure, in quel preciso istante, avrei preferito sotterrarmi da qualche parte.

Preferivo di gran lunga non farmi notare. Sapevo che le voci su di me circolavano a briglia sciolta, non c’era bisogno di creare situazioni in cui domande come: “cosa ti è successo?”, “perché sei sparita ad inizio corso?”, mi avrebbero messo contro un muro costringendomi a raccontare la verità. Bastavano i quotidiani di quel periodo a ricordare a tutti che Jules Fisher aveva tentato di togliersi la vita nel bagno di casa sua.

«Dunque, Jules? Cos’è la scienza?», incalzò lui.

«Lo studio di qualcosa.» risposi.

Si avvicinò e piantò l'indice sul mio banco.

«Che altro?».

«La conoscenza acquisita attraverso la sperimentazione e l’osservazione.»

Perfetto. Sembrava stessi facendo un provino per l’audiolibro del nostro testo scolastico.

«Dillo con parole tue.»

Arricciai un labbro e cercai un’alternativa.

«La scienza è indagine.»

«La scienza è indagine», ripetè il coach, sfregandosi le mani, «La scienza ci obbliga a trasformarci in spie.»

Detta così, sembrava quasi divertente, ma io avevo trascorso abbastanza tempo sui libri di biologia, durante i semestri precedenti al mio incidente, per non illudermi.

«Una buona indagine richiede pratica» continuò.

«Anche il sesso.», commentò qualcuno dal fondo. Ci furono delle risatine, ma isolate perché l’allenatore aveva già puntato l’indice ammonitore contro il colpevole.

«Quello non farà parte dei compiti a casa di oggi.» disse il coach prima di rivolgere lo sguardo nuovamente alle prime file.

«Non ci avete mai fatto caso, ma in quest’aula non c’è una ragazza che sia seduta di banco con un ragazzo.» Ci guardammo attorno tutti quanti. Effettivamente McHanzie aveva ragione.

«Scommetto che in realtà ognuno di voi sa ben poco dell’altro sesso, anzi, sono pronto a scommettere - osservando le vostre facce - che oltre alle nozioni marginali sul corpo umano, non sapreste andare oltre il vostro naso se vi chiedessi di interagire con l’altro sesso.»

Più parlava, più un terribile presentimento si faceva largo nella mia consapevolezza.

«Ad esempio, Ros.», indicò un ragazzo al centro dell’aula. «Cosa sai di Clemens?».

I miei occhi rimbalzarono da Ros alla ragazza dal caschetto ciliegia seduta a qualche banco di distanza da lui.

Ros scrollò le spalle «Nulla. Non è il mio tipo, perché dovrei rivolgerle parola?»

Fu impossibile non mostrare un’espressione di disappunto per me.

«Da quando si rivolge parola ad una ragazza solo se è il tuo tipo?», commentò Brownie evidentemente innervosita.

«Da quando lo dico io.», ribattè impettito lui. Il leggero chiacchiericcio di qualche ragazza si mischiò ai commenti poco gradevoli dei ragazzi e in breve tempo divenne rumore.

«Calmi, calmi.» Il coach passò fra i banchi, le braccia sollevate a mezz’aria. «Non c’è bisogno di alzare i toni.».

Per un momento la classe sembrò tornare calma.

«E’ proprio per questo che ho posto questa domanda a Ros, perché so che la maggior parte di voi a quest’età ragiona seguendo l’impulso ormonale che di fatti è biologico.» fece una breve pausa «L’attrazione fisica è il risultato di quanti più impulsi biologici e chimici può creare il nostro corpo come ben sapete, ma c’è anche un lato in ognuno di noi che rifugge dal seguire certi impulsi costringendoci ad una zona confort chiamata-» si avvicinò alla lavagna e con un gessetto scrisse la parola consuetudine. «Consuetudine. Siamo al sicuro quando sappiamo cosa c’è attorno a noi, con chi siamo, a chi raccontiamo i nostri segreti, a chi mostriamo le nostre vulnerabilità.»

Il coach fece scivolare lo sguardo verso me.

Ebbi l’impressione che volesse dirmi qualcosa, ma non avevo la minima idea di cosa.

«Purtroppo però i migliori detective rifuggono dalla consuetudine. Essa impigrisce l’istinto investigativo e come abbiamo detto la scienza è investigazione. Ecco perché, oggi, cambieremo i posti a sedere.»

Aprii la bocca, forse volevo protestare ma in fondo io non conoscevo nemmeno Brownie e chiunque si fosse seduto al suo posto sarebbe stato identificato come “irrilevante”. 

«Che senso ha? Siamo ad Aprile, manca poco alla fine del semestre. Non può farci una cosa simile proprio adesso.» Alla fine fu proprio caschetto ciliegia a battermi sul tempo, schizzando in piedi furiosa. Le guance imporporate e una piccola venuzza a farle capolino sulla tempia.

McHanzie accennò un sorriso «Io posso fare una cosa simile anche l’ultimo giorno del semestre. E se non superi il mio corso, l’anno prossimo ti ritroverai di nuovo qui, dove cose simili accadranno ancora e ancora, e ancora.»

Clemens gli lanciò un’occhiataccia così tagliente da poterla quasi sentire sibilare.

Apparentemente immune dallo sguardo omicida della mia compagna, il coach ci spiegò cosa aveva in mente.

«Tutti quelli seduti in fondo all’aula avanzino di un posto. Quelle sedute in prima fila, sì, anche tu Clemens, si spostino verso l’ultima.»

Rivolsi a Brownie un cenno di saluto, mentre lei sbatteva il quaderno nella borsa a tracolla e chiudeva di scatto la zip. Poi mi voltai lentamente, ispezionando la stanza. Conoscevo i nomi di tutti i miei compagni tranne uno. Quello che si era trasferito. Durante la lezione il coach aveva interagito con tutti tranne che con lui che d’altro canto sembrava aver apprezzato la poca considerazione.

Sedeva pigramente nel banco davanti al mio. Per un attimo faticai a credere che fosse stato seduto per tutta la lezione davanti a me, fissando il vuoto. Di sicuro stava pensando qualcosa, ma l’istinto mi diceva che non avrei voluto sapere cosa .

Posò il suo libro di biologia sul banco vuoto e scivolò su quella che fino ad un attimo prima era stata la sedia di Brownie.

Sorrisi. «Ciao, io sono Jules.» Lo psicologo mi aveva fortemente consigliato di tornare a socializzare con le persone. Un anno passato chiusa in casa in preda alle allucinazioni aveva fatto sì che il mio rapporto con il resto dell’umanità si riducesse a sguardi schivi e silenzi incolmabili.

Perciò eccomi lì a tentare di tornare alla normalità, salutando uno sconosciuto mentre la mia bocca lentamente e con molta difficoltà disegnava una curva sulle labbra molto simile a un sorriso sbieco.

Il suo sguardo mi passò da parte a parte e avvertii gli angoli delle mie labbra incurvarsi verso una riga piatta.

Una leggera fitta allo stomaco mi fece irrigidire. E in quella pausa, una sensazione di tristezza, come un’ombra fredda, mi scivolò addosso. L’istante dopo la sensazione era sparita, mentre io stavo osservando un piccolo sorrisetto, affatto amichevole, natoli sulla bocca.

Era un ghigno che prometteva guai.

Deglutii in preda all’imbarazzo e tornai a concentrarmi sulla lavagna. Barbie e Ken ricambiarono il mio sguardo stranamente amichevoli.

«La riproduzione umana può essere un argomento spinoso…» proseguì McHanzie.

«Specie quando non si amano le cerette» ridacchiò Ros.

Il coach aggrottò la fronte «Richiede maturità. E come per tutte le scienze, il metodo migliore è quello investigativo. Durante il resto dell’ora esercitate questa tecnica cercando di scoprire quanto più possibile sul vostro nuovo compagno di banco. Voglio una relazione sulla cattedra entro le nove di domani, non sono ammessi testi romanzati e non veritieri.» E nella frase c’era un implicito avvertimento a non azzardarsi a fare altrimenti.

Restai seduta immobile. La palla era nella metà campo sbagliata: quella del mio nuovo compagno.

Sorridergli non si era rivelata una buona mossa. Arricciai il naso cercando di capire cosa mi ricordasse il suo odore. Non sigarette. Qualcosa di più intenso e nauseante. 

Fissai le lancette dell’orologio agganciato in cima alla lavagna: per ogni minuto in più mi sembrò di averne quattro in regalo. Il tempo stava passando in fretta. Grandioso. A quella velocità non sarei riuscita a scoprire un bel niente. 

Sospirai, con il gomito puntato sul banco e il mento premuto sul pugno.

Tenevo gli occhi fissi davanti a me, però potevo sentire il fruscio della sua penna. Stava scrivendo, e io volevo sapere cosa. Dieci minuti di convivenza sullo stesso banco non lo autorizzavano a ipotizzare un bel niente sul mio conto. Con la coda dell’occhio, vidi parecchie frasi sul suo foglio, e la lista si allungava.

«Che cosa stai scrivendo?» chiesi.

«Niente che ti riguardi.» disse mentre scriveva ancora una frase, ogni movimento fluido della mano era pigro al tempo stesso.

Mi avvicinai il più possibile tentando di leggere, ma lui piegò il foglio a metà coprendo la lista.

«Posso sapere cosa hai scritto?» ripetei.

Inaspettatamente allungò la mano verso il mio foglio bianco e lo fece scivolare verso sé, quindi lo appallottolò e, prima ancora che riuscissi a protestare, lo lanciò nel cestino dei rifiuti dietro la cattedra. Canestro, e non aveva nemmeno alzato gli occhi dal banco.

Rimasi un attimo a fissare il cestino, metà allibita e metà arrabbiata.

Poi aprii di scatto il quaderno sulla prima pagina bianca a disposizione e, matita alla mano, chiesi: «Come ti chiami?»; sperando che il tono della mia voce non risultasse esitante.

«Chiamami Kael. Dico sul serio. Chiamami.» Lo disse ammiccando, così mi convinsi che volesse prendermi in giro.

Aggrottai la fronte «Cosa fai nel tempo libero?»

«Non ho tempo libero.» Incredibile!

Socchiusi le palpebre appena quel poco che bastò per far si che si disegnasse sul mio viso un’espressione esasperata«Senti, suppongo che prenderemo un voto per questo compito, perciò che ti piaccia o no devi farmi il favore di-»

«Che tipo di favore?» Si appoggiò alla spalliera della sedia, un braccio penzoloni e metà busto rivolto verso me.

Ero sicura che quella domanda fosse un'allusione, quindi cercai disperatamente qualcosa a cui appigliarmi per cambiare discorso.

Sospirò «Tempo libero…» picchiettò il cappuccio della penna sul banco, pensieroso «Mi piace osservare.».

Scrissi sul foglio osservatore.

«Non ho finito» disse «Mi piace osservare e lo faccio di continuo, l’ho fatto anche con te proprio mentre eri alle prese con quel Ken e quella Barbie. Piuttosto, perché li fissavi così disperatamente? Bah, lasciamo stare. Ad ogni modo, vuoi sapere cosa ho capito guardandoti?».

Non mi piaceva affatto il suo modo di porsi, né il tono altezzoso con cui mi si stava rivolgendo «Sentiamo.»

«Sei una di quelle che crede che sia giusto mangiare bio, scrivi poesie in gran segreto e rabbrividisci all’idea di dover scegliere tra Yale, Stanford e… quale è quell’altra grossa università che inizia per H?»

Lo fissai per un momento scioccata.

«Alla fine non andrai a nessuna delle tre.»

«Ah, no?»

Agganciò la parte inferiore della mia sedia e mi trascinò con uno scatto verso sé, sporgendosi verso il lobo del mio orecchio.

«Anche se otterresti il massimo dei risultati in tutte e tre le facoltà, le snobbi perché le consideri lo stereotipo del successo. Sputi sentenze e questa è la terza verità su di te.»

Restai immobile anche se sarei voluta saltare per aria.

«E la seconda?»

«Non ti fidi di nessuno. Anzi, mi spiego meglio, ti fidi solo di te stessa, ma ultimamente potremmo dire il contrario.»

Non riuscivo a credere alle mie orecchie. Come ci era riuscito? Ci aveva preso in pieno ed ero certa di non averlo mai incontrato prima di allora.

«E la prima?»

A quel punto sfiorò quasi il lobo del mio orecchio con le labbra. «Sto parlando della te di un anno fa, giusto?».

Persi un battito.

«Adesso le cose sono cambiate, tu sei cambiata.»

Sentii gli occhi pizzicarmi, la gola serrarsi.

«Chi ti ha detto queste cose?»

Kael si raddrizzò sulla sedia, l’espressione trionfale e pericolosa al tempo stesso.

Fece spallucce e tornò a guardare l’orologio sulla parete.

Mi si rizzarono i peli dietro la nuca e la temperatura nella stanza sembrò precipitare. In circostanze normali, mi sarei alzata, sarei andata da McHanzie e avrei protestato per cambiare di posto. In quella circostanza, però, non riuscii a muovermi. Come sapeva quelle cose? Io non lo conoscevo affatto e l’idea che uno sconosciuto fosse in grado di toccare tasti tanto delicati beandosi fra l’altro, mi faceva impazzire.

Provai un bisogno irrazionale di difendermi e decisi, in quel preciso momento, di non dargliela vinta.

«Dormi nuda?» chiese all’improvviso.

La bocca minacciò di spalancarsi, ma riuscii a rallentare la caduta della mascella.

«Sei l’ultima persona al quale lo direi.»

«Mai stata da uno strizzacervelli?»

«No», mentii. Dopo aver tentato il suicidio ero finita in cura da uno psichiatra, il dottor Kevin Lewis. Era anche psicologo e lavorava nella nostra scuola, perciò frequentavo sedute extra anche dopo le lezioni.

«Mai fatto niente di illegale?»

«No.» Superare la velocità consentita era una delle poche imprudenze di gioventù che mi ero concessa, comunque non ne avrei fatto menzione con lui.

«Perché non mi fai domande normali? Tipo… che musica ascolti?»

«Non chiedo cose che posso indovinare facilmente.»

«Tu non sai che genere di musica potrei ascoltare.»

Piegò la testa da un lato e mimò un’espressione esauriente.

«Indie o come diavolo si chiama… Ti fa sentire libera, probabilmente hai bisogno di ricordare a te stessa che puoi smettere di indossare la tua maschera da miss ho tutto sotto controllo, ogni tanto. »

Lo disse come se l’idea gli fosse venuta in mente solo in quel momento.

«Sbagliato.», altra bugia.

Chi era quel ragazzo? Che altro sapeva? Che fossero stati i chiacchiericci dei miei compagni di classe ad autorizzare tutti quei dettagli sul mio conto?

«Quello cos’è?», mi punzecchiò il polso con la penna.

«Una bruciatura.»

«Sembra una voglia, te la sei procurata tu?».

«No.»

Kael continuò a fissarmi le braccia per un po’, nonostante le avessi nascoste sotto le maniche della felpa.

Non disse nulla, ma quasi potevo immaginare la direzione dei suoi pensieri in quel momento.

«Hai tentato il suicidio, Jules?».

Trattenni il respiro.

«Perché mi chiedi cose che sanno tutti?»

I suoi occhi rimbalzarono su di me. Ebbi l’impressione di scorgere un bagliore fluorescente nelle sue iridi scure ma non seppi dare un nome all’espressione che gli si era piazzata sul viso.

«Mi dispiace», mormorò appena.

Scossi il capo. Ero sul punto di piangere ma non lo avrei permesso a me stessa.

Spostai lo sguardo gonfio di lacrime altrove.

Ci fu un momento di silenzio.

«So cosa hai passato.»

Mi voltai di scatto. Lui non sapeva proprio un bel cazzo di niente, non poteva sapere cosa aveva significato per me avere le allucinazioni, sentirsi perseguitata, vedere cose che, in realtà, non erano mai esistite. Ero pronta a gridargli in faccia, quando, la campanella suonò. Kael si alzò dalla sedia e mirò alla porta.

«Tu non sai proprio un cazzo!», strillai.

I pochi che erano rimasti in aula si voltarono all’unisono verso di noi.

In un battito di ciglia, avevo di nuovo tutti gli occhi puntati addosso. Quelli di Kael compresi.

Si mosse. Stava tornando verso di me.

Per un momento avvertii l’irrefrenabile desiderio di farmi indietro.

Ancora una volta non mi mossi.

Kael afferrò il palmo della mia mano e sfilò un pennarello dalla tasca esterna dello zaino.

«Dammi modo di sapere la verità, allora.», fu tutto ciò che disse successivamente, fissandomi dritta in faccia.


 

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Capitolo 3
*** 2. ***


2.


I miei genitori ed io vivevamo nella periferia di Coldwater, in una fattoria del diciottesimo secolo piena di spifferi. Era l’unica abitazione sulla Hawthorne Lane e l’abitazione più vicina si trovava ad un chilometro di distanza.

A volte mi chiedevo se chi aveva costruito quella casa si fosse reso conto che, fra tutti gli appezzamenti di terra disponibili, era andato a scegliersi l’unico piazzato al centro di una misteriosa condizione atmosferica che sembrava risucchiare tutta la nebbia della costa del Maine per risputarla nel nostro giardino.

Mia madre odiava quella casa. Ricordo ancora quando mio padre decise che quel posto sarebbe stato perfetto per noi tre, lei non era affatto entusiasta all’idea di dover lasciare la sua amata città ma, per amore di mio padre, accettò di vivere lì.

Ora che entrambi i miei genitori non c’erano più, l’unica persona a vivere lì, oltre a me, era mia nonna.

«Com’è stato il rientro a scuola?» chiese, china sul lavello alle prese con le pirofile da sgrassare.

«Normale…»

«Ti hanno inserita nella stessa aula dell’anno scorso?».

«Si e ho un nuovo compagno di banco.»

«E’ una cosa bella, no?», mia nonna si accanì sulla pirofila e la parte superiore del braccio le prese a penzolare.

«Dipende dai punti di vista.»

Madleen restò in silenzio per un istante.

«Dimmi di più su questo compagno, che tipo è?»

«Alto, bruno…Irritante, molto irritante.» E impenetrabile in un modo che mette i brividi. Gli occhi di Kael assorbivano tutto e non rivelavano nulla. Due sfere scure che riuscivano per qualche strano motivo a mettermi a disagio in una maniera che non avevo mai provato prima. Ciononostante, in qualche modo erano anche magnetici. Possedevano quel tipo di magnetismo in grado di suscitare interesse.

Non che io fossi interessata a lui sul serio, facciamoci a capire. Quello che avevo visto in quell’ora passata in aula non mi era piaciuto affatto, quindi dubitavo potesse piacermi ciò che si celava in profondità.

Peccato che non fosse del tutto vero. In effetti, se lui non avesse aperto bocca, molto di quello che avevo visto mi era piaciuto. Il fisico asciutto e massiccio al contempo, le spalle larghe, il suo sorriso.

Seduta con le gambe penzoloni sullo sgabello della cucina mi accorsi di essere in conflitto con me stessa perché cercavo di ignorare qualcosa che in realtà trovavo irresistibile.

«Jules?», la voce di mia nonna mi fece sussultare.

«Allora? Vuoi che ti cucini altro?»

«No, no. Grazie nonna.»

Dopo aver terminato lo spezzatino di pollo del Lunedì, decisi di rintanarmi in camera mia.

Non ero stanca. In realtà, stavo pensando a cosa fare durante le ore successive. Indecisa se leggere un libro o guardare qualche programma in tv, mi buttai sul letto.

Afferrai il cellulare ed aprii l’homepage di Instagram.

La moltitudine infinita di foto incominciò a scorrere sotto il tocco del mio pollice.

Facce allegre, video di ragazzi che mostravano quanto bravi fossero a imitare i vari trend del momento e un’altra quantità di video inutili ma apparentemente simpatici.

Era passata una buona mezz’ora e fuori di casa il cielo terso si era fatto scuro.

Sbadigliai e senza pensarci mi strofinai il viso con la mano destra. Nel farlo, mi ritrovai davanti agli occhi le sette cifre di un numero di telefono.

Restai a guardare il palmo della mia mano per un lasso di tempo indefinito.

«Dammi modo di sapere la verità.», mormorai. Perché voleva sapere la verità? Che diavolo poteva interessargli? 

Rotolai sulla pancia, il telefono stretto fra le dita della mano sinistra e il palmo della destra ben aperto.

Avevo giurato a me stessa, nel frangente di un attimo, che non avrei mai chiamato Kael. Avrei preferito avere un brutto voto in biologia piuttosto che cedere e cercare quel disgraziato.

Questo, almeno, fino a cinque secondi prima di quel momento.

Pigiai sul display l’icona della tastiera telefonica.

In cuor mio speravo che non rispondesse. Fiduciosa composi il numero.

Kael rispose dopo un paio di squilli: «Credevo non avresti chiamato. Davvero.» Odiavo quella punta di sicurezza nella sua voce.

In tono asciutto dissi: «Hai detto che vuoi sapere la verità,  l’unica cosa che voglio io, invece, è prendere un bel voto in biologia, perciò facciamo un accordo.»

«Un accordo?» 

«Esattamente.»

«Che genere di accordo?»

«Decidiamo insieme cosa scrivere sul compito, magari possiamo vederci per parlarne».

«Jules», sentirgli pronunciare il mio nome mi fece ruzzolare un brivido giù per la schiena. «Sono impegnato in questo momento.»

«Il compito è da consegnare domani mattina, Kael. Quindi? Possiamo vederci, sì o no?»

Mi sembrò di sentirgli soffocare una risatina. 

«Non posso questa sera.»

«Non puoi o non vuoi?»

Ci fu un momento di silenzio. Silenzio che interruppi io bruscamente.

«Dove sei?»

«In centro.»

«Il posto.»

«Sembri mia madre.» ridacchiò e l'impatto con quella affermazione mi fece arrossire.

«Comunque sono all’ Inferno. Non è il tuo genere di locale.»

«Allora mettiamoci d’accordo adesso, ci facciamo un paio di domande e…»

Sentii uno sciabordio gracchiare dal microfono del mio cellulare e poi la linea si interruppe di colpo.

«Mi ha riattaccato!»

Sbigottita restai a fissare lo schermo vuoto.

L’orologio del cellulare segnava le dieci di sera. A quel punto capii che avevo due possibilità. Potevo inventare di sana pianta l’intervista con Kael oppure prendere la macchina e andare all’Inferno.

La prima opzione avrebbe potuto essere allettante, se solo fossi riuscita a mettere a tacere la voce di McHanzie che continuava a ripetere  che avrebbe controllato la veridicità di tutte le risposte.

E comunque quel poco che sapevo di Kael non sarebbe bastato per scrivere un’ intera intervista, nemmeno fasulla. E la seconda opzione?

Arrivare in centro a chilometri da casa mia, in piena notte. Neanche per sogno.

«Ah! Maledizione!», imprecai e nel farlo urtai con la mano il comodino accanto al letto.

Un paio di cornici e qualcos'altro si rovesciò rumorosamente. Fu allora che vidi un quarto di dollaro brillare colpito dalla luce arancio della abat-jour.

Lo afferrai rigirandolo tra le dita.  Meglio lasciare le decisioni complicate al fato.

«Testa, vado.» dissi al profilo di George Washington «Croce, resto.»

Lanciai in aria la moneta, l’afferrai e la misi sul dorso della mano. I battiti del mio cuore accelerarono, ma feci finta di ignorarli. Poi presi coraggio e diedi una sbirciatina.

«La responsabilità non è più mia.»

Mi sollevai dal letto. George mi guardava appoggiato sul materasso. Decisa a chiudere la questione, incanalai il corridoio e scesi silenziosamente le scale. La stanza da letto di mia nonna era accanto alla porta della cucina, l’ingresso di casa poco distante dal piccolo pezzo di parquet che divideva i due ambienti. Ricordavo di aver lasciato le chiavi nello zaino e di aver posato quest’ultimo in cucina, perciò, in punta di piedi raggiunsi il bancone di marmo e con la poca luce a disposizione - quella dello schermo del mio telefonino - ficcai una mano nella tasca anteriore del mio Eastpak.

«Jules?».

La voce di mia nonna, arrochita dal sonno, mi fece trasalire.

«Va tutto bene, nonna. Avevo solo sete.»

«Torna a dormire.»

«Vado subito.»

Trattenni il fiato e poi espirai pesantemente.

C’era una seconda porta d’uscita ed era esattamente accanto ai banconi della cucina. L’uscita posteriore di casa mia dava sul niente. Una lunga distesa d’erba si estendeva a perdita d’occhio nel nulla.

Nessuno la usava mai ma, in quel momento, mi sembrò la via di fuga più vicina.

Girai la maniglia tonda e sgattaiolai fuori.

Feci mezzo giro della casa, raggiunsi la  vecchia Fiat Spider e uscii in retromarcia dal cortile. In un lampo, la porta dell’ingresso principale si spalancò e la sagoma in camicia da notte e bigodini di mia nonna si posizionò esattamente al centro di essa.

«Jules!», strillò, «Sei impazzita? E’ notte fonda! Dove stai andando?»

Il venticello gelido le scompigliò qualche ciuffo bianco di capelli.  Si strinse le braccia attorno.

«In centro», le dissi «Torno presto, te lo prometto.»

«In centro? Misericordia, Jules! E’ pericoloso, è notte.»

Tirai un po’ di più la testa fuori dal finestrino e le sorrisi : «Raggiungo un'amica. Il dottor Lewis ha detto che devo socializzare, ricordi?».

Mia nonna aggrottò la fronte «In piena notte?»

Il mio sorriso si fece più marcato, desideravo dargliela a bere tanto quanto desideravo farla tranquillizzare. «Dai, non preoccuparti nonna.»

Feci per rimettermi in marcia.

«Jules, dico sul serio, torna in casa.»

Non l’ascoltai.

«Jules!»

Ero mortificata ma qualcosa in me mi spingeva verso la strada, verso quell’obiettivo e non potevo fermarmi.


L’Inferno si rivelò più lontano del previsto: il locale si trovava a quasi mezz’ora di viaggio, rintanato dalle parti della costa. Con il navigatore ancora acceso, accostai e mi fermai nel parcheggio di un grande edificio di mattoni con l’insegna al neon: Inferno. I muri erano sporchi, ricoperti di graffiti e la strada davanti all’entrata era colma di mozziconi di sigaretta. Cercai di mantenere un’aria disinvolta e sicura, in realtà ero nervosa.

Attraversai il marciapiede e mi misi in coda per entrare.

Quando toccò a me, mi infilai dentro, verso il labirinto di luci lampeggianti e suoni assordanti.

«Dove pensi di andare?». All’improvviso, un braccio muscoloso e peloso mi si piazzò davanti.

L’uomo dalla voce arrochita dal fumo e la barba incolta mi scrutava con un grugno per niente rassicurante.

«Sto cercando una persona.», esitai.

«Vuoi entrare? Paga.»

Attaccata alla sua sinistra la tabella con il prezzario.

Non avevo dodici dollari per l’ingresso e anche se li avessi avuti non li avrei spesi per entrare in quel postaccio.

«Certo…I soldi.»

Feci un passo indietro e infilai una mano nella tasca del giubbotto. Poi feci qualcosa di inaspettato, non da me.

Con uno slancio felino, mi abbassai sorpassando il suo braccio teso, lanciandomi in una corsa disperata verso l’ignoto di quel locale.

Non contenta, diedi persino qualche spintone per passare tra la folla, attirandomi diverse parolacce e qualche imprecazione. Nulla mi avrebbe fermata.

In quel momento, il giudizio su me stessa stava cambiando: mi divertiva scappare dalla security di un locale? Da quando? Non ero mai stata quel genere di persona che vive al di sopra delle regole, né tanto meno una persona sprezzante del pericolo o a cui piace commettere ingiustizie.

Ad ogni modo, di Kael non c’era nemmeno l’ombra. Eppure, quel posto non sembrava così grande, forse  c’era solamente molta più gente di quella che poteva ospitare.

Il cassiere mi seguì urlando.

«Stronzetta, fermati immediatamente!».

Non ne avevo alcuna intenzione, ovviamente.

La prima stanza era illuminata da neon azzurri. C’era un lungo bancone nero e tante, tantissime, bottiglie colorate stipate su una parete illuminata a giorno. Vari brani riempivano la stanza e tante persone sorseggiavano drink fra una chiacchiera e l’altra. Notai con la coda dell’occhio un secondo ingresso. 

Da dietro una tenda scura proveniva una luce rossa e capii perché quel locale si chiamava Inferno.

La seconda stanza era un emisfero a parte. Se non avessi calpestato lo stesso pavimento, avrei potuto giurare che si trattasse di due locali ben distinti.

Il bagliore rosso spalancava la vista su una distesa di teste danzanti. Due gabbie sospese per l’aria permettevano a tre ragazze seminude di cimentarsi in acrobazie, sospese nel vuoto. Un dj, cuffia alla mano, pizzicava i pulsanti di una tastiera enorme. Ai lati, divanetti occupati e tavolini colmi di bicchieri e bottiglie vuote.

La stanza rossa era il cuore dell’Inferno. Una discoteca nascosta in piena costa che dall’esterno sembrava quasi non esistere.

Non c’erano finestre e l’aria era satura di mille odori diversi. Quello che spiccava di più, oltre al pungente tanfo di alcool, era quello nauseante di zolfo.

Stavo per gettare la spugna quando, seduto su uno dei tanti divanetti, con le braccia spalancate lungo lo schienale, vidi Kael.

«Kael!», gridai.

Intanto il cassiere mi aveva raggiunta e afferrata per una spalla. «All’uscita, subito.».

Le labbra di Kael si piegarono in mezzo sorriso, difficile dire se beffardo o amichevole.

«Juges, lei è con me.»

Kael ci aveva raggiunti e quel lei è con me sembrò aver funzionato perché Juges allentò la presa.

Prima che cambiasse idea, mi tolsi la sua mano di dosso e avanzai verso l’unico volto famigliare in quel posto.

All’inizio decisa, ma poi, mano a mano che mi avvicinavo a lui, la mia sicurezza iniziò a vacillare. Mi ero accorta che in lui c’era qualcosa di diverso. Non avrei saputo dire cosa, ma lo avvertivo come una scossa elettrica. In quel momento Kael mi sembrava più ostile e più sicuro di sé.

Più libero di essere se stesso. E quegli occhi scuri, quasi neri, mi stavano addosso, come due calamite attirate da ogni mio movimento. Deglutii, cercando di ignorare la strana sensazione di pericolo nel mio stomaco.

Non avevo idea di cosa non andasse in lui, ma qualcosa c’era. Qualcosa di sbagliato…Di poco sicuro.

«Non posso crederci…Fin qui?»

Spalancò le labbra divertito, scandendo parola per parola la frase.

«Se la montagna non viene a Maometto…»

Non mi accorsi subito che lo stavo fissando come inebetita.

Il sorriso divertito stampato sulle labbra di Kael non accennava a sparire.

«Be’ adesso sei mia ospite, avanti…»

Gli si formò una fossetta sulla guancia. Incominciava a darmi sui nervi quell’espressione. Anzi, no, ero io a darmi sui nervi perché trovavo irresistibile quell’espressione. Kael mi tese la mano facendola scivolare lungo il mio braccio, poi, agganciando le dita alle sue, mi condusse verso i divanetti.

«Che posto è questo?»

Non avevo mai visto quella gente. Ragazzi e ragazze, donne e uomini che si scatenavano a ritmo di musica, vestiti in abiti succinti e pieni di brillantini o paillettes. 

«Secondo te?»

Kael si accomodò a sedere aspettando una risposta con lo sguardo fisso su di me.

«Sembra un club per scambisti.» Mi accomodai accanto a lui.

Sospirò un sorriso «Potrebbe esserlo, si.»

«Lo è?»

Adesso rideva più forte «No, non lo è.»

Afferrò una bottiglia scura e me la porse.

Allungai d’istinto il mento cercando di capire dall’odore del contenuto cosa fosse.

«E’ birra, Jules.»

«So riconoscere la birra.»

Non riuscivo a sostenere il suo sguardo per più di qualche attimo, il ché mi sembrava assurdo.

I suoi occhi continuavano a restarmi incollati. Mi sentivo studiata, osservata, spiata, in un modo che per qualche ragione malata incominciava a piacermi e allo stesso tempo a terrorizzarmi.

Agganciai con le dita il vetro della bottiglia.

Speravo che facendo qualche sorso di alcool, i nervi si sarebbero allentati.

«Stai mandando all’aria la mia serata.» disse Kael, senza smettere di accennare un sorrisetto.

Dall’altra parte del divanetto, un paio di ragazze mi lanciarono un’occhiataccia.

«Direi che siamo pari, no? Tu stai mandando all’aria i miei voti in biologia.», mandai giù un altro sorso di birra. 

I suoi occhi catturarono i miei e non potei far a meno di ricambiare il sorriso, ma solo per un istante.

«Dunque? Sei arrivata fin qui per farmi delle domande, no?».

«Certo e facciamo alla svelta, incomincio a sentire caldo qui dentro. Il tuo sogno più grande?».

Ero orgogliosa della velocità con cui avevo posto quella domanda a bruciapelo. Non si poteva rispondere sovrappensiero.

Kael si sporse verso di me, gli occhi alla sala da ballo: «Baciarti.»

«Non è divertente.»

«No,» spostò lo sguardo a me e sentii bruciarmi una guancia «ma ti ha fatto arrossire.»

Impassibile, almeno in apparenza, mi feci dritta con la schiena e accavallai le gambe «Lavori?»

«Faccio il barman quando non c’è lezione.»

«Sei credente?».

Non sembrò sorpreso dalla domanda, ma nemmeno felicissimo di dover rispondere «Sì e no.»

«Religione?».

«Più che religione, una setta.»

«Appartieni ad una setta?»

«Si e avevo giusto pensato ad un sacrificio femminile, attirando la ragazza in questione in questo posto…»

«Guarda che non mi impressioni.»

Dalla mia faccia sparì ogni traccia di sorriso.

«Non ho nemmeno iniziato a provarci.»

«Ho sentito dire che sei stato bocciato diverse volte e che hai qualche anno più di noi.».

«Chiunque te l’abbia detto non è il mio portavoce.» In realtà lo avevo sentito dire da un paio di ragazze durante la pausa pranzo, ma lì per lì non ci avevo dato molto peso.

Era tornato ad osservare la sala distratto dallo sculettare di qualche ragazza che si faceva largo fra i tavolini davanti a noi.

«Stai negando di essere un ripetente?»

«Sto dicendo di non essere andato a scuola l’anno scorso.»

Kael mosse l’indice per far si che mi avvicinassi di più a lui «Vuoi sapere un segreto?».

Annuii.

«L’anno scorso ho fatto qualcosa di molto più interessante che andare a scuola».

«Tipo?»

I suoi occhi rimbalzarono, neri come la pece, sul mio viso.

«Ho osservato.»

Nell'esatto momento in cui Kael aveva pronunciato quella frase, un capogiro mi fece salire la nausea. Avevo caldo, così caldo, che pensai di trovarmi dentro un forno impostato a duecento gradi.

Strinsi con i polpastrelli entrambe le estremità della seduta. 

«Va tutto bene?».

«Deve essere stata la birra, non bevo mai.»

Mi sollevai dal divanetto. Le gambe estremamente molli. La musica sembrava più alta e rimbombava nella mia testa come un martello pneumatico.

«Sei pallida.» La voce di Kael mi sembrava un eco lontano. Chiusi le palpebre per un paio di volte. La sua espressione mutò da preoccupata a divertita e poi ancora, malvagia. Quando spalancai le palpebre per l'ultima volta, Kael era semplicemente Kael ed io mi sentivo come quando la mente mi giocava brutti scherzi, facendomi credere di vedere cose che non erano mai esistite.

«Sto bene. Sto bene.»

Si mosse verso di me.

Allarmata non tanto dal fatto che mi sentissi male quanto dalla sua affermazione, arretrai.

Kael adesso era in piedi davanti a me e mi fissava.

Ero certa volesse dirmi qualcosa, potevo quasi leggerglielo dentro.

«E’ meglio che vada.» Un altro passo indietro.

«Ti accompagno fuori, se vuoi.»

Sollevai i palmi delle mani e li scossi «No, non ce n’è bisogno, davvero.». Inavvertitamente, urtai il tavolino e alcune bottiglie si rovesciarono disastrosamente. Adesso avevo il jeans zuppo di liquore alla menta e chissà quale altro intruglio dolciastro.

«Merda…».

Ignorando i capogiri e le ondate di nausea che, francamente, adesso erano più panico che altro, strappai un po’ di carta dal portatovaglioli e mi tamponai la gamba bagnata.

«Sei veramente goffa.», commentò ad un certo punto lui.

Il mio sguardo schizzò per aria. Kael era ad un passo da me. La velocità di quel movimento non mi permise nemmeno di avere il tempo per sussultare.

Inarcò un sopracciglio. Di nuovo quell’espressione goliardica stampata in faccia. «Quindi? Tutto qui?».

Abbandonai l’idea di asciugare la stoffa, era troppo zuppa. Lanciai il pezzo di carta sul tavolino e raddrizzai la schiena.

«Hai fatto tutta quella strada solo per chiedermi a quale credo appartengo?».

Sentivo il bisogno di aggiungere qualcos'altro. Passai al vaglio i pensieri che mi agitavano la mente, cercando di capire che cosa dirgli.

Perché si prendeva gioco di me in quel modo? Cosa avevo fatto per meritarmelo?

«Sembra che tu sappia molto di me, anche più di quello che dovresti sapere.» dichiarai infine «Sai perfettamente come mettermi a disagio».

«E’ sin troppo facile.».

Fui assalita da diverse emozioni, la più dirompente era la rabbia.

«Allora ammetti di farlo apposta?».

«Cosa?».

«Provocarmi.»

«Dillo di nuovo. Provocarmi. Quando lo dici la tua bocca diventa provocante.»

«Abbiamo finito. Davvero.»

Stavo per voltarmi quando decisi di dirgli quello che realmente pensavo.

«Non mi piace stare qui con te.» dissi «Non mi piace studiare con te e odio l’idea di dover condividere un intero semestre con te.» Avevo la mascella contratta, il che mi succedeva spesso quando mi sforzavo a dire cose che non pensavo davvero. «Non mi piaci.» conclusi cercando di essere il più convincente possibile.

«Sono felice che il coach ci abbia messo di banco insieme.» replicò lui.

Notai una leggera nota d’ironia nel pronunciare la parola coach, ma non riuscii a trovare nessun significato recondito. 

«Farò in modo di cambiare le cose.»

A giudicare dal sorriso che sfoderò, doveva trovare la cosa molto divertente.

Stavo per mandarlo al diavolo, quando allungò una mano verso di me e, prima che riuscissi a spostarmi, mi sfilò qualcosa dai capelli.

«Un filo di stoffa.» con un movimento elegante lo lasciò cadere a terra. Fu allora che notai un segno sulla parte interna del polso. All’inizio pensai fosse la parte terminale di un tatuaggio, guardandolo meglio, mi accorsi che era una cicatrice rossiccia leggermente in rilievo, simile ad una macchia di vernice. Molto più simile…Ad una bruciatura.

I nostri occhi si incrociarono all’istante. 

Chi era quel ragazzo e perché aveva la stessa identica bruciatura sul polso che mi ero inferta io?

 

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