Ackerman

di drisinil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO - Un colore che non esiste ***
Capitolo 2: *** Morte numero zero ***
Capitolo 3: *** Il sapore del fango ***



Capitolo 1
*** PROLOGO - Un colore che non esiste ***


PROLOGO - UN COLORE CHE NON ESISTE
 

Non sono il tipo che scrive storie. Per tirare fuori un rapporto decente ho impiegato mesi, in cui lui mi ha costretto a scriverne a dozzine, inutili, insulsi, su qualsiasi fottuto argomento di nessuna importanza, dalle pulci nei materassi altrui alla puzza dei loro stivali, dai culi dei cavalli all'incompetenza dei furieri, dalle taglie delle uniformi alle ore di utilizzo dei camini.

Ora so scrivere un rapporto, anche se saranno quindici anni che non ho nulla da riportare a nessuno. Storie, invece, non so scriverne, né dovrei farlo.

Eppure me l'hanno chiesto più volte. E' chiaro, no? Il soldato più forte dell'umanità si prende il disturbo di restare vivo dopo la battaglia fra terra e cielo e addirittura gli restano due braccia e due mani, non importa con quante dita in meno, potrà ben stringere una penna al posto di una spada. Sembra che scrivere memorie sia l'unica attività che mi compete, inchiodato a questa sedia, a questa parete bianca, a questa finestra con il suo panorama di tetti, a questa carne morta sulle cosce, a un cervello annacquato di ricordi che affondano pian piano, insieme al tempo che passa e diluisce tutto.

Dieci righe e finisco a scrivere del senso della vita, come ne avesse uno.

La morte, è ovvio, ha molto più senso e dignità. Un senso chiaro, inappellabile, definitivo, sia per chi la subisce che per chi la infligge, ancora di più per chi resta a guardarla e se la porta dentro come l'ennesima cicatrice rappezzata alla meglio.

Ma tu hai quattro anni e di queste cose non sai nulla, né forse te ne importerà qualcosa quando avrai l'età per capirle.

La morte, del resto, è una faccenda che non ammette ignoranza, come la legge in questo paese straniero. Non ammette un'età minima, non ammette scuse o giustificazioni. E' autoportante, come le mura di Paradis appoggiate alle spalle dei giganti, che crollarono dandoci la libertà nel momento stesso in cui fu condannato il resto del mondo. La morte definisce se stessa e il mondo intorno, anche per i vivi.

Ma tu sei inconsapevole e la morte non ti ha mai sfiorato, se non come una parola torbida e aliena, la forma intricata delle radici di un grande albero scuro e la lucida rotondità delle lacrime di tua madre, che osservi mentre ti scivolano lungo le dita grassocce. Le segui con gli occhi, come fossero formiche o insetti, con una curiosità senza domande.

Hai ancora sotto le palpebre solo gli occhi del presente, il dono infantile di lasciarsi scorrere addosso il tempo senza farsi toccare: fra i capelli, fra le dita, sotto le unghie bianche delle mani e dei piedi. Così, indisturbato e pigro, il sole compie il suo giro sul tuo viso, sgranando giorni simili fra loro e ancora amorfi, ancora morbidi e tiepidi come le coltri del letto dove dormi e il seno che ti nutre.

Quando sei nato, temevo che da quel seno avresti succhiato più dolore che latte, ma non è accaduto. Crudele di ciò che non sai, come è l'infanzia, hai sputato via il dolore e hai ingoiato il latte, ruttando la tua soddisfazione come è concesso ai neonati e ai vecchi infermi. Siamo gente fortunata, no?

Fortunato tu lo sei davvero, in tanti modi che non riuscirai neppure a comprendere, il che è parte integrante della tua fortuna.

Ieri però ti ho visto. Ho visto, mentre giocavate, come hai disarmato il piccolo Grice, con un gesto semplicissimo, che però non aveva nulla della goffaggine dei tuoi anni. Era netto, efficace, istintivo e al contempo consapevole. Molto più rapido della percezione del tuo ingenuo avversario, che si guardava perplesso le mani vuote.

E quando ti sei trovato in mano il manico di quel pugnale giocattolo, l'hai guardato con due piccoli occhi affilati e bramosi e hai, lentamente, inconsciamente, cambiato l'impugnatura. Dopo, non sapevi cosa farne e hai aperto la mano, per lasciarlo cadere, come se volessi controllare che non avesse nulla di magico, che cadesse dritto al suolo come qualsiasi altro oggetto e non ti restasse incastrato fra le dita.

E' caduto e tu subito lo hai recuperato, possessivo e predace, e sei corso verso di me, per offrirmelo. So che ti piace vedere i coltelli ruotare nella mia mano buona, ma non ti ho dato questa soddisfazione ieri; quel giocattolo l'ho semplicemente messo via, requisito, allontanato dalle tue mani avide, con il sadico privilegio degli adulti sui bambini, di strappar loro ogni cosa senza motivo.

Tua madre è preoccupata. Ti preferirebbe imbelle, quieto, sazio di favole e dolciumi. Vuole che tu non sappia nulla, che ti aggrappi al cognome di tuo padre, come se bastasse qualche sillaba per sfuggire al proprio sangue.

Lui, tuo padre, non esprime un'opinione: gli basta vederti ridere, spalancando quella bocca rosa troppo larga per la tua faccia e s'illude che non crescerai, che non soffrirai, che ti terranno al sicuro una casa di mattoni, una tavola imbandita, una scuola, una madre triste e devota. Vuole credere che la sicurezza e il benessere coincidano con la felicità e ovviamente, visto che è rimasto sotto sotto un moccioso con le idee poco chiare, si sbaglia di grosso.

Quindi, questa storia è per te, che tu la legga o meno. Non ha lo scopo o la presunzione di insegnarti qualcosa e non so cosa mai potresti imparare da uno come me. Non ha lo scopo di dirti chi sei, perché ci definiscono i casi della vita e le scelte che facciamo assai più delle parole, o degli specchi.

Non ha alcuno scopo, forse, questa storia, se non fornire a me un pretesto per ricordare, prima che la memoria mi coli giù nella zuppa mentre infilo in bocca il cucchiaio senza pensare a nulla, se non alla fame che non sento, agli appetiti, tutti quanti, che mi si scrostano di dosso, come l'intonaco chiaro di una vita che talvolta ho il dubbio di aver vissuto veramente.

Eppure, tutti vogliono insegnarmi a vivere, come se ne avessi bisogno.

Come se la vita che sto vivendo adesso, bloccato fra quattro mura a guardar scorrere il tempo degli altri, non somigli in modo significativo a quella di quando sono venuto al mondo, nelle stanze di un bordello, chiuso in qualche armadietto traforato, a giocare al buio su un sottofondo di amplessi mal pagati, oppure seduto dietro la porta chiusa, ad ascoltare quei gemiti e quei sospiri cercando di misurare il tempo che restava da ingannare, prima che mi restituissero ai sorrisi faticosi di mia madre. Per tenermi buono, a quel tempo, mi davano pane e latte.

Oggi mi portano liquori, tè pregiati, libri, illustrazioni di battaglie e di giganti (!), persino un mio ritratto, una volta. Mi mettono in mano quei doni e poi restano a guardarmi come sono adesso, una gamba di legno e una molle come gelatina, un corpo manipolato da mani gentili come quello di una bambola, un cuore a due tempi che batte insieme il passato e il futuro, senza mai trovare spazio per un presente che non esiste. Vengono qui, sudati di compassione (sento la puzza da chilometri), e mi chiedono com'era combattere, com'era volare. Se mi manca.

Rispondo quasi sempre che non ho rimpianti.

Ed è vero. Più di quel che sembra o che si possa pensare. E' una risposta onesta, ancorché molto evasiva.

Non ho rimpianti, ma respiro le mie preziose perdite, contandole una a una, più e più volte, amandole di una passione carnale e segreta. Le falangi, i lembi di pelle, le ossa, l'indipendenza, la giovinezza, le ali, la luce, la speranza, l'amicizia, il desiderio, l'amore.

Mi scompongo così, un grammo alla volta, senza fretta, aggrappato alla mia solitudine, e quello che mi resta è un cervello mediocre e pigro, un cuore ancora troppo morbido e che continua a dolere, mentre va a fondo. In superficie, la gratitudine per quelli che sperano e desiderano al mio posto, per quelli che continuano a cercarmi, quelli che lavano il mio corpo e lo spostano dalla sedia al letto, dal letto alla sedia, e si preoccupano che svuoti i miei piatti e i miei intestini con regolarità, come fa la gente per bene.

Mi restano poche cose dentro a un cassetto che non apro mai.

I fiori bianchi che mi porta tua madre ogni settimana, e io piazzo sul comodino.

Restano le risate tue, e del piccolo Grice e di quello a cui hanno dato il suo nome e per adesso se lo ficca in bocca gorgogliando, ridotto a due vocali acute, tenute insieme da tutta la bava appiccicosa che mi rovescia addosso finché glielo lascio fare.

Resta un cielo che non ha mai la sfumatura giusta, sempre troppo azzurro o troppo limpido. Qualche rara mattina di primavera, dopo le gelate, quando apro gli occhi mi pare che il colore sia esattamente quello e per un attimo fa bruciare tutte insieme le cicatrici e le illusioni, in un'unica vampa di fuoco vivo.

Eppure lo so, che quel colore non esiste.

Una volta glielo dissi e lui rise, ribattendo che per il solo fatto che se lo portava negli occhi, quel colore doveva esistere. Parole distratte, perché come al solito aveva un foglio in una mano e una tazza nell'altra, la cravatta allentata, la bocca storta di disappunto, e alto com'era si ostinava ad appollaiarsi su quel divanetto troppo stretto, macchiato e bricioloso che dopo un anno riuscii a far migrare dalla stanza da letto all'ufficio, nello sforzo inane di tenere almeno uno dei due ambienti in una passabile condizione igienica.

Ma a quel tempo il divanetto era ancora in camera, insieme a noi, con la sua copertura stinta e le sue molle appuntite che prima o poi speravo di fare fuori.

Cosa ci faccio qui? mi arrovellavo. Cosa gli serve? Cosa posso dargli?

Lo guardavo e mi sembrava uno scherzo del destino particolarmente perverso che mi trovassi lì con lui, nella sua stanza, a dividere un momento privato. L'aggettivo privato, riferito a noi due, era ancora di incerta definizione nel mio vocabolario, un grumo di inquieta meraviglia che mi pulsava nello stomaco.

Lo guardavo senza battere gli occhi per interi minuti, apettando il momento in cui all'improvviso sarei stato rispedito al mio posto, nella camerata di sotto, in mezzo al russio compatto e all'odore penetrante di umanità poco lavata, scalciato via con violenza come tentava di fare a ogni occasione il fottuto ronzino baio che mi avevano assegnato e che mi odiava. Il giorno che riuscì a disarcionarmi mi salvò la vita e perse la sua.

Ma quella sera il ronzino era vivo e vegeto nelle stalle, il tè nella mia tazza era troppo caldo, il tempo scorreva al giusto ritmo, e io sedevo scalzo sul letto del mio comandante, che mi leggeva stralci di un rapporto di Nile Dawk, riuscendo a stupirsi della sua idiozia anche se lo conosceva da una vita.

Posso vederlo come fosse adesso, il bastardo gentiluomo, gli occhi inchiodati al foglio, che mi chiede se lo sto ascoltando. Come se potessi non ascoltarlo.

Bevo l'ultimo sorso e gli rispondo che no, non lo sto ascoltando. Falso. Che di Nile Dawk non me ne sbatte niente. Vero. Che me ne sbatte pochissimo anche di Erwin Smith. Falsissimo. E che comunque dovrebbe andare a dormire. Vero. E lo prenderò a calci un'altra volta se non lo farà. Falso, ovviamente, sappiamo entrambi che non lo farò mai più.

Gli dico che dovrebbe raccogliere i suoi cenci da terra e glielo dico mentre inizio a farlo io. Gli dico che sto per andarmene, il che è vero, perché sta diventando tutto troppo. Troppo per me. Troppo per crederci senza essere punito, per non cadere ancora più in basso. Troppo per non perdere completamente il senso della misura.

Troppo e basta, per un figlio di puttana dei bassifondi.

Alla fine glielo dico, che è troppo. Lui alza lo sguardo, perplesso. E io in quel momento mi convinco oltre ogni dubbio che al mondo quel colore non esiste.

Non so bene perché ho tirato fuori proprio questo ricordo, fra i tanti, forse per dire che c'è ben poca epica nella mia storia. Morti casuali, lampante stupidità, passioni prosaiche, ideali distorti, catene arrugginite, ubriacature di illusioni, nessun poema che incanti una folla, solo frantumi di verità che prendono la forma della mia memoria, scontano il peso delle mie parole.

Dietro ogni impresa bellica si nasconde un crimine senza tribunale, coperto di allori, messo in versi, piegato alla morale che più piace ai vincitori. 

La storia del crimine la conoscono tutti, quella dei criminali, una volta svestiti dei loro eroismi, non interessa a nessuno.

Eppure è la storia di un criminale l'unica che posso raccontare, e posso raccontarla solo io.

 

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Capitolo 2
*** Morte numero zero ***


1 - MORTE NUMERO ZERO


Ogni paradiso definisce un inferno e questa è una verità incontrovertibile.

La nostra Paradis non fa eccezione: il suo inferno sotterraneo brulica di dannati e di demoni, anche se non si è mai visto un gigante.

Piano per l'evacuazione, lo avevano chiamato le brillanti menti politiche, e consisteva in un buco scavato per terra dentro cui scaraventare miserabili e disperati di ogni sorta, nonché qualsiasi profugo fosse riuscito a infilarsi, insieme alla proprie vane speranze, oltre le porte del Wall Sina. Era quella la risposta del governo al potenziale crollo delle mura difensive più esterne: un'enorme cripta sotterranea, sotto le eleganti vie lastricate di Mitras, in cui seppellire viva tutta l'umanità indesiderata e buttare via la chiave.

Ma gli umani hanno questo brutto vizio, di adattarsi e sopravvivere anche nelle peggiori condizioni immaginabili. Malati, malandati, reietti, gli abitanti dei bassifondi restavano (e restano) tenacemente aggrappati alla vita.

Sono uno di loro; quando nacqui, nell'inferno di Paradis, le uniche cose che mi appartenessero erano un nome di appena due sillabe e le braccia accoglienti di mia madre, che condividevo con innumerevoli sconosciuti, di giorno e di notte, perché la differenza fra l'uno e l'altra nei bassifondi ha poco valore, e fra le quattro mura di un bordello proprio nessuno.

Ricordo, di quei tempi, meno e più di quel che vorrei: reminescenze fragili di una vita non vissuta frammiste a fantasie, ovattate, irreali, per lo più fatte di impressioni sensoriali, come l'odore dolciastro e penetrante di fiori marcescenti che ci avvolgeva tutti, sussurrando la sua vana pretesa di chiudere fuori la realtà e coprirne il fetore. Una perenne, opprimente sfioritura che emanava dalle mura di quel posto e da chiunque lo abitasse, dalle tappezzerie, dall'olio dei lumi, dal vino nei bicchieri e dall'acqua nei bacili, dalla mia pelle e da quella di mia madre, per quanto vigorosamente si ostinasse a strofinarci entrambi con un ruvido sapone fatto in casa che puzzava più di noi.

La memoria è così: parziale, malevola, sfuggente. Della donna che mi mise al mondo ho smarrito la voce e il sorriso, eppure porto ancora scolpita nei nervi la sensazione tattile del suo corpo, dei suoi capelli lunghi arrotolati fra le dita, sottili e lucidi come fili di seta passati nell'inchiostro. Dormivamo insieme un sonno discontinuo, io rannicchiato contro il suo corpo fra le coperte calde, con l'orecchio appoggiato al suo cuore, la ritmica conferma della mia realtà, misera ma sufficiente, perché l'infanzia riesce a saziarsi di briciole.

Ci divoravano le cimici, il cibo mancava spesso, gli uomini avevano le mani e l'alito sempre troppo pesanti e nessun pietoso riguardo per chi provvedeva piaceri di poche ore. 

Eppure i giorni si sgranavano senza dolore; mi credevo fortunato e forse in qualche momento lo ero.

Lo ero quando mi addormentavo fra le carezze di mia madre, o camminavo per strada aggrappato alla sua mano. Oppure quando ridevamo insieme sottovoce, schizzando acqua dalla saponata del bucato, proiettando sui muri crepati ombre di animali con le dita, sussurrando i testi storpiati di vecchie canzoni che ho dimenticato, ripetendo all'infinito favole di notti stellate e tramonti d'oro, piazze folli di luci, bianche fontane, altissime, solide mura e, fuori, giganti mostruosi alti come palazzi e soldati valorosi pronti a combatterli.

Non ero sicuro che il mondo delle fiabe esistesse, ma sapevo per certo che non era il mio posto, che la cancellata sorvegliata a vista dai gendarmi, dietro la quale iniziavano le ripide rampe verso la superficie, per noi non si sarebbe mai aperta.

Eppure vivevamo e, di nascosto, ridevamo. Di nascosto, perché nei bassifondi le risate sono merce di lusso, che genera invidia e risentimento. Di nascosto, perché le emozioni colorano, forgiano, mettono in evidenza e invece era importante, lì dentro, che un moccioso senza padre e senza nome restasse invisibile.

Questa era la mia esistenza a quel tempo, nettamente divisa fra un dentro e un fuori che la porta di legno della nostra stanza marcava. Smettevo di esistere dal corridoio in poi e prendevo vita oltre l'uscio, mi accendevo nei pochi metri fra il letto sgangherato e la porta, fra il comodino zoppo e il focolare, fra l'orcio, i sacchi di provviste sempre vuoti e la finestra.

Lì, in quella stanza buia, nell'unico luogo al mondo in cui ero stato vivo, morii per la prima volta quando mia madre smise di respirare. Crepai a sei anni, di solitudine e di silenzio, con gli occhi asciutti, addossato alla parete, consapevole che il corpo freddo accanto a cui dormivo non avrebbe mai più avuto abbracci da offrirmi. Anche le briciole erano finite.

Ho impiegato molto tempo a capire che nello spazio di una vita umana si incontra più volte la propria morte. Chi pensa di sfuggirla, solo perché non coglie l'attimo in cui si ferma il cuore e lo spirito si spezza, è uno stupido o un illuso.

Ancora più tempo mi ci è voluto per afferrare a pieno la disturbante verità, che da queste morti nessuno rinasce da solo.

Fu lui a dirmelo, e ricordo il luogo e il momento con disturbante esattezza, il timbro della sua voce, lo scatto della maniglia, un baluginio di ottone, il cigolio metallico del predellino sollecitato dal suo peso. Il modo in cui si volta, sorride senza sorridere, ottiene senza chiedere, vede perfettamente i miei contorni anche se lui è in piena luce e io ancora al sicuro, avviluppato nel buio della carrozza, ad aspettare un ordine che non arriva.

«Vorresti venire con me?»

Purtroppo, non è un ordine. E' una proposta, ambigua e pericolosa come solo lui sa essere; una tagliola aguzza in bella vista, perché so già di volere, per natura, per istinto e per umana debolezza, tutto quello che lui vuole.

«E' una faccenda privata. Forse dovresti startene da solo...»

Scuote la testa, lascia vagare gli occhi, spandendo azzurro oltremondano.

«Nessuno si salva da solo, Levi. Da soli si muore soltanto.»

«Hai bisogno di qualcuno che ti salvi per fare quattro passi in un giardino?»

«Forse sì, visto il giardino. E tu? Non hai bisogno di salvare qualcuno?»

Te.  Sempre e solo te. «Alla prossima cazzata filosofica ti salvo a calci.»

«Significa che vieni?»

«Vengo. Muoviamoci.»

 

Non era una cazzata filosofica, ma la pura verità.  Quando morii a sei anni, e poi rinacqui, la ignoravo. 

Da stecchito che ero, mi ritrovai vivo all'improvviso, a prendere fiato e alzare gli occhi dal dosso appuntito delle mie rotule, tratto in salvo da uno sconosciuto con la faccia lunga e occhi senza pace, che mettevano paura.

Conosceva il nome di mia madre.

Portava un cappello sgualcito.

Le parlava, come se lei potesse udirlo.

«E' morta.» 

Dovetti spiegarglielo, perché pareva che lo capissi solo io che sotto le lenzuola c'era un cadavere già rigido. Sembrava che solo per me fosse, quel trapasso, una spaventosa evidenza, e per tutti gli altri solo un dettaglio, una stanza chiusa, un nome cancellato su un registro. Vivi o morti, eravamo irrilevanti, e forse era quella l'unica spaventosa evidenza.

«E tu? Sei vivo?»

Lo ero? Dovevo pensarci.

«Ohi, non parlare troppo, dammi tregua! Che c'è, sei sordo? Mi senti?»

Sentivo. Sentivo il suo pesante respirare, l'odore che si portava addosso, di sangue e di fumo, senza strascichi fioriti, la vibrazione dei suoi passi pesanti sull'impiantito e del sarcasmo nella sua voce. Sentivo paura, freddo, dolore, sete, fame, tutte insieme.

«Ce l'hai un nome?»

Delle due cose che avevo posseduto, era l'unica che mi restava.

«Levi.» Ackerman.

Il tuo cognome non dirlo mai, Levi. Mai. A nessuno, anche se ti fanno paura, soprattutto se ti fanno paura, tu non dirlo. Capito? E' un segreto. Il segreto speciale della mamma e di Levi. Va bene? Prometti?

«Solo Levi» aggiunsi: avevo promesso.

Eccomi lì, pronto a rinascere dalla mia morte con il tonfo della borsa scivolata via dalla sua mano, il fruscio del cappotto macchiato contro il muro, il fango incrostato sotto la suola delle sue scarpe enormi, la voce ruvida rivolta al carcame lì accanto. «Sai, Kuchel, hai ragione: non vale proprio un cazzo questo nome.»

 

«Ehi tu!»

«Sì?»

«E' Ackerman.»

Una breve mareggiata color ambra nel suo bicchiere, un sorriso di trionfo che il giocatore d'azzardo vorrebbe tenere nascosto, ma il bastardo manipolatore lascia trapelare.

«Cosa?»

Sta fingendo, perché ha capito. Sa. Forse già sapeva dal principio, forse sa tutto, sempre, e si diverte come un matto a prendermi per il culo, a giocare ad addomesticarmi come un fottuto randagio.

«Ackerman. Levi Ackerman.»

Il guaio è che ci sta riuscendo.

«Perché?»

«Hah?»

«Perché lo dici a me? Perché me lo dici adesso?»

«Hai riportato indietro il mio culo tutto intero. Il mio e molti altri. E, cazzo, non era scontato per niente.»

«Sono lusingato, ma è stato il Comandante Shades a guidare la spedizione.»

«Cazzate.»

«Cazzate?»

«Cazzate. Caz-za-te. Ne dici parecchie: meglio se impari la parola. Shades è uno stupido, tu non lo sei. Lo sai benissimo chi ha riportato indietro i nostri culi.»

«Lieto che tu la veda così.»

«Vedo quello che c'è da vedere.»

«Vuoi sederti?»

«Al prezioso tavolo della preziosa mensa ufficiali?»

«Ti sto invitando.»

«No, grazie» Il  raffinato fanculo me lo ricaccio in gola, chissà perché.

«Non mi sembravi il tipo che si fa intimidire dalle gerarchie.»

«Sono più il tipo che non si siede con i pantaloni bianchi su una panca lercia, se può evitarlo.»

«Sei schizzinoso.»

«Civile.»

«Qual è la differenza?»

«Che i tuoi calzoni , e quelli di mezzo esercito, dovrebbero finire su un rogo.»

Ridacchia, espirando dal naso. E io non lo guardo negli occhi, perché ho già imparato che è un grosso errore.

«Perché tieni la tazza in quel modo?»

«Sei invadente.»

«Curioso.»

«Qual è la differenza?»

«La pazienza che uno ha. L'importanza che dà alle cose. E alle persone.»

Lo guardo negli occhi e non è un grosso errore, è  enorme.

 

 

«Sono Kenny. Solo Kenny. Conoscevo Kuckel, un tempo.»

Anch'io conoscevo Kuchel. Ed era tutto quello che avevamo in comune: nomi di due sillabe, caratteri di merda e una donna morta.  

Scoprii che bastava per riempirmi la bocca di tutto il pane che riuscivo a infilarci dentro. Lo trangugiavo quasi senza masticare, ingoiando a fatica bocconi troppo grossi che mi facevano dolere il petto quando li mandavo giù. 

L'ingordigia di quel giorno fu la stessa il successivo e quello dopo ancora, per mesi e per anni. Che sapore avesse, il pane di Kenny, non lo saprò mai, ma lo strappavo dalle sue mani con avidità e me lo infilavo in gola più in fretta possibile. M'immaginavo che si espandesse nella mia pancia come una spugna, che diventasse subito massa, ossa e muscoli che non avevo, che mi allungasse e mi allargasse, mi riempisse e mi mangiasse il cuore fino a farlo smettere di tremare, fino a che non fossi diventato alto come Kenny, e ancora più affilato, più reticente, più forte, più pericoloso.

Ero vivo, dopotutto. Ostile, rancoroso, orfano, vorace. Non lo sapevo, ma avevo già iniziato a cercare di placare un'altra fame ostinata, silenziosa e viscerale; una fame diversa e sconosciuta, che avrei saziato solo molti anni dopo, morendo un'altra volta.

 

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Capitolo 3
*** Il sapore del fango ***


2 - IL SAPORE DEL FANGO



La prima volta che Hange Zoe mi rivolse la parola fu per farmi una domanda sbagliata. Non era da lei. Farsi trascinare dall'entusiasmo al punto da sfrigolare come fosse in padella, invece, era proprio da lei.

Dove hai imparato a combattere così? mi chiese, con un sorriso trepidante che le spaccava in due la faccia e occhi che mandavano lampi di curiosità attraverso le lenti, cercando, dietro la migliore delle mie facce inespressive, il punto buono per iniziare a scavarmi dentro.

Si era seduta accanto a me e si sfregava le mani sui pantaloni, come faceva sempre quando si sforzava di trattenersi. L'energia che si accumulava dentro il suo corpo spigoloso minacciava di straripare ogni momento dagli argini di un contegno che aveva appreso a fatica e di cui era palese che non le importasse niente. In stato di sovreccitazione perenne e di (comico) eccesso di pressione le sfuggivano mugugni, sibili, piccoli tremori e gesti incontrollati.
Era proprio così quel giorno, una creatura fatta di linee spezzate e riflessi, incatenata da uno sforzo di auto contenimento non del tutto efficace.
Allora? Chi ti ha insegnato? Ancora, domanda sbagliata, quattrocchi di merda. Ce ne hai messo di tempo per iniziare a fare le domande giuste! E ancora più tempo, e alcol, e idee assurde, e fiducia ingiustificata per ottenere qualche risposta.

Avrei voglia di fare due chiacchiere con te, di lasciarti parlare a briglia sciolta, con il tuo sgherro ubriaco fradicio che singhiozza accasciato sul tavolo, incapace di occuparsi di se stesso eppure preoccupato per te, che avresti potuto bere una cantina e restare lucida e pazza come sempre.
E lui, che ci versa da bere, con le guance arrossate, la lingua sciolta, gli occhi appannati per le risate che non riesce a concedersi, perché domani manderemo ancora una volta altri a morire e forse moriremo con loro. Occhi blu, umidi di un temporale imminente, vagamente cerchiati dalla mancanza di sonno. Occhi bellissimi; sempre, sempre bellissimi.
E il liquore di merda distillato da te, con le mani sudice nelle bottiglie sudice, mi scivola in gola e scioglie tutto quello che incontra, compreso quel grumo d'ombra che intrappola le parole e i concetti e li fa risalire fino alla coscienza. In quel preciso momento, fra gli avverbi e gli aggettivi inutili, riesco a distinguere un paio verbi nitidi e spaventosi, voglio, amo, che per fortuna fino alla lingua non riescono ad arrivare.

Un cazzo di momento magnifico, quattrocchi di merda, per il quale non so se ti ho mai ringraziato.

Non bevo quasi mai, ultimamente, anche se la tentazione di annegarmi in un bicchiere ce l'ho spesso. Tutti si sforzano molto di "tenermi compagnia", ma non c'è niente da fare: sono sempre il branco di mocciosi di una volta. Tranne forse Falco, che rischia di diventare adulto sul serio, prima o poi.
In un mondo di domande sbagliate, Falco Grice è uno capace di fare quelle giuste.
E poi, per quanto sia alto meno di un metro e occasionalmente se la faccia addosso, anche il destinatario di questo spreco di carta e inchiostro fa le domande giuste. Parla troppo poco come sua madre, pensa in troppo fretta come suo padre e come lui si infila le dita nel naso quando crede che nessuno lo veda. Si scaccola come un Kirschstein, e poi con quelle manacce cerca anche di toccarmi, ma per tutto il resto, purtroppo per lui, è Ackerman fino al midollo.

Come fai? Eccola la domanda giusta, una voce infantile impastata di meraviglia, occhi sgranati che mi guardano maneggiare il mio coltello che no, non gli farò mai toccare.
Come.
Non dove, non chi. Come.

Le stesse persone che credono nel dove e nel chi sono convinte che combattere sia questione di tecnica. Di sequenze, di forza muscolare, di leve, di coordinazione, di cose che possono essere apprese in una scuola (dove?), trasmesse da un maestro (chi?).
C'è anche questo e ha la sua importanza; per convincersene basta aver visto mezza volta la Signora Arlert impegnata a insegnare le buone maniere ai detrattori della linea politica pacifista di suo marito. Dovrebbe sempre farsi precedere da lei, per lastricare di ginocchiate sui denti la luminosa strada della non belligeranza.
Nel combattimento esiste una tecnica, ovviamente, o più di una, così come esistono la pratica e il talento, ma la teoria scritta nei libri, l'attitudine personale, il più duro allenamento non sono che la grammatica e la sintassi di un linguaggio naturale, quello della violenza, che può essere appreso unicamente per imitazione e per esposizione.

Come si parla la lingua della violenza fa tutta la differenza del mondo. Chi impara un linguaggio per trasmissione, da un'istruzione a parole, chi si caccia in testa una lista di regole e le applica, chi continua a pensare e tradurre nella sua testa, parlerà sempre e soltanto da straniero. E perderà.

Come hai imparato a combattere?

Domanda giusta, risposta semplice: mangiando il pane di Kenny lo squartatore, guardandolo vivere e vivendo sotto il suo tetto, respirando violenza e imparando a sillabarla con la fonetica del dolore fisico, la migliore disciplina che esista. Divenni madrelingua. Ero, a quel tempo, abbastanza giovane, abbastanza flessibile, abbastanza bisognoso di comunicare, da incidere quel linguaggio dove abitano gli istinti profondi, le reazioni automatiche, le certezze assolute.
Con gli anni, le certezze le ho smarrite tutte, mi sono scrollato di dosso il peso delle speranze e di assoluto non conosco che la morte. E' rimasta la consapevolezza a doppio taglio della mia forza (o di quella che avevo) e della libertà di scegliere come impiegarla.
La verità è che non ho mai amato la violenza, - chissà mai perché la gente ride quando lo dico - detesto tanto subirla quanto infliggerla, ma rimane la mia lingua nativa e nessuna delle altre che nel tempo mi sono sforzato di apprendere è mai riuscita a insinuarsi così in fondo.

Kenny non perse tempo a illustrarmi le basi o chiarirmi le regole del gioco, usò con me l'unico linguaggio che conosceva, senza traduzioni né concessioni: adottarlo più in fretta possibile era la mia unica opzione. Aveva mani lunghe e nervose, che spuntavano fuori dai polsini della camicia e una lama sempre appollaiata fra le dita, mobile, imprevedibile, che s'inclinava da tutti i lati e sembrava dovesse infilzarmi ogni momento. Mi tenevo a distanza.

Se ne restò a osservarmi per un paio di settimane. Sentivo i suoi occhi addosso che mi seguivano e rispondevo cercando di rendermi invisibile, di sparire ai margini della coscienza, evanescente come un fantasma, fatto solo di scricchiolii dell'impiantito, fame e sussurri.
«Ti faranno a pezzi» pronosticò un giorno, seduto su un masso, intento a pulirsi le unghie con un coltellino che nelle sue mani sembrava minuscolo.
La sporcizia che cadeva per terra era ipnotica, non potevo guardare nient'altro.

«Parlo di te, nano. Questo posto ti mangerà e ti cagherà via prima che tu te ne accorga. E io non potrò farci niente.» Alzai lo sguardo, gli occhi erano nascosti sotto la tesa floscia del cappello. Fece ruotare quel coltello fra le dita e poi me lo porse, dalla parte del manico, lasciandolo oscillare, perché capissi che dovevo prenderlo.
«Non hai niente da dire? Eppure non sei stupido.»

Avevo da dire molte cose, ma nessuna che prendesse forma di parole. All'altezza del cuore, o un po' più giù, c'era come un nodo, un punto preciso dove si accumulava la paura e diventava solida. Le parole rimanevano schiacciate, si perdevano prima di diventare suono, si consumavano in cenere di pensieri inespressi che buttavo fuori con i respiri.
Afferrai il coltello, invece di parlare. Si accomodò da solo nel nido delle mie dita e poi ruotò se stesso, mosso da una volontà che non mi apparteneva, in una presa rovesciata facile, comoda, naturale. Il manico era troppo grande, ma la mia mano sapeva come stringerlo.
Quante altre cose c'erano che non sapevo di sapere?
Volevo chiederlo, ma ancora, le parole non uscivano. Mi aggrappai forte all'impugnatura e mi sembrò che quel contatto rendesse tutto un po' meno terribile, un po' meno spaventoso di prima.
Era quella la realtà: sotto la faccia corrucciata e i vestiti laceri, il nido dei capelli aggrovigliati e i pugni sempre stretti, tremavo di paura, rannicchiato dentro me stesso.

Kenny mi osservava, masticava tabacco e ogni tanto sputava.
«Sapresti cosa farci?» mi domandò, accennando con gli occhi alla lama.
Scrollai il capo. E poi azzardai un colpo, contro un nemico invisibile, che forse era l'uomo col cappello seduto sul masso, o quello che mi aveva messo al mondo con noncuranza, o chiunque altro in un posto così estraneo e così ostile.
Non ci tenevo a essere cagato via; anche se quello era un mondo di merda non volevo essere io, la merda.
Invece lo ero.

La prima volta che alzai quel coltello per difendermi, ne presi talmente tante che ho perso memoria dei dettagli, ma non dimenticherò mai la sensazione viscida e appiccicosa del fango sulle gambe nude, che risale oltre l'orlo delle labbra e delle scarpe, mentre una mano troppo forte mi trattiene in ginocchio spingendo forte sulla nuca e altre mani mi afferrano alle ascelle, le spalle ruotate all'indietro, quasi disarticolate da una leva crudele: sottomissione assoluta.

La voce che sentivo arrivava dall'alto e non dimenticherò neanche quella. Una voce senza volto, bianca, perfida, perentoria. Vedevo solo un paio di scarponi bassi, insolitamente puliti, piantati su una cassa, l'orlo di un paio di pantaloni scuri, calze rammendate con cura che coprivano gambe magre quasi quanto le mie.
«Mi hai sentito? Non rispondi? Eppure sei il bastardo dello scannatore. Non ti ha insegnato le buone maniere?»
Le buone maniere, proprio così Kenny chiamava il suo modo di condurre gli affari, quello che avrei dovuto imparare, l'addestramento che mi stava impartendo.
«Non sei un idiota, vero? No che non lo sei. Dicono in giro che sei un gran figlio di puttana, ma non un idiota. Quindi il concetto dovrebbe essere facile da capire: sei venuto a casa mia senza invito, nella mia strada, e ci hai portato la tua brutta faccia. E tutto il fango del posto merdoso da cui vieni. Il fango mi fa venire il voltastomaco. E mi fanno venire il voltastomaco anche i bastardi. Quindi ora tu il tuo fango lurido te lo rimangi tutto!»

Intendeva letteralmente, l'avevo capito subito. Non volevo farlo, non l'avrei fatto. Digrignai i denti e opposi un'inutile resistenza, mi tenevano in troppi ed erano troppo forti.
Sentivo i muscoli fremere sotto quel giogo, la pressione interna aumentare, una sensazione di distacco, come un interruttore nella testa che scattava a vuoto molte volte, un brivido lungo la schiena che diventava formicolio in tutto il corpo, una spinta irrefrenabile a oppormi fino a nuocere a me stesso. Sensazioni così violente e contrastanti da stremarmi e indebolirmi.

«Che c'è? Non ce la fai a ribellarti? Forse non hai capito bene contro chi ti sei messo: o fai subito come dico io, e te ne torni a casa con qualche osso rotto, oppure scopriamo quanto è affilato il tuo coltello, e allora non lo so se a casa ci torni... »

Una mano armata entrò nel mio campo visivo e sentì il bacio della mia stessa lama lungo tutto il braccio. Pulita e affilata, come mi piaceva tenerla.
Il dolore mi risvegliò. Dentro di me abitava una bestia che se ne nutriva, che ruggiva e si contorceva, gridando la sua fame, ma io non riuscivo a liberarla. L'ho compreso molti anni dopo che è l'impotenza la più atroce delle torture. Allora mi lasciai torturare e fui sconfitto da me stesso.

«Mangia!» intimò la voce, e una mano implacabile sulla nuca mi schiacciò con violenza la faccia per terra.

«Mangia!»
Persi la lucidità e il controllo. Mangiai.
Mangiai fango con la bocca e con il naso, finché entrambi si ostruirono. La melma aderiva viscida alla lingua e al palato: più ne inghiottivo più avevo la sensazione di essere inghiottito. Fango molle mi penetrava a tradimento fra le dita dei piedi e delle mani, nelle pieghe della pelle, negli occhi e nelle orecchie, nel buco quadrato che avevo fra i denti davanti.

Mangiai ancora, strozzando respiri stentati fra un boccone pastoso e l'altro, fra una risata di scherno e la successiva, sotto la pressione di un ginocchio piantato in mezzo alla schiena, le braccia ritorte, pronte a spezzarsi al minimo tentativo di forzare.

Mangiai finché io stesso, fuori e dentro, divenni fango: disgustoso, appiccicoso e lurido. Continuai a mangiare finché lo stomaco non si ribellò e l'atto stesso di ingoiare si trasformò in conato. Vomitai su di loro e su me stesso e poi un nero denso e uniforme calò sulla mia coscienza.
Ero ridotto a una merda, puzzavo di merda, davvero il mondo mi stava cagando via.

Gli eventi successivi sono finiti sul fondo del barile incrostato dei miei ricordi, ma è facile presumere che qualcuno andò a riferire allo scannatore che il suo moccioso era stato scaricato mezzo morto da qualche parte nel quartiere del mercato nero.

Quando ripresi conoscenza, Kenny mi diede il resto: il prezzo in violenza da pagare alla mia sprovvedutezza. Considerando la fama che aveva, non alzò spesso le mani su di me, ma quando accadeva non era tipo da risparmiarsi, lo muoveva la ferma convinzione che il dolore avrebbe inciso nella memoria l'impronta dei miei sbagli. Non aveva torto. Quel giorno, mi picchiò forte. Me la feci addosso, vomitai ancora e svenni di nuovo.
Mi svegliai con la bile che colava dal naso e due costole rotte che mi tiravano una pugnalata a ogni respiro.
Avevo il torace bendato, però, e le mie ferite erano state ripulite e ricucite. Ingollai non so quanta acqua, che comunque sapeva di merda.
Dormii e sognai mia madre.
Quando fui in grado di alzarmi e scoprii che giorno era, mi resi conto di due cose: ero un anno più vecchio e l'unico bene che possedessi me lo avevano rubato.

«Mi hanno preso il coltello» riferii a Kenny. Non mi aspettavo consolazione o comprensione, volevo solo essere chiaro, visto che me lo aveva dato lui.
Seduto di fronte alla stufa spenta, stava lubrificando con cura le giunzioni della lama a scatto da cui non si separava mai. Non smise di strofinare, non sollevò lo sguardo.
«Se uno si prende il fastidio di ridurti in quel modo, deve pur guadagnarci qualcosa, oltre il divertimento.»
«Erano in quattro.»
«E quindi?»

Alzai le spalle; l'idea di invocare o ricevere giustizia non mi aveva mai sfiorato. A stento conoscevo il significato della parola.
«Era mio. Lo rivoglio.»

Sorrise. Aveva un modo sghembo di sorridere, digrignando una chiostra di denti incredibilmente bianchi e regolari, imprigionati fra labbra troppo sottili. Quella risata arrivava agli occhi con un brillio pericoloso, l'espressione di chi confida unicamente nella propria forza e non è stato mai tradito.
«Vieni qui, nano. Siediti» mi ordinò, battendo la mano accanto a sé, sulla panca.
Obbedii, non era saggio opporsi. «Raccontami bene com'è andata.»

«Non mi ricordo» mentii. «Ho preso un sacco di botte.»
«Erano armati?»
«Erano più grossi di me.»
«Chiunque è più grosso di te. Rispondi: erano armati?»
«Non lo so... »
«Quindi il coltello lo hai tirato fuori tu per primo? Forse mi sbagliavo a pensare che non sei stupido!»
«Credevo che... »
«Credevi male! Se tiri fuori il coltello per primo stai rifiutando il corpo a corpo. Significa solo due cose: o sei una mezza cartuccia, oppure un bastardo con le palle quadrate che vuole chiudere in fretta la faccenda... servono le palle eh, solo bastardo non basta...» Si interruppe per ridere, Kenny trovava se stesso sempre molto divertente. «Quindi, nano: mezza cartuccia o bastardo cazzuto? Quale delle due?»
Per darmi un indizio, mi assestò una spallata; non molto forte, ma secca e improvvisa, che mi mandò gambe all'aria nella polvere prima che potessi anche solo pensare di schivarla.
«Hai detto che rivuoi il coltello. Riprenditelo!»

Alzai lo sguardo su di lui, sotto le costole doloranti sentivo un buco in mezzo al petto.
«Come faccio?»

Chiuse la lama del suo serramanico e la fece scattare un paio di volte, con una velocità che mi impressionò. «Picchia più forte di tutti. Corri più veloce. Pensa più in fretta. Adattati meglio. Colpisci per primo e colpisci duro.»
«Sì, ma come faccio?»
Si strinse nelle spalle. «Fallo e basta.»

Era tutto lì, per lui, un problema meramente linguistico di violenza applicata, sulla quale era ovvio che non ritenesse di dovermi offrire altro che ottimi esempi di eloquio.

Presi a seguirlo come un'ombra, muovendo cauto i piedi sulle sue impronte, osservandolo e imitandolo; senza neanche rendermene conto, succhiavo violenza dalle mammelle gonfie dei bassifondi e non ero mai sazio.
Mi resi conto che, in mancanza di una lama, avrei dovuto fare affidamento su altre armi: spirito di autoconservazione, unito a tutta l'intelligenza che potevo spremere dal mio cervello pigro e a una conoscenza approfondita del territorio, che mi mancava del tutto.
Osservavo la violenza intorno a me, ne ascoltavo i palpiti e i sussurri, la attraversavo seguendo le maree e le correnti delle merci di contrabbando, dei traffici di beni e di persone, della moralità deviata dalla lotta per la sopravvivenza, che rende inutile qualsiasi legge oltre quella del taglione.

Imparavo in fretta e facilmente, persino Kenny ne era sorpreso, anche se gli piaceva fingere il contrario.
Imparai la cedevolezza della carne sotto le nocche, la consistenza di una carotide stretta fra le dita, il punto di rottura delle ossa, robuste e fragili a seconda dello sforzo a cui vengono sottoposte. Imparai a reagire per puro impulso fisico, senza l'ingombro del pensiero. Imparai a tenere la giusta distanza, a difendermi nascondendo il viso in una gabbia di giunture appuntite, a usare qualsiasi cosa - qualsiasi - come arma o come diversivo. Imparai che la direzione buona per nascondersi è sempre in alto, che il corpo umano contiene più sangue di quello che uno si immagina, che c'è un limite esatto oltre il quale dolore fisico brucia la lingua anziché scioglierla.

Soprattutto, imparai a essere sleale, vigliacco, ingiusto.

Del resto, la Giustizia non parla la lingua dei bassifondi. La legge la parla benino, ma si degnava di comparire dalle nostre parti solo nelle forma distorte dell'inettitudine e della corruttibilità della gendarmeria, che convogliava su di sé un disprezzo feroce e collettivo pronto a sconfinare nell'odio, forse l'unico elemento di coesione degli abitanti del sottosuolo.

Io mi tenevo alla larga dai gendarmi, dai creditori di Kenny, da quelli che apprezzavano troppo i bambini, da chiunque mettesse in allarme il mio istinto in rapida crescita.

Superai la tentazione di rimanere rannicchiato a tremare nell'angolo di una stanza: non mi avrebbe restituito il mio coltello.
Non ero guidato da un chiaro, definito proposito di vendetta, non era quello che inseguivo e non avevo abbastanza esperienza di vita nemmeno per una precisa definizione del concetto; però pretendevo di riavere indietro ciò che mi apparteneva. Il sopruso del furto bruciava più dell'umiliazione, un po' come le stramaledette dita mancanti prudono di più di quelle ancora attaccate alla mano.
Anche se non me ne rendevo conto, ero privo di un obiettivo in quel momento della vita, e il coltello me ne offrì uno che assurse, seppure per un breve arco di tempo, al ruolo di scopo esistenziale.

Sull'identità dei ladri non avevo alcun indizio, se non che erano anche loro dei mocciosi, non più grandi di undici o dodici anni e quando avevo trovato il coraggio di tornare in quella strada, non si erano fatti vivi.
Iniziai a esplorare il mondo in cui vivevo, con l'intento di stanarli. Dapprima solo brevi ricognizioni, per memorizzare punti di riferimento e percorsi, potenziali nascondigli, scorciatoie buone per la fuga, che richiedessero l'agilità fuori dal comune che avevo scoperto di avere.

Kenny mi affidava commissioni che espandevano man mano il mio raggio di azione. Molto spesso finivano con fughe rocambolesche, quasi sempre con minacce di morte, qualche volta non riuscivo a evitare una rissa. Le prendevo ancora: pugni, calci, occasionalmente coltellate, ma iniziavo anche a darne, e il fatto di essere sistematicamente sottovalutato era un enorme punto a mio favore, che avevo imparato a sfruttare con spiazzante fantasia.

Talvolta, dopo quegli scontri, Kenny mi compariva a fianco, mentre mi trascinavo malconcio verso una locanda fumosa che in quel momento era casa nostra.
Hai fatto schifo, nano, diceva sempre. Era la sua battuta di esordio, sempre la stessa, ma la recitava con un sorrisetto ogni volta un po' più largo, nel quale mi piaceva immaginare un certo apprezzamento.
Un giorno disse: «Potevi batterli.»
Ero particolarmente dolorante, avevo beccato tre calci nei reni che mi avrebbero fatto pisciare aghi per settimane, non certo l'immagine di un potenziale vincitore. Kenny non era il tipo da sforzarsi a leggere tra le righe, perciò quel cambiamento di copione mi sorprese.
Tenni a bada lo stupore, tuttavia, sotto chiave oltre la solida barriera di terrore raggrumato all'altezza del diaframma.
Poiché non riuscivo a eliminare la paura, l'avevo indirizzata tutta lì, a fare da ostacolo alle correnti ascensionali delle emozioni, a sospingerle verso il basso, dentro le viscere, dove nessuno avrebbe potuto vederle e usarle contro di me.
Purtroppo, abitavano compresse in quello stesso spazio anche la pietà, che non mi potevo permettere, e la vergogna per me stesso, che ogni tanto bruciava dopo un colpo alle spalle, una finta sleale, l'intuizione sempre più potente dei punti esposti su cui infierire. Provavo frustrazione per la vergogna e disprezzo per la frustrazione; ripetevo a me stesso che ero uno stupido e colpivo più forte.

«Potevi batterli» ripetè Kenny, come se non avessi sentito.
«Lo so» mugugnai.
«E allora spiegami perché sei tu quello con il culo rotto.»
Lo guardai. Mi sorrise, con la sua chiostra di denti larghi e bianchissimi. Doveva saperlo. Doveva averlo sempre saputo. Doveva avermi mandato lì apposta.
Non riuscivo a capire se gli ero grato o volevo spaccargli il muso.
Mi trascinai qualche passo in avanti e la sua risata mi seguì.
Nel bel mezzo del combattimento avevo fatto il più banale degli errori: mi ero distratto. All'improvviso avevo sentito quella voce; una voce bianca, senza volto, che sapeva di fango e di sangue.

Appena il mio corpo guarì, andai a regolare i conti.
I legamenti del ginocchio che mi aveva bucato la schiena saltarono tutti, la rotula finì fratturata e scomposta, disarticolate le braccia che mi avevano trattenuto, spezzate tutte le dita. La voce apparteneva a una creatura notturna e selvatica, dotata di una singolare, feroce bellezza e nessuna paura; non ho mai saputo il suo nome: non me lo disse, non glielo chiesi. A lei non lasciai ossa rotte, solo un vistoso ricamo in faccia, a indelebile ricordo della nostra conoscenza infantile.
Per la prima volta avrei potuto uccidere e scelsi di non farlo.

Quella stessa sera, con il mio coltello, mi tagliai i capelli.
Mi ero rifiutato, fino a quel momento, per preservare il mistero custodito nelle estremità di quelle ciocche: i capelli che mia madre aveva accarezzato e baciato, che custodivano l'impronta delle sue dita calde e delle sue labbra fresche. Cadevano al suolo con un rumore sordo che sentivo solo io, l'eco dell'ultimo distacco, l'ultimo fascio di nervi doloranti da strappare via dal moncone di cuore che mi restava. A ogni ciuffo reciso, un frammento della mia infanzia se ne andava per sempre, lasciandomi più nudo e più leggero. Più simile a Kenny, più determinato a sopravvivere, più avido e spietato che mai.
Sei forte, sei gentile  sussurrava lontana la voce dolce di mia madre.
Ero forte.

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