Anatomia dell'Ackerman

di Non Molto
(/viewuser.php?uid=1207187)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Angeli Demoniaci ***
Capitolo 2: *** Il giorno dopo: Rapimento fallito ***
Capitolo 3: *** Cavalleria Quotidiana ***
Capitolo 4: *** Il primo bacio ***
Capitolo 5: *** Dieci anni dopo: Farlan e Isabel ***
Capitolo 6: *** Erwin Smith ***
Capitolo 7: *** "I Didn't Know Any Better" ***



Capitolo 1
*** Angeli Demoniaci ***


Premessa: Anni fa ho pubblicato una storia simile a questa su questo sito con il nome di "Alumina", il titolo era: "Di che colore è la tua anima?" e l'OC di mia invenzione portava il nome di Zhora/Katleya. All'epoca ho dovuto eliminare la storia per alcune problematiche che ho avuto con il profilo ma ora, poiché alcuni lettori erano affezionati al mio racconto, ho deciso di rivisitarla e ripubblicarla. Dunque, se questa trama vi suona familiare è per questa ragione, non si tratta di un plagio. Buona lettura!   

 

 

 

 

 

 

Anatomia dell’Ackerman


 

A Kat Ackerman


 

Parte I


 

Capitolo I

Angeli Demoniaci

 

830, Wall Sina.

La nobile casata degli Chastonay rappresentava da decenni una delle più potenti famiglie all’interno delle Mura. Di loro proprietà era l’altopiano di Asgard, dove da generazioni sorgeva la residenza di famiglia, una tenuta di dimensioni pantagrueliche.

Lord Nikolaj Chastonay era il capofamiglia. Lui e Lady Helvetia, sua moglie, avevano due figli: Erwin e Freya.

Erwin aveva vent’anni e Freya quindici, e per entrambi far parte del clan degli Chastonay era una sfida quotidiana. A Lord Nikolaj e Lady Helvetia non piacevano i due ragazzi, così come a questi ultimi non piacevano i loro stessi genitori. Questo era uno dei motivi per cui tra Freya ed Erwin si era formato un legame fraterno ben saldo.

I due non si separavano quasi mai: andavano a cavallo insieme, studiavano insieme, e via dicendo. Stavano sempre insieme, nel tentativo di guardarsi le spalle a vicenda dai genitori.

Quel giorno pioveva, e i fratelli Chastonay avevano deciso di rifugiarsi in quella che era la loro stanza preferita nell’intero castello: la biblioteca. Era enorme, piena di libri e l’odore della carta era inebriante. Erwin e Freya sedevano vicino a una portafinestra che dava sui giardini, giocando a scacchi.

I due giovani erano fratelli di sangue, ma avevano madri differenti. Erwin era il figlio illegittimo di Lord Nikolaj. Sua madre, Cristina Smith, che all’epoca lavorava per gli Chastonay, era morta dandolo alla luce. Il suo padre biologico l’aveva naturalmente ripudiato, ed Erwin era stato affidato alle cure dello zio materno, Diderik Smith, un semplice insegnante di scuola elementare in un villaggio del Wall Rose. Quando anche quest’ultimo morì, in un incidente, Lord Nikolaj, che non aveva avuto figli maschi, rivolle Erwin con sé poiché aveva bisogno di un erede. Ed Erwin si rivelò l’erede perfetto: alto, bello, forte, sagace, brillante. Era lo scapolo più ambito dall’alta aristocrazia, senza dubbio. Però, a causa del suo sangue bastardo, a Lord e Lady Chastonay non era mai andato a genio.

Questo valeva anche per Freya. Lei invece era figlia legittima degli Chastonay, ma aveva gravi problemi mentali. Quindi, poiché i suoi deliri mettevano in cattiva luce il buon nome della famiglia, i suoi genitori avrebbero di gran lunga preferito non averla mai concepita.

La somiglianza tra Freya ed Erwin era notevole: capelli biondi, così lisci e puliti da sembrare di seta, iridi azzurre, pelle diafana e lineamenti scultorei. Sembravano due creature angeliche. I colori di Freya però, erano leggermente più freddi di quelli di Erwin: la sua chioma era più argentea che bionda e le sue iridi, incorniciate da un taglio oculare a mandorla che le conferiva un’aria particolarmente severa, erano grigio-azzurre. I colori di lui erano invece più lucenti: capelli come il sole a mezzogiorno, iridi come il cielo durante una giornata tersa. Erwin l’Angelo della Primavera, Freya l’Angelo dell’Inverno. 

«Devi fare attenzione» bisbigliò d’improvviso Erwin, rompendo il silenzio. «Il Cappello era qui anche ieri sera».

Freya alzò lo sguardo sul fratello. “Il Cappello” era il nome in codice che i due ragazzi utilizzavano per riferirsi a un uomo che da qualche tempo frequentava la tenuta degli Chastonay. Arrivava la sera tardi a bordo di una carrozza di famiglia, e da quest’ultimo dettaglio s’intuiva che doveva trattarsi di un ospite di una certa rilevanza per Lord Nikolaj. Solo Erwin era riuscito a scorgerlo, perché la finestra della sua camera da letto dava su una delle entrate secondarie del palazzo. Era un uomo molto alto, e portava un lungo cappotto nero e un fedora del medesimo colore, da cui il soprannome “Il Cappello”.

«Carrozza di famiglia, entrata secondaria… Quello è Kenny Lo Squartatore, ne sono certo» aveva detto Erwin, la prima volta dopo averlo visto. «C’erano diversi suoi ritratti sui giornali che leggeva mio zio, pare che sia il tagliagole più spietato di tutti i tempi». Gli Chastonay stavano architettando qualcosa di losco, e quel qualcosa di losco consisteva nel far sparire Freya. Erwin, purtroppo, ne era convinto.

Il giovane era sì lo scapolo più desiderato dell’alta aristocrazia, ma Freya era un elemento che i nobili non mancavano mai di tenere in conto. Marchesi, conti e duchi non volevano di certo che le loro figlie si ritrovassero una pazza delirante per cognata.

Recentemente Lady Helvetia era venuta a sapere che il principe Peter, primo cugino del re, aveva in mente di combinare un matrimonio tra sua figlia Marieke ed Erwin. A frenarlo però, era ovviamente Freya. Con Freya fuori dai piedi, gli Chastonay avrebbero potuto imparentarsi con la famiglia reale.

«Fare attenzione non mi sarà d’aiuto» ribatté Freya. «Sono solo una ragazzina, e anche se mi barricassi nella mia stanza e sprangassi la porta quel tizio troverebbe il modo di sfondarla. E se tu cercassi in qualche modo di difendermi le nostre guardie o i suoi scagnozzi ti metterebbero fuori uso. Accadrà quel che deve accadere, Erwin».

«C’è in ballo la tua vita, Freya. Non puoi reagire in modo così distaccato» sentenziò Erwin, perentorio.

«Ma è l’unica reazione sensata» ribatté lei. «Dimmi, tu hai una soluzione migliore? Scappare, forse? E come? L’intera reggia pullula di guardie. E se anche riuscissi a fuggire, dove andrei? Qui intorno ci sono solo boschi, come sopravvivrei?».

Erwin sospirò, frustrato. «Andrò da Lord Nikolaj. Gli dirò che ho capito le sue intenzioni, e che mi rifiuterò categoricamente di prendere in moglie Marieke Fritz se ti verrà torto anche un solo capello».

«È la rabbia che parla, Erwin» fece Freya. «Se lo facessi, nostro padre ti metterebbe a tacere in un modo o nell’altro, e ti costringerebbe comunque a sposare la principessa. Ti ricatterebbe con la mia vita, magari. E vivremmo entrambi da prigionieri, io in una cella e tu in un palazzo, a fare il damerino di corte. E noi abbiamo altri progetti, se ricordo bene: tu vuoi entrare nel Corpo di Ricerca, e io voglio diventare medico».

Erwin si morse un labbro e guardò la sorella. «E quindi? Che si fa?».

Freya si schiarì la voce. «Non ne ho idea, però… è probabile che Il Cappello non mi uccida nell’immediato. Magari si limiterà a rapirmi, forse per rivendermi o chissà cosa. Proverò… proverò a convincerlo a non uccidermi, Erwin. Altro non mi viene in mente».

Premessa: Anni fa ho pubblicato una storia simile a questa su questo sito con il nome di "Alumina", il titolo era: "Di che colore è la tua anima?" e l'OC di mia invenzione portava il nome di Zhora/Katleya. All'epoca ho dovuto eliminare la storia per alcune problematiche che ho avuto con il profilo ma ora, poiché alcuni lettori erano affezionati al mio racconto, ho deciso di rivisitarla e ripubblicarla. Dunque, se questa trama vi suona familiare è per questa ragione, non si tratta di un plagio. Buona lettura!   

 

 

 

 

 

 

Anatomia dell’Ackerman


 

A Kat Ackerman





 

Parte I


 

Capitolo I

Angeli Demoniaci

 

830, Wall Sina.

La nobile casata degli Chastonay rappresentava da decenni una delle più potenti famiglie all’interno delle Mura. Di loro proprietà era l’altopiano di Asgard, dove da generazioni sorgeva la residenza di famiglia, una tenuta di dimensioni pantagrueliche.

Lord Nikolaj Chastonay era il capofamiglia. Lui e Lady Helvetia, sua moglie, avevano due figli: Erwin e Freya.

Erwin aveva vent’anni e Freya quindici, e per entrambi far parte del clan degli Chastonay era una sfida quotidiana. A Lord Nikolaj e Lady Helvetia non piacevano i due ragazzi, così come a questi ultimi non piacevano i loro stessi genitori. Questo era uno dei motivi per cui tra Freya ed Erwin si era formato un legame fraterno ben saldo.

I due non si separavano quasi mai: andavano a cavallo insieme, studiavano insieme, e via dicendo. Stavano sempre insieme, nel tentativo di guardarsi le spalle a vicenda dai genitori.

Quel giorno pioveva, e i fratelli Chastonay avevano deciso di rifugiarsi in quella che era la loro stanza preferita nell’intero castello: la biblioteca. Era enorme, piena di libri e l’odore della carta era inebriante. Erwin e Freya sedevano vicino a una portafinestra che dava sui giardini, giocando a scacchi.

I due giovani erano fratelli di sangue, ma avevano madri differenti. Erwin era il figlio illegittimo di Lord Nikolaj. Sua madre, Cristina Smith, che all’epoca lavorava per gli Chastonay, era morta dandolo alla luce. Il suo padre biologico l’aveva naturalmente ripudiato, ed Erwin era stato affidato alle cure dello zio materno, Diderik Smith, un semplice insegnante di scuola elementare in un villaggio del Wall Rose. Quando anche quest’ultimo morì, in un incidente, Lord Nikolaj, che non aveva avuto figli maschi, rivolle Erwin con sé poiché aveva bisogno di un erede. Ed Erwin si rivelò l’erede perfetto: alto, bello, forte, sagace, brillante. Era lo scapolo più ambito dall’alta aristocrazia, senza dubbio. Però, a causa del suo sangue bastardo, a Lord e Lady Chastonay non era mai andato a genio.

Questo valeva anche per Freya. Lei invece era figlia legittima degli Chastonay, ma aveva gravi problemi mentali. Quindi, poiché i suoi deliri mettevano in cattiva luce il buon nome della famiglia, i suoi genitori avrebbero di gran lunga preferito non averla mai concepita.

La somiglianza tra Freya ed Erwin era notevole: capelli biondi, così lisci e puliti da sembrare di seta, iridi azzurre, pelle diafana e lineamenti scultorei. Sembravano due creature angeliche. I colori di Freya però, erano leggermente più freddi di quelli di Erwin: la sua chioma era più argentea che bionda e le sue iridi, incorniciate da un taglio oculare a mandorla che le conferiva un’aria particolarmente severa, erano grigio-azzurre. I colori di lui erano invece più lucenti: capelli come il sole a mezzogiorno, iridi come il cielo durante una giornata tersa. Erwin l’Angelo della Primavera, Freya l’Angelo dell’Inverno. 

«Devi fare attenzione» bisbigliò d’improvviso Erwin, rompendo il silenzio. «Il Cappello era qui anche ieri sera».

Freya alzò lo sguardo sul fratello. “Il Cappello” era il nome in codice che i due ragazzi utilizzavano per riferirsi a un uomo che da qualche tempo frequentava la tenuta degli Chastonay. Arrivava la sera tardi a bordo di una carrozza di famiglia, e da quest’ultimo dettaglio s’intuiva che doveva trattarsi di un ospite di una certa rilevanza per Lord Nikolaj. Solo Erwin era riuscito a scorgerlo, perché la finestra della sua camera da letto dava su una delle entrate secondarie del palazzo. Era un uomo molto alto, e portava un lungo cappotto nero e un fedora del medesimo colore, da cui il soprannome “Il Cappello”.

«Carrozza di famiglia, entrata secondaria… Quello è Kenny Lo Squartatore, ne sono certo» aveva detto Erwin, la prima volta dopo averlo visto. «C’erano diversi suoi ritratti sui giornali che leggeva mio zio, pare che sia il tagliagole più spietato di tutti i tempi». Gli Chastonay stavano architettando qualcosa di losco, e quel qualcosa di losco consisteva nel far sparire Freya. Erwin, purtroppo, ne era convinto.

Il giovane era sì lo scapolo più desiderato dell’alta aristocrazia, ma Freya era un elemento che i nobili non mancavano mai di tenere in conto. Marchesi, conti e duchi non volevano di certo che le loro figlie si ritrovassero una pazza delirante per cognata.

Recentemente Lady Helvetia era venuta a sapere che il principe Peter, primo cugino del re, aveva in mente di combinare un matrimonio tra sua figlia Marieke ed Erwin. A frenarlo però, era ovviamente Freya. Con Freya fuori dai piedi, gli Chastonay avrebbero potuto imparentarsi con la famiglia reale.

«Fare attenzione non mi sarà d’aiuto» ribatté Freya. «Sono solo una ragazzina, e anche se mi barricassi nella mia stanza e sprangassi la porta quel tizio troverebbe il modo di sfondarla. E se tu cercassi in qualche modo di difendermi le nostre guardie o i suoi scagnozzi ti metterebbero fuori uso. Accadrà quel che deve accadere, Erwin».

«C’è in ballo la tua vita, Freya. Non puoi reagire in modo così distaccato» sentenziò Erwin, perentorio.

«Ma è l’unica reazione sensata» ribatté lei. «Dimmi, tu hai una soluzione migliore? Scappare, forse? E come? L’intera reggia pullula di guardie. E se anche riuscissi a fuggire, dove andrei? Qui intorno ci sono solo boschi, come sopravvivrei?».

Erwin sospirò, frustrato. «Andrò da Lord Nikolaj. Gli dirò che ho capito le sue intenzioni, e che mi rifiuterò categoricamente di prendere in moglie Marieke Fritz se ti verrà torto anche un solo capello».

«È la rabbia che parla, Erwin» fece Freya. «Se lo facessi, nostro padre ti metterebbe a tacere in un modo o nell’altro, e ti costringerebbe comunque a sposare la principessa. Ti ricatterebbe con la mia vita, magari. E vivremmo entrambi da prigionieri, io in una cella e tu in un palazzo, a fare il damerino di corte. E noi abbiamo altri progetti, se ricordo bene: tu vuoi entrare nel Corpo di Ricerca, e io voglio diventare medico».

Erwin si morse un labbro e guardò la sorella. «E quindi? Che si fa?».

Freya si schiarì la voce. «Non ne ho idea, però… è probabile che Il Cappello non mi uccida nell’immediato. Magari si limiterà a rapirmi, forse per rivendermi o chissà cosa. Proverò… proverò a convincerlo a non uccidermi, Erwin. Altro non mi viene in mente».

Il ragazzo rimase in silenzio per qualche istante. «Ti porteranno nei sotterranei. È lì che quel topo di fogna si rifugia».

«Già».

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Il giorno dopo: Rapimento fallito ***


Capitolo II

Il giorno dopo: Rapimento fallito

 

830, Mitras.

Appoggiato al muro d’un edificio, Levi aspettava. Era la prima volta che percepiva la pelle scaldata dai raggi solari, ed era alquanto piacevole. Certo, raggiungere la superficie era una novità per lui, ma il ragazzino tentava di non deconcentrarsi. Sapeva che tornare a casa a mani vuote avrebbe comportato un’incazzatura micidiale da parte di Kenny, che l’uomo avrebbe poi sfogato sul suo volto o sulla sua schiena.

Si trattava di un lavoretto da niente, a dirla tutta. Un lavoretto da ritardati, credeva Levi. Sì, ne sarebbe stato in grado anche un bambino. Difatti, il giovane si chiedeva come mai Kenny l’avesse rifilato a lui anziché a Rajiv o a Sebastian. Rapire la rampolla di qualche nobile era una vera e propria sciocchezza, per Levi. In realtà, il ragazzino ci arrivava che la faccenda non poteva limitarsi a ciò. L’obiettivo di Kenny molto probabilmente era un altro, ma lui non sarebbe mai venuto a conoscenza di tali dettagli. Difatti, «i marmocchi non sono in grado di capire gli adulti», gli ripeteva sempre il vecchio.

Tutto ciò che aveva scoperto era che la ragazzina che avrebbe dovuto rapire e poi portare con sé nella Città Sotterranea si chiamava Freya, apparteneva alla famiglia nobile degli Chastonay ed era pazza. 

«È una marmocchia con i capelli biondi» gli aveva spiegato Kenny. «Dovrebbe avere tra i quindici e i sedici anni, come te. È una scienziata o qualcosa di simile, porta una tunica bianca lunga fin sotto al ginocchio. Frequenta l’università di Mitras, e per arrivarci attraversa un vicolo poco frequentato che t’indicherò. Tu l’aspetterai lì».

Levi non aveva ancora adocchiato nessuno che corrispondesse a tale descrizione, o meglio, non aveva ancora adocchiato nessuno. Il vicolo era deserto, probabilmente anche per l’orario: il sole aveva appena cominciato a sorgere.

Il giovane dovette aspettare un’altra manciata di minuti, prima di scorgerla. Era proprio come se l’era immaginata, la tipica figlia di un aristocratico: faccia pulita, animo puro, sembrava risplendere di luce propria. Guardava pudicamente a terra mentre camminava, e stringeva al petto una valigetta di cuoio.

Levi ghignò. Sarebbe stato così facile.

Lei lo superò, ignara. Il suo cacciatore fece leva contro al muro su cui poggiava per raggiungerla e, senza permetterle di allontanarsi ulteriormente, la bloccò portando una mano a coprirle la bocca e tirandola contro al suo petto. Le infilò poi un piede tra le caviglie tirando un calcio alla destra, con l’intento di farle perdere l’equilibrio. La giovane parve però inginocchiarsi di propria volontà: probabilmente aveva capito ciò che le stava accadendo, e aveva scelto di non opporre resistenza per non farsi ammazzare lì e subito. In fin dei conti era una scienziata, pensò Levi. Era gente sveglia, quella.

Anche Levi si accovacciò, tenendo la mano ancora premuta contro alle labbra di lei, sebbene in realtà non ce ne fosse bisogno: Freya non solo non aveva urlato, ma nemmeno si era lagnata con qualche mugolio o verso strozzato. Anzi, pareva assecondare pacatamente le azioni di Levi. Sembrava quasi… che lei lo stesse aspettando. Il giovane però decise di non dare troppa importanza a quest’idea, e di concentrarsi nel portare a termine il proprio compito.

Si affrettò a stringerla a sé per impedirle di muovere le braccia, e fece saltar fuori agilmente il coltello da uno dei passanti della cintura. Un istante dopo, la lama del pugnale premeva contro la gola diafana di Freya.

Levi spinse la testa di lei contro la propria spalla, così da esporle la gola. E, proprio allora, la guardò negli occhi

Erano occhi affilati, grigio-azzurri, freddi come il ghiaccio. Non erano occhi… umani.

Lei lo studiava con quegli occhi dal colore morto e pareva affascinata, genuinamente curiosa. Lui le stava puntando un coltello alla gola, e lei si mostrava affascinata

No, non erano occhi comuni, decisamente non lo erano. Erano glaciali ma, al contempo, al loro interno ardeva un fuoco inquietante, che provocò un brivido che andò a percorrere la figura di Levi, da capo a piedi. Erano semplicemente gli occhi di una matta, o c’era di mezzo anche la magia nera? Quegli occhi rivelavano la presenza di qualche demone in quel corpo all’apparenza così puro e candido, Levi ne era sicuro. 

Il ragazzo percepì l’istinto di correre via, voleva andarsene. Aveva paura, e lui non l’aveva quasi mai provata, la paura. 

Ancora pietrificato da quel bizzarro terrore, tolse di colpo la mano che premeva sulla bocca della ragazzina e fu allora, che lei parlò. Gli rivolse le sue prime parole, la sua prima domanda: «Tu sei il diavolo?» gli domandò con aria innocente, mentre quel fuoco colpevole continuava a scoppiettarle nelle iridi. La sua voce era melodiosa, incantevole. E con quegli occhi guardava Levi, lo studiava, penetrava all’interno della sua mente carpendo ogni suo segreto più intimo.

«I-io credo che lo sia tu», le parole sortirono dalla bocca del giovane senza l’intenzione di quest’ultimo di pronunciarle. O meglio, lui neanche le aveva elaborate. Le sue labbra avevano agito da sole.

Ulteriormente spaventato da tale avvenimento Levi balzò in piedi, abbandonando la sua vittima a terra. Indietreggiò lentamente, camminando all’indietro, e senza interrompere il contatto visivo con lei. Infine, si voltò e prese a correre.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Cavalleria Quotidiana ***


Capitolo III

Cavalleria Quotidiana

 

830, Città Sotterranea.

«Che ti succede, eretica?! Prova a picchiarmi, se vuoi dimostrarmi che sbaglio!».

Se non avesse udito quell’appellativo, Levi avrebbe di gran lunga ignorato l’azzuffata che si stava svolgendo nel vicolo affianco. “Eretica”. Solamente lei era stata in grado di guadagnarsi quel soprannome, perciò non poteva trattarsi d’altri. Dunque, quell’idiota di Sebastian se l’era fatta scappare? Di nuovo?

Il giovane si appostò e sbirciò con noncuranza. Vide la rampolla venire sbattuta contro a un muro con violenza, da uno dei tre ragazzi che proprio sembravano intenzionati a non lasciarla in pace. 

«Prima o poi il genere umano dovrà andare nel mondo esterno!» digrignò i denti la ragazzina. A Levi sfuggì l’accenno di una risata sarcastica. Un osso duro, la signorina

Di primo acchito Levi pensò di andarsene, fingendo di non aver visto nulla. Dopotutto, vedere Kenny spaccare il naso di quel pallone gonfiato di Sebastian gli sembrava una prospettiva allettante. Ma, in fondo, che gli fregava di quell’idiota di Sebastian?

«Ehi, Xavier» si rivelò il giovane, scivolando fuori dal suo nascondiglio e camminando pacatamente in direzione dei tre teppisti. «State pestando una ragazzina di quindici anni? Tre energumeni contro una bambina? Davvero coraggiosi» li schernì.

I compagni di Xavier impallidirono per la paura. «È… è Levi…» biascicò uno di loro.

Dovevano avere diciotto, diciannove anni. Di fronte a loro, la sua stazza da quindicenne era decisamente ridicola. Eppure davanti a lui tremavano come foglie, quei due giganti.

Xavier si voltò. Era spaventato, ma tentava di non darlo a vedere per mostrarsi spavaldo davanti ai suoi scagnozzi.

«Hai sentito, eretica? Il tuo principe azzurro è venuto a salvarti» ghignò. «Che gran cavaliere che sei, Levi».

Levi scivolò al suo fianco. La mano di Xavier, stretta al colletto della tunica bianca che la ragazza portava, cominciò a tremare. «Non farmi incazzare. Tanto lo sai già, come va a finire» ringhiò.

Xavier si voltò verso di lui e azzardò un ghigno strafottente. «Ma sì» mollò la presa, facendo cadere a terra la ragazzina «che me ne frega. Anzi, te la lascio volentieri, questa piccola puttana. Divertiti, Levi, fattelo succhiare per bene. Così, se poi mi dici che è brava, ci faccio un giro anch’io».

Xavier e i suoi scagnozzi si allontanarono, via via sempre più velocemente. Non appena furono usciti definitivamente dal campo visivo di Levi, il giovane si concentrò sui capelli chiari e sulla pelle diafana della ragazzina: particolarità che stonavano incredibilmente in un ambiente come quello della Città Sotterranea.

Stava accasciata a terra, ansimante, e teneva il capo chino. 

«Ma che ti prende, ragazzina? Guarda che qui non siamo nella capitale. Qui non puoi dire tutto quello che ti pare. Altrimenti ti picchiano. E se non sei abbastanza forte da sopportare le botte, ti ammazzano».

Lei non ribatté. Senza neanche alzare la testa, cominciò a singhiozzare.

«Oh, diavolo. Non prenderai a frignare, ora! Dai, alzati. Alzati, così ti riporto alla stamberga, ché se Kenny non ti trova è probabile che s’incazzi talmente tanto da prendere a schiaffi pure me, che non c’entro nulla». Ma niente. Da lei non ottenne alcuna reazione. Solo singhiozzi. 

«Ohi, Freya. Mi senti? Lo so che ti annoi alla stamberga, ma ti ho trovato un libro oggi. Rajiv l’ha rubato per sbaglio, e parla di tutta quella roba strana che stai sempre a studiare. Dai, così hai qualcosa di nuovo da leggere. Muoviti, su».

Ancora silenzio.

«Freya. Se Kenny mi prende a cinghiate per colpa tua, ti ammazzo».

La ragazzina sollevò di scatto il viso, inchiodando Levi con i suoi occhi color del ghiaccio. Aveva il viso livido di pianto e impiastricciato di lacrime e muco. «Tu dici quello che ti pare, e non le prendi mai. È perché sei abbastanza forte? Voglio diventare forte come te, Levi. Insegnami, ti supplico». Balzò in piedi in un istante, con le pupille che scintillavano sinistramente.

Levi indietreggiò d’istinto. Poi inarcò un sopracciglio, scettico. «Sì, dai. Magari domani, eh? Ora torniamo alla stamberga, prima che Kenny si accorga che sei scappata. Sai com’è, preferirei finire la giornata senza farmi sfregiare da quel vecchio squinternato».

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Il primo bacio ***


Capitolo IV

Il primo bacio

 

831, Sottosuolo.

Due ragazzini di quindici anni giacevano l’uno accanto all’altra sull’erba morbida. Levi e Freya avevano ormai perduto la nozione del tempo: guardavano rapiti l’azzurra volta del firmamento che si espandeva davanti ai loro occhi, e che potevano ammirare grazie a un’ampia crepa nel soffitto di una caverna.

Quello era diventato il loro rifugio: ci voleva più o meno un’ora di cammino dal centro città per raggiungerlo, ed era ignoto a chiunque. L’aveva trovato Freya circa due settimane dopo il suo arrivo nei Sotterranei, durante una delle sue fughe. Convinceva Levi ad accompagnarla fin lì affinché l’addestrasse nel combattimento corpo a corpo e nell’utilizzo delle armi da taglio; ciò implicava che i due ragazzini… scappassero insieme. Kenny non ne era affatto felice, motivo per cui, una volta tornati alla stamberga, Levi e Freya sapevano che il vecchio li avrebbe picchiati. Perciò tendevano a prolungare più che potevano la loro permanenza alla caverna, chiacchierando una volta finito l’allenamento. Freya raccontava a Levi di suo fratello maggiore Erwin, dei loro cavalli Marzapane e Botticelli, del Corpo di Ricerca e del suo sogno di diventare medico. Inoltre, lo istruiva su tematiche di astronomia, di biologia, d’ingegneria e di storia. Lui non aveva molto da condividere: qualche ricordo della mamma, qualche avventura da cui si poteva estrapolare del divertimento in mezzo a tutta la tragedia… Levi non capiva cosa gli stesse accadendo, ma stare con Freya gli piaceva molto. Si sentiva al sicuro con lei, e… libero. Libero di non fare per forza la faccia da duro, e di non tenere le mani sempre pronte a sfoderare il pugnale. E poi… gli piaceva guardarla mentre rideva, tanto da immaginarsela ogni volta prima di addormentarsi. Ricercava l’approvazione di Freya, e… aveva voglia di abbracciarla. Non l’aveva mai fatto, però: di chiederglielo esplicitamente non se ne parlava, si vergognava troppo; d’altra parte non voleva nemmeno farlo “spontaneamente” poiché temeva che, piombandole addosso da un momento all’altro e senza preavviso, avrebbe potuto spaventarla.

«Levi», lo chiamò d’improvviso la ragazzina, «tu… sai che cos’è un bacio, non è vero?».

Le gote del giovane s’imporporarono. «Certo» borbottò, imbarazzato.

«E…», continuò lei, «hai mai baciato qualcuno?».

«No» fece Levi. «E tu?» le domandò, maledicendosi subito dopo: da un lato era curioso di saperlo, ma dall’altro l’idea che Freya baciasse qualcun altro non gli piaceva proprio per niente.

«Neanch’io».

Silenzio. Un venticello leggero scompigliò appena i capelli dei due giovani. Levi, con le interiora in subbuglio per l’agitazione, raccolse il coraggio. «Come te lo immagini?» le domandò a bruciapelo.

«Mh, vediamo…», Freya piegò le braccia all’indietro, poggiandosi la nuca sui palmi delle mani. «Me lo immagino come un’ipernova».

«Ah… c-come una cosa brutta, quindi?» ribatté Levi. «Intendo dire, se non ricordo male l’ipernova è una stella che, esplodendo, travolge tutto ciò che la circonda, no?».

«Sì, però… Ecco, diciamo che credo che l’intensità sia la medesima di un’ipernova, ma… che le emozioni che si avvertono siano piacevoli. E-emozioni calde, direi» si spiegò Freya.

«Ah, ok. Allora direi che anch’io me lo immagino così» concordò Levi, piegando un ginocchio.

Silenzio, di nuovo. Il ragazzo percepiva i secondi, infiniti, martellargli nelle tempie. Era agitato come non mai.

Dopodiché, grazie al cielo, Freya parlò. «Ehm, e… Voglio dire, t-ti andrebbe di provarci? C-con me, ora».

Il fiato di Levi si mozzò e il suo cuoricino di quindicenne cominciò a battere come impazzito. «A-a darti un bacio? Cioè, a baciarci noi due, intendi?» domandò, incredulo. Sentiva le guance in fiamme.

«Mh-mh» confermò lei.

«B-be’… Mi va». Levi si voltò finalmente in direzione di Freya. Anche lei aveva le gote vermiglie. 

La ragazzina avvicinò il proprio volto a quello di Levi, mentre lui rimaneva immobile. Scivolò poi con le dita tremanti lungo la guancia diafana del giovane, e lui percepì le narici inebriate del buon odore di lei. Infine, Freya poggiò con gentilezza le proprie labbra su quelle di Levi. 

Il ragazzo avvertì il proprio cuore fermarsi e stringersi all’interno del petto per alcuni istanti, per poi espandersi nuovamente e prendere a battere all’impazzata. I due si baciarono altre tre o quattro volte, finché Freya si allontanò definitivamente. Levi la vide guardare a terra per qualche secondo, e infine alzare coraggiosamente le iridi chiare su di lui. I suoi occhi luccicavano di un imbarazzo complice. Quando i loro sguardi si incontrarono, i due giovani cominciarono a ridere gratificati.

«Senti, Freya» azzardò poi Levi, dopo qualche attimo. «Mi piacerebbe… e-ecco, io… potrei abbracciarti?».

La giovane, un po’ spiazzata da quella domanda, dapprima arrossì e poi annuì. Dunque Levi con delicatezza e lentezza l’avvolse, e lei andò a stringerlo a sua volta. Dopo qualche manciata di secondi i corpi rigidi dei due ragazzi cominciarono ad abbandonarsi alla comodità e alla pace di quel momento. Levi affondò il volto nella chioma bionda di Freya, inalandone il profumo. Dopodiché, chiuse gli occhi.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Dieci anni dopo: Farlan e Isabel ***


Capitolo V

Dieci anni dopo: Farlan e Isabel

 

840, Città Sotterranea.

«Il lavoro è diventato molto più facile da quando abbiamo imparato a utilizzare il congegno per la manovra 3D. Le entrate di tutti sono aumentate» commentò Farlan non appena Sika, uno dei quattro ragazzi ch’erano venuti a ritirare la propria parte di denaro ottenuta grazie all’ultimo colpo, se ne fu andato richiudendosi la porta alle spalle.

Farlan Church era… solare. Levi non aveva molta familiarità con il Sole: l’aveva visto perlopiù filtrare tra le crepe della caverna senza soffitto che aveva trovato Freya da ragazzina, e l’unica volta in cui ne aveva avvertito il calore sulla pelle era stata quando si era recato in superficie per rapire la propria futura moglie per conto di Kenny. Comunque, per quel poco che sapeva di quell’astro, a Levi pareva d’intravedere dei frammenti di quella luce raggiante nel carattere gentile e mite di Farlan o nei suoi occhi, che brillavano quando il ragazzo aiutava qualcuno. Levi e Freya l’avevano incontrato otto anni prima, appena qualche giorno dopo la dipartita di Kenny; fin dal principio, i giovani coniugi Ackerman avevano capito di aver trovato in Farlan un amico prezioso.

«E sembra che una in particolare sia aumentata più delle altre» fece Levi, intento a strofinare leziosamente la lama del proprio pugnale con un fazzoletto pulito. «Come mai?».

Farlan sollevò un angolo della bocca per poi farsi nuovamente serio, ma Levi non lo notò. «Sai, cinque anni fa io non ho avuto l’opportunità di seguire Freya Ackerman in superficie, a contrario di te. Perciò, m’impegno ad aiutarla da quaggiù».

«Non dire il mio cognome, anche i muri hanno le orecchie» ringhiò Levi. Poi, mogio, borbottò: «non mi va di parlarne, Farlan».

«Non avevo dubbi» lo canzonò bonariamente il giovane. «È che… la gamba di Jan sta di nuovo peggiorando. Io continuo a medicarlo come mi aveva indicato Freya, ma gli servono cure più efficaci… magari anche un intervento… E i farmaci hanno dei prezzi incredibili, reperirli è diventato difficile anche per me. Per non parlare dell’aumento del pedaggio per raggiungere la superficie», con uno sbuffo, Farlan si abbandonò sul divano. «La gente muore qui sotto, Levi. La mancanza di luce è degenerativa, è fatale. Tutti quelli che si sono ammalati, perfino quelli che sono stati accolti nei migliori ospedali di Mitras, alle fine non ce l’hanno fatta. Il denaro supplementare che ho dato a Jan gli frutterà forse qualche mese di vita in più, ma non ci comprerà una completa guarigione. Morirà, Levi. E io di conseguenza mi chiedo: quando toccherà a noi? Ecco perché non finirò mai di avercela con te per non essertene andato quando potevi, con Freya, cinque anni fa».

Levi non ribatté; anzi, neanche alzò lo sguardo dal coltello. Farlan aveva ragione, lui era un codardo.

Nel giro di dieci anni erano avvenuti innumerevoli cambiamenti. Il primo e più importante, Kenny era andato via. A quindici anni, Levi aveva trovato l’uomo a cui apparteneva il bordello in cui lavorava la mamma, il verme che l’aveva relegata in una camera a morire davanti agli occhi del figlio, e l’aveva ammazzato di botte. Mentre lo aggrediva e gli puntava il pugnale alla gola, Levi aveva in mente un’unica realtà: Kenny era tra la folla, e lo guardava. Era quello il motivo per cui Levi a quindici anni aveva trucidato un uomo, il primo. L’aveva fatto perché voleva far vedere al vecchio che era forte, che avrebbe potuto essergli ancora utile, di modo da convincerlo a non abbandonarlo. Ogni ragazzino di quindici anni ha bisogno di un punto di riferimento, anche se si tratta di una creatura orribile come Kenny; ed è pronto a fare di tutto pur di non farselo portare via, anche uccidere un uomo.

Le azioni di Levi avevano avuto però l’effetto contrario: durante la lotta, il ragazzino aveva lanciato in continuazione occhiate al vecchio. Finché, quando il proprietario del bordello era ormai morto, Kenny si era voltato e si era allontanato. In cuor suo, Levi sapeva che non l’avrebbe mai più rivisto. Difatti, in quel momento si era fermato. Non perché ormai quel verme del proprietario del bordello era deceduto, ma perché il ragazzino non aveva più nulla da comprovare: Kenny l’aveva abbandonato.

Fu però in quella circostanza che la vita di Levi cambiò. Tra la folla non c’erano gli occhi di Kenny ad attenderlo, bensì quelli inorriditi di Freya. Seppur terrorizzata e ripugnata, era lì per lui. Era venuta a prenderlo e a riportarlo a casa. Erano tornati al rudere in cui Kenny teneva Freya segregata. Del vecchio non c’era e non ci fu più traccia. 

Da quel giorno, per i due quindicenni era cominciata una nuova vita. Da Freya, Levi aveva imparato il valore dell’amicizia. Scoprì che avere degli amici era piacevole, oltre che conveniente, e dunque provò ad avvicinarsi a quegli altri piccoli delinquenti con cui aveva sempre avuto un rapporto competitivo, come Rajiv e Farlan. Ed erano diventati amici, compagni. Avevano dato una mano a lui e a Freya a rimettere a nuovo la catapecchia, ch’era diventata la casa dei due giovani coniugi Ackerman.

Sì, perché Freya e Levi erano convolati a nozze. Avevano diciotto anni, ed erano innamorati come non mai. La ragazza temeva che, tenendo il proprio cognome d’origine, Lord e Lady Chastonay avrebbero tentato di ammazzarla di nuovo, una volta venuti a sapere ch’era ancora viva. Si erano uniti in matrimonio per permettere alla giovane di prendere il cognome di Levi, diventando Freya Ackerman.

La loro quotidianità era stata difficile. C’era poco cibo, poca acqua e la criminalità dilagava. «Senti, mi è chiaro che tu non rubi e non uccidi per divertimento ma per arrivare a fine giornata» gli aveva detto più che francamente Freya. «Dopotutto, è così che Kenny ti ha insegnato a vivere. Per me però non va bene. So che probabilmente dovrò rubare e uccidere a mia volta, ma… voglio porre delle condizioni. Un codice morale. Uccideremo unicamente per legittima difesa, e ruberemo solo alla polizia militare. Anzi, tra noi poveri dovremmo aiutarci, altrimenti moriremo più in fretta».

Levi aveva accettato. Da allora avevano tolto la vita a tredici uomini, cinque lui e otto Freya. Gente che tentava di entrare nella loro abitazione o di aggredire Freya per strada. Durante la notte i giovani coniugi Ackerman dormivano abbracciati nel loro letto, tenendo la rivoltella e il pugnale a portata di mano. Freya aveva un particolare talento nel maneggiare le armi da fuoco. Anche perché per lei il coltello non era un oggetto volto a uccidere, bensì a guarire: lei era un medico, un chirurgo. Non aveva ancora la laurea, ma non smetteva mai d’imparare. Studiava antichi tomi di anatomia, biologia, chimica e medicina recuperati in vecchie cantine, e si teneva in continuo allenamento soccorrendo coloro che lo richiedevano. Farlan era meravigliato dall’arte del curare e dalle capacità di Freya, e la seguiva quotidianamente per apprendere da lei e per aiutarla. Sovente i malati avevano delle famiglie, perciò Levi, ch’era bravo col pugnale, intagliava per i bambini dei giocattoli in legno. 

Freya Ackerman si era guadagnata la fama di madonna degli ammalati, di angelo redentore. L’altruismo che predicava a parole e ad azioni aveva aumentato le probabilità di vita degli abitanti dei Sotterranei: i poveri avevano capito che lottare tra loro non avrebbe condotto a nulla poiché i veri nemici, quelli da cui guardarsi e da cui diffidare, erano i ricchi. 

Inoltre, era stata lei ad aver rubato per la prima volta i congegni di manovra 3D alla polizia militare, e ad aver insegnato a Levi e a Farlan a utilizzarli. «C’è da dire che non si tratta proprio di un furto» aveva detto, quando glieli aveva portati. «Sono stata io a teorizzare quest’invenzione, in fin dei conti: avevo quattordici anni, ed è stato il progetto grazie al quale mi sono guadagnata l’ammissione all’università».

Freya era una giovane donna incantevole ed eccezionale. Levi era incredibilmente fiero di poterle camminare accanto, di poter ridere con lei e di poterla stringere a sé durante la notte.

Un giorno però la ragazza, appena dopo il compimento dei vent’anni, aveva rivelato a Levi la propria intenzione di abbandonare la Città Sotterranea per tornare a vivere alla luce del Sole. Il giovane sapeva che prima o poi quel momento sarebbe arrivato, e fu lancinante proprio come se l’era sempre immaginato.

«Vieni con me» l’aveva allora incalzato lei. A Levi però non era sfuggito il modo in cui Freya gli aveva comunicato la notizia inizialmente: le parole della ragazza facevano infatti intendere che il suo progetto prevedeva che lei avrebbe abbandonato i Sotterranei; in altre parole, stava già dando per ovvio che Levi non l’avrebbe seguita. E difatti così fu.

«E che ci vengo a fare in superficie?» aveva balbettato il giovane.

«Starai con me, lavorerai… Dormirai sonni tranquilli perché non dovrai preoccuparti dei malviventi che fanno irruzione in casa nostra, io potrò camminare per strada senza portarmi dietro la rivoltella, e… chissà, magari un domani potremmo anche avere dei bimbi», aveva ridacchiato, e Levi si era un po’ intenerito.

«Guarda che per gli Ackerman non è sicuro vivere in superficie, Freya. La mia famiglia è perseguitata, ricordi? Anzi, mi sa che è più pericoloso se ti fai chiamare Ackerman anziché Chastonay, lassù».

La ragazza aveva agitato in maniera irritata la mano davanti al volto diafano, come a voler neutralizzare la negatività di cui erano pregne le parole di Levi. «Non m’importa, è arrivato il momento di andarmene. Devo laurearmi in medicina e diventare un chirurgo, e devo ricongiungermi a mio fratello. Ho dei sogni da realizzare, Levi».

«E questi sogni non includono me?» aveva domandato Levi, ingenuamente.

«Certo che sì» aveva ribattuto prontamente lei. «Sogno davvero una casa per noi, dove mettere su famiglia, ma la sogno all’aria aperta. Non voglio che uno dei primi insegnamenti che tramanderemo ai nostri figli sarà maneggiare un’arma da taglio».

«Freya, io… Questo fa parte anche dei miei sogni, ma… non sono ancora pronto per andarmene» aveva borbottato Levi. «Ho… paura di quello che potrò trovare, e non voglio abbandonare i nostri amici».

La giovane aveva annuito. «Vedi, io avrei potuto andarmene via di qui molto prima Levi, ma non l’ho fatto. Sono innamorata di te, e ho voluto condividere con te un pezzo della mia esistenza. Ma ora… è arrivato il momento. È tempo per me di andare via, e se tu non ti senti pronto per venire con me va bene. Ci rivedremo quando lo sarai, e se non ci rivedremo mai più… sappi che quella che ho vissuto con te è stata l’avventura più dolce di tutta la mia vita».

Naturalmente, il ragazzo si era un po’ risentito. «L’ho capito ed è normale» gli aveva detto allora Freya. «Ma io a breve andrò via, perciò sta a te: o rimani arrabbiato con me, o ci godiamo questi ultimi giorni nel miglior modo possibile», e così avevano fatto. Ogni occasione era buona per coccolarsi, fare l’amore e ridere. Avevano anche organizzato diverse cene a casa con gli amici.

Poi, era arrivato il giorno. Gli abitanti dei Sotterranei avevano affollato le strade per dare l’ultimo addio a Freya, in molti piangevano. Levi camminava accanto a lei e alcuni amici dietro, tra cui Farlan, che aveva singhiozzato per tutto il tragitto. «Mi hai aiutato a capire chi voglio diventare, Freya Ackerman. Prima o poi ti raggiungerò, e lavoreremo fianco a fianco» le aveva detto. Levi l’aveva accompagnata fino in cima alla scalinata, Freya aveva mostrato alla guardia il Documento di Cittadinanza e, dopo un ultimo bacio, le loro vite si erano separate. La sua Freya sarebbe diventata un eccellente chirurgo, e avrebbe salvato innumerevoli vite. Si sarebbe ricongiunta al suo bellissimo fratello, che Levi s’immaginava come un dio. E magari, un giorno, lui avrebbe trovato il coraggio di seguirla, dimostrandosi finalmente all’altezza di stare al suo fianco.

 

Anno 842, Città Sotterranea.

Levi aveva incontrato Isabel in un giorno come tanti. Un giorno di lavoro, un giorno di lame ripulite dal sangue con un fazzoletto imbevuto di disinfettante, un giorno di conversazioni incentrate sulla preoccupazione per il futuro. Un giorno come tanti.

L’arrivo di Isabel nella vita di Levi, e di Farlan, era stato pienamente congruente con quella che era la personalità di lei: irruente e caotico. I due amici l’avevano trovata poiché la ragazzina aveva iniziato a prendere a spallate la loro porta d’entrata, in un debole tentativo di farsi aprire oppure di irrompere con la forza, per salvarsi da un gruppo di uomini con cattive intenzioni che la stava inseguendo.

E in egual maniera era entrata nel cuore di Levi. Una spallata oggi, una spallata domani, finché il giovane aveva ceduto al genuino tornado d’emozioni che era Isabel. E le si era affezionato, molto.

Levi rivedeva nella propria relazione con Isabel un po’ del rapporto che c’era tra Freya e suo fratello, quel bellissimo ragazzo dai capelli color del Sole di cui lei gli parlava sempre.

A volte il corvino avvertiva un po’ d’invidia nei confronti di quel giovane nobile: Freya glielo descriveva come colto ed elegante, ma non in quel modo ridicolo e tronfio in cui lo erano tutti gli aristocratici. Lui dava l’idea… di qualcuno da ammirare. Di una specie di… adone, o creatura angelica.

La genuina invidia che Levi provava verso di lui però, era perlopiù data dal fatto che Freya sembrava così ammaliata da quel ragazzo. Erwin, quello era il suo nome.

Erwin, con cui faceva lunghi giri a cavallo e che le leggeva libri meravigliosi. Erwin, che si toglieva il cibo di bocca per darlo a lei quando Lord Chastonay la mandava a letto senza cena per qualche idea un po’ troppo “folle” che si era fatta sfuggire.

Gli occhi di Freya brillavano d’ammirazione fraterna quando parlava di lui, e Levi credeva che un paio di iridi potessero luccicare in quel modo unicamente per qualcuno di speciale come lo era quell’Erwin. 

Poi però, era arrivata Isabel. E Levi aveva notato nei suoi occhi quell’identico bagliore. Ch’era rivolto a lui, però. A lui, che non era niente. Non era colto, né caritatevole, né pareva l’incarnazione di una creatura angelica. Eppure, Isabel lo guardava proprio così. Come se fosse qualcuno da ammirare.

Al giovane piaceva l’idea di poter diventare per Isabel ciò che Erwin era per Freya. Gli piaceva l’idea di poter provare la sensazione di trovarsi, almeno un po’, nei panni di quel ragazzo, un individuo ch’era talmente in alto rispetto a lui che Levi neanche era in grado di realizzarne l’esistenza. Difatti, sebbene sapesse che Erwin Chastonay non era un’invenzione di Freya, la sua immaginazione lo associava maggiormente alla sfera mitologica o divina che a quella umana.

Sovente Levi portava Isabel alla caverna senza soffitto. Il ragazzo era certo che anche quell’Erwin avrebbe portato Freya in un luogo del genere.

Quello era il rifugio suo e di Freya, ma Levi aveva capito fin dall’inizio di doverci portare anche Isabel. L’aveva realizzato quando l’aveva vista per la prima volta, e cioè dopo aver scoperto che la ragazzina aveva provato a raggiungere la superficie senza pagare il pedaggio solo per liberare un uccellino ferito che si era disgraziatamente ritrovato laggiù. La prima volta in cui Levi l’aveva portata alla grotta era stata quella in cui lui, lei e Farlan avevano finalmente liberato l’uccellino. E, proprio come Levi aveva previsto, Isabel si era completamente innamorata di quel luogo.

A loro due piaceva andarci e sedersi su una sporgenza rocciosa che dava su un piccolo avvallamento, e rimanere lì con le gambe a penzoloni. Ed era proprio lì con lei che si trovava, in quel momento.

«Ne vuoi un po’, fratello?».

Il giovane fu riportato alla realtà dalla voce dell’amica, che gli porgeva metà della propria pagnotta con fare genuino.

Volgendo lo sguardo altrove, Levi si limitò a scompigliare amorevolmente i ciuffi color borgogna della ragazzina.

«No, Isabel, non ho fame. Mangiala tu».

«Ma fratello!» protestò allora lei, addentando il pezzo di pane. «Dici sempre così!».

Levi sollevò appena gli angoli delle labbra, con gli occhi rivolti a terra. “I fratelli fanno così”, pensò.

I due condivisero qualche minuto di silenzio. Levi si godeva l’aria pulita, e Isabel mangiava con voracità quel tozzo di pane vecchio che avrebbe dovuto tenerla sazia fino a sera.

«Fratello» lo chiamò la ragazza, con ancora la bocca piena. «Tu sei mai stato innamorato?».

«Una volta» replicò lui. 

«Ah, sì?!», Isabel si voltò verso di lui, con gli occhi colmi di meraviglia. «Ed era una lei o un lui? E com’era?».

«Una lei» spiegò il ragazzo, sorridendo appena. «Aveva i capelli biondi e lo sguardo un po’ inquietante, e studiava la medicina, l’ingegneria, la biologia e le scienze naturali».

«Studiava?!», Isabel era ancora più sbalordita. «Ma è un privilegio che hanno solo i nobili! Lei… apparteneva a una famiglia aristocratica?».

«Sì», annuì Levi. «Apparteneva alla famiglia Chastonay, che vive all’interno del Wall Sina».

«Oh» fece Isabel. «E… che ci faceva quaggiù?».

Levi si schiarì la voce. «L’uomo per cui lavoravo quand’ero un ragazzino la rapì. È così che ci siamo incontrati».

«Cavolo!» esclamò Isabel. «Una nobile fanciulla e un famigerato criminale. Fratello, questa sembra una fiaba!».

«Sì, come no» ridacchiò Levi, mentre roteava scherzosamente gli occhi al cielo.

«E anche lei ti amava, vero?».

«Be’, credo proprio di sì. Non mi avrebbe sposato, altrimenti» rivelò il giovane.

«Sposato?! Tu sei sposato?! E da quanto?! Io non—».

«È capitato molto prima del tuo arrivo. Ci siamo sposati e poi lei se n’è andata, tutto qui. Lei… lavora col Corpo di Ricerca».

«Oh», Isabel si rabbuiò appena. «Quindi… è una specie di… sbirro?».

«No», Levi ridacchiò di nuovo. «È un medico, un chirurgo. Si occupa di curare i soldati feriti in battaglia, e—».

«Un giorno vi rincontrerete, lei tornerà da te» lo interruppe Isabel, e Levi percepì dal suo tono che la ragazzina era convinta di ciò che aveva appena detto, e che non aveva parlato in quel modo solo per confortarlo. «Non si può non tornare da te. Tu sei una persona magnifica. Io credo che lei sia là fuori, a guardare il cielo, proprio ora. E sono abbastanza sicura del fatto che stia pensando a te, e che vorrebbe che tu fossi lì con lei. Il che mi riporta all’idilliaca storia d’amore» rise Isabel, e Levi con lei.

«Mi sarebbe piaciuto tanto partecipare al tuo matrimonio, fratello» continuò poi la ragazzina. «Avrei ballato come una matta», e Levi ridacchiò di nuovo.

«Mi avrebbe fatto molto piacere conoscerla, conoscere la donna di cui ti sei innamorato» aggiunse infine Isabel.

«Anche lei sarebbe stata felice di conoscerti» fece Levi. «Ne sono più che certo».

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Erwin Smith ***


Capitolo VI

Erwin Smith

 

844, Città Sotterranea.

“Allora, fatemi vedere quanto sono in gamba quelli della Legione Esplorativa. Vediamo se avevi ragione, Freya” pensò Levi non appena, nel bel mezzo di un colpo, lui, Isabel e Farlan si ritrovarono inseguiti non dai soliti imbranati della polizia militare, bensì da veri e propri soldati, appartenenti al Corpo di Ricerca. Il Corpo di Ricerca. La branca delle forze armate a cui, in un modo o nell’altro, Freya apparteneva. La branca delle forze armate di cui lei gli aveva parlato così tanto. Al contempo, il corvino era alquanto perplesso: perché i cacciatori di giganti stavano perdendo il loro tempo a rincorrere dei banali delinquenti?

I componenti dell’Armata Ricognitiva erano di formazione più elevata in confronto agli altri, era noto. Eppure i tre ragazzi erano in grado di mantenere un certo vantaggio su di loro, mentre fendevano agilmente l’aria con i loro congegni di manovra 3D. 

Freya aveva riferito a Levi e a Farlan che la velocità di crociera di un soldato nella norma era sui quarantacinque chilometri orari; si era dunque stupita parecchio quando aveva appurato che suo marito poteva raggiungere gli ottanta, se non gli ottantacinque. Il giovane non si spiegava il perché di quella velocità, lui si limitava a utilizzare quel congegno così come Freya gli aveva insegnato. Quella velocità… veniva da sé, avrebbe detto Levi. 

La strada del corvino si era appena divisa da quella dei suoi amici. Facendo leva con le gambe il ragazzo si prodigò in una serie di agili piroette, giungendo fino al proprio obiettivo: un vecchio palazzo abbandonato, il cui interno era in rovina. Vi si infilò dentro, come una lucertola tra le crepe di un muro, per poi sbucare fuori dall’altro lato dell’abitazione, che si affacciava su un vicolo poco frequentato. 

Confidando nell’aver seminato i propri inseguitori, il giovane Ackerman si lanciò dall’edificio. Dovette però ricredersi quando ancora si trovava a mezz’aria: un uomo dai capelli color del grano gli fu addosso, e tentava di fermarlo con fendenti secchi e ponderati della lama che brandiva, quella lama che loro utilizzavano per uccidere i giganti. Quel soldato era senza paura, Levi glielo leggeva negli occhi. Il corvino fece saltar fuori agilmente il coltello da uno dei passanti della cintura e lo utilizzò per tentare di cavarglieli, quegli occhi. Ma un altro uomo glielo impedì.

Piombò su di lui dall’alto, come il giudizio divino. Il ragazzo non poté fare a meno di notare le sue movenze: differenti da quelle di un comune militare, più aggraziate, quasi eleganti.  

Intravide il volto di lui celato dal cappuccio del mantello, ma non fu in grado di coglierne bene i tratti. A folgorarlo furono però gli occhi: penetranti e color del cielo, che gli fecero attraversare le membra da un brivido di paura. Naturalmente Levi si stranì perché, fino a quel momento, gli unici occhi in grado di spaventarlo erano stati quelli di Freya. 

Il giovane uomo brandì la lama e il corvino indietreggiò repentinamente, tentando comunque di ferirlo col pugnale. Era veloce, quel combattente. Troppo veloce. Tanto che Levi non lo intercettò nemmeno quando gli si gettò contro, prendendolo per l’avambraccio con cui reggeva il coltello e avvicinandogli la lama alla gola. Il ragazzo lo afferrò a sua volta, provando ad allontanarlo.

Mentre s’impegnava a divincolarsi dalla sua stretta, Levi notò quei dettagli su cui poco prima non aveva avuto il tempo di concentrarsi: lineamenti del volto ben definiti, capelli color del Sole, ben in ordine e arrangiati in un taglio militare. Occhi color del cielo, folte sopracciglia corrucciate, che riprendevano il colore dei capelli. Pulito. Quel giovane uomo gli dava l’idea di pulito. 

Levi si divincolò con più vigore, ringhiando come un cane randagio intrappolato in una rete. 

«Smettila. Guardati intorno» gl’intimò allora il biondo, con voce profonda e tono fermo. Il corvino valicò dunque con gli occhi l’imponente figura di colui che l’aveva immobilizzato: anche Farlan e Isabel erano stati catturati. La ragazzina si dimenava, tirando calci e urlando, ma quegli sforzi erano vani contro la presa ferrea della soldatessa che la bloccava.

«Levi!» gridò Farlan. A quel punto, il giovane Ackerman non poté far altro che arrendersi: piantò lo sguardo nelle iridi color del cielo dell’uomo che aveva di fronte e fece cadere a terra il pugnale.

Quel segno di resa fu sufficiente al soldato per liberare Levi. Finalmente il biondo si alzò, erigendosi in tutta la propria altezza. Pareva un’apparizione divina.

«Sei intuitivo» mormorò, e Levi fu folgorato da una realizzazione. Movenze aggraziate ed eleganti, da nobile. Occhi color del cielo, capelli color del Sole. Perfetto come una scultura, bello quanto una creatura divina. Le parole di Freya cominciarono a martellargli nel cervello: «Per gli Chastonay Erwin era il figlio modello. Certo, aveva qualche difetto: dava retta a me e mi voleva bene, ma almeno non era “indemoniato”. Da Lord Nikolaj avrebbe ottenuto un’eredità enorme, Erwin non avrebbe mai dovuto lavorare o affaticarsi, per tutta la vita. Eppure, mio fratello era determinato a rinunciare ai propri titoli nobiliari per entrare nel Corpo di Ricerca. È il suo sogno, sai? Valicare le Mura per vedere ciò che c’è oltre i giganti».

Levi non poté far altro che guardarlo e contemplarlo, mentre si rendeva conto che, quasi sicuramente, l’uomo che si trovava davanti altri non era che Erwin Chastonay, la figura più importante della vita di Freya. Un individuo che il corvino aveva invidiato, ammirato, idealizzato. Ma no, idealizzato magari no. Perché quell’uomo corrispondeva precisamente all’idea che Levi aveva sempre avuto di Erwin Chastonay.

 

I tre amici vennero ammanettati e fatti inginocchiare a terra. 

«Vi farò un paio di domande» cominciò colui che Levi aveva identificato come Erwin. «Dove li avete presi?» domandò, riferendosi all’attrezzatura per la manovra 3D.

«Siete bravi con questo congegno, ragazzi» continuò l’uomo, dato che né Levi, né Isabel, né Farlan accennavano a voler dare spiegazioni. «Da chi avete imparato a utilizzarlo?».

A Levi si mozzò il fiato in gola. Fare il nome di Freya avrebbe voluto dire denunciarla per divulgazione d’informazioni militari, e quindi farla probabilmente finire in cella o ghigliottinata. Perciò il ragazzo non avrebbe fiatato, per nessun motivo. Neanche Farlan avrebbe parlato: era fin troppo intelligente per non aver elaborato anch’egli il ragionamento che aveva appena fatto Levi.

Erwin gli si avvicinò. «Sei il loro capo?» gli domandò. «Sei stato addestrato nell’esercito?».

Levi alzò il volto per incontrare i suoi occhi. “Da parte mia non otterrai alcuna informazione” gli comunicò con lo sguardo, e il biondo parve intenderlo chiaramente.

Il giovane Ackerman non fece però in tempo a vedere la reazione sul volto di Erwin, in quanto un’energica mano lo afferrò per la collottola e gli affondò la faccia in una pozza di fango. Con un ringhio, Levi divincolò appena il capo per vedere in volto la persona che l’aveva aggredito. Il soldato senza paura

«Te lo chiederò ancora una volta» proseguì il biondo, mantenendo un tono di voce pacato. «Dove avete imparato a utilizzare l’attrezzatura per il movimento 3D?».

«Abbiamo imparato da soli!» latrò Farlan, tentando di andare in aiuto dell’amico. 

«Da autodidatti, dici? Non me la bevo» ribatté Erwin.

«È l’unico modo che abbiamo per elevarci un minimo da questa realtà orribile! La gente come te, abituata a vivere alla luce del Sole, non può capire!» lo attaccò di rimando Farlan.

«Smettetela, liberatelo! State abusando del vostro potere di sbirri!» diede man forte Isabel. 

In quel momento, il soldato senza paura alzò il volto di Levi dal fango. Il ragazzo strabuzzò gli occhi incredulo quando vide Erwin Chastonay inginocchiarsi davanti a lui. 

«Mi chiamo Erwin Smith» fece. «Tu sei?».

Levi temette di strozzarsi. Era davvero lui. Però era “Smith”, non “Chastonay”; d’altra parte però, anche Freya ora era “Ackerman” e non “Chastonay”. E poi… «Levi», gli svelò il proprio nome. E poi… lui, con una posizione di rilievo nel Corpo di Ricerca, lui, così pulito, aggraziato e di una bellezza divina, si era inginocchiato davanti a Levi nel fango, davanti a Levi ch’era un niente, una nullità, un delinquente, un criminale. E, il corvino ne era certo, unicamente Erwin Chastonay avrebbe potuto compiere un’azione del genere. 

Il motivo per cui il giovane Ackerman non aveva ancora inalato dell’aria era che recentemente un certo Lord Lobov l’aveva ingaggiato per un omicidio: in cambio della vita di un membro dell’Armata Ricognitiva, tale Erwin Smith, gli avrebbe garantito la cittadinanza per sé e per i suoi amici. E, se Erwin Chastonay era Erwin Smith, il ragazzo avrebbe dovuto prendere una decisione: o uccidere qualcuno di speciale, un vero pezzo da collezione, che ammirava e che, per di più, era l’amato fratello della propria moglie, o rinunciare all’opportunità di cambiare vita e rimanere nella Città Sotterranea, obbligando anche Farlan e Isabel a quell’esistenza, fino alla morte e alla putrefazione.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** "I Didn't Know Any Better" ***


Capitolo VII

“I Didn’t Know Any Better”

 

844, Quartier Generale del Corpo di Ricerca.

Si erano riuniti in uno dei tanti magazzini, i tre amici. Era un luogo tranquillo, al riparo da occhi invadenti: l’ideale per fare il punto della situazione. 

Levi non aveva rivelato ai due ragazzi che era praticamente certo che l’uomo che avevano l’ordine di uccidere era in realtà il fratello della propria moglie. Inoltre, il corvino era convinto che Farlan non fosse al corrente della parentela che legava Erwin Smith e Freya Ackerman: altrimenti avrebbe senza alcun dubbio obiettato e anzi, se Levi avesse provato comunque a uccidere Erwin, commettendo dunque un’enorme ingiustizia nei confronti di Freya, Farlan l’avrebbe pugnalato pur di fermarlo.

C’era una domanda che martellava nel cervello del giovane Ackerman: che fare?

La morte di Erwin Smith avrebbe provocato a Freya il più lacerante dei dolori. Era il torto più grande che Levi avrebbe mai potuto infliggerle, e per cui mai avrebbe ricevuto perdono. L’omicidio di Erwin Smith gli avrebbe portato via Freya, senza ombra di dubbio.

Però… qual era l’alternativa? Rinunciare a quella nuova opportunità di vita? In fin dei conti e in una certa ottica, Freya l’aveva abbandonato. Però… vendicarsi uccidendole il fratello era troppo anche per Levi. E poi… Erwin gli ricordava Oliver, lo zio che circa nove anni prima aveva avuto il coraggio e la forza di raggiungere la superficie per cercare una vita migliore. Erwin, così come Oliver, era speciale. E Levi avrebbe mai tolto la vita a Oliver? No, ovviamente. Però al contempo si chiedeva: Erwin Smith era davvero qualcuno di speciale? Levi non ne era certo, non ci aveva praticamente neanche mai parlato. Così come non aveva nemmeno mai incontrato Oliver, a dirla tutta. Eppure, Levi sentiva che quei due individui erano speciali. Però… era l’opzione corretta, impedire ai propri amici di cominciare una vita tranquilla in superficie per non toglierla a un uomo con cui, a conti fatti, Levi non aveva effettivamente mai interagito?

Isabel e Farlan erano l’unica certezza nella vita del corvino in quel momento, e lui non intendeva deluderli. Non loro, che avrebbero camminato anche tra le fiamme di un incendio pur di aiutarlo. Freya, che l’aveva abbandonato, ed Erwin, ch’era per certi versi una guardia e quindi per definizione nemico di Levi, avrebbero pagato lei col dolore e lui con la vita.

Inoltre chi gli garantiva che, una volta tornati nei Sotterranei dopo aver fallito, Lobov non li avrebbe fatti fuori? Levi in qualche modo l’avrebbe fatta franca, ma Farlan? E Isabel, che inorridiva all’idea di tenere in mano un’arma?

«Potremmo sfruttare la spedizione a nostro vantaggio» diceva Farlan. «Fuori dalle Mura Erwin e gli altri dovranno badare ai giganti, e noi non dovremo far altro che attendere il momento adeguato».

«Ho capito, bell’idea!» concordò Isabel.

«Levi, ti va bene?», l’amico si rivolse a lui.

«Certo» fece il corvino, con gli occhi vacui. Dopo aver pronunciato quelle parole però, un’immagine gli attanagliò la mente: i suoi amici brutalmente catturati dall’Armata Ricognitiva. Per via di quel ricordo che gli bruciava ancora vivido nel petto, Levi cambiò i piani. «Ma andrò io, voi non verrete» proferì con le braccia congiunte e lanciando ai due ragazzi un’occhiata truce.

«Come?!», i due amici erano attoniti.  

«Andrò io a ucciderlo, voi non romperete la formazione» ribadì Levi. 

«Fratello…» mormorò la ragazzina. «Perché?!» gli si rivoltò poi contro.

Il giovane Ackerman s’irrigidì. “Perché ho già perduto Freya e non sono abbastanza forte per perdere anche voi” avrebbe detto. «Non abbiamo mai visto un vero gigante, ed è la prima volta per noi fuori dalle Mura» ringhiò invece. «Probabilmente saremo impegnati a cercare di rimanere in vita. Ma, se me ne occupo io, m’inventerò qualcosa».

«Ma—» ribatté Isabel, ma Farlan la zittì dolcemente con un pacato gesto della mano. 

«Stai dicendo che non ne siamo all’altezza?» domandò.

“Sto dicendo che non voglio perdervi”. «Sì, più o meno quello».

«Come fai a dirlo?! Non potrai saperlo finché non ci avremo provato!» gli inveì contro Isabel. «Che hai?! Non è da te!».

«Se non volete farvi da parte è meglio che la piantiamo di parlarne!» abbaiò Levi. «Rimanderemo a un’altra volta» borbottò poi, voltandosi e prendendo a camminare in direzione della porta del magazzino. 

«Levi!».

«Aspetta, fratello!».

Mentre udiva latrare i due amici alle proprie spalle, Levi decise che avrebbe tolto la vita a Erwin Smith. Ormai era fatta, il fratello di Freya doveva morire. Altrimenti sarebbero morti loro, o peggio, sarebbero marciti

 

844, Territori al di fuori del Wall Maria.

Levi galoppava a ritmo incalzante da parecchi minuti, ormai. Tentava di ripararsi col cappuccio del mantello dalla pioggia torrenziale che lo colpiva in volto, e non aveva la benché minima idea di dove andare, né per raggiungere Erwin — e dunque ucciderlo — né per ricongiungersi ai propri amici. 

Improvvisamente il giovane Ackerman fermò il cavallo, tirando le redini in modo fulmineo ed energico, per impedirgli di cadere in un precipizio che l’equino neanche aveva notato.

Mentre tentava di raccapezzarsi e di individuare un punto di riferimento, Levi guardò a terra. Vide innumerevoli corpi martoriati, pezzi di indumenti lacerati e pozze vermiglie che tingevano l’erba fradicia. “No”, pensò. “No…”.

«Che diavolo…?» mormorò a fior di labbra.

Dietro di lui un fumogeno fendette l’aria, e Levi voltò repentinamente il capo. Polvere nera, un uomo agonizzante lo guardò e con le ultime forze che gli rimanevano indicò la nebbia. «I-il gigante» gorgogliò per avvertirlo, e poi capitolò a terra.

Nell’erba Levi notò le grandi orme della creatura che doveva aver ammazzato i commilitoni, e lanciò il cavallo al galoppo per andare a cercare i propri amici, pregando di non trovarli morti.

L’animale avanzava affondando gli zoccoli nel prato fradicio, tra braccia, gambe e altri frammenti di corpi. La nebbia era fitta, troppo fitta, era difficile capire… E a un tratto, Levi ruzzolò a terra. Per fortuna reagì velocemente e rotolò di lato, evitando il corpo dell’equino che per poco non gli cadde su una gamba.

Il cavallo si rialzò, il giovane no. Lui era pietrificato, ghiacciato: a pochi centimetri dal proprio volto c’era un capo mozzato. Gli occhi erano vitrei, il verde che li caratterizzava era ora privo di vivacità. Isabel, Isabel, Isabel, Isabel

In quel momento la condizione traumatica in cui Levi era cristallizzato non permetteva al cervello del ragazzo di elaborare i rumori provenienti dall’ambiente, il corvino non udiva nulla. Fu dopo qualche minuto che cominciò ad avvertire un ringhio lugubre nelle vicinanze.

Non fece però neanche in tempo a rinvenire completamente dal torpore, che il cadavere di Farlan Church gli piombò ai piedi. Gli mancava metà cavità toracica. Dal ventre dell’amico pendeva un lungo organo a forma di tubo: Freya gliene aveva parlato come parte integrante dell’apparato digerente, che permetteva al corpo di tramutare in energia il cibo… L’aorta era lì vicino, l’aveva imparato da Freya parecchio tempo addietro. L’arteria principale, una volta lacerata avrebbe fatto zampillare litri di liquido vermiglio in un fiotto potente e irrefrenabile. Eppure… quello di Farlan fluiva piano. Lentamente, senza alcuna fretta. Ma a Levi non parve anomalo. L’amico era sempre così pacato, calmo… in grado di infondere serenità in qualunque situazione. Avrebbe potuto espandersi con velocità differente il sangue di una persona simile? No, non avrebbe potuto…

E, un attimo dopo, Levi non c’era più. Si era volatilizzato. Il gigante, l’artefice di quel macello, si divincolò fulmineamente con un ringhio, come se fosse appena stato ferito. E, in effetti, così era. Il giovane Ackerman gli era piombato addosso nell’identico e letale modo in cui, qualche mese prima, Erwin Smith lo aveva combattuto prima di catturarlo. Come un proiettile continuava a infrangersi contro al titano, a lacerargli la pelle con fendenti mortali. “Avevi fame, lurida bestia? È per questo, che hai ucciso i miei amici? È per questo, che hai gli occhi rossi? Rossi, come il loro sangue? Anch’io ho fame, gigante. Me l’hai fatta venire tu. E anch’io ho gli occhi rossi, proprio come te. Me li ha fatti venire il sangue dei miei amici”. 

Tu hai ringhiato, ora ringhio io. Mi senti? Sto gridando. Sto cercando di farti capire l’odio che provo nei tuoi confronti, e come faccio, se non così? Perché è così, che devi morire. Con il mio astio che ti invade i sensi, che ti occlude i timpani, gli occhi, proprio come sta facendo adesso il tuo sangue con i pori della mia pelle”.

La tua testa salta, vola via, lontano, sono stato io. Dimmi, titano, c’è una porzione di pelle che non ho ancora lacerato? Sì, proprio lassù, all’altezza della nuca. Ma se ti colpisco lì, metto fine al tuo dolore. Al tuo, non al mio. Eppure, lo faccio. Sono clemente, dici? No, sono solo troppo arrabbiato”.

Il giovane balzò dal corpo della creatura che, ormai priva di vita, crollava a terra. Quando i piedi di Levi attecchirono sull’erba egli realizzò un dettaglio che fino a quel momento non aveva notato. Una novità che gli fece momentaneamente dimenticare il dolore e l’odio. Freya. La sua, Freya. Sua moglie, Freya Ackerman. Era… viva, non la vedeva da dieci anni… 

Aveva legato i capelli, ch’erano ancora lunghi, dritti e argentei. La pioggia li bagnava. I lineamenti delicati della ragazza erano deturpati dall’orrore. Con gli occhi lampeggianti di terrore e incredulità, guardava il cadavere di Farlan. Lentamente girò il volto in direzione di Levi. Lui, arrendevole, aveva abbandonato le armi a terra. Armi che lei aveva inventato, ad appena quattordici anni.

L’euforia colmò l’animo del giovane, che avvertì la voglia irrefrenabile di raggiungerla e abbracciarla. Ma, come quand’era ragazzino, non lo fece. Data la situazione traumatica, Levi temeva che correrle incontro e stringerla a sé avrebbe potuto farle più male che bene, provocarle ulteriori paura e shock. 

«L-Levi…» mormorò lei, e il giovane Ackerman gioì. Nella voce di lei, aveva percepito una nota di gratitudine e conforto.

I due furono però interrotti dal rumore di zoccoli in avvicinamento. 

«Freya», la voce profonda di Erwin echeggiò dietro di loro. Le interiora di Levi tremarono appena, alla conferma della verità che ormai aveva data per certa più e più volte. Era lui, Erwin era suo fratello.

I coniugi Ackerman si voltarono in direzione del capitano Smith. In quelle poche settimane, Levi non aveva mai captato segni di cedimento da parte di Erwin. Tutto d’un pezzo, non vacillava mai. Eppure quando guardò gli occhi di ghiaccio di Freya, terrorizzati e imploranti, Levi vide il volto del biondo fremere d’affetto e d’empatia.

«Erwin…» esalò la ragazza.

L’uomo però si raccapezzò in un batter d’occhio, e si concentrò sul corvino. «Quindi, sei l’unico ancora in piedi. Patetico» tuonò.

Nell’udire quelle parole di scherno, Levi avvertì un moto di collera pervaderlo. “Potrai anche avere l’aspetto di una creatura divina, ma è il diavolo, quello che hai in corpo” pensò, ringhiando in direzione del capitano. Dopodiché gli si lanciò contro, brandendo la lama per ferirlo alla gola. L’avrebbe ammazzato lì e ora. La rabbia era talmente accecante da fargli dimenticare che Freya era proprio lì, accanto a loro. 

Erwin intercettò l’acciaio con le mani forti, afferrando la spada nel palmo. 

«Io ti uccido!» latrò Levi. «Sono qui per questo!».

Il biondo guardò prima Freya e poi Levi. Con la mano libera tirò fuori dal mantello una piccola pergamena, e la gettò a terra. Il corvino reagì diminuendo la forza con cui impugnava la lama. 

«Questi documenti che certificano i crimini di Lobov sono dei falsi» proferì Erwin. «Quelli originali hanno raggiunto Daris Zackley più o meno un’ora fa. Per Lobov è la fine».

«Sapevi tutto fin dal principio» sibilò Levi, tornando a spingere con la spada contro la mano di Erwin. «Sapevi che volevamo ucciderti, e ora tu—», ma non fece in tempo a finire di parlare. Le gambe lo fecero balzare come un felino sulla preda, con l’intento di mettere finalmente a tacere Erwin, una volta per tutte. Il giovane percepì due braccia forti immobilizzarlo e, senza aver bisogno di guardarne il volto, riconobbe quell’uomo dal suo fare energico. Il soldato senza paura. Si dimenò, tentando di divincolarsi con tutte le sue forze. Fu però una voce, a far congelare d’improvviso la foga omicida che animava le membra di Levi. «Uccidere?», Freya gli si avvicinò lentamente, fino a fronteggiarlo. Le parole che aveva appena pronunciato erano pregne di sdegno, e i suoi occhi di ghiaccio fiammeggiavano di collera. «È per questo, che sei salito in superficie? Per uccidere un uomo? Mio fratello, per di più?! Dio mio Levi, che cosa sei diventato?!» cominciò a gridare, fuori di sé. «Allontanati immediatamente da Erwin» ordinò infine, con la voce che le tremava. «Mi hai portato via Farlan, non mi porterai via anche mio fratello».

A quel punto le ginocchia di Levi cedettero, e lui cadde ai piedi dei fratelli Chastonay. Il dolore che percepiva e che lo pervadeva era talmente lacerante che il giovane pregò ardentemente di morire nel giro di pochi minuti.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4068072