Only Murders in the Building

di Signorina Granger
(/viewuser.php?uid=864554)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Selezione OC ***
Capitolo 3: *** Capitolo 1 - C'è un cadavere nel 14B (I) ***
Capitolo 4: *** Capitolo 1 - C'è un cadavere nel 14B (II) ***
Capitolo 5: *** Capitolo 2 - L'assassinio di Monty Dawson ***
Capitolo 6: *** Capitolo 3 - 13 piccoli condomini ***
Capitolo 7: *** Capitolo 4 - Carte in tavola ***
Capitolo 8: *** Capitolo 5 - I sei appartamenti (I) ***
Capitolo 9: *** Capitolo 5 - I sei appartamenti (II) ***
Capitolo 10: *** Capitolo 6 - Il club del delitto ***
Capitolo 11: *** Capitolo 7 - Caffè nero ***
Capitolo 12: *** Capitolo 8 - Un messaggio dagli spiriti ***
Capitolo 13: *** Capitolo 9 - N o M? ***
Capitolo 14: *** Capitolo 10 - Verso l'ora zero ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Only Murders in the Building 



ed63b0a91f16edbb5cf939caa080b481

 
…Quanto conosci i tuoi vicini?
 
 
 
C’è una cosa che non capisco: la gente che non vuole vivere nelle grandi città per colpa della criminalità. Qualsiasi appassionato di true crime sa che non è così. Ammettiamolo: nessuno ha mai trovato 19 cadaveri nel giardino di un palazzo di 15 piani. Magari giusto un paio.
Qui hai gli occhi di tutti puntati addosso, siamo tutti ammassati e accatastati uno sopra l’altro.
Come quelli che, come me, vivono all’Arconia.                 
Chissà se qualcuno dei miei vicini, alla luce di quanto accaduto, deciderà di fare le valige. Personalmente l’idea di dormire sotto all’appartamento dove qualcuno è stato ucciso non mi disturba, ma ho idea che nei prossimi anni le vendite e gli affitti qui andranno in calo. Poco male. Ho sempre trovato questo posto fin troppo affollato.
 
Mi hanno detto che scriverne mi sarà utile. Non so bene come ma tanto vale provarci, visto che non ho proprio nulla da perdere.
Tutto è iniziato due mesi fa. O meglio, la faccenda dell’omicidio è iniziata due mesi fa, se dovessi raccontare tutto dall’inizio dovrei partire da ben prima. E non ne ho voglia.
Era il 13 settembre. È morto di notte, e ricordo che io quella notte non dormii affatto… forse ero persino sveglia, quando è successo. Ad ogni modo, quel giorno lo avevo visto, in ascensore. Sembrava normale, strafottente e irritante come al solito, chissà se immaginava che entro poche ore sarebbe morto.
È strano, perché era da un po’ che non lo vedevo in giro, e io non prendevo mai l’ascensore. Forse era destino che lo vedessi proprio quel giorno. O forse lui sapeva che mi avrebbe trovata lì.
È difficile capire che cosa avesse in testa Dawson. Anche dopo che è morto.

 

 
Due mesi prima
 
 
13 settembre 2021
New York, Manhattan, Upper West Side
 
 
I rumori della città, ai quali credeva di essersi abituata molto tempo prima, non erano mai stati tanto assordanti e fastidiosi.
I grandi e vigili occhi verdi dell’inquilina del 13B dell’Arconia, al 225 della West 86th Street di Manhattan, scrutavano la finestra della camera da letto che si affacciava sul quartiere residenziale e dalla quale, di giorno, si poteva ammirare Central Park. In quel momento, sdraiata sul materasso e avvolta dall’oscurità, la strega non riusciva a scorgere il polmone verde della città, ma i suoi occhi spalancati restavano comunque inchiodati alla grande finestra chiusa mentre il leggero ticchettio della sveglia scandiva inesorabilmente lo scorrere dei minuti di quella notte insonne.
Dopo essere rimasta immobile a lungo finalmente la strega si mosse, sollevando la testa quel che le bastava per controllare l’ora. Apprendendo che era trascorsa un’altra mezz’ora emise un lungo e stanco sospiro, mormorando un’imprecazione prima di sollevarsi e mettersi a sedere sul letto.
Alzatasi in piedi la ragazza raggiunse il bagno senza accendere alcuna luce, ormai perfettamente abituata a muoversi nell’appartamento anche al buio, camminando a piedi nudi sul parquet senza far rumore.
Quando accese la luce che sormontava il grande specchio circolare del suo bagno la strega gettò una rapida occhiata critica al proprio riflesso – non aveva intenzione di soffermarsi sullo stato pietoso dei suoi capelli arruffati, né tantomeno sulle sue profonde occhiaie – prima di aprire rapida il primo cassetto del mobiletto di legno e prendere un piccolo flacone pieno a metà di pastiglie bianche. Ne prese una e la ingoiò frettolosamente senza l’ausilio di un sorso d’acqua, infilando il flacone al suo posto e chiudendo il cassetto con un gesto brusco prima di spegnere la luce e tornare, sbuffando piano, in camera.
Invece di rimettersi a letto, tuttavia, sedette incrociando le lunghe gambe affusolate sul materasso rivestito da un morbido copriletto color zucca e raccolse cuffie e telefono dalla mensola più vicina. Infilatasi le AirPods bianche alle orecchie, cercò ciò che le interessava mentre lo schermo le illuminava fiocamente il viso teso e stanco. Quando ebbe finalmente trovato l’oggetto del suo desiderio la strega si permise di accennare un debole sorriso sollevato, rimettendosi supina sul materasso senza infilarsi sotto il piumone prima di girarsi sul fianco destro, dando così le spalle alla grande finestra.
Il telefono le giaceva accanto abbandonato quando chiuse gli occhi e si raggomitolò in posizione fetale, lasciando che le parole ormai note di “My Favorite Murder”, il suo podcast preferito, la trascinassero dolcemente tra le braccia di Morfeo.
Contemporaneamente, mentre l’inquilina del 13B si addormentava, al piano superiore Montgomery Dawson veniva assassinato.

 
*

14 settembre 2021
11 am, Arconia, appartamento 13B

 
 
 
L’inquilina del 13B stava in piedi davanti alla porta di casa da almeno una decina di minuti, in attesa di poter mettere piede fuori dal suo appartamento. Eppure la strega era più che pronta per uscire: si era vestita con i soliti abiti quasi esclusivamente neri previsti dalla sua mise, aveva bevuto un’abbondante tazza di caffè senza toccare cibo e aveva servito la colazione ai suoi amati gatti versando i croccantini nelle rispettive ciotole, disposte in fila in cucina.
Un’adorabile esemplare di Abissino Sorrel(1) si avvicinò alla padrona dopo aver ripulito la sua ciotola, guardandola con gli occhi verdi striati di nocciola pieni di curiosità prima di iniziare a strusciare la testa contro la gamba sinistra di Niki, che parlò senza staccare i grandi occhi verdi dallo spioncino.
“Non ora amore, devo andare. Se solo si levassero dalle palle… Sono più di dieci minuti che stanno parlando, non potrebbero spostarsi dal corridoio e andare a parlare al bar o in casa propria come fanno tutte le persone normali?!”
La gatta continuò imperterrita a strusciarsi contro le lunghe gambe della padrona, che rimase perfettamente immobile per non rischiare di inciampare nell’animale mentre osservava risentita la vicina del 13D, un’anziana vedova inglese piena di pennuti che Niki aveva affettuosamente soprannominato “Vecchia Bastarda”. Quel soprannome aveva fatto così tanta presa su di lei che la ragazza non era nemmeno sicura di ricordare quale fosse il nome di battesimo della signora. Poco male, non le sarebbe mai stato di nessuna utilità, e Niki era solita scordare tutto ciò che non poteva servirle in alcun modo.
“E levatevi…”
Niki emise un sonoro sbuffo, picchiettando spazientita le lunghe dita affusolate sulla porta. Possibile che per colpa di due vicine insopportabilmente pettegole che non avevano niente da fare per lei uscire dovesse diventare un’impresa degna di un eroe omerico?
E poi accadde: la Vecchia Bastarda disse qualcosa accennando alla sua porta con un movimento del capo e una delle occhiate torve che era solita lanciarle ogni qualvolta in cui alle due streghe capitava due incrociarsi.
Niki strinse le labbra, cercando di sopire la tentazione di spalancare la porta e invitare garbatamente le due vicine a dirle apertamente tutto quello che pensavano. Restò invece in piedi dietro alla porta, perfettamente immobile, gli occhi verdi fissi su di loro mentre guardava 13D e 13C scambiarsi le loro pessime opinioni su di lei.
In fin dei conti non le importava affatto, quello che pensavano.
Niki chinò finalmente lo sguardo sulla gatta prima di abbassarsi leggermente e riempirla delle tanto agognate carezze, guardando divertita la gatta chiudere gli occhi e sollevare leggermente la testa mentre si godeva soddisfatta le coccole.
“Ok, mi sono rotta. La mamma uscirà con il suo modo speciale, vero Mira?”
 
Un paio di minuti dopo il 13B era deserto, lasciato in balia dei felini che lo abitavano insieme alla loro padrona.
 

 
*

14 settembre 2021
6 pm, M.A.C.U.S.A.
 


La giornata era iniziata come un normale, comunissimo lunedì di una comune settimana per Domnhall Byrne. Si era svegliato, aveva fatto la doccia, aveva fatto colazione. E poi era andato al lavoro, come al solito.
Ma la normalità, lo avrebbe scoperto presto, era destinata a non durare. Alle 18, quando mancava ormai pochissimo alla fine del suo turno e stava compilando delle noiosissime pratiche, il suo telefono aveva squillato. Pregando che a chiamarlo non fosse sua madre per chiedergli quando sarebbe andato a cena a casa sua, fu con sollievo che Domnhall scorse sul display il nome di una collega.
“Megan, che cosa c’è?”
Domnhall non vedeva l’ora di tornarsene a casa, e rispose sperando che non ci fosse un’emergenza che lo avrebbe fatto correre come una trottala impazzita in giro per la metropoli. Megan, che lo informò di un cadavere rinvenuto in un elegante condominio dell’Upper West Side, non rispose alle sue preghiere. Ma era sempre meglio delle lamentele di sua madre, dopotutto.
“Sembrerebbe un suicidio. Puoi venire insieme a Walter?”
 
Un suicidio in un elegante condominio dell’Upper West Side. La sua voglia impellente di lasciare l’ufficio e tornare a casa svanì all’istante, sostituita dall’urgente bisogno di scoprire che cosa fosse successo.
Domnhall non rispose, alzandosi dalla sedia e cercando di infilarsi la giacca e parlare al telefono allo stesso tempo mentre chiedeva alla collega di dargli l’indirizzo, dopodiché sfrecciò fuori dall’ufficio per trovare il suo partner e ordinargli di seguirlo.
 
 
*

 
14 settembre 2021,
8 pm


 
Dopo il rinvenimento del corpo tutti i residenti dell’Arconia erano stati invitati a lasciare i propri appartamenti e a nessuno era stato permesso di salire ai piani superiori. Il cortile interno del palazzo brulicava di condomini, chi confuso, chi preoccupato, chi indispettito per la carenza di dettagli fornitogli sull’accaduto. Ancora nessuno sapeva della morte di Montgomery Dawson e Lester Rogers, il portinaio del palazzo, stava facendo del suo meglio per tranquillizzare i condomini e rispondere alle loro domande insistenti senza però farsi sfuggire dettagli sull’accaduto: l’anziano mago era stato informato del decesso poco prima dagli Auror venuti a fargli domande sul defunto, ma gli era stato chiesto di non farne parola con i residenti, per il momento.
 
 
Berretto di lana verde militare, cappuccio della felpa nero sollevato sul capo a celarle la lunga chioma bruna e occhiali da sole – nonostante il sole fosse tramontato da un pezzo –, riconoscerla sarebbe stato pressoché impossibile per chiunque. Chiunque, fatta eccezione per il portinaio dell’Arconia, ormai perfettamente abituato al particolare abbigliamento dell’inquilina del 13B.
Sì, Lester avrebbe potuto riconoscere l’inquilina del 13B da un chilometro. Del resto era difficile non notarla, così alta e con quell’incidere rapido e deciso, nonché silenziosissimo grazie alle spesse suole di gomma degli anfibi.
Incidere che condusse la strega dritta verso di lui. Lester, che si era appena liberato delle domande dell’inquilina del 13D, la guardò varcare i cancelli aperti dell’ingresso ad arco del palazzo e, osservando dubbiosa l’enorme quantità di gente radunata nel giardino interno, affrettarsi a raggiungerlo con il lungo impermeabile nero che sfiorava le mattonelle che lastricavano il cortile.
“Lester, che succede? Perché sono tutti qui fuori?”
 
Le mani sprofondate nelle tasche, la strega si fermò davanti al portinaio guardandosi attorno con circospezione e senza sfilarsi gli occhiali da sole. Lester, deglutendo a fatica, balbettò a disagio che gli Auror avevano vietato a chiunque l’accesso all’interno del palazzo e che quindi tutti erano costretti ad aspettare lì fuori, nel giardino interno.
Tormentando con le mani rugose il cappello verde bottiglia della divisa, Lester osservò la ragazza – che lo superava in altezza di qualche centimetro – mentre si guardava attorno, la fronte aggrottata. I grandi occhi verdi della strega, celati dalle lenti scure degli occhiali, indugiarono infine su un piccolo gruppo di persone che si trovava ad una decina di metri da lei. Una donna in lacrime, un uomo alto e dai capelli bianchi che la stringeva con un braccio. E tre persone, una donna e due uomini, che stavano parlando con loro.
Riconobbe immediatamente la coppia come due dei suoi numerosi vicini. Nathan e Joanna Dawson, che vivevano nell’attico. Ma ad attirare maggiormente l’attenzione della strega furono le altre tre persone e, in particolare, le vistose spille appuntate sulle loro giacche scure.
Li avrebbe riconosciuti come Auror anche senza il suggerimento di Lester.
 
Senza aggiungere altro la strega, ringraziato Lester, girò sui tacchi e si allontanò da dove era venuta, rapida e silenziosa come sempre e senza fermarsi a parlare o a guardare nessuno dei suoi vicini. Il portinaio la seguì con lo sguardo finchè poté, finchè l’inquilina del 13B non varcò di nuovo i cancelli e svoltò a destra, incamminandosi sul marciapiede e quasi sparendo nell’oscurità della West 86th Street mentre estraeva il suo telefono dalla tasca.
 
 
*

 
Quando Niki si chiuse la porta di casa alle spalle – dopo aver finalmente avuto il permesso di tornare nel suo appartamento – ad accoglierla ci fu come sempre soltanto l’oscurità. E il silenzio. Quando la strega percepì qualcosa di caldo e morbido sfiorarle la gamba destra si limitò a chinare il capo, accennando un sorriso all’Abissino che era corso a salutarla.
“Ciao tesoro.”
La strega si chinò per dare una rapida coccola al gatto, dopodiché si sfilò la lunga giacca nera e l’appese ad uno dei ganci accanto alla porta. Abbassò il cappuccio della felpa, si sfilò il berretto verde, lo gettò sbrigativa sulla cassettiera dell’ingresso sormontata da uno specchio circolare e infine si trascinò in cucina per occupare uno degli sgabelli neri e sfilarsi assorta gli anfibi.
Li lasciò lì, in cucina, e incurante di metterli a posto si diresse verso la sua camera con un paio di felini in cerca di attenzioni al seguito.
La strega prese un quadernetto fatto in carta riciclata e una penna da una delle mensole, dopodiché si sistemò sul letto sfatto a gambe incrociate, accese l’abat-jour e aprì il quaderno mentre uno dei due gatti le si acciambellava tra le gambe.
 
 
Era proprio ora che in questo cazzo di condominio succedesse qualcosa, sono rimasta sei mesi a marcire senza che accadesse niente di interessante. Certo è un peccato che a lasciarci le penne non sia stata quella vecchiaccia malefica del 13D, come si chiama… Va beh, insomma, quella che somiglia alla governante del Cluedo. Sono sicura che in giro c’è più di qualcuno che avrebbe molti motivi per volerla vedere nella fossa. E invece a schiattare è stato D.
 
 
Qualche minuto dopo l’appartamento era di nuovo avvolto dall’oscurità e l’inquilina del 13B giaceva sul suo letto, ancora completamente vestita e gli occhi verdi fissi sul soffitto, penna e quaderno abbandonati sul pavimento accanto al materasso.
All’improvviso, con i rumori della città sullo sfondo, un sorriso inclinò gli angoli delle labbra di Niki verso l’alto. Farlo le provocò una strana sensazione, e si chiese quanto tempo era passato dall’ultima volta in cui aveva sorriso mentre si sfiorava assorta gli angoli del viso con le dita.
Non riuscì a ricordarlo, pur sforzandosi.

Quella sera Niki si addormentò molto più rapidamente del solito: l’indomani mattina si sarebbe svegliata di ottimo umore, constatando meravigliata di essere riuscita a dormire la bellezza di 5 ore consecutive.
 

 
 
 
 
 
 
 
……………………………………………………………………………………………………………….
Angolo Autrice:

 

 
E con la solita, prevedibile, banalissima frase “Io non dovrei essere qui” do inizio a questa storia.
Mi rendo conto di essere sul punto di concludere un’altra storia basata su un omicidio e sulle conseguenti indagini, ma il mio debole per i gialli è troppo forte e sin da quando ho visto la prima puntata di “Only Murders in the Building” (serie che consiglio caldamente di guardare se vi piacciono i gialli e volete farvi due sane risate) ho pensato che fosse una trama perfetta su cui scrivere una storia. Perciò, di nuovo, mi accingo a quantomeno provare a scrivere di un omicidio.
Questa volta tuttavia i personaggi protagonisti non saranno in lizza per essere gli assassini, né saranno indagati. Certo potranno aver avuto legami con la vittima di qualsiasi natura, ma si limiteranno a ficcanasare, indagare e complottare e non dovranno avere alcun movente: come nella serie a cui mi sono ispirata il loro obbiettivo sarà semplicemente – si fa per dire – quello di cercare di risolvere il caso.
 
Regole:
 
  • TUTTI i personaggi devono essere residenti del condominio. Possono vivere da soli o con altre persone.
  • Potete mandarmi al massimo 2 OC, possibilmente di sesso diverso. Possono essere estranei come amici, parenti, una coppia, colleghi, amici con benefici o qualsiasi cosa vogliate, e se volete possono vivere insieme. Terrei a sottolineare che non ho intenzione di prendere tanti personaggi, quindi personalmente vi sconsiglio di mandarne 2 se vedete che già più di qualcuno lo ha proposto.
  • La loro età deve essere compresa tra i 25 e i 35 anni.
  • Dovete mandarmi le schede entro le 19 del 3 aprile, accetterò richieste di proroghe se dovessi riceverne con qualche giorno di anticipo rispetto alla scadenza.
  • Accetto personaggi di qualsiasi nazionalità e che abbiano studiato in qualsiasi scuola magica
  • Accetto Animagus e Metamorphomagus (non più di 1 per la seconda categoria)
  • Non accetto personaggi con disturbi mentali gravi. Qui lo dico e non mi ripeto, se leggo “psicopatia” o di un personaggio che ha un non ben identificato disturbo legato a personalità multiple et similia scarto la scheda a prescindere. Accetto personaggi nevrotici SE me li articolate come si deve (es. personaggi con fobie/disturbi d’ansia/disturbi ossessivi compulsivi).
  • Il vostro OC non deve avere necessariamente un legame con la vittima, ma se volete che sia così non ci sono problemi, basta che me lo diciate quando vi iscrivete e io provvederò a darvi qualche informazione su di lui. In questo caso il vostro personaggio può avere avuto qualsiasi tipo di relazione con la vittima, può essere un parente (NO fratelli o sorelle), amico, ex amante, ex fidanzato, cat-sitter ecc di Montgomery. L’importante è che i vostri OC per un motivo o per un altro decidano di indagare sulla sua morte, sia per affetto per il defunto e per il desiderio di vederci più chiaro o perché è un fissato di polizieschi e podcast crime annoiato e avendo ormai visto e rivisto tutte le puntate della Signora in Giallo penserà bene di mettersi a fare la Jessica Fletcher della situazione. Non voglio che tutti i personaggi conoscessero Monty o parte del senso della storia andrebbe a perdersi, quindi di nuovo, se vi accorgete che già alcune persone lo hanno richiesto evitate di accodarvi, per favore.
  • Vale, come sempre, la regola dei 3 capitoli. Se non vi fate sentire per due di fila il vostro personaggio non apparirà nel terzo, se l’assenza si estendesse anche ad un terzo capitolo consecutivo il vostro personaggio non farà più parte della storia. Colgo l’occasione per sottolineare che con “farvi sentire” non intendo che dovete necessariamente recensire, potete anche commentare un capitolo scrivendomi privatamente. Se questa regola non dovesse starvi bene vi prego di non iscrivervi direttamente, se doveste comunque decidere di farlo vi pregherei di adattarvi alle condizioni senza sparire nel vuoto cosmico dopo qualche capitolo. Inoltre, come il titolo della storia stesso suggerisce quella di Monty non sarà l’unica morte della storia, quindi sappiate che questa volta i personaggi eliminati verranno fatti fuori in tutti i sensi, spero di non dover spargere litri di sangue per i bei corridoi dell’Arconia.
  • Accetto OC che svolgano qualsiasi professione, anche Babbane (e anche mantenuti), ma non accetto Auror
  • A proposito di professioni, avrei bisogno di ricevere un giornalista che scriva per il quotidiano di NY dei maghi, il Magic Times.
 
 
Scheda:
 
 
Nome:
Soprannome:*
Età:
Nazionalità:
Stato di sangue:
Ex scuola e eventualmente ex Casa:
Prestavolto:
Aspetto fisico:
Segni particolari e abbigliamento:*
Personalità:
Professione:
Background e famiglia, se non è newyorkese indicare da quanto tempo vive a NY e perché:
Da quanto vive nel palazzo?
Descrivere brevemente il suo appartamento indicando il piano e se è di proprietà o meno (se volete mandarmi foto sono ben accette; il 15° piano è abitato interamente dai genitori di Montgomery, quindi non è disponibile):
Conosceva la vittima? Se sì, quale relazione aveva con lui?
Perché si unisce alle indagini condotte da un branco di ficcanaso?
Come reagirà apprendendo che c’è stata una morte nel condominio?
Hobby/Talenti/Passioni:
Fobie/debolezze:
Descrivere una sua giornata tipo:
Descrivere il suo rapporto con la tecnologia (se ha un telefono, pc, tv, se li sa usare ecc):**
Orientamento sessuale:
Amicizie/Inamicizie:
Relazione: (indicare se ne ha una o no, se potrebbe volerne una attualmente e in caso che genere di persona potrebbe piacergli)
Segreto/i:* (non è necessario che siano cose gravi o eccessivamente serie, e non devono essere per forza legati alla vittima, ma visto che questa storia parte dall’idea che non conosciamo mai davvero chi ci abita accanto sarebbe interessante scoprire man mano anche cose sui vostri personaggi)
Bacchetta:
Amortentia:*
Animale:* (tenete conto che siamo in un condominio, quindi temo di non poter accettare creature magiche di grandi dimensioni e niente di più grande di un alano in generale)
Abitudini e gusti alimentari:*
Altro:*
 
I punti contrassegnati da (*) sono facoltativi;
(**): Visto che questa storia si svolge non solo nella stessa città, ma anche nello stesso periodo di “Royal Residence Park” di ChemistryGirl, ho chiesto alla cara Chemy di poter “prendere in prestito” qualche aspetto della sua storia. Quindi, grazie ad uno dei suoi OC e alle sue invenzioni, in questa storia come in quella di Chemy i maghi hanno la possibilità di usare la tecnologia grazie a dispositivi che funzionano anche in ambienti protetti da incantesimi e pieni di magia come, in questo caso, l’Arconia stesso. In sostanza anche maghi Purosangue possono potenzialmente disporre tranquillamente di telefoni ecc e usare App simili alle nostre.
  • Per chi conosce la storia di Chemy sì, ci sarà Wizagram (Instagram per maghi), quindi i nostri cari Signori in Giallo in erba potranno stalkerarsi i profili a vicenda;
  • Ho poi deciso di sbizzarrirmi e di inventare un’App di incontri per maghi, MagicMatching, che spero mi regalerà molte gioie, e una per la consegna a domicilio di cibo, SmartOwl. Sì, i fattorini saranno dei teneri gufetti *.*
Se volete nel punto della scheda riguardante la tecnologia potete aggiungere delle indicazioni sulle App, se il vostro OC le usa o no, se sì quanto spesso ecc.
 
 
  • Qualche informazioncina sul palazzo che farà da teatro alla storia:
L’Arconia si trova al 225 della West 86th Street nell’Upper West Side, a pochi minuti di distanza da Central Park, dal Lincoln Center e dal Museo di storia naturale. È un palazzo di 15 piani, nella scheda dovete indicare il piano dove preferite far vivere il vostro OC (più si sale più aumenta il prezzo, tenetene conto in base alla situazione finanziaria dei vostri personaggi) e se l’appartamento è di sua proprietà oppure no. Non è una zona dell’UWS eccessivamente di lusso, quindi non è necessario che tutti i vostri personaggi siano ricchi, le monete dei maghi essendo d’oro eccetera valgono pur sempre più di quelle Babbane, quindi anche un mago non eccessivamente benestante si può permettere quello che per un Babbano è invece un lusso non indifferente. Il palazzo è di proprietà di un mago e abitato quasi esclusivamente da maghi e streghe, quindi sono ben accette creature magiche come animali domestici e gufi che fanno avanti e indietro per la posta.
 
 
I miei personaggi:
 
 
LA VITTIMA
Montgomery “Monty” Dawson
31 anni, mantenuto, americano, ex Wampus, inquilino del 14B, Pansessuale
 
Monty Monty-2

Monty viveva all’Arconia da sempre, i suoi genitori si trasferirono prima ancora che nascesse, e il 14B gli è stato comprato dai genitori sei anni fa, quando aveva 25 anni. Figlio unico di genitori facoltosi, proprietari di una enorme catena di farmacie per maghi sparse in tutti gli USA e viziato incallito, dopo il Diploma ad Ilvermorny ha viaggiato per alcuni anni prima di tornare a NY e trasferirsi nell’appartamento regalatogli dai genitori senza in realtà mai combinare alcunché.
Socievole, pigro, bugiardo abituale, estroverso, impiccione con una particolare passione per i segreti altrui, ex adolescente ribelle e Casanova incallito, viene trovato morto nel suo salotto per un apparente ed inspiegabile suicidio.
Diceva sempre di saperne parecchio sulla vicina del 13B, ma nessuno ha mai saputo se credergli o no.

 
LA STRAMBA DEL PIANO DI SOTTO
Niki
30 anni (attenzione, mente sull’età), professione non identificata, ex Tuonoalato, inquilina del 13B, Eterosessuale

Niki-1 Niki-2
 
Niki vive all’Arconia da sei mesi, in un appartamento dove nessuno dei suoi condomini ha mai messo piede, ma che gira voce sia enorme, e a giudicare dalle numerose confezioni di cibo per gatti rinvenute nella sua spazzatura pare che sia un’affermata gattara. Nessuno sa di preciso che cosa faccia, è apparsa nel condominio dall’oggi al domani, ma alcuni sono certi di aver riconosciuto nell’inquilina del 13B una famosa modella che si è ritirata improvvisamente dalle scene un anno fa. C’è da dire che è raro vederla in giro per l’Arconia e quando succede è quasi sempre bardata dalla testa ai piedi, quindi molti non sono convinti che sia davvero lei.
Riservata e schiva ai limiti della misantropia, con una particolare passione per la cronaca nera, esce di casa di rado e non mette mai piede alle riunioni condominiali. Il suo mantra è “Chi si fa i cazzi propri campa cent’anni”, ragion per cui non vedrà l’ora di ficcare il naso nella tragica morte del suo vicino.
 
 
Secondario
 
IL FIGO CHE GESTISCE LE INDAGINI
Detective Domnhall “Dom” Byrne
33 anni, Auror, americano, ex Tuonoalato, Mezzosangue, Eterosessuale
 
Dom-1 Dom-2

Beh, che dire, Dom è molto bello. Ma al momento non sono disponibili altre informazioni sul suo conto, ripassate più avanti.
 
 
 
 
Piccola nota per farvi sapere che anche se si tratta di un giallo questa storia non sempre brillerà per serietà (ma no, del resto nessuno lo riterrebbe possibile viste le mie altre pubblicazioni), quindi personaggi eccentrici e sopra le righe sono più che benvenuti.
Più avanti vi mostrerò anche gli altri condomini dell’Arconia di cui leggerete – e che saranno i sospettati, ovviamente –, ma queste note sono già vergognosamente lunghe così, quindi vi saluto e vi do appuntamento ad aprile per la Selezione e agli ultimi aggiornamenti di MOTRE e del Camp a chi vi partecipa. Grazie in anticipo a chi si vorrà iscrivere <3
Baci,
Signorina Granger
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Selezione OC ***


Selezione OC



Buonasera a tutti!
Di norma cerco di allegare alla lista dei personaggi scelti un capitolo vero e proprio ma per accelerare i tempi e visto che al momento sono già impegnata a scrivere altro questa volta si tratta semplicemente ed esclusivamente di questo, una lista.
Detto questo, mi dispiace moltissimo per le numerose schede che ho scartato, è stata una selezione difficilissima considerando che ne ho ricevute più di quante mi aspettassi e purtroppo non avevo intenzione di prendere molti OC visto che la trama non si presta ad includerne più di una dozzina. Per cercare di includere più persone possibili mi sono imposta il limite di prendere un solo OC per autore, ma anche così qualcuno è rimasto fuori ugualmente… Come al solito invito queste persone a non prendere sul personale le mie decisioni, e se volete chiedere chiarimenti fatelo senza problemi.
Vi lascio quindi alla lista dei nuovi vicini impiccioni di Niki, sui quali spero avrete presto modo di leggere. Coloro che non sono stati scelti verranno sicuramente citati come altri condomini del palazzo nel corso della storia e in caso di eliminazioni potrei “ripescarne” qualcuno.



QUELLO CHE APRE LA GENTE MORTA
Bartimeus Jr Thomas
Moos”
29 anni, statunitense, inquilino del 6A
Becchino (circa), ex Serpecorno, Mezzosangue, Eterosessuale
Moos-1 Moos-2


QUELLA DELL’APP DI INCONTRI
Eileen Mackenzie Garcia
29 anni, anglo-spagnola, inquilina del 6C
Sviluppatrice informatica di MagicMatching, ex studentessa di Beauxbatons, Mezzosangue, Eterosessuale
Eileen-1 Eileen-2


IL GIORNALISTA FREGNO
Esteban Rafael Aguilar Powell
25 anni, cubano-statunitense, inquilino del 12C
Giornalista freelance, ex studente di Castelobruxo, Mezzosangue, Bisessuale
Esteban-1 Esteban-2


IL TATOOBOY SALUTISTA
Gabriel Mendoza
Dictador”
30 anni, afro/latino-americano, inquilino del 7A
Tatuatore, ex Serpecorno, Mezzosangue, Pansessuale
Gabriel-1 Gabriel-2


LAMICO DEI FELINI
Jackson Salmon
Jackie”
27 anni, giamaicano-statunitense, inquilino del 5B
Veterinario, ex Magicospino, Mezzosangue, Omosessuale
Jackson-1 Jackson-2


NON QUEL JIMMY CARTER
(aka IL GIORNALISTA FREGNO II)
James Carter Cross
Carter”
30 anni, statunitense, inquilino del 13E
Giornalista, ex Tuonoalato, Mezzosangue, Bisessuale
Carter-1 Carter-2


IL PAOLO FOX DELL’ARCONIA
Kei Osamu Nakajima
Samu”
25 anni, giapponese, inquilino del 7B
Studente universitario, ex studente di Mahoutokoro, Purosangue, Bisessuale
Kei Kei-2


LA SCRITTRICE DI FANFICTION
Leena Madison Zabini
Norma Bates”
32 anni, anglo-egiziana, inquilina del 1C
La sua professione è confidenziale, ex Corvonero, Mezzosangue, Eterosessuale
Leena-1 Leena-2


L’UOMO DEL MISTERO
Mathieu Levesque-Simard
Matt”
32 anni, canadese, inquilino del 14D
La sua professione è ancor più confidenziale, ex studente di Acer Rubrum*, Purosangue, Bisessuale
594a22e59ce7372faa6328d7281ffa1e a11b001ab621aa0afc506a2e45e6371b


L’AMANTE DEI PROGRAMMI TRASH
Naomi Leigh Broussard
29 anni, statunitense, inquilina dell’11D
Avvocato, ex Serpecorno, Purosangue, Eterosessuale
Naomi-1 Naomi-2


IL CAFFEINOMANE
Orion Ivory Parrish
Ivory”
27 anni, statunitense, inquilino del 9A
Astronomo, ex Tuonoalato, Mezzosangue, Bisessuale omoromantico
Orion-1 Orion-2


LA RAGAZZA ARCOBALENO
Piper Leal Naidoo
26 anni, afroamericana, inquilina dell’11E
Modella, ex Magicospino, Metamorphomagus, Purosangue, Pansessuale
Piper-1 doja




*Si tratta di una scuola magica canadese fittizia inventata dall’autrice di Mathieu per il personaggio


Ma gente, abbiamo Jimmy Carter e Jackie, la Casa Bianca al completo!
Piccola noticina per avvisarvi, in caso a qualcuno non dovessero tornare i conti leggendo la storia, che dopo aver scelto gli OC ho deciso di fare uno switch e di spostare Niki a Tuonoalato. Questo perché, mannaggia a voi, mi avete riempita di Serpecorno cervelloni e ciò non avrebbe aiutato Niki a mantenere intatta la sua ossessiva privacy.
Mi dispiace che ci siano più uomini, ma sono sicura che queste bellissime signorine (+ la sopracitata squinternata) sapranno farsi valere e compensare senza problemi. <3 Forse avrete anche notato che quasi tutti gli uomini non sono etero, al contrario delle donne, quindi mi siedo in attesa di vederli tutti accoppiati tra loro mentre Niki distribuisce gatti per un’esperienza di zitellaggine collettiva.
Nel primo o nel secondo capitolo vi piazzerò la lista di condomini che fungeranno da personaggi secondari (e ovviamente da sospettati) insieme ad una tabella dove sintetizzerò chi abita a quale piano, OC e personaggi secondari inclusi, così capirvi e orientarvi dovrebbe risultarvi un po’ più semplice, spero :)

Un minuscolo disclaimer indirizzato a Phebe Junivers:
Phoebs cara, lo so che tu arriverai alla risoluzione della trama completa tra circa due capitoli perché non riesco quasi mai a trollarti, ma ti chiedo di espormi le tue magiche teorie in privato, così che tutti gli altri non possano andare a sbirciarle, altrimenti posso direttamente cambiare rotta e trasformare il giallo in boh, uno space western.


Grazie ancora per aver deciso di partecipare e per i personaggi che mi avete mandato, a presto e buon weekend!
Signorina Granger


Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 1 - C'è un cadavere nel 14B (I) ***


Capitolo 1
C’è un cadavere nel 14B - I -
 

 
Martedì 14 settembre 2021
Arconia, appartamento 13E, 7.40 pm

 
 
 
Il 14 settembre 2021 era iniziato come un martedì come tanti per gli abitanti dell’Arconia, che stavano vivendo le ultime ore della giornata nell’illusione che si sarebbe anche conclusa allo stesso modo.
Nell’appartamento E del 13° piano James Carter Cross era in trepidante attesa della sua cena: la pizza grondante di patatine fritte e wurstel che aveva ordinato su SmartOwl sarebbe arrivata a breve, e il giovane giornalista stava cercando di ammazzare il tempo dedicandosi alla minuziosa pulizia dei pezzi che componevano la sua collezione di modellini di auto d’epoca.
Stava dando una pulita al modellino in perfette condizioni di una Chevrolet Bel Air turchese – continuando senza sosta a lanciare occhiate al proprio telefono per controllare l’ora ma anche alle finestre dell’open space nella vana speranza che un gufo fattorino potesse presentarsi in anticipo – mentre Sarge, il suo Golden Retriever, lo osservava dal pavimento muovendo senza sosta la lunga coda dorata, soddisfatto dopo aver ricevuto la cena al contrario del padrone.
Ciò che James Carter Cross non sapeva, mentre puliva i suoi amati modellini, era che quello non era affatto un martedì come gli altri. Come non sapeva che non avrebbe mai avuto modo di gustare la sua grassissima pizza piena di patatine fritte.
 
Era passato alla pulizia di una Cadillac Eldorado quando l’equilibrio della serata si spezzò definitivamente: l’assordante campanella dell’allarme antincendio fece trasalire non solo lui e Sarge – che smise di scodinzolare e sollevò immediatamente la testa prima di iniziare ad abbaiare –, ma anche Isla, la sua gatta, che stava sonnecchiando nell’enorme cuscino peloso che le faceva da cuccia.
“Che cazzo…”
James Carter Cross viveva all’Arconia da sette lunghissimi anni, e in quel considerevole arco di tempo non gli era mai capitato di sentire l’allarme antincendio. Ripresosi dal leggero shock il ragazzo appoggiò la macchina al suo posto sulla mensola prima di affrettarsi ad estrarre la bacchetta dalla tasca e appellare il guinzaglio di Sarge, avvicinandosi al cane che ancora abbaiava agitato prima di inginocchiarsi davanti a lui per legarlo al collare:
“Sarge, sta buono. Vieni Isla, andiamo fuori.”
Dopo aver allacciato il guinzaglio al collare di Sarge Carter s’infilò il telefono nella tasca posteriore dei jeans insieme alla bacchetta e prese in braccio la sua gatta, affrettandosi ad uscire dopo aver raccolto le chiavi dalla ciotola dove era solito lasciarle nell’ingresso. Aveva appena messo piede fuori dal suo appartamento quando una tremenda consapevolezza lo assalì: abitava al tredicesimo piano, e ovviamente di prendere l’ascensore non se ne parlava a causa dell’allarme. Dentro i confini del palazzo non ci si poteva Smaterializzare, quindi la soluzione per uscire era una e soltanto una: le scale. Tredici fottutissimi piani di scale.
“Che vita di merda.”

 
*

 
Quando l’allarme antincendio animò l’Arconia Leena Zabini si trovava già nel cortile interno del palazzo, seduta sul bordo della fontana che si trovava al centro del giardino. Teneva una penna in mano e un plico di fogli tenuti insieme da una graffetta in grembo, impegnata a scribacchiare.
La maggior parte dei suoi vicini si trovava nel proprio appartamento per cenare, e quando la strega udì l’allarme sollevò la testa di scatto, riuscendo perfettamente ad immaginarli schizzare fuori dalle porte dopo un attimo di smarrimento e riversarsi sulle scale interne lasciando la cena intatta sul tavolo o sui fornelli.
Un paio di minuti dopo gli inquilini dei piani più bassi iniziarono ad uscire attraverso le due uscite di sicurezza, alcuni con animali al seguito e tutti visibilmente agitati e impegnati a guardarsi attorno preoccupati, forse in cerca di fumo o fiamme che però non trovarono, così come Leena.
Stava indubbiamente succedendo qualcosa di strano, si disse la strega aggrottando le sopracciglia e ripensando alle tre persone che le erano sfrecciate davanti praticamente di corsa una ventina di minuti prima, senza darle il tempo di riuscire a soffermarsi sui loro volti e impedendole quindi di appurare se si trattava di dei vicini o meno.
 
Era decisamente improbabile che ci fosse realmente un incendio e Leena, armatasi di quella consapevolezza, accennò un sorriso mentre gli occhi scuri luccicavano: non vedeva l’ora di scoprire cosa stesse succedendo. Magari le avrebbe anche offerto qualche spunto, perché no.
 
 
Ritrovarsi costretta ad uscire di casa mentre preparava la cena, quella sì che era una vera seccatura. Naturalmente quando aveva sentito l’allarme non aveva esitato a spegnere il gas, afferrare la gabbia del suo barbagianni e precipitarsi fuori, ma quando giunse nel cortile interno e non vide del fumo Eileen iniziò a chiedersi se non avesse interrotto le sue attività serali paurosamente importanti – mentre aspettava che la cena fosse pronta si stava divertendo a commentare e prendere in giro i profili di MagicMatching più assurdi insieme ad Anacleto – per nulla.
Sbuffando, la strega decise di non prendere d’assalto il povero Lester – già assalito da alcuni vicini per avere informazioni sulla situazione – e si spostò invece verso il centro del cortile insieme ad Anacleto, che si guardava attorno dal suo piccolo trespolo chiedendosi il perché di tutta quella gente. E soprattutto, se la sua padrona aveva smesso di sghignazzare alle spalle dei profili altrui, doveva assolutamente trattarsi di qualcosa di grave.
Quando scorse Leena Zabini Eileen si affrettò a raggiungerla, sedendosi vicino a lei sul bordo della fontana prima di appoggiare la gabbia di Anacleto accanto a sé.
“Ciao Leena… Sai che cosa sta succedendo?”
“No, me ne stavo qui a farmi gli affari miei quando è suonato l’allarme… Ma o è partito accidentalmente, perché non vedo fiamme, oppure era il modo più veloce per farci uscire tutti dal palazzo.”
“E perché avrebbero dovuto volerci spingere ad uscire in massa, secondo te?”
Incuriosita da quell’ipotesi Eileen si voltò verso Leena e la guardò con i grandi occhi chiarissimi, uno tendente al verde e l’altro all’azzurro, osservando la vicina stringersi nelle spalle prima di sorriderle allegra:
“Oh, non ne ho idea. Ma non vedo l’ora di scoprirlo.”

 
*
 

A saperlo con sette anni di anticipo, che prima o poi avrebbe sentito l’allarme antincendio scuotere il palazzo, col cavolo che Mathieu si sarebbe sognato di andare a vivere al penultimo piano.
Lui e il suo gigantesco alano, che tremava come una foglia da quando avevano sentito l’allarme, si riversarono nel cortile interno oltrepassando una delle due uscite di sicurezza del palazzo prima che Mathieu, semplicemente esausto dopo quell’assurda scarpinata, si affrettasse ad occupare una delle panchine che, ne era sicuro, presto sarebbero diventate particolarmente ambite.
“Sta’ tranquillo Prune.”
Il mago sedette con un sospiro di sollievo, le lunghe gambe doloranti, e sistemò la gabbia della sua civetta Ezdar accanto a sé mentre il povero Prune si guardava attorno terrorizzato senza smettere di tremare, piuttosto agitato sia a causa dell’allarme sia della considerevole calca che stava iniziando a formarsi nel cortile interno.
Mathieu si allungò leggermente in avanti sulla panchina per accarezzare l’alano e tranquillizzarlo un po’ mentre scrutava il palazzo con gli occhi chiari in cerca di fumo o di fiamme, ma niente: sembrava che non ci fosse alcuna traccia d’incendio nell’Arconia.
Che qualche idiota avesse avuto la brillante idea di mettersi a fumare in ascensore, o in corridoio, finendo con l’attivare l’allarme antincendio? Mathieu non ne aveva idea ma tutti attorno a lui sembrarono fare le sue stesse supposizioni, a giudicare dai mormorii nervosi che iniziarono a circondarlo.
 
 
Mathieu si era seduto da una manciata di secondi quando un altro ragazzo alto e biondo uscì dal palazzo tenendo un grosso cane al guinzaglio, con l’aggiunta di una gatta in braccio. Carter oltrepassò l’uscita di sicurezza con un sospiro di sollievo, maledicendo al contempo la sua idea del cazzo di andare a vivere in uno dei piani più alti prima di individuare uno dei suoi vicini e affrettarsi per andare ad occupare il posto libero sulla panchina.
“Ciao.”
Carter si mise seduto con un sospiro esausto, mettendosi Isla sulle ginocchia mentre Mathieu, capendo perfettamente il suo stato d’animo – nonché quello pietoso dei suoi arti inferiori – accennava un sorriso con gli angoli della bocca.
“Ciao. Stanco?”
“Non mi sento più i piedi, cazzo. Se dovessi trasferirmi da qui ricordami di andare a vivere al secondo piano… Ma sbaglio o non c’è nessun incendio?”
“Lo stavo pensando anche io. Forse qualcuno si è messo a fumare dove non doveva ed è scattato l’allarme.”
Mathieu aveva appena finito di parlare quando volse leggermente la testa in direzione del vicino, scoccandogli un’occhiata vagamente dubbiosa mentre l’altro, strabuzzando gli occhi azzurri, si affrettava a sottolineare la sua completa innocenza:
“Ehy, non guardare me, io stavo pulendo mentre aspettavo la pizza!”
Menzionare la sua pizza scatenò una seconda terribile consapevolezza in Carter: mentre Mathieu mormorava cupo qualcosa a proposito della cena che, di quel passo, non sarebbe mai riuscito a preparare e a consumare, l’ex Tuonoalato spalancò orripilato gli occhi chiari prima di affrettarsi ad estrarre il telefono dalla tasca dei jeans:
“Oh, merda… LA MIA PIZZA!”
Non c’era nulla da fare, era costretto a disdire il suo ordine, e quando vide l’emoji del gufetto triste sullo schermo del telefono Carter si sentì sprofondare: che ne sarebbe stato della sua cena?!

 
*

 
Quando Piper Naidoo fece ritorno all’Arconia era esausta, nonché impaziente di mettere piede nel suo appartamento all’undicesimo piano e di sistemarsi sul divano davanti alla tv insieme al suo gatto Bizet, la cena e sua cugina Nia. Tuttavia i suoi piani per la serata, così come quelli di tutti gli altri residenti, erano destinati a non concretizzarsi.
La strega aveva appena varcato l’ingresso ad arco del cortile interno del palazzo quando si fermò, inarcando un sopracciglio perfettamente disegnato e facendo vagare i grandi occhi scuri sul gran numero di persone presenti nel cortile: era la prima volta, da che viveva lì, che le capitava di vedere così tanta gente radunata lì fuori. Per un attimo Piper si chiese se per caso qualcuno non avesse diffuso la notizia del suo imminente rientro e provocando così tutto quell’accalcamento nel cortile, ma ben presto l’ex Magicospino appurò che nessuno le stava prestando particolare attenzione: i suoi vicini erano quasi tutti radunati in piccoli gruppi sparsi per il cortile, mentre qualcuno preferiva stare solo in disparte. Ben presto la ragazza notò anche un secondo particolare: sembrava che tutti avessero portato fuori i propri animali.
Quello era decisamente insolito. Sempre più confusa, la modella si chiese se per caso non avesse scordato una sorta di riunione di condominio esterna con tanto di invito esteso agli animali domestici, ma capì che presto le sue domande avrebbero trovato delle risposte quando scorse sua cugina correre verso di lei tenendo il suo gatto nero stretto tra le braccia. Se dapprima vedere Nia l’aiutò a rilassarsi, quando Piper ebbe modo di osservare l’abbigliamento della cugina sentì una prima ondata di panico invaderla: Nia era struccata, e indossava una tuta. Sua cugina si sarebbe auto-maledetta piuttosto che mettere piede fuori di casa in quelle condizioni – soprattutto, come era solita ripetere la ragazza, per via del loro vicino che aveva in tutto e sembianze di un modello – perciò Piper non ci mise molto a convincersi che doveva essere accaduto qualcosa di molto grave.
Del resto, solo qualcosa di appena meno terribile di una minaccia di morte avrebbe convinto Nia a uscire di casa in tuta. 
“Piper, ho provato a chiamarti due volte!”
“Scusa, ho il telefono in silenzioso e nell’ultima ora ho cercato di usarlo il meno possibile perché era scarico… Che cosa sta succedendo qui?! E perché hai portato fuori Bizet?! E perché indossi la tuta che metti quando passiamo la serata svaccate sul divano?!”
Nia sbuffò sonoramente mentre depositava Bizet tra le braccia della cugina, che accolse il suo amato felino senza però smettere di fissare la minore con gli occhi scuri fuori dalle orbite, indecisa se mettersi a sghignazzare o preoccuparsi a morte.
“Senti, è già abbastanza terribile starmene qui circondata da manzi con questa faccia e questa tuta addosso, vedi di non farmelo pesare! E comunque è suonato l’allarme antincendio, non avevo tempo né di cambiarmi né di mettermi il fondotinta! Ed ecco anche spiegato perché tutti hanno i loro animali.”
“Allarme antincendio?! Sei seria?!”
“CERTO, pensi forse che uscirei con questa faccia se non perché costretta dalla prospettiva di morire abbrustolita?!”
“Ma hanno spento l’incendio? E perché non c’è fumo?!”
“Non lo so, è quello che si chiedono tutti. E i pompieri non sono arrivati, che peccato… Comunque, gli Auror stanno parlando con quelli dell’attico e con il proprietario, ma nessuno ci dice nulla, nemmeno Lester. È tutto molto strano.”
Nia parlò con una stretta di spalle, gli occhi scuri sulla cugina che, Bizet in braccio e la borsa stretta nell’incavo del gomito, osservò brevemente il palazzo buio e insolitamente silenzioso e deserto. Era quasi surreale vedere l’Arconia totalmente svuotato dei suoi abitanti, ma la modella si ridestò dai suoi pensieri quando una seconda persona le si avvicinò, sorridente e nettamente più rilassata rispetto a quanto non fosse apparsa Nia poco prima:
“Mi stavo proprio chiedendo dove fossi finita! Perché non rispondevi al telefono?”
“Era scarico, ho cercato di non usarlo mentre mi sistemavano il trucco e finivano lo shooting… Come mai tu sembri così tranquillo, Jackie?”
Piper scoccò un’occhiata leggermente apprensiva all’amico, che però le sorrise rilassato prima di stringersi nelle spalle mentre chinava lo sguardo sul gatto della ragazza, allungando una mano per accarezzarlo con affetto:
“Non c’è traccia di fumo o di fiamme, mi sembra piuttosto probabile che si tratti di un falso allarme… probabilmente qualcuno si è messo a fumare dove non doveva ed è scattato l’allarme per niente.”
Il tono rilassato di Jackson, che conosceva da quando erano studenti di Ilvermorny, aiutò la stessa Piper a rilassarsi a sua volta, dicendosi che forse non era successo niente di grave. O almeno finchè Nia, in piedi accanto al veterinario, non parlò di nuovo:
“Forse, ma… La Signora Dawson sembra davvero sconvolta. Pensate che possa essere successo qualcosa?”
Poco convinta, Nia si voltò verso la suddetta donna stringendo le braccia al petto, visibilmente nervosa. Jackie e Piper seguirono la direzione dello sguardo della più giovane, osservando brevemente Joanna Dawson in lacrime e stretta dall’abbraccio del marito prima che Jackie, leggermente a disagio, tornasse a rivolgersi all’amica:
“Vi va di andare da qualche parte? Io non sono ancora riuscito a cenare e sto morendo di fame. E poi restando qui non credo che combineremo nulla o riusciremo a saperne di più.”
“Sì, va bene. Spero che non facciano problemi per Bizet, in caso contrario userò la mia vena persuasiva.”
Piper sfoderò il primo sorrisetto della serata mentre Jackson la prendeva sottobraccio, incamminandosi insieme verso l’ingresso del cortile mentre Nia li seguiva trascinando i piedi e sospirando amareggiata:
“Andare a mangiare adesso? In queste condizioni? Povera me, da domani dovrò cambiare quartiere per la vergogna!”
Piper si costrinse a mordersi la lingua pur di non ricordare alla cugina che, per quanto le volesse bene e apprezzasse la sua compagnia e averla come ospite, di fatto lei non viveva affatto né in quel palazzo né nel quartiere in generale. Nia era più che altro un’ospite permanente – talvolta non richiesta –, me le era troppo affezionata per non darle ospitalità nel suo bell’appartamento nell’Upper West Side.
“Non essere ridicola Nia, sei bellissima anche senza trucco!”
Mentre camminava a fianco di Piper Jackie si voltò per indirizzare un sorriso allegro a Nia, che però ricambiò con uno sguardo cupo mentre stringeva le braccia al petto, per nulla convinta da quel complimento:
“Lo dici solo perché sei nostro amico e vieni sempre a farti ospitare da noi quando tua madre ti fa impazzire, o per giocare con Bizet!”
“Ma che dici, io non l’ho mai fatto!”


 
*

 
Quando aveva sentito l’allarme Bartimeus si stava preparando la cena, ma non era riuscito né ad ultimare né tantomeno a gustare il delizioso gumbo con gamberi(1) che aveva sognato per tutto il giorno: dopo l’iniziale stordimento il mago era corso a prendere Jam, la sua amatissima tartaruga, ed era uscito dal suo appartamento del sesto piano dopo aver arraffato chiavi, bacchetta e telefono. Sotto alle scarpe che aveva infilato a tutta velocità, senza nemmeno allacciarle, figurava una delle tante paia di calzini colorati facenti parte della sua eccentrica collezione. Quelli del giorno erano di un’accesa tonalità turchese, cosparsi da uova fritte.
Ed era proprio la sua cena che Bartimeus stava amaramente rimpiangendo mentre, seduto sul bordo della fontana del cortile interno accanto ad un ex compagno di scuola con ben due tartarughe in braccio, cercava invano di capire che cosa fosse successo e che cosa avesse spinto lui e tutti gli abitanti del palazzo a lasciare le proprie dimore.
“Sto cercando di non pensare alla cena meravigliosa che ho lasciato al sesto piano, ma non mi riesce molto bene. Sto morendo di fame.”
Gabriel, seduto accanto a lui stando leggermente proteso in avanti e con i gomiti appoggiati sulle gambe divaricate, smise di ascoltare distrattamente le assurde teorie sull’origine dell’allarme antincendio partorite da due ragazze che avevano occupato il lato opposto della fontana per voltarsi verso il vicino, annuendo mesto mentre cercava senza successo di allontanare l’immagine della cena che non aveva fatto in tempo a consumare.
“Anche io. Tu cosa stavi cucinando?”
“Il gumbo con i gamberi. Tu?”
“Le quesadillas alle verdure grigliate...”
I due sospirarono simultaneamente, ciascuno impegnato a pensare alla propria cena negata prima che Moos accennasse cupo in direzione di una dei loro numerosissimi vicini, impegnata a discutere animatamente con un Auror ad una decina di metri di distanza e tenendo un cane al guinzaglio.
“Forse non dovremmo parlare di cibo, ma Naomi ci sta mettendo un’eternità!”
“Lo so. E non sembra nemmeno troppo contenta, quindi immagino che non le stiano dicendo nulla.”
E infatti la strega, quando un paio di minuti dopo si congedò dall’Auror, si incamminò verso di loro a passo di marcia e con un’espressione molto poco allegra sul viso, piazzandosi davanti ai due prima di incrociare le braccia al petto e parlare seria:
“Ok, gli Auror non mi hanno detto un bel niente, solo che è successo qualcosa di grave e che ci terranno fuori ancora per un po’. Ora, considerando che non so quando potremo rientrare e che sto per azzannare uno di voi, propongo di andare a mangiare qualcosa da qualche parte.”
“Approvo. Sicura di volerti far vedere in giro con quelle, però?”
Gabriel accennò alle pantofole – rosa con le nuvolette – di Naomi, che chinò lo sguardo su di esse prima di strabuzzare gli occhi chiari e imprecare a bassa voce per poi affrettarsi a Trasfigurarle in delle scarpe con un incantesimo. La strega gettò un’occhiata furente a quelli che considerava “amici”, fulminandoli con lo sguardo mentre Moos e Gabriel le sorridevano a mo’ di scuse:
“Potevate anche dirmelo prima, mi ero scordata di averle! Sono andata a rompere le scatole agli Auror con queste, che figura di merda!”
“Ma noi pensavamo che te ne fossi accorta e che fossi semplicemente molto… disinvolta e sicura di te. Con i vostri animali come facciamo, comunque?”
Gabriel scivolò dal muretto della fontana accennando alle due tartarughe che Moos stringeva e al grosso Golden Retriever tenuto al guinzaglio da Naomi, che gettò una rapida occhiata a Sundance, il cane, prima di stringersi nelle spalle:
“Inizierò un’eterna arringa, stordendoli e prendendoli per sfinimento finchè non accetteranno i nostri piccolini.”
Sei proprio un ottimo avvocato.”
Moos le sorrise con affetto e Naomi ricambiò, prendendolo sottobraccio quando anche lui si fu alzato:

“Lo so Moos, ti ringrazio. Ora muovetevi, crepo di fame e ho lasciato l’anatra sul tavolo. Capite cosa si prova?!”
“Lo capiamo benissimo.”
 
Naturalmente ciò che Gabriel e Moos non potevano affatto capire, si disse Naomi mentre seguiva i due verso l’uscita del palazzo carica di amarezza, era l’irritazione di aver dovuto interrompere non solo la cena, ma anche un momento assolutamente clou della versione britannica di Love Island.
Naomi Leigh Broussard non aveva idea di che cosa fosse successo nel palazzo quella sera, ma di una cosa era sicura: di qualunque cosa si trattasse, le aveva proprio rovinato la serata.

 
*

 
Naturalmente Carter aveva provato con tutte le sue forze ad impicciarsi, ma non era riuscito a ricavare assolutamente niente dal povero portinaio, finendo col cedere ai morsi della fame e decidere di andare a mangiare qualcosa: dopo aver convinto Lester a tenere Isla per lui il ragazzo aveva lasciato l’Arconia in compagnia di Sarge, il suo amatissimo Golden Retriever, che gli trotterellò accanto sul marciapiede scodinzolando entusiasta per quella passeggiata improvvisata.
Ancora profondamente in lutto per la sua pizza, Carter non aveva nemmeno avuto bisogno di fermarsi a riflettere prima di incamminarsi insieme a Sarge verso il ristorante dei dintorni che preferiva, deciso a porre un freno ai dolorosi crampi che gli stavano ormai attanagliando lo stomaco. In fin dei conti, non mangiava da ben quattro ore.
Di norma un Golden Retriever non sarebbe stato ben accetto, ma Carter era un cliente abituale e dopo aver pregato, implorato, promesso lautissime mance e aver usato l’adorabile muso di Sarge come asso nella manica il ragazzo riuscì a far sì che il cane, fortunatamente estremamente mansueto, venisse accettato dal maître di sala. Che però, poco dopo, gli comunicò che disgraziatamente non avevano nessun tavolo libero.
Scenari catastrofici iniziarono subito a prendere vita nella mente di Carter, che già si figurò intento a vagabondare solo e sempre più affamato e sofferente per le strade dell’Upper West Side, alla disperata ricerca di un tavolo libero che non avrebbe mai trovato.
Stava per gettare la spugna e arrendersi alla prospettiva di morire di fame quando, gettando una disperata occhiata casuale nella sala che si estendeva davanti ai suoi occhi, scorse il biglietto d’oro che gli avrebbe assicurato la cena. Ad uno dei tavoli centrali della sala sedeva una ragazza, una bellissima ragazza sola che stava leggendo il menù. Le bellissime ragazze sole erano la sua specialità, e Carter, certo che avrebbe impiegato all’incirca un minuto per convincerla a condividere il tavolo con lui, si affrettò a sfoderare un largo sorriso prima di fare cenno nella sua direzione:
“Come sono sbadato, la mia, emh, la mia amica è già arrivata! Vede, è quella lì.”
“Lei… Lei deve cenare con quella signorina?”
Quando il maître di sala seguì la direzione indicatagli da Carter e scorse la ragazza interessata sembrò piuttosto perplesso, fissando il ragazzo con sguardo stralunato mentre lui, vagamente offeso, annuiva: cos’è, pensava che non potesse cenare con una ragazza così bella?! Roba da non credere, lui avrebbe potuto cenare letteralmente con chiunque.
 
“Sì, perché?”
“Oh, nulla signore. Prego, mi segua. Il cane resta qui, però, se permette.”
Subito il maître si ridestò, facendogli educatamente cenno di seguirlo prima che Carter, controvoglia, si trovasse costretto ad allungare il guinzaglio di Sarge ad un cameriere: cercò di non soffermarsi sullo sguardo implorante del cane, accarezzandogli rapido la testa per salutarlo e promettergli di tornare presto da lui.

“Va bene, ma dategli qualcosa per favore. Scusa piccolo, papà torna presto.”
Carter si affrettò a seguire il maître verso il tavolo del suo “appuntamento” costringendosi a non voltarsi neanche una volta verso Sarge, certo di non essere in grado di reggere di fronte alla vista del suo sguardo ferito.
 
 
Che serata difficile. Davvero una serata tremenda. Come si poteva scegliere tra le lasagne e gli spaghetti? No, era una decisione impossibile. Forse avrebbe dovuto prenderli entrambi.
Si stava giusto convincendo di quanto la sua idea fosse splendida e assolutamente geniale quando scorse il maître di sala avvicinarlesi con la coda dell’occhio. Prevedendo una seccatura, la strega ebbe appena il tempo di sospirare prima che quello potesse raggiungerla e posizionarsi accanto al suo tavolo:
“Signorina? Il signore dice di dover cenare con lei.”
 
Avrebbe tanto voluto scoppiare a ridere e mandare il suddetto “signore”, chiunque fosse, a farsi un bel giro, ma si costrinse a tacere mentre voltava lentamente la testa di lato, pronta ad adocchiare il suo fantomatico “appuntamento”. Quello che vide la lasciò senza parole.
 
Il deficiente del 13E
 
Carter era giunto abbastanza vicino alla ragazza che aveva scorto poco prima quando si rese conto di come avesse un’aria decisamente familiare. In un primo momento si chiese se per caso non gli fosse capitato di uscirci in passato e di averlo poi rimosso, ma quando un paio di grandi e gelidi occhi verdissimi lo trafissero e la ragazza parlò capì dove aveva già avuto modo di incontrarla.
“Il Signore dice così?”
Mentre Niki lo fissava attentamente, gli occhi chiari fissi sul suo viso, Carter restò quasi a bocca aperta: era certo che fosse lei per via della voce, che aveva già avuto modo di sentire un paio di volte, e dell’impermeabile nero che giaceva sullo schienale della sua sedia, ma mai avrebbe scommesso di ritrovarsi nello stesso posto della sua misteriosissima vicina. Mentre la guardava attonito, rendendosi conto di non averla mai vista senza occhiali da sole e con i capelli in mostra da quando si era trasferita, Niki distolse improvvisamente lo sguardo e agitò pigramente la mano destra, come invitandoli a fare in fretta.
“Che si sieda, allora.”
 
Un minuto dopo Carter sedeva accanto alla “vicina del 13B”, così era solito chiamarla da settimane visto che non era nemmeno del tutto certo di come si chiamasse.
“Io sono Carter, comunque.”     Il ragazzo prese il menù accennando un debole sorriso alla sua nuova commensale, che allungò una mano verso il cestino del pane per prenderne una fetta prima di parlare senza guardarlo.
“Sì, lo so chi sei. Ti hanno sbattuto fuori dal palazzo, avevi fame e volevi cenare, qui era tutto pieno e quando mi hai vista hai pensato di poterti sedere. Mi hai riconosciuta?”
Questa volta Niki si voltò verso di lui, scrutandolo con attenzione mentre Carter, al contrario, scuoteva la testa.
“Oh, non direi, non subito. Tu come…”
“Sono Niki.”
La strega addentò pensierosa la fetta di pane, masticando lentamente mentre fissava assorta il lampadario sopra di loro. All’udire quel nome qualcosa di a lungo sopito nella memoria di Carter si smosse, ma il ragazzo non riuscì a ricollegarlo a nulla di concreto e così, spinto dalla curiosità, tornò a rivolgersi alla ragazza senza smettere di guardarla:
“Niki…”
Lasciò naturalmente la frase in sospeso affinché lei la completasse fornendogli il suo cognome, ma Niki non gli diede quella soddisfazione, chiudendo il menù prima di iniziare a frugare nelle tasche del suo impermeabile nero alla ricerca di qualcosa.
“Niki.”
Era chiaro che non volesse dirgli il suo cognome, e Carter decise di lasciar perdere mentre la osservava con attenzione, certo che in qualche modo il suo viso gli fosse familiare, e non solo perché vivevano sullo stesso piano. Del resto gli era capitato di incrociarla in rarissime occasioni, e sempre con gli occhiali da sole addosso. No, doveva averla già incontrata altrove.
Carter si costrinse a concentrarsi e ad osservarla meglio, soffermandosi sulle labbra carnose, gli occhi grandi e i lunghi capelli scuri pettinati all’indietro. Anche vedendola a mezza figura era evidente che fosse molto magra, e le braccia e il busto esili erano fasciati da un’aderente maglia a collo alto bianca a costine verticali.
“Senti, posso chiederti quanti anni hai? Perché credo che tu possa essere stata del mio stesso anno, ad Ilvermorny…”
“27.”
“Davvero?”
Carter parve sorpreso da quella risposta, e fu semplicemente la peggior reazione possibile. Niki, che si era infilata una sigaretta tra le labbra e stava per accenderla con uno zippo d’argento estratto da una tasca, s’irrigidì e posò lentamente gli occhi verdi su di lui prima di sibilare qualcosa col tono più minaccioso che Carter avesse mai udito da molti anni a quella parte, da quando aveva tentato di dire a sua nonna che non si sarebbe presentato al pranzo della domenica successiva per una gita tra amici:
“Forse non dimostro 27 anni?”
Temendo sinceramente che potesse affatturarlo o prenderlo per il collo al di sopra del tavolo Carter, faticando a trovare abbastanza saliva per deglutire, si affrettò a scuotere la testa mentre si ritraeva d’istinto sulla sedia, allontanandosi leggermente da lei.
“Oh, no, è solo che… credevo che potessimo essere stati compagni di classe, ma evidentemente mi sbaglio. Sei sicura che qui si possa fumare?”
Niki non rispose, limitandosi ad accendersi la sigaretta con lo zippo – che a Carter sembrò riportare un’incisione sulla base, senza però riuscire a leggerla – prima di riporlo nuovamente nella tasca dell’impermeabile che sfiorava il pavimento.
Un attimo dopo, in risposta ai dubbi di Carter, un cameriere si avvicinò timidamente alla strana coppia, ricordando con un mormorio alla ragazza che lì dentro non si poteva fumare. Niki tuttavia non si scompose affatto, non si scusò e neanche accennò a volerla spegnere, limitandosi ad afferrare il telefono appoggiato davanti a lei sul tavolo prima di digitare rapidissima qualcosa e mostrarlo al cameriere senza battere ciglio o voltarsi.
Sempre più curioso e stranito, Carter guardò il ragazzo irrigidirsi prima di balbettare delle scuse e schizzare via, ritornando un attimo dopo con un posacenere di vetro che sistemò davanti a Niki sotto lo sguardo attonito del giornalista.
“Quindi… posso fumare anche io?”
La domanda portò Niki a guardarlo di nuovo, restando perfettamente impassibile mentre si allontanava la sigaretta accesa dalle labbra, parlando prima di esalare una nuvola di fumo e appoggiare di nuovo il telefono, capovolto, sul tavolo:
“No. Non hai sentito? Qui non si fuma. Tu bevi vino, Carter Cross?”
“Preferisco la birra.”
“Allora devo ancora comprendere la tua utilità qui. Dimmi come vi hanno fatti uscire, io ero già fuori e me lo sono perso.”
 
Carter restò in silenzio a guardarla per una manciata di secondi, assolutamente certo di averci già avuto a che fare in passato ma incapace di ricordare dove. La cosa assurda era che solo quella mattina non avrebbe scommesso nemmeno un centesimo sulla possibilità di ritrovarsi seduto allo stesso tavolo con la sua vicina, quella che si faceva vedere di rado all’interno del palazzo e con cui nessuno sembrava mai aver parlato.
Quando si rese conto di essere, probabilmente, il primo tra gli abitanti dell’Arconia ad averci scambiato più di due parole Carter si lasciò sfuggire un piccolo sorriso compiaciuto. Adorava essere il primo a sapere le cose.

 
*
 

Visto e considerato che di tornare nel suo appartamento non se ne parlava, Mathieu decise di approfittare dell’uscita fuori programma per portare Prune, ancora molto agitato a causa della gran quantità di gente che aveva attorno, a fare una passeggiata. Certo prima doveva liberarsi dell’impiccio di Ezdar, la civetta col peggior carattere del mondo, e della sua gabbia, quindi il ragazzo si avviò verso l’ingresso con l’obbediente alano al seguito, che gli stava quasi incollato alle gambe camminando a testa bassa.
“Lester, visto che mi sembra evidente che non ci sia nessun incendio, potrei almeno lasciare Ezdar nell’ingresso? Non posso andarmene in giro per l’Upper West Side con una civetta.”
Mathieu sollevò con fare eloquente la gabbia del rapace, guardando il portinaio – più nervoso che mai e impegnato a torturarsi il capello della divisa – annuire prima di sospirare stancamente:
“Sì, se rimangono nelle gabbie potete entrare e lasciarli sul bancone.”
Sembrava che qualcuno dei suoi vicini avesse già avanzato la stessa richiesta, perché quando Mathieu riuscì a varcare l’ingresso del palazzo superando un Auror vide due ragazze, una alta e dalla pelle scura e l’altra più minuta con lunghi e lisci capelli neri, depositare sul bancone della portineria la gabbia di un barbagianni senza smettere di parlottare fittamente a bassa voce.
Le due, che Mathieu era sicuro di aver già visto in giro per il palazzo ma senza avere idea di dove vivessero, lo superarono per uscire senza guardarlo o smettere di parlare, entrambe dotate di forti accenti britannici. Il candese sistemò la gabbia della sua civetta vicino a quella del barbagianni – stando ben attento a tenerla a distanza dal trasportino di un magnifico gatto del Bengala visibilmente scontento di essere stato lasciato lì –, che guardò curioso il “nuovo vicino” mentre Ezdar, invece, scoccava la peggiore delle occhiatacce in direzione del padrone.
“Non rompere Ezdar, non è colpa mia se ci hanno fatti uscire. Vieni Prune.”
Mathieu strattonò dolcemente il guinzaglio dell’alano, che intuendo di star andando a passeggiare sembrò tranquillizzarsi un poco e seguì il padrone scodinzolando mentre altri due condomini facevano il loro ingresso nel palazzo con animali al seguito: uno dei due reggeva tra le braccia il trasportino di un Blu di Russia, l’altro la gabbia di un gufo che, come Ezdar, non sembrava affatto entusiasta di essere stato rinchiuso.
 
Il padrone del gatto, un ragazzo asiatico dai corti capelli neri, si stava lamentando a proposito della lezione notturna di Astronomia che avrebbe perso per colpa di quel fastidiosissimo inconveniente mentre l’altro, salutato Mathieu con un sorriso quando l’altro li superò, gli sorrise allegro, apparentemente per nulla infastidito dalla particolare situazione in cui si trovavano. Certo Orion aveva dovuto interrompere la molto promettente partita a scacchi che stava giocando e vincendo online, ma non se ne era fatto un cruccio e non aveva esitato ad abbandonare il tablet sul divano prima di correre a rinchiudere Arthur nella sua gabbia per portarlo fuori dall’appartamento del nono piano dove vivevano.
La parte difficile, al massimo, era stata farsi nove piani di scale a piedi.
 
“Di che ti preoccupi Kei, posso fartela io, la lezione di Astronomia!”
“Senza telescopio?!”
“Pf, so tutto a memoria, non serve. Forza, andiamo a farci un giro a Central Park, così staremo più tranquilli.”
“Va bene, ma strada facendo prendiamo qualcosa da mangiare, sto morendo di fame.”



Cinque minuti dopo, lasciati gli animali nell’ingresso, i due attraversarono il cortile interno per lasciare l’Arconia e incamminarsi verso Central Park, che distava meno di dieci minuti a piedi dal palazzo. Dopo essersi fermati strada facendo per prendere due giganteschi tacos a testa e placare così la loro fame i due iniziarono a discutere delle possibili cause che potevano aver spinto gli Auror a volerli fare uscire tutti dal palazzo, vagliando persino le ipotesi più assurde.
“Non lo so, credo proprio che far scattare l’allarme fosse il modo più veloce per farci uscire tutti, se si fossero messi a bussare ad ogni singola porta, beh, ci avrebbero messo ore viste le dimensioni del palazzo.”
Orion parlò dopo aver staccato un grosso pezzo di taco con un morso, masticando pensieroso mentre Kei, accanto a lui, annuiva stringendo il suo tra le mani.
“Ma perché volerci far uscire tutti?”
“La presenza degli Auror e la loro reticenza a parlare non promette bene.”
 
Probabilmente Orion aveva ragione, ma Kei non rispose mentre tornava a guardare dubbioso la sua cena improvvisata, sperando ardentemente che il vicino si sbagliasse.
 
*

 
“Come sarebbe a dire che non avete posto?!”
“Beh, che non abbiamo posto, Signorina.”
Il maître di sala guardò le due streghe inarcando un sopracciglio con aria scettica, chiedendosi che cosa esattamente non fosse chiaro nell’espressione “non abbiamo posto”. Leena sospirò, profondamente amareggiata, mentre alle sue spalle Eileen gemeva sommessamente con lo stomaco che non voleva saperne di smetterla di brontolare.
“Ma è tipo il terzo posto tutto pieno che troviamo, la prego!”
Mentre Eileen faceva del suo meglio per impietosire l’uomo Leena scrutò la sala davanti a loro cercando qualcuno che avesse già finito di cenare e che si stesse attardando perdendo tempo e soprattutto facendo perdere a loro la cena. Gli attenti occhi scuri della strega finirono con l’indugiare su uno dei tavoli circolari al centro, in particolare su una delle due persone che lo aveva occupato.  Colta da una splendida idea, Leena si accostò immediatamente alla vicina, indicandole il bel ragazzo biondo in questione:
“Lo vedi quel ragazzo? Quello figo e biondo? È uno dei nostri vicini, no?”
“Quello? Oh, sì, vive molto in alto se non sbaglio e ha un bellissimo Golden Retriever!”
Un largo sorriso si fece strada sulle labbra di Eileen, che ripensò adorante al suddetto cane prima di cogliere lo sguardo eloquente della vicina e spalancare gli occhi chiari:
“Stai pensando di…”
“O questo, o la fame. A dire il vero noi, emh, siamo con loro.”
Leena si stampò il sorriso migliore del suo repertorio sulle labbra mentre accennava in direzione del tavolo, portando il maître a voltarsi, scettico. Quando però adocchiò Niki e Carter l0uomo strabuzzò gli occhi, voltandosi di nuovo verso le due per osservarle dubbioso:
“… Voi due siete con quei due signori? Ne è assolutamente sicura?”
“Beh, certo, non ho le traveggole!”
Il maître non parve molto convinto, ma poiché il cliente aveva sempre ragione dopo aver gettato un’ultima occhiata dubbiosa alle due streghe si decise ad avvicinarsi, non con poca reticenza, al tavolo. Fermatosi accanto a Niki, l’uomo sospirò prima di parlare:
“Chiedo scusa per il disturbo, ma ci sono due Signorine che dichiarano di conoscervi e di dover cenare con voi.”
Niki smise di parlare con Carter, la sigaretta accesa ancora stretta tra le dita della mano destra, per voltarsi con estenuante lentezza verso il maître, squadrandolo torva prima di parlare in un sussurro appena percettibile:
Spero vivamente che sia una pessima barzelletta.”
“Temo proprio di no, Signorina.”
Mentre Niki sibilava un’imprecazione – o almeno suonò esattamente come tale, anche sé Carter né il maître compresero la lingua – il ragazzo si voltò per guardare con i suoi occhi le due fantomatiche Signorine, sorridendo e accennando un saluto con la mano quando riconobbe due delle loro numerose vicine:
“Ehy, ma sono due nostre vicine! Sarebbe crudele impedirgli di cenare, vista la situazione attuale.”
Carter tornò a guardare Niki, che sospirò rumorosamente e alzò gli occhi verdi al cielo prima di annuire seccata e agitare pigramente la mano libera:
“Bene, le faccia accomodare. Ma se si presenta qualcun altro che dichiara di conoscermi e di dover cenare con me, gli dica che sono morta. E già che c’è, mi faccia portare un’altra bottiglia per favore.”
 
Mentre un esasperatissimo maître si allontanava dal tavolo per recuperare la bottiglia richiesta dopo aver fatto cenno ad un cameriere di passaggio di apparecchiare il tavolo per altre due persone Leena e Eileen si avvicinarono ai due vicini, sorridendo sollevate:
“Non so come ringraziarvi, rischiavamo di vagabondare in cerca di una cena per un’altra mezz’ora e non so se avremmo retto… Io sono Leena, comunque.”
Leena sorrise a Niki mentre allungava la mano destra, guardando la vicina voltarsi e osservarla brevemente prima di stringerla portandosi al contempo la sigaretta alle labbra con l’altra mano.
“Niki.”
La presentazione suonò quasi come un tiepido brontolio, ma Leena non ci fece molto caso mentre sedeva accanto a lei, impaziente di mettere finalmente qualcosa sotto i denti e gettando invece un’occhiata piuttosto perplessa alla sigaretta accesa:
“Ma si può fumare qui?”
“No, di norma no. Se vi dà fastidio smetto.”
Niki parlò senza guardarla e allungando la mano verso il posacenere per picchiettarci sopra la sigaretta e far cadere un po’ di cenere dall’estremità accesa mentre Eileen sedeva di fronte a lei e Leena, chiedendosi come fosse riuscita a farsi accordare il permesso di fumare dal personale di sala quando i tavoli accanto sembravano visibilmente scontenti, si affrettò a scuotere la testa mentre apriva un menù.
“No, per me non è un problema, fumo anche io.”
“Io sono Carter.”
Il ragazzo sorrise alle due, stringendo la mano che Eileen gli porse mentre altri due posti venivano aggiunti al tavolo. Il cameriere indugiò anche per informarli che finchè non avessero ricevuto gli ordini delle due nuove ospiti avrebbero lasciato quelli del tavolo in sospeso, provocando un gemito sommesso da parte di Carter e l’ennesimo, sonoro sbuffo da Niki, che afferrò con un gesto brusco il cestino del pane vuoto per allungarlo al cameriere:
“Che cosa deve fare una ragazza per mangiare delle lasagne?! Mi riempia questo. E voi sbrigatevi a decidere, vi prego.”
La richiesta risuonò più come un ordine considerevolmente minaccioso e Leena e Eileen si affrettarono a gettarsi nella lettera del menù, decise ad impedire alla loro misteriosa vicina di usarle come pasto.

 
*

 
Quando era stato fatto partire l’allarme antincendio Esteban non si trovava nel palazzo: in effetti era uscito per portare il suo cane a spasso una ventina di minuti prima, e quando aveva fatto ritorno insieme a Mocio, il suo Bobtail, si era imbattuto in una gran folla di vicini riversati nel cortile interno. Chiedendo in giro ragazzo ci aveva messo ben poco a capire che i vicini erano stati costretti a lasciare i propri appartamenti e che erano rimasti in attesa di poter tornare nel palazzo senza che nessuno fosse esplicito sulle ragioni che li tenevano all’esterno.
Per nulla invogliato a rimanere nel cortile gremito e certo che non avrebbe portato a nulla Esteban aveva deciso di continuare la passeggiata insieme a Mocio, uscendo di nuovo dal palazzo e dirigendosi verso Central Park.
Aveva quasi raggiunto l’ingresso del parco più vicino al palazzo quando gli sembrò di scorgere due dei suoi vicini – che gli capitava di incrociare in ascensore o nell’ingresso di tanto in tanto – camminare qualche metro più avanti rispetto a lui ed entrare nel parco. Desideroso di saperne di più sulla situazione attuale Esteban affrettò leggermente il passo e costrinse così Mocio a fare altrettanto, anche se il grosso e pelosissimo cane non sembrò entusiasmarsi particolarmente mentre seguiva trotterellando il padrone sul marciapiede, attraverso delle strisce pedonali e infine varcando l’ingresso del parco buio e illuminato dai lampioni che costeggiavano i viali.  
Esteban vide i due vicini sedersi su una delle panchine più vicine, affrettando ulteriormente il passo per raggiungerli con Mocio che sbuffava al seguito: avrebbe dovuto prevedere la fregatura quando il padrone lo aveva portato a fare il secondo giretto consecutivo.
 
“Chiedo scusa, voi vivete all’Arconia, vero?”
Esteban si fermò accanto alla panchina e parlò accennando un sorriso mentre Kei e Orion smettevano di conversare e si voltavano verso di lui tenendo dei tacos in mano. Gli occhi scuri di Orion indugiarono prima sul cane, così peloso da rendere impossibile a chiunque scorgergli gli occhi, e poi sul suo padrone, un ragazzo alto, sorridente e con mossi capelli scuri. Infine, mentre accanto a lui Kei si sforzava di non farsi scappare apprezzamenti sul bel ragazzo che avevano davanti, Orion annuì con un sospiro cupo:
“Stasera vorrei dire di no, ma sì.”
“Io sono Esteban, vivo al 12° piano… Ero uscito a portare fuori il mio cane e quando sono tornato tutti erano nel cortile, ho sentito qualcosa sull’allarme antincendio. Voi sapete qualcosa?”
“Purtroppo niente di più, gli Auror non hanno detto un bel niente se non al padrone di casa. Ho visto uno di loro parlare con il Signor O’Hara, prima.”
“Ci sono anche gli Auror?”
Quel dettaglio non poi così minuscolo o irrilevante gli era completamente sfuggito, e il giornalista guardò i due vicini con gli occhi scuri leggermente preoccupati mentre Mocio si avvicinava ad Orion e a Kei per annusare con enorme interesse i loro tacos farciti.
“Sì, ne abbiamo visto qualcuno, vero Orion? Ciao bello!”
Kei sorrise al cane e lo accarezzò mentre Orion, accanto a lui, annuiva dondolando lentamente la gamba destra accavallata sulla sinistra e osservando pensieroso gli alberi che avevano davanti e che presto, con l’incombere dell’autunno alle porte, avrebbero cominciato a tingersi di rosso e arancione.
“Sì. Kei, attento, il pelosone ti mangia il taco.”
Mocio, comportati bene! Scusate, deve avere fame.”
Esteban sospirò e strattonò dolcemente il guinzaglio del Bobtail per chiedergli di lasciare in pace Kei, che però sorrise al cane e spezzò un pezzo di tortilla fatta con farina di mais per allungarlo a Mocio tenendolo sul palmo della mano. Mocio l’annusò, facendolo subito sparire e ricompensando il ragazzo con una leccata sulla mano mentre Kei sorrideva, divertito:
“Non c’è problema. Lo hai chiamato Mocio?!”
“Sì, mi sembrava appropriato.”         
Esteban sorrise, abituato allo sconcerto che il nome del suo cane era solito scatenare. In fondo però, quando Mocio era cucciolo e solo un ammasso di pelo bianco e grigio, non era riuscito a farsi venire in mente nulla di più azzeccato.
“È carino. Oh, io sono Kei, lui è Orion.”
“Io vivo al nono, lui al settimo. Sei fortunato ad essere uscito con il tuo cane prima dell’allarme, o ti saresti dovuto fare più di venti rampe di scale. Per una volta non invidio quelli che vivono molto in alto.”
Esteban non ci aveva riflettuto, ma finì col dover dare ragione ad Orion: mentre si chinava per accarezzare il muso pelosissimo di Mocio dovette riconoscere di aver avuto una splendida quanto provvidenziale idea quando aveva deciso di fare una passeggiata prima di cena.

 
*

 
“Che cosa pensate che sia successo nel palazzo?!”
“Magari qualcosa a che fare con la droga!”
“Ma non possono sbatterci fuori e perquisire gli appartamenti senza consenso o un mandato, è assurdo!”
“Magari non devono perquisire tutti gli appartamenti, forse solo quelli di qualcuno ma per qualche motivo ci hanno fatti uscire tutti!”
I piatti giacevano vuoti sul tavolo circolare, fatta eccezione per la coppa da dessert di Carter, che stava raccogliendo le ultime cucchiate di mousse al cioccolato mentre lui, Eileen e Leena discutevano con interesse dell’allarme antincendio, tirando fuori le teorie più disparate.
“O magari una bomba nel palazzo…”
Le parole di Leena fecero quasi andare la mousse di traverso a Carter, che tossicchiò e le chiese in un sussurro di non dirlo neanche per scherzo e di abbassare la voce: erano passati pochissimi giorni dall’anniversario dell’attentato di Ground Zero, e di solito in quel periodo tutti diventavano molto sensibili sull’argomento, in città.
“O forse è morto qualcuno.”
I tre si voltarono verso Niki, che non parlava da qualche minuto e stava armeggiando con il suo telefono, i grandi occhi verdi contornati da trucco nero fissi sullo schermo luminoso.
“Oh, non fate troppo caso a me, sto cercando di stabilire un nuovo record a Candy Crush…”
“Pensi che sia morto qualcuno?”
Il nervosismo trapelò chiaramente dalla voce di Eileen, mentre Carter – indeciso se spaventarsi ed emozionarsi per l’ipotesi – si limitava ad osservare la vicina e Leena, gli occhi scuri improvvisamente sognanti, pensava a quanti spunti le avrebbe potuto offrire la cosa per la sua fanfiction.
Finalmente Niki sollevò lo sguardo dallo schermo del telefono, indugiando brevemente sul viso pallido di Eileen prima di stringersi nelle spalle e alzarsi in piedi spostando la sedia senza far rumore:
“Beh, è possibile. Vado in bagno.”
La strega si allontanò senza aggiungere altro, infilandosi il telefono nella tasca posteriore dei jeans a vita alta prima di prendere la felpa nera che aveva lasciato sullo schienale della sedia, sopra al lungo impermeabile.
 
I tre la guardarono dirigersi verso il bagno per una manciata di secondi, prima di tornare a guardarsi l’un l’altro. A spezzare il silenzio fu Carter, che allontanò la coppa di vetro vuota prima di asserire qualcosa con tono neutro:
“Beh, ho sempre pensato che la tizia del 13B fosse strana. Ora so per certo che è così. Quando torna dal bagno muoviamoci a pagare e ad andare, sono curioso di vedere cosa sta succedendo all’Arconia.”
Nel parlare il mago si tastò istintivamente la tasca dove di solito teneva il portafoglio, sbiancando quando si rese conto che la tasca era vuota. Mentre Leena e Eileen lo guardavano perplesse, Carter iniziò a frugare nervosamente in tutte le tasche della giacca prima di sibilare un’imprecazione e colpire frustrato la superfice del tavolo davanti a sé:
Merda. Nella fretta di uscire ho lasciato il portafoglio a casa!”
Le parole del ragazzo fecero prendere consapevolezza di non aver preso il portafoglio prima di uscire di casa insieme ad Anacleto anche in Eileen, che si portò una mano a coprire le labbra rosee e carnose mentre spalancava inorridita gli occhi eterocromi:
“Cavolo, anche io! Leena, ti prego, dimmi che tu hai dei soldi.”
La spagnola si voltò verso l’amica per guardarla implorante, ma l’ex Corvonero si strinse nelle spalle, serafica:
“Non guardate me, io ero scesa per starmene un po’ in pace in giardino, non programmavo di mangiare fuori e ho solo le chiavi!”
“MERDA! Ci conviene pregare che la stralunata abbia il portafoglio, altrimenti dovremo passare la notte a lavare piatti per saldare il conto.”
 
 
Quando Niki uscì dalla porta del bagno si diresse a passo spedito verso il suo tavolo, fermandosi accanto alla sedia e esitando prima di riprendere posto quando scorse i falsissimi sorrisi plastificati che Eileen, Carter e Leena le stavano rivolgendo. Gli occhi chiari della strega indugiarono sospettosi su tutti e tre i volti, prima che Niki raccogliesse l’impermeabile dallo schienale della sua sedia per infilarselo e prendere una seconda sigaretta dal pacchetto lasciato in una delle tasche.
“Che cazzo avete fatto?”
In fin dei conti non era rimasta lontana dal tavolo abbastanza a lungo da permettere a quei tre di combinare casini. O no?
“Ecco, ci siamo resi conto di, beh… non avere soldi a portata di mano, li abbiamo tutti lasciati a casa. Perciò ci chiedevamo se tu potessi…”
Carter sorrise amabile, pregando mentalmente che il suo fascino colpisse come al solito e che la vicina non li mandasse a quel paese, costringendolo all’imbarazzantissima prospettiva di dover chiamare suo fratello maggiore per chiedergli aiuto.
Fortunatamente Niki sospirò e mormorò qualcosa su quanto l’Arconia si rivelasse sempre di più, giorno dopo giorno, un gigantesco agglomerato di idioti con pavimenti pulitissimi, ma estrasse comunque il portafoglio dalla tasca, con gran sollievo dei presenti.
La strega sfilò una banconota da 500 dollari dal portafoglio e la mise sul tavolo prima di fare cenno ai tre di alzarsi e seguirla, impaziente di uscire per tornare all’Arconia. Eileen e Leena, entrambe con gli occhi fuori dalle orbite, guardarono prima lei e poi la banconota mentre la spagnola, deglutendo a fatica, indicava il prezioso pezzo di carta:
“S-scusa, non vuoi il resto?!”
“Muovete il culo.”
Niki si allontanò dal tavolo infilandosi in testa un berretto verde e senza aspettare i tre vicini, che la seguirono rapidi verso l’uscita mentre Carter asseriva di dover recuperare Sarge prima di uscire.
“Chi diavolo è Sarge?”
Niki si voltò verso Carter mentre tirava fuori gli occhiali da sole, pronta ad infilarli e guardando il vicino terrorizzata, temendo che potessero spuntare dal nulla altri vicini mentre il ragazzo, invece, sorrideva allegro:
 
“Il mio cane, credo che tu lo abbia già visto in giro.”
Carter sorrise quasi automaticamente nel rivedere il suo amatissimo cane, facendosi consegnare il guinzaglio da un cameriere mentre Eileen e Leena, alle sue spalle, adocchiavano il Golden Retriever prima di lanciarsi in una serie di complimenti e commenti stucchevoli sul cane e su quanto fosse carino.
Anche Niki, invece di infilarsi gli occhiali scuri come suo solito, osservò brevemente il cane, che si stava godendo le coccole del padrone. All’improvviso un sorriso del tutto inaspettato comparve sul bel viso della strega, che si chinò su Sarge e allungò entrambe le mani per accarezzargli la testa e grattargli le orecchie:
“Ma è bellissimo! Ciao cucci cucci cucci!”
 
Paralizzati dall’improvviso cambiamento drastico generatosi nei modi, nel tono e nell’espressione – fino a quel momento perennemente seria – della strega, Carter, Eileen e Leena la guardarono attoniti coccolare Sarge prima che Eileen sussurrasse qualcosa con tono dubbioso e vagamente spaventato al tempo stesso, incapace di distogliere gli occhi chiari dalla figura alta e longilinea della vicina china sul Golden Retriever:
“Ma… Ma è la stessa persona di prima?!”
“Shhh, fate silenzio, prima che l’incantesimo si spezzi!”
 
“Chi è il mio nuovo vicino preferito? Sììì, ovvio che sei tu! Lo sai che sei bellissimo?”

 
*

 
“Ho mangiato così tanto che l’ascensore potrebbe non reggerci tutti e tre insieme…”
Lo vedi che uscire in tuta non è poi stata tutta questa tragedia? Qui c’è gente che va in giro conciata in modo ben più assurdo e nessuno ci fa caso.”
Piper camminava a passo spedito sul marciapiede tenendo il braccio allacciato a quello di Jackie mentre Nia li seguiva tenendo Bizet in braccio, diretti verso l’Arconia dopo essersi trattenuti a lungo a cena. La ragazza sussurrò qualcosa a proposito di come fosse facile parlare per la maggiore, visto che aveva ancora trucco e capelli perfetti grazie allo shooting, ma Piper non ci fece caso e tornò invece a rivolgersi a Jackie, sospirando mentre gli appoggiava la testa sulla spalla:
“Spero davvero che ci facciano finalmente rientrare, sono così stanca che potrei mettermi a dormire su una delle panchine del giardino, e non scherzo.”
“Povera cara, è stato sfiancante farsi fotografare?”
Jackie abbassò lo sguardo sull’amica con un sorrisetto divertito sulle labbra, non accennando a voler farlo sparire quando l’ex compagna di Casa lo colpì piano sul braccio e gli lanciò un’occhiata torva: se c’era una cosa che non le era mai andata a genio era sentire la gente minimizzare il suo lavoro, e anche se sapeva che Jackson non faceva sul serio ci tenne comunque a rimarcare quanto certi giorni fossero davvero sfiancanti:
“Non prendermi in giro Jackie, hai idea di quanti cambi d’abito io abbia dovuto fare in tempi assolutamente da record? Per non parlare delle corse da un posto all’altro sui tacchi alti!”
“Hai ragione, non oso nemmeno pensare a che cosa significhi spostarsi su quegli affari.”
“Così va meglio. Tra l’altro, mi piacerebbe tanto sapere perché due paia di Jimmy siano misteriosamente scomparse da un paio di settimane…”
Mentre i tre varcavano l’ingresso del palazzo Piper voltò il capo per scoccare un’occhiata eloquente in direzione della cugina, che però fece spallucce e sfoderò un sorriso angelico prima di suggerire che forse Bizet aveva finito col giocarci e a lasciarle in giro.
 

 
Naomi, Gabriel e Moos avevano fatto ritorno nel cortile interno da una decina di minuti insieme alle tartarughe Jam e Dorothea e al cane Sundance, e i tre ex Serpecorno – le menti molto più lucide poiché la fame era stata finalmente saziata grazie ad una cena molto abbondante – stavano discutendo ogni teoria possibile sulla strana piega che aveva preso quel martedì così apparentemente comune.
“Vi dico che è assolutamente impossibile che fosse un’esercitazione, ci avrebbero fatti rientrare da un’eternità!”
“Naomi ha ragione. Secondo me è per una qualche perquisizione.”  Gabriel sorrise a Sundance e allungò una mano per accarezzargli la testa mentre Moos, che sedeva accanto a lui tenendo Jam e accarezzandogli distrattamente la testa con l’indice e il medio uniti – la tartaruga, che non apprezzava particolarmente la compagnia di umani che non fossero il padrone, stava gettando occhiatacce a destra e a sinistra, scontenta per tutta quella gente che le stava attorno mentre Dorothea, in braccio a Naomi, faceva altrettanto – gettava un’occhiata preoccupata a due Auror che stavano discutendo tra loro dopo essere usciti dall’edificio e a quello che stava invece parlando con il proprietario del palazzo a qualche metro di distanza.
“Credo che sia più grave.”
 
 
 
Leena, Eileen, Carter, Niki e Sarge fecero appena in tempo a rimettere piede nel cortile prima che uno degli Auror – paurosamente attraente, ma Eileen si impose di non fare commenti di alcun tipo sul suo aspetto vista la tensione nell’aria – richiamasse l’attenzione dei presenti su di sé, schiarendosi la voce prima di parlare dopo essersi piazzato davanti alla fontana.
 
“Scusate per il disagio e per l’attesa signori, ma temo di avere brutte notizie. Abbiamo trovato un corpo in uno degli appartamenti del palazzo.”
“Che cosa?!”
“Un morto?!”
Carter trasalì, Eileen strabuzzò gli occhi, Leena iniziò a frugare freneticamente nella sua disordinatissima borsa alla disperata ricerca di carta e penna per scriversi un appunto.
Mathieu, seduto sul muretto accanto a Prune, gettò un’occhiata vagamente perplesso al curioso gruppetto mentre Sarge si guardava attorno scodinzolando allegro e Niki, sbuffando piano, si avvicinava la piccola fiamma dello zippo al viso parzialmente coperto dagli occhiali scuri per accendersi la sigaretta, illuminandolo fiocamente per qualche breve istante.
 
“Ve l’avevo detto che era schiattato qualcuno, fessacchiotti.”
 
 

Orion, Kei ed Esteban scelsero quell’esatto momento per fare ritorno all’Arconia, fermandosi davanti all’ingresso insieme a Mocio prima di notare le facce tese, angosciate e in alcuni casi quasi terrorizzate dei loro vicini.
“Ehy, che succede? Come mai tutte queste facce da funerale?”
Sorridendo allegro, Orion parlò guardandosi attorno mentre Mathieu, seduto vicino all’ingresso senza smettere di accarezzare il collo del suo alano, sbuffava piano:
“È morto uno dei vicini.”
“Cosa?!”
Esteban spalancando inorridito gli occhi scuri, finendo però col constatare che se le cause della morte non erano chiare, cosa molto probabile vista la presenza degli Auror e il volerli tenere fuori dal palazzo per tutto quel tempo, avrebbe anche potuto scriverci un gran bel pezzo.
Kei assestò rapido una gomitata ad Orion, suggerendogli caldamente di non usare mai più l’espressione “facce da funerale” dentro i confini del palazzo mentre l’ex Tuonoalato, resosi conto della tremenda gaffe, spalancava inorridito gli occhi scuri:
Oh merda!”
 
 
“Ma… Ma chi è morto?! Che appartamento era?!”
Dom esitò prima di rispondere ad una delle domande con cui i condomini iniziarono a tempestarlo con maggior intensità, scrutando le persone a lui più vicine prima di parlare con tono piatto:

“Il 14B.”

Le reazioni furono più o meno quelle che si aspettava, forse leggermente forzate in qualche caso. Ma avrebbe presto avuto modo di parlare con tutti loro, quindi non se ne curò particolarmente: era sicuro che in tanti, tra i presenti, non avessero apprezzato poi così tanto il defunto e che Montgomery non fosse stato in cima alla lista dei vicini preferiti di molti.
 
“Il 14B… Porca Priscilla!”
Dopo aver fatto un rapido collegamento Leena si portò le mani alla bocca, inorridita mentre ripensava ad un recente episodio che aveva coinvolto lei e Montgomery Dawson. Eileen e Carter la guardarono incuriositi, ma la strega non rispose, la gola improvvisamente secca e gli occhi scuri fissi su Dom mentre le ultime parole che lei e il vicino si erano scambiati le tornavano in mente.
Poteva solo pregare che nessuno le avesse udite.
 
 
 
 
 
Ed è così che la mia vita solitaria all’Arconia è finita per sempre. Per lo meno quella sera conobbi quello che sarebbe presto diventato il mio vicino prediletto.
Naturalmente sto parlando di Sarge.
 
 
 
 (1): Piatto tipico della cucina creola della Louisiana 
 

 
 
……………………………………………………………………………………………………
Angolo Autrice:
 
Buongiorno!
Le sentite le campane in lontananza perché non sto pubblicando qualcosa a ridosso della mezzanotte? Beh, io sì.
Naturalmente non è un capitolo molto lungo e i personaggi non appaiono un granché, ma non volevo farvi aspettare molto per poter iniziare a leggere di loro e questo è il capitolo che tecnicamente avrei allegato alla Selezione, quindi spero che nessuno se la prenda per la lunghezza ridotta.
Non ho domande per voi per il momento quindi vi saluto, a presto spero! (Anche altrove per chi partecipa anche ad altre mie storie)
Signorina Granger

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 1 - C'è un cadavere nel 14B (II) ***


Capitolo 1
C’è un cadavere nel 14B – II –



 
 
 
“Un suicidio decisamente bizzarro, vero?”
Megan Flores attraversò il breve tunnel che portava all’esterno del palazzo stringendosi al collo il bavero della giacca nera, ripensando alle condizioni del cadavere che avevano rinvenuto qualche ora prima mentre i suoi due colleghi la seguivano sul marciapiede semi deserto e buio della West 86th Street.
“Abbastanza, sì, ma dovremo aspettare un paio di giorni per avere qualche conferma… Intanto sono curioso di parlare con tutte queste persone. Tu che ne pensi, Dom?”
Walter Young si voltò verso il collega e Megan con lui, osservando Domnhall all’unisono: l’Auror si era fermato sul marciapiede accanto a loro, ma si era voltato per osservare pensieroso la facciata del palazzo. Quando parlò, un paio di istanti dopo, lo fece continuando ad osservare l’edificio:
“Penso che sembrassero sconvolti, ma a parte qualcuno non dispiaciuti. Ma sì, sono piuttosto curioso anche io. Ho idea che gli abitanti di questo bel posto abbiano parecchie cose da dirci su Montgomery Dawson. Ora torniamo a casa, ma domani vi voglio al M.A.C.U.S.A. Alle sette per preparare tutto prima di venire qui.”
“Alle sette?! Si prospetta proprio una settimana di merda…”


Walter sospirò afflitto mentre Domnhall, salutati i due, si allontanava nella direzione opposta e Megan dava qualche colpetto consolatorio sulla spalla del collega tenendo però gli occhi scuri inchiodati alla schiena di Dom, osservandolo finchè non sfuggì dal suo campo visivo:
“Lui invece non sembra molto teso. Forse un bel caso complicato gli mancava.”
“Beh, a me no! Speriamo solo che questi tizi non siano troppo assurdi e che non ci facciano perdere troppo tempo...”
Le speranze di Megan a riguardo erano, per qualche motivo a cui non seppe dare una spiegazione razionale, estremamente basse. Ma si guardò comunque bene dal dirlo a Walter, limitandosi a salutarlo con un sorriso prima di Smaterializzarsi a casa.
 
 
Domnhall aveva attraversato solo qualche metro quando il telefono iniziò a squillare nella tasca interna della sua giacca. L’Auror si fermò e lo cercò rapido pensando ad una chiamata di lavoro, finendo col sospirare quando lesse il nome sullo schermo luminoso ma sapendo al tempo stesso di non poter ignorare quella telefonata. Accettò la chiamata e si accostò il telefono all’orecchio sinistro, sospirando prima di salutare il suo interlocutore:
“Mamma, che c’è? Non ti ho più chiamato per un caso. Hanno trovato un cadavere all’Arconia. Mamma, non agitarti, va tutto bene. Ma non credo che fosse un suicidio.”
 
Domnhall si voltò di nuovo verso l’edificio, esitando per qualche istante prima di riprendere a camminare raccontando alla madre i pochi dettagli che già conoscevano, assolutamente certo che la morte di Montgomery Dawson si sarebbe presa buona parte del suo tempo nelle settimane successive.

 
*

 
15 settembre 2021
Arconia
 
 
Dopo aver appreso della morte di un loro vicino, quello che tutti all’Arconia conoscevano come il bellissimo ragazzo che viveva al penultimo piano e che i condomini più anziani conoscevano di vista da quando era bambino, nessuno era riuscito a dormire più di una manciata di ore. Dopo aver finalmente potuto fare ritorno ai propri appartamenti gli inquilini dell’Arconia avevano tentato, invano, di non pensare all’accaduto e di ripetersi che si era trattato solo ed esclusivamente di un suicidio, ma visto e considerato che persino gli Auror non sembravano poi così convinti di quella versione, darci credito era risultato pressoché impossibile a chiunque.
A chiunque, ma a due di loro in particolare.
 
Bartimeus Thomas non era praticamente riuscito a chiudere occhio: dopo essersi chiuso la porta del 6° alle spalle e aver depositato la sua tartaruga, Jam, sul pavimento il mago si era sfilato le scarpe, aveva indossato le sue adorate e comodissime pantofole a forma di morbide pecorelle e aveva preso a misurare l’appartamento con lunghe falcate, facendo ininterrottamente avanti e indietro attraverso le stanze che conosceva da una vita per più di mezz’ora.
Perché Montgomery Dawson non poteva essersi davvero suicidato, di questo Bartimeus Thomas era assolutamente certo. Perciò, a meno che non si fosse trattato di un assurdo incidente, il vicino doveva essere stato deliberatamente ucciso dentro casa sua.
Alla fine Bartimeus si lasciò cadere sul suo divano beige circondato da piante da vaso di tutti i tipi, fissando ammutolito la parete che aveva davanti agli occhi per una quantità di tempo che successivamente non sarebbe riuscito a definire con chiarezza. Fuori era sempre buio, i rumori della città sempre gli stessi, e Montgomery Dawson era sempre e comunque morto.
 
Morto
 
Bartimeus Thomas aveva visto un numero molto elevato di cadaveri nella sua vita e immaginare la morte di qualcuno avrebbe dovuto risultargli molto semplice, ma quella notte non riuscì a figurarsi il volto privo di vita del defunto neanche una volta.
Come poteva Montgomery Dawson essere morto?
 
Di rado Bartimeus rimpianse di non avere più suo nonno accanto a sé come quella notte. Con lui avrebbe potuto parlare, sfogarsi, invece tutto quello che poté fare fu restare immobile sul divano, in silenzio e completamente solo, fino ad addormentarsi.
 
Poche ore dopo, quando Jam si vide servire la colazione, guardò gli occhi arrossati del padrone chiedendosi cosa gli fosse capitato. In fin dei conti però la sua priorità era solo e soltanto sfamarsi, quindi la tartaruga decise che ai melodrammi del suo umano ci avrebbe pensato più tardi, e finì col dedicarsi con grande interesse alla sua lattuga.
 
 
 
La seconda persona del tutto certa che Montgomery Dawson non poteva in alcun modo essersi volontariamente tolto la vita era l’inquilina del 13B, che alle 7 del mattino del 15 settembre aprì gli occhi sentendosi incredibilmente più riposata del solito. La strega si era subito alzata dal letto mentre le sue quattro gatte Abissine già gironzolavano per casa, e si era affrettata a versare i croccantini nelle ciotole in cucina prima di dare loro qualche coccola e prepararsi il caffè.
Mentre versava il suo amatissimo liquido nero in una tazza del medesimo colore che riportava la scritta “FUCK IT” tenendo la più piccola delle sue gatte, Lottie, in braccio, la quiete di Niki venne turbata dagli echi dei versi ormai noti quanto profondamente odiati dei dannati uccellacci di merda della sua altrettanto odiata vicina. Se le avessero chiesto di chi avrebbe preferito liberarsi, la ragazza avrebbe sinceramente riscontrato delle difficoltà a rispondere. La vecchia, o i pennuti infernali?
La strega emise un sonoro sbuffo infastidito, sbattendo la moka sul fornello con stizza prima di prendere il manico della tazza con la mano libera e dirigersi verso il soggiorno insieme a Lottie, rivolgendosi alla gatta mentre Carrie e Sam giocavano con un gomitolo e Mira seguiva la padrona in cerca a sua volta di coccole.
“Dio Lottie, non sarebbe fantastico se gli Auror pensassero che a farlo fuori sia stata la vecchia bastarda? Così la sbatterebbero dietro le sbarre e ci libereremmo di lei e dei suoi pennuti.”
 
Niki era sempre stata un’amante degli animali ma con i pennuti, fatta eccezione per i gufi, aveva sempre avuto un rapporto conflittuale latente che era del tutto sfociato in odio quando si era trasferita all’Arconia ed era accidentalmente capitata nell’appartamento vicino a quello di una ossessionata di pappagalli e cocorite. La strega non aveva idea di quanti uccelli tropicali possedesse la sua vicina, ma a giudicare dai concerti che era quotidianamente costretta a sorbirsi da ben sei mesi era sicura che la donna possedesse molti più animali di lei.
Il che era tutto dire.
Naturalmente Niki aveva provato ad ordinare alle sue gatte di far fuori i pennuti, ma le sue erano ragazze troppo educate, o forse troppo pigre, e non si erano mai prese il disturbo di fare nulla.
Figlie ingrate, con tutto quello che lei faceva per loro ogni giorno!
 
Come capitava almeno una volta alla settimana, Niki depositò Lottie sul divano prima di prendere una scopa e iniziare a colpire con il manico la parete che divideva il suo appartamento da quella della mummia, chiedendole con garbo di far cessare il frastuono irritante:
“Non sono neanche le 8! Non può dire ai suoi uccelli di chiudere il becco?!”
“No!”
“Lei è fortunata che io non dorma molto, perché se i suoi pennuti dovessero svegliarmi ogni mattina li avrei già fatti arrosto da tempo!”
“Ah, vorrei proprio vederla intenta a fare arrosto qualsiasi cosa, sappiamo tutti che non sa cucinare!”
 
Brutta stronza, ma come fa a saperlo?!
 
La risata divertita e il tono sbeffeggiante dell’odiata vicina scaturirono vaghi impulsi violenti nell’inquilina del 13B, che imprecò a bassa voce ripetendosi che per il momento un cadavere all’Arconia bastava e avanzava. Certo sarebbe stato un vero peccato se alla fine gli Auror avessero pensato che fosse stata la mummia ad uccidere Montgomery Dawson.
“Tranquille ragazze, piazzeremo una dentiera sulla scena del crimine e tutto andrà per il meglio. Vecchia befana.”
La tazza in mano, Niki si voltò e tornò in cucina facendo abilmente lo slalom a piedi nudi tra i giochi delle gatte disseminati sul pavimento, piazzandosi davanti al frigo mentre Mira e Lottie si strusciavano miagolando piano sulle sue gambe lasciate scoperte da un paio di pantaloncini neri.
Niki si portò la tazza nera alle labbra senza distogliere lo sguardo dal gran numero di post-it gialli e rosa pastello disseminati sullo sportello del frigo, così tanti da rendere quasi impossibile scorgere il vero colore dell’elettrodomestico, facendo del suo meglio per estraniarsi dalla stanza e non pensare ai rumorosi pennuti della sua vicina. Aveva cose molto più importanti su cui concentrarsi.

 
*

 
Prima di congedarsi e invitarli a tornare nei rispettivi appartamenti gli Auror avevano chiesto ai condomini di presentarsi nella sala riunioni del palazzo l’indomani mattina. Naturalmente James Carter Cross se ne era completamente scordato, e quando la mattina del 15 settembre mise piede nell’ascensore lo fece semplicemente con l’intenzione di portare Sarge a fare una passeggiata prima di andare al lavoro.
Effettivamente il fatto che l’ascensore andasse riempiendosi molto più del solito man mano che scendeva lungo i 15 piani del palazzo un po’ lo insospettì, ma ebbe la conferma di non aver prestato attenzione a qualcosa di importante quando vide due Auror parlare con Lester, il portinaio, nell’ingresso.
Confuso e leggermente a disagio, Carter decise di accodarsi ai vicini con cui aveva condiviso l’ascensore, seguendoli verso la grande sala del pian terreno adiacente all’ingresso che di norma veniva usata per le riunioni condominiali.
Riunioni che Carter naturalmente detestava ed era solito ignorare la maggior parte delle volte, ma qualcosa gli suggerì che gli Auror all’ingresso difficilmente gli avrebbero permesso di uscire dal palazzo, perciò non vide altra soluzione se non imitare i vicini, fermandosi insieme a Sarge sulla soglia della sala dotata di diverse file di sedie bianche per guardarsi attorno.
Stava cercando un posto dove sedersi – avrebbe voluto trovare le ragazze con cui aveva cenato la sera prima per chiedere loro delucidazioni, ma non vide nessuna delle tre – quando una vicina seduta in una delle ultime file adocchiò il suo Golden Retriever, inarcando scettica un sopracciglio mentre osservava il grosso cane dal pelo dorato:
“Perché ha portato il cane?”
“Emh… Non mi andava di lasciarlo solo, dopo quello che è successo è un po’ agitato.”
Naturalmente Sarge era il cane più rilassato del mondo, e si stava guardando attorno scodinzolando allegro e con la lingua di fuori, ma la vicina sembrò bersi la versione del giornalista perché annuì comprensiva con un sospiro tetro. Desideroso di evitare altre domande fastidiose e piuttosto deciso a non ammettere pubblicamente di essersi dimenticato della riunione Carter affrettò il passo verso le file di sedie più avanti, andando a sedersi accanto ad una figura nota quando scorse una nuca cosparsa da lucenti capelli biondi.
 
Non sai con chi ho parlato ieri sera.
Carter sedette sul posto libero alla destra di Mathieu senza salutarlo e reggendo il guinzaglio di Sarge mentre il canadese, voltatosi lentamente verso di lui, osservava prima il vicino e poi il cane.
“Non lo so, ma suppongo non con Montgomery.”
“No, beh, non con Montgomery.”
“Perché hai portato anche lui?”
Mathieu accennò un sorriso a Sarge e allungò una mano per accarezzargli la testa mentre Carter, invece, sbuffava liquidando il discorso con un rapido gesto della mano:
“Mi ero dimenticato della riunione, sono sceso per portarlo fuori, ma non è questo il punto. Ieri sera vagavo disperato in cerca di una fonte di cibo…”
 
 
In fondo alla sala Eileen entrò insieme a Leena dopo essersi incontrare, come d’accordo la sera prima, nell’ingresso. La spagnola fece per sedersi in uno dei posti dell’ultima fila – non le andava particolarmente di attraversare la stanza facendo la figura della ritardataria sotto gli occhi di tutti – quando Leena, strabuzzando i grandi occhi scuri, la fermò prendendola per un braccio e parlando in un sussurro concitato:
“Ferma, non possiamo sederci in ultima fila!”
“Perché no, scusa?!”
Perché sembreremmo sospette!”
“Allora vuoi andare in prima fila? Come al solito non si è ancora seduto quasi nessuno lì.”
 
All’improvviso ad Eileen sembrò quasi di essere tornata a Beauxbatons, quando litigava per i banchi con i compagni di classe, ma Leena di nuovo scosse la testa con vigore, facendo muovere i suoi bei capelli ricci attorno al viso:
“Assolutamente no, sarebbe anche peggio!”
“E perché sarebbe anche peggio, ti prego, spiegamelo.”
Eileen parlò con un sospiro, sforzandosi di non far trapelare alcuna emozione dalla sua mimica facciale e guardando con placida rassegnazione la sua vicina gesticolare freneticamente:
Perché qualcuno potrebbe fare esattamente il ragionamento che ho fatto io, ovvero che sedersi in fondo potrebbe risultare sospetto per la volontà di non farsi notare, e quindi di conseguenza decidere di sedersi in prima fila per fare l’esatto opposto e dare l’impressione di non avere assolutamente niente da nascondere!”
Era di gran lunga il ragionamento più contorto che Eileen avesse mai sentito – e non era nemmeno del tutto certa di averlo compreso appieno – ma decise di assecondarla e si limitò a guardarla dubbiosa, le braccia fasciate dal blazer blu notte del completo che indossava che indossava strette al petto:
“Quindi cos’è più sospetto, sedersi in prima o in ultima fila?!”
“Non ne ho idea, nel dubbio sediamoci a metà.”
Rassegnata e solo desiderosa di sedersi Eileen si lasciò pilotare dalla vicina verso una fila centrale della colonna di destra rimasta vuota, evitando accuratamente di fare domande quando Leena tirò fuori un quadernino rosso dalla borsa e iniziò a scribacchiare freneticamente qualcosa.
 
 
 
“Ma quanto ci mette Jackie a scendere?! Siamo qui da una vita!”
“Siamo qui da cinque minuti Nia, piantala.”
Piper e Nia aspettavano nell’ingresso insieme a Bizet – la padrona lo aveva portato con sé decisa a non lasciare solo l’amato gatto ma anche perché intenzionata ad usarlo come antistress, tanto da non riuscire a smettere di accarezzarlo nervosamente – che Jackson le raggiungesse, ferme davanti alla porta che conduceva alle scale interne del palazzo. Piper era perfettamente avvezza alla profonda avversione che il suo amico nutriva nei confronti degli ascensori e stava aspettando pazientemente che il ragazzo varcasse la porta mentre Nia, accanto a lei con le braccia strette al petto e i lunghi capelli scuri acconciati in magnifiche onde che le cadevano sulle spalle, sbuffava con urgenza:
“Per fortuna che abita al quinto piano e non più su, o finiremmo con il restare in piedi.”
“Non resteremmo in piedi in ogni caso, al massimo farei apparire delle sedie.”
“Sì, ma di questo passo i posti accanto al nostro vicino caduto dal cielo e scolpito dagli angeli saranno già stati tutti presi!”
Nia parlò con un sospiro amareggiato e profondamente deluso mentre alla maggiore non restava che alzare gli occhi al cielo, pur restando profondamente d’accordo con lei a proposito dell’imbarazzante bellezza del loro vicino di casa.
Le due stavano aspettando Jackson quando le porte di uno dei due ascensori si aprirono e dall’abitacolo uscirono un ragazzo e una ragazza minuta dotata di una lunga chioma di ricci castani nota ad entrambe.
 
 
“Lo sapevo, lo sapevo, siamo in ritardo!”
“Gabri, ti voglio bene, ma continuare a dirlo non ci farà guadagnare minuti, anzi, contribuirà solo ad aumentare il mio nervoso!”
Naomi uscì dall’ascensore scoccando un’occhiataccia all’amico, salutando Piper e Nia – che vivevano nel suo stesso piano e che quindi incrociava molto spesso – prima di superare le due ragazze insieme a Gabriel, che le chiese perché avesse insistito tanto nel fermarsi a prendere Moos prima di scendere.
Naomi non rispose, limitandosi a maledire mentalmente il suo vecchio compagno di classe per non essersi fatto trovare: e dire che si era anche svegliata all’alba per preparargli le frittelle, ma quando lei e Gabriel avevano suonato ripetutamente il campanello del 6° nessuno aveva risposto. Un nervosismo crescente si era presto impossessato della strega, che se non fosse stato per Gabriel avrebbe probabilmente finito con lo scardinare la porta con la magia per controllare che Moos stesse bene.
“Sono sicuro che sia semplicemente uscito prima di noi, non agitarti.”
Seppur a malincuore Naomi si era infine vista costretta ad ascoltare Gabriel, riportando a casa le frittelle – se non altro le avrebbe divorate più tardi con un kg di Nutella – prima di affrettarsi a scendere al pian terreno insieme a lui. Fu un vero sollievo, per l’ex Serpecorno, scorgere Bartimeus seduto tra due posti vuoti a metà della colonna di sinistra, ma il suo sorriso ebbe vita breve e mentre si avvicinavano all’amico Gabriel si premurò di rallentare il passo, facendo attenzione a tenersi ad almeno mezzo metro da Naomi mentre la strega, giunta vicino a Bartimeus, gli assestava il pizzicotto più doloroso di cui era capace sul braccio sinistro:
“Ahia! Che cosa ho fatto?!”
Moos si massaggiò il braccio dolorante mentre volgeva confuso lo sguardo sull’amica, i grandi occhi scuri che la fissavano chiedendole dispiaciuti che cosa mai avesse fatto di male per meritarsi quella punizione. Naomi fece del suo meglio per non farsi impietosire dall’espressione adorabile dell’amico, sforzandosi di apparire più arrabbiata che poteva mentre Gabriel si affrettava a sedersi alla sinistra di Bartimeus, desideroso di sfuggire ad un possibile attacco.
“Eravamo venuti a prenderti per scendere insieme, e io ti avevo preparato le frittelle, ma non c’eri!”
“Scusa, le possiamo mangiare dopo.”
“No, le mangerò io. Da sola. Guardando la puntata di Love Island che ho perso ieri.”
Naomi sedette accanto all’amico incrociando le braccia al petto ed evitando accuratamente di guardarlo – anche se in fin dei conti concentrarsi sul bellissimo Auror dagli occhi verdi che stava guardando con l’amministratrice che avevano visto anche la sera prima non costituiva propriamente uno sforzo sovraumano – mentre Moos, confuso e dispiaciuto, si voltava verso Gabriel:
“Perché se l’è presa tanto?”
“Era solo preoccupata per te, tranquillo.”
Gabriel sorrise al vicino con fare rassicurante, rincuorandolo e facendolo sorridere a sua volta mentre Naomi, accanto a lui, sbuffava stizzita:
“Non è vero, è che mi rompe aver fatto le frittelle per niente!
 
 
Jackson aveva fatto del suo meglio per essere puntuale e farsi trovare da Nia e Piper, le sue vicine predilette, nell’ingresso all’ora prestabilita. A mettersi in mezzo e a mandare all’aria i suoi piani ci aveva però provvidenzialmente pensato sua madre, come al solito: Jackson avrebbe voluto fare una rapidissima colazione e poi sfrecciare al pian terreno, ma Marlene lo aveva inchiodato al tavolo della sala da pranzo tenendo in braccio Flip, il suo amato Chihuahua – o secondo figlio, a detta della donna – per chiedergli che cosa sapesse della vittima, se lo conosceva, e poi iniziare a snocciolare una sequela senza fine di pettegolezzi sulla defunto, sui suoi genitori e ben presto su tutto il resto del palazzo.
“Mamma, dobbiamo andare di sotto, ok?! Me la racconti dopo la teoria sull’identità dell’amante del netturbino, o anche mai!”
“Io non vado, vacci tu.”
Marlene aveva sbadigliato mentre Flip guardava torvo – come al solito – Jackson, che strabuzzò gli occhi mentre si alzava desideroso di fuggire da quella casa:
“Non vieni?! Dovremmo andare tutti, non hai sentito gli Auror ieri?”
“Non ci penso neanche a scendere in queste condizioni, vacci tu in rappresentanza della famiglia.”
 
E così era stato, ovviamente, perché tentare di replicare quando si trattava di Marlene Salmon era sempre e solo una perdita di tempo.
 
Quando Jackson giunse al pian terreno e spalancò la porta delle scale con il fiatone si imbatté subito in Piper e Nia, che lo prese sottobraccio e lo costrinse a seguirle rapidamente verso la sala riunioni mentre Piper gli chiedeva perché ci avesse messo così tanto a scendere:
“Ho provato a fuggire prima, ma mia madre mi ha incastrato in una colazione eterna in cui ha raccontato a me e a mio padre – beh, mio padre non l’ascoltava, è fuggito in bagno dopo due minuti – tutti gli ultimi gossip del palazzo e sulla famiglia Dawson!”
“Uhhh, devi condividerli anche con noi! Qualcosa sul superfigo del nostro piano?”
All’improvviso i grandi occhi scuri della giovane strega si fecero luccicanti dall’emozione e dalla curiosità, guardando Jackson speranzosa, ma il ragazzo scosse la testa con amarezza, profondamente deluso a sua volta: sua madre era in grado di reperire praticamente qualsiasi dettaglio e qualsiasi informazione su tutti gli abitanti dell’Arconia ma per un triste gioco del destino non sul vicino di Piper e Nia, forse uno dei ragazzi più belli che tutti e tre avessero mai visto in vita loro.
“Non che io ricordi Nia, scusa.”
“Che palle!”
Nia, shhh!”
Decisa ad impedire alla cuginetta di fare commenti sul loro vicino in sua presenza una volta entrata nella sala riunioni Piper prese Nia per il braccio con la mano libera e la pilotò verso gli ultimi tre posti vicini rimasti vuoti, a metà della colonna di destra.
“Scusate, questi posti sono occupati?”
Piper interruppe le due ragazze che avevano occupato i posti all’estremità esterna della fila e che stavano parlando, guardandole voltarsi verso di loro prima che quella più vicina a lei, dotata di un paio di brillanti occhi chiari che difficilmente avrebbero potuto passare inosservati, le rivolgesse un sorriso cortese:

“No, sedetevi pure.”
“Grazie. Spero che il mio gatto non vi dia fastidio.”
Piper sedette accanto ad Eileen continuando a tenere Bizet tra le braccia mentre il gatto nero scoccava occhiate dubbiose in direzione delle due streghe e Nia e Jackson, accanto alla modella, tendevano il collo per cercare di vedere il vicino dell’undicesimo piano in mezzo al marasma di condomini che avevano riempito la sala.
Fortunatamente per Piper nessuna delle due vicine si dimostrò minimamente avversa alla presenza di Bizet, anzi, Leena si sporse in avanti per guardarlo in un perfetto mix di adorazione e ammirazione:
“Per la barba di Merlino, che gatto bellissimo! Come si chiama?”
“Bizet.”
“Che carinoooo! Posso accarezzarlo?”
“Se a lui va, certamente.”
Per fortuna Bizet aveva una vena decisamente vanitosa e sembrò apprezzare le attenzioni di Leena, chiudendo gli occhi chiari mentre si lasciava accarezzare con evidente soddisfazione. L’ex Corvonero sorrise allegra, guardando il micio con una punta di invidia mentre Piper osservava il gatto con affetto e Jackson e Nia, accanto a lei, bisbigliavano commenti sul loro “vicino superfigo” seduto nella colonna di sedie accanto.

“Io sogno da anni di avere un gatto, che amarezza…”
Le parole della vicina destarono la curiosità di Piper, che aggrottò le sopracciglia tinte di rosa per essere dello stesso colore dei suoi capelli, che quel giorno le arrivavano appena sopra le spalle, ma non fece in tempo a dire altro poiché l’amministratrice del palazzo, una strega di mezz’età dai corti capelli biondi, prese la parola, richiamando l’attenzione dei presenti su di sé.
 

“Signori, grazie per essere venuti. Alla luce della tragedia di ieri, i signori qui vorrebbero dirvi due parole prima di parlare singolarmente con tutti voi dell’accaduto…”
Quando Nora Hastings – che se ne stava in piedi davanti a tutti vicino a due Auror, che aspettavano in silenzio e limitandosi ad osservare i presenti – prese la parola Carter non smise di parlare con Mathieu e di raccontargli che cosa avesse fatto la sera prima, abbassando tuttavia il tono fino a mormorare per far sì che la donna non lo sentisse: non solo sapeva di non piacerle affatto, ma era del tutto intenzionato a risparmiarsi una ramanzina che lo avrebbe fatto passare per uno scolaretto colto a chiacchierare dalla maestra.
“… E allora ho cenato con la tizia del mio piano!”
Mathieu faticò a comprendere il motivo del tono concitato con cui Carter pronunciò quelle parole, anzi, non lo comprese affatto. Che cosa poteva esserci di eclatante nell’imbattersi nella vicina del 13D, ad occhio una delle persone meno simpatiche che avessero mai abitato nel palazzo? Mathieu e Carter si erano trasferiti all’Arconia nello stesso periodo e il canadese si ritrovava a ringraziare di non essere stato lui dei due a finire con l’abitare allo stesso piano della donna ogni volta in cui gli capitava di incrociarla in giro.
“Intendi la Signora Turner?”
“Che? Ma certo che non parlo della Turner, ti pare!”
“Hai detto “tizia del mio piano”!”
“Sì ma non parlavo di lei! Anzi, parliamo piano, non vorrei che mi sentisse e mi scatenasse contro la sua foresta tropicale di cocorite.”

 
*

 
Esteban si era svegliato con un’ora di anticipo, ma come suo solito riuscì comunque ad uscire dal suo appartamento in ritardo per l’incontro con gli Auror. Come riuscisse a perdere tutto quel tempo inutilmente restava un mistero per chiunque e per il mago in primis, che salutò rapido il suo Bobtail, Mocio, prima di chiudersi la porta di casa alle spalle e sfrecciare attraverso l’ampio corridoio del 12° piano per raggiungere gli ascensori, chiamando il più vicino.
L’ascensore stava già scendendo dai piani superiori e il giornalista sospirò di sollievo quando le porte di metallo si aprirono davanti a lui, rivelando l’unica persona già presente nell’abitacolo.
L’idea di non essere l’unico in ritardo lo rincuorò leggermente, ma quando vide la ragazza altissima – ad occhio e croce li separavano solo un paio di centimetri – che viveva sopra di lui Esteban non riuscì a celare la sorpresa: non gli capitava mai di incontrarla in ascensore, doveva essere solo la seconda volta da quando si era trasferita.
Il ragazzo entrò nell’abitacolo senza dire nulla, premendo il tasto “0” per arrivare al pian terreno. Le porte si stavano chiudendo quando Esteban, accigliato, vide che la sua vicina aveva già premuto il tasto dell’11esimo piano. Ma lei abitava al 13esimo, che cosa doveva andare a fare all’11esimo?
 
Quando, poco dopo, le porte si aprirono di nuovo all’11esimo piano Niki superò Esteban e uscì dall’abitacolo senza dire una parola, allontanandosi rapida nel corridoio deserto mentre il giornalista, accigliato, guardava la sua lunga giacca nera muoversi ad ogni suo passo.
Le porte dell’ascensore si erano appena chiuse alle sue spalle quando Niki, sbuffando piano, si sfilò gli occhiali da sole per riporli in una tasca dell’impermeabile. Che cosa si doveva fare, in quel cazzo di palazzo, per non incontrare nessuno in ascensore?

 
*

 
Quando Niki arrivò in considerevole ritardo alla riunione Nora Qualcosa – non era certa di ricordare il cognome, ma solo che iniziava con l’H – aveva già iniziato a parlare. Poco male, si disse la strega mentre varcava silenziosamente la soglia della sala per poi puntare subito la sedia libera più vicina, situata all’estremità interna dell’ultima fila della colonna di destra: i suoi discorsi l’annoiavano profondamente. L’avevano sempre fatto e sempre avrebbero continuato a farlo, ragion per cui quel giorno si era presentata ad una riunione condominiale per la prima volta in sei mesi.
Mentre sedeva sulla sedia bianca Niki accennò un sorriso sollevato: tutti i posti della sua fila tranne uno - dove sedeva il ragazzo moro che indossava una sformatissima felpa grigia leggermente scolorita che aveva incontrato in ascensore – erano vuoti, quindi si sarebbe facilmente risparmiata frasi strappalacrime e ricche d’ipocrisia dettate dalla circostanza a proposito della tragicità dell’evento e della morte di un ragazzo così giovane, o altre stronzate simili.
Niki si era appena seduta quando l’amministratrice cedette la parola all’Auror che le stava accanto, e i suoi occhi scuri indugiarono dritti su di lei, scoccandole un’occhiata visibilmente seccata attraverso le lenti degli occhiali – probabilmente infastidita dal suo ritardo – che tuttavia non colpì affatto l’inquilina del 13B, che riprese a masticare in tutta calma il suo chewing-gum alla menta prima di concentrarsi sul bellissimo Auror.

 
Mentre Eileen, alla vista di quello che si presentò come Domnhall Byrne, proponeva rapida a Leena di andare ad arruolarsi come Auror trovando immediatamente un riscontro in Piper, Nia e Jackson, Carter si stava guardando attorno per controllare che la sua vicina, la Signora Turner, non fosse seduta nei paraggi.
Nel farlo i suoi occhi scivolarono per caso in fondo alla sala, finendo con l’imbattersi nella figura alta e longilinea di un’altra delle sue vicine, seduta da sola in ultima fila sfoggiando lo stesso aspetto della sera precedente: occhiali da sole, cappuccio nero sollevato sulla testa, impermeabile, le lunghe gambe esili distese scompostamente davanti a sé e le braccia strette rigidamente al petto. L’unica nota di colore nel suo vestiario era data dai lacci rossi dei suoi stivali dalla spessa suola di gomma. Aveva la stessa aria seria ed imperscrutabile della sera prima e a causa degli occhiali da sole era impossibile azzardare ipotesi su che cosa stesse pensando mentre osservava l’Auror.
 
“Quella vicina.”
Accigliato, Mathieu ruotò leggermente la testa per capire di chi stesse parlando il vicino, aggrottando ulteriormente la fronte quando intuì a chi si stesse riferendo Carter.
“Non ci credo.”
Il canadese parlò accennando un sorriso mentre tornava a sedere dritto sulla sedia, scuotendo la testa in un movimento appena percettibile mentre Carter, accanto a lui, distoglieva lo sguardo da Niki per guardarlo indignato:
“Invece sì, ho anche scoperto come si chiam-“
Carter non riuscì a finire la frase, fulminato dall’occhiata raggelante che Nora Hastings gli lanciò. L’ex Tuonoalato non osò continuare a parlare, incrociando le braccia al petto e sbuffando piano mentre Sarge, seduto accanto a lui, lo guardava chiedendosi deluso che ne fosse stato della sua passeggiata.
 
 
“Chi stai guardando? Quella specie di modello che abbiamo visto ieri sera?”
Quando si rese conto che Kei, seduto accanto a lui, era girato verso le file di sedie a destra della sala da quasi un paio di minuti Orion seguì la direzione dello sguardo del vicino certo che avrebbe finito con l’imbattersi nel vicino che avevano incontrato la sera prima a Central Park, stupendosi quando i suoi occhi scuri indugiarono invece sulla strega vestita di nero e con occhiali da sole seduta in ultima fila.
Doveva essere passato qualche mese da quando si era trasferita, ma non ci aveva mai scambiato una sola parola né l’aveva mai vista senza occhiali. In effetti, si disse Orion, non l’aveva mai vista parlare con nessuno, tantomeno con Kei, perciò si chiese perché la stesse guardando mentre riportava accigliato lo sguardo sul vicino:

“Oh, lei. Come mai la stai fissando?”
“Nessun motivo in particolare.”
Orion non credette a quella versione neanche per un istante, ma decise che sarebbe ritornato sulla questione in un momento successivo mentre incrociava le braccia al petto e accennava con un sorrisetto divertito in direzione dell’Auror che stava parlando:
“Secondo te sono tutti così belli, gli Auror?”
“Non saprei. Ma di sicuro invidio molto i suoi colleghi.”
“Già… peccato che io sarei totalmente inadatto al lavoro, visto che mi spavento praticamente per qualsiasi cosa.”
“Un vero peccato.”
 
 
“… pertanto io e i miei colleghi gradiremmo parlare brevemente con tutti voi, questa mattina. Non vogliamo rubarvi troppo tempo, vi assicuro che cercheremo di essere rapidi, ma è importante che collaboriate se volete togliervi il disturbo in fretta.”
“Scusi, ma è mercoledì mattina, dovremmo andare al lavoro.”
La voce di Carter si levò alta dalle file di sedie bianche mentre il mago aggrottava la fronte e un mormorio di assensi si diffondeva per tutta la sala: non che una mattinata senza lavorare gli provocasse crisi di pianto, certo, ma non aveva nessuna voglia di sorbirsi paternali da parte del suo superiore.
Domnhall però di nuovo non battè ciglio, osservando placidamente il giornalista prima di replicare con calma:
“Potete avvisare che questa mattina non vi presenterete spiegando brevemente la situazione. Se qualcuno dei vostri superiori avrà qualcosa da ridire potete farlo parlare direttamente con me.”
 

“Beh, io con lui ci parlerei volentieri.”
Eileen, le gambe accavallate e le mani pallide strette sul ginocchio destro, parlò senza staccare gli occhi eterocromi da Domnhall mentre Leena, accanto a lei, conveniva silenziosamente con la vicina e Nia, seduta tra Piper e Jackson, concordava con un sospiro sognante indirizzato all’Auror e ai suoi lineamenti cesellati:
“Anche io.”
“Nia, avrà quindici anni più di te, falla finita!”
 
E lascialo a chi ha qualche anno più di te, soprattutto
 
“Piper non fare la vecchia zia rompipalle, non lo sai che l’amore non ha età?!”
Al sentire Nia dare della “vecchia zia rompipalle” a Piper, che spalancò offesa e indignata le labbra dipinte di rosa mentre Eileen e Leena facevano del loro meglio per contenere le risate – sghignazzare alle spalle di una sconosciuta non era il modo migliore di porsi nei suoi confronti, dopotutto – Jackson fu messo seriamente a dura prova, e strinse con violenta intensità il bordo della sedia che aveva occupato per cercare di non scoppiare rumorosamente a ridere nel bel mezzo di un discorso a proposito di un suicidio e fare così la peggior figura di merda della storia.
“Vecchia zia a chi?! Bene, te la sei voluta, non ti presto i miei trucchi per una settimana.”
No ti prego Piper perdonami, sei la mia cugina preferita, sei così bella e buona con me…”
 
Le moine imploranti di Nia – terrorizzata all’idea di non poter usufruire del make up di lusso della cugina – finirono con l’essere bruscamente interrotte dall’occhiata eloquente che Dom scoccò in direzione della loro fila, facendo tacere immediatamente la ragazza mentre Piper sospirava, Eileen arrossiva imbarazzata e Jackson mormorava qualcosa sull’”essersi fatti riconoscere fin da subito come al solito”.
“Bah, meglio così che passare totalmente inosservati.”

 
*

 
Quando l’Auror dagli occhi verdi aveva detto che avrebbero parlato con ognuno di loro partendo dai piani più bassi del palazzo Leena aveva trattenuto a stento un’imprecazione: seguendo quell’ordine lei sarebbe stata tra i primi, e non aveva alcuna voglia di parlare con degli Auror di Montgomery Dawson, o come lo aveva sempre chiamato lei, Bel Faccino. All’improvviso la strega si sentì quasi catapultata di nuovo ad Hogwarts, quando un professore affermava di voler interrogare partendo dalla fine dell’ordine alfabetico.
“Dai Leena, non è una tragedia, ti faranno qualche domanda di routine e basta…”
“Beh, una cosa è sicura, se fossero certi che sia stato un suicidio non ce ne farebbero nessuna, di domanda. È evidente che abbiano trovato il corpo in circostanze strane. Merlino, quanto vorrei sapere in che condizioni era…”
L’ex Corvonero sospirò, amareggiata, mentre accanto a lei Eileen le scoccava un’occhiata dubbiosa, ormai totalmente arresa dal cercare di comprendere appieno la mania della vicina per i gialli e per le storie che avevano a che fare con morti e assassini di tutti i generi.
 
Molte file più avanti Mathieu e Carter avevano reagito in modo totalmente diverso da Leena apprendendo che gli Auror avrebbero parlato con loro partendo dal basso: ciò significava che loro sarebbero stati tra gli ultimi, e che sarebbero rimasti confinanti in quella stanza per un bel po’ di tempo.
“Staremo qui per l’eternità…”
Mathieu si passò esasperato una mano tra i lisci capelli biondi mentre Carter, accanto a lui, annuiva senza smettere di grattare il collo di Sarge e fissare torvo gli Auror impegnati a parlare tra loro.
“Già, ma non potevano partire dai piani più alti, che so, visto che noi siamo quelli che vivevano più vicini a Montgomery?! Che palle.”
 
 
“Come vuoi che ci organizziamo, esattamente?”
Megan e Walter avevano aspettato in silenzio in un angolo della stanza, limitandosi ad osservare i presenti mentre Domnhall parlava. Quando il collega si avvicinò loro Megan, le braccia strette al petto, smise di osservare un uomo dall’aria molto familiare seduto in terzultima fila e tornò a concentrarsi su di lui, guardandolo tirare fuori due fogli dalla tasca interna della giacca per consegnargliene uno.
“Meglio dividersi, o resteremo qui tutto il giorno. Facciamo così, voi due parlate con quelli che abitano negli appartamenti B e D, io con gli altri. La Signora Hastings ha detto che possiamo usare le stanze del personale… E mi sono fatto dare dal portinaio due copie della lista completa dei condomini.”
“D’accordo, allora segno quelli che con cui dobbiamo parlare noi.”
Walter prese il foglio prima di far apparire una penna e iniziare a cerchiare i nomi degli abitanti dell’Arconia con cui avrebbero dovuto confrontarsi lui e Megan, ritrovandosi ad aggrottare le sopracciglia di frequente nell’imbattersi in nomi dal suono familiare.
“I genitori di Montgomery dove sono?”
“A casa loro, ovviamente ho detto loro di non scendere. Ci parleremo privatamente, è meglio. D’accordo, allora… Leena Madison Zabini?”
 
Domnhall lesse a voce alta il nome dell’inquilina dell’1C prima di rivolgersi nuovamente con lo sguardo alla stanza piena di maghi e streghe, osservandoli in attesa prima che una strega alta e dalla pelle scura si alzasse dal mezzo della colonna di destra.
“Sono io.”
“Mi segua, per favore.”
 
Leena accennò un sorriso prima di affrettarsi a recuperare la sua borsa e obbedire mentre Eileen, accanto a lei, sbuffava borbottando qualcosa a proposito della sua fortuna. Leena sorrise alla vicina, strizzandole l’occhio prima di allontanarsi dai loro posti improvvisamente molto più di buonumore rispetto a poco prima.

 
“Che criterio pensi che seguiranno per stabilire chi parlerà con chi? Insomma, io vorrei parlare con quello bello.”
Mentre Leena sfilava in mezzo alle file di sedie bianche occupate dai suoi vicini Orion parlò tendendo il collo per osservare Domnhall, guardandolo aspettare che Leena lo avesse raggiunto prima di allontanarsi insieme a lei verso la porta che stava dall’altro capo della sala. Kei, accanto a lui, si era voltato per osservare brevemente la strega vestita di nero seduta da sola in ultima fila ma alle parole del vicino si voltò, osservando a sua volta gli Auror aggrottando le sopracciglia nere:
“Non lo so, ma i due hanno chiamato quella che vive all’1B e lui quella che vive al C, e al primo piano nell’A non vive nessuno da un anno… Forse si sono divisi le lettere. Che palle, io vivo al B, quindi non parlerò con lui.”
“Ma io vivo all’A, quindi io sì! Mi serviva proprio qualcosa di positivo oggi, ho iniziato la giornata rovesciando il caffè e perdendo una partita a scacchi online per la prima volta dopo tre anni… In effetti avevo visto che questa settimana sarebbero successe molte cose spiacevoli…”
 
 
Naomi, perché ti stai rifacendo il trucco?!”
“Nessun motivo in particolare Moos.”
Mentre Naomi si metteva il rossetto controllando il proprio riflesso nello specchietto della cipria Gabriel si sporse oltre Moos con un sorriso sulle labbra, guardando divertito la strega prima di parlare:
“Guarda che tu abiti al D, quindi se seguono la logica che credo abbiano deciso di adottare tu non parlerai con Byrne…”
“Cosa? Che palle! … Un momento, quindi voi due invece ci parlerete, con lui, perché vivete entrambi all’A.”
Naomi richiuse la cipria con un rumoroso scatto, rimettendola al sicuro all’interno della borsa prima di voltarsi verso i due amici e guardarli con gli occhi verdi sgranati e pieni di sincera invidia. Gabriel invece sorrise, annuendo con aria compiaciuta mentre Moos, seduto in mezzo ai due, cercava di reprimere la forte ansia che stava provando da quando gli Auror avevano annunciato di voler parlare con loro. Privatamente.
Moos sapeva benissimo che Montgomery non si era suicidato, ma il fatto che anche gli Auror sembrassero poco convinti dall’ipotesi del suicidio lo innervosiva, così come l’idea di dover rispondere a delle domande sul suo conto.
C’erano ben cinque interi piani prima che arrivasse il suo turno e Moos cercò in tutti i modi di distrarsi e di costringersi a pensare ad altro – o avrebbe finito con l’impazzire dentro quella stanza –, sospirando piano prima di tornare a concentrarsi sullo scambio di battute in corso tra Gabriel e Naomi:
“Credo di sì.”
“Beh, a me in realtà non è che faccia differenza, se vuoi ti cedo il mio turno Naomi…”
Moos guardò l’amica accennando un sorriso, desideroso di farsi perdonare per averla fatta preoccupare quella mattina, ma Gabriel demolì le speranze di entrambi scuotendo la testa e parlando con tono dubbioso:
“Moos, non credo che funzioni così.”
Naomi sospirò rumorosamente prima di abbandonarsi contro lo schienale della sedia e incrociare le braccia al petto, guardando torva davanti a sé senza riuscire a smettere di pensare a tutto il tempo che quella mattina aveva perso a sistemarsi i capelli solo per la consapevolezza di potersi imbattere in Domnhall Byrne.
“La vita è ingiusta. Vorrei andare di sopra e mettermi la tuta in ciniglia, tanto nessun figo deve vedermi e almeno starei più comoda!”
“E noi scusa?!”
“Ma voi non contate, mi conoscete da anni e mi avete già vista con le pantofole con le nuvolette e l’argilla verde in faccia!”
“Non ha tutti i torti.”
 

 
*

 
“Signorina Zabini, conosceva il Signor Dawson?”
Leena, seduta di fronte a Domnhall, deglutì e si disse per l’ennesima volta di comportarsi normalmente e soprattutto di non dire cazzate mentre l’Auror la guardava imperscrutabile, in attesa di una risposta.
“Non direi.”
“Lei vive qui da due anni, è coretto?”
“Sì. Ma viviamo… vivevamo agli opposti del palazzo, praticamente, e io non uso quasi mai l’ascensore, quindi non avevamo molto modo di incrociarci in giro.”
“Capisco. L’ultima volta che l’ha visto, se la ricorda?”
 
Merda
 
La domanda la fece irrigidire, ma Leena fece del suo meglio per non spalancare gli occhi scuri e non lasciar trapelare alcuna emozione dalla sua mimica facciale mentre si chiedeva, disperata, chi cazzo avesse fatto la spia. Si era detta, fin dalla sera prima, che nessuno l’aveva vista o sentita, ma forse si sbagliava. Altrimenti perché quella domanda?
O era solo una domanda di routine?
Leena non sapeva più che cosa pensare, ma Domnhall continuava a fissarla, serio e in attesa, e Leena seppe di dover pensare e rispondere in fretta per evitare di destare quale strana idea nell’Auror.
“No, onestamente non ricordo. Dev’essere stato qualcosa di poco conto, di sicuro non ci saremmo nemmeno parlati.”
 
Leena guardò la penna prendiappunti trascrivere le sue parole quasi col fiato sospeso, pregando che l’Auror non insistesse o che non sapesse della sua bugia. Quando Domnhall annuì e passò alla domanda successiva la strega si sentì invadere da un’ondata di sollievo e si sentì improvvisamente molto più leggera, ma fece attenzione a non sorridere e a non darlo a vedere.
Forse, dopotutto, nessuno l’aveva vista. O no?
 
 
 
“Signor Salmon, lei vive qui con i suoi genitori. Dove sono in questo momento?”
Lui aveva provato a dire a sua madre di scendere e di presentarsi, ma come al solito Marlene non gli aveva dato retta. Certo questo non lo poteva dire ai due Auror che aveva davanti, così Jackson fece del suo meglio per improvvisare una scusa credibile assumendo la sua aria più innocente.
“Mia madre stamattina non si sentiva bene, ha deciso di restare a casa e mio padre ha preferito non lasciarla sola, così sono venuto solo io. Spero che non sia un problema.”
“No, non si preoccupi, possiamo chiedere a lei quello che ci serve. Da quanto vivete qui, Signor Salmon?”
“Da sempre, sono cresciuto qui.”
“Anche il Signor Dawson. Lo conosceva?”
“Beh, sì, di vista sì, ma niente di più.”
“Vive qui da 27 anni e non ci ha mai scambiato più di due parole?”
Megan guardò Jackson aggrottando le sopracciglia, dubbiosa e poco convinta, ma il ragazzo si limitò a stringersi nelle spalle, parlando in tutta calma:
“Sì, ovviamente, di tanto in tanto, ma non posso dire di averlo conosciuto bene. Siamo, cioè, eravamo persone diverse e venivamo da ambienti diversi, tutto qui. Ad Ilvermorny lui era 4 anni avanti a me, quindi ovviamente non ci siamo mai considerati.”
Jackson si strinse nelle spalle, astenendosi dal sottolineare che a lui Montgomery a pelle non fosse mai piaciuto per niente mentre Megan, osservandolo, gli faceva un’altra domanda:
“Signor Salmon, recentemente le è sembrato che il Signor Dawson fosse diverso dal solito? O le ha dato l’impressione di essere una persona che potesse arrivare a suicidarsi?”
“… Onestamente non mi ha mai dato quest’idea. Ma come ho detto, lo conoscevo solo molto superficialmente.”
 
Immaginare Montgomery Dawson, così bello, sicuro di sé e ricco, che si toglieva la vita era bizzarro. Ma non era nessuno per esprimere giudizi così privati su una persona con cui non aveva mai avuto molto a che fare, così decise di tacere.
 
 
 
“Signor Thomas, lei vive qui da sempre, sa dirmi se il Signor Dawson avesse legami particolari con qualcuno, qui?”
La domanda di Domnhall lo raggelò, ma Moos si sforzò di annuire e di parlare, la bocca impastata e i grandi scuri che sfuggivano dal contatto visivo con l’Auror.
“Credo che nell’ultimo anno per un po’ si sia frequentato con una ragazza del 10° piano, ma non ricordo il nome. Per il resto non saprei dire, Signor Byrne.”
Domnhall osservò Bartimeus per una manciata di secondi prima di porgergli la domanda successiva, certo che ci fosse qualcosa che l’inquilino del 6A non gli stesse dicendo. Ma avrebbe avuto modo di approfondire la questione e di scoprire i pezzi mancanti in futuro, quindi decise di andare avanti e di passare alla domanda successiva:
“Lei lo conosceva?”
“… Non direi.”
 
Forse una volta Moos avrebbe detto di conoscerlo, ma qualcosa gli disse che non era più così da tempo. Erano molti anni che non conosceva Montgomery Dawson.
 
 
 
“Signorina Mackenzie Garcia, conosceva il Signor Dawson?”
“No, non credo di averci mai parlato. Tutto quello che so di lui è che era il figlio dei proprietari dell’attico, che era molto ricco e molto bello, tutto qui.”
Eileen si strinse nelle spalle prima di sorridere gentilmente a Domnhall, che la guardò per qualche istante limitandosi a sbattere le palpebre, sinceramente spiazzato dalla semplicità della sua risposta e dalla sincerità della strega, cosa a cui non era decisamente abituato.
“Oh. Bene, allora. Sa se per caso aveva invece rapporti particolari con qualcun altro, nel palazzo?”
“Beh, credo che uscisse con quella bionda bellissima che sembra una modella del 10° piano… Ma, anche se non dovrei dirlo, detto tra noi so che il Signor Dawson usciva davvero con molta gente, Signor Byrne.”
“E come fa a saperlo, visto che non viveva nel suo stesso piano e non vi conoscevate?”
“Io lavoro per MagicMatching, sa, l’App di incontri. E lui la usava molto, mi creda.”
Eileen si strinse nelle spalle con un sorriso allegro, rammentando le serate passare a sghignazzare davanti al profilo di Montgomery e al numero esorbitante di persone che volevano parlare e uscire con lui mentre Domnhall, leggermente accigliato, annotava in silenzio la sua risposta.
 
Chissà se lui ce l’ha, un profilo. Dopo controllo!
No, ma uno così sarà sicuramente impegnato. O forse no. Beh, dopo controllo.
 
 
 
“Signor Nakajima, da quanto vive nel palazzo?”
“Circa quattro anni.”
“E conosceva il Signor Dawson?”
Kei esitò prima di annuire, gli occhi scuri fissi su un punto del tavolo che lo separava dai due Auror che gli sedevano davanti tenendo le braccia strette al petto.
“Sì, abbastanza bene. Eravamo… eravamo diventati amici, negli ultimi mesi. E no, non penso affatto che potesse soffrire di depressione.”
“Non pensa che si sia tolto la vita?”
“Non ne posso essere sicuro, ma mi riesce difficile crederlo. Si è sempre comportato normalmente, anche negli ultimi giorni.”
Kei cercò di ricordare i momenti che aveva trascorso con Montgomery nella settimana che aveva preceduto la sua morte e come durante la notte precedente il dubbio di non aver notato qualcosa di importante e di strano iniziò ad assalirlo. Il ragazzo deglutì, mormorando di avere difficoltà a parlare dell’argomento continuando ad evitare di guardare gli Auror.
Megan e Walter si scambiarono un’occhiata comprensiva prima che la strega, sorridendogli gentilmente, gli dicesse che per il momento poteva andare.

 
*
 
 
Esteban, seduto in ultima fila, stava cazzeggiando su Wizagram per ammazzare il tempo, rimpiangendo amaramente di non aver pensato di portare le cuffie con sé per poter almeno ascoltare un po’ di musica. Stava scorrendo, accigliato, i post del profilo di Montgomery Dawson quando uno dei ragazzi che aveva conosciuto la sera prima attraversò la sala dopo aver finito di parlare con gli Auror.
Esteban alzò lo sguardo dal telefono e gli sorrise gentilmente, ma Kei stava camminando tra le file di sedie che andavano svuotandosi sempre di più tenendo gli occhi scuri incatenati alla strega che sedeva a tre posti di distanza da lui, la stessa con cui quella mattina aveva brevemente condiviso l’ascensore.
Anche la vicina stava cercando di ammazzare il tempo usando il telefono, anche se Esteban non poteva vedere che cosa stesse facendo, ma sembrò accorgersi dello sguardo di Kei perché sollevò il capo a sua volta, fissandolo di rimando mentre il ragazzo le si avvicinava senza smettere di osservarla.
La strega sembrò infastidita dall’insistenza di quello sguardo su di sé, perché quando Kei la raggiunse – forse sul punto di dire qualcosa – parlò con tono gelido e tagliente prima di dargli il tempo di parlare:
“Che cazzo hai da fissare? Vuoi l’autografo?”
 
Niki lo fissò torva da dietro le lenti scure degli occhiali e Kei, inizialmente spiazzato, strinse infastidito le labbra prima di chinarsi leggermente sulla strega e dirle qualcosa a bassa voce, in modo che i vicini seduti attorno a lei non potessero sentire.
Esteban, dal canto suo, sbuffò piano maledicendo la sorte per averlo fatto finire a tre posti di distanza dall’inquilina del 13B, non riuscendo quindi a sentire nulla di quello che Kei le disse. Non li aveva mai visti parlarsi da quando la strega si era trasferita e giudicò strano il fatto che potessero conoscersi, ma restò in silenzio e continuò a scorrere pigramente il profilo del defunto mentre Niki, udite le parole di Kei, piegava gli angoli delle labbra verso l’alto dando forma ad un sorriso beffardo.
“Certo. Continua a giocare al detective e forse prima o poi riuscirai a dire qualcosa di sensato.”
Kei raddrizzò lentamente la schiena, scrutandola dall’alto in basso con sguardo truce prima di allontanarsi senza dire altro o salutare Orion, lasciando Niki a sistemarsi gli occhiali sul viso e ad accavallare le lunghe gambe con un sospiro.
Esteban non si mosse, ma aggrottò le folte sopracciglia scure chiedendosi che cosa le avesse detto.

 
*

 
“… Non lo conoscevo bene, anche se abbiamo frequentato Ilvermorny negli stessi anni. gli ho fatto qualche tatuaggio, tutto qui.”
“Lo vedeva spesso in compagnia di qualcuno in particolare, Signor Mendoza?”
“Non troppo spesso con una stessa persona, in realtà. Credo fosse amico del ragazzo asiatico che vive vicino a me, però. Lo incontravo nel nostro piano, di tanto in tanto.”
 
 
“Signor Parrish, lei vive qui da quattro anni. Conosceva il Signor Dawson?”
“Non in maniera approfondita, ma sì. I primi tempi, quando mi sono trasferito qui, devo anche averci provato con lui…”
Orion inarcò un sopracciglio e la sua espressione si fece pensierosa per qualche istante prima di distendere le labbra in un sorriso e lanciare a Domnhall, seduto davanti a lui, un’occhiata divertita:
“Beh, dopotutto chi non l’avrebbe fatto, non pensa anche lei?”
Dom, seduto dall’altra parte del tavolo, aggrottò la fronte ed osservò dubbioso l’astronomo prima di annuire lentamente, tornando a guardare i fogli che aveva davanti prima di parlare con tono piatto:
“Suppongo che si potesse considerare un bellissimo ragazzo, sì. Che lei sappia ha avuto relazioni degne di nota con qualcuno, qui?”

Che palle, è etero
 
“Sì, con quella bionda bellissima che vive al 10° piano. L’ha lasciata lui.”
“Come lo sa?”
“Lei abita sopra di me. Ho sentito le urla.”

 
 
 
“Signorina Broussard, da quanto vive nel palazzo?”
“Quasi sei anni. E prima che me lo chiediate sì, conoscevo Montgomery, ma non in modo approfondito. Lui e mio fratello erano compagni di Casa e di classe ad Ilvermorny ed erano diventati amici, a scuola.”
Quando Megan e Walter le chiesero se suo fratello e Montgomery avevano mantenuto i rapporti dopo la scuola Naomi s’irrigidì, come le succedeva sempre quando le capitava di pensare a suo fratello maggiore Rory. La strega chinò il capo, guardandosi le unghie smaltate delle dita delle mani prima di rispondere, a disagio:
“No, mio fratello è stato arrestato poco dopo il mio trasferimento, e che io sappia non si sono visti per anni.”
Per quel che ne sapeva lei, Montgomery non aveva mai fatto visita a suo fratello in prigione. Anzi, era stata lei a dirgli della detenzione di Rory qualche anno prima, quando si era trasferita da qualche mese e Montgomery le si era avvicinato per chiederle di lui. Era stata la prima ed ultima volta in cui aveva visto tracce di sincera sorpresa sul viso del suo vicino.
L’idea di dover andare a trovare il fratello per comunicargli la morte dell’ex compagno prima che potesse leggerla sui giornali non era affatto allettante, ma in fondo Naomi sapeva che era la cosa giusta da fare. E per quanto si sforzasse, difficilmente riusciva ad esimersi dal fare la cosa giusta.
 
 
Domnhall stava leggendo i nomi dei condomini con cui doveva ancora parlare quando Piper Leal Naidoo, appena chiamata, entrò nella stanza insieme ad una ragazza dai lunghi capelli scuri e visibilmente più giovane di lei di qualche anno.
“Salve Signorina Naidoo. Sua sorella?”
Dom accennò in direzione di Nia, che sorrise mentre Piper, dopo averle scoccato un’occhiata piuttosto eloquente, si rivolgeva all’Auror sistemandosi con leggero nervosismo una ciocca di capelli rosa dietro l’orecchio:
“Mia cugina Nia, è spesso ospite da me. Può entrare anche lei?”
“È maggiorenne?”
“Sì.”
“Allora sedetevi, prego.”

Nia ringraziò con un sorriso prima di sedersi accanto a Piper, che le intimò con lo sguardo di comportarsi bene per la quinta volta da quando si erano alzate dalle loro sedie in sala riunioni prima che Dom chiedesse alla Metamorphmagus se conoscesse il defunto.
“Sì, di tanto in tanto lo incontravo a qualche festa e quando ci incrociavamo in giro per il palazzo ci salutavamo, ma nulla di che.”
Piper parlò gettando un’occhiata in tralice a Nia, pregando che la cugina non iniziasse una filippica di accusa nei suoi confronti per non averle mai presentato come si doveva Montgomery, a detta della cugina “il suo ragazzo ideale” in quanto bellissimo e ricchissimo. Fortunatamente, con gran sollievo dell’ex Magicospino, Nia restò in religioso silenzio e si limitò ad osservare Domnhall annotarsi la risposta.
“Che lei sappia il Signor Dawson ha avuto relazioni degne di nota con qualcuno qui, a parte la Signorina Wright, che abita sotto di voi?”
Quella stronz-“
Nia e Piper erano unite da molte cose e la comune antipatia per Samantha Wright, la loro bellissima vicina che viveva al 10° piano, era tra quelle. Certo oltre a reputarla poco simpatica e fastidiosamente attraente Nia la detestava anche perché la bionda si era permessa di soffiarle il fidanzato ideale, tuttavia Piper giudicò che quello non fosse propriamente il contesto ideale per appellare in quel modo la vicina e si affrettò a zittire con un rapido calcio la cuginetta, che soffocò un gemito di dolore mentre il sopracciglio destro di Dom arrivava quasi a sfiorare l’attaccatura dei suoi lisci capelli neri.
“Non dia retta a mia cugina, sa, l’agitazione… e stamani ha assunto troppi zuccheri. In ogni caso no, non che io sappia, non l’ho mai visto spesso in giro con nessuno, a parte lei. Credo fosse amico del ragazzo asiatico che vive al 7° piano, però. Vero Nia?”
Piper sfoderò un sorriso seducente prima di voltarsi verso Nia, rivolgendosi con tono amabile alla cugina mentre la ragazza annuiva massaggiandosi la gamba con una smorfia:
“Sì, che male… Cioè, sì, li ho visti in giro di tanto in tanto.”
“Sua cugina trascorre molto tempo qui con lei, Signorina Naidoo?”
“Sì, ritiene che stare qui e scroccare la stanza degli ospiti sia molto più comodo del dormitorio universitario…”
Piper fece del suo meglio per non alzare gli occhi al cielo mentre rispondeva e Nia, accano a lei, sorrideva angelica prima di parlare con il tono zuccheroso che era solita utilizzare quando entrava in “modalità ruffiana”:
“Certo, ma anche e soprattutto perché ti voglio bene e sei la mia cugina preferita!”
 
Se Domnhall pensò che fossero un duo bizzarro non lo diede affatto a vedere, restando perfettamente serio ed impassibile, cosa di cui Piper gli fu sinceramente grata mentre sospirava piano.
 
 
 
Domnhall cominciava a sentirsi seriamente esausto e saturo di fare le stesse domande a quelle persone da più di due ore, ma il fatto che la quantità dei nomi della lista si assottigliasse sempre di più lo rincuorava. Quando lesse il nome a dir poco eterno di un ragazzo con evidenti origini centro o sudamericane l’Auror aggrottò la fronte, chiedendosi quanto tempo impiegasse esattamente quel poverino a firmare dei documenti prima di alzarsi, affacciarsi oltre l’uscio della stanza e chiamarlo.
La sala era ormai quasi vuota e buona parte dei condomini del palazzo era già stata libera di andarsene, fatta eccezione per coloro che vivevano ai piani più alti. Fortunatamente Domnhall era arrivato alla lettera C del 12° piano, quindi non ne avrebbe avuto ancora per molto.
 
“Signor Powell?”
Di pronunciare il nome completo del mago  – e probabilmente sbagliare la pronuncia, visto che non parlava spagnolo – Domnhall non se lo sognava neppure, e rimase a guardare un ragazzo moro alzarsi dal fondo della sala e attraversarla rapido. L’Auror guardò accigliato la felpa sbiadita e larga indossata da Esteban chiedendosi perché un ragazzo evidentemente molto ricco – del resto viveva al 12° piano, quindi ritenne improbabile che i suoi genitori facessero i postini –  dovesse vestirsi in quel modo, limitandosi a fargli cenno di seguirlo quando il ragazzo l’ebbe raggiunto.
“Venga pure.”
Domnhall tornò nella stanza con Esteban al seguito, lasciando che il giornalista lo precedesse prima di gettare un’ultima, rapida occhiata alle poche persone presenti nella sala riunioni e infine chiudersi la porta alle spalle.

 
A qualche fila di sedie di distanza, intanto, due condomini cercavano di non morire di noia ammazzando il tempo con una partita a carte:
“Pesca 4. Rosso.”
“Ancora?! Ma che cazzo, ma perché vengono tutti a te?!”

Carter sbuffò sonoramente mentre pescava per l’ennesima volta quattro carte dal mazzo che lui e Mathieu avevano sistemato su una sedia vuota in mezzo a loro, chiedendosi infastidito perché quel giorno la fortuna gli avesse voltato sdegnosamente le spalle mentre Mathieu, che a differenza sua aveva solo due carte in mano, sorrideva beffardo.
“Fortuna del principiante, forse non avresti dovuto insegnarmi questo gioco. Però sai come si dice, sfortunato al gioco…”
“Come se dell’amore me ne potesse fregare qualcosa. Che colore hai detto?!”
“Rosso.”
Tu e il tuo cazzo di rosso, possibile che tra venti carte non ne abbia neanche una?! Non ci credo che non stai barando.”
“Non so di che parli.”
Mathieu scosse la testa, parlando con aria del tutto innocente mentre Sarge faceva avanti e indietro davanti a lui e al padrone, ormai totalmente insofferente al dover restare chiuso in quella stanza.
I due avevano perso il conto della quantità di minuti che erano trascorsi da quando avevano messe piede nella sala, ma Carter riuscì finalmente a scorgere una luce in fondo al tunnel quando uno degli Auror apparve nella stanza chiedendo a chiunque abitasse nel 13B di seguirlo. Il ragazzo sorrise, così felice dal non riuscire ad infastidirsi nemmeno quando Mathieu gli fece pescare altre due carte, e pregò mentalmente che il suo turno arrivasse in fretta mentre Niki si alzava in piedi dal fondo della sala: da quando Esteban si era alzato la strega aveva preso possesso di tutta la fila di sedie, distendendosi comodamente tenendo gli occhi fissi sul soffitto della stanza, in fremente attesa del suo turno per potersene finalmente andare da lì.
Quando si sentì chiamare la strega sospirò di sollievo e si alzò, stiracchiandosi sollevando le lunghe braccia sopra la testa prima di dirigersi in tutta calma verso Walter, superando le numerose file di sedie ormai prevalentemente vuote. Tra i posti rimasti liberi figurava tuttavia la sua amata vicina, alla quale Niki accennò celando pigramente uno sbadiglio con la mano:
“Era ora, iniziavo a pensare che mi avreste lasciata qui ad ammuffire fino a diventare come questa qui…”
Un sorrisetto divertito prese forma sul bel viso della strega quando l’anziana vicina le diede, indignata, della cafona e nel superarla Niki si voltò verso di lei, indirizzandole un bacio con la punta delle dita prima di sogghignare e raggiungere l’Auror con rapide e lunghe falcate.
Quando superò i loro posti Carter alzò lo sguardo per gettarle un’occhiata, proprio mentre Mathieu, sorridendo, vinceva la partita gettando l’ultima carta nel mucchio colorato:
“Ho vinto! Incredibile, era la prima volta che ci giocavo. Vuoi la rivincita Carter?”
Col cazzo. E non gasarti tanto, questo è un gioco a prova di idiota.”
“Ma se hai appena pers-“
Ok, va bene, facciamo questa dannata rivincita, così forse nel mentre la vicina del mistero esce e poi verrà finalmente il mio turno.”
Carter prese il mazzo ed iniziò a mescolare le carte con un sonoro sbuffo spazientito, gettando al contempo un’occhiataccia in direzione della porta dietro alla quale Niki era appena sparita. Poteva solo sperare che gli Auror non decidessero di trattenere la sua strana vicina per l’eternità.

 
*

 
“Signorina, prima di iniziare potrebbe, emh… permetterci di vederla in faccia?”
Niki si era appena seduta sulla sedia sistemata davanti ai due Auror, a separarli solo un tavolo. La domanda della “donna Auror” la fece esitare, annuendo piano prima di sfilarsi lentamente gli occhiali da sole con una mano e abbassare il cappuccio nero della felpa con l’altra, dandosi una rapida ravvivata ai lunghi e lisci capelli scuri senza guardare nessuna delle due persone che aveva davanti.
“Ha un’aria familiare. Ha già parlato con noi, in passato?”
Le parole sfuggirono dalle labbra di Megan quasi senza che la strega lo volesse, osservando accigliata il viso di Niki mentre Walter, accanto a lei, gettava un’occhiata confusa alla collega.
“No.”
Megan non sembrò del tutto convinta, quasi del tutto certa di averla già vista da qualche parte, ma annuì e decise di soprassedere prima di rivolgerle le prime domande:
“Mi sarò sbagliata, mi scusi. Allora, lei vive qui da poco, da meno di chiunque altro, da quanto ci risulta… ma conosceva il signor Dawson? Ha frequentato Ilvermorny nei suoi stessi anni?”
“Non so di che cosa parlate, io ho 25 anni.”
Niki si adagiò contro lo schienale della sedia, incrociando le braccia al petto e accavallando le lunghe gambe esili mentre faceva vagare gli occhi verdi all’interno della stanza, guardando ovunque fuorché i due Auror. Quando infine scorse le loro espressioni accigliate la ragazza sbuffò, liquidando il discorso con un rapido e sbrigativo gesto della mano:
“Ok, va bene. 27.”
“…28. Ok, se proprio volete farmelo dire ne ho… un numero che fa rima con… menta.”
“Sì Signorina, sappiamo dal registro che è nata nel 1991.”
Megan le rivolse un sorriso paziente e a quelle parole Niki si irrigidì, fissandoli torva prima di inarcare un sopracciglio:
Ma se lo sapevate già che cazzo me lo avete fatto dire a fare?! Ad ogni modo, no, a scuola non ci ho mai avuto a che fare.”
“E ha avuto modo di conoscerlo qui, nei mesi passati?”
 
A quella domanda Niki tacque, esitando prima di rispondere. All’improvviso si estraniò totalmente dalla stanza, tornando a rivivere un momento preciso risalente ad un paio di giorni prima.

 
Non usava mai l’ascensore, ma quel giorno era terribilmente in ritardo e si vide costretta a fare un’eccezione. In piedi davanti alle porte metalliche chiuse, Niki premette con insistenza il tasto imprecando a bassa voce, chiedendosi perché ci mettesse tanto a scendere proprio quando più ne aveva bisogno.
Quando finalmente le porte si aprirono un accenno di sorriso sollevato le increspò le labbra, sorriso che finì col congelarsi e a sparire rapido quando gli occhi verdi della strega indugiarono sul ragazzo già presente dentro ascensore. Montgomery le sorrise divertito come al solito mentre lei esitava davanti alle porte aperte. Avrebbe voluto voltarsi e usare le scale, ma quella mattina non ne aveva il tempo.
“Ciao svitata. Non sali?”
 
 
“Signorina?”
Fu la voce di Walter a riportarla bruscamente al presente e Niki, sbattendo le palpebre, deglutì prima di scuotere leggermente la testa e parlare con un mormorio, gli occhi fissi sul tavolo che la divideva dai due Auror.
“Soltanto vagamente.”
 
 
Niki lasciò la stanza pochi minuti dopo, cedendo il suo posto ad un Carter particolarmente sorridente e visibilmente sollevato. Anche perché, cosa non priva d’importanza, il sopraggiungere del suo turno lo salvò dalla terza sconfitta di fila ad UNO contro Mathieu.
“Puoi tenermi Sarge? Non ci metterò molto, non ho proprio un bel niente da dire.”
“Certo.” Mathieu annuì e prese il guinzaglio di Sarge dalle mani di Carter, che accarezzò affettuosamente la testa del Golden Retriever promettendogli di tornare presto prima di alzarsi e dirigersi verso la porta della stanza. Nel farlo passò accanto a Niki, ma la strega – che si era nuovamente messa gli occhiali e aveva risollevato il cappuccio della felpa volto a coprirle i capelli – non lo degnò di un’occhiata e lo superò senza nemmeno muovere la testa di un centimetro nella sua direzione, come se il vicino fosse stato completamente invisibile.
 
 
Quando sedette di fronte a Domnhall Carter aveva un largo sorriso stampato sulle labbra, privo della benchè minima traccia di disagio o di ansia. L’Auror gli lanciò una rapida occhiata dubbiosa prima di parlare, porgendogli la stessa domanda che aveva già ripetuto all’incirca un’infinità di volte:
“Signor Cross, lei vive qui da diversi anni, conosceva il Signor Dawson?”
“No, per nulla, a stento lo avrò salutato due volte… e anche se avevamo un anno di differenza nemmeno a scuola ci ho mai avuto a che fare, eravamo anche in due Case diverse, se non erro. Quindi, visto che non ho nulla da dire… posso andare? Devo portare fuori il mio povero cane da all’incirca un’eternità.”
Domnhall guardò il giornalista restando in silenzio per una manciata di secondi, fissandolo accigliato mentre Carter, più rilassato che mai, ricambiava il suo sguardo senza battere ciglio. O era completamente sincero, o il bugiardo più convincente che si fosse mai trovato davanti. E Domnhall, che aveva una vastissima esperienza in materia di bugiardi, optò per la prima opzione.
 
Quel palazzo era semplicemente il più bell’agglomerato di strambi in cui fosse mai capitato
 
 
 
Naturalmente i genitori del defunto non facevano parte della chilometrica lista di condomini con cui avrebbero dovuto parlare prima di pranzo, quindi Megan e Walter sospirarono di gioia nell’appurare di avere solo un altro nome da spuntare dall’elenco, l’ultimo inquilino del 14° piano, nonché vicino di Montgomery.
“Riesci a credere che abbiamo quasi finito? Mi sento il cervello in pappa.”
Megan si stiracchiò sulla sedia con un sospiro sollevato, parlando con gli occhi luccicanti – la pausa pranzo non era mai sembrata così bella – mentre Walter, accanto a lei, annuiva prendendo il foglio per leggere il nome dell’ultima persona con cui avrebbero dovuto parlare.
“Non me lo dire. Vado a chiamare il tizio del 14D, questo… Ma come si pronuncia questo nome?!”
“Dammi qua, ci penso io. Mathieu… Mathieu Levesque-Simard.”
“Secondo me non si pronuncia affatto così, Meggy.”
“Senti Walt, sono arrivata al punto in cui della pronuncia dei nomi di questi tizi non me ne frega niente, che si offenda pure, se vogliono. Io voglio solo pranzare! Speriamo che questo tipo non conoscesse Dawson, così ce la sbrighiamo subito.”
 
 
“… Sì, lo conoscevo.”
Mathieu, seduto davanti ai due Auror, annuì mentre stringeva il ginocchio sinistro accavallato sulla gamba destra. Accigliato, il mago guardandoli ebbe come l’impressione che la sua risposta li avesse profondamente delusi, non potendo immaginare che Megan stesse trattenendo l’impulso di abbandonare la testa ricciuta sul tavolo e Walter di piagnucolare massaggiandosi il viso.
Fortunatamente i due riuscirono a mantenere intatto l’aplomb richiesto dal loro ruolo e Walter, dopo essersi schiarito la voce, chiese al canadese che genere di rapporto aveva avuto con il defunto.
“Beh, viviamo… scusate, vivevamo allo stesso piano, quindi ci incrociavamo spesso in giro per il palazzo o in ascensore. Alla fine a furia di incontrarci in giro abbiamo iniziato a parlare e ogni tanto passavamo del tempo insieme, niente di che.”
“Recentemente le è sembrato strano, o diverso dal solito?”
“No. E non mi dava l’impressione di soffrire di depressione, anzi. Immagino che lo si potesse definire tranquillamente come una persona che ha tutto ciò che si potrebbe desiderare.”
“Che lei sappia il Signor Dawson ha mai avuto guai con qualcuno, qui?”
“No. Monty tendeva ad ignorare le persone che non gli andavano a genio. Pensate che non si sia suicidato?”
Mathieu aggrottò la fronte, spostando gli occhi chiari dal viso di Megan a quello di Walter mentre i due Auror si scambiavano una rapida occhiata. Mathieu quasi non udì risposta che seguì quello scambio di sguardi: la loro esitazione gli bastò per dirsi che forse, dopotutto, Monty non si era affatto tolto la vita. E per quanto quell’ipotesi fosse molto più spaventosa, dovette ammettere che aveva anche molto più senso.
 

 
*

 
Quando una decina di minuti dopo Domnhall, Walter e Megan si incontrarono nella sala riunioni ormai deserta erano tutti e tre carichi di fogli e visibilmente stanchi.
“Raccolto qualcosa di interessante?”
“Puoi dirlo. Ma non ho intenzione di parlarne senza avere un panino pieno di salsa davanti Dom, sei avvisato.”
Megan parlò puntando minacciosa l’indice contro il collega, che annuì e sorrise prima di acconsentire e invitare i due a seguirlo fuori dall’edificio che, dopo tutte quelle ore, iniziava quasi a soffocarlo.
 
 
Nell’attraversare l’ingresso i tre superarono due delle persone con cui avevano avuto modo di parlare poco prima: Naomi Broussard e Gabriel Mendoza erano in piedi uno accanto all’altra vicino alla portineria, e la strega in particolare sembrava piuttosto nervosa a causa del modo in cui spostava frequentemente il peso da un piede all’altro e gettava occhiate agli ascensori, quasi stesse aspettando di vedere qualcuno comparire nell’ingresso.
“Naomi, non sto dicendo che stia bene, perché è ovvio che non possa essere così, ma non so se stargli addosso sia la soluzione migliore.”
“Lo so anche io, ma non ho idea di come comportarmi. Per noi è diverso. Voglio solo che non faccia sciocchezze.”
Naomi scosse la testa, parlando con tono cupo mentre gettava l’ennesima occhiata in direzione degli ascensori chiusi, sperando di vedere Moos uscirne per pranzare insieme come avevano stabilito poco prima. Quel giorno l’idea di lasciarlo solo non le piaceva affatto.
“Che cosa ha detto agli Auror?”
“Non glie l’ho chiesto, ma forse dovremmo. Non so se abbia detto la verità o no, Gabri.”
 
Gabriel non rispose, ma si stampò un sorriso sulle labbra quando vide l’ex compagno di Casa uscire da un ascensore decretando di star morendo di fame. Naomi lo imitò, affrettandosi a prendere Moos per un braccio e lui per un altro per condurli fuori dall’edificio asserendo che “il suo trucco e i suoi capelli fossero troppo belli per non essere sfoggiati in giro per l’UWS”.
“Ma Naomi, tu sei sempre bellissima.”
“Se ci fossero più persone come te il mondo sarebbe un posto tre volte migliore di quanto non sia, Moos.”
 

 
*
 
 
10.30 pm
Appartamento 14D

 
 
Mathieu Levesque-Simard stava riordinando l’immensa libreria che occupava quasi una parete intera del suo soggiorno quando aveva sentito il suo alano abbaiare dal terrazzo dell’appartamento. Piuttosto perplesso, poiché Prune non era solito abbaiare in quel modo di frequente, Mathieu aveva bloccato la mano in procinto di mettere a posto un libro a mezz’aria, voltandosi accigliato in direzione del rumore prima di udire il cane abbaiare di nuovo.
“Prune, che cosa c’è?”
Mathieu sistemò il libro prima di dirigersi rapido verso il terrazzo illuminato dalle luci esterne e imbattersi così nel suo cane, che stava facendo nervosamente avanti e indietro davanti all’alto muretto che delimitava il perimetro della struttura, sul lato rivolto verso gli appartamenti A, B e C e dove si trovava l’idromassaggio.
Quando vide il padrone Prune corse rapido verso di lui, lasciandosi accarezzare mentre muoveva nervosamente la coda avanti e indietro e Mathieu, sorridendogli, gli chiedeva che cosa avesse visto.
Che il suo cane fosse particolarmente incline a farsi spaventare da qualsiasi cosa, spesso e volentieri persino dai suoi stessi abbai, Mathieu lo sapeva bene, ma era anche vero che era la prima volta in cui lo sentiva abbaiare a quell’ora dentro casa.
Il mago si avvicinò all’idromassaggio e Prune lo seguì, del tutto intenzionato a restare incollato il più possibile al padrone mentre Mathieu scrutava accigliato il terrazzo deserto dell’appartamento vicino e quello del 14B, dove comparivano solo il tavolo, le sedie, la griglia e le sdraio dove Montgomery era solito prendere il sole in estate. Non c’era nessuno fuori e le finestre erano chiuse in entrambi gli appartamenti, l’unica differenza era che le luci del 14C erano accese e quelle del B ovviamente spente, e nel silenzio Mathieu udì solo il flebile vociare dei suoi vicini.
“Prune, non c’è niente di strano, tranquillo. Vieni dentro, su.”
 
Dicendosi che probabilmente il cane aveva semplicemente udito le voci dei vicini Mathieu chinò lo sguardo sull’alano con un sorriso, lasciandogli una carezza sulla testa bianca e nera prima di dirigersi nuovamente all’interno dell’appartamento con Prune, deciso a non restare solo per nulla al mondo, al seguito come un’ombra.
 
 
Mentre Mathieu chiudeva la portafinestra di vetro del terrazzo e Prune tornava a sistemarsi comodamente su uno dei divani del padrone Niki si appiattì contro la parete tenendo la bacchetta stretta tra i denti ed esalando un sospiro sollevato, riprendendo finalmente a respirare mentre il suo battito cardiaco tornava progressivamente ad una frequenza più lenta e costane.
Assurdo, quasi tradita da un cane. Tradita dagli uccellacci malefici della mummia? Lo avrebbe accettato, le sarebbe andato bene, ma da un cane? Quello sarebbe stato un epilogo decisamente deprimente.
Protetta dalla totale oscurità della stanza e dell’appartamento in generale Niki si voltò per scrutare fuori dalla finestra che aveva appena scavalcato e che era riuscita a chiudere appena prima che uno dei suoi vicini si affacciasse, richiamato dagli abbai del suo alano, premurandosi di controllare che se ne fosse andato prima di muoversi. Dalla sua visuale ridotta il terrazzo sembrava deserto e la strega si spostò silenziosa dalla parete, prendendo in mano la bacchetta per poi addentrarsi nella stanza buia e depositare lentamente lo zaino che aveva portato con sé sul parquet.
Non osò accendere nemmeno la punta della propria bacchetta per farsi un po’ di luce, decidendo di aspettare qualche minuto per evitare di attirare nuovamente l’attenzione dei vicini sul 14B. Per qualche istante Niki restò con i grandi occhi verdi ormai abituati all’oscurità fissi sul lampadario spento del soggiorno, ritrovandosi senza volerlo ad immaginare il corpo priva di vita di Montgomery che penzolava dal soffitto.
Richiamata alla realtà dalla consapevolezza di doversi sbrigare, un paio di minuti dopo Niki intascò la bacchetta e si inginocchiò rapida sul pavimento per aprire lo zaino nero, dando le spalle al lampadario e cercando di accantonare quell’immagine.
Aveva troppe cose a cui pensare per lasciarsi distrarre.
 
 
 
 
 
 
 
…………………………………………………………………………………………
Angolo Autrice:
 
Ragazze vi chiedo scusa, mi sono scordata di dirvi che la componente mystery della storia si esaurirà nel prossimo capitolo, quando gli Auror sulla scena del misfatto troveranno la dentiera che Niki ha palesemente lasciato in giro alla fine di questo capitolo, arrestando così la sua cara vicina di casa e chiudendo quindi il caso.
Ovviamente scherzo, ma Niki, siamo al primo capitolo e siamo già ad una violazione di domicilio. Dove andremo a finire?
Detto ciò, buonasera <3
Vi ringrazio tutte come sempre per le recensioni che avete lasciato allo scorso capitolo, spero che anche questa seconda parte sia stata di vostro gradimento. Sono stata moolto rapida con i colloqui tra Auror e OC perché molti di loro non hanno effettivamente avuto legami particolari con Monty e in più, come sapete benissimo, nessuno di loro è in lizza per essere l’assassino. E su questo punto non vi trollerò, giuro.
Vorrei anche ringraziare coloro che hanno già provveduto ad espormi qualche teoria, devo dire che una in particolare mi ha procurato un forte attacco di ilarità nel momento della lettura quindi mi affretto a giurare che no, quando Niki mostra il telefono al cameriere, che poi le permette di fumare senza battere ciglio, sullo schermo non figurava la scritta “TI SPACCO LA FACCIA”.
 
Non ho ancora domande da farvi quindi per il momento vi saluto, a presto qui e altrove spero!
Signorina Granger

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 2 - L'assassinio di Monty Dawson ***


Capitolo 2
L’assassinio di Monty Dawson
 
 
16 settembre 2021
M.A.C.U.SA.
 

 
Il reparto di medicina legale costituiva senza alcun dubbio l’area del M.A.C.U.S.A. dove Domnhall si recava meno volentieri e dove avrebbe preferito recarsi il meno spesso possibile. Proprio per questo motivo la mattina del 16 settembre, quando invece di recarsi in ufficio raggiunse Megan e Walter in un asettico corridoio deserto, freddo ed interamente piastrellato di bianco, non era esattamente del miglior umore possibile.
“Buongiorno, scusate il ritardo. Sono pronti per farci entrare?”
“Sì, aspettavamo te. Ho aspettato a bere il caffè per non rischiare di rigettarlo come l’altra volta, quindi prima di andare in ufficio avrò bisogno di una sosta caffeina.”
“Ne avremo bisogno tutti. Tieni Dom.”
Domnhall prese i guanti bianchi che Walter gli porse, identici a quelli già indossati dai due colleghi. Li infilò rapido prima di accennare in direzione della porta bianca che aspettava di essere aperta, precedendo i colleghi all’interno della sala altrettanto asettica e gelida mentre Walter, alle sue spalle, cercava di rassicurare Megan:
“In fondo l’altra volta quella povera donna aveva il corpo completamente lacerato, questa volta dovrebbe andare meglio.”
“Lo spero…”
 
Quando scoprì che il cadavere di Montgomery Dawson, adagiato sul tavolo settorio e coperto da un lenzuolo bianco, non era stato aperto e tagliuzzato come la volta precedente Megan si sentì pervadere dal sollievo: era troppo presto per vedere organi ed interiora di qualsiasi genere.
In piedi alla destra del tavolo, con Walter di fronte, Megan guardò il medico legale abbassare il lenzuolo per scoprire la testa e il viso del defunto, ritrovandosi così ad osservare il viso innaturalmente pallido e la gola lacerata da un profondo e lungo taglio.
 
“Oltre al taglio della carotide che ha ovviamente causato la morte, sulla testa riporta una ferita da corpo contundente… qui. Probabilmente il colpo è stato abbastanza violento da fargli perdere i sensi per un breve lasso di tempo.”
Domnhall si sporse per osservare la ferita mentre le mani guantate del medico legale scostavano i folti capelli scuri del defunto, permettendogli di scorgere la ferita ormai cicatrizzata che Montgomery aveva alla testa e che già aveva notato, ancora abbastanza fresca, quando avevano trovato il cadavere all’Arconia.
“È plausibile che sia stato lui a lacerarsi la carotide, anche con quella?”
“Sì, quella alla testa non è una ferita così grave. Inoltre, il colpo alla testa è meno recente di alcune ore rispetto al taglio della carotide, se qualcuno lo ha colpito è stato ben prima che morisse.”
Le ferita alla testa era il motivo che rendeva così difficile credere che Montgomery Dawson, anche stando alle parole dei suoi genitori e dei suoi vicini, potesse essersi tolto la vita volontariamente. Domnhall esitò, osservando la ferita prima di scambiarsi una rapida occhiata con Megan e infine tornare a rivolgersi al medico legale:
“All’incirca di quanto, meno recente?”
“Circa mezza giornata, o giù di lì.”
 
 
Poco dopo, seduto davanti ad una tazza di caffè fumante insieme ai colleghi, Domnhall ripensava al cadavere di Montgomery e alle parole del medico legale fissando assorto il vuoto davanti a sé. Megan, seduta accanto a lui, versò una generosa quantità di latte e zucchero nella sua tazza prima di prenderla e rivolgersi gentilmente al collega:
“A cosa pensi?”
“Penso che la scia di sangue sulla parete davanti alla vasca era continua, non c’era nessuno davanti a lui quando si è tagliato la gola. Avrebbe potuto essere un suicidio da manuale, ma la ferita alla testa non mi convince.”
“Pensi che qualcuno lo abbia colpito e poi, non contento, sia tornato ore e ore dopo per ucciderlo? Secondo me è plausibilissimo.”
Walter, impegnato a masticare il boccone di un enorme donut al cioccolato, spostò lo sguardo da un collega all’altro mentre Megan gli suggeriva infastidita di non parlare a bocca piena e Dom si stringeva nelle spalle prendendo la sua tazza:
“Sì, forse. Sappiamo che è morto in piena notte, no? Magari qualcuno ha deciso di fargli visita a quell’ora sapendo che non avrebbe incrociato nessuno in giro per i corridoi. Il portinaio afferma che nessuno ha attraversato l’atrio dopo le 23, quindi se è stato ucciso è stato qualcuno che vive lì.”
“Ma ve lo immagine, un vicino che vi uccide nel cuore della notte?! Mi fa venire voglia di tornare in Connecticut, o di trasferirmi in una landa desolata senza vicini.”
“Già, perciò… quale delle persone con cui abbiamo parlato potrebbe averlo voluto uccidere?”
“È uno stramaledetto palazzo di quindici piani, ci vivono decine di persone. Dobbiamo iniziare a capire con chi potrebbe aver avuto dei legami e fare una scrematura, perché è impossibile che tutti abbiano detto la verità, ieri.”
Megan si portò la tazza alle labbra con sospiro, scuotendo il capo mentre i colleghi riflettevano in silenzio sulle sue parole. Dopo qualche istante Walter sollevò la sua tazza accennando un sorriso, quasi a voler brindare:
“A un mese di merda.”
Dopo una breve esitazione Megan e Domnhall lo imitarono, facendo tintinnare le tazze prima di ripetere le parole del collega, entrambi sorridendo rassegnati:
“A un mese di merda.”

 
*
 
 
Quel giovedì sarebbe stato davvero pieno per Piper Naidoo, che la sera prima era andata a dormire presto dopo aver messo la sveglia alle 6.45 appositamente per svegliarsi riposata e pronta ad affrontare la giornata e i tre servizi fotografici che l’attendevano nell’Upper East Side, nel Village e a Brooklyn.
Per questo motivo, quando la strega si svegliò, intuì subito che ci fosse qualcosa di strano: perché non era stata la sveglia a destarla dal sonno? Perché la sveglia non aveva suonato? Presa da un leggere panico, la strega si sfilò rapida la mascherina fucsia con cui era solita coprirsi gli occhi per dormire meglio con l’intenzione di afferrare il suo telefono e controllare l’ora, ma finì col sobbalzare e lanciare un acutissimo grido quando si rese conto che accanto a lei, sull’altro lato del letto matrimoniale, c’era qualcuno.
Il grido di Piper svegliò di soprassalto l’ospite indesiderata, che si mise a sedere di scatto sul letto e fece per gettarsi sul comodino per afferrare la sua bacchetta prima di rendersi conto che nella stanza non c’erano maniaci, ladri o assassini e che sua cugina aveva urlato senza motivo.
“Cazzo Piper, mi hai fatto perde dieci anni di vita! Perché hai gridato?!”
Nia sospirò mentre si passava una mano tra i lunghi ed ondulati capelli scuri e si adagiava l’altra all’altezza del petto, percependo il proprio battito cardiaco accelerato mentre Piper, accanto a lei, la guardava con gli occhi scuri fuori dalle orbite. Bizet, il terzo inquilino, si affacciò sospettoso nella stanza dopo essere stato disturbato dal grido della padrona, trotterellando verso i piedi del letto di Piper quando appurò che non ci fosse nulla di cui preoccuparsi.
“IO ti ho fatto perdere dieci anni di vita?! Tu mi avrai fatto spuntare i capelli grigi, che accidenti ci fai in camera mia, nel mio letto?!”
“Ah, sì, ora ricordo… Beh, ho trovato un ragno enorme in camera mia, te lo giuro Piper, una bestiaccia schifosa arrivata direttamente dall’Inferno per torturarmi, e visto che tu eri già andata a dormire non ho voluto disturbarti… Ma di dormire nella stessa stanza con quel mostro non se ne parla, quindi sono venuta a dormire qui. Che ore sono?”
Nia sbadigliò mentre si stiracchiava in tutta calma sollevando le lunghe braccia esili sopra la testa e Piper, seduta sul materasso accanto a lei, si allungava per prendere il telefono dal comodino. Quando sbloccò il dispositivo e vide l’ora la Metamorphmagus ammutolì, e i suoi capelli iniziarono ad assumere una sfumatura sempre più vicina al nero quasi senza che la strega se ne rendesse conto.
“Le 7.15?! Io avevo messo la sveglia mezz’ora fa, perché non l’ho sentita?!”
“Ah, è vero, la sveglia…”
Il tono a dir poco colpevole della cugina indusse Piper a voltarsi con inesorabile lentezza verso Nia, riducendo gli occhi scuri a due fessure minacciose mentre sibilava qualcosa a denti stretti:
“L’hai… staccata tu?!”
“Scusa, mi ero dimenticata degli shooting. Scusa scusa scusa scusa…”
Mentre Nia congiungeva le mani davanti al viso assumendo un’espressione implorante per chiedere il perdono della cugina e Piper valutava se ucciderla, cacciarla di casa, toglierle il saluto o eliminarla dal suo albero genealogico qualcuno suonò il campanello dell’appartamento, facendole zittire e immobilizzare all’istante.
“E adesso chi è?!”
“Non lo so, forse il ragno di ieri notte ha chiamato un amico.”


Le due si alzarono dal letto per uscire dalla camera, camminando a piedi nudi sul parquet e bisbigliando a proposito di chi dovesse andare ad aprire la porta: entrambe sostenevano di non poterlo fare in quanto appena sveglie e con l’aspetto di “cessi a pedali”.
“Vacci tu, sei la padrona di casa!”
“No, ci vai tu, così ti rendi utile!”
“Ma tu sei la più grande!”
“Appunto perché sei più giovane devi andare tu, il tuo aspetto appena svegliata è meno terrificante!”

Ma Nia di aprire la porta in quelle condizioni – del resto il loro palazzo era, a sua detta, “pieno di fighi”, quindi il rischio di imbattersi in qualcuno di loro era molto elevato – non ne volle sapere, tanto che alla fine Piper si vide costretta ad alzarsi in punta di piedi per guardare attraverso lo spioncino, rilassandosi quando al di là della porta scorse la ragazza che abitava sul loro stesso piano e che spesso le capitava di incrociare in ascensore o in corridoio:
Falso allarme, è la ragazza con il Golden Retriever che abita qui vicino.”
“Meno male, pensa se era il figo della porta accanto!”
Nia sospirò di sollievo mentre Piper, dopo essersi data una rapida ravvivata ai capelli e aver lanciato un’ultima occhiataccia in direzione della cuginetta appuntandosi mentalmente di farle fare le pulizie per almeno una settimana, apriva la porta di casa. La strega sorrise gentilmente a Naomi, sforzandosi di apparire il più disinvolta possibile mentre l’avvocatessa la guardava con leggera perplessità, i capelli ricci castani raccolti sulla nuca e il suo bellissimo cane al guinzaglio.
 
“Ciao. Scusate, stavo uscendo con il mio cane e mi è sembrato di sentire gridare…”
Gli occhi verdi di Naomi indugiarono brevemente su Piper prima di soffermarsi con leggera apprensione sull’ingresso alle spalle della strega, scorgendo di sfuggita Nia mentre la padrona di casa, ferma sulla soglia, sorrideva con lieve imbarazzo:
“Tutto a posto, scusaci, abbiamo, emh… visto un ragno gigante.”
“Enorme, una specie di… di Acromantula!”
“Sì, davvero terrificante, ci dispiace aver disturbato.”
Piper annuì con convinzione mentre Sundance, il Golden Retriever di Naomi, la guardava scodinzolando e la padrona invece sorrideva, rilassandosi visibilmente:
“Oh, meno male, avevo paura fosse qualcosa di grave. Non che un ragno gigante non lo sia, ma alla luce dei recenti eventi… Beh, meglio così. Scusate per il disturbo.”
“No, scusaci tu. Ciao bellissimo! Come si chiama?”
Piper sorrise teneramente a Sundance mentre si chinava leggermente in avanti per accarezzargli la morbidissima testa color miele e grattargli le orecchie, guadagnandosi immediatamente l’affetto del Golden Retriever mentre Naomi chinava a sua volta lo sguardo sul suo cane accennando un sorriso colmo d’affetto:
“Sundance.”
“Ohhh, che tenero. Potrebbe diventare il più bello dell’undicesimo piano, se non fosse per il tizio qui accanto.”
Piper assestò una gomitata alla cugina mentre Nia, avvicinatasi per ammirare a sua volta il vicino peloso, si chinava per accarezzare la testa di Sundance, che sembrò gradire le coccole e prese a leccare la mano della ragazza mentre Bizet, alle loro spalle, osservava con astio l’intruso restandosene semi-nascosto dietro la porta della camera della padrona. Naomi, intuendo facilmente a chi si stesse rivolgendo la vicina, accennò un sorrisetto divertito con gli angoli delle labbra carnose, ripensando a tutti i commenti simili rivolti da lei e Gabriel al suo vicino fin da quando si erano trasferiti nel palazzo:
“Parlate di Jeremy Gutierrez? Beh, come darvi torto, ci si rifà gli occhi ogni giorno, qui.”
“Già. Anche il ragazzo che è morto era bello da far paura… un vero peccato.”
“Sì… è molto triste.”
Da quando si era svegliata, quella mattina, Naomi era riuscita a non pensare alla morte di Montgomery e al suo essersi prefissata di raggiungere suo fratello maggiore in prigione per informarlo, una visita che non l’allettava nemmeno un po’. Il sorriso svanì rapidamente dal suo bel volto, e la sua espressione si incupì appena mentre Piper, osservandola, si sentiva pervadere dall’imbarazzo più assoluto: non ricordava di averla mai vista parlare con Montgomery in giro per il palazzo, ma se i due si conoscevano sua cugina aveva appena pronunciato le parole più indelicate possibili.
Dopo essersi congedata dalla vicina e da Sundance Piper chiuse la porta dell’appartamento trascinando Nia con sé dopo averla presa per un braccio, guardando la cuginetta liberarsi stizzita dalla sua presa con un leggero strattone prima di incrociare seccata le braccia al petto:
“Ma si può sapere che hai?!”
Che ho?! Lei ha qualche anno più di me, ergo ha quasi la stessa età di Montgomery, ergo la probabilità che lo conoscesse è tutto fuorché minima. Spero che non fossero amici, o sai che figuraccia!”
“Beh, ma ho solo detto che era figo, e questa è una verità inalienabile!”
“Non ho tempo per discuterne, lasciamo perdere, io sono in ritardo e devo correre nell’Upper East Side, a te il compito di pulire la cucina dal devasto che hai lasciato ieri. E non obbiettare, è la punizione per avermi fatto fare tardi!”

 
*

 
Di norma durante la settimana Gabriel Mendoza pranzava con il suo collega Jörg, talvolta restando in una saletta del loro studio per comodità e altre uscendo invece nell’Upper West Side, ma quel giorno Gabriel aspettava vicino alle scale che conducevano alla stazione della metropolitana dell’86th Street. La colazione consumata all’incirca alle 8 di quella mattina era ormai un lontano ricordo, e il mago stava seriamente iniziando a patire la fame quando il suo appuntamento emerse finalmente dalla rampa di scale:
“Eccomi eccomi eccomi! Sono in ritardo? Se sì, colpa della metro.”
Quando gli si fermò davanti controllando l’ora sul suo orologio da polso dal cinturino di pelle bianco Gabriel guardò Naomi come se un alieno gli fosse piovuto davanti dal cielo: come faceva a farsi Manhattan-Brooklyn con i tacchi? E come aveva fatto a salire le scale così di corsa con addosso quegli strumenti di tortura?
“No, rilassati, non sei in ritardo. Anzi, mi dispiace farti fare tutta questa strada da Brooklyn. Ma perché ti metti quei cosi per andare al lavoro? Non so se definirti pazza o eroica.”
Naomi sorrise mentre allungava il braccio libero dalla borsa color crema per prendere quello dell’amico, usandolo come supporto mentre i due si incamminavano sul marciapiede per raggiungere la loro meta e poter finalmente pranzare insieme:
“Hai mai provato il brivido dell’esperienza di essere alto 155 centimetri, Gabriel Mendoza?”
“Sì, quando… non saprei, al primo anno ad Ilvermorny, credo.”
“Bene, quindi non puoi capire, dammi retta. In ogni caso non preoccuparti, sai che non mi dispiace prendere la metro… ma per tornare in ufficio mi Smaterializzo, o dovrei correre al lavoro senza neanche aver finito di pranzare. Sto morendo di fame, a proposito, quindi spero vivamente che tua sorella dia il meglio di sé come sempre.”
“Sono sicuro che lo farà.”
Mezz’ora dopo, infatti, i due sedevano uno di fronte all’altra ad un tavolo del bistrot di proprietà di Damita, la sorella minore di Gabriel, e Naomi sospirò mentre guardava sognante il suo piatto:
“Ha un così bell’aspetto che quasi mi dispiace mangiarlo. No, che dico, ho fame, quindi lo spolvererò.”
“Per fortuna tu mi dai sempre soddisfazione Naomi, per El Dictador il menù è più limitato visto che devo evitare salse, fritto, cose ad alto contenuto calorico e roba del genere.”
“Smettila di chiamarmi così. E comunque non c’è niente di male a voler curare la propria alimentazione. E comunque, tu non dovresti essere in cucina?”
Damita finse di non sentire la domanda del fratello, facendo spallucce mentre Naomi tagliava un’empanada sorridendo all’amico e cercando di immaginarselo nella sua città natale: vista e considerata la cucina in mezzo alla quale lei era cresciuta, ovvero il caloricissimo soul food, probabilmente Gabriel avrebbe finito col digiunare per la maggior parte del tempo.
“Tu non dovrai mai venire a trovarmi a New Orleans Gabriel, la cucina creola ti farebbe a pezzi. O al massimo vieni e portati una scorta di cibo salutare.”
“Può sempre magiare la lattuga della tua tartaruga.”
Damita, che aveva occupato la sedia vuota accanto al fratello e ignorò la sua occhiataccia, ridacchiò divertita insieme a Naomi prima di prendere un pezzo di pane, addentarlo e piantare i gomiti sul tavolo, sporgendosi leggermente verso l’amica del fratello per arrivare al vero motivo che l’aveva portata a sedersi al loro stesso tavolo:
“Va bene, adesso voglio sapere tutto sugli ultimi aggiornamenti sul gossip dell’Arconia e sui suoi abitanti fighetti. Novità?”
“Glielo hai detto?”
No, Gabriel non aveva parlato alla sorella – e a nessun membro della sua famiglia, in realtà – della morte di Montgomery, ma la domanda di Naomi non gli diede altra scelta: conscio dello sguardo impaziente di Damita su di sé il tatuatore si schiarì rumorosamente la voce prima di tornare a concentrarsi sul cibo del suo piatto, evitando di guardare la sorella.
“Ah, sì… c’è stato un decesso nel palazzo, un ragazzo che viveva al penultimo piano… Non guardarmi così, non te l’ho detto perché saresti andata a dirlo alle Mamme, e loro si sarebbero precipitate sbraitando qualcosa sulla pericolosità del palazzo.”
“Ma è terribile! E come è morto?”
“Suicidio, in teoria. In pratica non lo sappiamo, ma gli Auror non sembravano molto convinti. Soprattutto quello bello…”
Nel pronunciare le ultime parole l’espressione di Naomi si fece vagamente trasognata, e Damita scoccò un’occhiata perplessa alla strega prima di accostare la testa a quella del fratello, parlando in un mormorio poco convinto:
Perché quell’aria ebete?”
“L’Auror in questione era molto figo.”
“Ahh, accidenti, che fortuna… Gabriel, ma allora ti devi vestire bene quando è nei paraggi, sono settimane che hai mollato quel rincoglionito, ti devi rimettere sulla piazza e sicuramente Naomi è d’accordo con me.”
Damita guardò Naomi in cerca di supporto mentre Gabriel sospirava rumorosamente, del tutto deciso ad evitare di affrontare l’argomento mentre l’amica masticava la sua empanada annuendo e tenendosi educatamente una mano davanti alle labbra, parlando a bocca piena:
Fì, devi affolutamente.”      
“Finitela. Ad ogni modo tu vedi di non dire alle Mamme che è morto un ragazzo della mia età nel palazzo, o mi verranno a prendere e mi porteranno via legandomi come un salame.”
Gabriel minacciò la sorella con una forchetta e Damita, alzati gli occhi al cielo, si alzò dalla sedia accennando a Naomi in direzione del fratello maggiore, parlando come se lui non ci fosse:
“Ecco, lo vedi perché lo chiamo così? El Dictador!”
Damita sfrecciò via con una risatina prima che Gabriel potesse dire qualsiasi cosa, lasciando il fratello solo con Naomi. Naomi che ridacchiò, ma si vide costretta a schiarirsi la voce e a tornare seria di fronte allo sguardo dell’amico:
“Oh, scusa. Ma sai che adoro tua sorella, è veramente simpatica.”
Certo che lo è, è cresciuta con me. Ad ogni modo, vuoi sentire un vero gossip pazzesco?”
“Che domanda è, io mi nutro di gossip, vivo per il gossip!”
La strega esortò l’amico a parlare con un cenno sbrigativo della mano mentre infilzava un altro pezzo di empanada, portandosi il boccone alle labbra mentre Gabriel, davanti a lei, sorrideva divertito:
“Mia madre esce con uno. È un avvocato come te, penso che ti piacerebbe.”
“Nooo! Quale mamma?!”
Gli occhi verdi spalancati per la sorpresa, Naomi si coprì la bocca con la mano sinistra dopo aver rischiato di farsi andare l’empanada di traverso: tutto si aspettava di sentire uscire dalle labbra dell’amico, tranne che una delle sue madri avesse una relazione.
“Jazmin.”
“Nooo! Oddio, non ci credo, tua madre ha un ragazzo e io no, sono felicissima per lei ma vado a farmi suora!”
“Non dire stupidaggini!”
“Stupidaggini? Bello, mia madre ha cinque figli, nessun nipote e nessun matrimonio in vista. A breve mi ci manderà direttamente lei, in convento, insieme alle mie sorelle. Ok, scherzo, brindiamo a tua madre: se sta con un avvocato tanti ma tanti auguri, siamo delle vere piaghe, ma sono sicura che Mamma Jazmin ce la farà.”
Naomi fece tintinnare il suo bicchiere di vetro pieno d’acqua contro quello dell’amico, che sorrise quasi senza volerlo nel pensare alla madre e a quanto la donna meritasse la sua dose di felicità:
“A proposito, mi ha chiesto se la prossima volta che vado a cena da loro porto anche te, dice che vuole chiederti della mia vita privata così da scoprire se ci sono cose che non le dico, ti va?”
“Se c’è del cibo io ci sono, conta sulla mia presenza. Senza contare che così posso prenderti in giro con Damita.”
In fin dei conti, si disse Gabriel mentre ripensava alle numerose occasioni in cui Damita e Naomi si erano coalizzate per ridere alle sue spalle, iniziare a mangiare con l’amica nel locale della sorella non era stata poi una buona idea. Anzi, una pessima idea.

 
*
 

Esteban sedeva davanti alla sua scrivania, il computer acceso e impegnato – seppur svogliatamente – a cercare di terminare un pezzo che non ne voleva sapere di uscire come il ragazzo se l’era immaginato nella sua testa fin da quando aveva iniziato a buttarlo giù.
Moriva dalla voglia di alzarsi, abbandonare l’articolo e gettarsi sul divano per imbracciare la sua chitarra per suonare un po’ e rilassarsi, ma aveva già procrastinato abbastanza e la briciola di buon senso riposta in lui gli intimava di finire il lavoro, e solo dopo dedicarsi ad altro.
Stava cancellando, sbuffando piano, l’ennesima riga che non lo convinceva affatto quando un suono molto familiare attirò la sua attenzione: Mocio, il suo cane, stava abbaiando fuori dalla porta del loro appartamento. Ben felice di avere una scusa per alzarsi dalla sedia – a volte si chiedeva perché, detestando stare fermo a lungo, aveva finito col scegliersi un lavoro che lo richiedeva –, Esteban abbandonò momentaneamente il suo computer e l’articolo con lui per dirigersi verso l’ingresso, sorridendo quando, aperta la porta, si trovò davanti il suo amato Bobtail.
“Ciao bello. Finito il tuo giretto?”
Mocio si limitò ad emettere una sorta di debole sbuffo mentre superava il padrone senza scodinzolare come suo solito, addentrandosi nel 12C per andare a sistemarsi comodamente nella sua gigantesca cuccia pelosa nera, dando le spalle al padrone.
“Che hai? Fai l’offeso?”
Mocio sbuffò piano, continuando a non muoversi mentre Esteban, guardandolo accigliato, si avvicinava per cercare di convincerlo a tornare ad essere il solito Bobtail vivace e giocoso.
“Dai, non fare la drama queen, non posso giocare con te tutto il giorno, devo finire di lavorare!”
Mocio non si mosse, restando rivolto verso la parete e ostinandosi a non guardare il padrone, che sospirò prima di inginocchiarsi accanto alla cuccia del cane per scrollarlo con affetto:
“Mocio, dai! Non fare così, non capisco se sei triste o se stai male.”
                                                                                                                     
Quando, un paio di minuti dopo, Mocio rifiutò i suoi biscottini preferiti, ad Esteban per poco non venne un colpo: il suo cane doveva stare veramente, ma veramente male.
Per fortuna nel suo palazzo viveva un veterinario.

 
*

 
Quando Eileen varcò la porta a vetri dell’ingresso dell’Arconia erano le 4.30: avendo finito tutto il lavoro da fare in ufficio era tornata a casa un po’ prima del solito, e la strega salutò con un sorriso Lester mentre si dirigeva verso gli ascensori stringendo la borsa nera e attirando l’attenzione di tutti i presenti nell’ingresso a causa del rumore causato dai tacchi larghi dei suoi stivaletti bordeaux.
Giunta nel suo appartamento al sesto piano aveva dato da mangiare ad Anacleto, il suo barbagianni, ma prima di avere il tempo di cambiarsi per andare a fare una corsa a Central Park qualcuno aveva iniziato a suonare con insistenza il suo campanello.
“Leena, ciao. Ti serve qualcosa?”
Leena Madison Zabini non era esattamente il tipo di vicina che si presenta alla tua porta per chiederti dello zucchero, e Eileen per qualche motivo seppe che non sarebbe affatto andata a correre a Central Park non appena la vide sull’uscio del suo appartamento.
“No, ma Lester mi ha detto che eri tornata presto, quindi sono venuta a cercarti… Ascolta, dobbiamo assolutamente andare nell’appartamento di Bel Fac- di Montgomery. Domani porteranno via praticamente tutto quanto, è l’unica occasione per scoprire qualcosa.”
Leena la superò per addentrarsi nel soggiorno di Eileen prima di ruotare su se stessa, tornando così a rivolgersi alla padrona di casa mentre lei chiudeva la porta. La spagnola non sembrò affatto sorpresa nel sentirle pronunciare quelle parole, accennando invece un sorriso divertito mentre si avvicinava all’amica incrociando le braccia al petto:
“Sempre che ci sia, qualcosa da scoprire.”
“Ti dico che c’è. Andiamo, vuoi perdere l’occasione di fare una cosa del genere? Tu adori ficcanasare, adori i misteri, direi che questa è la tua giornata fortunata.”
La britannica parlò appoggiandosi allo schienale del divano chiaro dell’amica, guardandola sfoderando il suo sorriso più accattivante mentre Eileen, avvicinatasi al trespolo di Anacleto per accarezzare dolcemente la testa del barbagianni, annuiva lasciandosi facilmente convincere:
“Beh, forse hai ragione… immagino che non si presenterà un’occasione altrettanto perfetta per giocare alle detective.”
Senza contare che tra il farsi gli affari di un bel vicino morto prematuramente e l’andare a correre la scelta non era poi così ardua…
“Esatto. Allora, vieni? Perché io voglio farlo comunque, ma ho pensato che sarebbe stato più divertente coinvolgere anche te.”
“… D’accordo, vorrà dire che oggi non andrò a correre. Sai che tragedia. Ma come pensi di entrare a casa di Montgomery? Dubito che un incantesimo ci aiuterà e io di sicuro non ho una copia delle chiavi.”
“Neanche io, ma ho pensato che potremmo coinvolgere anche qualcun altro.”
Mentre Leena sorrideva allegra e rilassata Eileen inarcò un sopracciglio perfettamente disegnato, guardandola senza capire:
“E chi, scusa?”
 
 
Carter stava leggendo un manuale di fisica comodamente disteso sul suo divano quando sentì suonare il campanello: era appena tornato a casa e aveva avuto giusto il tempo di prendere il libro e sedersi prima che qualcuno arrivasse a disturbarlo, tanto che il ragazzo sollevò la testa per gettare un’occhiata piuttosto seccata alla porta chiedendosi chi lo stesse cercando:
“Che tempismo di merda…”
Sbuffando, Carter si alzò e abbandonò controvoglia il voluminoso libro sul divano per trascinare svogliatamente i piedi fino alla porta, superando Sarge e Isla che giocavano sul pavimento. Quando aprì la porta e si trovò davanti le vicine con cui aveva cenato la sera del rinvenimento del cadavere di Montgomery Dawson Carter non riuscì a celare la sorpresa, guardando allibito Eileen e Leena prima di accennare un sorrisetto con gli angoli delle labbra:
“Non è che non sia abituato al fatto che due bellissime ragazze si presentino alla mia porta, ma… Che succede? Non ditemi che è morto qualcun altro.”
“Ecco, per farla breve vorremmo andare a casa di Montgomery a farci gli arraffacci suoi. Ti interessa?”
Carter non aveva conosciuto affatto Montgomery e non sapeva se l’ipotesi che si fosse tolto la vita fosse credibile o meno, senza considerare che normalmente avrebbe rapidamente declinato l’invito per tornare a rilassarsi con il suo libro in santa pace, ma la voglia di saperne di più, anche considerando che in redazione gli avevano fatto domande a riguardo per tutto il giorno, ebbe infine la meglio e Carter annuì con una pigra stretta di spalle:
“Beh… Potrebbe essere divertente, sì.”
“Fantastico. Ascolta, l’altra sera non hai detto qualcosa a proposito di una passione per la meccanica?”
Leena sorrise guardandolo entusiasta, anche se Carter non ebbe del tutto chiaro il senso della sua domanda e ricambiò lo sguardo con una buona dose di perplessità, chiedendosi dove la strega volesse andare a parare:
“Sì, perché?”
“Oh, e ci serviranno i guanti. Tranquillo, tu non hai l’aria di uno che lava i piatti, quindi ne abbiamo portate delle e paia in più.”  Eileen allungò a Carter un paio di orrendi guanti di lattice gialli che di norma il ragazzo non avrebbe indossato nemmeno per tutto l’oro del mondo, ma essendo consapevole che la vicina fosse nel giusto si vide costretto a prenderli, annuendo serio:
“Beh, avete fatto bene. Io i piatti non li lavo.”


 
*

 
La sezione dei felini era in assoluto l’area dello zoo che Jackson preferiva, soprattutto a causa di quella che a lui piaceva definire “la sua migliore amica”.
“Ciao, bellissima!”
Un enorme sorriso gli allargò le labbra mentre Jackson entrava nella recinzione dei tre puma ospitati dallo zoo, guardando con affetto Cherie, l’unica femmina, correre verso di lui. Come al solito l’animale, inconsapevole della sua stazza, prese a girargli attorno strusciandoglisi contro facendolo barcollare, ma Jackson riuscì a non cadere, ormai abituato ai calorosi benvenuti del felino, e sorrise mentre le accarezzava affettuosamente la testa.
“Come stai Cherie? Ti sono mancato? Lo so, è da tre giorni che non vengo a trovarti, scusa.”
Jackson sedette sul terriccio e subito Cherie lo imitò, quasi buttandoglisi addosso mentre sistemava la grossa testa sulle sue gambe, lasciandosi accarezzare il pelo marroncino che le copriva la schiena.
“Non sai cosa è successo a casa mia, ultimamente. Mia madre è ancora più esagitata del solito, è la volta buona che fa impazzire mio padre.”
Il veterinario scosse lentamente la testa mentre pensava alle scaramucce quotidiane che intercorrevano tra i suoi genitori ormai da anni, per non dire praticamente da sempre, aumentate da quando sua madre trascorreva molto più tempo a casa che in passato a causa del suo lavoro. Osservando Cherie, che si stava lasciando coccolare rilassata, il mago accennò un sorriso pieno d’affetto, lieto di potersi allontanare da quel clima di tensione almeno quando lavorava.
“Come vorrei avere un bel gattone come te… Mi basterebbe anche un gatto, se non fosse che papà è allergico… Invece devo sopportare quel maledetto topo peloso!”
Jackson sbuffò con amarezza mentre pensava con stizza a Flip, il Chihuahua di sua madre, che Marlene amava con tutta se stessa, suo padre detestava a morte e lui cercava di sopportare solo ed esclusivamente per il quieto vivere. Il ragazzo chinò lo sguardo su Cherie, che gli stava strofinando la grossa testa contro la gamba, facendolo sorridere:
“Chissà che direbbe mia madre se ti portassi a casa. Di certo Flip morirebbe sul colpo. Sarebbe un esperimento da provare.”
Se solo si fosse azzardato a portare a casa un felino di qualsiasi dimensioni, i suoi genitori lo avrebbero di casa prima ancora di poter raggiungere la sua camera. Forse non sarebbe stata nemmeno così male, come prospettiva, se Jackson non avesse avuto paura di lasciare quei due a vivere da soli, pronti a scannarsi ogni mezz’ora.
“Mi devo accontentare di Bizet, il gatto della mia amica Piper.”
Cherie sollevò di scatto la testa e gli lanciò un’occhiataccia, tanto che Jackson si affrettò a ritrovare il suo sorriso allegro e riprese ad accarezzarle la schiena per tranquillizzarla:
“Beh, ma non devi essere gelosa, sei tu la mia ragazza preferita!”


 
*

 
Quando qualcuno suonò il campanello del 13B Niki sedeva sul suo divano con un libro aperto sulle ginocchia, una tazza di caffè in mano e Mira, una delle sue gatte, acciambellata accanto e intenta a sonnecchiare.
Svegliata dal rumore, la gatta dal pelo rosso sollevò la testa in direzione della porta mentre la padrona, accanto a lei, faceva lo stesso: Niki si voltò in direzione dell’ingresso aggrottando le sopracciglia e chiedendosi chi diavolo la stesse cercando. Non era propriamente avvezza a ricevere visite da quando viveva all’Arconia e alla strega occorse qualche istante per spostarsi lentamente il libro dalle gambe, appoggiare la tazza sul bracciolo del divano e infine alzarsi in piedi. Raggiunse la porta d’ingresso senza far rumore, camminando a piedi nudi sul parquet prima di indugiare davanti allo spioncino per controllare chi si trovasse davanti a casa sua. Quando vide tre visi familiari la strega sospirò piano, in parte sollevata e in parte leggermente infastidita mentre apriva la porta trovandosi così davanti Leena, Eileen e il deficiente del 13E.
“Sì?”
Niki parlò inarcando un sopracciglio e incrociando le braccia esili al petto mentre i suoi occhi verdi indugiavano su Carter, Leena e infine Eileen. I tre ricambiarono il suo sguardo in silenzio, guardandola come se il fatto che avesse aperto loro la porta li avesse sorpresi leggermente prima che Eileen, abbozzato un sorriso con le labbra coperte da un leggero strato di rossetto rosso, prendesse la parola con gentilezza:
“Ciao. Domani porteranno via tutta la roba di Montgomery e noi pensiamo che non si sia affatto suicidato, quindi… Per farla breve, vuoi venire con noi a ficcare il naso a casa sua?”
“Frugare nella robaccia di un tizio morto?”
Niki aggrottò leggermente la fronte mentre continuava a scrutare i tre vicini, ma la sua voce assunse una lieve ed appena percettibile sfumatura divertita quando vide gli spessi guanti di lattice gialli che Leena le porse allungando una mano verso di lei, facendo spallucce prima di prenderli:
“… Un pomeriggio come un altro.”
Carter aveva sinceramente temuto che la sua vicina potesse prenderli ad insulti – o peggio, a maledizioni – e un sorriso sollevato si fece largo sul suo bel viso mentre Niki chiedeva ai tre di aspettare un momento. La strega sparì dalla soglia dell’appartamento lasciandosi la porta semi-aperta alle spalle, e Carter ne approfittò per cercare di sbirciare l’interno del 13B mentre un gatto magro e dal pelo rossiccio lo guardava dubbioso dal pavimento rivestito in parquet di un ingresso semi vuoto.
Niki tornò un paio di minuti dopo con gli alti anfibi neri dai lacci scarlatti ai piedi, una larga felpa nera indossata sopra alla maglietta a maniche lunghe con cui aveva aperto la porta e i manici di una borsa di tela nera stretti in mano.
“Ok, andiamo.”
Carter guardò incuriosito la strega chiudersi la porta alle spalle per poi seguire lui, Eileen e Leena verso gli ascensori, non aggiungendo altro finchè non gli ebbero raggiunti: invece di fermarsi davanti alle porte di metallo chiuse insieme ai vicini Niki continuò a camminare con lunghe e decise falcate, diretta verso le scale.
“Io prendo le scale.”
Mentre Carter, Leena ed Eileen si fermavano per aspettare l’ascensore Niki li superò senza voltarsi, aprendo la porta che conduceva alle scale prima di sparire dal loro campo visivo. Carter aggrottò la fronte, osservando dubbioso il punto in cui la vicina era sparita mentre Eileen aspettava che l’ascensore arrivasse spostando distrattamente il peso da un piede all’altro, gli occhi chiari fissi sul lampeggiante numero rosso che indicava a quale piano si trovasse l’abitacolo.
“Certo che è proprio strana.”
“Beh, in fondo qui ce n’è parecchia, di gente strana.”
“Pensate se l’avesse ucciso lei...”
Leena parlò con tono pensieroso mentre le porte di metallo si aprivano davanti a loro, permettendo ai tre di salire nell’ascensore deserto mentre Carter scoccava un’occhiata incerta alla vicina:
“Perché dovrebbe averlo ucciso lei?”
“Non ne ho idea, ma di sicuro se è stato ucciso è stato qualcuno che vive qui. E lei abita esattamente sotto l’appartamento di Montgomery. Senza contare che l’assassino torna sempre sul luogo del delitto.”
Leena seguì i due vicini nell’abitacolo di metallo facendo spallucce e parlando con un tono vago studiato ad arte, ma Eileen era abituata alle frasi fatte che l’amica era solita pronunciare in materia di morti, assassini e omicidi e si limitò ad alzare gli occhi al cielo mentre premeva il bottone del quattordicesimo piano e Carter, dietro di lei, continuava a guardare Leena con aria dubbiosa.
“Se è per questo anche noi stiamo andando lì, quindi dovremmo essere sospetti anche noi tre.”
“Ah. È vero. Beh, io non sono stata.”
“Nemmeno io. Chissà se lei lo conosceva…”
“Ne dubito, mai visti insieme.”
Eileen sollevò la pallida mano destra per coprirsi la bocca e celare uno sbadiglio, maledicendosi per essere rimasta sveglia fino a tardi a programmare stronzate invece di andare a dormire ad un orario decente mentre Carter, dietro di lei, si stringeva nelle spalle proprio mentre le porte dell’ascensore si aprivano, mostrando loro il corridoio ampio ed illuminato del penultimo piano.

“Neanche io, ma non sappiamo nulla di lei, a parte il nome. Sempre che Niki sia il suo vero nome, certo.”
A questa possibilità Leena proprio non aveva pensato, e il viso dell’ex Corvonero si illuminò mentre lei, Eileen e Carter lasciavano uno dietro l’altro l’abitacolo di metallo. Quando i grandi occhi scuri della strega indugiarono sulla figura di Niki, in piedi e appoggiata al muro accanto alla porta del 13B a braccia conserte, si chiese se Carter avesse ragione. La sua mente stava già iniziando a percorrere viaggi inimmaginabili quando Eileen, intuendo i pensieri dell’amica, le diede una leggera gomitata accompagnata da un’occhiata eloquente:
“Leena, non cominciare. Sono sicura che non sia un’agente della CIA sotto copertura.”
“Non stavo affatto pensando quello!”
Offesa, Leena chinò lo sguardo sull’amica – più bassa di lei di qualche centimetro – mentre Carter, davanti a loro, si avvicinava a Niki e alla porta dell’appartamento di Montgomery. Eileen apparve sinceramente sorpresa, e spalancò appena i grandi occhi chiari mentre Leena incrociava le braccia al petto, guardandola serissima:
“Davvero?”
“Sì. … Ma se fosse nel programma protezione testimoni?!”
“Señor, dame la fuerza…”
 

 
*
 

“Ho provato ad aprire la porta con Alohomora, ma non funziona… Qualcuna di voi ha un piede di porco?”
Cavolo, l’ho lasciato davanti al negozio che ho svaligiato la scorsa settimana… Perché cavolo dovremmo avere un piede di porco?!”
“E io che ne so, era per sapere! Poco male comunque, mi arrangerò con questo.”
Carter sorrise mentre si sfilava un oggetto di metallo dalla forma allungata dalla tasca dei jeans sotto gli sguardi attoniti e dubbiosi di Leena ed Eileen, che non avevano la minima idea di che cosa fosse mentre Niki, al contrario, guardava il vicino tenendo le braccia magre costantemente strette al petto e un’espressione alquanto scettica stampata in faccia.
“Perché hai un grimaldello?”
“Sono un appassionato di metallica, diciamo che colleziono attrezzi.”
“E vai spesso in giro a scassinare serrature?”
Mentre Carter si inginocchiava davanti alla porta Niki si appoggiò alla parete color crema, guardandolo accigliata mentre Leena iniziava a scrivere qualcosa sul suo quadernino sotto lo sguardo sempre più rassegnato di Eileen. Mentre iniziava a cercare di forzare la serratura Carter sollevò la testa per ricambiare lo sguardo dell’enigmatica vicina, accennando un falsissimo sorrisetto amabile:
“No. Tu vai spesso a frugare nell’appartamento della gente morta?”
Carter pensava che la vicina lo avrebbe preso ad insulti o fatture, invece Niki ricambiò il suo sguardo restando immobile contro la parete e impassibile, anche se per una frazione di secondo il ragazzo avrebbe potuto giurare di aver visto l’angolo destro delle sue labbra piegarsi verso l’alto.
“Beh, direi che non ci conosciamo abbastanza bene per rispondere a questa domanda, finto Ken.”
 
“Leena, ma che stai scrivendo?!”
“Mi appunto la cosa del grimaldello!”

 
*

 
Quando Orion fece ritorno all’Arconia si imbatté in Kei, seduto da solo su una delle panchine del cortile interno del palazzo e con il suo telefono in mano, visibilmente di pessimo umore.
“Ciao. Niente lezioni oggi?”
L’astronomo, che stringeva un bicchiere di carta di Starbucks contenente il settimo caffè della giornata, si fermò accanto alla panchina occupata dall’amico, guardandolo sollevare gli occhi scuri dallo schermo del telefono per gettargli un’occhiata prima di scuotere la testa.
“No, non mi andava per niente, sono rimasto qui tutto il giorno.”
Kei distolse rapido lo sguardo, prendendo a fissare con insistenza la fontana del giardino mentre Orion, dopo una breve esitazione, decideva di sederglisi accanto. Per qualche istante nessuno dei due disse nulla, mentre Kei osservava accigliato la fontana e Orion sorseggiava il suo caffè, finchè quest’ultimo non parlò prendendo a giocherellare con il bicchiere di carta bianco che riportava il suo nome.
“Pensi che ci sia qualcosa di strano, nella sua morte?”
“Sì.”
“Mh. Anche io, a dire il vero.”
“In che senso?”
Kei si voltò verso l’amico, guardandolo senza capire mentre Orion, invece, si stringeva nelle spalle con nonchalance e sollevava gli occhi scuri per puntarli sul cielo grigio sopra di loro, ormai quasi prossimo all’imbrunire.
“Non saprei. Avevo la sensazione che sarebbe successo qualcosa di molto strano, questa settimana. Qualcosa di veramente brutto. Ma l’energia strana che sentivo non è sparita dopo che Montgomery è morto. Penso che sia una faccenda non risolta.”
“Cioè pensi che sia stato ucciso?”
“Non lo so. Ma credo che tutta la faccenda non sia affatto come sembra.”
Kei non rispose, tornando a fissare un punto davanti a sé mentre Orion finiva di bere il suo caffè. Dopo aver appurato, agitandolo, che il bicchiere fosse vuoto l’astronomo si alzò, chinando lo sguardo sull’amico dopo essersi stiracchiato lentamente:
“Io vado di sopra, vieni?”
“Sì, volevo andare a salutare i genitori di Monty.”
Seppur con leggera riluttanza anche Kei si alzò, sospirando tetro per la prospettiva dell’incontro che lo aspettava mentre Orion, invece, lo guardava con leggera compassione, non invidiandolo per niente:
“Oh, buona fortuna. Cioè, è molto gentile da parte tua, ma sarà un’agonia.”
“Già. Spero vivamente che tu percepisca energie positive per la prossima settimana, perché non sopravviverò ad un’altra come questa.”
 
Non era affatto così, anzi, tutto il contrario. Ma Orion non glielo fece sapere.

 
*

 
“D’accordo, voi due legatevi i capelli, non è proprio il caso che ne trovino di nostri in giro…”
Quando Niki varcò la soglia del 14B fece per dirigersi immediatamente verso la cucina, ma indugiò davanti alla porta mentre Carter, Eileen e Leena la seguivano: per quel che ne sapevano loro, lei non aveva mai messo piede in quell’appartamento, dunque non lo conosceva e non poteva sapere con certezza dove fosse la cucina. Ripetendosi mentalmente quelle parole come un mantra, Niki si sistemò i bordi degli spessi guanti di lattice sulle braccia mentre Leena, dietro di lei, cercava di legare la sua indomita chioma di ricci castani guardandosi attorno con ammirazione.
“D’accordo, io faccio la cucina, qualcuno pensi alla sua camera e qualcuno ai bagni.”
Per i baffi di Poirot, questo posto è enorme! Credo che metà del mio appartamento sia grande quanto questa stanza!”
Leena superò Niki per addentrarsi nell’enorme soggiorno, ruotando su se stessa per guardarsi meglio attorno con gli occhi scuri spalancati mentre Eileen si ritrovava a concordare con amarezza con l’amica e Niki, guardandosi attorno impassibile, assentiva con un alquanto inespressivo mormorio sull’enormità del posto. Carter invece, per nulla colpito dalla grandezza dell’appartamento in quanto abituato al lusso, sorrise a Leena mentre Eileen apriva la porta più vicina, rivelando l’esistenza di un enorme bagno che la lasciò quasi a bocca aperta:
Ma stiamo scherzando?! Qui dentro ci sta camera mia, madre de Dios!”
“Leena, ti piace Agatha Christie? Io la adoro!”
“Certo che sì, i gialli sono il mio genere letterario preferito.”
Leena ricambiò il sorriso allegro di Carter, guardando il vicino con un interesse del tutto nuovo. I due si sarebbero probabilmente messi a sproloquiare sui loro romanzi preferiti della nota giallista se Niki non li avesse interrotti, invitandoli con un cenno e un sospiro a darsi una mossa.
“Il club del libro lo rimandiamo a dopo, adesso cerchiamo.”
Eileen aveva lasciato aperta la porta del bagno mentre apriva i cassetti del mobiletto del lavandino con circospezione, e mentre si dirigeva verso la cucina Niki finì con l’indugiare per qualche istante davanti alla porta, i grandi occhi verdi inchiodati all’enorme vasca da bagno ovale addossata alla parete, in fondo alla stanza. Scorgendo la vicina con la coda dell’occhio Eileen volse lo sguardo su di lei, guardandola con un sopracciglio inarcato mentre Niki, immobile, fissava la vasca come in trance.
“Tutto bene?”
“… Sì, tutto bene.”
Seguendo lo sguardo della vicina anche gli occhi chiari di Eileen finirono con l’indugiare sulla vasca, e la spagnola annuì piano prima di tornare a concentrarsi sul disordinatissimo contenuto dei cassetti, parlando con un sospiro cupo:
“Oh, sì. Ho sentito qualcuno dire che sua madre lo ha trovato nella vasca, ieri. Non so se è vero, ma è terribile in ogni caso, poverina.”
“Già. Terribile.”
 
Per un attimo Eileen ebbe l’impressione che Niki volesse dire qualcos’altro, ma invece di farlo la strega distolse rapida lo sguardo prima di allontanarsi a grandi passi verso la cucina, sparendo dal campo visivo dell’informatica mentre Carter le informava a voce alta che sarebbe andato a cercare in camera del defunto.
Raggiunta la cucina e rimasta finalmente sola Niki si fermò davanti al lavabo, dando le spalle all’ingresso della stanza mentre si sfilava i guanti. Li appoggiò momentaneamente sul bordo dell’enorme lavello per strofinarsi brevemente gli occhi, coprendosi infine il viso con le mani e inspirando ed espirando profondamente un paio di volte, quasi non udendo l’eco delle voci di Carter e Leena provenire dagli angoli opposti dell’appartamento mentre cercava di estraniarsi totalmente dall’appartamento.
“Ma quanti cazzo di vestiti aveva?! E io che penavo di avere un armadio grande!”
“Davvero? Fa’ vedere. … Porca Priscilla, ci saranno 40 camice qui!”
 
“Ok. Puoi farcela.”
Niki si allontanò lentamente le mani dalle lunghe dita affusolate dal viso, fissando la parete piastrellata che aveva davanti prima di annuire, come per autoconvincersi. Dopo essersi infilata di nuovo gli spessi guanti giallo canarino, ripetendosi di stare calma prima di spalancare l’anta dell’armadietto nero davanti a lei, la strega si sfilò il telefono dalla tasca posteriore dei jeans scuri, scattò una foto al contenuto dell’armadietto per far sì di lasciare tutto esattamente come lo aveva trovato e infine iniziò a spostare con attenzione barattoli e confezioni di tutte le forme. Non era sicura di sapere che cosa stesse cercando, ma allo stesso tempo sapeva per certo che ci fosse qualcosa da trovare. Lui non si era tolto la vita.

 
*
 

Quando Mathieu aprì la porta del suo appartamento il corridoio del quattordicesimo piano era deserto e silenzioso: tutto appariva come al solito, tanto da rendere assurdamente surreale l’idea che uno dei suoi vicini fosse morto solo un paio di giorni prima. Chiusosi la porta alle spalle il canadese indugiò per chiudere a chiave mentre Prune, accanto a lui, guardava il padrone agitando la lunga coda bianca e nera, impaziente di andare a passeggio.
“Vieni Prune.”
Mentre riponeva le chiavi nella tasca della giacca Mathieu si incamminò verso gli ascensori con l’alano al seguito, ma Prune si vide costretto a fermarsi quando il padrone fece altrettanto: accigliato, Mathieu indugiò davanti alla porta del 14B. Socchiusa.
Perché la porta dell’appartamento di un ragazzo appena morto, per di più proprio lì dentro, non era chiusa?
Un lieve eco di voci che parlavano concitate – voci che non riuscì a riconoscere – aumentò la sua curiosità, e dopo una breve esitazione Mathieu decise di volerne sapere di più: mentre Prune lo fissava immobile con leggera apprensione, quasi pregandolo silenziosamente di andarsene da lì, il mago spinse leggermente l’anta della porta con il piede, spalancandola con un lieve cigolio.
Ciò che vide all’interno dell’appartamento lo lasciò vagamente perplesso.
 
Davanti a lui, in piedi nel bel mezzo del soggiorno, stava una ragazza molto alta, magrissima e vestita di nero. Un paio di spessi guanti di lattice gialli le fasciavano le mani, che stringevano i manici colorati di un paio di sacchi dell’immondizia.
Per un paio di istanti i due si guardarono in silenzio, accigliati ed entrambi impegnati a chiedersi che cosa l’altro ci facesse nell’appartamento, finchè Niki non ruotò la testa per voltarsi verso la cucina per dire qualcosa ad alta voce e con tono inespressivo:
“Con quale membro dei Beagle Boys mi devo congratulare per non aver chiuso la porta?”
La sorpresa di Mathieu aumentò quando, alla domanda della strega, altre voci si levarono in risposta, due femminili e infine una maschile che non gli fu difficile riconoscere:
“Non io!”
“Io no!”
“Ma non avevamo detto di chiamarci Misteri & Affini?!”
La testa bionda di Carter – che stava per sottolineare come lui avrebbe naturalmente ricoperto il ruolo di Fred “in quanto bello, biondo e intelligente” – fece capolino dalla cucina mentre Niki sospirava rumorosamente, Prune fissava spaventato i due sconosciuti e Mathieu, ancora in piedi sulla soglia, spostava lo sguardo dai sacchi dell’immondizia stretti dalla vicina fino a Carter, che quando si accorse della sua presenza sorrise senza scomporsi, come se si fossero incontrati in circostanze del tutto normali:
“Ehy, ciao Matt!”
“Carter, che cosa state facendo qui dentro?!”
“Noi… puliamo.”
Niki si affrettò a rispondere fulminando Carter con un’occhiata e impedendogli di farlo al posto suo, tornando subito dopo a concentrarsi su Mathieu restando immobile al centro della stanza e ricambiando il suo sguardo senza battere ciglio. Mathieu che, ancora sull’uscio, guardò prima Carter e poi Niki, che vedeva in faccia per la prima volta, dubitando fortemente che quei due avessero deciso di mettersi a pulire l’enorme appartamento di Montgomery Dawson. Prune, intanto, guardava prima il padrone, poi Niki e poi Carter sempre con maggior preoccupazione. Ma perché in quel palazzo non si riusciva mai a fare una passeggiata tranquilla?!
Voi pulite?”
“Sì, puliamo.”
Niki annuì, ignorando deliberatamente il tono scettico di Mathieu e limitandosi a fissare il vicino mentre Carter la osservava dubbioso e Mathieu faceva altrettanto, decisamente poco propenso a credere che stessero dando una pulita alla casa di un morto, ma prima che uno dei tre potesse avere il tempo di parlare Leena apparve nel soggiorno imbracciando una considerevole pila di libri:
Sono assolutamente certa che uno di questi libri nasconda un codice segreto… Oh, abbiamo visite.”
Quando i suoi grandi occhi scuri indugiarono su Mathieu Leena si fermò, guardando sorpresa il vicino prima di gettare un’occhiata dubbiosa in direzione di Carter e Niki, che sembrava sempre più esasperata dalla situazione.
“In bagno non ho trovato niente, anche se sono sconvolta dal numero di profumi e gel per capelli… che succede?”
Anche Eileen scelse esattamente quel momento per uscire dal secondo bagno dell’appartamento e tornare dallo strambo gruppetto di vicini, fermandosi sulla soglia del salotto quando si rese conto della presenza del “nuovo arrivato”.
Ecco perché faccio sempre tutto da sola… Ok, mi arrendo. Stiamo ficcanasando.”   Niki sospirò e sollevò le mani guantate che ancora stringevano i manici dei sacchi dell’immondizia, arresasi all’idea di anche solo tentare di nascondere le loro intenzioni mentre Carter si avvicinava a Prune per salutare l’alano. Mathieu, invece, restò immobile sulla soglia del 14B, sempre più accigliato:
“Davvero? Non l’avrei mai detto. Perché?!”
Perché non ci crede neanche la fessa hippy dell’ottavo piano che quel narcisista possa essersi tolto la vita, ma andiamo!”
Niki sbuffò, agitando leggermente uno dei sacchi dell’immondizia che teneva in mano mentre Eileen, alle sue spalle, si voltava accigliata verso Leena – che aveva abbandonato la pila di libri su una poltrona per liberarsi del peso – per chiederle qualcosa a bassa voce:
“Chi è la fessa hippy dell’ottavo piano?!”
“Credo quella indiana.”

“Ah, giusto. Ha senso.”

 
*
 

Kei era salito all’ultimo piano per andare a salutare i genitori di Montgomery e porgere le sue condoglianze ai Signori Dawson, e non avendo nessuna voglia di imbattersi in qualcuno dei suoi vicini e udire altre voci sulla morte di Monty aveva deciso di scendere quantomeno qualche piano a piedi, prendendo le scale invece di uno degli ascensori.
Giunto davanti alla porta che dalla tromba delle scale permetteva di accedere al 14° piano Kei si ritrovò ad esitare quasi senza volerlo, gli occhi a mandorla fissi sulla porta mentre tornava inevitabilmente a pensare alla morte dell’amico.
Non seppe di preciso perché, ma finì con l’aprire la porta e ritrovarsi così nel corridoio del penultimo piano, vicinissimo alla porta del 14B. All’improvviso, mentre la osservava, Kei ebbe l’impressione che ci fosse qualcosa di strano in quello che era stato l’appartamento del suo amico: la porta era chiusa, ma aveva comunque la sensazione di sentire delle voci provenire dall’interno. Accigliato, Kei si avvicinò piano per essere sicuro di non essersi sbagliato, finendo col chiedersi chi accidenti ci fosse dentro al 14B, dal momento che le uniche persone ad avere la chiave le aveva appena incontrate, e si trovavano proprio al piano superiore.

 
*

 
“Grazie per essere passato, è da ieri che è molto più mogio del solito e iniziavo a preoccuparmi.”
Esteban sorrise mentre chinava lo sguardo sul suo Bobtail, seduto accanto a lui sul pavimento dell’ingresso del suo appartamento, e allungava una mano per accarezzargli la grossa testa pelosissima. Jackson, davanti a lui, sorrise a sua volta al cane prima di chinarsi per dargli una coccola a sua volta, guardandolo divertito leccargli una mano.
“Non c’è problema, adoro questo signorino. Che per altro sta benissimo, non ti preoccupare.”
“Meno male, che cosa farei senza il mio assistente personale?”
Visibilmente sollevato che il suo amato cane stesse bene, Esteban gli prese la testa tra le mani e gli diede una leggera scrollata affettuosa, suggerendogli di andare a giocare con i suoi ossi di gomma. Quando il Bobtail si fu allontanato per andare a mordicchiare qualche gioco in soggiorno il giornalista tornò a rivolgersi al veterinario, sorridendogli prima di Appellare un sacchetto di carta bianco dalla cucina e porgerlo al ragazzo:
“Ah, quasi scordavo… tieni questo.”
“Grazie.”
Preso il sacchetto dalle mani del vicino, Jackson lo ringraziò con un sorriso prima di salutare lui e Mocio – che aveva preso possesso di uno dei divani del soggiorno, impegnato a mordicchiare una pantofola trovata in giro – e aprire la porta del 12C per tornare al 5B e cenare con i suoi genitori: era già in ritardo essendosi fermato al 12° piano di ritorno dallo zoo invece di rientrare subito a casa, e non aveva nessuna voglia di sorbirsi le lagne di sua madre. Jackie aveva appena messo piede fuori dall’appartamento, affacciandosi nel corridoio del 12° piano con la mano ancora stretta sulla maniglia, quando qualcosa attirò la sua attenzione e lo costrinse ad immobilizzarsi per un istante.
“Esteban?”
Incuriosito dall’esitazione e dal tono dubbioso del vicino, Esteban gli si avvicinò per affacciarsi a sua volta fuori dalla porta, chiedendosi che cosa avesse visto Jackson e sperando vivamente che non ci fosse un cadavere nel bel mezzo del corridoio.
“Sì?”
“Vedi anche tu una… una tartaruga che sta portando a spasso un gatto nero?”
No, non c’era nessun cadavere sul pavimento, appurò con sollievo Esteban. In compenso, abbassando lo sguardo il giornalista si ritrovò a guardare una grossa tartaruga zampettare con tutta calma sul pavimento con un gatto nero a pelo lungo seduto sul suo carapace, gli occhi gialli che fissavano di rimando i due maghi.
“Wow. Questa non l’avevo ancora vista. Secondo te così porta iella?”
Esteban si voltò allegro verso il vicino, che si sentì in parte sollevato – per un attimo aveva temuto di essere caduto preda di qualche allucinazione – prima di aggrottare le sopracciglia, piuttosto scettico:
Non ne ho idea, ma qui è appena morto uno, quindi direi che la dose di sfiga sul palazzo è già abbastanza alta… Comunque, io quel gatto non l’ho mai visto.”
“Neanche io, credo. E sarà meglio che non lo veda neanche Mocio.”
 
Il mistero della tartaruga e del gatto nero sconosciuto, tuttavia, impegnò la mente di Esteban solo finchè non chiuse la porta alle spalle di Jackson: all’improvviso, mentre guardava Mocio mordicchiare una pantofola – forse per punirlo per non avergli dato molte attenzioni nei giorni precedenti – gli tornò in mente il dannato articolo che, ovviamente, ancora non aveva concluso, preso dall’ansia per la salute del suo cane.
“Che grandissima rottura di palle. Mocio, sei una drama queen quasi quanto tua nonna.”

 
*

 
Prune era così carino che Niki decise immediatamente di perdonare l’alano per aver rischiato di farla scoprire mentre faceva irruzione nell’appartamento di Montgomery la sera prima: china davanti al cane, la strega si stava facendo dare la zampa – complimentandosi con l’alano con voce melensa per la sua obbedienza –  mentre Carter cercava di spiegare a Mathieu perché si trovassero all’interno del 14B e Eileen ispezionava silenziosamente i cassetti della costosissima scrivania in ebano sistemata davanti ad una delle ampie finestre che ricoprivano quasi interamente la parete del soggiorno che si affacciava su Central Park.
“Quindi credete che sia stato ucciso e siete venuti qui per… trovare indizi.”
“Sì, in sintesi sì. Finalmente qualcosa di interessante in questo palazzo!”
Carter avrebbe voluto usare l’aggettivo “divertente”, ma per fortuna si rese conto in tempo che non sarebbe stato appropriato dirlo in riferimento ad un omicidio o ad un decesso in generale e si limitò a sorridere allegro mentre Mathieu, guardandolo dubbioso, accennava in direzione di Niki e poi di Eileen e Leena, ancora impegnata a sfogliare i libri di Montgomery – e criticando aspramente i suoi gusti letterari al contempo –.
“E stai indagando… con lei. E altre due perfette estranee.”
Mathieu inarcò un sopracciglio mentre accennava a Niki – che stava ancora parlando con Prune con tono zuccheroso mentre lo accarezzava, inginocchiata sul pavimento dietro di loro – e Carter, di fronte a lui, si ritrovava a considerare per la prima volta l’assurdità della situazione. Accigliato, il giornalista gettò un’occhiata alla sua vicina, china sul pavimento di fronte all’alano e apparentemente dimentica di quello che avrebbe dovuto fare.
“In effetti non so di preciso come sia successo…”
“Ma perché, esattamente, pensate che non si sia ucciso? Ha stranito anche me sentire che si era suicidato, ma non sai mai che cosa prova davvero una persona o come si sente, se non ci vivi insieme.”
“Lei dice di averlo incontrato in ascensore, il giorno in cui è morto, e di averlo sentito parlare con qualcuno al telefono.”
Carter si strinse nelle spalle mentre accennava a sua volta in direzione di Niki, ancora impegnata a fare la conoscenza di Prune: i due maghi si voltarono verso di lei, osservandola accigliati mentre la ragazza chiedeva all’alano di darle la zampa sinistra.
Ok, adesso dammi l’altra zampa.”
Quando Prune obbedì Niki emise una sorta di ultrasuono intenerito, accarezzandogli la zampa prima di rendersi conto degli sguardi dei due vicini. Voltatasi, la ragazza inarcò un sopracciglio, come a chiedere loro che cosa volessero, prima di spiegare per la seconda volta ciò che poco prima aveva già detto a Leena, Eileen e Carter:
“Sì, l’ho visto in ascensore. Parlava al telefono con qualcuno, non so chi. Ma non aveva affatto l’aria di chi pianifica di togliersi la vita a breve, onestamente.”   Niki parlò con tono inespressivo mentre tornava a concentrarsi sul cane, accarezzandogli lentamente la testa bianca e nera mentre Carter e Mathieu la osservavano in silenzio, senza poterla vedere in viso.
“Perché, che cosa diceva?”
“Era arrabbiato con qualcuno. Parecchio, anche. Diceva qualcosa a proposito di qualcosa che doveva essergli recapitato. Se hai così bisogno di qualcosa e insisti tanto per averla, dubito che tu voglia ucciderti a breve. Seduto. Bravissimo, come sei carino!”
Niki sorrise battendo brevemente le mani con entusiasmo prima di accarezzare la testa di Prune, che la guardò agitando la coda, felice per i complimenti ricevuti. Continuando a sentirsi osservata la strega volse subito dopo lo sguardo su Carter e Mathieu, inarcando un sopracciglio e smettendo improvvisamente di sorridere mentre li osservava freddamente di rimando:
“Beh, che c’è? … Mi piacciono molto i cani. A proposito, dov’è il tuo bellissimo Golden Retriever? Potevi anche portartelo dietro, giacché dobbiamo passare del tempo insieme ne avrei almeno ricavato qualcosa di buono.”
“Ma ci sei nata così simpatica, o hai fatto un corso prima di venire a vivere qui?”
“E tu sei nato così perspicace, o ti hanno fatto un corso prima di venire a vivere qui? Sto cercando di capire quale dei tre tipi sei.”
Niki si rimise in piedi facendo spallucce, accennando un flebile sorrisetto in direzione di Carter mentre Prune la guardava malinconico, chiedendosi perché la sua nuova fan avesse smesso di coccolarlo.
“Quali tre tipi?”
“A. Bello e deficiente. B. Bello e stronzo. C. Bello e sveglio.”   Niki mostrò tre dita con la mano destra, abbassandone una ad una man mano che procedeva con l’elenco sotto lo sguardo torvo di Carter: era abituato a sentirsi rivolgere degli apprezzamenti per il suo aspetto, ma quello era stato di gran lunga il complimento meno gradevole che avesse mai ricevuto in vita sua. Mathieu invece parve quasi divertito e accennò un sorriso, ignorando l’occhiata torva di Carter mentre Prune trotterellava nuovamente verso di lui, lasciandosi accarezzare docilmente la testa.
“Montgomery che tipo era?”  
“Oh, B. Così, a pelle, direi una B. Lui al momento è un ibrido tra A e B. Trovato niente di interessante?”
Niki non attese una risposta da parte di Carter – che si trattenne dall’imprecarle dietro – o Mathieu, voltandosi per raggiungere Eileen davanti alla scrivania di Montgomery mentre l’informatica fotografava col telefono il calendario da scrivania e Carter si lamentava con il vicino, asserendo di poter accettare che gli dessero dello stronzo, ma non certo dello stupido.
“Sto fotografando il calendario di settembre, così possiamo controllare i suoi appuntamenti… Ehy, questo non è il nome di un nostro vicino? Mi dice qualcosa.”
Eileen indicò il nome scarabocchiato, insieme al numero 15, sul 10 settembre: Barry White. Sul momento non riuscì a ricollegarlo ad un viso, ma era certa di averlo già sentito da quando si era trasferita nel palazzo due anni prima. Niki si chinò leggermente sul calendario per leggere a sua volta mentre Leena, incuriosita dalle parole dell’amica, abbandonava momentaneamente i libri di Montgomery per raggiungere le due vicine.
“Oh, sì. Lo conosco, ha studiato ad Hogwarts anche lui, abita al 10° piano, se non sbaglio. Fa il dentista.”
“Allora vive vicino alla ex di Montgomery!”
Forse lo ha ucciso il dentista perché era innamorato anche lui della biondona fregna!”
Carter parlò sfoderando un sorriso allegro, visibilmente entusiasta della teoria appena partorita mentre Eileen, Leena e Niki si voltavano verso di lui, osservandolo brevemente per considerare la possibilità in silenzio prima che Niki parlasse esalando un debole sospiro:
“Benchè io sia una ferma sostenitrice del fatto che di una persona il cui scopo nella vita è infilare le mani nelle bocche della gente non ci si debba fidare, forse, visto che si tratta di un dentista e qui c’è scritto anche un orario, Montgomery doveva semplicemente andare dal dentista. Ma naturalmente la mia è solo un’ipotesi alquanto azzardata.”
Se c’era una cosa che Carter Cross non sopportava era che lo si trattasse da stupido, tanto che ricambiò lo sguardo neutro di Niki con un’occhiataccia mentre Eileen sfogliava le pagine dei mesi precedenti sul calendario, in cerca di qualcosa degno di nota.
Potrebbe anche averlo ucciso comunque!”
“Sono sicura che possa averlo brutalmente aggredito con un Detartaratore di ultima generazione, ma la terremo come opzione di riserva per il momento. Dovremmo capire se era davvero il suo dentista o meno.”
“Se ti consola, secondo me non è poi così assurda come teoria.”
Mathieu rivolse un piccolo sorriso a Carter, parlandogli gentilmente mentre il più giovane accarezzava la testa di Prune, annuendo sconsolato e gettando al contempo occhiatacce in direzione di Niki:
“Grazie. Sai, sono sempre molto bravo ad indovinare la risoluzione di un giallo, non vedo perché dovrebbe essere così impossibile farlo nella vita vera.”
 
“Certamente, Mrs Fletcher…”
“Non sei affatto divertente, acidona!”
 
Leena ed Eileen stavano discutendo a proposito del vicino del 10° piano e di un suo possibile legame con Montgomery quando Niki, facendo correre lo sguardo sulla scrivania, notò qualcosa che le fece gelare il sangue nelle vene: quando vide una sottile busta bianca fare capolino sotto ad una rivista sul Quodpot del mese precedente smise di prestare attenzione alle voci dei vicini che la circondavano; quasi si dimenticò della loro presenza mentre fissava il nome scarabocchiato con un pennarello indelebile nero sulla busta. Il suo nome. Nome che fortunatamente nessuno dei presenti conosceva, tanto che la busta aveva finito col passare inosservata.
Come aveva fatto a non vederla, la sera prima?
Dandosi mentalmente della stupida, Niki si sforzò di restare impassibile mentre intrecciava le mani dietro la schiena, conficcandosi per la tensione le unghie della mano destra nella pelle della sinistra mentre teneva gli occhi verdi incollati alla busta e un forte senso di nausea si impossessava di lei. Tutto quello che doveva fare, si disse cercando di ignorare le palpitazioni, era prendere la busta e farla sparire senza farsi notare.
L’unico problema era che non aveva idea di come fare per distrarre quattro persone contemporaneamente, ma qualcuno giunse inaspettatamente e provvidenzialmente in suo soccorso proprio in quel momento.
 
 
Tutto sommato, per quanto a pelle non le piacesse, alla fine della giornata Niki sarebbe stata grata nei confronti di Kei Nakajima. Quando il ragazzo aprì la porta dell’appartamento tutti si voltarono verso l’ingresso, inclusa lei, e il breve sbigottimento generale le diede l’occasione di afferrare la busta e infilarsela nel retro dei pantaloni, coprendola in tutta fretta con la felpa larga che indossava prima di incrociare le braccia al petto, osservando Kei come se nulla fosse.
Kei che, in piedi sulla soglia, spostò in silenzio lo sguardo da un vicino all’altro chiedendosi che cosa ci facessero ben cinque persone nell’appartamento di Montgomery. Quasi tutte, per di più, persone con cui era abbastanza certo che l’amico non avesse mai avuto a che fare.
“Che cosa state facendo qui?!”
Nessuno rispose, ma Eileen, Leena e Carter si scambiarono qualche occhiata, indecisi tra l’ammettere la verità o azzardare qualche balla totalmente insensata. Niki invece si limitò ad osservare Kei con aria annoiata mentre Mathieu, comprendendo perfettamente lo stato d’animo del vicino, si chiedeva perché non avesse semplicemente ignorato la porta socchiusa dell’appartamento per andare a fare invece una normalissima passeggiata col suo cane.
“Beh, ecco, noi stavamo… Dando un’occhiata in giro.”
Eileen si sforzò di sorridere mentre si affrettava a sfilarsi i guanti, iniziando a pentirsi di essersi lasciata trascinare in quella pazzia mentre Leena borbottava qualcosa sull’impossibilità di “indagare in santa pace, con tutti quei vicini che spuntavano come funghi da tutte le parti”.
“Un’occhiata in giro?! Chi siete, il Club del Delitto?”
Accigliato, Kei adocchiò gli spessi guanti indossati dalla maggior parte dei presenti mentre Leena, tamburellandosi l’indice sul mento, annuiva piano mormorando distrattamente qualcosa:
“Non è male come nome questo, ci dovremmo pensare su meglio…”
Io veramente passavo per caso…”
Mathieu accennò vago in direzione di Prune, che lo guardò sconsolato come a chiedergli perché poco prima non gli avesse dato ascolto, ma alle stranezze dei suoi vicini Kei decise che ci avrebbe pensato dopo: invece di dare retta agli altri si concentrò su Niki, chiedendosi che cosa ci facesse a casa del suo amico.
“Posso parlarti?”
Le parole di Kei gettarono l’appartamento nel silenzio più assoluto mentre il ragazzo fissava Niki, ancora in piedi davanti alla scrivania tenendo le mani strette dietro la schiena. Leena, Eileen, Carter e Mathieu imitarono il vicino voltandosi accigliati verso di lei, tutti impegnati a chiedersi silenziosamente perché volesse parlare proprio con lei e se i due si conoscessero. La strega non rispose, limitandosi a fissare apaticamente Kei di rimando per qualche secondo prima di accennare un assenso con la testa e attraversare la stanza con lunghe falcate, seguendolo fuori dall’appartamento senza dire una parola.
 
“Qualcuno ci sta capendo qualcosa?”
“Assolutamente no, ma penso che dovremmo uscire da qui il prima possibile, prima di trasformarla in una festa di condominio nell’appartamento di un ragazzo morto. Soprattutto perché i suoi genitori” – Mathieu indicò il soffitto con un dito – “abitano esattamente qui sopra e se decidessero di scendere adesso la situazione diventerebbe a dir poco alquanto imbarazzante.”
“Io vorrei proprio sapere che cosa si stanno dicendo quei due.”
“Oh, sì, provaci Carter, buona idea, vai ad interromperli, sono sicuro che ne uscirai tutto intero e fisicamente illeso.”
Qualcosa suggerì a Carter di seguire il suggerimento di Mathieu, ma il giornalista sbuffò comunque mentre fissava la porta chiusa, morendo dalla voglia di sapere che cosa si stessero dicendo la sua strana vicina e il nuovo arrivato. Leena, del suo stesso avviso, decise invece di avvicinarsi silenziosamente alla porta per accostarcisi con l’orecchio, sforzandosi inutilmente di carpire qualcosa della conversazione in corso:
“Che palle, ma perché parlano così piano… Presto, qualcuno mi dia un calice del tizio stecchito!”
 
 
 
“Se sei venuto a dichiarare con grande ardore i tuoi sentimenti nei miei confronti ti fermo subito, perché per me sei un po’ giovane.”
Dopo essersi chiusa la porta dell’appartamento di Montgomery alle spalle Niki si appoggiò alla parete come aveva fatto poco prima, quando aveva aspettato che Carter riuscisse a forzare la serratura, controllando distrattamente lo stato delle proprie unghie invece di guardare Kei, che invece le si piazzò davanti scrutandola con astio.
“Non mi prendere per il culo. So che Monty sapeva qualcosa su di te, e adesso è morto. Ah, e ti ho appena trovata a casa sua con dei guanti di lattice per non lasciare impronte. È una coincidenza?”
“Stai insinuando che l’abbia ucciso io per metterlo a tacere su… su che cosa, esattamente? Oh no, dici che aveva scoperto che balsamo uso e l’ho tolto di mezzo per continuare ad avere i capelli più belli del palazzo?”
Niki rise mentre ricambiava finalmente lo sguardo del vicino, sorridendo divertita mentre Kei, davanti a lei, scuoteva il capo senza smettere di osservarla, sempre più irritato: sapeva che cosa aveva sentito e sapeva che il suo amico non aveva parlato tanto per fare. Non aveva approfondito la questione, purtroppo, ma Kei ricordava chiaramente quello scambio risalente a due mesi prima e non aveva intenzione di accantonare l’idea che quella vicina di cui non sapeva nulla potesse aver avuto a che fare con Montgomery più di quanto non dichiarasse.
“Non lo so. Ma una volta mi ha detto che su di te ci sarebbero state parecchie cose interessanti da sapere, cercando a fondo. Non so cosa sapesse, ma qualcosa di sicuro.”
“Davvero? E dimmi, hai qualche prova a riguardo, a parte la parola del tuo amichetto che su di me, per inciso, non sapeva assolutamente niente?”
Kei non rispose, limitandosi a sostenere lo sguardo di Niki mentre la strega, staccatasi dalla parete, incrociava le braccia al petto prima di avvicinarglisi di un passo.
“Ci hai mai visti insieme, da quando vivo qui? No. Perciò, come pensi di provare, esattamente, quello che sostieni? Il tuo amico parlava a vanvera, probabilmente.”
“No, non è così.”
“Pensala come ti pare, non mi interessa. Non so cosa credi di sapere, ma non starmi tra i piedi.”
 
Kei non rispose, limitandosi ad osservare la strega mentre Niki, dopo avergli rivolto un’ultima occhiata gelida, si allontanava per sparire rapida dietro la porta che conduceva alla tromba delle scale.
Rimasto solo, il ragazzo osservò brevemente la porta da lui stesso varcata poco prima per poi voltarsi verso quella dell’appartamento di Montgomery, aprendola di nuovo senza tanti preamboli. Quando si trovò davanti Eileen e Leena, visibilmente impegnate a cercare origliare chine sulla porta fino a poco prima, lo studente inarcò un sopracciglio mentre Carter si sporgeva sopra le due vicine per affacciarsi nel corridoio e cercare Niki con lo sguardo, accigliandosi quando non ne vide traccia.
“Ehy, dov’è andata?!”
“Non lo so e nemmeno mi importa. Voi che cosa facevate, a casa di Monty?”
L’occhiataccia di Kei trapassò Carter da parte a parte ma l’ex Tuonoalato non si fece intimidire, osservandolo di rimando mentre Eileen, rassettandosi le maniche del blazer, accennava un sorriso in direzione del vicino, conscia che a quel punto mentire non avesse alcun senso:
“Ecco, ficcanasavamo perché pensiamo che non si sia tolto la vita.”
“Davvero? Nemmeno io, perciò siete pregati di dirmi quello che sapete. No, non qui dentro, andiamocene subito… andiamo a casa mia.”
Forse dovevo davvero andare a passeggio con Prune…”
 
 
Mentre scendeva rapida le scale per tornare nel suo appartamento, Niki si sfilò la busta bianca con il suo nome sopra dal retro dei pantaloni, aprendola per osservarne il contenuto sentendosi il cuore in gola.
Insultando mentalmente il defunto vicino, Niki si fermò davanti alla porta che l’avrebbe ricondotta al suo piano prima di richiudere con mani tremanti la busta e infilarla nella tasca centrale della sua felpa. La strega inspirò profondamente prima di aprire la porta e affacciarsi nel corridoio del tredicesimo piano, controllando che non ci fosse nessuno dei suoi vicini in giro prima di dirigersi rapida verso la porta del suo appartamento.
Quando aprì la porta del 13B Mira e Carrie le corsero incontro miagolando, scaturendo il primo vero sorriso della giornata sul viso di Niki, che si inginocchiò per prenderle entrambe in braccio, una per mano.
“Quel gran coglione per poco non me la faceva, piccoline. Per fortuna vostra madre sa pensare in fretta.”
La strega depositò un bacio sulla testa di ciascuna delle due Abissine mentre si dirigeva insieme a loro in cucina, lasciandole con dolcezza sugli sgabelli neri che circondavano l’isola prima di estrarre la bacchetta e far apparire un cestino di metallo. Ci buttò dentro la busta e poi, in silenzio, fece prendere fuoco al pezzo di carta con un Incendio non verbale.
Per qualche istante restò a guardare la carta bruciare e appallottolarsi sempre di più, prima di abbandonare la bacchetta sul ripiano di legno della cucina e infilare la mano libera all’interno della sua borsa nera, estraendone lentamente un sacchetto di plastica trasparente che conteneva un bicchiere di carta.
 

 
*

 
Ma quanto pesa questa roba…”
Gabriel emise uno sbuffo sommesso mentre usciva dall’ascensore stringendo un’enorme pirofila di ceramica bianca, ornata da un delicato motivo floreale azzurro e lavanda: era appena tornato all’Arconia dal suo studio quando Naomi lo aveva chiamato, intimandogli di “andare a casa sua a prendersi un po’ di avanzi, perché aveva cucinato troppo e se avesse mangiato tutto quel cibo lui avrebbe dovuto farla rotolare su e giù per il palazzo insieme a Moos”.
Consapevole che l’amica avrebbe finito col rifilargli una montagna altissima di cibo delizioso quanto calorico che lo avrebbe indotto in tentazione Gabriel aveva provato ad inventare una scusa, fermo nel bel mezzo del cortile interno illuminato dalle due file di lampioni con il telefono accostato all’orecchio destro.
“Naomi, veramente non sono ancora tornato e credo che farà tardi, scusa…”
“Non provarci, ti vedo dalla finestra, muoviti e niente scuse!”

“Ma sei seria?!”
Gabriel aveva alzato lo sguardo sulle file di finestre sopra di lui, cercando di individuare la figura dell’amica all’undicesimo piano ma fallendo a causa della distanza, finendo con l’arrendersi e facendo una sosta al piano di Naomi prima di tornare, finalmente, nel suo appartamento al 7° piano.
Si stava dirigendo verso la porta del 7A con il cibo di Naomi tra le braccia quando il mago si fermò di colpo, guardando attonito un grosso cane bianco e grigio tagliargli la strada scodinzolando.
“E tu dove stai andando?!”
Il cane che, Gabriel ne era sicuro, non apparteneva a nessuno dei vicini del suo stesso piano, però non lo considerò, zampettando fino alla porta chiusa che conduceva alle scale prima di fermarsi e sedercisi davanti. Il mago, sempre più perplesso, guardò il cane voltarsi verso di lui e osservarlo quasi in attesa, come a chiedergli di aprirla mentre lo fissava con la lingua di fuori e gli occhi celati da una matassa di pelo bianco. Titubante, Gabriel lo raggiunse per aprirgli la porta, guardando il grosso Bobtail alzarsi di scatto e prendere a scodinzolare ancora di più:
“Devi, emh, andare da qualche parte?”
Mocio abbaiò come per ringraziarlo prima di infilarsi rapido nella fessura della porta, trotterellando verso le scale per salire ai piani superiori. Quello era di gran lunga il cane più assurdo che avesse mai visto, si disse Gabriel scuotendo la testa mentre chiudeva la porta, ma in fondo di esseri viventi normali, in quel posto, se ne vedevano ben pochi. 

 
*

 
La porta si richiuse alle spalle di Bartimeus con un lieve scatto mentre il padrone di casa lasciava le chiavi nella ciotola sistemata sul mobile dell’ingresso: Naomi gli aveva scritto poco prima chiedendogli di salire da lei e prendersi un po’ dell’anatra arrosto che aveva preparato, come era loro abitudine quando uno dei due finiva col cucinare troppo, e Moos era tornato nel suo appartamento tenendo in mano un piatto di porcellana bianco con un delizioso motivo floreale rosa pastello con una montagna di arrosto coperta da pellicola. E qualcosa gli diceva che Gabriel aveva ricevuto gli stessi ordini, prima di lui.
Sapendo di dover fare solo una toccata e fuga all’11° piano Moos aveva lasciato accesa la luce del soggiorno, ma quando superò l’ingresso per andare a depositare la cena appena conquistata per poco il piatto non gli cadde di mano. Il che fu una fortuna, perché avrebbe sprecato dell’ottimo cibo, rischiato di ferire la sua tartaruga con i cocci del piatto e soprattutto rotto “uno dei piatti del servizio buono della nonna” di Naomi.
Bartimeus veniva spesso definito un ragazzo “facilmente impressionabile”; la verità, che il diretto interessato era sempre disposto ad ammettere con estremo candore, era che Bartimeus Jr Thomas era un vero e proprio fifone. Per questo motivo, quando vide una ragazza che non conosceva seduta sul suo divano e intenta a fissarlo in tutta tranquillità, come se nulla fosse, sobbalzò e per poco non gli prese un colpo. Per fortuna salvò il piatto e l’arrosto dal loro triste destino, evitando per un soffio che gli scivolassero entrambi dalle mani.
“Ciao.”
Per nulla impressionata dalla sua reazione, l’intrusa rimase immobile e continuò a fissarlo senza battere ciglio, studiandolo attentamente con grandi occhi verdi dal taglio allungato che ricordarono quelli di un gatto. Riprendendosi dallo spavento, Bartimeus inspirò ed espirò profondamente prima di deglutire, restando immobile sulla soglia della stanza piena di piante mentre Jam, incuriosito, si avvicinava zampettando verso di lui.
“Come… Come sei entrata?!”
Il mago si chinò per raccogliere la tartaruga con la mano libera, stringendosi il suo carapace al petto con fare protettivo mentre la ragazza faceva spallucce nell’indicare con disinvoltura una finestra socchiusa:
“Scale antincendio. Mi dispiace averti turbato, credevo che quello fosse il tuo modo preferito di ricevere visite. Non dovresti lasciare la finestra aperta, comunque. Qualcuno con cattive intenzioni potrebbe approfittarne.”
La strega inclinò leggermente la testa, accennando un piccolo sorriso con gli angoli della labbra carnose senza smettere di guardarlo. La scelta delle parole usate era stata fin troppo precisa, tanto che Bartimeus si convinse rapidamente che la ragazza volesse osservare la sua reazione. Seppur con la salivazione quasi azzerata e il battito cardiaco leggermente accelerato, il mago fece del suo meglio per non far trapelare alcuna emozione particolare e non mostrarsi sorpreso mentre continuava a fissarla di rimando. senza muoversi di un centimetro.
“Qualcuno come un vicino di casa?”
L’ex Serpecorno parlò inarcando un sopracciglio, ma l’inquilina del 13B – riconosciuta grazie agli stivali con i lacci rossi che le vedeva sempre addosso – sorrise, e la sua espressione sembrò farsi divertita mentre annuiva leggermente senza smettere di far dondolare lentamente il piede destro penzolante.
“Oh, sì. Beh, a parte me, naturalmente. Sono qui perché ho bisogno di chiederti una cosa, Bartimeus.”
“E non potevi, che so, suonare il campanello?!”
“Non volevo incrociare nessuno, o che qualcuno mi vedesse venire a casa tua. In questo posto è difficile non far sapere a nessuno che cosa si faccia. Ma tu vivi qui da moltissimo tempo, quindi immagino che sappia di cosa parlo.”
Con quelle parole l’inquilina del 13B – solo in quel momento, avendola davanti, Moos realizzò di non avere idea di come si chiamasse – si alzò, lisciandosi distrattamente le pieghe dei jeans neri a vita alta che indossava prima di intrecciare le mani dietro la schiena e avvicinarsi ad un ficus. Il ragazzo, dal canto suo, non poté fare a meno di restare colpito dall’altezza della strega: l’aveva vista di sfuggita in qualche occasione, ma non se l’era mai trovata a distanza ravvicinata e non si era mai reso conto di quanto fosse alta. Di sicuro più alta di lui e dei suoi 175 centimetri.
“Che cosa… Che cosa mi devi chiedere?”
Moos iniziò a sentirsi leggermente stupido, lì in piedi con in mano dell’arrosto e una tartaruga. A disagio, il mago si mosse verso la cucina per depositare almeno il primo impiccio senza distogliere lo sguardo dalla sua visita inaspettata, che aveva sollevato una mano per sfiorare una delle larghe foglie verdi della pianta.
Quando udì la domanda del vicino Niki si voltò, guardandolo per qualche istante prima di incrociare le braccia al petto e parlare:
“Pensi che si sia tolto la vita?”
“… Come?”
Quella era una domanda che nessuno, ancora, gli aveva posto. Neanche Naomi, anche se Moos era sicuro che la sua amica doveva averlo pensato. Montgomery era morto due giorni prima, e ora una perfetta e bellissima sconosciuta faceva irruzione in casa sua chiedendoglielo. Leggermente frastornato, Moos la guardò chiedendosi come facesse a sapere tutte quelle cose sul suo conto mentre Niki, in piedi a tre metri da lui, lo guardava impassibile di rimando.
“Pensi che Montgomery si sia tolto la vita? Non credo che sia così.”
“Non credi che si sia ucciso?”
“Anche. Ma mi riferivo al fatto che sono sicura che non lo credi neanche tu.”
Sempre più confuso, o desideroso che si trattasse di uno scherzo, Moos guardò la strega muoversi nella sua direzione, tornando a sedersi sul suo divano beige prima di fargli cenno di raggiungerla muovendo solo due dita della mano destra verso di lui.
“Ci sono tre persone in questo posto che lo conoscevano bene. O meglio, persone che credo non possano essere responsabili della sua morte. La prima è il tizio asiatico che vive al 7° piano, la seconda sei tu. La terza, beh, sono io.”
Ormai riteneva che la sua vicina non fosse entrata in casa sua per derubarlo, minacciarlo o ucciderlo, quindi Bartimeus – seppur molto lentamente e continuando a stringere Jam a sé – raggirò il divano per sedersi a sua volta, seppur tenendosi a mezzo metro di distanza, mentre la strega continuava a parlare.
“Ora, il tizio asiatico mi sta discretamente sulle palle, ma ho bisogno di una conferma, quindi sono venuta da te, Bartimeus.”
“Che cosa vuoi sapere?”
E perché Montgomery non ha mai accennato al fatto di conoscerti?!
“Sono stata a casa sua, oggi. Di Montgomery. Ho trovato una cosa interessante. O meglio, interessante per me, chiunque altro lo avrebbe trovato del tutto irrilevante, credo.”
All’improvviso la strega si voltò, chinando lo sguardo su qualcosa a cui Moos ancora non aveva prestato attenzione, troppo occupato a fissare la vicina e a chiedersi che cosa ci facesse nel suo soggiorno. Dopo aver frugato in una borsa di tela nera la vide sollevare una busta di plastica trasparente, di quelle che si usavano per gli alimenti, contenente un semplice bicchiere di carta.
 
“Un… bicchiere di carta? Aspetta, come e perché sei andata a casa sua?”
La domanda sembrò infastidire leggermente la vicina, che sbuffò e agitò leggermente la busta continuando a tenerla sollevata davanti a sé, in mezzo a loro, e senza smettere di guardarlo:
“Non è questo il punto. Il punto è il bicchiere, concentrati sulle cose rilevanti, tutti vedono sempre e solo le cose irrilevanti, e non vedono ciò che dovrebbero.”
“Un bicchiere?”
Le sopracciglia di Bartimeus erano ad un soffio dall’attaccatura dei suoi corti capelli scuri quando Niki, ormai esasperata, sospirò e alzò gli occhi al cielo:
“Dio, se non foste necessari per la procreazione voi uomini vi sareste estinti secoli fa. Un bicchiere da caffè, Bartimeus.”
All’improvviso il mago capì dove volesse andare a parare la sua strana vicina, che sorrise soddisfatta quando scorse la consapevolezza farsi strada sul viso di Moos mentre il ragazzo chinava lo sguardo sul bicchiere di carta, osservandolo con una curiosità del tutto nuova.
“Oh.”
“Esattamente. È ciò che ho pensato quando l’ho visto nella spazzatura. Lui non beveva caffè.”
“Hai frugato nella spazzatura?!”
“Lo sanno tutti che per scoprire dettagli su un morto è dalla spazzatura che bisogna partire!”
“Io con i morti ci lavoro, ma non lo sapevo.”
“Come ho detto, vi sareste già estinti.
Ma concentriamoci sulle cose rilevanti. Pensi quello che penso io?”
“Che abbia, emh, iniziato recentemente a bere il caffè?”                       
Quella donna aveva il potere di farlo sentire sciocco, oltre che in soggezione a causa della sicurezza con cui parlava e del suo bell’aspetto: Bartimeus provò quasi il desiderio di farsi piccolo piccolo quando Niki gli gettò un’occhiataccia e abbandonò esasperata il braccio sul divano, scuotendo la testa prima di rispondere:
“Ma no, che qualcuno gli abbia portato un caffè avvelenato!”
“Che cosa?!”
“Oh, andiamo. Lui non beveva caffè, lo sai tu e lo so io. Né tantomeno ne avrebbe mai comprato uno da qualche parte e questo qui è un bicchiere di carta, non avrebbe preso un caffè da asporto per tornare a casa a berselo. Qualcuno deve avergli fatto visita e avergli portato questo caffè, e magari averci infilato qualcosa dentro.”
“Ok, ammetto che la teoria che il caffè glielo abbia portato qualcuno è molto plausibile. Ma non puoi sapere se è stato avvelenato.”
Niki scosse la testa mentre si alzava in piedi, restando davanti a lui e osservandolo brevemente dall’alto in basso prima di tirare fuori il telefono dalla tasca posteriore dei jeans:
“Ho trovato un’altra cosa interessante, infilata a casaccio in un angolo della dispensa. Una scatola di veleno per topi. Bartimeus, pensi che Montgomery Dawson avrebbe mai comprato del veleno per topi? Prova ad immaginarlo.”
Dopo aver tirato fuori il telefono Niki iniziò a cercare nella galleria prima di accennare un sorriso vittorioso e infine chinarsi leggermente verso il vicino, mostrandogli lo schermo e la foto che aveva fatto. Mentre Moos osservava lo schermo luminoso il braccio destro di Niki venne scosso da un leggero tremito, e il mago guardò accigliato il dispositivo tremare nella mano della strega prima che Niki riuscisse a ritrarla e a riporre in tutta fretta il telefono. Dopo averlo nuovamente infilato nella tasca dei pantaloni la strega accennò un sorriso soddisfatto in direzione del vicino, massaggiandosi lentamente il polso per un paio di secondi prima di incrociare nuovamente le lunghe braccia esili al petto.
“Non ci riesci, vero? Quel piccolo principino viziato cocco di mamma non si sarebbe mai scomodato, figuriamoci. Qualcuno gli ha portato il caffè, e ha avuto la premura di lasciare anche un regalino a casa sua, così in caso avessero fatto qualche esame avrebbero pensato che Montgomery avesse già il veleno e lo avesse ingerito volontariamente. Ah, e dentro non c’era comune veleno per topi.”
“Che cosa c’era?”
“Grossi granuli biancastri e rombici, simili al sale. Ti dice nulla?”
Dalla borsa di tela nera Niki estrasse un secondo oggetto, questa volta un contenitore di plastica assolutamente minuscolo che si rivelò contenere alcuni granuli biancastri e inodori. Accigliato, Moos guardò i chicchi prima di tornare ad osservare la vicina, dubbioso:
“Questo è sale.”
“Non credo proprio che sia sale. Sembra sale. Non è affascinante come una delle sostanze più tossiche che esistano possa essere confuso così facilmente con qualcosa di così banale? Certo, se sei convinto che sia solo sale lo puoi sempre assaggiare.”
Un sorrisetto si fece largo sul viso di Niki, che allungò di nuovo il contenitore verso il vicino che, invece, si ritrasse in tutta fretta senza smettere di guardarla.
“Stai dicendo che è…?”
Tre giorni prima Montgomery Dawson vagava per i corridoi del palazzo dove entrambi erano cresciuti. Ora Bartimeus si ritrovava a valutare se non fosse stato avvelenato con della stricnina. Il mago si sentì rabbrividire, terrorizzato da quell’ipotesi mentre Niki tornava ad osservare quasi con un che di affascinato i granuli bianchi, sfiorandone uno con un dito mentre annuiva distrattamente.
“Credo proprio di sì. Adesso Bartimeus, concentrati.”
Niki, fino a quel momento in piedi davanti a lui, sedette sul bordo della penisola del divano per ritrovarsi nuovamente alla sua stessa altezza, fissandolo seria ma con un che di eccitato nella voce, quasi la situazione la emozionasse. Moos, invece, era indeciso se sentirsi colpito per il suo acume o in soggezione.
“La stricnina è una delle sostanze più amare che esistano in natura. Ma per essere letale, la dose da assumere non può essere minima. Perciò, il modo migliore per avvelenare fatalmente qualcuno con la stricnina è fare in modo che il sapore amaro venga mimetizzato, così che la povera vittima non smetta di bere o mangiare troppo presto, prima che la dose sia sufficiente a stecchirlo. Ora, pensa ad un alimento così amaro da celare il sapore della stricnina, così amaro che nessuno si farebbe domande, assumendolo.”
“Non vorrai dire…”
Mentre Niki annuiva Moos tornò a guardare il sacchetto di plastica che conteneva il bicchiere da caffè. Un forte senso di nausea si impossessò di lui mentre Niki, di fronte a lui, quasi accennava un sorriso con gli angoli delle labbra. All’improvviso, tuttavia, un altro pensiero si fece strada nella mente del mago, che tornò a guardare la vicina inarcando un sopracciglio, dubbioso e preoccupato al tempo stesso:
Ma tu come le sai tutte queste cose?!”
Quando il mago riportò lo sguardo su di lei, fissandola accigliato, Niki sgranò gli occhi verdi, stringendosi nelle spalle esili prima di liquidare il discorso con un pigro movimento della mano destra:
“L’ho letto in un libro una volta. Rilassati, non sono un’avvelenatrice seriale, se lo fossi non sarei certo qui a dirti tutte queste cose. E poi mandare qualcuno a miglior vita con il caffè… che barbaria. Il caffè è sacro! Io non lo farei mai.”
“Ma perché qualcuno avrebbe voluto ucciderlo? Non era la persona più amabile del mondo, nessuno lo sa meglio di me, ma da qui a ucciderlo?!”
“Beh, tesoro, se lo sapessi non sarei qui, e soprattutto sarei a capo di New Scotland Yard, dammi tempo cazzo!”
“Ma io ho… ho sentito parlare di sangue. Se è stato avvelenato, perché hanno trovato del sangue? Non ha senso.”
Disgraziatamente, Niki si sentì costretta a concordare con lui: quel dettaglio vanificava la sua teoria. O forse no. Accigliata, la strega fissò pensierosa il bicchiere di carta ancora stretto tra le sue mani prima di annuire piano, un accenno di sorriso sulle labbra: se non altro, se fosse stato troppo semplice sarebbe stato anche molto meno stimolante.
“A questo non so rispondere. Ma lo saprò presto.”
 

*

 
Orion stava osservando il cielo notturno di New York attraverso il suo telescopio, senza il quale scorgere anche una sola stella sarebbe stato praticamente impossibile a causa dell’inquinamento e delle luci della metropoli. Arthur, il suo gufo bruno, se ne stava ancorato con gli artigli al trespolo di legno, i grandi occhi color ambra spalancati, vigili e fissi sul padrone, forse chiedendosi che cosa stesse borbottando tra sé e sé il suo umano mentre osservava il cielo attraverso l’enorme finestra ad arco della camera da letto, scarabocchiando e disegnando di tanto in tanto qualcosa su un quaderno nero che galleggiava aperto a mezz’aria accanto a lui.
“Sì Arthur, ho capito, tra poco ti faccio uscire e ti fai un voletto, smettila di lamentarti.”


Quando udì il gufo stridere infastidito per la scarsa considerazione Orion parlò con tono pacato e paziente senza staccarsi dal telescopio, ignorando i lamenti del suo gufo. Doveva sbrigarsi a farlo uscire, se non voleva che Arthur gli planasse dritto sulla testa e gli arruffasse tutti i capelli in segno di protesta, ma prima di distrarsi voleva finire ciò che stava facendo.
“Mh, sì, è proprio un caso che va risolto. Senza se e senza ma.”
Allontanatosi leggermente dal telescopio, Orion gettò una rapida occhiata ai suoi appunti prima di voltarsi in direzione del suo gufo, certo che se non l’avesse fatto uscire a breve qualche vicino sarebbe arrivato a lamentarsi per il baccano. Orion si allontanò dal telescopio per avvicinarsi al suo “coinquilino”, lasciando che Arthur gli salisse sul braccio. Gli accarezzò la testa piumata con due dita mentre si avvicinava alla finestra, parlando con un mormorio assorto mentre guardava la città attraverso il vetro.
“Sai Arthur, credo proprio che qui morirà qualcun altro. Beh, spera che non sia io, perché non lo troverai un altro padrone fantastico come me. Perché mi guardi così? Pennuto ingrato.”
Ad Arthur delle riflessioni del padrone ovviamente non importava nulla, tutto quello che voleva era uscire per farsi un voletto notturno, e ben presto Orion lo accontentò, aprendo la finestra con un sospiro per permettergli di volare fuori dall’appartamento. L’ex Tuonoalato rimase davanti alla finestra aperta per qualche istante, guardando il gufo allontanarsi finchè la sagoma di Arthur non si confuse con l’oscurità che aveva avvolto la città, sparendo dalla sua vista. Mentre chiudeva lentamente la finestra Orion pensò alla morte di Montgomery Dawson, alle brutte sensazioni che aveva avuto per tutta la settimana precedente e a come molto di rado si sbagliasse con le sue “previsioni”.
 

*
 

“Esci, emh, dalla porta o preferisci… la finestra?”
Mentre Moos accennava in direzione della porta Niki, raccolte tutte le cose che aveva con sé, si stava sistemando il cappuccio nero della felpa sulla testa. La strega esitò, guardando prima la finestra del soggiorno da cui era entrata e poi la porta, facendo spallucce prima di sistemarsi la borsa in spalla e avvicinarsi verso il vicino sprofondando le mani nell’unica tasca centrale della felpa.
“No, credo che prenderò le scale. Poco male, sono sempre deserte perché tutti prendono l’ascensore. Ciao ciao Bartimeus, grazie per il consulto.”
Niki superò il vicino dandogli un paio di colpetti sulla spalla e senza voltarsi indietro, ma quando aprì la porta Bartimeus la trattenne prendendole delicatamente il braccio: si stava facendo assillare dai dubbi fin da quando aveva visto la vicina seduta sul suo divano, e aveva bisogno di sapere diverse cose, prime tra tutte come facesse a conoscere dettagli privati della sua vita quando non si erano mai rivolti la parola prima di quella sera, e come e perché avesse conosciuto Montgomery così bene.
“Aspetta. Come conosci Montgomery? Non mi ha mai parlato di te.”
Fino a un’ora prima non avrebbe mai nemmeno lontanamente immaginato che Montgomery potesse conoscere la vicina del 13B, men che meno che quella stessa vicina, che non aveva mai nemmeno visto in faccia prima di quella sera, avrebbe finito col suggerirgli che Montgomery fosse stato ucciso, e anche come. Mentre Niki si voltava lentamente verso di lui Bartimeus la guardò di rimando, implorante: era difficile convivere con il fatto che fosse morto, ma la consapevolezza di non sapere pezzi importanti della sua vita rendeva la situazione, se possibile, anche peggiore.
Niki tuttavia restò in silenzio e invece di soffermarsi con lo sguardo su di lui abbassò gli occhi verdi sulla mano del vicino che le stringeva il braccio, e dal modo in cui la sentì irrigidirsi sotto la sua presa Moos intuì che alla strega non piacesse affatto essere toccata. Prima che potesse lasciarla spontaneamente Niki si liberò da sola della stretta senza dire nulla e con un leggerissimo strattone, dopodiché tornò a guardarlo e accennò un debole sorriso, guardandolo come se fosse quasi dispiaciuta per lui:
“Mi dispiace, ma si potrebbe scrivere un libro, con tutte le cose di cui non ti ha mai parlato.”
 
Per un istante Moos ebbe come l’impressione che volesse dirgli qualcos’altro, ma Niki tacque e dopo una breve esitazione si voltò, uscendo dal 6A lasciandosi la porta aperta alle spalle, permettendo al vicino di guardarla allontanarsi. Aveva attraversato una decina di metri quando il mago parlò, richiamando nuovamente la sua attenzione:
“Scusa, ma tu chi saresti?”
Moos nutriva ben poche speranze sul fatto che la vicina potesse realmente dargli retta, fermarsi e rispondere alla sua domanda, ma Niki lo fece, fermandosi prima di voltarsi verso di lui e fissarlo di rimando, studiandolo prima di stringersi debolmente nelle spalle esili coperte dalla felpa nera troppo grande:
“Io sono Niki. Ah, ti sarei molto grata se tu non dicessi ad altri quello di cui ti ho parlato. Del fatto che conoscevo Montgomery. Pensi di poterlo fare?”
Mentre Niki lo fissava, le mani in tasca e il cappuccio della felpa sollevato, Moos si chiese se davvero esistesse la possibilità di rispondere negativamente: quella aveva tutta l’aria di essere una persona che non aveva nessuna voglia di contrariare.
“Immagino di sì.”
“Bene. Grazie.”
Niki indugiò nel bel mezzo del corridoio, osservandolo brevemente in viso prima di voltarsi e dirigersi verso le scale, sparendo poco dopo dalla visuale di Moos, che tornò nel suo appartamento per nulla invogliato a cenare e più confuso di quanto non fosse già stato fino ad un’ora prima. La strega invece, mentre saliva le scale due gradini alla volta per tornare al suo piano, si chiese come potesse una persona dall’aria così tenera essere stato affezionato a Montgomery Dawson.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
…………………………………………………………………………………………..
Angolo Autrice:
 
Buonasera!
Per essere solo il secondo questo capitolo è lunghiiiiissimo e onestamente avevo pensato di dividerlo a metà e pubblicarlo in due momenti diversi, ma mi sono presto resa conto che così facendo avreste avuto una metà molto più leggera e una metà molto più densa di informazioni sulla trama vera e propria, quindi ho deciso di tenerlo unito, spero che la lettura non sia risultata pesante per nessuno.  
  • A chi non me lo ha specificato nella scheda chiederei, se volete ovviamente, di scrivermi il compleanno del proprio OC, così oltre a sapere se dovrò festeggiare qualcuno nella storia (che si articolerà durante tutto l’autunno, salvo cambiamenti in corso d’opera dovrei chiuderla alle porte del Natale) Kei potrà fare l’oroscopo a tutti.
Come vi avevo anticipato, ecco qui per voi una bella carrellata di personaggi secondari, a partire dai genitori di Monty:

 
LO SUGAR DADDY*
Nathan Dawson
Attico, statunitense
1685f335e7e70eca670917bd20add663  
LA MAMMINA
Joanna Dawson
Attico, inglese
dd4031e9ec20a5ecbfe285013e98b947  
LA GURU INDIANA SFRACELLAOVAIE
Kamala Sharma
8B, indiana
ef438a1735b30549fb42a875b1b29747  
IL BRITISH DENTISTA
Barry White
10B, inglese
4a295fd4879183027bc8681a18808ad6  
IL GOLDEN BOY
Spencer Allen
12A, statunitense
996d01b5fb496a6a109f7bbf4c58a4f8  
LA EX
Samantha Wright
10A, statunitense
25781eba853c617846b9bd129b2c5f4f  
LA VECCHIA BASTARDA
Emily Turner
13C, inglese
97a24c2519a32c071b08075d5e4e592f  
Scusa Judi ti amo
 
IL MANZAVVOCATO
Harrison Lee,
14A, statunitense
2b1bc3b85dfd98803ed2630f040331cf  
LA MILF
Isabela Gutierrez
11A-B-C, messicana
f70f369d9b2c929a0f65bf87c4af9b0d  
IL FIGLIO MINCHIONE DELLA MILF
Jeremy Gutierrez
11A-B-C, statunitense
6e1e36306b20c21db17fc5f9a1d89733  
 
Ci tengo a precisare che i soprannomi, con cui li chiamerà anche nel corso della storia, li ha coniati Niki, quindi se sono volgari/stupidi sapete perché.

*: Non è davvero uno Sugar Daddy, è Niki che è cretina.
 
 
 
+ Walter e Meggy, perché dove vai se un trio di Auror non ce l’hai?
 
waltmegan
 
 
E chiudiamo con l’adorabile cuginetta Nia, aka best personaggio secondario della storia:
 
Nia Van Dyk
19 anni, ex studentessa di Uagadou
Nia  
 
 
Infine ve l’avevo promessa, quindi eccola qui, spero vi possa essere utile per capirvi meglio.
 
  A B C D E
15° Nathan & Joanna Dawson
14° Harrison Lee Montgomery   Mathieu  
13°   Niki  Emily Turner   Carter
12° Spencer Allen   Esteban    
11° Isabela & Jeremy Gutierrez Naomi Piper
10° Samantha Wright Barry White      
Orion        
  Kamala Sharma      
Gabriel Kei      
Bartimeus   Eileen    
  Jackson      
    Leena    
             

 
Detto ciò vi saluto, a presto e grazie per le recensioni!
Signorina Granger
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 3 - 13 piccoli condomini ***


Capitolo 3
 13 piccoli condomini
 
 

 
Credo che l’insonnia si possa considerare a tutti gli effetti una forma di tortura psicologica. Ci ho ragionato a lungo, visto che il tempo di pensare non è mai mancato mentre fissavo il soffitto, e sono giunta a questa conclusione.
Se potessi prenderei l’uomo che odio di più al mondo e lo costringerei a rigirarsi su un materasso per ore ed ore, affogando nella consapevolezza che tutto il mondo a parte te sta sognando beato e precipitando così nella più crudele angoscia. Per qualche motivo, quando non dormi, ti piombano addosso tutti i pensieri più spiacevoli e all’improvviso tutti i tuoi rimpianti, tutti i suoi sbagli, tutto ciò che ti fa soffrire e tutte le figure di merda che hai fatto ti attraversano la mente come proiettili.
Se poi hai una mente piena di pensieri come la mia, allora sei rovinato. Magari è proprio questo il mio problema, troppi pensieri. Devo molto al mio cervello, mi ha salvato il culo più e più e volte, certo, ma a volte vorrei dirgli di farsi un riposino, cazzo. Chissà, forse le persone stupide dormono meglio. Dev’essere così, perché se hai meno pensieri, hai anche meno problemi. Se è così, quello stronzo di D dormiva come un angioletto.



 
 
Venerdì 17 settembre

 
L’orologio digitale del costosissimo forno mai utilizzato del 13B – l’inquilina dell’appartamento non aveva idea di come si accendesse – segnò le 4.17 quando Niki gli lanciò l’ennesima occhiata esasperata, indecisa se prendere il muro della cucina a testate e auto-provocarsi uno svenimento o se continuare a misurare la stanza con lunghe falcate, i piedi nudi che calpestavano il parquet metro dopo metro. Era passata un’ora da quando la strega, rassegnatasi all’idea di trascorrere un’ennesima notte insonne, si era alzata dal letto dopo essersi rigirata per il doppio del tempo sul materasso, finendo col ridurre le lenzuola ad una stropicciatissima massa informe che ora giaceva ai piedi del letto. Un’ora, e ancora stentava a sentirsi stanca.
Una volta il tizio che viveva sotto di lei aveva bussato alla sua porta per lamentarsi delle sue passeggiate notturne. Dopo essere rimasto imbambolato a fissarla per un paio di secondi come da manuale, le aveva chiesto di smetterla di misurare l’intero perimetro del suo appartamento una notte sì e una notte no. Decisa a non avere rogne e di avere a che fare con i suoi vicini il meno possibile, aveva avuto la brillante idea di insonorizzare con la magia il pavimento del 13B. Peccato che, quando aveva iniziato ad occupare le sue notti insonni guardando a profusione Sex and The City sul suo PC, la vecchia bisbetica della porta accanto si era lamentata del volume troppo alto. Ciò costituiva un fatto semplicemente sensazionale: quella vecchia acida viveva circondata da pappagalli che strillavano senza sosta, ma le dava fastidio il volume del suo PC. Peccato che quando Niki aveva tentato di farglielo notare – avanzando la possibilità che l’udito della donna potesse costituire un caso raro da sottoporre a degli studi – la Signora Turner le avesse lanciato la sua solita occhiataccia gelida prima di sbatterle la porta in faccia.
Appurato di vivere in un covo di rompicoglioni selezionati con la massima cura dall’elenco completo dei più grandi rompicoglioni d’America, Niki aveva iniziato a trascorrere il tempo ascoltando i suoi amati podcast true crime o divorando libri. Fermatasi di fronte a uno dei due soli elementi di tutto l’appartamento che amasse e a cui tenesse sinceramente, ovvero l’enorme libreria che occupava lo spazio tra due delle finestre dell’open space, i grandi occhi verdi di Niki solcarono nella semioscurità le quarte di copertina dei suoi volumi appurando con amarezza di averli letti tutti: solo il giorno prima aveva letto Misery, l’ultimo acquistato, dall’inizio alla fine.
L’unico aspetto positivo dell’insonnia era che la sua difficoltà a dormire l’aiutava a portare a termine i due soli elementi della sua lista di cose da fare prima di morire: leggere tutti i libri di Stephen King e di Agatha Christie. La lista di tutti i titoli era appesa al frigo con un magnete a forma di bagel, circondata da una miriade di post-it colorati, e non le mancavano poi molti titoli. Forse sarebbe riuscita a portare a termine qualcosa nella sua vita, dopotutto.
Gli unici volumi che non fossero intrisi di angoscia, morti, sangue e omicidi della libreria erano quattro libri consunti e dalle pagine ingiallite infilati all’estremità destra dello scaffale più basso in modo che il suo sguardo si posasse su di essi il meno frequentemente possibile: erano i libri che possedeva da più tempo, ma di guardarli e prenderli in mano non le andava quasi mai, seppur un tempo li avesse amati molto.
Niki si spostò di nuovo verso la cucina, allontanandosi dalla libreria, per recuperare il telefono che aveva abbandonato sul ripiano dell’isola nera. Si issò facilmente a sedere sul legno grazie alla lunghezza superiore alla media delle sue gambe e prese il telefono per ordinare altri sette o otto libri che avrebbe sicuramente letto in poco più di una settimana, come al solito. Del resto non aveva toccato un libro per dodici anni, aveva fin troppo tempo da recuperare.
 
Un debole e fugace accenno di sorriso incurvò gli angoli delle labbra carnose di Niki verso l’alto quando sullo schermo luminoso, l’unica fonte di luce dell’appartamento avvolto dall’oscurità, lesse l’avviso che la informava che i suoi libri sarebbero arrivati entro un paio di giorni. Peccato che per il momento il problema sussistesse: non era affatto stanca, non aveva nessuna pagina di carta stampata su cui riversare la propria concentrazione e aveva ancora due ore davanti a sé prima di poter uscire dall’Arconia e fare qualsiasi cosa con la luce del giorno.
Anzi, tre ore, si disse la donna arricciando il naso con stizza: prima delle sette non avrebbe trovato nulla di aperto e di conseguenza nulla da mettere sotto i denti e come al solito il suo frigo era vuoto. Niki si accasciò lentamente all’indietro con un sospiro finchè schiena e nuca non incontrarono la superficie liscia del ripiano del mobile, permettendole di tornare a fissare il soffitto buio come già ore prima era stata costretta a fare. Aveva disperatamente bisogno di qualcosa da fare o avrebbe finito con l’annegare nei suoi stessi pensieri, così allungò la mano destra alla cieca per prendere nuovamente in mano il suo telefono. Rimase a fissare la foto che aveva impostato come sfondo per una manciata di secondi, dopodiché prese a scorrere con pigrizia l’elenco dei podcast true crime più recenti. Stava cercando di decidere cosa ascoltare – My favorite Murder per l’ennesima volta, o la seconda stagione di In the Dark? – quando un mite miagolio attirò la sua attenzione, portandola a sollevarsi leggermente e a distogliere lo sguardo dallo schermo del telefono per guardare la gatta dai grandi occhi verdi e il pelo castano-rossiccio che le si stava avvicinando muovendo sinuosamente la coda.
“Cucciola. Anche tu non dormi?”
Alla vista della gatta Niki sorrise, abbandonò nuovamente il telefono per scivolare dall’isola e si avvicinò a Carrie per prenderla in braccio; depositò un bacio sulla sua testa mentre si allontanava leggermente dalla cucina, piazzandosi davanti alla grande portafinestra bianca a destra della libreria per osservare uno scorcio di Central Park e degli alti palazzi dell’Upper East Side senza smettere di accarezzarle lentamente le orecchie.
La città che non dorme mai.” 
Un po’ come te
Niki osservò Manhattan e le luci dei lampioni di Central Park mentre un accenno di sorriso le incurvava con amarezza le labbra verso l’alto. Il suo odio per quella città, quella dove milioni di persone in tutto il mondo sognavano di vivere, era direttamente proporzionale solo alla sua incapacità di dormire.
 
Dopo un tempo apparentemente interminabile la strega si voltò e indirizzò nuovamente lo sguardo verso l’orologio digitale del forno mentre Carrie faceva le fusa tra le sue braccia, ma erano solo le 4.40 e a dividerla dalle prime luci dell’alba c’erano ancora un paio di lunghe ore.  Questa volta, tuttavia, l’attenzione di Niki venne catturata anche dalla data corrente, e una smorfia finì con arricciarle le labbra quando appurò quale giorno della settimana fosse: quasi tutti i cittadini di New York dormivano ancora apprestandosi inconsapevoli ad iniziare un altro venerdì. Uno stramaledettissimo venerdì 17.
Considerando che veniva colpita dalla sfiga ogni giorno della settimana di ogni mese di ogni singolo anno e che il suo vicino del piano di sopra era morto quella stessa settimana, Niki poteva solo immaginare che cosa quella giornata avrebbe potuto riservarle.
Col culo che aveva la sorella gemella della Turner si sarebbe trasferita nell’appartamento di Montgomery. Magari una collezionista e amante di Acromantule o serpenti velenosi invece che di uccelli tropicali. Perché no.
“Che vita di merda.”


 
*
 
 
6.40 am, due ore dopo
6° piano

 
 
Le giornate di Bartimeus Jr Thomas iniziavano sempre tutte allo stesso modo: apriva gli occhi alle sei del mattino, controllava il tempo atmosferico grazie al soffitto della sua camera, incantato per rappresentare fedelmente il cielo della città, rotolava con uno sbuffo giù dal letto, si infilava la vestaglia per non avere freddo e dopo aver controllato che Jam fosse nella sua tana ciabattava fino in bagno con le sue comodissime e morbidissime pantofole-pecorelle.
Ogni giorno Bartimeus entrava in quel bagno dalle pareti ricoperte da piastrelle color verde foresta per lavarsi il viso e cercare di svegliarsi, ma quel venerdì mattina si ritrovò ad aprire il rubinetto e a fissare immobile il getto d’acqua per alcuni istanti, le mani strette attorno ai bordi bianchi del lavabo immacolato.
 
“Scale antincendio. Mi dispiace averti turbato, credevo che quello fosse il tuo modo preferito di ricevere visite.”
 
Le sopracciglia del mago si aggrottarono per una frazione di secondo mentre ripensava al bizzarro incontro della sera prima, quando una vicina sconosciuta si era letteralmente intrufolata in casa sua per palargli di Montgomery. Era stato un incontro così surreale che si era chiesto più volte se non l’avesse sognato, ma alle luci del giorno seguente appariva chiaro che non era così. Moos ripensò al modo con cui la strega era entrata nell’appartamento e alla sua sottile allusione alle scale antincendio con un fastidioso nodo allo stomaco.
Chi era e come faceva a sapere quelle cose? Cose che nessuno sapeva. Neanche Naomi.
Moos sollevò lo sguardo per guardare il proprio riflesso nello specchio circolare appeso alla parete e per un attimo, mentre osservava le leggere occhiaie che rimarcavano la scarsa quantità di sonno che aveva alle spalle, gli tornarono in mente i grandi occhi verdi e il sorriso beffardo della strega. Il modo in cui aveva sorriso e lo aveva guardato la sera prima gli diceva che sapeva anche altro sul suo conto.
 
“Pensi che Montgomery si sia tolto la vita? Non credo che sia così.”
“Non credi che si sia ucciso?”
“Anche
Ma mi riferivo al fatto che sono sicura che non lo credi neanche tu.”
 
L’aspetto più assurdo di quella situazione era che la sua vicina non sbagliava. Non aveva idea di come fosse possibile, ma era così: l’ipotesi che Montgomery avesse potuto davvero togliersi la vita non l’aveva convinto nemmeno per un istante.
 
“Ci sono tre persone in questo posto che lo conoscevano bene. O meglio, persone che credo non possano essere responsabili della sua morte. La prima è il tizio asiatico che vive al 7° piano, la seconda sei tu. La terza, beh, sono io.”
 
Da quando quella bizzarra ragazza sempre vestita di nero e con gli occhiali da sole a coprirle parzialmente il volto si era trasferita il pensiero che potesse conoscere Montgomery non lo aveva mai minimamente sfiorato: non li aveva mai visti insieme, neanche una volta. Nemmeno in ascensore. E nelle rare occasioni in cui aveva scambiato qualche parola con il suo vicino – ex, si costrinse a ricordarsi con un sospiro mentre allungava le mani a coppa verso il getto d’acqua tiepida – lui non aveva mai fatto cenno a lei. Moos non aveva mai visto in faccia la sua vicina prima di quella sera, e negare che fosse bellissima sarebbe stato come negare la sua innata passione per le piante: semplicemente ridicolo.
Era strano immaginare Montgomery non alludere e non far cenno di conoscere una donna così bella. Probabilmente Montgomery se ne sarebbe vantato, in qualche modo.
Moos si chinò per bagnarsi il viso con le mani e strofinarsi gli occhi, chiudendo il rubinetto con un basso sospiro prima di allungare una mano in direzione dell’asciugamano in un gesto fin troppo abitudinario per aver bisogno di voltarsi. Dopo essersi tamponato lentamente il viso il mago indugiò con lo sguardo sull’asciugamano color borgogna, ripensando alle parole della bizzarra strega che aveva incontrato la sera prima e alla sua estrema sicurezza nell’affermare che Montgomery fosse stato ucciso. O dava i numeri o sapeva qualcosa che a lui sfuggiva, per esserne tanto sicura. Oppure era paurosamente sveglia, difficile dire quale fosse l’opzione più probabile.
Quando sentì suonare il campanello Moos si voltò verso la porta aperta del bagno senza smettere di asciugarsi le mani, riappendendo l’asciugamano al gancio prima di uscire dalla stanza e dirigersi verso la porta d’ingresso trascinando rumorosamente la base delle pecorelle bianche sul pavimento. Aprì la porta con una leggera apprensione – temendo un po’ la sua vicina del 13° piano, un po’ il killer di Montgomery – che si tramutò rapidamente in sollievo quando i ricci capelli castani e gli occhi verdi di Naomi fecero capolino sulla soglia, portandolo a sorridere d’istinto all’amica:
“Buongiorno Naomi.”
“Ciao tesoro. Sto andando a passeggio con Sundance prima di andare al lavoro, volevo chiederti se vieni a correre al parco.”
“Oggi lavoro di pomeriggio, quindi passo.”
Moos si protese in avanti per accarezzare la testa di Sundance con entrambe le mani, sorridendo mentre il Golden Retriever cercava di assalirlo scodinzolando e la sua padrona invece, non condividendo affatto l’entusiasmo del cane, sospirava rumorosamente prima di scoccargli un’occhiata severa e ammonitrice:
“Lavori di pomeriggio e sei già sveglio?! Moosy, quante volte te lo devo dire che dovresti dormire un paio d’ore in più? Il tuo ostinarti ad alzarti presto è vergognoso.”
“Lo so che sono pieno di difetti, ma so anche che mi vuoi bene comunque.”
Mentre Naomi scuoteva la testa con disapprovazione – la strega odiava alzarsi presto e potendo sarebbe rimasta a letto fino a tardi ogni giorno – Moos ricambiò lo sguardo dell’amica sfoggiando la sua espressione più mite e adorabile, finendo col guardarla addolcirsi come sempre prima di annuire e alzarsi in punta di piedi per scoccargli un bacio su una guancia:
“È ovvio, come si fa a non volerti bene. Vado prima di buttarmi sul tuo divano e addormentarmi, buona giornata. Hai fatto colazione?”
“Ora la faccio, non temere, sono molte cose ma non denutrito. L’anatra che hai fatto ieri me la tengo per pranzo.”
Moos accennò ingenuamente un sorriso, ma capì di aver fatto un madornale errore quando vide l’amica sgranare gli occhi verdi e coprirsi inorridita le labbra con la mano destra invece di voltarsi e dirigersi verso l’ascensore come si stava accingendo a fare prima che l’amico parlasse, quasi dimenticandosi di dover portare Sundance a fare una passeggiata:
Vuoi dire che ieri non hai cenato?!”
“N-non avevo molto appetito in realtà, ma non è un dramma… Naomi, sto benissimo!”
Moos aveva cercato di arretrare per mettersi al riparo, ma Naomi si era già protesa verso di lui per mettergli una mano sulla fronte e misurargli la temperatura con espressione critica ed allarmata al tempo stesso, borbottando che doveva esserci qualcosa che non quadrava quando non lo sentì scottare.
La verità era che dopo la sua chiacchierata con Niki e le allusioni alla morte di Montgomery per avvelenamento la fame gli era passata, ma non era qualcosa di cui voleva parlare. Non in quel momento e non a quell’ora.
“Sto bene, ma ogni tanto è lecito non avere fame!”
“Non dire queste eresie ad alta voce, mia nonna potrebbe sentirti e Materializzarsi qui portando con sé centinaia e centinaia di casseroles(1)!”
“Ma tua nonna non vive in Louisiana?!”
“Appunto!”
Come i Broussard anche il ramo paterno della famiglia di Moos era originario di New Orleans, pertanto l’ex Serpecorno era ben cosciente di che cosa potesse essere capace una nonna del Sud: una nonna del Sud aveva un udito bionico e sarebbe stata in grado di compiere atti indicibili pur di sfamare qualsiasi essere vivente con il cibo più calorico, saporito, speziato e fritto mai visto negli Stati Uniti d’America, perciò il mago si affrettò a giurare a Naomi che avrebbe recuperato il pasto perduto la sera prima di ricordarsi improvvisamente di dover dare da mangiare a Jam, salutare l’amica e Sundance e poi sparire dietro la porta del 6A. Naomi era una delle persone più testarde e argute che avesse mai conosciuto, e ancor peggio era avvocato: combinando quelle caratteristiche si otteneva la sua vecchia compagna di banco, in grado di smascherare le sue bugie più rapidamente di chiunque altro.
Mentre Moos, all’interno del suo appartamento, tirava un profondo sospiro – sapeva di non averla scampata, con Naomi non si poteva mai scamparla, ma per il momento poteva ancora ripensare con calma alla sua conversazione con la strana vicina del 13° piano – prima di staccarsi dalla porta e ciabattare verso la cucina Naomi, in corridoio, scosse lentamente la testa con disapprovazione prima di gettare un’occhiata a Sundance e strattonare dolcemente il guinzaglio per invitare il cane a seguirla:
“Quello lì non ce la racconta giusta, cucciolone. Andiamo, tanto scoprirò la verità, Moosy è il peggior bugiardo del mondo.”
 

 
*
 
 
Starbucks, Amsterdam Ave
 
Jackson sedeva su uno degli alti sgabelli neri disposti attorno ad un tavolo quadrato occupato da un piattino pieno di dolci e due bicchieri di caffè caldo, di cui uno riportava il suo nome scarabocchiato con un pennarello nero e l’altro quello della persona che stava aspettando per fare colazione.
Il ragazzo stava tamburellando ritmicamente le dita della mano destra sulla superficie lignea mentre con la sinistra si reggeva pigramente il capo, impegnato a guardarsi attorno cercando una delle sue migliori amiche. Quando finalmente scorse Piper varcare l’ingresso di una delle loro principali mete fisse, soprattutto quando facevano colazione insieme, il veterinario accennò un sorriso con gli angoli delle labbra carnose e sollevò la mano destra per salutare l’amica e attirare la sua attenzione, sorriso che finì con l’allargarsi progressivamente man mano che la ragazza si avvicinava facendo lo slalom tra tavoli e sedie.
“Buongiorno Jackie, scusa il ritardo, Bizet aveva preso le chiavi per giocare e non me le voleva ridare, poi Nia ha occupato il bagno per venti minuti perché “il professore della prima lezione è bello e deve farsi carina”…”
Piper giunse davanti all’amico esalando un profondo sospiro – la giornata era iniziata da poco e già ne aveva abbastanza –, appoggiando un enorme borsone fucsia su uno dei due sgabelli rimasti liberi prima di sfilarsi gli occhiali da sole dal viso e sistemarseli con cura tra i capelli in tinta con la borsa e legati in uno stretto chignon.
“Beh, questa suona proprio come una priorità. Tranquilla, ti ho già preso un donut al caramello e un mocaccino.”
Quando scorse il bicchiere con il suo nome scritto sopra Piper sembrò illuminarsi, e rivolse un gran sorriso all’amico prima di appoggiarsi le dita della mano destra sulle labbra e scoccargli un bacio aereo. Jackson guardò le lunghe unghie gialle dell’amica chiedendosi per l’ennesima volta come riuscisse a mangiare o fare qualsiasi cosa con quelle senza procurarsi delle lesioni profonde un giorno sì e l’altro pure, ma si astenne dal chiederlo mentre Piper cercava di salire sullo sgabello riscontrando qualche leggera difficoltà a causa dei tacchi a spillo rosa che indossava.
“Ed è per questo che ti adoro. Anche se, Jackie, avresti anche potuto prendere un dannato tavolo di altezza normale per persone normali, cavolo! Chi ha inventato questi tavoli doveva essere stato cornificato da una donna molto minuta!
“Scusa Piper, ma se dovessi prendere un tavolo basato sulle tue misure, dovrei chiederne uno in prestito ai lillipuziani…”
Jackie celò un sorrisetto portandosi il suo bicchiere alle labbra, cercando di non ridere per evitare di farsi andare di traverso il caffè e sputacchiare ovunque quando l’amica – riuscita finalmente a sedersi di fronte a lui – gli lanciò un’occhiataccia e sollevò il dito medio.
“Ti informo che la mia altezza è perfettamente nella media. Ti perdono solo perché mi hai preso il Mocaccino.”
“Oggi che cosa fai?”
“Finito qui vado in palestra, devo smaltire questo cibo delizioso e ipercalorico… alle 10 ho uno shooting, pranzo con Nia, poi devo andare nel Village per provare e selezionare dei vestiti per una sponsorizzazione… ma dovrei tornare a casa presto, per una volta. Non vedo l’ora di rintanarmi sul divano con Bizet, detesto andare in palestra.”
Piper masticò il suo delizioso, zuccherato e caloricissimo donut pensando con amarezza alla fatica e al sudore che l’aspettavano di lì a breve: avrebbe volentieri passato le ore prima dello shooting standosene in ammollo nella vasca da bagno o distesa sul divano guardando una serie tv, era una vera disdetta che il suo lavoro richiedesse subire quel supplizio cinque volte alla settimana. Fortunatamente la settimana lavorativa stava per volgere al termine e con quella anche la sua dose settimanale di esercizio fisico.
“Piper, ma ti sei vestita così per andare in palestra!? Non potevi andarci già cambiata, a quest’ora del mattino?”
Jackson appoggiò il bicchiere sul tavolo per prendere il suo bagel e addentarlo scoccando un’occhiata perplessa al top bianco, ai costosissimi jeans a vita alta e alla giacca di pelle fucsia della sua amica, che sbuffò e sollevò la mano libera per liquidare il discorso con un gesto della mano prima di addentare a sua volta il donut al caramello:
“Jackie, è venerdì 17. E io sono io. Hai idea di che cosa potrebbe succedere se un bel giorno decidessi di uscire di casa in tuta e arrivare in palestra così? In palestra apparirebbe il personal trailer più bello del mondo e probabilmente il barista di turno somiglierebbe a Brad Pitt.”
“Ok, non fa una piega. A me invece aspetta una mattinata con Cherie e gli altri puma.”
A differenza di Piper, che avrebbe quasi preferito fare le faccende domestiche e lavare i vetri piuttosto che andare in palestra, Jackson sfoggiò un candido sorriso sognante nel pensare alla sua adoratissima amica a quattro zampe, già pregustandosi il suo caloroso benvenuto mentre Piper, invece, lo osservava inarcando il curatissimo ed impeccabile sopracciglio sinistro:
“Mi spieghi perché non lavori nello zoo di Central Park? È mille volte più vicino a dove abitiamo rispetto al Bronx, sarebbe molto più comodo per te.”
Piper si allungò sul tavolo per rubare un pezzettino di Bagel all’amico, che però non ci fece caso e la lasciò fare mentre appoggiava entrambi i gomiti sul tavolo stringendosi nelle spalle:
“Con i mezzi ci vorrebbe una vita, è vero, ma per fortuna siamo maghi. E poi non so quante volte dovrò ripeterlo a chiunque, mia madre inclusa: lo zoo del Bronx ha molti più felini.”
“Sai che c’è? Non fa una piega, infatti non vedo l’ora di venirti a trovare e vedere tutti i tuoi amici pelosi. Spero solo che Bizet non si ingelosisca, è un tantino egocentrico.”
“Chissà da chi ha preso…”
Di nuovo, Jackson parlò in un sussurro e nascondendosi dietro il suo caffè, celando un sorriso quando Piper prese a lisciarsi i capelli fucsia sulla nuca scoccandogli un’occhiata di sbieco.
Piper avrebbe disperatamente voluto restare a chiacchierare e spettegolare con Jackson per il resto della mattinata, e fu a malincuore che una decina di minuti dopo scivolò giù dallo sgabello – con tutta la grazia possibile e sperando vivamente che nessuno l’avesse vista quando aveva rischiato di inciampare – e recuperò il suo borsone per issarselo in spalla:
 
“Allora ci sentiamo stasera, mandami una foto di Cherie se riesci… Fammi gli auguri, oggi mi aspettano i burpees(2).”
Il tono profondamente e sinceramente addolorato di Piper impietosì Jackson, che le mise una mano sulla spalla e la guardò con compassione come se la stesse salutando prima di imbarcarsi oltreoceano:
“Oh povera piccola, ti penserò molto intensamente. Io mi prendo un bagel al salmone per pranzo e poi mi Smaterializzo.”
“D’accordo, Salmoncino(3)… Buona giornata. La prossima volta offro io!”
Di nuovo, la strega indirizzò un bacio aereo all’amico prima di rivolgergli un ultimo sorriso, inforcare gli occhiali da sole e infine allontanarsi per uscire dalla caffetteria gremita. Jackson la guardò allontanarsi aspettando che fosse uscita prima di imitarla, scendere dallo sgabello – con meno difficoltà grazie all’assenza dei tacchi a spillo – e dirigersi nuovamente verso il bancone. Ancora non sapeva se Salmoncino, dopo anni da quando Piper aveva iniziato a chiamarlo così, gli piacesse come nomignolo. Ma era sempre meglio degli epiteti che a volte gli rivolgeva sua madre.

 
*

 
M.A.C.U.S.A.
Redazione del Magic Times

 
 
James Carter Cross, seduto mollemente sulla sua sedia girevole nera con i gomiti piantati sui braccioli e le gambe lunghe distese sotto alla scrivania, scoccò un’occhiataccia in direzione di una delle colleghe che in assoluto meno sopportava: Rosemarie Blanchard, con il suo odioso e falsissimo sorriso adorabile e un orrendo nastrino rosa e bianco tra i capelli, stava distribuendo dei profumatissimi cupcake alla vaniglia dall’aria deliziosa a tutto l’ufficio. Tutto l’ufficio tranne lui, ovviamente, ignorato deliberatamente e saltato di proposito per impedirgli di mettere le mani sui bei dolcetti.
Forse Rosemarie non aveva dimenticato quando, un mese prima, Carter aveva assaggiato una delle sue crostate per poi dire a tutti quanto facesse schifo. Forse un po’ se l’era anche meritato, di essere escluso dai dolci che la ragazza portava al lavoro tutte le settimane, ma Carter la trovava sempre e comunque un’insopportabile so-tutto e quello non sarebbe mai cambiato.
 
“Scusate? Il capo vuole parlare con “quello o quella che vivono nel palazzo dove è morto il figlio di Nathan Dawson”…”
Carter si immobilizzò sulla sedia per una manciata di secondi prima di voltarsi di scatto verso Rosemarie, che ancora teneva in mano il vassoio con i cupcake sopravvissuti all’assalto dei loro colleghi. La giovane strega ricambiò il suo sguardo, gli occhi chiari finemente truccati spalancati a loro volta, ma Carter ebbe la prontezza di riflessi di alzarsi prima di lei e schizzare rapido verso l’ufficio del redattore.
“No, Cross, non pensarci neanche, ci vado io!”
Imprecando con un filo di voce, Rosemarie – che abitava al sesto piano dell’Arconia – spinse il vassoio tra le braccia del collega più vicino e si gettò all’inseguimento del collega e vicino di casa, che però era già quasi giunto alla porta dell’ufficio dalle pareti di vetro del loro capo.
“Non se arrivo per primo, lumacona sforna biscottini!”
Se c’era un lavoro in palio Carter non se lo sarebbe certo fatto fregare da quella specie di confetto ambulante, e fu con un largo sorriso vittorioso che bussò alla porta prima di aprirla, entrare nell’ufficio e chiudersela alle spalle mostrando il dito medio alla sua vicina.
Sei un grandissimo…”
Ma che cosa fosse di preciso Carter non lo seppe mai e nemmeno gli importò, perché chiuse la porta prima che Rosemarie potesse finire di parlare, rivolgendole un sorrisetto e una rapida strizzatina d’occhio prima di tirare la tendina e coprendo così la prete di vetro divisoria dell’ufficio.
Voltandosi Carter rivolse un sorriso allegro al suo capo, un mago di mezz’età dai capelli scuri ormai striati di grigio che scoccò un’occhiata rassegnata a lui e poi a Rosemarie mentre la strega si allontanava dal suo ufficio sbuffando come una locomotiva. L’uomo sospirò piano mentre appoggiava il foglio che teneva in mano sulla sua scrivania, tornando ad osservare Carter con una punta di rimprovero mentre incrociava le braccia al petto:
“Ah, bene, sei arrivato prima tu… Mi è indifferente chi di voi faccia il lavoro, basta che non cominciate a lanciarvi contro delle merendine nell’atrio come due mesi fa. Se proprio dovete, fatelo nel vostro palazzo.”
Carter avrebbe voluto difendersi e sottolineare che aveva cominciato lei osando affermare che i suoi bulldog fossero più carini del suo adorato, splendido, perfetto Sarge, ma l’uomo seduto dietro la scrivania gli suggerì caldamente di non farlo con una sola occhiata esasperata da sopra le lenti dei suoi occhiali, perciò Carter si limitò a sorridere mentre si avvicinava di qualche passo alla scrivania, le mani nelle tasche dei jeans neri:
“Vuole che scriva qualcosa su Montgomery Dawson Signor Reyes?”
“Sì, pare che sia stato un suicidio molto bizzarro e la sua famiglia è ricca e famosissima in città, sai come funziona, la gente vorrà saperne di più.”
“D’accordo, per quando?”
“Lunedì lo mandiamo in stampa, quindi se nel mentre scopri qualcosa inseriscilo. Pensi di poter riuscire a parlare con i suoi genitori?”
“Difficile, sua madre non si fa vedere in giro da quando è morto e suo padre lo incrocio molto di rado, credo che sia spesso fuori per lavoro.”
“D’accordo. Ma se scopri qualcosa, scrivilo. Qualsiasi cosa sia. Conosci qualcuno che potrebbe saperne qualcosa, nel palazzo?”
“Beh…”
Riflettendoci, Carter sapeva che cosa avrebbe dovuto rispondere. Ma l’idea non era affatto allettante.
 
 
Il giorno prima
[Dal capitolo precedente]
“Ehy, dov’è andata?!”
“Non lo so e nemmeno mi importa. Voi che cosa facevate, a casa di Monty?”
L’occhiataccia di Kei trapassò Carter da parte a parte ma l’ex Tuonoalato non si fece intimidire, osservandolo di rimando mentre Eileen, rassettandosi le maniche del blazer, accennava un sorriso in direzione del vicino, conscia che a quel punto mentire non avesse alcun senso:
“Ecco, ficcanasavamo perché pensiamo che non si sia tolto la vita.”
“Davvero? Nemmeno io, perciò siete pregati di dirmi quello che sapete. No, non qui dentro, andiamocene subito… andiamo a casa mia.”
 
 
La porta del 7B si aprì con lo scatto metallico della serratura ma Kei, dopo averla spalancata, invece di precedere i suoi vicini all’interno dell’appartamento rimase nel corridoio, voltandosi verso gli altri quattro per invitarli ad entrare con un lieve cenno del capo, più per impedirgli di darsi alla fuga che per una mera forma di cortesia. Li aveva pur sempre beccati a frugare a casa del suo amico appena morto insieme alla lunatica del 13B e voleva assolutamente saperne di più.
Prune, dal canto suo, non era molto entusiasta all’idea di entrare in un posto nuovo, con tutte quelle persone nuove, e gettò una rapida occhiata preoccupata alla porta aperta prima di sollevare la testa in direzione del padrone, che invece di dargli ascolto e andare al parco lo aveva trascinato in quella situazione confusa. Mathieu, sentendosi osservato, chinò lo sguardo sul cane per osservarlo a sua volta prima di sbuffare, intimargli silenziosamente con un’occhiata di non guardarlo in quel modo e infine precedere tutti gli altri addentrandosi nel 7B.
Carter si affrettò a seguire l’amico assieme ad Eileen e a Leena – mentre varcavano l’ingresso la spagnola accostò leggermente la testa a quella dell’amica, dichiarando in un sussurro che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui andavano a frugare nell’appartamento di un tizio morto – e Kei entrò per ultimo, chiudendosi la porta alle spalle prima di suggerire ai vicini di superare il piccolo ingresso circolare e percorrere il corridoio per raggiungere il soggiorno.
Giunti nell’ampia stanza rettangolare, la parete che si affacciava sull’esterno occupata da ampie vetrate e le altre coperte da fotografie, Kei incrociò al petto le braccia pallide coperte dalle maniche della camicia grigio-blu che indossava, spostando lo sguardo da un vicino all’altro:
“Allora, mi potreste spiegare perché stavate frugando con degli orrendi guanti giallo canarino a casa di Monty?!”
“Lo vedete che sono orribili?! Io ve l’ho detto!”
Carter scosse la testa con stizza mentre si sfilava con gesti plateali gli spessi guanti di lattice dalle mani, giurando a se stesso che mai e poi mai avrebbe nuovamente indossato qualcosa di così giallo e così brutto mentre Leena, in piedi accanto a lui, gli scoccava un’occhiata torva tenendo le braccia strette al petto:
“Ohh, scusa, avresti forse preferito riempire tutto di impronte?!”
Certo che no, ma la prossima volta dovremmo usare quanti che distruggano meno la vista.”
“La prossima volta?! Non ci sarà una prossima volta, in quali altri appartamenti pensate di imbucarvi?!”
Gli occhi scuri sgranati, Kei spostò rapido e sbigottito lo sguardo da un vicino all’altro, osservando Eileen, Carter e Leena scambiarsi occhiate per lui indecifrabili mentre la spagnola si accomodava sul bordo del suo divano.
“Veramente io passavo per caso, infatti non ho i guanti…”
Ma ancora una volta Mathieu si vide costretto ad appurare che nessuno era stato a sentire le sue osservazioni, e si limitò a sospirare prima di imitare Eileen sedendo sull’enorme divano ceruleo che dava le spalle alla parete bianca coperta da ampie vetrate. Leena sedette accanto all’amica occupando il bracciolo puntando i grandi occhi scuri sul padrone di casa, sciogliendo con una mano la coda con cui aveva annodato i lunghi capelli ricci quando era entrata nell’appartamento di Montgomery.
“Senti, mi dispiace per il tuo amico, ma non stavamo facendo niente di male. Ok, una cosa illegale, ma senza cattive intenzioni. Dovresti volerci capire di più anche tu sulla sua morte, no?”
“Se Niki dice la verità su quello che ha sentito in ascensore, dubito che si sia tolto la vita.”
Eileen parlò con una debole stretta di spalle, osservandosi le unghie smaltate con un acceso rosso ciliegia mentre Kei, davanti a loro, spostava lo sguardo sulla strega inarcando un sopracciglio con evidente scetticismo:
“Niki sarebbe la simpaticona alta come un palo della luce? Che cosa dice?”
“Che prima che Monty morisse lo ha incrociato in ascensore, e a sentir lei è assurdo pensare che si sia ucciso, a giudicare da quello che ha sentito. Ma dopo aver parlato con te si è dileguata prima di spiegarsi meglio, quindi…”
Mathieu parlò facendo spallucce mentre accarezzava distrattamente la testa bianca coperta da macchie nere di Prune, che si era seduto sul pavimento davanti a lui, mentre Carter, rimasto in piedi, borbottava qualcosa a proposito della vicina e di quanto acidona fosse.
“Che voi sappiate si conoscevano, lei e Monty?”
“Mai visti insieme. In effetti non l’ho mai vista molto in giro in generale.”    Eileen parlò tornando a stringere le braccia fasciate dal blazer al petto, ritrovandosi ad inarcare il sopracciglio sinistro quando si rese conto di aver incrociato estremamente di rado la vicina in giro per il palazzo da quando si era trasferita.
“Nemmeno io, ma qualcosa in lei non mi convince.”
Lo vedi, non è così assurdo che sia nella protezione testimoni!”
Quando Leena si sporse leggermente verso di lei per mormorare quelle parole con fare concitato Eileen non rispose, limitandosi a trarre un profondo sospiro mentre puntava i grandi occhi chiari sul soffitto bianco del 7B chiedendosi perché quel giorno non si fosse attardata in ufficio un po’ più del dovuto.
“Non ho mai visto Monty il giorno… il giorno in cui è morto. Vorrei proprio sapere che cosa ha visto e sentito.”
Kei sollevò lentamente una mano per passarsela tra i lisci e corti capelli neri, gli occhi scuri fissi sul pavimento ai suoi piedi mentre si sforzava di ricordare la sua ultima chiacchierata con Montgomery, ciò che si erano detti, il comportamento dell’amico e se c’era stato qualche segnale che avrebbe potuto permettergli di prevedere ciò che gli sarebbe capitato. Ma più ci ripensava più Kei si convinceva che l’amico era sembrato esattamente quello di sempre, e per nulla qualcuno in procinto di togliersi la vita.
“Beh...” Mathieu ruppe il silenzio e si guardò attorno, indugiando con lo sguardo su ciascuno dei presenti prima di tornare a concentrarsi su Kei e stringersi nelle spalle:
Possiamo chiederglielo.”
 
 
 
Quando aveva sentito di nuovo suonare il campanello Niki aveva sinceramente sperato che qualcuno fosse giunto da lei per informarla dell’imminente demolizione del palazzo, o magari per dirle che tutti i condomini stavano per trasferirsi dall’altra parte di Central Park. Aveva appena ripulito il cestino di metallo dai resti inceneriti della busta trovata a casa di Montgomery a lei indirizzata quando la strega si vide costretta a voltarsi verso la porta d’ingresso, sbuffare sonoramente e interrompere il suo lavoro per raggiungerla.
Come sempre, la donna non fiatò e non chiese alla sua visita di identificarsi, preferendo accostarsi alla porta per controllare personalmente attraverso il foro circolare dello spioncino. Quando vide non uno, non due, ma ben 5 dei suoi vicini – incluso il tizio del 7° piano che probabilmente meditava di accusarla formalmente dell’omicidio di Montgomery – Niki gemette sommessamente, chiedendosi perché avere un attimo di pace fosse così difficile in quel posto prima di chiedere ai vicini cosa volessero senza aprire la porta:
“Che cos’è, un comitato di benvenuto con sei mesi di ritardo?!”
“No, vogliamo chiederti una cosa.”
“Non vi dirò il nome del mio balsamo, quindi potete anche andare.”
Eileen si lasciò sfuggire un’imprecazione in spagnolo mentre Carter, in piedi alle sue spalle, dichiarava di non averne bisogno in quanto i suoi capelli erano di gran lunga più lucenti di quelli della sua vicina.
L’avete sentita anche voi quella risata sarcastica?! Dimmelo in faccia se pensi che i miei capelli non siano splendidi!”
“Ok tesoro, i tuoi… Ma ciao!”
Niki non criticò mai i capelli di Carter, perché quando aprì la porta per farlo i suoi occhi verdi indugiarono su Prune, portandola a dimenticarsi completamente dei suoi intenti per chinarsi verso l’alano e accarezzargli affettuosamente la testa con entrambe le mani.
Ciao bel signorino, ci rivediamo!”
Mathieu non aveva mai creduto che cambiare completamente tono e timbro di voce tanto drasticamente fosse possibile e si voltò verso Carter con gli occhi chiari sgranati mentre l’amico, invece, scuoteva la testa picchiettandosi brevemente l’indice sulla tempia destra. Niki, una volta resasi conto degli sguardi perplessi su di sé, si affrettò a rimettersi in piedi dritta ergendosi in tutta la sua altezza schiarendosi la voce, tornando a parlare normalmente mentre faceva vagare i grandi occhi verdi sui presenti e soffermandosi su Kei con una leggera punta di irritazione in più:
“Beh, che volete, quindi?”
“Vogliamo chiederti dell’ultima volta in cui hai visto Monty. Loro mi hanno accennato qualcosa, ma vorrei sentirmelo dire da te.”
“… Certo. E immagino che vogliate entrare.”
“Immagini bene. A meno che tu non voglia farci entrare perché hai qualcosa da nascondere.”
Kei si strinse nelle spalle e accennò persino un sorriso incurvando le labbra verso l’alto senza smettere di tenere gli occhi scuri inchiodati al bel viso della sua vicina, che però non ebbe alcuna reazione particolare e ricambiò freddamente prima di annuire, inespressiva:
“Aspettate qui.”
Niki rientrò in casa e si chiuse la porta alle spalle prima che ciascuno di loro potesse avere il tempo di aggiungere altro: i cinque – più Prune che si chiese deluso dove fosse finita la sua ammiratrice – rimasero in piedi nel bel mezzo del corridoio, scambiandosi occhiate perplesse mentre Leena sussurrava qualcosa a proposito di come probabilmente la vicina fosse impegnata a nascondere prove della sua vera identità.
“Ma da dove le estrapoli, queste idee?!”
Mathieu si voltò verso la vicina, che gli stava accanto, aggrottando la fronte, ma Leena non si scompose affatto e si limitò a fare spallucce:
“L’ho visto in un film.”
“Che film guardi?!”
Madre de Dios no, ti prego, non chiedere! Comunque non mi sono ancora presentata, sono Eileen.”
Dopo essersi voltata verso i due con aria allarmata e gli occhi eterocromi spalancati, temendo che l’amica potesse iniziare una filippica sul genere giallo, Eileen piegò le labbra in un sorriso cordiale e allungò la mano destra verso Mathieu, che accennò un sorriso di rimando e la strinse mentre Leena osservava il vicino con mal celata curiosità:
“Hai proprio uno strano accento…”
Ma la strega non fece in tempo a dire altro e Mathieu a rispondere alcunché, perché Niki spalancò nuovamente la porta del 13B permettendo alla sua alta figura di stagliarsi sulla soglia, rivolgendo un sorriso sarcastico al gruppetto:
“Volete che vi serva tè e pasticcini mignon per continuare a conferire qui o entrate, cari?”
“Che cosa continuo a dire? Acidona!”
Questa volta Carter si rivolse a Kei mentre i due precedevano Eileen, Leena e Mathieu entrando nell’appartamento dove nessuno di loro aveva mai messo piede prima d’allora sotto lo sguardo cupo di Niki, che chiuse la porta alle spalle di Leena studiando i vicini con estrema amarezza: nemmeno una settimana prima avrebbe riso se le avessero detto che presto ben 5 dei suoi vicini si sarebbero presentati alla sua porta e che lei si sarebbe ritrovata a farli entrare. La sua vita all’Arconia prendeva una piega sempre peggiore col passare del tempo.
Senti, tizio che somiglia al Principe Azzurro di Shrek, vedi di rompere meno i cosiddetti. Allora, che volete sapere? Spero che lui non spaventi le ragazze…”
Dopo essersi chiusa la porta d’ingresso alle spalle Niki mosse qualche breve passo in avanti accennando a Prune con il capo e guardandosi attorno con leggera apprensione in cerca delle sue gatte, ma mentre Leena osservava in giro  – probabilmente cercando tracce che suggerissero l’appartenenza della padrona di casa al programma protezione testimoni –, Eileen lasciava qualche carezza gentile sulla testa di Prune e Kei studiava con stizza l’enorme open space che aveva davanti con le braccia strette al petto, certo che la vicina avesse avuto a che fare con Monty, Carter si voltò di scatto verso Niki con gli occhi chiari spalancati, improvvisamente carico d’interesse:
“Ragazze? Vivi con delle ragazze? E sono tutte supergnocche come te?”
Mathieu avrebbe voluto ridere, ma il modo in cui Niki si fermò e si voltò lentamente verso lui e Carter lo costrinse a fare del suo meglio per restare serio: se uccidere con lo sguardo fosse stato possibile la vita di James Carter Cross sarebbe finita quella sera, e anche se Mathieu avrebbe scommesso qualsiasi cosa sul fatto che la strega fosse sul punto ti tirare fuori la bacchetta per trasformare Carter in un cactus, dopo averlo trapassato da parte a parte con un’occhiata a dir poco raggelante si limitò a sibilare qualcosa su delle gatte. La parole distolse immediatamente Leena dalle sue ricerche, tanto che la britannica si voltò verso la padrona di casa sfoggiando un largo sorriso pieno d’entusiasmo e guardandola speranzosa:
Gatte? Hai dei gatti? Adoro i gatti, posso vederle?!”  
“Se decideranno di farsi vive…”
“Oh, lui è buonissimo, ha paura persino della sua ombra… I gatti non sono un problema.”
“Eccone una! Che carina, come si chiama?”  Quando vide una gatta dai grandi occhi verdi e il pelo rossiccio affacciarsi timidamente da dietro il divano color cammello Leena la indicò e soffocò una specie di verso intenerito coprendosi le labbra con una mano, gioendo mentalmente quando la gatta, scorto Prune, decise di tenersi alla larga dal cane raggirando il divano e muovendosi rapida verso il lato opposto della stanza, dritta verso di lei.
“Mira. Le altre si chiamano Carrie, Lottie e Sam.”
Niki accennò un sorriso intenerito mentre guardava la gatta avvicinarsi con leggera titubanza alla mano tesa di Leena, finendo però col strofinarle il muso sul dorso della mano e permetterle di accarezzarla con grande gioia della strega.
“Carrie, Mira, Lottie e… Aspetta, come… come le protagoniste di Sex and the City?!”
Eileen parlò sbattendo ripetutamente le palpebre, gli occhi chiari fissi su Niki e guardandola come se fosse certa di aver capito male mentre Leena gioiva nell’accarezzare il setoso pelo color ruggine di Mira, ma quest’ultima non sembrò cogliere o far caso allo straniamento dell’altra, perché annuì e rivolse un primo vero sorriso a lei e a Leena:
“Esatto! Sapete, voi due mi state simpatiche. Il biondino lì un po’ meno.”
Niki parlò senza voltarsi e limitandosi ad accennare con il capo verso Carter e Mathieu, che si scambiarono un’occhiata prima che il più giovane si stringesse nelle spalle con nonchalance:
Beh Matt, sta sicuramente parlando di te.”
“Cos-”
“Allora, visto che ci hanno raggiuti anche Shaggy e Scooby e il mio simpaticissimo fan numero 1…”
Mathieu si voltò verso Carter, accigliato, parlando in un sussurro mentre Leena continuava a coccolare Mira, Kei studiava casa di Niki in silenzio ed Eileen si chiedeva in che cavolo di situazione si fosse cacciata mentre Niki si allontanava verso l’isola della cucina nera.
“Ma Shaggy non era quello brutto?!”
“Sì, io ovviamente sono Fred.”
“Anche io posso essere Fred, sono biondo!”

“No, tu se il padrone dell’alano, quindi devi essere Shaggy.”
“Ma io non voglio essere…”
“Ok capelli d’oro 1 e 2, facciamo così, voi due siete Daphne e Velma, così la risolviamo. Come stavo dicendo… Avete pulito prima di andarvene da casa di Monty? Voi due non avevate i guanti, né tantomeno quell’adorabile signorino a quattro zampe.”
Ecco…”
“Voi non… Non avete pulito prima di andarvene? Ma che cazzo di errore da principianti!”
Gli occhi verdi spalancati, Niki spostò sgomenta e incredula lo sguardo da un vicini all’altro mentre gli altri cinque si scambiavano occhiante colpevoli in silenzio. Leena sussurrò di aver avuto l’impressione di aver scordato qualcosa mentre Mathieu sbuffava amareggiato:
“Se non te ne fossi accorta noi siamo dei principianti!”
“Fantastico cocchi, domani verranno a smantellare tutto e saranno felicissimi di trovare impronte, davvero felicissimi. Potreste anche pararvi il culo visto che entrambi lo conoscevate a andavate a casa sua di tanto in tanto, ma chi lo sa.”
“Come fa a saperlo?!”
Mathieu volse di scatto la testa verso Carter, parlando così piano che solo lui lo udì, ma il giornalista si strinse nelle spalle e sollevò le braccia come a voler dire che non ne aveva idea mentre Niki, sospirando, apriva un cassetto per prendere un altro paio di guanti in lattice.
“Facciamo così, per questa volta ci penso io visto che mi trovavo lì e non voglio casini, ma la prossima volta vi arrangiate.”
I guanti addosso, Niki raggirò l’isola della cucina per dirigersi verso la portafinestra e uscire dall’appartamento, ma si trovò presto la strada sbarrata da Kei, che le si parò davanti costringendola a fermarsi:
“Dove stai andando?! Voglio sapere di preciso che cosa hai visto e sentito l’ultima volta in cui hai visto Monty.”
“Sto andando a sistemare una cazzata fatta da voi, quindi io fossi in te mi leverei dai piedi come, per altro, ti ho già suggerito prima. Quante altre volte pensi che dovrò dirlo?”
Kei però non si mosse e per qualche istante i due si studiarono in silenzio sotto gli sguardi degli altri quattro, finchè Niki non sollevò scettica entrambe le sopracciglia e Kei, seppur con riluttanza, si spostò di lato per farla passare e permetterle di uscire attraverso la portafinestra bianca.
La bacchetta in mano, Niki si sollevò il cappuccio della felpa sulla testa mentre si voltava verso i vicini, indugiando sulla soglia del terrazzo mentre Kei, osservandola, si chiedeva perché non uscisse dalla porta e usasse le scale.
“Ah, dimenticavo. Toccate o spostate qualcosa e lo saprò.”
I cinque rimasero in silenzio mentre la guardavano salire la scala antincendio, finchè la figura alta della strega non sparì dal loro campo visivo; Carrie e Sam, incuriosite dal vociare insolito, si affacciarono nell’ampia stanza da un arco aperto, privo di porta, che la collegava alla camera di Niki, ma una volta scorto Prune si affrettarono a correre a nascondersi.
“Beh, io vado di sopra.”
Ignorando deliberatamente l’avvertimento di Niki, Kei si strinse nelle spalle prima di voltarsi e dirigersi verso la scala a chiocciola nera che conduceva al piano superiore, deciso a saperne di più sul conto di quella strana strega. Mentre Carter asseriva di voler dare un’occhiata in camera di Niki, certo di trovare in tutti i sensi uno scheletro da qualche parte, Mathieu seguì Kei con lo sguardo osservandolo con le sopracciglia aggrottate, poco propenso a giudicarla una buona idea:
“Se ti trova di sopra ti uccide e ti seppellisce vicino alla fontana.”
“Ma dove sono le altre gate, uffa, volevo coccolarle! Comunque, mi vi sembra straordinariamente lucida in questa situazione? … dite che lo avrà fatto altre volte?!”
Mentre Leena, Mira in braccio, accarezzava la testa della gatta guardandola pensosa Eileen e Mathieu non risposero, limitandosi a scambiarsi un’occhiata dubbiosa prima che un tonfo sordo e una sonora imprecazione non attirarono la loro attenzione, portando tutti e tre a voltarsi di scatto verso Carter mentre Kei saliva rapido le scale.
“Carter, che cosa stai facendo?!”
“Niente, ho sbattuto la faccia contro qualcosa! Che male! Ma che cazzo…”
Quella maledetta strega doveva pregare che il suo naso non ne fosse uscito compromesso, pensò Carter mentre se lo copriva con una mano, certo che si sarebbe trovato la parte inferiore della faccia insanguinata mentre osservava con astio il varco aperto e apparentemente innocuo che aveva appena tentato di oltrepassare. Il ragazzo sollevò una mano verso l’aria davanti a sé, ritrovandosi a picchiettare contro una sorta di barriera invisibile contro la quale era appena andato a sbattere.
“Che razza di stronza…”
 
 
Al piano di sopra, Niki aprì una finestra dopo averla forzata e si accinse a scavalcarla gettando agilmente una gamba all’interno dell’appartamento. Stava per entrare completamente nel 14B quando le sembrò di udire una specie di tonfo e un gemito seguito da una forte e volgarissima esclamazione. Aveva come l’impressione di sapere a chi appartenesse quella voce, e un sorrisino increspò le labbra della strega mentre gettava anche l’altra gamba all’interno dell’appartamento di Montgomery:
Uh… Questo ha fatto male.”
 
 
 
“… Diciamo di sì. Non proprio. Non bene almeno.”
“Conosci qualcuno sì o no, Cross?!”
“Direi di sì Signore.”
“Allora parlaci.”
 
Grandioso
 
Carter uscì dall’ufficio piegando le labbra in una smorfia, lasciando che la porta si chiudesse da sola alle sue spalle prima di incontrare lo sguardo di Rosemarie. Naturalmente la strega non poteva sapere che cosa lui e il capo si fossero detti, ma la sua espressione funebre sembrò rallegrarla profondamente, e sorrise al collega con aria compiaciuta mentre Carter, al contrario, si trascinava nuovamente verso la sua scrivania. Un’altra bella chiacchierata con la sua adorabile e mite vicina? Non poteva chiedere di meglio per concludere la settimana lavorativa.

 
*

 
La pausa pranzo di Gabriel stava per volgere al termine e l’ex Serpecorno aveva un pomeriggio pieno di appuntamenti davanti a sé, ma dopo aver finito di mangiare il tatuatore decise comunque di sfruttare gli ultimi minuti che gli restavano prima di doversi accingere a riaprire lo studio per chiamare Naomi, che rispose dopo un paio di squilli e parlando così piano che l’amico rischiò quasi di non sentirla:
“Ciao Naomi. Perché parli così piano?”
“Sono in prigione!”
Per una frazione di secondo Gabriel si irrigidì sulla sedia, gli occhi scuri spalancati, e stava per chiedere sconvolto all’amica che cosa avesse fatto, se per caso avesse aggredito un cliente dello studio legale lanciandogli contro un tacco a spillo, quando all’improvviso si ricordò che era il fratello dell’amica a trovarsi in prigione e che Naomi gli aveva accennato di volerlo andare a salutare quella settimana.
Sollevato di non dover correre in prigione per recuperarla, Gabriel si rilassò e accennò un sorriso prima di chiedere all’amica perché le avessero lasciato tenere il telefono, udendo chiaramente i tacchi di Naomi picchiettare il pavimento a causa del nervosismo della strega e della sua incapacità di stare ferma:
“Gabri, è una prigione per maghi, qui a queste cose non ci pensano, ti prendono la bacchetta e basta… Il telefono non gli viene nemmeno in mente di chiederlo. Per fortuna ormai mi conoscono e hanno smesso di perquisirmi, è così fastidioso... Ti sembro forse una che aiuterebbe qualcuno ad evadere, per caso?!”
“Decisamente no, ma suppongo che non si possa mai sapere. Sei andata da Gregory, per, emh…”
Leggermente a disagio nell’affrontare un argomento notoriamente delicato per l’amica Gabriel esitò e prese a giocherellare con la tazza ormai semivuota di caffè che aveva davanti, un orrendo regalo personalizzato da parte di sua sorella che riportava la scritta “El Dictador”. Peccato che Damita fosse stata così diabolica da fargliela consegnare dai suoi nipotini di 6 e 4 anni, e se se ne fosse liberato Chloe e Declan di sicuro se ne sarebbero accorti e gli avrebbero chiesto, avviliti, perché non usasse la tazza che gli avevano regalato loro. Ci mancava solo che Damita insegnasse anche ai figli di chiamarlo così, e poi la sua pazienza sarebbe naufragata sul fondo del fiume Hudson.
Fortunatamente Naomi non attese che l’amico finisse di parlare e annuì, seduta su una gelida sedia di metallo contro la parete della sala d’attesa mentre aspettava che la chiamassero per poter parlare con suo fratello maggiore.
“Sì. Sì, immagino di non dover più aspettare e di doverglielo dire, sempre che già non lo sappia. Da una parte sarebbe un sollievo privarmi di questo onere, ma credo che sarebbe meglio se lo sapesse da me. Erano così amici, a scuola…”
“Mi dispiace. Ma sei una delle persone più risolute che conosca, quindi sono sicuro che ce la farai.”
“Mi consolerò stasera con un programma trash e molto gelato.”
“Lo sai che ti fa male!”
“Oddio, mi stanno chiamando, devo andare, ciaoo!”


Non era vero, non l’avevano ancora chiamata e Gabriel naturalmente lo sapeva, ma Naomi mise comunque fine alla telefonata e intascò il telefono con un sospiro, appoggiandosi mollemente contro il rigido schienale della scomodissima sedia mentre aspettava di poter finalmente parlare con suo fratello. Non aveva temuto così tanto un incontro con Rory da quando era andata a trovarlo in prigione per la prima volta, quando si era seduta davanti a lui temendo che potesse intuire la verità, visto che la conosceva meglio di chiunque altro. Fortunatamente erano passati anni e sembrava che Rory non avesse mai scoperto nulla, tanto che col passare del tempo Naomi aveva continuato a fare visita al suo fratello prediletto con il cuore un po’ più leggero. Quel giorno invece, conscia di dovergli dare una brutta notizia, si sentiva il peso di un macigno addosso.
“Broussard? Può entrare.”
Quando si sentì chiamare Naomi si riscosse e sollevò lo sguardo sull’Auror che l’aveva chiamata e la guardava in attesa, annuendo prima di alzarsi, lisciarsi le pieghe della gonna del tubino rosa cipria che indossava e dirigersi verso la porta:
“Grazie.”
 
 
*

 
Cortile interno dell’Arconia
 
 
Orion sedeva solo su una delle panchine del cortile, approfittando del pomeriggio libero con un bicchiere di carta ormai semivuoto accanto a sé e un blocco da disegno aperto sulle ginocchia.
Stava tracciando distrattamente delle linee sul foglio bianco con la matita, un paio di AirPods nere infilate nelle orecchie, quando gli sembrò di udire l’eco di un saluto in sottofondo rispetto alla canzone che stava ascoltando, portandolo a sollevare di scatto la testa e a fermare la musica quando incontrò un viso familiare.
“Ciao. Scusa, avevo le cuffie accese. Ciao bello!”
Mocio ricambiò il saluto con entusiasmo, scodinzolando e strattonando Esteban verso l’astronomo per farsi accarezzare la pelosissima testa. Appoggiati blocco e matita accanto alla tazza di caffè bevuta quasi per intero, Orion sorrise al bobtail e lo accontentò, arruffandogli il soffice pelo lungo mentre Esteban cercava senza successo di intimare al cane di comportarsi bene.
“Non fa niente, mi piacciono gli animali. Oggi sei a casa anche tu? Io sto aspettando che Kei finisca le lezioni.”
“Io lavoro da casa, scrivo. Tu cosa fai?”
“Io sono un Astronomo. Per favore, non chiedermi nulla sull’oroscopo o sugli ascendenti.
L’espressione afflitta e implorante di Orion fecero scoppiare a ridere Esteban, che annuì mentre occupava il posto vuoto sulla panchina e Mocio sedeva davanti al padrone, appoggiandogli la testa su una gamba per farsi accarezzare.
“Non lo farò. Ti succede spesso?”
“Se avesse un Galeone per tutte le volte in cui vengo confuso con un esperto di astrologia, o per le prese per il culo che mi vengono rivolte in questo senso, vivrei nell’attico. E non sarebbe male per guardare le stelle, ora che ci penso…”
Orion sollevò la testa per gettare un’occhiata all’ultimo piano dell’edificio, ma per fortuna si ricordò della tragedia familiare che aveva appena colpito i Dawson prima di farsi sfuggire qualcosa di profondamente inappropriato per la seconda volta dopo il suo sfortunato “facce da funerale”, come “c’è chi ha tutte le fortune”.
“Immagino di no. Tu dove vivi?”
“Al 9°. Tu più in alto, mi sembra.”
“12°. Io e Mocio siamo fortunati, vero ragazzone?”
Esteban sorrise con al cane mentre si protendeva leggermente in avanti verso di lui, prendendogli la testa tra le mani per accarezzargliela con affetto mentre Orion, accanto a lui, scrutava il grosso cane con una punta di perplessità:
“Scusa, ma perché lo hai chiamato Mocio? Non lo usi per pulirti i pavimenti, vero?”
“Ma certo che no. Io non li pulisco, i pavimenti, lo fa la donna delle pulizie. Sto scherzando, non lo farei comunque. Ma è molto simile a un mocio, no?!”
In effetti…”
Osservando il cane, Orion si rese conto che la testa di Mocio aveva anche un che della sua quando il suo gufo Arthur aveva la gentile e brillante idea di planargli sulla testa e usare i suoi capelli a mo’ di nido, ma Orion decise di non condividere l’informazione con il vicino e si voltò verso l’ingresso del cortile quando Esteban gli disse che Kei era appena entrato.
In effetti voltandosi Orion scorse l’amico attraversare il cortile a passo di marcia, le mani sprofondate nelle tasche della giacca blu notte che indossava sopra ad una camicia bianca e un’espressione piuttosto cupa ed accigliata mentre si dirigeva verso la loro panchina:
“Ciao Kei. Che faccia da fu…” 
Ma che problemi hai?!
“… Che brutta faccia. Andata male oggi?”
“No, ma sono distratto, ho la testa su un altro pianeta e non riesco a concentrarmi… ciao Esteban. Ciao Mocio.”  Kei si fermò vicino alla panchina e salutò il vicino e Mocio con un cenno cupo, senza accennare l’ombra di un sorriso mentre Orion lo osservava senza alzarsi, accigliato:
“Un tuo amico è appena morto in maniera brutale e improvvisa, è normale!”
“Sì, infatti, datti un po’ di tempo.”
“Precisamente. Anzi, ti va se per distrarti un po’ ci andiamo a bere qualcosa? Ho proprio voglio di un caffè!”
Orion parlò sfoggiando un sorriso allegro, chiudendo il suo blocco da disegno per impedire a Kei di vedere che cosa aveva disegnato fino a quel momento mentre Esteban, accanto a lui, prendeva e sollevava il suo bicchiere di carta scuotendolo debolmente e guardando accigliato il vicino:
“Ma Orion, qui ce n’è un-“
“Faresti meglio a lasciar perdere, lui ne beve settordici al giorno. Provo a dirgli che gli fa male, ma non mi considera.”
Rimasto in piedi, Kei scosse la testa con disapprovazione e scoccò un’occhiata di rimprovero all’amico, che però come al solito lo ignorò e si limitò a sorridere amabilmente facendo spallucce:
“Finchè le stelle non mi diranno che tutto questo caffè mi ucciderà, non smetterò. Allora, che ne pensi?”
“Veramente dovrei andare a parlare con una persona.”
“Con chi? Se vuoi ti accompagniamo di sopra.”
Esteban parlò guardando Kei con i grandi occhi castani pieni di curiosità e senza smettere di grattare affettuosamente il collo di Mocio mentre Orion, abbozzando un sorriso, si rivolgeva all’amico con sguardo divertito:
“La tizia del 13° piano?”
“Come lo sai?!”
Incredulo, Kei guardò Orion alzarsi e sfilarsi le AirPods dalle orecchie per riporle prima che il ragazzo, sbuffando, liquidasse la sua noiosa domanda con un pigro gesto della mano e gli desse le spalle per dirigersi con calma verso l’ingresso del palazzo:
“Ma per favore, io so tutto! Vieni Esteban.”

 
*

 
Eileen sedeva a gambe incrociate sul divano color crema del suo appartamento, un cuscino stretto tra le braccia mentre teneva una tazza piena di tè bollente in mano. Il suo PC era acceso e appoggiato sul pouf, esattamente davanti a lei, aperto su un profilo di MagicMatching.
Avrebbe dovuto disattivarlo, probabilmente. O senza il probabilmente. Chi ci avrebbe pensato, se non lei, a cancellare un profilo che nessuno avrebbe più potuto usare?
La strega si portò alle labbra il bordo della tazza (che riportava la scritta “D0 not disturb, I’m coding”) senza distogliere lo sguardo dallo schermo, osservando le foto e quel bel viso abbronzato che le sorrideva mentre Anacleto tubava dal suo trespolo.
“Anacleto, non giudicarmi. Sei il primo che adora farsi gli affaracci altrui, inutile negarlo. Ok, basta, devo cancellare questa roba, non servirà più a nessuno.”
Eileen sbuffò mentre lasciava andare la tazza, che restò sospesa a mezz’aria accanto a lei mentre la strega si allungava verso il pouf per prendere il computer e sistemarselo sulle ginocchia, sopra al cuscino che teneva in grembo.
Dopo aver gettato un’ultima occhiata al profilo di Montgomery, stava finalmente per decidersi a disattivarlo quando la porta del suo appartamento si aprì, facendola sobbalzare:
“Eileeeeen, ci sei?! Ciao!”
Leena entrò nell’appartamento guardandosi attorno finchè i suoi grandi occhi scuri non indugiarono sulla figura dell’amica, rivolgendole un sorriso allegro mentre la spagnola, invece, sospirava passandosi le mani tra i lisci capelli neri:
Dios mio Leena, pensavo fossi un assassino venuto a tagliarmi la gola!”
“Perché qualcuno dovrebbe venire a tagliarti la gola? Sai o hai visto qualcosa? Dimmi!”
 
“Non ho visto niente, era per dire… Lascia stare. Stavo cancellando il profilo del nostro defunto vicino. Ti serve qualcosa?”
“A casa mia non posso stare al momento e fuori ha iniziato a piovere, allora ho pensato di passare. Aspetta, vuoi cancellarlo? Non puoi farlo, magari potrebbe essere utile.”
Non era esattamente per circostanze come quella che Eileen aveva dato all’amica una copia delle chiavi del suo appartamento, ma decise di soprassedere sulla prima parte e rispondere solo a quella inerente al profilo di Montgomery:
“Per cosa, fingerci lui ed estorcere denaro a qualche tizia?! Sì, li ho visti i documentari!”
“Non per quello, ma potrebbero esserci informazioni utili dentro. Magari lo ha ucciso una persona che ha conosciuto lì. Si sentono un sacco di storie orribili sui primi appuntamenti su queste App, non dovremmo usarle.”
La britannica incrociò le braccia al petto e scosse la testa con aria grave, capendo di non aver propriamente detto la cosa giusta quando scorse l’espressione sgomenta e al tempo stesso semi esasperata sul viso di Eileen:
Leena, io ci lavoro per quest’App!”
“Porco Conan Doyle scusa, mi è scappato. Comunque, ieri notte non riuscivo a dormire e ho elaborato una teoria.”
“Ho paura.”
“Ma no, è geniale. Secondo me la vicina del 13B con le gatte bellissime ha avuto a che fare con Bel Faccino. Lui era bellissimo, lei ha una faccia da copertina, lei su di lui la sa lunga… secondo me c’è qualcosa sotto, e io non sbaglio mai.”
Leena avanzò verso l’amica e sedette accanto a lei sul divano annuendo con aria trionfa, assolutamente certa delle sue parole mentre Anacleto alzava gli occhi al cielo e Eileen, osservandola, si sforzava di impedire a qualsiasi emozione di attraversarle il volto:
Come quando pensavi che Lester avesse una relazione segreta con l’amministratrice del palazzo?”
“Beh, c’erano molti indizi a riguardo!”
“Oppure l’anno scorso, a Natale, non hai detto che le decorazioni del cortile erano state palesemente rubate dalla signora anziana che raccoglieva offerte con la campana sul marciapiede?”
“Aveva un’aria molto losca.”
“Leena, dove vuoi arrivare con la nostra vicina piena di gatti?”
“Andiamo!”
Leena si alzò prendendola per un braccio, ignorando i vani tentativi di Eileen di opporre una qualche forma di resistenza finchè non fu riuscita a trascinarla fuori dall’appartamento. Anacleto, rimasto solo, si sistemò più comodamente sul trespolo, felice e soddisfatto di essersi finalmente liberato di quelle due simpatiche ma strambe umane.
 
 
 
“Carter, mi spieghi perché sei venuto da me per trascinarmi qui? Aspetta, casa tua è di là… Dove stai andando?!”
Mathieu avrebbe dovuto capirlo che c’era sotto qualcosa quando Carter si era presentato alla sua porta con un sorriso fin troppo amichevole, parlandogli in modo fin troppo gentile per invitarlo a passare da lui. Carter non invitava mai nessuno a casa sua, si conoscevano da sette anni e Mathieu in tutto quel tempo doveva averci messo piede si e no cinque volte, avrebbe dovuto immaginare che il giornalista aveva qualcosa in mente e ne ebbe la spiacevole conferma quando, giunti nel largo corridoio del 13° piano, invece che dirigersi a sinistra – dove si trovava l’appartamento di Carter – l’ex Tuonoalato virò a destra, diretto dalla parte opposta del piano.
Carter, spero per te che tu mi stia portando dalla Turner e non da quella che le abita accanto.”
Cazzo, come hai fatto a scoprire che ti ho organizzato un appuntamento al buio con la Signora delle Cocorite?! Andiamo, devo andare da lei, devo parlarci per scrivere un pezzo, ma se siamo in due non potrà uccidermi perché ci saresti tu come testimone oculare!”
Carter si fermò davanti alla porta del 13B gettando uno sguardo implorante a Mathieu, che lo raggiunse a passo di marcia parlando in un sussurro concitato:
“Non hai pensato che magari potrebbe anche ucciderci entrambi?! Oh Mio Dio ci ucciderà per tenersi i nostri cani, lo sento.”
Mathieu annuì fissando la porta chiusa davanti a sé mentre quell’idea si faceva sempre più strada nella sua mentre, radicandosi in una certezza mentre Carter, accanto a lui, sbuffava prima di suonare il campanello:
“Non potrà ucciderci entrambi, siamo due contro una.”
Non ci scommetterei affatto.”
 
 
 
“Moosy questa mattina mi è sembrato strano e mi ha detto di non aver cenato ieri, fatto ancora più strano. Il mio sesto senso da avvocato mi dice che ieri sera è successo qualcosa e questo sesto senso non sbaglia mai, quindi voglio andare da lui e scoprire cosa succede.”
Naomi, in piedi davanti alle porte chiuse dell’ascensore, parlò tenendo gli occhi verdi fissi sul numero digitale che indicava a quale piano si trovasse l’abitacolo di metallo, guardandolo avvicinarsi sempre di più all’11° con impazienza mentre Gabriel, in piedi con le mani nelle tasche, volgeva lo sguardo su di lei accennando un sorriso gentile:
“So che gli vuoi bene e che quando succede qualcosa entri in modalità sorellona, sono un fratello maggiore e lo capisco, ma forse dovremmo solo dargli tempo.”
Dopo il lavoro Gabriel aveva deciso di andare a salutare Naomi per chiederle come fosse andato il suo incontro con Gregory, ma quando l’amica aveva aperto la porta il tatuatore si era ritrovato ad essere trascinato verso gli ascensori, diretti al 6° piano.
Naomi smise finalmente di guardare i numeri per rivolgersi all’amico, accennando un sorriso gentile che, il ragazzo lo sapeva bene, significava solo una cosa: apprezzo le tue parole e il tuo consiglio, ma farò di testa mia.
“Gabri, tu si che sei sempre pacato e dici sempre la cosa giusta. Peccato che io invece preferisca entrare nelle situazioni a gamba tesa, che l’altro lo voglia o no. Ma quanto ci mette questo dannato ascensore?”
Quando finalmente l’ascensore arrivò all’11° piano e le porte si aprirono Naomi esultò mentalmente e tirò un sospiro di sollievo – era appena tornata a casa, i tacchi la stavano uccidendo e moriva dalla voglia di infilarsi le pantofole con le nuvolette, una delle sue comodissime tute in ciniglia per poi posizionarsi sul divano e alzarsi solo per andare a dormire –, finendo però con l’irrigidirsi e aggrottare le sopracciglia quando all’interno dell’abitacolo scorse proprio Moos.
“Moosy?! Stavamo venendo da te, dove stai andando?”
Pietrificato sul posto, Moos deglutì a fatica mentre spostava lo sguardo da Naomi a Gabriel, tutti e due con gli occhi fissi su di lui mentre la ragazza in piedi alle sue spalle se ne stava appoggiata al suo amico – un ragazzo che come lui era cresciuto nel palazzo e che conosceva di vista – lamentandosi della scomodità dei tacchi alti.
“Piper, ma perché li metti se sai che devi stare fuori quasi tutto il giorno?!”
“Tu non puoi capire!”
Moos quasi non udì le voci di Piper e Jackson alle sue spalle, troppo impegnato a sudare freddo di fronte allo sguardo inquisitore di Naomi. Merlino, non avrebbe mai voluto trovarsela davanti in aula.
Fortunatamente Naomi viveva proprio a quel piano, e una volta realizzato il ragazzo si sforzò di sorriderle e di mascherare il suo disagio mentre si stringeva nelle spalle:
“Ecco, stavo… stavo venendo a salutarti per ringraziarti per l’anatra di ieri, era ottima.”
Sfortunatamente Naomi non ci credette neanche per un istante, sbuffando piano prima di scuotere la testa:
“Tu sei il peggior bugiardo del mondo Bartimeus Jr Thomas, hai una faccia colpevole che si vedrebbe dallo spazio! A che piano stavi andando?”
Mentre Bartimeus cercava di trovare una scusa plausibile e Gabriel osservava l’amico con una punta di compassione ma al tempo stesso non osando mettersi in mezzo e rischiare di riversare su di sé l’attenzione di Naomi, Jackie si accostò accigliato a Piper, parlando con un filo di voce affinché gli altri non udissero le sue parole:
“Scusa, ma tu abiti a questo piano, perché restiamo qui? Mi hai costretto a prendere l’ascensore con te e ora facciamo la muffa?”
Taci, voglio sentire il drama!”
Naomi nel mentre si affacciò all’interno dell’ascensore per guardare la doppia colonna di tasti, aggrottando la fronte quando vide che il 13 era stato premuto. Che cosa doveva andare a fare Moos al 13° piano?
“13°? Perché volevi andare al 13°?”
“Naomi, le porte si chiudono.”
Gabriel allungò provvidenzialmente una mano per impedire che le porte si chiudessero contro la testa dell’amica, che sbuffò e lo agguantò prima di trascinarlo con sé all’interno dell’abitacolo:
“Fa nulla, ci faremo un viaggetto. Ciao Piper! Scusate, dovete scendere?”
Naomi si voltò verso Jackson e Piper accennando alle porte con un sorriso e mentre Moos e Gabriel suggerirono ai due di mettersi in salvo con un’occhiata Jackson, impaziente di fuggire dall’ascensore, fece per annuire con sollievo prima di essere bloccato da Piper, che lo precedette rivolgendo un sorriso cordiale alla vicina:
Sì graz-“
“No tranquilla, restiamo.”
 
Incredulo e profondamente offeso, Jackson si voltò verso l’amica mentre le porte si chiudevano, mimando una minaccia con le labbra affinché Gabriel, Naomi e Moos non sentissero prima di iniziare a frugare nella tasca della giacca per recuperare il suo telefono e rendere nota la sua indignazione all’amica per iscritto. Ancor meglio, visto e considerato che uno screen durava in eterno:
 
Jackie: Ti uccido. Bell’amica che sei, lo sai che soffro di claustrofobia!
Piper: Ti offro la colazione da lunedì a venerdì la prossima settimana.
Jackie: Va bene, ma voglio anche un regalo!
 
Piper sorrise, indirizzandogli un bacio aereo prima di fargli cenno di sapere: voleva assolutamente sentire che cosa si stessero dicendo Naomi e gli altri due ragazzi: dopo essere riuscita ad estorcere la verità a Moos – come al solito alla velocità della luce – la strega stava guardando incredula l’amico, stentando a credere che volesse andare a casa della persona più strana che avesse mai messo piede nel palazzo.
“La ragazza altissima che si veste sempre di nero?! Perché devi andare da lei?”
“Ieri è venuta a casa mia a parlarmi di… di Montgomery.”
“Che?! E lei che ne sa?!”
“Dice che non si è suicidato e che è stato ucciso!”
EHH?!”
Che cosa?!”
Mentre Gabriel e Naomi guardavano sgomenti l’amico Jackson, udite le parole dei tre, deglutì a fatica, appoggiandosi alla parete dell’ascensore con le spalle mormorando che l’ossigeno nell’abitacolo stava iniziando a scarseggiare mentre Piper evocava un ventaglio per fargli aria.
Jackie, non azzardarti a svenire, poi come faccio a trascinarti in giro per portarsi a casa?!”
“Un momento, lei come potrebbe saperlo se non essendo stata lei stessa ad ucciderlo?”
“E secondo te qualcuno ucciderebbe una persona per poi smentirne il suicidio? Che assassino imbecille sarebbe?”
L’ascensore si fermò finalmente al 13° piano e le porte si aprirono con un tintinnio metallico mentre Gabriel scuoteva il capo, per nulla convinto dalla teoria dell’amica, e Piper si affrettava a strattonare Jackie per trascinarlo fuori dall’abitacolo per prevenirne lo svenimento.

“C’è una teoria che sostiene che i serial killer in fondo vogliano essere scoperti, perché sono quasi tutti dei narcisisti patologici.”
Naomi si strinse nelle spalle, e stava per iniziare ad elencare tutti i casi che conosceva a riguardo quando Moos, spazientito, afferrò lei e Gabriel per le braccia per costringerli ad uscire:
“Ragazzi, dobbiamo uscire! Jackson, va tutto bene?”
Quando i tre ebbero seguito Piper e Jackson fuori dall’ascensore Moos si avvinò ai due ex Magicospino, osservando il mago con una punta di apprensione nei grandi occhi scuri mentre Piper continuava imperterrita a fargli aria con il ventaglio magicamente evocato. Alla storia del presunto omicidio ci avrebbe pensato più tardi.
“Sì, sta bene, penso che il vostro discorso sull’omicidio lo abbiano un tantino turbato… Jackie, sei uscito dall’ascensore, ok? Tutto a posto.”
Piper si sforzò di sorridere all’amico mentre gli dava un colpetto incoraggiante sulla spalla, guardandolo annuire e deglutire mentre Naomi, uscita dall’ascensore, osservava l’ala destra del piano prima di assestare una lieve gomitata al braccio di Gabriel:
“Gabri, guarda.”
“Che c’è?”
Gabriel smise di osservare Piper, Moos e Jackie per seguire il richiamo di Naomi e voltarsi, ritrovandosi con le sopracciglia sollevate per l’ennesima volta da quando aveva avuto la forse non brillante idea di andare a salutare la sua amica:
 “... Che cosa succede in questo piano oggi…”
 
Davanti alla porta del 13B si era radunata una discreta folla di vicini, che ricambiarono perplessi i loro sguardi mentre Jackson, ripreso finalmente a respirare normalmente sotto lo sguardo carico d’apprensione di Piper, parlava in un flebile sussurro:
“La cosa peggiore… La cosa peggiore è che mia madre aveva ragione quando diceva che questa storia aveva qualcosa di strano. Detesto quando ha ragione.”
Osservando il gruppo di vicini Piper invece non poté che pensare una cosa: se Nia avesse saputo che si era imbattuta in un simile agglomerato di bei ragazzi senza di lei, non glielo avrebbe mai perdonato.

 
*

 
Appartamento 13B
Cinque minuti prima

 
 
Quando aveva sentito suonare il campanello Niki si era avvicinata di malavoglia alla porta, aveva guardato attraverso lo spioncino sperando che la giornata potesse ancora risparmiarla e che non fosse la sua vicina giunta come al solito a lamentarsi per qualche stronzata e, scorgendo il Vicino con il Golden Retriever e il Vicino con l’Alano, aveva sospirato rumorosamente: che cosa potevano volere ancora da lei, quei due?
Sollevata la testa verso il soffitto e chiesto se non pensava di averla già punita abbastanza, Niki aprì la porta quel tanto che le bastava per scivolare fuori dal suo appartamento e posizionarsi di fronte ai due appoggiandosi allo stipite, le braccia strette al petto.
“Desiderate?”
“Ciao. Vorrei parlarti.”
Carter aveva bisogno che lei fosse collaborativa, pertanto si sforzò di sorriderle e di assumere un tono gentile, cercando di soprassedere sul fatto che il suo stupido incantesimo il giorno prima gli avesse quasi deviato il setto nasale. L’espressione annoiata ed imperscrutabile della sua vicina però rimase sempre la stessa, se non per l’ombra di una vaga delusione che sembrò attraversare il suo viso per un istante quando appurò che i due maghi non avevano portato con sé i propri cani.
“Ribadisco: non ti dirò la marca del mio balsamo.”
“No, non per quello, e per inciso non ne ho bisogno… Si tratta di Montgomery. Devo scrivere un pezzo sulla faccenda per lavoro e mi vorrei…”
Ma Carter non finì di parlare: mentre Mathieu sperava silenziosamente che la vicina non li affatturasse per il disturbo Niki sospirò piano, scuotendo stancamente la testa prima di parlare con tono pacato, gli occhi verdi contornati da profonde occhiaie fisse sul vicino:
“Siete di nuovo qui per chiedermi di lui? Ve l’ho detto a casa sua, l’ho ribadito quando siete venuti qui. Vi ho già detto quello che ho visto e sentito in ascensore quel giorno. Lui personalmente non lo conoscevo, non ho altro da dirvi.”
La strega moriva dalla voglia di porre fine a quella conversazione e di poter finalmente tornare nel suo appartamento, ma prima che potesse dare le spalle ai due vicini e sparire dietro la porta Mathieu parlò, spostando su di sé la sua attenzione:
“Sei sicura?”
“Perché non dovrei essere sicura?”
“Se non lo conoscevi perché sei andata a frugare nel suo appartamento?”
“Perché? Perché ho una smodata e immotivata passione per il true crime, e tutto ciò che concerne sangue, viscere vaganti e delitti. Sono un’insensibile ficcanaso che si è introdotta a casa di un ragazzo morto. Tutto qui. Su di me non c’è altro che vi serva sapere. Ora, se volete scusarmi…”
Niki fece per voltarsi e rientrare in casa ma Carter fece un passo avanti e parlò di nuovo, guardandola speranzoso e maledicendosi per non aver pensato di portare Sarge con sé: era certo che con lui la sua vicina lo avrebbe fatto entrare stendendogli persino un tappeto rosso all’ingresso.
“Per favore. Possiamo entrare?”
Niki si strinse nelle spalle, continuando a guardarlo inespressivamente tenendo una mano sulla porta dietro di sé:
“Gli uomini a casa mia non ci entrano. Ieri è stata una rara ed irripetibile eccezione.”
“Beh, io verrò a romperti le palle fino a lunedì. E forse anche dopo. Se invece mi fai entrare adesso non dovrai più sorbirmi.”
Quella era, per la strega, una prospettiva degna di un film horror. Gli occhi verdi di Niki vagarono esitanti da Carter a Mathieu, sospirando prima di parlare: in qualche modo doveva liberarsene, tanto valeva farlo subito.
“Se vi faccio entrare non vedrò più le vostre facce davanti alla mia porta?”
“Non credo. Matt?”
“No, ne dubito.”
“… Allora ok.”

 
*

 
Quando Niki aveva sentito di nuovo suonare il campanello, aveva preso in considerazione tre ipotesi.
Primo: stava impazzendo; secondo: Monty era tornato per darle il tormento; Terzo: qualcuno voleva prenderla per il culo, considerando che mai nessuno dei suoi vicini da quando si era trasferita lì si era presentato alla sua porta con la stessa frequenza degli ultimi due giorni.
Di nuovo, Niki si avvicinò alla porta, accostò lo sguardo allo spioncino, ma quello che vide era diverso rispetto alle volte precedenti: dovevano esserci circa dieci persone nel corridoio, tutte inequivocabilmente davanti alla sua porta.
La strega si allontanò, incredula, di mezzo metro dalla porta, fissando un punto indefinito davanti a sé prima di coprirsi il viso con le mani e sussurrare qualcosa a mezza voce:
Cristo, devo smetterla di bere…”
 
“Chi ha suonato?”
La voce di Carter la riportò alla realtà, spingendola ad allontanarsi le mani dal viso per controllare una seconda volta:
“Non ne sono sicura.”
Niki guardò di nuovo, imprecando quando appurò di non essere stata preda di nessun abbaglio: c’erano davvero dieci persone, davanti alla sua porta. Doveva trattarsi di un incubo, o di una gigantesca presa per il culo.
La strega spalancò la porta con un gesto brusco, facendo sobbalzare Leena ed Eileen, le più vicine all’ingresso, prima di far vagare lo sguardo torvo su tutti i presenti, di cui la maggior parte per lei perfetti estranei.
 “Ditemi che è un cazzo di scherzo. Chi siete e cosa volete.”

 
*

 
Manco a dirlo, Niki non aveva mai ospitato tante persone a casa sua in un colpo solo e non aveva 13 sedie per far sedere tutti, così finì con il farle apparire insieme ad un lungo tavolo rettangolare al centro della stanza. Ora la strega sedeva scompostamente a capo del tavolo, il cappuccio della felpa nera sollevato sulla testa a coprirle quasi del tutto i lunghi capelli scuri e gli occhi verdi fissi su un punto del tavolo mentre la gamba sinistra le tremava leggermente. Era piuttosto sicura che quasi tutti i presenti la stessero guardando, ma poco le importava, e pensò solo a quanto avrebbe avuto bisogno di bersi una tazza di caffè, o ancor meglio un generoso bicchiere di qualcosa di molto forte, finchè non sospirò rumorosamente e ruppe il silenzio parlando con tono neutro:
“Facciamo un rapido riepilogo. Tu sei venuto per parlare di ieri sera, ciao Bartimeus. E voi due lo avete accompagnato.” Niki puntò gli occhi verdi su Moos, seduto tra Naomi e Gabriel, indicandolo brevemente prima di rivolgersi a Leena e ad Eileen, sedute nei due posti alla sua sinistra:
“Voi due siete venute… difficile dirlo. Farsi gli affari altrui o vedere le mie gatte? Forse tutte e due le cose. Voi due avete accompagnato lui, che davvero non capisco che cosa ci voglia fare a casa mia… Di capelli d’oro 1 e 2 abbiamo già parlato. Quanto a voi due… No, scusate, voi due non lo so perché siete qui.”
Giunta a Piper e Jackie, Niki aggrottò la fronte e riservò ai due un’occhiata piuttosto perplessa, non avendo la più pallida idea di chi fossero e che cosa ci facessero a casa sua. Forse qualche demente aveva sparso la voce su una riunione di condominio nel 13B? Di sicuro in caso era stata quella vecchia befana della Turner.
I due ex Magicospino, osservati da tutti i presenti, si scambiarono una breve occhiata dubbiosa prima che Jackson si schiarisse la voce, parlando con scarsa convinzione sotto lo sguardo scettico della padrona di casa. Piper tornò invece a concentrarsi su Niki, osservandola meglio con curiosità crescente: non l’aveva mai vista senza occhiali da sole prima di quel momento, eppure il suo viso aveva un’aria stranamente familiare.
“Ecco, veramente noi eravamo in ascensore con loro e abbiamo sentito dire che Monty Dawson secondo te è stato ucciso e che tu…”
Oh. Mio. Dio! Ma tu sei…”
Piper interruppe l’amico prima che Jackson potesse finire di parlare, guardando Niki con gli occhi scuri spalancati e la mano destra a coprirle le labbra. Mentre Leena sussurrava ad Eileen che in fondo non si era sbagliata, Carter che probabilmente la sua vicina era una nota serial killer latitante e Kei, seduto dall’altro capo del tavolo, si sporgeva in avanti con un guizzo, deciso a non perdersi neanche una sillaba che stesse per uscire dalle labbra di Piper, Niki puntò pigramente gli occhi verdi sulla modella e scosse la testa:
“Non sono io.”
“No, tu sei…”
Jackson guardò l’amica pregandola di finire la frase e di dire a tutti chi fosse la loro bizzarra vicina, ma di nuovo Niki la interruppe prima di distogliere lo sguardo, prendendo ad osservarsi le unghie:
“Ti posso assicurare che non sono io, di chiunque tu stia parlando. Allora, ditemi, Hardy Boys… Siete qui perché pensate che l’abbia ucciso io? Perché se è così state perdendo il vostro tempo, il mio e siete anche dei detective di merda. Se l’avessi ucciso io ora qui nessuno avrebbe il dubbio che possa non trattarsi di un suicidio, ve l’assicuro.”
“Ecco, io veramente non lo penso, io volevo solo chiarire le cose che mi hai detto ieri, non sapevo di trovare tutte queste persone…”
Moos prese timidamente la parola guardando Niki e sollevando una mano di qualche centimetro, provando un sincer moto di stupore quando gli sembrò di vedere la strega accennare l'ombra di un sorriso verso di lui.
“In effetti neanche io pensavo di trovare questa ressa. Io pensavo che non piacesse a nessuno, vero Matt?!”
Carter parlò voltandosi verso Mathieu, sinceramente colpito dalla quantità di presenti, e il canadese alzò gli occhi al cielo chiedendosi perché l’amico ci tenesse così tanto a finire i suoi giorni per mano della sua vicina di casa prima di realizzare che Niki stava fissando lui e Carter. Dopo una breve esitazione Mathieu sollevò una mano, indicando l'amico che gli sedeva accanto:
“… L’ha detto lui, non io.”
Con gran sollievo dei due maghi – Carter fece per dare del traditore al vicino, ma lo sguardo della vicina lo costrinse al silenzio – Niki non scagliò alcun anatema, limitandosi a roteare gli occhi prima di parlare con un sospiro che trasudava esasperazione:
“Sentite, no, io non credo che si sia suicidato, non lo credo affatto. Ma giuro che se mi fate ripetere ancora quello che ho visto e sentito quando ho preso l’ascensore con lui il giorno in cui è morto, sfondo il tavolo a testate.”
“Ok, la racconto io, tanto l’ho sentita già due o tre volte… Comunque ciao a tutti, sono Eileen!”
Eileen si sporse leggermente in avanti sul tavolo sfoggiando un sorriso allegro in modo che tutti i presenti la vedessero, destando la silenziosa gratitudine di Niki mentre Esteban, seduto all’altro capo del tavolo tra Kei e Orion, volgeva lo sguardo su quest’ultimo aggrottando le folte sopracciglia scure:
Solo a me sembra di stare agli alcolisti anonimi?”
“No, questa storia è sempre più assurda. Ad ogni modo, visto che siamo in tema, già che ci sono vorrei dirvi che sono fermamente convinto che morirà qualcun altro, e che sono sicuro che sia come dice lei e che Montgomery non si sia ucciso.”
Quando Orion prese la parola Jackson stava facendo del suo meglio per capire ciò che Piper stava cercando di dirgli in labiale, ovvero quella che credeva essere l’identità della padrona di casa, ma il veterinario capì che avevano un gran bisogno di esercizio quando appurò di non riuscire a comprendere una sola sillaba. Tuttavia quando i due udirono le parole dell’astronomo smisero all’istante di cercare di comunicare, voltandosi in silenzio verso di lui come tutti gli altri: quando tutti i presenti lo guardarono stralunati Orion sembrò stupirsene, ricambiando i loro sguardi chiedendosi perché avessero tutti quelle strane facce. Poi si disse che certo, era uno stupido, era ovvio che lo stessero guardando in quel modo, del resto non si era neanche presentato:
“Ah, che maleducato, scusate… comunque io sono Orion.”
“Come fai a saperlo, scusa?!”
“L’ho visto nelle stelle.”
In un primo istante Gabriel si disse che di sicuro quel ragazzo lo stava prendendo in giro e continuò ad osservarlo, accigliato, aspettando in silenzio che Orion o qualcun altro scoppiasse a ridere. Ma ciò non avvenne, e Gabriel si ritrovò a osservare stralunato il sorriso allegro e rilassato del vicino mentre Naomi mormorava qualcosa a proposito di sua zia Mabel, che le aveva ceduto il suo appartamento, e di come la donna le avesse detto che in quel posto ci viveva gente strana.  
“Oh bene, abbiamo anche Nostradamus…”
Niki si strofinò stancamente gli occhi con le mani chiedendosi come e perché fosse finita in quella situazione mentre Leena, accostandosi leggermente ad Eileen, mormorava qualcosa sul fatto che, ad occhio, dovevano essere in 13 seduti attorno al tavolo. Naomi, udite le parole della strega, si raddrizzò sulla sedia e si guardò attorno scrutando i presenti con attenzione, affrettandosi a contarli mentalmente prima di emettere un verso strozzato e soffocare a fatica un’imprecazione una volta appurato che la vicina non aveva torto:
“Oh porca… È vero, siamo in 13. Che nessuno si alzi!”
“Mi sono perso qualcosa. Perché non dobbiamo alzarci?!”
Gabriel si sporse sul tavolo per poter gettare un’occhiata dubbiosa a Naomi, chiedendosi se anche lei, circondata da tutte quelle persone strambe, non fosse sulla strada della perdita della ragione. Eppure l’amica sembrò serissima quando annuì nervosamente e gesticolò per indicare tutti i presenti con fare concitato:
“Siamo in 13! Il primo che si alza sarà il primo a morire!”
“Che cosa?!”
Gabriel guardò Moos in cerca di una qualche forma di supporto per convincere Naomi che quella storia fosse una totale idiozia priva di senso o fondamento, ma disgraziatamente anche lui annuì mentre si guardava attorno con aria preoccupata:
“È vero, lo diceva anche mio nonno!”
“Il che ha senso, perché io nelle stelle ho visto…”
“Orion piantala!”

 
*

 
Erano passati più di dieci minuti, e tutti e 13 sedevano ancora attorno al tavolo. Nessuno aveva ancora avuto il coraggio di alzarsi, anche se Jackie ci aveva provato asserendo che “fossero tutte stronzate” prima che Piper lo strattonasse e gli intimasse con un sibilo di restare fermo e seduto dov’era.
Anche Carter era profondamente indeciso se crederci o meno: non era tipo da fare affidamento a storielle simili, ma era anche vero che teneva molto alla sua vita e che non voleva morire a 30 anni compiuti da soli due mesi e mezzo, perciò decise che avrebbe aspettato che qualcun altro si alzasse per primo. Naomi non aveva alcuna intenzione di farlo, e dopo aver ordinato minacciosamente a Moos e a Gabriel di non muoversi dalla loro sedia si stava dando una limata alle unghie.
Orion pensava con amarezza al caffè che gli era stato negato, Kei fissava storto Niki, Mathieu si domandava preoccupato se avesse lasciato o meno il forno acceso ed Esteban non osava chiedere a nessuno di giocare una partita a carte per ammazzare il tempo. Sembrava che fossero destinati a restare lì seduti in eterno finchè Niki, dopo dieci minuti di silenzio, smise di fissare il tavolo e parlò con tono brusco:
“Fanculo, tanto non mancherò a nessuno. Allora.”
Niki si alzò facendo indietreggiare rumorosamente le gambe della sedia sul pavimento, ignorando gli sguardi sgomenti che i presenti le lanciarono prima di rivolgersi loro con l’ultima briciola di pazienza che le restava in corpo:
“Ora che spero abbiate capito che non l’ho ucciso io e perché penso che non si tratti di suicidio visto che Eileen ha ripetuto quella storiella dell’ascensore, pensate di potervi, come dirlo gentilmente… levarvi dalle scatole?”
“Ma quanto capperi è alta?!”
Naomi la fissò sgomenta restando immobile sulla sedia, certa che la vicina avrebbe potuto calpestarla facilmente solo volendolo mentre Leena, seduta accanto a Niki, la guardava prima di parlare con tono dubbioso:
“Ma se sappiamo che morirà qualcun altro… non dovremmo fare qualcosa per scoprire chi è stato per impedirlo?”
“Finalmente qualcuno dice qualcosa di sensato. Sapete, Hardy Boys, penso proprio che ci servirò una lavagna.”
Dopo aver gettato una rapida occhiata grata a Leena Niki sorrise per la prima volta da quando si era alzata quella mattina, gli occhi verdi luccicanti mentre i vicini la guardavano senza capire.
“Una lavagna?”
“Sì Finto Ken. Una lavagna.”

 
*

 
Più tardi, quando uscirono dal 13B, Esteban si sistemò il cappuccio della larghissima felpa grigia scolorita che indossava rivolgendo un’occhiata perplessa ad Orion, chiedendogli se la prossima a morire nel palazzo sarebbe stata davvero la loro vicina.
“Cioè, se quella cosa delle 13 persone è vera… Pensi che sarà lei?”
“Non ne ho idea, questo è un po’ troppo preciso per poterlo dire… Immagino che lo scopriremo vivendo, e chi ad un certo punto non vivrà più, beh, lo scoprirà anche lui visto che sarà morto. Devo smetterla con questo pessimo umorismo, devo proprio smetterla. Ehy, ma dov’è Mocio?!”
Così preso dalla stranezza dell’incontro appena avuto Orion appurò solo in quell’istante che il Bobtail non era più in compagnia del suo padrone, che al contrario si limitò a sorridergli e a strizzargli l’occhio prima di assestargli una leggera pacca sulla spalla per salutarlo:
“Tranquillo, Mocio sa dove andare e cosa fare. Ci vediamo in giro, ho un pezzo da finire di scrivere.”
 
Come poteva un cane sapere dove andare e cosa fare? Orion non riuscì a fare a meno di chiederselo mentre osservava il vicino allontanarsi lungo il corridoio.
Quanto a chi sarebbe morto, non ne aveva la minima idea, ma non vedeva l'ora di scoprirlo.
 
 
*
 
 
“Non posso andarmene ora.”
Niki spalancò lo sportello nero di uno degli armadietti della cucina usando la mano sinistra, poiché la destra era occupata a stringere il telefono che teneva accostato all’orecchio. Afferrò per il collo una bottiglia di Vodka Grey Goose e dopo aver richiuso lo sportello la sistemò sul ripiano di legno della cucina per stapparla con la mano libera. Infine, la bottiglia in mano, Niki si allontanò lentamente verso la finestra più vicina, gettando un’occhiata alla porzione di Central Park visibile mentre si portava lo sbocco alle labbra per bere a canna.
“Ti dico di no, sarebbe stupido.”
Bottiglia e telefono in mano, la strega si appoggiò mollemente alla parete senza smettere di guardare fuori dalla finestra, ignorando i consigli totalmente non richiesti e le opinioni del suo interlocutore.
“Anche volendo non potrei farlo ora, è appena morto. Nessuno qui ci ha mai visti insieme ma sparire pochi giorni dopo la morte del tizio che abitava sopra di me sarebbe come correre via con un enorme cartello con scritto “Ho qualcosa da nascondere” sulla schiena.”
Un rumoroso e stanco sospiro si librò dalle labbra carnose della strega, che alzò esasperata gli occhi al cielo prima di scuotere il capo e bere un altro sorso di vodka. Non è che non volesse prendere a lasciare quell’edificio una volta per tutte, semplicemente non poteva. Era così difficile capirlo? E forse, per la prima volta dopo sei mesi, in fondo nemmeno lo voleva.
“C’è un tizio che lo conosceva che afferma che Montgomery sapesse qualcosa su di me, sparire significherebbe confermarlo… E poi sai benissimo che devo restare. Ma in fin dei conti è la prima volta da quando vivo qui che questo posto sembra fare un po’ meno schifo.”
Niki udì a malapena le parole provenire dall’altro capo della linea, i grandi occhi verdi che scrutavano il cortile interno dell’Arconia di forma rettangolare, illuminato dai lampioni. Anche a 13 piani di distanza, la strega riusciva comunque a scorgere alcuni dei suoi vicini parlare, seduti sulle panchine, sul bordo della fontana o camminando. All’improvviso a nessuno andava più di stare solo, persino nella città dove spesso non si conosceva neanche il nome di chi abitava nella porta accanto. Nessuno a parte lei.
“No… No, rilassati, quel tizio non sa niente. Nessuno sa niente.”
 
 
 
C’era stato qualcosa di più che lo aveva stranito, nel grande appartamento della sua vicina, qualcosa di fuori dall’ordinario. Qualcosa che andava oltre il fatto che dopo mesi dal trasferimento non fosse ancora completamente arredato, ma Carter non riusciva a capire cosa.
Stava ancora camminando sul marciapiede che costeggiava l’Arconia stringendo il guinzaglio nero di Sarge, che annusava il suolo cercando tracce di chissà cosa mentre Prune restava ostinatamente vicino a Mathieu senza mai allontanarsi dal padrone per più di un metro, quando finalmente lo capì.
“Ci sono.”
Carter smise improvvisamente di camminare mentre un sorriso soddisfatto – quanto, quanto adorava avere ragione – prendeva forma sul suo bel viso. Mathieu fece altrettanto, rivolgendogli un’occhiata carica di perplessità mentre Sarge smetteva di rovistare tra i fogli di un vecchio giornale per voltarsi verso il padrone, come a chiedergli perché si fossero fermati.
“Davvero? Mi dirai che hai visto la faccia di quella ragazza in un articolo sui ricercati dei casi irrisolti? Perché non mi stupirebbe per niente.”
Mathieu allungò alla ceca la mano destra senza distogliere lo sguardo dal vicino, accarezzando il pelo bianco e nero di Prune quando incontrò la testa dell’alano, che guardava i due muovendo pigramente la coda a destra e a sinistra.
“Non escluderei che abbia alle spalle una storia simile, ma no. Ho capito che cosa non mi quadrava, in quell’appartamento. Le porte.”
“Le porte?”
“Le porte! Ci hai fatto caso, alle porte del 13B?”
Mathieu aggrottò le sopracciglia bionde mentre il sorriso di Carter si allargava sempre di più, ma il canadese non ebbe il tempo di riflettere seriamente sulla questione perché il vicino scosse la testa e parlò di nuovo mal celando l’entusiasmo:
“No. E sai perché? Perché le porte non ci sono.”
“Davvero? Nessuna? È un po’ strano.”
“Certo che lo è, a casa mia ci sono, a casa tua ci sono, a casa di Montgomery c’erano… in tutto il palazzo ci sono, credo. Chi è che toglie la porta dalla propria camera da letto?!”
Era una domanda strana, ma Mathieu ci rifletté comunque brevemente mentre Prune e Sarge aspettavano i padroni – il primo quietamente, il secondo muovendosi nervosamente sul marciapiede per l’impazienza –  prima di annuire e schioccare le dita della mano destra prima di puntare l’indice contro il vicino, colto da un’idea:
“Direi qualcuno che non ha problemi all’idea di farsi beccare da qualcuno mentre fa sesso.”
Ed è esattamente per questo che è una cosa che potrei immaginarmi a fare, ma non lei. Perché togliere la porta ma mettere un cazzo di incantesimo che impedisca l’accesso? Non ha alcun senso.”
“Carter, ho la sensazione che ricercare un senso nel comportamento dell’unica donna al mondo che ti abbia mai schifato sia una perdita di tempo.”
Con quelle parole Mathieu si voltò nuovamente verso la West 86th Street, incamminandosi con Prune accanto mentre Carter, invece, esitava alle spalle del vicino guardandolo con gli occhi azzurri spalancati
“Hai ragione. È l’unica che mi abbia mai schifato, il che è assurdo e anche molto sospetto. Lo vedi che è strana forte?!”
 
 
Niki stava ancora parlando al telefono – o meglio, stava ascoltando il suo interlocutore alzando gli occhi al cielo tanto di frequente da portarla a chiedersi se non fosse fisicamente possibile ritrovarsi con le iridi bloccate –, rivolta verso la finestra con la costosa bottiglia aperta in mano quando un suono improvviso infranse il silenzio del 13B, facendola sobbalzare. La strega si voltò di scatto verso il tavolino circolare situato davanti al divano color cammello, ritrovandosi a deglutire a fatica a causa di un’improvvisa diminuzione della salivazione quando i suoi grandi occhi verdi scivolarono rapidi sulla fonte del rumore. Una piccola trottola(5) di vetro stava ruotando su se stessa, illuminando fiocamente la stanza fino ad allora completamente buia e producendo un acuto e fastidioso squillo continuo.
Le luci dell’appartamento erano tutte spente, perciò quando Niki si voltò verso l’ingresso notò subito che quelle del corridoio del 13° piano erano accese grazie al sottile fascio luminoso visibile al di sotto della sua porta. Smise di prestare attenzione alla voce che le stava chiedendo che cosa fosse quel rumore, limitandosi a sussurrare qualcosa tenendo gli occhi verdi inchiodati all’ingresso:
“Ti richiamo domani.”  La strega allontanò il telefono dall’orecchio senza guardarlo, ponendo fine alla chiamata e intascando il dispositivo senza smettere di osservare la sottile striscia luminosa che, invece di essere continua, appariva interrotta dall’ombra dei piedi di qualcuno che, evidentemente, si era piazzato davanti alla porta.
Niki non si mosse, restando perfettamente immobile e incapace di distogliere lo sguardo dal paio di ombre identiche. Alla fine, dopo istanti interminabili e senza il minimo rumore, mentre la trottola di vetro continuava imperterrita a roteare su se stessa e a squillare fastidiosamente, scivolarono di lato e sparirono.
A quel punto Niki riprese finalmente a respirare normalmente e si portò di nuovo il collo della bottiglia alle labbra senza distogliere lo sguardo dalla porta chiusa, controllando che il fascio di luce sotto alla porta restasse continuo. Dopo aver preso un generoso sorso di vodka, che le bruciò piacevolmente la gola e l’aiutò a calmarsi, si mosse silenziosa nell’oscurità per gettarsi sul divano, restando immobile con gli occhi fissi sulla superficie del frigo ricoperta da post-it mentre Mira saltava sul divano e le se si accoccolava in grembo quasi senza che la padrone se ne rendesse conto.
Come il 13B la trottola era di nuovo spenta, immobile e silenziosa.
 
 
 
 
 
 
 
 
(1): La casserole è un piatto tipico nordamericano a base di carne, verdure, formaggio o pesce che prende il nome dal recipiente in cui viene preparato e cotto in forno.
(2): Esercizio a corpo libero che somiglia più a uno strumento di tortura.
(3): Il cognome di Jackson è Salmon, il suo cibo preferito è il salmone… quindi Salmoncino.
(4): Nel caso qualcuno non avesse letto i libri e fosse un po’ perplesso: stando a quanto afferma Sibilla Cooman nel Prigioniero di Azkaban, quando 13 persone si siedono allo stesso tavolo il primo ad alzarsi sarà anche il primo a morire.
Seppur il passo del libro sembri costruito appositamente per schernire la Pipistrellona (Håkon e Phil, vi penso sempre) e sottolineare ancora una volta la completa inaffidabilità delle sue dichiarazioni, credo che sia una delle poche cose vere che la Cooman ci ha rifilato nel corso della saga: nel Prigioniero di Azkaban, il giorno di Natale, dichiara di non volersi sedere perché così facendo sarebbe la tredicesima persona seduta al tavolo della Sala Grande. Successivamente i primi ad alzarsi sono Ron e Harry in contemporanea, ma a voler ben vedere a tavola erano già in 13 prima dell’arrivo della Cooman poiché Ron aveva in tasca Crosta, che come sappiamo non è un topo. E il primo ad alzarsi, proprio per accogliere la Cooman, è Silente, che tra i presenti morirà per primo. Stessa cosa durante la prima sera di Harry a Grimmauld Place nell’Ordine della Fenice, quando a cena sono in 13 e il primo ad alzarsi da tavola è Sirius Black. Sorry Niki <3
(5): La trottola che appare nell’ultimo paragrafo è uno Spioscopio. È una trottola magica di vetro che si illumina, rotea e suona quando nelle vicinanze c’è qualcuno con cattive intenzioni.
 
 
 
 
 
……………………………………………………………………………………………………….
Angolo Autrice:

Buonasera!
Finalmente eccomi con il terzo capitolo, perdonate l’attesa più lunga del solito T.T Il prossimo capitolo sarà un “extra”, non avrà strettamente a che fare con la trama vera e propria, quindi sono sicura che sarà molto più rapido e semplice da scrivere e che arriverà molto prima. Ne approfitto, visto che ho introdotto il discorso, per informarvi che nel corso della storia si susseguiranno alcuni capitoli che esuleranno dalla trama e dalle strambe indagini dei protagonisti per permettermi di concentrarmi maggiormente sulle interazioni/relazioni tra gli OC, approfondirli un po’ di più e soprattutto far prendere forma a tante, tante idiozie che ho in mente. Mi scuso anche per il fatto che in questi primi capitoli Niki appaia parecchio rispetto agli altri, di solito i miei OC non sono particolarmente in primo piano rispetto ai vostri ma come avrete intuito lei è piuttosto legata alla trama della storia e avevo bisogno di scrivere molte cose, soprattutto in questi primi capitoli.
E se qualcuno che ha visto la serie sta cogliendo tutti i riferimenti (qui abbiamo la "zia Mabel" che lascia l'appartamento a Naomi, Em, sei geniale, ti adoro, e gli "Hardy Boys" che penso abbiano detto qualcosa a molte di voi), brave, brave, bravissime! <3 Non so se ve ne siete accorte, ma anche lo stesso PV di Jackie è apparso in alcuni episodi della serie. Ho una domandina piccolina e semplicissima per voi, vi prego di rispondere perché mi servirà per scrivere il prossimo capitolo: scegliete e scrivetemi un qualsiasi numero che sia compreso tra 1 e 10.
Alla prossima e grazie per le recensioni come sempre!
Baci,
Irene

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 4 - Carte in tavola ***


Piccola nota introduttiva:
A livello temporale questo capitolo si colloca esattamente una settimana dopo il precedente, settimana durante la quale sono successe alcune cose, tra i personaggi, che però leggerete solo nel prossimo. Questo per dirvi che se notate un’eccessiva confidenza improvvisa tra persone che si sono incontrate solo una volta è perché nei 7 giorni che separano questo capitolo e “13 piccoli condomini” tra loro sono successe altre cose.
Buona lettura, ci vediamo in fondo.


 
Capitolo 4
Carte in tavola

 
 
L’unico lato positivo dell’avere un serial killer a piede libero è il modo in cui può unire una città divisa. Tutti radunati nei loro appartamenti nello stesso momento, terrorizzati dallo stesso psicopatico. Devo riconoscere che persino io, quella sera, non impazzivo all’idea di stare da sola.
Nulla più di una crisi rende affiatati i newyorkesi.

 
 
Venerdì 24 settembre
 
 
Naomi Leigh Broussard non aveva alcuna intenzione di mettere piede fuori dall’Arconia – né dal suo appartamento in generale – quel venerdì sera: era tornata dal lavoro di pessimo umore e l’unico pensiero che le aveva consentito di arrivare sana di mente al termine della giornata era stata la consapevolezza che un’altra stressantissima settimana lavorativa stava per concludersi e che presto si sarebbe ritrovata sola con i suoi animali e libera di rilassarsi con un qualche programma scandalosamente trash sul divano.
Accolta come di consuetudine dalle feste di Sundance, Naomi si era per prima cosa fatta un lunga doccia calda, si era infilata una comodissima tuta fucsia in ciniglia e degli spessi calzettoni rosa pallido alti fino a metà polpaccio con delle fragole disegnate – un regalo di Moos, che tempo prima aveva deciso di iniziarla ai calzini con il cibo. Naomi, dapprima scettica, aveva finito con l’iniziare a collezionarli a sua volta – prima di cenare, nutrire i suoi animali e accendere il suo portatile per cercare qualcosa da mettere in sottofondo mentre cucinava: durante il weekend Naomi trascorreva tutto il tempo a casa cucinando, preparando tutti i pasti per la settimana seguente per averli pronti e non dover perdere tempo ai fornelli ogni sera di ritorno dal lavoro. Qualcuno definiva esagerata questa sua abitudine, lei si definiva semplicemente una persona molto organizzata. Ma cosa volevano capirne i suoi fratelli e i suoi colleghi, ripeteva sempre la strega davanti a Dorothea, la sua tartarughina, mentre passava ore e ore ad affettare, cuocere, friggere e condire e il suo frigo si riempiva sempre di più.
La strega stava ultimando la preparazione di una profumatissima pecan pie disponendo con millimetrica precisione le noci sulla base di pasta frolla – mentre le voci degli abbronzati e affascinanti protagonisti di un reality ambientato su un’assolata isola le facevano compagnia e Sundance la guardava con occhi sognanti e imploranti standosene seduto accanto a lei, la lunga coda color miele che colpiva ritmicamente il pavimento – quando i suoi piani per la serata vennero improvvisamente mandati drasticamente a monte: le luci della cucina si spensero, così come il forno che stava cuocendo una deliziosa casserole di pollo, e ad illuminare l’appartamento rimase solo lo schermo del PC, appoggiato su un angolo del ripiano di marmo che rivestiva l’isola.
Naomi non imprecò solo perché era un’educata ragazza di buona famiglia del Sud  e sbuffò con stizza mentre si puliva le mani sul grembiule bianco che si era allacciata in vita mezz’ora prima, ma allungandosi verso lo schermo del suo computer per controllare l’ora scorse qualcosa che aumentò a dismisura il suo sgomento: la batteria era quasi scarica, e senza corrente il suo fido compagno di serata si sarebbe presto spento. Non solo non avrebbe potuto continuare a cucinare niente finchè la corrente non fosse tornata, ma non avrebbe nemmeno potuto guardare nulla.
E a New York un blackout poteva durare cinque minuti come cinque ore. O cinque giorni.
Sundance è una tragedia, come farò senza poter scoprire chi verrà eliminato tra Ramon e Rodrigo?!”
 
Cinque minuti più tardi Naomi stava scrivendo a Moos per chiedergli se la corrente fosse saltata anche da lui standosene seduta sul divano con un paio di candele accese sul tavolino da caffè, Dorothea in braccio e Sundance che faceva nervosamente avanti e indietro davanti a lei, quando qualcuno bussò alla porta. La strega ruotò di scatto la testa verso l’ingresso ma per diversi istanti non si mosse pensando a Monty Dawson e alla sua morte e a come molti dei suoi vicini, a quanto sembrava, non pensassero che si fosse suicidato: di aprire la porta nel pieno di un blackout, sola e con un potenziale assassino come vicino di casa Naomi non ne aveva molta voglia, ma quando sentì bussare con maggior insistenza decise di alzarsi, recuperò la bacchetta dal tavolino da caffè e si avvicinò lentamente all’ingresso con Sundance al seguito.
La strega si premurò di guardare attraverso lo spioncino, ma non riuscì a scorgere alcuna sagoma a causa dell’oscurità che aveva avvolto il corridoio. Dicendosi che se qualcuno avesse voluto ucciderla difficilmente avrebbe bussato alla porta per farsi aprire, Naomi inspirò profondamente prima di parlare con un tono abbastanza alto affinché il suo visitatore potesse udire le sue parole:
“Chi è?!”
“Sono io, apri!”
Quando sentì la familiare voce di Gabriel Naomi tirò un rapido sospiro di sollievo prima di decidersi finalmente ad aprire la porta, spalancandola quel tanto che bastava per permettere all’amico di varcare la soglia mentre un sorriso di conforto le allargava le labbra carnose:
Meno male che sei tu, pensavo fosse qualcuno venuto a farmi fuori! Non potevi accendere la bacchetta?!”
“Perché qualcuno dovrebbe farti fuori, scusa?!”
“Tesoro io sono un avvocato, non siamo i professionisti più amati in circolazione. Non te la ricordi quella tizia fatta fuori sul treno in Europa?! Immagino che la corrente sia saltata anche da te… La mia casserole di pollo è perduta!”
L’espressione e il tono di voce della strega si fecero improvvisamente tragici e il bel viso della strega si rabbuiò; Gabriel si premurò di mettere una mano sulla spalla dell’amica e di assicurarle che avrebbero ricordato la sua casserole di pollo per sempre mentre Sundance, riconosciuto il ragazzo dalla voce, gli si avvicinava scodinzolando per cercare di leccargli le mani. Naomi allontanò sbuffando la mano dell’amico con un gesto brusco prima di accendere la sua bacchetta con un Lumos non verbale, restituendo un po’ di fioca illuminazione al suo bell’appartamento arredato in stile Antebellum giusto in tempo per scorgere l’accenno di sorriso sul volto di Gabriel:
Cretino, ci ho perso addietro un sacco di tempo! E la mia povera, bella pecan pie?!
“Ora è in un posto migliore, insieme alla casserole.”
“Mi toccherà recuperare tutto il tempo perduto domani, che gran rottura…”
“Sempre che la corrente ritorni per allora. Faremmo meglio a tirare fuori tutte le candele che abbiamo.”
E sprecare così le sue belle candele profumate che di norma riservava ai suoi bagni rilassanti?! Quel venerdì sera stava prendendo davvero una pessima piega, ma Naomi non fece in tempo a condividere le sue lamentele con Gabriel perché la porta dell’ingresso si aprì facendola sobbalzare e voltare di scatto: era già pronta ad usare l’amico come scudo umano – così imparava a prendersi gioco della sua casserole! – e a buttarsi su Sundance per salvarlo da un aggressore quando nella sagoma in piedi sulla soglia riconobbe Moos, il viso teso illuminato dalla punta accesa della sua bacchetta:
“Scusa se ci ho messo tanto, non trovavo le mie pantofole pecorelle ed ero così nervoso da essermi scordato di essere un mago e di poterle Appellare… Questo non va affatto bene, mio nonno diceva sempre che quando c’è un blackout a New York accadono cose molto spiacevoli. Ciao Gabriel!”
Dopo essersi chiuso la porta alle spalle con la mano libera – l’altra era occupata a stringere la bacchetta accesa mentre il braccio teneva ancorato Jam, la sua scontrosa tartaruga, al petto – l’espressione ansiosa di Moos si rilassò e il ragazzo rivolse un sorriso a Gabriel, che ricambiò prima di accennare in direzione di Naomi e della sua espressione visibilmente tetra anche nella semioscurità:
“Ciao Moos. Naomi è devastata.”
“Che succede? Stai male?”
Il sorriso amichevole sparì immediatamente dalle labbra di Moos, che distolse lo sguardo dall’amico per rivolgersi preoccupato a Naomi mentre Gabriel, annuendo, dava dei leggeri colpetti sulla spalla della strega:
“Sta attraversando il lutto, ha perso una casserole.”
Moos sgranò gli occhi e si portò la mano libera alle labbra in segno di sgomento mentre l’amica, per quanto minacciosa potesse sembrare a causa del suo abbigliamento e della sua ridotta statura, si metteva le mano sui fianchi per fulminare tutti e due con lo guardo:
“Finitela di prendermi in giro, siamo in un dannato blackout e qui è morto qualcuno!”
La casserole?”
“Non è affatto divertente Gabri.”
“Naomi io sono davvero dispiaciuto per te, nella mia famiglia perdere qualcosa di buono da mangiare era quasi una forma di lutto. Jam smettila di agitarti, vai con Dorothea e comportati da gentil rettile, non fare il bulletto.”
Moos si chinò per depositare con gentilezza Jam sul pavimento, guardandolo zampettare con calma verso la sua amica Dorothea mentre Naomi, spazientita, si andava a rimettere a sedere sul divano sbuffando e lasciando che Sundance le appoggiasse la grossa testa color miele sulle ginocchia:
“Comunque sappiate che voi due non ve ne andrete finchè non sarà tornata la corrente, io da sola nel mezzo di un blackout non ci sto! Almeno avessi un cane feroce pronto a difendermi, questo qui saluterebbe saltellando i miei aggressori e poi gli porterebbe anche una pallina.”
“Sei pazza, io per primo non me ne vado, da quando la vicina del 13B è entrata dalla finestra vivo nell’ansia che qualcuno con ben altre intenzioni possa rifarlo, anche se ho piazzato incantesimi ovunque. In realtà anche lei mi mette un po’ di soggezione, ma se non mi ha ucciso la prima volta dubito che lo farà in futuro.”
“Non me ne parlare Moosy, è così alta che potrebbe calpestarmi solo sollevando una gamba di pochi centimetri. Penso di arrivarle all’ombelico, senza tacchi. … Vi sento ridere, il blackout mina la vista ma non il mio udito, sapete? Qualcuno mi porti delle patatine alla paprika!”
A quella richiesta Gabriel provò ad iniziare un discorso molto serio e sentito su quanto quelle schifezze facessero male alla salute, ma l’occhiata gelida di Naomi riuscì a zittirlo anche nel bel mezzo di un blackout, così il tatuatore si arrese e si vide costretto a correre in cucina per accontentare la sua amica.
 
*
 
 
“Confermato che Nia passa la serata a casa di una sua compagna di corso, siamo ufficialmente liberi!”
Piper riemerse dalla cucina reggendo una bottiglia di vino per il collo e due calici di vetro, un largo sorriso sulle labbra e una maschera arancione spalmata sul viso mentre una fascetta di spugna rosa shocking le teneva indietro i capelli, quel giorno lunghi fino al mento e color rosso fuoco. La strega attraversò il salotto per raggiungere Jackson, comodamente seduto sul divano lilla con le gambe lunghe distese davanti a sé e impegnato a scrollare annoiato il feed di Wizagram.
“Detta così sembra che dobbiamo fare chissà che cosa…”
“Ma come osi, andare avanti con Emily in Paris è una cosa seria!”
Mentre la home del suo account Netflix stava in attesa dallo schermo della tv Piper prese posto accanto all’amico appoggiando calici e bottiglia sul tavolino, poi prese in mano la bacchetta per aprire la bottiglia con la magia mentre Jackson, distolto lo sguardo dallo schermo del telefono, le rivolgeva un sorrisetto divertito:
“La vuoi guardare solo per commentare gli outfit, confessa.”
“Certo, quello e per il figo.”
La sua amica non aveva affatto torto e Jackson stava per annuire e concordare con lei quando tutte le luci dell’appartamento e la tv si spensero di colpo, gettando il salotto nell’oscurità proprio mentre Piper versava il vino. La ragazza finì col spanderlo sul tavolino per la sorpresa, imprecando prima di affrettarsi a raddrizzare la bottiglia:
“Ma che ca…”

 
*

 
Niki si trovava nel bagno del pian terreno del suo appartamento, nonché l’unico che utilizzava, in piedi davanti allo specchio con una larga felpa nera con la scritta bianca “Catmom” addosso e un phon in mano, intenta ad asciugarsi i lunghi capelli scuri appena lavati.
Stava pensando a come trascorrere il resto della serata, indecisa tra il dedicarsi a continuare l’ennesimo rewatch di Sex and the City, Friends o The Office o se invece cimentarsi nella lettura di Later(1), quando la luce del bagno improvvisamente si spense, così come il phon.
Ritrovatasi improvvisamente nella completa oscurità e senza aria calda a disposizione la strega si guardò brevemente attorno e, appurato che la corrente se n’era andata facendole bellamente il dito medio, abbassò il braccio che reggeva il phon e imprecò, gli occhi verdi piantati sul soffitto:
Porca di quella stragrandissima pu…”


 
Carter non trascorreva mai il venerdì sera a casa salvo malanni, alluvioni o un improvviso accrescimento della sua asocialità e del suo sdegno per la stragrande maggioranza del resto dell’umanità, ma quella serata non rientrava in nessuno dei casi sopracitati: il mago stava finendo di prepararsi per il suo appuntamento imminente pettinandosi con estrema cura i lisci capelli biondi davanti allo specchio quando tutte le luci del 13E si spensero all’improvviso. Sarge, fino a quel momento rimasto in salotto con Isla usando la sua lunga coda color miele per far giocare la gatta, prese ad abbaiare brevemente prima di affrettarsi a raggiungere il padrone, trotterellando verso il bagno mentre Carter, riposto il pettine sul bordo del lavabo, sospirava rumorosamente:
“Non è possibile…”
Mentre Isla miagolava sommessamente da un angolo del salotto Carter accarezzò brevemente Sarge sulla testa per tranquillizzarlo prima di intimare gentilmente al cane di seguirlo, uscendo dal bagno cercando di ricordarsi dove avesse lasciato il suo telefono e muovendosi a tentoni nell’oscurità che aveva inghiottito il suo appartamento. Lo ritrovò cinque minuti dopo, sepolto tra i cuscini del divano color cuoio, e lo prese per scrivere a Mathieu e chiedergli se la corrente fosse saltata anche a casa sua, anche se il giornalista ne era praticamente certo: i lampioni di Central Park erano tutti spenti, così come, ad occhio, tutte le luci del quartiere fino al Village.
“Grandioso, proprio stasera che devo uscire! Non poteva saltare ieri, la corrente, quando Lincoln mi ha chiamato e mi ha tenuto al telefono dieci minuti per rompermi le palle, Sarge?!”
Non importa cosa accadeva, come o quando, alla fine Carter trovava sempre il modo di inveire contro il suo snervatamente noioso e perfettino fratello maggiore. Di sicuro per lui il blackout che aveva inghiottito parte di Manhattan non sarebbe stato un problema, si disse con amarezza Carter mentre sprofondava tra i cuscini del divano controllando lo schermo del telefono in caso Mathieu gli avesse risposto, Lincoln di certo non avrebbe avuto niente di interessante da fare quella sera.
Quando una notifica lo informò del mancato invio del messaggio Carter sbuffò di nuovo, imprecando con un filo di voce prima di alzarsi in piedi: con il Wi-Fi fuori gioco gli sarebbe toccato uscire dall’appartamento e andare a chiedere di persona, ma il ragazzo aveva appena messo piede fuori dal 13E insieme a Sarge, inoltrandosi nel corridoio deserto e completamente avvolto dall’oscurità, quando si rese conto di non aver nessuna voglia di fare le scale da solo e di incontrare, magari, qualcuno armato di ascia dietro la porta. Un bel ragazzo ricco era morto solo una decina di giorni prima e non era il caso che l’Arconia ne perdesse un altro.
La torcia del telefono ad illuminare la porzione di pavimento del largo corridoio che aveva davanti, i grandi occhi chiari di Carter scivolarono verso l’estremità opposta del piano, oltre gli ascensori, soffermandosi sul punto dove sapeva trovarsi una delle altre porte senza riuscire a vederla veramente.
Quella serata non faceva altro che migliorare, si disse con amarezza il ragazzo prima di invitare Sarge a seguirlo e farsi luce per dirigersi verso gli altri appartamenti. Poteva solo sperare che la signora del 13C, che lo mal sopportava, non scegliesse quell’esatto momento per uscire di casa a sua volta.
 
 
Niki controllava attraverso lo spioncino quando qualcuno suonava il campanello o bussava alla sua porta da quando era bambina, con la differenza che negli anni aveva smesso di essere costretta a trascinare uno sgabellino davanti alla porta per essere abbastanza alta per poterlo fare. Proprio per questo motivo quando la strega udì bussare alla porta e raggiunse l’ingresso avvicinò il viso allo spioncino in un gesto automatico e dettato da anni di abitudine, ma senza riuscire a vedere nulla a causa del blackout che sembrava aver inghiottito tutto il palazzo.
L’idea di non poter verificare con i propri occhi l’identità della persona che aveva bussato alla sua porta non le piaceva affatto, ma dopo una breve esitazione – e dopo essersi accertata con una rapida occhiata che lo Spioscopio giacesse spento e immobile sul tavolino dove lo aveva lasciato – si decise a parlare con un basso borbottio cupo:
“Chi è?!”
Niki era piuttosto determinata a lasciare fuori dalla porta chiunque si fosse presentato da lei nel pieno di un blackout e volse lo sguardo sull’area dell’open space adibita a salotto per continuare a controllare il suo Spioscopio proprio mentre l’ormai nota voce del suo vicino si annunciava con un borbottio sommesso, come se Carter non avesse alcuna voglia di trovarsi lì. Seppur tentata di lasciarlo fuori Niki, appurato che lo Spioscopio ancora non emetteva alcun suono, alzò gli occhi verdi al cielo prima di aprire la porta, salutando svogliatamente il vicino fiocamente illuminato dalla torcia del telefono prima di chiedergli cosa volesse:
“È saltata la corrente anche da te?”
Carter non riuscì a scorgere per bene Niki in faccia a causa del blackout ma gli sembrò comunque che nessuna emozione particolare le attraversasse il volto mentre lo guardava, immobile ed inespressiva davanti a lui. Dopo averlo contemplato brevemente – impossibile sapere che cosa stesse pensando, e a Carter non restò che sperare che non intendesse approfittare della situazione per ucciderlo e liberarsi del corpo in libertà – la strega finalmente disse qualcosa, ruotando la testa di appena qualche centimetro per accennare verso l’interno del suo appartamento disseminato di candele accese:
“No. No, stavo facendo una seduta spiritica per parlare con Montgomery e chiedergli chi l’ha seccato. Ti vuoi aggregare?”
“Sei pregata di non usare il sarcasmo con me, il sarcasmo è una cosa mia.”
Sì, il sarcasmo era una cosa sua, lui lo usava da tutta la vita. E non aveva mai riflettuto su quanto potesse risultare sgradevole finchè non aveva conosciuto lei.
“Dici davvero?”
“Sì.”
Carter annuì serio mentre Niki sollevava entrambe le mani per poggiarsele incrociate all’altezza del petto, guardandolo con gli occhi verdi leggermente spalancati mentre annuiva lentamente:
“Oh, mi dispiace tanto. Se solo me ne fregasse qualcosa. Ciao, tesorino.”
Carter serrò la mascella, facendo appello a tutto il suo autocontrollo – se la sua dolce nonnina avesse saputo che aveva insultato pesantemente una donna gli avrebbe mandato frotte di Strillettere e niente più biscottini per un mese, e lei sapeva sempre tutto – mentre Niki chinava lo sguardo su Sarge e un sorriso dolcissimo le sollevava gli angoli delle labbra. Fu piuttosto bizzarro vederla sorridere e Carter rimase a guardarla stranito mentre la donna si chinava verso Sarge per accarezzargli la testa pelosa con entrambe le mani, complimentandosi con lui per quanto fosse carino.
“Chi è il biondino più bello, qui? Vero che sei tu?”
Naturalmente Carter viveva nella ferma convinzione di possedere il cane più bello del mondo, certo, ma avrebbe avuto qualcosa da ridire sull’affermazione della strega a proposito del biondo più bello in circolazione se solo Niki non avesse sollevato la testa per guardarlo, studiandolo continuando ad accarezzare Sarge e senza più nessuna traccia di sorriso sulle labbra:
“Seriamente, perché sei qui?”
“Volevo accertarmi che fosse saltata la corrente ovunque e tu, strano a dirlo, per certi versi sei la persona più decente su questo piano, a parte me.”
Niki non sembrò considerare le sue parole come un offesa, anzi annuì e si strinse nelle spalle dopo averci riflettuto brevemente ed essersi raddrizzata, ergendosi in tutta la sua considerevole altezza davanti al vicino:
“Considerando le due vecchie megere che separano i nostri appartamenti, direi che penso lo stesso di te. Ora, se non ti serve altro, io me ne torno dentro.”
“Mezza Manhattan è quasi sicuramente al buio, c’è un potenziale assassino in giro e tu vuoi startene da sola? Che razza di newyorkese sei?”
“Ho sempre trovato incredibilmente ipocrita come in questa città le persone si rammentino di avere dei vicini solo in situazioni di questo tipo. E da chi dovrei andare, dalla simpaticona della porta accanto?”
Anche nella semioscurità Carter scorse Niki inarcare un sopracciglio mentre accennava scettica alla porta chiusa del 13C, e il ragazzo la stava ancora osservando, dubbioso, quando sentì il telefono vibrargli piano nella mano destra: chinando lo sguardo lesse il messaggio che gli era appena arrivato e tentennò, combattuto sul da farsi, prima di pronunciare le ultime parole che solo un’ora prima avrebbe mai immagino di sentirsi uscire di bocca.
Era incredibile che lo stesse dicendo, ma poteva quasi sentire la sua nonnina intimargli che fosse la cosa giusta da fare. E pensare che c’era gente che aveva il coraggio di sostenere che non fosse educato!
Niki stava per rientrare in casa quando lo sentì biascicare qualcosa di incomprensibile, ritrovandosi a guardarlo con una mano sulla porta e la fronte aggrottata:
“Come?”
“Ho detto che se vuoi puoi… venire con me.”
Niki ebbe l’impressione che pronunciare quelle parole stesse costando a Carter un indescrivibile sforzo fisico, ma non ci badò, riflettendo invece con una punta di raccapriccio sulla possibilità di trascorrere un blackout in compagnia di un tizio che conosceva a malapena. Tanto valeva aspettare da sola che qualcuno cercasse di sfondare la porta e farla fuori.
“Dove?”
“Quando c’è un blackout di solito mi accampo da Matt.”
Carter capì che Niki non era sicura di chi stesse parlando quando scorse la perplessità sul suo bel volto, portandolo a sospirare piano prima di aiutarla:
“L’altro ragazzo biondo.”
Il padrone dell’alano?”
Il viso di Niki parve come illuminarsi mentre un inaspettato accenno di sorriso faceva di nuovo capolino sulle sue labbra, sparendo un istante dopo come era apparso mentre la strega rifletteva rapidamente sul da farsi: poteva non essere una delle sue decisioni migliori, ma il suo vicino aveva fastidiosamente ragione, neanche restare da sola in quella situazione sarebbe stata una mossa molto intelligente.
“Credo che non sia il caso per nessuno, al momento, di restare solo.”
Carter si strinse nelle spalle, quasi le avesse letto nel pensiero, e Niki esitò mentre si voltava verso l’interno del suo appartamento, studiando brevemente il suo Spioscopio prima di annuire e mormorare un assenso. Disse al giornalista di aspettare – sembrava che per qualche motivo fosse destinata a trovarselo continuamente sulla porta di casa – prima di rientrare nel 13B, spegnere tutte le candele, riempire d’acqua le ciotole delle sue gattine e salutarle. Restò in piedi ad osservare lo Spioscopio, pensosa, prima che i suoi occhi saettassero sulla porta socchiusa dell’appartamento e poi di nuovo sulla trottola di vetro; infine la prese, se la infilò rapida nella tasca centrale della felpa in compagnia della bacchetta, si sollevò il cappuccio sui capelli bagnati e uscì.

 
*

 
Quella sera Leena Madison Zabini aveva chiesto asilo alla persona che meglio conosceva nel palazzo, ovvero Eileen: le due, per un curioso segno del destino, due anni prima si erano trasferite all’Arconia esattamente nello stesso periodo, e dopo essersi incontrate di sfuggita nell’atrio, ciascuna con i propri scatoloni, erano presto diventate amiche grazie alle età vicine, le comuni origini britanniche e caratteri perfettamente combattibili.
La prima adorava la personalità deliziosamente spumeggiante di Eileen, nonché la sua vena da secchiona nerd, celate da una facciata fatta di capelli sempre perfettamente in ordine e vestiti eleganti, e la seconda riteneva che Leena fosse di gran lunga la persona più piacevole che avesse conosciuto da quando si era traferita a New York tre anni prima. Il fatto che spesso l’ex Corvonero fosse costretta a trascorrere del tempo fuori dal suo appartamento e finisse col chiederle ospitalità non le pesava affatto: la compagnia di Leena era di gran lunga più apprezzata rispetto a quella della sua ex coinquilina, sempre fastidiosamente incline a lasciare vestiti e piatti sporchi ovunque.
Mentre Anacleto riposava sul suo trespolo e i cartoni di due pizze giacevano vuoti sulla superficie immacolata dell’isola rettangolare della cucina le due streghe sedevano in silenzio sul divano grigio chiaro di Eileen, ciascuna con il proprio portatile sulle ginocchia e una grossa ciotola di vetro piena di popcorn tra loro.
“Che fai?”
“Scrivo. Tu?”
“Lavoro.”
“Tu lavori troppo.”
“Ma non è vero. A casa come sta andando?”
“Mh, niente di buono, pare che lui sia un petulante attaccabrighe.”
“Sai che se vuoi puoi dormire qui, ho la stanza degli ospiti.”
Eileen parlò senza distogliere lo sguardo dallo schermo del pc, le sopracciglia scure perfettamente disegnate leggermente aggrottate per la concentrazione mentre l’amica, voltandosi invece verso di lei, le rivolgeva un sorriso grato:
“Sei molto gentile, ma non serve, tranquilla.”
“Come preferisci. Hai trovato l’arma del delitto?”
“Pensavo ad un ferro da maglia. Sai, c’è un personaggio che cuce e qualcuno vuole incastrarla.”
Un sorriso allargò le labbra carnose di Leena, che parlò con un lieve luccichio nei grandi occhi scuri – visibilmente entusiasta della propria trovata – mentre l’amica allungava una mano alla cieca verso i popcorn per prenderne una manciata e annuiva senza smettere di fissare lo schermo del computer grigio argento:
“Carino, mi piace. Per la barba di Merlino, dev’essere tremendo venire pugnalati con un ferro da maglia!”
Mentre rifletteva su quella cruenta eventualità Eileen sollevò finalmente lo sguardo dal pc, i grandi occhi eterocromi puntati davanti a sé su un punto indefinito della grande stanza che fungeva da salotto, cucina e sala da pranzo mentre Leena, accanto a lei, sorrideva allegra mettendosi più comoda contro i cuscini del divano:
“Sì, assolutamente orribile! Ma la vittima non era proprio una signora simpatica, questo potrebbe farti sentire meglio. Poi quando leggerai mi farai sapere le tue teorie.”
Eileen stava per assentire e tornare a concentrarsi sulla programmazione di un nuovo aggiornamento per MagicMatching quando tutte le luci del salotto e della cucina si spensero, gettando il 6C e le due streghe nell’oscurità: i visi illuminati solo dalla fioca luce fredda degli schermi, Eileen e Leena si guardarono brevemente attorno prima che la padrona di casa sospirasse stancamente e l’amica, invece, controllasse ansiosamente il livello della batteria, affrettandosi a salvare il suo prezioso lavoro prima che il computer potesse scaricarsi e rendere vani tutti i suoi sforzi.
“Devo salvare prima di perdere tutto, cavolo!”
“Lo dici a me?! Sono ferma su questo stupido aggiornamento da giorni, stramaledetto blackout!”
“Per tutti i calderotti alla menta, non pensi che l’assassino abbia staccato la corrente apposta per far fuori qualcun altro indisturbato, vero?”
No, fino a quel momento Eileen non era stata nemmeno sfiorata lentamente da quel pensiero, ma le parole dell’amica – che la guardò con gli occhi spalancati un po’ dal timore, un po’ dall’eccitazione, quasi quella prospettiva la elettrizzasse più che spaventarla – le provocarono un leggero senso di inquietudine prima di allungarsi verso il tavolino da caffè, appoggiarci sopra il computer e alzarsi per andare a dare un’occhiata al di fuori della finestra più vicina: l’Upper West Side sembrava essersi improvvisamente spento del tutto, così come Central Park, inghiottito dall’oscurità. Non aveva mai visto New York in quelle condizioni e le fece un effetto strano, ma al tempo stesso fu rincuorante appurare che ad essere rimasto al buio non era stato solo l’Arconia.
“No, è tutto spento fino… fino al Village, credo. Anche l’Upper East Side mi sembra al buio, oltre il parco non vedo niente di acceso.”
“Allora forse non è opera dell’assassino. Forse.”
Ma Leena non sembrava ancora del tutto convinta mentre abbassava lo schermo del pc per poi recuperare la propria bacchetta e accenderla con un Lumos non verbale, giusto in tempo affinché Eileen potesse voltarsi e scorgere l’espressione pensosa sul suo bel viso:
“Tu leggi troppo, Leena.”

 
*

 
Esteban voleva assolutamente finire il suo articolo, quella sera, così avrebbe potuto rilassarsi e uscire per tutto il weekend invece di doversi chiudere in casa a lavorare: settembre stava finendo, l’Autunno era ufficialmente arrivato e presto Central Park, il polmone verde della città, avrebbe iniziato a tingersi di calde tonalità aranciate e giallastre e a coprire i suoi viali di foglie secche. Quello poteva essere l’ultimo weekend con un clima decente per un bel po’ di tempo ed Esteban non aveva alcuna intenzione di trascorrerlo dentro l’Arconia.
Il ragazzo sedeva scompostamente sul suo divano, impegnato a rileggere ciò che aveva scritto fino a quel momento mentre Mocio, disteso sul pavimento davanti a lui, mordicchiava con grande dedizione un osso di gomma giallo. Moriva dalla voglia di fumarsi una canna, ma continuava a ripetersi che prima doveva finire quel maledetto articolo, salvare il documento e spegnere finalmente il computer, dopodichè avrebbe finalmente potuto rilassarsi e godersi il tanto agognato venerdì sera.
Stava per rimettersi a scrivere quando il suo piano, sfortunatamente, andò in fumo: le luci si spensero, Mocio rizzò la testa prima di iniziare ad abbaiare all’oscurità che aveva avvolto l’appartamento e il ragazzo, dapprima esterrefatto, disse al cane di smetterla di abbaiare prima di controllare la batteria del computer: 10%. Si era detto di metterlo in carica un’ora prima, ma poi Mocio aveva preso a cercare di mordere uno dei cuscini del divano e si era distratto, dimenticandosene totalmente.
“No no no no no, no!”
Esteban impallidì, affrettandosi a salvare le ultime modifiche al documento digitale prima di mettersi le mani nei lunghi capelli scuri: non potendolo mettere in carica si sarebbe spento a breve, ergo non avrebbe potuto finire di scriverlo. E tanti saluti al suo sabato di relax.
A meno che la corrente non ritornasse magicamente entro breve, ma Esteban sapeva per esperienza quanto fossero spinosi i blackout in una città come New York. Si alzò, si avvicinò alle finestre del salotto con Mocio al seguito con l’osso tra i denti e guardò fuori prima di sospirare: sembrava che tutto il quartiere fosse al buio. Ne avrebbero avuto per un bel po’.
“Che grandissimo scazzo, Mocio.”


 
*

 
Quando qualcuno bussò alla sua porta Orion aprì pregando che nessuno fosse venuto a farlo fuori – del resto era sicuro che presto sarebbe morto qualcun altro e quale momento migliore di un blackout? – e con il suo gufo Arthur appollaiato sulla spalla: da quando era saltata la corrente e l’astronomo aveva preso ad imprecare a causa della partita di scacchi online che non avrebbe potuto concludere il gufo aveva ben pensato di planargli sulla testa, aumentando la stizza del mago che aveva impiegato ben 5 minuti buoni per levarselo di dosso e a convincerlo a sistemarsi sulla sua spalla anziché che sui suoi bei capelli.
“Ciao. Non è che per caso hai delle candele?”
Per fortuna quando aprì il suo visitatore si rivelò essere Kei, che lo guardò cupo tenendo la bacchetta accesa sollevata davanti a sé mentre Orion, sollevato, gli sorrideva gentilmente tenendo la porta aperta:
“No, mi spiace, stavo per venire a chiedertele io.”
Fantastico. Posso entrare?”
“Certo. Se vuoi giochiamo a scacchi!”
Orion si spostò di lato per far passare l’amico con gli occhi castani improvvisamente luccicanti, deliziato all’idea di poter recuperare la partita perduta con una in carne ed ossa mentre Kei, entrato nel suo appartamento, andava a sedersi sul divano con un basso sospiro:
“Io non ci gioco a scacchi con te Orion, lo sai.”
“Sei noioso.”
“Non sono noioso, è che alla lunga mi sono stancato di farmi stracciare senza pietà.”
“E allora che cosa facciamo, ci pettiniamo i capelli e ci raccontiamo segreti per tutta la sera?!”
Kei stava per rispondere, dichiarando che per lui quel programma andava benissimo e che di segreti dei loro vicini ne conosceva un bel po’, quando qualcun altro bussò alla porta e Orion, perplesso, tornò accigliato verso l’ingresso chiedendosi chi altro potesse essere e con Arthur sempre appollaiatogli sulla spalla. Fortunatamente non si trattò ancora una volta di qualcuno venuto ad ucciderlo e l’astronomo si ritrovò davanti Esteban, la bacchetta in mano e una felpa grigia troppo larga addosso, ma senza alcuna traccia di sorriso sulle labbra:
“Ciao. Hai delle candele?”
“Perché tutti me lo chiedono, ho l’aria di uno che colleziona candele? Comunque no, mi spiace.”
“Dannazione, volevo provare a finire di scrivere il mio articolo con pergamena e inchiostro ma non ho niente con cui farmi luce.”
Esteban non avrebbe mai creduto si ritrovarsi a formulare un pensiero simile, ma sì, si ripromise di comprare un bel po’ di candele il prima possibile.
“Vuoi entrare? Oppure possiamo andare a caccia di candele in giro per il palazzo.”
Tutto sommato non era affatto un’idea malvagia, soprattutto se davvero voleva sperare di scrivere ancora qualcosa quella sera, ed Esteban stava per assentire quando la voce di Kei giunse da un punto indefinito alle spalle di Orion, da qualche parte nel salotto buio:
“Chi è?! Il tristo mietitore?”
“Esteban. C’è anche Kei, anche lui sprovvisto di candele. Quando torna la corrente andiamo tutti in spedizione da Yankee Candle, segnatevelo. Kei, muoviti, andiamo giù da Lester a chiedergli se c’è qualche scorta di candele o torce da qualche parte.”
“D’accordo, arrivo…”
Seppur controvoglia Kei si alzò, la bacchetta accesa davanti a sé mentre raggiungeva i vicini nell’ingresso, uscendo dall’appartamento con Orion al seguito – l’unico a conservare qualche cenno di buon’umore – mentre Esteban gli chiedeva accigliato che cosa fosse “Yankee Candle”.
“Una catena di negozi di candele profumate ridicolmente care.”
“Non mi sorprende di non averci mai messo piede, ma ora me ne sto pentendo.”

 
*

 
“Naomi, perché te ne stai andando in giro con quella candela gigante in braccio, mi sembri Ebenezer Scrooge.”
“Voglio usare la torcia del telefono il meno possibile per non scaricarlo, visto che non potrò metterlo in carica. E comunque sto sprecando la mia preziosissima Yankee Candle gusto Vanilla Cupcake, pensi che ne sia felice?!”
Naomi, Gabriel e Moos giunsero nell’atrio dopo aver sceso ben undici piani di scale, la ragazza imbracciando una gigantesca candela racchiusa in una giara di vetro e i due amici con le torce del telefono accese. L’atrio era affollato come non lo avevano mai visto, e Moos si ritrovò all’improvviso a riflettere sulla possibile presenza di fantasmi di condomini passati nell’Arconia mentre Gabriel osservava con tetra rassegnazione la portineria presa d’assalto:
“Fantastico, immagino che se c’erano torce ormai siano già state prese. Dovevi proprio cambiarti prima di scendere?”
“Tesoro, farmi vedere da voi due con la tuta di ciniglia è un conto, ma non ci tenevo a ripetere l’esperienza della sera in cui è morto voi-sapete-chi.”
Naomi fece spallucce continuando ad imbracciare la candela – stringendola con fare protettivo quando scorse gli sguardi carichi d’invidia di alcuni vicini – prima di prendere a studiare a sua volta la portineria, quasi certa di vedere un putiferio scoppiare a breve e i suoi vicini scannarsi per le fonti di illuminazione:
“Dominio di massa. A breve vedremo atti di cannibalismo e teste mozzate volare, la sottile linea tra civiltà e uomini delle caverne è data dall’uso della corrente…”
“Come la fai tragica, sei proprio un avvocato... dovreste vedere i blackout di Harlem, quelli sì che sono tosti. Se solo mia madre mi rispondesse, stupida linea.”
“Non sono tragica, sono realista. Cerchiamo delle torce e poi filiamocela, non voglio assistere agli Hunger Games New York Edition.”
Ma Naomi non ebbe bisogno di cercare il povero Lester insieme ai due amici, perché Orion, dopo averne chiesta inutilmente una a sua volta, si avvicinò indicando la candela della strega:
“Le torce sono tutte finite, abbiamo già chiesto noi. Hey, ecco una Yankee Candle! Vedete, lei sì che è attrezzata!”
L’astronomo si voltò per indicare Naomi a Kei e a Esteban, che avvicinandosi vennero colpiti dal forte aroma di cupcake alla vaniglia proveniente dall’enorme candela: entrambi salutarono i vicini e i tre ex Serpecorno ricambiarono mentre Esteban, fissando la candela, si chiedeva come potesse un ammasso di cera profumare di dolci in modo così realistico. Forse comprarne una sarebbe stata una pessima idea visto che Mocio avrebbe sicuramente finito col cercare di mangiarsela.
“Che profumo di cupcake…”
“È la mia candela. No, non potete mangiarla, ci ha già provato il mio cane.”
“Questo mi ricorda a tutto il cibo del frigo che andrà a male. Quanto vorrei un cupcake!”
Orion sospirò amareggiato mentre Naomi, scura in volto, si sforzava di non pensare a tutto il delizioso cibo contenuto nel suo congelatore e mormorava di poterlo capire perfettamente. Maledetto blackout.

 
*

 
“Ciao, ho con me una zavorra, fortunatamente magrissima. Sarge, guarda, c’è Prune!”
Quando aprì la porta del suo appartamento tenendo in mano la bacchetta accesa Mathieu vide Carter passargli davanti insieme al suo Golden Retriever che, dopo essersi fermato davanti al padrone di casa per una carezza, trotterellò scodinzolando verso Prune e il divano quasi interamente occupato dall’alano, visibilmente poco entusiasta dell’oscurità che aveva inghiottito casa sua.
Mathieu, accigliato, stava per chiedere al vicino di che cosa stesse parlando quando vide Niki sfilargli davanti dietro a Carter con il cappuccio della felpa nera sollevato sulla testa come al solito e le mani in tasca, borbottando un cupo “ciao” senza guardarlo prima di scorgere il suo cane, accennare un sorriso e affrettarsi a raggiungerlo:
“Ciao piccolo!”
Il saluto che la strega rivolse a Prune si rivelò molto più entusiasta del precedente, ma Mathieu decise di soprassedere mentre chiudeva la porta e si rivolgeva a Carter per chiedergli accigliato perché si fosse portato dietro la sua vicina. Forse nel buio era inciampato e aveva sbattuto rovinosamente la testa.
“Beh, ho pensato che sarebbe un problema se qualcuno dovesse farla fuori, visto che mi sarà molto utile per il mio lavoro e per scoprire chi ha ucciso Montgomery. Mi infastidisce ammetterlo, ma a parte quando si rivolge in modo ebete ai nostri cani mi sembra abbastanza sveglia.”
I due volsero sincronicamente gli sguardi sulla strega, che si era seduta sul bordo del divano di Prune per accarezzarlo mentre Sarge la guardava scodinzolando aspettando il suo turno per le coccole, studiandola dubbiosi mentre Niki parlava senza voltarsi e continuando a grattare dolcemente il collo dell’alano:
“Ti ho sentito, simpaticone. È proprio un brutto cretino, vero piccolo Prune?”
“Non provarci, Prune mi adora!”
“Certo, come no.”
“Se dovete fare così tutta la sera vi chiudo in stanze separate, vi avviso.”
Mathieu sospirò, certo che sarebbe stato un blackout infinitamente lungo mentre Niki, per nulla indispettita dalle sue parole, si voltava sfoggiando il secondo largo sorriso della giornata:
“Davvero? Fantastico! Io posso stare con Prune?!”
Mathieu stava seriamente pensando a cosa risponderle quando qualcuno bussò alla porta con gesti rapidi e frettolosi, inducendolo a voltarsi verso la porta e a chiedersi chi altro gli stesse facendo visita dopo la coppia di vicini più allucinata che avesse mai avuto. Il mago aprì la porta mentre Carter si avvicina al divano occupato da Prune e Niki e a Sarge, che si stava facendo accarezzare la testa dalla strega dopo essersi seduto sul pavimento accanto a lei, e si mise le mani sui fianchi per gettare un’occhiata severa al suo amato cane:
“Sarge, smettila di fare amicizia con lei, non senti come tratta male tuo padre?!”
Figlio ingrato e traditore, si disse amaramente il giornalista mentre Niki, continuando ad accarezzare il Golden Retriever, sollevava lo sguardo su di lui per rivolgergli un sorrisetto beffardo:
“Rassegnati, i cani mi amano.”
“Beh, in fondo mi sembra giusto per bilanciare visto che ti impegni a farti detestare dagli umani.”
Carter aveva intenzione di offenderla ma le sue parole non andarono a segno a giudicare dal modo con cui la strega si strinse nelle spalle, del tutto indifferente alla sua frecciatina mentre si guardava pigramente attorno nell’enorme stanza fiocamente illuminata dalle loro bacchette e da qualche sporadica candela disseminata in giro.
“Che posto enorme. Che lavoro fa il tuo amico?”
“… Non saprei.”
“Scusami, da quanto lo conosci?”
“Da, emh, qualche anno.”
7 anni, ma non si premurò di farglielo sapere per non darle altri motivi per criticarlo
Fu una delle prime occasioni in cui Carter scorse un’emozione sincera palesarsi sul bel viso della sua vicina, che lo guardò spalancando gli occhi e sollevando le sopracciglia sottili in una manifestazione di pura sorpresa:
“E non sai che cosa fa? Santo cielo, sei utile quanto un forno nel deserto del Sahara. Comunque fa orari molti strani.”
“Come fai a saperlo?”
“Io non dormo mai e a volte vedo la gente fare avanti e indietro fuori dal palazzo. Lui esce prestissimo, mi sembra.”
Che razza di lavoro poteva fare qualcuno che si alzava prima dell’alba, quando tutti dormivano, si chiese Niki mentre si alzava dal divano per guardarsi attorno e Prune le gettava un’occhiata malinconica, rattristato dal suo alzarsi per smettere di dargli attenzioni.
Carter stava riflettendo su quando aveva conosciuto Mathieu e sul loro non parlare mai di lavoro – in effetti non si poteva definire una persona incline a fare domande personali a chi gli stava attorno se non quando era costretto per lavoro. Per lui era sempre stato ovvio che Mathieu provenisse da una famiglia spaventosamente ricca, cosa di cui aveva presto avuto conferma, e ciò gli era bastato – quando Niki si allontanò per dirigersi verso la parte dell’immenso salotto che stava oltre il divano occupato da Prune.
Che se ne faceva di tutti quei divani, si disse accigliata la strega mentre studiava gli altri due enormi divani color crema, ma smise di pensarci quando scorse un’immensa libreria e si affrettò a raggiungerla. Sui divani si sarebbe interrogata più tardi, meglio pensare ai libri.
 
Quando aveva aperto la porta Mathieu si era trovato davanti con somma sorpresa Leena ed Eileen, entrambe con le bacchette accese in mano, e aveva guardato sorpreso le due streghe sorridergli e salutarlo prima di entrare in casa, sfilandogli davanti come Carter e Niki avevano fatto poco prima.
Sinceramente quando la corrente era saltata non si era aspettato di ritrovarsi ad ospitare il Club dei Guanti color Canarino, ma le aveva fatte entrare senza fare commenti e chiudendo loro la porta alle spalle mentre Carter, scorte le due, si avvicinava all’ingresso tenendo le mani sprofondate nelle tasche dei jeans:
“Ciao ragazze. Che ci fate qui?”
“Ciao. Volevamo venire da te o da Niki a chiedere una torcia, ma da lei non rispondeva nessuno e da te nemmeno, ma quando abbiamo bussato a casa tua un biglietto che diceva che eri qui è sbucato da sotto la porta.”
“Ahhh, sì, l’ho incantato, così se qualcuno fosse venuto a cercarmi avrebbe saputo dove trovarmi.”
Carter parlò facendo sfoggio del suo sorriso più seducente, che si trasformò in una smorfia infastidita quando una risata evidentemente beffarda e un “Certo, saranno tutti in fila” echeggiarono in direzione della libreria che Niki stava studiando tenendo la bacchetta accesa sollevata davanti a sé.
“Dovevo lasciarti sola a farti fare una visitina dal killer.”
“Beh, in tal caso poi sarebbero stati cazzi vostri. Anzi, tuoi, visto che tutti ci hanno sentiti litigare più volte.”
Niki parlò senza distogliere lo sguardo dalla libreria, impegnata a studiare i quarti delle copertine mentre Carter, udite le sue parole, veniva colpito da una spiacevolissima consapevolezza.

Merda, aveva ragione. Se fosse schiattata avrebbero tutti incolpato lui!

Mentre Mathieu, deciso ad allontanarsi dalla discussione e in caso fosse degenerata a non essere testimone di un sanguinoso omicidio si dirigeva verso la cucina per prendere Burrobirre per tutti Eileen e Leena si allontanarono dall’ingresso: la prima si fermò ad accarezzare Sarge e Prune mentre la seconda, dopo essersi guardata brevemente attorno tenendo le lunghe braccia strette al petto, scorgeva Niki dal capo opposto della stanza impegnata a spostare qualche libro prendendone l’estremità superiore con l’indice e attirandolo brevemente verso di sé prima di rimetterlo con cura al proprio posto.
“Niki, cosa stai facendo?”
Certo il passaggio segreto. Vuoi darmi una mano?”
“Vengo subito!”
Un sorriso entusiasta allargò le labbra carnose della britannica, che raggirò di corsa il divano per correre dalla vicina mentre Carter ed Eileen le guardavano stando in piedi uno accanto all’altra, il primo chiedendosi perché in quel palazzo le donne più erano belle e più erano strane e la seconda preoccupata e rassegnata al tempo stesso: la spagnola sollevò una mano pallida, portandosela davanti alle labbra mentre una preoccupante consapevolezza la colpiva.
Madre de Diosne ha trovata una uguale a lei.”
“Ed è un male?”
“Tu che ne pensi, guapo? Muy mal.”
 

*

 
“Ma possibile che tutti i nostri vicini si siano dissolti nel nulla?! Dove sono tutti quanti?!”
“Speriamo che l’assassino di Monty non li abbia fatti sparire tutti…”
Jackson evitava l’ascensore da quando era bambino a causa della sua forte claustrofobia e per lui fare le scale non aveva mai rappresentato un problema; lo stesso non si poteva dire di Piper, che pur di non farsi 11 piani a piedi cercava costantemente di tenere a bada la sua paura per gli spazi ristretti usando comunque l’ascensore. Ora, costretta ad imitare l’amico, stava seguendo Jackson su e giù per la tromba delle scale tenendo la bacchetta accesa sollevata davanti a sé per evitare di inciampare rovinosamente su un gradino, ma alle parole del veterinario si fermò di colpo e guardò la nuca di Jackson spalancando le labbra e gli occhi scuri:
“Perché cavolo l’hai detto Jackie, adesso ho ancora più paura di prima!”
“Ma dai, scherzavo! Vedrai che saranno tutti al pian terreno.”
Piper non era del tutto convinta, ma si disse che il modo migliore per evitare di fare una brutta fine era restare insieme ad altri e dopo aver tratto un profondo sospiro riprese a seguire Jackson. Aveva ormai perso il conto delle rampe di scale, ma erano passati dal sesto piano poco prima per bussare alle porte di Eileen e Bartimeus senza ottenere alcuna risposta, quindi non dovevano essere ancora molto lontani dal pian terreno.
Avevano appena raggiunto il terzo piano quando udirono la porta delle scale aprirsi con un cigolio e sbattere subito dopo, seguita da un lieve rumore di passi sui gradini e da alcune voci indefinite.
“OhmioDioOhmioDio Jackie c’è qualcuno!”
Presa dal panico Piper agguantò l’amico per abbracciarlo, rischiando di soffocarlo con la sua stretta mentre i passi si facevano più vicini e Jackson, tossicchiando, cercava di allentare la presa della strega con le mani:
“Piper, nessun killer potrà uccidermi se mi strozzi prima tu!”
“Oh, scusa. Beh, comunque c’è qualcuno!”  Piper smise di stritolare il collo dell’amico con un braccio ma comunque non si mosse, continuando a restare immobile sul gradino sopra a quello di Jackson per abbracciarlo e usarlo come scudo umano. Jackson si voltò verso di lei, accusandola in un soffio di avergli sconsigliato di portare con sé qualcosa da sgranocchiare che avrebbero potuto usare come arma contundente, come ad esempio un maxi-barattolo di salsa, quando l’amica gli intimò di tacere con un sussurro.
 
“Che fatica queste scale!”
“Ma Orion, siamo solo al secondo piano!”
“Beh, ma prima le abbiamo scese. E ti sembro forse un tipo sportivo? Spoiler, no! Cioè, gli scacchi tecnicamente sono uno sport, ma in questo caso non contano. Al contrario di Esteban, evidentemente.”
L’astronomo gettò un’occhiata in tralice al giornalista, che stava apparentemente salendo le scale senza alcuno sforzo mentre Naomi, accanto a lui, sbuffava sonoramente prima di scoccargli un’occhiata torva:
“Di che ti lamenti, almeno tu non hai una candela che pesa quanto una palla da bowling!”
“Naomi, ti verrà un’ernia, dammela.”
Gabriel, un paio di gradini più davanti all’amica in compagnia di Kei e Moos, si fermò per prendere l’enorme candela dalle braccia di Naomi, che sospirò di sollievo e si massaggiò le braccia doloranti prima di riprendere a salire aggrappandosi stancamente al corrimano:
“11 piani in discesa e ora in salita… Se trovo lo yankee(2) bifolco che ha messo gli incantesimi per non potercisi Smaterializzare qui dentro lo prendo, lo strozzo, poi lo insulto e poi… e poi lo lascio andare. E poi gli preparo la cena per scusarmi perché sono una ragazza educata.”  Naomi si fermò aggrappandosi al corrimano, sospirando esausta mentre Moos le suggeriva di cambiare il suo piano perché non molto minaccioso e Orion, fermatosi accanto a lei, gettava un’occhiata stralunata in direzione di Esteban, che non solo non sembrava stanco ma aveva anche fiato da sprecare per chiacchierare con Moos e Kei.
“Parla piano Naomi, lo yankee bifolco di cui parli, ovvero il Signor O’Hara, era qui oggi pomeriggio a parlare con i genitori di Montgomery… Non so se sia ancora in giro, ma fossi in te non correrei il rischio.”
“Che mi senta pure, ci farei un bel discorsetto. Ma come fa a non essere stanco?”
Naomi si voltò di nuovo verso Orion, che la guardò a sua volta prima di inarcare un sopracciglio, scuotere la testa e agitare una mano con fare esasperato:
“Lo stai chiedendo a me?!”
“Non dovreste parlare, sprecate fiato.”
“Gabriel, non è il momento!”
 
Due minuti dopo, quando il gruppetto raggiunse il pianerottolo del terzo piano e si imbatté in Piper e Jackson, la tromba delle scale buia si riempì di grida.
 
 
“Non vi è sembrato di sentire gridare?”
Mathieu puntò lo sguardo sulla porta sbattendo le palpebre un paio di volte, confuso e preoccupato mentre Leena affogava l’amara delusione dettata dal non aver trovato alcun passaggio segreto in una ciotola di patatine condivisa con Eileen, Carter si scolava una birra e Niki si dedicava in silenzio alla lettura del libro iniziato quella mattina che aveva Appellato poco prima dal suo appartamento, col risultato di farlo sfrecciare nel 14D con la velocità di un proiettile che aveva quasi decapitato Carter, destando un attacco d’ilarità nel padrone di casa e una lunga serie di sonore imprecazioni da parte del diretto interessato.
“Sì, ma io non mi preoccuperei, con ogni probabilità è la ragazza con cui doveva uscire stasera Ken di cui si parlava prima. Starà esultando per il fosso scampato.”
Niki parlò senza nemmeno alzare la testa, continuando a leggere mentre Sarge si faceva coccolare docilmente, Eileen e Leena cercavano a fatica di non ridere per non offendere Carter e quest’ultimo scoccava l’ennesima occhiata truce in direzione della vicina. Mathieu avrebbe voluto ridere, ma aveva deriso l’amico solo poco prima e non riteneva saggio sfotterlo per la seconda volta nel giro di pochissimi minuti, perciò si limitò a sedersi accanto a lui e a lasciare che Prune gli appoggiasse la testa sulle ginocchia per accarezzare dolcemente l’alano.
“Non che sia affar tuo, ma nessuno si è mai lamentato. E questa qui era davvero bellissima, stupido blackout. Eileen, tu non lavori per MagicMatching?”
“Sì, ma non lo uso molto. Mi fa strano.”
Eileen si strinse nelle spalle mentre raccoglieva un altro paio di patatine dalla ciotola, ripensando con amarezza alle sue penose esperienze passate quando aveva azzardato a provare ad utilizzare l’App per cui lavorava mentre Carter, bevuto un un primo, lungo sorso di birra Carter ebbe la sensazione di udire qualche parola sommessa provenire dal divano dove si era seduta Niki, alle spalle sue e di Mathieu. Il ragazzo si voltò, fulminandola con lo sguardo prima di parlare con tono infastidito:
“Scusa, hai detto qualcosa?”
“Io? No. Sarà stato il vento.”
 
Quando, dieci minuti dopo, qualcuno bussò di nuovo alla porta del 14D Niki e Leena stavano discutendo di Later, il libro che la prima stava finendo di leggere, Carter cercava invano di convincere Eileen a mettere mano sul suo profilo di MagicMatching per far sì che grazie ad un algoritmo ci finisse qualche bella celebrità e Mathieu smise di giocare con Prune e Sarge per chiedersi perché quella sera il suo appartamento stesse venendo preso d’assalto.
“Chi sarà adesso?!”
“Chiedi chi è, magari è l’assassino!”
“Grazie Eileen, ma non credo che busserebbe alla porta, se fosse l’assassino.”
O almeno lo sperava ardentemente, si disse Mathieu prima di aprire la porta con un ansioso Prune alle spalle, reso inquieto dal blackout, e la bacchetta accesa in mano. Con sollievo e sorpresa al tempo stesso il mago non si trovò davanti alcun assassino, bensì un foltissimo gruppo di altri vicini.
“Che cosa ci fate qui?”
Chissà quante altre volte avrebbe dovuto ripeterlo, quella sera
“Stiamo morendo, ci serve un divano!”
Orion entrò di corsa, seguito da Naomi, Moos, Kei, Esteban, Jackson, Piper e Gabriel, tutti visibilmente provati dalla miriade di gradini saliti. Mai come in quel momento, mentre chiudeva la porta e guardava i suoi vicini sedersi sfiniti, Mathieu giudicò azzeccata la scelta di riempire l’enorme spazio che aveva a disposizione con più di un divano. Gabriel, che reggeva un’enorme candela, fu ben lieto di mollarla al padrone di casa prima di sospirare di sollievo e massaggiarsi le braccia doloranti:
“Tutta tua amico.”
“Cos’è questa roba?!”
“La maxi candela di Naomi. Non chiedere.”
L’occhiata e il tono di Gabriel furono sufficientemente eloquenti e mentre l’ex Serpecorno seguiva gli altri verso il divano Mathieu decise che no, non avrebbe chiesto, preferendo invece domandare ai vicini perché si trovassero lì. Mentre Mathieu appoggiava la candela su un tavolino Jackson spiegò che si erano tutti incontrati tra un piano e l’altro del palazzo e che, dopo aver provato a bussare ad un po’ di porte, erano finiti al 13° piano.
“Abbiamo bussato da Carter, è apparso quel biglietto…”
“AH! Lo sapevo che sarebbe servito. Beccati questa Niki.”
“… E siamo venuti qui. Ora, credo che loro – Jackson indico Orion, Esteban e Kei – stiano cercando candele. Io e Piper pile per le torce, spariscono sempre quando servono!”
“Ti supplico, non dire mai più quella parola!”
Naomi non ne voleva più sapere di candele per un bel po’ di tempo e le sue braccia le erano testimoni, ma mai quanto Gabriel e Moos, che le lanciarono due occhiate in tralice e le ricordarono di essersi dato il cambio e di averla portata per lei per un mucchio di piani.
“Beh, siete i miei migliori amici, chi altri dovrebbe portarmi una candela gigante su e giù per le scale?!”
Naomi, accasciatasi su un divano tra Orion e Piper, di fronte a Gabriel, Moos e Niki che ancora continuava a leggere indisturbata facendosi luce con la bacchetta, liquidò il discorso con un pigro, esausto gesto della mano mentre Mathieu, sedutosi sul bordo dello schienale del divano dove Carter stava finendo la sua birra, accarezzava la testa di Prune stringendosi nelle spalle:
“Beh, ormai se volete potete restare qui.”
“Davvero? Sei il mio nuovo vicino preferito!”
Il viso di Naomi si illuminò come se avesse ricevuto la più auspicabile delle notizie, ignorando le occhiate – torva nel caso di Gabriel e ferita nel caso di Moos – che i suoi amici le lanciarono mentre Orion ringraziava tutte le costellazioni esistenti e Piper si rivolgeva a Jackson con un sorriso sollevato:
“Speravo lo dicesse, piuttosto che farmi altre scale mi sarei consegnata al killer.”
Dopodiché la strega si sporse oltre l’amico per guardare Esteban, ancora perfettamente rilassato come se non fosse reduce da una tremenda scarpinata, gettandogli un’occhiata perplessa e incuriosita al tempo stesso:
“Dimmi Esteban, come fai esattamente a non essere sudato? Che deodorante usi?”
“E da che cazzo di pianeta provieni?!”
Anche Jackson volse lo sguardo sul ragazzo, le sopracciglia aggrottate, guardandolo sorridere e stringersi nelle spalle con serenità:
“Tutta abitudine, credo. Dà fastidio a qualcuno se mi fumo una canna?”
Visto e considerato che ormai lavorare era un’opzione remota tanto valeva rilassarsi, e vedendo che nessuno si oppose recuperò accendino e sigaretta per accenderla e, finalmente, fumare.
“Beato te, io ho lasciato tutto a casa…”
Jackson si sistemò sbuffando contro lo schienale, amareggiato mentre Naomi, accanto a Piper, abbracciava un voluminoso cuscino dalla federa color mattone borbottando che probabilmente ne avrebbe avuto bisogno anche lei per distendere i nervi. Se solo non avesse ricevuto un’educazione rigida e non fosse stata una ragazza troppo responsabile.
“Qualcuno ha un’idea su come passare il tempo? Potremmo stare senza corrente a lungo, l’ultimo blackout è durato mezza giornata.”
“Vi prego, niente discorsi su Montgomery e la sua morte, specie in questa situazione, vorrei riuscire a pensare a qualcos’altro per una sera.”
Kei incrociò le braccia al petto e parlò sistemandosi contro lo schienale del divano, gettando l’appartamento in una bolla di silenzio mentre i presenti – eccetto Niki, che continuò a leggere scorrendo rapida le pagine del libro – riflettevano. A parlare di nuovo fu Eileen, che allargò le labbra nel suo bel sorriso radioso, mostrando due file di denti candidi e perfettamente allineati:
“Potremmo fare una serata giochi!”
Leena più di tutti accolse con entusiasmo la proposta dell’amica, sorridendo allegra mentre si voltava prima verso di lei e poi verso tutti gli altri, i grandi occhi scuri spalancati e luccicanti:
“Bellissima idea! Giochiamo a invito a cena con delitto?! … no? Va bene, scusate, niente morti, ho capito.”

 
*

 
Alla fine la proposta di Eileen era stata accolta positivamente – ma quando Orion aveva proposto gli scacchi Kei non aveva esitato a bocciare l’idea e a suggerire a tutti i presenti di non imbarcarsi mai in una partita a scacchi contro di lui – anche se erano presto sorte perplessità su cosa effettivamente poter fare visto e considerato che erano ben in 13. Esteban aveva proposto di dividersi in due squadre e quando Naomi aveva fatto notare la disparità Niki aveva smesso di leggere e distolto l’attenzione dal romanzo di Stephen King per la prima volta dopo diverso tempo per offrirsi volontaria per non giocare e, invece, giocare con Prune e Sarge.
Ti piacerebbe, tu con Sarge non ci giochi.”
“Perché no?!”
“Perché sei cattiva con suo padre!”
“Daiii Niki, gioca, sei sveglia, saresti utile.”
Leena si sporse in avanti, oltre Eileen che le sedeva accanto, per guardare la vicina e rivolgerle un’adorabile occhiata, pregandola in silenzio. Niki osservò brevemente la britannica prima di sbuffare e annuire, chiudendo il libro con un gesto secco dopo aver infilato un segnalibro coperto di donut colorati in mezzo alle pagine:
“E sia allora. Ma non farò niente che preveda contatto fisico.”
“Va bene, vorrà dire che saremo sei e sette. Come ci dividiamo?”
Mentre Naomi, Piper, Orion, Jackson ed Esteban discutevano su come dividersi, tutti seduti sullo stesso divano, Gabriel, di fronte, si avvicinò a Moos per mormorargli qualcosa all’orecchio senza smettere di osservare Naomi con aria vagamente preoccupata:
“Spero di finire con Naomi, è così competitiva… e quando si arrabbia mi fa paura, anche se è molto piccola.”
“A chi lo dici. Ricordi quando qualcuno rubò i suoi appunti di Pozioni? La Sala Comune tremò.”
Gabriel annuì con aria grave, ricordando perfettamente – sarebbe stato impossibile fare il contrario – prima di accigliarsi e chiedere all’amico ed ex compagno di Casa se avessero più avuto notizie del malcapitato. Il più giovane scosse la testa con aria grave, ma prima che l’altro potesse aggiungere qualcosa Naomi li chiamò, facendoli sobbalzare e voltare di scatto verso di lei con nervosismo:
“Sì Naomi?”
“Perché avete quelle facce strane, vi ho solo chiesto se vi va bene estrarre a sorte.”
Naomi guardò i due inarcando un sopracciglio, chiedendosi che cosa accidenti gli prendesse mentre Gabriel e Moos si affrettavano ad annuire, sempre con quegli strani sorrisi stampati in faccia:
“Certo, se va bene a te va bene anche a noi!”


 
*

 
“D’accordo, qui ci sono i bigliettini che Piper e Jackson sono stati così gentili da preparare… Ne prendiamo uno alla volta, facciamo pari e dispari.”
Dopo che Eileen e Leena avevano svuotato la ciotola di patatine Piper l’aveva usata per buttarci dentro i bigliettini con i numeri prima di cederla a Mathieu, che sedeva di nuovo sul bordo dello schienale del divano più grande in modo da trovarsi di fronte a tutti i presenti.
Fu un immenso sollievo, per Gabriel, tirare fuori il numero 9 dopo che Naomi aveva preso il 7, rincuorato all’idea di stare con lei, ma riservò un’occhiata piena di compassione a Moos quando vide l’amico estrarre il 4.
“Nooo, che peccato, volevo stare anche con Moosy.”
Naomi, sedutasi vicino a Gabriel sul divano a sinistra del salone, guardò dispiaciuta l’amico andare a sedersi dall’altra parte della sala mentre il tatuatore, accanto a lei, giocherellava con il suo bigliettino parlando con un soffio che si rivelò appena udibile:
“Fidati, lo voleva anche lui.”
 
Carter fu immensamente felice di prendere l’8: era il suo numero fortunato, e lo considerò un segno di buon auspicio per la vittoria, ma dopo essersi seduto accanto a Piper – che aveva estratto il 6 – guardò Niki avvicinarsi a Mathieu con il fiato sospeso, pregando che la strega non prendesse un numero pari.
Anche Niki sperò ardentemente di prendere un numero dispari – in effetti sarebbe stato logico: il 13 era notoriamente un numero sfigato, lei era sfigata, avrebbe avuto perfettamente senso –, finendo col mormorare un’imprecazione quando si ritrovò a tenere tra le mani il 2.
“Ti prego fammelo cambiare, non ci vede nessuno.”
Niki parlò così piano e quasi senza muovere le labbra, tanto che per un istante Mathieu la guardò chiedendosi se avesse davvero parlato o se lo avesse solo immaginato, ma vedendo che la strega lo stava fissando di rimando stabilì di non essersi sbagliato:
“Aspetta, prima di decidere prendo il mio.” Mathieu tuffò una mano nella ciotola, prese un bigliettino, lo aprì e quando lesse un numero dispari rifletté brevemente prima di rivolgere un sorriso alla strega:
“Beh, sai com’è, io ho un numero dispari e se tu e Carter state insieme finirete col litigare tutto il tempo e farci vincere… scusa.”
“Tante grazie.”
Niki sbuffò sonoramente mentre girava sui tacchi per andare a sedersi vicino a Moos, ma prima di farlo si fermò davanti a Carter, le mani di nuovo infilate nella tasca centrale della felpa e i grandi occhi verdi fissi su di lui:
“D’accordo cocco, ti propongo una tregua per non scannarci e perdere clamorosamente. Odio perdere.”
Carter, mentre Leena si univa a loro, rifletté brevemente sulla proposta della strega prima di annuire, allungando la mano verso di lei mentre Niki lo scrutava dall’alto in basso: anche lui odiava perdere.
“Va bene, ci sto.”
Niki osservò la mano del ragazzo con la sua solita espressione indecifrabile senza accennare a voler sfilare le proprie dalla tasca della felpa, finendo con l’annuire seria prima di tornare a guardare Carter:
“Scusa, non la stringerò, ma fa come se l’avessi fatto.”
“Che problema ha? Guarda che me le lavo, le mani!”
 
Orion invidiò profondamente Kei ed Esteban per essere capitati con le persone almeno apparentemente più normali del gruppo, e gettò un’occhiata rassegnata al suo 10, l’ultimo numero ad essere rimasto, prima di voltarsi e osservare Carter e Niki – seduti sullo stesso divano ma separati da Leena e Piper – con una punta di preoccupazione mentre Eileen, seduta tra Naomi ed Esteban, giocherellava con il proprio bigliettino pensando a come rendere il tutto un po’ più divertente. Quando le venne in mente qualcosa sorrise, facendo vagare i grandi occhi eterocromi, uno verde e uno azzurro, su tutti i presenti:
“Potremmo anche mettere in palio qualcosa. Non soldi, ovviamente… scemenze. Un oggetto a testa, chi vince si tiene e si divide tutto.”
“Per me va bene.”
Esteban fece spallucce mentre si portava la canna alle labbra stringendola tra l’indice e il medio, guadagnandosi un’occhiata in tralice da parte di Jackson: certo, era abituato a fare le scale, ma non aveva alcuna intenzione di scendere e risalire un altro milione di rampe.
“Certo che per te va bene, tu abiti al 12° piano! Io tutte quelle scale non me le faccio altre due volte, mi dispiace.”
“Beh, siamo maghi, Jackie, Appelliamo le cose!”
 
Carter, a differenza di tutti gli altri, non aveva Appellato proprio un bel niente: stava invece scribacchiando qualcosa su un pezzo di carta quando Leena, seduta accanto a lui, lo guardò aggrottando la fronte e con sincera curiosità:
“Carter, cosa scrivi?”
“Lo scoprirai dopo.”
La britannica si voltò verso Niki per chiederle un parere ma la strega, impegnata a lanciare in aria e riprendendo ripetutamente un rotolo di scottex di Star Wars, la precedette borbottando qualcosa che il ragazzo fece finta di non udire:
“Il modo migliore per fargli dispetto è non chiedergli nulla.”
 
Mathieu guardò Carter scarabocchiare qualcosa su un pezzo di carta assolutamente certo di sapere che cosa stesse facendo, ma decise di non chiedere e si limitò a guardare la curiosa, se non assurda, accozzaglia di oggetti che i suoi vicini avevano riversato nella medesima ciotola di poco prima.
“Chi ha portato l’album di figurine dei puffi?!”
Nessuno rispose, ma in compenso Carter, alzatosi per consegnargli il suo foglietto, udita quella domanda quasi sussultò e spalancò i grandi occhi chiari, improvvisamente interessatissimo:
“Aspetta, ma è completo? … Non che mi interessi, ovviamente.”
“Carter, hai portato un buono per trascorrere una giornata con Carter?”
Non che fosse sorpreso, ma dopo aver letto ciò che il vicino aveva scritto sul foglietto Mathieu lo guardò con rassegnazione mentre Carter, al contrario, sorrideva compiaciuto e divertito al tempo stesso:
“Cerca di non disperarti troppo se non dovessi vincerlo.”
Tenterò.”
Mathieu roteò gli occhi mentre faceva cadere il foglietto insieme a tutti gli altri oggetti – un set di evidenziatori che Piper, vedendo, aveva dichiarato di volere assolutamente, una lampadina, dei Kleenex, un ventaglio, una minuscola trombetta da stadio, un magnete a forma di pizza, una penna a forma di unicorno, quella che aveva l’aria di essere una pistola di plastica da cucina per sparare la salsa, un portachiavi e un cubo di Rubik – osservando dubbioso la curiosa accozzaglia di oggetti che aveva per le mani:
Non ho mai visto tante stronzate insieme in vita mia.”
Niki, udito lo scambio di battute tra lui e Carter, gli lanciò lo scottex prima di piegare le labbra in una smorfia schifata: già non impazziva all’idea di giocare – aveva un libro da finire –, ma quella di dover passare una giornata con il suo vicino le parve una prospettiva ancora peggiore:
“Aspetta, giornata con Carter? Richiedo formalmente di essere squalificata, non voglio rischiare di vincerlo.”
“No.”
“Perché no?!”
Te l’ho già detto, se giocate insieme è più probabile che perdiate.”
 La strega imprecò a bassa voce, sbattendo con stizza il piede sul pavimento mentre Carter, tornato a sedersi sul divano deciso ad accaparrarsi l’album dei puffi, le scoccava la millesima occhiata truce della serata:
“Non farei i salti di gioia nemmeno io, se dovessi vincerlo tu. Meglio una giornata con Belzebù.”
“Meglio sposare Enrico VIII.”
Mentre i due vicini si guardavano torvi un sorriso allegro incurvò le labbra di Mathieu, che si voltò verso Esteban scuotendo debolmente la testa:
“Vinceremo sicuramente.”

 
*

 
Orion non aveva mai giocato a Monopoly in vita sua prima di quella sera, e scoprì che il più celebre gioco da tavolo esistente era molto divertente. O meglio, lo era quando vinceva dei soldi, quando finiva sulle proprietà altrui o in prigione, o quando era costretto a pagare multe salate, non lo era per niente.
“Ma quante tasse mi fanno pagare in questo dannato gioco, neanche a Manhattan se ne pagano così tante!”
Mentre l’astronomo, sbuffando, contava le banconote finte che gli erano rimaste per pagare il suo debito e Piper, invece, esultava per l’Imprevisto che le aveva fatto guadagnare altri soldi, mettendola in testa, Gabriel guardò preoccupato la sua pedina che si stava muovendo da sola sulla parte finale del tabellone, pregando in silenzio ma finendo comunque col guardarlo fermarsi con orrore sulla peggior casella di tutte.
“Sìììì, Parco della Vittoria! Fuori i soldi, Gabri bello.”
Ancora una volta Naomi esultò, battendo le mani mentre un sorriso a trentadue denti le illuminava il viso e Gabriel, incredulo, guardava prima il tabellone e poi l’amica:
“Non è possibile, è la quarta volta di fila che finisco sul tuo dannato Parco della Vittoria. Dillo che hai incantato il tabellone!”
“Ma che dici, io sono un avvocato, non potrei mai, mai fare niente di illecito!”
Naomi scosse la testa mentre si sventolava con un mazzetto di banconote finte da 200, sorridendo amabile all’amico mentre Gabriel incrociava le braccia al petto e la guardava torvo:
“Ti ho vista nascondere scatole di scarpe del tuo numero in giro per i negozi non so quante volte.”
“Ma che c’entra, quello lo fanno tutti!”

“Ok, c’è un problema, non ho abbastanza soldi. Ne ho persi non so quanti, per colpa del tuo stupido Parco della Vittoria.”
“Ipoteca, bello, ipoteca.”
“Lo sai che siamo nella stessa squadra, vero?”
Gabriel si vide effettivamente costretto ad ipotecare pur di continuare a giocare, e lui e Orion si scambiarono un’occhiata cupa mentre Naomi e Piper si battevano il cinque:
“Perché loro sono così fortunate e noi no, all’improvviso?”
“Non ne ho idea, le stelle mi hanno abbandonato stasera!”
 
 
“Ci sono! È stata la signora White, in cucina, con… la corda!”
“Leena, la White l’abbiamo estratta poco fa.”
Quando Moos la guardò scuotendo la testa, quasi fosse sinceramente dispiaciuto per lei, la britannica gettò un’occhiata accigliata al tabellone, poi alle sue carte e infine al foglietto su cui stava prendendo appunti dall’inizio della partita, sgranando inorridita gli occhi scuri prima di prendere la matita e segnarsi l’informazione:
“Porco Poe, è vero, mi sono scordata di segnarlo! Maledizione. Io non perdo mai a Cluedo!”
“Beh, c’è una prima volta per tutto, le altre due partite le hai vinte tu. Secondo me è Mustard o la Peacock.”
Eileen, seduta su un pouf accanto all’amica, si picchiettò dubbiosa le carte sul mento mentre studiava il tabellone di gioco. Jackson, seduto tra lei e Moos, lesse pigramente i suoi appunti prima di parlare:
“Sapete, non è proprio così che bisognerebbe giocare, cioè, con i commenti a voce alta…”
“È quello che cerco di dire da ben due partite, ma nessuno mi ascolta. È stata la signora Peacock, in cucina, con la corda.”
Kei appoggiò le carte sul tabellone prima di allungarsi, prendere quelle con la soluzione e scoprirle, finendo col sorridere vittorioso quando le immagini disegnate confermarono la sua ipotesi.
“Finalmente! Scusa Leena, mi spiace.”
Il ragazzo guardò la strega rivolgendole un tiepido sorrise di scuse, ma Leena sembrò accogliere la sconfitta con grande sportività e scosse la testa prima di liquidare il discorso con un pigro gesto della mano:
“Tranquillo, non si può vincere sempre. Rivincita?”
La strega sfoggiò un largo, entusiasta e speranzoso sorriso mentre accennava alle carte disseminate sul tavolino su cui stavano giocando e al tabellone, e dopo una breve esitazione Jackson, voltatosi verso il tavolo occupato da Carter, Mathieu, Esteban e Niki, annuì con un sospiro:
“Va bene, tanto quelli si stanno ancora scannando. Tieni Moos, tocca a te mescolare le carte.”
Jackson sollevò le braccia per stiracchiarsi mentre Moos raccoglieva a sé le carte sparse sul tavolino, Eileen celava uno sbadiglio coprendosi la bocca con la mano destra e Leena, appoggiata la testa contro la spalla dell’amica, si domandava quanto ancora sarebbero rimasti senza corrente.
“Hanno proprio delle facce tese. Non vorrei essere al loro posto. Chissà chi sta vincendo.”
Moos studiò brevemente i quattro vicini, tutti in silenzio e con gli occhi puntati sulle carte che tenevano in mano mentre la candela di Naomi illuminava il tavolo, e stabilì definitivamente che no, non avrebbe voluto trovarsi al loro posto prima di tornare a rivolgersi ai compagni di gioco e iniziare a mescolare le carte.
 
 
Niki avrebbe preferito giocare a Cluedo, ma disgraziatamente era arrivata tardi: si era fatta distrarre da Sarge e Prune – dannati teneri cagnoloni – e dai loro occhioni dolci ed erano presto diventati in troppi per giocare. La scelta ricadeva quindi tra il Monopoly e il Poker, ma prima di decidere la strega si era premurata di stabilire se Carter, Esteban e Mathieu fossero o meno dei buoni giocatori: dopo averli osservati brevemente, seduti attorno allo stesso tavolo con la candela che profumava di cupcake accesa ad illuminarli fiocamente, la strega si era avvicinata prima di fermarsi alle spalle di Esteban e parlare tenendo le mani infilate nella profonda tasca centrale della felpa e con tono piatto, senza che nessuna emozione particolare le scalfisse il volto.
“Sono uscita in corridoio per tornare nel mio appartamento e controllare le mie gatte e ho trovato il cadavere dell’avvocato strafigo che abita qui vicino.”
“Che cosa?!”
“Il Signor Lee è morto?!”
“Stai scherzando?!”
Naturalmente Niki non era affatto uscita in corridoio, né tantomeno si era imbattuta in qualche cadavere, ma ora almeno sapeva, studiandone i volti attoniti e sconvolti, che quei tre non dovevano essere poi così bravi: mentre Carter, Mathieu ed Esteban la fissavano sconvolti la strega scosse la testa, sedendo a capotavola tra il padrone di casa e il cubano per poi abbassarsi il cappuccio della felpa e stringersi debolmente nelle spalle.
“No, regola numero 1 del Poker: tutto quello che viene detto in una partita corrisponde a falsità, anche se vostra madre gioca con voi e dichiara di volervi bene dovete dubitarne. Ne deduco che non siete grandi giocatori.”
“Questo non significa niente, alla luce dei recenti eventi sfido chiunque a non credere al ritrovamento di un altro cadavere!”
Niki non aveva risposto e non aveva dato segno di aver udito le parole di Carter, limitandosi a prendere un paio di mini bretzel dalla ciotola sul tavolo mentre Esteban, che teneva il mazzo in mano, la guardava incuriosito:
“Sai giocare?”
“Un pochino.”
“Dovremmo essere più gentili visto che è una ragazza?”
Carter non aveva mai giocato a Poker con una donna in vita sua, non gli era mai capitato di incontrarne una che sapesse giocare, e parlò rivolgendosi a Mathieu aggrottando le sopracciglia color grano, guardando dubbioso l’amico mentre Niki lo studiava brevemente, in silenzio. Anche se non battè ciglio non sembrò affatto lusingata dalle parole del giornalista, tanto che Mathieu si premurò di spostare di qualche centimetro la ciotola per paura che potesse prenderla e lanciarla. Fortunatamente la ragazza non diede segno di volerlo fare, forse per non sprecare i bretzel, e si limitò a voltarsi verso Esteban porgendogli la mano:
“Posso dare io le carte?”
“Certo.”
Esteban passò il mazzo a Niki, che lo prese mentre un sorriso si faceva lentamente largo sulle sue labbra.
“Grazie caro. Allora, bellini…”
Prese le estremità del mazzo e fece dribblare le carte così velocemente che i tre a stento le videro. Esteban la guardò sbattendo le palpebre un paio di volte mentre Carter realizzava di aver detto una stronzata e Mathieu, guardando preoccupato prima le carte e poi Niki, si convinceva che la strega avesse minimizzato la sua capacità di gioco.
“Non siate gentili. Io non lo sarò. Sapevate che da un’ora di gioco si può conoscere meglio una persona che con dieci di conversazione?”
“Noi siamo apposto, lo sappiamo che sei antipatica.”
Mentre mostrava a Carter il dito medio Niki, indecisa fino a quel momento, decise che avrebbe dato il peggio di sé.
 
 
“Io vedo i tuoi M&M’S… E rilancio di sei ovetti.”
Niki premette le carte rovesciate sulla superficie del tavolo quadrato, coperto da una tovaglia bianca adornata da delicati ricami floreali color corallo, e spinse tutti gli ovetti di cioccolato che le erano rimasti verso il centro già occupato da una montagna di caramelle e cioccolatini di ogni tipo. Se fosse riuscita a mettere le mani su quel tesoro si sarebbe aggiudicata una scorta di dolci sufficiente ad arrivare a Natale, si disse la bambina mentre un sorriso compiaciuto le apriva le labbra e rimetteva le mani sulle sue carte, sollevandole e premendosele verso il petto con fare protettivo, quasi temesse che la donna che aveva di fronte potesse rubargliele. O peggio, sbirciarle.
La calda luce dorata di una sera estiva inondava la cucina grazie alla finestra aperta dalla quale provenivano gli ormai familiari rumori della strada di fronte, ma né la bambina né la sua avversaria si lasciavano distrarre dalle voci dei passanti o dei vicini, dai clacson o dal rombo dei motori, ormai perfettamente abituate al caos che le circondava.
La donna che sedeva di fronte alla bambina, le carte aperte a ventaglio strette da una mano sola e una sigaretta accesa tra le labbra, non si scompose e gettò un’occhiata pigra agli ovetti prima di tornare a guardare le sue carte. La donna picchiettò per due volte la sigaretta sul posacenere di vetro trasparente che aveva vicino e poi se la riportò verso le labbra sorridendo alla bambina, che la guardava in fremente attesa e facendo dondolare con impazienza le gambe già molto lunghe dalla sedia:
“Caspita ragazza, ti sei giocata gli ovetti Kinder, fai sul serio.”
“Sì. Allora, che cos’hai?!”
La donna esitò mentre guardava le carte, pensierosa, e accarezzò la punta di quella più esterna con la mano che teneva la sigaretta prima di allargare le labbra in un sorriso di scuse e appoggiare le carte sul tavolo, scoperte in modo che la bambina potesse vedere le immagini raffigurate:
“Per te ho un bel Poker, bambina.”
Quando vide i quattro Jack fissarla beffardi da sopra la tovaglia Niki spalancò gli occhi verdi, inorridita ed incredula, e tornò a guardare la donna con la piccola bocca dischiusa e sentendosi tradita più che mai:
“Ma… Ma avevi detto che non ti piacevano le tue carte!”
Come poteva averla ingannata così brutalmente? E lei che pensava che le volesse bene, si disse sconsolata la bambina mentre appoggiava mesta le carte sul tavolo – un misero Colore di cuori che credeva l’avrebbe condotta alla vittoria – e gettava un’occhiata malinconica al cumulo di dolcetti che non avrebbe mai potuto nascondere sotto il letto e mangiare di nascosto.
“Nel Poker si fa così, piccola, mi dispiace. Si chiama bluffare.”
“Ma avevi una faccia triste, come me quando vedo i broccoli per cena.”

“Non sempre la faccia delle persone rispecchia ciò che hanno dentro. Questo che cosa ti insegna?”
La donna si portò di nuovo la sigaretta alle labbra senza distogliere lo sguardo dall’espressione triste della bambina, facendo rotolare al contempo un ovetto di cioccolato verso di lei con un dito e facendo così apparire un minuscolo accenno di gioia sul suo viso. Mentre scartava rapida l’involucro di alluminio Niki rifletté sulla domanda prima di stringersi nelle spalle, gli occhi verdi fissi sul viso della sua avversaria mentre stringeva l’ovetto di cioccolato al latte tra le piccole mani:
“Che non ci si deve fidare delle persone?”
“Proprio così. Tranne che di me.”
“Ma tu mi hai appena imbrogliata per avere i miei dolcetti!”
“Certo, ma per darti un’importante lezione di vita! A volte bisogna perdere per imparare qualcosa, so che è sgradevole, ma è così.”
 
 
Giunti alla terza partita i quattro sedevano fissando concentrati ognuno le proprie carte e in completo silenzio, a parte il masticare i bretzel di Niki, illuminati dalla candela che si stava via via riducendo sempre di più.
“Questa candela è un problema, mi fa venire una fame…”
La strega si portò l’ennesima manciata di salatini alle labbra senza distogliere lo sguardo dalle proprie carte e parlando in un sussurro mentre Carter si lamentava del fatto che li stesse finendo e Mathieu la guardava accigliato:
Ma se stai mangiando da mezz’ora.”
“Appunto. Comunque, mi dispiace, ma neanche tanto, informarvi che ho una Scala Reale.”
Niki appoggiò le carte verso l’alto sul tavolo in modo che i tre potessero vederle, sorridendo prima di alzarsi, dichiarare di essersi divertita molto ma che potevano migliore prima di afferrare un’ultima manciata di salatini e allontanarsi. Alla vista delle carte della strega Carter si lanciò in una sfilza di imprecazioni che fecero voltare Moos, Kei, Leena, Jackson ed Eileen, seduti attorno al tavolino da caffè e impegnati in un’ennesima partita a Cluedo mentre Esteban guardava incredulo prima la Scala e poi il suo full di Re e di 4:
“Come ha fatto a vincere sempre con punteggi altissimi?!”
“Vorrei suggerire che avesse truccato le carte, ma è impossibile visto che sono mie. In compenso si è mangiata un kg di bretzel.”
Mathieu prese la ciotola per finire i salatini rimasti mentre Carter, accanto a lui, accarezzava nervosamente la testa di Sarge, venuto a salutarlo, borbottando lamentele per le ripetute sconfitte ed Esteban, invece, continuava a fissare pensoso le carte.
“Un momento. Non avrà mica…”
Colto da un’illuminazione, Esteban si voltò per guardare la strega, poi di nuovo le carte e infine Carter e Mathieu, gli occhi castani spalancati:
“Pensate che stesse contando?!”
“Nah, non stava contando, è impossibile!”
Carter sorrise mentre continuava ad accarezzare la testa di Sarge, guardando Esteban come se avesse detto un’assurdità prima di riflettere sulle schiaccianti vittorie di Niki, convincersi che non fosse poi così impossibile e infine voltarsi verso Mathieu con le labbra dischiuse:
“Stava contando?!”
“Stava decisamente contando(3). Peccato averlo capito adesso. Per fortuna ha risposto con un insulto alla tua proposta di giocare a strip poker o ci avrebbe lasciati tutti in mutande.”
Mathieu fece spallucce mentre Carter, infastidito, si riprometteva mentalmente di prendersi la rivincita sulla vicina – avrebbe scoperto in cosa facesse schifo, e poi se la sarebbe goduta – ed Esteban si alzava per andare a chiedere a Niki di insegnargli a dribblare le carte. L’ex Tuonoalato guardò la vicina Appellare il mazzo di carte per prenderlo e mostrare ad Esteban come tenerlo per far scivolare correttamente le carte
“Beh, io parlo per me, ma sarebbe stata una gran bella vista per tutti.”

 
*

 
Concluse le partite a Monopoly, Cluedo e Poker i vicini si erano riuniti per giocare tutti insieme, questa volta a Pictionary grazie ad una lavagna magnetica bianca evocata con la magia, ma mentre Gabriel, Kei, Esteban, Mathieu ed Eileen si sforzavano di capire che cosa stesse disegnando Naomi – difficile dire se fosse un aereo o un uccello – Leena, guardatasi attorno, realizzò che molti dei suoi compagni si erano dissolti nel nulla:
“Hey, dove sono Orion, Bartimeus e Niki?!”
“Non so, ma spero che non li abbia presi l’assassino, ci servono per vincere!”
Carter parlo senza distogliere lo sguardo dalla lavagna, pregando che i vicini non riuscissero ad indovinare mentre Naomi si esasperava sempre di più e disegnava frecce che indicavano prima la mano aperta che aveva disegnato e poi l’uccello-aereo.
“Ok, una mano e poi un aereo. Partire? Viaggiare?”    Frustrato per il non riuscire a capire che cosa avesse disegnato Naomi, Kei parlò muovendo nervosamente la gamba sinistra e passandosi una mano tra i lisci capelli neri mentre Esteban, accanto a lui, borbottava qualcosa di incomprensibile in spagnolo.
“Vi dico che non è un aereo, è un uccello!”
Eileen scosse la testa, spazientita, e Naomi annuì freneticamente – trattenendo l’impulso di andare ad abbracciare la strega e poi insultare tutti gli altri per la loro incompetenza –, sollevata che qualcuno l’avesse finalmente capito mentre Gabriel, poco convinto, guardava l’amica aggrottando le sopracciglia:
“Ma Naomi ha la fobia degli uccelli. Naomi, anche se ti spaventano riusciresti a disegnarne uno?”
Naomi non poteva rispondere, ma l’occhiata che gli rivolse fu sufficientemente eloquente a fargli capire la risposta mentre Esteban, Eileen, Mathieu e Kei discutevano del disegno.
“Un uccello che saluta?”
“Ma i pennuti non salutano.”

“Un mago che saluta un gufo postino mentre se ne va.”
“Ma quello non è mica un gufo!”
“Un piccione viaggiatore!”
“Facciamo schifo a questo gioco.”
 
“Tu li hai visti?”
Mentre gli altri discutevano Jackson si rivolse a Piper, seduta accanto a lui su uno dei divani di Mathieu, per chiedergli se avesse visto i compagni svaniti nel nulla, ma la strega scosse la testa senza smettere di tenere sotto controllo il cronometro del cellulare:
“Orion e Bartimeus no, ma Niki mi sembra abbia borbottato qualcosa sull’avere fame. E… Tempo! Mi spiace ragazzi.”
Piper sorrise allegra mentre Carter e Leena si davano discretamente il cinque in modo da non mostrare troppo apertamente la loro esultanza e Naomi, riposto il pennarello nero, sbuffava prima di rivolgersi con amarezza ai compagni:
“Non posso credere che nessuno l’abbia indovinato!”
“Si può sapere che stracazzo era?!”
Alla domanda di Esteban Naomi sollevò una mano verso la lavagna, indicando seccata prima la mano e poi l’uccellino:
Bye Bye Birdie! Era ovvio!”
Ovvio per lei ma forse non così tanto per gli altri, a giudicare dalle loro espressioni stralunate, e Kei si voltò verso Esteban per chiedergli che cosa fosse “Bye Bye Birdie” mentre Naomi, spazientita, tornava a sedersi gesticolando nervosamente con le braccia:
“Un film musical degli anni 60!”
“No, dico, e noi ti sembriamo esperti di Musical?!”

Esteban indicò sarcastico se stesso, Mathieu, Kei e Gabriel, e la strega borbottò di aver bisogno di una squadra con più ragazze mentre Eileen cercava di consolarla e dall’altra parte della stanza Piper si alzava per andare a disegnare a sua volta.
“Ma dove sono finiti quei tre?! Siamo svantaggiati senza di loro!”
Jackson si guardò attorno sbuffando spazientito, chiedendosi dove fossero finiti Orion, Moos e Niki mentre Carter, deciso a non perdere il loro vantaggio, faceva altrettanto:
“Dove cazzo è la spilungona quando serve?! Va beh, dovremo iniziare senza di loro.”
“Carter, ma perché ti interessa tanto vincere? Non si vince niente!”
Piper, alzatasi in piedi, si rivolse al vicino rassettandosi sbrigativamente i capelli rossi che le arrivavano fino al collo, guardandolo stringersi nelle spalle con disinvoltura:
“Lo so, ma è una questione di principio. Io detesto perdere.”


Quando Niki fece ritorno Piper aveva già iniziato a disegnare e Jackson, Leena e Carter si stavano sforzando di indovinare la soluzione quando quest’ultima, scorta la strega avvicinarsi, distolse lo sguardo dalla lavagna per rivolgerle un’occhiata incuriosita:
“Ah, eccoti. Dov’eri finita?”
“In giro, qui è davvero enorme, mi ero persa cercando il bagno. In compenso ho trovato qualcosa di molto interessante.”  La strega sedette accanto al vicino accavallando le lunghe gambe fasciate dai jeans neri addentando un grissino alla pizza trovato chissà dove mentre anche Orion e Moos spuntavano sulle scale, scendendo rapidi i gradini parlando a bassa voce prima di raggiungevano i compagni.
“Cosa ci siamo persi?”
Orion sorrise allegro mentre sedeva accanto a Leena insieme a Moos, ma la britannica non rispose e si limitò a scuotere la testa a ed intimargli di tacere con un cenno della mano, gli occhi fissi sulla lavagna mentre cercava di decifrare il disegno di Piper.
“Non ora, sono concentrata!”
“Piper stai disegnando una persona con i capelli corti e un completo, potrebbe essere chiunque in America!”
Jackson sospirò e scosse la testa mentre Piper, pur non potendo parlare, si voltava scoccandogli un’occhiataccia.
“Davvero? Hai trovato resti umani?”
“Ho trovato di meglio. Ho trovato la salsa tartara.”
Niki sorrise, ma prima che Carter potesse chiederle se fosse seria o meno Leena schioccò le dita nella loro direzione, intimando ai due di concentrarsi e di aiutarli.
Un minuto dopo, scaduto il tempo, la soluzione venne rivelata senza che nessuno dei presenti fosse riuscito ad arrivarci destando l’indignazione di Piper, che giudicò “la sua arte incompresa”:
“Come avremmo potuto capire che era Ellen DeGeneres, scusa?!”
“Un po’ di immaginazione Jackie, non potevo scrivere niente!”
                                            
                                                                  
*

 
“Allora, vediamo… Leena ha vinto due partite a Cluedo, una Samu(4)… e una Bartimeus.”
Leena sorrise, compiaciuta, mentre Carter borbottava di essersi pentito amaramente di aver giocato a Poker e non al suo gioco da tavolo preferito e Jackson, ripensando a tutte le sconfitte subite, suggeriva a Piper di comprarne un’edizione a sua volta per esercitarsi in vista del blackout successivo.
“Niki ha schifosamente stravinto a Poker…”
Sottolineerei in maniera sleale!”
“Usare il cervello non è sleale, cocco.”
“… Naomi ha vinto a Monopoly… ma noi abbiamo vinto per tre volte a Pictionary, voi solo una. In totale fanno sette per voi e cinque per noi.”
Come avessero fatto a vincere con due casi umani in squadra non appariva molto chiaro, ma Mathieu dovette arrendersi all’evidenza. Aveva appena preso la ciotola dei “premi” mentre i vincitori esultavano – a parte Niki, che aveva ripreso a leggere il suo libro per poterlo finalmente finire – quando all’improvviso le luci del salotto si accesero tutte insieme, svegliando Prune e Sarge, che nel frattempo si erano addormentati, e illuminando di nuovo l’appartamento. Dopo un iniziale spiazzamento e bruciore agli occhi dettato dalla luce improvvisa tutti e 13 si ritrovarono ad esultare o a tirare profondi sospiri di sollievo, confortati dalla possibilità di usare nuovamente la corrente.
“Non mi sembra vero, pensavo di restare senza corrente per tutto il weekend!”
Piper sollevò la testa tenendo le mani giunte, ringraziando qualsiasi divinità esistesse per non averla costretta a passare tutto il weekend senza ferro o piastra per capelli – senza i quali non poteva vivere – mentre Jackson, passato il sollievo iniziale, realizzava di non avere più scuse e di dover tornare al quinto piano dove di certo ad aspettarlo ci sarebbe stata sua madre, piena di gossip appresi durante il blackout con cui riempirgli la testa. Sarebbe stato un sabato mattina molto lungo.
“Potrò cucinare!”
Mentre Naomi esultava con un enorme sorriso sulle labbra Eileen si fece di nuovo improvvisamente seria, sospirando con amarezza quando realizzò di avere un mucchio di lavoro ad aspettarla per il giorno seguente:
“E io dovrò lavorare.”
Por favor, non dirmelo…”
Eccolo che ritornava a tormentarlo, l’articolo che non aveva più finito di scrivere. Esteban parlò con una smorfia amareggiata, senza unirsi al sollievo altrui come Eileen, che annuì con fare comprensivo mentre si voltava verso il ragazzo:
“Anche tu dovevi finire e non hai potuto senza corrente?”
“Sì.”
“Sì, lo entiendo bien.”
 
 
Per spartirsi gli oggetti che si erano aggiudicati Jackson, Piper, Carter, Leena, Niki, Orion e Moos avevano deciso di estrarli a sorte; considerando che erano 13 e loro solo in 7 sei ne avrebbero presi due e una persona – ovvero Niki, che si era subito offerta volontaria pur di chiudere in fretta la questione e poter tornare dalle sue gatte – soltanto uno.  Con gran rammarico di Piper era stato Jackson a triare fuori dalla ciotola il set di evidenziatori, ma di fronte allo sguardo implorante dell’amica il veterinario aveva finito col fare a cambio con il rotolo di scottex di Star Wars. Sua madre aveva fatto una strana faccia vedendolo tornare a casa con un rotolo di scottex e una lampadina, ma l'aveva pregata di rimandare le domande al mattino seguente: per quella sera aveva esaurito le forze.
Piper aveva molto gradito la penna a forma di unicorno e i suoi nuovi evidenziatori, Orion si era chiesto che cosa se ne sarebbe fatto di una trombetta da stadio e di un ventaglio quando ottobre era alle porte, e Carter aveva cercato di contenere la gioia quando dopo il magnete a forma di pizza aveva preso l’album di figurine. Niki aveva pregato di prendere la pistola spara-salsa, finendo col sprofondare nella più amara delusione quando si era ritrovata a stringere il famoso buono di Carter.
“Non ditemi che l’ha preso lei. Qualcuno faccia a cambio, vi prego!”
“Scusa Carter, ma adoro la mia penna nuova e anche i miei evidenziatori.”
Piper rivolse un sorriso di scuse al vicino mentre Leena, alle sue spalle, cercava di far capire ad Orion come aprire il ventaglio e Niki si allontanava da Mathieu con un rumoroso sospiro dopo aver mormorato di odiare la propria vita.
Mentre Moos prendeva i Kleenex e la pistola spara-salsa – che Naomi dichiarò subito proprietà comune, asserendo che l’avrebbe presa in prestito dall’amico. Gabriel non provò nemmeno a ricordarle quanto le salse fossero insalubri, arresosi – e Leena il portachiavi e il cubo di Rubik, accogliendo l’oggetto colorato con grande entusiasmo, Niki si inginocchiò davanti a Sarge porgendogli il buono del suo padrone e accarezzandogli dolcemente la testa:
“Senti, cucciolo. Non è che vorresti mangiarlo? Perché mi faresti un grande, grande favore. No? E va bene. Vorrà dire che almeno staremo insieme, lui lo chiuderemo in un armadio.”
 
Un paio d’ore prima, prima dell’arrivo di tutti gli altri vicini ad affollare l’appartamento, Carter si era ripromesso di chiedere a Mathieu che lavoro facesse: Niki aveva insidiato il tarlo della curiosità nella sua mente. Ma quando la corrente tornò all’Arconia e la loro serata-giochi finì era troppo impegnato a crogiolarsi nella gioia di essersi accaparrato un album vintage completo e allo stesso tempo nella disperazione per l’esito del suo buono per ricordarselo, e finì con il lasciare il 14D insieme a tutti gli altri senza chiederlo all’amico, pur con la sensazione di aver dimenticato qualcosa di importante.
 

 
*
 
 
“D’accordo ragazzi, buonanotte… Vi voglio bene, ma sto per addormentarmi in piedi, quindi corro a casa.”
Dopo aver lasciato Esteban al 12°, quando l’ascensore si fermò all’11° piano Naomi ne uscì insieme a Piper dopo aver abbracciato Moos e Gabriel, troppo stanco per fermarsi a fare conversazione e trattenendo a fatica gli sbadigli.
“Notte Naomi… Tieni questa, ma cerca di non fartela cadere sul piede.”
Gabriel lasciò la candela tra le braccia dell’amica, che sbuffò prima di annuire e scoccare un’occhiata torva ai pochi centimetri di cera ancora contenuti nella pesante giara di vetro:
“Dio, ora la odio questa candela, non la accenderò prima di almeno due mesi. Buonanotte Orion.”
“Ciao ragazze!”
Orion, rimasto in ascensore con Gabriel e Moos, sorrise allegro a Naomi e a Piper prima che le porte si richiudessero per condurre i tre ragazzi prima al 9°, poi al 7° e infine al 6° piano. Ritrovatesi sole nel corridoio finalmente illuminato del loro piano Piper e Naomi si diressero verso i rispettivi appartamenti mentre la modella teneva gli occhi incollati allo schermo del suo telefono.
“Cavolo, ora che è tornata la linea sto ricevendo un miliardo di messaggi… Nia mi avrà scritto 50 volte!”
“Sta bene, vero?”
“Sì, per fortuna era a casa da una sua compagna di università… ma mi stava torchiando per sapere se mi trovassi in compagnia di qualche bel ragazzo.”
Piper alzò gli occhi al cielo mentre Naomi, fermatasi davanti alla sua porta, estraeva le chiavi dalla tasca sfoggiando un sorriso divertito che si estese ai luminosi occhi verdi della strega: povera Nia, che occasione aveva perso.
“Allora quando saprà la verità non ti rivolgerà più la parola.”
“Immagino di no. E immagino anche che al prossimo blackout correrà qui, in qualunque luogo si trovi.”
Naomi rise, anche se Piper era assolutamente seria, e le due si salutarono prima di entrare ognuna a casa propria, la modella accolta dal gatto Bizet e l’avvocato solo da un tetro silenzio e dal ricordo degli aromi che poche ore prima avevano riempito la sua cucina: Sundance, manco a dirlo, si era addormentato sul divano.
“Ah, bene, vedo che la mamma ti è proprio mancata!”

 
*

 
“Hey, biondino.”
Carter stava armeggiando con le chiavi per aprire la porta di casa quando sentì la voce di Niki chiamarlo dal fondo del corridoio, portandolo a voltarsi e a ritrovarsi così a guardare la vicina impegnata nella stessa operazione mentre lo osservava di rimando grazie alle luci che erano finalmente tornate ad illuminare il corridoio:
Grazie.”
Carter impiegò qualche istante ad assimilare quella piccola, semplice ed inaspettata parola che la strega gli aveva rivolto e prima che potesse reagire in alcun modo lei era già sparita all’interno del 13B e si era chiusa la porta alle spalle senza aspettare una sua risposta, costringendolo a chinare lo sguardo su Sarge mentre infilava la chiave giusta nella toppa e la ruotava per aprire la porta:
“È proprio strana, vero amico?”
 

Niki entrò in casa, accese la luce del salotto e avanzò con lunghe falcate per sfilarsi lo Spioscopio e la bacchetta dalla tasca centrale della felpa. Ripose con cura la trottola di vetro sul tavolino e si abbassò il cappuccio mentre Mira e Carrie la raggiungevano miagolando, Lottie dormiva standosene acciambellata sul suo cuscino e Sam giocava sul tiragraffi.
“Ciao piccole.”
La strega accennò un sorriso mentre si chinava per accarezzare le due gatte, prendendo Carrie con una mano sola prima di rialzarsi e dirigersi verso la cucina. Avanzò verso il frigo nero per prendere dell’acqua fresca, ma finì col fermarsi e ad indugiare con lo sguardo sulle liste di libri appese con dei magneti, circondate da una miriade di post-it colorati pieni di scritte.
Gli occhi verdi di Niki scivolarono dalle liste fino ai post-it, guardandoli uno ad uno mentre la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato si faceva sempre più insistente. Forse fu la disposizione dei colori a colpirla, tanto da ritrovarsi a ringraziare la scelta di appenderne di tonalità diverse mentre realizzava che i post-it non erano disposti come lei li aveva lasciati qualche ora prima, quando era uscita insieme a Carter.
La strega chinò lo sguardo su Carrie, accarezzandole lentamente la testa con due dita mentre si chiedeva che cosa avrebbe potuto raccontare se solo avesse avuto il dono della parola. Se non altro le sue piccoline stavano bene, ma si ripromise di non lasciarle più sole a lungo mentre tornava a guardare il frigo, studiando con attenzione la disposizione dei post-it per controllare se ne mancasse qualcuno prima di sussurrare qualcosa:
“Non sei molto bravo a questo gioco.”
 
 
 
“Sai, c’è un modo per vincere sempre.”
“Davvero?! Insegnamelo!”
Niki aveva sollevato la testa di scatto e aveva sorriso, emozionata, guardando la donna che aveva di fronte sorriderle di rimando mentre mischiava le carte con un overhand shuffle:
“Posso provarci, ma non è detto che tu riesca ad impararlo… Solo le persone molto intelligenti ci riescono.”
“Io sono molto intelligente!”
Non avrebbe potuto offenderla più di così, si disse la donna con un accenno di sorriso divertito mentre sul visino della bambina prendeva forma un’espressione risoluta, le sopracciglia leggermente aggrottate e le braccine strette al petto.
“Hai ragione. Proviamo.”
 
 
 
 
 
 
(1): Romanzo di Stephen King
(2): Termine che negli stati del Sud si utilizza per riferirsi agli americani degli stati del Nord
(3): Nel Poker contare le carte significa memorizzare quelle che vengono mostrate dagli altri giocatori insieme alle proprie, creando così un mazzo mentale dal quale si scartano progressivamente le carte già giocate e potendo, quindi, prevedere le combinazioni di carte degli avversari.
(4): Per evitare perplessità vi ricordo che Kei si fa chiamare Samu da quasi tutti i suoi conoscenti, a parte Orion gli altri di solito lo chiameranno così nel corso della storia.  
 

………………………………………………………………………………………………………..
Angolo Autrice:
Credo di aver amato così tanto questa serie da essermi mentalmente connessa con gli sceneggiatori, uno degli ultimi episodi usciti è interamente ambientato in un blackout e io avevo deciso di scrivere questo capitolo da almeno due mesi, per non parlare del parallelismo tra Bunny e il suo pappagallo e la Turner e i suoi uccelli tropicali, anche quello stabilito mesi fa, ma sorvoliamo su queste assurde coincidenze.  
Che cosa è successo tra Orion, Moos e Nikiovviamente lo saprete più avanti, nel frattempo mi auguro che questo capitolo pieno di stronzate e di premi ridicoli che è stato un piacere per me sorteggiare e assegnare a questi poverelli vi sia piaciuto e vi preannuncio che il prossimo sarà piuttosto particolare e a differenza di questo, basato per lo più sulle interazioni, sarà decisamente intriso delle indagini di questi newyorkesi pazzerelli.
Visto che ho pubblicato ormai qualche capitolo sì, anche questa volta direi che è arrivato il momento, e ovviamente sapete di che cosa parlo: se volete e se avete qualche idea/preferenza da qui in avanti potete scrivermi in privato per le coppie. Ovviamente non è una risposta obbligatoria, soprattutto considerando che per ovvi motivi le coppie non sono il fulcro di questa storia, ma se avete qualche idea in proposito fatemelo sapere. Non credo che qualcuno potrebbe sognarsi di accollarsi un simile caso umano, ma vi chiederei di non farmi il nome di Niki.
 
Grazie mille per le recensioni, a presto e buona serata!
Signorina Granger

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 5 - I sei appartamenti (I) ***


Disclaimer
L’ho già scritto su IG, ma nel caso qualcuno si fosse perso dei pezzi per strada mi ripeto:
Questo capitolo è diviso in pochi paragrafi molto lunghi indipendenti tra loro che – a parte il primo, che è corale – riguardano un numero molto ristretto di personaggi: dopo il primo paragrafo ogni OC appare in maniera sostanziosa solo un’altra volta, interagendo esclusivamente con l’altro/gli altri personaggi coinvolti. Non è qualcosa che amo fare ma ho deciso di dividere il capitolo per evitare di propinarvene uno unico di 40.000 parole, quindi tre dei sei “capitoletti” li leggerete nella seconda metà, che in parte ho già scritto e che cercherò di pubblicare il prima possibile.
È un capitolo molto poco serio in pieno stile OMITB, spero che vi piaccia.
Buona lettura!
 
 
Capitolo 5
I sei appartamenti – I 
 
 
 
Sabato 18 settembre

 
 
“A la derecha… A la derecha. No, no tanto como eso.”                                                                                                                             [A destra… A destra. No, non così tanto]
Mentre osservava con i grandi occhi eterocromi la stretta scala a chiocciola nera che conduceva al piano superiore Eileen iniziò a convincersi che forse cercare di portare di sopra la lavagna magnetica costituiva un’impresa impossibile. Giunta solo pochi minuti prima al 13B, la strega si era posizionata a pochi metri dalla scala stringendo nella mano pallida il bicchiere di carta di Starbucks acquistato poco prima per cercare di aiutare Gabriel ed Esteban nel loro arduo intento, finendo con l’unirsi alla loro fitta conversazione in spagnolo:
Esteban, estàs demasiado a la izquierda.”                                                                                                                                                                 [Esteban, sei troppo a sinistra]
Esteban rispose esasperato che lo sapeva, ma che se si fosse spostato un po’ più a destra si sarebbe ritrovato incastrato contro la ringhiera di metallo. Gabriel, diversi gradini sopra di lui, imprecò con un filo di voce in spagnolo mentre stringeva una delle gambe della lavagna con le ruote, maledicendo chiunque avesse avuto quella trovata:
¿De quién fue esta idea de mierda? Esteban, has perno.”                                                                                      [Di chi è stata quest’idea di merda? Esteban, fai perno]
“Has perno… has perno...”
Gli occhi di Eileen seguirono i movimenti dei due con non poca perplessità: la strega si sentiva molto poco convinta in proposito dell’effettiva riuscita di quel piano, e continuò ad osservare i due cercare di portare la lavagna attraverso la stretta scala a chioccola mentre una figura alta, magra e impegnata a masticare qualcosa le si posizionava accanto, a pochi metri dalla cucina deserta:
“Immagino che non abbiano pensato che sarebbe stato meglio prima portarla di sopra e poi montarla.”
Niki addentò uno dei giganteschi double chocolate chip cookies di Starbucks che Eileen aveva portato per tutti poco prima osservando con un che di annoiato i due mentre la spagnola, dopo essersi brevemente voltata verso di lei, tornava ad osservarli a sua volta scuotendo debolmente la testa:
“Immagino di no.”
“Sì, è evidente.”
“Has perno!”
“¡No se puede hacer más pivote!”
C’era qualcosa di squisitamente divertente nella scena che le si figurava davanti agli occhi, e Niki continuò ad osservare Gabriel ed Esteban discutere in spagnolo – che infine si arresero e concordarono sull’idea di scendere – mentre Eileen si portava il bicchiere di carta alle labbra senza distogliere a sua volta lo sguardo dai due ragazzi, indecisa se andare ad aiutarli o continuare a godersi lo spettacolo.
“Non ho idea di cosa stiano dicendo, ma è divertente. Aspetta, perché… Perché quel tizio sta abbracciando la mia macchina del caffè?!”
Quando vide uno dei vicini che aveva invaso casa sua allungare le mani sulla sua preziosissima e amatissima macchina del caffè, ovvero uno dei pochissimi oggetti presenti nella sua cucina che usava, Niki smise di concentrarsi su Gabriel ed Esteban per posare gli occhi verdi su Orion, inarcando seccata un sopracciglio:
Hey! Com’è che si chiama… Nostradamus, giù le mani dalla mia bambina!”
“Ma è cosìììì bella!”
Orion sospirò sognante mentre abbracciava l’enorme macchina per il caffè di Niki, che sbuffò spazientita mentre gli si avvicinava e Gabriel, in piedi sulla scala e semi-bloccato dalla ringhiera da un lato e dalla lavagna dall’altro, cercava di infilarsi una mano in tasca per recuperare la bacchetta.
“Sì, lo so che è bella, ma non toccarla! Non ha 18 anni, è minorenne.”
“Posso un caffè? Per favoreee!”
Ritrovatosi di fronte alla vicina Orion la guardò spalancando gli occhi castani più che poteva, assumendo quella che lui stesso reputava “un’aria adorabilmente irresistibile” mentre Niki, che era alta esattamente quanto lui, lo studiava scettica e con le folte sopracciglia brune aggrottate a dare vita ad una piccola ruga nel bel mezzo della sua fronte. C’era davvero qualcuno che aveva il coraggio di insinuare che quella strana fosse lei?
Va bene, se la smetti di rompere.”
Mentre Orion sorrideva felice e la padrona di casa si adoperava per preparargli un caffè – borbottando seccata di non aver chiesto che una cosa da quando si era trasferita, ovvero vivere in santa pace, per poi ritrovarsi con l’appartamento pieno di gente – Eileen andò in aiuto di Gabriel ed Esteban estraendo la bacchetta, rimpicciolendo la lavagna quel tanto che bastava per permettere ad uno dei due di tenerla sul palmo di una mano.
“¿Por qué nos hemos pensado antes en esto?”                                                                                                                                         [Perchè non ci abbiamo pensato prima?]
Gabriel raccolse la minuscola lavagna dal gradino della scala a chioccola e la fissò accigliato prima di spostare lo guardo su Esteban, che si strinse nelle spalle mentre Eileen, riposta la bacchetta nella tasca interna del blazer blu che indossava, iniziava a salire i gradini per raggiungerli sorridendo allegra:
“Son hombres.”                                                                                                                                                                                                                                                 [Siete uomini]
Mentre Esteban e Gabriel seguivano la strega al piano superiore Niki allungò esasperata ad Orion una tazza nera con la scritta bianca “Leave me alone” piena di caffè, guardandolo prenderla e ringraziarla con un sorriso. In qualche modo la strega seppe che cosa il vicino stava per dire ancor prima di vederlo aprire bocca, portandola a roteare brevemente gli occhi verdi prima di parlare con un tono piatto e sbrigativo che non ammetteva repliche:
“Ti fermo subito per non farti sprecare tempo, sei carino, ma con me non attacca proprio.”
Niki non gli diede il tempo di aggiungere altro, si infilò le mani nella tasca centrale della felpa e fece dietrofront per raggiungere la scala a chioccola e raggiungere a sua volta gli altri di sopra mentre Orion, la tazza in mano, la guardava allontanarsi brevemente prima di seguirla, accigliato:
“Ma sei una Legilimens?”
“Lo vorrei tanto. No, riconosco solo una faccia da pseudo casanova quando la vedo.”
“Beh, non potevo non provarci.”
 
 
Una volta giunti al piano superiore Gabriel, Esteban ed Eileen raggiunsero gli altri in un’enorme stanza completamente vuota dalle pareti color caffelatte, e Gabriel appoggiò la minuscola lavagna sul pavimento prima di ingrandirla con la magia. Quando Naomi gli chiese perché ci avessero messo tanto a portarla di sopra il tatuatore fece appello con tono pacato alla facoltà di non rispondere, destando nell’amica un’espressione perplessa che si fece più vistosa quando i suoi occhi chiari indugiarono sul sorrisetto che si era fatto largo sulle labbra di Eileen.
“Beh, poco male, ho avuto il tempo per organizzare tutto quanto e per classificare i nostri vicini per colore, così ognuno avrà dei post-it diversi e sarà molto facile capirsi.”
Accantonata la perplessità un ampio sorriso allegro si fece strada sulle labbra carnose della strega, che parve estremamente entusiasta di trascorrere il sabato pomeriggio in quel modo mentre Moos, in piedi accanto a lei, la guardava dubbioso stringendo tra le braccia una scatola di cartone contenente una quantità industriale di pennarelli, evidenziatori e post-it:
“Hai intenzione di riesumare anche la tua etichettatrice, Naomi?”
“Lo spero, sai che amo usarla! Ecco, Gabri, Eileen, aiutatemi ad appendere le foto con i magneti.”
Gabriel sbattè ripetutamente le palpebre mentre l’amica porgeva a lui e ad Eileen due piccole pile di fotografie stampate, osservandole con leggera perplessità prima di scambiarsi un’occhiata perplessa con Eileen e infine tornare a rivolgersi all’amica: Naomi Leight Broussard era di gran lunga una delle persone che preferiva al mondo, nonché la più brillante, ma talvolta si ritrovava a chiedersi che cosa passasse per la testa dell’amica ed ex compagna di scuola.
“Naomi, perché… Emh, perché alcune sembrano ritagliate da dei selfie?!”
Per non destare sospetti! Non potevo certo mettermi a fare foto a destra e a sinistra, sarebbe sembrato strano!”
“E perché sulla foto di Harrison Lee ci sono dei cuoricini?”
Gabriel sollevò la foto dell’avvocato che viveva al piano superiore e la indicò a Naomi e a Moss, che represse a fatica un sorriso divertito – consapevole della cotta che l’amica aveva nei suoi confronti – mentre Naomi iniziava ad attaccare i post-it che riportavano i nomi dei loro vicini sulla lavagna stringendosi debolmente nelle spalle:
“Bah, per nessun motivo in particolare.”
“Io ve ne potrei indicare tantissimi di motivi validi per cui disegnare cuoricini sulla sua foto…”
Eileen prese la foto dalle mani del tatuatore per gettarci un’occhiata semi-sognante, e tutto sommato Gabriel si dovette dire d’accordo con la spagnola prima di chiedere accigliato all’amica perché ce ne fossero molte altre nel mucchio, di foto dell’avvocato. Naomi stava per rispondere che doveva essersi trattato di un errore, ma prima che potesse aprire bocca Niki spuntò alle spalle di Gabriel, improvvisamente molto interessata alla loro conversazione:
“Ci sono foto extra del Manzavvocato? Che terribile disdetta, per fortuna io sono disposta a prenderne una per alleggerirvi l’impiccio… Ecco, meglio.” Niki allungò il braccio oltre la spalla di Gabriel, prendendo la prima foto dell’uomo che le capitò sotto tiro mentre l’ex Serpecorno alzava esasperato gli occhi al cielo:
“Credo che vi stiate dimenticando della possibilità che sia coinvolto nell’omicidio di Montgomery.”
“Lo so, ma speriamo di no, è così bello!”
Eileen guardò la foto che teneva in mano con un sospiro amareggiato – sarebbe stato un vero peccato se si fosse rivelato lui il colpevole, era troppo bello per poter finire in prigione – , porgendola infine a Naomi affinché la strega potesse appenderla sulla superficie bianca della lavagna mentre Niki, dietro di lei, non poteva che concordare silenziosamente con la spagnola.
Nel mentre Piper, Jackson e Leena sedevano sul pavimento rivestito dal parquet in un angolo dell’ampia stanza vuota, impegnati a coccolare e a vezzeggiare Sam, Carrie, Mira e la piccola Lottie. Mentre Piper teneva in braccio Lottie, così piccola da starle praticamente nei palmi delle mani, piagnucolando a proposito di quanto la gattina fosse adorabile e di come avrebbe voluto adottare un secondo gatto se solo non fosse stata tanto occupata Jackson, che teneva Carrie sulle ginocchia, accarezzò dolcemente la piccola testa dell’abissina con un sospiro traboccante di amarezza:
“Almeno tu ce l’hai, un gatto, io non posso per colpa della dannata allergia di mio padre… Se non altro posso consolarmi al lavoro.”
“Il mio sogno è avere un gatto siamese e chiamarlo Alfred Hitchcock. Nel frattempo mi dedicherò a coccolare le bellissime gatte di Niki. Che lavoro fai?”  Leena sorrise mentre grattava Sam sotto il mento con una mano e accarezzava la testa di Mira con l’altra, certa che avrebbe potuto trascorrere lì seduta il resto del pomeriggio senza problemi mentre Piper stringeva la piccola Lottie emettendo indistinti suoni melensi.
“Sono un veterinario. Lavoro nel reparto dei felini nello zoo del Bronx.”
“Davvero? Che meraviglia! Bene, direi che un giorno dovremo autoinvitarci e venirti a salutare.”
“Io ci voglio andare da settimane, non appena avrò un buco durante uno dei turni di Jackie correrò nel Bronx senza pensarci due volte…”
Piper sospirò con aria sognante, pregustandosi la sua visita privilegiata allo zoo mentre Jackson alzava gli occhi castani al cielo – era sicuro che l’amica avrebbe passato l’intera visita ad indicare animali a destra e a sinistra e ad emettere assordanti quanto indistinti suoni inteneriti – e Leena annuiva mentre Sam scavalcava le sue lunghe gambe incrociate sul pavimento per accoccolarcisi in mezzo.
“Perfetto, fammi sapere quando vai, così mi accodo. Ohhh, Sam mi è venuta in braccio, allora le piaccio!”
 
A due metri di distanza dal club degli adoratori dei gatti, Carter stava in piedi tra Mathieu e Kei rimuginando con perplessità sul curioso stato del piano superiore dell’appartamento della sua vicina:
“Chi è che lascia tutte queste stanze vuote dopo essersi trasferito da mesi?! Ok procrastinare, e lo dico da esperto, ma questo mi sembra un filino esagerato.”
“Sì, è sembrato strano anche a me quando l’ho visto la scorsa volta…”
Quando due giorni prima Niki aveva intimato a lui, Mathieu, Carter, Leena ed Eileen di non ficcanasare e di non toccare niente all’interno del suo appartamento Kei non le aveva dato il minimo ascolto e non appena aveva la strega era uscita dal suo campo visivo grazie alla scala antincendio non aveva esitato a salire la scala a chiocciola di metallo nero che conduceva al piano superiore. Non avrebbe saputo dire che cosa si fosse aspettato di trovare, probabilmente nulla in particolare, ma di certo non di trovarsi a fronteggiare un corridoio deserto sul quale si affacciavano tre stanze, tutte prive di porta, delle quali due interamente vuote e una parzialmente occupata da degli scatoloni.
“Davvero? Non vedo l’ora di sentire quando e come hai avuto modo di vedere queste stanze prima di oggi. Come stanno le mie piccoline? Avete dei nuovi amici?”
Niki si allontanò da Gabriel, Moos, Naomi, Eileen, Esteban e la lavagna piegando una foto che ritraeva Harrison Lee e infilandosela in tasca, superando Kei, Carter e Mathieu senza voltarsi per avvicinarsi alle sue gatte e inginocchiarsi sul pavimento tra Piper e Jackson. Il viso già di per sé pallido di Kei sbiancò totalmente all’udire le parole della strega, ripromettendosi di non restare da solo con lei nella stessa stanza per il resto della giornata mentre Mathieu gli suggeriva candidamente di emigrare in Messico e Carter osservava accigliato la tasca centrale della felpa nera della vicina mentre questa sorrideva dolcemente alle sue gatte dopo aver preso in braccio Mira.
“Sul serio, com’è possibile che le stanze siano ancora vuote?!”
Carter sapeva di non essere la persona migliore per esprimere giudizi dal momento quanto tempo aveva impiegato, sette anni prima, per disfare tutti gli scatoloni, ma riservò comunque un’occhiata stranita alla sua vicina mentre Niki, impegnata ad accarezzare quasi meccanicamente la piccola testa rossiccia di Mira, ricambiava guardandolo in un misto di rassegnazione e fastidio:
“L’ultima volta in cui ho controllato non erano cazzi tuoi e mi sembra che sia ancora così.”
Decisa ad allontanarsi per non finire col commettere il secondo omicidio del palazzo, Niki si riavvicinò alla lavagna che Naomi, Eileen e Gabriel stavano finendo di sistemare con l’aiuto di Moos ed Esteban, che stavano passando ad una Naomi particolarmente entusiasta post-it e pennarelli di tutti i colori. Era un po’ come tornare a scuola, si disse Moos mentre guardava l’amica disporre i quadratini di carta con millimetrica precisione sulla superficie magnetica: gli appunti di Naomi erano sempre stati tanto perfetti da diventare quasi leggendari, ad Ilvermorny, proibiti oggetti del desiderio di tutti i loro compagni di classe.
“Naomi, divertiti in maniera così palese un po’ meno, è morto qualcuno.”
Gabriel passò all’amica una foto della bellissima ex di Montgomery – non aveva idea di come e quando la strega avesse scattato tutte quelle fotografie, ma decise di non chiederglielo – con un sussurro e Naomi si all’improvviso annuì come ridestandosi da uno stato di trance, gettando una rapidissima e appena percettibile occhiata di scuse in direzione di Moos senza che l’amico se ne accorgesse prima di tornare ad ammirare il suo lavoro con occhi pieni di soddisfazione:
Hai ragione, ma è così bello e rilassante disporre tutto per colori!” 
“Ne è avanzata una troppo grande della Signora Turner, qualcuno deve aver sbagliato le misure stampando…”
Esteban guardò accigliato la foto rimasta prima che Niki, nuovamente improvvisamente interessatissima, gliela prendesse dalle mani sfoggiando un largo sorriso soddisfatto:
Fantastico, mi serviva proprio un bersaglio per le freccette La prendo io, non preoccuparti. Forse dovrei far apparire dei divani…”
“Sì, forse sarebbe il caso.”
Dopo aver intimato a Carter di tacere senza guardarlo Niki si sfilò la bacchetta dalla tasca centrale della felpa invitando i presenti a spostarsi dal centro della stanza per poter far apparire dei divani, facendo del suo meglio per fingere di non udire ciò che Carter disse subito dopo a Mathieu e a Kei:
“Cazzo, ho capito! Tiene sicuramente qualcuno segregato qui sopra da qualche parte, forse se stiamo zitti riusciremo a sentire l’eco delle imploranti richieste di aiuto…”
Carter tacque per tendere l’orecchio, certo che ci fosse un poveretto chiuso dentro una botola o dietro un armadio a muro segreto mentre Kei, annuendo, spalancava gli occhi a mandorla schioccando le dita:
“Forse è qualcuno a cui ha rubato una valanga di soldi, ecco perché vive in un appartamento così costoso!”
“Ma se tenesse davvero qualcuno rinchiuso qui dentro contro la sua volontà non pensate che ci avrebbe impedito di entrare a casa sua?”
Per qualche motivo non era poi così difficile, per quanto assurdo fosse, immaginare lo scenario appena descritto da Carter e Kei, ma Mathieu aveva come la sensazione che in quel caso la vicina non avrebbe permesso a più di dieci persone di irrompere nel suo appartamento per più giorni consecutivi. Carter però non si fece scoraggiare, annuendo mentre osservava pensoso il soffitto:
“E infatti lei non ha mai fatto entrare nessuno prima dell’altro ieri! Magari Montgomery, che viveva qui sopra, se n’è accorto e allora lei lo ha fatto fuori… Spesso non si prende in considerazione la persona più ovvia e poi invece è proprio quella la colpevole.”  
“Sono assolutamente sicuro che Monty sapesse qualcosa sul suo conto. Non so cosa, ma ne sono certo. Peccato non fosse tipo da lasciare cose scritte in giro… Magari nel suo telefono, ma su quello è quasi impossibile metterci mano.”
Kei parlò scuotendo la testa, le sopracciglia corvine aggrottate mentre si ritrovava a pensare, ancora una volta, alle sue ultime conversazioni con Montgomery. Aveva fatto del suo meglio per ricostruirle, per cercare di trovare qualche parola, qualche espressione fuori dall’ordinario, qualcosa che avrebbe potuto suggerirgli se il suo amico avesse o meno avuto il sentore di essere in pericolo. Se così era stato Montgomery, tuttavia, era stato molto accorto nel celarlo, perché per quanto si fosse sforzato Kei non era riuscito a trovare niente di anomalo nel suo comportamento recente.
“Quante volte devo ripeterlo? Non. Sono. Stata. Io. Solo perché mi vesto di nero e non parlo con nessuno divento automaticamente un’assassina?!”
Di fronte alle parole e al tono visibilmente seccato di Niki Carter sussurrò qualcosa a proposito di come molti serial killer fossero persone particolarmente solitarie e molto sveglie, ma Niki scosse la testa e gli intimò di tacere con un brusco gesto della mano, distogliendo lo sguardo da lui:
“Ti prego smettila con queste cazzate, o ti rapo i capelli e ci faccio un parrucchino per un cosplay di Justin Bieber. Ora levatevi, devo far apparire dei divani per far sedere un mucchio di gente che, per inciso, non ho nemmeno invitato ad entrare.”
Con un movimento della bacchetta Niki fece apparire tre divani color sabbia che sarebbero andati a posizionarsi sui lati vuoti della stanza con un pigro movimento della bacchetta prima fare cenno ai presenti di sedersi e infine scoccare un’occhiata obliqua alla lavagna alle sue spalle e alle foto che la ricoprivano quasi completamente: era proprio il caso di risolvere quel mistero in fretta, perché non aveva intenzione di ritrovarsi costantemente assediata dai vicini fino all’anno successivo.
In quel palazzo di certo viveva qualcuno che per qualche motivo aveva odiato Montgomery Dawson molto più di quanto non avesse fatto lei.

 
*

 
“Immagino che sia una coincidenza che del ragazzo che abita all’undicesimo piano ci siano tutte quelle foto…”
Quando Niki aveva fatto apparire i divani tutti erano andati a sedersi, Orion stringendo una tazza di caffè in una mano e un gigantesco cookie nell’altra, tranne Naomi e la padrona di casa: la prima era rimasta in piedi davanti alla lavagna dopo essersi auto-proclamata sua coordinatrice per evitare che qualcuno potesse “rovinare il suo lavoro perfetto”, la seconda si era avvicinata alle sue amate gatte. Ora teneva in braccio Mira e Carrie, stringendosele al petto reggendone una per mano:
“Jeremy? Perché è un piacere per gli occhi.”
Piper, seduta tra Jackson e Leena, rispose con una stretta di spalle mentre Naomi, in piedi davanti alla lavagna con un pennarello nero in mano, annuiva esprimendo il suo assenso seguita ben presto da quasi tutti i presenti. Gabriel, seduto tra il bracciolo del secondo divano e Orion, dopo aver osservato brevemente le foto del ragazzo che abitava accanto all’amica dovette trovarsi d’accordo:
“Sì, direi che ha perfettamente senso.”
“Qualcuno vuole tenere in braccio una gatta? Smercio adorabili feline di razza. Leena, ne vuoi una?”
“Sì, ti prego!”
Niki sistemò prima Carrie sulle ginocchia di un’entusiastica Leena e poi Mira su quelle di Jackson, che non si era lasciato sfuggire l’occasione e si era affrettato ad accodarsi alla britannica, prima di recuperare Sam dal pavimento e lasciarle tra le braccia tese di Piper, che approfittò della vicinanza della padrona di casa per rivolgerle un’occhiata sognante e implorante al tempo stesso:
“Puoi mostrarmi la catwalk? Ti prego?”
Per l’istante in cui gli occhi di Niki indugiarono sul suo volto Piper ebbe l’impressione che la sua domanda l’avesse raggelata, ma la strega, dopo aver distolto lo sguardo e aver affermato di non aver mai sfilato in vita sua, si voltò e si defilò in fretta e furia senza darle il tempo di dire altro, raccogliendo Lottie dal pavimento per raggiungere Moos, passargli la gattina e infine sedersi sul posto vuoto rimasto tra lui e il bracciolo del terzo divano sistemato sotto alla prima delle tre finestre della stanza:
“Tieni Bartimeus, hai l’aria di uno a cui piacciono gli animali.”
“Grazie. Mi piacciono i gatti.”
Moos accarezzò delicatamente la piccola testa della gattina dai grandi occhi blu abbozzando un sorriso che Niki ricambiò con un che di divertito, annuendo prima di Appellare il libro che stava leggendo che era rimasto al piano inferiore:
“Non avevo dubbi.”
Mentre un piccolo volume sfrecciava all’interno della stanza e la attraversava fino a planare sulle ginocchia di Niki il sorriso si congelò sul viso di Moos, la cui espressione si fece improvvisamente più seria mentre osservava la vicina aggrottando le sopracciglia. Il sorriso della strega invece non vacillò mentre le sue dita andavano ad aprire il libro, chinando poi lo sguardo sulle pagine per riprendere la lettura di Il ritratto di Elsa Greer(1) da dove era stata costretta ad interrompersi quando i vicini si erano presentati alla porta del 13B mentre Carter, seduto sul divano di fronte tra Mathieu e Kei, si sporgeva leggermente in avanti per guardare Piper con tanto d’occhi:
“Aspetta, tu sai chi è questa qui? Sai come si chiama?”
“Beh… Certo. Voi no?”
L’espressione di Piper si fece sempre più perplessa quando la strega, a giudicare dagli sguardi che tutti i presenti le rivolsero, realizzò che no, gli altri evidentemente non avevano idea di chi Niki fosse. Niki che continuò a leggere il suo libro in tutta calma, senza alzare lo sguardo dalle pagine o battere ciglio mentre Gabriel si voltava verso di lei per guardarla con la fronte aggrottata:
“In realtà per me hai un’aria familiare. Non è per caso eravamo dello stesso anno ad Ilvermorny?”
Gabriel era sicuro di aver già avuto occasione di incontrarla in passato e l’unica risposta sensata che gli veniva in mente era la scuola, ma Niki si limitò a stringersi nelle spalle senza smettere di leggere mentre Moos, accanto a lei, persisteva nel guardarla dubbioso:
“Veramente non saprei proprio dire. Devo avere un viso molto comune.”
“Quella non è affatto una faccia comune, ci prende per il culo. Piper, come cavolo si chiama?”
Spazientito – aveva l’impressione di averla già incontrata fin da quando si era seduto al suo stesso tavolo la sera in cui era stato ritrovato il cadavere di Montgomery, e quel pensiero era presto diventato un fastidioso chiodo fisso – Carter si rivolse a Piper mentre la strega, sempre più confusa, faceva vagare lo sguardo sui presenti sollevando entrambe le curatissime sopracciglia tinte di nero come i capelli:
“Come sarebbe a dire “Come si chiama”? Si chiama Niki.”
“… Cioè Niki è il suo vero nome? Sei sicura?”
“Beh, questo non lo so, nella fashion industry è famosa così…”
“Sulla cassetta della posta, nell’atrio, c’è scritto solo “NK”.”
Gli occhi scuri di Kei, che sedeva tenendo le braccia strette al petto in una morsa rigida, indugiarono su Niki mentre la strega continuava a leggere e Piper annuiva dubbiosa senza smettere di accarezzare la testa di Sam. Per lei Niki non era altro che una bellissima modella che le era capitato spesso di scorgere in foto e stentava a comprendere tutta quell’agitazione collettiva a proposito della sua identità. Quando Carter borbottò pensoso che forse quelle erano le iniziali dell’identità che la sua vicina aveva rubato a qualcun altro Leena si sporse verso di lui spalancando i grandi occhi scuri, annuendo e indicandolo prima di affermare di aver letto qualcosa di simile soltanto il giorno prima.
Piper stava per informare i vicini che, per quanto ne sapeva, N e K non erano altro che le sue iniziali, ma Niki la precedette sollevando improvvisamente lo sguardo dalle pagine del libro per lanciare un’occhiata seccata in direzione di Carter e Kei, che le sedevano quasi esattamente di fronte sull’altro lato della stanza:
“È solo un cazzo di nome, che v’importa di come mi chiamo? Che il mio nome sia Niki o meno per voi non fa alcuna differenza. Siete qui per parlare di Montgomery, parlate di questo e di come sia stato palesemente avvelenato da qualcuno invece di discutere di stronzate che non vi riguardano.”
Irrigiditasi e sportasi leggermente in avanti sul divano senza che se ne fosse resa conto, Niki si sistemò di nuovo contro lo schienale e si sforzò di tornare a concentrarsi sulla sua lettura e non su quel manipolo di ficcanaso, profondamente infastidita da quelle domande sul suo conto mentre nella stanza, a seguito delle sua parole, calava un improvviso silenzio. Naomi, che aveva seguito la scena restando in piedi davanti alla lavagna, esitò per una manciata di istanti, indecisa sul da farsi, prima di voltarsi verso la lavagna e annuire piano, spezzando il silenzio con le sue parole:
“Sì… Moos pensa che sia stato messo qualcosa nel caffè. Se è davvero stata usata la stricnina potrebbe avere senso, non è una sostanza molto amara?”
“Monty non beveva caffè, in effetti. Avete trovato del caffè a casa sua?”
“Ho trovato un bicchiere di carta. E quella che potrebbe essere stricnina. Qualcuno può averglielo portato il giorno in cui è morto. E lasciato il veleno così che potessero pensare che lo avesse ingerito di sua volontà.”
Niki parlò di nuovo senza distogliere lo sguardo dal suo libro, continuando imperterrita a leggere senza sollevare la testa anche quando Esteban, seduto accanto a Moos sul suo stesso divano, disse qualcosa osservando accigliato la lavagna alle spalle di Naomi:
“Cioè due persone volevano ucciderlo? Entrambe simulando un suicidio? Prima qualcuno lo avvelena e poi qualcun altro, più tardi, lo uccide?”
“Non una bella giornata per Montgomery Dawson…”
Orion credette di parlare a bassa voce quando sussurrò quelle parole nel portarsi la tazza di Niki alle labbra, ma quando tutti i presenti si voltarono verso di lui dovette ricredersi, rivolgendo un tiepido sorriso di scuse a Kei quando scorse l’occhiataccia che l’amico gli lanciò. Deciso a lasciar perdere le parole dell’amico Kei spostò seccato lo sguardo su Naomi, inarcando un sopracciglio con lieve scetticismo e quasi capace di contemplare l’idea che ben due persone avessero avuto l’intenzione di uccidere Monty.
“Com’è possibile che due persone volessero ucciderlo?”
“E c’è anche la ferita sulla testa… Qualcuno lo ha colpito. Impossibile dire se sia stata una delle due persone che voleva ucciderlo o qualcun altro.”
Naomi si voltò dubbiosa verso la lavagna, chiedendosi il perché di quel violento accanimento nei confronti del vecchio amico e compagno di scuola di suo fratello maggiore mentre Leena, impegnata ad accarezzare il soffice e corto pelo di Carrie, parlava stringendosi nelle spalle:
“Dobbiamo chiedere a Lester se ricorda di aver fatto entrare qualcuno che non vive qui quel giorno. O guardare i video delle telecamere all’ingresso.”
“E come mettiamo le mani sui video, organizziamo una spedizione alla Ocean’s Eleven?”
Quando parlò Mathieu era visibilmente ironico, ma com’era prevedibile Carter o non se ne rese conto o decise di infischiarsene e annuì, spalancando gli occhi chiari con evidente entusiasmo:
“Vi prego sì, sarebbe divertentissimo! Io ovviamente sono Brad Pitt.”
Carter sorrise sognante, già pregustando la propria interpretazione mentre Mathieu accanto a lui alzava gli occhi al cielo e Naomi, ancora in piedi, scuoteva la testa incrociando al petto le braccia fasciate dalle maniche della camicia bianca:
“I caper movie nella vita reale avrebbero un esito ridicolo, quella la teniamo come ultima opzione. Uno o due di noi chiederanno a Lester.”
“Sì, propongo qualcuno che ispiri fiducia, quindi escluderei Niki e il suo sguardo truce.”
Carter sorrise a Niki, ignorando il dito medio che la strega gli mostrò dall’altro lato della stanza senza nemmeno alzare lo sguardo dal suo libro, scoccandole invece un bacio aereo con le labbra.
“Mandiamo Moos e Naomi, loro sono carini e gentili. E poi Lester adora Naomi, si ferma sempre a chiacchierare con lei.”
Eileen si strinse nelle spalle mentre accennava ai due ex Serpecorno, destando un sorriso sul volto di entrambi mentre Gabriel, rammentando i tempi lontani di Ilvermorny, quando Naomi era stata talvolta molto lontana dal poterla definire “carina e gentile”, bofonchiava qualcosa giocherellando con i lembi del suo maglioncino:
“Dici così perché non hai mai visto Naomi ai saldi di Gennaio da Macy’s…”
“Hey, quello che accade ai saldi resta ai saldi! Andremo io e Moos a parlare con Lester più tardi, non è un problema… ed è obbiettivamente vero che mi adora. Vero Moosy?”
“Certo, come volete.”
Moos sorrise senza smettere di grattare dolcemente la piccola testa di Lottie con la punta delle dita, seduto tra Niki ed Esteban mentre la prima non accennava a voler smettere di leggere e il secondo, al contrario, studiava la lavagna alle spalle di Naomi reggendosi il mento con una mano, appoggiandosi al bracciolo del divano:
“Come sappiamo di dover prendere in considerazione solo questi qui?”
“Beh, qui ci vive un mucchio di gente, troppa gente, impossibile tenerli in considerazione tutti… Penso che dovremmo iniziare da quelli con cui ci è capitato di vedere parlare Montgomery… C’è la sua ex, Jeremy Gutierrez era suo amico, Harrison Lee è l’avvocato della sua famiglia… E ho visto Kamala e Montgomery discutere in ascensore un paio di volte. Ma ammetto di non avere idea sul perché la Signora Turner e Barry White siano su questa lavagna.”
Naomi osservò le foto dei diretti interessati aggrottando le sopracciglia, roteando gli occhi verdi quando, alle sue spalle, Carter la informò che “il dentista secondo lui era sospetto” e Niki che “la vecchia stronza c’entrava sicuramente qualcosa”.
“Non potete accusarli solo perché vi stanno antipatici!”
“E chi l’ha detto?”
 
 
“Ok, direi che è d’obbligo parlare della sua ex. Qualcuno sa perché si sono lasciati?”
Dopo aver parlato lo sguardo di Naomi indugiò istintivamente su Kei, imitata ben presto da tutti i presenti. Dopo una breve esitazione il ragazzo si strinse nelle spalle, scuotendo debolmente la testa: era successo poco prima della morte di Monty e non ne sapeva molto.
“Beh, lei non l’ha presa molto bene. Non era solito avere relazioni molto durature, si stufava in fretta.”
“Con “non presa bene” intendi “ti avveleno il caffè, brutto stronzo”?”
Leena si pentì amaramente di non aver portato nessun pezzo di carta su cui prendere appunti, ma si consolò continuando ad accarezzare la testa della sua nuova amica a quattro zampe mentre Jackson, accanto a lei, si sforzava di ascoltare la conversazione in corso e di non farsi distrarre più del dovuto dalla gatta che teneva in braccio a sua volta.
“Non è stata lei ad avvelenarlo, ovviamente.”
Questa volta Niki non capì perché tutti la stessero guardando, e ancora una volta si vide costretta ad interrompere la lettura – di quel passo avrebbe scoperto l’identità del colpevole con l’arrivo della primavera – per dare voce ai suoi pensieri con il tono pacato e arricchito da una punta di perplessità di chi pensa di star pronunciando delle ovvietà:
“Lei di certo sapeva che non beveva il caffè, non ha alcun senso. Dev’essere stato qualcuno che per qualche motivo sì, voleva ucciderlo, ma che allo stesso tempo non lo conosceva così bene. Ed è una persona crudele. Se davvero hanno usato la stricnina, è una morte davvero atroce. Dopo spasmi e convulsioni i muscoli respiratori si paralizzano e si muore per insufficienza respiratoria.”
Alle sue parole seguì un breve silenzio collettivo, durante il quale Orion s’immobilizzò con la tazza a mezz’aria, gettando un’occhiata dubbiosa al suo caffè prima di voltarsi verso Gabriel e scambiarsi in silenzio con il vicino un’occhiata che lo portò ad abbassare la mano che stringeva il manico della tazza, improvvisamente poco allettato all’idea di bere la bevanda che Niki gli aveva preparato e che aveva quasi ucciso Montgomery. Quando appurò che quasi tutti i presenti la stessero osservando dubbiosi Niki sospirò, esasperata, e si vide costretta a fare una piccola quanto fondamentale puntualizzazione:
“Non sono un’avvelenatrice seriale. L’ho letto.”
“Ok, quindi potremmo escludere Samantha, ma resta il fatto che poi qualcun altro più tardi è andato ad ucciderlo. Anche se non riesco ad immaginarla tagliare la gola a qualcuno, ad essere onesta.”
Naomi si girò verso la lavagna, ruotando su se stessa per dare le spalle ai presenti ed osservare invece i nomi che lei stessa aveva scritto. Erano persone che in un modo o nell’altro vedeva ogni giorno da tempo e nessuna di loro aveva, in alcun modo, l’aria di qualcuno disposto ad avvelenare qualcuno o a spargere fiotti di sangue in un bagno.
“Perché, con qualcuno degli altri ti riesce? Sembra una cosa troppo violenta per chiunque, qui, per dei fighetti dell’Upper West Side.”
Orion parlò sfoggiando un sorriso e tamburellando le dita sulla superficie liscia della tazza nera, astenendosi dal sottolineare ancora una volta come comunque presto sarebbe potuto morire qualcun altro e che quindi in un modo o nell’altro il cerchio dei sospettati si sarebbe ristretto. Sempre che a morire non fosse uno dei presenti, certo. Dal canto suo sperava di no: iniziava proprio a divertirsi, in loro compagnia. 


 
*
 
 
– I –
L’odiatrice del caffè


image host image host  
 

Tre ore dopo

 
Gabriel avrebbe dovuto immaginarlo, che suggerire ironicamente di dividersi e di fare irruzione negli appartamenti dei sospettati si sarebbe rivelata una mossa controproducente. Non sapeva bene come ma tutti avevano finito col prenderlo sul serio per poi iniziare a discutere animatamente su come fare, su chi dovesse andare dove e con chi. Sotto lo sguardo vagamente sconcertato del tatuatore i suoi vicini avevano finito con il tirare a sorte e anche se si sentiva sollevato per essere capitato con Naomi, continuava in ogni caso a reputarla una pessima idea.
Naomi aveva espressamente richiesto di non andare a casa della Signora Turner a causa della sua fobia per i volatili e la loro sorte era quindi ripiegata su una dei loro vicini dell’8° piano. Quando aveva udito il nome della suddetta vicina Gabriel aveva inizialmente faticato a collegarlo ad un viso, o almeno finchè Naomi non gli aveva indicato la foto di una giovane, splendida ragazza indiana che disgraziatamente abitava sopra di lui e che gli capitava spesso di incontrare in ascensore.
“L’odiatrice del caffè! Io la detesto quella.”
Gabriel l’aveva ribattezzata in quel modo fin dal loro primissimo, malaugurato incontro, quando l’antipatia per la vicina era sorta spontanea apprendendo della sua avversione nei confronti di una delle bevande che il tatuatore maggiormente prediligeva: un anno prima aveva condiviso un viaggio in ascensore con lei e Orion, che tanto per cambiare aveva con sé un bicchiere pieno di caffè, destando nella strega una sorta di lunga filippica con la quale la strega era andata ad elencare tutte le proprietà negative della bevanda. Quando aveva indicato la foto di Kamala Sharma manifestando con veemenza il suo disprezzo nei confronti della strega Niki aveva asserito di “detestare a sua volta quella stracciapalle di una hippy” e Orion aveva annuito con un cupo cenno del capo, asserendo che “chiunque odiasse il caffè non fosse degno della sua stima”.
 
Ora lui e Naomi stavano aspettando che Kamala lasciasse il suo appartamento, e per farlo si erano stabiliti all’undicesimo piano, a casa della strega. Gabriel si era chiesto perché l’amica avesse tanto insistito per andare a casa sua finchè non aveva scorto l’enorme quantità di pentole sui fornelli, finendo col ritrovarsi a farle da sous chef.
“Ok, è scesa in cortile. Sta chiacchierando con quella maledetta tizia che suona il fagotto a tutte le ore del giorno e della notte, quanto mi urta…”
Naomi, in piedi davanti alla finestra a bovindo del salotto con in mano un binocolo, zoomò il più possibile sulle due vicine, una con la custodia di uno strumento musicale in spalla e l’altra con un borsone mentre Gabriel le gettava un’occhiata più che perplessa senza smettere di mescolare la Corn Chowder(2).
“Non ti preoccupa che qualcuno possa, emh, vederti spiare con un binocolo?”
“Pazienza, se qualcuno mi vede dirò che sto facendo birdwatching.”
“Primo, tu hai la fobia dei volatili. Secondo, quali pennuti dovresti osservare a Manhattan?!”
“I piccioni, i gufi dei vicini, che ne so! Stai controllando che il soffritto non attacchi, piuttosto?”
Naomi si allontanò il binocolo dal viso per voltarsi verso l’amico e scoccargli un’occhiata ammonitrice, guardandolo annuire e alzare gli occhi al cielo prima di dare una mescolata alle verdure che l’aveva vista tagliuzzare poco prima:
“Sì, tranquilla, il soffritto è al sicuro. A tal proposito, stasera le mie madri ci hanno invitati a cena con Damita, dobbiamo darci una mossa.”
“Rilassati, ho già preparato la pasta al forno da portare.”
Naomi accennò sbrigativamente ad una casserole di ceramica bianca prima di tornare ad osservare Kamala Sharma, intimandole con uno sbuffo di piantarla di chiacchierare e di uscire dal cortile interno dell’Arconia mentre Gabriel sollevava accigliato il coperchio ancora caldo della pirofila. Quando si ritrovò davanti una pasta al forno filante il tatuatore sbattè più volte le palpebre, ormai del tutto certo che la sua amica fosse dotata di un qualche super-potere che le consentiva di sfornare cibo delizioso praticamente dal nulla:
“Ma se prima siamo stati a casa di Niki… Quando hai avuto il tempo di prepararla?!”
“Se n’è andata! Presto, andiamo!”
Dopo aver finalmente scorto la vicina dirigersi verso l’uscita del palazzo Naomi non rispose alla domanda dell’amico e si allontanò dal bovindo gettando sul divano bianco il binocolo che aveva fatto apparire poco prima con la magia e che di lì a breve sarebbe sparito. Mentre Naomi sostituiva le sua pantofole rosa con le nuvolette con le scarpe da ginnastica con cui di solito andava a correre Gabriel la guardò senza allontanarsi dai fornelli, accennando invece alle pentole:
E il soffritto?”
“Non pensavo che l’avrei mai detto, ma al diavolo il soffritto! Spegni tutto e andiamo.”
Nemmeno Gabriel pensava che avrebbe mai sentito Naomi pronunciare simili parole, tanto che la guardò aprire la porta dell’appartamento con sincero sgomento mentre Sundance, credendo di dover andare a fare una passeggiata, si avvicinava scodinzolando alla padrona.
“Oh, scusa piccolo, io e lo zio Gabriel dobbiamo andare a fare una cosa…”
La strega si chinò per accarezzare la testa del Golden Retriever, guardandolo dispiaciuta mentre Gabriel, dopo aver spento i fornelli e chiuso i coperchi delle pentole, si avvicinava sospirando piano all’amica: solo due settimane prima avrebbe trovato del tutto impensabile la possibilità di ritrovarsi coinvolto in una situazione simile. Evidentemente la compagnia dei loro vicini non stava facendo bene alla sua vecchia compagna di scuola.
“Sì, una cosa illegalissima che mi sorprende che un avvocato sia disposto a fare.”
“Ho colleghi che hanno combinato molto, molto di peggio.”
Naomi liquidò il discorso con un pigro gesto della mano mentre varcava la soglia dell’appartamento e Gabriel, dietro di lei, si chinava leggermente per lasciare una carezza sulla morbidissima testa di Sundance:
“Scusa ragazzone. La mamma oggi sta un po’ svalvolando.”
Il tatuatore rivolse un sorriso affettuoso all’animale prima di seguire Naomi fuori dall’appartamento, sinceramente dispiaciuto nel doverlo lasciare solo mentre si chiudeva la porta alle spalle e l’amica gli faceva sbrigativamente cenno di seguirla verso la porta che conduceva alla tromba delle scale:
“Ok, aveva un borsa con un ricambio, sarà andata in palestra, starà via parecchio, possiamo stare tranquilli.”
Naomi si incamminò rapida lungo l’ampio corridoio silenzioso e deserto dell’undicesimo piano con Gabriel subito dietro, che la guardò accigliato e con una punta di perplessità:
“Frena le deduzioni, Sherlock: è sabato e un sacco di palestre al sabato pomeriggio sono chiuse qui.”
“Pensandoci bene quella mi dà più l’idea di essere una che fa yoga al parco più che sollevare pesi nel tempo libero, ma il discorso non cambia. Andiamo all’ottavo piano, poi sai che cosa devi fare.”
Naomi si fermò davanti alla porta delle scale e sorrise all’amico mentre l’apriva per precederlo, ignorando il sospiro di Gabriel e il suo commento su come non avesse studiato per anni e anni per finire ad intrufolarsi negli appartamenti altrui mentre la seguiva, rassegnato.
 
 
“Ti dico che non c’è nessuno, non si sentono passi o porte aprirsi da cinque minuti, puoi andare!”
Se la sua forma animale glielo avesse permesso Gabriel avrebbe fatto notare all’amica che i vicini avevano una pessima influenza su di lei, ma si limitò ad alzare gli occhi al cielo prima di avvicinarsi alla porta chiusa dell’undicesimo piano che Naomi aprì quel tanto che bastava per farlo passare, permettendo al Caracal di introdursi nel corridoio per controllare che nessuno dei loro vicini fosse in vista.
Il felino trotterellò fino alla porta dell’8B, fermandosi muovendo sinuosamente la coda senza smettere di guardarsi attorno, cercando di udire dei possibili rumori provenire dall’interno degli appartamenti. Quando si fu assicurato che nessuno sembrava sul punto di uscire di casa, né di arrivare all’ottavo piano visto che i display dei due ascensori erano spenti, Gabriel si affrettò a tornare da Naomi, percorrendo il corridoio a ritroso fino a potersi affacciare nuovamente sul pianerottolo della tromba delle scale per invitarla a seguirlo con un’occhiata.
“Sicuro che non ci sia nessuno? Ok, andiamo. Spero solo che nessuno ti veda, sarebbe arduo spiegare di avere un felino del genere come animale da compagnia.”
Naomi seguì l’amico nel corridoio, si chiuse la porta alle spalle e poi si diresse verso la porta dell’8B estraendo la bacchetta dalla tasca interna del suo blazer, pregando che nessuno scegliesse quell’esatto momento per mettere il naso fuori di casa. Gabriel sedette davanti alla porta, guardando l’amica in attesa che aprisse la serratura con la magia senza smettere di muovere la lunga coda rossiccia.
Fortunatamente Kamala non aveva sigillato la porta con un incantesimo e subito la serratura scattò, permettendo a Naomi di spingere la porta con la punta del piede destro e a Gabriel di sgusciare rapidissimo all’interno dell’appartamento. Fu un sollievo per Naomi seguire l’amico per poi chiudersi la porta alle spalle spingendola con il gomito, grata che nessuno li avesse visti, mentre Gabriel assumeva nuovamente la sua forma umana: i suoi genitori avevano già dovuto subire l’onta di un figlio in carcere, preferiva che non venissero a sapere di come stava trascorrendo il weekend.
“Dubito che faranno un controllo delle impronte digitali qui, ma meglio mettersi i guanti.”
“Quindi è questa la casa di qualcuno avverso al caffè.”
Gabriel afferrò al volo il paio di guanti in lattice che Naomi fece apparire e gli lanciò senza smettere di guardarsi attorno con cipiglio critico, restando serio anche quando l’amica rise mentre si annodava i ricci capelli castani sulla nuca:
“Certo che l’hai proprio presa sul personale…”
Immagina se avesse dichiarato di disprezzare i reality trash britannici.”
Gabriel tornò a posare lo sguardo sull’amica giusto in tempo per vederla ammutolire: quello per Naomi sarebbe stato un colpo davvero troppo duro, tanto che la strega si affrettò a cogliere l’occasione per rivangare ciò che era solita sostenere da almeno metà della sua vita, ovvero quanto l’accento britannico fosse semplicemente e indiscutibilmente meraviglioso, capace di rendere più affascinante qualsiasi cosa.
“L’accento britannico dovrebbe essere universalmente riconosciuto come una delle meraviglie del mondo. Cavolo, ora che ci penso avrei preferito andare a ficcanasare a casa del dentista! È anche carino.”
Come aveva potuto non pensarci prima?! Naomi scosse la testa con stizza, dandosi mentalmente della stupida per non aver avuto prima quell’ottima trovata mentre Gabriel, in piedi a due metri da lei, le riservava l’ennesima occhiata stranita della giornata:
E un possibile assassino.”
“Innocente fino a prova contraria. E comunque uscire con un potenziale assassino sarebbe comunque meglio che uscire con l’essere con cui sei stato tu di recente.”
Naomi si strinse nelle spalle mentre raggirava l’enorme divano color salvia che occupava buona parte del salotto, separato dalla tv da un basso tavolino di legno, incrociando le braccia al petto e scoccando un’occhiata eloquente all’amico prima di vederlo sospirare e scuotere debolmente la testa:
“Gradirei che cambiassimo argomento, se non ti dispiace.”
“Bene, cerchiamo, emh… Cosa stiamo cercando?!”
“Non ne ho idea, ma dubito troveremo dei post-it con scritto “Ricordati di avvelenare il caffè a mezzogiorno”… Aspetta. Se tu fossi dichiaratamente avversa al caffè, non sarebbe geniale uccidere qualcuno usando proprio quello?”
Gabriel spalancò leggermente gli occhi scuri e schioccò le dita della mano destra prima di indicare Naomi con l’indice, guardandola riflettere brevemente aggrottando le folte sopracciglia perfettamente pettinate prima di scuotere la testa, dubbiosa:
“Non saprei, forse. O allo stesso tempo troppo ovvio?”
“Ma difficilmente qualcuno sospetterebbe di lei.”
“Ma perché avrebbe voluto ucciderlo? Mi sembra una tipa tranquilla. Immagino che per te sia difficile da accettare, ma l’essere avversi al caffè non fa necessariamente di qualcuno una persona orribile.”
Naomi sfiorò lo schienale di velluto color salvia del divano con le dita fasciate dai guanti mentre rifletteva brevemente sulla loro vicina e Gabriel, per tutta risposta, si stringeva nelle spalle asserendo di “non fidarsi affatto di qualcuno non in grado di apprezzare il caffè”. Naomi ricordava di aver parlato molto di rado con Kamala, ma si appuntò mentalmente di scrivere a sua zia per chiederle se sapesse qualcosa sul suo conto mentre Gabriel si muoveva verso la cucina, che si trovava a sinistra del salotto:
“Beh, io faccio la cucina, tu la camera da letto, evito volentieri di rovistare nel suo armadio.”
“Ma com’è che abita qui, poi? Insomma, lo sai tu e lo so io quanto costa vivere qui. Mia zia non dovettero vendere un organo per comprare l’appartamento solo perché è stato anni fa e il valore dell’immobile era decisamente inferiore, ma lei non vive qui da tantissimo, mi sembra.”
“Magari viene da una famiglia ricca. O ha ucciso un marito per tenersi l’eredità.”
“Innocente fino a prova contraria Gabri, ricordatelo… Perché apri il freezer?!”
Quando vide l’amico aprire la parte inferiore dell’enorme frigo grigio a quattro sportelli della vicina Naomi aggrottò le sopracciglia, chiedendosi perché avesse deciso di iniziare proprio dall’elettrodomestico mentre Gabriel, chinatosi sul contenuto del freezer una volta aperto lo sportello, parlava stringendosi nelle spalle e senza sollevare lo sguardo:
“Controllo che non ci siano resti umani. Non si sa mai. Cavolo, questo freezer è enorme… Lei non se lo merita proprio, questo frigo.”
 
 
“Naomi, hai trovato qualcos- Naomi!”
La cucina di Kamala, a conti fatti, non aveva avuto niente di particolarmente interessante da dirgli, se non delle conferme a proposito dello stile di vita estremamente sano, quasi a livello maniacale, della padrona di casa: se non fosse stato per quel piccolo, insormontabile dettaglio del caffè avrebbe anche potuto provare simpatia nei confronti dell’indiana, si disse Gabriel mentre attraversava l’ampio corridoio che conduceva alle altre stanze della casa, inclusa la camera da letto di Kamala.
Quando si fermò davanti alla porta spalancata di un’enorme camera da letto, interamente arredata sui toni del salvia, del rosso mattone e del giallo ocra, Gabriel si ritrovò a spalancare i grandi occhi scuri prima di sospirare quando scorse l’amica in piedi al centro della stanza, davanti ad uno specchio a pavimento con una gruccia di legno in mano sollevata davanti a sé, in modo da poter studiare il proprio riflesso immaginando di indossare il lungo vestito verde con dettagli in oro appeso.
La strega sobbalzò quando si sentì chiamare, voltandosi di scatto verso di lui prima di sfoderare un sorriso colpevole e agitare debolmente il bellissimo vestito appeso alla gruccia di legno:
“Scusa, non ho resistito, non avevo mai visto un sari dal vivo. Sono così belli, ne vorrei indossare uno anche io prima o poi… Dici che questo colore mi starebbe bene?”
Naomi tornò ad osservare con sguardo critico il proprio riflesso senza smettere di tenere l’abito sollevato davanti a sé, astenendosi dal far sapere all’amico di aver esaminato con estrema dedizione l’armadio della loro vicina fino a quel momento e di aver tralasciato il resto della stanza mentre Gabriel, fermo sulla soglia, annuiva distrattamente:
“Ti sta bene qualsiasi colore, ma temo che  il fulcro della nostra incursione qui sia un altro.”
“Sai, non sono così sicura, con l’arancione non mi vedo proprio, prima ho trovato un vestito color zucca che… Hai ragione, lo metto via. Comunque è davvero lunghissimo, lei sarà alta almeno dieci centimetri più di me. Ma perché sono così bassa Gabri, perché?!”
Naomi sospirò sconsolata mentre si avvicinava alle ante spalancate dell’enorme armadio di legno dipinto di verde dell’indiana, appendendo nuovamente il vestito avendo cura di riporlo esattamente dove lo aveva trovato prima di richiudere le ante, avvicinarsi a Gabriel e uscire insieme a lui dalla stanza stringendogli un braccio attorno alla vita. L’amico le indirizzò un sorriso affettuoso, stringendole a sua volta un braccio sulle spalle come a volerla tirare su di morale:
“Non fartene un cruccio, sei bella così.”
“Lo so benissimo che quel maledetto di Christopher mi chiamava “La Nana Perfettina”. Se lo vedo gli conficco un tacco a spillo in un occhio…”
Naomi non aveva mai più rivisto l’ex dell’amico da quando lui e Gabriel si erano lasciati tre mesi prima – celare la propria esultanza nell’apprendere la notizia e fingersi addolorata per l’amico era stata di gran lunga una delle imprese più ardue che avesse mai dovuto compiere, dal momento che aveva agognato quel momento per settimane –, ma quasi bramava il momento in cui finalmente avrebbe potuto guardarlo in faccia e dirgli per filo e per segno tutto ciò che pensava sul suo conto, comprese tutte quelle parole poco gentili che aveva sempre dovuto tenere per sé – o meglio, per Sundance, Dorothea e Moos, i soli sventurati ascoltatori dei suoi numerosi sfoghi a riguardo – mentre lui e Gabriel ancora stavano insieme. Lui non le era mai piaciuto, fin dal primo istante, e a giudicare da come erano finite le cose tra loro quella storia non aveva fatto altro che confermare come lei di rado si sbagliasse.
“Di norma sarei contrario alla violenza, ma in questo caso non sarò io a fermarti… E in seguito ovviamente testimonierò a tuo favore e ti fornirò un alibi di ferro.”
“Bravissimo Gabri, allora non ti ho fatto vedere tutte le stagioni di How to Get Away With Murder per nulla! In realtà quella serie dal punto di vista legale è quasi pura fantascienza, ma meglio di niente. Bene, io vado a ficcanasare tra i suoi cosmetici e i prodotti per la skin care in bagno, ti cedo quella stanza.”
Naomi si congedò dall’amico con un sorriso e assestandogli un paio di colpetti affettuosi sulla spalla, dirigendosi verso la porta aperta del bagno mentre Gabriel, fermatosi in mezzo al corridoio, gettava un’occhiata dubbiosa a quella chiusa che aveva davanti. Frugare nell’appartamento di una vicina che non solo a stento conosceva, ma che a pelle nemmeno gli piaceva non rappresentava il suo programma ideale per il weekend, ma dato che ormai c’era dentro il tatuatore decise di assecondare quella bizzarra situazione e aprì la porta con cautela, quasi temendo di trovarvi dell’esplosivo all’interno.
Ciò che lo aspettava dietro l’anta chiusa, tuttavia, si rivelò quanto più distante poteva esistere da una bomba e Gabriel, accigliato, si ritrovò a scrutare un’enorme quantità di piante, candele profumate e tavolini pieni di libri. Un sottile tappetino blu era stato srotolato al centro della stanza, illuminato dalla luce naturale che entrava nella stanza attraverso due enormi finestre e Gabriel gli si avvicinò lentamente lasciandosi la porta aperta alle spalle, gettando un’occhiata dubbiosa ad alcuni dei titoli dei libri.
“Credo che sia una specie di… stanza per la meditazione, o una cosa simile. Ci sono più candele qui che nel reparto casalinghi di Wallmart.”
“Figurati se una così non l’aveva, una stanza per la meditazione! Io una volta ci ho provato ed è stato un fallimento totale, per quanto mi riguarda starmene zitta senza pensare a nulla è impossibile.”
Gabriel prese in mano un libro sullo yoga mormorando che chiunque la conoscesse avrebbe potuto confermarlo, sorridendo e affrettandosi a dichiarare di non aver detto nulla di importante quando dalla stanza di fronte Naomi gli fece sapere, stizzita, di non aver udito perfettamente le sue ultime parole.
 
 
Gabriel non aveva mai sfogliato tanti libri sullo yoga in tutta la sua vita, per di più senza trovarvi nulla di interessante, tanto che venti minuti dopo si vide costretto ad uscire dalla stanza perché ormai la vista di quei titoli gli si era fatta insopportabile.
“Naomi, io vado in salotto, nella stanza della meditazione non c’è niente.”
“Va bene capo. Sai tua sorella ha ragione, in fondo El Dictator non ti sta affatto male.”
Naomi ridacchiò mentre apriva un armadietto bianco del bagno di Kamala, pronta a studiare l’arsenale di cosmetici della vicina mentre Gabriel, udite le sue parole, interrompeva il suo tragitto per affacciarsi nella stanza e scoccarle un’occhiata torva:
Non iniziare a chiamarmi così anche tu.”
“Ok capo.”
Naomi ruotò la testa per volgere lo sguardo sull’amico e indirizzargli un adorabile sorriso smagliante che non sembrò convincerlo affatto, tanto che Gabriel alzò gli occhi al cielo prima di uscire dal bagno e dirigersi nuovamente verso il soggiorno: era evidente di come la compagnia di sua sorella Damita stava profondamente nuocendo a Naomi, avrebbe dovuto dire al più presto alle sue madri di smetterla di invitarla a cena. Giunto nuovamente nel soggiorno dell’appartamento Gabriel si fermò alle spalle del divano color salvia, guardandosi attorno accigliato.
Non sapeva di preciso che cosa dovesse cercare, ma il suo sguardo indugiò istintivamente sul PC color oro rosa che Kamala aveva lasciato sul basso tavolino di legno sistemato tra il divano e la TV; osservandolo pensoso Gabriel raggirò il divano fino a trovarsi davanti all’oggetto, sollevandolo con le mani guantate per studiarlo: sapeva che ficcanasare nei computer altrui fosse profondamente sbagliato, ma non poté fare a meno di pensare a quanto sarebbe stato utile riuscire ad accedervisi.
“Qui c’è il suo computer. Immagino che potrebbe essere molto utile...”
“E anche illegale.”
“Comunque c’è una password che non indovineremmo mai, non conoscendola affatto. Aspetta, provo con caffèfaschifo.”
Aperto e acceso il computer, Gabriel provò a digitare quelle tre brevi parole con la mano destra mentre con la sinistra lo reggeva, sbuffando amareggiato quando la password non si rivelò corretta:
“Niente. Odioilcaffè… Neanche questa. Montgomerymuori… No, ci rinuncio.”
Gabriel scosse la testa e richiuse lo schermo del PC prima di riporlo sul tavolino esattamente dove lo aveva trovato, con il logo della Howard Company(3) in bella vista sulla superficie rosata, e stava per dirigersi verso la libreria di Kamala per esaminarla – pregando di non trovare altri libri sulla meditazione per preservare la sua sanità mentale – quando la voce di Naomi tornò a fargli visita, questa volta molto più vicina, mentre la strega usciva di corsa dal bagno per raggiungerlo.

“Charlotte Tilbury!”
All’udire quel nome per lui completamente estraneo Gabriel si fermò nel bel mezzo del soggiorno e si voltò verso l’amica, che si era fermata alle spalle del divano e lo stava guardava con gli occhi verdi spalancati e stringendo qualcosa di piccolo nella mano destra. A giudicare dal tono concitato con cui aveva parlato sembrava che Naomi avesse scoperto qualcosa di molto importante, ma Gabriel stentava a capire:
“Chi?!”
“Charlotte Tilbury!”
Naomi ripeté il nome agitando freneticamente e con impazienza ciò che teneva in mano, che Gabriel all’improvviso riconobbe come un paio di rossetti, ma il collegamento continuava a sfuggirgli, tanto che il tatuatore guardò l’amica scuotendo debolmente la testa e guardandola con una punta di esasperazione:
“Ok, forse il mio “Chi?” perplesso non è stato abbastanza chiaro: Naomi, io non ho idea di chi sia questa Charlotte Tilbury!”
“Certo, scordavo che devo sempre insegnarti tutto. Charlotte Tilbury non è una persona, cioè, immagino che sia il nome della fondatrice, ma non è questo il punto: è il nome di un brand di make up di lusso.”
Il tono di Naomi si fece più paziente – lo stesso che usava lui quando spiegava qualcosa ai suoi nipotini, appurò Gabriel con una leggerissima punta di fastidio – mentre mostrava all’amico i due rossetti, ormai certa che avrebbe capito dove volesse andare a parare. Gabriel, tuttavia, esitò spostando lo sguardo dai rossetti al viso dell’amica prima di inarcare un sopracciglio, ancora piuttosto perplesso e chiedendosi perché Naomi insistesse tanto su del make up:
“E allora?”
“E allora i prodotti costano moltissimo e lei in quel bagno ha un mucchio di questa roba! Per non parlare della crema per il viso di Guerlain da 400 dollari. No no no no, qui qualcosa non torna.”
Naomi scosse la testa mentre chinava lo sguardo per osservare pensosa i rossetti che teneva in mano, certa che il suo super-istinto da avvocato non sbagliasse mentre Gabriel, invece, spalancava inorridito gli occhi scuri all’udire l’assurda cifra appena menzionata dall’amica:
“Aspetta, c’è gente che spende 400 dollari per una crema per il viso? Cos’è, fammi capire, te la metti e ti trasformi in Beyoncé?”
Magari, sarebbe il minimo, con quello che costa. No, davvero, se qualcuno rapinasse quel bagno ci farebbe un bel po’ di soldi, è assurdo. Insomma, ok vivere qui, ma non sembra così ricca!”
“Ammetto che non mi dava l’idea di essere una che spende così tanto per quella roba, ma in fondo non la conosciamo, no?”
“Sì, è vero, ma il suo super-istinto da avvocato mi dice che c’è qualcosa di strano qui. Dobbiamo capire se a sua famiglia è ricca oppure no, se non lo è indagheremo. Ma questo è il Pillow Talk, lo voglio da una vita…”
Quando lo sguardo di Naomi si focalizzò sul nome di uno dei due rossetti che teneva nel palmo guantato la voce della strega si fece esitante, guardando mesta l’oggetto del suo desiderio con un lieve sospiro mentre Gabriel, in piedi dall’altra parte del divano, la guardava scuotendo irremovibile la testa e con le braccia strette al petto:
“Naomi, mettilo giù.”
Lo so, lo so, dicevo solo per dire, è un rossetto fantastico! Non berrà il caffè ma in fatto di make up ha ottimi gusti, bisogna dargliene atto.”
La strega fece spallucce mentre girava sui tacchi per tornare in bagno e rimettere tutto esattamente come lo aveva trovato, permettendo a Gabriel di dirigersi invece verso la libreria del soggiorno: mentre il tatuatore sospirava di sollievo alla vista di libri normali Naomi ripose i rossetti in un cassetto, immobilizzandosi davanti all’enorme specchio circolare dal bordo dorato appeso sopra al lavandino di marmo quando i suoi occhi verdi si posarono su un barattolo di crema bianco al quale prima non aveva fatto caso, troppo presa dall’invidiare Kamala Sharma per il suo arsenale di rossetti.
La strega prese il barattolo e lo sollevò per studiarlo più da vicino, anche se lo aveva riconosciuto solo con una rapida occhiata, stringendolo quasi si trattasse di un oggetto sacro: se Gabriel aveva fatto quella faccia all’udire dei 400 dollari per la crema di Guerlain, chissà che cosa avrebbe detto apprendendo che un barattolo di crema poteva costarne anche 2500.
Naomi non conosceva affatto Kamala Sharma, ma di una cosa era sicura: che avesse ucciso Montgomery Dawson o meno, non meritava assolutamente di possedere la crema viso di La Mer. la strega ripose con cura il barattolo al suo posto prima di chiudere il cassetto, scuotendo la testa mentre gettava un’ultima occhiata assorta al resto del bagno:
“Qui c’è qualcosa di strano.”
 
 
Dopo aver controllato il bagno Naomi, Gabriel non aveva ben capito perché, aveva iniziato a setacciare la cucina, ignorando l’amico quando aveva provato a sottolineare che ci avesse già pensato lui stesso solo poco prima.
“Cos’è, non ti fidi di come faccio le cose?”
“Non prenderla sul personale Gabri, sai che ti adoro, ma le capacità di cui più mi fido in assoluto sono le mie, al lavoro come nel resto del tempo.”
Gabriel, in piedi davanti alla libreria con un libro di cucina vegana aperto in mano, aveva alzato gli occhi al cielo mentre Naomi setacciava minuziosamente l’enorme portaspezie di legno della loro vicina. Quando l’amico iniziò a fotografare alcune pagine del ricettario con il telefono la strega volse nuovamente lo sguardo su di lui, questa volta sorridendo divertita:
“Perché fotografi il libro?”
“Ci sono delle ricette che mi piacciono, le voglio provare.”
Naomi rise, asserendo che se gli piaceva tanto glielo avrebbe regalato personalmente prima di lasciar perdere il portaspezie – che le aveva ricordato di aver quasi finito la curcuma e la paprika, doveva assolutamente andare a fare la spesa – e dirigersi verso l’enorme frigo della padrona di casa.
“Non ci posso credere, ha persino il frigo della Samsung con il tablet e il dispenser dell’acqua! Perché lei possiede tutto ciò che desidero?! Di questo passo a breve da dentro un armadio uscirà un figo con l’accento britannico...”
Naomi gemette gravemente mentre abbracciava il frigo grigio antracite, piagnucolando di volerlo a sua volta mentre Gabriel, in piedi dall’altro lato della stanza con ancora il libro in mano, la guardava abbozzando un sorriso:
“Dai, è solo un frigo… Tu hai me e Moos. Lei ha un Gabriel e un Moos? Non mi risulta.”
“Con tutto il rispetto e l’affetto possibili, ma non mi sembra che tu sia dotato di tablet incorporato e di allaccio idrico. Non ci credo, ti mostra anche che cosa c’è dentro il frigo senza aprirlo… E si può anche fare la lista della spesa?!”
Quando udì un verso strozzato di ammirazione mista ad invidia librarsi dalle labbra di Naomi Gabriel sollevò di scatto la testa per smettere di guardare il libro e concentrarsi invece sull’amica e sul frigo, spalancando sgomento i grandi occhi scuri:
“Che cosa?!”
Gabriel mollò il libro sulla mensola della libreria e senza pensarci due volte corse dall’amica raggirando il divano, fermandosi accanto a lei davanti al frigo e allo schermo luminoso che stava mostrando ai due il contenuto delle mensole del costosissimo elettrodomestico.
Brutta stronza, perché lei ha questo frigo e noi no?! Lei non lo merita!”
Gabriel indicò il frigo con un gesto risentito mentre si voltava verso Naomi, che scosse la testa e parlò con tono grave senza smettere di fissare malinconica l’elettrodomestico:
“Non so se lo meriti o no, ma io di certo lo merito più di lei! A che ti serve un fidanzato se hai questo frigo?!”
“Non posso darti torto.”
 
 
Passato il momento – molto lungo – di ammirazione nei confronti del frigo di Kamala Naomi si era costretta ad allontanarsi dall’elettrodomestico – al quale continuava tuttavia a lanciare occhiate malinconiche e piene di desiderio – per riprendere a controllare la cucina da dove si era interrotta. Stava aprendo gli sportelli color mattone dei vari pensili mentre Gabriel studiava una collezione di minuscoli soprammobili a forma di elefanti indiani d’oro quando, spostato un pensatissimo ed enorme barattolo pieno di curry, i suoi occhi verdi indugiarono sull’ultima cosa che si sarebbe aspettata di trovare in quella cucina.
“Gabri!”
“Che c’è? Ne hai ancora per molto, volevo farmi una doccia prima di andare dalle mie madri…”
Gabriel non percepì l’urgenza nella voce dell’amica mentre si raddrizzava e sollevava la mano sinistra per controllare l’ora sul suo orologio – se avessero tardato di certo si sarebbero persi tutte le portate migliori e ciò proprio non poteva verificarsi – mentre Naomi, in piedi davanti ai pensili, lo guardava sgomenta e stringendo un barattolo di vetro tra le mani guantate.
Gabri!”
Questa volta il tono di Naomi si alzò di un paio di ottave e si fece leggermente tremante. Gabriel sollevò in tutta calma la testa per chiederle cose avesse trovato, ma le parole gli morirono in gola e si ritrovò a spalancare inorridito gli occhi a sua volta quando scorse ciò che l’amica stringeva tra le mani.
“Porca Isotta(4).”
Naomi non disse nulla, limitandosi a chinare lo sguardo sul barattolo pieno di caffè mentre l’amico attraversava a grandi passi la stanza per raggiungerla fino a fermarsi di fronte a lei, guardando allibito il barattolo mentre glielo prendeva tra le mani.
“Non è possibile… Aspetta, verifichiamo.”
Gabriel svitò il tappo e sollevò leggermente il barattolo per avvicinarlo al suo naso, scuotendo la testa e richiudendolo quando l’inconfondibile aroma del caffè gli solleticò le narici:
“No, è innegabilmente caffè.”
“Come hai fatto a non vederlo?!”
“C’era davanti quell’enorme coso pieno di curry, sembrava che dietro quello non ci fosse nulla. Sembra che la nostra Kamala non ci tenga a tenerlo in vista, il caffè.”
“Ma non pensi che lei… insomma…”
Naomi chinò lo sguardo sul caffè, gettandoci un’occhiata inquieta mentre teneva le braccia nervosamente strette al petto. Gabriel scosse la testa, osservando pensoso prima il contenuto del barattolo e poi il volto dell’amica:
“Non lo so. Ma converrai che è molto strano. O la sua è tutta una farsa e in realtà il caffè lo beve eccome, oppure ce l’ha per qualche motivo.”
“O magari ce l’ha per… non lo so, ospiti?”
“Sì, ma mi risulta difficile immaginarlo, insomma, quando ha incontrato Orion con il caffè in ascensore gli ha fatto una paternale infinita. Te la immagini, una così, che accoglie gli ospiti con una tazza di caffè fumante?”
Naomi non rispose, gli occhi verdi puntati sul barattolo che l’amico stringeva tra le mani mentre rifletteva. Quando realizzò che il caffè in polvere, da solo, sarebbe stato completamente inutile e di come nessuno dei due avesse trovato una moka la strega sollevò la testa per tornare a guardare Gabriel:
“Cerchiamo una caffettiera.”


Naomi sperava ardentemente di non riuscire a trovarne traccia, ma poco dopo Gabriel la disilluse quando ne trovò una all’interno di uno degli armadietti bassi della cucina, quasi impossibile da scorgere con una rapida occhiata.
Gabriel si rialzò in piedi stringendo l’oggetto di metallo non potendo fare a meno di pensare a come Kamala si fosse impegnata per renderlo difficile da trovare, avvicinandosi nuovamente a Naomi per aprirla e controllare l’interno che si rivelò essere quasi immacolato.
“Ci credo che prima che non l’avevo vista, era infilata tra quell’enorme affare per fare le centrifughe e il frullatore! Questa qui è quasi nuova, dentro è ancora piuttosto pulita… Sarà stata usata un paio di volte.”
Gabriel richiuse la moka osservandola con la fronte aggrottata, scuotendo la testa mentre Naomi, di fronte a lui, spalancava inorridita gli occhi verdi: non aveva mai davvero pensato di poter aver messo piede nella casa di un’assassina, prima di quel momento.
“Oh mio Dio, può averla comprata apposta per portare il caffè a Montgomery! Ma il bicchiere di carta? Quello è strano. Non dovrebbe averlo comprato fuori, il caffè?”
“Niki ce lo ha mostrato, quel bicchiere, non c’era nessun logo. Potrebbe averlo comprato appositamente per dare quell’idea.”
All’improvviso Gabriel provò il fortissimo desiderio di uscire da quell’appartamento, affrettandosi a raggiungere l’armadietto dove l’aveva trovata per rimettere la moka al suo posto mentre Naomi, intuendo quali fossero le sue intenzioni, faceva lo stesso con il barattolo del caffè.
“Rimettiamo a posto e filiamocela prima che torni.”
“Bene, perché io ho i brividi.”
Riposto il barattolo sulla mensola in modo che quello del curry lo celasse alla vista Naomi si diresse a passi svelti verso l’ingresso, desiderosa di uscire da lì il prima possibile e soprattutto prima che Kamala facesse ritorno a casa. Aveva già una mano guantata sulla maniglia e Gabriel l’aveva appena raggiunta quando tuttavia un pensiero le balenò nella mente:
“Aspetta!”
Gabriel stava per ritrasformarsi in un Caracal quando la voce di Naomi lo immobilizzò sulla soglia dell’appartamento, portandolo a ruotare la testa di scatto quasi temendo che l’amica avesse trovato qualcos’altro. Fortunatamente Naomi si limitò ad attraversare di corsa la stanza – per una volta non mettere i tacchi si stava rivelando una scelta saggia, anche se mal sopportava di stare in presenza di Gabriel con le scarpe basse a causa dei trenta centimetri che li dividevano e che la facevano sembrare la sorellina minore da accompagnare a scuola – per fermarsi di fronte ad un armadio a muro, spalancando le ante sotto lo sguardo perplesso dell’amico prima di scuotere la testa e tornare da lui:
Ok, niente fighi british, possiamo andare. Torna un Caracal e controlla che la via sia libera.”
“Per essere intelligentissima a volte sei proprio scema, Naomi.”
 
 
Harlem, quale ora più tardi
 
 
“Mamà, hai preparato troppa roba, como siempre.”
Gabriel prese posto al lungo tavolo rettangolare di legno apparecchiato per otto tenendo Declan, suo nipote, in braccio mentre sua madre Jazmin sistemava un gigantesco piatto di tacos al centro del tavolo. La donna come suo solito si premurò di far sapere al figlio che il cibo a tavola non sarebbe mai stato troppo, soprattutto quando si aveva un’ospite e accennò in direzione di Naomi, che sedeva accanto all’amico tenendo Chloe, la nipotina di sei anni di Gabriel, sulle ginocchia. La strega allargò di rimando le labbra in un sorriso divertito, assicurando che fosse abituata a tavole imbandite in maniera esagerata mentre la bambina giocherellava con interesse con i suoi lunghi ricci castani.
Quando Jazmin, soddisfatta per aver avuto come al solito il sostegno di Naomi, tornò in cucina Declan si allungò furtivo sul tavolo per arraffare un paio di nachos approfittando della momentanea assenza della nonna, e Gabriel lo lasciò fare mentre udiva le sue madri e sua sorella Damita battibeccare a proposito delle varie portate. Ormai abituato e un po’ rassegnato a quanto le loro riunioni di famiglia fossero turbolente Gabriel decise di lasciar perdere e volse invece lo sguardo sull’amica e sulla nipotina, che stava chiedendo a Naomi se dopo cena avrebbe potuto farle una treccia.
“Chloe, non giocare con i capelli di Naomi.”
“Tranquillo, non mi dà fastidio, del resto tutti stravedono per i miei capelli.”
“Anche io voglio avere i capelli belli come i tuoi Naomi.”
Naomi sorrise dolcemente alla bambina, assicurandole che avesse già dei capelli bellissimi mentre Mirisol, che era rimasta in cucina fin dal loro arrivo per ultimare la preparazione della cena, li raggiungeva con un sorriso radioso sulle labbra:
“Hola, mi bebe hermoso…”
Mirasol si avvicinò alla sedia occupata dal figlio e si chinò per abbracciarlo e scoccargli un bacio su una guancia, sorridendo divertita quando scorse la consueta espressione lievemente esasperata sul bel viso di Gabriel:
“Mamà, ho trent’anni…”
“Che c’entra, sei sempre bello! Hola Naomi.”
“Ciao Mirasol. Sì Gabri, sei sempre un bebe hermoso!”
Dopo aver indirizzato un sorriso alla padrona di casa Naomi ridacchiò e a lei si unirono anche Declan e Chloe mentre il resto della famiglia li raggiungeva nella sala da pranzo e Damita, la cui filosofia di vita consisteva nel prendere in giro il suo fratellone ad ogni occasione, spostava dubbiosa lo sguardo dai figli fino all’amica del fratello:
“State deridendo El Dictador senza di me? Non mi va giù. Naomi, coinvolgimi.”
“Mamà, a volte penso che dovresti invitare Naomi meno spesso. Vai a sederti vicino alla mamma Declan…”
Gabriel parlò sollevando il bambino di quattro anni – che ancora stringeva qualche nachos in una manina – per rimetterlo con i piedi sul pavimento, permettendo a sua cognata Ella di prenderlo per mano e di accompagnarlo al suo posto mentre anche Chloe saltava giù dalle gambe di Naomi per fare altrettanto. Mirasol, seduta di fronte a lei, udite le parole del figlio spalancò gli occhi e lo guardò stupita mentre scuoteva la testa e accennava in direzione della loro ospite:
“Che cosa dici, noi adoriamo Naomi. E ha portato la pasta al forno!”
“Sentito? Mi adorano! Jazmin, a proposito, ho sentito che hai un fidanzato! Ed è un avvocato come me, ottima scelta.”
“Stavo per fare una battutaccia sugli avvocati, ma mi asterrò per rispetto della nostra povera ospite che ancora si immola partecipando a queste cene assurde.”
Damita sollevò leggermente il suo bicchiere in direzione di Naomi prima di bere un sorso di vino mentre la strega, ormai abituata e totalmente immune alle battute sugli avvocati, la rassicurava di poter tollerare qualsiasi cosa. Gabriel invece infilzò un pezzo di carne con la forchetta prima di richiedere la presenza del fidanzato della madre alla cena successiva, decisamente provato dall’esperienza di dover sedere costantemente ad un tavolo di sole donne.
“Certo devo ancora approvare Benjamin, ma almeno la sua presenza mi potrebbe salvare dal vostro assalto.”
“Esagerato, non siamo così terribili. Allora, come avete trascorso il weekend? Oltre a cucinare, s’intende, so che Naomi nel fine settimana dà il meglio di sé.”
Jazmin sorrise al figlio mentre spostava lo sguardo da lui a Naomi, guardandoli fermarsi con le mani a mezz’aria – Naomi stringeva il suo bicchiere, Gabriel la forchetta – prima di voltarsi l’uno verso l’altro e scambiarsi un’occhiata. La donna ebbe come l’impressione che stessero facendo del loro meglio per non scoppiare a ridere, ma durò solo per un attimo, prima che Naomi si portasse il bicchiere alle labbra e Gabriel tornasse a guardarla stringendosi con disinvoltura nelle spalle e rigirandosi il manico della forchetta tra le dita:
“Oh, niente di che. Sai, le solite cose che si fanno nel weekend di pomeriggio… oziato, per lo più.”
“In realtà siamo andati per negozi. Gabriel ha sfogliato un’enorme quantità di libri sulla meditazione…”
“E Naomi voleva comprare delle assurde creme costosissime. Per fortuna ha desistito.”
 

 
 
– II –
La maniaca dell’ordine


 
image host image host


Un’ora prima che Naomi e Gabriel entrassero nell’8B
 

Piper si era appostata davanti alla finestra del soggiorno, le braccia fasciate dalle maniche di uno sgargiante maglioncino fucsia strette al petto mentre studiava il cortile interno dell’Arconia aspettando che Samantha Wright, che viveva al decimo piano, lasciasse l’edificio. Quando poco prima avevano stabilito chi sarebbe dovuto andare dove la strega aveva tentato di convincere gli altri a farla andare a casa del suo affascinantissimo vicino di casa, ma per evitare discussioni avevano finito col tirare a sorte e a lei e a Bartimeus era toccata la ex di Montgomery. Piper conosceva vagamente Samantha, viveva al piano inferiore e la incrociava molto spesso in ascensore, ma la delusione era comunque stata molta.
“Il tuo gatto è bellissimo, Piper.”
Quando udì la calda e vellutata voce di Moos Piper volse lo sguardo dalla finestra per posarlo sul vicino, accennando un sorriso con gli angoli delle labbra carnose quando lo vide chino e impegnato ad accarezzare la morbida testa di Bizet, che gli si stava strusciando sui pantaloni neri.
“Grazie, gli voglio così bene. Ho anche un’altra coinquilina in realtà, ma lei è umana e spesso non richiesta, mia cugina Nia. Tu hai animali?”
“Ho una tartaruga. Ma adoro i gatti.”
Moos sorrise mentre raddrizzava la schiena e Bizet si spaparanzava con un lievissimo tonfo sul pavimento del soggiorno, la piccola testa e i grandi occhi verdi sollevati verso il mago in attesa di un’altra razione di coccole. All’improvviso, nel pronunciare quelle parole, a Moos tornò in mente ciò che Niki gli aveva detto poco prima, a casa sua, a proposito di come sapesse del suo amore per i gatti. Il mago scosse la testa in un movimento a malapena percettibile e chiuse brevemente le palpebre, cercando di scacciare quel pensiero prima di tornare a sorridere a Piper e infilarsi le mani nelle tasche dei pantaloni:
“Come mai vive con te, tua cugina?”
“Oh, sai, studia a New York e l’appartamento nell’Upper West Side di sua cugina è molto più accogliente e pieno di confort rispetto al dormitorio dell’Università. E poi immagino che ci sia, sai, la questione dei bei ragazzi.”
Piper fece spallucce, risparmiando al vicino qualche riferimento puramente casuale sul ragazzo che viveva nel suo stesso corridoio mentre il sorriso sulle labbra di Moos si allargava e l’ex Serpecorno si avvicinava a lei e alla finestra:
“Non fa una piega. Lei sta uscendo?”
“Sì, con il suo bellissimo barboncino al guinzaglio. È così carino quel cagnolino, vorrei coccolarlo ogni volta in cui mi capita di vederlo!”
Piper tornò a guardare fuori dalla finestra esalando un lieve sospiro, gettando un’occhiata adorante al barboncino color albicocca della vicina prima di voltarsi nuovamente verso Moos e affrettarsi a ricomporsi:
“Ma noi dobbiamo andare ad investigare, ovvio, non a coccolare animali da compagnia, giusto.”
“Non devi giustificarti con me, sono il primo ad amare gli animali.”
Il tono gentile e pacato di Moos rassicurò Piper, che abbozzò un sorriso di rimando con sollievo: Nia le ripeteva sempre che in presenza di qualche quadrupede si rimbecilliva e che doveva imparare a darsi un tono, soprattutto in presenza di sconosciuti o semi-sconosciuti.
“Ottimo, allora andremo d’accordo. Dico sempre che non ci deve fidare, di qualcuno che non ama gli animali. Chissà se a Montgomery piacevano. Oh, sta uscendo, possiamo andare di sopra.”
Piper diede le spalle alla finestra e si allontanò superando Moos, che invece indugiò davanti al vetro con i grandi occhi scuri fissi sulla lontana figura alta e slanciata di Samantha e sul suo tenero cagnolino che la stava seguendo obbedientemente verso l’ingresso del palazzo.
“Non particolarmente.”      
Le parole gli scivolarono fuori dalle labbra in un sussurro quasi senza che il mago lo volesse, portando Piper a voltarsi accigliata verso di lui mentre salutava Bizet:
“Scusa, hai detto qualcosa?”
Lo sguardo di Moos indugiò per un altro istante sul vetro della finestra prima che il mago si voltasse verso la padrona di casa, rispondendo al suo sguardo lievemente perplesso con un sorriso mentre scuoteva la testa e persisteva a tenere le mani infilate nelle tasche:
“No, nulla. Andiamo.”
 
 
“È sempre un sollievo quando arrivo a destinazione, non amo gli ascensori, ma 11 piani a piedi sono un suicidio. E io porto molto spesso i tacchi. Il mio amico Jackson è un folle, si fa sempre cinque piani di scale pur di non prendere l’ascensore.”
Quando le porte dell’ascensore si aprirono con il consueto tintinnio metallico Piper ne uscì traendo un sospiro di sollievo, felice di non essere rimasta bloccata all’interno dell’abitacolo mentre Moos la seguiva nel corridoio del decimo piano.
“Conosco Jackson, è cresciuto qui anche lui. Mi rendo conto solo ora di non averlo praticamente mai visto in ascensore, in effetti. Ma se qualcuno ci trova qui e ci chiede che cosa stiamo facendo che cosa diciamo?”
“Diremo che ci serve dello zucchero. Per fare, emh, una torta.”
Piper si allontanò dalle porte dell’ascensore per dirigersi verso quella del 10A aggrottando le sopracciglia – rosse come i suoi capelli – mentre Moos, accanto a lei, s’infilava una mano in tasca per recuperare la bacchetta annuendo e schioccando le dita.
“Una crostata. Adoro le crostate.”
Piper stava per concordare con il vicino e dichiarare il suo amore per le crostate – e il suo rammarico per non poterne gustare una in quel momento – quando, giunta davanti alla porta chiusa dell’appartamento di Samantha, un rumore alla sua sinistra la indusse a ruotare la testa in quella direzione.
Fu con una certa sorpresa che Piper e Moos si ritrovarono ad osservare due dei loro vicini impegnati evidentemente nella loro stessa operazione, solo con la porta del 10B. I due si immobilizzarono mentre osservavano Carter e Leena discutere a bassa voce a proposito di come aprire la porta – il primo voleva usare un arnese metallico che né Piper né Moos riconobbero, l’altra la magia – prima che si accorgessero di non essere più soli e si voltassero per osservarli a loro volta.
Per un paio di secondi nessuno dei quattro disse nulla, limitandosi a fissarsi con leggera perplessità a causa di quel curioso tempismo prima che Leena allargasse le labbra in un sorriso allegro:
“Ehy, ciao. Anche voi qui.”
“Sì, emh. Ci serve… lo zucchero.”
Piper annuì mentre si guardava nervosamente attorno, sperando che nessuna delle porte circostanti si aprisse proprio in quel momento mentre Moos si affrettava a far scattare la serratura del 10A con un Alohomora non verbale.
“A noi il... sale. Vero Carter?”
Carter, appoggiato con la spalla sinistra alla parete accanto alla porta dell’8B, sospirò sommessamente prima di gettare un’occhiata alla vicina, guardandola scuotendo debolmente la testa in segno di esasperazione:
Leena, te l’ho detto, tu vivi al primo piano, non ci crede nessuno che ti sei fatta 9 piani per il sale!”
“Hai un’altra scusa? Ok, senti, apriamo questa porta e facciamola finita. Ciao ragazzi!”
Leena, spazientita, imitò Moos aprendo la porta con la magia prima di salutare i due vicini con un ultimo sorriso e un silenzioso cenno della mano, precedendo Carter all’interno dell’appartamento mentre il giornalista, dopo averli salutati a sua volta con un cenno, la seguiva in silenzio con le mani in tasca.
“Andiamo anche noi prima che arrivi qualcuno.”
Quando la porta del 10B si fu chiusa alle spalle di Carter Moos aprì quella del 10A quel tanto che bastava per permettere a Piper di entrare in casa, seguendola prima di chiudersela alle spalle più rapidamente che poté.
“Meno male, se qualcuno fosse arrivato in quel momento sarebbe stata una tragedia. Forse sarebbe stato meglio se fossimo andati a casa di qualcuno che vive nel nostro stesso piano…”
Moos si allontanò con un sospiro di sollievo dalla porta mentre Piper estraeva dalla tasca dei jeans il paio di guanti più sgargiante che gli fosse mai capitato di guardare – e che si chiese come Piper potesse osservare da vicino senza l’ausilio di un paio di lenti scure –, di un accesissimo arancione fosforescente. La strega, che ci teneva ad avere stile anche quando lavava i piatti, se li infilò annuendo mentre guardava il vicino spalancando gli occhi scuri – ai quali non cambiava mai colore, nonostante le sue capacità di Metamorphmagus –, come se Moos avesse appena pronunciato una verità assoluta:
“Sì! È esattamente quello che ho detto, io e Naomi avremmo dovuto andare dal fig- Da Isabela e Jeremy Gutierrez.”
“Sì, li conosco di sfuggita, vivono qui da circa quindici anni…”
Moos annuì distrattamente mentre faceva apparire dei guanti in lattice identici a quelli che usava tutti i giorni al lavoro, infilandoseli con gesti rapidi e precisi dettati dall’abitudine. Il mago si stava guardando attorno e per questo non colse la sorpresa che fece repentinamente capolino sul viso di Piper, che guardò il vicino spalancando nuovamente gli occhi castani e avvicinandoglisi piena di interesse:
“Davvero? E sai qualcosa? Ad esempio, non so, se lui ha una fidanzata… o un fidanzato…”
“Non saprei proprio, ma l’ho visto sempre in compagnia di ragazze, quindi presumo che gli uomini non gli interessino.”
“Oh, che peccato.”
“So che è molto bello, ma c’è qualcosa che non mi ha mai convinto del tutto. A Montgomery piaceva, però.”
“Davvero?”
“Sì, insomma, a scuola devo averli visti insieme ogni tanto, non so se fossero amici.”
Mentre Piper si rammaricava a voce bassa di non essere stata lei la prescelta con la possibilità di andare a casa del vicino Moos si voltò, dandole le spalle per dirigersi verso l’enorme salotto dell’appartamento, desideroso di smettere di pensare a Montgomery e al ragazzo della sua stessa età che abitava al piano superiore. Non aveva la più pallida idea di che persona fosse Samantha Wright, tutto quello che sapeva di lei si poteva ridurre a due ovvietà: era molto bella e aveva avuto una breve, turbolenta relazione con Montgomery. Un accenno di sorriso increspò le labbra del mago quando il suo sguardo indugiò su una foto incorniciata che ritraeva la padrona di casa insieme ad una donna che doveva essere sua madre: Monty non si era smentito, era esattamente il suo tipo.
 
 
Piper si era immediatamente offerta di controllare la camera di Samantha e Moos non aveva avuto alcuna obiezione a riguardo, sentendosi invece piuttosto sollevato: per quanto avesse accettato di farlo l’idea di ficcare il naso in mezzo alle cose altrui non gli piaceva affatto, tantomeno avrebbe gradito il mettere le mani sui beni più personali e privati di una persona che nemmeno conosceva, ovvero tutto ciò che Samantha custodiva nella sua camera e nel suo armadio.
Mentre Moos era rimasto in cucina Piper si era quindi diretta nell’enorme camera da letto di Samantha, addentrandosi senza pensarci due volte nel suo bagno privato per dare un’occhiata ai suoi cosmetici e ai suoi prodotti per la skin care – era sinceramente curiosa di sapere che cosa utilizzasse, visto che la sua vicina riusciva ad apparire abbagliante anche alle sette del mattino –, finendo con il restare ammutolita di fronte alla quantità di maschere che vi aveva trovato. Peccato non poter fare una foto che sarebbe andata a costituire una pericolosa testimonianza della sua alquanto illegale presenza in quell’appartamento, sarebbe stato soddisfacente mostrarla a Jackson, Nia e sua madre per far sapere a quei criticoni che sempre facevano battute sulla sua collezione di prodotti che al mondo c’erano altre persone ossessionate quanto lei dalla cura della pelle, se non di più.
“Caspita, io pensavo di essere un tantino esagerata, ma lei possiede una quantità di prodotti per la skin care esorbitante.”
Piper passò in rassegna le numerosissime buste colorate di maschere in tessuto con la punta delle dita fasciate dai guanti in lattice arancioni che aveva portato con sé dal suo appartamento parlando con un tono di voce abbastanza alto affinché Moos potesse udirla dalla cucina, senza sapere che le sue parole avrebbero destato un sorriso sulle labbra del vicino:
“Per qualche motivo non mi stupisce affatto.”
Sarebbe stato immensamente difficile avere una pelle simile senza un qualche aiutino, si ritrovò a constatare Moos mentre gettava un’occhiata ad una foto attaccata alla superficie bianca del frigo con un magnete a forma di stella marina che ritraeva la padrona di casa in vacanza in qualche località caraibica. Era in qualche modo confortante sapere che Samantha non fosse così perfetta senza curare minimamente il proprio aspetto.
“No, davvero, non ne hai idea, qui sembra di stare in uno store di Sephora.”
“Beh, io adoro le maschere per il viso, magari poi vengo a dare un’occhiata.”
Moos sorrise mentre apriva il frigo con la mano destra guantata, studiando lentamente e con attenzione il contenuto mentre la voce di Piper, questa volta carica di emozione, gli faceva nuovamente visita dalla camera da letto:
Davvero?! Anche io!”
Piper stava per chiedergli quale fosse la sua marca di maschere preferita, ma decise saggiamente di rimandare le chiacchiere a dopo: aveva del lavoro da fare. E pensare, si disse la strega mentre apriva un cassetto per studiare l’ordinatissima disposizione di maschere in barattolo di Samantha, che aveva mandato Nia a fare shopping da sola dicendole di avere del lavoro urgente da sbrigare per potersi introdurre in quell’appartamento. No, a Nia non avrebbe raccontato nulla di tutta quella faccenda, o avrebbe rischiato di farlo sapere di conseguenza a mezzo palazzo di lì a meno di una settimana.
 
 
“In cucina non c’è niente, ho solo appurato che Samantha mangia in modo terribilmente e tristemente sano. Non ho trovato una sola traccia di dolci o di cioccolato.”
Quando raggiunse Piper fermandosi sulla soglia della camera di Samantha Moos scosse la testa con disapprovazione e stupore al tempo stesso, faticando a concepire come un essere umano potesse tirare avanti senza dolci. La strega, che stava sprimacciando i cuscini dalle federe rosa antico del letto per fare in modo di lasciarli esattamente come li aveva trovati al suo arrivo, sbuffò piano alzando gli occhi al cielo:
“Io invece ho scoperto che ordina i vestiti in ordine cromatico, persino i calzini. Prevedibile, quella ha proprio l’aria di una che non mangia del pane da una decade…”
“Ma tu non sei, emh, una modella?”
“Sì, ma io mangio di tutto e di più, non c’è dieta che io riesca a seguire. Certo poi vado in palestra per smaltire, ma nessuno mi priverà mai del mio platano fritto. Ora che ci penso, ma lei che lavoro fa?”
Piper alzò la testa per guardare Moos mentre chiudeva i due cassetti del comodino bianco dentro il quale aveva appena finito di frugare. Quasi si aspettava di trovare in giro foto di Montgomery coperte da insulti, ma non aveva trovato una sola traccia del vicino in tutta la stanza.
“In effetti non ne ho idea.”
“In cucina non c’è un calendario?”
“No, niente purtroppo. Però ci sono un paio di altre stanze, vado a vedere.”
Moos diede le spalle a Piper per dirigersi verso le altre porte del corridoio, non provando un particolare stupore quando, aperta la prima, si trovò davanti ad una palestra.
“Ha una palestra.”
Moos rimase in piedi sulla soglia, limitandosi a studiare la stanza con lo sguardo mentre udiva la voce di Piper, carica di un’appena percettibile nota di invidia, attraverso la porta aperta della stanza di fronte:
“Beata lei, io ci ho dovuto rinunciare per avere la stanza degli ospiti. Non a caso quando mi fa arrabbiare minaccio Nia di sfrattarla e di trasformare camera sua in una palestra…”
Avrebbero dovuto insignirla di un premio, si disse Piper mentre chiudeva le ante dell’enorme armadio di Samantha con le mani guantate: Miglior Cugina del Mondo. Del resto era disposta a trascinarsi in palestra tre volte alla settimana pur di ospitare Nia a casa sua.
“Sei carina ad ospitarla.”
“Sì, diciamo che faccio le vesti di sorella maggiore responsabile, o almeno ci provo. Anche perché se dovesse succederle qualcosa i miei zii vorrebbero la mia testa su una picca.”
Moos rise mentre Piper alzava i grandi occhi scuri al cielo, evitando di fargli sapere quanto fosse seria mentre usciva dalla camera da letto di Samantha per raggiungerlo nell’ampio corridoio dalle pareti candide:
“In camera non ho trovato niente. A parte un’invidiabile armadio, ha un paio di Manolo Blahnik rosa bellissime..”
“Montgomery?”
“Niente. Forse Samantha è una di quelle persone che quando chiude una relazione ne elimina ogni traccia, chissà.”
Piper si strinse nelle spalle mentre studiava pensosa il proprio riflesso nell’enorme specchio che ricopriva completamente la porzione di parete del corridoio frapposta tra la porta aperta da Moos e quella ancora rimasta chiusa, chiedendosi se non fosse il caso di abbinare il colore dei suoi capelli al suo maglione fucsia.
“Pensi che possa averlo ucciso lei? Fatico a figurarmelo come scenario, se devo essere onesta.”
Piper si passò una mano tra i corti capelli rossi per dargli una ravvivata, strizzando leggermente gli occhi mentre li guardava cambiare colore e farsi di uno sgargiante rosa acceso mentre Moos, dopo aver osservato la trasformazione cromatica in un misto di ammirazione e leggera invidia, tornava a concentrarsi su Montgomery e Samantha sforzandosi di ricordare gli sporadici momenti in cui gli era capitato di vederli insieme in giro per il palazzo: sfortunatamente, abituato com’era alla frequenza con cui Montgomery era solito saltare da una persona all’altra, pratica in cui si destreggiava fin dall’adolescenza, non aveva mai prestato particolare attenzione a Samantha.
“Non lo so. Ma se tu volessi uccidere un tipo che ti ha lasciata, lo avveleneresti?”
“Forse nel suo caso è un po’ troppo studiato. Insomma, non si erano lasciati da molto quando è morto, no? E non penso che chiunque abbia scorte di sostanze letali in casa abitualmente.”
In realtà lui le aveva, delle sostanzi letali in casa, e anche piuttosto di frequente, ma evitò di farlo sapere alla vicina per evitare il suo sguardo stranito e di doversi dilungare in spiegazioni, asserendo invece che sarebbe andato a controllare anche la stanza accanto:
“Tu se vuoi dai un’occhiata alla palestra, ma a parte dei pesi non penso che ci troveremmo un granché.”
Mentre il mago si spostava verso la porta accanto Piper continuò ad aggiustarsi i capelli guardandosi allo specchio, dichiarando di non volerne proprio sapere di mettere piede in una palestra di qualsiasi natura urante il weekend – trascinarcisi tre volte alle settimana costituiva per lei uno sforzo già più che sufficiente – mentre Moos, spalancata la porta bianca con la mano guantata, si ritrovava ad osservare un’ennesima stanza pulitissima, ordinatissima e arredata interamente sui toni del bianco.
“Ha uno studio.”
“Fantastico, così finalmente capiremo che lavoro fa, sono curiosa!”
Piper distese le labbra carnose in un sorriso mentre, cessato di studiare critica il proprio riflesso per cercare di appurare se quel colore le donasse o meno, seguiva rapida Moos per entrare a sua volta nell’ampia stanza dalle pareti candide come tutto il resto dell’appartamento, resa luminosa grazie alle due finestre. Entrambi si diressero immediatamente verso la scrivania di vetro, raggirandola per poter osservare gli oggetti disposti sulla superficie pulitissima.
“Certo che è proprio schifosamente ordinata, io non potrei mai avere una scrivania di vetro, sarebbe costantemente piena di ditate, tracce di ombretto e peli di gatto…”
Mentre faceva scivolare lo sguardo sulla scrivania e su ciò che ospitava le labbra di Piper vennero contratte in una lieve smorfia, un po’ incredula, un po’ invidiosa e un po’ perplessa di fronte alla perfezione che Samantha Wright emanava da ogni poro e da ogni angolo della sua stessa casa.
“La mia di tracce di terra e cibo. Ho un sacco di piantine e adoro cucinare.”
Moos allungò la mano destra guantata per aprire il PC di Samantha, pur certo che non sarebbe riuscito ad accenderlo mentre Piper invece sollevava l’agenda a spirale dalla copertina rosa cipria che la padrona di casa aveva appoggiato sulla scrivania, perfettamente in linea tra il computer e una penna che era stata sistemata sulla superficie di vetro con precisione millimetrica.
“Mah, sembra troppo perfetta per essere vera. Magari ora scopriremo che è tutta una montatura, come quando una ragazza ti sembra avere un viso perfetto ma poi scopri che aveva due litri di fondotinta in faccia.”
Moos non fu certo di aver compreso perfettamente il paragone di Piper, ma si limitò ad aggrottare le sopracciglia mentre osservava lo sfondo celeste del PC e la barra dove avrebbe dovuto digitare una password mentre Piper iniziava a sfogliare l’agenda di Samantha, fermandosi alla settimana precedente. Quando appurò che la padrona di casa organizzava le settimane e gli appuntamenti in ordine cromatico Piper sospiro, chiedendosi se la maniacale organizzazione di Samantha non avrebbe potuto contagiarla per osmosi mentre ficcava il naso tra le sue cose:
"Non ci credo, persino la sua agenda è ordinatissima. Credo di detestarla.”
Piper scosse la testa con disapprovazione mentre leggeva gli appunti che Samantha aveva disseminato sui giorni della settimana precedente, ritrovandosi a ringraziarla per la sua perfetta calligrafia che le stava rendendo l’operazione semplicissima. Moos invece accennò un sorriso dopo aver rimesso a posto la cornice bianca che conteneva una foto che ritraeva la padrona di casa insieme al suo barboncino, pentendosi di non averle mai chiesto come si chiamasse l’animale quando gli era capitato di incontrarla in ascensore: qualcosa gli diceva che le probabilità che la password fosse il nome dell’animale fossero molto elevate.
“Magari è una persona piacevole.”
“Bartimeus, tu sembri proprio una di quelle persone adorabili che non parla mai male di nessuno, soprattutto se non lo conosce, ma lei sembra troppo perfetta, ti sarebbe sentire uno schifo essere sua amica! Quelle candele sono disposte in una scala cromatica dalla più chiara alla più scura, non so se sentirmi ammirata o intimorita.”
Piper accennò alle tre candele Woodwick disposte sull’angolo opposto della scrivania prima di scuotere la testa e tornare a leggere ciò che Samantha aveva appuntato sui giorni della settimana passata mentre Moos, accigliato, osservava le candele ritrovandosi a concordare silenziosamente con la vicina e a chiedersi come avesse fatto una come lei a stare con Montgomery, la persona più disordinata, disorganizzata ed impulsiva che avesse mai conosciuto in tutta la sua vita.
“Ti sembra una che pianifica molto le cose?”
“A dir poco, qui ha scritto di tutto, non mi sorprenderebbe trovare gli orari in cui si lava i denti… Mi ricorda un po’ Monica Geller. Non mi sorprende che non sia durata molto, Montgomery non mi sembrava una persona molto organizzata.”
“No, decisamente. Senti, per caso sai come si chiama il suo cane?”
Moos gettò un’altra occhiata alla foto mentre Piper continuava a sfogliare l’agenda rosa di Samantha, scuotendo leggermente la testa prima di sollevare la testa per guardare il vicino aggrottando pensosa le sopracciglia:
“Me lo ha detto una volta, ma non ricordo bene… Solo che era corto e che mi aveva fatto pensare ad uno stilista…”
“Bene, allora temo che io non potrò essere di nessun aiuto.”
Mentre Piper si scervellava per cercare di ricordare il nome del barboncino – glielo aveva chiesto mesi prima, quando l’aveva incontrata in ascensore e il cagnolino le aveva fatto le feste – Moos raggirò la scrivania per dirigersi verso le due enormi librerie bianche che occupavano interamente la porzione di parete accanto alla porta, scrutando i dorsi dei volumi disposti sulle mensole in file ordinatissime e, come ebbe modo di appurare con qualche breve occhiata, in ordine alfabetico per autore.
“Qui è pieno di libri di Biologia…  e sul nutrizionismo. Credo proprio che sia questo il suo lavoro.”
“Ora si spiegano i quintali di cibi sani. Non mi dispiacerebbe andare a fare una visita, ma ho paura che mi dicano di non mangiare roba fritta e dolci, e che vita sarebbe poi quella? Soprattutto, non si possono guardare le serie tv senza mangiarci schifezze insieme.”
La sola idea di dover dire parzialmente addio al cioccolato la faceva rabbrividire, e Piper richiuse l’agenda mentre Moos ruotava su se stesso per voltarsi verso di lei, dando le spalle alle librerie mentre per guardarla con leggera confusione
“Non voglio essere invadente, ma tu non potresti cambiare aspetto come preferisci? Insomma, potresti essere magrissima mangiando qualsiasi cosa, no?”
“In teoria sì, ma non mi va di farlo, preferisco essere come sono e basta. Di solito mi limito a cambiare colore ai miei capelli, come hai visto. La gente che non mi conosce pensa che vada dal parrucchiere ogni due giorni o che io indossi delle parrucche… Comunque, sul giorno della morte di Monty non ha scritto nulla, solo “Barry” e 11. Non si chiama Barry, il tipo che abita qui vicino?”
“Mi sembra di sì.”
Moos stava per azzardare l’ipotesi che i due potessero essere amici, del resto vivevano uno accanto all’altro, o che magari lui fosse il suo dentista, ma Piper lo precedette spalancando gli occhi scuri e portandosi le mani alla bocca mentre emetteva un verso sgomento:
“Oh mio Dio! Barry!”
“Ti è venuto in mente qualcosa?”
“Sì, che il fidanzato stronzo di Rachel(5) si chiamava Barry e faceva proprio il dentista!”
“Chi… chi è Rachel?”
C’era una vicina di nome Rachel che aveva dimenticato? Ma come era possibile, si chiese Moos aggrottando la fronte: lui abitava nel palazzo da sempre, conosceva i nomi e i volti di chiunque. Piper invece scosse la testa con un sospiro mentre incrociava le braccia al petto, guardandolo come se avesse appena manifestato una vergognosa lacuna:
“Cielo Bartimeus, quante cose devi imparare. Ascolta, dei dentisti in generale non ci si deve fidare…”
“Perché?!”
Quale mente malata studia per anni per mettere la mani in bocca alla gente?! Se poi ci aggiungi il fatto che si chiami Barry, beh, allora c’è sicuramente qualcosa che non va.”
E dire che lui si occupava della gente morta, ma visti i ragionamenti di Piper Moos preferì non ricordarglielo. Stava per suggerire alla vicina come non potessero basarsi su un nome e una professione per dichiarare qualcuno sospetto, ma le parole gli morirono in gola all’udire l’inconfondibile rumore metallico di una chiave che veniva infilata in una serratura.
Piper e Moss si erano voltati di scatto, raggelati, verso la soglia della stanza e la porta bianca che Piper si era lasciata aperta alle spalle poco prima, dopodiché la strega aveva richiuso il PC di Samantha e aveva raggirato silenziosamente la scrivania per raggiungere il vicino. La ragazza aveva fatto per dirgli qualcosa, ma Moos le aveva fatto cenno di tacere sollevando la mano sinistra mentre cercava di sentire che cosa stesse succedendo nel corridoio del decimo piano, dal momento che la padrona di casa esitava ad aprire la porta. Moos uscì dalla stanza facendo cenno a Piper di seguirlo, chiedendole in un sussurro di chiudere la porta dello studio per lasciarla esattamente come l’avevano trovata poco prima mentre lui faceva lo stesso con quella della palestra, abbassando la maniglia dorata più silenziosamente che poteva.
I due si fermarono infine nel soggiorno di Samantha, Piper con gli occhi scuri ansiosamente fissi sulla porta mentre Moos, date le spalle all’ingresso, faceva rapidamente vagare lo sguardo sulle finestre dell’open space fino a soffermarsi sull’enorme porta-finestra bianca che conduceva al terrazzo dell’appartamento.
“C’è qualcuno fuori con lei, sento una voce maschile… Ecco perché non sta entrando in casa.”
“Riconosco l’accento britannico, è proprio quello che vive qui accanto.”
Moos annuì e parlò senza voltarsi con un tono rilassato privo di qualsiasi traccia di urgenza, come se non stessero rischiando di essere scoperti da un momento all’altro. A Samantha sarebbe bastato aprire la porta per vederli, e tutto sommato Piper si ritrovò a dover ringraziare Barry il Dentista per il tempo che stava involontariamente facendo perdere alla loro biondissima vicina.
“Questo vuol dire che sta tornando a casa anche lui? Esattamente dove in questo momento si trovano Leena e Carter?”
Piper parlò guardandolo in un misto di orrore e apprensione, i grandi occhi scuri finemente truccati spalancati mentre Moos, ancora in piedi davanti a lei nel bel mezzo del soggiorno, annuiva:
“Lo so, ma come facciamo ad avvisarli?!”
“Dobbiamo assolutamente dire agli altri di creare un gruppo.”
“Scassinatori e Affini?”
Moos era incredibilmente serio, ma Piper gli disse in un sussurro di non scherzare mentre gettava un’occhiata ansiosa in direzione della porta senza smettere di torturarsi le mani ancora avvolte dai guanti arancioni. Non potevano Smaterializzarsi e con ogni probabilità Samantha sarebbe entrata in casa da un momento all’altro.
“Vieni, usiamo le scale.”
Moos la prese gentilmente per un braccio e la condusse rapido verso la portafinestra bianca del soggiorno, aprendola prima di uscire sul terrazzo della vicina e accennare in direzione delle scale antincendio mentre Piper, guardata prima la rampa di metallo e poi lui, sollevava dubbiosa e preoccupata entrambe le sopracciglia:
“E dove andiamo? Io abito qui sopra, dovremmo andare da me?”
“Se saliamo di sopra finiamo davanti all’appartamento A, e tu abiti molto più in là. No, dobbiamo scendere fino al sesto piano da me, io abito esattamente qui sotto, scendiamo e arriviamo diretti a casa mia.”
“Pensi che riusciremo a non farci vedere?”
Piper seguì Moos verso le scale e lo guardò iniziare a scendere la rampa aggrottando le perfette sopracciglia arcuate, preoccupata dal rumore non indifferente che risuonava ad ogni passo sui gradini di metallo e che avrebbe potuto destare l’attenzione di Samantha. Sarebbe stato piuttosto problematico darle spiegazioni se si fosse malauguratamente sporta dal suo terrazzo e li avesse visti scendere le scale antincendio sotto di lei.
“Non lo so, ma dobbiamo.”
Piper esitò per un istante mentre si voltava, gettando un’occhiata alla finestra più vicina dell’appartamento accanto a chiedendosi quale sorte sarebbe spettata ai loro vicini prima di iniziare a scendere i gradini a sua volta seguendo Moos. Avevano ben quattro piani da fare, e Piper non poté far altro che ringraziare la sua decisione di rinunciare ai tacchi per quell’incursione mentre Moos, al contrario, scendeva i gradini più rapidamente che poteva domandandosi che cosa avrebbe detto Montgomery vedendolo in quella situazione. Per assurdo forse si sarebbe persino detto fiero di lui per aver finalmente fatto qualcosa di sconsiderato.
 
 
Di ritorno da una passeggiata a Central Park, dopo aver salutato il suo vicino incontrato nell’atrio poco prima Samantha varcò la soglia di casa insieme al suo barboncino, chiudendosi la porta alle spalle prima di chinarsi per slegare il cagnolino; dopo avergli depositato una carezza sulla sofficissima testa pelosa la strega si rimise in piedi per riporre guinzaglio e pettorina su uno dei due ganci di metalli fissati vicino alla porta, sfilandosi infine giacca e stivali mentre Coco correva a recuperare il suo osso di gomma prediletto.
Nel guardare il cagnolino lo sguardo della strega scivolò anche sulla portafinestra bianca che dal soggiorno conduceva al suo terrazzo, ritrovandosi ad aggrottare le sopracciglia color miele quando vide che non era chiusa, ma che l’anta era stata semplicemente accostata. Samantha attraversò il soggiorno fino a fermarsi davanti alla finestra, chiudendola e osservando accigliata la propria mano stretta attorno alla maniglia dorata prima di sollevare la testa e far vagare pensosa lo sguardo sul terrazzo deserto.
Strano, si disse Samantha, le dita della mano destra strette attorno alla fredda maniglia di metallo mentre Coco, accanto a lei, mordicchiava incurante il suo osso di gomma arancione con sonaglio. Avrebbe giurato di averla lasciata chiusa.
 
 
La porta si chiuse alle spalle di Piper con uno scatto e Moos trasse un profondo sospiro, ancora piuttosto incredulo all’idea che fossero riusciti a non farsi vedere da Samantha mentre teneva una mano stretta attorno alla maniglia e l’altro palmo appoggiato sulla superficie liscia dell’anta. Mentre udiva il suono dei passi della strega farsi sempre più distante man mano che Piper si allontanava verso gli ascensori Moos si voltò per far vagare brevemente il proprio sguardo attraverso il soggiorno e la cucina dell’appartamento che un tempo era stato di suo nonno, trovando tutto esattamente come lo aveva lasciato qualche ora prima, inclusa la sagoma dormiente di Jam nel suo enorme terrario.
Se un mese prima qualcuno gli avesse detto che presto si sarebbe ritrovato ad introdursi in casa d’altri non ci avrebbe mai creduto, ma in effetti non avrebbe mai creduto nemmeno all’eventualità che Monty potesse morire, per di più ucciso da qualcuno, eppure era accaduto. Mentre i suoi pensieri vagavano fino a soffermarsi sui ricordi legati a Montgomery anche lo sguardo di Moos si mosse ricadendo sulla prima finestra a sinistra del soggiorno, la stessa che solo pochi giorni prima Niki aveva usato per entrare a casa sua, davanti alla quale scendevano le scale antincendio.
Per un singolo, brevissimo istante Moos ebbe quasi l’impressione di riuscire a scorgere Montgomery seduto su uno di quei gradini di metallo mentre studiava annoiato Central Park e stringeva una sigaretta accesa nelle dita della mano sinistra. Gli sembrò di udire di nuovo Niki suggerire con un sorriso come “le scale antincendio fossero il suo mezzo preferito per ricevere visite” e si chiese ancora una volta come conoscesse quel dettaglio così particolare della sua vita che non aveva mai condiviso facilmente, nemmeno con Naomi. Doveva per forza avergliene parlato Montgomery stesso, ma quando e perché? Per quanto si sforzasse di ricordare non li aveva mai visti scambiarsi neanche una parola o una sola occhiata.
Moos distolse lo sguardo dalla finestra e dalla scala antincendio, sforzandosi di distogliere i pensieri da ricordi che si erano fatti ormai eccessivamente dolorosi mentre si dirigeva verso le mensole dove aveva collocato la sua nutritissima collezione di piantine. Le stava controllando con la solita cura e dedizione di sempre, rammentando il momento in cui tempo addietro Montgomery, accigliato, gli aveva fatto notare quanto fosse bizzarro il suo lavorare con i morti e sforzarsi tanto per tenere in vita dei vegetali quando un pensiero improvviso s’insinuò nella sua mente, portandolo a bloccarsi di fronte ad un minuscolo cactus.
Moos, immobilizzatosi davanti alla mensola di legno, sbattè le palpebre prima di aggrottare le sopracciglia e sollevare la testa in direzione della finestra alla sua sinistra, ritrovandosi per la seconda volta ad osservare la rampa di scale di metallo e i gradini dove aveva scorto Montgomery un’infinità di volte. Spesso con una sigaretta in mano.
Montgomery era mancino, un dettaglio a cui non pensava da così tanto tempo che quasi credeva di averlo dimenticato. All’improvviso Moos si chiese in quale mano gli avessero rinvenuto il coltello con cui in teoria, si era tolto la vita.
 
 
Due ore dopo
 
 
“Pipeeeeeeer! Sono a casaaaaaaa! Ciao Bizet, dov’è la mamma?”
Dopo aver spalancato la porta usando la spalla sinistra ed essere entrata nell’appartamento di sua cugina, Nia rivolse un caloroso sorriso al gatto nero che era accorso per accoglierla. Mentre la strega si chiudeva la porta alle spalle con la punta dello stivale nero col tacco Bizet iniziò a strusciarlesi sulle gambe e Nia, le braccia cariche di borse di carta, chinò lo sguardo sul gatto promettendogli di dargli qualcosa da sgranocchiare non appena avrebbe avuto di nuovo le mani libere.
“Pipeeeer! Ordiniamo il messicano stasera? Fare shopping mi ha messo fame.”
Nia appoggiò le sue borse di carta in un angolo del pavimento del salotto, impaziente di mostrare i suoi acquisti alla cugina, per poi dirigersi verso la cucina mentre Bizet la seguiva nella speranza di vedersi allungare qualcosa da mangiare. La giovane strega stava sinceramente iniziando a chiedersi dove si fosse cacciata Piper quando la vide uscire dalla porta del bagno – dal quale si levò una considerevole nube di vapore che le suggerì quanto tempo la padrona di casa avesse trascorso nella vasca – nel suo accappatoio rosa e con un asciugamano fucsia avvolto attorno alla testa.
“Ciao tesoro, ero in doccia.”
“Lo vedo, qui sembra di stare in una sauna. Si può sapere perché non hai risposto al telefono per tutto il pomeriggio, avevo bisogno della tua consulenza per lo shopping!”
Per loro lo shopping era sacro e Piper quasi si sentì in colpa per averla abbandonata per tutto il pomeriggio, accennando un sorriso di scuse con gli angoli delle labbra carnose mentre guardava la cugina aprire l’armadietto della cucina, sempre fucsia ovviamente, dove tenevano i croccantini di Bizet.
“Scusa amore, sai che ti avrei accompagnata volentieri ma avevo del lavoro urgente da sbrigare. Riusciranno delle fajitas fumanti a farmi avere il tuo perdono?”
Nia, chinatasi per allungare un paio di croccantini al salmone a Bizet, sollevò la testa per gettare un’occhiata dubbiosa in direzione della cugina, osservandola sorriderle mentre il gatto mangiava i croccantini direttamente dal suo palmo.
“E i churros?”
Nia si rimise in piedi mentre Bizet la guardava offeso per l’esigua razione che gli era stata concessa, osservando torvo la ragazza lavarsi le mani nel lavello prima di allontanarsi indignato: poteva solo sperare che Jackson, l’amico di sua madre amante dei gatti, tornasse presto a trovarlo, lui sì che lo trattava come meritava.
“E i churros, ovviamente! Forza, mostrami cosa hai comprato.”
Piper sorrise allegra alla cugina che ancora la stava osservando dubbiosa, quasi percepisse un sentore di senso di colpa in lei. Ma non poteva certo avere qualcosa da ridire se le venivano offerti dei churros, pertanto Nia decise di lasciar correre e annuì, ricambiando il sorriso mentre Piper la prendeva sottobraccio per tornare insieme nel loro coloratissimo salotto.
“Sono sicura che apprezzerai tutto, del resto io ho un ottimo gusto. Ma che cos’è che dovevi fare che ti ha tenuta lontana dal telefono?”
“Nulla di che, cose estremamente barbose, ho passato il pomeriggio a marcire seduta davanti al PC. Non immagini la noia.”
 
 

 
 – III –
Non bevete quel caffè


image host image host  


Jackson Salmon avrebbe potuto impiegare quel sabato pomeriggio libero in un’infinità di modi: avrebbe potuto andare a giocare a basket con i suoi amici, avrebbe potuto piazzarsi a casa di Piper per coccolare il suo gatto e avrebbe persino potuto starsene a poltrire sul divano, rilassandosi davanti ad una dose massiccia di stand-up comedy. Ma Jackson aveva deciso di impiegare quel potenziale pomeriggio di svago e relax in un altro modo, ovvero standosene seduto su una delle panchine bianche dallo schienale di metalo del cortile interno dell’Arconia in compagnia di uno dei suoi vicini.
Mi spieghi perché devo tenere in mano questo foglio di giornale?”
Jackson parlò ruotando la testa verso destra per gettare un’occhiata esasperata al ragazzo che gli sedeva accanto, chino su una pagina del Magic Times con in mano una penna e impegnato a scribacchiare: quando venti minuti prima avevano occupato la panchina Orion aveva srotolato il numero del quotidiano del giorno precedente che aveva portato con sè e aveva chiesto al vicino quale pagina gli interessasse, ignorando – o forse non percependo, impossibile stabilirlo agli occhi di Jackson – la sua perplessità quando il veterinario gli aveva indicato la pagina dello sport.
“Perché altrimenti la gente si chiederebbe che cosa ci facciamo, piantati qui a non fare nulla, che domande.”
Lui e Orion Parrish avevano la stessa età e Jackson serbava qualche vago ricordo del suo vicino risalente ai tempi della scuola; appartenendo a Case differenti non aveva mai approfondito la sua conoscenza, ma da quel poco che ricordava era abbastanza sicuro di averlo sempre trovato un tipo abbastanza singolare. Ricordava che si fosse trasferito nel palazzo da un paio d’anni, ma prima della morte di Montgomery Jackson era sicuro di averci mai scambiato più di due parole. Di sicuro i recenti avvenimenti e l’averci avuto a che fare avevano contribuito a confermargli l’idea che già aveva abbozzato sul suo conto diversi anni prima.
“Potrei almeno avere la pagina con i cruciverba, sto rileggendo i resoconti delle partite del campionato di Quodpot di ieri da dieci minuti.”
“Scusa, ho appena finito l’ultimo, se vuoi ho la pagina dove devi unire i puntini per creare un disegno.”
Se a parlare fosse stato chiunque altro Jackson non avrebbe avuto dubbi sulla possibilità che quel qualcuno lo stesse prendendo per il culo, ma dal modo in cui Orion sfoggiò un sorriso e accennò alle pagine di giornale che teneva sulle ginocchia capì che l’astronomo fosse assolutamente e completamente serio. Dopo una breve esitazione il veterinario annuì, esalando un lieve sospiro pregno di rassegnazione: no, quello decisamente non rispecchiava l’idea del suo weekend ideale.
“Meglio di niente.”
Jackson accettò la pagina e fece apparire una penna con la bacchetta prima di dedicarsi alla compilazione del disegnino, lamentandosi sommessamente quando lo terminò appena un minuto dopo:
“Finito. Certo che potrebbero almeno farli più difficili… C’è la pagina delle barzellette?”
“Ora te la cerco. Ma cosa aspetta lui a uscire, di questo passo resteremo qui fino all’ora di cena.”
Doveva ammettere che tutta quell’assurda situazione lo esaltava, ma Orion non aveva comunque la benchè minima intenzione di sprecare tutto il resto della giornata standosene seduto su quella panchina: aveva almeno due tornei di scacchi online da vincere in programma per quella sera. Facendo ben attenzione a non fare nomi Orion sbuffò piano mentre sfogliava con impazienza i fogli di giornale per cercare la pagina richiesta da Jackson, che nel frattempo sorrise e salutò educatamente un paio di signore anziane che passarono loro davanti, dirette verso l’uscita del cortile interno.
Mentre le due vicine si allontanavano dopo aver salutato a loro volta il ragazzo Orion gli porse finalmente la pagina richiesta, guardando prima le due donne e poi Jackson aggrottando lievemente le sopracciglia castane: erano così tante, le persone che abitavano all’Arconia, che anche dopo due anni Orion faticava ad associare più di qualche nome a dei volti mentre il suo ex compagno di scuola, al contrario, sembrava conoscere almeno di vista pressoché chiunque.
“Ma come fai a conoscere tutti, qui?”
“Ho sempre vissuto all’Arconia, mio padre ha comprato l’appartamento prima che nascessi, quindi conosco tutti quelli che ci abitano da molto. E poi essere carino con le vecchiette ha i suoi vantaggi, ti regalano i biscotti quando li preparano.”
Jackson dispiegò completamente la pagina del Magic Times per poterne leggere il contenuto, sollevando gli angoli delle labbra carnose in un sorrisetto compiaciuto e un poco divertito che si allargò quando scorse un’espressione ammirata dipingersi sul viso di Orion: l’astronomo lo guardò spalancando leggermente gli occhi castani, come se avesse appena acquisito una nuova, straordinaria consapevolezza.
“Non ci avevo mai pensato. Sei un genio.”
“Avere un’adorabile aria da ragazzo educato aiuta, sì. Eccolo, sta uscendo, sii disinvolto!”
Quando oltre la spalla di Orion scorse l’alta figura di Harrison Lee uscire dalla porta di vetro salutando Lester e infilandosi gli occhiali scuri Jackson quasi sobbalzò sulla panchina e si affrettò a distogliere lo sguardo, facendo del suo meglio per concentrarsi con la massima dedizione sulla sua pagina di giornale mentre Orion, accanto a lui, richiamava a sé tutto il suo autocontrollo per soffocare la forte tenzione di voltarsi in direzione del vicino.
“Perché me l’hai detto, ora come faccio a sembrare disinvolto?!” 
Orion parlò gemendo piano, certo di essere molto vicino al fare una delle sue solite figure di merda – per fortuna era seduto, o di sicuro sarebbe inciampato nel nulla e sarebbe caduto di faccia sulla ghiaia che ricopriva i vialetti del cortile dritto davanti al loro vicino – mentre si sforzava di fissarsi i piedi e Jackson, accanto a lui, fingeva di leggere il giornale sibilandogli qualcosa a denti stretti:
“Fingi di leggere, non è per questo che hai portato il giornale?”
“Ah, è vero.”
I due attesero, immobili e in silenzio sulla panchina e il capo chino per tenere gli occhi fissi sui sottili fogli di carta stampata, che Harrison passasse loro davanti. Quando finalmente l’avvocato li superò con un incedere misurato ed elegante Jackson si permise di sollevare leggermente la testa per guardarlo allontanarsi, aspettando che il mago avesse raggiunto l’arco che consentiva di uscire dal palazzo prima di alzarsi e mormorare ad Orion di sbrigarsi. I due si diressero verso l’ingresso del palazzo cercando di non affrettare eccessivamente il passo per evitare di dare nell’occhio mentre Orion arrotolava nuovamente il numero di giornale per infilarselo nella tasca interna della sua giacca nera, stampandosi due forzatissimi sorrisi cortesi in faccia quando Lester aprì loro la porta per salutare il portiere:
“Ciao Lester!”
“Come va?”
L’anziano portiere rispose educatamente ai saluti come suo solito, ma non risparmiò a Jackson e Orion un’occhiata evidentemente perplessa, guardandoli allontanarsi con la fronte rugosa aggrottata mentre il veterinario, camminando fianco a fianco del vicino sul pavimento di marmo per attraversare l’ampio ingresso, mormorava nervosamente qualcosa:
“Cazzo, Lester mi conosce da quando gattonavo, spero che non abbia capito che abbiamo in mente qualcosa di strano…”
“Proprio perché ti conosce non sospetterà mai che stai per entrare illegalmente a casa di qualcun altro, non sei famoso per la tua aria adorabile?”
“Sì, per fortuna. Ok, c’è un problema.”
Jackson smise bruscamente di camminare quando lui e Orion si trovarono a due metri dai due ascensori dalle porte dorate che conducevano ai piani superiori, gettando un’occhiata ansiosa alle porte metalliche mentre Orion, costretto a fermarsi a sua volta, si voltava verso di lui guardandolo con fremente impazienza:
“Io non prendo l’ascensore.”
“Cosa?!”
Tutto si sarebbe aspettato di sentire Orion Parrish, meno di un newyorkese che, abitando in un palazzo di quindici piani, si rifiutava di utilizzare l’ascensore. Se lui avesse anche solo provato a farsi a piedi i nove piani che dall’ingresso lo separavano dal suo appartamento con ogni probabilità una volta a casa avrebbe necessitato di una flebo. Jackson tuttavia non battè ciglio di fronte allo sguardo e all’espressione increduli sfoggiati dal vicino, e si limitò a stringersi debolmente nelle spalle mentre le porte del secondo ascensore si aprivano con un lieve scampanellio metallico permettendo ad un paio di inquilini di uscire dall’abitacolo.
“Claustrofobia. Molto acuta.”
“Ok, ma lui abita al penultimo piano, non vorrai mica farti quattordici piani di scale, vero? Non solo è da pazzi, ma ci metteremmo un’eternità ad arrivare e non abbiamo tutto questo tempo, potrebbe tornare tra tre ore come tra mezz’ora.”
Jackson era ormai avvezzo a fare le scale, ma Orion aveva ragione: quattordici era un numero a dir poco esorbitante, ben nove piani in più rispetto a quelli che era abituato a scendere e salire ogni giorno per uscire e tornare a casa. Il veterinario tentennò mentre guardava il vicino avvicinarsi all’ascensore appena arrivato per tenere le porte aperte con la mano sinistra e un iniziale senso di nausea iniziava a risalirgli lo stomaco alla sola idea di poter restare bloccato in quello spazio così ristretto. Per alcuni gli ascensori costituivano un’invenzione geniale, per lui non erano altro che un orribile mezzo di tortura.
“Ok, va bene, ma ti avviso: se dovessimo restare bloccati la mia compagnia diventerà molto, molto spiacevole.”
 
Jackson e Orion entrarono all’interno dell’abitacolo deserto e, dopo che l’astronomo ebbe premuto il tasto del quattordicesimo piano, le porte si stavano chiudendo quando qualcuno infilò dall’esterno l’estremità inferiore di un ombrello nero nella fessura per bloccarle: le porte si aprirono nuovamente, facendo sì che i due si trovassero di fronte ad una donna dalla statura ridotta, corti capelli bianchi e un paio di gelidi occhi azzurri.
La donna osservò i due per una frazione di secondo, prima di ritrarre l’ombrello e seguirli all’interno dell’ascensore. Orion la guardò osservare il quadrante che ospitava i pulsanti che riportavano i numeri dei vari piani e notò come il suo sguardo indugiò per una frazione di secondo di troppo sul numero 14 illuminato prima di premere il tasto del numero 13: anche se la donna non disse nulla ebbe la certezza che si stesse chiedendo perché due persone che non abitavano al penultimo piano ci si stessero recando.
“Salve Signora Turner.”
Jackson parlò con un tono assai diverso rispetto a quello con cui poco prima aveva salutato le altre vicine di casa, e Orion ruotò leggermente la testa verso di lui per scoccare un’occhiata incerta al veterinario, chiedendosi il perché di quel tono quasi tremolante e dell’evidente nervosismo del ragazzo mentre la vicina lo salutava di rimando con un accento britannico leggermente smussato dal gran numero di anni trascorsi negli Stati Uniti.
Nell’ascensore calò il silenzio mentre le porte si chiudevano, la donna stava in piedi davanti ad esse dando le spalle ai due vicini e Jackson, le braccia strette al petto, spostava nervosamente il peso da un piede all’altro senza riuscire a distogliere lo sguardo dal display che segnava il numero del piano in cui si trovavano. Il veterinario sentì la propria ansia alleggerirsi man mano che il numero cresceva a l’ascensore saliva, rendendo sempre più remote le possibilità di bloccarsi prima di farli arrivare a destinazione mentre Orion, accanto a lui, si limitava ad osservare in tranquillità le porte chiuse appoggiandosi alla fredda parete di metallo tenendo le mani sprofondate nelle tasche.
L’ascensore si fermò al tredicesimo piano per permettere di scendere alla Signora Turner, che uscì in silenzio dall’abitacolo senza voltarsi e sotto gli sguardi dei due vicini. Quando le porte si richiusero Jackson sospirò rumorosamente, borbottando qualcosa contro Harrison Lee e la sua pessima decisione di trasferirsi al quattordicesimo piano mentre Orion volgeva lo sguardo su di lui accennando un sorrisetto con gli angoli delle labbra:
“Dimmi, che cos’era quella voce strana?”
“Non prendermi per il culo, quella donna mi fa paura da quando ero piccolo. Ha quegli occhi che ti trapassano da parte a parte…”
Jackson fu scosso da un brivido nel ripensare a quando, da bambino, aveva avuto la malsana idea di giocare in giro per i corridoi dell’Arconia e aveva finito col rompere in mille pezzi il vaso di una pianta che Emily Turner aveva sistemato fuori dalla sua porta: era corso in lacrime da sua madre terrorizzato dall’idea che la donna potesse scoprire l’identità del colpevole e anche se più nessuna pianta era stata vista fuori dalla porta del 13C, per molto tempo a seguito dell’”incidente” ogni qualvolta in cui gli occhi cerulei della donna avevano indugiato su di lui Jackson aveva avuto la netta sensazione che sapesse, pur non avendo idea del come.
Quando finalmente l’ascensore giunse a destinazione e le porte si aprirono davanti all’ampio corridoio del quattordicesimo piano Jackson sorrise e si sentì pervadere da un’ondata di sollievo, affrettandosi a lasciare l’abitacolo sentendosi molto più leggero rispetto a quando vi aveva messo piede solo poco prima. Tuttavia, Orion lo aveva appena seguito fuori dall’ascensore quando una consapevolezza meno felice si impossessò del veterinario, improvvisamente più lucido grazie all’assenza dell’ansia causatagli dalla sua claustrofobia: Jackson si voltò verso il vicino spalancando leggermente gli occhi scuri, resosi conto di un dettaglio affatto di poco conto che lui e Orion avevano fino a quel momento tralasciato.
“Aspetta, è salita al tredicesimo piano… stava tornando a casa sua. Chi doveva andare da lei?!”
“Niki a Mathieu, mi sembra. Oh…”
Anche Orion sembrò capire perché smise di parlare scoccandogli a sua volta un’occhiata un poco ansiosa, non invidiando per niente, come Jackson, i loro vicini.
“… Merda.”
 
 
Orion e Jackson avevano vagliato la possibilità di scendere al piano inferiore e di avvertire Mathieu e Niki, ma non solo non avevano idea di come fare laddove i due si trovassero già nel 13C, il vago terrore che Emily Turner incuteva nel veterinario non rendeva l’eventualità di andare a suonare il campanello della donna particolarmente appetibile.
“Possiamo scendere, suoniamo e la distraiamo, così loro escono!”
“E la distraiamo come, le raccontiamo una barzelletta? No Orion, sono sarcastico!”
La loro vicina li aveva appena visti salire al piano superiore, un dettaglio che difficilmente avrebbe scordato, come avrebbero spiegato il loro improvviso presentarsi alla sua porta solo pochi minuti dopo?
“Quella donna non è stupida, se nota qualcosa di strano nel nostro comportamento, e secondo me già lo ha fatto, potrebbe capire che c’è qualcosa che non va e metterci nei guai. E poi Lee potrebbe tornare a momenti e dobbiamo andare da lui!”
Lui e Orion si trovavano ancora nel bel mezzo del corridoio del penultimo piano, e Jackson parlò accennando in direzione degli ascensori, le cui porte erano chiuse ma che in qualunque momento avrebbero potuto aprirsi e svelare il ritorno del loro vicino. Orion volse a sua volta lo sguardo sugli ascensori, profondamente indeciso sul da farsi, prima di annuire e fargli sbrigativamente cenno di dirigersi verso la porta del 14A, la prima dell’enorme e lungo corridoio dal pavimento di marmo, illuminato da una serie di lampade a soffitto di forma circolare.
“Ok, diamoci una mossa, dopo andiamo di sotto e cerchiamo di capire cos’è successo.”
I due si avvicinarono alla porta dell’appartamento e Jackson, dopo essersi guardato brevemente intorno, estrasse la bacchetta dalla tasca dei jeans e fece apparire due paia di guanti, porgendone subito dopo uno ad Orion. Mentre prendeva i due guanti di plastica che il vicino gli stava porgendo lo sguardo di Orion indugiò sulla mano del veterinario, scorgendo qualcosa che fino a quel momento gli era completamente sfuggito e che lo portò a strabuzzare, incredulo e un tantino orripilato, gli occhi castani:
“Che hai fatto alla mano?!”
Jackson, ormai perfettamente abituato a reazioni di quel tipo, abbozzò un sorriso mentre si infilava i guanti trasparenti, sollevando leggermente la mano che aveva catturato l’attenzione di Orion per mostrargliela in tutta tranquillità:
“Un simpatico coccodrillo mi ha lasciato un ricordo del nostro incontro. O forse il ricordo voleva tenerselo lui, staccandomi la mano. Me l’hanno ricucita, ma sì, ammetto che non è proprio un bel vedere.”
Di sicuro Jackson non avrebbe mai dimenticato quel dolore, e nemmeno quando sua madre era corsa in ospedale a vedere cosa fosse successo e poi era letteralmente svenuta accasciandosi sul pavimento alla vista delle condizioni della sua mano, ma ormai a quella mano mangiucchiata di aveva fatto l’abitudine e a differenza di chi la notava per la prima volta la sua vista non lo toccava più di tanto.
Orion lo guardò in silenzio puntare la bacchetta contro la maniglia della porta per aprirla con un Alohomora non verbale, osservando pensoso la sua mano prima di asserire, improvvisamente più serio che mai, quanto tutti i rettili non fossero altro che delle bestiacce orrende che avrebbero meritato di sparire da ogni ecosistema.
“Hai paura dei rettili?”
“Non esattamente, solo di una razza nello specifico, ma non mi fanno impazzire in generale. Non ha sigillato la porta con un incantesimo? È assurdo, è appena morto qualcuno, io l’ho fatto!”
Quando la serratura scattò e Jackson strinse la maniglia per aprirla Orion, in parte desideroso di non dilungarsi sull’argomento rettili e di parlare d’altro, guardò accigliato la porta chiedendosi come fosse possibile che il loro ricco e affascinante vicino non avesse preso qualche precauzione in più a seguito dell’omicidio di in ragazzo che, per di più, viveva sul suo stesso piano.
“Forse non si sente in pericoloso.”
Jackson spalancò la porta stringendosi nelle spalle, precedendo Orion all’interno dell’appartamento mentre l’astronomo lo seguiva guardandosi attorno con scetticismo:
Forse perché l’ha ucciso lui.”
“Niente conclusioni affrettate, diamo un’occhiata in giro e vediamo se c’è qualcosa da scoprire.”
Dopo essersi chiuso la porta alle spalle Jackson precedette Orion attraverso il piccolo ingresso circolare rivestito da un parquet molto scuro e dall’aria molto costosa, fermandosi sulla soglia del soggiorno più spazioso che avesse mai visto in vita sua mentre Orion lo raggiungeva, gli si fermava accanto e infine, dopo una rapida occhiata in giro, annuiva mormorando qualcosa rivolgendosi più a se stesso che al veterinario:
“Sì, dovevo studiare Legge.”
 

Per evitare di essere sorpresi dal padrone di casa Orion suggerì che uno dei due cercasse e che l’altro, invece, restasse semplicemente vicino ad una delle finestre del soggiorno per controllare il cortile interno qualora Harrison avesse deciso di tornare mentre loro ancora si trovavano a casa sua. Per nulla intenzionato a farsi scoprire – anche se una parte di lui non poteva fare a meno di pensare a quanto di certo sua madre si sarebbe segretamente sentita fiera di lui per quell’incursione – Jackson aveva accettato, proponendosi di cercare lo studio tra le numerose stanze che componevano il 14A:
“Lui è l’avvocato dei suoi genitori, il movente più logico che mi viene in mente che avrebbe potuto portarlo ad uccidere Montgomery è il suo lavoro. Forse Montgomery potrebbe aver scoperto qualcosa che non quadrava e lui, per farlo tacere, lo ha ucciso.”
“Quindi in caso una possibile prova sarebbe nel suo studio.”
“Esatto.”
 

Trovare lo studio non fu un’impresa facile, per Jackson, che dovette prima girare a vuoto tra due bagni immensi che somigliavano in tutto e per tutto a quelli degli Hotel a cinque stelle, tre camere da letto e una immensa cabina armadio.
“Ma a che gli servono tutte stanze, si può sapere?!”
Orion, rimasto da solo nel soggiorno come da accordi, lo informò parlando a voce alta di non essere riuscito a capire di preciso che cosa avesse detto a causa della considerevole distanza che li divideva: l’appartamento si estendeva sullo stesso piano, ma era comunque enorme. Jackson gli suggerì di lasciar perdere prima di aprire, spazientito, l’ennesima porta sperando che si trattasse finalmente di quella giusta. Quando scorse due enormi schedari neri addossati alla parete di fronte a lui sotto ad un quadro dalla cornice nera  dall’aria molto costosa Jackson non prestò particolare attenzione alle librerie o alle due poltrone di cuoio, raggirando rapido la scrivania e la sedia girevole nera per poter aprire i cassetti degli schedari dato che se ci fosse stato qualcosa da scoprire sul conto della famiglia di Montgomery in relazione al padrone di casa avrebbe dovuto quasi necessariamente trovarsi lì dentro.
Fu un vero e proprio sollievo, per Jackson, appurare quanto Harrison Lee fosse una persona ordinata: in tutta la sua vita non aveva mai amato tanto le persone organizzate, persino quelle ai limiti del snervante, e un sorriso sollevato incurvò gli angoli delle labbra del veterinario verso l’alto quando, aperto il primo cassetto in alto di uno dei due enormi schedari di metallo nero, vi trovò all’interno una lunga serie di fascicoli catalogati in ordine alfabetico. Jackson richiuse il primo cassetto per aprire quello centrale, facendo scorrere l’indice sul bordo superiore dei fascicoli per cercare la lettera “D” e nello specifico il cognome di Montgomery. Quando finalmente lesse “Dawson” il sorriso si allargò sul volto di Jackson, che sollevò il fascicolo, dalla copertina nera e non proprio sottilissimo, e richiuse il cassetto per poi aprirlo e gettare un’occhiata ai primi fogli stampati che ne facevano parte.
“Ho trovato questo fascicolo con scritto “Dawson”, ma è tutto in legalese e non ci capisco quasi niente.”
Jackson uscì dalla stanza e attraversò il lungo corridoio per fare ritorno nel soggiorno e raggiungere Orion, fermandosi a pochi centimetri dall’enorme divano a ferro di cavallo color cuoio e parlando senza sollevare lo sguardo sul vicino.
“Allora facciamo delle foto e le mostriamo a Naomi.”
Jackson annuì e appoggiò il fascicolo sullo schienale del divano per recuperare il proprio telefono dalla tasca dei jeans, ma nel farlo il suo sguardo tornò ad indugiare su Orion e il veterinario ben presto si immobilizzò, sollevando le sopracciglia con incredulità quando vide ciò che l’astronomo stava facendo.
“Orion!”
“Che c’è?!”
L’astronomo, in piedi vicino alla finestra esattamente dove il veterinario lo aveva lasciato, non fosse stato per il piccolo particolare della tazza che ora Orion teneva in mano, sobbalzò e si voltò persino per appurare di non avere nessuno alle sue spalle mentre Jackson persisteva nel guardarlo incredulo:
“Non puoi… Orion, non puoi berti il caffè di un potenziale assassino dopo esserti introdotto illegalmente in casa sua!”
“Lo so, è più forte di me, quando vedo del caffè non riesco a resistere. Aveva lasciato la caffettiera praticamente mezza piena, che spreco.”
Orion non conosceva affatto l’uomo che viveva in quell’appartamento, ma se sprecava in quel modo del caffè allora non meritava affatto nemmeno una briciola della sua stima e mentre stava in piedi accanto alla finestra, stringendo una tazza che aveva fatto comparire appositamente poco prima, non riuscì a celare un’espressione che tradiva una profonda disapprovazione. Jackson, invece, dimenticandosi momentaneamente del fascicolo sulla famiglia di Montgomery, lo guardò rassegnato e inarcando il sopracciglio sinistro con scetticismo:
“Ok, e se per caso torna e si accorge che il caffè che aveva avanzato è svanito nel nulla?”
All’udire le sue parole Jackson vide il vicino irrigidirsi e dopo una breve esitazione chinare lentamente il capo per far sì che il proprio sguardo indugiasse sul caffè contenuto nella tazza, pentendosi di non aver riflettuto adeguatamente prima di versarselo. Forse avrebbe seriamente dovuto prendere in considerazione di imparare a gestire la sua più grande debolezza.
“… A questo non avevo pensato.”
“Sì, lo immaginavo.”
“Credo che potrei… prepararne dell’altro. Così al suo ritorno ne troverebbe ancora.”
“Va bene, ma sbrigati, io intanto fotografo questa roba. E ricordati di far sparire quella tazza!”
Quasi stentando a credere all’assurdità della situazione in cui si era cacciato con le sue stesse mani – e ricordando a se stesso di come avrebbe potuto trascorrere quel pomeriggio in maniera ben diversa – Jackson scosse la testa e tornò a concentrarsi sui fogli di carta, molti dei quali raggruppati con delle graffette, che affollavano il fascicolo dei Dawson per fotografare tutto il possibile mentre Orion, fatta sparire a malincuore la sua tazza di caffè, si adoperava per prepararne dell’altro auto-imponendosi di non berne neanche una goccia.
“Non pensavo che ci fosse così tanta roba su di loro… I Dawson devono avergli versato dei milioni, con tutto il lavoro che c’è qui.”
“Beh, con i soldi di qualcuno deve pur esserselo pur comprato, questo posto.”
Orion parlò stando in piedi davanti ai fornelli ad induzione e alla caffettiera, aspettando che il caffè fosse pronto mentre si guardava pigramente attorno, studiando le immense librerie, la televisione immensa e quel divano di pelle dall’aria così comoda che il suo sguardo aveva avidamente sfiorato più e più volte da quando aveva messo piede nell’appartamento.
“Non oso neanche immaginare quanto deve aver speso… Così come i genitori di Montgomery per comprargli il suo. Immagino che lo capirò mai, questo stile di vita da milionari.”
La sola idea dei suoi genitori che gli compravano un intero appartamento assumeva tratti quasi ridicoli agli occhi di Jackson, che parlò senza sollevare la testa e continuando a fotografare il contenuto del fascicolo dei Dawson – ringraziando il poter contare sulle conoscenze di Naomi, perché altrimenti difficilmente sarebbero riusciti a capirci qualcosa – mentre Orion, dopo aver spostato la caffettiera dai fornelli per rimetterla dove l’aveva trovata poco prima accanto al lavello, si allontanava dalla cucina per dirigersi nuovamente davanti ad una delle finestre e controllare il cortile. 
“Nemmeno io, tranquillo.”
Lo sguardo dell’astronomo indugiò nuovamente sul cortile, sui suoi viali di ghiaia, sulle aiuole curatissime e le panchine bianche giusto in tempo per scorgere l’alta figura di Harrison Lee procedere in tutta calma costeggiando la fontana di pietra, del tutto incurante di quello che stava accadendo a casa sua. Orion s’irrigidì, ammutolendo prima che due parole gli uscissero di bocca quasi senza che se ne rendesse conto:
“Sta tornando.”
“Cosa?”
Jackson parlò sollevando la testa di scatto, immobilizzandosi mentre guardava sgomento il vicino voltarsi verso di lui e annuire mentre si allontanava dalla finestra rivolgendogli un cenno sbrigativo con la mano:
“Sta tornando, è di sotto, nel cortile! Mettila a posto e usciamo da qui!”
 
 
Jackson aveva ricevuto una dose di ascensore sufficiente a ricoprire almeno due settimane della sua vita, pertanto una volta messo a posto il fascicolo dei Dawson nello schedario dello studio ed essere uscito di corsa dall’appartamento di Harrison Lee insieme ad Orion puntò senza esitazioni alla porta che lo avrebbe condotto alla tromba delle scale invece che agli ascensori, deciso a scendere almeno un paio di piani a piedi per dover trascorrere il meno tempo possibile all’interno di un ambiente per lui troppo stretto e soffocante. Orion non sembrò gradire particolarmente la sua decisione ma pur obbiettando un poco lo seguì, scendendo i gradini alle sue spalle finchè i due non si ritrovarono sul pianerottolo del tredicesimo piano.
“Aspetta, forse Niki e Mathieu non sono ancora andati nel 13C… Se Niki è ancora a casa potremmo avvertirla che la Signora Turner è tornata.”
Jackson aprì la porta delle scale senza aspettare il parere del vicino, addentrandosi nel corridoio del tredicesimo piano, ma prima che potesse puntare in direzione del 13B l’ultima porta a sinistra del corridoio venne spalancata e dal 13E uscirono inaspettatamente un paio di figure a loro note.
Per un istante Jackson e Orion si immobilizzarono, gli occhi carichi di sconcerto puntati di Niki e Mathieu, che si fermarono a loro volta davanti alla porta osservandoli perplessi di rimando. Orion guardò prima i due vicini, poi la porta chiusa del 13C e poi di nuovo Niki e Mathieu, certo che non fosse quello l’appartamento in cui i due avrebbero dovuto recarsi mentre Jackson, superata la sorpresa iniziale, muoveva qualche passo nella loro direzione guardandoli dubbioso:
“Perché… Perché eravate a casa di Carter?”
Storia lunga. Voi che ci fate qui?”          
Reduce da un pomeriggio a dir poco singolare, Mathieu guardò accigliato Jackson e Orion raggiungere lui e Niki nel fondo del corridoio mentre la strega, accanto a lui, li studiava tirando fuori in silenzio un sacchetto giallo di M&M’s dalla tasca della sua felpa nera.
“Eravamo di sopra. Siete già stati, da, emh… avete capito. Prima ha preso l’ascensore con noi, quando siamo saliti. L’avete vista mentre eravate da lei?”
Orion si fermò accanto a Jackson di fronte a Niki e a Mathieu, guardando con occhi pieni di curiosità la strega aprire il sacchetto di plastica e portarsi un paio di M&M’s alle labbra prima di voltarsi verso il vicino e parlare con tono sarcastico:
“Oddio, non lo so proprio… Mike, tu l’hai vista, una donna arcigna che somigliava paurosamente alla vecchia?”
“Devo averla notata vagamente, sì. Dove li hai presi quelli?”
Mathieu guardò il sacchetto di dolci sperando vivamente che la strega non li avesse rubati alla Signora Turner senza che lui se ne fosse accorto, rilassandosi quando Niki fece spallucce e dichiarò di averli fregati dalla dispensa di Carter poco prima. Se non altro la Signora Turner, qualora li avesse accusati di essersi introdotti a casa sua, non avrebbe potuto accusarli anche di furto di arachidi ricoperte di cioccolato.
“Quindi è tornata a casa mentre voi eravate già dentro? Come avete fatto a scamparla?”
Alla domanda sinceramente stupita e quasi ammirata di Jackson Niki si strinse nelle spalle mentre infilava una mano nel sacchetto di plastica giallo per prendere un altro paio di arachidi, scoccando un’occhiata leggermente torva in direzione di Mathieu mentre Orion si chiedeva se rubandogliene un paio avrebbe rischiato l’amputazione della mano.
“Beh, io volevo stenderla, ma mi è stato impedito. Comunque questa va raccontata in un’altra sede, devo andare. Fossi in voi due non mi farei trovare qui quando Lady Bird uscirà, penso che sia incazzata nera.”
Con quelle parole Niki si congedò dai tre e si allontanò verso la porta delle scale superando Jackson e Orion senza smettere di sgranocchiare M&M’s, uscendo dal campo visivo dei vicini e dal corridoio invece di tornare nel proprio appartamento.
“Ok, andiamocene anche noi, ha ragione, non voglio essere qui quando uscirà e darle motivo di pensare che dentro casa sua c’ero io. Quella donna mi inquieta.”
Mathieu scosse leggermente la testa mentre gettava un’occhiata nervosa alla porta chiusa del 13C, dopodiché si diresse verso la porta delle scale dietro alla quale Niki era sparita pochi istanti prima per salire al piano superiore e tornare a casa propria, portando Jackson a seguirlo voltandosi verso Orion e ad indicarlo con fare concitato:
Lo vedi Orion, non sono l’unico! La Signora Turner fa paura a tutti.”
“Già che ci sei dillo a voce un po’ più alta, così potrà sentirti e venire a ringraziare! Cazzo, ho proprio bisogno di una damigiana di caffè…”
 
 
Quando aprì la porta di casa Jackson sperò ardentemente che sua madre fosse fuori, o impegnata in una riunione con le sue amiche, insomma qualsiasi cosa gli permettesse di passare inosservato e che impedisse a Marlene di accoglierlo con una tempesta di domande. Con sommo rammarico del veterinario, al contrario, quando Jackson mise piede all’interno del 5B scorse sua madre seduta sul divano davanti alla TV accesa con Flip, il suo cagnolino – o “secondogenito”, come era solita definirlo lei – acciambellato accanto.
“Ah, eccoti finalmente, ormai pensavo che avresti cenato fuori! Dove sei stato?”
“Sì, scusa, non ti ho avvisato. Ero da Piper.”
Dal modo in cui Marlene lo studiò dal divano Jackson seppe che la madre non era particolarmente convinta, ma il suo sorriso rilassato non vacillò mentre lasciava scivolare la sua copia delle chiavi sulla ciotola di legno sistemata sulla cassettiera vicino all’ingresso. Fortunatamente, se anche sua madre avesse dovuto incrociare la sua amica il giorno seguente, lui e Piper si erano già accordati sulla stessa versione dei fatti, mentre a Nia avrebbero detto che quel pomeriggio la cugina aveva dovuto lavorare. Jackson avrebbe anche potuto dire la verità a sua madre, in fondo Marlene sapeva tutto di tutti in quel palazzo e forse si sarebbe anche potuta rivelare molto utile, ma qualcosa lo aveva frenato, portandolo a decidere di lasciarla, almeno per il momento, all’oscuro di tutto ciò che riguardava Montgomery Dawson e la sua morte, che agli occhi della donna non era stato altro che un suicidio.
Sentendo nominare l’amica del figlio, nonché vicina di casa, l’espressione sul viso di Marlene si addolcì visibilmente e la donna, che come Jackson sapeva bene adorava Piper, accennò un sorriso con le labbra prima di annuire e alzarsi in piedi:
“D’accordo. Preparo il caffè, ne vuoi?”
Dio, no. Cioè, no, grazie.”
No, Jackson ne aveva avuto abbastanza di caffè per quel giorno e dopo aver rivolto un sorriso tirato alla madre, che si era fermata sulla soglia della cucina guardandolo con aria interrogativa, raggiunse il divano per sedersi vicino al bracciolo. Quando sentì un basso ringhio alla sua sinistra il ragazzo si voltò, scoccando un’occhiata torva in direzione del Chihuahua che lo stava guardando storto di rimando:
“Questo divano è mio quanto tuo. Vedi di non rompere, palla di pelo viziata.”
“Jackie, non parlargli in quel modo!”
Suo padre aveva proprio ragione: Marlene trattava quel cane molto meglio di quanto non trattasse gli uomini di casa.
 
 
 

 
 
(1): Romanzo di Agatha Christie
(2): Zuppa di mais, piatto tipico statunitense
(3): Azienda di proprietà di Magnus Howard, personaggio di ChemistryGirl che fa parte della sua storia “Royal Residence Park”
(4): Isotta Sayre è il nome della fondatrice di Ilvermorny, nonché di Serpecorno, la Casa di Gabriel
(5): La Rachel a cui fa riferimento Piper è la protagonista di Friends Rachel Green e il fantomatico Barry il suo primo, orribile fidanzato che si vede nella serie.
 
 
 

 
…………………………………………………………………………………………………
Angolo Autrice:
Questo è il capitolo più lungo che io abbia mai pubblicato, spero che il fatto che i paragrafi siano pochi, slegati tra loro e quindi tranquillamente leggibili in momenti diversi non lo renda eccessivamente pesante.
Mi scuso per il ritardo, tra il Writober che si è messo in mezzo, la vita vera e il fatto che si tratti di un capitolo lunghissimo finirlo è stato un parto, ma ho già scritto circa metà della seconda parte, quindi non dovrei farvi aspettare troppo per farvi leggere anche degli OC che qui mancano.
Ci sentiamo presto con le disavventure (e i casini) di Carter, Leena, Niki, Mathieu, Kei, Esteban ed Eileen!
Signorina Granger

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 5 - I sei appartamenti (II) ***


Capitolo 5
I sei appartamenti – II


 
 
– IV –
Il forse dentista assassino


image host image host  
 
Quel sabato tanto atipico stava rendendo un paio degli inquilini dell’Arconia particolarmente entusiasti: per quanto non potesse essere definito un ragazzo socievole Carter Cross aveva adorato riunirsi con alcuni dei suoi vicini – anche se l’equazione includeva quell’acidona che lo snobbava vergognosamente – per discutere della morte di Montgomery. Qualcuno avrebbe anche potuto definirlo macabro, ma Carter nutriva da sempre una particolarmente predilezione per le storie di omicidi, e anche se l’idea che un ragazzo della sua età che viveva nel suo stesso palazzo fosse morto in quel modo orribile lo aveva turbato leggermente nei giorni precedenti quella di poter vivere in prima persona una sorta di giallo lo deliziava. Adorava leggere gialli e sforzarsi di arrivare alla soluzione dei vari casi e per la prima volta in vita sua aveva la possibilità di cimentarsi con un omicidio vero in tutto e per tutto, con tanto di scena del crimine e sospettati.
Certo a Sasha, il suo migliore amico, quando il giorno prima gli aveva chiesto di uscire con lui quel pomeriggio aveva detto di dover finire un articolo e non aveva osato raccontargli la verità, conscio che tutto quell’interesse per la storia della morte di un vicino con cui non aveva nemmeno mai allacciato alcun tipo di rapporto avrebbe potuto suonare un tantino bizzarra.
Ora Carter sedeva su uno dei quattro eleganti divanetti grigio perla dell’ingresso dell’Arconia, posizionati a coppie sui lati lunghi della sala dal pavimento di marmo tanto splendente da permettere alle luci dell’enorme lampadario che la illuminava di riflettervisi. Le lunghe gambe fasciate dai jeans neri distese davanti a sé, Carter stava giocherellando distrattamente con la lampo della federa bordeaux del cuscino che stava stringendo pigramente, gli occhi chiari puntati pensosi sulle proprie scarpe, anch’elle nere, mentre Leena, accanto a lui, sedeva immobile e in perfetto silenzio con un libro in mano, limitandosi a girare pagina di tanto in tanto.
“Secondo te siamo strani?”
Quando Carter sollevò la testa e si voltò improvvisamente verso di lei spezzando il silenzio che andava avanti da diversi minuti la domanda colse Leena di sorpresa, tanto che per un istante la strega perse il filo della lettura e si ritrovò ad esitare, facendo scivolare i grandi occhi scuri sulle parole stampate sulla carta per ritrovare la riga giusta prima di rispondere con tono rilassato e pacato, senza sollevare lo sguardo:
“No, perché me lo chiedi?”
“Non lo so, forse tutta questa voglia di indagare sulla morte di un vicino non è da considerarsi particolarmente comune…”
“Beh, ad ognuno i suoi interessi. Io trovo strani quelli che passano ogni istanti del proprio tempo libero sul tapis roulant…”
Leena si strinse debolmente nelle spalle mentre girava pagina, seduta con le lunghe gambe accavallate e il piede sinistro che dondolava leggermente a qualche centimetro dal pavimento di marmo mentre Carter, accanto a lei, annuiva pensoso passandosi distrattamente una mani tra i lisci capelli color grano e mettendosi più comodo sul divanetto distendendo le gambe più che poteva.
“È dura la vita di chi vuole tenersi in forma… Per non parlare di chi vuole fare il dentista.”
Il giornalista inclinò gli angoli delle labbra verso il basso, dando vita quasi senza rendersene conto ad una smorfia mentre Leena, sempre continuando a leggere indisturbata, si stringeva nuovamente nelle spalle:
“Però si guadagna molto.”
“Meglio povero che fare un lavoro così schifoso.”
Lui con le mani nelle bocche altrui non sarebbe durato due giorni, anche e soprattutto a causa della tremenda e fastidiosissima emofobia che lo perseguitava fin da bambino, ma la sua paura per il sangue non era qualcosa che amava condividere e tenne quel dettaglio per sé, limitandosi a guardarsi le punte dei piedi che dondolavano impazienti a destra e a sinistra mentre Leena, accanto a lui, smetteva momentaneamente di leggere per sollevare la testa e guardarlo accennando un piccolo sorriso:
“I tuoi genitori sono molto ricchi, vero?”
“Sì, perché?”
Carter smise di guardarsi i piedi per rispondere allo sguardo della vicina, gettandole un’occhiata dubbiosa mentre aggrottava appena le sopracciglia e il sorriso di Leena finiva con l’allagarsi, quasi la strega si sentisse soddisfatta per la propria intuizione:
“Solo qualcuno che ha sempre avuto molti soldi parlerebbe così. Ma non prenderla nel senso sbagliato, io ho mosso i primi passi in un maniero e a pensarci ora sono piuttosto sicura che mi si potesse definire una bambina viziata in piena regola. Cavolo, ma quanto ci mette a scendere, di questo passo finirò il libro prima… odio aspettare.”
Un lieve sbuffo spazientito si levò dalle labbra dischiuse della strega, che chiuse il libro tenendo il segno con l’indice mentre il suo sguardo vagava lungo l’ampia sala e sul via vai di gente che continuava a passar loro davanti, chi diretto fuori dal palazzo e chi invece di ritorno a casa. Carter, condividendo la sua impazienza – specie perché a breve gli sarebbe venuta fame, e non aveva nessuna voglia di investigare a stomaco vuoto, i suoi neuroni ne avrebbero di certo risentito – non rispose, ma ne approfittò per gettare un’occhiata alla copertina del libro di Leena, abbozzando un sorriso quando riconobbe il titolo, “Storia di Arthur Gordon Pym”.
“Una lettura vivace.”
“Certo. Per stare in tema. Chi meglio di Poe per rallegrare la situazione?”
“Giusto. Adoro Edgar Allan Poe.”
Carter distese le labbra in un sorriso e Leena subito lo imitò, annuendo e guardandolo con entusiasmo, lieta di aver trovato qualcuno che condividesse i suoi particolari gusti: amava i gialli da che aveva memoria e la gente aveva sempre trovato a dir poco insolita la sua passione per efferate storie di crimini e omicidi, i suoi scettici genitori in primis. Per una volta, si ritrovò a considerare la strega, era piacevole avere qualcuno con cui parlarne senza sembrare strana.
“Anche io! Pensa che quando avevo sette anni mio padre mi porse una copia di “Le Fiabe di Beda il Bardo”… Non lo conosci?!”
L’espressione sul viso di Leena si fece sgomenta quando la strega scorse tracce di sincera confusione sul bel viso di Carter, che scosse leggermente la testa sentendosi quasi in colpa per la sua ignoranza tanto fu lo sconcerto manifestato dalla vicina, che come spesso le capitava da quando viveva nella Grande Mela lo guardò rendendosi conto di quanto abissale fosse la distanza che sempre si sarebbe frapposta tra lei e gli yankees.
“Ma in che pianeta vivete, qui?! Ad ogni modo, è un classico per i piccoli maghi e streghe dalle nostre parti, ma io presi il libro e lo lanciai sbraitando che non volevo leggere quella roba da bambini. Volevo leggere di Sherlock Holmes che indaga nella brughiera di Dartmoor attorno alle impronte di un cane, o capire chi ha ucciso Simon Lee insieme a Hercule Poirot.”
“Adoro quel libro.”
“Solo un idiota può non amarlo.”
Alle parole della vicina, pronunciate con estrema convinzione, Carter si era messo a sedere diritto sul divano per condividere con Leena la propria cocente indignazione a riguardo proprio perché quell’idiota di suo fratello, dopo pesanti pressioni, aveva finito col leggere svogliatamente quel capolavoro per poi definirlo un romanzo mediocre. Stando all’opinione di Carter Cross l’aggettivo mediocre mai si sarebbe potuto associare ad un libro come “Il Natale di Poirot”, ma proprio quando stava per condividere con Leena le pene conseguenti all’avere un fratello tanto privo di senno e gusto le porte dorate del secondo ascensore si aprirono con il consueto tintinnio, e dall’abitacolo di metallo ne uscì colui che stavano aspettando da ormai diversi minuti.
Le parole morirono in gola a Carter, che si irrigidì appena percettibilmente sul divano mentre Leena, chiedendosi il perché di quel silenzio improvviso, seguiva la direzione dello sguardo del vicino voltandosi e finendo con l’incrociare con lo sguardo la figura alta e bionda di Barry White, che come al solito quando gli capitava di incrociarla in giro per il palazzo le indirizzò un lieve sorriso e un cenno di saluto con la mano quando superò lei e Carter. Leena si sforzò di rispondere al sorriso, guardando il vicino ed ex compagno di scuola uscire dall’ampia porta di vetro dell’ingresso salutando Lester prima di alzarsi e fare cenno a Carter di seguirla:
“Forza, andiamo.”
Leena infilò nella sua borsa nera il libro che aveva avuto l’accortezza di portare con sé per ingannare l’attesa e s’incamminò a passo svelto attraverso l’ingresso senza guardarsi indietro per accettarsi che Carter la stesse seguendo, fermandosi di fronte all’ascensore con cui Barry White era appena sceso al pian terreno del palazzo e premendo il tasto per aprire le porte mentre Carter la raggiungeva e le si fermava accanto.
“Senti, tu andavi a scuola con lui, ti sembra uno capace di ammazzare qualcuno?”
Il giornalista s’infilò le mani nelle tasche della giacca di pelle e parlò ruotando leggermente la testa per gettare un’occhiata alla proprie spalle, riuscendo a scorgere il vicino che si incamminava sul lungo viale coperto di ghiaia che conduceva all’uscita del cortile mentre le porte di metallo si aprivano davanti a loro. Leena lo precedette all’interno dell’abitacolo, affrettandosi a premere il tasto del decimo piano sperando che nessun’altro vicino salisse insieme a loro mentre rispondeva alla domanda di Carter con una lieve stretta di spalle:
“No, ma i peggiori sono sempre quello che non sembrano in grado di farlo.”


 
Carter era fermo nella convinzione che mai nessuno si sarebbe bevuto la storia del sale da chiedere in prestito ad un vicino che non abitava né allo stesso piano di Leena né al suo, ma la strega non aveva voluto sentire le sue ragioni quando ne avevano brevemente discusso in ascensore, pertanto il giornalista si ritrovò a lasciare l’abitacolo di metallo roteando gli occhi azzurri ma decidendo di lasciar perdere.
Fortunatamente il corridoio era deserto e Carter e Leena poterono dirigersi senza indugi verso la porta dove erano stati infissi un numero 10 e un lettera B d’ottone, la prima estraendo dalla borsa la sua bacchetta di vite e il secondo invece un sottile arnese di metallo che la britannica ricordava di aver già recentemente visto in precedenza: Leena si fermò davanti alla porta con la bacchetta in mano aggrottando vistosamente le folte sopracciglia scure, gettando un’occhiata sinceramente perplessa all’oggetto che Carter stringeva nella mano destra. Non era qualcosa che le succedeva spesso, ma tutto sommato la strega si ritrovò a riflettere come nel palazzo ci fosse effettivamente qualcuno più strambo di lei.
“Ma te lo porti sempre dietro, il grimaldello?”
“No, solo di recente.”
Carter moriva dalla voglia di poter sfruttare una volta tanto la sua collezione di attrezzi, ma Leena insistette per utilizzare la magia. Stavano discutendo bisbigliando a proposito di come forzare la serratura quando Leena udì dei passi leggeri alle proprie spalle e si voltò, ritrovandosi davanti nientemeno che Piper e Moos. Fu con una certa dose di sollievo che la strega riconobbe i due vicini, sorridendo ad entrambi mentre loro guardavano di rimando lei e Carter con evidente sorpresa:
“Ehy, ciao. Anche voi qui.”
“Sì, emh. Ci serve… lo zucchero.”
Piper annuì mentre si guardava nervosamente attorno, sperando che nessuna delle porte circostanti si aprisse proprio in quel momento mentre Moos, dopo aver estratto a sua volta la bacchetta, si affrettava a far scattare la serratura con un Alohomora non verbale. Le parole di Piper destarono involontariamente un sorriso compiaciuto sulle labbra carnose di Leena, che annuì con un cenno appena percettibile del capo prima di parlare:
“A noi il… sale. Vero Carter?”
Leena si voltò per scoccare una rapida occhiata eloquente in direzione del vicino e Carter, appoggiato con la spalla sinistra sulla parete accanto alla porta del 10B, sospirò sommessamente prima di guardarla scuotendo debolmente la testa in segno di esasperazione:
“Leena, te l’ho detto, tu vivi al primo piano, non ci crede nessuno che ti sei fatta nove piani per il sale!”
“Hai un’altra scusa? Ok, senti, apriamo questa porta e facciamola finita. Ciao ragazzi!”
Leena, spazientita, imitò Moos aprendo la porta con la magia prima di dare a Carter il tempo di replicare e di frapporsi tra lei e la serratura, spingendo l’anta con la punta del piede per aprirla senza dover toccare la maniglia prima di gettare un’ultima occhiata in direzione di Piper e Moos, salutandoli per poi precedere Carter all’interno dell’appartamento. Il giornalista la seguì dopo aver salutato a sua volta i due vicini con un cenno leggermente cupo, intascando il grimaldello e chiudendosi la porta alle spalle con il piede una volta dentro l’appartamento mentre Leena faceva apparire due paia di guanti. Questa volta non più giallo canarino, bensì di un delicato verde mela.
“Non so se essere sollevato o meno, il giallo mi sbatte, ma non penso che questo colore mi doni di più…”
Carter s’infilò i guanti verdi osservandoli dubbioso mentre Leena, dopo averlo imitato, incrociava le mani all’altezza del petto, parlando con tono solenne:
“Giuro solennemente che questa tua tragica caduta di stile resterà un segreto che mi porterò nella tomba, non hai di che preoccuparti.”
In realtà avrebbe condiviso ogni dettaglio di quel pomeriggio con Eileen solo il giorno seguente, ma naturalmente la strega si guardò bene dal condividere con il vicino le proprie intenzioni e gli diede invece le spalle per potersi finalmente guardare attorno. Superato il piccolo ingresso circolare, le cui pareti erano state ricoperte da una carta da parati con motivi di varie tonalità di verde, Leena si addentrò nel soggiorno dalle pareti color salvia e le bastò un’occhiata per appurare quanto Barry White fosse infinitamente più ordinato di lei. Resistendo alla tentazione di testare l’enorme divano blu o il poggiapiedi abbinato Leena attraversò la stanza guardandosi bene dal calpestare il tappetto pericolosamente chiaro e sul quale di certo avrebbe finito con l’imprimere qualche impronta indesiderata, avvicinandosi invece al caminetto nero spento, sormontato da uno specchio circolare.
“Montgomery aveva un camino, a casa… Qualcuno potrebbe aver usato la Metropolvere per andare a casa sua. Sai se molti appartamenti hanno camini, qui?”
Leena studiò brevemente il camino prima di voltarsi verso Carter, che si stava invece dedicando alla contemplazione dell’enorme libreria color noce addossata accanto all’apertura ad arco che collegava il soggiorno con l’ingresso. Carter smise brevemente di studiare i dorsi dei volumi per voltarsi a sua volta verso Leena, annuendo e strizzando leggermente gli occhi chiari mentre cercava di ricordare il periodo in cui si era trasferito all’Arconia, sette anni prima:
“Sì, l’edificio è abbastanza vecchio, mi sembra sia stato costruito prima della Prima Guerra Mondiale, quindi credo che tutti o quasi ne abbiano uno. Quando mi sono trasferito qui ne ho visti un po’, di appartamenti, prima di prendere il mio, e tutti quelli che ho visto ne avevano uno. Lo volevo proprio per la Metropolvere, ovviamente.”
“Motivo in più perché l’assassino possa aver usato il camino. La persona del caffè?”
“No, ne dubito… Se chi gli ha portato il caffè non lo conosceva abbastanza bene da sapere che non lo beveva non penso che si sia improvvisamente presentato a casa sua con la Metropolvere. Però potremmo controllare.”
“Intendi al M.A.C.U.S.A.? Pensi che ci faranno accedere ai registri dei camini?”
Leena dubitava fortemente che i responsabili della Metropolvere al M.A.C.U.S.A. avrebbero concesso ad un branco di semplici ficcanaso di dare un’occhiata ai registri dell’attività dei camini, ma sebbene fosse scettica l’eventualità la entusiasmò lo stesso, senza contare che la possibilità riguardo l’utilizzo del camino di Montgomery per accedere in casa sua senza essere visto le diede non pochi spunti per l’omicidio fittizio di cui lei stessa stava scrivendo in quelle settimane.
“Beh, di norma no. Ma io potrei presentarmi da loro con il mio bel faccino, il mio irresistibile fascino e soprattutto il mio badge di giornalista.”
Un sorrisetto si fece immediatamente largo sul bel viso di Carter, che non tardò ad immaginare e a pregustarsi il momento in cui la sua presenza si sarebbe fatta indispensabile e quell’acidona-gamba-lunga della sua vicina avrebbe dovuto riconoscere la sua utilità ed essere gentile con lui.
“Per fortuna hai nominato il badge, perché scusa se te lo dico ma non so se il tuo fascino sarebbe bastato per ottenere informazioni del genere. Potrei venire con te, comunque?”
Leena parlò senza allontanarsi dal camino, sfoderando invece un largo sorriso entusiastico mentre tirava fuori dalla borsa il suo inseparabile blocchetto e una penna a sfera blu coperta da piccole bandierine del Regno Unito per segnarsi tutto ciò che di rilevante avrebbe notato all’interno dell’appartamento. Carter, seppur leggermente offeso dalle sue parole, annuì con un sospiro prima di darle nuovamente le spalle, tornando a concentrarsi sulla libreria di Barry:
“Lo sai Leena, tu mi stai simpatica, ma non sono mai stato tanto bistrattato come negli ultimi giorni dalle mie vicine di casa. Ad ogni modo, se sarà possibile sì, potrai venire con me. Ma possibile che questo tizio non legga gialli? Non ce n’è la minima traccia qui!”
“Non tutti hanno ottimi gusto come noi, che ci vuoi fare.”
 
 
“Ho dato un’occhiata in bagno, non c’è niente di interessante. Vado a vedere se ha un secondo bagno collegato alla camera da letto.”
Carter si stava ancora dedicando alla perlustrazione dei libri di Barry, deciso a sfogliarne più che poteva che non ci fosse nulla nascosto al loro interno, quando Leena uscì dal bagno degli ospiti – enorme rispetto al suo, tanto che la stanza destò generose dosi di invidia nella strega – e lo raggiunse sostando brevemente nel soggiorno, accennando in direzione del corridoio che si articolava a destra della stanza e che conduceva alle altre stanze dell’appartamento. Stava per dirigersi verso la camera del padrone di casa quando tuttavia Carter sollevò la testa dall’orribile lettura odontoiatrica che aveva in mano per gettarle un’occhiata visibilmente perplessa, studiando la vicina con le sopracciglia aggrottate:
“Un che?”
“Vado… in bagno(2).”
Anche Leena si ritrovò ad aggrottare le sopracciglia di fronte alla confusione manifestata dal vicino, chiedendosi se non avesse avuto un lapsus lingue prima di realizzare, come ormai le capitava di frequente da due anni a quella parte, quale fosse il motivo della perplessità di Carter: aveva utilizzato la parola sbagliata, e si affrettò a ripetersi con il vocabolo diffuso negli States per consentirgli di capirla.
Fortunatamente Carter, compreso cosa lei volesse dirgli, si rilassò e annuì, smettendo di guardare la vicina come se gli stesse parlando in un’altra lingua:
“Ok, vai in bagno. Che razza di parola era quella che hai usato prima?”
“Niente, lascia stare.”
Abituata a non essere sempre del tutto compresa dai cittadini di New York Leena alzò brevemente gli occhi al cielo, dando le spalle al vicino per raggiungere la sua destinazione mentre la voce di Carter la seguiva dal soggiorno mentre si allontanava:
“Lo dico sempre, che chi dice che parliamo tutti la stessa lingua non spara altro che cazzate. Il nostro inglese è più semplice.”
“Sicuramente, ma il nostro è più raffinato.”
Leena aprì la prima porta a doppia anta bianca che si trovò davanti una volta giunta nel corridoio, trovandosi davanti ad una camera da letto grande almeno il doppio della sua, e sicuramente anche molto più ordinata. No, non era possibile che fosse così ordinato, si disse stizzita la strega mentre attraversava la stanza gettando occhiate critiche a destra e a sinistra, dirigendosi verso la porta che attendeva di essere aperta accanto ad una cassettiera di noce, Barry doveva per forza avere qualcuno che gli puliva casa, qualcosa che a lei mancava terribilmente. Fu con nostalgia che Leena si ritrovò a ricordare l’Elfo Domestico che da ragazzina le rassettava la camera, tanto che si era ritrovata a dover imparare a rifare un letto solo molto tempo dopo il suo Diploma.  
Stava giusto riflettendo su quanto la sua vita fosse assurdamente cambiata rispetto a soli dieci anni prima quando, aperta la porta del piccolo bagno bianco e blu, il suo sguardo indugiò sulla vestaglia verde bosco che era rimasta appesa con una gruccia ad uno dei ganci degli asciugamani, un oggetto che, al di fuori della propria, non le capitava di scorgere da ben due anni. Chissà per quale motivo gli statunitensi non utilizzavano mai le vestaglie, si ritrovò a ponderare la strega. Lei associava la vestaglia al caffè, al giornale, alla sua macchina da scrivere e ad una mattinata adibita a poltrire, ovvero ciò che più meraviglioso poteva esserci al mondo.
“Una vestaglia! Saranno due anni che non ne vedevo una, sa quasi di casa!”
“Leena, non ho capito un cazzo. Che cos’è che hai trovato?!”
La voce di Carter giunse alle sue orecchie quasi come un lamento dalla stanza accanto e a Leena non restò che sospirare, gettando un’occhiata tetra alla vestaglia di Barry e chiedendosi se come lei anche il suo vicino spesso non si sentisse come proveniente da un altro mondo.
“Niente, lascia perdere…”
 
 
Carter non aveva manifestato particolare entusiasmo quando, stabilito che nei libri di Barry White non ci fosse nulla di compromettente, decise di dedicarsi al setaccio di una delle stanze celate dalle porte a doppia anta del corridoio. Quando Leena, impegnata a perquisire la sua camera da letto, gli aveva chiesto se avesse per caso controllato il frigorifero Carter l’aveva guardata aggrottando le sopracciglia, asserendo di non provare il benchè minimo interesse alla dieta del vicino e ad appurare quale marca di birra prediligesse, ma la strega si era stretta debolmente nelle spalle suggerendo come fosse lì che di solito andavano tenuti i resti umani.
“Perché dovrebbe avere dei resti umani nel frigo?!”
“Non si sa mai!”

Perplessità a parte, Carter aveva controllato, senza trovarvi nulla. Giusto per essere sicuro.
Dopo aver perlustrato il frigo e aver resistito alla tentazione di fregare una birra Carter era tornato in quello che aveva tutta l’aria di essere lo studio del padrone di casa, rifiutandosi categoricamente di setacciare gli enormi registri che affollavano una libreria:
“Io le impronte dentali altrui non le voglio vedere!”
“Guarda se c’è scritto il nome di Montgomery da qualche parte, così capiremo se era il suo dentista!”
La voce di Leena echeggiò dalla camera da letto grazie alla porta aperta e Carter si ritrovò a sbuffare mentre aggirava la scrivania di noce, evitando di perdere tempo sul PC che di certo non sarebbe mai riuscito ad accendere essendo sprovvisto della password per aprire invece i cassetti sperando di trovare
“Non c’è nessun’agenda. Dannata tecnologia, la gente non scrive più niente a mano di questi tempi.”
Soprassedendo non solo sul fatto che quelle parole lo avevano improvvisamente reso identico a sua nonna quando si lagnava dei fornelli ad induzione ma anche sulla propria ipocrisia – del resto anche lui scriveva i suoi articoli al computer –, Carter richiuse i cassetti con un lieve sbuffo spazientito, gettando un’occhiata torva al modellino di una dentatura che se ne stava in un angolo della scrivania mentre la voce di Leena tornava a fargli visita dalla stanza di fronte:
“Non dirlo a me, sono una fervida sostenitrice delle macchine da scrivere!”
“Ok, mi toccherà cercare nei portadocumenti… Spero che il suo sangue british lo abbia spinto ad ordinare la libreria alfabeticamente.”
Leena ci tenne a ricordargli come i suoi concittadini non fossero tutti precisi ed ordinati come spessi li si immaginava, ma Carter non prestò particolare attenzione alle sue parole mentre scrutava attento i dorsi dei portadocumenti, tutti rigorosamente neri, e le etichette su di essi riportate. Fu un sollievo scorgere la lettera A sul primo e subito lo sguardo di Carter corse sull’estremità opposta della mensola, sfoggiando un sorriso vittorioso quando i suoi occhi indugiarono sulla lettera D. Dopo aver Appellato la cartella a soffietto con la magia Carter la aprì, sfogliando impaziente le cartelline per cercare il nome giusto sulle etichette dei divisori colorati. Quando finalmente lesse “Dawson” Carter si fermò, sorridendo soddisfatto quando scorse il nome del defunto vicino:
“Trovato. Era il suo dentista. Ma devo proprio leggermi tutta questa roba? Non penso che qui dentro ci siano grandi indizi, a meno che il movente non sia legato al fatto che i denti di Montgomery erano talmente pessimi che White non lo voleva più come paziente e lo ha fatto sparire.”
“Non penso che avrebbe molto senso, se aveva dei pessimi denti di sicuro gli faceva guadagnare parecchio, non pensi?”
Leena uscì dalla camera da letto di Barry e attraversò il corridoio per fermarsi sulla soglia dello studio, osservando dubbiosa Carter stringendo le lunghe braccia al petto mentre il ragazzo, la cartellina nera ancora in mano, si stringeva nelle spalle:
“Sì, forse. Beh, comunque io di odontoiatria non ci capisco niente. Voglio capire se conosce la strafiga della porta accanto, invece, forse il movente è lei.”
“Pensi che fosse geloso di Montgomery? Oh, mi piace quest’idea!”
Un sorriso allegro e genuinamente entusiasta si fece largo sulle labbra di Leena, sorriso che ebbe il potere di migliore notevolmente l’umore di Carter e di destare un sorriso grato anche sul suo volto:
“Grazie, Niki mi ha insultato quando l’ho proposto, è più acida di me quando finisco le ferie…”
“Ma dobbiamo essere sicuri che si conoscano. Non so se li ho mai visti insieme, onestamente non ci ho mai fatto caso.”
“Nemmeno io, ma d’ora in poi li dobbiamo tenere d’occhio. Ci sono delle annotazioni scritte a mano su alcuni di questi referti, ma non ci capisco un cazzo con tutti questi termini british in stile Corgi, salotti da tè e porcellane floreali. Leena, traduci!”
Carter sbuffò spazientito mentre accennava alla cartellina che ancora teneva aperta tra le mani, sollevandola leggermente in direzione della vicina per chiederle di avvicinarsi e darci un’occhiata personalmente mentre la strega, dopo aver brevemente alzato al cielo i grandi occhi color castano scuro, lo raggiungeva attraverso la stanza con poche, lunghe e rapide falcate:
“Guarda che parliamo la stessa lingua. Più o meno.”
Seppur un poco esasperata Leena prese la cartellina nera con le mani guantate per darci personalmente un’occhiata, ritrovandosi a strizzare leggermente gli occhi per la concentrazione che decifrare la grafia di Barry le richiese – allora era proprio vero, che i medici scrivevano tutti in maniera orribile, si ritrovò presto a considerare la strega – mentre Carter, che le stava ancora di fronte, scuoteva la testa guardandola con viva disapprovazione:
“Dite sempre così, poi aprite bocca e producete quei suoni ridicoli. Come quel modo strano con cui ti riferisci al bagno…”
Leena aveva tutta l’intenzione di obbiettare, sottolineare come i termini che usava non fossero affatto strani e i suoi suoni per nulla ridicoli, ma le parole le morirono in gola quando lei e Carter udirono delle voci provenire dal corridoio, una femminile e una maschile. Fu con un certo orrore che Leena, voltandosi verso la soglia della stanza, appurò come la voce maschile portasse le tracce di un forte accento a lei familiare percepibile anche attraverso la distanza, portandola a voltarsi nuovamente verso Carter per fargli cenno di rimettere a posto la cartellina:
“Penso che sia qui fuori, metti via quella roba!”
Carter, seppur preso alla sprovvista, non se lo fece ripetere due volte e dopo averla chiusa si affrettò a rimetterla al suo posto sulla mensola della libreria con la magia, seguendo Leena fuori dalla stanza e chiudendosi la porta alle spalle come l’aveva trovata poco prima per rivolgersi alla vicina con un sussurro concitato:
“Adesso che cazzo facciamo? Lo colpiamo, sviene e gli cancelliamo la memoria?”
“Quella la teniamo come ultima spiaggia.”
Invece che dirigersi verso l’ingresso Leena puntò dritta alla camera da letto dove era stata fino a poco prima, osservando le anche chiuse dei due armadi chiedendosi se sarebbe riuscita ad infilarcisi dentro mentre Carter la seguiva:
“Che vuoi fare?!”
“Beh, di certo non farmi trovare qui! Idea, aspetta, sono un genio.”
Quando dopo aver parlato Leena ruotò su se stessa, schioccò entrambe le dita fasciate dai guanti di plastica e sorrise compiaciuta Carter non potè fare a meno di preoccuparsi, guardandola dubbioso e aggrottando le sopracciglia mentre la vicina, al contrario, parlava come se avesse avuto l’idea più brillante mai congeniata:
“Ti trasfiguro in… in un soprammobile. E poi faccio lo stesso con me stessa!”
“Come te la cavi con la Trasfigurazione umana?”
Di fronte alla domanda e all’evidente scetticismo sfoggiato da Carter il sorriso prima si congelò e poi svanì dalle labbra della strega, che realizzò solo in quel momento di non aver tenuto in considerazione quell’aspetto prima di inarcare un sopracciglio a sua volta e tamburellarsi pensosa l’indice sul mento:
“… Potrei cavarmela meglio, non ero proprio una cima ad Hogwarts. Non guardarmi così, è una materia terribilmente difficile! Tu invece?”
“Io ero una mezza sega, con la Trasfigurazione non andiamo da nessuna parte.”
Le idee di Leena si esaurivano a quel punto, e colta dal nervosismo la strega prese a guardarsi attorno attorcigliandosi sgraziatamente una ciocca di lunghi ricci scuri attorno all’indice, maledicendo chiunque avesse progettato l’edificio per non aver esteso il terrazzo dell’appartamento fino a quel punto, impedendo così a lei e a Carter di poter uscire da lì attraverso una portafinestra.
Carter stava per proporre di uscire dalla camera e di tornare in soggiorno per uscire dal terrazzo quando fuori dall’appartamento Barry infilò la chiave nella toppa mandando all’aria la sua idea, costringendo Leena ad afferrare il vicino per un braccio per poi strattonarlo verso il letto al centro della stanza.
 
 
Carter non era mai stato tanto scomodo in tutta la sua vita, e maledisse se stesso e la sua sfiga in ogni modo possibile mentre se ne stava disteso sul parquet, schiacciato tra il pavimento e la struttura di legno del letto di Barry, per di più in mezzo alla polvere. Mai, mai avrebbe immaginato che un giorno si sarebbe ritrovato in quella situazione.
“Tanto ordinato un cazzo, qui l’aspirapolvere non la passa da un bel po’!”
Carter sbuffò amareggiato mentre si appuntava mentalmente di lavarsi i capelli quella sera stessa – cosa che odiava fare con ogni fibra del suo essere, ragion per cui maledisse Barry White, il tuo tempismo e la sua sfiga con ancor più fervore – mentre Leena, distesa accanto a lui sotto al letto, gli faceva cenno di tacere con la mano. La strega teneva i grandi occhi scuri puntati sull’ingresso della stanza e sulla porta che il padrone di casa aveva aperto poco prima per prendere qualcosa, iniziando a fare avanti e indietro tra il soggiorno, la camera e il bagno.
“Ma quanto ci mette a levarsi dai coglio…”
Barry si trovava in soggiorno ma Leena si premurò comunque di tappare la bocca del vicino con una mano, intimandogli con un cenno di fare silenzio prima di iniziare a sussurrare qualcosa a sua volta:
“Credo che prima abbia preso un asciugamano, probabilmente vuole farsi una doccia. Appena entra in bagno e sentiamo l’acqua noi strisciamo fuori, andiamo fuori senza far rumore e sarà come se non fossimo mai stati qui. Ok?”
Carter annuì prima di togliersi di dosso la sua mano senza tante cerimonie, sussurrando un assenso con un borbottio cupo mentre riportava a sua volta lo sguardo sulla soglia della camera, sperando che il vicino decidesse di chiudersi in bagno al più presto. Se non altro aveva avuto la fortuna di non ritrovarsi bloccato in quella situazione con la sua vicina di casa, o di certo la giornata si sarebbe conclusa con un altro cadavere e qualche altro litro di sangue sparso sul pavimento dell’Arconia.
 
 
Con grande amarezza di Leena nella loro incursione lei e Carter non rinvennero alcun coltello affilato sporco di sangue – o un qualsiasi strumento da dentista, i cui nomi le sfuggivano – a casa di Barry: quando la porta del bagno si fu finalmente chiusa alle spalle del dentista l’ex Corvonero e l’ex Tuonoalato attesero in silenzio di udire lo scroscio dell’acqua della doccia, e solo allora si permisero di strisciare fuori dal letto – con tanto di testata per Carter, la cui imprecazione fu fortunatamente soffocata dallo scroscio dell’acqua –, di uscire dalla stanza e di defilarsi dall’appartamento. Giunto facendo il più piano possibile nell’ingresso dopo essersi assicurato che il corridoio fosse deserto guardando attraverso lo spioncino Carter aprì la porta del 10B e uscì rapido dall’appartamento con Leena al seguito, sfilandosi i guanti e infilandoseli malamente nelle tasche dei jeans mentre si dirigeva a passo svelto verso gli ascensori.
“Quasi non ci credo che non ci ha visti, ce la siamo vista brutta. Ma un po' mi dispiace non aver trovato un bel niente.”
Carter premette il tasto per chiamare l’ascensore guardandosi attorno, sperando che nessuno dei loro vicini scegliesse quell’esatto momento per uscire di casa mentre Leena, in piedi accanto a lui, incrociava le lunghe braccia al petto annuendo pensosa mentre osservava il display dell’ascensore, delusa a sua volta ma allo stesso tempo ancora piena di adrenalina in corpo.
“Lo so, sarebbe stato infinitamente più divertente trovare qualche vero indizio! Ma temo che nessuno sia talmente sciocco da uccidere qualcuno e lasciare prove facili da trovare…”
Mentre Leena prendeva a giocherellare distrattamente con una ciocca dei suoi capelli Carter non rispose, riflettendo in silenzio sulle sue parole mentre le porte dorate si aprivano, permettendo ai due di salire all’interno dell’ascensore. Carter premette il tasto del tredicesimo piano e poi quello del primo, aspettando che l’ascensore iniziasse a salire per voltarsi verso la vicina e spezzare il silenzio:
“Perché pensi che l’abbiano ucciso?”
Invece di rispondere subito Leena si prese qualche istante per riflettere sulla domanda del vicino, osservando pensosa la fessura tra le porte dell’ascensore con una piccola ruga a solcarle la fronte. Fin da quando era bambina si dilettava ad intraprendere la lettura di romanzi appartenenti a quello che sarebbe presto diventato il suo genere preferito in assoluto e a cercare di indovinare la soluzione dei vari misteri che le si srotolavano davanti agli occhi insieme allo scorrere delle righe delle pagine, e se si escludeva il fatto che in quel caso il mistero era reale anziché frutto della fantasia altrui quella situazione non era poi tanto diversa dai romanzi che aveva letto nel corso della sua vita. Eppure, se quando leggeva un libro le risultava ormai semplicissimo indovinare la soluzione nella maggior parte dei casi, da quando aveva cercato di riflettere sulla morte del suo vicino non era riuscita a ricavarne nulla di sensato.
“Ho letto una quantità assurdamente spropositata di gialli nella mia vita, e credo di poter affermare con certezza che i grandi moventi siano quasi sempre gli stessi: denaro, vendetta, amore… Molti omicidi ruotano attorno a questi tre. Ma non so proprio a quale pensare, mi sembrano tutti ugualmente probabili.”
“Non lo so, ma magari il camino di Montgomery ci darà qualche informazione utile, si spera più dell’appartamento del dentista. È incredibile quanto fosse ordinato.”
Quando le porte si aprirono al tredicesimo piano Carter fece per uscire dall’ascensore ma si fermò sulla soglia, bloccando la chiusura delle porte con la mano per voltarsi verso Leena e scambiare con lei un’occhiata carica di stupore misto a sincero sgomento: a confronto del 10B, casa sua sembrava una sorta di campo di battaglia. Era una fortuna che i suoi genitori e sua nonna vivessero in Indiana e non andassero mai a trovarlo.
“Lo hai notato anche tu? Quanto mi mancano gli Elfi Domestici…”
“A me manca la cameriera. Fare la spesa tutte le settimane è così noioso. Per me è stato divertente per circa un mese, poi la magia si è spezzata.”
Mentre Leena lo guardava con espressione grave ma allo stesso tempo comprensiva, sentendosi improvvisamente capita come non le era mai capitato da quando si era trasferita nella Grande Mela – quando aveva provato a condividere l’origine della sua frustrazione con Eileen l’amica l’aveva guardata con gli occhi fuori dalle orbite per poi chiederle sotto quale razza di campana di vetro fosse cresciuta – dopo quell’ultimo borbottio cupo Carter si congedò dalla vicina rivolgendole un cenno di saluto con la mano, uscendo definitivamente dall’ascensore per consentire alle porte di chiudersi e all’abitacolo di condurre la vicina fino al primo piano. Rimasto solo nel corridoio il giornalista s’incamminò verso la porta del suo appartamento sollevando le braccia per stiracchiarsi un poco, lieto all’idea di avere qualche ora a disposizione per rilassarsi sul divano in compagnia dei suoi animali e di un libro prima di dover uscire di casa quella sera.
Certo una volta fatto ritorno al 13E Carter non avrebbe trovato solo i suoi animali ad attenderlo, ma ancora non ne aveva idea.
 
 
Leena si chiuse la porta bianca del bagno alle spalle, dopodiché attraversò la piccola stanza calpestando le piastrelle del pavimento per raggiungere l’unica finestra presente e aprila. Rivoli di aria fresca le accarezzarono il viso insieme alle voci dei vicini che abitavano nell’appartamento accanto, e non le ci volle molto per apprendere che fossero impegnati in una discussione. Sebbene la tentazione di restare ad ascoltare fosse molta Leena si costrinse ad allontanarsi dalla finestra, sedendo sul bordo marmoreo della vasca da bagno per poi estrarre il telefono dalla tasca dei pantaloni. Dopo aver brevemente controllato l’ora con un’occhiata Leena sistemò il telefono sul vassoio di bambù della vasca e dalla tasca della giacca fucsia che indossava tirò fuori un accendino e un pacchetto di sigarette, accendendosene una prima di riporre entrambi gli oggetti, riprendere in mano il telefono e avviare una chiamata.
Ci volle più di qualche squillo perché qualcuno rispondesse, ma Leena attese paziente, accavallando le lunghe gambe per stare più comoda e portandosi la sigaretta accesa alle labbra per aspirare ed esalare una piccola nube di fumo. Stava facendo dondolare leggermente il piede sinistro, osservando pensosa il lavandino davanti a sé quando finalmente una voce bassa ed impastata le rispose:
“Pronto?”
Un sorriso si fece immediatamente largo sul bel viso di Leena quando la strega udì una voce maschile familiare, ritrovandosi improvvisamente a considerare quanto fosse gradevole, di tanto in tanto, parlare con qualcuno che utilizzava i suoi stessi termini e aveva il suo stesso accento.
“Ciao! Che razza di voce, sei raffreddato?”
Leena ruotò leggermente il busto per picchiettare la sigaretta sul posacenere di vetro che un’ora prima aveva lasciato sul vassoio di bambù della vasca in previsione di fumare mentre parlava al telefono come suo solito, sorridendo quando dall’altro capo della chiamata udì un sospiro rassegnato:
“No, stavo dormendo.”
“Stavi dormendo? Ma è sabato e da te sono appena le 11, ti ho chiamato ora apposta per non disturbarti più tardi!”
“Sì, beh, sempre meglio di quando ti eri appena trasferita, ti dimenticavi costantemente del fuso orario e mi chiamavi sempre dopo aver cenato, quando da me era mezzanotte passata. Sono stanco, questa settimana ho lavorato tantissimo.”
Leena annuì mentre si portava nuovamente la sigaretta alle labbra, quasi riuscendo ad immaginare chiaramente Jaden, il suo migliore amico, grattarsi stancamente i capelli in un gesto ormai a lei più che familiare e ripensando divertita alle sue prime telefonate intercontinentali e a tutte le volte in cui aveva accidentalmente svegliato l’amico nel cuore della notte.
“Questa cosa del fuso orario è una rottura. Scusa per averti svegliato, ma è da un po’ che non ci sentiamo.”
“Sei tu che te ne sei andata negli States, ti ricordo. Non importa, che hai fatto oggi?”
Mentre Jaden, in Inghilterra, si sistemava più comodamente contro la testiera del letto per ascoltarla Leena si ritrovò ad esitare, indecisa sul da farsi e se raccontargli o meno la verità. L’idea di nascondergli qualcosa le sembrava assurda, lei e Jaden erano amici da quando studiavano ad Hogwarts e lui era sempre stato forse l’unico a capirla del tutto e a non giudicarla mai, forse perché in fondo strambo almeno quanto lei. Dicendosi che in fin dei conti Jaden viveva a chilometri e chilometri di distanza e che la faccenda non lo riguardava Leena, desiderosa di condividere le novità con lui, abbozzò un sorriso e si convinse a raccontargli tutto:
“Non crederai mai a cosa sto per dirti. Allora, qui è morto un ragazzo… sembra un suicidio, ma secondo me lo hanno ucciso.”
“Cosa?! Leena, ti prego, non metterti ad inseguire serial killer in giro per Manhattan!”
“I serial killer uccidono almeno due persone, qui ne è morta una. Per ora. Vorrei che vivessi qui anche tu, sarebbe davvero troppo divertente.”
Al contrario dell’amico, che si passò rassegnato una mano sul viso, Leena sorrise entusiasta, picchiettando di nuovo la sigaretta sul posacenere mentre le tornavano in mente le sue mille teorie sul decesso di Montgomery.
“E lo conoscevi? Questo ragazzo?”
“Mh, no, direi di no. Devo dire che non mi stava molto simpatico. E poi…”
Leena esitò, lasciando la frase in sospeso per alcuni brevi istanti mentre osservava pensosa il pavimento piastrellato del bagno, la sigaretta accesa sempre stretta tra l’indice e il medio della mano destra. La strega ruotò la testa per gettare un’occhiata alla porta chiusa senza riuscire a sentire alcun suono provenire dal resto dell’appartamento, abbassando la voce di qualche tono affinché nessuno la sentisse parlare:
“Poco prima che morisse gli ho detto qualcosa di molto spiacevole nell’atrio, sto pregando che nessuno mi abbia sentita…”
“Che cosa hai detto?!”
Il tono di Jaden assunse una nota preoccupata che rese ancora più inquieta Leena, che si ritrovò a far dondolare con ancor più veemenza il piede sinistro e a deglutire nervosamente prima di parlare rigirandosi la sigaretta tra le dita:
“Beh, potrei avergli augurato di sparire. Ma ovviamente non dicevo sul serio!”
“Leena, non ti devi giustificare con me, lo so che non hai ucciso nessuno, ma fa’ attenzione, alla prossima visita non voglio venirti a trovare in cella!”
“Come accidenti facevo a saperlo che sarebbe morto di lì a poco, aveva un anno meno di noi! … Cavolo, non ci avevo ancora riflettuto, sul fatto che fosse più giovane di me.”
Mentre Jaden sospirava Leena si sentì rabbrividire e inclinò gli angoli delle labbra carnose fino a formare una smorfia inquieta mentre l’ultima occasione in cui aveva visto Montgomery tornava a prendere vita nella sua mentre. Sentì l’eco delle sue stesse parole e ancora una volta si sforzò di ricordare se avesse scorto qualcuno presente ad ascoltarle, senza riuscire a ricordare nessun volto.
“Credo che non ci fosse nessuno. A parte Lester. Oddio, dovrei corrompere Lester?!”
“Chi è Lester?!”
“Il portiere! È un signore così carino, lo adoro. Ma forse dovrei corromperlo?! Ma con cosa?!”
Leena non disponeva di abbastanza denaro per corrompere proprio nessuno, o al massimo un bambino di otto anni, pertanto si chiese come poter venire a capo di quella situazione mentre Jaden, dall’altro capo della chiamata, si ritrovava a sospirare per la seconda volta:
“Se non ha ancora detto niente dubito che lo farà. Parlaci, prova a capire cosa ha sentito e se pensa che tu possa c’entrare qualcosa.”
“Va bene, sfrutterò tutto il mio fascino recondito.”
Leena era molto seria, ragion per cui si indispettì non poco quando le sembrò di udire quel cafone del suo migliore amico ridacchiare: come si permetteva di mettere in discussione le sue abilità di persuasione?
“Stai ridendo del mio fascino recondito? Stronzo. Ma ora ti lascio dormire, notte Yaxley.”
“Notte Zabini. Tienimi aggiornato, fammi sapere se la prossima volta in cui ti vedrò indosserai una tuta arancione.”
“Potrebbe comunque andarmi peggio, l’arancione mi dona da morire.”
Quando pose fine alla chiamata Leena gettò un’altra occhiata all’ora prima di intascare il telefono, dicendosi che avrebbe finito di fumare la sua sigaretta e che poi sarebbe uscita in cortile per rimuginare su tutto ciò che aveva avuto modo di osservare a casa di Barry White. Rendendosi conto di aver scordato di chiedere a Jaden se ricordasse qualcosa in particolare sul loro ex compagno di scuola Leena si maledisse con un sussurro, passandosi esasperata una mano tra i lunghi ricci scuri che da tutta la sua vita destavano invidia nello sguardo di chiunque.
Appuntandosi mentalmente di rimediare al più presto Leena esalò un’altra nube di fumo e i suoi pensieri  indugiarono sui suoi vicini, chiedendosi come se la stessero cavando.
 
 
Fino a quel momento era stata di gran lunga il sabato più assurdo della sua vita, e quando fece ritorno nel suo appartamento Carter si lasciò accogliere da Sarge e Isla – il primo abbaiando e scodinzolando e la seconda strusciandoglisi dolcemente contro la gamba destra – chiedendosi se fosse il caso di parlare di tutto quello che stava succedendo nel palazzo a Sasha, il suo migliore amico, che avrebbe visto quella sera stessa. Era una situazione così assurda che forse l’amico nemmeno gli avrebbe creduto, ma forse parlarne con qualcuno lo avrebbe aiutato a schiarirsi le idee.
Il flusso di pensieri di Carter, ad ogni modo, si interruppe bruscamente quando il giornalista, addentratosi nell’appartamento, guardò in direzione di una delle due porta-finestre a vetri che dall’ampia stanza si affacciavano sul suo terrazzo. A quanto pareva l’assurdità di quella giornata era destinata a non finire mai: oltre la porta chiusa vide due dei suoi vicini, uno impegnato a guardarlo e a fargli cenno di aprirgli, in piedi davanti alla porta, mentre l’altra se ne stava appoggiata pigramente alla ringhiera di metallo, le caviglie incrociate e una sigaretta accesa tra le labbra mentre si guardava attorno con nonchalance, come se quella in cui si trovava fosse una situazione perfettamente normale.
“Che cazzo… Che cazzo ci fate voi due nel mio terrazzo?!”
Incredulo di fronte a ciò che vedeva Carter attraversò la sala, aprì la porta e si fece da parte per consentire a Mathieu e a Niki di entrare in casa sua mentre la strega, fatta sparire la sigaretta con la magia, si gettava sorridendo radiosa sul suo Golden Retriever invece di rispondere:
“Ciao Sargent Tenderness! Ohh, ma hai anche un gatto! Che amore!”
China sul pavimento per coccolare Sarge, il sorriso di Niki si allargò quando scorse Isla, allungando una mano verso la splendida gatta del Bengala per chiamarla gentilmente mentre Carter, richiusa la portafinestra, si rivolgeva attonito a Mathieu:
“Come cazzo ci siete arrivati nel mio terrazzo?!
“Dovresti chiederlo a lei. Non è che hai qualcosa da mangiare, per caso?”
Mathieu eluse la domanda dirigendosi verso la cucina per aprire il frigo mentre Sarge lo seguiva trotterellando nella speranza che gli allungasse qualcosa e Niki, sedutasi a gambe incrociate sul pavimento, teneva in braccio Isla producendo indistinti suoni melensi. Visto che nessuno gli stava fornendo una risposta chiara Carter iniziò a spazientirsi, gettando un’occhiata torva in direzione della strega che si stava arruffianando senza vergogna i suoi piccoli prima di ritentare con tono sempre più irritato:
“Niki, come cazzo ci siete arrivati nel mio terrazzo?! Sei una specie di Spiderman sotto copertura?!”
 
 
*
 
 
– V –
Una sedia di nome Ryan


image host image host
 


 
Quanto l’ha fatta lunga Ken quella volta, non la smetteva di rompere mentre io cercavo solo di fare amicizia con Isla solo perché mi aveva trovata nel suo terrazzo. Qui la gente si scandalizza per tutto.

 
Due ore prima
 
 
Mi spieghi perché tu puoi avere i guanti fighi da serial killer e io quelli gialli e orrendi per lavare i piatti?!”
Chissà chi, tempo prima, aveva iniziato a produrre guanti in lattice di quei colori obbrobriosi. Di certo, si disse Mathieu mentre guardava con una smorfia schifata i guanti che teneva in mano, qualcuno con un pessimo gusto. Alla domanda del vicino Niki, in piedi accanto a lui nel bel mezzo del suo soggiorno, sollevò le proprie mani, accigliata, ma solo per rivoltarle e guardare che aspetto avessero avvolte dai guanti di pelle nera prima di tornare a guardare Mathieu sfoggiando un sopracciglio inarcato e un’espressione visibilmente dubbiosa:
“… Sei un esperto di guanti da serial killer?”
“No, questi sono la definizione di guanti da serial killer.”
“E va bene, d’accordo, te ne prendo degli altri, quanto la fai lunga… Sembra che tu non abbia mai dovuto lavare i piatti in vita tua.”
Niki alzò i grandi occhi verdi al cielo mentre girava sui tacchi per dirigersi verso la cucina, aprendo un cassetto dell’isola nera per estrarre un altro paio di guanti mentre il silenzio di Mathieu le suggeriva di averci preso: la strega aveva appena aperto il cassetto e preso i guanti quando sollevò la testa per guardarlo, le sopracciglia sollevate in una manifestazione di puro sconcerto mentre guardava Mathieu in un misto di orrore e sgomento.
“Oh mio Dio. Tu non hai mai lavato i piatti in vita. Come facevi prima di poter usare la magia, quando eri minorenne?!”
“Li lavavano altri per me.”
Mathieu si strinse nelle spalle mentre Niki, dopo averlo guardato con velata esasperazione, richiudeva il cassetto con un gesto secco prima di annuire e sfoderare un fintissimo sorriso amabile:
“Ma certo, è ovvio, come ho potuto anche solo pensare il contrario. Ecco principino, tutti tuoi.”
Niki gli lanciò due orribili guanti fucsia, infinitamente e certamente di proposito più brutti di quelli gialli, e il canadese li guardò, rassegnato (avrebbe anche potuto fargli cambiare colore con la magia, ma in fondo sarebbero rimasti orribili con qualsiasi gradazione cromatica), prima di infilarli consolandosi con l’idea che se non altro mai nessuno lo avrebbe visto con quegli orrori addosso.. A parte ovviamente la vicina più strana che avesse mai avuto, ma per come si conciava di certo non era nella posizione di sfottere l’abbigliamento altrui.
“Ma che schifezza… Dove li hai trovati, nel pacco regalo natalizio di Barbie Casalinga?”
Mathieu seguì Niki verso la portafinestra guardandosi le mani disgustato, fermandosi alle spalle della strega quando lei, aperta la finestra, si voltò verso di lui puntandogli contro l’indice coperto dal guanto di pelle e fissandolo seccata:
“Senti ciccio, dobbiamo andare a rovistare a casa di Madre Teresa protettrice dei Pappagalli, non al ballo delle debuttanti, fatteli andar bene o ti faccio una foto e la appendo nell’atrio.”
Con quei guanti, vestita interamente di nero e il cappuccio della felpa sollevato sulla testa Niki aveva l’aspetto di una pronta a tenere fede alle sue minacce e di fare anche molto peggio, perciò Mathieu, rabbrividendo alla sua idea che una sua foto simile potesse circolare per il palazzo, accantonò la voglia di risponderle e la seguì nel suo terrazzo, guardandola accigliato chiudersi la porta alle spalle per impedire alle sue gatte di seguirli prima di avvicinarsi alla ringhiera di metallo:
“Perché non passiamo attraverso la porta, invece che dalla finestra? È più comodo.”
“Perché lo dico io.”
Mathieu guardò Niki scavalcare agilmente le ringhiere del suo terrazzo e quello della vicina, fortunatamente distanziate solo da una ventina di centimetri, e avvicinarsi alla finestra a scorrimento verticale più vicina per guardare all’interno dell’appartamento. Dopo aver gettato una rapida occhiata attraverso il vetro Niki afferrò la base di legno della finestra con le mani guantate per aprirla sotto lo sguardo sempre più accigliato del vicino:
“Non faresti prima con la magia?”
Mathieu scavalcò a sua volta la ringhiera osservandola con la fronte aggrottata, avvicinandosi a sua volta alla finestra proprio mentre Niki sollevava con decisione la parte inferiore, spalancando la finestra:
Aperto. Non era chiusa del tutto.”
Dopo averla spalancata la strega si arrampicò sulla finestra, agevolata dalle sue gambe lunghissime fasciate dai jeans neri, sedendo sul bordo invece di entrare subito nel 13C per controllare l’interno dell’appartamento mentre Mathieu, alle sue spalle, guardava prima la finestra aperta e poi lei. Perché qualcosa gli suggeriva con prepotenza che non fosse la prima volta in cui la strega scavalcava ringhiere e forzava finestre per introdursi in casa d’altri?
“Fai spesso cose di questo tipo?”
La domanda fece voltare nuovamente Niki verso di lui, e dopo una brevissima esitazione durante la quale lo guardò impassibile la ragazza finì con lo stringersi nelle spalle:
No. Come ti viene in mente di chiedermelo? Aspetta, prima di entrare controllo se i pennuti sono a piede libero.”
“Perché?”
Di norma maghi e le streghe erano perfettamente abituati a convivere con dei volatili e la perplessità sul viso di Mathieu si fece ancor più evidente mentre Niki, smettendo di perlustrare con lo sguardo il soggiorno della sua odiata vicina, voltava nuovamente la testa verso di lui con un sospiro e per scoccargli un’occhiata seria e appena appena rassegnata, come se dovesse spiegargli proprio tutto:
“Tu hai visto The Birds di Hitchcock?”
“No.”
Ecco, appunto. Comunque mi sembra che le gabbie siano tutte occupate e chiuse, possiamo andare. Anzi, no, aspetta. Non dire mai il mio nome quando siamo dentro.”
“Di nuovo, perché?”
Chissà quanti altri perché avrebbe pronunciato entro la fine della giornata, si chiese rassegnato il canadese mentre guardava la vicina alzare gli occhi verdi al cielo come se fosse stanca di rispondere ad ovvietà. Ecco perché preferiva fare sempre tutto da sola.
“Perché lì dentro – Niki indicò l’interno con il pollice guantato – è pieno di pennuti chiacchieroni e non sarebbe molto carino, per me, se la mummia tornasse sentendo i suoi animali da compagnia strillare il mio nome a pieni polmoni.”
“… Ok, ha senso. Allora non dire il mio neanche tu.”
Niki non rispose, limitandosi a fissarlo di rimando restando immobile sul bordo della finestra e con un che di pensoso nello sguardo, quasi stesse frugando nella sua memoria per recuperare qualcosa che le stava sfuggendo. Non era difficile immaginare cosa stesse cercando di ricordare, facendo sì che il turno di sospirare rassegnato fosse di Mathieu:
Non dirmi che non te lo ricordi.”
Come faceva a non ricordarselo, quando aveva imparato il nome del suo cane dopo averlo sentito una volta sola? Come?!
“Beh, ma se la guardi da una certa prospettiva è meglio, così non rischio di dirlo!”
“Matt. M-a-t-t.”
La seconda volta Mathieu ripeté il proprio nome scandendo le lettere con inesorabile lentezza, stentando a credere che ricordasse il nome di Prune e non il suo mentre Niki, dopo averlo guardato immobile e impassibile per un paio di istanti, annuiva prima di schioccare le dita della mano destra e poi indicarlo con l’indice:
“Ti chiamerò Mike.”
“Non ce la posso fare.”


Come sempre Niki non badò alla sua risposta, voltandosi per entrare nell’appartamento pregando che i pennuti non iniziassero a strillare e ad attirare l’attenzione di tutto il piano. Chissà se esistevano pennuti da guardia, si ritrovò a chiedersi la strega mentre osservava dubbiosa le gabbie di pappagalli, cocorite e altri uccelli colorati di cui non conosceva il nome mentre Mathieu la seguiva nell’appartamento scavalcando a sua volta la finestra.
Santa Sarah Jessica Parker, sembra di stare in un serraglio! E poi dicono a me che sono strana.”
La strega si mise le mani guantate sui fianchi esili mentre scrutava accigliata l’enorme stanza che aveva davanti, soffermandosi in particolare sulle numerose voliere presenti mentre alle sue spalle Mathieu parlava spolverandosi con noncuranza le maniche del maglione blu cobalto che indossava:
“Ma come ti viene in mente un’idea simile, qui nessuno pensa che tu sia strana.”
“Ah-ah. Ok, cerchiamo in fretta, gli occhi pieni di cattiveria di questi pennuti mi fissano e mi inquietano.”
Addentratasi in quella che aveva lo stesso aspetto delle abitazioni di St Mary Mead che aveva sempre immaginato leggendo i libri di Agatha Christie Niki si diresse verso un’enorme credenza di rovere gettando un’occhiata diffidente alle gabbie, tutte di dimensioni differenti e popolate da coloratissimi uccelli tropicali, disseminate per tutta la lunghezza della parete che divideva il suo appartamento da quello della vicina.
“Ecco perché li sento sempre strillare... Vecchia stronza, scommetto che li ha messi lì dopo che mi sono trasferita di proposito.” Niki aprì il primo cassetto della credenza con un cupo brontolio, sollevando delicatamente un mucchio di tovaglie per tastarne il fondo mentre Mathieu, in piedi di fronte ad una delle due librerie presenti nell’enorme salotto, passava in rassegna i titoli sui dorsi dei volumi con lo sguardo.
“Ricordati di non toccare niente senza guanti.”
“I guanti, i guanti!”
“Taci, brutto rompicoglioni.”
“Scusa come?!”
Mathieu ruotò la testa per guardare la strega con gli occhi chiari spalancati per l’indignazione, ma prima che potesse dire altro Niki accennò verso le gabbie con un gesto rapido e pigro della mano, nello specifico verso l’enorme voliera con ruote di un pappagallo verde, prima di riprendere a controllare il cassetto senza neanche voltarsi verso di lui:
“Non tu, il pennuto malefico.”
 
“Centrini… Centrini. Centrini. Altri centrini. Ma quanti centrini servono ad una donna nel 2021?! Ti prego, dimmi che tu hai trovato qualcosa di più interessante. Non pretendo una scatola di veleno o un pugnale insanguinato o una foto di Montgomery con una X rossa sopra, ma almeno qualcosa di diverso da un centrino!”
Niki, che sedeva sul parquet che ricopriva il pavimento del soggiorno della vicina circondata da torri di tovaglie, tovaglioli e centrini, volse esasperata lo sguardo verso il lungo corridoio che conduceva alle altre stanze dell’appartamento e da una delle quali le giunse in risposta la voce altrettanto esasperata di Mathieu:
“Qui è pieno di pellicce. E cappellini. Ma non mi sorprende, del resto è inglese.”
Mentre Niki dichiarava con tono stizzito la sua contrarietà rispetto all’indossare dei poveri animali morti dalla stanza accanto, Mathieu allungò una mano guantata per tastare il fondo dell’armadio e controllare che non ci fosse altro dietro al mare di pellicce, giacche e cappotti.
“C’è un odore veramente strano in questo armadio…”
Costretto a restare in piedi di fronte alle ante aperte di uno degli enormi armadi a muro della cabina della padrona di casa, Mathieu strinse le labbra in una sofferente espressione schifata mentre la voce pacata di Niki gli faceva nuovamente visita dal salotto:
“Quella è la formaldeide. È per questo che la mummia egizia è così ben conservata.”
Mathieu avrebbe anche potuto ridere, se solo non avesse appurato di avere altri due armadi da controllare, disgraziatamente tutti con lo stesso odore. Il ragazzo sospirò con amarezza mentre chiudeva piano le ante di quello appena controllato, osservando con rassegnazione il mare di abiti che ancora lo attendevano. Forse proporsi di controllare quella stanza e la camera non era stata poi una brillante idea.
“Senti, perché non facciamo cambio e tu controlli l’armadio e io i centrini?”  Mathieu prese a sollevare le pile di cappellini – pieni di fiocchi e retine di ogni colore umanamente concepito – per tastare le mensole mentre Niki, desiderosa di fare una pausa da pizzi e merletti, faceva capolino sulla soglia della cabina armadio sfoggiando un’espressione schifata tanto quella del vicino:
Scordatelo. Per quanto io detesti i centrini, sono pur sempre meglio della collezione di modisteria della evil twin di Jane Marple.”
La strega si avvicinò al vicino tenendo le lunghe braccia strette al petto e osservando con cipiglio critico le ante degli armadi bianchi spalancate mentre Mathieu sollevava due cappellini uguali e si voltava verso di lei per mostrarglieli incredulo:
“Ne ha due identici. Perché ne ha due identici, a cosa le servono?!”
I grandi occhi verdi di Niki indugiarono con calma prima su un cappello e poi sull’altro un paio di volte, finendo con il tornare sul viso di Mathieu mentre la strega si stringeva debolmente nelle spalle:
“Non sono identici. Uno è malva, l’altro è rosa antico.”
“Sono identici.”
“No, non lo sono.”
Mathieu stava per ribattere che sì, i due cappellini con la retina erano perfettamente identici e pacchiani sotto ogni aspetto, ma le parole gli morirono in gola quando Niki gliene strappò uno di mano per metterglielo in testa. Passato lo shock iniziale Mathieu la fissò torvo ed impassibile, chiedendole silenziosamente di levargli di dosso quell’orrore mentre la strega incurvava le labbra verso l’alto fino a formare un sorrisetto beffardo, ridacchiando:
Uuuuhhh, ma ti sta benissimo. Dovresti andare in giro sempre così.”
“Non accetto commenti di questo genere da una che si veste come te.”
Mathieu si sfilò il cappello per rimetterlo al suo posto, sistemandosi indispettito i lisci capelli color grano sulla testa mentre Niki chinava lo sguardo sui propri abiti: doveva proprio ammettere che da quando era arrivata all’Arconia non aveva poi sfoggiato i suoi vestiti migliori.
Cavolo, mi tocca darti ragione.”
 
Molti centrini dopo
 
La credenza e le librerie si rivelarono una cocente delusione per Niki: niente di interessante, tolta una prima edizione del giovane Holden che avrebbe rubato molto volentieri, se solo non avesse avuto la certezza che la megera avrebbe finito con l’accorgersi della sparizione di un volume così prezioso.
Niki sfogliò annoiata un pesante volume di anatomia – gli scaffali più alti erano quasi interamente occupati da libri di medicina – prima di chiuderlo, sbuffare piano e sollevare lentamente la mano per lasciare che il libro si sollevasse dal suo palmo per fluttuare di nuovo fino al suo posto. Dopo aver gettato un’ultima occhiata perplessa ai volumi – immaginare la vecchia esercitare la professione medica le appariva bizzarro ed inconcepibile quanto pensare a se stessa in palestra a fare cardio – la strega si allontanò dalla libreria ruotando lentamente su se stessa e facendo vagare lo sguardo attraverso l’enorme stanza, sfregandosi piano i pollici contro gli indici fasciati dai guanti di pelle prima di mormorare qualcosa sovrappensiero:
Se fossi una vecchia malefica e volessi nascondere qualcosa, dove lo metterei…”
“Hai detto qualcosa?”
“No, continua pure a giocare alle Cronache di Narnia.”
Mentre rimetteva a posto le pellicce della vicina Mathieu borbottò qualcosa in francese che Niki non si prese la briga di ascoltare, i grandi occhi verdi che scrutavano una ad una le costose gabbie dei “coinquilini” della sua vicina, avvicinandosi ad esse prima di indugiare davanti al tavolino circolare che sosteneva la voliera di due cocorite. Si chinò leggermente in avanti fino ad avere la testa ad un’altezza simile a quella degli uccellini verdi e gialli, scrutandoli accigliata e un po’ dispiaciuta:
“Quasi quasi vi libererei, se non sapessi di condannarvi a morte certa...”
Benchè non amasse affatto i pennuti, era sconfortante vedere un mucchio di animali rinchiusi in delle gabbie. E in compagnia di quella megera, poi! Niki provò una sincera compassione per quegli animali, camminando lentamente di fronte alle gabbie senza però osare allungare le dita verso le fessure, decisa a tenersi a distanza da quei becchi appuntiti.
Quando passò davanti ad una voliera rotonda dorata sistemata sopra ad un tavolo, accanto a quella di un pappagallino verde, la strega si fermò, scrutando pensosa l’adorabile ospite dalle piume rosse e verdi che ricambiava con curiosità il suo sguardo. Niki osservò la voliera inclinando leggermente la testa di lato, i grandi occhi che ne esaminano le misure, il piccolo trespolo di metallo e i ghirigori che ne abbellivano l’estremità superiore. La strega allungò la mano destra, sfiorando una sottile sbarra di metallo con l’indice e il medio mentre osservava pensosa il trespolo occupato dal piccolo pappagallino.
“Chissà perché la gente tiene in gabbia belle creature da ammirare.”
Le dita di Niki picchiettarono brevemente sul metallo prima di indugiare con lo sguardo sui dispensatori d’acqua e di cibo, sollevando con l’indice guantato il coperchio di entrambi per controllarne l’interno mentre il piccolo ospite della voliera la scrutava. Ecco che cosa non sopportava dei volatili, si disse la strega mentre ritraeva lentamente la mano per allontanarsi: non si riusciva mai a capire che cosa pensassero, quegli animali così terribilmente imprevedibili. Niki allacciò le mani guantate dietro la schiena mentre smetteva di osservare piccolo il volatile – se non fosse che mal sopportava la sua specie avrebbe anche potuto trovarlo carino – per far correre lo sguardo sulle altre gabbie, chiedendosi perché la gabbia di quell’uccello fosse molto più grande rispetto alle altre che occupavano un solo animale.
 
Mathieu di armadi ne aveva avuto decisamente abbastanza, pertanto quando si recò in camera della padrona di casa evitò accuratamente di aprire l’armadio a muro che vi trovò: decise che lo avrebbe gentilmente lasciato alle perlustrazioni della Nancy Drew della porta accanto e si dedicò invece ad aprire lentamente i cassetti dei comodini di legno che circondavano il letto e della grande cassettiera bianca sistemata sotto ad un enorme specchio circolare appeso alla parete. Disgraziatamente non trovò nessun promemoria volto a ricordarsi di uccidere il vicino di casa del piano superiore, ma in compenso la sua attenzione si focalizzò su un piccolo oggetto lasciato in bella vista e incustodito sul ripiano della cassettiera. Quando ebbe aperto il piccolo quadernino e capito di che cosa si trattasse il mago sospirò di sollievo: finalmente qualcosa di interessante.
Quando un minuto dopo Mathieu uscì dalla camera della padrona di casa e attraversò la breve porzione di corridoio che lo divideva dal soggiorno trovò la sua vicina in piedi vicino alle voliere, una mano in tasca e l’altra impegnata a stringere il telefono, il cui schermo era impegnata ad osservare.
“Ho trovato qualcosa.”
L’ingresso per un mondo fatato celato da una coltre di pellicce?”
Niki sollevò la testa allargando le labbra in un sorriso ironico mentre faceva scivolare il telefono di nuovo all’interno della tasca della sua felpa, guardando il vicino scoccarle un’occhiata eloquente prima di sollevare e agitare leggermente ciò che teneva in mano:
“No. Quello che ha tutta l’aria di essere una specie di diario.”
“Davvero? Fantastico. Non mi aspetto che sul 14 settembre abbia scritto “Oggi è stata una bella giornata, ho fatto fuori il bel ragazzo del piano di sopra”, ma cerca se trovi il nome di Montgomery fatto da qualche parte. Anzi, prima vai al 3 marzo passato.”
“Perché il 3 marzo?”
“È il giorno in cui mi sono trasferita qui.”
Niki si allontanò dalle voliere e si mise in attesa andando a sedersi sul divano foderato da velluto trapuntato rosa della sua vicina, accavallando con grazia le gambe e stringendosi il ginocchio sinistro con le mani guantate mentre osservava Mathieu, in piedi sulla soglia del corridoio, sfogliare le pagine del blocchetto dalla copertina bianca coperta da fiori rosa.
“Ok, ci sono, 3 marzo 2021. Pensi che abbia scritto qualcosa su di te?”
“Sono certa che parli di me, ci incontrammo di sfuggita in corridoio e litigammo già allora. Lei vide le mie piccoline, che per inciso non faccio mai uscire di casa, e osò lamentarsi per l’incolumità dei suoi pennutacci.”
Niki parlò sfoggiando una smorfia risentita mentre i ricordi la riportavano a sei mesi prima, quando la sua vita all’Arconia era iniziata con un sgraditissimo incontro con la sua nuova vicina. Un inizio per nulla promettente ma che in fondo aveva perfettamente rispecchiato quella che sarebbe stata la sua esperienza futura, si ritrovò a considerare con una punta di amarezza la strega mentre Mathieu smetteva di sfogliare le pagine e annuiva avvicinandosi di qualche passo al divano:
“Non fa il tuo nome ma direi che parla di te.”
“Sei sicuro che parli di me?”
“Non lo so, tu conosci altre donne che vivono qui alte 1 metro e 80 che vanno in giro con gli occhiali da sole al chiuso?”
Dopo aver ignorato il sarcasmo di Mathieu e aver candidamente constatato che no, non ne conosceva, Niki continuò ad osservare il vicino in tiepida attesa, immobile sul divano cercando di non fare caso all’assai fastidioso stridio emesso da qualche pennuto, difficile dire quale visto quanto erano numerosi, mentre lo guardava cercare di decifrare la grafia della padrona di casa. Le sopracciglia aggrottate di Mathieu si incurvarono sempre di più man mano che il ragazzo proseguiva nella lettura – anche se qualche termine schifosamente british non riuscì a comprenderlo –, ritrovandosi a spalancare gli occhi azzurri e a deglutire a fatica quando ebbe finito la parte che parlava di Niki: all’improvviso non aveva più molta voglia di farle sapere che cosa ci fosse scritto, e quando vide la strega fissarlo con un sopracciglio inarcato provò il forte desiderio di sparire nel nulla.
“Credo che sia meglio che tu non sappia.”
Mathieu chiuse il block-notes tenendo il segno con l’indice e scuotendo lentamente la testa mentre guardava la vicina e la sua espressione farsi sempre più tesa: l’unico presente nella stanza a parte lei era lui, perciò era facile immaginare con chi se la sarebbe presa se si fosse infuriata.
Per tutti i bagel al salmone, cosa c’è scritto?! Non puoi dirmi così e poi pensare che io non voglia saperlo, andiamo!”
Mathieu non rispose ma la guardò, indeciso sul da farsi, finchè Niki non si costrinse a mettere da parte l’espressione seccata e a sfoderare una specie di sorriso gentile: sentì i muscoli facciali contrarsi per lo sforzo di quel movimento a lei poco familiare, ma fece comunque del suo meglio per sembrare sincera ed inoffensiva.
“Ok. Sarò brava, lo prometto. Non darò in escandescenza, qualsiasi cosa dica.”
Niki si sfoderò un sorriso angelico chiedendosi che cosa aveva scritto di lei quella brutta strega rinsecchita mentre Mathieu, ancora piuttosto dubbioso ma poco propenso all’idea di contrariarla, finiva con l’annuire con scarsa convinzione mentre riapriva il quadernetto:
“Va bene, ma ricorda che qualsiasi cosa stia per leggerti non l’ho scritta io.”
“Sì, sì, forza, voglio uscire da questa casa ancora giovane e non con l’aspetto di Rose Vecchia in Titanic.”
Niki annuì sbrigativa e gli fece cenno di leggere con un pigro gesto della mano e dopo un’ultima, breve esitazione Mathieu iniziò a riportarle ciò che la loro vicina aveva scritto sei mesi e mezzo prima, ossia una lunga sequela di commenti e aggettivi ben poco lusinghieri nei confronti della “ giovane donna altissima con gli occhiali da sole”. Il tono di Mathieu si fece sempre più incerto man manco che procedeva, piuttosto stranito dal silenzio di Niki e dalla sua inespressività – aveva dato per certo che si sarebbe messa ad inveire e a lanciare centrini in giro, come minimo – finchè non arrivò all’unica parte che scalfì l’impassibilità della ragazza:
“… vicina trentenne…”
Udendo quella parola gli occhi verdi di Niki si spalancarono, sgomenti, e la strega scattò in piedi portandosi le mani davanti alle labbra prima di emettere uno strozzato ed indistinto verso inorridito:
TRENTENNE?! Come osa darmi della trentenne quella brutta vecchia befana?!”
Mentre Niki tratteneva l’impulso di cercare un tutorial per bambole voodoo su YouTube sussurrando parole in una lingua che Mathieu non comprese ma che avevano tutta l’aria di essere insulti il mago, sempre più accigliato, smise di leggere scuotendo debolmente la testa, incredulo, guardando Niki farsi freneticamente aria con una mano mentre la strega ripeteva a se stessa che non fosse il momento adatto per un mancamento:
“No, perdonami, sono confuso. Tutto quello che ho letto prima non ti ha turbato e questo sì?”
Niki non rispose, troppo impegnata a maledire la vicina mentre rifletteva su quanto quel commento fosse semplicemente inaccettabile, così come l’espressione eloquente che fece capolino sul viso di Mathieu mentre il mago la guardava, il block-notes aperto ancora in mano: sapeva che cosa stava pensando, e si affrettò ad ordinargli di smetterla puntandogli contro l’indice guantato.
“Non guardarmi così. So cosa stai pensando, non pensarlo. Io non ho trent’anni!”
“A me sembra che abbiamo praticamente la stessa età.”
“Sono sicura che non è così.”
A Mathieu non sembrava proprio, ma decise di non imbarcarsi in una battaglia persa in partenza e si limitò a chiederle pacato se voleva sentire il resto che la riguardava. Niki ci rifletté brevemente ma alla fine scosse la testa, conscia di averne avuto abbastanza:
“Sai che c’è, forse è meglio se faccio una foto e lo leggo dopo, non assicuro di riuscire a non rompere qualche porcellana piena di fiorellini. Tu guarda se c’è qualcosa su Montgomery, io controllo la cucina e la sala da pranzo.”

 
La cosa peggiore di tutte? Quando quella stronza ha scritto quelle cose avevo ancora 29 anni. Fu un duro colpo.
 
 
“Che cosa hai trovato adesso? Spero non delle madeleine o sarà difficile per me non mangiarne un paio.”
Mathieu aveva preso il posto di Niki sul divano ed era ormai arrivato a metà del diario, ossia a giugno 2021, senza trovare il benchè minimo accenno a Montgomery quando sentì Niki emettere nuovamente una sorta di gridolino euforico: una decina di minuti prima, quando stava perquisendo la cucina, la strega era accorsa in soggiorno con fare euforico e brandendo una coppa di vetro contenente una monoporzione di Tiramisù. Nel vederla sorridere allegra per un istante Mathieu si era convinto che la vicina avesse trovato il cadavere della padrona di casa da qualche parte, e dopo aver appreso con sollievo che l’entusiasmo di Niki era dovuto al cibo era stato costretto a convincerla a non mangiarlo.
Per quanto motivo quando sentì i passi della strega avvicinarsi il canadese sollevò pigramente lo sguardo dalla sua lettura per posarlo sulla vicina certo che si sarebbe presentata con un’altra stronzata, ma la realtà superò ogni sua aspettativa: Niki lo fissava, a metà tra lo sconcerto e l’euforia, tenendo sollevata una sedia tenendola per le gambe di legno.
“Guarda che cosa ho trovato!”
Esattamente come per la coppa di vetro poco prima Mathieu non aveva idea di che cosa ci fosse di tanto esaltante in una comunissima sedia, e sbattè le palpebre un paio di volte prima di annuire piano, parlando con il tono calmo, paziente ed inesorabilmente lento di chi sta spiegando qualcosa a qualcuno incapace di intendere:
“Quella è una sedia. A volte le persone le usano per sedersi, soprattutto una signora anziana…”
“Per l’amor del cielo non trattarmi come una pazza o ti prendo a sediate. Guarda!”
Sbuffando Niki continuò a reggere la sedia inclinandola in avanti, stringendone lo schienale con una mano e una gamba con l’altra per far sì che il vicino potesse scorgerne la seduta. Una seduta decisamente insolita che stranì non poco Mathieu:
“Ma quello è…”
È Ryan Gosling! Come cazzo è possibile che io sia arrivata a trent… cioè ventotto anni senza questa sedia?!”
Quel pomeriggio si faceva sempre più allucinante ogni minuto che passava ma Mathieu dovette concordare con la vicina mentre scrutava allibito il cuscino della sedia con la foto dell’attore canadese stampata sopra e Niki, dopo averlo osservato brevemente a sua volta, si stringeva nelle spalle con nonchalance abbracciando la sedia:
“Beh, in ogni caso questa sedia mi sembra indubbiamente un indizio importantissimo, temo che dovrò portarmela a casa…”
“Non puoi portartela a casa, pensi che non si accorgerà dell’assenza di una sedia simile?!”
Ma quella è vecchia e rincoglionita, che vuoi che sia, ne creiamo un duplicato con la magia che domani sparirà e non capirà mai come è andata!”
“Beh, in ogni caso se qualcuno deve portarsela a casa la voglio anche io, quindi perché dovresti portartela a casa tu?!”
Mathieu si alzò continuando a tenere in mano il diario e indicando la sedia con un sopracciglio inarcato mentre Niki, dopo averlo sguardato indignata, abbracciava il mobile con fare possessivo, ponendolo più lontano che poteva dal vicino:
“Perché l’ho trovata io e perché se vuoi sederti sulla faccia di Ryan dovrai passare sul mio cadavere, bello.”
“Che c’entra che l’abbia trovata tu, se uno va al Louvre e trova un dipinto se lo porta a casa?!”
“È esattamente così che Napoleone ha ampliato il Louvre.”
I due stavano discutendo a proposito di chi dovesse tenersela quando qualcosa attirò la loro attenzione, facendoli zittire all’istante e infine voltare verso la porta d’ingresso chiusa: il suono di una voce inequivocabilmente femminile e familiare, unita ad un lieve tintinnio di chiavi, li fece raggelare e spalancare gli occhi all’unisono prima di voltarsi l’uno verso l’altra, guardandosi inorriditi.
 
 
Quando aprì la porta di casa ed entrò nel 13C Emily Turner, che viveva in quell’appartamento da ben due decenni, trovò tutto esattamente come ricordava di averlo lasciato, anche se ebbe la curiosa sensazione che i suoi amati uccellini fossero un tantino irrequieti. Probabilmente, si disse la donna mentre si chiudeva la porta alle spalle facendo scivolare i freddi occhi cerulei sulle voliere, era dovuto al fatto che li stesse tenendo chiusi in gabbia da quella mattina, ma da qualche tempo quando doveva assentarsi per un lasso di tempo considerevole si premurava di non lasciarli in libertà. Dopo aver controllato brevemente le gabbie e i contenitori di mangime la donna si era diretta in cucina per recuperare qualche borsa per andare a fare la spesa prima di recarsi nella sua camera da letto, attraversarla e aprire la porta del bagno privato per aprire un armadietto.

 
Cinque minuti prima

 
 
“Ok, piano. Io la distraggo con la mia insormontabile bellezza, e tu la tramortisci usando Ryan.”
Niki, infinitamente più calma di lui, gli mise la sedia tra le braccia senza tante cerimonie, sorridendo soddisfatta come se il suo fosse il miglior piano mai congeniato mentre Mathieu spostava allucinato lo sguardo da lei fino alla sedia e viceversa prima di scuotere la testa: non poteva davvero pensare ciò che le era appena uscito dalla bocca.
“Perché non la distraggo io con la mia bellezza? E comunque io non tramortisco le signore anziane!”
Tantomeno non con una sedia con la faccia di Ryan Gosling, si disse il mago mentre rimetteva nuovamente il mobile tra le braccia di Niki, che lo guardò allibita e spalancando con sincera sorpresa i grandi occhi verdi:
“Ah no?! A vederti pensavo di sì!”
Mathieu la guardò senza riuscire a capire se fosse seria o meno o se avrebbe dovuto offendersi, ma il tempo stringeva, perciò decise di non chiederglielo mentre la strega, dopo aver gettato un’ultima occhiata alla sedia, si stringeva nelle spalle con noncuranza, parlando come se lo stesse informando di essere in procinto di andare a fare la spesa prima di superarlo per dirigersi in tutta calma verso l’ingresso dell’appartamento:
“Ok, allora me la tramortisco da sola. Tu aspettami qui.”
 
Niki quel giorno prese un appunto mentale: non si sarebbe mai più introdotta a casa della sua acerrima nemica in compagnia di Mike, che le aveva impedito di stenderla con la Ryan-Sedia. A malincuore, Niki aveva dovuto accantonare l’idea di prendere a sediate la vicina dal momento che Mike sembrava avere dei principi morali e le aveva vietato di tramortire la padrona di casa. La sedia ancora in mano, la strega era quindi sfrecciata sbuffando amareggiata attraverso il corridoio, l’aveva rimessa dove l’aveva trovata in sala da pranzo e poi i suoi piedi l’avevano condotta quasi autonomamente verso la camera da letto della donna, dove aveva trovato Mathieu impegnato a gettare il diario dove l’aveva trovato precedentemente, ovvero sopra ad una cassettiera di betulla.
Mentre la vicina ancora parlava fuori dalla porta, probabilmente con la donna che viveva nell’appartamento accanto i due, una di fronte all’altro, si ritrovarono a sussurrare concitati mentre Niki gesticolava indicando la soglia aperta della camera da letto, e più in generale la direzione dalla quale proveniva la voce della padrona di casa, e Mathieu al contrario si domandava perché non avesse deciso di impiegare il pomeriggio facendo shopping .
“Dobbiamo nasconderci, se ci trova siamo più fritti delle alette di pollo del KFC!”
“Siamo tutti e due altissimi, dove cazzo vuoi che ci nascondiamo?!”
Niki non aveva risposto mentre i suoi occhi verdi saettavano da una parte all’altra della stanza, finendo con lo spingere il vicino verso l’armadio a muro e intimargli con un sussurro di infilarsi là dentro prima di voltarsi e sfrecciare verso la porta bianca che intuì portasse ad un bagno. Fu quasi un sollievo aprirla e appurare di non essersi sbagliata – mentre Mathieu alle sue spalle imprecava in francese contro i mille armadi della padrona di casa e contro il tremendo odore di naftalina che forse gli avrebbe provocato una morte per asfissia – anche se una smorfia le sfigurò le labbra quando il suo sguardo indugiò sull’unico nascondiglio possibile presente nella stanza: un’enorme vasca da bagno con tanto di tendina.
Infilarsi in una vasca da bagno era di gran lunga l’ultima cosa che voleva, ma quando sentì la serratura scattare si vide costretta ad accantonare il senso di nausea che le stava risalendo lungo la gola e la spiacevole immagine che le si figurò davanti agli occhi per entrare nella stanza, chiudersi la porta alle spalle e infine scavalcare la vasca per infilarcisi dentro e tirare la tenda.
Mathieu dal canto suo represse a fatica un colpo di tosse mentre cercava di scostarsi di dosso una dannata pelliccia – con cosa fosse fatta, non ci teneva a saperlo –, maledicendo mentalmente quell’orribile capo di abbigliamento e giurandogli astio eterno mentre pregava che la padrona di casa non solo non decidesse di aprire l’armadio, ma soprattutto che non intendesse restare a lungo in casa: era piuttosto convinto che non avrebbe resistito a lungo dentro quello spazio ristretto, buio e soprattutto reso soffocante dagli abiti pesanti e dall’odore di naftalina.
 
Quando aveva sentito la vicina entrare in bagno Niki non aveva provato un gran stupore: del resto, con la sfiga che si ritrovava, poteva la vecchia mummia non decidere di fare una capatina in bagno? Sperando di non fare la stessa fine di Marion Crane(1) si era premuta una mano guantata sulle labbra per evitare che potesse sentirla respirare mentre l’altra era andata a stringere la bacchetta infilata nella tasca della felpa: non si sarebbe fatta nessuno scrupolo a Schiantarla se avesse malauguratamente scostato la tenda che celava la sua presenza, ma sembrava che la donna fosse interessata più all’armadietto accanto al lavandino che alla vasca da bagno. Sentire dai suoi passi che non si era sfilata le scarpe le suggerì con sollievo che la donna aveva intenzione di uscire di nuovo a breve, perciò non rimaneva che aspettare e sperare che non si accorgesse della sua presenza o di quella di… Mike? Matt? Ci avrebbe pensato dopo.
Fu un vero sollievo sentire la donna uscire dal bagno un paio di minuti dopo aprendo la porta e attraversando la camera da letto senza chiudersela alle spalle, ma per osare muoversi Niki aspettò di sentire aprirsi anche la porta d’ingresso. Quando finalmente la sentì sbattere la strega si allontanò la mano dalle labbra traendo un profondo sospiro, poi tirò con forza la tendina per poter tornare ad avere una visione completa del bagno mentre un’anta dell’armadio a muro bianco della camera veniva spalancata con una brusca spinta e Mathieu si affrettava ad uscirne scavalcando una scatola porta-abiti, respirando con sollievo l’aria pulita mentre Niki cercava di uscire dalla vasca.
“Per fortuna se n’è andata, non ce la facevo più a stare lì, quell’odore è nauseante. … Che stai facendo?”
Quando fu finalmente uscito dall’armadio e il suo sguardo indugiò sul bagno, visibile grazie alla porta comunicante spalancata, Mathieu si avvicinò inarcando un sopracciglio mentre osservava la sua vicina, seduta all’interno della vasca, maledirla e afferrare i bordi bianchi per cercare di alzarsi in piedi e uscire dal suo nascondiglio: in effetti mentre cercava di non morire soffocato dentro l’armadio si era chiesto dove si sarebbe nascosta Niki, anche se non aveva escluso la possibilità di trovarla appesa al soffitto come un pipistrello.
“Sai com’è, sono molto stressata e ho pensato di farmi un bel bagno caldo... Secondo te?! Cerco di uscire da questa trappola infernale!”
Mathieu si avvicinò alla soglia del bagno guardando Niki imprecare e cercare di uscire dalla vasca con scarso successo, le suole degli anfibi e i guanti di pelle che scivolavano sulla superficie marmorea.
“Ma perché è così scivolosa, cazzo!”
“Forse l’ha lavata da poco. Sai cosa sarebbe infinitamene divertente?”
Mentre Niki si chiedeva perché l’universo si accanisse costantemente su di lei Mathieu indugiò sulla soglia incrociando le braccia al petto e sfoggiando un sorriso allegro che non piacque affatto alla vicina, che borbottò qualcosa sulla possibilità di offrirsi di darle una mano mentre lui scuoteva la testa senza smettere di guardarla divertito:
“No, mandare un video di te a Carter in questo momento.”
Niki si immobilizzò sentendosi gelare il sangue nelle vene, le mani strette sui bordi della vasca mentre il sorriso di Mathieu invece di vacillare si allargava guardandola sollevare lentamente la testa per puntare gli occhi ridotti a due fessure su di lui e sussurrare qualcosa con tono minaccioso:
“Non ti azzardare.”
“Perché no? O una foto da mettere nell’atrio.”   Mathieu mise una particolare enfasi sulle sue ultime parole e sollevò gli angoli delle labbra fino a far prendere forma ad un fintissimo sorriso amabile mentre Niki, immobile, continuava a scrutarlo torva da dentro la vasca:
“Hai presente le sette piaghe d’Egitto? Tu fallo e io per te sarò quello. Non una, non due. Tutte e sette insieme. No, faccio da sola.”
Quando vide Mathieu avvicinarsi – forse mosso da un vago moto di compassione nei suoi confronti, forse desideroso di uscire in fretta da quella casa – Niki scosse la testa e sollevò una mano per bloccarlo senza guardarlo, sospirando con una punta di sollievo quando poco dopo riuscì finalmente a mettersi in piedi e a scavalcare la vasca con le lunghe gambe senza scivolare e rompersi l’osso del collo. Morire nel bagno della sua acerrima nemica era una prospettiva che proprio non poteva tollerare.
“Ok, ci sono… Quanto odio le vasche da bagno. Non sono più agile come quando avevo 25 anni … Ovvero due anni fa, perché ne ho 27.”
Non erano 28 mezz’ora fa?”
“Aggiornati, io sono come Benjamin Button, ringiovanisco con lo scorrere del tempo.”
Niki lo sguardò scuotendo la testa con disapprovazione e schioccando le dita della mano destra un paio di volte, come a volergli intimare di stare al passo, ma prima che Mathieu potesse dar voce ai suoi forti dubbi a riguardo il suono metallico di una chiave che veniva infilata nella serratura dell’ingresso li fece raggelare entrambi per la seconda volta: il canadese ruotò su se stesso per gettare un’occhiata ansiosa alla soglia della camera da letto attraverso la porta del bagno aperta.
Cazzo, sta tornando! Forse prima ha scordato di prendere qualcosa…”
“Stramaledetta vecchia rincoglionita smemorata… Chiudi la porta.”
“Ma lei l’ha lasciata aperta!”
“Senti, non possiamo Smaterializzarci, quindi o la chiudiamo, o ci facciamo trovare a fare salotto nel suo bagno, che cosa ti sembra meglio?”
Poiché la vicina aveva disgraziatamente ragione Mathieu si vide costretto ad assecondarla e a chiudere la port, premurandosi di girare la chiave prima di avvicinare la testa all’anta per cercare di sentire qualcosa. Niki nel frattempo gli diede le spalle, scrutando attenta il resto del bagno.
“Credo che sia in salotto. Sta dicendo qualcosa, ma non si capisce bene, i pappagalli continuano a ripetere  “Guanti” e non sento nulla... Che stai facendo?!”  Quando vide Niki togliere una pila di asciugamani da uno sgabello di legno a tre gambe e sollevarlo Mathieu spalancò inorridito gli occhi chiari, quasi temendo che volesse colpire lui prima di vederla stringersi nelle spalle, impassibile come se non si stesse accingendo ad usare un pezzo d’arredamento altrui per tramortire la proprietaria dell’appartamento all’interno del quale si erano introdotti illegalmente:
“Visto e considerato che ho avuto l’ennesima conferma a proposito della totale inutilità del sesso maschile mi arrangio. Apri pure, così la sgabello.”
“Non puoi… sgabellarla!”
“Rilassati, sono alta 20 centimetri più di lei e avrò sessant’anni di meno, in una rissa la batto di sicuro.”
“Guarda che non è così vecchia.”
“Vuoi finirla di difenderla e di impedirmi di stenderla? Cosa sei, il suo fidanzato? Guarda che è tutta colpa tua se siamo in questa situazione di merda!”
Quando Niki agitò esasperata lo sgabello e gli gettò un’occhiata torva Mathieu spalancò indignato gli occhi chiari, guardandola come se fosse certo che poco prima si fosse accidentalmente procurata un trauma cranico senza che lui se ne accorgesse.
“Mia la colpa?!”
“Certo, io prima ti ho detto di tramortirla, ma tu noooo, no, perché “Io ho dei principi”!”
Quando Niki, amareggiata, rimise lo sgabello al suo posto e sollevò le mani per fargli il verso Mathieu la guardò torvo e scuotendo la testa, profondamente offeso per la sua pessima imitazione:
“Non si avvicinava affatto ad il mio accento, tanto perché tu lo sappia.”
“Dammi il tempo di capire come farlo, non è che ci conosciamo da tanto! Bene, allora escludendo il tramortirla restano i tre piani di fuga che ho appena elaborato per uscire da qui.”
Con gran sollievo di Mathieu Niki rimise finalmente lo sgabello sul pavimento, anche se il canadese, ancora in piedi davanti alla porta, la guardò comunque stranito: quando, esattamente, aveva avuto il tempo di congegnare tre modi per uscire da quel bagno?
“Hai tre piani di fuga? Che aspetti a dirmeli?! E soprattutto come fai ad averne tre, siamo qui da due minuti!”
“Osservare e pensare in fretta è la chiave. Primo, condotto dell’aria.”
Niki sollevò una mano per indicare con nonchalance la grata del condotto dell’aria che si trovava in un angolo del soffitto e Mathieu, ormai disgraziatamente certo che non stesse affatto scherzando, ci indirizzò brevemente lo sguardo prima di scuotere la testa con fermezza:
“Assolutamente no, e non ci passeremmo mai.”
“Oh, sì invece. Non chiedermi perché lo so. Secondo…”
Niki afferrò una bomboletta di deodorante dall’armadietto che Emily aveva lasciato aperto poco prima, guardando serissima il vicino mentre la voce della padrona di casa, marcata da un inconfondibile accento inglese, giungeva alle loro orecchie attraverso la porta chiusa a chiave.
“Ci… mettiamo il deodorante?”  Mentre parlava e fissava accigliato prima il flacone e poi il viso della vicina Mathieu colse il suono assurdamente ridicolo delle parole che gli uscirono dalla bocca, ma vista la situazione e soprattutto la persona che aveva davanti non si poteva escludere quell’eventualità. Mentre sentivano i passi della padrona di casa attraversare il corridoio, Niki fissò a sua volta il flacone di deodorante per una frazione di secondo prima di stringersi nelle spalle e tornare a guardarlo, parlando con un tono calmo e quasi annoiato in netta contrapposizione con le circostanze mentre udivano la voce della vicina chiedersi a voce alta, forse parlando con i suoi uccellini, dove fosse il suo profumo di Dolce & Gabbana.
“… No. No, il piano è accecarla con il deodorante e poi scappare.”
“Non prenderla sul personale, ma i tuoi piani fanno pietà.”
Ben presto, scorgendo l’espressione contrariata e profondamente offesa sul volto della strega, Mathieu comprese che non avrebbe potuto in alcun modo offenderla più di così, ma probabilmente Niki dovette stabilire di non avere il tempo di insultarlo, perché si limitò ad intimargli a denti stretti di pensare da solo ad un piano di fuga, visto che faceva tanto lo schizzinoso.
“Perdona la mia scarsa prontezza, devo confessarti che di norma non trascorro il weekend forzando le finestre dei miei vicini. Ma come fa a non sentirci?”
Mathieu, che stava ancora in piedi di fronte a Niki dando le spalle alla porta del bagno, voltò il capo per gettare un’occhiata ansiosa e leggermente perplessa all’anta bianca chiedendosi come fosse possibile che la padrona di casa non li sentisse bisbigliare mentre cercava il suo profumo, ma ancora una volta Niki minimizzò il problema con un lieve sbuffo e un pigro quanto svogliato gesto della mano destra:
“Che domande fai, quella alle elementari faceva scambio di merenda con Olivia de Havilland, sarà sorda… Questo spiegherebbe perché avere tutti quei pennuti starnazzanti non la disturba.”
“Perché la detesti tanto?”
“Quanto tempo pensi che abbiamo, tre ore, non posso elencarti tutti i motivi del mio astio!”
 
 
“Allora muoviti, dimmi il terzo piano!”
Mathieu parlò gettando un’occhiata ansiosa alla boccetta di profumo appoggiata sul bordo del lavandino, a giudicare dal logo lo stesso che stava cercando la padrona di casa, ma Niki non rispose, limitandosi a spostarsi di lato con un passo per sollevare una mano e mostrare a Mathieu la finestra a scorrimento verticale dietro di lei, identica a quella che avevano usato per introdursi in casa.
“La finestra? Perché hai tenuto la strada più comoda, semplice e ovvia per ultima?!”
Mathieu superò la vicina parlando in un sussurro, avvicinandosi alla finestra per aprirla facendo il più piano possibile mentre Niki, le mani di nuovo in tasca, lo seguiva stringendosi debolmente nelle spalle:
“E il divertimento allora dove starebbe?”
In una circostanza diversa Mathieu avrebbe anche potuto dirsi d’accordo con lei, ma decise di rimandare le chiacchiere e si affrettò ad arrampicarsi sulla finestra per uscire dal bagno e tornare sull’ampio terrazzo che, con un po’ di fortuna, forse sarebbero riusciti ad attraversare e tornare a casa di Niki senza essere visti dalla vicina, che a giudicare dai rumori provenienti da dietro la porta chiusa si trovava ormai nella sua camera da letto. Di certo a breve avrebbe cercato di entrare in bagno e trovando la porta chiusa dall’interno avrebbe capito che qualcuno si era introdotto in casa; dovevano andarsene in fretta, ma per qualche motivo Niki non lo aveva ancora seguito sul terrazzo, portando il canadese a riavvicinarsi alla finestra esalando un sussurro impaziente e concitato mentre la strega continuava ad attardarsi davanti alla finestra aperta tenendo qualcosa di piccolo in mano.
“Detesto metterti fretta, ma che cosa aspetti a uscire?!”
Niki non rispose, ma in compenso Mathieu la vide andare a rimettere un piccolo oggetto nero che non riuscì ad identificare sul bordo del lavandino mal celando un piccolo sorrisetto, portandolo a chiedersi con leggera preoccupazione che cosa avesse combinato al bagno della vicina. Non fosse stato che stavano per essere scoperti si sarebbe anche potuto fermare a chiederglielo, ma quando finalmente vide Niki scavalcare la finestra e raggiungerlo sul terrazzo decise di non perdere tempo in chiacchiere e fece per correre verso la ringhiera che divideva gli appartamenti C e B per tornare a casa della strega, che però mandò all’aria il suo piano afferrandolo bruscamente per un braccio e strattonandolo leggermente:
“Non di là, andiamo di qua.”
“Ma casa tua è di là!”
Quando Niki si diresse verso la ringhiera che divideva il terrazzo dell’appartamento che si stavano accingendo a lasciare con quello accanto Mathieu esitò, guardandola certo che avesse perso il senno o il senso dell’orientamento mentre la strega, sbuffando esasperata con una gamba già nel terrazzo del 13D, gli faceva cenno di seguirla sibilando qualcosa a denti stretti mentre la maniglia dorata della porta del bagno veniva abbassata ed Emily Turner, fuori dal suo bagno, realizzava di non averla affatto chiusa, prima di uscire di casa poco prima:
“Senti, lei saprà che sono stata io, non deve avere la possibilità di dimostrarlo. Se mi trova in casa sarà facile accusarmi. Ci serve un alibi.”
“Noi non ce l’abbiamo un alibi, fino ad ora siamo stati a casa sua!”
“Appunto. E se non hai un alibi che fai? Te lo costruisci.”
Ancora una volta Mathieu non aveva idea di che cosa avesse in mente la sua vicina, né capiva come riuscisse a restare tanto calma mentre la maniglia della porta del bagno veniva abbassata per la seconda volta con insistenza, ma non avendo il tempo per chiederglielo decise che non gli restava altro che seguirla, scavalcando la ringhiera a sua volta – era decisamente una fortuna che fossero entrambi piuttosto alti, o avrebbero perso molto più tempo – per raggiungere il terrazzo del 13D. Mathieu capì finalmente che cosa avesse in mente Niki quando la vide attraversare di corsa il terrazzo per dirigersi verso quello di Carter e il canadese gettò un’occhiata preoccupata alle finestre chiuse del 13D sperando che la vicina non fosse in casa e che non li stesse guardando sfilarle di corsa davanti agli occhi:
“E se l’altra tizia ci vede nel suo terrazzo dalla finestra?! Non sappiamo se è in casa!”
“In tal caso la tramortiamo con uno di questi lettini a sdraio, e non voglio sentire discussioni a riguardo.”
“Tu hai qualche problema con la faccenda del tramortire altre donne usando oggetti per sedersi.”
 
Quando un minuto dopo Emily Turner, dopo essere finalmente riuscita ad aprire la porta del bagno con la magia, si sporse al di fuori della finestra, che di certo non era stata lei a lasciare aperta, non scorse anima viva né sul suo terrazzo, né nei due degli appartamenti che la circondavano. Quasi si aspettava di trovare in vista la sua giovane e sfacciata vicina dagli occhi verdi, ma il terrazzo del 13B era sorprendentemente deserto. Se il suo visitatore aveva pensato di sparire usando le scale antincendio ormai doveva trovarsi già qualche piano più in basso e lei decisamente non aveva l’età per mettersi ad inseguire qualcuno attraverso delle rampe di scale di metallo, perciò decise di limitarsi a chiudere la finestra. Solo nel far combaciare il pannello scorrevole con la base la donna si accorse dei segni scarlatti che qualcuno aveva deciso di imprimere sul legno, segni che acquisirono un senso solo quando le due componente della finestra si unirono per creare qualcosa che le fece stringere le labbra. Ribollente di rabbia e indignata al tempo stesso, la donna ruotò leggermente la testa per gettare un’occhiata al rossetto di Dior che aveva lasciato sul bordo di marmo del lavandino, assolutamente certa che quella sfrontata ragazza avesse usato proprio quello.
 
 
“Cioè siete arrivati qui da casa della Signora Turner?!”
Carter, ancora piuttosto incredulo dal racconto fornitogli da Mathieu, spostò allibito lo sguardo dal vicino, seduto sull’estremità del suo divano color cuoio, fino a Niki, che stava in piedi alle sue spalle tenendo Isla in braccio. La strega non aveva praticamente aperto bocca da quando aveva messo piede nell’appartamento, e per tutto il tempo in cui Mathieu aveva parlato si era limitata ad accarezzare dolcemente la gatta di Carter studiandola pensosa, come se la sua mente si trovasse altrove.
“Sì, siamo passati per il terrazzo del 13D ed eccoci nel tuo. Un miracolo che non ci abbia visti. Pensi che non ci abbia visti, vero?”
Mathieu si voltò leggermente per posare lo sguardo su Niki, che si strinse debolmente nelle spalle e rispose con voce pacata, senza distogliere lo sguardo da Isla:
“No di certo, sarebbe già alla porta di Ken brandendo minacciosa dei centrini, costringendoci tutti a perire sotto il peso di terribili cappellini infiocchettati.”
“Beh, comunque non abbiamo trovato nulla, solo la conferma che la Signora Turner odia Niki.”
“Non sono d’accordo, Mike ha scoperto che il rosa gli dona molto. Ken, se la vecchia te lo chiede noi siamo sempre stati qui.”
Niki si chinò per rimettere Isla sul pavimento sfoggiando un debole accenno di sorriso, dopodiché si avviò verso la porta dell’appartamento mentre Carter, accigliato, gettava un’occhiata interrogativa a Mathieu come a chiedergli perché la vicina lo stesse chiamando col nome sbagliato. Il canadese non rispose mentre si alzava dal divano per seguire Niki fuori dall’appartamento, dove di lì a poco avrebbero incontrato Orion e Jackson – per quel giorno ne aveva avuto decisamente abbastanza, della compagnia dei suoi vicini, e voleva solo tornare a casa dal suo cagnolone –, suggerendo a Carter di lasciar perdere con un’occhiata rassegnata. Mathieu aveva appena raggiunto Niki sulla soglia dell’appartamento quando la strega, prima di aprire la porta, sembrò ricordarsi improvvisamente di qualcosa e si voltò verso di lui per guardarlo allarmata e con gli occhi verdi spalancati:
Ryan! Ci siamo dimenticati di Ryan!”
Per un istante Mathieu la guardò con le sopracciglia aggrottate, impegnato a cercare di capire di chi stesse parlando la vicina – come del resto anche Carter, che li osservò dal divano e con Isla in braccio con un’espressione a punto interrogativo –, finendo ben presto con l’alzare gli occhi al cielo quando intuì che con Ryan Niki si stava riferendo alla sedia della Signora Turner. Niki invece si strinse nelle spalle, mettendo da parte l’amarezza per aprire la porta abbozzando un piccolo sorriso:
“Poco male, tornerò a prenderlo.”
“Di certo non con il mio aiuto.”
“E chi te lo ha chiesto?”
“Matt, chi è Ryan?! Il tizio che Niki tiene segregato sotto il pavimento?!”
 
 
*

 
– VI –
La paella


image host image host image host
 

 
Tutto ciò a cui Eileen riusciva a pensare mentre sedeva su una delle panchine del cortile interno dell’Arconia erano gli ingredienti per preparare la paella de marisco, il suo piatto preferito, che l’aspettavano nel frigo del suo appartamento al sesto piano e il piccione che zampettava a pochi metri di distanza da lei sulla ghiaia che ricopriva il vialetto.
Eileen era terrorizzata dai piccioni ed era sicura che il pennuto l’avrebbe attaccata da un momento all’altro, per questo motivo non riusciva a distogliere gli occhi eterocromi dall’animale e a rilassarsi, stando invece rigidamente seduta tra Esteban e Kei con le braccia strette al petto e contro il freddo schienale di metallo leggermente arcuato. La strega invidiava profondamente i suoi vicini, che al contrario di lei sembravano rilassatissimi: Esteban stava sorseggiando il caffè che era andato a prendersi poco prima per ingannare l’attesa, mentre Kei leggeva l’oroscopo su una rivista.
“Qui dice che oggi mi andrà tutto male, fantastico…”
Kei finì di leggere la pagina aggrottando leggermente le sopracciglia prima di sbuffare amareggiato e richiuderla, destando una smorfia appena accennata sulle labbra sottili di Eileen, che parlò senza smettere di fissare il piccione:
Un chiaro segno che a breve il piccione ci attaccherà.”
“A me non sembra che sia molto interessato a noi.”
Esteban strinse il bicchiere di carta con entrambe le mani mentre lo abbassava per tenerlo in grembo, godendosi il tepore sui palmi mentre osservava a sua volta l’animale inclinando leggermente la testa di lato. Il piccione sembrava più interessato a qualche briciola sparsa tra la ghiaia che a loro, ma Eileen scosse la testa con vigore, del tutto certa delle sue convinzioni:
“Finge. È una tattica.”
Ma non sono animali notoriamente cretini?”
Esteban, accigliato, distolse lo sguardo dall’animale per sporgersi leggermente in avanti e poter quindi gettare un’occhiata dubbiosa in direzione di Kei, che tuttavia affermò la propria ignoranza in fatto di animali volanti prima di sfogliare la rivista e chiedere al vicino di che segno fosse senza smettere di osservare la rivista.
“Gemelli.”
“Ok, allora vediamo un po’ che cosa c’è per te oggi…”
Mentre Eileen studiava diffidente il piccione e progettava mentalmente di utilizzare Esteban come scudo umano in caso di attacco Kei sfogliò la rivista fino ad arrivare alla pagina giusta, iniziando a leggere l’oroscopo ad Esteban:
“Per quanto riguarda l’amore qui dice… Vi dedicate alla persona che avete accanto colmandola di tenerezze e di attenzioni costanti: ne sarete corrisposti con tutta l’intensità affettuosa che meritate…”
In effetti Mocio era particolarmente affettuoso questa mattina…”
Esteban parlò osservando pensoso la fontana del cortile che stava a pochi metri di distanza da loro e grattandosi debolmente il mento coperto dal leggerissimo strato di barba che quella mattina non aveva avuto voglia di tagliare mentre Kei, accanto a lui, continuava a leggere.
“E dice anche che Urano è al tuo fianco.”
“E che vuol dire?”
Esteban si voltò di nuovo verso Kei mentre Eileen, resa sempre più nervosa dal fatto che il piccione stesse puntando la loro panchina, si ritraeva appiattendosi sempre di più contro lo schienale. Se si fosse avvicinato di qualche altro metro sarebbe corsa al riparo all’interno del palazzo, stabilì fermamente la strega, ma per fortuna Esteban la distrasse tirando fuori dalla tasca della giacca troppo larga il suo telefono con un larghissimo sorriso:
“Ieri gli ho messo un collare con il papillon, guardate che carino!”
Nonostante preferisse di gran lunga i gatti Kei dovette ammettere che il pelosissimo ed enorme cane del suo vicino – il giorno prima per fargli le feste lo aveva quasi mandato lungo disteso sul pavimento – fosse adorabile, ma mai quanto Eileen, che guardò le foto con l’espressione intenerita che Kei vedeva destare sui visi altrui solo da animali e bambini:
“Che carino, sembra così morbido… Io ho solo un barbagianni, se avessi un cane o un gatto starebbero spesso da soli e mi dispiacerebbe troppo.”
“Per fortuna io lavoro a casa, altrimenti ogni sera tornerei trovando l’appartamento sfasciato. Ha una passione per i cuscini, specie quelli nuovi. È come se lo sapesse, quando sono nuovi. Oh, qui gli avevo messo i miei occhiali da sole e una bandana.”
Le labbra carnose di Esteban si allargarono in un ampio sorriso alla vista dell’ennesima foto di Mocio – aveva più foto del suo cane in galleria che di qualsiasi altro soggetto, ma non se ne vergognava affatto – con addosso i suoi occhiali e una vistosa bandana gialla legata al collo mentre Kei, sollevato lo sguardo dallo schermo per guardarsi intorno, si ritrovava ad osservare Niki attraversare il cortile percorrendo il vialetto più lontano da loro con lunghe e decise falcate, gli occhiali scuri dalle lenti circolari a celarle gli occhi puntati sul suo telefono e la lunga giacca di pelle nera che ad ogni passo le danzava attorno alle gambe. Se anche li vide la strega non fece caso a loro, camminando senza alzare lo sguardo e digitando qualcosa sullo schermo finchè Kei non la vide sparire dal proprio campo visivo imboccando la brevissima galleria che conduceva alla West 86th Street.
Mentre Eileen, dimenticatasi momentaneamente della minaccia rappresentata dal piccione, guardava intenerita le foto di Mocio Kei si domandò dove la loro vicina stesse andando così di fretta e soprattutto se lei e Mathieu fossero già stati a casa della Signora Turner, la vicina di gran lunga più insopportabile che avesse mai avuto in tutta la sua vita. Persino più di Niki. In effetti, ora che ci pensava, all’improvviso il ragazzo si chiese se Mathieu fosse illeso dopo aver passato del tempo da solo con lei.
 
Esteban, Eileen e Kei dovettero stare a guardare un considerevole via vai di vicini – incluso Mathieu, che scese nel cortile appena pochi minuti dopo il passaggio di Niki insieme a Prune, che per la gioia di Eileen finì involontariamente con lo spaventare e scacciare i tanto temuti piccioni – prima di scorgere finalmente Jeremy e Isabela Gutierrez fare altrettanto: madre e figlio superarono la panchina che i tre avevano occupato parlando animatamente in spagnolo, e da quello che riuscirono a carpire della conversazione Esteban ed Eileen concordarono sul fatto che i due stessero litigano, anche se non riuscirono a comprendere il motivo della discussione.
I tre attesero che gli inquilini dell’undicesimo piano lasciassero il cortile e dopo un paio di minuti Esteban si alzò, s’infilò le mani nelle tasche della felpa e si diresse in tutta calma verso l’ingresso del palazzo, in parte sollevato all’idea di tornare all’interno dell’edificio visto e considerato che la temperatura stava rapidamente calando con l’avanzare delle ore e l’avvicinarsi della sera.
Il ragazzo attraversò da solo il cortile, salutò Lester con il suo consueto sorriso allegro e varcò la porta di vetro per attraversare l’ingresso e fermarsi di fronte agli ascensori. Salì al dodicesimo piano, dove si trovava il suo appartamento, per nulla intenzionato a consentire a qualcuno dei suoi vicini di ricordarsi malauguratamente di averlo visto salire all’undicesimo qualora qualcosa fosse andato storto, ma una volta uscito dall’ascensore si diresse senza indugi verso la porta che conduceva alla tromba delle scale anziché verso quella del proprio appartamento, scendendo al piano sottostante per controllare che il corridoio non fosse affollato prima di scrivere a Kei di raggiungerlo.
Esteban attese, anche se la pazienza non era mai stata la sua qualità migliore, che i vicini lo raggiungessero rigirandosi con leggero nervosismo il telefono tra le mani ambrate, distendendo le labbra carnose in un sorriso quando le porte di uno dei due ascensori si aprirono con il consueto tintinnio metallico e scorse Eileen e Kei uscire insieme dall’abitacolo.
Hola. Oh, bene, eravate da soli in ascensore.”
“Sì, anche se quando ci ha salutati Lester mi è parso un po’ stranito, penso che si stia domandando come mai ci sono vicini che prima di oggi non aveva mai visto insieme fare avanti e indietro per il palazzo in compagnia.”
Eileen si fermò davanti al ragazzo incrociando le braccia fasciate dalla giacca blu notte al petto e accennando una lieve smorfia inclinando verso il basso gli angoli delle labbra, sperando che il portiere non iniziasse rapidamente a farsi troppe domande mentre Kei, accanto a lei, si stringeva debolmente nelle spalle asserendo che avessero fatto bene a dividersi e a stabilire che Esteban salisse all’undicesimo piano prima di loro.
Bien, direi che stare qui a cincischiare nel bel mezzo del corridoio non è da considerarsi la scelta più furba… entriamo?”
“Rilassati, i Gutierrez possiedono mezzo piano, negli appartamenti che restano vivono Naomi e Piper, il rischio che passi qualcun altro dei nostri vicini è più basso che mai.”
Eileen si strinse nelle spalle prima di accennare in direzione della porta che, fino a qualche anno prima, era stata quella dell’11B ma che da quando Isabela Gutierrez si era trasferita era diventata l’ingresso per l’unico appartamento nato dall’accorpamento dell’11A, B e C.
Come la donna avesse fatto a permettersi di acquistare non uno, non due ma addirittura tre appartamenti in uno dei piani più alti del palazzo restava un mistero per tutti gli inquilini dell’Arconia anche a diversi anni di distanza, e ben presto si era diffusa la forte curiosità nei confronti di quel fantomatico appartamento gigantesco, grande quanto più della metà dell’intero piano.
“Se lui e Montgomery si conoscevano perché non abbiamo incluso anche Jeremy in questa… cosa?”
Esteban con le parole ci lavorava, eppure non era ancora del tutto sicuro di come doversi riferire a quella stramba situazione che stava vivendo insieme a parte dei suoi vicini dal giorno in cui Montgomery Dawson era morto, e mentre Eileen sfoderava la bacchetta per aprire la porta dell’appartamento si rivolse a Kei con aria interrogativa, guardando il ragazzo stringersi nelle spalle mentre fissava pensoso l’11B di ottone, rimasto infisso sulla porta negli anni anche dopo il trasferimento dei Gutierrez e della demolizione di molti dei muri del piano.
“C’è qualcosa in lui che non mi piace. So che si erano conosciuti a scuola, lui e Monty, ma di recente i rapporti si erano fatti tesi, credo avessero litigato per qualche motivo… Non mi ha detto perché, ma era abbastanza evidente.”
Jeremy Gutierrez si era trasferito all’Arconia diverso tempo prima di lui ma Kei non aveva mai avuto modo di averci particolarmente a che fare, limitandosi a brevi scambi verbali occasionali dovuti all’amicizia comune con Montgomery. Jeremy rappresentava in tutto e per tutto il tipo di persona che riusciva ad attirare a sé quasi magneticamente chi lo circondava: bellissimo, visibilmente viziato ma, almeno all’apparenza, gentile a affabile. Kei aveva sempre visto molto di Montgomery in lui, ma se a primo acchito chiunque avrebbe sottolineato come Jeremy fosse privo di quella sottile quando palpabile vena di arroganza e arrivismo propria del suo defunto amico Kei con il passare del tempo e grazie ai racconti di Monty aveva compreso come Jeremy somigliasse al suo amico anche da quel punto di vista, con la differenza che anche se Monty sapeva sì essere difficile e a volte insopportabile restava comunque sempre se stesso nel bene e nel male, mentre Jeremy nascondeva i difetti dietro al suo sorriso e al suo bel faccino cesellato.  
“Ti prego, non dirlo a Leena, Carter o Niki, o lo piazzeranno in cima alla lista dei sospettati in tempo record. E c’è da dire che sarebbe proprio un peccato, è così bello. Ora direi che ci servono dei guanti…”


Conoscendo la sua amica – e avendo già avuto modo di farsi una vaga idea a proposito del carattere di Carter – Eileen aveva quasi timore ad immaginare che cosa avessero combinato lei e l’affascinante giornalista che viveva al tredicesimo piano, ma decise che ci avrebbe pensato in un secondo momento e di darsi delle priorità in base dettate dalla situazione attuale mentre, dopo aver fatto scattare la serratura della porta con la magia, faceva apparire tre paia di guanti, uno per sé e uno per i suoi due vicini.
Dopo aver distribuito i guanti e aver infilato i propri – ignorando le lamentele di Kei ed Esteban, che non sembrarono gradire particolarmente il tono di verde che aveva scelto – Eileen strinse la maniglia e finalmente spinse la porta, varcando per prima la soglia dell’appartamento.
Eileen non poteva negare che la curiosità nei confronti di quell’appartamento così assurdamente grande era sempre stata molta, tanto che si era sempre chiesta che cosa se ne facessero due sole persone di tutto quello spazio: il suo appartamento trovandosi qualche piano più in basso era sicuramente molto meno ampio rispetto anche a solo uno degli appartamenti dell’undicesimo piano, e per lei lo spazio era comunque troppo, tanto che le era avanzata una stanza per gli ospiti che non usava praticamente mai. Si era sempre chiesta quante stanze contasse quel fantomatico mega-appartamento e che cosa madre e figlio se ne facessero, e dopo due anni la sua curiosità venne finalmente ripagata in un grigio ed uggioso pomeriggio di fine settembre.
L’ammirazione, mista a sgomento ed un pizzico di invidia, fu talmente tanta che dopo aver varcato la soglia Eileen restò ferma ed impalata davanti alla porta, raggiunta ben presto da Esteban e Kei. Per qualche istante i tre, in piedi uno accanto all’altro, restarono in silenzio ed immobili davanti alla soglia, impegnati a far vagare lo sguardo attraverso il salone assurdamente enorme che avevano di fronte, finchè Eileen non spezzò il silenzio sempre guardandosi attorno a bocca aperta:
Porco Zuckerberg. Pensate che abbiano venduto degli organi per venire a stare qui?”
Kei non rispose, ancora leggermente sotto shock per l’enormità dello spazio che aveva di fronte e impegnato a chiedersi quanti cuccioli di elefanti ci sarebbero voluti per occupare quella stanza, mentre Esteban si prese qualche istante prima di annuire piano, le sopracciglia aggrottate e i grandi occhi scuri che vagavano attraverso la stanza, soffermandosi sui mobili di design visibilmente costosissimi e sulle ampie vetrate così pulite che se avesse vissuto lì avrebbe avuto sinceramente paura di toccare.
“Detesto dirlo perché non vorrei suonasse come un luogo comune sui messicani, specie considerando che io sono cubano e che se mia madre mi sente mi fa una lavata di capo come solo una madre latina sa fare... Ma forse non hanno venduto i loro. Forse quelli di qualcun altro.”
 
La curiosità di Kei, Esteban ed Eileen nei confronti dell’immenso appartamento dei Gutierrez salì alle stelle quando diverse stanze si rivelarono inaccessibili: le porte erano state non solo chiuse a chiave ma anche con degli incantesimi, e dopo numerosi tentativi i tre dovettero arrendersi e lasciar perdere le stanze misteriose, non senza una grande delusione.
“Chissà cosa c’è qui dentro… Scommetto che alcuni degli altri penserebbero subito a una qualche forma di mercato nero.”
Kei parlò scrutando dubbioso l’ennesima maniglia di una porta che non era riuscito ad aprire, chiedendosi perché alcune delle stanze fossero state sigillate e altre no, pur contando al proprio interno beni di grande valore. L’ennesima conferma gli giunse infatti da Esteban un attimo dopo, quando la voce del cubano si levò da un punto indistinto del corridoio rivestito da parquet sul pavimento e da opere d’arte sulle pareti che si articolava alla sua sinistra:
“O ad un ammasso di scheletri. Ma hanno la tv in bagno?! Stiamo scherzando?!”
“Geniale, ti puoi guardare le serie tv mentre fai il bagno…”
No, Jeremy non gli era mai piaciuto, ma non poteva negare che quella fosse una trovata da invidiare, si disse Kei mentre esaminava la più grande quantità di telecomandi che avesse mai avuto sotto gli occhi tutti insieme, cercando di capire a che cosa servissero mentre Eileen usciva da una stanza aperta e percorreva il corridoio per raggiungerlo scuotendo vigorosamente la testa e tenendo qualcosa in mano:
“Io mi rifiuto, controllatela voi la cabina armadio di Isabela, o mi verrà voglia di macchiarmi di furto. A cosa le serve tutta quella roba, poi, dovrebbe cambiarsi tre volte al giorno per avere la possibilità di indossare tutti quei vestiti... In compenso da Jeremy ho trovato questi. E sottolineo che non erano in cassaforte, erano in un dannato cassetto che chiunque avrebbe potuto aprire, me inclusa.”
Quasi incredula Eileen sollevò ciò che teneva in mano per mostrarlo al vicino, ovvero una scatola porta orologi di legno con inserti d’oro e il rivestimento in vetro che consentiva di ammirare ben sei dei più costosi orologi che Kei si fosse mai trovato davanti in tutti i suoi venticinque anni di vita. Anche Esteban, incuriosito, emerse dal bagno – fino a quel momento Kei si era sinceramente chiesto dove fosse finito, tanto era grande quell’appartamento – per osservare con i suoi occhi, inarcando un sopracciglio con evidente scetticismo quando il suo sguardo indugiò sulla scatola, a voler ben vedere costosissima a sua volta:
“Allora le cose sono due, o è idiota o talmente ricco da potersi permettere di farseli rubare da sotto al naso… Io ho trovato gli asciugamani più morbidi dell’universo. Odio dirlo perché sembro mia madre, ma è la verità.”
Chissà, forse invecchiare significava apprezzare la morbidezza degli asciugamani, si disse Esteban mentre tastava il candido asciugamano che teneva tra le mani. Eileen invece chinò nuovamente lo sguardo sulla collezione di orologi di Jeremy, scuotendo la testa con invidia, sgomento e incredulità al tempo stesso: per lei era impensabile anche solo l’idea di possedere cose del genere, figuriamoci lasciarle in bella vista e facilmente a portata di furto.
“Questi sono tutti Rolex, varranno più della mia vita! No, non scherzo, sono sicura che se fossimo nel deserto e mi vendeste io non varrei assolutamente quanto questi orologi.”
“Ma se fossimo nel deserto dovremmo venderti per dei cammelli, non per soldi.”
“Vero. Chissà quanti cammelli valgo…”
“C’è il test da fare su internet, dopo te lo faccio provare. Vado a vedere quante altre stanze ci sono, se tra venti minuti ancora non avete mie notizie venite a cercarmi.”
Kei diede alle spalle ai due vicini e si allontanò con un sospiro, sperando vivamente di non perdersi in quella specie di lussuosissimo labirinto e non riuscendo a fare a meno di provare ad immaginare come avrebbe reagito Montgomery vedendolo in quella situazione, ad introdursi illegalmente e a ficcanasare a casa di un suo amico.
Probabilmente avrebbe riso e avrebbe trovato la situazione più divertente che mai, e forse si sarebbe persino compiaciuto sapendo che la sua morte aveva acquisito tutta quell’importanza. Quel pensiero riuscì a destare, nonostante tutto, un piccolo sorriso sul volto perennemente teso ormai da giorni di Kei, anche se il ragazzo non poté fare a meno di pentirsi amaramente per non aver insistito maggiormente per cercare di capire che cosa di preciso fosse successo tra Monty e Jeremy nel periodo immediatamente precedente alla sua morte.

 
“È da un po’ che non vi vedo insieme.”
“Di chi parli, scusa?”
L’immagine di Montgomery, comodamente disteso sul suo divano di pelle con una rivista di Quodpot in mano, era ancora perfettamente vivida nella mente di Kei, anche se con il tempo i dettagli avrebbero iniziato a dissolversi. Prima il modo in cui Monty sistemava sgraziatamente i piedi sul bracciolo, poi i gesti con cui si scostava i lisci capelli scuri dal viso quando gli scivolavano davanti alla fronte, infine la sua voce e pian piano anche i lineamenti del suo viso, tutto avrebbe iniziato a farsi più confuso e sfuocato, fino al momento in cui tutti quei piccoli dettagli sarebbero inesorabilmente scivolati nella crudele dimenticanza.
Montgomery aveva parlato senza nemmeno alzare lo sguardo e col tono leggermente annoiato di chi non ha intenzione di prestare particolare attenzione alla conversazione, un tratto tipico del suo amico e a cui Kei aveva finito con l’abituarsi: non era semplice ottenere l’attenzione di Montgomery, non era semplice fare in modo che lui pensasse che il suo interlocutore la meritasse. A volte Kei ancora si ritrovava a stupirsi per l’essere riuscito a “meritare” la sua amicizia.
“Tu e Jeremy. Avete discusso?”
“Non direi, no. È una situazione noiosa, una cosa davvero stupida, non mi va neanche di parlarne, non vale la pena perderci tempo, fidati.”
Con quelle parole Montgomery aveva chiuso la rivista e l’aveva gettata sul pavimento con un movimento pigro della mano, uno dei tanti segni che rendeva evidente a chi gli stava attorno la sua inclinazione a stancarsi in fretta di qualsiasi cosa lo circondasse. Di nuovo, il gesto non stupì minimamente Kei, che restò seduto sulla poltrona dallo schienale alto che occupava sempre a casa dell’amico con uno dei suoi testi universitari aperto sulle ginocchia. Sapeva che a modo suo Montgomery poteva considerarsi una persona sincera, una persona che se aveva problemi con qualcuno non aveva remore a renderlo palese, ma allo stesso tempo ebbe la netta sensazione che l’amico stesse volutamente omettendo qualcosa.
“Sei sicuro?”
Udita la sua domanda Monty lo aveva finalmente degnato del suo sguardo, e Kei lo aveva guardato allargare le labbra in un sorriso sornione prima di sollevarsi per mettersi a sedere sul divano, stiracchiandosi debolmente sollevando le lunghe braccia scolpite color caffelatte prima di appoggiarsi allo schienale del divano e stringersi nelle spalle, tamburellando distrattamente le punte delle dita sui cuscini mentre reclinava la testa all’indietro per fissare il soffitto.
“Certo che sono sicuro. Quando c’è qualcosa che non va lo dico, lo sai. E a questo proposito piantala di studiare, raccontami qualcosa. Qualcosa che valga la pena di stare a sentire.”
 
 
Kei non aveva sinceramente idea di chi potesse aver desiderato la morte del suo amico, un pensiero che giorno dopo giorno lo faceva sentire sempre più inutile e bloccato nei ricordi degli ultimi momenti trascorsi insieme, ma qualunque sarebbe stato l’esito di quella storia sperava con tutto se stesso che non si trattasse di Jeremy: aveva avuto la possibilità di approfondire la questione e non l’aveva fatto. Se si fosse rivelato lui il colpevole probabilmente non se lo sarebbe mai perdonato.
“Io vado a rimettere questi a posto. Esteban, se non mi vedi tornare vieni a cercare anche me, por favor.”
Come Kei prima di lei anche Eileen girò sui tacchi e sospirò mentre si allontanava con la scatola di legno in mano, impaziente di uscire dall’appartamento per poter chiamare Leena e lamentarsi insieme a lei dell’ostentatissima ricchezza degli inquilini dell’appartamento. Forse la sua amica non era la persona migliore con cui affrontare discorsi di quel genere visto e considerato l’ambiente in cui sapeva essere cresciuta, ma Eileen sapeva anche quanto la vita di Leena fosse cambiata da quando si era trasferita negli States, pertanto sapeva che in qualche modo avrebbe potuto capirla.
 
 
“Ragazzi, potremmo darci una mossa? Questa situazione mi rende particolarmente nervoso, specie considerando che l’oroscopo ha detto che oggi mi sarebbe andato tutto male, quindi non vorrei che i Gutierrez tornassero e ci trovassero nel bel mezzo del loro salotto.”
Nel pronunciare quelle parole Kei si ritrovò quasi involontariamente a scoccare un’occhiata particolarmente eloquente in direzione di Eileen, che aveva ben pensato di testare uno dei tre divani bianchi del soggiorno per verificare se fossero effettivamente comodi tanto quanto lo sembravano. Disgraziatamente era così, e la strega era sicura che avrebbe anche potuto non alzarsi mai più.
“Non guardarmi così, dovevo provarlo!”
Eileen rispose allo sguardo di rimprovero di Kei con un’occhiata sostenuta e incrociando le braccia al petto, per nulla pentita della sua decisione – anche se di lì in poi avrebbe odiato ogni singolo altro divano esistente, cosa che la portò a pensare che forse provare quella meraviglia non fosse stata la migliore delle idee – mentre Esteban li raggiungeva fermandosi sulla soglia dell’enorme soggiorno, accanto ad un enorme ficus.
“Questo posto è comunque troppo grande per poter sperare di controllarlo tutto per bene, ci vorrebbero due giorni… e poi un sacco di stanze sono chiuse. In compenso, ho trovato la spa.”
Hanno la spa?! Avete presente quella faccenda sul non giudicare la gente dalle apparenze? Me ne frego, io li odio. Basta, è deciso, dobbiamo diventare amici di Jeremy.”
“Lo dici perché sarebbe utile per il caso, perché è un figo assurdo o per la spa?”
Esteban guardò la vicina alzarsi dal divano sfoggiando un sorrisetto divertito, non sentendosi comunque nella posizione di poterla contraddire mentre Eileen, sbuffando piano con leggera amarezza, si premurava di rassettare i cuscini del divano con le mani per lasciarli esattamente come li aveva trovati prima di accomodarcisi sopra.
“Tutte e tre, ma soprattutto per la spa! Potrei sempre portargli la paella, impossibile non restarne conquistati.”
“Ok señorita, ma non stasera, stasera ce la mangiamo noi. Queste si chiamano priorità.”
 
 
Tutto considerato fu quasi un sollievo poter finalmente uscire da quell’appartamento che ostentava lusso e ricchezza da ogni angolo: Eileen aveva la netta sensazione che più tempo avrebbe trascorso lì dentro, più sarebbe stata grande la voglia di osservare inacidita e risentita il proprio armadio, minuscolo se messo a confronto con quello di Isabela Gutierrez, e maledire il loro divario economico. Per lei quell’assurdo grado di ricchezza era talmente irraggiungibile da spesso nemmeno rendersi conto di quanto alcuni dei suoi vicini fossero facoltosi, anche se la verità le veniva schiaffata in viso come un doccia gelata quando le capitava di scorgere alcune delle automobili di quegli stessi vicini nel parcheggio condominiale sotterraneo.
“E ora che si fa?”
Dopo essersi chiuso la porta alle spalle Esteban volse lo sguardo su Eileen, che era uscita dall’appartamento prima di lui e stava in piedi alla sua sinistra. La strega si prese una breve pausa prima di rispondergli, voltandosi a sua volta verso di lui prima di parlare con il tono calmo ma allo stesso tempo perentorio di chi ha preso una ferma decisione: Eileen Mackenzie Garcia aveva delle priorità, e spesso e volentieri la cena era una di quelle.
“Adesso si cena. Sto morendo di fame e la paella non si prepara da sola. Vamonos.”
Con quelle parole Eileen si incamminò con passi decisi verso l’ascensore senza fermarsi a controllare che i due vicini la stessero seguendo, ma dopo essersi scambiati una rapida occhiata Kei ed Esteban non tardarono a farlo, affrettandosi a raggiungerla con poche falcate mentre la strega si fermava per chiamare l’ascensore. I tre scesero insieme fino al sesto piano in silenzio, non osando scambiarsi una parola a causa della presenza di qualcun altro tra i loro vicini, che si unirono al tragitto man mano che l’ascensore scendeva i vari piani, ma quando le porte dorate si aprirono mostrando l’ampio corridoio del sesto piano Esteban e Kei non tardarono a seguire Eileen prima fuori dall’abitacolo e poi verso la porta dell’appartamento della strega, entusiasti di ricompensare il loro lavoro con un’ottima cena.
Eileen, acabas de convertirte en mi vecina favorita.”    [Sei appena diventata la mia vicina preferita]
Mentre la strega estraeva le chiavi per aprire la porta Esteban le si rivolse con un largo sorriso benevolo che Eileen ricambiò, asserendo sempre in spagnolo che lo sarebbe diventata ancora di più quando il ragazzo avrebbe effettivamente constatato quanto la sua paella fosse deliziosa. A Kei, in piedi alle loro spalle, non restò che alzare gli occhi al cielo, maledicendo mentalmente il condominio per la tristissima assenza di altri inquilini giapponesi, cosa che a New York lo costringeva a poter parlare nella sua lingua madre solo ed esclusivamente con suo fratello maggiore, che viveva a Brooklyn.
“Prima o poi spero che arrivi qualche mio concittadino, così potrò parlare la mia lingua madre con qualcuno anche io.”
Nel frattempo Eileen aveva infilato la chiave nella toppa, ma prima di girarla e aprire la porta si voltò verso il ragazzo, guardandolo con un’espressione sinceramente contrita impressa sul bel viso pallido prima di accennare un sorriso gentile con gli angoli delle labbra:
“Oh, scusami tanto, lo faccio quasi senza pensarci… è bello parlare la propria lingua con qualcuno, ma effettivamente non è molto educato nei confronti di chi ci ascolta e non capisce. Per te doppia porzione di paella!”
Mentre faceva girare la chiave nella serratura per farla scattare il sorriso di Eileen si allargò alla vista di quello che fece rapidamente capolino sul viso di Kei, che parve a dir poco rincuorato dalla sua offerta e sembrò mettere immediatamente da parte l’offesa subita di fronte alla prospettiva di potersi riempire del più famoso piatto tipico spagnolo fino a scoppiare. Lo stesso invece non si poté dire di Esteban, che spostò sgomento lo sguardo da lui ad Eileen mentre seguiva la vicina all’interno del suo appartamento:
“Che cosa?! Anche io voglio fare il bis!”
“Ehy, tu hai con chi parlare spagnolo e sei illegalmente figo, non puoi avere tutto!”
 
 
Per ringraziarla dell’ospitalità una volta giunti a casa di Eileen Esteban aveva chiesto alla strega se non volesse una mano per preparare il piatto, ma dopo essere venuta a conoscenza delle loro scarsissime doti culinarie Eileen aveva spedito lui e Kei lontano dalla sua cucina, lasciandoli in compagnia del suo barbagianni Anacleto per evitare che potessero rischiare di rovinare la cena, e una volta pronta Esteban aveva ingurgitato talmente tanta paella da chiedersi se per raggiungere la fermata della metropolitana non avrebbe dovuto chiedere ad Eileen di spingerlo per il marciapiede per farlo rotolare.
Prima di uscire dall’Arconia per raggiungere alcuni dei suoi amici il ragazzo aveva deciso di tornare del suo appartamento per cambiarsi e soprattutto salutare Mocio e servirgli la cena, non provando particolare stupore quando, una volta varcata la soglia di casa e accesa la luce del soggiorno, aveva visto il grosso cane già pronto e in attesa davanti alla sua ciotola.
Esteban sorrise mentre, chino accanto a lui, guardava il Bobtail divorare felicemente i suoi croccantini, accarezzandogli la schiena e il foltissimo pelo bianco e grigio rammaricandosi un poco di non poter condividere i dettagli del suo pomeriggio con i suoi amici. Per fortuna Mocio non parlava e a lui si poteva raccontare qualsiasi cosa, mentre ai suoi amici probabilmente avrebbe semplicemente detto di aver passato il pomeriggio a lavorare.
“Ciao ragazzone. Non indovinerai mai cosa ho fatto oggi pomeriggio.”
 
 
Quelli erano i momenti in cui più ringraziava di essere una strega, constatò Eileen mentre osservava un paio di spugne gialle e verdi insaponate lavare autonomamente i piatti e l’enorme padella dove aveva preparato la paella nel lavello. Di solito quando preparava la paella ne teneva da parte per i giorni successivi ma quella sera era rimasta a guardare sgomenta Esteban e Kei mangiarne quantità industriali, tanto che del suo piatto preferito non era rimasto che il ricordo tra i piatti vuoti, ma almeno poteva dire di aver fatto un buon lavoro.
La strega si allontanò dalla cucina per raggiungere il trespolo di Anacleto, accarezzando dolcemente la soffice testa del barbagianni con l’indice e il medio uniti mentre chinava lo sguardo sullo schermo del proprio telefono, accennando un sorriso con gli angoli delle labbra quando scorse la notifica del messaggio con cui Leena le chiedeva come fosse andato il suo pomeriggio. Ben presto Eileen decise di chiamarla per parlargliene a voce e chiederle lo stesso, sistemandosi comodamente sul suo divano color crema abbracciando un cuscino rosso mentre aspettava che Leena rispondesse.
Quando sentì finalmente la voce dell’amica dall’altro capo del telefono il sorriso di Eileen si allargò, e l’informatica si mise più comoda sul divano sollevando le gambe sul pouf poggiapiedi mentre Leena, diversi metri più in basso, sedeva invece su una delle panchine del cortile interno.
“Ciao, Nancy Drew. A te come è andata?”
Tutto si aspettava Eileen, del resto conosceva Leena da ben due anni, fuorché ciò che l’amica finì col raccontarle. Quando l’ex Corvonero accennò al fatto che Barry – che però Leena chiamò “Bernard” per “prevenire i danni in caso avessero intercettato la loro chiamata” – fosse rientrato a casa prima del previsto Eileen spalancò inorridita i grandi occhi chiari, chiedendole come se la fossero cavata a quel punto lei e Carter mentre l’amica, al contrario, parlava in tutta calma, allegra e di buon umore, come se avesse vissuto un pomeriggio ideale e le stesse raccontando una sciocchezza:
“Ci siamo infilati sotto al letto. Per fortuna ha deciso di farsi una doccia e ce la siamo filata… Comunque è davvero frustrante, non ne hai idea, qui nessuno capisce cosa dico, nemmeno quando parlo del bagno! Ma so che almeno tu puoi capirmi, è confortante.”
“Vi siete infilati sotto al letto?!”
“Sì, ammetto che è stato scomodo, ma proprio non me la sentivo di affatturarlo… Spero proprio che a nessun altro sia successo qualcosa di simile, è stato un vero peccato dover interrompere a metà le ricerche, e non ho nemmeno avuto tempo per dare un’occhiata in cucina. Magari il coltello insanguinato era lì, e io non lo saprò mai! A voi invece, come è andata?”
“Oh, bene, la paella era fantastica, i ragazzi hanno cenato qui ed erano entusiasti.”
“Non la paella Eileen, l’appartamento!”
 
 
Kei era sicuro di non aver mangiato tanto come quella sera da settimane e settimane a quella parte. Probabilmente si era abbuffato a tal punto solo durante la sua ultima visa alle sue due sorelle maggiori, che vivevano entrambe in Giappone e che avevano l’abitudine di trovarlo “troppo magro” e di preparargli l’inverosimile: suo fratello Eita, il maggiore, lo definiva spesso un “eterno viziatello” e Kei non se l’era mai sentita di obbiettare.
Non aveva mai mangiato la paella prima di quella sera, ed era stata una scoperta così lieta che forse aveva un tantino esagerato: ripromettendosi di mangiare solo insalata scondita il giorno seguente Kei si chiuse la porta del suo appartamento al settimo piano alle spalle prima di sorridere alla vista di Polaris, il suo gatto, che gli corse incontro per accoglierlo e miagolando. Il ragazzo ripose le chiavi sul mobiletto di legno che aveva sistemato nell’ingresso, si sfilò l’overshirt nera e la appese all’attaccapanni prima di chinarsi per salutare il gatto e prenderlo in braccio, sentendosi un tantino in colpa per averlo abbandonato a se stesso per tutto il pomeriggio.
Kei attraversò il corridoio che collegava l’ingresso alle altre stanze stringendo il gatto e grattandogli dolcemente la testa, superando le porte chiuse del bagno e del suo studio fotografico per raggiungere l’ampio soggiorno buio. Dopo aver acceso il lampadario a soffitto per illuminare la stanza Kei raggiunse il suo divano blu polvere e ci depositò sopra Polaris prima di sedersi accanto al gatto, abbozzando un altro sorriso quando sentì il micio fare le fusa sotto al suo tocco.
Dopo essersi brevemente appoggiato al morbido schienale del suo divano Kei puntò gli occhi a mandorla sul tavolino di vetro che aveva davanti, doveva aveva lasciato il suo computer. Il ragazzo scivolò dal divano e sedette sul pavimento davanti al tavolino per accendere il computer con l’intenzione di dare un’occhiata alle foto che aveva scattato due settimane prima, le ultime prima della morte di Montgomery, ma mentre aspettava che il dispositivo si accendesse si ritrovò a far vagare lo sguardo sulle pareti bianche dell’ampio soggiorno, parzialmente occupate dalle cornici adibite a custodire alcune delle sue fotografie preferite. Quasi senza che se ne rendesse conto Kei si ritrovò a puntare gli occhi su una foto in particolare, che lo ritraeva in compagnia dei suoi tre fratelli maggiori, e finì con il dimenticarsi del computer mentre osservava il suo viso, poi quello delle sue sorelle Etsuko e Kira – così terribilmente bella da portarlo spesso a chiedersi come potessero essere parenti – e infine quello di suo fratello, che nel ritratto gli teneva un braccio stretto attorno alle spalle.
Mentre Polaris, alle sue spalle, si distendeva comodamente sui cuscini del divano per sonnecchiare Kei si ritrovò ad estrarre quasi automaticamente il cellulare dalla tasca dei pantaloni, sperando che Eita non fosse impegnato mentre avviava una chiamata.
Fortunatamente il fratello gli rispose al terzo squillo, anche se dal suo tono stanco intuì che dovesse trovarsi ancora al M.A.C.U.S.A., o al massimo essere appena rientrato a casa:
“Ciao Eita. Sei al lavoro?”
“Appena tornato. Ti serve qualcosa?”
“Volevo chiederti… Sai niente del ragazzo che è morto qui qualche giorno fa?”
Kei aveva parlato della morte di Montgomery solo con sua sorella Kira, ancora troppo scosso per affrontare apertamente l'argomento, ma la pausa che suo fratello si prese prima di rispondergli gli fece immediatamente capire che Eita fosse a conoscenza del rapporto che aveva intrecciato con Montgomery.
“Non lavoro al caso, quindi quasi niente. Kira mi ha detto che era un tuo amico, mi dispiace.”
Udite le parole del maggiore fu Kei ad esitare prima di rispondere, fissando e strofinando distrattamente un angolo del suo computer con l’indice pallido prima di annuire, anche se Eita non poteva vederlo, e schiarirsi la voce:
“Già. Beh, potresti scoprire una cosa per me, se chiedessi in giro?”
“Immagino di sì. Cosa vuoi sapere?”
“Puoi scoprire se gli hanno fatto l’esame tossicologico?”
 
 



 
 
 
 
(1): Personaggio femminile principale del film Psycho di Alfred Hitchcock
(2): Essendo la storia scritta in italiano questi scambi di battute tra Carter e Leena non rendono come dovrebbero, me ne rendo conto, ma volevo comunque mettere in evidenza le enormi differenze lessicali che sussistono tra l’inglese e l’americano. Leena chiama bagno “loo” invece di “bathroom”, ragion per cui Carter non capisce di che cosa lei stia parlando, idem per “dressing gown”, vestaglia, che Carter da yankee conosce invece come “bath robe”
 
 
 
 
 
 
……………………………………………………………………………………………..
Angolo Autrice:
Vista l’ora tanto vale esordire con Buongiorno anziché Buonasera. Qualche sporadico aggiornamento notturno doveva pur fare ritorno prima o poi, mi era parso strano riuscire ad aggiornare ad orari decenti di recente. In mia difesa, questa volta è stata colpa dei cinema italiani che hanno deciso di ridare La camera dei segreti, e oggi potevo io non andare a rivedermelo in sala per versare lacrime per Robbie Coltrane secondo voi?
Rieccomi con la seconda parte e con gli OC che mancavano, sinceramente speravo che venisse più corta rispetto alla precedente, ma ahimè non è stato così, spero come sempre che la lettura non risulti pesante. Vorrei fare promesse su una riduzione per i prossimi capitoli, ma mi astengo per evitare di dovermi poi ripresentare in questa sede con una parrucca da clown in testa.
Questi due capitoli sono stati un esperimento, volevo provare ad impostare un capitolo in maniera diversa dal solito traendo vagamente ispirazione da “I sette quadranti” di Agatha Christie, dove nel corso di un’indagine i protagonisti si dividono ed ognuno viene approfondito nel corso di un arco temporale di poche ore. Le accoppiate, o trio nell’ultimo caso, le ho sorteggiate per provare a creare dinamiche nuove che spero vi siano piaciute, ora posso anche scusarmi pubblicamene con Maty-Maty, che probabilmente ora starà facendo le valige per trasferirsi, ma qualche povera anima Niki se la doveva cuccare. Per me è stato un lavoraccio quindi spero che questo piccolo esperimento sia riuscito e che i capitoli vi siano piaciuti, grazie a tutte per le recensioni della prima parte❤️
A presto spero, buon inizio settimana!
Signorina Granger

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 6 - Il club del delitto ***


In questo capitolo (e da questo punto della storia in poi) troverete un paragrafo collocato prima del titolo. Volevo sottolineare che non si tratta di un errore, ma di una scelta voluta per riprendere l’usanza delle serie tv di inserire una breve scena, di solito slegata dal resto della narrazione, prima della sigla e del vero e proprio inizio dell’episodio. In questa storia i rimandi alle serie comedy e alle sitcom sono infiniti, e visto che in questo tipo di serie la prima scena è spesso abbastanza nonsense questi paragrafi iniziali saranno sempre piuttosto deliranti.
Questa volta è toccato a Moos, Orion, Gabriel e Leena, vedremo chi saranno i prossimi.
Buona lettura!

 




 
Leena doveva recarsi a casa di Eileen al sesto piano, sia per farle visita sia per farsi consegnare con gioia un po’ dei calamari fritti che l’amica aveva preparato per cena. Leena non aveva mai dovuto cucinare in vita sua essendo crescita con degli Elfi Domestici, e accoglieva con sollievo ogni occasione in cui poteva esimersi dal dover provvedere personalmente alla propria alimentazione. La strega stava aspettando l’ascensore, in piedi davanti alle porte dorate chiuse e il piede destro che non la finiva di tamburellare sul pavimento, quando finalmente quelle si aprirono consentendole di gettare un’occhiata all’interno dell’abitacolo.
Un sorriso si fece subito largo sul bel viso della strega quando scorse ben tre volti noti, ed entrò nell’ascensore salutandoli allegra, di ottimo umore in previsione di tutti i calamari fritti che si sarebbe potuta gustare di lì a breve:
“Ciao ragazzi! State tutti salendo?”
“Sì, stiamo tutti tornando dal lavoro.”
Moos sorrise gentilmente alla strega mentre Orion, dietro di lui, trangugiava caffè da un bicchiere di carta e Gabriel se ne stava appoggiato alla parete di metallo tenendo in mano a sua volta una tazza nera termica da viaggio e l’aria di chi ha avuto una giornata orribile:
“Oggi ho dovuto tatuare delle dannate sedicenni che non avevano idea di che cosa volessero… Se mi chiedono un altro “Carpe diem” questa settimana potrei avere una crisi isterica. Detesto tatuare i minorenni, ci sono sempre i genitori in mezzo che mi assillano, come se il permesso firmato non me lo avessero dato loro.”
“Se ti consola, io ho dovuto sistemare il cadavere di una signora anziana, e aveva questo dannato anello che non riuscivo a toglierle…”
Il pulsante del sesto piano era stato già premuto da Moos, pertanto a Leena non restò che appoggiarsi alla parete mentre Moos faceva spallucce con nonchalance, impaziente di rimettere piede nel suo appartamento e potersi gettare sul suo comodo divano e Gabriel, udite le parole dell’amico, rabbrividiva abbassando gli angoli delle labbra in una smorfia schifata:
“Bleah, che schifo, risparmia i dettagli.”
“Il tuo lavoro dev’essere così interessante! Ti capitano mai vittime di omicidi violenti?!”
Leena guardò Moos con sguardo sognante, gli occhi scuri spalancati e pieni di vivo interesse. Era piuttosto insolito che qualcuno si dimostrasse così interessato al suo lavoro e Moos non poté che stupirsene, guardando la vicina con la fronte aggrottata, ma prima che potesse dare una risposta l’ascensore si fermò al quinto piano.
“Chi deve andare al quinto?”
Accigliato, Orion fece vagare lo sguardo tra i presenti mentre Gabriel si allungava per gettare un’occhiata critica alle file di pulsanti, dove gli unici ad essere illuminati erano il 6, il 7 e il 9, ovvero i piani dove lui, Moos e Orion vivevano.
“Nessuno di noi aveva premuto il pulsante.”
“Allora qualcuno deve salire, ma perché le porte non si aprono?”
Leena spostò lo sguardo da un vicino all’altro prima di puntarlo sulle porte chiuse, accigliata, imitata ben presto da tutti i presenti. Per qualche istante nessuno dei quattro parlò, consentendogli così di udire una voce femminile proveniente del corridoio del quinto piano chiedere, forse a qualcuno accanto a lei, perché le porte non si aprissero.
Non fu per nulla difficile riconoscere quella voce, per Orion, che come in un dejà vu ricordò di aver già vissuto una situazione del tutto simile: l’astronomo spalancò inorridito gli occhi scuri prima di abbracciare il suo bicchiere di caffè con fare protettivo, spostando preoccupato lo sguardo dai vicino fino alle porte chiuse dell’ascensore.
“Porco Galileo, è lei!”
“Lei chi?” Leena al contrario non aveva riconosciuto la voce, e spostò perplessa lo sguardo sull’astronomo mentre anche Gabriel, realizzato a sua volta chi si trovasse a due metri da lui, indicava le porte chiuse con orrore:
“L’odiatrice del caffè!”
“Chi?!”
“Quella indiana! Ma lei abita all’ottavo piano, che cosa ci fa qui?!”
Possibile che quel giorno tutti gli astri si fossero allineati contro di lui? Orion sbuffò sonoramente mentre gettava un’occhiataccia al soffitto, maledicendo la sua cattiva stella mentre Gabriel, voltatosi verso gli altri, indicava preoccupato la sua tazza termica prima di sussurrare qualcosa:
“E io ho il caffè!”
“Anche io!”
“… Anche io…”
Moos deglutì a fatica mentre estraeva lentamente il suo thermos dalla borsa a tracolla di cuoio da lavoro, guardandolo preoccupato e chiedendosi come potersene disfare in quell’ambiente tanto ristretto mentre Orion, dietro di lui, continuava a spostare ansiosamente lo sguardo da un vicino all’altro formulando i pensieri più drammatici possibile:
“E se lei ha ucciso Montgomery e ora entra e ci vede col caffè e ci uccide tutti?!”
“Non può ucciderci tutti, siamo in quattro, lei è da sola!”
Gabriel scosse la testa, liquidando il discorso con un gesto della mano mentre fuori dalle porte la voce di Kamala continuava soffocata a far loro visita, anche se nessun capì che cosa stesse dicendo, troppo impegnati a parlare tra loro com’erano.
“Ok, sentite bene, io non posso morire oggi, devo mangiare i calamari fritti e poi in generale devo incontrare Daniel Craig prima di morire! Ma io sono inglese, io amo il tè, dite che se glielo dico mi risparmierà?”
Forse la sua nazionalità le avrebbe salvato la vita, si disse pensosa Leena mentre si appuntava di parlare con l’accento british più marcato possibile quando le porte si sarebbero finalmente aperte. Orion si lamentò del suo non essere inglese e della sua piuttosto scarsa passione per il tè mentre Gabriel, deciso a porre fine il più rapidamente possibile a quella giornata eterna, indicava spazientito le porte chiuse alle sue spalle:
“Assassina o meno io la sua pantomima sul caffè la voglio evitare, ho già avuto una giornata di merda e se sento una predica da quella hippy non rispondo delle mie azioni.”
“Inizierà a parlare dei chakra aperti e chiusi come l’altra volta!”
Orion gemette mentre si accasciava contro la parete, desiderando di sparire o di fondersi con essa mentre Gabriel, inorridendo solo all’idea, scuoteva la testa con decisione:
“Glieli apro io i chakra, se mi devo sorbire di nuovo quella predica!”
“Idea, trasformate il caffè in tè matcha con la magia! Lei ha proprio l’aria di una che beve quella roba.”
Leena sorrise compiaciuta mentre schioccava le dita, certa di aver avuto la migliore delle idee, ma quegli ingrati dei suoi vicini non sembrarono dello stesso avviso: mentre Moos cercava inutilmente di capire cosa stesse succedendo fuori dall’ascensore Orion quasi svenne e Gabriel ebbe un mancamento solo all’idea di dover sacrificare il suo preziosissimo caffè per colpa dell’odiata vicina:
“Che eresie vai dicendo, il caffè non si tocca!”
“E poi il tè matcha fa schifo!”
“State zitti, non la sento più!”
Le parole di Moos riuscirono finalmente a riportare il silenzio all’interno dell’ascensore, mentre tutti e quattro fissavano le porte chiuse cercando di concentrarsi su eventuali rumori e voci provenienti dall’esterno. Dopo qualche secondo di silenzio Leena, la fronte aggrottata, inarcò un sopracciglio e diede voce alla sua ennesima, anche se poco convinta, teoria:
“Forse non è lei la vera assassina, forse è arrivato quello vero e l’ha uccisa.”
“Certo, un assassino veramente intelligente, ammazzare qualcuno di lunedì sera, alle 19, davanti agli ascensori!”
 
Sembrava che le porte avessero subito semplicemente un piccolo guasto – anche se Orion lo interpretò più come un segno di come il destino avesse cercato di impedirgli di trovarsi faccia a faccia con Kamala, fallendo miseramente – e dopo qualche minuto, quando si aprirono, la minuta e sorridente figura di Kamala si stagliò davanti ai loro occhi.
Ma come si poteva sorridere di lunedì sera? Perché sorrideva sempre? Gabriel non poté fare a meno di trovare fastidioso il suo buonumore mentre la strega li raggiungeva, come sempre con addosso vestiti colorati e con la sua cascata di lucenti e setosi capelli neri a ricaderle sulla schiena. Leena, che se la ritrovò di fronte, gettò un’occhiata carica d’invidia ai suoi capelli liscissimi mentre Orion cercava di nascondere il suo bicchiere di caffè senza grande successo.
Fortunatamente per Leena e Moos l’ascensore si fermò al sesto piano appena pochi istanti dopo l’ingresso di Kamala, e la strega e il mago non esitarono a lasciare l’abitacolo sotto gli sguardi carichi d’invidia di Gabriel ed Orion. Leena, tuttavia, aveva appena messo piede fuori dall’ascensore per recarsi finalmente a casa di Eileen quando Kamala, la fronte aggrottata, si guardò attorno con leggera perplessità:
“Non sentite anche voi odore d caffè?”
Gabriel imprecò mentalmente sia in inglese sia in spagnolo, Orion deglutì a fatica e si strinse più che poteva contro la parete sperando di passare inosservato mentre Leena, voltatasi preoccupata verso i vicini, si affrettava a far sapere a Kamala come lei fosse inglese e, dunque, una grandissima fan del tè.
L’indiana la guardò visibilmente confusa, del tutto certa di non aver capito, ma prima che Leena potesse dire altro le porte iniziarono a chiudersi e Moos la trascinò via verso le porte degli appartamenti: l’ultimo scorcio che i due ebbero sull’interno dell’ascensore fu l’espressione truce sul viso di Gabriel mentre Kamala guardava con disapprovazione la sua tazza termica.
 
 
 
 
Capitolo 6
Il club del delitto
 

Domenica 19 settembre
9 am

 
 
Quella domenica mattina era iniziata decisamente per il verso sbagliato, per Domnhall Byrne: non solo la notte precedente aveva a stento chiuso occhio, trascorrendola praticamente in bianco, ma la mattina seguente aveva a malapena avuto il tempo di bere un caffè prima che il telefono iniziasse a squillare forsennatamente.
In piedi davanti al lavandino e allo specchio circolare, il rasoio in mano e la schiuma bianca a ricoprirgli metà del viso, Domnhall ruotò il capo per indirizzare il proprio sguardo sul telefono, che aveva lasciato sul bordo del mobiletto sospeso del lavabo, quasi con espressione implorante, pregandolo di non mostrargli sul display luminoso un qualche contatto di lavoro, anche se a giudicare dall’ora lo ritenne alquanto probabile.
Tecnicamente quel giorno Dom non avrebbe dovuto lavorare, ma essendo schivo da tutta la vita di un eccessivo senso del dovere si ritrovò comunque a riporre il rasoio e a prendere il telefono con un sospiro, perfettamente consapevole di come il suo lavoro funzionasse.
“Meggy, che succede?”
Cinque minuti dopo Dom aveva già posto fine alla telefonata e si stava lavando via la schiuma dal viso senza essersi raso, maledicendo la sua domenica di relax andata in fumo mentre si vestiva, recuperava la bacchetta e Appellava la giacca prima di uscire, diretto all’Upper West Side.
 
Materializzarsi a New York rappresentava un’impresa ardua, quasi impossibile apparire in un qualche angolo della città senza che nessuno se ne rendesse conto visto quanto era sempre affollata. Proprio per questo motivo Dom ormai da anni aveva imparato ad apparire nel luogo che rappresentava più di ogni altro l’essenza di ciò che i newyorkesi evitavano con solerzia: i bagni della Metropolitana.   
Dopo essere comparso nel bagno deserto Domnhall, che non ne avrebbe toccato la porta nemmeno se si fosse trovato vittima della Maledizione Cruciatus, la spinse con un calcio e uscì, unendosi al marasma di newyorkesi che percorreva l’atrio della fermata, ai quali si univa qualche turista reso immediatamente riconoscibile dalla tipica espressione spaesata di chi si approccia alla gigantesca Metropolitana della Grande Mela per la prima volta. Domnhall si diresse senza esitazione verso le scale per tronare in superficie, salendo i gradini due alla volta fino a ritrovarsi sul marciapiede davanti alla fermata 86th Street della linea IRT Broadway-Seventh Avenue. Per sua fortuna la fermata si trovava sulla stessa via dell’Arconia e dopo appena un paio di minuti di camminata Domnhall raggiunse la facciata dall’edificio e l’ampio ingresso, scorgendone gli enormi cancelli di metallo con dettagli laccati d’oro spalancati. Una silhouette a lui familiare stava in piedi davanti a quegli stessi cancelli, impegnata a chiacchierare con l’uomo in divisa verde bottiglia e con un bicchiere di carta in mano.
“Ciao Meggy.”
Quando si fermò alle spalle della collega Domnhall si sforzò di parlare con un tono pacato e che non rendesse troppo evidente la sua frustrazione per il trovarsi lì di domenica mattina, anche se era certo che fosse condivisa anche dai colleghi. La strega sentendo la sua voce ruotò su se stessa per voltarsi verso di lui, indirizzandogli un sorriso e allungandogli il bicchiere:
“Ciao. Caffè?”
Dom ne aveva bevuto uno solo poco prima, ma decise che ne avrebbe avuto bisogno e accettò grato il bicchiere che Megan gli offriva, dopodiché entrambi salutarono il portiere esterno e attraversarono con rapide falcate il breve tunnel che portava al cortile interno.
“Due portieri. Pazzesco. Chissà quanto costa vivere qui. Sento il conto in banca che si svuota solo a pensarci.”
Domnhall era d’accordo, ma mentre Megan si guardava attorno ammirata non disse nulla e si limitò a portarsi il bordo del bicchiere alle labbra per prendere un sorso di caffè, sentendolo piacevolmente scivolargli lungo la gola e scaldarlo.
“Mi spieghi di preciso che è successo?”
“Beh, in realtà esattamente quello che ti ho detto al telefono. Una signora sostiene che qualcuno si sia introdotto a casa sua, ieri. Ma francamente non penso proprio che fosse l’assassino.”
Domnhall si chiese da cosa derivasse la convinzione della strega, ma decise che glielo avrebbe chiesto più tardi e dopo aver sorseggiato un altro po’ di caffè preferì indagare a proposito dell’assenza del terzo collega:
 “Walt dov’è?”
“L’ho lasciato dentro con lei con la scusa di venire ad aspettarti fuori, in realtà la signora mi mette in soggezione e me la sono filata. Walt mi ha già scritto che sono in debito di milioni di caffè e ciambelle. Probabilmente lo salderò quando andremo in pensione, ma ne sarà valsa la pena.”
Mentre Megan si stringeva nelle spalle Dom rise, dopodiché vuotò il bicchiere e lo lasciò scivolare in un cestino quando vi passò davanti senza smettere di camminare, diretto verso l’ingresso dell’edificio. Qualche inquilino del palazzo probabilmente li riconobbe, a giudicare dalle occhiate che lanciarono nella loro direzione, ma Dom non ci badò mentre si fermava davanti alla porta, consentendo all’anziano portiere di aprirla per farli entrare.
“Grazie.”
Mentre varcava la soglia Domnhall si rivolse all’uomo, che ricordava chiamarsi Lester da quando ci aveva parlato la sera in cui avevano trovato il corpo di Montgomery Dawson, con un lieve cenno del capo prima di riportare lo sguardo davanti a sé, percorrendo l’enorme ingresso con gli occhi verdi per cercare tracce del suo collega.
Subito scorse Walter impegnato a parlare con una donna minuta, anziana e con i corti capelli candidi come la neve, puntando senza esitazione nella loro direzione mentre ruotava leggermente il capo verso Megan per chiederle di ricordargli il nome della strega: ricordava chiaramente di aver parlato con lei dopo l’apparente suicidio di Montgomery, ma quel giorno aveva parlato con talmente tante persone da rendergli impossibile associare ogni nome ad un volto.
“Ripetimi come si chiama.”
“Emily Turner. Inglese, vedova, credo che il marito fosse un medico famoso.”
Megan sibilò quelle parole muovendo a malapena le labbra appena prima che lei e il collega si fermassero davanti a Walter – che li guardò traboccando sollievo e probabilmente resistendo alla tentazione di abbracciare commosso Domnhall e ringraziarlo di essere arrivato – e alla Signora Turner, che smise di parlare con il più giovane del trio per posare i freddi occhi cerulei sul bel volto dal lineamenti cesellati di Dom.
“Salve Signora Turner. Abbiamo parlato la settimana scorsa, si ricorda?”
“Mi ricordo Detective Byrne, certo. Stavo dicendo al suo collega che qualcuno è entrato a casa mia, ieri, ma dubito fortemente volesse uccidermi. Ne ho parlato con l’amministratrice del palazzo e dopo la morte del figlio dei Dawson ha subito dato di matto e chiamato voi, ma non penso proprio che quella persona volesse uccidermi.”
Il tono pacato, quasi apatico, e l’espressione affatto preoccupata, solo piuttosto seria, della donna sorprese non poco Dom e lo costrinse a sollevare scettico un sopracciglio, chiedendosi come potesse essere così tranquilla, specie a seguito della morte di un ragazzo che abitava sopra di lei:
“Come fa a saperlo?”
“Beh, se avesse voluto lo avrebbe fatto. Io vivo da sola.”
Emily Turner inarcò un sopracciglio a sua volta, guardandolo come se gli stesse spiegando un’ovvietà, e Dom invidiò i suoi nervi d’acciaio, che di rado gli capitava di scorgere quando lavorava ad un’indagine, prima di parlare con tono pacato a sua volta:
“Forse voleva solo sottrarle qualcosa, l’ha sentita entrare in casa ed è scappato.”
All’udire le sue parole la Signora Turner scosse vigorosamente la testa, lasciandolo ancora più di stucco mentre Walter e Megan seguivano lo scambio di battute in silenzio, senza osare interromperlo. Se già l’atteggiamento rilassato della donna lo aveva stupito, ciò che di lì a breve la strega pronunciò fu in assoluto ciò che Domnhall meno si sarebbe aspettato di sentire in una simile circostanza:
“Lei non ha capito, Detective Byrne. Io so benissimo chi è stato.”
 
 
*

 
Domenica 26 settembre
Due giorni dopo il blackout

 
 
Quando la porta del bagno bianca venne bruscamente spalancata con una spinta nubi di vapore caldo fuoriuscirono dalla stanza per disperdersi nel resto dell’appartamento insieme alle note di A Sunday kind of love emesse da delle casse acustiche poggiate sulla consolle nera vicino all’ingresso, accanto ad un giradischi a valigetta.
Niki uscì dal bagno calpestando il parquet con i piedi nudi, canticchiando la seconda strofa della canzone insieme alla voce di Etta James mentre con la mano destra si passava lentamente un pettine in mezzo ai capelli bagnati partendo dalla radice e con la sinistra puntava la bacchetta contro la propria testa, lasciando che il vapore caldo emesso dalla punta le asciugasse i capelli. Quando vide Carrie e Mira correrle incontro mentre Sam piagnucolava davanti alle quattro ciotole vuote disposte in fila accanto alla lavastoviglie Niki si allontanò la bacchetta dal capo per puntarla contro i pensili della cucina, agitandola pigramente per far sì che un enorme sacco di croccantini riempisse le ciotole delle sue gattine. Subito anche Mira e Carrie corsero a loro volta verso le ciotole per fare colazione sotto lo sguardo divertito della padrona, che si spostò verso il divano color caramello senza smettere di canticchiare e di appiattirsi i capelli sul lato destro della testa. Scorta la piccola Lottie acciambellata su un cuscino Niki si chinò e la sollevò con una mano, stampandole un bacio sulla testa prima di portarla a sua volta in cucina, depositandola davanti alla sua ciotola per permetterle di mangiare prime che le altre si appropriassero anche della sua razione.
La strega rimase brevemente in piedi alle spalle delle gatte, controllando che non si azzuffassero per il cibo mentre continuava ad asciugarsi i capelli con la magia e a farsi scivolare dalle labbra quasi in automatico il testo della canzone. Mentre le gatte finivano di mangiare Niki si spostò verso il frigorifero, ne staccò un foglietto bianco dalla superficie e dopo esserselo infilato nella tasca della felpa nera si diresse  verso l’ingresso, si infilò calzini e anfibi e recuperò occhiali da sole e l’overshirt di pelle nera dall’appendino.
“Ci vediamo dopo piccole.”
Niki spense il giradischi, allontanando la puntina dal vinile che smise gradualmente di girare, e il 13B tornò ad essere avvolto dal silenzio più totale mentre la strega si infilava gli occhiali da sole e chiudeva la valigetta nera del giradischi. Gettata un’ultima occhiata alle gatte, tutte e quattro impegnate a vuotare le rispettive ciotole, Niki aprì la porta dell’appartamento e uscì, avendo cura di sollevarsi il cappuccio sulla testa mentre attraversava il lungo corridoio dalle pareti bianche per fermarsi infine davanti alla porta del 13E e bussare energicamente.
 
 
Domenica 19 settembre

 
“Allora, lei sostiene di esserne certa, ma senza prove non possiamo interrogare proprio nessuno. Di impronte in bagno non ce ne sono, ma anche la Signora Turner era certa che non ne avremmo trovate. L’unica cosa certa è che hanno usato il suo rossetto. Per una cosa del genere non ci avrebbero mai chiamati, ma dopo la morte di Montgomery Dawson la gente qui si allarmerà per ogni cosa.”
Megan stava percorrendo il viale di ghiaia che l’avrebbe condotta all’esterno dell’edificio tra Domnhall e Walter tenendo le mani infilate nelle tasche, lo sguardo pensoso e i lunghi ricci scuri a ricaderle sulla schiena. Era piuttosto certa che la Signora Turner avesse ragione e che se qualcuno avesse voluto ucciderla lo avrebbe fatto, ma tutta la situazione conservava qualcosa di molto bizzarro, prima tra tutti la reticenza palesata dalla donna nell’indicare chi, secondo lei, era stato l’artefice del gesto.
Walter, che camminava alla sua sinistra, smise di scrutare le finestre del tredicesimo piano alle sue spalle e portò invece lo sguardo sulla collega, guardandola inarcando un sopracciglio prima di parlare con tono dubbioso:
“Ma perché non ha detto chi è stato? Ha detto di saperlo, no?”
“Forse non vuole sollevare un polverone. Sarà una di quelle faide idiote tra vicini, forse vuole risolversi la questione da sola, sapendo che senza prove non puoi davvero accusare nessuno. Tu che ne pensi, Dom?”
Dopo essersi debolmente stretta nelle spalle la strega sollevò leggermente la testa per rivolgersi al collega, che invece camminava guardando fisso davanti a sé, le sopracciglia leggermente aggrottate a dar vita ad un’espressione concentrata e al tempo stesso quasi cupa sul suo viso:
“Penso che chiunque sia stato abita quasi di certo sul suo stesso piano, o al massimo in quello inferiore o superiore, o avrebbe sentito il baccano delle scale antincendio. Ha ammesso di non ricordare se aveva chiuso completamente tutte le finestre prima di uscire, sarà entrato da lì. Dubito che volessero ucciderla, quindi spero che a nessun altro venga in mente di fare scherzi imbecilli come questo, così non dovremo continuare a correre qui per una finestra imbrattata.”
“Però era divertente, se chiunque l’abbia fatto e la Signora Turner davvero si detestano.”
Walter si strinse nelle spalle mentre infilava le mani in tasca a sua volta, assumendo un’espressione sorpresa quando si rese conto di come entrambi i colleghi lo stessero guardando con rassegnata eloquenza:
“Che c’è? Non dico che va bene, dico che è stupidamente divertente! Di sicuro invidio i nervi di quella donna, io dopo un omicidio, sapendo che qualcuno è entrato in casa mia, mi trasferirei.”
“E lo credo bene, il mese scorso sono venuta a casa con te per portare gli scatolini dell’ultimo caso a cui abbiamo lavorato, da uno è sgusciato fuori un ragno e lo hai fatto uccidere a me. Cuor di leone.”

 
8 pm

 
Le voci giravano più rapide che mai all’Arconia da quando Montgomery era morto, e Mathieu non aveva tardato ad apprendere di come molti avessero visto gli stessi Auror che avevano parlato con tutti loro a seguito dell’apparante suicidio del ragazzo conversare con la Signora Turner, e subito si iniziò a vociferare di come qualcuno si fosse introdotto a casa della donna.
Mathieu era di ritorno dalla passeggiata serale con Prune e stava attraversando in tutta calma il cortile, lieto che anche quel lunedì fosse ormai giunto al termine, quando udì quelle voci da piccoli gruppi o coppie di vicini che si erano radunate su alcune delle panchine. Sentendo il nome della sua vicina e degli Auror a Mathieu si era rapidamente gelato il sangue nelle vene, ma aveva dato foggio della sua miglior faccia di bronzo e aveva attraversato il cortile insieme al suo alano senza battere ciglio o fermarsi a parlare con nessuno, salutando Lester e varcando l’ingresso a passo svelto per raggiungere gli ascensori.
Fu un sollievo per il mago trovare l’ascensore vuoto quando le porte dorate gli si aprirono davanti e il canadese non esitò ad infilarsi all’interno dell’abitacolo insieme a Prune. Premette il tasto del quattordicesimo piano e mentre l’ascensore saliva e Prune gli si sedeva accanto iniziò ad arrovellarsi sulle voci appena sentite e su ciò che aveva sentito dire a Niki il giorno prima a proposito di come la Signora Turner non avrebbe mai potuto dimostrare il loro essere stati a casa sua.
Mathieu ricordava di aver tenuto i guanti per tutto il tempo, e così la sua vicina. Era anche certo che la donna non li avesse visti, avevano raggiunto la parte del terrazzo di Carter che proseguiva lungo la facciata laterale dell’edificio prima che lei potesse sporgersi dalla finestra, togliendosi dunque dal suo campo visivo. In effetti, anche risalendo a Niki sarebbe stato estremamente difficile risalire anche a lui, visto e considerando che nessuno, tantomeno la Turner, li aveva mai visti scambiare due parole. Mathieu accarezzò distrattamente la testa di Prune mentre l’ascensore si fermava al quattordicesimo piano, sperando ardentemente che la sua vicina, seppur bizzarra, non si fosse sbagliata.
 

 
Carter non si ubriacava mai, aveva sempre vantato una resistenza all’alcol invidiabile, ma forse la sera prima, a giudicare dal mal di testa con cui aprì gli occhi nell’ultima domenica di settembre, lui e Sasha avevano bevuto un paio di bicchieri di troppo. Pur non essendosene affatto pentito – anzi, aveva sentito l’impellente bisogno di dimenticare il più rapidamente possibile il penoso appuntamento che aveva avuto e dal quale era fuggito chiamando in soccorso il suo migliore amico – quando aprì gli occhi, svegliato sia dall’insistente bussare alla porta, sia da Sarge che pensò bene di assalirlo mettendo le zampe anteriori sul letto per leccargli la faccia, il giornalista non poté far altro che passarsi una mano sulla fronte dolorante, gemendo sommessamente e cercando al contempo di scostarsi l’ingombrante cane e il suo affetto di dosso:
“Sarge, Sarge, lo so che mi ami, ma smettila di leccarmi la faccia! Ora mi alzo e ti do da mangiare…”
Sospirando gravemente Carter si scostò le lenzuola di dosso e si alzò, camminando svogliatamente a piedi nudi sul pavimento fino a raggiungere la rampa di scale a sbalzo che dal soppalco dove si trovava la sua camera lo avrebbe portato al pian terreno.
Prima di riempire le ciotole di Isla e Sarge Carter tuttavia si diresse verso l’ingresso, desideroso di aprire la porta, di far cessare quel rumore tanto fastidioso e di scoprire chi gli stesse rompendo le palle di domenica mattina.
“Che c’è?”
Carter spalancò la porta di casa senza curarsi particolarmente della sua abitudine di dormire in mutande, i capelli biondi spettinati e un’espressione visibilmente seccata sul viso. Niki, ritrovatoselo davanti in quelle condizioni, inarcò un sopracciglio con evidente scetticismo e sbattè le palpebre un paio di volte prima di alzare gli occhi al cielo rassegnata, dicendosi che avrebbe dovuto aspettarselo:
“Ti spiacerebbe vestirti?”
“E a te spiacerebbe non rompere di domenica mattina, per di più all’alba?”
“Sono le 8.30.”
Alba, appunto.”
Per una frazione di secondo, mentre osservava i capelli color grano arruffati di Carter e l’aria frastornata impressa sul suo viso, quella tipica di chi si è appena svegliato, Niki si ritrovò sinceramente ad invidiare il suo bel vicino: lei dormiva talmente poco che nel corso di certe settimane l’alba, quella vera, la poteva ammirare un giorno sì e l’altro pure, tanto che il fascino di quel fenomeno naturale era svanito ai suoi occhi già un discreto numero di anni prima. Per un istante Niki si chiese come fosse svegliarsi dopo aver dormito per più di quattro ore di fila, finchè non si strinse nelle spalle e tornò a rivolgersi al vicino con tono pacato:
“Questione di punti di vista, io sono sveglia già da quattro ore e nel mentre ho letto un intero libro della Christie. Ad ogni modo, sono venuta a riscattare il mio premio.”
Mentre Carter rifletteva su come lui fosse andato a letto esattamente quattro ore prima Niki si sfilò la mano destra dalla tasca della felpa e ne estrasse il foglietto bianco che, Carter poté rapidamente appurarlo con orrore, riportava qualcosa scritto indiscutibilmente con la sua grafia.
Il buono per trascorrere una giornata con Carter
Per la prima volta in vita sua, Carter maledisse il suo egocentrismo.
“Lo avevo rimosso. Non pensi che potremmo far finta che non esista?”
Carter guardò speranzoso la sua vicina, implorandola di ricordarsi di quanto lo trovasse poco simpatico – cosa che lo lasciava semplicemente basito, ma forse quella mattina avrebbe anche potuto tornargli utile – per permettergli di farlo tornare a letto e di dedicarsi ad una mattinata di lettura e relax. Niki sembrò rimuginare seriamente sulla sua proposta e si rivoltò il foglietto tra le dita per darci un’occhiata, ma dopo una breve ponderazione si strinse nelle spalle e tornò a guardarlo attraverso le lenti scure degli occhiali accennando un sorrisetto appena percettibile con gli angoli delle labbra:
“Immagino che potremmo. Ci stavo riflettendo, sai, ma ora che vedo come sei felice di vedermi penso che sarebbe ingiusto privarti della gioia di poter passare del tempo con me. Direi che possiamo ridurlo a mezza giornata e basta.”
“Bene. Ma prima devo vestirmi. E non pensare che la “giornata” abbia una valenza in stile Pretty Woman!”
Carter diede le spalle alla vicina sbuffando per tornare di sopra e recuperare i suoi vestiti mentre Niki, entrando in casa, si chiudeva la porta alle spalle. Sarge la raggiunse scodinzolando, e la strega non tardò ad inginocchiarsi davanti al cane per prendergli la testa tra le mani e accarezzarlo dolcemente senza riuscire a celare il suo stupore mentre guardava Carter salire le scale lamentandosi sommessamente:
Tu hai visto Pretty Woman?”
 
 
Carter stava morendo di fame, tanto che dopo essersi vestito, aver sfamato i suoi amati animali e aver appurato con orrore di essersi scordato di fare la spesa il giorno prima e di avere dunque la dispensa vuota aveva quasi letteralmente trascinato Niki fuori dal suo appartamento per uscire e poter andare a fare colazione, rischiando una fattura quando la strega aveva fatto scivolare il braccio esile dalla sua stretta con un gesto brusco e gli aveva intimato minacciosa di non toccarla mai più senza il suo consenso.
Niki era stata costretta a salutare a malincuore i piccoli pelosi del suo vicino mentre lo seguiva fuori dall’appartamento, consolandosi all’idea di potersi gustare litri di caffè caldo di lì a breve: di certo la bevanda avrebbe rasserenato la compagnia di Ken, anche se in fondo Niki era deliziata dall’idea di averlo buttato giù dal letto e di avergli guastato la domenica.
 
 
Quella mattina Mathieu era salito in ascensore di ottimo umore, lieto di averlo trovato vuoto e di potersi dunque godere almeno qualche piano di pace e di solitudine, senza dover per forza sentir parlare di morti, suicidi o pettegolezzi vari del palazzo. Il tragitto verso il pian terreno era tuttavia appena iniziato quando l’abitacolo si arrestò fino a fermarsi solo al piano inferiore, e all’apertura delle porte dorate l’illusione di Mathieu, che reggeva il guinzaglio azzurro di Prune con una mano, si spezzò mostrandogli un duo piuttosto inaspettato: Carter, che aveva tutta l’aria di essere appena stato scaraventato giù dal letto e di non aver dormito molto, e Niki, che come sempre indossava gli occhiali da sole e il cappuccio della felpa sollevato. A Mathieu non sarebbe dispiaciuto farsi qualche piano in santa pace, ma alla vista di quei due non riuscì a sogghignare apertamente:
“Oh, la strana coppia. Non riuscite a stare lontani a lungo e state andando ad un appuntamento? Che carini.”
“Riditela meno, Mike. Ciao Prune!”
Niki varcò la soglia dell’ascensore sfoggiando la sua consueta inespressività sia in viso sia nel tono di voce, le mani infilate nelle tasche della felpa nera, ma quando i suoi occhi si posarono sull’alano sorrise e il suo tono mutò radicalmente, facendosi improvvisamente molto più allegro e acuto mentre Carter si trascinava dietro di lei consentendo alle porte di chiudersi e di riprendere il tragitto verso il pian terreno.
Niki allungò una mano verso Prune e gli chiese di darle la zampa, sorridendo allegra e accarezzandogliela dolcemente quando l’alano obbedì. La strega asserì come “la giornata stesse proseguendo bene avendo incontrato due bellissimi ragazzi già di prima mattina”, e all’udire quelle parole Carter, che nel frattempo si era appoggiato alla parete di metallo con la schiena, si rivolse a Mathieu con un basso mormorio dubbioso:
“Parla di noi o dei cani?”
“Difficile dirlo.”
Mathieu ruotò la testa per volgere lo sguardo su Niki e Carter lo imitò, studiando in sincro la vicina impegnata a far sapere a Prune quanto quel giorno fosse carino. Dopo una breve riflessione il canadese infine annuì, serio, e tornò a rivolgersi all’amico con tono piatto:
“Sicuramente dei cani.”
Non mi sono mai sentito tanto sminuito invita mia.”
Carter guardò Niki scuotendo la testa con disapprovazione, sinceramente offeso dalla scarsa considerazione della vicina, e Mathieu annuì gettando a sua volta un’occhiata amareggiata in direzione della strega, conscio di non aver mai ricevuto un trattamento del genere in tutta la sua vita:
“Nemmeno io.”
Quel palazzo strabordava di cani carini, ma sfortunatamente i padroni si stavano rivelando uno più suscettibile e vanesio dell’altro, tanto che Niki si vide costretta a gettare un’occhiata spazientita ai due da dietro le lenti degli occhiali senza smettere di accarezzare la testa di Prune:
“Che palle che siete, siete carini anche voi, contenti?!”
“Lo sarei di più se non dovessi passare la mattinata con te, ma è un inizio.”
 
 
“Senti Niki, sei sicura che non ci fosse nulla nell’appartamento della Turner che potesse far risalire a noi? Domenica scorsa gli Auror sono stati qui, alcuni vicini l’hanno vista parlarci.”
Quando Niki ebbe finito di fare le moine a Prune e sembrò essere tornata normale – ovvero seria, cupa, silenziosa e scontrosa – Mathieu le si rivolse gettandole un’occhiata dubbiosa e un poco preoccupata, quasi temendo di trovarsi la Turner e i suoi pappagallini fuori dalla porta per accusarlo di essersi introdotto a casa sua in compagnia della sua acerrima nemica. Le sue parole portarono la strega, che dopo la sessione di coccole a Prune si era appoggiata scompostamente alla parete con le gambe lunghe distese davanti a sé, le caviglie incrociate e le mani in tasca, a staccare gli occhi dal display numerico dell’ascensore per ripotarlo su di lui, senza però rispondere alla domanda e ponendogliene invece una a sua volta:
“Quale Auror?”
“Credo Byrne, continuo a sentir parlare di “quello bello” con aria sognante.”
Mathieu aggrottò la fronte, chiedendosi il perché di quella domanda mentre Niki tornava a guardare il display annuendo piano, mormorando pensosa qualcosa rivolgendosi più a se stessa che a lui mentre Prune si faceva coccolare felice da Carter:
“Lo sapevo.”
“Lo sapevi?!”
Mathieu parlò strabuzzando gli occhi azzurri, chiedendosi come la vicina potesse saperlo. Stava iniziando a chiedersi se per caso la strega non possedesse una qualche sorta di potere paranormale quando Niki, serissima, annuì tornando a guardarlo da dietro le lenti scure:
“Ma certo. Insomma, era ovvio già dalla sedia, che a quella piacessero quelli più giovani, vecchia marpiona. Fossi in voi starei in guardia, potremmo avere una svolta alla Amanda Lear da queste parti.”
Mentre Niki faceva spallucce con la massima nonchalance bramando mentalmente la terza colazione della sua giornata e Carter si chiedeva chi fosse Amanda Lear, Mathieu si domandò perché nessuno in quel palazzo capisse mai ciò che diceva: era forse colpa del suo accento? Avrebbe dovuto iniziare a studiare dizione?
“Ma non era questo quello che volevo dire!”
 
 
La giornata stava iniziando malissimo, e Mathieu ne ebbe la conferma quando giunti al pian terreno le porte si aprirono e davanti ai tre si stagliò nientemeno che la figura minuta della Signora Turner, il cui sguardo subito indugiò su Niki facendosi più gelido che mai. Carter si fece piccolo piccolo contro la parete alle sue spalle chiedendosi come facesse una figura così minuta ad incutere tanto timore, Prune cercò inutilmente di nascondersi dietro a Mathieu e quest’ultimo si sforzò in tutti i modi di non assumere un’aria colpevole mentre Niki, al contrario, distendeva le labbra in un sorriso rilassato. La strega si staccò mollemente dalla parete di metallo e con un appena un paio di falcate attraversò l’ascensore, uscendo dall’abitacolo sempre con le mani infilate nelle tasche ma non senza premurarsi di rivolgersi prima alla sua vicina prediletta:
“Ehilà, Lady Bird. I Toy Boy come se la passano?”
Niki parlò ruotando leggermente il capo per appena un paio di secondi, giusto in tempo per poter scorgere l’effetto delle sue parole sul viso dell’anziana strega prima di sogghignare divertita e superarla, addentrandosi in tutta calma nell’ingresso semivuoto.
La Signora Turner, dopo aver fulminato Niki con un’occhiataccia, riportò lo sguardo sull’interno dell’ascensore e i suoi occhi cerulei indugiarono gelidi su Carter e Mathieu, che dopo aver assistito paralizzati allo scambio parvero improvvisamente ridestarsi e si affrettarono a seguire Niki, uscendo rapidissimi dall’abitacolo e salutando la vicina senza osare guardarla in faccia facendo del proprio meglio per non ridere.
 

 
*

 
Ma cosa le era venuto in mente quando aveva pensato di andare a correre al parco, quella mattina? A cosa stava pensando, si chiese Eileen mentre si fermava con sollievo sulla porzione di marciapiede davanti all’ingresso dell’Arconia respirando affannosamente, le guance di solito pallidissime leggermente arrossate dallo sforzo. E pensare che avrebbe potuto starsene comoda comoda sul divano a leggere, o a guardarsi qualcosa sul PC, si disse la strega mentre attraversava il breve tunnel che conduceva al cortile interno sciogliendosi la coda di cavallo ormai malconcia in cui aveva legato i capelli prima di uscire per rifarsela, le AirPods nere infilate nelle orecchie e il telefono nella fascia da braccio del medesimo colore allacciata sopra alle maniche della maglia assorbente blu notte che indossava.
Eileen stava attraversando il cortile percorrendo uno dei due vialetti di ghiaia che lo costeggiavano, camminando tra aiuole e panchine, quando sul bordo della fontana di pietra scorse una silhouette particolarmente familiare. Anche se moriva dalla voglia di sfilarsi le scarpe e di buttarsi sotto la doccia alla vista di Leena, che stava tracciando delle linee su un blocco da disegno, invece di procedere verso l’ingresso la spagnola si diresse senza esitare verso l’amica per salutarla, sorridendo quando la britannica udendo i suoi passi sollevò la testa e guardò verso di lei:
“Ehy!”
“Ehy. Che fai?”
Dopo aver raggiunto l’amica Eileen spense la musica sul telefono e sedette accanto a lei sul bordo della fontana, guardandola accennare al blocco da disegno mentre lo chiudeva con una debole stretta di spalle:
“Perdo tempo disegnando vestiti che sogno di possedere, niente di che. Sei andata a correre? Ammiro la tua forza di volontà.”
“Sì, non ho idea di dove l’ho trovata, e me ne sono pentita.”
Eileen sollevò le gambe doloranti allungandole più che poteva con una leggera smorfia, bramando il momento in cui si sarebbe gettata sul suo comodissimo divano per non lasciarlo mai più. E moriva dalla voglia di bere un altro caffè bollente.
“Ti va di accompagnarmi il libreria? Devo comprare un po’ di roba da Barnes & Noble(1).”
La sede di Barnes & Noble dell’Upper West Side era forse una delle loro mete preferite di tutto il quartiere, e Leena aveva appena formulato la domanda quando vide Eileen irrigidirsi prima di voltarsi di scatto verso di lei, i grandi occhi eterocromi improbamene accesi dall’interesse: l’immagine del divano sparì rapidamente dalla mente dell’informatica, lasciando spazio a quella di decine e decine di scaffali meravigliosamente carichi di libri di tutti i tipi. Eileen era una nerd semplice, pertanto le librerie esercitavano un’enorme attrattiva su di lei, senza contare che la catena di librerie era nota anche per il suo contare al suo interno delle caffetterie, fattore fondamentale per determinare l’entusiasmo della spagnola.
“Compriamo libri e poi ci beviamo dei Frappuccini giganti al caramello?”
“Chi sono io per negartelo?”
Leena distese le labbra carnose in un sorriso divertito mentre Eileen, ricambiando entusiasta, scivolava giù dal bordo della fontana per affrettarsi a salire fino al suo appartamento dimenticandosi del dolore alle gambe provato fino a poco prima: di certo pur di tornare nel cortile in fretta e potersi precipitare in libreria avrebbe corso fino al suo appartamento più di quanto non avesse fatto a Central Park.
“Mi faccio la doccia e torno, farò prestissimo, aspettami qui.”
Leena non aveva nessuna intenzione di muoversi da lì e promise all’amica che l’avrebbe aspettata, guardandola allontanarsi fino a sparire dietro la porta dopo aver salutato Lester prima di tornare brevemente al suo disegno. Le ci era voluto parecchio per ambientarsi nella metropoli più famosa degli States, e forse non ci sarebbe mai riuscita del tutto, ma era stata innegabilmente fortunata ad aver trovato un’altra incorreggibile nerd come lei.

 
*

 
Usciti dall’Arconia e salutato Mathieu – o, nel caso di Niki, Prune – Carter aveva appreso con sollievo che lui e la vicina concordavano quantomeno su un aspetto, ovvero l’impellente necessità di mettere qualcosa sotto i denti e di bere una generosa dose di caffè bollente. Il giornalista aveva così fame che si era lasciato condurre ovunque Niki volesse senza obbiettare, gioendo mentalmente quando si era ritrovato davanti ad un pittoresco panificio con una vetrina che strabordava di torte e cupcake di tutti i gusti.
Scegliere tra un cupcake al cioccolato e uno al gusto Red Velvet non era concepibile per Carter, specialmente quando era a stomaco vuoto da ore, pertanto aveva deciso di ordinarne uno per gusto e Niki, ritrovatasi vittima dello stesso dilemma, aveva finito con l’imitarlo.
“Allora ogni tanto qualche buona idea ce l’hai, dopotutto.”
Niki aveva disteso le labbra in un tiepido sorrisetto mentre si sistemava più comodamente contro lo schienale della sedia, incrociando le lunghe ed esili braccia al petto mentre Carter, sforzandosi di non offendersi, le scoccava un’occhiata stizzita e un poco sostenuta dall’altra parte del tavolo di legno quadrato che avevano occupato in un angolo silenzioso davanti alla vetrina.
“Se mi conoscessi sapresti che io sono pieno di ottime idee. Tu, al contrario, sei piena di preconcetti verso di me.”
“Beh, siamo qui. Sorprendimi, James Carter Cross, dimmi qualcosa di te che non so.”
Il sorriso che Niki gli rivolse era carico di sfida e Carter, competitivo com’era, decise di accoglierlo senza riserve, annuendo mentre appoggiava le braccia sul tavolo per sporgersi leggermente verso la vicina:
“Gioco delle venti domande.”
“Che sarebbe?”
“Non lo dice il nome, genia? Ci facciamo 20 domande, così ci conosciamo meglio.”
“Va bene, tanto già che dobbiamo passare qualche ora insieme… Ma niente di troppo personale.”
Niki si strinse nelle palle con noncuranza, sollevando le lunghe braccia fasciate dalle maniche di pelle dell’overshirt per stiracchiarsi
“Hai tre veti, fatteli bastare. Comincio io. Non penso che tu al momento stia lavorando, quindi come ti permetti di vivere dove vivi?”
“Vendo foto dei piedi su WizardFans(2).”
Carter si sarebbe aspettato pressoché qualsiasi risposta, tutte fuorché quella, e guardò la vicina spalancando gli occhi in un misto di sorpresa, orrore e ammirazione mentre Niki continuava a guardarlo standosene impassibile con le braccia strette al petto.
“Davvero?!”
“No. Non capirò mai perché nessuno capisce quando scherzo. Ad ogni modo, ho guadagnato a sufficienza negli anni passati, fattelo bastare.”
Forse nessuno lo capiva perché aveva sempre la stessa identica espressione sulla faccia, ma Carter evitò di farglielo sapere – doveva passare diverse ore con lei, non ci teneva a farla incazzare – e decise di rilanciare con la domanda successiva mentre la vicina giocherellava osservando pensosa la scatolina di legno che conteneva le bustine di zucchero.
“E non pensi mai a cosa farai dopo?”
Niki smise di muovere la scatola e si fermò, sollevando il capo per guardare la strada fuori dalla vetrina le auto, i passanti e gli edifici di fronte. Per un istante non parlò, finchè non si strinse nelle spalle senza smettere di guardare fuori:
“Questa è una bella domanda. Non lo so. C’è stato un periodo in cui non dovevo pensare al dopo.”
Carter la guardò, confuso e chiedendosi quale fosse il significato di quella risposta tanto criptica, ma prima che potesse indagare a riguardo seguendo il suo istinto giornalistico una cameriera raggiunse il loro tavolo con i caffè e i cupcake, distogliendo momentaneamente l’attenzione di entrambi dalle domande per indirizzarla su qualcosa di infinitamente più importante, ovvero il cibo e il caffè.
“Meno male, stavo morendo!”
Carter sospirò mentre guardava sognante i bellissimi cupcake che aveva davanti, affrettandosi a togliere la carta da quello al cioccolato per addentarlo mentre Niki, davanti a lui, si portava l’enorme tazza di triplo espresso alle labbra senza premurarsi di zuccherarlo prima di sospirare e guardare adorante la sua bevanda calda prediletta:
“Vorrei tornare indietro nel tempo e sposarmi chi ha inventato il caffè.”
“E se fosse stato un cesso?”
“Chi se ne frega, avrei avuto caffè gratis a vita! Queste si chiamano priorità. Allora, dimmi… nella tua famiglia vi chiamate tutti con il nome di un Presidente?”
Niki distese le labbra nel primo vero sorriso della giornata – forse di tutto il weekend – mentre Carter, al contrario, si rabbuiò in viso: se avesse ricevuto un dollaro per ogni volta in cui si era sentito porre quella domanda, sarebbe stato ancor più ricco di quanto non fosse.
“Sì. Mio fratello si chiama Lincoln, mio padre Fitzgerald per via di Kennedy. Non ridere.”
“E chi ride?”
 
“Non posso stare ad ascoltarti se dici certe stronzate, mi rifiuto!”
Tutto sommato la colazione di Carter e Niki era iniziata con il verso giusto, e sarebbe anche proseguita nel migliore dei modi se solo Carter non si fosse sognato di chiedere a Niki quali fossero i suoi romanzi preferiti di Agatha Christie.
“Ovviamente “Se morisse mio marito”.”
“Perché ovviamente?”
“Perché è geniale. L’omicidio perfetto, il prodotto di una mente perversa, sì, ma sicuramente superiore. il tuo? Non dire Dieci piccoli indiani, ti prego, è scontato.”

“Allora “L’assassinio di Roger Ackroyd”.”
Quello era stato il punto di non ritorno, o meglio quando Niki aveva dichiarate come quel romanzo fosse fortemente sopravvalutato.
“Non è sopravvalutato, è geniale, ha rivoluzionato l’intero genere letterario!”
Carter fece appello a tutto il suo autocontrollo per non lanciare il cupcake contro Niki per l’offesa ingiuriosa rivolta ad uno dei suoi libri preferiti in assoluto, ripetendosi come sarebbe stato un vero spreco non gustare una simile delizia. Niki invece non si scompose, continuando a rigirarsi la tazza tra le lunghe dita affusolate mentre lo guardava tenendo i gomiti ossuti piantati sul bordo del tavolo.
“Certo, i due capitoli finali. Quelli sono dei capolavori, ma il resto? Il resto è banale, a tratti noioso, vale la pena di leggerlo solo per il finale sconvolgente.”
“Il finale vale l’intero libro, punto.”
 
Più le domande si susseguivano, più Carter e Niki appuravano con una certa dose di sconcerto quanto le loro personalità si stessero rivelando simili sotto molteplici punti di vista.
“Lo sai, sei bravo a mascherare la tua vera personalità. Non si direbbe che sei un nerd asociale, sotto la faccia da surfista californiano.”
Dopo aver appreso di come Carter detestasse andare alle feste, men meno andare a ballare o in generale essere coinvolto in occasioni che richiedevano elevate interazioni sociali Niki si vide costretta a rivalutare il suo vicino, che le gettò un’occhiata torva mentre la guardava raccogliere distrattamente un po’ di glassa al mascarpone dal suo cupcake quasi ancora del tutto integro.
“Non sono californiano, sono dell’Indiana. Questo ti insegnerà a non fermarti alle apparenze, anche se è qualcosa che mi sento ripetere da tutta la vita.”
“Mea culpa. Quindi la tua famiglia vive in Indiana?”
“Tranne mio fratello maggiore che vive qui anche lui, sì. La tua dove vive?”
Carter prese il manico della sua tazza per gustarsi un altro sorso di caffè – il secondo – mentre Niki, gli occhi verdi ancora puntati sul suo cupcake, smetteva momentaneamente di far girare il cucchiaino attorno alla glassa. La strega restò in silenzio per un lungo istante, prima di riprendere a muovere il dorso del cucchiaio in modo da raccogliere la crema sotto lo sguardo leggermente preoccupato di Carter, che dal suo silenzio intuì di averle rivolto una domanda scomoda.
“Da nessuna parte.”
Carter non riuscì a stabilire se ad atterrirlo di più fosse stata la risposta in sé o il tono pacato con cui Niki la pronunciò, con una calma e una tranquillità che stridettero non poco con le parole che uscirono dalle labbra della strega. Mentre Niki continuava a giocherellare pensosa con il suo cupcake senza mangiarlo Carter la guardò senza sapere che cosa dire, se non la cosa più banale in assoluto, mentre lo stomaco gli si stringeva in una sensazione fastidiosa: per quanto potesse non avere un legame idilliaco con la sua famiglia, a parte sua nonna, non riusciva ad immaginare di vivere la sua vita senza nessuno di loro.
“Mi… Scusa, mi dispiace.”
“Non dispiacerti, non erano belle persone.”
Niki si portò finalmente il cucchiaio alle labbra per assaggiare la glassa, lasciando che il suo sapore dolcissimo le avvolgesse la bocca mentre la strega cercava di non focalizzare il proprio sguardo sull’espressione di Carter. C’erano poche cose che faticava a tollerare quanto quella specie di compassione sui visi altrui, ragion per cui affondò il cucchiaio nel cupcake per dividerlo a metà affrettandosi a porgli una domanda a sua volta:
“Che cosa ti spaventa?”
Quella domanda e quel repentino mutamento di argomenti destabilizzò un poco il giornalista, che inizialmente guardò la vicina aggrottando le sopracciglia color miele quasi chiedendosi se non avesse capito male. Ma in fondo lui stesso non avrebbe affrontato volentieri argomenti del genere a voce alta, ne era perfettamente consapevole, e decise di assecondarla e di rivelarle persino uno degli aspetti della propria persona che meno tollerava e che più lo aveva sempre messo a disagio: se lei si era anche solo un poco aperta con lui, tanto valeva che ricambiasse.
“Ho paura del sangue. E sì, mi imbarazza molto, ma non posso farci niente. Mi sarebbe piaciuto fare l’Auror, se non fosse stato per questo piccolo inconveniente. Tu di che cosa hai paura?”
Di nuovo Niki esitò mentre guardava fuori dalla vetrina, e Carter, al tempo stesso grato che la vicina si fosse esentata dal prenderlo in giro per la sua emofobia, si chiese ancora una volta che cosa le passasse per la mente. Dopo un paio di istanti Niki tornò a guardarlo, stringendosi nelle spalle prima di rispondere con la massima semplicità e portarsi alle labbra la metà del suo cupcake color ciliegia:
“Dei fantasmi.”
“Dei fantasmi?”
Niki non sembrava il tipo di persona in grado di farsi spaventare da un fantasma, anzi, Niki sembrava il tipo di persona che deride chi si fa suggestionare facilmente, e Carter la guardò perplesso chiedendosi se non lo stesse semplicemente prendendo in giro, ma la strega annuì a conferma delle sue parole e si strinse nelle spalle prima di tornare a guardarlo e ad appoggiarsi allo schienale della sedia:
“Penso che non ci sia niente di più spaventoso dei fantasmi.”
Ancora una volta Carter non era del tutto sicuro di che cosa lei volesse dirgli, ma temendo di ripetere una gaffe simile a quella commessa poco prima decise di accantonare la sua curiosità, di tacere e di lasciar perdere.
 

 
*

 
Esteban si trovava sul suo terrazzo da almeno un’ora, una felpa nera larga addosso e dei jeans ricoperti da tracce di terra che avrebbero avuto decisamente bisogno di una lavata, così come le sneakers che utilizzava per dedicarsi al giardinaggio, un tempo bianche e ormai praticamente grigie.
I lunghi capelli mossi raccolti per evitare che gli scivolassero davanti agli occhi dandogli fastidio, il ragazzo si stava dedicando premurosamente alle sue numerosissime piantine, che a voler ben vedere costituivano anche un’eccellente fonte di guadagno. Quando sentì abbaiare Esteban smise di tastare la terra sotto ad una pianta per accertarsi che fosse sufficientemente umida e sollevò la testa per puntare lo sguardo sulla finestra più vicina, scorgendo Mocio intento a guardarlo dietro al vetro, le zampe anteriori poggiate alla base della finestra.
Esteban gli intimò di restare lì e di non muoversi – ci mancava solo che al suo amato cane venisse la malsana idea di annusare in giro e di mangiarsi la marijuana – e anche se i suoi occhi erano celati da una soffice coltre di pelo bianco Mocio sembrò comunque offendersi parecchio, tanto che il cane sparì dal campo visivo del padrone smettendo di appoggiarsi alla finestra con le zampe anteriori e andò indignato alla ricerca delle pantofole di Esteban per nascondergliele.
“E non nascondermi le ciabatte!”
Esteban sapeva di parlare a vuoto, e alzò gli occhi scuri al cielo – il povero Mocio non aveva ancora capito che il padrone essendo un mago avrebbe potuto trovare le sue pantofole in uno schiocco di dita, ma spesso e volentieri Esteban fingeva di non trovarle per dargli soddisfazione e permettergli di riportargliele personalmente – prima di tornare a concentrarsi sulla sua coltivazione casalinga. Per quanto il suo “orticello” fosse ben riparato dagli sguardi altrui in qualche occasione era capitato che qualche vicino si fosse affacciato e lo avesse visto al lavoro. In quelle occasioni, quando di norma Esteban riceveva occhiate cariche di disapprovazione, lui si limitava a sorridere amabile e a salutare con un cenno della mano guantata: da qualche mese a quella parte la coltivazione della marijuana era stata legalizzata nello Stato di New York, pertanto il fatto che qualche vicino potesse adocchiare le sue piante non gli recava alcun tipo di preoccupazione. Certo, legale o no a sua madre non lo avrebbe raccontato in ogni caso, ma quello era un altro discorso.
Il ragazzo si sfilò il guanto dalla mano destra per recuperare il telefono dalla tasca posteriore dei jeans e controllare l’ora, strabuzzando inorridito i grandi occhi castani quando appurò di essere, come al solito, in ritardo:
“Ma quando è passata un’ora?! Perché finisce sempre così?!”
Aveva dei clienti da incontrare, e come al solito era in ritardo. Esteban ripose il telefono prima si sfrecciare rapido verso la portafinestra che aveva lasciato socchiusa, sfilandosi le scarpe sporche prima di entrare in casa e correre verso il bagno, dove trovò tutti i flaconi rovesciati sul pavimento e Mocio dentro la vasca da bagno insieme alle sua pantofole, visibilmente soddisfatto del suo operato.
“Mocio, esci subito o il bagno lo faccio anche a te!”
Bastò quella minaccia per allarmare il cane, che subito balzò fuori dalla vasca e sfrecciò fuori dal bagno per andare a nascondersi dietro al divano.
 
 
*

 
Barnes & Noble
2289 Broadway

 
 
Dopo aver varcato la soglia dell’enorme libreria a due piani, una delle più frequentate dell’intero quartiere, Eileen e Leena si erano divise come da loro abitudine, dirette in reparti diversi del settore adibito alla narrativa. Quasi tre quarti d’ora dopo Eileen aveva passato al setaccio il reparto della fantascienza e con ben quattro libri tra le braccia decise di poter andare alla ricerca della sua amica, sapendo anche fin troppo bene dove trovarla.
Non era un’impresa ardua rintracciare Leena Zabini se ci si trovava all’interno di una libreria, ed Eileen puntò senza esitazione verso le file di scaffali adibite ai gialli certa di scorgere da un momento all’altro la lunga chioma di ricci della britannica. Leena, in effetti, sedeva sul pavimento standosene appoggiata allo scaffale dietro di lei, impegnata a leggere l’aletta anteriore del volume che teneva in mano con le gambe fasciate dai jeans blu notte lunghe distese e i piedi avvolti da dei mocassini neri incapaci di star fermi. La fronte della strega presentava una piccola ruga che la solcava verticalmente lo spazio tra le sopracciglia, e nella sua espressione Eileen riconobbe facilmente la concentrazione e il criticismo che l’amica riversava sempre nella lettura della trama di un libro nel tentativo di capire se si sarebbe potuto rivelare di suo gusto o meno.
Accanto a Leena giaceva una piccola torre composta da cinque volumi impilati uno sopra l’altro, ed Eileen sorrise mentre le si fermava accanto, le braccia cariche a sua volta:
“Trovato qualcosa di interessante, direi.”
“Oh, sì, sai, Niki e Carter mi hanno fatto entrambi una lista di quelli che secondo loro sono i migliori libri della Christie tra quelli che mi mancano, ho pensato di prenderne un po’. Qui invece ho quelli che ho trovato qui.”
Leena tornò a concentrarsi sull’aletta anteriore del volume, un grosso tomo di almeno seicento pagine, dopo aver accennato ad una seconda torre di libri che si trovava alla sua sinistra e che fino a quel momento Eileen non aveva notato. Erano entrambe destinate a spendere buona parte dei loro soldi in libri, e quando la spagnola espresse quel pensiero a voce alta la britannica, chiuso il libro, annuì cupa sospirando:
“Terribilmente vero. L’altra notte ho sognato di entrare in libreria e di avere una gift card infinita. Allora tiravo fuori tutta la mia wish-list più unga del Bill of Rights e spendevo l’inverosimile, ma poi mi sono svegliata e mi sono ricordata che se facessi qualcosa del genere dovrei mangiare pane e acqua per una settimana. Bene, penso che prenderò anche l’ultimo libro di Joël Dicker(3), è l’unico dei suoi che mi manca.”
Leena si alzò, raccolse a fatica tutti i suoi libri con l’aiuto di Eileen lamentando la necessità di iniziare a disporre dei carrelli all’interno delle librerie e le due poterono così dirigersi verso le scale mobili, trascinandosi a pagare sforzandosi di non guardarsi attorno sugli scaffali ricolmi per evitare di cadere in ulteriori tentazioni.
 
Dieci minuti dopo le due streghe sedettero una di fronte all’altra ad uno dei tavolini quadrati della caffetteria, un paio di giganteschi bicchieri di carta con tappi di plastica a cupola pieni di caffè e panna davanti e i loro nuovi libri accatastati nelle borse di carta su una sedia vuota.
“Con questo la mia corsa va a farsi benedire, ma ne vale la pena.”
Eileen svitò il tappo di plastica e raccolse gioiosa una montagna di panna e caramello con il cucchiaio mentre Leena al contrario frugava nella propria borsa per cercare la sua penna con le bandierine del Regno Unito – per qualche motivo che ancora fatica a comprendere portarsi in giro piuma e calamaio gettava sconcerto nei Babbani circostanti e aveva dovuto iniziare a comprare penne a sfera – e il suo immancabile blocchetto.
“Stasera dobbiamo vedere gli altri per fare il punto della situazione, ma vorrei iniziare ora. Barry White sembra una persona normalissima, ma non mi convince.”
“Un dentista di nome Barry? Non mi convince.”
Eileen scosse la testa con disapprovazione mentre raccoglieva un altro po’ di panna, liquidando rapida il discorso e promettendo a Leena di spiegarle il motivo più tardi di fronte all’occhiata stranita dell’amica. a volte era proprio faticoso essere amica di una che del mondo Babbano non ne sapeva quasi nulla, letteratura a parte.
“Lui e la ex, non mi ricordo il nome, di Montgomery si conoscono, abitano vicini e Carter pensa che al nostro dentista lei potrebbe interessare.”
“Beh, lei è bellissima. E lui non mi sembra di averlo visto con nessuna di recente, credo sia single, quindi potrebbe anche essere. A meno che non sia gay.”
Eileen aggrottò la fronte e inarcò un sopracciglio, chiedendosi come svelare l’arcano mentre Leena, di fronte a lei, schioccava le dita prima di indicarla con l’indice, seria in volto:
“Dovremmo mandare una strafiga a provarci con lui per scoprirlo. O uno strafigo, dove viviamo noi sembra un’agenzia di modelli.”
“Beh, vacci tu!”
“No, io lo conosco di vista, mi salta la copertura! Stasera ne parliamo con gli altri.”
Annuendo con convinzione Leena si affrettò a segnarsi un appunto sul suo blocchetto, sotto ad una riproduzione del viso di Daniel Craig circondata da cuoricini, ed Eileen la lasciò fare mentre continuava a sorseggiare in tutta calma il suo caffè: non solo aveva due anni di esperienza alle spalle a suggerirle come fosse del tutto inutile cercare di dissuadere Leena Zabini da un’idea, ma moriva anche dalla voglia di vedere chi si sarebbe offerto tra i loro vicini di gettarsi in quell’impresa. Per qualche motivo puntava sui ragazzi.

 
*
 

Naomi Leigh Broussard si fermava di rado a riposarsi, anche durante il weekend, quando molto di frequente si ritrovava a girare come una trottola per quarantott’ore consecutive. Anche quella domenica si era alzata presto – qualcosa nei confronti del quale la strega provava una sincera e molto sentita avversione fin da quando frequentava Ilvermorny –, aveva portato Sundance a spasso e dopo essere rientrata all’Arconia si era immediatamente messa ai fornelli per concludere l’opera iniziata come da tradizione il giorno prima: cucinare tutto il necessario per la settimana successiva. Il tutto con le puntate di un reality a farle compagnia in sottofondo, s’intende.
Naomi si era fermata solo per pranzare e per dare da mangiare ai suoi amati animali, e aveva appena incantato spugna e detersivo affinché lavassero autonomamente tutte le pentole e gli utensili da cucina che aveva utilizzato, ora impilati all’interno del lavello, quando sentì qualcuno bussare alla porta. Sollevata di aver finito di cucinare, specie perché di lì a breve avrebbe dovuto uscire, Naomi si affrettò a raggiungere la soglia del grande appartamento, quasi completamente bianco e arredato in stile Antebellum, e aprì la porta, sorridendo quando si trovò davanti il volto del suo migliore amico:
“Ciao Moosy! Cavolo, ho appena pranzato, se fossi venuto un po’ prima avremmo potuto mangiare insieme. Vieni dentro, sto finendo di sistemare.”
La strega subito si spostò di lato per far passare l’amico, che le sorrise di rimando e la guardò chiudergli la porta alle spalle mentre Sundance gli andava incontro scodinzolando e tutti gli aromi che avevano invaso soggiorno e cucina gli solleticavano piacevolmente le narici.
“Non preoccuparti, non ti volevo disturbare, so che devi uscire a breve. Da questo assurdo mix di profumi direi che hai preparato di tutto.”
“Come sempre, ma l’anatra questa volta mi ha fatto quasi uscire matta. E sai che non posso sbagliarla, o mia nonna in qualche modo lo saprà e arriverà di corsa per tirarmi le orecchie. Vuoi una tazza di tè?”
Naomi si diresse verso la cucina e Moos la seguì, annuendo e accettando di buon grado la sua offerta mentre Sundance gli trotterellava accanto scodinzolando, guardandolo adorante in cerca di coccole. Naomi incantò il bollitore affinché si riempisse d’acqua da solo per poi sfrecciare su un fornello, posizionandosi dietro all’isola della cucina per finire di ricoprire con la carta stagnola la sua collezione di casserole di ceramica di tutte le forme e dimensioni che, contenenti tutto ciò che aveva cucinato quella mattina, ricoprivano per metà la superficie di marmo dell’isola.
Subito Moos si propose di aiutarla per fare prima e si posizionò dall’altra parte del mobile in modo da trovarsi di fronte all’amica, che gli sorrise grata e scosse la testa con un lieve cenno del capo mentre lo guardava con occhi pieni di affetto:
“A volte mi dico che non lo merito proprio, un amico come te.”
“Non essere ridicola.”
“Io ridicola non lo sono mai, Moosy. Iniziare a vivere qui grazie a te è sempre stato infinitamente meno spaventoso. Questa città era spaventosa, all’inizio, quando mi sono trasferita dopo la laurea, specie considerando che avevo appena rotto con Hyram… Poter contare su di te è stato fondamentale per ambientarmi.”
Naomi distese le labbra carnose in un sorriso che Moos ricambiò quando il ragazzo sollevò brevemente lo sguardo dalla carta stagnola per posarlo su di lei, poco avvezzo ad accettare i complimenti. Sette anni in classe insieme e non avevano mai realizzato di come la zia di Naomi possedesse un appartamento nello stesso palazzo dove viveva suo nonno, finendo col scoprirlo solo diversi anni più tardi, quando Naomi gli aveva scritto informando l’ex compagno di scuola del suo imminente trasferimento nella Grande Mela, più precisamente a Manhattan. Quando aveva spiegato all’amico che sarebbe andata a vivere nell’appartamento di sua zia nell’Upper West Side Moos aveva accolto la notizia con entusiasmo, felice all’idea di avere la sua vecchia amica nel suo stesso quartiere, finendo col stupirsi non poco quando lei gli aveva scritto l’indirizzo, consentendogli di realizzare che presto sarebbero diventati vicini a tutti gli effetti. Se chiudeva gli occhi Moos riusciva ancora a rivedere gli scatoloni di Naomi, molti dei quali contenenti enormi e spaventosi tomi di materia legislativa, riversati nell’ingresso, il sorriso dell’amica quando lo aveva visto e il modo in cui era corsa ad abbracciarlo dopo due anni trascorsi senza mai vedersi, uno slancio d’affetto piuttosto raro quando si parlava di Naomi Leigh Broussard. Per molti anni il suo unico vero amico nel palazzo era stato Monty, o almeno fino all’adolescenza, e l’apparizione di Naomi all’Arconia era stata per lui una manna dal cielo: non si era mai sentito tanto solo come dopo la morte di suo nonno, quando ormai non poteva più contare nemmeno su quello che a lungo era stato il suo migliore amico.
“Fidati, anche per me è stato importante averti qui. Quando nonno è morto il palazzo sembrava desolatamente vuoto, prima che arrivassi.”
Naomi gli sorrise come a volergli dire che lo sapeva, che le dispiaceva di non aver avuto modo di conoscere il nonno di cui aveva sempre tanto sentito parlare, dall’amico come da parte di sua zia. Naomi sorrise ma non disse nulla, non ce n’era bisogno, e Moos ricambiò prima di chinare il capo, distogliendo lo sguardo dal viso dell’amica per tornare a concentrarsi sulla casserole di forma circolare contenente un gâteau di patate che aveva davanti.
Quando ebbero finito e le scorte di Naomi furono riposte ordinatamente all’interno dell’enorme frigo – la strega persisteva a lanciare occhiate malinconiche in direzione dell’elettrodomestico fin da quando aveva messo piede a casa di Kamala Sharma, rimpiangendo amaramente il frigo della sua vicina – e il tè fu messo in infusione nell’acqua calda Naomi e Moos si spostarono dalla cucina al soggiorno con un vassoio fluttuante al seguito, occupando il divano bianco mentre Sundance appoggiava la testa sulle gambe della padrona, sia perché in cerca di compagnia, sia perché particolarmente interessato al piattino di biscottini al burro e noci che Naomi sistemò sul tavolino da caffè.
“Vai in Connecticut da lei o viene a trovarti Margaret?”
“Ci vediamo qui, la zia vuole fare shopping e prima prendere il tè al Plaza. Naturalmente non le diremo che ne ho già bevuto una tazza qui con te.”
Naomi lasciò che la teiera servisse da sé lei e l’amico riempiendo le loro tazze, dopodiché sollevò con delicatezza la propria e soffiò piano sulla bevanda calda e ambrata prima di tornare a guardare Moos, chiedendosi se la sua visita celasse un intento particolare. A giudicare dal suo piede, che continuava a picchiettare ritmicamente sul pavimento, e dal modo in cui Moos osservava pensoso il tè nero la strega dedusse di non essersi sbagliata, e distese le labbra in un sorriso dolce prima di parlare con il tono gentile che riservava quasi esclusivamente a lui:
“Vuoi parlarmi di qualcosa, Moosy?”
 
In effetti Moos era giunto fino alla porta dell’appartamento di Naomi con il preciso intento di condividere con lei un’informazione che aveva acquisito il giorno prima, qualcosa su cui continuava incessantemente a rimuginare. In fondo lo aveva sempre saputo, che Monty non si era ucciso, e quell’informazione lo confermava, ma recitare quelle parole a voce alta le avrebbe rese infinitamente più reali, accrescendo la sua inquietudine: lui e Monty avevano smesso di essere amici molto tempo prima, ma sapere che il suo ex migliore amico fosse tanto odiato da qualcuno al punto da essere ucciso lo faceva comunque sentire malissimo.
“Montgomery era mancino. E quando lo hanno trovato stringeva quel coltello da cucina nella mano destra.”
“Chi te l’ha detto?!”
Naomi di certo non si aspettava una rivelazione tanto precisa sulla morte del suo ex vicino, e all’udire quelle parole strabuzzò sbigottita gli occhi verdi, rimettendo di scatto la tazza sul piattino appoggiato sul tavolo per riporre tutta la sua attenzione sull’amico. Moos aprì di riflesso la bocca per rispondere, per spiegarle di aver chiesto ad un suo vecchio amico, il nipote della migliore amica di sua nonna che da qualche tempo lavorava al Dipartimento degli Auror del M.A.C.U.S.A., ma prima che potesse emettere un suono la strega sembrò cambiare idea, sollevando una mano per bloccarlo sul nascere e scuotendo la testa con un cenno nervoso del capo:
“Anzi, no, non dirmelo, è illegale condividere informazioni su un caso, forse è meglio che io non lo sappia. Sei sicuro?”
“Sicurissimo.”
“Ma la sua famiglia non ci ha fatto caso?! Non l’ha trovato sua madre?”
“Suppongo che fosse troppo sotto shock.”
Moos sollevò la mano destra per grattarsi nervosamente il retro del collo e al contempo distolse lo sguardo dal viso dell’amica, concentrandosi invece sul tappeto ai piedi del divano mentre cercava in tutti i modi di non pensare alla madre di Montgomery, forse la donna più gentile che avesse mai incontrato in vita sua, che ritrovava il suo adoratissimo ed unico figlio in un lago di sangue dentro la sua vasca da bagno.
E pensare che lui ancora non era riuscito a trovare la forza di andarla a trovare, la donna che da bambino gli comprava torri altissime di gelato e gli leggeva le storie quando si fermava a dormire a casa loro. Provava vergogna per se stesso.
Naomi lo conosceva troppo bene per non immaginare come si sentisse, e allungò la propria mano per stringere quella dell’amico guardandolo dispiaciuta e preoccupata al tempo stesso, invitandolo silenziosamente con quella stretta a non sentirsi in colpa.
“Stasera lo dirai agli altri?”
“Sì. È strano, sai. Ho sempre saputo che non si era ucciso, ma adesso che è certo… Credevo che mi avrebbe fatto sentire meglio sapere la verità, invece no. È orribile pensare che qualcuno lo odiasse tanto, anche se so che non era la persona migliore del mondo. E ai suoi genitori dovrei dirlo?”
“Dev’essere una sofferenza indicibile pensare che il proprio figlio volesse togliersi la vita, ma forse sapere che è stato ucciso li tormenterebbe ancora di più, si accanirebbero sulla ricerca di un colpevole, e se non dovessero trovarlo non riuscirebbero mai a superarlo. Non lo so, Moosy.”
Per una volta persino Naomi non aveva una risposta e non aveva idea di come l’amico avrebbe dovuto comportarsi, loro che da sempre si scambiavano consigli su qualsiasi aspetto. Amareggiata per la propria scarsa utilità Naomi scosse leggermente il capo iniziando ad accarezzare distrattamente la soffice testa color miele di Sundance poggiata sulle sue gambe, osservando pensosa e con le sopracciglia aggrottate un punto indefinito del divano su cui sedeva mentre Moos, di fronte a lei, dopo una breve riflessione annuiva, parlando con tono fermo e risoluto:
“Forse dovrei lasciare che glielo dicessero gli Auror. È meglio che il mio amico non lo dica o potrebbe finire nei guai, ma in qualche modo devono sapere che era mancino. La verità deve venire fuori.”
 

 
*

 
Carter si sentì scuotere da un leggero brivido mentre con la mano libera si sistemava il cappuccio della felpa nera sul retro del bavero dell’amata giaccia di pelle del medesimo colore e con l’altra stringeva il bicchiere di carta di Starbucks con il suo nome scarabocchiato sopra a pennarello. L’estate a New York era finita e i segnali della città non avrebbero potuto essere più chiari, dal brusco abbassamento della temperatura che lo aveva costretto a ritirare fuori dall’armadio la giacca di pelle, alle foglie degli olmi di Central Park che da verdi e rigogliose stavano rapidamente iniziando a seccarsi e a scurirsi, rendendo il parco ricco di sfumature giallastre che si mischiavano a quelle verdi delle piante ancora rigogliose.
Carter era nato e cresciuto in Indiana, godendosi le sue estati calde e soleggiate, e già da bambino l’autunno era stata di gran lunga la stagione che meno aveva sopportato, con le sue piogge e il cielo quasi perennemente ingrigito dalle nuvole. Per quando il successivo trasferimento a New York avesse migliorato la percezione che aveva di quella stagione – persino lui doveva ammettere che l’autunno, in quella città, fosse meraviglioso – continuava a preferirle quelle calde, in particolar modo l’estate. Il foliage di New York poteva anche essere una meraviglia per gli occhi, ma per lui nulla poteva competere con il calore del Sole estivo e con la possibilità di starsene per ore in spiaggia.
Dopo essere rimasto per diverso tempo al chiuso Carter percepiva l’aria molto più fredda di quanto in realtà non fosse, e si affrettò a portarsi il bicchiere di carta alle labbra per scaldarsi con un sorso di caffè senza smettere di procedere lungo l’ampio viale alberato semi-deserto affiancando Niki, che aveva già vuotato il suo poco prima e ora camminava con falcate lunghe e rilassate tenendo le mani sprofondate nella tasca centrale della felpa nera.
“Stagione preferita?”
Quando Carter si voltò verso la strega vide che Niki camminava tenendo il capo leggermente chino, i grandi occhi verdi che scrutavano pensosi il suolo che stava iniziando lentamente ad ospitare le prime foglie cadenti. Per una volta non si era sollevata il cappuccio della felpa sulla testa e alcune lunghe ciocche di capelli castani erano scivolati fuori dal bavero dell’overshirt di pelle, incorniciandole il viso e muovendosi ad ogni suo passo.
“Autunno. La tua?”
“Estate, decisamente. Mi mancherà la spiaggia e fare surf… per fortuna la palestra dove vado ha la piscina. Non capirò mai perché tanta gente ami l’autunno.”
“È difficile vivere qui e non amarlo.”
Mentre Carter riprendeva a sorseggiare con calma il suo caffè Niki sollevò la testa, osservando le file di olmi che circondavano uno dei più noti viali di Central Park, The Mall. The Mall, con le sue infinite file di panchine di legno, le statue e gli olmi che lo costeggiavano che in autunno si tingevano di ogni possibile sfumatura di arancione. Era passato talmente tanto tempo dall’ultima volta in cui vi aveva messo piede che credeva quasi di averlo dimenticato, quel luogo, appurò Niki mentre faceva correre lo sguardo sulle file di panchine e sulla statua più vicina a lei e a Carter, che riconobbe come quella di Sir Walter Scott.
“Per me è più che altro un perenne cumulo di freddo, pioggia, umidità e suole infangate. Non so che cosa ci trovi la gente di così poetico.”
Carter aveva appena pronunciato quelle parole con una debole stretta di spalle quando Niki all’improvviso si fermò, costringendolo a fare altrettanto per non superarla: il giornalista si voltò verso la vicina aggrottando le sopracciglia, ma prima che potesse chiederle per qualche motivo si fosse fermata si rese conto di come stesse osservando pensosa qualcosa che si trovava a pochi metri da loro. Seguendo la direzione dello sguardo di Niki Carter si ritrovò ad osservare a sua volta una delle tante statue che costeggiavano il viale, e pur non riconoscendo l’uomo che la città aveva voluto omaggiare ebbe l’impressione che davanti agli occhi della sua vicina, a giudicare da come Niki stava osservando la statua, si stessero proiettando immagini molto distanti dal presente. Qualunque cosa stesse rivivendo Niki Carter la vide ritornare alla realtà appena un paio di istanti dopo, quando fece scivolare lo sguardo dalla statua fino al suo viso prima di stringersi nelle spalle, parlando con il suo consueto tono quasi del tutto inespressivo:
“Io aspetto la pioggerella d’autunno per nascondermi tra le persone, nel grigio della città, sparendo e perdendomi nei ricordi. L’autunno permette di fare cose che in altre stagioni non sono possibili, credo.”
Niki smise di guardarlo per chinare lo sguardo verso il suolo ai suoi piedi, abbassandosi per raccogliere una foglia gialla caduta mentre Carter, al contrario, continuava ad osservarla con gli occhi azzurri pieni di curiosità: pur trovandola molto poco simpatica era innegabile che il cripticismo della sua bizzarra vicina lo incuriosisse non poco.
“Tu vivi all’Arconia da sei mesi, ma sembri conoscerla bene questa città. Hai già vissuto qui?”
“Sono nata qui. Poi me ne sono andata, sono tornata solo l’anno scorso.”
Niki rispose senza guardarlo, fissando invece la foglia a quattro punte mentre la rigirava facendosi roteare lo stelo tra le dita. Aveva appena parlato quando si chiese perché avesse risposto con tanta sincerità alla sua domanda, qualcosa di totalmente inconsueto quando si sentiva rivolgere domande sul suo passato, sentendo la pressione dello sguardo di Carter su di sé mentre l’espressione del vicino si faceva improvvisamente stranita, quasi trovasse la risposta del tutto inaspettata:
“È strano.”
“Perché strano?”
Non era certo la prima volta in cui qualcuno giudicava bizzarro qualcosa che la riguardava, ma Niki sollevò comunque lo sguardo per riportare gli occhi verdi sul volto del vicino, osservandolo con un sopracciglio inarcato e sincera curiosità mentre Carter si stringeva debolmente nelle spalle tamburellando l’indice destro sul bicchiere di carta ormai vuoto:
“Dicono che per un newyorkese sia impossibile vivere in qualsiasi altro posto. Di solito è da fuori che la gente viene qui, ma quasi nessuno se ne va. Io vivo qui da “soli” sette anni e non so se riuscirei ad andarmene, non immagino se uno ci nasce.”
“Non sempre, a quanto pare.”
Niki si strinse debolmente nelle spalle facendo vagare lo sguardo sulle chiome degli alberi che li circondavano, dove il verde iniziava a mescolarsi con i colori caldi dell’autunno. Carter era sicuro che se le avesse chiesto perché se ne fosse andata e dove non gli avrebbe risposto, osservandola con le sopracciglia color grano leggermente aggrottate mentre un lieve sussurro, forse rivolto più a se stessa che a lui, si levava dalle labbra di Niki:
“Era da tantissimo tempo che non lo vedevo.”
“Cosa, l’autunno?”
Senza smettere di rigirarsi il sottile stelo della foglia tra l’indice e il pollice Niki smise di osservare la chioma dell’imponente olmo che le stava davanti per tornare a posare gli occhi su Carter, accennando un lievissimo sorriso divertito sollevando gli angoli delle labbra di fronte al sincero straniamento del vicino prima di scuotere la testa e parlare con tono pacato:
“No, cretino. L’autunno qui. Diventerà sempre più bello.”
“Sì, carino, ma freddo e umido.”
“Beh, in fin dei conti non potevamo avere gli stessi gusti proprio in tutto.”
“Non vedo cosa abbia di tanto speciale, tutto qui.”
Carter fece spallucce prima di riprendere a camminare lungo il viale, deciso a raggiungere la celebre scalinata che li avrebbe condotti alla Bethesda Fountain mentre Niki, alle sue spalle, invece di seguirlo esitava chinando nuovamente lo sguardo sulla foglia che stringeva tra le dita.
“L’automne est le silence avant l’hiver.(4)
All’improvviso, mentre osservava la foglia roteare, ricordò esattamente quando era stata l’ultima volta in cui aveva passeggiato lungo The Mall in autunno, quando le foglie secche si staccavano dai rami e fluttuavano fino a poggiarsi sulle panchine, sulle statue e sul suolo del viale. Quando puntò nuovamente lo sguardo ai piedi della statua di Sir Walter Scott riuscì quasi a rivedere una bambina con lunghi capelli castani disordinati, il capo chino e lo sguardo fisso sul foliage in cerca delle foglie più carine mentre una voce alle sue spalle la chiamava, intimandole di sbrigarsi. Riuscì quasi a vedere la bambina, le piccole mani piene di foglie, voltarsi per correre dalla donna che la chiamava, ma cercò in tutti i modi di non soffermarsi su quel volto e di scacciare quel ricordo a lungo rimasto sopito per farlo ritornare in un angolo remoto della sua memoria. Quasi senza rendersene Niki allentò la presa sullo stelo della foglia fino a farsela scivolare dalle dita, lasciandola cadere mentre sollevava la testa verso il cielo grigio che quel giorno sormontava New York, inspirando profondamente e costringendosi a sbattere più volte le palpebre per ricacciare indietro gli sgraditi accenni di lacrime che li avevano inumiditi.
Carter nel frattempo si fermò qualche metro più avanti, voltandosi accigliato verso la vicina che non si era incamminata dietro di lui: per un attimo pensò seriamente che la vicina se ne fosse andata lasciandolo nel bel mezzo di Central Park da solo, ma in realtà Niki non si era mossa e stava ancora in piedi vicino alla ringhiera di metallo che delimitava i confini del viale, il capo sollevato verso l’alto come se stesse guardando il cielo.
“Ci sei?”
“Sì. Arrivo.”

 
*

 
Hotel Plaza
 
 
Quando il portiere in divisa le spalancò la porta con i bordi laccati d’oro, permettendole di varcare la soglia dell’Hotel, Naomi si sentì immediatamente pervadere da una sorta di piacevole tepore che strabordava di lusso e una gran dose di denaro. Benchè l’enorme Hall del palazzo fosse meravigliosa Naomi non si attardò ad ammirarla, affrettando invece il passo per raggiungere uno dei ristoranti dell’Hotel, The Palm Court, dove nel pomeriggio ospiti e non potevano usufruire di uno dei migliori servizi di tè che Naomi avesse mai gustato in tutta la sua vita.
Il rumore dei tacchi attutito dagli spessi e morbidissimi tappetti – che, Naomi ne era certa, costavano quasi quanto l’intero mobilio del suo appartamento – che ricoprivano quasi interamente il parquet della Hall, Naomi si diresse senza esitare verso l’enorme porta a doppia anta spalancata dagli inserti dorati che conduceva alla sala del ristorante gettando un’occhiata al proprio orologio da polso, pregando di non essere in ritardo.
Fortunatamente non fu difficile individuare sua zia, che la stava aspettando standosene seduta su una delle alte sedie dell’enorme bancone che si trovava esattamente al centro della sala, dandole le spalle. Naomi si stampò un bel sorriso sulle labbra mentre la raggiungeva, fermandosi accanto a lei mentre le sfiorava una spalla con la mano:
“Ciao zietta. Sei arrivata in anticipo?”
Di norma quando si incontravano zia Margaret le stampava due sonori baci sulle guance, ma non quel pomeriggio: quel pomeriggio la donna si voltò verso la nipote, la studiò impassibile per un istante e infine annuì, insolitamente seria.
“Sì, mi annoiavo a casa e sono venuta prima, peccato che bere un drink a quest’ora sia sconveniente. Vieni, sediamoci.”
La donna scivolò giù dalla sedia con una grazia che Naomi invidiò profondamente – quando le capitava di dover sedere su quelle orribili trappole la sua statura la costringeva a ritornare con i piedi per terra con la stessa grazia di uno Yeti –, superandola per dirigersi verso il gran numero di tavoli circolari che le circondavano, tutti apparecchiati e con un gran numero di palme disseminate per la sala.
“Va tutto bene zia?”
Naomi si affrettò a seguire Margaret per non rischiare di perdere la zia dietro ad una palma, guardandola farle sbrigativamente cenno con la mano di muoversi senza voltarsi mentre puntava un elegante cameriere in divisa per chiedergli di condurle al loro tavolo.
“Sì Naomi Leigh, vieni!”
Naomi Leigh? Sentirsi chiamare con il suo nome completo da Margaret la fece inorridire: solo sua madre la chiamava così, di norma. La faccenda doveva essere seria, e all’improvviso Naomi ebbe l’impressione che sua zia non le avesse chiesto appuntamento solo per spettegolare, mangiare mini sandwich e scones e fare shopping.
 
Quando finalmente ebbero preso posto una di fronte all’altra, circondate da palme e da quelle che riconobbe con una rapida occhiata come le mogli casalinghe dell’Upper East Side, tutte intente a ciarlare di cameriere, scuole private e tate, Naomi chiese nuovamente a sua zia di che cosa volesse parlarle, ma Margaret asserì seria che “prima il tè doveva essere versato e l’alzata per dolci servita”, facendo cadere predala nipote della più terribile impazienza: Naomi attese nervosamente che il tè venisse servito, e quando finalmente tazze, teiera fumante e alzata per dolci strapiena furono sul tavolo non aspettò nemmeno di essersi riempita la propria per poter rinnovare la sua domanda.
“Perché sembri strana? Qualcuno sta male? La villa è andata a fuoco?”
“No, niente del genere, stiamo tutti benissimo e la villa anche. No, voglio che mi parli del figlio di Nathan e Joanna.”
Mentre Margaret si riempiva la tazza bianca di acqua calda per mettere in infusione il suo tè nero Naomi la guardò esitando, cercando di capire di chi la donna stesse parlando fino ad azzardare un’ipotesi con tono dubbioso:
“Intendi i Dawson?”
“Perché, sono morti altri ragazzi nel palazzo?”
“Non ricordo i nomi di tutti i condomini zia, non vivo lì da un’eternità come ci hai vissuto tu! Beh, che cosa vuoi sapere?”
Naomi imitò la zia riempiendosi la tazza di acqua calda, distogliendo accuratamente lo sguardo dal suo viso mentre Margaret, preso uno scone per imburrarlo, agitava nervosamente il coltello con impazienza:
“Che cosa è successo, questo voglio sapere! Sono ancora sconvolta, l’ho visto crescere quel ragazzo, me lo ricordo quando era piccolo, saliva in ascensore e scombinava i viaggi di tutti premendo tutti i pulsanti che poteva per poi scappare alla prima fermata. Quando l’ho saputo non ci potevo credere, che Montgomery fosse morto.”
“Pare sia un suicidio.”
Naomi parlò con il tono più vago e disinteressato di cui era capace mentre riversava tutta la propria attenzione sull’elegante alzata per dolci di porcellana, scegliendo con fin troppa cura qualche mini sandwich assaggiare tra l’ampia scelta che aveva davanti. Sua zia la conosceva talmente bene da farle temere che avrebbe potuto intuire che cosa stava facendo solo con un’occhiata.
Ridicolo.”
Margaret prese la sua tazza e se la portò alle labbra scuotendo la testa con decisione, inducendo la nipote a guardarla inarcando un sopracciglio: allora i suoi strambi vicini non erano gli unici a pensarlo, e sua zia aveva vissuto all’Arconia abbastanza a lungo da rendere la sua opinione degna di essere ascoltata.
“Come fai a dire che è ridicolo?”
“È da un po’ di anni che non vivo all’Arconia e va bene, non puoi sapere che cosa passa per la testa di una persona se non la conosci davvero, ma ho visto quel ragazzo praticamente ogni giorno per quasi tutta la sua vita. Era molto ricco, un bellissimo ragazzo, aveva una famiglia che lo adorava, poteva fare ciò che voleva. Aveva tutto, perché uccidersi? Joanna sarà a pezzi, poverina, non amava nient’altro come amava Montgomery.”
Margaret scosse la testa parlando con tono grave, gli occhi scuri puntati sulla tovaglia bianca che ricopriva il tavolo mentre la sua mente vagava sulla sua ex vicina e su suo figlio. Naomi annuì mentre sentiva lo stomaco stringerlesi in una stretta spiacevole, non volendo nemmeno immaginare quanto dovesse star soffrendo la donna mentre la zia, preso un altro sorso di tè, tornava a guardarla seria:
“Lo hai detto a Rory? Erano amici, se non ricordo male.”
Ebbe un effetto strano, per Naomi, sentir pronunciare il nome del fratello da parte di un altro membro della sua famiglia, che spesso e volentieri, i suoi genitori in primis, dalla condanna di Gregory aveva iniziato a comportarsi come se uno dei loro membri non fosse mai esistito. Dopo una breve esitazione, in cui i pensieri della strega vagarono fino al fratello maggiore, la ragazza annuì, giocherellando con il cucchiaino d’argento della zuccheriera senza guardare la zia in volto:
“Sì, certo. Non l’ha presa bene, quando glie l’ho detto è rimasto impietrito, poi si è alzato e ha interrotto la visita prima del tempo, ha detto che voleva stare da solo per un po’. Non sono più andata a trovarlo da quel giorno, penso gli serva il suo spazio.”
Naomi non sapeva quando di preciso sarebbe tornata a trovare suo fratello, ma in compenso sapeva di non avere molta voglia di parlarne, nemmeno con quella che senza ombra di dubbio era la parente con cui aveva un rapporto più stretto e confidenziale, pertanto non esitò a cambiare argomento mentre smetteva di giocherellare col cucchiaino per tornare a sedere composta sulla sedia e a ricambiare lo sguardo di Margaret, che la stava osservando dispiaciuta, come intuendo la natura dei suoi pensieri:
“Pensi che qualcuno lo abbia ucciso, se escludi il suicidio?”
“Tesoro, ti sconcerterebbe apprendere l’assurda varietà di gente, sia in senso positivo che negativo, che abita questa città. Non è così implausibile che qualcuno lo abbia ucciso, ci sono newyorkesi che hanno ucciso solo per ottenere un immobile più bello e grande del proprio. Ormai non mi stupisco più di nulla.”
Margaret si strinse nelle spalle mentre poggiava la tazza sul piattino per prendere a sua volta un mini sandwich sotto lo sguardo scettico della nipote, che guardò la donna inarcando dubbiosa un sopracciglio: benchè avesse il massimo rispetto delle idee e delle opinioni di sua zia, dubitava fortemente che uno dei suoi vicini avesse ucciso Montgomery solo per poter comprare il suo appartamento.
“Sì, beh… Non penso che qualcuno lo volesse morto per il suo appartamento, anche se immagino fosse meraviglioso.”
“Meraviglioso davvero, prima di comprare il mio… tuo, scusami, ne vidi qualche altro. Il 14B è davvero stupendo, non a caso per un po’ di anni, quando era giovane, prima di sposarsi la prima volta, volle viverci anche il Jack O’Hara, il figlio del proprietario. Ma ora immagino che venderlo sarà difficile, dopo questa storia. Sarebbe un peccato se restasse vuoto.”
“Non ci scommetterei. Come hai detto tu, questa città pullula di tipi strani. Sono sicura che più di qualcuno che troverebbe esaltante vivere dove qualcuno è stato ucciso.”
E Naomi, anche se naturalmente non ne fece parola con la zia, aveva anche idee molto precise a riguardo.

 
*

 
“Kei non viene, mi ha scritto che è andato a trovare suo fratello a Brooklyn per parlargli di Montgomery.”
Dopo aver letto il messaggio dell’amico Orion ripose il telefono all’interno della giacca nera e tornò a posare il proprio sguardo su Esteban, inarcando un sopracciglio quando vide come il vicino si stava guardando attorno:
“Stai aspettando qualcuno?”
“Sì, dovrei dare una cosa a Jackson.”
Esteban, incapace di star fermo durante l’attesa, stava in piedi accanto a lui accanto alle file di cassette postali dell’ingresso del palazzo, gli occhi scuri che saettavano a ripetizione dalla porta d’ingresso fino agli ascensori in attesa di scorgere Jackson. Quando finalmente scorse il veterinario uscire da uno degli ascensori e guardarsi attorno Esteban sollevò leggermente un braccio per farsi notare, guardando Jackson attraversare rapido l’ingresso per raggiungergli sospirando rumorosamente e visibilmente esasperato per qualcosa:
“Scusa, mia madre non mi mollava più.”
Ed era anche sua madre il motivo per cui aveva dato appuntamento ad Esteban nell’ingresso, senza dirgli di presentarsi alla sua porta: ci mancava solo che Marlene iniziasse ad assillarlo chiedendogli se si fosse trovato un fidanzato.
“Tranquillo, è davvero confortante non essere quello in ritardo per una volta. Tieni.”
Orion guardò in silenzio il vicino porgere una busta di carta da pacchi giallastra a Jackson, che la prese e la ripiegò su se stessa per potersela infilare nella tasca interna. Non osò chiedere che cosa contenesse, limitandosi a sorridere al vicino prima di chiedergli se volesse unirsi a loro e uscire.
Jackson aveva passato tutto il pomeriggio a giocare a basket ed era sinceramente esausto, ma sua madre stava rivoltando tutto l’appartamento per trovare il suo servizio da piatti preferito in previsione dell’arrivo degli ospiti che aveva invitato per cena, e la prospettiva di starsene fuori di casa si fece improvvisamente molto allettante.
I tre stavano attraversando il cortile interno del Palazzo quando fuori stava già iniziando a fare buio e ben presto s’imbatterono in Gabriel, di ritorno da un pomeriggio trascorso a casa di sua sorella e di sua cognata per fare da baby-sitter ai suoi nipoti. Orion, Esteban e Jackson decisero immediatamente di portarselo dietro e prima di poter anche solo provare a ribattere a ribattere Gabriel si ritrovò trascinato fuori dal palazzo mentre Esteban, sorridendo, asseriva di saper benissimo dove potevano andare.
 
 
“Tuo padre possiede questo posto? Fortunato.”
“Ne possiede anche altri due, in realtà, sparsi per la città… The Naughty Witch e The Mischievous Wizard. Ecco, tutti vostri, offre la casa naturalmente.”
Esteban lasciò che i bicchieri con i drink si librassero dal vassoio per disporsi autonomamente davanti a Jackson, Gabriel ed Orion, che non esitò ad arraffare una delle ciotole contenente le arachidi per iniziare a sgranocchiarne a manciate. Esteban occupò la sedia rimasta libera attorno al tavolo, salutando le cameriere che passavano loro davanti.
“Non ti interesserebbe gestirli, i locali di tuo padre?”
“Oh, no, papà se l’è messa via tempo fa, io sono allergico alle responsabilità e mi stano troppo in fretta per tenere in piedi un’attività commerciale, ma va bene così, mi piace quello che faccio.”
Esteban si strinse nelle spalle mentre raccoglieva una manciata di patatine, guardandosi distrattamente attorno mentre ripercorreva mentalmente gli anni della sua infanzia trascorsi a L’Avana, vissuti quasi interamente in locali simili a quello quando se ne stava seduto in un angolo a colorare i suoi disegni mentre sua madre ballava su un palco. Era proprio a L’Avana e dove sua madre si esibiva che i suoi genitori si erano conosciuti, ma della professione di Ernestina Esteban aveva smesso di farne parola apertamente fin da quando aveva messo piede a Castelobruxo per la prima volta, stanco dei commenti poco eleganti che i suoi coetanei erano soliti formulare rivolgendosi alla sua famosa quanto avvenente madre.
“E tua madre lavora qui anche lei?”
“No, Mamà vive a Cuba. Sono nato lì, ma quando ero piccolo i miei genitori si sono separati, mio padre è tornato qui e io sono rimasto a L’Avana con lei. Mi sono trasferito a New York solo dopo il diploma, per la gioia di papà. Voi siete tutti cresciuti qui?”
Esteban si mise più comodo sulla sedia, distendendo le gambe più che poteva mentre sorseggiava il suo drink frizzante e agrumato. Suo padre, in effetti, era stato così felice della sua decisione di trasferirsi a New York in modo da potersi vedere più spesso che gli aveva persino regalato l’appartamento all’Arconia, mentre Ernestina lo riempiva mensilmente di lettere e telefonate chiedendogli di raccontarle per filo e per segno ogni singolo dettaglio della sua vita, forse soffrendo un tantino la lontananza dal suo unico figlio.
Jackson annuì senza dilungarsi in particolari spiegazioni e a quel punto lui, Orion ed Esteban volsero lo sguardo su Gabriel, che si prese qualche istante prima di parlare come se gli servisse un po’ di tempo per decidere che cosa dire e cosa no:
“Io sono cresciuto ad Harlem. Ho, diciamo, due madri. È un po’ complicato.”
Per spiegare accuratamente la sua peculiare situazione familiare Gabriel impiegava sempre almeno dieci minuti, e non sempre il suo interlocutore riusciva comunque a comprendere il suo discorso. In quel momento non si sentiva particolarmente in vena di parlarne, tantomeno di parlare di suo padre, perciò il tatuatore si limitò a giocherellare con il suo bicchiere facendolo girare sul tavolo mentre Jackson ed Esteban, intuito che il vicino non fosse in vena di confidenze, volsero lo sguardo su Orion. L’astronomo li guardò incerto uno per uno, ma dopo una breve esitazione finì col stamparsi un sorriso allegro sul viso e stringersi nelle spalle, anche se per un istante Jackson ebbe l’impressione che Orion avrebbe voluto dire qualcos’altro:
“Io vengo da Marquette, nel Michigan, ma la mia vita fino ad ora è stata banale, ordinaria e noiosa, non vale la pena perdere tempo a parlarne. Piuttosto, parliamo di quello che avete trovato a casa di voi-sapete-chi. … No, non Voldemort, i nostri vicini, non fate quelle facce stravolte! Cavolo, servono dei nomi in codice al più presto.”

 
*
 
14D, un paio d’ore dopo
 
 
I suoi vicini avevano deciso di riunirsi quella sera per condividere con gli altri ciò che avevano trovato o appreso negli appartamenti dei “sospettati”, e poiché Niki aveva minacciato di ghigliottinamento chiunque si fosse azzardato a presentarsi un’altra volta alla sua porta a Mathieu, che tra tutti possedeva l’appartamento più grande, non era restato che proporre casa sua come punto di ritrovo. Essendosi trovati quasi a ora di cena avevano ordinato montagne di pizza su SmartOwl, ma visto e considerato che tutti lamentavano già un certo languore Mathieu si era visto costretto a setacciare la cucina in cerca di qualcosa da offrire ai suoi particolari ospiti.
Peccato solo che il vassoio di bretzel che era certo di aver depositato in cucina quella mattina, nonché di aver visto all’arrivo dei vicini, fosse improvvisamente scomparso nel nulla.
“Ma dove sono i bretzel?! Il vassoio era lì dieci minuti fa!”
Cose misteriose accadevano all’Arconia da qualche tempo, ma soprattutto a casa sua: un vicino entrava e cibo spariva a vagonate. Mathieu stava in piedi davanti ai pensili della cucina, aprendo e richiudendo ogni singolo armadietto chiedendosi se per caso non avesse infilato il vassoio da qualche parte prenda di una momentanea distrazione.
“Che cosa cerchi?”
Orion, che era stato momentaneamente allontanato dal soggiorno da Naomi avendolo accusato di “deturpare la simmetria e l’ordine cromatico della lavagna”, giunse in cucina con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni neri, osservando incuriosito il vicino mettere al setaccio l’ampissima stanza.
“I bretzel, sono spariti…. Carter!”
Colto da un sospetto improvviso il canadese si bloccò davanti al forno e si voltò di scatto in direzione di Carter, entrato proprio in quel momento in cucina dietro ad Orion per controllare che non ci fosse qualcosa da sgranocchiare sotto tiro. Il giornalista stava per chiedere all’amico se per caso non avesse una birra da dargli, ma l’occhiata indagatrice che Mathieu gli lanciò gli fece cambiare idea, portandolo invece a spalancare gli occhi azzurri e a sollevare entrambe le mani per rendere nota la sua innocenza: non aveva idea di che cosa il vicino stesse parlando, ma tanto valeva essere sicuri.
“Non ho fatto niente, giuro!”
“Non hai mangiato i bretzel?”
“Strano a dirsi, ma giuro che non li ho mai visti.”
“Ma dove sono finiti…”
Sbuffando amareggiato e iniziando a chiedersi se i bretzel non li avesse solo immaginati Mathieu tornò a dare le spalle ai due vicini per aprire il forno e controllare all’interno dell’elettrodomestico mentre Orion si rivolgeva a Carter chiedendogli se Naomi avesse cacciato anche lui. Di fronte al diniego del vicino Orion sospirò amareggiato, chiedendosi a voce alta perché Naomi avesse esiliato solo e soltanto lui mentre Niki, alle loro spalle, faceva il suo ingresso in cucina reggendo un vassoio bianco pieno di mini bretzel al sesamo e masticandone uno con la massima nonchalance. Prima che la strega avesse il tempo di dire qualcosa palesando la propria presenza Mathieu borbottò in francese qualcosa a proposito dei bretzel e della loro misteriosa sparizione, portando Niki a bloccarsi sulla soglia e a chinare allarmata lo sguardo sul vassoio che teneva in mano: la ragazza guardò i bretzel, guardò Orion e Carter che ancora non si erano accorti di lei, infine guardò Mathieu che fortunatamente le dava le spalle e decise di levare le tende, guardandosi rapida attorno per cercare un angolo dove piazzare il vassoio prima di sistemarlo silenziosamente sulla consolle di legno sistemata accanto all’ingresso, girare i tacchi e fuggirsene da dove era venuta.
Udito una sorta di fruscio alle sue spalle Orion si voltò, spalancando meravigliato i grandi occhi color cioccolato quando scorse il vassoio incriminato sulla consolle:
“Ehy, Mathieu, sono lì! Pazzesco che non li avessimo visti!”
 
 
Il mistero dei bretzel lo aveva scosso parecchio, pertanto mentre Naomi, Eileen e Jackie sistemavano la lavagna che Niki aveva portato a casa sua dopo averla rimpicciolita con la magia Mathieu sedette sul posto del divano vicino al bracciolo e Prune, che era solito dimenticarsi di non essere più un cucciolo da tempo, vedendolo accomodarsi subito si mise in piedi per trottare scodinzolando verso il padrone e sedersi sul divano accanto a lui, sistemandogli testa, zampe anteriori e tutta la parte superiore del corpo sulle gambe.  Era una scena vista e rivista – per fortuna il cane aveva imparato a non cercare più di salirgli in braccio – e Mathieu non provò nemmeno a scollarsi il suo peso di dosso, limitandosi ad accarezzargli affettuosamente la testa bianca e nera. Stava osservando il proprio cane, aspettando che tutti gli altri attorno a lui prendessero posto a loro volta, quando un rumore molto sospetto attirò la sua attenzione e lo costrinse a ruotare il capo alla sua sinistra, verso una delle due poltrone color petrolio allineate alle spalle della consolle realizzata con noce americano.
Quello che aveva sentito era inequivocabilmente il rumore di una masticazione e un attimo dopo Mathieu si ritrovò a puntare lo sguardo su Niki, che sedeva sulla poltrona tenendo le lunghe gambe accavallate e la mano destra sollevata davanti alle labbra, coprendosi così metà del viso.
La strega ricambiò il suo sguardo, ma rimase impassibile e continuò a masticare indisturbata mentre il vicino, al contrario, la studiava assottigliando sospettoso gli occhi chiari:
“Tu che stai ruminando?”
Niki si prese qualche istante prima di rispondere, continuando ad osservare Mathieu e a masticare prima di stringersi nelle spalle esili, assolutamente incurante di essere stata scoperta e pronta a negare spudoratamente:
“Una gomma.”
“Una gomma che scrocchia?”
Mathieu sollevò il sopracciglio destro e parlò con il tono più sarcastico di cui era capace, ma Niki annuì seria senza smettere di masticare, continuando a guardarlo di rimando senza battere ciglio:
“Sì, è della nuova linea di Tiri Vispi Weasley, è al gusto… pizza croccante.”
Per un singolo e breve istante Mathieu riuscì quasi a contemplare l’esistenza di quella gomma, chiedendosi perché mai nessuno ancora ci avesse pensato. Il tono inflessibile e l’espressione seria di Niki quasi riuscirono a convincerlo, finchè il mago non si disse che se davvero quella gomma fosse esistita lui di certo lo avrebbe saputo e comprata a pacchi:
“E i miei bretzel chi li ha mangiati?”
“Beh, non chiederlo a me, saranno anni che non tocco un carboidrato…”
“Ma se l’altro ieri al blackout ti sei mangiata due kg di bretzel!”
“Era buio, avrai visto una che mi somigliava.”
Mathieu, sempre più seccato, avrebbe voluto farle presente come di certo non ci fossero molte persone in giro che le somigliavano, tantomeno in quella stessa città, ma prima di poterle rendere note le sue dimostranze Naomi invitò tutti a prestare attenzione alla lavagna e Carter ed Orion emersero dalla cucina, il primo con una birra in mano e il secondo con un bretzel in mano.
Alla vista dell’Astronomi Niki subito lo indicò, sfoggiando la miglior finta espressione indignata di cui era capace mentre lo guardava scuotendo la testa:
“Orion, sbafarsi metà dei bretzel a casa di qualcun altro, ma non ti vergogni?”
Mentre Mathieu le scoccava un’occhiataccia Orion smise di masticare e guardò prima lei e poi il padrone di casa con gli occhi color cioccolato spalancati, sinceramente dispiaciuto per l’accusa subita:
“Ma è il primo che mangio, giuro!”
“Tranquillo Orion, lo so benissimo.”
Orion parve rincuorarsi mentre Mathieu gettava un’occhiata in tralice in direzione di Niki, che però sbadigliò con aria annoiata mentre Leena, richiamata da Naomi, appariva improvvisamente nel soggiorno dopo essere sparita per quasi un quarto d’ora. Dopo averla adocchiata la britannica corse da Niki, si chinò accanto alla sua sedia e le sussurrò qualcosa all’orecchio coprendosi le labbra con una mano, destando un’espressione di pura delusione sul viso dell’ex modella:
“Davvero?! Che delusione.”
Leena e Niki spostarono entrambe lo sguardo su di lui, visibilmente amareggiate, e Mathieu si domandò offeso che cosa ci fosse di tanto deludente in lui. Perché, poi, i suoi vicini serbavano quello strano atteggiamento nei suoi confronti? Niki era strana a priori, ma gli altri?
 
“L’ho già detto prima agli altri e lo ripeto. Servono dei nomi in codice, non possiamo rischiare che la gente ci senta chiamarla per nome quando siamo in giro!”
Quando Orion, seduto tra Jackson ed Esteban con ciò che restava del suo bretzel in mano, accennò alla lavagna e alle foto dei loro vicini Piper, che aveva occupato l’ultimo posto rimasto libero su uno dei divani color crema di Mathieu, si illuminò e sorrise allegra senza smettere di attorcigliarsi la lunga treccia bionda in cui aveva legato i capelli attorno all’indice:
“Perché non chiamiamo Jeremy “Figo astronomico
"? Lo trovo calzante.”
“Non è troppo riconoscibile?”
“Non è vero, qui è pieno di fighi, su quali basi qualcuno dovrebbe capire che stiamo parlando proprio di lui?”
Piper fece spallucce, del tutto certa che la sua idea fosse azzeccatissima, mentre Naomi, che teneva un pennarello in mano, osservava dubbiosa la foto del loro dirimpettaio:
“Non lo so… Qualche altra idea? La faccenda dei nomi in codice ha senso, in effetti.”
“Io ne ho uno per la Turner: Vecchia marpiona amante dei pennuti.”
Niki parlò dalla sua poltroncina verde senza alzare lo sguardo dallo schermo del suo telefono, continuando a giocare indisturbata a Candy Crush mentre Esteban, seduto sul divano accanto, volgeva dubbioso lo sguardo prima su di lei e poi sulla foto della suddetta vicina:
“In senso sconcio o letterale?”
“Come più ti aggrada.”
“Ma Vecchia marpiona amante dei pennuti è troppo lungo, i nomi in codice hanno senso se sono corti. E poi è riconoscibilissimo.”
Carter, che stava sgranocchiando ininterrottamente salatini da dieci minuti da un’enorme ciotola insieme ad Eileen, scosse la testa con disapprovazione parlando a bocca piena, ignorando l’occhiata torva che Niki gli lanciò dalla sua poltrona.
“Allora Vecchia marpiona e basta. O Vecchia stronza.”
“Sulla Turner ci torniamo dopo… proposte per Harrison Lee?”
“Il Manzavvocato!”
Piper sorrise sognante alla foto e ben presto la buona parte dei presenti si unì a lei, Naomi inclusa. Peccato solo che avesse vent’anni più di lei.
“Se finisce che è stato lui giuro che mi faccio arrestare anche io per finire in cella.”
Naomi diede le spalle ai presenti per scrivere il nome sopra alla foto dell’uomo, trattenendo l’impulso di disegnarci altri cuoricini attorno al viso dalla simmetria meravigliosamente perfetta, quasi l’avessero scolpito. Possibile che non ci fosse neanche l’ombra di avvocati con quelle sembianze, nello studio dove lavorava lei?
“Possibilmente da Domnhall Byrne.”
Eileen sospirò mentre un sorriso sognante le si dipingeva sulle labbra e il bellissimo viso dell’Auror tornava a prendere forma nella sua mente. Per qualche istante nessuno parlò, tutti impegnati, tranne Moos e Niki, a contemplare quell’immagine sublime, finchè la strega non ruppe il silenzio dopo aver finalmente battuto il suo precedente record:
“Attenti, secondo me lo ha puntato la vecchia.”

 
*

 
Le elucubrazioni dei suoi vicini erano state bruscamente interrotte dall’arrivo della cena, che era letteralmente planata nell’appartamento di Mathieu grazie ad un piccolo stormo di adorabili gufetti, che avevano retto le borse contenenti i numerosi cartoni di pizza a gruppetti di tre. Al contrario degli altri, tuttavia, Moos non era riuscito a godersi appieno la cena a causa dei pensieri da cui da giorni non riusciva a liberarsi e che lo tormentavano incessantemente.
Dal momento in cui era arrivata la cena gli altri avevano momentaneamente accantonato tutto ciò che ruotava attorno alla morte di Montgomery, ma per quanto si sforzasse lui proprio non ci riusciva. E aveva l’impressione di non essere l’unico ad avere altro per la testa, a giudicare da come Niki, seduta in un angolo del tavolo accanto a Carter, continuava a gettare occhiate al proprio telefono senza proferire parola e mangiando a malapena. Quando la strega si era alzata, sgusciando silenziosamente fuori dalla stanza quasi senza che gli altri commensali se ne accorgessero, presi com’erano a chiacchierare del più e del meno, Moos aveva aspettato qualche minuto prima di seguirla, convinto di come lei, in assenza di Kei, fosse l’unica tra i presenti con cui poter parlare di Montgomery.
Quando aprì la portafinestra e mise piede sull’enorme terrazzo di Mathieu Moos si sentì scuotere da un leggero brivido, non ancora abituato al freddo improvviso che aveva iniziato ad avvolgere New York da qualche giorno a quella parte.
L’ex Serpecorno accostò la finestra alle proprie spalle per impedire che il freddo potesse penetrare all’interno dell’appartamento e poi attraversò il terrazzo, illuminato dalle lampade applicate su tutta la lunghezza della facciata esterna dell’edificio e dalle luci accese della vasca idromassaggio. Moos superò la vasca quadrata e i tre divani color crema disposti attorno ad un basso tavolino, sotto al pergolato di legno, per raggiungere Niki, che si trovava in piedi davanti all’alta ringhiera di metallo dandogli le spalle. La strega stringeva il telefono in una mano e una sigaretta accesa nell’altra, impegnata a digitare frettolosamente qualcosa sulla tastiera, apparentemente del tutto incurante dell’improvviso calo della temperatura o della cena in corso all’interno dell’appartamento.
“Ti ho portato questa. Prima che di là si mangino tutto quanto.”
Niki smise di guardare lo schermo del telefono per voltarsi verso di lui, osservandolo brevemente prima di accennare un sorriso con gli angoli delle labbra e riporre il telefono all’interno della tasca della felpa dopo averne bloccato lo schermo:
“Grazie Bartimeus.”
 La strega allungò la mano libera per prendere una fetta di pizza al formaggio dal piatto che Moos le stava porgendo, ripiegandola su se stessa per addentarla mentre volgeva lo sguardo sugli alti palazzi illuminati di Manhattan.
“Puoi chiamarmi Moos. Quasi nessuno mi chiama Bartimeus.”
“È un nome curioso, in effetti.”
“Mio nonno si chiamava così.”
“Che cosa carina.”
Per un istante Moos si chiese accigliato se la strega non fosse ironica e si stesse prendendo gioco di lui, ma quando Niki tornò brevemente a guardarlo e di nuovo accennò un sorriso il ragazzo ebbe l’impressione che lo pensasse davvero: la strega aveva quel modo così piatto ed inespressivo di parlare, a volte, da rendergli difficile capire quando era seria o meno. Moos non disse nulla, guardandola tornare a volgere lo sguardo sui palazzi che si estendevano per decine di chilometri davanti ai loro occhi e addentare nuovamente la pizza. Niki masticò lentamente per qualche istante, prima di chinare lo sguardo sulla fetta che teneva in mano per osservarla distrattamente prima di parlare:
“Grazie per la pizza, ma suppongo che tu non sia qui solo per questo. Non fraintendermi, credo che tu sia la persona più gentile di tutti, qui, ma ho l’impressione che l’intenzione sia anche quella di chiedermi qualcosa.”
Dopo aver mandato giù il boccone Niki addentò nuovamente la pizza, continuando imperterrita a non guardarlo mentre Moos, accanto a lei, annuiva stringendo il metallo freddo della ringhiera con la mano libera.
“Tu pensi che qualcuno lo abbia avvelenato e che poi qualcun altro gli abbia… hai capito.”
Le sue parole, Moos se ne accorse immediatamente e non potè fare a meno di sollevare scettico entrambe le sopracciglia, sembrarono quasi divertire la sua vicina, che tornò a guardarlo sollevando gli angoli delle labbra fino a far prendere forma ad un sorriso a malapena percettibile con un luccichio divertito nei grandi occhi verdi:
“Tu apri la gente morta. Non dovresti avere paura di parlare della morte.”
“È diverso adesso.”
Per una manciata di istanti che a Moos parvero lunghissimi Niki non disse nulla, osservandolo in silenzio con la sigaretta a metà strada verso le sue labbra finchè non annuì, mormorando qualcosa con tono assorto senza smettere di osservarlo inespressiva:
“Sì. immagino di sì.”
Terminata la fetta di pizza Niki tornò a puntare lo sguardo davanti a sé e si portò l’estremità della sigaretta alle labbra per prendere una boccata, lasciando che il silenzio avvolgesse il terrazzo per qualche lungo istante mentre le voci dei loro vicini giungevano lontane dal soggiorno di Mathieu attraverso la porta-finestra socchiusa.
“Comunque certo, lo penso. Tu forse no?”
“Io non… Io non riesco a concepire l’idea che qualcuno potesse odiarlo a tal punto, credo. Forse è più difficile da assimilare questo che la sua stessa morte. Non ha senso, probabilmente, ma è così.”
“Penso che il modo in cui è morto dovrebbe farti sentire meglio.”
Niki si allontanò la sigaretta dal viso di qualche centimetro, la mano libera infilata nella tasca della felpa. Inclinò leggermente il capo verso l’alto mentre esalava una piccola quantità di fumo sotto lo sguardo sempre più sconcertato di Moos, che la osservò chiedendosi come un pensiero del genere potesse anche solo sfiorarle la mente:
“Come potrebbe farmi sentire meglio immaginarlo con gli occhi sbarrati, la gola squarciata e sangue ovunque?”
“Almeno è morto subito. Se lo avesse ucciso il veleno avrebbe sofferto indicibilmente. Per quanto riguarda lui…”
Niki si allungò nuovamente verso il vicino per prendere la seconda fetta di pizza, piegarla e addentarne la punta, riprendendo a masticare lentamente riprendendo a guardare dritto davanti a sé sotto lo sguardo di Moos che ascoltava in silenzio, curioso di sentire che cosa avesse da dire:
“Ti risulta davvero così difficile, immaginare che qualcuno lo odiasse a tal punto?”
“Sì.”
Quelle semplice parola gli scivolò dalle labbra quasi automaticamente, senza il suo controllo in un riflesso spontaneo, ma con una traccia di esitazione nel tono di voce. Quando subito dopo Niki si voltò per gettargli un’occhiata in tralice, quasi sapesse che cosa stesse pensando in realtà, Moos sentì le proprie dita stringere con maggiore intensità la fredda ringhiera di metallo, conscio di non essere poi così convinto della propria risposta e sentendosi al tempo stesso profondamente in colpa per tal motivo.
“Sicuro? Voi siete stati migliori amici. Per anni interi, per tutta l’infanzia e anche dopo. Finchè un giorno lui non ha deciso che ne aveva abbastanza, vero? Finchè non ha deciso che tu non eri abbastanza. E allora ha smesso di essere tuo amico, salvo quando gli faceva comodo.”
Non importava quanti anni potessero essere passati, le parole di Niki, che questa volta continuò ad osservarlo senza distogliere lo sguardo, furono dolorose quasi quanto i ricordi stessi di quegli eventi. Una parte di lui non era mai riuscita a perdonarlo per come lo aveva trattato ma all’improvviso, da quando Monty era morto, aveva iniziato a chiedersi se non ci fosse stato qualcosa che nel tempo avrebbe potuto fare per recuperare il loro vecchio legame. Ora che non c’era più alla sofferenza di molti anni prima per il modo in cui lo aveva trattato si univa anche quella dovuta alla consapevolezza che mai in nessun modo Monty avrebbe più fatto parte della sua vita. Moos si sentiva in colpa per essere rimasto per tanto tempo arrabbiato con una persona che ormai non c’era più e che un tempo era stata così importante per lui, e allo stesso tempo si sentiva orribilmente stupido: quando era morto Monty non faceva più parte della sua vita già da anni. Perché tanta tristezza?
“Non capisco come tu sappia tutte queste cose.”
Questa volta fu Moos a distogliere lo sguardo, profondamente a disagio nel dover affrontare l’argomento, e Niki sospirò rumorosamente scuotendo il capo prima di avvicinarglisi di un passo, guardando il vicino con disapprovazione ma anche con una punta di rammarico, quasi si sentisse sinceramente dispiaciuta per lui.
“Era uno stronzo, Bartimeus, in fondo lo sai anche tu. So che è difficile accettare la crudeltà di chi abbiamo amato, ma è la verità. Le persone sono così. le persone sono orribili, si prendono tutto quello che hai da dargli e poi ti buttano via. Siete stati amici per un sacco di tempo e poi lui si è comportato così. Questo che cosa ti dice di lui?”
Moos esitò, lo sguardo fisso sui lampioni accesi di Central Park, momentaneamente incapace di sostenere lo sguardo duro della strega. In fondo sapeva che aveva ragione, ma una parte di lui era rimasta talmente affezionata a Montgomery da ancora faticare a riconoscere quanto pessimo fosse stato nei suoi confronti.
“Immagino che se si è comportato così con me, dopo tutto quello che avevamo condiviso, può aver fatto molto di peggio ad altri.”
Quelle parole, anche gli costò pronunciarle, parvero finalmente soddisfare la vicina, che annuì con un lieve movimento del capo e accennò un sorriso quasi come fosse lieta di avergli finalmente sentito affermare la cosa giusta:
“Esattamente. Bisogna solo capire che cosa, a chi. Così magari capiremo perché qualcuno, forse più di qualcuno, voleva ucciderlo. Se qualcuno lo odiava davvero e perché.”
“Il fatto che sia stato avvelenato e poi, emh, accoltellato brutalmente, non suggerisce chiaramente che qualcuno qui lo odiasse?”
Per quanto si sforzasse Moos non riusciva a capire come la sua vicina ragionasse, e spesso nemmeno il senso più profondo di ciò che diceva. Cercò di immaginare una conversazione tra lei e Montgomery e non gli vennero in mente due persone più diametralmente opposte, né uno scenario più difficile da figurarsi. L’ex Serpecorno parlò con tono incerto e inarcando un sopracciglio, faticando ad immaginare che qualcuno fosse arrivato ad uccidere in quel modo brutale il suo vecchio amico se non perché spinto da una sincera avversità nei suoi confronti, ma Niki si strinse nelle spalle con un movimento a stento percettibile e si portò la sigaretta alle labbra tornando a studiare le luci dei lampioni accesi di Central Park, che da quell’altezza e distanza assumevano quasi l’aspetto di uno sciame di lucciole.
“Penso che un’enorme quantità di gente viva un’intera vita senza davvero sapere che cosa sia l’odio. L’odio non è disprezzo, non è antipatia e nemmeno rancore. È qualcosa di molto più profondo, difficile da sradicare una volta che si è insidiato, qualcosa che ti corrode, lento ed inesorabile, finchè non riesci a liberartene. Ma la gente a volte è molto più crudele, non sa che cosa sia davvero, l’odio, eppure uccide comunque. I motivi possono essere tanti.”
“Non riesco ad immaginare che si possa arrivare ad uccidere qualcuno senza odiarlo.”
“Perché tu sei una brava persona. Le persone sono molto più crudeli di così, ma tu di certo non hai mai odiato nessuno in vita tua. Non riesci ad odiare nemmeno lui, vero?”
Niki tornò a guardarlo accennando un sorriso, quasi provasse per lui una sorta di vaga tenerezza, e Moos, del tutto conscio di come la vicina avesse ragione, chinò lo sguardo sulla propria mano che stringeva la ringhiera. Era vero, per quanto il suo comportamento potesse averlo ferito e fatto infuriare non era mai riuscito a disprezzarlo davvero.
“Come fai a dirlo?”
“È piuttosto evidente. L’empatia non è mai stato il mio forte, ma riconosco un animo gentile quando lo vedo. Per quanto riguarda l’omicidio, i tre grandi moventi sono amore, denaro e vendetta. I primi due li escluderei. Oserei dire che qui quasi nessuno ha bisogno di denaro, e di certo Montgomery non è stato ucciso per un delitto passionale.”
“Perché lo pensi?”
Moos non la seguiva, ma iniziava a non sorprendersi nemmeno più, e si limitò ad osservare incuriosito il bel volto concentrato di Niki mentre la strega fissava assorta le luci di Manhattan, guardandola scuotere leggermente la testa prima di parlare:
“Il veleno è qualcosa di molto studiato, di premeditato con cura. Immagino che difficilmente una persona avrebbe tutto questo raziocinio, se dovesse uccidere per quel motivo. Forse avrebbe potuto esserlo se, non so, avessimo trovato Montgomery in fondo ad una scala, o spinto da una finestra. No, questo non è un delitto passionale. Chi ha avvelenato il suo caffè non lo conosceva bene, sappiamo solo questo, non era qualcuno che aveva un legame particolare con lui. È una persona crudele. Ma non avventata, e questo la rende più pericolosa di qualcuno che uccide spingendo giù da una rampa di scale, suppongo.”
“Quindi resta la vendetta?”
“Può essere. O forse no. Sono i tre grandi moventi, ma ce ne sono altri… Almeno altri due che la gente spesso non prende in considerazione, ma a mio parere anche più pericolosi.”
“E quali sono?”
Niki si portò la sigaretta alle labbra per aspirare un’ultima volta prima di allontanarsela lentamente dal viso, osservandola pensosa per qualche istante prima di recuperare la bacchetta dalla tasca dei jeans neri e farla sparire mentre il fumo le usciva lentamente dalle labbra dischiuse. Moos non si mosse, restando ad un metro da lei anche per tenersi a distanza dal fumo stesso, e la guardò in silenzio finchè la strega non tornò a guardarlo, scrutandolo in viso con attenzione con le sopracciglia arcuate leggermente aggrottate:
“Qual è la cosa che più di ogni altra spinge le persone ad agire?”
“Non saprei… L’amore?”
Niki sorrise e un brevissimo accenno di risata sarcastica si librò dalle sue labbra, portandola a scuotere la testa mentre picchiettava ritmicamente le lunghe dita della mano destra sulla ringhiera:
“Sì, se vivessimo in un romanzo di Charlotte Bronte. Ma noi viviamo nella frenetica, crudele New York, dove puoi accasciarti privo di vita sul pavimento della Metropolitana e nessuno verrà a soccorrerti. Tu sei nato qui, sai di cosa parlo. Aspettati il peggio dalle persone, Bartimeus, perché le persone sono il peggio. Sempre. No, ciò che ci fa agire in un modo piuttosto che in una altro è ben lontana dall’amore. Grazie per la pizza.”


Dopo aver pronunciato quelle parole Niki si congedò sotto lo sguardo sempre più perplesso di Moos, che la guardò dargli le spalle e infilarsi le mani in tasca per attraversare a ritroso il terrazzo e rientrare nell’appartamento di Mathieu sentendosi ancora più confuso rispetto a quando aveva varcato la portafinestra per parlarle.
Quando spalancò l’anta di vetro quanto le bastava per rientrare nell’immenso soggiorno di Mathieu Niki si sentì pervadere da una piacevole ondata di calore mentre il suono delle voci e delle risa dei suoi vicini si faceva al contempo più vicino ed insistente. La strega tuttavia non ci badò, tirando dritta verso la porta d’ingresso dell’appartamento invece di raggiungerli, fermandosi solo per un breve istante quando passò accanto al divano color crema dove Prune si era comodamente stravaccato dopo essere a lungo rimasto attorno al tavolo dove padrone e vicini stavano cenando per cercare di scroccare qualche pezzo di pizza:
Prune sollevò la testa bianca macchiata di nero appena in tempo per sentire la lieve carezza che Niki ci depositò, iniziando a muovere contento la coda mentre la strega ruotava il capo per guardare in direzione delle voci dei suoi vicini. Per un istante gli occhi di Niki scrutarono assorti ed un poco accigliati la parete, ma dopo una breve esitazione allontanò la mano dalla testa di Prune, che la guardò deluso ed implorante  per avere altre coccole con i dolci occhioni scuri spalancati:
“Ci vediamo ragazzone.”
Un po’ deluso, Prune la guardò superare il divano e allontanarsi fino a raggiungere l’ingresso, aprire la porta e sparire fuori dall’appartamento.
 
 



 
 
(1): Più grande venditore al dettaglio di libri degli States
(2): Versione magica di OnlyFans, ringrazio neardja per questa trovata geniale
(3): Scrittore svizzero
(4): “L’autunno è il silenzio prima dell’inverno”, proverbio francese
 
 
 
 
 
 
 
……………………………………………………………………………………………………….
Angolo Autrice:
 
Non sto più nemmeno a sottolineare quanto questo capitolo sia lunghissimo, perciò buonasera❤️
I quattro nomi che vi avevo chiesto di indicarmi un paio di settimane fa su IG mi sono serviti per scrivere il paragrafo introduttivo, pertanto mi ripeto chiedendovi di indicarmi quattro nomi tra quelli rimanenti (anche quello del vostro OC, se volete):
Carter
Eileen
Esteban
Jackson
Kei
Mathieu
Naomi
Niki
Piper
 
 
Grazie a tutte per le recensioni degli scorsi due capitoli, spero che anche questo sia stato di vostro gradimento. Penso che ci rivedremo su questi lidi tra Natale e Capodanno con il prossimo capitolo, nel frattempo vi auguro un buon weekend.
A presto,
Signorina Granger

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 7 - Caffè nero ***





“Ma dove sono finiti gli altri? Non è strano che siano tutti in ritardo?”
Mathieu gettò un’occhiata accigliata al proprio orologio da polso, non potendo fare a meno di provare un profondo straniamento nei confronti dei dieci minuti di ritardo accumulati da tutti coloro che avrebbero dovuto recarsi nel suo appartamento. Tutti eccetto per Carter, che sedeva su uno dei divani dell’immenso soggiorno illuminato dalla luce naturale garantita dalle ampie vetrate con una bottiglia di vetro di Burrobirra in mano e la testa di Prune sulle ginocchia, impegnato ad accarezzare gentilmente la testa dell’alano tra un sorso e l’altro.
“Io sono molto fiero della mia puntualità, al contrario. Specie perché arrivando prima mi posso accaparrare il cibo.”
Arrivare tra i primi a quelle riunioni era ormai divenuta per Carter una missione, spinto dalla volontà di non farsi soffiare gli stuzzichini che la buon’anima di Mathieu si premurava sempre di offrire ai suoi ospiti. Naturalmente la sua arci-nemica in tal senso era Niki: Carter proprio non riusciva a capacitarsene ma la spilungona, per essere così spaventosamente magra, sembrava avere uno stomaco profondo quanto un pozzo di petrolio.
Carter stava proprio pensando a quanto avrebbe gradito un altro grissino al formaggio quando finalmente si udì un rapido e frettoloso bussare alla porta, il gesto di chi trasuda l’urgenza e il desiderio di non perdere tempo, e prima che il giornalista potesse alzarsi dal divano – impresa ostacolatagli dall’imponente testa di Prune, che percependo l’accenno di movimento sollevò gli occhioni castani su di lui come se il suo alzarsi sarebbe stato per lui motivo di indicibile sofferenza – Mathieu aprì la porta, consentendo a Carter di udire distintamente il saluto emesso con tono piatto da una voce femminile leggermente profonda divenutagli ormai familiare:
“Salve.”
Niki indossava gli occhiali da sole dalla montatura circolare, come sempre quando si muoveva all’interno e all’esterno del palazzo, ma Mathieu sentì comunque lo sguardo puramente scettico della strega percorrergli le braccia lasciate nude da una maglietta a maniche corte, di certo chiedendosi come facesse a non sentire freddo.
“Scusate il ritardo.”
Non era poi così dispiaciuta di essere in ritardo, ma durante quelle atipiche riunioni condominiali aveva sempre la possibilità di rimpinzarsi di carboidrati, dunque tanto valeva essere vagamente cortese con il padrone di casa.
“Sono tutti in ritardo, oggi. C’è solo Carter.”
Mathieu si spostò di lato per far passare la vicina, che lo superò con due sole, ampie falcate per addentrarsi nell’enorme salotto deserto mentre Carter, dal divano, impugnava rapido la bacchetta per Appellare il vassoio dei grissini al formaggio: doveva accaparrarseli in fretta, prima che la spilungona li vedesse.
Quale gioia immensa. Ci sono i grissini?”
Niki ruotò appena la testa in direzione di Mathieu mentre questi chiudeva la porta alle sue spalle, potendo così scorgere un minuscolo accenno di sorriso sulle sue labbra del canadese mentre questi annuiva, un po’ divertito e un po’ ormai rassegnato:
“Sì.”
“È sempre un piacere essere qui. Ciao Piccolo Prune! Ciao, tu.”
“Ah, sei qui, speravo fossi malata e non venissi.”
Il vassoio in una mano, sollevato per tenerlo lontano dalle fauci di Prune, e un grissino nell’altra Carter addentò il suo saporitissimo snack indirizzando un sorrisetto alla vicina, che ricambiò mentre lo raggiungeva attraversando la stanza, finendo con l’occupare l’estremità più lontana del divano di fronte prima di accavallare le gambe lunghissime:
“All’idea di vederti mi è quasi salita la febbre per la disperazione, ma poi ho pensato ai grissini e l’ho ricacciata indietro.”
Mathieu guardò entrambi, poi il vassoio dei grissini. Infine andò in cucina: doveva proprio prenderne altri.
 
 
Esteban era, manco a dirlo, in ritardo.
Aveva portato Mocio a spasso, e come sempre per tornare a casa ci avevano impiegato il doppio del normale: era incredibile la quantità gente che si fermava ad ammirare il suo amato cane per chiedergli come si chiamasse, quale fosse il nome della sua razza, quanti anni avesse, più un’infinità di altre informazioni che Esteban si ritrovava quotidianamente costretto a snocciolare a perfetti estranei. Molti chiedevano anche di poterlo accarezzare e a quel punto Esteban sapeva che non si sarebbe schiodato per almeno cinque minuti buoni: Mocio era un gran ruffiano e un gran coccolone, e quando trovava qualcuno disposto a riempirlo di complimenti e carezze non si lasciava sfuggire facilmente l’occasione, finendo col piantarsi sul posto e impedendo così al padrone di proseguire il loro solito giro a Central Park. Forse, si ritrovava a considerare Esteban in quei momenti, avrebbe dovuto optare per un cane di taglia inferiore e più semplice da trasportare, perché di sicuro prendere in braccio Mocio non era un’opzione contemplabile.
Per questo motivo Esteban si ritrovò a spalancare la porta delle scale del quattordicesimo piano dopo averne saliti due a piedi di corsa, sfrecciare verso la porta del 14D e infine bussare energicamente, pronto a scusarsi, come al solito, per il ritardo accumulato. Fu per lui un gran sollievo e una vera sorpresa, abituato com’era ad essere l’ultimo ad arrivare, apprendere da Mathieu come quel giorno tutti fossero misteriosamente in ritardo, tanto che Esteban aveva un sorriso rilassato a distendergli le labbra quando raggiunse Niki e Carter nel soggiorno, finendo col sedere accanto a quest’ultimo mentre Mathieu gli chiedeva se volesse qualcosa da bere o da mangiare.
“I grissini però sono finiti, in qualche modo spariscono misteriosamente ogni volta in cui ospito qui alcune persone…”
Mentre parlava lo sguardo cristallino di Mathieu indugiò casualmente su Carter per poi scivolare su Niki, guardandola sfogliare con nonchalance il libro di Stephen King che aveva portato con sé prima di simulare un finto sbadiglio e parlare con tono vago, quasi svogliato:
“Una vergogna. Non ci si può fidare più di nessuno, in questo palazzo.”
In realtà mentre pronunciava quelle parole a Mathieu parve proprio di scorgere una mano di Niki scrollarsi con discrezione delle briciole sospette dalla felpa, ma decise di soprassedere mentre Esteban, accogliendo le feste di Prune accarezzandogli la testa, tornava a guardare il padrone di casa con un sorriso divertito e allegro:
“Non fa niente, berrei un caffè e basta, grazie.”
Mentre Carter chiedeva una seconda Burrobirra all’udire la parola magica il volto perennemente teso e dall’espressione cupa di Niki parve come illuminarsi, portando la strega a raddrizzarsi sul divano, spalancare gli occhi verdi dal taglio allungato e a sollevare una mano per attirare l’attenzione del padrone di casa:
“Anche io! Caffè! Tra l’altro qui fa freddo, come fai a stare in maniche corte?!”
“Freddo? Si sta benissimo!”
“Se di solito vivi nella tundra, sì.”
 
Quando era tornato in soggiorno con i caffè neri per Esteban e Niki e la Burrobirra per Carter, gli occhi chiari di Mathieu erano immediatamente stati catturati da qualcosa che non c’era quando aveva lasciato la stanza poco prima per andare in cucina: Niki era ancora seduta sul divano, nello stesso punto e nella stessa posizione, con un libro in mano, ma improvvisamente era avvolta da una coperta grigia ricoperta da facce di Ryan Gosling. Per un istante Mathieu si chiese se non l’avesse per caso rubata dall’appartamento della Signora Turner: che la loro vicina collezionasse complementi d’arredo a tema Gosling?
“Dove l’hai presa quella?!”
“Internet.” 
Mentre Carter ed Esteban, seduti vicini sul divano di fronte, discutevano di lavoro e di alcuni degli ultimi articoli che avevano letto per commentarli Niki voltò svogliatamente la pagina del libro che teneva in mano, continuando imperterrita a leggere mentre Mathieu, lasciato che il vassoio planasse magicamente sul tavolino da caffè di vetro che divideva i davanti, la raggiungeva e le sedeva accanto senza riuscire a distogliere lo sguardo da quell’opera d’arte. Doveva assolutamente essere sua, ma era implicito che Niki non glie l’avrebbe mai ceduta.
“Mandami il link.”
“Ma neanche se mi porti Chris Noth in persona, la coperta-Ryan è mia! … In cambio che cosa mi dai?”
“Siamo all’asilo?”
Il tono di Mathieu si fece scettico, il suo sopracciglio sinistro si inarcò sollevandosi vertiginosamente verso l’attaccatura dei suoi lisci capelli color grano pettinati con cura ai lati della testa, ma l’espressione di Niki non subì la minima variazione: la strega continuò a scrutarlo seria, impassibile, costringendo il vicino ad arrendersi e ad annuire dopo aver brevemente roteato lo sguardo.
“Ok. Una fetta di pumpkin pie. Ne ho una intera in cucina ancora da tagliare.”
Due fette di pumpkin pie. E ci voglio la panna sopra.”
“Ottimo, vado a prenderla. E non ti azzardare a mandarmi il link dopo aver esaurito le scorte della coperta!”
Mathieu si alzò dal divano per tornare in cucina puntando perentorio l’indice della mano destra in direzione della vicina, che agitò la bacchetta per Appellare la tazza di caffè bollente e sfoggiò un lieve sorrisetto prima di bagnarsi le labbra con il suo amato liquido nero e non zuccherato:
“Sarebbe proprio da me, vero?”
 
Alcuni dei vicini avevano infine scritto a Mathieu per avvisarlo che non sarebbero riusciti a passare quel pomeriggio: nel gruppo lui e gli altri avevano infine deciso di trovarsi un’altra volta, ma Carter, Esteban e Niki non sembravano aver comunque intenzione di sloggiare dai divani di Mathieu. Mentre la strega trangugiava torta alla zucca Carter ed Esteban si stavano dedicando ad un’attività molto utile e formativa: stalkerare i loro colleghi su Wizagram e commentare i loro post, anche se i loro produttivi intenti erano ostacolati dalle fastidiosissime pubblicità e inserzioni che saltavano fuori tra una storia e un’altra.
“Possibile che Wizagram sia pieno di tutte queste inserzioni cretine?! Questo quiz dovrebbe dirti quale celebrity è la tua anima gemella, ma chi se ne frega!”
“Sono tutte cazzate, l’anima gemella è una favoletta.”
Niki parlò dal divano di fronte senza smettere di fissare il libro che aveva davanti, decisa ad andarsene solo una volta terminata la torta e il capitolo. Stava sorseggiando un po’ di caffè quando Carter parlò di novo, facendoglielo quasi andare di traverso:
“… C’è anche Ryan Gosling…”
Niki chiuse violentemente il libro, lo scagliò sul divano e arraffò il telefono, il tutto in una frazione di secondo, prima di rivolgersi a Carter chiedendosi perché mai quelle inserzioni così utili a lei non comparissero mai:
“Mandami il link! Mike, svelto, dobbiamo fare il quiz per scoprire se Ryan è la nostra anima gemella!”
Mathieu si trovava in cucina e stava mettendo in ordine impilando piatti, tazze e vassoi nel lavello affinchè una spugna incantata potesse lavare tutto – col cavolo che avrebbe mai più indossato quei guanti obbrobriosi – ma quando udì le parole di Niki si precipitò fuori dalla stanza per raggiungerla, chiedendole di nuovo di mandargli il link.
“Già, fatto, sbrigati!”
Un minuto dopo Mathieu e Niki avevano entrambi il telefono in mano e lo sguardo concentratissimo sullo schermo, consultandosi per rispondere alle domande mentre Esteban li guardava, unpo’ stranito:
“Ma che gli è preso?”
“Bah, sarà per Ryan Gosling. Il che non lo capisco, insomma, io sono decisamente più bello di lui.”
Carter fece spallucce prima di gettare un’occhiata torva in direzione di Niki, che non lo degnava di un sguardo ma in compenso sbavava per l’attore canadese: che razza di gusti osceni aveva, la sua vicina? In compenso Niki ignorò deliberatamente il suo commento e non replicò, né si mise a ridere sarcasticamente per schernirlo, continuando imperterrita a fissare lo schermo del telefono: quel quiz lo avevano preso proprio sul serio, si disse accigliato Carter prima di decidere di approfittare della loro distrazione per andare a cercare qualcos’altro da mangiare.
 
“Non lo so Niki, questo quiz mi sembra strano, insomma, perché chiedono il nostro gusto di pizza preferito? Cosa c’entra con Ryan?”
Mentre Carter cazzeggiava col telefono ed Esteban giocava con Prune Mathieu aggrottò la fronte e osservò la domanda del quiz con espressione scettica, piuttosto indeciso sia sulla risposta, sia sulla sua effettiva utilità. Niki invece scosse la testa e si voltò a guardarlo con gli occhi verdi sgranati, come se avesse appena pronunciato un’assurdità:
“Certo che c’entra, io mica ci vorrei avere a che fare, con uno che non ha gusti simili ai miei. Il vero problema è che questi gusti fanno tutti cagare, ma chi la vuole la pizza con le verdure?!”
“A me piace!”
Mathieu volse a sua volta lo sguardo sulla vicina sfoggiando un’espressione offesa, alla quale Niki rispose scuotendo la testa e guardandolo con la massima disapprovazione:
“Ma perché io parlo ancora con te? Ah, che decisione difficile!”
 
“Secondo voi è stata davvero Kamala Sharma ad uccidere Montgomery?”
Carter era emerso dalla cucina con una ciotola di popcorn che era presto stata sistemata tra lui ed Esteban, che ne prese una buona manciata mentre con la mano libera accarezzava gentilmente la testa di Prune, che si era seduto sul pavimento in modo da trovarsi esattamente tra lui e Carter e poter guidi godere delle coccole di entrambi.
Esteban parlò guardando prima Carter e poi Mathieu e Niki, ancora presissimi dal loro importantissimo quiz. Carter, accanto a lui, fece spallucce e rispose con tono neutro tra una manciata di popcorn e l’altra, mentre Niki scosse la testa con decisione senza smettere di fissare lo schermo, scostandosi quando Mathieu si sporse leggermente per sbirciare la sua risposta:
“Non ne ho idea.”
Non copiare! No, insomma, ci vogliono più prove, non si può accusare qualcuno solo perché lo si odia. Insomma, io odio Eva Mendes, ma non vado ad incolparla di omicidio.”
“Chi è Eva Mendes?”
Mathieu diede voce ai dubbi di tutti e tre gettando un’occhiata stranita alla vicina, che sospirò con amarezza prima di sibilare qualcosa a denti stretti e con evidente risentimento:
“La moglie di Ryan.”
La odio anche io quella.”
Mathieu non aveva idea di chi fosse e di che faccia avesse quella donna, ma non gli importava, da quel momento l’avrebbe odiata anche lui. Carter invece si premurò di prendere in mano il telefono per cercarla, strabuzzando gli occhi azzurri quando si trovò davanti ad una foto della bellissima donna:
“Cazzo, ci credo che è sposata con lui, è veramente figa.”
Carter rivoltò il telefono per mostrare la foto anche agli altri, ma mentre Niki e Mathieu si limitarono a sollevare lo sguardo – la prima guardando la foto con astio – Esteban, una volta posati gli occhi sullo schermo, li strabuzzò e si fece andare di traverso i popcorn, prendendo a tossire violentemente per qualche istante prima di riuscire finalmente a parlare:
“Ma quella… ma quella è mia madre!”
Carter voltò il telefono, guardò la foto e infine guardò Esteban, allibito, mentre Niki e Mathieu, dopo essersi scambiata un’occhiata, tornavano a guardare il vicino: Mathieu gli chiese se per caso non avrebbe potuto invitare sua madre all’Arconia, così, tanto per fare un saluto, mentre la strega guardò Esteban sollevando un sopracciglio fino a fargli sfiorare l’attaccatura dei capelli. Cercò anche di capire se Eva Mendes non fosse troppo giovane per avere un figlio così grande, ma essendo penosa in matematica rinunciò presto e decise di chiederglielo direttamente:
“Tua madre… è sposata con Ryan Gosling?”
“No! Cioè, non credo proprio. In caso avrebbe delle spiegazioni da darmi. Ma mia madre non si chiama Eva, si chiama Ernestina. Ma è identica, giuro!”
Esteban prese sgomento il telefono di Carter per studiare più da vicino la foto che occupava tutto lo schermo, chiedendosi come quella somiglianza fosse possibile mentre il collega, dopo aver riflettuto brevemente e aver osservato la foto per un altro paio di istanti, gli si rivolgeva con un sorriso:
Senti, tua madre è single o…”
Esteban non rispose, limitandosi a trucidarlo con lo sguardo: Carter non seppe mai se la bellissima madre di Esteban fosse single o meno, ma quanta agitazione, era solo per sapere!
 
Mathieu e Niki stavano aspettando che i risultati dei loro quiz si caricassero, la seconda stringendo a sè la coperta-Ryan sperando che in tal modo avrebbe potuto aumentare le possibilità di avere lui come risultato. Quando, tuttavia, un nome e un volto apparvero sul suo schermo, la strega spalancò inorridita gli occhi e scattò in piedi, delusa e risentita:
“Tom Holland? Tom. Holland?! Ma io non lo voglio, avrà dodici anni, è troppo giocane, che devo fare, portarlo a scuola?”
“Veramente Wikipedia dice ne ha 25…”
Carter aggrottò le sopracciglia mentre studiava la pagina Wikipedia dell’attore, appurando quanti anni avesse dopo un rapidissimo calcolo, e subito Esteban si sporse verso il collega per poter guardare insieme a lui, improvvisamente molto interessato:
“Uh, allora va bene per me. Fa vedere.”
Mathieu invece, ancora in attesa, si premurò di sollevare la testa per dire qualcosa a Niki, ancora imbronciata davanti al suo risultato, rivolgendole il più dolce e falso dei sorrisi:
“Scusa, ma tu non ne hai 27?”
Niki esitò, raggelata, e quando chinò lo sguardo sul vicino lo fece riducendo gli occhi verdi a due fessure, sibilando qualcosa a denti stretti e con tono molto poco amichevole:
Certo. Ma è comunque troppo giovane.”
Mathieu era sul punto di dire qualcosa, ma lo schermo del suo telefono finì col distrarlo: finalmente il risultato era arrivato anche a lui e come Niki poco prima scattò in piedi stringendolo tra le mani, ma al contrario della vicina sorridendo euforico e visibilmente soddisfatto.
A me è uscito Ryan!”
Probabilmente Niki avrebbe sentito meno dolore se l’avesse colpita con una pugnalata alla schiena, e guardò il vicino portandosi una mano davanti al viso soffocando un verso strozzato di sgomento prima di scuotere la testa, guardandolo offesa e risentita più che mai:
“Non parlarmi mai più.”
In una frazione di secondo Niki aveva inforcato nuovamente gli occhiali da sole, e dopo aver recuperato libro e coperta si era diretta a grandi passi sostenuti verso la porta dell’appartamento per un’uscita di scena drammatica, ma era stata proprio sul punto di aprirla e uscire quando si era voltata ed era tornata indietro in silenzio, sotto gli sguardi perplessi dei presenti, per raggiungere il tavolino da caffè e prendere il piattino con la torta che le spettava. Sollevato il piattino si era gettata un’ultima occhiata attorno, dopodiché aveva detto qualcosa con tono sostenuto e si era voltata di nuovo, uscendo definitivamente:
“Mi ero dimenticata la torta.”
 
 
Capitolo 7
Caffè nero
 
 
Venerdì 1° ottobre
 
 
 
Quella non avrebbe potuto, mai e poi mai, per nessun motivo al mondo, rivelarsi una giornata di merda.
Orion Parrish era un astronomo che credeva al karma e soprattutto alla sfiga, sapeva che in circostanze normali porsi quelle precise aspettative non avrebbe fatto altro che comportare l’effetto opposto procurandogli una sfiga dietro l’altra dall’alba al tramonto, ma non quel giorno, no, quello sarebbe stato un giorno perfetto: non a caso quella mattina si era miracolosamente svegliato bene, non si era ustionato con il caffè, Arthur, il suo gufo, si era comportato in modo incredibilmente amichevole e al lavoro era andato tutto bene. Fino a quel momento nulla era riuscito a guastargli la giornata, e Orion era deciso a fare in modo che le cose non prendessero una piega diversa fino a quando non avesse chiuso gli occhi per
Orion Parrish aveva infatti un ampio sorriso sulle labbra mentre sfrecciava sul marciapiede facendo lo slalom tra i passanti, per lo più adolescenti di ritorno da scuola o uomini e donne carichi di buste, o vestiti eleganti perché di ritorno dal lavoro, ignorando le smorfie infastidite che increspavano i volti di taluni quando si vedevano passare accanto o tagliare la strada da un ragazzo vestito di nero, una zazzera di disordinati capelli castani in testa, tre cartoni di caffè impilati uno sopra l’altro sotto braccio e a bordo di una tavola nera e rossa con le ruote.
Da quando viveva a New York non lo usava poi così spesso, il suo amato skateboard, ma quello era un giorno speciale, e Orion più di ogni altro era un fermo sostenitore del far diventare il lasciare raffreddare un caffè un reato, così aveva recuperato una delle sue tavole per fare il più presto possibile: aveva provato a Smaterializzarsi con un caffè in mano un paio di volte in passato, ma aveva finito sempre col rovesciarselo addosso, pertanto aveva deciso di accantonare definitivamente quel proposito.
Orion era di ottimo umore, e quando si fermò davanti ai cancelli aperti del suo palazzo sollevò la tavola con un gesto abile del piede, issandoselo sottobraccio in appena una frazione di secondo. Salutò allegro il portiere in divisa verde e poi si affrettò ad incamminarsi lungo il tunnel e poi sul viale di ghiaia che conduceva all’ingresso dell’edificio vero e proprio, dispensando sorrisi a destra e a sinistra e ignorando le occhiate stranite che gli rivolgevano i passati. Ma perché mai non avrebbe dovuto essere di buon umore, del resto era venerdì, e non un venerdì qualsiasi. Si sentiva proprio di ottimo umore, quasi euforico, e per una minima frazione di secondo venne sfiorato dall’idea di aver bevuto un po’ troppi caffè da quando aveva aperto gli occhi, ma quell’idea ridicola finì presto relegata in un angolino remoto della sua mente: il caffè non era mai abbastanza, che scempiaggini andava a pensare!
“Ehilà, Lester! Oggi non è mica morto nessuno, vero?”
Orion si rivolse con un sorriso baldanzoso a Lester mentre questi gli apriva la porta e l’uomo, più basso di lui di una decina di centimetri, lo guardò stranito da sotto la visiera del cappello verde, forse chiedendosi perché mai il ragazzo gli stesse facendo quella domanda sorridendosene allegro. Le folte sopracciglia grigie di Lester andarono ad aggrottarsi, formando una vistosa ruga in mezzo alla fronte rugosa mentre l’anziano portiere scuoteva la testa, dubbioso, prima di parlare con un’appena percettibile nota di nervosismo nella voce: non aveva certo nessuna voglia di assistere ad un altro suicidio o omicidio nel palazzo, poi avrebbe dovuto di nuovo ritrovarsi a cacciare tutte quelle folle di curiosi che per giorni si erano accalcate davanti ai cancelli e all’interno del giardino! E poi chi l’avrebbe sentito, il Signor O’Hara.
“Emh, no Signor Parrish.”
“Meno male, sai che sfiga se me lo perdevo! Ecco, tieni un caffè. Buona serata!”
Orion allungò verso Lester il braccio che reggeva con grande equilibrio i cartoni con i bicchieri azzurri e bianchi dai coperchi di carta, continuando imperterrito a sorridere allegro mentre guardava il portiere prenderne uno e ringraziarlo dopo una brevissima esitazione. A quel punto l’astronomo lo superò e si addentrò finalmente all’interno del palazzo attraversando la porta di vetro che Lester aveva spalancato per farlo passare, calpestando con le suole degli stivali neri il soffice tappeto rosso sangue disposto davanti all’entrata prima di iniziare ad attraversare l’ingresso sotto lo sguardo dubbioso di Lester, che chiuse la porta alle sue spalle senza far rumore prima di sollevare il coperchio del bicchiere per prendere un sorso di caffè nero ancora caldo.
Orion Parrish era innegabilmente un ragazzo simpatico, ma allo stesso tempo altamente strambo.
 
 
“Felice International Coffee Day, gente! Caffè?”
Mathieu aveva appena aperto la porta d’ingresso del suo appartamento al quattordicesimo piano quando si ritrovò una pila di cartoni carichi di bicchieri davanti al viso ancor prima di avere il tempo di rispondere all’allegro quesito postogli da Orion, che gli si parava davanti con un sorriso a trentadue denti sul bel viso dall’incarnato olivastro.
“Emh… Grazie Orion. Non serviva che lo portassi per tutti.”
Mathieu prese uno dei bicchieri azzurri e bianchi che Orion gli porgeva, in parte chiedendosi da quando, a giudicare dall’entusiasmo del vicino, il 1° di ottobre fosse diventato una sorta di festività nazionale degli States. Forse fino a quel momento non ci aveva fatto caso? Strano, e dire che viveva nello Stato di New York da ben sette anni!
“Certo che serviva, è la Giornata Internazionale del Caffè! Qualcuno vuole caffèèè?!”
Orion lo superò senza smettere di sorridere dopo aver appoggiato il suo skateboard sul pavimento, tenendo i cartoni in precario equilibrio su una mano sola mentre si addentrava nel vasto appartamento del penultimo piano e Prune, incuriosito, si affrettava ad andare ad annusare la tavola del vicino del padrone, uno di quelli strani.
 In soggiorno, nel frattempo, era in corso una viva discussione a proposito della lavagna magnetica, che ormai da giorni faceva la spola dall’appartamento di Niki a quello di Mathieu:
“Non capisco per cosa stiamo discutendo. Non c’è alcun bisogno di darle un nome!”
Gabriel, seduto su uno dei divani tra Naomi ed Esteban, continuava a spostare perplesso e rassegnato lo sguardo dalla lavagna fino ai suoi vicini, chiedendosi per quale motivo stessero discutendo sul nome di una lavagna alle sei di sera, di venerdì.
“E se la chiamassimo semplicemente Lavagna del Delitto?”
Naomi era esausta: quella settimana era durata pressappoco due mesi, aveva avuto a che fare con clienti orribili, aveva male ai piedi per il prolungato contatto con i tacchi e poco prima ci aveva messo secoli a fare ritorno al suo appartamento avendo trovato gli ascensori strapieni di vicini. L’ultima cosa di cui aveva voglia era discutere a proposito del nome di una lavagna, e infatti se ne stava seduta con le gambe lunghe distese, le pantofole rosa con le nuvolette ai piedi – le dolevano così tanto da impedirle di cruciarsi all’idea di essere vista con quelle addosso dai vicini –, le braccia incrociate mollemente al petto e la testa appoggiata stancamente contro la spalla di Gabriel, grata della loro differenza d'altezza che rendeva l'amico un perfetto appoggio.
“Troppo lungo, e fortemente anti-sgamo, ad un nome normale nessuno farebbe caso se per caso dovessimo citarla in giro per sbaglio.”  E a giudicare da che razza di soggetti erano, si ritrovò a considerare silenziosamente Esteban mentre guardava la lavagna sorreggendosi la testa con il braccio destro facendo leva sul bracciolo del divano, non era poi una possibilità da escludere a mani basse.
“Chiamiamola Nancy, come Nancy Drew.”  Piper aveva occupato il posto centrale sul divano di fronte, il capo chino sulle proprie unghie mentre le sistemava con la massima cura usando la lametta più colorata che tutti i presenti avessero mai vista, accomodata tra Kei ed Eileen. Quest’ultima sorrise, e stava per dare totalmente il suo benestare, ma venne interrotta sul nascere e preceduta dalla voce allegra di Orion, che raggiunse il gruppo con le braccia cariche di caffè e un gran sorriso stampato sulle labbra:
“Volete del caffè?”
“Sì, ti supplico. Non mi sei mai stato tanto simpatico come in questo momento.”
Un sospiro di sollievo si librò dalle labbra dischiuse di Naomi, che allungò una mano verso Esteban, il più vicino ad Orion, per farsi passare un bicchiere di carta. Fu un sollievo per la strega stringerlo tra i palmi e percepirne il tepore sulla pelle mentre Piper si alzava per prenderne uno per sé, Eileen e Kei sfoggiando un sorriso a sua volta:
“Grazie Orion! Ho avuto una giornata eterna, e anche ho promesso a Jackie che sarei andata a trovarlo allo zoo questa sera.”
“Di nulla. Gabriel, non ne vuoi?”
 
Dopo aver dispensato tre bicchieri a Piper e averne passato uno a Carter, in piedi vicino ai divani con la giacca di pelle nera addosso, pronto per spostarsi sul terrazzo di Mathieu per fumare, e ad Esteban Orion chinò stupito lo sguardo sul vicino, guardandolo sollevando entrambe le sopracciglia: possibile che proprio lui rifiutasse un caffè?
Per un orribile, breve istante Orion temette che quella strega malefica di Kamala Sharma lo avesse convertito al tè verde, e guardò il compagno-di-dipendenza con tanto rammarico da costringere Naomi a tranquillizzarlo, abbozzando un sorriso divertito mentre spostava lo sguardo sull’amico, che invece stava fissando sospettoso i bicchieri di carta rimasti in mano ad Orion:
“Non prendertela Orion, Gabri sul caffè è orribilmente schizzinoso. Beve quasi esclusivamente quello che si prepara lui a casa, rifiuta sempre anche il mio.”
“Solo perché mi piace l’Espresso, e fatto con i chicchi macinati al momento, non la brodaglia annacquata che beve la maggior parte della gente di qui. Dove lo hai preso?”
“Da Joe Coffee Company, sulla Nona.”
“Allora può andare. Grazie.”
Dopo una breve ma ponderata riflessione Gabriel assentì e allungò un braccio per prendere uno dei pochi bicchieri rimasti ad Orion, la cui smorfia preoccupata lasciò finalmente il posto ad un sorriso allegro e soddisfatto mentre l’astronomo si accomodava sul bracciolo del divano, accanto ad Esteban, chiedendo allegro ai vicini che cosa stessero combinando prima del suo arrivo:
“Niente di che, pensavamo ad un nome per la lavagna. Senza successo. Ma Piper ha proposto Nancy. Ma dove è finita Leena…”
Eileen, vistosamente accigliata, parlò sfilandosi il telefono dalla tasca della felpa blu notte – quel giorno aveva lavorato da casa, e ciò per lei significava starsene in tuta per tutto il giorno, abbandonando i suoi soliti tailleur – per gettare un’occhiata lievemente preoccupata allo schermo del suo telefono, chiedendosi perché l’amica non fosse ancora arrivata e, soprattutto, perché non l’avesse avvisata del ritardo. Non che Leena Zabini fosse sempre la persona più puntuale del mondo, ma se si parlava di possibili assassini era solita catapultarsi sul posto con la velocità di un ghepardo.
“Nome a parte, perché ci sono tutti quei segni rossi attorno alla foto di Kamala?”
Dopo averli raggiunti in soggiorno con Prune al seguito Mathieu parlò sedendosi su una delle due poltroncine verdi, pressochè gli unici posti a sedere rimasti liberi, osservando accigliato la lavagna e in particolare la foto di Kamala, che appariva circondata da più e più cerchi rossi, il cui tratto tradiva un certo accanimento nel reputarla colpevole.
“Per la caffettiera! E il caffè! Pensavamo che di una che non beve caffè non ci si debba fidare…”
Sacrosanto. È una verità universalmente riconosciuta.”
Orion annuì, serissimo, e anche se alzò gli occhi al cielo – nutriva qualche dubbio a riguardo – Kei si sforzò di non dire nulla e di non proferire alcun commento: l’anno prima, proprio in quello stesso giorno, aveva osato mettere in discussione la sacralità del caffè. L’amico non gli aveva parlato per due giorni.
“… Ma una che finge di non berlo è anche peggio! Oppure il caffè è solo una bizzarra arma del delitto. Insomma, al momento è palesemente la più sospetta, e chiaramente non lo dico solo perché non la posso vedere.”
Quando Gabriel finì di parlare con un cenno risoluto del capo Naomi ruotò lentamente la testa verso di lui, scoccandogli un’occhiata eloquente che lo offese non poco: cosa mai intendeva insinuare?
Fortunatamemte, prima che qualcuno potesse aggiungere qualcos’altro si sentì un energico bussare alla porta, e Mathieu si vide ancora una volta costretto ad alzarsi e ad attraversare stancamente la stanza per dirigersi verso l’ingresso: quando aveva comprato casa non aveva tenuto in conto di ritrovarsi ad ospitare tutto quel marasma di gente che si attaccava al campanello ogni cinque minuti, o avrebbe scelto di certo un appartamento con un soggiorno di dimensioni nettamente ridotte.
Ormai a tanto così da ritrovarsi perfettamente allenato per la maratona di New York, Mathieu aprì la porta senza nemmeno chiedere chi ci fosse in corridoio, certo, per esclusione, di trovarsi di fronte Leena. Del resto mancava solo lei.
 
 
Mentre Mathieu apriva la porta gli altri avevano ripreso a discutere a proposito del nome da attribuire alla lavagna, e Moos aveva fatto ritorno scendendo l’ampia scalinata che collegava il soggiorno al piano superiore.
“Stavo per venire a cercarti Moosy, dov’eri finito?”
Mentre Moos si univa al gruppo per andare a sedersi sulla poltroncina lasciata libera da Mathieu Naomi seguì l’amico con lo sguardo osservandolo accigliata, finendo col vederlo scuotere mestamente il capo:
“Scusate, mi sono perso, questa casa è troppo dispersiva! Hai portato il caffè, Orion?”
Certo, prendine uno!”
 
“Ne hai ancora, per caso?”
Orion aveva appena passato uno degli ultimi bicchieri rimasti a Moos quando una voce femminile alle sue spalle lo fece sobbalzare, portandolo a voltarsi per incrociare, sorpreso, lo sguardo di Niki. Chiedendosi dove fosse stata la vicina fino a quel momento e quando fosse arrivata Orion si limitò ad annuire mentre la guardava raccogliere un bicchiere dal cartone e poi girare sui tacchi per allontanarsi, diretta verso l’altro capo della stanza, dopo averlo ringraziato con il suo solito tono neutro ed inespressivo. Niki si stava ancora allontanando quando Carter, in piedi a pochi metri da lei, disse qualcosa con tono svogliato mentre con una mano reggeva il bicchiere di caffè e con l’altra frugava all’interno delle tasche del chiodo cercando accendino e sigarette:
“Non vedo perché discutiate tanto sul nome per la lavagna, è alta e piatta, chiamiamola Niki.”
 
 
Aperta la porta di casa trovarsi di fronte Leena non costituì, come detto, affatto una sorpresa per Mathieu. A stupirlo, al contrario, fu il singolare abbigliamento della strega, che si era infilata gli occhiali da sole e aveva i lunghi ricci scuri quasi del tutto celati sotto ad un foulard blu che si era allacciato attorno alla testa.
“Sono pronta.”
“Per… una maldestra rapina in banca?”
Mathieu parlò inclinando leggermente la testa di lato, osservandola accigliato mentre la strega, al contrario, sospirava amareggiata agitando le mani con impazienza:
“Cavolo, non dovevo dirlo a te! Volevo dirlo a Carter, volevo fare un’entrata ad effetto. E dire che gli avevo scritto appositamente di venire ad aprirmi la porta!”
“Conosco Carter da sette anni, ancora non gli ho visto compiere un gesto con qualche traccia di cavalleria. Vieni, sono tutti di là.”
Mathieu si spostò di lato per farla passare deludendo con tono pacato i progetti della strega, che varcò la soglia del 14D con lunghe falcate e guardandosi attorno amareggiata in cerca di quello sciagurato del suo vicino.
 “Carter, dove sei, ti avevo detto di… Carter, ma insomma, dobbiamo andare al M.A.C.U.S.A. in missione, ti sembra questo il momento di metterti a ballare! Oddio, Cary Grant!”
Leena non fece caso al cuscino rosso bordeaux che stava malamente picchiando Carter a ripetizione, si chiese invece per quale motivo il vicino si stesse spostando avanti e indietro per la stanza ballando senza sosta, ma la sua curiosità e il suo sdegno durarono ben poco, perché udendo delle voci distanti alla sua destra la strega ruotò il capo, ritrovandosi a scorgere uno schermo che stava proiettando immagini in bianco e nero.
“Perché Leena si è travestita da Norma Desmond(1)?”
Mentre Leena correva a sedersi accanto a Niki, di fronte alla tv di Mathieu, Moos gettò un’occhiata perplessa alla vicina e al suo curioso outfit prima di indirizzare lo sguardo su Eileen, ben presto imitato da tutti gli altri. Mathieu invece tornò a sedersi sollevato, chiedendosi perché Carter stesse ballando con un cuscino che lo picchiava senza che nessuno battesse ciglio.
“Onestamente non lo so nemmeno io…”
“Perché invece di pensare a come si veste Leena qualcuno non mi aiuta e non mi ferma, per favore! Ahia, cuscino di merda!”
“Ehy, mi è costato tantissimo quel cuscino! Ma chi è stato?”
Erano anni, forse un decennio intero, che Mathieu non scorgeva gli effetti della Tarantallegra su qualcuno, e dopo essersi premurato di difendere l’onore dei suoi cuscini decorativi il mago fece vagare lo sguardo sui presenti, curioso, mentre Carter si spostava imprecando a gran voce verso la cucina senza avere il controllo delle proprie gambe.
Quando nessuno gli rispose Mathieu capì, e pensò anche di sciogliere l’incantesimo, ma quando aveva quasi la bacchetta puntata verso l’amico ci ripensò: poteva anche godersi lo spettacolo per un altro po’. Magari fare un video.
Alla fine a parlare e a schiarirsi la voce fu Kei, che ruppe il silenzio venutosi a creare dando coraggiosamente voce al pensiero collettivo:
“Beh, Carter, noi lo faremmo anche, ma vedi, abbiamo paura di Niki.”
 
 
Quando Leena le si sedette accanto Niki aveva appena riposto la bacchetta nella tasca della felpa nera, tornando a concentrarsi sulle immagini in bianco e nero che le si profilavano davanti e sulla ciotola di plastica piena di popcorn che si era sistemata sulle ginocchia. Percependo un movimento d’aria e una presenza accanto a sé Niki ruotò la testa per distogliere lo sguardo dal film e indirizzarlo su Leena, che stava studiando adorante il volto dell’attore protagonista da dietro un paio di lenti scure.
“Leena… Perché ti sei travestita da Norma Desmond?”
Per una volta il tono della strega da inespressivo passò al tradire una certa dose di scetticismo mentre studiava la vicina con un sopracciglio inarcato, finendo col guardarla ricambiare la sua occhiata allargando le labbra in un gran sorriso pregno di entusiasmo:
“Lo prendo come un complimento, grazie Niki! Anzi, no, non dirlo agli altri, in quel film Gloria era una pazza assassina!”
Leena aveva persino allungato una mano per toccarle la spalla per farle percepire ancora di più quanto avesse gradito le sue parole, ma un attimo dopo temette di essere fraintesa e si affrettò a gettare un’occhiata nervosa alle sue spalle: non voleva certo che i vicini pensassero che avesse voluto omaggiare Gloria per quel motivo, insomma! Fortunatamente Niki, dopo averla guardata con tracce di perplessità per un altro istante, annuì e picchiettò debolmente la mano sulla sua per farle capire di aver compreso:
“Tranquilla Leena, il tuo segreto è al sicuro con me. Ti alleni per il balletto, Mr President?”
“Me la paghi, maledetta!”
“Scusa tesoro, le audizioni per Dancing with the Wizard sono finite da un pezzo, temo!”
Niki agitò debolmente le dita della mano destra in segno di saluto e continuò a sorridere amabilmente a Carter mentre questi le superava imprecando con il cuscino sempre al seguito, sparendo dal campo visivo delle due streghe quando finì in cucina senza volerlo. Leena stava quasi per chiederle perché Carter stesse ballando quando avevano una missione da compiere, ma venne disgraziatamente distratta dalle vicende di Cary Grant e Joan Fontaine.
 
 
Alla fine Mathieu, preso da un moto di pietà per Carter, si decise ad alzarsi per andare a salvare l’amico dall’estenuante sessione di ballo intensivo, attraversando soggiorno e ingresso a passo svelto mentre Prune lo seguiva – illudendosi che il padrone stesse andando a prendergli un biscottino – e Naomi osservava le nuche di Niki e Leena davanti alla tv, chiedendosi se per caso non avrebbe potuto chiedere di recuperare le puntate perse di A week with the vampire:
“Matt, ma perché Niki ha avuto il monopolio della tv?”
“Perché avevo due scelte, o lasciarle la tv o farmi mettere in disordine la libreria! Carter, arrivo, resisti.”
Mathieu superò Leena e Niki in tutta fretta senza far particolarmente caso a loro, non scorgendo dunque l’occhiata in tralice che la britannica scoccò in direzione della vicina per poi guardarla scuotere brevemente il capo senza dire nulla con un po’ di delusione; fortunatamente l’attenzione della strega venne immediatamente ricatturata dal film, anche grazie all’amareggiato ammonimento che Niki rivolse alla sua protagonista:
 
“Joan, non bere il latte, può essere avvelenato!(2)
“Cary vuole avvelenarla?”
Leena fece rimbalzare lo sguardo dallo schermo fino al volto della vicina sgranando inorridita gli occhi scuri e portandosi una mano al centro del petto, stentando a credere che Cary potesse essere capace di compiere un gesto tanto deplorevole, lui che in tutti i film in cui aveva avuto modo di ammirarlo era sempre così galante e pacato.
“Non lo so, non si capisce un cazzo di niente, maledetto Alfred! Pazzesco, tra poco non ci si potrà fidare nemmeno di Cary, di questo passo non so proprio dove andremo a finire!”
 
 
*
 
 
Tre giorni prima
Brooklyn
 
 
“Ciao Kei. Vieni, ho fatto il caffè.”
Quando suo fratello maggiore aprì la porta del suo appartamento a Brooklyn, lo stesso dove Kei aveva vissuto nel periodo immediatamente successivo al suo trasferimento a New York, e gli fece sbrigativamente cenno di entrare in casa Kei decifrò facilmente il messaggio tra le righe lanciatogli da Eita: è il mio giorno libero, quindi spero che sia davvero importante.
“Ciao Eita. Non ti ruberò molto tempo, giuro.”
 
Kei non lanciò nemmeno qualche battutina al fratello maggiore a proposito del caffè e del suo ormai essersi americanizzato, come erano solite ripetere instancabilmente le loro sorelle, che, al contrario, vivevano ancora in Giappone: Etsuko e Kira ripetevano spesso a Kei come in loro assenza spettasse a lui l’onere di tormentare Eita, ma quel giorno il minore era deciso a non irritarlo, visto ciò che doveva dirgli, e lo seguì senza farselo ripetere dentro casa fino ad andare a sedersi attorno al tavolo della cucina.
Kei aspettò che Eita posizionasse una tazza di caffè fumante davanti ad entrambi per parlare, sguainando un sorriso senza riuscire a trattenersi:
“Nathan non c’è?”
Ok, aveva promesso a se stesso di non irritarlo, ma non aveva resistito.
“Oggi lavora.”
Eita sapeva perfettamente dove il fratellino volesse andare a parare, ovvero che lui e il suo coinquilino fossero, magari, un po’ più che semplici amici, ma tagliò corto le moine di Kei con una risposta secca e un’occhiata che non ammetteva repliche, portando il minore a fare spallucce e a sfoggiare la sua aria più ingenua:
“Peccato, lo avrei salutato volentieri.”
“Kei, se non parli giuro che videochiamo Etsuko e la metto in modalità sorella maggiore assillante e protettiva dicendole che stai male.”
Per quanto amasse profondamente entrambe le sue sorelle, ciò che insieme ad Eita restava della sua famiglia, Kei venne scosso da un brivido solo all’idea – l’ultima volta in cui si era preso l’influenza tre anni prima Etsuko, che ancora doveva pensare di aver a che fare con un bambino, era corsa a New York da Osaka per “assisterlo” – e si decise a vuotare il sacco dopo essersi fatto coraggio grazie ad un sorso di caffè.
“Ok. Monty, il mio amico, non si è suicidato. Lo so, lo so che può sembrare il delirio di qualcuno che non vuole accettare la perdita e affrontare il lutto, lo so, ma credimi, non si è suicidato. Non si sarebbe mai tolto la vita.”
“Kei, lo so che è orribile, ma… in fondo non eravate amici da così tanto, magari c’era una parte di lui che non vedevi. Le persone che stanno male non sempre lo mostrano apertamente.”
“Questo lo so, ma non lui. Perché avrebbe dovuto, non dico che avesse una vita perfetta, nessuno ce l’ha, ma faceva quello che voleva quando lo voleva, aveva una famiglia che lo adorava, più soldi di quanti non gliene sarebbero mai serviti, era pieno di ragazze e ragazzi che gli morivano dietro… Non si sarebbe ucciso. E in più era mancino.”
Quando vide Eita bloccare la mano che reggeva la tazza di caffè a mezz’aria e aggrottare le sopracciglia Kei si sentì pervadere da una piacevole ondata di sollievo: finalmente, forse, sarebbe stato seriamente ad ascoltarlo.
“E il coltello…”
“Il coltello da cucina, quello che aveva in mano. Lo aveva nella mano sbagliata. Dimmi quale mancino si sgozza con la mano destra, Eita.”
Kei si appoggiò allo schienale della sedia di legno, dimenticandosi completamente del caffè, mentre il fratello lo guardava aggrottando ulteriormente la fronte e la sua espressone si faceva improvvisamente preoccupata:
“Come fai a sapere che era la mano destra, Kei?”
“Beh, me l’ha… detto qualcuno. Non ti dirò chi. Senti, a casa sua c’era un bicchiere di caffè, e lui il caffè non lo beveva. Di nuovo, non chiedermi perché lo so. Devono fare l’esame tossicologico sul cadavere.”
“Stai proponendo di dissotterrare una bara, aprirla e violarla? La sua famiglia ne morirebbe.”
“E come pensi che stia, sua madre, pensando che si sia tolta la vita? Questo finirà con l’ucciderla, Eita, non sapere la verità. Magari quando la sapranno avranno pace, invece.”
Kei smise di parlare per scrutare il volto pallido del fratello, cercando qualche traccia di una reazione per capire che cosa stesse pensando. Per alcuni istanti nessuno dei due parlò, e quando tornò ad aprire bocca il tono di Kei si fece ancora più serio, la mascella serrata:
“Immagina di non sapere come mamma e papà sono morti. O di pensare che si siano tolti la vita abbandonandoci, quando invece non è andata così. Come ti sentiresti?”
Eita lo guardò senza dire nulla, la fronte aggrottata, e pur sapendo di aver toccato un tasto dolente per entrambi, che forse quelle parole così dure avrebbe potuto risparmiarsele, Kei sostenne lo sguardo del fratello senza battere ciglio, determinato a convincerlo delle sue ragioni. Per un istante il minore pensò sinceramente che Eita avrebbe finito con l’insultarlo e cacciarlo in malo modo, ma quando dopo un silenzio interminabile il fratello tornò a parlare lo fece con calma piatta, senza lasciar trasparire alcuna emozione dalla sua voce:
“Che cosa pretendi che faccia? non è il mio caso. Non posso mettermi a fare… suggerimenti del genere, farebbero due più due e capirebbero che il mio fratellino ficcanaso sa cose che non dovrebbe sapere. Metterei nei guai te e chiunque ti abbia dato informazioni, perché immagino che a dirti della mano sia stato un altro Auror ed è illegale dare informazioni su un caso a dei civili, Kei.”
“Non lo so come. Dobbiamo trovare il modo, così sarà dimostrato che non si è ucciso.”
 
 
 
Kei non fumava e non aveva mai fumato in vita sua, ma si era comunque spostato sul terrazzo di Mathieu per prendere una boccata d’aria mentre i suoi vicini, al contrario, erano rimasti a discutere all’interno dell’appartamento.
Il bicchiere di carta ancora stretto tra le mani, mantenuto caldo grazie ad un incantesimo, Kei si era seduto su uno dei divanetti color sabbia disposti sotto al pergolato, il capo chino e gli occhi neri puntati pensosi sui propri piedi mentre udiva l’eco delle voci dei suoi vicini, attutite dalla portafinestra che si era lasciato quasi completamente chiusa alle spalle. Voci che si fecero più vicine e riconoscibili quando qualcuno spinse l’anta della finestra, e voltandosi istintivamente Kei vide Esteban uscire a sua volta sul terrazzo, sorridergli e tirarsi fuori un pacchetto di tabacco dalla tasca:
 
“Scusa, la dipendenza chiama. Ne vuoi una?”
“No, grazie, non fumo.”
 
Kei scosse debolmente la testa con un cenno mentre Esteban, richiusasi la finestra alle spalle, lo superava per avvicinarsi alla ringhiera del terrazzo per prepararsi una sigaretta, conscio, dopo anni di esperienza, di come l’odore del tabacco avrebbe potuto infastidire facilmente qualcuno che non condivideva il suo stesso vizio. Kei, a dire il vero, per quanto mal sopportasse quell’odore ormai ci aveva fatto l’abitudine: a differenza Monty fumava eccome, sia tabacco che erba, e Kei aveva perso il conto delle sigarette che gli aveva visto fumare nel corso dell’ultimo anno, da quando erano diventati amici. Quando l’ex Wampus esalava boccate di fumo troppo vicino a lui Kei era solito scostarsi schifato o chiedergli poco gentilmente di levarsi dai piedi, lui e le sue nubi tossiche, ma più che prenderlo sul serio Monty rideva, anche se a volte gli dava retta. Non sempre, certo.
Guardando Esteban rollarsi la sigaretta Kei all’improvviso ricordò una sera risalente a diversi giorni prima, quella del blackout, quando lo aveva visto fumare erba, e una consapevolezza improvvisa lo colse: non aveva motivi concreti per esserne sicuro, ma nel momento stesso in cui formulò quella domanda seppe di non essersi sbagliato. In effetti, come diceva sempre Monty, sui loro vicini di casa si sbagliava molto di rado.
 
“La vendevi tu a Monty, l’erba, vero?”
“Mh-mh. Io la fumo solo quando sono sotto stress, però. Anche perché non sarebbe molto furbo da parte mia fumarmi una fonte di guadagno.”
Esteban, finito di prepararsi la sigaretta, se la infilò tra le labbra e cacciò una mano nella tasca della felpa troppo larga alla ricerca di un accendino ruotando leggermente la testa verso Kei per indirizzargli un sorriso che il coetaneo non ricambiò, limitandosi ad annuire prima di tornare a fissare il suo caffè ancora bevuto solo a metà.
“No, suppongo di no.”
“Te lo aveva detto lui?”
“Non mi ha mai detto da chi la prendesse. Ma adorava dire le cose a metà per provocare le persone, quindi una volta mi ha rivelato che a vendergliela era qualcuno che abitava nel palazzo.”
Ci fu qualche breve istante di silenzio, durante il quale Kei udì solo le voci indistinte degli altri e il lieve “click” dell’accendino di Esteban, ma dopo una prima boccata e un’occhiata al panorama il vicino tornò a rivolgersi a lui, dando le spalle all’Upper West Side per appoggiarsi alla ringhiera e guardarlo:
“Non era un tipo facile, vero?”
“No. Ma non era… sai… una persona orribile. Insomma, aveva i suoi difetti, come tutti, ma niente di più. Almeno per come l’ho conosciuto io.”
“Com’è che siete diventati amici?”
Esteban si portò di nuovo l’estremità della sigaretta alle labbra inclinando leggermente la testa di lato, animato da genuina curiosità più che dal desiderio di ficcanasare. Ma Kei non aveva comunque nessuna voglia di parlarne, così il giapponese finì col schiarirsi la voce prima di stringersi nelle spalle, evitando accuratamente di guardare il vicino.
“È… Complicato.”
 
Probabilmente quella risposta non avrebbe fatto altro che aumentare la curiosità di Esteban, ma con gran sollievo di Kei il vicino non indagò oltre, limitandosi a gettargli un’occhiata perplessa prima di sorridergli allegro, assicurandogli di non doverne parlare per forza, se non gli andava. Kei fece del suo meglio per ricambiare il sorriso prima di vuotare il bicchiere di caffè, grato.
 
 
*
 
 
M.A.C.U.S.A
Quartier Generale degli Auror
 
 
Domnhall era furioso, e francamente né Meggie, né Walter se la sentivano di rimproverarlo per il suo umore penoso. Le loro tre scrivanie erano vicine ormai da anni, posizionate in modo da toccarsi e formare una sorta una ferro di cavallo, facendo sì che Walter e Megan si ritrovassero a lavorare quotidianamente uno di fronte all’latra, con Dom in mezzo a loro.
L’ufficio si era quasi svuotato del tutto e Megan e Walter costituivano alcuni tra i pochi Auror rimasti restandosene seduti alle rispettive postazioni, in silenzio. A vederli ci si sarebbe potuti chiedere che cosa stessero facendo, lì seduti senza parlarsi, ma la verità era che entrambi erano in attesa: i loro sguardi spesso e volentieri rimbalzano e indugiavano nervosamente su di un pezzo di carta abbandonato sulla scrivania di Domnhall mentre riuscivano ad udire, anche se soffocata dalla porta chiusa, la voce del collega provenire dall’ufficio accanto. Distinguere le parole pronunciate da Domnhall era pressochè impossibile per entrambi, ma dal tono appariva evidente quanto il collega fosse adirato.
“Con chi starà parlando? Quando gli è squillato il telefono è uscito senza dire una parola.”
“Non ne ho idea. Di sicuro quello non ha aiutato.”
Con un lieve cenno del mento Megan fece riferimento al pezzo di carta abbandonato, inerte, sulla scrivania prima di sospirare e tornare a fissare il ripiano della propria. Walter invece si limitò ad annuire, gettando un’occhiata torva al biglietto prima di prendere ad osservare la parete che li divideva dal collega. Dom spalancò la porta che divideva i due uffici meno di un minuto dopo, la mascella contratta e
“Scusate. Non avrei risposto, ma era mia sorella, vive all’estero e non la sento spesso.”    Che aveva scelto proprio un pessimo momento per chiamarlo, si disse Dom mentre raggiungeva la scrivania, scostando rumorosamente la sedia con un gesto più brusco della norma prima di tornare a sedersi tra i due colleghi. Se c’era una cosa che mal sopportava era proprio essere scortese, nonché discutere con le persone a cui voleva bene, ma si sforzò di ripetersi che in fondo non era grave: si sarebbe scusato.
Fortunatamente i colleghi non indagarono oltre e non gli chiesero niente, e Megan si limitò ad abbozzare un sorriso gentile con gli angoli delle labbra, assicurandogli di non doversi cruciare:
“Non preoccuparti, fratelli e genitori hanno il superpotere di farsi vivi sempre nei momenti meno opportuni. Per quanto riguarda questo, Dom…”
Di nuovo Megan fece cenno al biglietto, indicandolo con un leggero movimento del capo e dello sguardo, prima di riprendere il discorso:
“Temo che nessuno abbia visto o sappia nulla. È… sembra assurdamente apparso dal nulla.”
“Qualcuno ce lo ha messo. Ci siamo alzati, ci siamo allontanati per quanto, tre minuti? Quando mi sono alzato non c’era.”
“Lo so. Qualcuno è stato molto rapido.”
“E furbo, perché erano le 14, a quell’ora quasi tutti fanno la spola verso la caffettiera o le macchinette per prendere il caffè.”
“Già.”         
Dom annuì, amareggiato, prima di chinare a sua volta lo sguardo sul biglietto, leggendo le parole che qualcuno si era premurato di scrivere al computer e poi stampare su un foglio prima di lasciarlo direttamente sulla sua scrivania.
“Giusto il tempo per un caffè.”
 
 
Introdursi al Quartier Generale non era stata affatto una passeggiata. Anche se, riflettendoci, lo era stata nel senso letterale del termine.
Il gatto nero le aveva viste, le occhiate oblique che molti No-Mag gli avevano scoccato mentre trotterellava sul marciapiede con un foglietto stretto tra i denti, quegli sciocchi che pensavano che la sua presenza fosse di cattivo auspicio, come si permettevano? In realtà, all’interno del M.A.C.U.S.A. le cose non erano particolarmente migliorare: aveva dovuto aspettare parecchio che un gruppo di maghi e streghe si recasse di fronte all’ingresso dei visitatori e naturalmente alla prima occasione si era subito intrufolato insieme a loro, sgusciando rapido tra le gambe dei passanti. Per fortuna nessuno aveva fatto troppo caso a lui, all’interno dell’ascensore di metallo laccato d’oro che li avrebbe condotti a destinazione, ma si stava talmente stretti che al povero micio quasi era mancata l’aria. Per non parlare dell’orribile profumo nauseabondo che una delle streghe aveva mal pensato di spruzzarsi addosso in quantità industriali: il suo olfatto stava chiedendo pietà, quando le porte si erano finalmente spalancate e l’immenso atrio si era figurato davanti ai suoi occhi.
Dirigersi verso gli ascensori, poi, aveva costituito quasi una missione suicida: era un miracolo che nessuno di quei maleducati l’avesse pestato, lui o la sua povera coda vaporosa. Alcuni si erano fermati per indicarlo, per esprimere ammirazione e tenerezza per il piccolo felino, ma quasi tutti lo avevano bellamente ignorato, troppo presi dal tornare al lavoro al termine della pausa pranzo. Non che il gatto si fosse lamentato, visto che passare inosservato era esattamente ciò che voleva. Aveva aspettato che qualcuno si fermasse davanti agli ascensori premendo il pulsante del piano giusto, dopodiché si era infilato una seconda volta in mezzo a qualche mago o strega diretto al lavoro, e aveva approfittato del gran via vai per intrufolarsi nel Quartier Generale acquattandosi sotto una scrivania per aspettare che i tre Auror di suo interesse abbandonassero momentaneamente la postazione di lavoro. Tutto sommato era stato facile, i maghi non prestavano mai particolare caso ad un gatto.
Uscito dal Woolworth Building aveva ripreso le sue sembianze umane sul marciapiede, restando comunque invisibile nel costante e frenetico via vai dei passanti che animava la città.
 
 
*

 
Quando aveva lasciato l’appartamento di Mathieu Moos era tornato a casa sua, al sesto piano, ma solo per raccogliere la tortiera contenente l’Apple pie che aveva preparato durante la pausa pranzo e poi uscire di nuovo lasciando Jam, la sua tartaruga, a mangiucchiare foglie d’insalata. Il mago era sceso al pian terreno e si era avvicinato alla portineria, chiedendo timidamente a Lester, che si era spostato all’interno dell’edificio per smistare la posta, il codice d’ingresso per l’Attico.
Di sicuro in condizioni normali o trattandosi di qualcun altro Lester avrebbe dovuto interrogarlo sul motivo di quella richiesta, ma tutto ciò che Moos ricevette dall’anziano portiere fu un’occhiata mesta e piena di compatimento, come se l’uomo fosse sinceramente dispiaciuto per lui. Gli diede il codice senza dire una parola, ma udendo quei quattro numeri a Moos si strinse comunque lo stomaco: il compleanno di Monty, naturalmente, il 29 agosto.
Dopo averlo ringraziato Moos si era voltato e si era diretto in silenzio verso gli ascensori, aggrappandosi alla tortiera di vetro che teneva tra le braccia quasi come ad un salvagente in mare aperto, e una volta salito all’interno di uno dei due abitacoli premette, per la prima volta dopo talmente tanto tempo da nemmeno ricordare quanto dovesse essere passato, il pulsante numero 15. Cercò di ignorare le occhiate che i vicini che erano saliti insieme a lui – un signore indiano di mezza età che Moos era certo di non aver mai sentito parlare in vita sua, un’anziana caucasica molto pettegola e una donna di colore con un coloratissimo turbante in testa trasferitasi solo l’anno prima – gli gettarono guardando dritto davanti a sé, gli occhi scuri puntati sulle porte dorate chiuse mentre ricordava quando, da bambino, saliva in ascensore e chiedeva a qualche adulto di premere il pulsante per lui essendo il 15 troppo in alto perché potesse arrivarci da solo. E come si sentiva importante il piccolo Bartimeus quando lo chiedeva, a dimostranza del fatto di essere uno tra i poco privilegiati a potersi recare nell’attico, anche se quando tornava a casa suo nonno stava lì, seduto sulla poltrona, ad interrogarlo per sapere se si era comportato bene dai Dawson.  
Uno dopo l’altro i suoi vicini smontarono ai rispettivi piani, e dal dodicesimo in su Moos si ritrovò completamente solo, proprio come quando era bambino. Era così una bella sensazione, allora, dirigersi all’ultimo piano, mentre in quel momento si sentiva contorcere dall’ansia.
Quando l’ascensore si fermò le porte non si aprirono e Moos, con inesorabile lentezza e il battito cardiaco accelerato, digitò i quattro numeri sul minuscolo tastierino numerico collocato accanto alle due colonne di pulsanti che nessuno, a parte i Dawson e chi faceva loro visita, utilizzava mai. Da bambino, durante le sue prime visite, ci arrivava a fatica e doveva alzarsi in punta di piedi, tanto che suo nonno, sghignazzando, una volta gli aveva suggerito di andare dai Dawson portandosi appresso lo sgabello che usava in bagno per lavarsi i denti. Moos lo aveva fatto, e non aveva capito, sul momento, perché la madre di Joanna si fosse messa a ridere prima di dirgli quanto fosse adorabile.
Quando il codice venne accettato con un lieve tintinnio metallico le porte dorate si aprirono, offrendogli uno scorcio dell’ingresso circolare del luminosissimo attico, interamente ricoperto dal parquet più costoso che Moos avesse mai calpestato in vita sua, tanto che come da bambino provò l’impulso di togliersi le scarpe per non rovinarlo. Su New York il cielo stava iniziando a scurirsi, ma di giorno l’attico era meraviglioso: un unico, immenso agglomerato di vetrate e luce naturale dal quale si poteva ammirare mezza Manhattan. Moos invece di entrare deglutì, spostando lo sguardo sulla donna di mezza età dai capelli rossi stretti in una rigida crocchia sulla nuca e i penetrantissimi occhi cerulei che aveva davanti.
“Desidera?”
“C’è Jo… La Signora è in casa?”
La cameriera annuì, lo invitò ad entrare – gettandogli un’occhiata indagatrice che non lo mise affatto a suo agio – e girò sui tacchi per andare ad avvisare la padrona di casa, ma prima che la donna avesse il tempo di uscire dalla stanza circolare che si affacciava su un immenso soggiorno stipato di librerie, due divani di design che dovevano costare quanto un’opera d’arte, quadri e un pianoforte a coda un suono di passi in avvicinamento colpì le orecchie di Moos, che deglutì e strinse la presa sulla tortiera mentre udiva, dopo tanto tempo, la voce della madre di Montgomery:
“Margaret, chi…”    Quando l’alta, longilinea e interamente di nero vestita figura di Joanna Dawson apparve in fondo al soggiorno, stagliandosi contro le vetrate alle sue spalle e alle prime colorazioni di rosa del cielo, e il suo sguardo indugiò su Moos le parole morirono nella gola della donna bionda, che guardò il suo ospite spalancando stupita i grandi occhi celesti mentre la cameriera, perplessa, spostava lo sguardo da lei fino al ragazzo. Moos stava quasi iniziando a preoccuparsi, a temere che Joanna lo avrebbe cacciato a pedate, ma ben presto un sorriso radioso si fece largo sulle labbra della donna, che avanzò rapida verso di lui spalancando le lunghe braccia fasciate da un costosissimo maglione di cashmere firmato Ralph Lauren:
“Bartimeus!”
Prima di poter dire qualsiasi cosa Moos si ritrovò stretto dall’abbraccio della donna, premurandosi di spostare appena in tempo la tortiera per evitare che il suo dolce facesse una triste fine. Gli abbracci di Joanna Dawson, per il piccolo Bartimeus, erano sempre stati una gran fonte di gioia: la mamma di Monty dava splendidi abbracci, anche se il figlio quasi sempre si dimenava e la pregava di lasciarlo andare. La sensazione, anche a distanza di decenni, non cambiò affatto, e Moos si sentì pervadere dal più piacevole sollievo, felice che la donna non ce l’avesse con lui. Quando Joanna gli si allontanò leggermente stringendogli le mani sulle spalle Moos le sorrise sentendosi improvvisamente molto più leggero, sollevando al contempo la tortiera per accennare alla pecan pie che conteneva:
“Ciao Joanna. Spero che sia ancora la tua preferita. Scusa se ci ho messo tanto.”
 

“Sono così felice di vederti, Bartimeus.”
Joanna era sempre stata una delle pochissime persone a chiamarlo Bartimeus: sosteneva che fosse un nome troppo bello e particolare per sprecarlo con un soprannome, e il modo bizzarro con cui lo pronunciava, tradita dall’accento britannico che anche dopo molti anni di permanenza a New York ancora non l’aveva lasciata, aveva sempre divertito non poco il diretto interessato. Moos abbozzò un sorriso mentre, seduto su uno di quei costosissimi divani bianchi di fronte alla donna, la guardava versare il tè nelle tazze per entrambi: Joanna restava fedele alle tradizioni del suo Paese e non serviva mai il caffè, e Moos non si era mai stupito di come suo figlio fosse cresciuto senza poterlo tollerare.
“Anche io. Qui non sembra cambiato quasi niente.”
“A parte le cameriere, quelle non sono in grado di tenermele. Come stai?”
Erano ormai molti anni che non parlavano: l’ultima volta in cui avevano scambiato più di qualche parola era stato al funerale di suo nonno, quando Joanna lo aveva abbracciato con gli occhi arrossati quasi tanto quanto i suoi, ma non era cambiata affatto. Era la stessa donna gentilissima e affettuosa di sempre, e appurarlo lo rattristò ancora di più per la sua perdita.
“Bene.”
Che cosa doveva fare? Chiedere a Joanna come stesse? Era lecito chiederlo, a due settimane dalla morte del suo amatissimo e unico figlio? Moos non aveva idea di che cosa avrebbe dovuto dire e che cosa non avrebbe dovuto dire, all’improvviso capiva come si erano sentite le persone che lo circondavano quando suo nonno era morto, ma fortunatamente Joanna andò in suo soccorso, allargando le labbra in un triste sorriso mentre gli porgeva la sua tazza:
“Potrei stare meglio. Ma la tua visita mi ha davvero fatto piacere.”
“Non ti ho… Insomma, vista in giro ultimamente.”
“Devo ancora uscire, da quando Monty… Beh, magari presto troverò il coraggio di farlo.”
Joanna aggiunse un po’ di latte nella sua tazza – Moos riuscì quasi a sentire Monty schernirla giocosamente e fingersi schifato per quell’abitudine al 100% british della madre – chinando lo sguardo e continuando a sorridere con amarezza, intristendo ancora di più il suo ospite: era stato talmente affezionato a quella donna, da bambino, da non riuscire a fare a meno di pensare a quanto non avesse meritato di vivere quel lutto. Proprio a lei che aveva dovuto aspettare anni per avere un figlio, era stato strappato via così brutalmente.
“Puoi venire da me quando vuoi, se hai voglia di parlare con qualcuno.”
“Grazie, sei sempre troppo caro. Vale anche per te, naturalmente.”
Joanna gli sorrise con affetto e Moos ricambiò, guardandola sorseggiare un po’ di tè nero macchiato con latte mentre un coltello incantato tagliava da sé due fette della pecan pie che Moos aveva portato, quella che una volta Monty lo aveva persino incaricato di aiutarlo a preparare in occasione della festa della mamma. Era impossibile trovarsi in quel salotto dove aveva trascorso buona parte della sua infanzia senza pensare a lui, o senza avere l’impressione che fosse diventato improvvisamente più vuoto. Anche Joanna doveva pensare la stessa cosa, perché dopo aver posato la tazza sul piattino bianco che teneva in grembo sollevò la testa e gettò un’occhiata al resto della stanza, guardandosi attorno con evidente nostalgia:
“Sono anni che è così deserto, qui… Ripenso spesso a quando tu e Monty eravate piccoli, ed era sempre in disordine, caotica e rumorosa. Mi mancano quei giorni, anche se vi sgridavo spesso perchè mettevate tutto a soqquadro.”
“Anche a me.”
Moos accennò un sorriso prima di chinare lo sguardo e sfiorare il bordo della tazza di porcellana con le labbra, evitando di guardarla per reprimere l’impulso di dirle che Monty non si era ucciso e che non doveva sentirsi in colpa per alcun motivo, perché per lui era stata forse la miglior madre che avrebbe mai potuto desiderare. Avrebbe voluto rassicurarla più di ogni altra cosa, ma non disse nulla, e se possibile odiò il responsabile della morte del suo vecchio amico ancor più di prima.
 
 
Joanna gli aveva detto che Monty era nascosto sotto il letto, e che non voleva parlare con nessuno da quando era tornato da scuola. Ma forse a lui avrebbe dato retta. Moos aveva quindi bussato educatamente – la nonna gli tirava le orecchie, quando non bussava – alla porta bianca della camera del suo migliore amico, esitando quando la vocina acuta di Montgomery gli gridò di andare via. Moos allontanò la piccola mano dalla porta e sollevò timoroso lo sguardo su Joanna, interrogandola mutamente sul da farsi, ma la donna aveva annuito e aperto la porta lei stessa, facendogli cenno di entrare.
La camera di Monty rappresentava forse il sogno proibito di ogni bambino: era immensa, piena di giochi, con una tenda per giocare all’interno, scaffali ricolmi di modellini LEGO, macchine, elicotteri e aerei telecomandati, la collezione completa delle bambole dei personaggi di Toy Story e persino una mini Vespa e una mini BMW a batterie su cui i due spesso salivano per fare avanti e indietro per l’Attico, spesso e volentieri destando l’irritazione della povera cameriera di turno. Di Monty nessuna traccia, ma Moos sapeva dove era solito nascondersi, e non esitò ad avvicinarsi all’enorme letto con le lenzuola di Star Wars, inginocchiarsi sul pavimento e scostare il copriletto per scoprire l’amico disteso sul pavimento.
“Che cos’hai Monty?”
Montgomery stava lì, disteso supino, e anche se si strofinò subito gli occhi verdi Moos vide che aveva pianto. Non glielo disse, ovviamente, perché altrimenti Monty lo avrebbe cacciato di sicuro.
“Sono arrabbiato.”
“Con me?”
“No. I miei compagni sono cretini.”
Beh, Moos era d’accordo: quelli della scuola privata, a parte Monty, erano proprio cretini, ma il nonno diceva di non parlar male degli altri amici di Monty, e dunque tacque, sedendosi accanto a lui sul pavimento per chiedergli il motivo.
“Dicono che la mamma non mi assomiglia per niente e che non è veramente la mia mamma.”
Un mese prima Moos era andato da suo nonno, e gli aveva chiesto perché Monty non somigliasse ai Signori Dawson. La sua era ingenua curiosità infantile, ma il nonno lo aveva minacciato di tirargli le orecchie fino a scoppiare se avesse rivolto quella domanda all’amichetto, costringendolo al silenzio.
“Certo che è la tua mamma, è lei che ci sgrida e ci dà la merenda. Chi altri dovrebbe essere?”
 
 
*

 
Il Woolworth Building era situato nella zona più trafficata di Lower Manhattan, esattamente di fronte al Municipio di New York; per questa ragione Carter aveva suggerito di non Materializzarsi nei pressi del grattacielo, ma di tenersi ad un isolato di distanza per non rischiare di apparire dal nulla nel bel mezzo di un gruppo di No-Mag in uscita dal lavoro.
Usciti dai confini dell’Arconia lui e Leena avevano svoltato l’angolo prima di Smaterializzarsi, e giacché erano comparsi proprio di fronte ad una caffetteria la britannica aveva chiesto al vicino di aspettarla per andarsi a prendere una tazza di caffè: in fondo era l’unica a non averne bevuto nemmeno una goccia, a casa di Mathieu, e la loro missione incombente richiedeva che il suo cervello potesse dare il massimo. Seppur non al settimo cielo Carter aveva assentito e aveva aspettato la vicina standosene in piedi a braccia conserte sul marciapiede, lo sguardo che indugiava un po’ sui taxi gialli che sfrecciavano lungo la strada davanti a lui, un po’ sul via vai di passanti e un po’ sul suo riflesso nella vetrina più vicina per assicurarsi che i suoi capelli fossero in ordine: per fortuna le cuscinate causategli da Niki non lo avevano reso inguardabile.
“Eccomi, possiamo andare! Per fortuna non mi sembra che nessun Babbano ci abbia visti.”
Resa di buon umore dal bicchiere di caffè che teneva in mano e dall’aver convinto Carter ad accompagnarlo al M.A.C.U.S.A., Leena si parò di fronte al vicino con un largo sorriso sulle labbra, gli occhiali da sole ancora a celarle gli occhi e il foulard legato sulla testa.
“Per fortuna, ne sarà pur valsa la pena di apparire vicino ai secchi dell’immondizia… Scusa, com’è che li hai chiamati?”
Soprassedendo sull’abbigliamento della vicina – aveva già tentato, fallendo miseramente, a sottolineare come conciata così avrebbe solo attirato ancora di più l’attenzione altrui – Carter s’incamminò accanto a Leena scoccandole un’occhiata stranita, cercando di elaborare quell’orrenda parola che le aveva appena sentito pronunciare.
“Chi? i Babbani?”
“Perché chiamate i No-Mag Babbani?! No-Mag è molto più logico! No. Mag.”
“Per la barba di Merlino, non ricominciamo!”
 
A furia di discutere su quale nome fosse migliore Leena e Carter giunsero a destinazione, tra Park Place e Barclay Street, di fronte ad uno degli edifici più alti che Leena avesse mai visto: era da quasi due anni che non si recava al M.A.C.U.S.A., quando appena trasferita aveva dovuto attenersi a tutte quelle noiose ed infinite procedure burocratiche per poter restare a vivere negli Stati Uniti, e come durante la sua prima visita quando alzò la testa per cercare di scorgere la punta del mastodontico grattacielo neogotico quasi finì con l’avere le vertigini.
“Quanti piani saranno?”
“57. È uno dei venti edifici più alti di New York. Andiamo, Nancy Drew.”
Carter rivolse un sorrisetto e un cenno a Leena per invitarla a seguirlo prima di incamminarsi verso il lato posteriore dell’edificio, dove si trovava l’ingresso per i visitatori del M.A.C.U.S.A., e anche se la vicina non si fece pregare e si incamminò dietro di lui Leena non mancò di sistemarsi stizzita la montatura degli occhiali scuri sul naso prima di ribattere con aria sostenuta:
“Ti sbagli di grosso, Nancy è la lavagna. E se pensi che io per questo soprannome mi offenda, ti sbagli di grosso.”
“Non avevo alcun dubbio.”
Era passato molto tempo da quando Leena aveva messo piede per l’ultima al Magico Congresso degli Stati Uniti d’America, e non era del tutto certa di ricordare la procedura corretta per accedere tramite l’ingresso per i visitatori. Per fortuna Carter sembrò saperlo, perché si fermò di fronte ad una porzione di muro di pietra dove alcuni mattoni erano stati posizionati in rilievo rispetto agli altri, in modo da formare un arco alto due metri.
“Vediamo… tre a sinistra, due a destra… è una vita che non passo di qui, ovviamente per andare al lavoro uso la Metropolvere, ma ci sono degli incantesimo che bloccano automaticamente in un camino chi non lavora in nessun ufficio, quindi non sarebbe stata una buona idea farti passare di lì.”
Estratta la bacchetta dalla tasca del chiodo nero Carter iniziò a picchiettarne la punta su alcuni mattoni mentre Leena, in silenzio dietro di lui, accennava una smorfia inclinando gli angoli delle labbra verso il basso: soffrendo di claustrofobia la sola idea di ritrovarsi murata dentro un camino le provocò quasi un moto di nausea, ma la strega fece del suo meglio per non pensarci e di concentrare tutta la sua attenzione sui mattoni che Carter stava toccando con la bacchetta, cercando di memorizzarla, e che le ricordarono istintivamente un piccolo frammento della sua amata Londra:
“A Diagon Alley si entra proprio così. Un chiaro esempio di come voi amiate copiarci.”
“Noi non vi copiamo affatto. E che cos’è Diagon Alley?”
Mentre i mattoni si spostavano per creare un varco e farli passare Carter ripose la bacchetta e si voltò verso di lei inarcando un sopracciglio, destando nella vicina un basso sospiro malinconico: Leena scosse la testa, appurando ancora una volta quanto casa sua talvolta le mancasse, e gli suggerì di lasciar perdere mentre davanti a loro diventava visibile la griglia dorata della porta di un enorme ascensore.
“Dimentichi, caro, che questo posto è stato progettato dal Consiglio dei Maghi della Gran Bretagna, perciò è grazie a noi se esiste. E dirò Babbani quante volte mi pare.”
Leena, il caffè ancora in mano, si avvicinò per prima alla porta dell’ascensore e questa si aprì autonomamente davanti a lei, permettendole di precedere Carter nell’immenso abitacolo. Non c’erano pulsanti da premere, e ai due non restò che aspettare che la porta scorrevole scivolasse nuovamente al suo posto accompagnata da dei forti cigolii metallici mentre il vano venutosi a creare nel muro iniziava a richiudersi. Stavano per essere inghiottiti dall’oscurità quando una luce sopra di loro si accese, consentendo a Leena di trarre un profondo sospiro di sollievo: detestava gli ascensori, ragion per cui era ben felice di vivere al primo piano dell’Arconia.
“Serve l’ascensore per andare dove dobbiamo andare?”
“Sì, ma è un tragitto brevissimo, l’Ufficio della Regolamentazione della Metropolvere è al primo livello. E mi raccomando, quando arriviamo lì… fa parlare me.”
Ci fu qualcosa di accondiscendente nel tono di Carter che indignò non poco la britannica, portando Leena a ricambiare lo sguardo del vicino scoccandogli un’occhiata torva prima di tornare a concentrarsi sull’unico che meritasse davvero la sua attenzione: il caffè.
“Pensi che potrei dire qualcosa di inappropriato? La tua scarsa fiducia è svilente e infondata.”
 
 
“Quella donna era veramente un’arpia...”
Carter trovava semplicemente inaudito che il suo fascino non avesse funzionato affatto, sulla receptionist dell’Ufficio della Regolamentazione della Metropolvere. E dire che quella mattina si era svegliato persino più carino del solito. Ma in fondo, si disse il giornalista per rassicurarsi mentre scendeva una ripida rampa di scale a chiocciola insieme a Leena, non era certo colpa del suo fascino: era colpa di quella strega sgradevole di mezza età con la ricrescita e gli occhiali troppo calati sulla punta del naso.
“Pazzesco che il tuo fascino non abbia funzionato, eh?”
Leena, al contrario di lui, sembrava di ottimo umore proprio da quando la strega aveva fulminato Carter e il suo bel sorriso con un’occhiata raggelante, esaminando più e più volte il suo badge prima di accordargli il permesso di accedere all’Archivio centrale. Chissà per quale motivo, la donna sembrava del tutto persuasa che i due le stessero mentendo, quando Carter si era presentato alla reception asserendo allegro di dover consultare gli archivi per un articolo da scrivere.
Il giornalista si voltò per scoccare un’occhiata torva alla strega, chiedendosi perché le sue vicine si fossero coalizzate per maltrattarlo brutalmente. Quando giunsero ai piedi delle scale si trovarono in un corridoio semi-buio e impregnato da un forte odore di muffa, davanti ad un’enorme porta di legno a doppio battente e ad un’altra strega seduta dietro ad un’altra scrivania, impegnata a leggere un numero del Settimanale delle Streghe USA con aria annoiata. Alla vista della donna, più giovane della prima e fortunatamente dall’aria meno arcigna, Carter sentì un nodo allo stomaco: eccone un’altra pronta a schernirlo, a giudicare da quanto male stava andando la sua giornata.
“Coraggio Casanova, vai e conquista.”
Leena contribuì al suo penoso stato umorale scoccandogli un sorrisetto che di incoraggiante aveva ben poco, ma Carter si fece coraggio e avanzò dritto verso la strega brandendo il suo permesso: non se ne sarebbe andato da quel corridoio ammuffito, non prima di aver messo il naso sul registro del camino dell’appartamento di Montgomery Dawson.

 
“Wow!”
Quando varcarono l’enorme porta di legno che conduceva all’archivio un’esclamazione di puro stupore si levò da Leena, che si ritrovò a spalancare meravigliata gli occhi scuri mentre si guardava attorno, certa di non essere mai stata in un posto simile in tutta la sua vita: la stanza in cui si trovavano non sembrava nemmeno una stanza, quanto più la biblioteca più grande che avesse mai visto. File e file apparentemente infinite di scaffali altissimi ricolmi di grossi libri rilegati con scritte dorate sul dorso si perdevano a vista d’occhio, e il soffitto sopra di loro era un’immensa cupola di vetro che mostrava lo stesso cielo di New York anche se si trovavano molto in profondità sottoterra. Alcuni libri volavano in giro, aperti o chiusi, sopra le loro teste, ma prima che Leena potesse interrogarsi sul motivo Carter si mosse alla sua destra e la invitò a seguirlo, dirigendosi verso una scaletta di metallo arrugginito per salire su una piattaforma quadrata di metallo traballante circondata da una ringhiera.
“Ora che si fa?”
Quando ebbe raggiunto Carter sulla piattaforma Leena si gettò un’occhiata nervosa attorno e in particolare alla base di metallo sotto di lei, chiedendosi quanto fosse sicura a giudicare dai cigolii e da quanto avesse traballato quando ci aveva messo piede sopra, ma prima che il vicino potesse rispondere la strega si ritrovò a sobbalzare a causa di una voce femminile – visibilmente seccata e molto poco cordiale, come se morisse dalla voglia di timbrare il cartellino invece di assecondare gli idioti che avevano ben pensato di scocciarla di venerdì sera – che li raggiunse tramite un interfono che fino ad allora la britannica non aveva minimamente notato.
“Indirizzo?”
Leena guardò l’interfono con gli occhi sgranati prima di guardarsi attorno, chiedendosi da dove venisse quella voce e dove fosse quella donna mentre Carter, invece, si sporgeva leggermente per snocciolare in tutta calma l’indirizzo dell’Arconia:
“225 West 86th Street, Manhattan.”
“Vi consiglio di tenervi.”
Dopo l’ultimo, laconico messaggio della donna misteriosa si udì un click metallico che pose fine alla comunicazione, e Leena si stava giusto dicendo come di certo quella piattaforma non avrebbe mai potuto rivelarsi peggiore dei tremendi carrelli della Gringott, e di come probabilmente non avrebbe avuto bisogno di aggrapparsi alla ringhiera, essendo abituata a quei viaggi da montagne russe, quando quella si mosse con uno scatto producendo un suono molto poco rassicurante, schizzando in avanti a tutta velocità e facendo quasi cadere Leena di faccia sulla base di metallo. Fortunatamente la strega riuscì a tenersi in piedi e non tardò ad aggrapparsi alla ringhiera dietro di lei con entrambe le mani mentre Carter, al contrario, si teneva con una mano sola standosene appoggiato come se nulla fosse, le caviglie incrociate e lo sguardo che vagava in giro con la massima nonchalance.
Quel viaggio si stava rivelando molto peggio di un tragitto in piedi su un autobus a due piani stracolmo, e quando la piattaforma si fermò inchiodando di botto Leena – dopo essere quasi caduta un’altra volta a causa dell’attrito – sperò vivamente di essere arrivata a destinazion. Invece la piattaforma scattò bruscamente verso l’alto facendo fare le capriole al suo stomaco e destando in lei una lunga sfilza di basse imprecazioni.
Quando finalmente si fermarono di fronte ad uno scaffale Leena sospirò di sollievo, guardandosi attorno per godersi la visuale dell’archivio gigantesco dall’alto mentre Carter si avvicinava ai grossi tomi per passarne in rassegna i dorsi di pelle.
“Che razza di trappola infernale! Però è stato divertente. Lo rifacciamo?”
“Dopo, per tornare indietro. Eccoli… Per fortuna ci sono pochi libri per l’Arconia, è da meno di trent’anni che i maghi hanno iniziato a vivere nel palazzo in massa. Tu controlla l’altro, per favore.”
Carter sfilò dalla mensola uno i due grossi libri che riportavano la scritta a caratteri dorati “XIV” sul dorso, porgendone uno a Leena prima di aprire il proprio, sfogliandolo più rapidamente che poteva mentre cercava l’appartamento e l’anno giusto.
“Lascia stare, ho trovato la B, tu devi avere solo i registri degli appartamenti D ed E.”
Accigliata, Leena continuò a sfogliare le pagine per lasciarsi indietro gli anni 90 (degli affari del Signor O’Hara, che evidentemente aveva vissuto nell’appartamento di montgomery per qualche anno quando era giovane, non le importava granché) e raggiungere l’anno corrente, in particolare il mese di settembre che si erano appena lasciati alle spalle. Carter invece ripose il suo libro e tirò fuori il telefono dalla tasca della giacca di pelle per fotografare la pagina giusta una volta che Leena l’avesse trovata, quando all’improvviso il suo sguardo indugiò su un altro libro, che si trovava esattamente sotto rispetto a quello che la vicina teneva in mano. Di certo fu il numero romano XIII ad attirare la sua attenzione, fatto sta che dopo una brevissima esitazione Carter sfilò anche quello dallo scaffale, iniziando a sfogliarlo frettolosamente per arrivare, come Leena, al 2021.
Quando ebbe finalmente trovato la pagina sulla quale erano riportate le date del febbraio passato Carter accennò un sorriso con gli angoli delle labbra, sollevato e vittorioso al tempo stesso, ma quando girò la pagina tutta la sua soddisfazione svanì nell’aria: la pagina che aveva davanti era completamente bianca, e in quella dopo iniziava invece il resoconto delle attività del camino della Signora Turner di almeno un decennio prima.
“Che cosa cazzo…”
“Che cosa stai guardando?”
“Queste pagine sono quelle del 13B. Ma da marzo in poi non c’è niente!”
“Evidentemente Niki non ha mai usato la Metropolvere. Ecco, ho trovato anche io! Faccio le foto per tutta settembre, non si sa mai.”
Mentre Leena tirava fuori il telefono per fotografare le ultime pagine relative al 14B Carter rimase a guardare la pagina bianca che aveva davanti, affatto convinto. Ripose il telefono nella tasca dei jeans e tirò invece fuori la bacchetta, puntandola contro la pagina accompagnando un movimento elegante del polso con la parola “Revelio”.
Non accadde niente, ma Carter non si arrese, del tutto persuaso che in quella pagina ci dovesse essere qualcosa che non andava. Non c’erano pagine bianche, in quegli archivi. Almeno stare a sentire i barbosi racconti di suo fratello, che lavorava al M.A.C.U.S.A. come procuratore distrettuale, gli era servito a qualcosa.
Specialis Revelio.”
Ancora nulla, e questa volta Leena lo guardò accigliata chiedendoli se per caso si aspettasse che il libro iniziasse a destreggiarsi in qualche capriola all’indietro.
Ma non era possibile che la pagina fosse bianca. Quella pagina non avrebbe dovuto esserci, se non aveva alcuna informazione da dare. Poteva trattarsi di un errore, o in alternativa qualcuno ne aveva cancellato il contenuto.
 
 
Quando qualcuno prese a bussare con impazienza alla porta di casa sua Niki sedeva comodamente sul divano color caramello del soggiorno, il PC sistemato su un pouf e ben tre delle sue gatte a circondarla: Lottie le si era sistemata in grembo, in mezzo alle sue lunghe gambe incrociate sul cuscino del divano, mentre Carrie aveva occupato un cuscino alla sua sinistra e Sam se ne stava comodamente appoggiata al fianco della padrona, la testa sistemata sulla sua gamba.
“Ragazze, guardate bene, questo è il primo incontro tra Carrie e Big, è un momento focale. Soprattutto tu, Sam, che non stai mai attenta.”
Dopo aver fatto ritorno dall’appartamento di Mathieu Niki aveva deciso di iniziare il suo ennesimo rewatch della sua serie tv preferita in assoluto, ma qualcuno sembrava intenzionato a mandare all’aria i suoi piani, e quel qualcuno iniziò a colpire con insistenza la porta proprio nell’esatto, fatidico momento in cui Carrie incontrava Big per la prima volta su un marciapiede affollato della stessa città in cui aveva vissuto per la maggior parte della sua vita.
“Chissà perché io Chris Noth non l’ho mai incontrato, in questa città di merda… Mai una gioia, ragazze. Ma chi è che rompe?!”
Sbuffando infastidita, Niki scoccò un’occhiata truce in direzione della porta prima di sporgersi verso il computer, mettere in pausa il video e infine sollevare Lottie per depositarla in un altro punto del divano per potersi alzare. Una volta in piedi la strega attraversò a grandi passi la distanza che intercorreva tra il divano e la porta camminando a piedi nudi sul parquet, pronta a maledire il suo visitatore indesiderato a meno che non si fosse trattato di Ryan Gosling. Dovette ammettere, suo malgrado, che quando però sbirciò attraverso lo spioncino e scorse il viso del suo vicino di casa un sorrisetto finì con l’incresparle le labbra. Non che fosse felice di vederlo, ovviamente, ma perché sapeva perfettamente per quale motivo Carter si trovasse di fronte al suo appartamento.
Quando aprì la porta, messo da parte il sorriso e sforzandosi di apparire ingenua come non mai, Niki spalancò leggermente gli occhi verdi e si portò la mano libera al petto, memore della minaccia che il vicino le aveva rivolto durante il loro ultimo scambio verbale, mentre Carter, al contrario, ricambiava il suo sguardo con aria evidentemente molto seccata:
“Oh cielo, il mio aguzzino. Tremo di paura.”
“Piantala. Devo chiederti una cosa.”
“Beh tesoro, Big stava raccogliendo i preservativi di Carrie, quindi fa che sia una cosa seria. Entra.”
L’espressione sul viso di Niki tornò seria e seccata in un battito di ciglia prima che la strega desse le spalle al vicino facendogli cenno di seguirla, rientrando in casa mentre Mira osservava con curiosità lei e il loro ospite dall’albero tiragraffi addossato alla parete in un angolo dell’ingresso. Carter seguì Niki in casa non avendo la più pallida idea di che cosa lei stesse parlando, ma ormai ci era abituato, perciò dopo che la strega ebbe chiuso la porta agitando pigramente la bacchetta non tardò ad esporle il motivo della sua visita guardandola torvo e incrociando le braccia al petto, in piedi al centro della stanza:
“Sono stato con Leena al M.A.C.U.S.A., più precisamente dove tengono gli archivi delle attività dei camini registrati all’uso della Metropolvere.”
“Sì, lo so, per controllare se ci fosse qualcosa d’interessante legato al camino di Monty. Dunque che cosa ti porta qui, oltre all’irrefrenabile desiderio di vedermi?”
Niki distese le labbra in un sorriso mentre si appoggiava di schiena all’isola della cucina incrociando le caviglie davanti a sé, facendo del suo meglio per non apparire troppo divertita o troppo poco sorpresa mentre Carter, dopo una breve esitazione trascorsa a studiarla, aggiungeva qualcosa con tono piatto:
“Ho cercato la pagina del 13B. E l’ho trovata, quindi il tuo camino è registrato.”
“E?”
“Ed era bianca. Non c’era scritto niente sopra.”
“Allora mi sembra chiaro che non ci fosse niente da leggere. No?”
Niki sollevò studiatamente le sopracciglia e inclinò la testa di lato senza smettere di guardare Carter con un accenno appena percettibile di sorriso sulle labbra, scorgendo chiaramente la stizza sul viso del vicino mentre questi muoveva un passo verso di lei guardandola torvo: sapeva che si stava prendendo gioco di lui, per di più di fronte all’evidenza, cosa che lo infastidì se possibile ancora di più.
“Non ci sono mai pagine bianche in quei registri. Alcuni appartamenti del palazzo, quelli abitati da Babbani, per dire, non avevano alcuna pagina. Se la tua c’è significa che avrebbe dovuto esserci scritto qualcosa.”
“Evidentemente non ho mai usato la Metropolvere. Cerca pure se vuoi, non ne troverai nemmeno un granello in tutto l’appartamento. Probabilmente chi abitava qui prima di me la usava e la pagina è rimasta, ma evidentemente sugli ultimi sei mesi non c’era nulla da sapere.”
“Io penso che tu abbia cancellato quello che c’era scritto sopra. Non ho idea del come, ma penso che sia andata così.”
“E perché avrei dovuto farlo? Te l’ho detto pochi giorni fa, non ho vissuto in questa città per moltissimo tempo, fino ad appena un anno fa. Non conosco più nessuno qui, ormai, da chi dovrei voler andare?”
“O chi vorrebbe venire qui.”
Per un paio di istanti Niki non rispose, e i due si studiarono a vicenda mentre Carter, in cuor suo, era certo di aver ragione, anche se lei non l’avrebbe mai ammesso. Alla fine infatti Niki sorrise di nuovo, stringendosi nelle spalle prima di parlare con lo stesso tono accondiscendente di poco prima:
“Oh, beh. Lo sai che non mi piace avere ospiti. Vuoi del caffè?”
Carter non rispose, ma in compenso dopo una breve esitazione e un’ultima occhiataccia girò sui tacchi e percorse la distanza che lo divideva dalla porta con poche e ampie falcate, spalancandola prima di chiudersela alle spalle con un gesto brusco. Niki, rimasta improvvisamente sola, non si scompose, limitandosi a fissare assorta la porta per un paio di istanti prima di stringersi debolmente nelle spalle e mormorare qualcosa mentre si avvicinava alla sua amatissima macchina del caffè:
“Beh, tanto meglio. Ce n’è più per me.”


Ritrovatosi solo fuori dalla porta Carter s’incamminò sbuffando nervosamente verso il proprio appartamento, ma era a malapena a metà strada quando alcune delle parole di Niki tornarono ad echeggiare nella sua mente, rendendosi conto che forse, per una volta, la sua vicina si era fatta sfuggire un dettaglio di troppo: aveva detto di essere tornata da appena un anno. Ma viveva all’Arconia soltanto da marzo.

 
*

 
Sua sorella maggiore lo aveva costretto ad una snervante attesa prima di degnarsi di rispondere al telefono: Mathieu, tra le cui qualità non si potevano annoverare cospicue dosi di pazienza, l’aveva richiamata per ben due volte, e mentre stringeva il telefono nell’incavo tra spalla e testa avendo le mani impegnate si era presto detto che dopo quel tentativo avrebbe lasciato perdere, poco entusiasta all’idea di perdere interi minuti del suo prezioso tempo appresso a degli squilli solitari.
Fortunatamente al terzo tentativo – e dopo ben cinque squilli a vuoto – qualcuno rispose, e subito l’allegra voce di sua sorella lo raggiunse, evidentemente per nulla preoccupata all’idea di essersi fatta attendere così tanto:
Salut, petit prince!”
Il saluto volutamente canzonatorio di sua sorella maggiore, che si premurò di accompagnare le sue parole con una risatina, non sorprese affatto Mathieu, ormai avvezzo alle sue prese in giro, ma il mago strinse comunque le labbra in una smorfia e si corrucciò un poco mentre scuoteva debolmente il capo, gli occhi chiari puntati senza sosta sui coltelli che teneva in mano mentre Prune, in un angolo della cucina, lo guardava sconsolato chiedendosi quando avrebbe potuto avere un biscottino per il suo essere un così bravo cane.
Maman ne m’a pas appelé comme ça depuis au moins un million d’années, Lalie.” [La mamma non mi chiama così da almeno un milione di anni, Lalie]
Ed era vero, a voler ben vedere: sua madre aveva abbandonato quell’affettuoso, tenero nomignolo da bambino viziato quando era molto piccolo, non appena Jeannine aveva capito di non aver affatto dato alla luce un tenero angioletto, benchè l’aspetto del piccolo di casa avesse sempre tratto in inganno chiunque avesse posato gli occhi su quell’adorabile visino e i lisci capelli biondi come il grano che lo contornavano.
“Tu as raison, j’oublie toujours.”  [Hai ragione, me lo scordo sempre]
Era davvero difficile credere che sua sorella se lo scordasse tanto di frequente, ma Mathieu decise di lasciar perdere mentre Lalie si lasciava brevemente distrarre da una voce maschile che il fratello riconobbe facilmente come quella di suo marito, tornando a rivolgersi a lui un attimo dopo prendendo a parlare in inglese:
“Richard ti saluta.”
Merci, ricambia. Giusto in tempo per restare in tema dei motivi di amara delusione per nostra madre.”
Questa volta il turno di sghignazzare spettò al fratello minore, che come in un sogno ad occhi aperti sembrò quasi di rivivere il momento in cui Lalie aveva annunciato il suo essersi ignobilmente fidanzata con un “mago qualunque”, destando lo sgomento del padre e un inizio di isteria da parte della madre, che si era subito ritirata a fumare una sigaretta dietro l’altra per sfogare l’amara delusione, l’ennesima a cui i suoi figli sciagurati l’avevano sottoposta da che avevano iniziato a muovere i primi passi. Lui, al contrario, era rimasto seduto dov’era brindando allegro alla coppia, cercando di non ridersela troppo apertamente mentre il povero futuro sposo faceva di tutto per mimetizzarsi con la fodera broccata del divano.
Ad un occhio estraneo avrebbe anche potuto sembrare un atteggiamento orribile, ma inorridire i suoi snobbissimi genitori costituiva da sempre, per Mathieu, un’inestimabile fonte di divertimento.
“Come va, petit yankee?”
“Tecnicamente non sono uno yankee, ancora. Bene direi, a parte le cose strane che succedono ultimamente nel palazzo.”
Mentre riusciva a figurarsi mentalmente alla perfezione l’immagine di sua sorella che si sistemava più comodamente sul divano per starlo a sentire Mathieu aggrottò leggermente le sopracciglia bionde infilando al contempo i due coltelli al loro posto nella fodera dell’astuccio di cuoio srotolato sul ripiano di marmo dell’isola della cucina, prendendone altri due per ripetere il procedimento da capo e affilarli.
“Che intendi? Non sarà morto qualcun altro spero!”
Il tono di Lalie si fece improvvisamente urgente, e Mathieu riuscì a sentire l’eco della voce del cognato chiederle ansiosamente chi fosse morto (anche se, ipotizzava Mathieu, quando a lasciarli sarebbe stato nonno Ezdar, che detestava apertamente Richard e non perdeva mai l’occasione di vessarlo davanti a tutti, il povero cognato forse avrebbe tirato un sospiro di sollievo)
“No, no, sono gli altri. A volte ho la sensazione che siano tutti strani nei miei confronti, e non ho idea del perché!”
“Sarà una tua impressione, è che sei una persona molto riservata. Richard rilassati, non è morto nessuno!”
“Non è una mia impressione, ti dico che è così!”
“Povero petit prince, non sono caduti ai piedi del tuo fascino e allora ti sembra strano?”
Di nuovo Lalie ridacchiò, lieta di prendersi gioco di lui e adempiere così nel migliore dei modi al suo ruolo di sorella maggiore, ma prima che il fratello potesse ribattere irritato qualcuno suonò il campanello, spingendo Prune a drizzare le orecchie, scattare in piedi e correre a nascondersi dietro al divano. Mathieu chiese quindi alla sorella di aspettare e uscì a sua volta dalla cucina per avviarsi verso l’ingresso, riuscendo chiaramente a scorgere Prune semi-nascosto da uno dei divani color crema – era troppo imponente per nascondersi del tutto, ma non ne aveva idea – prima di aprire la porta senza chiedere al suo visitatore di identificarsi.
Quando spalancò l’anta della porta Mathieu si ritrovò davanti ad Eileen con ancora in mano il bicchiere di caffè donatale da Orion. La strega che sembrò sul punto di salutarlo e dirgli qualcosa, ma prima che ne avesse il tempo i suoi occhi eterocromi indugiarono sul coltello che il canadese teneva in mano, nonché sul grembiule bianco coperto da macchie cremisi che si era allacciato attorno alla vita.
Trascorsero un paio di brevissimi istanti di scambi di sguardi, durante i quali Eileen guardò prima Mathieu, poi il grembiule macchiato, infine il coltello; Mathieu al contrario chinò lo sguardo dal viso della vicina fino al suo grembiule, dicendosi quanto fosse stato poco educato da parte sua presentarsi in quelle condizioni poco consone, ma prima di poter dire qualsiasi cosa Eileen, deglutita a fatica un po’ di saliva, indietreggiò di un passo. E poi di un altro ancora, prima di dire qualcosa talmente alla svelta da quasi impedirgli di decifrare le sue parole:
Dovevo chiederti una cosa, ma te la scrivo dopo, scusa il disturbo, ciao!”
“Ma veramente…”
Troppo tardi, prima che Mathieu potesse invitarla a parlare e ad assicurarle che non lo aveva disturbato Eileen si era già volatilizzata nel nulla, sparita dietro la porta che conduceva alle spalle senza nemmeno aspettare l’arrivo dell’ascensore. Rimasto solo Mathieu, sempre più confuso, si guardò brevemente attorno nel corridoio deserto prima di scuotere il capo e chiudersi la porta di casa alle spalle, sospirando mentre condivideva con la sorella la sua cocente amarezza:
“Lo vedi! Non è una mia impressione! Cos’ho che non va?!”
 
 
Che spavento si era presa quando Mathieu le aveva aperto la porta! Se non altro, per una volta il suo ostinarsi ad andare a correre spesso le era tornato utile, si disse Eileen mentre le porte dorate dell’ascensore si aprivano, rivelandole il familiare pianerottolo del sesto piano, quello dove abitava da ormai due anni. L’informatica, tuttavia, invece di raggiungere come al solito il suo appartamento puntò verso la porta del 6A, essendosi proposta, dopo aver parlato con Piper in ascensore, di avvisare personalmente alcuni dei loro vicini per suo conto dell’invito inoltrato da Jackson per recarsi tutti insieme allo zoo per un’esclusiva visita notturna.
Eileen si diresse quindi in tutta calma verso la porta dell’appartamento di Moos, rilassata e certa che nessuna sorpresa spiacevole avrebbe potuto coglierla, visto e considerato che il vicino sembrava la persona più gentile e di buon cuore del mondo. La spagnola bussò, aspettando pazientemente che il vicino aprisse, ma quando la porta venne spalancata si ritrovò nuovamente ad inorridire: Moos sfoggiava il sorriso più gentile e rassicurante del mondo, ma lo stesso non si poteva dire del coltello che teneva in mano, lungo quanto il suo avambraccio.
“Ciao Eileen! Ti serve qualcosa?”
Madre de Dios, ma che avete tutti oggi?!”
Alla vista del coltello affilatissimo brandito dal vicino come se nulla fosse Eileen impallidì – impresa difficile, visto e considerato il suo incarnato latteo –, chiedendosi che cosa stesse prendendo a tutti i suoi vicini di casa: cercare di indagare sulla morte di un altro vicino era un conto, ma forse la situazione stava leggermente sfuggendo di mano. Rapida la spagnola girò sui tacchi e di nuovo corse via, fuggendo verso il proprio appartamento mentre Moos, inizialmente stranito dalla bizzarra reazione della vicina, guardava accigliato la sua schiena allontanarsi sempre di più prima di posare lo sguardo sul suo coltello. Compreso il motivo del raccapriccio esternato da Eileen subito il mago strabuzzò inorridito i grandi occhi scuri, dandosi mentalmente dell’idiota per aver aperto la porta dimenticandosi di posarlo mentre tornava a rivolgersi alla strega con un accenno di disperazione nella voce:
“No, non è come pensi, giuro, li stavo solo affilando per cucinare la tagliata! Eileen, aspetta!”
Fece per uscire di casa e seguirla, ma poi si disse che inseguire una vicina brandendo una lama di 25 centimetri poche settimane dopo la morte di un altro condomino non sarebbe stata un’idea brillante, così Moos si costrinse a tornare di corsa in casa, lasciare il coltello sul tavolo della cucina e poi seguirla, attaccandosi al campanello di Eileen pregandola di ascoltarlo e di non farsi strane idee sul suo conto. La stava implorando di aprire la porta, giurando di essere disarmato e del tutto privo di cattive intenzioni – e pensare che lo prendevano tutti in giro da sempre per il suo essere anche fin troppo buono, sia che avesse a che fare con altre persone, animali o piante, che beffa! – quando qualcosa in ciò che aveva sentito pronunciare da Eileen lo incuriosì, portandolo a smettere momentaneamente di bussare alla porta per rifletterci su, le sopracciglia improvvisamente aggrottate mentre una domanda si faceva rapidamente strada nella sua mente:
“Aspetta, ma chi altro hai visto con un coltello in mano?!”
“Non te lo dico, e se poi pensa che ho fatto la spia e se la prende con me?! Dovevo starmene a casa a nerdare al PC con un caffè vicino, lo sapevo!”
Eileen, in piedi dall’altra parte della porta, gemette sommessamente mentre si passava una mano sul viso, maledicendo il suo pessimo tempismo mentre quasi riusciva ad immaginare l’entusiasmo che Leena al contrario avrebbe manifestato una volta appreso il suo racconto.
Ma io volevo solo preparare la tagliata! Puoi chiedere a Naomi, stamattina le ho chiesto la ricetta!”

 
*

 
Sulla West 86th Street era già calato il buio quando Naomi era uscita per una passeggiata in compagnia di Sundance e Gabriel. I tre stavano costeggiando gli alti confini recintati della zona di Central Park su cui si affacciava l’Upper West Side quando lo schermo del telefono della strega si illuminò a causa di una notifica, ossia un messaggio che la sorprese non poco: Naomi sollevò leggermente il telefono verso il proprio viso, lasciando che la luce fredda glielo illuminasse parzialmente, aggrottando le sopracciglia mentre leggeva le poche parole che Eileen le aveva scritto:
“Eileen mi chiede… se stamani Moos mi ha chiesto la ricetta per la tagliata? Che strano. Cosa vorrà dire?”
Gabriel, udite le parole dell’amica, smise di osservare il Golden Retriever che teneva saldamente al guinzaglio per guardarla stranito, un sopracciglio inarcato, chiedendosi in cuor suo per quale motivo tutti stessero diventando sempre più bizzarri, nel loro palazzo, di pari passo con lo scorrere nel tempo: quando si era trasferito all’Arconia, due anni prima, quel lussuoso condominio non gli era sembrato poi questo gran agglomerato di maghi e streghe strambi.
“Magari vuole… chiedertela anche lei?”
“Non ne ho idea.”  La fronte di Naomi si corrugò ancora di più mentre la strega si affrettava a rispondere alla vicina, appuntandosi mentalmente di chiedere spiegazioni a Moos una volta rientrata nel palazzo. Dopo aver riposto il telefono nella tasca della giacca la strega tornò invece a rivolgersi all’amico, accennando un sorriso con gli angoli delle labbra mentre Sundance li precedeva trotterellando allegro sul marciapiede:
“Ci vieni allo zoo, dopo?”
“Certo che sì, quando ci andavo da piccolo con mia sorella e le mie madri sognavo una visita tutta per me, senza quella fastidiosissima calca perenne e tutti quei bambini urlanti. Damita morirà d’invidia.”
“E certo, perché tu invece sei nato già adulto.”
Naomi annuì, sforzandosi di apparire seria finchè Gabriel non la colpì con una leggera gomitata, destandole un sorrisino divertito sulle labbra: ogni tanto si sentiva un filino in colpa per aver eletto Gabriel come vittima designata delle sue taglienti battutine, ma quando passava ore ed ore di cinque giorni alla settimana calata nel ruolo di serissimo avvocato doveva pur consentire al suo umorismo di palesarsi in qualche modo, almeno una volta terminato l’orario lavorativo.
“Di sicuro se avessi preso a schiamazzare in un luogo pubblico Jazmin mi avrebbe preso per un orecchio fino a farmi smettere. Non per niente la rispettano persino le gang del quartiere.”
A Gabriel quasi scappò da ridere al ricordo di quando, qualche mese prima, degli schiamazzi avevano disturbato una cena di famiglia in corso e sua madre, apparentemente incurante di vivere in una zona non proprio sicurissima, era uscita sbraitando ai colpevoli di levarsi dai piedi e di andare a pestarsi e comportarsi da idioti incivili da un’altra parte, pena “andare a riferirlo alle loro madri”. Gabriel era piuttosto sicuro di non aver più rivisto traccia di quei ragazzi durante nessuna delle cene successive.
“Tua madre è fenomenale, la adoro. Vorrei che la mia somigliasse di più alle tue, lei è sempre così rigida e distaccata… Si cala meglio nel ruolo di storica e direttrice di un Museo che di madre.”
“Beh, ammetto che Mirasol è molto affettuosa, al contrario di tua madre. E anche Jazmin, ovviamente, anche se quando io e Damita eravamo piccoli spesso fungeva da poliziotto cattivo… Ma penso che sia solo il risultato di come lei per prima è stata cresciuta, nient’altro, è ovvio che vi voglia bene.”
“Immagino di sì. Solo, ce ne vorrebbe ancora di più se fossimo esattamente come si era immaginata che diventassimo. E non parlo solo di Rory e del carcere, non vuole nemmeno sentir parlare del mio lavoro perché non lo ritiene “abbastanza di prestigio” per il cognome che porto. Non litighiamo ad ogni mia visita solo perché litigare per lei è di cattivo gusto, quindi si fa finta do nulla e si mangia una portata dietro l’altra con la faccia di bronzo.”
Naomi scosse la testa, profondamente amareggiata e un tantino invidiosa nei confronti dell’amico e, soprattutto, della sua famiglia tanto calorosa. Sua madre Arabella, al contrario, dispensava abbracci con il contagocce, comportandosi quasi come se si trovasse al lavoro anche all’interno delle mura domestiche: il confine tra la madre e la direttrice ed erede del più grande Museo magico del continente americano si faceva, a volte, talmente nebuloso da diventare intangibile.
“Wow. Non riesco ad immaginare la mia famiglia senza discussioni. A casa volavano pantofole un giorno sì e l’altro pure.”
“Davvero? Tu che eri un bambino così perfetto? Roba da non credere. Dovrei proprio chiedere a Damita qualche aneddoto imbarazzante sulla tua infanzia.”
Sua sorella Damita, così come anche le loro madri, era una terribile pettegola, ragion per cui le parole e il sorrisino malizioso che fece capolino sul viso di Naomi allarmò non poco il tatuatore. A dire il vero anche Gabriel era un gran pettegolo, pur riuscendo con grande maestria a nascondere il vizio di spettegolare dietro ad un’apparente facciata di riservatezza, ma rispetto al spettegolare sugli altri lasciare che sua sorella e la sua amica lo facessero alle sue spalle era tutta un’altra cosa: dovette subito correre ai ripari.
“Se non lo fai, in cambio ti racconterò i gossip del lavoro delle ultime settimane. È pazzesco le cose che la gente che vive qui si mette a raccontare al proprio tatuatore! Tutto a un tratto capisco come si sentono le parrucchiere.”
“Umh, ok, dimmi quello che sai e poi deciderò se i tuoi gossip sono abbastanza interessanti da valere delle storielle imbarazzanti su di te.”
Naomi fece spallucce simulando la massima disinvoltura prima di elargire un enorme sorriso affettuoso a Sundance, che si era fermato e voltato verso la padrona per una razione di coccole che, come sempre, non tardò ad arrivare. Gabriel, fermo a sua volta stringendo il guinzaglio, annuì serio inarcando un sopracciglio e guardando l’amica con disapprovazione, quasi rimproverandola per aver osato dubitare delle informazioni di cui disponeva:
“Certo che sono abbastanza interessanti! Una donna mi ha detto che sua sorella è l’amante di un Rockefeller. Quella che gira con la Porsche nera. Sarà un regalo.”
“Nooo! E pensare che una volta non si è fermata sulle strisce mentre passavo con Sundance e l’ho persino insultata… Beh, pazienza, che i Rockefeller mi odino pure.”
 

 
*

 
Bronx Zoo
10 pm

 
Jackson non si curò di reprimere uno sbadiglio mentre aspettava, fermo davanti all’ingresso dello zoo, che il suo bizzarro branco di vicini si facesse vivo con una giacca color cuoio infilata sopra alla divisa verde da veterinario. Tecnicamente il suo turno era appena finito, e tecnicamente in quel momento avrebbe dovuto essere ben felice di Smaterializzarsi nei pressi dell’Arconia, e invece stava lì, a patire i primi accenni di freddo della stagione, in attesa: aveva promesso spesso a Piper una visita privata, e quando lei, quel pomeriggio, gli aveva chiesto il permesso di raggiungerlo allo zoo alla fine del suo turno accennando velatamente a quanto sarebbe stato carino coinvolgere anche i loro vicini, Jackie non se l’era sentita di rifiutarsi.
In fondo erano tutte persone adulte che non avrebbero potuto infliggere particolari danni allo zoo, giusto? Non certo più degli animali e delle Creature che l’enorme struttura del Bronx ospitava.
Jackson stava iniziando ad avere sinceramente freddo e a pentirsi di aver deciso di aspettare i vicini all’esterno quando finalmente li vide spuntare all’angolo della strada, appurando con sollievo di come non avessero deciso di Materializzarsi esattamente di fronte allo zoo e rischiare così di essere visti da qualche No-Mag. Fu con leggero stupore che Jackson appurò di vederli tutti e per di più puntuali, ma ciò che più destò lo sconcerto del veterinario fu senza alcun dubbio scorgere Piper indossare delle scarpe basse. In effetti, vedendola vicina agli altri le era sembrata più bassa del solito, in un primo momento.
“Eccovi finalmente. Venite, vi faccio fare la scorciatoia per tagliare un po’ di strada. E cercate di non perdervi, questo posto è enorme! Piper, sono felice di appurare che per una volta hai preso la saggia decisione di rinunciare ai tacchi.”
Mentre Carter, Mathieu, Kei, Esteban e Orion – che aveva un caffè in mano? Possibile? A quell’ora? Ma ormai quasi non si stupiva più – lo superavano Jackson indugiò sul posto per dare modo all’amica ed ex compagna di Casa di raggiungerlo, distendendo le labbra carnose in un sorriso mentre le porgeva un braccio per permetterle di aggrapparvisi come facevano sempre. Era un’abitudine che si era radicata proprio a causa della mania della modella di indossare i tacchi, ma Jackson ci era così abituato, a farle da appoggio, che non se ne curò e glielo lasciò fare comunque. Anche Piper sorrise mentre accennava soddisfatta ai propri piedi – fasciati dalle sneakers più fucsia e sgargianti che Jackie avesse mai visto, tanto da appuntarsi mentalmente di guardarle il meno possibile –, allacciando il braccio destro a quello sinistro dell’amico mentre già sognava i cuccioli di pantera appena arrivati allo zoo che Jackson le aveva promesso di mostrarle.
“Sì, sai, mi sono detta che in fin dei conti sarebbe stato abbastanza improbabile incontrare l’amore della mia vita in uno zoo dopo l’orario di chiusura, quindi ho deciso di stare comoda.”
“Sempre che tu non finisca con l’innamorarti di una zebra o di un Erumpent, hai perfettamente ragione.”
 
 
“Allora, qui intorno ci sono ovviamente tutti gli animali, se volete vedere le Creature dovete attraversare quel muro… Non servono incantesimi, passateci attraverso e basta.”
All’improvviso Jackson sapeva come si sentivano le guide dello zoo che si accingevano a star dietro a nutriti gruppi di bambini, mentre parlava indicando vistosamente la parete di mattoni diversi metri più in là alla sua sinistra, dopo le gabbie dei panda rossi e delle capre tibetane. I suoi vicini non sembravano troppo contenti della sua malafede nei loro confronti, ma non si poteva mai sapere.
“Come a King’s Cross!”
Leena, in piedi in fondo al gruppo accanto ad Eileen, trillò entusiasta al trovarsi di fronte a qualcosa di familiare per la seconda volta nell’arco della giornata, ma quando tutti volsero accigliati lo sguardo su di lei, come a chiederle di che cosa stesse parlando, finì col rabbuiarsi borbottando ai vicini di lasciar perdere. Nessuno che la capisse, roba da matti. Ma quanto ci metteva Jaden a salire su un aereo per andarla a trovare? Come poteva vivere la sua vita senza la sua preziosissima, inestimabile presenza?
Il flusso di pensieri della britannica si interruppe quando si accorse che Eileen stava osservando Mathieu con aria dubbiosa e preoccupata, un sopracciglio inarcato e la fronte aggrottata, e fiutando informazioni interessanti non tardò a chiedere all’amica se non avesse delle novità di cui parlarle.
“Dopo.”
Il basso mormorio, che Eileen pronunciò muovendo a stento le labbra, entusiasmò tantissimo Leena, che sorrise allegra e subito dimenticò lo sconforto di poco prima:
Non vedo l’ora!”
“Ho chiesto il permesso di restare per un’ora e di portare gente, quindi alle 11 vi voglio tutti all’entrata dove ci siamo visti prima, ok?”
“Dai Jackie, basta col discorsetto da maestro di prima elementare, voglio vedere i cuccioli di pantera!”
Piper, in piedi accanto all’amico, sbuffò rumorosamente mentre gli strattonava leggermente il braccio, cercando di convincerlo ad indicarle la strada per il motivo della sua visita, ovvero le gabbie dei felini. Udite le parole della strega Leena si dimenticò momentaneamente di ciò ce Eileen avrebbe dovuto dirle, sgranando meravigliata gli occhi prima di voltarsi verso la spagnola a prenderla a sua volta per un braccio:
“Cuccioli di pantera? Eileen, vieni, seguiamoli, me lo racconti davanti ai cuccioli.”
“Ma io veramente volevo vedere le caprette tibetane… Va bene, non spingere, ti seguo!”
 
“Non si capisce niente su questa cartina, non capisco dove siano il Wampus e il Tuonoalato…”
Carter detestava le cartine con tutto se stesso, e stropicciò nervosamente la propria, cercando di capire in quale zona dello zoo riservata alle Creature fossero gli animali che avevano dato i nomi a due delle Case di Ilvermorny – non ne aveva mai visti dal vivo in vita sua e voleva porre rimedio a quello scempio al più presto – mentre Mathieu, in piedi accanto a lui, smetteva di osservare il gruppo di quattro fenici che stava studiando di rimando i visitatori dai trespoli disseminati nella loro enorme gabbia per scoccargli un’occhiata stranita:
“Ma se Jackie ci ha dato quelle per i bambini?!”
“Trovalo tu allora, Magellano.”
Spazientito, Carter mollò la cartina in mano all’amico e si mise in attesa incrociando le braccia al petto, sfidandolo a cavarsela meglio di lui, ma a Mathieu bastò una rapidissima occhiata per ruotare la cartina e indicare un punto dalla parte opposta dello zoo rispetto a dove si trovavano.
“Qui. Era storta. Andiamo.”
Mathieu si incamminò senza controllare che Carter lo stesse seguendo o meno, e all’ex Tuonoalato non restò che seguirlo chiedendosi sgomento come avesse fatto ad orientarsi così in fretta.
 
I due avevano appena svoltato l’angolo, mentre Naomi trillava intenerita davanti alla teca delle Salamandre, pigolando a Moos e a Gabriel di volerne una da portare a casa con sè, quando Eileen e Leena attraversarono il muro incantato e raggiunsero i vicini nella parte dello zoo che ospitava le Creature, la prima con le mani in tasca e lo sguardo che vagava rapito sulle gabbie e la seconda con il capo chino sulla cartina che aveva in mano:
“Eccoci finalmente, abbiamo visto tutti i felini che c’erano… Ora cerchiamo l’Unicorno, è da quando ero ad Hogwarts che non ne vedo uno.”
“Ottima idea, così dopo vorrai portarti a casa anche quello…”
“Che colpa ne ho se sono tutti così carini, questi animali! Per fortuna mi sono coperta la visuale davanti ai panda rossi, o starei aprendo la teca con la magia per prenderne uno.”
Leena ed Eileen avevano appena varcato il muro quando Jackson, Piper, Orion, Kei, Esteban e Niki le seguirono, i primi due in testa rispetto agli altri tre mentre Jackson rimproverava affettuosamente l’amica, ancora stretta al suo braccio e una smorfia sul viso: erano passati davanti alla gabbia dei coccodrilli, animali che le avevano sempre fatto schifo, e la strega aveva malauguratamente fatto la conoscenza dell’esemplare che aveva quasi cavato una mano al suo migliore amico qualche anno prima.
“Piper, te lo ripeto, non puoi affatturare il coccodrillo che mi ha quasi amputato la mano!”
“I coccodrilli sono orribili, e quello stronzo in particolare, sono sicura che nessuno si sarebbe lamentato!”
Orion, dietro di loro, si stava invece lamentando per aver perso ben dieci preziosi minuti dei sessanta che avevano a disposizione davanti alla gabbia di un gruppo di minuscoli scoiattolini beige, mentre Niki superava lui, Kei ed Esteban per andare a sedersi sulla panchina più vicina, davanti ad un’enorme recinto completamente vuoto:
“Non capisco perché siamo stati dieci minuti davanti alla gabbia dello Scoiattolo Volante del Giappone, ok che è varino, ma io voglio vedere le Creature!”
“Perché non è carino, è bellissimo. E soprattutto perché tu ci hai messo un’eternità per vederlo.”
Kei, offeso per lo scarso riconoscimento attribuito ad uno dei suoi animali preferiti in assoluto, dispiegò la cartina che teneva in mano per cercare la gabbia del celebre Unicorno dello zoo e riuscire finalmente a vederne un esemplare dal vivo mentre Orion, sbuffando, liquidava il discorso con un gesto pigro della mano:
“Che colpa ne ho se si mimetizza, scusa?! Esteban, tu li avevi visti?”
“Beh, in effetti sì.”
Dettagli. Ehy…”
All’improvviso l’attenzione di Orion venne catturata da quello che, agli occhi degli altri, non era altro che un recinto lasciato misteriosamente vuoto, senza ospiti, proprio tra la teca delle Salamandre e quella che ospitava un paio di esemplari di orribili volatili dotati di zanne d’acciaio che, stando alla targa, si chiamano “Alastridenti” e che poco prima non avevano fatto altro che acuire la fobia per i volatili di Naomi, alla cui vista era quasi impallidita. Orion accennò un sorriso con le labbra mentre si staccava da Kei ed Esteban per raggiungere i limitari del recinto, osservando ammirato il cavallo alato a lui più vicino:
“Ci sono i Thestral, non lo sapevo! Che belli.”
Non era la prima volta in cui gli capitava di vederne uno, ma Orion sorrise comunque mentre osservava l’imponente cavallo alato nero che aveva davanti, rimpiangendo la presenza degli incantesimi di protezione che gli impedivano di levare una mano e accarezzargli la testa da rettile.
Passato qualche breve istante, percependo il silenzio teso che si era andato a creare a seguito delle sue parole Orion si voltò, e il sorriso gli svanì dal volto per lasciare posto ad un’espressione di pura sorpresa mentre spostava lo sguardi sui vicini che lo circondavano, tutti con gli occhi puntati nervosamente su di lui.
“Oh, non li vede nessun’altro?”
Nessuno gli rispose apertamente, ma a giudicare da come gli altri lo guardavano, a parte Kei, che già conosceva tutta la storia, intuì di essere l’unico. Lo guardavano con quella specie di compatimento che ormai conosceva da buona parte della sua vita, e  Naomi in particolare, in piedi tra Moos e Gabriel, lo guardò con tanto dispiacere che per un istante Orion pensò che la strega fosse sul punto di raggiungerlo e abbracciarlo.
Il fatto di essere l’unico un po’ lo sorprese, ma in fondo, si disse Orion, era meglio così, e ben presto ritrovò il suo solito sorriso, deciso a far sparire ogni traccia di disagio dai volti dei suoi vicini: non voleva di certo rovinare la visita o guastare l’atmosfera per nessuno.
“Oh, beh, tanto meglio così.”
 
*
 

 
Niki, desiderosa di avere un po’ di quiete e poco interessata a completare il giro per ammirare tutte le Creature ospiti dello Zoo – per quanto potesse lei stessa essere un’amante degli animali, alcune le sembravano veramente orrende –, si era presto seduta su una delle panchine di legno disseminate lungo il percorso segnato da stradine recintate e cartelli che stavano a segnalare le diverse zone. Davanti a lei c’era un enorme recinto che ospitava quelli che senza dubbio rappresentavano alcuni degli ospiti più peculiari dello zoo intero, ma gli occhi verdi della strega restavano fissi imperterriti sulle pagine del libro che aveva aperto sulle ginocchia, sfogliando lentamente una pagina dopo l’altra mentre i versi emessi dalle Creature che le stavano attorno le facevano visita di tanto in tanto, alcuni risultando più vicini e altri più lontani.
Era quasi giunta a metà di “Il lungo addio(3), quando alzò quasi per caso gli occhi sul recinto che le stava davanti, accorgendosi con leggero stupore di come uno degli animali sembrasse avere lo sguardo puntato dritto su di lei. Per una frazione di secondo Niki si sentì irrigidire, ma dopo essersi guardata brevemente attorno e aver appurato di essere sola nella porzione di zoo dove si era fermata – tutti erano andati a vedere l’Unicorno –, chiuse il libro, lo rimpicciolì con la magia per poterselo infilare in tasca e infine si alzò, avvicinandosi lentamente al recinto di legno.
La strega si fermò ad un metro dallo steccato, non sufficientemente alto da impedire agli animali di fuggire ma di certo, immaginò, protetto da degli incantesimi e incrociò istintivamente le braccia al petto mentre ricambiava lo sguardo del più strano paio d’occhi che si fosse mai trovata di fronte in tutta la sua vita: a fissarla erano dei bulbi oculari completamente bianchi, privi di iridi e pupille, occhi che non aveva mai visto prima e che, dovette ammetterlo, riuscirono ad inquietarla. Tutto, in effetti, nell’animale, aveva qualcosa di vagamente inquietante: le ali sembravano essere state strappate dal corpo di un pipistrello e ingrandite a dismisura per poi essere trapiantate sul garrese di quello che un tempo era stato un cavallo, ma che ormai era solo uno scheletro ricoperto da uno strato di pelle talmente sottile da consentire di contare le ossa sotto di essa. La testa non somigliava affatto a quella di un cavallo, si ritrovò a considerare Niki mentre il Thestral ricambiava il suo sguardo agitando leggermente il capo a destra e a sinistra facendo così muovere la criniera color pece e scalpitando con gli zoccolo posteriori. Sembrava più quella di un grosso, enorme serpente.
Fino a quel momento aveva visto un Thestral solo nei disegni dei libri di scuola, niente di più, e immaginava perché gran parte della comunità magica li evitasse. Eppure, pur l’aspetto singolare, il branco di cavalli alati neri e scheletrici che aveva di fronte le sembrava piuttosto tranquillo e pacifico: altri due, accortosi di lei, si stavano avvicinando scrutandola incuriositi, forse poco abituati ad essere visti dai visitatori dello zoo.
“Ciao.”
Gli angoli delle labbra di Niki si sollevarono in un sorriso appena percettibile e il Thestral che aveva davanti mosse la testa quasi per ricambiare il saluto, forse contento per la considerazione insolita. Le sarebbe piaciuto provare a toccare quella testa così insolita, ma non provò nemmeno a sollevare una mano, visto che tutte le gabbie e le recinzioni erano piene da calorosi inviti a non cercare di toccare le creature, se non si voleva finire spiacevolmente catapultati all’indietro di diversi metri da una barriera.
“Sapevo che li vedevi anche tu.”
Udire una voce alla sua destra la stupì, ma in fondo non particolarmente: le labbra di Niki abbozzarono di nuovo un sorriso, ma la strega non si voltò e non smise di osservare i Thestral, due dui quali si stavano contendendo delle bistecche crude, mentre qualcuno si fermava accanto a lei.
“Che cosa mi ha tradita?”
“Quando mi sono voltato dopo averli visti hai distolto lo sguardo una frazione di secondo troppo tardi. A differenza degli altri, sembrava che avessi gli occhi puntati verso una direzione precisa.”
Anche Orion sorrise mentre le gettava un’occhiata prima di prendere a studiare i cavalli alati a sua volta, le mani in tasca, abbastanza orgoglioso di averci visto giusto. E anche se era orribile pensare a cosa avesse affrontato chi, come lui, vedeva quegli animali, sapere di non essere l’unico aveva sempre anche un che di piacevolmente confortante: all’improvviso si sentì un po’ meno solo.
“Perché sono classificati come Creature pericolosissime? Non lo sembrano per niente.”
Guardando i cavalli alati che aveva davanti Niki si sentì scettica riguardo delle ben quattro X di pericolosità attribuite dal Ministero britannico a quei particolari animali originari delle loro terre, abbastanza sicura che lei, se privata di carboidrati per quarantotto ore, sarebbe potuta diventare molto più letale di quanto non lo fossero loro.
“Credo che siano solo pregiudizi. Sai, per quello che rappresentano.”
Orion si strinse lentamente nelle spalle mentre leggeva la targa che conteneva la descrizione di quella razza tanto evitata da quasi tutti i maghi e le streghe, dispiacendosi per la loro sorte mentre Niki, accanto a lui, annuiva senza riuscire a smettere di guardare un puledrino trotterellare allegro dietro alla mamma in cerca di attenzioni prima che un mormorio pensoso le scivolasse dalle labbra quasi senza che se ne rendesse conto:
“È la prima volta che li vedo.”
“Io li ho già visti. Una volta. Sono strani, ma in un certo senso belli, vero?”
“Credo di sì.”
“Il mio Patronus è un Thestral.”
Orion parlò abbozzando un sorriso mentre ruotava la testa in direzione di Niki, rendendosi conto solo in quel momento di essere alto esattamente quanto lei a giudicare da come i loro visi si trovavano alla medesima altezza. Avrebbe voluto chiedere che forma assumesse il suo, di Patronus, ma la smorfia contrita appena percettibile che le increspò le labbra lo costrinse a lasciar perdere.
“Credo sia la prima volta che mi capita di dire a qualcuno di vederli senza che mi si cerchi di chiedere chi e cosa ho visto.”
“Non ti chiederò chi hai visto. Se lo facessi poi mi sentirei in dovere di dirti chi ho visto io.”
Per la prima volta Niki ricambiò apertamente il suo sguardo, le braccia sempre strette al petto, e quando si ritrovò con i suoi occhi verdi dal taglio allungato puntati addosso Orion non poté far altro che annuire, comprensivo: nemmeno lui aveva mai molta voglia di affrontare l’argomento.
Per una manciata di secondi, un minuto che ad entrambi sembrò eterno, nessuno dei due disse altro, limitandosi ad osservare i Thestral perdendosi nel filo dei ricordi senza sognarsi di chiedere all’altro che cosa e a chi stessero pensando: non li riguardava. Fu Orion, infine, a non tollerare più il silenzio e soprattutto il peso dei ricordi e dei fantasmi che quegli animali rievocavano in lui, finendo col voltarsi in direzione della vicina per accennare un sorriso gentile:
“Caffè?”
Anche Niki si voltò per ricambiare il suo sguardo, e mentre la guardava annuire per un istante ad Orion sembrò di scorgere l’ombra di un accenno di sorriso grato sul suo volto:
“Caffè.”
Era considerevolmente tardi per un caffè, ma in fondo vivere nella città che non dormiva mai doveva pur avercelo, qualche vantaggio, si ritrovò a considerare Niki mentre lei e Orion si allontanavano dal recinto camminando fianco a fianco, entrambi con le mani in tasca e la mente altrove, di nuovo in completo silenzio, ma quando allontanandosi scorse, con la coda dell’occhio, Orion voltarsi una prima e poi una seconda volta in direzione dei Thestral sollevò la testa per guardarlo e dirgli qualcosa con tono fermo ma allo stesso tempo pregno di una sorta di inusuale delicatezza:
“Smettila di voltarti.”
“Perché?”
“Perché se stai troppo a guardarla rischi che la morte non ti lasci più andare.”





 
 
(1): Personaggio del film “Sunset Boulevard
(2): Il film che Niki e Leena guardano è “Suspicion” di Alfred Hitchcock
(3): Romanzo di Raymond Chandler del 1953
 
 
 
 
…………………………………………………………………………………………..
Angolo Autrice:
Buonasera a tutte! In leggero ritardo rispetto a quanto non avessi sperato di riuscire a pubblicare, ma finalmente eccomi qui con l’ennesimo capitolo mattone, temo che ormai per questa storia andrà sempre così. Ci tengo a precisare che la parte inerente al M.A.C.U.S.A. e alla Metropolvere più che altro è di mia invenzione, non avendo praticamente nessuna informazione canonica riguardo a questa istituzione mi sono dovuta ingegnare un po'.
E a quanto pare c’è un altro Animagus in questa storia (forse più di uno) a parte Gabriel, ma per avere la conferma su di chi si tratti temo dovrete aspettare ancora un po’, solo non date per scontato niente perché le cose non sono ovvie come potrebbero sembrare. In questo capitolo i protagonisti del primo paragrafo sono Esteban, Carter, Mathieu e Niki, rimangono Jackie, Piper, Kei, Eileen e Naomi, se volete ditemi tre nomi di questi.
Spero che questo capitolo super caffettoso (qualcuno di molto accorto ha capito che tutti i titoli sono storpiature dei titoli dei romanzi di Agatha Chrustie, questa volta invece ho scelto una piece tetrale scritta dalla Regina nel 1929) vi sia piaciuto.❤️
A presto e un abbraccio!
Signorina Granger
 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo 8 - Un messaggio dagli spiriti ***


Tornata all’Arconia dall’ufficio Eileen si era fermata davanti al bancone della portineria del palazzo per farsi consegnare da Lester i due pacchi che le erano stati recapitati nel corso della giornata e lì, armata delle sue stesse intenzioni, tacchi a spillo e unghie perfette color nude che tamburellavano sul ripiano immacolato del bancone, vi aveva trovato Naomi. Le due si erano subito salutate e poi erano tornate a sguazzare nella loro attesa, vissuta da Naomi con estrema impazienza a causa del cocente desiderio di fare ritorno nel suo appartamento, salutare Sundance e Dorothea e soprattutto infilarsi le pantofole.
“Spero che Lester faccia in fretta, sono a tanto così dal levarmi questi bellissimi strumenti di tortura e andarmene a casa a piedi scalzi…”
Naomi sospirò mentre spostava lentamente il peso corporeo da un piede all’altro cercando di non dare troppo nell’occhio, conscia di come sua zia sarebbe giunta all’Arconia dal Connecticut di corsa – ovviamente su dei tacchi – se avesse avuto notizia di quella sua imperdonabile mancanza di decoro in luogo pubblico, per di più dove più o meno tutti conoscevano almeno una delle due.
“Anche a me piacciono i tacchi, ma non so proprio come tu faccia a starci tutto il giorno. Lavori qui vicino, almeno?”
Eileen parlò battendo leggermente il tacco largo del suo stivaletto bordeaux sul pavimento di marmo dell’ingresso mentre osservava pensosa le bellissime quanto scomode scarpe della vicina, scontrandosi con orrore con il suo sorriso amareggiato quando tornò a focalizzarsi sul suo viso:
“No, magari. Ma almeno un viaggio al giorno lo faccio Smaterializzandomi, quindi non è poi così terribile... Solo, arrivo alla fine della giornata che non sento più le dita.”
Quasi come se le loro parole l’avessero evocato, l’inconfondibile rumore prodotto da un paio di tacchi a contatto con il pavimento avvolse l’ingresso fino a solleticare l’udito delle due streghe, che volsero istintivamente lo sguardo sulla porta a vetri facendo scontrare i propri sguardi con la figura sorridente e immancabilmente vestita in maniera variopinta di Piper, che quel giorno sfoggiava una lunga e lucida treccia di capelli neri annodata stretta a partire dalla nuca.
“Oh, ciao! Anche voi dovete prendere la posta? Non mi fido particolarmente di mia cugina, quindi preferisco che li tenga Lester.”
Senza contare che quel giorno doveva arrivarle uno stock di trucchi costosissimi e non voleva rischiare che Nia perdesse l’arrivo del pacco perché impegnata a farsi una delle sue eterne docce, o a studiare con le AirPods nelle orecchie. Piper si fermò accanto ad Eileen con un sorriso, appoggiandosi al bancone in cerca di un po’ di sostegno mentre lo sguardo della programmatrice scivolava, dubbioso, fino ai piedi della modella e ai suoi altissimi tacchi fucsia.
“Non ti fanno male i piedi, Piper?”
“Nah, non sento più le dita da quando avevo… sedici anni, credo. E poi mi servono per farmi prendere sul serio, sono abbastanza minuta.”
Piper si strinse debolmente nelle spalle e Naomi sospirò, annuendo prima di parlare con una sottile traccia di amarezza nella voce:
“Quanto ti capisco. È già dura essere una donna e fare il lavoro che faccio, circondata da uomini spesso e volentieri fermi al Medioevo, figuratevi se mi vedessero alta per come sono realmente… Probabilmente mi proporrebbero di fare la mascotte dello studio.”
Naomi evitò accuratamente di rivolgere lo sguardo sui volti delle vicine, non tenendo a scoprire se stessero ridendo o no di fronte al prendere forma di quell’immagine nelle loro menti, e scelse invece di riporre tutta la sua attenzione su Lester quando scorse, finalmente, il portiere raggiungerle portando con sé i suoi due pacchi:
“Eccomi signorine, scusate ma oggi è arrivata moltissima roba. Ecco a lei, Signorina Broussard.”
Lester rivolse un sorriso gentile a Naomi mentre appoggiava la posta sul bancone, e la strega non tardò a prenderli ricambiando il sorriso prima di rivolgersi alle due vicine: non vedeva l’ora di varcare la soglia del suo appartamento per scartare finalmente la sua nuova spazzola elettrica per la pulizia del viso che, stando all’affidabilissima opinione di Moos in materia, doveva essere ottima.
“Grazie Lester. Vi aspetto, così saliamo insieme.”
Mentre Eileen e Piper attendevano che la propria posta venisse loro recapitata lo sguardo di quest’ultima indugiò su ben due scatoloni voluminosi e dall’aria molto pesante, con la scritta “fragile” a fare capolino praticamente su ogni centimetro di superficie.
“Caspita, sembrano pensatissimi… Per chi sarà tutta quella roba?”
Da quella distanza leggere il nome sull’etichetta di spedizione le sarebbe risultato impossibile, ma quando un attimo dopo fece ritorno con la sua posta e quella di Eileen fu Lester a soddisfare la sua curiosità, rivolgendole il suo consueto sorriso paziente e garbato:
“Sono del Signor Levesque-Simard. Vi serve altro?”
Piper moriva dalla voglia di saperne di più, ma il suo buonsenso e la sua buona educazione la costrinsero a tacere e a sorridere, limitandosi a scuotere la testa mentre imbracciava il suo prezioso e tanto atteso pacco:
“No Lester, grazie.”
“Buona serata Lester!”
Anche Eileen rivolse un ultimo sorriso a Lester prima di dirigersi insieme alla vicina verso gli ascensori che le avrebbero condotte finalmente ai rispettivi appartamenti. L’unica ad attardarsi fu Naomi, che si premurò di far sapere al portiere che sua zia gli porgeva i suoi saluti e di chiedergli se gli fossero piaciuti i biscotti al burro d’arachidi che gli aveva preparato pochi giorni prima. Naturalmente, oltre a chiederle di ricambiare i saluti, la risposta di Lester fu affermativa, e Naomi poté salutarlo e seguire le due vicine con un sorrisetto compiaciuto stampato sulle labbra.

“Che cosa pensate che ci sia in quegli scatoloni? Giuro che di norma non sono così pettegola, ma la scritta “fragile” mi incuriosisce.”
“Sì, anche a me.”
Eileen, al contrario, non disse nulla e si limitò a fissare accigliata le porte dell’ascensore che andavano chiudendosi: stava ancora pensando a Mathieu che le apriva la porta con un coltello in mano e il grembiule sporco di un’equivocabilissima sostanza rossa. E di nuovo, quasi l’avesse evocato con la forza del pensiero, come accaduto poco prima con Piper Mathieu fece la sua apparizione: le porte dell’ascensore si stavano chiudendo quando il canadese infilò il piede sinistro nella fessura per tenerle aperte, inserendosi così nel campo visivo delle tre allibite streghe con i due scatoloni tra le braccia e un sorriso sulle labbra:
“Ciao ragazze.”
Mathieu entrò nell’ascensore insieme alla sua posta, sistemando gli scatoloni sul pavimento prima di premere il pulsante del suo piano. Le porte finalmente si chiusero e l’ascensore iniziò rapidamente la sua salita mentre Piper, dietro di lui, si rivolgeva alle due vicine con gli occhi scuri spalancati e indicandosi la giacca di pelle bianca che indossava: la strega disse qualcosa muovendo solo le labbra sotto gli sguardi accigliati di Eileen e Naomi, che la guardarono senza capire mentre Piper indicava prima Mathieu e poi si strattonava il bavero della giacca. Eileen rispose, sempre in labiale, di non aver capito e Naomi scosse la testa guardandola accigliata, ma tutte e tre si ricomposero e si affrettarono a guardarsi attorno con la massima nonchalance quando il diretto interessato si voltò, forse percependo qualcosa di strano nell’aria. A sentire Carter stava diventando paranoico, ma non era sicuro se dargli retta o meno.
Fu proprio voltandosi, tuttavia, che Mathieu consentì a Naomi e ad Eileen di capire a che cosa Piper avesse fatto riferimento con tanta enfasi poco prima, e quando il canadese tornò a rivolgersi alle porte chiuse dell’ascensore Eileen, dietro di lui, spalancò sgomenta i grandi occhi chiari mentre si rivolgeva alle due vicine mimando il gesto di spolverarsi il bavero della giacca. Piper annuì, sollevata che avessero finalmente capito, e Naomi aggrottò le sopracciglia mentre fissava assorta la schiena di Mathieu, totalmente incurante.
Eileen scese al sesto piano dopo aver salutato i vicini, indugiando davanti all’ascensore quando le porte si furono richiuse per continuare il tragitto verso i piani superiori prima di decidersi ad incamminarsi verso il proprio appartamento: di sicuro erano solo bizzarre coincidenze. E lei doveva per forza aver visto e letto troppi gialli o documentari true crime per colpa di Leena.
Piper e Naomi invece scesero insieme all’undicesimo piano, e dopo che lo ebbero salutato Mathieu ebbe l’impressione di scorgerle allontanarsi bisbigliando con aria concitata attraverso la fessura tra le porte dell’ascensore che andava chiudendosi. Fu solo quando ebbe a sua volta lasciato l’abitacolo insieme alla posta ed ebbe raggiunto la porta del suo appartamento, fermandosi davanti alla soglia per recuperare le chiavi, che Mathieu, chinando lo sguardo, si rese conto di avere il bavero della giacca sporco. Sbuffando infastidito il mago si affrettò a spolverare il costoso tessuto blu notte, cercando di liberarsi della sottile polvere bianca prima di aprire la porta di casa.
 
 
 
Capitolo 8
Un messaggio dagli spiriti
 
 

Il 13 settembre 2021 è stato senza alcun dubbio il giorno peggiore di tutta la mia vita. Immagino che trattandosi del giorno della mia morte la si possa considerare una constatazione banale, ma vi assicuro che non esagero: prima cercano di ammazzarmi con qualcosa che mi fa notoriamente schifo – uccidermi in maniera un po’ più delicata e compassionevole, no? Occorreva proprio rifilarmi un intruglio amarissimo che detesto? Spero che la mia povera mamma non lo scopra mai, lo troverebbe terribilmente ironico, visto quanto lei per prima detesti il caffè –, e poi, giusto per non farmi mancare nulla, solo qualche ora prima che riescano ad ammazzarmi sul serio ecco che mi ritrovo con un lancinante dolore alla testa e, con ogni probabilità, una ferita non indifferente.
A dire la verità non ricordo il momento esatto in cui mi hanno colpito perché, ovviamente, ho perso i sensi. Quando ho ripreso conoscenza ho aperto gli occhi lentamente e ci ho messo diversi istanti sia per mettere a fuoco quello che altro non era che il salotto di casa mia, sia per realizzare di essere stato legato e piazzato su una sedia. Poi, naturalmente, è arrivato il dolore: una fitta lancinante sul lato destro della testa, un bruciore che in quel punto non avevo mai provato prima. Avrei sollevato istintivamente una mano per tastarmi la testa e assicurarmi che non stessi sanguinando, ma guarda un po’, le corde che mi tenevano ancorato allo schienale della sedia mi impedirono di muovermi.
Non mi restò altra scelta, a quel punto, che concentrarmi sull’unica altra persona presente nella stanza, che stava in piedi davanti a me. Non serve che io sottolinei quanto la sedia dove mi aveva piazzato fosse scomoda, una di quelle bellissime quanto assolutamente poco confortevoli sedie di design nordico che mia madre aveva ben pensato di regalarmi un anno prima. Non saprò mai se prima di scegliere proprio una di quelle sedie l’avesse testata, giusto per assicurarsi di infliggermi tutto il dolore possibile.
In caso ve lo steste chiedendo no, la persona che mi ha colpito violentemente sull’uscio del mio stesso appartamento non è quella che mi ha portato il caffè avvelenato, e nemmeno quella che poco dopo avrebbe posto fine alla mia vita. La persona che avevo di fronte e che mi aveva legato ad una sedia dopo averla piazzata esattamente al centro del mio soggiorno, in modo che dessi le spalle alle enormi vetrate che si affacciavano su Central Park era una donna alta, bellissima e vestita di nero, ma devo ammettere che non mi sorpresi poi particolarmente.
“Senti, Niki, se sei incazzata per quello che è successo stamattina in ascensore posso anche capirlo, ma non ti sembra di esagerare un po’?”
Avrei voluto farle presente di come forse ultimamente stesse ascoltando troppi podcast True Crime, ma visto e considerato che quello seduto, legato e vulnerabile ero io mi guardai bene dal farla incazzare più di quanto già non fosse: Niki mi stava in piedi di fronte, e quando smise di guardare lo schermo del telefono per concentrarsi su di me, appurando di come avessi ripreso conoscenza, mi scrutò come penso nessuno abbia mai fatto in tutta la mia vita. Così furiosa che la rabbia, quasi, sembrava colarle dagli occhi verdi. Ma a conti fatti non credo di poterla biasimare.
No, non vi dirò chi mi ha ucciso, arrangiatevi, sono contento di sapere che quantomeno la mia dipartita desti curiosità. È sorprendente quanto a volte le persone vengano ricordate più da morte che da vive, ma io non penso di potermi lamentare: ho avuto una vita breve, ma sorvolando su quell’ultimo giorno è stata una gran bella vita.
In realtà ho pensato di non andare oltre, quando sono morto, di restare come fantasma per dare il tormento al responsabile. Sarebbe stato meraviglioso farlo vivere nel terrore costante di minacciare ciò che aveva fatto, lo avrei avuto in pugno per, beh, l’eternità. Ma mia madre merita più di questo. Spero che un giorno trovi pace, e che il ricordo che ha di me non venga intaccato eccessivamente.
Ancora non lo sapeva, ma Niki lo avrebbe rimpianto a lungo, il momento in cui si è presentata alla mia porta per colpirmi. Non perché non volesse farlo o perché io non lo meritassi, ma perché se non fosse stato per quei cinque minuti in cui ha perso la sua onnipresente lucidità ora non starebbero indagando sul mio omicidio, e il mio sarebbe sembrato un suicidio in piena regola. Credo che quel gesto sia stato molto più dannoso per lei di quanto non lo sia stato per me, a conti fatti.
A parte per il coltello nella mano sbagliata, certo. È snervante pensare a come il mio assassino abbia potuto commettere un errore così banale.
 

 
*
 
 
Sabato 2 ottobre
 

Leena Madison Zabini era certa di aver sentito parlare più volte dell’immediata consapevolezza di trovarsi di fronte ad un capolavoro in grado di colpire ogni lettore se effettivamente impegnato nella lettura di una grande opera. Allo stesso tempo Leena era assolutamente convinta di trovarsi al cospetto di un capolavoro mentre le sue dita lunghe e flessuose, piacevolmente affusolate alla vista, volavano sulla tastiera del suo computer digitando rapide una parola dopo l’altra per far prendere vita alle sue idee e alle sue elucubrazioni mentali; dopo aver messo un punto all’ultimo periodo impresso sulla pagina del documento Word aperto nella schermata la strega si prese qualche istante per rileggere ciò che aveva messo nero su bianco in Times New Roman nell’ultima manciata di minuti, e quasi si vide costretta ad allungare la mano destra verso la scatola di Kleenex sistemata nell’angolo della scrivania addossata alla parete tanto ciò che aveva prodotto la commosse. Non c’era che dire, quel pomeriggio si stava decisamente superando e i suoi fan di Mymagicff avrebbero di certo amato alla follia il suo nuovo capitolo!
Una volta cessato di autoelogiarsi mentalmente Leena si sgranchì le dita per rimettersi all’opera prima che l’ispirazione l’abbandonasse, e riprese a digitare sulla tastiera mentre i ferri da maglia, l’arma del sanguinoso delitto da lei personalmente orchestrato magistralmente, venivano analizzati in laboratorio sotto la supervisione di uno dei personaggi principali della sua opera, il Detective Doyle.
 
 
Tutto aveva avuto inizio 25 anni prima, quando Leena Madison Zabini aveva preso una ferra decisione: una mattina, iniziata apparentemente in maniera del tutto normale, si era alzata dal suo enorme letto a baldacchino da piccola principessa di casa, aveva fatto una ricca colazione guardando una puntata di Poirot commentandola insieme alla sua Elfa-Tata (chiaramente indovinare la soluzione per lei era stato uno scherzo e si era trovata d’accordo con il detective belga nelle sue consuete lamentele a proposito quello stolto di Hastings, che non avrebbe capito di trovarsi in un deserto nemmeno toccando la sabbia) e poi si era recata nel suo bagno per lavarsi i denti e il bel faccino gentilmente donatale dai bellissimi geni di una madre egiziana. E lì, davanti allo specchio, la piccola Leena aveva compreso quale fosse la sua vocazione: sua madre creava vestiti bellissimi, lei invece avrebbe creato fantastiche storie piene di assassini e detective intelligenti quanto lei! La sua idea filava una meraviglia, e la espose con gioia mentre la sua pazientissima Elfa l’aiutava ad infilarsi i vestiti, ma c’era un piccolo problema: per fare la scrittrice di gialli doveva prima studiare per bene, e quella sera stessa non tardò a chiedere dei libri nuovi ai suoi genitori.
Il mattino seguente la piccola aspirante scrittrice aveva aperto gli occhi certa di poter iniziare quel giorno stesso la sua carriera di discepola della Christie, ma quando era scesa al pian terreno per fare colazione orrore e sgomento si erano subito impossessati di lei: suo padre un libro glielo stava porgendo, ma non era affatto ciò che lei desiderava! Le fiabe di Beda il Bardo?! Le fiabe erano per i bambini, non per i piccoli scrittori!
Indignata e ferita nel suo orgoglio di aspirante autrice di sette anni Leena aveva preso il libro dalle mani del padre e ne aveva scrutato con astio la copertina rilegata celeste con il titolo impresso in caratteri dorati prima di scaraventarlo a casaccio in un angolo della sala da pranzo, piazzarsi le manine sui fianchi e tuonare a pieni polmoni tutt’a la sua frustrazione:
“Non voglio leggere questo ciarpame! Io voglio leggere Sir Doyle, Maurice Leblanc e la Regina!”
“La Regina ha scritto dei libri?!”
Sorvolando sullo sgomento dettato dalla reazione della figlia e dal suo uso del vocabolo “ciarpame”, di certo sconosciuto alla maggior parte dei suoi coetanei, suo padre si era voltato in direzione della moglie per gettarle un’occhiata stranita, chiedendosi come potesse essergli sfuggita una simile pubblicazione e soprattutto per quale motivo una bambina di sette anni volesse metterci sopra le mani.
“Penso che parli di Agatha Christie.”
Nadine, meno impressionata del marito dalla reazione della bambina, inarcò lievemente un sopracciglio perfettamente disegnato prima di gettare un’occhiata di sbieco alla sua unica figlia tenendo a mezz’aria una tazza di caffè nero fumante. Leena, felice di essere capita da almeno un membro della famiglia, subito annuì sospirando esasperata – era così difficile essere dei piccoli prodigi incompresi – prima di rivolgersi al padre con aria sostenuta:
“Certo! È ovvio! Tu non l’hai letta Papino?!” Leena lo guardò incrociando le braccine magre al petto e assottigliando pericolosamente i grandi occhi scuri, assumendo un’aria minacciosa che destò sudori freddi nel padre. Questi, già figurandosi l’unica figlia che usciva di casa per chiamare un taxi e sfrecciare in tribunale per chiedere legalmente di dissociarsi da lui, deglutì faticosamente prima di annuire con malcelato nervosismo, la salivazione improvvisamente azzerata: che cosa poteva saperne, lui, mago Purosangue membro di una famiglia antichissima e purissima, di scrittrici di gialli? Ma sua figlia non lo doveva sapere.
“No, certo, è ovvio che io abbia letto i suoi libri, che domande fai!”
“E allora li abbiamo a casa?!”
Disperato, Colm ruotò il capo di appena qualche centimetro per gettare un’occhiata di sbieco alla moglie, che per sua fortuna era a sua volta un’assidua lettrice di romanzi pieni zeppi di omicidi. Nadine dal canto suo non aprì bocca mentre spalmava della marmellata di fragole su una fetta biscottata già imburrata, limitandosi ad annuire con un cenno appena percettibile del capo mentre Leena scrutava torva e impaziente il padre.
“Naturale! Sono in biblioteca, tua madre te li darà.”
Colm si sforzò di sorridere come aveva imparato a fare quando capitava che la moglie gli mostrasse un vestito che non destava in lui alcun gradimento, pregando che quell’interrogatorio finisse in fretta mentre Leena, dopo averlo scrutato dubbiosa per qualche istante, decideva di credergli: la bambina finalmente sorrise, consentendo al padre di rilassarsi.
“Finalmente un trattamento adeguato! Non vedo l’ora di leggerli.”
La piccola aspirante scrittrice sedette allegra accanto al padre e si allacciò il tovagliolo sullo scollo della maglietta del pigiama per non rischiare di imbrattarla di marmellata, guardando la brocca del latte versargliene un po’ nella tazza mentre suo padre, ancora poco convinto, si rivolgeva a Nadine guardandola dubbioso:
“Ma Nadine, quei romanzi pieni di omicidi che io ovviamente ho letto e riletto decine di volte e che apprezzo terribilmente, saranno adatti ad una bambina di sette anni?!”
Nadine parve rifletterci su, pur consapevole che niente e nessuno avrebbe potuto impedire alla figlia di mettere le mani su quei romanzi, ma Leena la precedette prendendo la parola per prima, sgranando indignata i grandi occhi scuri mentre impugnava il cucchiaio come un’arma letale e guardava il padre gonfiando indispettita le piccole guance:
“Guarda che io non sono piccola, sono grande!”
Di nuovo la voce della bambina tuonò acuta riecheggiando tra le alte pareti dell’elegante sala da pranzo, e Colm si chiese perché quel giorno non ne stesse azzeccando una mentre l’Elfa accorreva per legare gli indomiti ricci della piccola principessa di casa, che era solita imbrattarli di latte e cacao nel fare colazione. Fu la dolcissima e paziente Creature a rassicurare Leena e a darle piena ragione, portandola ad annuire soddisfatta prima di gettare un’occhiata in tralice alle fette di pane che aspettavano di essere cosparse di burro e marmellata:
“Grazie. Però, anche se sono grande e prossima a fare la scrittrice, vorrei comunque che qualcuno mi imburrasse il pane.”
 
 
Trascorse un mese e Colm iniziò a preoccuparsi per la sua unica figlia, che ormai trascorreva gran parte del suo tempo seduta nella sua cameretta, o in biblioteca, davanti alla macchina da scrivere che aveva insistito per farsi regalare per il suo compleanno.
Una sera suo padre stava in piedi in silenzio sulla porta della camera di Leena, guardandola dargli le spalle e impegnata a digitare forsennatamente i tasti della macchina nera e verde con una pila considerevolmente alta di fogli di carta e un’abat-jour accesa sulla scrivania. Sulla parete davanti a lei Leena aveva incollato una foto della sua nuova idola, quella donna elegante con i capelli ondulati e un sorrisino beffardo sulle labbra che a Colm non piaceva affatto: sembrava che quella fantomatica scrittrice lo stesse bellamente sfottendo facendogli notare quanto fosse infinitamente più intelligente di lui, con quello sguardo così fine e arguto, ma di mettere in discussione la presenza di Agatha Christie nella camera della figlia non se lo sognava neanche. Sul comodino, rivolta verso di lei per “ispirarla” sostava invece la foto incorniciata di un tipo che sfoggiava assurdi baffi e un’aria snob, anch’egli a sentimento molto poco simpatico al padrone di casa. Quando aveva chiesto alla moglie chi fosse quell’uomo Nadine lo aveva guardato esasperata e come tentata di chiedergli il divorzio, tuonando stizzita contro l’ignoranza del marito. In quei momenti la somiglianza tra lei e la figlia si faceva più acuta che mai.
“È Sir Arthur Conan Doyle quello! Colm, ma sei inglese o fai finta?!”
“Che vuoi che ne sappia io, non leggo quella roba! Ma almeno è vivo?”
“No, è morto decenni fa.”
“E nostra figlia ha una foto di un uomo morto una vita fa in camera?!”
Colm trasalì ma la sua voce si ridusse ad un flebile sussurro mentre indicava sgomento la foto che sostava ormai da settimane sul comodino della figlia, guardando la moglie scuotere il capo e spalancare i grandi occhi scuri prima di parlare con un filo di voce a sua volta:
“Leena non lo sa che è morto!”
Colm stava per proporre di farlo sapere alla bambina, ma lo sguardo truce di Nadine lo fece rapidamente desistere: i due non menzionarono la morte di uno dei grandi idoli della figlia per almeno un anno, e in effetti la scoperta devastò Leena più della scoperta della verità su Babbo Natale.

 
 
Il Detective Doyle, che guarda caso era inglese e portava i baffi, si stava consultando con gli esperti della scientifica in merito alle analisi dei ferri da maglia (che chiaramente avrebbero indirizzato i sospetti sulla vecchia e bisbetica suocera della vittima, e Leena si compiacque di come progettava di trarre in inganno i suoi lettori) quando qualcosa distolse l’attenzione della strega dal suo computer: lo scroscio dell’acqua che scorreva dalla doccia in bagno, rumore a cui ben presto si unì una voce femminile che con ogni probabilità stava interloquendo vivacemente con qualcuno al telefono.
Uno sbuffo amareggiato e lievemente spazientito si destò in Leena insieme ad una sottile punta di fastidio che avrebbe finito con il crescere in maniera esponenziale, specie quando, pochi minuti dopo, qualcuno pensò bene di accendere anche la tv in salotto. Ormai del tutto incapace di continuare a concentrarsi sulla scrittura e per questo profondamente amareggiata Leena mise mano al suo telefono, che fino a quel momento era rimasto accanto a lei sulla scrivania capovolto verso il tavolo per impedirle di farsi distrarre dalle notifiche, e lesse rapidamente gli ultimi messaggi. Una particolare attenzione la britannica la rivolse alla bizzarra chat di gruppo all’interno della quale era recentemente entrata a far parte, e dopo aver letto rapidamente gli ultimi messaggi sorrise, trionfante, prima di alzarsi dalla sedia e raccogliere il suo fidato portatile. A volte si compiaceva persino più del solito di quanto acuta fosse la sua intelligenza.
 

 
*

 
Sua sorella Damita e sua cognata Ella avevano trascorso tutto il weekend nel Vermont, e Gabriel si era dunque ritrovato a fare lo zio-babysitter per due giorni consecutivi. Naturalmente quando Damita glielo aveva chiesto il tatuatore non aveva esitato neanche per un istante prima di rispondere affermativamente, visto e considerato quando amava i suoi nipoti, ma non dopo più di 24 ore in compagnia dei due bambini non poteva negare di sentirsi un tantino esausto.
Erano da poco scoccate le sei e a causa della fame perenne dei suoi nipoti a breve Gabriel avrebbe dovuto iniziare a preparare la cena – avrebbe fatto uno strappo alla sua dieta fortemente salutistica solo per quella sera e per amore di Declan e Chloe, avendogli infatti promesso gli spaghetti con le polpette –, ma per il momento il tatuatore sedeva su uno degli alti sgabelli della cucina accanto alla bambina, circondato da fogli, astucci, matite colorate, pennarelli, colla, forbici e le foglie ingiallite che avevano raccolto quel pomeriggio, quando avevano fatto una passeggiata a Central Park insieme a Naomi e a Sundance.
Mentre Declan guardava The Mandalorian in tv standosene spaparanzato sul divano Gabriel stava infatti aiutando la sorella maggiore a finire i compiti, nello specifico a realizzare un albero genealogico della loro famiglia. Sembrava una vera e propria ossessione, quella, per le maestre americane: non c’era bambino, negli States, che a sei anni non avesse raccolto delle foglie da un parco nei pressi di casa per realizzare quel disegno che sarebbe poi rimasto appeso alle pareti della classe fino alla fine dell’anno, ormai diventato una sorta di rito di passaggio. Persino Gabriel ricordava di averne realizzato uno con l’aiuto di sua madre, più di vent’anni prima, e mentre guardava Chloe colorare il tronco dell’enorme albero che aveva disegnato con una matita marrone ripensò a tutte le domande che si era ritrovato a porre, curioso, a Jazmin. Naturalmente quel giorno non ci aveva fatto caso ma a ripensarci Gabriel riusciva a ricordare l’evidente difficoltà della madre quando si era ritrovata a dover rispondere alle sue domande, e sorrise con amarezza nel realizzare quanto quel compito così semplice potesse rivelarsi difficoltoso, per non dire doloroso, per certe famiglie e certi genitori.
Quando Chloe ebbe finito di colorare il tronco incollò la propria foto alla base e al centro dell’enorme chioma che aveva disegnato e che presto sarebbe stata ricoperta dalle foglie degli olmi di Central Park, incollando poi quella del fratello minore vicino all’estremità del ramo che aveva origine dalla stessa biforcazione. Incollate anche quelle delle sue mamme Chloe prese quella dello zio, osservando accigliata il disegno compiuto a metà prima di volgere lo sguardo su di lui, dubbiosa:
“Zio, non so come collegare te e la mamma.”
“Devi mettere Nonna Mirasol a sinistra, sopra la mamma… qui. Nonna Jazmin la metti a destra, e sotto di lei metti me.” 
Gabriel si allungò leggermente sul tavolo per trascinare con gentilezza le foto delle sue madri al loro posto per indicare alla nipotina dove incollarle, ma Chloe ancora non sembrava del tutto convinta, e continuò ad osservare accigliata la sua foto e poi quella di Damita prima di indicare il ramo della madre, collegato a quello dove avrebbe dovuto incollare la foto di Mirasol:
“Ma devo unire il tuo ramo e quello della mamma. Dove devo unirli?”
“Chloe, io e la mamma abbiamo lo stesso papà, ma non ho sue foto. Dovresti metterla, qui, al centro, vedi? E dal ramo, che dovrebbe collegarsi sia a quello di Nonna Jazmin, sia a quello di Nonna Mirasol, ci saremmo io e la mamma.”
“Perché non hai foto di tuo papà?”
“Tu lo hai mai visto?”
Chloe non rispose, limitandosi a scuotere il capo senza smettere di fissarlo con i grandi occhi castani carichi d’infantile curiosità, destando un sorriso paziente sul viso dello zio:
“Beh, praticamente nemmeno io. E poi, vedi, non penso che le tue nonne sarebbero molto contente, se vedessero che lo hai incluso nella nostra famiglia.”
“Ma se è tuo papà e della mamma perché non fa parte della famiglia?”
“A volte non basta per essere una famiglia. Pensaci, le tue mamme non ti hanno fatto nascere, giusto? Però sono lo stesso le tue mamme. Ecco, nemmeno Nonna Mirasol ha fatto nascere me, ma è comunque come se fosse la mia mamma. Anche se non abbiamo sangue in comune.”
Chloe non rispose, limitandosi a tornare a guardare il disegno sbattendo le palpebre e con una minuscola ruga in mezzo alle sopracciglia, concentrata.
“Quindi tu e la mamma avete lo stesso papà.”
“Sì.”
“Però non è proprio vostro papà.”
“Diciamo di sì. Ecco, la mia foto mettila qui, così è sul ramo che parte dello stesso che porta a quello della mamma.”
Gabriel prese gentilmente la foto dalle mani della nipotina, la appoggiò sul tavolo voltandola a faccia in giù e ci dispose un di colla sulla parte bianca prima di incollarla vicino a quella di Damita mentre Chloe ancora cercava di capire per bene ciò che lo zio stava cercando di dirle:
“Nonna Jazmin è la tua mamma. Nonna Mirasol è la mamma di mia mamma… Però è tipo anche tua mamma?”
“Sì piccola.”
Chloe smise di guardarlo e scosse la testa mentre raccoglieva a sé le foglie secche con le piccole mani per iniziarle ad incollarle sul foglio bianco, decretando con fare melodrammatico di non starci capendo niente. Gabriel rise mentre Declan reclamava a gran voce la cena dal divano, assicurandole che fosse del tutto normale: nel corso dei suoi trent’anni di vita aveva conosciuto più e più persone ben più adulte di lei che avevano avuto difficoltà nel comprendere appieno i suoi legami familiari.


 
*
 

Quando, un paio di giorni prima, era stato convocato nell’ufficio del suo capo Carter sapeva di essere di fronte a due sole possibilità: una strigliata o, in alternativa, un nuovo incarico. Con gran sollievo del ragazzo la seconda opzione si rivelò quella corretta, e quando la porta di vetro dell’ufficio gli si fu chiusa silenziosamente alle spalle si trovò di fronte ad un largo sorriso che conferiva un’espressione benevola al volto del suo capo: sembrava che in quale modo fosse venuto a conoscenza della decisione, da parte degli Auror, di somministrare l’esame tossicologico al cadavere di Montgomery Dawson. Carter si chiese, accigliato, perché glielo stesse dicendo sorridendo, ma ben presto gli fu chiaro: evidentemente la tesi del suicidio aveva perso credibilità, e visto che il caso stava facendo discutere parecchio a Manhattan voleva che ne scrivesse ancora.
Gli esiti dell’esame erano ancora sconosciuti, ma poco dopo Carter uscì dall’ufficio con le parole del suo capo a riecheggiargli nella mente e un sorriso trasognato sul volto: qualora le indagini fossero continuate, voleva che scrivesse una sorta di serie. E scrivere seguendo un caso di cronaca, soprattutto un caso di omicidio, era praticamente il suo sogno che finalmente prendeva forma.
Naturalmente si trattava di un lavoro che più di ogni altro teneva a portare avanti nel miglior modo possibile, e dopo aver comunicato con gioia la notizia ai suoi vicini aveva chiesto ad Esteban di aiutarlo ad ultimare lo scritto. Carter non era, di norma, tipo da chiedere consigli altrui, ma si trattava di una situazione straordinaria e in più era assolutamente certo che suo fratello avrebbe letto l’articolo, una volta uscito. Doveva quindi essere perfetto, onde evitare le critiche che Carter meno tollerava in assoluto, quelle di suo fratello maggiore Lincoln.
 
Quella sera Esteban sedeva dunque su uno dei divani del vicino, gli occhi scuri puntati sullo schermo del pc di Carter e le folte sopracciglia aggrottate in segno di concentrazione mentre rileggeva lentamente le ultime righe che avevano scritto. Carter invece, incapace di stare fermo, stava marciando nervosamente alle spalle del divano e del vicino tormentando un cubo di Rubik in cerca d’ispirazione e Sarge stava dormendo sull’altro divano insieme ad Isla, cosa di cui Esteban fu molto grato: amava terribilmente i cani, ma proprio per questo motivo concentrarsi quando quell’adorabile Golden Retriever cercava di leccargli la faccia o di portargli dei giochi risultava praticamente impossibile.
“C’è qualcosa che non mi convince in questa parte. Provo a riscriverla.”
Esteban indicò l’ultimo capoverso che avevano scritto con la punta della penna nera che teneva in mano guardando critico lo schermo e Carter trovandosi d’accordo non potè far altro che assentire, restando in silenzio mentre il vicino iniziava a scarabocchiare rapido sul quaderno a spirale che teneva sulle ginocchia. L’ex Tuonoalato si fermò alle spalle del divano per leggere ciò che Esteban stava scrivendo oltre la sua spalla, ma l’attenzione di entrambi venne distolta dal quaderno quando udirono bussare alla porta.
“Aspettavi qualcuno?”
Esteban smise di scrivere e si voltò per gettare un’occhiata al vicino, che scosse il capo fissando accigliato la porta mentre Isla, destata dal sonno, sollevava la testa di scatto guardandosi attorno con aria contrariata e gli occhi verdi ridotti a due fessure.
“No, probabilmente è la sfiga che viene a trovarmi.”
Carter raggiunse l’ingresso con poche falcate e ben presto aprì la porta, sollevando entrambe le sopracciglia quando si ritrovò davanti, inaspettatamente, una delle sue vicine.
“Ciao. Ti serve qualcosa?”
“A me? No, casomai il contrario. Ho pensato di venire ad offrirvi il mio preziosissimo consulto.”
Leena, un gran sorriso sulle labbra, superò Carter per varcare la soglia dell’appartamento e salutare allegramente Esteban, raggiungendolo sul divano stringendo il suo computer mentre il vicino la guardava perplesso. A Carter invece, visto che Leena era già entrata, non restò che chiudere lentamente la porta chiedendosi ancora una volta perché avesse vicine così bizzarre.
“Allora, come siete messi?”
“Non male, ma… Leena, perché hai il computer?”
Esteban parlò seguendo i movimenti della vicina con lo sguardo, guardandola appoggiare il suo pc accanto a quello di Carter prima di gettargli un’occhiata dubbiosa: forse, si disse la strega, avrebbe dovuto escogitare per bene una scusa prima di bussare alla porta di Carter. Di certo non aveva intenzione di rivelare ai vicini il vero motivo per cui aveva lasciato il suo appartamento, ma si affrettò a tornare a sorridere e a stringersi nelle spalle simulando noncuranza:
“Beh… Quelli sopra di me fanno un gran fracasso, penso che stessero litigando. Non riuscivo a concentrarmi e a fare nulla, quindi ho pensato di venire a darvi una mano. Oh, ciao Isla!”
Lieta di avere l’occasione per distogliere da sé l’attenzione la britannica si affrettò a raggiungere il divano occupato parzialmente da Sarge e Isla per inginocchiarsi sul pavimento e accarezzare dolcemente la bellissima gatta del Bengala, che la lasciò fare chiudendo i grandi occhi chiari e sollevando la testa per godersi più coccole possibili. Esteban invece, che ancora la stava guardando dubbioso, volse lo sguardo di Carter per dirgli qualcosa parlando a voce bassissima:
“Ma l’hai invitata tu?”
“No, tu?”



Leena si era presentata alla porta di Carter per allontanarsi dal caos che aveva preso possesso del suo appartamento, molti piani più in basso, e poter finire il suo capitolo in santa pace con un’ottima scusa, ma finì realmente con il contribuire alla scrittura dell’articolo. Probabilmente finirono con l’impiegarci molto più tempo di quanto a Carter sarebbe servito se fosse stato solo, ma quando un’ora dopo Leena lasciò il 13E aveva comunque un sorriso soddisfatto impresso sulle labbra, e si allontanò verso gli ascensori certa che senza di lei il risultato non sarebbe stato assolutamente così fantastico.
Carter ed Esteban probabilmente non si sarebbero detti d’accordo, ma nessuno dei due avrebbe comunque avuto la forza di farlo sapere alla vicina.
 

 
*

 
Domenica 3 ottobre
 
 
Per Carter Cross la domenica era “consacrata al cazzeggio”, e nel corso dell’ultimo giorno della settimana di rado il mago usciva dall’Arconia, se si escludevano le sue passeggiate con Sarge a Central Park o eventuali giri in libreria per saccheggiare interi scaffali. A volte si concedeva una capatina a casa del suo migliore amico, giusto per deliziarlo con la sua presenza, ma nella maggior parte dei casi Carter trascorreva la domenica pomeriggio a casa, spesso a leggere o a guardare la tv e talvolta a lavorare.
Quel pomeriggio non stava facendo eccezione, e il giornalista se ne stava comodamente stravaccato sul suo divano Chesterfield color cuoio insieme a Sarge, che sonnecchiava pacifico con la grossa testa color miele poggiata sullo stomaco del padrone mentre Carter leggeva con addosso una felpa grigia della NASA  e dei consunti pantaloni della tuta neri. Il mago stava cercando di districarsi tra le intricate righe di GEB(1) per seguire i ragionamenti di Douglas Hofstadter quando qualcuno ebbe la malaugurata idea di suonare il campanello, destando lui dalla lettura e Sarge e Isla dal loro sonnellino pomeridiano. Subito Isla si alzò dalla sua soffice cuccia pelosa, si stiracchiò e trotterellò verso la porta nella speranza di riuscire a sgattaiolare fuori dall’appartamento mentre il Golden Retriever, saltato giù dal divano, la imitava sperando che fosse qualcuno pronto a giocare con lui. Carter fu l’unico inquilino del 13E a non accogliere il visitatore con entusiasmo, anzi sprofondò tra i morbidi cuscini del suo costosissimo divano pregando che se ne andasse: aveva tutta l’intenzione di accogliere la strategia propria degli opossum, ovvero fingere di essere morto, per continuare a godersi il suo cazzeggio solitario in santa pace, ma anziché darsi per vinto il suo visitatore suonò una seconda volta e con maggior insistenza, destando un abbaio in Sarge mentre Isla grattava sulla porta, impaziente.
“Che due grandissime palle.”
Ma la gente non lo sapeva che di domenica lui voleva stare solo e cazzeggiare e basta? Con tutti i libri che aveva da leggere in libreria! Per non parlare della sua collezione di modellini di auto d’epoca che necessitava una spolverata! Pregando che almeno non si trattasse della sua vicina – quale non aceva nemmeno troppa importanza dal momento che la provvidenza aveva deciso di punirlo piazzandolo in un piano circondato da donne più o meno sgradevoli – Carter trascinò i piedi fasciati da dei calzini bianchi di Playboy verso l’ingresso, premurandosi di prendere in braccio Isla per impedirle di darsi alla fuga prima di gettare un’occhiata al corridoio attraverso lo spioncino. Quando individuò il suo visitare al giornalista quasi venne un colpo apoplettico, trattenendo un gemito solo per paura di essere sentito, e subito vagliò ogni possibilità di fuga: non poteva Smaterializzarsi, ma c’era sempre la Metropolvere. Ma dove e da chi sarebbe potuto andare? Carter stava per sfrecciare verso il camino per andare a chiedere asilo politico a casa di Mathieu, ma poi si ricordò di come l’amico gli avesse accennato qualcosa a proposito di dover andare da qualche parte proprio quel pomeriggio.  Forse una partita? Perché non era andato anche lui a vedere la partita? E Sasha, il suo migliore amico, era fuori discussione perché al lavoro. Mentre il suo migliore amico salvava vite in ospedale lui era in trappola, e Carter Cross maledisse mentalmente quell’egoista prima di sospirare e arrendersi all’evidenza: non aveva scelta.
Quasi avrebbe preferito Niki, in fin dei conti.
Quando aprì la porta Carter si scontrò con un paio di occhi cerulei, quasi ancor più azzurri dei suoi, che lo scrutavano torvi, quasi scocciati, e con una mascella che era solita far sbavare qualsiasi donna nei paraggi. Uno dei suoi peggiori incubi si stava abbattendo brutalmente su di lui, e Carter si sforzò di emettere una specie di saluto mentre la persona che aveva di fronte inarcava un sopracciglio scrutandolo scettico:
“Mi lasci qui?”
“Lo vorrei tanto.”
Un invito verbale ad entrare non sarebbe mai e poi mai uscito dalle sue labbra, pertanto Carter si limitò a dare le spalle al suo ospite sgradito e ad allontanarsi insieme ad Isla, deciso a tornare a sedersi sul divano per dargli la minor considerazione possibile. Sarge invece si lasciò accarezzare la testa scodinzolando, e Carter si chiese perché gli fosse toccato il cane più traditore dello Stato di New York mentre scrutava torvo lui e l’uomo alto, biondo e a sua detta per nulla attraente che lo stava accarezzando.
Dopo aver dispensato un sorriso e qualche carezza al cane il suo ospite tornò a concentrarsi su di lui, assumendo la medesima espressione seria ed indecifrabile di poco prima mentre gli si avvicinava senza accennare a volersi sedere o sfilare la giacca, come certo di dover restare brevemente. Quel pensiero rincuorò un poco il padrone di casa, che si sentì pervadere da una piccola dose di sollievo mentre accarezzava quasi distrattamente la piccola testa maculata di Isla, che gli si era accomodata sulle ginocchia.
“La mamma dice che non rispondi al telefono.”
“Sarà spento.”
Carter rispose senza smettere di accarezzare Isla o distogliere lo sguardo dal viso del fratello maggiore, che assunse un’espressione esasperata prima di scuotere il capo, come rassegnato:
“Da dieci giorni, James.”
“Mi conosci da trenta cazzo di anni. Lo sai benissimo come voglio essere chiamato.”
Lincoln non rispose, ma in compenso lo guardò senza sfilarsi le mani dalle tasche della giacca blu, come se stesse prendendo in considerazione se assecondarlo o meno. Sarge raggiunse il padrone e si sistemò accanto a lui sul divano in cerca di coccole, guadagnandosi qualche carezza sulla testa e sul collo mentre Carter continuava a fissare, torvo, il fratello maggiore:
“Sei qui solo per fare il bravo figlio maggiore che va a ragguardare il fratellino pestifero? Ti inviterei a sederti ma potrebbe confonderti, visto che di solito si fa per indicare che si gradisce la presenza di qualcuno. Il tuo lavoro di leccaculo lo hai fatto.”
“La mamma è preoccupata. Dice che ti auto escludi da qualsiasi cosa riguardi la famiglia, a meno che non si parli della nonna.”
Carter proprio non se la sentì di dargli torto, pur odiando dar ragione a suo fratello, ma visto e considerato che si trattava di una sua precisa volontà si limitò a stringersi nelle spalle cercando di ignorare la pacata e fastidiosa condiscendenza con cui Lincoln era solito rivolerglisi: sua madre poteva pensare quello che voleva, per quanto lo riguardava, il suo allontanamento non era altro che il frutto di anni e anni di convivenza segnata da una profonda frustrazione e senso di inadeguatezza.
“Ho trent’anni, ho tutto il diritto di non avere voglia di avere troppo a che fare con voi, feste comandate a parte. Come vedi sto benissimo senza i Cross a schiacciarmi con i confronti che non potrò mai reggere.”
Lincoln non rispose e il suo silenzio venne accolto con gioia e sollievo dal fratello minore, lieto e in parte amareggiato di come persino lui non potesse negare l’evidenza, ovvero di essere l’eterno figlio prediletto di due genitori sempre statu pieni d’aspettative e in grado di offrire scarsissimo supporto emotivo. Carter guardò il fratello sperando di vederlo alzarsi e andarsene, conscio di essere giunto fino alla sua porta per niente, ma sorprendentemente dopo una breve esitazione Lincoln si mosse verso il secondo divano fino a sedersi vicino all’estremità, trovandosi così quasi di fronte a Carter, per poi iniziare a tamburellare le lunghe dita sul bracciolo imbottito e parlare nuovamente:
“Sono qui anche per conto mio, in realtà. Ho letto quello che hai scritto. Su Montgomery Dawson.”
“Esce lunedì. Come cazzo lo hai letto?”
Lincoln non rispose, ma in compenso gli indirizzò un mezzo sorriso obliquo, quasi beffardo, quasi a volergli sottolineare di poter fare cose per lui impensabili. Il suo detestabile fratellone perfetto conosceva tutti al Ministero, e il pensiero destò una smorfia profondamente infastidita sul bel viso del minore:
“Che ti frega, esattamente? Sei venuto a farmi la lezione sulle virgole e i punti di sospensione?”
Carter avrebbe voluto evitare di fargli sapere quanto sapere che aveva letto in anteprima il suo scritto lo avesse infastidito, ma quando si trattava della sua famiglia reprimere le sue emozioni negative gli risultava paurosamente difficile, e finì col pronunciare parole che trasudavano astio da tutte le parti mentre Lincoln si stringeva nelle spalle facendo vagare lo sguardo sul salotto del fratello minore. Carter decise che se avesse criticato l’arredamento lo avrebbe sbattuto fuori a calci in culo.
“La grammatica la lascio a te. Vorrei consigliarti di non farlo. Di lasciar perdere.”
“Di scrivere? Mi pare tardi.”
“Di scrivere quello. Su quella famiglia. Scrivi altro. Scrivi quello che scrivi sempre. So che hai sempre amato le storie di omicidi e che improvvisarti detective era il tuo sogno di bambino, ma lascia perdere. Non è un gioco, cresci.”
“Lo so che non è un gioco, coglione, è morto quello che viveva sopra di me. Lo so benissimo che è reale, non serve che arrivi tu a dirmelo.”
“Non è una buona idea, lo dico per te. Arrivaci. È una famiglia spaventosamente ricca, spaventosamente conosciuta, forse giocare a fare i detective non è una buona idea. Ti potresti mettere nei guai.”
“Me l’ha chiesto il mio capo di scrivere una serie, non è stata una mia idea. Ed è una brillante idea, in realtà. La gente adora il giornalismo d’inchiesta.”
Carter sorrise amabilmente e all’improvviso, sapendo che suo fratello la disapprovava, l’idea di scrivere quegli articoli si fece ancor più appetibile ai suoi occhi. Lincoln invece lo guardò esasperato, forse chiedendosi cosa avesse fatto di male per essersi sortito un disastro di fratello come lui, e dopo una breve esitazione si alzò scuotendo la testa destando un moto di gioia nel padrone di casa:
“Ero sicuro di perdere tempo, ma ci ho provato. Attento a giocare a fare Truman Capote, Carter.”
Per lo meno lo aveva chiamato Carter, ed era già una conquista, ma il giornalista si chiese accigliato il perché di quel paragone mentre Lincoln gli dava le spalle, finendo col dirigersi verso la porta senza aggiungere altro o degnarlo di un ulteriore sguardo.
“Che cazzo c’entra Truman Capote?!”
Sfortunatamente per Carter suo fratello non si premurò di rispondergli, aprendo e subito chiudendosi la porta dell’appartamento alle spalle facendo sprofondare nuovamente il 13E nel silenzio più totale. Una parte del padrone di casa si convince che Lincoln non gli avesse risposto per sottolineare, tanto per cambiare, quella sorta di “superiorità” che i genitori erano soliti attribuirgli in qualsiasi campo fin da quando erano bambini, ragion per cui non gli risparmiò un piccato insulto sibilato tra i denti mentre Sarge, del tutto incurante della diatriba tra fratelli, si godeva le coccole muovendo felicemente la lunga coda color miele.
“Non sai quanto sei fortunato a non avere un fratello, Sarge.”
 

 
*

 
“Dite che abbiamo esagerato, questa volta?”
Di norma Naomi Broussard trascorreva buona parte dei suoi weekend a cucinare per tutta la settimana a seguire, ma quel giorno alla lunga lista di piatti e contorni da preparare si erano aggiunti anche quelli volti alla cena che la strega avrebbe condiviso con dei due suoi vicini, nonché tra i suoi amici di più vecchia data: Naomi pronunciò quelle parole gettando un’occhiata sinceramente dubbiosa al tavolo della sala da pranzo – che non usava quasi mai quando mangiava sola ed era sempre ben felice di apparecchiare per i suoi ospiti –, preparato per tre e occupato da un gran numero di piatti da portata, ampie ciotole di legno e casseruole di ceramica.
“Stando a quanto dice mia nonna, di domenica non si esagera mai.”
Moos, in piedi accanto all’amica, parlò accarezzando distrattamente la testa pelosa di Sundance mentre faceva scivolare a sua volta i grandi occhi scuri sulla superficie del tavolo e tutto ciò che vi avevano sistemato sopra secondo le istruzioni di Naomi. In realtà anche così facendo la padrona di casa aveva finito col cambiare posto ai piatti che avevano poggiato sul tavolo lui e Gabriel almeno due o tre volte: mentre sistemava i portatovaglioli a forma di foglie dorate ripiegate su se stesse sui rispettivi piatti la strega aveva ribadito, stizzita, come ad entrambi mancasse il senso dell’ordine visivo. Gabriel e Moos non avevano ribattuto, in primis perché entrambi anche dopo anni ancora stentavano a capire cosa l’amica intendesse dire loro con quelle parole.
“Sì, lo dice anche mia zia.”
Naomi annuì, e dopo aver raddrizzato con millimetrica precisione il vaso di vetro contenente i fiori freschi che aveva comprato il giorno prima occupò il posto a capotavola con Moos alla sua destra mentre Sundance, speranzoso di riuscire a scroccare qualcosa, si appostava tra i due cercando di impietosirli con il suo sguardo da cane denutrito e profondamente infelice.
“Non fare quella faccia tu, hai già mangiato!”
Per tutta risposta Sundance sollevò la zampa anteriore destra e la mise sulla mano della padrona, sperando di farsi dare un premio data la sua sorprendente bravura. Naomi invece sospirò e alzò gli occhi al cielo mentre Moos ridacchiava, decisa a non cedere mentre Gabriel si univa a loro colmando l’ultimo brandello di spazio vuoto rimasto sul tavolo con un’insalatiera di legno:
“L’importate è evitare cose che fanno male, allora si può mangiare quanto si vuole, una volta ogni tanto.”
Io una volta ogni tanto vorrei mangiarmi il pollo fritto di Moos durante queste cene, ma poi chi ti sente quando inizi a parlami del colesterolo? L’hai condita l’insalata, almeno?”
“Certo, per chi mi hai preso?!”
Gabriel si lasciò passare il pane di mais da Moos gettando un’occhiata indignata in direzione dell’amica, che rispose con una debole scrollata di spalle prima di mettersi un po’ di sformato di patate nel piatto:
“Non si può mai sapere.”
“Un giorno mi ringrazierete per le mie premure nei confronti del vostro organismo. A proposito, ieri ho dovuto fare il peggio tatuaggio del mondo, una specie di tarantola gigantesca sulla schiena di un tizio.”
“Che schifo, avrei avuto paura persino a preparare il disegno.”
Naomi rabbrividì con una smorfia di disgusto mentre Sundance si avvicinava a Moos, guardandolo implorante e mettendo notevolmente in difficoltà l’amico della padrona:
“Naomi, sicura che non posso dargli niente? Guarda che musetto…”
Moos si agitò leggermente sulla sedia, a disagio, mentre Sundance non perdeva di vista il pane di mais. In effetti, il mago ne era consapevole, il suo era forse il miglior pane di mais su tutta la costa orientale.
“No. È la sua tattica, devi essere forte e resistere, Moosy.”
Naomi gli puntò contro, assertiva, un pezzo di sformato di patate mentre Moos sospirava, amareggiato, sforzandosi di continuare a cenare senza farsi impietosire dallo sguardo del Golden Retriever mentre Sundance poggiava la testa sulle sue ginocchia.
“Ha beccato l’anello debole della catena…”
“Resisti. Gabri, come è andata con Declan e Chloe?”
“Bene, ma se dovessi sentire ancora Let It Go da qui alla prossima settimana potrei considerare l’espatrio. Scusate se non ho preparato granché, ma con i bambini a cui badare è quasi impossibile.”
Gabriel parlò gettando un’occhiata dispiaciuta al resto del tavolo, conscio di aver contribuito meno del solito alla loro cena – solo con una montagna di pollo al curry e riso e verdure – ma Naomi lo tranquillizzò con un sorriso gentile e un colpetto affettuoso sulla porzione di braccio destro lasciata nuda dalla manica del maglione bianco che il tatuatore indossava:
“Tranquillo zietto, ti perdoniamo.”
“Chloe doveva preparare l’albero genealogico con le foglie, avete presente? L’ho fatto anche io da piccolo, e ricordo quanto fosse stato deprimente chiedere a mia madre una foto di mio padre. Forse dovrebbero smettere di farlo fare ai bambini.”
L’espressione sul viso del tatuatore si fece accigliata mentre ritornava mentalmente indietro di molti anni, fino al pomeriggio in cui aveva dovuto realizzare il compito e chiedere a sua madre se avesse una foto del padre da mostrargli. Il giorno dopo, a scuola, era stato l’unico a non averne una, sul suo albero. Gabriel tornò a chinare cupo lo sguardo sul proprio piatto, giocherellando distrattamente con un pezzo di pollo mentre Moos cercava di dare qualcosa a Sundance senza farsi vedere da Naomi e il decanter riempiva di vino i loro calici.
“Chloe ti ha chiesto di tuo padre?”
“Sì, ho cercato di spiegarle la parentela tra me e sua madre, ma ovviamente non è facile capire per la sua età. Inutile dire che non l’ho mai avuta, una foto di mio padre… E per fortuna, aggiungerei.”
Il tono di voce Gabriel assunse una lieve connotazione amara mentre Naomi gli dava un secondo colpetto sul braccio, questa volta affettuoso e incoraggiante al tempo stesso, mentre Moos, vinto dalla debolezza e allungato un piccolo pezzo di pane a Sundance, gli rivolgeva un sorriso gentile e comprensivo:
“La tua è una famiglia bellissima anche senza di lui, presto lo capirà.”
“Lo so. L’abbiamo capito io e Damita, lo capirà anche lei. A volte è solo strano essere l’unico senza padre, tutto qui.”
Moos non rispose, ma tornò lentamente a rivolgere la sua attenzione al piatto mentre le parole di Gabriel rievocavano parole che fino a pochi minuti prima non avrebbe nemmeno pensato di ricordare. Anche Monty gli aveva detto qualcosa di simile, tanti anni prima.
“L’importante è l’affetto che la tua famiglia ti dà. Io sulla carta ho una famiglia perfetta, ma non è che sia la più unita del mondo.”
Con grande orgoglio dei suoi genitori quella dei Broussard era, in effetti, una famiglia perfetta, se non si considerava un fratello maggiore in prigione. Ma per una volta, anche se Gabriel e Moos ne erano perfettamente a conoscenza, Naomi decise di seguire uno dei rigidi dogmi impartitile da sua madre: non ne fece parola.
“Chissà se anche i Dawson sono perfetti come sembrano.”
Mentre Sundance, ottenuto ciò che voleva da Moos, faceva il giro del tavolo scodinzolando per posizionarsi tra lui e Naomi il tatuatore sollevò lo sguardo per gettare un’occhiata eloquente al vicino, la forchetta ancora a mezz’aria tra il piatto e il proprio viso. Naomi ben presto lo imitò, felice di avere una scusa per non pensare a Rory e a come si fosse comportata come la peggior sorella del mondo nei suoi confronti, e quando si rese conto di avere gli sguardi di entrambi puntati sul proprio viso Moos esitò, finendo di masticare un po’ d’insalata prima di stringersi debolmente nelle spalle:
“Credo che nessuna famiglia lo sia. A modo proprio.”
Moos tornò rapidamente a concentrarsi sul suo piatto, come deciso ad evitare gli sguardi di entrambi, e Naomi e Gabriel si scambiarono un’occhiata incerta, desiderosi di apprendere che cosa l’amico sapesse sul conto della famiglia più chiacchierata del palazzo. Moos, dal canto suo, ricordava perfettamente una breve conversazione che molti anni prima aveva avuto con suo nonno: seduto su uno degli sgabelli della cucina, una versione infantile di se stesso aveva osservato a lungo il nonno con cui condivideva il nome tagliare le verdure in vista della cena, approfittando dei momentanei attimi di distrazione di Bartimeus Sr per rubare qualche biscotto dal piatto che avevano vicino. Naturalmente suo nonno se n’era accorto, ma aveva fatto finta di nulla per dargli un po’ di soddisfazione.
Dopo lunghi minuti di silenzio, il piccolo Moos aveva chiesto a suo nonno perché i Dawson, la famiglia del suo migliore amico, spesso non sembrassero poi così felici, non certo felici come sembrava di solito la loro, di famiglia. E dire che erano tanto ricchi, e potevano comprarsi quello che volevano. Ma suo nonno aveva replicato affermando che non sempre la gente ricca conduceva una vita poi così felice, e infine gli aveva calorosamente intimato di farsi gli affari propri.

“C’è già abbastanza gente che spettegola in questo palazzo. E ricorda che chi pensa per sé campa più di tutti gli altri, Jr.”
“Che vuol dire?!”
“Mangia un biscotto.”

 
*
 
 
Lunedì 4 ottobre
 
 
“I risultati arrivano domani, mia madre ieri ne parlava con una delle cameriere che pulisce l’attico dei Dawson.”
Seduto insieme ad Esteban e Kei attorno ad un tavolo circolare di una caffetteria vicino all’Arconia, Jackson prese a giocherellare distrattamente con una bustina di zucchero di canna mentre ripensava agli stralci di conversazione che aveva deliberatamente origliato il giorno prima: stava fumando marijuana chiuso in camera sua accanto alla finestra aperta quando aveva sentito, in mezzo al chiacchiericcio di sua madre e delle sue amiche, una voce femminile menzionare i Dawson. L’attenzione di Jackson, che di norma non faceva troppo caso ai tè che sua madre era solita servire alle sue amiche cameriere, si era subito focalizzata sui suoni che provenivano dalla porta chiusa della sua camera, abbandonando la finestra per carpire più informazioni che poteva. Aveva persino finto di andare in bagno un paio di volte per origliare meglio, nonché per riempirsi di deodorante per camuffare l’odore di erba il più possibile, e anche se aveva pagato caro il prezzo della sua curiosità quando era stato costretto ad unirsi alla loro sessione di pettegolezzi aveva, almeno, appreso qualche informazione utile e mangiucchiato una marea di pasticcini.
“Le amiche di mia madre erano davvero molto agitate, stando a quanto dice lei pare che sia l’evento più straordinario che ha colpito il palazzo da quando una cameriera, anni fa, rimase incinta e fu costretta a lasciare il lavoro… E se lo dice Marlene Salmon bisogna crederle. Ma si parla di prima che nascessi io, quindi immagino che nel corso degli ultimi trent’anni non sia successo niente di che.”
Kei non rispose, le braccia fasciate da un sottile maglione blu notte strette al petto e lo sguardo pensoso puntato sulla graziosa piantina che faceva da centrotavola. Esteban, invece, si abbassò il cappuccio della felpa troppo larga per darsi una ravvivata ai capelli scuri lunghi fino alle spalle attirando su di sé la maggior parte degli sguardi dei presenti, ma finse di non farci caso mentre appoggiava i gomiti sul tavolo spostando lo sguardo dal viso di Jackson a quello di Kei:
“Pensate che sarà positivo?”
“Beh, per forza. Altrimenti la questione dell’avvelenamento va in malora. Ma dev’essere stato per forza omicidio, se aveva il coltello nella mano sbagliata. Quale mancino si taglia la carotide con la mano destra?”
Jackson si strinse nelle spalle agitando leggermente la bustina di zucchero, impaziente di avere il suo caffè per poi raggiungere lo zoo e iniziare a tutti gli effetti la settimana. Kei continuò a non dire nulla, reduce di uno dei weekend peggiori della sua vita, ma rispose ad Esteban quando il vicino gli si rivolse:
“Sicuro che non le usasse entrambe?”
“No, era mancino. Mai visto usare la destra per fare niente.”
“Allora lo ha ucciso qualcuno che non lo conosceva bene. Dovremmo escludere Samantha? Difficile che non lo sapesse.”
Esteban tirò fuori da una tasca della giacca di pelle tabacco e cartine per prepararsi una sigaretta da fumare una volta di nuovo all’aperto inarcando un sopracciglio, dubbioso, ma Jackson si strinse nelle spalle asserendo che poteva anche averlo fatto di proposito, per sviare i sospetti da lei in caso di indagini.
“È un ragionamento assurdamente contorto, ma potrebbe anche essere vero.”
Deluso all’idea di non poter escludere un sospettato dalla lista ma allo stesso tempo concorde con Jackson Esteban annuì, tornando a concentrarsi sulla sua sigaretta mentre Jackson, accanto a lui, gettava un’occhiata perplessa ad Orion e ai caffè che il vicino stava portando verso di loro dal bancone.
“Perché Orion ha cinque caffè? Siamo in quattro. O deve arrivare qualcun altro?”
“No, ne beve sempre due. Ne beve decisamente troppo, ma è impossibile farlo smettere, anche se gli fa male.”
Kei fece una pausa mentre faceva rimbalzare lo sguardo sulla figura alta ed eternamente sorridente del suo amico, raddrizzandosi sulla sedia prima di riprendere a parlare abbassando la voce di un’ottava:
“So che sembra… un tipo strano. E lo è. Ma è anche il suo bizzarro modo di esorcizzare il dolore, credo.”
Di nuovo la voce di Kei si arrestò e il suo sguardo scivolò rapido sull’amico prima di rimbalzare nuovamente sui visi ora incuriositi di Esteban e Jackson, schiarendosi la voce prima di mormorare qualcosa prendendo a tormentandosi nervosamente con le dita l’orlo del maglione.
“Ha perso metà della sua famiglia, tempo fa. In una maniera orribile, tra l’altro.”
Due espressioni sgomente si fecero strada sui volti di Esteban e Jackie, ma prima che uno dei due avesse il tempo di dire qualcosa Orion li aveva raggiunti, armato del suo immancabile sorriso e soprattutto di un vassoio che reggeva i loro caffè:
“Eccomi qua! Per fortuna nessuno di voi mi ha fatto ordinare un cappuccino di soia, o vi avrei tolto il saluto.”
“La religione di Orion aberra il latte di soia nel caffè.”
Mentre Orion occupava finalmente la sedia libera tra lui e Jackson Kei annuì, più serio che mai, e fece scivolare il caffè del veterinario davanti al vicino, prendendo per sé il suo Espresso prima di sporgersi verso il grazioso cestino che conteneva le bustine di zucchero. Naturalmente Orion disapprovava chi zuccherava il caffè e gettò una mite occhiata di rimprovero al suo amico, ma il ragazzo non sembrò farci caso e aprì la bustina sul suo caffè come se nulla fosse.
“Puoi giurarci. Se un giorno dovessi fondare un luogo di culto, ci affisserò un’insegna con su scritto “In coffee we trust”.”
Orion sorrise, allegro e apparentemente immune al malumore che di norma colpisce metà della popolazione mondiale quando giunge il lunedì mattina prima di sorseggiare con gioia la sua linfa vitale, il caffè nero rigorosamente non zuccherato. Jackson ed Esteban risero, ma Kei sapeva per certo che Orion non stesse scherzando.
 
Terminati i caffè, mentre gli altri si erano diretti verso diversi punti della metropoli, Orion e Jackson al lavoro e Kei all’Università, Esteban aveva semplicemente fatto ritorno all’Arconia per mettersi a scrivere: spesso e volentieri aveva la capacità di concentrazione di un criceto ubriaco, ne era perfettamente consapevole, ed era anche consapevole di quanto tempo a volte gli servisse per scrivere un articolo, procrastinatore seriale con la tendenza facile ad annoiarsi qual era. Ma era anche deciso a terminare il lavoro entro il giorno seguente, ragion per cui Esteban varcò la soglia del palazzo salutando Lester sentendosi determinato a chiudersi in casa fino a che non avesse sistemato anche l’ultima virgola del suo articolo.
Per raggiungere il dodicesimo piano Esteban condivise l’ascensore con tre persone: Spencer Allen, che abitava nel suo stesso piano e che salutò, ricambiato, con un sorriso e con un cenno, e due signore che era piuttosto certo abitassero un paio di piani più in basso. Poiché ci aveva già pensato Spencer Esteban non dovette nemmeno premere il pulsante del suo piano, dunque si limitò a dare le spalle ai vicini e ad aspettare pazientemente che le porte dorate si chiudessero per consentire all’ascensore di iniziare il tragitto verso i piani superiori. In quel breve lasso di tempo non gli sfuggirono, naturalmente, gli scambi di battute delle due donne dietro di lui: vicini com’erano non avrebbe potuto astenersi dall’origliare neanche volendo, ma ben presto il giornalista si rese conto di quanto quelle parole avrebbero potenzialmente potuto rivelarsi preziose. Stavano parlando, lo capì in un battito di ciglia, proprio di Montgomery. E di qualcuno, una donna, con cui sembrava avesse discusso poco prima di morire.
All’improvviso Esteban, pur non muovendo un solo muscolo, catalizzò tutta la propria attenzione sullo scambio di battute che stava avendo luogo dietro di lui, sforzandosi più che poteva di capire di chi le due stessero parlando. Non fecero nomi, ma con grande gioia del giornalista si premurarono di fargli capire ugualmente l’identità della donna misteriosa menzionando una parola piuttosto eloquente mentre, giunte al nono piano, uscivano dall’ascensore: rimasto solo con Spencer Esteban non esitò a sfilarsi il telefono dalla tasca della felpa per scrivere qualcosa sulla chat di gruppo che condivideva con alcuni dei suoi vicini, un sorriso soddisfatto stampato sulle labbra carnose.
 
 
Alcune ore più tardi
 
 
Eileen stava per uscire, anche se non ne aveva poi troppa voglia: quel pomeriggio era rimasta all’Arconia per lavorare da casa in compagnia del suo fido barbagianni Anacleto e di una tazza di tè dietro l’altra e in tutta onestà avrebbe preferito terminare la giornata allo stesso modo, sul divano con una coperta e una serie tv. Il suo borsone nero, tuttavia, era già pronto e la strega quasi in procinto di lasciare l’appartamento quando qualcuno bussò con decisione alla porta, inducendola a raggiungere l’ingresso e ad aprire con un sopracciglio inarcato e una sincera dose di curiosità in corpo.
“Bundle(2).”
Fuori dalla porta del suo appartamento si trovava, impettita in una posa che prevedeva di tenere il mento sollevato e le braccia strette al petto come in procinto di condividere con lei una solenne notizia, Leena. Eileen non provò poi questo gran stupore, e rimase in silenzio sulla soglia rivolgendo un accenno di sorriso e uno sguardo paziente alla sua amica, che non esitò a continuare il suo discorso ad affetto:
“È arrivato il nostro momento di gloria. Andiamo a fare yoga.”
“Ma io ho lezione di flamenco!”
“Che vuoi che sia, nacchera qua, nacchera là… Abbiamo una missione, forza, prendi il materassino!”
“Non ne ho.”
Eileen questa volta inarcò un sopracciglio, una mano poggiata sulla porta e lo sguardo cristallini puntato sul bel viso dell’amica, che sospirò e assunse un’espressione amareggiata e pensosa mentre rifletteva sul da farsi:
“Merda, nemmeno io, speravo ne avessi uno in più… Va beh, lo troveremo strada facendo o alla peggio lo faremo apparire con la magia, andiamo!”
Eileen non aveva tutta questa voglia di uscire, quella sera. Ma ovviamente non ebbe alcuna scelta, e ben presto avrebbe inaugurato la sua personalissima esperienza con lo yoga.
 

“Momento di gloria un cazzo, fa malissimo!”
“Ammetto che forse non è stata una delle mie idee migliori…”
Era raro che accadesse, ma mentre i muscoli delle braccia sembravano sul punto di esploderle tanto li sentiva pulsare Leena Madison Zabini dovette ammettere, alla sua amica ma anche a se stessa, di non aver avuto poi una trovata così brillante. E dire che sul momento, quando aveva letto il messaggio di Esteban, le era parsa un’idea così perfetta! Seguire Kamala sul luogo di lavoro, fingere di voler seguire le sue lezioni come copertura e cercare di scoprire che cosa l’avesse legata a Montgomery. Sulla carta un piano perfetto, ma lo sarebbe stato anche nella pratica solo se Kamala invece di insegnare yoga avesse tenuto lezioni su come leggere libri, spettegolare e bere caffè in contemporanea: in quello lei ed Eileen erano delle vere esperte.
“Su, forza, assumete la posizione del corvo!”
Kamala Sharma doveva necessariamente essere un androide creato artificialmente dall’uomo, si disse Eileen mentre la bellissima strega distendeva le labbra mostrando due file di denti candidi e perfetti a tutti i poveri individui stremati e sudati presenti nella stanza. Com’era possibile che non fosse sudata affatto? E che i suoi capelli fossero perfetti dalla radice fino alle punte? La strega si accasciò esausta e soprattutto dolorante in ogni parte del corpo sul materassino viola pastello che aveva srotolato sul pavimento, e Leena la imitò prima di guardarsi attorno, accigliata, facendo correre i grandi occhi scuri sulle persone che le circondavano e sull’assurda, di certo dolorosissima posizione che i loro corpi stavano assumendo.
“Io te lo dico, questa stronzata non la faccio.”
Leena scosse la testa con disapprovazione mentre si metteva a sedere a fatica sul materassino, fingendo di doversi sistemare i lunghi capelli ricci raccogliendoli meglio sulla nuca mentre Eileen, che stava rimpiangendo il suo divano più che mai, guardava una delle donne a lei più vicine con aria stralunata: perché quella gente pagava per autoinfliggersi quelle torture?
“Tanto vale che chiami direttamente l’ambulanza, mi spaccherei i denti sul pavimento nel giro di un secondo...”
“Ma non la fa una pausa?! Dovevamo portarci Niki, lei l’avrebbe terrorizzata con la forza del suo sguardo penetrante e ne avrebbe fatte cinquanta, di pause!”
“Taci, dobbiamo farcela amica e scoprire che cosa nasconde!”
Kamala si stava pericolosamente avvicinando ai loro materassini colorati e le due si impegnarono immediatamente per fingere di cercare di assumere la posizione da lei indicata poco prima, stampandosi faticosamente due sorrisi plastici sul viso per salutarla fingendo allegria, noncuranza e affabilità. Kamala ricambiò il sorriso e risposte al saluto, riconoscendole, prima di superarle e dirigersi verso l’ultima fila di materassini della stanza, dando loro le spalle e permettendo così alle due di tornare ad accasciarsi sul pavimento esalando dei rumorosi sospiri. Eileen trovò la forza necessaria a sollevarsi quel poco che le bastò per ruotare la testa in direzione di Kamala e controllare che non fosse a portata d’orecchi, scuotendo infine la testa prima di gettare un’occhiata disperata all’orologio appeso alla parete davanti a lei pregando che quella tortura finisse in fretta:
“Ora tutto ha un senso, ecco perché in Sex and The City Carrie e Samantha andavano a lezione di yoga solo perché Samantha voleva scoparsi l’istruttore…”
“Beh, noi o cambiamo sponda o neanche quello possiamo fare.”

 
*

 
                                                                                                                                                                                                                                          Martedì 5 ottobre


Una volta fatto ritorno all’Arconia grazie alla Metropolvere e uscito dal camino del suo appartamento – quella mattina aveva spento la sveglia una volta di troppo e accumulato un discreto ritardo, ragion per cui aveva dovuto rinunciare alla prospettiva di andare al lavoro in moto ripiegando invece su un mezzo di trasporto infinitamente più immediato – Carter non si era nemmeno sfilato gli stivali chelsea neri o la giacca di pelle, appellando invece il guinzaglio e la pettorina rossa di Sarge per portarlo a fare una breve passeggiata prima di cenare: aveva bisogno di prendere un po’ d’aria dopo un’intera giornata chiuso in redazione e soprattutto aveva il frigo vuoto, quindi ne avrebbe approfittato per prendersi qualcosa da mangiare lungo la strada.
Mezz’ora dopo essere apparso nel camino del suo appartamento insieme a delle fiamme color smeraldo Carter varcò l’ingresso del palazzo segnato dall’alto cancello nero in ferro battuto con finitura anticata insieme a Sarge, che lo seguiva obbediente e felice per la passeggiata appena fatta, e ad un caldo e profumatissimo sacchetto di carta contenente dei burritos che il giornalista moriva dalla voglia di azzannare. Il cielo sopra la metropoli si era ormai fatto irrimediabilmente semi-buio e quando Carter, superato il breve tunnel, si affacciò sul cortile interno del palazzo lo vide illuminato fiocamente dalle luci giallastre dei lampioni e da quelle che si potevano scorgere attraverso le tende di alcune finestre. Qualcosa a quella vista lo riportò mentalmente a quasi tre settimane prima, la sera in cui erano stati fatti uscire dal palazzo e in cui era stato rinvenuto il cadavere di Montgomery, ma Carter addossò immediatamente la responsabilità di quel collegamento a ciò che aveva scritto negli ultimi giorni e cercò di accantonare quel pensiero mentre i suoi piedi guidavano lui e Sarge verso il vero e proprio ingresso quasi autonomamente, percorrendo un percorso ormai consolidatosi nelle sue giornate da ben sette anni a quella parte.
Mentre il suo sguardo cristallino correva sulla facciata dell’edificio disegnata in stile Neorinascimentale e sulle finestre dei vari piani, alcune illuminate tradendo la presenza dei rispettivi inquilini e altre no, Carter finì suo malgrado con il chiedersi, ancora una volta, se davvero sarebbe morto qualcun altro. Orion, per qualche assurdo motivo, ne sembrava totalmente persuaso, ma Carter non riusciva a fare a meno di dubitarne: perché avrebbero dovuto far fuori qualcun altro dei suoi vicini dopo a, come minimo, tre settimane dal primo omicidio? L’unica ragione valida che riusciva a venirgli in mente era che, forse, qualcuno sapeva qualcosa sulla morte di Montgomery che non avrebbe dovuto scoprire. E un po’ provava invidia nei confronti di quell’individuo immaginario che viveva come una sagoma indistinta nella sua mente, perché Carter moriva dalla voglia di saperne di più, sulla morte del suo vicino. Molto di più.
Gli capitò, con gran fastidio, di pensare a suo fratello, a come si ostinasse a rivolgerglisi come ad un bambino e a sottolineare come il suo lavoro non prevedesse il farsi invischiare in storie come quelle. Naturalmente Lincoln sapeva bene quanto Carter avesse sognato e desiderato di diventare un detective fin da bambino e non tardava mai a sottolineare quanto quel sogno fosse miseramente sfumato a causa di una delle sue pochissime debolezze, forse uno dei pochi aspetti della sua persona a fargli provare una sincera insicurezza. Perché fosse così sensibile alla vista del sangue e perché lo terrorizzasse Carter non lo ricordava neppure: forse da bambino era caduto, si era fatto male e aveva visto fiumi di sangue che nemmeno ricordava? Non ne aveva idea, qualsiasi cosa fosse successa l’aveva relegata in un angolo lontano della sua mente per non averne memoria futura, ma provava comunque un enorme astio nei confronti di quella fobia che, naturalmente, era spettata a lui e non certo al suo perfetto fratello dall’armatura scintillante.
La mente di Carter si era fatta inesorabilmente trascinare in una fastidiosa spirale di ricordi legati a suo fratello e ai loro genitori, che non in effetti non vedeva da parecchie settimane, quando si rese conto che Sarge stava cercando di condurlo non in direzione della porta e di Lester, ma verso una delle tante panchine bianche che popolavano il cortile insieme alle aiuole, ai cespugli – misteriosamente e forse magicamente sempre curati al millimetro quando Carter, in ben sette anni, non aveva mai visto nessuno potarli – e alla fontana centrale. A differenza della famigerata sera in cui l’allarme antincendio aveva spinto lui e tutti gli altri residenti a lasciare l’edificio il cortile era praticamente deserto, ma Sarge stava puntando dritto verso una delle poche persone che, a parte il padrone, vi si trovava: riscossosi rapidamente dalle sue elucubrazioni mentali su possibili morti future, su suo fratello e sulla sua emofobia Carter si rese conto che la persona che Sarge aveva notato era proprio una delle sue vicine. E di certo non una di quelle che trovava più piacevoli.
Ricordando il momento in cui aveva scorto suo fratello fuori dalla porta dicendosi che, dopotutto, avrebbe preferito ricevere una visita dalla spilungona di nero vestita Carter si convinse di come in qualche modo il cosmo lo avesse ascoltato e deliberatamente deciso di prendere per il culo: seduta, sola, su una panchina ad una ventina di metri dall’ingresso c’era Niki, irrimediabilmente a capo chino e armata di libro aperto sulle ginocchia. Stranamente non indossava gli occhiali da sole con la montatura rotonda ormai diventati estremamente familiari per Carter, ma dopo un breve stupore iniziale il giornalista si disse che, probabilmente, nemmeno lei era tanto stramba da indossarli di sera, per di più per leggere.
Certo Carter si chiese perché se ne stesse lì seduta a leggere quando la luce dei lampioni rendeva di certo l’operazione meno agevole rispetto a quelle domestiche, ma una parte di lui si convinse di non doversi più porre troppe domande a proposito dei comportamenti bizzarri della sua vicina e allentò, rassegnato, la presa sul guinzaglio di Sarge per accontentarlo e consentirgli di andarla a salutare. Perché stesse tanto simpatica al suo cane proprio non riusciva a capirlo.
Quando Niki percepì che qualcuno si stava avvicinando alzò la testa distogliendo lo sguardo, così chiaro da quasi brillare in mezzo alla semi-oscurità, dalle pagine del libro per puntarlo su Sarge e su Carter, aprendo le labbra in un sorriso straordinariamente sincero, quasi affettuoso, alla vista del Golden Retriever.
“Ma ciao.”
Niki chiuse il libro tenendo l’indice della mano sinistra in mezzo alle pagine per tenere il seguo e usò invece la destra per sfiorare la testa e le soffici orecchie di Sarge, accarezzandolo con gentilezza quando il cane sedette accanto a lei. Dapprima indeciso sul da farsi Carter finì col sedersi a sua volta sulla panchina, poco attratto dall’idea di restarsene in piedi in attesa che quel traditore del suo cane finisse di farsi corrompere dalla vicina. Invece di salutarsi lui e Niki restarono in silenzio, lei con gli occhi color giada fissi su Sarge ed eppure pensosi e Carter impegnato a scrutarla dubbioso con le sopracciglia aggrottate. Gli ci volle qualche istante prima di realizzare come, in effetti, non la vedesse da quando erano stati allo zoo cinque giorni prima. Ricordava di aver notato distrattamente come ad un certo punto la vicina fosse sparita nel nulla durante la visita, e si era rapidamente chiesto se non si fosse messa in testa di rubare qualche cucciolo di panda: non si poteva mai sapere. Dove fosse andata quella sera Carter non lo sapeva, ma realizzare di non averla vista da nessuna parte nei giorni precedenti gli sembrò bizzarro: da quando era morto Montgomery aveva avuto l’impressione di ritrovarsela davanti in ogni angolo dell’edificio, gli era persino capitata sul suo terrazzo, e poi niente. Dissolta nel nulla come fino ad un mese prima.
“È da qualche giorno che ti non vedo in giro.”
“Ho avuto giornate impegnative. Ti sono mancata?”
Il sorriso che Niki aveva rivolto a Sarge assunse dei connotati beffardi mentre la strega ruotava leggermente la testa in direzione di Carter, indugiando brevemente con lo sguardo sul viso del vicino mentre il giornalista sedeva a diversi centimetri di distanza da lei, le braccia strette al petto e l’impugnatura del guinzaglio stretto mollemente in mano.
“Come le zanzare in inverno.”
Il cupo borbottio di Carter destò inaspettatamente un accenno di debole risata in Niki anziché una risposta piccata e sarcastica, e la strega tornò a riporre la sua attenzione su Sarge e ad accarezzarlo mentre lo sguardo del vicino scivolava prima sulla testa del suo cane, che stava leccando la mano di Niki, e poi sul libro che sostava sulle sue ginocchia. Leggendo il nome dell’autore qualcosa si accese nella testa di Carter, che subito rammentò la sua più recente conversazione con il fratello e si lasciò rotolare quasi senza pensarci il titolo del libro sulla lingua:
A sangue freddo.”
“Lo hai mai letto?”
“No.”
“Dovresti. È il primo romanzo-reportage della storia. Tu più di me dovresti leggerlo.”
Carter pensò che probabilmente la vicina avesse ragione, ma si sarebbe tagliato un dito piuttosto che ammetterlo e tacque, prendendo mentalmente nota – non poteva tollerare l’idea che suo fratello potesse aver letto quel libro e lui, un giornalista, no – prima di chiederle qualcosa che non aveva potuto fare a meno di punzecchiare la sua curiosità non appena l’aveva scorta su quella panchina:
“Perché te ne stai qui fuori a leggere sforzandoti la vista quando potresti farlo dentro casa tua, con molta più luce e meno freddo?”
Niki questa volta non ricambiò il suo sguardo, limitandosi a continuare a concentrarsi su Sarge e ad accarezzarlo mentre si prendeva qualche istante prima di rispondere alla sua domanda; la strega finì col stringersi nelle spalle con un movimento pigro, appena accennato, e a parlare con un tono di voce neutro dal quale Carter non riuscì a carpire neanche l’ombra di un’emozione.
“Volevo prendere un po’ d’aria.”
Naturalmente a seguito dei loro ripetuti incontri che avevano avuto luogo nel corso delle precedenti settimane Carter sapeva che Niki non avrebbe aggiunto nient’altro, e dopo una breve pausa di riflessione e di silenzio parlò di nuovo accennando questa volta al libro che la strega teneva sulle ginocchia, giocherellando con il manico del guinzaglio nero di Sarge:
“Di che parla?”
“Un quadruplice omicidio nel Kansas, 1959. Due tizi entrano in una casa e uccidono un’intera famiglia sparandogli in testa. È crudele e intenso. Non è una lettura per tutti, ma è meraviglioso.”
“Perché?!”
Pieno d’orrore ma anche di curiosità al tempo stesso – la gente poteva strabuzzare gli occhi, sfoggiare smorfie, ma quella specie di attrazione verso storie di quel genere sarebbe sempre stata più forte di lui – Carter inarcò un sopracciglio, urtato e al tempo stesso affascinato da quel minuscolo e macabro assaggio mentre Niki, aggrottata la fronte, si prendeva qualche istante prima di rispondere fissando la ghiaia davanti alla panchina.
“Non so se ci fosse un vero motivo. Forse a volte non c’è, c’è solo crudeltà e follia.”
“Pensi che sia andata così anche per Montgomery?”
“No. Forse se fosse morto in modo diverso. Credo che il veleno sia molto… personale, come mezzo per uccidere qualcuno. Se davvero è andata così.”
Carter pensò che probabilmente avesse ragione, ma di nuovo non si pronunciò. Si limitò ad annuire, d’accordo con lei, e a fissare assorto la ghiaia che separava la panchina dal prato per una manciata d’istanti prima di depositare una leggera e affettuosa carezza sulla testa di Sarge e alzarsi in piedi, rammentando solo in quel momento di avere una gran fame e dei burritos da ingurgitare.
“Allora penso che lo leggerò.”
“Bravo.”
Niki lo guardò alzarsi senza imitarlo, ma dovette decidere di aver temporaneamente esaurito la sua dose di lettura perché ripose il libro infilandolo nella sua borsa di tela nera.
“Beh, ci si vede.”
“Immagino di sì. Ciao Sarge.”
Niki indirizzò un ultimo sorriso in direzione di Sarge, guardando lui e il padrone allontanarsi fino a scorgerli raggiungere Lester all’ingresso, le loro figure stagliarsi contro la luce dell’atrio del palazzo che filtrava attraverso la porta di vetro. Stava ponderando se imitarli o meno, se tornare come Carter al tredicesimo piano, quando un rumore distolse brevemente la sua attenzione: un lieve fruscio di foglie più o meno sopra di lei, che Niki ricondusse immediatamente al carpino che era stato piantato alle spalle della panchina, tenne i suoi occhi verdi incollati, dubbiosi, alle fronde della pianta che andavano seccandosi con l’inizio dell’avanzare dell’autunno.
 
Carter varcò finalmente la soglia dell’Arconia dopo aver salutato Lester insieme a Sarge, che come sempre fu felice di farsi dare qualche coccola anche dall’anziano portiere: il suo cane era un venduto di prima categoria, ma il giornalista lo lasciò fare guardandolo con occhi pieni d’affetto. Fu prima di addentrarsi nell’ingresso illuminato dall’enorme lampadario appeso al soffitto che Carter si voltò per posare lo sguardo, senza sapere di preciso il perché, sulla panchina dove aveva brevemente preso posto poco prima: provò un leggero moto di stupore nel trovarla vuota, soprattutto perché non scorse la sua vicina nemmeno in prossimità dell’ingresso o, in generale, in un qualche punto del cortile visibile da dove si trovava.
“Lester, ci sono sempre gli incantesimi per impedirci di Smaterializzarci, vero?”
“Certo Signore.”
Carter ci provava da anni a farlo smettere di chiamarlo Signore, che lo faceva sentire vecchio e orribilmente vicino all’immagine di suo padre o di suo fratello, ma il portiere gli era talmente simpatico da rendergli impossibile anche solo tentare di rimproverarlo o di spazientirsi. Si chiese invece, prima di salutare Lester e invitare Sarge a seguirlo dentro con un dolce strattone del guinzaglio, se per caso la sua vicina non fosse a conoscenza di delle botole nascoste in giro per la proprietà, tanto spariva alla velocità della luce.
 
 
*
 

L’umore di Kei, quella sera, non era propriamente dei migliori: l’esito di un orribile weekend vissuto all’insegna della spiacevolissima immagine del corpo di Montgomery riesumato e dell’esame tossicologico, i cui risultati avrebbero potuto stravolgere completamente le conseguenze della morte del suo amico. Kei non era riuscito a smettere di pensarci da quando l’aveva saputo da Moos, che i genitori di Montgomery avevano acconsentito a seguito di un lungo colloquio con i detective. Era quasi sicuro di averlo persino sognato, la sera prima, qualcosa di orribile che aveva a che fare con bare vuote e cumuli di terra umida: si era svegliato prima dell’alba, madido di sudore e con Polaris a sonnecchiare ai piedi del suo letto come sempre, ma esattamente come quando gli capitava di sognare la morte dei suoi genitori, pur non avendovi assistito direttamente, non era più stato in grado di riaddormentarsi
Per tutto quel lungo, quasi interminabile weekend aveva tentato di dedicarsi a ciò che, di solito, contribuiva a rilassarlo meglio di qualsiasi altra cosa: era andato in piscina, aveva nuotato a lungo, una vasca dopo l’altra per cercare di allentare la tensione e pensare a qualcosa che non avesse a che fare con ciò che, probabilmente, in quel momento stava subendo il corpo privo di vita del suo amico. Tornato all’Arconia se n’era stato a lungo seduto sul divano con Polaris a fargli le fusa sulle ginocchia e al telefono con una delle sue sorelle, ma nemmeno la voce dolce e familiare come una carezza sulla guancia di Etsuko era riuscito a distrarlo fino in fondo; aveva cercato di sedersi davanti al suo computer e di scrivere, ma niente. Riusciva solo a pensare all’esito di quell’esame.
Era stato di gran lunga uno dei weekend più penosi di cui Kei avesse memoria da che si era trasferito a New York, e un inizio di settimana se possibile peggiore. Naturalmente Orion aveva provato a tirarlo su e a distrarlo, ma Kei aveva declinato, seppur grato nei confronti dell’amico, il suo invito a vedersi per chiacchierare e bere qualcosa. A volte quasi si ritrovava ad invidiare profondamente l’amico per come viveva, elaborava ed affrontava il dolore, quando si ritrovava a riflettere su come non avesse praticamente mai scorto il viso di Orion senza un sorriso allegro impresso sulle labbra, ma forse lui non ne sarebbe mai stato capace.
Il weekend era finito, la settimana ricominciata, ma Kei ancora restava immerso in quell’orribile, lenta ed apparentemente infinita attesa: era steso scompostamente sul divano blu del suo soggiorno, gli occhi scuri puntati sul soffitto bianco sopra di lui, quando qualcuno aveva suonato il campanello. Seppur poco allettato all’idea di ricevere visite in quelle circostanze Kei non aveva esitato ad alzarsi e ad attraversare il corridoio che lo avrebbe portato fino all’ingresso circolare dell’appartamento, un nodo alla gola e lo stomaco in subbuglio all’idea di poter ricevere notizie imminenti: l’ora di cena era passata da un pezzo, e qualcosa gli disse che chiunque si trovasse fuori dalla porta a quell’orario abbastanza insolito per una visita avesse un buon motivo per aver suonato il suo campanello.
Kei capì che l’attesa poteva dirsi ufficialmente conclusa quando, aperta la porta, si trovò davanti un vicino che abitava due piani più in basso. Un sorriso gentile che tradiva tracce di disagio dettate da ciò che doveva dirgli, un completo nero addosso e una tortiera bianca decorata da un motivo di minuscole e delicate ciliegie in mano, Moos ricambiò il suo sguardo inquieto porgendogli la tortiera:
“Ciao. Spero di non disturbarti. E che ti piaccia la Blueberry Pie.”
 
C’era qualcosa che strideva, in Bartimeus Thomas: il suo aspetto, il suo lavoro, il suo elegante completo nero, non sembrava avere nulla a che fare con la torta di mirtilli che giaceva all’interno di quell’adorabile casserole di ceramiche coperta da ciliegie. Sembrava il risultato di una bizzarra fusione tra due individui che niente avrebbero dovuto avere a che fare l’uno con l’altro, ma Kei era troppo preso dal riflettere, sconvolto, a proposito di ciò che il vicino gli aveva appena comunicato per darci particolare peso.
“Non è possibile.”
“Temo che sia così. Ho pensato di farlo sapere prima a te.”
Moos parlò sforzandosi di sorridere, non seppe nemmeno bene perché: non c’era proprio alcun motivo per sorridere, non quella sera e in quelle circostanze, per nessuno dei due. Forse era solo il suo solito, innato bisogno di essere gentile con chiunque. Kei scosse la testa, sconcertato, stando in piedi oltre il divano con le sopracciglia aggrottate fino a creare una ruga in mezzo alla sua fronte liscia e pallida. Mentre il padrone cercava faticosamente di assimilare ciò che il vicino era giunto a comunicargli Polaris prese a strusciarsi contro le gambe dell’ospite riempiendogli i pantaloni neri del completo di sottili peli color grigio scuro, ma naturalmente Moos non si indispettì, del tutto incapace di farlo quando c’era di mezzo un qualsiasi animale, e anzi abbozzò un sorriso mentre si chinava per accarezzare gentilmente la piccola testa del felino domestico.
“Ma io pensavo…”
“Lo pensavo anche io. Tutti noi, direi.”
“Quindi non aveva tracce di veleno in corpo quando è morto?”
“No.”
Moos parlava, muoveva le labbra e la sua voce echeggiava chiara all’interno del soggiorno, eppure Kei faticava ad assimilare le sue parole, guardandolo incredulo e quasi inorridito al tempo stesso. Prese a muoversi camminando nervosamente avanti a indietro di fronte a Moos, percorrendo l’intera lunghezza del divano prima di voltarsi e tornare indietro per poi ripetere l’operazione da capo. Kei sbattè le palpebre mentre nella sua mente rievocava ciò che Moos era giunto a dirgli poco prima, deglutendo a fatica prima  di dire qualcosa con voce quasi tremante:
“Ma è… ridicolo. Lui non può essersi ucciso. La mano destra? E il caffè? Lui non beveva caffè.”
“Lo so.”
Moos annuì e parlò con fare paziente, come se Kei fosse semplicemente qualcuno da confortare dopo avergli dato cattive notizie e non qualcuno che stava vivendo il suo stesso stato d’animo. Naomi glielo ripeteva spesso, quanto fosse troppo incline a mettersi da parte per pensare agli altri ed essere sempre gentile e disponibile con chiunque, ma decideva quasi sempre di non darle retta.
“Forse mi sbaglio, ma penso che sia andata così: forse qualcuno gli ha portato quel caffè per ucciderlo. Ma non l’ha bevuto, forse perché non si fidava di quella persona o semplicemente perché non ha mai sopportato quella bevanda. Analizzeranno il bicchiere per scoprire se il caffè fosse stato effettivamente manomesso o no.”
“Ok, quindi non beve il caffè. In qualche modo lo… butta via, magari. Ma poi qualcuno lo uccide lo stesso?”
Kei annuì e indirizzò nuovamente su di lui lo sguardo dubbioso e un poco stralunato senza smettere di misurare la parte della stanza in cui si trovavano a grandi passi, momentaneamente incapace di stare fermo mentre Moos, al contrario, annuiva sfoggiando una calma piatta:
“Forse chi gli porta il caffè capisce di aver fallito. Allora torna e… finisce il lavoro.”
Era forse l’espressione peggiore che avrebbe potuto utilizzare, Moos se ne rese conto con una discreta dose d’orrore nel momento stesso in cui pronunciò quelle parole. Per fortuna Kei era scosso a prescindere e non ci fece caso, continuando a marciare avanti e indietro di fronte al divano mentre lui lo osservava, immobile, in piedi nello spazio tra il mobile e le finestre che si affacciavano sul cortile ormai buio e illuminato solo dalla luce dei lampioni.
“Sai, mi è tornata in mente una cosa, in questi giorni.”
Questa volta Moss si persuase di aver scelto le parole giuste, perché a Kei bastò udirle per smettere di colpo di camminare fermandosi nel bel mezzo del salotto e voltarsi verso di lui, in attesa e con lo sguardo inquieto. L’ex Serpecorno esitò, chiedendosi se non fosse un pensiero sciocco ed irrilevante, ma si schiarì la voce e lo condivise comunque con il vicino: forse lui avrebbe potuto dirgli se era davvero sciocco o meno.
“Quando eravamo piccoli Monty faceva una cosa: gli mettevano qualcosa che non voleva nel piatto, perché era davvero un insopportabile marmocchio petulante che non voleva neanche toccare le verdure, e appena sua madre o la cameriera si voltavano lui… le Trasfigurava. Credo che sia iniziata senza che lui se ne rendesse conto, ma aveva quasi imparato a controllarlo. E il suo piatto si riempiva di pollo fritto, patatine e cose del genere.”
“Pensi che abbia… trasformato il caffè in qualcos’altro?
“Forse. È una cosa che avrebbe potuto fare. Spiegherebbe perché non avesse veleno in corpo, se dovesse venir fuori che il bicchiere era, effettivamente, stato contaminato con qualcosa.”
Kei annuì lentamente e distolse lo sguardo dal suo viso, fissando pensoso un punto indefinito del divano blu dove aveva trascorso buona parte del weekend precedente finchè un pensiero non si fece strada nella sua mente inducendolo a riportare, accigliato, gli occhi a mandorla sul vicino:
“Come hanno avuto il bicchiere?”
Kei guardò l’accenno di un sorriso farsi strada e distendere le labbra carnose di Moos, la cui mano preso a giocherellare distrattamente con il bottone del blazer prima di parlare con aria colpevole e un tantino soddisfatta al tempo stesso:
“Ho un amico al Quartier Generale.”

 
*
 
 
Mercoledì 6 ottobre
Queens
 
 
Sembrava che quella mattina metà dei quartieri del Queens fossero stato inghiottiti da una lugubre e fitta coltre di nebbia, ma camminando lungo i marciapiedi e guardandosi attorno Niki aveva rapidamente appurato una cosa: nebbia o meno era proprio così che lo ricordava, il quartiere dove era cresciuta. Grigio e intrinsecamente triste, tanto che aveva iniziato a masticarne il nome con tetra ironia, Sunnyside, già da bambina. Scesa dalla metro i suoi piedi l’avevano condotta rapidi e sicuri verso la sua destinazione, destando stupore nella strega per la chiarezza con cui il ricordo della strada era rimasto intatto nella sua memoria. Prima di rendersene conto Niki era approdata nella lunga via in cui aveva trascorso praticamente ogni attimo della sua infanzia e aveva continuato a camminare finchè non aveva scorto, sul lato del marciapiede in cui si trovava, un disegno impresso con un gesso bianco.
La strega si era fermata, il capo chino e gli occhi verdi fasciati dalle lenti scure puntati sul disegno per giocare a campana che era stato impresso sull’asfalto. Era rimasta immobile per alcuni istanti mentre ricordava se stessa china sul marciapiede per tracciare quelle linee e quei numeri prima di persuadersi di come qualche altro bambino dovesse necessariamente averlo ripassato di recente: quel disegno non avrebbe mai potuto sopravvivere allo scorrere del tempo.
Non si era guardata attorno, non aveva alzato nemmeno lo sguardo sull’edificio a tre piani che aveva di fronte, si era limitata a dare le spalle al disegno e alla strada deserta prima di salire i sei gradini che la dividevano dall’ingresso, una porta nera con inserti in vetro e la vernice sbeccata in diversi punti. Aveva saltato quasi inconsapevolmente il terzo gradino, che traballava da che aveva memoria, e aveva aperto la porta dopo aver tirato fuori dalla tasca della lunga giacca nera un anello di metallo leggermente annerito che reggeva due chiavi.
La porta si era aperta cigolando, come sempre, e lo sguardo di Niki aveva indugiato solo brevemente, in piedi sulla soglia, sullo stretto ingresso semi-buio, illuminato fiocamente dalla luce grigia che entrava dalle finestre della tromba delle scale che conducevano ai piani superiori. Le assi del pavimento erano più annerite di quanto ricordasse, e così le pareti ammuffite negli angoli a causa della poca luce. Si era chiesta se fosse sempre stato così piccolo, o se da bambina tutto le era semplicemente parso più grande, mentre varcava la soglia e si chiudeva la porta alle spalle con un lungo cigolio. Immersa ancor più nella semi-oscurità Niki si era rivolta verso la sola porta che si trovava alla sua destra, infilando lentamente la seconda chiave nella serratura prima di farla scattare e aprirla.


Un’ora dopo Niki si trovava nuovamente in piedi sul marciapiede, questa volta dando le spalle all’edificio dal quale era appena uscita e indirizzando gli occhi verdi su un punto al di là della strada, sul marciapiede opposto, impegnata ad osservare qualcosa che ormai non c’era più ma il cui ricordo era ancora perfettamente vivido nella sua memoria. Riusciva facilmente a rivedere se stessa scendere i gradini di mattoni appena ripercorsi e gettare un’occhiata piena di desiderio a quelle file di caldi e soffici bagel al sesamo che aspettavano solo di essere assaggiati. Riusciva a rivedersi levare una mano per salutare l’uomo che li vendeva e che talvolta gliene regalava uno, prima di sfrecciare a scuola con lo zaino malconcio e ricucito in più punti che le dondolava traballante sulle spalle.
Jerry, l’uomo che vendeva i bagel, non c’era più, naturalmente. Non c’erano più nemmeno i bagel caldi e profumati. Ad un primo sguardo sembrava che tutto ciò che ricordava di quella strada fosse scomparso col passare del tempo, un pezzo per volta. Aveva vissuto lì per diciassette anni e l’unico segno tangibile del suo passaggio, l’unica cosa ad essere rimasta immutata da quando se n’era andata, erano i segni di gesso bianco che negli anni altri bambini che avevano vissuto nelle case a schiera che si affacciavano sulla strada avevano ricalcato per non farli sbiadire. Aveva vissuto lì per diciassette anni ma niente di ciò che ricordava era rimasto, nemmeno l’anziana signora greca che urlava sempre di non fare chiasso dalla finestra del terzo piano del palazzo di fronte, il venditore ambulante di fiori del mercoledì e il tremendo olezzo di fritto che si levava incessantemente dalla tavola calda all’angolo della strada.
Di fronte a quella strada, a quella persone e alle facciate degli edifici, molte riverniciate nel corso degli anni, ormai estranee Niki si sentì una sorta di fantasma giunto a far visita ai propri ricordi spazzati via dal tempo, e per quanto avrebbe desiderato avere la forza necessaria per non voltarsi verso l’edificio alle sue spalle finì col disegnare un mezzo giro per posare ancora lo sguardo sulla palazzina a schiera dove tempo prima aveva vissuto.
Quella, a differenza di gran parte del resto della strada, non era cambiata affatto da come la ricordava: Niki osservò l’immagine della facciata marrone, ormai quasi tendente ad un tetro grigio sporco, rivestita in pietra della casa a tre piani. Non era mai stato bello, quell’edificio, e da piccola ricordava di aver trovato terribilmente noioso il suo aspetto ordinario, in linea con quello delle classiche townhouses di New York, con il tetto piano, la simmetria delle finestre e delle scale antincendio, il colore così semplicemente triste, i gradini che conducevano alla porta d’ingresso malandata e cigolante che non si chiudeva mai bene al primo tentativo. Si stava chiedendo se le piccole crepe sulla parte sinistra della facciata ci fossero sempre state, se quell’edificio avesse sempre avuto un’aria desolante o se invece riuscisse a vederlo solo dopo esserne stata lontana a lungo, quando, un attimo dopo essersi voltata, scorse un movimento appena percettibile nella prima finestra, alta, stretta e di forma rettangolare come tutte le altre dell’appartamento al pian terreno sul lato sinistro dell’edificio.
La tenda all’interno della stanza si stava muovendo, ondeggiando appena percettibilmente come se qualcuno l’avesse appena mossa, forse dopo averla scostata leggermente per poter guardare fuori. Per poter guardare lei, magari.
Niki fissò la tenda percependo il proprio battito cardiaco accelerare all’improvviso e la salivazione diminuire mentre i suoi piedi si muovevano quasi senza il suo controllo, facendola scendere talmente di scatto dal marciapiede da farle quasi rischiare di scivolare. Niki continuò a guardare la tenda per un altro istante, finchè non si fece immobile, e infine si voltò per allontanarsi sfilandosi gli occhiali da sole dalla tasca della giacca di pelle per infilarseli di nuovo. Percorse i metri che la separavano dall’incrocio che segnava la fine della via con falcate talmente lunghe e affrettate da guadagnarsi gli sguardi perplessi dei passanti, desiderosa di fuggire da quel posto, da quella strada e dai ricordi che scaturivano mentre si chiedeva se avesse davvero visto la tenda muoversi o meno.
 
 
 
Era quasi mezzogiorno e Mathieu era pronto a tornare a casa. Pronto e anche un tantino impaziente, sentendosi a dir poco esausto: era abituato a svegliarsi molto presto, a causa del suo lavoro, ma la sera precedente aveva faticato parecchio per addormentarsi e alzarsi dal letto, diverse ore prima, gli era costata parecchia fatica e una buona dose di forza di volontà che non era nemmeno del tutto sicuro di sapere da dove avesse racimolato.
Mathieu sedeva all’interno della sua amatissima e costosissima auto, indugiando con il telefono in mano prima di mettere in moto: stava scorrendo la valanga di messaggi che aveva trovato, poco prima, all’interno della chat di gruppo che condivideva con alcuni dei suoi vicini, e leggere alcune delle assurdità che avevano scritto lo stava divertendo a tal punto da fargli accantonare temporaneamente il desiderio di sfrecciare verso l’Upper West Side, l’Arconia e il suo appartamento. Mathieu non era sicuro di riuscire a capire se i suoi vicini fossero seri o meno, ma in compenso leggendo quei messaggi si stava divertendo terribilmente, lì seduto in auto a sogghignare di fronte alle teorie strampalate sul caffè, sul veleno, su Montgomery e sui possibili assassini. A stranirlo leggermente era il fatto che Niki non ne stesse approfittando per sfottere Carter e le sue teorie, ma a pensarci bene non era poi così bizzarro che la strega che era stata in grado di non spiccicare parola con nessuno per ben sei mesi non avesse ancora scritto neanche l’ombra di un messaggio in quella chat di gruppo.
Giunto alla fine dei messaggi – in cui Orion proponeva, stranamente, di riunirsi per parlare davanti ad un caffè e un Gabriel abbastanza stranito chiedeva a Leena perché si fosse salvata con il nome di “Norma Bates”, che in effetti suonò in qualche modo familiare anche al canadese, pur non riuscendo a capire il perché sul momento – Mathieu ripose il telefono, finalmente pronto a mettere in moto la sua Rolls Royce per tornarsene a casa, ma qualcosa lo bloccò proprio mentre inseriva la chiave nel blocchetto d'accensione. Stranito e momentaneamente immobilizzato sul sedile rivestito in pelle caro quanto un monolocale a Bushwick, Mathieu aggrottò le sopracciglia bionde mentre osservava, stupito, una figura alta, slanciata e interamente vestita di nero camminare lungo il marciapiede proprio davanti a lui, attirando su di sé gli sguardi dei passanti grazie alla considerevole altezza e alle falcate decise. I pochi dubbi che gli erano rimasti svanirono alla vista dei lacci scarlatti infilati nelle asole di un paio di anfibi consumati ma lucidi e il canadese si domandò, accigliato, che cosa ci facesse Niki nel Queens e quante probabilità avrebbe avuto di incontrarla proprio lì.
Un pensiero gli suggerì rapidamente che la vicina sarebbe stata assolutamente in grado di pedinarlo – chissà perché non gli risultava affatto difficile immaginarlo – e Mathieu mise in moto l’auto procedendo praticamente a passo d’uomo lungo la strada fino a quasi affiancare Niki, abbassando il finestrino per chiamarla:
“Niki?!”
La strega non rispose, continuando imperterrita a camminare con le mani nelle tasche della lunga giacca di pelle nera allacciata in vita e lo sguardo fisso davanti a sé celato dalle lenti scure degli occhiali. Mathieu la chiamò di nuovo, questa volta alzando leggermente la voce e mantenendo l’andatura dell’auto costante per non superarla, ma sempre senza ottenere una risposta. Un paio di nonnette che stavano camminando sullo stesso marciapiede di Niki reggendo le borse della spesa, ma nella direzione opposta, superarono l’auto guardando male il guidatore e scuotendo la testa con evidente disapprovazione, costringendo Mathieu a sospirare prima di difendersi a gran voce e a chiedersi perché nessuno in quella città fosse più in grado di farsi gli affari propri:
Non è come sembra, la conosco! Niki!”
Quello era esattamente il genere di nonnette per le quali Mathieu mai e poi mai si sarebbe fermato ad aiutare a portare le borse, e sbuffò amareggiato prima di riportare lo sguardo sulla vicina e chiamarla una terza volta, infastidito.
Niki, naturalmente, indossava un paio di AirPods celate alla vista dalla coltre di lunghi capelli castani che le ricadevano sulle spalle, ma tra una nota e l’altra di Respect le parve di sentire una voce lontana chiamare il suo nome. La strega la etichettò immediatamente come un’ipotesi ridicola, chi mai avrebbe potuto riconoscerla e prendersi la briga di richiamare la sua attenzione? Continuò infatti imperterrita a procedere sul marciapiede con lunghe falcate ordinandosi di non farsi suggestionare finchè non le sembrò di sentire, di nuovo, qualcuno pronunciare il suo nome: a quel punto, dubbiosa e vagamente inquieta Niki ruotò leggermente il capo verso il ciglio della strada aggrottando le sopracciglia, finchè i suoi occhi non si scontrarono con un’auto che stava inesorabilmente procedendo accanto a lei. La strega trasalì e arrestò immediatamente le falcate, fermandosi di colpo sul marciapiede mentre i suoi occhi mettevano a fuoco un viso familiare che la stava guardando perplesso di rimando.
“Mike, ma che cazzo fai?! Ho perso vent’anni di vita, cazzo!”
Niki parlò sfilandosi le cuffie dalle orecchie, stringendole nella mano destra mentre Mathieu, fermata l’auto, la guardava di rimando attraverso il finestrino abbassato, accigliato e fortemente esasperato all’udire quel soprannome:
“Io non mi chiamo…”
Ma prima che potesse finire di parlare Niki sbuffò e agitò una mano per liquidare il discorso, come a volerlo invitare a non farle perdere tempo con stronzate come quella:
“Lo so benissimo come ti chiami. Che cosa ci fai qui?”
Tu che cosa ci fai qui.”
“Te l’ho chiesto prima io.”
Mathieu non rispose, prendendosi qualche istante per studiare scettico il viso della strega semi celato dalle lenti scure dei suoi occhiali per cercare di capire se fosse seria o meno, ma come spesso accadeva la minima facciale della vicina gli trasmise solo una sorta di inespressiva apatia. Fu però incredibilmente lei a parlare di nuovo quando si scontrò con il silenzio del vicino, stringendosi debolmente nelle spalle mentre tornava a far sprofondare le mani dalle dita lunghe e flessuose all’interno delle tasche della giacca nera:
“Ok, facciamo così, rispondi alla mia domanda e poi io darò retta alla tua.”
“Ci lavoro, qui.”
Non era esattamente la risposta che Niki si era aspettata di ricevere, perché l’idea che uno dei suoi vicini potesse lavorare nel Queens, soprattutto Mathieu, che viveva in un appartamento grande sei volte quello in cui lei era cresciuta, le sembrava semplicemente ridicola: da qualche parte, dentro di lei, il Queens e l’Upper West Side costituivano identità distinte e separate da una distanza incolmabile che mai sarebbero potute entrare in contatto l’una con l’altra. Due mondi senza un punto di collisione. L’idea che una persona come lui lavorasse in quel quartiere la fece quasi scoppiare a ridere, oltre che stranire.
“Tu… lavori qui.”
Perché il tono di Niki sembrava sarcastico, come se stesse pronunciando un’assurdità? Accigliato e sempre più confuso dal bizzarro trattamento che talvolta i vicini erano soliti riservargli Mathieu annuì, ricambiando dubbioso il suo sguardo dall’interno dell’auto:
“Sì.”
Qui.”
Niki si ripeté scandendo lentamente quell’unica sillaba, lo sguardo stralunato puntato su Mathieu dietro alle lenti scure degli occhiali. Il cielo era grigio quel giorno e gli occhiali erano del tutto inutili, ma Mathieu non perse tempo a farsi troppe domande e si limitò ad annuire:
“Sì.”
Mathieu annuì e sollevò entrambe le sopracciglia, come a chiederle se intendesse ripetere nuovamente la stessa domanda. Niki non lo fece, osservandolo sbattendo le palpebre chiedendosi come, esattamente, si potesse lavorare nel Queens con quella macchina. Era piuttosto sicura che l’auto del suo vicino fosse la prima Rolls Royce a vagare per il quartiere da che era stato costruito.
“Beh. Inaspettato. Bene, ti saluto.”
E Niki riprese a camminare come se nulla fosse, infilandosi nuovamente le cuffie nelle orecchie con la massima noncuranza per tornare a concentrarsi sulla sua musica mentre si dirigeva verso la fermata della metro più vicina. Mathieu rimise in moto l’auto e la seguì, intenzionato a farle notare come avesse deliberatamente eluso la sua domanda, ma quando glielo disse Niki si limitò a rivolgergli un’ultima e rapida occhiata sfoggiando un accenno di sorriso:
“Scusa Mike, ho detto che avrei dato retta alla tua domanda, non che avrei risposto. Ti consiglio solo di gettare almeno venti… venticinque incantesimi di protezione sulla tua auto se la posteggi qui in giro.”
Mathieu si disse esasperato che probabilmente una risposta del genere avrebbe dovuto aspettarsela, ma prima di avere il tempo di chiederle se volesse un passaggio, in caso stesse tornando nell’UWS, Niki aveva già svoltato l’angolo infilandosi in una via stretta e poco affollata, allontanandosi con falcate ampie e rapide dal suo campo visivo.
Dal canto suo, Niki riteneva che per portare una Rolls Royce in quelle zone della città si doveva essere incredibilmente coraggiosi o incredibilmente stupidi. Non si premurò di condividere quelle riflessioni con il vicino, ma mentre guardava l’auto allontanarsi si chiese a quale delle due categorie Mathieu avesse deciso di appartenere. O forse era solo esibizionismo. Perché gli uomini fossero tanto fissati con le loro auto non l’avrebbe mai capito.
 

 
*
 
 
Quella sera
 
 
Esteban era decisamente impaziente di cominciare, ma attese, in piedi davanti alla lavagna, che quasi tutti avessero preso posto qua e là sugli ampi e comodi divani chiari del soggiorno di Mathieu prima di prendere la parola:
“Ci siamo tutti? Non manca qualcuno?”
Il giornalista si rigirò il pennarello nero che teneva in mano tra le lunghe dita color caffelatte mentre faceva rimbalzare lo sguardo sui volti dei presenti, certo che la stanza sembrasse meno affollata rispetto al solito.
“Carter ha detto che non viene, è in giro a cercare informazioni su un articolo che deve scrivere su un giocatore di Quodpot.”
Mathieu, seduto tra Gabriel e Naomi, si portò una manciata di patatine alle labbra reggendo un’enorme scodella di plastica mentre Jackson, che aveva occupato il divano di fronte insieme a Kei e a Orion, scuoteva la testa dopo aver gettato un’ultima occhiata a tutta la sfilza di messaggi che Piper gli aveva mandato per tutto il pomeriggio lagnandosi della luce orribile dettata dal mal tempo che l’aveva costretta a restare sul set per molte ore più del necessario.
“Piper è bloccata ad uno shooting, credo. O qualcosa del genere.”
“Dov’è Niki?”
Moos, bloccato tra Naomi e il bracciolo del divano, parlò guardandosi attorno con un sopracciglio inarcato, stranito all’idea che Niki si stesse perdendo l’incontro. Non perché pensasse che morisse dalla voglia di godere della loro compagnia, naturalmente, ma alla luce dei recenti eventi e considerando di che cosa avrebbero parlato gli sembrò comunque bizzarro.
“Volete dire che oggi non vedremo Carter e Niki scannarsi?”
Orion sembrò quasi dispiaciuto nel pronunciare quelle parole sgranando gli occhi scuri, e un assenso generale si diffuse nel salotto mentre Leena ed Eileen si univano al gruppo, di ritorno dalla cucina reggendo bicchieri pieni di succo di zucca, e Mathieu mormorava qualcosa ingollando un’altra manciata di patatine.
Sembra Natale.
“Ragazze, perché camminate così?”
Alla vista di Leena ed Eileen avvicinarsi camminando in modo piuttosto bizzarro, come se le gambe dolessero loro particolarmente, Naomi si sporse leggermente oltre Mathieu per gettare un’occhiata stranita alle due vicine, che sbuffarono mentre superavano gli altri per raggiungere le due poltroncine color verde bottiglia rimaste libere e sedersi a loro volta.
“Abbiamo fatto yoga. Un’esperienza infernale.”
Leena quasi si accasciò sulla sedia maledicendo la sua stessa idea ed Eileen la imitò, annuendo seccata:
“È tutta oggi che cammino come un pinguino. L’acido lattico mi sta massacrando.”
Eileen gettò un'occhiata malinconica alle proprie povere gambe doloranti ed Esteban fece del suo meglio per non ridere, conscio di come sarebbe stato indelicato, mentre riprendeva a parlare:
“Beh, questo si ricollega perfettamente a quello che volevo dire, grazie ragazze. Allora, come sappiamo sembra che Monty non avesse ingerito alcun veleno, alla fine… Ma questa storia del bicchiere e del caffè è comunque strana.”
“E c’è la questione della mano. Quindi lo hanno ucciso per forza, veleno o no.”
La voce di Kei si levò cupa dal suo angolo del divano ed Esteban annuì, accennando brevemente nella sua direzione col pennarello prima di scriverlo sulla lavagna mentre Orion assestava qualche colpetto consolatorio sulla spalla dell’amico:
“Giusto. Inoltre, pare che un paio di giorni prima di morire Monty sia stato visto discutere proprio con la nostra istruttrice di yoga preferita.”
Gabriel avrebbe avuto da ridire, ma rimase in rispettoso silenzio e si limitò a dar vita ad una smorfia con gli angoli delle labbra mentre Naomi si voltava in direzione di Leena ed Eileen, chiedendo loro se quell’improvviso interesse per lo yoga avesse una qualche correlazione con Kamala.
“Certo, non mi sarei fatta torturare in quel modo altrimenti! Comunque ovviamente non abbiamo scoperto nulla, Leena dice che dovremmo andarci spesso e farcela amica. Insomma, nelle serie tv ci sono sempre quelle tipe che fanno yoga e poi bevono il caffè e parlano dei cavoli propri. Beh, in questo caso tè, perché lei sappiamo che non lo beve.”
Orion, ferito nel profondo, scosse la testa con disapprovazione: fortuna ci avevano pensato loro a sacrificarsi per la causa comune, perché lui non sarebbe mai riuscito nemmeno a fingersi amico di una tipa del genere.
“Quindi pensate che qualcuno possa aver provato ad avvelenarlo… per qualche motivo non ci riesce, se ne rende conto e quella notte torna e lo uccide definitivamente?”
Jackson parlò aggrottando la fronte e cercando di trascrivere le parole dei vicini più rapidamente che poteva sulle note del suo telefono avendo promesso a Piper di farle un resoconto dettagliato della serata che si stava perdendo, ed Esteban annuì osservando pensoso la foto di Kamala appesa alla lavagna.
“Potrebbe essere, sì.”
“Se dovessero trovare tracce di veleno nel bicchiere sarà andata così per forza. In tal caso Monty semplicemente aveva deciso di non bere il caffè e in qualche modo ha evitato di finire avvelenato.”
Mathieu si strinse nelle spalle porgendo la ciotola di patatine a Gabriel, che però la rifiutò con un educato cenno della mano. Naomi e Moos invece furono felicissimi di servirsi: ad entrambi situazioni di tensione come quella attuale facevano venire una gran fame.
“Perché sospettava qualcosa o perché non gli piaceva?”
Naomi fissò le foto appese alla lavagna aggrottando le sopracciglia, profondamente infastidita all’idea di non avere il quadro completo di come le cose fossero andate. Il suo sguardo tornò ad indugiare sulla foto di Kamala, la bellissima, perfetta e sorridente Kamala, e ripensò inevitabilmente al caffè che lei e Gabriel avevano rinvenuto a casa sua solo poco tempo prima.
“Purtroppo è impossibile dirlo.”
Esteban scosse la testa, amareggiato, ma Moos si sporse leggermente in avanti sul divano per prendere la parola, ripetendo nervosamente ciò che aveva detto a Kei la sera prima:
“Lui Trasfigurava spesso il cibo. Potrebbe benissimo averlo fatto. Quindi non avrebbe ingerito del veleno, ma se fosse andata così dovrebbero comunque trovarne residui nel bicchiere.”
“Ma se fossero due persone e non una? Forse era un veleno che ci mette molto ad agire. Magari il nostro Assassino n° 1 non se ne accorge che il veleno non è stato ingerito affatto, non ne ha il tempo, e allora entra in gioco l’Assassino n°2. Che porta a termine l’opera anche per l’altro.”
L’idea che ci fossero non uno, ma due assassini in circolazione naturalmente complicava tutto. Eppure quella prospettiva deliziava profondamente Leena, che dopo aver parlato riprese a sorseggiare il suo succo di zucca con un accenno di sorriso trasognato: era come vivere un romanzo della Christie!
“Sì, ma sarebbe assurdo. È già complicato così… e poi sarebbero due persone complici oppure no?”
Gabriel parlò aggrottando dubbioso le sopracciglia, faticando a credere che ben due persone avessero deciso di ucciderne una lo stesso giorno, e per giunta in modi radicalmente opposti che tradivano personalità diversissime tra loro: nel primo caso avvelenamento e nel secondo violenza pura.
“Ad ogni modo, credo che per ora la persona più sospetta sia Kamala. Dobbiamo scoprire perché hanno discusso prima che lui morisse. E qui entrate in gioco voi, ragazze.”
Esteban sorrise mentre si rivolgeva a Leena e ad Eileen, che per tutta risposta gemette guardandolo con aria sofferta:
“Quindi dovremo di nuovo fare yoga?”
“Ho paura di sì. Ma apprezziamo moltissimo il vostro sacrificio.”
“Cosa non si fa per scoprire chi ha ucciso brutalmente il tuo vicino antipatico! Cioè, non so se fosse antipatico, perché io non lo conoscevo affatto.”
Leena si affrettò a tornare a nascondere il volto dietro al bicchiere di succo, simulando la massima noncuranza possibile mentre tutti i presenti la guardavano con aria un tantino stranita. A volte, doveva ammetterlo, parlava davvero un po’ troppo.

 
*

 
“Ha fatto quello che le ho chiesto?”
Le cupe e pesanti nubi grige apparse nel cielo di New York quella mattina avevano iniziato a riversare grosse gocce di pioggia sulla città appena passata l’ora di pranzo, conferendo alla metropoli un’atmosfera tetra, cupa e malinconica, che alcuni avrebbero potuto definire affascinante, tipica della stagione autunnale. Niki sedeva su una poltrona dalla fodera di una tonalità di rosso molto scura e intensa, simile al colore del sangue secco, le gambe lunghe ed esili accavallate, le mani abbandonate in grembo e lo sguardo sul vetro della finestra a bovindo lei più vicina, perso a contemplare le gocce d’acqua che s’infrangevano sulla facciata esterna dell’edificio. Stava pensando ad un’altra finestra, di un altro edificio di un altro quartiere, e ad una bambina che era solita sedere davanti ad essa su un divano sfondato e talvolta cigolante in attesa che la pioggia cessasse per poter uscire, ma dopo qualche breve attimo di silenzio annuì per rispondere affermativamente con un monosillabo.
“Sì.”
“È tornata a casa?”
Oltre la finestra a bovindo e ad un tappeto decorato da un elegante motivo beige e bianco si trovava, esattamente di fronte a lei, una poltrona girevole dall’alto schienale color ruggine occupata da una donna che sedeva tenendo le braccia abbandonate sui braccioli e le gambe accavallate. Una posa simile e al tempo stesso radicalmente diversa, più distesa, da quella di Niki, che teneva le lunghe gambe raccolte il più possibile contro il corpo e la sua poltrona, quasi volesse occupare il minor spazio possibile nella stanza.
La voce della donna che le sedeva di fronte e la guardava con sincero interesse era gentile, quasi vellutata, una voce che probabilmente chiunque avrebbe definito piacevole ma che in qualche modo riusciva sempre a pronunciare parole in grado di metterla a disagio e a farla sentire una specie di bambina intimorita dal mondo. Niki non si mosse e continuò a tenere lo sguardo puntato sul bovindo mentre si mordeva nervosamente una gengiva, trattenendo l’impulso di piantarsi le unghie nel palmo della mano, o lei avrebbe colto tutto il disagio che provava: non sapeva bene come, ma quelli sembravano in grado di cogliere segnali anche solo in base a come stava seduta, ragion per cui col tempo aveva iniziato a stare semplicemente immobile.
“Quella non è casa mia.”
“E come la definirebbe?”
Questa volta Niki si mosse ruotando semplicemente il capo per distogliere lo sguardo dal vetro e dalle scie lasciate sulla sua superficie dalle gocce d’acqua e puntarlo sulla donna che le sedeva di fronte, più precisamente nei suoi occhi gentili, scuri e profondi, così drasticamente diversi dai suoi.
“Un luogo dove ho vissuto un pezzo della mia vita. Non credo basti per definire un posto casa.”
“E come è stato?”
Le domande difficili le erano sempre piaciute, quelle e la possibilità di dimostrare quanto intelligente fosse che trovarvi una risposta implicava. Da qualche tempo a quella parte, tuttavia, aveva sgradevolmente iniziato a scoprire quanto non le piacessero le domande che riuscivano a mettere in difficoltà la sua capacità di esprimere a parole quello che provava. Niki aggrottò le sopracciglia arcuate mentre il suo sguardo scivolava su un punto indistinto del tappeto che la divideva dalla sua interlocutrice, perdendosi a seguire le linee e gli intrecci del suo motivo decorativo per qualche lungo istante prima di rispondere:
“Come… essere senza aria.”
 
 
Si era appollaiata davanti alla finestra della sua camera da letto con una sigaretta accesa in mano, lo sguardo che vagava pensoso sulla distesa di alti e grigi edifici di Manhattan. Niki tornò a concentrarsi sull’interno della stanza solo quando udì un lieve miagolio simile ad un mite lamento, ritrovandosi a far scivolare lo sguardo su una delle sue gatte, Mira, in procinto di raggiungerla con i grandi occhi verdi puntati su di lei, forse in cerca di coccole.
Niki si affrettò a chiudere la finestra quasi con un movimento automatico e ormai consolidatosi nelle sue abitudini, decisa ad impedire alla gatta di sgusciare fuori dall’appartamento, e fece sparire la sigaretta con la magia prima di chinarsi e prendere in braccio Mira per accarezzarle la piccola testa coperta dal corto e soffice pelo color ruggine. Anziché uscire dalla stanza Niki si diresse verso il suo letto, una bassa rete con sostegno in legno senza schienale con un materasso poggiatovi sopra, e sedette sul copriletto color zucca depositandosi la gatta in mezzo alle gambe mentre la sua attenzione si focalizzava sul sottile quadernino in carta riciclata dalla copertina marrone che vi aveva abbandonato sopra poco prima insieme ad una penna.
Mentre Mira iniziava a fare le fusa appoggiando la testa sul ginocchio della padrona Niki aprì il quaderno e riprese la penna in mano, arrivando ad una pagina ancora bianca, la stessa che poco prima aveva fissato per quasi un quarto d’ora, prima di chinarsi su di essa e iniziare a imprimere delle parole sulla carta.
 
 
“E ha scritto come l’ha fatta sentire?”
“Sì.”
Si astenne dal sottolineare quanto trovasse stupido quello che era costretta a fare mentre si muoveva leggermente sulla poltrona per infilare la mano destra nella sua borsa di tela e sfilarne, di controvoglia, un sottile quaderno dalla copertina marrone. Anche se con riluttanza lasciò che planasse dalle sue mani fino a quelle della donna che le sedeva di fronte, gettando un’occhiata cupa al suo sorriso quando lei lo appoggiò, ringraziandola, sull’alto tavolino sistemato accanto alla sua sedia girevole. Se non altro, Niki ne era sicura, non le serviva dire alcunché per farle sapere quanto fosse contrariata: perspicace com’era, doveva averlo compreso fin dal loro primo incontro.
 
 
È strano tornare in un luogo dopo tanto tempo. Le cose sembrano più piccole, più vuote e a volte le ragioni per cui te ne sei andato e per cui sei tornato rendono tutto ancora più complicato. Ma immagino che per quanto tornare indietro sia difficile ci siano momenti in cui non si ha scelta. 
È strano tornare in un luogo dove ci sono tanti ricordi. Dovrebbe essere un luogo che evoca gioia, ma in qualche modo adesso è infestato.
 
 
Mentre Mira continuava indisturbata a fare le fusa, ignara dello stato d’animo della sua padrona, Niki smise brevemente di scrivere per osservare la pagina che aveva appena iniziato a riempire. All’improvviso tornò a farle visita l’immagine del lieve tremore che aveva scosso la tenda della finestra dell’appartamento al pian terreno, e ancora una volta si chiese se l’avesse solo immaginato o meno: era quasi del tutto certa di averlo scorto davvero, quel movimento, ma l’edificio e l’angoscia che la sua vicinanza risvegliavano in lei potevano anche averla indotta ad immaginare cose non reali. Dopo una breve esitazione Niki tornò a scrivere percependo una spiacevole sensazione di malessere, sperando che mettendola su carta sarebbe riuscita a liberarsi di quell’immagine e di ciò che suscitava in lei.
 
 
O forse è sempre stato infestato, solo che non vedi i fantasmi finchè non sei quasi un fantasma anche tu.
 
 
 
 
 
(1): Ciò che Carter sta leggendo è il saggio "
Gödel, Escher, Bach: un'eterna ghirlanda brillante", conosciuto anche come "GEB"
(2): Il nomignolo che Leena usa per Eileen ha radici nei romanzi di Agatha Christie e allude al personaggio di Lady Eileen Brent, chiamata appunto “Bundle” da tutti i suoi conoscenti, che appare in “Il segreto di Chimneys” e “I sette quadranti”
 
 



 
………………………………………………………………………………………………………
Angolo Autrice:
Mi cospargo il capo di cenere per il vergognoso ritardo accumulato con questo capitolo che era mia intenzione pubblicare parecchie settimane fa, ma purtroppo si sono messe in mezzo privazioni forzate del pc e in generale un mese pieno di lavoro. Ammetto anche che talvolta scrivere questa storia, per quanto nutra nei suoi confronti e nei suoi personaggi un enorme affetto, per me non risulti propriamente semplicissimo per una lunga serie di motivi, e infatti ringrazio chi mi ha supportato nelle ultime settimane.
Detto questo vi saluto, oggi intendo aggiornare anche LMDI quindi direi che la maggior parte di voi mi rileggerà molto presto. Grazie a tutte per le recensioni dello scorso capitolo🤍
Signorina Granger

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo 9 - N o M? ***


“Orion, non puoi essere serio.”
“E invece sì. Ti dico che tornerà. Non manca molto ormai.”
Orion si strinse nelle spalle con tutta la naturalezza del mondo, gettandosi un’altra manciata di noccioline salate tra le labbra mentre faceva pigramente dondolare il piede destro e Jackson, che gli sedeva di fronte, lo guardava con i grandi occhi scuri spalancati e impregnati di terrore. Incapace di figurarsi lo scenario appena descrittogli dal vicino senza provare una copiosa dose di panico Jackson scosse lentamente il capo, costringendosi a deglutire meccanicamente un po’ di saliva mentre stringeva nervosamente i braccioli di metallo della sedia che aveva occupato poco prima, quando lui, Orion e Kei avevano preso posto attorno ad uno dei tavoli del cocktail bar.
“Come fai ad essere così tranquillo, se ne sei convinto?!”
“Beh, me ne sono fatto una ragione. Faresti meglio a farlo anche tu.”
Di nuovo Orion si strinse nelle spalle senza smettere di stringere tra le mani la ciotola di noccioline, raccogliendone un’altra manciata con le dita lunghe ed olivastre mentre Jackson perseverava nel guardarlo sgomento: non riusciva a capacitarsi di come il vicino fosse riuscito a condividere quell’informazione con tanta disinvoltura quando, ne era sicuro, molta gente avrebbe dormito più e più sonni tormentati dopo esserne venuta a conoscenza.
“Ma è una notizia orribile! Non penso che la civiltà sia pronta, dovremmo… Non lo so, diffondere per cercare di sventarla, o quantomeno preparare psicologicamente tutti!”
“Che succede? Orion, stai di nuovo predicendo il ritiro dalle scene di Lady Gaga? Evita, lo sai che la gente si spaventa.”
Kei, appena giunto davanti al tavolo dopo aver adempiuto al suo compito di ordinare da bere, gettò un’obliqua occhiata severa in direzione dell’amico mentre prendeva posto sulla sedia rimasta vuota tra l’astronomo e Jackson, che si voltò accigliato verso l’asiatico mentre Orion, ancora segretamente amareggiato per l’inesattezza della sua predizione risalente all’anno prima, sbuffava piano facendosi improvvisamente cupo:
“Ok, ammetto che con Lady Gaga mi ero sbagliato, ma un misero errorino è concesso a tutti. Questa volta ne sono sicuro, lei l’anno prossimo tornerà. È questione di tempo.”
“Ma di chi parla?”
Ormai vagamente esasperato Kei decise di farla breve e di rivolgersi direttamente a Jackson, voltandosi rassegnato verso il veterinario mentre Orion, lontano dal suo campo visivo, sfoggiava un’espressione profondamente offesa, ferito dalla scarsa considerazione che l’amico nutriva nei confronti delle sue abilità divinatorie. L’astronomo si mise improvvisamente a sedere dritto sulla sedia e incrociò le braccia al petto, sollevando il mento per assumere un’aria sostenuta prima di parlare:
La vita bassa.”
Orion scandì quelle misere quanto spaventose tre parole con estenuante lentezza condita da una punta di soddisfazione, lasciandosi rotolare quelle poche sillabe sulle lingua deciso a godersi la reazione che il loro suono avrebbe destato nell’amico di mala fede che gli sedeva accanto. Come nel caso di Jackson, che gemette lievemente solo all’idea, la risposta di Kei non si fece attendere: il ragazzo abbandonò immediatamente l’espressione scettica che aveva destato lo sdegno di Orion per lasciare subito posto ad una incredula e un tantino terrorizzata. Kei sgranò gli occhi a mandorla e sollevò entrambe le sopracciglia, sentendo venir meno se stesso e il suo curatissimo guardaroba contemporaneamente:
“Cosa?! Stai scherzando? Dimmi che stai scherzando.”
“È di questo che parlavo. Non siamo pronti!”
Jackson annuì con un lieve sbuffo mentre guardava Orion facendo cenno a Kei con la mano destra, deciso a rifiutare categoricamente di credere a quella tremenda prospettiva futura mentre l’astronomo faceva spallucce e Kei si sforzava di non pensare a scene dell’orrore gettate, anni prima, sui fondali della memoria ma che stavano rapidamente e malauguratamente riaffiorando:
“Non siamo pronti e mai lo saremo. Io no di certo, non ci tengo a vedere di nuovo le mutande di mezzo mondo.”
“Le mutande se ti va bene.”
Il cupo borbottio di Jackson contribuì ad acuire il fastidioso senso di vertigini provato da Kei, che mormorò di aver assolutamente bisogno di bere per assimilare la notizia mentre si passava nervosamente una mano tra i lisci capelli neri. Orion invece sembrava deciso a non perdere la sua vivacità neanche per un istante, e allargò le labbra in un sorriso allegro prima di iniziare a tamburellare ritmicamente le dita della mano destra sul tavolo:
“Beh, perfetto, siamo nel posto giusto! Forse ho fatto bene a tirare fuori l’argomento adesso dopotutto. Ah, dimenticavo…”
Il sorriso svanì all’improvviso e del tutto inaspettatamente dal bel viso di Orion, che si fece talmente serio da far temere il peggio ai due vicini: l’occasione più recente in cui Kei ricordava di averlo visto tanto serio risaliva all’ultima partita di scacchi che l’amico aveva perso, evento che si verificava circa ogni tre cicli lunari, tanto che lui e Jackson si scambiarono silenziosamente un’occhiata preoccupata, chiedendosi che cosa potesse esserci di peggio dell’imminente ritorno della vita bassa. Fortunatamente, quando avevano appena iniziato a sentire sudori freddi solcargli la schiena Orion mise fine al loro cruccio pronunciando la più impensabile delle assurdità:
“Non ne sono sicuro, ma penso che la Regina potrebbe lasciarci, l’anno prossimo.”
Ci fu un istante di silenzio in cui Orion ricambiò impassibile gli sguardi perplessi di Kei e Jackson, ma la suspence che si era andata a creare si trasformò presto in uno scoppio di risate da parte dei due vicini:
“Dai, ti prego, che stronzata! Credo più a Lady Gaga.”
“Figurati, è impossibile!”
Kei e Jackson stavano ancora ridendo quando finalmente i loro drink raggiunsero il tavolo, e Orion non tardò a stringere il suo bicchiere rumble e a portarsene il bordo alle labbra con aria incupita, mormorando qualcosa che si perse tra le risa dei due vicini:
“Un giorno verrete a chiedermi scusa.”
 

 
Capitolo 9
N o M?

 
 
 
Domenica 10 ottobre

 
 
 
“Quindi stai via per qualche giorno?”
“Solo un paio, torno martedì. Cercate di non far esplodere il palazzo mentre non ci sono.”
Mathieu, in piedi davanti a Carter circondato dalle mura del palazzo e con le mani nelle tasche della giacca, accennò un sorriso a metà tra il divertito e il rassegnato che destò un’espressione offesa sul bel viso dell’amico:
“Figurati, siamo tutte persone così quiete e tranquille da queste parti. Beh, a parte quella lì.”
Carter accennò distrattamente verso un punto che si trovava alle spalle di Mathieu, più precisamente nei pressi della Rolls Royce posteggiata sul viale d’ingresso per i veicoli del cortile, dove Niki si era fermata per salutare Prune, in partenza come il padrone e già sistemato all’interno dell’auto. Udite le sue parole la strega lo invitò caldamente a ficcarsi le sue opinioni in un certo punto, ma Carter non ci fece particolarmente caso e tornò presto a rivolgere la propria attenzione all’amico:
“Senti, ma perché vai in auto? Non è lungo come viaggio, per stare via solo due giorni?”
“Andare in auto è praticamente l’unico modo per portare Prune. Non volevo lasciarlo a casa e in aereo non lo metterò mai, neanche sotto tortura, quindi auto sia. Comunque per Ville de Québec sono più o meno sette ore, potrebbe andare peggio.”
In realtà a preoccupare Mathieu non era la traversata in sé, quanto più ciò che lo aspettava una volta arrivato a destinazione: le sue visite oltre il confine nazionale, in Canada, si erano fatte leggermente più sporadiche con il passare degli anni, e di certo dietro a quella tendenza decrescente un motivo doveva esserci, ma disgraziatamente l’indomani rappresentava un’occasione che Mathieu non avrebbe potuto saltare per nessuna scusa al mondo, il Thanksgiving(1).
“Comunque non avrei potuto non andare neanche volendo, e non solo perché a mia madre sarebbe venuto un esaurimento… Superare il confine dopo aver richiesto la cittadinanza è complicato, quindi potrebbe essere l’ultima volta in cui vedo la mia famiglia per un po’.”
Dopo aver pronunciato quelle parole Mathieu si chiese se dopotutto non sarebbe stato tenuto a provare una qualche forma di dispiacere a seguito di quella consapevolezza, ma visto che nessun sentimento negativo si fece sentire scrollò le spalle e accantonò l’idea. Carter invece, che ancora stentava a contemplare l’esistenza di un Thanksgiving diverso da quello statunitense, di gran lunga la sua festività preferita in assoluto, lo guardò dubbioso e cercando di celare la propria disapprovazione:
“Sorvolerò su quanto io trovi assurdo che esista un Thanksgiving che non sia quello che festeggiamo noi più o meno con un mese e mezzo di ritardo, l’unico Thanksgiving vero e inimitabile, per darti il mio sostegno: se dovessi saltarlo, mia nonna verrebbe a prendermi dall’Indiana anche a piedi, se necessario.”
In cuor suo Mathieu si disse che anche sua nonna sarebbe stata capacissima di farlo, sfrecciando verso New York in sella alla sua scopa, ma lo rincuorò la consapevolezza della presenza del confine da dover oltrepassare. Pronto ad affrontare il gelo che lo avrebbe accolto una volta in Canada,  si strinse nelle spalle esalando un lieve sospiro:
“Beh, sono solo due giorni, penso di potercela fare. Spero. Devo andare ad offrire sostegno a mia sorella e a mio cognato, o se lo mangeranno vivo.”
“Fammi sapere se sopravvivi. Ma non hai portato Ezdar, insieme a Prune?”
Lo sguardo cristallino di Carter scivolò perplesso sulla costosissima auto di Mathieu – e su Niki, che stava ancora salutando Prune attraverso il finestrino aperto – notando l’assenza della civetta dell’amico, che si diresse verso la macchina accennando un sorrisino colpevole con gli angoli delle labbra:
“La civetta col caratteraccio che guarda caso prende il nome del mio terribile nonno? Penso che di Ezdar me ne basterà uno, per i prossimi due giorni. Niki, mi spiace interrompere il vostro commovente addio, ma devo partire.”
E doveva proprio, o avrebbe tardato per cena. E chi l’avrebbe sentita, poi, sua madre in piena crisi isterica? Niki sembrò provare lo stesso entusiasmo del vicino, perché smise di accarezzare la testa dell’alano, comodamente sistemato sul retro dell’auto da bravo cagnolone viziato qual era, per salutarlo:
“Che palle. Ciao Prune, ci vediamo quando torni!”
Dopo aver rivolto un ultimo temporaneo addio a Prune la strega si rivolse a Mathieu, che l’aveva raggiunta accanto all’auto per partire, ma smise immediatamente di parlare con tono lacrimoso e si fece, come al solito, improvvisamente seria:
“Beh, ci si vede quando torni, Mike. Dov’è che vai?”
“Dalla mia famiglia.”
Quelle parole gli uscirono più tetre di quanto non avrebbe voluto, ma Niki non ci fece caso, troppo impegnata a far rimbalzare lo sguardo, accigliata, da lui alla sua auto e viceversa e a perdersi nelle proprie elucubrazioni mentali:
“Aspetta. Vai in auto, quindi non dev’essere eccessivamente distante… per la prima volta non sei vestito come un pazzo che non percepisce la temperatura…”
Ehy!”
“E hai un nome francese… Sei canadese!”
Un larghissimo sorriso distese le labbra di Niki, che guardò il vicino sentendosi esultare per quella scoperta, certa di essere nel giusto e cercando al tempo stesso di non chiedersi perché ci avesse messo tanto tempo a capirlo. Mathieu però non le diede alcuna soddisfazione, guardandola stralunato mentre Carter, sempre in piedi alle sue spalle, si premurava di far sapere alla strega di come lui, a differenza sua, lo sapesse già da tempo. Certo era stato Matheu stesso a dirglielo quando si erano conosciuti anni prima e non l’aveva capito autonomamente, ma quelli erano dettagli che Niki non era tenuta a conoscere.
“Certo che sono canadese. Lo hai scoperto ora?”
Il sincero stupore manifestato da Mathieu indispettì non poco la vicina, che strinse offesa le braccia al petto e sollevò il mento con aria sostenuta:
“Beh, scusa tanto se non ho la sfera di cristallo e se ho conosciuto battiscopa più loquaci di te.”
“E Carter non te l’ha detto?”
Mathieu stentava a credere che la sua nazionalità potesse aver rappresentato una sorta di mistero tra i suoi vicini e accennò in direzione di Carter levando pigramente la mano, ma Niki sbuffò e scosse la testa mentre tornava ad inforcare gli occhiali da sole dopo averli levati da una tasca dell’immancabile lunga giacca di pelle che indossava:
“Chi, quello utile come il caffè decaffeinato? Per favore. Senti, ma già che ci siamo, il tuo nome su Wizagram per cosa sta?”
Che cosa significassero le due misere, semplicissimi ma indecifrabili “B” che costituivano il nome di Mathieu su Wizagram i suoi vicini se lo stavano chiedendo già da parecchio, ma invece di rispondere il diretto interessato si limitò a sorridere mentre apriva la portiera dell’auto, salendo a bordo sotto lo sguardo amareggiato della vicina:
“Au revoir Niki.”
“Beh, prima o poi lo scoprirò.”
Mathieu ci tenne a farle notare come lui e gli altri neanche conoscessero il suo cognome, ma Niki non gli concesse una risposta mentre si allontanava dall’auto per farlo uscire senza finire investita, dirigendosi verso Carter con le mani infilate nelle tasche della giacca.
“Tu lo sai?”
“No, me lo ha detto ma è qualcosa in francese che non ricordo minimamente. Ciao Matt!”
Carter sorrise e levò una mano per agitarla in direzione dell’amico in segno di saluto, ignorando il cupo borbottio che si sollevò da Niki un istante dopo, mentre la Rolls Royce iniziava a procedere lungo il viale per uscire dal cortile:
“Ti pareva.”
 
Mathieu aveva appena varcato i cancelli d’ingresso dell’Arconia quando sollevò lo sguardo sul finestrino posteriore, accennando un sorriso in direzione del suo amatissimo cane:
“Allora Prune, lasciamo il covo dei pazzi, sei contento?”
Prune, che saliva in auto con lui molto di rado, agitò la coda nera e bianca mentre levava la testa con curiosità per studiare la strada affollata da auto e da un innumerevole numero di taxi gialli, consentendo al padrone di riflettere brevemente sulle sue parole. Una volta realizzato dove fossero diretti il sorriso sparì immediatamente dal bel viso di Mathieu, lasciando invece posto ad una lieve smorfia preoccupata:
“… Però ci stiamo andando ad infilare in uno ancora peggiore. Merde.”
Forse aveva esultato troppo presto.
 
 
*

 
All’interno dell’appartamento 9A la seconda domenica di ottobre stava procedendo come ogni altra domenica dell’anno: la cucina era un disastro, il tavolo ricoperto da contenitori di carta vuoti e il microonde lasciato aperto, apparentemente reduce da una sorta di esplosione di dubbia natura, e una scacchiera giaceva sul tavolino da caffè di vetro nel soggiorno, pronta ad accogliere un’ennesima partita. Fin da quando aveva conosciuto Orion Parrish Kei non era mai riuscito a capacitarsi di come il vicino riuscisse a devastare a tal punto la cucina pur non essendo assolutamente in grado di cucinare: doveva trattarsi di una sorta di talento innato che Orion non sembrava affatto intenzionato a cercare di debellare. L’unico angolo perennemente in ordine ed immacolato della cucina era, naturalmente, quello adibito al caffè: le tazze, ognuna dedicata ad una diversa costellazione, erano sempre perfettamente allineate accanto ai barattoli di metallo che custodivano le miscele predilette dal padrone di casa, e la macchina per l’Espresso tirata a lucido. Un occhio esterno avrebbe potuto chiedersi se l’appartamento non fosse abitato da due differenti individui diametralmente opposti, ma Kei aveva smesso già da tempo di porsi domande in merito.
Era proprio davanti alla sua amata coffee station che Orion si trovava dopo aver messo in pausa una partita a scacchi – giocata contro se stesso per allenarsi, visto che il suo ospite non aveva acconsentito ad unirsi a lui –, dedito al rituale della preparazione del caffè mentre Kei sedeva in silenzio sul suo divano, un libro aperto e momentaneamente dimenticato sulle ginocchia con un evidenziatore grigio pastello nel mezzo. Lo studente aveva brevemente abbandonato lo studio per digitare freneticamente qualcosa sullo schermo del proprio telefono, ascoltando solo distrattamente ciò che Orion stava dicendo dalla cucina, lamentandosi di un qualche collega inefficiente e delle sue supposizioni totalmente idiote ed irrealistiche.
Arthur il gufo sonnecchiava sul suo trespolo, la cucina era un macello e Orion preparava il caffè – l’ennesimo –: una domenica come tante altre che andava ripetendosi dentro le mura dell’appartamento, ma in fondo né lui né Kei avevano realmente l’impressione che le cose stessero così. Entrambi avevano ben altro per la testa.
“Sono abbastanza convinto che la prossima a morire sarà Kamala.”
Orion fece ritorno con le due tazze di caffè, una per sé e una per il suo ospite, attirando l’attenzione di Kei con una supposizione che l’astronomo andava ormai covando da qualche giorno a quella parte: bastarono quelle parole per far sì che Kei alzasse lo sguardo dallo schermo del telefono per gettargli un’occhiata incerta, indeciso se prenderlo totalmente sul serio o meno.
“Perché?”
“Beh, non la racconta giusta. E spesso chi non la racconta giusta ha vita breve in situazioni come questa. Zucchero?”
“No, grazie. Quindi non pensi che abbia ucciso, o cercato di uccidere, Monty?”
Kei inarcò un sopracciglio corvino mentre Orion gli sedeva di fronte, posizionandosi nuovamente dinanzi alla sua amata scacchiera armato di piattino e tazzina blu e bianca coordinati. L’ex Tuonoalato scosse la testa emettendo uno sbuffo simile ad una lieve risata, i profondi occhi scuri quasi luccicanti mentre accennava un sorriso con gli angoli delle labbra:
“Cazzo, no. Insomma, chiunque sia è una persona sveglia. Rifletti, ammazzi qualcuno e lasci l’arma del delitto praticamente in bella vista in casa tua? Se dovessi avvelenare qualcuno con del caffè non ne lascerei a casa mia, anche se sarebbe traumatico per me restare senza caffè anche solo per un giorno o due.”
“Magari non è così sveglia. Magari non l’ha ucciso lei, se davvero parliamo di due persone, forse lei ha solo cercato di avvelenarlo. E poi non dicono che gli assassini spesso, inconsciamente, vogliono essere scoperti perché sono quasi tutti megalomani? A volte lasciano tracce in giro.”
“Sì, ma se io fossi dichiaratamente avverso al caffè e lo usassi per uccidere qualcuno liberarmene sarebbe la prima cosa che farei. Non lo so, non penso sia stata lei. Ciò non toglie che non l’apprezzo per nulla, è chiaro.”
Per un breve istante il bel viso di Orion venne lievemente sfigurato da una smorfia pregna della più pura disapprovazione, ma tornò ben presto a rasserenarsi quando il mago assaporò un po’ di caffè, autocompiacendosi per quanto fosse bravo a sceglierlo e a prepararlo. Kei annuì prima di imitarlo, sorseggiando pensoso un po’ di caffè mentre l’amico, dopo aver gettato un’occhiata semi-adorante alla scurissima bevanda calda, tornava a rivolgerglisi appoggiando il piattino sul tavolo, accanto alla scacchiera:
“Che cosa scrivevi, comunque?”
“Niente, riflettevo. A volte è più facile farlo per iscritto. Deduco che i tuoi fornelli siano ancora rotti, comunque.”
Kei vuotò rapidamente la sua tazza prima di depositarla sul tavolino, esattamente di fronte a quella di Orion, e accennò in direzione della cucina con un lievissimo movimento del capo. Il gesto dell’amico destò un sorriso sul viso del padrone di casa, che annuì e si concesse una lieve stretta di spalle:
“E così resteranno.”
All’inizio lo aveva stranito non poco, il fatto che Orion non avesse mai fatto riparare i fornelli della sua cucina. Vivere senza fornelli gli era sembrata una scelta ridicola, ma col tempo Kei aveva iniziato a persuadersi del contrario: forse era un bene che i fornelli del 9A rimanessero inutilizzabili, sia per l’incolumità del palazzo intero che per quella di Orion, visto quanto poco andassero d’accordo l’astronomo e il fuoco. Il suo era forse l’unico camino del palazzo che non era mai stato acceso negli ultimi quattro anni, da quando si era trasferito all’Arconia.
“Vivrai di cibo d’asporto per sempre?”
“Forse non per sempre. Ma per ora sì. Sorvolando su quanto io tenga a stare alla larga da una fiamma di qualsiasi natura, hai idea di che disastri potrei combinare? Sarei un pericolo pubblico.”
“Tanta gente è un disastro in cucina, non è un dramma. Forse potresti… superarla, prima o poi.”
Di tanto in tanto Kei faceva un tentativo, il più delicatamente possibile, per suggerire all’amico di lasciar andare il solido guscio che si era costruito negli anni, ma disgraziatamente le fondamenta di quella specie di corazza erano state depositate ormai quasi vent’anni prima e Orion non sembrava ancora dell’idea di voler provare a lasciarla andare: Kei era abituato a vederlo irrigidirsi in maniera quasi impercettibile e infine scuotere la testa prima di sforzarsi di sorridere, come a cercare di ristabilire una parvenza di normalità.
“Non mi ci vedo.”
“Tanta gente lo fa, Orion.”
Quelle parole risuonarono più dure di quanto Kei non avrebbe voluto, ma a volte la testardaggine dell’amico finiva con l’innervosirlo: pochi sapevano meglio di lui quante fossero le possibili reazioni umane di fronte al dolore, gli era bastato vivere la perdita dei suoi genitori e assistere ai modi diversi in cui i suoi fratelli maggiori avevano cercato di superarla. Ma quello che faceva Orion, e ci aveva messo parecchio a capirlo, era un modo che di reagire che quasi escludeva di ammettere ciò che realmente era successo.
“Lo so, ma io non sono “tanta gente”, evidentemente. Vado a vedere se Trixie salta fuori.”
Orion si alzò abbandonando scacchiera e residui di caffè sul basso tavolo di vetro, raggirando Kei e il divano per dirigersi verso l’ingresso dell’appartamento e la fessura nel muro dove abitava il suo “coinquilino”, un minuscolo topolino bianco che Orion aveva trovato nell’appartamento il giorno in cui si era trasferito e verso cui aveva immancabilmente finito con il provare affetto: affezionarsi a quasi chiunque incontrasse sulla sua strada era una tendenza che aveva iniziato a sviluppare fin da piccolo, quando dopo la morte di sua madre era stato costretto a ricercare forme di affetto nel mondo che lo circondava.
Kei, ancora seduto sul divano, ruotò il busto per consentirsi di gettare un’occhiata di sbieco all’amico, guardandolo controllare l’apertura del muro – attorno alla quale, durante una domenica piovosa e poco stimolante di un paio d’anni prima, aveva ben pensato di dipingere un castello – senza trovare traccia del topolino. Nel rimettersi in piedi Orion gettò un’occhiata quasi per caso all’unica fotografia che aveva coccolato sulla consolle di legno nero accanto alla porta, accanto alla ciotola di ceramica che conteneva chiavi, e notando un sottile velo di polvere sul vetro subito la prese per pulirla con un tocco di magia. Quando i visi delle due persone raffigurate, un adolescente e una bambina che gli somigliavano paurosamente, furono liberati dallo strato di polvere Orion tornò a concedersi di sorridere: talvolta finiva col trovare bizzarra la fissazione che nutriva nei confronti di quella foto e sul tenerla pulita quando, invece, la sua cucina restava irrimediabilmente un macello, ma di solito Orion accantonava quei pensieri in fretta e furia, liquidandoli con ostinazione. Fu infatti molto rapidamente che rimise la foto di sua madre e di suo zio al suo posto prima di tornare a rivolgere la propria attenzione all’amico, stampandosi un sorriso allegro sulle labbra prima di riavvicinarsi al divano:
“Sai, oggi ho visto Leena ed Eileen. Mi sono offerto di aiutarle in vista della missione suicida che le aspetta.”
“Kamala? Ma scusa, se hai detto che non pensi che sia stata lei?”
Kei lo guardò sbattendo le palpebre, perplesso: lo conosceva bene, ma a volte stentava comunque a seguire il contorto filo dei ragionamenti di Orion Parrish. Orion che finalmente si decise a raggiungere il tavolo della cucina per rimettere in ordine scuotendo la testa, sbuffando piano come se la lentezza che Kei palesava nel stargli dietro lo infastidisse:
“Certo, infatti non penso che le voglia uccidere! No, parlo del caffè. Ovviamente.”
 
 
“Ragazze, so che vi aspetta un compito difficile, ma per fortuna io sono disposto ad aiutarvi.”
“Perché, sei esperto di yoga?”

Eileen lo aveva guardato, seduto di fronte a lei e a Leena ad un tavolo di Starbucks mentre le guardava con aria magnanima, inarcando perplessa un sopracciglio: non che potesse affermare di conoscerlo poi così bene, ma proprio non ce lo vedeva. Ben presto infatti sul viso di Orion si disegnò un’espressione schifata – anche se i pantaloni da yoga di certo gli sarebbero stati bene, si ritrovò a considerare –, e l’astronomo si affrettò a scuotere la testa per cancellare quell’immagine tragicomica dalle menti di tutti i presenti:
“No, pare che al mondo esista persino una specie di betulla più flessibile di me. No, parlo di ciò che dovrete bere se volete entrare nelle grazie di quella lì.”
“Ah, beh, certo, niente caffè. Beh, io e Leena abbiamo sangue british nelle vene, faremo affidamento sul tè.”
Eileen si strinse nelle spalle e accennò distrattamente a sé se stessa e all’amica, che stava in silenzio tenendo le lunghe braccia strette al petto: a loro rinunciare al caffè non sembrava poi così impossibile, ma a giudicare dall’espressione cupa e terribilmente seria impressa sul suo viso Orion non sembrava della stessa opinione.
“State dimenticando che entrambe, suppongo, siete solite aggiungere del latte al tè nero. Ovviamente non potete farlo, quella è la classica vegana rompipalle che fracassa i cosiddetti a chiunque ingurgiti derivati animali di fronte a lei. Quindi niente latticini, ragazze.”
“Non ci avevo pensato. Vorrà dire che lo berremo senza, io il tè verde lo detesto.”
Riconoscendo con una punta di amarezza di non aver affatto riflettuto a riguardo Leena si costrinse a stringersi nelle spalle, chiedendosi perché indagare dovesse richiedere così tanti sacrifici, come rinunciare al latte nel tè, ma Orion sorrise e di nuovo scosse la testa, come se avesse la soluzione a portata di mano e fosse pronto ad esporgliela:
“Oppure, ancora meglio, potreste bere qualcosa che sicuramente lei adora. Leccare il culo è sempre la chiave, la vita me l’ha insegnato. Insieme a tanto altro, è chiaro.”
“E cosa?”

Un tantino preoccupata, Eileen inarcò un sopracciglio pentendosi più che mai di essersi lasciata trascinare nel tentativo di scoprire qualcosa sul conto della loro vicina, finendo col sfoggiare una smorfia schifata quando Orion sollevò le braccia per posizionare sul tavolo due enormi bicchieri di plastica pieni di una sostanza verde pastello. Né lei né Leena capirono dove esattamente il vicino li avesse tenuti fino a quel momento, ma erano troppo occupate a preoccuparsi dei bicchieri che avevano davanti per pensarci:
“Ti prego, dimmi che non è Matcha Latte.”
“Con latte di soia. Ovviamente. Ora vi prego, non scappate via urlando, anche se è ciò che farei io. Domani mi ringrazierete.”
 
 
“Convincerle a berlo è stato molto difficile, non erano molto contente. Però un po’ le capisco, ho provato a sdrammatizzare assaggiandolo e mi sono quasi sentito male… Poverine, devono sopportare la compagnia di quella lì e in più bersi quella specie di melma!”
Orion scosse la testa, sinceramente dispiaciuto per la sorte verso cui le sventurate vicine stavano per andare incontro, ma Kei non sembrò condividere perché lo guardò inarcando un sopracciglio, perplesso:
“A me piace il latte di soia.”
Naturalmente Kei si pentì immediatamente di aver pronunciato quelle parole: come aveva potuto fare quell’errore dopo anni passati a nascondergliele?! Orion lo guardò immobile e in silenzio per qualche istante, bisognoso di tempo per elaborare la notizia, fino a sfoggiare un sorriso platico piuttosto bizzarro che destò un inizio di preoccupazione nell’amico:
“Fingerò che tu in casa mia questa cosa non l’abbia mai detta, Kei.”
“Perché sorridi così?”
“Sorrido sempre così.”
“Meglio se bevi altro caffè.”
 

 
*
 
 
Hard Rock Cafè
 
 
Era una verità universalmente riconosciuta – o almeno così si ostinava a ritenere il diretto interessato – che mai e poi mai James Carter Cross si sarebbe volontariamente e coscientemente seduto allo stesso tavolo della sua altissima e acidissima dirimpettaia. Certo a voler ben vedere quella situazione si era già concretizzata un mese prima, ma Carter ripeteva a se stesso che non aveva avuto scelta, quella sera. E in fondo non aveva avuto scelta neanche quel giorno, visto che mezza Manhattan sembrava aver deciso di pranzare all’Hard Rock. Carter si era quindi ritrovato a starsene seduto sul divanetto rivestito da un sottile strato di pelle color cremisi con i grandi ed enigmatici occhi verdi della sopracitata dirimpettaia puntati addosso, chiedendosi come e perché si fossero ritrovati, esattamente, in procinto di mangiare insieme. Niki sembrò pensare lo stesso, perché aprì il menù nero con un gesto secco e dando perentoriamente voce ai pensieri di entrambi:
“Beh, ovviamente è un caso. Volevamo solo entrambi pranzare fuori e tu mi hai seguito.”
“Non ti ho seguito, hai detto che saresti venuta qui e ho ritenuto che avessi avuto una buona idea, stranamente. Un caso isolato.”
“Isolatissimo.”
“E io che ho detto? Su, passami il menù, così ce la sbrighiamo in fretta, ho paura che stando a lungo nel tuo campo visivo i tuoi occhi finiscano col pietrificarmi.”
“Arrangiati, lo guardo prima io.”
Niki fece scivolare i grandi occhi chiari dal taglio allungato sulle pagine del menù, piuttosto affamata e felice di esserlo: non aveva mangiato quasi nulla durante tutta la settimana che andava concludendosi. Probabilmente il suo stomaco chiedeva pietà dovendosi sorbire la compagnia di Ken.
“Bene. Andrò a chiederne un altro usando tutto il mio fascino su un cameriere. O una cameriera, tanto mi considerano bello universalmente.”
Carter si alzò gettandole la più gelida delle sue occhiate prima di darle sdegnosamente le spalle e allontanarsi, ignorando l’eco della pacatissima voce di Niki che presto lo raggiunse:
“Cerca di non traumatizzare nessuno, mi raccomando.”

“Ehy, Niki. Sai che cos’è che traumatizza seriamente?”
Meno di cinque minuti dopo Carter si ripresentò al tavolo brandendo vittorioso un menù e anche un sorriso profondamente compiaciuto mentre Niki, al contrario, si guardava annoiata le unghie dopo aver già deciso cosa ordinare. Udendo la voce del vicino la strega sollevò pigramente lo sguardo, accennando un sorriso con gli angoli delle labbra prima di scuotere la testa con aria amabile:
“No, ma so che fremi dalla voglia di dirmelo.”
“Tu e i tuoi outfit di merda.”
Carter parlò con un sorriso, ma le sue parole non sortirono la reazione sperata nella vicina, che ricambiò il suo sguardo senza muovere un solo muscolo facciale o lasciare che il suo sorrisino beffardo si smorzasse di un millimetro:
“Oh, tesoro. che dolce, te la sei pensata mentre prendevi il menù?”
Il sorriso di Niki si allargò mentre guardava Carter sederle di fronte borbottando qualcosa di incomprensibile ma che suonò come una sorta di assenso, guardandolo compiaciuta mentre Carter apriva il menù per gettarci finalmente un’occhiata:
“Tu cosa prendi? Qualcosa di scaduto e pieno di panna acida andata a male, suppongo.”
“Il Tupelo Chicken(2) è delizioso.”
Carter esitò: Niki aveva ragione, era notoriamente delizioso. Ma non voleva certo ordinare la stessa cosa della vicina e riconoscerle, quindi, di avere gusti decenti! Per brevi, difficili minuti Carter visse un grande dilemma, ma alla fine decise che niente e nessuno avrebbe potuto distoglierlo dal grande amore della sua vita, ovvero il pollo fritto.
 
“La honey mustard è buonissima.”
“Ti trovo insopportabile, ma hai ragione.”
Sua nonna gli avrebbe malamente assestato un doloroso scappellotto se l’avesse sorpreso a parlare a bocca piena, specie se davanti ad una ragazza, ma per fortuna gli occhi della sua amata nonnina erano lontani miglia e Carter annuì, masticando con gioia un tender di delizioso e croccante pollo fritto mentre Niki affondava una manciata di patatine in una delle ciotoline di ceramica piene di salsa.
“Hai finito il libro di Capote? Mio fratello mi ha detto di non giocare a seguire le sue orme, l’altro giorno. Quel coglione.”
Carter parlò sbuffando piano, ma decise di addentare un altro pezzo di pollo per non pensare a suo fratello e alla sua bellissima faccia da schiaffi. Niki invece accennò un sorriso ma si astenne dal fare commenti, limitandosi a rispondere con calma alla sua domanda:
“Sì, stamattina. Ne ho iniziato un altro che parla di un gruppo di ottantenni che rivolve crimini in casa di riposo(3).”
“In pratica io e te tra qualche decennio.”
“Touché. Perché non ti piace tuo fratello? È come te?”
Le parole le rotolarono sulla lingua prima di darle il tempo di rigettarsele in gola, ma fortunatamente Carter non sembrò prendersela più del solito e si limitò a scoccare un’occhiata torva a lei e al suo sorriso colpevole prima di pulirsi le dita sul tovagliolo stringendosi nelle spalle:
“No, io sono quello simpatico. Lui è quello perfetto.”
“I fratelli perfetti sono un’illusione creata dai genitori. Suppongo sia più grande di te.”
“Sì. Mi ha detto di stare lontano da tutta la storia di Montgomery, ma ovviamente non gli darò retta. Si premura sempre di ricordarmi che non sono un detective e che questa roba non fa per me.”
Carter guardò tetro l’ultima patatina che gli rimaneva nel piatto, decidendo di aver assolutamente bisogno di una gigantesca porzione di dolce per riuscire a crogiolarsi nell’irritazione che suo fratello riusciva a destare in lui anche quando non era fisicamente presente. Niki invece smise di mangiare e appoggiò i gomiti ossuti sul tavolo tenendo lo sguardo ancorato al suo bel viso, osservandolo mentre intrecciava tra loro le dita lunghe e affusolate:
“Perché non lo sei?”
“Paura del sangue, ricordi? Non puoi non tollerarne la vista e avere a che fare con cadaveri e armi del delitto. Non ricordo nemmeno perché mi dia così fastidio, il che è ancora più frustrante.”
Carter si strinse nelle spalle mentre allungava una mano per prendere il tappo della bottiglia d’acqua che Niki aveva ordinato, iniziando a giocherellarci distrattamente mentre le bolle dei residui di schiuma della sua birra scoppiettavano silenziosamente nel bicchiere. Anche Niki si strinse nelle spalle, fissando pensosa un punto indistinto nel tavolo di legno prima di parlare:
“Le paure sono così, irrazionali, fastidiose, ci condizionano la vita. Forse lo hai rimosso. Può essere una benedizione, sai, non ricordare. Magari un giorno la supererai.”
“Non lo so. Tu ci sei riuscita?”
Il giornalista smise di guardare il tappo per posare lo sguardo su di lei, guardandola dubbioso scuotere la testa e accennare un sorriso amaro con gli angoli delle labbra:
“No. E ciò che non riesco a tollerare io è davvero frustrante, visto che viviamo in una società che impone di avere a che fare con il prossimo. La gente spesso non capisce.”
“Parli del fatto che non vuoi essere toccata?”
“Non è solo non volerlo, a volte diventa dolore vero e proprio. Ed è assurdo e irrazionale, ma per il mio cervello è così.”
“Cioè ti fa… male?”
Carter, per quanto nutrisse un’alta considerazione nei confronti del suo intelletto, guardò Niki aggrottando le sopracciglia e rendendosi conto di non essere in grado di capire il significato delle sue parole. Naturalmente ricordava tutte le volte in cui Niki lo aveva più o meno malamente invitato a non toccarla, ma non capiva come potesse averle arrecato una qualche sorta di dolore solo toccandole lievemente un braccio. Niki tuttavia annuì, appoggiando il mento sull’intreccio delle propria dita prima di parlare guardandolo di rimando:
“Pensiamola così. Il dolore fa parte della sopravvivenza: se tocchi il fuoco ti senti la pelle bruciare, e non è una risposta fisica, è una risposta cerebrale. Il tuo cervello ti sta dicendo allontanati, idiota, o questo ti ucciderà.”
“Il mio cervello non è come il tuo. Il tuo rifiuta la vista del sangue, giusto? E se lo vedi finisci col sentirti male. Forse senti nausea, o un capogiro. Magari svieni persino, nei casi più gravi. Il mio rifiuta così tanto il contatto fisico da farmi provare dolore, sento il tocco altrui intensificato almeno il triplo di quanto non sia. Razionalmente so che non è la realtà, ma è questo il punto. È davvero irrazionale avere paura di qualcosa.”
Non era una situazione che gli si presentava di frequente, ma all’improvviso Carter si rese conto di non avere idea di che cosa dirle. La guardò accigliato distogliere lo sguardo dal suo viso per gettare un’occhiata distratta al tavolo e ai loro piatti ormai praticamente vuoti, restando in silenzio per un paio di istanti prima di chiedergli l’ultima cosa che Carter si sarebbe sognato di sentirsi dire in quel momento:
“Dolce?”
Per un attimo quel repentino cambio di rotta nella loro conversazione lo destabilizzò, ma passata la sorpresa iniziale Carter si sentì sorridere, annuendo e decidendo di non insistere:
“Si vede che non mangiamo spesso nella stessa stanza, se mi fai questa domanda.”
 
Naturalmente finirono con il discutere, ma nessuno dei due si sorprese: avevano resistito anche troppo a lungo rispetto alle aspettative di entrambi. Carter non voleva che fosse lei a pagare, visto che già si sentiva in debito per la fatidica cena che avevano condiviso un mese prima, la sera in cui avevano rinvenuto il cadavere di Montgomery, ma Niki non voleva saperne di farsi offrire il pranzo.
“Non voglio essere in debito, non mi piace.”
“Beh, neanche a me, e io lo sono già nei tuoi confronti, quindi devo pagare io!”
“Non esiste.”
Carter avrebbe voluto alzarsi e sfrecciare verso la cassa al piano di sotto, ma temeva che lo sguardo di Niki avrebbe potuto incenerirlo o pietrificarlo. Il ragazzo stava ragionando sulla possibilità che la vicina lo inseguisse e lo raggiungesse, calcolando approssimativamente le velocità di entrambi – lui era ben allenato, ma la spilungona aveva gambe lunghissime e sfidarla avrebbe potuto rivelarsi un rischio – quando Niki, dopo un breve silenzio, di nuovo lo sorprese cambiando bruscamente argomento:
“Senti, prima che mi dimentichi. Ho qui il libro, l’ho finito mentre ero fuori. Prenditelo, te lo presto.”
La strega sollevò la borsa di tela nera e la piazzò senza tante cerimonie sul tavolo che era stato sgomberato da piatti e posate poco prima, invitandolo ad estrarne il volume con un lieve cenno del capo e tornando ad incrociare le lunghe braccia al petto.
Di nuovo Carter si ritrovò a guardarla perplesso di rimando, ma anche se con qualche titubanza allungò lentamente la mano verso l’apertura della borsa, preoccupato all’idea di trovarci un serpente a sonagli all’interno: non si poteva sapere che cosa si portasse appresso una tipa del genere. Carter aveva appena sollevato la parte superiore della borsa – appurando con gioia l’assenza di rettili velenosi – quando Niki si alzò e, con uno scatto fulmineo, si allontanò dal tavolo per andare a pagare.
Ehy! Così non vale! Ma quando cazzo l’ha tirato fuori il portafoglio…”
Carter avrebbe anche voluto inseguirla, ma Niki era già sparita dietro la curva delle scale e decise di lasciar perdere, pentendosi solo di non aver ordinato quattro o cinque dessert o una birra in più. Il giornalista tornò quindi a concentrarsi sbuffando amareggiato sulla borsa della vicina, infilandoci dentro una mano per cercare A sangue freddo, ma ben presto le sue dita si ritrovarono a stringere qualcosa di molto più piccolo di un libro, freddo e liscio. Un piccolo oggetto di metallo che istintivamente Carter chinò lo sguardo per poter osservare, ritrovandosi rapidamente a riconoscere come un costoso accendino d’argento. Carter aveva già visto quell’oggetto tra le mani di Niki, naturalmente, in particolare la sera in cui si erano, in un certo senso, conosciuti, ma il suo sguardo attento si ritrovò a scivolare rapidamente su un dettaglio che fino a quel momento era sempre sfuggito alla sua vista: l’incisione che stava alla base dell’accendino. Come al rallentatore gli sembrò di rivedere Niki accendersi una sigaretta, seduta al suo stesso tavolo all’interno di un ristorante proprio come quel giorno, e riuscì quasi a scorgere di nuovo l’incisione che un mese prima gli era sembrato di intravedere, senza però riuscire a metterla a fuoco. Un dettaglio che aveva finito col dimenticare, naturalmente, ma ora l’incisione stava lì, davanti a lui, e una parte di Carter non riuscì a crederci. Dimentico del libro e incredulo, rimase immobile con l’accendino stretto tra le dita della mano destra, la mente annebbiata e i pensieri improvvisamente messi a tacere.  
Si riscosse da quella specie di stato di trance solo quando sentì gli affrettati passi di Niki avvicinarsi sempre di più, affrettandosi quindi a rigettare l’accendino all’interno della borsa per prendere, invece, il libro di Capote. Quando Niki apparve davanti a lui, in piedi accanto al tavolo, e raccolse la giacca dal sedile del divanetto chiedendogli accigliata perché avesse quell’aria strana Carter si costrinse a scuotere la testa, asserendo di non avere un bel niente prima di alzarsi a sua volta senza osare ricambiare lo sguardo stranito della vicina.
 
 
*
 
 
Gabriel pedalava rapido verso l’Arconia reduce da una lunga visita al mercato, le borse appese ai manici del manubrio in modo da bilanciare il peso in più possibile. Il tatuatore sfrecciava lungo la West 86th Street percorrendo un tragitto che ormai era per lui diventato quasi automatico, consentendogli di poter staccare la mente e pensare ad altro mentre pedalava preoccupandosi solo e soltanto del traffico: aveva in programma di mettersi ai fornelli, attività che da sempre amava e alla quale dedicava sempre del tempo nel weekend, non appena arrivato a casa e magari di portare qualcosa a Naomi, che nei giorni precedenti gli era parsa particolarmente stanca e stressata, difficile dire se solo a causa del suo ingombrante lavoro o se la causa fosse anche legata ad altro. Il tatuatore stava riflettendo a proposito di cosa cucinare per cena e per tirare un po’ su di morale l’amica quando si sentì chiamare da una voce ormai familiare, voltandosi e accennando un sorriso quando incrociò lo sguardo di uno dei suoi vicini: Esteban, in sella ad una bici a sua volta, pedalava pochi metri dietro di lui, e Gabriel rallentò per consentirgli di raggiungerlo.
“Ehy! Pensavo di essere l’unico nel palazzo che ancora si ricorda di come si pedala.”
Esteban lo affiancò sfoggiando un largo sorriso, uno zaino nero leggermente malconcio sulle spalle e i capelli scuri raccolti sulla nuca per evitare di dargli fastidio lungo il tragitto. Gabriel, che in effetti ricordava vagamente di averlo visto portare dentro e fuori dall’Arconia una bici pieghevole di tanto in tanto, annuì mentre adeguava la propria pedalata a quella del vicino per continuare ad affiancarlo:
“Guidare in questa città è da folli, non ho mai tenuto a cimentarmici.”
“Nemmeno io, per carità. Sono stato a Central Park a sbattere la testa su un articolo, non ne potevo più di stare in casa, anche se il tempo oggi fa schifo… Ma domani arrivano i risultati delle analisi sul bicchiere, non vedo l’ora.” A dirla tutta Esteban era uscito anche per consegnare un po’ di erba fuori dal palazzo, ma tenne quell’informazione per sé mentre allargava le labbra carnose in un sorriso, sinceramente entusiasta all’idea di avere presto nuove informazioni sulla morte di Montgomery. Stava giusto riflettendo a proposito di quanto non vedesse l’ora di rimettersi all’opera per scriverne ancora insieme a Carter quando gli venne un’idea:
“Ehy, potremmo vederci con qualcuno degli altri, domani sera. Offro io, mio padre possiede dei locali fantastici in città.”
“Perché no, potremmo avere tutti bisogno di una dose di teorie assurde sulla morte di un nostro vicino per iniziare al meglio la settimana. Ma dubito che Naomi verrà, è lunedì. C’è The Bachelor.”
Esteban era scoppiato a ridere, forse certo che scherzasse. Inutile dire che Gabriel non scherzava affatto: pochi sapevano meglio di lui quanto i programmi trash rientrassero tra le poche cose considerate sacre da Naomi Leigh Broussard.
 
Due ore dopo Naomi aveva ciabattato fino alla porta con Sundance immancabilmente al seguito dopo aver sentito suonare il campanello e aver messo in pausa Love is Blind, una soffice copertina bianca pelosa abbandonata sul divano e le immagini del reality immobili sullo schermo della tv. La strega non amava ricevere visite inaspettate, non nel weekend, non quando indossava una tuta color crema e non era truccata, ma nel trovarsi di fronte uno dei suoi migliori amici aveva comunque sorriso: Gabriel e Moos naturalmente facevano eccezione.
“Ciao Gabri.”
“Ciao. Ti ho portato delle quesadillas, così finisci la settimana in bellezza.”
Quando le porse il piatto coperto dalla carta stagnola Gabriel scorse il viso dell’amica illuminarsi, finendo col sorridere soddisfatto mentre Sundance cercava attenzioni guardandolo scodinzolando.
“Grazie! Vuoi entrare? Sto guardando un reality trash di Netflix, ma per te posso fare una pausa.”
Lui, Moos e Naomi condividevano lo stesso account, e Gabriel provava molta gratitudine nei confronti dell’algoritmo e del suo non intaccare le preferenze tra profili diversi, o si sarebbe ritrovato la Home perennemente popolata da programmi trash: sarebbe stato difficile far desistere sua nipote se si fosse ficcata in testa di voler guardare roba come Too Hot to Handle.
“Non so come tu faccia a trovare interessante quella roba.”
Gabriel si chiuse la porta dell’appartamento alle spalle mentre Naomi andava e riporre le quesadillas in frigo, lontano da Sundance e dal suo perenne appetito, prima di ciabattare nuovamente verso il divano con il Golden Retriever al seguito. La strega era tornata a sedersi imbracciando un cuscino e scuotendo la testa con disapprovazione, ignorando al contempo quella che Gabriel manifestò chiaramente con la propria mimica facciale quando la vide riprendere in mano un sacchetto di tortillas al formaggio.
“Gabri, non deve essere interessante, deve essere trash ed intrattenere! E non dire nulla sulle tortillas, altrimenti ti costringo a vedere tutta la prima stagione di Love is Blind.”
Naomi puntò minacciosa il sacchetto contro l’amico mentre Sundance si accomodava accanto a lei sul divano per appoggiarle la testa sulle ginocchia e potersi godere le meritate coccole, facendo sì che un brivido di terrore percorresse la schiena del tatuatore: Naomi ci aveva già provato, ad iniziarlo ai programmi trash subito dopo la rottura con il suo ex fidanzato. Secondo Naomi il trash aiutava a superare i momenti difficili, ma per lui non aveva funzionato granché.
“Non parlerò, giuro. Allora, com’è andato il weekend? Hai visto tua zia?”
Gabriel sorrise mentre si metteva comodo sulla poltrona dell’amica, sperando che rivolgerle qualche domande l’avrebbe distolta dai programmi trash da lui tanto temuti. Fortunatamente Naomi annuì e ingollò un paio di tortillas prima di rispondere, mettendo da parte le sue terribili minacce:
“Sì, abbiamo pranzato al Plaza e fatto shopping ieri. O meglio, lei compra e io assisto e consiglio. La zia vive la vita dei sogni.”
Per un attimo la mente di Gabriel vagò fino alla prozia dell’amica, alla sua villa in Connecticut dove si era trasferita dopo aver lasciato la frenesia della città e l’appartamento dove ora viveva la nipote prediletta, al suo ingente patrimonio e alla sua vita adibita a viaggi in giro per il mondo. Il tatuatore annuì e accennò un sorriso con gli angoli delle labbra, trovandosi assolutamente d’accordo con lei:
“Sì, decisamente. Tua zia è fortunata.”
“Da piccola dicevo sempre che volevo essere come lei, e in realtà lo penso ancora.”
Naomi sprofondò nei cuscini e sollevò la testa per fissare pensosa il magnifico soffitto bianco stuccato – non aveva mai osato chiedere a sua zia quanto le fosse costato realizzarlo –, portandosi distrattamente una manciata di patatine alle labbra mentre ripensava alle lunghe conversazioni scambiate con la zia:
“Abbiamo parlato di Rory, prima che ci vedessimo è andata a trovarlo. È praticamente l’unica che lo fa, a parte me.”
Gabriel non disse nulla, limitandosi a guardarla e a lasciarla continuare mentre sedeva sulla poltrona bianca posizionata accanto al divano: quando Gregory entrava nel discorso Gabriel aveva imparato a lasciarlo passare senza interferenze.
“Sono felice che lo faccia, ovviamente, ma parlarne anche con lei mi ricorda quanto io sia la sorella peggiore del mondo.”
“Non lo sei.”
Gabriel scosse lievemente la testa accennando un sorriso gentile, guardandola con affetto e rassegnazione al tempo stesso, ma Naomi si mise a sedere più dritta sul divano e ricambiò il suo sguardo con un’occhiata torva, decisa a non essere contraddetta:
“Gabri, lo so che mi vuoi bene e lo apprezzo, ma sii realistico: l’unica sorella peggiore di me è Cercei Lannister.”
Come sempre Gabriel decise di armarsi di pazienza, scuotendo severamente la testa prima di alzare la mano destra mostrandole due dita:
“Primo, dimentichi la pazza sorella di Caitlin.”
“Ah, vero.”
“Secondo, non ho ancora superato l’ultima stagione, quindi meglio non parlarne. Non sei una sorella pessima, in un certo senso hai fatto la cosa giusta. Lui ha sbagliato, non tu.”
Gabriel aveva perso il conto delle volte in cui si era ritrovato a ripetere parole pressochè identiche a quelle. Eppure la sua amica, benchè fosse forse la persona più intelligente e brillante che conosceva, si ostinava a non volerle comprendere: Naomi appoggiò con un gesto brusco il sacchetto di tortillas sul tavolino rotondo di legno posizionato accanto al divano, fissando torva lo schermo della tv mentre serrava la mascella, a disagio e ancora incapace di perdonare se stessa.
“Potevo starmene zitta e in silenzio, però.”
“Ma sarebbe stato deontologicamente scorretto. È la tua essenza, Naomi, essere dedita alla giustizia. Non saresti più tu se voltassi le spalle a cose che non dovrebbero accadere e che ti capitano davanti agli occhi. Anche se si parla di tuo fratello. Non è in prigione per qualcosa che non ha fatto, ma per qualcosa che ha fatto.”
In fondo Naomi sapeva che Gabriel aveva ragione, naturalmente, ma c’erano momenti in cui il senso di colpa nei confronti di una persona che aveva fortemente amato per tutta la vita, qualcuno a cui era indissolubilmente legata, si faceva quasi soffocante. A volte si chiedeva se e quando avrebbe avuto il coraggio di sedersi di fronte a Gregory e dirgli la verità, ma ancora stentava a trovarlo e ad ogni visita sorrideva lasciandosi andare a conversazioni blande, facendo finta di nulla. Naomi scosse la testa e prese la copertina per gettarsela addosso e nascondersi sotto di essa, coprendosi il viso prima che la sua voce giungesse soffocata alle orecchie dell’amico:
“Sono orribile. Sono come quelle bambine odiose e rompipallle che andavano a fare la spia dalla maestra…”
A quel punto Gabriel si alzò in piedi, grato alla coperta che impedì all’amica di scorgere un accenno di risata soffocato nascere sul suo viso, e andò a sedersi sul bracciolo del divano, accanto a Naomi, per scostarle la coperta dal viso e circondarle le spalle con un braccio:
“Dai, consolati... Quelle peggiori, comunque, erano quelle che ricordavano i compiti quando se li scordavano.”
Anche se con riluttanza Naomi annuì, sforzandosi di lasciarsi convincere dalle parole dell’amico mentre con la mano sinistra accarezzava meccanicamente la morbidissima testa di Sundance e appoggiava la testa sulla spalla di Gabriel, che di fronte a tanta disperazione arrivò persino a recuperare il sacchetto di tortillas per porgerglielo.
“Hai ragione. Ma mi manca tanto così per essere al loro livello.”
“Non pensarci, mangia questi.”
Naomi prese il sacchetto dalle mani dell’amico sollevando attonita lo sguardo sul suo viso, gettandogli un’occhiata stranita prima di pronunciare parole che destarono una risata in Gabriel:
“Dio mio, devo farti proprio pena.”
 
*
 
 
Carter si era Materializzato nei pressi dell’Arconia non appena aveva visto Niki sparire tra la folla che popolava quotidianamente i marciapiedi di New York, dissolvendosi in uno svolazzo della sua lunga giacca nera e in un turbinio di passanti dopo avergli detto di essere in ritardo per un qualche appuntamento. Era rimasto in piedi davanti all’ingresso dell’Hard Rock Cafè per qualche secondo, intralciando il passaggio altrui senza preoccuparsene affatto, fissando pensoso il punto in cui l’esile sagoma della vicina era sparita dal suo campo visivo prima di percorrere qualche metro seguendo le orme di Niki, aspettando di essere lontano da sguardi indiscreti per potersi Smaterializzare a sua volta. Giunto nuovamente nell’Upper West Side e, più precisamente, nella lunga via dove viveva ormai da sette anni, Carter si era immediatamente diretto verso l’Arconia con le mani sprofondate nelle ampie tasche della giacca di pelle, lo sguardo cristallino indirizzato verso la distesa di cemento che ricopriva il marciapiede e la mente ferma ad un’immagine che continuava insistentemente a fargli visita: sentiva ancora il metallo liscio e freddo sotto le dita mentre cercava il libro, ritrovandosi invece ad impugnare senza volerlo l’accendino di Niki. Riusciva a rivedersi mentre chinava lo sguardo verso l’interno della borsa quasi meccanicamente, un semplice movimento che gli era risultato naturale ed istintivo, consentendo così ai suoi occhi di indugiare sull’incisione che decorava la base dello zippo.
Carter varcò l’ingresso del palazzo quasi senza rendersene conto, percorrendo con lunghe falcate il tunnel che separava il cancello di ferro battuto dal cortile interno, e in un attimo stava già marciando verso la facciata del palazzo e la schiera di appartamenti e di finestre schermate da tende più o meno simili tra loro. Si trovava ormai a soli pochi metri da Lester e dall’ingresso vero e proprio quando rivide, come al rallentatore, immagini che già erano balenate nella sua mente poco prima, quando ancora sedeva davanti al tavolo che aveva condiviso con Niki: aveva già visto quell’accendino, naturalmente. E aveva già scorto  l’incisione prima di quel giorno, ma senza vederla davvero.
Salutò Lester con un cenno distratto e si diresse immediatamente verso gli ascensori, deciso a fare una piccola deviazione prima di fare ritorno al suo appartamento: più ripensava all’accendino, più si convinceva di dover urgentemente porgere una domanda ad uno dei suoi vicini. Per questo motivo fu il settimo il pulsante che Carter premette quando si trovò finalmente all’interno della cabina di metallo, fissando in silenzio le porte dorate chiuderglisi davanti con estenuante lentezza mentre si chiedeva, infastidito, come avesse potuto essere tanto stupido. Un aggettivo che non era avvezzo ad inserire in una frase che lo riguardava.
Mentre l’ascensore saliva si lasciò ritrasportare ad una sera risalente ormai ad un mese prima, una sera che difficilmente avrebbe potuto dimenticare. Risentì l’allarme antincendio, si rivide lasciare l’appartamento con Sarge e Isla, rivide il cortile gremito di vicini e poi se stesso lasciare il palazzo, vagando fino alla soglia di un ristorante. In un attimo era seduto allo stesso tavolo di Niki, la solita acida e scontrosa Niki di sempre che, anche se quella sera non l’avrebbe mai immaginato, in breve avrebbe finito col conoscere un po’ meglio. La guardava, vedendola senza occhiali per la prima volta, e le chiedeva dubbioso se per caso non si fossero già conosciuti anni prima ad Ilvermorny incassando il primo di una lunga serie di dinieghi. Le porte dell’ascensore si aprirono e Carter lasciò l’abitacolo senza indugi, dirigendosi a passo di marcia verso l’unico appartamento abitato da qualcuno di sua conoscenza per suonare il campanello, sperando che fosse in casa.
Fu un sollievo sentire dei passi e infine il rumore della maniglia che veniva abbassata dall’altro lato della porta, consentendogli di trovarsi di fronte a Kei e alla sua espressione vagamente perplessa un istante dopo.
“Ciao. Ti serve qualcosa?”
Di recente Kei riceveva visite dai suoi eccentrici vicini più che altro per ricevere notizie più o meno deprimenti o destabilizzanti, e nel trovarsi di fronte Carter provò una sincera punta di allarmismo: non vedeva motivo che potesse spingerlo a bussare alla sua porta che non avesse a che fare con la recente morte di Montgomery. Certo Carter a differenza di Moos non portava una torta con sé, ma avrebbe trovato bizzarro il contrario.
“Devo chiederti una cosa. Riguarda Montgomery.”
Naturalmente Kei lo aveva supposto nel momento stesso in cui i suoi occhi avevano solcato i lineamenti del bellissimo viso del giornalista, ma l’espressione insolitamente del tutto seria di Carter, nella quale ebbe l’impressione di scorgere anche l’ombra di una traccia di collera, lo spinse a limitarsi ad annuire e a farsi da parte per farlo passare, chiudendogli la porta alle spalle senza dire una parola mentre un accenno di angoscia si animava istantaneamente in lui, quasi come l’avessero accesa con un interruttore. Ma ormai ci si stava abituando.
Carter gli era sembrato teso, forse persino un po’ arrabbiato, ma vedendolo percorrere il breve corridoio che collegava l’ingresso al soggiorno del suo appartamento fino a fermarsi nel bel mezzo della stanza senza sedersi Kei capì che c’era qualcos’altro: non si sedette, si gettò solo una rapidissima occhiata attorno prima di tornare a posare lo sguardo su di lui facendo dondolare la gamba destra e continuando a far cambiare posizione alle proprie braccia, incrociandole e abbandonandole lungo i fianchi a ripetizione. Carter era nervoso, e la cosa naturalmente innervosì anche lui.
“Montgomery fumava?”
“Sì. Tabacco ed erba, a volte.”
Kei annuì lentamente e aggrottando le sopracciglia, sinceramente sorpreso da quella domanda mentre studiava accigliato il vicino. Si chiese quale rilevanza potesse avere quell’informazione, ma Carter non gli diede il tempo di dar voce a quei pensieri ponendogli un’altra domanda:
“Lo hai mai visto usare un accendino d’argento? Pensaci bene.”
Era di nuovo l’assurda sera in cui avevano trovato il corpo di Montgomery infilato, vestito, nella vasca da bagno con lunghe scie di sangue ad imbrattare le costosissime piastrelle italiane delle pareti circostanti. Carter era di nuovo seduto allo stesso tavolo di Niki, ancora del tutto ignaro di quanto avvenuto a così poca distanza da lui, e la vedeva accendersi una sigaretta con tutta la nonchalance del mondo. Stupidamente di fronte al gesto della vicina si era chiesto, scettico, se all’interno del ristorante fosse consentito fumare. Stupidamente si era concentrato sull’elemento sbagliato di quell’immagine, sulla sigaretta e non sull’accendino, e aveva scorto l’incisione con un mese di ritardo solo un quarto d’ora prima, quando si era ritrovato accidentalmente quello stesso accendino tra le dita: una M e una D.
“No, non penso. Perché?”  Kei lo guardò stranito e incuriosito al tempo stesso, piuttosto sicuro di non aver mai visto l’amico usare un accendino che corrispondesse alla descrizione appena fornitagli da Carter. Carter che all’improvviso esitò, i pensieri in subbuglio e le sopracciglia color grano aggrottate, ma finì con il scuotere la testa e scegliere le parole con la maggior accuratezza possibile:
“Ne ho trovato uno con le sue iniziali, ma non so se fosse effettivamente suo.”
“Dove?”
Kei sgranò gli occhi, tradendo un fervore che servì solo a persuadere ancor di più Carter a non dirgli tutta la verità: se l’avesse fatto il vicino avrebbe subito tratto le conclusioni più ovvie, e anche se si sentiva profondamente infastidito dall’essersi fatto sfuggire per tanto tempo quell’oggetto e, allo stesso tempo, inquieto di fronte alla possibilità che le conclusioni più ovvie potessero rivelarsi quelle giuste, prima di parlare Carter voleva accertarsi di essere nel giusto. Verificare le fonti, insomma.
“… Magari è un caso. Te lo dirò quando l’avrò capito.”
Carter scosse la testa e si voltò per dirigersi verso l’ingresso dell’appartamento, lasciando Kei a dir poco di stucco: il più giovane scosse la testa, incredulo e leggermente infastidito, e subito lo seguì con lunghe falcate nel tentativo di estorcergli la verità:
“Carter, andiamo, non puoi lasciarmi così!”
Carter si fermò una volta giunto dinanzi alla porta, stringendo la maniglia per aprirla mentre si voltava verso di lui scuotendo leggermente il capo, deciso a parlarne con Niki prima che con chiunque altro.
“Non voglio che tu faccia cazzate, tutto qua. Senza offesa, perché sarebbe una reazione comprensibile, ma so che le farai, se dovessi dirtelo.”
 
 
*
 
 
M.A.C.U.S.A.
 
 
Dom aveva lasciato ufficio e palazzo approfittando della pausa per prendere una boccata d’aria, anche se aveva rapidamente finito con l’accendersi una sigaretta. Un controsenso bello e buono, ma non aveva alcuna voglia di pensarci, troppo impegnato a riflettere sugli avvenimenti più recenti legati alla morte di Montgomery Dawson. I risultati delle analisi sul bicchiere di carta apparentemente rinvenuto a casa della vittima – non da loro, ma “misteriosamente recapitato” al Dipartimento degli Auror qualche giorno prima – erano finalmente arrivati, e dopo aver appurato l’assenza di sostanze velenose nel cadavere si erano ritrovati di fronte ad un esito ancora più sconcertante: il bicchiere, che riportava indubbiamente più e più impronte digitali della vittima, sembrava aver contenuto tracce di un alcaloide fortemente tossico. Montgomery quindi non era morto ingerendo del veleno, ma qualcuno doveva aver fatto un tentativo affinché ciò accadesse.
“Ehy.”
Quando sentì la voce di Megan accanto a sé Dom ruotò solo leggermente la testa per rivolgere una breve occhiata alla collega, indirizzandole un distratto cenno del capo prima di tornare a concentrarsi pensoso sulle auto e sui taxi che sfrecciavano rapidi di fronte al Woolworth Building secondo la consueta frenesia che animava i quartieri centrali della città.
“Ehy.”
“Quindi possiamo definitivamente parlare di “vittima”, a quanto pare.”
Megan si fermò accanto al collega incrociando le braccia al petto con lieve nervosismo e fissando la strada a sua volta, astenendosi dal ricordargli ancora una volta quanto fumare fosse dannoso per la sua salute: dopo averci provato e riprovato in Accademia, aveva quasi del tutto gettato la spugna nei confronti di quel vizio.
“Direi proprio di sì.”
“Ho chiamato i suoi genitori, stanno venendo qui.”
Dom annuì senza spostare lo sguardo dalla strada trafficata, provando il solito atterrimento all’idea di dover parlare con i parenti di una vittima: l’intensità di quel fastidioso sentimento andava scemando con il passare degli anni, ma Dom era certo che non sarebbe mai potuto sparire del tutto. In qualche modo era sempre lì, pronto a fargli visita al presentarsi di ogni nuovo caso.  
“Non è strano tutto quello che sta succedendo attorno a questo caso? Cose che spuntano a destra e sinistra dal nulla?”
Megan gettò un’occhiata dubbiosa al collega, guardandolo annuire ed esalare una piccola nube di fumo mentre Dom chinava pensoso lo sguardo sulle proprie scarpe:
“Decisamente. Direi che qualcuno sta indagando per conto proprio. Probabilmente un amico. O qualche vicino. I vicini ficcano sempre il naso in affari che non li riguardano.”
“Ma non a New York, di solito.”
Di solito no. Tutta colpa di quella roba true crime che la gente adora… Credo proprio che dovremmo tornare a far visita ai vicini. Giusto per sapere dov’erano il giorno della morte.”


 
*
 
 
Era in ritardo e sapeva di esserlo, ma poiché l’ingresso dell’ospedale era costantemente molto affollato era stata costretta a Materializzarsi a mezzo isolato di distanza. Conscia di come i minuti che si stavano sempre più accumulando non sarebbero stati affatto ben graditi Niki aveva percorso il tragitto praticamente di corsa, ringraziando mentalmente le sue lunghe falcate mentre sfrecciava su una delle stradine di ciottoli che costituivano la biforcazione che dalla strada principale conduceva all’ingresso dell’altissimo ed asettico edificio bianco. Aveva superato l’ingresso del parcheggio sotterraneo e varcato la porta a vetri dell’ospedale più rapidamente che poteva prima di attraversare di corsa l’atrio segnato da un gran via vai di gente di ogni età ed etnia, diretta agli ascensori, e lì davanti aveva aspettato che le porte metalliche di uno degli abitacoli si aprissero per due lunghissimi minuti trascorsi a spostare nervosamente il peso da un piede all’altro e a controllare spasmodicamente l’ora sullo schermo del telefono.
Quando finalmente le porte di uno degli ascensori si aprirono, accompagnate dal consueto scampanellio metallico, Niki si costrinse ad attendere che tutti i passeggeri ne uscissero prima di infilarcisi in tutta fretta, premendo e ripremendo il pulsante che riportava il numero del piano verso cui era diretta:
“Ed dai…”
Mentre il piccolo gruppo di persone che aveva occupato l’ascensore prima di lei si disperdeva nel gigantesco atrio Niki trattenne una lunga serie di sonore imprecazioni tra i denti, le labbra nervosamente contratte mentre attendeva che le porte si decidessero a chiudersi. Quando finalmente lo fecero la strega levò la mano dal display numerico e si sentì pervadere da un’ondata di piacevole sollievo che, però, ebbe vita breve: era comunque considerevolmente in ritardo, e ben presto riprese a gettare occhiate nervose allo schermo del telefono mentre attendeva, inquieta, che l’ascensore giungesse al piano giusto.
Quando le porte si erano finalmente aperte per mostrarle l’atrio del reparto in cui era diretta Niki era letteralmente sfrecciata fuori dall’ascensore, ringraziando di conoscere la strada mentre correva verso l’ala giusta dell’edificio. Non si era fermata alla reception, limitandosi ad esclamare il suo cognome alla donna di mezza età con lisci capelli color ruggine raccolti sulla nuca che sedeva dietro al bancone con una divisa bianca e un paio di occhiali dalla montatura sottile leggermente scivolati sulla punta del naso. Era stato proprio al di sopra delle lenti degli occhiali che la donna le aveva gettato un’occhiata condiscendente e, Niki ne ebbe fermamente l’impressione mentre raggiungeva di corsa il bancone ignorando gli sguardi perplessi che stava racimolando, fortemente giudicante. Si sarebbe anche fermata a dirle che la colpa era tutta del suo vicino Carter e del pollo fritto, ma le mancava il tempo per fare persino quello.
“La davamo per dispersa. Solita stanza, il Dottore l’aspetta.”

Le piacerebbe che lo fossi. Stronza
 
Tra loro non c’era grande simpatia.  
Giunta davanti alla porta bianca e chiusa della stanza giusta Niki si era finalmente presa qualche attimo per respirare, aspettando giusto qualche istante affinché inspirazione ed espirazione tornassero ad un ritmo normale prima di stringere la gelida maniglia argentea e abbassarla per aprire la porta.
La stanza, come sempre, era deserta. Gli unici oggetti presenti erano delle poltrone –identiche e dello stesso color mattone – addossate in due file da quattro lungo le pareti verticali e in un’altra situata al centro della stanza quadrata, rivolte verso le ampie finestre che si affacciavano sulle strade e sugli edifici di Lenox Hill(1). Accanto ad alcune poltrone c’erano anche dei bassi tavolini di vetro quadrati, tutti ricoperti da libri e riviste, e Niki dopo essersi chiusa la porta alle spalle si diresse senza indugi verso il posto che occupava sempre, la seconda poltrona da sinistra della fila situata al centro della stanza. Si era appena seduta, sprofondando piacevolmente sul cuscino rosso, e stava appoggiando la borsa sulla poltrona accanto quando una voce maschile ormai familiare le giunse all’orecchio grazie all’interfono presente nella stanza, salutandola e chiedendole come stesse.
Niki rispose dicendo di sentirsi bene, come sempre, e dopo una breve esitazione la voce del medico le fece gentilmente notare il ritardo con cui si era presentata:
“Lo so. Scusi.”
Di certo pensava che avesse in qualche modo considerato di saltare la seduta, ma Niki non disse altro mentre si limitava ad accavallare la gamba destra su quella sinistra e ad appoggiare i gomiti sui braccioli della poltrona per congiungere le dita delle mani in grembo, gli occhi verdi puntati con insistenza sul pavimento beige ai suoi piedi. Si chiese, per un istante, se le avrebbe chiesto il motivo del suo ritardo, ma dopo una breve esitazione la voce tornò a parlarle con tono gentile senza più farvi menzione:
“Non fa niente. Se è pronta accendo le luci.”
Niki non disse nulla, limitandosi ad annuire prima di sciogliere l’intreccio in cui aveva unito le mani per infilare la destra all’interno della sua borsa, frugando alla ricerca del telefono e del libro che aveva portato con sé. Appoggiò il telefono sul bracciolo alla sua destra e si sistemò il libro in grembo, accarezzandone meccanicamente gli angoli in alto mentre sollevava la testa per gettare un’ultima occhiata ai grattacieli dell’Upper East Side: delle tapparelle grigie e automatiche si stavano lentamente abbassando fuori dalle finestre della stanza, gettandola in una oscurità crescente che in pochi istanti si fece totale. Il buio, tuttavia, durò solo un paio di secondi: le tapparelle si erano appena chiuse quando la lampada da soffitto di forma sferica si accese, illuminando la stanza con una fredda luce bianca che come sempre quasi accecò Niki. Benché ormai avrebbe dovuto esservi abituata la luce improvvisa fu talmente forte – il doppio di quella prodotta da una lampadina normale, da come ricordava – da portarla a chiudere istintivamente gli occhi per evitare di farli lacrimare. Li riaprì lentamente un paio di attimi dopo, senza non più accarezzare gli angoli del libro che teneva in mano ma stringendoli, e dopo essersi rapidamente abituata alla luce ruotò il capo per posare il proprio sguardo sul telefono rimasto abbandonato sul bracciolo della poltrona. Niki lo sbloccò inserendo rapidamente il codice di quattro cifre e fece partire il solito timer da 30 minuti, dopodiché aprì il libro e cercò di immergersi nella lettura.
Non si sentì, come sempre, magicamente bene. Ma tutto sommato neanche da schifo.
La prima volta in cui si era seduta su quella poltrona, animata da un forte scetticismo, la luce l’aveva colta talmente alla sprovvista da farle sfuggire una sonora imprecazione mentre cercava istintivamente di proteggersi gli occhi, chiarissimi e dunque ancora più sensibili alle fonti luminose, con la mano. Non era nemmeno riuscita ad impedirsi di osservare a voce alta come probabilmente, illuminata in quel modo, dovesse somigliare al soggetto femminile di un quadro medievale. Non aveva ottenuto risposta, e ne aveva mentalmente preso nota: i medici non amavano che si ironizzasse sui loro metodi.
 
 
*
 
 
Lunedì 11 ottobre
 
 
Mathieu aveva accumulato un leggero ritardo, ma non provò il benchè minimo dispiacere mentre imboccava in tutta calma il viale di ghiaia circondato da cipressi che conduceva all’ingresso della villa in cui era cresciuto. Procedendo con estenuante lentezza, tanto che se fosse sceso e partito di corsa sarebbe arrivato molto prima, Mathieu giunse infine sul piazzale sul quale si affacciava la villa bianca a tre piani larga abbastanza da ospitare al proprio interno qualche campo da tennis, posteggiando la sua amata Rolls Royce accanto alla fila di auto di lusso già presenti. Gli bastò un’occhiata, sceso dall’auto armato di cappotto blu notte e sciarpa, per appurare di essere l’ultimo arrivato, ma espresse tutta la sua preoccupazione con un pigro sbadiglio prima di dirigersi, sempre in tutta calma, verso i gradini che conducevano al porticato circondato da colonne e alla larga porta d’ingresso di legno della villa.
Suonò il campanello e attese pazientemente che qualcuno gli aprisse – non aveva poi tanta fretta –, stampandosi un sorriso sulle labbra quando una delle due ante venne aperta da un minuscolo Elfo visibilmente nervoso: il Thanksgiving, a casa della sua famiglia, rappresentava motivo di terribile stress per i poveri Elfi Domestici da che Mathieu aveva memoria.
“Salve Remi. Bel maglione.”
Il complimento di Mathieu, che si sfilò la sciarpa mentre Remi gli chiudeva la porta alle spalle, restituì un accenno di buonumore nella Creatura, che sorrise, lo ringraziò con voce acuta e si prodigò in un profondissimo inchino prima di cinguettare orgoglioso di averlo avuto in dono da Lalie, sua sorella. Quando lo vide sfilarsi il cappotto l’Elfo allungò le braccine esili fasciate dalle maniche del maglione arancione con un motivo di foglie e zucche per prenderlo, lasciando che il mago glielo depositasse tra le mani con quanta più gentilezza possibile per evitargli di finire seppellito sotto di esso mentre un discreto vociare giungeva nell’ingresso in direzione della sala da pranzo.
“Remi, mia madre ti paga di più per servire oggi, vero?”
Remi, cappotto e sciarpa tra le braccia, scosse la testa in cenno di diniego, e Mathieu lo stava giusto cercando di convincere a farsi dare una “mancia extra” da lui quando un rumore di tacchi a spillo sul pavimento di marmo costrinse entrambi a volgere i rispettivi sguardi in direzione della sala da pranzo. Mathieu si sentì pervadere da una piacevole ondata di sollievo quando i suoi occhi cristallini indugiarono non sulla figura di sua madre ma su quella della biondissima sorella, che li raggiunse tenendo ben due calici di champagne in mano e con un’espressione tesa che poco fece ben sperare al fratello minore.
“Mathieu, datti una mossa, siamo tutti di là e la mamma sta fumando la terza sigaretta perché siamo in ritardo rispetto al programma che aveva preparato! Remi, porta le cose di Mathieu nel guardaroba per favore.”
Di nuovo Remi si inchinò prima di trotterellare via rapido e silenzioso, lasciando i due fratelli soli. Lalie si fermò davanti al fratello con l’aria di essere reduce da un incontro di lotta libera tanto appariva esausta, guardandolo con aria grave mentre Mathieu, invece, distendeva le labbra fino a dar vita ad un sorriso ironico:
“La terza e deve ancora mangiare qualcosa? Quest’anno forse stabiliamo un nuovo record. Come vanno le cose di là?”
Lalie non rispose, limitandosi a sbuffare e a ficcargli uno dei due calici in mano prima di prenderlo sottobraccio e trascinarlo a forza verso la sala da pranzo, rendendo il vociare degli ospiti progressivamente più assordante man mano che si avvicinavano. Erano praticamente giunti dinanzi alla porta chiusa, unica barriera che ancora separava Mathieu dalla sua famiglia al completo, quando Lalie si permise di sussurrare qualcosa gettando un’occhiata tetra al minore e sistemandogli meccanicamente il colletto della camicia azzurra:
“Hai presente quando portasti a casa Stephane e, genio quale sei, lo presentasti come il tuo amant-ami?”
Non si poteva pretendere che le cose andassero bene quando c’era la sua famiglia di mezzo, ma Mathieu non si aspettava nemmeno un simile grado di catastroficità: quando, qualche anno prima, aveva avuto la brillante idea di presentare il sopracitato Stephane ai suoi genitori suo padre aveva dichiarato di essere sull’orlo di un infarto e sua madre si era precipitata in terrazzo a fumare un pacchetto intero di sigarette in piena crisi isterica. Sul momento Mathieu si era divertito da matti, ma ripensandoci non aveva poi molta voglia di ripetere l’esperienza e di rivivere un momento di dramma simile, pertanto guardò la sorella sgranando inorridito gli occhi chiari e comprendendo, all’improvviso, perché Lalie lo avesse accolto brandendo una bevanda alcolica.
“Così male? Mon Dieu, ecco perché mi hai portato lo Champagne.”
“Appunto, bevi. L’unico modo per sopravvivere è affogarci nell’alcol, a Richard ho già riempito il bicchiere due volte.”
Lalie gettò un’ultima occhiata distratta al colletto del fratello prima di stabilire di poterlo approvare, rivolgendogli un cenno prima di aprire la porta e tornare a stringergli il braccio stampandosi un sorriso plastico sulle labbra. La stretta si rivelò anche un po’ troppo ferrea, ma Mathieu decise di non lamentarsi e di lasciare che i suoi piedi andassero dietro alla sorella affrettandosi a bere un primo sorso di costosissimo Champagne, giusto per essere pronto a ciò che lo aspettava.
“Ho portato il forestiero.”
Lalie introdusse lei e il fratello minore nella stanza brandendo il più amabile dei sorrisi e levando un coro di saluti non particolarmente entusiasti dai parenti che già sedevano attorno al ungo tavolo rettangolare posizionato al centro della vasta stanza, con i loro genitori seduti uno di fronte all’altro ai capi opposti. La tavola era stata come sempre apparecchiata con la maggior opulenza possibile e con decorazioni nuove rispetto a quelle dell’anno precedente – i Levesque-Simard non conoscevano il riciclaggio – e come sempre Lalie prese posto accanto al marito lasciando Mathieu all’onere del giro di saluti, consentendogli di notare una sedia vuota di troppo: Mathieu era arrivato a salutare il cognato, che lo guardò come se non fosse mai stato tanto felice di vedere qualcuno in vita sua, quando si rese conto che entrambi i posti che affiancavano la sedia occupata da sua madre erano liberi. Gli bastò una rapida occhiata al resto del tavolo per comprendere a chi corrispondesse la sedia di troppo, ritrovandosi ad inarcare scettico – forse anche un filino preoccupato – un sopracciglio:
“La nonna deve ancora arrivare?”
“È dal parrucchiere, pare dovesse sistemarsi i capelli. Come al solito.”
Il cupo brontolio di suo nonno Ezdar non sorprese nessuno, sua madre in primis, giacché era noto in tutta Ville de Québec quanto l’uomo fosse acido e poco tollerante nei confronti di pressochè qualsiasi forma di vita, ma Mathieu si ritrovò comunque a sbattere più volte le palpebre, perplesso:
“Ma oggi è festa. Come ha fatto a trovare qualcuno che le facesse i capelli?”
Aveva appena parlato quando rammentò quanto benestante fosse la sua famiglia, nonché disposta a spendere cifre esorbitanti per accontentare i propri carissimi desideri. A volte, vivendo a tanti chilometri di distanza, quasi scordava l’opulenza a cui i suoi parenti erano abituati. Sua madre si stava visibilmente innervosendo – era forse la quarta sigaretta quella che teneva in mano, stretta da dita fresche di manicure? – e dopo aver incassato una gomitata da parte di Lalie Mathieu si affrettò a terminare il giro di saluti con le mogli dei fratelli maggiori di sua madre, entrambe di nome Annette. La cosa bizzarra era che quando gli capitava di alludere alla sua coppia di zii gemelli ,che avevano finito col sposare due donne omonime, la gente credeva che stesse raccontando una barzelletta.
Bonjour Maman.”
Mathieu rivolse alla madre il più candido dei suoi sorrisi mentre prendeva posto alla sua destra maledicendo la sorella maggiore per non avergli tenuto un posto accanto a lei, ma Jeannette non lo imitò, limitandosi a scoccargli una gelida occhiata mentre lo guardava appoggiare il calice di Champagne, che presto avrebbe necessitato di essere riempito, sul tavolo davanti a sé:
“Sei in ritardo.”
“Scusa, ma vedo Claus e Francis più o meno tre o quattro volte all’anno, avevamo parecchio da dirci.”
A dirla tutta non era una bugia, ma era anche vero che la cena della sera prima con i suoi genitori, quando era appena arrivato, era bastata a Mathieu per prolungare l’incontro con i suoi vecchi amici il più possibile. Aveva costretto Francis ad ordinare più o meno quattro caffè, ma si sarebbe sentito in colpa per averlo privato del sonno per un giorno intero in un altro momento, quando avrebbe potuto affermare di aver superato illeso il Thanksgiving.
Quei buoni a nulla!”
“Non sono buoni a nulla, Nonno, sono i miei amici della scuola.”
“Appunto, buoni a nulla.”
Nonno Ezdar si strinse nelle spalle gettandogli un’occhiataccia, e Mathieu si stava giusto costringendo a non replicare – nel frattempo Nonna Danielle si lamentava per l’attesa e per il ritardo che stavano accumulando, perché di quel passo avrebbe dovuto dare buca alle sue amiche per il poker serale – quando tutti i presenti trasalirono a causa di una sorta di schianto che echeggiò nella sala da pranzo, apparentemente proveniente dall’esterno dell’edificio. Sua madre aprì il pacchetto di sigarette per controllare quante gliene fossero rimaste e suo padre si era appena alzato per andare a vedere che cosa fosse successo quando Remi spalancò la porta, consentendo ad una donna minuta, anziana e con i capelli bianchi cotonati di trotterellare nella stanza stringendo a sé la borsetta, sorridendo ai presenti come se nulla di fuori dall’ordinario fosse appena successo:
“Scusate il ritardo cari, non ci sono più i parrucchieri di un tempo… E poi credo di aver sbagliato strada, ad un certo punto, stavo finendo nel giardino dei Bertrand. Ciao Donatien, caro.”  Nonna Suzy, ultimo pezzo mancante per completare il quadretto familiare, sorrise al genero e gli diede due baci sulle guance come se nulla fosse, ignorando – o forse non percependo affatto – lo stupore del padrone di casa prima di trotterellare verso il posto rimasto libero accanto alla figlia con ai piedi scarpe col tacco basso che, se vendute, avrebbero potuto soddisfare l’appetito di un intero villaggio del Sud-est asiatico.
“Mamma, che cosa è stato quello schianto? Ti sei di nuovo ricordata di frenare solo all’ultimo?”
Jeanette rivolse un’occhiata di mite rimprovero e rassegnazione all’anziana madre, che ammise di “essersi sbagliata” mentre Roland, uno degli zii di Mathieu, si rivolgeva esasperato al padre:
“Papà, te l’ho detto, bisogna levarle la patente aerea per guidare la scopa. È un pericolo pubblico e per se stessa.” Peccato solo che Ezdar non amasse che gli si dicesse cosa fare, e Mathieu vuotò il suo Champagne riuscendo a sentire la brusca risposta che il nonno materno diede al figlio echeggiargli nelle orecchie ancor prima di udirla:
“Tu fatti gli affari tuoi e pensa a quanto spende tua moglie per le scarpe firmate!”
Una delle Annette trasalì, offesa, Donatien tornò a sedersi ordinando a Remi di servire gli antipasti, Roland chiese al padre di essere più garbato con la nuora ma Ezdar lo mandò a quel paese, e per concludere Jeanette imprecò a bassa voce: l’accendino si era scaricato. Poco male, si accese la sigaretta con la magia, stando ben attenta a non far prendere fuoco ai capelli della madre freschi di laccatura. Per Mathieu invece fu una fortuna avere la nonna seduta di fronte: almeno poteva parlarle senza sgolarsi, dal momento che la donna era mezza sorda ormai da anni.
Lalie, invece, vuotò il bicchiere e versò altro vino per sé e per il sempre più nervoso Richard, che ad ogni riunione di famiglia si ritrovava a sudare sette camice per portata. Mentre Nonna Danielle teneva le mani in grembo per giocare di nascosto una partita di poker online sotto al tovagliolo – i Levesque e i Simard erano profondamente avversi alla diffusione della tecnologia tra i maghi, che aveva diminuito i loro introiti derivati dalla vendita di mangime per gufi e pergamene, ma l’anziana strega aveva messo da parte le riserve quando un’amica le aveva rivelato che con quegli aggeggi si poteva giocare a poker quando si voleva – Nonna Suzy si guardò attorno allegra fino a far scivolare il proprio sguardo sul bel viso del suo unico nipote maschio, sorridendogli benevola:
“Mathieu, caro! Anche quest’anno non hai portato una fidanzata?” L’anziana nonnina parve molto delusa, ma Mathieu sorrise e scosse la testa guardandola amabile e con gli occhi chiari pericolosamente luccicanti, incapace di resistere e pronto a rincuorarla, a modo suo:
“No Nonna, mi spiace, avrei voluto portare il mio fidanzato…”
A sua madre andò di traverso la sigaretta, Lalie sghignazzò guadagnandosi un’occhiata truce da parte di Nonno Ezdar e Donatien quasi cadde dalla sedia. Mathieu però fece finta di nulla, gli occhi sempre puntati sul viso della nonna materna e sui suoi curiosi occhi azzurri celati dalle spesse lenti degli occhiali dalla montatura dorata: Nonna Suzy fu l’unica commensale a non battere ciglio, ma Mathieu fu certo che avesse semplicemente mal interpretato le sue parole e udito “fidanzata” al posto di “fidanzato”. Poco male, continuò comunque:
“Ma purtroppo doveva lavorare.”
“Lavorare? Ma è festa!”
Nonna Suzy parve scandalizzata, e Mathieu dovette sforzarsi con tutto se stesso per non ammettere che, in effetti, il suo fantomatico fidanzato faceva il parrucchiere per le anziane signore viziate dell’alta società. Decise invece che poteva sempre fare di meglio:
“Purtroppo non c’è pace per chi lavora nel Cartello…”
“Cosa?! Lavora in un bordello?!”
Mentre Nonna Suzy si portava una mano rugosa davanti alla bocca, vicinissima a svenire, Lalie, incapace di resistere, scoppiò definitivamente a ridere facendosi quasi andare il vino di traverso mentre Richard, al suo fianco, si tratteneva: aveva paura che un solo accenno di risata avrebbe dato il permesso ad Ezdar di Avadakerizzarlo, cosa che sospettava l’uomo bramasse di fare da tempo per toglierlo di mezzo e far sposare la nipote ad un qualsiasi tizio pieno di quattrini.
Accidenti, stupida Scala Reale!”
Quando Nonna Danielle se ne uscì dal nulla imprecando tutti i presenti smisero di prestare attenzione al finto fidanzato di Mathieu, indirizzando invece occhiate perplesse all’anziana signora. Quella, dopo aver gettato un’occhiata malevola allo schermo del tuo telefono e alla partita appena perduta, si ridiede subito un contegno sollevando il mento con aria sostenuta, nascondendo abilmente il telefono sotto al tovagliolo:
“Parlavo tra me e me.”
Nonna Suzy invece ne approfittò per far vagare lo sguardo sul resto della tavolata e mettere ben a fuoco i volti dei commensali, sorridendo allegra quando i suoi occhi chiari indugiarono sul viso, ancora semi paonazzo dalle risa, di Lalie: naturalmente la scambiò per un’altra nipote, come al solito.
“Adeline! Ma ci sei anche tu!”
“Nonna, veramente io sono Lalie.”
Cosa?!”
Nonna Suzy sbattè le palpebre, perché non aveva ben capito che cosa la nipote avesse detto, e Lalie si sporse sul tavolo per farsi sentire meglio, alzando la voce tanto da rischiare di assordare anche il marito:
“Sono Lalie! La sorella di Mathieu!”
“E sei tu che lavori in un bordello?!”
“No!”

“Tanto peggio di così…”
Donatien parlò con le labbra ad un soffio dal bicchiere, deciso ad ubriacarsi, e gettando la più malevola delle occhiate in direzione del povero Richard, che deglutì chiedendosi che cosa avesse fatto di male per meritare come punizione una famiglia acquisita come quella. Mathieu invece sorrise mentre tornava a rivolgersi alla madre, sollevando il carissimo calice di cristallo che si era appena riempito da solo per portarselo alle labbra:
“Sempre bello tornare a casa, Maman. Che c’è per dolce?”
 
 
*
 
 
Seduta sulla poltrona girevole color crema del suo ufficio, Eileen aveva i grandi ed espressivi occhi eterocromi puntati sullo schermo del computer fisso bianco che aveva di fronte; la strega appariva talmente concentrata e dedita a ciò che la stava tenendo occupata, con tanto di ruga a solcarle lo spazio tra le sottili sopracciglia corvine, che nessuno, guardandola, avrebbe avuto dei sospetti su ciò che Eileen stava realmente facendo e sul suo starsi dedicando a qualcosa che esulava dalle sue consuete occupazioni all’interno dell’ufficio. In effetti Eileen stava lavorando sul sito di MagicMatching, ma di fronte a lei c’era il profilo di Montgomery Dawson, che la strega stava studiando per l’ennesima volta: aveva perso il conto delle occasioni in cui si era ritrovata ad aprire quella pagina da che il vicino era morto, chiedendosi se non ci fosse qualcosa da trovare che stava sfuggendo alla sua attenzione, ma ogni volta finiva con il non trovare nulla, almeno all’apparenza, di rilevante. Sembrava che di persone, uomini o donne che fossero, Montgomery sulla piattaforma ne avesse conosciute parecchie. La cosa non l’aveva affatto sorpresa, sia a causa dell’aspetto dell’ormai ex vicino, la cui bellezza difficilmente sarebbe potuta passare inosservata, sia a seguito di ciò che aveva appreso sul suo conto da altri vicini. Di appuntamenti ce ne dovevano essere stati diversi, di conversazioni più durature un po’ meno, ma Eileen le aveva lette senza mai trovarvi niente di particolarmente interessante. Negli ultimi cinque mesi di vita di Montgomery Eileen non aveva trovato nulla, e aveva supposto che fosse stato a causa della sua relazione con Samantha Wright. Non sapeva se al momento della morte Montgomery avesse ancora l’app sul suo telefono, ma da quel che le risultava non ne aveva fatto uso in ogni caso.
Sbuffando, Eileen sollevò il proprio telefono e scattò una foto allo schermo del computer con la massima discrezione possibile per inviarla a Kei, chiedendogli se per caso ci fosse un nome o un volto in grado di dirgli qualcosa. Nel frattempo i volti sorridenti dei suoi genitori, Penelope ed Andrew, e di sua sorella minore Daphne la guardavano evadere dai confini lavorativi dalla fotografia che teneva incorniciata sulla scrivania accanto ad un portadocumenti trasparente e ad una piantina e che la ritraeva insieme a loro nel corso di un’afosa giornata estiva a Madrid, sua città natia e dove la sua famiglia ancora risiedeva. Tutti e quattro si muovevano e sorridevano, sua sorella l’abbracciava, ma Eileen intimò alla sua famiglia di non giudicarla:
“So che non sembra, ma è per una giusta causa.”
Nel frattempo il suo telefono vibrò inviandole una notifica, e subito Eileen smise di concentrarsi sulla sua famiglia, che in effetti le mancava parecchio, ma cercò di non pensarci, per riprenderlo. Aveva sperato fosse un messaggio di Kei, ma si ritrovò a leggerne uno da parte di Leena:
 
Norma: Bundle, ma perché i vestiti per fare sport costano così tanto?! Perché la gente paga cifre assurde per torturarsi?!
 
 
Forse Leena non concepiva che qualcuno potesse nutrire una sincera passione per lo sport. O che non tutti possedessero i suoi bellissimi geni. Eileen le rispose subito, immaginandola chiaramente di fronte a dei vestiti sportivi – per essere più credibile nella loro missione, dedusse – piena di sdegno:

 
Tu: Alcuni di noi non sono alti e magri di natura e per piacersi di più si riducono così
Norma: Che vita grama. Peccato che leggere non faccia perdere calorie

 
 
Eileen non avrebbe potuto trovarsi più d’accordo di così, e in un’occasione diversa ne avrebbe approfittato per lamentarsi del suo lavorare per un’App di incontri quando lei come unica compagnia aveva un barbagianni – aveva perso il conto delle volte in cui si era sentita rivolgere una battuta del genere da un qualche parente – ma un’altra notifica catturò immediatamente la sua attenzione: Kei le aveva risposto, e di certo non nel modo che si era aspettata.
 
 
*
 
 
Più o meno tre ore dopo Leena ed Eileen varcarono la soglia del palazzo doloranti, anche se fortunatamente in misura minore rispetto alla volta precedente, e non poco amareggiate, soprattutto la prima, che salutò Lester con un cupo borbottio quando l’uomo le aprì la porta di vetro prima di tornare a rivolgersi all’amica stringendo un tappetino azzurro sottobraccio:
“Abbiamo sofferto, indossato roba sportiva, cosa che mai avrei creduto di ritrovarmi costretta a fare, abbiamo bevuto quella brodaglia…”
Però dopo qualche sorso inizi ad abituartici, al sapore…”
“… E praticamente per nulla! La prossima volta dobbiamo scoprire di più, doppiamo prepararci delle domande più mirate.”
Leena scosse la testa con disapprovazione mentre si dirigeva insieme ad Eileen verso gli ascensori, lo sguardo puntato con decisione dinanzi a sé mentre attraversava l’atrio con ampie falcate. L’amica invece non parve del tutto convinta, scoccandole un’occhiata dubbiosa mentre affrettava un poco il passo per riuscire a sostenere quello di Leena, che la superava in altezza di alcuni centimetri.
“Ma così non rischieremmo di sembrarle troppo curiose?”
“Beh, le donne che vanno a fare yoga spettegolano sempre nei film, saremo la realizzazione vivente di un cliché.”
“Però almeno sappiamo che si vede con qualcuno.”
Eileen si strinse nelle spalle mentre si fermavano in prossimità degli ascensori, armandosi di pazienza per attendere che le porte dorate di uno dei due si aprissero davanti a loro e ripensando alla conversazione che lei e Leena avevano scambiato con Kamala solo fino a poco prima, al termine di una lunghissima ed estenuante lezione. Se volevano scoprire qualcosa in più su di lei quell’informazione rappresentava pur sempre un inizio, ma Leena non ne sembrò comunque affatto entusiasta, e scosse il capo prima di parlare con mal celata delusione:
“Già. Si vede. Al presente. Avevo pensato potesse esserci stato qualcosa tra lei e Montgomery, ma a questo punto non lo so. Difficile dirlo, al momento.”
“Comunque se avesse una relazione con qualcuno di molto ricco spiegherebbe tutte quelle cose ultra costose che Gabriel e Naomi hanno trovato a casa sua. Magari è qualcuno del palazzo.”
Eileen, desiderosa di gettarsi sotto il getto d’acqua calda della sua amatissima doccia e di cambiarsi per indossare finalmente qualcosa di largo e comodo, prese a studiare il numero rosso che indicava il piano all’altezza del quale si trovava l’ascensore spostando lentamente il peso da un piede all’altro, guardandolo calare progressivamente mentre Leena, accanto a lei, studiava pensosa le porte dorate senza preoccuparsene minimamente, troppo presa dalle sue elucubrazioni mentali:
“Magari era davvero Montgomery. Magari parla al presente perché sa che viviamo qui e ha paura che possiamo collegarla a lui.”
Per Leena scorgere espressioni dubbiose sul viso dell’amica e sentirla definire “un tantino assurde” alcune delle sue teorie non rappresentava una novità, ragion per cui si ritrovò a sorridere con compiacimento quando Eileen assentì, ammettendo di trovarla una spiegazione plausibile. L’ascensore si trovava ormai al secondo piano ed era prossimo a consentire alle due streghe di salire al suo interno quando una terza persona le raggiunse, fermandosi dietro di loro prima di salutarle con il tipico tono di voce stanco e leggermente trascinato del lunedì sera. Eileen e Leena si voltarono, ritrovandosi a sorridere a Naomi e al gigantesco raccoglitore azzurro cosparso da etichette colorate per dividerlo in sezioni che la strega stava imbracciando.
“Ciao Naomi!”
“Ciao ragazze. Avete… emh… fatto yoga, vedo.”
Naomi parlò con un’inusuale lentezza, stando ben attenta alle parole da utilizzare essendo facilmente a portata d’orecchi di altri vicini mentre i suoi occhi chiari scivolavano rapidi sui tappetini delle due e sul loro abbigliamento. Eileen annuì, costringendosi a non fare alcun tipo di commento, mentre Leena non riuscì a trattenere una smorfia di disappunto.
Fortunatamente le tre salirono sul medesimo ascensore pochi attimi dopo, ed essendo prive della compagnia di un qualsiasi altro vicino Eileen e Leena ebbero modo di aggiornare Naomi sulla recente conversazione che avevano scambiato con Kamala – su ciò che concretamente avevano imparato a lezione, naturalmente, non fecero parola –. L’ex Serpecorno le ascoltò in silenzio e con attenzione, rigirandosi il pesante raccoglitore tra le braccia per evitare di farlo cadere e di restare al contempo in equilibrio sui tacchi, finendo con l’annuire mentre la sua mente tornava all’appartamento di Kamala. E, manco a dirlo, anche al suo frigo meraviglioso.
“Beh, da qualche parte quel frigo costosissimo che le invidierò fino alla fine dei tempi lo ha trovato, quindi è plausibile che abbia qualcuno che le fa regali costosi. Dovreste scoprire se viene da una famiglia molto ricca.”
“Ci proveremo, ma quella si scuce più facilmente sulle proprietà del tè verde.”
Leena sbuffò mentre si appoggiava mollemente alla parete dell’ascensore, talmente presa dalla conversazione da scordarsi di premere il pulsante del primo piano. Eileen invece si strinse nelle spalle, attendendo che l’ascensore raggiungesse il sesto piano:
“Comunque non penso che l’abbia ucciso lei. So che la faccenda del caffè è, beh, sospetta, ma magari non ha nulla a che fare con Montgomery. Non so, non ce la vedo.”
“Lo dicevano anche dell’infermiere che uccise centinaia di pazienti iniettando l’insulina nell’acqua(4). Magari anche chi ha avvelenato il caffè di Montgomery non ha proprio l’aria di uno che ti vedresti capace di farlo.”
Leena sbuffò piano mentre fissava assorta le porte chiuse dell’ascensore, sforzandosi di immaginare il presunto assassino di Montgomery fermo nello stesso punto in cui si trovava lei: in piedi dentro l’ascensore, diretto al quattordicesimo piano, un bicchiere di carta in mano. Un bicchiere di carta sul quale erano state trovate solo le impronte di Montgomery, si disse Leena, e allora il quadro nella sua mente mutò: qualcuno con le mani guantate e, molto probabilmente, due caffè in mano. Uno per sé e l’altro per la vittima, forse già avvelenato.
Ma quando era stato avvelenato, il caffè? Forse in ascensore, forse la persona misteriosa aveva avuto la fortuna di viaggiare sola. O forse davanti alla porta di Montgomery, rischiando che qualcuno aprisse all’improvviso la porta sul corridoio? No, Leena lo ritenne poco probabile. Probabilmente era successo proprio lì, all’interno dell’ascensore. Ma se il caffè era stato acquistato prima di far ritorno all’Arconia allora il veleno doveva aver viaggiato insieme all’assassino, che presumibilmente non si era fermato a casa propria, ma si era diretto immediatamente da Montgomery. Leena aggrottò le sopracciglia e sbattè le palpebre un paio di volte udendo solo indistintamente ciò che Naomi ed Eileen si stavano dicendo, le loro voci lontane, ridestandosi e parlando solo quando l’ascensore si fermò al sesto piano:
“L’assassino è andato da Montgomery con il caffè già avvelenato. Torna nel palazzo con il caffè, non torna nel suo appartamento o arriverebbe da Montgomery già freddo e lui avrebbe una scusa per non berlo. Esce con i granuli di stricnina con sé, sale in ascensore con il caffè, o forse due, uno per sé per rendere la situazione il più normale possibile, e ne avvelena uno dei due.”
Eileen stava per uscire dall’ascensore e salutare le vicine – rendendosi conto solo in quel momento di come Leena avesse accidentalmente saltato il suo piano –, ma udite le parole dell’amica, che aveva parlato dopo lunghi ed inusuali istanti di silenzio, si bloccò in mezzo alle porte dell’ascensore, dimenticando ogni traccia di stanchezza e fissando i propri occhi eterocromi in quelli grandi, scuri e improvvisamente accesi di Leena:
“Ma a casa di Montgomery c’era del veleno per topi, ricordi? Non potrebbe aver usato quello?”
Le porte fecero per chiudersi, ma Eileen le bloccò con la mano mentre Leena scuoteva la testa con decisione, in qualche modo sicura delle proprie supposizioni:
“Ma lui avrebbe potuto accorgersene. E perché avrebbe dovuto averne in casa, qui di topi non se ne vedranno da decenni, probabilmente. Se il veleno lo avesse messo lì l’assassino per far pensare, in caso di esame tossicologico, che Montgomery lo avesse ingerito volontariamente?”
“Perché solo un assassino idiota lascia l’arma del delitto in bella vista?”, azzardò Naomi facendo rimbalzare gli occhi verdi pieni di curiosità dal viso di Eileen fino a quello di Leena e viceversa, guardando quest’ultima scuotere la testa:
“Esatto.”
Leena uscì dall’ascensore con un paio di lunghe ed energiche falcate, superando Eileen e Naomi – che si scambiarono una rapida occhiata perplessa prima di affrettarsi a seguirla – prima di dirigersi a grandi passi davanti alla porta del 6B, lo stesso punto, solo molti piani più in basso, dove anche la persona che stavano cercando doveva aver indugiato un mese prima. La britannica studiò pensosa e concentrata la porta chiusa, mordicchiandosi il labbro inferiore, sforzandosi di cercare di ricostruire tutta la dinamica di quel giorno mentre Eileen le si fermava accanto senza accennare a volersi dirigere verso il proprio appartamento, lì accanto:
“Ma quando ce la lascia, da Montgomery, la scatola con il veleno? Dopo, o quando gli porta il caffè? Difficile che non se sia accorto se era in casa, no?”
Naomi moriva dalla voglia di tornare a casa, di mettersi comoda, di mollare il raccoglitore sull’isola della cucina e dedicare la serata a del gelato e a The Bachelor, ma all’improvviso riuscì a mettere da parte tutti i piani che aveva avuto fino a poco prima, studiando accigliata prima la porta chiusa, tra quella dell’appartamento di Moos e quello di Eileen, e poi i volti delle due vicine:
“Direi molto difficile. Montgomery non mi sembrava proprio un idiota.”
“Giusto, allora forse lo fa in un secondo momento. Forse aspetta che lui esca, entra in casa e lascia la scatola, perché sa che ci vorranno delle ore prima che Montgomery muoia. Naturalmente le cose non vanno come sperava, ma quello è un caso a parte. Ma se aveva il veleno con sé lo aveva messo da qualche parte, forse ne aveva anche in più. Esce dal 14B pensando di aver effettivamente avvelenato Montgomery, deve tornare a casa sua subito, per non rischiare che qualcuno possa dire di averlo o averla vista lì a poche ore dal decesso. Quindi ha poco tempo, ha fretta, ma se è intelligente deve liberarsi di una possibile prova. Che cosa ne fa del veleno residuo o del contenitore che lo trasportava? Quella roba è evaporata?”
Leena ruotò su se stessa per posare il proprio sguardo sui volti delle due vicine sentendo l’euforia data dalla convinzione di essere sulla strada giusta montare dentro di sé, ma né Eileen e nemmeno Naomi furono in grado di trovare una risposta del tutto plausibile a quella domanda: le due ricambiarono accigliate il suo sguardo prima che Eileen si stringesse nelle spalle, guardando dubbiosa prima la porta e poi l’amica.
“Lo butta via in un altro momento? Di certo non nell’immondizia di casa sua.”
“Ma se avessi appena avvelenato qualcuno, se lo avessi appena condannato a morte… Esci da casa sua, sei nervosa, hai paura che chiunque possa vederti, devi andartene il prima possibile… E vuoi anche liberarti di ciò che potrebbe incriminarti, ovviamente. Non vorresti farlo subito? Se lo tenessi con te a lungo aumenti il rischio di lasciarci del DNA sopra.”
“Questo è vero. Ma che ne ha fatto? Anche facendo Evanascere qualcosa con la magia prima o poi quell’oggetto riapparirà, non ha senso.”
Per lo meno aver studiato Trasfigurazione per sette lunghi anni della sua vita all’improvviso le tornò utile. Naomi solo dieci anni prima non l’avrebbe mai pensato.
“Se l’avesse Trasfigurato in qualcos’altro e lasciato in bella vista nel corridoio? Qualcosa a cui nessuno farebbe caso. Mathieu ci vive in quel piano, possiamo chiedergli se ricorda qualcosa di vagamente fuori posto.”
Ma Leena udì solo distrattamente le parole pronunciate da Eileen, perché la sua mente era di nuovo altrove: il suo sguardo aveva finito con l’indugiare sullo sportello bianco che consentiva di aprire e chiudere lo sbocco dello scivolo della spazzatura, presente in ogni piano tra gli appartamenti A e B. In pratica a meno di due metri dalla porta d’ingresso dell’appartamento di Montgomery Dawson.
Leena Madison Zabini non era abituata a sentirsi stupida, non era qualcosa che le era mai appartenuto, ma quella sera finì col capire che cosa si provasse nel crogiolarsi nella consapevolezza di essersi fatti sfuggire qualcosa rimasto costantemente in bella vista. E non le piacque affatto.
“Porco Hitchcock.”
 
Naturalmente mettere le mani su qualcosa che era stato gettato tra i rifiuti del palazzo un mese prima rappresentava una prospettiva del tutto irrealistica, e nemmeno la gran dose di gelato che Naomi offrì a lei e ad Eileen nel suo bellissimo appartamento all’undicesimo piano riuscì a dare un po’ di consolazione alla britannica. Le tre finirono col sedere una accanto all’altra sull’immacolato divano bianco di Naomi armate di gelato, con Sundance e godersi con gioia una tripla razione di coccole e con la consueta puntata settimanale di The Bachelor davanti, ma Leena non riuscì a godersi nulla di tutto questo:
“Sono un’idiota. Qualsiasi traccia lasciata da chiunque sia stato è persa solo perché ci ho messo così tanto a capire. È ovvio che l’abbia gettato tra i rifiuti, il condotto è attaccato all’appartamento di Montgomery e in quel modo qualsiasi cosa abbia usato per trasportare il veleno non sarebbe stata ricondotta alla spazzatura della vittima. Sono una stupida.”
Leena, profondamente delusa da se stessa e dalle sue capacità deduttive – di sicuro Sir Arthur Conan Doyle non avrebbe apprezzato per nulla quel fiasco clamoroso –, attaccò con rabbia il gelato alla crema nella ciotola a fiorellini che Naomi le aveva messo tra le mani, rifiutandosi di dare ascolto ad Eileen quando l’amica le consigliò gentilmente e con tono pacato di non prendersela con il gelato.
“O il gelato o vado a picchiare qualcuno con il tappetino da yoga. Primi tra tutti picchierei questo mentecatto che sceglierà la tizia che alla fine del programma lo cornificherà nel tempo di bere un bicchiere d’acqua, ma che razza di format è?!” Leena si agitò sul divano indicando stizzita il protagonista del programma – belloccio ma, giudicò lei, con il QI di un ammasso di muschio – con il suo cucchiaino, destando un distratto cenno d’assenso da parte di Naomi, rannicchiata contro il bracciolo, nel suo angolo preferito, mentre Eileen cercava di tenere il suo gelato lontano da Sundance:
“No, hai ragione, è trashissimo, terribile. È la mia linfa vitale.”
 
 
*
 
 
Jackson era in ritardo, situazione a cui non era particolarmente avvezzo e che non era solito gradire, ragion per cui dopo essersi Materializzato in un vicolo – non troppo isolato, come 27 anni vissuti a New York ed esperienze precedenti non proprio gradevoli gli avevano saggiamente insegnato – percorse il breve tratto di strada che lo separava dalla sua meta camminando più rapidamente che poteva sul marciapiede dopo aver disceso di corsa i cinque piani di scale che separavano casa sua dall’ingresso del palazzo. Amava il suo lavoro forse più di ogni altra cosa al mondo, su questo non nutriva alcun dubbio, ma volte sentiva di dover quasi rimproverare sua madre per aver sparso la voce nel palazzo: Marlene poteva anche averlo fatto perché era orgogliosa del suo unico figlio, ma a prescindere dalle ragioni della donna Jackie si ritrovava a dover tranquillizzare condomini disperati a proposito della salute dei propri animali domestici praticamente un giorno sì e l’altro pure. Se stava tardando all’appuntamento era, in effetti, solo ed esclusivamente a causa di un barboncino che si era rivelato scoppiare di salute e della sua padrona troppo ansiosa.
Fortunatamente Jackson oltre che un veterinario era anche un appassionato giocatore di basket, e riuscì a varcare, finalmente, la soglia del cocktail bar senza avere il fiatone. Subito i grandi occhi scuri di Jackie rimbalzarono sui vari angoli della sala alla ricerca di qualche faccia nota, concedendosi di rilassare le spalle quando scorse Esteban indirizzargli un sorriso e un cenno della mano per farsi notare.
“Eccomi. Scusate il ritardo, ho dovuto fare una visita lampo ad un cagnolino che, per inciso, stava benissimo.”
Dopo aver raggiunto il tavolo di metallo nero che i vicini avevano occupato Jackson sedette sull’ultima sedia rimasta libera, tra Gabriel e Kei, consentendo ad Esteban di allungargli il menù sorridendo sollevato:
“Meno male, sentire storie di cani che soffrono mi deprime più di qualsiasi altra cosa. Tieni, scegli cosa vuoi e te lo faccio portare.”
“Potremmo anche prenderci l’abitudine, a fare gli scrocconi.”
Orion parlò tra una nocciolina e l’altra, premurandosi subito dopo di far sapere ai presenti di non aver pronunciato seriamente: per ragioni a lui del tutto inconcepibili talvolta il suo umorismo non veniva affatto interpretato nel modo corretto, ma Orion aveva finito col dirsi che forse semplicemente le persone erano strane. Fortunatamente Esteban gli sorrise, affatto preoccupato e, anzi, decisamente abituato ad offrire a destra e a sinistra. Non aveva mai tratto vantaggi dalla professione di sua madre, tutt’altro, quella era forse l’unica parentesi della sua vita che davvero aveva voglia di nascondere il più in profondità possibile, almeno poteva concedersi di rifarsi con quella di suo padre. 
“Nessun problema. Allora, Moos ha saputo dal suo amico Auror che gli esami sul bicchiere sono risultati positivi e che c’erano impronte di Montgomery ovunque. Quindi è ufficiale, qualcuno voleva avvelenarlo.”
Esteban si costrinse con tutte le sue forze a non sorridere: non gli andava di sembrare troppo entusiasta nel fare quel tipo di conversazione. Se non altro sapeva di essere circondato da persone più o meno strambe tanto quanto lui. E infatti Orion smise di tamburellare le dita sul tavolo per schioccare le dita e indicarlo, come colto da un’improvvisa epifania:
“O magari lui voleva avvelenare qualcun altro e il caffè non era per lui, ma avvelenato da lui. Anche se essendo morto il giorno stesso non sembra una possibilità molto credibile.”
Disgraziatamente la sua teoria non sembrò filare poi così bene e ben presto Orion si incupì, amareggiato, ignorando l’occhiataccia che Kei gli scoccò dopo avergli sentito supporre che il suo defunto amico avesse cercato di uccidere qualcuno:
“Non ci sono stati altri decessi quel giorno, di sicuro non nel palazzo, quindi lo escluderei.”
“Farò qualche ricerca in merito, non si sa mai. Scusa.”
Esteban si strinse distrattamente nelle spalle facendosi un appunto mentale, abbozzando un tiepido sorriso di scuse in direzione di Kei, che alzò gli occhi al cielo, mentre Jackson richiudeva il menù, deciso cosa ordinare, per unirsi alla bizzarra conversazione in corso:
“Forse voleva liberarsi di qualcuno proprio perché sapeva che qualcuno aveva intenzione di farlo fuori!”
“Questo ha senso. Anche se le persone normali forse andrebbero dagli Auror invece di avvelenare caffè…”
Gabriel parlò grattandosi incerto il braccio fasciato dal maglione color cammello che indossava – regalo di Naomi, che l’anno prima si era fissata con la faccenda delle palette e aveva iniziato a regalargli solo vestiti di colori che, a detta sua, gli stavano meglio di altri – e subito Orion annuì, cogliendo la palla al balzo per sottolineare con acceso fervore le sue convinzioni:
“Certo, il caffè è sacro e usarlo per uccidere qualcuno è una cosa ignobile!”
Bastarono quelle parole per catalizzare su di sé gli sguardi dei presenti, tutti più o meno incerti, e Orion si stava giusto chiedendo che cosa avesse detto di poi tanto strano quando vide Kei, seduto con la sedia leggermente arretrata rispetto a quella di Jackson ed Esteban, scuotere la testa in cenno di diniego e agitare la propria mano all’altezza del collo. Colto il messaggio, Orion si schiarì la voce a si affrettò a rettificare:
“Beh, naturalmente uccidere è ignobile in generale. Insomma, capite cosa voglio dire!”
“Io ti capisco, tranquillo.”
Gabriel annuì, serissimo, e Orion lo guardò con occhi traboccanti di gratitudine:
“Grazie Gabriel, per fortuna tu mi capisci.”
“Ma se le cose sono più o meno andate così, e ovviamente parliamo per ipotesi perché abbiamo zero prove a sostegno… Allora bisogna escludere Kamala. Insomma, lei non beve caffè. Perché rifilarglielo?”
Jackson, che per quanto avesse avuto modo di conoscerlo solo molto superficialmente poco riusciva a figurarsi Montgomery nelle vesti di spietato avvelenatore, fece correre lo sguardo sui presenti inarcando un sopracciglio, studiando i volti pensosi dei vicini illuminati dalla calda luce soffusa emanata dalla lampada di metallo nera che pendeva sopra le loro teste finchè Gabriel non ruppe il silenzio stringendosi debolmente nelle spalle:
“Vorrei sottolineare che io e Naomi ne abbiamo trovato eccome, di caffè, a casa sua. Quindi forse lo beve.”
Oppure qualcuno che lo beve le fa visita. Se fosse stato proprio Montgomery? Li hanno sentiti litigare, è probabile che in qualche modo si conoscessero. Non ci si mette a discutere in corridoio con chi non si conosce, di solito.”
Esteban si pentì di non aver con sé nulla con cui prendere appunti: doveva pur metterle da qualche parte, tutte quelle idee! Prese il telefono e aprì le Note, appuntandosi mentalmente di cercare una mini lavagna magnetica online da portarsi in giro per simili evenienze. Jackson, che era rimasto a lungo in silenzio a fissare pensoso il tavolo premendosi l’indice destro contro le labbra carnose, si animò improvvisamente e sorrise compiaciuto nell’esporre a voce alta la teoria che aveva appena finito di formulare mentalmente:
“Monty se la faceva con Kamala, la sua ex lo scopre, si mollano e Samantha lo fa fuori. Se il caffè a casa di Kamala lo avesse messo lei, o chiunque l’abbia ucciso?”
Esteban stava già scrivendo, Gabriel e Orion assentirono dichiarando il quadro plausibile, ma Kei placò gli entusiasmi collettivi scuotendo la testa, dubbioso:
“Samantha non la conosco bene, ma dubito che lo avrebbe ucciso. Mi sembra una persona molto equilibrata.”
A differenza di molta altra gente che vive all’Arconia. Kei lo pensò, ma non lo disse a voce alta.
“Comunque, un paio d’ore fa è successa una cosa strana. Eileen mi ha mandato una foto del profilo di Monty di MagicMatching con i nomi delle persone con cui si è sentito negli ultimi mesi… Ma non è il profilo che ricordo di avergli visto usare poche settimane prima che morisse.”
I loro drink raggiunsero il tavolo fluttuando su un vassoio nero proprio nel bel mezzo del discorso di Kei, e Orion aveva già preso un sorso del suo scotch quando si ritrovò a tossicchiare, ringraziando Gabriel con voce rotta quando il tatuatore gli assestò qualche colpetto sulla schiena per farlo riprendere. Quando finalmente tornò a respirare normalmente Orion si schiarì dignitosamente la voce, mettendo brevemente da parte il suo scotch per tornare a rivolgersi a Kei con sguardo attonito, gli occhi scuri sgranati e increduli.
“Che cosa?! Che cazzo di profilo è quello che ha visto lei, allora?”
Esteban, Gabriel e Jackson rivolsero a loro volta tutta la propria attenzione sul ragazzo, che però si limitò a scuotere la testa, confuso tanto quanto loro:
“Non lo so, ma a lei risulta inutilizzato da mesi rispetto al giorno in cui è morto. E non ha alcun senso, perché io glie l’ho visto usare un paio di settimane prima che morisse. Mi ha persino chiesto di aiutarlo a scegliere tra due tizi con cui voleva uscire!”
“Ne aveva due? Uno ha smesso di usarlo quando si è messo con Samantha. E l’altro lo ha usato dopo la rottura. O durante, per quel che ne sappiamo noi.”
Jackson fece spallucce, e per quanto fosse poco piacevole Kei non se la sentì di contraddirlo. Dopo una breve riflessione il veterinario schioccò le dita, di nuovo colto da una teoria:
“Samantha scopre che le fa le corna e lo ammazza. Non è così impensabile, da queste parti succede di tutto, mia madre dice che una volta faceva le pulizie da una che venne condannata per aver ucciso il vicino per appropriarsi dell’immobile! Pare avesse una bella vista sul parco.”
Marlene aveva sempre storie straordinarie – per non dire assurde – da condividere con chiunque fosse disposto ad ascoltarla, e a Jackson ci era voluto qualche anno di vita per realizzare che ai suoi coetanei venivano rifilati racconti ben diversi prima di essere messi a letto. Mentre Orion ed Esteban riflettevano seriamente su quell’ipotesi e Kei fissava accigliato il suo bicchiere ancora intoccato, preso a rimuginare sul mistero del doppio profilo, Gabriel si guardò attorno, un tantino a disagio, finendo col schiarirsi la voce e rivolgersi ai vicini con un basso mormorio, le labbra ad un soffio dal bordo del suo bicchiere, dopo aver colto più di qualche occhiata stranita gettata verso di loro dai tavoli circostanti:
“Ok, dobbiamo iniziare a parlare in codice quando siamo in pubblico. Annotatelo.”
Esteban annuì, e subito prese nota.
 
 
*
 
 
Martedì 12 ottobre
 
 
Mathieu a volte dimenticava quanto nel corso degli ultimi sette anni avesse imparato ad amare New York, ma quando faceva ritorno nella metropoli dal Canada e dalle sue folli riunioni di famiglia finiva sempre col rendersene conto più intensamente che mai: era quasi un sollievo fare ritorno nella frenesia della città dopo aver passato anche solo pochi giorni a stretto contatto con i suoi familiari, che spesso avevano il potere di sottrargli più energia di una lunghissima sessione di corsa e di allenamento.
Dopo lunghe ore passate in auto insieme a Prune e numerose soste per non stressare eccessivamente il suo amatissimo cane Mathieu era finalmente in procinto di fare ritorno all’Arconia, e non avrebbe potuto esserne più felice: non vedeva l’ora di varcare la soglia del suo appartamento, ricevere la gelida accoglienza di Ezdar (la civetta, suo nonno era deciso a non vederlo per almeno un paio di mesi), farsi una lunghissima e rilassante doccia dopo ore passate in auto e mettersi qualcosa di più leggero – iniziava già a sentire quasi caldo a causa delle temperature, ben più alte a New York rispetto alla sua città natia –, ma prima doveva affrontare il breve tratto di strada trafficata che lo separava dal palazzo. Fu un sollievo giungere finalmente nella familiare e lunga via dove viveva ormai da anni, anche se fu costretto ad armarsi di pazienza a causa dell’estenuante lentezza con cui le auto e i taxi davanti a lui stavano procedendo incolonnate. Il gomito sinistro appoggiato mollemente sulla fiancata interna della portiera, Mathieu si stava guardando pigramente attorno tamburellando le dita sul volante della Rolls Royce quando gli parve di scorgere un paio di volti familiari. Ben presto e grazie ad un’occhiata un po’ più attenta poté appurare di non essersi sbagliato: due dei suoi vicini stavano percorrendo il marciapiede che passava davanti all’Arconia, e stavano parlando piuttosto animatamente. Mathieu non ricordava di aver mai visto Harrison Lee, che abitava sul suo stesso piano e che incrociava di frequente in ascensore, con Spencer Allen, che aveva la vaga impressione abitasse al dodicesimo piano. Non ci avrebbe prestato nemmeno particolare attenzione, non fosse stato piuttosto evidente che i due si trovavano sul punto di litigare. Naturalmente non erano affari suoi, ma forse la prolungata compagnia dei suoi vicini aveva iniettato in lui il gene della curiosità fuori misura, o forse era semplicemente dovuto alla foto di Lee che era stata attaccata alla famigerata lavagna magnetica settimane prima, ma Mathieu si ritrovò a prestare particolare alla discussione in corso, pur non avendo la possibilità di udire cosa i due si stessero dicendo. Guardò i vicini fermarsi nel bel mezzo del marciapiede senza smettere di discutere, Spencer gesticolando con un certo fervore, mentre la sua auto continuava a procedere praticamente a passo d’uomo sulla strada asfaltata, un poco amareggiato dall’impossibilità di udire che cosa si stessero dicendo. Mathieu e la sua auto li stavano lentamente superando proprio quando Harrison distolse lo sguardo dal viso di Spencer per puntarlo sulla strada che aveva di fronte, praticamente dritto sulla Rolls Royce. Mathieu s’irrigidì e subito distolse lo sguardo, imprecando in francese a mezza voce e ritrovandosi a maledire, per la prima volta in vita sua, il possesso di un auto che non avrebbe potuto passare inosservata neanche volendo. Mentre Prune sonnecchiava incurante dietro di lui Mathieu finse di raddrizzare lo specchietto retrovisore, sforzandosi in tutto e per tutto di non guardare in direzione dei due vicini simulando tutta la noncuranza possibile mentre annuiva meccanicamente, mormorando qualcosa tra sé e sé:
“Bene. Perfetto. Se uno dei due è l’assassino e succede qualcosa all’altro li ho visti litigare e sono morto. Fantastico.”
 

 
*

 
Mercoledì 13 ottobre
1.30 am
 
 
Leena non riusciva a dormire, e la ragione non aveva nulla a che fare con il caos che spesso regnava sovrano nel suo appartamento: l’1C era straordinariamente avvolto dal silenzio e dalla quiete più totale, ma la padrona di casa non faceva che rigirarsi nel letto da quasi un’ora buona, incapace di smettere di pensare al turbinio di idee che l’avevano assalita il giorno prima. Stanca di crogiolarsi in quel silenzio snervante e nella totale, fastidiosa assenza di sonno Leena si mise infine a sedere sul materasso, i lunghi ricci arruffati attorno alla testa e le gambe incrociate al di sotto del copriletto blu. Una rapida occhiata alla sveglia sistemata sul comodino alla sua destra le bastò per appurare l’impossibilità di telefonare al suo migliore amico, che di norma costituiva, insieme ad Eileen, la vittima designata delle sue elucubrazioni mentali: a Londra il Sole doveva ancora sorgere e Leena sapeva per certo che Jaden nelle migliore delle ipotesi non avrebbe risposto, mentre nella peggiore l’avrebbe presa a male parole per averlo svegliato. Di contro la strega non poteva nemmeno uscire dal suo appartamento e passare da Eileen, cinque piani più in alto, sempre per lo stesso motivo. Sembrava che tutti i suoi conoscenti stessero dormendo, e Leena si sporse verso il comodino per prendere il telefono chiedendosi che cosa fare: poteva continuare a perdere tempo fissando il soffitto, o almeno provare ad alzarsi e riflettere seriamente sulle sue supposizioni, magari mettendole per iscritto. Di solito l’aiutava a ragionare, scrivere le cose.
Stava per farlo, stava per alzarsi con l’intento di raccogliere una penna e uno dei suoi infiniti quadernini – Eileen diceva che doveva smettere di comprarne, ma era più forte di lei –, quando venne colpita da una consapevolezza improvvisa: forse, dopotutto, non tutti i suoi conoscenti erano caduti preda del sonno.
 
Il 13B era completamente al buio da ore ma quasi nessuno, al suo interno, stava dormendo: le uniche inquiline dell’appartamento che si erano assopite erano Lottie e Sam, che giacevano acciambellate una accanto all’altra su una copertina adagiata sull’enorme divano color cammello; Carrie e Mira trotterellavano da una parte all’altra dell’enorme open space inseguendo una pallina colorata dotata di sonaglietto, spezzando con il lieve tintinnio il silenzio che altrimenti si sarebbe del tutto impossessato dell’appartamento, e Niki sedeva sulla parte finale del bancone nero della cucina, davanti ad una finestra e con gli occhi che scrutavano il cielo notturno e le luci della città, in attesa.
Le sembrò di essere rimasta lì seduta per ore intere – anche se in realtà era passata solo una mezz’ora, come le bastò gettare un’occhiata al telefono per appurare – quando scorse una sagoma scura avvicinarsi, in volo, alla facciata dell’edificio. Un accenno di sorriso carico di sollievo sollevò leggermente gli angoli delle labbra di Niki quando scorse la sagoma alata farsi sempre più grande man mano che si avvicinava, aprendo la finestra giusto in tempo per consentire al gufo grigio di planare con grazia all’interno dell’appartamento, atterrando accanto a lei sul bancone.
Mentre Carrie e Mira smettevano improvvisamente di giocare, troppo prese ad osservare con occhi sgranati il nuovo arrivato e ad avvicinarsi furtive alla cucina, Niki slegò il carico dell’educato gufo postino dal suo artiglio destro, lasciandogli una leggera carezza sulla testa come ricompensa dopo aver appoggiato la tazza termica nera sigillata accanto a sé sul bancone.
“Molte grazie.”
La strega rivolse un lieve sorriso al gufo, esemplare dell’unica specie alata che si era ritrovata costretta a dover sopportare, negli anni, e gli diede una seconda carezza ruotando la testa per gettare un’occhiata dubbiosa in direzione delle sue gatte, che se ne stavano acquattate e seminascoste dietro l’isola della cucina con i grandi occhi chiari puntati sul gufo, le pupille dilatate al massimo.
“Sai, penso che tu debba andare adesso.”
Il gufo sembrò d’accordo, perché dopo un’ultima carezza e averle mordicchiato delicatamente l’indice destro distese le ampie ali piumate e planò fuori dalla finestra, consentendo alla strega di chiudergli la finestra alle spalle prima che una delle sue gatte potesse balzare sul bancone e cercare di darsi alla fuga per inseguirlo.
Di nuovo sola, fatta eccezione per Mira e Carrie, che dopo essersi assicurate che il gufo se ne fosse andato tornarono rapidamente alla loro pallina, Niki prese tra le mani ciò che le era stato recapitato, sfiorando con le dita il post-it giallo che era stato attaccato con la magia sulla tazza per evitare di andare perduto lungo il tragitto prima di staccarlo. Il foglietto quadrato riportava solo una parola, “L’ultima”, ma Niki non ci badò particolarmente e iniziò a svitare il tappo del contenitore con l’intenzione di assaggiarne il contenuto, bloccandosi d’istinto quando lo schermo del suo telefono la sorprese illuminandosi. Le bastò una rapida occhiata per scorgere la notifica e leggere il messaggio che le era appena arrivato, esitando con la tazza aperta a metà tra le mani prima di sorridere lievemente. Un attimo dopo l’aveva richiusa del tutto, abbandonata sul bancone accanto a sé e momentaneamente mentalmente accantonata, prendendo invece il telefono per rispondere al messaggio che le era appena arrivato: avrebbe potuto aspettare ancora prima di berlo, dopotutto.
 
 
Murder, She Wrote🖊: Sei sveglia?(5)
Tu: Sempre
 
 
Le sarebbe costato molto ammetterlo a voce alta, ma Leena provò una certa inquietudine nel doversi spostare all’interno del palazzo sola e, soprattutto, a quell’ora tarda. Chiusasi la porta del suo appartamento alle spalle la britannica si era diretta verso gli ascensori con le falcate più ampie possibili, tormentandosi il labbro inferiore e le dita dal nervosismo – ma resistendo alla tentazione di iniziare a mordicchiarsi le unghie, vittoria di cui andò piuttosto fiera – mentre si sforzava di non incespicare nei propri stessi passi. Non era una grande fan degli ascensori, ma Leena premette il pulsante per chiamarne uno al primo piano costringendosi a vincere la sua claustrofobia: dodici piani di scale non l’avrebbero allettata in ogni caso, figurarsi a quell’ora e con l’inquietudine data dall’omicidio di uno dei suoi vicini che ancora impregnava le pareti del palazzo. La strega salì nell’ascensore deserto e subito premette il tasto del tredicesimo piano, sperando di arrivare in fretta mentre spostava nervosamente il peso da un piede all’altro e, al tempo stesso, di non incontrare nessuno: considerando che fino a dieci minuti prima si trovava già sotto le coperte non aveva proprio il miglior aspetto possibile.
Fortunatamente la strega giunse a destinazione senza inciampare in spiacevoli incontri – l’assassino di Montgomery in primis, ovviamente, ma si sentì sollevata anche all’idea di non aver incrociato qualche attraente vicino – e quando le porte si aprirono sul tredicesimo piano Leena si affrettò ad addentrarsi nel lungo corridoio, grata ai rilevatori di movimento che consentirono alle luci di accendersi da sé. La strega si diresse a passo svelto verso l’appartamento giusto, trovando piuttosto surreale il silenzio e la quiete che si erano impossessati dell’edificio, e finì col bussare, finalmente, alla porta di Niki con un gesto impaziente della mano.
A Niki bastarono pochi istanti per aprire la porta, ma quando si trovarono faccia a faccia esitò prima di farla entrare, fissandola dubbiosa dalla soglia dell’appartamento buio:
“Ciao.”
Leena non la vedeva da ormai diversi giorni, e accennò un sorriso in segno di saluto trovandola persino più alta e magra di quanto non ricordasse. E per Leena, dai suoi quasi 175 cm, era abbastanza raro avere a che fare con una donna persino più alta di lei. Invece di farla entrare Niki la guardò arricciando leggermente le labbra, pensosa, riflettendo sul da farsi prima di parlare muovendo distrattamente in circolo il piede destro nudo sul parquet dell’ingresso:
“Ciao. Sai… Mi è appena venuto in mente che qualcuno potrebbe sempre aver preso le tue sembianze dopo averti tramortito, usato il tuo telefono per scrivermi e ora essere qui per farmi fuori, quindi… Penso che ti chiederò qualcosa.”
“Beh, è comprensibile.”
Leena annuì, comprensiva, e si strinse nelle spalle: in effetti lo avrebbe fatto anche lei, al posto suo. Non si poteva mai sapere!
“Di che colore erano i guanti che abbiamo usato da Montgomery?”
“Di un tremendo giallo canarino che fece quasi venire l’orticaria a Carter, stando a quanto disse.”
“E chi ci trovò mentre frugavamo a casa sua?”
“Mathieu con Prune al seguito.”
Niki esitò perseguendo nel guardarla, ma dopo una breve riflessione annuì e si fece da parte per farla passare, destando un sorriso compiaciuto sulle labbra carnose della vicina: probabilmente Leena non avrebbe dovuto, ma trovava tutta quella situazione infinitamente stimolante e divertente.
“Beh, se sei l’assassino complimenti, hai fatto bene i compiti. Prego, entra.”
“Grazie… Ciao ragazze! Scusa l’ora, ma proprio non riuscivo a dormire.”
Niki chiuse la porta alle spalle della vicina assicurandole di non doversi preoccupare, superando lei, Carrie e Mira, felici di avere una visitatrice pronta a coccolarle e a riempirle di complimenti, per dirigersi verso la cucina:
“Ti chiederei se vuoi del caffè, ma vista l’ora eviterei… Di che cosa vuoi parlarmi, esattamente?”
Leena si sforzò di seguirla cercando di non inciampare o di pestare le due abissine, che le si stavano strusciando addosso facendo le fusa, e finì con l’arrendersi – con gioia – prendendo in braccio Mira.
“Ho pensato a come chi ha cercato di avvelenare Montgomery potrebbe essersi liberato di… beh, qualsiasi cosa abbia usato. Eri al buio?”
Leena seguì Niki verso la cucina guardandosi attorno con perplessità nel realizzare improvvisamente la totale assenza di luci accese all’interno dell’appartamento, fermandosi davanti all’isola nera con il ripiano in legno mentre Niki, in piedi dall’altra parte del mobile, si fermava bruscamente prima di guardarsi attorno con le sopracciglia aggrottate, come se non fosse solita farci caso. Infine la strega annuì, dopo averle gettato una rapida occhiata, e accese le luci della cucina battendo le mani:
“Sì, scusa… Abitudine. Allora prendo la vodka.”
 
Meno di dieci minuti dopo Leena sedeva su uno degli alti sgabelli di metallo nero accostato all’isola quadrata, e Niki spinse verso di lei un bicchiere da Martini con tanto di oliva stringendo tra le dita lo stelo del proprio, pieno fin quasi all’orlo.
“Bene, dimmi.”
A differenza della vicina Niki rimase in piedi, appoggiandosi all’isola per sporgersi leggermente in avanti verso Leena mentre si portava il bordo del bicchiere alle labbra. Leena però non la imitò, limitandosi ad annuire e a rigirare lentamente il bicchiere davanti a sé:
“Ok. Allora, qualcuno, presumibilmente, si presenta a casa di Montgomery con un caffè in un bicchiere di carta. Entra in casa, glielo offre. Probabilmente ne ha anche uno per sé, così da rendere tutto il più normale e ordinario possibile, e indossa quasi sicuramente dei guanti, perché sul bicchiere non sono state trovate impronte. Ma Montgomery non lo beve, in qualche modo, perché nel suo corpo non c’erano tracce di veleno al momento del decesso.”
“Giusto.”
Niki annuì leccandosi le labbra per raccogliere i rimasugli di vodka e vermut, attendendo che la vicina assaggiasse a sua volta il drink prima di riprendere il discorso. Dopo essersi allontanata il bordo del bicchiere dalle labbra Leena però gettò un’occhiata sorpresa e ammirata al drink trasparente, distogliendosi brevemente dal suo resoconto per rivolgere un sorriso alla vicina:
“Ehy, è molto buono!”
“Lo so, a Parigi ho fatto la barista.”
Niki si strinse nelle spalle, bevendo un altro po’ di Martini invitandola a continuare con un cenno della mano. La vicina si appuntò di chiederle meravigliata e piena d’invidia come fosse stato vivere a Parigi in un altro momento, annuendo prima di riprendere le fila del suo discorso:
“Beh, insomma, Montgomery non lo beve, lo sappiamo per certo. Ma io ho pensato al veleno, a come e quando è stato messo nel caffè. Il nostro o la nostra avvelenatrice lo compra da qualche parte, perché era in un bicchiere di carta… Torna all’Arconia e sale quasi sicuramente direttamente al quattordicesimo piano, altrimenti il caffè si fredderebbe. Quindi aveva il veleno con sé quando lo ha comprato. Magari è solo o sola in ascensore e ne approfitta per versare la stricnina nel caffè, e quando arriva davanti dalla porta di Montgomery il gioco è fatto. Entra, glielo offre, lui non lo beve ma probabilmente non se ne rende conto, non sul momento.”
“Quindi esce da casa sua.”
Niki la guardò inclinando leggermente la testa di lato, del tutto concentrata su di lei per non perdere nemmeno un dettaglio di quanto la vicina stava dicendo, e Leena annuì prima di procedere con l’esposizione delle sue recenti riflessioni:
“Esce convinto o convinta di aver fatto quello che doveva… Ma ha con sé qualcosa di cui deve per forza liberarsi, magari dei granuli avanzati in un qualche contenitore, o comunque un contenitore vuoto che se analizzato rivelerebbe tracce di veleno. Quindi se ne deve liberare, e ovviamente non può andare a casa e gettarlo nell’immondizia. Io penso che se ne sia liberato prima.”
Leena guardò Niki inarcare un sopracciglio e chiederle dove poteva averlo fatto, ma Leena decise di fare di meglio che risponderle, invitandola a seguirla fuori dall’appartamento. Niki non era solita abbandonare un Martini a metà, ma decise che per quella sera avrebbe potuto fare un’eccezione e obbedì, piena di curiosità.
 
“Ammetto che fa un certo effetto stare qui a quest’ora.”
Lei e Niki erano salite al piano superiore usando le scale – senza incontrare, con gran sollievo di Leena, nessun pazzo armato di ascia acquattato dietro la porta – e ora si trovavano nel corridoio deserto e silenzioso ma, fortunatamente, illuminato del quattordicesimo piano. In piedi esattamente di fronte all’appartamento di Montgomery Niki si strinse con nonchalance nelle spalle, invitandola a rilassarsi con un pigro cenno della mano:
“Rilassati, finchè le luci del soffitto non sfarfallano come e non spuntano inquietanti gemelle in grembiulino siamo salve.”
“Speriamo. Allora, l’assassino o, insomma, quello che ci ha provato esce da casa di Montgomery… Vuole liberarsi di qualcosa, deve farlo subito. Dove farlo?”
Leena si sentì talmente piena di entusiasmo, mentre sorrideva con gli occhi scuri luccicanti, che per un istante la sfiorò persino l’idea di esserlo un po’ troppo, visto il contesto. Naturalmente la mandò subito a quel paese, concentrandosi su Niki e su come la vicina si stava guardando lentamente attorno, le sopracciglia aggrottate mentre cercava di capire dove volesse andare a parare. Senza occhiali da sole e sotto le forti e calde luci giallastre del corridoio le sue profonde e scure occhiaie erano più visibili che mai, e Leena fu tentata di chiederle quanto spesso le capitasse di non dormire quando gli occhi verdi di Niki indugiarono sull’imboccatura dello scivolo della spazzatura, che si trovava tra gli appartamenti A e B. La strega s’irrigidì per un istante, osservandolo: le parve un’idea assurda, ma in pochi attimi iniziò a rendersi conto di come forse non lo fosse affatto, voltandosi lentamente verso Leena per ricambiare lo sguardo della vicina con un sopracciglio inarcato:  
“Lo scivolo della spazzatura?”
Forse non era poi così impensabile come idea, si disse la strega mentre guardava Leena annuire con vivo entusiasmo e sfoggiare un largo sorriso, l’aria di chi si sta divertendo infinitamente. La britannica accantonò le sue riflessioni sulla brutta cera della vicina, tornando a concentrarsi sulle sue deduzioni:
“Sì! Pensaci, è perfetto! C’è la possibilità che non venga mai trovato, e magari è un oggetto talmente insignificante che nessuno, mai, ci presterebbe attenzione in ogni caso. E poi quello di Montgomery potrebbe sembrare un suicidio, quindi forse, pensa l’avvelenatore, nessuno nemmeno indagherà mai.”
Purtroppo l’entusiasmo di Leena, esattamente come il giorno prima, ebbe vita breve: ben presto la strega tornò a crogiolarsi nella consapevolezza di aver impiegato troppo tempo per scoprire un primo importante pezzo di quello strano puzzle, e sospirò scuotendo la testa senza più l’ombra di un sorriso ad incurvarle le labbra carnose:
“L’unico problema è che è impossibile mettere le mani sui rifiuti, è passato un mese e ormai sarà andato perso da un pezzo. Se fossi stata meno stupida ci avrei pensato prima, non ho idea di come poterlo trovare.”
Leena abbassò le spalle esili, amareggiata, ma Niki scosse lentamente la testa senza smettere di osservare lo scivolo della spazzatura, le sopracciglia aggrottate:
“Non sei stupida. E comunque, forse il problema non sussiste.”
Le parole di Niki ridiedero un barlume di speranza in Leena, che sollevò lo sguardo dal pavimento e raddrizzò le spalle per guardarla sorpresa e fiduciosa al tempo stesso: dopo una breve esitazione Niki distolse lo sguardo dallo scivolo per tornare a posarlo sul suo viso, le iridi color giada che sembravano ancora più chiare e penetranti del solito grazie al contrasto con le occhiaie.
“Sei l’assassino, o quello che è. Sai che c’è la possibilità che l’omicidio di Montgomery passi per suicidio o che l’esame tossicologico non venga svolto, ma non puoi averne la certezza, anche perché non sono molte le persone che si tolgono la vita in quel modo. Quindi puoi liberarti di ciò che hai usato per trasportare il veleno e fare in modo che non venga facilmente ricondotto a te, oppure fare in modo che non venga mai trovato affatto. Risolvi alla problema alla radice.”
“E come? Se non aveva molto tempo non penso che lo abbia sciolto nell’acido. E poi sei qui, in corridoio, può arrivare chiunque da un momento all’altro, devi fare in fretta.”
Quello dell’acido, si ritrovò a considerare Leena, sarebbe stato un risvolto interessantissimo, ma si astenne dal dirlo a voce alta mentre Niki annuiva dandole le spalle per avvicinarsi allo scivolo dei rifiuti, sollevando lo sportello per gettarvi un’occhiata all’interno:
“Il rivestimento è di metallo. Non sarebbe perfetto gettarlo senza che mai nessuno lo trovi, facendo in modo, magari, che resti qui dentro? Chi mai guarderebbe dentro uno scivolo per i rifiuti?”
“Ok, ma come…”
Leena non riusciva a capire, o almeno finchè un’assurda idea non le balenò in mente. La strega spalancò gli occhi scuri, incredula ma allo stesso tempo sperando di aver indovinato i pensieri della vicina mentre guardava Niki annuire e tornare a rivolgere lo sguardo su di lei:
“Se ci buttassi dentro un magnete non cadrebbe. Si attaccherebbe alle pareti. Nessuno lo troverebbe mai, o almeno non per un bel po’ di tempo, quando nessuno più penserebbe alla morte di Montgomery.”
“Quindi c’è… la possibilità che sia ancora lì?”
Leena era quasi commossa: forse, in fin dei conti, non poteva considerarsi proprio un fallimento. Niki annuì e si allontanò dal tunnel per avvicinarlesi nuovamente, già in procinto di pensare a come esaminare l’interno dello scivolo. Disgraziatamente dubitava che Carter ci sarebbe passato attraverso, quindi si ritrovò ad accantonare l’idea di calarcelo dentro.
“Era pomeriggio, probabilmente. Nessuno arriva e ti porta un caffè di sera, no? E probabilmente non era qualcuno che aveva confidenza con lui, non sapeva del suo astio per il caffè, quindi è ancora più difficile credere che sia successo di sera. Chi ti bussa alla porta di sera con un caffè senza neanche conoscerti poi così bene?”
“A parte Orion, intendi?”
“Sì, ma dubito fortemente che sia stato Orion. No, era pomeriggio o mattina. Io vivo proprio accanto a dove passa lo scivolo, e quel giorno ho sentito uno strano tonfo metallico, non ricordo l’ora, ma ricordo di aver pensato che qualcuno avesse gettato qualcosa nel tunnel con la grazia di un elefante. O forse era proprio il magnete che si incastrava.”
“Ok, e come ci infiliamo dentro il tunnel?”
Leena trattenne l’impulso di prendere ad iniziare a saltellare, emozionata in un modo assolutamente poco appropriato rispetto alla situazione corrente, e Niki si strinse nelle spalle mentre gettava un’ultima occhiata di sbieco verso lo sportello che apriva e richiudeva lo scivolo, dubbiosa:
“Se non funziona un Incantesimo di Appello direi che servirà qualcuno di leggero e molto magro. … Oddio, toccherà a me, vero?”
Niki aveva appena iniziato a maledire la sua stessa idea inclinando le labbra per dar vita ad una smorfia contrariata, ma prima che Leena potesse risponderle il suono metallico di una chiave che veniva fatta ruotare all’interno di una serratura le fece entrambe sobbalzare: la porta di uno degli appartamenti venne inaspettatamente aperta e le due si ritrovarono a ricambiare, sorprese, lo sguardo perplesso di uno dei loro vicini. Se una quarta persone fosse capitata nel bel mezzo del corridoio del quattordicesimo piano avrebbe stentato ad indicare chi fosse più sorpreso tra Leena, Niki e Mathieu, che si immobilizzò sulla soglia del suo appartamento completamente vestito e con il guinzaglio di Prune stretto tra le mani mentre i suoi occhi chiari rimbalzano perplessi prima sul viso di una poi su quello dell’altra. Bizzarro, si disse il canadese, come in quella città si potesse vivere in uno stesso posto per sette anni e ricevere comunque continue sorprese dai suoi vicini.
“… Avete organizzato una riunione di condominio notturna e siete venute a prendermi?”
“No, indaghiamo. Tu cosa fai in giro a quest’ora?”
Leena si strinse nelle spalle, come se la sua fosse giustificazione del tutto nella norma, e come Niki lo guardò in attesa di udire la motivazione che lo aveva spinto a lasciare il suo appartamento a quell’orario così fuori dall’ordinario.
“Porto fuori Prune e poi vado al lavoro.”
Mathieu si strinse debolmente nelle spalle mentre varcava definitivamente la soglia di casa insieme all’alano, che lo seguì obbedientemente fuori dalla porta e attese paziente che il padrone si chiudesse la porta alle spalle a chiave sotto agli sguardi attoniti delle due vicine: mentre Mathieu dava loro le spalle per armeggiare con la serratura Leena si ritrovò a sbattere più e più volte le palpebre, incerta se fidarsi dei suoi sensi o chiedersi se le scarse ore di sonno e il Martini di poco prima non le stessero giocando qualche scherzo.
“Alle 2 passate del mattino?!”
Dopo aver chiuso la porta a chiave Mathieu si diresse verso gli ascensori insieme a Prune – che naturalmente passando si guadagnò delle carezze lampo da Niki e Leena –, stringendosi nelle spalle mentre aspettava che le porte dorate si aprissero:
“Già. Buona giornata ragazze. E cercate di non entrare a casa mia, se vi riesce.”
Mathieu varcò la soglia dell’ascensore e premette il pulsante del pian terreno rivolgendo un accenno di sorriso non troppo ironico alle due vicine che ancora lo scrutavano perplesse, Leena in primis. Naturalmente era consapevole di quanto l’ora fosse bizzarra, ma non aveva particolarmente voglia di fermarsi a chiacchierare: era reduce da giorni popolati da conversazioni molto intense. Le porte dorate infine si chiusero iniziando la discesa di Mathieu e Prune verso i piani inferiori, lasciando Leena a chiedersi che razza di lavoro potesse fare il vicino mentre Niki incrociava le lunghe braccia al petto, esalando un debole sbuffo:
Bah, che egocentrico. Come se il suo fosse l’unico appartamento in cui introdursi, da queste parti.”
“Ma che razza di lavoro fa?!”
“Non ne ho idea, ma qualsiasi cosa faccia la fa nel Queens. L’ho incontrato lì qualche giorno fa.”
Niki si strine nelle spalle astenendosi dal far notare come il vicino si fosse recentemente recato in Canada, meta notoriamente favorita dei criminali che vivevano vicino al confine, e Leena rifletté per qualche breve istante, accigliata, prima di rammentare qualcosa che le era stato recentemente raccontato da Eileen a proposito di un bizzarro incontro in ascensore:
E se facesse, non lo soqualcosa con la droga?! O il gigolò!”  Di nuovo Leena parlò aprendo le labbra in un sorriso entusiastico, mostrando due perfette file di denti candidi e allineati. Sarebbe stato così divertente avere un criminale come vicino di casa!
“Come Richard Gere! Adoro quel film(6). Ma stiamo perdendo il focus, dobbiamo capire come recuperare qualsiasi cosa possa esserci nel tunnel.”
Niki, dopo essersi brevemente unita all’entusiasmo di Leena, scosse la testa e si costrinse a tornare seria, brandendo la sua consueta aria imperscrutabile mentre la britannica annuiva, sforzandosi con tutta se stessa di imitarla e di accantonare la tentazione di intavolare una discussione fatta di teorie in merito alla misteriosa vita condotta dal loro affascinante vicino.
“Giusto, hai ragione. Del film parliamo dopo.”            

Come ogni mattina, se a quell’ora di mattina si poteva parlare, Mathieu varcò i cancelli dell’Arconia insieme a Prune, che gli trotterellava obbediente al fianco, trattenendo a fatica uno sbadiglio. Prima di allontanarsi dal palazzo per il loro consueto breve giretto Mathieu sollevò la testa per gettare un’occhiata incerta alla facciata dell’edificio e più in particolare in direzione del quattordicesimo piano, sperando che le vicine non avessero in progetto di far implodere il palazzo. Si chiese che cosa stessero combinando, a quell’ora così insolita davanti alla sua porta, ma ben presto stabilì che forse ancora non desiderava saperlo. Era davvero troppo presto.
“E poi sono io quello strano...”
 
 
 
 
 
 
 
 
(1): Negli USA il Thanksgiving si celebra in occasione del quarto giovedì di novembre, prima del Black Friday, mentre in Canada un mese e poco più prima, il secondo lunedì di ottobre. I festeggiamenti sono più o meno gli stessi ma le radici storiche sono diverse, negli USA si festeggia dal 1941 mentre in Canada la festa è stata canonizzata più tardi, nel 1957.
(2): Ricetta per friggere il pollo originaria di Tupelo, città del Mississippi, che Hard Rock serve in quanto città natale di Elvis Presley
(3): Il libro a cui fa riferimento Niki è Il club dei delitti del giovedì di Richard Osman
(4): Charles Cullen, serial killer arrestato nel 2003
(5): Nome originario della serie La signora in giallo
(6): American gigolò, film del 1980
 
 
 
 
 
 
 
 
 
……………………………………………………………………………………………..
Angolo Autrice:
Buonasera!
Questa volta non sono in mostruoso ritardo e ne sono davvero felice. Penso che ormai sia più rilevante scoprire che cosa combina Mathieu nella vita rispetto a capire chi ha ben pensato di far fuori Monty, per ora la teoria di Phoebe in merito alla spia che si finge membro della setta adescando adepti grazie al suo fascino e spacciando droga resta la mia prediletta, nonchè molto gettonata, ma si vedrà.
Detto ciò grazie per le recensioni come sempre, ci sentiamo presto su altri lidi. A chi la sta aspettando assicuro che non mi sono dimenticata della OS per Anjali e Alphard, spero arrivi presto insieme ad un piccolo contenutino extra sul Camp e a seguire qualcosa anche per Joël e Sabrina.
A presto,
Signorina Granger
 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Capitolo 10 - Verso l'ora zero ***




Una tragedia. Una tragedia che se si fosse ritrovato ad assistere Sofocle avrebbe gettato penna e calamaio nel fuoco e si sarebbe dato all’apicoltura. O in alternativa avrebbe potuto prendere esempio, perché no?”
Naomi si lasciò cadere sulla poltrona foderata da un caldo velluto a coste color mattone senza la solita grazia e compostezza che le appartenevano fin dall’infanzia, per una volta del tutto incurante di poter apparire delicata quanto un rinoceronte in visita in una boutique Tiffany. Una volta racchiusa dal confortevole abbraccio del velluto e dei braccioli della poltrona la strega lasciò cadere con un lieve sbuffo la borsa color crema piena di raccoglitori etichettati accuratamente rimpiccioliti con la magia sul pavimento accanto a sé, gli occhi verdi puntati torvi sul basso tavolino di legno cosparso da sottobicchieri di sughero e deliziose boccette piene di zucchero, miele e sciroppi ai diversi aromi che le stava davanti. Eileen, seduta su una poltrona a conchiglia color cipria e china verso il medesimo tavolino in procinto di versare del latte nella tazza di tè nero bollente che aveva ordinato precedentemente parlò aggrottando le folte sopracciglia corvine per chiedere alla vicina cosa mai le fosse capitato di tanto penoso senza smettere di studiare la sua tazza, conscia di poter del tutto rovinare il sapore della sua bevanda con una misera quantità di latte di troppo.
“Ieri sera ho avuto un’idea orribile: ho dato ascolto a qualcun altro e non al mio buon senso.” Nel pronunciare quelle parole lo sguardo carico di disappunto di Naomi saettò rapido su un altro volto noto che si trovava nei paraggi, destando un sorriso nervoso sulle labbra carnose del suo migliore amico prima che Moos, forse deciso a non rendersi reperibile per qualche manciata di secondi, si alzasse dal divanetto beige a due posti che aveva occupato proponendosi di andarle a prendere una tazza di caffè.
No!”, esclamò invece sgomenta Eileen dando una lieve mescolata al suo tè nero e puntando finalmente i grandi occhi chiari sul bel viso della vicina, che annuì con aria grave sprofondando ulteriormente tra i soffici cuscini della poltrona, quasi desiderosa di farsi inghiottire da essa:
Già, di tanto in tanto anche le persone più intelligenti fanno scelte discutibili… Pare capiti una volta ogni dieci anni, ma ciò non toglie che ogni tanto capiti. Ad ogni modo, ho avuto la brillante idea di dare ascolto a quella gran pettegola di mia zia e ai miei amici ancor più pettegoli e sono uscita con un tizio. Esci Naomi, che male ti potrà fare?! Già. Che male mi potrà fare? E indovina? Era un fissato con la palestra.”
Naomi pronunciò quelle parole deglutendo a fatica e sollevando la mano destra per sostenersi il capo, quasi quell’insieme di suoni destasse in lei della sofferenza, mentre Eileen si portava la tazza verso le labbra annuendo, piena di compassione:
Mi dispiace moltissimo. Nessuno sa meglio di me cosa si annida nei meandri di quell’app.”
“Vero, tu ci lavori… Non c’è un modo per tenere il mio algoritmo lontano miglia da esaltati del genere, per caso? Perché se dovesse ricapitarmi non ne uscirei bene. Nel senso che ci uscirei in manette, perché stavo per ucciderlo. Che so, rifilandogli del cianuro… sarebbe stato semplice, mi sarebbe bastato distrarlo indicandogli un’insalata scondita.”
“Il cianuro in una miscela di acqua e farina sarebbe ottimo.”, suggerì Niki con tono neutro dopo aver sorseggiato un po’ di Espresso dal bordo di un bicchiere di carta che nessuno nella stanza sarebbe stato certo di averle visto ordinare. E dato che Naomi non si era minimamente accorta della sua presenza fino a quel momento l’avvocato dimenticò momentaneamente il troglodita della sera prima per far saettare lo sguardo su di lei, più accigliata che mai mentre la guardava starsene seduta sull’estremità dello stesso divano solo poco prima aveva scorto il suo migliore amico:
“Tu quando sei arrivata?!”
“Poco fa.” Niki non si sprecò in ulteriori spiegazioni, limitandosi ad una scrollata di spalle noncurante mentre agitava mollemente il bicchiere fissando pensosa la bevanda calda e scura: “È molto importante ricordare quanto tutti gli uomini siano creature orribili. Ma alcuni lo sono più di altri e i fissati con la palestra sono tra questi.”
Dato che Eileen era troppo occupata ad addentare un biscottino al burro per parlare Naomi fece per suggerire alla vicina di essere meno brutalmente drastica nelle proprie considerazioni, ma l’apparizione di Moos accanto alla sua poltrona e la tazza di caffè che l’amico le allungò la interruppe sul nascere:
“Naomi, ecco il tuo cappuccino al caramello… Niki, ti ho visto e ti ho preso una ciambella.”
Dopo aver consegnato il caffè all’amica l’ex Serpecorno donò un sorriso caloroso alla vicina distendendo le labbra e mostrando due file di denti candidi e perfettamente allineati, ma invece di ricambiare Niki alzò la testa e scoccò un’occhiata dubbiosa prima alla ciambella glassata al caramello salato adagiata sul piattino che il mago le stava porgendo e poi direttamente al suo viso, parlando piccata:
“Per l’amor del cielo Bartimeus, sono qui che cerco di sostenere una tesi contro tutti gli uomini del mondo e che fai? Te ne spunti come Nonna Papera brandendo ciambelle glassate e smontando le mie argomentazioni.”
Nonostante l’aria infastidita Niki non si astenne dal prendere il piattino dalle mani del vicino, che sedette accanto a lei sul divano senza offendersi minimamente e premurandosi invece il più possibile verso il bracciolo per evitare che potessero toccarsi anche solo per sbaglio. La strega aveva appena addentato la ciambella, mentre Naomi sorseggiava pensosa il suo caffè chiedendosi perché non le fosse venuto in mente, la sera prima, di usare un caloricissimo dessert pieno di zucchero per allontanare il troglodita palestrato e darsi alla fuga, quando Niki rimise la ciambella sul piattino strofinandosi le dita e scuotendo la testa guardando torva il dolce senza smettere di masticare:
Mpf, e ovviamente è anche buonissima… Grazie.” Il ringraziamento – seppur quasi amareggiato – della vicina destò un sorriso compiaciuto sul volto di Moos, che si arrotolò distrattamente le maniche del maglione beige che indossava sugli avambracci prima di sollevare il piede destro per appoggiare la caviglia sul ginocchio opposto, consentendo ad una porzione di un vistoso calzino coperto da minuscoli avocado sorridenti di fare capolino dall’orlo dei pantaloni:
“Prego. Anche se quelle che preparo io, modestamente, sono più buone.”
“Tu prepari ciambelle glassate?!”, ripeté Niki guardandolo accigliata prima di realizzare chi stesse fronteggiando e darsi della stupida: in fondo era piuttosto ovvio. A stupirla era che Moos non si fosse ancora rivelato una specie di fata madrina sotto mentite spoglie.
“Vedi, non sono tutti orribili. Moos è l’essere umano più buono e altruista dell’universo… Quanto invece al tizio di ieri, non avrei potuto farlo fuori con un impasto di farina e acqua neanche volendo, non sarei riuscita a fargli mangiare un carboidrato neanche minacciandolo.” Dopo aver rivolto un sorriso pregno di sincero affetto a Moos Naomi inclinò gli angoli delle labbra in una smorfia risentita, decisa a non usare il suo account di MagicMatching per i successivi sessant’anni mentre Eileen, alla sua sinistra, annuiva con fervore:
“Io non capisco, perché mai dovremmo vivere rinunciando ai carboidrati? La vita è già piena di atroci sofferenze, voglio dire, come il lunedì mattina, la ceretta e alzarsi per prendere il telecomando quando hai scordato la bacchetta in cucina ma vuoi cambiare serie su Netflix… almeno fatemi mangiare la paella e non assillatemi!”
“Avete ragione, quelli sono i peggiori. Peggio degli arci fissati con la palestra ci sono solo quelli con quattro divorzi, quelli che hanno votato Trump e i serial killer. E ovviamente, in fondo alla lista, quelli che non mangiano carboidrati.”
“Come fa uno che non mangia carboidrati ad essere meno peggio di un serial killer?”, domandò Eileen alla vicina fissandola accigliata, non del tutto certa di poter comprendere appieno il suo discorso mentre Niki, sorseggiato un altro po’ di caffè, si stringeva nelle spalle esili con noncuranza:
“Primo, il serial killer avrebbe cose interessanti da raccontare, quello che non mangia carboidrati conterebbe le calorie e basta, sempre che gli siano rimasti abbastanza neuroni per fare la sinapsi. In più le cose sono strettamente collegate, perché l’astinenza da carboidrati ti può ovviamente indurre a diventarlo, un serial killer.”
Niki terminò di esplicare il suo breve elenco addentando quel che restava della sua ciambella glassata al caramello, certa che senza dolci come quello ad allietare le sue giornate la vita le sarebbe apparsa ancor più grigia di quanto già non fosse. Moos invece, incerto se dar credito o no alle sue parole, esitò prima di parlare spostando lo sguardo su di lei, le sopracciglia aggrottate:
“Ma sono stati fatti studi a riguardo o…”
“Immaginatevi se l’assassino di Montgomery fosse un tizio che in questo momento sta sollevando pesi, mentre noi stiamo qui ad abbuffarci ci zuccheri.”
Naomi si sporse in avanti verso il tavolo di legno per liberarsi momentaneamente dall’impiccio di dover stringere la tazza tra le mani, un sorriso ad allargarle le labbra e donare una luce divertita ai suoi espressivi occhi verdi. Eppure l’ironia che aveva accompagnato le sue parole si disperse nell’aria mentre lei tanto quanto i tre vicini si prendevano qualche istante di silenzio per riflettere su di esse, finchè Eileen non disse qualcosa spostando lentamente lo sguardo su ciascuno dei loro volti pensosi:
“Ci sono fissati con la palestra nel nostro palazzo? Dovremmo dare una controllata.”
Naomi dichiarò che avrebbe chiesto a sua zia Margaret, che sembrava essere a conoscenza persino del numero di macchie che uno sguardo attento avrebbe potuto scorgere sulla moquette degli ascensori, e Niki si disse d’accordo annuendo con un lieve cenno del capo:
“Lo credo bene. Io non ci voglio avere nulla a che fare con gente così, tantomeno condividere l’indirizzo... A stento sopporto di condividerlo con Carter.”
Moos fu l’unico a non dire nulla, troppo occupato a chiedersi perché qualsiasi discorso intavolassero lui e i suoi vicini finissero sempre a parlare di morti e potenziali assassini. Ora che ci pensava, non era nemmeno sicuro di ricordare cosa li avesse condotti lì a partire da un semplice donut al caramello.


 

 
Capitolo 10
Verso l’ora zero

 

 
Orion Parrish battè tre volte le dita unite della mano destra contro il gelido bordo della sedia di metallo dallo schienale rigido, un lieve quanto nervoso imperativo volto a ricordarsi di mantenere la respirazione controllata e di restare lucido che risuonò più rumorosamente di quanto non si sarebbe aspettato nel silenzio della stanza quadrata e semi buia.
Non fosse stato ancora troppo scosso da quanto accaduto Orion si sarebbe voltato verso lo specchio rettangolare che occupava gran parte della parete a cui stava dando le spalle per “salutare” coloro che di certo lo stavano studiando in quel momento, cosa che aveva immaginato di fare ogni qualvolta in cui si era ritrovato a studiare una stanza come quella in un qualsivoglia prodotto televisivo, ma era troppo preso a rivivere e a valutare con quel poco di lucidità che gli era rimasta quel che era successo per anche solo pensarci.
“Signor Parrish, so che può essere difficile, ma deve aiutarci a ricostruire cosa è successo questa sera. Deve dirci di preciso con chi era e a fare cosa quando l’allarme ha iniziato a suonare.”
Orion era rimasto momentaneamente intrappolato nel suo vortice di pensieri confusi talmente a fondo da aver quasi dimenticato di non essere solo in quella stanza vuota, occupata solo da un semplice tavolo di metallo e le tre sedie che lo circondavano: fredda, asettica e illuminata fiocamente da delle lampadine che emanavano una gelida luce bianca l’atmosfera era tutto fuorché rassicurante e accogliente, e anche se Orion sapeva di non avere niente da nascondere non poté fare a meno di sentirsi un tantino intimidito da quelle pareti buie, vuote e soprattutto dagli sguardi seri puntati su di lui. L’astronomo, che avrebbe dato qualsiasi cosa per trovarsi molto lontano da lì, magari racchiuso dalle sue rassicuranti mura domestiche e in piedi davanti al suo telescopio, annuì meccanicamente e allungò la mano destra verso il bicchiere di carta che gli era stato messo davanti, conscio di aver bisogno di assumere anche l’ultima goccia di caffè rimasta per affrontare quella conversazione: la prima cosa che Orion aveva chiesto quando aveva messo piede lì dentro ed era stato travolto dalla minacciosità che vigeva nella stanza degli interrogatori era stato del caffè e subito era stato accontentato. Orion si sentì profondamente grato nei confronti di quella gentilezza mentre si portava il bicchiere alle labbra per vuotarlo sollevandolo dal tavolo che lo divideva dalle altre due persone presenti nella stanza, ma nell’osservare l’astronomo e il modo in cui gamba e piede destri gli si muovevano tremando lievemente Dom si domandò, accigliato, se assecondarne la richiesta fosse stata una scelta saggia: l’Auror guardò l’ennesimo inquilino dell’Arconia che si trovava a fronteggiare nell’arco di pochissime ore pronto ad udire la sua personale versione dei fatti appena accaduti non senza una piccola dose di scetticismo abituato com’era a sentirsi raccontare le cose più assurde e strampalate, spesso frutto del più o meno lieve stato di shock in cui potevano versare coloro che occupavano la sedia davanti alla sua. Eppure, nonostante anni di esperienza ciò che Orion Parrish mormorò senza guardarlo e scuotendo debolmente la testa destò in lui uno stupore che non avrebbe immaginato di provare:
“Non ha senso.”
Pur sembrando destabilizzato dai recenti avvenimenti che avevano colpito il palazzo in cui viveva Orion pronunciò quelle tre parole con una sicurezza che Dom non aveva riscontrato in nessun’altra delle persone con cui aveva già avuto modo di parlare, cosa che lo indusse a guardarlo con maggior attenzione ed interesse di prima mentre sedeva immobile sul bordo della sedia, gli occhi puntati sul viso teso dell’astronomo che sembrava pallidissimo posto al di sotto della luce biancastra che illuminava parzialmente la stanza degli interrogatori.
“Che cosa non ha senso, Signor Parrish?”
Orion rispose mormorando qualcosa a mezza voce e mangiandosi le parole, sempre senza guardare lui o Megan e fissando invece con insistenza il bordo del tavolo, ombre spettrali disegnate sul viso e i profondi occhi scuri annebbiati dalla confusione. Paziente e il più garbato possibile Dom gli chiese di ripetersi senza riuscire a celare fino in fondo ogni traccia della smania di sapere che provava, gli occhi verdi pronti a cogliere ogni minima tensione muscolare ed emozionale sul viso di Orion. Orion che un istante dopo si decise finalmente a sollevare il capo quel tanto che consentì ai loro sguardi di incrociarsi, costringendosi a ripetersi dando voce al proprio turbinio di pensieri alzando lievemente la voce e scandendo più lentamente le parole:
“La seconda vittima è il primo sospettato. Non ha senso.”
Non era certo la prima volta in cui a Dom capitava di udire una supposizione del genere, parole che lo portavano puntualmente a dedurre di avere di fronte uno di quei soliti appassionati di gialli e di podcast true crime che soventemente gli facevano alzare gli occhi al cielo. Quella sera, tuttavia, quelle parole lo colpirono più di quanto non facessero di norma, e Dom si voltò lentamente per scambiarsi una rapida occhiata perplessa con Megan, che gli sedeva accanto, prima di schiarirsi la voce e parlare sporgendosi leggermente in avanti sul tavolo, verso Orion, che ancora stentava a guardarli e dopo aver parlato aveva puntato con insistenza il proprio sguardo sulla punta dello stivale Chelsea nero che indossava:

“Chiedo scusa, Signor Parrish… Quindi chi sarebbe dovuto morire, secondo lei?”
 
 
*

 
Due settimane prima
Giovedì 14 ottobre
 
 
A Jackson bastò aprire la porta e mettere piede fuori dal bagno, lavato, vestito e rasato, per ritenersi grato di essere sul punto di uscire di casa: anni prima aveva avuto l’illuminazione, isolare acusticamente la sua camera e il bagno per far sì che almeno un paio di stanze restassero lontane dalle scaramucce e dalle frequenti discussioni che intercorrevano tra i suoi genitori. Dubitava che Marlene e Walter ne avessero idea, e anche se così fosse stato nessuno dei due aveva mai aperto bocca a riguardo, segno che forse si sarebbero trovati d’accordo con il figlio in ogni caso. Mentre si preparava per uscire Jackson era dunque rimasto all’oscuro della litigata in pieno svolgimento, ma aprire la porta del bagno ebbe lo stesso effetto di un gigantesco amplificatore acceso all’improvviso e le grida gli piombarono improvvisamente addosso quasi come dei proiettili.
Una smorfia increspò immediatamente le labbra carnose del veterinario mentre cercava di fare mente locale, immobile nel corridoio deserto, e chiedersi se ci fosse modo di svignarsela evitando i genitori e la possibilità che lo tirassero in mezzo – possibilità affatto remota, trattandosi di sua madre –. Disgraziatamente per lui le discussioni, in casa Salmon, avvenivano sempre nell’enorme soggiorno che si apriva dinanzi all’ingresso, pressochè l’unica stanza dell’appartamento in cui lui e i genitori convivevano a tutti gli effetti. Era proprio l’incontro a generare le diatribe, ma a Jackson quel mattino non interessò apprendere cosa ne avesse scatenata una e si mosse silenzioso lungo il corridoio per dirigersi verso la porta gettando occhiate amaramente divertite alle cornici che, appese su entrambe le pareti, contenevano le loro foto di famiglia: a volte aveva l’impressione che il se stesso del passato o i suoi genitori, in quasi tutti i ritratti più giovani di alcuni anni, ridessero divertiti di loro e di quanto fosse ironico che un appartamento carico di tensioni brulicasse di foto di famiglia dove tutti sorridevano e davano l’impressione di essere sereni. E ad essere del tutto onesti Jackson non era più sicuro di poter affermare se quei sorrisi fossero sinceri o solo frutto delle apparenze.
Da quel poco che le sue orecchie riuscirono ad estrapolare dalle voci alterate dei genitori che spesso si sovrapponevano – entrambi avevano sempre avuto il vizio di parlarsi sopra a vicenda – a Jackson parve di capire che sua madre stesse rimproverano Walt per il suo trascorrere tutto il tempo in bagno e nella sua stanza. Jackson dovette ammettere che da quando suo padre ci aveva infilato anche una tv e un microonde ne usciva di rado, ma di mettersi in mezzo e schierarsi da una parte o dall’altra non se lo sognava neanche e sgattaiolò rapido e silenzioso come un felino verso la porta, deciso ad attivare la sordità selettiva che ogni figlio di divorziati o di coppie troppo inclini a litigare sviluppa precocemente.  Chip scelse come sempre il momento peggiore per mettersi ad abbaiare dando la perfetta scusa a Walter di prendersela anche col cagnolino con l’affettuoso appellativo di “topo di merda”, insulto che diede modo a Marlene di incazzarsi ulteriormente e di prenderlo ancora di più a male parole prima di accorgersi della presenza del figlio, vista che la portò a zittirsi immediatamente e ad inarcare un sopracciglio prima di rivolgersi a Jackson e chiedergli dove stesse andando.
Quando la informò della sua intenzione di fare colazione fuori casa Jackie aveva già praticamente un piede fuori dalla porta, e se la filò prima di dare il tempo a Marlene di avere qualcosa da ridire – riusciva quasi a sentirla, rincarare la dose asserendo che entrambi gli ingrati a cui stava dietro da trent’anni non le davano la giusta riconoscenza svignandosela come ladri –, chiudendosi la porta alle spalle per lasciarsi indietro anche la loro lite: non aveva voglia di sentire suo padre far notare a Marlene come anche il figlio cercasse di tenersi alla larga, elemento che, nella mente di Walt, non poteva che dargli ragione. Il silenzio che tornò ad avvolgerlo un istante dopo fu piacevole in modo indescrivibile e finalmente Jackson si concesse di sorridere, rilassato, mentre si avviava verso le scale per dirigersi al pian terreno. Mentre scendeva i gradini due alla volta le solite domande gli si insinuarono nella mente, ovvero perché non se ne andasse da quel manicomio e perché i suoi genitori si ostinassero a restare formalmente insieme: da piccolo l’idea che Marlene e Walt si lasciassero l’avrebbe gettato nel panico e nella disperazione, ma aveva superato quella fase molto tempo prima. C’erano giorni, quando restava seduto sul divano premendosi il cuscino sulla faccia per sentire solo l’eco della discussione di turno, in cui quasi non desiderava altro, anche se non aveva mai avuto il coraggio di esprimere quel pensiero a voce alta con nessuno dei suoi amici, giorni in cui li sentiva litigare sperando che uno dei due prendesse e se ne andasse, visto che lui non aveva il coraggio di farlo. Una parte di Jackie sapeva per certo che nel momento stesso in cui avrebbe lasciato l’Arconia il matrimonio dei suoi genitori sarebbe crollato come un castello di carte mosso da un rivolo d’aria, e anche se sapeva che sarebbe stata la cosa migliore per tutti, incluso lui, non aveva ancora trovato il coraggio di assistere a quel crollo.
 
Esteban lo aspettava in piedi nel cortile fumando con disinvoltura una sigaretta rollata a mano mentre studiava pensoso la facciata del palazzo che dava sulla strada ignorando le occhiate che i vicini impegnati a fare avanti e indietro gli lanciavano, difficile dire se a causa del suo bell’aspetto o del suo abbigliamento trasandato. Scorgendo il vicino Jackson affrettò istintivamente il passo per raggiungerlo sentendosi scuotere da un leggero brivido, insultandosi immediatamente per essere stato così stupido e smanioso di lasciare la gabbia di follia che talvolta poteva diventare casa sua da scordarsi di prendere la giacca. Non gli restò che stringere i denti, per niente intenzioni a fare dietro front e a tornare nella gabbia di matti, mentre si avvicinava al vicino con aria ben poco allegra.
Hola. Perché quella faccia?” Domandò Esteban esalando del fumo quando vide lui e la sua faccia scura, la mano libera sprofondata nella tasca di una giacca di pelle sgualcita in più punti e i capelli scuri coperti quasi del tutto dal cappuccio largo della felpa.
“I miei genitori. Sono insopportabili.”
“Litigano tra di loro o scassano a te?” Esteban si riportò la sigaretta tra le labbra per un’altra boccata tornando a volgere lo sguardo sul resto del cortile, sempre più deserto man mano che il freddo iniziava ad impossessarsi sempre più della città. Jackson si strinse nelle spalle, i grandi occhi scuri puntati sulla ghiaia ai suoi piedi mentre riviveva un turbinio di discussioni pressochè sempre tutte uguali, tutte ugualmente sterili e potenzialmente evitabili facilmente.
“Più che altro tra di loro. A volte li guardo e non riesco a credere che si siano sposati.”
“Io i miei quasi non me li ricordo, insieme. Si sono lasciati quando ero molto piccolo… Un po’ mi è mancato, credo, ma senza dubbio a volte la gente si sposa per i motivi sbagliati.”  Esteban si strinse nelle spalle mentre studiava distrattamente quel che restava della sua sigaretta, forse chiedendosi se sarebbe riuscito a finirla prima di andare a bere il mezzo litro di caffè che quella giornata avrebbe richiesto.
“Credo che il giorno in cui si lasceranno saranno molto più felici entrambi.”
Jackson si sentiva, per qualche assurdo ed inspiegabile motivo, quasi in colpa per pensarla in quel modo e non era sicuro di aver mai pronunciato quelle parole ad alta voce, ma fu piacevole lasciare che si liberassero dall’angolo del suo cervello in cui erano rimaste annidate forse per anni. Esteban inizialmente non rispose, limitandosi ad osservarlo accigliato, prima di stringersi nelle spalle e dargli il consiglio più ovvio, corretto e allo stesso tempo difficile da mettere in pratica:
“Dovresti dirglielo, se lo pensi davvero.”
Jackson annuì, borbottando che lo sapeva. E forse avrebbe trovato il coraggio di farlo prima che venisse fuori chi aveva avuto la brillante idea di far fuori un ragazzo che, come lui, aveva mosso i suoi primi passi dentro quelle mura.
Orion e Kei li raggiunsero un paio di minuti dopo, il primo trafelato come se avesse appena completato un intenso allenamento e il secondo visibilmente esasperato:
“Scusate il ritardo, ma qualcuno non è capace di controllare il suo animale domestico.” Kei si fermò dinanzi ai due vicini, i lisci capelli neri in disordine come se si fosse appena rotolato su un pavimento e il colletto della camicia bianca che spuntava da un maglione blu polvere stropicciato. Orion, che stava cercando di appiattirsi senza tanto successo la sua zazzera di capelli castani, gettò all’amico un’occhiata scandalizzata:
“Arthur non è un animale domestico, è un parente. E comunque nessuno potrebbe controllarlo, è impossibile!”
Kei alzò gli occhi al cielo, astenendosi accuratamente dal rendere noto ad Esteban e a Jackson di come poco prima Arthur, intuito che il padrone avesse intenzione di uscire e lasciarlo solo per una volta di troppo nell’arco di pochi giorni, non avesse voluto saperne di lasciare la presa sui poveri capelli di Orion, costringendolo a cercare di afferrare il gufo per scollarlo dalla testa dell’amico.
“Andiamo?”, propose invece il ragazzo accennando con un lieve movimento del capo verso l’uscita del cortile “Muoio di fame.”
“Oggi sono persino riuscito a presentarmi in orario,” commentò Esteban avviandosi insieme ai vicini lungo il viale intendo a finire la sua sigaretta “questa giornata deve avere dell’incredibile. Non credo fosse mai successo che io arrivassi per primo.”
“Tutto talmente assurdo che mi aspetto quasi che gli Auror vengano a dirci che non abbiamo capito un cazzo e che Montgomery è morto scivolando su una saponetta.”  Arresosi all’idea di somigliare ad uno spaventapasseri Orion smise di cercare di aggiustarsi i capelli e si ficcò le mani in tasca, seguendo i vicini mentre Kei gli scoccava un’occhiataccia. Naturalmente black humor a parte Orion sperò vivamente di sbagliarsi: sarebbe stato tutto immensamente meno emozionante se fosse venuto fuori che niente era andato come loro avevano supposto.
 
“Spero che non ci trattengano troppo a lungo, dopo. Ne ho già perse parecchie di lezioni, ultimamente.”
Kei parlò giocherellando distrattamente con le sue uova con la punta dei denti della forchetta, non particolarmente affamato come troppo spesso gli capitava da un mese a quella parte. Orion invece, seduto accanto a lui, aveva già ripulito il suo piatto e stava sorseggiando la seconda tazzina di caffè, determinato a prenderne una terza prima di e tornare nel palazzo.
“Sì, nemmeno da me erano molto felici quando ho chiesto di spostarmi il turno… Immaginate dire al vostro capo di non poter andare al lavoro perché devono venire gli Auror a casa tua per l’ennesima volta nel giro di poche settimane.” Jackson, poco affamato tanto quanto Kei, forse anche per colpa dei suoi genitori, si mosse nervosamente sulla sedia stringendo le braccia al petto mentre Esteban, rilassatissimo, asseriva con un sorriso di essere di certo il più fortunato tra loro essendo l’unico che poteva lavorare e gestirsi i tempi come meglio gli aggradava.
“Sei fortunato eccome. Da me sono sempre tutti più curiosi, non fanno che chiedermi le novità, se hanno scoperto qualcos’altro su come è morto, se secondo me è stato un suicidio o meno… all’inizio era ok, ma dopo un mese e ancora nessun colpevole sta diventando snervante. Non dovrebbero sgonfiarsi le notizie? Ci saranno non so quanti omicidi in tutta l’isola ogni settimana.” Jackson era abituato ai pettegolezzi, del resto era cresciuto in mezzo a donne delle pulizie che si incontravano spesso e volentieri più per spettegolare dei vari inquilini del palazzo a cui rassettavano casa che per organizzarsi i turni di lavoro e le mansioni – se c’era qualcosa di cui Jackie era totalmente certo era che mai avrebbe voluto che un’estranea gli sistemasse le mensole, non dopo tutto ciò che aveva sentito da che aveva iniziato ad andare all’asilo –, ma una cosa era sorbirsi le chiacchiere delle colleghe e dipendenti di sua madre che parlavano di relazioni extraconiugali e di sex toys nei comodini, un altro erano i suoi colleghi che, allo zoo, parlavano della morte del suo vicino di casa.
“Per i no-mag sì, ma noi siamo una società molto più piccola persino qui… Credo che i pettegolezzi nei quali sguazzare siano un po’ meno, quindi la gente si deve accontentare.” Esteban si strinse nelle spalle mentre si spolverava con calma le briciole di bagel al formaggio che gli erano rimase sulla giacca di pelle logora mentre Kei, di fronte a lui, sbuffava piano:
“Io sto pregando che non si sparga la voce che fossimo amici in facoltà... Di essere oggetto di pettegolezzi idioti non ne ho nessuna voglia. Che cosa dite che vorranno sapere oggi?”
“Magari chiedere a tutti dove eravamo e a fare cosa il giorno in cui hanno cercato di rifilargli una tazza di caffè avvelenata. Può anche non averlo ucciso quello, ma qualcuno ci deve pur aver provato. Qualcuno vuole altro caffè?” Orion si alzò senza manifestare nemmeno un briciolo di preoccupazione all’idea di dover rispondere a delle domande in merito a cosa avesse fatto il giorno in cui qualcuno aveva tentato – per poi riuscirci – di far fuori uno dei suoi vicini di casa, asserendo di aver bisogno di altra caffeina senza stupire nessuno dei presenti. Esteban fu l’unico ad assentire con un cenno del capo mentre si massaggiava la nuca e la zazzera di capelli scuri lunghi fino alle spalle, preoccupato all’idea di mettersi a sbadigliare dinanzi agli Auror:
“Per me sì, mi sono preso tardi e sono stato sveglio fino alle 2 per finire un pezzo.”
“Voi che avete fatto quel giorno? Io ho lavorato fino a dopo pranzo e sono rimasto fuori più o meno fino a poco prima di cena per non sentire mia madre lagnarsi perché io e mio padre non l’aiutiamo abbastanza con le faccende e perché non è la serva di casa.”  Jackson ricordava quel giorno: a colazione, prima che lui e suo padre uscissero, Marlene aveva sollevato la solfa che andava avanti ormai da un decennio e Walt aveva avuto la malaugurata idea di fare una battuta a proposito del lavoro della moglie e di come, in effetti, la donna pulisse case da praticamente tutta la sua vita. Jackson era impallidito all’udire quelle parole, e ricordava chiaramente di essere fuggito di casa il più rapidamente possibile insieme al padre quando Marlene era, prevedibilmente, scoppiata come una bomba ad orologeria.
 
“Devi proprio essere così coglione, a volte?” Aveva chiesto seccato Jackie al padre mentre entrambi scendevano i gradini due alla volta, senza neanche chiedersi perché Walt avesse scelto la via più lunga e scomoda invece di usare l’ascensore. Probabilmente, si era detto il ragazzo quando si era ritrovato allo zoo e aveva avuto il tempo per rifletterci su, suo padre aveva temuto che Marlene lo inseguisse brandendo un mocio fiammeggiante e aveva ritenuto di poter usare il figlio come scudo umano per far desistere la moglie dai suoi istinti omicidi.
“Stavo scherzando, se la prende anche se apro bocca! Il suo dannato cane sporca molto più di noi e non gli dice niente, chissà perché.”
 
Jackson non aveva idea di cosa fosse successo all’Arconia il giorno in cui Montgomery era morto, era rimasto tutto il pomeriggio a godersi il sole giocando a basket e quando era tornato nel palazzo, ore dopo, sua madre si era calmata e nessuno aveva la benchè minima idea di cosa avrebbe scosso l’edificio e i suoi abitanti di lì a poche ore. Esteban invece lo guardò scuotendo il capo, come stupito dalla precisione dei suoi ricordi:
“Come fai a ricordartelo così bene? È passato un mese, sinceramente non saprei dire di preciso… Dovrei controllare il lavoro di quel periodo, magari sono rimasto a marcire alla scrivania scrivendo, o al massimo mi sono spostato a Central Park visto che faceva ancora caldo. Quel che è quasi certo è che fossi solo, perché durante la settimana è raro che veda gente… Dubito fortemente che qualcuno, a parte Mocio, potrebbe confermare la mia presenza da nessuna parte.”
“Io ho l’orario delle lezioni, ma ci saranno decine di persone che potrebbero avermi visto studiare in biblioteca nel pomeriggio… Beh, di certo non penseranno che sia stato qualcuno di noi, voi quasi neanche lo conoscevate!” Kei posò finalmente la forchetta accanto al piatto e liquidò il discorso con un gesto della mano, deciso ad escludere la questione anche se una parte di lui pregava che Orion si comportasse bene e che non se ne uscisse con qualche idiozia capace di metterlo sotto ad una luce strana: voleva bene ad Orion, ma proprio per questo sapeva quanto a dir poco bizzarro potesse risultare agli occhi degli altri, e la possibilità che si mettesse a fare elucubrazioni su una possibile seconda vittima davanti agli Auror non era assolutamente da escludere. Jackson non rispose, limitandosi a sperare che avesse ragione, mentre Esteban aggrottò la fronte con aria pensosa, riflettendo brevemente prima di stringersi nelle spalle:
“Io gli vendevo l’erba. Ma a dire il vero credo che questo dovrebbe scagionarmi definitivamente: chi mai gioirebbe nel perdere un cliente?”
“Quindi glielo dirai?”
“A questo punto perché no? Nello stato è legale, anche se nel palazzo non lo sbandiero ai quattro venti perché non è proprio l’ambiente più adatto non significa che sia un problema che la gente venga a saperlo. Meglio essere io a dirlo prima che lo scoprano in qualche altro modo, poi sì che sembrerebbe sospetto. Orion, bello, tu che facevi il giorno in cui hanno cercato di avvelenare Monty?”  Esteban sorrise al vicino quando Orion fece ritorno al tavolo, allungandosi verso il vicino per prendere la tazza che l’astronomo gli stava porgendo. Quest’ultimo, perfettamente preparato all’eventualità di udire quella domanda, tornò a sedersi senza scomporsi affatto, lo sguardo stabile e il mento sollevato:
“Ci ho pensato tutta ieri sera, perché ero certo che ci avrebbero chiesto questo. Sono giunto alla conclusione di aver fatto la spola tra casa e lavoro, poi verso sera Kei è venuto da me e l’ho aiutato a preparare una ricerca. Comunque non troverebbero uno straccio di collegamento tra me e Montgomery anche cercando per un decennio… Come se io potessi mai sembrare un tipo poco raccomandabile, mi faccio quasi bullizzare persino dal mio gufo!” 
Esteban rise, ma Kei e Jackie non lo imitarono: il primo perché era spesso protagonista delle scaramucce tra Orione e Arthur, il secondo perché sapeva meglio di chiunque cosa volesse dire farsi bullizzare da un animale domestico, ovvero quell’odiosamente viziato chihuahua che sua madre trattava spesso con più affetto rispetto a quello che riservava a lui.
“Era quel giorno? Bene, buono a sapersi. Anche se Arthur ha fatto scenate anche quella volta, ora che ci penso… il tuo gufo è una regina del dramma.”  Kei scosse il capo parlando con amarezza mentre i suoi pensieri si rivolgevano con affetto al suo adorato gatto, infinitamente più mansueto del gufo di Orion, ma quest’ultimo non si scompose, anzi sorrise divertito mentre sollevava la tazza facendo roteare l’espresso molto forte contenuto al suo interno:
“Ha preso da me.”


 
*
 
 
Se si fosse chiesto a Bartimeus Thomas per quale motivo avesse poco prima lasciato il suo appartamento con in mano una casserole di ceramica piena di cinnamon rolls profumati per salire in ascensore e ritrovarsi in un piano che non era il suo probabilmente non avrebbe saputo rispondere con certezza. Men che meno il patologo forense avrebbe saputo dire per quale motivo non avesse subito suonato il campanello, ritrovandosi invece a fissare la porta chiusa che aveva davanti in un modo che chiunque – meno che lui, essendo Bartimeus notoriamente molto garbato – avrebbe definito “da perfetto idiota”: qualcosa lo aveva spinto a recarsi fin lì e qualcos’altro lo stava portando ad indugiare. Invece di decidersi a sollevare la mano destra per suonare il campanello Moos chinò lo sguardo per gettare un’occhiata dubbiosa a ciò che si trovava ai suoi piedi, un curioso zerbino che era piuttosto certo di non aver mai notato fino a quel momento. Sarebbe stato uno zerbino innocuo e normalissimo se solo non avesse presentato la scritta “You shall not pass”, e Moos si domandò se quelle parole poco accoglienti non stessero contribuendo a tenerlo lontano dal campanello finchè, spinto dalla volontà di non far freddare i deliziosi dolcetti alla cannella che portava con sé, non si costrinse a compiere quel gesto semplicissimo ma che aveva per diversi minuti rimandato.
 
Niki sedeva sull’unica sedia presente nel suo appartamento troppo grande e troppo vuoto, un’enorme poltrona papasan di vimini coperta da uno spesso cuscino bianco imbottito e addossata davanti alla finestra che si trovava accanto all’enorme libreria stracolma che conteneva tutta la sua collezione di volumi. La strega sedeva tenendo le lunghe gambe raccolte contro il petto e il computer, aperto, appoggiato sulle ginocchia esili, i grandi occhi verdi puntati sullo schermo mentre due delle sue gatte dormivano insieme su una cuccia e le altre due si contendevano una delle decine di palline di cui disponevano, rincorrendola e facendola rotolare avanti e indietro per tutto l’open space.
Il diario della terapia era stato gettato malamente sul basso tavolino di vimini che si trovava accanto alla poltrona, sopra ad un’alta pila di libri e accanto ad una lampada nera spenta, e Niki sapeva per certo che se lo avesse aperto per scriverci dentro – cosa che, in effetti, stava accuratamente rimandando – vi ci avrebbe sicuramente riversato tutta la frustrazione che stava provando da che aveva aperto gli occhi la notte precedente, quando qualcosa l’aveva svegliata prima dell’alba e che non aveva voluto saperne di concederle qualche altro sporadico minuti di sonno:
“Possibile che quella fottuta sedia sia introvabile? Da dove cazzo l’ha tirata fuori quella vecchiaccia inglese…”
Da ormai un paio d’ore si stava destreggiando alla ricerca della Sedia-Ryan, senza però cavarne un bel niente: la tentazione di irrompere nell’appartamento della sua amata vicina, prendere in ostaggio un pennuto e chiedere la sedia in riscatto era tanta, ma Niki si stava forzando di ripetersi che quella sarebbe stata inequivocabilmente un’azione sbagliata e, dunque, da escludere in modo assoluto dai suoi piani futuri: secondo i consigli della doc comportarsi da brava persona le avrebbe restituito solo cose positive e anche se non ci credeva neanche un po’ provarci non le costava nulla. L’allegro scampanellio della porta la fece quasi sobbalzare, distogliendola da un silenzio che ormai perdurava da ore e che l’aveva quasi portata a perdere il contatto con un mondo che fuori da quell’appartamento andava avanti con o senza di lei, inducendola a gettare un’occhiata stranita in direzione dell’ingresso da sopra il bordo dello schermo che aveva davanti: possibile che la gente non leggesse più le scritte impresse sugli zerbini altrui? E pensare che lo aveva cercato a lungo, su Etsy, un articolo simile.
“Arrivo.”, borbottò la strega mentre rimpiccioliva le innumerevoli pagine di ricerca che aveva aperto in quelle due ore e tutte le sue gatte si allineavano puntualmente davanti alla porta, nasi e vibrisse per aria, per attendere l’arrivo del visitatore e la loro possibilità di fuggire dall’appartamento per una gitarella nel palazzo. Il campanello si fece sentire una seconda volta e questa volta la strega, iniziando ad infastidirsi, sbottò chiedendosi perché oltre che analfabeta e non in brado di leggere la gente fosse diventata anche sorda:
“Arrivo!” Niki chiuse di scatto il computer e lo appoggiò sul pavimento sbuffando amareggiata prima di ricordarsi di aver insonorizzato lei stessa le pareti dell’appartamento e che, dunque, il suo visitatore non poteva averla udita. Dovette quindi decidersi ad alzarsi e a trascinare i piedi verso la porta, finendo col faticare non poco a sollevarsi dalla poltrona e a liberarsi dall’abbraccio avviluppante del cuscino candido:
Perché ho preso questa stronzata… Via voi, non è città per andare a spasso questa.”
Dopo essere finalmente riuscita a mettersi in piedi Niki si affrettò in direzione della porta, gettando la prima pallina colorata che la capitò a tiro verso l’angolo opposto della stanza per liberarsi delle sue gatte giusto il tempo necessario ad aprire la porta e assicurarsi che nessuna di loro fuggisse. Prima di aprire la porta Niki si premurò di assecondare la sua ormai consolidatissima abitudine di controllare attraverso lo spioncino, provando un’ondata di sollievo nel constatare di avere davanti qualcuno di tollerabile.
“Ciao Bartimeus. Come mai qui?”
Niki aprì la porta avvolta dal suo pigiama nero coperto da fette di pizze e hamburger di almeno due taglie troppo largo sforzandosi di sorridere – appurando, a fronte del forte fastidio che provò, di come la Doc avesse ragione, ogni tanto doveva proprio far fare ginnastica ai muscoli facciali – al vicino, guardandolo ricambiare il gesto con una facilità per lei difficile da emulare mentre le porgeva una casserole coperta da un sottile strato di pellicola:
“Ciao. Ti ho portato questi.”
Il sorriso svanì rapido dal viso della strega mentre chinava lo sguardo su ciò che il vicino le stava porgendo, ovvero quelli che avevano tutta l’aria di essere dei farcitissimi ed invitanti cinnamon rolls. Niki allungò lentamente le mani per prendere la casserole coperta da minuscoli girasoli da quelle di Moos, fissando accigliata i dolci per qualche breve istante prima di dar voce alle sue perplessità con tono incerto:
“… Perché?”
“Perché una volta hai detto che ti piace la cannella.” Moos, improvvisamente a disagio, prese a spostare nervosamente il peso da un piede all’altro mentre guardava la vicina smettere di fissare i dolci per posare lo sguardo su di lui deglutendo a fatica, temendo di aver fatto qualcosa di sbagliato mentre il sopracciglio destro di Niki si avvicinava sempre più all’attaccatura dei lisci capelli scuri, guardandolo come se stentasse a comprendere il motivo di quel gesto.
“Sì ma… perché?”
“Per essere gentile.”
Quella rivelazione per lui semplicemente ovvia sembrò stranire un tantino Niki, che tornò a guardare perplessa i dolci riflettendo sulle sue parole prima di annuire lentamente, elaborando il significato di quel gesto per lei poco usuale e dicendosi al contempo come forse la Doc avesse ragione a proposito del comportarsi bene, visti i dolci non previsti che le erano appena piombati fuori dalla porta di casa.
“Oh. Beh, grazie. Ma perché non sei al lavoro? Non apri nessun morto oggi?”
“Beh… Nessuno è al lavoro, oggi.”
Di nuovo Niki non parve capire, e lo guardò limitandosi a sbattere le palpebre, i muscoli facciali immobili: questa volta il turno di inarcare un sopracciglio fu di Moos, che esitò prima di parlare scandendo le parole più lentamente del normale.
“Gli Auror. Verranno qui a parlare con noi.” Come potesse la strega non esserne a conoscenza Moos non seppe proprio spiegarselo, ma dovette convincersene suo malgrado quando il volto di Niki riprese improvvisamente vita e i suoi occhi verdi si fecero ancor più grandi del normale:
“Ah sì?! È morto qualcuno? Avete chiesto a Mathieu dove si trovava?”
Il tono quasi febbricitante con cui Niki parlò lasciò Moos ancora più confuso, e il patologo annuì senza smettere di guardarla incerto prima di affrettarsi a correggersi:
“Sì. Cioè no, non è morto nessun altro e… perché dovrebbero chiederlo a Mathieu, in caso?”
“Bah, ma è ovvio!”, asserì Niki con tono sbrigativo prima di agitare la mano destra quasi volesse scacciare una mosca sotto lo sguardo sempre più perplesso di Moos, che annuì lentamente senza smettere di scrutarla corrucciato:
Se lo dici tu… Comunque vengono per chiederci del giorno in cui Monty… Lo ha scritto la Hastings ieri.”
Mentre Moos continuava a guardarla chiedendosi come potesse non esserne al corrente Niki, delusa, smise di sgranare gli occhi e abbassò visibilmente le spalle troppo esili, annuendo prima di liquidare il discorso con un pigro gesto della mano mentre usava l’altra per reggere la casserole:
“Ah, certo. Ma vedi, ho una brutta allergia alle chat di gruppo, specie quelle condominiali e che prevedono 150 persone. Beh, almeno succede qualcosa di interessante. A che ora è?”
“Tra venti minuti, a dire il vero. Se vuoi scendiamo insieme.”
Immagino di non avere scelta. Vieni, non voglio far uscire le gatte.”
Niki si spostò di lato per farlo passare e Moos si affrettò ad ubbidire, aprendo le labbra carnose in un sorriso candido quando scorse Mira correre verso lui e la padrona tenendo un topolino di pezza tra i denti.
“Ciao piccole! Oh, grazie.”
Moos prese il topolino che Mira lasciò ai suoi piedi e lo lanciò lontano usando il piede sinistro mentre Niki, chiusagli la porta alle spalle, lo superava con ampie falcate per dirigersi verso la cucina e appoggiare la casserole sul bancone. Quando gli chiese se gradisse o meno una tazza di caffè Moos smise di guardare adorante le gatte della vicina e si affrettò ad annuire, accettando con un timido sorriso.
“Grazie. Porca miseria!”
Niki aveva aperto uno degli sportelli neri della cucina, quello che si trovava esattamente al di sopra di una delle macchine per il caffè più costose che Moos avesse mai visto in vita sua, rivelando file perfettamente e inaspettatamente ordinate ed allineate di tazze e, soprattutto, innumerevoli barattoli di metallo pieni di diverse miscele. Immobilizzatasi a causa della reazione sorpresa del vicino Niki esitò prima di ruotare lentamente il capo per poterlo guardare, accennando un lieve sorriso colpevole mentre Moos studiava attonito l’esagerata quantità di caffè che la vicina custodiva nella sua cucina.
“Mi… piace molto il caffè.”
“Mi sembra evidente. Per caso hai lo sciroppo alla vaniglia?” Moos parlò inarcando un sopracciglio, speranzoso, e a Niki bastò un istante per allargare il proprio sorriso, guardandolo divertita mentre scuoteva leggermente il capo:
Tesoro. Se si parla di caffè io ho qualsiasi cosa.”
A conferma delle sue parole Niki aveva spalancato un secondo sportello mostrando file di bottiglie di vetro contenenti sciroppi di ogni tipo, e mentre la vicina si adoperava per preparare il caffè a Moos non era rimasto che avvicinarsi all’enorme libreria senza spalle, studiando con interesse i titoli allineati sulle mensole di legno scuro e metallo nero tenendo le mani allacciate dietro la schiena. I grandi e profondi occhi scuri di Moos accarezzarono i dorsi delle copertine leggendone i titoli e i nomi degli autori trovandosi di fronte ad un numero impressionante di thriller, con un intero scaffale dedicato ad Agatha Christie e uno a Stephen King. Fu solo chinando lo sguardo che Moos incontrò alcuni volumi dai titoli inequivocabilmente in francese, cosa che lo spinse a voltarsi in direzione della vicina e gettarle un’occhiata pregna di curiosità:
“Ti piacciono proprio tanto i gialli. Parli francese?”
“Ho vissuto a Parigi per un po’, e sai come sono i francesi… o parli la loro lingua o non parli affatto. Ecco, tutto tuo.”
Niki aveva spinto una tazza nera piena di cappuccino verso l’estremità del lato lungo dell’isola della cucina facendo cenno al vicino di sedersi su uno degli sgabelli mentre toglieva la pellicola dalla casserole per servirsi un rotolo alla cannella. Moos si allontanò dalla libreria per raggiungerla, sedendosi di fronte a lei per assaggiare il suo caffè alla vaniglia mentre la strega, rimasta in piedi al di là del mobile, agitava debolmente la schiuma contenuta nella sua tazza fissandola pensosa. Moos aveva sempre preferito rigorosamente il tè al caffè, ma difficilmente avrebbe racimolato il coraggio di confessarlo in presenza di Niki e non tardò a sollevare la tazza per assaggiare quello che lei gli aveva preparato, ritrovandosi a gustare piacevolmente la calda miscela aromatizzata alla vaniglia prima di sorriderle e annuire:
“Molto buono.”
“Certo che lo è. In un’altra vita preparavo caffè per pagare le bollette. E questi sono buonissimi!”
Dopo aver addentato un rotolo alla cannella Niki guardò prima il dolce e poi lui con i grandi occhi verdi spalancati, pieni di meraviglia, cedendo al vicino il turno di sorridere e annuire con aria soddisfatta: modestia a parte, Moos sapeva di preparare i migliori dolci alla cannella di tutto il quartiere.
“Lo so. Grazie.”
“Ora che ci penso mi sono dimenticata di mangiare stamattina, quindi grazie molte.”
“Perché non hai mangiato?”
Improvvisamente entrato in un mood simile in tutto e per tutto a quello di sua nonna, Moos smise di bere il caffè per gettare un’occhiata di vivo rimprovero alla vicina troppo magra, guardandola fare spallucce e accennare un sorriso prima di agitare debolmente la mano destra, mostrandogli una fasciatura bianca che avvolgeva buona parte del palmo e del dorso:
“Immagino che contribuisca la mia totale avversione nei confronti della cucina. Ecco cosa succede quando ci provo… Non siamo tutti portati. Io so camminare e ancheggiare sui tacchi egregiamente, per il resto non so fare granché.”  Niki chinò lo sguardo sulla sua tazza ancora intatta prima di immergere quel che restava del cinnamon roll che teneva in mano nella schiuma, addentando il dolce destando gioia nelle sue papille gustative mentre Moos, messo rapidamente da parte lo sguardo severo, la osservava accennando un sorriso gentile con gli angoli delle labbra carnose:
“Non è vero. Sai fare il caffè. Siamo negli States, è un gran traguardo.”
Niki esitò, ma dopo una breve riflessione annuì e tornò a posare lo sguardo su di lui accennando un sorriso, chiedendosi quale motivo lo spingesse ad essere gentile con lei. Non trovando motivazioni validi o qualsiasi forma di profitto che Bartimeus avrebbe potuto ricavare da quella gentilezza dovette constatare di trovarsi semplicemente di fronte ad una persona fondamentalmente buona, anche se aveva fortemente dubitato a proposito dell’esistenza di tali creature per praticamente tutto il corso della sua vita. levando la tazza per farla scontrare brevemente contro quella del vicino:
“Vero. Merito dell’Europa.”
 
Dieci minuti dopo Moos e Niki, che aveva provveduto a trasfigurarsi i vestiti per sfoggiare la solita felpa nera con cappuccio troppo larga e gli anfibi con i lacci rossi, aspettavano l’arrivo dell’ascensore stando in piedi uno accanto all’altra e in silenzio, entrambi con gli occhi puntati sulle porte dorate. Quando queste finalmente si aprirono, precedute dall’ormai familiare scampanellio metallico, Moos lasciò che la vicina lo precedesse all’interno dell’abitacolo, guardandola premere il pulsante che li avrebbe portati al pian terreno senza riuscire a distogliersi da un pensiero insistente. Dopo averla seguita dentro l’ascensore Moos guardò pensoso le porte chiudersi lentamente davanti a lui e a Niki, che era tornata ad indossare gli occhiali da sole dalla montatura rotonda e che ora teneva le mani sprofondate nelle tasche della felpa. Stavano ormai scendendo rapidi verso il pian terreno, sospesi tra l’undicesimo e il decimo, quando Moos si decise finalmente a spezzare il silenzio facendo prendere voce ai suoi pensieri:
“Niki, quando hai detto che hai incontrato Monty in ascensore poco prima che morisse… era vero?”
Moos parlò ruotando il capo per porter guardare la vicina, studiando quel poco del suo viso che non fosse coperto dagli occhiali da sole. Forse si aspettava un qualche accenno di mimica facciale che potesse tradirla, eppure Niki restò impassibile e annuì, esibendosi in una lieve stretta di spalle senza far trapelare alcunché:
“Mh-mh.”
“… E hai escluso che potesse essersi ucciso perché lo hai sentito parlare al telefono con qualcuno?”
Questa volta, mentre superavano rapidi il quarto piano, Niki esitò prima di rispondere e ruotò il capo per posare a sua volta lo sguardo su di lui attraverso le lenti scure, accennando un sorriso colpevole che anticipò al vicino la sua risposta:
“Quello potrei averlo inventato. Sapevo che non avrebbe mai potuto togliersi la vita… mi serviva solo un’argomentazione valida per convincere anche gli altri senza dovermi dilungare in spiegazioni.”
“Perché non vuoi che si sappia che vi conoscevate?”
Di tanto in tanto Moos viveva l’impressione di riuscire a comprendere un tantino meglio la sua vicina, ma le cose che gli sfuggivano erano ancora tante, in primis la sua reticenza ad ammettere di aver, in qualche modo, aver avuto a che fare con il suo ex migliore amico. La natura di quel rapporto gli era ancora ignota, ma Moos aveva l’impressione che le cose non fossero andate poi così diversamente rispetto all’amicizia che aveva chiuso molto tempo prima e che il comportamento del suo ex amico non si sarebbe potuto definire esemplare. Niki smise di guardarlo prima di rispondere, chinando lo sguardo sulle punte lucidissime dei suoi anfibi per poi stringersi debolmente nelle spalle:
“Non raccontiamoci favolette Bartimeus, la verità può essere orribilmente fraintendibile. Non sarebbe semplicissimo pensare che l’abbia ucciso io? La strana tizia di cui nessuno sa niente e che con nessuno parla… la perfetta sospettata numero uno.”
Moos udì una rassegnazione nella voce della vicina che lo indusse a guardarla con ritrovata premura; avrebbe anche sollevato una mano per mettergliela sulla spalla per consolarla se solo non avesse saputo che non avrebbe gradito affatto, e si costrinse e restare immobile e ad esprimersi solo a parole e con un accenno di sorriso mentre l’ascensore si fermava e le porte si aprivano davanti a loro:
“Io non ho mai pensato che tu potessi averlo ucciso, se ti consola. E non sei così strana, secondo me… Anche se dicono che lo sia anche io, quindi forse parlo per quello.” Moos si strinse debolmente nelle spalle mentre Niki, guardandolo quasi divertita, scuoteva la testa con un appena percettibile accenno di sorriso sulle labbra:
“Tu non sei strano Bartimeus, al massimo sei troppo adorabile per le aspettative sociali. E comunque, diciamocelo, quando ci sono due vittime la seconda è sempre il primo sospettato… Proprio non ci tengo ad essere in cima a quella lista.”
Moos rise ignorando la piena convinzione con cui Niki pronunciò quelle parole e precedette la strega fuori dall’ascensore per inoltrarsi nell’ingresso discretamente affollato, pieno di condomini che si stavano attardando prima di varcare la soglia della stanza dove erano solite tenersi le riunioni dedicate all’amministrazione del palazzo. A Niki non restò altra scelta che seguirlo, anche se avrebbe volentieri fatto a meno dell’incontro ravvicinato con gli Auror a cui stava andando spiacevolmente incontro, ma prima di allontanarsi si voltò per gettare un’ultima occhiata all’interno dell’ascensore, giusto il tempo di ricordare il breve scambio verbale che quella sede l’aveva vista condividere con Montgomery Dawson solo poche ore prima del suo decesso.
Era trascorso un mese, eppure sembravano solo pochi attimi: le porte si erano aperte al tredicesimo piano e se l’era trovata di fronte, portandola a pentirsi immediatamente di aver deciso di ripiegare su quel mezzo di trasporto per raggiungere il pian terreno. Disgraziatamente era in ritardo, impossibilitata ad usare le scale, e dopo una breve e nervosa riflessione si era faticosamente costretta a varcare la soglia dell’ascensore dando le spalle al vicino infilandosi le mani in tasca per celarle alla vista.
Riusciva a rivedere il sorriso con cui l’aveva accolta e le parole che aveva usato, quel “Ciao svitata” che ancora echeggiava nella sua mente, come se quell’incontro avesse avuto luogo solo poche ore prima. Era passato un mese, lui era morto, ma mentre le porte dorate le si chiudevano davanti Niki sentì il proprio stomaco annodarsi proprio come quel giorno.
“Non dovrei aver bisogno di dirti quanto poco gentile sia chiamare in quel modo qualcuno.”
Dopo essere entrata nell’ascensore Niki aveva dato le spalle, più abbassate del normale, a Montgomery senza guardarlo ma riuscendo ugualmente ad immaginarlo appoggiato alla parete e le braccia strette al petto esibendo quella totale noncuranza mista a spavalderia che l’aveva sempre infastidita: l’atteggiamento compiaciuto e sicuro di sé che solo una combinazione di bell’aspetto, denaro e la consapevolezza di poter avere qualsiasi cosa potevano conferire ad una persona.
“Intendi qualcuno come te? O in generale?”

Non lo aveva guardato, eppure aveva in qualche modo percepito il suo sorriso mentre si imponeva di non rispondere, la mascella talmente serrata da farle quasi male mentre le unghie affondavano sempre di più nei palmi sprofondati nelle tasche. Una volta finalmente libera dalla soffocante vicinanza forzata e condivisione di ossigeno con Montgomery Niki avrebbe attraversato il cortile con ampie falcate per distanziarsi il più possibile dal vicino e avrebbe sfilato le mani dalle tasche della giacca in vinile per guardarsi i palmi, trovandoli pieni di segni insanguinati.
 
“Niki?”
Il mite eco della voce di Moos ridestò Niki dai ricordi risalenti ad un mese prima e la riportò al presente, inducendo la strega a ruotare rapidamente su se stessa per consentire al proprio sguardo di tornare a soffermarsi sulla figura del vicino, che la stava guardando incerto a circa tre metri di distanza.
“Andiamo?”
Il capo di Moos si mosse appena percettibilmente verso il resto dell’ingresso, in direzione della loro destinazione ultima, e dopo una brevissima esitazione Niki annuì, infilandosi nuovamente la mani in tasca prima di seguirlo.
 
 
*
 
 
Accecato dalla fredda luce improvvisa che lo investì non appena ebbe aperto gli occhi Mathieu trasalì e serrò d’istinto le palpebre, risollevandole lentamente solo qualche istante dopo per mettere a fuoco ciò che lo circondava. Il primo pensiero che lo colpì fu rivolto alle piastrelle rettangolari e bianche che costituivano il soffitto sopra di lui, portandolo a chiedersi stranito perché non gli dicessero assolutamente nulla e per qualche motivo non ricordasse di averle mai scorte a casa propria; un istante dopo la sua attenzione venne invece catturata dalla fonte della luce bianca che avvolgeva tutta la stanza e che aveva contribuito a destarlo dal sonno, una sottile plafoniera che, esattamente come le piastrelle, non gli risultò per nulla familiare.
Un istante dopo aver formulato quei pensieri Mathieu, che stava disteso supino su un materasso, aggrottò le sopracciglia chiedendosi cosa fosse quell’odore strano che gli aveva appena solleticato le narici, ma almeno a quella domanda riuscì a dare rapidamente una risposta: disinfettante. Ma perché sentisse quel forte odore di disinfettante non se lo riuscì a spiegare, almeno finchè non venne colto da un’improvvisa e spiacevole consapevolezza: c’era un solo luogo che nel suo arsenale di ricordi era strettamente collegato a quell’odore, e gli bastò sollevarsi per mettersi a sedere di scatto per appurare con non poco sgomento di trovarsi in un’asettica stanza d’ospedale. Quel movimento si rivelò una cattiva idea una frazione di secondo dopo averlo compiuto, quando Mathieu venne colpito da una dolorosa fitta alla testa che gli strappò un gemito sommesso e lo indusse a sollevare d’istinto la mano destra per sfiorarsi la fronte. La sensazione più bizzarra, tuttavia, fu quella di déjà-vu che Mathieu ebbe l’impressione di provare a seguito di quel rapidissimo susseguirsi di pensieri, domande e percezioni sensoriali, cosa che contribuì fortemente ad aumentare il suo straniamento dato che era più che certo di non essersi mai svegliato in una stanza d’ospedale senza sapere come e perché ci fosse arrivato.
Ormai preda della confusione più totale gli occhi chiari e sgranati di Mathieu rimbalzarono prima su di sé, appurando con sollievo di indossare vestiti che sapeva per certo appartenergli e soprattutto di non avere arti amputati o lesioni gravi a squarciargli la pelle, e poi sul resto della stanza, finendo con l’imbattersi nel secondo letto che si trovava alla sua destra, vicino all’enorme vetrata che si affacciava sulla città buia e sul fascio di luci e insegne che ogni notte animavano Manhattan. Mathieu si sarebbe interrogato su che ora fosse, presumibilmente notte fonda, se la sua attenzione non fosse stata catturata dalla persona che occupava il letto accanto al suo, un viso familiare la cui vista incrementò il suo sgomento:
“Carter?!”
Il suo vicino stava disteso supino sul letto, ancora addormentato e apparentemente illeso tanto quanto lui, ma Mathieu si affrettò comunque a far scivolare le lunghe gambe giù dal letto rialzato per rimettere i piedi per terra e avvicinarglisi, sperimentando così una seconda fitta di dolore alla testa combinata ad un lieve capogiro. Si sforzò di ricordare come e quando fossero arrivati lì, e perché la testa gli facesse così male, ma non riuscendo a ricavarne nulla Mathieu mise la mano destra sulla spalla di Carter e lo scrollò leggermente, deciso a svegliarlo nella speranza che l’amico avesse qualche risposta da condividere con lui.
“Carter, svegliati.”, asserì Mathieu con tono sbrigativo mentre Carter si agitava nel sonno cercando di scacciargli la mano, finendo col borbottare qualcosa di incomprensibile prima di girarsi sul fianco per dargli le spalle e spingendo così l’amico a scrollarlo con maggior decisione intimandogli di svegliarsi per la seconda volta:
“Carter, svegliati cazzo, siamo in ospedale.”
Menzionare il luogo in cui misteriosamente si trovavano riuscì a far aprire pigramente gli occhi a Carter, che si rimise supino sul materasso prima di sbattere le palpebre nel tentativo di mettere a fuoco l’immagine di Mathieu, le sopracciglia aggrottate e un’espressione perplessa sul bel volto:
“Ospedale? Perché, stai male?”, borbottò il giornalista con voce impastata e guardandolo con sguardo vacuo, ancora non del tutto sveglio, mentre Mathieu scuoteva il capo studiandolo perplesso di rimando, tristemente quasi certo che anche Carter, come lui, non avrebbe ricordato come e perché fossero giunti in quella stanza.
“No, ho solo mal di testa. Tu stai male?”
“Non mi sembra. Oddio, ho qualcosa alla faccia?!”
Il pensiero di poter avere il volto sfigurato gettò Carter in un vortice di terrore irrazionale che lo spinse a tastarsi immediatamente il viso, gli occhi azzurri sgranati e pieni di apprensione, ma il mago si rilassò nel non sentire traccia di ustioni o ferite varie e grazie a Mathieu, che lo rassicurò con una scrollata di spalle e un’occhiata sbrigativa:
“Mi sembra normale.”

“Meno male cazzo, una vita senza bellezza non vale la pena di essere vissuta…”
Con quelle parole Carter si mise a sedere sul letto, probabilmente deciso a controllare che anche braccia e gambe fossero a posto, ma dimenticò cosa lo avesse spinto a muoversi non appena venne colpito da un’improvvisa fitta di dolore alla testa che gli strappò una sonora imprecazione e lo costrinse a serrare d’istinto le palpebre con forza:
“Porco cazzo, che male! Che cazzo ho fatto alla testa?!”
“Non ne ho idea, ma fa male anche a me. Alzati piano.”, gli suggerì Mathieu scrollando leggermente il capo con fare laconico, ormai del tutto persuaso che nemmeno l’amico serbasse ricordi delle ore precedenti mentre il giornalista si massaggiava la testa sotto alla folta chioma di capelli color grano guardandosi pensoso attorno nella stanza spoglia:

“Che ci è successo, siamo scivolati dalle scale? Se qualcuno ci ha spinti so benissimo chi è stato, l’altro giorno ho detto a Niki che se non smetteva di essere acida sarebbe finita come la Turner, e non mi pare l’abbia presa bene.”
“Carter andiamo, è ridicolo che Niki ti abbia spinto dalle scale, al massimo ti avrebbe avvelenato la birra. E poi io che c’entro?!”
“Magari eri con me e mi sei venuto dietro, che ne so, non ricordo un cazzo!” Carter sbuffò e agitò la mano esasperato, profondamente infastidito dal vuoto di memoria che stava provando per la prima volta in tutta la sua vita mentre muoveva nervosamente i piedi in fondo al letto facendo cozzare l’una contro l’altra le punte degli stivali chelsea che indossava, guardandosi nervosamente le scarpe mentre Mathieu, in piedi accanto a lui, si sforzava di risalire all’ultimo ricordo chiaro di cui disponeva:

“L’ultima cosa che ricordo è che eravamo a casa mia, tu io e gli altri. E poi basta, vuoto totale.”
“Anche io. Ma è suonato l’allarme, vero? E all’ora siamo usciti…” La voce di Carter si spense in un flebile mormorio mentre il giornalista studiava pensoso i piedi del letto con le sopracciglia aggrottate e la fronte solcata da delle rughe d’espressione, riflettendo insieme a Mathieu sul significato delle parole che aveva appena pronunciato. Un pensiero preciso s’intrufolò rapido nella mente di Carter appena qualche istante dopo aver menzionato l’allarme, e il ricordo di una sera risalente ad un mese prima, una sera che difficilmente avrebbe mai dimenticato, spinsero il giornalista ad allargare le labbra in un sorriso quasi euforico mentre sollevava lo sguardo per puntarlo su quello dell’amico, gli occhi azzurri improvvisamente animati dall’emozione:
“Matt, l’allarme suonò quando trovarono Montgomery tagliuzzato nel suo bagno. Se fosse morto qualcun altro?!” Il suo accennare ad un potenziale secondo decesso con tale emozione sarebbe stato senza alcun dubbio giudicato di cattivo gusto da qualsiasi persona dotata di giudizio e buonsenso, ma trovandosi solo con Mathieu in una stanza d’ospedale Carter decise di non curarsene minimamente, troppo preso a contemplare sovreccitato la possibilità di essere stato più o meno testimone di un delitto in piena regola.
“Se avessimo visto qualcosa che non avremmo dovuto vedere?” Mathieu diede voce ai pensieri di entrambi inarcando un sopracciglio e con un tono preoccupato che Carter non imitò, anzi il giornalista annuì senza smettere di sorridere entusiasta e prendendo a tastarsi maglione e jeans alla spasmodica ricerca di carta e penna, o ancor meglio della sua bacchetta:
“Cazzo, è meraviglioso! Vedi carta e penna, perché devo segnarmi tutto… Ma dov’è la mia bacchetta?!”
“Ok Carter, stai vivendo il tuo personale podcast true crime ed è meraviglioso, ma non ti domandi per quale motivo siamo qui se davvero abbiamo visto qualcosa legato ad un omicidio?” Tutto sommato Carter fu costretto ad ammettere a se stesso che l’interrogativo sollevato da Mathieu aveva senso e smise di guardarsi intorno alla ricerca della sua bacchetta per riflettere brevemente, ma ritrovandosi sprovvisto di una risposta logica dovette limitarsi ad una lieve stretta di spalle:
“Forse l’assassino ci ha reputati troppo belli per farci fuori.”
Il suono di quelle parole portò Mathieu a scoccare all’amico un’occhiata lievemente esasperata, quasi del tutto certo che le cose non fossero andate esattamente in quel modo, ma prima che potesse farglielo notare la porta di metallo alle sue spalle si aprì con un lieve cigolio, inducendo lui e Carter a volgere lo sguardo sull’ingresso della stanza d’ospedale che li aveva misteriosamente accolti.

*
 
 
Naomi attendeva in un angolo dell’ingresso continuando a gettare occhiate alla porta di vetro, i piedi ridotti ad un impaziente e lieve scalpitio contro il pavimento mentre le unghie rifatte e limate di recente fino a formare degli eleganti ovali picchiettavano sulla superficie rigida della sua borsa beige abbinata alle scarpe. Anche se si trovava lì già da qualche minuto Naomi ancora non aveva seguito il flusso di vicini che si erano diretti, come già accaduto di recente, nella sala dove di norma si tenevano le riunioni ma che ormai sembrava essere stata ufficiosamente adibita alle comunicazioni in merito alle novità sul caso Montgomery Dawson. Aspettava Gabriel, ma l’amico ancora non si era fatto vedere e la strega si sentiva sempre più impaziente, conscia che di quel passo le avrebbero soffiato i posti migliori e lei, essendo alta quanto un ragazzino di undici anni, avrebbe rischiato di non vedere un accidenti.
“Ciao Naomi!”
Udire il saluto di una voce amica fu un sollievo per la strega, che smise di studiare la porta d’ingresso quasi sperando di attirare Gabriel con la forza del pensiero per volgere il proprio sguardo su Eileen, che era appena uscita da uno degli ascensori e dopo averla individuata la stava raggiungendo con un sorriso sulle labbra.
“Ciao Eileen. Come va?”
“Mh, bene, un pochino nervosa. Stai aspettando qualcuno?”
“Gabri. È strano, perché non è un tipo ritardatario.”
“Vuoi sederti davanti per vedere il detective Byrne?” Un sorrisino increspò le labbra di Eileen e un luccichio divertito animò i grandi e belli occhi chiari della strega dal lieve accento scozzese mentre Naomi rispondeva appiattendosi con fintissima disinvoltura i capelli che aveva lisciato la sera prima e che erano stati raccolti in un elegante ed alto chignon.
“Certo che no, sedersi davanti è sospetto. Anche se non mi dispiacerebbe. Più che altro non voglio sedermi troppo in fondo perché, con la fortuna che mi ritrovo, finirei sicuramente dietro a Niki.”
Eileen asserì seria che fosse assolutamente impossibile che quell’eventualità si verificasse sostenendo che la vicina in questione si sarebbe di certo seduta in ultima fila, probabilmente sulla sedia più lontana da chiunque, e Naomi non se la sentì di contraddirla proprio mentre Gabriel varcava finalmente la soglia dell’ingresso salutando Lester e chiedendogli se avrebbe preso parte a sua volta alla riunione. L’anziano signore asserì laconico che sfortunatamente avrebbe dovuto, poiché gli Auror volevano che tutti presenziassero, esprimendo tutto il suo dispiacere per la situazione e per la morte precoce di un ragazzo che aveva visto gattonare. Lester sembrò anche sul punto di aggiungere altro, o almeno così sembrò a Gabriel, ma l’uomo tacque e al tatuatore non restò che congedarsi con un sorriso cordiale e allontanarsi chiedendosi se fosse stata o meno solo una sua impressione. Certo i dubbi di Gabriel svanirono nel nulla non appena ebbe individuato Naomi, che stava in piedi accanto ad Eileen e lo guardava con un’aria di rimprovero in grado di ricordargli puntualmente sua madre.
“Eccomi qui, ciao Eileen. Non guardarmi così, ho accompagnato Chloe e Dec a scuola e non mi mollavano più.” Dopo aver sorriso ad Eileen, che ricambiò allegra, Gabriel incassò l’occhiata di Naomi prendendola a braccetto per condurla verso la loro destinazione ultima sperando che menzionare i suoi nipoti l’avrebbe convinta, ma dopo aver notato quanto l’aspetto di entrambe le streghe fosse particolarmente ben curato decise intelligentemente di sfoderare un sorrisetto e spostare l’attenzione lontano da sé:
“Non siete un po’ troppo ben vestite per ciò che dobbiamo andare a fare, ragazze?”
“Noi siamo sempre ben vestite, cosa insinui?” Eileen si spolverò le lunghe maniche aderenti di tulle trasparente del vestito blu notte che indossava fingendo massima indifferenza, ma il sorriso sul volto di Gabriel si allargò quando il mago fece caso ai capelli inusualmente lisci di Naomi:
“E qualcuno si è anche lisciato i capelli… furbacchiona, ti vuoi sedere in prima fila?”  Naomi non era il tipo di amica in grado di fornire di frequente ottime scuse per essere presa affettuosamente in giro, anzi costituiva forse il miglior esempio di quasi perenne perfezione, specie nelle situazioni sociali, che Gabriel conoscesse. Per questo motivo il tatuatore non si lasciò sfuggire l’occasione e con un sorrisetto accennò ammiccante ai capelli della strega, gesto che unito al suo tono volutamente canzonatorio bastò a farla arrossire e ad intimargli brusca di farla finita:
“E basta con questa prima fila! A me basta poter vedere.”
Gabriel ridacchiò chiedendole chi avrebbe voluto vedere, ma Naomi, ovviamente, non rispose e finse di non aver sentito affatto.
 
Ad Esteban era sembrato strano l’essere arrivato nel cortile persino in anticipo rispetto a Jackson, Orion e Kei quella mattina, pertanto non si stupì affatto quando, un’ora dopo, si ritrovò a varcare di corsa la soglia del palazzo ringraziando gli ottimi riflessi di Lester, che aprì la porta impedendogli di andare a sbattere contro il vetro. Inutile dire che lui e i vicini si erano presi in leggero ritardo chiacchierando, bevendo caffè – soprattutto Orion – e perdendo la cognizione del tempo, ritrovandosi a sfilare di corsa davanti ad un Lester che, perplesso e divertito al tempo, si sentì rivolgere una sfilza di “Buongiorno Lester” e “Come va Lester?” dai quattro giovani maghi.
“Dove ci sediamo? Sempre che troviamo ancora quattro sedie libere vicine.” Domandò Kei seguendo Esteban mentre Orion, alle sue spalle, sbuffava lamentandosi sommessamente della mancata digestione della colazione.
“Lontanissimi dai miei genitori!”, gracchiò Jackson dietro di lui, desideroso di tenersi alla larga dai coniugi Salmon per tutte le ore che lo dividevano dal suo turno di lavoro successivo. Fortunatamente i quattro riuscirono ad individuare un paio di file ancora quasi vuote attorno alla metà della sala e lì si sedettero, immergendosi nel chiacchiericcio e nella curiosità generale che avevano avvolto la stanza dal pavimento di marmo e il soffitto stuccato.
“Ok, stanno parlando con il Signor O’Hara, siamo in orario.” Kei si rilassò contro lo schienale della sedia, seduto tra Esteban ed Orion, quando vide gli Auror, in piedi dall’altro capo della stanza, interloquire con il proprietario del palazzo, riconoscibile anche di spalle dalla statura considerevole e i capelli neri tendenti al riccio brizzolati sulle tempie. Esteban, individuati Naomi, Eileen e Gabriel seduti qualche fila più avanti rispetto a loro nella colonna di sinistra, levò una mano in segno di saluto quando li vide guardarsi attorno mentre Orion scartava un pacchetto di zuccotti di zucca ignorando l’esasperato rimprovero di Kei (“Ma ti pare il momento?!”) e Jackson scrutava i volti che li circondavano cercando quelli dei suoi genitori, finendo col sprofondare nella sedia sperando di camuffarsi con lo schienale bianco – stupido lui ad essersi infilato la coloratissima felpa della sua squadra di basket del cuore quella mattina –. Fu quantomeno un sollievo, per il giovane veterinario, vederli parlare civilmente come due persone normali: Marlene non sarebbe stata certo contenta di dare adito al palazzo di spettegolare sul conto della sua famiglia.
 
Quel giorno Carter non aveva affatto scordato la riunione, a differenza di qualche settimana prima: aveva provveduto a far sapere al capo che quel giorno non si sarebbe presentato in redazione per un imprescindibile ordine del Dipartimento degli Auror, ma anziché infastidirsi egli gli era parso entusiasta, e gli aveva raccomandato con un tono allegro molto raro di sfruttare tutte le informazioni a sua disposizione per continuare a tenere i lettori incollati a quella storia. Quella mattina il giornalista uscì dall’ascensore e attraversò l’ingresso quasi scontrandosi con Lester, che si stava aggiustando nervosamente il cappello sulla testa e i bottoni dorati della divisa verde bottiglia in vista della sua obbligata presenza. Carter lo salutò cordialmente, del resto l’anziano signore gli era stato simpatico dal primo momento in cui aveva messo piede nel palazzo, ma Lester ricambiò senza particolare entusiasmo, nervoso e poco abituato a trovarsi coinvolto in situazioni di quel genere.
“Ma dai Lester, figurati se qualcuno potrebbe mai muovere qualche accusa nei tuoi confronti, piaci a tutti!”  Carter sorrise al portiere con l’intento di rincuorarlo ma egli rispose gettandogli un’occhiata laconica, asserendo che nessuno potesse davvero piacere a tutti. Quelle parole confusero leggermente il giornalista, che aggrottò le sopracciglia mentre guardava il portiere dirigersi verso l’ultima fila di sedie, deciso a tenere fede al suo ruolo: esserci sempre ma non essere notato.
Rimasto nuovamente solo, a Carter non restò che perlustrare attentamente le file e file di persone che gli sedevano davanti dandogli le spalle, chi in silenzio preda di chissà quali riflessioni – magari su come eludere le domande degli Auror, si disse il mago – e chi impegnato a conversare a voce più o meno bassa con i propri vicini. Sapendo con precisione chi stesse cercando per Carter non fu particolarmente arduo individuare una nuca coperta da folti capelli biondo grano pettinati leggermente all’indietro, e fu in direzione di quella fila nella colonna di sinistra, posta più o meno a metà della sala, che il giornalista affrettò rapido il passo.
Camminando nella corsia creata tra le due larghe colonne di sedie Carter superò senza vederli Esteban, Jackson, Orion e Kei e anche una delle sue vicine predilette, la temibile Signora Turner: ella, seduta prevedibilmente accanto alla sua amica dell’appartamento D, a giudicare dallo stralcio di conversazione che capitò a portata d’orecchio di Carter, stava parlando dei suoi amati uccellini, asserendo cupa di averne di recente preso uno nuovo a seguito della tragica scomparsa di un altro.
“Povero Tippy”, mormorò l’anziana donna scuotendo tristemente il capo con un tono che Carter non le aveva mai sentito utilizzare nemmeno nelle rare occasioni in cui l’aveva sentita fare brevemente cenno al defunto marito, “lui e Mrs Gambolini erano inseparabili. Per fortuna presto avrà un nuovo amico a fargli compagnia.”
Fantastico, pensò Carter con una smorfia mentre le sfilava davanti senza essere notato, un altro amabile pennuto. Dopodiché Mrs Turner iniziò a menzionare la sua “dannata artrite”, e Carter filò dritto verso Mathieu per non sentire discorsi che aumentavano drasticamente la sua terribile paura di invecchiare.
Dopo essersi scusato e aver chiesto il permesso di passare all’inquilina del terzo piano cui dovette passare davanti per raggiungere la sedia rimasta vuota accanto a Mathieu Carter riuscì finalmente a raggiungere l’amico, che lo guardò con un inequivocabile sorriso divertito sulle labbra:
Bonjour. Vedo che questa volta non ti sei scordato e non hai portato Sarge.”
“Ah-ah. Potevi anche non sederti proprio qui, avere la Turner alle spalle mi crea ansia, ho sempre il terrore irrazionale che possa pugnalarmi alle spalle con un ferro da maglia.” Carter si lasciò scivolare pesantemente sulla sedia prima di gettarsi un’occhiata guardinga alle spalle – la Turner stava ora raccontando seccata alla sua amica di quanto fossero improvvisamente divenuti sboccati i suoi uccellini: da qualche tempo non facevano che ripetere “porca puttana” a tutto spiano! –, giusto per accertarsi che nessuna vecchina volesse attentare alla sua vita mentre Mathieu, accanto a lui, aggrottava la fronte perplesso
“Ma perché, fa la maglia?”
“Che cazzo vuoi che ne sappia io, è inglese e anziana e questo mi basta!” Dopo aver riflettuto brevemente sull’opinabile teoria dell’amico Mathieu gli avrebbe fatto notare come lui parlasse francese senza però mangiare lumache o andarsene in giro in bici con una baguette sotto l’ascella, ma conoscendo il soggetto in questione da anni decise di sorvolare e di sfoggiare, invece, un’espressione offesa mentre raddrizzava le spalle fasciate dalla giacca blu in tinta con la camicia azzurra con aria sostenuta:
“Bel ringraziamento per averti tenuto il posto. Sai quanti cuori ho infranto per tenerti la sedia libera?”
Carter ignorò deliberatamente il commento dell’amico, anzi si sbilanciò sulla sedia per accostare la testa alla sua e sussurrare approfittando del clamore che ancora avvolgeva la stanza:
“Seriamente, adesso che sei tornato dal tuo finto Thanksgiving…”
“Te l’avrò detto tremiladodici volte Carter, non è finto, è verissimo!”
“… posso dirtelo. Non sai che ho trovato nella borsa di Niki.” Giacché un istante prima si parlava di vecchiette assassine armate di ferri da maglia Mathieu sembrò stupirsi quando l’amico menzionò un’altra delle loro vicine, decisamente lontana da quell’immagine, esitando mentre lo guardava con le sopracciglia aggrottate prima di parlare sforzandosi di sembrare serio:
“La planimetria di una banca e un voluminoso sacco di tela con sopra il simbolo del dollaro?”
“No. Un accendino.”  Ecco, ormai per Mathieu non c’erano dubbi, lo scorse nello sguardo fermo, sovreccitato, quasi compiaciuto dell’amico: Carter aveva la febbre da gialli.
“Ma và? Niki fuma, che c’è di strano? Ce li abbiamo anche noi, degli accendini. Devi smetterla coi podcast, Carter. E poi che ci facevi con la sua borsa? Altro che essere pugnalato con un ferro da maglia, se ti avesse visto ti avrebbe sepolto vivo.”  Mathieu scosse la testa con un sospiro, come se avesse davanti un amico affetto da un grave problema, e Carter sbuffò prima di interromperlo, deciso a non farsi prendere per idiota:
“Non era un accendino normale! Lo avevo già visto, ma non avevo notato un piccolo particolare.”
E così Carter gli spiegò ciò che aveva visto, menzionando l’incisione che corrispondeva alle iniziali di Montgomery. Fu fonte di un gran moto di soddisfazione, per Carter, vedere Mathieu irrigidirsi un poco a sua volta, la fronte aggrottata e solcata da rughe d’espressione nello spazio tra le sopracciglia mentre rifletteva su ciò che l’amico gli aveva appena rivelato.
“Pensi che fosse suo?”
“A meno che non siano le stesse sputate iniziali della nostra spilungona, cosa di cui dubito, è assai probabile. Glie l’ho visto in mano la sera in cui trovarono il corpo, avrebbe potuto tranquillamente essere stato lui a darglielo. O magari se l’è preso lei.”
“Quando era vivo o morto?”   Quella era la parte che, tra tutte le congetture che aveva avuto modo di formulare nel corso dei giorni precedenti, faceva provare a Carter un profondo moto di inquietudine che vide riflesso nello sguardo di Mathieu. Una domanda che preferì eludere, cercando di non pensare a quell’eventualità, scuotendo il capo e procedendo con il discorso:
“Non è tutto. Morivo dalla curiosità ma ancora non volevo andare ad affrontarla, così mi sono messo ad arrovellarmi su tutto ciò che ricordo Niki mi abbia mai detto in relazione a Montgomery. Ho cercato un cenno, qualsiasi cosa, ma niente. Allora ho avuto un’altra idea, e il mio super sesto senso giornalistico sbaglia di rado: sono andato nell’unico posto dove so per certo, per sua diretta ammissione, che si reca di frequente.”
“Ovvero?”
“Siamo andati a fare colazione insieme, una volta, dopo il blackout. Disse che ci andava spesso perché finisce quasi sempre con la dispensa vuota. Sono andato lì e con il mio irresistibile sorriso mi sono piazzato al bancone aspettando che qualcuno desse retta alla mia bella presenza, e dopo aver bevuto, mangiato e aver dispensato sorrisi e complimenti ho ovviamente ottenuto quello che volevo. Ho chiesto se per caso si ricordassero di lei.”
“È non è tipo che passa inosservato.”
“No, per mia fortuna. Sai che mi hanno detto?” Carter finì di parlare allargando le labbra in un sorriso, gli occhi azzurri luccicanti e visibilmente animati dalla soddisfazione di essere l’unico detentore di quella che, era evidente, rappresentava per lui un’informazione particolarmente succulenta. E Mathieu dovette ammettere a se stesso, anche se spesso aveva provato scetticismo nei confronti delle strampalate teorie sulla vicina imbastite dall’amico, di provare non poca curiosità a riguardo.
 
Alcuni metri più indietro rispetto a loro, anche Moos e Niki avevano fatto il loro ingresso nella stanza. Il primo non aveva provato particolare stupore quando la strega aveva manifestato l’intenzione di sedersi in ultima fila, decidendo invece di assecondarla. Si era limitato, dopo aver appurato la presenza del “padrone di casa”, ad informare Niki della sua intenzione di andare a salutarlo:
“Vado a salutare il Signor O’Hara.”  Disse accennando con un lieve movimento della testa in direzione di Jack O’Hara, che sedeva su una sedia distante da quelle di tutti i condomini, addossata alla parete destra della stanza, la più vicina rispetto a dove si erano seduti lui e Niki.
“Sei proprio orribilmente e dannatamente educato, Bartimeus.” La strega aveva risposto accennando un sorriso divertito con gli angoli della labbra, gli occhi verdi celati dalle lenti scure che la strega era tornata a sfoggiare non appena messo piede fuori dalla porta di casa. Moos non aveva risposto, limitandosi a sorriderle prima di alzarsi e dirigersi verso il figlio dell’uomo che, decenni prima, aveva venduto il 6A a suo nonno.
Niki al contrario non si mosse, rimase immobile con le lunghe gambe rigidamente accavallate e il più possibile trattenute contro il corpo seguendo i movimenti di Moos, guardando il vicino finchè non si fu fermato davanti a Jack O’Hara, che gli si rivolse sollevando la testa e con un sorriso per chiedergli come stesse e scambiare un paio di parole. I due stavano ancora parlando sotto lo sguardo assorto Niki quando la strega si riscosse e volse capo e sguardo alla propria destra, colpita dall’impressione di aver scorto qualcuno scivolare sulla sedia accanto alla sua con la coda dell’occhio.
 
“L’hanno vista spesso e, fino a qualche tempo fa, non sempre da sola. A volte in compagnia di un tizio che mi hanno descritto come “alto e moro”. Quest’immagine ti evoca niente?”
Carter concluse il suo resoconto con un sorriso mentre Mathieu, accanto a lui, sgranava gli occhi azzurri. Ma prima che uno dei due potesse dire altro Dom smise di parlare con Walter e Megan e si schiarì rumorosamente la voce per attirare l’attenzione di tutti i presenti – impresa che non gli sarebbe risultata ardua in ogni caso –, ringraziarli per la presenza (“Come se avessimo avuto scelta”, borbottò Orion dalla sua sedia) e informarli di come sfortunatamente avessero bisogno di parlare nuovamente con ciascuno di loro a proposito del giorno che aveva preceduto il decesso di Montgomery Dawson.
“Può anche dire “omicidio”, ormai si sa.”, mormorò Eileen tamburellandosi inquieta le unghie smaltate di un intenso rosso ciliegia sulla coscia.
“Figuriamoci, se c’è anche il Signor O’Hara è ovvio che sia importante. Tu l’hai visto, quella sera?” Naomi parlò con un filo di voce volgendo lo sguardo su Gabriel, tornata improvvisamente adolescente, seduta tra i banchi di scuola mentre cercava di scambiare qualche parola con un compagno di classe senza essere beccata dall’insegnante di turno. L’amico rifletté brevemente aggrottando la fronte mentre cercava di rimettere in ordine i ricordi ormai leggermente annebbiati, finendo con l’asserire di non esserne del tutto certo:
“Ricordo soprattutto tu che ti lagnavi delle pantofole.”
“Ma smettila! A me sembra che ci fosse, parlava proprio con Byrne… Di sicuro se saltasse fuori un cadavere nel mio palazzo accorrerei anche io.”
Anche Carter, seduto qualche fila dietro ai tre, aveva osservato brevemente il proprietario del palazzo che di rado si faceva vedere da quelle parti, specie da quando Montgomery era morto – e non lo compativa affatto –. Poco prima lo aveva visto parlare con Moos, che però era tornato a sedersi da qualche parte in mezzo alle file di sedie bianche, in un punto che Carter, anche voltandosi brevemente, non riuscì ad individuare. Poiché non era affatto preoccupato all’idea di dover parlare con gli Auror – potevano fargli tutte le domande che volevano, lui sapeva per certo di essere rimasto a marcire in redazione, circondato da colleghi pronti a confermarlo, per buona parte della giornata in questione – il giornalista si permise di osservare brevemente O’Hara prima di mormorare un commento a bassa voce:
“Il Signor O’Hara è un gran figo.”
“Potrebbe essere nostro padre, più o meno.” Rispose Mathieu inarcando un sopracciglio e gettando a sua volta un’occhiata all’uomo, ma Carter rispose facendo spallucce:
“È decisamente più giovane di mio padre. E poi è figo comunque.”
“Hai ragione.”
La Signora Turner, un paio di file dietro di loro, pose fine a quel breve scambio di apprezzamenti intimando ai due di tacere con un sibilo minaccioso, e benchè fossero entrambi molto più grandi e grossi di lei incassarono la testa tra le spalle senza più osare aprire bocca.
 
 
*
 

Eileen uscì dall’ascensore senza smettere di rigirarsi tra le dita la minuscola bustina di plastica trasparente che aveva portato con sé dal suo appartamento, gli occhi eterocromi che solcavano di continuo le sagome del minuscolo, comunissimo oggetto che essa conteneva. Non aveva idea sul perché un oggettino del genere dovesse essere importante o degno di attenzione, ma le istruzioni che aveva ricevuto erano semplici, chiare ed inequivocabile: portarlo con sé, mostrarlo agli altri, aprirlo e soprattutto mai toccarlo senza usare i guanti, che in effetti la spagnola aveva portato con sé infilandosene un paio di gialli in tasca prima di lasciare il suo appartamento e Anacleto addormentato sul trespolo.
Non ancora del tutto certa di cosa avrebbe detto per spiegarsi Eileen si fermò davanti alla porta del 14D e suonò il campanello, attendendo pazientemente che la porta le venisse aperta. Bastarono pochi istanti affinché l’anta le venisse spalancata davanti, anche se il volto che l’accolse non fu quello del padrone di casa, bensì quello di Orion, che le sorrise allegro tenendo in mano una Burrobirra:
“Ciao! Vieni, Matt sta impedendo a Carter e a Niki di uccidersi per l’ultimo grissino.”
“Grazie.”
Eileen ricambiò il sorriso e superò il vicino addentrandosi nell’enorme appartamento di Mathieu quando Orion si fu spostato per farla passare, chiudendole la porta alle spalle mentre il suo sguardo curioso e attento indugiava immediatamente su ciò che la strega stava stringendo tra le dita pallide e affusolate.
Gli altri erano già più o meno tutti presenti e radunati nel vastissimo soggiorno, la maggior parte in preda a delle discussioni: Niki e Carter avevano tutta l’aria di aver appena finito di scannarsi a giudicare da come sedevano sullo stesso divano tenendo le braccia strette al petto e facendo in modo che il proprio sguardo non scalfisse in alcun modo l’altro mentre Mathieu sedeva tra loro sgranocchiando un grissino. Kei, Esteban e Naomi stavano invece in piedi davanti all’ormai immancabile lavagna magnetica piena di foto, scritte e frecce, talmente tanto da essere ormai diventata quasi illeggibile, discutendo dei recenti avvenimenti mentre Jackson – che per quel giorno di discussioni ne aveva avuto a sufficienza, ma felice di avere la perfetta scusa per tenersi fuori casa fino all’imminente inizio del suo turno allo zoo – sedeva accanto a Gabriel su un altro divano seguendo la scena.
“Emh… ragazzi?”  Eileen parlò per attirare su di sé l’attenzione dei presenti fermandosi a poca distanza dai divani, la busta di plastica ancora in mano e il tono incerto, come se non avesse idea di che cosa dire per non sembrare una perfetta svitata. Fortunatamemte bastò quel semplice richiamo per far sì che tutti volgessero lo sguardo su di lei, e in un attimo la strega aveva nove paia d’occhi ad esaminarla in attesa.
“So che sembra strano, ma… Leena non è potuta venire, ma mi ha detto di portare questo. Ha detto che è importante, anche se non mi è del tutto chiaro perché. E di non toccarlo.”
La spagnola avanzò senza aggiungere altro verso il tavolino che era stato spostato in modo da trovarsi tra i divani occupati per far spazio all’ingombrante lavagna – a sentire Esteban ne sarebbe presto servita un’altra, notizia che Mathieu non accolse con particolare entusiasmo –, chinandosi per appoggiarci sopra ciò che aveva portato con sé. Chi era seduto si sporse in avanti, chi era in piedi chinò lo sguardo, un istante dopo tutti guardavano ciò che Eileen aveva posato, ignari e più confusi che mai. Niki sorrise, in silenzio e senza che nessuno la notasse, mentre il silenzio calava nel soggiorno fino ad un attimo prima carico di voci.
“Leena ti ha chiesto di portarci un souvenir per non scordarci di lei?” Domandò Kei, e la sua voce risuonò più sarcastica di quanto volesse mentre Eileen, a disagio, scuoteva la testa spostando il peso da un piede all’altro:
“Non saprei dire. Ha detto che si può aprire. Ecco…”
La strega si mise le mani in tasca, infilò rapida i guanti – al solo vederli Carter sfoggiò una smorfia schifata – che forse per tutta la vita, ogni volta in cui li avrebbe messi per pulire, avrebbe ricondotto a quei bizzarri mesi, e aprì la busta per tirarne fuori ciò che aveva portato con sé: un magnete a forma di statua della libertà, e ad essere onesti nemmeno tra i meglio realizzati che avesse visto. Dopo aver sfilato il magnete dalla busta Eileen lo appoggiò su di essa per evitare che entrasse a contatto con il tavolino, sfiorandone i bordi, dove il colore era sbeccato in più punti, in cerca della fessura che, secondo le congetture di Leena, doveva esserci per forza. Fu un sollievo sentire un sottilissimo solco sotto i polpastrelli e il lattice dei guanti, segno che la sua amica ci aveva giusto anche se Eileen ancora non aveva compreso che cosa ci fosse dietro, e un attimo dopo il magnete, identico a quello che faceva capolino su chissà quanti frigoriferi sparsi per il mondo, si aprì in due.
L’interno, capace di contenere solo qualcosa di più piccolo di una monetina, era vuoto, e dato che tutti si erano aspettati il contrario l’aria si fece ben presto carica di delusione. La stessa Eileen udite le parole dell’amica, che le aveva consegnato magnete e busta dandole quelle esigue istruzioni quando aveva suonato il campanello di casa sua al termine dei loro colloqui con gli Auror prima di dileguarsi, asserendo di dover far ritorno di corsa al suo appartamento al primo piano per risolvere chissà quale disastro, si era detta che doveva per forza celarsi qualcosa d’importante all’interno di un oggetto così apparentemente ordinario. E invece nulla, cosa che le fece aggrottare la fronte: Leena era arrivata in ritardo alla riunione, l’aveva vista sedersi in fondo, dietro a tutti, qualcosa che di norma non avrebbe mai e poi mai fatto date le sue teorie strampalate sul dare nell’occhio. Eppure sorrideva, la sua amica, quando si era voltata per accertarsi di trovarla lì, con un compiacimento e un luccichio negli occhi scuri difficili da non notare.
“Beh? Che cosa dovremmo guardare?” A spezzare il silenzio fu infine Gabriel, che guardò prima l’interno vuoto del magnete e poi Eileen, in attesa di una spiegazione che da parte della spagnola non sarebbe potuta arrivare. A parlare in veste di Leena fu invece Niki, memore della ultima conversazione che avevano condiviso in piena notte fonda:
“Ce l’hanno messo dentro. Leena deve averlo recuperato prima di quel pallosissimo pseudo-interrogatorio.”
“Ci hanno messo dentro cosa?” Domandò Eileen, continuando a non capire, guardandola mentre Niki si alzava in piedi stringendosi nelle spalle:
“Qualsiasi cosa avrebbe dovuto uccidere Montgomery. Ciò che è stato messo nel suo caffè quel giorno. Qualcuno si è tenuto a portata di mano una minuscola quantità di veleno, l’ha messa nel caffè e quando pensava di aver fatto quello che doveva se n’è liberato gettandolo giù per il condotto dei rifiuti. Io e Leena ne abbiamo parlato l’altra sera.”
“Ecco cosa facevate qui fuori alle tre del mattino!” Esclamò Mathieu sollevando il mento per guardarla, finalmente consapevole di che cosa avessero combinato le due bizzarre vicine davanti a casa sua la notte immediatamente successiva al suo ritorno a New York.
“No, stavamo appostate sperando che uscissi di casa per farti una foto. Portalo a tuo fratello,” disse Niki volgendo brevemente il proprio sguardo su Kei, che ricambiò scrutandola impassibile “fallo analizzare. Ci troveranno sicuramente tracce di qualcosa dentro, anche se dubito saremo così fortunati da avere delle impronte.”
“Ma Leena è un genio!” Esclamò colpita Naomi fissando attonita il magnete, imitata da tutti gli altri mentre Niki, felice che nessuno le stesse prestando attenzione, salutava Prune con una carezza sulla testa prima di dirigersi verso la porta, scivolando fuori dall’appartamento per lasciare i vicini al fiume di teorie che quella scoperta scaturì.
 
 
*
 
 
Più tardi Carter colpì con decisione la superficie liscia della porta identica in tutto e per tutto a quella di casa sua, fatta eccezione per la lettera che seguiva il numero 13 d’ottone, sbattendoci contro le nocche, determinato a non muoversi dalla soglia fino a quando non avesse ottenuto ciò che l’aveva spinto a deviare la sua traiettoria una volta messo piede fuori dall’ascensore. Stava ormai bussando da almeno tre minuti, deciso a non desistere prima della sua vicina, quando finalmente Carter ottenne il risultato sperato: prenderla per sfinimento.
“Fammi capire, scrivi per un giornale e non sai leggere? Sei un fenomeno da studiare? Gradirei vivere in pace quel che rimane della mia malinconica vita.” La padrona di casa, che come da consuetudine si era già premurata di accertarsi quale inatteso visitatore avesse deciso di bussare alla sua porta attraverso lo spioncino, spalancò bruscamente l’anta gettando un’occhiata infastidita al vicino e accennando allo zerbino ai suoi piedi che Carter non aveva notato e che, Niki ne fu ormai del tutto sicura, era stato acquistato per niente. A quanto sembrava nessuno era disposto a prendere sul serio il divieto di accesso.
“Qui l’unico soggetto che meriterebbe di essere analizzato sei tu. Ti devo parlare, è importante.”
Per un breve, fulmineo istante Carter ebbe l’impressione di scorgere l’ombra di un sorriso sulle labbra di Niki, ma prima che potesse interrogarsi seriamente sul perché di quell’inattesa reazione esso scomparve e la strega tornò a mostrarsi seria ed inscalfibile quanto una statua di marmo.
“Se proprio non puoi esimerti.”  Se c’era qualcosa che Niki era certa di aver compreso del suo vicino era quanto testardo fosse, al punto da essere sicura che non sarebbe riuscita a liberarsene fino a quando Carter non avesse ritenuto di aver affrontato in maniera soddisfacente l’argomento desiderato, qualsiasi esso fosse. Si spostò dunque per consentirgli di superarla e varcare l’ingresso dell’appartamento, invito implicito che il giornalista non si fece ripetere e che colse senza remore con un paio di lunghe falcate. Soddisfatto, del resto aveva sempre avuto un talento naturale nell’infilarsi ovunque, specie quando era a caccia di informazioni, Carter ruotò su se stesso per tornare a posare il proprio sguardo sulla silhouette della vicina celata alla vista da una felpa decisamente troppo larga mentre Niki chiudeva la porta sentendosi ormai rassegnata all’idea di aver messo fine ai suoi giorni di malinconica solitudine nel palazzo quando aveva consentito a quello stesso ragazzo che ora la studiava in maniera indecifrabile di sedersi al suo stesso tavolo all’interno di un affollato ristorante.
“Che cosa vuoi, Carter? Lezioni per camminare sui tacchi?”
“Magari un altro giorno. Vorrei parlarti del tuo accendino, se non ti dispiace.”
Malgrado le intenzioni che lo avevano spinto fino alla porta del 13B fossero altre scorgere eccezionalmente tracce di sincera perplessità farsi largo e infine imprimersi negli occhi verdi e nella mimica facciale di Niki fu per Carter fonte di un moto di soddisfazione che gli si annidò piacevolmente fin nelle viscere. Sembrava che per una volta fosse riuscito a trovarsi qualche passo avanti a lei, dopotutto.
“Il mio accendino?” Fu la strega, per una volta, a parlare come se non avesse ben chiaro di che cosa il vicino stesse parlando o dove volesse arrivare, scrutandolo con sguardo attento mentre Carter annuiva senza riuscire a trattenere un sorriso carico di compiacimento:
“Sì. Giuro che per una volta non volevo ficcanasare, ma mi è capitato tra le mani l’altro giorno, quando ho preso il libro dalla tua borsa. A proposito, l’ho finito. Ho capito chi era stato attorno alla metà.”
L’accenno alla lettura parve esercitare un effetto rilassante su Niki, e Carter la vide abbassare leggermente le spalle e accennare persino un sorriso mentre lo guardava scuotendo il capo, gli occhi verdi animati da un improvviso luccichio divertito mentre si muoveva in direzione della cucina, raggirandolo per dirigersi verso i fornelli.
“Sei in realtà piuttosto lento Cross, era chiaro già da prima. Il primo sospettato crepa per secondo, e a stupirti è sempre chi non immaginavi. Quante cose orribili possono scaturire amore e rimpianto?”
Carter non rispose, deciso ad impedirle di sviare abilmente la conversazione, ma in compenso ruotò su se stesso per dare le spalle all’ingresso dell’appartamento per seguire con lo sguardo i movimenti della vicina, guardandola indugiare davanti all’angolo del ripiano rivestito in legno della cucina che si trovava accanto al frigorifero, di fronte alla costosissima macchina del caffè.
“Dicevi, riguardo a prima? Hai visto il mio accendino? Geniale, Watson, fumo e ne tengo uno in borsa. Roba da non credere. Lo vuoi un caffè?” 
Niki parlò dandogli le spalle, senza curarsi di guardarlo mentre apriva lo sportello nero del pensile che aveva davanti per recuperare una tazza coperta di gattini, il barattolo che conteneva una delle sue miscele preferite, aromatizzata al caramello, e una delle bottiglie di sciroppi allineate sul fondo dello scaffale. Quell’angolo della cucina ordinato con precisione millimetrica sembrava opera di una mente estranea rispetto a quella che abitava tutto il resto dell’appartamento, ma anziché soffermarsi sull’ennesima stranezza riscontrata nella sua vicina Carter annuì, accettando l’offerta più per rendere l’atteggiamento di Niki bendisposto nei suoi confronti il più possibile che per un effettivo bisogno di caffeina.
“Sì, grazie. Niki non trattarmi come se fossi un coglione, so che sai che non lo sono affatto. Il tuo accendino non avrebbe nulla di speciale, non fosse per l’incisione sulla base.”
“L’incisione?”
Una bottiglia d’acqua stava riempiendo autonomamente il serbatorio della macchina quando Niki si voltò per gettargli un’occhiata pigra che non tradì nessuna emozione particolare, portando Carter a chiedersi se quell’espressione indifferente fosse dovuta a sincerità o ad una lunga esperienza di partite di poker. Decise di propendere per la seconda ipotesi mentre ricambiava il suo sguardo senza aggiungere altro, gomiti, avambracci e mani intrecciate piantati sul ripiano dell’isola e occhi fissi su di lei, attendendo che Niki traesse le sue conclusioni mentre riempiva distrattamente di caffè il filtro. Alla strega bastò qualche breve istante per fare i dovuti collegamenti e comprendere ciò che aveva spinto il vicino a bussare alla sua porta, idea che risvegliò un raro accenno di risata roca dal fondo della sua gola:
“Tu pensi… tu pensi che il mio accendino fosse di Montgomery?”  Lo sguardo stralunato quanto divertito che Niki gli lanciò, quasi le avesse confidato di aver visto la Turner ad un torneo di magic-wrestling, non smossero di un centimetro le convinzioni di Carter: che fosse una brava attrice già lo aveva appurato da tempo. Decise invece di annuire, sorridendo amabile mentre si allungava leggermente in avanti sull’isola per sporgersi verso di lei prendendo a picchiettare la punta del piede sinistro contro il parquet:
“Non conoscevo bene Montgomery, ma mi dava proprio l’impressione di essere tipo da possedere un mucchio di gingilli costosi con le proprie iniziali sopra. È un atteggiamento schifosamente tipico della gente come lui, che in effetti equivale alla gente in mezzo a cui sono cresciuto e che, credimi, conosco molto bene. Sai non li so contare, i fazzoletti e le camicie di mio padre che fioccano di iniziali.”
“Su questo penso che tu abbia ragione. Ma il mio accendino non gli è mai appartenuto.”
“Allora è una coincidenza?”   Carter inarcò un sopracciglio, scettico, mentre la guardava accendere la macchina e posizionare le tazze sotto ai beccucci erogatori, le lunghe dita affusolate che tamburellavano lentamente sul legno. Gli occhi chiari di Carter indugiarono sulla garza che le avvolgeva la mano destra, ma non provò nemmeno a fare domande che non avrebbero ricevuto uno straccio di risposta.
“Che cosa pensi esattamente, Carter? Che me lo abbia dato lui? O che lo abbia ucciso io per poi andarmene in giro con un oggetto facilmente riconducibile alla mia vittima come il più coglione degli assassini di CSI? Mi potrei anche offendere.”  Niki scosse debolmente la testa mentre distoglieva lo sguardo da lui per gettare un’occhiata alla macchina e ai rivoli di caffè caldo e profumato che sgorgavano dai beccucci con un suono simile ad un borbottio, impregnando l’aria della cucina con un dolce aroma di caramello.
“Per cosa, per l’allusione al fatto che tu possa aver ucciso una persona o al tuo essere un’assassina stupida?”
Niki non rispose alla provocazione, tuttavia sorrise mentre si avvicinava all’isola per appoggiarvici sopra entrambe le tazze fumanti e ne spinse una verso di lui mentre Carter si accorgeva di aver ricambiato il sorriso quasi senza rendersene conto, quasi stessero facendo un gioco di cui lui non era ben a conoscenza.
“Per cosa stanno quelle lettere, allora? Se vuoi che mi sforzi di credere che l’accendino non fosse di Montgomery devi darmi una spiegazione credibile, spilungona. Chi è “Luke”?” Carter sollevò la tazzina che aveva davanti tenendola per il manico trasparente gettando un’occhiata perplessa alla scritta rossa su sfondo giallo che aveva di fronte
“Non ho tempo e voglia di colmare le lacune della tua ignoranza e non ti devo proprio un cazzo, carino. Per me potete pensare quel che vi pare. Tieni un cinnamon roll. E non fare quella faccia allarmata, non li ho fatti io, li ha portati Bartimeus stamani.”
Alla strega bastò un pigro agitare di bacchetta per far sì che una pirofila di ceramica piena di fiorellini li raggiungesse librandosi in volo da un angolo della cucina sotto lo sguardo inizialmente terrorizzato e subito dopo rilassato di Carter, che non si fece pregare neanche per un secondo e si affrettò a prendere una girella speziata e glassata prima di addentarla con lo stesso entusiasmo di un bambino in un negozio di caramelle. Il dolcetto profumato si rivelò delizioso tanto quanto il suo aspetto aveva fatto intendere, e Carter si leccò la glassa dalle labbra guardando prima la pirofila e poi la vicina scuotendo debolmente il capo:
“Perché tu gli piaccia non me lo spiego.”
“Un mistero indecifrabile, hai ragione.”
Invece di imitarlo Niki si strinse nelle spalle mentre studiava pensosa il suo espresso facendolo roteare all’interno della tazzina nera, prendendone un sorso per scottarsi la gola prima di tornare a rivolgersi al vicino aggrottando la fronte:
“Pensi davvero che l’abbia fatto fuori io? Pensavo che avessimo superato quella parte.” Carter, troppo occupato a masticare, scosse la testa prima di parlare a bocca piena, fregandosene della buona educazione:
“Sai Niki, rendi terribilmente difficile fidarsi di te e non sembrare orribilmente sospetta. Ci provo, ma ti ci impegni proprio, in questo e nell’essere antipatica quanto un letto di ortiche sul culo.”
“È solo un vecchio regalo. Non di Montgomery, levati quest’ossessione di me e lui legati da chissà cosa dalla testa. Che le iniziali siano le sue è una beffarda coincidenza da parte dell’universo.”  Niki scosse la testa con veemenza, e anche se i suoi occhi verdi restarono chini senza incontrare i suoi Carter ebbe comunque l’impressione di vederli incupirsi.
“Non l’ho detto a nessuno, più o meno, perché volevo prima parlarne con te e sentire la tua spiegazione. Ma non mi stai convincendo particolarmente, spilungona.”  Il giornalista parlò scuotendo la testa forzando un tono grave mentre tracciava figure astratte sul legno usando la punta dell’indice, parole che destarono un rinnovato accenno di sorriso, questa volta particolarmente beffardo, sul bel viso della strega:
“Carter, cos’è, ti spiacerebbe se fossi davvero io ad aver ucciso Montgomery. Di questo passo penserò anche che ti sto simpatica!”
“Ma figurati. Ho solo paura, se ti sbattono in gattabuia, che al tuo posto arrivi una tizia ancora più alta e stronza di te. Magari piena di Acromantule domestiche.”
Persino la deliziosa Mrs Turner a confronto di quell’immagine assumeva le sembianze di un tenero, innocente e morbido gattino, e Niki accennò un sorriso mentre picchiettava sovrappensiero le unghie tenute lunghe contro la ceramica della tazzina nera. Trascorse qualche istante, mentre Carter finiva il suo caffè, in cui nessuno dei due parlò e gli unici rumori nell’appartamento furono Carrie e Sam che, inseguendo e lanciando un topo di pezza, sfrecciavano sul pavimento. La mente della loro padrona, molto lontana dall’Arconia, finì col dar voce a parole che prima di quel momento difficilmente avrebbe immaginato di ritrovarsi a pronunciare scandendole con estenuante lentezza, quasi le costassero un’immensa fatica.
“La D è l’iniziale del mio nome. La M della persona che me l’ha lasciato tempo fa. Non di Montgomery!”, si affrettò ad aggiungere la strega con tono esasperato quando scorse il luccichio improvviso animare lo sguardo celeste di Carter, che aveva già aperto bocca per insinuarlo.
“E allora di chi cazzo è l’iniziale, di Madre Theresa?” Carter, che aveva già agguantato un altro cinnamon roll – l’acidona non li meritava certo più di lui –, agitò con scherno e stizza il dolce verso la vicina, che tuttavia scosse il capo e continuò a guardarlo placida, senza scomporsi.
“Il giorno in cui saranno cazzi tuoi te lo verrò a dire, Carter. Limitati a ficcarti in testa che è solo un normalissimo e vecchio accendino di cui dovrei liberarmi da anni e che casualmente riporta le stesse iniziali del nostro caro vicino deceduto.”
Una consistente parte di lui voleva sinceramente credere a quella versione, non sapeva nemmeno lui spiegarsi bene il perché, ma qualcosa in quella spiegazione troppo approssimativa e priva di dettagli glielo impediva. Voleva, doveva saperne di più, non solo a causa della sua spasmodica curiosità di natura professionale.
“Come faccio ad essere sicuro che non menti?”
“Credo che tu non possa. Montgomery è morto e a lui non lo puoi chiedere. Devi scegliere se fidarti della mia parola o no.”
Malauguratamente per Carter riconoscere che la vicina avesse ragione fu quasi immediato: chi si sarebbe potuto ricordare di un anonimo accendino, se nemmeno Kei aveva dato cenno di aver riconosciuto l’oggetto a fronte di una descrizione approssimativa? Forse sua madre, ma se davvero era stato un regalo Montgomery poteva anche averlo acquistato senza mai utilizzarlo, consegnandolo direttamente a lei. Poteva sforzarsi di credere che non fosse mai appartenuto al suo vicino o restare con quel dubbio pressochè in eterno, ma qualcosa di inspiegabile gli suggeriva che forse, per una volta, Niki fosse stata sincera con lui. Non gli restava che aggrapparsi alla convinzione che se davvero quell’oggetto l’aveva in qualche modo legata ad una persona che era stata appena uccisa la sua vicina sarebbe stata comunque troppo sveglia per portarselo in borsa come se nulla fosse. A tutto ciò tuttavia si aggiungeva la questione del tizio “alto e moro” con cui era stata vista. Poteva essere Montgomery, l’individuo misterioso, o solo una coincidenza ancora più assurda? Poteva essere riconducibile a quella persona la fantomatica “M” che spiccava indelebile sulla base dell’accendino? O quelle rivelazioni erano solo frutto di un errore di valutazione, e Niki non era stata davvero vista con qualcuno? Doveva ammettere che immaginare la scena gli risultava piuttosto difficile, soprattutto l’atteggiamento a dir poco scostante, in special modo verso il genere maschile, che la sua vicina sfoggiava dal primo istante in cui l’aveva conosciuta.
“Ricordi quando siamo andati a fare colazione insieme?”
Niki lo guardò stupita all’udire quella domanda, difficile dire se per la sua stessa natura o se invece a causa della repentina deviazione che la conversazione aveva improvvisamente assunto.
“Sì.”
“Niente. Mi chiedevo solo se ti capita di frequente di fare colazione in compagnia.” Il sorriso amabile si rinnovò con dolcezza sulle labbra di Carter mentre il giornalista si stringeva nelle spalle staccandosi dall’isola senza che i suoi occhi lasciassero il volto della vicina, deciso ad individuare qualsiasi potenziale traccia. Niki ricambiò il suo sguardo senza muovere un muscolo, finendo con l’inarcare un sopracciglio e imitare la sua noncurante stretta di spalle:
“Preferisco mangiare da sola. La storia del momento di condivisione su di me non ha mai attecchito. Perché questa domanda?”
“Così per sapere se sono stato particolarmente privilegiato o meno.”
Niki non rispose: strano a dirsi, non aveva più parole da pronunciare in grado di districarsi dal caos che si era immediatamente impossessato della sua mente. Non approfondì la questione chiedendo altro a Carter, rifiutandosi di dargli qualsiasi soddisfazione e limitandosi a scrutarlo mentre le dava le spalle per dirigersi con nonchalance verso l’ingresso – anche se in qualche modo doveva saperlo, che cosa poteva aver smosso pronunciando quelle parole di certo non scelte per caso –. Le dita della mano sinistra si mossero con un lieve scatto involontario facendo per serrarsi a pugno, ma Niki le costrinse rapidamente a distendersi di nuovo, lontane dal suo palmo.
“Perché lo usi se dici che dovresti liberartene?”
Ancora una volta la domanda colse Niki alla sprovvista, cosa che, appurò Carter non senza una buona dose di soddisfazione, irritò profondamente la strega. Dopo un breve attimo di riflessione si strinse nelle spalle e distese la labbra in un debole sorriso, ma Carter avrebbe scommesso tutto ciò che possedeva, animali inclusi, che fosse forzato: chi conosceva i sorrisi forzati meglio di lui, cresciuto con una madre che organizzava cene per gente che nemmeno le piaceva solo per le apparenze?
“Per ricordarmi. Perché in fondo, anche se mi costa ammetterlo, sono stupida come ogni altro essere umano, psicopatici a parte. Sono sentimentale. È difficile lasciar andare le cose, vero?” disse Niki guardando Carter in piedi sulla soglia. Mira balzò sul ripiano dell’isola e la padrona sollevò la mano destra per accarezzarle istintivamente la minuscola testa ramata, strusciando la garza che copriva la pelle contro il pelo corto della gatta.
“Di che cosa?”
“Degli errori.”
La solida freddezza e distanza con cui Niki rispose ricordarono a Carter le distese ghiacciate che si formavano sulla superficie di stagni e piccoli laghi sulle quali da bambino, in vacanza con la sua famiglia, gli era capitato di pattinare. Apparentemente inscalfibile, il ghiaccio rischiava di creparsi al primo eccessivo attrito.
Stava quasi per aprire la porta, la mente ridotta ad un turbinio che necessitava di trovare un ordine, quando un altro pensiero lo colpì balzandogli improvvisamente davanti agli occhi e portandolo a chiedersi come potesse averlo ignorato fino a quel momento:
“D, quindi? Com’è che ti chiami, Daisy?” Malgrado non fosse ancora del tutto certo se crederle o meno in merito alla questione dell’accendino Carter guardò la vicina con un sorriso che gli si estese fino agli occhi, lasciando che la sua voce si librasse tra le pareti come una cantilena mentre Niki, rimasta in piedi dietro all’isola, annuiva prima di fargli cenno in direzione della porta, segno che quella conversazione era giunta al termine:
“Sì. Daisysonocazzimiei. Ora va’ a rimorchiare su MagicMatching, Cross.”
Carter non se lo fece ripetere, certo che nulla avrebbe impedito alla vicina di lanciargli una fattura se l’avesse importunata eccessivamente con le sue domande, ma anche quando si ritrovò solo nel corridoio che collegava le porte dei loro appartamenti seppe che non avrebbe scordato, né accantonato, quella conversazione tanto facilmente. Una parte di lui decise di credere alla versione datagli dalla vicina, ma mentre si dirigeva verso casa per portare Sarge a spasso sentì che qualcosa gli stava scivolando, rapido ed inafferrabile, davanti agli occhi.

 
*

 
“Sinceramente non so niente. Non ho sentito niente né visto niente.”
Gabriel, che aveva preso il posto di Orion sulla sedia di metallo dallo schienale rigido, parlò gettando un’occhiata di sbieco alla penna nera che stava trascrivendo parola per parola tutto ciò che usciva dalla sua bocca su un voluminoso blocco per appunti a spirale: quasi riusciva a sentire la voce di Naomi intimargli di dosare adeguatamente le parole rimbombargli nella mente tante erano state le volte in cui l’amica aveva ripetuto quelle parole fin da quando si erano ritrovati, per la seconda volta in meno di due mesi, ad aspettare risposte nel cortile semibuio e freddo del palazzo.
Lo sguardo di Dom, che gli sedeva di fronte giocherellando distrattamente con una seconda penna facendola rotolare sul tavolo, indugiò a sua volta sulle righe di parole che erano già apparse sul foglio prima di tornare a guardare il tatuatore incalzandolo a continuare agitando debolmente la penna verso di lui:
“Ero a casa del mio vicino quando ha iniziato a suonare l’allarme antincendio, quindi siamo usciti e siamo rimasti nel cortile per tutto il tempo, finchè non ci avete chiesto di seguirvi qui. È tutto quello che è successo stasera.”
“In quanti eravate?”
“Dodici.”
“Elenchi i nomi per favore.”
Dom ascoltò solo distrattamente la voce di Gabriel elencare i nomi dei vicini con cui aveva trascorso la serata mentre contemplava assorto la penna prendiappunti lasciare tracce d’inchiostro sulla carta trascrivendoli uno per uno, finendo col constatare che combaciavano con quelli indicati dalle persone con cui aveva già parlato in precedente tra quelle indicate. Quando la voce del tatuatore si spense, in attesa della domanda successiva, Dom tornò a guardarlo mettendosi a sedere più comodamente contro lo schienale della sedia, la penna stretta tra le dita e gli occhi verdi puntati sul suo viso:
“Che cosa facevate a casa del suo vicino?”
“Niente. Era una serata come tante. C’era la pizza, c’era la birra… non facevamo niente.”
Gabriel si esibì in una noncurante stretta di spalle che non convinse appieno l’Auror, ma Dom decise di tralasciare momentaneamente la questione e si limitò a sporgersi in avanti sulla sedia per indicare l’elenco di nomi con la punta della sua penna:
“Ha detto che siete usciti tutti in cortile quando l’allarme ha iniziato a suonare?”
“Sì.”

“Allora perché abbiamo trovato James Cross e Mathieu Levesque-Simard dentro l’edificio, e non fuori? Sono rimasti dentro mentre voi siete usciti, perché?”
Lo sguardo di Gabriel scivolò fino a raggiungere il blocco per appunti, esitando prima di scuotere lievemente la testa in segno di diniego e affermare di non saperlo. Era la pura e semplice verità, ma seppe di non aver affatto convinto l’Auror con quella risposta quando lo vide gettargli un’occhiata indecifrabile prima di avvicinare la sedia al tavolo di qualche centimetro:
“Perché ha detto che siete usciti tutti se loro sono rimasti all’interno del palazzo?”
“Non credo di aver usato la parola tutti. Può controllare se è scritto.” Gabriel indicò pigramente il blocco per appunti con l’indice senza distogliere lo sguardo da quello di Dom, che gettò una rapida occhiata al foglio di carta prima di tornare a concentrarsi su di lui e annuire con un movimento appena percettibile del capo:

“No, non l’ha detto. Lo ha lasciato intendere.”
“La mia migliore amica è avvocato, e sostiene che affermare e lasciar intendere siano cose molto diverse.” Gabriel accennò un sorriso che Dom non ricambiò, cosa che portò il tatuatore a rendersi conto di non avergli scorto il benchè minimo cenno di mutamento d’espressione in volto da che si era seduto su quella sedia, rendendogli impossibile cercare di capire di quali pensieri fosse preda.
“Quindi non siete usciti tutti. Mi piacerebbe sapere per quale motivo qualcuno dovrebbe non uscire al suono di un allarme.”
“Siamo usciti tutti. Anche loro. sono usciti in cortile con noi ma poi… poi Carter ha deciso di tornare dentro, non so per quale motivo.”
“Carter sarebbe…”  Dom aggrottò le folte sopracciglia brune chinando la testa per tornare a scrutare l’elenco dei nomi, ma Gabriel lo precedette agitando pigramente una mano e affrettandosi a correggersi:
“James. James Cross.”
“Ma non era solo quando lo abbiamo trovato.”
“Mathieu è andato con lui.”

“Perché?”
Gabriel esitò di fronte allo sguardo serio e penetrante dell’Auror, conscio di non aver bisogno di mentire nell’affermare di non saperlo: ricordava chiaramente di averli visti uscire insieme a lui e a tutti gli altri, ma una volta fuori chissà quale pensiero aveva colto Carter, che era corso di nuovo dentro il palazzo dopo appena qualche minuto. Gabriel aveva scorto distrattamente lui e Mathieu dirsi qualcosa mentre udiva la voce di Naomi rimproverarsi di essere uscita senza giacca e con le pantofole a nuvoletta che ormai sembravano perseguitare ogni sua uscita pubblica nel cortile del palazzo, ma li aveva visti dirigersi verso l’ingresso con troppa gente e troppe voci attorno per poter sperare di udire qualcosa e di vederci più chiaro. Il tatuatore finì col sospirare, stanco di quella serata che sembrava destinata a non finire mai, e col scuotere debolmente il capo prima di dar voce ai suoi pensieri:
“Senta, non lo so. C’era un sacco di confusione, eravamo in tanti ammassati nel cortile, la gente già parlava di cadaveri visto quello che era successo con Montgomery Dawson, non so perché siano rientrati. Nessuno credeva davvero che ci fosse un incendio dopo quello che è successo il mese scorso, forse avevano solo dimenticato qualcosa. Chiedetelo a loro.”
Quando Gabriel tacque appoggiandosi stancamente allo schienale della sedia nella stanza calò un silenzio disturbato solo dal fruscio della punta della penna prendiappunti impegnata a riportare le sue parole, e il mago guardò i due Auror esitare e scambiarsi un’occhiata significativa per loro tanto quanto indecifrabile per il tatuatore, che si ritrovò a spostare accigliato lo sguardo dal viso di Dom illuminato dalla luce bianca della lampada a quello avvolto dalla penombra di Megan in attesa di spiegazioni che giunsero poco dopo, quando entrambi tornarono a studiarlo e Dom si espresse con tono pacato ed inflessibile:
“Quando si trattava di Montgomery Dawson l’allarme lo abbiamo attivato noi, questa volta non abbiamo idea di chi sia stato. E comunque i suoi vicini non ricordano niente, Signor Mendoza.”
Il piede destro di Gabriel, che aveva iniziato a muoversi meccanicamente tradendo l’impazienza e il lieve disagio provati, si immobilizzò di colpo contro una delle gambe del tavolo mentre il tatuatore, senza parole, fissava incredulo Dom e l’espressione cupa che gli oscurava i bei lineamenti del volto cesellato:
“Non ricordano niente?!”
 
 
Naomi strofinò con lieve nervosismo la suola dello stiletto nero contro il pavimento di un’indefinita quanto cupa tonalità di grigio, gli occhi verdi chini sulle proprie ginocchia mentre la sua mente era ridotta ad un confuso vortice di pensieri sconnessi. Benchè fosse – tristemente – abituata a far visita a suo fratello in carcere e i tribunali non fossero affatto luoghi a lei estranei il fatto di trovarsi a pochi metri da una sala adibita agli interrogatori la innervosiva non poco, ancor più considerando le pochissime informazioni di cui lei e i suoi vicini disponevano: il fatto stesso di non sapere cosa stesse succedendo la disturbata, se possibile, più del trovarsi in un corridoio semi-buio del M.A.C.U.S.A. a quasi tarda notte.
Dopo aver gettato un’occhiata di sbieco alla porta che si era chiusa alle spalle di Gabriel una decina di minuti prima la strega prese a tormentarsi i ricci capelli castani attorcigliandosene una lunga ciocca attorno all’indice destro, incapace di restare semplicemente immobile mentre si domandava nervosamente quando avrebbe potuto finalmente tornarsene all’Arconia dai suoi animali domestici.
“Che fai Nay Nay, ti scombini i capelli proprio quando è quasi il tuo turno?”
Poiché non aveva mai gradito nomignoli e storpiature di qualsiasi genere da quando era bambina Naomi chiese al vicino di usare il suo nome completo esalando un sospiro stanco mentre Esteban, che aveva smesso di aspettare insieme a lei qualche minuto prima, quando si era alzato decretando di aver urgente bisogno di caffeina, la raggiungeva a metà del corridoio deserto brandendo un sorriso e allungandole un bicchiere di carta pieno di caffè bollente.
“Grazie. Ti hanno lasciato prenderli?” La strega accettò di buon grado la bevanda calda e spostò colpita lo sguardo sul vicino mentre Esteban tornava ad occupare la sedia addossata alla parete accanto alla sua, lieta di avere nuovamente qualcuno con cui interloquire: ad attendere nel corridoio erano rimasti solo loro, e parlare le impediva quantomeno di consumarsi la mente attorno alle esigue informazioni di cui disponeva su quanto fosse accaduto.
“Questo sorriso e questa faccia possono qualsiasi cosa.” Fu esattamente il sorriso di cui parlava che Esteban mostrò compiaciuto alla vicina prima di sorseggiare un po’ di caffè e portarsi la caviglia destra sul ginocchio sinistro per stare più comodo, ormai insofferente alla loro prolungata permanenza al M.A.C.U.S.A. tanto quanto lo era Naomi, che lo imitò assaggiando il caffè bollente, che le scaldò piacevolmente la gola, prima di gettargli un’accigliata occhiata di traverso:
“Fortunato. Anche perché, scusa se te lo dico, sembri uno scappato di casa.”  Naomi non sarebbe riuscita a celare la velata disapprovazione che nutriva nei confronti della tuta sbiadita e troppo larga di Esteban nemmeno provandoci col massimo impegno, ma fortunatamente il ragazzo, anziché prendersela, sorrise e annuì quasi come se la cosa lo divertisse:

“Me lo dice sempre anche mia madre. Aspetta… Ma ti sei cambiata i vestiti?”  Esteban, che fino a quel momento era stato troppo preso dall’elaborare congetture mentali su quanto accaduto per prestare particolare attenzione all’abbigliamento altrui, si accorse solo in quell’istante di come la tuta che Naomi aveva indossato per tutta la sera era svanita e sostituita da abiti scuri e molto più sobri, cosa che lo fece ridacchiare mentre la strega, accanto a lui, arricciava il naso stizzita:
“Secondo te vado a parlare con gli Auror con addosso la mia tuta di ciniglia color zucca?! Ok che è autunno, ma ho una dignità da mantenere.”, asserì Naomi sollevando il mento con aria altezzosa, omettendo accuratamente di far sapere al vicino di indossare ancora i calzini antiscivolo con lo zucchero filato sorridente – ovviamente regalo di Moos – sotto agli stivaletti col tacco. Quelli, per fortuna, nessuno avrebbe potuto notarli.

“Secondo me la gente giudica troppo in base all’abbigliamento. Per questo non me ne curo per niente.”
Per questo e per la consapevolezza di avere un bell’aspetto qualsiasi cosa indossasse, ma Esteban tenne per sé quella parte mentre faceva spallucce studiando distrattamente quel che restava del suo caffè mentre lo faceva roteare agitando il bicchiere.
“Probabilmente hai ragione, ma solo un terremoto riuscirebbe a farmi uscire di casa con una tuta sformata.”
Quando Naomi tacque un breve silenzio inghiottì il corridoio, attimi scanditi solo dal lieve agitarsi del piede destro della strega, che scandiva lo scorrere del tempo picchiettando sul pavimento fissando pensosa la parete che aveva di fronte mentre Esteban, seduto in modo da stare il più comodo possibile quasi sprofondando nella sedia, teneva la testa leggermente reclinata e appoggiata contro il muro.
“Com’è che parliamo di vestiti quanto è appena morta una persona?”, domandò infine la strega voltandosi nuovamente verso il vicino, che a quella domanda parve rianimarsi e tornò a guardarla con gli occhi sgranati e annuendo con enfasi:
“Non me lo dire, pagherei per sapere chi cazzo è morto, questa suspence mi farà venire le rughe!”
Naomi inarcò un sopracciglio sentendosi molto scettica a riguardo, ma prima che potesse rimproverare aspramente Esteban e ricordargli che alla sua età di certo non aveva mezza ruga sul viso, mentre lei già aveva adocchiato qualche capello bianco, la porta davanti a loro si aprì consentendo a Gabriel di raggiungerli nel corridoio, zittendola all’istante.

La curiosità era tanta che la strega fece per chiedere all’amico cosa gli avessero chiesto non appena il tatuatore si fu avvicinato a lei e ad Esteban, ma prima che potesse anche solo aprire bocca Dom la chiamò chiedendole di seguirlo. A Naomi non restò che stringere le labbra e alzarsi, obbedendo e seguendo l’Auror dentro la stanza senza aprire bocca, impaziente di sentire le loro domande per poter dare un senso ai recenti avvenimenti. La porta si era appena chiusa alle spalle di Dom quando Gabriel occupò la sedia dove fino a poco prima era rimasta seduta a lungo la sua amica, rivolgendosi ad Esteban con un nervoso mormorio per riportargli ciò che aveva appena appreso dal suo colloquio con gli Auror:
“Mathieu e Carter non ricordano niente.”
Esteban quasi sputacchiò i rimasugli di caffè che aveva fatto per sorseggiare dopo che la porta si era chiusa udite le parole del vicino, lasciandosi sfuggire un paio di colpi di tosse prima di riprendersi e voltarsi così verso Gabriel, gli occhi ambrati spalancati dalla sorpresa e quasi inorriditi:
“Che cazzo dici?!”

“Così mi hanno detto, non so niente. Ho bisogno di caffè…”   Gabriel non aveva idea di quante ore fossero passate con precisione dall’ultima dose di caffeina che aveva assunto, ma non gli ci volle molto per appurare che fossero troppe, e si appoggiò sospirando con la nuca alla parete cui dava le spalle mentre cercava, senza successo, di dare un senso ai recenti avvenimenti.
“Tranquillo amico, ci penso io.” Con quelle parole Esteban si alzò, assestò una lieve pacca sulla spalla del vicino e poi si allontanò con la massima nonchalance, come se stesse andando ad ordinare qualcosa al bar.

 
Quando la porta venne nuovamente aperta consentendo a Naomi di fare ritorno nel corridoio nemmeno Gabriel, pur conoscendola da anni, riuscì a decifrare l’espressione tesa e concentrata impressa sul bel viso della strega, ma il tatuatore si costrinse a restare in silenzio e ad attendere che Domnhall fosse fuori portata d’orecchi per parlare e confrontarsi con lei in merito alle domande che gli erano state poste mentre Esteban si alzava, quasi sollevato di poter finalmente mettere fine a quella lunga attesa che lo aveva stancato quasi più di una corsa.
Mentre aspettava che Esteban lo raggiungesse Dom, rimasto fermo accanto alla porta, fece rimbalzare lo sguardo da Naomi a Gabriel, che invece di andarsene era rimasto seduto, prima di far sapere con tono pacato ad entrambi che, se volevano, potevano andarsene. Il tatuatore invece non si mosse e nemmeno la strega accennò di voler lasciare l’edificio, esitando prima di voltarsi verso di lui:
“Le dispiace se aspettiamo Esteban?”
“No, certo. Come preferite. Venga Signor Powell.”
Esteban detestava sentirsi chiamare in quel modo – non solo lo faceva sentire vecchio, ma nella sua testa il “Signor Powell” sarebbe sempre rimasto solo e soltanto suo padre –, ma si guardò bene dall’esternarlo a voce alta e si limitò ad accennare una lieve smorfia con gli angoli delle labbra carnose mentre precedeva Domnhall all’interno della stanza affinché l’Auror potesse chiudergli la porta alle spalle. Lo sguardo del ragazzo perlustrò immediatamente l’ambiente inusuale che lo circondava, e non fosse che era appena morta una persona che fino a quel giorno aveva abitato a non troppa distanza da lui avrebbe quasi potuto emozionarsi per la possibilità di vivere in prima persona la scena di una serie tv.
 
Naomi non attese nemmeno un istante quando udì la porta di metallo sbattere, occupò immediatamente la sedia di Esteban e si rivolse all’amico ruotando leggermente il busto verso Gabriel prima di parlare cercando di mantenere un timbro controllato e di contenere l’enfasi:
“Non hanno suonato loro l’allarme.”
“Lo so!”
“Allora chi può averlo fatto? L’assassino per farci uscire, ovviamente. Così nessuno l’avrebbe disturbato.”
“Ma Matt e Carter erano dentro.”

“E infatti casualmente non ricordano nulla.”
 
 
*
 
 
“Pensi che l’abbia ucciso lei?” La domanda a bruciapelo di Kei non sorprese Carter, non dopo ciò che gli aveva raccontato dopo avergli chiesto di raggiungerlo nel suo appartamento con un messaggio, deciso a finire una conversazione che aveva lasciato in sospeso nei giorni addietro. Il giornalista, seduto con Isla sulle ginocchia e una bottiglia di birra aperta in mano, fissò pensoso un punto del tavolino di legno sistemato tra i due divani di pelle color cuoio, uno occupato da lui e uno dal vicino, prima di scuotere leggermente il capo senza smettere di sfiorare affettuosamente il morbido pelo maculato della gatta del Bengala.
“No. Non penso. Non penso che se lo porterebbe dietro, se fosse andata così. Qualsiasi cosa sia Niki non è stupida. Tu lo pensi?”
Anche Kei esitò, riflettendo attentamente su ciò che Carter gli aveva detto mentre Sarge, forse percependo in qualche modo il suo stato d’animo, si faceva accarezzare dopo essersi seduto sul pavimento proprio accanto a lui, tra il divano e il tavolino, gli occhioni castani smaniosi d’affetto e attenzioni. Probabilmente illudersi di essere finalmente venuto a capo del mistero della morte del suo amico e mettersi l’animo in pace sarebbe stata la soluzione più semplice, ma Kei era altrettanto consapevole di dover prendere lucidamente in considerazione tutti gli elementi della storia, e qualcosa gli suggeriva di dover trovarsi d’accordo con il vicino.
“Non lo so. Ma immagino che quello che dici abbia senso. Non penso che lo userebbe, oltre ad essere macabro sarebbe anche piuttosto idiota, viste le iniziali.”
“Magari non era suo. Di Montgomery, dico, come dice lei. Tu per primo dici di non averlo mai visto.”
“Può essere, sì. Penso che lo chiederò a sua madre, tanto per essere sicuro.”
Carter annuì senza rispondere e per qualche istante i due rimasero in silenzio, ciascuno preda delle proprie riflessioni prima che Kei, senza smettere di accarezzare grato la morbidissima testa di Sarge, esalasse un pesante sospiro:
“Vorrei solo capire chi è stato e basta, sarebbe un inizio per non pensarci più. Ma immagino che gettarsi sulla prima soluzione più ovvia non sia il modo giusto per farlo.”
Anche quando Kei ebbe lasciato l’appartamento dopo averlo salutato e ringraziato Carter si distese sul divano continuando a pensare alle sue parole e quell’intangibile traccia di sofferenza presente nella sua voce e sul suo viso. Amava da così tanto tempo le storie di omicidi, persino quelle vere, quelle dei serial killer che avevano segnato la storia degli States, da nemmeno ricordare come quella passione fosse iniziata e da cosa avesse avuto origine. Probabilmente un libro che aveva letto, forse proprio della Christie. Le amava da così tanto tempo, quelle storie, vere e non, da essersi scordato come alle loro spalle ci fosse sempre qualcuno che non traeva alcun intrattenimento, ma che soffriva per la perdita.
 
Anche Kei finì sul suo divano, una volta a casa. Per nulla intenzionato a studiare, talmente prosciugato di qualsiasi stimolo positivo anche per mettersi a scrivere, tutto ciò che riuscì a fare fu abbracciare il suo gatto e telefonare a sua sorella: non poteva contare sulla sua famiglia, non unita almeno, dato che l’unico a vivere vicino a lui era Eita, da troppo tempo. A volte gli mancavano, anche se ai suoi genitori cercava di non pensare mai per non farsi mancare l’aria dai polmoni, più di quanto riuscisse ad ammettere a voce alta.
 
 
*
 
 
Niki si lasciò scivolare lentamente al centro del divano color caramello addossato contro la parete desiderando di sprofondare al suo interno, di rannicchiarsi su quei cuscini e di far sparire ogni sua traccia dal mondo per qualche ora, o giorno, senza smettere di accarezzare meccanicamente la piccola testa color ruggine di Mira, che aveva poco prima raccolto dal pavimento illudendosi che bastasse stringere quella piccola ed indifesa creatura per far dissolvere qualsiasi pensiero negativo. Conscia di non poter scaricare su nessuna delle sue gatte ciò che l’affliggeva la strega lasciò Mira accanto a sé sul divano, consentendole di andare ad acciambellarsi nel suo solito angolino, appoggiata contro un cuscino bianco, e dopo essere rimasta immobile per qualche istante s’infilò la mano destra nella tasca della felpa che indossava per estrarne il suo accendino, rigirandoselo brevemente tra le dita affusolate prima di appoggiarlo sul basso tavolino di legno che le stava davanti.
Niki continuò a scrutare l’accendino sollevando le gambe e raccogliendole contro il petto appoggiando i piedi sul divano e il mento sulle ginocchia, occupando il minor spazio possibile nella stanza avvolta dal silenzio mentre i suoi occhi verdi restavano puntati sull’accendino e la sua mente inghiottita dal turbinio confuso di pensieri a cui stava cercando di dare un ordine da ormai delle ore intere. Dopo qualche minuto, anche se non avrebbe saputo quantificare il tempo trascorso stando seduta immobile sul bordo del divano, smise di stringersi le gambe con le lunghe braccia per sollevare la mano destra e portarsela all’altezza dello sguardo, studiando pensosa la sottile fasciatura bianca che avvolgeva il palmo spiccando sulla pelle olivastra. Dicendosi di averla tenuta ormai più che a sufficienza Niki afferrò l’estremità della garza con la mano sinistra e iniziò a srotolarla fino ad avere la mano completamente libera, lasciando cadere con noncuranza la fasciatura sul tavolo, accanto all’accendino, per poi flettere la mano e osservare il palmo in controluce.
Individuare i solchi sulla pelle liscia non le fu difficile, anche se i tagli stavano andando rimarginandosi, e Niki si ritrovò a flettere le dita sovrappensiero, appoggiando le unghie lì dove indugiavano troppo di frequente prima di distenderle di nuovo e tornare a studiare il suo accendino. Lo prese in mano e sollevò il coperchio per accenderlo e studiare la minuscola fiamma che le si agitava lievemente davanti agli occhi e con cui di solito si accendeva le sigarette, solleticandola piano con l’indice quasi per giocarci. Mira si era ormai addormentata quando la sua padrona si costrinse ad abbassare il coperchio dell’accendino e a rimetterlo sul tavolo, stendendosi supina sui cuscini per non guardarlo e puntare invece lo sguardo sul soffitto che la divideva dal 14B. Il divano sfortunatamente non la inghiottì e per sparire dovette chiudere gli occhi allacciandosi le braccia in grembo, sperando che il suo cervello le desse un po’ di tregua spegnendosi in fretta mentre con le dita della mano sinistra raggiungeva lo spesso elastico nero che le avvolgeva l’ossuto polso destro, stringendolo prima di farlo schioccare contro la pelle.
 
 
 
 
 
 
 
………………………………………………………………………………..
Angolo Autrice:
Un ritardo simile per questa storia sono sicura di non averlo mai accumulato prima d’ora e non so veramente come scusarmi, l’estate spesso non è per me una stagione particolarmente prolifera per quanto riguarda la scrittura ma quest’anno la mia assenza è stata davvero vergognosa. Spero vivamente, ma ne sono convinta, che l’autunno mi porti più ispirazione essendo anche LA stagione di OMITB 🍁🍂🧡
Mi duole invece mettere un punto a qualcosa che ho rimandato il più a lungo possibile, ovvero l’eliminazione di Piper dalla storia. Non vorrei che qualcuno si allarmasse inutilmente dati i toni del capitolo quindi mi affretto a puntualizzare che la vittima cui si fa riferimento con i numerosi flashforward non è lei, alla nostra Piper non succederà niente e idealmente resterà a vivere all’Arconia con Nia e il gatto Bizet, vicino a Jackie, ma d’ora in poi apparirà solo di sfuggita.
Detto questo spero che il capitolo vi sia piaciuto, ci vediamo domenica con la seconda OS della raccolta autunnale che sarà dedicata a qualcuno tra questi OC, ovviamente non spoilero chi, e alla maggior parte di voi do appuntamento alla prossima settimana per il prossimo capitolo di LMDI.
Buona serata, bacini,
Signorina Granger

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4015505