Writober workshop

di drisinil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 4 ottobre - (essere una) LANTERNA ***
Capitolo 2: *** 5 ottobre - CANDIDO (come il sangue) ***
Capitolo 3: *** 7 ottobre - (qualche buon) CONSIGLIO ***
Capitolo 4: *** 6 ottobre - RETROSCENA (che era meglio non conoscere) ***
Capitolo 5: *** 8 ottobre - NERO (come l'ala del corvo) ***
Capitolo 6: *** 9 ottobre - ETEREO (è lo spazio fra noi che si annulla) ***



Capitolo 1
*** 4 ottobre - (essere una) LANTERNA ***


4 ottobre - (essere una) LANTERNA


«Qual è la cosa al mondo che ti fa più paura?» gli chiese a bruciapelo entrando, prima ancora di essersi tolto lo zaino e sfilato la giacca.

Gli piaceva lanciargli addosso quel genere di domande sui massimi sistemi, perché le sue reazioni valevano sempre la pena. Era sincero, e anche quando si trincerava nel silenzio o nel turpiloquio, non cadeva mai nella banalità. Se rispondeva in modo superficiale, lo faceva di proposito.

Però quella domanda, per qualche motivo, non riuscì a farsela scivolare addosso come tante altre. Si prese il tempo di completare il movimento di flessione del busto fino ad avere la guancia appoggiata sotto al ginocchio ossuto. Da quella posizione, scomoda per chiunque tranne che per lui, gli sollevò addosso due occhi piccoli, allungati e penetranti che smentivano la sua età, anche più cupi del solito.

Lo guardò e alla domanda non rispose, invece si allungò ancora, fluido e disarticolato come un gatto. Non stornava lo sguardo, sembrava che stesse soppesando la situazione, l'opportunità di tacere o di mentire.

Lui non lo forzò, non sarebbe servito a niente. Restò ad aspettare, si cambiò la maglietta, si infilò le scarpe.

Voleva capirlo. Gli avrebbe aperto la testa, se avesse potuto, per guardarci dentro, scavare nei segreti sepolti chissà dove, troppi per i pochi anni che aveva; seguire il filo di tutti quei pensieri che, lo sapeva, non sarebbero mai e poi mai arrivati alle labbra,

Forse quello che uno come lui temeva di più al mondo erano le parole.

«Il buio» disse invece. E come spesso accadeva, il poco che gli usciva di bocca aveva un colore, un sapore e un odore. Quelle tre sillabe, per esempio, puzzavano di verità tanto forte che avrebbe voluto lavarle, smacchiarle, ripulirle per lui.

«Sai che ti dico? Oggi non ci alleniamo.»

«Eh? Perché?»

«Cambio di programma.»

«Perché dobbiamo cambiarlo?»

«Perché ho deciso così» rispose, arrogante, iniziando già a levarsi le scarpe che si era appena infilato. «Io me ne vado. Tu, se non vuoi, non venire.»

Era un'arroganza vera solo in parte, sapevano entrambi che l'avrebbe seguito comunque, recriminando quel tanto che bastava per salvare la faccia.

«Dove vuoi andare?»

«A Jongno.»

«In centro? Non se ne parla, vacci da solo. A fare che, poi?»

«Lo sai che giorno è oggi?»

«Un giovedì del cazzo in cui fai lo stronzo?»

«Serve essere volgari?»

«Con te sì, se voglio che mi ascolti.»

«Dici un sacco di scemenze, ecco perché non ti ascolto. Allora, vieni o non vieni?»

«Non vengo» disse, sfilandosi di dosso la maglietta e lanciandola per terra con stizza. Era già una resa.

Due minuti dopo erano in strada, uno con la divisa scolastica e lo zaino, l'altro con la tuta da ginnastica, lo sguardo insofferente e le mani affondate nelle tasche. La differenza di altezza fra loro a rimarcare altre distanze meno visibili.


Non lo sapeva davvero, che giorno era.

Con le cose che lui sapeva e non sapeva, ci si sarebbe potuto compilare un elenco che a leggerlo a voce alta sarebbe sembrato assurdo: ignorava la maggior parte di ciò che era scontato per tutti e possedeva di contro nozioni aliene al resto del mondo. Forse il suo mondo non era proprio lo stesso degli altri, vibrava su una frequenza leggermente diversa e per questo lui era così.

Qualche volta sentiva di odiarlo.

Ma quel giorno no, non lo odiava. Quel giorno, anche se lui non lo sapeva, era Yeondeunghoe, la festa delle lanterne di loto.

Entro poche ore, le strade del centro sarebbero state traboccanti di gente, di colore e di luce, molta più luce di quanta avrebbe potuto mostrargliene, molta di più di quanta ne serviva per vincere qualsiasi buio, per quanto profondo. Provava un desiderio famelico e nuovo di essere luce lui stesso. Un faro. Un'esplosione. Un sole.

Avrebbero costruito una lanterna anche loro, forse nella lista delle cose lui che non sapeva fare, c'era anche quello. O forse no.

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Capitolo 2
*** 5 ottobre - CANDIDO (come il sangue) ***


5 ottobre - CANDIDO (come il sangue)

Ci aveva pensato parecchio, a cosa avesse quel tizio di speciale.

A parte come danzava, che forse era la cosa più importante, talmente perfetto da far tremare il cuore di freddo e commozione insieme.

C’era dell’altro, però, e capire cosa fosse non era stato per niente facile. 

Alla fine ci era arrivato: era il colore. Il suo colore.

Bianco. Non solo i piedi, le mani, i vestiti. Era bianco tutto, interamente, impregnato di bianco da fuori a dentro.

Non però trasparente, inconsistente, traslucido. No, proprio bianco, un bianco denso e pastoso, steso a grandi manate grossolane, grumoso e opaco come intonaco fresco.

Bianchissimo. Accecante. Fastidioso, perfino, quando si stagliava contro lo sfondo di un mondo a colori spenti, esausto, con più ombre che luci. 

Bianco, ma candido no. Il candore richiede ingenuità, illusioni, mancanza di malizia, lui quelle qualità non ce le aveva. Era troppo bravo a parole, tanto per cominciare. Aveva un lato egoista. Mentiva, talvolta. Barava. Ma non poteva comunque sporcarsi: il grigio lo sfiorava appena sui bordi, poi subito si ritraeva nella propria ombra, scivolando via senza aderenza. Perché gli altri colori lui li ingoiava senza pietà, li mordeva, li masticava, li digeriva e li assimilava. Mancava solo che ruttasse, saturo di tutte le frequenze, ma no, non avrebbe mai fatto una cosa tanto volgare.

Un bianco inarrivabile, se avesse potuto dargli un solo aggettivo avrebbe scelto quello. Freddo, come certe luci che si accendono all’improvviso di notte, mentre latrano i cani. Bianco di altezze vertiginose, idee astratte, nevi non ancora cadute. 

Per questo, forse, era così alto, e quando saltava, all’apice dell’elevazione, chissà cosa riusciva a vedere che al resto del mondo era precluso: certezze, direzioni, connessioni, significati nascosti nelle cose.

Era il motivo per cui, suo malgrado, si ritrovava sempre a guardarlo a bocca aperta e poi a infilare i piedi nelle grandi orme che lasciava dietro di sé, nitide, facili da seguire, bianche naturalmente. Erano cose da sfigati, e lo sfigato era lui, ma non poteva smettere di guardarlo. Non voleva smettere di vederlo.

Ed era anche il motivo per cui la distanza fra loro non si sarebbe mai ridotta: mancava lo spazio fisico per stemperare un colore nell’altro, per diluire l’infinita gamma di grigi che li separava. Doveva saperlo benissimo anche lui, come sapeva tutte le cose, ma probabilmente non gliene importava nulla. 

Gli veniva sempre da chiedersi se non avesse bianco anche il sangue. Pensava di sì, e avrebbe voluto versarlo, per vedere se aveva ragione.

 

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Capitolo 3
*** 7 ottobre - (qualche buon) CONSIGLIO ***


7 ottobre - (qualche buon) CONSIGLIO

 

«Ti do un consiglio, stronzo» ringhiò. Era proprio un ringhio ferino, parole basse che vibravano con astio, mentre scopriva i denti. «Vedi di sceglierla meglio, la gente da insultare.»

L’altro esitò, la situazione gli era nuova: di solito era lui quello che teneva qualcuno per il bavero e lo minacciava.

«Non ci siamo» sbuffò spazientito, spingendolo più forte contro il muro, finché non gli si accartocciarono la guancia e la palpebra. Un rivolo di muco gli colava dal naso direttamente in bocca, il che era disgustoso.

«Scusa. Ti chiedo scusa!»

«A lui!» sibilò, strattonandolo. «A lui, devi chiedere scusa, brutto stronzo, non a me!» 

Spinse ancora, finché la sua vittima iniziò a lacrimare e boccheggiò. Tremava.

«Adesso basta. Lascialo» ordinò una voce gentile.  Una mano si materializzò sulla sua spalla e la strinse. Non una stretta forte, ma decisa, calda e ruvida appena quel che bastava per lasciarsi ammansire, suo malgrado.

«Perché dovrei?»

«Perché così passi dalla parte del torto.»

«La parte del torto è quella in cui le prendi.»

«Lascialo, dai.»

«No» s’impuntò, opponendo tutta la resistenza possibile al desiderio latente e infido di obbedire.

«Ti infastidisce così tanto che sparlino di te? Lascia perdere, passaci sopra.»

«Su di me possono dire il cazzo che vogliono. Ma su di te non si devono azzardare» obiettò, con un’ultima spinta violenta, prima di mollare la presa. Il tizio prese una larga boccata d’aria e poi si accasciò lentamente, scivolando con la schiena lungo il muro, fino a terra.

«Ora scusati con la persona giusta» gli intimò, stavolta senza alzare la voce.

«Scusa!» piagnucolò, asciugandosi le lacrime con le maniche della camicia e il dorso delle mani. «Scusami tanto» ripeté, rivolto a un paio di calzini che spuntavano da due scarpe costose.

«Scuse accettate. Il mio amico è un po’ suscettibile su certi argomenti» spiegò il proprietario dei calzini. Era quello con la voce gentile, che ora però suonava ostile e melliflua. «Sai? Anch’io vorrei darti un consiglio: fossi in te eviterei di raccontare troppo in giro questa faccenda. Non hai una buona fama. Ho la sensazione che, se dovesse finire la tua parola contro la mia, non è a te che crederebbero…»

Si scusò ancora, ma quando trovò il coraggio di sollevare gli occhi, stava parlando da solo, a due schiene che si allontanavano, condividendo lo stesso passo con falcate diseguali. Quale dei due fosse più pericoloso, non aveva voglia di scoprirlo.

 

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Capitolo 4
*** 6 ottobre - RETROSCENA (che era meglio non conoscere) ***


 

6 ottobre - RETROSCENA (che era meglio non conoscere)

 

Esitò solo qualche momento, con il dito sul campanello. Deglutì e gli parve che la saliva fosse amara.

Non era fiero di sé.

Non si può esserlo sempre, del resto. Più cresceva e più diventava chiaro, questo concetto sfuggente, che la coscienza talvolta deve cedere rispetto alla necessità.

La dignità è un lusso.

Non le parole che uno si aspetterebbe da un quindicenne con le braccia sepolte nelle tasche dei pantaloni fino al gomito, la tuta bucata e lo sguardo sempre traverso. Lo stesso quindicenne che si riempie la bocca di pollo fritto fino a non poterla chiudere per masticare.

Gli aveva chiesto in che senso la dignità fosse un lusso, che tipo di lusso, riservato a chi.

A chi è libero - aveva risposto. E poi si era rimesso a fare battement alla sbarra, come un automa.

Non aveva ancora deciso se come risposta avesse senso, ma iniziava a sentirsi esausto di tempestarlo di domande che venivano sistematicamente ignorate. Aveva bisogno di trovare risposte, anche se significava venire a patti con la coscienza.

In realtà forse la sua coscienza era al sicuro, visto che sembrava proprio che nessuno sarebbe venuto ad aprirgli.

Si guardò intorno. Un corridoio, porte tutte identiche con grandi numeri squadrati, come camere d’albergo. 306 era quella di fronte cui stava aspettando.

Provò a immaginarlo lì, che calpestava la moquette polverosa, sbucando dall’angolo del corridoio, silenzioso come un gatto. Che gli avrebbe detto se l’avesse incontrato?

Come si sarebbe giustificato per un’invadenza così feroce? Non ne aveva idea. 

Eppure era convinto di non essere il tipo di persona che affronta gli eventi senza un piano. Stavolta, niente piano. Del resto a quell’ora doveva essere a scuola,seconda lezione: matematica, forse l’unica materia che un po’ gli piaceva.

C’era silenzio, qualche rombo di motore all’esterno, un cigolio di molle dal numero 308, lo scarico di un bagno, il canto di un uccello. Quel posto aveva qualcosa di strano e posticcio che non riusciva a inquadrare, qualcosa di troppo e qualcos’altro che invece mancava.

Suonò ancora, se doveva giocarsi la coscienza poteva anche concedersi un minimo di maleducazione. Non accadde nulla, tutta la trepidazione che aveva in corpo, come preludio a chissà quali grandi rivelazioni, esplose in una bolla di delusione, con un piccolo scoppio sordo.

Aspettò ancora, suonò una terza volta il campanello.

La porta si aprì quando ormai stava per rinunciare.

Si aprì e si bloccò quando la catenella di sicurezza si tese. Nello spiraglio apparve il segmento di un viso di donna. Metà bocca sbaffata di rossetto, un occhio gonfio di sonno, una ciocca di capelli sfatti.

«Chi sei? Che vuoi?»

La zaffata di soju di cattiva qualità arrivò prima e meglio del senso della frase. 

Tuttavia lui presentò e si inchinò, educato e formale come sapeva essere quando voleva piacere agli adulti. Non disse cosa voleva, perché non avrebbe saputo spiegarlo. 

Voleva rendersi conto di dove lui viveva, e come, e con chi, in che situazione. Se la povertà di cui portava i segni era più o meno avvilente di come se l’era immaginata; se i segreti che custodiva erano lì chiusi a doppia mandata dietro una porta numerata, oppure sepolti in profondità, mischiati fra le ossa; se la passione testarda che metteva nelle cose, la poesia che debordava dai suoi movimenti avessero un’origine, una causa, una ragione comprensibile.

Contava sulla propria sensibilità, per avere tutte quelle risposte, e sulle regole base della vita civile che imponevano di far entrare in casa un ospite, qualsiasi fosse il motivo della visita. Si immaginava di entrare facilmente, di imbastire una scusa, trovare le sue risposte e andarsene. Mentre riepilogava questo piano, si rese conto che era privo di fondamento e non era da lui tanta disaccortezza. Aveva voluto andare lì più di quanto fosse razionale.

Comunque, nessuno lo invitò, la porta non si aprì più di pochi centimetri, la donna continuava a guardarlo male. Aveva gli stessi occhi di lui, affilati e profondi, piccoli e brutali. 

«Che vuoi?» ripeté, con la voce spezzata da un singhiozzo.

«Sono un compagno di scuola di suo nipote.»

«L’hai già detto. Ha fatto qualche cazzata, la mia rondinella?» rise, sguaiata. Quando si voltò di profilo, il sole del corridoio le bagnò il viso e i capelli. Era alta, snella, ben fatta, vestita troppo poco. Si portò alle labbra una bottiglia e piegò il collo all’indietro, il mento rivolto al soffitto, nel tentativo di far scendere qualche goccia che però non c’era. Imprecò, lanciando la bottiglia attraverso lo spiraglio.

«Era vuota» si lagnò, contrariata. «Allora? Che ha combinato? Devo pestarlo? Sai che non posso pestarlo, basso com’è, quello picchia più forte di te e di me messi insieme.»

Si aggrappò con la mano all’anta blindata, le unghie erano mangiate fino alla radice, la pelle rovinata e callosa. Non poteva avere più di trentadue o trentatré anni, ma le sue mani parevano aver vissuto il doppio di lei.

«Vai a prenderla» ordinò, indicando la bottiglia.

Lui eseguì e gliela passò, lei la afferrò con malgarbo e la lanciò all’interno. Si udì l’impatto del vetro sul pavimento, senza schianto.

La donna vacillò, recuperò a fatica l’equilibro e si pulì le labbra con la mano, sbaffando ulteriormente il trucco. Poi si sporse nello spiraglio, fissandolo con le pupille dilatate, che le allagavano gli occhi di un nero ubriaco. 

«Senti, bello, dammi retta: stai alla larga da quello lì, che è meglio per te.» Parlava inciampando nelle sillabe, o forse nei suoi stessi pensieri sconnessi.  «È pericoloso, e anche un po’ matto, se vuoi la mia. E ti dico anche che ha le sue buone ragioni per esserlo, cazzo! La vita è una merda, lo sapevi?»

Ogni tanto, ne aveva il sospetto. Tuttavia tacque e la lasciò proseguire.

«No che non lo sai, guardati, di chi sei figlio? Di un professore? Di un dottore? Puzzi di soldi da capo a piedi. Ma che hai a che fare tu, con noi?» 

Era piuttosto chiaro che non si aspettasse una risposta, lasciò cadere la testa in avanti, come se non riuscisse più a sorreggerla.

«Fa freddo» osservò. Non era vero, ma non gli parve il caso di contraddirla.

Quando risollevò con fatica la testa, passò una ventina di secondi a scrutarlo, percorrendo con lo sguardo tutti i suoi lineamenti. Sembrava che lo odiasse

«Fanculo» lo salutò di punto in bianco, sbattendogli la porta in faccia. Era finito un qualche conto alla rovescia di cui non si era accorto. Un istante dopo i versi sofferenti dei conati di vomito si diluirono nel corridoio esterno.

Rimase a fissare la porta per un po’, poi imboccò le scale e le discese lentamente, lasciandosi cadere verso il basso. Qualcosa dentro di lui era precipitato. Non come un corpo che cade dall’alto, ma come precipitano le sostanze chimiche, separandosi dalla parte più leggera della propria essenza e cambiando forma, stato e natura.

Si sentiva diverso come se negli specchi che aveva dentro, non riuscisse più a riconoscere se stesso, né l’altro.

È strano come un’idea nuova, mai pensata, mai immaginata prima, a un certo punto produca una rotazione interiore, un cambiamento di prospettiva che regala a tutto il mondo un senso nuovo. Lembi di realtà che prima non avevano alcuna relazione, si incastrano alla perfezione e compongono una figura completa, sensata, senza più nessuno strappo visibile

Rondinella.

Il buio.

La dignità è un lusso.

Smettila di pensare di consocermi.

Ha le sue buone ragioni.

Quando danzo, non esiste niente prima e niente dopo di me.



 

L’idea era straniante, ma i pezzi combaciavano.

Nell’androne al piano terra due vecchi stavano improvvisando un pansori pieno di amarezza. Non era uno di quelli famosi, non lo aveva mai sentito, il testo parlava di un uomo che abbatte l’albero che accudiva quando capisce che il suo sogno d’amore è fallito. Fra le fronde dell’albero caduto, l’uomo si toglie la vita, avendo perso, oltre che l’amore, anche la speranza e uno scopo esistenziale.

Pensò di applaudire, ma poi cambiò idea e si allontanò. 

Uscendo, restò folgorato dalla targa metallica appesa in bella vista sul muro che fiancheggiava la porta d’ingresso. Lesse il testo una volta. Due volte. Dieci volte. Sperava ogni volta di aver frainteso, ma la targa non cambiava mai.

Un gelo paralizzante risalì dal terreno e lo trapassò, dalle piante dei piedi al cervello, come un fulmine al contrario. Chiuse gli occhi, li aprì e la targa era al suo posto..

Li chiuse ancora, strizzandoli forte. Nulla cambiò. Tranne la consapevolezza, che cambia sempre tutto. A meno di non essere un codardo egoista, nel qual caso è solo un problema di quanto a fondo riesci a spingere la testa sotto la sabbia.

La sabbia gli pizzicava il collo e le spalle. 

Non era fiero di sé.

 

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Capitolo 5
*** 8 ottobre - NERO (come l'ala del corvo) ***



 

8 ottobre - NERO (come l’ala del corvo)


I corvi non temono la neve. 

Ci camminano in mezzo, con piccoli balzi spavaldi, ci immergono il becco,  

si bagnano, scivolano, rotolano, saltano frullando le ali, sembra che si divertano. 

Il giorno in cui ha visto i corvi giocare nella neve, 

stava aspettando di chiudere gli occhi e farsi abbracciare dal freddo. 

Sarebbe successo, perché le rondini non sono fatte per la neve: sfrecciano in stormi nei cieli estivi, precipitano a volo radente sull’acqua, 

sono instancabili e insaziabili, ma il gelo le sfianca. La solitudine le uccide.

Il corvo no. Scaltro, forte, vorace, opportunista, 

il corvo sopravvive giocando con il dolore di vivere. 

Allora ha deciso che voleva essere corvo.

Quindi gli occhi li ha aperti, e nella neve, quel giorno, ha giocato anche lui.



 

Vederlo aggirarsi fra le proprie cose gli produceva una sensazione ambigua, di soddisfazione e al contempo di disagio, come se fosse tutto troppo fragile rispetto alla sua presenza, troppo stretto per contenere le linee del suo corpo, lunghissime a dispetto della statura, per una sorta di illusione che viveva solo nel movimento. 

Da fermo era solo un ragazzino basso e troppo magro, stranamente ingombrante in una casa enorme.

Gli sguardi taglienti avevano lasciato il posto a una sommessa curiosità, come se stesse visitando un museo di qualche antica civiltà, e si domandasse quale funzione svolgessero gli oggetti esposti nella teca. La teca era la casa intera, gli oggetti loro che la abitavano.


A sua madre, che li aveva accolti, aveva offerto un inchino profondo e occhi più attenti e indagatori del solito. Nessun sorriso, nessuna ingenuità, nessuna goffaggine da adolescente. Si era presentato in uniforme scolastica, però, anziché non con la solita tuta e in questa sottigliezza lui ci aveva letto uno sforzo silenzioso e un chiaro atto di rispetto.

Gli stava facendo strada, quando sentì interrompersi il suo passo e, voltandosi, lo vide fermo di fronte a una pergamena attaccata alla parete.

«Cos’è?»

«Ti piace?»

Non lo irritava mai che si rispondesse a una domanda con un’altra domanda. Forse non era abituato a ricevere risposte, perché lui non ne dava. Forse, semplicemente, amava  le domande.

«Sì.»

«Perché?»

«Tipo che… è bello?»

«Ricordami com’è che ti hanno stracciato a quella gara di dibattito?»

 

Come risposta, alzò il dito medio, ma gli riuscì meno bene del solito il gioco di prestigio di nascondere un mezzo sorriso. Restò intrappolato nelle rughe di espressione intorno agli occhi assottigliati e le labbra lo catturarono per un attimo.

 

Ormai quando lo vedeva sorridere, iniziava a sembrargli un trionfo personale.

 

«È bello. È bello come il nero spicca sul bianco, con quella forma tutta strana…» la imitò con la mano, muovendo il braccio come se fosse un pennello. Per un attimo, il giallo dei faretti si sciolse, il ballatoio perse consistenza, la polvere si fermò sospesa in aria e il disegno apparve dal nulla, liquido di luce.

Quando abbassò il braccio, non era rimasto nulla, se non il ritardo impercettibile con cui la mano seguiva l’andamento del polso, con una grazia assoluta e assolutamente inconsapevole.

 

Deglutì per essere sicuro di aver chiuso la bocca, da quando lo conosceva aveva imparato a controllare di non lasciarla spalancata. Parlò soltanto per mascherare lo smarrimento: «Quindi è puramente una questione cromatica?»

 

Lui si strinse nelle spalle, spazientito. «Ohi, ma che ne so! Sei tu il secchione figlio di papà. È un bel nero. Punto. Nero intenso come…»

Storse la bocca, batté le palpebre e si voltò a guardarlo con la faccia malfida che faceva quando gli veniva il sospetto di essere preso in giro.

 

«Eddai, che cavolo, finisci una frase, ogni tanto! Mi viene il nervoso a sentirti parlare a rate.»

 

Gonfiò le guance e sbuffò via l’aria lentamente. «Nero intenso come l’ala del corvo» disse. «Sulla neve bianca. I corvi sulla neve, non so se li hai mai visti, quando ci giocano sono… un po’ così» e indicò la pergamena con un cenno del capo. Poi subito stornò lo sguardo, affondando le mani nelle tasche e fissandosi i piedi, come se avesse appena fatto chissà quale dichiarazione imbarazzante.

 

Avrebbe voluto saperne di più, perché sotto quel discorso, sotto tutti i suoi discorsi, anche quelli che sembravano banali, c’erano sempre strati e strati di significati inaccessibili. Si rese conto, però, di non avere le forze per sostenere un terzo grado, per scavare, per discutere, per sopportare altri silenzi; ne aveva a malapena per ridere di lui e così fece.

 

Lui si irritò, si morse le labbra, gli affibbiò un finto spintone che lo fece solo ridere più forte. «Allora, me lo dici che cazzo è?»

«E’ una pergamena.»

«Ma va? E io che pensavo fosse carta igienica usata appiccicata al tuo muro… »

«Idiota. Si chiama shodou

«Cosa? La pergamena? Il tizio che l’ha dipinta?»

«La forma d’arte. Shodou è l’arte giapponese della calligrafia, come il seoye*, ma con i kanji giapponesi. Quella l’ha dipinta una mia parente.»

«Hai parenti giapponesi?»

«La sorella del mio bisnonno era sposata con un giapponese, vivevano a Osaka mi pare. Ma è roba di un secolo fa, durante l’occupazione, sai, quando ci furono un sacco di matrimoni misti… »

 

La storia non era il suo forte, tuttavia ci pensò su. Quando pensava, gli occhi diventavano ancora più piccoli e impenetrabili, una barriera per proteggere i pensieri, come se avessero potuto sfuggirgli e lasciarlo indifeso. Sembrava un impulsivo, ma non lo era per niente. «A lei piaceva?»

«A chi? Alla mia pro-pro-zia? Intendi il marito o il Giappone?»

«Boh, tutti e due.»

«Non lo so. È morta un sacco di tempo fa.»

«Non penso che esista qualcuno a cui piaccia essere cacciato via da casa sua. Stare dove nessuno ti vuole ti fa marcire l’anima.» 

Era così con lui: discorsi casuali diventavano importanti all’improvviso, senza un motivo logico apparente. La tensione si alzava e qualcosa di lui diventava avvicinabile proprio in quei momenti; sfruttarli sembrava in qualche modo immorale.

«Erano altri tempi. E comunque non t’immaginare una specie di drama, non credo proprio che l’abbiano cacciata. La Corea era ridotta male, lei ha avuto un’opportunità: è andata a stare in una bella casa, si è fatta una famiglia. Per me era contenta.»

Si voltò a fissarlo. «E tu come lo sai? Non è morta un sacco di tempo fa?»

 

Si sentiva sull’orlo di un burrone, un passo falso e sarebbero precipitati entrambi. Scelse di nascondersi dietro un sorrisetto arrogante. «Allora? Quel Kanji: sai cosa significa?»

«Fanculo chi legge?»

«Devi per forza essere volgare?»

«Devi per forza farmi domande idiote? Ti pare che conosca il giapponese? Se me lo vuoi dire, me lo dici, altrimenti non rompere.»

«A cosa ti fa pensare? Ai corvi nella neve?»

Scosse il capo e inclinò la testa da una parte, con un broncio riflessivo un po’ infantile. Guardava la tela come se dovesse entrarci dentro. Per un attimo, sembrò che dovesse farlo.

Poi lanciò via la borsa di scuola, e quel gesto rallentò il tempo abbastanza per cogliere ciò che seguì: le sue braccia che si aprivano e il suo corpo che si lanciava in una pirouette con la gamba flessa, a velocità folle e irragionevole. La terminò in alto, con un impossibile salto verticale, una sequenza che non aveva un nome perché non esisteva e non aveva alcun senso estetico. Per un attimo sembrò che il soffitto di quattro metri non fosse alto abbastanza, che l’avrebbe bucato e sarebbe volato via. Invece atterrò, con un tonfo sgraziato.

 

«Che cavolo era quella roba?»

Invece di rispondere indicò la pergamena con l’indice teso.

Ora non aveva più voglia di dirglielo, il significato quel kanji, ma lo fece lo stesso: «Significa danza

Lo vide sgranare gli occhi, e poi sorridere, senza cercare di dissimulare. Un vero sorriso, che gli sgusciò sulle labbra partendo da chissà dove. Forse il primo sorriso spontaneo da quando lo conosceva. 

Si spense in fretta, come un fuoco fatuo, ma non aveva molta importanza, sapeva benissimo che l'avrebbe ricordato per sempre.




***
*seoye è l'arte della calligrafia coreana, anticamente con caratteri cinesi hanjia, più di recente con l'alfabeto coreano hangul.
 

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Capitolo 6
*** 9 ottobre - ETEREO (è lo spazio fra noi che si annulla) ***


9 ottobre - ETEREO (è lo spazio fra noi che si annulla)


Etereo è una parola che non gli piace.

Fra gli effetti indesiderati della prossimità eccessiva con un secchione figlio di papà c’è la quantità di parole che lui usa e tu non hai mai sentito. Fra sapere di essere idiota e averne continua riprova, c’è una distanza che si può misusare solo in fastidio e imprecazioni.

Eterea, dice lui, è la danza, perché è immateriale e astratta come la perfezione, un punto verso cui tendere. Ora, questa è palesemente (parola nuova) una cazzata.

E non è che sia tanto facile spiegare perché una cazzata è una cazzata. Lo è e basta.

Comunque, ci ha provato.

Ecco un altro effetto molto indesiderato: quel tizio educato e condiscendente (altra parola nuova, che sta usando parecchio) ti fa venire voglia di esprimerti. Di comunicare con lui, di fare in modo che ti ascolti, che capisca quello che hai nella testa.

Non gli era mai successo, prima, che il bisogno di condividere qualcosa superasse lo sforzo, e il rischio, di farlo. Non vuole sapere perché.

E quindi ha provato a spiegarglielo, perché la danza non è eterea. 

Possono esserlo i fisici dei danzatori, e nemmeno quello è vero in modo profondo, perché una cosa potente come la danza non può nascere da un corpo inconsistente.

Gli ha spiegato che, all’opposto, non c’è niente di più concreto del movimento, di ossa e muscoli che forzano i propri limiti, che sfidano le catene del mondo: la gravità che ci inchioda al terreno, l’inerzia (parola nuova) che ci comprime nei nostri angusti (parola nuova) confini, la paura che sbriciola l’ostinazione e violenta la libertà (e ti toglie la dignità, facendoti cagare addosso mentre muori, ma queste sono parole vecchie e  non le ha dette).

La danza non è più eterea di quanto lo sia una legge della fisica o una lingua, che sembrano astratte ma poi fanno volare i razzi sui pianeti e trasformano le idee in azioni, il potenziale in atto.
La danza è resistenza, ribellione, espressione, grido. Nessuna di queste cose è immateriale, o effimera (parola nuovissima, che gli piace).

Non lo sa se lui ha capito.

Ha accolto quel discorso sconnesso (perché le frasi gli escono di bocca sempre molto meno chiare di quando le ha in testa) con un lungo silenzio.

Un buon silenzio, però. Fresco, leggero, senza giudizi lapidari, senza facili indulgenze, niente provocazioni o bugie, nemmeno quell’odioso, impercettibile ritrarsi, come il passo indietro che si fa per prepararsi a una fuga. Un silenzio raccolto, come una tenda sul tetto dove sono distesi, che intrappola un lembo di cielo e lascia filtrare solo rumori lontani e respiri.

Lo ha sentito muoversi, si è voltato sul fianco con un fruscio, consegnando al vento un’eco del suo profumo: di pulito, di sano, di sorrisi facili, di erba nuova che germoglia.
Può chiudere gli occhi e aspirarlo a fondo, al riparo del buio. Se esiste un paradiso, deve avere un odore simile.

«Hai ragione, sai? La danza non è eterea» ha sussurrato. Un sussurro con il potere di penetrazione di un proiettile e più o meno lo stesso effetto distruttivo.

Voleva rispondere con sarcasmo, ma non ci è riuscito.
Invece ha alzato il braccio, puntando l’indice verso una bolla di luce tremula.

«Altair» ha mormorato lui a voce bassissima, rispondendo a una domanda non formulata. È una cosa recente, questa, di intendersi con sempre meno parole. 

Così come è recente questo gioco, di navigare con le dita fra le stelle. Le ha sempre guardate con sospetto, così immobili e fredde, a mostrare direzioni che tanto non portavano da nessuna parte. Ora è diverso.

«Deneb» ha proseguito, seguendo il suo dito che disegna percorsi celesti.

«Arturo. Vega. Giove.» 

«Giove?»

«Il pianeta.»  

«Come sai che è un pianeta?»  

«La sua luce non trema. Perché non è la sua. Un pianeta è solo uno specchio. La luce delle stelle invece danza, come una fiammella. Vedi? È perché viene da dentro.»  

Le parole creano. A volte distruggono. È raro che facciano entrambe le cose insieme, ma è quello che succede questa volta.

Non sa nemmeno se vuole sorridere, si sente stanco e molle, si consegna indifeso al silenzio e si lascia scivolare verso il basso o forse verso l'alto.



«Sei sveglio?»

«Mn.»  

«Dimmi una cosa eterea.» 

Non è un ordine. Non è una domanda. Una richiesta, forse, l'ombra del riflesso di una provocazione, con i bordi ammorbiditi dai sussurri.

È vicino. Sente il respiro caldo soffiato sul collo a intermittenza.

In realtà, ha una risposta. Ce l’ha da subito, non deve nemmeno pensarci. Ma non potrebbe mai ridurla a una sequenza di parole.

Si prende il tempo di sentire la coperta ruvida sotto i polpastrelli, l’impronta del calore del sole che sale dalle mattonelle del lastrico, il frinire testardo dei grilli. Solo allora si volta e lo scruta nel buio. 

Tutto quello che riesce a vedere è una sagoma distesa supina, impastata dalla notte, il pomo d'adamo che si muove su e giù lungo la gola esposta.

Vorrebbe restare a guardarlo, così, per un tempo indefinito, ma deve ancora rispondere. Quindi il braccio di prima lo lascia scivolare fra loro, pochi centimetri, fino a sfiorargli le dita con le proprie. Molto più di un gesto casuale, non abbastanza per un'intenzione consapevole.

Etereo.

Il millimetro che manca è il frutto di una necessità irresistibile, come ricadere dopo un salto, come risolvere la sensibile sulla tonica alla fine di una frase musicale.

Le loro dita si toccano e quello è un contatto (parola vecchia, ma forse anche nuova). Il tipo di contatto che ti accende è ti fa tremare, per la luce che hai dentro.

Il silenzio è musica, le stelle stanno danzando.

 

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