InkTober 2023

di CervodiFuoco
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Espletare ragnatele ***
Capitolo 2: *** Solo amiche ***
Capitolo 3: *** La mappa delle meraviglie ***
Capitolo 4: *** La Stella che danza ***
Capitolo 5: *** Il Re dei Rospi ***
Capitolo 6: *** Papà Castoro ***
Capitolo 7: *** Il Pugnale del Potere ***
Capitolo 8: *** Solo un sogno fuso ***
Capitolo 9: *** La Bestia Risorta ***
Capitolo 10: *** Giocare alla Guerra ***



Capitolo 1
*** Espletare ragnatele ***


Introduzione pre-capitolo

 

Ciao a tutti, e grazie mille di esser qui a leggere! Sarò breve, così da non bruciarmi la vostra presenza tediandovi con chissà quale noioso preambolo!

Inizio dicendo che ho deciso di prender parte attiva all’InkTober 2023 con qualche giorno di ritardo (come al solito) quindi la prima storia, quella di oggi 3 Ottobre, ho deciso di renderla un condensato delle prime 3 parole chiave suggerite per i primi 3 giorni del mese, ovverosia:

Sogno

Ragni

Sentiero

 

Parole peraltro estremamente significative nella mia vita.

 

Basta! Finita l’introduzione. Visto? E’ stata veloce e indolore, vero?

 

Pronti!

Buona lettura. Spero davvero di divertirvi con questo capitolo (a me ha divertito un mondo scriverlo), ma anche che attraverso il “velo delle parole” trapeli qualcosa di speciale, non-detto. Chissà!

 

P.s.: perdonate eventuali errori, non tanto ortografici ma più magari nella “forma” (si dice così?) o nel passaggio da persona a persona. Per me questi racconti sono un “flow”, un viaggio e mi diverte vivermeli così. Ma sono sicuro che sono perfettamente apprezzabili.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ESPLETARE RAGNATELE

 

 

Nel sogno, i ragni erano ovunque.

 

Bello, vero?

Ma partiamo dall'inizio, senza mescolare troppo le carte sul tavolo o rimanere impigliati nella ragnatela (ridiamo).

Il sogno.

 

Parliamo del sogno, si: com'è che si era addormentato? O per meglio dire... perché si era addormentato?

Fu una causa di forza maggiore? Fu abitudine? Fu un senso di costrizione, di soffocamento, di... apatia? Ah, ma andiamo a chiederglielo, dato che il diretto interessato è qui.

Avviciniamoci, attiriamo la sua attenzione picchiettando con veemente gentilezza sulla sua spalla e attendiamo che si volti. E poi, dopo esserci schiariti ben bene la voce, domandiamogli:

«Ehm... salve. Ci stavamo giusto chiedendo... com'è che si è addormentato?»

 

«Ah... oh» replica lui al rallentatore, neanche fosse un bradipo umanizzato. Addirittura batte le ciglia, al rallentatore. Ma sta guardando noi o il presagio che ci saremmo avvicinati venti secondi fa? «Ehm... semplicemente ero triste» continua, con il suo tono piattino e rassegnato, ma amichevole. Come se non fosse di queste parti e si stesse accorgendo solo ora di trovarsi in terra sconosciuta. «E di solito, quando sono triste io mi accascio da qualche parte e mi addormento.»

«Ah» sillabiamo noi piano, un po' delusi, ma principalmente sorpresi. «E... non... potrebbe dirci qualcosa di più? Insomma... abbiamo bisogno di un report completo, almeno sul ''sogno''. Poi il resto dopo può fluire alla grande, ma per quanto riguarda il ''sogno'' abbiamo bisogno che sia lei a dirci qualcosa, altrimenti qui si fa notte.»

Le espressioni facciali sul viso di lui, tondo e amichevole pure quello, nascono e si susseguono senza una precisa scorrevolezza o motivazione. Sembra una statua colpita da una luce in movimento, di cui si ha soltanto l'impressione che provi emozioni cangianti; ma in realtà è una sola.

«Eh, che posso dirvi. Ero qui a far niente. Cioè... stavo cercando di far di tutto, per andare avanti. Per tirare avanti, come si dice, no? E poi... mi è piombata addosso questa stanchezza, questa pesantezza insopportabile... tutto era come addormentato, lontano, distante. Inarrivabile. Mi scivolava via dalle dita. Avete presente la sensazione, no?» E aspetta una replica, con un sorrisetto spento e un pochino ebete.

«Ehm... si, certo. Certamente. E poi, quindi? Vi siete addormentato.»

Dopo una pausa straordinariamente lenta, quello fa, flemmatico: «Si.»

 

Sbuffando irritati, ma cercando di non darlo a vedere, noi ci scostiamo e riponiamo il microfono. Diamo il segnale al cameraman di staccare e portar via tutto, con l'aria di chi è chiaro voglia levare le tende il prima possibile.

«Grazie di tutto, davvero. Cercheremo di fare del nostro meglio ora parlando dei ragni, addentrandoci nel sogno, insomma.»

Lui fa appena in tempo ad accorgersi che gli abbiamo rivolto la parola per l'ultima volta, ed è lì in procinto di formulare una frase di commiato, che noi gli abbiamo già voltato le spalle e ce ne siamo andati.

Non è che non siamo gentili, eh. E' che ne abbiamo un po' le scatole piene di certi tipi, ecco. Poi rispetto per tutti, per carità.

 

 

 

*suono improvviso, impressionante e impattante di cose che si scontrano*

 

IL SOGNO

(pronunciato con voce maschile accattivante)

 

 

 

Dicevamo: nel sogno, i ragni erano ovunque.

 

Zampettavano, strisciavano, picchiettavano le superfici sulle quali si muovevano con sottilissimi, morbidissimi, acutissimi e sibilanti ''tic-tac-toc''. Eppure, ancora non si vedevano! Eh no, perché... sapete perché? Volete veramente saperlo? Noi vi avvisiamo, questo non è un sogno piacevole, o per lo meno non nelle sue fasi iniziali. Ma oramai siete qui, non penserete mica di svignarvela adesso? No no, dovete rimanere e continuare. Perché di sicuro ci sarà qualche misterioso ma illuminante significato da trarre dalla storia che andremo narrando. E dunque: le zampine picchiettano, ma nessun, e dico nessun, ragno ancora si vede.

Ora, inseriamoci all'interno della visione alla prima persona, proprio come il sognatore in questione. Fiiiium! Eccoci: siamo lui adesso. Ci troviamo proprio sulla soglia, in piedi, e abbiamo appena aperto la porta della casa che, nel sogno, si trovava in cima alla strada in salita, a qualche isolato di distanza da casa nostra. Ci siamo svegliati nel cuore della notte perché un barbagianni è venuto a picchiettare col becco contro il vetro della finestra davanti al nostro letto e, se in un primo momento noi l'abbiamo scambiato per un ramoscello birbantello dell'albero lì di fronte, in un secondo ci siamo subito accorti che non era l'albero perché è troppo l'ontano (scusatemi). Così siam scattati su! E, tutti spettinati e con la bocca secchissima, abbiamo visto il Barbagianni sostenersi in volo lì davanti al vetro, e con la voce della nostra migliore amica Brittany (gentile concessione da non so quale serie tv) ci fa: «Devi correre subito nella Casa dei Ragni, Sam! Devi correre, devi. Vai subito, o perderai il treno!»

 

Ora, non state a sindacare sul senso logico di tutto ciò, poiché si tratta di un sogno. Non siam mica qui a spillare i ricci. Proseguiamo.

 

Allora ti tiri su di botto, ti vesti in fretta e furia e in un baleno, ma letteralmente in un baleno, ti ritrovi in fondo alla rampa delle scale e mentre pensi di infilarti gli scarponcini da montagna, invece stai già girando la chiave della porta, e una frazione di istante dopo stai risalendo la salita buia illuminata da quegli sparuti lampioni che non ti piacciono tanto; e poi, dopo, sei lì. Davanti alla casa di Mr.Franz, che è risaputo faccia le Gicocche, perché tu nel sogno colleghi, chissà perché, quella casa con una memoria infantile nella quale la tua quotidianità ed il mondo dei Pokémon sono una cosa sola. Ma tu sai, tu lo sai, che lì dentro non c'è Mr.Franz né si producono Gicocche. Tu sai soltanto che devi entrare, perché altrimenti perderai il treno; e sai anche che là è tutto buio e non vedrai un accidente. Ma in qualche maniera dovrai arrangiarti ed entrare dentro.

Così attraversi il giardinetto percorrendo il vialetto di lastre d'ardesia (ardesia, eh), fissi un secondo il campanello tondo d'ottone col pulsantino nel mezzo, lo ignori completamente; metti la mano sul pomello e giri.

Sckreeeek, la porta si spalanca lentamente. Sul buio. Oscurità totale, piena e accecante. Se già prima il silenzio aveva fatto da padrone durante i tuoi movimenti, adesso si è infittito, è precipitato in una sorta di cava abissale dove i tuoi timpani sono del tutto assuefatti e addormentati. Sai solo che devi infilarti là dentro e basta.

 

Un passo. Il piede viene inghiottito da una viscosa, avvolgente oscurità. E' tipo una barriera. Un altro passo. Mica puoi fare il frignone e fermarti lì, non esiste proprio. Insomma, nel giro di qualche secondo sei dentro! E l'oscurità ti ha inesorabilmente avviluppato, e adesso ti sembra quasi di essere cieco (senza quasi, attento). Anche se giri la testa, non cambia nulla; è tutto buio ovunque. Potresti pensare di trovarti sospeso nel vuoto, in un limbo senza peso né forma, se non fosse per i tuoi piedi poggiati sul morbido tappeto davanti all'entrata, sul linoleum (sai che c'è il linoleum a intuito, non rompere).

Tac-tac. All'inizio è solo un tac-tac. Microscopici piedini, chissà dove. Un brivido ti percorre la spina dorsale e istintivamente tu trattieni il respiro. Subito pensi a Brittany dentro al corpo del Barbagianni che svolazza davanti alla finestra di fronte al tuo letto, mentre ti dice: «Te l'avevo detto, che avrebbe fatto paura, ma devi andarci lo stesso, è il tuo destino.» Così, per un attimo maledici Brittany; ma poi immediatamente dopo ti dispiace, e la ringrazi. Sai che ha ragione. Dunque deglutisci e ti fai coraggio: è tempo di scoprire

perché sei venuto qui.

 

Tic-tac-toc.

Tic-tac-toc, tic-tic, tic-tac-tic-tac-tictoctictaottcoatcottaotuctaoci.... due zampine son diventate dieci, e le dieci venti, e le venti centosessanta, e le centosessanta una quantità incalcolabile. Tu non puoi vederli, ma nel sogno tu sai che lì dentro, da qualche parte, è pieno zeppo di ragni. Grossi e ciccioni? Piccoli e con irte zampine spigolose? Tondi e pelosetti con enormi occhietti lucidi? Con le scarpe da clown, la bombetta e il trucco rosso sulle guanciotte? Chi lo sa, lo scopriremo solo vivend- ehm, cioè, sognando.

 

Tu devi fare un passo. Devi. Devi per forza, se no il sogno s'interromperà, oppure te ne resterai lì in eterno e probabilmente si spalancherà una tremenda voragine sotto i tuoi piedi che ti farà precipitare, e ti sveglierai. E tu non puoi svegliarti adesso. Devi affrontare la tua prova. Devi affrontare il buio, e i ragni, e la casa di Mr-Franz con le sue Gicocche-che-non-ci-sono. Prendi un bel respiro profondo, stringi i pugni e fai quel maledetto passo in avanti; se non lo facessi, quei tic-tac-tatitatic continuerebbero ad assordarti e a farti immaginare cose raccapriccianti. Quel passo va fatto, per forza, avanti.

Lo fai.

 

E d'improvviso, come se qualcuno avesse premuto un interruttore, una luce da palcoscenico si accende dal pianerottolo del piano di sopra, andando a bagnare nel suo cono acuto e preciso una zona ai piedi delle scale davanti a te, dove si trova uno sgabello a tre piedi circolare molto, molto carino a dire il vero, di un verde chiaro tenero e piacevole: su di esso si trova seduto un bel ragno, con le zampe penzoloni e lo sguardo attento e divertito rivolto a te.

E ti fa: «Ehy, come andiamo?» sollevando una delle otto zampine a mo' di saluto.

 

In parte offeso per l'aspettativa che finora ti aveva accompagnato, suscitandoti l'orrendo timore che dovessi sorbirti un qualche evento raccapricciante, doloroso, o per lo meno spaventoso... aggrotti le sopracciglia e ti fai rigido, impettito.

«Eh?» mormori, senza voce.

 

«Avaaanti, chi ti aspettavi di vedere? Dai dai, vieni via dal tappeto che lo sporchi tutto di fango. Fai un passo e avvicinati, che devo parlarti.»

Io obbedisco, guardandomi i piedi e il tappeto (adesso posso farlo, perché il ragnetto sotto al riflettore irradia un tenue ma piacevole e distensivo bagliore) e noto che non c'è nessun fango. Altra assurdità dei sogni su cui soprassederemo.

«Ecco. Così» borbotta soddisfatto il ragnetto, togliendosi il minuscolo cappellino a cilindro che teneva in testa. E' lucido e con una fascia rossa di velluto, come il migliore dei maghi. Però minuscolo. Ma il ragno non è tanto minuscolo: è grande più o meno come un gatto, o giù di lì. Mi fissa battendo gli occhi a canone, prima i due davanti e poi i due in coppia laterali, e così via. Sono magnetici e ipnotizzanti. Catturato da quell’effetto, penso: mi sta ipnotizzando perché vuole mangiarmi?

«Ma smeeettila! Insomma! Cos'altro devo ancora dimostrarti, prima che inizi a fidarti di me?» dice lui.

Al che io strillo, istigato: «Senti, non è colpa mia se ho l'aracnofobia, occhei? Con tutte quelle lunghe zampe ed il corpicino minuscolo. Lo so che siete innocui se non vi tocco, ma mi fate senso lo stesso, mi fate venire la pelle d'oca, ecco! E poi, dove sono tutti gli altri?» Sono proprio arrabbiato, wow.

«Eeehy, datti una calmata, coso» ribatte con tutta calma il ragnetto, sistemandosi il papillon blu a pois bianchi (boh). «Qui ci sono solo io, non rompere le balle.»

Indispettito, faccio una faccia arcigna e mi siedo sul linoleum a terra (hai visto, che c'era il linoleum? ah-ha!).

«Oh!» cinguetta soddisfatto il ragnetto. Si posiziona sullo sgabello di modo da porsi dritto davanti a me, incrocia le gambette-zampette e poggia il musino su una mano-zampetta. Ora sta fumando una piccolissima pipa di legno scuro, dalla quale fuoriesce un refolino di fumo.

«Te lo ripeto. Allora: come andiamo?»

 

Sono entrato totalmente nel mood paziente-terapista, così de botto.

«Eh. Dormivo di brutto. Ero un po' triste. Un po' troppo... mi sa.»

Il ragnetto mi fissa; apre la bocca a ''O'' e sbuffa una pallina perfetta di fumo. Poi commenta: «Giah».

«E quindi mi sono un po' trascinato avanti per inerzia, insomma.» Sospiro profondamente. Mi stringo le braccia con le mani in una sorta di auto-abbraccio, traendo un profondo sospiro.

«E' stata dura, eh?»

«Mh-hm» confermo. Mi sento bene, così.

«Però adesso le cose vanno diversamente, suppongo» dice il ragnetto, indicandomi col beccuccio della pipa che s'è tolto dalla bocca. «Anzi, che dico! Non è solo da supporre. E' vero! E' proprio così. Guardati, che sguardo! Ma dimmi, com'è che hai fatto?»

«Beh. E' una storia lunga» premetto. Anche se in realtà non ho nessuna voglia, e nemmeno l'intenzione, di raccontare la mia storia ad un perfetto sconosciuto: così mi limito a quella banale e piatta scusa del: «Mi sa che te la racconto un'altra volta.»

Il dottore-ragnetto mette su un'aria indiavolata e si tira perfino in piedi sullo sgabelletto. «Eh no, bello mio! Ora sei qui e parli! Forza. Non vuoi mica che i miei amici vengano a... romperti le balle?»

Ah, è una minaccia?, penso fra me e me. Ma se prima avevi detto che i ragni non ci sono.

Proprio in quel mentre, la telecamera (?) ruota sulla destra, illuminando in un cerchio di luce grigia la parete dell'ampio corridoio: è totalmente ricoperta da un fitto strato di ragni neri, lucidi e rotondi, simili a palline da golf però schiacciate. Sono immobili e fissano tutti me. Quando la luce della telecamera li inquadra, la porzione illuminata fa un Sssshhhhhh di serpente (questa non so proprio giustificarla), atto a intimorirmi e a dimostrarmi la loro superiorità, sia numerica sia spirituale.

Con la coda fra le gambe, ammetto l'inferiorità e la sconfitta, così la telecamera può riprendere a inquadrare il ragnetto sullo sgabello. Che nel frattempo dev'essersi addolcito, lo vedo dal suo sguardo multi-occhio.

«D'accordo. Posso intuire, e anche comprendere bene. Però io te lo dissi. Te lo dicemmo molte, molte volte, che cosa dovevi fare.»

«Si. Beh, non è sempre così facile come pensate voi nel vostro mondo. Nel mio le cose sono un po' più complicate.»

«Ah si?» mi stuzzica lui, tornando a dare una boccata alla pipa. «Per esempio?»

«Beh, tanto per cominciare, io non caco fili di ragnatela. Non è così facile per me creare una ragnatela.»

«Aaaaahh~» fa lui, un po' intrippato dal ragionamento. O forse no, perché poi mi dice: «E tu pensi che questo noi non lo sappiamo... ?»

Mi ammutolisco. Ma sempre la risposta pronta, hanno, 'sti ragni?

Un sospiretto di gioviale condiscendenza dimostra che in realtà il ragno non ha, e non ha mai avuto, né rabbia né spirito di superiorità nei miei confronti (al contrario di tutti gli altri qui presenti, a questo punto).

«Vedi, noi non abbiamo mai, ma proprio mai!, voluto che tu fossi chi non sei. Tu non hai mai dovuto diventare ''qualcun altro'' per essere felice. Il nostro messaggio è semplice!» Con un gesto ampio e semicircolare della manina-zampina libera dalla pipina, come a tracciare un ragnoso arcobaleno innanzi a sé, esclama con saggezza: «Caca la tua realtà irradiando la tua essenza nel mondo!» Mi sorride, un sorrisetto tutto carino e gonfio da gote arrossate. «Sei te che ti sei incasinato da solo l'esistenza. Perché voi umani fate sempre un po' così. Pensate di essere seeeempre inadeguati, di dover seeempre raggiungere qualcosa o qualcuno che ancora non siete... e non vi rilassate mai nella vostra natura! NELLA-VOSTRA-NATUURA!» gridola sul finire, accendendosi. Scocciato pure, ha sbattuto il palmo di una delle sette zampine (l'ottava regge la pipa) contro quello di un'altra, a demarcare l'enfasi della frase che pronunciava. «Stai sciallo, hai capito?»

In silenzio, rimango lì seduto a guardare il fumo che se ne esce dalla pipetta che tiene a mezza bocca, a fare un po' il figo, no. Lui mi osserva con sopracciglio inarcato e fare da psicologo che-sa-le-cose-e-aspetta-che-le-cogli-anche-tu. Io stringo le labbra in un sorriso un po' mesto, ma anche conciliante.

«Si. Hai ragione.»

«Eh certo, che ho ragione! Altrimenti mica me ne starei qui, su un dannato sgabello a fumare una cacchiarola di pipa!» Il ragnetto si sfila di bocca la pipa e la lancia via. Un lontano coro di Ooooh stupefatto proviene dai possibili ragni che si trovano su una parete da quella parte.

«Quindi... a posto così?» ipotizzo io. Ora sopraggiunge la voglia di andarmene da quella casa spettrale piena zeppa di ragnetti sibilanti.

«A posto cosiii? Ma neanche per sogno!» esclama indignato, ma anche ironico, il mio terapista-ragno. «Ora devi dimostrarmi che hai imparato la lezione. Forza. Ragazzi! Ragazzi, venite, è il momento!» Si mette in piedi a far cenni con le zampine di modo che altri ragni sopraggiungano. E così è: nell'inquadratura entra un folto gruppetto di ragni, di quelli tondi e schiacciati che c'erano sulla parete. Sorreggono un oggetto grosso e pesante per loro... ma per me no: è un vasino. Di quelli per i bambini quando devono imparare a... insomma. E' chiaro.

Dopo averlo deposto ai piedi dello sgabello, salutano prima il Signor Ragno, e poi me, con una profonda ed elegante reverenza (alcuni di loro mi fanno però ancora Ssshhhhh) dopo di che se ne vanno scomparendo nell'ombra dalla quale sono venuti.

«Forza!» dice il Signor Ragno, che nel frattempo è sceso dallo sgabello per raggiungere il vasino. «Vieni. Siediti.»

«Perché?» domando, indignato e sorpreso.

«Se hai imparato a cacare la tua ragnatela, dimostramelo!» Mi elargisce un ampio sorriso come nessuno finora.

 

E così io vado lì a sedermi sul vasino, dopo essermi tirato giù brache e mutande insomma. Mi sento un po' bambino.

Un po'??

Solo un po', ne sei sicuro... ?

 

...

... ...

... oh.

 

«AH-HAAAAH!» mi urla il Ragnetto nell'orecchio, a un palmo di naso dalla mia testa, io ormai con le natiche sulla plastica del vasino. «Hai visto?! Hai visto, eh? Questo, questo è ciò che ti serve! Ripigliati! Siii! Hahahah» e se la ride, giù di risate. «Come un bambino! Hahah, come un bambino, piccolo imbecille umano! Hahahah!»

 

E così, con tutta probabilità il sogno continua con me seduto sul vasino che trova il flow per cacare fili di ragnatela, mentre Mister Ragnetto mi sbeffeggia, se la ride sotto al mio naso e mi danza attorno facendo lo scemo - ma sotto sotto lo so che mi vuole bene, e vuole solo ed esclusivamente il mio bene.

Avrò fatto la cacca-ragnatela? Eh... chi lo sa. Purtroppo solo chi nella casa resterà, perché in quel momento noi usciamo - Fuuuuuomph!- dalla visuale in prima persona, per tornare alla terza.

Ebbene si... questa storia finisce così. Con noi che ci allontaniamo lentamente, retrocedendo, dalla scena: il riflettore su di lui seduto sul vasino, col ragno che gli danza attorno... il corridoio ci scorre ai fianchi, e poi, poipoipoi? Attraversiamo la soglia (che si era chiusa -sbattendo- da sola dopo essere stata aperta, ovviamente, come in ogni buon racconto che deve incutere inquietudine) e ci ritroviamo fuori dalla non-casa di Mr.Franz. E' ancora notte... ma noi lo sappiamo. Lo sappiamo che il sole è già sorto, da qualche parte. Probabilmente, dietro quella casa là poco distante si può già vedere.

Ma adesso, dobbiamo alzarci. Dobbiamo uscire dal sogno? Si, esatto.

 

 

FINE DEL SOGNO

*fiamme divampanti*

 

 

 

*voce fuori campo* «Ehy, ma... e il Sentiero? Il Sentiero dov'è, in questa storia?»

 

E fate bene, a chiedervelo. Ma, osservate, prodigio! A-ha! L'intera storia, è stata il ''Sentiero''. Il Sentiero non inizia mai e non ha mai fine... e- *spinto via malamente dal microfono*

«SE PERMETTETE» interviene una vocina familiare, mentre suoni rasposi e di tessuto contro tessuto fanno interferenza nel microfono. «A-haem. Se permettete, vorrei dire io due parole giusto a concludere.»

Ma si, è lui! Il mitico Mister Ragnetto Psicologo-Terapista. Come ha fatto ad arrivare fin qui non si sa... ma si sa, invece, che... nei sogni tutto è possibile! Tutto.

«Il Percorso della vita non ha mai fine, e non ha mai inizio. E voi direte: seh, tutte balle. Ad un certo punto nasco, e poi dopo un certo tot muoio. Nah! Pensi, te! Ma hai forse la certezza, la certezza assoluta, la convinzione motivata da esperienza, che prima di nascere tu non esistessi? Ne hai memoria? Lo sai? O lo supponi? O forse... ti è più comodo adagiarti sugli allori come le cicale, mentre le farfalle e le formiche si danno da fare? EH?»

«Ehy, mister Ragnetto... dovrebbe darsi una calmata, sa.. non c'è bisogno di scaldarsi così» mormora la famosa voce fuori campo di poc'anzi, ovattata dalla distanza dal microfono.

Rumorosi sospiri di Ragnetto, atti a ricomporsi.

«Si... si. Dunque. Il percorso della vita non ha mai fine. Ma quello che volevo dirvi veramente, senza divagare, è questo: non usciamo mai dal Sentiero. Mai. Anche quando crediamo di averlo perso, smarrito, di esserci Persi nella Selva Oscura» (e qui il Ragnetto ammicca tirandosela perché ha citato -la frase più scontata e conosciuta di- Dante) «in realtà non siamo mai persi, e siamo sempre, sempre sul Sentiero. Lo so che queste parole possono essere poco confortanti magari per alcuni, ma-»

Ma qualcuno ha tirato il filo del microfono, facendo slittare via quest’ultimo da sotto il naso (che non ha) di Mister Ragnetto. Che ora si mette a sbottare, a straparlare, lamentandosi probabilmente del fatto che qualcuno ha osato interromperlo durante il suo importante monologo sul senso della vita e su fondamentali passi spirituali; ma niente, presenze fuori campo si prendono gioco di lui, bighellonano.

 

Ora c'è solo il tavolo dove prima c'era il microfono con Ragnetto. Silenzio. Dobbiamo aver perso il suono, purtroppo.

Bella la parete di fondo. Bianca. Anzi, no: tipo un beige-caffelatte.

 

Ma- qualcuno può togliere il muto al microfono? Magari la lite è interessan- no, ok.

D'accordo.

 

Fine della storia, per oggi.

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Capitolo 2
*** Solo amiche ***


Parola chiave d'oggi 4 Ottobre:

Schivare

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SOLO AMICHE

 

 

«Pallaaaaa!»

Mi chinai, raccolsi la pallina e la rilanciai al battitore. Quello, là lontano, un po' stizzito allungò il braccio per riceverla col giusto tempismo.

Alle mie spalle, il ricevitore mi bisbigliò: «Devi colpirla quando ti arriva, mica scansarti.» C'era del risentimento nella sua voce, camuffato da amicizia forzata dal momento che chi aveva formato le squadre ci aveva messi assieme.

Io non risposi. Strinsi i denti e gli occhi, mi diedi delle arie sul posto e mi riposizionai.

 

La verità era che nessuno di noi sapeva come diavolo si giocasse a baseball. L'avevamo visto solo sui fumetti, nei film, nelle serie tv e cose simili: adesso che avevamo deciso di provarci, sinceramente ne stava uscendo fuori un disastro. Solo Michael, che era il più bravo di noi nelle ore di ginnastica a scuola, ostentava una certa sicurezza nell'assegnare ruoli e coordinare movimenti, posizioni e punteggi. In modo piuttosto discutibile, comunque. Ma nessuno osava, o aveva voglia di, contraddirlo.

«Tu devi correre in quella base più velocemente che puoi, appena dopo averla colpita» aveva inveito contro il battitore, Simone, dopo che era miracolosamente riuscito a centrare la pallina con la mazza dopo il terzo tentativo, ma poi se ne era rimasto appollaiato sul posto in stato di confusione. «E poi andare là, alla seconda. La terza, la quarta... devi arrivare in casa base, quella lì!» aveva continuato indicando i vari punti del campo a forma di diamante che egli stesso aveva delimitato stendendo una corda sul prato.

La maggior parte di noi aveva annuito consenziente, più che altro per timore di beccarsi una sgridata da lui. Nessuno voleva farsi sgridare da Michael. Ancor meno farsi toccare da lui. Tutto di lui era grosso e forte - tranne il cervello, purtroppo. Eccetto quando si parlava di sport, forse. Ribadisco il forse.

Mentre Luca, che faceva il ricevitore dietro di me, bisbigliava dell'altro e io mi concentravo per ignorarlo, drizzai la schiena e mi preparai.

«Alza la mazza» disse Michael. A disagio, impugnai più forte l'estremità di questa e la sollevai all'altezza delle spalle. Mi sentivo goffa, inesperta, in un ruolo che non mi spettava. Cercai di respirare a fondo, ma qualcosa in mezzo allo stomaco, simile a un sasso, mi impedì di farlo. Deglutii e mi senti le orecchie bollire.

«Vai!» scandì Michael, dando il via a Simone per lanciare. Così quello caricò il lancio; non fu per nulla figo come facevano i lanciatori nel baseball nelle partite vere, o perlomeno nei film sul baseball. Tirò indietro il braccio e mi scaraventò contro la palla.

Lucia ed Elena, le altre due ragazze membri della squadra - anche loro messe a casaccio da qualche parte dentro al diamante - trattennero sonoramente il fiato e dissero qualcosa, probabilmente per incitarmi, ma io non le udii.

Quando la palla fu a un niente da me feci aderire la mazza al corpo, dandomi una botta sulla testa da sola (fortuna che indossavo il caschetto), mi ritrassi a sinistra istintivamente e schivai la palla. Quella finì dritta nel guantone enorme di Luca, che stava già sogghignando.

Michael sospirò affranto. Gli altri mormorarono, non so che cosa; io stavo andando a fuoco.

«Sentite, io non me la sento» trovai il coraggio di dire, fregandomene di quanto fossi rossa in faccia. «Non ci riesco.»

«Ma se non ci stai neanche provando!» mi accusò Michael, coi suoi piccoli occhi scuri, come quelli di un orso, troppo spalancati e rivolti verso di me.

Accusai in silenzio.

«Michi, senti» intervenne Elena, che era la più coraggiosa e spigliata di noi tre ad avere a che fare coi ragazzi, «lasciala stare. C'è chi è più bravo e chi meno, lei non se la sente. Vado io al suo posto.»

Io intanto mi liberai del caschetto, provvedetti subito a riappiattirmi i capelli e sfilai fuori dal campo, non vista. O almeno così credetti.

«Non giochi più?» mi domandò Michael, accusatorio.

Mi voltai a malapena, rigida, e balbettai qualcosa d'incomprensibile. Non m'importava cosa stava dicendo Elena per difendermi di nuovo: avevo soltanto voglia di uscire dal campo e andare al mio zainetto, sotto all'albero dove l'avevo riposto, a stare un po' da sola. Da sola stavo sempre meglio, soprattutto in quei casi.

Il sole era caldo e il vento era tiepido e debole quel giorno. Avrebbe dovuto essere un pomeriggio di fine anno scolastico all'insegna della leggerezza, del divertimento e dello spirito di unione sbocciato dal fatto di condividere, come classe, quel periodo insieme. Invece io non riuscivo a sentire più niente di tutto ciò... come al solito, la mia imbranataggine nelle cose fisiche la faceva da padrona e rovinava il mio umore e anche, per qualche assurdo e stupido motivo, quello di chi avevo intorno. Ero un disastro, niente di più.

Feci sbattere con noncuranza la schiena contro il tronco dell'albero, accovacciandomi sull'erba. Non mi importava se faceva male. Presi a trafficare con lo zaino al mio fianco, anche se non c'era assolutamente nulla con cui trafficare.

«Ehi» fece la voce di Lucia. Di scatto mi voltai e la vidi torreggiare su di me, con un sorriso gentile ma uno sguardo carico di preoccupazione.

Mi trovavo davvero bene con Lucia. A lei non fregava molto dei pettegolezzi o delle cose da ragazze. Le importava semplicemente essere sincera e onesta, e sforzarsi di essere una buona amica; più o meno come me, solo che io invece facevo un po' fatica sull'essere una buona amica.

«Ehi» replicai, fingendomi serena.

Lucia si aiutò con le mani per sedersi e si mise accanto a me. Era un po' più corpulenta di me, e anche delle altre, ma sembrava sempre a posto con se stessa.

«Che palle Michi, eh?» mi bisbigliò.

Non dissi nulla. Abbassai gli occhi sulle mie scarpe da ginnastica. Poi li alzai, pesanti, su Michael, che stava ancora discutendo con Elena sbracciandosi e gonfiandosi come un tacchino.

«Pensa che gli piaci» proseguì Lucia.

Il sangue mi si rigirò nelle vene. Rimasi senza fiato qualche istante. Ero di nuovo rossa in volto?

«Eh?» fu tutto ciò che riuscii a dire, in difficoltà.

«Così dice Elena, a quanto pare. Che l'ha saputo da Martina.»

Tanto a me non importa. E' un idiota, pensai d'improvviso, con fermezza, come una passata di ramazza a spazzar via quella novità indesiderata. Presi a torturare i lacci delle scarpe con le dita, poi mi voltai su Lucia.

«A te piace?»

«Michi? No!» ribatté lei senza un attimo di tentennamento. «E a te?» Lo disse come se rispondere affermativamente fosse qualcosa di vergognoso.

Io scossi il capo, malcelando un sorriso storto. «Neanche se mi pagano.»

Eravamo entrambe evidentemente a disagio, anche se io ero sicura di esserlo di più rispetto a lei. Lucia sembrava sempre così tranquilla, disinvolta, con le parole giuste da dire al momento giusto. Per un lungo istante mi sorpresi a osservarle il piccolo disegnino di una freccia nera avvolta dalle fiamme con un teschio all'estremità, quello che si disegnava sempre, sotto all'orecchio. O glielo disegnava qualcun altro a casa, non l'avevo ancora capito. Sapevo solo che non era un tatuaggio vero e proprio, perché mi aveva detto che i suoi non gliel'avrebbero mai permesso.

Lucia dovette percepire i miei occhi su di lei, perché si girò rapidamente a intercettare il mio sguardo: i suoi occhi erano verde screziato di grigio-azzurro. Calmavano.

«Che c'è?»

«Niente» ribadii incupendomi e, subito dopo, chiedendomi perché mai lo stessi facendo. «Mi faccio un giro.»

«Quindi non giochi più?» mi chiese lei, un po' dispiaciuta.

«No.» Mi stavo già alzando e allontanando.

«Ma dove vai?»

«Resto qui vicino» assicurai, alzando una mano aperta in segno di saluto, senza voltarmi.

 

E così mi feci una passeggiata, a debita distanza dal campo da baseball improvvisato, assicurandomi di ignorare bellamente ogni tentativo di (quasi) chiunque di intercettare la mia attenzione.

Essa era diretta su una sola persona, nei miei pensieri: Lucia. Perché la trovavo... interessante? Cioè… così. Era strano. Per la prima volta da quando la conoscevo, quel giorno mi ero sorpresa assorta sul suo tatuaggio finto e sulla sua presenza accanto a me, in un modo mai provato prima. Come se... come se mi piacesse. Nel senso, più che come amica.

Una parte di me, fuori dal mio controllo, si era immaginata mano nella mano con lei, e poi percepire il suo profumo.

Non solo come amiche.

Deglutii. Cercai di equilibrare quella sensazione nuova e traballante per mezzo di un profondo sospiro, e grossomodo ci riuscii.

 

Di sicuro, avrei schivato Lucia per un po'. Riprovare quelle cose mi spaventava. Non tanto perché fosse sbagliato, assolutamente no. Ma perché… insomma. Dai. Lucia era un’amica. Un’amica e basta!

 

Che dolce ero… quel che non sapevo, era che l’anno dopo ci saremmo messe insieme.

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Capitolo 3
*** La mappa delle meraviglie ***


Giorno 5 Ottobre:

Mappa

 

 

 

 

 

 

LA MAPPA DELLE MERAVIGLIE

 

 

 

«Io-voglio-una-mappa» ripeté Wallace, più torvo che mai.

«M-ma... caro» balbettò il padre, stempiato e con un paio di occhiali da vista a fondo di bottiglia inforcati sul naso. «L-lo sai, che n-non posso dartela.»

Wallace rimase ingrugnito, infossato nella poltrona del salotto che era grande almeno tre volte lui, i pugni stretti piantati sui braccioli.

Sotto l'arco d'entrata della stanza una donna bassa e adorabilmente grassoccina stava appoggiata allo stipite, in apprensione ma tutto sommato sorridente. Indossava un grembiule blu a fiori bianchi. Quando la notò, il marito le si avvicinò e prese a bisbigliare con lei.

«Non so più che fare!»

«Ma cosa vorrebbe dire, Lud! Sei suo padre, insomma... fai qualcosa!»

«E che dovrei fare?! Più che dirgli che non esiste... non esiste!» Allargò discreto le braccia, infossando la testa nelle magre spalle. Il movimento lo fece sembrare ancor più scialbo di quanto non fosse, in quel suo golf color mostarda con le maniche arrotolate. «Che devo dirgli, ancora?»

La moglie lo fissò preoccupata, assente. Poi ebbe un rinsavimento, un’illuminazione.

«Vai alla bottega di Mister Magorium!»

Lud fece una faccia incredula. «Mister... !» Si accorse di aver parlato a voce troppo alta e la riabbassò, proseguendo: «Mister Magorium? Ma sei impazzita? Quello è fuori di testa!» Parlava quasi strozzandosi. «Non posso andarci, là dentro. Non ci va nessuno.»

Rebecca, la moglie, rimase impassibile e radiosa. Poi esclamò, dopo un po', dato che Lud non diceva niente: «E' l'unico modo.» Si sporse per guardare il figlioletto oltre la spalla del marito: era ancora perfettamente immobile, inglobato dalla poltrona, inferocito. Ritornò su Lud. «E lo sai anche tu.»

 

E così, mezz'ora dopo padre e figlio si trovavano lungo il marciapiede crepato e asciugato da decenni di solleoni, a camminare stancamente sotto un cielo grigio che annunciava una giornata piuttosto scialba. Wallace camminava davanti, a passo spedito e muovendo i piedi in modo forsennato; il padre invece gli stava dietro e doveva sforzarsi per stare al passo.

«Muoviti» ringhiò Wallace.

«A-aspetta.» Lud lo raggiunse. «Ma hai c-capito almeno dove stiamo a-andando?»

«Si» disse truce il ragazzino.

Seguì un lungo momento imbarazzante durante il quale Lud si sforzò di dire qualcosa di carino senza riuscirci, e Wallace che si infilava le dita nel naso e guardava in cagnesco le macchine passare sull’asfalto.

«Vedrai che l-là la troveremo, eh?» riuscì alla fine a dire Lud.

Wallace non rispose, perché in quel momento svoltarono l'angolo e a pochi metri di distanza, in alto, apparve l'insegna della Bottega di Mister Magorium: un'enorme freccia con lucine al neon e il faccione sorridente del proprietario stampata sopra. Lampeggiava in una lenta e morbida intermittenza.

«Ah! Eccoci arrivati!» Con un sorpasso sorprendente, Lud passò avanti al figlio, lo prese per mano -con evidente disgusto di quest'ultimo- e lo trascinò all'interno del negozio spingendo la porta, che fece un Tlinnn-tliiinnn inequivocabile.

 

Non appena furono dentro, fu d'obbligo una sosta lì su due piedi, almeno per orientarsi e capire da che parte girarsi.

Inutile dire che chiunque entrasse nella Bottega finisse per restare un attimino disorientato, proprio come adesso papà e figlio: si, perché dinanzi a loro si stendeva un mare di corsie, ripiani, mensole, mobilia, vetrine, bauli e cassapanche, tavoli e sedie, barili, cuscini e chi più ne ha più ne metta, il tutto dipinto di una quantità e varietà di colori talmente grande da far venire voglia di stropicciarsi gli occhi. Ed ogni singolo oggetto appena elencato conteneva ed esponeva innumerevoli giocattoli delle più disparate fogge e tipologie.

Persino il pavimento, i muri ed il soffitto della bottega erano di colori sgargianti e fuori luogo: il primo era a pois arcobaleno, i secondi di un bel rosso velluto-babbo-natale ed il terzo, dulcis in fundo, nero puntinato di stelle bianche.

Numerosi ventilatori da soffitto facevano girare le eliche a velocità moderata, alle quali c'era attaccato un po' di tutto: festoni di carta, palloncini, molle colorate e altra roba difficile da catalogare. Da immaginarsi l'effetto.

Regnava un baccano assordante, ovviamente, ma in un qualche modo non dava fastidio, aveva una sua armonia. E pullulava dappertutto gente d'ogni età - ma principalmente bambini e ragazzini.

 

«AAAAAH!» esclamò gaia e fortissima una voce, dopo di ché seguì un battimani entusiasta, schioccante. Spaventati, Lud eWallace si voltarono da quella parte e videro nientepopodimeno che il signor Magorium in persona! Che veniva loro incontro con indosso il suo miglior vestito, quello azzurrocielo cosparso di piccole banane caotiche (anche il cravattino, estremamente elegante, aveva quel motivo, così come la camicia sotto; a bocca aperta, Wallace gli intravide i calzini sotto l'orlo dei pantaloni: erano uno viola intenso e l'altro bianco latte). Mister Magorium era un signore in là con gli anni, sui settanta a occhio e croce. Possedeva un viso triangolare e ridenti guance rosee, con un bel paio d'occhi spesso stretti fra una miriade di rughe. I suoi capelli erano famosi per non essere mai in quadro ma, al contrario, sparati in ogni direzione senza un ordine preciso. Era privo di barba o baffi e, tutto sommato, appariva come un uomo che si prendeva cura di sé.

Una volta raggiunti ad ampie falcate, il signore si fermò accanto a padre e figlio e, sorridentissimo, si fregò le mani. «Che cosa abbiamo qui?» Li squadrò con gaia minuziosità.

Lud si schiarì la voce a fatica, circondò col braccio le spalle del figlio - che guardava da sotto in su Mr.Magorium con un'aria assolutamente deridente e incredula - ed esordì con: «S-salve. Sarei qui p-per una mappa p-per mio figlio.»

«Sarebbe, o è?» ribatté Magorium.

«... come, prego?»

«Avete detto che sareste qui per una mappa per vostro figlio. Ed io vi ho chiesto: sareste, o siete qui per la mappa?» spiegò meglio Magorium, eloquente, fluido e disponibile. «C'è differenza.»

Impacciato, Lud si raccapezzò come poté (deglutì e cercò, inutilmente, complicità nel figlio) e rispose «Sono, sono».

«Ottimo! Seguitemi, per di qua.» Magorium scattò da una parte e i due furono costretti a seguire la sua scia. Camminava rapido e arzillo; passando tra un espositore e l'altro, dava un buffetto sulla guancia ad una bimba o scompigliava i capelli ad un bimbo quando li incrociava. Ad un certo punto si fermò per ammonire un giovincello sugli undici anni alle prese con un enorme aeroplanino di carta, dicendogli a voce alta: «No, Rowan, quello non si fa volare! Leggi meglio le istruzioni, c'è tutto dentro. Premi il pulsante e sta' a vedere!» Ridacchiando sotto i baffi riprese a camminare; Lud e Wallace, passando accanto a Rowan, lo videro premere un bottoncino all'interno di un enorme libro di cartone con le pagine spesse: l'aeroplanino vibrò in aria roteando, emise una pernacchia e si sbriciolò in una pioggia di palline di carta.

«Di qua!» insistette Magorium, invitando padre e figlio a infilarsi dentro una porta, oltre la quale il buio impediva di vedere. I due obbedirono, al che il proprietario della bottega chiuse la fila lasciando la porta aperta e poi accese la luce. Si trovavano ora in una sorta di ampio sgabuzzino, o di sala della caldaia con annessa roba a caso accatastata qui e là.

«Ah, è quello là in fondo. Il baule a forma di ostrica dentata. Si, si, quello! Apritelo. Ma prima accarezzatelo... mannò, non così! Insomma!»

Un po' seccato, Magorium avanzò e raggiunse il baule in questione, che stava borbottando infastidito dalla poca gentilezza di Lud. Lo carezzò mormorandogli: «Sei bellissima, mio tesoro» con fascino e dolcezza. Quello si spalancò lentamente, anche se un po' titubante, senza un rumore. Al suo interno c'era della cianfrusaglia; o almeno questo fu ciò che pensò Wallace - e ciò che disse Wallace.

Senza far caso a lui, Magorium rovistò al suo interno fino ad estrarne un lungo e spesso tubo dorato. «Aaaah! Eccola qui.» Si spostò ad un tavolo spinto contro la parete, tolse il tappo al tubo e ne sfilò, con estrema attenzione e delicatezza, quella che sembrava proprio una mappa, fatta di pergamena ben pulita e apparentemente nuova.

«Ecco qui la Mappa delle Meraviglie!» disse Magorium, sempre gaio, porgendo con entrambe le mani a papà e figlio la mappa ancora arrotolata.

«E-eccellente!» tubò Lud. Gesticolò. «Forza, Wallace, prendila.»

Il figlioccio guardò torvo il padre. «Ma quanto costa?» Parlava sempre lentamente e come se ogni frase contenesse una minaccia neanche tanto velata.

«N-non preoccupartene, ci pensa papà. T-tu prendila» lo invitò Lud.

E così Wallace andò a sgraffignare, più che a prendere, la mappa dalle gentili mani di Mister Magorium, il quale, senza far svanire il sorriso, assistette alla scena e poi si ritrasse un poco.

Senza chiedere indicazioni o permessi, il ragazzino afferrò i lembi della mappa e la stirò con malgrazia per aprirla.

Assunse un'espressione tremenda.

«Ma è vuota» gracchiò. Al suo fianco, Lud era impallidito ed ora fissava Magorium in attesa di delucidazioni.

«Ne sei proprio sicuro?» domandò l'anziano signore, facendosi dubbioso. «Mh. L'ultima volta che l'ho aperta, ero sicuro di averci visto qualcosa. Fammi vedere. Non sia mai che...»

Wallace ridiede la mappa al legittimo proprietario senza più il minimo interesse, già pronto ad aprir bocca col padre e rivolgergli chissà quale cattiveria; ma Magorium fece, deciso: «Ooooh, no no, signorinello mio. Qui c'è qualcosa. Non hai guardato bene. Prova di nuovo.»

Wallace si voltò. Magorium teneva la mappa aperta e rivolta verso di lui, di modo che potesse osservarla senza doverla reggere.

«E' - vuota» scandì seccato Wallace.

Al che, Magorium si rabbuiò un poco. Non un buon segno, non un buon segno! Senza spostarsi o cambiare postura, volse l'attenzione su Lud e chiese, con cipiglio intellettuale e interessato: «Quand'è stata l'ultima volta che suo figlio ha giocato a qualcosa?»

«Aaaaaah....» vocalizzò Lud, in difficoltà.

«Partita di quiddich? Uno? Carte? Sognato ad occhi aperti?» rincarò la dose Magorium.

«Ma di che cosa sta parlando, mi scusi?» disse stralunato Lud, sistemandosi gli occhiali.

«Sto parlando» proseguì sicuro Magorium «del fatto che suo figlio non è più un bambino, sebbene debba esserlo, signore mio.» Quindi posò lo sguardo celeste su Wallace. «Signorinello. Quanto fa due più due?»

«.... quattro. Per chi mi ha preso, per un idiota?» ribatté quello.

«Mmmmmmmh» mugugnò Magorium, profondamente deluso e pensieroso. «Chi va all'osteria?»

Wallace rimase in silenzio, offeso.

«Un ultimo tentativo» lo sfidò l'anziano, ri-arrotolando la pergamena e adagiandosela sotto braccio. Si chinò su di lui. Prese un profondo respiro e gli sussurrò: «Ti piace giocare con le bolle di sapone?»

«Papà, andiamocene di qua» si lamentò Wallace, ignorando Magorium e tirando Lud per i pantaloni.

«Porta!» strillò Magorium; la porta dello sgabuzzino si chiuse da sola. Clack, la serratura girò senza che alcuna chiave fosse inserita. «Signori miei» proseguì Magorium, tornato dritto. Aveva posato la mappa sul tavolo e stava incrociando le braccia al petto, serio. Scosse la testa. «Lo sapete che posto è, questo?»

«Un negozio di giocattoli» rispose in ritardo Lud.

«Esattamente.» Magorium lo indicò coll'indice. «Ma non solo. Non solo. Ve lo richiedo un'altra volta. Che posto è questo?» E dopo un po', dato che nessuno dei due interlocutori rispondeva, aggiunse: «Che cosa si fa qui?»

«Si comprano giocattoli?» ipotizzò arrogante Wallace.

«Si gioca coi giocattoli. Si gioca.» Carico di affetto e tenerezza, Magorium si avvicinò loro quel tanto che bastava da accorciare ogni distanza. Si accucciò per raggiungere in altezza il viso di Wallace. Lo fissò a lungo, coi suoi occhi azzurri grinzosi e profondi e liquidi come pozze limpide su cui si rifletteva la luce di stelle immortali. Wallace si ritrovò a specchiarsi in quegli occhi... vide il proprio viso, e vide che era triste e piangeva. Vide se stesso urlare a suo padre, e poi a sua madre. Vide se stesso infuriato, barricato dentro la propria camera da letto, a strappare fogli dai libri e insultare le pareti ed ogni singola cosa lì dentro.

 

«Perché vuoi la Mappa delle Meraviglie, ragazzo mio?» gli domandò Magorium, dolcissimo, quasi commosso, ma ancora sorridente. «Dimmi la verità.»

Lud, lì accanto, assisteva impagliato e impotente.

«Perché sono triste, e non so più che fare per divertirmi in casa. E ho pensato... che una mappa potesse aiutarmi.» Ogni traccia di spavalda cattiveria era svanita dalla sua voce: c'erano soltanto dolore e pianto represso.

Allora Magorium lo prese per le spalle e intensificò lo sguardo. «Lo so. Lo so, ragazzo mio. Non è colpa tua. E forse non è nemmeno colpa dei tuoi genitori. Ascolta. Ti va di guardare un'altra volta la mappa? Ti prometto che non è vuota. Sopra c'è scritto il tuo destino. C'è scritto che cosa devi fare per essere felice, proprio come vuoi tu.»

Wallace annuì e basta. Magorium si alzò e andò a prendere la mappa, poi tornò e gliela aprì accucciandosi di nuovo.

«Che cosa vedi?»

Wallace guardò il proprio riflesso sulla dorata superficie lucida all'interno della mappa, come le altre volte. Non osò parlare. Era troppo triste.

«Che cosa vedi, Wallace?» ripeté Magorium, che conosceva il nome del ragazzo senza che glielo avessero detto. «Dì solo che cosa vedi.»

«Io.»

L'anziano sorrise. «Esatto» fece dopo una pausa. «Tienila. Te la regalo.» E gli passò di mano la mappa.

Lud saltò su: «M-ma signore... noi n-non possiamo accet-»

«Sciocchezze» lo sbolognò Magorium con annesso un gesto della mano, tiratosi in piedi. «Potete andare quando volete.»

Ma Wallace era ancora un po' confuso e derelitto, lì con la mappa aperta ed il proprio riflesso smoccoloso sotto al naso.

«Signore» esclamò, timido, infine.

«Si?» fece Magorium.

Titubante, Wallace domandò: «E se... e se non capisco cosa vuole dirmi?», sollevando la mappa.

L'anziano si aprì in un altro sorriso e sventolò una mano in sua direzione. «Bricconcello che non sei altro! Ma allora non hai ancora capito! Non c'è un bel niente da capire! E' questo il bello!» E si lasciò andare ad una gioviale risata. Dopo di che andò verso Lud, lo prese per il colletto della camicia e lo sospinse verso la porta. «E adesso fuori da casa mia, che me la riempite di puzza di naftalina. Poi devo passare con gli arbre magique almeno cinquanta volte prima che se ne vada.»

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Capitolo 4
*** La Stella che danza ***


Parola di oggi 6 Ottobre:

dorato

 

 

 

 

 

LA STELLA CHE DANZA

 

 

Perché nessuno ci insegna ad essere felici?

Nessuno ci dice mai “tu sei responsabile della tua felicità”, quando si cresce.

Dovrebbe essere un fatto essenziale e anzi, obbligatorio, affinché tu impari ad entrare nell’Età Responsabile con la giusta prospettiva.

 

Tutti ti dicono cosa “dovresti” fare per essere sano, o felice.

La scienza. La politica. La religione. I genitori. Gli amici. I parenti. I colleghi. Lo stato. I vicini. Il guru. Il sapientone. Lo speaker. La ricerca. Lo studio. Il libro.

 

Ma tu.

T U.

Tu. Che cosa vuoi?

Tu.

Chi sei TU?

 

Cosa ti rende felice?

COSA TI RENDE FELICE.

E’ una domanda così semplice. Basta. Niente complicazioni. Niente inalberamenti incredibili. Cosa ti rende felice?

Come vuoi vivere questa vita?

Non c’è giusto o sbagliato. Non c’è più o meno. Non c’è tecnica o filosofia che tenga.

 

 

Ho esplorato in lungo e in largo questa “mente adulta”, cercando di trovarci qualche statuetta d’oro in questo dannato labirinto senza fine. Ma ogni angolo svolta su una nuova strada, e non c’è l’uscita. E niente brilla davvero.

Il punto è che io sono partito dal centro, al contrario di quel che ci si aspetterebbe. E senza saperlo.

E ogni volta che ho trovato qualcosa d’oro, alla fine era solo placcato.

 

Solo per accorgermi che l’Oro Sono Io. Sono Io la Stella che Danza, cieca. Non Vede la Sua Luce e cerca, cerca la luce fuori.

Sto Giocando a fare finta di essere adulto, alla ricerca di risposte in un posto che non può offrirmene.

 

 

Cosa ti rende felice?

Come vuoi vivere la tua vita?

 

C o s a t i d i v e r t e ?

Eh, ma che domanda! Stupida, infantile!”

 

 

Sorrido.

Il silenzio, le lacrime e il mio cuore mi sono testimoni della verità.

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Capitolo 5
*** Il Re dei Rospi ***


Parole chiave dei giorni 7 e 8 Ottobre:

Goccia

Rospo

 

 

 

 

 

 

 

 

IL RE DEI ROSPI

 

 

Squiiick ! Sfilo lo stifale dal denso fango cremoso. Splofch. Lo infilo pesantemente un poco più avanti.

Squiiick! Splofch. Squiiick! Splofch. E così via, insomma.

Cammino in questa palude da giorni ormai, alla ricerca della fantomatica rana, o rospo che sia, che mi rivelerà la soluzione al mio malanno. Insomma, tutti quanti mi hanno decantato la sua infinita saggezza: mi han detto, «vai da lui che saprà sicuramente di cosa hai bisogno». Al che io ho ribadito, «si, ma è una rana», e loro tutti a scaldarsi e offendersi, no? E a dirmi «Prima incontralo e poi mi dirai!». Al che ho smesso di discutere e, dopo un'ora o due di indecisione, alla fine mi sono deciso.

Non immaginavo, però, che avrei dovuto trovarlo. Pensavo che si facesse trovare da solo. E invece.

 

Cammino in questa folta e fitta giungla da... ore? Credo siano ore ormai, si. Anche se il paesaggio a volte è talmente monotono che si ha quasi l'impressione che siano passati giorni. E' un po' tutto uguale, qui. Il tetto di fogliame e felci giganti ti gocciola perennemente in testa, dandoti l'impressione che piova anche se all'effettivo non sta piovendo. E quando piove veramente, beh, è un macello, anche con l'adeguato equipaggiamento, come ho fatto io. Puoi avere anche tre cappelli addosso e gli stivali buoni, ma alla fine ti ritroverai impantanato e inzuppato fino alle mutande, non c'è niente da fare. E poi, la repentinità con cui la pioggia arriva! E se ne va. A dir poco incredibile.

 

E non è che non ce ne siano, di rane e rospi, nei dintorni. Eccome! E' pieno, dappertutto. Gracidano, borbottano, si punzecchiano, cantano, sillabano, mugugnano, fischiano, ringhiano (?). Ormai ho trovato molti modi per definire il loro verso.

Il punto è che la mia rana, quella che sto cercando io (non ho ancora capito se è una rana o è un rospo, e so che c'è una qualche differenza) è un po' diversa dalle altre. So soltanto che è il Re delle Rane (o rospi) e quindi quando lo avrò trovato lo capirò.

 

Mi siedo sotto l'ennesima felce gigante, adagio la schiena contro il massiccio fusto spigoloso e coriaceo e tiro fuori una sigaretta dal taschino. Me la infilo in bocca - ma qui è troppo umido. E' la seconda volta che provo a fumare qui nella giungla: voglio cogliere l'occasione adesso che non sta piovendo.

 

«Vuoi da accendere?»

 

Mi si rizzano i peli sulla nuca. Mi volto a destra, da dove è provenuta la voce, gracchiosa e dal chiaro timbro maschile. E mi ritrovo faccia a faccia con un rospaccio grosso come un rottweiler.

Era già qui e non l'ho visto? Probabile... è dello stesso colore di... beh, tutto quanto il resto.

Il rospone mi fissa con uno dei due globi oculari giallastri; l'altro guarda diametralmente da un'altra parte. Ha la pelle di un verde molto scuro ed è liscia e umida, increspata in diversi punti randomici da bozzi e protuberanze piuttosto selvagge e dall'aria antica. Ha un aspetto imponente e massiccio. Se spalancasse per intero la bocca, molto probabilmente potrebbe ingoiarmi senza difficoltà, o almeno provarci.

 

Ho scollato le labbra l'una dall'altra, ma non ho ancora proferito parola; sono troppo inebetito dal suo aspetto e dalla sorpresa di trovarmelo davanti.

 

«Ero ironico» prosegue quello, inespressivissimo. Si sistema sulle zampotte. Ha delle spalle più grosse delle mie, manco si pompasse in palestra. «Che fai, fumi?»

«Uh...» Riallaccio i pensieri alla lingua. «... si.»

«Qui non si fuma» dichiara perentorio il Rospo.

«Oh.» Obbedendo istintivamente a quell'ordine, ripongo subito la sigaretta nel pacchetto all'interno del taschino. Poi, inquieto, resto indeciso se rialzare gli occhi su di lui oppure no. Alla fine gli domando, con lo sguardo fisso sul fango bagnato che mi copre gli stivali: «S-sei il re dei rospi?»

Il Rospo inala una gran quantità d'aria, rumorosamente. «Si» dichiara di nuovo. ''Dichiara'' è certamente il verbo più adatto. E se ne sta zitto.

Devo, devo fargli un'altra domanda adesso: sento che, se non gliela faccio, potrei finire nei guai.

«Mh... mi è permesso stare qui?»

Il Rospo batte lento le palpebre, lo vedo con la coda dell'occhio. «Si.»

Deglutisco. Ora azzardo: lo guardo direttamente.

E' veramente grosso. E' per forza il re dei rospi. Ha persino una sorta di cresta dentellata, ora che lo osservo con più attenzione, proprio sopra la testa: una coroncina carnosa semicircolare, sopra agli occhi. Piccolina, ma fa la sua parte. Wow.

Un po' in ammirazione e un po' in soggezione, mi schiarisco la voce un paio di volte e poi gli faccio: «Vi stavo cercando.»

Lui non dice nulla. Se ne rimane immobile e strabico.

«Mi hanno detto che voi siete un grande guaritore e medico, e che potete curare pressoché ogni male, ecco» proseguo, in tono rispettoso e più calmo possibile. Nel frattempo mi sono sollevato dalla posizione seduta e sono quasi accucciato a quattro zampe. Restare seduto mi sembrava scortese, insomma. «E' così?»

«Si» sillaba il Rospo. Ora piega di qualche grado la punta umida del muso verso di me, così da avermi perfettamente davanti. Ora però nessuno dei due occhi sta guardando me. «Cerchi tu di guarire da un male?»

«S-si, Re dei Rospi» commento, ora prostrandomi in un piccolo inchino, d'istinto. Non so perché l'ho fatto. Ho piantato le mani nel fango per reggere il mio peso in avanti e non me ne pento. Mi risollevo, con grande rispetto. Più sto in sua compagnia, più avverto emanare da lui una sorta di magnetismo, di elettricità molto sottile nell'aria. La avverto nello stomaco. Mi fischia debolmente nei timpani e alleggerisce i miei pensieri. E' piacevole, dopo tutto, ma mette una sorda inquietudine.

«Sto cercando la gioia perduta.»

Il Re dei Rospi solleva il muso per inspirare rumorosamente, un'altra volta. Si sistema ancora le spalle, di nuovo come un palestrato. «Capisco.» Mi ricorda vagamente il capo di una tribù indiana nei modi. «Quale è di preciso il male che ti affligge?» E poi, subito dopo: «La gioia può essere persa per varie ragioni.»

«Ahm... » Bella domanda. Ci rifletto su. In effetti, la mia non è mai stata effettivamente depressione, né mancanza di propositi, quanto più... un senso di vuotezza e di esasperazione, più o meno. Mi umetto le labbra, per assurdo secche nonostante mi trovi nel bel mezzo di una giungla fradicia.

«Non saprei, a dire la verità.» Mi è uscita così.

Il Rospo mugugna. Pare indispettito. «Hai perso la gioia, eh?» Inspira, espira. «Fammi vedere» esclama, ed è palese che sia impossibile rifiutarsi a tale esclamazione. Quindi alza una delle due zampe davanti, apre ben bene le dita e mi piazza il palmo della mano sulla testa. Squick.

Rimango perfettamente immobile, sotto shock. E' come se dalla sua mano diparta un fascio di energia che mi raggela la spina dorsale, dal collo all'osso sacro. E ho la testa come piena di cubetti di ghiaccio.

Dopo quell'istante surreale, il Re dei Rospi stacca la mano e torna in una posizione comoda. Sbuffa dalle narici.

«Voi umani siete tutti uguali» gracchia con placida flemma, e una punta di ammonimento. «Cercate le cose dove non stanno. Poi vi ammalate.»

Spalanco gli occhi. Rimango in attesa, insomma!

«Hai cercato la gioia nella testa» inizia a spiegarmi. «Non è nella testa. La testa non serve a quello, sciocco. Ma devo dirtelo io, che sono un Rospo? Tu puoi benissimo arrivarci da solo.»

Beh, in realtà no. Prova tu, ad avere una testa che pensa da sola tutto il tempo, e poi mi dirai, penso fra me e me. Buffa anche la cosa di per sé, vero?

«Smetti di cercare la gioia dove non è. E la ritroverai» afferma il Rospo. Poi annuisce con soddisfazione. Augh! Ho parlato.

Deglutisco ancora. «I-io...» Non oso dirgli che mi pare un po' scarna e anche inutile come indicazione. Stringo le labbra. «D'accord-»

«UMANO!» tuona senza preavviso lui, spaventandomi a morte. Ha una voce poderosa e vibrante, quando vuole! Mamma mia...che salto m'ha fatto fare... «Osi tu non credere a ciò che ti dico?»

...

«Mh.» Sbuffa. «Tu sei un libro aperto per me. Tutti voi lo siete. Umani. Credete di essere superiori a tutti gli altri esseri del mondo, soltanto perché sapete costruire i palazzi, o scrivere sui libri, o guidare le macchine. Ma non è vero, sono sciocchezze. Perché voi sapete soffrire come nessun'altra creatura del mondo. E sapete perché? Perché siete voi stessi la causa del vostro stesso male.»

Si, però anche senza infierire, penso un po' amareggiato.

«Comunque» prosegue lui «sei qui in cerca di guarigione, ed io te la darò. Poiché questo è il mio compito, e nonostante tutto... voglio bene a voi umani. Mh.»

Rincuorato, cerco di ingaggiare uno dei suoi due occhi gialli, ma senza successo. Non so come lui faccia a guardarmi. Avrà una vista periferica molto buona o cose simili.

«Apri la bocca, umano» mi ordina, calmissimo ma in tono sempre molto perentorio, come se io fossi il suo giullare di corte.

Mi ritrovo terrorizzato di fronte a quel... no, non è un consiglio. O faccio come dice lui, o avrò fatto tutta questa strada e fatica per nulla. E sia... seppur titubante, inclino verso l'alto il mento e apro la bocca.

Intanto, il Re dei Rospi ha innalzato la zampa opposta a quella che ha adoperato prima per toccarmi la testa e farmi quella strana magia. Ora pone la mano umidiccia davanti alla propria bocca, che schiude: e mormora una sorta di «Skhiorrrr» o giù di lì. La cosa assurda è che dal profondo buio della sua ugola impressionante, emerge del fumo verde. Di una tonalità accesissima, sfiora quasi il giallo. Quella fumina gli investe la mano, e sulla mano va a condensarsi, piuttosto in fretta, in un piccolo globo del medesimo colore. Quindi il Rospone comincia a muovere la mano per mezzo di un piccolo movimento rotatorio, come i sommelier quando si danno un tono facendo ruotare il vino nel calice: fa qualcosa, insomma, con quella palletta verde fosforescente, ed essa pian piano va a perdere il colore fino a diventare trasparente, come una semplice goccia d'acqua, però bella grossa.

«Bevi» mi impone, ponendo la mano in prossimità della mia bocca e ruotando il palmo, di modo che il gocciolone ci cada dentro. Io sto ben attento affinché ciò accada - pervaso dalla sensazione di star facendo qualcosa di surreale e onirico, e di starmi cacciando da solo in un problemone che potevo evitare. Oppure... oppure no, ed è esattamente l'opposto?

Come se il Rospo avesse percepito questo mio pensiero, emette un mugugno di disapprovazione mentre ritrae la zampona e la ripianta nella fanga dove stava prima.

E io? Io ho serrato le labbra e ho deglutito la goccia, proprio come un bel sorso d'acqua preso da un bicchiere.

E mi sento cadere.

 

All'improvviso non c'è più nessuna foresta. Niente più felci giganti, né fango; rimane solo il Re dei Rospi dinnanzi a me, che coi suoi occhioni ad angolo ottuso mugghia «Ora cadi», e la sua voce echeggia come dentro una caverna gigantesca.

Ed io cado. Nel vuoto.

E urlo. Urlo come non ho mai urlato prima! Ma non odo la mia stessa voce. Non c'è il suono, qui. Non c'è proprio niente. Eppure cado. Cado, e tutto il sangue nel mio corpo trema di paura.

Finché non atterro in una pozza di liquido scuro, senza farmi male. Mi tiro su: e davanti a me c'è me stesso, però bambino. Mi si avvicina e viene a stringermi a coppa le guance fra le mani, sorridendomi.

«Sei stato proprio uno sciocco» mi dice intenerito.

Come ha detto il Re dei Rospi, rifletto un po' offeso.

Dopo di che il me bambino chiude a pugno una mano eccetto l'indice, e va a toccarmi il centro del cuore mediante quel dito.

 

BOOOOM! Un'esplosione di milioni di schegge di colori arcobaleno, ed io vado in mille pezzi; tutto quanto, qualunque cosa fosse, è andata in mille pezzi, senza però produrre alcun suono. Quel ''booom'' era più la sensazione di ciò che ho provato, come se finalmente mi svestissi di un abito troppo stretto e mi allargassi a macchia d'olio in ogni direzione.

 

«Sei tornato» gracchia tranquillo il Re dei Rospi sopra di me. Io sono crollato di faccia nel fango, a sedere in alto, inginocchiato. Riprendo solo ora a respirare.

«Ora guarirai. Non avere fretta. La fretta non fa guarire. Hai capito?»

Tra un gemito e l'altro, rispondo un «Si» incespicante.

E così com'era apparso, il Re dei Rospi scompare, camminando all'indietro a infittirsi tra il fogliame delle felci che ci circondano.

 

Alla faccia del Re dei Rospi.

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Capitolo 6
*** Papà Castoro ***


Parole chiave dei giorni 9 - 10 - 11 - 12 Ottobre:

rimbalzo

fortuna

vagare

speziato

 

 

 

 

 

 

PAPA’ CASTORO

 

 

 

Nella valle echeggiava forte quel rumore, ormai da giorni. Secco, ripetitivo, brusco, acuto. E martellante. A volte faceva delle pause, belle lunghe anche; poi, ricominciava. Fortuna che non ci abitavano degli umani, da quelle parti, sennò sarebbe stata la fine.

Gli animali però stavano iniziando a dare di matto.

Un mattino ho incrociato un pettirosso che, bisbigliando col suo amichetto picchio, si lamentava: Non ne posso più. Almeno tu non lo senti. E il picchio: Eh, magari, magari, magari! Io invece sento tutto, tutto, tutto. Solo che si ripete, ripete, ripete. E il pettirosso: No, guarda che si ripete comunque, anche per noi. E il picchio che si gonfiava tutto e si voltava, offeso, scrollandosi dalle piume i fiocchi di neve.

L'inverno era nel suo picco ormai e sull'intera valle era calato un adorabile e soffice (e pesante) manto nevoso, che aveva ricoperto gli abeti, incappucciato i rilievi dalla cima alle pendici e congelato il corso del torrente e dei ruscelletti affluenti. Non fosse stato per quel Stack!, Spack!, Stack!, un meraviglioso ovattante silenzio avrebbe accompagnato l'ambiente lungo il decorso della stagione più fredda dell'anno.

 

Così mi decisi ad andare a vedere di che si trattava. Nessuno voleva prendersene la briga perché l'inverno metteva troppa pigrizia - a buon ragione, aggiungerei. Ma io ne avevo abbastanza, e volevo troppo scoprire quale fosse la fonte del rumore.

Al sorgere del sole mi misi a percorrere il torrente ghiacciato. Le mie zampone affondavano nella neve alta lasciando profonde e definite impronte, ma mi andava bene così. C'era poco da preoccuparsi in quella stagione.

Non ci misi molto: nel giro di meno di un'ora raggiunsi la fonte del rumore.

In piedi su un grosso masso c'era Papà Castoro, che faceva rimbalzare la sua grossa e piatta coda contro la pietra. Dei sonagli appesi a ghirlande tintinnavano accompagnando il suono che ogni botta produceva.

«Ehi, Castoro! Che stai facendo? E' inverno!» gli ruggii, cercando di sovrastare il baccano che faceva. Al primo tentativo non mi sentì e dovetti ripetere perché si fermasse.

«Mh? Ah? Che dici, amico?»

Con un sospiro gli ripetei la faccenda. «Guarda che non è la stagione giusta. Devi andare a dormire, stai disturbando tutto il vicinato!»

Quello mi squadrò coi suoi occhietti piccini e indagatori, il nasone che annusava alacremente l'aria, le zampine adagiate contro il corpo e quella sua posizione un po' goffa in piedi sulle due zampe dietro.

«Ah?» mi fece, non convinto. «Ma che stai bamblanando.»

Ora che lo osservavo meglio, notai che indossava un bel paio di cuffione pelose. Paraorecchi. Probabilmente per non assordarsi da solo. Così mi avvicinai - lui arretrò un po' spaventato, ma io gli sorrisi - e gli sfilai le cuffie. Tutto a un tratto si scrollò con meraviglia.

«Oh!» fece.

Rinnovando il sorriso, risi e scossi il testone peloso, per poi darmi una bella grattata al grasso sotto al collo. Poi gli ripetei da capo la storia. Alla fine lui annuì confuso.

«Stavo solo rassodando il cancello» mi spiegò. «Domani chiudiamo casa, spingiamo il sasso davanti alla porta di modo che il freddo non entri più.»

Soddisfatto e comprensivo, cercai di immaginarmi la loro avanzata strategia e tecnologia. Decisi di sedermi lì. Iniziavo ad avere fame; la passeggiata fino alla tana di Papà Castoro era stata più lunga del previsto ed io avevo interrotto il mio letargo appositamente per questo. Ok, avevo il grasso corporeo dalla mia parte e tutto... ma un pizzico di buon sano languorino invernale in mezzo alla neve candida... sfido io chi è capace di non farselo venire, dai.

Mentre mi massaggiavo a grattavo la pancia con gli artigli di tutte e due le zampe, udii Castoro che mi diceva: «Non è che vuoi entrare?»

«Mh?»

«Dentro, insomma. Ti offro un caffè, o un tè. Dei pasticcini.» Si voltò e strillò: «Cara, li abbiamo ancora quei pretzel colla crema?»

Io stavo già borbottando un «Mannò, non ce n'è bisogno...» che da un pertugio, che prima non avevo notato, nel mezzo dell'enorme tana di Castoro fatta di legname e altro materiale vario, venne fuori una vocetta bassa ma femminile che rispondeva: «Li abbiamo finiti ieri, caro! Te li sbafi tutti tu!»

«Non è vero! E' Timothy che se li prende di nascosto!» ribatté Castoro cercando di farsi valere. «Dannazione. La solita fortuna» imprecò dispiaciuto. «Beh, ci sono sempre i wafer.» Mi lanciò un'occhiata complice. «A chi non piacciono i wafer?»

Io risi di nuovo. Mi stavano simpatici i Castori. «D'accordo, d'accordo... in effetti credo di aver perso qualche grammo venendo fin quassù. Un bocconcino non lo rifiuto.»

«Eeesatto!» mi diede corda Castoro. «Hai vagato per la valle in mezzo alla neve per arrivare qui. Come minimo posso darti ospitalità.» Scese allegrotto dal masso e mi fece strada, indicando con la zampina il pertugio poco distante che si apriva, mimetizzato, in quella che era la sua formidabile e apparentemente invisibile tana-casa.

Mentre mi infilavo - lo ammetto, un po' a fatica - nel buco, chiesi a Papà Castoro, che mi stava davanti: «Non è che c'avete i biscotti di marzapane?» Avevo già l'acquolina in bocca.

«Aaaah, quelli speziati?» sottolineò deliziato lui, la voce che echeggiava nel cunicolo. «Ma certamente. Vieni, vieni!»

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Capitolo 7
*** Il Pugnale del Potere ***


Parole chiave dei giorni 13 - 14 - 15 - 16 - 17 Ottobre:

sorgere

castello

pugnale

angelo

demone

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL PUGNALE DEL POTERE

 

 

 

 

I primi raggi del sole mi sfiorarono il viso, lambendomi una guancia. Caldi eppur leggeri, quasi taglienti, affilati. Ma gentili. Ma spietati. Una spietatezza che non voleva ferire: una spietatezza che voleva mostrare. Mostrare ogni cosa, anche e soprattutto se tu ne avevi paura.

I raggi del sole mi lambirono la guancia mentre l'astro sorgeva, spuntando da sopra il dorso di quel colle lontano, mostrando un primo sottilissimo spicchio incandescente.

Allora capii. Capii che fino a quel momento il castello non ero riuscito a intravederlo - figuriamoci trovarlo - non tanto perché fossi io a sbagliare qualcosa, ma perché era fisicamente impossibile da trovare senza le condizioni giuste. Ed eccolo là, adesso, in tutto il suo splendore: il Castello nel cielo, brillante di mille fuochi celesti come riflessi di vetro diamantato, fisico eppur trasparente. Soltanto la luce dell'alba lo rendeva visibile! Avrei dovuto intuirlo dalle scritture, che sciocco sono stato. Ho agito d'impulso, ho avuto troppa fretta e ho ignorato i dettagli fondamentali, quelli che si danno per scontati, oppure si tralasciano per ignoranza vestita da supponenza.

Così mi alzai e mi misi in cammino. E ben presto mi accorsi che camminare non bastava; perciò accelerai l'andatura e mi misi a correre, perché dovevo raggiungere la sommità della collina prima che il sole fosse sorto del tutto. Ne andava della missione.

Guadagnai la cima. Il sentiero, che tagliava il bosco ed io scalai a perdifiato, si tuffava infine in un'ampia radura in mezzo agli alberi proprio sul cocuzzolo del rilievo erboso, laddove, ne ero certo, vi era una via per raggiungere il Castello. Così mi misi a cercare.

Beh, fu una ricerca piuttosto inutile, perché durante quella manciata di minuti durante i quali me ne stavo chinato a cercare chissà che tra i fili d'erba, oppure scrutavo tra gli alberi, non mi accorsi - di nuovo - di un altro dettaglio fondamentale ma apparentemente inutile: al centro esatto della radura il sole disegnava una lama di luce arancione, perfettamente dritta, che si stendeva sul prato attraverso un varco nel bosco.

Fu quando calpestai l'arancione sull'erba che me ne accorsi. Quella lieve, piacevole trazione. Come qualcosa che voleva sollevarmi, sia da sotto che da sopra. Mi solleticò simpaticamente lo stomaco.

Mi raddrizzai, colto da un'intuizione, mentre uno strano brivido mi percorreva il corpo da capo a piedi. Allora alzai lo sguardo. E vidi che il Castello nel cielo era perfettamente sopra di me.

Chiusi gli occhi. E venni sollevato.

So che ad un certo punto socchiusi gli occhi e sbirciai: stavo letteralmente fluttuando verso l'alto. Le cime degli alberi erano già sotto di me. Ed io non avevo paura. Stavo benissimo. Ero in pace. Anche se sapevo dove stavo andando.

All'ultimo alzai di nuovo gli occhi, e notai che il pavimento sotto al Castello si era aperto in un quadrato di luce: doveva partire da lì il raggio traente, ed io ci stavo andando dritto dentro. Assistetti ad occhi aperti all'ultimo tratto fino a quando non varcai l'entrata, la forza invisibile mi sostenne un istante sopra al pavimento, l'apertura si richiuse ed io venni lasciato cadere in piedi, illeso.

Mi trovavo dentro al castello. Incredibile! Credevo che, a quel punto, come minimo mi sarei sentito esagitato, febbricitante, con le palpitazioni; e invece, niente. Me ne stavo lì, col fiato sospeso, ad accorgermi che dall'interno del Castello non si vedeva niente di fuori, al contrario di quel che si potesse pensare. Lì era tutto buio. Non avevo la minima idea di quanto lontane da me fossero le pareti, né se mi trovassi effettivamente in una stanza o chissà dove. Però stavo bene. L'aria era tiepida e inodore. Percepivo il mio stesso respiro con un leggero eco.

Poi, dinnanzi a me si spalancò un'altra porta, squadrata, su quella che, ora la vedevo, era una parete. Una porta scorrevole, violenta, veloce. Mi inondò una luce giallo-rosa accecante. Un chiaro invito.

Mi avviai. Scoprii, con tranquillità, che l'impercettibile pavimento mi sosteneva. Con una mano a parare quella luce insostenibile, accorciai le distanze e infine attraversai la soglia.

«BENVENUTO» tuonò una voce. Al che sobbalzai. Ma come minimo, cioè. Mi era vibrata dentro fino al midollo delle ossa. Sobbalzai per la sua portata sonora, non tanto perché mi aveva spaventato.

Pian piano, senza fretta - continuavo, assurdamente, a non avere il benché minimo briciolo di paura in corpo - tolsi le mani da davanti alla faccia, poiché riuscivo a tollerare sempre meglio la luce. Così riuscii a capire dove mi trovavo.

Si trattava di quella che a un primo impatto appariva come una sala del trono: al centro, a una decina di metri avanti a me, c'erano due troni giganteschi e identici, uno di fianco all'altro, sui quali sedevano due esseri a dir poco titanici. Saranno stati alti almeno cinque metri (da seduti!). Per il resto la sala non era molto decorata: qui le pareti sembravano (semi)trasparenti come avrebbero dovuto essere, fatte di luce cristallizzata e di cangianti riflessi opalescenti. Anche il pavimento appariva della medesima fattura. Non c'era mobilia né altra suppellettile, se non qualche incombente lampadario di cristallo stracolmo di candele accese luminosissime - però la luce presente non era irradiata da loro, no. La luce giallo-rosa che illuminava fortissimo la stanza veniva prodotta dai due esseri seduti sul trono... anzi, no; ora che guardavo meglio, mi accorsi che a metà strada fra i due troni c'era una sorta di globo luminescente. Era quello a produrre la luce. Di cui i due esseri erano vestiti, circonfusi, e a loro volta la riflettevano dappertutto.

In quei fugaci istanti in cui mi fu permesso di guardarmi attorno senza essere interpellato, mi sentii investito da un senso di beatitudine e... potere, si... potere! Senza eguali. Ogni cosa in quel luogo traboccava di potere. Un potere immane, qualcosa di sovrumano... o per meglio dire, l'umano non vi era estraneo e poteva accedervi, ma non era lui la fonte del potere. Ecco.

Poi quel sublime momento di estatica contemplazione finì - non mi stavo nemmeno domandando chi fossero i giganti sul trono, né il motivo della loro presenza - perché venni nuovamente chiamato.

«CHI SEI» chiese l'impetuosa voce. Non era una domanda (infatti manca il punto interrogativo), anche se esigeva una risposta. Da me.

Come se venissi docciato da una secchiata d'acqua gelida, ora ebbi timore. Non paura, ma timore. Avrei potuto dire qualcosa di sbagliato... ? Schiusi le labbra e, balbettando gemiti muti, riuscii a mormorare: «Sono...»

«CHI SEI» ri-tuonarono le voci, in coro. Oh, si: erano due, e parlavano nel medesimo istante, con la stessa inflessione e intensità, sì da suonare come una sola; ma adesso le udivo come due, assieme. Bellissime, terribili, inarrestabili, accecanti. Eppure io me ne stavo lì in piedi inerme davanti ai giganti, e dovevo rispondergli.

Li guardai meglio.

Quello a sinistra era in tutto e per tutto umano, solo di dimensioni ciclopiche. Aveva la pelle di un grigio-nerastro sbiadito ed era di sesso maschile - almeno credo. La testa era calva, i suoi lineamenti netti e spigolosi, marcati, con occhi infossati e uno sguardo di brace incandescente. Il corpo era possente, muscoloso, tronfio: indossava abiti succinti e privi di qualsivoglia decorazione, a lasciar trapelare ogni linea che demarcava un fisico a dir poco scolpito. Le mani, grandi come elefanti, stringevano i pomelli dorati in fondo ai braccioli del trono e i piedi, nudi, posavano sul pavimento arcobaleno. Mi fissava senza alcuna espressione.

Quello a destra, invece, si sarebbe potuto definire come il suo esatto opposto. Anch'egli umanoide, emanava un'aura di dolcezza, morbidezza e gentilezza: il suo incarnato era pallido, di un bianco quasi ingiallito, e sebbene anch'egli possedesse un fisico massiccio, dava più d'idea di essere una donna piuttosto che un uomo. Aveva lunghi capelli lisci d'un biondo dorato tirati indietro a ricadere sulle spalle e sullo schienale del trono; il vestito che indossava era un pezzo unico, lungo e bianco immacolato, a coprirla fino alle caviglie, tuttavia abbastanza aderente da lasciar intuire forme prosperose e sode. Il suo volto era ogivale e permeato di benevolenza, ma solo alla lontana: dalle due fessure degli occhi passava un'abbagliante luce d'oro impossibile da sostenere con lo sguardo. Come l'altro essere, stringeva i pomelli sui braccioli del trono con le mani e i piedi nudi erano ben poggiati sul pavimento.

Due esseri speculari.

Intuii: un Angelo e un Demone. Terribili e bellissimi, come un'eruzione solare.

«CHI SEI» mi dissero un'altra volta.

«S-sono venuto per il Pugnale» esordii, fattomi coraggio. Il timore di prima era scomparso: mi reggevo dritto e fiero sulla spina dorsale, i pugni chiusi ai lati del busto. Le dicerie sulla magia del Castello nel cielo erano fondate! Ma in quel momento non ci pensai nemmeno, dal momento che ne ero completamente pervaso.

«BENE» dissero l'Angelo e il Demone all'unisono. Quindi voltarono i capi, sincronizzati e sempre speculari, l'uno verso l'altro, a guardare quel globo di luce posto in mezzo a loro, quello da cui supponevo provenisse la luce. Sollevarono una mano e indicarono a palmo aperto la luce.

«TU SEI QUI PER IL PUGNALE. MA LA DOMANDA E': IL PUGNALE E' QUI PER TE?»

Al che, dal centro di quel globo luminoso a mezz'aria partì un flusso di particelle radiose, che mi investì in pieno.

E poi, boh.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Urla. Disperate.

Bambini piangono, separati dalle loro madri, dai genitori, dai parenti. Da chi loro sono convinti li proteggeranno per sempre da ogni male. Ora invece sono soli e disperati, e piangono strillando, madidi di lacrime.

Polvere. Sabbia. Edifici diroccati, distrutti. Bombardati? Non solo.

L'aria è greve di polvere di sabbia, e odore di cemento vecchio sbriciolato, e di polvere da sparo. La polvere da sparo prende le narici, soffoca, strozza, insopportabile.

L'asfalto della strada è costellato di buche profonde, squarci, scavi.

Il cielo è grigio. O marrone. E' morto.

La terra urla, disperata.

Che cosa abbiamo fatto?

 

Che cosa abbiamo fatto, per meritarci tutto questo?

 

«VOI VI MERITATE CIO' CHE VOI CREDETE DI MERITARVI.

VOI SIETE ARTEFICI DEL VOSTRO DESTINO.»

 

Crollo sulle ginocchia, me le sbuccio. E piango. Piango anch'io. Sono anch'io come quei bambini, soli, disperati, privati di coloro che credevano li avrebbero protetti per sempre: ma io sono solo, terribilmente solo, in un modo simile eppur diverso da loro.

Che cosa posso fare?

Non sono io che ho voluto tutto questo. E' il mondo ad essere sbagliato, non io.

E' qualcun altro al di fuori di me, che ha generato tanta cattiveria. E' colpa dei cattivi.

E' colpa... dei cattivi!! .... si!

Una rabbia cieca, sorda, muta, paralizzante, mi stringe il cuore e mi toglie il respiro. Le lacrime mi diventano di fuoco sulle guance, lasciando un solco. Strizzo gli occhi, strappato.

 

E' colpa dei cattivi! E' colpa dei cattivi! Sono loro... loro ci impediscono di vivere una vita in pace!!!

Odiati... maledetti... vi odio, vi odio! Stupidi, inutili, egoisti... fame senza fine... mostri, demoni... vi odio!!!! Vi odio, per sempre! Vi ho sempre odiati e sempre vi odierò! E' tutta colpa vostra se il mondo va a rotoli!!

 

«B A S T A!!!!»

La voce dell'Angelo e del Demone mi sganciano da quell'orribile vortice di emozioni. Sono sempre lì, inginocchiato sulla strada nel bel mezzo della Fine del Mondo... tuttavia è stato ristabilito un collegamento.

Mi parlano.

 

 

«IL POTERE E' DENTRO DI TE.

IL PUGNALE E' DENTRO DI TE.

PER CHE COSA LO USERAI?

PER FERIRE, O PER AMARE?

IL DEMONE INSEGNA AD AMARE ATTRAVERSO LA SOFFERENZA.

L'ANGELO INSEGNA AD AMARE ATTRAVERSO L'AMORE.

E TU PER CHE COSA USERAI IL PUGNALE?

TU SEI QUI PER IL PUGNALE, MA IL PUGNALE E' QUI PER TE?»

 

 

Il dolore della Fine del Mondo, che avvertivo causata dai Cattivi, mi scioglie. Mi sciolgo nel dolore. La visione s'appanna, diventa una mistura confusa nella quale navigo come un tappo di sughero alla deriva. E poi, in quella mistura intravvedo il Demone. Il suo faccione punta su di me inespressivo, inarrestabile. I suoi occhi bruciano.

 

«AMA!»,

mi dice. O meglio... mi ruggisce. Mi impone. Non è gentile, non me lo sta chiedendo. E' un ordine, il suo.

 

Al che, mi sciolgo davvero nella mistura. Scompaio.

Scompare il dolore, scompare la strada crivellata di buche, scompaiono gli edifici distrutti e i bambini urlanti. Scompare veramente ogni cosa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi risvegliai disteso prono sul pavimento del Castello. Avvertivo di nuovo l'atmosfera nutriente e rinvigorente, pregna di potere celestiale, che in un paio di respiri mi ridonò le forze. Premetti le mani a terra e mi alzai, anche se decisamente frastornato. Ci misi un po' a tornare in me stesso e a notare che l'Angelo e il Demone erano ancora là dov'erano, sui troni, con le facce inespressive volte l'una verso l'altra e le mani speculari indicanti la sfera di luc... oh. No. Non c'era più il globo di luce... al suo posto, un pugnale.

 

Angelo e Demone girarono le teste e mi guardarono, implacabili.

 

«AMI?»

 

Venni investito da una cascata di brividi. A malapena resistetti per non essere schiacciato contro il pavimento.

Lo sapevo, che loro potevano vedermi attraverso, dentro. Ma me lo stavano chiedendo comunque.

 

Mi tornarono alla mente le immagini del sogno... -era un sogno?- ... il dolore, la sofferenza, la disperazione... la frustrazione, la rabbia. La... rabbia. Si, la rabbia! Quanta rabbia... cieca, muta, inespressa... impotente. Un Demone gigantesco.

Che vuole solo insegnarmi ad Amare. E' così.

 

Chiusi gli occhi. Sospirai a fondo.

 

Una goccia cadde al centro del Lago, increspandone appena l'immobile superficie.

 

 

Ed io strinsi il Pugnale fra le mie mani.

 

 

 

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Capitolo 8
*** Solo un sogno fuso ***


Parole dal 18 al 24 Ottobre:

sella

paffuto

gelo

catene

graffiante

celeste

superficiale

 

 

 

 

 

 

 

SOLO UN SOGNO FUSO

 

 

 

In sella al suo potente destriero glaciale, un orso bianco delle nevi nordiche, Ramys galoppava tra gli alberi sfrecciando veloce come il vento. Non si curava né delle foglie che cadevano dagli alberi - che non avrebbero dovuto cadere - né del cielo sopra di lui, di un bianco cadaverico anziché azzurro. Doveva assolutamente arrivare alla prigione dov'era celato e nascosto il suo amico.

Non fu difficile. Anche se non c'era un sentiero, Ramys conosceva bene quella foresta come le sue tasche e in breve ne fu fuori. Ora solo un lungo declivio e poi una ripida salita dall'altra parte, lo separavano dalle Prigioni Celesti.

Giunto ai piedi dei possenti cancelli, smontò dall'orso, che ringraziò per lo sforzo impiegato. Poi andò a bussare mediante lo spesso battente in metallo meteoritico. Il suono che si produsse fu simile a un'antica campana, inquietante, e riecheggiò negli spazi ignoti dall'altra parte della lastra del portone.

D'improvviso l'uscio si spalancò da solo. Ramys prese le briglie di Lucius, l'orso, e lo condusse all'interno.

Si trattava di un antichissimo e derelitto tempio dei tempi che erano stati. Non c'erano luci accese, e nessuno gli diede il benvenuto: altissimi soffitti erano sorretti da imponenti colonne le cui effigi e decorazioni erano state erose dai secoli. Minuscole finestrelle squadrate alla sommità delle pareti lasciavano entrare la luce esterna, che andava a depositarsi a intervalli regolari e studiati sul pavimento. I suoni dei passi di Ramys rimbombavano lì dentro come sinistri sussurri prodotti da creature dimenticate che potenzialmente potevano annidarsi negli angoli non visti, dietro quelle statue deformi senza sembianze, oppure oltre l'altare in fondo, popolato di strutture in pietra dalle forme curiose, impossibili da decifrare per la mente moderna del cowboy. Il fatto strano era che, sebbene la luce fosse poca, lì dentro si riusciva a vedere: era come se il materiale stesso del tempio, quella roccia granitica tagliata e posizionata lì chissà quanto tempo prima, emanasse una sbiadita luminescenza bluastra, il che rimandava l'effetto ottico di star introducendosi in una specie di grotta naturale. Ma così non era. Mani e menti e complessi calcoli e tecnologie perdute avevano architettato e lavorato, lì dentro.

Adesso, però, era tutto immobile e morto.

Tutto, eccetto Sybil.

Sybil era l'esatto motivo per il quale Ramys si era introdotto nel tempio: il suo bisonte volante. Fu un suo gemito lamentoso ad attrarre l'attenzione del cowboy, che spinse lo sguardo abituato alla penombra fin dove poteva, là dove si ergeva l'altare. Ai piedi di un largo e tozzo pilastro, imprigionato da spesse catene, vi era il paffuto Sybil.

In un baleno Ramys gli fu accanto. L'orso lo aveva lasciato indietro, preso dallo sgomento e dalla felicità di poter rivedere il suo vecchio amico.

«Amico mio... che ti hanno fatto?» disse Ramys, sollevando le mani per aiutare la creatura, ma incapace di trovare una qualche soluzione. Quelle catene sembravano belle spesse, non si sarebbero spezzate facilmente.

Sybil tremava per il gelo. Guardò il cowboy con occhi stanchi e privi di speranza: era contento di vederlo, ma in un certo qual modo rassegnato, e ciò spezzò il cuore all'umano.

«Vedrai, troveremo un modo!» esclamò Ramys, sforzandosi di essere ottimista.

Al che, udì una voce alle sue spalle emettere una specie di squittio.

«Voi umani siete sempre così superficiali... veramente pensavi che sarebbe stato così facile?»

Pervaso dalla testa ai piedi da un brivido, Ramys si girò di scatto.

 

 

E si svegliò dal sogno.

«Ehy, non pensare che fare un pisolino ti accorci la giornata di lavoro! Guarda che non le pago le ore, se ti addormenti. La fucina non va avanti da sola!» lo rimbrottò graffiante Alanna, una giovane donna atletica dal lungo e nero crine con indosso il suo grembiule in cuoio scuro. Lo indicava con un dito. «Sveglia, pelandrone!» Drizzò il capo munito di corna, retaggio della sua razza Tiefling, e poi si allontanò.

Mollando uno sbuffo rassegnato, Ramys si passò una mano sulla faccia, si grattò la barba e si rimise al lavoro, anche se assonnato. Le immagini del sogno presto andarono a fondersi assieme al metallo, fra le fiamme.

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Capitolo 9
*** La Bestia Risorta ***


Parole dal 25 al 29 Ottobre:

pericoloso

rimuovere

bestia

brillante

massiccio

 

 

 

 

 

 

 

LA BESTIA RISORTA

 

 

 

«Non può più andare avanti così!» si impose la Marescialla, piantando le mani guantate sul tavolo. «Dobbiamo porre fine a tutto questo.»

«Lo so» feci io con un sospiro. Le davo le spalle, così come davo le spalle all'intera Assemblea. Mi voltai lentamente e feci scorrere gli occhi sui loro visi tirati, puntati su di me. «Dobbiamo agire. Consigliere Lelas, notizie dall'ultima guarnigione?»

«No, purtroppo.» Il Consigliere, tirato a lucido nella sua lunga e opaca tunica blu cielo brillante, assunse un'aria contrita e sottomessa. «Nessuna notizia. L'ultimo messaggio risale a stanotte, Capitano.»

«Ebbene?» lo incalzai, le braccia sempre conserte al petto.

Lelas esitò, poi levò lo sguardo stanco incrociando il mio. «Tutti caduti, presumiamo.» Unì le mani in segno di preghiera e le pose sul petto. Cercava di ingraziarmisi. Lo commiserai. «Restavano due unità a recapitare il messaggio quando abbiamo acceso la radio a lungo raggio stamani, verso le due del mattino. Da allora, più alcuna notizia ci è giunta.» Mi fissò porcino e speranzoso.

La Marescialla, dal lato opposto della tavolata, squadrava il Consigliere manifestando piuttosto apertamente il proprio disappunto e disgusto nei suoi confronti. Notandolo, dovetti reprimere il sorriso.

Andai a sedermi al mio scranno e sospirai un'altra volta. Davanti a me le mappe del campo di battaglia inondavano il centro della sala di un lieve bagliore bianco-rossastro, tipico degli ologrammi del Governo. A giudicare dai dati inviati dai satelliti, in effetti Lelas doveva aver ragione: la Bestia Risorta aveva decimato le nostre unità. Rimaneva più soltanto lei laggiù, infilata nella gola a pochi chilometri da Nuova York. Sembrava star cibandosi di una macchia d'alberi sul dorso di una collina.

Feci schioccare la lingua contro il palato per rompere il silenzio. «Dobbiamo intervenire. Tempestivamente.»

«Ma, signore» sopraggiunse Lelas, sporgendosi in avanti; al che la Marescialla Kratos smise di trattenersi ed esclamò: «Per l'amor dei Cieli, Consigliere, chiuda la bocca e ascolti, una buona volta.»

Nessuno replicò. Un chiaro segno che, com'era abbastanza chiaro da quando Lelas aveva assunto la sua carica, egli andava a genio solo ai ribelli fuori dalla città. Viscido traditore.

«Abbiamo ancora un piccolo distaccamento lungo la costa» proseguii, indicando una strisciolina rosso cremisi a sud-est di Nuova York. «Il Gruppo numero Tre. Se lo contattiamo immediatamente, dovremmo essere in grado di porci a difesa della città prima che la Bestia ci raggiunga.»

«E se non facciamo in tempo?» chiese ad alta voce Rikkye, il Difensore del Popolo. Il suo pizzetto ben curato, il taglio corto dei capelli e gli occhi a bottone ispiravano fiducia a chiunque, persino a me. «Potrebbero volerci più ore del necessario per lo spostamento. Quella zona non è ancora stata bonificata» e a sua volta indicò una porzione dell'ologramma, a metà strada tra il distaccamento sulla costa e la Bestia, proprio a sud di Nuova York.

«Oppure potrebbe non arrivarci affatto» disse l'asciutta Presidentessa Esterna Elhara, dal fondo del tavolo. In pochi si voltarono, tesi come corde di violino astariano.

«Posso chiedervi il perché di questa affermazione, presidentessa?» le domandai, andando dritto al sodo.

«Perché nessuno ha più fiducia nelle vostre truppe, Capitano. Abbiamo visto la loro inefficacia, giorno e notte, sui teleschermi.» Emise un singolo schiocco di risa denigratorio, che mi irritò terribilmente. Ma che ne sapeva lei, che veniva da fuori? «Questa manovra è ridicola. Non funzionerà.»

«Ridicola siete voi, con tutto il rispetto, Presidentessa, a presentarvi qui in mezzo alla mia... alla nostra gente, decantando pace e amicizia, ma con parole di astio e sfiducia nella vostra bocca» ribattei, sostenendo senza problemi il giallo acido delle sue iridi che, come due fanali indagatori, mi sfidavano dall'altra parte del Tavolo dell'Assemblea.

Dovevo averle chiuso il becco, perché ella piegò il viso di lato, arcigna e offesa.

«Dobbiamo prepararci. Stato di allerta livello tre» dissi grave. «Voglio le mura presidiate, doppi turni, torrette armate. Alzate il secondo livello di scudo plasmatico.» Alzai una mano a impedire al Sergente Yuh di lanciare il proprio monito e lo corressi in contropiede ancor prima che parlasse: «Niente velivoli sopra la città. Né truppe al di fuori. Voglio il minor numero di perdite possibili. Ne abbiamo già avute abbastanza. Questa è una minaccia seria, anche se non c'è bisogno che lo ribadisca. E mi piacerebbe proprio tanto non averne più nessuna, di perdita. Sono stato chiaro?»

L'Assemblea annuì - con l'eccezione di Lelas, che deglutì e basta, e ovviamente la Presidentessa esterna, ancora offesa e chiaramente in disaccordo con ogni mio comando.

«Andrò io dal Gruppo numero Tre.»

Dopo l'iniziale sconforto e sbigottimento, Kratos mi disse: «Ne sei proprio sicuro?»

Nessuno si aspettava che avrei preso parte diretta al combattimento. Ma ne andava del mio onore. Non avevo alcun interesse a dimostrare il mio valore, cosa che avevo già ampiamente fatto in passato: ciò che volevo adesso era semplicemente vedere coi miei occhi la Bestia Risorta. E abbatterla di persona. Non m'importava chi sarebbe stato d'accordo con me o meno.

Rivolsi a Kratos un cenno d'assenso. Notai la tristezza nei suoi occhi nocciola scuro. E' pericoloso, mi stava dicendo senza dirmelo. Non diedi corda al pensiero di me e lei che ci baciavamo sul balcone privato dei miei appartamenti la sera prima; distolsi lo sguardo e mi alzai dalla sedia, poi premetti il pulsante rosso dal mio telecomando da taschino.

L'allarme di stato d'allerta livello tre prese a lamentarsi per l'intera Nuova York, a partire da quella piccola saletta riunioni, ora tinta di rosso oscillante e rotante.

 

 

 

In effetti l'ultima carica di Batteria da Teletrasporto aveva funzionato alla perfezione, materializzandomi dal Gruppo Tre meno di mezz'ora dopo; e con la mia guida e quella della mappa olografica che mi ero portato dietro, riuscimmo ad evitare le paludi e anche la macchia tropicale, nella quale ci saremmo incagliati e avremmo perso tempo prezioso. In meno di ventiquattr'ore la Bestia Risorta avrebbe certamente raggiunto Nuova York ed io, noi, dovevamo essere là il prima possibile.

Ci eravamo riusciti.

Adesso la città si stagliava lontana e debolmente illuminata dietro di noi, in mezzo alla vallata, racchiusa dalla bolla semisferica dello scudo plasmatico.

Davanti a noi invece, giganteggiava la Bestia Risorta. Uno spettacolo di orribile bellezza, dovetti ammetterlo: sebbene ne avessi tanto sentito parlare, vederla coi propri occhi era un'altra cosa.

Alta una cinquantina di metri, si imponeva sul paesaggio con la propria mole tozza e vagamente squadrata. Aveva arti massicci, spalle tonde e poderose e una testa schiacciata munita di lunghe e acuminate corna. I tratti del volto, se poteva chiamarsi volto, erano ferini e si aprivano sulla faccia come fessure su una luce incandescente. Cogli artigli aguzzi di mani e piedi continuava a scavare il terreno lasciando ampi solchi dove avrebbe potuto passarci un fiume: poi ci sputava dentro fiamme vive dalle fauci. Voleva impedirci di raggiungerlo.

Una strategia difensiva. Non voleva ingaggiar battaglia. Non gli interessava Nuova York? Sembrava non aver intenzione di avanzare.

Diedi il comando di aprirci a semicerchio, con me in mezzo ed i guerrieri più fidati al mio fianco. Tentammo un lancio di dardi perforanti dalla lunga distanza: non possedevamo le armi più all'avanguardia, ma di sicuro avremmo potuto fargli molto male in molti modi.

I dardi schizzarono avanti all'unisono sibilando e fendendo la notte. Raggiunsero la Bestia e la trapassarono da parte a parte. La sua pelle coriacea cadde a scaglie come croste di pietra nera, a rivelarne una sottostante brillante come lava fusa. Ruggì nella nostra direzione e ci vomitò addosso altre fiamme.

Erigemmo lo scudo plasmatico. Resistette. Io diedi il comando di separarci in due unità e attaccarlo ai lati contemporaneamente, evitando alla larga i solchi fiammeggianti che ci separavano da lei.

Quando la Bestia intuì dal nostro comportamento cosa avevamo intenzione di fare, emise un ruggito che fece tremar la terra e un'onda d'urto violentissima ci scagliò all'indietro di almeno una trentina di metri.

Non a tutti si azionò l'aribag della tuta. Alcuni non si rialzarono più.

Folle di rabbia, tentai il tutto per tutto. Dalla microplancia di comando al braccio digitai la parola d'ordine, quindi quella si aprii ed io estrassi dall'armatura il razzo termostatico. Nessuno se ne accorse, eravamo troppo presi dallo shock o dalla furia.

Piantai in terra il razzo e, chinandomi, feci del mio meglio per stabilire una traiettoria pulita. Accesi la miccia e attesi. Quello partì con un rumorosissimo fischio e, per un lungo istante, non ci fu nient'altro: solo il razzo che volava in mezzo al fumo nero, illuminandolo in modo tetro.

Avevo fatto in tempo ad avvisare giusto una manciata dei miei compagni, quelli più vicini, quando il razzo impattò contro la pelle protettiva della Bestia. Prima arrivò il suono dell'impatto, sordo e lontano, soffocato dalla corazza coriacea del nemico. Dopo venne l'esplosione. E in un terzo momento, venimmo scagliati nuovamente via, assordati, accecati e ustionati.

 

Quando l'eco del boato si fu consumato, e l'elettricità statica nell'aria scese a livelli accettabili, aprii dall'interno la zip del mio sacco salvavita nel quale mi ero chiuso giusto all'ultimo momento. Uscii come un bruco dalla crisalide. Attorno a me era lo sfacelo: ogni cosa era carbonizzata e affumicata. Altri sei o sette dei miei stavano imitandomi, uscendo dai loro bozzoli e guardandosi attorno come me, del tutto disorientati e increduli.

Si, non rientrava nei piani che io avessi dovuto utilizzare quel tipo di arma. In realtà me l'ero portata dietro di nascosto, senza dirlo a nessuno.

Mi voltai, e vidi la Bestia in piedi, privata completamente della pellaccia nera che la ricopriva. Adesso era un gigantesco mostro di fiamme e lava. E avanzava verso di noi a lenti e rimbombanti passi.

Senza pensarci mi alzai. Lasciai indietro tutto, persino il casco che era rimasto dentro il sacco salvavita, e camminai. Da solo. Andai incontro alla Bestia.

«Capitano! Torni indietro!»

«Ma che fa?»

«E' impazzito?»

«Ma che sta facendo!»

Il vociare affannoso dei miei sottoposti era come un richiamo proveniente da un'altra dimensione. Non aveva alcun potere su di me. Era come se una volontà più grande della mia mi comandasse, adesso, quasi imponendomi col la forza di compiere determinate azioni.

La Bestia si fece sempre più grossa e imponente. Non c'erano barriere di alcun tipo a separarci. Avrebbe tranquillamente potuto spazzarmi via con un singolo gesto o colpo, se avesse voluto.

Invece no. Mi aveva puntato, sapeva fossi lì, ma si limitava a continuare a spostarsi verso di me, così come io verso di lei.

Tremavo, ma non avevo paura. Puzzavo di sudore e sangue, ma mi sentivo in forze.

Alla fine ci raggiungemmo. Lei si arrestò a poco meno di una decina di metri da me. Il calore era insopportabile, tanto che dovetti alzare una mano per pararmi il viso dalle sferzate micidiali e dalla luce che emetteva.

C'era un suono. Crepitante. Come di antiche rocce che scivolano e si scontrano e si sgretolano. Lo produceva lei. Eppure era ferma, inerte. E mi fissava, lì, lassù, dall'alto in basso. Famelica, implacabile.

 

«Che cosa vuoi?» strillai, guardandola in volto. Aprii le braccia. «Che cosa vuoi?» ripetei.

 

«P A C E» grugnì grottesca lei, cogliendomi tanto di sorpresa che per poco non crollai all'indietro sul sedere.

«V O I V O L E T E R I M U O V E R M I - M A N O N M I A V E T E M A I C H I E S T O P E R C H E' S O N O Q U I!»

 

A bocca aperta, rimasi semplicemente inerme, a naso all'insù, mentre quella fornace diabolica s'apriva e richiudeva producendo cavernosi e fiammeggianti vocaboli.

 

«Perché sei qui?» strillai, ma nemmeno poi tanto forte. In qualche modo sapevo che poteva udirmi.

 

«P E R R I C O R D A R V I C H I S I E T E» disse la Bestia Risorta. «I O S O N O L A S O M M A D I T U T T I I V O S T R I I N C U B I N E G A T I. A S C O L T A T E M I.» Al che si chinò. Si! Si chinò, lentissimamente, su di me, come una montagna vivente ricoperta di un'ampia colata lavica.

Quindi fui in grado di distinguere ogni più piccolo dettaglio della sua faccia, che non aveva niente di umano né di animale od altro - eppure... non mi ispirava odio, o ribrezzo. Solo paura... ma una paura che era anche la sua. Della Bestia. Potevo sentirla.

 

«S M E T T E T E D I D I V O R A R E. S M E T T E T E D I M A N G I A R E O G N I C O S A C O N L A V O S T R A I N S A Z I A B I L E F A M E. L A S C I A T E I N P A C E I L M O N D O. E T R O V A T E L A V O S T R A P A C E.»

 

 

 

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Da quel giorno, la Bestia Risorta è sparita. L'ultimo lembo della sua pelle lavica è scomparsa mentre ritornava nell'antro buio del sottosuolo dal quale era provenuta.

Nuova York ha indetto, su mio comando, un periodo senza scadenza durante il quale verrà limitato l'uso smodato della tecnologia degli antichi, e si sono indetti piani di reintegrazione dei regni vegetate ed animale.

Non possiamo più continuare così.

L'essere umano non può più continuare così.

 

Non lo avrei mai pensato prima, ma... ho finito col ringraziare la Bestia Risorta. Quella che credevamo la minaccia più grande alla nostra incolumità, alla fine si è rivelata la nostra salvezza, un campanello d'allarme che ci ha graziati dall'auto-estinzione.

 

La vedo. La nuova Nuova York... ok, così suona male, ma già me la vedo, cogli occhi della mente... splendida, meravigliosa. Un connubio tra tecnologia e natura. L'una a servire l'altra. Nessun parassita, nessuno sfruttamento.

 

Quando avremo placato la nostra fame. E trovato pace.

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Capitolo 10
*** Giocare alla Guerra ***


Parole del 30 e 31 Ottobre:

correre

fuoco

 

 

 

 

 

 

 

 

GIOCARE ALLA GUERRA

 

 

I suoni dei mitra riempivano l'aria echeggiando sinistri e perfidi.

Mi strinsi l'elmetto sulla testa, perché non ne avevo chiuso il laccetto per la fretta impostami dai comandi del tenente, quindi saltai fuori dalla trincea. In quel momento un aereo volò bassissimo fendendo i fumi grigi e grevi che impedivano la vista del campo di battaglia: fischiò e rombò prepotente sopra di noi e sparì, fortunatamente senza recar danni.

Corsi fino al muricciolo di sacchi. Peter era dietro di me e si buttò contro i sacchi di schiena un secondo dopo che l'ebbi fatto io. Stringeva i denti. Aveva gli occhiali storti. Guardai le macchie nere di sporco sulla sua pelle e pensai a sua moglie e i suoi figli, che mi aveva mostrato in foto.

«Non c'è via d'uscita, dannazione!» imprecò Peter, senza staccare gli occhi dal campo innanzi a noi.

Io non risposi. Mi limitai a stringere fortissimo il fucile che imbracciavo. Sollevai lo sguardo e mi persi un istante nella forma caliginosa delle nuvole. Scorrevano veloci, basse. C'era anche del fumo in mezzo, che le tagliava diagonalmente. Quella cosa, chissà perché, mi rimandò indietro alle partite di baseball che giocavo da ragazzo - neanche troppi anni fa, invero... ma, dio, sembrava passata un'eternità. Quando le mie giornate erano semplici, fatte di gioco, di impegni quotidiani che... beh, non richiedevano il rischio di beccarsi una pallottola nemica. O peggio.

Udii la voce di mia madre che mi rimbrottava perché non mi ero rifatto il letto. Quella di mia sorella che, nel corridoio, ridacchiava raccontandomi quell'episodio buffo di cui voleva rendermi partecipe. Vidi mio padre seduto in poltrona a leggere il giornale con la pipa in bocca, la domenica, a riposo dal lavoro in fabbrica.

Rividi i miei compagni di scuola. Le brache sgualcite, le bretelle, i banchi pieni di graffi e scritte sulla parte sottostante, quella che i maestri non guardavano mai - soltanto gli addetti alle pulizie. Il prato fuori da scuola... e lì, le partite a calcetto.

Allora rividi Nicole. Il suo sorriso malizioso, e poi la sua voglia di baciarmi. Il suo taglio corto e ondulato di capelli, così grazioso e al contempo sbarazzino. Gli occhi nocciola pieni di dolcezza ma anche scaltri come pochi. Le sue mani, i suoi fianchi, il suo seno. La sua risata. I nostri progetti per il futuro...

Una stretta mi avviluppò il cuore. Subito dopo sopraggiunse un freddo glaciale, che dalla testa discese per tutto il corpo, impedendo ad ogni emozione di privarmi della lucidità necessaria.

Mi accorsi che Peter mi stava fissando, un pelo sbalordito.

«Tutto a posto?» mi chiese, rauco. So che aveva intuito come stessi.

Annuii. Drizzai la schiena e deglutii. Avevo un saporaccio in gola, quello di sempre in effetti, che regnava anche nell'aria qui, giorno dopo giorno dopo giorno. Ma non ti ci abituavi mai.

All'improvviso la sirena ululò negli altoparlanti del nostro campo base, a cinquantatré metri dietro di noi. Io e Peter ci guardammo, vuoti, spaesati. E poi un altro suono, quello di una voce maschile che ruggiva sopra a quell'ululato, dicendo: «FUUUOOCOOO! FUOCO LIBERO SUL NEMICO! UNITA' AEREE DEBELLATE! FUOOCO LIBERO SUL NEMICOO!»

 

 

 

«Oooook, ora basta» dissero mamma e papà. Erano entrati nella stanza. Il papà mi aveva già cinto in vita e mi stava tirando su; la stessa cosa la stava facendo la mamma con Peter.

«Ma dai, stavamo vincendo!» gemetti, voltandomi verso i cuscini-trincea che avevamo posizionato con così tanta precisione.

Peter sbuffò e basta, amareggiato.

«Avete giocato alla guerra abbastanza» disse la mamma. Si tirò in braccio Peter e andò di là varcando la porta.

Io rimasi assorto sui cuscini, poi guardai la sfilza di peluche dall'altra parte, disseminati per terra. I nostri nemici da abbattere. Il papà non mi stava portando via.

«Vi piace proprio giocare alla guerra, eh?» mi disse accanto all'orecchio.

«Si» feci io, ingenuo.

«Perché?» mi chiese, gentile, calmo.

«Perché siamo forti, così. E' bello.»

«Aaaaah, ho capito» fece il papà. Mi sistemò tra le sue braccia, quindi mi portò via dalla camera. «Dai, adesso andiamo a fare merenda.»

 

 

 

 

 

 

 

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FINE DELL'INKTOBER 2023!

 

Grazie a tutti voi che avete seguito ogni singola storia! E grazie anche a voi che invece avete letto solo quelle che più vi interessavano o intrigavano. E infine, per non lasciar nessuno indietro, grazie anche a te che hai letto soltanto questa, di storia, o solo una o due o tre! Va bene anche così, è giusto.

Ad ogni modo, spero di avervi lasciato qualcosa, di aver deposto un piccolo semino con ogni storia dentro ognuno di voi. Ogni storia arriva e si ''stende da sola'' ogni qual volta mi metto a scrivere, ragion per cui sono io il primo a percepire questo ''semino'' e a gustarlo, a intuirlo. Ma ovviamente, e questo è il bello della scrittura fantasiosa e romanzata: si spera sempre che il messaggio ''non-detto'' - che è quasi sempre molto più importante, anzi fondamentale, del ''detto'' - arrivi, venga colto.

 

Buon Novembre a tutti - e ai ''ritardatari'', buon tutto!

 

 

A presto,

 

Samuele

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