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Questa
storia partecipa alla challenge del #Writeptember2023
del gruppo Hurt and Comfort Italia.
Day 2: 1. Amaro
3. “X non può venire”.
Fandom:
Netflix One Piece
Personaggi: Zoro, Mihawk
«Questo sarebbe il migliore che hai?» Zoro squadrò Mihawk con una certa stizza, si aspettava una gran bevuta
per quella sera.
«Non ho detto che questo sia il migliore, non ho mai affermato di volerlo
condividere con te.»
«Simpatico, come sempre. Se solo non fosse una tregua, ti avrei già aperto in
due.»
L’uomo rise, memore del loro primo scontro, di cui Zoro stesso portava ancora
traccia sul petto. «Sì, come no. Avevi fatto intendere la stessa cosa anche la
prima volta.»
«Comunque cosa è questa roba? Il sapore è amaro…»
«Ti lamenti come un ragazzino, adesso? Pensavo il tuo stomaco elaborasse meglio
l’alcool.» Mihawk dondolava seguendo un ritmo tutto
suo, gli stivali poggiati su uno dei barili non ancora caricati dal porto. Un
equilibrio raro, dopo aver ingurgitato tutte quelle bottiglie. «Sì, è amaro,
sì, è di qualità, sì, è buono. Non ti serve sapere altro.»
Zoro mandò giù ancora qualche sorso, prima di esibirsi in una espressione
buffa. Si stese sul passaggio in legno, tra le reti e le piccole barche
ormeggiate, soddisfatto di venir parzialmente nascosto dal cielo coperto di una
nottata davvero stramba. Tentava di trovare uno scorcio tra quelle nuvole per
niente rassicuranti, mentre mandava giù cercando di farsi piacere qualcosa di
tanto diverso dai soliti sapori più acidi, o al limite, dolci e frizzantini.
«E da dove verrebbe?»
«Non ci crederesti nemmeno se te lo dicessi.»
I silenzi si rincorrevano, tante erano le volte in cui si erano scontrati
ormai, e ancor più le ferite che si portavano appresso, sul corpo e dentro. Ma
a quei silenzi loro si stavano abituando, come alle occasioni di bevute in
compagnia.
«Adesso mi hai incuriosito, dai.» Nessuno biascicava, più abituati al rum che
all’acqua. «Dove hai trovato qualcosa di così… particolare?»
«Lo produco io.»
«Sì, come no.» Incredulo, forse, ma non voleva darlo a vedere. Dare una
soddisfazione a Mihawk equivaleva a esporre un
fianco, un errore di cui non avrebbe più permesso il ripetersi. «Se mi convinci
del suo essere così speciale, giuro che lo compro.»
«Allora preparati a pagare fior di berry.»
Mihawk non aveva scherzato affatto. Zoro si ritrovò
steso malamente sulla sua amaca, la nave così silenziosa da non mostrare alcuna
presenza di essere umano. La testa gli doleva terribilmente – assurdo, lui
l’alcool lo reggeva sempre perfettamente, almeno fino alla terza bottiglia – e
avrebbe volentieri sputato lo stomaco dalla bocca, se questo fosse servito a
farlo stare meglio. Si voltò su un fianco, raggomitolandosi e premendo la mano
sulla pancia. Non era molto dignitoso ma pareva meglio di qualsiasi altra cosa
in quel momento; avesse potuto avrebbe raggiunto il ponte, ma avvertiva i piedi
informicolati ed era certo sarebbe caduto prima di arrivare a destinazione.
Quante informazioni realizzate in così poco tempo.
Inspirò ed espirò, gli occhi bruciavano all’interno delle palpebre serrate.
“Pessima idea…!” e la nausea mordeva fortemente. “Prova col naso.”
L’unico rumore dentro e fuori, il suo susseguirsi di sospiri e respiri
rumorosi. Sì, avrebbe vomitato di lì a breve.
Si issò fino a sedersi sull’amaca, tremando e dondolando pericolosamente avanti
e indietro.
«Ce… ce la fai…» Al tre si alzò e ricadde in avanti, baciando con il volto il
pavimento in legno scuro della sua stanza. Mormorò un “no” avvilito,
constatando di quanto fosse stato pericoloso ciò che aveva mandato giù la sera
prima, se quello era davvero il risultato.
I sensi annebbiati non avvertirono il rapido spostamento d’aria.
«Ch-chi sei…?» Venne zittito da un paio di sillabe,
aveva riconosciuto la voce ma pareva una assurdità senza alcun senso. Mihawk sulla sua nave? Era pura idiozia.
«Al mio tre, dai un colpo di reni.»
Uno.
Due.
Tre.
Energia zero, muscoli contratti in modo maledettamente doloroso. Si sentì
sollevare come un sacco, a peso morto, e venne riadagiato sull’amaca, in modo
ordinato.
«Co… cosa ci fai tu… tu, qui.» Non una domanda, non aveva bisogno realmente di
una risposta, ma voleva tenersi sveglio e parlare in quel momento era l’unico
modo.
Il pirata alzò le mani in segno di resa. «Sono qui in pace, Luffy
mi ha contattato chiedendomi di vegliare su di te, come un padre su un bambino
febbricitante.»
Dove potesse essere il capo della ciurma non gli era dato saperlo, dunque.
«Ora non può venire, è impegnato. Presumo a mangiare, o a spendere soldi sul
cibo, o a fare scorta di viveri. Vedila come vuoi, lo conosciamo abbastanza,
direi. Ora pensiamo a te.»
Zoro si lasciò manovrare come una marionetta: da che aveva memoria non
ricordava un post sbornia così disastroso come quello. Una fitta orribile al
fianco lo fece gemere violentemente. Non era una vecchia cicatrice, non era un
acciacco, ne era certo. Qualcosa di nuovo gli stava punzecchiando una zona
precisa, qualcosa che non mollava e anzi, mordeva in modo selvaggio.
«To-toglimelo, ti… ti prego, Mih-» E perse i sensi.
La testa bruna di Luffy fece
capolino dal ponte, entrando senza cerimonie nella stanza semibuia di Zoro: Mihawk gli fece cenno di non fare confusione ma di questo,
si sapeva, il ragazzo non era minimamente capace. Si accasciò sul pavimento
chiedendo delucidazioni sulla situazione. «Così avete bevuto tutta la sera, eh.
Ma che cosa, per portarlo a stare così? Insomma, l’ho visto tante volte ubriaco
ma così… mai, giuro.»
«Ne vuoi?»
Il ragazzo annusò il contenuto della bottiglia appena aperta, trovata sul
pavimento accanto ai pochi effetti personali che Zoro portava sempre con sé, e
rimase spiazzato. «Sembra buono, anche se tanto amaro. E
forte direi.» Ne bevve un paio di sorsi in più; «fortissimo! No, no, io salto,
non voglio ridurmi così. Già devo controllare tu non faccia stupidaggini sulla
mia nave, devo restare sobrio per suonartele in caso non possa fidarmi.» Mihawk si sollevò dalla seduta a gambe incrociate,
era intirizzito. «Se non ti fidi, perché mi hai fatto salire?»
«Io mi fido dei miei compagni, e Zoro continuava a chiamarti nel sonno. Se lui
si fida così tanto, posso farlo anche io. Mi raccomando.» E Luffy
uscì, lasciando un pizzico di perplessità dietro di sé vissuta dall’insolito
ospite.
Zoro mugugnò nuovamente, girandosi e voltandosi, sudando per colpa del dolore. Mihawk rimestò nella sacchetta contenente farmaci, tastando
quello giusto: una pastiglietta bianca di piccole dimensioni. Pensava una potesse
fare effetto ma non era abbastanza. Sospirò, tentò di farla ingoiare a Zoro con
un sorso di acqua ma sputò il contenuto in un conato trattenuto a malapena.
Il rimedio per gli spasmi pareva davvero essere l’unica soluzione, altro che
classico post sbornia: nemmeno se avesse dormito tutto il giorno avrebbe
risolto qualcosa. Sospirò, sapeva non sarebbe stato piacevole ma adagiò la
pastiglia sulla lingua e la ficcò letteralmente in bocca a Zoro, non curandosi
dell’odore o del sapore acido di quelle labbra secche e disidratate. Sicuro di
averla fatta cadere si staccò per poi rovesciargli parte dell’acqua dalla
borraccia che teneva stretta al fianco. Gli tappò il naso così da costringerlo
a deglutire.
«Mi dispiace, ma l’hai voluto tu.»
“E che vado a pensare, dispiacermi per uno stupido che si è fatto venire le
coliche.”
«Oh, finalmente ti sei svegliato! Come stai?»
«Luffy, ti prego, sei fastidioso. Abbassa il volume
della voce, non la sopporto.» Zoro aveva la bocca impastata, una strana
sensazione di contrattura all’addome ma con un dolore basso, sordo, lontano: tuttavia
sopportabile. Si alzò a sedere e barcollando raggiunse il bagno, dove aveva
approfittato di guardarsi allo specchio.
Condizioni pietose, peggio di ciò che aveva preventivato al risveglio: occhi
cerchiati, colorito cereo, era sudato e stanco ma almeno riusciva a stare in
piedi da solo. Attorno alla bocca era arrossato, tipico segno di sfregamento.
Sfregamento da cosa, poi?
Dalla stanza Luffy lo guardò e gli confessò di non
aver mai visto un bacio così selvatico come il suo con quello di Mihawk.
La risposta? Il catino in ceramica scaraventato contro il proprio capitano.
«Ma che cazzo stai dicendo? Bacio cosa!»
«Dico quello che ho visto.» Luffy mimò con le labbra
una pomiciata e la lingua fuori.
«Via, prima che abbia abbastanza forze da tagliarti in due e buttarti ad
affogare in mare!»
Che poi quella storia del bacio non l’aveva nemmeno capita, ma farsi prendere
in giro dopo una nottata simile, di cui tra l’altro ricordava soltanto dolori
lancinanti e terribili e un forte odore di tabacco e rum, non era contemplato. Mihawk avrebbe dovuto spiegargli tante cose, ma avrebbe
dovuto attendere il suo nuovo attracco.
Questa
storia partecipa alla challenge del #Writeptember2023
del gruppo Hurt and Comfort Italia.
Day 3: 3. Ore più calde.
4. È il momento.
Fandom:
Netflix One Piece
Personaggi: Luffy, Zoro
«Sei stato uno sprovveduto. Sarebbe potuto succedere di
peggio, e lo sai. Questo è ciò che fa un buon capitano?» Zoro faceva fatica a
mantenere il tipico atteggiamento distaccato, cinico e distante cui aveva
abituato i suoi compagni di ciurma. Un carattere non certo facile il suo, ma Luffy era in grado con un solo singolo gesto di mandare
all’aria ciò che lui definiva il suo tipico autocontrollo.
Perché stavolta l’aveva fatta grossa.
Oh, se c’era riuscito.
L’approdo nell’isola deserta di quel piccolo arcipelago non era stato certo una
buona idea, come quella di Luffy di sfidare uno degli
enormi animali locali a chi avrebbe chiuso per ultimo le palpebre. A metà
pomeriggio la bestia aveva ceduto per esasperazione.
Umoristico il modo con cui rispondeva lui, spavaldo, sotto al sole cocente
contro un animale a sangue freddo che godeva della presenza dei raggi solari
cocenti addosso: «È il momento, Zoro, me lo sento.»
«Oh, sì, adesso cede.»
«Il momento giusto. Sì, sì, fidati.»
E via dicendo.
Sarebbe stato quasi divertente non si fosse svolto il tutto nelle ore più calde
di quella giornata infinita, con quasi 60°C all’ombra e una umidità del 96%.
Zoro, sfinito dall’afa indicibile e dai vestiti zuppi di umidità e di
impazienza, recuperò il capitano che portava stampata addosso una faccia da
idiota soddisfatto, la fronte ustionata dal sole, le labbra crepate su più
punti e un prossimo collasso per colpa di un colpo di calore.
«Perché solo io devo avere a che fare con degli scemi, Luffy,
spiegami.»
La poppa della nave a quell’ora portava il maggior ristoro, lontana da
quell’atollo lacustre e impossibile; Zoro continuava a lamentarsi mentalmente,
ormai s’era infastidito con le sue stesse parole. Stava passando un balsamo
sulle labbra del capitano, dopo aver tamponato il labbro inferiore spaccato.
“Incredibile. E tocca pure a me aiutarlo. Ma si può.”
Depose il vasetto nel bauletto, per poi estrarne un altro contenente un
unguento oleoso, dal profumo frizzante, da passare sulle bruciature evidenti.
«Cosa dobbiamo fare con te?» Luffy sorrideva nonostante il dolore dei tagli.
«Perché? Tu che vorresti fare con me?»
Zoro rovesciò parte del contenuto, lanciò letteralmente da un metro di distanza
il resto della sostanza sul volto del ragazzo e si allontanò a una buona
distanza di sicurezza.
Era giovane Luffy, e incapace di malizia, giusto?
Giusto?
Lo spadaccino corse a sciacquarsi il volto improvvisamente arrossito. “Avrò
preso troppo sole, sicuro. Adesso vado lì fuori, mi assicuro abbia bevuto a
sufficienza e basta. Basta.”
«Allora, Zoro, quando mi rispondi?!»
«Sta’ zitto!»
Questa
storia partecipa alla challenge del #Writeptember2023
del gruppo Hurt and Comfort Italia.
Day 4: 2. Premiato.
3. “Dovrai proteggerl*”.
Fandom:
Netflix One Piece
Personaggi: Usopp, Kaya (missing
moment, reinterpretazione)
«Stai ferma, prometto che farò piano.» La voce di Usopp era poco ferma, come le sue mani che tremavano
lievemente. Grazie ai suoi nuovi amici era riuscito a scacciare Kuro dalla sua isola, dalla sua casa, e soprattutto da
Kaya. Non senza conseguenze, però: la ragazza, già debilitata a sufficienza dal
maledetto veleno, era stata ferita durante la fuga terrorizzante all’interno
della sua stessa casa.
Quattro mura di prigionia, in balia di un pirata pazzo e megalomane.
I brevi lamenti denotavano una forza di volontà più grande di una basica
resistenza fisica.
«Tieni, mordi. Aiuta.» Usopp le porse il proprio
avambraccio, sapendo quanto potesse essere doloroso venir ricucita, dopo averle
disinfettato in fretta il braccio. «I tagli sono abbastanza profondi, sono costretto
a ricucirteli ma finirà subito. Mordi quando senti il bisogno di urlare. O… di
piangere.»
Un metodo controproducente forse, ma desiderava soltanto il meglio per Kaya, e
al momento non aveva altro con sé.
L’ago entrò una prima volta, e Kaya s’era soltanto aggrappata malferma. Avrebbe
potuto – dovuto – sopportare, non poteva farsi vedere così debole di fronte al
suo migliore amico.
Il filo scorreva rude, l’ago pungeva i lembi di pelle divisi con lame affilate
come rasoi. Per questo erano penetrati nella carne con tanta facilità.
Al terzo punto lei morse tra le lacrime, vergognandosi della propria debolezza,
e strinse più forte che poteva: non un solo altro gemito sarebbe uscito dalle
sue labbra.
«Lo so, lo so tesoro che fa male. Lo so, mi dispiace, ma ho quasi finito.» Le
parole che Usopp rivolse a se
stesso uscirono come sussurri, uditi debolmente da Kaya, intenta a non permettersi
di singhiozzare ancora. Quel “tesoro” lo aveva colto ma non ci aveva dato peso,
non era riuscita a recepirne il significato. Come non aveva mai colto la
sottile differenza tra amicizia e qualcosa di più, da quando le visite
quotidiane di Usopp per lei erano diventate la via di
fuga dalla realtà dolorosa di cui aveva sempre avuto bisogno negli ultimi tre
anni, dalla triste e disperata dipartita dei suoi genitori.
«Ancora uno e ci siamo. Promesso, tu però resisti.» Un ultimo morso, gli
incisivi a segnare la pelle abbronzata dal sole di mare. Ad Usopp
provocava dolore, le stilettate non gli erano indifferenti ma questo non aveva
minato la precisione del suo lavoro, nonostante non fosse un medico. «Brava…»
ci avrebbe pensato dopo, l’incolumità di Kaya era al primo posto.
«Ehi, abbiamo finito.»
Lei sospirò, mascherando coi polsi le scie umide che le rigavano il volto, e
con un sorriso altrettanto maldestro.
«E sei stata davvero coraggiosa, davvero. Brava.»
Kaya gli saltò al collo, stringendo Usopp con tutta
la forza che il corpo sfiancato le permetteva. Non l’avrebbe lasciato andare
facilmente, anche se in cuor suo sapeva che i giorni passati ad ascoltare le
sue avventure assurde, sarebbero giunti al termine quella stessa mattina.
«Promettimi che mi racconterai tutto ciò che accadrà d’ora in poi, quando ci
rivedremo. Promettimelo. Promettimi che gli starai accanto, dovrai proteggerli
perché loro avranno bisogno del grande Usopp.»
La strinse a sé, dimenticando di non essere solo, di avere accanto dei nuovi
amici, forse futuri compagni di avventura, chissà. Col rischio di essere preso
per romanticone da smancerie, si voltò verso Kaya e la baciò, piano, incerto,
delicato. La baciò, premiato con quel contatto così intimo da tutte le fatiche
passate quella notte. «Promesso. Tutto quello che vivrò lo vivrò per
raccontartelo.»
Questa
storia partecipa alla challenge del #Writeptember2023
del gruppo Hurt and Comfort Italia.
Day 5: 1. L’attesa è finita
2. Valore
3. “Noi lo sappiamo”
Fandom:
Netflix One Piece
Personaggi: Zoro, Mihawk, ciurma di Luffy
Come al solito, le cose me le interpreto da sole.
Arlong era sconfitto.
In barba a tutti i pronostici, ce l’avevano fatta.
E come Zoro aveva immaginato, ne avrebbe patito le conseguenze fin da subito.
L’essersi ristabilito solo parzialmente dal combattimento con Mihawk stava palesando le sue prime problematiche;
nonostante l’aiuto di Sanji, aveva usato troppe
energie – e perso un medio quantitativo di sangue – per contrastare la ciurma
degli Uomini Pesce di quel pazzo.
Un errore imperdonabile, sotto il suo punto di vista, ma non aveva avuto
scelta. Nonostante gli allenamenti assidui a cui si era sottoposto fin da
bambino, ancora non riusciva a recuperare abbastanza in fretta: un problema non
da poco.
Poco bevve quella sera per festeggiare, anzi, lo stomaco era chiuso. Gustò i
piatti del cuoco di bordo, ultimo acquisto non così malvagio come aveva invece
preventivato, ma niente di più.
I pesci prima, la Marina poi…
Voleva soltanto addormentarsi, scordarsi del dolore e di una delle giornate più
faticose di cui aveva memoria.
«Anche tu non riesci a
dormire stasera?» Luffy guardò Zoro dalla prua della GoingMerry, fiero e sfiancato.
Lo spadaccino ancora non aveva inquadrato l’utilizzo del cinismo da parte del
capitano, aveva semplicemente concluso con una alzata di spalle, poggiandosi
accanto a lui e sperando in un sonno ristoratore. La ferita al petto bruciava
terribilmente, e arrivò al punto in cui non poté trattenere un gemito di
esasperazione. Luffy gli si avvicinò, estremamente vicino, tanto da
sentire l’odore di Rum dal suo fiato. Pietrificato da tale confidenza gelò non
appena il suo capitano gli toccò la parte lesa e bendata. «Stai perdendo ancora
sangue, dobbiamo cambiarla. Vieni, faccio io.» Un sorriso liberatorio il suo,
ma per Zoro non era affatto una buona idea.
«Non ce n’è bisogno.»
«Oh, sì invece. Fidati di me. Ti fidi?»
Non avrebbe potuto fare altro, aveva scelto di fidarsi di Luffy
dal momento in cui l’aveva accettato come capitano.
«Se peggiori la situazione, potrei volerti tagliare un braccio.»
«Mnh!» I punti tiravano, ma l’orgoglio di Zoro di
più. Non si sarebbe lamentato ad alta voce, non così, non davanti al prossimo,
soprattutto se quest’ultimo tendeva a tastargli continuamente il torso attorno
alla ferita con una delicatezza inesistente.
«Su su, mio vice, l’attesa è finita. Ed ecco qui,
l’ultimo nodo e ho fatto.»
Il petto era fasciato malamente, le bende annodate su più punti, ma il sorriso
soddisfatto di Luffy avrebbe lasciato correre su ogni
imperfezione – ci avrebbe pensato da sé a risistemare, in qualche modo.
Cercò di congedarsi e tentare di prendere sonno ma pareva che il capitano non
ci sentisse da quell’orecchio; gli avrebbe tenuto compagnia fino a che non
l’avrebbe visto addormentarsi, questa la promessa.
Non proprio ben accolta, ma Luffy era testardo.
«…ro»
«Zoro…»
«Zoro!»
Il ragazzo si alzò di scatto, gli zigomi bagnati, la ferita sanguinante: aveva
macchiato nuovamente le bende, il dolore e il sonno agitato aveva risvegliato
incubi assordanti e insopportabili.
«Zoro, stai bene? Dimmi di sì, mi sto preoccupando…»
«Sì, Luffy, non insistere.»
«Allora perché stavi piangendo?»
Piangendo? Che idiozia, non avrebbe mai pianto, figurarsi di notte. Non fosse
stato per il cuscino bagnato da un lato e la pelle umida, non avrebbe dato
credito a quello che aveva sentito. Si toccò il volto, mascherando malamente la
vergogna.
«Non ti preoccupare, noi lo sappiamo come vanno queste cose.»
«Quali cose, sentiamo.»
«Le nostre cose, le cose da pirati, no? Non ci si deve vergognare, se si
piange. Sei un duro, Zoro, e ti rispetto e ammiro.»
Un cenno di assenso, non avrebbe concesso di più, Zoro non era abituato a
ricevere questo genere di complimenti così sentiti, perché forse di Luffy si poteva dire tanto, ma non che non fosse sincero.
Si sentiva chiamare, tra un singhiozzo e l’altro: le urla lontane lo stavano
spiazzando, non aveva idea di dove fosse e cosa stesse accadendo. Odore di
stantio, scricchiolii di ossa rotte e parole di sconforto e rabbia lo stavano
letteralmente travolgendo e non era capace né di parlare, né di agire in alcun
modo.
Lei.
Era lei, venuta a cercarlo per sputargli il disonore su una promessa non mantenuta
perché lui sapeva, sapeva che non era ancora riuscito a raggiungere il suo, il
loro obiettivo.
Si svegliò nel panico totale, in apnea, la tachicardia a battergli nelle
costole e all’interno della ferita ancora non guarita. Tentava di riprendere
fiato a vuoto, deglutendo a fatica: la gola serrata non gli permetteva di mandare
giù l’eccesso di saliva in alcun modo, e questo non lo aiutava. Era terrorizzato
da se stesso e da ciò che gli stava accadendo, quando
sentì la voce di Mihawk chiamarlo, la sua mano sulla
spalla.
«Zoro, guardami: è tutto a posto?»
Non lo era, non sapeva come dirlo. Scosse il capo in modo disordinato, sperando
di farsi capire: no, non era tutto a posto, al contrario. I sensi di colpa lo stavano
divorando, cercando di trascinarlo in basso, sempre più in basso, oltre quelle
travi dure di legno levigato.
«Sono arrivato appena ho potuto.»
Gli occhi di Zoro si spalancarono soltanto quando realizzò davvero di avere Mihawk accanto: non gli importava perché, non gli importava
il come, era un appiglio a cui affidarsi in quel momento di perdita totale di sé.
Si allungò verso di lui, vi si aggrappò con tutte le forze che possedeva,
incurante della ferita dolente, e non soltanto quella sul petto.
«Grazie, Luffy. Se non mi avessi chiamato, Zoro
avrebbe potuto perdersi in posti a noi troppo lontani.»
Il capitano era estraneo a quel tipo di sensazione, una frase troppo complessa
e astratta cercava di impattargli nella testa senza permettergli di comprenderla
nel complesso. «Non so esattamente cosa tu intenda, Mihawk
della flotta dei Sette, ma grazie di essere tornato qui. Questi aggeggi sono
davvero utili,» indicò il lumacofono portatile con
cui aveva contattato Mihawk, una linea privata tra loro
soltanto. «Se Zoro lo sapesse, pretenderebbe di non farmelo usare più. Non
sapevo come calmarlo, oggi era già stato male ma quando l’ho visto peggiorare…
beh, io non sono un medico, e tu…» Rimase senza parole, arrossendo.
«E io ti sono parso semplicemente la persona più affidabile da contattare. Hai fatto
bene, non ti preoccupare, ragazzo. Sei un capitano di valore, sai prendere le
tue decisioni al momento giusto, anche nell’incapacità di agire direttamente. Non
è da poco, Luffy Cappello di Paglia.»
«Io sarò un capitano di valore, ma tu sei un uomo di valore, ti ringrazio e
penso ti contatterò di nuovo.»
«Non ho dubbio. Ora però devo andare. Fammi sapere di Zoro.» Luffy stava per congedarsi quando una ultima domanda
lo fermò dal lasciare andare l’ospite: «perché lo fai?»
«Capirai quando crescerai, Cappello di Paglia. Alla prossima.»
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del gruppo Hurt and Comfort Italia.
Day 6:
3. “Sei un medico?”
4. Si fa per ridere
Fandom:
Netflix One Piece
Personaggi: Zoro, Sanji
«Guarda se devo
trovarmi in una situazione simile con te. Siamo in isolamento, ed è tutta colpa
tua.» Sanji era steso su una barella, affiancato a
quella dove giaceva Zoro, incurante della situazione, che se la stava dormendo
della grossa. «Sto parlando con te, sei l’unico qui dentro e non vedo nessuna
infermiera. Ah, che sfortuna.»
«Zitto, non riesco a dormire così. Fa’ come me, chiudi gli occhi e taci.» Zoro
calcò sull’ultima parola, sicuro di far passare il giusto messaggio: il
silenzio.
«Se credi che me ne starò zitto solo perché lo vuoi tu… potrei parlare tutto il
tempo. Sai che ne sarei capace.»
Il discorso a senso unico di Sanji venne interrotto
dalla presenza di uno strano medico, un omone di mezza età intento a studiare
il contenuto di due cartellette.
«Oh, ecco qualcuno con cui ragionare. Buon uomo, non è che potrebbe spieg-»
«Silenzio! Non sono qui per perdere tempo, io. Immagino sappiate il motivo per
cui vi trovate in quarantena.»
«Quarantena?» Sanji parve perplesso, Zoro alzò una
palpebra giusto per osservare la situazione senza essere osservato a sua volta.
«Zitto! Sì, quarantena, se soltanto voi stolti pirati non aveste fatto finta di
niente ora sareste a casa vostra. Invece no, avete deliberatamente ignorato il
cartello, per cosa poi?»
Zoro sollevò le braccia con gesto teatrale, ridendo ironico: «non è colpa mia
se questo imbecille ha voluto inseguire un gruppo di infermiere fino a dentro
il campo medico. Stupido.»
«Coglione. Che ne vuoi sapere tu?»
«Niente, infatti. A quest’ora saremmo già sulla nave, e invece devo condividere
la compagnia di un cretino e un medico che non sa farsi i cazzi propri.»
«Come, scusi? Guardi che le conviene portarmi rispetto. Se sarete sfortunati,
sarò l’ultima persona che vedrete.»
«Qui?»
«Non solo.»
Una infezione locale. Il centro medico era stato isolato per il riscontro di
patogeni di origine sconosciuta in più pazienti e in parte dello staff, ma
questo Sanji non poteva saperlo, troppo impegnato nel
suo vizio più soddisfacente e destabilizzante: l’esistenza del genere
femminile. La situazione pareva surreale, lui e Zoro erano chiusi in una tenda,
uguale ad altre con lo stesso identico scopo, quello di tenere gli eventuali
infetti lontani dal resto degli ospiti.
Anche se i sintomi non si erano ancora palesati.
Il dottor Lancet li aveva avvertiti, non sarebbero potuti uscire fino a quando
gli esami non sarebbero risultati negativi; alla domanda di quanto tempo ci
sarebbe potuto volere per ottenerli, la risposta li aveva spiazzati.
Ventiquattro ore.
Ventiquattro ore chiusi in uno spazio relativamente angusto, nella compagnia
reciproca senza possibilità di uscire, sgranchirsi, fumare una sigaretta. Due
brande, una toeletta, un baule per gli effetti personali, nient’altro: spoglia,
vuota, non insonorizzata.
Infatti la prima cosa che aveva spiazzato i due pirati era il suono dei lamenti
di altri chiusi lì intorno, come loro. O di chi pregava per sé e per la propria
salvezza.
Il nervosismo di Sanji per la mancanza di nicotina
era pari a quello di Zoro nel sentirlo lamentarsi. Non si tolleravano granché,
e le poche frasi scambiate l’uno con l’altro erano insulti e colpevolezze
sputate con cinismo. Poco importava di chi fosse stata l’idea, la situazione
non era a loro favore: avrebbero potuto tranquillamente eludere la
sorveglianza, ma questo avrebbe voluto dire rischiare di portare il virus a
bordo, farlo uscire dal campo d’isolamento e inevitabilmente diffonderlo per i
mari e nelle altre isole dell’arcipelago. Non era una buona idea, erano
abbastanza svegli – furbi – per non scatenare con il loro egoismo una eventuale
pandemia inarrestabile.
La sera aveva lasciato il posto a una nottata fin troppo rumorosa e inquieta:
nuove voci si erano aggiunte a quelle di qualche ora prima, a quanto pareva il
decorso della malattia era abbastanza rapido. I pirati non volevano darlo a
vedere ma il disagio e la preoccupazione stavano cominciando a invadergli la
testa. La tenda buia non permetteva possibilità di muoversi in modo decente,
cosa che a Zoro stava cominciando a pesare: avrebbe voluto uscire e camminare,
allenarsi, perché no, picchiare eventualmente qualcuno per sfogarsi ma non
avrebbe osato.
«Non mi da fastidio, fuma se devi.» Sanji si accese con dedizione una sigaretta,
gustandone il sapore acre scendere nella gola: la soddisfazione data dal vizio
alleggerì i suoi pensieri per quei pochi minuti, prima di farli riaffiorare ben
più forte. Il silenzio in fondo non aiutava affatto, e le prime domande
intrusive non tardarono ad arrivare.
«Non cominciare, è notte, voglio dormire.»
«Zoro, ma secondo te, quanto tempo impiegheremmo a morire se ci ammalassimo?» Una
questione giustamente interessante per la loro situazione.
«Non saprei. Senti quanto urlano ancora loro, calcola da quando siamo qui e hai
la risposta alla tua domanda.»
«Fai schifo, sei un cinico bastardo.»
Zoro non si scompose a quell’insulto, lo sapeva bene: aveva già così tanto
giocato con la morte che per lui non era un pensiero poi tanto lontano,
disgustoso o terrorizzante come sarebbe potuto essere
per molti altri. «No, voglio solo portare a casa la pelle, quindi me ne sto
tranquillo.»
«E se fossimo stati contagiati? E se…» Sanji
singhiozzò, fu il primo a stupirsi di quel gemito. «E se…»
«E se niente, tu non morirai, io non morirò e torneremo sulle nostre gambe da
quel testone di Luffy.» Esitò Zoro, sapendo che
probabilmente ciò che aveva detto avrebbe faticato ad arrivare a destinazione.
«Te lo prometto.»
«Ah, ma perché, adesso sei un medico?»
«Idiota, stavo solo cercando di farti stare meglio. Ovvio che non sono un
medico, ma sto provando a evitare di sentirti piangere come un bambino.»
«Chi starebbe piangendo come un bambino? Stai scherzando, vero? Guarda, adesso
vengo lì e giuro che ti gonfio!»
A pochi centimetri uno dall’altro i due si sfidavano, ne avevano abbastanza;
non che fosse inusuale, semplicemente era irreale la situazione dove si erano
cacciati. Cominciava a fare male essere separati dagli altri per cause di forza
maggiore, come idee difficili battevano irrispettose in un angolino del
cervello alla ricerca di attenzione. Una attenzione pericolosa.
«Non ti sopporto più, adesso ti meno, esco di qui, me ne frego il cazzo di
tutto quello che sta succedendo e torno alla GoingMerry. Che piaccia o no a questa gente!» Sanji si rivestì, recuperò i propri effetti personali e si
fece pronto ad andarsene, circondato da gemiti lontani e lamenti soffocati.
«Non vieni?»
«Ovvio che no, non posso permettermi di fare cazzate come te. Ci tengo a questa
gente, ci tengo alla mia ciurma, e per qualche motivo scemo che ancora non
capisco, tengo anche a te.» Sanji si fermò a pochi passi dall’uscita della tenda,
stringendo l’accendino: quel maledetto spadaccino sapeva come rigirare un
coltello all’interno della coscienza di un uomo… sospirò, si voltò. «Si fa per
ridere, pensi sul serio avrei messo in pericolo tutti per me stesso e basta?»
«Fino a due minuti fa sì. Torna a stenderti e dormi, e smetterò di pensare a te
come a un bastardo.»
I denti di Sanji battevano tra loro, lievi, tanto da
essere udibili praticamente solo da lui, eppure rimbombavano con fretta ai suoi
timpani. Non sapeva con precisione da quanto fossero lì, non gli interessava
saperlo altrimenti avrebbe iniziato a contare ogni singolo minuto di quella
nottata. A parte qualche piccola voce lontana, la confusione all’esterno era
scemata: un buon segno, o qualcosa di molto peggiore? “Potrebbero star
dormendo, potrebbero stare meglio o… potrebbero essere morti…” Non poteva
escludere nulla di tutto questo, non fino al mattino successivo e alle notizie portate
da quel fantomatico medico. Sospirò, non riusciva a dormire e questo lo stava
innervosendo maggiormente.
«Smettila di pensarci, dormi.»
«Sto dormendo!»
«Come no. Mi hai appena risposto e stai facendo una confusione tremenda. Tieni
a bada i tuoi molari e la tua ansia, voglio riposare.» Lo stoicismo di Zoro
era… snervante, quasi alienante.
«Posso essere libero di stare male? Eh? O devo chiedere il permesso a te per
poter avere paura?!» l’affanno era aumentato, si portò la mano al petto.
Qualcosa non andava e respirava troppo velocemente.
«Ehi, ehi… ascoltami, Sanji, va tutto bene.» Zoro si
alzò raggiungendo il compagno di viaggio, esitò nel superare la soglia dello
spazio vitale e toccò le spalle dell’altro. «Stai iperventilando,
guardami. Respira con me. Seguimi.»
Contava il ritmo, ma non serviva.
«Sanji, non perderti adesso. Guardami. Conta.»
I numeri tremavano nella tenda.
«Non abbiamo sintomi, non siamo malati.»
«Non sei un medico!» E il ragazzo scoppiò a piangere, «non… non sei un medico…»
Zoro lo sollevò di peso, lo caricò sul proprio giaciglio e gli impose di farsi
stretto. Gli si stese accanto, evitando deliberatamente di guardarlo negli
occhi – per paura forse di far notare quanto quella cosa stesse sconvolgendo
pure lui? «Non sarò un medico ma conosco il mio corpo abbastanza da capirlo.
Sono sano, tu sei sano, che ti basti questo.»
I singhiozzi silenziosi si spensero piano. Un gemito accompagnò il sonno di Sanji, cascato in un paio di minuti: mai Zoro avrebbe
potuto immaginare di ritrovare un carattere così fragile dietro all’ironia
tagliente di quel dongiovanni senza scrupoli. Ne avevano affrontate tante, era
convinto che ben poco potesse scalfirli ma il terrore dello sconosciuto poteva
insinuarsi in modo subdolo, così come era successo quella notte.
Istintivamente allungò la mano e gli strinse il braccio, si spostò sul suo
petto e sì, il cuore batteva regolare. Si inumidì l’indice e lo passò sotto
alle narici di Sanji, respirava in modo regolare. Era
riuscito a calmarlo, a zittirlo, e adesso avrebbe pure potuto dormire.
Questa
storia partecipa alla challenge del #Writeptember2023
del gruppo Hurt and Comfort Italia.
Day 7:
1. “è pronto”
2. “Che ne diresti di uscire un po’?”
Fandom: Netflix One Piece Personaggi: Shanks, Luffy
«Luffy,
vieni, è pronto!»
Un altro periodo di quiete pacifica per Shanks, approdato a Dawn per poter fare
rifornimento e prendersi una pausa dalla vita in mare. Immancabile figura nella
vita del piccolo Luffy, passava molto tempo con lui
durante quei momenti.
Godeva della sua presenza, della sua simpatia e dell’energia nell’inseguire i
propri sogni.
«Dove è quel ragazzino? Il pranzo si fredderà così. Gli dispiacerà molto. Luffy!»
Shanks uscì dalla tranquilla casetta di campagna, lasciando sul fuoco basso il
tegame con il pranzo. Urlò ancora un paio di volte il nome del ragazzino, prima
di preoccuparsi: da quando non si presentava immediatamente davanti all’uscio
di casa con un forte brontolio allo stomaco? Constatò di avere la fidata
pistola al fianco, ben nascosta dal mantello, e cominciò a guardarsi attorno:
prati, boscaglia, niente di che.
Quiete assoluta.
Con un bambino nelle vicinanze? Il dubbio di qualcosa di brutto lo colse, la
priorità stampata davanti agli occhi: scoprire cosa fosse successo e riportare
a casa Luffy.
«Il futuro re dei pirati non può arrendersi… il fu… futuro re dei pirati
lotterà ancora!» Luffy giaceva sul terreno umido, le
fronde degli alberi a fare da scudo al sole che tentava invano di raggiungerlo.
Una delle insolite e solitarie bestie dell’isola l’aveva attaccato, ferendolo e
facendolo cadere di schiena da un’altezza considerevole, vista la sua giovane
età. Sentiva tanto dolore e aveva davvero voglia di mettersi a dormire, la pancia
reclamava cibo fino a scoppiare e carne, la gola di carne era veramente
assillante. Si rialzò a fatica, avrebbe strisciato per arrivare a casa se fosse
stato necessario. Il suo amico Shanks gli aveva promesso che gli avrebbe
preparato qualcosa di veramente speciale con un ingrediente trovato nell’ultimo
viaggio, chi era lui per dire di no, in fondo? Si issò sui gomiti, strusciavano
e facevano male sul terreno accidentato ma il dolore era tanto, non sarebbe
riuscito a camminare ma doveva farcela. Roger non si sarebbe mai arreso al suo
posto, lui non l’avrebbe fatto, l’avrebbe emulato con tutto il coraggio
possibile.
Ma quando si sentì richiamare e riconobbe Shanks, si mise a piangere comunque.
«Luffy, Luffy cosa è
successo? Qualcuno ti ha fatto qualcosa?» Lo prese tra le braccia constatando
l’innaturale posizione della caviglia, la tumefazione e i graffi sanguinanti
dell’accaduto parlavano da soli. Corse verso casa, dimentico del pranzo e
rovistò in bagno, cercando il necessario.
«Brucerà un po’, ma mi prometti che resisterai?» Shanks era in un certo limite
abituato a gestirsi la salute e aiutare il proprio equipaggio a pensare alla
loro, ma ora aveva a che fare con un bambino non ancora adatto alla vita di
mare e alle sue conseguenze. Come avesse fatto a procurarsi quelle ferite
l’avrebbe scoperto entro breve, l’importante era disinfettare tutto e dare
un’occhiata alla gamba del suo piccolo pupillo.
«Ahi! Brucia, Shanks…»
«Lo so, piccoletto, ma un pirata si lamenta o resiste?»
Il musino di Luffy, umido di lacrime e rabbia, fu
subito ripulito da un rapido gesto della mano. «Resiste, resiste sempre,
Shanks!»
«Bravo ometto, così si fa! Ecco, abbiamo sistemato, adesso metto via questo e
ho bisogno che tu ti concentri sulla cosa più bella a cui tu possa pensare.»
«L’One Piece!»
Shanks sorrise nostalgico, quanto di lui rivedeva in quel bambino vivace e
sempre attento. Sogni e testardaggine, ma adesso la prova più dura. «Ecco,
stringi i denti, chiudi gli occhi e concentrati sul momento in cui troverai
quel tesoro, per me e per tutti noi.» L’uomo constatò la condizione della
caviglia, allungò la gamba di Luffy e poi manovrò,
prima delicatamente tentando di assestare la lussazione, poi con vigore e un
colpo studiato la risistemò in sede. Luffy pianse masticandosi il labbro, mangiandosi le
parole tra i denti, parole che ancora non poteva dire. Gli aveva fatto davvero
male e lo sapeva, ma era necessario. Lo abbracciò con tutto l’affetto di cui
disponeva, tutto quello che provava per lui; lo strinse e lo rassicurò esattamente
come avrebbe potuto fare un padre. Che gran sensazione di nostalgie passate in
quell’abbraccio…
«Adesso va meglio?»
Un ultimo singhiozzo e una risposta positiva: la pelle bruciava, la caviglia pure
ma poteva camminare da solo e già tanto bastava. Stava per fare cenno al pranzo
ancora da fare, quando si resero entrambi conto che il contenuto del tegame era
per metà bruciato.
«No! Il tuo famoso ingrediente, no! Volevo tanto assaggiarlo…»
«Su su, Luffy, recupererò
il recuperabile. Che ne diresti di uscire un po’, così potrò finire? Stavolta
però niente animali, mi raccomando.»
«Promesso! Ed è una promessa da pirati!»
Questa
storia partecipa alla challenge del #Writeptember2023
del gruppo Hurt and Comfort Italia.
Day 8:
2. La stanza in fondo
3. “Ti ho già perdonato”
Fandom: Netflix One Piece Personaggi: Luffy, Zoro, a
little bit of Sanji
Era toccato a lui
stavolta: Luffy s’era ammalato.
Era riuscito a sfuggire al raffreddore di Usopp, al
virus gastroenterico di Sanji, al post sbornia più letale
di tutti i tempi di Zoro e alle controverse lamentele di Nami
sui suoi mal di testa cronici a cui affibiava la
colpa a tutti loro periodicamente.
Stavolta, però… non l’aveva scampata.
La febbre gli stava annebbiando la vista, gli aveva tolto le forze, drenandole
un poco alla volta fino a non permettergli nemmeno di alzarsi da solo per
andare in bagno. E di mangiare, neanche a parlarne. Proprio lui che idolatrava
il cibo, il suo sapore, la nostalgia, l’energia che era in grado di donargli…
niente da fare, stomaco chiuso, acidi a risalire in bocca, labbra secche e sete,
tanta tanta sete.
La seconda sera era il turno di Zoro di vegliare su di lui. Prima fu Nami, e Usopp durante il giorno;
turni a rotazione, anche perché la febbre pareva non scendere nemmeno di mezzo
grado.
«38.7, Luffy, è troppo alta…»
Il capitano si voltò verso il suo secondo, guardando con occhi lucidi e
sognanti: non aveva la forza di tenere sollevate le palpebre abbastanza da
mostrare le iridi scure, non ci provava nemmeno più.
«Te la senti di mangiare stasera?»
Scosse la testa in gesto di diniego.
Zoro sbuffò, non era colpa sua ma si stava irritando: una parte di sé,
razionale e immediata, avrebbe voluto prendere la zuppa e infilargliela
direttamente in gola, avrebbe aiutato. La parte che voleva tenere a bada quella
pessima idea invece spingeva verso la pazienza, la capacità di mediare. Poggiò
la ciotola sul davanzale avvicinandosi al letto: l’odore presente lì non era
certo dei migliori, comprensibile, e allora sparì nell’angolo della toeletta,
recuperò un catino, uno straccio e del sapone. Sollevò con delicatezza il corpo
bollente di Luffy, cominciò a strofinare la pelle
arrossata su più punti a causa dell’alta temperatura a si accorse di come fosse
poco responsivo: s’era letteralmente accasciato sul suo petto esposto,
scaldandoglielo a sua volta.
Fortunatamente Luffy non poteva notare l’espressione
di Zoro, ne avrebbe riso senza capirne un minimo il significato. L’unico che
poteva permettersi di essere arrossito in volto in quella stanza era quello
colpito dalla febbre, non lui, pensò scacciando il pensiero dalla testa subito
dopo. Spogliò definitivamente la parte superiore e continuò a passare con poco
vigore, in condizioni simili aveva davvero paura di fargli del male anche con
una minima pressione in più sul corpo. Se lo adagiò sulla spalla togliendo i
pantaloni e con essi la biancheria. Era un lavoro particolarmente imbarazzante
ma qualcuno avrebbe dovuto farlo… e strofinò, deterse, asciugò con cura senza
guardare, focalizzandosi sulla porta in fondo che dava sul corridoio, decisamente
il soggetto più interessante presente in quel momento. Fu delicatissimo, e
particolarmente nervoso.
Le lenzuola cambiate, Luffy nudo sotto una coperta
leggera: la finestra era schiusa e l’aria rinnovata, sembrava tutta un’altra
cosa ora la sua stanza. Zoro adagiò Luffy sul cuscino
sollevato e prese a servirgli la zuppa tiepida, niente da fare però: non
riusciva a ingoiare nulla, neanche riprovandoci e anzi, s’era sporcato
nuovamente. Il ragazzo imprecò ad alta voce, spazientito da qualcosa che non riusciva
minimamente a controllare, insultò Luffy e lasciò la
stanza. Sarebbe andato a chiedere il cambio a qualcun altro, magari il cuoco
imbecille sarebbe riuscito a imboccarlo meglio. Gliel’avrebbe chiesto, sì,
avrebbe raggiunto la stanza in fondo al corridoio e l’avrebbe anche costretto
ad andare al posto suo perché non era ancora riuscito a levarsi dalla testa
l’idea di ciò che aveva dovuto – voluto – fare per potere aiutare il suo
capitano in un momento di debolezza. Sanji lo sostituì senza ribattere in alcun modo,
contento anzi di poter dare una mano a modo suo: dire a un cuoco che il suo
cliente preferito non era in grado di nutrirsi dopo aver cucinato per lui era
come un colpo indirizzato all’altezza del cuore. Ne andava del suo orgoglio,
non solo della preoccupazione.
L’amaca dondolava ma Zoro non riusciva a prendere sonno, si sentiva strano, un
insolito movimento di stomaco che si irradiava a tutto il petto lo stava
infastidendo dal momento in cui Sanji l’aveva
guardato male per il motivo per cui aveva mollato anticipatamente il turno. Si
sentiva in colpa?
Chissà.
La sensazione non regrediva e anzi, più pensava alle parole usate e al modo in
cui era uscito dalla stanza di Luffy, più si sentiva
un emerito stronzo. Dopo il primo combattimento di Mihawk
il suo capitano aveva passato del tempo con lui, gli aveva parlato, gli aveva
regalato frasi incoraggianti come solo lui sapeva fare… per ricevere cosa in
contrario, a parti rovesciate? Si alzò di scatto, avrebbe ripreso il suo posto,
avrebbe centellinato le dosi, atteso di più, si sarebbe morso la lingua ma
sarebbe riuscito a portare a termine quello che Luffy
meritava di ricevere in un momento di tale debolezza.
«Sono i sensi di colpa ad averti portato qui?» Sanji
lo squadrò dall’alto in basso, la ciotola vuota per tre quarti in grembo, «ho
quasi finito, signor ‘ricevo ma non ricambio.’»
«Sta’ zitto, stronzo.»
«Uhhh siamo di buon umore, ragazzino? Vattene, non ha
bisogno di chi non vuole prendersi cura di lui.»
Zoro si spazientì definitivamente, caricò Sanji di
peso e lo lanciò sul ponte dalla finestra aperta, incurante delle sue
condizioni effettive. Non gliene poteva fregare minimamente, tanto concentrato
su ciò che avrebbe dovuto dire ora. Si sedette sul letto accanto a Luffy, steso con gli occhi chiusi, la pelle più pallida
rispetto a prima; stava sudando maggiormente, probabile gli fosse stata
somministrata un’altra dose di antipiretico. Sospirò, andava detto ciò che
andava detto.
«Mi spiace. Davvero, Luffy, scusa.»
Il ragazzo mugugnò qualcosa nel sonno, incomprensibile a Zoro che si abbassò
per sentire meglio ciò che stava dicendo.
«… ato…»
«Come?»
Poco più di un sussurro il suo.
«T-ti ho… già… perdonato…»
Per qualche motivo inspiegabile Zoro sentì pungere gli angoli degli occhi, una
sensazione fastidiosa che faticava a ricordare; forse una rimembranza lontana
di quando era ragazzino, chissà, così disabituato a lasciare spazio alle
proprie emozioni in modo razionale.
«Vie… vieni qui…»
Lo abbracciò tremando, stringendolo debolmente, appiccicandosi al suo volto con
la guancia e riaddormentandosi così, mezzo seduto, con le labbra di Zoro a meno
di un centimetro di distanza.
«Pervertito!» Urlò Sanji da fuori la finestra.
Zoro lasciò cadere Luffy sul cuscino, raccolse la
ciotola del pranzo e la lanciò con tutta la forza che possedeva contro il
cuoco, minacciandolo di affogarlo in mare.