The tales of the snow

di Mitsuki91
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The old therebefore ***
Capitolo 2: *** Pure as the driven snow ***
Capitolo 3: *** Nothing you can take from me ***
Capitolo 4: *** The ballad of Lucy Gray Braid ***
Capitolo 5: *** The sweetest thing that ever grew ***
Capitolo 6: *** I'm comin' like a storm in to your town ***
Capitolo 7: *** Are you coming to the tree? ***
Capitolo 8: *** The sweet old hereafter ***



Capitolo 1
*** The old therebefore ***


NdA: ho deciso di scrivere questa piccola raccolta di OS per mettere ordine a parte degli headcanon che mi son nati nella testa dopo aver visto il film. Ancora non ho letto il libro e vado a memoria, quindi spero di aver fatto le cose per bene, anche se non ci metto la mano sul fuoco.
Divertitevi! 

 

***

 

“You are headed for heaven

The sweet old hereafter

And I’ve got one foot in the door”

 

Lucy Gray si era coperta le orecchie, cercando di attutire il rumore continuo degli spari.

Lì, nascosta in una grotta coperta da spessi viticci di edera, era rimasta seduta per parecchio tempo dopo la fine del rumore, la pioggia che continuava a scrosciare fuori da quel misero riparo di roccia, tremante mentre i vestiti le si asciugavano addosso, abbracciata a se stessa per cercare un po’ di consolazione.

Stretto in un una mano un solo orecchino dorato ricoperto di perle, l’unico che si era salvato, ancora integro - ma pur sempre a metà.

La pioggia la distraeva dai suoi stessi pensieri, che giravano in tondo ormai da ore, lasciandola esausta e febbricitante.

Lo sapeva, l’aveva sempre saputo. Coryo aveva avuto paura di lei, alla fine; del suo giudizio nel momento in cui pensava di non aver più nulla da perdere - e aveva mentito guardandola negli occhi, due dita sotto al mento.

E non era stato per la bugia, davvero. Non solo. Quella l’avrebbe potuta capire. La vergogna di aver mandato a morire il proprio migliore amico era una macchia troppo recente per poter essere estirpata, e c’era una situazione più pressante - una fuga alla cieca, l’ignoto davanti a loro.

Non che Lucy pensasse di lasciargliela passare, ma - non ora.

Era stato il resto. Le armi trovate sotto le assi, lui che aveva impugnato il fucile e l’aveva guardata negli occhi.

Il germe - quel germe di pazzia, quello che aveva già notato in passato, quando Billy aveva avuto la sola colpa di essere un po’ più ubriaco del solito e quindi molesto. Quando Coryo non aveva esitato neppure un secondo prima di sparare quel colpo fatale verso la figlia del sindaco.

Quel germe che le aveva dato un brivido e aveva urlato, dentro di lei.

Corri. Scappa. Fuggi il più lontano possibile.

Si era guardati come preda e cacciatore, in quell’ultimo istante - e gli spari impazziti erano stati la conferma della sua sinistra premonizione, innescati solo da uno scialle e da un serpentello intrappolato al suo interno.

La paura che lei se ne fosse andata, andata via davvero. Via da lui, che per lei aveva rinunciato a tutto.

Ma, come per ogni cosa, Lucy Gray sapeva la verità: Coriolanus Snow non aveva mai avuto il coraggio di scegliere , e cercava solo di ricavare il maggiore interesse personale da situazioni per le quali gli era sfuggito il controllo. Non era mai stato in grado di lasciarla libera - perché se aveva perso ogni cosa per salvarla, soldi prestigio carriera universitaria , allora almeno avrebbe dovuto valerne la pena .

Non amore per amore, ma amore poiché non c’era più nient’altro se non la paura ad attenderlo a Capitol City - e, con il ritrovamento delle armi e la loro distruzione, l’unica paura era rimasta lei. Lucy Gray e il seme del tradimento che rappresentava, che rischiava di sbocciare.

Coriolanus Snow, cieco.

Cieco di fronte all’evidenza che non le avrebbe mai creduto comunque nessuno. Cieco di fronte al fatto che lei, piccola Lucy, non sarebbe mai potuta comunque tornare, poiché l’aspettava solo una corda appesa a un albero in piazza, qualsiasi fosse la testimonianza.

Cieco di fronte al terrore della consapevolezza che una scelta, ora, Coryo ce l’aveva: tornare a reclamare il suo posto nel mondo, a riguadagnarsi la gloria che sentiva di meritare per diritto di nascita, e tradire così il suo stesso cuore, il suo stesso amore.

Eppure Lucy lo sapeva. La fuga era sempre stato il suo sogno, non quello di Coriolanus Snow.

E se lo sarebbe pure potuto far andar bene. Avrebbe potuto fuggire già da sola, sin dal giorno prima, senza rischiare di aspettarlo - poiché Lucy Gray era in grado di vedere nell’animo umano, e aveva visto sin da subito le ombre negli occhi colmi di rabbia di Coryo, e aveva deciso di ignorarle finché non era stato troppo tardi.

Ma.

C’era un ma , un enorme ma che riecheggiava fra gli alberi, ora, oltre la pioggia, nelle ghiandaie imitatrici che mischiavano la sua canzone a spari ormai spenti.

Ma.

Lucy Gray si portò i due pugni chiusi - di cui uno con cui ancora stringeva l’orecchino rimasto solo - sul ventre, mentre le lacrime silenziose le bruciavano gli occhi, scavando solchi fra le guance.

Ma la verità era che non ce l’avrebbe mai fatta da sola, non con il frutto del loro amore che le cresceva ormai nel ventre.

Aveva scommesso che il suo amore sarebbe stato abbastanza. Che il suo sogno avrebbe colmato anche l'orizzonte di Snow, e che la consapevolezza di quel bambino li avrebbe tenuti uniti nelle avversità, da soli ad attraversare il mondo a piedi. Non era stata neppure in grado di dirglielo.

Aveva scommesso.

E aveva perso.

 

***

 

Dopo una notte perlopiù insonne, dopo aver dormito qualche ora solo per via della febbre e della stanchezza, Lucy decise di tornare al capanno sul lago.

Se lui era ancora lì, lei sarebbe morta. Ma andava bene. Perché la realtà era che Lucy Gray era già morta lo stesso.

Quello era un viaggio che non poteva intraprendere da sola.

La capanna, almeno, le avrebbe offerto un misero riparo e qualche scorta dei Covey.

Se lui le avesse lasciate ancora lì, intoccate.

Se lui non fosse rimasto ad aspettarla, in cerca della sua vendetta.

La casetta era vuota. Le scorte di carne, misere strisce sotto sale, erano ancora presenti e intoccate.

Quasi pianse, Lucy, di sollievo e di amarezza, riempiendosi lo stomaco con quel cibo di fortuna e attingendo l’acqua piovana dalla botte che si era riempita il giorno prima - tappando il vuoto nello stomaco per non pensare al cratere che Snow le aveva scavato nel cuore.

I suoi problemi, comunque, erano solo stati posticipati di poco.

Lucy non era ancora fuori pericolo. Forse non lo sarebbe mai stata.

E, per quanto se la sapesse cavare abbastanza da sola, come ogni Covey che sognasse il cielo aperto e infinito del mondo , ciò non le toglieva la realtà dei fatti che non sarebbe stata comunque in grado di farlo man mano i mesi avanzavano, avvicinandola al parto.

Non sarebbe stata in grado di sopravvivere neppure per quel bambino. E, nel malaugurato caso in cui l’avesse fatto, molto probabilmente sarebbero poi morti entrambi, di stenti o per mano delle bestie selvatiche che abitavano i boschi selvaggi attorno al distretto dodici, che diventavano più comuni più ci si allontanava dalla civiltà.

Con un bambino, con un neonato in braccio, non avrebbe mai potuto avanzare da sola.

Non poteva tornare. Non poteva andare avanti.

Aveva bisogno di un aiuto.

Così iniziò a cantare alle ghiandaie, sperando che almeno una di loro portasse il messaggio.

 

***

 

Fu Barb a trovarla.

Circa un mese dopo il suo appello disperato, mentre Lucy si era costruita una sua routine di caccia e raccolta e preparazione per i mesi a venire, rassegnata a strappare al destino ancora un giorno in più.

Ancora un giorno in più.

Poi Lucy l’aveva vista arrivare da lontano, quasi correndo sul sentiero, per arrivare da lei e buttarsi fra le sue braccia.

Avevano parlato, oh, se avevano parlato!

“Lui se ne è andato” le aveva detto Barb - e il sollievo le aveva corrotto il dolore che ancora si portava nel cuore.

“I Pacificatori stanno aumentando le protezioni attorno al distretto. È sempre più difficile uscire. Verrò quando posso”.

Non ti ha tradito.

Questo aveva sentito Lucy Gray, nel rimbombo delle parole di Barb, nei suoi pettegolezzi a cui restava quasi indifferente, persa nelle sue occhiaie viola scavate, che non erano mai state così pronunciate.

Non ti ha tradito. Non ancora. Forse mai.

Forse vuole che tu sia salva, dopotutto, Lucy Gray.

E poi avevano affrontato l’argomento.

Non era stupida, Barb. Non lo era e la conosceva troppo bene - erano famiglia , nessun segreto fra loro.

Non era più una bambina.

“Lo sai che farò tutto il possibile”.

La promessa le era scivolata dalle labbra seguita da uno sguardo duro, in cui brillava il fuoco della determinazione.

Lucy deglutì, ricacciando le lacrime indietro.

“Se anche non dovessi riuscire a venire prima… Verrò. In quell’occasione… Verrò”.

Lucy chiuse gli occhi, poggiando il viso sui palmi aperti delle sue mani, premendo fino a far esplodere un mondo rosso dietro le palpebre abbassate.

“... E lo amerai, come se fosse tuo?” sussurrò.

Il filo del non detto si tese fra loro, vibrando di tutta la sua paura.

Perché era quello il punto. Il coraggio che le avrebbe fatto scegliere la vita - la consapevolezza che lei, Lucy Gray, avrebbe dovuto abbandonare il suo bambino. Il frutto dell’amore che l’aveva prima salvata e poi dannata.

Il figlio di Coriolanus Snow, che gli altri Covey avevano dovuto accogliere mascherando il disprezzo e lui che li aveva, alla fine, tutti abbandonati, confermando la pessima impressione, cementando il sentimento di tradimento che vibrava nei loro cuori.

“Chiamami, canta alle ghiandaie” rispose Barb, sempre in un sussurro “E ti prometto che vivrà, Lucy. Vivrà… Se il destino non si abbatterà su di lui ad ogni Mietitura”.

Era il massimo che poteva chiedere.

Lucy deglutì di nuovo e tornò a guardare la cugina, la sorella - famiglia - con una nuova luce di determinazione negli occhi, ricacciando le lacrime indietro.

Fino al giorno in cui si sarebbe permessa di piangere, da sola, lontana, spezzata, anche se esternamente intatta, viva.

Come la metà di un paio di orecchini, un gioiello perfetto ma pur sempre incompleto.

 

***

 

Barb riuscì a tornare solo due altre volte. La prima volta Lucy la vide togliersi della stoffa arrotolata dal vestito e, per istinto, si toccò il suo stesso ventre, dove una piccola sporgenza stava facendo capolino.

“Sarà più facile spiegarlo, così” le disse Barb, seria come non mai “Non posso presentarmi con un neonato che appare dal nulla”.

Lucy annuí, osservando i pochi beni che Barb le aveva procurato - qualche cibo di lunga durata, legumi in scatola, e della stoffa con ago e filo, con cui confezionarsi nuovi abiti quando l’unico che si portava addosso le sarebbe stato stretto - e le due ragazze passarono il pomeriggio accoccolate l’una all’altra, in silenzio dopo i pochi aggiornamenti di Barb.

Era come se dovessero dirsi tutto, ma niente era realmente importante.

Si salutarono poco prima del tramonto, con un frettoloso bacio sulla guancia, mille promesse chiuse dietro gli occhi scuri.

E poi, la seconda volta, quando ormai Lucy era diventata così grossa da avere problemi con i movimenti anche più semplici. Anche questa volta Barb le portò dei cibo - la sua salvezza, la sua condanna - e coperte, tante coperte. Erbe medicinali e pochi altri oggetti.

Lucy contava i giorni intagliando un segno sulla corteccia di uno degli alberi in riva al lago, e chiudeva gli occhi sognando la neve, che bianca e implacabile seppelliva ogni cosa.

Portando la morte nel mondo così come aveva fatto nel suo cuore.

 

***

 

E poi rimasero urla, dolore; una pena infinita.

Mesi di struggimento annullati in un secondo; lei, Lucy Gray, sola in una capanna in riva al lago ad urlare. Acqua bollita, coperte disfatte. Tutto quello che, da sola, era stata in grado di avere per aiutarsi nel terribile compito di dover mettere al mondo suo figlio.

E le ghiandaie urlavano, echeggiando il suo dolore.

Nacque in un pomeriggio insolitamente freddo, il suo bambino. Anzi. La sua bambina.

La sua bambina.

Perfetta, nel viso rosso di pianto, negli occhi chiari e in quella nuvola di capelli biondi ora sporchi di sangue.

Così poco di lei. Così tanto di lui.

E non glielo rese affatto più facile.

Lucy pianse, urlò e spinse, continuando nell’orrore del parto, espellendo la placenta mentre la neonata si attaccava al suo seno, succhiando avida la vita .

E Barb la trovò in piena notte, con gli occhi ricolmi di lacrime ad ammirare la perfezione della sua bambina che di lì a poco avrebbe abbandonato.

La vide, Lucy Gray, la linea di disapprovazione che Barb aveva cucito sulle labbra. La vide, la vide guardare sua figlia e giudicarla manchevole; così poco Covey, così troppo Snow.

Eppure non aveva alternative.

“Si chiama Katniss” le disse, toccando per l’ultima volta il viso di sua figlia, saggiando le consistenza dei suoi capelli di neve sotto le dita “Ti prego, lasciale il nome che le ho scelto”.

Un ricordo felice, una vita prima. Una gita al lago e Maude che le porge una radice ancora acerba.

“Katniss”, una parola che sa di sorriso, un sorriso placido in ritorno.

Lui non li capiva, vero, loro strani Covey, vagabondi rinchiusi. Eppure era lì.

Coryo era lì per lei, e lei soltanto.

Lontano dalla civiltà, lontano dal Distretto Dodici e da Capitol City, avrebbero potuto essere diversi. Un futuro che lui aveva cancellato con le sue stesse mani, sepolto sotto l’orgoglio di un cittadino arrabbiato con il mondo per aver perso tutto, in una guerra che non aveva mai chiesto.

Da cui si sarebbe sempre tenuto alla larga, pagando ogni prezzo, ora Lucy questo lo sapeva.

Barb allungò le mani, prendendo la sua bambina senza nessun commento - strappandola via dal suo petto, gentile ma ferma, ricordandole ancora una volta che, anche lei, in questo caso una scelta non l’aveva.

Non l’avrebbe mai avuta.

“Ti auguro ogni bene, Lucy Gray” la salutò Barb, sorridendo per un istante, in un lampo che le illuminò il viso di tristezza.

Lucy la vide uscire dalla capanna in riva al lago, senza più le forze neppure per alzarsi e guardarla sparire in lontananza nella notte.

E forse era meglio in questo modo.

Esausta, piangendo ogni sua lacrima - portando il lutto per ciò che aveva perso - Lucy si addormentò sul pavimento, circondata da sangue e coperte sfatte, pregna dell’odore di latte che sarebbe sparito presto dalla sua pelle.

Domani sarebbe stato un giorno nuovo.

Lucy sarebbe sopravvissuta - come sempre, un passo alla volta - e, il prima possibile, si sarebbe rimessa in viaggio.

Non aveva ormai più alcun motivo per rimanere. Nessuna possibilità di tornare; aveva rinunciato persino alla sua stessa figlia, a carne della sua carne, sangue del suo sangue.

Al frutto di quell’amore che l’aveva prima salvata e poi condannata.

E l’unica strada di fronte a sé, ormai, era quella dell’ignoto, che si apriva sotto i cieli senza confini che i Covey tanto avevano amato.

 

“But before I can fly up

I’ve loose ends to tie up

Right here in the old therebefore”

 

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Capitolo 2
*** Pure as the driven snow ***


“Everyone’s born as clean as a whistle

As fresh as a daisy

And not a bit crazy”

 

Katniss Azure Covey aveva sempre saputo di essere diversa.

Non era veramente il suo aspetto, no, nonostante i suoi boccoli fossero biondi come il chiaro di luna e i suoi occhi azzurri come il cielo terso d’estate - persino sua zia, Maude Ivory, più simile a lei nei colori, aveva una vibrante nota dorata nei riflessi dei suoi lunghi capelli; a differenza sua, che sembrava appiattirsi e scomparire alla luce diretta del sole, come il più delicato fiocco di neve.

No, Katniss aveva compreso di essere sbagliata in un pigro pomeriggio di fine estate dei suoi quattro anni, durante una festa in famiglia, circondata da zii e cugini e parenti, quando per la prima volta si era azzardata a cantare.

E come avrebbe potuto prevederlo, prima?

Cresciuta come era cresciuta, circondata dalla musica , per lei era stato istintivo imitare gli adulti e cimentarsi nella prima nota di quella ballata che, allegra, viaggiava già sulla bocca degli altri.

Lo aveva sentito subito, Katniss.

Il silenzio.

Si era interrotta prima della fine della prima strofa, intercettando lo sguardo duro di sua madre Barb, che sembrava attraversarla con il desiderio di romperla - la linea dura delle labbra serrate, e il fuoco lento che ribolliva dietro le iridi.

Gli altri si erano soltanto girati verso di lei, dapprima curiosi, e poi preoccupati notando lo sguardo di Barb.

Lucy aveva smesso di cantare.

E da allora non aveva tentato mai più.

 

***

 

C’erano stati altri segnali, ovviamente.

L’indifferenza di sua madre, che le permetteva di godere di una libertà insperata, che aveva iniziato a pesarle nel cuore giorno dopo giorno.

Noncuranza.

La mancanza di un padre.

Barb non si era mai sposata, non aveva mai avuto un compagno. Vivevano tutti insieme in una grande casa, loro, i Covey, stringendosi addosso l’uno con l’altro, come a proteggersi dal mondo esterno.

Katniss si era interrogata, e interrogata, stringendo le dita sul cuore; chiedendosi, nell’ingenuità della sua infanzia, se la causa dell’indifferenza di sua madre fosse da attribuire a un padre malvagio.

Non sarebbe stata la prima, la sua mamma. Questo lo sapeva, anche a dieci anni. I Pacificatori erano tanti ed erano rinchiusi tutti insieme, tutti maschi; e, quando volevano qualcosa, semplicemente se la prendevano.

Katniss aveva raccolto il coraggio a due mani e aveva osato parlare con sua zia Maude in una fredda sera invernale, accucciandosi ai piedi della sedia su cui lei era seduta, mentre ricamava dettagli colorati su una coperta di lana. Katniss aveva posato il capo sul suo ginocchio e aveva chiesto, con la voce flebile: “Zia, chi è il mio papà?”

La zia aveva interrotto il lavoro, guardandola per un istante con occhi vuoti e lontani; poi, quando il suo labbro inferiore aveva smesso di tremare, le aveva sorriso e le aveva poggiato una mano sui boccoli chiari, in una carezza che non era davvero in grado di consolarla.

“Oh, Kat” aveva risposto, e Katniss aveva chiuso gli occhi e compreso.

“Era una cattiva persona?”

“Non pensarci, Kat” aveva detto Maude, senza rispondere.

Katniss aveva annuito e poi si era alzata, scappando via dalla zia, chiudendosi in camera da sola, seppellendo il viso sotto le coperte.

Non ne aveva parlato più.

 

***

 

Nonostante Katniss si sentisse quasi un’estranea, in mezzo al clan dei Covey, non si potesse dire che fosse sola.

Anche se i Pacificatori avevano chiuso ogni luogo di ritrovo pubblico e persino il mercato, cercando di tappare la loro voce e di oscurare i loro colori , i Covey e la loro musica avevano toccato i cuori di troppe persone.

Amici, non solo quella famiglia numerosa e un po’ bislacca; tanti amici che passavano e si fermavano in quella grande casa in cui vivevano tutti insieme. Amici che volevano divertirsi, parlare e ballare sotto le note dei più bravi musici itineranti mai esistiti - dimenticare le brutture del mondo fuori, del lavoro in miniera e della Mietitura che, ogni anno, implacabile, sacrificava uno dei figli di quella finta pa ce.

Dopotutto nessun Pacificatore, ancora, aveva mai vietato le feste private .

E quegli amici, quegli adulti che entravano e uscivano dalla sua casa, portavano con sé la propria famiglia.

I propri figli.

Katniss aveva due migliori amici fra loro, due ragazzi più o meno della sua stessa età, che erano più interessati a fuggire con lei nella notte che a farsi incantare dalla musica che, con il tempo, lei aveva iniziato a odiare.

Gliel’avevano tolta e, per questo, Kat non li avrebbe mai perdonati.

Per questo Kat li odiava, ogni giorno un pochino di più.

Tradita da quella che doveva essere la sua stessa famiglia, per un crimine che, ne era certa, aveva commesso suo padre, e di cui lei era innocente.

Thomas Hawthorne aveva un anno in meno di lei e, sebbene fosse stonato come una campana se si trattava di canzoni, aveva una voce profonda che ipnotizzava chiunque quando decideva di narrare le mille e più storie che si inventava ogni volta. Da quando, anni prima, Kat si era confidata con lui sui sospetti dell’identità del suo misterioso padre, Tom si era ripromesso di trovarle un’alternativa, e ogni volta che saltava fuori l’argomento si inventava favole esagerate di Principi di Regni Lontani, dove non esistevano Mietiture e le persone vivevano a pancia piena ogni giorno. Le raccontava che suo padre sarebbe tornato a salvarla, a capo di un esercito scintillante e in groppa ad un cavallo bianco. Ogni volta, nelle sue favole, il suo ingresso al Distretto Dodici si faceva più esagerato e spettacolare, e Katniss rideva fino alle lacrime - e lo amava sempre un po’ di più, per questo.

Tom era il figlio di un minatore, entrato nella vita dei Covey dopo che parecchi di loro avevano dovuto ripiegare sulla vita in miniera per poter sopravvivere, e man mano gli anni passavano Kat notava sempre di più i suoi lineamenti sottili e affilati, i capelli neri e lucenti come una notte di luna nuova, gli occhi verdi come gli alberi nel bosco, con un brivido che la lasciava scossa nel profondo, fin dentro le viscere. Loro due avevano un posto speciale in riva al fiume - che in realtà era poco più di un torrente, ma che Tom trasformava con le sue storie nella Sorgente della Magia, che prima o poi li avrebbe liberati tutti dalla Mietitura - dove passavano il tempo ogni sera, dopo che, a quindici anni appena compiuti, Tom era stato costretto ad unirsi al padre e ai fratelli nel lavoro in miniera.

Le giornate, invece, dopo la scuola, Kat le trascorreva nella piccola farmacia degli Smith, ad aiutare il suo secondo migliore amico, Hyacinthe, che preparava assieme alla madre i rimedi da poter vendere alla povera gente del Distretto Dodici.

E non passava quasi mai tempo a casa, Katniss Azure.

La ragazzina diversa, non voluta, non curata. Sfuggiva dal disprezzo velato così come dalla solitudine rifugiandosi dai suoi amici, cercando di curare in ogni modo quella sorda indifferenza che le pulsava nel petto, alimentando la sua rabbia nascosta.

Katniss era sveglia, e intelligente, e imparava alla svelta. Sembrava avere un talento naturale con le piante - con i veleni - e la signora Liliane Smith tesseva sempre le sue lodi, con sua madre Violet come unica ascoltatrice, che era seria e implacabile e sempre seduta sul duro e scomodo divanetto a due posti presente nel salottino che veniva usato come laboratorio.

Crescendo aveva inoltre notato la luce negli occhi di Hyacinthe, sempre più accesa, sempre più speranzosa; uno sfiorarsi di mani, quasi per caso, e una lieve esitazione sulle labbra del ragazzo ogni volta che parlavano.

Con Hyaci non condivideva mondi fantastici e infiniti come con Tom, ma la rilassatezza e placidità di un giorno normale, duro e ripetitivo come la terra che calpestavano ogni giorno.

C’era del conforto anche in questo.

Ed era ancora giovane, Katniss Azure; nonostante avesse iniziato a notare , pensava che fosse ancora troppo presto per preoccuparsene .

Persa nella sua vita senza radici - proprio lei, che portava il nome di un’erba - Katniss si godeva le ultime tracce d’infanzia mentre il suo corpo cambiava; con il terrore, ogni anno, di quel biglietto pescato ogni quattro di luglio, che avrebbe potuto decretare la fine della sua stessa vita.

E su questo, non si faceva illusioni.

Dopo , pensava, ogni volta, incrociando lo sguardo di Tom e di Hyaci mentre, con il cuore gonfio di tristezza ma comunque sollevato , i tre si allontanavano dalla piazza dove era avvenuta la Mietitura.

Dopo , si ripeteva, come un mantra, sognando capelli notturni sotto le dita e favole della buona notte, non osando pensare allo sguardo speranzoso di Hyaci, mentre il suo cuore aveva già scelto.

Dopo .

Avrebbero solo dovuto sopravvivere fino al compimento dei loro diciotto anni e, poi, sarebbero stati liberi.

Liberi di crescere, liberi di amare.

Libera, lei, di costruirsi la sua vita, lontano da una famiglia a cui non era mai davvero appartenuta.

Liberi.

O almeno così credeva, fino a che la realtà non la riportò con i piedi per terra.

 

***

 

La realtà era un fuoco sotterraneo, un’esplosione di quelle fin troppo frequenti, una serie di vite spente in un istante in un lavoro che di umano aveva ben poco.

La realtà era un’oscurità senza stelle in una fredda notte silenziosa, dove nessuna fiaba della buonanotte sarebbe più stata pronunciata.

La realtà era terribile.

E le aveva appena spezzato il cuore.

L’incidente in miniera le aveva strappato via Thomas prima che la possibilità si librasse dal sogno, lasciandola come avvolta una nebbia di dolore, nel limbo indefinito prima di ogni alba.

L’incidente le era costato anche uno zio e un altro cugino; due Covey, due uomini che erano sempre stati gentili con lei - a differenza dello sguardo duro con cui talvolta sua madre si degnava di prestarle attenzione.

La realtà era il pianto di altre persone e canti funebri sopra tre bare vuote - troppo pericoloso, troppi tunnel crollati, nemmeno il rimorso di non poter recuperare i cadaveri delle persone che erano state così amate.

La realtà era una stretta attorno alle spalle, un abbraccio che non sapeva consolare ma che la teneva ancorata - era un placido giorno nel mondo, solido come la terra sotto i suoi piedi, in cui Katniss sarebbe stata costretta ad avanzare.

L’illusione profumava di fiori e di erbe speziate e gli occhi di Hyacinthe, questa volta, non rilucevano più.

Solo una lacrima, quella che lei non riusciva a versare, a scorrere sulla guancia del ragazzo che era appena diventato maggiorenne, che faceva un monotono lavoro senza incidenti terribili, che si era appena salvato.

L’unico che le era rimasto.

 

***

 

“I turn into dust, but

You never stop trying

It’s why I

Love you

You’re as pure as the driven snow”



E poi era diventata maggiorenne anche lei.

Katniss Azure, neodiplomata, nessun futuro davanti, il dolore a scavarle ancora nel cuore.

Un amore che aveva perduto, che non aveva fatto neppure in tempo a sbocciare.

E il rifiuto, quel rifiuto che, da sempre, sua madre le aveva cucito addosso.

Salva dalla Mietitura, per l’ultima volta; Kat ora era libera di cercare se stessa, un passo incerto alla volta.

Era ancora insicura.

Era ancora spezzata, volante - senza radici.

Era ancora altrove - diversa.

Hyaci la guardava sempre con quella luce negli occhi e, Katniss lo sapeva, presto avrebbe dovuto affrontare la resa dei conti.

Ora che non c’era più la possibilità della Morte, che calasse come un’Ombra sulla sua testa.

Si stava preparando, Kat, davvero. Stava riflettendo, cercando di decidere se valeva la pena impegnare ancora il suo cuore martoriato, quando il destino decise per lei.

Era un afoso pomeriggio d’agosto. Lucy si era rifugiata in casa, per una volta; cercando di approfittare dell’ombra fresca per sfuggire al sole, era entrata in salotto e lì aveva visto Barb, in piedi in mezzo alla stanza.

L’aveva vista piangere, in silenzio.

Il cuore di Kat aveva perso un battito, spaventata.

“Mamma?” l’aveva chiamata - osando infrangere il tabù dell’indifferenza “Va tutto bene?”

I suoi occhi saettarono per un istante verso la televisione accesa, dove da Capitol City stavano mandando in onda una qualche cerimonia. Ma certo, se lo ricordava, ne avevano parlato durante gli ultimi Hunger Games. Panem aveva un nuovo Presidente, ora: Coriolanus Snow.

Poi Barb si accorse di lei e lo sguardo di puro odio che le rivolse fu così potente da farle piegare le ginocchia, togliendole il fiato.

“Ce l’ha portata via” sussurrò sua madre, la voce sottile nella furia “Ce l’ha portata via”.

Cosa? , pensò Kat, senza riuscire a dirlo.

“Chi?” si sorprese infine a sentirsi pronunciare, esile, dalle labbra socchiuse.

“Il nostro usignolo” rispose Barb, tremando di rabbia e disprezzo. Continuava a guardarla, a guardarla davvero , e, per la prima volta, Kat desiderò con tutta se stessa che smettesse “E ci ha lasciato il frutto di un serpente, al suo posto”.

Katniss arretrò d'un passo, schiacciata sotto al peso di quelle parole che non comprendeva - ma che, lo sapeva, in qualche modo erano fondamentali .

Il singulto di una risata amara eruppe dalle labbra di Barb, mentre dalla tv iniziarono a suonare le fanfare.

“Sì” le disse “Vai via, figlia del serpente” - Katniss gemette, sconvolta - “Vai via, non farti più vedere”.

Senza farselo ripetere, Kat si voltò e fuggì di corsa da quella casa.

 

***

 

Casa Smith era vuota… Se non per l’onnipresente Violet, seduta impassibile sul solito divanetto del salotto utilizzato come laboratorio, anche lei con i fermi occhi grigi incollati alla televisione, dove la cerimonia continuava.

Kat non aveva saputo dove andare - dove fuggire - e i piedi l’avevano condotta nell’unico luogo che non l’avesse mai rifiutata prima.

“Bambina, sei sconvolta” le disse Violet, accortasi di lei, rompendo il suo proverbiale silenzio e facendola sussultare “Vieni qui, raccontami. Cos’è successo?”

Incespicando, Katniss andò a sedersi accanto all’anziana, la bocca socchiusa, incerta.

I suoi pensieri correvano intorno, impazziti. Aveva avuto l’idea di parlare con Hyachi ma, comprese in quel momento, non ne era in grado.

La ferita era troppo grande e Hyacinthe non avrebbe mai saputo consolarla con fiabe dal sapore di sogni.

“... Chi è l’usignolo?” si sentì quindi chiedere, instupidita, tremante; esitando mentre le parole le lasciavano le labbra “La ragazza che il serpente ha rubato?”

Lo sguardo di Violet si adombrò, triste.

“Ah, bambina” le rispose “Io c’ero, sai. Quando la guerra è finita, strappandomi uno dei miei figli, io ero già adulta. E ho visto… Ho visto il mondo, dopo. Sempre crudele. Sempre spezzato. Con l’ombra della morte, la falce della Mietitura, ogni estate. Ma pur sempre un po’ più luminoso di ora”.

La signora strinse lo scialle che aveva poggiato sulle spalle, incurante dell’afa.

“C’era un mercato, ogni sabato, in piazza. C’erano feste e balli, e un bar aperto tutti giorni, dove la tua famiglia cantava. Dove tutti, per una sera, dimenticavano le brutture del mondo; dove popolani e Pacificatori si riunivano in pace, a bere e ballare, anche solo per una notte. Io ci lavoravo, in quel bar. Ho visto tutta la gente passare, e ogni storia mescolarsi e intrecciarsi”.

Violet si voltò verso di lei, sorridendo, e gli occhi le si illuminarono, persa nei ricordi.

“E lei era la cantante più talentuosa della sua generazione. Lucy Gray, si chiamava; la punta di diamante dei Covey. E poi…” la voce si abbassò, in un sussurro, e lo sguardo vagò oltre lei, come se non la vedesse davvero “Il suo nome venne estratto durante la Mietitura”.

Il cuore di Kat perse un battito, poi accelerò.

“Devi capire, bambina, che i giochi di allora erano molto diversi da quelli di adesso. Non erano affatto spettacolari, e la povera gente nei distretti, per la maggior parte, non aveva neppure una televisione con cui guardarli. La visione non era obbligatoria. Quell’anno, però… Quell’anno iniziarono a rivoluzionare ogni cosa. Venne istituita la figura del Mentore, e ogni ragazzo estratto venne affidato a uno studente di Capitol City”.

Katniss non riusciva neanche ad immaginarselo.

Vivere indifferente, senza sapere, portando già il lutto. Giornate a susseguirsi senza che un padre o una madre potessero sapere se il figlio che la Mietitura aveva strappato loro sarebbe mai tornato indietro.

“Noi lo sentimmo annunciare dagli altoparlanti. Chi aveva una tv, chi se ne interessava… Guardò i giochi. E poi Lucy Gray tornò a casa, vittoriosa”.

Violet tornò a guardarla con un enorme sorriso.

“Eravamo tutti felici di riaverla con noi, davvero. Come ti dicevo c’era un bar, dove ogni sera i Covey si esibivano, allietando la miseria della nostra esistenza. Lucy tornò a cantare e la speranza tornò a germogliare nei nostri cuori… Forse troppa speranza. Ci fu l’accenno di una ribellione, vedi, e un uomo venne impiccato, e altri morirono, più avanti… Ma sto andando troppo oltre”.

Katniss deglutì, rapita dal racconto dell’anziana, cercando di immaginare una ragazza allegra dalla voce sublime che aveva il potere di riscaldare il cuore della gente.

“I Pacificatori, ai tempi, conservavano ancora tracce di umanità. C’era una linea di comando, una linea dura, ma alla fine di ogni turno, capisci, abbandonavano i fucili e tornavano ad essere persone, no? Ne arrivavano di nuovi ogni anno. Alcuni, ormai, noi baristi li conoscevamo tanto da chiamarli per nome. E quell’anno, dopo il ritorno di Lucy Gray, ne arrivarono altri, come ogni volta. E, fra loro…”

Violet sospirò e chiuse gli occhi un secondo.

“Non credo che fosse qualcosa di dominio pubblico. I Covey sono sempre stati spiriti liberi, una famiglia anomala , legata da qualcosa di più del sangue e dall’amore della musica. Loro due non si sono mai nascosti , capisci? Ma nessuno badava davvero a loro, alla fine. Nel locale le voci correvano e fu così che appresi che lui era stato il suo Mentore, quel ragazzo di cui avevamo saputo solo il nome durante il giorno della Mietitura. Non tutti i Covey ne erano contenti, sai. Ma Lucy Gray lo amava, e Lucy Gray era tornata vincitrice anche grazie a lui, e Lucy Gray risplendeva di allegria e sorrisi mentre gli dedicava canzoni d’amore su quel palco, ogni sera”.

Li poteva quasi vedere, Kat: una ragazza splendida dagli abiti tutti colorati e pieni di perline, una Covey , e un soldato misterioso al suo fianco, alto e impassibile e stoico, il volto diretto verso il suono della sua voce d’usignolo.

“... E poi, come ti dicevo, ci fu una tentata ribellione, e diverse persone vennero impiccate, e altre vennero uccise in circostanze misteriose, tra cui la figlia del sindaco e il suo fidanzato del tempo, che non era altri che l’ex ragazzo di Lucy Gray. E Lucy Gray fu costretta, sì, costretta, a scappare. Non ho mai saputo tutti i dettagli. Fuggì, fuori dal Distretto Dodici, lontana nei boschi… Mentre il Pacificatore, il suo amato Mentore, venne rimandato a Capitol City in tutta fretta, senza nessuna spiegazione. E così i Covey persero il proprio usignolo, e il serpente fu libero di tornare a casa”.

Katniss distolse lo sguardo da Violet per alcuni istanti, portandolo quasi per sbaglio sulla televisione, dove la cerimonia continuava.

Era una storia intrigante, sì… Ma questo non spiegava nulla.

Non spiegava lo sguardo ricolmo di odio di sua madre, non spiegava le sue lacrime.

Non spiegava perché Barb l’aveva chiamata “figlia del serpente”.

“Io…” iniziò quindi Katniss, esitando appena “Io cosa c’entro in tutto questo?”

Tornò a guardare Violet, che sorrideva nella sua direzione, un’ombra di tristezza nello sguardo.

Le ricordò una sera d’inverno, lo sguardo di zia Maude, la domanda che aveva bruciato sul fondo della gola.

“Chi è il mio papà?”

“Katniss” iniziò Violet, la voce così stranamente dolce, in contrasto con la figura austera della donna “Mia figlia ha sposato l’unico farmacista di tutto il Distretto Dodici. Non esistono medici in un posto così desolato e abbandonato dal mondo, se non quelli rinchiusi nelle caserme dei Pacificatori, dove la povera gente comune non è ammessa. Barb Azure ha portato a testa alta, sola, un ventre in continua a crescita, ma mai una volta è venuta in farmacia, e il giorno in cui si è presentata al mondo con una bambina, nessuna levatrice era stata chiamata. Ai Pacificatori queste cose non interessano, e la famiglia Covey protegge naturalmente se stessa; ma, Katniss… Io non sono stupida. E credo che tu sia abbastanza grande da poter conoscere la verità, o quella che penso che sia tale, ormai”.

Violet si voltò di nuovo verso il televisore acceso. Katniss… Katniss non sentiva nulla. La sua mente era completamente svuotata, incapace di accettare la conclusione logica di ciò che l’anziana aveva implicato.

Tutta la sua vita, una bugia.

E poi Violet parlò ancora, distruggendo una volta per tutte ogni residuo di innocenza che era rimasto in lei.

“Coriolanus Snow” disse, alzando la testa per indicare con il mento il nuovo presidente di tutta Panem - e Katniss si voltò, inorridita, per la prima volta osservando quell’uomo, per la prima volta vedendolo davvero “Almeno lui l’amava. E chiunque ricordi, chiunque abbia prestato attenzione… Non può fare a meno di notarlo. Ti sei mai guardata in uno specchio, Katniss Gray Snow?”

 

***

 

Avrebbe davvero avuto bisogno di Hyacinthe in un momento come questo.

Avrebbe avuto bisogno di un’ancora, del legame saldo che la teneva legata alla terra.

E invece i suoi piedi veleggiavano, come sopra un sogno, e Katniss correva, disperata e febbricitante, in cerca di una risposta che nessuno era in grado di darle.

Che nessuno voleva darle.

Nel cortile desolato di quella casa in cui, lo sapeva, Katniss non avrebbe più messo piede, trovò sua zia Maude, intenta come ogni sera a prendersi cura del piccolo orticello.

Lei fece appena in tempo ad alzare lo sguardo, a prendere atto della sua espressione sconvolta, nei pochi secondi che servirono a Katniss per riprendere fiato.

“Zia Maude” chiese infine, la voce ancora tremante ed esile, gli occhi fuori dalle orbite “Chi è mio padre?”

Un mostro?

Katniss vide Maude Ivory Everdeen stringere le labbra, osservandola dubbiosa per un solo istante - decidendo cosa rispondere, ora che lei non era più una bambina innocente.

“Zia Maude” riprese Katniss, senza aspettare che lei parlasse, la voce più forte e sicura “Chi sono i miei genitori?”

E lo vide - l’istante della conferma, l’espressione spezzata di Maude, la pena che dilagava dal suo sguardo e le labbra ancora sigillate, nonostante tutto.

Lacrime amare, di rabbia, le riempirono gli occhi. Katniss scosse la testa per farle scomparire, il labbro inferiore che tremava.

“Bugiardi” sussurrò, arretrando di un passo “Tutti quanti. Bugiardi!

Katniss diede le spalle a zia Maude, correndo via anche da lei, prima che lei potesse ribattere.

Corse via da quella casa, dando definitivamente addio alla famiglia che l’aveva sempre disprezzata.

E, ora, ne comprendeva finalmente il motivo.

 

***

 

Hyacinthe la trovò sulle rive della Sorgente della Magia - di quel piccolo rigagnolo che Tom era in grado di trasformare con la sua voce e la sua fantasia.

La trovò nel posto in cui lei non era più tornata, non dopo la morte del ragazzo che era stato il suo primo amore.

Avrebbe avuto così tanto bisogno di lui, ora.

Mentre osservava il proprio riflesso nell’acqua, quei colori così chiari e fuori posto nella famiglia Covey - nel Distretto Dodici.

Così delicata, Katniss, con i capelli al chiaro di luna e gli occhi di un cielo terso, senza alcun riflesso sotto il sole, quasi fosse destinata a sciogliersi sotto una luce troppo intensa.

Come neve.

Katniss aveva bisogno di Tom, della sua risata, dei suoi racconti fantastici che la allontanavano dal qui-ed-ora, che le rendevano il cuore lieve anche nella più grande tragedia.

Ma Tom non c’era. Non c’era più, e le sue ossa erano diventate parte della dura terra su cui lei era costretta a camminare ogni giorno.

“Kat” la richiamò Hyachi, fermandosi a tre passi di distanza “Kat, che succede? La nonna mi ha detto che eri sconvolta”.

Katniss non rispose, continuando a osservare il proprio riflesso maledetto nell’acqua.

C’era una decisione, una decisione che aveva rimandato da troppo tempo. Pronta o no, ormai non poteva più concedersi il lusso di scegliere.

“Katniss?”

E se non poteva più librarsi, volare seguendo la corrente delle parole di una fiaba, allora avrebbe camminato, salda e pesante sulla dura terra, per sempre legata a chi era in grado di tenerla ferma e non lasciarla più andare.

Katniss si alzò, lentamente, e si voltò verso il solo migliore amico che le fosse rimasto.

“Hyachinte Smith” gli disse, solenne, osservandolo con uno sguardo ardente “Diventerai mio marito? Domani stesso?”

Hyachinte spalancò gli occhi per alcuni istanti - quegli occhi grigi e intensi che aveva ereditato dalla nonna Violet - mentre i capelli, castano chiaro - pieni di quei riflessi dorati che li rendevano reali - venivano scompigliati da una folata di vento improvviso.

“Sì” le rispose, dopo che l’incredulità cedette il passo alla speranza “Certo che sì, Kat!”

Katniss sorrise e Hyacinthe scoppiò a ridere, annullando la distanza fra loro e stringendola in un abbraccio soffocante - non più un timido sfiorarsi di pelle ma una salda presa che l’avrebbe ancorata a terra, promettendole la serenità e la sicurezza dei futuri giorni tutti uguali.

Katniss ricambiò l’abbraccio, ricacciando indietro le lacrime.

Pronta a dimenticare il proprio passato per fare spazio al futuro che l’aspettava.

 

“This world, it’s dark

This world, it’s scary

I’ve taken some hits so

No wonder I’m wary”

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Capitolo 3
*** Nothing you can take from me ***


“(You can’t take my past)

(You can’t take my history)”

 

Lilian Smith aveva avuto un’infanzia tutto sommato felice.

Sua madre non era una donna molto affettuosa, però tutte le mattine le pettinava i lunghi capelli biondi e più volte le aveva detto che le piaceva il modo in cui i raggi del sole li facessero rilucere di riflessi dorati.

Suo padre era un uomo impegnato, sempre a lavorare in farmacia, ma ogni sera dopo cena amava essere lui a rimboccarle le coperte nel letto, lasciandole un dolce bacio sulla fronte.

Lily, così la chiamavano i suoi amici, andava a scuola e, a detta degli insegnanti, aveva una mente vivace e un animo allegro. Aveva legato in particolar modo con due compagne di classe, due gemelle vicine di casa il cui padre aveva un negozio di dolciumi, Maysilee and Mairead Donner. Erano tutte e tre molto simili, alte per la loro età, bionde - sebbene le due gemelle avessero i capelli lisci come spighe di grano e lei invece li avesse mossi - e con gli occhi azzurri - anche se quelli di Lily erano molto più chiari di quelli delle ragazze, così simili a quelli di sua madre -; per questo, spesso, la gente la scambiava per una terza gemella. Lily non ci badava e si divertiva con le sue migliori amiche a scuola; rubava con loro dolcetti nella loro bottega dopo che una verifica o un’interrogazione erano andate particolarmente bene, e tutte e tre passavano buona parte dei pomeriggi, dopo i compiti e lo studio, nella farmacia dei suoi genitori, dove la mamma insegnava loro le proprietà medicinali delle varie erbe.

La prima, vera, nota di paura la provarono a dodici anni, sotto un cielo afoso estivo, mentre stavano in fila assieme a tutti gli altri ragazzi del Distretto, durante la Mietitura.

Ovviamente sapevano che cos’era. Ovviamente non erano stupide; pur vivendo una vita tutto sommata agiata e privilegiata, erano consapevoli che la falce della morte sarebbe potuta arrivare a loro, e nessuna ricchezza le avrebbe salvate.

Era facile, però, cercare di vivere alla giornata, senza soccombere all’Ombra della Paura finché questa non era diventata concreta e reale.

Dopo essere sopravvissute alla loro prima Mietitura avevano deciso di non tornare subito a casa ma di passeggiare ai margini del loro quartiere, un po’ in disparte, evitando ancora più accuratamente del solito i Pacificatori appostati ad ogni angolo. Vedere quei ragazzi andare incontro a morte certa, ascoltare le loro lacrime e urla, e non poter far niente…

“... Non mi sento molto bene” sussurrò ad un certo punto Lily, poggiando la mano destra sul tronco di uno degli alberi presenti sul marciapiede.

Chiuse gli occhi un istante e, quando li riaprì, vide Maysilee osservarla seria e attenta, mentre dietro di lei Mairead era pallida e si torceva le mani fra loro, incapace come lei di lasciare andare la paura - era la fine di ogni loro innocenza.

“... Andiamo” disse infine Maysilee “Ieri papà mi ha regalato un canarino. Vuoi sentirlo cantare? Scommetto che ci distenderà i nervi”.

Lily annuì, deglutendo, e Maysilee rise e prese le due ragazze a braccetto, guidandole verso casa.

Era sempre così, con Maysilee. Quando Lily o Mairead andavano in panico per qualcosa, un compito difficile o un’interrogazione andata male, era sempre lei a calmarle e  riportarle con i piedi per terra, sulla retta via.

Sapevano che l’anno successivo avrebbero provato la stessa paura. E quello dopo ancora. E quello dopo ancora…

Ma se la sarebbero cavata, aveva pensato Lily, osservando il canarino cantare e immergendosi nell’ipnosi della sua melodia.

Insieme avrebbero affrontato ogni cosa.

Non poteva ancora sapere che la Falce della Morte era già pronta a separarle.

 

***

 

Accadde durante l’estate dei loro quindici anni.

Un anno speciale. Quello del cinquantesimo anniversario.

Il doppio dei Tributi da pescare, il doppio dei ragazzi da mandare a morire.

Tutte e tre in piedi a schiena dritta, in una piazza sotto il cielo rovente. La mano del sindaco che si tuffava in una delle urne e poi il mondo a sgretolarsi sotto i loro piedi.

Maysilee Donner.

No.

Lily la osservò con occhi spalancati, una scintilla di terrore che la inchiodava al proprio posto. La vide alzare appena la testa, persa per un istante in infiniti pensieri; e poi, senza una parola, senza neppure scomporsi, Maysilee ruppe le righe e avanzò.

Senza voltarsi indietro.

Nooo!

Lily vide Mairead scattare e, agendo d’istinto, la placcò fra le sue braccia - tremava, e lacrime avevano già iniziato a rigarle le guance.

Può ancora vincere , si disse, mentre Mairead urlava, mentre vide i signori Donner strapparle la ragazza dalle braccia per costringerla ad andare a parlare con la sorella - ora che erano ancora in tempo, ora che poteva essere l’ultima occasione.

Lily vide la disperazione sui loro volti, oltre le lacrime, mentre anche la sua mamma navigava in mezzo alla folla per portarla via da lì , e pensò che non potesse esistere un dolore maggiore di quello che aveva appena visto negli occhi della signora Donner.

Lily visse il resto della giornata come se fosse un sogno febbricitante.

Può ancora vincere. Non tutto è perduto.

Eppure, Lily non riusciva neppure a pronunciare quelle misere parole di consolazione, che le giravano in tondo nella testa, che cercavano di illuderla; lei, testarda, a urlare da sola nella propria mente per autoconvincersi di una bugia.

 

***

 

Il periodo degli Hunger Games era sempre stato un periodo mesto, dove tutti erano costretti a chiudersi in casa davanti alla televisione, dove gli adulti avevano perennemente facce funebri e i bambini piangevano.

Lily non li aveva mai sperimentati davvero, perché i suoi genitori non credevano che fosse giusto che una ragazzina come lei - una bambina - dovesse essere esposta a tale orrore. Lily era costretta a rimanere chiusa in camera per buona parte del tempo - a sentire solo i rumori della Morte, le urla di quel ragazzini costretti a uccidersi in un’arena, provenienti dalla tv del salotto che rimaneva accesa in accordo con gli obblighi di Capitol City - e poteva illudersi, ancora per un poco, che nulla di quello fosse reale. Che la Mietitura fosse solo un brutto giorno come un altro; che rappresentasse solo la scusa perfetta per Maysilee per trascinare lei e Mairead a sentire il suo canarino cantare.

Non quell’anno.

Quell’anno Lily marciò decisa in mezzo al salotto, sedendosi al centro del divano. Vide sua madre guardarla, le labbra leggermente socchiuse; poi vide il suo sguardo scivolare oltre lei, sullo schermo della tv, dove il presidente Snow sorrideva alle telecamere seduto sul suo trono, in attesa della parata dei tributi. Vide la mamma chiudere gli occhi, trattenendo le lacrime, e uscire dal salotto per andare a preparare la cena in cucina. Suo padre, invece, si sedette accanto a lei e le circondò le spalle con un braccio, stringendosi a lei.

Lily riportò la sua attenzione sul televisore, in silenzio, mentre i carri iniziavano a scorrere, accompagnati dal rumore di fanfare.

Quello fu il primo anno in cui seguì gli Hunger Games, come un’adulta.

Quello fu l’anno in cui perse definitivamente la propria innocenza.

Quello fu l’anno in cui Maysilee morì, uccisa da un uccello colorato, e in cui il Distretto Dodici guadagnò il suo secondo vincitore degli Hunger Games.

 

***

 

“Tienilo tu”

Aveva rivisto Mairead, il giorno dopo… Il giorno dopo la fine.

Il giorno successivo al quale una bara e uno sconvolto ragazzo biondo erano scesi dal treno in arrivo da Capitol City.

Mairead le porse una elegante gabbietta in ferro battuto dove Cip, il canarino di Maysilee, cantava - a dispetto dell’atmosfera di morte che era scesa su di loro.

Lily afferrò la gabbietta, instupidita. Vide Mairead stringere l’altra mano, l'espressione dura e contratta - in preda ad un dolore troppo grande per essere espresso a parole.

“Non potrei sopportarlo” rispose alla domanda silenziosa, in un sussurro.

Non dopo come è morta Maysilee , concluse la frase Lily, nella sua testa.

Uccisa da un uccellino.

“Ma so che tu ami sentirlo cantare”.

Mairead allungò la mano che aveva stretto a pugno e la aprì, rivelando una piccola spilletta dorata con incisa una ghiandaia imitatrice “Lei mi ha già lasciato questa. Gliel’aveva regalata mamma lo scorso Natale, ricordi?”

Lily annuì, senza parole.

“Prenditi cura di lui” concluse Mairead, brusca, indicando la gabbia con un cenno del mento, prima di voltarsi e scappare via, lasciandola sola davanti casa, con il canarino che continuava a cinguettare.

 

***

 

“Thinking you’re so fine

Thinking you can have mine

Thinking you’re in control

Thinking you’ll change me, maybe rearrange me”

 

La prima, vera, profonda litigata che Lily ebbe con sua madre fu a causa di un ragazzo, Liam Everdeen.

Lui era uno dei fornitori abituali della farmacia e Lily, doveva ammetterlo, non gli aveva mai prestato troppo attenzione… Fino a che, un giorno d’estate, una settimana dopo la fine degli ennesimi Hunger Games - ancora un anno, e poi lei e Mairead sarebbero state libere - si era ritrovata a vagare ben oltre il quartiere in cui era cresciuta - cercando di cancellare gli orrori, i suoni terribili, le urla di quei ragazzi che morivano che riempivano le sue notti di incubi.

E aveva sentito la voce di un angelo.

Lily era corsa, incuriosita, verso il limitare delle recinzioni. Qui aveva visto Liam che, notandola, aveva smesso di cantare.

“No, ti prego!” aveva esclamato lei “Era così bella!”

Liam le aveva sorriso, allora, illuminandosi tutto - e quella era stata la fine, per lei.

Avevano iniziato a parlare. E poi Lily gli aveva chiesto di cantare di nuovo. E poi, dopo una simpatica e allegra canzonetta di bambini che parlava di una capra, avevano ripreso a ridere e a parlare di nuovo .

Erano così arrivati in farmacia, dove Liam aveva salutato sua madre con cortesia - lei l’aveva osservato con aria austera, un moto di disapprovazione sulle labbra - e le aveva venduto le sue erbe, e poi se ne era andato mandando un saluto nella sua direzione, e poi la mamma l’aveva aggredita .

Everdeen! ” aveva esclamato, disgustata “Cos’è quella luce negli occhi con cui lo stavi guardando?! Cos’erano quelle risate?! Lui è un minatore ! Peggio, è un…!” ma qui sua madre si era interrotta, forse a corto di parole o forse incapace di proseguire. Era arrossita, furiosa dalla sua dimostrazione di allegria, e Lily aveva reagito controbattendo alla stessa maniera, ricomponendosi e richiudendo la bocca, che aveva spalancato nell’incredulità mentre lei urlava.

“Ci siamo solo incontrati strada facendo” rispose Lily, a denti stretti, stringendo anche i pugni “Cosa importa se è un minatore? Cosa stai dicendo?!”

La mamma si era limitata a osservarla severa per un lungo, lunghissimo istante.

“Ti spezzerà il cuore, Lily” le disse infine ”Stai alla larga da lui”.

Ma, doveva saperlo anche lei, il modo migliore per provocare la ribellione di una ragazza era proprio quello di proibirle qualcosa.

“Non può spezzarmi proprio niente perché non c’è niente fra noi! Perché sei così paranoica? L’ho solo sentito cantare e ho pensato che avesse una bella voce!”

Lo sguardo di rabbia di sua madre fu tale da farla arretrare.

Il fuoco dell’indignazione sorse in lei - ventitre ragazzi sono appena morti, ventitre ragazzi muoiono ogni anno, e davvero mia madre se la prende perché ha il sospetto che io frequenti un ragazzo? In che mondo viviamo? - e Lily sputò fuori ogni cosa, urlando di rabbia, esplodendo come non aveva mai fatto in vita sua.

“L’anno prossimo a quest’ora potrei essere morta in un’arena e tu ti preoccupi del fatto che mi interessi un ragazzo?! Dovresti solo essere felice se, in questa vita desolante, trovo un po' di consolazione!”

Katniss la stava osservando, rigida, e alla fine del suo sfogo le voltò le spalle.

“Se sceglierai lui perderai ogni cosa” le disse infine “Scordati la farmacia, scordati questo bel quartiere di casette pulite, scordati quel poco di agio che hai in questa vita che tu trovi desolante . Vivrai davvero nella povertà e nella polvere, e non venirmi poi a dire che non ti avevo avvertito! Lui ti spezzerà il cuore e non ne sarà comunque valsa la pena”.

La mamma uscì dal salotto e si sbatté la porta alle spalle, fredda e arrabbiata.

“... Ma sarà una mia scelta!” controbattè Lily, anche se ormai lei se ne era già andata “Non puoi decidere della mia vita!”

 

***

 

Ovviamente questo fece sì che Lily iniziasse a prestare davvero attenzione a Liam Everdeen.

Lui l’aveva consolata con la sua voce da usignolo in un momento in cui lei aveva in mente solo pensieri bui, e poi la mamma si era arrabbiata così tanto , e Lily pensava che non fosse affatto giusto che lei lo giudicasse così duramente per cose che erano fuori dal suo controllo.

Era un minatore, era povero, e allora? La mamma la credeva forse così superficiale da rinunciare alla possibilità dei suoi sentimenti per paura di… Cosa?

La vera paura la vivevano già ogni anno. Ogni giorno. Anche se i Pacificatori erano tranquilli, in generale, la loro presenza armata era onnipresente nel Distretto.

E lei non era più una bambina che potesse illudersi di vivere una vita felice e perfetta. Quella possibilità le era stata strappata insieme a Maysilee, la sua migliore amica.

Così Lily iniziò a cercarlo. E Liam Everdeen, che aveva sorridenti occhi grigi e sembrava sprizzare gioia da tutti i pori in ogni occasione, accoglieva con estremo piacere la sua compagnia.

Le prime volte scherzava con lei sul fatto che una ragazza così “perbene” non avrebbe dovuto frequentare il quartiere dei Minatori, soprattutto non con tale noncuranza, ma Lily ribatteva sempre che lei era interessata alla musica e alle sue canzoni, e che non le importava affatto di dove fossero.

Liam lavorava in miniera durante il giorno, mentre lei frequentava ancora la scuola, e poi passava a prenderla di nascosto tutti i pomeriggi, portandola fuori dai confini del Distretto e in mezzo ai boschi dove, così diceva, avrebbe potuto cantare le canzoni della sua famiglia senza il rischio che qualche Pacificatore lo sentisse e decidesse di giustiziarlo per tradimento. Lily ne era affascinata, non capiva come fosse possibile che delle semplici canzoni - e poi, canzoni così belle! Cantate in modo così sublime! - potessero scatenare la rabbia dei Pacificatori… Liam le disse così che sua madre gli aveva detto che, un tempo, alle persone del Distretto Dodici era consentito far festa e intrattenersi ogni sera con canti e balli, ma che quello era stato vietato anni prima per un qualche oscuro motivo, e quindi tutti loro avevano smesso di cantare in pubblico, ritenendolo più prudente. Inoltre, le spiegò, alcune canzoni erano proibite persino dalla sua stessa famiglia; erano canzoni segrete , per così dire, che tutti loro conoscevano ma che non avevano il permesso di cantare per nessuno, pena il disconoscimento e la vergogna.

Lily si divertiva tantissimo a cercare di indurlo in tentazione e a farlo cantare per lei ma Liam non cedeva mai… Almeno, non fino a che non riuscì a strapparle il primo bacio, un mese dopo il loro primo incontro.

A Lily sembrava di veleggiare, di camminare sopra una nuvola di felicità.

Durante quel periodo della sua vita le uniche note stonate erano rappresentate dalla disapprovazione di sua madre e della tristezza di Mairead.

La mamma sapeva dove era per la maggior parte del tempo e, sebbene non sapesse cosa stesse facendo di preciso ogni pomeriggio con Liam Everdeen, di certo se lo poteva immaginare. Lily le lanciava sempre sguardi rabbiosi prima di uscire, come a sfidarla ad impedirle di farlo, ma sua madre si limitava a voltarsi dall’altra parte e a ignorarla.

Mairead… Era contenta per lei, ovviamente. Anche lei aveva un ragazzo, Aaron Undersee, il figlio del sindaco, con cui usciva ormai da poco più di un anno. Lui l’aveva avvicinata dopo il memoriale che si era tenuto per ricordare i caduti degli Hunger Games e i due avevano iniziato a parlare… E poi ad uscire. Lily aveva sperato che un ragazzo amorevole sarebbe riuscito a scuoterla un pochino, a sollevarla da quella nuvola di tristezza in cui Mairead sembrava essersi avvolta dopo la morte di Maysilee, ma non era cambiato nulla.

“Tu non puoi capire davvero” le aveva detto una volta “Lei non era solo mia sorella. Era la mia gemella ”.

A quello, Lily non aveva saputo rispondere.

Mairead e Aaron continuavano a frequentarsi senza troppi impedimenti, e lui le era diventato simpatico dopo che tempo prima aveva tentato di intercedere per il suo amico Mark Mellark, il figlio del fornaio, che voleva a tutti i costi un appuntamento con lei. Lily ci era uscita una volta più per far contenta il fidanzato dell’amica che altro - non era convinta, ai tempi, che valesse la pena di sprecare energie in una relazione; non quando la Mietitura non era ancora finita, per lei - ma la serata era stata terribilmente noiosa e Mairead si era confidata con Aaron e lui le aveva chiesto i particolari e poi aveva riso fino alle lacrime. Era andato a dare il due di picche a Mark da parte sua e poi, in disparte, le aveva confidato che stava contando i giorni che separavano Mairead - e lei - dalla loro ultima Mietitura, per poter finalmente ufficializzare meglio il loro rapporto. 

Lily si era detta contenta per loro - pregava che la falce le risparmiasse, che non calasse mai.

Mancava poco, ormai. Solo l’ultimo anno.

Ad ogni modo Mairead non aveva fatto commenti sul fatto che il ragazzo che le piaceva era un minatore che viveva nel quartiere più povero del Distretto, si era limitata ad un sorriso tirato e a delle vuote congratulazioni dopo che lei le aveva confidato del loro primo bacio rubato.

A cui ne seguirono altri, e poi altri ancora; una moltitudine di baci come ciliegie, e una stretta al cuore ogni volta che erano costretti a separarsi, e il suo odore addosso da portare con sé nel letto ogni sera, e i sogni che bruciavano di luce e di note melodiose dietro gli occhi chiusi, cullandola nel sonno.

Dopo altri due mesi, Lily dovette ammetterlo: si era innamorata di Liam Everdeen.

E, ne era certa, il loro amore sarebbe stato più forte di ogni cosa.

 

***

 

Visse la sua ultima Mietitura estraniandosi, non ascoltando davvero le parole che venivano pronunciate.

Ascoltando le canzoni di Liam nella sua testa, che era pronto a consolarla.

Il suo nome non venne estratto.

Il nome di Mairead non venne estratto.

Erano libere .

Alla fine della cerimonia, mentre i due ragazzi prescelti scomparivano oltre le porte del Palazzo della Giustizia - mentre le urla e i pianti risuonavano in piazza, rimbalzando sui ciottoli e riecheggiando nell’aria - Lily corse verso Mairead e la strinse in un abbraccio soffocante.

Scoppiò a piangere, di sollievo o forse in preda ai sensi di colpa - lei era sopravvissuta, loro erano sopravvissute.

E Maysilee no.

Mairead la strinse con una forza che Lily non credeva potesse più avere.

“È finita” le sussurrò all’orecchio la sua migliore amica “È finita, Lilian”

“Lo so” rispose lei, fra i singhiozzi “Lo so!”

Restarono così, abbracciate per parecchi minuti, fino a che Aaron Undersee non venne a separarle - a reclamare la sua amata.

Sorrideva il ragazzo, anche se un’ombra di tristezza permaneva dietro i suoi occhi scuri.

Lily si asciugò le lacrime e li lasciò andare via, mentre anche Liam la trovava nella folla, stringendola fra le braccia.

 

***

 

L’aveva portata di nuovo alla piccola capanna sul lago.

Aveva cantato per lei la più bella canzone d’amore segreta della sua famiglia - e poi si era inginocchiato davanti a lei, tenendo le sue mani fra le sue.

“Lilian Smith” aveva pronunciato, solenne “Non ho nulla da offrirti, se non il mio cuore. Ma oggi è un giorno di gioia, oggi… Oggi tu sei finalmente libera. E io posso dirti, quindi, che vorrei passare il resto della nostra vita insieme” Lily lo stava guardando, incantata, perdendosi nella melodia delle sue parole. Quando cantava Liam aveva una voce così meravigliosa che persino gli uccelli si fermavano ad ascoltarlo, ma anche quando non cantava… Anche quando non cantava, Lily pendeva dalle sue labbra.

E, in quel momento, il significato delle sue parole era così forte da far rimbombare il suo cuore nelle orecchie, da lasciarla piena di brividi.

“... Lilian Smith… Vuoi sposarmi?”

Era scoppiata a ridere, Lily.

Era scoppiata a ridere e poi era scoppiata a piangere, troppe emozioni che le si accavallavano nel cuore, tutte insieme, rendendola fragile .

“S-sì” era riuscita a sussurrare e anche Liam aveva riso, sollevandola e stringendola fra le braccia, facendole fare una giravolta e ricominciando a cantare per lei.

“Vieni” le disse infine, dopo che avevano suggellato la loro promessa con un bacio colmo di passione “Vieni a conoscere la mia famiglia”.

Lily era andata.

 

***

 

Gli Everdeen vivevano ancora quasi tutti insieme in una vecchia e grande casa piena e scricchiolante. Solo due dei fratelli maggiori erano fuori, ormai sposati e con figli a loro volta, ma vennero presto mandati a chiamare e si unirono ai festeggiamenti privati del loro fidanzamento.

Se c’era una cosa che gli Everdeen sapevano fare, infatti, era far festa; cantare e ballare e ridere e divertirsi , tutti insieme, congratulandosi con la nuova coppia per lo sbocciare del loro amore.

Lily sapeva che Liam era l’ultimo dei suoi fratelli, un figlio tardivo che era arrivato quando ormai sua madre pensava di non poterne più avere, e così aveva timore delle lunghe occhiate penetranti che Maude Everdeen le stava lanciando sin da quando era arrivata.

Aveva paura di non essere all'altezza; di essere giudicata per la ragazzina timida e ingenua che era e del fatto che aveva osato portarle via il suo bambino.

“Vieni” gli sussurrò Liam, accorgendosi della sua preoccupazione crescente “Vedrai, la mamma non morde”.

L’aveva accompagnata accanto alla donna, che era seduta composta su una delle sedie sbeccate della cucina.

“Buongiorno, signora Everdeen” l’aveva salutata, arrossendo, Lily “È un piacere fare la sua conoscenza”.

Lily aveva già incontrato alcuni dei fratelli di Liam durante i mesi in cui si erano frequentati, a volte giù al lago e a volte per la strada mentre entrambi passeggiavano nel Distretto, ma questa era la prima volta che vedeva sua madre.

“Lilian Smith” la salutò, un po’ rigida, la signora Everdeen “Figlia dei farmacisti?”

Lily annuì, nervosa, torcendosi le mani.

La donna sospirò, facendole un cenno e invitandola a sedersi accanto a lei.

Liam venne richiamato da uno dei nipotini e la lasciò lì da sola, scusandosi con una frettolosa occhiata ed un sorriso, e il silenzio si tese fra le due donne.

“Sai” esclamò infine Maude, spezzandolo “Ho paura che questo non sarà facile, per te. Come l’hanno presa i tuoi genitori?”

Lily arrossì.

“Non… Non gliel’ho ancora detto” rispose, incespicando appena “Beh, sanno che io e Liam ci frequentiamo, ovviamente”.

La signora Everdeen la osservò per un lungo istante.

“... Capisco” disse infine “Immagino che non approvino”.

Il labbro inferiore di Lily tremò appena.

“Mamma è convinta che io non ce la farò ad adattarmi a una vita… Di questo tipo…” non sapeva come parlare, aveva paura di offenderla. A lei non importava che gli Everdeen fossero poveri, ma non voleva che la donna si facesse un’idea sbagliata… E non voleva mettere sua madre troppo in cattiva luce “Ma io le dimostrerò che i miei sentimenti sono più forti di tutto il resto” concluse, risoluta “Io amo Liam!”

La signora Everdeen sospirò di nuovo e le strinse un ginocchio.

“Lo so, bambina” le rispose, con un velo di tristezza negli occhi “Non lo metto in dubbio. Ma Katniss non ne sarà affatto contenta”.

Lily sbatté le palpebre due volte, confusa dal fatto che lei aveva chiamato sua madre per nome.

“... Lei la conosce? Mia madre?”

Maude Everdeen sorrise appena, in un lampo.

“Lei è cresciuta qui, lo sapevi?”

Lily, sempre più perplessa, scosse la testa.

“L’ha cresciuta Barb Azure, che ora purtroppo non è più con noi. Prima di essere una Everdeen, sai, noi eravamo una grande famiglia. Una grande, grande famiglia… Piena di musicisti. Questo eravamo. Prima della guerra… Un clan di musicisti itineranti”.

“Mamma odia la musica” le uscì detto.

Lily si sentiva instupidita. Non riusciva a figurarsi la mamma in mezzo a tutto quel… Tutta quella allegria .

Katniss Smith era sempre stata una donna troppo seria, quasi anaffettiva , che dimostrava il proprio amore solo attraverso piccoli gesti silenziosi. Immaginarsela cantare, ballare, toccare tutte quelle persone mentre faceva festa…

“Sono desolata nel dover dire che la nostra famiglia non l’ha mai trattata nel migliore dei modi” le disse quindi la signora Everdeen, sempre con quella luce di tristezza nello sguardo, spegnendo ogni sua fantasia “Non mi sorprende il fatto che lei sia scappata il più lontano possibile. Ma non ti stupire se lei si opporrà con tutte le forze a questo matrimonio… Solo, ti prego, non dirle niente di tutto questo. Sono certa che se non te ne ha mai parlato prima, deve aver avuto i suoi buoni motivi. Non riaprire le sue vecchie ferite”.

Lily deglutì, agitata e confusa.

“Perché mi sta dicendo tutto questo, allora, signora Everdeen?”

La donna le lasciò andare il ginocchio e distolse lo sguardo da lei, sollevando gli occhi verso il soffitto, pensierosa e persa in ricordi a cui lei non aveva accesso.

“... Perché non voglio più mentire” le rispose, in un sussurro; poi sembrò riscuotersi, perché tornò a guardarla con un dolce sorriso sulle labbra.

“Tu hai gli stessi occhi, sai?” le disse, spiazzandola un’altra volta.

“Di mia madre?” chiese, instupidita. Lo sapeva, questo era certo. Somigliava tantissimo alla mamma, gliel’avevano sempre detto tutti, e aveva preso dal papà solo le labbra più sottili e il riflesso dorato che le appariva nei capelli sotto la luce diretta del sole.

La signora Everdeen non rispose ma si alzò in piedi, afferrandole la mano e invitandola a fare altrettanto.

“Ti tratteremo meglio, Lilian Smith, lo prometto. Non ho intenzione di rifare sempre gli stessi errori. Le colpe dei padri devono smettere di ricadere sui figli”.

Con quelle parole un po’ criptiche, senza darle il tempo di replicare, Maude Everdeen la trascinò di nuovo in salotto, in mezzo alla folla, riportandola dal suo Liam e intonando, poi, una canzone per loro.

 

***

 

Sua madre l’ aveva presa male.

Questo Lily se l’era aspettato, certo. Non si era aspettata, però, il freddo disprezzo con cui lei l’aveva guardata ; le urla con lui l’aveva diseredata, persino, invitandola a prendere i pochi averi che poteva considerare suoi - qualche vestito, la gabbia di un canarino ormai vuota - e di andarsene, dritta verso la vita che aveva scelto, perdendo tutto il resto che lei si era sforzata di costruire per lei in questi anni.

Le domande bruciavano nel fondo della sua gola, frenate dal fuoco dell’ingiustizia, e Lily eseguì gli ordini senza una parola, con solo le lacrime silenziose di rabbia a farle compagnia mentre faceva i bagagli.

È perché sei cresciuta fra gli Everdeen? Cosa ti hanno fatto, perché ti hanno trattata male?

Lily non dubitava delle parole della madre di Liam - quale donna avrebbe dipinto la famiglia di cui voleva far parte in modo meno che perfetto, se non pervasa dai sensi di colpa? - ma voleva che fosse lei a parlargliene.

Lei. Sua madre Katniss. Che avrebbe dovuto darle una scusa valida per voltare le spalle all’amore della sua vita, invece di cacciarla di casa senza una parola e con solo il ricordo delle sue urla nelle orecchie.

La mamma, invece, si era chiusa in cucina, mettendo un muro fra loro e non uscendo neppure a salutarla quando lei se ne andò sbattendo la porta.

 

***

 

“Ha solo paura per te, Lily”.

Suo padre l’aveva rintracciata in serata, trovandola a colpo sicuro a casa degli Everdeen. Era rientrato dal lavoro e aveva scoperto subito cosa era successo e aveva abbandonato la cena sul tavolo, a raffreddarsi, per venire subito a parlare con lei.

Lily era ancora colma di rabbia - e di una profonda tristezza.

Suo padre l’aveva stretta a sé, ignorando la sua rigidità e le sue braccia chiuse, strette sul petto, e poi le aveva parlato.

“Lei ha perso il suo migliore amico in un incidente in miniera, anni fa”.

“Cosa?!” esclamò Lily, vinta dalla sorpresa.

Papà si accomodò sul piccolo divanetto del soggiorno, obbligandola a sedersi con lui. Liam e il resto degli Everdeen si erano defilati il silenzio, lasciando loro un minimo di privacy.

“Kat non ne parla volentieri, mai. Sai… Sai com’è fatta” continuò suo padre, nervoso, scostandosi una ciocca di capelli ribelle dalla fronte “Ma noi tre eravamo cresciuti insieme, io… Io l’ho vista. Io l’ho vissuta , Lily. La mamma ha sofferto così tanto e sono certo che ha solo paura che tu possa soffrire dello stesso dolore. Gli incidenti in miniera sono più frequenti di quel che immagini”.

Lily aprì la bocca, poi la richiuse. Fra tutto quello che poteva aspettarsi, fra tutti i pensieri sulla mamma cresciuta e rifiutata dagli Everdeen… 

“... Io lo amo già, papà” disse infine “Dovrei forse strapparmi il cuore adesso e privarmi di ciò che ho scelto perché c’è una possibilità che qualcosa vada male in futuro?”

Suo padre sospirò, affranto.

“Ti sto solo dicendo quali sono i pensieri che passano nella testa della mamma. Quali sono le sue paure”.

Quindi non c’entra niente il fatto che sia cresciuta fra gli Everdeen e il suo odio per la musica?

Lily avrebbe voluto chiederglielo ma, pensava, se non era stata in grado di affrontare direttamente l’argomento con la mamma, non era giusto neppure farlo con suo padre.

“Chi era?” chiese quindi “Il ragazzo che è morto?”

“Thomas Hawthorne” rispose suo padre, senza esitare un istante “Era allegro e solare, e si inventata sempre le storie più incredibili. Ti teneva inchiodato con le parole ogni volta che iniziava con uno dei suoi racconti” papà si voltò verso di lei, sorridendo triste “Aveva solo quindici anni”.

Il cuore di Lily perse un battito mentre lei abbassava lo sguardo, colpita da quelle parole.

Non era una bugia.

Suo padre non le avrebbe mai mentito, non così. La mamma aveva davvero perso qualcuno… Conosciuto lo stesso tipo di dolore che l’aveva sconvolta quando Maysilee era morta, e che non l’aveva mai abbandonata del tutto.

“Mi dispiace” disse infine, dopo un lungo silenzio “Mi dispiace davvero, papà. Ma io amo Liam. Non rinuncerò a lui per nulla al mondo”.

Suo padre la strinse fra le braccia di nuovo - come quella sera, sul divano di casa sua, mentre le fanfare suonavano e i carri dei Tributi sfilavano in televisione; una stretta che non poteva consolare davvero, ma che dimostrava l’amore che suo padre aveva per lei.

“Non te lo chiedo” le disse “So che l’amore, l’amore vero, è una forza senza uguali. Cercherò di farla ragionare, Lily. Congratulazioni per il tuo fidanzamento, tesoro”.

Lily deglutì e chiuse gli occhi, ricacciando indietro le lacrime. Suo padre le lasciò un lieve bacio sulla fronte, come quando era bambina e la rimboccava le coperte ogni sera. Lily lo vide alzarsi e uscire, scambiando due parole con Liam sulla porta di casa.

Poi Liam fu subito da lei e Lily pianse fra le sue braccia.

 

***

 

Sua madre, però, aveva mantenuto il punto.

Chiusa nella sua rabbia si era rifiutata di farsi vedere al matrimonio - di mettere piede di nuovo in quella casa, aveva riflettuto Lily - e Lily non era più andata nel quartiere dei mercanti, non osando avvicinarla.

Si era adattata a una vita modesta, Lily, fatta di vestiti cuciti a mano, di un tozzo di pane per cena, di lunghe giornate vuote passate nell’attesa che il suo Liam tornasse a casa dal lavoro in miniera - il cuore in gola ogni giorno, dopo quello che le aveva confidato suo padre.

Lei e Liam si erano trasferiti in una piccola casetta in fondo alla via, poco lontana dalla casa padronale degli Everdeen, e ogni mattina Lily passava il tempo con la suocera, Maude, che cantava per lei le canzoni della famiglia, che le insegnava a cucire e a ricamare, che l’accoglieva ogni giorno con un sorriso sulle labbra e l’ombra di una tristezza antica negli occhi - e Lily non aveva mai avuto il coraggio di chiedere .

Talvolta andava a trovare Mairead, che nel frattempo aveva sposato anche lei Aaron Undersee. La sua migliore amica sembrava sempre più spenta più gli anni passavano, e Lily cercava ogni volta di tirarle su il morale, senza troppo successo. Aaron le era grato di ogni tentativo, comunque, e ogni volta la ricompensava con qualche regalo, soprattutto cibo e stoffe.

“Non lo faccio per questo” gli aveva detto Lily la terza volta, dopo che lui le prime due aveva insistito per non farla tornare a casa a mani vuote.

Aaron aveva sorriso, mesto.

“Lo so, Lily” le aveva risposto “So quanto siete amiche. La mia è solo una scusa perché ti voglio bene, lo sai”.

Perché ormai era diventata povera, caduta in disgrazia, e non poteva nutrirsi di solo amore.

Lily lo sapeva ma, lo stesso, nonostante l’ingiustizia, ingoiava l’orgoglio e accettava l’aiuto dei suoi amici, perché non poteva fare diversamente.

Liam, ormai, portava direttamente a lei le erbe medicinali che raccoglieva nel bosco. Lily aveva istituito una piccola farmacia non ufficiale nella loro piccola cucina e, quando capitava, la povera gente del quartiere si rivolgeva a lei per avere un aiuto. Lily sorrideva e cercava di essere sempre disponibile, dispensando rimedi senza farsi pagare da nessuno - conquistando il cuore dei suoi nuovi vicini di casa, che erano stati diffidenti di lei, così diversa, cresciuta nella bambagia e per questo incapace di comprenderli e legare davvero con loro .

Cercava solo di vivere la propria vita, Lily, nutrendosi di amore e di canzoni, trovando la felicità ogni sera ogni volta che Liam tornava a casa e la guardava con quegli occhi grigi e luminosi.

Viveva, Lily.

Con solo quel piccolo neo di rimpianto sul fondo della sua gola, con il pensiero perenne a quella madre che l’aveva ripudiata per aver scelto l’uomo sbagliato.

Giustificandola, in parte.

Perché l’idea del dolore che aveva sofferto da ragazza, quando il fato le aveva portato via il suo migliore amico, lei lo poteva capire benissimo.

 

***

 

E poi era rimasta incinta.

Com’era naturale. Lei e Liam si amavano così tanto, si desideravano così tanto, che era stato inevitabile far germogliare il frutto di quell’amore. Dopo averne avuto certezza, dopo che Lily ebbe parlato con suo marito a lungo e in largo su come affrontare quella novità per cui erano eccitati e spaventati insieme… Lily prese il coraggio a due mani e, in una fresca mattina di inizio novembre, si incamminò verso il quartiere dei Mercanti, verso la sua vecchia casa.

Fu sua madre ad aprirle e per un istante le due donne rimasero a osservarsi, guardinghe, fino che lei non spezzò il silenzio.

“Sono venuta a darti una bella notizia, mamma” aveva detto, sorridendo “Sono incinta. Presto sarai nonna”.

Il labbro inferiore di Katniss Smith aveva tremato, e poi la donna le si era catapultata addosso, stringendola come non aveva mai fatto.

“Congratulazioni, figlia mia” le aveva detto, commossa.

Anche Lily cedette alle lacrime e le due donne si abbracciarono, mettendo fine alla faida che le aveva tenute lontano per circa due anni.

Così Lily ritornò ad avere una madre.

 

***

 

Katniss Everdeen nacque in una soleggiata giornata di inizio maggio.

Lily aveva mandato a chiamare sua madre, che durante tutto il corso della sua gravidanza le si era riavvicinata lentamente.

Mai più gesti eclatanti, mai più grandi abbracci fra le lacrime. Solo una visita ogni due settimane, un cestino ripieno di cibo e di rimedi naturali contro le nausee; qualche vestito nuovo, qualche stoffa un po’ più colorata del grigio slavato che si trovava nel quartiere dei Minatori.

Katniss Smith, in quell’occasione, rimase la personificazione del sangue freddo mentre un mondo di sofferenza esplodeva addosso a Lily. Qualcuno era andato a chiamare anche Liam, giù alla miniera, ma quella bambina aveva fretta di nascere, e sua madre fu la sua levatrice, seria e preparata ed esperta , guidandola in quel processo doloroso da cui erano già passate infinite donne.

Alla fine, esausta e sudata, Lily si ritrovò con un piccolo fagottino rosa fra le braccia, che urlava a pieni polmoni. Riuscì in qualche modo ad attaccarsela al seno, persa in contemplazione dei riccioli scuri che già riempivano la testa di sua figlia.

Sua figlia.

Sua madre le arrivò vicino, dopo aver riposto gli asciugamani ripieni di sangue ed essersi lavata per bene le mani. Sfiorò la fronte della neonata, che ancora succhiava, e questa aprì gli occhi, fissandole entrambe con uno sguardo grigio e profondo .

“... Somiglia a suo padre” commentò la mamma “Spero che questo le porterà bene” aggiunse, sottovoce, con una vibrante nota di tristezza e rimpianto.

“Lily!” 

Liam entrò urlando in casa, agitato. Sua madre lo bloccò sulla porta d’ingresso della camera da letto.

“Vai a lavarti, prima” gli disse, dura “Non vorrai certo far prendere loro un’infezione, giusto?”

Liam le lanciò un’occhiata di puro desiderio da sopra la spalla di sua madre, ma poi annuì, solenne.

Pochi minuti dopo era con lei, con loro , ad osservare incantato il volto della loro bambina.

“Vi lascio da soli” annunciò sua madre “Sarò in salotto, non vado lontano. Chiamatemi, se serve. Ma tenete questo momento per voi”.

Lily alzò lo sguardo verso Liam, che annuì.

“Mamma” la richiamò, mentre la bambina iniziava ad agitarsi “Abbiamo deciso di portare avanti la tradizione e di chiamarla Katniss, come te”.

Katniss Smith rimase un secondo sulla soglia, sbigottita, e poi si aprì in uno dei suoi rari ed enormi sorrisi.

 

***

 

E poi sua madre si ammalò.

Iniziò come una tosse persistente, un piccolo fastidio. Katniss beveva tisane alle erbe e diceva a tutti di non preoccuparsi, che era semplicemente un male di stagione, passeggero.

Lily la osservava, stringendo fra le braccia la sua bambina di appena due anni, e si preoccupava sempre di più.

Finché il declino divenne inevitabile.

Lily iniziò a frequentare la sua vecchia casa sempre di più, all’inizio portandosi Katniss appresso; in seguito - mentre la malattia peggiorava - lasciandola alle cure di nonna Maude. Passava infinite giornate al capezzale di sua madre, che era sempre più emaciata e debole, con solo quegli occhi azzurri e chiari e splendenti che rimanevano saldi nel suo viso sempre più scavato. Si prendeva cura di lei, della casa, dei pasti - di suo padre, sempre più disperato e spento, invecchiato di colpo nel rendersi conto che la sua amata moglie non ce l’avrebbe fatta.

Sedeva su di una poltrona consunta, osservando sua madre dormire, e si interrogava su quanto vederla morire l’avrebbe segnata.

Quanto dolore sarebbe stata in grado di sopportare?

Rifletteva sul fatto che era giusto, era sano , che un figlio sopravvivesse ai propri genitori. Che era come la natura aveva voluto.

Cercava di razionalizzare, di arginare l’ondata di dolore che sentiva arrivare all’orizzonte.

Solo che questo non le rendeva le cose più facili .

A casa, almeno, aveva Liam e la sua bambina.

A casa, la sera, dopo l’ennesima giornata difficile, poteva sentir cantare suo marito la buonanotte alla loro bambina, e poi ritrovarlo sotto le lenzuola dopo che tutte le luci erano ormai spente.

Poteva amarlo, e farsi cullare, e sognare una vita senza più alcun dolore.

Gli ultimi giorni furono i più terribili.

Gli ultimi giorni… Katniss, sua madre, sapeva che la Morte sarebbe arrivata. Era rinchiusa in uno stato febbrile da cui emergeva solo a tratti, ma in quei momenti Lily vedeva che stava semplicemente pregando che tutto finisse.

Verso la fine, sua madre le afferrò una mano. La fissò negli occhi - di nuovo presente a se stessa - e la invitò a chinarsi su di lei, per ascoltare le sue parole.

“... L’amore è sempre stata la rovina della nostra famiglia, Lilian” le confidò, come il più grande segreto “Ma prego che per te sia diverso, figlia mia. Non fartelo portare via… Non farti portare via quella luce. Promettilo, Lily”.

“Lo prometto” rispose Lily, trattenendo le lacrime, osservando gli occhi di sua madre perdersi di nuovo nella febbre “Nessuno me la porterà via”.

“Sopravvivi” mormorò sua madre, distogliendo lo sguardo da lei e lasciandole andare la mano “Canta. Riprenditi la musica. Non te la possono togliere” la sua voce si fece più bassa e confusa, ingarbugliata, quasi indistinguibile “Nessuno te la può togliere davvero”.

Quelle furono le ultime parole che Lily le sentì pronunciare.

 

***

 

Due mesi dopo, Lily scoprì di aspettare un altro bambino.



“Then keep on walking

Nothing you can take was ever worth keeping”

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Capitolo 4
*** The ballad of Lucy Gray Braid ***


“It’s sooner than later that I’m six feet under

It’s sooner than later that you’ll be alone

So who will you turn to tomorrow, I wonder?

For when the bells rings, lover, you’re on your own”

 

L’avevano trovata dopo circa tre mesi.

Lucy era partita non appena aveva recuperato le forze, lasciandosi dietro la piccola capanna sul lago, portando con sé tutto quello che era riuscita a mettere in uno degli zaini di tela che Barb le aveva portato. Si era diretta a nord, come aveva già deciso in precedenza, cacciando le piccole prede del sottobosco e nutrendosi di esse e di radici, di more selvatiche e acqua piovana.

Aveva camminato. E camminato.

Finché, una sera di fine agosto, quando già stava pensando che avrebbe dovuto fermarsi e crearsi un rifugio più duraturo, per poter superare l’inverno, due soldati l’avevano vista e le avevano intimato di fermarsi, puntandole due fucili addosso.

Lucy Gray aveva alzato le mani e si era arresa.

Non erano Pacificatori.

I due soldati sembravano solo due ragazzi mal messi, poco più grandi di lei, a dire il vero; indossavano rozzi indumenti rovinati e sporchi, e le uniche cose che dimostravano una parvenza di cura erano appunto i due fucili.

“Chi sei?” gridò uno dei due ragazzi, dall’altro lato della radura dove si erano incontrati “Cosa ci fai qui?”

“Mi chiamo Lucy Gray Braid” rispose lei, osservando attentamente i due uomini. Vide la confusione sui loro volti, l’incertezza, la paura - di certo, non avevano guardato i suoi Hunger Games, se il suo nome non diceva loro niente “Sono fuggita dal mio Distretto” inutile mentire di fronte a due armi puntate. Se erano Pacificatori lei era comunque già morta… E se non lo erano, beh, avrebbe presto scoperto ogni cosa.

“Sei sola?”

Nervosa, torcendo il piede destro, Lucy annuì.

Uno dei due soldati abbassò il fucile e venne verso di lei. Era un ragazzo alto, con corti capelli castani e uno sguardo tranquillo che la rassicurò un pochino.

“Cosa stai facendo?” gli sibilò il suo compagno “Potrebbe essersi trascinata dietro altri! Di certo la verranno a cercare!”

“Sono fuggita quasi un anno fa” replicò Lucy “E non ho visto nessuno inseguirmi”.

Coryo l’aveva lasciata vivere.

“Sono Edward Coin, piacere” le disse il primo soldato, quello che si era avvicinato, allungandole la mano. Lucy la strinse.

“Perché sei fuggita?” chiese ancora Edward “Come mai non ti inseguono?”

Lucy si aprì in un sorrisetto amaro e sarcastico.

“C’è stato il tentativo di una rivolta, giù al Distretto” rispose, stringendosi per le spalle “La figlia del sindaco è rimasta uccisa, e lui mi crede coinvolta perché… Il mio ex ragazzo mi ha lasciata per lei” non era una bugia, anzi. Ma era troppo tempo che Lucy non pensava a Billy come ‘ex’. Qualcun altro aveva preso posto nel suo cuore, con più forza e prepotenza che mai, e gliel’aveva lasciato distrutto, squarciato “Aveva già provato a farmi fuori, prima, senza successo” continuò “E ho pensato che fosse più prudente scomparire. Di certo mi crede morta nei boschi; se mi ha fatto inseguire prima non ne ho mai avuto sentore, e chi impiegherebbe le forze di Capitol City così, per più di un anno?”

Edward si voltò verso il suo compagno, sorridendo.

“Credo che Jeremy sarà molto interessato a parlare con lei” gli disse, e anche l’altro scrollò le spalle e abbassò il fucile. Edward le porse una mano e Lucy la strinse “Seguici. Sono troppi anni che non abbiamo notizie da fuori. Sarai una fonte preziosa”.

Lucy li seguì.

 

***

 

La portarono nel terreno. O meglio, una struttura costruita sotto terra, il cui ingresso era nascosto da una botola a sua volta nascosta da sassi e cespugli incollati, mimetizzata perfettamente nelle macerie di quello, scoprì poi Lucy, che era stato il Distretto Tredici.

Le sembrò di entrare in una tomba.

“È ancora in costruzione” le disse Edward, facendole strada. Dietro di lui stava l’altro soldato, che si era presentato come Thomas Coin. I due erano cugini “Abbiamo diversi ingegneri; sono stati loro, dopotutto, a costruire questo posto, prima di dare inizio alla ribellione. Quelli che ci mancano sono gli operai…”

Lucy ascoltava, in silenzio, osservando gli stretti corridoi di pietra grigia, contando ogni gradino stretto che scendevano, verso le viscere della terra.

Si sentiva già soffocare, avvertiva la pressione della terra sopra le loro teste.

Si sentiva persa, senza il cielo.

Passarono davanti ad alcune stanze senza porte, e la gente, curiosa, allungava il collo per osservarla. Lucy si strinse fra le spalle, afferrandosi la vita. Non osava pensare a come stava, con gli stessi vestiti da mesi, sporca di terra e intemperie… Di certo non aveva un buon odore.

Si sentiva a disagio.

Dopo circa un quarto d’ora raggiunsero quello che era in modo inequivocabile il quartier generale. Un uomo sulla quarantina era seduto al centro del tavolo, con diverse carte davanti, e alzò la testa solo dopo essere stato richiamato da Edward.

“Jeremy! Abbiamo una sorpresa per te!”

Lucy vide che l’uomo - Jeremy, supponeva - aveva spalancato gli occhi, osservandola.

“... Un’esterna?” chiese infine, incredulo.

“Sono Lucy Gray Braid” si presentò Lucy, a testa alta nonostante tutto “Vengo dal Distretto Dodici”.

Se non c’erano riusciti gli Hunger Games a toglierle la dignità, di certo non poteva permettere che il disagio verso se stessa la umiliasse in questa occasione.

Jeremy le fece un cenno e Edward le scostò una delle sedie, cavaliere, facendola accomodare.

“Maria” chiamò Jeremy, e una donna della sua stessa età fece la sua comparsa da dietro una tenda “Per piacere, porta qualcosa da bere e da mangiare per la nostra ospite”.

Lucy vide Maria lanciarle una lunga occhiata curiosa, e poi scomparire di nuovo dietro la tenda.

“Dunque, Lucy Gray” iniziò poi Jeremy, incrociando le mani davanti a sé “Devi sapere che, sin dalla fine della guerra, sin da quando hanno cercato di distruggerci , l’unica cosa che stiamo facendo qui, ora, è sopravvivere” Jeremy sospirò, toccandosi il mento con le mani “Non abbiamo dimenticato il motivo che ci ha portato alla guerra, questo no. Ma non abbiamo possibilità, non abbiamo risorse ora, per tornare ad attaccare. E la verità è che, senza contatti con il mondo esterno, ci è anche difficile stabilire una strategia sul lungo termine”.

Lucy deglutì, pensando agli effetti devastanti della guerra, a quando non sapeva se sarebbe vissuta o morta entro l’inizio del giorno successivo - di paura, di freddo, di fame.

A quanto lei e il resto dei Covey si riunivano fra loro, a dormire insieme sotto le assi malmesse di edifici mezzi distrutti, al suono degli allarmi antiaerei, al rumore delle bombe in lontananza.

A ciò che aveva dovuto fare per sfamarsi e per sfamare il resto della sua famiglia.

Alla musica, l’unica cosa in grado di averli fatti andare avanti oltre l’inferno.

“Non osiamo cercare di contattare nessuno” continuò Jeremy “Sebbene i nostri uomini lavorino per cercare almeno di intercettare le comunicazioni dal mondo esterno. Lucy Gray… Qual è la tua storia?”

Lucy chiuse gli occhi ed un brivido le attraversò la schiena.

In quel momento, mentre gli uomini aspettavano da lei le risposte, Lucy si rese conto che da lì non se ne sarebbe andata mai più. Viva o morta non importava perché Edward Coin l’aveva condotta nel loro rifugio segreto, nel cuore del Distretto Tredici, forse senza pensare, forse vinto dall’entusiasmo… Forse perché, in ogni caso, quelle persone necessitavano di ottenere informazioni da lei.

E a nessuno che avesse visto quel luogo sarebbe stato consentito andarsene, tantomeno a lei.

Non era stupida, Lucy Gray.

E, all’improvviso, la colpì la rivelazione.

Nessuno di loro, lì nel Distretto Tredici, aveva mai sentito parlare degli Hunger Games.

Conoscevano la crudeltà di Capitol City, oh, quello sì. Lucy aveva visto le macerie, all’esterno.

Tutti sapevano che, per soffocare la ribellione, Panem aveva distrutto il Tredicesimo distretto - non aspettandosi alcun sopravvissuto, e averli trovati era quindi stata una sorpresa anche per lei.

Lucy si rese conto che non poteva starsene in silenzio. Non dopo quello che aveva vissuto.

E se poi avessero deciso di ucciderla a seguito delle sue parole, se poi non l’avessero considerata più utile… Poco importava.

Avrebbe dato loro ogni cosa, riaccendendo ogni stilla di odio nei loro cuori.

Ogni cosa.

Tranne lui.

Lucy iniziò quindi a parlare.

 

***

 

Le era stato dato un alloggio, in realtà una misera stanza da letto con un pagliericcio e qualche coperta. Maria, dopo che lei ebbe posato la sua borsa, la condusse lungo i corridoi verso quello che sembrava essere il locale caldaie, dove iniziò a riempire una vasca per lei. La invitò a fare il bagno - e Lucy ne approfittò per rilassarsi, rilassarsi davvero, sentendo la sporcizia di mesi sciogliersi sulla sua pelle, strofinando bene i capelli, quasi piangendo per il sentore di pulito dopo che Maria ebbe svuotato e riempito la vasca altre due volte - e le procurò un asciugamano e un vestito nuovo, un po’ largo sui fianchi ma che a Lucy sembrava un lusso insperato.

Una volta tornata in camera Lucy trovò Edward sulla soglia ad aspettarla, che le sorrise a trentadue denti.

Lucy, che nella vasca aveva sciolto anche la tensione della lunga chiacchierata che aveva avuto con Jeremy, sorrise a sua volta.

Non poteva comunque scordarsi lo sguardo di puro orrore dell’uomo quando aveva capito che sì, non stava scherzando, Capitol City rapiva davvero ragazzini dai loro distretti per mandarli a morire in un reality show, per il mero divertimento dei suoi cittadini.

“Punizione” la chiamavano, per la ribellione.

“Crimini contro l’umanità” aveva sibilato Jeremy.

Lucy non poteva che concordare.

“Pensavo di mostrarti la strada verso la mensa” le disse, a mo’ di saluto “Così ti spiego un po’ come funziona la vita qui”.

Così l’avrebbero lasciata vivere , pensò Lucy, annuendo al ragazzo.

Non era ancora sicura di cosa pensare di tutta quella faccenda… Del Distretto Tredici.

Dei soffitti di cemento che le avevano spento il cielo, intrappolandola sotto terra, come in una bara.

Sorrise comunque, Lucy, seguendo Edward Coin.

Alla fine, se c’era una cosa in cui era brava, era recitare per aver salva la vita.

 

***

 

Lucy scoprì quindi che non vi era un solo uomo al comando del Distretto. Jeremy Jones aveva a conti fatti quel ruolo perché era uno dei più anziani e uno degli ingegneri che, sin da prima della guerra, aveva lavorato al progetto del bunker sotterraneo che li aveva salvati. Era stato colui che, una volta resosi conto del contrattacco devastante di Capitol City, aveva pensato a salvare quanti più civili possibili, abbandonando ogni ideale eroico di giustizia per dare priorità alla vita .

I Coin erano amici di famiglia. Lo zio di Edward - il padre di Thomas - era stato un tempo a capo dell’esercito, quindi lui insieme a Jeremy e altri amici cercavano ora di organizzare la vita di così tante persone insieme, in uno spazio che era ancora troppo stretto, e con risorse ancora troppo limitate.

“Abbiamo vissuto per anni mangiando le scorte di cibo in scatola che erano state accumulate qui sotto” le raccontò Edward, mentre tagliava un pezzo del suo stufato, prima di ingoiarlo tutto soddisfatto “Non sai che gioia è stata poter riprendere a mangiare carne vera, qualcosa di fresco. Adesso abbiamo una squadra di cacciatori per la selvaggina e la popolazione di bestiame ha finalmente raggiunto numeri tali da consentirci la carne almeno due volte a settimana”.

I contatti con Capitol City e il resto dei distretti si erano interrotti dopo i bombardamenti. Sebbene l’elettricità non fosse mai mancata - erano stati previsti dei generatori di emergenza nel ‘progetto bunker’ - il Distretto si era comunque trovato, a conti fatti, tagliato fuori dal mondo.

Molte attività erano svolte in comune, come i pasti, e vi erano degli orari ben precisi a cui attenersi per ritrovarsi nel locale mensa, l’unico spazio così largo e attrezzato per ospitare tutte quelle persone. Ognuno, lì nel Distretto, aveva un ruolo, e la società funzionava solo attenendosi alle rigide regole imposte da esso. Gli uomini abili che non avessero particolare istruzione erano impiegati come operai e si occupavano di allargare gli spazi, diretti da un team di ingegneri, che dovevano progettare tutto al millimetro per evitare che la struttura franasse sulle loro teste e che fosse adeguatamente ventilata. C’era il team dei cacciatori, che rifornivano la selvaggina, e chi si occupava degli animali da fattoria. Le donne erano solitamente impiegate nella cucina e nella produzione di tessuti e vestiti - e vi era una mole imponente di lavoro. Chi aveva studiato prima della guerra metteva a disposizione i propri talenti. Rimaneva all’attivo anche un piccolo esercito, di cui Edward faceva parte, che per il momento si limitava ad esplorare e mettere al sicuro nuove aree esterne e fungeva da polizia nei casi più gravi interni - anche se era stato istituito una sorta di tribunale che aveva il compito di decidere in merito a ogni disputa più superficiale.

Le scuole erano state rese obbligatorie per ogni bambino fino ai sedici anni, poi in base alla predisposizione, all’attitudine e alla necessità ognuno veniva indirizzato ad un mentore nel mondo del lavoro e iniziava a darsi da fare. Edward non era solo un soldato semplice, ma stava studiando con suo zio per fare carriera nell’esercito e diventare un valido stratega militare.

Ognuno metteva a disposizione qualcosa per potersi permettere il lusso di mangiare tre volte al giorno e non essere un peso per la comunità.

“... Io so solo cantare” commentò Lucy, sorridendo amaramente. Edward la guardò per un istante con stupore, poi le sorrise.

“Sono certo che ti troveremo un ruolo adeguato, Lucy”.

Finirono così la loro cena ed Edward la riportò nella stanzetta che le era stata assegnata, dove Lucy poté finalmente farsi cadere sul pagliericcio e abbandonarsi ad un sonno profondo, necessario per farle assimilare tutte le novità di quel giorno.

 

***

 

Edward le aveva trovato una chitarra.

Lucy era rimasta a fissarla a bocca aperta per dei buoni secondi e, alla domanda su dove l’avesse trovata, lui si era limitato a farle l’occhiolino.

Lucy l’aveva presa fra le mani con cura, l’aveva studiata a saggiata. Aveva provato qualche nota, l’aveva accordata e, non appena il suono era uscito limpido, due calde lacrime le erano emerse dagli occhi.

Era così tanto tempo che non suonava.

Credeva di averlo perso. Non solo la libertà, non solo il cielo… Credeva di aver perso anche la musica. E invece ora era lì. Fra le sue mani.

In attesa solo della sua voce.

“Ne abbiamo discusso, io e gli altri” le disse Edward, avvicinandosi e asciugandole una lacrima con due dita, leggero “Anche la musica, anche il divertimento può avere un suo scopo, qui. Può essere la luce che dà il senso ogni giorno, quell’attività che ti rende sopportabile il lavoro, quella cosa che ti consente di arrivare in forze alla sera. Prova, almeno… Se vuoi”.

Lucy aveva annuito, commossa.

E così, quella sera, dopo cena, ancora nella grande sala della mensa, aveva preso la sua chitarra e si era messa a cantare.

E gli abitanti del Distretto Tredici l’avevano ascoltata. Dapprima esitanti, quasi intimoriti. Lucy aveva vissuto gli ultimi giorni sentendosi i loro sguardi puntati addosso, ma nessuno era mai venuto a parlarle… Tutti erano curiosi ma nessuno osava. Ora aveva dato loro una scusa per guardarla senza timore. E non solo.

Le conversazioni morivano mentre Lucy cantava; tutti erano attenti, rapiti dalla sua voce. Alla fine della terza canzone Edward si alzò e tese la mano a una delle ragazze dei tavoli accanto, che arrossì e accettò l’invito. Lucy quindi iniziò a suonare un ritmo molto più allegro e movimentato e, piano piano, invogliati anche dallo slancio di Edward, altri iniziarono a ballare.

Fu come sciogliere un nodo.

Lucy si sentì portatrice di vita, quella prima sera, e continuò a cantare fino all’ora del coprifuoco, alzandosi in piedi ed esibendosi in giravolte con la sua nuova chitarra, danzando con tutti loro. Qualcuno ad una certa le mise davanti un microfono e la sua voce risuonò limpida nella sala mensa, raggiungendo ogni angolo… Lucy si sentiva quasi a casa , al solito bar dove i Covey suonavano ogni sera, portando un po’ di allegria alle vite misere dei minatori.

Poi l’illusione si infranse quando suonarono le sirene per avvertire del Coprifuoco, interrompendo il suo spettacolo, e Lucy si ritrovò a guardare fra la folla sperando, per un terribile istante, di rivedere anche lui lì, che le sorrideva come suo solito.

“Lucy?” la chiamò Edward, tornando da lei dopo aver salutato la ragazza, le guance rosse dal tanto ballare “È stato spettacolare! Un successo senza pari! Questo sì che ha tirato su il morale della gente!”

Le sue parole arrivavano lontane, ovattate. Lucy poteva vedere il locale mensa, le forti luci al neon che quasi l’accecavano, eppure per un secondo si era immersa completamente nella musica e il sogno si era confuso alla realtà, lasciandola stordita.

Ma non c’erano più Barb e Maude a suonare con lei. Non c’era Billy che la pregava di rientrare nella band creando scompiglio nel locale, non c’erano le luci soffuse e odore di fumo e birra dozzinale.

Non c’era Coryo.

Il suo ragazzo della Capitale, che le aveva salvato la vita nell’Arena pagando il prezzo della reputazione e poi era venuto a reclamarla.

“... Lucy?” chiese ancora Edward.

Lucy si riscosse, sobbalzando, e sorrise alla volta del ragazzo.

“Vieni. Ti accompagno in stanza”.

Lucy lo seguì.

 

***

 

Accadde sei mesi dopo il suo arrivo.

Lucy se l’era aspettato, non poté dire di essere stata colta di sorpresa.

Anche se aveva pregato affinché non accadesse.

Si era fatta parecchi amici, Lucy Gray. Aveva portato la musica al Distretto Tredici - aveva portato la vita - e la gente si era aperta con lei come girasoli al sole.

Elizabeth, la ragazza con cui Edward aveva ballato la prima volta, si era presentata a lei già la seconda seria, chiedendole di diventare sua amica. Maria - che aveva scoperto essere la moglie di Jeremy - era più taciturna, invece, ma le sorrideva sempre e, visto che lavorava nelle cucine, le dimostrava affetto servendole porzioni generose ai pasti. Tom le aveva presentato la sua ragazza, Sarah, che lavorava al confezionamento di abiti e che si era fatta descrivere i vestiti che era solita indossare come Covey, per provare a tingere le stoffe e a replicarli per lei.

E poi c’era Edward.

Edward si era eletto suo guardiano e mentore sin dal primo giorno, prendendola in simpatia, e Lucy si era fatta trascinare dalla sua parlantina e dal suo giro di amicizie. Lui lavorava sempre come soldato durante il giorno e, con Tom, studiava con Jeremy e lo zio; poi la sera cenavano sempre tutti insieme, e infine Lucy cantava e i suoi amici ballavano con il resto degli abitanti del Distretto. E, sebbene non ci fossero mai troppe occasioni, Edward cercava sempre di passare del tempo da solo con lei, fossero anche solo i cinque minuti necessari a raggiungere la mensa dai suoi alloggi, dato che lui passava sempre a prenderla.

Quindi lei aveva visto. Aveva notato il lento e rispettoso corteggiamento di lui, e aveva pregato che bastasse il suo farsi vedere sempre sfuggente.

Non antipatica, no. Ma Lucy non parlava mai di sé - della sua vita di prima - ed evitava con cura qualsiasi situazione compromettente, svicolando con allegria ed eleganza ogni discorso troppo serio e impegnato.

Poi però Edward aveva provato a baciarla.

Erano di rientro da una delle normali serate, dopo il suo spettacolo nella sala mensa.

“Stasera sei proprio carina, Lulù” le aveva detto lui, sorridendo, mentre arrivavano in vista del suo alloggio.

Lulù era il soprannome che lui le aveva dato, dopo che una volta, per scherzo, l’aveva chiamata Lullaby , in quanto aveva detto che i suoi spettacoli erano sempre interrotti dal suono del Coprifuoco e che quindi le sue canzoni rappresentassero la perfetta buonanotte alla gente del distretto. I suoi amici avevano preso sposato quel nomignolo e a Lucy andava benissimo così - era un’altro legame stracciato, una pagina voltata nella vita che stava cercando di costruirsi qui al Distretto Tredici.

Non un rinnegare il proprio passato, quello mai. I suoi amici, la sua famiglia, le mancavano sempre e ogni sera cantare senza di loro era una pugnalata al cuore.

Ma era una sopravvissuta, Lucy Gray. L’unica cosa che sapesse fare davvero era andare avanti. E qualsiasi cosa le avesse permesso di alleggerire il fardello della sua esistenza l’avrebbe accolto a braccia aperte.

Lucy ridacchiò e cercò di allontanarsi da lui, ma Edward glielo impedì. Le prese una ciocca di capelli e gliela scostò dietro l’orecchio e il cuore di Lucy perse un battito.

Un’altra vita, un’altra persona.

Un bocciolo di rosa bianca delicatamente posato nei capelli.

Fu quello a tradirla, forse; quel lieve istante di esitazione del suo cuore straziato, che forse illuse Edward di avere una speranza. Lui si chinò verso di lei, chiudendo piano gli occhi, e la realtà tornò prepotente nella protesta che le tendeva ogni muscolo.

No.

Non è lui.

Non è Coryo.

Lucy voltò bruscamente la testa, interrompendo quel bacio sul nascere. Edward abbassò la mano che ancora le stava sfiorando i capelli.

“... Scusa” mormorò, dispiaciuto.

Lucy lo guardò di nuovo, sentendosi persino il colpa.

Ma non poteva farci nulla se il suo cuore non riusciva a lasciar andare il suo Coryo.

Nonostante tutto. Lei ancora soffriva per lui.

“... Mi dispiace” gli disse, cercando di sorridere e di ricacciare indietro le lacrime che, traditrici, le stavano pungendo gli occhi “Non sei tu, è solo… È solo…”

Ed Edward si meritava una spiegazione, davvero. Non c’era nulla di sbagliato in lui. Lui era sempre stato gentile e l’aveva sempre trattata con rispetto ed era quanto di più possibile vicino a un migliore amico, per lei.

Era lei, Lucy, ad essere rotta.

“C’è stato qualcuno, una volta” si trovò a balbettare Lucy, dopo aver deglutito più volte, cercando di ricacciare il nodo in gola “Non è… Finita bene. Però, però… Io…”

C’era un’altra immagine che bruciava, dietro ai suoi occhi.

Il volto di una neonata, capelli candidi come la neve sotto tutto quel sangue, e due occhi azzurri come il cielo terso d’estate.

“Non riesco a parlarne. Non posso parlare. Ci sono cose che, che non sai… Che nessuno… Nel mio passato…”

Edward la strinse fra le braccia e le fece posare la testa sul suo petto.

“Va tutto bene, Lulù” la interruppe “Non sei costretta a darmi spiegazioni. Non sei costretta a condividere quello che non vuoi”.

Lucy rimase in silenzio, respirando profondamente - aspirando il suo odore, cercando di calmarsi.

Edward le posò le labbra sul capo, lasciandole un lieve bacio delicato fra i capelli, e poi sorrise.

“Quando vorrai. Se vorrai confidarti. Sono qui”.

Lucy pensò nuovamente alla figlia che era stata costretta ad abbandonare; quel ricordo così prezioso e intenso che rischiava di distruggerla ogni giorno, e che aveva sepolto nei meandri più profondi della propria mente per sopravvivere.

“Potresti giudicarmi…” mormorò.

Come giustificare l’abbandono di un figlio della sua carne, del suo sangue?

Di un figlio nato dall’amore, nonostante tutto?

“Mai” le promise Edward, ardente “E, Lulù…” Edward sciolse l’abbraccio, afferrandola per le spalle e costringendola a guardarlo di nuovo in viso “Non lo dico solo perché credo di avere una qualche speranza, con te. Credimi. Io sono prima di tutto tuo amico, e lo sarò sempre. Te lo prometto”.

Edward la stava guardando così intensamente. C’era il fuoco della determinazione nei suoi occhi.

E Lucy pensò a Coryo, ai suoi pensieri ossessivi che non lasciavano mai la sua bocca, ma che lei poteva leggere dietro i suoi occhi.

“Mia”.

Capitol City l’aveva marchiata, legandola a lui. E lui non aveva fatto altro che pretendere ciò che considerava suo di diritto.

Le lacrime strabordarono, alla fine, vinte da quel paragone insensato, vinte dalla consapevolezza che, nonostante tutto, Lucy l’aveva voluto - aveva voluto essere sua. E aveva voluto che lui fosse suo, allo stesso modo.

E lo voleva.

La cosa terribile era che lo voleva ancora.

Lucy si tuffò di nuovo fra le braccia di Edward, che la strinse senza una parola, mentre lei piangeva tutte le sue lacrime.

Così diventarono migliori amici.

 

***

 

Tre anni dopo, Lucy cantò al matrimonio di Edward Coin e Elizabeth Turner.

 

***

 

Dovettero passare altri dieci anni prima che il Distretto Tredici riuscisse a intercettare le frequenze di trasmissione della tv di stato di Panem.

Decisero di inaugurare la cosa mostrando la ventiquattresima edizione degli Hunger Games, per ricordare a tutti - anche a chi, ormai, si era adagiato a una tranquilla vita sotterranea - il motivo per il quale la ribellione era solo stata messa in pausa, ma non dimenticata.

Il motivo per il quale Capitol City era sempre il nemico.

Non tutti, ad ogni modo, avevano una tv. Il Distretto ne installò una enorme nella sala mensa, dove la maggior parte degli abitanti si sarebbe potuta radunare per osservare i bambini mandati a morire dalla Capitale.

Lucy chiese a Edward di poter rimanere ospite a casa loro, invece. Non sapeva se ce l’avrebbe fatta a sopportarlo. Di certo non in mezzo a tutta quella gente.

Edward annuì, serio, quando lei glielo chiese. Elizabeth si limitò ad abbracciarla per pochi istanti e poi prese per mano i due figli piccoli, Edward Junior e Tessa, dicendo loro che sarebbe andata a casa della sorella per tenere i bambini impegnati. Erano tutti concordi sul fatto che fossero ancora troppo piccoli per confrontarsi con la realtà degli Hunger Games anche se, Lucy lo sapeva, probabilmente Elizabeth e sua sorella avrebbero fatto a turno a guardare la televisione, per cercare di comprendere appieno ciò che Lucy aveva vissuto.

Edward e Lucy rimasero soli in casa. Lui accese la tv, in silenzio, e poco dopo le immagini iniziarono a scorrere.

Gli Hunger Games erano iniziati.

C’era un altro motivo per il quale Lucy aveva voluto rimanere da sola - solo con Edward.

Lui era l’unico a conoscere il suo segreto più prezioso.

Lucy osservò la scelta dei tributi da ogni distretto, il cuore che batteva sempre più forte, in trepidante attesa.

Poi fu il turno del Distretto Dodici.

Già solo rivedere la piazza fu una pugnalata al cuore. Un luogo che le era così famigliare e così estraneo nello stesso tempo.

Così tanti anni passata lontana.

Lucy scivolò giù dal divano, allungandosi verso la televisione, afferrandola con entrambe le mani.

La cercava, fra la folla - affamata.

“La vedi?” le sussurrò Edward, che si era messo accanto a lei.

Non c’era bisogno che specificasse chi. C’era una sola persona in quella piazza che poteva interessare Lucy così tanto.

Sempre che sia ancora viva. Sempre che non sia morta di una qualche malattia. O, peggio, estratta in uno dei precedenti Giochi.

E poi la vide.

Era inequivocabile, a posteriori.

Così bella, così diversa da tutti gli altri. Pelle diafana, capelli così biondi da sembrare bianchi, e occhi del colore del cielo terso d’estate.

“Eccola” pigolò Lucy, quasi strozzandosi con il nodo che le era sorto in gola. Si sforzò di ingoiare le lacrime perché non poteva permettersi che la sua visione fosse distorta da esse, non in quel momento.

Avrebbe pianto dopo.

La indicò sullo schermo, approfittando dell’inquadratura fissa. Un minuscolo viso in mezzo alla folla.

Una ragazza come tante.

Lui l’avrebbe vista? Avrebbe capito? E come avrebbe potuto? Anche se…

“Non ti somiglia per niente” mormorò Edward al suo orecchio destro. Lucy scoppiò a ridere, isterica.

… Lei, Katniss, la sua bambina, era la copia sputata di Coryo.

“... È tutta suo padre” mormorò Lucy, cercandola di nuovo fra la folla mentre le inquadrature cambiavano.

Nonostante tutto non era stata abbastanza forte da confidare la sua identità a Edward.

Lui sospirò, affranto.

“Vorrei che avessimo le risorse per salvarla” le disse ancora, abbracciandola. Lucy poggiò la nuca sul suo petto, facendosi cullare “Vorrei che avessimo il potere di salvarli tutti”.

I nomi erano stati estratti.

Sua figlia era stata risparmiata.

Lucy chiuse gli occhi, abbandonandosi fra le braccia di Edward mentre le telecamere si concentravano sui due ragazzini sfortunati, che erano appena stati condannati a morte.

“Lo so, Edward” gli rispose, in un sussurro “Lo so”.

Non c’era altro da aggiungere.

Lucy rimase in casa Coin per due settimane, il tempo degli Hunger Games di avere fine. Elizabeth restò da sua sorella con i bambini. Edward la lasciava sola solamente per il tempo necessario a procurarsi il cibo dalle cucine.

Ogni attività non necessaria era stata sospesa, come se l’intero Distretto stesse trattenendo un collettivo respiro, immerso nell’orrore degli Hunger Games.

Li avevano trasformati.

I semi di ciò che erano stati piantati durante i decimi giochi erano germogliati in modo perverso, riempiendo di farsa l’orrore. Una parata celebrativa, costumi colorati e parrucche estrose. Interviste televisive, un pubblico inquadrato che rideva. Previsioni e scommesse fatte in pubblica piazza sulla vita di bambini innocenti. I distretti Uno e Due che avevano inaugurato da poco delle Accademie di addestramento dove i ragazzi potevano allenarsi per poi offrirsi volontari.

In quanto di questo c’era la mano di Coryo?

Lui non lo vide mai. Ne aveva avuto paura, all’inizio, Lucy.

Paura e speranza, e senso di colpa.

Edward era accanto a lei e sopportava gli orrori di quella nuova arena, di quegli orridi ibridi di Capitol City, tremando mentre la stringeva fra le braccia.

Era come se fosse lui ad aver bisogno di conforto, e non il contrario.

Lucy Gray continuava a fissare lo schermo, incapace di distogliere lo sguardo, ma allo stesso tempo in un certo modo distaccata da tutto ciò che stava avvenendo.

Non poteva pensare ai Tributi come persone. Non ce la faceva, non quando sapeva che sarebbero morti tutti, in un modo o nell’altro.

Non riusciva, non quando davanti agli occhi aveva l’ombra di un fantasma, un affascinante ragazzo in divisa rossa che sorrideva e la sfiorava; che le consegnava un portacipria pieno di veleno per consentirle di sopravvivere.

Le braccia di Edward erano forti e salde attorno alla sua vita, la tenevano ancorata alla terra - ed erano così meravigliosamente sbagliate.

Gli Hunger Games si conclusero, alla fine.

Elizabeth tornò a casa in lacrime, abbracciandola stretta per quasi un minuto intero, mentre i bambini correvano dal loro papà a raccontargli delle avventure trascorse a casa della zia.

Lucy si sentiva svuotata. A parte Edward, Elizabeth, Thomas e Jeremy, erano in pochissimi a conoscere il suo passato negli Hunger Games. Persino il suo nome - che il sindaco del Distretto Dodici aveva pronunciato, identificandola come ex vincitrice - non era noto ai più, che nel corso degli anni si erano sempre rivolti a lei come Lullaby o Lulù.

Era un fantasma, Lucy Gray. Non più del tutto viva, ma neanche morta.

“Mi dispiace” sussurrò Elizabeth al suo orecchio, ardente, prima di lasciarla andare e asciugarsi le lacrime. Lucy le indirizzò un tremolante sorriso.

Tornò a casa, per permettersi finalmente di poter crollare in solitudine nel proprio letto.

Dietro alle palpebre chiuse e colme di lacrime il volto di Katniss Gray Snow, la sua bambina, il suo più grande rimpianto .

 

***

 

La sera dopo, Lucy tornò a cantare.

Gli abitanti del distretto la ascoltarono e ballarono con lei, in silenzio.

Dietro i loro occhi si era riaccesa la fiamma della ribellione .

 

***

 

Edward aveva tirato un pugno al muro, dandole le spalle.

“Vorrei poter fare di più” le disse, non per la prima volta, frustrato e colmo di rabbia.

Erano appena finiti i ventinovesimi Hunger Games.

L’ultima occasione per poter vedere, anche solo per un istante, il volto di sua figlia in mezzo a una folla.

“Vorrei che non ci fossimo arresi” aggiunse sottovoce.

Lucy gli posò una mano sul braccio.

“Se non l’aveste fatto, nessuno di noi sarebbe stato vivo”.

La scoperta che il Distretto Tredici era stata la culla dell’industria militare di Panem era vecchia di anni, ma ancora bruciava, per Edward. Lucy lo sapeva.

Così come sapeva che una guerra nucleare non avrebbe comunque portato a niente di buono.

Lucy non incolpava il Distretto Tredici di aver scelto un accordo con Capitol City.

Aveva fatto solo ciò che doveva per sopravvivere e, questo, Lucy lo capiva fin troppo bene.

 

***

 

E poi il suo mondo si capovolse ancora.

Non poteva dire di non esserselo aspettata, questo no, alla fine. Era solo che aveva scelto di ignorare quel tarlo, quel dubbio che le si era insinuato dentro sin da quando aveva sentito gli annunci di Capitol City in merito all’elezione del nuovo presidente di tutta Panem.

Si era ritrovata di nuovo a casa Coin, stavolta in mezzo alla gente. Non solo la sorella di Elizabeth con la famiglia  ma anche i vicini di casa con i bambini. Il piccolo Eddie stava rincorrendo Alma attorno al tavolo mentre Elizabeth cercava di calmare i loro animi, ma Lucy quasi non se ne rendeva conto.

Niente era importante se non la sensazione che l’aveva colpita quando l’aveva visto sullo schermo. Come uno schiaffo in faccia in pieno volto, che le aveva tolto il respiro.

Lucy era in piedi di fronte alla televisione, gli adulti attorno a lei mormoravano sottovoce e sgridavano i bambini, ed Edward era stato il solo ad accorgersi che qualcosa non andava - come sempre.

L’aveva raggiunta.

Lucy aveva la bocca leggermente socchiusa e lo sguardo perso - perso in un volto che non riconosceva più, anni passati e quasi cancellati sulla perfezione della sua pelle liscia. Una stupida barba curata e i capelli più corti di come li aveva visti la prima volta; niente più riccioli d’oro ad incorniciargli il volto ma neanche il taglio rasato del soldato che era venuto da lei nel Distretto Dodici.

Gli occhi.

Solo i suoi occhi tersi, color del cielo d'estate, e le infinite bugie che, si rese conto, poteva leggergli ancora dentro.

Coryo.

Che sorrideva nascondendo il disgusto per la folla e macerando soddisfazione per il sogno realizzato.

Perché Lucy l’aveva sempre saputo. Coriolanus Snow era un cittadino nell’animo, fin dentro al midollo.

Lulù ”.

Neanche il sussurro di Edward riuscì a riportarla alla realtà. Neanche le sue braccia strette attorno alle spalle, il suo mento nei suoi capelli.

“... Lo vedi?” gli chiese soltanto.

Sapeva che lui avrebbe capito. Lui era l’unico, dopotutto, a conoscere il volto di sua figlia.

Il volto di Coryo, dalla linea dritta del naso alle labbra piene, e persino gli stessi colori.

“... Oh, Lulù” mormorò sulla sua testa, affranto.

Nessuno degli altri si era accorto di nulla, e Lucy si impose di non crollare.

Non ancora.

Non ancora.

Rimase così, in piedi, mentre Edward la stringeva, a fissare lo schermo e ad imprimersi il volto di lui nella mente.

 

***

 

Edward l’aveva trascinata via alla fine delle trasmissioni, discreto, con solo una fugace occhiata a Elizabeth. L’aveva riportata nei suoi alloggi e Lucy si era fatta trascinare - si sentiva febbricitante.

Lui aveva chiuso la porta alle loro spalle e si era girato a guardarla e lei era crollata.

Edward l’aveva subito stretta fra le sue braccia, sorretta e poi accompagnata gentilmente a terra, e Lucy si era aggrappata a lui come se ne andasse della sua stessa vita.

Coryo.

Ogni muro, ogni argine nella sua mente crollato, mentre il ricordo di lui la inondava con la forza di uno tsunami.

“Lulù” mormorò Edward, cullandola fra le braccia, mentre Lucy si sentiva tremare e cercava disperatamente di respirare. I suoi polmoni non collaboravano.

“T-tu non c-capisci” balbettò, fra un respiro spezzato e l’altro “L-lui era il mio m-mentore”.

Una verità taciuta così a lungo.

Coryo e i suoi sorrisi, quel ragazzo crudele e paranoico e ancora pieno di promesse, ancora salvabile attraverso l’amore, che il presidente Snow era riuscito ad ammazzare.

Lucy riuscì a tornare a respirare le le lacrime invasero i suoi occhi.

“N-non era ancora pronto” si ritrovò a dire, spiegando senza di fatto spiegare niente, mentre Edward continuava a stringerlo “I ribelli ci hanno forzato la mano. Io s-sapevo che n-non era ancora pronto. Ma non avevamo alternative”.

Iniziò a singhiozzare, affondando il volto nel petto di Edward, ricambiando finalmente l’abbraccio e stringendolo come se ne andasse della sua stessa vita.

Non si era mai illusa, Lucy Gray. Sapeva che il suo ragazzo di città non era fatto per la vita del Distretto… Men che meno per la vita da fuggitivo, nei boschi.

Lui, Coryo, colui che non era stato in grado di sceglierla se non quando aveva perso tutto il resto; lui, estraneo all’amore e per questo da esso spaventato, che lei stava pian piano curando, piantando i semi della giustizia, guidandolo verso la persona che avrebbe potuto essere.

Lui, la rabbia nascosta dietro quegli occhi tersi come il cielo d’estate, costretto a scappare, così nervoso da mentirle - non poteva perderla, non poteva perderla a nessun costo, poiché lei era l’unica cosa che gli fosse rimasta -, esploso nel momento in cui aveva visto un’alternativa e lei era sfuggita alla sua presa.

“L-la cosa p-peggiore” confidò Lucy, non appena i singhiozzi si calmarono “È c-che io l’avrei s-seguito” confidò, osando rivelare ad alta voce il suo più profondo tradimento “I-io l’avrei s-seguito” ripeté, tornando a piangere senza alcun freno.

Perché era questa la cosa veramente terribile.

Lucy sapeva che lui gliel’avrebbe chiesto, alla fine. Se non ci fossero stati i ribelli, se Sejanus non fosse morto in quel modo - ucciso, impiccato, infettandolo con la paura per via del fucile che lui aveva toccato e che era scomparso, lasciandolo nel terrore che venisse ritrovato dai Pacificatori, che quello sarebbe stato anche il suo destino - Lucy lo sapeva… Sapeva che Coryo sarebbe voluto andare a casa .

Che la sua vita era nel posto in cui lui sentiva di avere diritti, in mezzo all'élite di Capitol City. E che forse neppure i vent’anni previsti dalla sua pena - la punizione che aveva ottenuto per averle salvato la vita - sarebbero stati in grado di spegnere quel desiderio, quella necessità di rivalsa, di imporsi in un mondo che lo stava schiacciando, di reclamare l’eredità del proprio cognome.

E allora Lucy avrebbe dovuto compiere una scelta e, in cuor suo, lei sapeva di averlo già fatto. 

Anche se fosse finita nella gabbia dorata di Capitol City - perché sarebbe stata una gabbia, su questo non si era mai fatta illusioni - sarebbe potuta stare con Coryo e questo tanto bastava. Anzi . Avrebbe limato la rabbia che gli vedeva negli occhi, con pazienza e con amore, e l’avrebbe convinto, dopo che lui avesse conquistato ogni cosa, a sbarazzarsi degli Hunger Games.

Lui l’avrebbe fatto. Per lei, lo avrebbe fatto, alla fine.

Se solo lei avesse avuto il tempo di insegnargli ad amare.

“L-lui ha barato” continuò Lucy, stringendosi sempre di più ad Edward “P-per me. M-mi ha fatto uscire viva dall’arena”.

Lei era l’unica debolezza di Coryo e questo Lucy lo sapeva.

E l’avrebbe sfruttato. L’avrebbe sfruttato per renderlo una persona migliore.

Il sogno proibito le esplose dietro gli occhi chiusi: lei, Coryo, la loro piccola Katniss. Una bambina che avrebbero potuto crescere insieme, in una delle case leziose della Capitale.

Panem, un mondo più giusto.

Coryo che avrebbe fatto di tutto per lei, per loro, la sua famiglia… Che avrebbe guidato la nazione con compassione, facendola davvero risorgere dalle proprie ceneri.

Il ragazzo che, nonostante la fame, aveva rinunciato a un panino e a un biscotto per darli a lei.

“Sono passati quasi vent’anni” mormorò Edward, continuando a stringerla e accarezzare la schiena “Le persone cambiano. Peggiorano. Ci tradiscono, alla fine”.

Lucy scosse la testa, ma era incapace di rispondere.

Era incapace di fargli capire come lei avesse scelto di amarlo nonostante vedesse bene che tipo di pensieri si annidassero nella mente di Coryo.

Incapace, nonostante tutto, di confessare che se Coryo l’avesse trovata domani, lei l’avrebbe seguito lo stesso.

Lei l’avrebbe seguito, anche se lui era ormai oltre la salvezza.

Debole, schiava del proprio cuore. Di quell’amore che non si era mai spento.

Aveva già scelto la libertà una volta, e dove l’aveva portata questo?

A non vedere più la luce del sole. Chiusa in una tomba, morta, come Coryo ormai immaginava che lei fosse.

A Lucy Gray non rimase che piangere, e farsi cullare da Edward, fino a che la stanchezza non arrivò a reclamarla, chiudendole gli occhi.

Facendole, ancora una volta, sognare il suo ragazzo di città e le possibilità infinite che aveva rappresentato, prima che facesse tutte le scelte sbagliate… Senza di lei.

Senza di lei.

 

***

 

Il giorno dopo, rimasta ormai sola, Lucy prese un diario vuoto che le era stato regalato da Elizabeth il suo scorso compleanno. Alzò la penna e fissò la prima pagina bianca, raccogliendo le idee.

E iniziò a scrivere le proprie memorie.

 

“I know the soul that you struggle to save

Too bad I’m the bet that you lost in the reaping

Now what will you do when I go to my grave?”

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Capitolo 5
*** The sweetest thing that ever grew ***


“She is a living child

That you see sweet Lucy Gray”

 

Prim era finalmente riuscita ad afferrare Ranuncolo, che si era nascosto dietro alcune tubature in un locale in disuso del Distretto Tredici. Lui aveva soffiato, e ringhiato, e poi si era arreso, lasciandola fare e lasciandosi stringere fra le sue braccia.

“Se ti incastri un’altra volta, perdipiù in un luogo così lontano e solitario, morirai di fame prima che qualcuno ti trovi” lo aveva sgridato, gentile.

Ranuncolo si era limitato ad un borbottio di protesta… Prima di iniziare a fare le fusa fra le sue braccia.

Prim sospirò. Quel gatto era impossibile - ma era la sola cosa rimasta del suo Distretto, ad esclusione della mamma e di Katniss, e lei avrebbe continuato a salvarlo a qualunque costo.

“Non posso essere dappertutto” sussurrò ancora, mentre tornava indietro, cercando di ricordare dove dovesse andare per tornare alla civiltà “Ho del lavoro da fare”.

Poi aveva sentito la melodia.

Si era fermata, Prim, incredula e curiosa, e poi si era fatta guidare dalle note.

Era la canzone che suo padre cantava sempre a sua madre. La più bella canzone d’amore della sua famiglia, speciale e proibita; un segreto da condividere solo fra Everdeen.

Chi poteva conoscerla, e cantarla, lì nel Distretto Tredici?

Prim arrivò ad un piccolo alloggio. La porta era aperta e lei rimase in silenzio ad osservare la donna con la sua chitarra.

Era vecchia - così vecchia! Il volto era scavato di rughe e i lunghi capelli argentei le ricadevano sulle spalle, coprendo uno scialle colorato e pieno di perline.

Aveva gli occhi chiusi e cantava a bassa voce, e Prim la stava ascoltando, incantata. Persino Ranuncolo aveva smesso di fare le fusa per non disturbarla.

 

“It’s why

I trust you

You’re as pure as the driven snow”

 

La donna finì di cantare e aprì gli occhi ed esitò appena, sorpresa di vederla lì dinanzi a lei. Prim arrossì.

“Mi scusi” le disse “È solo che… Quella è una canzone di famiglia, e io mi chiedevo… Come fa a conoscerla?”

La donna sorrise.

“Davvero?” chiese, facendole cenno di accomodarsi accanto a lei. Prim si sedette.

“È proibita” spiegò “Mio padre la cantava sempre a mia madre. Era la mia preferita”.

“... Capisco” rispose lei, in un sussurro “Tu sei Primrose Everdeen, vero?”

Prim annuì, e la donna si aprì in un sorriso luminoso.

“Il mio nome è Lucy Gray Baird” si presentò “Forse l’hai già sentito. E io sono l’autrice di questa canzone”.

Lucy Gray Baird.

Certo che aveva sentito quel nome. Lo sentiva ogni anno, durante la cerimonia della Mietitura. Ma…

Davvero?! ” chiese, incredula “Credevo che fosse morta!”

Lucy rise.

“Talvolta penso che dovrei esserlo anch’io” le rispose, divertita “Eppure eccomi qua. Il Distretto Dodici mi ha creduto morta per molto, molto tempo… In realtà, sono solo fuggita. Il Tredici mi ha accolto”.

Prim la fissò per un altro lungo, incredulo istante.

“... E perché la sua canzone è proibita, allora?”

“Diamoci del tu, ti va?” le propose lei, e Prim annuì. Lucy stava continuando a sorridere ma un’ombra di tristezza era scesa sui suoi occhi “Posso immaginare il perché” rispose infine “In realtà, è scritto nero su bianco nel testo. Ma nessuno può capirlo, se non sa dove guardare”.

Prim non sapeva cosa rispondere a questo; aveva ancora mille domande per la testa, voleva che lei approfondisse… Ma Lucy la anticipò.

“Hai detto che è una canzone di famiglia, giusto? Me ne parli, Primrose Everdeen?”

Ranuncolo si agitò fra le sue braccia e Prim lo lasciò andare. Lui si accomodò meglio sulle sue gambe, arrotolandosi e mettendosi a dormire, e Prim iniziò ad accarezzarlo, sovrappensiero.

“Beh, conoscerai già mia sorella, Katniss” cominciò Prim, e Lucy annuì “Lei somiglia tanto al papà. Era lui a cantarci le canzoni, aveva una voce tale che persino gli uccelli si fermavano ad ascoltarlo” Prim alzò lo sguardo, persa nei ricordi “È morto in un incidente in miniera quando avevo solo sette anni. Talvolta ho paura di dimenticarmi di lui, io… È difficile, la memoria mi sembra scivolare via. Però quando Katniss canta sento che lui è ancora qui con noi”.

“Mi dispiace per la tua perdita” disse Lucy, dolcemente “Katniss dev’essere una sorella meravigliosa”.

Prim sorrise, illuminandosi tutta.

“Lo è! Lei è la migliore, si è sempre presa cura di noi. Cacciava nei boschi… Ha sempre trovato modo di darci da mangiare, a me e alla mamma” arrossì appena, rendendosi conto di aver detto forse troppo, ma Lucy continuava a sorridere, tranquilla “Sai, lei stava male… È stata male, dopo che papà è morto. Ma ora va meglio”.

Lucy annuì.

“Parlami della famiglia da cui vengono queste canzoni” le disse ancora “Cosa sai della storia di tuoi papà? E dei tuoi nonni? Anche… Anche quelli di tua mamma. Come si chiama?”

“Lilian” rispose Prim “L’hanno chiamata come la sua nonna, così lei ha chiamato Katniss come sua madre quando lei è nata, così ci ha sempre detto”.

Il labbro inferiore di Lucy tremò e Prim si sentì per un istante confusa, senza capire.

“È molto bello” rispose infine lei “Tua mamma le somiglia come tu somigli a lei?”

“Non l’ho mai conosciuta” rispose Prim, grattando fra le orecchie di Ranuncolo “Ma mi hanno sempre detto così, anche se a quanto pare la nonna aveva i capelli persino più chiari dei suoi… Dei nostri. Abbiamo gli stessi occhi, però” Prim fece una piccola pausa, raccogliendo le idee. Si sentiva tranquilla a parlare con quella donna, e cose che non aveva mai detto a nessuno scivolavano fuori dalla sua bocca senza che quasi se ne accorgesse “Sai, la mamma era la ragazza più bella di tutto il Distretto, così dicevano. Avrebbe potuto avere un’altra vita, un po’ più facile, era figlia dei farmacisti… Però poi un giorno ha sentito il papà cantare e si è innamorata”.

Lucy distolse lo sguardo da lei e lo rivolse al soffitto, sovrappensiero e assorta, le labbra leggermente socchiuse.

“... Capisco” disse infine, in un sussurro “Lo posso proprio immaginare. E tuo padre? Le canzoni?”

Prim sorrise, i ricordi alle lunghe sere estive della sua infanzia; per qualche tempo loro avevano frequentato la casa dell’unica nonna che avesse mai conosciuto, assieme a qualche zio e cugino con cui, purtroppo, data anche la differenza d’età, non era più rimasta in contatto, dopo la morte della nonna.

“Mia nonna si chiamava Maude” rispose quindi “Ho ancora meno ricordi di lei che di mio padre, ero troppo piccolina. Però ricordo che profumava sempre di buono e anche lei canticchiava in cucina, cucinando la cena. Una volta ci disse che la nostra famiglia era una famiglia di musicisti e che il dono della musica ce lo portiamo nel sangue”.

“... Maude” commentò Lucy, la voce leggermente spezzata “La conoscevo. Era mia cugina”.

Prim spalancò gli occhi.

Davvero?! ” esclamò, irritando Ranuncolo, che soffiò “Allora siamo… Parenti? Sei una specie di prozia?!”

Lucy sorrise ancora.

“Forse qualcosa di più” mormorò in risposta; poi alzò una mano ad accarezzarle una guancia “Hai proprio dei bellissimi occhi, lo sai? Azzurri come il cielo terso d’estate”.

Prim arrossì, imbarazzata dal complimento.

“Beh, almeno adesso sai come mai le mie canzoni sono di famiglia” continuò Lucy, più allegra, togliendola da quell’impasse fatta di vergogna.

“Non vedo l’ora di dirlo a Katniss” mormorò Prim, gli occhi accesi di entusiasmo.

“Oh, no, Primrose” commentò Lucy “Non penso sia il momento adatto, con la guerra e tutto il resto. Tua sorella ha molto a cui pensare, ora”.

Lo sguardo di Prim si adombrò e lei abbassò la testa, pensierosa.

“... Già. La guerra”.

“Ho saputo che ieri c’è stato il matrimonio di Finnick Odair e Anna Cresta, che è stato mandato in diretta nazionale”.

Prim annuì, seria e pensierosa.

“Pensi che riusciremo a vincere questa guerra, Lucy? Io ho tanta paura… Tanta paura per mia sorella”.

Lucy distolse lo sguardo da lei e si morse il labbro inferiore. Prim la sbirciò di sottecchi.

“Il presidente Snow è messo alla strette e la situazione non gli piace” rispose infine “Perché le bombe, altrimenti? È come tentare di ammazzare le Ghiandaie Imitatrici con un fucile. Lui non è in sé” concluse, in un mormorio così basso che Prim dovette sforzarsi per sentire.

Poi Lucy si rivolse di nuovo a lei, sorridendo luminosa.

“Primrose!” esclamò, entusiasta “Sei stata preziosa. Mi hai fatto riflettere, e mi è venuta un’idea”.

“Davvero? Quale?” chiese Prim, instupidita.

Lucy si alzò in piedi.

“Devo parlare con la presidentessa Coin e anche con… Beetee, mi pare si chiami. Vedi, io so dove Snow ripiega, ogni volta che pensa di aver perso tutto. Forse possiamo ancora evitare la parte peggiore della guerra”.

Anche Prim si era alzata in piedi, prendendo Ranuncolo fra le braccia. Lucy stava per uscire dalla stanza, sempre stringendo la sua chitarra, e Prim sentì che qualcosa rimaneva non detto fra loro - sospeso .

“Lucy Gray!” la richiamò “Non mi hai ancora spiegato bene perché la tua canzone è proibita” si sentì quasi stupida a pronunciare quelle parole, ma pensava… Aveva questa sensazione che se l’avesse lasciata andare via non avrebbe più avuto occasione di parlarle.

Lucy le rivolse un sorriso luminoso.

“Te ne parlerò alla fine della guerra, Primrose Everdeen” rispose, solenne “Questa è una promessa. Quando tutto sarà finito torna a cercarmi… Avremo tante cose da dirci”.

Prim annuì, e Lucy uscì dalla stanza a passo svelto, quasi troppo veloce per tutti gli anni che si portava addosso.

Ranuncolo si agitò ancora una volta nella sua presa, soffiando.

“Oh, andiamo” lo rimproverò Prim, uscendo anche lei dalla stanza per tornare verso l’alloggio che condivideva con la mamma e Katniss “Fai il bravo. Devi smetterla di scappare, capito?”

Ranuncolo emise un ringhio soffocato, ma smise di agitarsi, facendosi portare via.

Prim pensò a Lucy Gray, chiedendosi cosa fosse l’idea che aveva avuto per aiutare nella guerra - e ripensando alla sua canzone d’amore, canticchiandola nella mente, alla ricerca del significato nascosto scritto nel testo che, a quanto pare, le era sempre sfuggito.

Rifletté e rifletté ma, una volta giunta agli alloggi e liberato Ranuncolo, non era ancora arrivata a nessuna conclusione.

“Siamo in ritardo, Prim” la sgridò sua madre. Era vero, avrebbero dovuto essere in infermeria già da dieci minuti.

Prim accantonò la questione della canzone, perché ormai aveva altri pensieri, ben più urgenti di un indovinello.

Oh, beh.

In un modo o nell’altro presto la guerra sarebbe finita, e lei avrebbe potuto parlare di nuovo con Lucy Gray, trovando risposta a ogni sua domanda.



“She dwelt when non abide

The sweetest thing that ever grew”

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Capitolo 6
*** I'm comin' like a storm in to your town ***


“There’s snow fallin’ over the city

You thought that it would wash away

The bitter taste of my fury

And all of the messes you made”

 

Coriolanus Snow stava osservando i monitor, chiuso nella parte più protetta del suo palazzo, circondato solo dai suoi generali e strateghi più fidati… E Rose, la sua piccola Rose che, spaventata, si aggrappava alla balia.

Non stava andando bene.

Snow lanciò alla nipote un’occhiata pensierosa, serio come non mai.

C’era solo una cosa a cui Coriolanus Snow tenesse più della sua posizione come presidente di Panem - del suo status, della sua ricchezza, di ciò che aveva accumulato con sforzo e ingegno e veleno durante tutti quegli anni - ed era sua nipote, Rose Snow.

Se ne era sorpreso, all’inizio. Per suo figlio non aveva affatto avvertito tutto quel trasporto… Forse perché l’aveva creato artificialmente, quasi quarant’anni prima, e l’aveva sempre considerato al pari di uno dei suoi ibridi; utile a uno scopo, le generazioni che avanzano e gli Snow sempre in cima, ma così somigliante a lui e per questo più distaccato, lui spettatore impassibile della vita che aveva creato.

L’aveva scelto selezionando gli embrioni con un processo di analisi genetica per escluderne ogni difetto e poi suo figlio aveva avuto comunque la malaugurata idea di farsi saltare in aria in un banale incidente in auto, e l’unica cosa che si era salvata - che Snow aveva salvato, strappandola dal ventre della sua madre morente - era stata quella nipote che, forse per il fatto di avere i colori tutti sbagliati, forse per le vecchiaia che avanzava anche in lui, Snow non era riuscito a non amare.

Aveva voluto amarla. Proteggerla, darle ogni cosa che, a lui, era stata negata durante l’infanzia terribile che aveva vissuto.

Così Snow era preoccupato. La guerra non stava andando bene, i Ribelli premevano contro la Capitale continuando la loro invasione, e lui, a questo punto, temeva solo per la vita della sua bambina.

Gli strumenti militari impazzirono all’improvviso, per un secondo, perdendo la frequenza, generando il panico.

Poi una voce squillante uscì dagli altoparlanti.

“Questo è un messaggio per Coriolanus Snow” e il suo cuore perse un battito, ma non era possibile, non era… “... Coryo, ascolta attentamente”.

Lucy Gray Baird.

I suoi uomini erano ancora in panico, cercando di interrompere quella trasmissione anomala.

“Fermi tutti!” esclamò Snow, autoritario, contenendo il panico “Fatemi ascoltare”.

Era un fantasma tornato a tormentarlo.

Non credeva che fosse possibile. Non credeva che fosse viva.

Tutti questi anni…

Aveva seppellito la speranza nel fondo del suo cuore, affogandola nel veleno.

E poi le note iniziarono a suonare.

Ovviamente. Lucy Gray avrebbe cantato per lui, come sempre.

E Coriolanus Snow - Coryo, Coryo, urlava Lucy Gray nella sua testa - rimase ad ascoltare, chiudendo gli occhi mentre le parole lo invadevano.

 

“Oh, you think I’m gone ‘cause I left

But I am the trees, I’m in the breeze

My footsteps on the ground

You see my face in every place

But you can’t catch me now”

 

Ed era di nuovo nel bosco, una vita prima. Come nella canzone. Lucy Gray negli alberi, nella brezza. La sua faccia ovunque si voltasse, a tormentarlo.

E lui che l’aveva cacciata, che l’aveva uccisa in un raptus; lei, per sempre perduta.

Lontana.

Da seppellire nel fondo del suo petto, assieme alla urla; nascosta insieme ai ricordi più preziosi.

Eccetto che ora stava cantando, e la sua voce invadeva ogni anfratto, risvegliando parti di lui che credeva ormai perdute.

Era normale che il suo cuore battesse così forte, nonostante tutto?

Era normale, nel mezzo di una guerra che stava perdendo, essere eccitato come un ragazzino solo ascoltandola cantare?

 

“You can’t you can’t catch me now

I’m comin’ like a storm in to your town

You can’t you can’t catch me now

I’m higher than the hopes that you brought down”

 

Lucy Gray, Lucy Gray.

Oh, Lucy Gray.

Gli stava davvero dicendo quello che lui stava pensando? Aveva capito bene, Coriolanus Snow?

Lei sarebbe venuta da lui?

E sarebbe stata una sua scelta, questo era chiaro. Lui non aveva potuto prenderla, ai tempi. L’aveva perduta.

Uccisa… O lasciata libera?

Perché Lucy Gray era così. Era la personificazione della speranza… Una speranza in cui anche lui aveva creduto, durante gli Hunger Games in cui le aveva fatto da mentore.

Una speranza che aveva tentato di reclamare, di contenere; lei era sua, e per questo non avrebbe dovuto brillare così tanto in mezzo alla folla.

Aveva cercato di imbrigliare Lucy Gray al suo solo uso e consumo, Snow, e così facendo l’aveva fatta scappare - era diventato un assassino per l’ennesima volta . Il suo cuore era franato su se stesso alimentato dalle stesse paure e dai pensieri ossessivi che avevano da sempre caratterizzato la sua vita… E lui aveva perso.

L’unica volta in cui aveva perso davvero.

Quello di cui era stato certo fino ad allora era il fatto che lo spirito di lei fosse tornato a tormentarlo, alla fine. Con la ragazza di fuoco, con gli Star-crossed lover del Distretto Dodici, con quelle dannate Ghiandaie Imitatrici e persino con le sue stesse canzoni.

Ciò che non sperava, invece, era che Lucy Gray fosse ancora viva.

Era viva per lui?

 

“Yeah, sometimes the fire you founded

Don’t burn the way you’d expect

Yeah, you thought that this was the end”

 

L’ultima nota vibrò e i suoi uomini tornarono a parlare.

“Presidente Snow, i Ribelli…”

“Presidente, abbiamo di nuovo il controllo sulle telecomunicazioni”.

Snow alzò un dito indice, zittendo di nuovo tutti.

Ah-ah ” li rimproverò, nascondendo l’irritazione dietro una calma apparente, come era solito fare “Non avete sentito? Non è la fine. Ascoltate”.

E le note ripresero a risuonare dagli altoparlanti.

Snow, questa volta, conosceva la canzone.

Scoppiò a ridere, di incredulità o di sollievo, non l’avrebbe saputo dire, mentre una scarica di emozioni lo scuotevano da capo a piedi. Si ritrovò a tossire e a cercare freneticamente il fazzoletto bianco nel taschino della giacca, coprendosi la bocca e impedendo al sangue di spargersi ovunque.

Quel sangue, le piaghe in bocca a seguito dei veleni, che aveva considerato il prezzo equo da pagare per la sua scalata al successo.

Il sangue di Lucy Gray sulla lingua a ricordargli ogni giorno cosa aveva sacrificato… A spronarlo per far sì che ne valesse la pena.

Snow si riprese dall’attacco di risa e mise via il fazzoletto, aprendo finalmente gli occhi.

“Ah, Lucy Gray” mormorò, ardente.

I suoi uomini lo fissavano, sbigottiti e confusi e anche leggermente intimoriti.

“Tu” ordinò a uno dei soldati, che scattò sull’attenti “Vai a cercare una delle mie cameriere. Ordinale di preparare il mio vestito migliore”.

“Il v-vestito, presidente?” balbettò l’uomo, strabuzzando gli occhi.

Snow sorrise, divertito. Non c’era più nessun punto da mantenere nel rimanere impassibile - la recita era finita, questo Lucy Gray gli stava dicendo.

Finalmente.

Finalmente.

“Esatto, il vestito” confermò, ignorando poi il soldato e dirigendosi verso una delle pareti, dove un enorme quadro astratto faceva bella mostra di sé. Snow premette qualche pulsante su di uno schermo invisibile e questo scomparì, rivelando una piccola cassaforte incassata, che Snow aprì senza alcuna esitazione.

Conteneva solo una piccola chiavetta. Snow la prese.

“... Presidente?” si azzardò uno dei suoi generali, mentre la canzone di Lucy Gray continuava in sottofondo “Cosa dobbiamo fare?”

Snow si girò verso di lui - verso i suoi uomini.

Sugli schermi poteva vedere la guerra, l’avanzata dei Ribelli, il fumo avvolgere la sua città e la folla di cittadini impauriti che si stava radunando appena fuori dai cancelli della sua villa.

“Beh, mi sembra ovvio” rispose Snow, sempre allegro “Abbiamo perso, i Ribelli stanno vincendo. Ci arrendiamo. Limitiamo le perdite di vita umana”.

 

“It’s why

I trust you

Your as pure as the driven snow”

 

Non aveva più senso combattere. Non quando Lucy Gray gli aveva appena dato un appuntamento… E gli stava dicendo, ancora una volta, che lo amava.

Lo amava ancora. Nonostante tutto.

“Nonno?”

La sua piccola Rose aveva gli occhi spalancati, spaventata. Snow fu subito al suo fianco e le accarezzò una guancia, sorridendo.

“Ti ricordi la treccia che ti piaceva tanto? Quella di Katniss Everdeen?”

Rose annuì.

“Falla di nuovo. Poi resta accanto a Emily” continuò, indicando con un cenno del capo la balia “I ribelli hanno iniziato la guerra perché non volevano che Capitol City mandasse a morire i loro bambini. Sono certo che, se ti arrendi, non ti faranno del male, amore mio”.

Lucy Gray non glielo avrebbe permesso mai.

Snow non aveva intenzione di rifare due volte lo stesso errore.

Si sarebbe fidato.

Stavolta si sarebbe fidato della sua ragazza, della sua Lucy Gray.

La canzone finì e Snow andò verso i monitor di comando. I suoi generali stavano già mandando l’ordine di arrendersi ai soldati che ancora combattevano.

“C’è modo di mettersi in contatto con il Distretto Tredici?” chiese, al suo informatico più abile “Mandare un messaggio al luogo da cui hanno trasmesso?”

L’uomo annuì, e gli porse un microfono. Premette alcuni tasti e gli fece cenno che poteva parlare.

“Qui parla il presidente Snow” disse quindi, forte e chiaro “La guerra è finita. Avete vinto. Capitol City si arrende” fece una piccola pausa, raccogliendo le idee, e la frase successiva gli uscì carica di una nota vibrante di emozioni che, ne era certo, solo lei avrebbe colto - e compreso “Lucy Gray, ti sto aspettando”.

Stava meditando se aggiungere qualcos'altro quando la prima bomba esplose appena fuori dalla sua casa, interrompendo ogni comunicazione.

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Capitolo 7
*** Are you coming to the tree? ***


“Are you, are you, coming to the tree?”

 

Lucy si era presentata ad Alma Coin senza preavviso, ma certa di essere ricevuta subito. Dopotutto lei era stata la migliore amica del padre di suo marito e l’aveva vista crescere, assieme a lui e agli altri bambini del Distretto Tredici.

Alma era cambiata dopo la morte di Eddie e della loro bambina e qualcosa si era spento nel suo sguardo, ma l’aveva sempre trattata con rispetto.

Tessa Coin l’aveva fatta entrare nella sala del consiglio senza esitare e aveva chiuso loro la porta alle spalle. Nella stanza erano presenti anche Plutarch, il capo stratega degli ultimi Hunger Games, da tempo loro alleato sotterraneo, e Beetee - esattamente gli uomini che stava cercando.

Alma si era alzata per salutarla.

“Sì, Lulù?”

Lei aveva raddrizzato le spalle, sorridendo leggermente.

“Ho un’idea” aveva esordito “E una richiesta. Per poter sperare di evitare il peggio di questa guerra”.

“Sentiamo”.

La presidentessa l’aveva invitata a sedere con un cenno della mano, ma Lucy era rimasta in piedi.

“Voglio poter avere un incontro con il presidente Snow prima della sua esecuzione”.

Era ovvio, non aveva bisogno di nessuno stratega militare che glielo suggerisse per capire che a Coriolanus non sarebbe stato permesso di morire facilmente.

Anche se non aveva più il suo Edward accanto a sé ormai da anni, perso assieme a tanti, troppi altri nell’epidemia di vaiolo che aveva devastato il Distretto, Lucy Gray non era una stupida.

Alma Coin alzò le sopracciglia, sorpresa.

“E perché?” le chiese.

Perché dovrei consentirtelo? Ma anche, perché lo desideri?

Anche in questo caso Lucy riuscì a leggerle le domande nel fondo degli occhi, così come era sempre stata brava a fare; lei, esperta nello scovare la verità nell’animo umano.

Lucy inspirò.

Non aveva più senso tenere il segreto - non aveva più senso nascondersi, erano ormai alla resa dei giochi.

“Perché il mio nome completo è Lucy Gray Baird e sono la vincitrice dei decimi Hunger Games per il Distretto Dodici” disse, senza esitare “E Coriolanus Snow era il mio mentore”.

Un istante di silenzio calò nella stanza mentre Plutarch, ora, la osservava intensamente, affascinato.

“Sono l’unica persona che è in grado di capirlo davvero” continuò Lucy, ignorando l’occhiata scettica di Alma “E ho intenzione di mandagli un messaggio, se riusciremo a intercettare la linea del suo palazzo. Lui ordinerà la resa, e questa è una promessa”.

Lui si arrenderà e tornerà da lei, così come aveva già fatto, nel momento in cui aveva creduto di aver perso ogni cosa.

Alma non riuscì a trattenersi ed emise lo sbuffo di una risata amara.

“Se hai questo potere, Lucy Gray Baird , perché vieni da me solo ora?” le chiese, canzonatoria, sottolineando il suo vero nome come se fosse una presa in giro.

Lucy non si fece scalfire.

“Non è una cosa che possa avvenire domani” rispose, tranquilla “Snow deve prima essere messo alle strette in modo irrevocabile. Deve capire che perderà questa guerra”.

“E allora è tutto inutile” le rispose Alma, sorridendo sarcastica “Se la condizione è la vittoria… Vinceremmo lo stesso, giusto?”

Lucy si limitò a fissarla per qualche secondo, scandagliandole l’anima.

“Ma a quale prezzo?” rispose infine “Quante vite umane sei disposta a rinunciare a salvare?"

Plutarch batté le dita sul grande tavolo posto al centro della stanza, davanti a cui era seduto.

“È solo un incontro” mediò fra loro, interessato “Snow sarà comunque circondato dai nostri migliori uomini armati. Non hai intenzione di farlo scappare, vero?”

Lucy emise lo sbuffo di una risata incredula.

“Certo che no” rispose infine, ricomponendosi.

“E cosa devi dirgli, quindi, di così importante?” si intromise di nuovo Alma.

Lucy le lanciò una lunga occhiataccia.

“Queste sono cose fra noi” rispose.

“Segreti da portare nella tomba” intervenne Beetee, divertito, che fino ad allora si era limitato ad ascoltare in silenzio.

“Ad ogni modo” continuò Lucy, scostandosi una ciocca di capelli che le era ricaduta davanti al viso “Snow si arrenderà solo con la promessa di un nostro incontro. Te lo posso garantire”.

Alma strinse le labbra, soppesandola.

Lucy vide che la stava valutando; lei, una delle donne con cui era cresciuta, che aveva cantato al suo matrimonio, portando sempre l’allegria nella sua casa. Fino a che, anche lei, non aveva perso tutto.

A differenza sua, però, Alma Coin non aveva più cercato di ricostruirsi una vita, e si era votata solo ad una missione, cercando nella vendetta verso Capitol City la risposta a tutto il suo dolore.

“... Qual è la tua idea?” chiese infine Alma, sedendosi.

Disposta ad ascoltarla.

Lucy sorrise e, finalmente, anche lei prese posto al tavolo.

“Niente di troppo diverso da quello che avete già fatto” iniziò a spiegare “Devo mandare un messaggio. Dovrò cantare per lui”.

 

***

 

Tessa le era stata affidata.

Lei era l’unica a cui Lucy avesse insegnato a suonare e cantare, sin da bambina. Insieme avevano trovato il musicista del Distretto Dodici che aveva suonato al matrimonio di Finnick e Anna e avevano stabilito un piano, utilizzando le sale di registrazione.

Lucy pizzicava le corde della sua chitarra e canticchiava a labbra chiuse la melodia.

Non aveva intenzione di rivelare il testo della sua canzone prima del previsto.

Voleva che fosse tutto perfetto, però. Non solo lei con la sua chitarra, ma un degno sottofondo musicale alla sua melodia.

La seconda canzone, ovviamente, Tessa la conosceva. Lucy vide l’istante in cui l’intuizione la colpì, rivelandole il segreto che si celava dietro le parole del testo.

Lei la stava fissando a occhi sgranati e Lucy aveva riso, portandosi poi un dito alle labbra e facendole l’occhiolino. Tessa non aveva detto nulla ma aveva sorriso, scuotendo la testa.

Avevano continuato a incidere e a lavorare, talvolta assistiti da Plutarch, talvolta da Beetee.

 

***

 

E poi era giunto il giorno.

Lucy in piedi in mezzo alla pedana, la sua chitarra fra le mani, la sua voce ancora salda e forte nonostante gli anni.

Plutarch e Beetee che la osservavano da dietro al vetro e Tessa a guardia della porta.

“Coryo, ascolta attentamente”.

Se anche lui non l’avesse riconosciuta dalla voce era indubbio che sarebbe stato quantomeno curioso di scoprire chi ancora si ricordasse il soprannome che aveva avuto da ragazzo.

E poi Lucy aveva cantato. E aveva cantato.

Aveva chiuso gli occhi, durante la seconda canzone, e quando li aveva riaperti, esalando l’ultima nota, aveva visto Plutarch osservarla a bocca aperta, meravigliato, e Beetee con una strana luce divertita negli occhi.

Poi Snow le aveva risposto.

“Lucy Gray, ti sto aspettando”.

Esattamente come aveva detto alla presidentessa Coin.

Lucy spalancò le braccia e piegò la testa, sorridendo divertita, nell’imitazione di un inchino - era troppo vecchia per farne uno serio.

Poi la bomba era esplosa, tagliando il collegamento con casa Snow.

 

***

 

Erano sull’hovercraft diretto a Capitol City, tutti e quattro, quando era giunta la notizia.

Primrose Everdeen era fra le vittime dei bombardamenti.

Lucy rimase gelata, seduta immobile mentre ascoltava la telefonata terribile fra Plutarch e Alma. Lui che la insultava e lei che incassava il colpo.

“Potrebbe essere l’ulteriore spinta per darle il coraggio di farlo davvero” la sentì dire, cercando di appigliarsi a qualsiasi cosa pur di giustificarsi.

Il coraggio di uccidere Snow in un’esecuzione pubblica.

“Lei è entrata in quella fottuta arena per salvare sua sorella!” stava urlando Plutarch “Ti sei giocata la sua alleanza, te lo dico io, ecco cosa ti dico!”

“Non deve necessariamente sapere che Snow si era arreso” ribatté Alma, piccata.

Lucy smise di ascoltare, concentrandosi sul vuoto dinanzi a sé.

Ripensando a quella bambina con gli occhi al color del cielo terso d’estate e i riccioli biondi; Primrose, con cui aveva parlato una sola volta, che aveva avuto l’intenzione di cercare ancora alla fine di tutto.

Sua nipote. Frutto del suo amore tragico, un legame di sangue e carne fra lei e Coryo; lei, così simile alla bambina per cui era sopravvissuta, per cui era scappata da Coryo, per cui aveva lottato fino all’ultimo.

Era vero, Katniss Everdeen era ancora viva. Ma non sarebbe mai stata la stessa cosa, lo stesso potenziale rapporto. E come avrebbe potuto? Katniss odiava Snow e aveva degli ottimi motivi per farlo. Non poteva infliggerle anche la pena della sua ascendenza; era già rimasta abbastanza traumatizzata durante gli Hunger Games e la guerra, e Lucy avrebbe solo voluto consentirle di vivere tranquilla, in pace.

Invece Alma la voleva come boia per Snow.

Fu solo in vista della Capitale che Lucy si ricordò che Coryo aveva anche un’altra nipote.

 

***

 

Si erano ritrovati tutti insieme, lei e Plutarch e Tessa e Beetee e Alma, e anche la comandante Paylor, in una delle sale della villa di Snow, di cui avevano preso possesso dopo la vittoria.

Alma Coin era nervosa, camminava avanti e indietro sul lussuoso tappeto.

“... Per ora la ragazzina è confinata in camera sua, assieme alla balia” stava dicendo “Mi chiedo cosa sarebbe meglio fare. Assassinarla insieme a Snow, per mandare un messaggio?” il cuore di Lucy perse un battito, poi il fuoco dell’indignazione le colorò le guance “Ma Katniss non accetterebbe mai di farlo” concluse Alma.

Lucy fece un passo avanti a testa alta, prima che chiunque altro potesse rispondere.

“No”.

Alma la guardò, alzando un sopracciglio.

“Non dovevi andare al tuo incontro con Snow?” le chiese, a denti stretti.

Lucy strinse i pugni, tremando leggermente.

“Hai già ucciso Primrose” le rispose, dura e arrabbiata “Rose Snow è solo una bambina. Questa guerra è iniziata dai Distretti solo perché non sopportavano vedere i loro bambini mandati a morire!”

“Ma Rose Snow è una figlia di Capitol City. La gente vuole vendetta. E, che diamine, è una Snow ”.

“E tu hai finito di uccidere i discendenti di Snow!” urlò Lucy, facendo esplodere la rabbia “Dannazione, Alma! Sei la prima ad aver perso una figlia!”

Quello lo colpì come uno schiaffo in faccia, poté vederlo. Alma accusò il colpo, accartocciando la propria espressione per qualche istante - ma, poi, come ogni volta, tornò a guardarla più dura e incazzata di prima.

“Non è una decisione che prenderò da sola” le disse, a denti stretti “Ma non è una su cui tu possa intervenire. Ora vai, vai a parlare con Snow, prima che cambi idea sul privilegio che ti ho concesso”.

Gli altri iniziarono a parlare tutti insieme, cercando di decidere il da farsi, e Tessa l'afferrò per un braccio e la condusse fuori.

Dopo qualche svolta in qualche corridoio Lucy si fermò, appoggiandosi ad un muro e coprendosi il volto con le mani.

“... Non lo farà, vero?” chiese a Tessa, cercando di tornare alla realtà, cercando di spegnere la rabbia “Non può farlo” aggiunse, a bassa voce.

Tessa rimase tranquilla e la aiutò a calmarsi.

“Lo sai che gli altri non glielo permetteranno. Plutarch è già abbastanza incazzato con lei, la comandante Paylor ha già visto troppi bambini morire e Beetee è stato uno di questi bambini mandati a morire. Katniss, poi, non lo farebbe mai, su questo Alma ha ragione” Tessa allungò una mano, carezzandole il braccio destro “Nessuno farà del male alla bambina, Lulù. Me ne assicurerò personalmente”.

Lucy aprì le dita delle mani e la sbirciò da sotto esse.

“... Grazie, Tessa”.

Lei sorrise, dolce.

“Capisco perché lei significhi tanto, per te” aggiunse, in un sussurro.

Lucy deglutì.

“Capirai meglio dopo che avrò parlato con lui” mormorò, abbassando le mani a raddrizzandosi “Portamici, Tessa. Portami da Coryo”.

Tessa sorrise, e la prese sottobraccio.

 

***

 

Coriolanus la stava aspettando seduto in mezzo alle sue rose.

La vide arrivare e si aprì in un luminoso sorriso, alzandosi e avanzando verso di lei - e Lucy, per istinto, senza averlo premeditato, arretrò di un passo.

Il sorriso si spense per un secondo nel viso di Snow e poi riemerse, sottile e amaro. Snow, lentamente, per consentirle di vedere - per non spaventarla ulteriormente - alzò le mani nel gesto di resa.

“Non voglio farti del male, Lucy Gray” sussurrò “È una promessa. Mai più”.

Era cambiato.

Lucy lo sapeva già. Lo aveva osservato ogni anno, attraverso lo schermo. Aveva notato ogni più piccolo cambiamento, ogni ritocco di chirurgia plastica; quella sua costante fuga dal tempo che avanzava. Il viso con pochissime rughe, le labbra troppo piene. Almeno vent’anni di meno, disegnati sul suo viso.

E gli occhi, solo gli occhi rimasti intoccati; quegli occhi dentro cui aveva sempre letto, osservando l’anima del suo Coryo sgretolarsi sempre di più in una lenta discesa, anno dopo anno.

“Sono venuta a dirti una cosa, Coriolanus Snow” esordì Lucy, e vide Snow osservarla, attento, valutandola e soppesandola.

Per un istante Lucy si ritrovò a corto di parole. Sapeva cosa doveva dirgli, ma non si era preparata nessun discorso… Decise di cominciare dall’inizio, e inspirò profondamente.

Chiuse gli occhi un istante, assaporando l’intenso odore di rose.

“Lo sapevo, che non eri ancora pronto” gli disse, tornando a guardarlo “L’avevo sempre saputo. Puoi anche tentare di mentire a te stesso ma io ti ho sempre letto come un libro aperto, Coryo. Sapevo che eri spaventato, terrorizzato a morte persino, e che la fuga non era una cosa che avresti mai scelto, se non costretto” lui la stava ancora osservando, attento, senza commentare - senza negare “Ma ti volevo comunque con me. Avevo bisogno di te. C’è una cosa… Una cosa che non ti ho detto. Che non ho mai avuto occasione di dirti”.

Lucy inspirò nuovamente, raccogliendo le forze.

“Ero incinta, Coryo” disse, e vide il labbro inferiore di lui tremare, ma Snow non permise al resto del suo corpo di perdere il controllo “E quella bambina è nata. Barb Azure mi ha trovato, nel capanno, ascoltando le Ghiandaie Imitatrici. E io lo so, ora… So che il tuo è stato un raptus di pazzia. Che hai perso il controllo, e che, in realtà, volevi che io vivessi . Perché se avessi voluto davvero uccidermi… Sapevi dove guardare. Io ero là, sono sempre stata là. Per mesi, mentre portavo in grembo nostra figlia”.

Lucy vide che anche le mani di Snow, ancora alzate, avevano iniziato a tremare. Lei deglutì, appellandosi al coraggio che non le era mai mancato per finire la sua confessione.

“Ho affidato nostra figlia a Barb” continuò quindi a parlare “Non potevo portarla con me nei boschi, non sarei sopravvissuta così, sola e con una neonata… L’ho chiamata Katniss” una punta di panico - e di speranza? - attraversò gli occhi chiari di Snow, e lei sorrise “È vissuta, Coryo. È vissuta attraverso gli Hunger Games che non hai mai sospeso, anzi, e io potevo osservarla solo pochi istanti all’anno, durante la mietitura. È vissuta ed era la tua copia sputata, dalla pelle diafana, dai capelli biondi, dagli occhi azzurri… Tutto di lei urlava il tuo nome. E poi è vissuta ancora, è cresciuta, ha avuto una figlia a sua volta. E sua figlia… Sua figlia ha avuto due figlie” lo vide, il momento in cui i tasselli si incastrarono nella sua testa, prima che lei lo dicesse ad alta voce “E ha chiamato la primogenita come sua madre, Katniss. Katniss, come nostra figlia, Coryo”.

E, incredibilmente, Coriolanus Snow scoppiò a ridere di fronte ai suoi occhi. Rise così tanto che fu costretto a prendere il fazzoletto bianco dal taschino della sua giacca e portarselo davanti alla bocca, mentre le risate si trasformavano in colpi di tosse.

Poi il momento ilare passò, e Snow ripose il fazzoletto - ora macchiato di sangue - e tornò a sollevare la mano.

“Questo è quello che sono venuta a dirti, Coryo. Lo trovi divertente?” chiese Lucy, con un sorriso e una luce ironica dietro gli occhi scuri.

Anche lui stava sorridendo, di un sorriso così largo che Lucy dubitava di avergli mai visto.

“Gli Snow si posano in cima” le rispose, citando il motto di famiglia “Io ho perso, ma la mia eredità continua”.

“La nostra eredità” lo corresse Lucy, sempre sorridendo.

“La nostra” concordò Snow; poi sospirò, osservandola ardente.

“Lucy Gray. Prometto che non ti farò del male. Ti fidi di me?”

Lucy non rispose, e Snow iniziò ad avanzare verso di lei, lento, sempre con le mani alzate, finché non si trovarono a un misero passo di distanza. Snow abbassò le mani, piano, sfiorandole i lunghi capelli grigi, incastrandoli fra le dita, portandole due ciocche lontano dal viso, dietro le orecchie. Le chiuse le mani attorno alle guance, sfiorandole gli zigomi con il pollice, saggiando la sua pelle ormai vecchia e non più elastica.

La fissava, ardente.

“... Posso?” le sussurrò, e Lucy Gray non rispose, incantata dai suoi occhi.

Snow si chinò verso di lei. Abbassò le palpebre e posò le labbra sulle sue.

Qualcosa esplose dentro Lucy Gray. Tutti i sentimenti che aveva celato, in tutti quegli anni, negli angoli più profondi del suo cuore.

Snow la stava baciando in modo delicato, solo uno sfiorarsi di labbra, come se temesse di romperla - come se temesse un suo rifiuto.

Fu Lucy a perdere il controllo.

Alzò le mani e gliele strinse dietro la nuca, affondando con le dita nei suoi capelli bianchi e ormai sottili, soffici come la neve. Premette la sua lingua sulla sua bocca, cercando una breccia, e Coryo cedette alla sua muta richiesta senza esitare un istante.

Come era sempre stato.

Lucy sentì subito il sapore del sangue, ma non le importava.

Era giusto, persino, che Coryo si portasse sempre addosso la ferita di tutte le vite che aveva spento per realizzare le sue ambizioni; il sangue di tutti i bambini che aveva mandato a morire nell’arena, il prezzo che aveva pagato per posizionarsi in cima nella scalata del potere.

Ma non c’era solo questo.

C’erano anche le rose bianche, il loro profumo lezioso. C’era la sua lingua contro la sua che la cercava, affamato come era sempre stato.

C’era il suo Coryo, il ragazzino a digiuno d’amore, che era stato travolto come un fiume in piena dai suoi stessi sentimenti. Che non aveva saputo gestirli.

I semi che Lucy Gray aveva pazientemente piantato in lui, e un’infinita distesa di possibilità davanti a loro, mentre lei gli insegnava ad amarla sulle rive di un lago.

Coryo si scostò piano, staccandosi da lei ancora ad occhi chiusi. Lucy gli aveva afferrato il labbro inferiore fra le sue e lo lasciò andare con un sospiro di rimpianto - rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere, che non sarebbe mai stato.

Lui le stava ancora tenendo il volto fra le mani.

“... Ho una cosa per te, Lucy Gray” le disse, lasciandola andare per prendere qualcosa dalla tasca. Lucy allungò una mano e lui le diede una piccola chiavetta nera.

“Questa è l’unica copia rimasta dei Decimi Hunger Games” le disse “Versione integrale, con alcune scene mai andate in onda” precisò, sorridendo furbo.

Lucy se la mise in tasca.

“Anche io ho una cosa per te” gli disse e, dal corsetto colorato del vestito, estrasse un gioiello.

Un orecchino, dorato e con le perle; intatto, ma solitario.

Lucy prese la mano sinistra di Coryo e glielo posò sul palmo aperto. Lui lo osservò serio per un istante; poi, con un lieve sorriso triste, affondò due dita nel taschino della giacca, oltre il fazzoletto ora macchiato di sangue.

E ne estrasse l’altro orecchino, quello sopra il quale una pallottola era rimbalzata; quello piegato, leggermente deformato a seguito del suo raptus furioso.

Lo posizionò sopra l’altro, sul palmo della sua mano, e Lucy glielo chiuse fra le sue mani, le lacrime che le offuscavano gli occhi.

“Ho sempre sperato che tu fossi viva, Lucy Gray” le disse “Negandolo persino a me stesso. Ho sempre pregato che tu fossi sopravvissuta… A me. Che non ero stato in grado di fidarmi di te e che vedevo l’amore come un fastidioso impedimento a ciò che era mio per diritto di nascita”.

Lucy si asciugò le lacrime con la manica del suo vestito. Tornò a guardare Coriolanus Snow, il presidente ormai sconfitto di tutta Panem - Coryo, il suo Coryo, con il peso di tutte le colpe dietro i suoi occhi tersi come il cielo d'estate, e il rimorso di ciò che avrebbe potuto essere.

“Sei stata il mio unico e più grande rimpianto” continuò Snow, e Lucy lo afferrò di nuovo per la nuca, premendo le sue labbra sulle sue, affondando di nuovo nella sua bocca mentre lui la circondava con le braccia e la stringeva.

Finì anche quel bacio e fu Lucy Gray a scostarsi.

“Addio, Coryo” gli sussurrò.

Coryo sorrise, dolce e triste, e prese il bocciolo di rosa bianca che aveva appuntato all’occhiello per sistemarglielo fra i capelli.

Come aveva fatto una vita prima.

“Addio, amore mio”.

Poi Lucy gli diede le spalle e tornò da Tessa, che era rimasta in disparte, e si fece prendere sottobraccio e trascinare fuori di lì, finché non fu nella stanza che le era stata assegnata, di nuovo sola.

Finché non si concesse il lusso di crollare, affondando con il viso in quel cuscino di vere piume d’oca, e piangendo tutte le lacrime che aveva trattenuto fino ad ora.

 

***

 

Tessa era accanto a lei, su uno dei balconcini di villa Snow, in disparte rispetto alla balconata principale dove Alma Coin stava annunciando l’esecuzione di Snow. Lui era in ginocchio e sorrideva, osservando Katniss Everdeen in piedi di fronte a lui, con l’arco puntato.

Lucy cominciò a cantare, sottovoce, così bassa che solo Tessa era in grado di udirla.

 

“Are you, are you, coming to the tree?”

 

Poi Katniss Everdeen alzò l’arco e la sua freccia trafisse Alma Coin. Snow scoppiò a ridere, alzando lo sguardo - e, per un istante, i loro occhi si incrociarono, mentre Lucy ancora cantava, e prima che la folla convergesse su di lui.

Prima che Coriolanus Snow morisse, lasciandola sola.

 

***

 

Lucy Gray posò la penna con cui aveva concluso di scrivere le proprie memorie. Chiuse il vecchio diario - che, dopo tutti questi anni, era tenuto insieme anche da parecchi elastici - e lo afferrò, uscendo dalla stanza alla ricerca di Tessa.

“Puoi portarmi da Lilian Everdeen?” le chiese.

La cercarono per circa un quarto d’ora, chiedendo a parecchie persone se qualcuno l’avesse vista. Sapevano che era nella villa e che si stava dedicando ai feriti ma non era presente nell’ospedale che i Ribelli avevano organizzato, non in quel momento.

La trovarono in una saletta di lettura, un posto discreto. Era seduta su una panca costruita nell’insenatura di una finestra e guardava fuori, assente, verso i giardini curati di villa Snow.

Le sembrava la persona più triste che avesse mai visto .

Lucy Gray sospirò, e andò ad accomodarsi accanto a lei. Lily sobbalzò leggermente accorgendosi della sua presenza.

“Oh” le disse “Posso aiutarla?”

Lucy sorrise, dolce.

“Lei è Lilian Everdeen, vero?” le chiese, e la donna annuì.

Così, sotto i raggi del sole d’inverno, Lucy poté notare il riflesso dorato dei suoi capelli biondi e, come sempre, come con Primorose, come con la sua bambina, gli occhi azzurri e chiari, color del cielo d’estate.

Gli occhi del suo Coryo, nel viso di sua nipote.

“Io sono Lucy Gray Baird” si presentò “Volevo farle le condoglianze per la sua perdita”.

“Ah… Grazie” rispose Lilian, esitando appena.

Lucy distolse lo sguardo da lei, osservando fuori dalla finestra.

“Sa, anche io ho perso una figlia, anni fa… E ho perso anche l’amore della mia vita” le disse “Quindi posso capirla”.

“Mi dispiace”.

Lucy tornò a guardarla, allargando il sorriso.

“Vorrei darle una cosa, se posso” esordì. Allungò il diario che aveva ancora fra le mani verso di lei e Lilian lo prese, confusa “Queste sono le mie memorie. E inoltre…” Lucy afferrò la chiavetta che aveva ancora in tasca, poggiandola sopra il diario “Questa è l’unica registrazione dei Decimi Hunger Games, a cui io ho partecipato… E che ho vinto”.

Lilian la guardò, sempre più confusa.

“Perché li dà a me?” chiese.

Lucy la fissò per un lungo istante senza parlare - cercando di imprimersi il volto di sua nipote nella mente, cercando di soffocare le domande, ripetendosi che non aveva alcun diritto di sapere, di interrogarla sulla sua vita.

Lucy era sempre stata così assente, loro erano andate avanti senza di lei, e lei era, ora, solo una sconosciuta in mezzo a tanti altri.

“Se leggerai, capirai, Lilian Everdeen” le rispose quindi, dolce “Ti chiedo solo di aspettare, prima di condividere qualsiasi cosa con la tua Katniss. Io penso che lei, ora, debba solo guarire, lontano da tutti” aggiunse, in un sussurro.

Lilian strinse le labbra e annuì, gli occhi lucidi.

Lucy Gray si alzò, aiutata da Tessa, e nella sua mente disse addio anche alla nipote che non aveva mai conosciuto.

 

***

 

“La bambina?” chiese Lucy, osservando Tessa salire sull’hovercraft insieme a lei “Rose Snow?”

“È con la bambinaia, Emily” rispose Tessa “È traumatizzata, ovviamente. Emily è l’unica faccia amica, l’unica persona che conosca, quindi le hanno chiesto di stare con lei. Plutarch ha accolto il mio appello, comunque, ed è stata affidata a me… Prima, però, ho chiesto di poterti accompagnare. Plutarch mi ha assicurato che si prenderanno cura di lei fino al mio ritorno”.

Lucy annuì, sollevata.

L’hovercraft si alzò in volo. Lucy aveva chiesto e ottenuto il permesso di poter fare una deviazione, prima di tornarsene a casa.

Non parlarono durante il viaggio. Tessa stava cantando, però, per tenerle compagnia. Lucy era così fiera di lei, così orgogliosa. Fino a che Alma Coin non aveva imposto la legge marziale, vietando ogni forma di intrattenimento, anche musicale, lei era stata la sua più grande allieva… La sua erede spirituale, colei che aveva incarnato il vero spirito dei Covey. E Lucy sapeva che, ora, in un mondo nuovo e in ricostruzione, Tessa avrebbe portato avanti la sua eredità, la sua musica. Magari insegnandola pure a Rose Snow, utilizzandola per sanare le ferite che si sarebbe sempre portata dietro.

Come aveva fatto lei dopo la Prima Ribellione, cercando la guarigione nelle note .

L’hovercraft atterró poco dopo il Distretto Dodici, in mezzo al Prato - lontano dalle macerie e dai corpi ancora esposti all’aria aperta.

Era diverso dall’ultima volta in cui ci era stata. L’autunno continuava ad avanzare e gli alberi erano quindi tutti rossi, marroni se non addirittura spogli.

“Vieni” disse a Tessa, allungando un braccio per farsi sorreggere “Aiutami”.

Nonostante tutto, si ricordava ancora la strada.

Camminarono per più di un’ora. Tessa non si lamentava mai ma la sorreggeva e l’accompagnava in quell’ultimo viaggio che Lucy, testarda, aveva voluto compiere con le sue gambe, nonostante l’età avanzata.

E poi arrivarono.

Il lago, e una capanna in rovina. Un pontile di legno mezzo marcio e, sulla riva, un albero spoglio con ancora le incisioni impresse.

Lucy passò una mano su quei segni, persa nel ricordo di una vita prima, quando aveva iniziato a farli per contare i giorni.

Per capire quanto tempo avrebbe dovuto ancora aspettare prima di poter finalmente vedere e conoscere la sua bambina.

L’erba era secca e morta, e le foglie scrocchiavano sotto le loro scarpe. Lucy non si fece scoraggiare e si sedette per terra, osservando il lago, ricordando Coryo in mezzo a tutti i Covey, le musiche e l’allegria e la promessa di una vita più facile dopo la terribile guerra.

L’incubo degli Hunger Games alle spalle e lei ancora viva. Felice. Amata.

Con il suo ragazzo della capitale venuto per lei nel Distretto Dodici.

Lucy si sdraiò sul terreno duro, ignorando le giunture che protestavano, chiudendo gli occhi e lasciando che il freddo sole invernale le inondasse la faccia.

Assaporando quell’ultimo momento di pace e addormentandosi con il ricordo di Coryo sdraiato accanto a lei, che le carezzava dolcemente i capelli.

 

“Strange things did happen here

No stranger would it be

If we meet at midnight

In the hanging tree”

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Capitolo 8
*** The sweet old hereafter ***


“When I’ve finished my song

When I’ve shut down the band

When I’ve played out my hand

When I’ve paid all my debts

When I have no regrets”

 

Coryo era seduto con la schiena appoggiata al tronco dell’albero. Si teneva un ginocchio vicino al petto e osservava, la testa voltata, verso l’orizzonte, dove l’alba stava sorgendo.

All’improvviso un’ombra calò su di lui e lui rialzò lo sguardo.

“... Sei in ritardo” salutò la ragazza, osservandola.

Lucy Gray sorrise, luminosa.

Era bella e giovane come il giorno in cui l’aveva incontrata.

“Scusami” gli rispose, divertita “Dovevo finire due o tre cose”.

Coryo voltò di nuovo la testa, indicando i rami neri e spogli con un cenno del capo.

“Hai visto?” le chiese “Non ci sono più cappi appesi, all’albero degli impiccati”.

“Oh, beh” commentò Lucy Gray, dopo un istante “Dopotutto, siamo nel dolce e vecchio aldilà. Credo che non ci sia bisogno di un richiamo così cruento alla morte… Nella morte”.

Coryo tornò a guardarla, aprendosi in un sorriso luminoso. Fece scivolare la gamba a terra e allungò le braccia aperte verso di lei, in un chiaro invito.

Lucy Gray rise e si tuffò addosso a lui, affondando con il viso nel suo collo e accomodandosi sulle sue gambe. Coryo la strinse e le strofinò la guancia fra i capelli scuri, aspirando il suo odore, bevendo di lei.

“... Ho avuto paura che non saresti venuta” le confidò in un sussurro “Che questa sarebbe stata la mia punizione. Un’eterna attesa, senza ritrovarti mai”.

Lucy Gray si scostò leggermente da lui, obbligandolo ad alzare la testa e a guardarla negli occhi. Sorrideva, serena.

“Non essere sciocco” gli rispose, alzando una mano per sfiorargli una guancia “Sono stata io a darti appuntamento, dopotutto. Sarebbe stato da maleducati non presentarsi!”

Coryo sorrise, quasi timido, sentendosi riscaldato dalla sua sola presenza. Non gli sembrava vero essere qui, così, di nuovo giovane e con Lucy Gray fra le sue braccia.

Come se non se ne fosse mai andata.

Come se lui non avesse fatto tutte le scelte sbagliate, nella vita.

“... È bello vedere di nuovo la tua faccia” gli disse Lucy Gray, continuando a toccarlo. Una lacrima sfuggì al controllo di Coryo e lei, svelta, la raccolse con il dito indice, portandosela alle labbra e assaggiandola.

Coryo ridacchiò, l’incredulità che subentrava alla commozione.

La sua stramba, stramba ragazza di periferia .

Lucy Gray immerse poi le dita nei suoi capelli.

“È bello anche ritrovare i tuoi riccioli biondi” aggiunse, sorridendo “Mi sono mancati”.

Lucy Gray si sporse verso di lui, socchiudendo gli occhi.

Tu mi sei mancato” mormorò alla fine, prima di poggiare le labbra sulle sue e baciarlo.

Coryo chiuse gli occhi e la strinse, ricambiando quel bacio, perdendosi nel suo stesso batticuore e nel profumo di lei, di loro.

Non c’era più sangue nella sua bocca, come se la morte avesse lavato via ogni peccato. Era di nuovo lui, innocente come il bambino che era stato prima della guerra, come se niente fosse mai accaduto.

Tranne il suo incontro con Lucy Gray, e l’amore che era sbocciato fra loro. Il suo sapore nella sua bocca, giusto, caldo, accogliente, che lo riempiva di sollievo. Di nuovo un corpo in grado di desiderarla, di amarla, di poter esprimere in pieno i sentimenti che provava per lei.

Lucy Gray estinse piano il loro bacio, il respiro che usciva corto e spezzato da entrambe le loro bocche, le sue mani sempre sul suo viso, ad accarezzarlo. Poi, quando si furono ripresi abbastanza, lei lo baciò di nuovo, stavolta avida, con un’urgenza nuova.

Coryo la strinse di più, di nuovo, mentre lei gli chiudeva le braccia dietro la nuca, approfondendo il loro bacio.

Il sole sorse del tutto inondando il loro viso di luce, mentre una folata di vento scuoteva i rami spogli sopra di loro, mescolando e intrecciando i loro capelli, senza che loro ci facessero caso, persi in loro stessi - in quel contatto che si erano negati troppo a lungo.

Una vita intera, ora giunta al termine.

E, nella morte, Coryo si ritrovò a pensare - mentre Lucy Gray gli infilava le mani sotto la maglietta e si spostava, accomodandosi a cavalcioni sopra di lui - non aveva intenzione di sprecare neppure un istante.

Avrebbe passato l’eternità con la sua Lucy Gray, senza lasciarla più andare.

 

“When I’m pure like a dove

When I’ve learned how to love

Right here, in the old therebefore”

 

“And I’ll catch you up (oh)

When nothing is left anymore”

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