Writober 2023

di ChiiCat92
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il turno di notte di Ann ***
Capitolo 2: *** Sulla soglia ***
Capitolo 3: *** Tornare al mare ***
Capitolo 4: *** Blu ***
Capitolo 5: *** Black Eyes ***
Capitolo 6: *** Angel ***
Capitolo 7: *** Vento di bonaccia ***
Capitolo 8: *** Eroe, eroe, eroe! ***
Capitolo 9: *** Mogano e acero chiaro ***
Capitolo 10: *** Il giorno che sono andati al mare ***



Capitolo 1
*** Il turno di notte di Ann ***


#horror #sovrannaturale #raitinggiallo #fruscio #pumpNIGHT 
 

- Il turno di notte di Ann -



Ann cambiò posizione sulla sedia. A furia di tenere la gamba piegata sotto di sé mentre stava seduta, una cattiva abitudine che aveva sin da ragazza, aveva cominciato a farle male il ginocchio. Cominciava a farle male una gran quantità di cose, non che prima non succedesse, certo, ma adesso ci faceva più attenzione. La consapevolezza di esistere in un tempo e in uno spazio ben definito cominciava a farsi sempre più precisa e sottile man mano che invecchiava. Ammesso che a trent’anni potesse definirsi “vecchia”. A dirla tutta erano più gli Altri a farla sentire così; non aveva mai pensato al suo anno di nascita, sempre più lontano nel menù a tendina dei siti online, come a un numero “vecchio”, e non le aveva mai causato problemi. Gli Altri, gli Altri invece sì che le causavano problemi. La guardavano piegando di lato la testa in quel modo un po’ trasognante, a metà tra invidia e pietà, che le faceva pensare che, forse, aveva detto o fatto qualcosa di sbagliato. Otteneva quello sguardo quando le facevano determinate domande - matrimonio, figli, casa, mutuo - e lei dava determinate risposte - single, mai, appartamento, affitto -. Alla maggior parte delle persone con cui lavorava quelle risposte non piacevano, così si ritrovava addosso Lo Sguardo, e lei si sentiva tornare a quando, quindici o vent’anni prima, sua madre la guardava seduta sullo sgabello della cucina con la sigaretta tra le dita e la piega arricciata delle labbra che da sola voleva dire: “Tu nella vita non concluderai niente”. 

Anno cambiò di nuovo posizione sulla sedia. A parte lo sfrigolio degli schermi, il rumorosissimo fruscio statico del microfono e l’occasionale schiocco delle giunture del ginocchio non si sentiva altro. La benedizione del turno di notte. In momenti come quello l’unica persona che poteva biasimare e accusare era se stessa e col tempo era diventata piuttosto brava a farlo. Era piuttosto brava anche a perdonarsi e rispondere se per questo, per cui di solito le discussioni con se stessa finivano meglio di quelle con i suoi colleghi. A se stessa poteva rivolgere un pacato, ma giusto, “sei una testa di cazzo”, perché lei sapeva di meritarselo e inghiottiva con piacere, ma con i suoi colleghi… con i suoi colleghi bisognava che usasse un po’ più di tatto, e che il filtro tra mente e bocca fosse solido e funzionante. 

Sui sei schermi che aveva davanti passavano pigre, alternandosi ogni due minuti, inquadrature di diversi corridoi e diversi piani della struttura. Ora uno scorcio del lab. 3, al secondo piano, poi il corridoio che portava alla mensa al primo piano, una carrellata di immagini degli uffici dei dirigenti al quarto piano, l’ingresso, il parcheggio: un carosello dai colori scadenti quanto scadenti erano le telecamere di sicurezza. Già che si prendessero la briga di pagare qualcuno perché sorvegliasse lo stabile di notte era un miracolo, considerando che a farlo erano gli stessi dipendenti che si alternavano durante il giorno pagati una miseria di straordinario non c’era da sorprendersi per la qualità delle immagini. 

Di tanto in tanto Ann alzava gli occhi dal suo libro per controllare le immagini sugli schermi. In quattro anni che lavorava lì non era mai successo nulla che meritasse la sua attenzione. Una sola volta l’adrenalina l’aveva spinta a lasciare la guardiola perché aveva colto un movimento in uno dei corridoi, per poi trovarsi davanti un pipistrello spaventato e confuso che era entrato da una finestra lasciata aperta. A parte quella volta, i suoi turni di notte erano stati di una noia mortale, ma almeno le avevano permesso di tornare al suo hobby da adolescente: la lettura. Ora, aveva già consumato i primi due volumi di Dune, ed era serio l’impegno che aveva preso con Greg dell’amministrazione di finire di leggere la serie in modo da poterne discutere insieme dopo la visione del secondo film in uscita al cinema, per cui era ben contenta di avere il turno di notte, l’unico vero momento in cui i gattini di TikTok non la distraevano e poteva concentrare tutte le sue energie in qualcosa che adesso le sembrava difficilissimo, rispetto a quando aveva quindici o sedici anni e nessun pensiero al mondo a parte procurarsi il prossimo volume della saga che stava leggendo in maniera illecita su internet. 

Quella notte non le riusciva di andare oltre pagina ventitré, qualcosa continuava a farla tornare al punto precedente, a seguire il filo dei suoi pensieri con una tale violenza che più che “volo pindarico” avrebbe dovuto chiamarlo “precipizio pindarico”. In più c’era il ginocchio che continuava a farle male a prescindere dalla posizione in cui lo metteva, che fosse con la gamba accavallata o ripiegata sulla seduta della sedia. Insomma, non c’era verso. Mise da parte il libro, spingendolo in avanti lungo la scrivania, come se mettere distanza tra sé e lui potesse in qualche modo allontanare anche i pensieri che la tormentavano. Quella notte, quella notte in particolare, era stanca di essere adulta. Stanca di dover pensare da sola alla casa, alla biancheria, alla benzina, alle bollette, all’affitto, stanca di essere ed esistere in quel preciso momento in quel preciso tempo. 

“Ah sì, esistere da qualche altra parte sarebbe meglio, in effetti.” si disse, lo sguardo che accarezzava ancora il profilo del grosso volume di Dune. “Non sarebbe meglio stare su Arrakis a morire nel deserto…” 

Per un attimo il fruscio del microfono si interruppe e le immagini sugli schermi sobbalzarono. Credendo di aver visto male, complice la lettura, la stanchezza, l’irrimediabile angoscia di essere, Ann batté le palpebre, aspettando che il fenomeno smentisse se stesso non ripresentandosi. Invece accadde di nuovo. Lo statico borbottio del microfono, che come rumore bianco aveva accompagnato tutto il turno, si interruppe, come se gli avessero staccato la spina. Gli schermi sfarfallarono ancora una volta, un lento singhiozzo visivo, poi si spensero del tutto. Ann scattò in piedi, la sedia a rotelle su cui era seduta scivolò dietro di lei, il libro ricadde sulla scrivania. "Un blackout." si disse. Alzò gli occhi sulla lampadina della guardiola: accesa. Poi guardò la luce di emergenza sulla porta, appena di fianco alla scritta "uscita": spenta. "Non è un blackout." Sbuffò dal naso, arricciando le labbra in una smorfietta. Adesso doveva capire cos'era successo alla sua postazione, dover andare a controllare il salvavita magari, o il contatore, e tutte le spine, sì, che qualcuna non avesse fatto un contatto e avesse fatto saltare l'impianto. Era la prima cosa che succedeva in giorni ed era cosa più noiosa e fastidiosa che poteva succederle. Staccò la radio dalla cintura e provò a farla scattare per contattare Frank, l'altro agente di turno quella notte con lei. Ma la radio non emetteva un suono. Le sopracciglia strette in un'unica virgola di perplessità, Ann provo a darle un colpetto contro il palmo della mano; visto che non sortì alcun effetto provo ad aprire il vano batterie e fare quello che, da figlia degli anni novanta, provava sempre: estrasse la batteria, la sfregò contro la divisa e la rimise al suo posto. Niente. < Ah che cazzo. > borbottò, e riagganciò la radio alla cintura. Diede un'occhiata all'orologio, chiedendosi se fosse il caso di fare finta di niente e finire il suo turno e poi negare l'esistenza di un problema alle telecamere l'indomani quando (e se) qualcuno glielo avesse fatto notare. Ma erano appena le due, aveva davanti altre quattro ore. Roteò gli occhi verso l'alto, scocciata. Per prima cosa Frank. Uscì dalla guardiola stentando per un attimo con un piede sull'uscio, la testa appena voltata indietro nella speranza di vedere gli schermi resuscitare con la loro luce azzurrognola. Niente. Tentò di ricordare su quale piano si trovasse Frank a quell'ora, ma si arrese quando realizzò di non ricordare neanche quale fosse il suo cognome figurarsi l'itinerario del suo turno. 

Un po' alla cieca, facendo più passi indietro verso la guardiola che avanti, Ann si avviò lungo il corridoio che portava all'ascensore per il primo piano. Le scarpe di gomma sul linoleum scricchiolavano in modo fastidioso, sembrava quasi che il suono arrivasse un attimo dopo aver appoggiato il piede, in ritardo. Sensazioni, sensazioni suscitate da anni e anni di film horror e racconti spaventosi dei suoi cugini più grandi durante i cenoni di Natale: solo quello. Eppure… eppure, sollevando lo sguardo verso le telecamere agli angoli, quelle che adesso vedeva essere del tutto spente, si sentiva osservata. Diede in una risatina nervosa, soffocata. Non solo nella guardiola non c'era nessuno, ma doveva essere lei la persona addetta a guardare attraverso quelle telecamere, e ora se ne andava a zonzo per o corridoi. Faceva davvero ridere! Oppure lei aveva un pessimo senso dell'umorismo, cosa più probabile. 

In ascensore si sentì al sicuro solo il tempo necessario per raggiungere il primo piano. Provò a far scattare la radio alla cintura, giusto per escludere ogni cosa, ma era morta e stramorta. < Frank? > chiamò, uscendo dall'ascensore e avviandosi lungo il corridoio. < Sei qui? Frank sono saltati tutti gli schermi delle telecamere. Ma perché cazzo non ho controllato dove fossi? Perché cazzo non li guardo mai quegli schermi di merda? > non parlava con Frank, non sperava neanche di trovarlo Frank, voleva solo scrollarsi di dosso il panico crescente che cominciava a trasformarsi in sudore caldo lungo la schiena. < Frank? > provò ancora, un suono strozzato adatto a una ragazzina di sedici anni.

Lo sentì ancora, quel suono, o assenza di suono, un formicolio lungo le braccia che diventava rumore bianco contro il timpano. Lo stesso suono che gli schermi, e il microfono, avevano emesso prima di spegnersi. Lo sentì ancora e subito dopo le luci del piano si spensero. In lontananza, lungo il corridoio, scorgeva le lampade di emergenza con la scritta rossa "EXIT" brillare debolmente. Subito prese la torcia dalla cintura e l'accesse. Almeno quella funzionava e intorno a lei si espanse un confortevole cono di luce. Non ebbe il tempo di provare sollievo perché lo avvertì ancora. Un fruscio statico intorno a lei, materializzarsi nell'aria come la trama di un tessuto di pizzo che si strappa, allungarsi verso di lei e la debole luce in sfrigolanti movimenti. Qualunque cosa fosse quella cosa era un tutt'uno con quel suono, non solo lo produceva, lo era, ne era l'incarnazione fisica come un onda sismica che si espande nell'acqua. Ann non ebbe paura, rimase più che altro… sorpresa. Si era ritrovata a pensare alla morte, in questa sua prima parte di vita adulta, ma pensava più a cose come essere investita da un'auto mentre andava a lavoro in bicicletta o al cancro, cose più comuni, cose più prevedibili. Questa non l'avrebbe mai potuta prevedere. 

Il fruscio balzò su di lei, un pizzico morbido come mettere in bocca una caramella frizzante. Le sue orecchie ne furono subito piene mentre ogni cellula del suo corpo scoppiettava. Pop pop pop come le bolle della carta da imballaggio, pop pop pop piccoli corti circuito che facevano saltare a uno a uno tutti i sistemi elettrici del suo corpo, proprio come era successo agli schermi, alle telecamere, al microfono, alla radio. Le gambe le cedettero ma non avvertì l'impatto con il pavimento, né lo vide perché il fruscio aveva fatto esplodere i bulbi oculari come lampadine. Però lo sentì, lo sentì fino all'ultimo. Era stato Instagram a insegnarle che l'udito è l'ultimo senso a spegnersi quando si muore. Così lo sentì: il fruscio dell'universo che la ripiegava e la appallottolava per gettarla, troppo presto, nella cosmica pattumiera del nulla.

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Capitolo 2
*** Sulla soglia ***


#sovrannaturale #writober #pumpNIGHT #permesso #verde


Alexander fece un altro giro della casa. Una casa deliziosa. Sì, una delle tante villette a schiera che arredavano quel quartiere in modo ordinato come i pezzi degli scacchi, tutte nelle loro caselline con le adorabili finestrelle e porticine delle stesse dimensioni e le siepi tutte tagliate alla stessa altezza, per garantire una parvenza di privacy. Una delle tante ma allo stesso tempo un po’ diversa, per quanto il regolamento del quartiere permetteva: in giardino era stato piantato un cespuglio di rose bianche, il vialetto era composto da grossi tasselli di pietra piatti, tenuti insieme da cemento ancora nuovo, poi c’erano le decorazioni sulla veranda, adorabili vasi di gerani in fiore con tanto di irrigatore automatico collegato a un bidone pieno d’acqua nascosto alla vista. Alexander adorava quelle attenzioni, il modo in cui gli umani si costruivano il nido per renderlo più conforme possibile agli altri della loro specie, ma allo stesso tempo spruzzandolo di dettagli che potessero differenziarli da chiunque altro. Essere e non essere allo stesso tempo, non troppo appariscente ma visibile, non troppo rumoroso ma udibile. Era questo che piaceva ad Alexander. Anche se persino in questo tempo c’erano gli opulenti esemplari di essere umano che ostentavano le loro penne colorate e la grandiosità dei loro nidi di sassi, ai suoi tempi il divario era… come dire, più palpabile? Tutto, persino nell’aria che si respirava, si poteva capire su quale gradino della scala sociale si trovasse una determinata persona, adesso, invece, salvo esempi lampanti, non si poteva mai dire. La qualità della vita era migliorata, rispetto ai suoi tempi. Di questo Alexander era un po’ invidioso, lui non aveva avuto tutte quelle possibilità.

Si ritrovò di nuovo sul retro della casa, delimitato da un recinto basso e qualche altro oggetto di una banalità spiazzante: un barbeque, un tavolino da picnic con quattro sedie, un pallone da pallavolo arcobaleno. Mise le mani ai fianchi con un sospiro. Gli umani non smettevano mai di essere bambini ai suoi occhi. 

Tornò sul davanti, sul vialetto con gli adorabili tasselli di pietra, e salì i tre gradini della veranda per andare a suonare alla porta. Dlin dlon come il suono più comune dell’universo, come sentire il richiamo di un uccello o lo schianto di un albero abbattuto da un fulmine, sempre uguale, ormai intrinseco nella natura che gli umani avevano forgiato per i loro bisogni. 

« Sì? » rispose una voce maschile dall’interno.

Alexander apprezzava la tecnologia degli umani, non era come certi suoi simili, pretenzioso e borioso e con sulle labbra frasi da due soldi su come i giovani avevano rovinato il presente, per questo sollevò il polso sinistro e l’Apple Watch rimandò l’orario: 19:42. Non troppo presto, non troppo tardi, l’orario perfetto per presentarsi a qualcuno senza sollevare troppe rimostranze. Armò il suo viso di un sorriso morbido.  

« Buonasera, scusi se la disturbo. Sono appena arrivato, mi sono trasferito due case più giù. » si volse in quella direzione indicando la casa in questione. « Il punto è che… è saltata la corrente e non ho attrezzi con me, sa, è ancora tutto negli scatoloni… le andrebbe di darmi una mano? Da vicino a vicino? » 

Avvertì nell’aria il cambiamento, il leggero aroma del testosterone mentre l’umano soppesava la possibiltà di mostrare al nuovo arrivato chi fosse il gallo cedrone del pollaio. Incredibile come, per quanto si evolvessero e per quanti gadget inventassero, gli umani continuassero comunque a essere così simili agli animali. Animali di una squisitezza unica, adatti all’allevamento. 

« Certo. » rispose l’uomo. Un bell’uomo sulla quarantina con la barba curata e il fisico ancora attaccato alla gioventù. La fede al dito era solo decorativa, così come i titoli di “padre” e “marito”. In questo gli animali erano molto più empatici. L’uomo si tirò indietro per un attimo, socchiudendo la porta, poi ci ripensò, ci ripensavano sempre. « Vuole entrare? Ci metterò un po’. » 

Alexander sollevò le labbra in un sorriso gentile. « Posso? » chiese, la parola scivolò tra loro come se nulla fosse, pacata e morbida. 

« Sì, sì, prego, entri. » 

Era diverso, da vampiro a vampiro, quando un umano dava loro il permesso di entrare in casa. Alcuni lo avvertivano come una serratura che scatta, altri come uno scampanellio come di una porta che si apre, altri ancora come lo strappo di un tessuto sottile. Per Alexander, che la maggior parte dei suoi simili definivano frivolo, forse perché era così giovane, il permesso era il suono di un pacchetto che viene scartato, quando si sciolgono i nastri e si strappa la carta.

Una volta dentro, l’uomo non ebbe il tempo di pentirsi, o di capire che, forse, avrebbe dovuto pentirsi. Alexander fu gentile, ma lo uccise comunque. Gli uccideva tutti. 

Leccandosi le labbra, controllò sul suo Apple Watch l’orario. C’era ancora tempo per il dolce prima di rimettersi in viaggio.

 

 

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Capitolo 3
*** Tornare al mare ***


#sovrannaturale #pirate #verde #pumpSEA #writober #fanwriter #gabbia

Aria. Era
aria quella che gli entrava nei polmoni, la stessa consistenza di sabbia contro la pelle, raschiante e dolorosa lungo la gola. Aria, invece di acqua, le branchie fremettero solo per un istante prima di rimanere immobili. Aprì gli occhi, incollati dal caldo, e l’istinto gli fece battere le membrane nittitanti, cosa che mandò una fitta di consapevolezza che lo svegliò del tutto. Si trovava fuori dall’acqua. A fatica si tirò sulle braccia, un mugolio gli sfuggì dalle labbra quando avvertì tutto quel peso. La testa gli pulsava, dietro le orbite avvertiva il calore di un pungolo arroventato che si trasformava in insistente dolore. Intorno a lui il morbido rollio della barca accompagnava il senso di nausea che montava dallo stomaco. Strinse i denti, le labbra ora una linea sottile. Non poteva permettersi di vomitare, ma si sentiva così male. Avrebbe dato qualsiasi cosa per una boccata d’acqua. 

Sobbalzò, unghie, artigli e pinne risposero alla paura scattando in fuori, facendolo apparire più grosso di quanto non fosse, quando la creatura picchiò la gabbia con un bastone. La creatura emise un suono gutturale, gettando la testa indietro e additandolo con il bastone. Dietro di lui, altri della sua specie facevano lo stesso, alcuni dandosi pacche sulle spalle a vicenda. Aegaea sibilò, mostrando i denti e avvicinandosi alle sbarre della gabbia. Avrebbe potuto scagliarsi contro di lui, infilando un braccio attraverso le sbarre e tentando di squarciarlo con i suoi artigli, ma il lungo livido che gli percorreva l’avambraccio, delle stesse dimensioni del bastone con cui la creatura aveva picchiato sulla gabbia, gli ricordò che era meglio non farlo. Non adesso almeno. 

Si tirò quindi indietro, la pinna caudale tutta raccolta sotto di sé, sempre più asciutta e scricchiolante, come guscio abbandonato di un vecchio granchio. Si passò la lingua sulle labbra spaccate, ogni respiro si faceva sempre più rantolante. 

Le creature che l’avevano catturato… gli somigliavano, in certo senso, anche se avevano le sembianze deformi di qualcosa che si sviluppa male, nel modo sbagliato. Non avevano pinne, né branchie, né squame o denti o artigli; la loro carne era rosea e morbida, ed erano così facili da sviscerare che sembrava strano che non avessero una conchiglia protettiva come i murici. Eppure, nonostante Aegaea ne avesse uccisi, e mangiati, diversi, loro erano comunque riusciti a catturarlo, tirandolo fuori dall’acqua dove il suo corpo era così pesante e lento a differenza dei loro. 

La luce gli bruciava gli occhi, costringendolo più volte a battere sia le palpebre sia le membrane nittitanti, la mancanza d’acqua cominciava a rendergli difficili di pensieri, avvolti da melma sempre più densa da cui, forse, non voleva liberarsi. 

Uno di loro batté di nuovo con il bastone contro la gabbia, stavolta lui non reagì se non con un sottile sibilo. Emettevano suoni, simili a quelli dei leoni marini, comunicando tra loro e rispondendosi in un continuo sfoggio di mediocrità: non avevano nessuna grazia, nessuna intonazione, nessun colore. Alle orecchie di Aegaea risultavano sgradevoli, oltre che fastidiosi. 

Non aveva mai visto niente del genere. Né gli squali né le balene cacciavano come cacciavano loro. Benché non desiderasse morire accettava di essere stato catturato da un predatore più abile di lui. Solo che… loro non sembravano intenzionati a mangiarlo. Qualche volta aveva visto le orche giocare con i cuccioli di foca prima di mangiarli, o i delfini rimbalzarsi pesci palla a vicenda, ma quelle creature… non stavano facendo neanche quello. Lo tenevano lì, chiuso nella gabbia, stuzzicandolo con il bastone quando alzava troppo la testa o, al contrario, quando non si muoveva.

Cosa stavano aspettando? 

 

Adesso ogni respiro era accompagnato da un rantolo. Avvertiva lo sciabordio dell’acqua, da qualche parte oltre la sua vista, il che trasformava ogni momento in una deliziosa sofferenza. Era lì, a portata di mano, eppure non avrebbe mai potuto raggiungerla, neanche allungandosi oltre le sbarre con tutte le sue forze. La pinna caudale aveva assunto una colorazione giallastra, le squame cadevano a mazzi se si muoveva, per questo evitava di farlo il meno possibile, anche se loro lo colpivano, gli urlavano contro con le loro voci da foche, infilavano dita tra le sbarre sperando di suscitare una sua reazione. Aegaea avrebbe potuto strappargli le mani a morsi, ma a malapena ormai riusciva a sollevare le labbra per scoprire le zanne affilate in un ringhio di avvertimento.

Chiuse gli occhi alla luce, tutto aveva per lui lo stesso abbagliante colore, le figure indistinte sulla retina secca. Cercò di ricordare com’era nuotare, schizzare verso il basso sfruttando la corrente, inseguire maccarelli e sardine infilandosi nel banco per poi vederle sparpagliarsi ovunque, cercò di sentire sotto le dita la morbidezza della sabbia sul fondale, il ruvido dei coralli, gli sfuggevoli, soffici barbigli di un anemone. Niente di tutto quello poteva sopravvivere in superficie, né poteva lui. 

Raccolse la pinna caudale al petto, cercando un po’ di conforto nel suo stesso corpo, l’ultima cosa che gli rimaneva per affermare con certezza che lui era stato, era esistito. Prima che il sole e il calore gli rubassero l’ultimo respiro, non odiò neanche le creature che l’avevano catturato. Sperò solo di tornare al mare, una volta morto, che la tortura delle branchie disseccate e il bruciore dietro gli occhi finisse per sempre, e che se qualcun’altro della sua specie fosse stato catturato com’era successo a lui che quelle creature fossero pietose e lo uccidessero subito.

L’uomo con il bastone picchiò contro la gabbia per l’ennesima volta, aspettandosi una reazione dall’uomo-pesce che, però, rimase immobile, tutto accartocciato come un vecchio straccio. Tentò infilando il bastone tra le sbarre, per toccarlo con la punta. Niente. 

« Capitano, l’uomo-pesce è morto. » dichiarò, senza smettere di punzecchiare il meraviglioso corpo dell’essere.

« Davvero? Che peccato. » il capitano, di fianco all’uomo, si piegò a osservare il cadavere. Puzzava di pesce marcio più e quanto un carico di tonni appena pescati. « Fatelo a pezzi, mettetelo sotto sale. Andiamo a venderlo sulla terraferma. » gli uomini esclamarono un “Sì, Capitano!”, e andarono a prendere i maceti. 

 

 

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Capitolo 4
*** Blu ***


#writober #pumpSKY #orablu #violenza #tematichedelicate #giallo #sliceoflife

 

Amber si lasciò andare a un lungo respiro. Nell’aria fredda dalle sue labbra scaturì una nuvoletta di vapore che si alzò verso l’alto, dissipandosi in particelle di condensa. Batté le palpebre, quasi sorpresa dal cambio di temperatura: quando era arrivata, quel pomeriggio, non faceva così freddo.

Affondò il badile nella terra umida e poggiò il peso del corpo sull’asta di legno. Aveva la schiena a pezzi, le dita intirizzite che si muovevano appena, gli occhi pieni di terra. Quand’era successo? Quando si era stancata così tanto? Si stiracchiò, allungando un arto alla volta verso il cielo. L’ultima volta che aveva alzato lo sguardo era di un colore azzurro intenso, con il bruciante occhio del sole puntato su di lei. Adesso era di una sfumatura blu, morbida, piena di pieghe che sembrava dargli la consistenza del gelato quando si arriccia contro la spatola del gelataio. Il blu le riempiva gli occhi, tenero e fresco rispetto a quell’azzurro aggressivo di qualche ora prima.

Respirò ancora nuvole di condensa a labbra spalancate, per lasciarle salire, morbide come cotone, verso quel cielo blu. Si sentiva leggera adesso, libera, e anche se aveva la pelle d’oca su tutto il corpo e il sudore cominciava a gelare sulla pelle e i vestiti, non aveva mai provato una tale sensazione di benessere. Si avvicinava a quando aveva affondato il coltello nell’addome di Joseph la prima volta, o forse somigliava più a quando lui aveva cercato di gridare aiuto e lei l’aveva colpito di nuovo, alla gola questa volta, oppure a quando, dopo la… trentaseiesima coltellata, tutto buchi da cui uscivano sangue, interiora, lacrime e urla in egual misura, aveva smesso di respirare. Sì, quel benessere somigliava a tutte quelle cose insieme, ma allo stesso tempo era diverso. La permeava dello stesso blu del cielo, la rendeva parte di ciò che aveva intorno, i piedi affondati nella terra smossa, le mani sporche, i capelli sfatti. Il sangue di Joseph era diventano nero, o era fango o era terra o era tutto, sulle braccia, sui vestiti, se lo sentiva anche in bocca, sapeva di bosco bagnato al tramonto. Nascondeva anche i lividi che lui le aveva fatto, i segni delle sigarette erano adesso indistinguibili, persino le ferite che aveva dentro, attorcigliate tra le budella e attaccate alle pareti degli organi come aderenze cicatriziali. Quel cielo blu, in cui pian piano andavano accedendosi le stelle, si stava portando via tutto. E’ finita, sembrava dirle, torna a casa, torna a vivere. Ma non ho ancora finito di seppellirlo, le venne spontaneo rispondere al cielo, non c’è abbastanza terra. Quanta terra ti serve! Tutta, tutta quella che c’è, ingoialo.

I grilli cominciarono a finire, il blu era diventato nero, un nero in cui, in lontananza baluginavano le fioche luci della città, quelle sparute delle macchine in passaggio sulla strada principale, almeno a un chilometro da lei. La campagna, il buco in cui aveva seppellito Joseph, lei stessa, era tutto nero. Lascio il badile? Hai già lasciato il coltello. Allora torno a casa. Sì, a farti una bella doccia calda. Voglio comprare tende e lenzuola nuove. Di che colore? Blu. 

 

 

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Capitolo 5
*** Black Eyes ***


« Operazioni di attracco completate. » gracchiò la voce sintetica dell’AI della nave.

Black Eyes si arrischiò a guardare fuori dall’oblò, le dita che fremevano già sulla la maniglia della camera di compensazione, il respiro compresso e asettico dentro il casco. Sentì se stesso sbuffare. Ormai non riusciva a pensarsi in maniera diversa da “Black Eyes”, lo stupido nomignolo che gli avevano affibiato il primo giorno, quando era salito sulla nave. Era una sorta di rito di passaggio, gli avevano detto i veterani, tutti dovevano avere un nome conosciuto solo all’equipaggio, con cui identificarsi al di fuori della Delegazione: d’altronde, nello spazio profondo non c’erano davvero leggi che valesse la pena seguire, quando ci si doveva basare sul buon senso e sulla bussola morale di ognuno era meglio andare subito d’accordo e stabilire le gerarchie. Black Eyes era stato “l’ultimo-arrivato” per un po’, poi l’equipaggio si era abituato alla sua presenza ed era passato da “ultimo-arrivato” a “xenologo-poi-non-così-male” e, alla fine, a “xenologo-abbastanza-decente”. Anche se prevedeva di salire di grado dopo l’ultimo lavoro su Lupus III, quando aveva impedito a quell’idiota di Tre Dita di perdere anche quelle che gli erano rimaste. 

Al momento, però, la sua attenzione era per la stazione orbitale, e la luce arancione sopra il portello della camera di compensazione. La nave emise un sibilo, assestandosi contro la banchina di attracco, ci fu un piccolo scossone, seguito da un gemito di metallo, poi la luce divenne verde. Black Eyes esultò e aprì immediatamente il portellone. 

Dieci minuti dopo era sulla stazione orbitale. Dopo tre mesi di navigazione la sensazione di trovarsi a terra era inebriante. Certo, non era proprio come camminare sulla superficie di un pianeta, e avvertiva nello stomaco la differenza, ma era comunque meglio della forza centrifuga della nave, che lo faceva vivere in un costante senso di nausea otto ore standard su otto, le altre otto dormiva. Ed era bello, anche, sentire voci diverse, lingue diverse, musica, e respirare aria non riciclata una volta tolto il casco. Andava d’accordo con il suo equipaggio, ma alle volte aveva bisogno di vedere facce diverse dalle solite quindici. 

Camminò spedito, con le gambe che sembravano sorreggere più peso di quanto avrebbero dovuto, ondeggiante ma sicuro, verso il Nova. La Delegazione in genere non capiva i bisogni dei viaggiatori interstellari, ma chiunque avesse ingaggiato per la costruzione della stazione orbitale aveva fatto un ottimo lavoro: era possibile trovare ogni genere di divertimento e trovare soddisfazione per ogni genere di bisogno. C’erano SPA, centri massaggi, campi sportivi, piscine, ristoranti, e anche attività gestite da xeni per un divertimento che gli umani avrebbero definito “esotico”. Il Nova era uno di quei posti. Per uno xenologo come Black Eyes era la cosa più simile al paradiso. 

Anche se l’orario standard indicava che era ancora la quinta ora del giorno, e le luci di tutta la stazione riflettevano il bisogno - un po’ antiquato - degli umani di avere come punto di riferimento il Sole per distinguere le fasi di sonno e veglia, il locale era immerso in un buio fumoso, dato dal vapore acqueo prodotto da ugelli nascosti nel pavimento e nelle pareti. Il chiacchiericcio sommesso, fatto di accenti schioccanti, sibili, gorgheggi, un po’ di lingua standard fecero sentire Black Eyes subito a casa. Andò dritto verso il bancone e schioccò la lingua per richiamare l’attenzione del barista, un grosso domdian le cui lunghe braccia piegate al gomito toccavano il pavimento. Lo xeno aveva passato così tanto tempo a guardare scabrose sitcom umane che alla fine il modo in cui ripuliva i boccali somigliava in tutto e per tutto al modo in cui lo facevano loro, tranne per il fatto che lui aveva solo tre grosse dita al posto di cinque.

« Tristan! » esclamò lo xeno vedendolo arrivare. Si lasciò scivolare con un suono di risucchio verso Black Eyes, muovendosi sui suoi barbigli invisibili, elastico e morbido come fosse senza peso. « Che bello vederti. » produceva suoni schioccanti con la fessura verticale che aveva al posto della bocca, e anche se aveva pronunciato il suo nome con una strana forzatura dell’ultima sillaba, Black Eyes era felice che qualcuno ancora lo ricordasse.

« È bello anche per me, Khik. » l’umano si accomodò su uno degli sgabelli previsti per l’anatomia umana, non ce n’erano tanti al Nova, che era la cosa che lui apprezzava di più.

« Quanto tempo è passato? Non dovevate stare via solo due settimane? » 

« Ah. » Black Eyes scosse la testa, gesto che per Khik non aveva alcun senso, ma le abitudini erano dure a morire. « Abbiamo avuto un piccolo problema con il reattore sulla strada del ritorno. Abbiamo dovuto aspettare una nave che ci trainasse fino a un rifornitore. Come terra su terra che batte. » 

Khik produsse un deliziato suono schioccante, la sua versione xena di una risata: lo faceva sbellicare quando gli umani usavano espressioni tipiche della sua lingua, e allo stesso tempo rendeva la nostalgia più sopportabile.

« La Delegazione! Ne sistemano una e se ne rompono cento! » Black Eyes sollevò una mano piegando il polso da un lato: parole sante amico mio. « Di che hai bisogno oggi? » 

« Qualcosa che allevi i pensieri, Khik. »

« Ah, quindi il solito. » 

Lo xeno volse le spalle, per un attimo la sua figura sparì nel vapore. Black Eyes inspirò a fondo quei candidi effluvi, che non avevano alcun sapore ma che lasciavano goccioline di condensa sulla pelle, come minuscoli occhi sbocciati da ogni poro. In quel momento prese posto di fianco a lui una slanciata, elegante figura. I molti arti si ripiegarono con cura sotto l’addome panciuto mentre sedeva nella conca imbottita, e quelli superiori si stesero sul bancone in quello che in tutto l’universo era noto come un’espressione di stanchezza e abbandono. 

« Brutta giornata? » provò Black Eyes, iniziando la conversazione in lingua standard. Lo xeno volse il capo verso di lui. Anni di studio, e di esperienza, gli avevano insegnato a non mostrare alcuna espressione, a non cambiare posizione, a non emettere suoni, a non fare nessun gesto avventato, piccolo o grande, in presenza di uno xeno di cui non sapeva niente. Persino il fremito di un sopracciglio avrebbe potuto fare la differenza tra la vita o la morte in un mondo in cui anche il linguaggio del corpo era sconosciuto. Lo xeno aveva una testa oblunga con cinque occhi tondi di un blu profondo, uno dei quali al centro del viso senza naso più grande, lingue ciglia gli coprivano quelle che dovevano essere palpebre, la bocca era un taglio netto orizzontale, senza labbra, e nascondeva zanne lunghe abbastanza da uccidere. Black Eyes conosceva quelli che, in gergo umano, venivano chiamati aracnidi, ma questo in particolare mostrava una grazia e una leggerezza inconsueta. Il suo addome era marrone ramato, così come gli otto arti, e la peluria fitta e sottile che ricopriva tutto il suo corpo. 

« Terribile. » gli rispose lo xeno, anche lui in linguaggio standard e anche lui, come poté notare Black eyes, sondando a lungo l’aspetto dell’umano. L’universo era ancora in quell’imbarazzata fase di conoscenza in cui ci si stupisce ancora dell’apparenza l’uno dell’altro, come in una relazione cominciata da poco quando si scopre che il partner fa la doccia con i calzini. Pensare in termini umani rendeva tutto più semplice, Black Eyes l’aveva studiato a scuola, ma era stanco dell'antropocentrismo, per questo gli piaceva passare il suo tempo al Nova. 

« Khik! Prepari qualcosa anche per lǝ miǝ amicǝ qui? » chiese Black Eyes. Il barista schioccò in risposta, e l’umano poté tornare a rivolgere il suo sguardo sull’aracnide. « Sono Tristan, come posso chiamarti? »

« Ar’za. » rispose l’aracnide, socchiudendo per un attimo, e tutti insieme, i suoi cinque occhi blu. 

« Scusa, continuo a fissarti. » Black Eyes si concentrò sul bicchiere che Khik gli piazzò davanti, mentre per Ar’za il contenitore del cocktail era quadrato e agevole per la grande bocca irta di zanne. « Sono uno xenologo, è deformazione professionale. » 

« Davvero? » Ar’za gorgogliò una sorta di risata.« Sono unǝ xenologǝ anch’io! » 

Black Eyes batté le palpebre per mostrare stupore, poi si ricordò anche di esprimerlo a parole. « Wow, sembra l’inizio di una barzelletta. » 

« Barzelletta? » chiese Ar’za, si era fattǝ più vicino a lui, sporgendosi con il lungo busto verso l’umano. « È una di quelle cose che fate tra voi umani, vero? » 

« Sì. » la vicinanza dello xeno non lo metteva a disagio, anzi, poté saggiarne ancor di più la particolarità del vello, il profumo sottile che emanava, come di spezie ed erba bagnata, e la profondità vischiosa del suo sguardo. « Battute su tizi che si incontrano nei bar. Dovrebbero far ridere, anche se non ho mai capito il perché. » 

Ar’za socchiuse solo due occhi su cinque, come un cenno di comprensione. « Abbiamo qualcosa del genere, ma anch’io non ho mai capito perché dovrebbero far ridere. » 

Black Eyes si chiese dov’è che avesse già visto il colore e la forma del corpo di Ar’za, e perché dentro di lui qualcosa formicolasse, ma il suo profumo era delizioso, il suo accento appena percepibile nella lingua standard, e la sua presenza un piacevole cambiamento in una routine di soli umani con cui aveva convissuto negli ultimi mesi. 

Parlarono a lungo, lasciando che le sostanze inebrianti nei loro bicchieri li rendessero più lascivi e permissivi l’uno con l’altrǝ. Black Eyes azzardò domande personali, Ar’za ricambiò affondando la sua parlantina in zone ancor più sensibili. Per tutto il tempo Black Eyes continuava a chiedersi perché gli fosse così familiare, ma pur richiamando tutto quello che aveva studiato sugli aracnidi non gli venne nulla in mente. A parte il fatto che il loro sistema solare binario era stato raggiunto da poco dalla Delegazione e che c’erano pochi esemplari in giro per la galassia, come vassalli solitari di un feudo abbandonato. 

« Ti andrebbe di spostare la conversazione in un luogo più appartato, Tristan? » gli chiese Ar’za, tanto vicino che l’umano si sentì soffocare da un’ondata del suo buon profumo. Rispose con un cenno. Fu lǝi a pagare per entrambi, poi si diressero verso un’alcova appartata, separata dal resto del locale da tende all’apparenza così leggere da sembrare fatte dello stesso vapore che avvolgeva tutto, eppure spesse abbastanza da non lasciar intravedere i clienti all’interno dell’alcova. 

Black Eyes si lasciò scivolare sui cuscini. Ammirò il corpo di Ar’za che si muoveva su di lui su otto arti sottili; i due anteriori, dotati di pseudo mani, gli accarezzarono il petto. Poi Ar’za si avvicinò. Fu stupido da parte di Black Eyes paragonare quell’avvicinamento a una ricerca di intimità, perché quella è una cosa umana. Quello che fece l’aracnide fu morderlo, morderlo al collo con tanta violenza da mozzargli il fiato. E allora Black Eyes ricordò dove aveva già visto quell’aracnide. Non risaliva ai tempi della scuola di xenologia, no, ancora prima, quando ancora non sapeva che la sua strada sarebbe stata tra le stelle. All’epoca studiava biologia, con poca voglia per ironia della sorte, e qualcuno della sua classe aveva posto una domanda sciocca all’insegnante sulla pericolosità dei veleni. Beh, sulla Terra sono rimaste poche specie di ragni velenosi ormai, aveva risposto l’insegnante. Sì, ma se ci sono, quali sono?! aveva chiesto ancora la ragazza con la mano alzata talmente in alto che avrebbe potuto toccare il soffitto. L’insegnante aveva alzato gli occhi al cielo, ma solo un pochino, per non farsi vedere, e poi aveva proiettato al centro della stanza una rappresentazione 3D di varie specie di ragni. Una aveva catturato l’attenzione di Black Eyes. Zampe sottili, marrone ramato, un piccolo addome rotondo: un ragno violino. 

Ora sotto il corpo di Ar’za, Black Eyes rifletté che forse il suo equipaggio l’avrebbe degradato per quello: morire così, in un locale della stazione orbitale, gli sarebbe costato il titolo di: “xenologo-proprio-scemo”. 


 

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Capitolo 6
*** Angel ***


#rosso #violenza #pumpFIC #darkfic #writober #fanwriter

Sul soffitto c’erano venticinque macchie di muffa. Se si fosse soffermato a contare anche quelle più piccole forse il numero sarebbe salito, ma adesso cominciava a essere un po’ troppo buio perché riuscisse a contarle con esattezza. La sua macchia preferita, in ogni caso, era quella nell’angolo in alto a destra, un agglomerato peloso, grigiognolo, a tratti blu, che ricordava il ridicolo muso di un chihuahua. Per qualche ragione ad Angel piaceva guardarla, almeno finché la luce del giorno non si esauriva del tutto, nascondendo il soffitto e la stanza in un’oscurità umida. C’erano lampioni là fuori, ma quando erano accesi non bastavano a illuminare neanche metà della stanza. Il chihuahua, comunque, lui l‘aveva ribattezzato Cracker. Aveva proprio l’espressione da Cracker, l’aveva capito subito non appena i suoi occhi avevano messa a fuoco la forma tra le macchie di muffa. Cracker era sempre lì, ogni giorno quando lo riportavano nella stanza, e sembrava salutarlo e accoglierlo con i suoi grossi occhi a palla. Cracker lo faceva sentire meglio. Se si sforzava poteva immaginarlo scodinzolare verso di lui, aprire la minuscola bocca e far penzolare la lingua fuori per cercare da lui qualche croccantino extra. Angel non aveva mai avuto un cane, ma immaginava che averne uno fosse più o meno così. Nella sua vita di prima aveva un gatto. Cheese, si chiamava. Immaginava che Cracker e Cheese non sarebbero andati subito d’accordo, soprattutto perché Cheese aveva un bel caratterino, ma alla lunga avrebbero fatto amicizia e sarebbero diventati inseparabili. Evitava di pensare a Cheese, perché come tutte le cose che vivevano fuori da quella stanza, al di là della fila fioca di lampioni, oltre la strada sterrata, non le avrebbe riviste mai più. Non era questione di pessimismo, si diceva quando aveva la forza di dirsi qualcosa, non era che non volesse scappare o ritrarsi dai giochi invasivi e dolorosi a cui lo costringevano a partecipare, era che non ne aveva più la forza. Non mangiava un pasto decente da…mesi? Si sentiva sempre debole e confuso, forse perché tutto quello che ingeriva era condito con saporite manciate di droga, e il suo carceriere era grande il doppio di lui. Per non parlare del fatto che da quando gli aveva rotto il braccio aveva perso ogni desiderio di ribellarsi a lui. Il braccio era guarito, certo, si era preso la briga di ingessarglielo e sistemarglielo in modo che smettesse di essere piegato a S come una superstrada del dolore, e poi era stato drogato più del solito per tutto quel periodo quindi tutto sommato ricordava a sprazzi quello che era successo. Ma non ci teneva a ripetere l’esperienza, in alcun modo. 

Angelo rimase con lo sguardo fisso su Cracker finché la sua immagine sparì del tutto, allora sospirò. Tentò di voltarsi su un fianco ma avvertiva le gambe intorpidite dal dolore e ogni movimento gli costava uno sforzo titanico. Per cui rimase immobile sulla schiena, a guardare il soffitto sempre più scuro, finché non rimase più nulla da guardare se non il buio. Gli occhi si abituarono a fatica, mettendo a fuoco, nella pallida luce che veniva da fuori, le quattro mura che formavano la sua cella. Il letto era l’unica forma di mobilio che gli era concessa, e per quanto ne sapeva era anche piuttosto comodo. La sua percezione poteva anche essere falsata dal fatto che non dormiva su un letto vero da molto tempo, per cui avrebbe anche potuto essere sdraiato su una brandina e l’avrebbe comunque giudicata come un letto king size di un albergo a cinque stelle. A volte si ritrovava a pensare che la vita per lui era diventata molto più semplice, non tanto diversa da quella di un animale da compagnia, proprio come Cracker e Cheese. Se aveva bisogno di andare in bagno aveva una bacinella sotto il letto che poteva usare, che veniva svuotata due o tre volte al giorno, in base a quanta roba ci fosse dentro; il cibo gli veniva portato direttamente in stanza, così aveva anche un riferimento temporale che scandisse la sua giornata; se aveva sonno dormiva, e in genere riusciva a riposare anche piuttosto bene considerata la situazione. Il suo unico impegno era soddisfare il carceriere. Angel non era certo di chi fosse e dove l’avesse visto, e non dipendeva solo dal fatto che indossava ogni volta una maschera diversa o dalla droga, ma perché non credeva che fosse lui ad averlo rapito. L’ipotesi approvata sia da lui sia da Cracker era che chiunque l’avesse rapito poi l’aveva venduto. Aveva viaggiato parecchio prima di arrivare in quella stanza, era passato di mano in mano, di pavimento in pavimento, finché non era arrivato lì. 

Il carceriere era una persona insaziabile, per quanto Angel si impegnasse, lui ne voleva sempre di più. A volte usava giocattoli, a volte no, ma alla fine si sentiva così stanco e dolorante da non riuscire più a muoversi, proprio come adesso. Il vero problema era che quando il carceriere si mostrava così aggressivo il secondo round sarebbe seguito al primo nel giro di poco tempo.  

Angel sospirò, cominciava a sentire le palpebre chiudersi sugli occhi asciutti, e quel martellante pulsare dietro le orbite affievolirsi man mano che il sonno se lo veniva a prendere. Quei piccoli momenti, quelli che seguivano il risveglio e precedevano l’addormentamento, erano i suoi preferiti. Poteva vedere e sentire qualunque cosa volesse, poteva essere dovunque e chiunque. Tra le ciglia che andavano infittendosi, una foresta nera davanti alle sue pupille, vide gli archi di un letto a baldacchino, tende di velluto, una moquette alta, bianca, tanto soffice che persino lo sguardo vi affondava, vide un televisore di sessanta pollici appeso al muro, un tavolino di cristallo con flute pieni di champagne e un gesto di frutta fresca. Sorrise e gli occhi gli si chiusero del tutto. 

Si svegliò di soprassalto per il dolore. Il viso gli formicolava e trovava assurdo, davvero assurdo, che una qualche cameriera si fosse permessa di schiaffeggiarlo mentre dormiva: se doveva mettere in ordine la camera poteva anche farlo in un altro momento! Forse aveva dimenticato di mettere sulla maniglia il “non disturbare”... certo non giustificava comunque lo schiaffo… Angel aprì gli occhi del tutto, dalle labbra gli sfuggì un gemito di dolore. Il polso era stretto tra le dita del carceriere. Angel non sapeva mai bene come chiamarlo, a differenza di Cracker, che aveva proprio la faccia da Cracker, l’uomo aveva un aspetto sempre diverso. A volte aveva gli occhi azzurri, e sembrava che Craig gli stesse a pennello; a volte era alto e massiccio, un aspetto più da Robert; altre, come adesso, era biondo e slanciato, con mani tanto grandi da sembrare adatte più alla musica che alla violenza, Angel lo chiamava Max. 

« Mi fai male. » disse Angel. Il tentativo di ritrarsi fu debole, appena accennato. Max non era il tipo da lasciarlo andare solo perché si chiedeva di farlo. L’uomo si sporse in avanti, e andò subito verso le sue labbra tra cui si insinuò con la lingua. Angel non glielo impedì, anzi, schiuse la bocca e lasciò che lui sondasse il suo interno con la lingua sempre più vorace. Respirava in fretta, a piccoli singhiozzi che lasciavano entrare l’aria solo dal naso, per evitare di inghiottire l’odore di Max, la sua saliva, insieme con quel suo desiderio di mangiarlo vivo. Sarebbe stato peggio se si fosse ribellato, e comunque… non ne aveva la forza. Angel chiuse gli occhi. Le mani di Max erano ovunque sul suo corpo, barbigli pieni di estremità appiccicose come i tentacoli urticanti di un anemone. Lo sentì aprirgli le gambe, entrare a forza dentro di lui. Non emise un gemito, né si permise di aprire le palpebre. Il dolore era reale, le scosse elettriche lungo tutto il suo corpo tangibili, ma finché fosse rimasto fuori dal suo campo visivo… non sarebbe stato vero, solo un’altra delle sue fantasie, solo un’altra macchia di muffa sul soffitto. 

Max lo lasciò, coperto di umori, sudore e lacrime. Angel tornò a raggomitolarsi su un fianco, le gambe strette al petto. Qualcuno sarebbe venuto per tergere il suo corpo, cospargerlo di crema al melograno, lavargli i capelli. Speravano che con quei gesti la sua pelle tornasse candida e le tracce di quello che gli avevano fatto sparissero, come se nessuno l’avesse mai toccato.

La porta si aprì di nuovo, lui si morse le labbra, poi avvertì l’odore del sapore, lo sciabordare d’acqua nel secchio. Da bravo, anche se tutto il corpo tremava, si volse e si mise seduto, le braccia aperte, pronto ad accogliere il battesimo dei suoi peccati. La spugna era calda, ruvida contro la pelle, per quanto strofinasse il livido che gli aveva lasciato Max sulla spalla non passava. Ci avrebbe messo un po’, per sprofondare nella carne e arrivare là dove avrebbe saputo solo lui che c’era. Non sarebbe mai stato davvero pulito. 

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Capitolo 7
*** Vento di bonaccia ***


#writober #pumpSEA #sud #sovrannaturale #giallo

Giorno di navigazione quarantacinque. 

Il cielo è sempre azzurro, bianco lattiginoso all’alba, rosso sanguigno al tramonto. Neanche una nuvola all’orizzonte, né un uccello né, purtroppo, terraferma. Abbiamo finito l’acqua potabile da due giorni; gli uomini ne ridono, pensano che sia il momento di aprire i barili di rum e passare quel che resta delle loro vite ubriachi. Abbiamo ancora del cibo e qualcosa si riesce a pescare, ma ogni volta che gli ami risalgono vuoti il sorriso degli uomini vacilla. Se la bonaccia durerà ancora a lungo non so se riusciremo a sopravvivere.

 

Giorno di navigazione quarantasette. 

Sono tutti ubriachi, come avevano pronosticato. L’alcool ha reso tutti irascibili ma ha accorciato la memoria. Ho bevuto qualcosa anch’io, per idratarmi, non sufficiente per farmi perdere i sensi. Il ponte è pieno di uomini svenuti. Il mare è talmente fermo che il vomito di quelli che si sporgono oltre il parapetto rimane lì abbastanza da attirare i pesci: quantomeno così possiamo pescarli. 

 

Stavo pensando a mia madre. Pensavo a quello che avrebbe fatto lei messa nelle mie stesse condizioni. In che modo avrebbe tirato su il morale degli uomini e che soluzioni avrebbe trovato. Li avrebbe costretti a bere il piscio l’uno dell’altro, forse, e sarebbero stati contenti di farlo. Avrebbe organizzato gare di bevute e suonato la balalaica tutta la notte, fino a farsi sanguinare le dita. “Finirà!” avrebbe detto a chiunque glielo avrebbe chiesto “Finirà presto, non c’è da preoccuparsi!”. Io non riesco ad avere lo stesso candido ottimismo, né la sua forza, né tantomeno ho mai imparato a suonare la balalaica. Io posso solo aggirarmi nei dintorni dell’ombra che getta la sua lapide, e sperare in qualche modo che, alla luce del sole nascente, la mia ombra somigli alla sua. 

 

Bones ha ucciso Kieran. Ha piovuto tutto il pomeriggio, e questo ci ha permesso di raccogliere un po’ d’acqua. Io e Vesh abbiamo dovuto razionarla perché non finisse subito. Non so se sia stato l’abuso di rum o solo l’ingordigia, ma Kieran ha rubato la razione di Bones, e questo ha scatenato la rissa. Ho provato a interrogare gli uomini, più per tenerli impegnati in qualcosa che per capire il motivo dell’omicidio; in ogni caso Kieran è morto e scoprire che Bones aveva dei trascorsi con lui perché una volta a Tulligan ha scopato la sua donna o scoprire che il coltello con cui l’ha ammazzato gliel’ha venduto Hills quando è cominciata la bonaccia perché era paranoico e sapeva che sarebbe successo qualcosa e voleva essere pronto o scoprire che aveva solo le mani che gli prudevano perché quest’immobilità non fa bene a nessuno non cambierà le cose: è morto, Kieran è morto. Dobbiamo gettare il cadavere fuori bordo, ma senza corrente, senza vento, continuerà a galleggiare contro la carena. Riesco a vederlo mentre si gonfia d’acqua, con la carne grigia e azzurra, gli occhi fuori dalle orbite. E poi ci sono gli squali, gli squali che verranno per banchettare con lui. Non posso permettere che gli uomini assistano a uno spettacolo del genere.

 

Di notte il mare è piatto e fermo al punto da confondersi con il cielo. Se non ci fossero i puntini luminosi delle stelle non saprei dove comincia l’uno e dove finisce l’altro. In questa oscurità mi sembra di non riconoscere più nessuna costellazione, anche la Croce del Sud mi sembra indistinguibile dall’infinito brulicare di luci sopra di noi. Alcune mi sembrano muoversi. Forse è solo un inganno degli occhi, forse è la mancanza di cibo, acqua, sonno. Forse sto impazzendo. Forse sarò io il prossimo a uccidere. A essere ucciso? Il sotto e il sopra si confondono quando non c’è terra all’orizzonte. Le mappe sono inutili, dovrebbero esserci delle isole ma non ci sono. Sono nascoste nella nebbia? No, il cielo è terso, si riesce a scorgere la curvatura della Terra in lontananza. Ho sbagliato il calcolo della rotta? E’ tutta colpa mia? Ho portato io i miei uomini a morire nella bonaccia? 

 

Giorno di navigazione cinquanta. 

Io e Vesh abbiamo deciso di rinunciare alle nostre razioni d’acqua per i più deboli tra noi. Se non lo facciamo noi che siamo gli Ufficiali in carico, chi altri lo farà? 

 

Emmit e Sefer hanno la febbre. Si stanno consumando là, sotto coperta. Elna li ha visitati. “Hanno bisogno d’acqua”, dice. E dice cose che sappiamo tutti! Come mi ha guardato, ho visto l’arroganza nel suo sguardo, so cosa insinuava. Che è colpa mia. Mia, che ho scelto di partire per questa missione. Mia, che avrei dovuto ordinare di invertire la rotta quando ancora potevamo. Mia, che non sono un buon capitano e che li ho portati tutti a morire. No, Elna non lo farebbe mai, giusto? Mi è ancora fedele, fedele di una fiducia che le farebbe scommettere la sua vita per me. Deve essere così.

 

Sefer è morta questo pomeriggio. La febbre l’ha divorata fino all’osso. Elna ha isolato Emmit, e nessuno vuole aiutarla ad assisterlo: temono che sia contagioso. Cominciano a girare voci tra l’equipaggio. E’ già il secondo uomo a morire nel giro di pochi giorni. Pensano che sia una maledizione o qualcosa del genere, sono superstiziosi. Pensano che non avremmo dovuto spingerci così a sud, oltre i confini conosciuti, che sia stato come insultare tutte le divinità, di mare e di terra, e che per questo siamo qui, fermi: non ci permetteranno di andare più avanti di così. 

Mi chiedo se le monete d’oro con cui hanno comprato me, il mio equipaggio e la mia nave non fossero la vera maledizione. Mia madre cos’avrebbe fatto?! E io cosa sto facendo? Niente, aspetto la morte, o la prossima pioggia che ne ritarderà l’arrivo. 

 

Ho sentito gli uomini urlare e cantare nella stiva. Hanno dato fondo all’ultimo barile di rum, nonostante avessimo razionato anche l’alcool. Non c’è più niente da bere, anche l’acqua piovana che abbiamo raccolto è finita, e non c’è traccia di nuvole sopra o intorno a noi. I cadaveri continuano a ondeggiare contro la carena. Li sento battere, nel rollio della nave, vengono a chiedermi il perché. Perché li ho lasciati morire così, e perché ho lasciato che i pesci li facessero a pezzi, un boccone alla volta, senza lasciare neanche le ossa. Chi sarà il prossimo? Sento che l’unica cosa che gli uomini possono fare adesso è scommettere su chi sarà l’ultimo di noi a morire. Non ho un Dio da pregare, perché mia madre mi ha insegnato che l’unico a cui appellarsi quando si naviga è il mare, e il mare non ha orecchie né occhi né pietà. Forse proporrò davvero di bere il piscio, questo farà capire agli uomini la gravità di quello che hanno fatto stanotte. Vesh teme l’ammutinamento, ma non credo che possa succedere davvero, non con la fame e la sete che consumano ogni pensiero. 

 

Giorno di navigazione… non ha più senso a questo punto appuntare la voce “navigazione”. Non siamo neanche alla deriva, siamo fermi. La bonaccia continua, non abbiamo abbastanza remi o uomini o forze per spostare la nave. Non eravamo preparati per questo, nessuno lo sarebbe! Le vele sono così ferme da sembrare fatte d’amido, rigide di sale, dimentiche del vento che un tempo le gonfiava. Mi chiedo se sentirò di nuovo quel suono, quello del bisbiglio del vento che agita il tessuto e asciuga il sudore, un mormorio di vita non meno eccitante dello scroscio dell’acqua, o dell’orgasmo di un bell’uomo. 

Emmit non arriverà a vedere il tramonto. Anche Vesh ha la febbre. Se il mio braccio destro viene a mancare mi ritrovo amputato non solo nel cuore ma anche nell’autorità. Senza di lui a tenere a bada gli uomini sono solo. A questo punto mi chiedo se abbia senso pregare gli stessi dèi che prega la mia ciurma, o se devo rimanere fedele alla mia mancanza di fede. Se potessi muovere io stesso la nave lo farei, nuoterei con una cima tra i denti per trascinarla fuori dalla bonaccia. 

 

La bussola non segna più il nord. Vorrei che Vesh fosse qui, ma Elna non mi permette di vederlo. Gli uomini rimangono sotto coperta, al riparo dal calore, non possono permettersi di sudare. Sul ponte non ci sono neanche insetti, solo legno essiccato al sole e l’ombra dritta dell’albero maestro che ruota lenta su se stessa. 

Dovevo capirlo quando mi hanno proposto il lavoro che puzzava di morte. Ho fatto salpare il mio equipaggio in nome di cosa? La possibilità di passare alla storia, che il nostro… no, il mio nome, non posso continuare a dirmi che non è così, che il mio nome risaltasse tanto quanto quello di mia madre, che anch’io potessi diventare un capitano temuto e rispettato solo con il respiro. Lei non avrebbe mai accettato un viaggio impossibile, non si sarebbe fatta accecare dalla possibilità di una nuova gloria. Avrebbe pensato prima di tutto al suo equipaggio, poi a se stessa. Per questo era grande, per questo non sarò mai come lei.

 

Gettare il cadavere di Vesh fuori bordo è stata la cosa più difficile che io abbia fatto, e forse la cosa più sbagliata. Vesh era un simbolo per la ciurma. Se io ero il pugno, lui era la carezza. Ha sempre saputo lavorare la mia rabbia in qualcosa che potesse funzionare, ne faceva un’opera d’arte, intagliata nel marmo. Era un grande uomo, che ne ha servito uno più piccolo e inetto. Morto lui, muore tutto quello che era rimasto dell’eredità di mia madre. Sono riuscito a gettar via il suo ultimo regalo. E adesso mi trovo solo, su una nave che stagna tra uomini non morti, a cercare di districare la matassa del mio fallimento. Da biasimare ci sono soltanto io. 

 

Acrux, Gacrux, Decrux, Mimosa. Le vedo tutte e quattro, brillanti, e di fianco a loro altre stelle che con conosco. La Croce del Sud mi ha sempre guidato, ferma nel cielo della stessa forma dell’ancora della mia nave, adesso sembra più segnare la posizione della mia tomba. Metà dell’equipaggio ha la febbre, compresa Elna. E’ stata lei a dirmi, con più calma di quanto mi aspettassi, che sarebbe morta. Lei lo sa, non perché lo sente, ma perché lo sa, lo sa e basta, le sue conoscenze mediche le permettono di saperlo. Se muore lei non ho modo di aiutare neanche con cure palliative il resto dell’equipaggio. Lei mi ha detto quali sono i sintomi a cui devo fare attenzione per mettere in quarantena chiunque li presenti: non c’è nient’altro da fare. Non abbiamo medicine, non abbiamo neanche più voglia di vivere. Tanto, se non fosse la malattia moriremmo comunque per la mancanza d’acqua. 

 

Ultima annotazione.

Sono nato su una nave, da che ricordi ho sempre navigato, ho imparato prima a nuotare che a camminare. Mia madre è stata il più grande capitano dei suoi tempi, e io ho seguito le sue orme come ho potuto. Sapevo che sarei morto sulla mia nave, era quello che, in fondo, mi auguravo. Mentre mi aggiro sul ponte quel che resta dei corpi dei miei compagni galleggia intorno a me. Posso dire qualcosa di ognuno di loro, scrivere un epitaffio. Sono morti tutti. Il capitano non abbandona mai la nave, quindi io non me ne andrò mai. E’ giusto così.

Non provo più fame o sete, né stanchezza, non provo più niente che non sia piatto e fermo e liscio e lento come la boccia in cui è rimasta incagliata la mia nave. Non ha più senso scrivere, non ho più niente da raccontare che valga la pena. La storia dei miei uomini è importante solo per me. Ho fatto scoperte dell’animo umano che rimarranno per sempre su questa nave, del mondo però non ho scoperto nulla. Di me e del mio equipaggio diranno che siamo dispersi in mare. Qualcuno a terra, milioni di chilometri lontano da qui, in un altro mondo, sentirà la nostra mancanza, forse qualcuno vorrà persino venirci a cercare. Alla fine si dimenticheranno di noi, diventeremo una storia, poi una leggenda, poi più niente. Gli esseri umani muoiono e con loro muoiono le loro storie. Io non credo di essere più umano, quindi non sono più tenuto a raccontare niente. 

 

Capitano Alton

 

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Capitolo 8
*** Eroe, eroe, eroe! ***


#sliceoflife #flussodicoscienza #writober #pumpINK #medaglia

Oggi Alex indossa il suo vestito migliore, quello con i bottoni dorati, i lustrini sulle spalle, la piega del pantalone ben stirata, tanto rigida che la stoffa cambia a malapena forma quando si muove. Lo specchio gli rimanda un’immagine distorta, gli sembra di essere troppo alto, troppo magro, il viso troppo scavato, l’incarnato troppo pallido. Deve essere lo sforzo di stare piegato con tutto il corpo sul bastone e tenersi in equilibrio sull’unica gamba che gli è rimasta. Potrebbe presentarsi sulla sedie a rotelle, la possibilità c’è, il punto è che non vuole. Saltellare su per i tre gradini, con la gamba destra del pantalone ripiegata e appuntata su se stessa con una spilla d’oro, inamidata proprio come la piega della sinistra in modo che non possa muoversi, gli sembra in qualche modo più appropriato. Gli sembra più appropriato perché è umiliante, stancante, e fa mostra della sua deformità come la sedia a rotelle non potrebbe fare. La gente si è abituata alle sedie a rotelle, le persone sulla sedie a rotelle non fanno quasi più impressione, non suscitano quasi più interesse. E Alex quell’interesse lo vuole. Non la pietà, non gli sguardi di tenerezza e biasimo o i “posso aiutarla?” sussurrati nella speranza che la risposta sia “no”, oh no, non vuole tutto questo. 

A completare il look mette in testa il berretto con la testa rigida. Ah, sembra proprio un bravo soldatino, uno di quelli che, con la spada ornamentale legata a un fianco e la pistola all’altro, non esiterebbe due volte a buttarsi addosso a un terrorista per salvare una mamma con un passeggino. È questa l’idea che avevano di lui quando camminava per strada in divisa, con entrambe le gambe, adesso le cose sono un po’ diverse. 

Prende le stampelle, gli serviranno tutte e due per salire le scale del palco, ed esce di casa. È in ritardo nel modo più squisito, e davanti alla macchina d’ordinanza c’è un uomo in uniforme che fuma, ai suoi piedi tre mozziconi schiacciati di sigaretta. Alex non può fare a meno di sorridere. Appena si avvicina l’uomo in uniforme perde la sua espressione accartocciata, ma proprio come un foglio di carta ormai stropicciato i segni rimangono intorno agli occhi e alla bocca. 

« Signore. » dice, battendo i tacchi e portandosi una mano di taglio sulla fronte. Alex gli fa cenno di mettersi a riposo, e con le stampelle indica la portiera dell’auto. « Oh, sì, chiedo scusa. » quell’uomo ha almeno vent’anni più di lui, eppure gli sta facendo da lacchè. 

A fatica Alex sale in macchina, getta le stampelle di lato con uno sbuffo. L’uomo comincia a parlare, a ruota libera, dal momento in cui si accomoda al posto dell’autista. Chiede, si meraviglia, commenta, gli fa i complimenti: tutte cose che Alex ha sentito e risentito da quando è tornato dalla guerra, fin troppo banali. Risponde a monosillabi o non risponde affatto, perché ha già risposto a quelle domande in tv e alla radio, e i giornalisti… ah, come si sono nutriti delle sue parole, ingozzandosi con ogni sillaba fino a vomitare. Arriva il silenzio e lui lo accoglie, la testa appoggiata contro il finestrino. Dal momento che non durerà ancora a lungo, deve approfittarne. 

La festa che hanno organizzato per lui comprende coriandoli e bandierine, striscioni con su scritto “il nostro eroe” e una parata che lo conduce fino al palco allestito per lui. Appena apre la portiera la folla impazzisce, non ha mai visto tanta gente, non conosce nemmeno così tanta gente, ogni dieci volti sconosciuti ne adocchia uno familiare, ma non può esserne certo, non quando tutti sembrano avere la stessa bocca che urla la stessa bugia. Eroe, eroe, eroe. Riescono a coprire, con quelle urla, il tonfo sordo della gomma delle stampelle sull’asfalto e i suoi mugolii di sforzo mentre trascina il suo corpo verso le scale. Lontanissime, altissime, in cima un velo di nebbia fredda e un uomo che gli porge la mano per fargli i complimenti. Lo guardano tutti mentre sale, un gradino alla volta, saltellando, tra un battito e l’altro del cuore che non sembra più reggere. Qualcuno trattiene il fiato (lui stesso?) quando rischia di cadere, ma l’uomo che gli porge la mano lo afferra, sì, lo afferra e lo tira sul palco, per un attimo il piede non tocca terra. Per un attimo gli sembra assurdo che quell’uomo, più minuto e basso di lui, riesca a sollevarlo così; poi ricorda che adesso il suo peso si è ridotto, il suo corpo non è più lo stesso. Alex viene spinto al centro del palco, e gli sembra stupido che si sia privato della sedia a rotelle ora che deve stare in piedi davanti al pulpito. Gli fa male la gamba, quella che ha lasciato sul campo di battaglia e che marcisce sul terreno fangoso. 

Il silenzio scende, più di una persona si alza sulle punte per superare la testa di quella davanti per vedere meglio. Per vedere lui! L’eroe. Solo adesso si accorge che l’uomo che l’ha tirato sul palco ha in mano un cuscino con sopra adagiata una medaglia d’oro luccicante. Da dove è arrivato il cuscino e da dove la medaglia, perché il suo sorriso è così aperto e perché sembra avere troppi denti troppo bianchi.

Adesso dovrei parlare. Dovrei dire quanto sono felice di essere sopravvissuto alla guerra, di essere ancora vivo, di aver lasciato solo un pezzo. Dovrei dire che il mio sangue e quello delle persone che ho ucciso è dello stesso cazzo di colore, dovrei dire che mentre mi si spappolava la gamba e i miei compagni perdevano molto più di quello sono stati altri soldati con altre divise ad aiutarmi. Dovrei dirgli di ficcarsi in culo quella cazzo di medaglia. 

Alex espira, i polmoni si sgonfiano al punto che sente di poter soffocare, poi inspira, e comincia a parlare.

 

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Capitolo 9
*** Mogano e acero chiaro ***


#angst #writober #09 #pumpNIGHT #etereo #fanwriter #drugsaddiction #yellow
 

Il Bianco aveva un sapore particolare. Non somigliava a niente che avesse mai assaggiato prima; non era cremoso, non era secco, non era né duro né molle; non era liscio, non aveva protuberanze, non era acido, non era neanche salato: era solo Bianco. Non avendo parole per descriverlo a se stesso, Aris lo lasciava rotolare sulla lingua. Ogni volta che toccava un dente, il Bianco cambiava sapore. Contro i molari inferiori destri era farinoso e secco, gli incisivi superiori lo trasformavano in qualcosa di gelatinoso che si attaccava al palato, i canini invece rimandavano una sensazione di gelo che gli faceva schiudere le labbra per liberare una nuvoletta di condensa. Non sapeva come definire il Bianco, ma sapeva che gli piaceva. Gli piaceva dal primo momento che l’aveva provato, mentre si scioglieva al centro della sua lingua, nel vicolo che puzzava dell’umido caldo che esalava dal terreno, dove le suole delle sue scarpe si incollavano se non sollevava di continuo i piedi. Da quella volta era diventato dipendente dal Bianco. Il pensiero dell’ovattata sensazione che gli riempiva la bocca, che non sapeva descrivere ma che, in qualche modo, si faceva sempre più precisa e chiara alla sua mente ogni volta che l’assaggiava, occupava tutti i suoi pensieri. Persino quando dormiva sognava il Bianco. Si era reso conto, giorno dopo giorno, che il Bianco era diventato per lui più importante dei suoi impegni, dei suoi amici, della sua famiglia, di qualsiasi cosa. L’unico problema era vivere in un mondo di merda che non consente a chi vuole di avere quello di cui ha bisogno senza pagare. Lo stupore era arrivato quando Aris aveva capito di potersi permettere il Bianco per un bel po’ prima di vedere il suo conto in banca prosciugarsi del tutto; lo stupore dipendeva dal fatto che non credeva di essersi dedicato così tanto al suo lavoro da essere ricco, ricco di Bianco senza neanche saperlo. Più noiose e molto più difficili da accantonare erano state le relazioni con la sua famiglia e i suoi amici. Quanto rompicoglioni può essere una persona se lasci le spunte blu su Whatsapp senza rispondere per più di un mese! Fino a citofonare alla porta del suo appartamento, pare, proprio come gli esattori delle tasse, i tecnici di luce, gas e acqua, il suo padrone di casa. Tutti ratti, brulicanti e sudici, che non conoscevano il piacere del Bianco. I soldi avevano sistemato qualcosina, il Bianco aveva messo a posto il resto. 

Aris andava a prendere il Bianco sempre nello stesso posto, sempre dalla stessa persona. Di quella persona conosceva solo il profilo netto sotto il cappuccio, le gengive esangui ritirate sui denti, le narici frementi e arrossate che annusavano in lui il bisogno del Bianco, e i soldi per pagarlo. Non sapeva come si chiamava, né cosa facesse oltre a vendere il Bianco, ma non importava. In quel mondo senza consistenza in cui finiva quando lo metteva dentro di sé non erano importanti i legami, i rapporti, né ne aveva la morte, o la vita. Entrambi erano stati toccati dal Bianco, e quando facevano lo scambio, lo scambio sporco e tangibile di denaro per Bianco, c’era in loro un momento di comunione profonda che trascendeva i confini della normale percezione, qualcosa che Aris non aveva provato con il suo compagno, neanche prima che fosse sepolto sotto tre metri di terra in quella bara di legno chiaro. Non bianca, i suoi genitori non avevano voluto che fosse bianca, anche se lui aveva scritto con esattezza come dovesse essere, ma acero chiaro, la cosa più vicina al bianco senza essere bianco. La bara bianca è solo per i bambini, gli aveva detto non sapeva chi, la forma del corpo e il suo della voce distorti dall’urlo costante, continuo, che sentiva nelle orecchie e che non era più andato via, non era più andato via finché non aveva provato il Bianco. Ai bambini la bara bianca perché sono senza peccati: funzionava così in quel mondo, lo stesso che voleva denaro in cambio di qualsiasi cosa, anima e carne. Più ci pensava, più Aris non trovava in Jami alcun peccato, quindi perché la bara bianca? Nessuno gli aveva saputo rispondere, né sembrava volerlo fare. Erano stati bravi solo a battere e battere sulla porta del suo appartamento quando aveva smesso di rispondere, ma nessuno aveva voluto rispondere.  

Aris camminava con le mani in tasca a stringere le fascette di banconote che gli servivano per comprare il Bianco. Dopo quelle avrebbe dovuto trovare un altro modo per comprare il Bianco, ma tutto quello che riusciva a pensare era se il mogano stesse bene con l’acer chiaro. Quella mattina, dal basso si alzavano volute di nebbia che Aris attraversava senza disturbare, come se non avesse peso. Le falcate sul terreno gelato si ripercuotevano su tutto il suo corpo, dalla punta dei piedi dentro le scarpe di tela, le vecchie converse di Jami, fino alla ginocchia che si piegavano con lo sforzo del desiderio: ancora uno, cammina, destra e sinistra, e ancora, ripeti. Fino al vicolo dove comprava il Bianco. Non sapeva se la persona che aveva il Bianco fosse un uomo o una donna, in ogni caso non importava a nessuno dei due; l’unica cosa che importava era che si trovasse lì. Dal caldo al freddo, dalla pioggia al sole, o in mezzo alla nebbia, era sempre lì, con il cappuccio calato sul naso che nascondeva il continuo fiutare della sua disperazione, le mani in tasca a nascondere il Bianco, i piedi rivolti uno verso di lui l’altro verso la strada. La cerimonia era sempre la stessa, ma stavolta sarebbe andata in modo appena diverso: ce l’hai? Ce l’ho. Il prezzo? Il solito. Fammi vedere. Certo, amico. Va bene, dammi tutto. Tutto? Tutto. Amico così non ne ho per gli altri. Ti posso pagare. Vediamo… cazzo, sei pazzo amico, va bene. Okay. Okay, alla prossima. E Aris aveva già in tasca il suo Bianco, più pesante e morbido dell’ultima volta, più pungente e rumoroso. L’avrebbe consumato nel posto preferito di Jami, tutto, l’avrebbe consumato tutto, fino all’ultima briciola, particella, fiocco di neve sciolto sulla lingua. 

Era un albero, solo, al parchetto vicino al suo appartamento. D’estate coperto di foglie, in primavera di fiorellini bianchi, adesso rigido ma non morto, con le dita nodose rivolte verso l’alto, in attesa. Faceva troppo freddo perché qualcuno si arrischiasse a passeggiare nel parco, e le strisce di nebbia portavano all’oblio chiunque le attraversasse. Sotto le suole delle scarpe Aris sentiva il crocchiare fragrante del terreno che si spaccava sotto il suo peso, quel sottile strato che assomigliava del tutto a lui, fastidioso come una sveglia in un giorno di riposo. Aris si avvicinò all’albero, poggiò la mano sul tronco che era un respiro trattenuto, concentrato verso l’interno e rinsecchito contro le costole di legno. Poi preparò il Bianco. Tutto, tutto quello che aveva comprato, come aveva detto al venditore nel vicolo. 

Mogano e acero chiaro. Uno vicino all’altro, tenuti insieme dal bianco etereo del nulla. Il mondo si sfilacciò diventando meno che nebbia, i contorni disfatti, accesi agli angoli dal fuori che bruciava ogni pagina, le foglie secche quando si vuol fare pulizia. Aris respirò Bianco, gli riempì ogni orifizio finché ce n’erano ancora da riempire, poi ogni capillare, ogni molecola, e alla fine fu lui a diventare Bianco. Mogano e acero chiaro. 

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The Corner 

Ciao a tutti, so che è passato un mese, che il writober è finito, ma io sono stata SUPER impegnata tra lavoro e stesura della tesi. Non voglio abbandonare il progetto, per cui ho deciso che anche in maniera estemporanea continuerò a scrivere finché non arrivo a 31.
Ci proviamo, insomma.

Chii

 

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Capitolo 10
*** Il giorno che sono andati al mare ***


#crackship #drabble #sliceoflife #raitingverde #writober #pumpFIC #10 

Quei due, guardali: sono due relitti. Giovani come l’erba appena dopo il disgelo e già così stanchi. Raggomitolati uno sull’altro mentre intorno a loro la gente entra ed esce dal vagone, niente sembra disturbarli, né il pianto del bambino in braccio alla signora asiatica, né il puzzo di sudore che viene dal barbone coperto di stracci che gli siede accanto, né il ciarlare continuo della donna italiana che chissà cosa avrà da raccontare a sua zia Concetta da un’ora e mezza. Guardali! Si sa già dove vogliono andare, ma soprattutto da chi stanno scappando. Hanno uno zaino a testa e sono gonfi, imbottiti di tutto quello che hanno potuto trovare come il tacchino il giorno del ringraziamento quando si ha poco tempo per fare la spesa e cucinare. C’è da chiedersi dov’è che stanno andando, e perché ci stanno andando con questa tranquillità, man mano che il treno si allontana dalla stazione centrale, le fermate con i nomi sempre più strani, provincia, frazioni, frazioni di frazioni, paesi, un solo binario. Continuano ad andare finché sul vagone non c’è nessuno, poi sul treno. Il controllore va avanti e indietro e li vede, non cambiano quasi posizione. Solo per un attimo al più piccolo, il più magrolino, quello con i capelli argentei, scivola la felpa sulla spalla e sulla pelle lattea si scorgono lividi, escoriazioni, causate da cosa? Sembrano mani, sembrano bruciature, poi lui si gira e tutto scompare, non è mai esistito. L’altro ha capelli neri corvini, ma alla radice sono scoloriti, tendono al biondo, ha gli occhi chiusi ma fremono, sotto le palpebre si vede il movimento delle pupille, le ciglia lunghe e nere altrettanto che vibrano. Il suo sonno è leggero, come quello dei conigli, attento a ogni rumore e pronto a balzare in piedi.

Anche mentre dormono continuano a tenersi per mano, le dita intrecciate, le unghie masticate e coperte di smalto nero sbeccato. Sembrano felici. Si può essere felici in queste condizioni? Sperduti, soli, sui sedili appiccicaticci del treno che sono un miscuglio di umori e tempo e pensieri. Sembra di sì, ma è difficile dirlo. Finché tengono gli occhi chiusi e le dita intrecciate possono essere qualsiasi cosa. Possono essere felici, liberi, lontani, possono essere qualsiasi cosa vogliano. Rimani a guardarli ancora, finché il treno non arriva al capolinea, segui con ansia il loro risveglio, il tornare alla vita che hanno allontanato con il sonno. Per un attimo sono sperduti, spaventati, muscoli che si tendono e il respiro che si trattiene, poi le porte del treno si aprono e l’odore del sale riempie la carrozza, il vento porta dentro un po’ di sabbia e loro si guardano. Ce l’hanno fatta! Sono arrivati alla fine della corsa!

Si alzano, all’improvviso hanno il fiatone, hanno fretta di scendere e arrivare dove sono già arrivati, vogliono vedere se è come lo immaginavano, se i sogni che hanno fatto mentre dormivano, l’uno sulla spalla dell’altro come due gattini di strada, sono reali. Saltano fuori dalla carrozza e non appaiono spauriti, o almeno non lo sembrano. 

Le porte si chiudono alle loro spalle e, pian piano, stridendo dopo il fischio del capotreno, si allontana sui binari, supera la banchina e sparisce all’orizzonte: torna là dove loro non torneranno mai. Si tengono per mano, ancora, sempre, e un passo alla volta, un po’ correndo, un po’ tirandosi l’un l’altro, un po’ spingendosi per essere quello che arriva per primo con il timore di poter essere afferrato da dietro, vanno verso il mare. 

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The corner 

Lo so, non è ben chiaro quale sia la ship, ma non volevo che lo fosse, chi lo sa lo sa! 
Sono ridondante, anche l'anno scorso per questo prompt ho scelto lo stesso argomento, però va bene così, mi piace tornare su certi momenti.

Chii

 

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