Star Trek Destiny Vol. VII: Divoratori di mondi

di Parmandil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** L'anticamera della follia ***
Capitolo 3: *** Infiltrazione ***
Capitolo 4: *** Arena ***
Capitolo 5: *** Presagi nel deserto ***
Capitolo 6: *** I Magnifici Nove ***
Capitolo 7: *** Viaggiatore ***
Capitolo 8: *** Lealtà ***
Capitolo 9: *** Tutti per uno... ***
Capitolo 10: *** ... uno per tutti ***
Capitolo 11: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Star Trek Destiny Vol. VII:
Divoratori di mondi
 
 
LA DESTINY DOVEVA ESPLORARE IL MULTIVERSO,
MA QUALCOSA È ANDATO STORTO
E L’EQUIPAGGIO È STATO UCCISO.
ANNI DOPO, UNA BANDA DI CONTRABBANDIERI
HA ABBORDATO LA NAVE ALLA DERIVA,
VENENDO RISUCCHIATA NEL MULTIVERSO,
SENZA LE COORDINATE DI RITORNO.
AGLI AVVENTURIERI NON RESTA CHE
ESPLORARE UNA REALTÁ DOPO L’ALTRA,
IN CERCA D’INDIZI SULLA VIA DI CASA,
MENTRE CERCANO DI RISCOPRIRE IN LORO
QUELLO SPIRITO CHE CREÓ LA FEDERAZIONE...
 
 
Tutto ciò che non mi uccide, mi rende più forte.
                                                       Nietzsche
 
 
-Prologo:
Data Stellare 2605.33
Luogo: Quartier Generale della Flotta Stellare, Terra
 
   Il Capitano Dualla entrò a passo sostenuto nell’ufficio dell’Ammiraglio Hod. Come tutti i Deltani, Dualla aveva la testa liscia e calva, senza un solo capello. Aveva però delle sopracciglia scure, che ora apparivano aggrottate sopra gli occhi color nocciola. In trent’anni di servizio nella Flotta Stellare, la Deltana non era mai stata così apprensiva per una missione.
   «Salve, Ammiraglio. La ringrazio per avermi concesso quest’incontro» disse Dualla, irrigidendosi sull’attenti. In realtà era esasperata che glielo avesse concesso così tardi. Da mesi la Deltana era immersa nella preparazione al varo della Destiny, l’astronave progettata per esplorare il Multiverso. E il Comando di Flotta non le aveva ancora comunicato la loro prima missione.
   «Riposo, Capitano. Benvenuta, si accomodi» l’accolse Hod. Era un’Elaysiana dai corti capelli biondi, striati di grigio per l’età. Il suo ufficio era arredato in modo confortevole e arricchito da cimeli provenienti da mezza Galassia, ricordi d’innumerevoli missioni. In quel momento però era in penombra, perché fuori il cielo era coperto. I primi goccioloni battevano già contro la finestra di trasparacciaio, annunciando il temporale. L’Elaysiana si alzò senza sforzo, essendosi operata per sopportare la gravità terrestre, e tese la mano all’ospite. Scambiata una breve stretta, si risedette e la invitò a fare lo stesso con una delle comode sedie davanti alla scrivania.
   Dualla seguì l’invito, continuando a studiare l’Ammiraglio. Notò che il suo atteggiamento era cortese, ma non lieto. C’era una strana compostezza in lei, come se quello potesse essere il loro ultimo incontro. «Pessimo segno» si disse il Capitano.
   «Capisco la sua impazienza» disse Hod, in vago tono di scusa. «Ho patrocinato il progetto Destiny fin dall’inizio e l’ho designata al comando. So quanto s’è impegnata in questi mesi, affinché tutto fosse pronto».
   «Col dovuto rispetto, Ammiraglio, ma sarebbe stato più facile se avessi saputo dove siamo diretti» si sfogò Dualla. «Ora mancano solo dieci giorni al varo. Stiamo finendo d’imbarcare il personale. Gli ufficiali continuano a chiedermi la destinazione e io non ho ancora una risposta. Se la Destiny fosse una nave normale gli direi di pazientare, ma...».
   «Ha ragione, siete tutto fuorché una nave normale» ammise Hod. «Esplorare lo spazio ormai è ordinaria amministrazione, e perfino le missioni nel tempo sono regolamentate. Ma aprire le porte del Multiverso... questa sì che è l’ultima frontiera! Una frontiera inconcepibilmente pericolosa. Mezzo secolo fa, i Costruttori di Sfere ci hanno quasi distrutti» sospirò, ricordando la più devastante invasione extra-dimensionale che la Federazione avesse mai subito. «In tutto questo tempo, abbiamo fatto ben pochi preparativi per difenderci da un’altra crisi. E a un decennio dal termine della Guerra Civile, la Flotta Stellare deve ancora tornare agli antichi fasti. La verità, Capitano Dualla, è che siamo terribilmente impreparati contro questa minaccia».
   «Lei teme un nuovo attacco da parte dei Costruttori?» si preoccupò Dualla.
   «Non da parte loro» corresse Hod. «Ci sono altre specie extra-dimensionali con cui ci siamo scontrati. Ebbene, uno di questi vecchi nemici è riapparso di recente. Quelle che ora le mostrerò sono informazioni top secret» avvertì, attivando l’oloschermo della scrivania. «Ecco, questa ripresa è stata fatta da una sonda dei servizi segreti nel sistema di Ferasa».
   Dualla si sporse in avanti a osservare. La ripresa durava pochi secondi e mostrava una macchia giallastra che sfrecciava sullo sfondo stellato. Hod la proiettò di nuovo, stavolta al rallentatore, fermandola nel momento in cui il vascello alieno era meglio visibile. Era uno scafo oblungo, con una geometria tripartita, stranamente irto di punte. «Non sono certa di riconoscerlo» ammise la Deltana.
   «Neanch’io, la prima volta che lo vidi» disse l’Ammiraglio, sorridendo senza allegria. «Ma abbiamo trovato un riscontro nel database. Questa navicella è una variante – direi un’evoluzione – delle bionavi usate dagli Undine. Forse li conosce con la loro designazione Borg...».
   «Specie 8472» mormorò Dualla, rabbrividendo per il terrore istintivo. Ora capiva il motivo di tutta quella segretezza.
   «Proprio quella» confermò l’Elaysiana, cupa. «Una delle più gravi minacce non solo per la Federazione, ma per tutta la Via Lattea. Il primo contatto risale al 2373, quando la Voyager – dispersa nel Quadrante Delta – s’imbatté nella guerra senza quartiere fra i Borg e gli Undine. Riteniamo che dapprima siano stati i Borg a invadere lo Spazio Fluido, il loro cosmo d’origine. Ma dopo essersi dimostrati resistenti all’assimilazione, furono gli Undine a invadere massicciamente la nostra Galassia. È una fortuna che siano stati i Borg a subire l’urto, perché altrimenti non saremmo qui a parlarne».
   Così dicendo, l’Ammiraglio richiamò una serie d’immagini e dati raccolti dalla Voyager in quel terribile frangente. Sotto gli occhi del Capitano scorsero immagini di cubi Borg infranti, droni smembrati e impilati, persino un intero pianeta disintegrato.
   «L’effettiva potenza militare degli Undine è sconosciuta» proseguì Hod, mostrando le navicelle piene d’aculei. «L’unica certezza è che le bionavi erano pressoché invincibili, malgrado le piccole dimensioni. La loro tecnologia organica è la più sofisticata mai incontrata dalla Flotta. In un certo senso, non sono che estensioni dei loro piloti».
   Finalmente apparve l’immagine di un Undine. Il suo aspetto era così estraneo, così lontano dalla tipica forma degli umanoidi, da essere disturbante. Tre zampe sostenevano un busto con due braccia lunghe e scheletriche, provviste d’artigli. La testa aliena era sorretta non solo dal collo sottile, ma anche da tendini staccati ed esterni al collo stesso. Bocca e narici erano piccoli fori; a spiccare sul volto erano gli occhi gialli, dalle inquietanti pupille cruciformi. Una protuberanza ossea cingeva la testa da dietro, come l’elmo di un antico guerriero.
   «Gli Undine sono la specie fisicamente più forte e resistente che conosciamo. Qualcuno li ha definiti l’apice dell’evoluzione biologica, e in effetti il loro genoma è migliaia di volte più complesso del nostro. Possono lacerare lo scafo di un’astronave e sopravvivere a lungo nel vuoto dello spazio. Con un graffio possono infettare le vittime con le loro cellule, che si moltiplicano e li divorano dall’interno come un cancro. Hanno anche formidabili poteri telepatici» proseguì l’Ammiraglio. «Quanto alla loro etica, si riassume nel motto: il più debole dovrà perire».
   «Darwinismo sociale» riconobbe Dualla, sentendo la pelle d’oca.
   «Qualcosa del genere, sì. Parevano anche convinti che le tecnologie meccaniche fossero abomini da epurare. In un’occasione affermarono che l’intera Galassia doveva essere “purificata”» rivelò Hod. «Davanti a questa minaccia senza precedenti, il Capitano Janeway osò allearsi coi Borg. Il suo Medico Olografico alterò le nanosonde in modo che, pur non assimilando gli Undine, riuscissero a ucciderli. Modificando i siluri divenne possibile distruggere anche le bionavi. A quel punto i Borg, grazie alla loro coscienza collettiva, implementarono subito le modifiche su tutti i loro vascelli, acquisendo il vantaggio tattico. Gli Undine dovettero ritirarsi nello Spazio Fluido... ma questa non è la fine della storia, purtroppo. Perché gli Undine sapevano che la sconfitta era dovuta alla Voyager, che li aveva sfidati nello Spazio Fluido, e così dirottarono il loro odio verso la Flotta Stellare».
   L’Ammiraglio sostituì le precedenti immagini con la ripresa di una stazione spaziale, così vasta da accogliere un intero habitat all’interno della sua cupola. «Appena un anno dopo, la Voyager scoprì questa biosfera, in cui gli Undine si esercitavano a infiltrare l’Accademia di Flotta. Alcuni di loro, infatti, avevano un tale controllo della loro biologia da essere persino mutaforma, sebbene non abili quanto i Fondatori del Dominio. Miracolosamente il Capitano Janeway riuscì a siglare un armistizio e gli Undine rinunciarono al progetto, ritirandosi di nuovo nello Spazio Fluido. Ma il Comando di Flotta sapeva che quella tregua precaria non sarebbe durata per sempre. Il che ci conduce agli ultimi eventi».
   L’Elaysiana riportò sullo schermo l’immagine della sfuggente bionave. «Negli ultimi tre anni si sono moltiplicati gli avvistamenti di bionavi, soprattutto nel sistema di Ferasa. Hanno sempre evitato gli scontri, e anche i contatti, fuggendo ogni volta che un vascello federale si avvicina. Ma è chiaro che gli Undine stanno macchinando qualcosa. Dei guerrieri come loro non fuggono, a meno che stiano preparando qualcosa di tanto importante da esigere la massima segretezza... fino al momento di colpire».
   «Dunque la mia missione... in cosa consiste?» chiese Dualla, con la bocca secca.
   «Lei e il suo equipaggio avete l’arduo compito di recarvi nello Spazio Fluido, contattare gli Undine e, se possibile, aggiornare il trattato di pace. A questo scopo porterete con voi i migliori ambasciatori federali» spiegò l’Ammiraglio, mostrando una carrellata di nomi e volti.
   Dualla riconobbe alcuni campioni della diplomazia, che avevano negoziato l’armistizio al termine della Guerra Civile. Questo non bastò a tranquillizzarla. «La diplomazia con una specie telepatica è... piena d’incognite» mormorò. «Specialmente se si tratta di una specie aggressiva come questa. C’è il pericolo che traggano informazioni riservate dalle nostre menti, usandole contro di noi».
   «Sarete equipaggiati con questi dispositivi» disse Hod. Aprì un cassetto della scrivania e ne trasse due congegni simili ad auricolari. «Li ha sviluppati la Sezione 31, per contrastare le forme più pericolose di telepatia. Si chiamano Staticizzatori Mentali e possono isolare i vostri pensieri da ogni intrusione».
   «Funzionano anche con gli Undine?» chiese Dualla, osservandoli dubbiosa.
   «Purtroppo non lo sappiamo» ammise Hod tristemente. «Sono collaudati con le specie telepatiche della Via Lattea, per cui dovrebbero funzionare anche con loro. Ma ne avrete la certezza solo quando sarete laggiù. Al primo indizio che gli Undine vi stiano leggendo nella mente, siete autorizzati a interrompere il contatto».
   «E se non fossero interessati al dialogo? Se fossero aggressivi come i primi incontrati dalla Voyager?» mormorò il Capitano, sempre più consapevole del rischio allucinante in cui si stava gettando. Aveva una responsabilità enorme... non solo verso il suo equipaggio, ma verso l’intera Federazione. Il fallimento poteva comportare lo scoppio di una guerra che, per ammissione dell’Ammiraglio, non erano pronti a combattere.
   «In quel caso, non perdete tempo a cercare di farli ragionare. Ricordate qual è la loro potenza di fuoco» avvertì l’Elaysiana. «In previsione di uno scontro, abbiamo fatto della Destiny la nave più armata della Flotta. Oltre a tutte le armi standard, avrete i siluri modificati con le nanosonde. E c’è il cannone thalaronico anteriore; anche quello dovrebbe essere efficace contro le bionavi».
   «Già, mi chiedevo che ci facesse un’arma del genere» commentò Dualla, con cupo sarcasmo.
   «Queste precauzioni sono per la vostra incolumità, ma naturalmente il vostro scopo non è dare battaglia agli Undine» chiarì l’Ammiraglio. «Se vi aggrediscono, tornate subito indietro a fare rapporto. La conferma della loro ostilità sarebbe comunque preferibile all’incertezza attuale».
   «Ricevuto» deglutì il Capitano. «Comincerò subito a studiare questi dati. Posso informare l’equipaggio della natura della nostra missione?».
   «Solo gli ufficiali superiori, per il momento. Il resto dell’equipaggio dovrà attendere il varo» ordinò Hod. «Non vogliamo fughe di notizie che creino il panico nella Federazione» spiegò.
   «Capisco» mormorò Dualla, a capo chino. «È una... immane responsabilità, Ammiraglio. Ma la accetto nello spirito di servizio della Flotta. Le attività degli Undine vanno chiarite, quindi andrò a fondo della questione. E se avrò sentore di un attacco su larga scala, tornerò ad avvertirvi».
   L’Ammiraglio annuì e per qualche secondo calò il silenzio. Infine Hod riprese la parola: «Sa, ero tentata di mandare un’intera flotta con voi, per darvi manforte. Ma le controindicazioni supererebbero i benefici. Se mandiamo una flotta, gli Undine si sentiranno invasi e minacciati. E in caso di battaglia, non è detto che altre navi possano difendervi, anzi...».
   «... se la Destiny fosse danneggiata o distrutta, e quindi non potesse riaprire il varco, le altre navi resterebbero intrappolate nello Spazio Fluido» concluse Dualla, togliendola dall’imbarazzo. «Sì, inviare un solo vascello è la mossa più logica. Se non dovessimo tornare, questo vi confermerà ugualmente che gli Undine sono ostili. E allora vi preparerete a resistere... sempre che ve ne resti il tempo».
   Ci fu un nuovo silenzio, assai più lungo. Anche stavolta fu l’Ammiraglio a riprendere la parola. «Tutte le informazioni sugli Undine sono state caricate nel computer della Destiny. Lei e gli ufficiali superiori potete cominciare a studiarle subito. Gli ambasciatori arriveranno in giornata; ovviamente sono già informati di ogni dettaglio. Se avrete qualche domanda prima del varo, contattatemi in ogni momento; non vi farò più attendere» promise.
   «Grazie, Ammiraglio» disse Dualla, alzandosi. Per quanto la natura della sua missione le pesasse come un macigno, almeno era libera dalla tensione dell’incertezza. Ora sapeva, grossomodo, quali erano i prossimi passi. Si consolò dicendosi che, se la Voyager era uscita indenne dallo Spazio Fluido oltre due secoli prima, a maggior ragione ce l’avrebbe fatta la Destiny, costruita appositamente per quella missione. La biologia degli Undine non poteva essere progredita più rapidamente della tecnologia federale... giusto?
   «Se c’è qualcos’altro che posso fare per voi, non esiti a chiedere» si offrì l’Elaysiana, alzandosi a sua volta.
   «Ci penserò, ma per il momento non ho particolari richieste» rispose la Deltana. «Arrivederci al giorno del varo, Ammiraglio». Mosse verso l’uscita e stava per varcarla, quando un ultimo dubbio la trattenne. «Se... ci accadesse qualcosa, e non tornassimo, spiegherete l’accaduto alle nostre famiglie?» chiese.
   «Spiegheremo che la Destiny è andata dispersa nel viaggio inaugurale, ma non potremo fornire i dettagli» rispose Hod con tristezza.
   «Sì... capisco anche questo» mormorò Dualla. Una parte di lei si dispiacque che, in caso di disgrazia, i suoi parenti non avrebbero nemmeno saputo di che si era trattato. Ma un’altra parte si disse che in fondo era meglio così. Meglio che pensassero a un incidente ordinario, piuttosto che agli orrori dello Spazio Fluido. «Comunque vada, Ammiraglio, le consiglio d’approntare le difese. Conosce il detto: spera per il meglio, preparati al peggio» disse la Deltana, e lasciò l’ufficio.
   Hod si risedette con un sospiro, chiedendosi se l’avrebbe vista tornare. Accortasi che c’era poca luce nell’ufficio, guardò la finestra e vide battere una pioggia insistente. La tempesta era arrivata.
 
 
Rapporto confidenziale dell’Ammiraglio Hod per il Consiglio di Difesa Federale
Oggetto: incidente della USS Destiny NCC-204.610
 
   In Data Stellare 2605.45 l’USS Destiny, prototipo sperimentale per l’esplorazione inter-dimensionale, ha compiuto il suo viaggio inaugurale al comando del Capitano Dualla. Il vascello è partito dalla stazione Jupiter, dov’era stato costruito, segnalando la piena operatività dei sistemi e dell’equipaggio. Nessuna segnalazione di guasti o sabotaggi è giunta per tutto il tempo in cui le comunicazioni sono rimaste aperte. Giunta a 3 milioni di km, la Destiny ha attivato il deflettore secondario, aprendo il varco per lo Spazio Fluido. I sensori della stazione Jupiter e le boe perimetrali non hanno rilevato vascelli intrusi, né degli Undine, né di altre fazioni.
   Alle 9:15 ora di bordo la Destiny ha superato l’orizzonte degli eventi, traslandosi nello Spazio Fluido. La fessura interdimensionale è collassata settanta secondi dopo. Non ci sono stati picchi di radiazioni, interferenze subspaziali o altri fenomeni fuori dalla norma.
   Il rientro della Destiny nella nostra realtà era previsto per la Data Stellare 2605.60, come misura cautelare, indipendentemente dai progressi svolti nella missione. Il suo eventuale ritorno nello Spazio Fluido sarebbe dipeso dal rapporto del Capitano Dualla e da un’accurata valutazione dei rischi […].
   In Data Stellare 2605.70 non si segnala ancora alcuna traccia dell’USS Destiny. Il vascello non è riapparso nel sistema solare, né altrove nello spazio federale. Anche i rapporti dai nostri alleati, al di fuori dei confini, danno esito negativo. Non c’è alcun segno di trasmissione subspaziale riconducibile alla Destiny; nemmeno messaggi automatici di SOS. Tutte le nostre postazioni restano in ascolto, ma col passare dei giorni le speranze di un ritorno dell’astronave si fanno più esigue.
   Alla luce della fondamentale importanza della Destiny in termini di sicurezza federale, nonché per ragioni umanitarie nei confronti dell’equipaggio, ritengo prioritario inviare una missione di salvataggio. Sebbene la Destiny sia l’unica nave specificamente progettata per viaggi interdimensionali, ci sono vascelli – come l’USS Keter – che con poche modifiche possono prestarsi allo stesso impiego. La nostra speranza è rintracciare la Destiny e riportarla a casa col suo equipaggio. Ma anche se scoprissimo che è stata distrutta, l’analisi dei detriti e l’eventuale ritrovamento della scatola nera ci fornirebbero informazioni vitali per ricostruire l’accaduto.
   Per queste ragioni chiedo al Consiglio di Difesa l’autorizzazione a inviare una missione di soccorso e recupero, che coinvolga la Keter ed eventualmente altre navi. Aggiungo che il tempismo è fondamentale per accrescere le probabilità di trovare dei superstiti. Le loro testimonianze ci aiuteranno ad affinare le strategie difensive in caso di confronto con gli Undine. Nel frattempo ho richiamato la Prima e la Terza Flotta, per potenziare le difese del sistema solare. Ho inoltre diramato un messaggio di allerta all’intera Flotta Stellare, nel caso che gli Undine decidano di ricambiare la visita. Confidando in una rapida risposta, vi porgo rispettosi saluti.
 
Bina Hod,
Ammiraglio della Flotta Stellare
 
 
Rapporto confidenziale del Consiglio di Difesa Federale per l’Ammiraglio Hod
Oggetto: incidente della USS Destiny NCC-204.610
 
   Alla luce della perdurante scomparsa della Destiny, e dopo un’attenta valutazione del rapporto costi-benefici, questo Consiglio rigetta la proposta di una missione di soccorso e recupero. A nostro avviso, la Destiny è stata distrutta e un’eventuale operazione di salvataggio metterebbe inutilmente a repentaglio altre vite. Ufficialmente la Destiny sarà data per dispersa. Ogni informazione riguardante il suo viaggio inaugurale resterà strettamente classificata. Si decreta inoltre, con effetto immediato, l’interruzione dei lavori di costruzione per altre navi della stessa tipologia. La classe Destiny sarà considerata un fallimento da cui imparare.
   Riguardo il problema della sicurezza da Lei sollevato, il Consiglio prende molto seriamente il suo allarme. A dieci anni dal termine della Guerra Civile, la Flotta Stellare non è ancora tornata al suo potenziale prebellico. Si promulgano pertanto, sempre con effetto immediato, i seguenti progetti volti all’ammodernamento della Flotta e al potenziamento delle capacità difensive […].
   Come evidenziato, nella prossima decade la Flotta Stellare adotterà una strategia difensiva. Potenzieremo il pattugliamento dei confini e la sorveglianza dei mondi abitati, nonché di cantieri e altre infrastrutture chiave della Flotta. Per contro, l’esplorazione dello spazio al di fuori dei confini sarà ridotta allo stretto necessario, con la cancellazione dei seguenti progetti […].
   Si precisa che queste misure sono intese come temporanee e saranno ritirate al termine dell’emergenza. Una volta che la Flotta sarà tornata al suo pieno potenziale, l’esplorazione di nuovi mondi potrà riprendere. Ma per adesso è imperativo focalizzarci sul rafforzamento della difesa.
   Quanto alle sorti dell’USS Destiny, siamo desolati di non poter fare di più. Ci auguriamo tuttavia che, nel caso in cui l’astronave non sia stata distrutta, l’equipaggio riesca a trovare un modo per tornare. La Flotta Stellare ha ripetutamente dato prova di grande inventiva. La Destiny è l’astronave più moderna, con un equipaggio scelto; se mai un vascello ha avuto speranza di tornare dallo Spazio Fluido è certamente quello. I nostri pensieri e le nostre preghiere sono con i coraggiosi ufficiali dell’USS Destiny. Ovunque essi siano in questo momento, possano avere vita lunga e prospera; e possano ritrovare la via di casa. 
 

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Capitolo 2
*** L'anticamera della follia ***


-Capitolo 1: L’anticamera della follia
Data Stellare 2613.116
Luogo: sistema di Ferasa (Universo dello Specchio)
 
   L’USS Destiny, ancora “mimetizzata” con la dicitura CSS usata nello Specchio, uscì dalla cavitazione quantica e procedette cautamente a mezzo impulso. L’Allarme Rosso era inserito: gli scudi alzati, le armi pronte all’uso. Dopo tre anni d’avversità nel Multiverso – l’ultimo trascorso in una guerra all’ultimo sangue – gli avventurieri erano pronti a tutto. I loro informatori li avevano avvertiti che in quel sistema si trovava un’interfase di spazio, cioè una rarissima anomalia in cui due Universi, due realtà parallele si sovrapponevano. Attraversare l’interfase poteva condurli in quell’altro cosmo. Nessuno sapeva cosa ci fosse. L’unica certezza era che la CSS Destiny aveva varcato quella soglia nel suo viaggio inaugurale e non era tornata, tanto che la Confederazione aveva posto l’intero sistema stellare sotto quarantena. Ma coi recenti subbugli dovuti al cambio di regime, il sistema era rimasto incustodito. Il che dava all’USS Destiny l’opportunità d’indagare.
   «La soffiata era giusta; non rilevo vascelli della Confederazione» disse Talyn. Il giovane El-Auriano era l’addetto ai sensori e alle comunicazioni. Svolgeva egregiamente il suo compito, anche perché talvolta alle letture dei sensori aggiungeva le sue percezioni extrasensoriali, pur non avendone il pieno controllo. «L’interfase è dritta davanti a noi. Vedete quello sfarfallio di stelle?».
   «Uh-uh» fece Shati, la timoniera. In effetti una porzione di stelle tremolava, come se fossero riflesse in uno specchio d’acqua increspato. Inoltre la loro luce era virata verso il rosso, segno che i fotoni stentavano a uscire dall’interfase, calando nelle frequenze più basse dello spettro elettromagnetico. «La vedo, scendo a un quarto d’impulso» disse la Caitiana.
   Tutti gli ufficiali di plancia osservarono lo strano fenomeno. In parte somigliava a un buco nero, con la differenza che non c’era un orizzonte degli eventi ben definito, solo una caotica distorsione luminosa.
   «Credi che dall’altra parte ci sia il nostro Universo?» chiese la Comandante Losira.
   «Sarebbe troppo bello» mormorò il Capitano Rivera, sfregandosi il mento ispido. «Comunque dobbiamo saperlo. Bisogna scoprire cos’è successo alla nostra nave gemella, se non altro per evitare che accada lo stesso a noi».
   «Seguire la sua rotta potrebbe condurci alla stessa fine» obiettò la Risiana.
   «Preferisci restare per sempre nello Specchio? O inserire coordinate a caso, sperando di prenderci per pura fortuna?» fece l’Umano. Ne avevano discusso tante volte. La Destiny era costruita per esplorare il Multiverso, ma da quando gli insidiosi Undine avevano cancellato le coordinate quantiche dal computer, gli avventurieri non potevano tornare a casa. Il Multiverso era enorme, forse infinito: se tentavano a casaccio, la Destiny si sarebbe guastata assai prima che trovassero la giusta combinazione. E allora sì che non sarebbero mai più tornati a casa.
   «Okay, non dico più niente» si arrese Losira.
   Rivera passò lo sguardo sugli altri compagni: l’Ufficiale Tattico Naskeel, l’Ingegnere Capo Irvik, e infine la sua dolce metà, la dottoressa Giely, che in quel momento occupava la poltroncina del Consigliere alla sua sinistra. La Vorta gli sorrise incoraggiante e annuì. Dopo aver trascorso un anno dispersa nello Specchio, non vedeva l’ora di lasciarselo alle spalle, anche se ciò significava affrontare l’ignoto.
   «Avanti così, a un quarto d’impulso» ordinò il Capitano, osservando l’interfase sempre più vicina. Ora le stelle arrossate e tremolanti riempivano lo schermo.
   «È proprio come ci avevano detto. L’intero pianeta è stato trascinato dall’altra parte» disse Talyn, constatata la sua assenza dal sistema.
   A quelle parole Shati emise un profondo brontolio di rabbia. Anche se quella era la versione Specchio di Ferasa, la Caitiana soffriva comunque a pensare che fosse finita chissà dove. Che ne era stato degli abitanti, miliardi di Caitiani? Potevano essere ancora vivi, dopo otto anni di lontananza dal calore della loro stella? O restavano solo città in rovina e corpi congelati?
   «Scopriremo cos’è successo alla tua gente» promise Rivera, sapendo quanto fosse importante per la timoniera.
   Shati annuì, correggendo la rotta per puntare al centro dell’anomalia. «Stiamo per entrare nell’interfase» avvertì. «Meno tre... due... uno... contatto».
   Gli avventurieri si guardarono attorno e si tastarono, quasi aspettandosi di scoprire qualche orribile effetto sull’astronave e sui loro stessi corpi. Ma non videro né avvertirono nulla di anomalo.
   «Siamo al centro, arresto totale» disse Shati. «E adesso?».
   «Adesso aspettiamo» rispose Irvik. «L’interfase deve, per così dire, assorbirci nel suo continuum. Se qualcuno ci osservasse da fuori, vedrebbe la Destiny sbiadire sempre più, fino a scomparire nel nulla. Dal nostro punto di vista, invece, saranno le stelle a sbiadire, venendo rimpiazzate da... qualunque cosa ci sia dall’altra parte. A quel punto potremo uscire dall’interfase».
   «Quanto ci vorrà?» chiese il Capitano.
   «Boh? Minuti, ore, forse giorni. Ogni interfase è diversa, e comunque sono così rare che finora ne sono state studiate pochissime» spiegò l’Ingegnere Capo. «Alcune hanno origine naturale, anche se non sappiamo di preciso cosa le innesca. Altre, invece, sono create artificialmente».
   «Questa potrebbe essere artificiale?» domandò Rivera, assalito da un improvviso timore.
   «Chissà. Certo che il modo in cui ha fagocitato Ferasa è sospetto. Voglio dire, è strano che abbia beccato l’unico pianeta abitato nel raggio di parecchi anni luce...» mormorò il Voth.
   «Già, è strano» convenne il Capitano, mentre le stelle cominciavano a sbiadire attorno a loro. «Occultiamoci. Se c’è qualcuno dall’altra parte, non voglio che ci veda arrivare. Saremo noi a decidere se e quando rivelarci».
 
   Servirono tre ore per completare il trasferimento. Gradualmente le stelle si affievolirono, fino a svanire del tutto. Al loro posto comparve una luminosità giallastra diffusa. Che fosse un cosmo primordiale, in cui l’idrogeno non si era ancora addensato in stelle? Era presto per dirlo; i sensori non funzionavano nell’interfase. Col passare del tempo, comunque, apparve una fonte di luce localizzata più intensa. Sembrava che ci fosse almeno una stella, non molto lontano. La tensione tra l’equipaggio era sempre più palpabile.
   Infine Irvik andò alla postazione sensori ed eseguì una complessa scansione. «Capitano, ci siamo. Ritengo che abbiamo completato il trasferimento» annunciò.
   «Allora rimettiamoci in moto» si riscosse Rivera. «Shati, avanti a un quarto d’impulso. Dirigi verso quella stella... se è una stella» ordinò, indicando il bagliore davanti a loro. «Talyn, appena usciremo dall’interfase voglio un’analisi completa. Dobbiamo capire dove siamo finiti, se c’è traccia di Ferasa o dell’altra Destiny».
   «Finalmente!» fece Shati, muovendo le orecchie feline. Avrebbe sventolato la coda per l’impazienza, se non l’avesse persa due anni prima, in uno scontro a fuoco.
   La Destiny mosse in avanti, restando occultata, finché uscì dall’interfase. Subito la visuale sullo schermo si fece più chiara e i sensori ripresero a funzionare. Allora gli avventurieri strabuzzarono gli occhi, osservando l’anticamera della follia.
 
   Al posto dello spazio trapunto di stelle c’era quella fioca luminosità giallastra, in alcuni punti quasi del tutto spenta. In quel luogo irreale si librava un intero sistema stellare. Al centro vi era una stella di tipo G, simile al Sole terrestre. Tutt’attorno era raccolto un vivaio di pianeti, assurdamente vicini gli uni agli altri, tanto che alcuni occupavano la stessa orbita. Erano tutti mondi rocciosi, anche se differivano enormemente per dimensioni, composizione e condizioni ambientali. Alcuni erano deserti di sabbia ocra, di roccia scura o di ghiaccio biancastro. Altri verdeggiavano di praterie o foreste o paludi. Altri ancora erano coperti da oceani azzurri, con poche isole a punteggiarli. Alcuni erano butterati di crateri, altri avevano stupendi anelli. Alcuni non avevano neanche un satellite, altri ne avevano quattro o cinque, tanto grandi da essere a loro volta abitabili.
   Ma il più spaventoso di tutti era un pianeta mezzo disintegrato. Una porzione dello sferoide era saltata via, dandogli l’aria di una mela morsicata. Attraverso lo squarcio nella crosta s’intravedeva il nucleo fuso, che si stava ancora riassestando. Roccia e lava, proiettate nello spazio, stavano formando un anello. Alcuni frammenti, finiti fuori orbita, precipitavano come meteore sui mondi circostanti. Il resto del pianeta era percorso da enormi crepe, che parevano allargarsi e ramificarsi, facendo trasparire il magma sottostante. Se avessero superato il punto critico, il pianeta si sarebbe definitivamente disgregato, mettendo a rischio gli altri.
   «Talyn, come spieghi tutto questo?» chiese Rivera.
   «É... inspiegabile, Capitano» mormorò il giovane. «Questo sistema non può essersi formato in modo naturale, è un’impossibilità fisica. Rilevo dodici pianeti, molti dei quali condividono l’orbita, e una quarantina di satelliti, quasi tutti con atmosfera. Sia i pianeti che i satelliti sono così vicini gli uni agli altri che il sistema non può essere stabile. Avrebbero dovuto scontrarsi già in fase di formazione. Alcuni sarebbero precipitati sulla stella, altri sarebbero stati espulsi dall’orbita. Invece eccoli qui riuniti, come...».
   «Come perle su una collana» notò Losira.
   «Già, proprio così!» convenne Talyn, sempre più sconcertato man mano che raccoglieva i dati. «E ci sono altre anomalie. Un mondo è ghiacciato, ma è così vicino alla stella che tutto quel ghiaccio si sta sciogliendo, inondando le terre emerse. Un altro è coperto da una giungla, come se avesse un clima caldo-umido, ma è così esterno che la vegetazione sta morendo per il freddo. È come se le loro orbite fossero state mischiate. E c’è una cosa ancor più incredibile!» disse, continuando i rilevamenti.
   «Allora?!» fece il Capitano, impaziente.
   «La datazione dei radio-isotopi dice che i pianeti hanno età diverse. Uno ha tre miliardi d’anni, un altro quattro, un altro ancora cinque. E un satellite...» disse, mostrando un globo grigiastro quasi privo d’atmosfera, «ha almeno venti miliardi d’anni, cioè sei in più del nostro Universo. Il bello è che questo satellite orbita attorno a un pianeta che ha appena un miliardo d’anni».
   «Sarebbe a dire che tutti questi mondi vengono da sistemi diversi? Impossibile!» insorse Irvik. «Un sistema stellare non si aggrega così a casaccio!».
   «Infatti non può essersi formato naturalmente» convenne Talyn. «Ecco la spiegazione: qualcuno l’ha... assemblato. Hanno raccolto pianeti diversissimi, anche per età, e li hanno messi in orbita attorno a questa stella. I mondi più piccoli sono diventati i satelliti di quelli più grossi. Non so come faccia il sistema a rimanere stabile... forse lo aggiustano in continuazione».
   «Wow, c’è chi colleziona le biglie e chi colleziona i pianeti!» commentò Shati.
   «Ma come hanno fatto a radunarne tanti... a meno che... l’interfase!» esclamò Irvik, dandosi una manata sulla fronte. «Devono aver creato l’interfase apposta per rubare un pianeta da ogni cosmo. Ogni volta che la aprono, accalappiano il mondo più vicino e lo aggregano al sistema. Suppongo che usino potenti raggi traenti per metterlo in posizione».
   «E lì cos’è successo? Gli è andata male?» chiese Rivera, indicando il pianeta mezzo disintegrato.
   «Uhm, può darsi. In fondo spostare i pianeti è un’impresa titanica. Se quel mondo aveva qualche instabilità geologica, e l’hanno sottovalutata, potrebbero averlo frantumato per errore» confermò l’Ingegnere Capo.
   «E i suoi abitanti?» sussurrò Shati. La domanda rimase senza risposta. In effetti era lecito presumere che, fra tanti mondi rapiti, alcuni fossero abitati. Di certo lo era Ferasa.
   «Dobbiamo capire chi ha fatto questo» disse infine il Capitano. «Perché se hanno già saccheggiato tanti Universi, compreso lo Specchio... la prossima volta potrebbe toccare al nostro» ragionò.
   «La mia Ferasa!» gemette Shati, temendo per il suo mondo natale.
   «Non c’è un secondo da perdere. Talyn, cerca segni di tecnologia... qualunque cosa possa indicarci i responsabili!» ordinò Rivera.  
   «Di tecnologia ce n’è fin troppa. Quasi tutti questi mondi sono abitati, con centri urbani, anche se... uhm... c’è un campo di dispersione che ostacola le trasmissioni a lungo raggio» notò l’El-Auriano. «Probabilmente ostacola anche il teletrasporto. Potrebbe essere un modo per isolare i pianeti, impedendo che si scambino informazioni e organizzino una resistenza comune».
   «Astronavi, ce ne sono?» incalzò il Capitano, sempre in cerca dei responsabili.
   «Le sto cercando... sì, ce ne sono alcune presso il pianeta frantumato» disse Talyn, zoomando l’inquadratura sul mondo in questione. Apparvero dei vascelli giallognoli, irti di spuntoni. Erano indaffarati presso lo squarcio nella crosta: attingevano il magma dal nucleo messo a nudo, forse per estrarre minerali utili. Talyn portò al massimo l’ingrandimento, inquadrando uno dei vascelli. Allora gli avventurieri si sentirono accapponare la pelle. Avevano già visto astronavi come quelle, tre anni prima, all’inizio della loro odissea. Erano le bionavi degli Undine, anche noti come Specie 8472. Dopo anni di peripezie, la Destiny era tornata nello Spazio Fluido, il luogo d’origine di quegli esseri mostruosi.
 
   Il primo a riaversi dallo shock fu Irvik. «Presto, torniamo indietro!» gridò, ricordando gli orrori dello Spazio Fluido.
   «Non me ne vado senza sapere cos’è successo a Ferasa!» ringhiò Shati in risposta.
   «Calmi, tutti e due!» ordinò il Capitano, alzandosi dalla poltroncina. «Per prima cosa dobbiamo avere conferma della nostra posizione. Talyn, come possiamo essere tornati nello Spazio Fluido? Non era tutto invaso da quel citoplasma?».
   «Beh, la porzione che visitammo l’altra volta lo era» rispose il giovane. «Ma non c’è ragione di credere che sia tutto così. In questo momento siamo lontani anni luce dalla biosfera. Anche lo spazio può essere diverso».
   «Uhm, analizza quella roba gialla che ci circonda» ordinò Rivera, osservando con apprensione il bagliore diffuso sullo sfondo.
   «È confermato» disse l’El-Auriano di lì a poco. «Si tratta di fluido organico come quello dell’altra volta. Noi ci troviamo in una bolla vuota del diametro di tre anni luce, con la stella al centro. A questo punto direi che lo Spazio Fluido è fatto come una spugna. Tutto l’inverso del nostro, insomma. Nel nostro cosmo la maggior parte dello spazio è vuoto, e solo qua e là ci sono nebulose che formano stelle e pianeti. Qui è l’opposto: quasi tutto lo spazio è pieno di fluido, e solo occasionalmente s’incontrano bolle vuote come questa».
   «L’Universo del Gruviera» ironizzò il Capitano. «E non credo che saremo più graditi dell’altra volta. Non dopo quel che abbiamo combinato» commentò, ricordando la loro rocambolesca fuga, tradottasi nella distruzione della biosfera. «L’occultamento tiene?» si preoccupò.
   «Sì, Capitano» rispose Naskeel, con la sua voce tradotta elettronicamente. «E le navi Undine continuano a estrarre minerali dal nucleo. Non c’è segno che ci abbiano rilevati».
   «Quindi... potrebbero aver distrutto quel pianeta intenzionalmente?» rabbrividì Shati.
   «È possibile» rispose il Tholiano. «Sappiamo che alcuni vascelli Undine hanno una potenza di fuoco sufficiente a disintegrare interi mondi. Forse gli abitanti di quel pianeta si erano ribellati e gli Undine li hanno distrutti... anche come monito per gli altri».
   «Dov’è Ferasa?!» proruppe Shati, temendo che si trattasse proprio del mondo frantumato.
   «Tranquilla, eccolo lì» la rassicurò Talyn, inquadrando un altro pianeta. Era uno splendido mondo tropicale, con estesi oceani su cui spiccavano i continenti verdeggianti. C’erano un paio di cicloni, per nulla insoliti su Ferasa; visti dallo spazio sembravano girandole di nubi. «È alla distanza giusta dalla stella per non stravolgerne il clima» rilevò l’El-Auriano. «Uhm, vedo che non gli hanno appioppato nessun satellite. Potrebbe significare che è stato l’ultima aggiunta a questa collezione di pianeti».
   «Le condizioni in superficie?» chiese Shati, ancora in ansia.
   «Sembra che le comunicazioni planetarie siano offline» rispose Talyn. «Ci sono segni di saccheggi in molte città, compresa la capitale. Immagino che quando i Caitiani sono finiti qui sia scoppiato il panico. Comunque non ci sono segni d’attacchi su vasta scala da parte degli Undine. Il pianeta non sarà in condizioni ottimali, ma... poteva andare molto peggio» concluse.
   Leggermente rassicurata, Shati tornò a concentrarsi sui comandi. Era ancora in pena per i suoi simili, ma almeno non sembravano correre pericoli immediati.
   Per un poco vi fu silenzio. Il Capitano passeggiava nervosamente, osservando l’incredibile coorte di pianeti e cercando di stabilire la prossima mossa. Concluse che prima gli servivano più informazioni sul nemico. «A parte quelle bionavi, ci sono altre forze Undine? M’interessano soprattutto le installazioni. Hanno costruito città, fortezze...?» chiese.
   «Per ora non rilevo insediamenti sulla superficie dei pianeti, anche se ci vorrà un pezzo per analizzarne così tanti» disse Talyn, assorto nel lavoro. «Però... ehi, guardate qui! Hanno una stazione spaziale, e anche bella grossa!».
   Così dicendo inquadrò l’oggetto in questione. Aveva la forma di un poliedro dalle numerose facce, tutte triangoli equilateri. Lo scafo era composto dalla stessa materia organica giallastra delle bionavi. Da ogni faccia protendevano degli aghi, più grossi e lunghi al centro, più sottili e corti tutt’intorno. Nel complesso era una struttura aliena e inquietante.
   «Si tratta di un icosaedro, cioè un poliedro a venti facce» rilevò Talyn. «Ha un diametro di dieci chilometri... ancor più della biosfera».
   «Cosa sono quegli aghi che spuntano da tutti i lati?» chiese Rivera, inquieto. Considerate le dimensioni della stazione, ogni ago doveva misurare chilometri.
   «Si direbbero antenne... forse trasmettitori» rispose Talyn. «Ma al momento sono disattivati. Non riesco a immaginare cosa debbano trasmettere, che richieda tanta potenza».
   «Forse non sono comuni trasmettitori» ragionò Irvik, affiancandolo alla consolle. «Gli Undine potrebbero averli usati per aprire l’interfase. Se ogni antenna emette gravitoni come il nostro deflettore, l’effetto cumulativo sarebbe così massiccio da aprire uno squarcio tra le realtà. L’interfase di spazio, appunto».
   «Ed è permanente?» chiese il Capitano.
   «Non lo so proprio» ammise il Voth. «Certo che, se ogni pianeta viene da un cosmo differente, dove sono le altre interfasi? Questo mi fa pensare che col tempo tendano a richiudersi, come una ferita che si rimargina. Forse più grossa è l’interfase e più tempo ci mette a sparire» ipotizzò.
   «Analizziamo il pianeta attorno a cui orbita l’icosaedro. Potrebbe essere rilevante» disse Naskeel. Il Tholiano era il più taciturno tra gli ufficiali di plancia, ma proprio per questo i suoi consigli erano raramente ignorati, quando li dava.
   «Vediamo... si tratta di un pianeta desertico di classe H» rilevò Talyn, inquadrandolo sullo schermo. Era un mondo rossastro, simile a Marte; l’emisfero settentrionale era spazzato da un’ampia tempesta di sabbia. «Diametro 13.000 km, gravità 0.95 g, crosta di silicati. Temperatura media 45º C al sole, sottozero nell’emisfero notturno. Niente acqua in superficie, anche se ci sono sacche sotterranee... vegetazione da deserto molto stentata... però l’atmosfera è respirabile» notò il giovane. «Ehi, questo sì che è interessante! Ci sono un sacco di relitti sulla superficie. Rilevo resti d’astronavi e di... macchine da guerra, credo. Alcune sembrano lì da molto tempo» disse, inquadrando uno scafo arrugginito e mezzo sepolto dalla sabbia. Poco lontano giaceva un bizzarro tripode, rovesciato su un lato e anch’esso semisepolto.
   «Ci sono riscontri nel nostro database?» s’incuriosì il Capitano.
   «Niente, nemmeno tra i dati che abbiamo raccolto esplorando il Multiverso» disse Talyn. «E non rilevo scafi simili sui mondi circostanti. Non mi stupirei se questi relitti venissero da altri Universi ancora».
   «Ci sono superstiti? Gente che potremmo aiutare?» si preoccupò Giely.
   «In effetti sì, rilevo dei segni vitali. Sono migliaia, sparpagliati su tutto il pianeta. Anche se...». L’El-Auriano corrugò la fronte, sforzandosi d’interpretare i dati. «Alcuni sono umanoidi, anche se con piccole differenze. Altri sono del tutto alieni. E ci sono degli scontri a fuoco. Si direbbe una lotta di tutti contro tutti».
   «Staranno lottando per le risorse: acqua, cibo, riparo» ipotizzò la dottoressa, afflitta. Migliaia di persone erano più di quelle che loro potevano aiutare. Specialmente se erano tutte armate e coi nervi a fior di pelle.
   «O forse sono gladiatori» borbottò Rivera, cupo.
   «Cosa?» chiese la Vorta.
   «Antichi guerrieri terrestri» spiegò il Capitano. «All’epoca dell’Antica Roma, i combattimenti erano visti come sport. I campioni più abili si affrontavano nelle arene, sfoggiando la loro abilità per lo spasso del pubblico. A volte il perdente veniva risparmiato, ma... c’erano anche combattimenti all’ultimo sangue. Certe culture aliene hanno tutt’ora questo genere di passatempi».
   «Nel Quadrante Delta c’è lo Tsunkatse» ricordò Irvik. «È fatto proprio così: negli scontri blu il perdente viene stordito, ma in quelli rossi viene ucciso. Io l’ho sempre trovato una barbarie».
   «Ma in questo caso il pubblico dov’è?» chiese Losira, accennando al pianeta desertico.
   «Potrebbe essere lì dentro» disse Talyn, inquadrando di nuovo la stazione spaziale. «Quella struttura è abbastanza grande da accogliere migliaia di Undine. Purtroppo i sensori non riescono a penetrare lo scafo. Comunque è un luogo perfetto per osservare quelli che si affrontano sul pianeta, mantenendosi fuori portata».
   «Quindi tutto il pianeta è un’immensa arena?!» fece Shati, impressionata.
   «Probabile» annuì il Capitano, corrucciato. «Per adesso lo chiameremo così, Arena. E quella stazione sarà l’Harvester, visto che la usano per mietere interi pianeti» stabilì.
   «Scusate, ma... credete davvero che gli Undine abbiamo fatto tutto questo» disse Losira, accennando alla collezione di mondi, «solo per osservare gli scontri e fare il tifo?».
   «Ritengo che le loro motivazioni siano assai più complesse di così» disse Naskeel. «Sommando queste nuove informazioni a quelle già in nostro possesso, si può dedurre il loro obiettivo». Il Tholiano si fece avanti sulle zampe da ragno, che ticchettavano sul pavimento. Fisicamente era il più alieno dell’equipaggio. Aveva un corpo cristallino, color arancione e mantenuto a centinaia di gradi: doveva proteggersi con un aderente campo di forza per non raffreddarsi tanto da andare in pezzi. Le sei zampe sorreggevano un busto vagamente umanoide, con due arti dalle mani prensili. La testa aveva un becco da rapace e occhi sulfurei, che brillavano di luce propria.
   «Ci illumini» lo invitò Rivera. Il Tholiano non gli era mai stato simpatico, e non si era mai fidato completamente di lui; ma doveva ammettere che aveva una mente razionale. Quella di Naskeel era una logica ferrea e spietata, non temperata dalla filosofia come quella vulcaniana. Ma era comunque logica, e in quel momento ne avevano un gran bisogno.
   «Duecentoquaranta anni fa, gli Undine furono attaccati dai Borg e reagirono con estrema aggressività, lanciando un’invasione su larga scala della Via Lattea» ricordò Naskeel. «Ma così facendo dovettero disperdere le loro forze. E quando i Borg, aiutati dalla Voyager, trovarono un’arma efficace, gli Undine furono costretti a battere in ritirata. Per una specie così bellicosa dev’essersi trattato di un’umiliazione terribile. In seguito tentarono d’infiltrarsi nella vostra Accademia di Flotta, ma furono scoperti e rinunciarono al piano; un altro disonore. Considerando che gli Undine sono altamente intelligenti e adattabili, è lecito supporre che abbiano cambiato strategia. Invece di mandare le proprie truppe o spie a invadere altri Universi, ora fanno l’opposto: carpiscono dei frammenti di quei cosmi. Quindi aprono le interfasi per strappare interi mondi alle loro realtà e portarli nella propria. Così incamerano un pianeta alla volta, in circostanze più controllabili, impedendo agli abitanti di fuggire».
   «Il ragionamento fila» ammise Rivera. «Però finora non se la sono presa né coi Borg, né con la Federazione» osservò.
   «Ritengo che le loro motivazioni oltrepassino la mera vendetta» ribatté il Tholiano. «Alla base di tutto potrebbe esserci la volontà di proseguire la lotta darwiniana che li ha resi forti. Quindi hanno costruito questo sistema, radunando i pianeti raccolti in modo che fossero relativamente stabili. Poi non li hanno invasi, perché non è questo il loro obiettivo. Piuttosto hanno prelevato i migliori guerrieri e li hanno concentrati su Arena, dove li osservano attentamente. Così possono confrontare le loro abilità e strategie di sopravvivenza, imparando dagli esempi. È anche probabile che ogni tanto gli Undine mandino i propri guerrieri su Arena, per partecipare agli scontri. Adesso anche la funzione della biosfera diventa più comprensibile».
   «Intendi che la biosfera era un’antesignana di tutto questo?» chiese Rivera.
   «No, ritengo che fosse un campo di prova ancor più specializzato» corresse Naskeel. «Gli Undine hanno già collezionato decine di pianeti e sembra che Ferasa-Specchio sia l’ultimo in ordine di tempo. Il prossimo potrebbe essere Ferasa del nostro Universo. Infatti la biosfera conteneva i tre ambienti più tipici di quel mondo tropicale: una città, una foresta pluviale e un’area desertica. Gli Undine l’avevano attrezzata per prepararsi a catturare il pianeta, e forse altri mondi federali».
   «Quindi stanno per prendere il nostro Ferasa?!» esclamò Shati, di nuovo angosciata. «E quando lo faranno?!».
   «Non ho elementi per stabilirlo con precisione» rispose Naskeel. «Tuttavia sono passati ben otto anni da quando presero Ferasa-Specchio. Il numero di mondi già rapiti fa pensare che mediamente tra una cattura e l’altra passi meno tempo. Forse stanno aspettando che l’ultima interfase si richiuda. O forse devono prima smaltire l’ultimo gruppo di guerrieri che hanno portato su Arena. Comunque sia, è logico presumere che non manchi molto».
   «Beh, allora che stiamo aspettando?! Attacchiamo l’Harvester, distruggiamolo! Così non potranno aprire altre interfasi!» ringhiò la Caitiana, indicandolo con l’artiglio ricurvo.
   «Ehi, piano!» la frenò il Capitano. «Non attaccherò quella cosa, senza sapere qual è la sua potenza di fuoco. Ricorda quanto sono pericolose le bionavi. Hanno mezzo disintegrato un pianeta, per Giove!» esclamò, indicando il mondo frantumato. «Se l’Harvester è così importante, non credi che sia ben armato e protetto? E ci sono un sacco di bionavi pronte a dargli manforte in caso di necessità. No, attaccarlo sarebbe un suicidio».
   «Beh, allora ci occorre più potenza di fuoco!» ribatté Shati. «Torniamo nello Specchio e chiediamo aiuto ai nostri amici ribelli! Dopotutto ci devono un grosso favore!».
   «La loro flotta è appena stata dimezzata. Non rischieranno le ultime navi in un attacco che, comunque, non può riportare indietro il loro Ferasa» ragionò il Capitano.
   «Quindi ci arrendiamo?!» fece la timoniera, esasperata.
   «Non ho detto questo. Dobbiamo continuare a raccogliere dati, cercare le debolezze del nemico e farci un’idea di quando potrebbe colpire» spiegò pazientemente Rivera.
   «Suggerisco anche di cercare la CSS Destiny, se esiste ancora» intervenne Naskeel. «Dopotutto è il motivo che ci ha spinti a varcare l’interfase. Se riuscissimo a trovarla e a ottenerne l’appoggio, avremo già raddoppiato la nostra potenza di fuoco».
   «Sì, ma... con quello che ho visto, dubito che l’altra Destiny ci sia ancora» commentò il Capitano. «Gli Undine l’avranno senz’altro distrutta».
   «Lei crede? Eppure catturarono questa Destiny anziché distruggerla. La rimandarono indietro, usandola come esca per catturarci. Potrebbero aver fatto lo stesso con l’altra» obiettò il Tholiano.
   «Anche questo è vero» ammise Rivera. Osservò il pianeta Arena, su cui c’era una gran quantità di relitti semisepolti dalla sabbia. «Talyn, cerca la Destiny. Se non si trova su questo mondo, estendi la ricerca a tutto il sistema stellare» ordinò.
   Per alcuni minuti l’El-Auriano si concentrò sulle scansioni. «Niente da fare, non è su Arena» concluse. «Provo a estendere la ricerca».
   Stavolta passò un tempo molto più lungo. Per facilitare le analisi, la Destiny prese a circumnavigare il sistema, tenendosi all’esterno. Dopo un paio d’ore, gli avventurieri avevano quasi perso la speranza. Fu allora che una spia si attivò e Talyn alzò la testa dalla consolle. «Forse ci siamo. Rilevo una nave simile alla nostra, alla deriva su un’orbita ellittica. Invio le coordinate al timone».
   «Ce le ho» disse Shati, che attendeva con impazienza ogni progresso. «Vediamo che c’è là fuori» disse, accelerando a massimo impulso verso la zona indicata.
 
   La CSS Destiny campeggiava sullo schermo, inclinata su un lato, così da mostrare sia lo scafo centrale squadrato, sia la sezione ad anello che la circondava. Era illuminata fiocamente sia dalla stella lontana, sia dal tenue bagliore dello Spazio Fluido. Nel vederla, il Capitano provò uno strano senso di déjà vu. Così gli era apparsa l’USS Destiny, tre anni prima, quando l’avevano trovata alla deriva nella Nebulosa del Toro. All’epoca non sospettava minimamente quanto gli sarebbe costato abbordarla. Tuttavia non lo rimpiangeva, perché senza di quello non avrebbe mai conosciuto Giely.
   «Tutto bene?» chiese la Vorta, notando la sua espressione assorta.
   «Sì, è solo che mi ricorda quando trovammo questa nave. Quando trovai te» ammise Rivera. Sembrava passato un secolo dalla prima volta che l’aveva vista, sconvolta e senza memoria, nella sala macchine oscurata della Destiny. Ne avevano fatta di strada, da allora...
   Giely annuì, pensando la stessa cosa. All’epoca era sull’orlo della follia, ma adesso si sentiva più sicura e padrona di sé. «Cerchiamo dei superstiti» disse. Lasciò la poltroncina del Consigliere e affiancò Talyn ai sensori. I due esaminarono scrupolosamente la nave alla deriva, in cerca di segni vitali.
   «Niente da fare. O non ci sono superstiti, o sono schermati alla perfezione» concluse la Vorta.
   «Però la nave in sé ha qualcosa di strano» fece l’El-Auriano, proseguendo le analisi.
   «Strano in che senso?» chiese il Capitano.
   «Beh, sembra che abbia subito gravi danni... e che sia stata riparata» chiarì il giovane, inquadrando una sezione di scafo. Alcune piastre erano state sostituite, presumibilmente per riparare una falla. Tuttavia non erano state verniciate, così che il restauro saltava all’occhio. Talyn individuò altre anomalie del genere. Uno dei collettori Bussard integrati nell’anello sembrava ricostruito di sana pianta, con una forma leggermente diversa dall’altro. E il deflettore di navigazione era riparato in modo estroso, con dei componenti aggiuntivi che lo rendevano più sporgente.
   «Vorrei sapere chi ha fatto quegli interventi» commentò Irvik. «In mancanza di un cantiere spaziale, devono aver richiesto anni di lavoro. Siete proprio certi che non ci sia nessuno a bordo?».
   «Nessuno di organico, ma... forse ho la risposta» disse Talyn. «Rilevo attività elettrica compatibile con la presenza di Exocomp. Credo abbiano riparato loro la nave, un poco alla volta, in questi otto anni». Anche l’USS Destiny aveva un’ampia fornitura di quei robottini riparatutto, simili ad angurie fluttuanti, che fornivano un indispensabile aiuto agli ingegneri.
   «Sono stati capaci di farlo?» fece Rivera, colpito. In genere gli Exocomp non prendevano iniziative, limitandosi a eseguire gli ordini degli ingegneri. Di certo non aveva mai sentito che riparassero da soli un’intera astronave malridotta.
   «Perché no? Alcuni Exocomp sono più intraprendenti, come il nostro Ottoperotto» disse Talyn, riferendosi all’Exocomp numero 64, che aveva spesso dimostrato carattere e spirito d’iniziativa.
   «Uhm, sì...» fece Irvik, che lavorava ogni giorno coi robottini. «Se sono rimasti lì per tutti questi anni, possono aver preso a comunicare tra loro ed essersi organizzati per riparare la nave. In assenza di supervisione, sembra che si siano presi qualche... licenza creativa. Forse gli mancavano i pezzi di ricambio. O forse hanno persino cercato di migliorare l’astronave» ipotizzò.
   «Quindi possiamo assumerne il controllo, per unirla alla nostra forza?» chiese Naskeel.
   «Frena! Prima dobbiamo ispezionarla» raccomandò l’Ingegnere Capo, recatosi alla postazione sensori. «In questo momento l’energia è al minimo. Saliamo a bordo e proviamo a ripristinarla, accertandoci che la nave non esploda. Assicuriamoci che gli Undine non abbiano lasciato bombe o trappole. Solo a quel punto si potrà parlare di assumere il controllo della nave. E ricordiamo che, non appena la metteremo in movimento, gli Undine se ne accorgeranno e ci manderanno contro le bionavi. Dobbiamo decidere bene come usarla, prima d’attirare la loro attenzione» raccomandò.
   «Già, e non sarebbe male accedere ai diari dei sensori, per sapere cos’è successo all’equipaggio» ragionò il Capitano. «Bene, allora è deciso. Naskeel, Irvik, radunate le vostre squadre. Abbordiamo quella nave».
 
   Come avevano fatto tre anni prima con l’USS Destiny, anche stavolta gli avventurieri si teletrasportarono dapprima in plancia, per verificare le condizioni dell’astronave. Indossavano le tute spaziali, perché il supporto vitale era al minimo: le superfici erano coperte di brina e i livelli d’ossigeno erano bassi. Appena arrivati attivarono i faretti delle tute, in quanto anche le luci erano spente, e si guardarono attorno con le armi in pugno. Ciò che videro gli gelò il sangue nelle vene.
   Al centro della plancia, davanti alla poltroncina del Capitano, c’era una pila di cadaveri più o meno smembrati, preservati dal freddo. Erano gli ufficiali della CSS Destiny. Rivera riconobbe il Capitano Dualla, ovvero il suo alter-ego dello Specchio, con l’uniforme bianca dei Pacificatori. Lei e gli altri erano stati uccisi in modi spaventosi. Alcuni erano letteralmente fatti a pezzi. Altri recavano graffi da cui si originavano disgustosi filamenti organici, che li avevano avvolti e consumati. Il Capitano ricordò che agli Undine bastava un’unghiata per iniettare le loro cellule, che poi si moltiplicavano, divorando le vittime.
   «Mi ricorda l’altra volta» disse Shati, l’unica a non aver acceso i faretti. I suoi occhi felini scintillavano nella penombra, permettendole di vedere agevolmente. Passò la mano sulla consolle del timone, rimuovendo la brina per leggere i dati.
   «L’altra volta non c’erano questi» commentò Rivera, accennando ai corpi. «Beh, almeno ora sappiamo cos’è successo all’equipaggio». Guardò di sottecchi Talyn, che all’epoca aveva percepito un’eco dell’accaduto, come un’impronta emotiva.
   «Sì, è andata così» mormorò l’El-Auriano, accostandosi alla pila di corpi, pur senza toccarla. «Questo equipaggio ha opposto più resistenza dell’altro, perciò invece di catturarli gli Undine li hanno massacrati. Non solo qui, ma in tutta la nave. È come se le paratie fossero impregnate del loro terrore... delle loro sofferenze...» mormorò, chiudendo gli occhi.
   «Questo non ha senso» disse Naskeel. Era l’unico del gruppo a non indossare la tuta spaziale, data la conformazione aliena, accontentandosi del suo solito campo di forza.
   «Ssshhh!» lo zittì il Capitano. «Questa è psicometria, la capacità di percepire le emozioni che hanno impregnato un oggetto o un luogo. Talyn è l’unico individuo che io abbia mai incontrato a possederla».
   «Mi pare una pseudo-scienza, Capitano» obiettò il Tholiano.
   «Un tempo lo credevo anch’io. Ma gli El-Auriani hanno una sensibilità sconosciuta alle altre specie» insisté Rivera. Dopo di che si accostò al giovane, posandogli una mano sulla spalla. «Già, gli Undine sono dei gran bastardi. Vuoi tornare sulla nostra nave?» chiese, temendo che fosse troppo scosso per rimanere.
   «No, è tutto a posto, Capitano» si riscosse Talyn. Si recò alla postazione sensori e comunicazioni, ripulendola dalla brina prima di mettersi al lavoro.
   Intanto Irvik stava armeggiando coi controlli del supporto vitale. Ripristinò l’illuminazione, ma per il momento non alzò la temperatura né i livelli d’ossigeno, per evitare che i cadaveri – fino ad allora congelati – prendessero a marcire. Fatto questo, raggiunse Talyn alla sua postazione, trovandolo indaffarato.
   «M’è venuta un’idea» disse il giovane. «Noi siamo dispersi perché gli Undine ci hanno cancellato le coordinate quantiche dal computer, ma... lo avranno fatto anche qui?».
   Queste parole riaccesero la speranza tra i presenti. Tutti osservarono l’El-Auriano e il Voth che ricercavano le preziose informazioni nel database. «Ci siamo! È... è...» fece Talyn, ma le sue braccia ricaddero.
   «Allora?!» fece Shati, impaziente.
   «Qui ci sono solo le coordinate quantiche dello Specchio» mormorò il giovane, deluso.
   «Se questa nave era costruita per esplorare l’interfase, può darsi che non ne abbia mai avute altre in memoria» borbottò Irvik.
   «Frell, un altro buco nell’acqua!» ringhiò Shati. Era così stizzita che agguantò la sedia del timoniere e la scaraventò lontano, provocando uno sferragliamento metallico.
   «Datti una calmata!» l’ammonì il Capitano. «Siamo tutti delusi e arrabbiati per la situazione. Ma questa nave è comunque una risorsa da sfruttare. Cerchiamo di non sprecarla».
   Nell’ora successiva, Irvik e Talyn richiamarono i diari dei sensori, trovando conferma a quello che ormai era evidente. La CSS Destiny era stata attaccata in forze dagli Undine non appena era sbucata nello Spazio Fluido. Decine di bionavi l’avevano circondata, bersagliandola fino ad abbattere gli scudi. A quel punto gli alieni l’avevano invasa, massacrando l’equipaggio con una ferocia bestiale. Le registrazioni mostrarono gli Undine che attraversavano i campi di forza, avendo adattato il loro campo bio-elettrico, e laceravano le porte a mani nude. Parecchi per la verità erano stati abbattuti dai difensori, ma altri erano sopraggiunti, fino a prendere il sopravvento. Alcuni Pacificatori erano fuggiti con navette e capsule, cercando di riattraversare l’interfase, ma erano stati tutti distrutti, certo per impedire che riferissero l’accaduto. Nel giro di poche ore, gli ultimi Pacificatori nascosti a bordo erano stati stanati e uccisi. Gli Exocomp, invece, erano stati ignorati. Al termine della caccia, gli Undine avevano scaricato i dati dal computer e saccheggiato le stive. Avevano anche trafficato in sala macchine, installando qualcosa, ma l’inquadratura non mostrava di che si trattasse. Infine avevano abbandonato la nave alla deriva.
   «Si direbbe che da allora gli Undine non siano più tornati a bordo» concluse Talyn, scorrendo rapidamente i diari dei sensori.
   «Ma gli Exocomp non si sono fermati un istante. E in otto anni hanno rimesso in sesto la nave» notò Irvik, scorrendo un’interminabile lista di riparazioni. I robottini avevano diligentemente trasmesso i loro rapporti al computer, anche se non c’era più nessuno a leggerli. «Credo proprio che con poco sforzo potremo riattivare la nave. Dobbiamo solo andare in sala macchine, per esaminare il nucleo e prendere il controllo degli Exocomp».
   «E per verificare cos’è quel congegno installato dagli Undine» aggiunse Naskeel. «Potrebbe essere un’arma, o un sensore in grado di avvertirli della nostra intrusione».
   «Allora andiamo, e stiamo all’erta» ordinò il Capitano.
 
   L’attraversamento della nave fu inquietante, dato che i cadaveri dell’equipaggio erano disseminati ovunque. Gli Exocomp, pur riparando i danni al vascello, avevano lasciato i corpi dov’erano, non essendo programmati per disporre le esequie. Almeno le luci erano riattivate, il che dava alla nave un’aria meno spettrale.
   Gli avventurieri giunsero infine in sala macchine, dove alcuni Exocomp erano tuttora all’opera. Pareva che facessero controlli e revisioni, avendo ormai terminato le riparazioni vere e proprie. Il nucleo quantico pulsava lentamente, al minimo della potenza, e sembrava in ordine. Ma l’attenzione della squadra fu calamitata dal congegno sconosciuto che si trovava addossato a una parete.
   Era un grande anello di metallo scuro, del diametro di 6,7 metri, infisso nel pavimento in modo da formare un arco che era possibile attraversare. La sua superficie era istoriata da strani simboli. In particolare sulla parte più interna dell’anello vi erano dei geroglifici, mentre sull’orlo esterno si trovavano sette chevron – simboli a V – equidistanti.
   «E questo che diavolo è?!» fece il Capitano, avvicinandosi cautamente. Gli sembrava un arco trionfale, ma perché portarlo sull’astronave? E perché lasciarlo addossato alla parete, così che non si poteva neanche varcarlo?
   «Per il Mondo Perduto! Somiglia a un antico portale iconiano» commentò Irvik, osservandolo affascinato. «L’Impero Iconiano fiorì oltre 200.000 anni fa. Il suo punto di forza erano i portali con cui si poteva passare da un pianeta all’altro, in tutta la Via Lattea, senza bisogno d’astronavi. Erano come... porte per le stelle».
   «E pensi che sia uno di quei portali?» s’interessò Rivera.
   «Non ne sono certo... in realtà erano un po’ diversi. Ma la funzione sembra quella. Guardate, l’hanno collegato al nucleo quantico per fornirgli l’energia!» notò, indicando dei cavi di collegamento.
   «E per attivarlo?» chiese il Capitano, ancora dubbioso.
   «Forse da qui» disse il Voth, accostandosi a una strana consolle collegata all’anello. Sembrava una meridiana, in quanto su una colonnina era posto un quadrante fitto di geroglifici, gli stessi incisi sull’arco. Erano disposti in doppio cerchio attorno a un castone centrale rosso.
   «Uhm, questi caratteri non sono iconiani» disse Talyn, esaminandoli col tricorder. «Anzi, non si trovano affatto nel nostro database linguistico».
   «Beh, se non è un portale iconiano, può essere un suo equivalente!» insisté l’Ingegnere Capo, tutto emozionato. Anche lui impugnò il tricorder e prese a esaminarlo. «L’anello è composto da una lega sconosciuta, ma incredibilmente resistente. Direi che è un grande superconduttore. Quei simboli... credo che si debba selezionarli tramite il pannello comandi per fissare la destinazione. Ci sono sette chevron, quindi forse occorrono sette simboli» dedusse. «Capitano, questo congegno è una scoperta eccezionale. Merita un esame approfondito. Dobbiamo portarlo sulla nostra Destiny, per studiarlo con calma».
   «Per adesso lo esaminerà qui, finché sarà certo che non è pericoloso» decise Rivera. «Ma prima faremo ciò per cui siamo venuti. Dobbiamo prendere il controllo degli Exocomp e ripristinare la piena energia» gli ricordò.
   «Uhm, sì, sì...» borbottò Irvik, allontanandosi a malincuore da quella meraviglia tecnologica. Confabulò con i suoi ingegneri, poi prese contatto con gli Exocomp. Cercò di convincerli che loro erano i rinforzi inviati dai Pacificatori per rioccupare la nave e proseguire la missione. Dopo qualche tentennamento, i robottini parvero credergli. Allora Irvik teletrasportò a bordo Ottoperotto e lo mise a capo degli Exocomp, per accertarsi che si attenessero agli ordini. Il robottino pigolò tutto eccitato e prese a conversare elettronicamente coi suoi simili, scambiando grandi quantità di dati sulle riparazioni. Nel frattempo gli altri ingegneri ripristinarono il pieno supporto vitale in sala macchine e spostarono i resti dei Pacificatori. Così finalmente tutti poterono togliersi le tute spaziali, lavorando più agevolmente.
 
   Vedendo che le cose volgevano al meglio, Rivera lasciò gli ingegneri e si accostò a Talyn, che dopo essersi tolto la tuta era tornato a esaminare il portale. «Tutto bene?» gli chiese, vedendolo assorto.
   «Questo oggetto... è impregnato di storia, di ricordi» mormorò l’El-Auriano, passando la mano nuda sulla sua superficie. «Credo che sia molto antico».
   «Quando dici antico, intendi...».
   «Intendo milioni di anni» fu la sorprendente risposta. «Sento che fu creato con buoni propositi, per unire la Galassia, ma... credo che in seguito sia stato usato per il male». D’un tratto i suoi occhi si arrovesciarono. Ebbe la fugace visione di un essere serpentino che si contorceva, di guardie dagli elmi di foggia animalesca e di un faraone con gli occhi che brillavano.
   «Usato per il male? Anche di recente?» si preoccupò Rivera.
   «Io... non sono certo...» mormorò il giovane. Staccò la mano dall’arco e subito le visioni cessarono; i suoi occhi tornarono alla normalità. «C’è troppa storia, non riesco a mettere in ordine gli eventi. Forse col tempo...» spiegò, ma s’interruppe quando un fischio risuonò nella sala macchine.
   Sbigottiti, gli avventurieri videro che l’arco aveva preso a ruotare. Non girava l’intero anello, ma solo la porzione più interna, quella coi geroglifici. A un tratto il movimento si arrestò e uno chevron s’illuminò di rosso. Poi l’anello riprese a girare, fino a un secondo arresto e un secondo chevron attivato, e così via.
   «Sta fissando le coordinate!» gridò Irvik, più indietro. «Vedete? C’è una serie di simboli che sta attivando i chevron. Quando la sequenza sarà completa, il portale si aprirà!».
   «Io non ho toccato niente!» fece Shati, aspettandosi d’essere incolpata.
   «Nessuno di noi ha attivato il portale. Dunque l’hanno fatto dall’altra parte» disse Naskeel, imbracciando la sua arma. In previsione di uno scontro con gli Undine aveva scelto un fucile TR-116, simile alle antiche armi da fuoco a propellente chimico. Al posto dei proiettili, tuttavia, sparava dardi che iniettavano le nanosonde letali per gli Undine. Nello scontro di tre anni prima, quelle armi si erano dimostrate più efficaci dei phaser.
   «Prepariamoci alla visita!» disse il Capitano. Impugnò il phaser e arretrò di qualche passo, imitato da Talyn. Considerate le decine di mondi radunati in quel sistema, quasi tutti abitati, non era certo che stessero arrivando gli Undine; né voleva cedere facilmente la CSS Destiny. Quindi avrebbe atteso i visitatori e solo nel peggiore dei casi avrebbe ordinato la ritirata. Intanto sei chevron si erano già attivati; mancava solo quello in cima all’arco. L’anello interno continuò a girare, finché l’ultimo simbolo andò in posizione. Lo chevron apicale brillò di rosso e scattò verso il basso, bloccando l’anello. Un bagliore azzurro comparve al centro del portale, segno che si stava attivando.
   «GIÚ!» gridò Talyn. Balzò addosso a Rivera e lo placcò come un giocatore di football, schiacciandolo sul pavimento. Il Capitano fu così sorpreso che non reagì; del resto non poteva certo sparare al giovane amico.
   L’attimo dopo un vortice d’energia azzurra scaturì dal portale, balenando sopra di loro. Sulle prime parve un’esplosione, destinata ad allargarsi a tutta la sala, ma non fu così. Dopo essersi proiettato in avanti di pochi metri, il vortice si arrestò e invertì il suo moto, venendo riassorbito dal portale. Rivera sentì il calore intenso e comprese che si trattava di un picco energetico, scaricatosi al momento dell’apertura. Se Talyn non lo avesse placcato con perfetto tempismo, quel vortice lo avrebbe vaporizzato dalle ginocchia in su.
   «Tu lo sapevi?!» ansimò il Capitano.
   «Ho avuto un presentimento» rispose l’El-Auriano. Si rialzò agilmente e gli porse la mano, aiutandolo a tirarsi su.
   «Mi hai salvato la vita» riconobbe l’Umano. «Ora vediamo chi arriva!».
   I due arretrarono precipitosamente, coi phaser in pugno, osservando il portale. L’arco metallico adesso incorniciava una superficie fluida bianco-azzurra, lievemente increspata. Era così luminosa che il Capitano poteva guardarla a stento. Comprese che era l’orizzonte degli eventi di un wormhole artificiale, come aveva previsto Irvik.
   Per un attimo tutti rimasero in silente attesa, schermandosi gli occhi dal bagliore. Poi la creatura emerse dal portale e scattò in avanti.
 
   Era indubbiamente un Undine, col corpo violaceo sorretto da tre zampe, i lunghi artigli e gli occhi gialli dalle pupille cruciformi. Rivera aveva scordato quanto fossero grandi: la testa dell’alieno lo fissava da tre metri d’altezza. Aveva anche sottovalutato la loro rapidità: in un istante la creatura gli fu addosso.
   «Fuego!» gridò il Capitano, sparandogli in faccia col phaser a massima potenza. Gli centrò un occhio giallastro, spappolandolo. L’Undine emise un ringhio bestiale e cercò d’artigliare l’avversario, ma il dolore e la vista offuscata andarono a detrimento della sua mira. Rivera balzò di lato e rotolò a terra, sfuggendo all’unghiata. Si rialzò e sparò di nuovo, colpendo l’alieno in pieno petto. Nel frattempo anche Naskeel e la sua squadra avevano aperto il fuoco, colpendo l’Undine coi dardi avvelenati. Anche Talyn sparò col phaser, centrandogli l’altro occhio e lasciandolo cieco.
   L’alieno si contorse, ferito e dolorante. Cercò d’attaccare ancora il Capitano, guidato da qualche percezione extrasensoriale, ma incespicò e dovette fermarsi. Allora gli avventurieri si disposero a semicerchio, crivellandolo con un fuoco intenso e continuato.
   «Così, non dategli respiro!» gridò Rivera, sovrastando il frastuono della gragnola.
   «CADI! CADI!» strepitò Shati, eccitata dalla battaglia.
   «Guardate avanti!» disse però Irvik, indicando il portale.
   Dall’orizzonte degli eventi stavano uscendo altri Undine. Gli avventurieri dovettero cessare l’attacco al primo, ormai inerte al suolo, e colpire anche loro.
   «Rivera a Destiny, teletrasporto per tutta la squadra!» ordinò il Capitano, accorgendosi che non li avrebbero trattenuti a lungo. Passarono i secondi, che gli parvero lunghi come ore. Gli alieni continuavano a sbucare dal portale, guadagnando terreno. Che aspettava la Destiny a trarli in salvo?!
   «Qui Destiny, non riusciamo ad agganciarvi. C’è un pozzo gravitazionale in sala macchine, che interferisce. Uscite da lì!» rispose infine Losira.
   «Il portale!» comprese Rivera, maledicendosi per non averlo capito subito. Come tutti i wormhole, anche quello ostacolava il teletrasporto. «Avete sentito? Via!» ordinò.
   Gli avventurieri indietreggiarono verso l’uscita, continuando a sparare. Altri Undine caddero, sopraffatti dai raggi phaser o dai dardi avvelenati. Ma uno dei nuovi arrivati, ancora illeso, spiccò un balzo spettacolare, atterrando proprio davanti a Talyn. Con una manata lo disarmò, facendogli volare via il phaser. L’attimo dopo lo afferrò per la gola, sollevandolo da terra. Il giovane cercò convulsamente di liberarsi, ma non poteva allentare una stretta capace di lacerare il metallo. Allora tentò di chiedere aiuto, ma era mezzo strangolato; dalle sue labbra uscì appena un rantolo. Non che avesse bisogno di gridare: tutti i compagni lo avevano visto e avrebbero voluto aiutarlo. Ma temevano di colpirlo accidentalmente, nel tentativo di centrare l’Undine. Rivera e Shati esitarono, correggendo più volte la mira. Infine desistettero, consapevoli che il minimo errore avrebbe ucciso Talyn.
   Naskeel invece aprì il fuoco, mirando alla testa dell’alieno. Ma con un gesto fulmineo della mano libera, questi afferrò a mezz’aria il dardo avvelenato, per poi lasciarlo cadere. Il Tholiano avrebbe voluto sparare di nuovo, ma aveva contato i colpi e si accorse di aver esaurito i proiettili. Ecco l’inconveniente di usare un’arma così primitiva! Dovette aprire il fucile e ricaricarlo in tutta fretta, mentre il resto della squadra sparava alcuni colpi di phaser. Colpito un paio di volte, l’Undine vacillò e arretrò verso il portale, sempre facendosi scudo con l’ostaggio. Anche gli altri alieni si stavano tutti ritirando.
   «Fermi, così colpirete Talyn!» gridò Rivera. Coi phaser regolati al massimo, il primo errore di tiro avrebbe disintegrato il giovane.
   «Allora che facciamo?!» chiese Shati, combattuta fra il desiderio di salvare l’amico e il timore di colpirlo.
   Il Capitano non aveva una risposta. Osservò impotente gli Undine che si ritiravano nel portale, uno dopo l’altro. Infine anche il sequestratore vi svanì, trascinandosi dietro Talyn.
   «NO!» gridò Rivera, scattando in avanti. Se il portale si richiudeva, non conosceva le coordinate giuste per riaprirlo. E non poteva abbandonare il giovane amico; non dopo che lui l’aveva salvato dal vortice d’energia. Giunto davanti al tremulo orizzonte degli eventi, l’Umano lo varcò in un impeto di disperazione.
 
   Rivera non aveva mai provato nulla del genere. Fu come se ogni atomo del suo corpo fosse afferrato e spinto in avanti attraverso gli spazi siderali. Per un attimo ebbe la visione di un tunnel spaziale serpentino, attraverso cui era sparato a velocità assai superiore alla luce. Poi si ritrovò a incespicare all’aperto, in un vasto salone. Era giunto dall’altra parte del wormhole.
   Si trovò in una sala dalle sinuose linee organiche. Pareti, pavimento e soffitto sfumavano gli uni negli altri senza angoli retti, ma con morbide curve. Tutte le superfici erano arancioni e gialle, il colore dei vascelli Undine. Davanti a lui c’erano una ventina di alieni, tra cui quello che aveva afferrato Talyn. Alle loro spalle vi era un ampio finestrone, attraverso cui Rivera vide il mondo rossastro che aveva battezzato Arena. Ma certo, si trovava sull’Harvester, in orbita attorno al pianeta.
   L’ingresso del Capitano creò forte agitazione tra gli Undine. Apparentemente non si aspettavano che osasse seguirli. Alcuni fecero per balzargli contro, con gli artigli protesi per squartarlo; ma d’un tratto si fermarono, obbedendo a un ordine telepatico.
   Uno degli Undine si fece avanti. Era assai più massiccio di corporatura rispetto agli altri. Aveva quattro occhi e una mascella conformata come quella umana, che gli permetteva di articolare parole. Doveva appartenere a una casta superiore, mai vista prima.
   «Io sono il Supervisore» si presentò la creatura con voce cavernosa. «È da quando distrusse la biosfera che aspettavo d’incontrarla, Capitano Rivera. Devo ammettere che sono colpito. Non mi aspettavo che voi avventurieri sopravviveste così a lungo. E di certo non mi aspettavo di trovarvi qui, nel mio dominio».
   «Magari la sorprenderemo ancora» ribatté il Capitano. «Liberi il ragazzo e potremo trovare un accordo».
   «Andatevene per sempre, non osate mai più infastidirmi, e vi lascerò in vita. Questo è l’unico accordo in cui può sperare, Capitano, e non immagina quanto sia generoso» disse il Supervisore.
   «Se lei e i suoi tirapiedi poteste rilevarci, ci avreste già distrutti. Deduco quindi che non ne avete la capacità» obiettò Rivera. «Vi abbiamo infastiditi? È solo l’inizio. Questo non è il vostro dominio, sono mondi che avete rubato. Se non accettate di trattare, diremo a tutte le potenze interstellari chi siete, cosa avete fatto e come raggiungervi. Così l’intero Multiverso sarà contro di voi!» avvertì.
   «Per ogni intruso che chiamerete qui, io manderò una flotta a distruggere un mondo federale» minacciò il Supervisore. «Ci pensi, prima di condannare interi popoli per ripicca. Questi mondi che vede, ora appartengono al nostro spazio, e io li sbriciolerò piuttosto che cederli» disse stringendo il pugno.
   A queste parole Rivera esitò. Una mossa falsa da parte sua poteva davvero condannare la Federazione. In quella notò che Talyn, ancora trattenuto dall’altro Undine, indicava freneticamente qualcosa dietro di lui. Il giovane non aveva fiato per parlare, ma le sue labbra si mossero a sillabare le parole: «Portale... chiude...».
   Il Capitano comprese che il wormhole artificiale stava per chiudersi alle sue spalle, intrappolandolo lì con gli Undine. E dopo che aveva osato sfidare il Supervisore, non dubitava che lo avrebbero fatto a pezzi. L’Umano reagì istintivamente, balzando all’indietro. Si sentì di nuovo proiettare in quel budello attraverso lo spazio. L’esperienza fu ancor più disorientante dell’andata, perché ora veniva trascinato all’indietro. Infine sbucò nella sala macchine della CSS Destiny. Trascinato dall’impeto cadde all’indietro, atterrando di schiena.
   «Capitano, sei tornato!» gioì Shati, balzandogli a fianco.
   Sconvolto, Rivera alzò gli occhi al portale, appena in tempo per vederlo chiudersi. Stavolta non ci furono vortici distruttivi. L’orizzonte degli eventi svanì semplicemente, lasciando l’arco metallico dall’apparenza così innocua. Anche gli chevron si disattivarono, tornando in posizione di riposo. L’Umano stentò a credere a ciò che era appena successo. Ma i resti di cinque Undine morti sul pavimento attorno a lui erano una prova fin troppo convincente dell’accaduto.
   Con l’aiuto di Shati, il Capitano si rialzò, ignorando la schiena dolorante. I suoi ufficiali si raccolsero attorno a lui, in attesa di ordini o almeno di un resoconto, ma la voce sembrava averlo abbandonato. In quella il suo comunicatore si attivò. «Destiny a Rivera, il pozzo gravitazionale è sparito, ora possiamo imbarcarvi» giunse la voce ansiosa di Losira. «Ma non troviamo i segni vitali di Talyn, che ne è di lui? Ripeto, che è successo a Talyn?!» domandò. E rimase in attesa della risposta. 
 

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Capitolo 3
*** Infiltrazione ***


-Capitolo 2: Infiltrazione
 
   Per la prima volta in otto anni, il Capitano Dualla respirò. La Deltana ansimò e tossì, cercando di liberarsi le vie respiratorie. Spalancò gli occhi, ma vide solo macchie indistinte di colore. Allora si tastò attorno, accorgendosi d’essere accasciata sul pavimento di un’alcova. Si alzò a tentoni, lottando contro l’irrigidimento e la spossatezza. Il disorientamento la riempì d’angoscia. Dove si trovava, che le era successo?! Si sforzò di ricordare gli ultimi eventi: l’incontro con l’Ammiraglio Hod, il ricevimento nel quale aveva conosciuto gli ambasciatori, il varo della Destiny. Rammentò l’emozione con cui avevano lasciato la Stazione Jupiter e si erano avventurati nello Spazio Fluido. Cos’era successo dopo? Che ne era stato dell’astronave, dell’equipaggio...?
   «Bentornata tra noi, Capitano Dualla» disse una voce cavernosa, stranamente familiare. «Ha fatto bei sogni? Glielo chiedo con sincero interesse. Vede, noi Undine non facciamo sogni, perché non dormiamo mai».
   A quelle parole, la Deltana fu assalita dai ricordi traumatici. Avevano preso contatto con gli Undine, che dapprima si erano finti amichevoli, e ne avevano invitati un paio a bordo per negoziare. Come si chiamava il loro emissario? Il Supervisore, ecco! Quella voce cavernosa era sua. Ma si era trattato di una trappola. In realtà gli Undine avevano rilasciato un patogeno nell’aria, mettendo fuori combattimento l’equipaggio. Poi avevano catturato o ucciso i pochi immuni, impadronendosi della Destiny. Dualla ricordò confusamente d’essersi risvegliata in una prigione Undine. Quei mostri l’avevano interrogata... torturata... per giorni e giorni, coi loro poteri telepatici, strappandole informazioni riservate sulla Flotta Stellare. Infine l’avevano messa in stasi. Quanto tempo era passato?!
   Il Capitano si sfregò gli occhi arrossati, sforzandosi di mettere a fuoco la visione. Quando tornò a guardare, riconobbe il Supervisore che incombeva su di lei. Era impossibile confonderlo con gli altri Undine, data la corporatura massiccia e i quattro occhi, tutti malignamente fissi su di lei. «Quanto... tempo...» rantolò Dualla. Erano le sue prime parole, dopo la lunga ibernazione.
   «Otto dei vostri anni. Per noi è un tempo molto breve, ma forse voi lo definireste lungo» rispose il Supervisore. «Quando ordinai di metterla in stasi, non sapevo se sarebbe mai valsa la pena di risvegliarla. Si consideri fortunata che ora le circostanze lo richiedano».
   «Quali circostanze? Cos’è successo?!» mormorò Dualla, appoggiandosi al fondo dell’alcova per non cadere. Era ancora debolissima, con la vista che andava e veniva. Ma le condizioni fisiche erano l’ultima delle sue preoccupazioni. «Che ne avete fatto della Destiny, dell’equipaggio?!».
   «Il suo equipaggio è morto» rispose brutalmente il Supervisore. «Alcuni sono periti nella biosfera, affrontando i nostri soldati; altri nel mondo Arena, battendosi coi campioni del Multiverso. Lei è l’unica superstite» disse, nascondendole che ce n’era un’altra, la dottoressa Giely.
   A queste parole, Dualla si accasciò nuovamente sul fondo dell’alcova. Qualunque speranza di fuggire da lì era vana, se non aveva più un equipaggio a cui riunirsi. Settecento vite sotto la sua responsabilità... e lei li aveva delusi. Il suo ingenuo ottimismo li aveva condannati a morte. «Siete dei barbari» mormorò. «Tutto questo non era necessario. Avremmo trovato un accordo...».
   «Abbiamo già tutto quel che c’interessa, perché dovremmo rinunciare a qualcosa?» ribatté il Supervisore. «C’è un solo dettaglio che mi scontenta, ed è il motivo per cui l’ho risvegliata. Vede, tre anni fa rimandai la Destiny nel vostro Universo, programmandola perché tornasse qui se un altro equipaggio l’avesse abbordata. In tal modo speravo d’ottenere nuovi prigionieri, dato che i vostri ormai li avevamo consumati. Sulle prime il piano funzionò, perché la Destiny fece ritorno con un equipaggio d’avventurieri e mercenari».
   «Avventurieri? Mercenari?» fece Dualla, ancora confusa per i postumi della stasi. Di che stava parlando quel mostro?
   «Proprio così. Contavamo di metterli alla prova come gli altri. Fu allora che le cose iniziarono ad andare... storte» ringhiò il Supervisore. «Quelle canaglie ripresero il controllo della Destiny, distrussero la biosfera e fuggirono. Uccisero persino il mio braccio destro, l’Esaminatore. Ma prima di morire, lui riuscì a cancellare le coordinate quantiche dal computer della nave. Così li costrinse a vagare nel Multiverso, senza alcuna speranza di tornare a casa. In tal modo pensavamo d’esserci sbarazzati di loro».
   «E non è stato così?» chiese Dualla, faticando a digerire tutte quelle informazioni.
   «Sfortunatamente no» ammise il Supervisore. «Adesso quei miserabili hanno osato sfidarci nel cuore del nostro dominio. Ricorda il vivaio di mondi che le mostrai durante l’interrogatorio? È qui che ci troviamo, sulla mia stazione di controllo. Ed è qui che gli avventurieri sono venuti a spiarci, forse a sabotarci. In effetti credo che abbiano in animo d’attaccare questa stazione, prima che la usiamo per prelevare uno dei vostri mondi. Sono da qualche parte là fuori, nascosti sulla Destiny occultata!» ringhiò, facendo un ampio gesto per alludere allo spazio.
   «Mi ha risvegliata per questo? Si aspetta che io l’aiuti a trovare e distruggere la mia stessa nave?!» fece Dualla, incredula.
   «Quella non è più la sua nave. L’ha persa otto anni fa, per la sua incompetenza» ribatté il Supervisore. «Persino quelle canaglie sono riuscite a fare meglio di lei. Ma nella loro irresponsabilità, non sanno cosa rischiano di scatenare. Vede, io ho grande potere tra la mia gente, ma sono pur sempre soggetto all’autorità del nostro sommo Imperatore». Così dicendo si rattrappì, come se il solo nominarlo lo spaventasse. «Ed egli non tollera intrusioni nel nostro dominio. Se quegli sconsiderati continuano a spiarci, a sabotarci, o peggio ancora se facessero venire altri intrusi... l’Imperatore scatenerà una rappresaglia contro la Federazione. I nostri Distruttori Planetari sbricioleranno i vostri mondi. Se invece mi aiuta a eliminare quei folli, non accadrà nulla del genere» promise.
   «Ma rapirete comunque un mondo federale, per aggiungerlo alla vostra collezione?» chiese Dualla.
   «Uno solo, e non lo distruggeremo» sostenne il Supervisore. «Sempre meglio della guerra totale. Allora, Dualla? Io e lei siamo gli unici che possono impedire il disastro, sempre che lei lo voglia. Come dite voi federali? Il bene dei molti conta più di quello dei pochi. Perciò le chiedo di sacrificare un pugno di fuorilegge per salvare la Federazione. Non lo trova ragionevole? Non è in linea coi vostri principi?».
   Dualla esitò. Detto così, il discorso del Supervisore aveva senso. Ma la Deltana non poteva scordare che era stato lui a condannare il suo equipaggio a una morte atroce, in quegli scontri senza fine. Come poteva fidarsi della sua parola? E poi, prima di acconsentire, avrebbe voluto sentire la versione degli avventurieri. «E se... se gli deste semplicemente le coordinate di ritorno?» mormorò. «Se sono dei fuorilegge dispersi, si accontenteranno di tornare a casa e non vi daranno più fastidio» argomentò.
   «Suvvia, mi crede così ingenuo?» fece il Supervisore, storcendo il volto in uno strano ghigno. «Quei mercenari sanno troppe cose su di noi. Potrebbero vendere le loro informazioni alla Flotta Stellare, e a chissà chi altri. No, sono un rischio inaccettabile per la nostra sicurezza. Quindi dobbiamo eliminarli. Se collabora con noi, le prometto che avrà salva la vita. Altrimenti subirà la stessa sorte del suo equipaggio. Sa, alcuni dei suoi ufficiali sono sopravvissuti per anni, ma lei... penso che non durerà nemmeno un mese».
   «Che Capitano è uno che non condivide la sorte del suo equipaggio?» mormorò Dualla, cercando di prepararsi al peggio. Non sapeva che genere di persone avessero occupato la Destiny, ma sospettava che non fossero affatto dei fuorilegge, come sosteneva l’alieno. Se avevano fatto tanto, le pareva più probabile che fossero dei professionisti della Flotta Stellare. In ogni caso, non voleva aiutare gli Undine a dargli la caccia.
   «Lei è una sciocca sentimentale. Non capisce che, eliminando la Destiny, potremmo scongiurare un conflitto assai più esteso» ribatté il Supervisore. «Lei era al comando di quella nave, quindi ne conoscerà i punti deboli. Ci basta localizzarla, poi penseranno le mie bionavi a distruggerla. Allora, come la troviamo?!».
   Così dicendo il Supervisore si avventò su Dualla, afferrandole la testa glabra e strattonandola in avanti. Erano faccia a faccia, gli occhi nocciola di Dualla a pochi centimetri da quelli gialli dell’Undine. La Deltana sapeva che, volendo, l’alieno poteva schiacciarle la testa con facilità; ma non l’aveva afferrata per quello. Vide le sue pupille cruciformi che si stringevano per la concentrazione e avvertì un ronzio sempre più forte. L’alieno stava invadendo i suoi pensieri.
   «Come la troviamo?».
   «Come la troviamo?!».
   «COME LA TROVIAMO?!».
   La sua voce le risuonò nella mente, moltiplicata in mille toni e intensità diverse, sebbene la bocca non si muovesse. Una volontà d’acciaio la pressava, cercando di sfondare le sue difese, già minate dalla debolezza e dalla disperazione. Ma la Deltana aveva un asso nella manica: non sapeva davvero come localizzare la Destiny. Quella nave aveva l’occultamento più perfetto che la Flotta Stellare avesse mai messo a punto: non c’era la minima perdita di particelle. Se il nuovo equipaggio l’aveva tenuto in efficienza, allora era al sicuro. Con questo lieve conforto, Dualla si abbandonò nella stretta dell’aguzzino, lasciando che la sua mente fosse come una canna al vento, che si piegava senza spezzarsi.
 
   Tornato sulla Destiny con la sua squadra, il Capitano Rivera entrò come un turbine in plancia. «Era una trappola, tanto per cambiare» annunciò a Losira, che gli veniva incontro. «Gli Undine hanno preso Talyn e l’hanno portato sull’Harvester con quel dannato portale. Non so perché siano tanto interessati a lui, ma temo abbia a che fare con le sue facoltà percettive. Non c’è un minuto da perdere. Timoniere, rotta verso l’Harvester. Quanto a voi» si rivolse alla squadra che l’aveva seguito, «gli ingegneri possono restare sulla Destiny. Gli altri verranno con me».
   «Verremo dove?» chiese Naskeel.
   «Sull’Harvester, che domande. Dobbiamo liberare Talyn. Si tratterà di un’infiltrazione, condotta con la Scorpion» disse il Capitano, riferendosi alla bionave catturata anni prima. «Abbiamo visto che c’è un continuo traffico di bionavi tra il pianeta frantumato e l’Harvester, quindi ci mischieremo a quelle. Una volta dentro, useremo le tute occultanti per non farci rilevare. Liberato Talyn, ce ne andremo allo stesso modo. A quel punto è probabile che c’inseguano, quindi la Destiny dovrà essere pronta a teletrasportarci...».
   «Basta così» disse il Tholiano.
   «Come?!» fece Rivera, preso in contropiede.
   «Lei sta proponendo una missione di soccorso le cui probabilità di successo sono prossime allo zero» spiegò Naskeel. «Invece di salvare l’ostaggio, otterremo solo di farci massacrare. Questo è del tutto illogico. La vita di un solo individuo, per quanto utile alla nave, non può essere anteposta alle nostre. Il bene dei molti conta più di quello di uno».
   Calò un silenzio teso. Il Capitano e l’Ufficiale Tattico si erano già scontrati più volte, ma mai in modo così radicale e in circostanze così drammatiche. Gli astanti indietreggiarono, temendo che i due impugnassero le armi per risolvere definitivamente la contesa.
   «Sono ben consapevole dei rischi» disse Rivera in tono controllato. «Neanche a me piace l’idea d’entrare nella tana del lupo. Ma poco fa Talyn mi ha salvato la vita. Se non mi avesse protetto da quel vortice, sarei morto. Devo ricambiare il favore, o almeno devo provarci» dichiarò.
   «Questa è una decisione emotiva, pertanto irrazionale» ribatté Naskeel. «Se si sente così in debito, vada da solo. Non condanni noialtri per il suo sentimentalismo».
   Il Capitano si morse il labbro, accorgendosi che le argomentazioni del Tholiano potevano trovare consensi nella sua squadra. Ma lui era deciso a non mollare. «Lei è l’Ufficiale Tattico di questa nave. È tenuto a obbedire ai miei ordini, anche se non li condivide» disse.
   «Infatti finora ho obbedito, ma quali sono i risultati? L’ultima volta che lei ha guidato un’operazione del genere, dieci agenti della mia squadra sono morti» ricordò Naskeel. «E adesso propone un’infiltrazione ancor più rischiosa. Si aspetta davvero che qualcuno di noi sopravviva?».
   Rivera si trovò a corto di argomentazioni. La cosa più terribile di quell’arringa era che Naskeel aveva ragione: infiltrarsi nell’Harvester era davvero un suicidio. Il Capitano si aggrappò all’ultima pagliuzza: «Mentre saremo lì, potremo scaricare i dati del computer e ottenere finalmente le coordinate di casa».
   «Irrilevante, se nessuno di noi sopravvivrà per comunicarle all’equipaggio» ribatté il Tholiano.
   «Ehi, uccellaccio del malaugurio, non darci per spacciati!» intervenne Shati. «Ci siamo già trovati nel dren e ne siamo sempre venuti fuori. Non tutti, è vero, ma... io sono pronta a correre il rischio. Sono con te, Capitano» dichiarò, affiancando l’Umano.
   Rivera guardò Irvik, sperando anche nel suo sostegno, ma questi si fece piccolo. «Io... ehm... potrei esservi più utile qui, pronto a teletrasportarvi...» mormorò il Voth, fissando il pavimento, con le scaglie imporporate di vergogna. Il Capitano non se la sentì di biasimarlo. L’Ingegnere Capo lo aveva seguito nell’ultima missione, sulla Terra dello Specchio, dove l’avevano scampata per miracolo. Non c’era da stupirsi che non se la sentisse di fare il bis.
   «Verrò io» disse inaspettatamente un altro ingegnere, un Dopteriano di nome Gort. «Ho studiato a fondo la tecnologia degli Undine. Se arriviamo sull’Harvester, cercherò le coordinate di casa nel computer. È la nostra ultima possibilità, non possiamo rinunciare». Anche lui affiancò il Capitano, sull’altro lato rispetto a Shati.
   «Il fatto che la vostra irrazionalità sia condivisa non la rende meno irrazionale» argomentò Naskeel.
   «Non è questione d’essere razionali o meno» disse Rivera, provando a spostare la diatriba sul piano etico. «Ormai siamo più di una banda di tizi a caso che s’è ritrovata su un’astronave. Abbiamo vissuto insieme, combattuto insieme, vinto o perso insieme. Così, se uno di noi è in pericolo, gli altri sono pronti a tutto pur di salvarlo. Tu mi dici che il bene dei molti conta più di quello di uno. Ma io ti dico: tutti per uno, uno per tutti!».
   «E questo cosa sarebbe?» chiese Naskeel, perplesso quanto poteva esserlo un Tholiano.
   «È il motto dei Trombettieri!» rispose Shati, ispirata.
   «Moschettieri, erano i moschettieri» la corresse il Capitano. «Beh, non importa chi fossero. Importa solo che è vero. Talyn ha salvato non solo me, ma tutti noi. Ricordate quella volta che la Destiny si frantumò in sei piani d’esistenza, con tutti noi ammattiti? Chi fu a ricomporre la nave e a restituirci la sanità mentale? Talyn! Questo è l’uno per tutti. Così, adesso che lui è in mano al nemico, dobbiamo andare a salvarlo. Tutti per uno».
   «Anch’io vi ho salvati, nella Battaglia di Dytallix. Se al posto di Talyn ci fossi io in ostaggio, verreste ugualmente a salvarmi?» inquisì Naskeel.
   Questo fu un colpo basso per Rivera, che esitò prima di rispondere. «Dimostri d’essere davvero uno di noi, di rischiare per chi è in pericolo, e le saremo altrettanto leali» sostenne.
   Il Tholiano rimuginò per un tempo insolitamente lungo. Rivera non riusciva a capire se tutti quei discorsi avessero un senso per lui. «Verrò con voi» disse infine Naskeel. E prese a organizzare la squadra come se la discussione non ci fosse stata.
 
   Di lì a poco gli avventurieri erano nell’hangar 2, pronti a salire sulla Scorpion. Vista da fuori, la navicella Undine era indistinguibile dalle altre. Il suo scafo giallo-arancio aveva una simmetria tripartita, con diversi aculei. Solo all’interno erano visibili gli interventi con cui l’avevano resa controllabile. Mentre Naskeel e i suoi caricavano armi e altri strumenti, Rivera si appartò con Giely, per salutarla. «Tornerò presto, querida» le disse.
   «Sigh... sarà sempre così, tra noi?» sospirò la Vorta. «Partirai sempre per missioni rischiose, e io resterò a chiedermi se tornerai? L’ultima volta siamo rimasti divisi per un anno!» si lamentò.
   «Stavolta me la sbrigherò prima» promise l’Umano.
   «Sai, gli altri Capitani di solito restano sull’astronave, e mandano in missione i loro ufficiali» gli ricordò Giely. «Potresti farlo anche tu, una buona volta».
   «E chi dovrei mandare? Losira? È brava a mandare avanti la nave, ma non ha fatto l’Accademia e non se la caverebbe in una missione del genere. Shati? È così ansiosa per Ferasa da essere ancora meno lucida del solito. Naskeel? Dopo la predica sul tutti per uno e uno per tutti, non posso mandare lui e starmene indietro io. No, devo proprio andare» concluse tristemente Rivera.
   «E sia! Ma sta’ attento, ti prego» raccomandò Giely, abbracciandolo. «Non fare l’eroe a tutti i costi. Non devi dimostrare niente, anzi, hai già rischiato fin troppo. Recupera Talyn e torna qui da me. Ti aspetto!».
   Si baciarono con passione, ma anche col terrore – provato fin troppe volte – che fosse un addio. Poi Rivera si sciolse dall’abbraccio e si affrettò verso la bionave, dove la sua squadra si era già imbarcata.
 
   Vista dall’interno, la Scorpion somigliava spiacevolmente a una gabbia toracica, con le costole in evidenza. Tutto era composto di tessuti organici, alcuni più rigidi e ossificati, altri assai più elastici. C’erano un sistema circolatorio, uno linfatico e persino uno nervoso, proprio come in una creatura vivente. A quanto gli avventurieri avevano capito, le bionavi così piccole erano progettate per un solo pilota. La sua postazione era nella parte anteriore del vano principale. La sedia aveva una conformazione stranissima, adatta alla struttura tripode degli Undine. Da lì il pilota poteva connettersi psichicamente alla navicella, manovrandola come un’estensione del suo corpo. Per questo motivo non c’erano finestrini, né schermi visori: le letture dei sensori affluivano direttamente al cervello del pilota.
   Per consentire a individui non telepatici di manovrare la bionave, gli avventurieri avevano dovuto apportare estese modifiche, che avevano richiesto anni di sforzi ed esperimenti. Avevano collegato un computer federale ai centri nervosi della navicella, usando le gelatine bio-neurali come ponte fra i due processori. Dopo di che avevano installato delle consolle tradizionali: timone, sensori e comunicazioni, armi, ingegneria. Per sopperire alla mancanza di schermo, si erano ispirati al Dominio: l’equipaggio indossava dei Visori che trasmettevano le rilevazioni dei sensori.
   «Ragazzi, dovremo rinunciare alla missione: non ci vedo una cippa!» si lamentò Shati quando fu seduta al timone, col Visore calato sugli occhi.
   «Prova ad accenderlo» suggerì Gort, premendo il tasto d’attivazione su un lato del Visore.
   «Ah, molto meglio, grazie!» fece la Caitiana. «Signori, allacciate le cinture e assicuratevi che i tavolinetti siano sollevati» raccomandò, iniziando la sequenza di decollo.
   «Non ci sono cinture né tavolini. Dai, partiamo e basta!» la esortò il Capitano. Anche lui e gli altri indossarono i Visori, per essere più consapevoli della situazione.
   «Okay, capo. Ah, vi avverto che il viaggio potrebbe essere un po’ movimentato. In caso di necessità, i sacchetti per il vomito sono in quell’angolo. Fatemi il favore di usarli» raccomandò Shati, calata nel ruolo di hostess. L’attimo dopo si concentrò sui comandi, attivando i motori a impulso della bionave.
   La Scorpion si levò in volo e uscì dall’hangar, diretta alla più ardita missione mai tentata dagli avventurieri. Per un po’ le stelle vorticarono, finché Shati riuscì a stabilizzare l’assetto. «Wow, questo sì che è volare!» gongolò la timoniera, apprezzando la velocità e la maneggevolezza della navicella.
   «Ricorda che non siamo in gita di piacere» ammonì Rivera, chiudendo il sacchetto per il vomito, che si era dimostrato assai utile. «Dirigi verso il mondo frantumato. Dobbiamo mischiarci alle navette minerarie e da lì dirigerci verso l’Harvester».
   «Naaa, pensavo d’andare direttamente alla stazione, sparando a tutto spiano... okay, vada per il mondo frantumato» si corresse Shati, temendo d’essersi spinta troppo oltre.
 
   La Scorpion diresse verso il pianeta colpito, nella parte più interna del sistema. Lì decine di bionavi scandagliavano il nucleo messo a nudo, usando raggi traenti per estrarre minerali utili, che immagazzinavano nel comparto posteriore. Era il momento più critico, perché se qualche altra navicella gli avesse richiesto a che squadra appartenevano o altre informazioni, gli avventurieri non erano pronti a rispondere. Fortunatamente nessuno li contattò. Gli Undine erano concentrati sul loro compito, e così anche gli avventurieri si mischiarono a loro, fingendosi indaffarati. Per risultare convincenti cercarono anche d’estrarre un po’ di minerali, stivandoli nel comparto posteriore, ma l’operazione si rivelò più difficile del previsto.
   «Basta, così rischiamo d’attirare l’attenzione» disse Rivera, interrompendo i goffi tentativi d’imitare gli efficienti Undine. «Andiamo all’Harvester. Se ci contattano, diremo che abbiamo un guasto a bordo e non abbiamo potuto completare la nostra quota».
   «Bene... del resto fare il minatore non era la mia vocazione» disse Shati, allontanandosi dalla pericolosa orbita, intasata di rocce strappate alla crosta.
   La Scorpion si unì a un gruppetto di bionavi che tornavano all’Harvester, tenendosi prudentemente in coda. Dopo un breve viaggio senza incidenti, la stazione divenne visibile sui Visori. Vista così da vicino sembrava ancora più inquietante, con la selva d’antenne affilate che costellavano le sue molte sfaccettature. E all’interno era peggio, piena com’era di alieni quasi invulnerabili, capaci di farli a pezzi con le mani. Rivera si trovò a pensare che appena il giorno prima non sapevano nemmeno cosa ci fosse dall’altra parte dell’interfase, e adesso stavano cercando d’infiltrarsi nel centro di comando nemico. Come cambiavano in fretta le cose...
   Giunti nei pressi dell’Harvester, gli avventurieri videro che le bionavi dirigevano verso un ingresso posto su una delle facce triangolari. Shati le seguì, sempre tenendosi in coda. Al posto di un campo di forza per trattenere l’atmosfera, c’era una membrana organica, simile a una traslucida bolla di sapone. Le bionavi l’attraversarono senza infrangerla e così fece la Scorpion.
   Invece di sbucare in un hangar, come si aspettavano, gli avventurieri si trovarono in una sorta di pozzo che sprofondava per chilometri nella struttura dell’Harvester. Continuarono a seguire le bionavi, che ora procedevano a velocità ridotta, chiedendosi dove sarebbero sbucati.
   «Due chilometri... due e mezzo...» contò Shati. «Frell, siamo nelle budella di questa cosa vivente!».
   «Mantieni la concentrazione. Resta un po’ distanziata dalle bionavi, ma non far vedere che lo fai apposta» raccomandò Rivera, temendo che gli Undine notassero le modifiche alla Scorpion.
   «E come dovrei fare?!» protestò la pilota.
   «Boh? Tu vola disinvolta».
   Giunti a oltre tre chilometri di profondità, il pozzo – ora più simile a un tunnel – terminò. Ma non c’era un hangar nel quale atterrare. Piuttosto le bionavi attraccavano alle postazioni inserite direttamente nelle pareti. A un tratto la Scorpion tremò.
   «Frell, ci hanno agganciati con un raggio traente! Lo sapevo, è finita!» esclamò Shati, cercando di liberare la navicella.
   «Ferma» la bloccò Naskeel. «Credo che sia la procedura standard. Ci hanno assegnato un molo d’attracco e ora ci stanno guidando. Se cerchi di liberarti, li avvertirai che non siamo dei loro».
   Ascoltando l’ammonimento, la Caitiana smise di fare resistenza e lasciò che il raggio traente li guidasse all’attracco. Lì una morsa d’aggancio afferrò la bionave, bloccandola saldamente in posizione. «Uhm, non mi piace. Avremo difficoltà a sganciarci per fuggire» avvertì Shati.
   «Un problema alla volta» disse il Capitano. «Pronti all’infiltrazione». Avevano già indossato tutti le tute occultanti, che li avrebbero resi invisibili. Persino Naskeel ne aveva una, che Irvik aveva costruito nei mesi precedenti, adattandola alla sua forma aliena. Non restava che dispiegare il casco, ora ripiegato nel colletto, e attivare l’occultamento.
   «Ci chiamano da una sala controllo!» avvertì l’ingegnere Gort, leggendo il messaggio tradotto sulla sua consolle. «Ci chiedono perché abbiamo la stiva semivuota».
   «Rispondi che la navicella ha un guasto al raggio traente e serve qualche ora per rigenerarlo» ordinò il Capitano, ricordando che le bionavi tendevano a ripararsi da sole.
   «Se non se la bevono, siamo fregati» borbottò Gort, mentre digitava la risposta, che poi sarebbe stata trasmessa. Di lì a poco giunse un nuovo messaggio. «Chiedono se serve l’aiuto di un Formatore» riferì l’ingegnere. «Suppongo sia una specie di tecnico riparatore».
   «No! Digli che puoi cavartela da solo» ordinò Rivera, dato che qualunque ispezione avrebbe messo in luce le modifiche apportate alla bionave. «Serve solo un po’ di tempo per rigenerare il guasto».
   «Ci hanno dato... uhm... due ore» disse Gort, leggendo la traduzione sulla consolle. «A giudicare dal tono, credo sia il tempo per una rigenerazione standard. Se per allora non saremo operativi, manderanno quel Formatore, e allora saremo smascherati».
   «Sentito? Abbiamo un’ora per raggiungere Talyn e un’altra per tornare. Mettiamoci in marcia!» ordinò il Capitano.
 
   Dopo essersi tolti i Visori, gli avventurieri dispiegarono i caschi delle tute e attivarono l’occultamento. Era inteso che restassero il più possibile in silenzio, per non essere intercettati dagli Undine. Almeno potevano vedersi a vicenda, dato che i caschi erano sintonizzati sulla frequenza d’occultamento.
   Così equipaggiati, Rivera e i suoi lasciarono la Scorpion, accedendo a un passaggio del molo d’attracco. Ben presto furono nei corridoi della stazione. Il Capitano era in testa al gruppo e cercava i segni vitali di Talyn, mentre Naskeel stava in retroguardia. Rivera si chiese che avrebbe fatto, se non fosse riuscito a rilevare il giovane amico. Poteva significare che gli Undine l’avevano ucciso? Eppure parevano interessati a prenderlo vivo... ma chissà che passava in quei cervelli alieni.
   Fatta poca strada, il tricorder integrato nel bracciale della tuta ebbe un riscontro. I dati furono proiettati all’interno del casco. Sì, c’era un segno vitale El-Auriano! E non era nemmeno distante, per fortuna. Sulle prime il tricorder aveva avuto difficoltà a isolarlo, perché era circondato da altri segni vitali umanoidi. Altri prigionieri? Forse il giovane era chiuso in un blocco detentivo.
   Il Capitano si fermò e s’indicò il bracciale, facendo segno che avevano una traccia. Poi ripartì di buon passo, quasi di corsa, guidando la squadra nei meandri della stazione. Era proprio come la ricordava dalla sua precedente, breve visita: le paratie arancioni sfumavano l’una nell’altra senza angoli, con linee curve più simili alla conformazione di un essere vivente. Ogni tanto c’erano dei quadri comandi, o il loro equivalente organico, ma gli avventurieri non si fermarono. Sapevano d’avere i minuti contati, prima che gli Undine scoprissero la loro presenza.
   Quanto agli Undine stessi, erano pochissimi. Gli avventurieri ne incrociarono solo un paio, riuscendo sempre a rifugiarsi in qualche corridoio laterale per lasciarli passare. Rivera ricordò che anche sulla biosfera gli Undine erano in pochi. Evidentemente la loro tecnologia organica auto-rigenerante, unita al fatto che non dormivano mai, comportava che bastasse un equipaggio ridotto. A che scopo avere tre o persino quattro turni, se gli stessi individui erano instancabili? Ora però questa organizzazione si ritorceva contro di loro. E così, appena mezz’ora dopo lo sbarco, gli avventurieri giunsero alle prigioni.
 
   C’era una vasta sala di guardia circolare, con le celle simili ad alcove disposte lungo tutta la circonferenza. Da un lato dell’ingresso, sulla parete, vi era una complessa consolle organica. Probabilmente era da lì che si aprivano le alcove, dai gusci trasparenti. Gli avventurieri notarono che erano quasi tutte piene di un liquido giallo assai viscoso. I prigionieri, appartenenti a specie umanoidi quasi tutte sconosciute, vi galleggiavano come insetti nell’ambra. Dovevano essere in stasi, come indicavano i loro segni vitali, così rallentati da essere quasi illeggibili.
   «Astuto, tenere i prigionieri in stasi» ragionò il Capitano. «Non c’è il rischio che evadano».
   Un paio d’alcove, tuttavia, erano sgombre dal liquido. I prigionieri al loro interno sedevano addossati alle pareti ed erano coscienti. Uno era un’umanoide calvo, che indossava un’uniforme. L’altro era Talyn, nella cella adiacente. Sembrava illeso, pur essendo comprensibilmente sconfortato. Non appena gli avventurieri entrarono nella sala di guardia, il giovane alzò la testa e guardò verso di loro. «C’è nessuno?!» chiese, sebbene non potesse vederli, dato che erano ancora occultati.
   Questo era il momento più critico dell’operazione. Potevano liberare Talyn, ma non avevano un’altra tuta occultante da dargli, dato che le tute si attivavano solo una volta indossate, e quindi non avevano potuto portarne una extra. Ciò significava che, nel momento in cui aprivano la cella, era quasi certo che gli Undine si avvedessero dell’evasione. A quel punto non restava che tornare di corsa alla Scorpion e fuggire dall’Harvester.
   «Puoi aprire l’alcova?» chiese Rivera a Gort, interrompendo il silenzio nelle comunicazioni. In caso contrario era pronto a farlo col phaser integrato nella tuta, sempre che tagliasse il resistentissimo guscio.
   «Credo di sì» rispose l’ingegnere. «Ma prima di far scattare gli allarmi, voglio cercare le coordinate quantiche di casa».
   Il Capitano annuì e lo lasciò fare. Mentre Gort era all’opera, Rivera si accostò alle alcove, osservando i prigionieri in stasi mentre percorreva la circonferenza del salone. Quasi tutti appartenevano a specie sconosciute. Avrebbe voluto salvare anche loro, ma non sapeva quanto sarebbe servito per rianimarli. No, non poteva permettersi di perdere altro tempo. L’unico che poteva salvare era Talyn... e al limite l’altro prigioniero cosciente, nella cella accanto.
   Superate le alcove di stasi, il Capitano passò davanti a quella di Talyn, che era ancora in piedi e osservava la sala di guardia, cercando di capire se c’era qualcuno. Rivera non si mostrò; non era ancora il momento. «Resisti, ragazzo. Tra un momento sarai fuori di lì» si disse. Passò avanti, per osservare l’altro prigioniero e stabilire se era il caso di liberarlo. E si fermò di botto.
   Quella davanti a lui era una donna sulla cinquantina, completamente calva, eccezion fatta per le sopracciglia. Doveva essere una Deltana. Indossava un’uniforme della Flotta Stellare, coi gradi da Capitano. La riconobbe, avendola già vista sul database: era Dualla, l’originale Capitano dell’USS Destiny! Poche ore prima aveva visto il suo alter-ego dello Specchio, tra i cadaveri ammassati sulla CSS Destiny. Ma questa Dualla era viva e vegeta. Anche lei si era alzata e si guardava attorno, avendo udito dei passi.
   «C’è qualcuno? Rispondete, per favore!» disse la Deltana, osservando la sala apparentemente deserta. Batté il pugno sul guscio trasparente dell’alcova, senza sapere che aveva già attirato l’attenzione.
   Rivera indietreggiò, tornando rapidamente dal resto della squadra. «È proprio Dualla. Dovremo liberarla, se non altro per sapere se gli Undine le hanno estorto informazioni» disse. Si chiese cosa sarebbe accaduto se, tornati sulla Destiny, la Deltana gli avesse disputato il comando. Ma non c’era tempo di rifletterci, finché erano sul suolo nemico. «Qui come va?» chiese.
   «Ce l’ho fatta!» esclamò Gort, concentrato sui comandi. «Sono nel loro database. Sto scaricando tutte le coordinate quantiche in memoria!».
   «Trasmettile anche a me!» fece Shati, impaziente. Più erano ad averle, più era probabile che almeno uno di loro sopravvivesse al ritorno.
   L’ingegnere scaricò le informazioni nel tricorder integrato nella sua tuta. Fece lo stesso con Shati e sarebbe andato avanti con gli altri, se Rivera non l’avesse fermato. «Non possiamo attardarci, forse gli Undine hanno già rilevato l’intrusione. Apri quelle due celle e andiamo!» ordinò.
   «Okay» fece Gort, trafficando con i comandi. Gli servì qualche altro minuto, ma infine riuscì ad aprire le alcove: prima quella di Talyn, poi quella di Dualla.
   «Allora, ci siete?!» chiese l’El-Auriano, precipitandosi fuori dalla cella soffocante non appena il guscio si aprì.
   «Eccoci» disse Rivera, disattivando l’occultamento. Il resto della squadra lo imitò. Ora che le alcove erano aperte, non si poteva più contare sulla segretezza.
   «Siete venuti a salvarmi...» mormorò Talyn, ancora incredulo. Una parte di lui avrebbe voluto dire che erano stati dei pazzi, ma un’altra era semplicemente grata che non lo avessero abbandonato.
   «Certo... sennò chi la sente Losira?» fece il Capitano, abbozzando un sorriso.
   «Chi siete voi?!» chiese Dualla, uscendo dalla propria cella. Il suo sguardo spaziò sull’eterogeneo gruppo, soffermandosi su Naskeel. «Non siete della Flotta, vero?» indovinò.
   «Il Capitano Dualla, suppongo» si presentò Rivera, ignorando le domande.
   «Capitano della Destiny, sì. E lei?» chiese la Deltana, squadrandolo perplessa.
   «Capitano Rivera... della Destiny» rispose l’Umano. «Sono successe molte cose, mentre lei faceva la bella statuina. Non c’è tempo per le spiegazioni, quindi ci segua. Se ne usciamo vivi, l’aggiorneremo».
   «Se? Non avete un piano d’estrazione?!» chiese Dualla, affrettandosi dietro di lui.
   «Di solito ci estraiamo da soli» tagliò corto Rivera.
   Erano davanti all’uscita della sala di guardia. Gort era innanzi a tutti, impaziente di tornare alla Destiny con le coordinate che aveva trovato. Ma quando il portone gli si aprì davanti, l’ingegnere si trovò faccia a faccia con un Undine. Prima che potesse fare alcunché, l’alieno gli afferrò la testa e gliela strappò dal corpo. Con la testa venne via anche la spina dorsale sanguinolenta, mentre il corpo si afflosciò come un pesce senza lisca. L’Undine sollevò il macabro trofeo, prima d’essere crivellato di colpi. Gli avventurieri concentrarono il fuoco su di lui, gridando come forsennati per l’orrore e la rabbia. Quando l’Undine fu indebolito, Naskeel lo afferrò e lo scaraventò dalla parte opposta della sala di guardia, liberando l’uscita.
   «Fuori, presto!» gridò Rivera. Ripiegò il casco nella tuta, per avere la vista libera; infatti gli schizzi di sangue glielo avevano imbrattato. Non si soffermò presso il corpo di Gort, dato che anche Shati aveva in memoria le preziose coordinate.
   Gli avventurieri imboccarono il corridoio, correndo veloci. «Aspettate!» fece Talyn, indicando dietro di sé. Allora gli altri si accorsero che Dualla, indebolita dalla prigionia, non riusciva a stargli dietro.
   «La Deltana ci rallenterà. Vuole che la uccida, Capitano?» chiese Naskeel, prendendola di mira.
   «Sarebbe contrario allo spirito del salvataggio» sospirò Rivera, per quanto lo sfiorasse la tentazione di abbandonarla.
   «Non vi conviene farlo» ansimò Dualla, avvicinandosi al gruppo. Era curva in avanti e si premeva un fianco per la fatica della corsa. «Conosco i piani degli Undine. Si preparano ad aggiungere l’ennesimo pianeta alla collezione, usando questa struttura per aprire un’interfase. Il prossimo mondo sarà Ferasa, del nostro Universo. Se volete fermarli avrete bisogno di me».
   A quelle parole Shati sentì rizzarsi il pelo per l’apprensione. Rivera si accorse che la conferma dei suoi timori l’aveva destabilizzata; ma non c’era tempo di occuparsene. La cosa più urgente era uscire da lì con Dualla, per farsi raccontare tutto ciò che sapeva. «Naskeel, prendila su!» ordinò.
   Il Tholiano lo fissò brevemente con gli occhi sulfurei, ma non volle perdere altro tempo in discussioni. Così afferrò rudemente la Deltana e se la buttò in spalla, come un sacco di patate. La squadra riprese a correre, con Naskeel che non pareva affatto rallentato dal carico.
   «Ehm... tu ricordi che strada abbiamo fatto, vero?» sussurrò il Capitano, accostandosi all’Ufficiale Tattico. «A me questi corridoi sembrano tutti uguali». Senza il casco della tuta a fargli da navigatore, aveva difficoltà a orientarsi.
   «Mi segua» fece Naskeel, che aveva memorizzato ogni svolta.
   «Dilettanti!» fece Dualla, dalla sua posizione non particolarmente dignitosa.
   «Lei non è nella posizione di rivendicare maggior successo!» fece Rivera, infastidito. In effetti il Tholiano la stava ancora portando in spalla.
   Gli avventurieri incontrarono ancora un paio di Undine nei corridoi, ma riuscirono sempre a tenerli a distanza, crivellandoli di colpi per poi oltrepassarli. Dietro di loro, però, sentivano che ce n’erano molti di più all’inseguimento. Se li avessero raggiunti, sarebbe stata la fine.
 
   «Un ultimo sforzo!» gridò il Capitano, riconoscendo la zona d’attracco. Ormai anche lui si sentiva scoppiare la milza, ma non potevano fermarsi né rallentare proprio ora, con gli alieni alle costole.
   Trovarono la Scorpion dove l’avevano lasciata. Entrarono di corsa: prima Shati che si fiondò al timone, poi Naskeel che depose Dualla e andò al tattico. Seguirono Talyn, che prese la postazione sensori e comunicazioni orfana di Gort, e le altre guardie. Ultimo fu Rivera, che prima di chiudere la porta a diaframma vide sbucare gli inseguitori Undine, pazzi di collera. Fece appena in tempo a chiudere il diaframma, prima che i loro artigli vi si conficcassero.
   «Via di qui!» gridò il Capitano, ansante per la corsa.
   Shati stava già cercando di partire, ma incontrava delle difficoltà. La bionave tremava, spinta dai propulsori, senza tuttavia prendere il volo. «È come temevo, non riesco a sganciarci dalle morse d’attracco!» avvertì la Caitiana.
   «Altre bionavi si avvicinano. Vogliono intrappolarci!» avvertì Talyn.
   «Non lasciate che ci prendano. Non avranno pietà, come non ne ebbero per il mio equipaggio» avvertì Dualla.
   «Sì, abbiamo visto che ne è stato di loro» disse Rivera, memore della prima avventura nello Spazio Fluido. Non rivelò che aveva dovuto uccidere uno degli ultimi superstiti, impazzito dopo cinque anni nella biosfera. Aveva la sensazione che Dualla non l’avrebbe presa bene.
   «Ci penso io» disse Naskeel, e aprì il fuoco col cannone antiprotonico anteriore. Il potentissimo raggio colpì il molo, pochi metri avanti a loro, e lo disintegrò con gli Undine che vi si erano radunati. L’esplosione si propagò alle strutture d’attracco, che si deformarono e in parte cedettero. La bionave stessa fu avvolta dalla fiammata e sussultò per il contraccolpo.
   «Ah ah, ora non fate più i gradassi!» esclamò Shati, osservando i resti degli Undine e delle loro strutture. «E adesso... hear me roar!». Così dicendo dette piena potenza ai propulsori.
   Ci fu uno schianto e la Scorpion si liberò dalle morse d’attracco. O per meglio dire, strappò le morse dal loro alloggiamento, così che queste rimasero agganciate allo scafo. In ogni caso, la bionave era libera. Shati la girò rapidamente, puntando verso l’uscita del tunnel, e schizzò in avanti. Altre bionavi cercarono di fermarli, ostruendo il passaggio, ma la timoniera sgusciò agilmente fra loro. Gli Undine non osavano sparare, per timore di danneggiare gravemente l’Harvester in cui si trovavano. I fuggiaschi, dal canto loro, non avevano questi scrupoli.
   Scansionando il percorso antistante, in cerca d’ostacoli, Talyn si avvide che gli alieni avevano serrato il portellone esterno a diaframma, nel tentativo d’imprigionarli. «Il tunnel è chiuso!» avvertì, accorgendosi che mancavano pochi secondi all’impatto.
   Naskeel aprì immediatamente il fuoco, disintegrando il portello con un altro raggio antiprotonico. Sbuffi di fuoco e frammenti di bio-corazza furono espulsi nello spazio. «Adesso è aperto» puntualizzò.
   «Yu-huuu, tenetevi forte!» raccomandò Shati. La Scorpion eruppe in mezzo ai detriti dell’esplosione, sbucando nello spazio aperto. Una decina d’altre bionavi la seguì, uscendo dall’Harvester. Ancora di più convergevano da fuori, richiamate da tutto il sistema. Adesso che erano all’aperto, gli Undine non avevano più remore a sparare. Lo spazio attorno alla Scorpion divenne una gragnola di raggi antiprotonici.
   «Così non va, ci chiudono tutte le vie d’uscita!» avvertì Shati, destreggiandosi tra le raffiche. Un raggio sfiorò la bionave, tranciando uno degli aculei posteriori.
   «Dirigi verso Arena, proveremo a seminarle con l’effetto fionda» ordinò Rivera. Era una tattica collaudata dalla Flotta Stellare, che prevedeva di calare nell’atmosfera di un pianeta e poi risalire bruscamente, come un sassolino che rimbalza sull’acqua di uno stagno. Naturalmente solo un pilota esperto poteva azzeccare l’angolo d’ingresso, evitando di precipitare come una stella cadente.
   «Dov’è la Destiny? Credevo che ci stesse aspettando!» fece Dualla.
   «Infatti dovrebbe essere nei dintorni» rispose Rivera. Attraverso il Visore, vide che Arena era sempre più vicino. Vide altresì i raggi antiprotonici che balenavano attorno a loro. Un solo colpo a segno poteva essere fatale.
   «Ci chiamano dalla Destiny» disse Talyn, inserendo il viva voce.
   «Destiny a Scorpion, abbiamo difficoltà ad agganciarvi. L’Harvester sta emettendo fasci di gravitoni sempre più forti, che interferiscono col teletrasporto» avvertì Losira. «Possiamo prendervi solo due per volta, restringendo il campo di confinamento».
   Rivera intuì che voleva sapere da chi cominciare. «Oltre a Talyn abbiamo liberato Dualla. Cominciate con lei, che ha notizie sugli Undine, e con Shati, che ha le coordinate quantiche di casa» ordinò.
   «Ma...» protestò la Caitiana.
   «È un ordine!» fece l’Umano, costringendola a lasciare il timone e prendendo il suo posto. «Poi prendete Talyn e le guardie. Io sarò l’ultimo» stabilì.
   A malincuore, quelli della Destiny obbedirono. Mentre Rivera s’ingegnava a eseguire la manovra atmosferica, il bagliore del teletrasporto avvolse Dualla e Shati. Il trasferimento fu assai più lungo del normale, con le loro sagome che sfarfallavano, segno che le interferenze erano gravi. Rivera si chiese se, invece di favorirle, avesse messo in pericolo le loro vite. Emissioni gravitoniche troppo intense potevano bloccare il teletrasporto, con gravissimo rischio per chi era a metà del processo. Infine le due svanirono del tutto.
   «Destiny a Scorpion, abbiamo Dualla e Shati» giunse la voce di Losira. «Ma le emissioni gravitoniche si sono appena decuplicate. Non ci azzardiamo a trasferire nessun altro di voi. Adesso usciamo dall’occultamento per darvi una mano!».
   «Negativo. Se tutte quelle bionavi vi prendono di mira, siete spacciati» avvertì Rivera, ricordando come avessero sopraffatto la CSS Destiny. «Restate in attesa, cerco di seminarle con questa manovra».
   I fuggiaschi erano ormai nell’atmosfera di Arena e si lasciavano dietro una scia di plasma incandescente. Fu allora che un raggio antiprotonico colpì la Scorpion, squarciando la fiancata.
 
   La violenta decompressione risucchiò le guardie, che furono espulse dall’abitacolo. Anche Talyn fu attirato all’indietro, coi timpani che quasi gli scoppiavano. Si afferrò disperatamente alla consolle, ma il risucchio fu così forte da fargli perdere la presa. L’El-Auriano scivolò lungo il pavimento e giunse presso la breccia. Stava per essere espulso a sua volta, ma con un ultimo sforzo si aggrappò a uno dei costoloni dello scafo, messo a nudo. Più avanti, Naskeel e Rivera furono gli unici in grado di reggersi alle proprie consolle senza essere risucchiati. Il Tholiano era avvantaggiato dalla sua presa d’acciaio, mentre l’Umano dispiegò il casco della tuta, proteggendosi dalla decompressione; in tal modo ebbe la forza di restare aggrappato.
   Erano passati pochi secondi dall’apertura della falla e finalmente la pressione si equilibrò, ponendo fine al risucchio dell’aria. Il Capitano e l’Ufficiale Tattico erano ancora al sicuro nella cabina. Ma Talyn era precariamente aggrappato al costolone, per metà fuori dall’abitacolo. Le sue braccia doloranti potevano cedere in qualunque momento, facendolo precipitare verso la morte, diecimila metri più in basso. «AIUTO!» gridò il giovane, sentendo che stava per perdere la presa.
   «Resisti, arrivo!» disse Rivera, pur non sapendo come aiutarlo. La Scorpion era in caduta libera, il che provocava una temporanea assenza di gravità a bordo. Se avesse lasciato i comandi, si sarebbe trovato a fluttuare nell’abitacolo, impossibilitato ad aiutare l’amico.
   «No Capitano, resti ai comandi. Ci penso io» disse Naskeel.
   Rivera dovette seguire il consiglio: cercò di tenere la navicella in assetto, evitando che si avvitasse. Intanto il Tholiano strisciava lungo la parete, reggendosi dove poteva, nel tentativo di accostarsi a Talyn. Passo dopo passo, gli arrivò vicino e gli tese la mano. Mancava poco, ma ancora non riusciva ad afferrarlo. E non poteva avvicinarsi di più, o anche lui avrebbe perso la presa. «Afferra la mia mano» disse con calma invidiabile.
   Il giovane deglutì e guardò verso il basso, al suolo sempre più vicino. Allora staccò una mano dall’appiglio e con enorme sforzo la tese verso Naskeel. Le loro dita quasi si toccavano.
   In quella la Scorpion attraversò una turbolenza atmosferica e sussultò. Fu un piccolo scossone, ma bastò a far perdere la presa a Talyn, già stremato dalla fatica. Le sue dita esangui scivolarono dal costolone ed egli cadde nel vuoto, trascinato indietro dall’aria. Il suo grido si perse nel frastuono della caduta.
 
   «NOOO!» gridò il Capitano, che si era guardato indietro appena in tempo per assistere alla tragedia. Anche dopo che gli Undine lo avevano rapito, s’era rifiutato di dare Talyn per spacciato. Ma adesso doveva farlo per forza. Non si sopravvive a una caduta da migliaia di metri, specialmente se al di sotto c’è un deserto roccioso. «Perché gli hai fatto staccare la mano? Ti ha dato di volta il cervello?!» gridò Rivera, con la vista appannata dalle lacrime. Talyn era stato più di un amico per lui; era quasi un fratello minore.
   «Il Guardiamarina avrebbe perso la presa in ogni caso» ribatté Naskeel, tornando verso di lui. «Io non potevo avvicinarmi ulteriormente. Ciò che ho fatto era l’unica azione logica per massimizzare le sue probabilità di sopravvivere. Se non fosse stato per quella turbolenza atmosferica, sarei riuscito a trarlo in salvo».
   Aveva ragione, si disse il Capitano, anche se non riuscì ad ammetterlo a voce alta. La colpa non era di Naskeel che aveva provato a salvarlo, ma degli Undine che li avevano messi in quella situazione. Ora però non era il momento di piangere Talyn: stavano ancora precipitando. Rivera ricacciò indietro le lacrime e si concentrò sui comandi.
   Ormai era chiaro che non potevano risalire nello spazio con quello squarcio nello scafo. Le tute li avrebbero protetti per un po’, ma la Scorpion era troppo danneggiata per volare. Il meglio in cui potevano sperare era un atterraggio d’emergenza. Almeno le altre bionavi erano rimaste indietro, notò Rivera, consultando i dati sulla consolle. Anzi, invece d’inseguirli stavano riprendendo quota, tornando in orbita. Il tiro al bersaglio era finito, ma non c’era molto da rallegrarsi. Gli Undine avevano ottenuto ciò che volevano: li avevano bloccati sul loro mondo.
   «Può farci atterrare?» chiese Naskeel, tornando ad accostarsi.
   «Ci sto provando!» disse il Capitano, lottando coi comandi. In pochi minuti di caduta libera erano già scesi di cinquemila metri. Ne restavano altrettanti prima di sfracellarsi al suolo. Almeno il terreno sotto di loro era pianeggiante: un deserto bianco, forse di sale. «Beh, è già qualcosa non dover schivare le montagne» pensò Rivera. Si sforzò di rimettere la bionave in assetto, attingendo alle ultime riserve d’energia. Poco alla volta ci riuscì. La caduta rallentò, pur senza fermarsi, e la gravità tornò a farsi sentire. L’Umano poté rimettere i piedi a terra e anche il Tholiano accanto a lui tornò a posare le sei zampe. Siccome le poltroncine erano state risucchiate fuori dall’abitacolo, dovettero restare in piedi.
   «Siamo a mille metri. Così non va... siamo ancora troppo veloci!» mugugnò Rivera. Era così teso che nemmeno l’essiccatore della tuta poteva impedirgli di sudare. Sentì le goccioline scendergli lungo la fronte e scosse la testa, perché non gli finissero negli occhi. Continuò a rallentare, cercando di far sì che la Scorpion atterrasse di pancia, per poi scivolare sul deserto sino a fermarsi. «Ci siamo quasi... sarà un atterraggio di fortuna» avvertì, vedendo che l’impatto era imminente.
   «La fortuna non esiste» ribatté Naskeel.
   «Deve esistere, perché di scalogna ne abbiamo avuta fin troppa» borbottò Rivera, pensando all’amico perduto. L’attimo dopo la bionave impattò col suolo.
   Crash.
 
   Talyn stava precipitando. La Scorpion era perduta in lontananza, ne intravedeva solo la scia, e il suolo desertico gli veniva incontro a velocità spaventosa. In base a come il giovane si rigirava cadendo, il deserto sembrava a volte sotto di lui, a volte sopra. Era disorientante. Per non parlare del freddo che lo intorpidiva e della carenza d’ossigeno che rischiava di farlo svenire.
   Sulle prime l’El-Auriano si augurò di perdere i sensi prima di sfracellarsi al suolo. Poi il suo sguardo fu attirato da qualcosa che cadeva sotto di lui. Era una sezione di scafo della Scorpion, tranciata dal resto della navicella. Cos’era quella macchia argentea sul lato interno?
   Con un tuffo al cuore, Talyn riconobbe uno degli armadietti che avevano fissato a bordo, quando avevano adattato la bionave alle loro esigenze. Nello specifico, l’armadietto dei paracadute. Non poteva ingannarsi, era proprio quello; ed era ancora chiuso. Se fosse riuscito a raggiungerlo e a prenderne il contenuto...
   Non c’era un istante da perdere. Il frammento di scafo cadeva più rapidamente di lui, quindi Talyn cambiò posizione. Anziché cadere di pancia, frenando l’aria, si raddrizzò in modo da cadere a freccia. Adesso aveva le braccia protese verso il basso, il corpo dritto come un palo e i piedi uniti in alto. Avvertì subito che stava prendendo velocità. Era sempre più vicino al frammento di scafo, che pareva venirgli incontro. Se lo avesse mancato, sarebbe stata la fine. Doveva afferrarlo al momento esatto: non un attimo prima, non uno dopo. Aspetta... aspetta... non ancora...
   «Ora!». L’istinto gli disse che era il momento giusto. L’El-Auriano afferrò l’armadietto mentre gli passava accanto, praticamente abbracciandolo. Adesso cadeva unito al frammento di scafo, ma doveva staccarsene al più presto. Con le dita intorpidite dal freddo e dalla fatica, aprì un’anta dell’armadietto e afferrò uno zainetto-paracadute, prima che il risucchio dell’aria lo facesse volare via. Assicuratosi di stringere saldamente la cinghia, si spinse via dal pezzo di scafo, facendo leva coi piedi. In pochi secondi fu a grande distanza. Vide gli altri paracadute che fuoriuscivano dall’armadietto aperto, disperdendosi. Quello che stringeva ora era la sua unica speranza.
   Per prima cosa Talyn indossò lo zainetto, rigirandosi più volte nella caduta, finché entrambe le braccia furono entro le cinghie. Poi serrò le chiusure di sicurezza sul davanti, accertandosi che fossero scattate. A quel punto tornò a rigirarsi, finché il cielo fu in alto e il deserto – sempre più vicino – in basso. Ora che s’era stabilizzato nella giusta posizione, doveva sapere a che altezza si trovava. Premette un sensore inserito nella chiusura anteriore e subito udì l’allarme di prossimità che lo avvertiva di aprire il paracadute. Il giovane lo fece immediatamente.
   Lo zainetto si aprì in sommità e il paracadute si dispiegò in un istante, rallentando così bruscamente la caduta che Talyn rimase senza fiato. Il cuore gli sussultò in petto e per un attimo la vista gli si oscurò. Appena si fu ripreso, il giovane guardò sotto di sé. Stava scendendo verso un suolo roccioso, senza particolari punti di riferimento. Solo all’orizzonte si levavano delle montagne. Non riusciva a dirigere la caduta come avrebbe fatto un paracadutista più esperto, ma fortunatamente non ne aveva bisogno, perché non c’era nulla che potesse infilzarlo. Certo che atterrare sulla dura roccia non sarebbe stata una passeggiata. Doveva stare attento a non infortunarsi. Essere sperduto in un deserto alieno era già abbastanza brutto. Essere sperduto nel deserto con le gambe rotte sarebbe stato fatale.
   Il sensore dello zainetto lo informò che mancavano pochi secondi all’impatto. L’El-Auriano piegò le ginocchia per assorbire l’urto, preparandosi a lasciarsi cadere su un fianco. Meno tre... due... uno...
   Thud.
 
   Dalla plancia della Destiny, Losira assistette impotente all’epilogo dell’inseguimento. Vide la Scorpion, colpita su un fianco, che precipitava come una stella cadente nell’atmosfera di Arena. Le sembrava impossibile che gli occupanti potessero sopravvivere all’impatto. «Avviciniamoci, agganciamoli con un raggio traente!» ordinò, sperando di fare in tempo.
   «No!» esclamò Dualla, appena giunta dalla sala teletrasporto. Con lei c’era Shati, che andò subito al timone, sostituendo il collega. «Le bionavi sono refrattarie al raggio traente. Per avere qualche effetto dovremmo calarci nell’atmosfera e questo ci renderebbe visibili» spiegò Dualla. «Inoltre col teletrasporto disturbato non potremmo imbarcare la squadra. Resteremmo a fare da bersaglio agli Undine, che ci distruggerebbero in pochi colpi. Conosce la potenza di fuoco delle bionavi, sa che è la verità».
   Davanti a quell’arringa, Losira s’indispettì. «Lei è Dualla, giusto? Come si permette di venir qui a dettar legge?!».
   «Sono il Capitano Dualla, e questa è la mia nave» rivendicò la Deltana, fronteggiandola. «Tutti voi ve ne siete impadroniti illegalmente. Ma sorvolerò sulla cosa, dato che mi occorre un equipaggio».
   «Le occorre un equipaggio perché ha lasciato massacrare quello che le era stato affidato!» rimbeccò Losira. «Ora il Capitano Rivera l’ha salvata, e lei in cambio vuole lasciarlo morire, così da soppiantarlo? Non accadrà! Fate come ho detto!» ordinò agli ufficiali.
   «Ordine annullato» disse Dualla in tono gelido. «Ascoltatemi bene, qui c’è in ballo ben altro che il comando di questa nave, o le nostre misere vite. Gli Undine stanno rubando interi pianeti. Sequestrano gli abitanti, li costringono a combattere, e se si ribellano sono capaci di distruggere il loro mondo, come avrete notato. Noi siamo gli unici che possano avvertire la Flotta Stellare del pericolo; ma non se ci lasciamo distruggere nel tentativo di salvare poche vite. Abbiamo il dovere di sopravvivere per dare l’allarme, così che i prossimi pianeti siano salvati. Il bene dei molti conta più di quello dei pochi!».
   «Quella è la filosofia della Flotta Stellare» disse Losira, con una smorfia. «Ma noi non siamo della Flotta. Siamo dei figli di buona donna e facciamo quello che ci pare. Anzi, sa che le dico? La nostra filosofia è: uno per tutti, tutti per uno! E adesso portaci nell’atmosfera, Shati!».
   La Comandante aveva parlato con sicurezza, certa che sarebbe stata obbedita. Dopotutto la Caitiana era profondamente leale al Capitano Rivera. Perciò fu con enorme stupore e delusione che Losira la vide alzare le mani dalla consolle.
   «Mi spiace, Comandante» mormorò Shati, con le orecchie basse. «Giuro che darei la vita per il Capitano e gli altri. Il fatto è che... loro la darebbero per salvare Ferasa e gli altri mondi in pericolo. E comunque non credo che siano spacciati. Vedrai che faranno un atterraggio d’emergenza e se la caveranno, finché torneremo a recuperarli».
   «Non puoi saperlo! Ci sono gli Undine che gli danno la caccia! Loro... insomma, chi sta con me?!» chiese Losira, guardandosi attorno in cerca di sostenitori.
   Giely scattò prontamente al suo fianco, fissando Dualla con aria torva. Fra tutti loro, la dottoressa era l’unica presente sulla Destiny fin dal varo e quindi l’unica che fosse stata ai suoi ordini. Ma ora la guardava come se avesse voluto strozzarla. Il suo esempio, però, non fu seguito. Tutti gli altri ufficiali infatti si schierarono con la Deltana, che fosse per opportunismo o perché effettivamente convinti. Il più combattuto fu Irvik, che infine si rivolse alla Comandante.
   «Abbandonare i nostri compagni è terribile, ma... gli ostacoli sono insormontabili» mormorò il Voth, le scaglie arrossate dall’imbarazzo. «L’Harvester continua a disturbare il teletrasporto. Se ci tuffiamo nell’atmosfera per agganciarli col raggio traente, diventeremo visibili e saremo in una posizione così vulnerabile che le bionavi ci distruggeranno all’istante. Considera che abbiamo perso una squadra per salvare un solo individuo; ora non possiamo perdere l’intera nave per salvare la squadra. Io... preferisco credere che i nostri amici se la caveranno, finché torneremo a prenderli coi rinforzi» disse.
   «Stai commettendo un errore... lo state commettendo tutti!» proruppe Giely, guardandosi attorno incredula. «Dopo tutto quel che ha fatto il Capitano per voi, come potete voltargli le spalle?!».
   «Abbiamo combattuto una guerra per lui» disse Shati, riferendosi all’anno trascorso nello Specchio. «Credo che questo basti a dimostrare la nostra lealtà. Ma cerca di capire... qui c’è il mio pianeta in gioco, e forse parecchi altri. Credo che lui sarebbe d’accordo».
   In quella l’addetto ai sensori, un Ferengi di nome Lum, si schiarì la voce. «Ehm... la Scorpion ha effettuato l’atterraggio d’emergenza» disse.
   «Ci sono superstiti?!» chiese Losira.
   «Chi lo sa, le emissioni dell’Harvester sono così forti da accecare i sensori. Non riesco nemmeno a rilevare gli altri abitanti, che sappiamo per certo essere laggiù» spiegò il Ferengi.
   Cadde un silenzio pesantissimo. Mai prima d’allora il comando della nave, e il senso del loro viaggio, erano stati messi così in discussione. Il ritorno di Dualla aveva ricordato a tutti che erano pur sempre dei fuorilegge, impadronitisi della Destiny, e che necessitavano di un patrono nella Flotta Stellare per sperare nel perdono. La Deltana poteva essere ciò di cui avevano bisogno.
   «Mi spiace che le cose siano andate in questo modo» disse Dualla, fronteggiando Losira. «Le potrà sembrare di aver perso molto, ma le ricordo che io ho perso assai di più, a causa degli Undine. Ed è proprio per questo che non voglio vanificare questi sacrifici! Ora finalmente possiamo tornare nella Federazione e avvertirla del pericolo. Le informazioni che avete raccolto saranno d’inestimabile valore per organizzare la controffensiva. E naturalmente metterò una buona parola per voi col Comando di Flotta. Dopo tutto ciò che avete fatto, è giusto che otteniate l’amnistia!» disse ad alta voce, in modo che tutti la udissero.
   Ciò detto, Dualla sedette con naturalezza sulla poltrona del Capitano. Dopo qualche momento, gli avventurieri tornarono alle loro postazioni, accettando il cambio di comando. Solo Losira e Giely restarono in piedi accanto alla Deltana, fissandola con aria accusatoria.
   «Timoniera, allontaniamoci da qui. Rotta per i margini del sistema, dov’è più difficile che gli Undine ci rilevino» ordinò Dualla.
   «Sì... Capitano» mormorò Shati, allontanando la Destiny da Arena. Il pianeta scomparve in lontananza, come anche l’Harvester. In plancia tornò un surrogato di normalità, anche se gli avventurieri parlavano poco e a bassa voce.
   Giely però non voleva arrendersi, ragion per cui si rivolse a Dualla. «Vi siete comprata facilmente la lealtà dell’equipaggio» constatò. «Sono bastate poche parole: uno spauracchio di qua, una promessa di là. Il Capitano, invece, s’era meritato la lealtà con le sue azioni».
   «Lei chi è, signorina? Perché è l’unica a indossare l’uniforme di Flotta?» chiese la Deltana, degnandola finalmente della sua attenzione.
   «Perché sono l’unico ufficiale di Flotta, oltre a lei!» rispose la Vorta con un riso amaro. «Dottoressa Giely, specialista in tossicologia. Facevo parte dell’equipaggio al momento del varo. Non mi stupisce che non si ricordi di me... non ero così importante, infatti non ci siamo mai presentate. Ma negli ultimi tre anni sono stata Medico Capo su questa nave».
   «Capisco» disse Dualla, rialzandosi per fronteggiarla. «Devono essere state gravi responsabilità per le sue giovani spalle. Sorvolerò sul fatto che poco fa lei abbia contestato i miei ordini. La sua professione medica certo la sprona ad aiutare sempre tutti. Ma deve comprendere che, così facendo, noi proteggiamo l’intera Federazione. Una volta tornati, sono certa che lei potrà riprendere regolare servizio. Non so se potrà mantenere il grado di Medico Capo che ha ricoperto per mancanza di personale qualificato, ma di certo sarà encomiata per i suoi sforzi».
   «È strano, sa? Quand’ero agli ordini di un fuorilegge, mi sentivo parte della Flotta Stellare. E ora che sono ai suoi, mi sembra d’essere una fuorilegge» disse Giely. «Sarà perché il Capitano s’era guadagnato la mia fiducia. Quando restai dispersa nello Specchio, lui tornò a salvarmi. Ora che le parti sono invertite, non dovrei essere da meno».
   «Sono spiacente di non aver potuto conoscere bene Rivera. A giudicare dalle sue parole, non stento a credere che fosse un brav’uomo» disse Dualla. «Tuttavia non deve farsi illusioni, dottoressa. Non torneremo su Arena solo per lui. In effetti è probabile che a quest’ora sia già morto».
   A queste parole, Giely la schiaffeggiò sonoramente davanti a tutti. Il gesto fu così inaspettato e violento che Dualla rimase a fissarla ammutolita, massaggiandosi la guancia offesa.
   «Lui sarebbe tornato per salvarla! Non ha mai lasciato indietro nessuno, quali che fossero i rischi! Pensi che s’è infiltrato nell’Harvester per salvare Talyn. Se non l’avesse fatto, ora lei non sarebbe qui al suo posto!» gridò la Vorta. «Preghi che sia morto, perché altrimenti tornerà a reclamare questa nave, e le darà ciò che merita. E ora, se vuole scusarmi, vado a ritirare le mie cose dal nostro alloggio, prima che lei ne riprenda possesso. Sa, fino a stamattina io e lui eravamo conviventi!» rivelò. Dopo di che le voltò le spalle e abbandonò la plancia, seguita da Losira. Si lasciarono dietro i colleghi pieni di vergogna e una Dualla oltraggiata, ma troppo timorosa di un ammutinamento per reagire.
 
   «E così non c’è traccia della Destiny...» commentò telepaticamente il Supervisore, mentre giocherellava col teschio di Gort. Lo aveva ripulito accuratamente dai tessuti molli, conservando solo le ossa, per aggiungerlo alla sua collezione. Gli piaceva osservare i teschi degli umanoidi, anche se rimaneva sempre stupito dalla loro fragilità.
   «Le ricerche hanno dato esito negativo, signore» confermò l’Attendente al suo fianco. «I fuorilegge non hanno fatto alcun tentativo di salvare i loro compagni».
   «Questo è strano. Non combacia con il loro precedente comportamento. Dopotutto hanno osato infiltrarsi qui per salvare un solo compagno...» ragionò il Supervisore.
   «Forse hanno compreso che è una strategia fallimentare, mio signore. Avendo perso la squadra per un uomo, non hanno osato rischiare l’intera nave per la squadra» ragionò l’Attendente.
   «Può darsi... o forse è il segno di un cambio al comando» rifletté il Supervisore, palleggiando il teschio come se fosse una pallina da baseball. «Dopotutto Rivera è finito su Arena, mentre Dualla ha raggiunto la Destiny. Magari ha ripreso il comando della sua vecchia nave».
   «E gli avventurieri le avrebbero permesso di farlo?» fece l’Attendente, scettico.
   «Può averli convinti, se non con la logica, con promesse e minacce» insisté il Supervisore, sempre più convinto. «Ora dobbiamo capire esattamente quali informazioni hanno rubato dal nostro database. Se avessero recuperato le coordinate di ritorno, sarebbe una catastrofe. La nostra intera operazione sarebbe a rischio e dovrei conferire con l’Imperatore...» rimuginò, fissando corrucciato le orbite vuote del teschio. Forse lui stesso sarebbe diventato uno dei crani della collezione imperiale...
   «Negativo, signore» disse il Maestro Formatore, che era al lavoro sul computer. «L’unico database al quale gli intrusi sono riusciti ad accedere è quello dei mondi che abbiamo già raccolto. Ma siccome non abbiamo ancora preso la Ferasa federale, ecco che non hanno le coordinate per tornare alla Federazione».
   «Eccellente!» fece il Supervisore. Si alzò dallo scranno, lasciando il teschio posato sul bracciolo. «Ora quei fuorilegge hanno tre possibilità. Possono abbandonare il nostro spazio e riprendere l’esplorazione del Multiverso, avvalendosi della nuova lista di coordinate. Sarebbe la cosa più sensata, ma credo che siano troppo cocciuti per farlo. Possono cercare di salvare i compagni naufragati su Arena, nel qual caso saremo pronti a colpirli. E infine possono cercare d’infiltrarsi nuovamente qui... ma senza un’altra bionave sarebbe pura follia. In ogni caso, voglio che la sorveglianza sia raddoppiata».
   «Sarà fatto, mio signore» garantì l’Ufficiale Tattico. Era stato lui a rapire Talyn, poche ore prima, e infatti zoppicava ancora per le ferite dello scontro. «Comunque abbiamo localizzato i dispersi su Arena. Non vuole che li catturiamo o li eliminiamo?».
   «Non mi ha ascoltato? Preferisco usarli come esca» ribatté il Supervisore. «Per ora restiamo in osservazione. Mandi un Infiltratore fra i naufraghi, così saremo sempre aggiornati sulle loro mosse».
   «Ricevuto, manderò il più esperto» fece l’Ufficiale Tattico. «Vuole che chieda dei rinforzi dal Mondo Corallo, per proteggerci meglio?».
   «Negativo, abbiamo navi a sufficienza» rispose il Supervisore. In realtà non gli sarebbe affatto dispiaciuto avere quei rinforzi. Ma chiederli adesso sarebbe parsa un’ammissione di debolezza e d’incapacità. I suoi nemici a corte ne avrebbero approfittato, e forse l’Imperatore li avrebbe ascoltati, rimuovendolo dall’incarico. No, si disse, doveva farcela con le forze già a sua disposizione, senza mendicare aiuti.
   «Un’altra cosa: dobbiamo accelerare i tempi della raccolta. Iniziate i preparativi per aprire una nuova interfase» ordinò il Supervisore ai Formatori. «Ho intenzione di prendere Ferasa, prima che gli intrusi possano crearci nuovi fastidi».
 
   Radunati nel laboratorio di astrometria, gli ufficiali della Destiny ascoltarono il mesto rapporto di Irvik sui dati recuperati dall’Harvester.
   «Che cosa?!» strepitò Shati. «Sarebbe a dire che ancora non possiamo tornare a casa?!».
   «Purtroppo è così, il povero Gort dev’essersi confuso» confermò l’Ingegnere Capo. «Invece di prendere le coordinate di tutti gli Universi conosciuti, ha preso solo quelle dei mondi già rapiti dagli Undine. Fra questi c’è il Ferasa dello Specchio, ma non quello del nostro Universo. Quindi non possiamo tornare. Se ci fossi stato io, magari...» borbottò, ma poi tacque, ricordando che aveva rifiutato per paura.
   «Quindi è stato tutto inutile» commentò amaramente Losira, che aveva accettato di partecipare alla riunione, a differenza di Giely. «Abbiamo allertato gli Undine, abbiamo perso la squadra e non possiamo nemmeno chiamare rinforzi».
   «Beh, almeno abbiamo la nuova lista di coordinate» notò Irvik, indicando l’elenco che scorreva sull’oloschermo.
   «E quindi? Vorresti che riprendessimo l’esplorazione del Multiverso, infischiandocene di tutto e di tutti?!» accusò la Risiana.
   «No, intendevo dire che queste sono tutte realtà alle quali è stato strappato un pianeta. Devono esserci un bel po’ di potenze interstellari pronte a vendicarsi degli Undine, se solo insegnassimo loro come raggiungerli. Se le visitassimo tutte, ci faremmo parecchi alleati...» suggerì il Voth.
   «Negativo» disse Dualla, fissando lo schermo con aria assorta.
   «Perché no?! Così avremmo qualche speranza di fermare gli Undine!» protestò Irvik. «Da soli non possiamo distruggere l’Harvester, ma con una flotta ad aiutarci...».
   «Non è così semplice. Prima che mi liberaste, ho avuto una... chiacchierata col Supervisore» spiegò la Deltana. «Ha detto che, se avessimo richiamato qui altre forze, avrebbe attaccato in massa la Federazione. Non so se fosse un bluff, ma resta il fatto che non possiamo ignorarlo. Ora, se potessimo tornare, io informerei il Comando di Flotta e poi sarebbero loro a decidere il da farsi. Ma siccome il ritorno ci è precluso, e non possiamo nemmeno avvisare del pericolo, non me la sento di far scoppiare una guerra a cui la Federazione non è preparata».
   Gli avventurieri si accorsero che Dualla ragionava ancora come un Capitano di Flotta, che non osava prendere troppe iniziative personali. Non come loro, che erano abituati a non rendere conto a nessuno. «Quindi cos’ha intenzione di fare?» chiese Losira. «Se non possiamo attaccare da soli, e nemmeno cercare rinforzi, che ci resta?!».
   «Non ho detto che non faremo nulla. L’essenziale è non gettarci allo sbaraglio» puntualizzò Dualla. «Per il momento continueremo ad analizzare le forze nemiche, in cerca di punti deboli. Intendo anche riorganizzare l’equipaggio, rivedendo turni e mansioni, così da portare al massimo l’efficienza della nave» decise la Deltana.
   «Nel frattempo i dispersi su Arena potrebbero morire» notò Losira. «Non crede che dovremmo tornare a salvarli?».
   «E lei non pensa che gli Undine se lo aspettino, e ne approfittino per tenderci un’imboscata? No, non uscirò allo scoperto a due passi dalla loro stazione» insisté Dualla. «Già una volta ho esposto troppo questa nave, e ho perso l’equipaggio. Non lascerò che la storia si ripeta con voi».
   «E se intanto gli Undine si prendessero Ferasa?» chiese Shati, sempre in ansia per il suo mondo.
   «Raccogliere informazioni e aumentare l’efficienza della nave ci permetterà di reagire al meglio, se si arrivasse a quello scenario» insisté Dualla. «Sentite, mi rendo conto che vorreste fare grandi cose, e mal sopportate di aspettare» aggiunse, rivolta a tutti i presenti. «Ma un’azione affrettata può condurci alla catastrofe. Siamo l’unica nave federale nello Spazio Fluido, mentre gli Undine possono richiamare la loro intera flotta. Gettarsi a capofitto in battaglia può sembrare eroico, ma se il nemico è così forte, allora è solo stupido. Ci sono momenti in cui bisogna saper attendere e lasciare che sia l’altro a fare la prossima mossa. Questo è uno di quei momenti, e noi aspetteremo prima d’esporci, o d’esporre la Federazione a una rappresaglia. La riunione è aggiornata, potete andare». 
 

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Capitolo 4
*** Arena ***


-Capitolo 3: Arena
 
   Il sole si levava sul deserto piatto, di un biancore accecante, per via del sottile strato di sale che lo ricopriva. Era l’unico residuo dell’antico oceano, ormai prosciugato, che un tempo copriva metà del pianeta. Un solo tratto interrompeva quella bianca monotonia: una sottile linea rossa, come una ferita nel suolo. Era la scia provocata dalla navicella, durante il suo atterraggio d’emergenza. Lo scafo aveva grattato lo strato salino superficiale, rivelando i depositi ossidati sottostanti. Al termine di quella scia, lunga centinaia di metri, i resti deformati della bionave sfrigolavano per il calore della caduta. La Scorpion era irrecuperabile, con la prua deformata dall’impatto, lo squarcio sulla fiancata e gli aculei posteriori – facenti parte del propulsore – tutti spezzati. Nemmeno la bio-materia Undine, infatti, poteva rigenerare danni così gravi. La navicella sarebbe rimasta lì ad arroventarsi sotto il sole, un relitto fra i tanti che costellavano Arena.
   Ma c’era ancora vita al suo interno. Una figura umana si affacciò dallo squarcio, schermandosi gli occhi dal riverbero accecante del deserto. «Caramba, c’è mancato poco. Io sono illeso, e tu?» chiese il Capitano Rivera. Si tolse i resti della tuta occultante, che aveva attutito l’impatto salvandogli la vita, ma ormai era infranta e fuori uso.
   «Sono tutto d’un pezzo» rispose Naskeel, venendogli accanto. Anche lui si disfece della tuta, conservando solo il cinturone che emetteva l’aderente campo di forza da cui dipendeva la sua vita.
   «Bene, è... un buon punto di partenza» commentò il Capitano. Rivolse un’occhiata al deserto, che si era preso la giovane vita di Talyn. Avrebbe voluto piangere... ma non poteva sprecare acqua nemmeno per quello. Impostosi l’autocontrollo, si premette il comunicatore. «Rivera a Destiny, mi sentite?» chiese, senza ottenere risposta.
   «Se l’Harvester continua a disturbare le comunicazioni, non possono captarci» avvertì Naskeel.
   «Ma verranno comunque a prenderci. Vedranno dove siamo caduti e ci recupereranno» disse Rivera, fiducioso.
   «Non ci conterei. Per salvarci dovrebbero abbassare gli scudi e rendersi visibili, il che permetterebbe agli Undine di distruggerli» obiettò il Tholiano. «È più probabile che si siano ritirati a distanza di sicurezza».
   «Uhm, non credo che Losira lo farà...» mormorò Rivera, con una fitta di rimpianto. La Risiana li avrebbe cercati soprattutto per salvare Talyn. Come le avrebbe detto che era morto?
   «Sempre che Losira sia ancora al comando» commentò Naskeel.
   «Come? Perché non dovrebbe?!» fremette Rivera.
   «Perché adesso sulla Destiny c’è Dualla, che potrebbe reclamare l’autorità, approfittando dell’emergenza e del vuoto di potere» spiegò il Tholiano.
   «Ma no, gli altri non glielo permetterebbero... credo» borbottò l’Umano, ma mentre lo diceva non si sentì così sicuro. Non conosceva Dualla e non sapeva quali strumenti di pressione potesse avere.
   «Indipendentemente da chi è al comando, venire a salvarci metterebbe a rischio la nave» proseguì Naskeel. «Ora che i nostri colleghi hanno le coordinate quantiche di rientro, la mossa più logica è tornare alla Federazione e chiedere rinforzi».
   «Uhm, sì, potrebbero aver preso quella strada» ammise il Capitano a malincuore. «Se le cose stanno così, dobbiamo concentrarci sulla sopravvivenza, almeno per qualche giorno». Guardò il cielo senza nuvole, schermandosi gli occhi dal sole accecante. Era mattina presto e lui era già in un bagno di sudore. Che temperature si raggiungevano durante il pomeriggio? «Il rischio è che ci trovino prima gli Undine. Non mi piace la nostra posizione, è troppo scoperta. Dobbiamo lasciare questo relitto e trovare un altro rifugio. Magari laggiù» disse, indicando una linea di basse montagne all’orizzonte.
   «Sono più lontane di quanto sembra» avvertì Naskeel. «Serviranno giorni per raggiungerle. Comunque in quella direzione il suolo è più frastagliato e potrebbe già offrirci qualche riparo».
   «Prima ci mettiamo in cammino, prima arriviamo. Vediamo un po’ come stiamo a provviste» disse Rivera. Fortunatamente quando avevano adattato la Scorpion alle loro esigenze avevano anche installato un armadietto con borracce, razioni d’emergenza e kit medico. Il Capitano prese tutto, riempiendo lo zainetto. Poi cercò di calcolare quanti giorni di sopravvivenza gli garantiva. «Vediamo... a te non servono queste scorte, vero?» chiese a Naskeel.
   «Noi Tholiani ci nutriamo di composti solforosi. Se necessario, posso sopravvivere fino a sei mesi senza» rispose l’Ufficiale Tattico.
   «Non credevo che ti avrei invidiato» borbottò Rivera, osservando le scorte. Le razioni proteiche lo avrebbero tenuto in vita a lungo, ma era l’acqua a preoccuparlo. Con quel caldo ne avrebbe consumata molta. Per quanto la razionasse, non credeva che sarebbe durata più di una settimana; forse anche meno. «Prendiamo i tricorder. Se la nostra permanenza dovesse prolungarsi più di qualche giorno, avrò bisogno di trovare acqua» ammise.
   «Lei non è l’unico ad avere i giorni contati, Capitano» avvertì Naskeel. «Io dipendo dal campo di forza per la sopravvivenza. Senza di quello, il freddo mi ucciderà».
   Il Capitano rimase interdetto. Dopo tre anni passati a lavorare fianco a fianco con Naskeel, aveva quasi scordato che il Tholiano doveva costantemente proteggersi col campo di forza. E dalla sua prospettiva umana, faticava a considerare quel deserto rovente come un luogo in cui si poteva morire di freddo. Ma Naskeel aveva ragione, naturalmente. I Tholiani necessitavano di una temperatura superiore ai 200º C per sopravvivere. Lì ce n’erano 45 al massimo, ed era probabile che di notte la temperatura crollasse sottozero, com’è tipico dei deserti. «Quanto tempo hai?» chiese.
   «Con queste» disse Naskeel, prendendo delle unità energetiche dall’armadietto, «dieci giorni al massimo».
   «Capisco» mormorò il Capitano, colpito da quel rovesciamento. Lui forse avrebbe trovato dell’acqua, ma era difficile che Naskeel trovasse delle ricariche energetiche, anche se avessero esplorato i relitti che costellavano il deserto. «Vedrai che i nostri compagni faranno i conti, e torneranno prima d’allora» cercò d’incoraggiarlo.
   «Questo dipende da molti fattori, tutti fuori dal nostro controllo» ribatté Naskeel. «Inoltre la nostra sopravvivenza non è minacciata solo dall’esaurimento delle scorte». Così dicendo imbracciò il fucile polaronico, la sua arma preferita.
   «Già, gli Undine» convenne Rivera, armandosi con phaser e frusta neurale.
   «Non solo» puntualizzò il Tholiano. «Su questo pianeta ci sono combattenti radunati dal Multiverso, impegnati in scontri senza fine. È probabile che li incontreremo per primi».
   «Dovremo stare in guardia» convenne il Capitano, sempre più cupo. La vita su Arena sarebbe stata una continua battaglia.
   «Non potremo rispettare la Prima Direttiva, se incontrassimo specie pre-curvatura» concluse Naskeel, squadrandolo con gli occhi sulfurei, come se lo sfidasse a dire il contrario.
   «Al diavolo la Prima Direttiva» convenne Rivera. «Non spareremo per primi, ma se qualcuno ci attacca, troverà pane per i suoi denti» disse, munendosi anche di una vibro-lama per gli scontri ravvicinati. Era un’arma da taglio la cui lama, di lunghezza regolabile, si dispiegava dall’impugnatura. Se l’era procurata nello Specchio, dove armi di quel genere erano assai diffuse.
   Così equipaggiati, l’Umano e il Tholiano abbandonarono i resti sempre più arroventati della bionave. E si tuffarono nel deserto bianco, diretti verso le lontane montagne all’orizzonte.
 
   Qualche ora di marcia portò i naufraghi al limitare di una zona più frastagliata, un labirinto di rocce in cui era facile nascondersi. «Ombra, finalmente» mormorò il Capitano, levandosi il sudore dalla fronte.
   «Attenzione, questo terreno è adatto a tendere agguati» disse Naskeel, guardandosi sospettosamente intorno. «Se ci sono altri esuli, è probabile che si nascondano qui».
   «Già, stiamo all’erta» convenne Rivera, chiedendosi cosa avesse in serbo il Multiverso per loro. Non dovette attendere a lungo per scoprirlo.
   I due avevano fatto pochi passi nel labirinto roccioso quando udirono uno scalpiccio sulla sinistra. Si girarono con le armi spianate e videro un uomo alto e magro, pallido nonostante il solleone. I suoi capelli erano neri, e d’un nero intenso era anche l’abito dalle linee retrò. Si avvicinò agli avventurieri senza mostrare alcuna meraviglia per l’aspetto del Tholiano, e neppure timore per le loro armi. «Avete visto la Torre Nera?» chiese, con l’aria di chi ha molta fretta.
   «Come?» fece Rivera, preso in contropiede.
   «La Torre Nera, il fulcro di tutti gli Universi... l’avete vista?!» lo pressò l’uomo in nero. Si guardò brevemente alle spalle, come se temesse d’essere inseguito.
   «No, mi spiace, siamo nuovi di qui» rispose il Capitano.
   A quelle parole lo sconosciuto fece un gesto di stizza e li oltrepassò, sempre con quella strana fretta, borbottando parole incomprensibili.
   Gli avventurieri avevano fatto pochi passi che un altro individuo si parò davanti a loro. Questo sembrava un pistolero del Far West, con abiti senza età tutti impolverati. Aveva il viso vissuto, su cui spiccavano gli occhi chiari e penetranti. Ciò che più attirò l’attenzione di Rivera, comunque, furono le due enormi pistole a canna lunga che impugnava con consumata esperienza.
   «Avete visto Walter Padick?» chiese il pistolero, anche lui con una fretta indiavolata.
   «Chi?».
   «L’uomo in nero, lo avete visto?!» lo pressò il pistolero. Si guardò attorno, in cerca di tracce sul terreno.
   Il Capitano non sapeva cosa ci fosse in corso fra quei due, chi fosse nel giusto e chi nel torto, per cui esitò a dargli la giusta indicazione. Ma Naskeel, al suo fianco, allungò il lungo braccio cristallino, indicando la direzione in cui era andato il primo uomo.
   «Grazie! Vi devo un favore, parola di Roland Deschain» disse il pistolero. Vide il suo avversario, qualche centinaio di metri in avanti, e scattò di nuovo all’inseguimento.
   L’uomo in nero fuggì nel deserto e il pistolero lo seguì. In breve scomparvero entrambi alla vista, perduti nella distesa rovente.
   «Perché gli hai dato la traccia? Non sappiamo chi siano quei due» fece Rivera.
   «Ho ritenuto che non fosse opportuno scoprirlo» rispose Naskeel. «Avrei fatto meglio a disintegrarli?».
   «No, è meglio così, senza... disintegrazione» sospirò il Capitano. Riprese la marcia, seguito dall’Ufficiale Tattico. Cominciava a rendersi conto che quello era solo il primo di una lunga serie di bizzarri incontri.
 
   Era pomeriggio inoltrato quando il silenzio del deserto fu rotto da grida e spari. Gli avventurieri tornarono a impugnare le armi, cercando di capire da dove venisse il frastuono. Non era facile stabilirlo, in quel labirinto di rocce piene d’echi.
   «Di là» disse a un tratto Naskeel, girandosi verso destra.
   Rivera lo imitò, pronto a una sparatoria.
   Passarono i secondi. Le grida erano sempre più vicine; ora si udiva anche il calpestio degli stivali militari sul suolo roccioso. E c’era un altro suono, più indefinibile, ma dal timbro metallico.
   A un tratto una donna in tenuta militare sbucò da una fenditura tra le rocce. Era Umana, o almeno ne aveva l’aspetto, con capelli biondi lunghi fino alle spalle. Vestiva una tenuta militare con pantaloni verdi, ma s’era tolta la giaccia per il caldo, restando in canottiera; sul braccio sinistro aveva tatuata un’ala. Impugnava un’arma da fuoco, una sorta di fucile a ripetizione. Quando vide Rivera gli corse incontro. «Attento, è dietro di me! Ehi, ma...!». Vedendo Naskeel si bloccò e rivolse il fucile contro di lui.
   «Ferma, non sparare! Lui è con me!» gridò il Capitano, cercando d’evitare l’irreparabile.
   La donna esitò, ma in quella il suo inseguitore sbucò dalla fenditura. Allora tutti concentrarono l’attenzione su di lui. Era un robot da combattimento, come Rivera non ne aveva mai visti. Umanoide nelle linee generali, aveva una corporatura massiccia e correva agilmente. Il suo rivestimento argenteo aveva linee aggressive; recava i segni di proiettili che non erano riusciti a perforarlo. Il casco ricordava vagamente l’elmo di un centurione romano; un bagliore rosso cupo balenava nella visiera. Vedendo gli avventurieri, il robot lasciò perdere la donna e puntò le braccia contro di loro, estendendo le armi da fuoco integrate negli avambracci.
   Rivera e Naskeel reagirono istintivamente, aprendo il fuoco. Il raggio phaser e quello polaronico centrarono l’avversario, squarciandone la corazza in una cascata di scintille. Il robot cadde all’indietro, fumando dagli squarci. Qualcosa nelle sue armi integrate si muoveva ancora e la maligna luce rossa indugiava nella visiera. Allora Naskeel sparò di nuovo, col raggio a piena potenza, disintegrando il corpo meccanico. La testa rotolò lontano, col bagliore rosso finalmente estinto.
   «Grazie, ottima mira» ansimò la bionda. Era così esausta che dovette appoggiarsi ad alcune rocce per non accasciarsi. «Ma quello cos’è?!» chiese, accennando al Tholiano. Aveva ancora il fucile in pugno, come se non si fidasse.
   «È il mio Ufficiale Tattico, il Tenente Naskeel. Io sono il Capitano Rivera della Destiny» si presentò l’Umano, sperando d’evitare altre sparatorie.
   «Lavori con un alieno? Ne ho viste d’assurdità, ma questa le batte tutte. Senti un po’, sei davvero... umano? Non sei uno di quei tostapane?» chiese la donna, sempre sospettosa, accennando al robot mezzo disintegrato.
   «Che razza di domanda! Certo che sono umano... ti sembro simile a quell’arnese?!» protestò Rivera, ferito nell’amor proprio.
   «Non si può mai dire... adesso i Cylon ci imitano alla perfezione» si giustificò la bionda. «Dovresti vedere quelli di tipo 6, che razza di baldracche... ma lasciamo perdere».
   «Sì, lasciamo perdere. Senti, che ne dici se al tre deponiamo tutti le armi?» suggerì Rivera.
   «Mi sta bene» fece la donna.
   «Capitano...» obiettò Naskeel.
   «È un ordine, Tenente. Uno... due... tre».
   Finalmente le armi furono riposte. Allora la sconosciuta sedette su un macigno e aprì un taschino dei pantaloni, cavando una sigaretta. Fu sul punto d’offrirne un’altra a Rivera, ma si trattenne, notando che ne restavano poche. Accese la sigaretta, con un accendino sempre cavato di tasca, e prese a fumare di gusto. «Comunque io sono Kara Thrace. Il Capitano Thrace, se vogliamo essere formali. Potete chiamarmi Scorpion» disse, sbuffando una nuvoletta.
   «Scorpion? La mia navetta si chiamava così. Ci siamo schiantati poco fa» disse Rivera. «Senti, non è che hai una navicella funzionante, da qualche parte?».
   «Macché, è andato tutto in malora. Fottuti Cylon! Hanno abbattuto il mio Viper e da allora non riesco a contattare la squadriglia. Ah, che darei per un goccetto di whisky! Non ne hai per caso? Pago in sigarette, non aspettarti altro» fece Scorpion, parlando in uno strano slang. Ogni tanto faceva domande, ma poi non aspettava le risposte. «Da dove hai detto che vieni? Io sono di Caprica. Ero sul Battlestar Galactica, col resto della Flotta Coloniale. Sei bravo a sparare, ma il tuo equipaggiamento non è quello solito dei marine. Allora, da che colonia provieni?».
   «Da nessuna, io vengo dalla Terra» rispose Rivera, disorientato.
   «La Terra?! Vuoi dire che avete trovato la Tredicesima Colonia?!» esclamò Scorpion, sgranando gli occhi. Si tirò in piedi, improvvisamente interessata.
   «Ma quale colonia! Ti ho detto che vengo dalla Terra» ripeté il Capitano, sempre più confuso.
   «Appunto! La Terra è l’ultima colonia di Kobol».
   «Davvero? Non lo sapevo» fece Rivera. Da che razza di Universo proveniva quella donna? Si rese conto che forse non era il caso di spiegarle dove si trovavano. C’era il rischio che non gli credesse, magari che lo prendesse per pazzo.
   «Non lo sai, eh? Okay, amico. Mi sa che hai battuto forte la testa, quando sei naufragato. Forse è meglio se prendiamo strade separate» disse Scorpion. Riprese il fucile, pur senza puntarlo, e indietreggiò di qualche passo.
   «Nei sei certa? Siamo in un deserto, pieno di... come li hai chiamati? Pieno di Cylon e altre minacce. Non abbiamo grandi scorte d’acqua, né un modo per andarcene. Forse è meglio se stiamo uniti e ci guardiamo le spalle» consigliò il Capitano.
   «Forse» esitò Scorpion, indecisa. «Ma quello viene con noi?» chiese, indicando Naskeel.
   «Certo, non rinuncio al mio Tenente» disse Rivera con decisione.
   «Allora non fa per me» disse la donna, indietreggiando sempre più. «Credo sia meglio se ci separiamo, per adesso».
   «Se ci dividiamo, sarà difficile ritrovarci» avvertì il Capitano, ma capì che non le avrebbe fatto cambiare idea. «Dimmi solo una cosa, Scorpion: hai trovato fonti d’acqua in giro?».
   «Sì, presso le montagne ci sono caverne con delle sorgenti. Vi aiuteranno a sopravvivere in questo cesso di mondo. Addio, buona fortuna». Ciò detto il Capitano Thrace si dileguò.
   «L’ultima colonia di Kobol?» commentò Naskeel quando furono soli.
   «Non so che intendesse. Non ho mai sentito di un pianeta con quel nome. Né di Caprica e delle... Dodici Colonie. Per quanto ne so, la Terra non è mai stata colonizzata da altri mondi» disse Rivera, grattandosi il capo. «Evidentemente quella donna veniva da un altro Universo, uno di quelli sconosciuti alla Flotta. Prepariamoci ad altri incontri del genere».
 
   Rivera consumò una mezza razione e bevve un sorso d’acqua, dopo di che riprese la marcia assieme a Naskeel. Procedevano in silenzio, perché il Tholiano non era loquace e l’Umano aveva difficoltà ad attaccare bottone con lui. Del resto era fin troppo preoccupato per aver voglia di parlare, e con quel caldo preferiva tenere la bocca chiusa, per risparmiare umidità.
   Al calar del sole, il Capitano decise che era ora di fermarsi. «Basta così, sostiamo per la notte» disse. «Cerchiamo un posto riparato, nel caso di visite indesiderate». Si accorse che l’aria aveva già preso a rinfrescare. Al momento questo gli era di sollievo, ma... quanto raffreddava durante la notte? Ricordò che Talyn, analizzando il pianeta, aveva parlato di temperature sottozero nell’emisfero notturno, senza dare una cifra esatta. Lui aveva una coperta termica nello zainetto, ma sarebbe bastata? In alternativa poteva addossarsi a Naskeel, che era una stufa ambulante, ma chissà perché l’idea non lo attraeva.
   «Qui sembra adatto» disse il Tholiano, indicando un anfratto fra le rocce, che li avrebbe protetti su tre lati. Il fondo era una pietraia sassosa.
   «Uh, povera la mia schiena» borbottò l’Umano. Si levò lo zaino, s’inginocchiò e cercò di predisporre il giaciglio, levando i sassi più grossi e puntuti. Alzando una pietra piatta, vi trovò al di sotto un grosso insetto, simile a uno scarafaggio dalla lucida corazza nera. Era il primo animale che trovava su Arena, ma era nativo del pianeta o importato assieme a navi ed equipaggi? «Oh guarda, un bacherozzo» commentò distrattamente.
   «Bacherozzo?» chiese Naskeel.
   «Sì, un insetto, un artropode zampettante» spiegò Rivera, e lo spazzò via con una manata. Ripensandoci, sperò che il Tholiano non si sentisse parte della definizione. «Uff... dopo questa giornata, dormirò otto ore buone. Tu che fai, dormi?».
   «Io mi incisto» rispose Naskeel, e si ripiegò fino a diventare simile a un macigno. Non fosse stato per il colore arancione, e per alcuni dettagli del corpo articolato, si sarebbe confuso tra i pietroni.
   «Buenas noches, allora» fece il Capitano. Mangiò un’altra mezza razione e bevve un sorso d’acqua, ristorando la gola riarsa. Infine si avvolse nella coperta termica, le cui chiusure la rendevano a tutti gli effetti un sacco a pelo, e cercò di prendere sonno. Ma per quanto fosse stanco, c’era ancora troppa luce per addormentarsi. Sperò che Naskeel non russasse... ma no, era un pensiero assurdo...
   «Capitano» fece l’Ufficiale Tattico.
   «Uh? Che c’è?» farfugliò Rivera, già mezzo addormentato.
   «Capitano, c’è un bacherozzo» disse Naskeel.
   L’Umano si chiese se stava sognando. «E tu schiaccialo» consigliò, tenendo gli occhi ostinatamente chiusi.
   «Impossibile, Capitano. È più grosso di me... e sembra considerarla commestibile» spiegò il Tholiano.
   A quelle parole Rivera aprì gli occhi e si alzò a sedere, pregando che fosse uno scherzo di cattivo gusto. Ma Naskeel non scherzava mai.
   Davanti a loro c’era l’essere più mostruoso che il Capitano avesse mai visto. Era un enorme aracnide alieno, alto tre metri e lungo almeno cinque. Aveva una forma scheletrica, tutta spigoli e aculei, rivestita da una corazza chitinosa nera e gialla. Si muoveva principalmente su quattro arti, lunghi e sottili. Dal cefalotorace ne protendevano altri due più corti, ripiegati come quelli di una mantide. Tutti erano affilati come rasoi e potevano essere usati ora per trafiggere, ora per smembrare con un’ampia falciata. Sulle prime la creatura si limitò a saggiare l’estremità del sacco a pelo, come per stabilire se l’occupante era vivo. Appena lo vide muoversi si avventò su di lui, con un verso a metà fra ruggito e ticchettio, cercando d’impalarlo al suolo.
   «Boia d’un mondo!». Rivera si rotolò di lato, sfuggendo al colpo. Aprì il lato del sacco a pelo e ne rotolò fuori, già col phaser in pugno. Il mostro era su di lui, pronto a colpire, così l’Umano aprì il fuoco, facendogli saltare via una zampa. L’attimo dopo anche Naskeel sparò, tranciandone un’altra. L’aracnide si rovesciò su un fianco, dibattendosi freneticamente. Al tempo stesso emise un prolungato fischio spaccatimpani, forse un richiamo per i suoi simili.
   Il Capitano balzò in piedi e indietreggiò, ponendosi accanto all’Ufficiale Tattico. «Grazie per l’avvertimento, eh!» commentò.
   «Prego» fece Naskeel, senza cogliere l’ironia.
   Sotto i loro occhi, l’aracnide riuscì sorprendentemente a rialzarsi e tornò all’attacco. Dovettero colpirlo al cefalotorace, coi raggi a piena potenza, per ucciderlo. Allora la creatura esplose, schizzando ovunque un disgustoso sangue verde e colloso. Rivera ne ebbe uno schizzo dritto in faccia. «Frell, che schifo!» imprecò, cercando di pulirsi.
   «Fossi in lei aspetterei a gettare quel fluido» disse Naskeel, che aveva impugnato il tricorder e lo stava analizzando. «È per il 90% acqua, con l’aggiunta di proteine e zuccheri. Altamente energetico. Le consiglio di nutrirsene».
   «Io non leccherò mai questa merdaccia verde!» protestò il Capitano, con lo stomaco scombussolato. «Piuttosto leviamoci di torno, prima che arrivino altre bestiacce. Quel richiamo di prima non m’è piaciuto per niente».
   Aveva appena parlato che apparve un secondo aracnide, ancora più grosso del primo. Caricò Naskeel così rapidamente che stavolta questi non fece in tempo a sparare. E lo colpì con uno degli arti anteriori simili a falci. Un essere umano sarebbe stato tagliato in due, ma il Tholiano resistette al colpo. Tuttavia fu scagliato contro una parete rocciosa e da lì cadde a terra. Prima che potesse rialzarsi, una frana lo seppellì.
   «Oh, no» pensò Rivera, trovandosi solo contro quella furia di un altro mondo. Fino ad allora non si era reso conto di quanto la presenza di Naskeel gli desse sicurezza. Vedendo che l’aracnide gli si volgeva contro, l’Umano sparò, facendogli saltare via una zampa. Il mostro caricò, a malapena rallentato, e Rivera comprese che non poteva fermarlo in tempo. Quelle falci protese lo avrebbero fatto a pezzi.
   Fu allora che un militare con equipaggiamento pesante si unì allo scontro. Aveva una corazza grigia, con tanto d’elmetto. Impugnava un immenso mitragliatore, con cui crivellò l’aracnide, avendo cura di colpirlo in certi punti. I proiettili erano meno potenti di un raggio phaser, ma la loro quantità smodata fece a pezzi la creatura, riducendola a un ammasso sanguinolento. «Muori, bestiaccia! MUORI!» gridò il militare, lasciando che il sangue verde gl’imbrattasse il volto. Solo quando fu certo che la creatura era morta smise di sparare, e anche allora si tenne a distanza. «Tutto bene, cittadino?!» chiese, rivolgendosi a Rivera.
   «Sì, ti ringrazio» fece questi, vagamente divertito dal fatto che entrambi fossero coperti dal disgustoso sangue verde. «Comunque sono il Capitano Rivera, della Destiny» si presentò.
   «Scusi, signore» fece l’altro, mettendosi sull’attenti. «Sono il Tenente Rico, dei Leoni della Fanteria Mobile» disse, facendo il saluto militare.
   Rivera lo imitò, per cercare di accattivarselo. Ora che gli era più vicino, notò che il Tenente era molto giovane: poteva avere l’età di Talyn. Il suo sguardo, però, era indurito dalla guerra e dai lutti.
   «Allora Capitano, può contattare la sua nave, o almeno un mezzo da sbarco?» chiese Rico.
   «Ci ho provato, ma... qualcuno ostacola le trasmissioni» spiegò Rivera, incerto se parlargli degli Undine. «Sono naufragato con una navicella, che purtroppo è irrecuperabile. Stavo cercando di raggiungere le montagne, per trovare acqua e riparo» aggiunse.
   «Sì, anche a me è capitato lo stesso» disse Rico. «È meglio se restiamo assieme, Capitano. Questo è un pianeta brutto, un pianeta pieno d’insetti!» disse, e sputò sulla carcassa dell’aracnide.
   «Sembra che lei li conosca bene, Tenente» commentò Rivera, sperando di farsi dire di più.
   «Certo. Sono un veterano dell’assalto a Klendathu e della bonifica del pianeta P» confermò Rico. «Ero lì quando catturammo il primo Brain Bug. A proposito, signore, posso darle un consiglio?».
   «Naturalmente».
   «La prossima volta, non perda tempo a staccargli le zampe. Un Warrior Bug come questo può perdere una zampa e conservare l’85% delle capacità offensive. Se vuole spacciarlo in fretta, gli colpisca i centri nervosi» suggerì, indicando una zona del cefalotorace, quella che lui aveva crivellato di proiettili.
   «Lo terrò a mente» promise Rivera. «Allora, lei è qui per...?» chiese, sperando di capire com’era arrivato.
   «Per fare la mia parte, signore!» disse Rico, nel suo tono militaresco, fraintendendo la domanda. «Sa, sono di Buenos Aires» aggiunse.
   «Che combinazione! Lo sono anch’io» disse Rivera. Era lieto d’incontrare un compatriota, anche se era quasi certo che venisse da un Universo parallelo.
   «Condoglianze, signore. Ha perso molti cari?» chiese il Tenente, adombrandosi.
   «Perché condoglianze? Chi dovrei aver perso?!» si stupì il Capitano, ma si pentì subito d’averlo chiesto.
   «Beh, ma... l’asteroide, naturalmente!» fece Rico, ancora più sorpreso. «Quei dannati Aracnidi ce l’hanno lanciato da Klendathu. Io ho perso i miei genitori... da allora non faccio che combattere» disse corrucciato.
   «Ah, certo. Condoglianze, Tenente. Anch’io ho perso i miei» disse Rivera, correndo ai ripari. Non rivelò che erano morti in tutt’altre circostanze. «Frell! La prima volta che trovo un compatriota... scopro che da dove viene lui la nostra città è distrutta!».
   «Posso parlare liberamente, Capitano? Lei ha uno strano accento, una strana uniforme, e sembra ignorare molte cose sulla Guerra» disse Rico, squadrandolo con sospetto. «Ha detto la verità? È davvero al servizio della Federazione?» inquisì. La sua mano destra si accostò al grilletto del mitra, un gesto che non sfuggì all’altro.
   «Certo, Tenente! Osa dubitare della mia parola? Sono nato a Buenos Aires, ho fatto l’Accademia, e ora sono Capitano di vascello, al servizio della Federazione Unita dei Pianeti!» proclamò Rivera, mentendo solo sul terzo punto. In realtà era al servizio di se stesso, ma erano quisquilie.
   «Come sarebbe, Federazione Unita dei Pianeti?! Io parlo della Federazione Terrestre! Quella grazie a cui gli Umani, non gli Aracnidi, saranno i padroni della Galassia!» proclamò il Tenente.
   Rivera capì di aver fatto un passo falso. Stava ancora cercando d’inquadrare quel Rico. Gli sembrava un ragazzone volenteroso, e gli era grato per averlo salvato dall’Aracnide. Ma qualcosa gli puzzava nel suo atteggiamento, in quel militarismo esasperato. Se non era fascista, ci andava maledettamente vicino. Capì che doveva stare molto attento, perché bastava un nonnulla a farlo scattare con la stessa furia assassina che aveva riversato sull’Aracnide.
   «La Federazione Terrestre, già... io che ho detto? Ci serve spazio vitale, quindi... prima gli Umani!» ridacchiò il Capitano, cercando di sdrammatizzare. Ma si accorse che l’altro lo guardava con crescente sospetto.
 
   In quella si udì rumore di rocce che venivano smosse. Allora Rivera si ricordò di Naskeel, che era stato sepolto dal crollo, prima che Rico entrasse in scena. Vedendo che il cumulo di pietre era smosso da sotto, gli si avvicinò, per aiutarlo a emergere. Quasi certamente il Tholiano era illeso, in virtù del suo corpo cristallino... ma come avrebbe reagito il Leone della Fanteria Mobile al suo apparire?
   «E quello cos’è? Stia indietro, può essere un altro Aracnide!» avvertì Rico.
   «No, questo è il mio Tenente. È stato sepolto dalla frana, ma sono certo che sta bene» fece Rivera, cominciando a disseppellirlo.
   «Scherza? Avrà le ossa ridotte a segatura!».
   «Niente ossa. Vede, il mio Tenente non è propriamente... Umano» disse il Capitano, cercando di prepararlo allo shock. Decise di passare a un tono più familiare. «Figliolo, da quando sei su questo mondo avrai visto molte cose inspiegabili. Relitti di vascelli sconosciuti, specie aliene mai viste prima. Devi capire che non tutti qui veniamo dalla tua Federazione. C’è ben altro, là fuori. Così tante specie che non ne hai un’idea. Alcune purtroppo sono ostili. Con altre, per fortuna, si può ragionare. E così può capitare che un Umano come me abbia nel proprio equipaggio un Tholiano, come lui».
   Così dicendo Rivera scalzò un ultimo pietrone, permettendo a Naskeel di levarsi sulle sei zampe, scuotendosi per liberarsi dai detriti più fini. Per il Capitano l’aspetto del Tholiano era una vista abituale, tanto che non ci faceva più caso. Ma per il Tenente doveva sembrare un demone che emergeva dall’Inferno.
   «Che diavolo è quella cosa?! Dovrei credere che lavorate assieme?!» esclamò Rico, imbracciando di nuovo il mitragliatore. Una sventagliata non avrebbe ferito Naskeel, protetto dallo scudo e dal corpo cristallino; ma avrebbe certamente ucciso Rivera.
   «Sei fortunato che lavoriamo assieme, o non sarei così paziente» ammonì Naskeel, imbracciando a sua volta il fucile polaronico. «Ora deponi quell’arma, piccolo bipede».
   «Te lo scordi! Cribbio, ma quante zampe hai?! Due, quattro... sei. Troppo simile a un insetto per i miei gusti!» fece Rico, mirando al petto del Tholiano.
   «Insomma, datevi una calmata! È assurdo scannarci tra noi! Piuttosto cerchiamo di collaborare per andarcene da qui!» gridò Rivera, ma nessuno lo ascoltò. Non gli rimase che levarsi dalla linea di tiro.
   «Sei una creatura primitiva, con armi primitive e intelletto primitivo. Arrenditi o sarai distrutto» minacciò Naskeel, rivolto al Tenente.
   «I Leoni della Fanteria Mobile non si arrendono agli insetti!» ringhiò questi. «Sono Johnny Rico, di Buenos Aires, e dico: sterminiamoli tutti!». Sparò alcuni colpi, che rimbalzarono sul petto del Tholiano. L’attimo dopo l’alieno fece fuoco, colpendolo in pieno. Rico cadde a terra inanimato, il mitragliatore ancora stretto in pugno.
   «L’hai accoppato?!» esclamò Rivera, correndo al suo capezzale.
   «Negativo, è solo stordito» lo rassicurò Naskeel. «La sua corazza lascia scoperto il collo, una debolezza che mi ha permesso di sopraffarlo. Come vuole che ne disponga?».
   «In nessun modo, ora ce ne andiamo» disse il Capitano. Si assicurò che l’altro Umano avesse ancora respiro e battito cardiaco. «Spero solo che nel frattempo non arrivino altri di quei mostri. Uhm, ripensandoci, forse dovremmo fare la guardia. Dopo averlo disarmato, s’intende».
   «Si preoccupa della sua salute? Lui ci avrebbe uccisi» notò Naskeel.
   «Era confuso e spaventato. E pochi minuti fa mi ha salvato la vita. Non me la sento di abbandonarlo qui, a fare da cibo agli Aracnidi» si giustificò Rivera.
   A quel punto il Tholiano si erse in tutta la sua statura e fronteggiò il Capitano. «Prima di proseguire, dobbiamo risolvere alcune cose» disse.
   «Sempre pronto» fece Rivera. Intuì che stava arrivando il momento critico, quello che aveva atteso per tre anni: il momento in cui Naskeel lo avrebbe apertamente contestato. Poteva finire malissimo, specialmente ora che erano isolati dalla Destiny.
   «In primo luogo, mi dica cosa sta cercando di fare. Questi non sono forse ostacoli che dobbiamo rimuovere?» chiese il Tholiano, accennando sia ai resti degli Aracnidi che al Tenente svenuto.
   «Gli Aracnidi sì, ma... gli Umani no» puntualizzò Rivera.
   «Perché? Forse perché lei è Umano? Eppure credo che un Brain Bug sia più intelligente di questo primate» disse Naskeel, sempre alludendo a Rico.
   Messo di fronte all’evidenza, il Capitano cercò di prenderla da un’altra angolazione. «Provaci tu a trattare con gli Aracnidi! Io stavo riuscendo a trattare con quest’uomo, prima che giocaste al Far West. Lo capisci che non possiamo sparare a vista a tutti quelli che incontriamo?! Prima o poi dovremo farci degli alleati, o non dureremo a lungo su Arena».
   «È questo il suo piano? Prendere contatto coi killer più spietati del Multiverso e farceli amici? Lei è un ingenuo idealista, Capitano. Come lo è stato a guidarci nell’Harvester, condannando una squadra per salvare un solo individuo» accusò il Tholiano.
   «Allora è questo il problema. Ce l’hai con me per la missione di salvataggio» comprese Rivera.
   «Quella missione era illogica, come le ho detto prima di partire, ma lei mi ha ignorato. Alla mia argomentazione razionale sul bene dei molti ha risposto con un appello sentimentale allo spirito di squadra. E qual è il risultato? Abbiamo perso altri compagni, caduti in azione, e siamo condannati a morire qui, senza per questo aver salvato Talyn. Il suo stile di comando s’è rivelato fallimentare, Capitano» incalzò Naskeel, con gli occhi più ardenti del solito. Si stava davvero scaldando per la collera?!
   «Adesso sta rasentando l’insubordinazione, Tenente» fece Rivera, pensando a una risposta che suonasse convincente. Ma non ne ebbe il tempo.
   «Non rasentando, “signore”. La sto realizzando in pieno» disse il Tholiano, sfrigolante. Il suo braccio cristallino si tese fulmineo: afferrò l’Umano per la gola e lo sollevò da terra. Con l’altra mano gli strappò il phaser, prima che potesse usarlo, e lo gettò lontano.
   Sollevato per il collo, il Capitano boccheggiò e afferrò le dita dell’aggressore, ma non poteva liberarsi da quella stretta salda come la roccia. Poté solo cercare di reggersi al suo braccio, per non restare impiccato. Ma non era solo questione di pendere per il collo: l’alieno infatti prese a serrare la stretta. Il viso di Rivera si congestionò, gli occhi si fecero vitrei. Cercò di parlare, ma dalla sua bocca uscirono solo rantoli smozzicati e schizzi di saliva.
   «Sa, Capitano, non ho scordato le modalità del mio reclutamento» gracchiò Naskeel. «Tre anni fa abbordai la Destiny alla deriva con la mia squadra, per reclamarla in nome dell’Annessione Tholiana. Lei e la sua banda di ricercati ci accoglieste coi phaser. Uccideste i miei soldati e mi catturaste, minacciando di uccidermi se non vi avessi obbedito. E io l’ho fatto, perché ormai eravamo dispersi nel Multiverso e non vedevo alternativa. Aiutarvi era necessario per massimizzare le mie probabilità di sopravvivenza.
   Per tre anni sono stato ai suoi ordini, ho combattuto per lei, l’ho salvata ogni volta che s’è messo nei guai. Ho usato la mia logica e le mie abilità per salvarvi tutti, più volte di quante meritaste. L’ho fatto nella remota speranza che infine saremmo tornati nel nostro Universo, e che lei mi avrebbe consentito di tornare a Tholia. Ora però le circostanze sono cambiate. Ormai è chiaro che moriremo qui, perciò posso dirle finalmente cosa penso di lei. E sa cosa penso? Che lei sia un fallito, un piccolo fuorilegge che si atteggia a Capitano solo perché il caso gli ha procurato una grande astronave. Ma non la meritava allora, e non la merita nemmeno adesso». La sua presa si serrò ulteriormente, in procinto di spezzargli il collo.
   Ridotto allo stremo, Rivera annaspò in avanti, riuscendo a toccare il cinturone di Naskeel. Afferrò il generatore del campo di forza e lo strappò dal suo alloggiamento. Subito il campo si disattivò, esponendo il Tholiano ai 30º C scarsi della sera. L’effetto fu immediato e devastante. Il suo corpo cristallino cominciò a scurirsi e a irrigidirsi per il freddo. Le forze lo abbandonarono, tanto che perse la presa su Rivera, lasciandolo cadere al suolo. Anche le zampe gli cedettero, così che l’alieno si accasciò a terra e si rattrappì, mentre dal suo becco aquilino usciva uno stridio di sofferenza.
   Caduto a terra, il Capitano boccheggiò, sputacchiando saliva mista a sangue. Stavolta c’era mancato davvero poco. E non era ancora finita, perché Naskeel si tendeva verso di lui, cercando di riafferrare il generatore di campo. L’Umano dovette rotolarsi a terra e poi arrancare sulle braccia, per mettere più distanza possibile tra loro. Intanto faceva grossi respiri, per ridare ossigeno al suo corpo provato. Il sangue gli pulsava nelle orecchie e il collo illividito gli doleva ancora.
   Sentendo tornare le forze, Rivera recuperò il phaser e si rimise in piedi, barcollando un poco prima di riacquistare stabilità. Il suo respiro era ancora ansante e gli occhi gli lacrimavano, tanto che dovette asciugarseli col braccio. Ma era vittorioso: aveva il phaser in una mano e il generatore nell’altra.
   Davanti a lui, Naskeel era in condizioni pietose. Il Tholiano arrancava al suolo, stridendo sempre più debolmente, mentre sottili crepe si ramificavano sul suo esoscheletro. Ancora un po’ e sarebbe andato in pezzi.
   «Ma guardalo, l’eroe dell’Annessione Tholiana! Non serve poi molto a sconfiggerti» commentò il Capitano, interrompendosi per tossire. «Rivuoi il generatore, prima di diventare ghiaia?».
   «Sì... la prego...» stridette Naskeel.
   «Allora giura sul tuo onore, sul tuo popolo, su tutto ciò che conta per te, che non mi attaccherai mai più. Non mi farai del male né direttamente, né in modo indiretto».
   «Lo giuro».
   «Giura che non colpirai il mio equipaggio e non saboterai la mia nave».
   «Lo giuro».
   «Giura che non comprometterai i nostri interessi e le nostre missioni».
   «Giuro anche questo... ora la prego...» fece il Tholiano. Le crepe sul suo esoscheletro erano sempre più ampie e ramificate; mancava poco alla frantumazione.
   «Su, prendi!» sbottò Rivera, gettandogli il congegno.
   Naskeel lo afferrò al volo e si affrettò a reinserirlo nell’alloggiamento del cinturone. Il campo di forza sfrigolò attorno a lui, riattivandosi. Subito il suo corpo cristallino riprese la naturale tinta arancione, sebbene per guarire le crepe sarebbero occorsi giorni. Il Tholiano si rialzò, ancora un po’ tremante, e si trovò di fronte l’Umano col phaser spianato.
   «Non così in fretta, gringo. Prima dobbiamo chiarire due cosette» disse il Capitano, tenendolo sotto tiro. «Primo: neanche a me ha fatto particolarmente piacere averti a bordo. Ci hai attaccati con la tua squadra sebbene avessimo trovato la Destiny per primi, e se foste stati voi a prevalere, non credo proprio che mi avreste risparmiato. Di certo non mi avreste dato un incarico sulla nave. Potevo giustiziarti, o abbandonarti su un pianeta, o chiuderti in cella per il resto del viaggio. Invece mi sono fidato al punto da nominarti capo della Sicurezza, affidandoti le nostre vite. Ce l’ho messa tutta per farti sentire parte dell’equipaggio, anche se spesso i tuoi modi spocchiosi mi facevano venir voglia di buttarti nello spazio. E la cosa peggiore è che dopo tre anni m’ero quasi convinto che significassimo qualcosa per te. Ma grazie alla tua piccola scenata di poco fa, non ripeterò l’errore.
   Secondo: a te potrà sembrare che finora il nostro viaggio sia un fallimento, dato che non siamo ancora tornati a casa. Io invece lo considero un successo. Prima abbiamo distrutto la biosfera, ostacolando i piani degli Undine. Poi abbiamo esplorato il Multiverso, riuscendo pure a farci qualche alleato. Infine, nello Specchio, abbiamo salvato la Terra dall’annientamento e abbiamo guidato i ribelli alla vittoria, restituendo la democrazia all’intera Confederazione. A conti fatti, sono imprese notevoli. E bada che niente di tutto questo si sarebbe verificato, se non ci fossimo smarriti! Ora dobbiamo solo sforzarci di tornare sulla Destiny e finalmente potremo tornare a casa».
   «A casa, già» fece Naskeel, in tono insolitamente sarcastico. «Poniamo di riuscire davvero a tornare nel nostro Universo. A quel punto ci divideremo. Lei e il grosso dell’equipaggio cercherete di ottenere l’amnistia dalla Federazione. Irvik tornerà dai Voth, nel Quadrante Delta. E anch’io vorrei tornare dalla mia gente, su Tholia. Ma lei me lo lascerà fare? O penserà che non sia saggio lasciar andare un Tholiano esperto d’armamenti federali? Dica la verità, Capitano: ha mai pensato d’eliminarmi, per proteggere la Federazione?» chiese.
   Questo fu un colpo basso per Rivera, che in quegli anni ci aveva pensato eccome. Si era persino accordato con Losira e altri ufficiali, per eliminare Naskeel non appena fossero tornati alla Federazione.
   «Bene, siamo arrivati al nocciolo del problema» sospirò il Capitano. «Non negherò di averci riflettuto. Ammetto che mi spaventa l’idea di lasciarti andare con tutte le conoscenze tattiche sul nostro conto. Se la tua gente ne facesse cattivo uso, le conseguenze sarebbero catastrofiche. Ma dopo tutto quel che hai fatto per noi, avevo deciso di lasciarti andare. Diamine, sono ancora deciso a lasciarti andare, se arriveremo a quel punto».
   «È disposto a giurarlo? Come io ho giurato di non attentare più a lei?» chiese il Tholiano.
   Rivera non avrebbe voluto prendere un impegno su una questione tanto cruciale. Ma comprese che era arrivato il momento di decidere. Del resto come poteva pretendere che Naskeel gli fosse leale e gli obbedisse, se l’unica ricompensa alla fine sarebbe stata la morte?
   «Sì, giuro che quando torneremo alla Federazione ti lascerò tornare dal tuo popolo» disse l’Umano. Queste parole ebbero un effetto inaspettatamente liberatorio su di lui. Di colpo si sentì come se un fardello, portato per tre anni, gli venisse tolto. Riuscì persino a pensare con più chiarezza al futuro.
   «Voglio crederle, Capitano» disse Naskeel. «Ma capirò se non vorrà più affidarmi un’arma, dopo quel che è accaduto».
   Ecco un’altra decisione cruciale, si disse Rivera. «Se fossimo sulla Destiny, non lo farei» ammise. «Ma sfortuna vuole che siamo bloccati in un’arena mortale. Non posso guardarmi sempre le spalle, men che meno guardarle anche a te. E viceversa. Dobbiamo affidarci l’uno all’altro per sopravvivere. Sei un essere pragmatico, dovresti capirlo. Quindi tieni» disse, calciando il fucile polaronico in direzione di Naskeel.
   Per un attimo il Tholiano restò immobile, come se non credesse ai suoi occhi. Poi si chinò lentamente, afferrò l’arma e la mise a tracolla. «Grazie» disse.
   «Non ringraziarmi. Non lo faccio per generosità o per simpatia, ma per... come dicevi... “massimizzare le mie probabilità di sopravvivenza”» ribatté il Capitano. «A me servono acqua e cibo per sopravvivere. A te servono ricariche energetiche per il campo di forza. Se restiamo uniti, può darsi che troveremo queste cose. Andiamo, adesso. È meglio non essere qui, quando l’amigo si risveglia» disse accennando a Johnny Rico. Il militare si era mosso leggermente, segno che gli effetti dello stordimento cominciavano già a svanire.
   Raccolte le loro cose, l’Umano e il Tholiano si allontanarono di buon passo. Il sole era ormai tramontato, ma nel cielo indugiava una tenue luminosità diffusa, dovuta al fatto che l’intero sistema stellare si trovava nello Spazio Fluido. Era come un eterno crepuscolo, che permetteva di camminare tra le rocce senza mettere i piedi in fallo. Con quel vantaggio, i due si allontanarono dal Leone della Fanteria Mobile prima che questi si risvegliasse.
 
   Camminarono ancora per un’ora, finché Rivera fu vinto dalla stanchezza e dovette fermarsi. «Bene, è il momento di mettere alla prova il tuo impegno. Ora dovrò dormire, quindi ti affido la mia vita» disse a Naskeel, pregando di non pentirsene. Scelto un anfratto roccioso, tornò a stendervi il sacco a pelo.
   «Si riposi, io farò la guardia» disse il Tholiano, imbracciando il fucile polaronico.
   Il Capitano ebbe il batticuore, pensando che l’alieno avrebbe avuto tutta la notte per rimuginare sull’accaduto ed eventualmente rimangiarsi la promessa. Naskeel poteva ucciderlo nel sonno, con un colpo in testa, e lui non avrebbe mai saputo d’essere stato tradito. Ma che ci poteva fare? Era un rischio che avrebbe corso ogni notte, anzi, ogni volta che gli voltava le spalle. Tanto valeva correrlo subito. Così, se fosse sopravvissuto, si sarebbe sentito più tranquillo per l’avvenire. Con quel pensiero Rivera si distese nel sacco a pelo, raggomitolandosi per conservare il calore corporeo. Era così esausto che, malgrado le gravi preoccupazioni, si addormentò quasi all’istante.
 
   Fu il sole già alto a svegliarlo, il mattino dopo. «Sono vivo» fu il suo primo pensiero. Già questa era una buona notizia. Si stiracchiò, aprì gli occhi e constatò di non essere nemmeno legato. Di bene in meglio. Naskeel era poco più avanti, col fucile a tracolla, nella stessa identica posizione in cui l’aveva visto prima d’addormentarsi, otto ore prima. Udendo il Capitano che si rialzava, si girò verso di lui. «Buongiorno» disse.
   «’giorno» sbadigliò l’Umano. «Allora, notte tranquilla?».
   «Abbastanza. Ho solo dovuto abbattere quelli» disse il Tholiano, indicando due esseri obbrobriosi poco più avanti. Somigliavano agli Aracnidi del giorno prima, ma erano più simili a enormi libellule alate. A giudicare dalle ferite, Naskeel li aveva abbattuti mentre erano in volo, facendoli sfracellare sulle rocce.
   «Li hai centrati al buio? Complimenti» fece Rivera.
   «Non era del tutto buio, e comunque la mia vista è a raggi infrarossi» puntualizzò il Tholiano.
   «Beh, grazie comunque per la vigilanza». Il Capitano pensò che doveva aver dormito come un sasso per non sentire uno scontro del genere. «Ti do solo un consiglio, per la prossima volta. Quando un Aracnide ti attacca, non cercare di mutilarlo, perché anche se gli stacchi un arto quello conserva l’85% delle capacità offensive. Piuttosto cerca di colpire i centri nervosi, proprio qui» disse, indicando un punto del cefalotorace.
   Naskeel si chinò, verificando che in quella zona c’erano davvero i gangli nervosi. «E lei come fa a saperlo?» chiese.
   «Sono il Capitano; devo sapere tutto» rispose Rivera, ridendo sotto i baffi. Tornò verso il suo giaciglio, mentre il Tholiano si scervellava per capire dove avesse tratto le informazioni.
   L’Umano consumò una razione proteica, bevve un po’ d’acqua, ripiegò la coperta e la ripose nello zaino. Prima di quando avrebbe voluto, non gli restò che pianificare la giornata.
   «Ebbene, come intende procedere?» chiese Naskeel.
   «Ricordi cos’ho detto ieri, che dobbiamo unire le forze per uscire vivi da qui? Non mi riferivo solo a noi due» spiegò il Capitano. «Su questo pianeta ci sono molti combattenti, ciascuno dei quali può fornire armi e talenti unici. Se solo riuscissimo a trovare un’intesa...».
   «Vuole formare una squadra di campioni per fuggire da Arena?».
   «Perché no? Finché rifiutano d’accordarsi, anche i più grandi guerrieri del Multiverso non sono altro che gladiatori, costretti a combattere insensatamente fra loro, a tutto vantaggio degli Undine» notò Rivera. «Dovrebbero essere contenti di far parte d’una squadra, che gli permetta di dormire sonni tranquilli e indirizzi i loro sforzi verso la fuga».
   «Può darsi» ammise il Tholiano. «Ma molti di questi guerrieri vengono da culture primitive. Non accetteranno facilmente d’aggregarsi, e anche se lo facessero, non ci saranno molto utili».
   «Certamente non convinceremo tutti» convenne l’Umano. «Ma più ne raduniamo, più indurremo altri ad aggregarsi. E quanto all’utilità, non sottovaluterei chi viene da culture meno progredite. Ciascuno offre una prospettiva unica e potrebbe vedere soluzioni che agli altri sfuggono. Conosci la storiella dei ciechi e dell’elefante?».
   «No, Capitano. Ma avendo ascoltato le sue precedenti frasi idiomatiche, mi sono informato su cos’è un elefante» rispose Naskeel.
   «Bene, questa è una fiaba terrestre che lessi da bambino. Un gruppetto di ciechi aveva sentito che uno strano animale, chiamato elefante, era stato portato in città, ma nessuno di loro conosceva la sua forma esatta. Incuriositi, decisero d’andare tutti insieme a ispezionarlo per conoscerlo al tocco. Così lo cercarono e, quando lo trovarono, provarono a capire cosa fosse. Il primo cieco, che gli aveva toccato la proboscide, disse: “Questo essere è come un grosso serpente”. A un altro, la cui mano raggiungeva l’orecchio, sembrava invece un grande ventaglio. Un’altra persona, che gli abbracciava una gamba, pensò che l’elefante somigliasse a un pilastro o a un tronco d’albero. Il cieco che gli tastò il fianco disse che l’elefante era come un muro. Un altro che gli stava toccando la coda lo descrisse come una corda. L’ultimo gli toccò la zanna e concluse che l’elefante era duro e acuminato come una lancia. Ora, dimmi un po’... chi di loro aveva ragione?».
   Il Tholiano rimuginò prima di rispondere: «Tutti e nessuno. Ciascuno di loro comprendeva approssimativamente la parte, ma ignorava il tutto».
   «Esatto! E in mancanza di un vedente che potesse descrivere il tutto, erano prigionieri della loro limitatezza individuale» confermò Rivera. «Ci sono molte versioni della storia. Alcune finiscono così, coi ciechi che bisticciano senza riuscire ad accordarsi. In altre versioni riescono a confrontare i diversi punti di vista, facendosi un’immagine approssimativa della creatura nel suo complesso.
   Il senso della storia è che io, te, tutti siamo come quei ciechi. Ciascuno è limitato, ciascuno percepisce le cose dalla propria angolazione, e quindi ciascuno comprende solo una minima parte della complessità che ci circonda. E quindi, se vogliamo farci un’idea più vicina al vero, dobbiamo accettare il contributo di tutti. Ecco perché una squadra eclettica ha più probabilità di funzionare rispetto a una omogenea. Diamine, il nostro equipaggio non è forse così?! E allora facciamo lo stesso su questo dannato pianeta. Uniamo i talenti per trovare il modo d’andarcene!».
   «Potrebbe funzionare» ammise Naskeel. «In effetti credo che anche gli Undine avvertano la propria limitatezza. Se hanno radunato tanti campioni su Arena, è proprio per osservarli e imparare da loro. Sebbene...» s’interruppe.
   «Sebbene?».
   Il Tholiano si chiese come facevano gli Undine a osservare i combattimenti in modo ravvicinato. Non sembravano aver inviato droni d’osservazione per riprendere gli scontri. Eppure in qualche modo erano consci di ciò che accadeva. D’un tratto Naskeel ricordò che gli Undine, o almeno alcuni di loro, avevano capacità mutaforma. Questo aveva enormi implicazioni... ma per il momento non volle discuterne col Capitano, già gravato dalle preoccupazioni. «Niente, signore, stavo solo ragionando» disse. «Credo che ora sia opportuno muoverci. Proseguiamo verso le montagne?».
   «Sì, proseguiamo» disse Rivera, un po’ inquietato da quella frase lasciata a metà. Non capitava mai che Naskeel s’interrompesse a quel modo. Ma c’era troppo da fare, così l’Umano accantonò il problema. Mise lo zaino in spalla e s’incamminò, affiancato dal Tholiano.
 
   Servirono altri tre giorni per raggiungere le montagne. Tre giorni di marcia sotto un sole cocente, intervallata da sporadici scontri con creature mostruose, nessuna delle quali sembrava capace di fermarsi a discutere. Per il momento gli avventurieri avevano incontrato più animali che persone. Potevano solo sperare che le cose cambiassero. Il terzo giorno dovettero interrompere la marcia. Avevano raggiunto le pendici delle montagne, che in quella zona scendevano a strapiombo, formando una parete rocciosa piena d’anfratti e forse di caverne.
   «Beh, eccoci qui» commentò il Capitano. Trasse la borraccia e bevve un sorso, accorgendosi che era quasi vuota. Presto sarebbe diventato un problema serio, anzi il più serio di tutti. «Ora cerchiamo dell’acqua. Torrenti stagionali, pozzi, cose del genere. Se ci sono caverne, dovremo esplorarle» ragionò.
   «Qualcuno potrebbe già essersi rifugiato lì dentro» notò Naskeel.
   «In effetti speravo di trovarci qualche altro naufrago» convenne Rivera.
   «Intendevo gli Aracnidi» precisò il Tholiano.
   «Uhm, speriamo di no. Comunque mi stavo chiedendo una cosa...» mormorò l’Umano, ispezionando gli anfratti rocciosi col tricorder.
   «Sì?».
   «Al nostro arrivo, i sensori della Destiny captarono migliaia di persone su questo pianeta. È lecito supporre che alcune di loro siano qui da tempo. Ma se il territorio è così desertico, come fanno gli abitanti a sopravvivere? Quegli Aracnidi, ad esempio, cosa mangiano?».
   «Un interrogativo legittimo. Lei cosa pensa?».
   «Penso che forse gli Undine li riforniscono di provviste, come animali in uno zoo. Dopotutto i gladiatori devono essere in forze per combattere. Sarebbe assurdo darsi tanta pena per allestire l’arena, e poi lasciare che tutti muoiano di stenti» ragionò il Capitano. «Forse ci sono dei depositi, qua e là, che vengono periodicamente riforniti. Depositi d’acqua, cibo... forse anche armi e munizioni, se lo scopo è costringere la gente a combattere».
   «In tal caso, può darsi che il movente degli scontri sia proprio il controllo e lo sfruttamento di questi depositi» suggerì Naskeel.
   «Sì, è probabile. Speriamo di trovarne uno anche noi» disse Rivera. Si fermò davanti all’ingresso di una galleria tortuosa. «Ci siamo, rilevo dell’acqua all’interno. Credo ci sia anche un segno vitale, molto debole... non riesco a capire se è umanoide. Frell, quel dannato Harvester continua a interferire coi sensori!» disse alzando gli occhi al cielo, dove la stazione Undine era un punto luminoso. Si promise che, se mai fosse tornato sulla Destiny, l’avrebbe disintegrato.
   «Beh, non resta che andare a controllare» concluse il Capitano, riponendo il tricorder. Indossò il Visore, regolandolo sugli infrarossi, ed entrò nella galleria col phaser in pugno. Dopo tanti scontri aveva il batticuore al pensiero di cos’altro potevano trovare su quel mondo infernale. Almeno Naskeel era dalla sua, e lo seguiva imbracciando il fucile polaronico, senza bisogno di visori per vedere nell’oscurità.
   Camminarono per un centinaio di metri lungo il percorso accidentato e leggermente in discesa. Procedevano in silenzio e col passo leggero, nel tentativo di non allertare il padrone di casa. Infine sbucarono in una vasta grotta, rischiarata da luci artificiali. Era il primo rifugio in cui s’imbattevano, dacché erano naufragati.
 
   Il Capitano si levò il Visore e avanzò adagio, guardandosi attorno con crescente stupore. Quel posto sembrava una via di mezzo fra un laboratorio e un deposito d’armi. C’era tecnologia ovunque, sotto forma di strani macchinari. Tutto era vecchio, pesante, ingombrante, polveroso e corroso dalla ruggine. C’erano luci artificiali ma anche candele, poste accanto a un leggio su cui giaceva un pesante volume rilegato, simile a un codice miniato medievale. Lungo una parete erano deposte strane armi per il combattimento ravvicinato, dall’aspetto retro-futuristico: asce, pugnali, persino un’improbabile spada-motosega. Alcune erano ancora macchiate di sangue raggrumato. E c’erano altri strumenti di guerra anacronistici come mitragliatori, lanciafiamme e maschere antigas, ammucchiati alla rinfusa.
   «Dove diavolo siamo capitati?» mormorò Rivera, guardandosi attorno disorientato. Cercò degli emblemi e ne trovò fin troppi: erano impressi sui macchinari, sulle armi, persino su veri e propri stendardi. Ce n’erano almeno due tipi. Il primo simbolo era un’aquila a due teste, una delle quali con l’occhio in evidenza, e con le ali spiegate. Il secondo era un teschio con un occhio artificiale. Questo emblema era spesso sovrimpresso ad altri: una ruota dentata, due ali spiegate, un pilastro intersecato da tre barre. Qua e là c’erano inoltre delle scritte, in uno strano latino maccheronico. Rivera riuscì a leggerne una: ADEPTUS MECHANICUS.
   A un tratto il Capitano colse un movimento con la coda dell’occhio. Si girò col phaser in pugno e si avvicinò cautamente. Una smorfia di disgusto gli apparve in volto. Davanti a lui c’era un teschio umano con un occhio artificiale rosso e maligno, che fluttuava a mezz’aria. Alla base del cranio, dove avrebbe dovuto esserci la spina dorsale, si dipanava invece un groviglio di tentacoli metallici terminanti in strumenti d’ogni genere: aghi, pinze, saldatori.
   «Vieni, servo-teschio, non infastidire gli ospiti» disse una voce rasposa. L’orrido strumento svolazzò verso il padrone che lo aveva richiamato, e che stava acquattato fra le ombre, nell’angolo più lontano e buio della grotta.
   «Chi sei? Fatti avanti!» ordinò Rivera, per quanto si sentisse accapponare la pelle.
   «Il mio nome non ha importanza. Sono un tecno-prete, servo dell’Imperium» rivelò l’essere, avanzando finché fu in piena luce. Era umanoide, più o meno, e vestiva una cappa rossa dal taglio monacale. Sotto l’ampio cappuccio, il viso era in ombra; s’intravedevano solo tre occhi meccanici verdastri. Numerosi tubicini scendevano dal mento, formando un orribile simulacro di barba. Anche le mani erano piene d’innesti cibernetici, uno per dito. Ma più agghiaccianti di tutto erano i quattro bracci meccanici articolati che gli fuoriuscivano dalla schiena, terminando in strumenti affilati.
   «E io sono il Capitano Rivera, della nave stellare Destiny» disse il Capitano, cercando di reprimere il disgusto. «Questo è Naskeel, il mio Ufficiale Tattico. Scusa la domanda, ma... sei Umano?».
   «Lo ero un tempo; ora sono ben di più» rispose il tecno-prete. «Da quando ho compreso la debolezza della mia carne, essa mi ha disgustato. Bramo la forza e la certezza del metallo. Aspiro alla purezza dello Spirito Macchina. Tu ti aggrappi alla tua carne, come se non dovesse corrompersi e tradirti. Un giorno la cruda biomassa che chiami “tempio” cederà, e mi pregherai di salvarti. Ma io sono già salvo, perché la Macchina è immortale... anche nella morte servo l’Omnissiah» proclamò, mentre la sua voce si faceva distante e ultraterrena, come se fosse già tutt’uno col suo Dio Macchina.
   «Io non sono fatto di carne, né di metallo, e non ti temo» disse però Naskeel, tenendolo sotto tiro. «Allora, da dove vieni?».
   «Da un altro luogo, un altro tempo. Ma non vi piacerebbe conoscere i dettagli. Poiché nella tetra oscurità del remoto futuro c’è solo la guerra» ammonì il tecno-prete, accennando alla collezione d’armi.
   Rivera avrebbe voluto approfondire l’argomento, ma temette che lo avrebbe condotto troppo lontano. Doveva rimanere concentrato sui problemi immediati. «Beh, non so se ultimamente hai messo il naso fuori da questo rifugio, ma anche qui c’è una lotta costante. Sai dove ci troviamo?».
   «Ahimè, sì. Da quando Cadia è stato inghiottito dall’Occhio del Terrore, gli xenos ci hanno esiliati su questo Mondo Arena, a combattere senza posa» rispose il tecno-prete, levando il lungo indice meccanico.
   «Uhm, più o meno» fece Rivera, intuendo che xenos significava genericamente “alieni”. «Dimmi, sei l’unico a vivere in questo rifugio? O ci sono anche soldati del tuo Impero?» chiese, dando un’occhiata all’uscita, nel timore d’essere preso alle spalle.
   «Con me c’erano alcuni Ultramarine del pianeta Macragge, inviati dal nobile Guilliman per combattere a Cadia» rispose il tecno-prete. «Erano votati al dovere. Anche in questo luogo d’esilio, non hanno smesso di lottare nel nome dell’Imperatore-Dio dell’Umanità. Ma ahimè, nel corso degli anni sempre meno sono tornati qui; e da mesi non vedo l’ultimo. Temo che ormai siano caduti tutti sotto le armate del Caos».
   Cadde il silenzio. Rivera rimuginava tra sé, cercando di dare un senso ai discorsi del tecno-prete. Era abbastanza chiaro che quell’essere stava interpretando tutto in base alla sua oscura dottrina; ma a parte questo era affidabile?
   «Senti, fratacchione, parliamoci chiaro. A me servono acqua e cibo. Al mio collega serve energia. Se tu sei sopravvissuto per anni, significa che hai tutte queste cose. Quindi devo chiederti di spartirle. In cambio ti proteggeremo, come facevano i tuoi marines, e cercheremo un modo per andarcene da qui» promise il Capitano.
   «Fuggire da questo regno del Caos non è impresa facile; non so di nessuno che ci sia riuscito» avvertì il tecno-prete.
   «Sì, ma io ho un’astronave che si trova in questo sistema stellare. Mi basterebbe contattarla, superando le interferenze, e verrebbe a prenderci tutti» disse Rivera. In realtà non era certo che la Destiny fosse ancora lì, ma doveva pur aggrapparsi a qualche speranza.
   «Uhm, interessante...» fece l’essere, grattandosi la barba meccanica con le dita meccaniche.
   «Nel frattempo cercheremo d’allearci con alcuni dei campioni là fuori, per far fronte comune contro le creature più mostruose. Allora, ci stai?».
   «E sia!» decise il tecno-prete. «Per l’acqua c’è un pozzo che attinge alla falda sotterranea. Le scorte di cibo appaiono una volta al mese, per volontà di coloro che ci hanno esiliati...».
   «Teletrasporto, come immaginavo. Devono rifocillare i loro gladiatori».
   «E per quanto riguarda l’energia, vedrò cosa posso fare» concluse l’essere, accennando ai suoi strani macchinari.
   «Muy bien. Passeremo qui la notte e domattina andremo in esplorazione. Se troveremo altri Aracnidi, li elimineremo» disse il Capitano, occhieggiando l’armeria.
   «Dubito che tu possa brandire le armi destinate agli Ultramarine. Loro hanno una forza superiore» avvertì il tecno-prete. «Ma negli anni abbiamo collezionato anche parecchi strumenti degli xenos. Per noi servi del Trono d’Oro sarebbe un’eresia adoperarli, ma tu sei uno straniero. Forse troverai qualcosa di utile». Guidò il Capitano attraverso un passaggio nella roccia, fino a una sala adiacente.
   Lì c’era una gran quantità di cimeli alieni che Rivera non riuscì a identificare, tra cui strani caschi di foggia animalesca: alcuni a testa di sciacallo, altri a testa di cobra. C’erano vari tipi di lance a energia, ma l’Umano le trovò pesanti e ingombranti rispetto al suo phaser, tanto che preferì tenere quello.
   «Ho notato che sei disidratato; il deserto non perdona» disse il tecno-prete. «Ecco, prova questa: è la miglior tuta da deserto che abbia trovato. È opera dei Fremen del pianeta Arrakis, detto anche... Dune». Così dicendo raccolse la tuta, con una delle sue appendici meccaniche, e la porse al Capitano.
   Rivera la prese e la rigirò tra le mani, apprezzandone la funzionalità. Era una tuta integrale di colore scuro, completa di guanti e stivali. Arrivava fino al collo e comprendeva un sondino per recuperare il vapore acqueo perso espirando dal naso. La tuta in sé era percorsa da una fitta rete di canalicoli e tasche interne, certo per recuperare l’acqua persa con la traspirazione.
   «Si chiama tuta distillante, poiché assorbe e ricicla l’acqua persa dal corpo» confermò il tecno-prete. «Essenzialmente è un tessuto a microstrati, che fa da filtro ad alta efficienza e da scambiatore di calore. Lo strato a contatto con la pelle è poroso, per consentire la traspirazione. Gli strati superiori contengono i filamenti per lo scambio del calore e i precipitatori del sale, che viene anch’esso recuperato. I movimenti del corpo e la respirazione, oltre a un effetto osmotico, forniscono l’energia di pompaggio. L’acqua recuperata circola e finisce nelle tasche di raccolta, da cui puoi succhiarla grazie a questo tubicino fissato sul collo. Se userai anche il filtro per recuperare il vapore dell’espirazione, non perderai più di un ditale d’acqua al giorno, anche in pieno deserto».
   «Efficiente» riconobbe il Capitano. In effetti era degna delle migliori tute federali da deserto.
   «Somiglia alle tute dei nostri Death Korps di Krieg, che in aggiunta hanno maschere antigas; ma qui non dovresti averne bisogno» concluse il tecno-prete. Si ritirò, lasciando che Rivera potesse cambiarsi d’abito.
   Il Capitano si affrettò a farlo, ben felice di avere finalmente una tenuta da deserto. Solo al termine dell’operazione si trovò a pensare che probabilmente il Fremen a cui apparteneva non era stato lieto di farsela sottrarre. In effetti era probabile che non l’avesse ceduta... finché era stato vivo.
 
   La mattina dopo, Rivera e Naskeel si prepararono a uscire dal rifugio. Entrambi erano in condizioni migliori di quanto fossero dacché erano naufragati. L’Umano aveva potuto bere e mangiare, aveva fatto una lunga notte di sonno e aveva una tuta che l’avrebbe protetto dalla disidratazione. Il Tholiano era riuscito, con l’aiuto del tecno-prete, a ricaricare il suo generatore del campo di forza. Entrambi avevano un rifugio, con tanto d’armeria e laboratorio degli attrezzi. Non era male per dei dispersi. In quelle condizioni potevano resistere per mesi, forse persino anni; ma speravano d’andarsene assai prima.
   «Pronto?» chiese Rivera, impugnando il phaser.
   «Pronto» confermò Naskeel, imbracciando il fucile polaronico.
   I due percorsero all’inverso il tunnel che li aveva condotti nel rifugio. Vedendo la luce proveniente da fuori, e sentendo il flusso d’aria calda, il Capitano rallentò. Giunto all’uscita, spiò cautamente all’esterno. Non c’erano segni di vita.
   «Via libera» disse Rivera. Lui e Naskeel lasciarono l’anfratto e si diedero all’esplorazione. Camminarono a lungo, cercando tracce recenti d’altri naufraghi. A un certo punto il Capitano fece ancora un tentativo di contattare la Destiny, ma senza esito. Non osò insistere, temendo di attirare gli Undine.
   Di lì a poco gli avventurieri trovarono una caverna, dall’ingresso a volta assai più ampio dell’altro. Il Capitano vi si fermò davanti, leggendo i dati sul tricorder. «Mi sa che abbiamo trovato un altro deposito. Anche qui c’è acqua, oltre a diversi segni vitali che non riesco a isolare. Potrebbe essere qualunque cosa... non resta che controllare» concluse.
   «Vado io» si offrì Naskeel. «Ci vedo meglio al buio e sono meno commestibile di lei. Mi aspetti qui». E senza attendere la conferma entrò nella galleria scura.
   Al Capitano non restò che aspettare, col phaser in pugno. Non dovette farlo a lungo. Erano passati pochi minuti quando sentì un boato risuonare nella galleria. Seguì uno scalpiccio di molti – troppi – passi. O là dentro era assiepato un piccolo esercito... o c’erano creature con troppe zampe per i suoi gusti.
   «Mi senti, Naskeel? Esci da lì!» gridò Rivera. In risposta si vide arrivare contro uno sbuffo di fuoco. Fece appena in tempo a balzare di lato per non esserne investito. Sconcertato, vide che le fiamme continuavano ad ardere sul suolo roccioso, come se bruciasse del napalm. L’Umano arretrò precipitosamente, chiedendosi che nuova diavoleria ci fosse là dentro, e che ne era stato di Naskeel. A un tratto lo vide uscire dalla galleria, del tutto illeso. Ma certo, le fiamme non potevano nuocere ai Tholiani. Qualunque cosa lo inseguisse, però, forse poteva. «Allora?!» gridò il Capitano.
   «Ritengo che abbiamo trovato la loro tana» disse Naskeel, correndo a velocità sorprendente sulle sei zampe. Dietro di lui uscirono a frotte gli Aracnidi, nella variante dei Warrior Bug. Ma c’era dell’altro, qualcosa di più grosso. Un’enorme creatura uscì all’aperto, facendo tremare il suolo. Somigliava a un coleottero dalla spessa corazza nera, con sei zampe che trascinavano l’addome; ma era più grosso di un carro armato. Si muoveva maledettamente veloce per la sua stazza.
   «È un insetto lanciafiamme. Suggerisco la ritirata» disse Naskeel, mentre un’altra fiammata lo avvolgeva. L’insetto-armato sputava liquido incendiato dalle fauci, manco fosse un drago. A quella vista Rivera cominciò a correre lungo la parete rocciosa, verso l’antro del tecno-prete, il cui ingresso era troppo piccolo per il mostro. Ogni tanto si girava, sparando contro gli Aracnidi, e in tal modo riuscì a rallentarne parecchi. L’insetto-armato però continuava ad avanzare; la sua corazza era così resistente che nemmeno il phaser la perforava.
   «Dobbiamo inventarci qualcosa!» gridò Rivera, vedendo che il mostro guadagnava terreno. Presto sarebbe stato abbastanza vicino da incenerirlo col suo getto infuocato.
   «Ci penso io, resistete!» gridò una voce femminile, proveniente dall’alto. Per un attimo Rivera pensò che fosse di nuovo Kara Thrace; ma dovette ricredersi.
   Sopra di loro, su un costone roccioso, c’era una donna dai lunghi capelli neri e la carnagione olivastra. Doveva essere una militare, a giudicare dalla sua uniforme. La sua unica arma, tuttavia, era un ridicolo bastoncino metallico, non più lungo di trenta centimetri.
   «Ehi, che vuoi fare con quel bastoncino? Lo lanci e lui te lo riporta?! Vattene, sei troppo allo scoperto!» gridò il Capitano.
   «Tsk. Guarda e impara, dilettante!» rispose la militare. Toccò un comando sul bastone e questo s’allungò, fino a raggiungere i due metri abbondanti. Adesso somigliava alle lance da battaglia che Rivera aveva visto nel rifugio. La donna però non aprì immediatamente il fuoco. Aspettò che l’insetto-armato le fosse sotto; allora spiccò un salto e atterrò sul suo addome corazzato. Il mostro non sembrò accorgersene e continuò l’inseguimento.
   La militare si piegò in avanti, per mantenere l’equilibrio su quella strana cavalcatura. Aprì il fuoco con la sua lancia a energia, colpendo ripetutamente e a distanza ravvicinata il carapace. In tal modo riuscì a perforarlo, mettendo a nudo i tessuti molli sottostanti. Allora sì che l’insetto-armato si rese conto del pericolo e prese a girare su sé stesso, cercando di disarcionare l’avversaria. Ma questa tenne duro e continuò a sparare, aprendo una piaga profonda. Allora si staccò qualcosa dalla cintura e la ficcò nella ferita, calandovi tutto il braccio per spingerla a fondo. Rivera intuì che doveva trattarsi di una granata e continuò a correre, mettendo più distanza possibile.
   Fatto questo, la donna si rialzò e venne sull’orlo del carapace. Si bilanciò come una tuffatrice olimpionica e saltò giù. Fu un salto di parecchi metri, che avrebbe spezzato le gambe alla maggior parte degli esseri umani. Lei però atterrò a ginocchia semiflesse, senza alcuna difficoltà, e si allontanò di corsa, sempre col bastone sottomano. Correva talmente veloce che in breve raggiunse gli altri fuggitivi.
   «Pronti al botto!» avvertì. L’attimo dopo la granata che aveva ficcato nelle viscere dell’insetto-armato scoppiò. L’esplosione disintegrò l’addome del coleottero, schizzando ovunque il suo sangue colloso. Questo era arancione, anziché verde, ma altrettanto disgustoso. Le fiamme dilagarono ovunque, impedendo ai Warrior Bug d’avanzare. Allora i fuggitivi rallentarono il passo.
   «Grazie dell’aiuto» disse Rivera, un po’ ansante.
   «Aspetta a ringraziarmi. Le fiamme non li tratterranno a lungo, e il mio rifugio è lontano. Tra l’altro ho appena usato la mia ultima granata. Non è che avete un nascondiglio a portata di mano?» chiese la militare. Toccò un comando sulla sua lancia, riducendola di nuovo alle dimensioni di un bastoncino.
   Il Capitano la studiò brevemente, cercando di capire se apparteneva a qualche specie da lui conosciuta. Il suo aspetto era umano, eccezion fatta per un particolare disturbante. Da ogni avambraccio le fuoriuscivano tre affilati speroni ossei, che attraversavano la manica. Rivera non aveva mai sentito di una specie umanoide con questa caratteristica. Forse veniva da un’area inesplorata della Via Lattea, ma era più probabile che fosse nativa di un Universo parallelo, come gli altri naufraghi incontrati finora. In ogni caso, decise di fidarsi; dopotutto lei lo aveva appena salvato. «Sì, il nostro rifugio è vicino. Seguimi» la invitò.
 
   In breve raggiunsero l’antro del tecno-prete. Rivera fece strada lungo la galleria e la militare lo seguì, mentre Naskeel chiudeva la fila.
   «Wow, è molto più spazioso del mio nascondiglio!» commentò la donna quando sbucarono nella grotta. Si guardò attorno con interesse, soffermandosi sulla collezione d’armi. «Pensate che io vivo nel relitto della mia navicella. Prima che me lo chiediate... sì, è un vero schifo».
   «Accomodati. Abbiamo dell’acqua, se ne hai bisogno. A proposito, non ci siamo ancora presentati» disse il Capitano. Provvide a farlo, specificando da dove venivano. Intanto Naskeel si recò nella sala adiacente, informando il tecno-prete dei loro progressi.
   «Federazione? Spiacente, non la conosco» disse la donna. «Io sono Erzsébeth Moghul, del Clan Drago-Kazov. Sono Comandante dell’Alta Guardia del Commonwealth; questa è la mia lancia d’ordinanza» spiegò, posando il bastone – d’aspetto così innocuo – su un tavolino.
   «Commonwealth? Sarebbe un’alleanza di pianeti?» s’interessò Rivera.
   «Sì, qualcosa del genere. Stesse leggi, stessa flotta, interscambio di tecnologie tra mondi e popoli diversi» spiegò sinteticamente Erzsébeth.
   «Interessante» fece il Capitano. Tra tutti gli incontri che aveva fatto su Arena, quello era il più promettente. Gli altri naufraghi appartenevano a società chiuse, che a torto o a ragione detestavano gli alieni. Quella donna invece era perfettamente a suo agio con l’idea di una società che abbracciava varie specie. Così Rivera si azzardò a proseguire la conversazione. «Ascolta, devo chiederti una cosa. Sei consapevole di dove ci troviamo in questo momento? Della natura di questo pianeta?» chiese, offrendole la borraccia.
   «A quanto ho capito, ci troviamo in una realtà parallela» annuì Erzsébeth, accettando di buon grado l’offerta. Bevve un sorso d’acqua e chiuse gli occhi, assaporando il sollievo. «Qualcuno ci ha portati qui e ci costringe a combattere per la sopravvivenza. Immagino che anche tu venga da un’altra realtà. Prima hai nominato la Federazione, di che si tratta?» chiese, restituendo la borraccia.
   «È un’alleanza di circa quattrocento mondi diversi, fondata 450 anni fa per la difesa, l’esplorazione e la condivisione scientifica» spiegò il Capitano.
   «Davvero? Il nostro Commonwealth esiste da 5.000 anni e comprende un milione di pianeti, distribuiti su tre galassie» disse Erzsébeth con nonchalance.
   Rivera restò di sasso. «Mi prendi in giro?» mormorò, fissandola sotto una nuova luce. Se aveva detto il vero, quella donna era molto più cosmopolita di lui.
   «Giuro che ho detto la verità!» fece la Comandante, mostrando il palmo della mano con un certo umorismo.
   «E la capitale è la Terra?».
   «Certo che no! La capitale è sempre stata Tarn-Vedra» spiegò Erzsébeth. Vedendo lo stupore dell’altro, si spiegò. «Millenni fa i Vedrani avevano un potente Impero, che colonizzò gran parte della Via Lattea. A forza d’espandersi, tuttavia, divennero una minoranza nel loro stesso Stato. Perciò dettero sempre più diritti alle altre popolazioni, fino alla completa eguaglianza. Così nacque il Commonwealth, una società democratica alla quale innumerevoli altri mondi aderirono per libera scelta, inclusa la Terra».
   «Quindi tu saresti umana... più o meno?» chiese il Capitano, accennando ai suoi sinistri speroni ossei. Mentre in precedenza puntavano verso l’esterno, adesso erano più radenti agli avambracci, segno che poteva sollevarli a comando.
   «Ah, li hai notati. Ti fanno paura?» chiese Erzsébeth, sfiorandoli con un sorriso agrodolce.
   «Sono solo un po’ interdetto. Allora, ti va di spiegare?» fece Rivera.
   «Volentieri. Dunque, io sono Umana... nel senso che i miei antenati erano Umani della Terra» spiegò la Comandante. «Però appartengo a un ramo dell’Umanità che ha deciso di migliorarsi con l’ingegneria genetica. Ci definiamo Nietzscheani, dal nostro ispiratore filosofico, Friedrich Nietzsche... c’era nel tuo Universo?» si affrettò a chiedere.
   «Sì, c’era. E sì, ho letto qualcosa di lui» annuì il Capitano, aggrottando lievemente la fronte. Ciò che non disse era che la sua filosofia non gli piaceva per niente, anche alla luce dei suoi legami con l’ideologia nazista.
   «Bene, allora sai di che parlo. Secoli fa un grande scienziato, Drago Museveni, decise di trasformare in realtà la visione dell’Oltreuomo, un’umanità libera da ogni vincolo etico e proiettata verso il costante progresso. Raccolto un gran numero di seguaci, potenziò geneticamente la loro stirpe. Il cambiamento fu così profondo da originare una nuova specie, l’Homo sapiens invictus. Noi siamo più forti, più veloci, più resistenti a ferite e malattie, e molto più longevi degli Umani vecchio stampo» si vantò la Nietzscheana.
   «Uhm, anche sulla mia Terra ci sono stati tentativi simili, ma sono sempre finiti male. Abbiamo avuto delle Guerre Eugenetiche per il tentativo dei Potenziati di prendere il potere, e da allora abbiamo severe limitazioni all’ingegneria genetica» rivelò il Capitano.
   «Davvero? Che peccato. Beh, noi Nietzscheani abbiamo avuto più criterio» sostenne Erzsébeth. «Ci sforziamo costantemente d’eccellere nella scienza, nell’arte, in tutte le opere dell’ingegno. Scegliamo accuratamente i nostri partner, per essere certi che ogni generazione superi la precedente. E siamo membri produttivi del Commonwealth» si vantò.
   «Finché lo troverete conveniente» commentò Rivera.
   «Come, scusa?».
   «Conosco la filosofia di Nietzsche, è molto... pragmatica. Quando qualcosa non serve più, la si butta» notò il Capitano. «Sbaglio a pensare che siete nel Commonwealth solo perché al momento vi è utile, e che se le circostanze mutassero...?» lasciò in sospeso.
   «Sì, può darsi» ammise la Nietzscheana, con una strana occhiata. «Ma è inutile discuterne, finché siamo bloccati su questo schifo di pianeta».
   «Tu hai un’idea per andartene?» chiese Rivera, per osservare la sua reazione.
   «No, purtroppo. La mia navicella è fuori uso e non ne ho trovate altre in grado di volare. A parte questo, siamo bloccati in un’altra realtà e non saprei proprio come uscirne! E tu, invece?» chiese Erzsébeth con una scintilla di speranza.
   Il Capitano decise di vuotare il sacco, contando sullo spirito pragmatico della Nietzscheana. Le rivelò di avere un’astronave che poteva prelevarli e persino riportarli nei loro Universi d’origine, se solo fossero riusciti a contattarla. Spiegò altresì la sua idea d’allearsi con alcuni dei campioni di Arena. «Potremmo condividere risorse, idee, talenti... un po’ come la Federazione o il Commonwealth, su scala ridotta» spiegò.
   «Uhm, sì, ha senso» ammise Erzsébeth. «Per la verità anch’io ho tentato qualcosa del genere, nei primi tempi, ma non avevo nulla di valore da condividere. Tu però hai un buon rifugio, e soprattutto hai un’astronave funzionante... una speranza di fuga. Potrebbe essere quell’obiettivo comune che ci permetterà di radunare un gruppo» ragionò.
   «Allora ci stai?».
   «Eccome. Qua la mano!». La Nietzscheana gli porse la destra e l’Umano gliela strinse, lieto di aver appena accolto il primo campione nella sua banda.
   «Devi ancora spiegarmi perché quegli speroni» notò Rivera.
   «Si chiamano rostri» spiegò Erzsébeth, tornando a carezzarli. «È che un Nietzscheano non deve mai essere disarmato, in nessuna circostanza. Ma non temere, Armando, non li userò su di te» aggiunse con un mezzo sorriso. «Posso chiamarti per nome?» aggiunse, temendo di aver ecceduto in familiarità.
   «Certo... Erzsébeth. Oh, ora capisco il tuo nome» fece il Capitano.
   «Già, noi Nietzscheani prendiamo nome dai grandi personaggi storici: inventori, condottieri, sovrani» confermò l’interessata. «Io appartengo al Clan Drago-Kazov, che discende da Drago Museveni in persona; ma al suo interno ci sono varie famiglie. Il mio cognome è Moghul, come i conquistatori dell’India; il mio nome è ungherese» spiegò, tacendone la precisa ispirazione.
   Rivera si chiese se non fosse in riferimento a Erzsébeth Báthory, la folle contessa del XVI secolo che faceva il bagno nel sangue delle fanciulle. D’un tratto ripensò all’amoralità della filosofia di Nietzsche e ai suoi legami col nazismo. E si rese conto che forse aveva fatto l’errore più grosso della sua vita ad accogliere quella donna nel loro rifugio. Ma che altro poteva fare? Da qualche parte doveva pur cominciare a radunare una banda. Erzsébeth gli aveva salvato la vita e poteva essere indispensabile per contattare altri campioni. Ma mentre brindavano all’alleanza, bevendo un altro sorso dalle borracce, il Capitano si promise che sarebbe stato sempre sul chi vive. La fiducia era un lusso che non poteva concedersi, finché si trovava su Arena. 
 

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Capitolo 5
*** Presagi nel deserto ***


-Capitolo 4: Presagi nel deserto
 
   Fu la luce del sole, così violenta che attraversava le sue palpebre chiuse, a svegliare Talyn. Il giovane si agitò borbottando e poi si girò su un fianco, stropicciandosi gli occhi. Infine li aprì, del tutto sveglio. Si accorse d’essere sdraiato su un suolo roccioso, coperto da un sottile strato di sabbia. Ne sputacchiò un po’ che gli era finita in bocca e se ne levò altra che gli imbrattava i capelli. Cercò d’alzarsi, ma fu impacciato dalle cinghie dello zaino, il cui paracadute era disteso al suolo. Allora l’El-Auriano si fermò un attimo. Memorie degli ultimi eventi gli attraversarono in un lampo la mente. Era stato catturato dagli Undine e liberato dai compagni, per poi naufragare su Arena. Mentre precipitavano era stato sbalzato fuori dalla navicella... era decisamente fortunato a essere sopravvissuto. Sempre che essere disperso su un pianeta desertico, senz’acqua né cibo, fosse fortuna. Sempre che essere disarmato su un pianeta di gladiatori fosse fortuna. Sempre che non avere modo di contattare gli altri per fargli sapere che era vivo fosse fortuna. Ripensandoci, forse sarebbe stato più fortunato a sfracellarsi.
   Per prima cosa Talyn si slacciò le cinghie dello zaino. Poi, con un grugnito dovuto all’indolenzimento, si alzò in piedi. Infine si guardò attorno... e vide solo il deserto roccioso. No, si corresse, non c’erano solo rocce. Qua e là c’erano anche relitti di navicelle raccolte dai quattro angoli del Multiverso. Se ne stavano ad arroventarsi sotto il sole. Forse frugandoli avrebbe trovato qualcosa di utile. Al limite gli avrebbero offerto un po’ d’ombra... anche se non osava immaginare quanto facesse caldo lì dentro. Magari se avesse trovato i resti di un’astronave più grande, vi avrebbe trovato refrigerio. E nel migliore dei casi, qualche scorta. Doveva mettersi in  marcia. Già, ma in che direzione?
   Guardandosi attorno, l’El-Auriano vide una bassa linea di montagne all’orizzonte. Doveva provare a raggiungerle, nella speranza che gli offrissero acqua e riparo. Inoltre se i compagni erano sopravvissuti al naufragio di certo si sarebbero diretti lì per gli stessi motivi. Dovevano ritrovarsi e resistere finché la Destiny fosse giunta a salvarli. «Beh, gambe in spalla» si disse il giovane. Strappò parte del paracadute, facendosi una copertura per la testa e il collo, come facevano i nomadi dei deserti. E si mise in marcia verso le alture lontane.
 
   Il sole era a picco e Talyn cominciava a soffrire la sete quando notò che si stava avvicinando a uno dei relitti. Affrettò il passo, con l’idea di riposarsi all’ombra durante le ore più calde e riprendere la marcia al crepuscolo. Quando fu vicino osservò il relitto con attenzione.
   Si trattava di una navicella lunga e stretta. Il giovane valutò che misurasse una ventina di metri in lunghezza, per cinque o sei in larghezza. A vederla sembrava molto primitiva. Non c’era traccia di gondole di curvatura, né d’altri propulsori iper-luce; solo degli antidiluviani razzi a propellente chimico. A prua vi era una piccola cabina, di forma ovoidale. Il grosso della navicella non era altro che un lungo traliccio, al quale potevano agganciarsi moduli di varia forma, in base alle necessità della missione.
   «E questa da che museo è sbucata?» si chiese Talyn. In effetti sembrava antica: la sabbia aveva eroso qualunque vernice, lasciando uno scafo graffiato e arrugginito. Poteva benissimo avere cinque, seicento anni. Passata la sorpresa, l’El-Auriano decise di salire a bordo. Si accostò alla cabina e vide un portello socchiuso, posto sul lato del traliccio, così da accedere all’eventuale modulo posteriore. Saltò sulle travi deformate e raggiunse il portello. Era così arrugginito che stentò ad aprirlo. Dopo molti sforzi, riuscì a schiuderlo quel poco che bastava per infilarsi nel varco.
   Come sospettava, anche l’interno rifletteva una tecnologia sorpassata da molti secoli. Invece di oloschermi e interfacce tattili c’erano leve, interruttori e pulsanti. Aveva visto qualcosa del genere solo nella Nave a Razzo di Capitan Proton. Quello però non era un gioco: qualcuno aveva davvero affrontato lo spazio su quel fragile vascello. E ne aveva pagato le conseguenze.
   Il pilota era ancora seduto sulla poltroncina, dov’era morto, forse già in seguito all’atterraggio d’emergenza. Il suo corpo era stato preservato dall’estrema aridità del clima, che ne aveva fatto una mummia naturale. Indossava una tuta spaziale arancione, senza il casco, che era posato a terra. Dopo una breve esitazione, Talyn si accostò per osservare la mostrina cucita sulla spalla. Mostrava la Luna terrestre, con la scritta Moonbase Alpha, Base Lunare Alfa. Il nome della navicella era impresso su una paratia: Eagle 1, Aquila 1.
   Per un folle attimo, Talyn si chiese se non poteva rimettere in funzione la navicella e usarla, se non per raggiungere la Destiny, almeno per un breve volo atmosferico fino alle montagne. Ma capì subito che era impraticabile. L’Aquila era troppo vecchia e danneggiata per volare di nuovo. Uscito dall’abitacolo, il giovane ispezionò i motori, verificando che i serbatoi si erano lesionati nell’atterraggio e il carburante era fuoriuscito. No, l’Aquila non si sarebbe più mossa.
   Non restava che seguire la prima idea. Poiché l’abitacolo era troppo surriscaldato per sostarvi a lungo, Talyn non vi rientrò. Sedette invece all’esterno, sul lato in ombra, con la schiena poggiata alla paratia. Lì attese pazientemente che il sole calasse e la temperatura si facesse sopportabile. Stanco com’era, riuscì a sonnecchiare per qualche ora.
   Venne infine il tramonto e Talyn sentì una brezza più fresca. Allora si tirò su, pronto a riprendere il viaggio. Prima d’incamminarsi tornò nell’abitacolo, per controllare se c’era qualcosa di utile. Trovò una borraccia, ovviamente vuota dopo secoli d’abbandono. La prese comunque, nella speranza di trovare acqua più avanti. Osservando il pilota, inoltre, notò che aveva un’arma a raggi agganciata in cintura.
   «Scusa, amico, ma questa serve più a me che a te» disse il giovane, estraendo l’arma. Se la rigirò tra le mani, osservandola da tutte le angolazioni per capirci qualcosa. Sembrava un phaser molto primitivo, con solo due settaggi: stordimento e uccisione. La forma era inconsueta, ricordava più che altro una maniglia. Talyn pensò che ben difficilmente quell’arma era ancora carica, ma la prese, contando sul potere di deterrenza.
   Una borraccia vuota e un phaser scarico erano un ben misero equipaggiamento, ma era tutto ciò che poteva trarre dal relitto. Tornato all’aperto, Talyn vide che il sole era ormai tramontato, ma la luce soffusa dello Spazio Fluido bastava a rischiarargli il cammino. E così riprese la sua marcia solitaria, nel silenzio del deserto.
 
   All’alba le montagne non sembravano sensibilmente più vicine. Talyn cominciò seriamente a dubitare che le avrebbe raggiunte. La sua fisiologia El-Auriana lo rendeva più resistente alla disidratazione rispetto a un Umano, ma anche lui aveva dei limiti, e li stava raggiungendo in fretta. Si sentiva la gola riarsa, le labbra screpolate. Si guardò intorno nel tentativo di distrarsi e non pensare alle sue precarie condizioni.
   Aveva raggiunto una strana regione, disseminata dai resti di giganteschi robot da combattimento. Le loro fogge erano più o meno umanoidi, con gli ingranaggi a vista. Alcuni dovevano essere stati piuttosto colorati, ma anche qui la sabbia aveva raschiato quasi tutta la vernice. I robottoni sembravano fatti in modo da potersi ripiegare e cambiar forma, trasformandosi in qualcos’altro. Forse in veicoli, a giudicare da certi componenti, come ruote o cingoli. Chissà cosa li aveva distrutti: si erano combattuti fra loro o era stato qualcos’altro? Aveva importanza, su un pianeta che era un’immensa arena?
   A un tratto, fra i cumuli di rottami, Talyn intravide un muretto circolare, fatto con pietre sgrossate. Sembrava quasi... un pozzo! Sopra di esso c’erano persino le travi, due di sostegno e una orizzontale, per consentire di calarvi un secchio. Il giovane si sfregò gli occhi: stava forse sognando? Tornò a guardare: il pozzo era ancora lì, più invitante che mai.
   «Calmo... forse è secco» si disse Talyn, preparandosi al peggio. Ma naturalmente doveva appurarlo prima di proseguire. Si guardò attorno, cercando di capire se era una trappola, ma non vide nessuno appostato. C’erano solo i robottoni fracassati, dagli occhi spenti. Allora il giovane si avvicinò al pozzo, con la pistola a raggi in mano. Vi guardò giù, senza vederne il fondo, che era in ombra per via del sole basso e radente. Ma avvertì una corrente d’aria fresca e leggermente umida. Subito prese a girare la manovella, per richiamare la corda e con essa il secchio. Scoprì con disappunto che non c’era alcun secchio: forse si era staccato, perdendosi in fondo al pozzo. La corda però era umida, segno che c’era davvero dell’acqua laggiù. Talyn se la passò sulla fronte sudata e già così avvertì un gran beneficio. Poi estrasse la borraccia che aveva rinvenuto nell’Aquila, vi legò attorno la corda e la calò, usandola come secchio improvvisato.
   Quando la tirò su, la borraccia gocciolava d’acqua preziosa. L’El-Auriano la prese e bevve a piccoli sorsi, inumidendosi prima le labbra e il palato. Un sorsetto alla volta, la svuotò. Allora tornò a calarla, ripetendo più volte l’operazione, fino a sentirsi ristorato. A quel punto sedette con la schiena contro il muretto del pozzo, guardandosi attorno. Dopo aver marciato per tutta la notte, si sentiva stanco. Forse gli conveniva riposare all’ombra, come aveva fatto il giorno prima, e continuare a quel modo fino alle montagne. Almeno lì l’ombra non mancava, con tutti quei robottoni fracassati.
   «Chissà che è successo, per ridurli così» mormorò Talyn fra sé, sperando che al momento non ci fosse pericolo.
   «Un’antica battaglia fra gli Autobot e i Decepticons del pianeta Cybertron» rispose una voce sconosciuta alle sue spalle. «Ma non temere, è acqua passata. Nessuno di questi rottami può nuocerci».
   A quelle parole Talyn balzò in piedi, col cuore martellante e la vecchia pistola a raggi in pugno. Non si era reso conto d’essere in compagnia... il suo sesto senso aveva fatto cilecca. Beh, chiunque si fosse trovato davanti, lui era pronto a vendere cara la pelle! «Chi sei? Fatti vedere!» intimò il giovane, aggirando rapidamente il pozzo.
   «Eccomi... non che sia chissà che» rispose lo sconosciuto, con un sorriso sornione. Era un uomo d’età indefinibile, con lunghi capelli neri e una barbetta incolta. Il viso era lungo e stretto; sulla carnagione abbronzata spiccavano gli occhi chiari e penetranti. La sua tenuta da deserto era grigia e logora, gli stivali impolverati. Se ne stava stravaccato con la schiena contro il muretto, simile a un mucchio di vecchi stracci. Guardò Talyn di sotto in su, senza mostrare timore per la sua arma. «Oh, da quanto non vedevo una di quelle! Ma sarebbe più efficace se fosse carica, giovanotto» commentò.
   L’El-Auriano sparò in terra, giusto per accertarsi che fosse vero. Effettivamente non accadde nulla. «Siamo in un mondo pericoloso. Fingersi armati è sempre meglio che mostrare di non esserlo. Sai, non tutti sono perspicaci come te» disse. Quello straniero non gli sembrava minaccioso, ma il giovane aveva imparato a non fidarsi delle apparenze. Dopotutto gli Undine avevano radunato su quel pianeta gli esseri più tremendi del Multiverso. Chissà cosa si nascondeva, sotto quelle sembianze innocue.
   «È vero, siamo in un mondo pericoloso» convenne lo sconosciuto. «Pochi ne sono mai usciti vivi; nessuno immutato. Chi ha creato tutto questo fa buona guardia» disse accennando all’Harvester, visibile come una funesta stella del mattino.
   «Conosci gli Undine? Pensi che ci stiano osservando anche adesso?» chiese Talyn, sospettoso.
   «Gli architetti di questo luogo vedono molte cose, ma non sono onnipresenti» rispose l’uomo, enigmatico. I suoi occhi vividi tornarono a posarsi su Talyn. «Ho sete. Mi daresti dell’acqua?» chiese, ancora sdraiato al suolo.
   «Va proprio male, eh?» fece il giovane, un po’ beffardo.
   «Come?».
   «A vederti sei qui da molto più tempo di me, quindi dovresti sapere quant’è profondo il pozzo. Però non hai nulla per attingervi. Devi chiedere a me, che sono appena naufragato» notò l’El-Auriano.
   «Hai ragione, avrei dovuto dire: mi daresti dell’acqua, per favore?» si corresse lo sconosciuto, tendendo la mano.
   «Perché no?» fece Talyn, allungandogli la borraccia.
   L’uomo la prese con gratitudine e bevve, anche lui a piccoli sorsi. Ma doveva essere assetato, perché un sorso alla volta arrivò a vuotarla. «Ah, ci voleva. Grazie, mio giovane amico» disse, restituendola.
   «Figurati, se non ci si aiuta fra noi...» disse Talyn. Si stava ancora chiedendo se l’altro era in procinto d’estrarre un’arma e sparargli, o trasformarsi in un mostro e mangiarlo, o qualcosa del genere. Forse voleva l’acqua solo come aperitivo. Per il momento, comunque, il giovane rimase lì. Legò di nuovo la borraccia e tornò a calarla nel pozzo, riempiendola ancora, in previsione del viaggio. «Peccato che fra poco avremo di nuovo sete» si lamentò, issandola di nuovo.
   «Sì, l’acqua dura poco in questo luogo» convenne lo sconosciuto. «Ma ogni tanto s’incontra un vero e buon amico, e quello è un tesoro che non si prosciuga».
   Talyn chiuse la borraccia e se l’agganciò in cintura, poi tornò a guardarlo. «Non ci siamo ancora presentati» notò. «Tu chi sei?».
   «Chi credi che io sia?» lo provocò l’altro.
   «Preferisco non fare congetture. E comunque, se mi sei amico, rispondi alla domanda» si accigliò il giovane.
   «Io ho molti nomi, in base al luogo in cui mi trovo e alle persone che incontro» rispose l’uomo, accennando un sorriso. «Tu puoi chiamarmi Klaatu. Allora, con chi ho il piacere di parlare?».
   «Mi chiamo... Talyn» rispose il giovane. Era stato tentato di dargli un nome falso, perché non gli andava di spifferare il suo a tutti quelli che incontrava. Ma qualcosa, in quel tipo, gli suggeriva che non c’era bisogno d’inganni.
   «Lieto di conoscerti, Talyn» disse Klaatu. Si tirò finalmente in piedi, dandosi manate sugli abiti consunti per levarsi un po’ di polvere. Aveva uno zaino da viaggio, tutto liso. Quando gli parve d’essere presentabile, tese la mano al giovane, che dopo una breve esitazione gliela strinse.
   «Allora, da dove vieni?» chiese Klaatu, riferendosi con ogni evidenza al suo mondo d’origine e alle circostanze che l’avevano condotto lì.
   Talyn però dette deliberatamente una risposta letterale. «Da là» rispose, indicando la direzione da cui era giunto camminando.
   Klaatu tacque brevemente. Se la risposta lo aveva deluso, non lo diede a vedere. «Beh, non importa il percorso; l’importante è che ora sei qui. Dimmi, come conti di proseguire? Hai in mente una destinazione precisa?».
   Talyn sospirò, osservando le montagne lontane. «Sono naufragato qui con un paio d’amici, ma siamo stati divisi prima d’atterrare. Loro mi credono morto, quindi devo essere io a cercarli... purtroppo non so dove siano» rivelò. «Comunque devo sopravvivere al deserto, e spero che sia più facile se raggiungo quelle montagne laggiù. Spero che anche loro facciano lo stesso ragionamento, e che quindi li troverò là».
   «Può darsi» convenne Klaatu, schermandosi gli occhi con la mano per osservare le alture. «Ma quelle montagne distano molti giorni di marcia, e ci sono pericoli sulla strada. Se sei nuovo di qui, stai andando incontro a un rischio mortale. Ti andrebbe di viaggiare con me?» propose.
   Talyn lo squadrò, chiedendosi se Klaatu avesse avuto quest’idea fin dal principio. Forse persino la richiesta dell’acqua non era che un espediente per attaccare bottone. «Stai andando nella mia stessa direzione?» chiese, lasciando trapelare il sospetto.
   «Oh, io sono sempre in viaggio» rispose l’altro. «Quella direzione vale quanto un’altra. E viaggiare assieme è preferibile che farlo da soli. Così strada facendo potrò istruirti sui pericoli di questo mondo. Allora, ci stai?».
   «Prima dimmi una cosa, “amico”. Tu da dove vieni? Perché sei qui? Ci sei finito controvoglia... oppure di proposito?» inquisì Talyn. Lo osservò con tutta la sua attenzione di El-Auriano, cercando di capire se diceva la verità.
   Klaatu sospirò, lo sguardo perso in visioni remote. «Io vengo da un luogo migliore di questo, e forse un giorno ci tornerò» disse. «A differenza di te e degli altri esuli, sono qui per mia volontà. Vedi, io non cerco quelli che stanno bene, ma coloro che soffrono. Non cerco chi crede di sapere tutto, ma chi vuole apprendere. Scusa, non posso essere più chiaro di così. Ti dico solo che viaggiare assieme può essere un bene per entrambi».
   «E sia» disse Talyn. Trovava difficilissimo leggere quell’individuo, ma per il momento non avvertiva falsità o cattivi propositi in lui. E chissà che, passandoci del tempo assieme, non scoprisse di più sul suo conto. «Allora, qual è la lezione numero 1 di Arena?» chiese.
   «La prima lezione» disse solennemente Klaatu, battendo a terra con lo stivale, «è non fidarti nemmeno del suolo su cui cammini».
 
   Di lì a poco i due erano appostati su un affioramento roccioso e guardavano il deserto antistante. Era una distesa di dune arancioni, scolpite dal vento. Le più grandi parevano colline. «Finora abbiamo camminato sulla roccia, ma questo tratto di deserto è sabbioso. Ed è qui che si annida il pericolo, mio giovane amico» disse Klaatu.
   «Non mi hai ancora detto di che si tratta» notò Talyn.
   «Sarà molto più semplice mostrartelo» fece Klaatu. Si levò di schiena lo zaino, lo aprì e ne trasse un bastone telescopico, che allungò fino a circa un metro. Un’estremità dell’asta era appuntita, per essere infissa nella sabbia. All’altra estremità era fissato uno strano dispositivo cilindrico. Quando il proprietario lo attivò, due componenti interne presero a battere, creando una vibrazione ritmica. «Questo si chiama martellatore. Come vedi, i suoi battiti creano una vibrazione simile a quella dei passi» spiegò Klaatu.
   «E quindi?» fece Talyn.
   «E quindi ti mostrerò cosa accade a chi cammina sulla sabbia senza le dovute precauzioni. Tu aspetta qui, non seguirmi per alcun motivo». Klaatu lasciò l’affioramento roccioso, col martellatore in spalla, e si avventurò nel deserto. Talyn notò che si era fidato a lasciargli lo zaino con i suoi pochi averi. Restò a guardarlo, chiedendosi a dove portasse tutto questo.
   Giunto a qualche centinaio di metri, Klaatu piantò il martellatore nella sabbia. Come previsto v’infisse la punta, lasciando che il cilindro continuasse a battere, trasmettendo le vibrazioni nel sottosuolo. Dopo di che fece dietro-front e tornò indietro quasi correndo, sia pur con uno strano passo irregolare. Non rallentò finché non fu di nuovo accanto a Talyn. «Salvo!» mormorò. «Ora sta’ a guardare».
   L’El-Auriano era pieno di domande, ma decise di stare al gioco. Attese con Klaatu per circa mezz’ora, sdraiato sulla roccia. Cominciava a spazientirsi, quando udì un cupo brontolio e vide la sabbia incresparsi nella distanza. Era come se qualcosa d’enorme si muovesse a gran velocità subito sotto la superficie. E puntava decisamente verso il martellatore. «E quello che diavolo è?!» chiese, alzandosi.
   «Ammira il Verme delle Sabbie di Arrakis!» disse solennemente Klaatu. «I Fremen, che vivono a stretto contatto con lui e talvolta lo cavalcano, lo chiamano Shai-Hulud. Lo onorano coi titoli di Creatore e Vecchio Padre del Deserto. Guarda bene!».
   Sotto gli occhi sgranati di Talyn, la creatura emerse in superficie, sollevando una gran folata di sabbia. Aveva una struttura segmentata simile agli anellidi, ma l’epidermide era dura e scabra. Tutto culminava in un’immensa bocca tripartita, ricoperta da migliaia di denti cristallini, così duri da triturare la roccia. Con lo spirito d’osservazione El-Auriano, Talyn valutò che il Verme avesse un diametro di trenta metri e fosse lungo almeno dieci volte tanto. Era attratto dalle vibrazioni ritmiche, perché si gettò sul martellatore e lo inghiottì, per poi rituffarsi nella sabbia. Sia al momento dell’emersione che dell’immersione, alcuni piccoli fulmini gli scoccarono attorno, per l’elettricità statica provocata dallo sfregamento dei granelli di sabbia. Anche Talyn, infatti, sentì drizzarsi i capelli per l’accumulo statico. Il passaggio della creatura fu accompagnato da un immane boato e da uno scuotimento del terreno, persino delle rocce su cui erano appostati gli osservatori. Una volta passato, tuttavia, tutto tornò calmo, tanto che nessuno avrebbe potuto immaginare l’accaduto.
   «Quanti... ce ne sono, di quegli affari?» chiese Talyn, sconcertato.
   «Qui su Arena, non molti. Ma sul loro pianeta natio sono innumerevoli, e alcuni sono molto più grossi di questo» spiegò Klaatu. «Sono fondamentali per l’ecosistema, in molti modi».
   «E hai detto che i nativi li... cavalcano?!».
   «Non è facile nemmeno per loro. Ma tranquillo, non voglio spingerti a farlo... per ora. Volevo solo farti capire perché dobbiamo muoverci con prudenza» spiegò Klaatu. «Cercheremo d’aggirare l’area sabbiosa, e comunque adotteremo il passo irregolare dei Fremen per non attirare i Vermi».
   «Uhm, il percorso si allunga. L’acqua basterà?» chiese il giovane.
   «Ci sono altri pozzi; li visiteremo tutti» promise il mentore. «Ora però riposiamo. Durante le ore più calde dormiremo all’ombra, riservandoci la fresca notte per il viaggio».
 
   Dormirono all’ombra dei robottoni distrutti, senza che nessuno li disturbasse. Talyn tuttavia ebbe un sonno agitato. I ricordi traumatici degli ultimi giorni – gli Undine, il naufragio – si mischiavano a strane visioni di Vermi delle Sabbie, di sacerdotesse nerovestite e di un popolo dagli occhi blu, forse i Fremen.
   «Sveglia, giovane amico. Il sole è tramontato, è ora d’andare» disse Klaatu, destandolo da quelle visioni angosciose.
   «Groan... sì, è meglio» fece Talyn, sfregandosi il sonno via dagli occhi. Bevve ancora dal pozzo, per caricarsi al massimo prima d’affrontare il deserto. Mentre lo faceva notò, con la coda dell’occhio, che Klaatu si era appartato e beveva anche lui da una borraccia. Questo confermava che la precedente richiesta d’acqua era solo un espediente per prendere contatto. Il giovane si ripromise di tenerlo sempre d’occhio, finché non avesse compreso le ragioni di quell’interesse.
   I due si misero in cammino, alla luce crepuscolare dello Spazio Fluido. Klaatu mostrò l’andatura irregolare dei Fremen a Talyn, che si sforzò d’imitarla, sebbene la trovasse oltremodo faticosa. Anche dopo aver imparato il passo, il giovane aveva difficoltà a mantenerlo sulle lunghe distanze. Gradualmente tornava a camminare in modo più normale, tanto che Klaatu dovette spesso richiamarlo all’attenzione. Strada facendo, l’uomo raccontò altri dettagli sui Vermi e sul loro mondo sabbioso.
   «Sembri molto esperto di questo pianeta Dune» notò Talyn a un certo punto. «Ci sei stato?».
   «Sì... più o meno» rispose Klaatu, sibillino.
   «Come sarebbe, “più o meno”? Ci sei stato oppure no?!» chiese l’El-Auriano, irritato da quell’atteggiamento.
   «Le cose non sono sempre così lineari, mio giovane amico. Il tempo non è sempre lineare» rispose Klaatu. «Diciamo che, in un certo punto del continuum spazio-temporale, io sono su Dune».
   Talyn rimuginò su queste parole, cercando d’interpretarle. Voleva forse dire che Klaatu era un viaggiatore del tempo? E c’era qualcosa d’ancor più disturbante. Su Arena c’erano persone, animali e robot provenienti da molte realtà differenti; ma Klaatu pareva esperto di tutti. Era come se fosse stato in ogni mondo di ogni cosmo, e tanto a lungo da impratichirsi di ciascuno. Quanti anni servivano per acquisire un’esperienza così sterminata? Migliaia? Milioni? Insomma, cos’era realmente quell’essere? Su che pianeta era nato, a che specie apparteneva? Quali erano le sue capacità, e quali i suoi obiettivi?
   «E soprattutto... perché io gli interesso tanto?» si chiese Talyn, arrancandogli dietro. «Quando si ha una conoscenza così enciclopedica, come ci si può interessare ancora a qualcosa? Cosa c’è in me che gli fa dire “vale la pena spenderci del tempo”?». Non seppe darsi risposta. Ma continuò a seguire Klaatu, ascoltandolo attentamente, con la speranza che il tempo e l’esperienza avrebbero risposto ai quesiti.
 
   Camminarono per altri due giorni, costeggiando la zona sabbiosa, sempre con quell’andatura che spaccava i ginocchi. Finalmente raggiunsero una regione dal suolo roccioso, ben saldo sotto i piedi, dove non c’era da temere d’essere fagocitati da un Verme. Talyn ne fu sollevato, per quanto potesse essere sollevato un naufrago su Arena. Adesso erano in una zona leggermente meno secca, tanto che qua e là crescevano delle sterpaglie, le prime che il giovane avesse visto su quel pianeta. Klaatu lo guidò a un altro pozzo, al quale poterono ristorarsi. Avevano da poco ripreso a camminare, alle prime luci dell’alba, quando qualcosa attirò l’attenzione di Talyn. Una forma regolare, geometrica, che spiccava tra le rocce informi.
   Era un monolito perfettamente rettangolare, con gli spigoli così rifiniti da essere taglienti. Le sue proporzioni – Talyn lo percepì con la sua sensibilità El-Auriana – erano esattamente 1x4x9. Se ne stava ritto su uno dei lati corti, così che visto dal davanti sembrava una porta sul nulla. La sua superficie levigata era d’un nero intenso e uniforme, senza la minima macchia o irregolarità. Un nero così profondo da non riflettere nemmeno la luce del sole nascente. Era chiaramente un oggetto artificiale, perché la natura non avrebbe mai potuto ritagliare una forma così perfetta; sembrava fuori posto lì in mezzo al deserto. Chi l’aveva realizzato, e a che scopo? Stranamente attratto dal monolito, Talyn deviò dal cammino e si avvicinò per esaminarlo. Qualcosa d’inesplicabile lo spingeva ad accostarsi, se possibile a toccarlo.
   Accortosi che il giovane non lo seguiva più, Klaatu si fermò e si guardò attorno, fino a scorgerlo. «Ehi, che stai facendo? Allontanati, quello non fa per te!» esclamò, con una strana urgenza nella voce. Gli corse dietro, per fermarlo prima che lo toccasse.
   Talyn era vicino al monolito quando a un tratto si accorse di non essere solo. C’erano delle scimmie attorno a lui. Scimmie molto particolari. Alcuni erano scimpanzé, altri oranghi dal pelo rossiccio, altri ancora imponenti gorilla. Ma invece di camminare a schiena curva, appoggiandosi alle nocche, erano tutti in postura eretta, ben saldi sulle gambe. Doveva esserci stata una significativa mutazione nella loro fisiologia. Una mutazione non solo fisica, ma anche mentale. Le scimmie infatti erano tutte ben vestite e con la pelliccia pettinata. Gli scimpanzé parevano scienziati, o comunque intellettuali; una di loro aveva persino gli occhiali. Gli oranghi avevano più l’aria di amministratori e burocrati; uno di loro aveva un bastone da passeggio. I gorilla infine dovevano essere i militari, poiché avevano elmi e corazze in cuoio e metallo. Erano muniti d’armi bianche, come spade e alabarde; due di loro erano persino a cavallo.
   «Beh, vi siete evoluti?!» fece Talyn, troppo sorpreso per pensare alla diplomazia.
   «Un Umano! Un Umano parlante!» gridò l’orango col bastone. «Faccia qualcosa, Generale Ursus!».
   «Subito, dottor Zaius» disse uno dei gorilla a cavallo. Gridò alcuni ordini ai suoi soldati; in un attimo avevano circondato il giovane, pungolandolo con le loro armi. «Ma guarda, un altro uomo che si atteggia a scimmia! È arrivato il momento di rimettervi al vostro posto, per il grande Cesare!» bofonchiò Ursus, afferrando Talyn per i capelli.
   «Toglimi quelle zampacce di dosso, maledetto sporco gorilla!» strepitò Talyn. Con uno scatto si liberò dalla presa, pur lasciando alcuni capelli in mano all’altro. «Cosa credete di fare, eh?! Scommetto che non sapete neanche dove siete!» gridò, rivolto agli scimpanzé e agli oranghi.
   «Oh, ti sbagli, giovane Umano!» rispose il dottor Zaius. «Siamo nella Zona Proibita, che un tempo era un paradiso. E la tua genìa l’ha trasformata in un deserto, millenni fa! Voi Uomini l’avete distrutta! Maledetti, maledetti per l’eternità, tutti!».
   «Si calmi, professore!» intervenne uno degli scimpanzé.
   «Non dica a me di calmarmi, Cornelius! Se lei e Zira non aveste incoraggiato gli Uomini alla ribellione, non saremmo a questo punto!» sbottò l’orango. «Avete scordato il primo articolo della nostra fede: “L’Onnipotente creò la Scimmia a sua immagine e somiglianza. Le dette un’anima e una mente, e la volle separata dalle bestie della foresta. E la fece padrona del pianeta”». Detto questo, si rivolse di nuovo a Talyn: «Sentito, giovanotto? Questo è il Pianeta delle Scimmie. Non degli Uomini!» ammonì.
   «Oh, beh, caso vuole che io non abbia una goccia di sangue umano!» ridacchiò l’El-Auriano.
   «Ti prendi gioco di me? Se non sei Scimmia né Uomo, allora che cosa sei?!» fece l’orango. Intanto i gorilla stringevano il cerchio attorno a Talyn, smaniosi d’infilzarlo.
   «Pace!» intervenne Klaatu, avvicinandosi con le mani aperte, per mostrare che era disarmato. «Non c’è bisogno di ricorrere alla violenza, poiché non siamo una minaccia. La violenza è il rifugio di chi non sa appianare serenamente le divergenze. E voi avete questa capacità, perché l’avete già dimostrato. Non fu il vostro liberatore Cesare a dire: “Scimmia non uccide altra scimmia”?» argomentò.
   «Le altre scimmie no, ma gli Uomini...» brontolò Ursus, sempre puntando l’alabarda al petto di Talyn.
   «Gli Uomini sono più imparentati con gli scimpanzé che con voi gorilla, o con gli oranghi» ribatté Klaatu. «Se c’è pace e armonia fra le vostre tre specie, a maggior ragione può esserci con loro. O voi scimmie avete così poca fiducia in voi stesse, e così tanta paura degli Uomini, da credere di dover ricorrere alla violenza?».
   «Noi non temiamo nessuno!» ribatté Ursus, battendosi fieramente il petto. «Ma gli Uomini ci disgustano per i loro modi animaleschi. Se non li si tiene in gabbia, sono pericolosi».
   «In tutta onestà, io e il mio amico vi sembriamo animaleschi e pericolosi?» chiese Klaatu, accostandosi a Talyn.
   «No!» proruppe la donna scimpanzé, facendosi avanti. «Questi Umani parlanti sono pacifici, dottor Zaius. Lasciamoli andare!».
   «E permettere che portino qui altri intrusi? No, Zira, la nostra ricerca è troppo importante per essere compromessa» disse l’orango, accennando al monolito.
   «State studiando quell’oggetto? Sapete di che si tratta?» chiese Talyn, ancora intrigato da quel misterioso artefatto.
   «Io penso che sia l’opera di antiche scimmie... quasi certamente oranghi» dichiarò Zaius, passandosi una mano sul pelo rossiccio del capo.
   «Io invece sono convinta che sia opera d’antichi Umani. Può essere la prova decisiva che un tempo erano loro a dominare il pianeta!» disse Zira, emozionata dalla sua ardita teoria.
   «Forse non è opera né degli uni, né degli altri. Forse è il prodotto di un’Intelligenza superiore, alla quale dovete tutti il vostro intelletto» suggerì Klaatu, con l’aria di chi la sa lunga.
   «Questa poi! Ne ho abbastanza di sentire eresie!» sbottò Zaius.
   «Allora lasciateci proseguire, così non intralceremo i vostri studi. In fondo siamo solo due umili viandanti nel deserto. Veniamo in pace, senz’armi, e in pace vi lasciamo» insisté Klaatu.
   Le scimmie parlottarono fra loro, con gli scimpanzé – Cornelius e Zira – che caldeggiavano la soluzione pacifica. Poco a poco gli oranghi parvero convincersi, tanto che ordinarono ai gorilla di riporre le armi. Questi brontolarono un po’, ma eseguirono, rompendo l’accerchiamento.
   Nel frattempo, però, Talyn aveva ripreso a fissare il monolito. Qualcosa in quell’oggetto esercitava su di lui un fascino irresistibile, al punto che il giovane si avvicinò, con la mano protesa per toccarlo. Di tutte le cose viste finora su Arena, sentiva che era la più significativa. A un tratto gli parve di scorgere un bagliore stellare al suo interno.
   «Mio Dio... è pieno di stelle!» disse il giovane, con gli occhi sbarrati. Era vicino a toccare la superficie nera e liscia.
   «Fermo, figliolo! Non sei pronto per quello... non ancora» disse Klaatu, precipitandosi a fermarlo. Afferrò Talyn, bloccandogli le braccia contro il corpo, e lo trascinò indietro, impedendogli di toccare il monolito. Era la prima volta che faceva ricorso alla forza, da quando si erano incontrati. «Non guardare quello... guarda me!» disse quando furono a una certa distanza. Si mise davanti a Talyn, interrompendo il contatto visivo col monolito, e lo schiaffeggiò leggermente, fino a svegliarlo dalla strana trance.
   «Tu... tu sai che cos’è?» chiese l’El-Auriano, riprendendosi.
   «La forma di Qualcosa che non ha forma» rispose Klaatu, sempre enigmatico. «Andiamo, su... il tempo stringe. Non possiamo indugiare per alcun motivo. Guarda là!» disse, indicando l’orizzonte.
   Talyn osservò nella direzione indicata e vide qualcosa che gli gelò il sangue. Un muro arancione veniva verso di loro, inghiottendo colline e dune. Era una tempesta di sabbia, la stessa che aveva rilevato giorni prima dalla Destiny. Si avvicinava rapidamente; già adesso la luce del giorno diminuiva, per via della crescente foschia. Il giovane ricordò che sui mondi desertici le tempeste di sabbia potevano ricoprire un intero emisfero e durare settimane, persino mesi. Se si lasciavano sorprendere all’aperto, era la fine.
   «Scimmie, radunatevi! Torniamo al campo base, nella grotta!» ordinò Zaius, accompagnandosi con un ampio gesto, per richiamare a sé la squadra. In un attimo furono tutti attorno a lui, scimpanzé, oranghi e gorilla. Questi ultimi erano smontati da cavallo e si tiravano dietro gli animali per le briglie, cercando di calmarli. Talyn guardò i primati, quasi sperando che li accogliessero nel loro rifugio.
   «Non voi!» grugnì Ursus, respingendolo con l’alabarda. «Voi Uomini restate fuori, e vedremo se il deserto avrà pietà di voi». Dal suo tono, era evidente che li considerava spacciati.
   «Cercate un rifugio... buona fortuna» disse però Zira, prima d’essere costretta ad andarsene con i suoi simili.
   In pochi minuti Talyn e Klaatu rimasero soli, col vento sempre più sostenuto e il cielo che si oscurava, da oriente verso occidente. La tempesta di sabbia stava arrivando e loro non erano attrezzati per resistere.
 
   «Conosci qualche altro rifugio nelle vicinanze? Uno che non sia occupato da scimmie megalomani?!» chiese Talyn. Ancora non sapeva se fidarsi di Klaatu, che malgrado il suo atteggiamento pacifico lo inquietava, per via delle sue strane conoscenze. Ma non aveva alternativa; restare all’aperto significava morte certa.
   «In effetti sì, ce n’è uno» rivelò Klaatu. «È una delle mie dimore temporanee su questo pianeta. Si trova a mezza giornata di marcia. Dovremmo arrivarci in tempo, se andiamo a passo sostenuto».
   «Fa’ strada, allora» disse Talyn. Quella notizia lo sollevava, ma al tempo stesso accresceva la sua inquietudine. Se erano così vicini al rifugio, significava che Klaatu lo aveva guidato fin lì di proposito, col pretesto d’aggirare l’area infestata dai Vermi. Quindi aveva sempre avuto l’intenzione di attirarlo a casa sua. Forse aveva persino previsto l’arrivo della tempesta di sabbia, calibrando tempi e distanze, in modo che a Talyn non restasse che accettare l’offerta. Era provvidenziale e preoccupante al tempo stesso. Mentre lo seguiva, il giovane si ripromise di tenere alta la guardia. Avrebbe ascoltato e osservato attentamente il suo anfitrione; ma non era tenuto a credere a tutto ciò che diceva.
   Camminarono di buon passo, quasi correndo, perché la tempesta si avvicinava come un predatore pronto a inghiottirli. Il vento trascinava la sabbia più fine, che finiva negli occhi e li irritava. Così era sempre più difficile guardare dove si metteva i piedi e tenere la giusta direzione.
   «Stammi vicino! Se ti perdi nella tempesta, neanche gli avvoltoi ritroveranno la tua carcassa» avvertì Klaatu. Inforcò un paio d’occhiali da deserto, tratti dal suo zaino, per avere la vista più libera. E continuò a procedere, guardandosi attorno in cerca di punti di riferimento. Una roccia scolpita dal vento, un tronco essiccato; tutto era utile per orientarsi. L’uomo mantenne un passo rapido, come se fosse sicuro della direzione. Solo ogni tanto si fermava qualche secondo, guardandosi attorno, in cerca del successivo punto di riferimento. Mai una volta fu costretto a tornare indietro, e nemmeno a cambiare direzione per correggere un errore.
   Invece di confortare Talyn, questo lo inquietava. Anziché dirigere verso gli affioramenti rocciosi, infatti, si stavano gettando nell’aperto deserto. Non c’era niente lì che potesse difenderli dalla furia del vento. «Senti, sei sicuro che stiamo andando nella direzione giusta?!» chiese il giovane a un certo punto.
   «Certo! Tieni duro, siamo quasi arrivati!» lo rassicurò Klaatu. Anche lui doveva parlare a voce alta, per sovrastare il vento.
   «Ma siamo in pieno deserto! Non ci sono ripari qui!» insisté l’El-Auriano.
   «Abbi fede, mio giovane amico. Non tutto è come appare!» disse l’altro, proseguendo ostinatamente verso la pianura.
   «Già, a volte è peggio» borbottò Talyn. Aveva parlato a voce così bassa che non si aspettava d’essere udito. Eppure Klaatu si voltò verso di lui, come se avesse sentito perfettamente.
   «Non hai avuto una vita facile, eh?» gli chiese in tono comprensivo.
   «Direi di no. Quando la casa ti crolla in testa per un bombardamento, e sei l’unico sopravvissuto della famiglia, e a sei anni devi cavartela per strada, impari che avere un buon rifugio è tutto!» ribatté Talyn, con un’occhiata accusatoria.
   «Mi dispiace per la tua famiglia. E mi dispiace per te, figliolo. Nessuno dovrebbe subire una cosa del genere» disse Klaatu, con aria di profonda partecipazione.
   «Beh, sai... tutto quel che non ti uccide, ti rende più forte» rispose il giovane, con un sorriso cinico.
   «No, non necessariamente. Certe vittorie ti lasciano così fratturato da predisporre la successiva sconfitta. Il conflitto non risolve nulla; la pace è l’unica via» ribatté Klaatu, serissimo.
   «Ah già, tu sei l’amante della pace» disse il giovane, ricordando come si era rivolto alle scimmie. «Anche il mio popolo, gli El-Auriani, lo erano. Poi un giorno arrivarono i Borg e distrussero il nostro mondo, costringendo i pochi superstiti a disperdersi nella Galassia. Il pacifismo non ha salvato la mia gente, l’ha condotta al macello» disse, chiedendosi come sarebbe stato vivere sul suo mondo, anziché tra gli alieni. «Io non intendo finire così. Se qualcuno minaccia me o i miei cari, mi sento in diritto e in dovere d’opporre resistenza. Anzi, ti dirò di più: se qualcuno attaccasse i miei compagni e io non intervenissi per amore della pace, sarei complice dell’aggressione. È facile fare i pacifisti, quando c’è qualcun altro che muore per proteggerti!» si sfogò. Pensò a tutte le volte che la Federazione era stata attaccata e aveva dovuto combattere per sopravvivere. Pensò a cosa sarebbe successo durante la Guerra Civile, se nessuno si fosse opposto al regime genocida dei Pacificatori. E infine pensò alla sua vita con gli avventurieri: se non si fossero difesi con le armi, sarebbero tutti morti da tempo. Lui stesso aveva ucciso pur di salvare la sua madre adottiva, Losira.
   «Non confondere la pace con la resa ai violenti» disse Klaatu in tono grave. «Solo perché molti hanno pervertito l’idea di pace, trasformandola in collaborazionismo, non significa che si debba rinunciare a cercare la vera pace, fondata sulla giustizia. Ma ne parleremo più avanti. Guarda, siamo arrivati!». Indicò davanti a sé.
   Talyn si schermò dalla sabbia con la mano e guardò a sua volta. Davanti a loro c’era una distesa rocciosa che si stendeva a perdita d’occhio. Niente grotte, niente edifici; nemmeno un relitto in cui trovare riparo. «Vuoi dire che il tuo rifugio è sotterraneo?» chiese il giovane, aggrappandosi all’ultima speranza.
   «No, è proprio qui davanti a noi» sorrise Klaatu.
   Talyn tornò a guardare. Non c’era altro che la pianura, perfettamente livellata. «Senti, amico, mi prendi per i fondelli?!» chiese, con una collera che tradiva la disperazione di trovarsi nel deserto più sperduto, senza riparo contro la furia degli elementi.
   «Come, voi El-Auriani non siete grandi osservatori? Guarda con più attenzione!» insisté Klaatu.
   Il giovane lo fece, non avendo di meglio. Finalmente notò una stranezza: i granelli di sabbia parevano rimbalzare contro una vasta struttura invisibile, accumulandosi su un lato. Osservando attentamente, Talyn notò che lo strato di sabbia delineava un’ampia parete inclinata, come quella di... «Una piramide! Una piramide occultata!» comprese.
   «Hai indovinato... più o meno. Non è solo una piramide» disse Klaatu. Si scostò la manica, rivelando un bracciale, e vi premette un comando. Allora una lama di luce si delineò nella semioscurità della tempesta, aprendosi progressivamente. Era l’ingresso della piramide. Il portello calò, formando una rampa d’ingresso. All’interno c’erano corridoi metallici, illuminati artificialmente e decorati da geroglifici.
   «Si tratta di... un’astronave» comprese l’El-Auriano, sempre più meravigliato. «Non ne avevo mai viste di piramidali. Sei pieno di risorse, amico».
   «Su, entriamo, prima che si riempia di sabbia» disse Klaatu, e salì rapidamente sulla rampa. Talyn si affrettò a seguirlo. Appena furono dentro, Klaatu richiuse il portello. Lo scafo era così spesso che non si udiva l’ululare del vento, né il grattare della sabbia. Per la prima volta dal naufragio, l’El-Auriano si sentì relativamente al sicuro.
 
   «Ti ringrazio per l’ospitalità. Scusa se ho dubitato di te» disse Talyn, sebbene i suoi dubbi non fossero del tutto sciolti.
   «Pensavi che il sole del deserto mi avesse fatto ammattire, eh?» fece Klaatu in tono bonario. «Non scusarti, giovane amico. Ci siamo conosciuti da poco, in un ambiente ostile. È giusto che tu sia prudente. Ma questo è il luogo più sicuro che troverai su Arena. Le bestie e i combattenti là fuori non possono entrare. Qui dentro c’è abbastanza acqua e cibo da permetterci d’aspettare comodamente la fine della tempesta. Nel frattempo potremo chiacchierare, se ti va. Sono certo che hai molte domande».
   «Eccome! Questa nave è tua, o comunque del tuo popolo?» chiese Talyn, sperando di sapere qualcosa non tanto del vascello, ma del proprietario. Klaatu infatti non gli aveva ancora detto a che specie apparteneva e su che mondo era nato. Ogni volta che gli poneva domande del genere, lui svicolava. Anche stavolta non andò meglio.
   «No, l’astronave era già qui quando arrivai» spiegò Klaatu. «È uno dei tanti relitti che costellano Arena. Io mi sono limitato a riattivare alcuni sistemi, per renderla più vivibile. L’occultamento è tra questi; così non attiro i visitatori indesiderati».
   «Credi... che potremmo farla volare di nuovo?» chiese Talyn, vedendo una possibilità di fuga.
   «No, i motori sono danneggiati in modo irreparabile. Gli Undine non permettono a nessuno di lasciare Arena contro la loro volontà» rispose Klaatu, spegnendo sul nascere la speranza.
   «E se cercassimo di contattare la mia nave, la Destiny? Così verrebbero i miei colleghi a prenderci» suggerì Talyn, deciso a provarle tutte.
   «Possiamo cercarla coi sensori, ma dobbiamo essere molto prudenti a inviare messaggi» avvertì Klaatu. «Se gli Undine li intercettassero, risalendo alla nostra posizione, ci distruggerebbero all’istante. Vedi, tra me e loro non corre buon sangue. In effetti è da molto che cercano di stanarmi» rivelò.
   «Siete in conflitto?» chiese Talyn, chiedendosi come facesse un pacifista come lui a opporsi a quei mostri sanguinari.
   «Un conflitto filosofico, più che armato» rispose Klaatu con un sorriso agrodolce. «Loro cercano d’evolvere mediante gli scontri, quindi aizzano continuamente i campioni di questo mondo gli uni contro gli altri. Io invece cerco di fare l’opposto, di spingerli a fidarsi e collaborare... con modesti risultati, finora» ammise.
   «Quello che fai è ammirevole, dico davvero» dichiarò Talyn. «Ma se gli Undine cercassero di rapire un altro pianeta, non dovremmo fermarli, anche a costo d’usare le armi?».
   «Se dessimo battaglia, la loro ritorsione contro questi mondi sarebbe ancora più spietata...».
   «Torniamo al discorso di prima, amico. Se nessuno li ostacola, se nessuno gli dice “basta”, questi mostri si sentono incoraggiati a divorare sempre più mondi. Conosco le persone così, ne ho già incontrate fin troppe. Scambiano la tua compassione per debolezza e ne deducono di poter fare tutto ciò che vogliono, indisturbati. Se non li fermiamo adesso, alzeranno sempre più il tiro, finché... finché accadrà qualcosa di veramente atroce e irreparabile» avvertì Talyn.
   «Non hai torto, mio giovane amico» sospirò Klaatu. «Ma avremo tempo per pianificare le prossime mosse. Intanto vorrai ristorarti. Che ne dici di un pasto come si deve?».
   «Dico che è un’ottima idea» fece Talyn, che effettivamente non ci vedeva dalla fame. Era naufragato quattro giorni prima e, pur essendosi dissetato ai pozzi, non aveva mangiato quasi niente. L’unico cibo solido ingerito finora erano state alcune barrette proteiche offerte dal compagno di viaggio; poco per ritemprarlo dalla marcia nel deserto. Un vero pasto era una prospettiva quanto mai gradita.
   «Bene, mangeremo nella sala delle udienze. Alla faccia degli antichi padroni della nave!» disse Klaatu. «Ma prima lascia che ti presenti il mio aiutante» aggiunse, mentre dal corridoio giungeva un pesante suono di passi e un’ombra umanoide si stagliava sulla parete.
   Talyn ne fu sorpreso. Dall’atteggiamento di Klaatu gli era parso che lui fosse l’unico a vivere lì. Ma ripensandoci, non lo aveva mai detto espressamente. In effetti se si trovava su Arena da tanto tempo era lecito aspettarsi che si fosse già fatto qualche alleato. E quale luogo migliore dell’astronave occultata per radunarsi e fare piani?
   «Buongiorno a... lei...» disse Talyn, sperando di fare una buona impressione. Ma la voce gli si spense in gola non appena il nuovo arrivato voltò l’angolo. Perché l’aiutante di Klaatu non era una persona, ma un robot. E pure parecchio sorpassato, a vederlo.
   Era un automa grosso e goffo, con un’andatura dondolante. Il corpo e le gambe erano fatti di globi metallici semifusi, mentre le braccine erano ridicolmente corte. Al posto della testa aveva una campana di vetro, entro la quale ticchettava un elaboratore, con vari elementi in continuo movimento. Sul petto si trovavano un paio di comandi, oltre a una strana fessura. Tutta la sua corazza era d’un grigio ferro e pareva molto resistente.
   «Mio caro, questo è Talyn, della nave Destiny. Sarà nostro ospite fin quando lo vorrà. Trattalo come faresti con me: rispondi alle sue domande e vieni incontro alle sue esigenze» raccomandò Klaatu.
   «Ricevuto. Ben arrivato, signor Talyn. Si metta comodo. Posso fare qualcosa per lei?» chiese il robot, con un timbro metallico. Alcune luci azzurre gli sfarfallarono sotto la campana di vetro, dando l’impressione di una bocca.
   «Beh, vediamo... posso sapere il tuo nome, la tua origine?» chiese l’El-Auriano. Aveva già intuito che un automa così primitivo non poteva essere conterraneo di Klaatu, ma voleva comunque sapere qualcosa sul suo conto.
   «Io sono Robby» rispose il robot. «Sono stato costruito su Altair IV dal dottor Morbius, per aiutarlo a colonizzare il pianeta. In seguito ho prestato servizio sull’incrociatore C-57-D dei Pianeti Uniti, col Capitano Adams e i suoi successori».
   «Come avrai intuito, sono stato io a trovarlo tra i relitti e a riattivarlo» disse Klaatu. «Avevo perso il mio vecchio robot per colpa degli Undine e mi serviva un sostituto. Non farti ingannare dalle sue fattezze primitive: mentalmente è piuttosto evoluto».
   «In tal caso... felice di conoscerti» disse Talyn. Non aveva mai sentito parlare di Altair IV, né del dottor Morbius, perciò aveva il forte sospetto che anche quell’automa venisse da una realtà parallela. Probabilmente fra le centinaia di relitti che costellavano Arena non ce n’erano due provenienti dallo stesso Universo, pensò con un brivido.
 
   Salirono in uno dei livelli più alti della piramide, dove si trovava una sala del trono, incredibilmente sfarzosa. Talyn non aveva mai visto un’astronave arredata così: sembrava un’antica reggia faraonica. Le pareti erano decorate di geroglifici e c’erano persino dei bracieri da alimentare a legna. Lui e Klaatu si accomodarono a una lunga tavola, evidentemente pensata per molti più commensali. Robby l’apparecchiò e poi venne a prendere le ordinazioni, come un perfetto cameriere. Saltò fuori che il robot conosceva molte ricette terrestri, evidentemente programmate dal suo costruttore. Da come parlava, sembrava in grado di preparare tutto in un attimo. Siccome Klaatu prendeva delle ordinazioni abbondanti, per ristorarsi dal lungo viaggio nel deserto, l’El-Auriano si sentì autorizzato a fare lo stesso. Dopo le pietanze, Robby offrì anche una ricca scelta di liquori.
   «... e per finire, un goccio di energetico» concluse l’automa.
   «Come?» fece Talyn.
   «Scusi, signore. Intendevo un bourbon di scarsa qualità. Fu aggiunto alla mia banca dati dal cuoco dell’incrociatore C-57-D, che lo chiamava “energetico”» spiegò Robby.
   Talyn sorrise per quello slang, come anche per l’innocente ammissione che era un liquore scadente. «Grazie Robby, ma con questo caldo gli alcoolici non fanno per me. Prendo solo dell’acqua e... boh, aggiungici una gazzosa» disse.
   «Subito, signore».
   Talyn si aspettava che, prese le ordinazioni, Robby andasse a un replicatore. Invece, con sua enorme sorpresa, l’automa aprì uno sportello sul petto e prese a estrarre i vassoi con le pietanze calde. «Questa, poi! Un robot con replicatore alimentare incorporato! Non ne avevo mai visti» ammise il giovane. La cosa più simile erano gli Exocomp, che tuttavia producevano solo strumenti di riparazione. Le cibarie erano qualcosa d’assai più complesso.
   «La mia tecnologia deriva dalle antiche conoscenze dei Krell, che erano molto avanzati nella scienza della replicazione» confermò Robby.
   «Wow, e come se la passano questi Krell?».
   «Si sono estinti oltre duemila secoli fa».
   «Oh». Talyn pensò che era meglio non fare altre domande, quindi prese a mangiare.
   I due banchettarono di gusto, assaporando ogni portata, tanto che per la durata del pasto scambiarono poche parole. Il giovane notò comunque che, persino nella scelta delle pietanze, il suo anfitrione dimostrava una strana conoscenza di mondi remoti e misteriosi. «Questo è Nebrie arrosto, delizia culinaria di Thra, un pianeta con tre soli» disse riguardo alla portata principale. Solo alla fine, mentre Robby sparecchiava, l’El-Auriano si rivolse di nuovo a lui. «Era tutto squisito, grazie ancora per l’ospitalità. Ma dimmi una cosa: chi ha costruito quest’astronave?» chiese, ancora meravigliato dal suo sfarzo anacronistico.
   «Oh, questo è un vascello di classe Cheops costruito dai Goa’uld, una specie parassitica di un altro Universo» rivelò Klaatu, confermandosi un tuttologo. «I Goa’uld dominarono la Via Lattea per ventimila anni, prima che una combinazione d’attacchi esterni e di rivolte interne li detronizzassero, seicento anni fa. Adesso sono praticamente estinti. La loro tecnologia è caduta in mano ai Jaffa, i loro soldati e servitori, che ora sono finalmente liberi».
   «Buon per loro. Certo che... tutto questo fa girare la testa» ammise l’El-Auriano, guardandosi attorno a disagio.
   «Cosa intendi?».
   «Beh, è destabilizzante sapere che esistono così tante variazioni della realtà» ammise Talyn. Era un pensiero che l’aveva colto spesso, da quand’era iniziata la loro odissea nel Multiverso. Ma da quand’era su Arena, la sensazione era amplificata all’inverosimile. «Tutte queste civiltà, questi imperi che sorgono e cadono... interi Universi... coesistono paralleli al nostro. E noi non lo sappiamo, a meno che una circostanza eccezionale come questa ce li faccia incontrare. Siamo come pesci in una boccia, che ignorano l’esistenza dell’oceano. Se tutto quel che può accadere è già successo in una realtà parallela, che senso ha vivere e affaccendarsi? Se faccio una qualunque scelta, da qualche parte c’è un mio alter-ego che ha fatto quella opposta. Si direbbe che tutto ciò che siamo e che facciamo sia insignificante, nel grande schema delle cose».
   A queste parole Klaatu gli si accostò con la sedia e lo fissò con straordinaria intensità. «L’inconcepibile vastità del tutto non sminuisce il valore del singolo, amico mio. Più ho appreso sul Multiverso, più ho riscoperto la fragile bellezza delle piccole cose. Ciascuno di noi è un essere unico, che vede la realtà in modo unico. In effetti potremmo dire che ciascuno di noi è un modo diverso in cui il cosmo vede sé stesso e cerca di conoscersi. Perciò nessuno è irrilevante: ogni vita e ogni scelta hanno un valore, perché sono irripetibili. Il fatto che tu possa fare scelte diverse è il più grande stimolo a fare quelle giuste».
   «Mah... più cose imparo, più mi sembra che ogni strada sia quella sbagliata» confessò Talyn, ancora pessimista.
   «Questi sono i tuoi primi passi nel Multiverso; è naturale che la tua visione della realtà ne sia scossa. Ma più progredirai nella conoscenza, più comprenderai quale sia il potenziale della mente» affermò Klaatu. «La mente non è distaccata dal cosmo, ne è parte integrante. Quando si guarda alle radici dell’esistenza, si scopre che non c’è distinzione tra spazio, tempo, materia, energia e... pensiero».
   L’El-Auriano ripensò a una delle prime realtà che avevano esplorato, lo Spazio Caotico, in cui i pensieri – soprattutto quelli inconsci – acquisivano vita autonoma. «Cosa stai cercando di dirmi?» chiese. Ma la vera domanda che avrebbe voluto fargli era: «Chi sei tu, per sapere queste cose?».
   A un tratto Klaatu si ritrasse, come se temesse di aver già detto troppo. «È tardi, suppongo che tu sia stanco quanto me. Robby ti condurrà a una stanza degli ospiti» disse accennando all’automa. «Riposati; domani potremo discutere e fare progetti».
   «Come vuoi» disse Talyn, intuendo che per quella sera non gli avrebbe cavato altro. Lasciò la tavola e seguì Robby nei corridoi dell’astronave-piramide, fino a un alloggio, sempre arredato con sfarzo faraonico. Era talmente stanco che si buttò sul letto, ancora con gli abiti impolverati dal deserto, e prese subito sonno. Per una volta riuscì a farsi una lunga dormita, non turbata da incubi o visioni.
 
   I giorni successivi furono tra i più strani della vita di Talyn. La tempesta di sabbia non dava segno d’attenuarsi, quindi lui e Klaatu erano bloccati nella piramide. Non restava che mettere a frutto quella sosta forzata. Fortunatamente non avevano difficoltà materiali, grazie a Robby che si occupava dei pasti e della cura degli alloggi. Potevano quindi dedicare tutto il tempo e l’attenzione ad affrontare le sfide di Arena.
   Per prima cosa riattivarono i sensori dell’astronave, localizzando il relitto della Scorpion. Talyn scoprì così d’essere lontano dai colleghi: ancora più lontano di quanto avesse ipotizzato. Se voleva raggiungerli, attraversando il deserto, doveva trovare un mezzo più veloce delle sue gambe. A complicare le cose, era lecito aspettarsi che anche loro si fossero allontanati dal relitto della navicella, in cerca d’acqua e riparo. Talyn non riuscì a localizzare con certezza i loro segni vitali, dato che quelli di Rivera si confondevano con gli altri Umani, mentre Naskeel era pressoché indistinguibile dalle rocce. Questo era un problema enorme, perché significava non avere una destinazione certa. L’El-Auriano avrebbe dovuto esplorare tutti i pozzi, le caverne, i relitti e i fortini in una vasta area per ritrovare i compagni.
   «Se conosco il Capitano, farà in modo di rendersi rintracciabile, confidando nel ritorno della Destiny» argomentò il giovane, osservando una mappa della zona. Oltre ai principali tratti geografici erano indicate la loro posizione, quella della Scorpion e i pozzi d’acqua.
   «Uhm... ricorda che anche lui deve nascondersi dagli Undine. Non può attirare troppo l’attenzione» avvertì Klaatu. «Comunque andrà in cerca di un rifugio. Magari alla base delle montagne, dove ci sono caverne con acqua e viveri. Se arriva lì, potrà resistere a lungo». Attivò un comando, evidenziando i rifugi tra le montagne. Erano numerosi, su ambo i lati della catena.
   «Sì, ha senso» convenne Talyn. «Potrebbe anche cercare di radunare una banda, con alcuni degli altri naufraghi. Non avertene a male, ma mettere insieme dei guerrieri allo scopo di combattere è più facile che radunarli allo scopo di non combattere» disse, alzando gli occhi all’anfitrione. «Io comunque vorrei partire appena possibile. Ho un senso di... urgenza che non riesco a spiegare» rivelò.
   «Se senti che il tempo è importante, allora agiremo di conseguenza» disse Klaatu, che sembrava attribuire gran valore a queste percezioni.
   Talyn cercò poi la Destiny, sondando in lungo e in largo il sistema stellare, ma come previsto non la trovò. «O è ancora occultata, o è tornata nel nostro Universo a chiedere rinforzi» concluse.
   «Uhm... sei sicuro che i tuoi compagni abbiano le coordinate di ritorno?» chiese Klaatu.
   «Il nostro ingegnere diceva di averle trovate sull’Harvester» spiegò Talyn. «Pensi che si sbagliasse?».
   «Dico solo che gli Undine proteggono le loro informazioni riservate» fece Klaatu. «A proposito dei nostri avversari a tre zampe, vorrei vedere cosa stanno combinando. Analizziamo l’Harvester».
   Cercarono la stazione Undine, ma con sorpresa non la trovarono nell’orbita di Arena. «Molto strano... credi che si sia occultata?» chiese Talyn.
   «No, non penso» fece Klaatu, stranamente preoccupato. «Estendiamo il raggio della ricerca» suggerì. Come al solito non si limitò a eseguire l’operazione, ma mostrò a Talyn come manovrare i comandi Goa’uld.
   «Abbiamo un riscontro» notò l’El-Auriano di lì a poco. «Guarda, guarda... l’Harvester è uscito dall’orbita. Si sta allontanando a basso impulso. La sua rotta...». Armeggiò con i comandi, per ottenere conferma. «Sì, è così. Punta fuori dal piano dell’eclittica, verso lo spazio aperto. Che hanno in mente di fare gli Undine? Non abbandoneranno questo sistema, dopo tutti gli sforzi che hanno fatto per assemblarlo!».
   «No di certo» convenne Klaatu. «Gli ho già visto fare questa mossa anni fa, quando...» s’interruppe.
   «Quando? Non farti cavare le parole di bocca!».
   «... quando aprirono l’ultima interfase di spazio».
   «Quindi può darsi che stiano per rubare un altro pianeta?!» si allarmò Talyn. Ricordò le parole di Dualla, secondo cui il prossimo obiettivo era la Ferasa federale.
   «Sì, è probabile» convenne Klaatu, in tono fatalista.
   «Beh, dobbiamo impedirglielo!» fece il giovane, atterrito al pensiero d’altri miliardi d’innocenti che finivano alla mercé degli Undine. «Dobbiamo distruggere l’Harvester, o avvertire la Federazione perché mandi una flotta a farlo. Forse è questo che la Destiny è andata a fare. Bisogna vedere se farà in tempo». Più che rivolgersi a Klaatu, stava ragionando a voce alta. A un tratto però si rivolse all’anfitrione: «L’altra volta quanto ha impiegato l’Harvester a mettersi in posizione?».
   «Ventiquattro giorni» rispose Klaatu. «Poi ci sono volute settimane per mettere il pianeta in orbita, spostandolo con potenti raggi traenti».
   «Ventiquattro giorni... non so se basteranno per riunirci e tornare sulla Destiny» rifletté Talyn. «Come vorrei che avessimo più tempo! Tu come fai a essere così calmo?!» chiese, domandandosi se Klaatu non fosse segretamente un Vulcaniano.
   «Ho imparato a disciplinare la mente» rispose lui. «Ma non credere che non sia in pena per le prossime vittime degli Undine. E ci sono... altri rischi, che m’inquietano ancora di più» rivelò.
   «Sarebbe? Cosa c’è di peggio di un pianeta rapito e trascinato in un’altra realtà?!» chiese l’El-Auriano, sempre più in ansia.
   Klaatu lo fissò a lungo, come per decidere se era il caso di rispondergli. «Mio giovane amico, sappi che ho studiato a lungo i misteri del Multiverso» disse. «Non so tutto, ma... alcune cose le ho capite. Ad esempio, che il velo tra le realtà è più sottile di quanto comunemente si creda. Così sottile che a volte una mente ben disciplinata può attraversarlo» disse, fissandolo con quei suoi occhi penetranti. «E tuttavia, una separazione deve rimanere, o tutte le realtà collasserebbero su se stesse. Ebbene, io temo che le azioni degli Undine possano scatenare un cataclisma che loro stessi non immaginano. Temo che, se insistono troppo nel creare queste interfasi, esse possano allargarsi in mondo incontenibile. Nel peggiore dei casi potrebbe verificarsi un’Incursione».
   «Di che si tratta?» chiese Talyn, pur intuendo la risposta.
   «Un’Incursione è quando il velo tra due realtà si lacera completamente» rispose Klaatu, fissandolo con gravità. Alzò i palmi delle mani distesi e li accostò lentamente, sino a farli scontrare; allora strinse le dita. «In tal caso i due Universi si scontrano. Ma come due oggetti solidi non possono occupare lo stesso volume di spazio, così anche due realtà non possono davvero fondersi. Il risultato è che entrambi gli Universi vengono completamente distrutti».
   «Questo... è mai successo prima?» mormorò il giovane, cercando di capire se era un’ipotesi comprovata.
   «In alcune rare occasioni... ritengo di sì» rivelò Klaatu. I capelli neri gli incorniciavano il volto lungo e solenne. «Anche il nostro Universo ha rischiato grosso, qualche volta. L’ultima crisi avvenne oltre cinquant’anni fa, nella Battaglia di Exosia... ma è un’altra storia. Dopo di allora speravo che finalmente saremmo stati al sicuro. Invece scoprii che qualcuno stava ancora profanando altre realtà, e le tracce mi hanno condotto qui. Da allora ho osservato gli Undine e ho cercato di contrastarli, ahimè con scarso successo. E ora ci risiamo... stanno per farlo di nuovo» sospirò.
   «Perciò quando apriranno l’interfase...» fece Talyn, sentendo rizzarsi i peli sul collo.
   «No, no, giovanotto. Non sto dicendo che la prossima interfase ci annienterà tutti» lo rassicurò Klaatu. «Potrebbero volerci altre dieci interfasi, o cento. Può darsi benissimo che gli Undine si stancheranno del loro gioco e la smetteranno di rubare pianeti, prima che si verifichi un’Incursione. Ciò non toglie che vadano fermati, non fosse altro che per salvare gli abitanti dei mondi rapiti».
   Malgrado le assicurazioni di Klaatu, Talyn ebbe la sensazione che ogni interfase fosse una roulette russa. Il rischio di un’Incursione era minimo, ma... perché rischiare? «Hai avvertito gli Undine di questo pericolo?!» chiese.
   «L’ho fatto, ma la loro comprensione del Multiverso è alquanto rozza. Non hanno trovato conferme che le Incursioni esistano davvero, quindi si sono convinti che fossero uno spauracchio per fermarli» sospirò Klaatu. «La loro irresponsabilità è frustrante. Comunque, se ti ho raccontato queste cose, non è per terrorizzarti con incubi di un’imminente Incursione. È solo che il mio tempo in questo Universo potrebbe essere limitato» disse con malinconia.
   «Temi che gli Undine possano...» si preoccupò l’El-Auriano. In effetti Klaatu gli appariva indifeso, malgrado le sue conoscenze e la sua saggezza. Se un Undine l’avesse agguantato, cosa gli impediva di farlo a pezzi? E se anche Klaatu possedeva qualche asso nella manica, Talyn aveva la sensazione che il suo profondo pacifismo gli avrebbe impedito d’usarlo.
   «Dico solo che più persone sono consapevoli del pericolo, meglio è» chiarì l’uomo. «Io ti ho trasmesso questa conoscenza, e vorrei che tu la trasmettessi ad altri, se ne avrai l’occasione. Sii testimone della verità» lo esortò, fissandolo con quegli occhi profondi e malinconici.
   «Lo farò, hai la mia parola» disse Talyn. «Ma non posso continuare a nascondermi qui, mentre là fuori succedono queste cose. Non sono... paziente come te, d’accordo? Sono più portato all’azione» disse, cercando di non offendere l’anfitrione.
   «E così ci completiamo a vicenda» fece Klaatu, con un altro breve sorriso. «Dimmi cos’hai in mente di fare».
   «Per cominciare devo ritrovare il Capitano Rivera, informandolo di queste cose» decise il giovane. «Poi cercheremo di lasciare Arena e ritrovare la Destiny, anche a rischio di farci rilevare dagli Undine. E infine... credo proprio che cercheremo di distruggere l’Harvester» concluse.
   «Allora mettiamoci al lavoro» disse Klaatu, mostrando una sorprendente disponibilità a seguire il suo piano. «Primo passo, ritrovare il tuo Capitano. Ci muoveremo appena la tempesta di sabbia lo consentirà. Dovremo essere veloci, senza dare troppo nell’occhio. E dovremo evitare d’impegolarci in scontri inutili lungo la strada. Uhm, ho giusto in mente un mezzo di trasporto che fa al caso nostro...». 
 

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Capitolo 6
*** I Magnifici Nove ***


-Capitolo 5: I Magnifici Nove
 
   Come faceva quasi ogni giorno, da quando si erano stabiliti nell’antro del tecno-prete, il Capitano Rivera guidò la sua squadra in esplorazione, alla ricerca di nuovi alleati. O per meglio dire, seguì Erzsébeth, poiché la Nietzscheana era naufragata su Arena da molto prima di lui e quindi conosceva il circondario. Sapeva dove si erano rifugiati i combattenti, quali valeva la pena di contattare e quali invece era meglio evitare. Grazie a lei, gli avventurieri si erano risparmiati un bel po’ di problemi. Ma anche così, il piano di Rivera procedeva a rilento.
   Dopo dieci giorni di sforzi, gli unici due elementi ad essersi uniti alla squadra erano Kara Thrace – detta Scorpion – e Johnny Rico, che erano finiti su Arena di recente e quindi non avevano ancora trovato un rifugio. Nel loro caso unirsi alla banda era stato l’unico modo per sopravvivere su quel mondo inclemente. E comunque non vi erano entrati senza scossoni. Entrambi provenivano da realtà in cui l’Umanità era sola contro minacce aliene e quindi stentavano a fidarsi di Naskeel. L’idea di lasciare volutamente il rifugio per cercare altri alleati, anche alieni, gli sembrava una follia. Il Capitano aveva dovuto mettercela tutta per convincerli a seguirlo. Del resto, le “regole d’ingaggio” erano poche e chiare: tutti facevano la loro parte, nessuno oziava, e in caso di bisogno tutti aiutavano i compagni in difficoltà.
   Ancor più contestato era il fatto che il comando della banda spettasse a Rivera. Le uniche basi per questo stavano nel fatto che lui e Naskeel erano i fondatori del gruppo, e Naskeel riconosceva la sua autorità. Oltre a questo, s’erano fatte questioni di grado. Rico aveva il grado di Tenente, Erzsébeth di Comandante, per cui se fossero appartenuti alla stessa unità militare Rivera avrebbe effettivamente rivestito il grado più alto. Scorpion aveva obiettato che anche lei era Capitano, ma dopo un serrato interrogatorio aveva ammesso che lo era solo della sua squadriglia di caccia; e un Capitano di squadriglia era comunque subordinato al Capitano di vascello.
   «Tanto sono tutte fesserie» aveva detto Scorpion nel suo modo diretto. «Noi non veniamo dallo stesso esercito. Anzi, da quel che ho capito, tu non sei nemmeno un militare in senso stretto, ma più un avventuriero» aveva detto a Rivera.
   «Sarò anche un avventuriero, ma sono l’unico fra noi ad avere un’astronave funzionante» aveva ribattuto lui. «Se ci torneremo, sarete ospiti sul mio vascello. E sarò io a riportarvi a casa».
   «Sempre che questa Destiny esista, e non sia tutta una scusa per comandare».
   «Se la prospettiva non ti aggrada, quella è l’uscita. Puoi tornare nel deserto, dove stavi morendo di stenti quando ti abbiamo raccattata» aveva concluso Rivera.
   Dopo quell’alterco, nessuno aveva più messo in discussione l’autorità del Capitano. Tuttavia Rivera aveva la sensazione che l’equilibrio raggiunto fosse precario. Che avrebbero fatto se alla banda si fosse aggregato un vero Capitano, o persino un Ammiraglio? E se si fossero uniti a un gruppo più vasto, che aveva già il suo capo? Non che Rivera cercasse il potere a tutti i costi. Ma la sua idea di partenza era adottare comportamenti più umani rispetto agli altri naufraghi, e se si faceva soffiare il comando, tutto questo rischiava di perdersi. Così, ogni volta che uscivano per le loro esplorazioni, il Capitano si chiedeva se ne valesse davvero la pena.
   «Allora, dove andiamo oggi?» chiese, affiancandosi a Erzsébeth.
   «Ci sto pensando» rispose la Nietzscheana. «Il fatto è che ormai abbiamo contattato quasi tutti i naufraghi che conoscevo. Vi ho portati da quelli che mi sembravano i più disponibili ed è andata male. Ora restano i soggetti peggiori».
   Rivera annuì cupamente. “Andata male” era un eufemismo: molti li avevano accolti sparando. Altri avevano intavolato trattative, che però si erano arenate quasi subito. In effetti una banda non aveva grandi incentivi a unirsi a loro, anche per gli inevitabili dissidi sul comando. L’unica possibilità era aggregare singoli dispersi, fino a diventare un gruppo di un certo rispetto; allora potevano sperare d’inglobare quelli più piccoli. Ma una banda di cinque elementi – sei col tecno-prete – era troppo piccola per esercitare attrattiva.
   Almeno il Capitano aveva cominciato a familiarizzare coi popoli del Multiverso. In quei dieci giorni aveva incontrato più specie sconosciute che in tutto il resto della sua vita. Centauri e Narn, Minbari e Nebari, Luxan e Scarran, Moclan e Xelayan: una galleria di strani e sorprendenti popoli. Alcuni stupivano per la loro somiglianza con gli Umani, sebbene provenissero da altri Universi. Rivera ricordò che, nella sua realtà, le specie umanoidi erano state favorite nell’evoluzione da un’antichissima stirpe proto-umanoide: non era da escludere che nelle altre realtà fosse avvenuto lo stesso. Era un peccato dover conoscere quelle specie in condizioni così avverse, senza l’occasione di un dialogo che andasse oltre le necessità basilari della sopravvivenza.
   «Ho un’idea» disse a un tratto Erzsébeth. «Sono un po’ lontani, ma ne vale la pena». La Nietzscheana parlottò fittamente con Rivera, descrivendogli la banda che intendeva visitare. Il Capitano ascoltò con attenzione, anche se dopo dieci giorni d’incontri cominciava a fare confusione. Gli Undine infatti non rapivano individui a caso, ma selezionavano quelli più adatti al combattimento. Così quasi tutti i naufraghi incontrati finora appartenevano a specie tenaci e resistenti, con forti tradizioni militari. Le poche eccezioni avevano comunque qualche vantaggio fisico o psichico che favoriva la sopravvivenza.
   Qualche passo più indietro, il resto della banda chiacchierava, mettendo a confronto le rispettive esperienze. C’erano Scorpion, Rico e Naskeel, mentre il tecno-prete come al solito era rimasto a presidiare l’antro. Poco alla volta le voci si fecero più schiamazzanti, finché il Capitano si accorse che quelli dietro di lui erano impegnati in una vera e propria gara. Stavano cercando di stabilire chi prestava servizio sull’astronave più grossa, come se questo sancisse chissà quale superiorità.
   «La Destiny è lunga 1.236 metri, per una massa di circa 25 milioni di tonnellate» disse Naskeel.
   «Niente male, ma il Battlestar Galactica raggiunge i 1.445 metri e la Pegasus arrivava a 1.790» si vantò Scorpion.
   «Se è per questo, la vecchia Rodger Young era lunga 1.500 metri e la moderna classe Athena arriva a 2.200» ghignò Rico.
   «Sì, ma qual è la massa complessiva dei vostri vascelli? Considerate che la Destiny ha anche una sezione anulare che circonda lo scafo principale» notò il Tholiano, che forse non capiva lo scopo del gioco, ma comunque vi partecipava con precisione matematica.
   «Oh, adesso m’è passato di mente» disse Scorpion, per non ammettere l’inferiorità della sua nave.
   «Anche a me» fece Rico, per lo stesso motivo. «Ehi, Elizabeth...» si rivolse alla Nietzscheana.
   «Erzsébeth, ma puoi chiamarmi Comandante» fece lei, distraendosi dalla conversazione con Rivera.
   «Quello che è» disse Rico, facendo spallucce. «Allora, la tua nave quant’è grossa?».
   «Presto servizio sulla Pax Magellanic, una classe Glorious Heritage da 1.300 metri, per una massa inerziale di 96.400.000 tonnellate. Contenti?» fece Erzsébeth.
   «Orpo, è più corta ma ci batte in massa!» fece Rico, contrariato.
   «Bah, chi vuole una nave cicciona? Viva le astronavi agili e snelle!» esclamò Scorpion. «E i caccia, ce li avete? Perché da noi i caccia sono tutto! Sono i piloti come me che difendono la Flotta Coloniale dalle astro-basi dei Cylon».
   «Bah... a che servono i caccia, se poi non controlli il territorio? Noi privilegiamo i mezzi da sbarco, per dispiegare in fretta la fanteria» fece Rico.
   «Beh, sapete, quello che conta davvero sono armamenti e scudi» disse Rivera, incapace di resistere alla gara. «E da quel che ho capito, voi siete piuttosto indietro su questo. Il Battlestar Galactica non ha scudi e la Rodger Young non ha resistito nemmeno ad asteroidi e armi al plasma. La mia Destiny ha scudi cronofasici che le consentono d’attraversare la fotosfera di una stella».
   «Notevole, anche la mia nave può farlo» fece Erzsébeth. «E le armi?».
   «Le armi... sono classificate» disse il Capitano, accorgendosi che non era saggio sbandierare i dati tattici della Destiny con quei militari appena conosciuti. Doveva essere stato il sole cocente a farlo parlare a sproposito.
   «Già, anche le nostre» disse Rico, giunto alla stessa conclusione.
   «E le nostre» fece Scorpion.
   Per diverso tempo camminarono in silenzio, sotto il sole battente, sempre guidati da Erzsébeth. Poi Scorpion non riuscì a trattenersi. «E a velocità come siete messi? Noi abbiamo la propulsione FTL che ci permette d’arrivare ovunque in un lampo».
   «In un lampo? Le nostre navi possono attraversare la Galassia, ma non certo all’istante» fece Rico, colpito.
   «Lo stesso per le nostre, se usiamo la cavitazione quantica» ammise Rivera.
   «Uhm, curioso» fece Erzsébeth. «La nostra tecnologia è più avanzata sotto molti aspetti, ma da noi i viaggi interstellari sono più complicati. Servono piloti con una comprensione istintiva delle correnti subspaziali...».
   Fu così che riprese la discussione su quale astronave fosse la più ganza. Rivera non se la sentì di bloccarla, perché in fondo era contento che i membri della banda cominciassero a legare; e poi non era male ascoltare le specifiche delle loro navi. Più passava il tempo, più si convinceva che l’unica tecnologia in grado di rivaleggiare con quella federale fosse quella del Commonwealth. E neanche loro sembravano possedere il teletrasporto. In un certo senso, era consolante. Ma su Arena c’erano esponenti di molte altre civiltà e non era da escludere che alcune fossero più progredite. Quel portale che aveva trovato sulla CSS Destiny, e che permetteva trasferimenti istantanei da un pianeta all’altro, era un indizio in tal senso. Il Capitano si ripromise di stare più all’erta che mai, sapendo che poteva imbattersi in tecnologie superiori a quelle cui era abituato.
 
   Camminarono per ore, addentrandosi in una zona di passaggi labirintici tra le rocce. A un certo punto si trovarono in un piccolo canyon, forse il letto prosciugato di un antico fiume. Le pareti si levavano ad alcuni metri d’altezza, portando finalmente un po’ d’ombra e frescura, ma il Capitano era irrequieto. «Non mi piace la nostra posizione. Se qualcuno volesse tenderci un agguato, avrebbe gioco facile» notò.
   «Hai ragione, cerchiamo di salire sugli argini» convenne Erzsébeth. Gli avventurieri cercarono un punto in cui il pendio permettesse la risalita, altrimenti sarebbero dovuti tornare indietro di un lungo tratto.
   «Arriva qualcuno; sento le vibrazioni sul terreno» disse a un tratto Naskeel.
   «Sì, li sento anch’io» confermò Erzsébeth, tendendo l’orecchio. I suoi sensi di Nietzscheana erano davvero più fini di quelli umani, perché Rivera non udiva nulla. Ma il Capitano si fidò del doppio avvertimento. «Al riparo!» ordinò, accennando a un macigno lì vicino. Vi si nascosero tutti dietro, per vedere chi stava arrivando. L’attesa non fu lunga.
   Era un plotone di soldati – dodici in tutto – rivestiti da corazze leggere, color ferro. Le loro linee avevano qualcosa d’arcaico, che al Capitano ricordò l’Antico Egitto. Portavano elmi molto aderenti, praticamente delle calotte. L’elemento più curioso erano le loro armi: lance da combattimento lunghe un paio di metri, che al momento usavano come bastoni da passeggio, per aiutarsi sul suolo accidentato. Somigliavano alla lancia di Erzsébeth, pur avendo uno stile diverso; inoltre parevano incapaci di ripiegarsi.
   «Sono loro» sussurrò la Nietzscheana. «Lascia parlare me...».
   In quella però sulle pareti del canyon apparve un folto gruppo d’armati. Erano appostati su ambo i lati, una decina per parte, così da prendere le vittime nel fuoco incrociato. Si trattava di un agguato in piena regola. I nuovi arrivati avevano corazze nere, simili ai carapaci dei coleotteri, che li coprivano completamente. Persino le teste erano del tutto celate da sofisticati caschi, conformati per qualcosa di più voluminoso di un cranio umano. Le loro armi somigliavano a fucili phaser.
   «Krill» riconobbe Erzsébeth. «Sono fanatici religiosi, convinti di dover sradicare le altre specie. È quasi impossibile trattare con loro» sussurrò.
   «State fermi» ordinò Rivera agli altri. Aveva capito che i Krill non ce l’avevano con loro, anzi non sembravano nemmeno averli notati. Le loro vittime designate erano i soldati con le lance che percorrevano il canyon più avanti. Questi infatti dalla loro posizione non riuscivano a vedere i cecchini appostati, per cui si stavano cacciando in trappola.
   «Li massacreranno, non credi che dovremmo intervenire?!» sussurrò Scorpion.
   «È quel che faremo» decise Rivera, non volendo perdere dei potenziali alleati. «Distrarremo il fuoco nemico e poi saliremo da lì». Indicò un pendio scosceso da cui, con qualche sforzo, potevano risalire il canyon, arrivando al livello dei Krill. Vedendo che non c’era tempo da perdere – i soldati in grigio stavano per cadere nell’agguato – il Capitano passò all’azione.
   «Attenti, è un’imboscata!» gridò, sparando ai cecchini. Dalla sua posizione più favorevole riuscì a colpirne uno, facendolo cadere giù nel canyon.
   «Fuoco, per Avis!» intimò il comandante Krill. I suoi soldati eseguirono, ma dovettero dividersi tra i due gruppi d’avversari, risultando meno efficaci.
   «Jaffa, Kree!» gridò il capo del plotone in grigio, reagendo prontamente alla minaccia. I suoi uomini si dispersero, per non costituire un bersaglio compatto, e risposero al fuoco con le lance a energia. I loro colpi erano assai precisi, tanto che diversi assalitori furono abbattuti. Ma i Jaffa erano comunque svantaggiati dall’inferiorità numerica e dalla posizione, trovandosi in fondo al canyon, circondati dai Krill. Non avevano molti ripari, così che parecchi Jaffa caddero, colpiti dai cecchini appostati sopra di loro. Era una battaglia senza quartiere. Le grida dei colpiti echeggiavano nel canyon e i colpi erratici minacciavano di provocare dei crolli.
   «Arrendetevi, infedeli! Inchinatevi ad Avis e vivrete!» gridò il comandante Krill, ma era chiaro che non l’avrebbe fatto, se avesse creduto in una facile vittoria.
   «Mai! Noi siamo i Jaffa Liberi e non c’inchiniamo a nessuno!» ribatté il capo degli assaliti. «Abbiamo abbattuto i falsi dèi Goa’uld!» aggiunse con orgoglio, sebbene i colpi gli piovessero tutt’attorno.
   «Già, perché erano falsi!» rise il Krill. «Ma Avis è vero, e non un solo granello di sabbia si muove senza la Sua volontà!».
   «Allora anche la vostra sconfitta sarà sua volontà!» ribatté il capo dei Jaffa, aprendo il fuoco su di lui. L’altro si ritrasse appena in tempo. Lo scontro si trascinò, con gli armati appostati dietro le rocce, che ogni tanto si sporgevano per sparare un colpo.
   «Adesso!» ordinò Rivera, vedendo il momento propizio. Lui ed Erzsébeth uscirono dal riparo, mentre gli altri facevano fuoco di copertura. Raggiunsero il pendio e lo risalirono, cercando di tenersi bassi, così che i Krill non riuscissero a vederli dalle loro posizioni. A un tratto il Capitano scivolò sul pietrisco, rischiando una brutta caduta. La Nietzscheana se ne accorse e gli offrì l’estremità della sua lancia. L’Umano vi si aggrappò, finché smise di scivolare. Dopo essersi scambiati una breve occhiata d’intesa, ripresero l’arrampicata. In breve giunsero in sommità, allo stesso livello dei Krill appostati. Allora furono loro a fare fuoco di copertura, mentre Scorpion e Rico salivano. Stavolta fu la donna a scivolare leggermente, raschiandosi i pantaloni all’altezza delle ginocchia, ma riuscì a frenarsi con le sue forze e riprese la salita. In breve anche lei e Rico furono in sommità.
   «Avanti!» ordinò il Capitano. Non potevano aspettare Naskeel, perché i Jaffa erano allo stremo. Così attaccarono i Krill sul loro lato del canyon, approfittando del fatto che non avevano ripari. Alcuni Krill furono uccisi e gli altri furono spinti così sul ciglio del burrone che questo – colpito dai Jaffa – franò, trascinandoli giù. Ci fu uno schianto fragoroso, seguito da un gran sbuffo di polvere e sabbia.
   Il Capitano tossì e si passò la mano sugli occhi irritati. Quando la nube polverosa si disperse, vide che tutti i Krill sul loro lato erano stati neutralizzati. Fra questi c’era anche il comandante della squadra. Quanto ai Krill sull’altro lato, erano rimasti in pochi e senza guida, tanto che si ritirarono. Rivera li osservò finché fu certo che erano ben lontani. A quel punto lui ed Erzsébeth ridiscesero nel canyon, lasciando i compagni di vedetta in sommità. Sdrucciolarono sul fondo per la stessa via da cui erano saliti, riunendosi a Naskeel. I tre si avvicinarono cautamente al luogo dell’agguato, dove le ultime polveri si stavano depositando.
   Malgrado l’aiuto degli avventurieri, i Jaffa erano stati colpiti duramente, per via della loro posizione esposta. Nove di loro erano caduti sotto i colpi dei Krill, mentre altri due erano stati travolti dalla frana. Solo il capo-pattuglia era incolume. Lo trovarono inginocchiato accanto a un compagno agonizzante. Quando quest’ultimo annuì, autorizzandolo a procedere, il comandante imbracciò la lancia a energia. «Muori libero» disse, e lo finì con un colpo al cuore. Poi si girò di scatto verso i nuovi arrivati, minacciandoli con la lancia, come se volesse sparare anche a loro. «Fermi! Chi siete?!» intimò.
   «Quelli che ti hanno salvato la vita» ribatté il Capitano, puntando a sua volta il phaser. «Mi spiace di non aver salvato anche i tuoi uomini, ma eravate troppo esposti».
   «Già... è stata colpa mia» ammise il Jaffa, deponendo la lancia. «Speravo che seguendo il letto del fiume ci saremmo risparmiati qualche giorno di viaggio e avremmo trovato delle pozze. Avrei dovuto mandare qualche uomo in avanscoperta di sopra. Ora non ho più una squadra. Non sono più un comandante... non sono più nulla» disse tristemente. Si levò anche la calotta metallica, lasciandola cadere a terra. Era un omone di carnagione scura, col cranio rasato e giusto un poco di barba sul mento. Era così affranto che Rivera non era certo di come procedere. Forse la cosa migliore era dargli spazio, aspettando che fosse lui a parlare.
   In quella però dalla frana giunsero dei suoni soffocati e alcune pietre furono smosse, rotolando al suolo. Il Jaffa si accostò, sperando che uno dei suoi soldati travolti fosse ancora vivo. Cominciò a rimuovere le pietre, aiutato da Rivera ed Erzsébeth. Ma con grande delusione, quello che apparve sotto i detriti non fu un Jaffa, bensì un Krill. Anzi, a giudicare dalle rifiniture dorate dell’armatura era proprio il loro comandante, colui che aveva deciso l’imboscata. Erzsébeth gli strappò subito l’arma a energia, sebbene il Krill sembrasse troppo malridotto per usarla. Persino il suo casco era in parte schiacciato.
   «Perché ci avete attaccati?!» chiese il Jaffa, puntandogli la lancia alla gola.
   «E perché non dovremmo? Siete creature senz’anima, una povera imitazione dei figli di Avis» rispose quello, toccandosi il petto. «Non avete diritti su questo mondo, né su altri, poiché Avis ha creato il cosmo solo per noi» rivendicò.
   «Questo mondo non si trova nel tuo cosmo. Siamo stati tutti rapiti da un’altra specie, gli Undine» spiegò Rivera. «Sono loro il vero nemico. Dovremmo unire le forze per fuggire da qui, invece che distruggerci a vicenda, come vogliono loro».
   «Le menzogne di un infedele sono come ronzio di mosche» fece il Krill, rifiutando persino di guardarlo. «Sappiate solo che la vendetta di Avis sarà terribile!».
   «Dimentica Avis e ascoltaci!» ringhiò il Jaffa, ancora rabbioso per l’uccisione dei suoi uomini. Afferrò il casco danneggiato del Krill e glielo strappò rudemente, mettendo a nudo il volto.
   Rivera osservò perplesso l’alieno. Era simile ai Jem’Hadar, i soldati del Dominio, tanto da sembrare una loro variante. Aveva la stessa pelle scagliosa, anche se più pallida, e lo stesso testone vagamente triangolare. Gli occhi però erano interamente neri e il mento aveva delle escrescenze ossee biforcute. «Senti, gringo, non abbiamo tempo da perdere. Se non collabori...» cominciò il Capitano, ma s’interruppe.
   Al Krill stava accadendo qualcosa d’orribile. Nel momento in cui il suo volto pallido era stato messo a nudo, il sole del deserto aveva preso a bruciarlo in modo terrificante. Le ustioni si allargarono a vista d’occhio, come se stesse rosolando in padella. «No, la luce no!» rantolò l’alieno, cercando di farsi scudo con le mani. In pochi attimi però le ustioni si aggravarono a tal punto che egli perse tutte le forze. Le braccia gli ricaddero, mentre un odore di cottura saliva dalle sue carni. Il Krill emise qualche rantolo smozzicato e sussultò in agonia. Infine ricadde inanimato, il volto così bruciato da essere irriconoscibile.
   «Ma che diavolo...?» fece Rivera, impressionato. Aveva conosciuto specie fotosensibili, come i Remani, ma nessuna che avesse una reazione così immediata e devastante.
   «Sì, i Krill sono altamente sensibili alla luce solare» confermò Erzsébeth, osservando con sufficienza la carcassa bruciacchiata. «Ecco perché all’aperto indossano i caschi. Una luce intensa come questa, con forte componente ultravioletta, li uccide in pochi secondi».
   «Buono a sapersi... al prossimo incontro dobbiamo solo convincerli a levarsi i caschi» ironizzò l’Umano. Vedendo che il Jaffa gli era ancora accanto, decise di rivolgersi a lui. «Sono il Capitano Rivera, della nave federale Destiny» si presentò.
   «E io sono Yo’rek, dei Jaffa Liberi» rispose l’altro. «Ero Tenente di vascello quando naufragammo su questo mondo... ormai sono passati anni. Non riuscendo a riparare la nave, l’abbiamo abbandonata, in cerca d’altri veicoli con cui andarcene. O in alternativa di un chappa’ai» spiegò.
   «Un cosa?!» fece Rivera.
   «Forse lo conosci col nome di stargate, o astra porta» chiarì il Jaffa. «È quel grande anello attraverso cui si possono raggiungere altri mondi, a patto di conoscerne le coordinate».
   «Ah, intendi il portale ico... sì, lo stargate» si corresse il Capitano, intuendo che quello era il suo nome corretto. «Non credo ce ne siano su questo pianeta. Gli Undine ci hanno esiliati qui per farci combattere, quindi non avranno lasciato vie di fuga».
   «Sì, è la conclusione a cui sono giunto anch’io, dopo aver compreso la natura di questo luogo. Speravo ancora di trovare una navicella riparabile, ma ormai anche questa speranza è infranta» disse tristemente Yo’rek.
   «Mi spiace per la tua squadra. Comunque, se lo desideri, puoi entrare nella mia» propose Rivera, accennando ai compagni.
   «Nella tua squadra... c’è anche quello?» chiese il Jaffa, accennando al Tholiano.
   «È il Tenente Naskeel, e sì, fa parte del mio equipaggio» confermò Rivera, ormai abituato a queste reazioni sorprese.
   «Uhm... gli altri sono tutti Tau’ri?» volle sapere Yo’rek, passando lo sguardo da Erzsébeth – coi suoi speroni ossei – ai due ancora appostati in alto.
   «Come? No, siamo Umani!» disse il Capitano.
   «Appunto: i Tau’ri sono gli Umani, specie quelli nati sulla Terra» disse solennemente Yo’rek.
   «Okay, facciamo un passo indietro» disse Rivera, massaggiandosi le tempie. «Io sono un Umano della Terra, ma vengo da una realtà diversa dalla tua. Tutta la mia squadra, tranne Naskeel, è composta da Umani che vengono da altre realtà ancora. Quindi ci scuserai se non capiamo del tutto la tua terminologia. Abbiamo deciso di collaborare, per sfuggire agli Undine e andarcene da qui. Vedi, io ho un’astronave funzionante che ci attende nello spazio. Se riuscissimo a contattarla, ci prenderebbe a bordo».
   «Dici sul serio?!» fece il Jaffa. Una scintilla di speranza si riaccese in lui.
   «Sì, e ti dirò di più: la Destiny può viaggiare tra le realtà» rivelò il Capitano. «Quindi riporterò ciascuno di voi nel suo cosmo d’origine, se riusciremo a tornare a bordo. Allora, ci stai?».
   «Sono con te, Capitano Rivera» disse Yo’rek. Ora che lo shock per la perdita dei compagni cominciava ad attenuarsi, il Jaffa aveva un atteggiamento composto, quasi solenne. «Conosci il pianeta Chulak? È il mio mondo d’origine» disse.
   «Temo di no. Hai le coordinate?».
   «Ho quelle da impostare sul chappa’ai. Mi basterà raggiungere un qualunque pianeta provvisto di portale per tornare a casa» spiegò il Jaffa.
   «Caspita, che comodità! Immagino che dalle vostre parti le astronavi siano sorpassate» commentò Rivera, riflettendo sulle implicazioni di una rete galattica di stargate.
   «No, affatto. Certi carichi sono così ingombranti che non sarebbe pratico farli passare per i chappa’ai» spiegò Yo’rek. «Inoltre le astronavi sono ancora fondamentali per stabilire la supremazia militare sui pianeti. Così le potenze interstellari hanno flotte di navi da guerra. Non sono istantanee come i portali, ma in definitiva sono quelle a sancire il predominio».
   «Senti, senti...» fece il Capitano. Quel cosmo sembrava un luogo promettente in cui cercare alleati. Parlarono a lungo, scambiandosi informazioni sui rispettivi universi. Prima di andare, Yo’rek volle seppellire gli sfortunati compagni di squadra. Ciò fu fatto rapidamente, scavando le fosse col phaser e il fucile polaronico, per poi adagiarvi i corpi e ricoprire il tutto di pietrisco. I Krill invece furono lasciati dov’erano; Naskeel tuttavia prese una delle loro armi.
   Terminato questo triste compito, Rivera notò che il sole aveva cominciato a calare e decise di tornare al rifugio per la notte.
   «Se vi occorrono strumenti per trovare la Destiny e contattarla, potrei condurvi alla mia vecchia nave» propose Yo’rek. «Non può volare, ma gli altri sistemi sono in ordine».
   «A che distanza si trova?».
   «È lontana» ammise il Jaffa. «Anche prendendo la via più diretta, servirà almeno un mese per raggiungerla».
   «Uhm, è troppo lontana per puntarvi subito» ragionò il Capitano. «Prima torneremo al nostro rifugio, e una volta lì vedremo se siamo in grado d’affrontare un viaggio così lungo». Pensò anche al tecno-prete, chiedendosi se sarebbero riusciti a portarselo dietro; finora non li aveva mai seguiti nei loro giri esplorativi.
   Gli avventurieri presero così la via del ritorno. Molti fecero domande a Yo’rek, che però non era più tanto loquace. Strada facendo raccontò comunque strani aneddoti, come il fatto che un tempo ai Jaffa era impresso sulla fronte il marchio del loro signore Goa’uld, e solo dopo la ribellione gli era stato risparmiato questo supplizio. «Anche al mio antenato Teal’c, uno dei primi Jaffa a ribellarsi, fu impresso il marchio di Apophis, ed egli combatté a lungo per lui» rivelò. «Ma infine trovò la forza di ribellarsi, unendosi all’SG-1, una squadra di terrestri che avevano cominciato a esplorare la rete di stargate. In oltre un decennio di straordinarie avventure e battaglie, essi trovarono nuove tecnologie e alleati su altri mondi. Riuscirono persino ad abbattere Apophis e gli altri Goa’uld, come Anubis e Ba’al, inaugurando una nuova era per la Galassia» disse con fierezza. D’un tratto però si fece cupo. «Nella mia famiglia si contano grandi eroi... i padri fondatori della moderna nazione Jaffa. Io però non ho mai fatto nulla d’importante, e se morirò qui, il mio nome non sarà ricordato» confessò.
   «Amigo, lascia che ti dica una cosa che ho dovuto imparare sulla mia pelle» disse Rivera. «È inutile paragonarci agli altri, che siano o meno nostri parenti. Se lo facciamo, tendiamo a scegliere paragoni tali da uscirne con le ossa rotte. Se proprio dobbiamo paragonarci a qualcuno, facciamolo con noi stessi nel passato, e vediamo se siamo riusciti a migliorarci almeno un po’. Già questo è il meglio che possiamo fare».
   «Sei saggio, Capitano Rivera» riconobbe il Jaffa.
   «No, ho solo dovuto imparare le cose nel modo più difficile» corresse l’Umano.
 
   Tornati nell’antro del tecno-prete, gli avventurieri fecero le presentazioni. Yo’rek fu disgustato da quell’essere coperto d’impianti cibernetici, tanto che sulle prime imbracciò la lancia a energia. «Quello non è un Replicatore, vero? Né un Asurano?!» chiese.
   «Non so di cosa parli. È solo un tecno-prete di Marte, okay? Ora posa quell’arma» ordinò Rivera.
   Il Jaffa eseguì, ma per il resto della serata non perse di vista il cyborg.
   «Allora, dobbiamo prendere una decisione» disse il Capitano più tardi. «Se Yo’rek ci guida alla sua nave, potremmo localizzare la Destiny e forse contattarla. Ma dovremo affrontare un viaggio molto lungo. Il cibo sarà appena sufficiente, mentre per l’acqua dovremo rifornirci ai pozzi lungo il cammino». La tuta distillante lo avrebbe certo aiutato, ma non ne aveva altre per i compagni.
   «Vi guiderò a quelli che trovai col mio gruppo» garantì il Jaffa.
   «E naturalmente rischiamo di fare incontri spiacevoli lungo la strada» proseguì Rivera. «Se poi arriviamo a destinazione, non c’è alcuna garanzia di localizzare la Destiny. Come vedete, è un viaggio molto arduo per una speranza molto esile. Io stesso sono combattuto, quindi decideremo democraticamente, per alzata di mano. Alzino i favorevoli!».
   Sorprendentemente alzarono tutti la mano, tranne il tecno-prete.
   «Bene, allora andremo. Prepariamo i bagagli; porteremo tutta l’acqua e il cibo possibili» stabilì Rivera, augurandosi che fosse la scelta giusta.
   «Andate, se lo ritenete utile. Io resto qui» disse però il tecno-prete. «Non mi separerò dalle mie sacre macchine, e poi vi rallenterei il cammino».
   Il Capitano non insisté, perché anche lui aveva la stessa sensazione. «E va bene. Se contatteremo la Destiny, faremo in modo di recuperare anche te» promise.
   «Sta’ attento, Capitano. Questo mondo è pieno di xenos, e dell’invisibile miasma della loro corruzione» disse il sacerdote, avvicinandosi in un ticchettio d’arti meccanici. Prese Rivera da parte, mentre gli altri facevano i bagagli, e gli sussurrò all’orecchio. «Ricorda: un vero guerriero spesso comprende i suoi nemici meglio ancora dei suoi amici. Ed è un trabocchetto pericoloso lasciare che la comprensione si traduca in compassione. Compassione per il nemico! Ecco la più grande minaccia per chi combatte. Essa t’induce a lasciare in vita l’avversario, perché lui è la giustificazione per la tua esistenza» ammonì.
   «Ho ben altre giustificazioni per vivere, all’infuori dei miei nemici» garantì il Capitano. Fece per allontanarsi, ma il tecno-prete lo trattenne con una delle sue sinistre grinfie meccaniche.
   «Buon per te, giovanotto. Ma può venire l’ora in cui ti troverai circondato dai nemici, e non ti fiderai nemmeno degli amici. In tal caso ricorda che le persone mentono, ma il sangue non mente. Solo il sangue rivela chi sei!» disse, enigmatico. Dopo di che lasciò andare Rivera, permettendogli di allontanarsi.
 
   Il giorno dopo gli avventurieri si misero in marcia, lasciando la relativa sicurezza dell’antro per gettarsi nell’imprevedibile deserto. Adesso era Yo’rek a guidarli, facendo all’inverso la strada che lo aveva condotto lì. Camminarono per gran parte del giorno, scambiando poche parole. Il Capitano si chiedeva se avesse fatto bene ad affidare le loro vite alle promesse dell’ultimo arrivato nel gruppo. Se all’arrivo avessero scoperto che i Jaffa erano ancora molti, e questi li avessero catturati?
   «È un rischio da correre» si disse Rivera. «Non possiamo starcene chiusi in quell’antro. Dobbiamo capire cosa sta succedendo lassù» pensò, alzando gli occhi al cielo.
   «L’ha notato anche lei, Capitano?» gli chiese Naskeel, affiancandolo.
   «No, cosa c’è da notare?».
   «A quest’ora l’Harvester dovrebbe essere visibile, in quella zona» spiegò il Tholiano, indicando una porzione di cielo.
   «Ma non c’è» notò Rivera.
   «Appunto».
   «Uhm, non ti sarai sbagliato?».
   «No, Capitano. Se la stazione non è dove dovrebbe essere, significa che gli Undine la stanno muovendo» puntualizzò Naskeel.
   «Perché dovrebbero... oh, no» fece Rivera, intuendo la verità. «Vogliono aprire un’altra interfase, rubare un altro pianeta».
   «È l’ipotesi più probabile» confermò il Tholiano. «Ecco perché dobbiamo raggiungere al più presto la nave Jaffa, per farci un quadro più preciso di cosa sta accadendo nello spazio».
   «Lo faremo» promise il Capitano, affrettando il passo.
 
   Qualche ora dopo, i viaggiatori erano ancora nel labirinto di rocce quando udirono un frastuono di spari misto a versi animaleschi. «Un altro combattimento!» esclamò Erzsébeth, attivando la sua lancia dell’Alta Guardia. Anche gli altri imbracciarono le armi.
   «Non capisco da che parte è» si lamentò il Capitano, disorientato dagli echi che rimbalzavano tra le rocce.
   «Di qua!» fece Rico, volgendosi a destra.
   «Sei sordo?! È di là!» fece Scorpion, girandosi a sinistra.
   «È proprio davanti a noi» li smentì Naskeel, tirando dritto. Il gruppo seguì il Tholiano, che sembrava particolarmente bravo a orientarsi. Più avanzavano, più il frastuono aumentava, segno che si stavano avvicinando. Finalmente sbucarono in uno spiazzo, trovandosi davanti a una scena truculenta.
   Una moltitudine d’Aracnidi di varie specie attaccava un solo guerriero, cercando di finirlo. Questo era in trappola, trovandosi con la schiena contro una parete rocciosa; ma opponeva una resistenza indomita. Gli avventurieri lo osservarono sbalorditi: non avevano mai visto un combattente del genere. La sua statura era colossale, tanto da farlo torreggiare sui Warrior Bug. Era interamente rivestito da una massiccia corazza blu oltremare, con rifiniture dorate. Sembrava pesantissima, anche per via dell’enorme zaino, eppure il proprietario si muoveva con grazia mortifera. Sul pettorale aveva l’emblema di un teschio alato, mentre sugli spallacci e sul casco campeggiava un altro simbolo: una U che probabilmente era una omega rovesciata. Le sue armi erano un massiccio mitragliatore, brandito a una sola mano, e una spada-motosega che fumigava del sangue degli Aracnidi. Il guerriero le usava simultaneamente con grande maestria, abbattendo ogni creatura che osava avvicinarsi. Sul suo casco blu spiccavano gli occhi dal taglio cattivo e dallo scintillio sanguigno.
   «Indietro, miseri Tyranid, nel nome dell’Imperatore!» tuonò il guerriero, tagliando in due un Warrior Bug con un solo fendente. «Non banchetterete con la mia carcassa! Non oggi!» proclamò.
   «Avete visto il suo simbolo?» notò Erzsébeth, sempre attenta ai dettagli.
   «Sì, dev’essere un Ultramarine... quelli di cui parlava il tecno-prete» annuì Rivera.
   «Che facciamo?» chiese Scorpion.
   «Che domande! È un commilitone in pericolo, lo aiutiamo!» rispose Rico, sul punto di gettarsi allo scoperto.
   «Piano, novello Rambo» lo frenò Rivera. «Lui non si considera un nostro commilitone. Da quanto ho capito, gli Ultramarine sono dei massacratori. Anche se lo aiutiamo, non è detto che ci sia riconoscente. Potrebbe ucciderci solo perché non apparteniamo al suo Impero».
   «Allora tiriamo dritto» propose Erzsébeth, col tipico pragmatismo Nietzscheano.
   «Però si sta battendo con grande coraggio. Sarebbe disonorevole abbandonarlo» obiettò Yo’rek.
   «Groan... tu che ne pensi, Naskeel?» fece Rivera, alle prese con un’altra decisione difficile.
   «Non abbiamo elementi per stabilire se l’Ultramarine sarà un valore aggiunto alla squadra oppure una minaccia. A sua discrezione, Capitano» rispose il Tholiano.
   «Che farei senza di te?» fece Rivera, sarcastico. «E va bene, non me la sento di passare oltre. Diamogli una mano!».
   A queste parole gli avventurieri aprirono il fuoco sugli Aracnidi. Colti di sorpresa, alcuni furono abbattuti ancor prima di capire da dove veniva l’attacco. Passati i primi attimi, tuttavia, molti altri fecero dietrofront e contrattaccarono. Rivera e i suoi dovettero mettercela tutta per tenerli a distanza. Fortunatamente Erzsébeth e Yo’rek si rivelarono abili a colpire i gangli nervosi degli Aracnidi con precisi colpi delle loro lance a energia.
   Vedendo che due terzi degli avversari erano stati distratti dall’attacco, anche l’Ultramarine riprese animo. Attaccò gli Aracnidi, lasciando che le loro zampe falciformi si spuntassero sulla sua resistentissima armatura. Li crivellò di colpi, li falciò con la spada-motosega, e a quanti si dibattevano al suolo schiacciò i centri nervosi sotto i robusti stivali. Quando un imponente coleottero sputafuoco cercò d’attaccarlo, l’Ultramarine gli lanciò una granata dritta in bocca. Il getto di fuoco la fece esplodere, disintegrando la testa del coleottero e schizzando ovunque il suo sangue. Il resto del corpo cadde a terra, sfrigolando tra le sue stesse fiamme. A quel punto gli ultimi Aracnidi batterono in ritirata.
 
   Dopo il frastuono della battaglia, cadde il silenzio. L’Ultramarine si ergeva in mezzo alle carcasse delle creature, con la corazza macchiata del loro sangue verde e arancio. Il suo mitra fumava per il surriscaldamento e pareva aver esaurito le munizioni. La spada-motosega però era ancora attiva e gli occhi rossi puntavano dritti su Rivera.
   «Ci siamo... o mi ammazza, o mi ringrazia» si disse il Capitano. Un guerriero del genere non era fatto per le mezze misure.
   «Chi siete?!» chiese l’Ultramarine con voce stentorea.
   «Capitano Rivera, della nave stellare Destiny. E questi sono i campioni che si sono uniti a me, per sopravvivere in quest’inferno» rispose l’Umano, cercando d’impressionarlo. Certo, era come un gattino che cerchi d’impressionare un leone...
   «Io sono Azrael Grimmaul, del dodicesimo capitolo degli Ultramarine, inviato a Cadia dal nobile Guilliman» rispose il guerriero in blu. «Dovevamo opporci alla Tredicesima Crociata Nera di Abaddon il Distruttore. Ma quando Cadia è stato inghiottito dall’Occhio del Terrore, ci siamo ritrovati qui. Da allora abbiamo fatto ciò per cui siamo nati... combattere!».
   «Sì, abbiamo incontrato il tuo tecno-prete che ci ha raccontato la storia» rivelò il Capitano. «Lui pensava che foste morti tutti».
   «Io sono l’ultimo superstite. Sono stato via a lungo, cercando un modo per lasciare il pianeta, e ora stavo tornando al nostro rifugio» ammise l’Ultramarine. «Davvero il sacerdote vi ha accolti? Dev’essersi rammollito... un tempo non avrebbe tollerato gli stranieri».
   «Ascolta, siamo tutti sulla stessa barca, quindi ci conviene collaborare...» cominciò Rivera.
   «Non con gli xenos!» fece Azrael, vedendo Naskeel che usciva allo scoperto. Subito rivolse la spada contro di lui. «Il nostro Codice è chiaro: brucia l’eretico, uccidi il mutante, purifica l’impuro. E soprattutto, nessuna pietà per gli alieni!» minacciò.
   «Questo ominide sembra ostile» constatò Naskeel, imbracciando il fucile polaronico. Si accostò al Capitano, parlandogli a mezza voce. «Se vuole convincerlo, perché non prova con la storiella dell’elefante?».
   «Non è il caso, okay?!» fece Rivera, esasperato. Vedendo che i due continuavano a puntarsi le armi, abbassò il fucile di Naskeel e poi si rivolse all’Ultramarine. «Sarà meglio che aggiorni il tuo Codice, perché se ragioni così non uscirai mai da questa trappola!» avvertì. «Sono stati degli alieni chiamati Undine a portarci qui. E finché combatteremo fra noi, potranno osservarci e affinare le loro tattiche. Capisci che, se ti scagli contro di noi, non fai che rafforzare il vero nemico?! L’unico modo per non dargliela vinta è unire le forze per scappare!» insisté.
   A queste parole, l’Ultramarine rimuginò brevemente. «A volte ho sentito dire che lottare contro il Caos non fa che rafforzarlo. E tuttavia non c’è vittoria senza battaglia» mormorò. A un tratto rialzò la fronte, avendo preso una decisione. «Poiché mi avete aiutato contro questi Tyranid, non leverò le armi contro di voi. Ma voglio sapere se avete realmente guadagnato la fiducia del tecno-prete. Quindi ora torneremo al suo antro, così sentirò la sua versione».
   «Siamo impegnati in un viaggio importante, non possiamo tornare indietro solo per soddisfare la tua curiosità!» protestò Erzsébeth, dando voce al pensiero di tutti.
   «Invece lo farete, o ve la vedrete con me» avvertì Azrael. In un attimo fu accanto a Erzsébeth e le puntò la spada-motosega alla gola, così rapido che i compagni non ebbero il tempo di reagire. «Considerati fortunata che non pretenda altro. Se ti chiedessi di professare la tua devozione per l’Imperatore-Dio dell’Umanità, che mi risponderesti?!» le chiese.
   «Sono una Nietzscheana. Noi pensiamo che Dio è morto» ribatté freddamente lei.
   «Quindi ti consideri la dea di te stessa? È difficile vivere all’altezza di una tale aspettativa, ragazzina. Prima o poi arriverà qualcuno più forte di te, a dimostrare che non sei niente!» avvertì l’Ultramarine, sempre puntandole la lama alla gola.
   «Senti, se vuoi vedere l’antro e scambiare due chiacchiere col tecno-prete, va bene!» intervenne Rivera, per diminuire la tensione. «Basta che poi tu la smetta di minacciarci. Non scambiare la nostra cortesia per debolezza; anche noi siamo tutti veterani» avvertì.
   «Molto bene» fece Azrael, riponendo finalmente la spada in cintura. Si passò la mano sulla corazza, levando un po’ del sangue alieno, e marciò a grandi passi verso l’antro. Agli avventurieri non restò che seguirlo. Alcuni di loro si erano già pentiti di averlo salvato, poiché a causa sua avrebbero perso almeno un giorno di viaggio. Altri speravano ancora che quel guerriero gigantesco potesse unirsi al gruppo, dopo aver constatato la loro sincerità. Nessuno comunque dubitava della sua pericolosità; non dopo averlo visto maciullare gli Aracnidi come se niente fosse.
 
   Era ormai tarda sera quando gli avventurieri tornarono al loro rifugio. Il Capitano si affacciò nella galleria, chiamando ad alta voce il tecno-prete. «Ehilà! Siamo tornati prima del previsto! Non preoccuparti, va tutto bene... più che bene, in effetti! Abbiamo ritrovato uno dei tuoi Marine!».
   Non ci fu risposta. Rivera alzò gli occhi ad Azrael, che lo fissava con gli occhi rossi del casco, che ancora non si era mai tolto. «Non mi ha sentito. Sarà nelle grotte più interne, a oliarsi le parti meccaniche o qualcosa del genere. Adesso lo raggiungiamo, eh?» fece il Capitano.
   «Prima tu» disse l’Ultramarine in un tono che non ammetteva repliche.
   Con un sospiro, Rivera entrò nella galleria semibuia. Sentì che Azrael lo tallonava, passo dopo passo. L’Ultramarine in armatura era così grosso che passava a stento dal tunnel. Il Capitano si trovò a pensare che se l’energumeno voleva sparargli alle spalle, quella era l’occasione perfetta. Ma qualcosa gli diceva che, se mai gli avesse sparato, lo avrebbe fatto al petto e non alla schiena. Così andò avanti, fino a sbucare nell’antro. Azrael emerse dietro lui. Si guardarono attorno... e videro il tecno-prete.
   Giaceva al suolo, con la tonaca crivellata di proiettili e intrisa di sangue. A giudicare dalla striscia vermiglia che aveva lasciato in terra, doveva essersi trascinato per qualche metro prima d’essere finito con dei colpi alla testa. I suoi occhi artificiali, che un tempo brillavano verdi nella penombra, erano spenti; non c’era più segno di vita in lui. Lì accanto aleggiava il servo-teschio, come un animale domestico che vegli il padrone defunto.
   Il Capitano non dovette nemmeno guardare l’Ultramarine per accorgersi che questi aveva sguainato la spada-motosega e gliela puntava alla gola. «Dammi un motivo valido per non ucciderti, perché io non ne trovo più» avvertì il colosso.
   «Il tuo sacerdote era vivo, quando ce ne siamo andati stamattina. Qualcun altro dev’essere sopraggiunto nel frattempo» disse Rivera, sentendo il sudore scorrergli sulla fronte. «Del resto sai bene che su questo pianeta ci sono pericoli ovunque. Tutti sono in cerca di rifugi e sono pronti a uccidere per conquistarli».
   «Questo è vero» ammise Azrael. «Ma se qualcuno ha attaccato l’antro... perché non è rimasto qui? Perché non se n’è effettivamente impossessato?!».
   «Forse l’aggressore è tornato indietro, per guidare qui il resto della sua banda. O forse non era interessato al rifugio in sé, ma solo alle scorte che poteva razziare».
   «Comode scuse, dato che non possiamo verificarle» avvertì l’Ultramarine. In quella però il servo-teschio gli si avvicinò, ronzando e agitando i tentacoli per attirare l’attenzione. Il suo occhio artificiale rosso brillava stranamente.
   «Dimmi che questa cosa fa anche da telecamera di sorveglianza» mormorò Rivera, sempre con lo spadone alla gola.
   «Mostra ciò che hai visto, servo dell’Imperium!» ordinò l’Ultramarine. E il servo-teschio obbedì. Dal suo occhio artificiale si sprigionò la registrazione dell’accaduto. Era un ologramma primitivo, agli occhi di Rivera: l’immagine era azzurrina e tremolante. Ma per l’Ultramarine questo non era un problema. Videro così che alcuni robot avevano fatto irruzione nell’antro, sparando coi mitragliatori innestati negli avambracci. Il tecno-prete, appesantito dagli impianti, non aveva fatto in tempo a trovarsi un nascondiglio. Colpito al petto, si era trascinato verso le sue adorate macchine, prima d’essere finito con una raffica alla testa.
   «Fottuti Cylon! Attaccano sempre quando meno te l’aspetti!» imprecò Scorpion, giunta a sua volta nell’antro. «Quelli sono Centurioni, letali nel breve-medio raggio. E se il filmato non ti basta, guarda qui!». S’inginocchiò accanto al tecno-prete e lo frugò, estraendo una pallottola. «Questo è il calibro usato dai Cylon. Puoi rottamarne uno e fare il confronto, se vuoi esserne sicuro».
   Intanto l’ologramma mostrò che i Cylon, dopo aver ucciso il tecno-prete, avevano frugato l’antro e se n’erano andati con alcune attrezzature, soprattutto unità d’energia. Avevano disdegnato le scorte alimentari, da robot quali erano. Quando l’ultimo di loro ebbe lasciato l’antro, la registrazione terminò. Il servo-teschio tornò in quiete.
   «Bravo ragazzo!» fece Rivera, dandogli un colpetto d’approvazione sulla calotta cranica. Poi si rivolse all’Ultramarine: «Ti basta come prova?».
   «È sufficiente» riconobbe Azrael, e ripose la spada-motosega. Non si scusò per averlo quasi decapitato. Forse le scuse non facevano parte del suo vocabolario. «Resta il fatto che quei Necron non avrebbero trovato il rifugio, se non vi foste fatti seguire».
   «Si chiamano Cylon» corresse Scorpion. «E se hanno seguito le nostre tracce, a maggior ragione avrebbero seguito le tue. Non sei esattamente un peso-piuma».
   «Suppongo di no» fece l’Ultramarine. Dal tono sembrava che ridacchiasse. «E va bene, non vi riterrò responsabili della sua morte» decise, osservando i resti del tecno-prete.
   «Mi spiace per lui. Suppongo che fosse un sant’uomo... a modo suo» incespicò Rivera, osservando i sinistri congegni che gli erano appartenuti.
   «Non spiacerti per lui. Ora è tutt’uno col suo Dio-Macchina» ribatté l’Ultramarine.
   Rivera notò come certi macchinari, che nei giorni precedenti erano spenti, adesso parevano attivi e ronzanti. Alcune spie s’erano accese di una luce verde, la stessa degli occhi artificiali del tecno-prete. E c’era il mistero del servo-teschio che si era attivato al momento giusto, come se qualcuno gli avesse trasmesso un ordine. Possibile che il sacerdote avesse conseguito la sua fusione con lo Spirito Macchina?
   «Beh, immagino che tu ora voglia rivendicare questo rifugio» disse Erzsébeth all’Ultramarine. Ormai tutta la banda era rientrata, e tutti temevano lo sfratto, perché difficilmente il colosso avrebbe considerato valido l’accordo stretto col tecno-prete.
   «È nel mio diritto; fu il mio gruppo ad attrezzare la caverna con tutto ciò che potemmo salvare dalla nostra navicella» confermò Azrael. «Ma sono curioso: dove stavate andando, così carichi di provviste?».
   Rivera non moriva dalla voglia di dirglielo, ma pensò che una speranza di fuga poteva indurre l’Ultramarine a collaborare. Così gli riassunse il loro piano.
   «Interessante» fece il colosso al termine del racconto. Per la prima volta da quando lo conoscevano si levò il casco, posandolo su un macchinario. Aveva il cranio rasato, cosparso di piccole cicatrici, e un mascellone quadrato che gli dava quella voce baritonale. Gli occhi piccoli e duri spiccavano sul viso vissuto. «Sono tentato di aggregarmi, piuttosto che starmene qui a marcire» ammise.
   «Saresti certamente di valore per la squadra» riconobbe il Capitano. «Tuttavia devo chiederti di riconoscere la mia autorità, finché ne farai parte».
   «Io servo solo il mio Primarca e l’Imperatore-Dio! Non un debole omuncolo di un altro cosmo!» obiettò Azrael. «Qui attorno a me vedo campioni di valore. Come puoi arrogarti il comando, tu che sei il più debole del gruppo?» incalzò.
   «Tanto per cominciare, sono stato io a radunare questi lupi solitari e a farne una squadra. Se non avessi perseguito quest’idea, staremmo ancora combattendo tutti contro tutti» rivendicò il Capitano. «Inoltre sono l’unico che dispone di un’astronave funzionante. Se mai ce ne andremo da qui, sarà sulla mia nave, non sulla tua» disse, fronteggiando il colosso. «Se ci vuoi fuori dal tuo rifugio, ce ne andremo. Ma non aspettarti poi che ti accogliamo nella banda, se dovessi cambiare idea».
   «Non sei intimorito... questo mi piace» riconobbe l’Ultramarine, torreggiando su di lui. «Ma tu e gli altri non avete idea degli orrori che ci sono là fuori. Robot da combattimento, vermi giganti... dubito che sopravvivrete alla marcia».
   «Più uniamo talenti diversi, maggiori sono le probabilità di sconfiggere i nostri veri nemici, gli Undine. Loro non si aspettano che riusciamo a collaborare. E un buon soldato non è forse colui che riesce a sorprendere il nemico?» argomentò Rivera.
   «Hai una buona parlantina; non mi sorprende che tu sia Capitano» ghignò Azrael. «E sia! In questo regno del Caos sono disposto ad allearmi con chiunque abbia un piano di fuga. E poi questo rifugio non è più sicuro, ora che i robot ne hanno scoperta l’ubicazione. Sono con te... e vedremo che ne verrà fuori».
 
   La mattina dopo gli avventurieri si prepararono a lasciare nuovamente il rifugio. Dopo la falsa partenza del giorno prima, furono ancora più attenti a prendere con sé tutto ciò che poteva tornare utile per il viaggio. Ora che i Cylon conoscevano l’ubicazione dell’antro, infatti, era rischioso tornarvi. Se avessero raggiunto l’astronave Jaffa, gli avventurieri vi sarebbero rimasti, facendone il nuovo campo-base. Prima di partire discussero del percorso. Schizzarono persino una mappa, sfruttando una delle pergamene ingiallite dell’antro. Rivera infatti voleva confrontare le conoscenze di tutti, specialmente dell’ultimo arrivato, per essere certo di non farsi sfuggire nessun pozzo. In effetti l’Ultramarine fu in grado di segnalare qualche luogo d’interesse che nessuno degli altri conosceva. «E qui c’è un fortino» concluse, segnando un punto sulla mappa.
   «Un fortino? Non ne avevo ancora visti su questo mondo» s’interessò Rivera. «A chi appartiene?».
   «Bella domanda! Non lo so» rispose Azrael con franchezza. «Non ci sono emblemi in vista. Tutte le volte che io e la mia squadra ci siamo avvicinati, quelli all’interno ci hanno sparato addosso. Si vede che non gradiscono le visite! E dire che non sembravano molti... ma erano maledettamente bravi. Non siamo mai arrivati a ridosso delle mura. Quindi non so dirvi chi c’è dentro; ma sono ottimi cecchini» disse, accennando a una tacca sulla sua armatura. Era esattamente all’altezza del cuore.
   «Se è gente così sospettosa, non ci conviene avvicinarci» commentò Yo’rek.
   «Ma l’idea di partenza non era ampliare la squadra, anche durante il viaggio?» obiettò Erzsébeth. «Se quelli del fortino vedono in quanti hanno già aderito, potrebbero cambiare idea. E a noi farebbe comodo un rifugio in questa parte del viaggio, che è la più dura» aggiunse. In quella zona, infatti, non c’erano pozzi a cui approvvigionarsi.
   «Non ci farà tanto comodo, se ci spareranno in testa» ribatté Rico.
   «Non dico d’avanzare allo scoperto come dei fessi» chiarì la Nietzscheana. «Dico solo che potremmo fare un tentativo prudente di negoziare. Se poi i padroni di casa non ne vogliono sapere, allora passeremo oltre, senza impegnarci in sparatorie».
   «Sì, vale la pena di provare» decise il Capitano. «Sempre che il fortino sia ancora difeso, quando ci arriveremo. Mi sembra che qui le cose evolvano piuttosto rapidamente».
   «Sì, potremmo anche trovarlo già saccheggiato» convenne Scorpion. «Nel qual caso lo frugheremo comunque, in cerca di cose utili».
   «Bene, è deciso» disse il Capitano, cerchiando il puntino sulla mappa. «Faremo una piccola deviazione al forte, sperando che ne valga la pena».
 
   I giorni successivi misero duramente alla prova le capacità di leadership di Rivera. Già comandare la Destiny in condizioni normali gli sembrava difficile. Ma tenere sotto controllo quella banda di bestioni, evitando che si scannassero fra loro, era un’impresa titanica. Tanto più che il calore del deserto dava alla testa e il costante pericolo d’agguati esasperava gli animi. Bastava un nonnulla per scatenare accese discussioni, che rischiavano di degenerare. Per fortuna il Capitano poteva contare su Naskeel, e anche su Erzsébeth, affinché lo aiutassero a gestire la squadra. La Nietzscheana gli consigliò di non intervenire per ogni minimo contrattempo, lasciando che fossero gli altri a trovare un loro equilibrio. «Conservati per le questioni importanti, e ti rispetteranno di più» disse. Rivera seguì il suggerimento e in effetti gli dette buoni risultati. Nel giro di una settimana, i bisticci erano nettamente diminuiti e ciascuno sembrava aver trovato il suo ruolo nella banda.
   «Sapete, stavo pensando che dovremmo darci un nome» disse Rico una mattina. «Voglio dire, io e i miei uomini non eravamo solo “la Fanteria Mobile”. No, eravamo i Leoni della Fanteria Mobile! Faceva un gran bene allo spirito di squadra» disse, mostrando il tatuaggio del reggimento che aveva sul braccio.
   «E noi come dovremmo chiamarci? Gli Scorpioni di Scorpion?» ironizzò Kara, riferendosi al suo nome di battaglia.
   «Gli Apprendisti dell’Alta Guardia» suggerì Erzsébeth.
   «L’Ultramarine e i suoi Sei Aiutanti» disse Azrael.
   «Non sarebbe male riferirci al nostro numero» notò Yo’rek. «Potremmo essere i Sette... qualcosa. I Sette Viandanti, i Sette Combattenti...».
   «I Magnifici Sette» mormorò il Capitano, ironico. Il nome gli era sorto spontaneo dalla memoria e lui l’aveva pronunciato senza nessuna pretesa di serietà. Ma gli altri, che non conoscevano i western, ne rimasero così estasiati che non vollero sentire ragioni. Da quel momento Rivera e i suoi divennero ufficialmente i Magnifici Sette.
 
   Dieci giorni dopo l’inizio del viaggio, i Magnifici Sette si accorsero che le scorte d’acqua cominciavano a scarseggiare. Al tempo stesso, si stavano avvicinando al misterioso fortino menzionato da Azrael. Farvi tappa ormai non era questione di soddisfare una curiosità, ma di pura sopravvivenza.
   «Siamo vicini» confermò l’Ultramarine, guardandosi attorno in cerca di punti di riferimento. «Da questa parte» disse, affrettando il passo. Gli altri faticarono a seguire le sue enormi falcate.
   Uscirono dal labirinto di rocce, in una distesa aperta. A circa un chilometro davanti a loro spiccava il fortino, di forma quadrata, con quattro torrette ai lati e un portone blindato. Le corazze recavano qua e là i segni d’armi da fuoco, che non erano riuscite a penetrarle. Il fortino in sé era piccolo e anonimo; ad attirare l’attenzione era l’enorme quantità di carcasse che lo circondavano. Erano resti d’animali, soldati di varie specie, robot più o meno umanoidi. Che fossero grandi o piccoli, corazzati o agili, erano tutti morti con dei colpi in testa. Nessuno era riuscito ad avvicinarsi a meno di cento metri dalle mura.
   «Come vi dicevo, sono dei cecchini davvero abili» commentò Azrael.
   «Ripensandoci, forse è meglio proseguire» fece Erzsébeth.
   «Abbiamo fatto una deviazione troppo grande per ritirarci senza nemmeno tentare» obiettò il Capitano. Ripensò alle lezioni d’Accademia sulle procedure di Primo Contatto. «Dobbiamo attirare la loro attenzione senza mostrarci ostili, così da aprire un dialogo. Servirebbe un simbolo di pace, sempre che lo capiscano. Qualcosa da sventagliare, come una bandiera» ragionò. Prese a ispezionare i resti circostanti, in particolare i veicoli, finché ne trovò uno parzialmente coperto da un telone bianco. Allora ritagliò il telone, facendone una rozza bandiera. «Ora non ci resta che un’asta...» disse, osservando i compagni. Il suo sguardo si soffermò su Yo’rek, con la sua lancia da combattimento.
   «Questa è un’arma onorevole, brandita da generazioni di Jaffa» si oppose l’interessato.
   «E adesso servirà a uno scopo ancor più onorevole. Poche storie, molla l’osso» intimò Rivera.
   Senza aggiungere altro, Yo’rek consegnò la lancia. Il Capitano vi annodò la bandiera, ottenendo un’insegna che poteva essere issata.
   «Carina... ma come conti d’avvicinarla al fortino, senza che quelli dentro ti facciano un buco in testa?» domandò Erzsébeth.
   «Vediamo... sembra che i difensori sparino soprattutto da lì in poi» notò Rivera, accennando alla fascia in cui si concentravano i resti. Era un anello che cominciava a circa trecento metri dal fortino. Proprio sul limitare esterno c’erano alcune rocce che potevano fare da riparo. Al di là di esse, nulla avrebbe fermato i colpi dei cecchini. Senza soffermarsi a pensare al rischio – perché altrimenti avrebbe desistito – l’Umano cominciò a muoversi.
   «Aspetti, Capitano. Mandi qualcun altro» lo esortò Naskeel.
   «Ho già deciso» ribatté l’Umano, senza fermarsi né rallentare. «Se mi accade qualcosa, il comando è tuo». Era fortemente tentato di darlo a Erzsébeth, che fino ad allora si era dimostrata l’elemento più valido della squadra, ma ancora non si fidava della filosofia Nietzscheana.
   Se Erzsébeth ne fu delusa, non lo diede a vedere. Era sul punto d’inseguirlo per tirarlo indietro, ma Naskeel la trattenne per un braccio. «No, è il suo volere» le disse. La Nietzscheana si liberò con uno strattone, ma infine si arrese alla situazione. Rivera si era già spinto così avanti che inseguirlo significava rischiare due vite anziché una.
   Con il sangue che gli pulsava nelle orecchie, il Capitano innalzò la bandiera bianca, lasciando che sventolasse alla brezza. Camminò lentamente verso le rocce, cercando di far sì che lo proteggessero il più possibile, ma non celassero il vessillo. Malgrado la tuta distillante, la sua fronte era imperlata di sudore. Da un momento all’altro si aspettava d’essere crivellato, se i cecchini avessero trovato la giusta angolazione di tiro. Invece arrivò incolume agli affioramenti rocciosi. A quel punto non osò proseguire e si limitò ad agitare la bandiera improvvisata.
   Fu allora che un’arma a energia aprì un foro nel vessillo. «Non un altro metro, o ti faccio saltare le cervella!» intimò una voce dagli spalti. Dal suo rifugio tra le rocce, il Capitano osservò col Visore da lunga distanza. Vide due cecchini appostati sulle mura. Quello che aveva sparato, e che ora parlava, era un imponente soldato dalla corazza verdastra, con la visiera dorata. L’altra era un’aliena dalla pelle blu e i capelli – o erano tentacoli? – tirati all’indietro.
   «Non sparate! Voglio solo parlare!» gridò Rivera.
   «Le uniche parole devi rivolgerle ai tuoi tirapiedi appostati più indietro. Digli questo: il primo che si avvicina entrerà a far parte del mio museo a cielo aperto!» minacciò il cecchino.
   «Andiamo, John, sono sei mesi che non parliamo con nessuno! Lascia che si avvicinino e dicano la loro, prima di decidere se freddarli!» lo esortò la collega blu.
   «Sei troppo buona, Liara. Ma sia come vuoi» acconsentì il militare in verde. Poi si rivolse nuovamente al Capitano. «Ehi, intruso! Vieni avanti lentamente, con le mani in alto. E di’ ai tuoi amici di fare lo stesso. A meno che non siano Covenant. Se sono Covenant, digli di andare in malora!». La sua voce era così stentorea che persino quelli appostati più indietro la udirono, malgrado la distanza.
   Erzsébeth stava per farsi avanti, ma Yo’rek la prevenne. «No, vado io. Non c’è ragione di rischiare tutti» disse. «E poi devo recuperare la mia lancia» aggiunse, come se fosse un pretesto sufficiente a rischiare la vita.
   Ciò detto il Jaffa si fece avanti lentamente, con le mani alzate, finché fu accanto a Rivera. Passo dopo passo, i due arrivarono fin sotto le mura. I cecchini li tennero sotto tiro per tutto il tempo.
   «Avete del fegato a farvi avanti!» disse il militare in verde. «Allora, chi siete?».
   «Capitano Rivera, dell’USS Destiny».
   «Tenente Yo’rek, dei Jaffa Liberi».
   «Mai sentiti. Che cosa volete?».
   «Vogliamo dare un senso a questa follia!» rispose Rivera, facendo un ampio gesto per indicare i rottami che costellavano il deserto. «Sapete d’essere stati trascinati in un altro cosmo per lottare fino alla morte?».
   «Sì! Ma siamo ancora vivi, dato che facciamo secchi tutti quelli che si avvicinano!».
   «Non ne dubito, ma prima o poi finirete le provviste. O vi scontrerete con una forza troppo grande anche per voi» avvertì il Capitano. «Siamo tutti prigionieri di questo gioco perverso... ma io vi esorto a uscirne! Unitevi al mio gruppo! Siamo già in sette, ciascuno di una realtà diversa, uniti dalla comune volontà d’uscire vivi da qui. E possiamo farlo, se solo riusciamo a contattare la mia astronave, che è ancora operativa».
   «Ci stiamo dirigendo verso la mia base, nella speranza di rintracciarla. Venite con noi e avrete l’occasione di salvarvi. Rifiutate e le cose andranno avanti come hanno fatto finora» aggiunse Yo’rek.
   «Ma sentitevi! Sembrate Testimoni di Geova!» li derise il militare in verde. «Non vi aprirò il nostro fortino, quindi potete ritirarvi. Andate a ovest per tre giorni e troverete il prossimo pozzo. Questo è tutto ciò che posso fare per voi».
   «Aspetta, John» fece l’aliena blu. «Dovremmo considerare la loro offerta».
   «Eravamo d’accordo di non far entrare nessuno, Liara. Men che meno d’unirci alla prima banda di disperati» ribatté il militare.
   «Non siamo desperados!» obiettò Rivera. «Ditemi una cosa... voi due provenite dallo stesso Universo?».
   «No» ammise il cecchino. «Io sono Master Chief, soldato Spartan in forza al Comando Spaziale delle Nazioni Unite. Ero in servizio sulla Pillar of Autumn, in guerra contro i Covenant. Durante l’evacuazione di Reach, uno strano portale ha risucchiato il mio mezzo da sbarco, facendomi naufragare qui».
   «E io sono Liara T’Soni, scienziata Asari» si presentò l’aliena blu. Aveva davvero dei corti tentacoli, tirati all’indietro, al posto dei capelli. «Ero sull’incrociatore Normandy dell’Alleanza dei Sistemi, allo scopo d’investigare l’antica tecnologia Prothean, ma avevamo i Reaper alle calcagna. Stavo scendendo su Marte quando un analogo incidente mi ha condotta qui. Qualcosa di tutto ciò vi suona familiare?».
   «Temo di no» ammise Rivera. «È chiaro che veniamo da realtà differenti. Ma questo non deve scoraggiarci. Nel mio gruppo abbiamo origini diverse, ma abbiamo constatato che l’unione fa la forza. Ed è chiaro che lo avete compreso anche voi, o non sareste alleati così stretti. Se vi aggregate, avremo tutti più opportunità di cavarcela».
   «Sei sordo, amico? Ti ho detto d’andare!» fece Master Chief, per nulla convinto. Il Capitano si accorse di avere il puntatore laser sul petto, all’altezza del cuore.
   «Se sei così deciso, ce ne andremo... anche se forse dovreste consultarvi meglio tra voi» disse Rivera, notando che l’aliena blu sembrava più accomodante. «Addio e buona fortuna... se c’è fortuna su questo pianeta». Fece dietro-front e tornò verso il resto del gruppo, assieme a Yo’rek, che aveva ripreso la sua adorata lancia. Avevano fatto poca strada quando videro i compagni che uscivano allo scoperto e correvano precipitosamente verso di loro.
   «Che diavolo state facendo?! Vi avevo ordinato d’aspettarmi là, al sicuro!» protestò Rivera, stupito dalla loro incoscienza. «È inutile che corriate, tanto i padroni di casa non ci fanno entrare!».
   «Sarà meglio che lo facciano, invece, o siamo morti!» ansimò Scorpion, indicando dietro di sé.
   Allora il Capitano vide una nuvola sabbiosa all’orizzonte. Era in arrivo una tempesta di sabbia? No... le tempeste non facevano tremare il suolo e non riempivano l’aria di quel frastuono ticchettante. Aguzzando la vista, vide una massa informe che si agitava nel polverone. Erano creature brulicanti, come...
   «Oh, no».
   Migliaia di Aracnidi si precipitavano contro di loro, ansiosi di farli a pezzi. Tra tutte le specie di Arena, erano quelli incontrati più spesso. Rivera s’era chiesto più volte quanto fossero diffusi. Ora aveva la risposta: lo erano tanto da spazzare via tutto il resto. Forse erano stati introdotti sul pianeta da più tempo, o forse avevano trovato condizioni propizie per moltiplicarsi. Fatto sta che erano diventati una moltitudine affamata. E ora gli venivano contro in quantità così strabocchevole che non c’era alcuna speranza di respingerli. Persino l’Ultramarine aveva rinunciato all’idea.
   «Sembra che il nostro viaggio finisca qui» constatò Yo’rek, con una strana calma.
   «No, mi rifiuto di crederlo!» sbottò Rivera. Si era dato troppa pena per mettere assieme quel gruppo... non lo avrebbe perso tra le ganasce degli Aracnidi. Si girò di nuovo e corse verso il fortino, superando anche il precedente limite. «Ehi, voi! Aprite, maledizione! Se siete dell’esercito e avete un briciolo d’onore, allora non ci lascerete qua fuori!» gridò. Era certo che i difensori avessero visto la minaccia in arrivo.
   In breve il Capitano raggiunse il portone blindato, trovandolo ancora chiuso. Vi batté sopra e spinse con tutte le sue forze, giusto per accertarsi che non fosse sbloccato e bastasse aprirlo manualmente. Ma ebbe la conferma che era proprio serrato. Allora impugnò il phaser e guardò su, verso gli spalti. «Ascoltatemi! Con la mia arma potrei tagliare il portone, ma poi non potremmo richiuderlo, quindi saremmo tutti spacciati. Per questo motivo non farò fuoco. Voi però chiedetevi se preferite trovarvi assediati dagli Aracnidi assieme a sette validi combattenti, oppure da soli!».
   Di lì a un attimo i compagni lo raggiunsero. Azrael era sul punto di aprirsi un varco con la spada-motosega, ma Rivera lo trattenne, aspettando la risposta.
   Sugli spalti, Master Chief osservò la marea degli Aracnidi in rapido avvicinamento e comprese che in due non li avrebbero mai respinti. Ma quasi certamente neanche in nove.
   «Beh, che aspetti ad aprire?!» lo esortò Liara. «Quegli stranieri sono la nostra sola speranza. E potrebbero aver detto la verità anche sul resto».
   «Sigh... dovrò sempre avere una donna blu che mi dice cosa fare?» sospirò lo Spartan.
   «Io non sono la tua Cortana. E te lo dimostrerò prendendoti a sberle, se non ti sbrighi ad aprire quel cancello!» minacciò Liara. In realtà non avrebbe mai potuto sopraffare lo Spartan, ma l’accusa andò ugualmente a segno.
   Master Chief premette un comando sul bracciale della tuta, attivando un tastierino olografico. «Sbloccare cancello» disse, inserendo il codice di sicurezza. L’ordine fu trasmesso direttamente ai servo-meccanismi.
   Con un rumore raschiante d’ingranaggi non oliati, le ante del cancello si aprirono verso l’esterno, trascinando la sabbia che si era accumulata a terra. I Magnifici Sette si fiondarono dentro, senza aspettare che fosse aperto del tutto. Rivera entrò per ultimo, rivolgendo un’occhiata agli Aracnidi ormai vicini. Allora Master Chief inserì il codice di chiusura. Poi lui e Liara presero a sparare contro i mostri, per rallentarli e impedire che s’infilassero nel pertugio.
   Le ante invertirono il movimento e si serrarono sempre più, mentre anche i Magnifici Sette aprivano il fuoco contro gli Aracnidi. Alcune creature furono abbattute, ma le successive le calpestarono quasi senza rallentare. Un Warrior Bug arrivò a infilare le zampe anteriori tra le ante, ma queste si serrarono con tale forza che gliele tranciarono. Gli arti mozzati della creatura caddero ai piedi di Rivera, macchiando la sabbia del loro sangue verde. Da dietro il portone blindato vennero i suoni raschianti degli Aracnidi che graffiavano il metallo e cercavano d’arrampicarsi.
   Il Capitano si asciugò il sudore dalla fronte e fece un respiro profondo. Erano in salvo, per ora. Alzò lo sguardo agli spalti, di cui ora scorgeva il camminamento interno, e vide i difensori incombere su di loro. Gli puntavano ancora le armi contro. L’attimo dopo, tuttavia, Liara T’Soni ripose la propria. «Benvenuti nel nostro fortino, stranieri. Condivideremo le risorse, e anche la sorte» li accolse.
   Allora anche Master Chief abbassò il grosso fucile mitragliatore. Dopo di che saltò giù dal camminamento, atterrando con sorprendente leggerezza nel cortile, molti metri più in basso. La sua corazza ultratecnologica doveva aver attutito la caduta. Adesso era faccia a faccia con Rivera, che tuttavia non poté vedere i suoi lineamenti, celati dalla visiera dorata.
   «Un eroe non ha bisogno di parlare. Sono le sue azioni che parlano per lui» affermò Master Chief. «Capitano Rivera, tu sei stato il primo a farti avanti, quando ti tenevamo sotto tiro, e sei stato l’ultimo a entrare, quando gli Aracnidi vi erano addosso. Non mi serve sapere altro su di te. Hai il cuore di uno Spartan, perciò ti do il benvenuto» disse. E gli strinse la mano con forza.
 
   Ora che si trovavano all’interno del fortino assediato, gli avventurieri dovevano respingere la moltitudine degli Aracnidi che premeva all’esterno. A prendere la parola fu Rico, che li conosceva meglio.
   «Allora gente, sono già stato in una situazione come questa col mio reggimento» spiegò il Tenente. «Non fatevi ingannare dal loro aspetto animalesco: gli Aracnidi sono intelligenti. Proveranno varie strategie, ad esempio distrarci su un lato del fortino per poi attaccare in massa su un altro. Se arrivano i Tanker Bug – intendo i coleotteri – potrebbero persino scavare un tunnel sotto le mura, a patto che il terreno sia abbastanza cedevole». Batté lo stivale al suolo, per farsene un’idea, ma non comunicò agli altri la sua impressione, per non demoralizzarli. «Dunque, direi di salire sulle torrette per avere la linea di tiro più ampia. Due di noi su ciascuna torretta, e fanno otto. Il nono può piazzarsi sopra il portone per difenderlo meglio. Magari Azrael, che ha l’armamento più pesante. Colpite gli Aracnidi sotto di voi, ma state anche attenti al cielo, perché alcuni di quei mostri volano» raccomandò.
   «Sembra un buon piano» ammise Master Chief. «Giusto per sapere... come avete fatto a scamparla, in quell’altro assedio?».
   «Vennero a prenderci con le navette» si rabbuiò Rico. Questa speranza non era più all’orizzonte.
   «Beh, se dobbiamo morire, facciamolo con onore!» tuonò l’Ultramarine, caricando il suo immenso mitra.
   «Piano, ragazzoni. Forse non sarà necessario fare gli Spartan» disse Liara, ancora appostata sugli spalti. «Sembra che gli Aracnidi stiano arretrando».
   «Cosa?! Impossibile!» esclamò Rico. Corse alla scaletta e salì sul camminamento, per verificare coi suoi occhi. Constatò che gli Aracnidi si erano allontanati di qualche centinaio di metri, lasciando un’area sgombra tutt’attorno al fortino. Ma oltre questa “terra di nessuno” i loro ranghi erano serrati, tanto che non un topo poteva passare senza essere infilzato.
   «Allora, signor esperto, hai qualche spiegazione?» chiese Liara, quando anche gli altri furono saliti con loro a osservare la situazione.
   «È un comportamento insolito...  ma comunque non è una ritirata» insisté Rico. «Gli Aracnidi sono testardi. L’altra volta continuarono ad attaccare finché i loro cadaveri formarono un mucchio alto quanto le mura, permettendo ai rimanenti d’entrare. Se adesso non fanno lo stesso, dev’essere perché attendono rinforzi. Probabilmente ci sono i coleotteri in arrivo. Quando saranno qui, allora tutti gli Aracnidi attaccheranno. E allora vedrete che non si fermeranno finché uno solo avrà vita. Abbiamo un po’ di tempo, tutto qui. Forse una notte» spiegò.
   «Intanto potremmo sfoltirli. Sono ancora nel raggio delle armi a lunga gittata» propose Scorpion.
   «Meglio di no. Si allontanerebbero di un altro po’ e noi sprecheremmo munizioni per la distanza» obiettò Rico. «No, dobbiamo aspettare che si avvicinino per attaccare, così non sprecheremo un colpo. Vedrete che, a battaglia iniziata, il problema maggiore saranno le munizioni» avvertì.
   «Beh, alcuni di noi hanno armi a energia... ma anche queste vanno rifornite» ammise Rivera, soppesando il phaser mezzo scarico per i molti scontri. «Se restassimo a secco, dovremo usare le scorte del fortino. Quante munizioni avete?».
   «Non molte, purtroppo. Le navicelle con cui siamo naufragati avevano scorte limitate e dopo di allora non abbiamo trovato molti ricambi» ammise Master Chief. «Venite giù, vi mostrerò cosa abbiamo e v’insegnerò a usare le nostre armi. Chi resta di vedetta?».
   «Io» rispose Naskeel. «A differenza di voi umanoidi, non mi stanco e non mi distraggo». Detto questo si piazzò su una torretta, a lato dell’ingresso, e prese a osservare il territorio tutt’intorno al forte. Ruotava lentamente su se stesso, con la precisione di un faro. Se necessario, avrebbe lanciato un grido così alto e squillante che lo avrebbero udito in tutto il fortino. Così gli avventurieri lo lasciarono lì e scesero a prepararsi.
   Come Master Chief aveva ammesso, le scorte di munizioni non erano molte. Lui e Liara erano sempre stati attenti a non sprecare colpi, ma anche così le loro riserve si erano assottigliate nei lunghi mesi trascorsi su Arena. Almeno il corso sull’uso delle armi non richiese molto tempo, perché erano piuttosto intuitive. Per la verità Rivera le trovò fastidiosamente pesanti rispetto a quelle federali, ma non stette a farlo notare. Avrebbe impugnato qualunque cosa, pur di non trovarsi disarmato nel momento in cui gli Aracnidi sfondavano le difese.
 
   Quella sera il gruppo si riunì per mangiare nel cortiletto, con la sola eccezione di Naskeel che restava di guardia. I padroni di casa, Master Chief e Liara, accesero un falò e distribuirono delle razioni da campo. Poi sedettero con i nuovi arrivati, cercando di familiarizzare. O almeno lo fece Liara, dato che lo Spartan era di poche parole e non si toglieva mai il casco.
   «Allora, la vostra banda ha un nome?» chiese l’Asari.
   «Naturalmente. Siamo i Magnifici Sette» rispose Yo’rek, con una compostezza che fece quasi soffocare Rivera dalle risate. «A ben vedere, ora che siete parte del gruppo dovremmo chiamarci i Magnifici Nove» ragionò.
   «Oh, mi piace!» fece Liara, senza cogliere l’assurdità della faccenda. «Hai sentito, John? Siamo i Magnifici Nove!».
   «Hm-hm» fece lo Spartan, che sedeva a una certa distanza dagli altri, sempre con corazza e casco, senza mangiare.
   «John?» s’interessò Rivera.
   «Il suo vero nome è John-117, ma non permette ad altri di chiamarlo così. Per il resto del Multiverso, lui è Master Chief» spiegò l’Asari.
   «Ed è sempre così loquace?».
   «No, di solito lo è molto meno. Ci sono giorni in cui non ci scambiamo neanche una parola» spiegò Liara. «Dev’essere il suo addestramento Spartan. In realtà non ne so molto, dato che vengo da un’altra realtà, ma mi pare di capire che quelli come lui reprimono le emozioni».
   «È naturale» commentò Azrael, ingollando una razione. «Anche noi Ultramarine sopprimiamo le emozioni, per non crollare sotto il peso degli orrori cosmici e della nostra stessa violenza. La sete di sangue potrebbe sopraffarci, se non la dominassimo con fede e disciplina. A volte ci flagelliamo a sangue per espiare le nostre colpe».
   «Ehm, posso immaginarlo» fece l’Asari, osservandolo un po’ intimorita.
   Rivera cercò di riportare la conversazione sullo Spartan. «Allora, da quanto tu e Mister Simpatia siete in questo fortino?» chiese, interessato a capire la dinamica fra loro.
   «Vediamo... ormai sarà quasi un anno» rispose Liara.
   «E in tutto questo tempo, l’hai mai visto senza casco?» la provocò.
   «Fammi pensare... no, credo di no» ammise l’Asari. «Detto fra noi, penso che stia ancora piangendo la perdita di Cortana».
   «La sua compagna?» chiese Rivera, ricordando quanto lui stesso aveva sofferto un anno prima, credendo che Giely fosse morta.
   «Non proprio... era un’Intelligenza Artificiale che lo aiutava in battaglia» rivelò Liara. «Credo che in qualche modo lui l’amasse... anche se era un amore impossibile, dato che lei poteva manifestarsi solo come un ologramma impalpabile. Poco prima che John finisse esiliato qui, Cortana si sacrificò per salvarlo durante una battaglia... anche se la sua distruzione non è accertata. In effetti potrebbe essere sopravvissuta, trasferendosi altrove. Comunque lui non può andare a cercarla, finché è esiliato qui».
   «Wow, ci credo che è incazzato» commentò Scorpion. «Comunque siamo quasi tutti messi così. Abbiamo persone da cui vorremmo tornare... persone che potrebbero essere in pericolo... e invece siamo bloccati su questa palla di sabbia. Io penso alla Flotta Coloniale, che era braccata dai Cylon».
   «Sì, vale anche per me» ammise l’Asari. «Ero in missione col Comandante Shepard, colui che amavo, quando sono stata risucchiata qui. Eravamo inseguiti dai Reaper, delle macchine senzienti che devastano la nostra Galassia ogni 50.000 anni. Non so cosa sia successo dopo di allora. Non so se i Reaper l’abbiano preso, se abbiano conquistato la nostra Cittadella... non so niente!» esclamò, frustrata.
   «Abbiamo tutti le nostre battaglie da combattere. E direi che siamo disposti a farlo, pur di ritrovare i nostri cari» concluse Rivera, pensando a Giely. «Se mai torneremo sulla Destiny, giuro che vi riporterò tutti a casa. La mia nave può farlo, e ora abbiamo anche le coordinate. Tornerete dalla vostra gente e ricomincerete da dove siete stati interrotti» promise.
   «Se sopravvivremo all’assedio» notò Yo’rek. «È un grosso se».
   «Non ho mai detto il contrario» ammise il Capitano.
 
   Per un po’ cadde il silenzio. Tutti osservavano il focolare, chiedendosi se sarebbero sopravvissuti all’imminente battaglia con gli Aracnidi. Più ci pensavano, più le speranze parevano esigue. Contro un’armata così sterminata di creature, non c’era strategia che tenesse.
   «Beh, cos’è questo mortorio?!» fece a un tratto Scorpion, alzandosi. Gettò la bottiglia nel focolare per attirare l’attenzione. «Questa potrebbe essere la nostra ultima sera tra i vivi, cerchiamo di divertirci!».
   «E cosa proponi?» fece Rico, con uno sguardo che lasciava intuire quale fosse la sua idea.
   «Non quello che pensi tu, cocco» lo gelò Scorpion. «Allora, qui ho la mia ultima sigaretta, conservata per un momento d’estremo bisogno» disse, tirandola fuori dal taschino. «Sono pronta a regalarla a quello fra voi che vince a braccio di ferro. Avanti, fatemi vedere chi è il migliore!» li sfidò.
   La proposta suscitò un certo interesse, non tanto per il premio, ma per il gusto della sfida in sé. Rivera non si oppose a quell’innocuo passatempo, pur sapendo che sarebbe stato eliminato quasi subito. Ben presto si formarono le prime coppie per le eliminatorie. La gara era semplificata dal numero pari dei partecipanti, otto in tutto, dato che Naskeel era ancora di vedetta.
   Le prime a sfidarsi, su un tavolino metallico, furono Scorpion e Liara. Vinse la prima, forse perché l’Asari non era granché interessata alla sigaretta, e nemmeno alla competizione. Toccò poi a Rivera e Rico. Fu una sfida combattutissima, perché le loro forze erano grossomodo equivalenti. Alla fine vinse Rico, per le stesse ragioni del primo scontro. Toccò poi a Erzsébeth e Yo’rek. Dopo una sfida ancor più estenuante vinse la Nietzscheana, certo in virtù dei suoi potenziamenti genetici, perché altrimenti non avrebbe mai battuto il forzuto Jaffa. Gli ultimi a battersi furono Azrael e Master Chief. Dopo una sfida che fece scricchiolare le rispettive armature, l’Ultramarine prevalse sullo Spartan.
   «Non te la prendere; è il vantaggio di avere due cuori» commentò Azrael, portandosi la mano al petto. «E con questo, direi che possiamo già designare il vincitore» ghignò, consapevole che nessun altro del gruppo poteva misurarsi con lui.
   «Eh no, dobbiamo arrivare alla fine! Sotto con le semifinali!» insisté Scorpion. Cominciò lei stessa, misurandosi con Erzsébeth. Stavolta la Nietzscheana vinse con facilità, gloriandosi poi degli applausi.
   «T’importa così tanto di una sigaretta?» le chiese bonariamente Rivera.
   «No, ma la mia gente non rifiuta mai una sfida. Alla fine, il più debole deve perdere!» ridacchiò Erzsébeth. Almeno lei sembrava divertirsi.
   «Ora tocca a noi due» ghignò Azrael, incombendo su Rico. A quella vista, Rivera fu sollevato di aver perso il primo scontro.
   «Ehm... per quanto ci tenga all’onore della Fanteria Mobile... stavolta passo...» mormorò il Tenente.
   «Non ti spezzerò il braccio, giovanotto, dato che ti servirà per combattere» promise l’Ultramarine. «Ma ogni promessa è debito, e tu hai promesso di gareggiare». Gli avventurieri assistettero così allo scontro senza speranza, vinto da Azrael in un istante. Rico si ritirò, massaggiandosi il braccio indolenzito, ma ancora tutto d’un pezzo.
   «Bene, bene... siamo rimasti noi due. Chi l’avrebbe mai detto?» fece Erzsébeth, che per quanto fosse ben piazzata sembrava minuscola in confronto all’Ultramarine. Si massaggiò gli avambracci, lisciandosi i rostri ossei.
   «Hai del fegato» riconobbe Azrael. «Saresti degna d’entrare nell’Adepta Sororitas, le Sorelle della Battaglia».
   «Un altro dei vostri ordini militari? Quanti ne avete?».
   «Tutti quelli che occorrono».
   Sedettero uno di fronte all’altra, braccia sul tavolo, pronti all’ultima sfida. Gli avventurieri gli girarono attorno, incitandoli, salvo Rivera che era preoccupato per l’incolumità di Erzsébeth.
   I contendenti serrarono le mani e presero a far forza. Per qualche incredibile secondo parve che la Nietzscheana potesse resistere. Poi l’Ultramarine ghignò ed esercitò piena forza, sbattendole la mano sul tavolo. Erzsébeth accettò graziosamente la sconfitta e anzi si complimentò col vincitore. Gli avventurieri gridarono d’entusiasmo e Scorpion consegnò la sigaretta della vittoria all’Ultramarine, provvedendo anche ad accendergliela.
   «Tutto a posto?» chiese Rivera a Erzsébeth, che si era allontanata dal tavolo.
   «Sì, tranquillo» fece lei, massaggiandosi il braccio indolenzito.
   «L’hai presa bene» notò il Capitano, sapendo quanto i Nietzscheani fossero allergici alle sconfitte, che minavano le fondamenta della loro personalità.
   «Sapevo di non avere speranze contro di lui» ammise Erzsébeth, osservando il colosso. «Comunque non c’è vergogna nell’essere vinti da un avversario così evoluto. Hai sentito che ha due cuori?!».
   «Sì, e pare che all’occorrenza sia in grado di sputare acido» annuì il Capitano. «Sono interventi un po’ troppo estremi per i miei gusti».
   «Spero di non essere troppo estrema per te» sorrise Erzsébeth, lisciandosi i rostri finché furono radenti agli avambracci. Lei e il Capitano erano vicini... troppo vicini. Caramba, come faceva la Nietzscheana ad essere così attraente, dopo tutto quel tempo in mezzo al deserto?!
   «Controllati, maledizione» si disse Rivera. «Manchi dalla Destiny da appena tre settimane!». C’era stato un tempo in cui non avrebbe resistito al brivido dell’avventura. Ma quel tempo era finito il giorno in cui si era messo con Giely. No... anche se quella era quasi certamente l’ultima notte della sua vita, e aveva un disperato bisogno di conforto, non l’avrebbe tradita.
   «Sei una... cara amica, e ti devo molto, ma ora devo andare. Cerca di riposare» disse il Capitano. Dopo di che si diresse al fabbricato che faceva da dormitorio.
   «Capisco» mormorò Erzsébeth, con lo sguardo a terra. Fin dai primi giorni in cui si erano conosciuti, il Capitano le aveva spiegato la sua situazione. Così lei non insistette. A un tratto però rialzò lo sguardo. «Ascolta! Qualunque cosa ci riservi il domani, sappi che è stato bello incontrarti. Non sono pentita di averti seguito fin qui» disse.
   Rivera si girò a mezzo, guardandola con gratitudine. Poi entrò nel dormitorio e si chiuse la porta alle spalle. Aveva la netta sensazione che gli Aracnidi, nella miglior tradizione western, avrebbero attaccato all’alba...
 
   La mattina dopo, il Capitano fu strappato al sonno da quella che pareva una vecchia sirena antiaerea. Per un attimo restò confuso, chiedendosi che diavolo stesse accadendo. Poi ricordò la situazione in cui si trovavano lui e il resto della banda. Allora balzò in piedi, si preparò in tutta fretta e corse all’aperto col phaser già in pugno. Alla fioca luce dell’alba vide alcuni Aracnidi volanti sorvolare il fortino, anche se per il momento nessuno scese in picchiata. E si accorse che la presunta sirena antiaerea in realtà non era altri che Naskeel, ancora di vedetta. Il Tholiano era capace di far vibrare il suo corpo cristallino, emettendo quel formidabile allarme. Infatti tutti i campioni si erano già fiondati nel cortile, pronti a combattere. Ciascuno aveva le proprie armi, ed eventualmente la propria armatura.
   «Okay, siamo qui, siamo svegli! Che succede?!» chiese Rivera, che indossava ancora la tuta distillante.
   «Stanno arrivando i Tanker Bug» rispose Naskeel. «Ritengo che l’assalto sia imminente».
   A quelle parole gli avventurieri salirono sugli spalti, affiancandosi al Tholiano, proprio sopra al portone. I primi raggi del sole illuminavano la pianura desertica, ricoperta da Aracnidi di varie forme e dimensioni. I loro ranghi si aprivano per far passare intere colonne di coleotteri lanciafiamme, che avrebbero preso d’assalto le mura.
   «Ebbene ci siamo» disse il Capitano. «Fra poco combatteremo per le nostre vite, e anche per la speranza di ritrovare i nostri cari. Se qualcuno vuole aggiungere qualcosa, è il momento».
   «Sì» disse inaspettatamente Azrael. «Ripeterò il sacro giuramento di vestizione degli Adeptus Astartes d’ogni legione». Schiaritosi la voce, declamò solennemente: «Accetto questo fardello, nel nome dell’Imperium sanguinante. Accetto questo fardello, non conoscendo timore. Accetto questo fardello, come angelo dell’Imperatore. Avvolgo il mio corpo in una seconda pelle, questo velo di muscoli meccanici e falsi nervi. Mi ergo inamovibile contro l’alieno, il mutante, l’eretico. Non offro alcuna pietà, non cedo terreno. Con umiltà indosso gli Imperialis, simbolo di lealtà incorrotta. Con reverenza ricevo l’attuazione, risvegliando lo spirito dell’armatura. Con orgoglio indosso gli emblemi della mia Legione e mi unisco ai miei fratelli in battaglia. Io sono Acciaio. Io sono Furia. Io sono Morte».
   Detto dal colosso armato e corazzato, il giuramento faceva ancora più impressione. Quando l’Ultramarine terminò, gli altri rimasero un poco in silenzio.
   «Niente male, amigo» riconobbe il Capitano. «Qualcuno ha altro da aggiungere?».
   «Io parlo solo con questo» disse Master Chief, levando il suo immenso fucile mitragliatore.
   «Io non sono così bravo coi panegirici» disse Johnny Rico, osservando la marea incalzante degli Aracnidi. «Tutto ciò che ho da dire è: fanculo i bacherozzi, sterminiamoli tutti!».
   «Sììì!!!» gridò Scorpion, con l’esaltazione di chi sa d’essere al cospetto della morte e quindi non si preoccupa più di niente. Il suo atteggiamento contagiò la maggior parte dei compagni, che lanciarono insulti e grida di scherno contro gli Aracnidi.
   «Allora... i Magnifici Nove combattono uniti?» chiese Erzsébeth, dando un’ultima occhiata al Capitano.
   «Sino alla fine» confermò Rivera, mirando col phaser al coleottero più vicino. Quando fu alla giusta distanza per mirare alle giunture della corazza, aprì il fuoco. A quel segnale, il resto della banda fece altrettanto. E si scatenò l’Inferno.
 
   Gli Aracnidi accorrevano a frotte da ogni direzione, incuranti del fuoco di sbarramento dei Magnifici Nove. Questi si erano disposti secondo il piano di Rico: due per torretta, più Azrael che proteggeva il portone d’ingresso dal camminamento superiore. Così non c’era direzione da cui gli Aracnidi non fossero crivellati con armi a proiettili o a energia. Ben presto il loro sangue colloso inzuppò la sabbia e le loro carcasse ingombrarono la zona attorno al fortino. Essendo disposti in coppia, i difensori si alternavano nel fuoco, così che mentre uno sparava l’altro potesse ricaricare la sua arma con munizioni o celle energetiche. Oltre a colpire gli Aracnidi a terra dovevano anche stare attenti al cielo, perché quelli volanti presero a scendere in picchiata, cercando di ghermirli. Parecchie libellule giganti furono abbattute e caddero all’interno del fortino.
   Il Capitano non sapeva quanti Aracnidi avessero eliminato, ma sospettava che stessero battendo ogni record. Al tempo stesso si rendeva conto che era una lotta persa. Gli Aracnidi arrivavano a ondate, in folle impeto d’assalto, e non si fermavano finché non erano completamente distrutti. Non ci volle molto perché si accalcassero sotto le mura, cercando di sfondarle. I difensori ne uccisero a centinaia, ma in tal modo le loro carcasse formarono pile sempre più alte. Quelli che sopraggiungevano le scalarono, avvicinandosi agli spalti, come aveva previsto Rico. Intanto i coleotteri premevano contro l’ingresso, con tale forza che minacciavano di sfondarlo. Ogni pochi attimi lanciavano getti di fuoco contro le torrette, obbligando i difensori a ritrarsi, e quindi a interrompere il fuoco di sbarramento. Solo Azrael e Master Chief erano immuni alle fiammate, grazie alle loro armature integrali, oltre ovviamente a Naskeel per la sua fisiologia. Rivera sentì più volte il calore e seppe che i compagni non se la passavano meglio. Certo, finora stavano resistendo. Ma se i coleotteri avessero sfondato l’ingresso, sarebbe stata la fine. E se per miracolo il portone avesse resistito, c’era un altro problema incombente: l’esaurimento delle munizioni.
   «Questo è per Buenos Aires!» gridò Rico, mentre il mitragliatore gli si arroventava tra le mani.
   «Per le Dodici Colonie!» aggiunse Scorpion, sebbene gli Aracnidi non ne fossero responsabili. A quel punto anche gli altri si sfogarono.
   «Per Abydos e Dakara!» urlò Yo’rek.
   «Per Cadia!» tuonò Azrael.
   «Per Reach!» ruggì Master Chief.
   «Per tutte le vittime dei Reaper!» strillò Liara.
   Erzsébeth tuttavia non si unì al coro, forse perché viveva in un’epoca di pace sotto il Commonwealth e quindi non c’erano sconfitte che le bruciassero. Anche il Capitano tacque, finché Naskeel – che lo affiancava sulla torretta – si girò verso di lui.
   «Tocca a lei, Capitano» disse il Tholiano.
   «Come?!» fece Rivera, alquanto distratto col fuoco di sbarramento.
   «Gli altri hanno ricordato una perdita significativa, ora tocca a lei» insisté Naskeel.
   «Oh, beh... ricordatevi di Alamo» disse sbrigativamente il Capitano, che non aveva voglia di frugare nella memoria in cerca di catastrofi più recenti.
   «RICORDATEVI DI ALAMO!» gridò Naskeel con un volume inconcepibile, lasciando interdetti i presenti.
   «Che fai, mi rubi le battute? Vuoi farmi credere che voi Tholiani non avete mai subito una sconfitta?!» protestò Rivera.
   «Ne abbiamo avute alcune, ma non le nominiamo davanti agli alieni» spiegò Naskeel, continuando a far fuoco.
   Il Capitano dovette ammettere fra sé che aveva senso, e continuò a sparare anche lui. Si accorse però che stava per finire le celle energetiche per il phaser, e che lo stesso valeva per Naskeel e il suo fucile polaronico. Con ogni probabilità anche i compagni sulle altre torrette stavano esaurendo le loro munizioni. Azrael poteva continuare a combattere con la spada-motosega e anche Master Chief aveva un’arma bianca, ma ormai nessuno credeva seriamente che se la sarebbero cavata. Gli Aracnidi stavano per sfondare il portone e per scavalcare le mura in almeno tre diversi punti. Allora i difensori sarebbero stati soverchiati.
   «Non lasciate che vi prendano vivi!» avvertì Rico.
   «Perché no? Che fanno gli Aracnidi ai prigionieri? Qualche cosaccia sporca?!» scherzò Scorpion.
   «No, quei bastardi gli succhiano il cervello» spiegò il Tenente, cupo in volto. «È un modo per accrescere la loro intelligenza. Ma non temete. Se qualcuno di voi sarà ferito, io lo finirò prima che gli Aracnidi lo trascinino via».
   «Confortante» borbottò il Capitano, mentre la spia sul phaser lo avvertiva che la cella energetica era quasi esaurita. Davanti a lui la massa brulicante degli Aracnidi era sempre più vicina. Quelli più in alto erano in procinto di scavalcare le mura, per riversarsi all’interno del fortino. Mancava poco al termine di quella strenua resistenza, e per giunta nessuno ne avrebbe serbata memoria. Rivera sperò che almeno quelli sulla Destiny, e Giely in particolare, fossero al sicuro. Lui purtroppo non li avrebbe rivisti... presto sarebbe stato cibo per gli Aracnidi.
   «Capitano, guardi!» disse a un tratto Naskeel, indicando qualcosa all’orizzonte.
   Rivera guardò nella direzione indicata, sebbene avesse gli occhi appannati dalla fatica, e vide una nube polverosa all’orizzonte. «Altri Aracnidi?!» esclamò, esasperato. Era incredibile che si fossero moltiplicati a tal punto, su un mondo così desertico.
   «Non credo, signore. È più grosso e scorre sulla sabbia» avvertì il Tholiano.
   Il Capitano aguzzò la vista e si avvide che era tutto vero. Qualcosa d’immenso si avvicinava a gran velocità, sovrastando anche gli Aracnidi più grossi. Scorreva sulla sabbia, creando una collinetta semovente e sollevando il polverone. Sarebbe giunto al fortino in meno di un minuto.
   «Lasciamo che arrivi» ordinò Rivera, stanco e rassegnato. «Del resto, anche volendo, non possiamo fermarlo» ammise. E restò in attesa dell’impatto fatale. 
 

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Capitolo 7
*** Viaggiatore ***


 -Capitolo 6: Viaggiatore
 
   Come una marea implacabile, gli Aracnidi si gettavano a ondate contro il fortino, incuranti delle perdite. Le loro carcasse ammucchiate giungevano quasi alla sommità delle mura, facilitando la scalata di quelli che sopraggiungevano. Creature volanti scendevano in picchiata, cercando di ghermire i difensori appostati sulle torrette. I grandi coleotteri soffiavano fuoco e prendevano a testate il cancello, che si deformava sotto la violenza degli impatti. Dal canto loro, i Magnifici Nove cominciavano a scarseggiare di munizioni, tanto che alcuni di loro avevano già dovuto gettare i calibri ormai inservibili. Tutti sapevano che da un momento all’altro gli Aracnidi avrebbero sfondato le difese e sarebbe stata la fine. Eppure continuavano a combattere, non avendo di meglio da fare.
   A un tratto si udì un boato profondissimo, che sembrava salire dal suolo stesso, e infatti il deserto si sollevò, formando una collinetta in rapido avvicinamento. La sabbia l’avvolgeva, impedendo di vedere con chiarezza la creatura in avvicinamento. L’unica certezza erano le sue dimensioni e la sua forza impareggiabile.
   «E questo che diavolo è?!» chiese Erzsébeth a Rico, che l’affiancava sulla torretta.
   «Non lo so... non ho mai visto niente del genere» ammise il Tenente, sconcertato.
   «Guardate! Non credo sia dei loro!» gridò Liara da un’altra torretta. L’arrivo della creatura aveva messo gli Aracnidi in agitazione. Sospesero l’attacco al fortino e si volsero contro il nuovo arrivato, scambiandosi avvertimenti nel loro linguaggio ticchettante. A giudicare dai loro movimenti frenetici, parevano spaventati.
   «Cosa può terrorizzare quei mostri?» mormorò Scorpion.
   «Il vero predatore Alfa di questo mondo sabbioso» rispose solennemente Yo’rek, che le era a fianco.
   In quella la creatura fu abbastanza vicina da apparire nella sabbia vorticante. Era un immenso Verme, dalla dura epidermide bruna divisa in anelli. Spalancò le fauci tripartite, rivelando una selva di denti cornei, lunghi e affilati come pugnali. E si gettò famelico sugli Aracnidi.
   Sebbene fossero una moltitudine, gli Aracnidi nulla poterono contro le dimensioni e la forza impareggiabile del Verme. Ad ogni morso ne furono inghiottiti, coi duri esoscheletri che si frantumavano sotto la pressione delle fauci titaniche. Dal canto loro, il massimo che gli Aracnidi ottenevano era graffiare il Verme sui fianchi, rendendolo ancora più furioso. L’essere levò la parte anteriore del corpo, innalzandola a decine di metri sopra il fortino, così che i difensori poterono ammirarlo nella piena luce del sole. E ricadde pesantemente al suolo, schiacciando altri Aracnidi sotto il suo immane peso. Aprì le fauci e inghiottì un intero coleottero, schiacciandolo come un croccantino, finché questo esplose in una fiammata. Il Verme non parve risentirne e attaccò gli altri coleotteri, ingoiandoli uno dopo l’altro, mentre le sue spire spazzavano via i Warrior Bug.
   Così facendo il Verme passò accanto al fortino, facendolo tremare e spazzando via una montagnola di Aracnidi morti. Era così spesso che, pur muovendosi per metà sotto la sabbia, superava l’altezza delle mura. I Magnifici Nove guardarono verso l’alto, meravigliati. Solo allora si avvidero che la creatura non agiva per proprio conto. Era diretta da due cavalieri, che stavano ritti poco dietro la sua “testa”, dirigendola con un ingegnoso sistema di corde e paletti che facevano da briglie. I cavalieri si reggevano alla corda per rimanere in piedi e al tempo stesso, tirandola da un lato o dall’altro, potevano dirigere a grandi linee il movimento del Verme.
   «Yu-huuu!» gridò il più giovane, chiaramente emozionato. Staccò un braccio dalla briglia e lo agitò verso Rivera, in segno di saluto.
   Il Capitano aguzzò la vista, cercando di riconoscerlo. Anche il misterioso cavaliere indossava una tuta distillante Fremen, ma ciò non significava necessariamente che appartenesse a quel popolo. Poteva benissimo averla trovata in un deposito, come Rivera, o anche strappata al legittimo proprietario. Ma tuta a parte, c’era qualcosa di stranamente familiare in quel giovane. Sembrava quasi... no, impossibile...
   «Ehilà, Capitano! Hai messo su una bella squadra! Vedo che siamo arrivati al momento giusto. Possiamo aggregarci?» chiese Talyn, dirigendo il Verme in un giro serrato attorno al fortino, per scacciare gli Aracnidi ancora in vita e disperdere i cadaveri di quelli morti.
   Rivera guardò appena l’altro cavaliere, un umanoide imbacuccato in fluenti vesti grigie. Chiunque fosse, doveva aver aiutato Talyn durante il viaggio. Quasi certamente gli aveva insegnato lui come domare il Verme. Tanto bastava per fidarsi a farlo entrare.
   «Credevo fossi morto, benedetto ragazzo!» gridò il Capitano, ancora incredulo. «Ma certo, vieni pure! Tu e il tuo amico siete i benvenuti!» aggiunse, intuendo che non potevano tenere a lungo il Verme così vicino alle mura.
   Udendo questo, Talyn e il suo accompagnatore si scambiarono uno sguardo d’intesa. Il primo a scendere fu l’El-Auriano, che lasciò la briglia e si calò con un’altra corda lungo il fianco del Verme, finché fu poco sopra gli spalti. Allora inspirò a fondo, si diede la spinta con i piedi e fece un gran salto, atterrando agilmente sul camminamento. Fletté le ginocchia per assorbire l’impatto e subito si voltò, per osservare il suo compare. Questi attese ancora qualche secondo e poi lo imitò, lasciando il Verme senza guida. Scivolò lungo il fianco della creatura, si dette la spinta e spiccò a sua volta un salto acrobatico, atterrando in un turbine di vesti grigie.
   Rimasto senza conducente, il Verme smise di costeggiare le mura del fortino e allargò il percorso a spirale, dando la caccia agli ultimi Aracnidi. Sembrava particolarmente ghiotto dei coleotteri, mentre si limitava a schiacciare gli altri sotto le immani spire. Allora gli Aracnidi fuggirono con tutta la velocità delle loro zampe, lasciandosi dietro un terreno sconvolto e irrorato del loro sangue colloso. Il Verme li inseguì, continuando a decimarli, fino a svanire in lontananza. Poco a poco il suolo smise di tremare e il boato si placò, mentre anche la sabbia si depositava sul campo di battaglia. Allora vi fu un lungo silenzio.
 
   I Magnifici Nove erano rimasti ammutoliti da quella grandiosa entrata in scena, che aveva ribaltato le sorti della battaglia. Il primo a riprendersi fu Rivera, che corse da Talyn e lo abbracciò con forza, come per accertarsi che non fosse un’allucinazione. «Credevo d’averti perso» confessò, profondamente commosso. Si scostò un poco, osservandolo con incredulità. «Ti ho visto cadere senza paracadute. Come hai...?» lasciò in sospeso.
   «Anche i paracadute sono caduti coi frammenti della paratia. Ne ho preso uno a mezz’aria» rivelò l’El-Auriano, abbozzando un sorriso. «È nel deserto che me la sono vista brutta. Non me la sarei cavata, se non fosse stato per la mia guida».
   Rivera lasciò finalmente il giovane amico, che si avvicinò al suo accompagnatore. I due scambiarono qualche parola, poi Talyn lo presentò agli altri. «Capitano, lui è Klaatu. Vive qui da molto tempo, conosce il territorio e i suoi abitanti. Mi ha offerto riparo da una tempesta di sabbia e poi mi ha insegnato a domare il Verme con cui vi abbiamo raggiunti».
   «In tal caso siamo doppiamente in debito con lei, signor Klaatu» disse Rivera, stringendogli la mano. Solo allora poté osservarlo da vicino, notandone l’aspetto umanoide... ma era proprio Umano o ci somigliava solo? E perché si era tanto prodigato per loro?
   «Una buona azione non sarebbe tale, se si fondasse sulla pretesa di un compenso. Lei e i suoi compagni di viaggio non mi dovete niente» rispose Klaatu, rasserenato nel constatare che erano tutti illesi. Si guardò attorno, osservando i Magnifici Nove che scendevano dalle torrette e si avvicinavano a loro. «Capitano, lei ha riunito tutti questi campioni?» chiese con vivo interesse.
   «Abbiamo accettato di collaborare, nella speranza di lasciare questo mondo» chiarì Yo’rek. «Siamo in marcia verso la mia nave, sperando che coi suoi sensori potremo rintracciare quella del Capitano, ancora nello spazio. Volete aggregarvi a noi?».
   «La Destiny, già...» fece Talyn a disagio.
   «Siamo già stati sulla tua nave, mio buon Yo’rek» disse Klaatu, mostrando di conoscerlo. «È stata il nostro rifugio durante la tempesta di sabbia. Sfortunatamente non abbiamo rintracciato la Destiny» rivelò.
   «Dev’essere ancora occultata... e non abbiamo osato inviare segnali» aggiunse Talyn.
   «Come?! Dunque il nostro viaggio è inutile?!» insorse Azrael. Anche gli altri campioni dettero segni d’irrequietezza.
   «Non è inutile, dato che siete vivi, mentre da soli sareste morti» disse Klaatu, come se conoscesse le loro vicissitudini. «E comunque è presto per arrendersi. Ci sono ancora vari modi per lasciare Arena, se avrete la pazienza di tentarli. La vostra esperienza di oggi non vi ha insegnato niente? Solo unendo le forze siete sopravvissuti agli Aracnidi. E solo restando uniti sopravvivrete alle prossime sfide» ammonì.
   «Dunque qual è la prossima mossa?» chiese Naskeel.
   «Tornare alla nave di Yo’rek, che è un rifugio migliore di questo» rispose Klaatu, osservando il fortino semidistrutto. Le mura erano deformate dagli smottamenti, gli spalti anneriti dalle fiammate. Ma soprattutto il portone era semidistrutto dall’attacco dei coleotteri, e non c’era molto con cui puntellarlo. Un altro attacco del genere e sarebbe stata la fine. Per non parlare delle munizioni, che erano quasi finite. Questi pensieri attraversarono la mente dei Magnifici Nove, che dovettero arrendersi all’evidenza.
   «D’accordo, questo forte non è più difendibile» ammise Master Chief a malincuore. «Guidateci da quest’altra nave e vi seguiremo».
   «Dateci solo il tempo di fare i bagagli» aggiunse Liara, pensando a quanto potevano portarsi dietro in termini di provviste e munizioni.
   «Sì, certo...» fece Klaatu, stranamente assorto. Continuò a fissare i Magnifici Nove, mentre lasciavano il camminamento e scendevano dalla scala a chiocciola, radunandosi nel cortile centrale. Quando furono tutti lì, la sua espressione si era fatta decisamente corrucciata.
   «Qualcosa non va?» chiese Talyn, che in tanti giorni di vicinanza non l’aveva mai visto così preoccupato.
   «Temo di sì, mio giovane amico» disse Klaatu, dardeggiando lo sguardo. «C’è malevolenza fra noi. Uno dei presenti non è ciò che sembra, bensì qualcos’altro. Qualcosa di ostile» rivelò.
   «Intendi che è un traditore, o...».
   «No, credo sia proprio un alieno sotto false sembianze».
   «Ehi, un momento... lei è telepatico?!» volle sapere il Capitano. La sua mano corse al phaser, nel caso l’avvertimento fosse esatto e tra loro si annidasse un pericolo.
   «Telepatico è un termine... impreciso, Capitano» rispose Klaatu. «Diciamo che sono consapevole di molte cose. La mente è uno strumento formidabile, quando lo si usa appieno. Ma nemmeno io so tutto, naturalmente. Ad esempio non so dirle chi sia la minaccia. So solo che c’è» disse, continuando a osservare i combattenti. Istigati dall’accusa, anche questi si scrutarono a vicenda con sospetto.
   «Per me, questo racconta balle!» sbottò Scorpion.
   «No, le percezioni extrasensoriali sono vere» obiettò inaspettatamente Rico. «Il mio amico Carl è così. A volte percepisce qualcosa, ma non sempre vede i dettagli».
   «Se costui è uno psyker, i suoi avvertimenti non vanno sottovalutati» convenne Azrael.
   «E va bene, diamogli credito» sospirò Rivera, per quanto detestasse la situazione. «Mannaggia... proprio adesso che la squadra cominciava a ingranare la marcia, siamo di nuovo al punto di partenza!» si disse, notando come i campioni si sorvegliavano l’un l’altro. Se fosse stato solo per le accuse di Klaatu, l’ultimo arrivato, non gli avrebbe dato peso. Ma Talyn si fidava di lui, e il Capitano a sua volta aveva imparato a fidarsi dell’El-Auriano. «Del resto conosco questi tipi da pochi giorni. Molti di loro vivono qui da tempo... può ben darsi che uno di loro sia stato sostituito da qualcos’altro» ragionò.
   «Allora, come staniamo questa... Cosa?» domandò Scorpion.
   «Per cominciare, gettate le armi!» ordinò il Capitano, impugnando il phaser e arretrando di qualche passo per avere tutti sotto tiro.
   «Seriamente?!» fece Erzsébeth, alzando gli occhi al cielo. «Abbiamo appena combattuto fianco a fianco... e dubiti ancora della nostra lealtà?! Solo perché te l’ha detto questo spaventapasseri?» accusò, indicando Klaatu. La Nietzscheana aveva un’espressione delusa. No, peggio ancora, ferita.
   «Klaatu non è un tipo qualunque!» lo difese Talyn. «Non ho tempo di spiegare, e francamente non credo che capireste, ma... io mi fido di lui. Ti chiedo di fare altrettanto, Capitano» disse in tono accorato.
   «Lo farò» promise Rivera, ormai risoluto ad andare in fondo alla questione. «Gettate le armi, svelti. Tutti, nessuno escluso!» intimò, tenendo sotto tiro i campioni assembrati. Il primo a ottemperare fu sorprendentemente Naskeel, che gettò il fucile polaronico. Seguirono Liara e Yo’rek, che lasciò cadere la lancia Jaffa. Allora anche Scorpion e Rico deposero i mitra, più malvolentieri. A quel punto i renitenti erano in minoranza e sembravano aver qualcosa da nascondere, per cui anche loro dovettero arrendersi. Prima Erzsébeth, poi Master Chief, infine Azrael deposero le innumerevoli armi, ammucchiandole davanti a sé. Arretrarono tutti quanti contro una parete del fortino, dove il Capitano poteva tenerli d’occhio.
   «Pensi davvero che uno di noi sia un impostore?» chiese Erzsébeth, guardando dubbiosa gli altri.
   «Perché no?» fece Scorpion. «Dalle mie parti ci sono Cylon umanoidi maledettamente difficili da riconoscere. Se qui c’è uno di quei lavori in pelle, dobbiamo stare attenti!» disse, osservando gli altri con sospetto.
   «Potrebbe essere un parassita Goa’uld che ha assunto il controllo della sua vittima» suggerì Yo’rek. «In tal caso, potremmo rimuoverlo... a patto di trovare le giuste attrezzature mediche».
   «Qualunque cosa sia, resterete disarmati finché il problema non sarà risolto» avvertì il Capitano. Al suo cenno Talyn prese a raccogliere le armi dal centro del cortile, facendone una gran pila presso uno degli angoli.
   «E perché devi rimanere l’unico armato? Se fossi proprio tu la Cosa che cerchiamo?» insinuò Azrael.
   «E se fosse Klaatu, che appena arrivato ci ha messi l’uno contro l’altro e ora ci ha pure disarmati, pur non adducendo uno straccio di prova alle sue accuse?!» aggiunse Erzsébeth, fissandolo con acredine.
   «Ormai sapete tutti che nel Multiverso abbondano gli impostori, i parassiti e persino i mutaforma» rispose Klaatu senza scomporsi. «Alcuni sono così scaltri che persino i loro conoscenti più stretti stentano a riconoscerli. Non sarà un male se accertiamo le nostre identità, prima di proseguire questo viaggio assieme».
   «E come dovremmo fare?» chiese la Nietzscheana.
   Rivera pensò a un modo che fosse rapido, fattibile con le loro risorse, e abbastanza affidabile da sciogliere ogni dubbio. D’un tratto gli tornò in mente l’ultimo discorso del tecno-prete: «Può venire l’ora in cui ti troverai circondato dai nemici, e non ti fiderai nemmeno degli amici. In tal caso ricorda che le persone mentono, ma il sangue non mente. Solo il sangue rivela chi sei!». Quelle parole gli suonarono improvvisamente profetiche.
   «Se il colpevole non vuol farsi avanti, allora sarà il suo sangue a smascherarlo!» dichiarò il Capitano. Si rivolse a Master Chief e Liara, i padroni del fortino. «Avete un po’ d’attrezzature mediche? Mi occorrono siringhe e piattini per le analisi. Non serve il microscopio, userò il mio tricorder».
   «Sì, le abbiamo» confermò l’Asari. Entrò nella baracca che fungeva da infermeria e in breve ne uscì con quanto richiesto. Poi, su istruzione del Capitano, allineò i piattini sul tavolo del cortile. Posò anche le siringhe. Infine tornò a disporsi coi compagni lungo il muro.
 
   «Tocca a te, Talyn» disse Rivera. «Prendi i campioni di sangue, a cominciare da me» ordinò, sapendo che doveva passare il test se voleva che gli altri gli obbedissero ancora.
   «Preleva anche a me» disse Klaatu, mettendosi in linea con gli altri e offrendo il braccio. «Ho creato io quest’agitazione, è giusto che non mi sottragga all’esame» riconobbe.
   Mentre il Capitano continuava a tenere sotto tiro il resto della squadra, l’El-Auriano passò da un soggetto all’altro, prelevando il sangue con le siringhe. Ogni volta riversava il campione raccolto in uno dei piattini, contrassegnandolo col nome del proprietario. Prima di passare al successivo aveva l’accortezza di cambiare siringa, per evitare che il sangue della Cosa infiltrata fra loro contaminasse i campioni successivi. Non ebbe problemi con Rivera e Klaatu, i più disponibili al test, e nemmeno con Scorpion, Rico ed Erzsébeth. Anche Liara si lasciò prelevare il sangue blu. Yo’rek si sfilò il bracciale dell’armatura quando fu il suo turno, permettendo a Talyn di raccogliere il campione. Allora anche Azrael e Master Chief dovettero fare lo stesso, scoprendo le braccia muscolose. L’El-Auriano ebbe un bel daffare per raccogliere il sangue dell’Ultramarine, la cui pelle era resistentissima e tendeva a piegare gli aghi. Alla fine, comunque, i nove piattini furono colmati. Talyn ne aggiunse un decimo, che riempì con un campione del suo stesso sangue, per non essere esentato dalla prova.
   «E lui?» chiese Erzsébeth, indicando Naskeel.
   «Io non ho il sangue» rispose il Tholiano.
   «Allora andremo per esclusione» intervenne Azrael. «Se noialtri passeremo il test, vorrà dire che la Cosa sei tu».
   «Accusare qualcuno per esclusione degli altri sospetti è un criterio meno affidabile dell’accusarlo per l’effettiva presenza di prove» commentò Naskeel. «Non trova, Capitano?» aggiunse.
   Improvvisamente tirato in ballo, Rivera esitò. Si era impegnato a fondo per riavere la fiducia del Tholiano, dopo che erano naufragati. Poteva buttare tutto alle ortiche, solo per un vago sospetto? E poi, Naskeel era sempre rimasto al suo fianco; quando mai la Cosa poteva averlo sostituito? «Forse è accaduto la prima notte, quando mi ha vegliato mentre dormivo» ricordò a un tratto. Poiché il Tholiano attendeva una risposta, il Capitano gli si rivolse. «Lo so, ma è il meglio che possiamo fare, date le circostanze» mugugnò.
   «E al colpevole, quale che sia, cosa accadrà?» chiese ancora il Tholiano.
   «Questo dipenderà da cosa ci troveremo di fronte» concluse Rivera, sempre più teso per la situazione in cui si erano cacciati. «Avanti, comincia le analisi!» ordinò a Talyn.
   «Io... ehm... stavo pensando che non sarà così facile» esitò l’El-Auriano, già col tricorder in mano. «Alcuni mutaforma riescono a imitarci a livello cellulare. Servirebbe un medico esperto per levare ogni dubbio» avvertì. Guardò Klaatu in cerca di consiglio.
   «Potrei aiutarti, ma se trovassi il colpevole, proprio io che ho dato l’allarme, qualcuno penserà che me lo sono inventato» disse questi. «Serve una prova incontrovertibile. Facciamo così... prendi un saldatore, accendilo e immergilo nei piattini. Se le cose vanno come penso, ne vedremo delle belle» disse enigmatico.
   I Magnifici Nove lo guardarono come se fosse matto, ma Talyn seguì il consiglio. Del resto erano arrivati troppo avanti per rinunciare all’esperimento. Se lo avessero fatto ora, i sospetti reciproci avrebbero continuato ad avvelenarli. Serviva una verifica, per quanto inconsueta. Così l’El-Auriano prese un saldatore dall’officina, lo accese e mise la fiammella a contatto col primo piattino. Era il sangue di Rivera, che sfrigolò per il calore e basta.
   «Test superato, suppongo» disse Talyn, ancora esitante. «Come si suppone che debba comportarsi il sangue della Cosa?!» si domandò. L’annuncio diminuì leggermente la tensione, dato che il Capitano era l’unico armato. Ma la partita era tutta da giocare.
   L’El-Auriano passò ai piattini successivi, sempre facendo in modo che tutti potessero osservare la reazione – o piuttosto l’assenza di reazione – dei campioni sanguigni. Ad ogni prova annunciava il nome del soggetto appena scagionato.
   «Klaatu... libero!».
   «Il sottoscritto, Talyn... libero!».
   «Kara Thrace... libera!».
   «Johnny Rico... libero!».
   Ad ogni annuncio la persona scagionata si rilassava, sentendosi al sicuro dai sospetti, ma gli altri si facevano più tesi, sapendo che la resa dei conti si avvicinava.
   «Yo’rek... libero!».
   «Liara... libera!».
   «Master Chief... libero!».
   «Azrael... libero!».
   «Che cosa vi aspettavate, che diventassi un demone?» ridacchiò l’Ultramarine.
   «Già, questo test è assurdo e anti-scientifico» convenne Erzsébeth. «Quando saremo tutti scagionati, il colpevole sembrerà Naskeel, ma solo per esclusione. E tutto per le accuse di costui!» disse, puntando il dito contro Klaatu. «Propongo di finirla qui, prima di demonizzare uno di noi per niente. Chi è d’accordo?!» esclamò. Si guardò attorno in cerca di sostegno, ma ormai erano tutti in attesa dell’ultima verifica.
   Come aveva già fatto per nove volte, Talyn immerse la fiammella del saldatore nel sottile strato di sangue sul piattino. «Erzsébeth... liber-AH!» gridò l’El-Auriano, balzando indietro per lo spavento. Perché stavolta il sangue non si era limitato a sfrigolare, ma era balzato fuori dal piattino, come una cosa viva che cercasse di sfuggire alla fiamma. Al tempo stesso aveva cambiato colore, facendosi violaceo.
   Rivera fissò Erzsébeth, come fulminato. Tutti quelli allineati con lei si ritrassero, chi da una parte e chi dall’altra, come se fosse un’appestata. E la traditrice fissò il Capitano con aria fatalista. «Se avessi ignorato quell’uccellaccio del malaugurio, sarebbe stato tutto più facile» disse accennando a Klaatu. «Ma tant’è... questa è la cosa, Capitano... io sono la Cosa» ammise.
   A quelle parole il corpo di Erzsébeth subì un’improvvisa, orribile metamorfosi. Le sue membra divennero violacee, s’ingrandirono e si deformarono, stracciando gli abiti. Le unghie divennero artigli, gli occhi s’ingiallirono, le chiome nere furono riassorbite dal cranio. La patina di umanità con cui s’era rivestita si consumò, come una candela al fuoco, rivelando l’orrore sottostante. In pochi secondi non restava nulla della Nietzscheana. Al suo posto torreggiava una creatura raccapricciante con tre zampe, lunghe braccia brancolanti e la testa incorniciata da una cresta ossea. Le pupille cruciformi si fissarono su Rivera, che riconobbe la specie: era un Undine. Ma apparteneva a una casta mai vista prima, che sembrava ancor più orientata al combattimento. Sulle braccia aveva conservato i rostri ossei dei Nietzscheani, come ulteriore arma.
   «Come temevo, è un Infiltratore» disse Klaatu con calma surreale.
   A quelle parole la creatura gli si avventò contro, come se lo ritenesse l’avversario più pericoloso, mentre tutti gli altri indietreggiavano sgomenti. Se fossero stati armati, i Magnifici Nove avrebbero sparato; ma le loro armi erano ammucchiate in un angolo del cortile. Solo Rivera aveva conservato le proprie, e infatti aprì il fuoco. Ma servivano molti colpi a piena potenza per uccidere un Undine. E il phaser del Capitano era così scarico, dopo la battaglia con gli Aracnidi, che il suo debole raggio non ustionò nemmeno l’Infiltratore.
   «NO!» gridò Talyn, vedendo la creatura che si scagliava contro l’indifeso Klaatu. Il giovane afferrò il fucile polaronico di Naskeel, che aveva tenuto posato sul tavolo, e corse in aiuto dell’amico. Gli fece scudo contro la mostruosità aliena e aprì il fuoco, colpendola a bruciapelo. Ma come il phaser, anche il fucile aveva quasi esaurito la carica, tanto che l’Undine se la cavò con una piccola bruciatura.
   L’attimo dopo la creatura sferrò un colpo d’artigli, sbalzando il fucile polaronico di mano a Talyn e gettandolo lontano. In un lampo reiterò l’assalto, conficcando i tre rostri ossei del braccio nel costato dell’El-Auriano. I rostri perforarono la tuta distillante, facendo sgorgare l’acqua raccolta nelle sacche interne, e affondarono in profondità nella carne sottostante.
   Trafitto dalla triplice arma, il giovane lanciò un urlo straziante, che risuonò nel cortiletto bruciato dal sole. Dalle ferite promanava un bruciore tremendo, che gli attanagliava il petto e gli mozzava il respiro. In pochi attimi le forze lo abbandonarono ed egli cadde all’indietro, esanime. Il sangue sgorgava dalle ferite, mischiandosi all’acqua della tuta. Klaatu lo prese tra le braccia e lo accompagnò dolcemente a terra, osservando gli squarci con un orrore senza precedenti. «Non dovevi, figliolo» gli sussurrò all’orecchio, inginocchiandosi accanto a lui. Cercò di tamponargli l’emorragia, lottando con le sue convulsioni. Poi alzò gli occhi all’Infiltratore che incombeva su di loro. «Non sai cos’hai fatto» disse.
   «Sì, invece» rispose la creatura. «Ti ho privato del discepolo, come ora ti priverò della vita». Scattò contro Klaatu, con tutta l’intenzione di farlo a pezzi. Ma i suoi artigli non giunsero a straziarlo, perché in quell’attimo Master Chief si frappose. Lo Spartan attivò un comando della corazza, che generò un campo di forza semisferico, proteggendo Klaatu e Talyn oltre a lui. Per un attimo gli artigli dell’Undine scivolarono sulla cupola d’energia, evidenziandone la trama esagonale. Poi la semisfera in espansione colpì l’Undine, scaraventandolo all’indietro di parecchi metri.
   La creatura emise uno stridio lacerante mentre si abbatteva al suolo, rotolando nella polvere. In un attimo fu di nuovo in piedi, pronta ad attaccare. E si trovò di fronte Yo’rek, che aveva recuperato la sua lancia. Il Jaffa sparò un colpo, che l’Undine arrestò con la mano, subendo una profonda ustione sul palmo. L’Infiltratore cercò di colpire, ma Yo’rek si gettò di lato e rotolò al suolo, sfuggendo all’attacco. Si rialzò fulmineo e sparò di nuovo, colpendo la creatura al ventre. Ma era ancora troppo vicino, tanto che al nuovo assalto dovette opporre l’asta della sua arma. Gli artigli alieni tranciarono in due la lancia Jaffa, fatta di leghe durissime, come se fosse un grissino. Tuttavia presero di striscio la sua corazza e vi scivolarono sopra, graffiandola, ma senza intaccare la carne sottostante. Ad ogni modo l’obiettivo dell’Undine non era Yo’rek, tanto che dopo averlo disarmato si limitò a scaraventarlo via con un calcio. E si avventò nuovamente contro Klaatu, ignorando gli attacchi di Scorpion, Rico e Liara. I proiettili rimbalzavano sulla pelle violacea della creatura, mentre le armi a energia la bruciacchiavano a stento.
   A un tratto però l’Infiltratore incespicò, trattenuto da qualcosa. Abbassò lo sguardo e si accorse che Rivera gli aveva avvolto la frusta neurale attorno alle gambe, trattenendolo. Per un attimo cercò di liberarsi, distraendosi dagli altri attacchi. E questo gli costò caro, perché Master Chief disattivò il campo di forza – che aveva durata limitata – e gli balzò addosso. A metà del salto, lo Spartan attivò un’arma straordinaria: una doppia lama fatta d’energia bianco-azzurra. Calò quella spada lucente sull’Undine, recidendogli il braccio destro all’altezza del gomito. La creatura stridette di dolore e cercò d’arretrare, ma il veterano di mille battaglie fu lesto a sferrare un altro colpo. Gli piantò la doppia lama nel ventre e spinse a fondo, finché le punte gli uscirono dalla schiena.
   «Sì!» gridò Master Chief, certo di avere la vittoria in pugno. Davanti a lui, l’avversario trafitto pareva in agonia. Ma lo Spartan aveva cantato vittoria troppo presto. L’Undine infatti gli afferrò il polso con la mano superstite e fece forza, costringendolo a estrarre la lama dalle sue carni. La ferita prese subito a rimarginarsi, mentre anche l’arto mozzato si rigenerava a vista d’occhio. Poi l’alieno sollevò lo Spartan e girò su se stesso come una trottola, trascinandolo nel movimento vorticoso. Raggiunta un’elevata velocità lo lasciò andare, scaraventandolo a grande distanza. Master Chief colpì una parete del fortino e da lì cadde a terra tramortito.
   «Patetici bipedi, come pensate di fermarmi?!» ringhiò l’Infiltratore, liberandosi anche dall’impaccio della frusta neurale.
   «COSÍ!» tuonò Azrael, calando su di lui come un angelo della morte. Sferrò un tremendo colpo con la spada-motosega, tranciando in due l’Undine, dalla spalla sinistra al fianco destro. Per un attimo l’alieno rimase in piedi, come congelato. Poi, con un suono repellente, la metà superiore del suo corpo scivolò su quella inferiore e cadde a terra. L’attimo dopo gli cedettero anche le gambe. Le due metà del suo corpo continuarono a sussultare, come code di lucertole, macchiando la sabbia di sangue viola.
   «È così che trattiamo gli xenos, dalle nostre parti!» ruggì l’Ultramarine, gloriandosi della vittoria.
   «Non ti muovere, creatura» disse Naskeel, puntando il fucile polaronico – appena recuperato – alla testa dell’Undine.
   «Fermi!» ordinò Rivera. Appurato che il suo phaser quasi scarico non era una minaccia per l’Infiltratore, prese la lancia dell’Alta Guardia e lo minacciò con quella. «Dimmi la verità, brutto mostro. Erzsébeth non è mai esistita?!» volle sapere.
   «Oh, ma certo che è esistita» rispose l’Undine, con un filo di voce. «Era davvero un Comandante dell’Alta Guardia, coraggiosa e piena di risorse. Lottò strenuamente quando l’attaccai, sebbene fosse sola. Così, dopo averla uccisa, decisi che da quel giorno avrei imitato il suo aspetto e i suoi atteggiamenti per infiltrarmi tra i gladiatori. Ha funzionato bene, non ti pare?».
   «Non abbastanza» rispose il Capitano, truce.
   «È come temevo, signore» disse Naskeel. «Per osservare gli scontri e imparare le nostre tecniche di combattimento, gli Undine s’infiltrano fra noi. Così ottengono una conoscenza più approfondita che se si limitassero a osservare tutto coi sensori».
   «E vuoi mettere il divertimento?!» aggiunse l’Infiltratore, per poi tossire sangue.
   Rivera guardò Talyn, che giaceva agonizzante. Klaatu aveva arrestato l’emorragia e gli stava suturando la triplice ferita, con l’aiuto di Liara. Anziché gli strumenti chirurgici del fortino, non molto avanzati, stavano usando quelli più progrediti presi dallo zaino del Capitano. A questi non sfuggì il fatto che Klaatu padroneggiava la tecnologia medica federale. Anche così, il fato del giovane El-Auriano era appeso a un filo.
   «Rispondi, carogna! Come salviamo Talyn?!» ringhiò il Capitano, puntando la lancia dritta in faccia all’Undine.
   «Non potete» rispose quello. «Anche se sopravvivesse alle ferite in sé, le mie cellule hanno già cominciato a divorarlo dall’interno. Se avete pietà di lui, ponete fine alla sua agonia con un rapido colpo» consigliò.
   Rivera ricordò quel che aveva letto sulla biologia Undine, e che Losira gli aveva confermato per esperienza diretta. Quando un Undine graffiava un altro essere vivente, le sue cellule contagiavano la vittima e si moltiplicavano nel suo corpo. In tal modo si espandevano come un cancro, fino a divorare il disgraziato. Questo era accaduto a Brokk, il precedente Ingegnere Capo, durante la loro prima avventura nello Spazio Fluido; Losira aveva dovuto sparargli per abbreviare l’agonia. La sola speranza di salvare Talyn era riportarlo subito sulla Destiny, così che Giely eliminasse le cellule Undine.
   «Se lo portiamo sulla mia nave, potremmo ancora salvarlo!» esclamò il Capitano, rivolto a tutti i presenti. Poi tornò a concentrarsi sull’Infiltratore. «Avanti, bastardo, dimmi come lasciare questo schifoso pianeta!» ringhiò.
   «Non potete fare neanche questo» ghignò l’Undine. «Non ci sono stargate, né vascelli funzionanti. Noi Infiltratori passiamo molto tempo sulla superficie, infine veniamo teletrasportati sull’Harvester per fare rapporto. Ma avrete notato che la stazione non c’è più!» disse, alludendo al fatto che la stella del mattino era scomparsa.
   «Dov’è andata?!» chiese Rivera, pur intuendo la risposta.
   «È tempo di mietere un altro raccolto. Un nuovo pianeta si aggiungerà alla nostra collezione, e voi non potete impedirlo» confermò l’Undine. «Come vedi, è tutto scritto. Presto il Supervisore manderà altri come me a finire il lavoro, e morirete tutti quaggiù. Mi spiace, Armando... eri simpatico, per un bipede. Sei stato una delle mie missioni più interessanti» lo canzonò, alterando la voce per suonare come la Nietzscheana.
   «Questo è per la vera Erzsébeth Moghul, che tu hai ucciso» sentenziò il Capitano. E gli sparò in faccia con la lancia dell’Alta Guardia che le era appartenuta. Lo colpì per venti volte di fila, fino a disintegrargli completamente la testa. Allora gli ultimi spasmi abbandonarono il corpo dell’Undine, che giacque finalmente morto.
 
   Eliminato l’Infiltratore, il Capitano gettò la lancia e si precipitò da Talyn, inginocchiandosi accanto a lui. Il giovane aveva perso molto sangue, che gli imbrattava la tuta, ed era privo di sensi. Klaatu aveva arrestato l’emorragia, stabilizzandolo nell’immediato, ma il problema era un altro. Dalle tre ferite stavano già cominciando a diffondersi gli orribili filamenti giallognoli di tessuto Undine. Era come osservare un tumore che cresceva a vista d’occhio.
   «Allora, quanto gli resta?!» chiese Rivera.
   «Il tessuto Undine prolifera in fretta. Se non lo estirpiamo, il nostro giovane amico non vedrà la prossima alba» rispose Klaatu con gravità. I Magnifici Nove – ora ridotti a otto – gli si radunarono attorno, affranti a quella notizia. Almeno loro stavano bene, compreso Master Chief, che si era già rialzato, con la corazza un po’ ammaccata.
   «Questi strumenti non bastano, ci vorrebbe l’infermeria della Destiny» mormorò il Capitano, angosciato. Sapeva che non sarebbe stato capace di sparare a Talyn, se il male fosse progredito. «Lei non può farci niente?!» chiese a Klaatu, quasi supplicandolo per la disperazione. L’unica cosa che sapeva con certezza sul suo conto era che Talyn si fidava di lui, al punto di farsi colpire al suo posto.
   «Beh, in effetti potrei tentare una cosa» rivelò Klaatu, meditabondo. «Ma sarà difficile e richiederà la vostra collaborazione. Intendo l’aiuto di tutti voi, nessuno escluso!» disse ai campioni assiepati.
   «D’accordo, che dobbiamo fare?» chiese Rivera, mentre anche gli altri borbottavano il loro assenso.
   «Non si tratta d’agire sul piano materiale» spiegò Klaatu. «Quel che mi occorre è il vostro sostegno, inteso come una comunione d’intenti. Dovete concentrare su di me le vostre volontà, il desiderio di guarire questo giovane. Vedete, io posso agire come una lente focalizzatrice e far sì che il vostro pensiero si realizzi. Ma perché ciò sia possibile, dovete accantonare lo scetticismo. So che non è facile, dato che ci siamo appena incontrati, ma dovete fidarvi, sia di me, sia gli uni degli altri. Se uno solo di voi non avrà fiducia, il nostro sforzo sarà compromesso e non potremo salvare Talyn. Allora, siete pronti?».
   I campioni si guardarono l’un l’altro, perplessi. «Lei ci chiede poco... e al tempo stesso ci chiede tutto» commentò Rivera.
   «Siamo tutti combattenti, qui. A tutti noi è capitato di vedere infrante la nostra fiducia e le nostre speranze. Ora non è facile fidarci di un estraneo che sembra usare la magia, più che la scienza» aggiunse Scorpion.
   «In anni di servizio, non ho mai visto la fiducia guarire una ferita» aggiunse Rico. «Forse ci prende in giro. E quando il suo abracadabra non funzionerà, potrà sempre rovesciare la colpa su di noi, dicendo che non ci fidiamo abbastanza».
   «Se siete combattenti, allora saprete che il primo requisito per vincere è credere che la vittoria sia possibile. Se partite dal presupposto di non farcela, siete sconfitti in partenza» disse quietamente Klaatu.
   «Un conto è la vittoria conseguita con armi e strategia, un altro è credere nel potere diretto della mente, che non ha validità scientifica» insisté Naskeel.
   «Vi trovate in un Universo parallelo, su un pianeta che ospita telepati e mutaforma. Forse è il momento di mettere in discussione i vostri preconcetti su ciò che è fattibile e ciò che non lo è» suggerì Klaatu.
   «Okay, un punto a favore» riconobbe il Capitano. «Ma prima di procedere, dobbiamo sapere chi è lei realmente. Niente giochetti, niente giri di parole: ci dica chi è!» lo esortò.
   A queste parole Klaatu, che finora era rimasto inginocchiato accanto a Talyn per prestargli soccorso, si alzò in piedi, rassettandosi gli abiti polverosi. «Io ho molti nomi e molti volti, Capitano. Klaatu è solo uno di essi. Ma forse lei mi conosce come... il Viaggiatore». E così dicendo, si trasfigurò.
 
   Una purissima luce bianca sgorgò dal volto del Viaggiatore, dalle sue mani, da tutte le sue membra, brillando attraverso le umili vesti. In quello splendore, il suo aspetto cambiò. Le sue dita si fusero, finché le mani divennero tridattile. I capelli s’ingrigirono e arretrarono, rendendolo assai stempiato; la barba svanì del tutto. Anche le sopracciglia sparirono, mentre le arcate sopracciliari si fecero più pronunciate. Quando la luminosità svanì, l’essere non aveva più sembianze umane, bensì pareva un nativo di Tau Alpha C. Quanto l’Undine suscitava orrore e spavento, tanto il Viaggiatore emanava un senso di pace e serenità. Si guardò attorno, lasciando che tutti i presenti lo osservassero a loro volta.
   «Sì, ho sentito parlare di lei, ai tempi dell’Accademia» ricordò il Capitano. «È l’essere che per tre volte contattò l’Enterprise-D, dando prova di strani poteri mentali. La prima volta gettò l’Enterprise dall’altro capo dell’Universo e la fece tornare indietro. La seconda salvò una persona che era rimasta intrappolata in una bolla subspaziale sul punto di collassare. La terza volta intervenne nella contesa di Dorvan V, la colonia federale reclamata dai Cardassiani, e infine reclutò un giovane cadetto affinché seguisse le sue orme. La Flotta Stellare ha sempre cercato di capire chi è, qual è il suo scopo e se ci sono altri come lei. Posso sperare che ora mi darà qualche risposta?».
   «Sono solo un viaggiatore che esplora luoghi, tempi e realtà diverse, cercando di apprendere da tutte» rispose l’alieno, allargando le braccia. «In fondo non è diverso da ciò che fa la Flotta, anche se io uso sistemi meno tecnologici e più mentali. Il mio scopo, oltre all’esplorazione in sé, è la difesa di quei cardini fondamentali che permettono al Multiverso d’esistere e fiorire. Ecco perché mi sono attivato quando gli Undine hanno cominciato a profanare le altre realtà. Quanto alla sua ultima domanda... sì, ci sono altri come me. Ma non siamo uniti dall’appartenenza a una stessa specie, o pianeta, o epoca. È piuttosto la comunione d’intenti a renderci ciò che siamo» rivelò, osservando Talyn con seria apprensione.
   «E quel discorso sul curarlo con le nostre energie mentali... è vero?» incalzò Rivera.
   «Ogni parola è vera» confermò il Viaggiatore, tornando a chinarsi sull’El-Auriano. «Il pensiero può alterare la realtà e io posso focalizzare i vostri, per curare il nostro giovane amico. Ma dubbi, sospetti e sfiducia possono far naufragare il tentativo. Sarebbe più facile se fossimo più numerosi... ma siamo in pochi, e quindi la minima discordanza sarebbe fatale. Allora, ve la sentite di tentare?» chiese a tutti i presenti.
   «Siamo più bravi a uccidere che a curare, e a sospettare più che a fidarci» ammise Azrael, appoggiandosi alla spada-motosega.
   «Eppure avete già accettato di collaborare per uno scopo comune, o non sareste qui» notò il Viaggiatore. «Vi chiedo solo di fare un altro passo. Del resto, chiedetevi perché avete combattuto nel corso delle vostre vite. Non è stato forse per salvare i vostri cari, la vostra gente? E allora converrete che il campione più grande non è colui che uccide più nemici, ma colui che salva più amici. Non colui che prende più vite, ma colui che ne protegge di più».
   «L’Imperatore protegge...» mormorò l’Ultramarine, ricordando un articolo del suo credo. «E va bene, Viaggiatore, avrai il mio contributo» decise.
   Ora che il più feroce tra loro aveva dato l’assenso, gli altri non poterono esimersi dal fare altrettanto. Uno dopo l’altro si fecero avanti, offrendo la propria collaborazione, finché furono tutti d’accordo.
   «Bene, allora cominciamo» disse il Viaggiatore.
 
   Di lì a poco sedevano tutti in cerchio attorno a Talyn, che era sdraiato al suolo, con le ferite scoperte. I filamenti alieni crescevano, allungandosi sul torace e affondando in profondità. Il Viaggiatore sedeva a gambe incrociate come gli altri, a occhi chiusi, come se meditasse. Si era posizionato in corrispondenza della testa di Talyn, mentre Rivera stava al capo opposto del cerchio, per tenerlo d’occhio.
   A un tratto il Viaggiatore si riscosse e aprì gli occhi, osservando quanti sedevano con lui. «È il momento» disse pacato. «Ora vi chiedo di focalizzare i vostri pensieri su di me. Datemi la forza di salvare questo giovane. Dovete credere, amici miei, che sia possibile salvarlo. Ricordate: ogni dualità è solo apparenza. Non c’è differenza tra spazio e tempo, materia ed energia, pensiero e realtà. Come la realtà influenza i vostri pensieri, così è possibile invertire il flusso e far sì che siano i pensieri ad alterare la realtà. Visualizzate le cellule aliene che svaniscono, lasciando solo i tessuti incorrotti. Pensate a Talyn come alla persona più cara che abbiate mai avuto, e che vorreste avere qui in questo momento. Fidatevi di voi stessi, nonché gli uni degli altri. Credete nella vita... la vita che trova sempre una strada. Non abbiate paura!».
   Rivera fece del suo meglio, anche se era un uomo d’azione più che di meditazione, e non si era mai affidato al soprannaturale. Tuttavia da quand’era iniziata quell’odissea aveva visto cose prodigiose, come lo Spazio Caotico, dove effettivamente i pensieri prendevano corpo. Così si sforzò di credere che il Viaggiatore potesse fare quanto promesso. Immaginò d’infondergli le sue energie, la sua volontà, ogni filo di speranza che gli restava. A un tratto gli parve davvero d’avvertire un flusso di... qualcosa che scorreva fra loro, sebbene potesse essere una suggestione. Si sentì anche stranamente debole, tanto che vacillò, pur essendo seduto a gambe incrociate. Guardandosi attorno, si rese conto che anche gli altri parevano nelle stesse condizioni. Alcuni avevano la fronte aggrottata o sudavano copiosamente. Il Viaggiatore stesso era il più concentrato di tutti. A tratti sembrava persino sofferente, come se stesse prendendo su di sé il male che attanagliava Talyn. Il Capitano lo vide portarsi la mano al costato, nello stesso punto in cui il giovane era stato ferito.
   D’un tratto accadde qualcosa di ancor più sorprendente. Il Viaggiatore divenne stranamente diafano, come se il suo corpo perdesse consistenza. I raggi del sole lo attraversavano, tanto che egli non proiettava più alcuna ombra al suolo. Sembrava un gioco di luce, un miraggio prossimo a svanire. «Ci siamo. Abbiate fede, amici miei» sussurrò, appena udibile.
   Rivera passò lo sguardo su Talyn, il cui respiro era faticoso e irregolare per via dei filamenti che gli opprimevano il petto. In quella però furono i filamenti a impallidire e svanire, come un brutto sogno spazzato via dal risveglio. La loro trama abbandonò la pelle di Talyn, che prese a respirare più agevolmente. Persino le tre profonde ferite, già suturate, si dissolsero senza lasciare la minima cicatrice. Adesso il giovane El-Auriano pareva sano, a parte il pallore, dovuto al fatto che aveva perso molto sangue.
   Strabiliato, il Capitano tornò a guardare il Viaggiatore e lo vide così trasparente che era sul punto di svanire. In quella però il processo s’invertì e l’alieno riprese consistenza. Il suo corpo tornò opaco, la sua ombra si proiettò di nuovo sul terreno. Infine il Viaggiatore riaprì gli occhi e parlò, stanco ma soddisfatto: «Vittoria, amici miei. Il giovane Talyn è salvo. Dormirà per il resto della giornata e per la notte; domattina si risveglierà di nuovo in forze. Grazie di cuore a ciascuno di voi. Senza il vostro contributo, non ce l’avrei mai fatta».
   I campioni si rialzarono, osservando meravigliati il giovane risanato e scambiandosi impressioni a mezza voce. «Credevo che solo gli Ascesi avessero un simile potere» disse Yo’rek.
   «Siamo tutti a qualche stadio d’illuminazione, chi più chi meno, anche se non è da tutti trascendere la carne» rispose il Viaggiatore con un mezzo sorriso. Il Jaffa, che gli era accanto, lo aiutò ad alzarsi, notando la sua debolezza.
   Intanto Rivera si era accostato a Talyn e lo esaminava col tricorder, in cerca di tracce dell’infezione aliena. Non ne trovò alcuna. Non solo le cellule Undine erano dissolte, ma non c’era nemmeno tessuto cicatriziale, né un aumento di globuli bianchi: nulla a indicare che poco prima il giovane era in fin di vita. Allora il Capitano si alzò e si rivolse al Viaggiatore. «La ringrazio; ora sì che sono in debito con lei» gli disse.
   «Come ho detto, una buona azione è la ricompensa di se stessa. Nessun debito, Capitano» rispose lui, sebbene apparisse provato.
   «Si sente male? Posso fare qualcosa?» si premurò Rivera.
   «Non si preoccupi. Qualche ora di riposo e anch’io ritroverò le forze» garantì il Viaggiatore, con un sorriso tranquillizzante. «Dopo vorrei parlarle di Talyn» aggiunse, facendosi serio.
   «Sì, dopo ne parleremo» convenne il Capitano, osservando l’El-Auriano ancora privo di sensi.
 
   Il Viaggiatore consumò un pasto leggero e si ritirò in uno dei dormitori, dove riposò per il resto della giornata. Intanto Rivera depose Talyn su un lettino, in un altro dormitorio, e restò a vegliarlo. Mille pensieri affollavano la mente del Capitano, ma al centro di tutto vi era il Viaggiatore. Aveva la sensazione che fosse lui il pezzo chiave del rompicapo, e si chiese quali sarebbero state le sue prossime mosse.
   Il sole era ormai tramontato quando Rivera si decise a lasciare il dormitorio, lasciando che fosse Yo’rek a sorvegliare il giovane. Uscito nel cortile del fortino, immerso nella strana penombra dello Spazio Fluido, il Capitano vide che il Viaggiatore era di nuovo in piedi.
   «Come sta il ragazzo?» chiese l’alieno.
   «Mi sembra che sia migliorato. Ha ripreso colore» rispose l’Umano. «E lei?».
   «Anch’io ho ripreso le forze. Le andrebbe di parlare?».
   «Certo, mi segua» lo invitò Rivera. Avrebbe tanto voluto chiedergli cos’era stato quel giochetto di sbiadire mentre curava Talyn, ma sentiva che era più urgente parlare del giovane. I due salirono la scala a chiocciola e raggiunsero gli spalti, dove potevano discutere più liberamente. Dalla loro posizione avevano la vista sia del cortile interno, ormai ripulito dai resti della battaglia, sia della pianura esterna, ancora ingombra dei resti degli Aracnidi.
   «Ebbene, immagino che avrà molte domande» disse il Viaggiatore.
   «Eccome! Ma ad una credo che lei abbia già risposto» fece Rivera. «Vede, continuavo a chiedermi perché Talyn. Voglio dire, lei è qui da molto tempo, sa chi si trova sul pianeta e credo che sia in grado di combinare un incontro con chi vuole. Con migliaia di persone a disposizione, lei ha scelto di prendere contatto proprio con Talyn. Non con noi! Se ci ha raggiunti è solo perché Talyn voleva ritrovarci, e lei lo ha accontentato. Non è così?».
   «Lei è perspicace, Capitano» riconobbe il Viaggiatore.
   «Dunque il suo interesse è tutto per Talyn. Lo ha salvato dalla tempesta di sabbia e da chissà quanti altri pericoli, lo ha ospitato nel suo rifugio, lo ha aiutato a ritrovarci, infine lo ha salvato dall’infezione aliena, a prezzo di un grande sforzo» notò l’Umano. «Per quanto lei sia generoso, questo indica un’attenzione speciale. Lei vede in Talyn un possibile discepolo... un successore. Anche l’Infiltratore lo ha detto».
   «Come le ho detto, noi Viaggiatori non siamo accomunati dalla specie o dalla patria, ma dal talento e dalla vocazione» confermò l’alieno. «E i doni di cui parlo sono estremamente rari. Ci sono interi mondi privi di un solo candidato. Ecco perché, quando finalmente ne troviamo uno, sarebbe incauto lasciarcelo sfuggire».
   «Quindi lei è un talent scout» ironizzò Rivera.
   «Tra le altre cose» ammise il Viaggiatore, abbozzando un sorriso. «Ho avuto diversi apprendisti, ma Talyn... lasci che glielo dica... ha il potenziale più elevato di tutti. Ormai ne sono certo. Potrebbe diventare un Viaggiatore più in gamba di me» rivelò.
   «Uhm... anche noi abbiamo sempre avuto la sensazione che avesse qualcosa di speciale» rimuginò il Capitano. «La prima a notarlo fu Losira, sua madre adottiva. In seguito Talyn ha spesso fatto cose che ci hanno lasciati di stucco. Premonizioni, psicometria... una volta rimase integro durante un fenomeno di scissione quantica che colpì il resto della nave e dell’equipaggio. Pensavamo che dipendesse dal suo essere El-Auriano... quel popolo ha capacità misteriose».
   «Sì, gli El-Auriani hanno una sensibilità straordinaria, e molte capacità di Talyn derivano certamente da quello» confermò il Viaggiatore. «Tuttavia ritengo che sorpassi anche il resto della sua gente. So d’essere indiscreto a chiedere, ma... potrebbe dirmi ciò che sa della sua famiglia? Dei suoi anni formativi? Con me il ragazzo è stato alquanto abbottonato su questi argomenti. È chiaro che è orfano, e che ha sofferto molto, ma devo saperne di più».
   «Le dirò quel che so... per quanto anch’io in realtà non conosca i dettagli. Forse Losira sa qualcosa di più» sospirò Rivera. Raccontare fatti così personali a un mezzo sconosciuto era un azzardo, ma si disse che il Viaggiatore aveva già dimostrato la sua buona volontà. Così nell’ora successiva il Capitano si sforzò di ricordare, e d’esporre nel modo più organico, tutto ciò che sapeva sulle origini di Talyn.
   Il Viaggiatore ascoltò con la massima attenzione, interrompendo solo occasionalmente per fare qualche domanda mirata. A interessarlo era soprattutto l’effetto che le vicissitudini potevano aver provocato sulla stabilità emotiva del giovane e sulla sua etica. In particolare fu colpito – in negativo – nel sapere che Talyn aveva la tendenza quasi cleptomane a rubacchiare, in seguito agli anni vissuti per strada, prima d’essere adottato. Anche sapere che di recente aveva ucciso alcune guardie per salvare Losira lo impressionò.
   «Questo è tutto, credo» concluse il Capitano. «Allora, che ne pensa?».
   «Uhm... avevo notato che Talyn ha vissuto esperienze drammatiche, ma forse ne avevo sottovalutato la portata» ammise il Viaggiatore. «È chiaro che reca cicatrici profonde, del tipo che nemmeno io posso curare».
   «Ha avuto una vita dura» convenne Rivera. «Da quand’è fra noi, abbiamo cercato di farlo sentire... come dire... di famiglia. Ma siamo una banda d’avventurieri ricercati, e negli ultimi anni abbiamo vagato nel Multiverso. La nostra vita è difficile e pericolosa, perciò lo è stata anche la sua».
   «Non ve ne faccio una colpa. Anzi, considerate le circostanze, avete agito in modo ammirevole» lo rassicurò l’alieno. «Resta il fatto che Talyn ha un bagaglio emotivo assai gravoso. Già in termini d’età anagrafica è maggiore rispetto a ogni altro apprendista che ho mai avuto. Di solito noi Viaggiatori cerchiamo discepoli più giovani, per evitare che abbiano un eccessivo attaccamento alla loro vita passata. Ma oltre a questo, Talyn porta anche il peso d’esperienze traumatiche. La perdita della famiglia, i giorni passati sotto le macerie di casa, gli anni vissuti come ragazzo di strada... e poi tutte le avversità che vi hanno colpiti. Per quanto possa elaborare i traumi, ne porterà sempre il peso» ragionò.
   «Quindi non desidera più prenderlo sotto la sua tutela?» chiese il Capitano, speranzoso.
   «No, lo desidero ancora» rispose inaspettatamente il Viaggiatore. «Anzi, potrebbe essere ancora più importante aiutarlo a trovare l’equilibrio».
   «Quindi vuole portarcelo via?» s’incupì Rivera. «Le ricordo che la vita di Talyn è con noi. Lei, con tutto il rispetto, lo conosce solo da pochi giorni. È poco per decidere di mollare tutto e partire all’avventura. Prima ha detto che lei cerca due cose, talento e vocazione. Accetto che Talyn abbia il talento. Ma la vocazione? Francamente io, che lo conosco da molto più tempo di lei, non credo che ce l’abbia. E mi auguro che non intenda portarlo via contro la sua volontà» disse, facendosi più severo. Forse aveva sbagliato a dirgli così tanto sul suo conto.
   «Si calmi, Capitano. Io non intendo “portare via” nessuno. Non accadrà mai che prenda un discepolo contro la sua volontà, sarebbe assurdo e inattuabile» promise l’alieno. «Se mai Talyn venisse con me, sarà per sua libera scelta. E se mai decidesse che questo cammino non fa per lui, io stesso lo riporterò da voi» s’impegnò.
   «Voglio crederle» disse il Capitano. «Ma resto convinto che Talyn non sarà incline a seguirla. E poi c’è un’altra faccenda» esitò.
   «Sì?» lo esortò il Viaggiatore.
   «Ecco, il fatto è che sulla Destiny abbiamo un equipaggio ridotto» confessò Rivera. «E Talyn è bravissimo come addetto a sensori e comunicazioni. Se andasse via, sentiremmo la sua mancanza. Anzi, diciamo pure che saremmo tutti ancor più in pericolo. Come ho detto, il ragazzo ha salvato l’intera nave più di una volta».
   «Quindi non volete rinunciare a lui» disse pacatamente l’alieno. Non c’era rimprovero nel suo atteggiamento, solo il desiderio di comprendere le loro ragioni.
   «In effetti è così. E poi Losira morirebbe di crepacuore se sapesse che se n’è andato a esplorare il Multiverso in modo tanto temerario» disse il Capitano. «Ora, non mi fraintenda: io non intendo vietare a Talyn di andare con lei, se questo fosse il suo desiderio. Non lo chiuderò in cella, né userò ricatti emotivi per tenerlo legato a noi. Però, come ha notato, Talyn è molto percettivo. Quindi sa che non vorremmo lasciarlo, per ragioni sia affettive, sia pratiche. E sapendo questo, non credo che ci pianterà in asso. Almeno non finché la nostra vita sarà così incerta e pericolosa».
   «Sì, il suo discorso è sensato» ammise il Viaggiatore. «È vero, Talyn è molto legato a voi. È il legame più sano che abbia mai stretto in vita sua, e io non vorrei pormi come colui che lo recide. Tuttavia credo che il suo destino, per quanto connesso alla vostra nave, non si esaurisca con essa. Prima o poi dovrà andare oltre».
   «Cosa intende con “andare oltre”?» s’inquietò Rivera. «In cosa consiste il vostro addestramento? Dov’è che vi radunate? Come funziona la vostra organizzazione? Chi prende le decisioni cruciali?!» incalzò.
   «Mi spiace, non posso rispondere a queste domande» fece l’alieno, scuotendo la testa. «Le dirò solo che il nostro addestramento permette d’esaltare le potenzialità individuali. Per questo è così importante trovare i candidati giusti. Coi nostri insegnamenti, chi è buono diventa migliore... e chi è cattivo diverrebbe peggiore. Così anche noi siamo posti davanti a scelte difficili. Ci è capitato più volte di non addestrare qualcuno, per timore che ne facesse cattivo uso, solo per scoprire che questi soggetti imparavano da autodidatti, divenendo pericolose mine vaganti. Ecco perché vorrei fornire a Talyn un metodo, e soprattutto insegnargli l’autocontrollo, anziché lasciare che sperimenti da solo le sue facoltà».
   «Forse è presto per prendere una decisione definitiva» suggerì Rivera. «Facciamo così: per adesso teniamo questa conversazione tra noi. Non carichiamo il ragazzo col peso di ulteriori aspettative. Siamo ancora dispersi su Arena, con gli Undine a darci la caccia. Concentriamoci sui bisogni immediati: tornare sulla Destiny, avvertire la Federazione. Se sopravviviamo a tutto questo, allora potremo ragionare sul futuro di Talyn».
   «Far passare altro tempo può essere sia un bene che un male» avvertì il Viaggiatore. «Ma lei ha ragione, al momento abbiamo necessità più pressanti. Dunque occupiamoci di quelle, e congeliamo il discorso su Talyn. Ne riparleremo quando i tempi saranno maturi» acconsentì.
   «Intesi» disse il Capitano. E si strinsero la mano per suggellare l’accordo.
 
   Talyn sbatté gli occhi, cercando di mettere a fuoco la vista, mentre la memoria gli tornava a sprazzi. Ricordò la cavalcata sul Verme delle Sabbie, l’arrivo in soccorso dei campioni assediati, la ricerca del traditore annidato fra loro. L’ultima cosa che ricordava erano i rostri ossei dell’Infiltratore che gli affondavano nelle carni, e il dolore lancinante della triplice ferita.
   «Gasp!» fece l’El-Auriano, alzandosi di scatto. Si tastò il costato, dove ricordava d’essere stato trafitto, ma non trovò né ferite né segni d’infezione. Era miracolosamente sano.
   «Calmati, sei al sicuro e sei fuori pericolo» gli disse una voce familiare.
   Talyn constatò di trovarsi su un lettino, in un dormitorio del forte. Finalmente la vista gli si schiarì tanto da permettergli di riconoscere Rivera, seduto accanto a lui. «Capitano, sta bene! E gli altri?» chiese subito.
   «Stiamo tutti bene» lo rassicurò l’Umano. «L’unico ferito eri tu, e ora è passato».
   «L’Undine mi aveva contagiato» ricordò il giovane, passandosi la mano sul costato. «Come avete fatto a curarmi, senza le attrezzature della Destiny?» volle sapere.
   Il Capitano si mosse sulla sedia, leggermente a disagio. «Dobbiamo ringraziare il tuo amico, il signor Klaatu» disse, usando il nome a lui familiare. «Il suo metodo è stato più... trascendente che tecnologico, ma per fortuna s’è rivelato efficace. Come ti senti?».
   «Bene... anche se sono incredibilmente affamato» confessò il giovane.
   «Non mi stupisce. Sei stato privo di sensi per tutto il pomeriggio e la notte» spiegò Rivera. «Ti abbiamo preparato da mangiare» aggiunse, indicando un tavolino apparecchiato accanto al letto.
   Erano le insipide razioni del forte, poiché non c’era altro, ma l’El-Auriano sentì comunque l’acquolina in bocca. Tuttavia non si gettò subito sul cibo. «Che ne è dell’Infiltratore?» chiese, ancora assorbito dai ricordi della lotta.
   «Lo abbiamo ucciso» rispose il Capitano, e osservò attentamente la reazione.
   «Meno male!» esclamò Talyn, mostrando sollievo. Si tastò ancora il punto dov’era stato colpito, ricordando il dolore e il terrore di quei momenti. Altri pessimi ricordi da aggiungere alla sua vita turbolenta. «Ma ce ne saranno altri come lui. Dovremo stare molto attenti a chi incontriamo. Non possiamo fidarci di nessuno» avvertì.
   «Tranne Klaatu, che ti ha guarito» puntualizzò Rivera, sempre interessato alla reazione.
   «Già, tranne Klaatu» convenne Talyn. Si guardò attorno, aspettandosi di vederlo, e restò un poco deluso nell’accorgersi che non c’era. «Gli posso parlare? Vorrei ringraziarlo per tutto quello che ha fatto» disse.
   «Certo, tra un attimo gli parlerai» assicurò il Capitano. «Prima però devo darti una notizia. Il tuo amico Klaatu è un essere dai molti nomi... e dai molti volti. No, non è un Undine, e nemmeno un Fondatore del Dominio» chiarì, prevenendo le domande. «Si tratta di una creatura del tutto diversa. Finora tu l’hai visto con l’aspetto che aveva preso per mimetizzarsi su Arena. Ma dopo il tuo ferimento ha ripreso quelle che, credo, sono le sue vere sembianze. Quindi non stupirti, se ti apparirà diverso da come lo conoscevi».
   «Senti, senti...».
   «Non sembri sorpreso».
   «Non più di tanto» confermò Talyn. «Ho sempre avuto l’impressione che nascondesse dei segreti. Era fin troppo esperto di tutto e di tutti».
   «Ma continui a fidarti di lui?» sondò Rivera.
   «Tutto sommato, sì. Non è stato lui a guarirmi?».
   «Oh sì, è stato lui» confermò l’Umano, tacendo la lunga conversazione che avevano avuto sul suo conto.
   «Capitano, c’è altro che vorrebbe dirmi su di lui?» s’insospettì l’El-Auriano.
   Rivera si riscosse, accorgendosi che il giovane era davvero perspicace. «Uhm, solo che ci ha chiesto di chiamarlo il Viaggiatore» rivelò. «A quanto pare, Klaatu era uno dei suoi pseudonimi». Ciò detto si alzò e andò alla porta, introducendo l’alieno che aspettava fuori.
   «Bentornato fra noi, Talyn» disse il Viaggiatore, facendosi avanti. Aveva ancora le sembianze aliene, con le mani tridattile e l’arcata sopracciliare pronunciata. Solo la voce serena e il caldo sorriso erano immutati.
   «Caspita, sei... diverso da prima» ammise Talyn, osservandolo meravigliato. Se il Capitano non lo avesse avvertito, non lo avrebbe riconosciuto; almeno non subito.
   «Mi spiace per questo piccolo inganno» disse il Viaggiatore, accomodandosi sulla sedia lasciata libera da Rivera. «Quando ci siamo incontrati ero per così dire in incognito. Ma poi l’Infiltratore mi ha riconosciuto lo stesso, quindi tanto vale mostrarmi nel mio vero aspetto. Spero che non me ne vorrai».
   «No di certo. Anzi, ti ringrazio per avermi curato» disse il giovane. «A proposito, come hai fatto di preciso?».
   «È una lunga storia... mangia, intanto» lo esortò il Viaggiatore, accennando al tavolino.
   Il Capitano, che fino a quel momento aveva indugiato sulla soglia, decise finalmente di uscire, lasciando che i due chiacchierassero in privato. Confidava che l’alieno avrebbe mantenuto la sua promessa, e non avrebbe cercato di reclutare Talyn. D’altra parte sperava che fosse l’El-Auriano a scoprire qualcos’altro sul suo conto.
 
   Tornato nel cortile, il Capitano notò un certo movimento. Liara aveva posizionato un piccolo telescopio e stava facendo delle osservazioni, scambiando commenti con gli altri campioni radunati attorno a lei. «Beh, che succede?» chiese Rivera, accostandosi al gruppetto.
   «Succede che l’Harvester s’è fermato ai margini del sistema» rispose la scienziata Asari, distogliendosi dall’osservazione. «Questo conferma le ultime parole dell’Infiltratore. Gli Undine si accingono a rubare l’ennesimo pianeta».
   «E stavolta tocca a Ferasa» concluse Rivera, pensando a che cataclisma sarebbe stato per la Federazione. Perdere un intero mondo avrebbe scatenato il panico. E una volta risucchiati nello Spazio Fluido, i poveri Caitiani che speranze avevano di tornare? Bisognava fare qualcosa, prima che fosse troppo tardi. Il primo passo, naturalmente, era tornare sulla Destiny.
   «È tempo di mettere il nostro amico Viaggiatore alle strette» disse il Capitano, facendosi cupo. «Uno come lui, sempre in viaggio tra i mondi, deve avere un modo per lasciare questo dannato pianeta. Scopriremo come fa e lo costringeremo a darci un passaggio, con le buone o con le cattive» decise.
 
   Di lì a poco Talyn e il Viaggiatore uscirono dalla baracca, chiacchierando allegramente. I loro passi si bloccarono e le loro voci si spensero quando videro i campioni schierati davanti a loro, in silente attesa. I loro volti erano severi, ed essi avevano le armi con sé, pur non impugnandole.
   «Beh? Capitano, che significa questo?» chiese Talyn, intimorito. «C’è un altro Infiltratore fra noi?!» si allarmò.
   «No» rispose seccamente l’Umano. «Il fatto è che l’Harvester ha raggiunto i margini del sistema e lì si è fermato. Tutto lascia intendere che gli Undine si apprestino a sequestrare un altro pianeta, con tutta la popolazione. Stavolta potrebbe toccare ai Caitiani, il popolo di Shati».
   «Mi spiace, ma... noi che possiamo farci?» chiese l’El-Auriano.
   «Forse poco, forse niente» disse Rivera. «Ma l’unico modo per saperlo con certezza è tornare sulla Destiny e fare il punto della situazione. Ora, il Viaggiatore ha ammesso di potersi spostare da un mondo all’altro anche senza l’ausilio di particolari tecnologie. La domanda è: che aspetta a farlo?».
   Tutti fissarono l’alieno, e anche Talyn lo guardò perplesso. «È la verità? Puoi ricondurci sulla Destiny?» chiese.
   «È più complicato di quanto crediate» avvertì il Viaggiatore. «Se non fosse occultata, e ne conoscessi la posizione, potrei farlo agevolmente. Il problema è che i vostri colleghi si stanno nascondendo piuttosto bene. Se la Destiny è ancora da qualche parte in questo sistema, posso cercare di rintracciarla; ma mi occorre il tuo aiuto» si rivolse a Talyn.
   «Io? Ma non ho strumenti... che devo fare?» chiese il giovane, perplesso.
   «Solo espandere la tua mente. Non temere, ti guiderò io. Voialtri, potreste sedervi per cortesia? Sì, tutti in cerchio, come ieri» raccomandò l’alieno.
   Mentre il resto del gruppo faceva come richiesto, il Viaggiatore prese Talyn da parte. «Se tutto va bene,  presto sarete a bordo» disse. «Ma è possibile che le nostre strade si separino, almeno per un po’» avvertì, malinconico.
   «Non capisco perché» disse il giovane. «Mi sembra di averti appena conosciuto, e so che avresti tanto da insegnarmi».
   «Il tuo apprendistato non deve passare necessariamente da me» rispose l’alieno, ricordando il patto con Rivera. «Forse basterà la tua vita sulla Destiny. Ma se desideri rivedermi, allora sarà così... quando i tempi saranno maturi».
   «E quando accadrà?» chiese l’El-Auriano, impaziente.
   «Come dicono i saggi Mondoshawan... il tempo non ha importanza. Solo la vita è importante» dichiarò il Viaggiatore. «Andiamo ora» aggiunse, dirigendosi verso il resto del gruppo.
   Talyn però restò fermo, scrutando l’interlocutore. «Ma insomma... tu chi sei?!» chiese ancora una volta.
   «Mio giovane amico, è il momento di cominciare a farti domande più importanti di questa. Non chiederti chi sono io, ma chi sei tu. Conosci te stesso e conoscerai anche il prossimo» raccomandò il Viaggiatore. «Su, vieni, i tuoi colleghi ci aspettano».
 
   Di lì a poco erano tutti seduti in cerchio, al centro del cortile, come il giorno prima. Il cerchio tuttavia era un poco più ampio, perché adesso Talyn sedeva fra loro, alla destra del Viaggiatore. Anche stavolta questi chiese ai presenti di focalizzare le loro volontà su di lui, immaginando di sostenerlo. «Avete già assistito al potere della mente. Ora è il momento di attingervi di nuovo. Non sentitevi sminuiti dal fatto di non essere telepati. Ogni essere senziente ha un potere straordinario, se solo impara a sfruttarlo» rivelò.
   Quando ebbe creato un clima di concentrazione simile al precedente, tuttavia, il Viaggiatore cambiò tecnica. Invece di chiedere ai presenti di pensare alla Destiny, si rivolse in particolare a Talyn. «Sarai tu la nostra guida. Quella nave ti è cara, non è così? Forse è il luogo più simile a una casa che tu abbia mai avuto» suggerì.
   «In effetti è così» ammise il giovane.
   «Allora concentrati su quel luogo e sulle persone che ci vivono. La tua madre adottiva, i tuoi colleghi, i tuoi amici. Cerca di percepirli attraverso le vastità dello spazio. Non importa se sono occultati... percepisci le loro menti, simili a focolari nell’oscurità. Ti sembra che siano ancora in questo sistema stellare?».
   Talyn aggrottò la fronte, che era imperlata di sudore, per il caldo e la concentrazione. Chiuse gli occhi, eliminando qualunque distrazione esterna. A un tratto la sua espressione si rasserenò. «Sì, mi sembra di sentirli. Sono ancora qui» confermò. «Si preoccupano per noi, ma... sono incerti su come intervenire. Questo pianeta è circondato dalle bionavi, che cercano di prenderli in trappola».
   «Non ci sarà alcuna trappola, se noi superiamo il blocco» lo rassicurò il Viaggiatore. «Ora pensa alla plancia della Destiny. Cerca di figurarla con gli occhi della mente. Riesci a vederla?».
   «Certo».
   «Eccellente» si complimentò l’alieno. «Adesso immagina che qui fra noi si apra un portale, un passaggio diretto che ci permetta di salire a bordo. Come lo stargate che avete visto sull’altra Destiny. Lo spazio si piega, la distanza si annulla, finché due punti coincidono. I due punti sono diventati uno solo. Dico a tutti voi... dovete credere che ciò sia possibile» si rivolse agli astanti. «Dovete credere che la mente abbia il potere di superare lo spazio e annullare le distanze. Dovete credere che si possa raggiungere ogni punto del cosmo... senza muoversi».
   Non fu facile, malgrado il miracolo a cui avevano assistito il giorno prima. Ma con la guida del Viaggiatore, Rivera e gli altri cercarono di figurarsi questo passaggio. Ed ecco, il Capitano vide materializzarsi qualcosa tra loro. Dapprima parve una distorsione luminosa, come un miraggio nel deserto. Poco alla volta si precisò, assumendo l’aspetto di un portale. A tratti sembrava un imbuto, come uno stargate senza l’anello metallico. In altri momenti pareva invece una porta alta e stretta.
   Ricordando l’esperienza precedente, Rivera osservò il Viaggiatore. Ed ecco, lo vide nuovamente farsi diafano. La sua figura impallidiva sempre più, come un ricordo sul punto di svanire. Poco alla volta gli oggetti retrostanti divennero visibili attraverso la sua sagoma. La sua ombra impallidì fino a sparire del tutto, mentre quelle altrui erano ancora ben delineate. Intanto la sua espressione era sempre più stanca e sofferente; anche la sua voce s’indebolì.
   Il Capitano sentì crescere il panico. Qualcosa non andava nel verso giusto, il Viaggiatore si stava stancando troppo. E dire che, rispetto al giorno prima, avevano Talyn a contribuire con la sua energia mentale non indifferente! Ma sembrava che aprire un portale costasse più fatica di quanta ne aveva richiesta la guarigione. O forse il Viaggiatore non si era ancora pienamente ripreso dallo sforzo precedente. Quale che fosse il motivo, si stava... consumando.
   «Resistete, amici miei. Uniti ce la possiamo fare» disse l’alieno con un filo di voce. Il suo corpo divenne quasi invisibile, mentre il portale al contrario era sempre più luminoso. D’un tratto si stabilizzò, apparendo come un ingresso che potevano varcare. «Ecco, la via è aperta! Affrettatevi, avete ancora molto da fare. E ricordate che la distanza tra noi non conta, finché saremo vicini nello spirito» sussurrò il Viaggiatore. Sorrise, emettendo un lento sospiro soddisfatto. E svanì del tutto, lasciando un posto vuoto nel cerchio.
   Allora anche gli altri astanti, fra cui Talyn, riaprirono gli occhi. Videro il portale aperto fra loro e ne furono entusiasti. Balzarono in piedi, pronti ad attraversarlo. «Ce l’abbiamo fatta!» esultò Talyn, volgendosi dove fino a un attimo prima c’era il Viaggiatore. E ammutolì nel vedere che era scomparso. Si guardò freneticamente attorno, pensando che si fosse allontanato di qualche passo. «Ma dov’è? Qualcuno l’ha visto?!» esclamò, sempre più confuso.
   «Il Viaggiatore è svanito» disse Rivera, per evitare che Talyn si attardasse a cercarlo.
   «Come sarebbe, svanito?!» fece il giovane, incredulo.
   «Ha fatto puff e s’è dissolto nell’aria, okay?!» rispose nervosamente il Capitano. «Già si era affievolito ieri, per guarirti. Oggi lo sforzo deve averlo spinto oltre il limite».
   «Stai dicendo che è morto?!» chiese Talyn, sempre più sconcertato. Si sentiva in colpa per averlo costretto a spendere così tanta energia per salvarlo. Senza di quello, forse adesso sarebbe stato ancora fra loro...
   «Tu non hai colpa» chiarì Rivera, intuendo i suoi pensieri. «Anzi, gli hai fornito un aiuto indispensabile. Ma lui ha fatto quello che doveva, conoscendo i rischi. Non so se sia morto... non so nemmeno se uno come lui possa realmente morire. Forse è solo tornato da dove proveniva. O forse non è mai stato realmente qui! In ogni caso dobbiamo attraversare quel portale finché è aperto, o sarà stato tutto inutile. Vieni, per l’amor del Cielo!».
   Siccome Talyn non si decideva a seguirlo, il Capitano lo prese per un braccio e se lo trascinò dietro. Svanirono entrambi nelle profondità azzurrine del portale. Allora anche gli altri campioni si affrettarono a seguirli, temendo che il varco si richiudesse, lasciandoli lì. Scorpion e Rico, Liara e Master Chief, Naskeel e Azrael attraversarono il vortice, abbandonando il cortile assolato. L’ultimo ad andare fu Yo’rek, che prese la lancia da combattimento appartenuta a Erzsébeth, in sostituzione di quella spezzatasi nella lotta contro l’Infiltratore. Pochi secondi dopo che il Jaffa era passato, il portale impallidì e si dissolse, senza lasciare alcuna traccia. Il fortino semidistrutto rimase deserto e silenzioso, come tanti altri ruderi su Arena. 
 

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Capitolo 8
*** Lealtà ***


-Capitolo 7: Lealtà
 
   Shati indugiava sulla soglia. Non era da lei avere di questi timori, ma la situazione in cui si trovava era piuttosto inedita. La Destiny si trovava ancora nello Spazio Fluido e seguiva gli spostamenti dell’Harvester. Era chiaro ormai che gli Undine si accingevano ad aprire un’interfase per impadronirsi di Ferasa. Shati era in ansia per il suo mondo e sperava con tutte le forze che il Capitano Dualla se ne uscisse con un piano per salvarlo. Al tempo stesso, non aveva scordato i dispersi su Arena; ma temeva che andare a cercarli significasse cadere nella trappola degli Undine. Come se la situazione non fosse abbastanza ingarbugliata, Shati si trovava a un soffio dal perdere una cara amica, a causa dei loro dissensi sulla crisi. Ecco perché ora esitava davanti alla porta.
   Accortasi che il suo atteggiamento sarebbe parso ridicolo, se fosse arrivato qualcun altro, la Caitiana prese fiato ed entrò. Si trovò in una delle sale sportive della Destiny. Nella fattispecie, nella sala della piscina. Era un vasto ambiente ricavato sulla fiancata della nave, dove nella precedente classe Juggernaut c’erano hangar e stive; ma la Destiny aveva una sezione anulare per quelli. Così lo spazio recuperato era stato adibito a questo. A lato della piscina vi era un’ampia finestra panoramica, che mostrava lo strabiliante vivaio di mondi.
   In quel momento c’era un solo occupante, che percorreva la piscina da un capo all’altro con rapide falcate. Era Giely. Quando Shati entrò, la Vorta stava nuotando verso l’estremità opposta della vasca e quindi le dava le spalle. Anche così, la timoniera si accorse che la dottoressa aveva i nervi a fior di pelle. Se era venuta lì, era per sfogare rabbia e frustrazione. Questo era un bene... nel senso che sarebbe stato molto peggio se Giely avesse preso una navetta e fosse partita in cerca dei dispersi, contro gli ordini del Capitano. Shati avanzò esitante, tenendosi ben lontana dall’acqua. Come tutti i Caitiani, non le piaceva bagnarsi la pelliccia.
   Giunta in fondo alla vasca, Giely si voltò per tornare indietro. A quel punto vide la nuova arrivata. Non la salutò, ma non le disse neppure d’andarsene; piuttosto sembrò ignorarla. Riprese a nuotare, in uno stile ancor più rapido del precedente. Shati la osservò con un certo stupore: da quando l’esile Vorta era diventata così atletica? Doveva essere una novità. In effetti Giely era assai cambiata da quand’era tornata sulla Destiny dopo un anno d’esilio nello Specchio. Shati la ricordava come una persona timida, persino remissiva. Ma la nuova Giely era assai più determinata e sicura di sé. E Shati temeva che fosse più pericolosa nella collera.
   «Ehm, ciao. Possiamo parlare?» le chiese, accostandosi un poco alla vasca.
   «Certo che possiamo. Resta da vedere se abbiamo qualcosa di sensato da dirci» fece Giely. Si accostò al bordo vasca e risalì agilmente la scaletta a pioli, rivelando il fisico snello. Prima di mettere piede sul bordo si strizzò i capelli corvini, spremendo la maggior parte dell’acqua. Giunta alla sedia sdraio, prese l’asciugamano e si diede una passata sommaria, prima d’accostarsi alla visitatrice. «Allora?» chiese, squadrandola con gli inquietanti occhi violetti.
   Era proprio cambiata, si disse Shati. La precedente Giely avrebbe messo qualcosa sopra al bikini, prima di venire a parlarle. Anzi, sarebbe filata in camerino e si sarebbe rivestita completamente. La nuova Giely invece non perdeva tempo. Così la Caitiana fu altrettanto diretta. «Volevo solo dirti che mi dispiace per la situazione. Siamo tutti stressati, in un modo o nell’altro. Ma è inutile risentirci per le scelte di Dualla... piuttosto dovremmo collaborare, come abbiamo sempre fatto. Tu più di tutti dovesti capirlo, visto che eri nella Flotta» disse. Ora che lo pronunciava, il discorso le sembrò più fiacco del previsto.
   «Ero nella Flotta, sì» convenne Giely. «Prima d’allora ero nel Dominio. E più di recente sono stata nella Confederazione. Queste esperienze mi hanno insegnato una cosa: quando l’autorità non si occupa di chi è in pericolo, ha perso di vista il suo scopo. La nostra priorità è salvare i dispersi... senza cui Dualla sarebbe ancora prigioniera sull’Harvester e non qui a dare ordini» puntualizzò.
   «Ma noi ci stiamo organizzando proprio per salvare chi è in pericolo! Miliardi di Caitiani! Questo ha la precedenza, e francamente penso che i dispersi sarebbero d’accordo» insisté Shati.
   «Affermazione comoda, dato che non sono qui a dire la loro».
   «Oh, insomma! Stiamo parlando del mio pianeta!» si scaldò la Caitiana. «Ma tu non sai che significa amare il proprio mondo e la propria gente!» accusò, rinfacciandole di aver disertato dal Dominio. Si pentì subito d’averlo detto... mannaggia alla sua boccaccia. Ma era tardi per ritirare l’accusa.
   Giely si accigliò appena. «È vero, non lo so» ammise con distacco. «Ma con la politica attendista di Dualla, non salveremo nemmeno Ferasa. Quand’è stata l’ultima riunione tattica? Avete mai discusso di un possibile attacco all’Harvester?» volle sapere.
   «Non ancora» ammise Shati a denti stretti. «Ma sono certa che da un momento all’altro Dualla ci comunicherà il suo piano. È un Capitano della Flotta Stellare, dopotutto».
   «Uhm... sempre che non se ne esca con un discorso del tipo: “Mi spiace, non siamo in condizione di fermare gli Undine. Se devono prendere Ferasa, tanto vale che accada mentre lo scontro è ancora a bassa intensità. Lei è stata in Accademia, quindi dovrebbe sapere che la Flotta non provoca una battaglia, se non può garantire la sicurezza dei civili coinvolti”». Giely aveva imitato perfettamente la cadenza di Dualla e la sua espressione solenne. L’effetto era surreale, dato che si trovava ancora in bikini a bordo piscina.
   «Non farà una cosa del genere, lo ha promesso» obiettò Shati, più per convincere se stessa.
   «Davvero? E quando lo ha promesso? Quali sono state le sue esatte parole?!» la incalzò Giely. «Non sarà che vi ha dato l’impressione di volersi occupare del problema, ma in realtà s’è ben guardata dal prendere impegni?».
   Ripensando all’atteggiamento di Dualla, la timoniera si rese conto che era proprio così. La Deltana non aveva mai promesso esplicitamente di distruggere l’Harvester. Per il momento era più assorbita da faccende come cambiare i ruolini di servizio e riassegnare il personale da una sezione all’altra, come se volesse adattare l’equipaggio alle sue esigenze. «Io... solleverò il problema alla prossima riunione» borbottò Shati.
   «Bene, vedremo cosa risponderà Dualla» fece Giely. «Intanto vorrei farti riflettere su una cosa. In mancanza delle coordinate di ritorno, rimarremo smarriti nel Multiverso ancora a lungo. Finché Armando è disperso, Dualla è al comando. Se lui tornasse, cosa pensi che accadrebbe?».
   «Io... uhm... suppongo che lui reclamerebbe il comando, dato che siamo il suo equipaggio» ammise la Caitiana. «O forse accetterebbe il ruolo di Primo Ufficiale, anche se questo significherebbe retrocedere pure Losira».
   «Quindi o Dualla perderebbe il comando, o si troverebbe con un Primo Ufficiale che di fatto ha più ascendente di lei sulla ciurma» puntualizzò Giely. «Non credi che sia questo, il vero motivo per cui non vuole saperne di recuperare i dispersi?! Altro che la logica e il regolamento di Flotta... lei non vuol perdere il potere! Così noi ce ne stiamo qui, con tanta acqua da riempirci una piscina» indicò la vasca accanto a loro, «mentre i naufraghi muoiono di sete su Arena. Ti sembra giusto?!».
   «No» ammise Shati. «Ma per favore, non partire al salvataggio su una navetta, perché ti faresti ammazzare e renderesti più difficile organizzare un recupero come si deve».
   «E allora organizzatelo, un recupero come si deve!» esortò Giely. «Anche perché se lo scopo è distruggere l’Harvester, ho l’impressione che avremmo maggiori speranze con Armando piuttosto che con Zucca Pelata. Certo che, se il tuo obiettivo fosse rientrare nella Flotta Stellare, allora capirei la tua lealtà verso quest’ultima» insinuò.
   «Come ti permetti?!» gridò Shati, stupita dall’audacia della Vorta. «Col mio popolo in ballo, credi che io pensi alla carriera?! Se al tuo posto me l’avesse detto qualcun altro, gliela farei pagare!» avvertì, sfoderando gli artigli felini.
   Giely la squadrò senza timore, sebbene gli artigli di Shati fossero a un metro dalla sua pelle nuda, tanto che la Caitiana si chiese se la Vorta avesse in serbo qualche trucco. Ragionandoci in seguito, tuttavia, si convinse che non era così.
   «Risparmia la collera per chi ti sta usando per restare al potere» consigliò la dottoressa. «Ah, un’altra cosa: da quando Dualla è a bordo, ha rifiutato categoricamente di farsi visitare. Io gliel’ho chiesto più volte, come prevede il regolamento di Flotta... dato che vi è così attaccata. Quando un ufficiale viene sequestrato da una forza ostile – a maggior ragione il Capitano – una volta tornato deve sempre sottoporsi a una visita medica approfondita. Serve ad accertare che il soggetto sia abile al comando, escludendo che abbia problemi di salute, disturbo da stress post-traumatico o altri fattori invalidanti. Senza l’approvazione del Medico Capo, cioè la mia approvazione, il Capitano non può riprendere il comando. Buffo come Dualla, così ligia ai regolamenti, abbia deciso d’ignorare proprio questo».
   «Stai insinuando che potrebbe essere compromessa?» chiese Shati, a disagio.
   «Dico solo che non lo sapremo, finché Zucca Pelata non mi permette di visitarla» ribatté seccamente Giely. «E ora, se vuoi scusarmi, mi devo rivestire».
   Ciò detto, la Vorta riprese l’asciugamano dalla sdraio e si recò nel suo camerino, dove aveva lasciato gli abiti. Chiuse la porta quasi sbattendola, senza guardarsi indietro.
   Shati restò a chiedersi se nelle sue accuse ci fosse del vero. Dualla intendeva approfittare della situazione per far morire Rivera e restare al comando? Forse non era il suo scopo principale, ma... se fosse capitato, non le sarebbe certo dispiaciuto. Era chiaro che la Deltana considerava la Destiny come sua di diritto. E se sopportava appena il nuovo equipaggio... difficilmente avrebbe visto di buon occhio un rivale per il comando. Adesso anche il cambio dei turni diveniva più comprensibile: era un modo per tenere occupata la ciurma, dandole l’impressione di fare qualcosa, mentre fuori di lì si decideva il fato d’interi pianeti.
   «Alla prossima riunione mi sentirà» si disse Shati, abbandonando la sala piscina.
 
   Dualla sedeva alla scrivania, nell’ufficio del Capitano... il suo ufficio, anche se l’aveva occupato per assai meno tempo di Rivera. Era immersa nella lettura dei diari di bordo del predecessore. Appena tornata al comando, infatti, aveva preso a informarsi su cosa avevano combinato gli avventurieri con la sua nave, approfittando della sua assenza. Prima di cominciare si era mentalmente preparata al peggio, aspettandosi che si fossero dedicati a truffe, contrabbando e pirateria, come facevano in precedenza. Con sua enorme sorpresa, non era stato così... o almeno non soltanto così. In tre anni di vagabondaggi nel Multiverso, quegli avventurieri si erano dimostrati degni della Flotta Stellare. Avevano esplorato tutte le realtà visitate, prendendo nota delle peculiarità di ciascuna. Avevano studiato a fondo la tecnologia organica degli Undine, ottimizzando armi e scudi contro di essa. Avevano persino condotto una guerra di liberazione nello Specchio, salvando i Terrani dall’estinzione e restituendo alla Confederazione una speranza di democrazia. Quanti Capitani della Flotta Stellare potevano vantarsi di aver fatto tanto?
   «Io no di certo» pensò Dualla, con una punta d’invidia. Per quanto si fosse fatta un nome nella Guerra Civile, non aveva mai fatto nulla di paragonabile. E poi aveva lasciato che gli Undine la imprigionassero, catturassero la Destiny, sterminassero l’equipaggio originale: peccati da cui non si sarebbe mai lavata. Se anche fosse tornata alla Federazione, la sua carriera era ormai compromessa. Purtroppo o per fortuna, il ritorno non era imminente. Nel frattempo continuava a informarsi su quegli anni mancanti.
   Sempre più intrigata, la Deltana si documentò sul Capitano e gli ufficiali superiori. Purtroppo nel database non c’erano le loro schede personali, trattandosi d’avventurieri. Tuttavia nel corso degli anni erano state approntate delle pseudo-cartelle coi dati essenziali di gran parte dell’equipaggio. Giely in particolare aveva compilato le cartelle mediche, per essere pronta in caso d’intervento, e anche Losira e Irvik avevano stilato un elenco delle competenze, per attribuire gli incarichi dopo essersi trasferiti sulla Destiny. Incrociando questi dati coi diari di bordo, Dualla cercava di capire chi fosse quella gente. Scoprì così che Rivera era stato nella Flotta Stellare e aveva raggiunto il grado di Tenente, prima d’essere radiato per un incidente in cui, a ben vedere, aveva poca responsabilità.
   «Questo spiega molte cose» si disse la Deltana. Soprattutto spiegava perché Rivera, dopo essersi impadronito di una nave della Flotta, ne avesse praticamente ricreato il regolamento. Quell’uomo non si era mai rassegnato all’espulsione, tanto che aveva costruito un simulacro di Flotta lì a bordo, approfittando delle circostanze. Certo, gli avventurieri non indossavano le uniformi e non seguivano le regole più tediose. Ma nel complesso il loro operato era più che buono, anche grazie al fatto che fra loro c’erano dei professionisti, come Naskeel, Irvik e Giely. Era una delicata alchimia che aveva retto, fino a quel momento.
   «Ma reggerà ancora, con me al comando?» si chiese Dualla, sapendo di non essere altrettanto popolare tra l’equipaggio. Molti la vedevano come un’usurpatrice. Lei stessa aveva avuto questa bizzarra impressione, nel riprendere possesso del suo ufficio e soprattutto del suo alloggio, che negli ultimi tre anni erano appartenuti a Rivera ed erano stati da lui personalizzati. Era come tornare a casa dopo tanto tempo e scoprire che adesso ci viveva un’altra persona.
   Be-beep.
   «Avanti» disse la Deltana, disattivando l’oloschermo. Era la visita che aspettava.
   «Salve, voleva vedermi?» chiese Losira, sempre guardinga. Come al solito non l’aveva chiamata Capitano.
   «Certo, si accomodi» l’accolse Dualla. «Mi stavo documentando sulle vostre attività, da quando siete sulla Destiny. Confesso che sono profondamente colpita. Nella maggior parte dei casi avete agito con una professionalità degna della Flotta Stellare».
   «Ringrazi il Capitano Rivera. È sempre stato lui a spronarci» disse la Risiana, sedendo rigidamente sulla poltroncina.
   «Certo, il suo passato nella Flotta deve averlo spinto in tal senso» convenne la Deltana. «È un vero peccato che sia stato espulso per quell’incidente... o forse una fortuna, perché altrimenti non l’avreste avuto qui. Ho notato che, in questi anni, s’è sempre premurato d’esplorare gli Universi che avete visitato. E credo d’intuire il motivo. Il suo piano... il vostro piano... era di mercanteggiare con la Flotta Stellare, se mai aveste fatto ritorno. Gli avreste restituito la Destiny, più i dati raccolti, in cambio dell’assoluzione per i vostri reati. Non è così?».
   «Così sperava il Capitano» ammise Losira. «Lei lo ritiene possibile?».
   «Si tratta di una questione complessa» rispose prudentemente Dualla. «Molte delle vostre imprese sono encomiabili... ma altre proprio no. Avete attaccato e saccheggiato la colonia Thalassa...».
   «Non avevamo scelta. Quei bastardi non volevano sganciare il dilitio».
   «... avete creato il caos nello Spazio Fotonico...».
   «Che ne sapevamo che lì i programmi olografici diventano realtà?».
   «... e avete dichiarato guerra alla Confederazione, rischiando di coinvolgere la vera Flotta».
   «Bah! Abbiamo eliminato una despota, e se ne lamenta?!».
   «Io non me ne lamento, ma non so come la vedrà il Comando di Flotta» sospirò Dualla. «Comunque, se faremo ritorno, farò tutto il possibile affinché siate scagionati. Quale che sia il vostro passato, ve lo meritate».
   «E che peso avrà la sua parola?» la provocò Losira, alludendo ai suoi fallimenti.
   «Forse non molto» ammise Dualla, rabbuiandosi. «Ma i diari dei sensori dovrebbero costituire una prova sufficiente del vostro impegno».
   «Ormai questo ha poca importanza, dato che non torneremo a breve» ribatté seccamente Losira. «C’è altro di cui voleva parlare?».
   «Vorrei comprendere l’umore dell’equipaggio nei confronti degli Undine» spiegò la Deltana. «Qualunque altra banda d’avventurieri vorrebbe fuggire, ma sembra che voi non vediate l’ora di gettarvi in battaglia. Com’è possibile?».
   «In passato siamo stati prigionieri degli Undine, che uccisero parecchi dei nostri, fra cui il vecchio Capitano Grilk. Perciò adesso molti vedono il ritorno nello Spazio Fluido come un’occasione per vendicarci» spiegò la Risiana. «E suppongo che la recente vittoria contro la Confederazione abbia galvanizzato gli animi, inducendo la ciurma a credere che possiamo fare di tutto con questa nave».
   «Ma io e lei sappiamo che non è vero» puntualizzò Dualla. «Per quanto la Destiny sia potente, è un miracolo che siate sopravvissuti finora. E un attacco all’Harvester sarebbe rischiosissimo».
   «Ne convengo, ma anche non attaccare comporterà delle conseguenze» avvertì Losira. «L’Harvester continua a muoversi verso l’esterno del sistema. Se mantiene l’attuale velocità d’impulso, ne uscirà fra tre settimane. A quel punto scommetto che gli Undine apriranno un’altra interfase e si prenderanno Ferasa. Se vogliamo fare qualcosa, dobbiamo agire prima, o quei mostri avranno altri miliardi d’ostaggi».
   «È come temevo... forse è stata proprio la nostra evasione a indurli ad accelerare i tempi» mormorò Dualla. «Comunque era inevitabile che accadesse. Ad ogni nuovo bottino l’arroganza degli Undine cresce, e con essa la loro capacità di ricattarci. Se prenderanno Ferasa, potrebbero inibire qualunque reazione della Flotta, minacciando di distruggerlo» ragionò.
   «Quindi intende attaccare l’Harvester prima d’allora?» la pressò Losira. Lei stessa era divisa tra opposte considerazioni, tanto che non sapeva cos’avrebbe fatto al suo posto. Probabilmente avrebbe cercato di recuperare Rivera – se era ancora vivo – per poi sbolognargli la patata bollente.
   Dualla unì le punte delle dita e aggrottò la fronte, mentre rimuginava. «Che ne è delle bionavi?» chiese, volendo farsi un quadro completo della situazione.
   «La maggior parte è rimasta a sorvegliare Arena» rispose la Risiana. «Solo una ventina seguono l’Harvester».
   «Uhm...» fece la Deltana, intravedendo uno spiraglio. Ma anche così la potenza di fuoco nemica era soverchiante. Dovevano aumentare la loro, se volevano avere qualche speranza. Avrebbero dovuto raddoppiarla, come minimo...
   «Raddoppiarla?!». Un’idea germogliò nella mente di Dualla. A ben vedere, c’era un modo per raddoppiare la loro forza e anche per distrarre gli Undine. Era una strategia pericolosa... ma quale strategia non lo era, arrivati a quel punto?
   «A che sta pensando?» indagò Losira.
   «Comandante, avverta gli ufficiali superiori che ci riuniremo in sala tattica stasera alle otto» ordinò Dualla, con improvvisa determinazione. «Allora renderò nota la mia decisione riguardo all’Harvester. Può andare».
   La Risiana avrebbe voluto saperne di più, ma intuì che l’altra non le avrebbe anticipato nulla. Quindi si alzò, borbottò un saluto e lasciò l’ufficio, per fare come ordinato.
   Rimasta sola, la Deltana riaccese l’oloschermo e richiamò i dati tattici dei sensori. Aveva mezza giornata per prendere un’idea azzardata e trasformarla in un piano d’assalto praticabile.
 
   Alla riunione parteciparono tutti gli ufficiali superiori, inclusa Giely. C’era grande attesa fra loro, sapendo che Dualla avrebbe finalmente annunciato la sua strategia. La Deltana entrò in sala per ultima e venne rapidamente a capotavola. Osservò gli ufficiali, soffermandosi su quelli che lei stessa aveva designato per sopperire ai dispersi. Il nuovo Ufficiale Tattico era un Nausicaano di nome Ruuvan, mentre a capo della sezione sensori e comunicazioni c’era il Ferengi Lum. Questi le dovevano la promozione, quindi poteva sperare che le fossero fedeli. Idem per Shati, non tanto perché fosse stata in Accademia, quanto piuttosto perché avrebbe appoggiato qualunque piano volto a proteggere Ferasa. Il Capitano era più incerta sulla lealtà di Irvik, che fino ad allora l’aveva appoggiata, ma solo per via delle circostanze. A preoccuparla maggiormente erano Losira, che la sopportava a stento, e Giely, con cui era guerra aperta. Se non le aveva sollevate dagli incarichi, era solo perché questo avrebbe indispettito il grosso dell’equipaggio.
   «Bene, eccoci qui» esordì Dualla. «So che siete impazienti di conoscere la nostra strategia. L’Harvester dirige verso l’esterno del sistema e ciò significa che a breve aprirà l’interfase col nostro Universo. Molti di voi si staranno chiedendo se non potremmo usarla per tornare a casa. A questo proposito, lascio la parola all’Ingegnere Capo».
   Irvik si schiarì la voce, a disagio, mentre gli altri lo fissavano. «Vorrei che fosse così semplice» disse. «Il fatto è che le interfasi hanno una polarità. Vale a dire che costituiscono passaggi unidirezionali da un Universo all’altro, anziché nelle due direzioni. Gli Undine le creano per razziare pianeti, quindi fanno in modo che la polarità attiri gli oggetti verso lo Spazio Fluido, non viceversa, o fallirebbero lo scopo. Se l’interfase restasse aperta a lungo, potrei studiare un modo per invertire la polarità. Ma ci vorrà del tempo, e intanto gli Undine si prenderanno Ferasa» spiegò.
   «Allora dobbiamo intervenire prima che lo facciano!» disse Shati con passione.
   «Un attimo solo» la calmò Dualla. «Signor Irvik, la polarità di cui ha parlato riguarda la materia solida. Ma una trasmissione subspaziale? Quella potrebbe passare in senso opposto, dallo Spazio Fluido al nostro Universo?».
   «Sì... in teoria» si cautelò il Voth.
   «Allora ne approfitteremo per trasmettere i nostri diari di bordo alla Federazione, così che sia avvertita delle nostre scoperte» annunciò Dualla. «Se volete, potete aggiungere messaggi personali per le vostre famiglie. L’importante è non inserire informazioni che compromettano la sicurezza, se gli Undine captassero la trasmissione. Per il resto... più cose diciamo alla Federazione, meglio è. Signor Lum, può compattare i dati in modo da ripetere molte volte la trasmissione? Dobbiamo accertarci che dall’altra parte qualcuno la riceva, malgrado l’agitazione provocata dall’interfase».
   «Beh, certo. Posso compattarla, e anche criptarla con qualche codice federale» confermò il Ferengi.
   «Gli Undine hanno avuto la Destiny in custodia per anni, conoscono i nostri codici» avvertì Dualla. «È improbabile riuscire a nascondergli il contenuto della trasmissione. Concentriamoci sul far sì che la Flotta la riceva».
   Il Ferengi annuì, mentre anche gli altri davano segni di soddisfazione. Era dall’inizio della loro odissea che cercavano d’avvertire la Federazione delle loro scoperte, oltre a far sapere d’essere sopravvissuti. Avevano avuto altre occasioni, ma qualcosa le aveva sempre guastate. Questa pareva la volta buona per riuscirci. Era il primo passo per ottenere l’amnistia, e magari un aiuto concreto per tornare a casa. Losira e Giely tuttavia rimasero fredde.
   «Informare la Federazione è già qualcosa, ma che facciamo con Ferasa?» chiese Shati, ancora in ansia. «L’unico modo per salvare la mia gente è distruggere l’Harvester, prima che il pianeta sia trasferito».
   «Per quello ci serve più potenza di fuoco di quanto la Destiny possa darci» sospirò Dualla. «Fortunatamente ne abbiamo un’altra a disposizione» aggiunse, osservando le reazioni dei presenti.
   In sala tattica calò il silenzio. Infine Losira prese la parola: «Si riferisce alla CSS Destiny dello Specchio».
   «Naturalmente» confermò la Deltana. «Stando ai rapporti che ho letto, gli Exocomp l’hanno riparata. È un’occasione imperdibile per raddoppiare la nostra potenza di fuoco».
   «La prima volta che l’abbiamo abbordata, non è andata tanto bene» brontolò Shati, ricordando l’agguato Undine e il rapimento di Talyn.
   «Gli Undine ci hanno sorpresi perché avevano programmato i sensori della CSS Destiny per avvertirli se qualcuno avesse abbordato la nave» spiegò Irvik. «Ma negli ultimi giorni ho fatto sì che gli Exocomp li sabotassero, inviando false letture. Gli ho anche fatto installare un campo di forza attorno a quel portale, per impedire che gli Undine piombino a bordo come l’altra volta. Ormai siamo in grado di rioccupare la nave e occultarla prima che le bionavi ci siano addosso» dichiarò.
   «E attaccando con le due navi, abbiamo possibilità decenti di cavarcela?» chiese Losira.
   «Non lanceremo un attacco simultaneo» rispose Dualla, attivando una simulazione olografica sopra al tavolo tattico. «Piuttosto intendo colpire l’Harvester in successione. Osservate!».
   La simulazione mostrò un’astronave, contrassegnata come USS Destiny, che usciva dall’occultamento presso l’Harvester e lo colpiva con un’arma ad ampia dispersione. «Per l’attacco iniziale useremo il cannone thalaronico» spiegò il Capitano. «La vostra passata esperienza con gli Undine indica che le radiazioni thalaroniche sono piuttosto efficaci nel disgregare i loro scafi organici. Con la biosfera, ad esempio, avete avuto successo. L’Harvester è molto più grande e corazzato, quindi non mi aspetto che il primo colpo basti a distruggerlo. Tuttavia dovrebbe compromettere l’integrità strutturale. Se siamo fortunati, danneggerà le antenne – che sono più esposte – tanto da richiudere l’interfase. Comunque questo sarà solo l’inizio. Una volta sferrato il primo assalto, fingeremo una ritirata, facendoci inseguire da più bionavi possibile».
   La simulazione mostrò l’USS Destiny che si allontanava, inseguita da una buona metà delle bionavi. Questa era una congettura, perché non c’era modo di sapere se gli Undine si sarebbero lanciati all’inseguimento, o se sarebbero rimasti a guardia dell’Harvester danneggiato.
   «Ecco, ora tocca alla seconda nave» disse Dualla, mentre la CSS Destiny usciva dall’occultamento e attaccava a sua volta. Invece di sferrare un assalto-lampo e fuggire, l’astronave si trattenne più a lungo. Colpì l’Harvester sia col cannone thalaronico che coi siluri, fino a perforare la corazza e devastarne l’interno. La grande stazione fu squassata dalle esplosioni, mentre la seconda Destiny fuggì a sua volta. Con quello scenario ottimista, la simulazione terminò.
   «Niente male!» approvò Shati.
   «Questa simulazione è in gran parte congetturale» disse però Losira. «Non sappiamo se gli Undine inseguiranno la prima Destiny, né siamo certi di quanto saranno efficaci le nostre armi contro una stazione così grande».
   «Se nessuno la seguisse, la prima Destiny tornerà a darci manforte» spiegò Dualla. «Io però credo che gli Undine si lanceranno all’inseguimento. La tentazione di distruggerla sarà troppo forte. Inoltre non dobbiamo per forza disintegrare l’Harvester. Ci basta colpire le antenne per renderlo inservibile. Già questo darà alla Federazione del tempo prezioso per venirci in aiuto, se riusciamo ad avvisarla con quel messaggio».
   «Potrebbe funzionare» ammise la Comandante. «Ma siamo abbastanza numerosi da controllare entrambe le navi in modo efficiente?».
   «Non al massimo dell’efficienza, non credo...» commentò Irvik, pensando soprattutto alla sua sezione. «Dovremo affidarci agli Exocomp» concluse.
   «Non intendo dividere l’equipaggio a metà fra le due navi» rivelò Dualla. «Terremo quasi tutti sull’USS Destiny, con cui abbiamo più confidenza. Solo una squadra scelta – direi sette elementi – andrà sulla CSS Destiny. Controlleranno la plancia, mentre il resto sarà affidato agli Exocomp».
   «È un azzardo automatizzare così tanto la nave» avvertì l’Ingegnere Capo. «Al primo guasto i nostri ragazzi potrebbero essere spacciati».
   «Ho fatto molte simulazioni, e sono giunta alla conclusione che una delle navi deve rischiare più dell’altra. Diciamo che va considerata più... sacrificabile» ammise Dualla. «Avere un equipaggio ridotto renderà più facile evacuarla, se le cose volgessero al peggio».
   Calò di nuovo il silenzio. Evacuare una nave mentre si affrontavano gli Undine era un suicidio. I sette che sarebbero andati sulla Destiny dello Specchio erano praticamente spacciati.
   «Uhm... è sicura che debba essere l’USS Destiny a sferrare il primo assalto e la CSS a finire il lavoro?» chiese Losira. «Il compito più impegnativo sembra il secondo, e con così poco equipaggio...».
   «Anche questo è parte del piano» rivelò Dualla, permettendo a un lieve sorriso d’incresparle le labbra. «Ho notato che avete ridipinto questa nave con la dicitura CSS, per mimetizzarvi nello Specchio. Questo mi ha dato un’altra idea. Ridipingeremo anche l’altra nave, con la dicitura USS. In tal modo le invertiremo, all’insaputa degli Undine. Così, quando vedranno l’USS Destiny che attacca l’Harvester e fugge, si lanceranno all’inseguimento per finirci; ma in realtà inseguiranno la CSS Destiny con poco equipaggio. E quando vedranno la CSS Destiny che li attacca per seconda, non sapranno che in realtà siamo noi, con una nave in piena efficienza». Ciò detto riavviò la simulazione, per consentire a tutti di riesaminare il piano alla luce delle spiegazioni.
   Gli avventurieri videro la CSS Destiny, camuffata da USS e con l’equipaggio al minimo, che attaccava l’Harvester e poi fuggiva, facendosi seguire dalle bionavi. Adesso era chiaro il suo ruolo di esca: gli Undine l’avrebbero inseguita, credendola la più pericolosa delle due. A quel punto l’USS Destiny, camuffata da CSS ma al massimo dell’efficienza, sferrava l’assalto finale contro il bersaglio indebolito. Avrebbe dovuto trattenersi più a lungo per finirlo, ma avendo l’equipaggio al completo, aveva le maggiori speranze di vittoria. Visto così, il piano sembrava davvero astuto e con buone probabilità di riuscire.
   «Sì, può funzionare» disse l’Ufficiale Tattico, al che anche gli altri mormorarono il loro assenso. Ma Irvik scosse la testa al pensiero dei sette che sarebbero andati sulla Destiny dello Specchio. Anche Giely, che sedeva sul lato opposto del tavolo rispetto a Dualla, si mantenne scettica. «Se la CSS Destiny è solo una pedina sacrificabile, chi andrà a bordo?» chiese.
   «La CSS Destiny non è affatto spacciata» obiettò la Deltana, guardandola storta. «In fondo è quella che passerà meno tempo sotto il fuoco nemico. Deve solo farsi inseguire per un poco, dopo di che tornerà a occultarsi».
   «Ma se il fuoco nemico compromette l’occultamento, com’è più che probabile, allora è finita» insisté la Vorta.
   «Questo vale anche per noi» rimarcò la Deltana. «Dunque, per quanto riguarda i sette che andranno sulla nave dello Specchio, informate le vostre sezioni che accetto volontari. Se non ce ne saranno, o se saranno meno del necessario, dovrò designarli io» avvertì.
   Giely si aspettava che Dualla non ne avrebbe trovato nemmeno uno, di volontari per quella missione suicida. Ma si sbagliava. Uno c’era, e sedeva proprio a quel tavolo.
   «Io mi offro volontaria» disse Shati, sconcertando i colleghi.
   «Sei impazzita?! Se combatti in quelle condizioni ti farai ammazzare!» insorse la Vorta.
   «Allora sarà per una giusta causa!» ringhiò la Caitiana, conficcando gli artigli sul tavolo. «Non mi aspetto che un... clone fuggiasco lo capisca, ma farei di tutto per salvare il mio mondo e la mia gente!».
   «E se gettare via la tua vita non servisse a salvare Ferasa?! Se questo piano disperato fallisse?!» incalzò Giely.
   «Si controlli, dottoressa, o dovrò confinarla nel suo alloggio» avvertì Dualla in tono severo. Poi si rivolse a tutti i presenti. «Queste sono le mie disposizioni. Comunicatele alle vostre sezioni, così che tutti siano informati. Per quanto riguarda i volontari, ho bisogno che si offrano al più presto, perché dovremo automatizzare la CSS Destiny anche in funzione delle loro abilità. Se non arriveremo a sette, entro domani a quest’ora, dovrò designare i soggetti più adatti. Nel frattempo dirigiamoci verso la CSS Destiny. La prima cosa che faremo, dopo averla occupata, sarà alterare il suo nome. La riunione è aggiornata, potete andare» disse alzandosi.
   Agli ufficiali non restò che recarsi ai propri posti. Solo Giely restò seduta, lanciando un’ultima occhiata a Shati prima che questa seguisse Dualla in plancia. La Caitiana era davvero decisa a seguirla fino in fondo, anche se ciò significava imbarcarsi su una nave condannata. La dottoressa riusciva in parte a capirla, dato che poco tempo prima lei stessa aveva fatto una mossa suicida nella Battaglia di Dytallix, salvandosi per inaspettata fortuna. Ma stavolta le sembrava che dovessero esserci delle alternative. Continuò a rimuginarci, anche dopo aver lasciato la sala tattica ed essere tornata nel suo vecchio alloggio.
 
   Il giorno dopo Giely era in infermeria, non particolarmente indaffarata, quando vide entrare Losira. «Ciao, posso fare qualcosa per te?» l’accolse.
   «Potresti evitare di prendere così di petto Dualla. Una volta o l’altra ti metterà agli arresti» avvertì la Risiana.
   «Già, specialmente ora che ha piazzato i suoi fedeli nelle posizioni chiave!» borbottò la Vorta. «E mi riferisco anche a Shati. È decisa a procedere con questa follia e non cambierà idea».
   «Le persone fanno cose folli per proteggere ciò che hanno caro» sospirò Losira, sedendo accanto all’amica.
   «Beh, i nostri cari sono ancora dispersi su Arena» notò Giely. «Ormai è chiaro che Zucca Pelata non andrà mai a salvarli. Teme di perdere il comando, e con esso la sua vendetta sugli Undine. O ci rassegniamo... o facciamo qualcosa prima della battaglia».
   «Stai parlando di ammutinamento» disse la Comandante con gravità.
   «Sì, è proprio quello di cui parlo» confermò la dottoressa. «Tu ci stai?».
   «Io sì. Sono gli altri che mi preoccupano» ammise Losira. «Ruuvan e gli altri che sono stati promossi da Dualla potrebbero restarle fedeli. Irvik è incerto. E Shati... beh, l’abbiamo sentita. Se facciamo questa cosa, dovremo farla anche contro di lei».
   «Forse c’è un modo per deporre Dualla con una parvenza di legalità» ragionò Giely. «Come Medico Capo, potrei esautorarla per ragioni di salute. Posso costringerla a farsi visitare, visto che finora l’ha rifiutato, e trovare una scusa per qualificarla inabile al comando. Così anche il computer ti restituirebbe i codici di comando» suggerì. La Destiny infatti era pur sempre una nave federale, anche se occupata da avventurieri, e il computer seguiva il regolamento di Flotta quando si trattava d’assegnare o togliere le autorizzazioni.
   «Per privare un Capitano dei codici di comando serve l’autorizzazione di due ufficiali superiori, oltre a quella del Medico Capo» ragionò la Risiana, che si era studiata il regolamento. «Io sarei uno... ma l’altro? Non possiamo fidarci di Ruuvan, né di Lum, e purtroppo nemmeno di Shati».
   «Va’ a parlare con Irvik, cerca di capire se è disposto ad aiutarci. Non sembrava tanto contento di mandare sette dei nostri alla morte su una nave automatizzata» ricordò la Vorta.
   «Ci proverò» annuì Losira.
   «Digli che Zucca Pelata potrebbe designare per questa missione suicida gli ufficiali di cui si fida di meno... compreso lui. Questo dovrebbe smuoverlo» aggiunse Giely con una smorfia.
   «Se non lo smuove questo, non so cos’altro potrebbe farlo» ammise la Comandante. «Ti contatterò appena avrò qualche novità» promise, e lasciò di fretta l’infermeria.
 
   Nei giorni seguenti l’equipaggio lavorò alacremente per preparare la CSS Destiny. Il nome sullo scafo fu alterato in USS, mentre armi e scudi furono regolati per essere più efficaci contro le bionavi. Le modifiche più impegnative riguardarono però i sistemi di controllo, perché bisognava fare in modo che la nave fosse manovrabile interamente dalla plancia. Questo significava automatizzare molti sistemi e dirottare i controlli dei rimanenti. La cosa in sé era fattibile, almeno in teoria. Durante l’anno trascorso nello Specchio, infatti, gli avventurieri avevano constatato che la Confederazione faceva già ampio uso di vascelli totalmente automatizzati. La CSS Destiny però non era stata progettata per essere una nave-drone. Il suo processore non era un’Intelligenza Artificiale e molti sistemi richiedevano un controllore. Così Irvik e i suoi tecnici ebbero un bel daffare per permettere all’equipaggio di plancia di comandarla tutta. Alla fine, più che sul computer centrale contarono sugli Exocomp, istruendoli ad agire come veri e propri ingegneri.
   Per tutta la durata dei lavori, il portale che si trovava in sala macchine fu vigilato. Un campo di forza ne impediva l’apertura e gli avventurieri erano pronti a lasciare la nave se solo gli Undine ci avessero provato. Ma gli alieni non fecero mai alcun tentativo, suggerendo che non si fossero accorti di quanto stava accadendo. Dualla fu tentata di trasferire il portale sull’USS Destiny, così da poterlo studiare anche in seguito. Ma il rischio che gli Undine se ne servissero per localizzare la nave occultata era troppo grande. Inoltre nessuno voleva prendersi a bordo un portale da cui in ogni momento poteva sbucare il nemico, per quanto in teoria il campo di forza scongiurasse questo pericolo. Così Dualla si rassegnò a lasciarlo sulla CSS Destiny, sapendo che sarebbe andato perduto con essa.
   Tra tutti i preparativi, il più cruciale fu indubbiamente la designazione dei sette individui che avrebbero manovrato la CSS Destiny in battaglia. Pochi si aspettavano di vederli tornare, infatti dopo Shati non ci furono altri volontari. Così Dualla designò gli altri sei, tra gli ufficiali con maggiore esperienza. Guarda caso, scelse sei tra quelli che l’avevano avversata dopo il suo arrivo, corroborando l’ipotesi che stesse approfittando della battaglia per eliminare gli oppositori.
   «Se non ha scelto anche me, dev’essere perché non può sbarazzarsi dell’unico medico di bordo» commentò Giely quando Losira le comunicò l’elenco dei nomi. «E perché non può giustificare la mia presenza per una missione del genere. Ma questi sei che ne pensano? Se si rifiutassero in blocco?».
   «Probabilmente Dualla li farebbe sbattere in cella e designerebbe altri sei» sospirò la Comandante. «Così ci troveremmo punto e a capo. No, meglio procedere col nostro piano. Tieniti pronta, ormai manca poco».
 
   In quei giorni Dualla si recò spesso sulla CSS Destiny a supervisionare i lavori. Sperava che, vedendola di frequente, gli avventurieri si sarebbero abituati alla sua presenza e l’avrebbero meglio accettata come Capitano. Ma quando girava per i corridoi, o entrava in una stanza, si accorse che i sottoposti abbassavano le voci e la osservavano con ostilità, continuando finché non se ne andava. Inoltre la chiamavano raramente “Capitano” e anche allora traspariva l’astio o persino lo scherno nelle loro voci. Solo Shati non aveva questo atteggiamento.
   «È tutto a posto, Capitano?» le chiese la Caitiana, in un momento in cui si trovavano in sala macchine, su una passerella soprelevata.
   Dualla si accorse che negli ultimi minuti aveva osservato l’andirivieni degli ingegneri, con le mani sulla balaustra e le labbra serrate. Si riscosse, allontanandosi dal parapetto. «Oh, i preparativi procedono bene» rispose. «Ma l’equipaggio, beh...».
   «Devono ancora prendere confidenza con lei» l’incoraggiò Shati.
   «Mi odiano» disse chiaro e tondo la Deltana.
   «Suvvia, non esageri...» annaspò la Caitiana.
   «No, non provi a negarlo» fece Dualla, alzando l’indice per metterla a tacere. «Mi odiano, chi più chi meno. E onestamente capisco le loro motivazioni. Mi considerano un’usurpatrice, sebbene sia il legittimo Capitano della Destiny. Non mi accetteranno mai davvero al comando. Prima o poi si rivolteranno contro di me» disse con amarezza.
   Shati avrebbe voluto dirle che non era vero, ma era già stata ammonita a non mentire per consolarla. Così restò in silenzio, a disagio.
   «L’unica domanda è se lo faranno prima o dopo la missione» proseguì la Deltana, più rivolta a se stessa. «Se fosse dopo, potrei accettarlo. Ma se fosse prima... no, non posso permettere che l’attacco all’Harvester sia revocato. Ne va della salvezza di Ferasa. Se arrivassimo al peggio, sarà con me?» indagò.
   «Io... spero che non arriveremo a questi estremi» mormorò Shati, lacerata fra le opposte lealtà. «Questo equipaggio è praticamente la mia famiglia. Sapesse quante ne abbiamo passate, fin da prima di perderci nel Multiverso! Abbiamo visto la morte in faccia un’infinità di volte, ma ce la siamo sempre cavata. E adesso... rifiuto di credere che ci combatteremo per una differenza di vedute».
   «Sono sempre le differenze di vedute che portano ai conflitti. La Guerra Civile non è scoppiata così?» notò Dualla. «Beh, suppongo che ciascuno seguirà la propria coscienza. Io di certo seguirò la mia, che mi dice di fermare gli Undine. Spero che anche lei seguirà la sua coscienza, Tenente, ovunque ciò la porti» disse. E lasciò la passerella soprelevata, prendendo il montacarichi che la riportò a terra.
 
   I preparativi erano da poco ultimati quando l’Harvester interruppe la sua fuga verso l’esterno del sistema e si stabilizzò in una nuova orbita. Era il segno che stava per aprire l’interfase.
   «È confermato, la stazione s’è disposta in un’orbita esterna al sistema» disse Lum. «Le bionavi la circondano in uno schema di pattugliamento».
   «Ci siamo» disse Dualla, stringendo con forza i braccioli della poltroncina. «Che l’equipaggio della CSS Destiny si prepari al trasferimento. Richiamate gli ingegneri» ordinò.
   Shati aveva già lasciato il timone e si avviava alla sala teletrasporto quando Losira si alzò dalla sua poltrona. «Un momento!» esclamò, richiamando l’attenzione generale. «Lum, analizza Arena. Ci sono ancora le interferenze che finora ci hanno impedito di recuperare i dispersi?».
   «Negativo, l’Harvester è troppo lontano» rispose il Ferengi.
   «Ottimo. Allora possiamo finalmente recuperare i nostri» disse Losira, fissando Dualla con aria d’aperta sfida.
   «Tenente, le bionavi attorno ad Arena sono ancora in posizione?» chiese gelidamente la Deltana.
   «Affermativo».
   «Allora le ragioni per tenerci alla larga sono ancora valide» sostenne Dualla. «È una trappola, gli Undine aspettano solo che ci esponiamo».
   «Ma senza le interferenze, potremo localizzare i nostri e trasferirli a bordo senza esporci!» obiettò Losira.
   «Non possiamo esserne certi!» si scaldò la Deltana. «Sono settimane che pianifichiamo l’attacco all’Harvester, un attacco basato sulla sorpresa. Non lo manderò a monte nel tentativo di recuperare una manciata di persone che ormai sono certamente morte!».
   «È la logica della Flotta, eh? Il bene dei molti e via dicendo?» chiese la Risiana.
   «Esattamente» confermò Dualla.
   Le labbra di Losira s’incresparono in un sorriso sadico. «Se crede nel regolamento, allora deve farlo sino in fondo. Dottoressa, cosa dice il regolamento di Flotta in merito agli ufficiali che sono stati rapiti?».
   Vedendo che la Comandante si rivolgeva a qualcuno dietro di lei, Dualla si girò. E vide che Giely era davvero entrata in plancia di soppiatto, scivolando alle sue spalle. Losira doveva averla chiamata di nascosto, nel momento in cui l’Harvester si era arrestato.
   «Secondo l’articolo 47, comma 1, ogni ufficiale di Flotta che sia stato sequestrato da una forza ostile e isolato dal resto dell’equipaggio deve superare un esame psico-fisico per ottenere l’abilitazione a riprendere il servizio!» rispose prontamente la dottoressa. «Come Medico Capo di questa nave, ho il preciso dovere d’esaminarla, Capitano, prima che lei ci getti in battaglia. Dopotutto è stata prigioniera degli Undine per ben otto anni. Chissà cosa le hanno fatto, in tutto questo tempo. Potrebbero aver compromesso il suo giudizio... forse l’hanno persino condizionata, affinché ci trascini tutti verso la rovina» insinuò.
   «Questo è assurdo! Non ascolterò oltre le sue ridicole illazioni» ribatté la Deltana. «Lasci la plancia, o la farò arrestare per insubordinazione».
   «Così conferma i sospetti che gravano su di lei, “Capitano”» insisté Giely, accostandosi. «Si ammanta col regolamento di Flotta quando le fa comodo, e lo rigetta quando le è d’intralcio. Rifiuta di soccorrere coloro a cui deve la sua stessa salvezza, e pretende lealtà da noi. Vuole sacrificare altri dell’equipaggio senza garanzie di successo, e si aspetta che le obbediamo sulla fiducia. Così non può andare, “signora”. Si faccia visitare, seduta stante, o dovrò destituirla per manifesta incapacità» disse implacabile.
   «Destituirmi?! Un’avventuriera non può...».
   «Non sono un’avventuriera. Sono un ufficiale di Flotta esattamente come lei, e ho assunto la funzione di Medico Capo dopo la morte dei miei superiori. Quindi è mio pieno diritto, anzi mio dovere, agire come ho detto!» dichiarò la Vorta, indicando i gradi sulla propria uniforme.
   «Siamo in procinto di sferrare un attacco da cui dipende la salvezza di un intero pianeta. Non c’è tempo per una visita medica» sibilò Dualla, trattenendo la collera. «Se la pretende adesso, è solo un cavillo per togliermi il comando».
   «Veramente gliel’ho chiesto molte volte nei giorni passati, e lei ha sempre rifiutato. Quindi è lei che ci ha condotti qui. Questa è l’ultima occasione per accertarci che non sia compromessa e non ci attiri in trappola» puntualizzò Giely. «Allora, che intende fare?».
   Sulla plancia cadde un silenzio di tomba. Tutti osservavano Dualla, aspettando col fiato sospeso la sua reazione. La Deltana si guardò attorno, scrutandoli uno per uno. Il suo sguardo si appuntò sull’Ufficiale Tattico. «Tenente, arresti la dottoressa Giely» ordinò con fermezza.
   Ci fu un ulteriore silenzio. Infine il Nausicaano si schiarì la voce. «Mi spiace, non posso farlo in queste condizioni. Non la seguirò senza sapere se è a posto col cervello. E il suo atteggiamento suggerisce che non lo sia». Così dicendo impugnò il phaser, rivolgendolo contro la Deltana. Allora anche gli altri agenti della Sicurezza fecero altrettanto.
   «Andiamo, siete usciti di testa?! Non possiamo combatterci fra noi, mentre il nemico sta per prendersi il mio pianeta!» insorse Shati, facendosi avanti. Ma si trovò the phaser puntati contro. In tutta la plancia, lei era l’unica a difendere Dualla. Perfino quelli che avevano beneficiato delle sue promozioni, infatti, non se la sentivano di seguirla oltre. La Caitiana estrasse gli artigli e ringhiò per la frustrazione, ma non osò lanciarsi contro le guardie armate.
   «Computer, certifica che in data stellare odierna il Capitano Dualla viene rimossa dal comando per ordine del Medico Capo» disse Giely. «Motivo: violazione del regolamento di Flotta, articolo 47 comma 1, inerente l’abilitazione al comando dopo un sequestro. Codice d’autorizzazione Giely Gamma 973» aggiunse in tono alto e chiaro.
   «Be-beep. Codice riconosciuto. Necessaria autorizzazione di altri due ufficiali superiori» rispose il processore della Destiny.
   «Non fatelo. Condannerete questa nave e tutta Ferasa, senza salvare nessuno» disse Dualla in tono controllato.
   «Computer, confermo la rimozione del Capitano Dualla per il motivo addotto. Autorizzazione Losira Alfa 525» disse la Comandante.
   «Be-beep. Codice riconosciuto. Necessaria autorizzazione di un terzo ufficiale superiore» disse il computer.
   A queste parole, Losira si rivolse a Shati. «È il momento di decidere da che parte stai. Sei con noi o contro di noi?!» chiese con durezza.
   «Sono con Ferasa, e con chiunque voglia difenderlo!» fece la Caitiana, soffiando di rabbia. «Se questo significa essere contro di voi, così sia!» aggiunse tra sé, ma non osò dirlo ad alta voce. Dette un’occhiata a Dualla, sperando che avesse qualche asso nella manica per ribaltare la situazione. Ma con enorme delusione vide la Deltana scuotere la testa, esortandola a calmarsi. In fondo la capiva. Ora che le guardie si erano schierate con Losira, era inutile che lei sola si opponesse. Avrebbe ottenuto solo di farsi sbattere in cella con Dualla, e allora chi avrebbe salvato Ferasa? No, doveva pazientare e attendere l’occasione giusta, per quanto fosse difficile.
   Vedendo che Shati non aggiungeva altro, Irvik si fece avanti. «Computer, confermo la rimozione del Capitano Dualla per il motivo addotto. Autorizzazione Irvik Delta 939» dichiarò, sbloccando la situazione.
   «Be-beep. Codice riconosciuto» trillò il computer. «Il Capitano Dualla decade dal comando e i suoi codici sono revocati. Fino a nuova nomina, l’autorità è trasferita alla Comandante Losira».
   A quelle parole, una vera e propria investitura, la Risiana rivolse un’occhiata di trionfo all’avversaria. «Bene, ora cominciamo a mettere a posto le cose» infierì. Poi la oltrepassò senza più degnarla di uno sguardo, raggiunse la poltrona del Capitano e vi sedette con gran soddisfazione.
   «Adesso che ha in mente di fare?!» chiese Dualla, scornata.
   «Quel che dovevamo fare fin dall’inizio» rispose seccamente Losira. «Andiamo a recuperare i dispersi. E per il suo bene, preghi che li troviamo ancora in vita. Perché se gli è successo qualcosa mentre lei ci teneva lontani...» minacciò.
   «Intanto che ne facciamo di lei?» chiese Ruuvan, accennando alla prigioniera.
   «Scortatela in cella. Giely potrà esaminarla con calma... al termine dell’emergenza» ordinò Losira, col suo sorrisetto sadico. Era buffo come la Deltana fosse di nuovo sotto custodia, dopo aver trascorso otto anni prigioniera degli Undine e solo qualche settimana in libertà. E Losira ci teneva a farle sapere che, anche se ne fosse uscita pulita, non avrebbe rivisto la plancia per un pezzo.
   «Da una banda di fuorilegge non potevo aspettarmi altro. Stupida io a credere di potermi fidare» commentò Dualla. «Ma tutto questo si ritorcerà contro di voi. Se mai tornerete alla Federazione, potete scordarvi l’amnistia. Rimarrete una banda di ricercati!» avvertì.
   «Meglio così. Non m’era mai piaciuta l’idea di costituirmi» ribatté Ruuvan. Lui e le altre guardie la condussero via dalla plancia e la scortarono in cella, sempre tenendola sotto tiro. Allora la tensione tra quanti erano rimasti si allentò considerevolmente.
   «Bene, il primo problema è risolto» commentò Losira, godendosi la vittoria. «E tu, hai qualcosa in contrario?» chiese a Shati, velatamente minacciosa.
   «Bah! Ogni volta che cerchiamo di metterci in regola, succede qualcosa che ci riporta al punto di partenza!» borbottò la Caitiana.
   «Si vede che non è destino» convenne la Risiana. «Siamo fatti per l’avventura e il profitto, non per le regole e gli ordini della Flotta. E ora, rotta verso Arena!» comandò.
   Non vedendo alternative, la Caitiana sedette nuovamente al timone. Fece manovra e diresse l’USS Destiny verso Arena a massimo impulso. Fra sé e sé, tuttavia, continuava a rimuginare. «Spiacente, Comandante, ma nemmeno io sono fatta per le regole e gli ordini...».
   «Lum, avverti quando saremo a distanza di teletrasporto da Arena» ordinò Losira. «A quel punto voglio un arresto totale e un’analisi completa del pianeta. Riavremo i nostri, a costo di passare attraverso la flotta nemica» disse, scambiando uno sguardo d’intesa con Giely. Dal canto suo, la dottoressa non aveva alcuna fretta d’esaminare Dualla. Come aveva detto la Comandante, prima c’era un’emergenza da risolvere.
 
   Di lì a un’ora la Destiny occultata giunse nei pressi di Arena e si arrestò, come ordinato da Losira. Lum inquadrò il pianeta desertico sullo schermo, evidenziando le bionavi poste a sorvegliarlo. «Ci siamo, Comandante. Rilevo quaranta bionavi nell’orbita, disposte in uno schema difensivo» disse.
   «Vedo» fece Losira, e deglutì per l’ansia. Fino ad allora tornare a prendere i dispersi le era parso facile, quasi una bazzecola, tanto da non capire perché Dualla rifiutasse di farlo. Ma nel vedere la potenza degli Undine, riconsiderò la sua posizione. Una semplice scansione della superficie di Arena, in cerca di segni vitali, rischiava di compromettere la loro segretezza. E se gli Undine li rilevavano, era la fine. D’un tratto l’atteggiamento di Dualla non le sembrò più tanto pretestuoso. D’altro canto, ora che si era ammutinata e aveva portato la Destiny ad Arena, non poteva ritirarsi con un nulla di fatto.
   «Allora, Comandante?» chiese Irvik dalla sua postazione ingegneristica.
   «Me lo dica lei. Possiamo rilevare i dispersi, senza essere rilevati a nostra volta?» chiese la Risiana.
   «È una domanda troppo complessa per rispondere o no» spiegò il Voth. «Molti aspetti della tecnologia Undine ci sono ancora sconosciuti. E i segni vitali dei nostri compagni rischiano di confondersi con quelli degli altri umanoidi là sotto. Posso provare una serie d’analisi, dalle più innocue alle più rischiose». Così dicendo affiancò Lum alla postazione sensori e comunicazioni.
   Seguendo le loro indicazioni, Shati diresse la Destiny in un giro attorno al pianeta, così da sondarlo più nel dettaglio. Il sole, prima eclissato, brillò oltre l’orizzonte desertico. Erano le prime ore del mattino sotto di loro.
   «Ancora niente, proseguo le scansioni... ehi, un momento!» s’interruppe Irvik. Armeggiò freneticamente coi comandi e anche Lum al suo fianco fece lo stesso.
   «Che succede?» si allarmò Losira.
   «Accade qualcosa al subspazio. Credo si stia formando un tunnel spaziale, simile a quello creato dal portale. Sta collegando la superficie di Arena con... la nostra nave!» avvertì l’Ingegnere Capo.
   «Ma non abbiamo portali a bordo!» obiettò la Comandante, temendo che gli Undine avessero trovato un altro modo di abbordarli.
   «Lo so, infatti non ha senso!» convenne Irvik, con le scaglie che si scurivano per lo stress. «Fino a un attimo fa era molto instabile, ma ora si sta stabilizzando. Dovrebbe aprirsi a momenti».
   «In quale punto della nave...» cominciò Losira, pensando già a inviare squadre e a isolare il settore. Ma s’interruppe a metà della frase, notando una distorsione luminosa proprio davanti a sé. Dapprima parve un bagliore informe, ma in pochi attimi si stabilizzò, assumendo forma circolare. Ecco la risposta: il wormhole si apriva proprio lì in plancia, mettendoli tutti a repentaglio.
   «Allarme Rosso, evacuare la plancia!» ordinò la Comandante, chiedendosi come avesse fatto la situazione a precipitare così in fretta. Come li avevano rilevati gli Undine? E come avevano aperto quel tunnel spaziale?
   «Arriva qualcuno!» gridò Irvik, abbandonando la consolle. Tutti i presenti indietreggiarono precipitosamente verso l’uscita in fondo alla plancia, dove un’ampia scala a chiocciola conduceva al ponte inferiore.
   «Pronti a resistere!» ringhiò Ruuvan, accorgendosi che non avrebbero fatto in tempo a scendere. Il Nausicaano impugnò il phaser, imitato dai suoi agenti. Si aspettavano un feroce scontro con gli Undine, com’era accaduto l’ultima volta, quando gli alieni avevano rapito Talyn.
   Una sagoma scura si delineò contro il cerchio luminoso, segno che qualcosa era passato. Il primo nemico li aveva abbordati! Sembrava avere tre o quattro gambe e altrettante braccia. Che fosse una nuova casta di Undine, ancora più letale delle precedenti?! Gli avventurieri socchiusero gli occhi, per non farsi abbagliare dal wormhole azzurro, e mirarono il bersaglio.
   «Fermi, disgraziati! Siamo noi, non ci riconoscete?!» esclamò una voce stranamente familiare. La sagoma si precisò: non era un alieno con troppi arti, ma due umanoidi accostati, col primo che si trascinava dietro il secondo. E non appena si furono allontanati dal tunnel, gli avventurieri li riconobbero. Sporchi, sudati, con le barbe incolte e con indosso strane tute da deserto, il Capitano Rivera e Talyn barcollarono in avanti. Si guardarono attorno con occhi spiritati, quasi increduli d’essere tornati tutti interi sulla Destiny.
   «Beh, che avete combinato in mia assenza?» chiese il Capitano, vedendo la ciurma raccolta timorosamente davanti all’ingresso. «Anzi, non m’importa. Fate spazio, stiamo per ricevere ospiti. E sono tipi... originali» avvertì, mentre i campioni di Arena comparivano dietro di lui. 
 

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Capitolo 9
*** Tutti per uno... ***


 -Capitolo 8: Tutti per uno...
 
   I Magnifici Nove si guardarono attorno, lieti di aver finalmente abbandonato Arena. Oltre ai tre dispersi della Destiny – Rivera, Naskeel e Talyn – c’erano i sei campioni provenienti da altre realtà. Kara Thrace, Johnny Rico, Yo’rek, Azrael, Master Chief e Liara T’Soni si guardarono attorno perplessi. Non erano mai stati su un’astronave della Federazione, né avevano familiarità con le specie che vi erano rappresentate. La sensazione era reciproca, perché nessuno tra quelli a bordo aveva mai visto combattenti del genere, e certo non si aspettavano di vederli sbucare in plancia. Il loro arrivo creò grande agitazione, tanto che gli agenti della Sicurezza impugnarono le armi. A quel punto anche i sei ospiti fecero altrettanto, abituati com’erano a non lasciarsi mai sorprendere. La situazione era incandescente; il minimo errore avrebbe innescato la sparatoria. Intanto il portale aperto dal Viaggiatore si richiuse, impedendo la ritirata ai nuovi arrivati e rendendoli ancora più nervosi.
   «Fermi, per l’amor del Cielo!» gridò Rivera, frapponendosi tra i due schieramenti. Si rivolse dapprima al suo equipaggio. «Questi sono nostri amici. Ci siamo alleati per sopravvivere su Arena. Quindi abbassate le armi, è un ordine!» intimò.
   Vedendo che anche Naskeel era solidale col Capitano, Ruuvan e gli altri agenti riposero i phaser. «Scusi, Capitano. È solo che non ci aspettavamo di vederla tornare così» ammise il Nausicaano, mentre fra sé diceva addio alla sua promozione.
   «Siamo tornati grazie a un altro amico, che purtroppo non ha potuto seguirci» spiegò Rivera, alludendo al Viaggiatore. «Questi resteranno con noi, finché li riporteremo nei loro Universi d’origine. Con la nuova lista di coordinate quantiche dovrebbe essere possibile».
   Vedendo che non c’era più pericolo, anche i sei ospiti abbassarono le armi. Passata la tensione, tornarono a guardarsi attorno, confrontando la Destiny con le navi a loro familiari.
   «È bello rivedervi» disse Losira, sollevata. «Avevamo temuto il peggio dopo lo schianto» ammise, e abbracciò Talyn con forza.
   Intanto anche Giely si era accostata a Rivera, con gli occhi lucidi per l’emozione. «Mi avevi promesso che stavolta saresti tornato presto» sussurrò.
   «Ti avevo promesso che me la sarei sbrigata più in fretta dell’ultima volta. Tre settimane sono meno di un anno» si giustificò il Capitano, abbozzando un sorriso.
   «Devo ricordarmi d’essere più precisa nelle richieste» deglutì la Vorta.
   «E io vorrei tanto accontentarti, querida» sospirò l’Umano. «Ma ci sono troppe cose fuori dal nostro controllo. Beh, l’importante è esserci ritrovati di nuovo, alla faccia di tutte le avversità».
   Si abbracciarono stretti e si baciarono, incuranti di quanti potevano vederli. Dopo di che Giely osservò incuriosita i nuovi arrivati. «Hai messo insieme una bella squadra, laggiù. Non puoi farne a meno ovunque vai, eh, Capitano? È una delle ragioni per cui mi piaci...» sorrise. Non le era sfuggito che, mentre lui era riuscito a radunare una squadra di sopravvissuti nel deserto, Dualla non era stata capace di mantenere il comando della Destiny. Questo la diceva lunga sulle loro capacità di leadership.
   «Sono accadute molte cose su Arena» disse Rivera, rivolgendosi a tutti i presenti. «Vi aggiornerò appena possibile. Prima però devo sapere come si è evoluta la situazione quassù. Ho notato che l’Harvester ha lasciato l’orbita...».
   «Sì, riteniamo che stia per aprire un’altra interfase» confermò Losira. «Ci sono una ventina di bionavi a sorvegliarlo. Le altre hanno cessato l’attività estrattiva e sorvegliano Arena».
   «Allora non c’è tempo da perdere. Dobbiamo approntare un piano d’attacco, se non l’avete già fatto» disse il Capitano.
   «Ehm, in effetti ne abbiamo uno. Siamo anche avanti coi preparativi...» spiegò Losira, reticente. Rivera pensò che fosse per timore della battaglia.
   «Beh, ottimo! Andiamo in sala tattica, così me lo mostrerete» disse il Capitano, facendo strada. «Convocate anche Dualla» aggiunse, ma si stupì nel vedere i musi lunghi dei colleghi. «Beh, è successo qualcosa che dovrei sapere?» indovinò.
   «Ecco... ne sono successe parecchie, e non delle migliori» spiegò Losira controvoglia. «Ti aggiornerò in sala tattica. Così scoprirai che tipo è Dualla; e scommetto che ti pentirai d’averla liberata!».
 
   Fu una strana riunione, perché gli ospiti – ora detti i Magnifici Sei – avevano insistito per partecipare e il Capitano non se la sentì di negarglielo. Nel complesso furono abbastanza disciplinati, anche se Azrael quasi schiacciò la poltroncina col suo peso. La prima a parlare fu Losira, che riassunse quanto accaduto sulla Destiny. Giely e Irvik intervennero sporadicamente per aggiungere qualche dettaglio.
   Sulle prime Rivera fu incredulo; poi sentì montare la rabbia. «Stai dicendo che Dualla ha preso il comando?!» s’indignò. «Ed è stata lei a bloccare ogni tentativo di soccorso? E tu l’hai lasciata fare?!».
   Losira dovette faticare per calmarlo. Cercò di spiegargli la confusione in cui era caduto l’equipaggio e come molti avessero visto Dualla come un’ancora di salvezza, nel caso in cui fossero tornati alla Federazione.
   «Uhm, dovevo immaginarlo che ci avrebbe provato. Dopotutto questa era la sua nave» grugnì Rivera, maledicendo la propria ingenuità. «Beh, sentiamo che avete combinato in mia assenza. Avete la nuova lista di coordinate, giusto? Allora siete tornati alla Federazione?!».
   A queste parole gli avventurieri si scambiarono sguardi avviliti, quasi vergognosi. Nessuno aveva voglia di rispondere, finché Irvik decise che toccava a lui. «Ecco, c’è un problema inaspettato...» cominciò.
   Scoprire che la via del ritorno era preclusa fu un duro colpo per il Capitano, anche perché questo gli rendeva difficile mantenere la promessa fatta ai Magnifici Sei. E le sorprese non erano ancora finite. Losira gli spiegò come, non potendo contare sulla Flotta, avessero deciso di attaccare l’Harvester solo con le due Destiny, la loro e quella dello Specchio. Poi narrò come la crescente insoddisfazione nei confronti di Dualla li avesse spinti a destituirla e imprigionarla. Rivera s’impresse bene in memoria i tre che avevano destituito la Deltana coi codici di comando. Su Losira e Giely non aveva dubbi; Irvik fu una piacevole notizia.
   Man mano che Losira parlava, Shati s’irrigidì, temendo che rivelasse al Capitano i loro screzi. Ma non fu così. La Comandante non volle metterla in cattiva luce, ora che tutto sembrava superato, e non accennò alla loro discussione. Gradualmente Shati si rilassò, per quanto lo consentivano le circostanze. Tuttavia aveva il timore che, se avessero superato l’emergenza, la faccenda sarebbe tornata a galla.
   «Groan... certo che Dualla è riuscita a combinare un macello» mugugnò il Capitano. Cominciava davvero a credere che sarebbe stato meglio lasciarla dove l’avevano trovata.
   «Adesso è chiusa in cella. Cosa vuoi che ne facciamo?» chiese Losira. Dal tono sembrava quasi sperare in una risposta del genere “buttatela fuori da un boccaporto”.
   «Ci penserò al termine dell’emergenza, per il momento teniamola lì» rispose seccamente Rivera. «Avanti, spiegami il suo piano d’attacco» esortò.
   Losira rivelò che avevano invertito i nomi delle due Destiny, sperando d’indurre gli Undine a concentrare il fuoco su quell’altra. E spiegò che il piano prevedeva d’esporre l’altra Destiny a un grosso rischio, al punto che la nave era stata automatizzata. Solo sette persone l’avrebbero pilotata dalla plancia: sette ufficiali designati da Dualla, che tutti davano per spacciati.
   «È uno dei motivi per cui ci siamo ammutinati» concluse Losira. «Non potevamo sacrificare sette dei nostri. O dovrei dire... non potevamo lasciare che Dualla li sacrificasse. Perché ora la decisione spetta a te, Capitano. Vuoi andare avanti col piano? O pensi sia meglio lasciar perdere e abbandonare lo Spazio Fluido finché possiamo?» chiese con gravità.
   Rivera sentì tutto il peso della scelta. Aveva sperato che le nuove coordinate gli permettessero di tornare alla Federazione, così che fosse la Flotta Stellare a prendere in mano la situazione. Invece toccava ancora a loro; e il tempo stava per scadere. «Se qualcuno vuol dire la sua, prima che io prenda la decisione, questo è il momento» disse. Il suo sguardo indugiò su Talyn, mentre ricordava le parole del Viaggiatore sul suo talento grezzo.
   Il giovane notò l’occhiata e si accorse che il Capitano stava cercando espressamente il suo parere. Si schiarì la voce, a disagio. «Dopo quel che abbiamo passato su Arena, confesso che mi piacerebbe abbandonare lo Spazio Fluido» ammise. «Ma se ce ne andiamo, gli Undine si prenderanno anche Ferasa. Miliardi di Caitiani avranno la vita rovinata e molti finiranno i loro giorni su Arena. Dopo quel che ho visto, credo che nessuno meriti di finire in quel postaccio».
   «Non spetta a noi sventare tutte le minacce cosmiche» obiettò Naskeel.
   «Tutte no di certo... ma forse questa sì. Magari non è un caso, se siamo gli unici in condizione di farlo» disse lentamente l’El-Auriano. «Un saggio amico mi ha detto che “il tempo non ha importanza; solo la vita è importante”...».
   «E le nostre vite, non contano?!» squittì Irvik.
   «Sì, certo. Ma ciò che stiamo vivendo non è un episodio isolato, fa parte di quella che potremmo definire... Guerra Multiversale» obiettò Talyn. «Questo è un momento chiave del conflitto. E io credo che salvare i Caitiani, in questo frangente, significhi salvare anche noi stessi».
   Vedendo le espressioni perplesse dei colleghi, il giovane li avvertì del pericolo di un’Incursione, cioè di una rovinosa collisione tra Universi, così come gliene aveva parlato il Viaggiatore. «Non è certo che la prossima interfase provocherà un’Incursione, ma ogni volta che gli Undine ne creano una è come se tirassero un po’ più la corda. Il fatto che l’ultima interfase, quella con lo Specchio, non si sia richiusa è un pessimo segno... potrebbe indicare che ci stiamo avvicinando al limite» concluse.
   Ci fu un lungo silenzio. II Capitano aveva già preso decisioni difficili, eppure aveva l’impressione che quella fosse la più cruciale di tutte. Non c’era solo il destino di Ferasa in gioco, ma anche d’altri mondi, e in prospettiva di tutto il conflitto. Quanto al rischio allucinante dell’Incursione, non sapeva se crederci; ma non poteva nemmeno escluderlo.
   «Anche supponendo di riuscire a distruggere l’Harvester... questo salverà davvero qualcuno? O piuttosto gli Undine diverranno ancora più spietati nei loro attacchi?» mormorò Losira.
   «Se non altro ci farebbe guadagnare tempo» ragionò il Capitano. «E se intanto riuscissimo ad avvertire la Flotta...».
   «Possiamo farlo» rivelò Irvik. «Quando l’interfase sarà aperta, non potremo attraversarla con tutta la nave per via della sua polarizzazione, ma potrei far passare un messaggio subspaziale. Abbiamo già preparato una trasmissione compressa coi dati raccolti in questi anni, più i diari di bordo. Al momento opportuno la invieremo attraverso l’interfase. Così la Federazione sarà avvisata, che noi si viva o si muoia» concluse.
   «Questa è una buona notizia» disse Rivera, sollevato.
   «E per quanto riguarda l’attacco?» chiese Losira, sulle spine.
   Il Capitano esitò, osservando i sei campioni che aveva portato lì da Arena. «Signori, vi avevo promesso di riportarvi a casa qualora fossimo tornati sulla Destiny. Ora non so se posso mantenere l’impegno. Non abbiamo tutte le coordinate quantiche che credevo, né il tempo d’accompagnarvi prima della battaglia. E tuttavia non voglio rimangiarmi la parola» ammise, diviso fra gli obblighi contrastanti.
   «Forse non dovrai farlo, Capitano» disse Scorpion, alzandosi in piedi. «Ho visto le Dodici Colonie venire distrutte dai Cylon. Ora non anteporrò i miei interessi a quelli di un intero pianeta. Per quanto mi riguarda, ti sciolgo dall’impegno» disse.
   «Per me vale lo stesso» disse Rico, imitandola. «Mi sono arruolato per fare la mia parte contro gli Aracnidi; non per sacrificare dei pianeti».
   Uno dopo l’altro, i Magnifici Sei si alzarono, sciogliendo il Capitano dall’obbligo nei loro confronti. Fianco a fianco, si dissero pronti ad affrontare la battaglia. Vedere quei combattenti così eterogenei che accettavano un tale rischio commosse Rivera.
   «Grazie di cuore, a tutti voi» disse il Capitano. Poi si rivolse nuovamente ai suoi ufficiali. «Il piano di Dualla è il meglio che abbiamo e non c’è tempo di farne altri, tanto più che avete già automatizzato l’altra Destiny. Ma mi rifiuto di usare sette dei nostri come esca. Non c’è modo d’automatizzare completamente la CSS Destiny?».
   «Se ci fosse, lo avrei già fatto» sospirò Irvik. «Se vogliamo che la nave combatta con piena efficienza, dobbiamo avere quei sette».
   «E se lasciassimo che combatta con ridotta efficienza?» chiese il Capitano, vedendo una scappatoia. «In fondo deve solo lanciare un attacco lampo e poi farsi inseguire».
   «Beh, per avere un’efficienza moderata basterebbero due persone: il timoniere e l’Ufficiale Tattico» rispose il Voth. «Ma a quel punto il rischio per loro sarebbe ancora maggiore. Diciamo pure che sarebbe una missione suicida» ammonì.
   A quelle parole Shati drizzò le orecchie, ma non disse nulla. Un piano disperato cominciava a formarsi nella sua mente.
   «E se rinunciassimo anche a loro, istruendo il computer con una sequenza d’attacco automatica?» insisté il Capitano.
   «In quel caso l’efficienza diventerebbe ancora più bassa» avvertì Irvik.
   «La nave riuscirebbe a compiere almeno l’attacco iniziale?».
   «Suppongo di sì, ma poi le bionavi la raggiungerebbero e la distruggerebbero in fretta. E a quel punto tornerebbero a convergere su di noi».
   «Quindi si tratta di sacrificare sette persone, o almeno due, per accrescere le probabilità che tutti gli altri si salvino» riassunse Naskeel.
   «Si può dire così» convenne Irvik. «Comunque vi avverto che non sono in grado di fattorizzare le probabilità di successo nei vari casi. Ci sono troppe incognite con gli Undine e la loro tecnologia» ammise.
   Il Capitano fissò il tavolo, rimuginando a fondo. La sua filosofia del tutti per uno, uno per tutti giungeva alla prova decisiva. Poteva sacrificare un paio di compagni per accrescere le probabilità che il resto dell’equipaggio si salvasse. I Vulcaniani lo avrebbero trovato logico, persino necessario. Oppure poteva tenere unito l’equipaggio, così che tutti condividessero la stessa sorte. Poteva sembrare illogico... ma era la cosa più umana. E in quel momento, Rivera sentì che se non restava umano, tutta la sua lotta contro gli Undine era inutile.
   Presa la decisione, il Capitano si alzò e passò lo sguardo sui presenti. «Signori, non prendiamoci in giro. Siamo tutti consapevoli che, secondo la logica, dovremmo sacrificare un paio dei nostri. Persino Dualla, un Capitano della Flotta Stellare, era decisa a farlo. Ma è dall’inizio di quest’odissea che cerchiamo di dare un senso al nostro viaggio. E credo che il senso sia proprio questo, restare uniti anche nel pericolo. Io non manderò deliberatamente due di noi a morire, solo nella speranza – tutta da dimostrare – di diminuire il rischio per noialtri. Ora più che mai, siamo legati alla stessa sorte» dichiarò.
   Rivera si aspettava veementi obiezioni, soprattutto da parte di Naskeel e dei Magnifici Sei. Invece, con sua grande sorpresa, nessuno lo contestò. Per quanto si prospettasse una battaglia disperata, erano tutti confortati nel sapere che il Capitano non era disposto a sacrificare arbitrariamente nessuno di loro.
   «Allora è deciso» concluse Rivera, commosso da quella dedizione. «Torniamo alla CSS Destiny e inseriamo la sequenza automatica. Poi attacchiamo l’Harvester. È tempo che siano gli Undine a scoprire cosa significa essere un bersaglio».
 
   L’USS Destiny tornò rapidamente presso la sua controparte dello Specchio. Irvik si trasferì a bordo con una squadra d’ingegneri, per inserire una sequenza d’attacco del tutto automatizzata. Era chiaro che, in queste condizioni, il ruolo degli Exocomp sarebbe stato ancora più importante. Infatti i robottini riparatutto dovevano agire come veri e propri ingegneri durante la battaglia, cercando di far resistere l’astronave il più a lungo possibile. Era un compito che richiedeva più autonomia decisionale di quanta ne avessero solitamente. Fu così che Irvik prese la sofferta decisione di lasciare a bordo Ottoperotto, il più creativo e indipendente degli Exocomp. Il robottino aveva già contribuito più volte a salvare l’USS Destiny, mostrando un notevole spirito d’iniziativa. In effetti si era guadagnato l’affetto degli ingegneri, e ancor più di Talyn, che ormai lo considerava un amico. Se c’era qualcuno che poteva massimizzare l’efficienza della CSS Destiny, era lui. Ma Irvik non si faceva illusioni: la sorte dell’astronave era segnata, e con essa quella degli Exocomp a bordo. Per questo motivo non disse a Talyn che aveva lasciato Ottoperotto sulla nave condannata. Glielo avrebbe spiegato più tardi, a cose fatte, anche a costo d’incorrere nella sua rabbia.
   «Be-beep. Schema d’attacco registrato. CSS Destiny sacrificabile. Exocomp sacrificabili. Ottoperotto... sacrificabile?!» pigolò il robottino quando ricevette le istruzioni finali.
   «Mi dispiace, piccoletto» disse Irvik con un groppo in gola. «Vorrei ci fosse un altro modo. Ma c’è in ballo la salvezza di un intero pianeta, e corriamo già un grosso rischio a togliere l’equipaggio. Non posso rinunciare anche a te. Devi restare a bordo perché il piano abbia qualche speranza di successo. Exocomp numero 64, devi ottemperare!» disse con tutta l’autorità che poté racimolare.
   Ottoperotto stette in silenzio così a lungo che l’Ingegnere Capo temette gli fossero saltati i circuiti. Anche le lucette sul suo carapace si erano del tutto spente. Infine il robottino parlò, con un’intonazione insolitamente avvilita. «Exocomp numero 64 ottempera agli ordini. Be-beep. Ottoperotto vuole ringraziare Talyn per essere stato amico» disse.
   «Io... glielo dirò, va bene? Ma non posso chiamarlo ora. Non voglio che sappia, o si distrarrebbe» spiegò Irvik, sentendosi un verme.
   A queste parole Ottoperotto emise una pernacchia elettronica, mentre le sue lucette sfarfallavano rosse. E sfrecciò all’estremità opposta della sala macchine, come se non volesse più parlare col Voth.
   Irvik scrollò le spalle, sentendo che questa se l’era cercata. Anche a lui il robottino sarebbe mancato, ma che ci poteva fare? Era la guerra, e anche chi rimaneva sull’USS Destiny avrebbe comunque rischiato la vita. L’Ingegnere tornò al lavoro, impostando varie sequenze automatiche nel computer della CSS Destiny. Stava facendo del suo meglio, ma la mancanza dell’equipaggio – specialmente del timoniere e dell’artigliere – si sarebbe fatta sentire.
   A un tratto squillò un allarme. Irvik sobbalzò, interrompendo il lavoro. Guardò il portale addossato alla parete – ora sapeva che si chiamava stargate – ma lo vide inerte. Allora si rivolse a un aiutante di nome Yam, che in quel momento controllava i sensori. «Che succede, il nemico ci ha trovati?!» gemette, sapendo che in tal caso la loro strategia andava in fumo.
   «No» rispose l’interpellato, leggendo i dati sulla consolle. «Ma ci resta poco tempo. L’Harvester s’è attivato e sta aprendo l’interfase».
 
   In quel momento, sulla plancia dell’USS Destiny, anche il Capitano fu informato della situazione. «Sullo schermo» ordinò, sentendo le proverbiali farfalle nello stomaco.
   «Ecco» disse Talyn, inquadrando l’Harvester. «Per ora non c’è molto da vedere, ma le emissioni gravimetriche sono fuori scala. Di questo passo basterà un’ora per aprire l’interfase».
   La stazione Undine campeggiava sullo schermo, simile a un cristallo multisfaccettato. Ogni faccia era irta d’antenne chilometriche, ora in funzione. Scariche simili a fulmini balenavano occasionalmente tra un’antenna e l’altra, forse per disperdere i picchi d’energia. E gli effetti sullo spazio circostante cominciavano a vedersi. Una chiazza di Spazio Fluido appariva arrossata, segno che i fotoni perdevano energia per uscire dall’interfase, scivolando verso frequenze più basse. Ogni tanto c’era un tremolio, come un miraggio; ma era il tessuto spazio-temporale a deformarsi.
   «Non c’è un minuto da perdere» disse Rivera. «Talyn, segnala agli ingegneri di tornare qui. E chiama Shati, la voglio al timone» aggiunse. Quello infatti era il turno Beta, per cui molti ufficiali del turno principale avevano lasciato le postazioni ai colleghi. Data l’emergenza, tuttavia, il Capitano e altri si erano trattenuti. E adesso Rivera voleva la miglior timoniera ai comandi per la battaglia imminente. «Allarme Rosso. Capitano a equipaggio, l’Harvester è entrato in funzione e sta aprendo l’interfase. Ai posti di combattimento!» ordinò, trasmettendo a tutti i ponti.
   L’agitazione si diffuse sull’astronave. Tutti correvano ai propri posti, scambiandosi ordini concitati. Il ritorno del Capitano aveva galvanizzato l’equipaggio, che gli obbediva più volentieri che a Dualla. Il fatto stesso che Rivera fosse tornato, inoltre, indicava che gli Undine non erano invincibili. Tra gli avventurieri serpeggiava il desiderio di vendetta contro gli alieni dello Spazio Fluido, considerati gli artefici delle loro disgrazie, dato che li avevano costretti a quell’odissea nel Multiverso. Ma gli Undine facevano ancora paura: attaccare l’Harvester pareva un’impresa temeraria. Così tra l’equipaggio erano mischiati in egual misura l’esaltazione e il timore.
 
   In quella baraonda c’era una sola persona che non si stava recando alla propria postazione. Shati percorreva i corridoi di buon passo, ma senza correre, lasciando che gli altri la schivassero o la oltrepassassero. Erano troppo frettolosi per notare che, invece d’andare in plancia, la Caitiana era diretta alle prigioni. Aveva con sé un phaser, appena preso dall’armeria, e intendeva usarlo. Nella sua mente ronzava un piano, disperato ma irrinunciabile. Aveva cominciato a pensarci non appena Irvik aveva detto che servivano almeno un paio di persone per manovrare la CSS Destiny. Un timoniere e un artigliere. Beh, lei era la miglior timoniera della nave, e s’era già offerta volontaria per la missione. Quanto al secondo elemento... ora sapeva dove reclutarlo.
   Giunta alle prigioni, Shati ebbe un attimo d’esitazione. Poteva ancora fermarsi... poteva fare dietrofront e andare in plancia, come le era stato ordinato. Nessuno avrebbe mai immaginato cos’era stata in procinto di fare. Oppure poteva procedere col suo piano. Questo l’avrebbe messa contro i compagni e quasi certamente le sarebbe costato la vita... ma avrebbe accresciuto le probabilità di vittoria. E vincere significava salvare Ferasa, il suo pianeta. Un pianeta che aveva abbandonato piena di vergogna, dopo l’espulsione dall’Accademia, e che tuttavia considerava ancora la sua patria. Miliardi di Caitiani in quel momento erano in preda al panico per via dell’interfase. Le loro vite stavano per essere stravolte, se lei non fosse intervenuta. Tra loro c’era anche sua madre.
   Shati chiuse gli occhi e serrò i pugni, ricordando il loro ultimo incontro. Dopo la sua espulsione dall’Accademia, lei e sua madre avevano litigato ferocemente, rinfacciandosi i peggiori difetti. Alla fine Shati se n’era andata, ferita e umiliata, giurando di non tornare. E aveva tenuto fede alla promessa: in nove anni non era tornata su Ferasa, né aveva parlato con sua madre. Ora aveva la certezza che non l’avrebbe fatto mai più. Ma se il suo piano funzionava, avrebbe risparmiato a tanti altri il dolore dell’esilio. Presa la decisione, la Caitiana riaprì gli occhi e rilassò le mani, per sembrare normale. Poi si fece avanti, entrando nella sala di guardia.
   Al suo ingresso, il sorvegliante orioniano la fissò sorpreso. E altrettanto fece l’unica detenuta, ovvero Dualla. La Deltana si alzò dalla brandina e si accostò alla parete di trasparacciaio per osservare ciò che accadeva.
   «Beh, che ci fai qui? Non dovresti essere in plancia?» chiese l’Orioniano a Shati. Anche lui, come tutti, era al corrente dell’Allarme Rosso e della battaglia imminente.
   «Ci sarò fra un momento. Ma Dualla deve venire con me; ordine del Capitano» rispose la Caitiana, cercando di suonare convincente.
   «Uhm, non mi hanno avvisato. Dovrò chiedere conferma» fece l’Orioniano, insospettito. Si portò la mano al comunicatore.
   Prima che potesse attivarlo, Shati estrasse il phaser e fece fuoco. Colpì l’Orioniano in pieno petto, con l’arma tarata su massimo stordimento. Il sorvegliante emise un lamento strozzato e barcollò, intorpidito. Cercò d’estrarre a sua volta il phaser, ma i suoi movimenti erano lenti ed erratici. Maledicendo la resistente fisiologia orioniana, Shati sparò di nuovo, sperando di non mandarlo in arresto cardiaco. Colpito per la seconda volta, l’Orioniano crollò sul pavimento, privo di sensi. Shati gli si avvicinò, verificando che fosse ancora vivo. Lo era, anche se sarebbe rimasto fuori combattimento per un pezzo.
   «Non c’è tempo da perdere» si disse la Caitiana. Presto in plancia avrebbero notato la sua assenza e l’avrebbero cercata. Dette un’occhiata a Dualla, che la osservava attentamente, sorpresa da quella mossa. Poi corse alla consolle e armeggiò con i comandi, finché riuscì ad aprire la cella della Deltana.
   Dualla uscì con circospezione, fissando la sua liberatrice con una strana occhiata. «Perché fa questo? Dovrebbe essere in plancia, non ha sentito l’Allarme Rosso?» le chiese.
   «Se le dispiace essere liberata, posso sbatterla di nuovo dentro!» sbuffò Shati.
   «Lo escludo, dopo quel che ha fatto» ribatté la Deltana, accennando al sorvegliante stordito. «Allora, perché mi ha liberata?».
   «Perché ho bisogno di lei» rispose la Caitiana. Si chinò sull’Orioniano, prendendogli il phaser, e lo gettò a Dualla, che lo prese al volo. «Mi segua, l’aggiornerò strada facendo».
   «Arguisco che lei non fa parte di una ribellione volta a rendermi il comando» fece Dualla, un po’ delusa.
   «Sarebbe difficile, ora che è tornato il nostro Capitano. Non è affatto contento della sua condotta, mentre lui era via» avvertì Shati. Si strappò il comunicatore dall’uniforme, lo gettò a terra e lo disintegrò con un raggio phaser, per essere meno facilmente rintracciabile.
   «Come ha fatto Rivera a tornare?» chiese la Deltana, sempre più accigliata.
   La Caitiana cominciò a spiegarglielo. Intanto le due lasciarono la sala di guardia e si avventurarono nella nave, coi phaser in pugno. Per loro fortuna quasi tutti gli avventurieri avevano già raggiunto le loro postazioni, per cui i corridoi erano semideserti. Shati aveva in mente una destinazione precisa e Dualla la seguiva, ascoltando gli ultimi sviluppi. La Deltana seppe come Rivera era tornato assieme alla pittoresca banda che aveva radunato su Arena.
   «Così quel fuorilegge è riuscito a costituire una squadra di sopravvissuti provenienti da altre realtà... mentre io ho fallito con gli occupanti della Destiny...» si disse Dualla, con crescente invidia. Si costrinse ad ascoltare il resto del discorso. Seppe così che Rivera aveva accettato il suo piano d’attacco, ma lo aveva anche alterato, in modo da non lasciare nessuno sulla CSS Destiny.
   «In questo modo l’efficienza del primo attacco calerà» notò Dualla.
   «Già, ma il Capitano non vuole sacrificare nessuno» spiegò Shati, puntando verso una sala ben precisa. «Irvik ha detto che, perché l’attacco sia efficace, dovrebbero esserci almeno un paio di persone in plancia: il timoniere e l’artigliere. Ecco perché siamo qui» disse, raggiungendo la destinazione. Dualla la seguì, ritrovandosi in una saletta teletrasporto secondaria, senza nemmeno un addetto. Allora le fu tutto chiaro.
   «Vuoi che ci andiamo noi due» mormorò la Deltana, sentendo il destino chiudersi su di loro come una tenaglia.
   «Qualcuno ci deve pur andare, se vogliamo che l’attacco riesca» confermò Shati con amarezza. «Io m’ero già offerta, quindi non fa differenza. Quanto a lei... è il momento di dimostrare se crede a ciò che predica. Quand’era Capitano, voleva mandare sette persone in questa missione suicida. Ora che è una prigioniera in fuga, è disposta ad andarci lei stessa? Insomma, è capace di assumersi l’incarico che voleva dare ad altri?! O preferisce tornare in cella, pur di stare al sicuro?!» chiese con asprezza.
   «Vedo che mi hai teso la trappola perfetta» disse Dualla, sconsolata. «Se mi rifiuto, tutti lo sapranno e trascorrerò il resto del viaggio in cella. Anche se tornassimo alla Federazione, non mi attenderebbe nulla di buono».
   «Quindi è disposta ad accompagnarmi?» la pressò Shati.
   «Altrimenti andrai da sola?».
   «Non ho scelta: c’è in gioco il mio mondo».
   «Se tutti nella Flotta avessero la tua dedizione, la Federazione sarebbe più sicura» sospirò la Deltana. «E sia... in fondo l’ho sempre saputo che questa missione nello Spazio Fluido sarebbe stata la mia fine. E del resto non ho più niente sulla Destiny, dopo il ritorno di Rivera. Meglio finire in una vampata di gloria che spegnersi lentamente, giusto?» ironizzò. Salì sulla pedana di teletrasporto, mentre la Caitiana andava alla consolle, per fissare le coordinate di destinazione.
   Dualla si guardò attorno con nostalgia, consapevole che erano i suoi ultimi momenti sull’USS Destiny. «Sei stata una buona nave, anche se ti ho avuta per poco tempo» si disse. «Spero che sarai più benevola con questi avventurieri».
   Impostato il trasferimento automatico, Shati corse a sua volta sulla pedana. Anche lei disse silenziosamente addio all’astronave e ai suoi compagni, augurandosi che capissero le ragioni del suo gesto. Poi le due fuggiasche svanirono nel bagliore azzurro del teletrasporto, dirette alla CSS Destiny.
 
   Sulla plancia dell’USS Destiny, Rivera osservava con crescente inquietudine l’Harvester all’opera. L’interfase si espandeva sempre più: era già abbastanza ampia da contenere un pianeta. E infatti una forma sferica stava comparendo al suo interno. Per ora era debolissima, appena distinguibile dallo sfondo, ma acquisiva consistenza di minuto in minuto. Era il pianeta Ferasa, che veniva inesorabilmente traslato nello Spazio Fluido. Sulla superficie dilagava già il panico per quel fenomeno sconosciuto. Tutte le navicelle disponibili stavano decollando e le astronavi in orbita imbarcavano più persone possibile, ma non c’era modo d’evacuare tutti gli abitanti nel giro di un’ora.
   «Almeno la Flotta Stellare si sarà messa in allarme» rifletté il Capitano. Questo aumentava le probabilità che ricevesse il loro messaggio, quando tra poco l’avrebbero trasmesso.
   «Abbiamo imbarcato Irvik e la sua squadra» riferì Talyn. «Non c’è più nessuno sulla CSS Destiny».
   «Bene» fece Rivera, guardandosi attorno. L’equipaggio era ai propri posti e anche i Magnifici Sei erano pronti ad aiutare. Scorpion, Rico e Yo’rek erano in plancia, mentre gli altri tre erano in sala macchine, pronti a intervenire se gli Undine avessero abbordato la Destiny. In quella però il Capitano si accorse che qualcuno mancava all’appello. «Dov’è Shati? Ho detto che la volevo al timone» disse irrequieto.
   «Non risponde alle chiamate, sto cercando di localizzarla» disse Talyn. «È strano, non riesco nemmeno a individuare il suo comunicatore. Devo passare ai sensori interni e cercare i suoi segni vitali». Passarono i secondi.
   «Ebbene?» fece Rivera, sempre più inquieto.
   «Qualcosa non va, non riesco a trovarla. E c’è appena stato un doppio trasferimento dalla sala teletrasporto 7 alla CSS Destiny» avvertì l’El-Auriano, inquadrando l’astronave sullo schermo.
   «Qualcuno è tornato su quella nave? Chi, e perché?! Mi servono risposte!» ordinò il Capitano, temendo un sabotaggio.
   «Accedo ai diari del teletrasporto» disse Talyn, rapido come sempre. «Oh, no... gli ultimi schemi di trasferimento corrispondono alla fisiologia Caitiana e Deltana».
   «Shati e Dualla» riconobbe immediatamente Rivera. «Che le è saltato in mente di liberarla?! E tornare su quella nave, poi! Riportatele subito qui!» ordinò, alzandosi di scatto.
   «Impossibile, la CSS Destiny ha appena alzato gli scudi. È del tutto isolata» avvertì l’addetto al teletrasporto.
   Il Capitano si rivolse a Losira, che era rimasta seduta in silenzio, fissando il pavimento. «Non sembri molto sorpresa. Hai idea di cosa sta succedendo?» inquisì.
   «Groan... sì, ho un sospetto» ammise la Comandante. «Devi sapere che, durante la tua assenza, Shati ha simpatizzato con Dualla. Sperava che il suo piano salvasse Ferasa, quale che fosse il prezzo. Pensa che s’è offerta volontaria per la missione suicida. E quando ci siamo ammutinati, è stata l’unica a non partecipare, tanto che ho avuto la tentazione di sbattere in cella anche lei».
   «Ma non l’hai fatto... e non me ne hai nemmeno parlato?!» fece Rivera, sconcertato.
   «Mi sono detta che era in pena per il suo mondo e bisognava darle un’altra possibilità. Poi sei tornato e hai deciso di procedere col piano, quindi ho pensato che quei bisticci non avessero più importanza. Non immaginavo che sarebbe arrivata a tanto!» si giustificò Losira.
   «Così ha liberato Dualla, e ora sono entrambe fuori dalla nostra portata» concluse il Capitano, guardando frustrato la CSS Destiny. Avevano lavorato tanto per rimetterla in linea... solo per consegnarla a quelle due testarde. «Talyn, chiama quella nave su un canale criptato. E preghiamo che gli Undine non ci intercettino» ordinò.
   Mentre il giovane eseguiva, Rivera tornò a sedersi, massaggiandosi le tempie. Quel colpo di testa rischiava di mandare all’aria tutto il piano.
   «Non essere troppo duro verso Shati» lo esortò Losira. «È in ansia per il suo mondo e farebbe di tutto per salvarlo».
   Il Capitano scosse la testa, più avvilito che arrabbiato. Sapeva che la Caitiana era impulsiva, ma questa proprio non se l’aspettava. Si disse che forse non l’aveva mai capita del tutto. Forse, sotto l’apparente allegria e leggerezza, covava una profonda frustrazione per quella vita da fuorilegge. E salvare Ferasa le sembrava un modo per redimersi.
   Finalmente le fuggiasche risposero alla chiamata. Dualla e Shati erano davvero sulla plancia della CSS Destiny, la prima alla postazione tattica, la seconda al timone.
   «Perché ci chiamate? Così rischiate di farvi scoprire!» esordì la Deltana, infastidita.
   «Come v’è saltato in mente di salire su quella nave?! Tornate subito qui! Shati, mi rivolgo a te: è un ordine!» disse Rivera, perentorio.
   La Caitiana tenne gli occhi bassi, non osando guardarlo in volto, e scosse la testa. «Mi spiace, Capitano, ma non posso obbedire. E sappiamo tutti il motivo. Perché il piano abbia successo, questa nave deve combattere in modo efficiente. E per renderla efficiente, bisogna che almeno due persone restino a bordo. Sei fin troppo buono, Capitano, a non voler sacrificare nessuno. Ma stavolta un sacrificio va fatto. Buon per voi che ci siamo offerte volontarie. Nessuno ci ha costrette, è una nostra scelta. Ditelo alle nostre famiglie, se mai tornerete alla Federazione» pregò.
   Davanti a quella cocciutaggine, l’Umano si rivolse alla Deltana. «Dualla, le parlo da Capitano a Capitano. Mi spiace per come si sono messe le cose e capisco che si sia sentita usurpata dal suo incarico. Ma nessuno di noi ha voluto che andasse così. Preferiremmo essere sul nostro vecchio mercantile, ma nella Federazione, piuttosto che sulla Destiny qui nello Spazio Fluido. Se torna da noi, le prometto che non sarà più imprigionata».
   «Mi risparmi le promesse» disse Dualla con pacatezza. «Il destino le ha messo in mano la mia nave e ammetto che ha saputo farne buon uso, tanto che non ho nulla da rimproverarle. Ma poiché l’equipaggio è il suo, ecco che mi trovo fuori posto a bordo. Non voglio creare ulteriori tensioni e conflitti, quindi preferisco uscire di scena».
   «Vorrei che si potesse fare altrimenti. La nave non è troppo piccola, se accettiamo di collaborare; e la sua esperienza mi sarebbe preziosa» tentò il Capitano. Per quanto garbato, stava ammettendo che non intendeva renderle il comando.
   «No, è meglio così. È l’unico modo per salvare Ferasa e al tempo stesso riportare la pace sulla Destiny» insisté Dualla. «Per queste ragioni, con l’autorità conferitami dal Comando della Flotta Stellare, io designo lei, Armando Rivera, quale Capitano dell’USS Destiny» annunciò. Era un gesto puramente simbolico, ma sapeva che l’Umano si era sempre crucciato di non aver mai avuto l’investitura ufficiale, per cui sperava che gli fosse di conforto. «Le affido tre missioni: distruggere l’Harvester, avvertire la Flotta Stellare e riportare a casa il suo equipaggio. Veda di non deludermi!» raccomandò.
   «Farò del mio meglio» promise Rivera. «Ma vorrei che almeno Shati tornasse con noi».
   «Non capisci, Capitano?!» fece l’interessata con voce rotta. «Per tutta la vita mi sono sforzata di fare qualcosa di buono, e non ho combinato altro che disastri. Mi sono fatta cacciare dall’Accademia, diventando una fuorilegge e disonorando la mia famiglia. Anche sulla Destiny ho spesso preso decisioni sbagliate, che vi hanno messi in pericolo. Ho litigato con la mia migliore amica perché non volevo tornare a salvarti» disse riferendosi a Giely, che in quel momento era in infermeria, pronta a ricevere i feriti dell’imminente battaglia. «Insomma, ho deluso tutte le persone che abbia mai avuto a cuore. Ora lasciami fare ammenda. E se tornerete, di’ a mia madre che mi dispiace per tutto!» singhiozzò.
   «Shati, non hai bisogno di...» cominciò Rivera, ma Dualla troncò la comunicazione. Sullo schermo riapparve la CSS Destiny, mascherata con la sigla USS, che fece manovra e partì verso l’Harvester. L’attacco era iniziato, che gli avventurieri lo volessero o no.
   In plancia cadde un cupo silenzio. Si sentivano tutti un po’ responsabili per la scelta estrema di Dualla e Shati, che nessuno si aspettava seriamente di rivedere.
   «Che facciamo?» mormorò infine Losira.
   «Non abbiamo scelta. Dobbiamo procedere col piano, o quelle due si sacrificheranno per niente!» rispose il Capitano, sfogando la frustrazione con un pugno sul bracciolo. «Rotta verso l’Harvester. Pronti a uscire dall’occultamento, non appena avranno fatto la loro parte».
 
   L’Harvester era in piena attività, con le antenne che sfrigolavano di fulmini azzurrognoli. Tutt’intorno l’interfase si era ulteriormente allargata, e dentro di essa Ferasa stava acquisendo consistenza. Il mondo dei Caitiani era sempre più opaco e sulla sua superficie cominciavano a delinearsi i continenti. Le bionavi di pattuglia stavano molto attente a non finire al suo interno, per non restarvi imprigionate man mano che la materia si solidificava. Per coloro che vivevano su Ferasa, il trasferimento era ancora più scioccante. Sole e stelle svanivano, come acquerelli sotto la pioggia, rimpiazzate dalla luminosità uniforme dello Spazio Fluido. Gli allarmi squillavano ovunque, gli abitanti si riversavano nelle strade mentre le ultime navette abbandonavano il pianeta. Chi restava non poteva fare altro che inviare disperate richieste d’aiuto alla Flotta Stellare.
   Nel centro di comando dell’Harvester, il Supervisore seguiva attentamente le fasi dell’operazione.
   «Trasferimento al 20%» riferì il Maestro Formatore. «Tutti gli emettitori sono stabili, nessuna anomalia nel campo».
   «E la Destiny?» chiese il Supervisore.
   «Ancora nessun segno» rispose l’Ufficiale Tattico. «Forse gli avventurieri hanno lasciato il nostro spazio» ipotizzò.
   «No, sento che sono là fuori da qualche parte, pronti a colpirci» ribatté il Supervisore, osservando le vastità dello Spazio Fluido.
   In quella l’Attendente entrò in plancia, camminando svelto sulle tre zampe. Tutti gli Undine percepirono la sua preoccupazione.
   «Ebbene, quali novità da Arena? Perché l’Infiltratore non ha fatto rapporto?» chiese il Supervisore.
   «L’Infiltratore è morto» rispose l’Attendente. «Gli umanoidi l’hanno riconosciuto e ucciso. Hanno usato gli esami del sangue, ma sospetto che abbiano ricevuto l’imbeccata dal Viaggiatore».
   «Il Viaggiatore! Ancora lui!» s’infuriò il Supervisore. «Sono anni che ci ostacola, pur non essendo un guerriero. Che ne è di lui? E degli altri?».
   «Il fortino era abbandonato quando sono arrivato» spiegò l’Attendente. «C’erano i resti della battaglia contro gli Aracnidi, ma nessun indizio su come gli assediati se ne siano andati. Non hanno preso alcun mezzo di trasporto conosciuto, né lasciato tracce dietro di sé. E nessun vascello ha forzato il blocco attorno al pianeta per salvarli. Si direbbero semplicemente... svaniti».
   «Allora è stato il Viaggiatore a trasferirli con uno dei suoi portali» indovinò l’Ufficiale Tattico. «A quest’ora possono essere ovunque... ma è probabile che siano tornati sulla Destiny».
   «E io ne sarei lieto, se solo l’Infiltratore fosse riuscito a seguirli fin lì» disse il Supervisore, che aveva sperato di piazzarlo sull’astronave, pronto a colpire. Invece si trovava senza assi nella manica, nell’imminenza della battaglia.
   «Quali sono gli ordini, signore?» chiese l’Ufficiale Tattico.
   «Ritirate le navi da Arena e portatele qui, a proteggerci» ordinò il Supervisore, temendo più che mai un attacco. Sedette sul suo scranno, giocherellando col teschio di Gort. D’un tratto però avvertì una forte scarica di feromoni nell’aria, che sulle installazioni Undine erano l’equivalente dell’Allarme Rosso.
   «La Destiny è uscita dall’occultamento a distanza ravvicinata. Ci sta attaccando col cannone thalaronico» avvertì l’Ufficiale Tattico, mentre il vascello era inquadrato sullo schermo.
   L’USS Destiny – così riportava il registro – emise un lampo verdastro. La nube di letali particelle thalaroniche si espanse, abbracciando tutto l’Harvester. Dove le particelle colpivano lo scafo, iniziavano la loro opera corrosiva. I tessuti organici si disgregavano, lasciando chiazze nerastre simili a ustioni. Ad essere colpite erano soprattutto le antenne, essendo più sottili e vulnerabili. Anche le bionavi subirono gli effetti nocivi della nube, che provocarono cali di potenza.
   «Perdiamo integrità strutturale» avvertì il Maestro Formatore. «Alcune antenne si disattivano».
   «Compensare, il trasferimento non deve interrompersi!» ordinò il Supervisore. «Ordinate alle bionavi di concentrare il fuoco sulla Destiny!». In quella l’astronave lanciò una salva di siluri transfasici contro un fascio d’antenne già indebolite, distruggendole del tutto. Le antenne spezzate si dispersero nello spazio, mentre la Destiny passava attraverso i detriti. Le bionavi la inseguirono, sparando a tutto spiano. Le loro armi indebolite, tuttavia, non riuscivano a perforare gli scudi degli attaccanti.
   «Gruppo trasmettitore 6 fuori uso, restano gli altri diciannove» avvertì il Maestro Formatore.
   «La Destiny trasmette un segnale attraverso l’interfase» aggiunse l’addetto alle comunicazioni.
   «Che segnale?» volle sapere il Supervisore.
   «Sono dati compattati... ma credo siano i loro diari dei sensori. Hanno deciso d’informare la Federazione delle loro scoperte» spiegò l’addetto.
   «Stolti, eppure li avevo avvertiti delle conseguenze. Disturbate il segnale e continuate a colpirli» ordinò il Supervisore. Osservò la nave attaccante, che schivava con notevole agilità i raggi antiprotonici delle bionavi. Ma alcuni colpi andavano a segno; e per quanto indeboliti dal thalaron era solo questione di tempo prima che perforassero gli scudi. «Perché ci sfidate, pur sapendo di non poter vincere? A meno che...». Le pupille cruciformi dell’Undine si strinsero, mentre i suoi poteri telepatici sondavano l’astronave, cercando di capire se la comandava Dualla o Rivera. Percepì la mente di Dualla, che gli era familiare, e anche un’altra. Ma questo era tutto. C’erano due sole presenze, su un vascello che avrebbe dovuto ospitare centinaia di persone. Allora tutto fu chiaro.
   «È un inganno!» tuonò il Supervisore. «Quella nave è semideserta. Deve trattarsi della controparte dello Specchio, ridipinta per fuorviarci. L’USS Destiny ci assalirà da un momento all’altro».
   «Sarà anche una distrazione, ma quella Destiny ci sta colpendo duro» avvertì l’Ufficiale Tattico. «Ha appena messo fuori uso un altro gruppo d’antenne».
   «Che aspettate a distruggerla? Dove sono i rinforzi di Arena?!» chiese il Supervisore, colpito suo malgrado dall’intensità di quell’attacco.
   «Eccoli» fece l’Ufficiale Tattico, inquadrando la flotta in avvicinamento.
 
   Le bionavi si gettarono compatte sulla CSS Destiny, sparando coi cannoni antiprotonici. Shati fece di tutto per schivare, ma era presa tra due fuochi: da un lato le bionavi che difendevano l’Harvester, dall’altro quelle sopraggiunte da Arena. Queste ultime tra l’altro erano a piena potenza, non avendo subito gli effetti della nube thalaronica. E Dualla era troppo occupata a colpire la stazione per sfoltire le flottiglie, tanto che non aveva ancora distrutto nemmeno una bionave.
   Gli Undine concentrarono il fuoco su un punto dello scafo, dove gli scudi erano già indeboliti. Tre raggi antiprotonici colpirono simultaneamente la gondola di dritta. L’effetto fu devastante: la gondola esplose, facendo saltare un’ampia porzione della sezione ad anello in cui era incastonata. L’hangar e la stiva di carico, adiacenti alla gondola, furono scoperchiati e il loro contenuto si riversò nello spazio. Questo paradossalmente fu utile all’astronave in fuga, perché le bionavi lanciate all’inseguimento si scontrarono col nugolo d’oggetti espulsi. Alcuni erano semplici container colmi di cianfrusaglie, ma altre erano intere navicelle, che esplosero nella collisione. Lo spazio si punteggiò d’esplosioni. Alcune bionavi furono danneggiate e dovettero rallentare, rinunciando all’inseguimento. Altre furono persino distrutte.
   Shati ne approfittò per accelerare a massimo impulso, uscendo dal raggio d’attacco delle bionavi. Ma era solo una tregua momentanea. La CSS Destiny aveva subito un danno catastrofico, che le impediva sia di balzare a cavitazione, sia di occultarsi. In pratica non aveva più alcun modo di sottrarsi all’inseguimento. E le bionavi continuavano a braccarla.
   «È finita, Capitano!» gemette la Caitiana, mentre gli allarmi squillavano ovunque. «Abbiamo fatto il possibile, ora tutto dipende dagli altri».
   «Non ancora» disse Dualla. «Continua a fuggire, dobbiamo farci inseguire dalle bionavi». Lanciò dei siluri quantici, colpendo un vascello Undine e mandandolo fuori rotta. Intanto i raggi antiprotonici balenavano attorno alla CSS Destiny, minacciando di darle il colpo di grazia.
   «Quante c’inseguono?» chiese Shati.
   «Solo una decina» rilevò Dualla, delusa. «Forse si sono accorti dell’inganno. Le altre bionavi sono rimaste a difendere l’Harvester. Stanno anche disturbando le comunicazioni, per impedirci di trasmettere alla Federazione. Spero che il segnale sia passato nei primi momenti dell’attacco».
   «Allora... non resta che farci inseguire, finché ci abbattono?» mormorò la Caitiana, ingegnandosi per schivare i colpi.
   «Forse possiamo fare di più» disse la Deltana, sparando con tutte le armi posteriori nel tentativo di tenere a bada gli inseguitori. «Imposta la rotta per compiere un’ampia circonferenza che ci riporti all’Harvester. Se la nostra è una corsa della morte, non mi dispiacerebbe che gli finissimo addosso».
 
   Dall’USS Destiny, ancora occultata, gli avventurieri seguirono la prima fase della battaglia senza poter intervenire. Videro la CSS Destiny che sferrava l’assalto, distruggendo alcune antenne, e subiva il pesante contrattacco degli Undine. Quando la gondola esplose, per un attimo pensarono che l’intera astronave fosse stata distrutta. Poi Talyn riferì che la CSS Destiny aveva resistito, sia pur con gravi danni, e stava fuggendo, braccata da una decina di bionavi.
   «Meno di quante speravo» commentò Rivera, osservando sconfortato l’Harvester ancora ben difeso. «E va bene, tocca a noi. Usciamo dall’occultamento, fuoco col cannone thalaronico!».
   Come la sua controparte dello Specchio, anche l’USS Destiny si rese visibile nelle vicinanze dell’Harvester. Questo appariva già butterato dal primo attacco: lo scafo arancione era chiazzato di nero e alcune antenne erano infrante. Lo scafo tuttavia era così spesso che persino nelle zone più compromesse non vi erano falle, mentre le antenne erano ampiamente ridondanti. Di conseguenza l’interfase era ancora attiva e risucchiava sempre più Ferasa. Il pianeta appariva già con una certa consistenza e i suoi abitanti potevano osservare la battaglia.
   L’attacco dell’USS Destiny cominciò con una seconda nube thalaronica, i cui effetti si sommarono alla prima. L’Harvester ne fu avvolto e la corrosione del suo scafo si accentuò, al punto che comparvero le prime falle. Anche le bionavi furono colpite, alcune per la prima volta, altre per la seconda, accumulando danni. Intanto la nave federale sfrecciava rasente lo scafo chilometrico, così che le bionavi esitavano a sparare, per timore di colpire l’Harvester. Gli avventurieri invece non avevano remore: la Destiny sparava con tutto il suo micidiale armamentario, prendendo di mira le antenne. Ad ogni attacco, un fascio d’antenne (ciascuna delle quali superava in lunghezza la Destiny stessa) era troncato dalla stazione e si univa ai detriti circostanti.
   Ma c’erano venti facce sull’Harvester, e quindi venti fasci d’antenne. La CSS Destiny, nel suo attacco iniziale, ne aveva distrutti solo tre. E gli avventurieri non sapevano quanti altri ne dovevano eliminare, per sigillare l’interfase. Forse tutti. Erano arrivati al settimo fascio quando un raggio antiprotonico centrò l’USS Destiny sulla fiancata, perforando gli scudi. Si aprì una lunga falla, attraverso cui l’acqua della piscina si riversò nello spazio. I campi di forza entrarono in funzione, sigillando la sezione compromessa, mentre i primi feriti giunsero in infermeria. I danni in sé erano limitati. Ma ora gli scudi della Destiny vacillavano, rendendo il vascello vulnerabile ai successivi attacchi. Come anche agli abbordaggi.
 
   «Signore, la Destiny sanguina» notò l’Ufficiale Tattico, accennando all’astronave danneggiata.
   «Bene, approfittiamone» fece il Supervisore, sempre più convinto che quella fosse la nave federale, con il grosso dell’equipaggio. «Trattenete la nave col raggio traente. Poi abbordatela: una squadra in plancia, una in sala macchine. Uccidete chiunque oppone resistenza. E ricordate: il nostro obiettivo è il Viaggiatore, se si trova a bordo. Lui e il giovane col potenziale» raccomandò.
   «Sì, signore» fece l’Ufficiale Tattico, cedendo il posto a un ausiliario. Lasciò il centro di comando, unendosi alla squadra d’assalto già pronta al teletrasporto.
   «Trasferimento al 40%» riferì intanto il Maestro Formatore, mentre Ferasa acquisiva sempre più consistenza. Con un terzo delle antenne distrutte, il processo era più lento, ma nondimeno continuava.
 
   «Rapporto danni!» ordinò il Capitano, sentendo la nave che si squassava.
   «Breccia sulla fiancata sinistra, perdiamo atmosfera... e anche l’acqua della piscina» riferì Talyn. «I campi di forza reggono. Alcuni feriti, nessuna vittima. Gli ingegneri stanno cercando di circoscrivere i danni».
   «Ma gli scudi vacillano» avvertì Naskeel. «E l’Harvester ci ha agganciati con un forte raggio traente. Sta cercando d’immobilizzarci».
   «Manovre evasive, rimodulare gli scudi!» ordinò Rivera, nel disperato tentativo di liberare la nave. Ma fu subito chiaro che era inutile. Né le brusche accelerazioni della Destiny, né i suoi scudi indeboliti potevano contrastare un raggio traente progettato per agganciare interi pianeti e spostarli nell’orbita desiderata.
   «Perdiamo integrità strutturale, devo rallentare o andremo in pezzi!» avvertì il timoniere.
   «Le bionavi ci hanno circondato, ma hanno cessato il fuoco. Credo che il nemico voglia abbordarci» aggiunse Naskeel.
   «Capitano a nave, siamo a rischio abbordaggio. State pronti a difendervi!» raccomandò Rivera, vedendo concretizzarsi il suo peggior timore. Dopo gli ultimi scontri aveva sperato di non doversi più confrontare con gli Undine. Invece si ritrovò col fucile in pugno, a guardarsi attorno nel timore di un attacco. Attorno a lui i colleghi fecero lo stesso. Imbracciavano tutti i fucili TR-116, caricati con dardi alle nanosonde, già collaudati con successo contro gli Undine. Anche Scorpion e Rico ne erano stati equipaggiati, mentre Yo’rek conservava la lancia da combattimento dell’Alta Guardia. In sala macchine, gli altri tre campioni – Azrael, Master Chief e Liara – erano similmente sul chi vive. Tutti aspettavano l’arrivo degli Undine, mentre anche la battaglia spaziale si era interrotta e la Destiny era immobilizzata dal raggio traente, circondata dalle bionavi.
   E gli Undine vennero. Si materializzarono con un teletrasporto bianco, quasi istantaneo. Era una novità, tanto che il Capitano si chiese se lo avessero ottenuto di recente. Non ebbe modo di scoprirlo. Da un attimo all’altro c’erano sette Undine in plancia; e gli allarmi indicavano che altri erano apparsi in sala macchine.
   «Fermi!» gridò il caposquadra, un Undine più nerboruto degli altri. Come il Supervisore, aveva la mascella umanoide che gli consentiva di articolare parola. Si guardò rapidamente attorno, localizzando l’interlocutore. «Capitano Rivera, le parlo a nome del Supervisore. Il vostro infantile attacco è fallito, e presto la vostra nave gemella sarà distrutta. Ma voi potete ancora salvarvi, se vi arrendete» annunciò.
   «E perché sareste così generosi?» chiese Rivera, per guadagnare tempo.
   «Sappiamo che siete stati... istigati dal nostro acerrimo nemico» rispose l’Undine. «È un essere inafferrabile, dai molti nomi e molti volti. Forse lo conoscete come Klaatu, o anche come il Viaggiatore».
   «Continua» lo esortò Rivera, senza sbilanciarsi.
   «Se mi consegnate quest’individuo, otterrò clemenza per il resto di voi» sostenne l’Undine. In realtà sapeva che, se fosse tornato sull’Harvester col prigioniero, il Supervisore avrebbe ordinato di distruggere la Destiny.
   «Sembra conveniente» fece il Capitano, sempre temporeggiando. «Ma ho qualche difficoltà a credervi così, sulla parola. A proposito, perché ci tenete così tanto a quel tipo?».
   «Non sono qui per rispondere alle vostre domande, ma per avere il Viaggiatore! Consegnatelo subito e potreste sopravvivere!» ringhiò l’alieno, rinunciando alle buone maniere.
   «Arrivi tardi» rivelò il Capitano. «Il Viaggiatore se n’è andato, posto che fosse davvero su Arena. S’è dissolto nell’aria, lasciandoci con molti enigmi. Lo fa spesso?».
   «Rimpiangerete che lo abbia fatto con voi!» ringhiò l’Undine. «Lui e i suoi simili sono una piaga. Ma se non posso prendere il Viaggiatore, allora prenderò quell’altro col potenziale!» disse, ricordando gli ordini. E si avventò su Talyn, mentre anche gli altri alieni attaccavano.
 
   Scoppiò una feroce sparatoria, con gli avventurieri che sparavano i dardi, i quali però tendevano a rimbalzare sulla pelle coriacea degli Undine senza contagiarli. Scorpion, Rico e Yo’rek si unirono allo scontro, battendosi con valore, ma anche loro stentavano ad abbattere gli invasori.
   Vistosi attaccato, Talyn sparò all’Undine mentre cercava di sfuggire alle sue unghiate. Ricordava fin troppo bene le ferite ricevute dall’Infiltratore, le sue cellule che gli divoravano la carne. Schivò il primo attacco, abbassandosi di scatto. Ma l’alieno colpì di nuovo, col dorso della mano, e stavolta lo prese in pieno. Il giovane fu scaraventato contro la paratia e da lì si accasciò a terra, mezzo stordito.
   L’Undine incombeva sull’El-Auriano, pronto a finirlo. Rivera gli sparò alla nuca, ma il dardo rimbalzò come un sassolino scagliato da una fionda. L’alieno si girò per un attimo, infastidito, ma poi tornò a concentrarsi sulla preda. Quella breve distrazione tuttavia gli costò cara.
   Con un fischio acutissimo, Naskeel si gettò a capofitto contro l’Undine, abbrancandolo con le sue numerose zampe. Si rotolarono sul pavimento, in un groviglio d’arti, scambiandosi colpi spaventosi. L’Undine cercò di graffiare il Tholiano, per contagiarlo con le sue cellule divoratrici, ma aveva trovato l’unico avversario immune: gli artigli scivolarono sul corpo cristallino. Allora lo schiacciò al suolo, cercando di frantumarlo con la forza bruta. Prima che potesse riuscirci, Rivera gli balzò in groppa, praticandogli un ipospray nel collo. Erano le stesse nanosonde contenute nei dardi, ma in quantità assai maggiore; e con l’iniezione entrarono finalmente in circolo.
   L’Undine si scosse selvaggiamente, cercando di ribaltare il Capitano per poi straziarlo con gli artigli, ma Naskeel gli tenne ferme le mani, dando all’Umano il tempo d’allontanarsi. La pelle dell’alieno divenne verdastra e rinsecchì a vista d’occhio, mentre i suoi occhi si coprivano di una patina biancastra. Con uno sforzo convulso l’Undine riuscì a liberarsi, ma a caro prezzo: le sue braccia ormai fragili si spezzarono all’altezza dei gomiti, lasciando gli avambracci in mano a Naskeel. L’alieno barcollò in mezzo alla plancia, mutilato e cieco. Intanto anche i suoi simili cadevano uno dopo l’altro, sotto il fuoco degli avventurieri.
   «Non avete idea di cos’avete scatenato» gracchiò il capo degli Undine. «Noi ci saremmo accontentati di Ferasa. Ma ora l’Imperatore prenderà in mano la situazione, e vi annienterà tutti!» minacciò. Infine anche lui si accasciò, assieme ai suoi simili; i loro corpi iniziarono a sfarinarsi.
   Rivera aveva udito quell’oscura profezia, ma non volle commentarla. Aveva problemi più immediati. Corse presso Talyn, trovandolo mezzo stordito, ma senza gravi ferite. Anche Losira gli venne accanto, preoccupata per il figlio adottivo.
   «Come sta?» chiese Naskeel. Gettò via gli avambracci dell’Undine, che gli si stavano sfarinando in mano, e si accostò a sua volta.
   «Si riprenderà» valutò il Capitano.
   «Grazie per averlo salvato» aggiunse Losira.
   «Uccidere l’Undine era l’unica opzione logica, e la logica non chiede ringraziamenti» rispose il Tholiano.
   «Veramente sarebbe stato più logico colpirlo da lontano, mentre lui mi faceva a pezzi» mormorò Talyn, riprendendosi.
   «Ultimamente mi sono trovato a pensare che esistono diversi tipi di logica, in base alle premesse» ammise Naskeel. «In questo frangente, ho ritenuto che la logica dei Moschettieri fosse accettabile» disse, e zampettò alla sua postazione come se niente fosse.
   Talyn e Losira aggrottarono la fronte, non cogliendo il riferimento. Rivera invece sorrise, dicendosi che forse l’esperienza su Arena aveva avuto un certo impatto sul Tholiano. La filosofia del tutti per uno, uno per tutti li aveva tenuti in vita... ma ancora per quanto?
   «Stai bene?» chiese Losira, aiutando Talyn a rialzarsi.
   «Groan... più o meno» borbottò il giovane, ancora dolorante. «Sembra che gli Undine mi odino quanto il Viaggiatore. Ad ogni incontro cercano di catturarmi o uccidermi» si rabbuiò, accorgendosi d’essere sempre il bersaglio numero uno. Perché questo accanimento nei suoi confronti?
   «Lo odiano... o lo temono?» si chiese Rivera, interrogandosi sul suo potenziale. Decise che non doveva dargli il tempo di porsi questa domanda. «Alla tua postazione, svelto. Dico a tutti, tornate ai vostri posti! La battaglia è ancora tutta da vincere!» ordinò. Contattò la sala macchine, verificando che anche lì gli Undine erano stati sconfitti. Azrael e Master Chief l’avevano fatta da padroni, abbattendone molti prima ancora che arrivassero i rinforzi della Sicurezza.
   «Gli scudi sono di nuovo operativi» riferì Naskeel, dirottandovi tutta l’energia possibile.
   «Ma lo è anche l’Harvester, in gran parte» avvertì Talyn. «Infatti continua a trattenerci col raggio traente. E Ferasa è quasi del tutto traslato» aggiunse, inquadrandolo sullo schermo. Ormai il pianeta era divenuto opaco e stava iniziando ad acquisire i colori.
   Il Capitano comprese che la battaglia era senza speranza. Se continuavano a colpire l’Harvester, le bionavi li avrebbero bersagliati fino a distruggerli. Se invece affrontavano le bionavi, l’Harvester avrebbe avuto il tempo di traslare del tutto il pianeta. Non potevano nemmeno ritirarsi, perché coi danni allo scafo l’occultamento non funzionava, e quindi le bionavi li avrebbero inseguiti. Così non restava che vendere cara la pelle. «Al mio via, lanciare i siluri transfasici contro l’emettitore del raggio traente. Al momento dell’impatto cercheremo di liberarci con una rapida accelerazione. Dopo di che continueremo a colpire l’Harvester» ordinò, pur sapendo a cosa andavano incontro. «Talyn, continua a trasmettere i nostri diari attraverso l’interfase» aggiunse, sperando che almeno quelli fossero ricevuti.
   «Capitano, le probabilità di successo sono... esigue» avvertì Naskeel.
   «Lo so» disse Rivera a mezza voce. Ormai era inutile fingere altrimenti. Non avrebbe preso in giro i suoi colleghi, adesso che erano tutti al cospetto della morte. Sedette stancamente sulla sua poltroncina, pronto a ordinare l’ultimo attacco. Stavolta erano davvero al capolinea... e dire che c’erano ancora così tanti interrogativi senza risposta...
   «Un momento, sta arrivando un’altra nave» disse Talyn, notando un segnale in avvicinamento. «È la CSS Destiny, o quel che ne rimane. Dualla sta tornando a darci manforte». 
 

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Capitolo 10
*** ... uno per tutti ***


 -Capitolo 9: ...uno per tutti
 
   La CSS Destiny sanguinava. O almeno questa era l’impressione che avrebbe dato a un osservatore esterno. L’astronave dello Specchio aveva subito danni devastanti durante la battaglia. Una gondola quantica era esplosa, e con essa era saltata parte della sezione ad anello. L’altra, danneggiata, si lasciava dietro una rossa scia di plasma, come sangue nell’oceano. E gli squali – le bionavi – erano sempre più vicini. I loro raggi antiprotonici balenavano tutt’attorno allo scafo e talvolta lo colpivano, aprendovi grandi squarci. Dai ponti decompressi usciva a fiotti l’aria, trascinandosi dietro una miriade di detriti. L’unico motivo per cui non c’erano vittime era che la grande astronave era pressoché deserta. Oltre a centinaia di Exocomp, infatti, vi erano due sole occupanti, entrambe localizzate in plancia. Una era il Capitano Dualla, che si era posta alla consolle tattica e rispondeva al fuoco, martellando le bionavi inseguitrici con tutte le armi a disposizione. L’altra era il Tenente Shati, posta al timone, che cercava disperatamente di schivare i colpi nemici. Stava anche riportando l’astronave verso l’Harvester, come ordinato da Dualla, nell’estremo tentativo d’aiutare i compagni.
   «Abbiamo perso del tutto gli scudi posteriori!» avvertì la Deltana, mentre la nave si scuoteva. «Un altro colpo ed è la fine».
   «Non era questa l’idea, fin dall’inizio?!» fece la Caitiana, con una risata amara.
   «L’idea era e resta combattere fino all’ultimo» ribatté Dualla. Scagliò l’ennesima salva di siluri quantici contro la bionave di testa. Stavolta la danneggiò abbastanza da costringerla a rallentare, rinunciando all’inseguimento. Era la quinta bionave inseguitrice che disabilitava; ce n’erano altre cinque. Ma con la Destiny sul punto d’andare in pezzi, difficilmente se ne sarebbe liberata.
   La bionave che ora si trovava in testa alla flottiglia aprì il fuoco. Colpì la gondola rimanente della Destiny, disintegrandola in un lampo accecante. Un’altra porzione dell’anello si disintegrò, scoperchiando l’hangar e la stiva di carico su quel lato. Vi fu una seconda pioggia di detriti, e anche intere navette, che impattarono contro le bionavi. Queste dovettero rallentare e deviare dalla traiettoria, perdendo tempo prezioso.
   «Abbiamo guadagnato qualche secondo!» notò Shati, approfittandone per distanziarle il più possibile. In tal modo portò la Destiny oltre il raggio di tiro, ottenendo una breve pausa dagli attacchi. «Ma l’anello è distrutto su ambo i lati. Praticamente ci resta solo lo scafo centrale» avvertì. Così mutilata, la Destiny ricordava una nave di classe Juggernaut, dallo scafo squadrato e compatto. Era quasi buffo, si disse la Caitiana: finora aveva pilotato molte astronavi, ma mai mezza nave.
   «Ci accontenteremo» disse Dualla, facendo dei calcoli. «Tempo per raggiungere l’Harvester?».
   «Dieci minuti soggettivi, se i motori non scoppiano» rispose Shati, che in effetti lo temeva. In tutta la sua carriera spericolata, non aveva mai sforzato così tanto dei motori a impulso. In quel momento viaggiavano a due terzi della velocità della luce, tanto che cominciavano a sentirsi gli effetti relativistici della dilatazione temporale. I loro dieci minuti di viaggio, ad esempio, sarebbero stati percepiti come venti minuti dalle altre forze in campo.
   «Dieci minuti basteranno» disse Dualla, ultimando i calcoli. «Va’ subito in sala macchine. Lo stargate ti permetterà di salvarti» ordinò.
   Shati rimase interdetta. Fino ad allora nessuno lo aveva considerato, ma in effetti quel congegno poteva essere una via di fuga dall’astronave condannata. Ormai sapevano che gli stargate erano connessi in una rete, per cui entrando dal proprio si poteva uscire da quello desiderato, a patto di conoscerne l’indirizzo. E tra i dati raccolti sull’Harvester c’erano proprio gli indirizzi degli stargate disseminati dagli Undine in quel sistema stellare. Quindi la Caitiana aveva tutto ciò che le serviva per mettersi in salvo, a patto d’essere abbastanza veloce. Si alzò a mezzo, ma in quella un altro pensiero la bloccò. «Lei non viene?» chiese, intuendo la risposta.
   «Sto impostando una sequenza di fuoco automatica, ma qualcuno deve restare al timone» spiegò Dualla, indaffarata. «Così danneggiati e senza equipaggio, non possiamo combattere in modo efficace. Ma l’Harvester va distrutto entro pochi minuti, o Ferasa sarà perduta. Quindi intendo trasformare questa nave in un missile relativistico» spiegò.
   Shati fremette. “Missile relativistico” era un termine che descriveva qualunque corpo accelerato a una frazione significativa della velocità della luce. A quella velocità ogni oggetto, anche il più minuto, ha una forza d’impatto enorme. Per questo le astronavi, quando viaggiano a impulso, attivano il deflettore, deviando eventuali asteroidi o detriti spaziali. Altrimenti ogni sassolino colpirebbe lo scafo con l’energia di un siluro fotonico. E adesso Dualla intendeva trasformare l’intera Destiny, con la sua stazza da milioni di tonnellate, in un immane proiettile con cui colpire l’Harvester. E non c’era solo la massa da considerare. L’impatto avrebbe fatto detonare tutti i siluri rimanenti, oltre all’antimateria del nucleo. A conti fatti, c’era abbastanza energia da frantumare una piccola luna. Potevano distruggere l’Harvester; ma la Destiny si sarebbe dissolta in particelle elementari.
   «Non posso abbandonarla, Capitano» disse Shati con un filo di voce. «Sono la timoniera, spetta a me. Semmai è lei che dovrebbe salvarsi...» suggerì, lacerata fra opposte considerazioni. Non era impaziente di sacrificarsi, anzi ne avrebbe fatto volentieri a meno. Però le sembrava vile cavarsela a spese del Capitano, che lei stessa aveva scarcerato, istigandola per così dire a quella missione suicida. I suoi compagni, che già aveva lasciato malamente, le avrebbero creduto? O si sarebbero convinti che all’ultimo era fuggita, abbandonando Dualla al suo destino?
   «Non è una richiesta, ma un ordine!» tagliò corto la Deltana. Terminò d’inserire le istruzioni e lasciò la postazione tattica, accostandosi alla timoniera. «Ora vattene, sciocca testarda, o moriremo entrambe. Dammi i comandi e mettiti in salvo!» esclamò, sul punto di trascinarla via.
   Shati lesse i dati sulla consolle. Stavano sfrecciando a velocità elevatissima verso l’Harvester, su una nave condannata, tallonati dal nemico. Quell’attacco kamikaze era la sola cosa che poteva salvare Ferasa. E se lei non correva subito dallo stargate, sarebbe morta inutilmente. Non c’era onta nel salvarsi, se era il Capitano stesso a ordinarglielo, giusto?
   «Io... non la dimenticherò, Capitano. Grazie di tutto» mormorò la Caitiana, lasciando finalmente la poltroncina del timoniere.
   Dualla la occupò subito, accertandosi che le bionavi non rimontassero. Poi corresse la rotta in modo che, invece di passare accanto all’Harvester, la Destiny lo colpisse in pieno. Squillò l’allarme di collisione, ma la Deltana lo ignorò. «Grazie per avermi liberata, dandomi questa possibilità; ma c’è ancora molto da fare» avvertì. «Torna dai tuoi compagni, accertati che avvertano tutti del pericolo. E non vergognarti per le tue disgrazie; sei migliore di tanti ufficiali decorati che ho incontrato. Spero che un giorno anche tua madre se ne renda conto. Ora corri!» raccomandò.
   E Shati corse, come non aveva mai fatto in vita sua. Lasciò la plancia di volata, scendendo ai ponti inferiori mediante la scala a chiocciola. Non potendo teletrasportarsi in sala macchine, per via dei danni già subiti dalla nave, dovette percorrere mezzo chilometro di corridoi per raggiungerla. Intanto la CSS Destiny vibrava paurosamente per lo sforzo a cui erano sottoposti i propulsori e per i guasti sempre più numerosi. Ogni istante poteva essere l’ultimo, se una delle bionavi inseguitrici fosse riuscita a centrarla.
 
   «E quello cos’è?» chiese il Supervisore, notando il vascello in avvicinamento, evidenziato sullo schermo. Nel mentre continuava a giocherellare col cranio di Gort, come se fosse un antistress.
   «Si tratta dell’altra Destiny, signore» rispose l’addetto ai sensori. «Le bionavi l’hanno danneggiata gravemente, ma ancora non sono riuscite a finirla. Si sta avvicinando a gran velocità».
   «A quale velocità?» chiese il Supervisore, colto da un orribile sospetto.
   «Al 70% della velocità della luce, e continua ad accelerare» fu la temuta risposta.
   Il Supervisore serrò la stretta con tale violenza da frantumare il cranio di Gort. Le schegge ossee volarono ovunque nel salone. «La sua traiettoria?!» chiese, pur intuendo la risposta.
   «È in rotta di collisione» confermò il sottoposto, mentre le pareti iniziavano a trasudare un feromone d’allarme. «Ci colpirà tra venti minuti. La sua energia cinetica... signore, lo scafo non reggerà!».
   A quella conferma il Supervisore scattò in piedi, inviando un allarme telepatico a tutto il personale dell’Harvester. «Ordine d’evacuazione! Abbandonate immediatamente questa struttura. Ci ritiriamo al... Mondo Corallo» ordinò, dopo una breve esitazione.
   Il Mondo Corallo era la capitale della civiltà Undine, governata direttamente dall’Imperatore. E questi sarebbe stato decisamente contrariato di vederlo arrivare sconfitto e in fuga, lasciandosi dietro i rottami dell’Harvester, per giunta senza essersi impadronito di Ferasa. Tornare in quelle condizioni meschine era una condanna a morte per lui... ma restare sulla stazione era una condanna per tutti. Così non aveva altra scelta.
   All’ordine del Supervisore, tutti abbandonarono le proprie postazioni. Lasciarono il centro di comando e corsero allo stargate imbarcato sull’Harvester, con tutta la rapidità dei loro tre arti. Il Maestro Formatore lo attivò, aprendo un wormhole azzurrino che conduceva direttamente al Mondo Corallo, a migliaia d’anni luce da lì. Il Supervisore lo varcò per primo, mettendosi in salvo. Sfortunatamente la salvezza era un concetto relativo, quando bisognava giustificare un fallimento davanti all’Imperatore. Mentre osservava i suoi ufficiali che lo raggiungevano nel mondo corallino, il Supervisore non poté levarsi l’idea che quella disfatta fosse dovuta anche alle azioni del Viaggiatore. Un essere all’apparenza inoffensivo, che rifiutava di combattere... eppure era il loro avversario più insidioso. «E presto potrebbe essercene un altro» rifletté cupamente, pensando al giovane El-Auriano dell’USS Destiny.
 
   Giunta in sala macchine, un po’ ansante per la corsa, Shati si trovò davanti a un pandemonio. Gli allarmi automatici squillavano senza che nessuno li spegnesse. L’aria era densa, impregnata delle esalazioni acri che fuoriuscivano dai condotti infranti. Nella semioscurità risaltavano le scintille provenienti da cavi lacerati e consolle infrante. In tutto questo gli Exocomp erano all’opera, nell’eroico tentativo di circoscrivere e riparare i danni. I robottini lavoravano al massimo dell’efficienza: entravano e uscivano dai tubi di Jefferies, regolavano gli iniettori, ronzavano attorno al nucleo per stabilizzare il campo di contenimento. Shati però sapeva che i loro sforzi, per quanto encomiabili, erano inutili. Presto l’astronave sarebbe stata distrutta con tutto il suo contenuto.
   Conscia che ogni istante era vitale, la Caitiana attraversò di corsa il salone, giovandosi della sua abilità di vedere al buio. Schivò i cavi che pendevano dal soffitto e gli Exocomp indaffarati. Superò con un balzo una pozza corrosiva dovuta a una perdita di liquido refrigerante. E finalmente si trovò di fronte allo stargate.
   Era alieno e inquietante come la prima volta che l’aveva visto, con quella forma ad anello istoriata di geroglifici. Se non si fosse trattato di un’assoluta emergenza, Shati non avrebbe osato attraversarlo. Ma con la nave in procinto di disintegrarsi, non poteva fare la schizzinosa. Almeno dopo le ultime riunioni cominciava a farsi un’idea di come funzionasse. Anche così, era la prima volta che lo azionava, e temeva di sbagliare qualcosa.
   «Dunque, vediamo. Primo passo: abbassare il campo di forza» si disse la Caitiana. Questo fu facile: le bastò spegnere il generatore. Il campo che sigillava lo stargate si disattivò, permettendo nuovamente d’usarlo. Questo era sia un bene che un male. Era un bene, perché se era abbastanza svelta poteva andarsene. Ed era un male, perché altrimenti rischiava che fossero gli Undine ad abbordare la nave, come avevano fatto l’altra volta.
   «Secondo passo, i comandi...». La timoniera si accostò alla strana pulsantiera simile a una meridiana. Le sue mani indugiarono sui cerchi concentrici di simboli sconosciuti. Dunque, dove voleva andare? Gli Undine avevano posto stargate su tutti i mondi che avevano rubato, con l’eccezione di Arena, da cui nessuno doveva fuggire. Quindi aveva un’ampia scelta: in quel sistema c’erano dodici pianeti e una quarantina di satelliti (quasi tutti abitati, poiché in origine erano mondi autonomi).
   Shati tuttavia ricordò che la maggior parte di quei pianeti erano allo sbando, da quando gli Undine li avevano sequestrati. Il crollo dei commerci e il panico generalizzato si erano tradotti in violenze e saccheggi, tanto che le città erano quasi ovunque in rovina. Alcuni mondi soffrivano anche di sconvolgimenti climatici, dato che gli Undine li avevano piazzati su orbite diverse da quelle originali. Certo, Shati sperava, una volta arrivata, di contattare la Destiny affinché venisse a prenderla. Ma la vocina della prudenza, dentro di lei, sussurrò che doveva prepararsi all’eventualità di un soggiorno prolungato. E allora quale pianeta poteva scegliere, in quel folle assembramento, se non Ferasa? Non il suo Ferasa, che si apprestavano a salvare, ma quello dello Specchio. In realtà andare su un qualunque mondo dello Specchio non le garbava granché, ma era pur sempre meglio che disintegrarsi, o finire su un pianeta totalmente alieno.
   Presa la decisione, Shati fece per inserire le coordinate. E si bloccò di nuovo, accorgendosi con orrore che non le ricordava. Del resto le aveva osservate nei ritagli di tempo, nei giorni precedenti. E quei simboli alieni non l’aiutavano certo a memorizzare. Sarebbe servita la memoria infallibile di un robot per ricordare la giusta sequenza. Un robot come...
   «Be-beep! Perché tu qui?!» pigolò un Exocomp, accostandosi. La Caitiana fece istintivamente per allontanarlo, come se fosse un moscone fastidioso, ma si fermò a metà del gesto. Osservò la targhetta del robottino, che riportava il numero 64. Quello non era un Exocomp qualunque. Era Ottoperotto, l’insostituibile mascotte dell’USS Destiny. Shati rimase scioccata nello scoprire che gli ingegneri lo avevano lasciato lì, sull’astronave condannata. Intuì vagamente che lo avevano fatto perché la sua autonomia decisionale era un valore aggiunto in quei momenti concitati. E infatti ora poteva salvarle la vita.
   «Siamo in rotta di collisione con l’Harvester e dobbiamo andarcene» spiegò la timoniera. «Lo stargate può portarci in salvo su Ferasa, ma non ricordo l’indirizzo. Tu ce l’hai in memoria?!» chiese, quasi supplicante.
   «Affermativo, be-beep! Ottoperotto porta via Shati, se può andare con lei!» rispose il robottino, lampeggiando di lucette multicolori.
   «Ma certo che puoi accompagnarmi. Su, svelto, inserisci le coordinate!» lo esortò la Caitiana, sapendo che il tempo era agli sgoccioli.
   L’Exocomp si accostò alla pulsantiera, fluttuando appena sopra di essa. Replicò una sorta di punteruolo sul muso e s’inclinò in avanti, usandolo per premere i tasti. Ogni volta che ne pigiava uno, la parte interna dello stargate ruotava, fissando il glifo corrispondente su uno chevron della parte esterna. Ottoperotto premette sette simboli, che si abbinarono ai sette chevron, l’ultimo dei quali era posto in cima all’anello.
   Shati era rimasta ferma davanti allo stargate, osservando affascinata gli elementi in movimento. Si chiese quanti stargate esistevano, a parte quelli razziati dagli Undine. E se nel loro universo d’origine tutti i mondi della Via Lattea fossero uniti a quel modo? Che prospettive esaltanti si aprivano per l’esplorazione! «Ma così le astronavi sarebbero obsolete... e io mi troverei senza lavoro» rifletté, sentendo scemare l’interesse.
   In quella Ottoperotto dette la conferma finale, premendo il tasto rosso al centro della pulsantiera. D’un tratto Shati ricordò lo sbuffo d’energia distruttiva che aveva accompagnato la precedente apertura. Balzò di lato, accanto al robottino, appena in tempo per non essere disintegrata. Il vortice azzurrino venne in avanti, si arrestò e fu risucchiato come l’altra volta, lasciando una superficie simile a uno specchio d’acqua increspato. Non c’era modo di vedere cosa si trovava dall’altra parte. La Caitiana doveva fidarsi della memoria elettronica di Ottoperotto, sperando che li avrebbe condotti su Ferasa. Il resto lo avrebbe deciso una volta lì. Bisognava vedere in che condizioni era la zona in cui sarebbero sbucati, e se poteva contattare l’USS Destiny perché venisse a prenderli.
   «Un problema alla volta» si disse Shati, avvicinandosi alla splendente superficie bianco-azzurra. Quella tecnologia sconosciuta le metteva apprensione, ma era la sua unica via di salvezza. E poi il Capitano Rivera ci era già passato senza difficoltà. «Vieni, piccoletto» disse la timoniera, richiamando Ottoperotto. Accostò la mano alla mutevole superficie del wormhole, per immergerla prima del resto.
   Fu allora che un serbatoio di plasma si ruppe, provocando una massiccia esplosione in sala macchine. L’ondata di plasma incandescente avvolse e distrusse parecchi Exocomp. Shati sentì il boato assordante, subito seguito dall’ondata di calore e dallo spostamento d’aria alle sue spalle. La Caitiana non fece in tempo a reagire: fu sollevata da terra e scaraventata in avanti dall’onda d’urto. Dritta all’interno del wormhole. Con lei fu proiettato anche Ottoperotto, il cui fischio elettronico si perse nel boato. Mezza stordita e con la pelliccia strinata dal calore, Shati ebbe la rapida visione del tunnel spaziale che si snodava tra l’astronave e il pianeta di destinazione. Era come precipitare in avanti, senza potersi fermare: una sensazione terrificante.
   Per un attimo vi fu luce, segno che era sbucata dal lato opposto. No, non sbucata... proiettata in avanti dall’esplosione. La sua energia cinetica, infatti, si era conservata, al punto che nemmeno la Caitiana riuscì a cadere con le mani in avanti. Impattò contro la pavimentazione, alla stessa velocità di un incidente d’auto, e rotolò parecchi metri prima di fermarsi. Dopo la luce, Shati vide le stelle. E dopo quelle fu inghiottita da un’oscurità infinita e senza sogni.
 
   Andata Shati, Dualla si concentrò sul pilotare la CSS Destiny. Non era una cosa che, come Capitano, faceva spesso; come di rado stava al tattico. Ma durante la Guerra Civile le era capitato di fare entrambe le cose, e durante la costruzione dell’USS Destiny aveva familiarizzato coi comandi, così che ora riusciva a cavarsela in entrambe le mansioni.
   La Deltana eseguì una serie di manovre evasive per schivare il fuoco nemico, pur continuando a dirigersi contro l’Harvester. Per diversi minuti si concentrò interamente sui comandi, mentre la nave vibrava come se dovesse andare in pezzi. A un tratto alzò lo sguardo e vide l’Harvester che s’ingrandiva sullo schermo, circondato dalla nube verdastra del thalaron. Quella vista le fece accapponare la pelle. Era stata prigioniera lì per anni, inconsapevole nell’ibernazione, mentre il suo equipaggio periva negli scontri orchestrati dagli Undine. Beh, ora le cose erano cambiate. Ora stava tornando per fargliela pagare, con gli interessi.
   «Computer, attiva la sequenza d’attacco Dualla Alfa-1!» ordinò la Deltana, riferendosi allo schema che aveva impostato poco prima. La CSS Destiny aprì il fuoco con le armi anteriori, colpendo un settore particolarmente indebolito dell’Harvester. Il cannone a impulso e i siluri transfasici aprirono un ampio squarcio nello scafo organico. Invece di passare a un altro bersaglio, la nave continuò a martoriare lo stesso punto, così che la falla divenne sempre più ampia e profonda.
   Ormai l’Harvester era vicinissimo, tanto da invadere tutto lo schermo. L’allarme di prossimità indicò che mancavano pochi secondi all’impatto. Ma Dualla non deviò la traiettoria, anzi diresse la nave-missile con precisione contro la falla. Tutt’attorno le bionavi sparavano all’impazzata nel tentativo di fermarla. Un raggio antiprotonico sfiorò lo scafo, lacerandolo per un lungo tratto e mettendo a nudo i ponti sottostanti; ma nemmeno questo poteva fermare l’ultima corsa della CSS Destiny.
   La mente in tumulto di Dualla le ripropose alcuni dei momenti chiave che l’avevano condotta lì, come tanti flash. La conversazione con l’Ammiraglio Hod, che le aveva affidato la missione nello Spazio Fluido. Il primo contatto con gli Undine e la cattura. Gli interrogatori simili a torture. La liberazione e la fuga dall’Harvester. I difficili rapporti col nuovo equipaggio della Destiny, culminati nel suo arresto. Infine la nuova fuga e quell’ultimo, disperato assalto. Ogni volta si era sforzata di fare il suo dovere di Capitano della Flotta Stellare, anche quando le sembrava d’essere sola contro tutti. E la somma di queste decisioni l’aveva portata lì... alla fine della sua storia.
   Forse la Storia, quella ufficiale, non l’avrebbe ricordata con clemenza. Sarebbe stata nota come il Capitano che si era fatta sottrarre l’astronave e uccidere l’equipaggio. Il Capitano che, liberata dagli avventurieri, era tornata da estranea sulla propria nave e aveva fallito anche con loro. Il Capitano che, infine, si era vendicata con un attacco kamikaze che forse avrebbe solo acuito il conflitto. No, la Storia non sarebbe stata tenera con lei. Beh, pazienza. Il suo scopo era salvare Ferasa, nonché il nuovo equipaggio della Destiny, permettendogli di tornare a casa. Della fama – o infamia – postuma non si curava più di tanto. L’unica cosa importante era fare la differenza, in quel frangente cruciale...
   Un’ultima istantanea le attraversò la mente: l’ultimo weekend passato con la sua famiglia, su Delta IV, prima d’imbarcarsi per quella missione senza ritorno. Ecco, era per loro che valeva la pena fare la differenza; affinché non conoscessero mai gli orrori dello Spazio Fluido.
   «Per voi» sussurrò la Deltana, chiudendo gli occhi. In quell’attimo la CSS Destiny impattò contro l’Harvester, venendo annichilita.
 
   Non appena Talyn gli ebbe detto a che velocità arrivava l’altra Destiny, Rivera capì cosa aveva in mente Dualla. Capì altresì che né lui, né gli Undine potevano fermarla. L’impatto era inevitabile: potevano solo cercare d’allontanarsi il più possibile. «Fuoco a volontà contro l’emettitore di raggio traente, dobbiamo liberarci!» ordinò.
   Naskeel cominciò a far fuoco ancor prima che il Capitano terminasse la frase. L’USS Destiny crivellò l’emettitore col cannone a impulso, i raggi anti-polaronici e siluri d’ogni tipo, fino a provocare un’esplosione. Nell’attimo in cui il raggio traente venne meno, il timoniere partì a massimo impulso verso lo spazio aperto. L’Harvester e le bionavi rimpicciolirono dietro di loro. Fortunatamente non vi fu alcun inseguimento, perché gli Undine erano troppo occupati a indirizzare i colpi contro la CSS Destiny, nell’estremo tentativo di fermarla. Poco lontano, Ferasa aveva quasi raggiunto la consistenza solida, tanto che gli osservatori sulla superficie potevano assistere alla battaglia. Mentre fuggiva a massimo impulso, l’USS Destiny continuò a trasmettere a ripetizione il proprio messaggio d’allerta.
   «Impatto imminente» avvertì Talyn, inquadrando la visione di poppa sullo schermo, mentre la nave vibrava per lo sforzo dei propulsori.
   «Grazie, Capitano Dualla» mormorò Rivera, chinando il capo. Ed ecco, lo schermo divenne bianco per il lampo dell’impatto.
 
   Com’è noto i suoni non possono trasmettersi nel vuoto. Quindi nessun boato accompagnò l’esplosione. Nel silenzio dello spazio, ci fu un accecante lampo bianco, seguito da una pioggia di radiazioni. Esaurito il bagliore, tutto tornò visibile. La CSS Destiny era scomparsa, persino i suoi atomi si erano scissi in particelle elementari. Al suo posto c’era un cratere sulla superficie dell’Harvester, tanto vasto da riempire una delle venti facce. Tutta la stazione era percorsa da crepe, da un capo all’altro. E sul lato opposto, i detriti dell’impatto fuoriuscirono dallo scafo, schizzando nello spazio a velocità ancora prossime a quella della luce. Alcuni frammenti colpirono le bionavi, mettendole fuori uso. Per qualche momento parve che questa fosse la fine, con la stazione sì danneggiata, ma recuperabile.
   L’Harvester però non era una stazione qualunque. Al suo centro si nascondeva un immenso generatore gravimetrico, così potente da lacerare il velo tra le realtà. Ora quel generatore era stato crivellato dai frammenti dell’Harvester stesso, spinti attraverso la sua struttura. Di conseguenza cominciò a perdere energia, provocando danni a cascata, fino a superare la soglia critica. Quando i campi di contenimento collassarono, il reattore esplose.
   Visto da fuori, l’Harvester fu dilaniato dalle esplosioni a catena. Le strutture portanti cedettero e le antenne superstiti si frantumarono. Le bionavi ronzarono come vespe impazzite attorno alla megastruttura, ma non potevano fare nulla per salvarla. Infine, con un lampo ancora più intenso del precedente, l’Harvester si disintegrò. Un’onda d’urto toroidale si allargò nello spazio, travolgendo le bionavi. Ferasa, che era assai più lontana, fu fortunatamente mancata, anche se parecchi satelliti artificiali furono distrutti e i detriti rigarono il cielo come meteoriti.
   La fine dell’Harvester fu anche la fine delle emissioni gravimetriche. Senza di quelle, l’interfase – ancora incompleta – cominciò a richiudersi, come una ferita che si rimargina. Ferasa impallidì e divenne grigiastra, mentre la sua geografia si sfocava. Poco alla volta perse consistenza, facendosi diafana e impalpabile, come un ologramma che si disattiva. Ben presto non rimase che una sfera indistinta e semitrasparente, sempre più fioca. Infine anche quella pallida visione svanì del tutto. Il mondo dei Caitiani era scomparso, reclamato dal suo Universo d’origine; ai ladri non restava un solo granello di sabbia o goccia d’acqua. Così terminò la Battaglia dell’Harvester; ma non terminò l’odissea dell’USS Destiny nel Multiverso.
 
   Mentre si allontanavano dalla battaglia, gli avventurieri rimasero con gli occhi incollati allo schermo, osservando l’ultimo atto del dramma. Quando l’Harvester esplose e anche Ferasa svanì del tutto, vi fu un lungo silenzio. Il Capitano e gli ufficiali sapevano di aver vinto... a caro prezzo. Toccò a Talyn parlare per primo.
   «I sensori indicano che l’interfase s’è richiusa» mormorò il giovane. «Le bionavi sono danneggiate e non c’inseguono, per il momento».
   «Danni?» chiese Rivera, con voce roca.
   «Falla sulla fiancata destra – i campi di forza hanno retto – e lievi danni alla gondola di dritta» rispose Naskeel. «L’occultamento è ancora compromesso per via della falla» avvertì.
   «Plancia a sala macchine, possiamo aprire una fenditura per abbandonare lo Spazio Fluido?» chiese il Capitano, temendo la vendetta degli Undine. Senza la cavitazione né l’occultamento, la Destiny era troppo vulnerabile: dovevano andarsene subito.
   «Direi di sì, Capitano. Mi dia solo qualche minuto, per i controlli di sicurezza» rispose Irvik, tutto indaffarato.
   «Andiamo appena pronti. Plancia, chiudo» disse Rivera, e si abbandonò sulla poltrona. Ora che l’adrenalina lo stava abbandonando, si sentiva esausto.
   «E Shati?» chiese Losira con un filo di voce.
   «Nessuna navetta o capsula ha lasciato l’altra Destiny» rispose Talyn con tristezza. «Del resto, se lei era al timone, dev’esserci rimasta fino all’ultimo. Non ho rilevato nemmeno un teletrasporto d’emergenza... e poi dove sarebbe dovuta andare? Ferasa non era ancora pienamente trasferita, quindi non ci si poteva rifugiare. Non c’era via di scampo».
   «Dobbiamo accettare la realtà: abbiamo perso la nostra amica» disse il Capitano, reggendosi la testa con una mano. Come se non fosse abbastanza brutto, si erano lasciati piuttosto male.
   «È stata... molto coraggiosa» disse Scorpion, cercando di confortarlo.
   «Si è fatta carico della salvezza di tutti, come una vera cittadina» aggiunse Johnny Rico, echeggiando l’elegia funebre tenuta per la sua amata Dizzy, uccisa dagli Aracnidi.
   «Se si è sacrificata credendo in ciò che faceva, ora è in pace» concluse solennemente Yo’rek, inginocchiandosi in segno di rispetto e posando a terra la lancia da combattimento.
   «Terremo una commemorazione per lei e per Dualla, appena sarà possibile» decise Rivera. «Per adesso non aggiungerò altro. Tutti voi, che la conoscevate, sapete che vuoto ha lasciato tra noi. La Destiny non sarà più la stessa».
 
   Il giorno dopo l’USS Destiny stazionava nel Vuoto, il cosmo senza stelle che gli avventurieri avevano eletto a loro rifugio tra una missione e l’altra. Le riparazioni procedevano spedite, anche grazie agli Exocomp. Talyn tuttavia notò l’assenza di Ottoperotto, chiedendo spiegazioni. Così Irvik dovette ammettere di averlo lasciato sulla CSS Destiny, affinché la facesse resistere più a lungo in battaglia. L’El-Auriano se ne risentì, pur comprendendo le ragioni del gesto. «Non l’avresti fatto, se fosse stato una persona in carne e ossa» accusò.
   «No, ma infatti Ottoperotto non era una persona come noi» si difese l’Ingegnere. «Capisco che ti eri molto affezionato a lui. Anch’io gli volevo bene. Ma era pur sempre un robot, per quanto ben costruito. E se devo scegliere tra sacrificare le persone o le macchine, sceglierò sempre queste ultime» spiegò.
   «Lui era diverso dagli altri» insisté Talyn. «Aveva personalità e spirito d’iniziativa».
   «Lo so; per questo ho dovuto sacrificarlo» disse tristemente il Voth. «Era l’unico abbastanza creativo da sostituire un ingegnere. Suppongo che la vittoria sia anche merito suo. E allora ricordiamolo con gratitudine, come Shati» suggerì.
   «Shati ha scelto di sacrificarsi. Non credo che tu abbia dato a Ottoperotto la stessa possibilità» ribatté Talyn, e se ne andò con una scrollata di spalle. Non detestava Irvik per quella scelta difficile e in un certo senso obbligata. Ma si sentiva il cuore oppresso dall’ennesima perdita. Prima la sua famiglia, poi il Viaggiatore, ora Shati e Ottoperotto. Sembrava che tutti i suoi cari facessero una brutta fine, a dispetto dei suoi sforzi. E chi sarebbe stato il prossimo?
   «Almeno il Viaggiatore potrei rivederlo, se le sue ultime parole saranno profetiche» si disse il giovane, aggrappandosi a quella tenue speranza. Quel giorno avrebbe scoperto di più sul suo conto. E forse, anche su se stesso.
 
   Quella sera si tenne una mesta commemorazione in ricordo delle vittime. Gli avventurieri si radunarono nell’hangar 1, assieme ai loro ospiti. Scorpion e Rico, Yo’rek e Azrael, Master Chief e Liara erano tutti sopravvissuti alla battaglia e vollero partecipare alla cerimonia.
   Il Capitano spese qualche parola per ciascuno dei defunti. Parlò dell’ingegnere Gort, che si era offerto volontario per la rischiosa missione nell’Harvester e aveva reperito la nuova serie di coordinate. Raccontò di come il Viaggiatore era apparso proprio al momento giusto su Arena, prima per salvare Talyn dalla tempesta di sabbia, poi per mettere in fuga gli Aracnidi che assediavano il fortino, infine per smascherare l’Infiltratore. Narrò come aveva guarito Talyn dall’infezione e aperto il portale che li aveva riportati sulla Destiny, prima di svanire misteriosamente. Disse di Dualla, che si era trovata in una situazione senza uscita dopo la perdita del suo equipaggio, stretta fra il suo dovere di Capitano e le esigenze della Destiny, tanto da sacrificarsi affinché tutti loro si salvassero. Soprattutto parlò di Shati, di come dietro l’apparente allegria si celasse un animo ferito da una vita che non le aveva reso giustizia, al punto che anche lei aveva preferito immolarsi. Accennò persino a Ottoperotto, spiegando come non tutti gli eroi fossero di carne e sangue.
   «Come vedete, in questi ultimi giorni abbiamo perso molti amici» disse il Capitano, avviandosi alla conclusione. «In alcuni casi non abbiamo avuto il tempo di conoscerli a dovere. In altri non abbiamo compreso il loro valore, se non quand’era troppo tardi. Ma se ora siamo qui, vivi e con un futuro davanti, è grazie al loro sacrificio. Hanno salvato non solo questa nave, ma un intero mondo, che altrimenti sarebbe stato preso dagli Undine. E allora ringraziamoli per quanto ci hanno dato, e perdoniamo ogni incomprensione. Sforziamoci d’essere coraggiosi e leali come loro, mentre continuiamo il nostro viaggio. E quando finalmente torneremo a casa... allora brinderemo a loro. In libertà».
 
   L’indomani i Magnifici Sei furono chiamati in sala tattica, dove trovarono il Capitano e i suoi ufficiali ad attenderli. «Ebbene?» chiese Azrael.
   «Ho una buona notizia» disse Rivera. «Analizzando le nuove coordinate, munite di descrizione, crediamo di aver rintracciato le vostre realtà d’origine. Tutte, nessuna esclusa».
   «Quindi potete riportarci indietro?!» si emozionò Liara.
   «È il minimo che possiamo fare, per ringraziarvi dell’aiuto» confermò il Capitano. «Partiremo domani stesso, al termine delle riparazioni. Visiteremo le vostre realtà una per una, accompagnandovi dalla vostra gente. Naturalmente le vostre indicazioni saranno indispensabili per lasciarvi nel posto giusto. Ormai è chiaro che i pericoli abbondano in tutti gli Universi».
   «Grazie, Capitano» disse Master Chief. «Così potremo riprendere da dove eravamo rimasti. Abbiamo tutti una battaglia da combattere, o una ricerca da portare a termine».
   «Ne convengo» annuì Rivera. «Ma su tutti noi grava ancora la minaccia degli Undine. Più ci penso, più mi convinco che distruggere l’Harvester non è la fine della storia, anzi potrebbe scatenare reazioni ancora più rabbiose. Quindi è fondamentale che i nostri governi siano avvertiti, come voleva Dualla. Ora, per quanto riguarda la Federazione, spero ardentemente che abbia ricevuto il messaggio attraverso l’interfase. Noi stessi lo ribadiremo, se mai riusciremo a tornare. Ma vorrei che tutti voi faceste altrettanto coi vostri popoli. Siete tutti militari, chi più chi meno. Perciò, quando tornerete, avvertite i vostri governi e le forze armate del pericolo. Così saranno più preparati, in caso di necessità».
   «Uhm, non sarà così facile. Ci serviranno prove, per essere presi sul serio» avvertì Rico, suscitando l’approvazione degli altri.
   «Se i vostri governi vogliono le prove, le avranno!» assicurò Rivera. «Sono disposto a prendere contatto coi loro rappresentanti, a fargli visitare questa nave e a fornirgli tutte le informazioni che abbiamo raccolto sugli Undine, comprese le registrazioni dell’ultima battaglia. Questo dovrebbe bastare».
   «Ritengo di sì» approvò Yo’rek. «Più si diffonde la consapevolezza del pericolo, meglio è. E se gli Undine scoprono che tante realtà sono pronte a resistergli, potrebbero farsi passare la voglia d’invadere. A questo proposito, mi chiedevo se avete trovato anche le coordinate dell’Universo d’origine di Erzsébeth. Intendo quella vera, non l’Infiltratore» chiarì.
   «Sì, le abbiamo» confermò il Capitano. «Una volta finito con voi, andremo ad avvertire anche il suo Commonwealth. È giusto che pure loro siano avvisati. E lo dobbiamo alla vera Erzsébeth, che purtroppo non abbiamo mai conosciuto» aggiunse malinconico. I suoi resti giacevano chissà dove sotto le sabbie di Arena; misera fine per un’orgogliosa Nietzscheana.
   «Se l’Infiltratore ha detto la verità, e il Commonwealth è davvero esteso su tre galassie, allora sarebbe un potente alleato contro gli Undine» commentò Naskeel.
   «Senza dubbio. Ma in un modo o nell’altro lo saranno tutti, se riusciremo a farci ascoltare» disse Rivera, osservando i Magnifici Sei.
   «Uhm, non so» si rabbuiò Scorpion. «La mia realtà è già abbastanza incasinata. Siamo una piccola flotta, sempre braccata dai Cylon. Se la mia gente sapesse di quest’altra minaccia, scoppierebbe il caos».
   «Allora nel tuo caso non ci esporremo» propose il Capitano. «Useremo l’occultamento e il teletrasporto per riunirti alla tua gente, senza farci rilevare. Poi sarai tu a raccontare quel che ritieni opportuno. Se pensi che sia meglio mantenere il segreto, così sia».
   «Sì, credo che farò così» annuì Scorpion, meditabonda. «Dirò di aver perso la memoria, o qualcosa del genere. Tanto la situazione è così disastrata che non mi faranno troppe domande. Anche se, ora che ci penso...» aggiunse con aria speranzosa.
   «Sì?».
   «Potreste darmi le coordinate della Terra? Sono anni che noi superstiti la stiamo cercando, senza cavare un ragno dal buco. Se la trovassimo, risolveremmo la maggior parte dei nostri guai» confessò.
   «Uhm, si può fare» rimuginò il Capitano. «Anche se prima di stabilirvi dovreste accertarvi che i Cylon non vi sorprendano ancora. Comunque sì, posso darti le coordinate spaziali del nostro pianeta».
   «Dovremo tradurle in un sistema di riferimento diverso da quello federale, perché siano comprensibili» avvertì Talyn. «Possiamo usare le pulsar, come si faceva in passato. Mi metterò subito al lavoro» si offrì, anche per distrarsi dai recenti lutti.
   «Bene, cominciate subito» approvò Rivera. «Qualcun altro vuol tornare in incognito?».
   Gli altri cinque campioni scossero la testa. «Dalle mie parti, più vi fate vedere e meglio è» disse Master Chief. «V’introdurrò al centro di comando delle Nazioni Unite, così che possiate conferire voi stessi con le autorità».
   «Io invece vi condurrò alla Cittadella, sede dell’Alleanza dei Sistemi, così che possiate fare lo stesso» promise Liara.
   «E io vi condurrò alla Falange, la grande stazione da battaglia dell’Imperium» disse solennemente Azrael, per non essere secondo a nessuno. «Lì potrete parlare coi Signori della Terra, o forse persino col Primarca Guilliman».
   «Un pezzo grosso?» chiese il Capitano.
   «La più alta autorità dell’Imperium, dopo l’Imperatore stesso» dichiarò l’Ultramarine.
   «Beh, direi che mi basta» ammise Rivera, chiedendosi se da quelle parti erano tutti grossi e intrattabili come lui.
   «Io vi porterò sia dai leader dei Jaffa Liberi, su Dakara, sia dai nostri alleati Tau’ri... intendo gli Umani» chiarì Yo’rek. «Più fazioni sono avvertite, meglio è».
   «Ben detto» approvò il Capitano. «Qualche altra richiesta?».
   «Beh, ecco...» fece Rico, esitante, «non ho potuto fare a meno d’ammirare il vostro arsenale. I siluri, in particolare, sono più potenti di qualunque nostra arma. E ormai sapete contro cosa dobbiamo batterci. Sono anni che affrontiamo gli Aracnidi, e se dovessimo perdere, l’umanità sarebbe condannata. Perciò mi chiedevo se potreste venderci qualche siluro, o almeno i piani per costruirli...» suggerì, con una scintilla di bramosia.
   «Capitano?» fece Losira, guardandolo dubbiosa.
   «Niente da fare» disse Rivera con decisione, ricordando come quel marine fosse al servizio di un regime semi-fascista. «Capisco che vi battete per la sopravvivenza dell’umanità, ma non credo che la otterrete con armi ancor più distruttive».
   «Perché no?! Hai visto gli Aracnidi! Gli unici insetti buoni sono gli insetti morti!» sbottò Rico.
   «Può darsi» ammise il Capitano. «Ma è tempo che cominci a farti qualche domanda, Johnny. Ad esempio, chi ha cominciato la guerra? Voi o loro? Chi sta invadendo i pianeti altrui? Voi o loro?».
   A queste insinuazioni, il Tenente divenne paonazzo e sbuffò. «Loro ci bersagliano d’asteroidi per sterminarci...» cominciò.
   «Asteroidi così veloci da muoversi tra un sistema e l’altro, e così ben mirati da colpire le città prescelte? E perché la vostra flotta non li intercetta durante il tragitto?» incalzò il Capitano.
   «Perché ad ogni attacco i vostri superiori fanno sbarcare la fanteria, senza adeguato supporto aereo né mezzi corazzati? Ormai dovrebbero aver capito che così vi mandano al massacro» aggiunse Naskeel.
   «Io non lo so... ma che cosa state cercando d’insinuare?!» si risentì Rico, passando lo sguardo dall’uno all’altro.
   «Il mio sospetto è che il vostro regime – che detto fra noi mi sembra soffocante – sfrutti questa contesa con gli Aracnidi per giustificare la propria esistenza e il controllo sulle vostre vite» spiegò Rivera. «Non dico che abbia scatenato apposta la guerra, ma di certo non si comporta come se volesse vincerla. Direi piuttosto che la sta trascinando in lungo, mandando ogni volta i fanti come te al macello. Così i vostri leader vi danno un nemico da temere e combattere, senza che voi protestiate per le libertà che vi hanno tolto. Ora, non dico che dovreste diventare amiconi degli Aracnidi; forse non sarà mai possibile. Però dovreste smetterla d’obbedire ciecamente alle autorità e iniziare a chiedervi seriamente che società volete. Finché non comincerete a farlo, le nostre armi saranno off-limits. Questa è la mia ultima parola» disse in tono categorico.
   «E va bene... vinceremo anche senza il vostro aiuto!» mugugnò Rico. Eppure il discorso sembrava averlo colpito, tanto che da quel momento fu più taciturno e smise di lodare il suo regime ad ogni occasione.
 
   Terminata la riunione, i Magnifici Sei lasciarono la sala tattica. Anche Talyn se ne andò, per fornire a Scorpion una mappa stellare che la sua gente potesse usare per raggiungere la Terra. Gli altri stavano per seguirlo, ma il Capitano li trattenne. «Aspettate» disse. «Ci restano cose di cui discutere».
   «Già... ad esempio non hai detto cosa conti di fare, una volta riportati quei sei a casa loro» notò Losira.
   «Ah, non abbiamo scelta. Useremo la nuova lista di coordinate per continuare a muoverci nel Multiverso. E ogni volta che esploreremo un’altra realtà, diffonderemo la consapevolezza della minaccia Undine» stabilì Rivera.
   «Allora è questo il nostro futuro?» chiese Losira, sconsolata. «Vagheremo per sempre nel Multiverso, avvertendo gli altri, ma senza trovare pace né riposo per noi stessi?!».
   «Non è detto» obiettò il Capitano. «Il Viaggiatore era convinto che un giorno ci saremmo rivisti. E io penso che lui sarebbe in grado di riportarci a casa, se le condizioni fossero propizie. Quindi dobbiamo attendere il prossimo incontro».
   «Ma non era morto?» si accigliò la Risiana. «Hai detto che si è dissolto nell’aria...».
   «Ho detto di averlo visto dissolversi nell’aria» puntualizzò Rivera. «Non so se questo significhi che è morto. Di solito le persone non muoiono così. Quindi potrebbe esserci una spiegazione alternativa alla morte. Forse si è trasferito, o è stato trasferito altrove. O magari non è mai stato davvero su Arena, e quella che noi vedevamo era un qualche genere di proiezione. Questo spiegherebbe perché gli Undine non sono mai riusciti a ucciderlo, in tanti anni».
   «Se era una proiezione, era tangibile. Ha sollevato oggetti, consumato cibo, e alcuni di noi lo hanno toccato» notò Naskeel.
   «Lo so, è strano. Non ho tutte le risposte» ammise il Capitano. «Ma è innegabile che quell’essere ci abbia aiutati. E credo che avesse ancora qualche asso nella manica quand’è scomparso. Se ha detto che ci rivedremo, sono incline a credergli».
   «Ma insomma, chi è questo Viaggiatore?!» esclamò Losira. «Da dove viene, che cosa vuole...?».
   Rivera si sforzò d’esporre tutto ciò che aveva appreso sul suo conto, sia per esperienza diretta, sia spulciando il database federale. Mentre parlava, si rese conto che non era molto... ed era tutto vago. Quando si parlava del Viaggiatore non c’erano certezze, solo ipotesi e deduzioni.
   «Ma che vuole quell’essere da Talyn?!» chiese Losira, quando si accorse che il Viaggiatore era interessato soprattutto al giovane.
   «Gliel’ho chiesto, dopo che lo guarì dall’infezione» ricordò il Capitano, sforzandosi di ricordare quella lunga chiacchierata. «Il Viaggiatore mi disse che lui non è l’unico del suo genere, ce ne sono altri. Ma ciò che li accomuna non è la patria o la specie, bensì il talento e l’addestramento. Pochissimi hanno il talento, e ancor meno vengono scoperti e addestrati. Ebbene, il Viaggiatore è convinto che Talyn sia uno di quei pochi eletti...».
   «E vorrebbe portarselo via per addestrarlo?! Non se ne parla!» rabbrividì la Risiana. Si guardò attorno, come se temesse di vederlo spuntare in quel preciso momento per reclamare il giovane.
   «Calmati!» la esortò Rivera. «Non sei sempre stata tu a dire che Talyn ha qualcosa di speciale? Non riuscivi a definire cosa fosse, nemmeno tu che lo conosci meglio di tutti; ma avvertivi che qualcosa c’era. Ebbene, avevi ragione. Ora finalmente conosciamo qualcuno che se ne intende, e potrebbe addestrarlo...».
   «Addestrarlo per cosa?!» esplose Losira. «Qual è la politica di questi Viaggiatori? Quali sono le regole d’ingaggio? Le modalità d’intervento? E i loro obiettivi? Chi li comanda? Dove vivono? Come risolvono i contrasti? Insomma, ti rendi conto che non sappiamo niente di loro? E tu vorresti consegnargli Talyn?!».
   «Io non voglio consegnargli nessuno» si spazientì il Capitano. «Ma Talyn non è più quel ladruncolo di strada che trovasti a Stardust City. Ormai è un adulto, padrone delle sue scelte. Quando il Viaggiatore tornerà, Talyn potrà fargli domande più approfondite. Se le risposte lo interesseranno, sarà suo diritto seguirlo, anche solo per verificare come stanno le cose. Altrimenti resterà con noi. Del resto ho già messo in chiaro col Viaggiatore che lui ci è utile qui, e comunque non se ne andrebbe per ragioni futili. Abbiamo raggiunto un accordo...».
   «Un accordo col Viaggiatore? Cos’avete stabilito esattamente? Sii preciso! Questi esseri sovrannaturali sono implacabili, quando stipulano dei contratti!» avvertì la Risiana, ancora agitata.
   «Quello non è il Diavolo, okay? Almeno spero che non lo sia» disse Rivera, innervosito. «E il nostro accordo è stato puramente verbale. Abbiamo convenuto di non pressare ulteriormente Talyn, per adesso. Se il Viaggiatore si farà di nuovo vivo, potrà parlargli e invitarlo nel club. Ma non è detto che la cosa vada in porto. Vedi, c’è un altro requisito, oltre al talento... la vocazione, ecco. Per diventare Viaggiatori ci vuole la vocazione» ricordò. «Se salterà fuori che Talyn non ce l’ha, fine del discorso».
   «E se invece l’avesse...» mormorò Losira.
   «Starà a lui decidere» tagliò corto il Capitano.
   «Una scelta difficile» notò Irvik. Anche lui era molto affezionato al giovane, al quale aveva dato lezioni d’ingegneria, e lo inquietava l’idea di vederlo partire verso una destinazione così vaga.
   «Sempre meglio che nessuna scelta» sospirò Rivera. «Non è quello che spesso è mancato a noialtri? La possibilità di scegliere cosa fare delle nostre vite? Ora che Talyn ha questa possibilità, non me la sento di negargliela. Comunque stiamo parlando del futuro; per adesso le cose non cambieranno. Talyn è ancora fra noi, e vorrei – anzi, vi ordino – di non parlargli di queste cose. Non dobbiamo dargli l’impressione d’essere un mostro, né un eletto, per non destabilizzarlo. Continueremo a trattarlo come prima, intesi?».
   Gli avventurieri borbottarono il loro assenso. Allora il Capitano chiuse la riunione, non volendo che l’interessato s’insospettisse nel vederli ancora raccolti in sala tattica. Tutti tornarono alle loro occupazioni. La Destiny era ancora in riparazione; c’era molto da fare prima di riprendere il viaggio. Per la maggior parte di loro il mistero del Viaggiatore era solo una delle tante stranezze finora incontrare, da accantonare finché non fosse tornato rilevante. Ma chi era più vicino a Talyn non poteva scordare ciò che era stato detto.
 
   Quella sera il Capitano fu chiamato da Talyn nel laboratorio di astrometria. All’ingresso trovò l’El-Auriano in compagnia dei Magnifici Sei. Sullo schermo campeggiava una mappa stellare, con evidenziate numerose pulsar.
   «Salve, Capitano! Come vedi, abbiamo fatto progressi» lo accolse il giovane.
   «Hai la mappa da dare a Scorpion?» chiese Rivera.
   «È cosa fatta» annuì Talyn. «Già che c’ero, ho preparato un piano di volo per riportare i nostri alleati a casa. Mi sono consultato con tutti e abbiamo deciso chi ha più urgenza di tornare» spiegò.
   «E sei riuscito a mettere tutti d’accordo?!» si stupì il Capitano, sapendo quanto fosse difficile farli ragionare.
   «Hu-hu» confermò l’El-Auriano, azionando i comandi. Alla mappa stellare subentrò un complesso piano di volo, con una mappa tridimensionale che indicava il tragitto da percorrere per ricondurre ciascuno al proprio posto.  Era organizzato in modo da non dover ripassare per luoghi vicini, così da svolgere tutto nel minor tempo possibile. Rivera lo studiò attentamente, senza trovarvi alcun difetto.
   «Piano approvato» disse il Capitano. «Partiremo domattina. Signori, se volete sbronzarvi sulla Destiny, questa è l’occasione. È l’ultima serata che passerete tutti assieme» informò gli ospiti.
   «Sentito? Andiamo al bar, e vediamo chi regge di più l’alcool!» propose Scorpion, su di giri per l’allegria.
   «Io non posso ubriacarmi» spiegò Azrael.
   «Bah! Voi Space Marines siete noiosi! Che fate per divertirvi?» chiese la caposquadriglia del Battlestar Galactica.
   «Raramente abbiamo del tempo libero, tra una battaglia e l’altra» rispose l’Ultramarine. «Oltre a curare il nostro equipaggiamento e a studiare strategia, ci dedichiamo a preghiere e atti di devozione».
   «Ugh, non fa per me. Beh, t’insegnerò a giocare a carte. E chissà che, con tutte queste bevande aliene, non trovi qualcosa capace d’ubriacarti. Su, tutti in mensa! Facciamo bisboccia!» esclamò Scorpion, suscitando il moderato interesse dei colleghi.
   «Io non faccio bisboccia» disse Master Chief, cercando di sfilarsi.
   «Oh sì, invece! Così finalmente vedremo che faccia hai!» insisté Scorpion, dato che non l’avevano mai visto togliersi il casco.
   I sei campioni lasciarono la sala astrometrica, bisticciando e schiamazzando. Le loro voci si persero nel corridoio, finché tornò la calma. Nel laboratorio erano rimasti solo Rivera e Talyn.
   «Che tipi» commentò l’El-Auriano. «A volte sono pesanti, ma... credo che mi mancheranno».
   «Sì, anche a me» ammise il Capitano. «Ma è giusto che tornino alle loro responsabilità. C’è gente che conta su di loro, e loro stessi hanno delle missioni in sospeso. E poi chissà... forse li rivedremo» ragionò.
   «Io vorrei rivedere il Viaggiatore» sospirò Talyn. «C’è così tanto che avrebbe potuto insegnarmi! Avrei dovuto approfittare maggiormente del tempo che ho avuto, quand’eravamo nel suo rifugio. Ma in quei giorni non pensavo che a tornare da voi. Non che me ne penta, sia chiaro!» si corresse, temendo di sembrare insensibile.
   «Non preoccuparti, capisco cosa intendi. Era un essere straordinario, il più esperto del Multiverso che abbiamo mai incontrato» convenne Rivera. Visto che ormai erano in argomento, decise di sondare cautamente il parere del giovane. «E così, vorresti rivederlo... per imparare che cosa?».
   «Mah, non saprei... qualunque cosa avesse da dirmi sul Multiverso» rispose il giovane, evasivo. «E magari anche un po’ della sua filosofia. Anche se non combatteva, aveva del fegato per opporsi agli Undine. Vorrei capire come bilanciava le due cose».
   «Uhm... ma tu pensi che sia ancora vivo?» chiese il Capitano, cercando di non dare a vedere quanto la cosa lo interessasse.
   «Sono convinto di sì» rispose Talyn, osservando la mappa stellare senza realmente vederla. «E prima o poi lo rincontreremo» aggiunse con una strana sicurezza, che l’altro non osò contestare.
   «Beh, se lo dici tu...» fece Rivera, con un sorriso incoraggiante. In realtà quella sorta di profezia lo inquietava, perché sembrava indicare che Talyn era destinato a seguire il Viaggiatore, forse persino a diventare come lui.
   «Diamo tempo al tempo» si disse il Capitano, lasciando il laboratorio astrometrico. La loro nuova odissea stava per cominciare, e prometteva d’essere ancor più straordinaria della precedente. Le porte del Multiverso erano aperte, le occasioni illimitate. Nessuno, nemmeno il Viaggiatore poteva prevedere ciò che avrebbero fatto. E in tutto questo, lui ancora non voleva rinunciare alla speranza che prima o poi sarebbero tornati a casa. Del resto, se la Flotta Stellare aveva ricevuto il loro messaggio, di certo si era già attivata per cercarli...
 
   La Federazione era in subbuglio. Mai prima d’ora uno dei suoi pianeti era svanito fisicamente dallo spazio, solo per riapparire mezz’ora dopo, con gli abitanti sconvolti e terrorizzati. Molti Caitiani erano fuggiti per il timore che il fenomeno si ripetesse, ma il panico stava dilagando anche sugli altri mondi. La Flotta Stellare aveva inviato una nutrita flotta a sorvegliare il pianeta, per proteggerlo in caso di nuovi attacchi. Ma un dispiegamento di forze non bastava: bisognava capire cos’era successo per sviluppare una risposta efficace. Ecco perché l’Ammiraglio Hod aveva convocato una riunione d’emergenza del Comando di Flotta.
   «Seduti, prego» disse l’Elaysiana dai corti capelli grigi, entrando in sala. Sedette al suo posto e gli altri la imitarono, occupando i seggi predisposti attorno all’ampio tavolo a ferro di cavallo. C’erano rappresentanti di tutte le branche della Flotta Stellare e persino della Sezione 31, il famigerato servizio segreto.
   «Come sapete, siamo qui riuniti per discutere gli allarmanti fatti di Ferasa» riprese l’Ammiraglio. «Gli osservatori astronomici posti in superficie, come anche i satelliti in orbita, certificano che il pianeta è stato temporaneamente traslato in un’altra realtà. Per fortuna il trasferimento è stato incompleto e poi si è invertito, restituendoci il pianeta. Ma c’è poco da stare tranquilli, se un simile evento ha potuto coglierci di sorpresa. Vi dico fin da subito che, stando ai sensori, Ferasa è incappato in un’interfase di spazio. Sappiamo ancora poco di questi fenomeni, ma una cosa è certa: possono essere sia naturali che indotti».
   «Conosciamo almeno un caso d’interfase naturale, tuttora operante» intervenne il direttore dell’Ufficio Cartografico di Flotta. «Il pianeta Thalassa, che ospita una colonia Kriosana, oscilla tra il nostro Universo e un cosmo senza stelle con un ciclo regolare. Ogni quarant’anni l’intero sistema viene traslato nel Vuoto, rimanendovi per un mese, e poi torna qui, puntuale come un orologio. Il ciclo dura da almeno quattrocento anni, senza variazioni».
   «Sono al corrente del fenomeno di Thalassa. Ho avuto modo d’interessarmene, negli ultimi anni» garantì Hod. «Ma il caso di Ferasa è diverso. Abbiamo prove inoppugnabili che l’interfase è stata creata artificialmente, nel deliberato tentativo di sequestrare il pianeta. Osservate queste riprese, effettuate durante l’evento».
   Così dicendo l’Elaysiana attivò lo schermo in fondo al salone. Mostrò le registrazioni della battaglia, inquadrando l’Harvester. I capi della Flotta Stellare lo osservarono corrucciati.
   «Questa struttura emetteva enormi quantità d’energia gravimetrica, tanto da provocare l’interfase. Non c’è nulla di simile nel nostro database, ma i sensori indicano che si tratta di tecnologia organica. E guardate qui» aggiunse Hod, bloccando l’immagine e ingrandendo un dettaglio. Un paio di bionavi giganteggiarono sullo schermo.
   «Undine» riconobbe un ufficiale di nome Norrin. Era l’unico Hirogeno che sedeva in quella tavolata. Dirigeva gli Hunter Squadron, i corpi speciali che davano la caccia ai criminali di guerra, assicurandoli alla giustizia.
   «Già, proprio loro» confermò l’Elaysiana, arricciando il naso. «Adesso si spiega il loro interesse nei confronti di Ferasa, con quelle ricognizioni furtive. Si preparavano a rubare il pianeta... per aggiungerlo alla loro collezione. Guardate cos’hanno rivelato i sensori a lungo raggio!».
   Così dicendo Hod mostrò il sistema stellare che gli Undine avevano assemblato in secoli di ruberie. Decine di pianeti e satelliti – incluso Arena – si susseguirono sullo schermo, sotto gli occhi sconcertati dei presenti. «Questi mondi sembrano provenire ciascuno da un cosmo differente, la maggior parte dei quali ci sono ignoti. Ma il più interessante è forse questo» aggiunse l’Ammiraglio, inquadrando un pianeta tropicale.
   «Ferasa?» si stupì uno dei presenti.
   «No, dato che le riprese sono state fatte dal nostro Ferasa, e quest’altro pianeta era già aggregato al sistema. L’ipotesi più probabile è che sia il Ferasa dello Specchio» spiegò Hod. «Come vedete, le attività degli Undine sono pervasive».
   «Ma stavolta hanno fallito...» notò un ufficiale.
   «Sono stati fermati» corresse l’Elaysiana. «E guardate un po’ chi dobbiamo ringraziare». Mostrò di nuovo la battaglia attorno all’Harvester, bloccandola mentre la nave attaccante era visibile. La ingrandì finché divenne riconoscibile.
   «La Destiny!». Un mormorio stupito corse lungo la tavolata. Tutti i presenti conoscevano la nave dispersa nel Multiverso.
   «Corretto. E le sorprese non sono finite» disse Hod, mostrando le fasi successive della battaglia. Dopo l’attacco iniziale la Destiny fuggì, gravemente danneggiata, facendosi inseguire da alcune bionavi. Le subentrò un’astronave identica, ma ancora integra, che proseguì lo scontro. L’Ammiraglio zoomò ancora di più, fino a inquadrare il suo nome e numero di registro.
   «CSS Destiny... perché quella C?» chiese un altro ufficiale.
   «Stando ai nostri rapporti, quella è la sigla delle astronavi in forze alla Confederazione, nell’Universo dello Specchio» rivelò il rappresentante della Sezione 31. «Queste riprese dimostrano che i due vascelli hanno unito le forze contro gli Undine».
   «Ma la nostra Destiny non era caduta in mano a una banda d’avventurieri?» chiese Norrin.
   «Oh, sì. Infatti sono stati loro a lanciare l’attacco» confermò Hod. «Durante la battaglia, entrambe le Destiny hanno trasmesso ripetutamente un messaggio subspaziale attraverso l’interfase. Era un messaggio iper-compresso, che ci è giunto danneggiato, ma grazie alle numerose ripetizioni lo abbiamo ricostruito pressoché nella sua interezza.
   Si tratta dei diari dei sensori della Destiny, più i diari di bordo degli occupanti – cioè gli avventurieri – da quando vi hanno messo piede. Sono informazioni senza prezzo sul Multiverso: tre anni e mezzo di straordinarie esplorazioni. Un anno intero riguarda solo l’Universo nello Specchio, nel quale hanno contribuito addirittura a un cambio di regime nella Confederazione. Ma le informazioni più preziose, per noi, riguardano gli Undine. I nostri esperti sono già al lavoro e voi stessi potrete visionare il materiale. C’è anche un messaggio personale di Rivera, che si augura di renderci un servizio utile... nel caso non fossero sopravvissuti alla battaglia» si adombrò.
   «Sono risultati straordinari, soprattutto se consideriamo che non sono opera d’ufficiali addestrati, ma di questi strani avventurieri» commentò un graduato. «Se torneranno, dovremo graziarli».
   «Non torneranno» disse l’Ammiraglio, incupita. «Osservate l’epilogo della battaglia». Mostrò di nuovo le riprese ad ampio raggio. La nave contrassegnata come USS Destiny si era fatta inseguire dagli Undine, mentre la CSS continuava l’attacco. Ben presto fu evidente che da sola non sarebbe riuscita a distruggere l’Harvester. Infatti, dopo aver distrutto alcune antenne, fu trattenuta da un potente raggio traente. Le bionavi la circondarono, senza tuttavia aprire il fuoco.
   «Che stanno facendo... perché non la finiscono?» chiese uno dei presenti.
   «Hanno cercato d’abbordarla» indovinò Norrin.
   «Già, ma pare che gli sia andata male» annuì Hod. «E adesso...». Una raffica di siluri colpì l’Harvester. La CSS Destiny ne approfittò per liberarsi dal raggio traente e fuggire. Subito dopo qualcosa di rapidissimo centrò la stazione, disintegrandosi nell’impatto. I detriti schizzarono ovunque, danneggiando le bionavi. Sotto gli occhi sgranati dei presenti, l’Harvester esplose, creando un’onda d’urto toroidale che mise definitivamente fuori uso le bionavi. Allora anche la ripresa impallidì e si dissolse, finché riapparvero le stelle della Via Lattea.
   «La ripresa è finita perché, con la distruzione della struttura Undine, l’interfase s’è chiusa e Ferasa è tornata nel nostro cosmo» chiarì l’Ammiraglio.
   «Cos’era quel bolide che ha dato il colpo di grazia alla stazione?» chiese un ufficiale.
   «Gli analisti ritengono che fosse l’USS Destiny, gravemente danneggiata dalla battaglia» rispose Hod con gravità. «Privati d’ogni possibilità di fuga, gli avventurieri hanno trasformato la loro nave in un missile relativistico. Senza il loro sacrificio, la stazione non sarebbe mai stata distrutta e noi avremmo perso Ferasa».
   Cadde il silenzio, mentre tutti i presenti riflettevano su quel gesto estremo. A nessuno balenò il sospetto che le due astronavi si fossero scambiate i contrassegni per ingannare gli Undine, e che quindi l’USS Destiny fosse ancora integra, con l’equipaggio in vita.
   «Quegli avventurieri hanno salvato un mondo e ci hanno avvertiti del pericolo. Tutta la Federazione deve conoscere il loro coraggio» disse infine Norrin.
   «Molte di queste informazioni sono top secret, ma... parlerò col Presidente, per vedere cosa possiamo divulgare» promise Hod. «Del resto, dopo i fatti di Ferasa è impossibile mantenere il segreto su quanto sta accadendo. I cittadini vorranno delle risposte, ed è meglio dargliele, piuttosto che far proliferare le illazioni».
   «Quindi... qual è la prossima mossa?» chiese l’Hirogeno. «Anche se la stazione è distrutta, dubito che questa sia la fine della storia. Gli Undine potrebbero ricostruirla... forse ne hanno già pronte delle altre. E poiché è stata una nave federale a sconfiggerli, potrebbero scatenare fin da subito delle rappresaglie» avvertì.
   «Infatti ho diramato un messaggio d’allerta a tutta la Flotta. Le navi in esplorazione sono richiamate a proteggere i pianeti, i cantieri e altre strutture chiave. Le guarnigioni sono pronte alla battaglia» convenne l’Ammiraglio. «Del resto, è da quando scomparve la Destiny che premo per potenziare le difese. E a diciannove anni dal termine della Guerra Civile, siamo finalmente tornati al nostro potenziale prebellico».
   «Bene, ma... non si vincono le guerre stando sulla difensiva. E questa, ormai, è una vera guerra» avvertì Norrin. «Prima contrattacchiamo, meglio è».
   «Non lancerò la Flotta allo sbaraglio contro una delle specie più potenti che conosciamo» obiettò Hod. «Per adesso esamineremo i dati inviati dalla Destiny, così da approfondire la conoscenza degli Undine e cercare punti deboli. Inoltre modificheremo il maggior numero possibile di vascelli, per dargli la capacità di muoversi nel Multiverso. Appena possibile manderemo alcune di queste navi in esplorazione, per avere informazioni aggiornate sul nemico. Altre le terremo pronte all’intervento, in caso di nuovi attacchi».
   Guardandosi attorno, l’Elaysiana notò che alcuni dei presenti apparivano insoddisfatti. «Lo so, non è molto, come risposta a un simile attacco. Ma è la condotta più prudente. E la prudenza è d’obbligo, se non vogliamo rischiare un confitto ancor più rovinoso di quelli dei decenni passati» si giustificò. «Dovremo affidarci all’intelligence e alla ricerca scientifica per prepararci. In ogni caso, i nostri sforzi devono tendere a una soluzione diplomatica, per quanto appaia difficile».
   «E se gli Undine non fossero minimamente interessati alla diplomazia? Se lanciassero un’invasione su larga scala per vendicarsi dell’insuccesso? Se aprissero interfasi ovunque per rubare altri mondi?» incalzò Norrin.
   «Allora... che Dio ci aiuti» mormorò Hod, sapendo che nessun sacrificio come quello della Destiny sarebbe bastato a salvarli.
 
   «Be-beep. Be-beep. Be-beep».
   Il fischio elettronico era fastidioso, insistente, come quello di una sveglia. Shati si girò su un fianco, cercando di rimboccarsi delle coperte inesistenti. «Ugh... ancora cinque minuti...» biascicò, rifiutando d’aprire gli occhi.
   «Be-beep. Sveglia, Shati!» pigolò una vocina elettronica. La Caitiana la riconobbe confusamente come quella di Ottoperotto. Prima che potesse schiarirsi la mente, il robottino le si accostò e le diede dei colpetti, come un cagnolino che cerchi di svegliare il padrone. Siccome Shati non reagiva, l’Exocomp optò per una terapia d’urto. Replicò un circuito elettrico sul proprio muso e tornò a sfiorarla sulla spalla, dandole la scossa.
   Fzzzt!
   «Meow!» mugolò Shati, balzando in piedi con la pelliccia arruffata e sfrigolante. «Che t’è saltato in mente, stupido barattolo?! Stai cercando d’arrostirmi?!» protestò, sfiorandosi la spalla dolorante. Non era l’unica parte del corpo a farle male. La timoniera era tutta indolenzita, come se fosse stata presa e scagliata a grande distanza.
   «Shati sveglia! Battaglia finita, Ferasa salva, be-beep! CSS Destiny distrutta, USS Destiny fuggita. Noi dispersi su altra Ferasa, be-beep!» pigolò Ottoperotto, ronzandole attorno tutto animato.
   «Ma che stai...» fece Shati, sul punto di scacciarlo infastidita. Ma si fermò a metà della frase e del gesto. Le memorie dell’ultima giornata fluirono in lei, come acqua da una diga crollata. Ricordò l’ammutinamento contro Dualla e il ritorno del Capitano con gli altri dispersi. Rammentò come, divorata dall’ansia per il suo mondo, aveva liberato Dualla e si era trasferita con lei sulla CSS Destiny, assumendone il controllo. Poi la disperata battaglia contro gli Undine, i danni irreparabili alla nave, l’attacco kamikaze contro l’Harvester. Ricordò le ultime parole di Dualla, che le ordinava di salvarsi, e la corsa in sala macchine per attivare lo stargate. Lo aveva attivato? Sì, ricordava il vortice azzurrino e la superficie simile a uno stagno increspato. Aveva cercato di varcarlo... ma poi le cose si facevano confuse. Osservando la sua tuta bruciacchiata e la pelliccia strinata, dedusse che c’era stata un’esplosione in sala macchine, e lei era stata scagliata attraverso il tunnel spaziale. Ottoperotto l’aveva seguita, o era stato gettato anche lui nel wormhole. Così erano entrambi in salvo... ma dove?
   Shati si guardò attorno. Si trovava in un vasto salone, che pareva la hall di uno spazioporto. La luce naturale filtrava da alti finestroni, rivelando un ambiente abbandonato. C’erano macerie ovunque e la vegetazione cresceva negli interstizi dei muri. Qua e là erano ancora leggibili delle scritte in lingua Caitiana. Ma certo, ora ricordava. Negli ultimi momenti sulla CSS Destiny, con la nave lanciata a tutta velocità contro l’Harvester, aveva dovuto scegliere una destinazione... e aveva scelto il suo mondo. O ad essere precisi, il corrispettivo dello Specchio, che gli Undine avevano annesso da anni alla loro collezione.
   Voltandosi, la timoniera vide lo stargate da cui era uscita. Era addossato alla parete di fondo del salone e appariva disattivato. Lì accanto vi era la colonnina con i comandi d’attivazione. Era sporca e piena di rampicanti, come se fosse in disuso da anni. Eppure lo stargate funzionava, dato che lei vi era appena passata. «Per quanto tempo sono rimasta svenuta?» volle sapere.
   «Sei ore, diciotto minuti, quarantasette secondi, be-beep!» rispose Ottoperotto.
   «Caspita, devo aver preso una bella botta» mugugnò la Caitiana, massaggiandosi la testa. Era un bene che il robottino fosse rimasto a vigilarla e infine l’avesse svegliata. Non le piaceva l’idea di giacere priva di sensi in quel luogo sconosciuto.
   «Ottoperotto temeva guasto al cervello, be-beep! Ottoperotto non abilitato a riparare cervello di Shati!» disse il robottino, ancora in apprensione.
   «Cosa... il mio cervello non s’è guastato, okay?! Ho solo preso una botta, ma ora sono sveglia!» garantì la Caitiana. «Sono sveglia e posso chiamare i soccorsi. Shati a Destiny...» disse, portandosi istintivamente la mano al comunicatore. Ma le sue dita toccarono solo il tessuto sintetico della tuta.
   La Caitiana sgranò gli occhi e drizzò le orecchie per l’allarme. Si tastò dappertutto, si frugò le tasche, si guardò attorno con ansia, ma era inutile: non c’era traccia del comunicatore. Allora ricordò di averlo disintegrato durante la fuga, per rendersi più difficile da rintracciare. E anche dopo essersi trasferite sulla CSS Destiny, lei e Dualla non se n’erano mai procurati altri, dato che fino agli ultimi minuti erano rimaste assieme in plancia. Così adesso non poteva contattare l’USS Destiny per farsi salvare. Del resto sarebbe stato prudente inviare una richiesta di soccorso? Si trovava pur sempre nello Spazio Fluido, il regno degli Undine, che erano certamente furiosi dopo la battaglia. Se avessero intercettato la sua trasmissione, sarebbero giunti a ucciderla, e forse a tendere un’imboscata alla Destiny. Ma se non poteva chiedere aiuto... allora che le restava da fare?
   «Oh, no» mormorò la Caitiana, mettendosi a sedere su alcuni gradini.
   «Be-beep?» fece Ottoperotto, accostandosi.
   «Non capisci? Non ho il comunicatore, e anche se ne trovassi uno qui non potrei usarlo, perché attirerei gli Undine» spiegò Shati. «E c’è di peggio. Vedendo la CSS Destiny che impattava con l’Harvester, i nostri amici avranno certamente pensato che siamo morti. Non solo Dualla – pace all’anima sua – ma anche noi due. Quindi non ci stanno nemmeno cercando. Abbandoneranno lo Spazio Fluido senza di noi... forse l’hanno già fatto. E noi resteremo bloccati qui, per... il resto dei nostri giorni» rabbrividì.
   Era un sinistro contrappasso per le sue azioni. Nei giorni precedenti lei si era opposta al salvataggio dei naufraghi su Arena, per quelle che le parevano buone ragioni. E adesso lei stessa si ritrovava naufraga su un altro mondo, senza alcun salvataggio all’orizzonte. Forse era vero che ciascuno ottiene ciò che semina...
   «Noi... naufraghi?» chiese Ottoperotto, strusciandosi contro di lei, come in cerca di protezione.
   «Temo proprio di sì» confermò Shati, carezzandolo come se fosse un cucciolo. «Siamo ancora nello Spazio Fluido, ricercati dagli Undine... anche se spero che i miei segni vitali si confondano con quelli degli altri Caitiani, qui su Ferasa».
   «Ferasa-Specchio» puntualizzò l’Exocomp.
   «Già, Ferasa-Specchio» ammise la timoniera. «Chissà quant’è diverso da quello che conoscevo» mormorò, guardandosi attorno. Ricordò le letture dei sensori, secondo cui tutti i pianeti rubati dagli Undine erano caduti nell’anarchia, con le città abbandonate e saccheggiate. In che condizioni era esattamente quel mondo, e in particolare quella zona? A giudicare dallo stato d’abbandono dello spazioporto, non buone.
   D’un tratto Shati sentì l’urgenza di uscire all’aperto, per vedere con i suoi occhi le condizioni della città. Balzò in piedi e si diresse verso l’uscita, seguita da Ottoperotto. Intanto parlottava tra sé, facendo l’elenco di tutto ciò che le mancava. «Vediamo... niente comunicatore. Niente tricorder. Niente acqua né provviste. Niente medicine... frell, ho solo questo!» esclamò, impugnando il phaser che portava con sé fin dalla sua fuga dall’USS Destiny. Quasi certamente le sarebbe servito, se la città versava nelle condizioni che temeva.
   La Caitiana accelerò il passo, sull’onda dell’impazienza, fin quasi a correre. Giunta in fondo alla hall percorse un corridoio buio e pieno di ragnatele. Infine sbucò all’aria aperta. La luce sanguigna del tramonto le ferì gli occhi, facendola lacrimare. Quando le sue pupille si furono adattate, la Caitiana si guardò attorno... e restò di sasso.
   Si trovava a Lyncis, la capitale di Ferasa. Ma se la Lyncis federale era una città piena di vita e d’attività, il suo corrispettivo dello Specchio era una città fantasma, piena di palazzi diroccati. Non c’era traccia della popolazione, solo segni di lotte e saccheggi. Molti edifici portavano i segni d’incendi, presumibilmente scoppiati subito dopo che il pianeta era stato traslato nello Spazio Fluido, quand’erano dilagati panico e violenze. Da allora però erano trascorsi diversi anni. Dopo gli incendi e i saccheggi, la natura tropicale di Ferasa aveva ripreso il sopravvento. La vegetazione aveva ammantato i palazzi anneriti, le strade soprelevate, i resti arrugginiti dei veicoli. Gli uccelli svolazzavano da un grattacielo all’altro, lanciando i loro richiami serali, e i quadrupedi sgattaiolavano nel sottobosco. Shati notò che le strade e la piazza davanti a lei erano allagate, con acqua ristagnante, segno che le fogne e i canali di scolo si erano ostruiti senza la dovuta manutenzione. I monsoni tipici di Ferasa avevano fatto il resto. Invece di defluire nei canali, l’acqua si era accumulata, formando quegli stagni urbani. Anno dopo anno, la capitale si stava ritrasformando in una giungla.
   «Be-beep, noi soli» commentò tristemente Ottoperotto, mentre sondava il circondario alla vana ricerca di segni vitali umanoidi.
   Osservando il panorama post-apocalittico, Shati si sentì cogliere dalla disperazione. Come aveva detto al robottino, era bloccata lì per il resto dei suoi giorni. E questi rischiavano d’essere brevi, davvero brevi, in quel mondo inselvatichito. Se anche si fosse celata agli Undine, come sarebbe sopravvissuta? E se avesse trovato dei superstiti, cosa poteva aspettarsi da loro?
   Alzando gli occhi, la Caitiana vide un cielo affollato di mondi rubati. Erano vicini, più di quanto potesse capitare nei veri sistemi stellari, e quindi apparivano assurdamente grandi. Erano un segno tangibile della potenza degli Undine, tanto che perfino l’esplosione dell’Harvester – visibile come un secondo sole – le parve una vittoria effimera. Attorno a lei c’era solo la desolazione della città in rovina, reclamata dalla giungla acquitrinosa. E nessuno sarebbe venuto a cercarla... nemmeno i suoi migliori amici, che la credevano morta.
   A quel pensiero Shati cadde in ginocchio, rovesciò la testa all’indietro e si sfogò con un urlo lacerante, senza curarsi d’essere sentita. Fu un lungo grido luttuoso, che mise in fuga gli animali ed echeggiò tra i palazzi diroccati, prima di spegnersi in un rantolo. 
 

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Capitolo 11
*** Epilogo ***


-Epilogo:
Data Stellare: 2613.147
Luogo: Mondo Corallo, capitale Undine
 
   Il mondo corallino fluttuava nello Spazio Fluido come il nucleo di un’immensa cellula. Lo aveva fatto per millenni, crescendo assieme alla sua popolazione. Ma ora qualcosa era cambiato: le bionavi in transito erano attentamente scansionate e una vasta flotta militare sorvegliava il pianeta. Erano segni di un nervosismo che raramente aveva toccato gli Undine prima d’allora.
   Diversamente dai pianeti degli altri Universi, abitati solo in superficie, il Mondo Corallo aveva una struttura interna omogenea, senza sbalzi di pressione e temperatura. Di conseguenza era traforato e abitato in tutto il suo volume, dal guscio esterno fino al nucleo. La sua popolazione ammontava a trilioni d’individui. Più si scendeva, più s’incontravano caste di rango elevato: produttori, burocrati e amministratori, militari, scienziati e formatori. Tra le ultime due caste si giocava da secoli una partita serrata, in quanto i militari avevano grande potere nella società Undine, specialmente in tempo di conflitti. Ma gli scienziati, e in particolare i formatori, avevano il compito di migliorare costantemente la specie. Quindi potevano teoricamente condannare l’intera generazione corrente, militari compresi, e sostituirla con una più evoluta. All’atto pratico, questo non accadeva mai in modo così repentino, poiché per gli scienziati avrebbe significato condannare anche se stessi. Nondimeno, la rivalità tra le due caste esisteva, sfociando talvolta in rappresaglie.
   Ma c’era qualcuno che incuteva uguale terrore nei militari e nei formatori, qualcuno che aveva l’ultima parola in ogni scelta importante. Costui era l’Imperatore, che viveva acquattato nel nucleo del Mondo Corallo, diramando i suoi ordini e intervenendo personalmente solo nei casi più gravi. E quello odierno era appunto uno di quei casi.
   La Sala del Giudizio, di forma esagonale, era gremita d’esponenti di tutte le caste, invitati ad assistere all’evento. Si assiepavano sulle tribune, come spettatori di una tragedia teatrale. Al centro, in posizione rialzata, sorgeva il trono dell’Imperatore, avviluppato dai vapori biancastri che filtravano dal pavimento. Il monarca era lì, seminascosto dai fumi. Solo il bagliore dei suoi occhi gialli – sei in tutto – filtrava attraverso la cortina fumogena. Ora quegli occhi erano fissi sul Supervisore, che giaceva prostrato innanzi al trono, intento a fare rapporto sull’umiliante disfatta. Nessun altro dei presenti osava trasmettere i suoi pensieri, per non arrecare disturbo.
   Al termine del resoconto, il Supervisore tacque e restò in attesa del giudizio. Sapeva che il suo destino era appeso a un filo. Quando un comandante militare subiva una grave disfatta, spettava all’Imperatore decidere la sua sorte... e anche quella delle truppe superstiti.
   Dopo un breve silenzio, qualcosa si mosse tra i vapori del trono. Mentre i sei occhi continuavano a fissare il Supervisore, senza sbattere mai, quattro tentacoli si agitarono e schioccarono come fruste. Fu l’unico rumore della sala, dato che il dibattito avveniva per via telepatica. «Maestro Formatore, hai qualcosa da aggiungere al rapporto del Supervisore?» chiese il sovrano.
   L’interpellato si fece avanti, prostrandosi a sua volta. «Vostra Maestà, il rapporto è stato esaustivo e veritiero» trasmise telepaticamente. «C’è un solo dettaglio che il Supervisore ha trascurato. Dopo che gli avventurieri s’infiltrarono sulla stazione, liberando i prigionieri, il nostro compianto Ufficiale Tattico suggerì di chiedervi rinforzi. Questi ci sarebbero stati preziosi per proteggere la stazione, garantendo la buona riuscita dell’operazione. Ma il Supervisore rigettò il consiglio, preferendo procedere con le forze già a sua disposizione. In effetti, credo che non abbia nemmeno inoltrato un rapporto di quel primo incidente» rivelò.
   «Non l’ha fatto, o ne sarei stato informato» confermò l’Imperatore. «Dimmi, perché non mi hai avvertito?» chiese al Supervisore.
   «Io... non volevo annoiarvi con quello che allora sembrava un incidente di scarsa importanza» rispose questi, fissando il pavimento.
   «Di scarsa importanza?!» s’incollerì l’Imperatore, facendo schioccare i tentacoli. «Una nave nemica giunge occultata nel tuo sistema, senza che tu riesca a rilevarla. Una squadra nemica s’infiltra nel tuo quartier generale e libera dei prigionieri di grande valore. Tutto questo, mentre stai per ghermire un altro pianeta... e ti sembrano fatti irrilevanti?! Avresti dovuto informarmi seduta stante, e chiedermi rinforzi. Io te li avrei concessi. Invece hai temuto di apparire debole... hai temuto che ti togliessi l’incarico... tanto che hai preferito procedere con quello che avevi. E così facendo hai perso tutto!». Lo sguardo imperiale passò brevemente allo scienziato. «Dimmi, Maestro Formatore: in caso di rinforzi, ritieni che la battaglia avrebbe avuto un esito più favorevole?».
   Il Supervisore guardò il Formatore, come implorandolo di dire di no. Ma lo scienziato lo ignorò del tutto. «Non sono un militare, Vostra Maestà, ma non occorre esserlo per constatare che ci sarebbero bastate poche bionavi in più per vincere» dichiarò. «Anzi, sarebbe bastato che il Supervisore ne tenesse di meno a sorvegliare Arena e di più a proteggere la stazione durante l’apertura dell’interfase» aggiunse.
   Il Supervisore strinse i pugni, accorgendosi che il secolare conflitto tra scienziati e militari stava per mietere un’altra vittima: lui stesso.
   «Quindi sei stato anche maldestro nel gestire le forze che avevi» constatò l’Imperatore, tornando a concentrarsi sull’imputato. «Adesso serviranno anni per costruire un nuovo impianto mietitore. Anni di ritardo, che permetteranno ai federali di organizzarsi contro di noi. E se la Destiny informerà anche gli altri, presto ogni potenza del Multiverso saprà cos’abbiamo fatto ed esigerà vendetta. Alla luce di tutto questo... hai un’ultima dichiarazione da fare, prima che io emani la mia sentenza?».
   «Sì» rispose il Supervisore, rialzando il capo. «Mi assumo la piena responsabilità dell’accaduto. Sono pronto a pagare per i miei errori. Vi chiedo solo questo, Altezza: risparmiate le mie truppe, perché esse non hanno colpa. Hanno solo obbedito ai miei ordini».
   «Così sia» concesse l’Imperatore. «I superstiti saranno reintegrati nella mia flotta. Quanto a te... sei condannato a morte per la sfiducia nei miei confronti e per l’incompetenza che ha provocato questo disastro militare. La sentenza sarà eseguita immediatamente».
   Ciò detto il monarca si alzò dallo scranno e si fece avanti, uscendo finalmente dalla colonna di vapori, così che tutti lo videro. Era gigantesco, tanto da torreggiare sul pur imponente Supervisore. La sua forma era ancor più aliena, per via dei quattro tentacoli che gli uscivano dalla schiena e dei sei occhi giallastri che spiccavano sull’enorme testa triangolare. Anziché violacea, la sua epidermide era nera come la pece. Nel silenzio degli astanti, l’Imperatore scese la ripida pedana innanzi al trono, finché fu davanti al Supervisore prostrato. Per un attimo lo osservò dall’alto in basso, con aria sdegnata. Poi i tentacoli scattarono, conficcandosi in profondità nelle carni del Supervisore. La corte assistette in silenzio: esecuzioni di quel genere erano rare e avevano un certo impatto, perché ricordavano che nessuno era al di sopra del giudizio imperiale.
   La vittima s’irrigidì e rantolò, ma non fece alcun serio tentativo di sfuggire alla sua sorte, sapendo che le guardie dell’Imperatore sarebbero intervenute all’istante. Tutti videro che i tentacoli del sovrano pulsavano allo stesso ritmo incalzante, assorbendo i liquidi organici dell’altro. L’Imperatore stesso si rinvigorì: i muscoli si gonfiarono e la pelle divenne più elastica, quasi fosse ringiovanito.
   Al Supervisore accadde l’esatto opposto. La sua pelle s’incartapecorì, mentre l’organismo privato dei liquidi si rinsecchiva. Ben presto l’Undine fu ridotto a un essere scheletrico: persino i suoi occhi s’infossarono, divenendo ciechi e lattiginosi. Si accasciò sul pavimento, scosso dagli ultimi sussulti d’agonia. Infine la sua carcassa disseccata giacque al suolo, simile a un’antica mummia. Allora l’Imperatore ritirò i tentacoli, raccogliendoli attorno a sé, e alzò lo sguardo, rivolgendosi al vasto auditorio.
   «Miei sudditi, avete assistito a quest’atto di giustizia» annunciò. «Ma ciò non cancella il disastro militare. In questo momento la Destiny sta informando i nostri avversari delle sue scoperte. Dobbiamo prepararci a un duro conflitto. Il che rende ancor più importante avere la piena cognizione delle abilità e delle strategie nemiche. Pertanto gli esperimenti su Arena continueranno, sotto una nuova supervisione».
   Gli Undine ascoltarono ancora più attentamente, aspettandosi che il sovrano nominasse un nuovo Supervisore; ma non fu così.
   «Quanto accaduto mi costringe tuttavia a cambiare atteggiamento. Troppo a lungo ho atteso in questo luogo vigilato, delegando ad altri le decisioni cruciali. Ho riposto la mia fiducia nell’Esaminatore, e lui mi ha deluso. Poi l’ho riposta nel Supervisore, e anche lui mi ha deluso» proseguì il monarca, accennando ai resti avvizziti di quest’ultimo. «Adesso basta: è tempo che io prenda in mano la situazione. Preparate la mia nave!» ordinò agli attendenti militari. «D’ora innanzi dirigerò personalmente le operazioni. E mi assicurerò che quei miseri avventurieri siano i primi a pagare» dichiarò, dardeggiando gli occhi giallastri. La corte lo acclamò, mentre l’Imperatore scopriva le zanne in un ghigno famelico, pregustando il piacere della vendetta.
 
 
FINE
 
 

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