Tekken Challenge 2023

di Nina Ninetta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sai chi sei? [Gennaio - Sisterhood - Nina&Anna] ***
Capitolo 2: *** La mamma è sempre la mamma [Febbraio - Motherhood - Steve&Nina] ***
Capitolo 3: *** Ⱥngel&Ðevil [Marzo - GrumpyXSunshine - Jun&Kazuya] ***
Capitolo 4: *** Come un abbraccio [Aprile - Domestic Fluff - Jin&Jun] ***
Capitolo 5: *** Coinquiline Diverse [maggio - Roommate! AU - Xiaoyu, Asuka, Lili, Jin, Hwoarang] ***
Capitolo 6: *** Un amore di macchina [Giugno - Forbidden Love, Starcrossed Love - AlisaXLars] ***
Capitolo 7: *** Ła ŧomba dei ɍicordi [Luglio - Childhood Friends - Heihachi&Kazumi] ***
Capitolo 8: *** Տole o Ҏianeta? [Settembre - Unrequited Love - Anna/NinaXLee Chaolan] ***



Capitolo 1
*** Sai chi sei? [Gennaio - Sisterhood - Nina&Anna] ***


Ciao a tutti!
Anche quest’anno partecipo alla To be Writing Challenge indetta da Bellaluna sul forum di Ferisce la Penna.
A differenza della scorsa edizione, però, le tematiche vincitrici sono state votate da noi partecipanti e potremmo sceglierne una per ogni mese dell’anno.
Come l’anno passato, cerco sempre di dedicare questi racconti a fandom di cui di solito non scrivo ma che adoro.
Nella precedente edizione mi sono dedicata ai capitoli di Final Fantasy, questa volta mi concentrerò su Tekken!
Per il mese di gennaio ho scelto il tema SISTERHOOD e chi meglio delle sorelle Williams può incarnare codesto spirito ;)
Buona lettura,
Nina^^

 


  
Alla fine del 3° torneo (Tekken 3) Nina ha perso la memoria, poiché Ogre – Dio della lotta – l’ha risvegliata dopo 19 anni dal sonno criogenico a cui era stata sottoposta (non per propria volontà), prendendo il controllo della sua mente. Anna Williams, sua sorella minore con la quale ha sempre condiviso un rapporto conflittuale, l’accompagna alla tomba del loro padre con l’intento di aiutarla a recuperare i ricordi.
 

Տai chi Տei?
 
 
Era il 23 gennaio e il cielo plumbeo prometteva neve e gelo. Le strade di Dublino erano state ripulite durante la notte dagli spazzaneve, ma le auto erano comunque poche e i pedoni ancor meno.
Il taxi che le stava accompagnando al camposanto procedeva lentamente, il conducente del veicolo si era rivolto alle due ragazze guardandole dallo specchietto retrovisore e dicendo che con le vie ghiacciate era meglio non superare i 30 Km/h. Frasi fatte, retoriche, tanto per dire qualcosa. Le classiche frasi che Nina detestava, ritenendole inutili; al contrario di sua sorella minore Anna che invece nelle parole futili ci sguazzava. La sentì infatti protendersi in avanti, verso l’uomo, e dirgli di non preoccuparsi: i morti non sarebbero andati da nessuna parte.
Che simpatica!
Già, i morti.
Anna le aveva proposto di far visita alla tomba del loro defunto padre con la speranza che i ricordi riaffiorassero alla sua mente. Nina non sapeva neanche se poteva fidarsi di lei, se fosse davvero chi diceva di essere, ossia sua sorella più piccola. Durante il 3° torneo di arti marziali, quando le si era presentata avevano cominciato a combattere e Nina aveva sentito che era la cosa giusta da fare, di sicuro con quella donna aveva qualcosa da condividere, eppure non riusciva a ricordare cosa…
Qualche giorno dopo, Anna aveva bussato alla sua porta, sostenendo di volerla aiutare, non poteva vederla ridotta così, rivoleva indietro la sua sorellona contro cui lottare. La vita era noiosa senza i loro litigi, ma non voleva raccontarle nulla, si sarebbe dovuta sforza di ricordare, perciò aveva pensato che cominciare dalla tomba dell’uomo che probabilmente aveva amato di più nella vita – loro padre Richard – sarebbe stato un ottimo punto di partenza.
Nina non aveva detto una sola parola per tutto il tragitto, su quello non era cambiata affatto: taciturna e imbronciata come lo era sempre stata. Teneva i suoi occhi chiarissimi puntati oltre il finestrino, sembrava interessata alla strada, ma Anna dubitava che si limitasse solo ad osservare la città, perciò le chiese a cosa stesse pensando:
«A nulla» rispose atona la sorella maggiore, senza distogliere lo sguardo dai negozi della capitale irlandese.
Anna sospirò, sentendo un forte vuoto dentro: era come avere al fianco uno sconosciuto di cui conosceva solo la parte esteriore. Per il resto ricordava un barattolo di marmellata svuotato.
Il rapporto che le aveva unite non poteva definirsi propriamente idilliaco, ciò nonostante si erano volute bene a modo loro, da rivali è vero, ma si cercavano e punzecchiavano in continuazione. A dirla tutta, era Anna ad avere sempre cercato la sorella più grande per metterle il bastone fra le ruote, divertendosi a mandare all’aria i suoi piani.
Come quella volta che Nina era stata ingaggiata da Heihachi Mishima per uccidere suo figlio Kazuya e Anna si era offerta di diventare la guardia del corpo di quest’ultimo. Quando Nina se l’era trovata di fronte aveva urlato di frustrazione e le due avevano cominciato a combattere e Kazuya era riuscito a fuggire. Sebbene Nina l’avesse battuta – come spesso accadeva – vederla andare su tutte le furie per aver fallito la missione non aveva avuto prezzo.
Adesso, invece, sembrava che nulla potesse smuoverla, perciò confidava nel fatto che la lapide di Richard compiesse il miracolo.
 
Qualche minuto dopo, il taxi si fermò all’ingresso del cimitero. Nina aprì la portiera e scese dall’auto, alzando gli occhi sui cancelli scuri di ferro battuto che sembravano sfiorare il cielo grigio. Una folata di vento gelido le scosse i capelli biondi e i lembi del cappotto scuro, eppure lei non se ne preoccupò. Anna l’affiancò dopo aver pagato la corsa e rabbrividì.
«Oggi fa particolarmente freddo» disse, stringendosi nel proprio caban bordeaux.
«Allora muoviamoci» fu la risposta perentoria di Nina.
Non solo pareva non avere più emozioni, ma sembrava non provare alcuna sensazione in generale.
Insieme percorsero il sentiero cementato e lastricato di lapidi da entrambi i lati. Anna leggendo man mano i nomi dei defunti che vi erano riportati in grassetto, Nina tenendo lo sguardo alto e fisso davanti a sé, imperterrita.
«Eccolo qui!» Esclamò la minore delle due, fermandosi davanti a una tomba comune, come ce ne erano a decine lì intorno.
Nina abbassò gli occhi e lesse: “Richard Williams, padre e marito esemplare” intanto che Anna si chinava per adagiare un mazzo di gigli bianchi sul freddo marmo, poi si rialzò.
«Erano i fiori preferiti di papà» bisbigliò.
 
All’improvviso una fitta penetrò nella testa di Nina, fu come se le avessero conficcato una lama rovente nelle tempie. Barcollò all’indietro tenendosi il capo con entrambe le mani, sostenuta dalla sorella che le chiedeva cosa le prendesse, se stesse bene.
Un’accozzaglia di immagini si sovrapposero nella sua mente, alcune erano sbiadite, appena accennate, altre invece più nitide e chiare.
Rivide lei e Anna da bambine mentre addobbavano un abete alto due metri e un uomo – Richard – diceva loro di non litigare. Subito dopo, quella stessa persona si chinava a lasciarle un bacio sulla fronte, augurandole la buona notte prima di sussurrarle all’orecchio che lei era la sua preferita.
Nella scena successiva lo scenario cambiava completamente: si ritrovava immersa nella neve, un aereo era precipitato alle sue spalle; suo padre le urlava di passargli il fucile sulla sinistra, mentre alcuni uomini imbracciavano kalashnikov e pistole ed erano pronti a sparagli. La piccola Nina piangeva disperata, Anna – anche lei solo bambina – la fissava con gli occhi sbarrati e terrorizzati. A metà strada tra le due giaceva l’AK -101 che Richard reclamava con tanto vigore, un attimo prima che lo uccidessero.
La situazione mutò ancora, questa volta erano tornare adulte e si incontravano per puro caso davanti alla tomba del padre, proprio dove erano adesso. Litigavano, incolpandosi a vicenda per la dipartita del genitore.
 
«Nina! Nina!»
La voce di Anna irruppe nella sua mente e nei ricordi, squarciandoli, confondendoli, mischiando presente e passato. Nina riaprì di colpo gli occhi color ghiaccio, non ricordava ancora tutto, ma qualcosa era riaffiorato dai meandri della memoria. Di sicuro l’odio per Anna.
Sollevò un braccio e la schiaffeggiò in pieno volto, facendola capitolare sulla lapide e sui gigli che schiacciò involontariamente nella caduta, rovinandoli. Dall’alto Nina le puntò un indice contro:
«È colpa tua se papà è morto! Non cercarmi più!»
Detto ciò si allontanò a grandi falcate, lasciando Anna da sola. Quest’ultima si rimise in piedi, cercando di sistemare come meglio poteva i fiori sulla tomba e sorridendo mentre lo faceva.
«Beh, è comunque un inizio, no?!» Puntò gli occhi verdi sulla foto che ritraeva Richard e il sorriso si addolcì. «E pensare che oggi è anche il suo compleanno. Te lo ricordi, papà?».


 

fine
 

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Capitolo 2
*** La mamma è sempre la mamma [Febbraio - Motherhood - Steve&Nina] ***


Questa storia partecipa alla To be Writing Challenge indetta da Bellaluna sul forum di Ferisce la Penna.
Mese: febbraio
Tema: Motherhood

 
Siamo alla fine del 7° Torneo di Arti Marziali. Steve è nella sua palestra e non può fare a meno di pensare all’incontro che ha avuto luogo con sua madre biologica - Nina Williams - nella cattedrale, prima che arrivassero quelli della G Corporetion…

 
 
Լa mamma è
sempre la mamma

 
 
 
Steve Fox scagliò un altro diretto al sacco da boxe, così forte che dovette fermarlo con entrambe le braccia per evitare che gli finisse in viso. Rimase aggrappato a pungiball diversi minuti, assorto in meditazione.
La palestra era deserta, ovviamente! Era sabato sera, di una tiepida serata primaverile, i suoi compagni saranno stati in qualche locale a divertirsi, bere e mangiare, ma non lui. Steve aveva declinato l’invito, avendo altro per la testa e non riuscendo a liberarsi di quei pensieri.
Il 7° Torneo di Arti Marziali indetto dalla Mishima Zaibatsu si era concluso da poche settimane. Era riuscito nell’intento di incontrare sua madre, come aveva desiderato e programmato, ma erano state davvero quelle le parole che aveva sperato di sentirle pronunciare?
No di certo!
Nessun figlio, a questo mondo, esperimento o non, avrebbe voluto scoprire che la propria mamma non lo riteneva tale.
Lo avevano messo in guardia sul conto di Nina Williams. Paul Phoenix, lo stesso Lei Wulong, lo avevano avvertito che si sarebbe trovato dinnanzi una donna glaciale, incapace di provare sentimenti come l’amore o la compassione. Un’assassina spietata agli ordini di Jin Kazama.
Ed era vero, dannazione!
Quando Steve l’aveva raggiunta nella cattedrale, le parole che aveva usato erano state taglienti come le lame dei coltelli che nascondeva sotto ai vestiti. Gli aveva ordinato di non chiamarla mamma perché non lo considerava figlio suo, raccontandogli di essere stata vittima di esperimenti e lui era nato da uno di questi, nulla più.
Eppure…
 
Eppure Steve aveva scorto un luccichio nei suoi occhi – maledettamente uguali ai propri, di un azzurro intenso, anche il biondo dei capelli era simile – quando con un sospiro aveva constatato che lui era sopravvissuto ai dolorosi test scientifici al quale era stato chiaramente sottoposto. Lo sguardo di Nina si era spostato sul braccio sinistro del pugile, percorso da una profonda cicatrice: prova tangibile di ciò che aveva subito nei sotterranei della Mishima.
Quello scintillio, quel tono dimesso e sollevato di chi si è tolto un peso dalla coscienza, lo avevano fatto ben sperare che forse c’era ancora una speranza per lui.
Per loro…
Poi erano arrivati i militari della G Corporetion e avevano cominciato a sparare. Allora le aveva detto di andare via, di scappare, ci avrebbe pensato lui a sistemarli. Perché, in fondo, è questo che fa un figlio, no? Protegge sua madre.
Nina era fuggita, senza voltarsi indietro, facendo perdere ogni traccia di sé.
 
C’era anche un’altra cosa che non riusciva a spiegarsi, sebbene il fatto risalisse a diversi anni prima, più precisamente all’epoca del 4° Torneo. Lo stesso detective Wulong gliene aveva dato conferma: Nina Williams era stata incaricata di ucciderlo. Tuttavia, non lo aveva fatto, si era fermata pur trovandoselo a un tiro di scoppio. E lui, all’ora, non sapeva chi fosse realmente quella donna che gli aveva puntato la pistola contro, per poi abbassarla limitandosi a guardarlo negli occhi. Quando Lei Wulong era apparso dal nulla, intimandole di arrendersi pronto a sparare, Steve d’istinto le si era gettato addosso per difenderla, un attimo prima che il detective cinese aprisse il fuoco. Nina si era subito rimessa in piedi e lo aveva ringraziato – un semplice grazie che adesso gli valeva più di cento parole – abbozzando un tenue sorriso, prima di fuggire nell’ombra.
Era molto brava in questo, doveva dargliene atto.
  
Steve si riscosse dai ricordi, lasciò andare il sacco e si diresse negli spogliatoi: una doccia veloce e poi avrebbe raggiunto i suoi amici. Era inutile rimuginare sul passato: non si può entrare nel cuore di chi non vuole permettertelo.
 

 
Fine

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Capitolo 3
*** Ⱥngel&Ðevil [Marzo - GrumpyXSunshine - Jun&Kazuya] ***


Questa storia partecipa alla To be Writing Challenge indetta da Bellaluna sul forum di Ferisce la Penna.
Mese: marzo
TemaGRUMPYXSUNSHINE: all’interno della storia bisognava raccontare di due personaggi dal carattere opposto che finiscono per innamorarsi, e chi meglio di Jun Kazama e Kazuya Mishima impersonano questo tema?!

Siamo nel pieno di Tekken 2, quando il leader della Mishima Zaibatsu è Kazuya Mishima, il quale ha spodestato il padre alla fine del primo Torneo del Pugno d'Acciaio...


 
Ⱥngel&Ðevil
 
 
Jun si tirò su a fatica, barcollando su gambe doloranti ed escoriate in diversi punti, il sangue ormai raggrumato. Probabilmente una spalla si era rotta, dal momento che le faceva un gran male e non riusciva a muovere il braccio, tenuto fermo dall’altra mano con le nocche scorticate. Il volto era sporco di fuliggine e la ferita alla testa le aveva macchiato la guancia destra di sangue ancora fresco.
Combattere contro Heihachi Mishima non era stata una cosa molto intelligente, né furba, doveva ammetterlo. Ma che altro avrebbe potuto fare? Voltarsi di spalle e fuggire, ignorare la situazione in cui vessava Kazuya? Il suo grido d’aiuto? Davvero aveva creduto che un essere semplice e insignificante come lei avrebbe potuto sovvertire le sorti e la maledizione di quella famiglia?
Sì, ci aveva creduto sul serio!
E forse ci credeva ancora, perché suo padre le aveva insegnato che il Bene può sconfiggere il Male e lei ci era quasi riuscita, aveva annichilito il demone – Devil – che albergava in Kazuya, ma nulla aveva potuto contro suo padre Heihachi: un uomo malvagio e nulla più…
Attraverso la vista offuscata dal dolore e dal fumo scuro che si levava dalla bocca del vulcano, intravedeva due figure, una delle quali teneva per la gola l’altra, spingendola sempre più verso il baratro, addirittura sollevandola da terra.
«Kazuya!» Urlò, cercando di farsi sentire al di sopra dello scoppiettio del fuoco che lambiva lo spazio circostante.
«Ju-Jun?» Balbettò il giovane Mishima, sofferente quasi quanto lei.
Quando Heihachi si voltò indietro per osservarla, stendendo le labbra in un sorriso tronfio, lei poté vedere meglio: il vecchio teneva suo figlio per il collo, mentre quest’ultimo tentava in tutti i modi di divincolarsi dalla presa, scuotendo le gambe con entrambe le mani chiuse intorno al braccio del padre.
«Vattene, Jun! Vattene!» Gridò di rimando.
Se anche fosse riuscito nell’intento di liberarsi, sarebbe caduto nel nulla…
Ma come erano arrivati a quel punto?


 
§

 
Jun Kazama era stata incaricata dall’Associazione ambientale per cui lavorava di fermare la azioni scellerate di un certo Kazuya Mishima, leader della Mishima Zaibatsu dopo aver sconfitto il padre nel Primo Torneo del Pugno D’Acciaio, indetto dallo stesso Heihachi Mishima. Stando alle ricerche condotte dall’Associazione, Kazuya era invischiato nel traffico illecito di animali, il cui scopo non era chiaro, ma andava fermato a tutti i costi! Il presidente dell’Associazione le aveva mostrato una foto del ventottenne leader della Mishima e Jun l’aveva studiata per quasi un minuto, rimanendo ipnotizzata dagli scurissimi e impenetrabili occhi che la fissavano di rimando.
«Mishima?» Aveva chiesto poi, ridestandosi. «Quella Mishima?»
«Esattamente!»
«E come pensi che dovrei fermarlo?»
«Partecipando al Secondo Torneo del Pugno D’Acciaio, mi pare ovvio!» Era stata la risposta del giovane presidente e lei non aveva potuto controbattere per due ragioni: la prima perché era già stata iscritta alla gara ed era l’unico membro dell’Associazione che avrebbe potuto prenderne parte vista la sua conoscenza nelle arti marziali. La seconda perché desiderava incontrarlo di persona.
«Kazuya Mishima?» Lo aveva avvicinato il giorno delle presentazioni ufficiali dei partecipanti al torneo. Heihachi li aveva invitati alla sua presenza, ricordando a tutti le regole e augurando a ciascuno di loro una buona permanenza nella sua proprietà. Poi era stato inaugurato un buffet con centinaia di portate ispirate a ogni tipo di cucina nota, dall’indiana alla francese. Jun per tutto il tempo non aveva perso di vista Kazuya, primo e unico erede dell’impero Mishima. Tuttavia, anche un cieco avrebbe compreso che tra i due parenti non scorreva buon sangue. Mentre il vecchio parlava, infatti, l’altro non aveva battuto ciglia neanche una volta, rimanendo per tutto il tempo adagiato con una spalla contro una colonna e le braccia conserte. Completamente rapito dal discorso pronunciato dal padre, Jun ne aveva approfittato per scrutarlo con attenzione. Il suo obiettivo aveva un fisico possente, allenato e muscoloso; i capelli corvini, come gli occhi, erano lucidi e acconciati all’indietro; le labbra perennemente arricciate agli angoli della bocca in un’espressione sprezzante, cinica; i lineamenti del volto erano ruvidi, nonostante avesse a malapena ventotto anni.
Quando Jun lo avvicinò, chiamandolo per nome, lui si voltò indietro a guardarla, in mano teneva un bicchiere pieno a metà di una bevanda verdastra, forse tè. Sollevò un sopracciglio, forse infastidito e incuriosito che qualcuno gli rivolgesse la parola:
«Sei in arresto per traffico illecito di animali», aveva proseguito lei, sforzandosi di restare calma, sebbene l’altro fosse grosso quasi il doppio di lei. Ma non era solo quello, c’era stato qualcos’altro a mandarle tutti i sensi in allerta, un presentimento che pareva insinuarsi sotto la pelle, fin nella testa e urlarle di stargli alla larga. Kazuya aveva riso forte, attirando l’attenzione degli altri combattenti:
«E mi arresteresti tu?!» Aveva domandato senza smettere quel sorrisetto di scherno
«Sì.»
Kazuya aveva scosso la testa, ridacchiando, poi aveva lasciato il bicchiere sul tavolo e si era chinato in avanti per sussurrarle all’orecchio:
«Non vedo l’ora, Kazama. Non vedo l’ora.» Quindi era andato via, le mani nascoste nelle tasche dei pantaloni felpati e un’aria divertita, lasciando la ragazza a chiedersi come facesse a conoscere il suo nome.
Suo padre, il rispettatissimo Kazama sensei, le aveva insegnato che il fisico non è tutto in una disciplina come il karate, raccontandole di un mito biblico in cui un certo Davide aveva battuto il temutissimo Golia; che la mente domina la materia.
Jun aveva osservato Kazuya per giorni, con discrezione, imparando a memoria le sue abitudini, evitando il confronto diretto pur trovandoselo davanti, nonostante lui non perdesse mai occasione di farsi beffe di lei.
Intanto, il Torneo era cominciato ed entrambi si stavano distinguendo per i risultati ottenuti. Lei per il suo stile di combattimento, fresco e pulito; lui per l’impetuosità e – talvolta – la violenza. Un giorno, Jun si trovava nei corridoi che portavano all’arena, in attesa di combattere contro il suo prossimo avversario, quando il lottatore appena battuto da Kazuya Mishima le passò sotto agli occhi, spinto su una barella da un paio di infermieri e privo di sensi. Subito dopo, lo stesso Kazuya le si era palesato davanti, con l’aria compiaciuta. Jun si era ripromessa di non rivolgergli la parola, ma quell’espressione soddisfatta la mandò in bestia.
«Non c’era bisogno di arrivare a tanto» gli disse.
«È un debole e i deboli non meritano pietà.»
«Ma che razza di ragionamento è?!»
«Non è un ragionamento. È la vita».
A tale risposta, Jun avrebbe voluto mollargli un pugno, tuttavia quel modo di fare non le apparteneva. Ciò nonostante, temeva l’effetto che la vicinanza di quell’uomo le provocava, era una specie di fastidio fisico, simile a una leggera scossa elettrica che l’attraversava tutta, lasciandola disorientata.
«Non temere» aveva proseguito lui, «se mai dovessimo affrontarci, ci andrò piano con te.» Si mosse per oltrepassarla, arrestandosi alla sua altezza, e infine aggiunse: «Sto ancora aspettando le manette» aveva riso di gusto e se ne era andato.
 
Ecco perché, quando era riuscita a catturarlo, notando incredulità nel suo sguardo spaesato, sempre così altezzoso, non aveva potuto non sentire una punta di soddisfazione.
Kazuya era seduto sul pavimento di un vecchio magazzino, con i polsi legati fra botti di vino e caciocavalli appesi al soffitto. Dapprima aveva tentato di liberarsi, dimenandosi come un forsennato, poi aveva compreso che non ci sarebbe riuscito e perciò era passato alle minacce. Per la prima volta, Jun aveva provato paura, vera paura. Non si era trattato della consueta sensazione di disagio, di allerta, avvertita altre volte in sua presenza. In quel frangente aveva percepito terrore puro, era quasi come trovarsi di fronte a un demonio, un diavolo. Era indietreggiata, spaventata, e solo a quel punto lui era sembrato tornare in sé.
«Scusami» aveva sospirato socchiudendo gli occhi, l’aria stanca di chi ha un’enorme fardello da portare. «Hai catturato il Mishima sbagliato. È mio padre che finanzia il mercato nero degli animali per i suoi macabri esperimenti» spiegò, senza che lei glielo avesse chiesto, perdendo tra l’altro la sua abituale tracotanza. Nonostante le scuse, Jun continuò a fissarlo ammutolita, gli occhi sgranati e spauriti.
«Liberami e ti prometto che fermerò mio padre anche per te.» Nulla. «Kazama, liberami!» Non c’era pericolo nella sua voce, la sua rabbia pareva essersi placata. «Kazama?!»
Jun sbatté le palpebre un paio di volte, tornando in sé:
«Tu hai una maledizione» biascicò e questa volta toccò a lui restare senza parole. «In te alberga il gene del Male.»
Mishima non poteva crederci: quell’insulsa ragazzina di appena ventidue anni si era accorta del suo segreto più grande solo guardandolo, ma come era possibile? Che anche lei avesse poteri divini?
D’altra parte, non poteva nascondere che fin dalla prima volta che l’aveva vista aveva provato un senso di pace, di serenità interiore che non sperimentava da tanto tempo, e che forse non aveva mai provato nella sua esistenza. La sola presenza di Jun all’interno della stessa stanza riusciva ad acquietarlo.
«Sì, è così» ammise, poiché nasconderlo non avrebbe avuto senso. «Liberami, Kazama,»
«Dovrei ucciderti» soppesò lei. «Sei un pericolo per il mondo intero, dovrei ammazzarti, qui e ora…»
«Jun…» Kazuya le parlò piano, «devo fermare mio padre. Non hai idea di quanto sia pazzo quell’uomo, né di quello che ha in mente di fare. È pericoloso. Liberami, Jun. Lasciami andare. Devo andare.»
Jun cadde in ginocchio, sopraffatta dalle sensazioni discordanti che provava. Sapeva cosa andava fatto, ma non riusciva a farlo. E sarebbe stato facile anche, legato com’era…
«Com’è successo?» Chiese invece.
Lui considerò la risposta da darle e se farlo, poi capì che aveva bisogno di sapere o non si sarebbe fidata di lui.
«A cinque anni mio padre mi gettò nella bocca di un vulcano e mi disse che se fossi stato davvero degno del suo nome sarei sopravvissuto. L’ho fatto, sono sopravvissuto, ma a che prezzo?»
Jun era in lacrime, si sporse in avanti e come se volesse abbracciarlo tagliò con n coltellino a serramanico la fune che lo teneva legato. A quella vicinanza Kazuya abbassò le palpebre e respiro a fondo il buon odore della ragazza: sapeva di pioggia primaverile, di fiori appena sbocciati, di miele e vaniglia. I setosi capelli neri di lei, tagliati a caschetto e trattenuti da una fascia, gli solleticarono la guancia.
«C’è del buono in te» gli disse rimettendosi in piedi. «Non cedere a lui» concluse, andando via.
 
Una mattina all’alba Kazuya l’aveva notata nel giardino orientale che era stato il preferito di sua madre ed era rimasto in disparte a osservarla per diversi minuti, mentre si allenava da sola. Di nuovo, quel senso di calma lo aveva pervaso, alleggerito il cuore.
Entrambi erano giunti alle semifinali e sapevano che se avessero sconfitto i propri avversari si sarebbero trovati a lottare uno di fronte all’altro in finale, prima di affrontare Heihachi Mishima in uno scontro extra.
«Hai un’ottima tecnica, Kazama» si annunciò, facendola trasalire. «Hai avuto un buon sensei» aveva aggiunto, sciogliendo l’intrico delle braccia e facendo dei passi nella sua direzione.
La ragazza l’aveva seguito con lo sguardo, vigile, mentre riprendeva fiato e cercava eventuali vie di fuga.
«Mio padre» rispose ansimando per lo sforzo fisico e per l’ansia che le trasmetteva la presenza del giovane, il quale si fermò a un paio di metri da lei mettendosi in posizione di attacco. Jun non si mosse, temendo che volesse fargliela pagare per l’umiliazione di averlo catturato e legato a un palo nella cantina della cucina della sua stessa proprietà.
«So che dovrai affrontare il wrestler nel tuo prossimo incontro. È molto più grosso di te, perciò avrai bisogno di una buona tattica» le fece cenno di farsi avanti con le dita della mano e lei non si fece pregare. Lo attaccò con una serie di pugni e qualche calcio che tuttavia l’altro parò senza enormi sforzi, tenendo il suo classico sorrisetto canzonatorio sul volto, altrimenti imbronciato. D’improvviso, lui l’afferrò per il polso, glielo torse e la imprigionò con il braccio dietro alla schiena, lasciando aderire il corpo al proprio:
«Ricominciamo» le sussurrò, liberandola dalla presa.
E lei ricominciò.
Kazuya si acconciò l’asciugamano sulla nuca, sebbene non fosse sudato o stanco, al contrario di lei che sentiva ogni muscolo dolerle per lo sforzo di colpirlo a ogni costo.
«Sprechi troppe energie» constatò il giovane, passandole la borraccia con l’acqua. «Devi colpirlo alle gambe. È lì che sono più vulnerabili quelli della sua stazza.»
Jun bevve un lungo sorso di acqua fresca e aromatizzata che aveva preparato personalmente, mentre una domanda precisa continuava a tormentarla:
«Perché lo fai? Perché mi stai aiutando?» chiese alla fine, tenendo lo sguardo fisso sulla vegetazione rigogliosa che si espandeva tutt’intorno. Non riusciva a guardarlo.
«Perché ho bisogno di qualcuno che fermi Heihachi al posto mio, qualora io fallissi.» Solo allora lei si voltò di scatto nella sua direzione, gli occhi sgranati.
“Qualcuno che fermi Heihachi… o te?” Avrebbe voluto chiedergli ancora la ragazza, ma Kazuya tornò in piedi e la invitò a fare altrettanto: la pausa era finita.
 
Gli allenamenti mattutini divennero un appuntamento fisso, fino al giorno dell’incontro tra Jun e l’altro combattente e fu sempre durante questi momenti che impararono a conoscersi meglio. Soprattutto lei ebbe la conferma di quello che aveva percepito la prima volta che lo aveva guardato: c’era del buono in lui. Dietro la sua rigida corazza – il demone, con cui aveva stretto un patto di sangue – Kazuya era un uomo a tratti gentile, simpatico e generoso. Inoltre, quando sorrideva con spontaneità il volto gli si illuminava, gli occhi scuri brillavano e Jun in quegli istanti più unici che rari pensava che si sarebbe potuta innamorare follemente di lui.
Ammesso che tu non lo sia già”, le sussurrava la sua stessa voce nella mente.
Come quando il giovane Mishima le aveva domandato come avesse fatto a catturarlo. Lei gli aveva raccontato che lo aveva sedato mettendo alcune gocce di sonnifero per bestie nel suo tè, quello che beveva dopo gli allenamenti pomeridiani, e che aveva dovuto aumentare la dose di qualche milligrammo giorno dopo giorno, giacché sembrava non avere effetto su di lui. Poi, stanca e infastidita da quella situazione, aveva versato quasi tutta la boccetta e lui era crollato al suolo al primo sorso, tanto che aveva temuto di averlo ucciso. Era stato allora che Kazuya era scoppiato in una risata allegra, a bocca aperta e occhi chiusi, sdraiandosi di schiena e sorreggendosi la pancia in maniera plateale:
«Uccidermi? Tu?» Le aveva appoggiato una mano sulla testa mentre lei lo fissava corrucciata: perché non la prendeva mai sul serio? «Non saresti capace di far male a una mosca.»
E aveva ragione.
Poi arrivò il giorno della semifinale, la prima delle due fu disputata tra Jun e il wrestler con la maschera da tigre. La giovane lottò con tutte le proprie forze, ma l’altro era davvero troppo forte e troppo grosso per lei, perciò alla fine si arrese. Quello che però non sapeva – che non sapeva nessuno dei combattenti – era il patto che Heihachi aveva stretto con il lottatore americano: uccidi la ragazza e avrai una somma di denaro tale da poter accudire tutti gli orfani del mondo. Il wrestler doveva aver pensato che una vita sacrificata non è nulla se paragonata a quella di centinaia di bambini poveri e affamati, ecco perché avrebbe spezzato il collo di Jun senza remore se Kazuya non fosse intervenuto in sua difesa.
In realtà, non era proprio Kazuya, non nelle sue fattezze umane comunque, poiché, attraverso la vista appannata dalla mancanza di ossigeno per la strangolatura, Jun aveva notato due grosse ali violacee atterrare vicino a lei.
Quando dagli spalti il giovane leader della Mishima Zaibatsu aveva inteso le intenzioni del combattente, il quale si era appena scambiato un cenno di intesa con il vecchio Heihachi sebbene avesse vinto il macht, l’ira si era impadronito di lui ed era letteralmente volato al centro del ring, allontanando l’americano con un calcio in pieno stomaco e raccolto tra le braccia una Jun semicosciente che aveva bisbigliato il suo nome prima di abbandonarsi contro il suo petto:
«Kazuya…»
Quest’ultimo aveva lanciato un’occhiata rabbiosa verso la tribuna d’onore, dove su un trono dorato sedeva suo padre e si era dileguato con un battito d’ali, lasciando tutti i presenti in assoluto silenzio.
Heihachi aveva notato il rapporto sbocciato fra loro due e aveva cercato di eliminare il problema a monte. Tipico di lui.
 
Jun aprì gli occhi all’alba del giorno dopo, cullata dal fruscio della pioggia sugli alberi e dal ticchettio sul patio di legno. Kazuya era seduto proprio qui, sul primo scalino, i gomiti adagiati sulle ginocchia e il mento sorretto dalle mani chiuse una nell’altra, lo sguardo era fisso sul cielo grigio.
La ragazza uscì dal caldo del futon, indossava una felpa scura, decisamente troppo grande per il suo fisico esile; le gambe snelle erano nude. Coi piedi scalzi raggiunse Kazuya e gli si accomodò accanto, reagendo con un brivido alla fresca pioggia primaverile. Si tirò le maniche fino a nascondersi le mani all’interno e si coprì il capo con il cappuccio. Lui l’attirò a sé senza pronunciare parola e le strofinò la schiena per riscaldarla. Jun smise di tremare: il corpo dell’uomo era tiepido e rassicurante
«Ho perso» sospirò.
«Era troppo grosso e le sue motivazioni più forti delle tue.» Il tono di lui risultò monocorde, freddo, ma non c’era biasimo nella sua voce.
«Mi avrebbe uccisa se non fossi intervenuto.»
«Mio padre la pagherà anche per questo.»
«Ma perché io? E per la denuncia sul traffico illecito di animali?»
Kazuya sorrise, scuotendo il capo e abbassando lo sguardo per guardarla, ma senza muovere la testa. A volte quella ragazza era di un’ingenuità sconcertante.
«No, l’ha fatto per colpire me.»
Jun non aggiunse altro, temendo di risultare stupida se gli avesse chiesto in che senso. Osservò invece la vegetazione bagnata di pioggia, il suo verde brillante, ispirando l’odore di terra bagnata che tanto amava. Erano nel giardino in stile orientale che li aveva scoperti compagni di allenamento in quel periodo. Ma ora che il torneo stava giungendo al termine, cosa ne sarebbe stato di loro?
«Non conoscevo questo angolo di giardino. È molto bello» osservò la ragazza, restando con la testa sulla spalla di Mishima.
«Questo era il dojo di mia madre» spiegò lui.
«Lei è…?»
«Morta. Uccisa da mio padre.»
Jun si ridestò, le lacrime agli angoli degli occhi pensando a quanta sofferenza avesse dovuto sopportare la persona che le stava di fronte durante la sua vita.
«Ed è per questo motivo che devi promettermi che concluderai il lavoro per me, se io non dovessi riuscirci» affermò lui tutto d’un fiato, scuotendola per le spalle.
«Lavoro? Che lavoro?»
«Uccidere Heihachi Mishima.»
«Smettila! Tu non sei come lui, tu non sei un assassino!»
Kazuya avrebbe voluto risponderle che era anche peggio di un killer spietato, almeno sarebbe stato umano, invece si strappò la canotta nera che indossava, mostrando la cicatrice che correva da parte a parte del petto, pulsava simile a un essere vivente: Devil.
«Io-devo-ucciderlo!» Scandì trattenendo la rabbia.
Jun si portò le mani davanti alla bocca. Nonostante si fossero avvicinati molto in quegli ultimi giorni, non aveva mai visto la cicatrice, o meglio: non gliel’aveva mai mostrata.
«Ha ucciso mia madre, ha gettato me da un dirupo, condannandomi per sempre a questa maledizione. Avrebbe ucciso te se non l’avessi fermato. Lo capisci ora?» Kazuya allungò una mano per accarezzarle il volto rigato di lacrime che asciugò con un polpastrello. «Io devo fermarlo» ripeté con maggiore pacatezza.
Jun in tutta risposta gli sfiorò il petto, soffermandosi sulla pelle lacerata della cicatrice attraverso la quale Devil era penetrato nel suo corpo. Lo sentiva il demone che dimorava oltre quello strato di pelle, se chiudeva gli occhi poteva addirittura vederne i lineamenti, così dannatamente simili a quelli dell’uomo che lo ospitava.
«Tu non sei lui. Tu non sei Devil e so che hai abbastanza forza di volontà per sopraffare il suo volere.»
«Magari fosse vero, piccola Jun. Magari.» Kazuya si sporse in avanti per baciarla prima sulla fronte, poi su entrambe le guance bagnate di lacrime e dal sapore salato e infine sulla bocca. Lei abbassò le palpebre e schiuse le labbra, lasciando che le loro anime finalmente si incontrassero, poi si puntellò sulle ginocchia quel tanto che bastava per scavalcarlo con una gamba e accomodarglisi in grembo, cavalcioni. Tirò via la felpa e rimase in mutandine; tastandogli il volto con i polpastrelli, osservando attentamente il suo profilo, simile a un cieco che vuole memorizzare il volto di un caro e scolpirlo per l’eternità nella propria mente. Riprese a baciarlo con trasporto, mentre lui le cingeva la schiena nuda con entrambe le braccia, quindi si sollevò sorreggendola con uno sforzo minimo e la distese di schiena sul futon, tirandosi via i brandelli della canotta scura che aveva squarciato pocanzi. La studiò per qualche secondo, prima di sdraiarsi su di lei e prendendo a baciarle il volto, i seni, il ventre e oltre, più giù, esplorandola con movimenti lenti e ricercati.
Jun trattenne un gemito mordendosi il labbro inferiore quando lo sentii chiaramente squarciarle l’anima, entrarle dentro e muoversi senza urgenza, godendosi ogni attimo di quel momento. Era come quando gli stava vicino e provava due emozioni contrastanti, così diverse che tuttavia non si escludevano l’un l’altra, ma avevano imparato a coesistere: inquietudine e serenità; piacere e dolore in quel caso. Adesso comprendeva la frase del giovane Mishima, secondo cui suo padre aveva attentato alla propria vita per colpirlo personalmente.
Rimasero nel dojo per un giorno intero, facendo l’amore altre due volte e fingendo che tutto andasse bene, poi la mattina del giorno dopo si svegliò e non lo trovo più sdraiato accanto a lei: era arrivato il momento di fare i conti con il destino.
 

 
§


Kazuya aveva battuto il suo avversario nella finale del Torneo e ora stava combattendo contro Heihachi in uno scontro extra per la leadership della Mishima Zaibastu. Quando Jun arrivò sulle pendici del vulcano, Devil aveva preso le sembianze del suo amante e avrebbe incenerito Heihachi con un raggio laser sparato dagli occhi se non lo avesse fermato:
«Kazuya no! Tu non sei così, tu non sei il demone!»
Kazuya era tornato in sé, quasi spaesato. Non se lo sarebbe mai spiegato, ma quella ragazza aveva il potere di acquietare il mostro che si portava dentro. A volte si era ritrovato a pensare che avesse poteri angelici, simili e opposti ai suoi. In ogni caso, questo effetto lo procurava solo a lui, di sicuro non aveva potere sul vecchio Mishima, il quale approfittò della distrazione del figlio per stordirlo con una serie di colpi ben assestati.
«Che delusione» gli disse col tono beffardo. «Debole, come tua madre» Lo avrebbe scaraventato nella bocca della montagna a suon di calci e pugni se Jun non si fosse scaraventata contro di lui.
Heihaci Mishima però si era dimostrato troppo forte per lei. L’aveva liquidata in pochissimo tempo prima di tornare a occuparsi di suo figlio, che adesso teneva per il collo, sospeso nel vuoto, mentre lei si reggeva a malapena sulle gambe.
«Vattene Jun! Vattene!» La voce graffiata dal dolore di Kazuya arrivò appena percettibile. Era finita, sapeva che non ci sarebbe stato nessun miracolo a salvarli, non per loro.
«Ti amo Kazuya! Mi hai sentita? Ti amerò per sempre!» Urlò Jun Kazama, piangendo di dolore, rabbia e frustrazione, poi girò i tacchi e corse via.
«Ah, l’amore! Che forza misteriosa. Peccato non serva a nulla, solo a renderci più deboli.» Heihaci tornò a guardare suo figlio con l’aria tronfia. «Non sei d’accordo, Kazuya?»
«La pagherai per tutto, Heihaci.»
«Addio, figlio!» Concluse il vecchio, mollando la presa alla gola del giovane che precipitò nel vuoto, per la seconda volta nella sua vita.
 
Sarebbero trascorsi ben 18 anni dal terzo Torneo del Pugno d’Acciaio, al quale avrebbe partecipato Jin Kazama: figlio di Jun e Kazuya. E nipote di Heihachi Mishima.


 
ƒine
 

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Capitolo 4
*** Come un abbraccio [Aprile - Domestic Fluff - Jin&Jun] ***


Questa storia partecipa alla To be Writing Challenge indetta da Bellaluna sul forum di Ferisce la Penna.
Mese: aprile
Tema: domestic fluff
Per questo mese ho scelto il tema domestic fluff, in cui bisognava raccontare la quotidianità famigliare e mi è subito tornato in mente l’anime di Tekken, dove vediamo appunto la placida routine di Jin e sua madre Jun…
 



Come un Abbraccio

 
Lo scuolabus frenò alla solita fermata e le porte a soffietto si aprirono con uno sbuffo. Jin Kazama scese con agilità i tre scalini del veicolo, salutò il conducente e si acconciò meglio la spallina dello zaino che gli pendeva da una spalla sola. Sua madre lo rimproverava spesso per quel suo modo di portare la cartella della scuola e, sebbene lui rispondesse che era una cosa che facevano tutti, che andava di moda e gli donava un’aria più da duro, più da figo, lei non voleva sentire ragioni: se lo zaino era stato creato con due tracolle un motivo c’era. 
«E ricorda», aggiungeva, «l’Equilibrio e l’Armonia…»
«… delle cose è importante. Sì, mamma, lo so!» Finiva stufato la frase per lei il giovane Jin.
Per sua madre era tutta una questione di insegnamento sull’Armonia e l’Equilibrio che reggevano il mondo, senza i quali sarebbe sprofondato nel caos più totale. 
 
Jin Kazama attraversò la strada è s’inoltrò nella fitta boscaglia che si estendeva a perdita d’occhio, infilando anche l’altro braccio nella spallina della sua borsa scolastica, prima che Jun potesse vederlo e fargli una ramanzina. 
L’aria si fece più pesante a mano a mano che raggiungeva il cuore della foresta, dove l’umidità era quasi tangibile e i rumori della città sempre più lontani, ovattati quasi. Ogni tanto Jin udiva il cinguettio di qualche uccello o il frullio delle ali quando svolazzava da una fronda all’altra, ma nulla più.
I compagni a scuola lo prendevano in giro, gli avevano anche affibbiato un soprannome, ma nessuno aveva avuto il coraggio di dirgli in faccia quale fosse. Certo, vivere in mezzo al bosco, con una mamma sola e giovanissima, destava pregiudizi e l’insaziabile curiosità malata della gente per bene, convenzionale. Ma a lui poco importava, adorava la sua vita semplice e non l’avrebbe cambiata per nulla al mondo.
 
D’un tratto, il sentiero fitto di alberi secolari e arbusti bassi si aprì, rivelando una splendida radura illuminata dai tiepidi raggi primaverili. Al centro, vi era una casa in legno, con tendine chiare alle finestre e il camino fumante, segno che il pranzo stava già cuocendo. Jin entrò nell’abitazione senza bisogno di usare la chiave, giacché la porta d’ingresso era sempre aperta: altra nota positiva di vivere isolati dal mondo.
«Sono a casa!» Disse, lasciandosi scivolare lo zaino dalla schiena. 
«Bentornato, tesoro!» Jun gli sorrise, riempiendo due ciotole di riso. «Lavati le mani, è pronto!» Aggiunse, accomodandosi al piccolo tavolo che contava quattro sedie, nonostante non avessero mai ospiti. In fondo, non avevano confidenza con gli abitanti della cittadina, e di certo nessuno avrebbe accettato alcun invito: sono strani, dicevano. 
Jin aggiunse alcuni ingredienti al riso, sparpagliati nei contenitori di ceramica sul tavolo quadrato, per lo più carne. 
«Non dimenticare le verdure» gli fece notare sua madre. «Per avere un pranzo equilibrato…»
«Sì mamma, lo so» sospirò il giovane.
«A scuola tutto bene?»
«Sì.» 
«Hai compiti per domani?»
«Inglese e matematica.» Jin la guardò da sopra la sua porzione di cibo. «Però, vorrei prima-»
«No» fu la risposta perentoria di Jun, la quale aveva già finito di mangiare, perciò si alzò e lasciò il proprio piatto con le bacchette nel lavandino, incrociando le braccia sotto al seno e sorridendogli con dolcezza. «Lo sai come funziona, è il nostro patto…» 
«Prima il dovere, poi il piacere» recitò a memoria il ragazzo, abbozzando un sorriso a sua volta «Però, devi promettere che mi insegnerai quel calcio rovesciato che mi hai fatto vedere ieri.» 
«Il Ryu-Un-Tsui intendi?» Jun ridacchiò, felice che suo figlio si fosse appassionato alle arti marziali – d’altronde, con due genitori come loro non c’era da meravigliarsi. E, soprattutto, di avere qualcuno a cui tramandare lo stile della sua famiglia.
Lo Stile Kazama. 
Gli prese la ciotola dalle mani, l’adagiò nel lavabo con la sua e cominciò a lavarle.
«Mettiti a studiare. Appena hai finito, te lo insegnerò.»
«Sì!» Jin accompagnò l’esclamazione con un movimento secco delle braccia e le mani chiuse a pugno. Corse a prendere lo zaino e si mise subito sotto con i compiti che gli erano stati assegnati quel giorno. 
 
Jun Kazama intanto si dedicò al riassetto della cucina, canticchiando una dolce melodia della sua infanzia, assaporando la tranquillità placida – e anche un po’ banale – di quella routine che si era costruita nel tempo. Un senso di pace e di benessere interiore che ormai si ripeteva giorno dopo giorno, sempre uguale e per questo rassicurante. Simile all’abbraccio amorevole di una persona cara.
L’abbraccio di una madre. 
Quella era la loro normalissima quotidianità famigliare e non l’avrebbero barattata per nulla al mondo…



 
fine
 

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Capitolo 5
*** Coinquiline Diverse [maggio - Roommate! AU - Xiaoyu, Asuka, Lili, Jin, Hwoarang] ***


Questa storia partecipa alla To be Writing Challenge indetta da Bellaluna sul forum di Ferisce la Penna.
Mese: maggio
Tema: Roommate! AU
Per questo mese ho scelto un universo AU, quello degli inquilini. Ho provato ad immaginare i giovani della saga Tekken – Xiaoyu, Lili, Asuka, Jin, Hwoarang – alle prese con la convivenza e la vita da comuni mortali… più o meno!
Buona lettura,
Nina^^

 
 
 
Coinquiline Diverse
 
 
Asuka Kazama entrò in bagno subito dopo Lili, bofonchiando qualcosa circa il tempo esagerato che la coinquilina bionda ci aveva impiegato per prepararsi. Chiusasi la porta alle spalle, però, il disordine che vi trovò all’interno la mandò su tutte le furie. Afferrò al volo il piccolo rettangolino di stoffa rosa confetto gettato alla rinfusa sul bordo della vasca e uscì dalla toilette più arrabbiata di quanto vi era entrata. Percorse a ritroso il lungo corridoio, con falcate lunghe e pesanti, le braccia irrigidite e le mani strette a pugno, urlando il nome di Lili come farebbe una mamma adirata con il proprio pestifero figlio. La trovò in cucina, i capelli raccolti in un asciugamano arrotolato in testa, l’accappatoio – troppo rosa – chiuso in vita da una cinta e un vasetto di yogurt alla fragola fra le mani.
«Lili!» Tuonò. Questa la guardò con aria ingenua, mentre si portava un cucchiaino di yogurt rosato e cremoso in bocca.
Anche Xiaoyu si trovava in cucina in quel momento, seduta a gambe incrociate ai piedi del divano, con un quaderno in grembo e alcuni libri sparsi sul pavimento. Sollevò la testa per capire cosa stesse succedendo, sebbene lo immaginava già: quella era una scena alla quale le sembrava di assistere quotidianamente.
«Ti ho detto mille volte che non siamo le tue cameriere!» Asuka assottigliò gli occhi castani, fissando la ragazza bionda dritta nei suoi azzurri.
«Excuse moi, non capisco» rispose quest’ultima, con quel suo forte accento francese che infastidiva Asuka più di ogni altra cosa in lei.
«Sì che capisci, invece! Le mutande, il reggiseno e i vestiti sporchi non vanno lasciati sul pavimento o nel lavandino dove mi lavo i denti!» Così dicendo, la giapponese le buttò in faccia le mutandine striminzite di pizzo rosa che aveva raccolto pocanzi.
Lili le afferrò al volo e lasciò lo yogurt che stava mangiando sul tavolo, avanzando per fronteggiare Asuka Kazama. Erano alte uguale, ma completamente diverse.
«Tu sei una pervertita! Tocchi sempre le mie cose, le mie mutande!»
Asuka divenne paonazza fino alle orecchie.
«I-io cooosa
«Ok, basta! Calmatevi!» Xiaoyu scattò in piedi e si mise fra le due ragazze che, diversi centimetri più alte di lei, continuavano a fissarsi in cagnesco, pronte a mordersi.
Xiaoyu era la più mingherlina delle tre, ma non per questo meno tenace. Lei e Asuka convivevano ormai da un annetto e non avevano mai avuto problemi. Era stato Jin Kazama a farle conoscere e a proporle Asuka come compagna con la quale dividere le spese della casa. Jin le aveva assicurato che non avrebbe avuto grattacapi: Asuka era sua cugina di primo grado, figlia del fratello della defunta e cara madre, semplicemente aveva bisogno di un alloggio per frequentare i corsi della Mishima Zaibatsu University. Le due si erano conosciute e andate bene a vicenda. I problemi erano cominciati da qualche mese a quella parte, quando l’università aveva assegnato al loro alloggio – uno dei pochi trilocali convenzionati con l’apparato universitario –una studentessa francese in Erasmus lì in Giappone.
Emilie “Lili” De Rochefort, si era presentata alla loro porta seguita da due energumeni vestiti di nero, i quali, senza spiccicare parola, avevano portato in casa decine di valigie corredate di beauty case dai più tenui colori pastello.
«La mia stanza?» Aveva chiesto la ragazza, con quel tipico accento d’oltralpe dalla R strascinata, troppo simile a una V nella pronuncia.
«Ehi, ma chi-?» aveva cominciato Asuka, ma Xiaoyu l’aveva bloccata quasi immediatamente, indicando la strada alla nuova arrivata:
«In fondo al corridoio, a destra.»
«Grazie! Allons-y!» Lili si era poi rivolta ai due uomini ed era sparita nella sua nuova stanza, mentre le altre ragazze, dai tratti tipicamente orientali, avevano assistito inermi a una sfilata di trolley colorati, incantate dalla loro nuova coinquilina, assolutamente differente dal proprio modo di essere, in tutto. Dall’abbigliamento da bambola da collezione, con un vestito di un rosa candido dall’orlo merlettato e un grosso fiocco al collo; bellissimi stivali alti al ginocchio di pelle bianca e morbida; la carnagione levigata e rosea; grandi occhi azzurri; labbra rosate e carnose; i capelli… Capelli come quelli Xiaoyu e Asuka non li avevano mai visti: lunghi, biondi, setosi. Tanto che la cugina di Jin si era chiesta se non indossasse una parrucca.
Il rapporto fra Asuka Kazama e Lili Rochefort era degenerato quasi subito. La francese ci metteva troppo tempo in bagno, lasciandolo in disordine ogni volta che lo usava, né si preoccupava di raccogliere la biancheria sporca che lasciava ovunque. Inoltre, una volta a settimana una domestica si presentava a casa loro per ripulire la sua stanza da cima a fondo e fare al posto suo le pulizie di casa che invece sarebbero spettate a lei nel turno settimanale. Puntualmente, Lili chiedeva alle due ragazze se desiderassero che la donna si occupasse anche delle loro stanze.
«No, grazie» rispondeva piccata Asuka.
«Pago io» aggiungeva Lili con quella sua falsa aria da ingenua, mandando in bestia l’altra.
Per questi mille motivi, Xiaoyu si era ormai abituata al litigio al quale stava assistendo in quel preciso momento, sapendo benissimo che l’ago debole della bilancia era la cugina di Jin, fin troppo facile all’ira.
Asuka, infatti, era incline a perdere le staffe, al contrario di Lili che pareva mantenere un self control invidiabile in qualunque situazione, cosa che – manco a dirla – faceva imbestialire ancor di più la giapponese.
Erano diverse, l’una l’opposto dell’altra. A volte, Xiaoyu le studiava di soppiatto, domandandosi come fosse possibile che al mondo esistessero persone tanto differenti, in tutto.
Lili era una ragazza bellissima, quanto un’attrice di Hollywood, così femminile e ben educata che sembrava appena uscita da uno di quei college ottocenteschi, dove le famiglie facoltose mandavano a studiare le proprie figlie affinché diventassero delle vere principesse. Aveva un fisico da far invidia alle indossatrici di abiti firmati, un viso dai lineamenti perfetti, un naso tondo con la punta all’insù, labbra dai contorni delineati e occhi azzurro mare contornati da folte ciglia. Somigliava a una top-model, di quelle che si vedono sulle copertine dei giornali occidentali. Inoltre, indossava sempre vestiti stupendi, eleganti e raffinati, anche solo per stare in casa. Xiaoyu non l’aveva mai vista con addosso una tuta spaiata, o i capelli fuori posto. Al contrario di Asuka, che invece aveva una specie di casco marrone in testa – non andava mai da un parrucchiere, se li tagliava personalmente i capelli quando crescevano troppo e cominciavano a ricaderle sugli occhi – mai un filo di trucco né un gioiello ad abbellirle il viso acqua e sapone. Xiaoyu non l’aveva mai vista indossare un vestito elegante o anche solo lontanamente femminile o che, almeno, risaltasse il fisico asciutto o una curva provocante. Asuka, sia in casa che fuori, metteva addosso solo ed esclusivamente abiti comodi: tute, t-shirts, pantaloncini, scarpe basse.
Finalmente, Xiaoyu riuscì a tirare indietro Asuka e a trascinarla con sé lungo il corridoio, mentre la giapponese prometteva a Lili di fargliela pagare:
«Stupida francese del cavolo!»
«Basta, Asuka!» Xiaoyu si portò entrambe le mani sui fianchi e la fissò dal basso verso l’alto.
«Non è colpa mia! Continua a lasciare le sue cose sparse per il bagno e non lo sopporto!»
La cinesina sospirò e con tutta la pazienza di cui era capace cominciò a raccogliere il resto dei vestiti di Lili lasciati alla rinfusa nel bagno, appallottolandoli nel cesto dei panni sporchi. Asuka la guardò con un senso di vergogna e si scusò.
«Preparati, è già tardi» infine si richiuse la porta della toilette alle spalle, lasciandovi Asuka al suo interno. Incrociando la francese lungo il corridoio disse anche a lei di vestirsi: tra poco sarebbero arrivate le pizze.
«E le birès
«Sì, anche quelle» sospirò Xiaoyu, già stanca.
 

 
*
Al trillo del campanello fu Xiaoyu ad alzarsi dal divano per andare ad aprire. Sapeva benissimo chi fosse, eppure provò quella sensazione di vuoto allo stomaco che si può sentire affrontando una ripida discesa sulle montagne russe.
Jin la oltrepassò con la sua solita aria imbronciata, brontolando un “ciao” appena udibile. Subito dietro di lui c’era Hwoarang, il suo coinquilino coreano, sorridente e baldanzoso come sempre. Sollevò i cartoni squadrati che teneva con entrambe le mani, ancora caldi e che emanavano un profumino irresistibile.
«Abbiamo le pizze!» Esclamò felice.
«E le birès?» Lili si affacciò dalla cucina, bella e luminosa. Una stella del firmamento.
«Ce le ho io» rispose Jin, adagiando sul tavolo la busta di stoffa colorata che conteneva due confezioni da sei di Asahi, la birra giapponese più famosa al mondo.
«Merci beaucoup!» La francese batté le mani un paio di volte, prima di lasciare un bacio infantile e fugace sulla guancia destra del ragazzo moro, il quale rimase impassibile.
Xiaoyu, assistendo alla scena, un pochino si incupì.
Asuka li raggiunse dalla sua camera, sbadigliando e perennemente annoiata. Salutò i due ragazzi, evitando di proposito di guardare Lili.
Mangiarono, parlarono dei prossimi esami e impegni vari che attendevano ciascuno di loro; soprattutto bevvero birra, alzando le bottiglie al cielo ogni qual volta qualcuno di loro ne stappava una nuova, brindando a loro stessi, al futuro e all’amicizia. Il mormorio della schiuma bianca che fuoriusciva dal collo della bottiglia appena aperta, la goccia di birra che lentamente scivolava agli angoli della bocca e ripulita con il dorso della mano – un gesto istintivo e tribale – li rendeva ebbri e spensierati. Privi di crucci, responsabilità o timori per un futuro che stentava ad arrivare, incerto e lontano. Distante.
Finirono di cenare e fiaccati dall’alcool che avevano bevuto, ognuno parve ritornare nel proprio torpore, con una Asahi a metà e preso da qualche notizia irrilevante che scorreva in quel momento sullo schermo del proprio cellulare. Poi Lili si assentò un istante, tornando con una piccola scatola che sbatté di proposito sulla superficie del tavolo per richiamare l’attenzione di tutti.
«Et voilà!» esclamò.
«Che cos’è?» Xiaoyu si avvicinò incuriosita, leggendo ad alta voce ciò che era riportato a caratteri cubitali e colorati sul lato superiore della piccola scatola rettangolare: «”Obbligo o Verità”».
«È un gioco fantastique!» Lili pareva emozionata e su di giri, complice anche la birra bevuta.
«Wow! Saranno anni che non ne vedevo uno!» Aggiunse Hwoarang.
«Lo conoscete?» Chiese la francese, prendendo le carte contenute all’interno della confezione.
«Penso che tutti ci abbiano giocato almeno una volta nella vita» Asuka sbadigliò, non le piacevano molto i giochi come quelli, nei quali dovevi mettere a nudo la tua anima, rivelare i tuoi segreti.
«Io non lo conosco» intervenne Jin, serissimo, e gli altri risero: era il solito asociale, per questo Lili glielo spiegò velocemente, con quel suo mischiare le due lingue.
«A turno si pesca una carta, decidendo fra un obbligo o una veritè
«Tutto qui?» Jin Kazama sembrò deluso.
«Oui! Tutto qui!»
Spostarono il divano, spingendolo contro la parete libera, e distesero sul pavimento una grossa coperta matrimoniale, in cerchio vi si sedettero sopra e posero le carte al centro.
«Chi vuole cominciare?» Chiese Lili.
«Comincio io!» Hwoarang bevve un lungo sorso di birra direttamente dal collo della bottiglia. «Verità» annunciò, prima di pescare una carta e leggere ad alta voce la domanda che vi era riportata. Sorrise beffardo:
«”Dove è stato il posto più strano in cui hai fatto all’amore?”»
Ci pensò su qualche secondo, le ragazze lo guardavano divertite, Jin lo fissava di sottecchi.
«Nella stanza delle scope» disse alla fine, bevendo un altro po’ di Asahi.
«Ma che posto è?» Fece Xiaoyu, ridendo.
«Ehi, io ho risposto. Adesso tocca a… te!» Hwoarang indicò Asuka seduta alla sua sinistra.
«Benissimo!» La ragazza mimò il gesto di rimboccarsi le maniche, sebbene indossasse una canotta bianca, poi pescò dal mazzo degli obblighi. Non avrebbe mai rischiato di scegliere una verità e ritrovarsi una di quelle domande super imbarazzanti e private di fronte a persone che la conoscevano fin troppo bene. Senza contare la presenza di suo cugino Jin, poi…
Ma ben presto si rese conto che gli obblighi non erano da meno delle scomode domande. Leggendo la frase che era trascritta sul cartoncino, il volto si colorò di rosso, ripose la carta a testa in giù e con voce impacciata sentenziò che non lo avrebbe mai fatto!
«Ma cosa c’era scritto?» Xiaoyu quasi piangeva dalle risate vedendo la faccia dell’amica. Lili prese la carta che Asuka aveva lasciato sulla coperta e lesse ad alta voce:
«Donna: Togliti il reggiseno. Uomo: Togliti le mutande.» La francese fece spallucce, mettendo di nuovo giù la domanda. «Tutto qui? Qual è il problema?»
Asuka Kazama la fulminò con lo sguardo, imbarazzata come non lo era stata mai.
«E dai, Asuka!» Xiaoyu tentò di convincerla. «Ci stiamo divertendo, è un gioco!»
«Tu sei ubriaca!» constatò la giapponese e l’altra annuì: sì, lo era. «D’accordo… che palle!» Asuka si slacciò il reggiseno – semplice e bianco, di cotone, sportivo – e lo tenne con un indice per le spalline, poi la lanciò alle sue spalle. «Contenti?»
«Assolutamente!» Hwoarang sorrise sornione, scrutando senza ritegno o vergogna alcuna la forma tonda e soda dei bei seni fasciati dalla candida canotta aderente. Asuka lo costrinse a voltarsi dall’altra parte premendogli una mano sulla faccia, ma stava sorridendo anche lei.
Adesso era il turno di Jin, il quale era rimasto in silenzio e inespressivo fino a quel momento. Attesero che scegliesse il mazzo da cui pescare e alla fine optò per la verità: l’obbligo sarebbe stato troppo pericoloso…
Si schiarì la voce e lesse:
«”Se dovessi scegliere una persona di questo gruppo, con chi andresti su un’isola deserta?”» Jin chiuse gli occhi, si prese qualche secondo e poi rispose: «Asuka.»
«Tua cugina? Cioè, sceglieresti tua cugina?!» Quasi urlò Hwoarang, tra lo sbalordito e il divertito.
«Sì, così non avrei responsabilità nei suoi confronti ed è una che se la sa cavare anche da sola» spiegò Jin, senza scomporsi.
«Razionale» gli fece eco Lili, mentre Hwoarang spiava la dolce Xiaoyu seduta dinnanzi a lui. La cinesina teneva lo sguardo basso e l’espressione mogia. Ora toccava proprio a lei e poiché non si smuoveva dal suo stato di trance, il ragazzo si allungò per adagiarle un palmo sul ginocchio, scuotendola con delicatezza. Lei sollevò lo sguardo, come svegliandosi da un lungo sonno a occhi aperti, e sbatté le palpebre un paio di volte.
«Tocca a te» le disse.
«Ah, sì! Giusto! Scusate…»
Anche ad Asuka si strinse il cuore notando la reazione dell’amica alla risposta di Jin. Suo cugino era proprio un idiota! Come faceva a non comprendere i sentimenti di Xiaoyu nei suoi confronti, eppure si conoscevano da tempo. Perfino lei, che in quelle cose era una schiappa, si era accorta di cosa provasse la cinese la prima volta che si erano incontrate. Il suo amore era così limpido e palese che se ne sarebbe reso conto anche un bambino delle scuole elementari!
D’istinto Xiaoyu prese una carta dal mazzo delle verità, senza pensarci su troppo a lungo.
«”Sei innamorata?”» Le chiedevano le parole che lesse ad alta voce, il suo tonò risultò piatto, senza alcuna cadenza, ricordava la voce registrata di una segreteria telefonica. Atono.
«Sì» disse solo, senza aggiungere altro, né un sorriso, né una smorfia particolare. Neanche alzò lo sguardo mentre riponeva la carta su quelle già scelte.
«Tocca a me!» Esclamò Lili, euforica. Al contrario di chi l’aveva preceduta, la francese tentò la sorte e pescò un obbligo. Amava le sfide concrete e non sapere cosa l’aspettava le trasmetteva una scarica di adrenalina sfrenata.
«”Bacia la persona che ritieni più attraente di questo gruppo”» recitò la frase come se fosse una filastrocca.
Gli altri si misero tutti sull’attenti e in guardia. Hwoarang si sistemò il colletto della camicia, passandosi una mano fra il ciuffo rosso che gli ricadeva di continuo sulla fronte; Xiaoyu sentì il cuore mancare un battito: e se avesse baciato Jin e avessero scoperto che si piacevano?
Ti prego” supplicò dentro di sé, “ti prego, fa di no, fa di no…”.
Asuka, la quale sedeva proprio di fronte alla francese e tra i ragazzi, muoveva velocemente gli occhi tra lei e i due, chiedendosi chi avesse scelto, chi riteneva più… attraente. Jin, dal canto suo, sembrava calmissimo, dimostrando un aplomb che avrebbe fatto invidia a una guardia svizzera.
Lili si sporse in avanti, muovendosi carponi, senza preoccuparsi di urtare i due mazzi di carte al centro del cerchio e spandendole tutte intorno. Somigliava a un gatto persiano, di quelli con il pelo lungo e fluente. La chioma bionda scivolò in avanti, sinuosa, le labbra rosate accennavano a un sorrisetto beffardo, divertito. Per un attimo parve rivolgere le sue attenzioni verso Jin, invece socchiuse le palpebre e adagiò la bocca su quella di Asuka.
«Spettacolare!» Esclamò Hwoarang, battendo i palmi e scuotendo la testa, sorridendo.
Xiaoyu si coprì il volto con le mani, sollevata che non avesse scelto Jin, il quale continuò a crogiolarsi nella sua impassibilità.
Asuka, invece, spalancò gli occhi, avvertendo chiaramente la morbidezza delle labbra di Lili premute contro le sue. Passarono alcuni secondi – che alla giapponese dovettero sembrare ore -, poi la ragazza bionda si tirò indietro riaprendo i suoi occhioni azzurri e puntandoli in quelli della coinquilina, quest’ultima letteralmente di sasso. Lili sorrise con quella sua aria ingenua, manco avesse fatto la cosa più naturale di questo mondo. Tornò al suo posto e chiese con voce squillante:
«Un altro giro?».
All’unisono decisero che per quella sera poteva bastare.
 

 
*
Jin osservava l’interno della stanza dal balconcino che sporgeva nel cortile condominiale. Era uscito a prendere una boccata d’aria fresca e nel frattempo osservava gli altri che erano rimasti in casa.
Asuka si era defilata dopo un po’, affermando che aveva da studiare ancora un paragrafo per il giorno successivo, ma Jin sapeva benissimo che non aveva alcuna lezione la mattina seguente, poiché erano iscritti allo stesso corso universitario.
Nel soggiorno/cucina c’erano quindi Hwoarang, Xiaoyu e Lili. Le due ragazze avevano preso di mira il povero malcapitato mentre giocherellavano con i suoi capelli color arancio, acconciandoli in mille modi diversi e tutti tremendamente ridicoli. Sembravano divertirsi, soprattutto Xiaoyu, il cui sorriso era tornato sul suo volto dopo l’uscita infelice di Jin Kazama.
Hwoarang lanciò un’occhiata proprio nella sua direzione, si guardarono, poi Jin si voltò, dandogli le spalle e guardando il cielo scuro, senza stelle.
Il tintinnio dello scacciapensieri gli annunciò l’arrivo dell’amico. Attese che si accendesse una sigaretta e ne aspirasse la prima boccata, pronto a rispondere alle sue domande, le quali non tardarono ad arrivare, appunto.
«Sei un insensibile» gli disse il rosso.
«Se lo dici tu» fu la risposta di Jin Kazama, il quale non si girò neppure a guardarlo. Dall’interno della casa giungevano le risate argentine di Lili e Xiaoyu. Hwoarang le osservò per un po’, con i reni premuti contro la balaustra di ferro battuto e una sigaretta fra le labbra.
«… e un bugiardo» aggiunse. «Asuka con te su un’isola deserta? Ma dai!»
«Cosa avrei dovuto rispondere?»
«Era solo un gioco, Jin! Avresti potuto farla contenta invece di ferirla.»
«Non voglio si crei false speranze. E se avessi scelto Lili sarebbe stato peggio, non credi?»
«Avresti potuto scegliere me» ironizzò il coreano, strappandogli un abbozzo di sorriso. Fumò ancora, poi aggiunse:
«Xiaoyu è una ragazza d’oro, non ce ne sono come lei in giro.»
«Lo so, perciò non voglio che soffra e con me non sarebbe felice, credimi. Lei pensa di sì, ma io so che non sarebbe così. Ho troppi demoni dentro, finirebbero per… per annientarla.»
Hwoarang non aggiunse altro, si limitò a finire la sua sigaretta beandosi dell’aria primaverile di maggio e della buona compagnia. Per ora non gli serviva altro.
 

 
*
Asuka consultò l’ora dallo schermo del suo cellulare (per la centesima volta in pochi minuti).
Le 3:27.
Non era riuscita a chiudere occhio neanche per trenta secondi. Aveva sentito i suoi amici continuare a divertirsi, il momento in cui i due ragazzi erano andati via (circa due ore prima), poi i passi leggeri e ovattati di Xiaoyu e Lili nel corridoio mentre si auguravano la buonanotte a vicenda, prima di chiudersi rispettivamente nelle proprie stanze. Infine, il silenzio più assoluto. Stufa di non riuscire a prendere sonno e a non riuscire a pensare ad altro che non fosse il bacio della francese – il suo viso di porcellana così vicino; le sue labbra morbide, calde e carnose, dal leggero retrogusto di big-babol, forse dovuto al lucidalabbra; lo sguardo limpido e fluido che la inchiodava sul posto; il sorriso malizioso che la sfidava. Si alzò dal letto con un balzo, facendo cadere tutte le coperte da un lato, decisa a farsi una camomilla per calmarsi e sperare di addormentarsi.
Tuttavia, appena fuori dalla sua stanza, notò una fievole luce che fuoriusciva dalla porta socchiusa della camera di Lili. D’istinto vi sbirciò attraverso, vedendo la ragazza bionda distesa sul letto, intenta a leggere un libro. La luce dell’abatjour emanava una penombra tremolante che la faceva somigliare a una dea greca.
Con un tocco leggero delle dita, Asuka sospinse la porta ed entrò. Lili sollevò gli occhi dal romanzo, osservandola senza espressione alcuna, quasi si aspettasse di vederla entrare, prima o poi.
«Li-Lili» balbettò Asuka, la gola secca e gli occhi bassi a fissarsi i piedi nudi sul pavimento, senza però vederli. «Devo chiederti una co-cosa.»
«Dimmi.»
La voce calma di Lili le diede il coraggio di alzare lo sguardo per posarlo su di lei:
«Ti piacciono le femmine?» Asuka deglutì, il cuore in tumulto.
La bella francese abbandonò il libro sulla trapunta – di seta rosa – e la raggiunse a piccoli passi, lenti e sinuosi, con le lunghe gambe scoperte e i piedi scalzi. Indossava un babydoll color panna e i capelli a farle da mantello scintillante.
«No» disse, prendendole il volto con entrambe le mani per posare i suoi occhioni azzurri in quelli semplici e castani, profondi, di Asuka. «Ma mi piaci tu» confessò con naturalezza.
Le due coinquiline, talmente diverse da completarsi, si sorrisero rincuorate, adagiando la fronte dell’una all’altra.   


 
fine
 
 

 

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Capitolo 6
*** Un amore di macchina [Giugno - Forbidden Love, Starcrossed Love - AlisaXLars] ***




Questa storia partecipa alla To be Writing Challenge indetta da Bellaluna sul forum di Ferisce la Penna.
Mesegiugno
Tema: FORBIDDEN LOVE/STARCROSSED LOVE, un amore impossibile. Perché?
Per questo mese ho scelto di raccontare un amore impossibile e quale amore è più improbabile se non quello tra un cyborg e un essere umano?
Buona lettura,
Nina^^
 



Un amore di macchina
 

Alisa osservava Lars di soppiatto mentre questo le stava seduto accanto, provando una strana sensazione alla bocca dello stomaco.
Erano in viaggio ormai da giorni sulla Jeep che quella bella e gentile ragazza bionda aveva lasciato loro in dotazione per scalare le dune del deserto e sperare di trovare Jin Kazama, prima che lo facesse qualcun altro.
Lars teneva gli occhi puntati sul nulla che si dipanava dinnanzi a loro: un’immensa distesa di sabbia color ocra, i cui granelli a volte sembravano scintillare, sfiorati dai cocenti raggi del sole. Ogni tanto si asciugava la fronte umida di sudore con il dorso della mano destra, in un gesto fugace, distratto e istintivo, poi tornava ad avvinghiarsi allo sterzo dell’auto.
Alisa conosceva a menadito ogni sua ruga, ogni sua espressione o smorfia. Sapeva perfettamente a ciò che stava pensando, quando era preoccupato, arrabbiato o triste. Lo percepiva anche dalla temperatura del suo corpo che mutava, dai battiti del cuore che acceleravano o diminuivano a seconda della situazione. Avrebbe saputo descrivere a memoria e con gli occhi chiusi il colore della sua pelle, quello dei capelli, ogni sfumatura delle iridi. Dal primo momento che si erano incontrati aveva riconosciuto in lui i classici caratteri dell’etnia caucasica a cui apparteneva. E aveva notato anche una certa somiglianza, in alcuni tratti somatici, con Heihachi Mishima. Ma non gli aveva mai chiesto nulla, giacché si era accorta di come lo sguardo di Lars s’incupisse e la mascella si serrasse anche solo nel sentir pronunciare quel nome.
Lars si voltò appena per guardarla e accennò un sorriso:
«Lo troveremo, stai tranquilla» disse, con il suo solito tono calmo, rassicurante.
Alisa distolse lo sguardo con uno scatto del capo, balbettando un sì.
In realtà, per quanto fosse preoccupata della sorte toccata a Jin Kazama e nonostante sapesse che trovarlo e proteggerlo era l’ordine impostale dal suo padrone, avrebbe voluto continuare in eterno le ricerche per restare al fianco del suo amato Lars.
Quel pensiero la fece arrossire, o meglio: provò una specie di vampata di calore, dal momento che lei non poteva fisicamente arrossire.
Era un robot!
Un cyborg progettato dal dr Boskonovitch per salvaguardare e preservare l’esistenza di Jin Kazama. Anche quell’altro umanoide, un certo Bryan Fury, le aveva confermato che non era umana, eppure lei non riusciva a concepirsi in maniera diversa. Provava sentimenti ed emozioni. Poteva sentire la tristezza squarciarle il petto a volte, e avere voglia di piangere (ne sentiva quasi la necessità, ma non aveva lacrime nel suo corpo metallico); provava gioia e perciò sorrideva. O essere innamorata. Ed era proprio quest’ultimo il sentimento più bello e insieme avvilente che avesse mai percepito. Sebbene Lars fosse uno dei pochi a trattarla con rispetto – forse l’unico dopo lo scienziato che l’aveva creata – e non come un oggetto e basta, Alisa era conscia del fatto che lui non si sarebbe mai innamorato di lei.
Era una macchina, santo cielo!
Aveva letto intere saghe di uomini e donne innamorati che per mezzo di motivi di ogni genere non erano potuti stare insieme e godere del loro amore: famiglie nemiche, etnie o religioni avverse, ceti sociali troppo differenti. Ma mai di un uomo che perdesse la testa per un robot o viceversa.
Il loro destino non sarebbe stato quello di condividere la vita insieme, poteva solo sperare di restargli accanto il più a lungo possibile, di accompagnarlo nelle missioni che gli sarebbero state affidate e proteggerlo da chiunque cercasse di fargli dal male.
Sì, aveva deciso: lo avrebbe protetto anche a costo della vita.
 
*
 
L’esplosione avvolse il mercato di polvere gialla e spessa che rimase sospesa nell’aria, oscurando la visuale.
Lars tossì un paio di volte, schermendosi il naso e la bocca con un braccio. Provò a chiamarla, ma la voce gli uscì rauca e un nuovo colpo di tosse gli fermò il respiro nel petto. Gli occhi gli lacrimavano per la sabbia e gli sembrava di udire i rumori ovattati, come se fosse sott’acqua. Intorno a lui la gente che si trovava in quel momento al mercato, quindi venditori ambulanti, commercianti, ma anche donne e bambini, stavano urlando terrorizzati, piangendo e pregando che qualcuno li aiutasse. Ma Lars non poteva fermarsi a dare loro una mano, doveva trovare Alisa e portarla in salvo, al resto ci avrebbero pensato solo in un secondo momento. Tentò di chiamarla ancora una volta e questa volta, finalmente, gli parve di scorgere una ciocca di capelli rosati fra la polvere giallastra che si levava nell’aria.
«Alisa!» La raggiunse, inginocchiandosi al suo fianco e osservandola con gli occhi sgranati. Il corpo della compagna che l’aveva seguito fino a quel momento era quasi completamente schiacciato da un enorme parete di cemento che evidentemente si era staccata dall’abitazione alle sue spalle.
«La-Lars» balbettò l’umanoide con un filo di voce.
Lars abbassò lo sguardo su di lei, mentre calde lacrime gli solcavano il volto sporco di fuliggine. Alisa abbozzò un sorriso e una scossa elettrica le attraverso la guancia fino a raggiungere l’occhio sinistro: una volta di un delicato azzurro chiaro, ora si spense come si spegne lo schermo di un monitor.
«Shh, shh. Adesso ti porto via, ce ne andiamo. Il dottor Boskonovitch saprà cosa fare per… per…» Lars la studiò di nuovo, in preda al panico, senza sapere bene da dove cominciare per liberarla da quel pezzo di cemento che la imprigionava, senza contare l’inferno che li circondava.
Alisa avrebbe voluto piangere, come stava facendo lui, perché provava una tristezza enorme, e anche un’altra sensazione a lei sconosciuta: paura. Paura di morire; paura di lasciarlo; paura di non rivederlo mai più. E stava piangendo per chi? Per lei? Forse, pensò in un ultimo moto di lucidità, quello era il gesto più vicino all’amore che avesse mai potuto desiderare e ottenere da un essere umano. No, non da un essere umano. Da Lars.
«La-Lars» lo chiamò di nuovo, cercando un contatto con lui, il quale strinse la sua mano nelle proprie. «Viaggiare con te è stato bello. Peccato che non sia durato più a lungo. Mi hai trattato come una persona. È stato…» una nuova scossa elettrica attraversò l’unico occhio buono rimasto ad Alisa. «È stato bello.»
Furono le sue ultime parole, poi anche l’altra iride si scurì disattivandosi del tutto, mentre una voce metallica annunciava l’arresto del sistema.
La mano fredda e rigida del robot scivolò da quelle calde e fatte di carne di Lars, il quale rimase qualche altro minuto inginocchiato al fianco dell’amica, la testa china e piangendo lacrime vere, sincere, prima di alzarsi in piedi e mettersi al riparo dai militanti della G Corporetion che avevano teso loro un agguato.
Sgattaiolando fra i vicoli angusti e afosi del paese, con le guance ancora bagnate e gli occhi spenti dell’amica ben impressi nella mente, promise a se stesso che sarebbe tornato a prenderla. Ma quando quella notte lo fece, il corpo di Alisa non c’era più...


 
fine
 
  

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Capitolo 7
*** Ła ŧomba dei ɍicordi [Luglio - Childhood Friends - Heihachi&Kazumi] ***


Per il mese di luglio ho scelto la tematica Childhood Friends,
attraverso la quale bisognava raccontare un’amicizia d’infanzia.
Ho fatto varie ricerche inerenti ai personaggi di Tekken e poi… boom!
Ho ricordato questo splendido rapporto tra Heihachi e Kazumi e ne è uscita questa piccola flash!



 
 
Ła ŧomba dei ɍicordi

 
 
 
Heihachi Mishima era solito pregare sulla tomba di sua moglie Kazumi. Vi si recava una volta al giorno, appena prima che sorgesse il Sole, in modo da godersi l’alba insieme.
Sì, perché la sua lapide affacciava a est, proprio dove l’Astro si levava e abbracciava l’intera proprietà Mishima.
Non era una casualità che il mausoleo di Kazumi fosse stato costruito lì. Lei adorava l’alba, diceva che fosse il momento della giornata che preferiva, quando un nuovo giorno comincia e tutto può ancora succedere, anche ciò che di sbagliato è stato fatto in precedenza può essere aggiustato.
Heihachi si sedeva a gambe incrociate di fronte all’altare di sua moglie, accendeva una bacchetta d’incenso, chiudeva gli occhi con le mani adagiate sulle ginocchia piegate e pregava.
Più che pregare ricordava i momenti felici vissuti con lei, poi finiva a chiedersi se avesse sbagliato in qualcosa, se il demone che Kazumi si portava dentro potesse essere sconfitto senza il suo sacrificio… 
Alcune mattine, però, quando il cielo era ricoperto di nuvole grigie e il sole non sarebbe mai nato, la mente lo riportava alla prima volta che si erano conosciuti.
Loro erano solo dei ragazzini e fuori diluviava…
 
Heihachi si stava allenando del dojo di famiglia, quando aveva sentito le porte aprirsi e suo padre Jinpachi si era palesato in compagnia di una giovane dai capelli corvini lisci come la seta e la pelle chiara di porcellana.
«Lei è Kazumi, della famiglia Hachijo. Si allenerà con te» aveva detto Jinpachi, andando via.
Heihachi era rimasto qualche secondo a studiare la nuova arrivata, provando fin da subito un moto di stizza nei sui confronti: chi era quella bimbetta e perché avrebbe dovuto scoprire i segreti dello Stile Mishima tramandati di padre in figlio per generazioni?
Eppure, Kazumi, all’apparenza delicata e fragile, si rivelò una vera combattente, un’instancabile lottatrice che apprendeva con diligenza e velocità tutto ciò che le veniva insegnato, facendolo suo. Ma, gli allenamenti erano davvero pesanti e c’erano giorni in cui era così stanca che non si presentava neanche a cena, crollando in un sonno profondo. Allora, Heihachi le lasciava un vassoio colmo di cibo davanti la stanza e sgattaiolava via. Quando lei gli chiese se sapesse chi fosse a lasciarle la cena, lui sollevò le spalle rispondendo che non ne aveva idea. Così, l’antipatia iniziale si trasformò in una bella amicizia che li legò per anni, fino all’età adulta, quando scoprirono di amarsi…
Ma prima dell’amore arrivò un legame profondo, di complicità e fiducia reciproca. Nella fresca penombra del sepolcro, con il penetrante odore di incenso a solleticargli il naso, i grigi baffi di Heihachi vibrarono appena e le sottili labbra che nascondevano si distesero impercettibilmente in un sorriso, ripensando alle mille malefatte che avevano combinato lui e Kazumi. A tutte le volte che aveva fatto infuriare Jinpachi e poi ne avevano riso insieme, seppur in punizione per una settimana.
Insieme avevano scoperto il mondo, osservato la natura e talvolta rischiato anche la vita…
Un’amicizia vera e genuina come quella tra loro due, Heihachi Mishima non l’aveva mai più vissuta, né tantomeno rivista nelle vite altrui.
 
La bacchetta di incenso si esaurì in un ultimo colpo di fumo grigio e denso. Allora Haihachi seppe che era rimasto il tempo necessario, perciò sollevò le palpebre di scatto e attraverso il rosone scolpito nel marmo del monumento funebre vide i primi raggi aranciati del Sole nascere oltre le montagne a est. Un tenue fascio di luce sfiorò la fotografia di Kazumi, semplicemente bellissima. Heihachi la osservò qualche secondo ancora, accarezzandola con una delicatezza inaspettata per un uomo come lui. Una gentilezza che nella sua lunga e travagliata vita aveva riservato solo a sua moglie.
«Buongiorno a te, Kazumi-chan.» Bisbiglio, lasciando il mausoleo in punta di piedi e l’espressione dura sul viso: era tornato ad essere Heihachi Mishima, uno degli uomini più potenti e pericolosi al mondo.
 

 
fine

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Capitolo 8
*** Տole o Ҏianeta? [Settembre - Unrequited Love - Anna/NinaXLee Chaolan] ***


 
Ciao a tutti!
Dopo aver saltato agosto, sono riuscita a buttare giù – pelo pelo – qualcosa per settembre.
Il tema è l’unrequited love, ossia l’amore non corrisposto. Ero partita con un’idea e personaggi completamente differenti (Jin e Xiaoyu), poi mi è venuto un flash: da qualche parte, nella mia memoria, ricordo di un anime di Tekken in cui Nina era innamorata di Lee Chaolan, il quale tuttavia mi sembrava attrattato da sua sorella Anna.
Adesso, non so se il ricordo sia proprio giusto, a me è venuto fuori questo ;)

Nina^^

 

 
Տole o Ҏianeta?


 
 
Nina Williams era sempre stata Sole e lei, sua sorella minore Anna Williams, Pianeta.
Nina era il centro dell’universo, qualsiasi cosa facesse attirava le attenzioni degli altri senza troppi sforzi. Senza sforzo alcuno, anzi. Una specie di forza di gravità che attraeva le persone intorno a sé, le quali restavano affascinate dal colore chiaro dei capelli, a quello verde acquamarina degli occhi. Per non parlare della sua pelle candida, liscia. Perfetta. Nelle movenze e nelle parole era compita, elegante, priva di eccessi. Per questo motivo Anna era diventata ciò che era: il suo opposto, esagerata in tutto. Dall’abbigliamento provocante, ai modi “volgari”, eccentrici. Eppure, continuava a essere un Pianeta che orbita intorno al Sole. In una sola occasione era riuscita a oscurare la centralità della sorella maggiore, ossia quando aveva sedotto Lee Chaolan, fratellastro di Kazuya Mishima.
Sapeva che Nina lavorava per lui, era stata assunta per portare a termine un compito importante – uccidere Kazuya – e perciò Anna si era presentata al cospetto di quest’ultimo, offrendosi come sua guardia del corpo. Kazuya Mishima aveva riso a crepapelle, affermando che non aveva bisogno di una babysitter. Ma, quando lei gli aveva spiegato che non lo faceva perché teneva alla sua incolumità, bensì per contrastare l’operato della sorella maggiore, Kazuya aveva risposto che aveva un debole per le famiglie unite come la propria e le aveva concesso di stare al suo fianco. Tuttavia, Anna non si era fermata a quello. Osservando – spiando – Nina alle prese con il suo capo, aveva scoperto una cosa improbabile: era innamorata di lui. Appollaiata su un tetto a chilometri di distanza, e attraverso le lenti di un binocolo, li aveva scorti trascorrere ore insieme, a chiacchierare, ridere e bere liquori costosi. Ma era stato l’atteggiamento della sorella a incuriosirla. Non era il suo solito fare freddo, calcolatore, impassibile. L’aveva vista sorridere, toccarsi i capelli – che stranamente teneva sciolti sulle spalle –, sfiorargli le la mani quando lui le passava un bicchiere o un documento (chissà cosa c’era scritto poi su quelle carte).
Allora, Anna si era data un nuovo obiettivo…

 
Nina bussò con le nocche alla porta e attese di udire la voce di Lee che le concedesse il permesso di entrare. Lo trovò alla finestra, con un bicchiere di Whisky in mano e il torso nudo. Le disse di chiudere la porta e di accomodarsi. Nina obbedì e si sedette nella solita poltrona di pelle color cuoio messa dinnanzi a un camino scoppiettante.
Fuori imperversava una tempesta di neve e le previsioni meteo non promettevano nulla di buono nei prossimi giorni.
Lee le porse un bicchiere con un dito di liquore, di cui Nina si bagnò appena le labbra. Non le piaceva bere, temeva che l’alcool potesse farle abbassare la guardia e una persona con il suo ruolo non poteva permetterselo. Lee, al contrario, aveva già ingollato il suo Whisky e se ne stava versando ancora, poi sprofondò nella poltrona libera, socchiudendo gli occhi e tenendosi la testa con una mano.
«Tutto bene?» Gli chiese Nina
«Sono stanco» ammise l’uomo, abbozzando un sorriso nella sua direzione e lei lo trovò bellissimo.
Sapeva che era più grande di diversi anni, che c’era una regola non detta, ossia mai intraprendere relazioni con il proprio datore di lavoro, o innamorarsi come una ragazzina di quest’ultimo, e fino a quel momento non aveva mai avuto problemi di questo genere. Ma Lee era diverso, non era come i “clienti” che l’avevano assunta fino ad allora. Lee Chaolan era gentile, garbato, e fin da subito l’aveva trattata come un essere umano, e non come un robot a cui dare un compito – uccidere, solitamente – e pagare alla fine del lavoro. Le chiedeva come stava, se avesse bisogno di qualcosa. Se le andava di fare due chiacchiere…
«È successo qualcosa?» Aggiunse lei.
«Dritta al punto, come sempre. Eh, Williams?»
Nina si strinse nelle spalle, distogliendo lo sguardo. Quando le sorrideva in quel modo, con il sorriso leggermente sghembo, era davvero difficile mantenere un atteggiamento pacato…
«Oggi ho ricevuto questo fax» nel porgerle il foglio, entrambi si sporsero l’una verso l’altro, tanto da far combaciare le braccia. Nina poté chiaramente sentire la pelle nuda di lui a contatto con la sua e dovette fare un gran lavoro di autocontrollo per non allontanarsi come se si fosse scottata.
La notizia del giorno era l’annuncio di un nuovo torneo di arti marziali indetto dalla Mishima Zaibatsu.
Lee Chaolan si alzò e raggiunse di nuovo l’ampia finestra che dava sul cortile interno della G Corporetion, l’azienda che aveva creato per contrastare quella di Kazuya, la Mishima Zaibatsu, appunto. Nina intanto scorreva velocemente il documento che gli aveva lasciato il suo capo.
«Potrebbe essere l’occasione buona per portare a termine il mio incarico» disse alla fine, osservando Lee di schiena.
«Ti iscriverai, certo. Ma lo farò anche io» annunciò Lee. Era questa la vera notizia, non l’annuncio del terzo torneo del Pugno d’Acciaio.
Nina balzò in piedi, abbandonò il bicchiere ancora pieno di liquore sul bordo del camino e raggiunse l’uomo, più alto di lei di alcuni centimetri.
«Non puoi!» Esclamò.
«Non posso?» Ripeté Chaolan, tra l’offeso e il divertito.
«Sai come funziona, potremmo finire contro. E io…» Nina abbassò il capo, stropicciando il foglio che ancora teneva in mano.
«Tu combatterai, come sai fare. E anche meglio.» Lee si chinò leggermente in avanti. «Vuoi mettere la soddisfazione di picchiare il proprio capo?!» La risata gli si strozzò in gola quando vide lo sguardo di lei. Aveva gli occhi arrossati e le labbra strette tra i denti, come qualcuno che sta per esplodere.
«Non lo farei mai. Non posso….»
«Nina, non credo sia-»
La giovane gli passò le braccia intorno al collo e lo baciò sulla bocca, con tutta la disperazione che covava dentro. Lee tentò di allontanarla con garbo, senza rispondere al suo bacio. Provò a scostarla tenendola per i fianchi, ma la presa di lei era troppo forte, perciò si liberò dall’abbraccio prendendole i polsi e aprendo l’intreccio delle braccia. Ma non fece in tempo a staccare le labbra dalle sue che entrambi udirono una voce irridente.
«Bene, bene. La mia sorellona si è innamorata del mio fidanzato.»
Nina si voltò indietro, sbalordita e stordita. Spalancò gli occhi vedendo Anna Williams avanzare con fare sensuale verso di loro, con addosso un babydoll carminio che lasciava davvero poco all’immaginazione. Alle sue spalle le porte scorrevoli semiaperte lasciarono intravedere la camera personale di Lee (le lenzuola del letto erano stropicciate e la luce traballante sulle pareti proveniva probabilmente da alcune candele accese).
Lee Chaolan andò incontro all’ultima arrivata, tendendole una mano che lei accettò volentieri, poggiando poi la testa sul suo petto nudo, senza smettere quel sorriso sornione diretto a Nina.
«Mi dispiace Williams. Se ho potuto lasciarti intendere qualcosa non era mia intenzione. Prima o poi ti avrei detto di noi, ma non ho mai trovato il coraggio. Non volevo lo scoprissi così.»
Nina gettò nel fuoco il documento che lo stesso Lee le aveva dato da leggere pocanzi, riafferrò il bicchiere con il Whisky che aveva lasciato intatto sul camino e lo bevve in un solo sorso, quindi si avviò all’uscita a grandi falcate.
«Ci vediamo al torneo» disse solo, sbattendo la porta dietro di sé.

Non avrebbe permesso mai più a nessuno di entrare nel suo cuore.


 
Fine
 
 

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