Parlami di mari in tempesta

di time_wings
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Orologi ***
Capitolo 2: *** Luci ***
Capitolo 3: *** Punture ***
Capitolo 4: *** Sabbia ***
Capitolo 5: *** Spettro ***
Capitolo 6: *** Onde ***
Capitolo 7: *** Occhi ***



Capitolo 1
*** Orologi ***


Parlami di mari in tempesta



 
 


Ogni cosa era vento.
Inconsistente, alla fine, più sensazione che visione. Avrebbe dovuto rincuorarlo e invece era una cornice, un assist, un candelabro che avrebbe potuto fare da protagonista nella casa di un collezionista, ma che restava in qualche modo inutilizzato se non ospitava candele.
Si abbatteva su ogni superficie che osasse sfidarlo e lui, umano inutile, non lo sfidava, ma ne restava vittima ingiusta lo stesso.
Il vento se la prendeva anche con una cosa sottile come il pelo dell’acqua, una barriera insignificante che acquistava forza quando si faceva distesa, quando si faceva oceano. E allora il vento perdeva, veniva a patti con quel mostro liquido e gli stringeva la mano finché le loro dita intrecciate non intessevano motivi geometrici sulla superficie.
Un’onda si abbatté alla base della scogliera, spruzzò colonne di spuma. Intanto, un uccello troppo lontano per venire identificato si stagliava sullo sfondo. In alcuni punti, la scogliera era bucata, apriva finestre e scorci su altri panorami, l’acqua cristallina catturava la luce e si faceva beffe della possibilità di chi la guardava di poter fare solo quello e non toccare. Il cielo era terso ma tratteneva il fiato, perché all’orizzonte si avvicinavano nuvole temporalesche. Era un controsenso, perché in quest’ottica il soffio del vento faceva un po’ meno da nemico e un po’ più da ambasciatore.
L’ostilità verso questo genere di avvertimenti forse era un tratto quasi esclusivamente umano. Era suggerito nell’espressione “calma prima della tempesta”, nell’istinto di crogiolarsi nel bene finché c’è.
Forse era un tratto quasi esclusivamente umano anche vedere il male nella tempesta. Al mondo importa poco se viene distrutto. Se ne starà lì a girare anche prima dell’impatto che lo farà a pezzi. Che l’asteroide si schianti, che il sole muoia, che Andromeda si faccia avanti.
Era decisamente un tratto umano, la capacità di tenere a qualcosa.
Guardò questo accavallarsi di eventi. Non ti sembra mai che se guardi troppo a lungo il mondo poi questo ti punga?
L’autobus strombazzò da qualche parte alle sue spalle. Aveva le ruote e il parabrezza ricoperti di un sottile strato di polvere, dove la strada secca si era integrata al viaggio. Assottigliò gli occhi, per ridurre anche la nostalgia che avrebbe provato una volta smesso di guardare, poi diede le spalle all’oceano e recuperò il cellulare dalla tasca.
In fondo neanch’io sono una canocchia, ma mica mi lamento.
Sirius Black sorrise al messaggio, perché era un commento inappropriato e anche l’unico che avrebbe mai accettato. Non rispose, rimise il cellulare in tasca e salì sull’autobus.
Quando prese posto, i vetri semi-oscurati gli concessero un’altra occhiata al mare. Sembrava il filtro di un film retrò. L’asfalto accoglieva le prime gocce di pioggia, colorandosi di nero, la nuvola si era avvicinata, l’acqua e il vento non si stringevano più le dita. Avevano seguito il percorso che portava a volte gli innamorati a scivolare nella violenza.
Ma anche questo era un tratto esclusivamente umano.
 

“Quattro mesi?”
Sirius annuì, la luce nella stanza era un triangolo scaleno. La lampada al di sopra del tavolo offriva un cono ben angolato, ma James ne interrompeva il flusso con la sua presenza e i lati si inclinavano.
I lati si incrinavano.
Si strinse nelle spalle e poi le scrollò come se l’intero peso di quella ghigliottina non gli volesse frantumare le ossa, come se stesse dicendo al suo migliore amico che stava perdendo le chiavi di casa e non la vista. Fosse stato per lui, a dire il vero, non gliel’avrebbe neanche detto, ma James aveva fiutato la dimensione della notizia e si era messo in mezzo.
Non l’aveva forzato a parlare, gli aveva solo sottratto ogni brandello di privacy e si era fatto i fatti suoi.
“E quando ti hanno detto che erano quattro mesi tu eri…”
“Nell’autobus per la scogliera.”
“In Irlanda.”
Sirius prese un sorso di birra e annuì. Sotto la luce della lampada, la bottiglia brillava in certi punti.
Tutt’attorno a quel riflettore c’erano altri oggetti che brillavano, fatti di cose trasparenti o che se fatte scontrare tra di loro tintinnavano. Rientravano nel gruppo tazze, teiere, pezzi ornamentali di vario genere. Avrebbero potuto anche essere quadranti di orologi, però: non si vedevano al buio.
“Com’era?”
“Cosa, la scogliera?”
James allargò le mani e alzò gli occhi al cielo come a dire ‘e cosa?’
“Era bella.”
Si stava avvicinando il temporale, c’era un filo che ti impediva di buttarti di sotto e forse l’hanno messo perché qualcuno l’ha fatto o ci ha provato, ma io lo capisco. Perché davanti a tutto quell’esistere ti viene voglia di scoprire cosa nascondono gli scorci inaccessibili e forse ogni oceano è popolato dalle anime di chi ci è caduto, che tu ci sia morto dentro o che tu ci abbia sospirato sopra.
Ma Sirius non gli spiegò tutte queste cose e non perché non volesse, ma perché lui l’aveva solo guardato e gli era piaciuto e non avrebbe saputo trovare parole più adatte della semplicità di un’istantanea della memoria.
“Ho fatto delle foto, ma non è come quando lo vedi.”
“No, eh?”
“No.”
James grattò l’etichetta tutta spappolata dalla condensa della birra e si mise a giochicchiare coi pezzi che si staccavano meglio, strappandoli e unendoli alla polpetta umidiccia. Mormorò un verso di assenso e comprensione insieme. “Quattro mesi?”
Tutti gli oggetti che sbrilluccicavano e riflettevano divennero orologi. Da polso, da parete, a pendolo, sveglie. Scoccarono una volta all’unisono. Schioccarono, crepitarono, schiantarono.
Poi silenzio.
Ripeti da capo.
Sirius annuì, la luce nella stanza era un triangolo scaleno. La lampada al di sopra del tavolo offriva un cono ben angolato, ma James ne interrompeva il flusso con la sua presenza e i lati si inclinavano.
I lati si incrinavano.
Le ossa si curvavano.
Gliel’avrebbe detto lo stesso, anche se James non si fosse infilato in quella diagnosi. Non sapeva come, si sarebbe dimenticato che credeva di non avere bisogno di aiuto e gliel’avrebbe chiesto. Sarebbe stato meno dignitoso. Sarebbe arrivato durante un temporale, quando la realtà di quella perdita gli sarebbe scrosciata addosso insieme all’acqua. Sarebbe andato a casa sua, si sarebbe dimenticato l’ombrello e non avrebbe detto una parola. James avrebbe raccolto i pezzi e basta.
L’aveva fatto altre due volte.
La prima l’aveva accolto, la seconda gli aveva detto di andare a farsi fottere. La terza l’aveva anticipato e gli aveva forse risparmiato una corsa sotto la pioggia. La quarta volta Sirius non l’avrebbe visto, James si era assicurato che capisse che l’avrebbe almeno sentito.
“Be’, cosa vuoi vedere?”
“Eh?”
Gli sorrise, una cosa storta come il baffo della nike. “Partiamo.”
I lati della stanza si piegarono.
 

Gli occhi della canocchia

La canocchia pavone è nota anche come gambero mantide, ma non è un gambero e nemmeno una mantide. Però è colorata. Come tutte le cose colorate, meglio starne alla larga.
La canocchia possiede una serie di vantaggi che lasciano pensare che la natura le abbia dato un dono, poi si sia dimenticata di averlo fatto e gliene abbia dato un altro. 
Infatti tira pugni così veloci che per un attimo la temperatura raggiunge quella del sole, in un’onda d’urto micidiale. Il sogno di tutti i frequentatori di bar inglesi che cercano una rissa.
Eppure la cosa più sconcertante di questa canocchia sono i suoi occhi. Possiede da dodici a sedici fotorecettori, che le consentono di vedere colori che l’essere umano, con i suoi umilianti tre, non può immaginare. Neanche lontanamente. Non c’è modo di pensare a un nuovo colore.
Non c’è modo di piangere qualcosa che non si sa di non aver mai visto.
 

 
⸻⸻⸻⸻
 

“Alla prossima a destra.”
James annuì a tempo di musica e, con lo stesso ritmo, le foglie secche che l’auto calpestava si sollevarono dalla strada come segnalando una nuvola di gas.
Quando svoltarono scesero appena di quota e Sirius si girò a guardare dal finestrino posteriore la strada che si perdeva tra le curve delle montagne autunnali. Avevano la forma di monoliti intransigenti, così visti dal basso. Un gradiente che passava dal verde al grigio si miscelava in mezzo in un compromesso marrone. Crepe e spaccature si insediavano in quelle strutture a sottolinearne una potenziale fragilità o a dimostrare una resistenza senza eguali.
Forse invece ospitavano semplicemente dei ruscelli.
Le cime in certi punti non si vedevano, perché il cielo, piccato, le mozzava di netto.
Proseguirono dove i pini mettevano radici storte e sfidavano la gravità. Nell’abitacolo, chitarra e batteria pure si aggrappavano a un tempo che James dirigeva con la sua testa.
“Che c’è dietro?”
Sirius tornò a sedersi dritto e alzò le gambe sul cruscotto, incrociandole all’altezza delle caviglie. “Il mare.”
“Sei proprio un coglione,” James trattenne una risata nel naso, poi afferrò la mappa che teneva in grembo solo per schiacciargliela in faccia. La macchina sbandò per un attimo, poi tornò in carreggiata.
“Dovevamo scaricare le mappe sui telefoni, questa cosa cartacea è un inferno.”
“Non pensavo che non prendesse.”
“Nel mezzo del fottuto nulla. Chi l’avrebbe mai detto?” Sirius non era nervoso. Era James a essere molto facile da insultare e molto inaffidabile nell’arte del multitasking. Sbandavano ogni volta che decideva di cambiare canzone.
Il mezzo del fottuto nulla erano le Highlands scozzesi, che potevano risultare un po’ scomode quando si cercava segnale telefonico, ma una buona idea quando si voleva restare a bocca aperta.
“Ehi, non ho avuto molto tempo per programmare.”
“Hai deciso tu di partire all’improvviso.”
James gli rifilò un’occhiata laterale, poi si strinse nelle spalle. “Hai deciso tu di perdere la vista tra quattro mesi.”
Prima che Sirius potesse insultarlo, James inchiodò. “Ma che stai…”
Aprì la portiera e rotolò all’esterno. Sirius scese dall’auto con le braccia allargate nel segnale universale dell’esasperazione e pochi strati di vestiti. L’aria fredda di un autunno più violento gli pizzicò il viso. “Ma che era?”
“Tu non mi dicevi che c’era dietro.” Se ne stava come un pazzo con la schiena appoggiata al portabagagli e fissava l’onestà di una terra che vinceva su ogni fronte.
I clacson di Londra erano un suono alieno che esisteva nelle fotografie di un futuro che non era ancora avvenuto, i grattacieli erano un progetto di creature che erano nate adesso e stavano imparando a non bruciarsi col fuoco. I guardiani del mondo erano qua, enormi quanto l’oceano ai piedi di una scogliera. Si scrivevano la storia addosso e poi la coprivano quando il vento ne portava di nuova. La pioggia ne limava in seguito i dettagli. Gettati nel mondo insieme a queste cose, non aveva senso parlare di importanza, se c’era complessità in una montagna, in un essere umano, in una foglia, in una goccia d’acqua, in una coda di monsone che spira.
Sirius si appoggiò a braccia incrociate accanto a lui. Per ogni venatura di roccia una paura di dimenticare qualcosa, di perderne l’immagine per sempre. “Lo sai che hai uno specchietto retrovisore?”
“Ti immagini se arriva una macchina che deve passare?” Si misero a ridere, i versanti accolsero il suono e se lo fecero rimbalzare addosso, portandolo via.
“Guido io, tu non sei capace.” Sirius tornò in macchina e armeggiò con i dischi, finché una musica di basso non gli fece vibrare i piedi.
James si calò nell’abitacolo e abbassò i finestrini, appropriandosi della mappa e girandola un paio di volte per leggerla dal verso giusto. Era possibile che non l’avesse trovato e fosse solo molto speranzoso. “Vedi di non diventare cieco mentre guidi.”
“Tu trova un posto vicino in cui possiamo dormire prima che ti strozzi.”
“Altrimenti c’è la tenda.”
Sirius alzò il volume della musica e scosse la testa. “Voglio meno familiarità possibile con i tuoi piedi.”
Per tutta risposta, James si tolse le scarpe e iniziò ad attaccarlo in un intruglio di arti senza senso. La musica soffiava via dai finestrini come se fosse stata un odore.
Quando la lotta cessò, Sirius si voltò a guardare James. Gli occhiali a momenti gli scivolavano via dal naso, il viso inclinato in basso e una confusione ritratta in ogni ruga sulla fronte. Un egittologo con troppi comfort. Se si aguzzava la vista, si notava anche spuntare una punta di lingua. Sirius sospirò e gli diede una manata in testa, indirizzandolo verso il finestrino abbassato. Sulla via per la tregua, però, gli arruffò i capelli, cercando di memorizzarne il disordine.

 
Gli occhi della montagna

Le montagne non hanno occhi.
Infatti nessuna montagna vide un’auto grigia sfrecciare zigzagando nelle sue depressioni, voci e musica effuse su paesaggi d’eco. Non vide gli occhi che la guardavano dal basso, fermandosi lungo un percorso che leggevano male, cerchiando mappe con pennarelli rossi troppo spessi per la finezza di certe linee.
Non vide i loro silenzi, le sopracciglia riflessive, le fronti distese. Non sentì i loro corpi piccolissimi, quando si sedettero nei radi campi dorati e fecero una partita a carte o fumarono una sigaretta. Non si seppe offendere per la tossicità di quel fumo.
Non li vide ridere, ballare, litigare per la musica. Non li vide addormentarsi sul sedile del passeggero, mentre gli scorreva davanti. 
Non li vide schizzarsi quando sfioravano i laghi. Non li vide rabbrividire, mentre andavano a nord.
Era madre gravida e figlio mai nato contemporaneamente, mentre questi esploratori invisibili si fermavano in un campo al tramonto, l’erba che arrivava ai polpacci, e correvano gridando giù per un pendio.
E visto che la montagna non parla almeno quanto non vede, è impossibile sapere se sentisse il dolore e la gioia in quelle grida, se fosse saggia e giovane abbastanza da distinguere l’ossimoro di spensieratezza e di condanna.
E, nel caso sapesse parlare, è certo che non lo comunicò.

 
I bicchieri tintinnarono e poi traboccarono. La birra si rovesciò sul legno già spugnato del bancone, che l’assorbì nel suo strato appiccicaticcio.
Una risata si diffuse echeggiando attraverso altre bocche, facendosi unico protagonista folkloristico. Al di sopra di questa creatura si sovrappose la voce di James, “andiamo di là.”
Sirius annuì e afferrò le birre, accennando col capo alla donna dietro il bancone in segno di ringraziamento. Lei gli sorrise e scosse la testa.
“Fai spazio ai ragazzi.”
Sirius lo capì a stento, l’accento impastava la bocca della ragazza che aveva parlato, trasformando la frase in una lingua sconosciuta di cui doveva riarrangiare e ricalibrare i suoni finché non suonava come la sua.
Il ragazzo che dava loro le spalle si voltò di scatto e si fece da parte. James e Sirius si strinsero sull’unica panca libera abbastanza da consentire ai suoi passeggeri di stringersi.
La ragazza con l’accento marcato li guardò a turno negli occhi, un filo nero di trucco faceva sembrare il suo luccichio di interesse quasi pericoloso.
“Hai l’aria di una che guida una moto,” commentò James. Sirius per poco non soffocò sul suo sorso di birra. Però aveva ragione.
La ragazza scoppiò a ridere, la coda alta sulla testa rimbalzò con lei, mentre i suoi amici si accodavano. La risata si unì a tutte le altre finché non si fece così permeante da svanire. Era come un isolamento al rovescio, come stare all’interno di un’insonorizzazione. L’effetto distorceva i volti degli altri clienti finché non diventavano ombre nere. O forse erano solo le luci.
“Ci hai preso, in effetti,” si intromise un’altra ragazza che era con loro. I lunghi capelli castani ricadevano sulle spalle come una cascata.
“Marlene,” si presentò la confermata motociclista, sbilanciandosi in avanti per tendere loro una mano. “Loro sono Alice e Frank, non fidatevi di quello che dicono. Mentono.”
Frank scosse la testa e si inclinò nella loro direzione, sussurrando qualcosa a James. Poi risero insieme.
“E voi, ragazzi inglesi?”
“James.”
“Sirius.”
Marlene annuì, l’avrebbe vista bene anche come cartomante. Aveva un modo fumoso di muoversi, come se avesse saputo distinguere l’odore di linee di prateria in cui non credeva. “E che ci fanno due viaggiatori a Foyers?”
“Che vuoi dire? È sul lago di Loch Ness, non è tipo una delle vostre cose più famose?” disse Sirius.
“Nessuno si ferma a mezz’ora da Inverness.” Marlene si strinse nelle spalle, poi si sciolse i capelli giusto il tempo di legarli meglio.
“Ci sono anche le casca…”
“Abbiamo bucato,” lo interruppe James. Si passò una mano sul naso e nel farlo sollevò gli occhiali.
“Che? Bastava dirlo!”
“È il modo di Sirius di provarci con te.”
“James, ma che ca…”
“Che c’è?” Prese un sorso finale di birra, lo corredò a un risucchio esagerato, poi piantò il bicchiere vuoto sul tavolo. “Così facciamo più in fretta.”
Frank batté una mano contro il tavolo, con un acuto che doveva essere una risata molto caratteristica o un grido di battaglia. “Marlene, li aiutiamo, ho deciso.”
“Se lo sono meritato,” gli diede man forte Alice.
Marlene si alzò in piedi, vagò con gli occhi per un attimo in direzione dell’uscita. Forse si stava assicurando che ci fosse ancora, perché c’era il rischio che in Scozia una grande porta di legno segnalasse il confine oltre cui si rintanavano i mangiatori di loto, ed era possibile che per loro i portoni svanissero. “Chiamo Dorcas,” annunciò, afferrò la birra di Sirius macchiata di condensa e vi rubò un sorso. “Quando avete finito uscite.”
E con questo lasciò il pub. Per un attimo, quando aprì uno spiraglio di porta e l’oscurità si intrufolò come una regina gelosa ancora delle terre sottratte, la colorata compagnia di voci e risate trattenne il fiato. Ogni luccichio di bottiglia un riflesso su un quadrante di orologio.
Uno, due.
La realtà svanì. Il pub ripartì.
“Io non stavo facendo proprio niente!”
“Lo so, lo so.” James sollevò una mano e stroncò sul nascere ogni protesta di Sirius. “Volevo movimentare un po’ le cose.”
“Allora, che ve ne pare della Scozia finora?” Frank diede una pacca sulle spalle di James, ma invece di lasciarlo andare strinse come se fossero stati amici di vecchia data. Parlava più a lui in ogni caso, se avesse tirato fuori un barbecue e avesse iniziato a cuocere salsicce Sirius sarebbe stato solo lievemente sorpreso. Non era comunque tipo da barbecue, anzi a guardarlo davvero assumeva una connotazione malinconica, come se la leggerezza se la fosse guadagnata. Più che esistere nella sua figura, questo suggerimento stava nell’ombra che gettava su Alice.
Forse valeva per ogni ombra e ogni risata nei bar.
“Alta,” disse James. Alice si mise a ridere. Arricciò il naso e chiuse un occhio più di un altro.
Per qualche ragione, Sirius lo trovò un dettaglio fondamentale. Si assicurò che l’attenzione del loro duo di sconosciuti fosse su James e su qualunque descrizione assurda del loro paese stesse mettendo in piedi, poi tirò fuori dalla tasca del cappotto il foglio di taccuino già reciso e già mezzo scritto e continuò a scrivere.
L’inchiostro sulla pagina, circondato da luci scure, rese il contrasto meno agrodolce.
 

“James.”
Erano stesi sul tetto della macchina. Un tappeto di stelle si srotolava in cielo e ripiegava i suoi lembi solo dove i fianchi e le cime delle montagne lì vicino si palesavano in un addensamento di oscurità.
“Sirius,” rispose lui. Un fruscio segnalò che si era messo giusto un po’ più comodo.
“Devo dirti una cosa, è da un po’ che me la tengo dentro.”
Sentì James girarsi per guardarlo anche se era buio.
Sirius accennò un sorriso, poi lo uccise prima che potesse trasformarsi in risata.
“Allora?”
“Io ti amo.”
James si schiaffeggiò, poi espirò forte sulle mani ancora chiuse sulla sua faccia. “Secondo te quante ossa ti rompi se ti butto giù?”
“Vieni qua, dammi un bacio.” Sirius lo attaccò. Arpionò un braccio attorno al suo collo e gli diede una testata. James si divincolò ma al contrario, il che significa che gli si legò addosso come un tentacolo, per stabilire una posizione di dominio che mezzo strozzato comunque non conquistò. Il tetto dell’auto incassò i colpi più di tutti, simile al suono di una lattina che rotolava giù per una collina.
Metà del cielo perse di colpo le sue stelle. James e Sirius, ancora aggrovigliati, si voltarono a dare un’occhiata alla fonte di luce e all’interruttore contraddittorio che era diventata.
Erano fanali di auto.
Ne uscì per prima una ragazza, si vedevano solo i capelli ricci e folti, che in controluce sfumavano ai bordi a formare una corona. Dietro di lei, dal posto del passeggero, uscì Marlene.
“Sono arrivati i meccanici!”
Sirius si calò dal tetto con un salto. “Portare una gomma non ti rende un meccanico,” disse, spazzolandosi i pantaloni.
“Sfrontato, per uno che è rimasto a piedi e pianificava di dormire sotto al tavolo di un pub.”
La ragazza che doveva chiamarsi Dorcas scaricò una ruota dal portabagagli. “Lo sapete fare?”
Sirius e James si guardarono, poi guardarono lei.
Dorcas ridacchiò e ispezionò la loro auto, in cerca della gomma molle.
“Dove dormite?” Marlene si avvicinò a braccia conserte. La luce dei fari gettava ombre caricaturali sul suo volto. Avrebbe potuto trasformarsi in una fata di una fiaba, dileguarsi in una radura che gettava nell’aria porporina e polline. “Il mostro di Loch Ness è molto affamato.”
“Non avevamo intenzione di fermarci qui…” iniziò Sirius.
James disse: “Abbiamo una tenda.”
 

Casa di Marlene aveva un balcone che dava sulle montagne e la facciata che dava su una stradina sterrata che portava solo a casa sua. Era un luogo colorato di lucciole e lucine, aveva l’aspetto elegantemente trasandato che avevano a volte i posti in cui un tempo erano state date delle feste. Era come se si fossero dimenticati di tirare giù i festoni, come se ancora si riuscissero a sentire i brindisi e le risate.
Per questo, sembrava un posto in cui ogni evento trovava il diritto di essere celebrato e quindi Sirius festeggiò andando a fare pipì, perché tra birre, cambi di gomme e viaggi su strade progettate per un’auto 4x4 di cui loro non disponevano, era dura non lasciar andare almeno qualcosa.
Trovò gli altri seduti sulle sedie di paglia in balcone. La brace di una sigaretta lo guidò come una torcia.
“Lily. Solo Lily,” stava dicendo una voce nuova.
Sirius prese posto accanto a James, su un cuscino umido di sera. Guardò oltre la ringhiera, dove una montagna sarebbe dovuta cadere ai piedi di un’altra, per farle posto, ma era così buio che non avrebbe distinto un muro di pietra da un vuoto di vallata.
“Dovrai pur avere un cognome,” James parlava piano, con un tono da falò. Cosa significasse non era chiaro, ma quando c’era un fuoco in mezzo la gente parlava in maniera diversa. Era quella delle confidenze dei bambini, quando dormivano assieme, quella pronta ad ammutolire se un genitore si trovava a un passo dallo scoprirli svegli.
“Certo che ho un cognome.”
Sirius fu combattuto, perché James ci stava palesemente provando con la nuova voce e, magari, con la persona che la faceva funzionare. Quindi vendicarsi o non vendicarsi della battuta nel pub?
“Non te lo dirà,” disse Marlene. Lei e Dorcas formavano un’unica ombra al di là del tavolino. L’ombra ondeggiò e si rimodellò come una figura di plastilina, mentre una delle due ragazze si sporgeva in avanti per scrollare la cenere della sigaretta.
Non si capì come né perché, Sirius si trovò quella sigaretta passata in mano. Scrollò le spalle. Tirò.
Non era una sigaretta.
Dorcas sospirò. “Non è per fare la misteriosa, ma viaggia da sola. Tu andresti a dire al primo sconosciuto come ti chiami e dove sei diretto?”
“Sono uno sconosciuto simpatico,” si difese James.
“Questo è ancora da vedere.”
Sirius continuò il passaggio di spinello, picchiettando sul braccio di James. Espirò in una nuvola lattiginosa contro la notte. Da qualche parte il mostro di Loch Ness sbuffò salendo in superficie. “Sei inglese anche tu,” disse, voltandosi nella direzione da cui proveniva la voce di Lily, “che ci fai qui?”
“Scrocca un posto per dormire,” rispose Marlene per lei.
“Per viaggiare così bisogna sfruttare ogni risorsa.”
“Oh, ora sarei una risorsa!”
“Perché sei partita?” chiese Sirius, abbracciandosi all’altezza delle spalle. Non gli era chiaro perché si fossero messi all’esterno con quel freddo.
Lily ridacchiò, come se la domanda l’avesse colta impreparata e allo stesso tempo come se gliel’avessero fatta mille altre volte in mille altre salse e con mille altri sottotesti.
“Siamo arrivati subito alle cose importanti,” commentò Marlene.
“Non fa niente,” Lily prese un respiro. Senza poterla vedere, quel respiro sembrò un tempo musicale, un pausa in quattro quarti. “Mi è successa una cosa che mi ha fatto pensare a cosa avrei rimpianto se fossi morta presto. Non il giorno dopo, quello è troppo drastico, ti mette fretta di dire addio, di mettere a posto, di lavarti i capelli. Ma se pensi a cosa faresti se morissi ‘di qui a poco’ le tue priorità cambiano. Volevo vedere il mondo, scoprire se esiste un posto…” si interruppe con grazia. “Sapevo che Marlene mi avrebbe fatto dormire qui, quindi sono partita dalla Scozia.”
Passarono altri secondi di silenzio. Questo non era matematico né musicale. Era invalutabile.
“Figo,” commentò James. Forse non era stato brillante, ma Sirius aveva la sfortuna di conoscerlo così bene, di avere impressa a fuoco la sua testa e il modo in cui funzionava nella sua a tal punto, da capire che era impressionato.
Marlene ruppe l’ombra doppia in cui si era dissolta e afferrò una candela da uno scaffale. Dal nulla apparve una fiamma in cima allo stoppino.
“Voi? Qual è il vostro motivo?”
Lily era… diversa. Alla luce della candela i capelli rossi viravano ai lati su una tonalità più scura. Gli occhi chiari brillavano di riflessi in più punti e aveva il volto cosparso di lentiggini, al punto che si sarebbero potuti tutti mettere a tracciare linee e unirle in costellazioni. Non sapeva se anche James la stesse guardando per la prima volta, ma lo vide alzare gli occhi al cielo, dove anche tra le stelle si potevano tracciare linee e immaginare costellazioni. Non sapeva neanche se gli fosse piaciuta, questa cosa che aveva sentito Lily raccontare la storia che l’aveva condotta lì prima di vederla, un viso come un altro che in una folla forse non avrebbe nemmeno notato.
“Oh, non c’è modo di essere criptici come lo sei stata tu,” James ridacchiò a disagio e si grattò la testa.
A Sirius non importava granché. “Ho quattro mesi prima di perdere la vista. James ha deciso di portarmi in Scozia.”
Qui imparò una prima verità sul viaggio: a stento si aveva tempo per gli addii, figurarsi per la compassione.
Marlene sollevò un sopracciglio come se si fosse messa a cercare segni di bugie, poi annuì con aria solenne. “Figo.”
James e Sirius risero, era una di quelle risate lente che partivano come i motori della formula 1.
“Cioè siete venuti in Scozia? E basta?” chiese Lily.
“In che senso e basta?” James allargò le braccia. “Hai visto che bella Foyers? Abbiamo anche una tenda!”
“Dovete andare a nord. A nord della Scozia.”
James e Sirius si guardarono.
 

Gli occhi della lente

La macchina fotografica con cui Marlene McKinnon tentava disperatamente di guadagnarsi da vivere aveva un solo occhio. Eppure le bastava per catturare ogni genere di profondità.
Marlene aveva scelto il suo obiettivo con attenzione e questo si mise ubbidiente a cristallizzare un momento solo, solido in un fiume di respiri che unici non sarebbero mai stati in grado di raggiungere l’accuratezza di un ricordo. Una situazione bastava, un’ambientazione pure, un pensiero addirittura, se si prestava molta attenzione, ma anche nei ricordi più accurati nessuno tratteneva mai forme d’occhi, fremiti di sopracciglia, ritmi e sospiri.
L’occhio della macchina fotografica vide cinque ragazzi che si conoscevano in tonalità diverse sorridere al lume di una candela sciolta per metà, a suggerire la storia di una notte intera. Il resto era buio, tanto che anche la lente si sarebbe dimenticata di guardare bene e, in fase di sviluppo, avrebbe lasciato gli angoli punteggiati di segni viola scuro, troppo concentrata sui dettagli cruciali dei loro volti.
Vide una viaggiatrice sola contro il mondo, che solo qualche mese prima si sarebbe scoperta stranita dal senso di solitudine che avrebbe provato la sua versione futura. Aveva gli occhi pieni di una certa fame rilassata, tipica di chi aveva passato così tanti anni a digiunare da saper aspettare una preda con pazienza eguale alla violenza con cui l’avrebbe sbranata quando si sarebbe mostrata. Vide due amici senza un piano né un progetto, più decisi di quanto fossero mai stati sino ad allora. Vide due ragazze che si amavano al punto da dover nascondere quell’amore nelle loro ombre, che tradendole si iniziavano a fondere, in notti particolarmente magiche, all’altezza dei mignoli.
Da qualche parte, nei boschi, rami d’albero gelosi di tanta poesia le imitavano, si attorcigliavano, e gli occhi degli uomini quadruplicavano in dimensione quando dal basso li guardavano.
Il vento più violento notturno si infilava nei capelli.
Sorridevano come se ognuno di loro avesse avuto qualcosa di diverso da dimostrare, nella sfida con la vita e i suoi muri, armati di una gioventù che, fatta non di speranza ma di arroganza, li convinceva di poter vincere.
Pur avendo un occhio, l’obiettivo non aveva orecchie, ma se le avesse avute avrebbe sentito, un attimo dopo lo scatto, Marlene dire a Sirius: “È inutile che te la mando, tanto non la vedrai” e il coro di risate che si perse sulla superficie disabitata del lago di Loch Ness.
 

“Grazie per averci portato a vedere queste quattro pietre che chiami castello, McKinnon,” Sirius strinse la mano a Marlene mentre il sole si nascondeva dietro le nuvole.
Lei inclinò il viso su un lato e assottigliò gli occhi. “Io ti faccio conoscere le rovine meno turistiche della Scozia, ti do un tetto sopra la testa e una generale giornata da sballo e tu mi ringrazi così, Black?”
“Scusami, non ti capisco se parli così strano.”
“Scusami, ma mi diverto a confondere quelli che parlano con una scopa in culo.”
Si guardarono, uno scontro tra sorrisi furbi che la facevano sempre franca e che fino ad allora non avevano mai incontrato degni avversari. Marlene cedette per prima e lo strinse in un abbraccio.
“Tornate, quando potete. Almeno io voglio rivedervi.”
“Devi smetterla con queste battute,” Sirius provò a staccarsela di dosso, ma fallì e accettò il suo destino. Accomodò meglio il mento nell’incavo della sua spalla e chiuse gli occhi.
“Ti danno fastidio?”
“Un sacco.”
Marlene lo lasciò andare per guardarlo. “Perfetto, allora continuo.”
“Ora dove andrai?” James guardava Lily come se fosse già scomparsa.
Lei rise, un suono brillante che echeggiò in tutto quello spazio. “Te l’abbiamo detto. Mai dire al primo sconosciuto come ti chiami e dove vai.”
“Ma come faccio a smettere di essere uno sconosciuto?” Poco più dietro, Sirius origliava quella conversazione patetica. James suonava un po’ come un cucciolo bastonato. Era un miracolo che a Lily non facesse pena.
“Se è destino ci rincontreremo,” disse lei, muovendo i primi passi per riunirsi a Dorcas e Marlene.
Piano piano, Sirius anche indietreggiò verso la macchina. James guardò lo spazio fra lui e Lily come se si fosse aperta una voragine. “Dove?”
“Dove non arriva mai l’inverno.”
Lily entrò nell’ombra delle sue amiche e si fece sempre più un puntino all’orizzonte.
“Destino un cazzo,” mormorò Sirius entrando in macchina. James rise forte. “Se il destino esiste è più cattivo dell’uomo più cattivo mai esistito sulla Terra.”






 
NotEl: ohhh eeee buongiorno, allora.
Innanzitutto dovete prendere questa diagnosi così, magia, inspiegata condanna, è la regola.
Allora, questa storia è un po' strana. Innanzitutto nasce come one shot ma come al solito è diventata un mostro quindi la divisione dei capitoli è un po' così, come viene. Poi, i personaggi hanno intorno ai 25 anni e la caratterizzazione è stata una curiosa deviazione in più punti dalle regole fanon che amo apprezzo e rispetto nel 99% dei casi, tranne questo. Da questa introduzione non si vede bene ma assicuro un miscuglio inaspettato di dramma e commedia con l'avanzare del tempo. So che è un primo capitolo debole, ma non c'erano molte scelte sulla divisione del testo. Nonostante ciò è la storia che mi ha ridato la voglia di scrivere dopo oltre un anno e mezzo di tentativi di acchiapparla forzatamente, quindi questo è un grande momento per me olèèèè. Comunque, la posizione geografica specifica dei personaggi sarà un po' volante e incerta in certi punti, ma assicuro di aver avuto un reale percorso per tutta la stesura DUNQUE a fine storia prometto di condividerlo per chi volesse seguirlo :))
Niente spero che la premessa sia stata un pochiiiino convincente. Grazie per aver letto <3

El.

 

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Capitolo 2
*** Luci ***


Se il destino esisteva, se l’era ingoiato l’uomo barbuto sul palco, perché lo stava ruttando.
Il locale era un roteare di luci verdi, fucsia, blu. A volte, quando scivolavano negli occhi, davano l’impressione che li stessero attraversando da parte a parte e che quello che illuminavano dall’altro lato venisse dal punto opposto dell’universo.
C’era un’altra stella, così lontana che non era ancora stata scoperta e quindi non aveva un nome che sembrava un codice di recupero di una password smarrita. Attorno a quella stella orbitavano otto pianeti e nel terzo c’era un anti-Sirius che era andato in anti-Finlandia con un anti-James, perché una sconosciuta aveva detto loro di andare più a nord. E si stavano guardando, lui e il suo opposto, in un momento che era già successo in un tempo lontano. Così lontano che forse si era verificato al polo negativo dell’evento zero. E c’era quindi una possibilità che leggessero di un personaggio inesistente che leggeva di loro.
L’uomo barbuto sul palco non ruttava, in verità, perché era un cantante metal e il rutto era al contrario un growl; una tecnica vocale difficilissima che si sarebbe rivelata tale quando James e Sirius ci avrebbero provato qualche ora dopo.
“Non era questo che…” iniziò James, ma la sua voce si perse nell’onda di teste e suoni che si impennò nel locale. Poiché erano pubblico liquido, si arricciarono anche loro. “Non era questo che mi aspettavo quando Lily ci ha detto che non potevamo perderci il nord!”
Sirius guardò James e la tavolozza di luci che si muoveva sul suo viso. Gli brillavano i denti. “È troppo forte!”
E, con la stessa regolarità di un oceano, partì un’altra ondata di visibilio.
Quel posto non aveva senso. Se non ci fossero state tutte quelle persone sarebbe sembrato quasi sobrio. Si intuivano le sagome di un luogo che avrebbe potuto accogliere fonografi o tavolini per tornei di partite a carte over 70. E invece ci si ruttava. Era come violare una chiesa ancora non sconsacrata, come farsi città del metal – la musica infernale – a un tiro di schioppo dalla fabbrica di Babbo Natale.
Fiamme e ghiaccio nella stessa bufera.
Un ragazzo accanto a lui prese un sorso di birra e poi si mise a urlare. Il suo profilo, sovrapposto alle luci stroboscopiche dall’altro lato, brillava in ombra come una foto in negativo.
Si voltò e incontrò i suoi occhi.
Il vetro trasparente della bottiglia raccoglieva le luci del locale e, presi i panni di un prisma, le rispediva così alla rinfusa da fondare un inferno per fisici. Nessuno dei loro calcoli li avrebbe condotti alla realizzazione più intima che le bottiglie erano come quadranti di orologi. Da polso, a pendolo, da esecuzione. La lancetta scoccò una volta, poi frenò a un passo dallo scoccare ancora.
Uno. Due. I prismi si arrestarono, le luci pure.
Ripeti da capo.
Si voltò e incontrò i suoi occhi.
Incontrò i suoi occhi.
La lancetta vacillò, lottò per riprendere il conto che aveva perso.
Incontrò.
“Perché sorridi?”
“Ah?”
L’uomo sul palco tornò a ruttare, le luci a girare, le persone a scatenarsi. Il ragazzo si avvicinò. Sorrideva. “Ti ho chiesto perché sorridi,” gli disse all’orecchio, le parole si fondevano ai bordi col chiasso.
Sirius non se ne era accorto. “Non lo so,” gli rispose e non doveva aver avuto lo stesso effetto della sua domanda, perché non gli aveva parlato nell’orecchio.
Il ragazzo annuì e non staccò gli occhi dai suoi mentre prendeva un altro sorso di birra.
Poi la mano di James si strinse attorno al polso di Sirius e lo trascinò da un’altra parte.
 

Gli ostelli erano un concetto curioso, perché avevano una tendenza più o meno celata a farsi microcosmo.
In generale, sapevano essere contro ogni aspettativa un luogo discreto e, nella loro discrezione, evidenziavano la necessità di averne. Era la dichiarazione di possedere una storia e la gentilezza di non doverla per forza comunicare. Il che era vero in realtà per ogni posto al mondo, ma era più difficile ricordarsi che ognuno aveva davvero una vita, un attorcigliarsi eventi, quando quel posto era un autobus.
Questo perché sull’autobus era più facile restare assorbiti in se stessi.
Gli spazi comuni degli ostelli a volte riflettevano questa loro qualità. Ad esempio Sirius per farsi un caffè doveva fare lo slalom tra fotografie appiccicate con scotch, punesse, pasta adesiva, spille, aghi per cucire e doveva piegare la testa per evitare mensole lunghe ricavate da tavole da surf.
Uno smetteva di chiedersi più o meno subito cosa ci facesse una tavola da surf nell’inverno fatto nazione, perché non era l’oggetto più strano che si trovava in giro.
Lanciò un’occhiata alla sveglia che lampeggiava numeri verdi squadrati in un angolo della stanza. Le quattro e quarantasei. Alla fine, quando la luce del frigo lo investì, optò per una birra.
Ne prese due e lasciò i soldi in un cestino lì vicino. Tintinnarono come uno battito in una chiesa o come una forcina che cadeva in un mercato. Era difficile dirlo, dipendeva dalla consistenza che si voleva dare al buio.
Alla fine delle scale c’era una finestra aperta, perché lungo il corridoio dell’ultimo piano non c’erano camerate. Le tende garrivano come bandiere di una nave pirata. Oltre, si usciva su un balcone incastonato nel tetto. La geometria al rovescio dava la sensazione, a chi ci stava in piedi per un po’, che fosse facile scivolare giù.
“La patria del metal,” disse una nuova voce alle sue spalle, le parole si seccavano ai bordi nel tipo di silenzio di cui si riempivano a volte le città, quando erano a qualche notte di distanza dal trovarsi innevate. “Che te ne pare?”
Sirius si voltò mentre il nuovo ospite del piccolo balcone si sedeva accanto a lui. “Tu sei il tizio del locale!”
Il ragazzo annuì. Aggrottò le sopracciglia in una richiesta muta, mentre col dito indicò la birra in più lasciata chiusa tra di loro.
“Prendila,” e, per qualche secondo, lo osservò stapparla e girarsela in mano, “che fai, mi segui?”
“O era solo molto probabile che un turista nel bar stesse all’ostello a cinquecento metri.”
La città, ostruita dalle sbarre in ombra della balaustra, che da quella angolazione l’occhio non poteva aggirare, era un luccichio sommesso che si gettava nel vuoto del mare. Se aguzzava la vista, e forse anche un po’ la fantasia, vedeva anche la ruota panoramica con la sua cabina scura, come il primo dente perso di un bambino.
“È un po’ tardi per fare il saputello, no?”
“In realtà è presto,” rispose lui. Sirius annegò un insulto in un sorso di birra. “Però ti ho seguito quassù.”
“Grazie per aver rispettato la mia privacy.”
Lui scrollò le spalle, una mano reggeva mollemente la bottiglia. “Uno che vuole privacy non porta due birre.”
“Ne volevo due.”
“Okay.”
Si guardarono, poi il ragazzo si mise a ridere e si inclinò nella sua direzione, porgendogli una mano.
“Remus.”
“Sirius,” rispose accettandola. I respiri si solidificavano a metà strada in nuvolette di condensa.
Avrebbe voluto vederlo sotto una luce normale, quando i capelli soffici non si facevano trasparenza attraverso fari stroboscopici, quando la notte non gli intesseva un velo nero davanti alla faccia che lo rendeva solo un gioco di ombra che ammutoliva ogni colore.
“Da quanto sei qui?”
Sirius alzò gli occhi al cielo. “Un paio di giorni.”
A quel punto Remus si accese una sigaretta e fu un gesto pesante. Il genere di cosa che si nascondeva a volte nei portamenti. Il tono caldo della luce sulla punta dissotterrava sfumature che alle notti di tutto il mondo piaceva sempre nascondere con l’altro lato dello spettro.
“Tu da quanto sei qui?” e, mentre Sirius lo guardava sollevare e abbassare il pomo d’Adamo in controluce, pensava che non voleva smettere di vedere.
“Qualche giorno. Domani parto,” disse Remus espirando.
“Torni a casa?”
“No.”
“Dove vai?”
Remus inclinò la sigaretta nella sua direzione. Sirius non sapeva se gliela stesse proprio porgendo, quindi si sporse e rubò un tiro. Lui mosse la mano, Sirius gli sfiorò le dita con le labbra.
“In Lapponia,” rispose Remus alla fine. Aveva il tono sgonfio, come se fosse stato sull’orlo di rispondere così prima di quel contatto e ora si stesse limitando a ripetere le parole di un ricordo. Sirius sorrise e sperò che al buio non si notasse. Non gli sarebbero mai serviti tutti e cinque i sensi per usare quel tocco magico che definiva il sesto.
“In Lapponia,” ripeté, assaggiando la parola come se fosse stata insieme una presa in giro e un elemento del mondo cruciale da considerare. “E perché sei partito?”
Sirius si voltò a guardarlo: aveva imparato dalle precedenti esperienze che era sempre meglio sfruttare tutta la luce possibile durante questo genere di domande. Remus prese un tiro e aggrottò le sopracciglia, le guance incavate dettavano il ritmo del crepitio all’estremità della sigaretta. Aspettò di soffiare prima di rispondere. “Sono ricercato e sto scappando.”
“Ah, sì?” Sirius rise, una cosa tagliente che non voleva dargliela vinta. Era diventato cruciale avere la meglio in questa conversazione con questo sconosciuto. “Da chi scappi?”
“Dalla polizia, da chi altrimenti?”
“Da tantissime cose. Un agente, una regola, un debito, un criminale, un usuraio…” Sirius si avvicinò, abbastanza perché il loro sfiorarsi diventasse un contatto. “Un amante,” concluse, a un passo dal suo viso.
Si guardarono negli occhi per qualche secondo o qualche ora, volte di riflessi simili per convessità a sfere celesti o a quadranti di orologi. Sirius abbassò lo sguardo sulla sigaretta. Non mosse la testa, fu solo un battito di palpebre.
Remus sollevò la mano per farlo fumare.
“E che hai fatto?”
“Ho rapinato una banca.”
Sirius annuì espirando. “Quindi ora sei ricco?”
“Solo tecnicamente… posso stendermi? Sono esausto,” indicò le gambe di Sirius. Lui sollevò un sopracciglio, ma annuì piano. “Quando rapini una banca non puoi mica comprare tutto quello che vuoi subito, deve passare un po’ di tempo, così non si chiedono dove hai preso tutti quei soldi.”
“Lo sai che ora ho abbastanza informazioni per consegnarti?”
Remus sorrise dal basso e tutto quello che non gli aveva detto con la messinscena della rapina lo tradì con quel sorriso. Era una cosa complessa, come lo possono essere a volte le strette di mano ai colloqui o la fama. Era qualcosa che non si sarebbe fermato un attimo ad analizzare, se non si fosse trovato su un balcone in Finlandia, vestito più di buio che di poliestere. Era un taglio, una nota alta di violino, una cosa graffiata con ostinazione. “Non farai la spia, lo so,” disse Remus e chiuse gli occhi. Era un lusso che si potevano concedere quelli che non camminavano con una sentenza appoggiata sulla noce del collo.
Sirius non era stupido, anzi camminava per il mondo convinto che fosse sempre il caso di cogliere un’occasione, a volte anche quando non era la sua. Fece scivolare le dita nei capelli di Remus e non si chiese come fosse finito lì, tanto per cominciare. “Sei uno che pianifica molto, eh?” La verità era che non lo sapeva, era cresciuto con l’idea che leggere gli altri servisse solo a sfruttarli successivamente. Era nuovo a questo gioco.
“Mh, un sacco.”
“È molto grave, fa male alla salute.” Inclinò il viso su un lato, lo guardò ancora, le palpebre di colpo pesanti rispondevano più al torpore che al sonno. Un altro paradosso di quel paese. Le ciglia di Remus si piegavano sulle guance, la pelle era segnata da qualcosa che sembrava vento. “Dove hai detto che vai?”
 

“Porca puttana!” gridò James, lasciandosi cadere di peso con la schiena contro il sediolino.
In generale, ci si aspetterebbe che simili esclamazioni, davanti al silenzio innevato della Lapponia, fossero modi coloriti di esprimere meraviglia e che il cadere sul sediolino fosse un’ulteriore e teatrale modalità di accompagnare l’imprecazione.
E invece no.
Era stata una frenata a farlo urlare e sempre la frenata l’aveva scaraventato indietro.
Sirius cercò il suo sguardo, un braccio sollevato per reggersi ai manici del van.
“Ha-ha!” l’autista prese un’altra svolta allucinante. Era l’autobus degli allegri cartoni animati, in cui iniziare a cadere corrispondeva al tempo che ci si metteva a rendersi conto del baratro, correre significava rendere le gambe un mulinello e sfrecciare su un mezzo valeva a dire vederlo muoversi come se qualcosa, dall’interno, scalpitasse per uscire. “Oh, poffare. Poffarissimo! È tardi, è tardi, è tardi!”
Remus ridacchiò. Sedeva rilassato e mezzo arrotolato su se stesso come un gamberetto. Era possibile che fosse una tecnica per incassare meglio i colpi della guida sportiva dell’autista.
Alle loro spalle sedevano altri tre passeggeri: un uomo francese con i baffi ricoperto da uno strato spesso di paura, una donna danese che forse stava indossando tutte le collezioni di Desigual mai concepite in contemporanea e il suo ragazzo, che se ne stava seduto ritto e impassibile.
Era andata così:
 
“È fantastico che abbiano più saune che dita dei piedi, in questo paese,” disse James, lasciandosi praticamente scivolare via sulla panca di legno insieme a tutto il suo stress. Aveva gli occhiali appannati, la versione rovesciata di cugino Itt.
“Eliminerei i discorsi sulle parti del corpo,” disse Sirius, appena più che un mormorio. Aveva la testa reclinata su uno dei gradoni della sauna e gli occhi aperti abbastanza per sembrare più vittima di una lobotomia che del sonno.
“Volevo un’esperienza immersiva.”
“Io no.”
James sospirò. “Remus, scusa, mi fai un favore e ti copri gli occhi?”
Lui, dall’altro lato della stanza, annuì con una risata sulla soglia del via. Sirius alzò la testa nel momento sbagliato. James afferrò l’asciugamano che teneva in grembo, lo fece roteare per accorparlo in un unico siluro micidiale e poi lo usò per picchiare Sirius.
“Ma che cazzo…”
“Grazie, pensavo ne avessi visti abbastanza da non restare più a bocca aperta!”
Sirius scappò dall’arma-asciugamano del suo amico. “Non dirlo mentre sei nudo!”
“Davvero non c’era bisogno che entrassi nudo,” si intromise Remus, che aveva ancora gli occhi chiusi e se ne stava tranquillo mentre il resto della stanza diventava un’arena.
“Ve l’ho detto. Volevo l’esperienza immersiva!”
Prima che qualcuno potesse ribattere la porta della sauna si aprì. Il vapore fece spazio a un uomo che doveva avere dieci o sessant’anni. Non un’età compresa tra i dieci e i sessanta, ma o dieci o sessanta. I baffi brizzolati erano l’unica traccia pelosa su una testa altrimenti completamente ovale e liscia. Gli occhi azzurri brillavano di una qualche scintilla di folle iridescenza, come se le luci si fossero sbagliate. “Oh, salve!” esordì in inglese, l’accento irrigidiva le parole. Diede solo una rapida occhiata a James, nella sua interezza, il che provocò uno sguardo di silente perplessità tra i due amici, congelati ancora a metà della loro lotta. “Se siete a vostro agio siete già a metà strada!” e con questo si liberò anche del suo asciugamano.
James riprese posto con una timidezza che non gli era mai appartenuta in venticinque anni di audacia ingiustificata e srotolò lentamente l’asciugamano sulle gambe come se all’interno ci fossero state scritte cruciali informazioni di pergamena.
Remus schiuse un occhio, il tempo di constatare la situazione, poi un sorriso pigro gli strisciò sulle labbra.
“Visto che avete spirito finlandese, che ne dite di birra e makkara?”
“Maracas?”
L’uomo scoppiò a ridere, era una di quelle risate che suonavano come un palloncino ansimante. “Salsiccia.”
“Certo,” Sirius allargò le braccia, “cosa se non la salsiccia?”
“Questo è lo spirito giusto!”
Sirius schioccò le dita e lo indicò, strizzandogli l’occhio.
Qualche minuto dopo, bevevano birra e mangiavano salsicce che sudavano il doppio di loro.
“Di dove siete, Londra?” domandò l’uomo rotondo. Riccioli di peli bianchi correvano su avambracci e spalle, la pelle arrossata dal calore.
James e Sirius annuirono.
“Bradford, vicino Leeds,” disse Remus, ripulendo il mento dal grasso con le nocche.
“Vi siete conosciuti lungo la strada?” Quando i ragazzi annuirono, l’uomo chiuse gli occhi e sorrise beato, come se un pomeriggio in sauna con birre, salsicce e tre ragazzi inglesi fosse stato il momento che aveva aspettato da sempre. “Mi riporta ai tempi in cui con la vita si era aggressivi, sapete, quando andavamo a…”
Li guardò, le sopracciglia contratte. C’era una possibilità che soffrisse di perdita della memoria a breve termine e si stesse chiedendo se i tre sconosciuti davanti a lui avessero in mente di rapinarlo di… be’, non c’era molto da rapinare se non i gioielli di famiglia.
“Avete da fare stasera?” disse invece.
Sirius si voltò verso Remus in tempo per vederlo distendere la fronte e serrare la mascella. Era un gesto minore della sicurezza, più incline alla vittoria. “No, vero?” chiese alla fine e nessuno ebbe da ridire.
“Bene. Presentatevi al tramonto. Vestiti.”
 
Dove avesse pescato gli altri tre personaggi era rimasto un mistero. Quando il loro autista oviforme si era presentato all’appuntamento erano già lì.
L’auto sbandava, se avesse potuto avrebbe anche impennato. E poi era buio.
I fanali illuminavano un mondo circolare in cui esisteva solo la strada bordata di neve, qualche svolta e cartelli di tanto in tanto, la vernice catarifrangente gettava luci imprevedibili attorno a loro. Quasi nel punto di fuga si riuscivano a vedere i pini innevati, come guardiani di un mondo notturno ostile agli usurpatori. Paradossalmente, il cielo era di una tonalità appena più chiara della notte che gettava sulla Terra.
Si sentiva il rumore della neve sotto le ruote, spazzata ai lati al passaggio del minivan.
“Ci siamo quasi!” gridò l’uomo, il dito che picchiettava su un affare che aveva l’aspetto di un navigatore e una funzione assai più ampia.
L’esclamazione non lo incentivò a smettere di guidare come un pazzo.
“Lo spero,” commentò James, togliendosi gli occhiali. Forse sperava che non vedere abbreviasse i tempi.
“Questo è un lavoro duro, ragazzo, non è mica un safari.”
Sirius era d’accordo. Non era affatto un safari… così come non era un koala, un aquilone, una crema per piedi secchi. Non c’entrava nulla il safari.
“Inizio a pensare che abbia qualche rotella fuori posto,” Remus gli sussurrò all’orecchio.
“Inizi a pensa…? Adesso? Non quando ha messo piede nella sauna?”
Remus rise, sbuffi ritmici nel suo orecchio. Gli piacque, quindi lo guardò. “Io so cosa sta facendo.”
“Davvero?”
“Mh-mh. Ho studiato qualcosa sulla Lapponia prima di venirci, non ho seguito il primo sconosciuto con cui ho parlato.”
Sirius fece schioccare la lingua, uno sfarfallio di sguardo che passò dagli occhi alle labbra di Remus più velocemente del tempo che ci voleva a notarlo. “Non sei il primo sconosciuto con cui ho parlato, sei solo il primo che mi è piaciuto.”
“Mi raccomando,” l’autista lanciò una bottiglia di plastica nei sedili posteriori. Colpì James in fronte. “Non possiamo fermarci, se vi scappa fatela qui.”
Poi virò di nuovo di scatto, probabilmente a duecentomila chilometri all’ora. La bottiglia trovò il modo di colpire di nuovo James. “Se scappa cosa, una bestemmia?”
L’allegra combriccola rise.
“Ci siamo,” disse di colpo l’uomo. Era anche il caso, perché erano in macchina a scivolare nel vuoto da oltre due ore. Nello specchietto interno, sotto la luce soffusa dell’apparecchio simile a una mappa che aveva iniziato a sputare valori incomprensibili, il suo sguardo si congelò. Non era spento, tutto il contrario. Era quel tipo di concentrata determinazione di chi non poteva ancora cantare vittoria.
Per il resto, non era cambiato assolutamente nulla. Anzi forse il bosco si era fatto più buio.
“Scendete! Siamo in uno slargo.”
Con celerità anche superiore a quella con cui si alzavano le mani davanti a un arresto, i ragazzi scesero dal van.
Lo slargo c’era davvero, una chiazza innevata che avrebbe potuto essere con uguale probabilità un laghetto ghiacciato o l’impronta lasciata da un dinosauro millenni addietro. Il problema era che non c’era nient’altro.
Silhouette di alberi fatti solo di oscurità si stagliavano su un nero di un cielo vuoto. Le stelle lo osservavano come lui osservava la domenica pomeriggio i concorrenti dei reality americani mentre si rendevano ridicoli. Anzi forse, con tutti quegli anni luce di distanza, avevano addirittura la fortuna di non vederlo proprio; di vedere invece il loro autista, più giovane e spigoloso, oppure l’era glaciale, oppure una palla di fuoco che non era ancora diventata la gabbia e insieme la vittima di otto miliardi di animali in piedi su due zampe.
Il silenzio avviluppava quella visione spoglia nel sedativo della neve, finché quel pazzo scriteriato di James Potter non si mise a urlare.
“Oh cazzo!” disse, poi si spiaccicò una mano in faccia e con quella una deformazione tutta nuova. “CAZZO!”
Sirius seguì la direzione del suo sguardo. L’aveva sempre fatto perché era così che seminavano le grandi idee.
Una frusta sottile di luce camminava in punta di piedi da sinistra. Era una cosa discreta, quasi un trucco del buio, simile a quelli che ci si procura a volte quando si chiudono forte gli occhi e ci si preme gli indici sulle palpebre. Intenso quanto una promessa non mantenuta.
Si avvicinò, spargendo il suo colore sul resto del cielo, diluendosi in un’illusione che lasciava i suoi spettatori a chiedersi se in fondo il cielo non fosse sempre stato un po’ verde.
Sirius rilassò le spalle, non si era accorto neanche che si trovavano più in alto di quanto dovevano. Spazzò con una mano alla cieca accanto a sé, per avvertire Remus di alzare la testa. Era un gesto stupido, perché lo stavano già facendo tutti.
La notte esplose.
Erano lance che dal basso sembravano fumo dritto, metro di quanto il cielo fosse ampio. Montagne di riccioli, forse si potevano toccare, forse bruciavano come un fulmine oppure come un bacio non dato.
Si muovevano come serpenti. Anzi come danze. Come sabbia lasciata cadere secondo la direzione del vento. Come ali di pappagallo, folle che cantano, onde che capitolano. Forse nessuna similitudine sapeva essere completa, forse non c’era nulla al mondo come l’aurora.
Più lenta di una bandiera, più veloce di una nuvola. Al ritmo della corrente? No, di un soffio di paura.
Si incendiò, bruciò su se stessa. Non era un grido, perché quello era un tratto quasi esclusivamente animale, la disperazione.
Il quarto stato della materia, la quarta dimensione, il quarto e ultimo stadio, dove si esibivano i più grandi, la musica che risaliva come fumo su per una città senza un nome. Che cosa c’era, lì dove finivano tutti i supereroi? Quale routine, quale vicino e con che prato, quale nota di violino, quale partita di calcio? Si salutava? E c’era un nome per ogni saluto? Una distinzione anche minima tra buongiorno, arrivederci, benvenuto, a dopo, a presto, bentornato… addio? A Dio non ci si pensa? Ha Dio il potere vero di plasmare tutto questo? Ha un dito inventato sia i Pilastri della Creazione che la depressione? O Dio sono due o cento, cinquemila, tanti quanti gli atomi? Se l’infinitamente grande era una stella e l’infinitamente piccolo una particella, perché bisognava tarare tutto sulla propria altezza?
Questo non lo posso scrivere in una lettera, pensò Sirius. Nella tasca del cappotto più infinito che avesse trovato prima di partire, il peso del taccuino lo tirava giù. Una tonnellata per ogni colpo d’inchiostro, una tonnellata per ogni rimorso. Lo tirò fuori nel buio rotto solo dalle luci più impossibili della Terra. Si tolse un guanto, il gelo lo morse.
Scappucciò la penna.
Sulla pagina nuova, ruvida per aver sorretto il peso delle parole incise su quelle precedenti, scrisse alla cieca: ‘Finlandia. Il prezzo di non vedere tutto ciò che non ho visto è il ricordo di tutto ciò che ho visto’. Poi intascò il taccuino.
Il verde là sopra vibrava, James si avvicinò e gli lasciò cadere un braccio sulle spalle.
“Questo è per tutti i verdi serpenti, prima gli vuoi bene e poi te ne penti,” disse James, “BLEEEH.”
Ci fu un attimo di silenzio. Poi inaspettatamente lo stoico danese si piegò in due e cominciò a ridere. L’aurora ondeggiò con frequenza simile.
“Ma come ti è uscito?” chiese Remus.
“Non lo so, ci ho pensato mentre guardavo. È stato un picco di ispirazione.”
“Io mi sento molto ispirato a metterti la neve nel letto, stanotte,” disse Sirius.
“Provaci e io ti metto la neve nel culo, stanotte.”
“Mh, sexy!” Sirius avrebbe continuato con le minacce, perché era più bravo di James ed era divertente vederlo perdere, ma Remus gli afferrò il mignolo e lo strinse al suo.
Era un contatto virtuale, perché i guanti non lasciavano passare quel genere lì di calore. Lo guardò, la luce c’era e non c’era, ma era abbastanza perché riuscisse a vedere i suoi occhi non tanto in alta definizione ma in riflessi di colori impossibili.
Il mondo non aveva senso.
Un mese prima James gli diceva ‘partiamo’ con il riflettore posto al di sopra del tavolo e una stanza di ombre grosse il doppio delle luci che pubblicizzava, ogni sorriso valeva due lacrime che non aveva mai pianto, perché sarebbe stato come chiedere al sole di coprirsi. Ora Sirius era lì, legato a doppio mignolo a uno sconosciuto con l’aurora boreale negli occhi, il braccio di James smollato su una spalla. Un ossimoro, che fosse lui a sorreggerlo. Non gliel’avrebbe mai detto, perché sarebbe stato come chiedere a un proiettile in volo di non colpire.
“Sirius,” gli disse James in un orecchio, era un’ombra di capelli disordinati e occhiali, “una domanda un po’...”
“Mi vuoi dire che mi ami?”
“No. So che è stupido, ma…” ridacchiò, vetro antiproiettile ma comunque trasparente, “ci hai pensato anche tu? Senza alcuna ragione, come se qualcosa te lo ricordasse… Non lo so.”
La cosa complessa delle amicizie così intense era che tre parole incoerenti erano abbastanza per capire un concetto, la sua implicazione e la sua genesi.
James se ne pentì, fece marcia indietro. “Lascia sta…”
“Sì, un po’,” lo interruppe Sirius.
Un po’ era riduttivo.
 

Gli occhi di Roope

Il signor Roope da giovane inseguiva il cielo finché non esplodeva, finché non s’infiammava, finché anche nei mesi più bui non si riscopriva a sperare che il sole non prendesse mai il timone.
E poi aveva smesso di cacciare l’aurora.
Non era solito portare turisti in giro con Jukka, perché c’era sempre qualcuno con loro che non l’aveva mai vista. A volte una ragazza, a volte un parente, a volte un amico conosciuto solo una notte e poi dimenticato. Altre volte non servivano occhi nuovi, bastavano lui e Jukka.
E la caccia era una corsa, uno sgommare di rincorse, di previsioni, di svolte, di ‘a destra, veloce!’, di ‘non stasera, l’abbiamo persa’.
Ma non avrebbe avuto alcun senso, no? Correre da soli su una strada raffreddata, senza Jukka che gridava indicazioni, che sognava una vecchiaia passata a inseguire il momento fuggevole in cui la fisica si trasformava in spettacolo.
Roope non pianse, guardando la sfumatura esatta che trent’anni prima aveva visto un’ultima volta negli occhi del suo migliore amico, prima di perderlo in un tempo che era scaduto con anticipo crudele. Non pianse perché era cresciuto nello stesso tempo crudele in cui era rimasto intrappolato Jukka, quello in cui una lacrima era concessa solo ai deboli, alle ragazze che si innamoravano e alle creature che venivano al mondo.
Chissà perché si poteva piangere solo quando si era nuovi di zecca.
Però pensò che a portarlo lì quella notte fosse stato Jukka, con indicazioni più complesse e indecifrabili, traducibili solo nella frequenza identica che aveva udito nella risata di un ragazzo nudo che ne picchiava un altro con un asciugamano, nel modo in cui, per quanto il mondo andasse avanti, ci si legava più o meno sempre alla stessa maniera.
Quindi invece che piangere si voltò verso i due ragazzi inglesi, le facce fuse in un’ombra in cui nascondevano un sussurro, una confidenza.
Era sulle liste dei desideri di mezza popolazione, vedere l’aurora boreale, ma il fatto era che, come tutte le altre cose da vedere, di diverso da una fotografia aveva il fatto che era un’esperienza, che erano i contorni che si tagliavano nelle inquadrature dei video e dei time-lapse, il punto. Il punto erano le battute fuori luogo, la macchina che sfrecciava, l’incidente di percorso, la salsiccia nella sauna che sorprendeva ogni turista.
Li avrebbe voluti separare, gli amici che gli ricordavano lui e Jukka, dire: ‘se vi volete così bene, uno di voi dovrà portare sulle spalle tutto il dolore’.
Non li separò, però, perché era certo che lo sapessero, che ci fosse un indizio del motivo per cui erano lì, se non avevano capito finché non si era accesa l’aurora il motivo per cui andava forte come un treno nel minivan.
Guardò i suoi nuovi amici stranieri, guardò l’aurora. Guardò tutto quello che poteva, perché era un regalo e lo sapeva ora che l’aveva sprecato.






 

 


NotEl: Devo dire una cosaaaaa che avevo dimenticatooooo di direeee, quindi la dico anche qua, perché è nell'introduzione ma tanto nessuno la legge. Questa storia ha una ship non taggata perché è: spoiler OLE e di più non posso dire. Se siete il tipo di persone che morirebbero piuttosto che imbattersi per sbaglio in qualcosa che non amano vi rispetto ma questa fic non fa per voi perché io starei tentando di sorprendervi ahahah per l'efficacia vedremo strada facendo. Comunque non è una main ship cioè mo non è che tiro fuori una follia dal cappello, niente allarme.
Ciò detto io vi ringrazio per aver letto, anche i pezzi più wtf (ne sono consapevole) e ci vediamo prestooo (la storia è già finita, ci metto tempo a postarla solo perché tra un capitolo e l'altro tento di tradurreee).

El.

 


 

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Capitolo 3
*** Punture ***


Il sole tramontava da qualche parte dietro montagne bordate di verde. Gettava luci ambrate sul cielo terso di novembre, accompagnando il volo di uccelli che in ombra diventavano indistinguibili. La strada stessa curvava dolcemente attorno a un muretto alto poco più di un metro.
James e Remus discutevano con un uomo che sembrava aver contato ogni stagione sulle rughe sul viso. Parlava attraverso una barba che cresceva solo da qualche giorno, con note che rendevano l’inglese una lingua più complessa e simile a una canzone.
Il caldo e l’umidità ristagnavano su avambracci e dita, mettendo in risalto le vene.
James annuì. Avvenne un passaggio di soldi colorati, poi arrivarono le moto, sulle targhe riccioli di lettere misteriose.
“Ha un amico,” gli disse Remus, porgendogli un casco. “Le consegniamo a lui a sud.”
“Ma che fa, si fida?”
Remus inclinò il capo in direzione del garage, dove James si rigirava ancora le chiavi tra le dita. Parlava con il proprietario come se avesse guadagnato il suo rispetto con una partita a carte. “È un grande oratore.”
Sirius rise. “Chi, James? Crede di esserlo, ma dice ‘anche a te’ quando gli fanno gli auguri di compleanno.”
“A volte la sicurezza basta.”
“Remus, dimmi la verità. Siamo entrati in un giro di criminalità thailandese? Me lo puoi dire, anzi è molto eccitante, mi sta bene.”
Lui strinse le labbra per non sorridere. Era diventata una specie di presa di posizione, non ridere quando diceva una stupidaggine. Sirius lo sapeva perché aveva imparato a notare la cicatrice sul labbro inferiore, appena più che una linea di pastello, che sbiancava quando distendeva la bocca.
“Dovevate far parlare me.”
“L’ultima volta che sei stato lasciato senza supervisione hai quasi fatto ribaltare un chiosco.”
“È stato un incidente!”
“È successo lo stesso.” Remus si strinse nelle spalle.
“Sei molto più cattivo con me che con James.”
“Perché lo apprezzo molto.”
Sirius si mise in sella alla moto di Remus, si sporse in avanti, superandolo con un braccio, e girò la chiave. Illuminò un triangolo di luce sulla strada davanti a loro. “Chi disprezza vuol comprare,” gli sussurrò all’orecchio.
“Non ho detto che ti disprezzo,” disse Remus, mostrandogli solo il profilo.
 

Ecco cos’era successo.
Remus aveva un progetto e il progetto, dopo la Finlandia, era cambiare completamente temperatura e fetta di mondo. Ufficialmente era ancora perché aveva rapinato una banca, ma gli indizi raccolti nel tempo puntavano a un diverso tipo di fuga. Sirius stava cercando di non farne un’ossessione e di non pressarlo con le domande, il che comportava almeno tre domande al giorno con inflessione forzatamente disinvolta. Remus non si arrabbiava, ma non gli rispondeva.
L’unica volta che si era lasciato davvero sfuggire qualcosa era stato all’improvviso, mentre bevevano cioccolata calda, in seguito a nessuna domanda affatto. Aveva detto: “Non è vero. Quando dicono che scappare non risolve nulla, perché i problemi li porti via con te… non è vero. Non strettamente, comunque.”
James e Sirius avevano alzato gli occhi dalle loro tazze e lo avevano guardato, ma lui non aveva ricambiato nessuno sguardo, continuava a girare la cioccolata con un cucchiaino e a leccarlo prima di ripetere l’operazione da capo.
“Non è vero mai niente, quando dicono qualcosa come se fosse una regola, no? Ogni estremo implica il suo opposto, che sia per disgusto, paura di riscoprirsi attratti o esclusione. Quindi quando qualcuno dice che non è vero che si può ad esempio essere amici di un ex in realtà vuol dire che non è vero sempre. Ci sono state troppe persone e troppi anni per dire che è impossibile che qualcosa accada, per avere una posizione estrema.”
“Dove hai detto che vuoi andare?” aveva chiesto Sirius. Lo aveva guardato di sottecchi, perché sapevano entrambi cosa era successo l’ultima volta che gli aveva fatto quella domanda.
“Voglio finire in Australia, partendo dalla Thailandia.”
James e Sirius si erano guardati. Con un respiro profondo, James aveva sgranato gli occhi e aveva concluso il tutto con uno sbuffo. “Fino a quando?”
“Più o meno il nuovo anno.”
James e Sirius si erano guardati di nuovo.
“Perché diavolo viaggiate senza neanche preoccuparvi di dove andrete dopo? Avete una data di scadenza?”
Sirius aveva preso un sorso dalla sua cioccolata, con tutta la calma del mondo. Oltre la finestra biancheggiavano le cime degli alberi innevati. “Vacci piano, Lupin.”
James aveva riso. “Facciamo le nostre valutazioni.”
“Sembrate una iena e un avvoltoio,” aveva mormorato Remus, la faccia nella tazza.
“Chi è la iena e chi l’avvoltoio?”
“Non ho ancora deciso.”
Sirius aveva annuito, il sorriso di chi la sapeva lunga. “Mentre ci pensi, ti servono due compagni di viaggio?”
“Davvero volete venire con me?”
 

Il sole tramontò dietro una montagna bordata di verde, i fari squarciavano una cosa più densa del buio che sarebbe arrivato, una melassa di umidità e odori dolci e striati. Sirius mantenne la mano destra sui fianchi di Remus, ma si sbilanciò indietro sul sellino puntando il braccio sinistro. Le ultime lacrime di sole gli bagnarono arancioni il viso a chiazze, dove foglie e fili della corrente glielo consentivano. Erano come gli aloni delle macchie di sugo sulle carte delle pizze. 
Era un caldo diverso da quello che Sirius percepiva a volte quando anni prima la scuola finiva e le strade alberate percorse in moto diventavano più leggere, forse ingentilite da una sonnolenza simile a una concessione. Era un caldo diverso da quello della conquista di un pallone da calciare finché ancora si distingueva nella penombra del tramonto ritardatario. Era una vita diversa, in fondo, quella in cui scappava a casa di James nei pomeriggi senza compiti. Una vita in cui c’erano ancora tutti e nessun litigio era esploso e nessun rimorso si formava sul fondo e nessuno manteneva ancora i segreti.
Era un caldo diverso perché le montagne lo pressavano ai lati, asfissianti come un abbraccio che ancora non aveva capito se gli piaceva. E anche perché aveva almeno dieci anni in più e il vento che gli remava contro portava l’odore di un ragazzo misterioso che sorrideva ferite non del tutto cicatrizzate e che guidava la moto.
Guardò tutto questo e il modo in cui curvava.
“Ci fermiamo oltre le mura,” disse James, nel soffio d’aria in cui passò.
Sirius reclinò la testa indietro e respirò forte. Il cielo era rosa e ogni cosa era feroce. Non ti sembra mai che se guardi troppo a lungo il mondo poi questo ti punga?
Aveva la sensazione che in quell’ultimo tratto di strada – che fosse fino in città o fino in Australia non lo sapeva – qualcosa si sarebbe spezzato. Era fragile tutto, la vista come alcuni equilibri, e a stare lì, dall’altra parte del mondo, c’era il rischio che nulla di ciò che conosceva avesse senso.
 

Oltre una porta di mattoni, dei faretti posti a terra a intervalli regolari fecero da linea d’arrivo.
Come per ogni gara, alla fine c’era una festa.
Le strade erano invase da bancarelle, chioschi, retri di pick-up, semplici tavolini sormontati da ombrelloni e tende. Migliaia di oggetti brulicavano in esposizione, da stampe a palline di patate dolci, passando per sculture piccolissime e granite dai colori sgargianti. Parcheggiarono le moto in una stradina laterale. Nessun lampione la adornava, l’unica fonte di luce era una lanterna bianca all’ingresso di una casa. Per il resto, la sera si stendeva su un cielo che iniziava a scoprire le prime stelle.
“Che succede?” chiese James a una ragazza, quando tornarono tra i capillari più attivi della città quadrata.
“È il mercato della domenica,” gli rispose. Ma era già un’eco, trasportata via dal fiume di persone e voci.
“È il mercato della domenica,” ripeté lui, facendosi strada controcorrente. Sirius e Remus lo seguirono, “per fortuna ce l’ha detto lei, perché non mi sarei mai accorto che questo è un mercato e che oggi è domenica. Oh, cazzo!”
Sirius si voltò di scatto per seguire lo sguardo di James. “Che?”
“Sono scorpioni su uno stecchino!” poi proseguì.
 

“È la situazione a essere romantica, la convenzione sociale è nata da quello.”
James scosse la testa, poi addentò un oggetto che sembrava un taco in miniatura. “No, Remus, è la candela a rendere la tavola romantica, è così che si capisce che tipo di cena è.”
Erano seduti a un tavolo di plastica alto un metro o poco meno. La pittura blu era sbucciata e scolorita al centro, dove nel tempo si erano concentrati con ogni probabilità gli spostamenti maggiori di oggetti. Le sedie, sempre in plastica, venivano forse da qualche scuola elementare lì vicino, ma spaziavano di più con i colori. James aveva tirato fuori dai meandri del suo zaino una candela e l’aveva accesa e messa al centro del tavolo. Questo aveva dato il via a un’accesa discussione sulla natura del romanticismo e delle candele.
“Non lo so, Jamie,” Sirius si prese un attimo per tuffarsi nel suo piatto. Ne uscì vincitore, se si può considerare vittoria passarsi il tovagliolo sulla faccia e scoprire che più che ripulirsi si era spalmato meglio il sughetto. “Se tutti mettono le candele alle cene romantiche, poi la società finisce per associare le candele al romanticismo, ma questo non significa che le candele abbiano qualcosa di intrinsecamente romantico.”
“Esatto!” convenne Remus. Era molto soddisfatto, come se vincere quella discussione fosse stato fondamentale.
“Allora, innanzitutto io ho piazzato questa candela qua e ho deciso che la nostra è adesso una cena romantica. Non me ne frega proprio,” disse James e rimarcò il punto afferrando la sua candela e battendola un paio di volte al centro del tavolo. La fiamma tremolò. “E poi vi sbagliate. Se tutti hanno deciso di accompagnare le cene romantiche con delle candele è perché hanno convenuto che ci fosse una buona ragione.”
“Anche questo ha senso, in verità,” disse Sirius, tra un tuffo e l’altro nella sua cena.
“Ma un tempo non c’era l’elettricità, a quel punto cos’erano, tutte cene romantiche, per te?” Remus scosse la testa. Poi, in un impeto di quello che poteva solo essere il pinnacolo della ribellione, si sporse in avanti e soffiò sulla fiamma.
“Non l’hai fatto!” James si portò una mano al cuore.
“Ora che le candele sono spente possiamo passare alla mia parte preferita delle cene romantiche.” Sirius concluse la sua applicazione di brodo sul mento – una nuova linea di skincare – con un occhiolino in direzione del suo amico. Col gomito, però, diede un colpetto a Remus. Si conoscevano da meno di un mese, ma il fruscio della carta che seguì al segnale lasciava intendere già una certa intesa.
“Chiudi gli occhi, è una sorpresa” suggerì Remus e fu la conferma finale.
“Sul serio?” James divise uno sguardo incerto tra i due.
Sirius si inginocchiò sulla sua sedia alta tre millimetri, per sporgersi meglio in avanti. “Chiudi gli occhi,” ripeté.
Dopo un’ultima esitazione scettica, James chiuse gli occhi. “Ti giuro, se provi a baciarmi…”
“Niente di nuovo,” Sirius scrollò le spalle.
Remus ridacchiò. “L’avete fatto?”
“Eravamo a scuola.”
“Un gioco della bottiglia,” disse James, in supplemento.
“Eravamo anche ubriachi.”
“Com’è stato?” Intanto, Remus lasciò cadere un po’ del contenuto della busta nelle mani di Sirius.
“Disgustoso,” risposero entrambi in coro.
E poi Sirius gli ficcò lo scorpione impalato in bocca.
Dopo qualche momento di soffocamento più o meno premeditato, James aprì gli occhi e afferrò lo stecchino. Masticando, guardò l’insetto decapitato come se stesse cercando di capire da che lato si analizzasse. “Quest’era?”
Sirius scambiò un’occhiata con Remus, che rivelò il sacchetto che conteneva altri insetti fritti più piccoli. “Be’, sì.”
“Ah,” James diede un altro morso. “È croccante.”
Sirius lo guardò.
“Vuoi provare?” prima che potesse rispondere, gli aveva già passato lo stecchino. Poi si appropriò degli altri insetti e, sgranocchiando, si rivolse nuovamente a Remus. “Comunque, resta quello che ho detto. La candela è una cosa romantica.”
“Ti ho letteralmente fatto un esempio di quando non c’era elettricità.”
Sirius osservò il suo scorpione. Il risultato di uno zodiaco fraudolento e decapitato che non poteva guardarlo e che presto avrebbe imitato in questa cecità. Gli diede un morso. Piccolo, per accertarsi forse che non avrebbe preso vita e non avrebbe iniziato a contorcersi e arcuarsi in cerca di una porzione di pelle da pungere. La candela era stata accesa di nuovo, gettava una luce inedita dal basso che colorava i suoi amici un po’ come i faretti alle porte della città vecchia. Erano gli unici illuminati così in quel mare di occupatori di tavolini sbiaditi. 
James indossava una maglietta bianco panna con una grande stampa scolorita al centro. Era tutta accartocciata, forse aveva conosciuto forme incomunicabili mentre cercava di sopravvivere nel suo zaino, dalla spirale all’impossibilità di un nastro di Möbius. Dal basso, mentre parlava, la luce si appoggiava sulle labbra, prologo di ogni parola assurda. Le fossette forse svelavano la battuta. Remus gesticolava per spiegarsi, le vene sulle mani che circondavano le nocche e le mettevano in risalto. Se le faceva cadere in grembo di tanto in tanto, pizzicando il tessuto sottile del pantalone a strisce. Gli brillavano gli occhi perché c’erano mille luci e da dove partisse la prima era una questione che si contendevano scienza e poesia, distraendosi da qualche parte sulla strada che così evidentemente le metteva in connessione. La candela illuminava la cicatrice sul labbro, un solco come un cratere lunare, come un errore, come una violenza. Là, dove un tempo sanguinava, ora abbelliva. Le crepe di Remus Lupin, notava Sirius con crescente stupore, non avevano bisogno dell’oro di alcun kintsugi, erano il lato selvaggio della calma ostentata. Erano l’intemperia, la tempesta.
“Com’è?” chiese di colpo James.
Sirius inspirò, considerando il suo scorpione, “mah, croccante.”
“Visto?”
“Passa gli altri.”
 

In Scozia le montagne erano grattate, ma addolcite dal vento. In Finlandia erano ruvide, l’inverno ci passava sistematicamente una mano di vernice. Qui, in Thailandia, erano morbide, si sarebbero abbassate con pigrizia, cedendo il posto alle città e poi al mare.
“Che cos’è quello?” chiese Remus, gridando dal suo motorino e indicando un puntino nero più avanti, su un rettilineo lungo il quale gli alberi si inclinavano verso l’interno.
Sirius sentì James, dietro di lui, sbilanciarsi sul sellino per dare un’occhiata.
Venne fuori che quello era una persona, per un po’ trasformata in una matassa di parolacce, capelli biondo cenere disordinati e vestiti dai colori sgargianti che facevano forse da lanterna diurna a tutte le api e specie simili del paese.
“Ti serve una mano?” chiese James, scendendo dalla moto e già porgendone una a quello che, guardando bene, poteva essere un coetaneo.
Lui si voltò, liberando un angolo della pallina che formava accovacciato. A quanto pareva proteggeva un cellulare. “Grazie, amico,” disse. Aveva nel tono la disinvoltura tipica delle disinvolture forzate. James lo tirò su con un grugnito che era più di solidarietà che di sforzo. “Non c’è campo e ho inserito per sbaglio la luminosità al minimo. Non riuscivo a sbloccare il cellulare!”
“Come ci sei arrivato qui?” chiese Remus. Si guardava intorno in cerca di un mezzo che in effetti non c’era.
“Oh, è una storia davvero incredibile,” disse lui, grattandosi la testa. Si guardò la mano, poi la porse con un sorriso in mezzo a loro. “Piacere, Peter!”
Sirius si mise una mano sulla coscienza e accettò la stretta per primo. Non era vigorosa, saltò buffa su e giù.
“Vi va se ve la racconto non nel nulla più totale?”
Si fece da parte, rivelando uno zaino che avrebbe potuto contenere dieci delle tende di James, che comunque ancora si trascinava dietro.
Con un cenno del capo, Remus li guidò nuovamente verso le moto.
 

Non era proprio una storia incredibile, Sirius ci credeva benissimo. Era una storia stupida, quello sì.
“Non ho capito, tu hai preso un autobus?”
Peter prese un sorso del suo tè freddo, il ghiaccio danzò nel bicchiere, mostrandosi solo nei suoi contorni nel liquido arancione. Aveva il retrogusto del tè molto intenso, ma si attaccava al palato come se fosse stato velluto, polvere, chicco tagliato finissimo. “Sì, volevo raggiungere il tempio sulla montagna,” parlò, quando lo ebbe finalmente mandato giù. Teneva un pollice puntato oltre il portico del bar, dove un’altura si sollevava vestita di vegetazione verde vibrante. Proprio sulla punta, a metà tra miraggio e ovvietà, si stagliava contro il cielo una struttura piccolissima, un bagliore. “Mi avevano detto che l’autobus mi avrebbe portato alla montagna. Io li ho visti gli altri passeggeri ridere, ma pensavo che fossero solo dei tipi molto amichevoli. Invece mi ha mollato alla base della montagna. Non c’era nient’altro. Diamine, è un’intera città in cui non c’è niente, quindi mi sono incamminato.”
“Volevi arrampicarti sulla montagna?” domandò James.
“Volevo usare la strada.” Peter gli rispose come se il concetto di arrampicarsi fosse stato semplicemente assurdo, il che era interessante, detto da uno che si era fatto mollare da un autobus a una manciata di chilometri in altezza dalla sua destinazione.
“Questo paese è pieno di templi sulle montagne. Perché questo?”
Peter si strinse nelle spalle. “Non lo so, mi piaceva.”
“Non l’hai visto,” disse Sirius, lanciando uno sguardo al suo stesso tè quasi finito. Faceva caldo, finire il tè non era mai una notizia piacevole.
“Ci stavo provando.”
“Non lo so,” Sirius continuò, facendo ruotare distrattamente la cannuccia nel bicchiere, “non mi sembra un piano con grandi possibilità di riuscita.”
“Ce l’avrei fatta, dovevo solo riuscire a sbloccare il cellulare e dare un’occhiata alla mappa.”
“Ah, scusami, se vuoi ti riportiamo nel mezzo del nulla dove ti abbiamo trovato.”
In quel momento, Remus si voltò verso di loro. Si era perso a guardare la cima della montagna, le nuvole di zucchero che baciavano le cime degli alberi. Si mosse a ritmo col vento, che fece suonare un campanello, da qualche parte lì vicino. Nel complesso, era una visione fresca, portava il tipo di nostalgia che sta nelle desinenze delle stagioni. Sirius non sentì quello che disse.
“Massì, perché no,” James si alzò in piedi come caricato a molla. Sfregò le mani tra loro e raccattò i bicchieri vuoti. “Tu che dici?”
Sirius li guardò tutti e tre. “Sì,” disse, quando concluse il giro su Remus. Lui gli sorrise. “Cosa? Sì.”
“Vi ho chiesto se vi va bene portare Peter sul tempio.”
Sirius lanciò un’occhiata alla montagna, l’intrico di foglie, l’intrico di cavi elettrici, l’intrico di vocali. Era un paese intricato, come tutti forse, ma erano nodi completamente nuovi, del tipo che per stringersi forse ne scioglievano altri. “Sì, avevo sentito.” Non aveva sentito precisamente niente. “Certo, accontentiamolo.”
 

Sirius aveva imparato molte lezioni nella vita. Di certo questo non lo rendeva speciale. Ad essere curioso era il fatto che non avesse mai imparato quel genere di lezione che si sente per la prima volta quando si è molto piccoli, dall’altezza di una mamma che, prendendo suo figlio per il polso e trascinandolo via, gliela sussurra tra i denti per non fare brutte figure. La lezione sulla gentilezza.
Se Sirius però non l’aveva mai imparata in venticinque anni un motivo c’era ed era che era inutile. Avrebbe dovuto tenerne conto prima di essere tanto gentile da ‘accontentare Peter’.
Piantò una mano sulla balaustra di pietra bianca e provò a lasciare che fosse lei a fargli salire l’ultimo gradino. Funzionò a metà.
Con un respiro incompleto, si cacciò i capelli via dalla faccia e si appoggiò al parapetto. Il sole stava tramontando, quindi non era neanche il caso di incolparlo per tutto quel sudore.
Camminò lungo un porticato complesso, intervallato da campane immobili. Sentiva la voce di James che si mischiava a quella meno familiare di Peter, più avanti. Quest’ultimo non aveva fiato, ma a quanto pareva questo non sembrava fermarlo.
Ai lati del passaggio, la vegetazione si aprì e Sirius capì perché anche le campane a volte si congelavano.
Una distesa di verde si spingeva verso il basso, le chiome degli alberi seguivano il flusso curvo di un percorso segreto che forse aveva a che fare col vento, con la pioggia o con le nuvole, che in alcuni punti si poggiavano sulle montagne più lontane. Non avrebbe saputo dire dove cominciassero, perché erano parte integrante del tappeto. Al lato si distinguevano a stento i tetti delle case, mentre il cielo si tingeva di rosa, arancio e blu, più in alto di tutti, anche più della loro montagna e del tempio e delle punte delle strutture in oro che luccicavano sotto lo sguardo delle ultime luci del giorno.
Accanto a lui, lo sfiorò un suono gentile. La pressione leggera delle dita di Remus aveva fatto vibrare le campane. Era un suono basso e incostante, aveva l’ambizione delle lunghe distanze, la sacralità delle sentenze. Era bellissimo e per questo preoccupante che gran parte della sua concentrazione si fosse focalizzata sul respiro di Remus, affaticato dalla salita.
Non era ancora successo, nessuna terrificante previsione gli aveva ancora oscurato la vista, ma esistevano altri paesaggi, al mondo. Esistevano nel modo strano in cui la notte il silenzio ronzava, nel mettere piede per la prima volta in un posto nuovissimo e scoprire che aveva un odore, che c’era un paesaggio sovrapposto a ogni paesaggio, una specie di fantasma che ne disegnava un contorno di fragranze e che era segreto perché gli esseri umani erano programmati per affidarsi più ad altri sensi.
“Che ne pensi?” chiese Remus, le dita che tamburellavano ancora sulla campana, un suono di sfondo che si allargava intorno a loro.
“Che sono esausto, dovevamo lasciare Peter per strada.”
Remus ridacchiò e si mise dietro di lui. Appoggiò il mento nell’incavo della sua spalla e Sirius sentì il suo sguardo su di sé solo per un secondo, poi seppe che si era concentrato sulle linee del tramonto, che velocissime guadagnavano sempre più cielo. “Cos’è che cerchi?”
Sirius voltò appena la testa, nella finta di un’occhiata. “In che senso?”
“Non lo so, a volte ti distrai.”
“Non sei l’unico che rapina le banche, penso a tutti i soldi che mi aspettano.”
Remus soffiò una risata. Era una cosa pericolosa da fare così vicino al suo collo. “Ti serve un’altra storia, non puoi prendere la mia.”
“Allora mi distraggo perché mi incanto a guardarti, Lupin.”
Un secondo, una zanzara gli pizzicò il gomito, l’avrebbe iniziata a odiare più tardi. Verso il cuore del tempio, la risata di James si sollevò come il fumo di un falò in un bosco desolato.
“James ha detto che non me lo dice. Aspetta che sia tu a scegliere di parlarne.”
Sirius sorrise. “James è un paraculo.”
Remus mugugnò soltanto.
“Crede che non sappia che questa cosa serve anche a lui. Non sono così egocentrico!”
Faceva un caldo infernale, ma nessun inferno avrebbe mai fermato il brivido che percorse la schiena di Sirius quando Remus alzò la testa e sussurrò al suo orecchio: “sicuro?”
Si allontanò lungo il porticato, toccando tutte le campane.
Sirius pensò che se l’avesse conosciuto dieci anni prima l’avrebbe odiato o l’avrebbe facilmente irretito col fascino semplice che gli adolescenti combinaguai esercitano sui compagni più introversi, al punto che più che volergli bene forse si sarebbe goduto la sua ammirazione. Odio o amicizia, avrebbe avuto un apparente potere su di lui, il genere di cosa che gli anni e la maturità invertono a un certo punto fino a mettere quelli come Sirius in condizione di sentirsi più impreparati alla vita vera, meno saggi, meno competenti.
Con Remus era svantaggiato in partenza, perché non aveva avuto modo di mostrargli il ragazzino indisponente e carismatico che era stato. C’era solo lui, che aveva scoperto che in realtà il mondo non gli doveva proprio niente, che a un certo punto aveva bussato alla porta del suo migliore amico, vari anni prima, e lui gli aveva detto di andare a farsi fottere e Sirius si era dato una calmata, perché se era troppo anche per James forse era troppo davvero.
Lasciò stare quell’angolo di realtà e seguì le voci, più avanti.
Per un istante soltanto ebbe la sensazione che i colori fossero più vividi. Era un effetto inspiegato che seguiva a volte un battito di palpebre su uno sfondo appena più bagnato del solito.
Sirius Black era un ammasso di bombe e micce. Lo era sempre stato, aveva passato l’adolescenza a infiammare stoppini ed era sempre stato facile perché non si era mai preoccupato di impostare alcun timer: scoppiava dove capitava.
Sotto tutto quel mondo, partì un criptico conto alla rovescia. Irrilevabile, irrilevato. Tick-tick, ineluttabile nucleo esplosivo.
Le campane ronzavano ancora una frequenza nascosta.
 

I led ronzavano frequenze inesistenti.
Alle loro spalle, mosche invisibili si schiantavano contro campi elettrici e illuminavano le vetrine di un seven eleven ingurgitato dalla vegetazione e una coppia di ombrelloni. La luce artificiale era bianca, tendeva al blu.
Eppure quel ronzio rimase inascoltato, perché il temporale gridava più lontano, ma più forte. Scendeva giù come una tenda infinita, scosso da un vento che avrebbe dovuto sradicare le montagne e travasare i mari e Sirius sapeva che si stava inzuppando le scarpe, in qualche modo. Non credeva di averle mai bucate, ma a quel tipo di pioggia non importava dei materiali isolanti.
Peter uscì dal minimarket aiutandosi col gomito, le mani impegnate con cibo e bevande. Si lasciò cadere accanto a Sirius, sullo scalino del negozio, ed espirò pesantemente.
La pioggia odorava più o meno come a casa, ma non aveva lo stesso colore. Gli piaceva come le foglie si piegavano sotto il suo peso, saltando su e giù e tenendo il ritmo. Osservò una ragazza in jeans bagnati a chiazze passare loro davanti. Non correva, reggeva una busta di plastica sopra la testa ma i capelli le ricadevano comunque in viso zuppi, accompagnando il suo incedere. La guardò finché non girò un angolo e sparì dietro un muro bucherellato.
Peter distribuì delle cose che sembravano panini. Sirius si preoccupò poco della loro natura e ne addentò uno.
“Qualcuno sa cosa c’è qui attorno?” domandò Peter.
Non dovevano fermarsi lì, ma pioveva troppo per proseguire in moto.
“Io ho la tenda,” disse James, prendendo un sorso di una bibita rosa all’anguria. Ne prendeva varie in un giorno. A Sirius non piacevano granché e riteneva che contenessero un po’ troppo zucchero per uno come James, ma non c’era più modo di fermarlo, era l’inizio di una dipendenza.
“Hai ragione, Jamie,” iniziò Sirius.
Remus lo intercettò. “Montala sulla strada.”
“Siete degli ingrati,” continuò James. Ogni volta che tamburellava il piede alzava qualche schizzo. Non che facesse troppa differenza, col dio che piangeva lassù. “Almeno io ho una soluzione.”
“È una buona soluzione, James,” mormorò Peter.
Alla fine l’avevano raccattato, Peter. James l’aveva preso sotto la sua ala, forse perché lo lusingava. Sirius si stava acclimatando a lui e Remus ci andava d’accordo. Era pieno di risorse, la maggior parte poco pratiche all’apparenza. Ad esempio si portava dietro un tagliaunghie, che non sarebbe l’utensile d’emergenza di nessuno, ma erano riusciti a stapparci delle birre, una volta. Un po’ come per gli oggetti, conosceva i luoghi più strani. Era il motivo per cui nel cuore dello sfarfallio di luci di Bangkok, qualche sera prima, era riuscito a convincerli a deviare il percorso per passare per templi sconosciuti, grotte e luoghi che avevano dimenticato forse anche gli insetti.
“Oh, questo temporale non ne vuole sapere di darsi pace,” disse una donna, uscendo dal negozio. Aveva il volto cosparso di rughe, ma gli occhi brillavano di intelligenza. Il vestito colorato e un cappello a tesa larga rendevano difficile capire se fosse in grado di bagnarsi o se fosse esentata da simili seccature. Sembrava aver parlato meno inglese di quanto avrebbe voluto, in quella vita. “Non sapevo che questo fosse un luogo turistico.”
“No, andiamo verso sud, ma pioveva troppo e siamo stati costretti a fermarci,” rispose James, girandosi la bottiglia rosa tra le mani.
“In moto?” la donna sgranò gli occhi. “Un viaggio faticoso, venite da Chiang Mai?”
Lui annuì.
“Oh, la mia casa!” si portò una mano al petto e sorrise. Le labbra di carta si distesero come se avessero preferito spezzarsi pur di non negarsi quella gioia.
“Viene da lì?”
“Sì! Avete mangiato le fragole? Le fragole di Chiang Mai?” Con un gesto della mano, fece segno a Peter di farsi un po’ più in là e si sedette accanto a loro.
“No?” Remus aggrottò la fronte e scosse la testa. “Chiang Mai ha buone fragole? Non c’erano fragole.”
“Le migliori, ragazzo!”
“Io le ho mangiate,” si intromise Peter. Sollevò una mano come se avesse prenotato la parola a scuola. “Erano ottime.”
Sirius ne era sicuro. L’aveva visto mangiare anche la corteccia di un albero, a un certo punto. Diceva che i locali la cucinavano e la mettevano nel brodo. Non era minimamente vero e l’aveva sputata dopo quindici nanosecondi.
“Sapevo che vi sarebbero piaciute. Quindi dove dormite?”
“Abbiamo una tenda!” disse James.
La donna guardò un attimo il cielo, poi il ragazzo inglese con gli occhiali che le aveva appena detto che aveva una tenda. “Mh,” mormorò, una maestra che fingeva di apprezzare il disegno di un alunno, “be’, io ho un albero di limoni. Li porto sempre a un amico e in cambio lui condivide un po’ della pesca del giorno, se ha qualcosa di buono. Detto tra noi, penso che sia più di un amico. In ogni caso, i figli sono partiti per studiare in città, quindi dovrebbe avere due stanze libere.”







NotEl: I'm back olè. Mi scuso per il ritardo, settembre esami la vita la pesantezza. Ad oggi onestamente non so niente sulle fragole di Chiang Mai, un saluto alla signora che in realtà era di Phuket.
Ora che ho più chiaro tutto assicuro almeno altri tre, quattro capitoli, c'è un pezzo che non so bene come e quanto dividere MA SIAMO Lì
Grazie per aver letto ed essere tornati qui :))
El

 

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Capitolo 4
*** Sabbia ***


Il tag "tematiche delicate" è qui. Una cosa leggera, giuro.




Quando Sirius aprì gli occhi non vide nulla. Buio pesto. Al punto che sembrava disegnare ghirigori su se stesso ed estinguerli nella fosforescenza istantanea di un battito di ciglia.
Prese un respiro profondo. Fallì.
Ci riprovò, questa volta espirò piano, così lento che tremò. Batté le palpebre un paio di volte ma non distinse niente.
Avrebbe potuto voltarsi, la finestra era alle spalle del letto, ma non riusciva a muoversi. Il suono delle onde che si abbattevano sulla spiaggia portava una pace beffarda.
Provò a respirare a fondo e fallì ancora. Stavolta il danno era irreparabile. Era esausto, era stanco, era sfinito, aveva corso come un matto forse, perché non riusciva a smettere di respirare. Si portò una mano al petto, distinse il battito accelerare sotto il palmo, assieme al respiro che aumentava.
Era troppo presto. Non aveva senso. Aveva ancora qualche mese.
Un’onda di terrore rotolò dalla spiaggia fino alla base della sua schiena. Non c’era più niente di pacifico in quell’accavallarsi di suoni periodici. Lo perseguitavano, lo avvelenavano, le stesse parole dei suoi pensieri si spezzavano in linee rigide e sempre più piccole.
“Sirius…” la voce di Remus, accanto a lui, era un filamento di realtà e per questo suonava priva di sostanza. Se avesse avuto appena più consistenza si sarebbe accorto che in due sillabe era passata dall’assonnato al preoccupato andante. “Non riesci a…”
Si schiarì la voce, acquisì concretezza. Non abbastanza, però, perché la Terra fece cadere il suo asse e il mondo cominciò a girare. Non sapeva come, visto che era tutto buio, ma lo sentiva.
Un fruscio, poi vide gli occhi stanchi di Remus guardarlo da sotto le ciglia.
“Stai bene?”
Sirius prese la boccata che aveva rincorso per gli ultimi minuti, il mare smise di strillare e la risacca tornò a muoversi discreta come una brezza tra i capelli. Con le giunture miracolosamente oleate, riuscì a portarsi una mano al viso e a esalare forte contro il palmo.
Remus era più consistente, più di una voce che veniva da lontano. Aveva una mano ancora appoggiata sull’interruttore della lampada. Il problema della sua consistenza era che a quel punto voleva una risposta.
“Sto bene,” disse Sirius o almeno avrebbe voluto, se non avesse avuto la voce fatta di ruggine. Tossì e annuì. “Sto bene.”
Remus poggiò una mano sopra la sua, quella che aveva ancora incollata al petto. “Vuoi che chiami James? Forse avrei dovuto dormire io con Peter.”
“No, non sarebbe stato a suo agio.” Non aveva idea di cosa stesse dicendo, a dire il vero. Si alzò a sedere, la schiena contro la spalliera del letto. Rischiò uno sguardo alla finestra. Le imposte lasciavano entrare una luce sottile e indipendente, forse il risultato di riflessi di luna e di lampioni e di barche al largo. “Sto bene, davvero.”
Remus scrollò le spalle e lo indicò con un cenno del capo. “Sei tutto sudato.”
Con un sospiro, Sirius si sfilò la maglietta e la lanciò di lato. Guardò Remus guardarlo un secondo, poi far ruotare gli occhi e concentrarsi sulla lampada. Sirius sorrise, una cosa piccola.
“Se hai paura del buio lasciamo la luce accesa.”
Sirius sbuffò una risata. “Non ho paura del buio.”
“E allora…”
“Per seguirti abbiamo voluto sapere solo fino a quanto volevi restare perché è vero che viaggiamo con una data di scadenza.” Sirius cercò i suoi occhi. Fu un legame intenso e fragile, erano un po’ più rossi del solito, un po’ più bagnati. Il ricordo del buio passò da spaventoso a struggente. “Entro la fine del viaggio avrò perso la vista.”
Remus esitò, trattenne uno sbadiglio. “Come…”
“Puoi spegnere la luce, era solo buio.”
Lui si morse un labbro, gli occhi danzarono dalla lampada alla finestra. Poi annuì, gli sfilò il cuscino da dietro la schiena e lo posizionò all’altro capo del letto. Fece lo stesso col suo.
Sirius lo guardò come se fosse impazzito.
“Me la farai spegnere a forza, la lampada. Se dormiamo al contrario vedi la luce dalla finestra,” spiegò soltanto Remus. Prima che Sirius potesse protestare, spense la luce e si sdraiò. “Non ha molto senso.”
“Scusa?” Sirius si ribaltò e tornò disteso. Pareva che così il mare parlasse a loro. 
“Questo è il motivo per cui viaggiate?”
“Cosa pensavi che fosse?”
“Non lo so, ti ho visto scrivere. Quindi che…”
Sirius si lasciò cadere un braccio sugli occhi. “Non scrivo per me. Ma comunque la persona a cui scrivo non leggerà.”
Sentì Remus muoversi accanto a lui. Sapeva che lo stava guardando con lo stesso grado di sicurezza con cui aveva creduto di aver perso la vista e questo significava che, per quanto veri sembrino, certi trucchi non si possono svelare a luci spente. Era un potenziale sguardo molto pesante, aveva la sensazione che superasse l’osservazione e diventasse uno studio, un’analisi di fremiti, una calibrazione di brividi. Nella sua esperienza, era inammissibile che qualcuno avesse l’occasione di guardarlo così.
“Per fortuna, perché faccio schifo a scrivere.”
Remus rise, un’onda là fuori sospirò, poi appoggiò una mano sul suo sterno. Sirius respirò piano, il contatto era ruvido appena perché fosse credibile. “Che ne pensi di quello che hai visto?”
“In tutta la vita?” domandò Sirius. Sollevò il braccio e guardò la finestra, la luce giusto un grado più gialla. Le dita di Remus tamburellarono una sola volta sul suo petto. Più che un ritmo erano una casualità.
“Sì, in tutta la vita.”
Era sarcastico, ma l’idea era terrificante.
Una vita fatta di festività che si mischiavano e festival senza notti, di chitarre rosse fiammanti, di tè nelle ore sbagliate, di gocce di pioggia che si rincorrevano sui finestrini, di auto che sfrecciavano e che guidava lui o James o qualcuno che aveva dimenticato. Un’esistenza intera spalmata su una fetta di pane e su ogni livello un frame cinematografico che si imparava a chiamare ricordo ma che da solo forse diventava incompleto. Una cosa così complessa e dettagliata che si faceva a volte labirinto e a volte domanda e ogni sua cadenza era una strofa di una canzone che oscillava tra metal e ninnananna. Una confusione, una processione di estati e di modi diversi in cui un raggio di sole poteva cadere nelle pieghe di una camicia. E c’era una vita esattamente identica alla sua, una vita che era sua e non stava da nessuna altra parte, in nessun confine universale, ma l’adolescenza lì durava un secondo in più. Perché quel secondo lo guardava. Così come guardava ogni sedia pieghevole aperta male e ogni decolorazione nelle iridi dei suoi amici e il colore del drink del ragazzo che si era portato a letto e di cui aveva dimenticato il nome. Così come guardava James e il modo in cui guardava davvero le guance appena arrossate dal freddo su cui una volta Sirius aveva tirato un pugno e anche lì avrebbe guadagnato un secondo e ne avrebbe fatti guadagnare altri cento milioni a lui. E forse nulla sarebbe cambiato, neanche un singolo battito cardiaco mancato, ma James non avrebbe dovuto guardare l’alba boreale incerto se chiedergli se ci vedeva quello che ci aveva visto anche lui.
E onestamente James ce l’aveva avuto davanti quasi ogni giorno della sua vita e non l’aveva mai visto bene quanto l’aveva visto in quei mesi di viaggio.
“È tutto molto bello.”
La mano di Remus tracciava linee invisibili sul suo petto. In certi punti faceva il solletico. “Hai paura di dimenticarlo?”
“No,” Sirius sospirò, “so che me lo dimenticherò.”
“Più provi a ricordare quello che vedi, più ti ricorderai solo che avevi paura di dimenticarlo.”
“Non mi sforzo granché, la memoria ha priorità insensate. Mi ricordo che la prima macchina di James aveva un’ammaccatura vicino ai fari posteriori, a sinistra, a forma di cazzo, ma non mi ricordo la voce di mia madre.”
Il disegno di Remus si interruppe. “Mi dispiace.”
“A me no, era una stronza.”
Remus si mise a ridere, il ghirigoro ripartì, questa volta faceva giri più larghi, più bassi. “E allora sono priorità sensatissime.”
“Nah.” Sirius si girò a pancia sotto e appoggiò il mento tra le mani giunte. “Continua.” Valutò il buio dell’alba affidabile abbastanza per permettersi di serrare gli occhi ogni volta che le dita di Remus grattavano punti particolarmente piacevoli. “Tu hai paura di dimenticare quello che vedi?”
“Un po’, cioè adesso so esattamente che cosa sta succedendo, ma tra trent’anni avrò completamente dimenticato la lampada, l’armadio, il modo in cui arriva l’alba…”
Sirius si avvicinò per guardarlo. Inarcò la schiena, la mano di Remus scese naturalmente più in basso. Così sembrava quasi un abbraccio o il suo fantasma. Sirius aveva avuto meno familiarità con quello che con qualunque altra forma di contatto fisico in vita sua. Era un po’ imbarazzante. “Scusa ma che te ne fotte della lampada e dell’armadio?”
“Che ne so, pensavo fosse una di quelle conversazioni un po’ indie…”
“Ma che stai dicendo?”
Remus si mise a ridere, l’alba entrò dalle persiane. Sirius ne era sicuro perché vedeva i suoi occhi. Ora, quella era una cosa che gli sarebbe dispiaciuto dimenticare.
“Perché sei qui?”
“Peter e James dovevano dormire insieme.”
Sirius abbassò la testa e sbuffò nel suo collo. “Sai cosa voglio dire,” disse, la voce smorzata.
“Perché ti interessa così tanto?”
Chiuse gli occhi. “Perché mi interessi tu.”
“Sottile.”
Una risata, Sirius fu furbo abbastanza da dosare l’aria. Sorrise, quando vide che Remus aveva la pelle d’oca. “Non hai idea.”
“Che ti devo dire?” Remus mosse la testa. Sirius capì che doveva guardarlo. “Che mi sono ubriacato, a stento so dove mi sono svegliato, ma era tutto diverso?”
“Tipo.”
“Che volevo morire?”
Sirius lo guardò. Aveva visto abbastanza cose brutte da sapere che certe ammissioni non erano mai così delicate come sembravano, che la gentilezza e il riguardo si potevano scambiare per pietà e compatimento, se si marcavano. Annuì. Poi si girò per dare un’occhiata alla finestra. “Hai visto? È giorno.”
Remus lo guardò come se avesse detto la cosa più bella del mondo, come se la sorpresa valesse quanto l’ammirazione. Non farlo, pensò Sirius, perché la fiducia era terrificante e perché accettava quella di James solo perché l’aveva avuta prima di capire che era tutto esplosivi e micce. E che gli altri si facevano male.
Remus batté le palpebre e quel sentimento sparì, come se avesse scottato lui per primo.
 

Era vero che l’uomo che li aveva ospitati era innamorato della donna delle fragole, perché quando era partito con la sua barca, quella mattina, li aveva messi a lavorare nell’orto. Era una cosa piccola e discreta che comunque lasciava posto a un paio d’alberi da frutto e nessuno di questi era un limone.
“Pete, non mangiarla,” disse Remus, quando Peter ispezionò un’erbaccia che aveva appena sradicato.
“Non volevo mangiarla,” ribatté lui, lanciando la piantina in un cesto. Il tono interrogativo era audace, a detta di Sirius, perché sottintendeva che Remus fosse completamente impazzito a pensare che avesse intenzione di mangiare un’erbaccia. Dopo l’episodio della corteccia – e quello della medusa e quello del fiume che sembrava un tubo di scarico, senza contare quello che coinvolgeva un serpente non velenoso e una scatola di sardine – la linea che separava curiosità e follia con Peter non sembrava neanche sfumata, quanto semplicemente inesistente. In sintesi l’erbaccia sarebbe stata il minimo, nel suo caso.
“Va bene,” decretò James di colpo. Si soffiò via un ciuffo di capelli dall’occhio. Fallì e si aiutò con una mano. Gli lasciò una lunga chiazza di terreno sulla guancia. “Inizia a fare troppo caldo. Bagno?”
Sirius seguì il suo sguardo.
Lo perse dove l’oro umido di sabbia si fondeva all’azzurro tenue, fino alla montagna glabra sullo sfondo.
“Bagno,” confermò spogliandosi.
 

Gli occhi del ciclone

Caos e pace.
L’occhio del ciclone non vedeva, ma era affamato.
Aveva preso i suoi venti da lontano. Sottomessi, soggiogati, sedotti, adesso sedevano nel tifone.
Era possibile che qualcuno di loro soffiasse leggero sotto le gonne delle ragazze norvegesi nei giorni di festa. Era possibile che un altro spirasse nelle grotte ancora inesplorate dall’uomo. Era possibile che un altro ancora nascesse dai sospiri degli innamorati che, piangendo allo stesso momento, si facevano fenomeno naturale. Ed era possibile che uno di questi sussurri avesse passato le dita invisibili nei capelli di James Potter.
C’era stato un momento in cui una brezza aveva assistito a una risata, mentre si sporcava di tutto il fumo del fuoco della candela attorno a cui sette ragazzi giocavano a carte. Quattro viaggiavano insieme, gli altri tre non li avrebbero mai più visti, ma in quel momento, in quel frangente, mentre le stelle osservavano tutto questo turbine di respiri diversi e la notte si stendeva come un drappo su una giovane assopita dopo essersi divertita, erano legati.
C’era stato un altro momento in cui un lenzuolo d’aria si era aggrappato controcorrente al corpo di Remus Lupin, mentre conduceva gli altri in moto ai piedi di un’escursione che pareva riservata agli stambecchi. E li aveva accompagnati mentre si inerpicavano su sentieri ripidi solo per lanciarsi nella gola acquosa in cima, mentre da qualche parte brontolava una cascata.
C’era stato un vento che era stato il risultato della loro risata, mentre guardavano giù seduti su una roccia per uno snack. Di sotto uno strapiombo che, se avesse fatto un suono, sarebbe stato quello con cui rimorchiavano le balene.
In qualche modo erano arrivati tutti là, nel ciclone, ogni storia una pagliuzza del suo occhio, ogni attimo soltanto un’eco.
 

Le isole erano quelle delle cartoline, il sole le colorava come un fotografo che amava giocare troppo con la saturazione.
Sirius era seduto a un tavolo da picnic che dava sul mare, come tutto il resto. Ogni cosa dava sul mare, lì, anche la baracca in cui dormivano. Aveva addirittura un’amaca e faceva troppo caldo perché la fregatura fosse che non aveva i riscaldamenti. Scriveva quella stupida lettera.
“Cazzo!”
Quello era James. Sirius si voltò senza preoccuparsi troppo, ma non lo vide. “Che hai fatto?”
La testa di Remus sbucò dalla porta, in basso a destra, all’altezza del suo materasso nella casetta di legno. Aveva i capelli ammaccati su un lato. Guardò Sirius per un attimo, poi strizzò gli occhi per la luce e sbadigliò. Nel caso in cui non fosse chiaro, James aveva proprio strillato. Sirius lo guardò prendere consapevolezza della realtà che lo circondava. Da quando gli aveva fatto i grattini e si erano confessati i segreti come due scolaretti era come se avessero aperto una porta, come se ogni momento fosse stato uno stallo di tensione tra un’occasione di toccarsi e un’altra. “Mi sveglio su un’isola paradisiaca e la prima cosa che vedo la mattina sei tu…” brontolò Remus.
Sirius gli sorrise. “Visto che fortuna? Mare con vista schianto.”
“Non ho ancora la forza mentale per trovare un insulto con cui ribattere. Dimmelo di nuovo tra qualche ora. Tipo sette,” rispose lui, alzandosi e barcollando.
“Credimi, non avrai un insulto neanche tra dieci ore.”
Remus fece schioccare la lingua e non aggiunse altro. Fece per uscire, ma James gli schizzò davanti e afferrò Sirius per le spalle. “Il passaporto!”
Sirius scosse la testa. “Che ha fatto?”
“Non c’è! Non ce l’ho più!”
“Non ci credo,” mormorò Remus. Sirius lo vide solo accasciarsi contro lo stipite della porta prima che James lo scuotesse ancora per le spalle e lo costringesse a concentrarsi su di lui.
“Oh, cazzo.”
 

Il panico del passaporto durò esattamente un’ora e sedici di messa a soqquadro di effetti personali (era stata aperta anche la tenda), alla fine della quale successe l’ultima cosa che Sirius si sarebbe aspettato di vedere in generale, figurarsi su un’isola di cui aveva già dimenticato il nome.
Arrivò Peter.
Questo di per sé non era uno scandalo, perché, riserve personali a parte, ormai viaggiava con loro.
Arrivò Peter con l’incedere tranquillo di chi non aveva un solo pensiero al mondo.
Anche questo di per sé non era uno scandalo, perché Peter si preoccupava per tutte le ragioni sbagliate e, secondo il parere di Sirius, disponeva comunque di meno pensieri della persona media.
Arrivò Peter con l’incedere tranquillo di chi non aveva un solo pensiero al mondo. E non era solo.
Persino Sirius, che teneva al suo atteggiamento imperturbabile a momenti più di quanto tenesse alla sua vista, spalancò la bocca quando vide con chi era Peter. Registrò di striscio la testa di Remus palleggiare tra le reazioni dei suoi amici.
“È carina, non lo nego,” commentò alla fine Remus, “ma non è una reazione un po’ esagerata?”
“Te l’avevo detto,” disse lei, guardando James. Il sole le accarezzava le lentiggini. “Che era destino.”
Sirius si riprese dallo shock. Fischiò. “Destino un cazzo. Questa è proprio una botta di culo.”
Lily reggeva il passaporto di James.
Stop.
Riparti dal principio.
 

Era il tramonto, il cielo una caramella tuttifrutti, la tela di un pittore impressionista. Il mare all’orizzonte luccicava, uno specchio che non puntava al cielo, allora forse agli abissi e oltre, nel paese agli antipodi, lungo le coste del Perù. La spiaggia era una distesa dorata, una promessa del giorno successivo.
Un gruppo di ragazzi con un pallone gli aveva offerto una partita. Non si rifiutava mai un pallone.
“Onestamente, è imbarazzante,” disse James, mentre facevano le squadre. “Non mi mettete con quello che tifa United.”
Quello-che-tifa-United gli lasciò cadere un braccio sulle spalle e alzò gli occhi al cielo. “Ormai è fatta, arrenditi.”
“Se dovete tifare le squadre inglesi almeno fatelo bene!”
Il ragazzo ridacchiò, togliendosi la maglietta. Era effettivamente stato messo nella squadra di James, quella che si riconosceva per la nudità, a quanto pareva. “Tu giochi?” chiese a Peter.
“Sono il vostro goleador,” ribatté lui.
Sirius affondò i piedi nella sabbia, mentre si legava i capelli. “Sicuro.”
Leo, uno che tifava Chelsea, cominciò a piantare ciabatte in giro per la spiaggia, per delimitare le porte.
Remus si spogliò. Sirius tentò di essere discreto. Fallì. Remus aveva la pelle gentile di chi farebbe meglio a non scottarsi e invece era più abbronzato di quanto gli avrebbe dato credito, una spruzzata di lentiggini gli sporcava le spalle spigolose. La luce del tramonto lo sfiorava come a mettere in risalto i toni più caldi. Una cicatrice lunga gli attraversava il fianco destro, partendo dalle scapole. Non era esattamente sbiadita, ma era sulla giusta via per farlo. “Che c’è?” gli chiese Remus, mentre si avvicinava. A Sirius non piacque l’angolo furbo del suo sorriso.
“Raccolgo dati, devo guardare tutto.”
“Certo,” disse Remus, superandolo e affiancandosi a James.
“Perché stai con lui? Ehi, non mi lasciate con Peter!”
“Ha fiutato la vittoria,” disse James. Guardarlo così, gli occhi che brillavano di entusiasmo, i gomiti appena sporchi di sabbia, la pelle scura che spiccava al tramonto nel modo gentile delle cose delicate… pareva un po’ che fossero ancora a casa, quando organizzavano partite all’ultimo minuto e ne mancava sempre uno. Come se fosse ancora il ragazzino disattento che sorrideva così grande che a volte Sirius lo doveva mandare a quel paese. Come se fosse di nuovo tutto semplice, la lealtà così stampata in faccia da non aver bisogno di essere adornata da tutte quelle strutture che la vita e gli eventi le costruiscono attorno. “Quand’è stata l’ultima volta che mi hai battuto?”
Sirius gli sorrise. Forse gli dispiaceva di non essere mai stato in grado di sorridere così sinceramente come faceva lui, forse era per questo che James aveva scelto di non dirgli tutto. “Guarda che l’ultima volta che abbiamo giocato ho vinto io.”
“Balle.”
Il ragazzo che abbracciava ancora James si strinse nelle spalle, trascinando anche lui nell’onda. “Forza United sempre.”
James si voltò a guardarlo. “Tu. Io ti rovino.”
Non lo rovinò solo perché Leo si piantò due dita in bocca e fischiò l’inizio della partita.
 

La squadra di Sirius vinse.
C’era stata una diatriba sul finale, ma l’avevano spuntata. Il pallone del gol della vittoria aveva colpito la ciabatta e l’aveva scagliata via. Era chiaramente entrato a sinistra, ma gli avversari erano così disperati che si erano messi a rintracciare traiettorie inesistenti sulla sabbia per provare il loro punto. Alla fine si erano arresi. E comunque Peter non era nessun bomber.
“È colpa tua, io te l’avevo detto. Ti ispiri a squadre di merda,” aveva iniziato James, quando non aveva più avuto modo di prendersela con gli avversari.
“Io? Tu vieni dall’altra parte del mondo per questa performance deprimente!” ribatté il suo arcinemico.
Si guardarono per qualche secondo, poi il broncio di James si aprì in un sorriso e si risolse in una risata. Il ragazzo lo imitò, gli strinse la mano e gli diede due pacche sulla schiena.
“Ehi, avete da fare stasera?” chiese Leo, palleggiando col pallone e afferrandolo alla fine sottobraccio. “Andiamo a bere una cosa qui vicino, se vi fa piacere.”
Non ebbero bisogno neanche di consultarsi.
 

Dalla proposta alla parte in cui James si era arrampicato su un albero a ridosso della spiaggia e si era lasciato penzolare giù dai polpacci gridando ‘il trapezista migliore del west!’ passarono qualche ora e un più o meno prevedibile susseguirsi di eventi e alcolici.
“Sirius, vieni qua, dammi un bacio come Spider-man,” gli disse mentre Sirius passava sotto di lui per raggiungere il ragazzo con la chitarra. C’era sempre un ragazzo con la chitarra, in quel paese.
“Non sono ancora abbastanza ubriaco per questo,” rispose Sirius, guardando in alto prima di prendere un altro sorso.
Leo, che invece era abbastanza ubriaco, scrollò le spalle e si sporse a baciare James. Gridarono, dopo, e si diedero il cinque.
Sirius appoggiò la bottiglia nella sabbia, seppellendo la base abbastanza perché si reggesse. “Che stai facendo?” chiese. Poco lontano, Peter cantava assieme al ragazzo che suonava. In thailandese. Era uno spettacolo dal quale conveniva distanziarsi, anche se il chitarrista sembrava divertito e di tanto in tanto lo correggeva inutilmente.
Remus alzò la testa dalla felpa che usava come cuscino e si guardò attorno. “Sto prendendo il sole,” disse, lasciandosi ricadere nuovamente sulla sabbia.
“È quello che faccio sempre anch’io di notte.” Sirius appoggiò i gomiti sulle ginocchia e guardò il mare, tentando di distinguere la linea in cui scambiava posto col cielo.
“Non scherzare. Il sole è una stella, no? Io ne vedo almeno… cinque, dieci, tredici…” mormorò altri numeri. Sirius rise. “Se mi spalmi un po’ di crema solare mi fai un favore, con un solo sole mi brucio, figurati…” biascicò altri numeri.
Sirius lo spinse di lato e rubò un po’ del suo cuscino. Fece in tempo a vedere James dondolare sull’albero, librarsi in aria e cadere a faccia a terra. L’urlo di guerra era stato: ‘sono un’altalena!’
“Peter sta evocando un demone.”
Risero, in quell’istante in sottofondo arrivò un’altra supercazzola. Nell’istante dopo qualcosa nell’atmosfera cambiò posizione. Era impercettibile, come tornare nella propria stanza d’infanzia dopo anni, trovare tutto esattamente dove era stato lasciato, ma avere l’incomunicabile sensazione che ogni cosa fosse stata spostata giusto un centimetro più a sinistra.
“Non mi divertivo così tanto bevendo da… non lo so, dall’incidente.”
Sirius si sistemò meglio sul cuscino improvvisato. “Cos’è successo?”
“Non ne so molto, ero svenuto. Un amico di un mio amico, non lo conoscevo così bene, ci stavo…” si interruppe, guardò Sirius, “si era offerto di portarmi a casa. Aveva bevuto anche lui. Mi sono svegliato in ospedale, non so se la parte in cui sanguinavo sull’asfalto me la sono immaginata o se mi sono svegliato per un attimo.”
“L’amico del tuo amico…”
“Sta bene. Il padre che tornava a casa dall’altro lato della strada no. Non l’ho mai visto, non so come si chiami. Hai presente non sapere neanche a che lapide chiedere scusa?”
Sirius gli sfiorò il fianco, dove aveva visto la cicatrice. Era una carezza, era la cosa più maldestra che avesse mai tentato in una vita nonchalante. Poi gli chiese quello che gli aveva chiesto altre tremila volte, da quando si conoscevano: “Perché sei partito?”
Remus inspirò forte. “Perché mi si è rotto un orologio e sono andato a comprarne un altro e ho pensato che fosse inutile spendere soldi per un oggetto che avrei lasciato indietro. Quindi me ne sono andato.”
La bolla scoppiò. La voce di Peter tornò a latrare canti smangiucchiati, James gridò. A giudicare da quanto smorzato fosse il suono era probabile che avesse ancora la faccia nella sabbia e fosse a qualche minuto dal soffocare. Sirius guardò Remus, la luce praticamente un lusso che a stento qualche riflesso riusciva a elargire. “Sono felice che tu sia rimasto.”
Lui ricambiò lo sguardo e gli sorrise. Era una cosa sbilenca e contornata da occhi ubriachi. Era diverso dal vederlo ridere, perché non era una reazione. Qualcosa nel petto di Sirius si compresse e si schiacciò in una parafrasi fisica di disperazione. Davvero non voleva smettere di vedere.
“In fondo adesso non ti serve sapere che ore sono, no?”
Remus si succhiò il labbro inferiore. “No,” sussurrò, gli fece proprio gli occhi dolci. Se fosse stato possibile ricevere un’infografica del cervello di Sirius, si sarebbe potuto vedere che metà non funzionava più e l’altra era in allarme. Remus semplicemente non si lasciava leggere così bene, non era una possibilità neanche da ubriaco. Era un trucco. Non lo realizzò in tempo, metà cervello non bastava.
Fu su di lui, quello era un attacco di solletico. Sirius provò a contrattaccare, ma era in posizione di svantaggio. Sgusciò via e corse verso il bagnasciuga, come se Remus fosse stato un’ape e buttarsi in acqua avesse potuto scacciarlo. Non funzionò. Si misero a correre sulla sabbia bagnata (era più solida, Sirius non era stato integralmente scemo).
“Guarda che ti placco!” gli gridò dietro Remus.
Se dall’altra parte dell’universo c’era una realtà in cui avevano sette anni e giocavano come era giusto che i ragazzini giocassero, Sirius non la invidiò. “Provaci,” gridò alle sue spalle.
Collisero. Sirius se l’aspettava. Lo buttò a terra, rotolarono per un po’, infine guadagnò la vittoria, premendo le mani sui suoi avambracci.
“Hai vinto, hai vinto,” sussurrò Remus, attraverso l’affanno.
Lo guardò, la risacca sussurrava a un passo da loro, la notte era piacevole sulla pelle. Anche il respiro pesante era divertente e il modo in cui l’alcol ricalibrava le sensazioni e le sfumature più blu e ogni singolo pezzo del volto di Remus, dalla lentiggine al taglio delle sopracciglia. Ed era assurdo che avesse visto questo ragazzo imbacuccato dalla testa ai piedi, mentre spalancava la bocca guardando l’aurora ed era folle che ci avesse bevuto una birra insieme, mentre Helsinki brillava di neve e di stelle. Ed era incredibile che avesse incrociato i suoi occhi un secondo soltanto e lui gli avesse chiesto perché sorrideva. Era incredibile davvero, perché se non l’avesse notato, quella sera, Sirius non avrebbe visto proprio niente: niente aurora, niente spiagge, niente Peter addirittura. Volendo andare un po’ più indietro, senza Marlene il loro viaggio sarebbe finito in Scozia, a chilometri dall’ostello provvidenziale. Senza la sua stessa condanna non sarebbe mai partito. E senza James. E senza Regulus.
Quindi era possibile prendere un pennarello indelebile e tracciare una linea tra la scogliera irlandese e Remus Lupin che lo guardava dal basso e voleva qualcosa da lui che oscillava tra un colpo di pistola e un bacio.
Sirius si abbassò, poggiò la fronte contro la sua e chiuse gli occhi.
Un’onda alle sue spalle si impennò e li bagnò dalla testa ai piedi.
 

Sicuramente la storia ha subito qualche deviazione, ma si capisce perché il passaporto fosse andato disperso a un certo punto. In generale penzolare da un albero non aiuta i passaporti a restare nelle tasche.
“Ieri notte sono morto,” biascicò James. Sirius lo capì soltanto perché aveva passato abbastanza tempo con lui in giorni difficili da potersi candidare a interprete. “Sono morto e questo è il paradiso.”
“Con quello che hai fatto nella vita, Jamie,” iniziò Sirius, appoggiando una mano sulla sua spalla, “non puoi essere in paradiso adesso.”
“Potter, quindi?” disse lei, consultando il passaporto che doveva aver trovato abbandonato sulla spiaggia. Sorrideva come se li avesse tutti incastrati, come se avesse comandato lei la giostra del mondo. I capelli rossi erano striati da ciocche schiarite e appuntati solo in parte sulla nuca. Indossava un vestito lungo e bianco, le maniche a sbuffo si arrestavano morbide all’altezza dei gomiti. Anche a Sirius, che di donne non si intendeva, parve un po’ un’apparizione divina.
“Non credi che sia arrivato il momento delle presentazioni?” chiese James. Si vedeva che era cresciuto, perché a scuola sarebbe svenuto.
Lei fece un passo, gli si parò davanti. Sirius si levò tatticamente di mezzo. “Lily Evans,” disse, porgendogli il passaporto.
“James Potter.”
Sirius si inclinò verso Peter e Remus. “Non si è capita questa cosa dei nomi. Quando ci siamo conosciuti, io e Marlene, un’altra ragazza, ci siamo almeno detti i cognomi.”
Remus, a braccia conserte, lo guardò male. “Tu te la tiri tanto, ma non sai proprio cosa sia un flirt, eh?”
“Uh,” disse Peter. Sventolò una mano e poi si succhiò un dito. “Questa brucia!”
Sirius fece schioccare la lingua. “Non mi serve flirtare.”
“Come credi.”
“Ehi, Lily Evans!” gridò Sirius. Ignorò i versi contrariati di Peter e Remus. “Noi giriamo da queste parti un altro paio di giorni, poi andiamo in Cambogia. Sei con noi?”
“In realtà sono diretta lì.”
James era un bambino la mattina di Natale.
Patetico.
Era ora.
“Comunque,” iniziò Peter, se fosse esistita una parola volta a descrivere lo sguardo preciso dei conduttori dei telequiz, non sarebbe bastata solo a descriverlo: ne sarebbe stato definizione. “Se non fossi tornato al bar a prendere la colazione non avreste nè lei nè il passaporto. E neanche la colazione, per quello che vale!”





 
NotEl: oh la laaaa, buonaseeeera. Tutto vero, c'è sempre uno con la chitarra, davvero si tifano le squadre inglesi (per quello che mi è parso obv non vorrei dire baggianate). Grazie come al solito per non aver abbandonato questa nave naufragante e per aver letto anche stavolta <3 <3
A prestooo

El.

 

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Capitolo 5
*** Spettro ***


“A… qualunque cosa sia questo viaggio.”
Gli occhi chiari di Lily brillavano nelle tinte tenui della sera. Era il tipo di sguardo di una persona che stava per piangere. Levò un bicchiere in alto, una città tutta luci e storia si rifletté nel vetro.
Seguirono una serie di tintinnii.
Laggiù, il trambusto continuava. Ovunque spingesse lo sguardo, la città non smetteva di luccicare e, laddove si spegneva in corrispondenza del fiume, più che battere la ritirata sembrava sottolineare il suo respiro. Ogni direzione era trapuntata di stelle artificiali.
Sirius sussultò quando la mano di Peter cadde pesante sulla sua spalla. “Niente malinconia,” disse, “siamo qui per divertirci!”
Era sinceramente la cosa più ridicola che gli avesse mai visto fare, soprattutto se condita con quella strana solennità che hanno a volte i bambini e gli ubriachi… e Peter, che forse era una mistura miracolosa di entrambe le categorie. Sirius rise e pensò che un grattacielo era un pilastro gigante su cui se ne stavano tutti in piedi a bere.
Il DJ esclamò qualcosa dalla sua postazione. Sirius posò con eleganza ricercata il calice sul tavolino, poi indicò James. Quello finse sorpresa e lusinga, poi accettò la sua mano.
La Cambogia, famosa per il complesso di templi rappresentato sulla bandiera, conservava ancora tutti i suoi segreti.
 

“Sirius, non è il momento,” gli sussurrò James all’orecchio. Gli si era affiancato a braccia conserte e aveva parlato quasi senza muovere le labbra. L’avrebbe trovato melodrammatico oltre ogni misura se non fosse stato lui il re delle esagerazioni.
“Di fare che?”
“Lo sai.”
Sirius si voltò, l’espressione più persa e confusa che riuscì a imbastire in tre secondi piantata in faccia.
James abbassò di nuovo la voce. “Da quanti anni ci conosciamo, venti? Lo so che sei un porco.”
“Tradimento! Affronto! Crudeltà!” Sirius si colpì il petto a ogni parola. “Il mio migliore amico, l’ultimo cavaliere della mia legione.”
Avevano bucato la gomma del pick-up che avevano rubato. Secondo tutti gli altri non avevano rubato nessun pick-up, ma Sirius non la vedeva esattamente così, perché l’affare l’aveva fatto Peter e aveva detto loro che lui e la vecchia che aveva accettato si erano capiti grazie all’immortale lingua dei gesti sconclusionati e le basiche tre parole inglesi che conoscevano tutti: soldi, sì e papavero. L’ultima era quella che aveva lasciato in dubbio Sirius sulla riuscita dell’operazione, visto che secondo lui lei gli stava dicendo qualcosa sul clacson.
Comunque, quando il pick-up si era fermato da qualche parte sulla strada per il parco nazionale verso cui erano diretti, a largo di Siem Reap, aveva fatto tutta una serie di suoni terrificanti e ci avevano messo un po’ per capire che il problema – almeno quello più urgente – era una gomma. Lily in particolare era sconvolta all’idea che bucassero sempre gomme, ogni volta che si incontravano. Lungo il percorso verso l’identificazione del problema, Remus aveva immerso le mani nel cofano e messo a posto un paio di rumori che secondo lui erano preoccupanti. Quindi la combo delle mani sporche di grasso e la canotta larga e la finestra sulla sua pelle che costituiva l’avevano un po’ distratto.
James ignorò le accuse. “Ma è successo qualcosa?”
Sirius si succhiò il labbro inferiore e tornò a guardare Remus, seduto a terra con Peter, che studiava gli attrezzi che avevano per cambiare la ruota. Tra parentesi, non avevano la ruota di scorta, quindi di tanto in tanto chiedevano aggiornamenti a Lily, che girava per strada in cerca di ricezione telefonica e aiuto. Era ancora presto, però, il sole non picchiava troppo forte, giusto qualche ceffone in amicizia. “Dammi due settimane.”
“Avete anche dormito insieme, sei diventato un chierichetto?”
Sirius gli avrebbe voluto rispondere con la violenza, ma si mise a ridere. È diverso, pensò. “Non c’è pericolo,” disse.
È diverso, capì James.
“Stanno arrivando!” Lily alzò il cellulare in aria in segno di vittoria. Era esilarante perché era in piedi su un sasso, ad almeno 50 metri da loro.
“Grande!” disse Peter. Remus si alzò vittorioso e si sventolò con una mano. Poi si tolse la maglietta.
“Una settimana,” rettificò Sirius.
James sospirò.
“Lo fa apposta.”
 

Vennero a salvarli con un secondo pick-up apparentemente messo peggio del loro.
Non erano esperti, erano solo tre ragazzi con una ruota di scorta che andavano nella stessa direzione. Dicevano di conoscere bene la strada per entrare nel parco e salire sulla montagna, fino alle cascate. Li avevano seguiti.
“Wow,” sussurrò Lily, seduta insieme a Sirius e James nel retro del pick-up.
Attraversavano una lingua di strada su cui un sottile terriccio aranciato disegnava motivi a forma di soffio sull’asfalto. Per il resto, la strada correva nella giungla. Profondo verde sibilava nell’aria al loro passaggio, il vento si attaccava alle magliette, i capelli, la pelle. Le ombre davano al paesaggio una certa strana intenzione austera, qualcosa di legato a doppio filo con l’anzianità. Dall’abitacolo del pick-up provenivano note fievoli della radio, la ricezione saltava continuamente. Lì, anche, le risate occasionali di Peter e Remus venivano abbandonate indietro, come se fossero bastate a lasciare una traccia assieme agli pneumatici.
Da un certo punto in poi la giungla si era fatta troppo fitta e avevano dovuto proseguire a piedi. James aveva iniziato ad agitare un machete invisibile.
“Sono stata in Scozia, poi in Irlanda. Dopo qualche giorno in Francia sono partita per il Laos. Da lì sono scesa in Thailandia e ho incontrato loro,” diceva Lily a Mary, uno dei loro benefattori.
Mary aveva folti capelli ricci, sorretti da una fascia rossa e azzurra. Il sorriso caldo doveva essere stato garanzia di molti sì, nella sua vita, perché era irresistibile. Era venuta a vedere il parco naturale perché aveva fatto amicizia con i due ragazzi che erano con lei all’ostello, che le avevano proposto di unirsi. “È proprio un bel giro!” commentò.
“Tu di dove sei? Dall’accento…”
“Sydney, Australia. Tornerò a casa nei prossimi giorni.” Sembrava sinceramente dispiaciuta. Un po’ tutto del suo atteggiamento sembrava sincero.
In lontananza, tra la vegetazione immensa di quel posto, si iniziavano a distinguere le guglie di alcuni templi arroccati. La strada si divideva tra l’escursione lunga che portava al giro completo e una scorciatoia per il centro pulsante del parco nazionale.
“Noi purtroppo abbiamo piani, questo pomeriggio,” esordì Mary, fermandosi al bivio. “Non possiamo seguire il percorso lungo.”
“Oh, allora grazie per la ruota di scorta e per averci mostrato la strada,” Remus fece un passo avanti. Lei tirò fuori un block notes e una matita. Mentre cercava una pagina da strappare, Sirius distinse macchie d’arte.
“Questo…” cominciò a scrivere, poi strappò la carta e la porse a Remus, “è il mio numero, se passate per Sydney.”
A quel punto Mary scomparve nel fitto della foresta.


Sirius pensò che fossero tocchetti di verdura nel pentolone del mondo. Era seduto su un masso che sovrastava la giungla e i templi e le cascate e gli stagni laggiù. La sacralità era incisa in ogni venatura di pietra in una lingua che non comprendeva ma che sapeva rendersi chiara. La sua versione più giovane non gli avrebbe mai creduto, ma non era un’opinione.
Avevano passato quasi tutto il giorno nel parco e si avvicinava il tramonto. La luce era già sparita da ore, però, e una mandria di nubi e nebbia galoppava a passo lento verso di loro. Così pareva che le montagne e la vista tutt’attorno perdessero di consistenza, si fondessero con quel fumo. Ed ecco perché gli sembrava di essere un ortaggio.
“Ehi,” la voce di Lily era calma. Sirius non si voltò. Prese posto accanto a lui. Di sottecchi, Sirius riuscì a vedere che teneva qualcosa tra le mani. Catturò la sua attenzione. “Non ti ho ancora dato questa.”
Era una busta, una di quelle di carta gialla resistente, per le spedizioni. Non aveva alcun adesivo, francobollo. Neanche una scritta a penna o a matita che chiarisse un destinatario. Lily gliela consegnò.
“Marlene era convinta che ci saremmo incontrati di nuovo e mi ha detto di dartela. Non l’ho aperta.”
Ora, Sirius l’aveva detto che Marlene aveva aria di cartomante! Scartò la busta e ne tirò fuori il contenuto.
Erano foto.
Sopra a tutte le altre c’era quella che avevano scattato insieme, la notte in cui lui e James erano rimasti a dormire da Marlene. La fotografia era ingoiata dal buio, ma lui sapeva che sullo sfondo c’era una montagna vestita d’autunno. Sapeva che c’erano vasi di fiori e che per arrivare a casa sua ci volevano sei mappe e un pizzico di speranza. Sapeva che ai piedi del balcone si apriva un piccolo giardino dominato da una struttura di metallo che era una specie di gabbia per umani e al centro c’era un tavolino infestato dall’edera e dal tempo. Ma l’occhio della macchina fotografica non sapeva tutto questo, non sapeva che Remus era da qualche parte in Norvegia e aveva in programma di andare a Helsinki, né che Sirius era ancora arrabbiato con James per così tante ragioni che insieme ne formavano una incomunicabile e pesante.
Tra le altre foto spuntavano il lago di Loch Ness, la gita a Inverness, il castello, la cioccolata calda, uno scatto rubato a lui e James mentre si abbracciavano, un altro di Lily, che lo ascoltava parlare di qualcosa che lei sembrava non gradire, a giudicare dalla faccia.
Alla fine del malloppo, un biglietto:
Se Lily ti trova dopo, devi ammettere che è esilarante HA-HA! Non ti offenderai comunque se non potrai leggere neanche questa presa in giro. Sfigato.
“Bastarda,” mormorò Sirius, ma sorrideva. “Perché non me le ha date prima che ce ne andassimo?”
Lily si strinse nelle spalle. “Marlene è strana. Forse sperava che ci incontrassimo prima che fosse… troppo tardi,” gli lanciò un’occhiata, “forse voleva davvero solo prenderti in giro. Forse si è dimenticata. O forse per lei la fotografia è una cosa intima e consegnarla a mano l’avrebbe esposta troppo. Non lo so.”
Guardarono oltre, nelle montagne che sfumavano. Lily prese un respiro profondo.
“Mi hai chiesto perché sono partita.” Si guardarono. Fu un contatto bruciante e brevissimo, come se avessero dovuto farlo solo a intervalli diversi, senza incrociarsi mai, e uno dei due avesse violato quella sacra tempistica.
“Te l’ho chiesto due mesi fa.”
Un raggio di luce aranciata di tramonto bucò una nuvola e aprì uno spiraglio. Accese un riflettore da qualche parte in quel susseguirsi di onde. Qualcosa, laggiù, brillò.
“Be’, la domanda è scaduta?”
Sirius sospirò. Non era sicuro che il suo ruolo lì fosse ascoltarla, solo che certe persone se parlavano da sole non mettevano nessun pensiero in fila, più che altro li disordinavano. Non aveva creduto che esistesse davvero gente così finché non aveva conosciuto Remus, a dire il vero. “No,” disse quindi. Chi era lui per interrompere la catarsi struggente che sapeva diventare un viaggio? Anche se non doveva, l’ascoltò.
“Io e mia sorella eravamo inseparabili, finché non abbiamo smesso di parlare.” Lily disegnò cerchi nel terreno con la punta della scarpa. “Non so se ti è mai capitato, di abituarti così tanto a un tipo di relazione da non distinguere la tua volontà nella sua esistenza. Non abbiamo mai propriamente litigato, solo all’improvviso mi sono accorta che mi ha sempre trattato uno schifo. Non avevo amici, non avevo relazioni, non avevo neanche conoscenti. Aveva fatto terra bruciata attorno a me, ma ero sempre stata così abituata a considerarla indispensabile da non essermi posta mai il dubbio che per tutti quegli anni mi fossi sbagliata su di lei.”
Sirius serrò la mascella. “No, non mi è mai capitato.” Era vero, ma dannato Remus e le sue massime, era vero anche che il contrario di qualcosa la confermava per esclusione. Era vero che due esperienze agli antipodi in realtà combaciavano. “Sei partita per non vederla più?”
Lily lo guardò per un attimo, la domanda troppo palesemente una maschera. “No, sono partita perché per sei mesi ho imparato a stare completamente sola.”
Sirius mormorò in assenso. “Era vero quando hai detto che è perché ti sei chiesta cosa avresti fatto se fossi morta presto?”
“Sì, è l’effetto della solitudine. Davvero non volevo non aver visto il mondo.”
Si voltò verso di lei. Stavolta violò la regola e aspettò che Lily ricambiasse. “Solo il mondo? Andiamo, Evans. Dopo un’intera storia sulla tua solitudine? Ti sembro uno stupido?”
“La verità?”
“Non mi sei molto simpatica.”
Lily rise. “Il mondo è un termine ampio. Intendo tutto. Intendo anche voi, la possibilità di… conoscere davvero, di entrare in contatto.”
Suo malgrado, Sirius le riconobbe una bella dose di rispetto. Credere ancora, dopo una vita passata a essere insultata, che là fuori ci fosse qualcosa da cercare, una dimensione fatta apposta per lei, richiedeva una lucidità che Sirius non si era riconosciuto neanche nei suoi momenti di idee più brillanti.
Tornarono a guardare le montagne, lo spiraglio si era aperto fino a formare un’oasi di luce.
“Tu e James avete già limonato?” chiese Sirius a bruciapelo. Era sempre esilarante quando gli altri…
“Ma che cazzo? No?”
“Me lo stai chiedendo?”
“No! No.” Lily lanciò un’occhiata dall’altra parte della montagna, dove Remus e James stavano analizzando qualcosa che gli aveva passato Peter. Non si distingueva bene cosa fosse, ma forse neanche da vicino sarebbe stato possibile. “Io non penso che lui cerchi…”
Cercava lo stesso fantasma che lo perseguitava, era un cazzo di calvario, un esorcismo lungo tre anni. “Guarda, io non farò il parafinfo.”
“Paraninfo.”
“Okay. Non lo farò, è uno strazio per tutti, soprattutto per me, però pensavo che quello più vicino a essere cieco qui fossi io.”
Lily si prese un attimo di pausa. “Lo sai che sei proprio antipatico?”
Sirius sorrise, come per un complimento. La abbracciò, stringendole il collo prima che potesse contrattaccare.


Gli occhi di Peter Minus

Peter Minus era daltonico. Questo non significava che i suoi colori fossero falsi.
Lui non aveva una ragione struggente per essere lì. Solo che a volte essere Peter significava che se tirava il vento bisognava partire per la destinazione a cui questo mirava.
Nel mondo in cui viveva Peter, il tempo e lo spazio erano la stessa cosa almeno quanto in ogni stagione gli alberi indossavano sempre l’autunno. E se a casa a Londra aveva lasciato i tomi di archeologia impilati a prendere polvere, era perché parte della scoperta del passato si trovava altrove. E quindi altrove era andato.
Si era armato di tutto quello che gli era sembrato utile e se avesse avuto bisogno d’altro avrebbe impiegato lo strumento più insidioso: la creatività.
Peter Minus nella vita aveva amato più di quanto era stato amato. Non tanto, solo un po’, perché a scuola ogni cosa era stata l’apparenza bizzarra di una farsa che sapevano recitare tutti tranne lui e il disagio e l’inadeguatezza avevano fatto di lui quello strano. Non è che non fosse attraente lui, gli dicevano, ma c’era qualcosa di poco attraente nel suo atteggiamento. E Peter non aveva esattamente capito che cosa intendessero, perché ogni suo gesto era suo nella maniera più intima in cui poteva essere un gesto, ogni intercalare era l’incontrollabile specchio della sua essenza. E non è che non potesse nascondere gesti e intercalari, ma era proprio la loro natura distratta a renderli naturali e non era chiaro dove, su questo spettro di valori indistricabili, si collocasse la sua attraenza.
Dopo la scuola, Peter aveva scoperto l’archeologia e con essa il susseguirsi di misteri logici che non potevano confonderlo. E le persone che aveva incontrato erano stratificate più o meno alla sua stessa maniera e dove non lo erano gli avevano insegnato qualcosa, come una barzelletta, un modo di prendere il tè, un genere musicale, un interesse.
Era evidente, allora, che bisognasse viaggiare; che c’erano persone strane là fuori strane diversamente da lui ed era giusto questo il punto. Che la normalità era una e non esisteva e la stranezza era infinita.
Tipo, Sirius era un tipo strano. Aveva dovuto chiedere a James di che colore avesse gli occhi, perché secondo il modo in cui gli altri vedevano il mondo avrebbero dovuto essere gialli.
Giallo.
Un concetto che non aveva alcun senso, indistinguibile dal bianco, una parola che aveva dovuto imparare per fare piacere agli altri.
Ma non erano gialli e lui non era uno stronzo e non aveva senso, perché i tipi come lui erano esattamente come lui, ma calpestavano le piante a cui Peter si interessava. E invece Sirius gli diceva che era pazzo e poi voleva sapere a che specie appartenevano e quindi Peter per non deluderlo se lo inventava.
Un po’ come la storia della corteccia.
Peter Minus aveva capito, anche, che non esisteva un posto perfetto per lui, perché a detta sua non esisteva un posto perfetto per nessuno. Non era una cosa brutta, non era una verità su cui aveva mai pianto, anzi semmai l’aveva sollevato dalla ricerca forsennata, dalla convinzione che si dovesse passare la vita a cercare un luogo a cui appartenere e che forse nessuno era disegnato per trovare almeno quanto lui non era disegnato per vedere il giallo, per quanto glielo sbattessero in faccia. E questo significava che era libero di prendersi meno sul serio e di limitarsi a trovarsi bene da qualche parte, anche solo per un pezzo di vita che più avanti avrebbe chiamato ‘fase’. Questo significava che era libero di perdersi – sul serio – e non doversi ritrovare in qualche destinazione perfetta, perché le coincidenze migliori a volte si perdevano sui cigli delle strade, alla base delle montagne su cui erano cresciuti i templi. Quindi era vero che cercava qualcosa, che passare dalla Cambogia al Vietnam era stato un po’ come attraversare la schiena di un drago, le isole dall’alto come scaglie sulla spina, ma non doveva trovare per forza una cosa definitiva.
Eppure nonostante tutto Peter Minus sarebbe stato in pace, nel suo mondo di rosa e blu, se non avesse dovuto fare i conti con un disagio inspiegabile: nonostante tutto, non era in pace.




 
NotEl: ho fatto proprio presto! :)
Mancano due capitoli (o tre, boh, non riesco a capire, sono meno di 30 pagine, poi vedrò come dividere), però questo era il capitolo peggiore mentre il prossimo è il mio preferito quindi spero che questo velocizzi i tempi! C'è un po' di sloppy characterization ovunque qui, ma mi difenderò dicendo che questa storia è "un po' così, amici, go with the flow" (e questa è una scusa che sto inventando). Va bene, ciò detto, NON SO non saprei se il segreto lo state iniziando a sciogliere. Mi spiace anche per tutte queste descrizioni di posti e cose, ma alla fine è una storia su un viaggio, per me non avrebbe senso non darle uno sfondo così centrale, quindi spero che questo compromesso delle atmosfere un po' implicite dia almeno un carattere a queste descrizioni, un'impronta boh non avevo mai tentato una cosa del genere, non so come si faccia.
VA BENE, GRAAAAAZIE per aver letto, ci vediamo (al più) presto <3

El.

 

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Capitolo 6
*** Onde ***


C'è un riferimento al suicidio, non riguarda nessuno dei personaggi.



C’era una specie di interferenza nel tempo, in sottofondo un rumore a banda larga.
Qualche giorno prima l’avevano messo seduto in una barca tra due montagne, l’acqua le leccava alla base. Loro, umani sfrontati, attraversavano quell’equilibrio al passo lento della calma, tra uno schiocco e un altro di un remo.
Sempre qualche giorno prima, Hội An aveva brillato di luci di lanterne e si era accesa di odori, di onde di mare, di edifici di legno così vecchi che prendere la mano di Remus all’improvviso gli era sembrato più proibito di ogni singolo gesto proibito al mondo.
Quel giorno, invece, era a Sydney, da qualche parte tra il primo e l’ultimo dell’anno e il cielo era appena esploso. Se avesse avuto una tartaruga chiacchierona sottomano di nome Scorza, che a centocinquanta anni era ancora un ragazzino, le avrebbe raccontato l’assurda storia di come era finito lì, a guardare l’Harbour Bridge sparare scintille, come quelle candeline di compleanno molto scenografiche che non si spegnevano mai soffiandoci sopra. E Scorza l’avrebbe detto a un pesce, che l’avrebbe detto a un altro pesce, passando per squali, uccelli e granchi. Ma Sirius non avrebbe sentito l’ultimo anello della catena venire a chiudersi al primo a raccontargli il suo stesso viaggio, perché non sentiva più nulla.
Così tante luci in cielo che sarebbero potute essere tutte riflessi delle lenti delle telecamere che trasmettevano quello spettacolo alle televisioni di tutto il mondo. E ogni lente un orologio che andava indietro nel tempo, che si fermava.
Uno, due. Tre.
Ripeti da capo.
 

Mary MacDonald era un’artista. Casa sua sembrava uscita direttamente da uno di quei film fatti più per l’estetica che per il contenuto.
Si trovava su una strada in cui anche d’estate gli alberi si assicuravano che a terra permanesse un tappeto di foglie. Strani fiori rossi pendevano dai rami. Lei era all’ultimo piano di un edificio di mattoni. Era un open space tappezzato di tele, il linoleum macchiato di vernice indurita. La casa di un’artista, proprio la casa di un’artista, al punto che pareva finta.
“Ma è bellissima!” Lily si affacciò alla finestra, si intravedevano dei fiori. Era in cima a un soppalco, dalla ringhiera pendevano tele dipinte a metà.
Sirius ne ispezionò una. Era una scena incomprensibile: un fiume di gente sfumava in un fiume di lepri. Si riunivano sullo sfondo a formare un campo da cui nascevano dei tulipani. Le facce delle persone in primo piano erano distorte in espressioni estreme, il terrore si scontrava con i fiori.
Mary spostò tazze macchiate di vernice e di tè dal pavimento con i piedi. Sirius si chiese se non bevesse mai da quella sbagliata. “Cinque letti ovviamente non li ho…” iniziò.
James alzò una mano. “Abbiamo una tenda!”
“... ma ho dei materassi,” concluse Mary, guardò James confusa. Lui ritirò la mano.
“Grazie per l’ospitalità, Mary,” Remus lasciò il borsone alla porta e abbassò la testa, “se possiamo sdebitarci in qualche modo…”
 

La pizza. Ecco come si erano sdebitati.
Si erano seduti tutti e sei a terra, una stanza di tele coperte e lasciate a metà. Dalla finestra sul soppalco e dai balconi le tende si gonfiavano al ritmo del vento. Sirius non avrebbe potuto vivere tutta la vita in un posto simile, sarebbe caduto vittima di una certa inspiegabile magia del sonno, un torpore di violini e raggi del primo pomeriggio che portavano il retrogusto verde dell’estate.
“Siete fortunati a essere venuti qui in tempo per Capodanno, la città è piena! C’è chi paga anche cinquecento dollari per un buon posto da cui vedere i fuochi d’artificio.”
“Davvero?” Peter parlò attraverso un boccone di pizza. “Mi sembra già cara di suo.”
“Non c’è un parco da cui si può vedere lo stesso lo spettacolo?” domandò Lily.
“Sì, ma… è un po’ quello che cercano di fare tutti. Ci si piazza anche dalla notte precedente a volte.”
Sirius si strinse nelle spalle. “A me sta bene anche solo lo champagne.”
Mary si sporse al centro per una birra. La stappò, l’effervescenza sibilò in risposta. “Non ho detto che non vedremo i fuochi.” Sorrise sorniona.
Era una cosa strana su di lei, perché sembrava una caramella. Aggraziata ed elegante, la pelle liscia e i denti allineati, se fosse stata un’attrice le avrebbero dato la parte della moglie morta del protagonista, la creatura perfetta nelle sue fragilità più intime. La furbizia, invece, era un vestito pieno di pieghe. Alla fine Sirius suppose che avesse senso, se nello stesso quadro disegnava orrore e tulipani.
“Si dà il caso che abbia un amico che lavora in una delle barche al porto. Di solito riesce sempre a infilare qualcuno in più.”
“Sei persone?” Remus mollò la pizza nel piatto e inclinò il viso di lato. Sirius distolse lo sguardo un secondo dopo, rispetto a quando avrebbe dovuto.
“Si può fare.” Mary sorrise nel suo misterioso modo angelico. “Mentre per i giorni successivi…”
“Oh no, non ti disturbiamo. Volevamo partire e andare verso l’interno.” James la interruppe, sventolando le mani.
“Il deserto? In macchina in questo periodo non è l’ideale. Quando piove a terra diventa poltiglia e le auto si impantanano. Non c’è ricezione telefonica e se non avete acqua a sufficienza… adios.”
James fece schioccare la lingua. “Davvero? Non è per… serpenti, ragni, lupi mannari, mostri infernali in formato animale?”
Mary si alzò e si strinse nelle spalle. Si diresse all’ingresso e ravanò in una ciotola piena di lettere e volantini. “So che non è una tipica attività turistica australiana, ma per caso vi interessa?”
Sirius fu il primo a ricevere l’annuncio. Lesse velocemente, poi lesse di nuovo. Poi si accertò una terza volta di aver letto bene.
Era una follia.
 

“TRE, DUE.”
Le voci erano una. Un drago solo che si inabissava in America e riemergeva nel Teatro dell’Opera sotto forma di corno sul muso. Il suono da solo forse bastava a far crollare il ponte, a far implodere i palazzi, a crepare i pavimenti, a separare le acque.
Per un attimo, nel respiro che si doveva prendere tra un numero e l’altro, Sirius sperimentò quell’Apocalisse. Era lo champagne, però, solo lo champagne. L’unica Apocalisse era quella che si consumava nel razzo in cui si trasformava il tappo stappato.
“Uno,” sussurrò Sirius, mentre Sydney esplodeva, il mare una tavolozza di riflessi colorati.
Gli parve che la barca avesse preso sotto un’onda che era quella dell’anno nuovo, fatta di tempo, di materia d’orologio, della stessa trama del telo su cui c’era stampato adesso quest’ultimo ricordo che avrebbe avuto dei fuochi.
“Auguri,” gli disse Remus. Non capì se l’avesse sentito o se la parola gli fosse arrivata in testa per via sanguigna, sparata in vena. Sirius lo guardò attraverso palpebre calanti e una leggera distorsione da lente fisheye. Era ubriaco. Veramente, era ubriaco. Poi Remus si sporse verso di lui e gli baciò una tempia.
Non aveva assolutamente senso.
Sirius pensò: crede che abbiamo sei anni? poi pensò: bello.
Dopodiché James e Peter furono su di lui.
Accaddero una serie di cose insieme. Così tante, infatti, che per vederle tutte andava usata una tecnica nota a Dio, le renne di Babbo Natale e i maghi.
Quella per cui gli orologi si fermavano, le lancette giocavano a nascondino. Che ore sono? Di che colore è un incubo? Quante stelle si disegnano attorno a un tombino e dipende davvero da quanto è profondo il baratro? In sei giorni Dio creò il mondo, il settimo si riposò, e per tutto il resto dell’eternità? Quanti semi si piantano in un campo allagato?
Accaddero una serie di cose insieme.
Zero. Meno uno.
Estraine un paio a caso:
 

Gli occhi di Lily Evans

“Non lo farai mai, eh?” disse, aveva il cuore in gola. James Potter era un’ombra che ondeggiava davanti a lei, a ritmo del mare, della musica, della sua stessa paura. Aveva in ballo ogni singola emozione che Petunia le aveva sottratto. Se fosse stata capace di fare questo, allora sarebbe stata capace di provare qualcosa, di connettersi.
Provare.
Parola ironica.
Sinonimo di tentare, dimostrare e sentire. La si usava in un laboratorio di particelle, su un campo da golf e mentre si soffiava su un fiore.
“Cosa?” James le sorrise. Il suo viso si illuminava a intermittenza di blu, rosso e giallo. Sotto ogni sfumatura Lily intravedeva qualcosa di rotto. Se l’avesse conosciuto prima, sarebbe stata in grado di vederlo tutto intero? Lo avrebbe voluto, un ragazzo tutto intero?
“Questo.”
Lily si sporse in avanti e lo baciò sulle labbra. Sapeva di sale e di champagne e di ogni singolo chilometro che l’aveva stancato.
Lui esitò. Per un attimo, i fuochi trattennero il fiato. Era caldo, era reale. Se si fosse ritratto, Lily l’avrebbe accettato. Non subito, prima forse si sarebbe voluta buttare giù dalla barca. Ma non si dovette mai preoccupare di un rifiuto, perché lui ricambiò.
Le prese il viso tra le mani, respirò nella sua bocca. Quale linfa vitale stesse inspirando non lo sapeva ancora, ma Lily ne aveva stoccata per anni e l’aveva lasciata inutilizzata nello sgabuzzino delle cose inutili della sua testa. Sulla porta aveva proprio affisso una targhetta: ‘cose inutili’, due chiodi che la reggevano nella parte alta. Ma uno dei due chiodi cedette, la targhetta ondeggiò come un pendolo, rivelandone un’altra nascosta sotto: ‘paure’. Aveva abbastanza linfa vitale anche per lui, gliel’avrebbe data.
Era facile, vivere senza dare via mai niente, senza mettere in gioco. Non si soffriva, non si piangeva e non si amava. Non si sentiva, non si dimostrava e non si tentava. Non si provava.
Lo schiocco del loro bacio non suonò, se lo mangiò il nuovo anno. James la guardò. Era stato un libro aperto per interi giorni di viaggio, ma solo su una pagina. Era come se facesse della sua intera esistenza una gara a riempire buche di profondità, perché non sembrasse mai che sprofondava. La baciò di nuovo. Lily non sapeva se voleva continuare a guardarlo o continuare a baciarlo. Era caldo, era reale.
Qualunque fantasma lo infestasse, per qualche attimo se lo ingoiò il mare.
Annegato, era sul fondale di Sydney, dove non arrivava la luce dei fuochi.
 

Gli occhi di una donna davanti a una corda

Non usciva da giorni, da settimane. Ormai era sicura che non potesse e basta. Ogni tentativo si era abbattuto contro il muro che le impediva di esistere.
L’esplosione di Sydney, oltre la finestra, arrivò muta. Respirò a fondo, era pronta.
Era pronta?
Il cellulare trillò sul tavolo, si illuminò. Senza sapere perché lo afferrò, gli occhi ancora sulla corda.
Ho portato una mantellina anche per te.
Sollevò un sopracciglio, confusa. Sotto apparve un altro messaggio.
Nel caso piova.
Guardò la corda. Se poteva morire poteva fare tutto.
Grazie, scrisse, quasi non vedeva più lo schermo, sto arrivando.
 

Gli occhi del grosso cane

L’esplosione gli attraversò il cranio, l’intera anima vibrò.
Con un gemito, si nascose sotto il letto.
 

Gli occhi dell’astronauta

Una linea buia copriva la Terra. Strizzò la bustina d’acqua e acchiappò la goccia fluttuante con la bocca.
 

Gli occhi del ragno

Erano otto, sei in alcune specie.
 

Gli occhi del morto

Erano chiusi.
 

Gli occhi del disegno di Dolly, cinque anni, che ritraeva un leone visto da davanti. Sua mamma l’aveva esposto sul frigo con un magnete

. .
 


Erano sul tetto della casa di Mary. Il giorno stava strappando il buio. La notte era stata un tornado di musica, di luci, di liquidi. Sirius se la ricordava nella forma di un quadro di Picasso.
Si toccò il petto, non aveva la maglietta. Non avrebbe saputo nominare neanche una delle ultime stelle in cielo.
“Remus,” gracchiò. Non sapeva se fosse veramente nei paraggi, non aveva distolto lo sguardo. “Remus?”
“Mh-mh?”
Evviva!
Buttò una mano nella direzione della voce, atterrò sul cuore. Sincronizzò il respiro ai suoi battiti.
Chiuse gli occhi e tornò a dormire.
 
 
 
⸻⸻⸻⸻
 


Il volantino di Mary era un’offerta di lavoro su un’isola remota che contava due abitanti. Nei mesi estivi reclutavano personale, perché diventava meta dei turisti che facevano island hopping.
Sirius si svegliò col fruscio delle onde e il canto di uccelli di cui non avrebbe mai imparato il nome. Aveva passato la sera precedente a fare cocktail per gli ospiti. Non era un asso, ma era facile accontentare chi si voleva solo ubriacare. In ogni caso l’assenza di mansioni mattutine aveva fatto di lui l’unico a cui fosse concesso di svegliarsi più tardi.
La stanza era vuota, la luce entrava a fiotti e si gettava sulle tegole di legno del pavimento. Senza una star da illuminare, si limitavano a sottolineare i pulviscoli e gli odori.
Sirius rotolò fino al comodino e afferrò il suo taccuino. Buttò giù un paio di righe, poi si fermò. La penna sorvolava la pagina in cerca di nuove parole. Con una punta di irritazione, sfogliò le altre pagine recise. Le aveva ordinate contrassegnandole da numeretti che nessuno avrebbe mai seguito.
Le rilesse, la penna esitò di nuovo alla fine dell’ultimo concetto. Inclinò il viso su un lato, prese un respiro profondo e invece di scrivere una nuova parola scrisse un punto.
Ricontrollò l’ordine, ripiegò i fogli, raggiunse con uno sforzo di pigrizia la tasca che aveva sempre lasciato chiusa del suo zaino e ne tirò fuori una busta. Ci mise la lettera dentro.
Sapeva che c’era il rischio che arrivasse anche a inizio febbraio, per quando sarebbero già tornati. Il postino sull’isola era più un marinaio, portava le lettere verso e via dall’isola su una barca dalla vernice scrostata. L’avrebbe mandata lo stesso, avrebbe fatto comunque un viaggio più breve di quello che aveva fatto lui per spedirla.
 

Se si voleva essere precisi, la popolazione dell’isola, esclusi i nuovi arrivati, era tre. Theo e sua madre avevano un cane e andava per forza preso in considerazione come abitante, perché altrimenti accettare che facesse loro da guida sarebbe stato totalmente incoerente.
L’isola l’avevano esplorata un po’ da soli un po’ in gruppo, ma non per intero. Logan (il cane) la conosceva come… la sua zampa destra. Scorrazzava per la foresta superando buche e gradini naturali con un’agilità che li lasciava vittime di quegli stessi ostacoli non segnalati.
“Questo cane è un pazzo,” disse James, imprecando. Era stato fantastico, perché per scavalcare un masso non aveva visto l’albero e Peter, davanti a lui, che aveva appena spostato un ramo per passare, gliel’aveva accidentalmente dato in fronte. Ora aveva un segno rosso a marcare la sua disfatta. “Ci manca solo un serpente lungo sei metri e…”
“James, non ci sono serpenti sull’isola,” ribadì Lily. Ribadì, perché James menzionava i serpenti almeno sette volte al minuto.
“Per ora.”
“Per ora cosa? Da dove vengono, dall’oceano?”
“Lo sapete,” si intromise Peter. Si era messo un cappello molle che era un po’ da pescatore, un po’ da esploratore. Era impressionante, perché l’aveva comprato in Inghilterra, se lo portava dietro da mesi tra le altre cose che secondo lui ‘potevano sempre servire’. “Alcuni tra i serpenti più pericolosi del pianeta sono acquatici.”
“Visto?” James inciampò su una pietra. Non cadde, fece finta di niente. “Quindi non serve che attraversino l’oceano per arrivare qui, sono già qui.”
“Ma sono acquatici!”
“Pete, dovevi proprio dirlo?” Questo era Remus. Afferrò il cane per il retro e gli riservò una carezza aggressiva. “E non insultate Logan, è un bravo cane.”
Sirius voleva tirarsi contro un ramo d’albero come James. Anzi, a morte il ramo, voleva tirare una testata all’albero nella sua interezza. Remus era diventato ingestibile. Prima faceva amicizia con Theo come se avesse dovuto convincerlo ad adottarli. Il che era esilarante, perché Theo era la creatura più buona sulla faccia della Terra e sfornava muffin per clienti e viaggiatori scapestrati come se fosse stata la sua missione di vita. Letteralmente, aveva stretto la mano di Sirius e gli aveva chiesto cosa voleva per colazione. Poi Sirius aveva dovuto assistere a Remus che legava con Logan e gli passava croccantini e carezze distratte. Era nuovo a questo gioco, si sentiva come quei cretini che si innamoravano della gente perché mostrava spiccata gentilezza o istinto genitoriale verso i bambini. A un certo punto, dopo un’altra nottata passata a versare drink ai turisti che restavano a dormire sull’isola, Sirius si era svegliato e aveva trovato Theo e Remus che sfornavano muffin per la colazione. Gli si erano aperte due possibilità: o lo uccideva nel sonno per mettere fine alla sua frustrazione o al prossimo sorriso furbo gli ficcava la lingua in gola e addio il corteggiamento.
Respirò profondamente e superò l’ennesima interazione col cane. James a quanto pareva non era pronto a lasciar correre così facilmente. “Una settimana, eh?” gli sussurrò nell’orecchio. Sirius non si era mai pentito tanto della sua stessa arroganza.
“James, veramente, devi stare zitto.” Lui rise. “Devi. Fare. Silenzio.”
“Guarda che fai prima a perdere la vista.”
“Tu fai prima a perdere la vita,” ribatté Sirius.
“Uh, attenzione,” James si allontanò e alzò le mani. Sorrideva come una iena. “Siamo nervosi!”
“Lo sai che i serpenti acquatici sono famosi perché strisciano fino al bagnasciuga e attaccano gli isolani?” Sirius lo superò e andò verso la testa della fila, per riunirsi a Logan.
“Ah-ah, molto divertente,” James si fermò. “Stai scherzando, vero?”
Raggiunsero il punto più alto dell’isola un’ora dopo. Qualcuno ci aveva messo una panchina, affacciava dove gli alberi si aprivano. Logan guardava l’orizzonte, il mare così rarefatto che si fondeva nel cielo.
Sirius gli diede due colpetti tra le orecchie. Il cane ansimò, poi si sporse verso la sua mano. Si sarebbe goduto il suo glorioso momento da re dell’isola se James non avesse continuato in sottofondo a ciarlare di serpenti.
 

Gli occhi del custode

L’uomo esaminò la posta. Quando trovò la lettera che veniva dall’Australia sollevò un sopracciglio. Aveva consegnato regali di Natale appena quindici giorni prima ai bambini, ad alcune mamme piaceva così. Sinceramente non duravano molto, non è che fossero proprio compostabili.
Il custode non era un fan sfegatato dell’ambiente, eh, però non poteva lasciare i bambolotti sui pezzi di terra, era una questione pratica.
Era sempre una questione pratica, nel suo lavoro. Era più una questione pratica per lui che per un medico, un ingegnere, un muratore. Si poteva solo essere pratici, quando non serviva più la speranza.
Una lettera comunque… suppose che si potesse lasciare. Non sarebbe volata via se l’avesse piantata, nessuno si sarebbe lamentato. Non era uno scienziato, ma la carta ci metteva poco a decomporsi, no? Non avrebbe neanche visto l’estate.
Sbuffando – il custode non era un angelo, altrimenti si sarebbe dovuto commuovere due volte a settimana: un sacco – si alzò e aprì la porta sul retro.
La lapide era una di quelle solitarie. Il custode non si metteva certo a ficcare il naso, ma sapeva quali erano le più frequentate. Era una cosa che si imprimeva nelle mura, dipendeva dalla distanza dei pianti e da come il vento spostava le lacrime.
Si inginocchiò, un altro sbuffo. Sollevò un po’ di terra. Prima di piazzare la lettera la guardò: adesivi di spedizione e indicazioni per la lapide a parte, non c’era scritto altro.
La sotterrò senza darle un solo altro pensiero, era davvero meglio non lasciarsi trascinare in queste faccende. La spedizione rendeva chiaro già troppo: il cognome del mittente era lo stesso del morto. Sia mai che fosse una riconciliazione, era tra i più tragici degli affari.
Girò i tacchi e tornò a casa.
Sulla lapide, inscritto da tre anni:
REGULUS ARCTURUS BLACK
GIU 1994 – NOV 2014
 


“Disgustoso,” disse Peter.
Sirius piantò le mani nella sabbia dietro di lui e incrociò i piedi. Erano scappati dalla stanza in cui dormivano tutti insieme perché James aveva detto a Lily una cosa così melensa, ma così melensa che resterà un mistero per decenza. Era così melensa, che stavano ancora esprimendo la loro repulsione a riguardo.
Remus li raggiunse con l’armamentario, ovvero le tavole da surf.
“No,” disse Peter. In sua difesa, Remus era andato via senza spiegare con cosa sarebbe tornato. “Vado da Theo prima che mi veda e mi costringa.”
“Conservami uno per gusto di qualunque cosa stia preparando,” gli disse dietro Sirius.
Peter impiegò la sua migliore tecnica di camouflage, vale a dire che corse come un matto facendo così tanto baccano che lo sentì tutta l’isola e le coste vicine.
“Hai visto Peter?” Remus lasciò cadere le tavole accanto a lui. Sirius riservò un’occhiata perplessa prima a loro, poi a lui.
“Sì, era qui un attimo fa, ma l’ho perso di vista. Il rumore che hai sentito era Atlantide che cadeva.”
Remus rise e prese posto sulla sabbia. “Hai mai surfato?”
“Su un’onda di fascino e buon gusto.”
“Ti insegno.”
Certo, perché adesso sapeva anche surfare. L’aveva imparato all’accademia degli assassini dell’autocontrollo di Sirius. Si lasciò prendere la mano e trascinare a mare. Quando l’acqua gli bagnò le caviglie, Remus mollò surf e mani e gli sfilò la maglietta.
Ora, Sirius non aveva un pratico confronto prima-dopo di come lo stava guardando, ma doveva aver fatto qualcosa di molto espressivo con gli occhi perché, quando Remus lanciò lontano la sua maglietta e lo guardò, esitò un secondo. “Che c’è?”
“Pensavo che devi stare attento, Lupin. In mare ci sono gli squali.”
“James ti ha passato la paranoia?”
“James è l’ultima cosa a cui sto pensando.”
Poi iniziò la lezione di surf.
Vita e fantasia non erano proprio mai la stessa cosa, quindi Remus sapeva un po’ surfare. Il film mentale in cui prendeva uno tsunami sotto la tavola, sparendo nel ricciolo dell’onda per pochi secondi di adrenalinico splendore, che finivano con lui che usciva vincitore e il costume perso da qualche parte negli abissi del mare, rimase un film mentale. Comunque l’attività aveva coinvolto una quantità di contatto fisico non indifferente. Sirius era debilitato. Ed era anche arrabbiato perché erano gli altri a dover essere debilitati dalla sua presenza, questa storia era inammissibile.
“La prossima insieme,” gli urlò Remus dalla sua tavola, sopra il ruggito delle onde. Gli schizzi gli finivano nei capelli, che gli ricadevano sulla fronte in riccioli scomposti. Aveva una luce negli occhi selvaggia e divertita.
Sirius la voleva inalare.
Avevano fatto abbastanza progressi perché il progetto avesse solo il 30% di possibilità di riuscire.
Riuscì a metà. Caddero entrambi, le tavole e la corrente li tirarono a riva. Quando riemersero, ridevano come se fossero partiti insieme da Londra quattro mesi prima, non per necessità.
Tu non sai surfare!” Sirius si slacciò il velcro dalla caviglia e abbandonò la tavola sul bagnasciuga.
“Ho detto che ti avrei insegnato, non che sono un istruttore.”
Sirius si avvicinò. “Io non ti dico come buttarti con il paracadute, se non so farlo.”
“E infatti io non mi fiderei.”
Erano vicini. Vecchia storia.
L’acqua gli arrivava al bacino, tra di loro schioccava con rumore di chiuso. Non sarebbero bastati sei dei serpenti di James a distrarre Sirius dal modo in cui la luce rimbalzava sulla superficie dell’acqua e illuminava dal basso gli occhi di Remus.
Mosse un passo ancora avanti, la sabbia sollevò sott’acqua il terremoto che avrebbe scosso il litorale di un altro paese. Alzò un dito e con la punta disegnò una striscia che partiva dallo zigomo di Remus e si fermava a un angolo della bocca. Lì rimase con gli occhi.
“Peter non è più tornato,” disse Remus. Qualunque disinvoltura cercasse di fingere naufragò, perché la frase divenne un sussurro stupido. Fece un passo indietro, venne annullato un secondo dopo.
“No,” confermò Sirius, “perché, sei a disagio?”
“Io?”
Visto che ci teneva più alla sua capacità di provare un punto che a qualunque altra cosa sul pianeta, Sirius riuscì a distogliere lo sguardo dalle sue labbra solo per darsi un’occhiata esagerata intorno. “Vedi qualcun altro?”
Remus deglutì, gli occhi di Sirius scattarono in basso a seguire il percorso. Aprì la bocca per dire qualcosa, poi sembrò ripensarci e scosse soltanto la testa.
“Non ti sopporto più.”
“Mh.” Remus strinse le labbra, poi annuì. Gocce di mare si staccarono dai suoi capelli. Era una cosa così adorabile che se avesse avuto un muro davanti Sirius avrebbe provato l’istinto di tirarvi un pugno.
“Lo sai perché, vero?”
Non rispose. Sirius da un po’ non era sicuro che fosse ancora in grado di farlo. Era ancora possibile fare un passo avanti. Azzardato, zero distanza. Lo fece.
Remus mosse la testa impercettibilmente in avanti. Tra le loro labbra un capello, la distanza tra Mercurio e Plutone.
Sirius lo baciò.
Nello stesso istante in cui lo fece anche il sole.
I fuochi d’artificio avvizzirono, il Teatro dell’Opera smise di brillare di viola. Il pick-up tornò indietro fino a Siem Reap, fino a Saigon, il traghetto si ritirò al porto, Krabi e le sue noci di cocco sfumarono. Bangkok bruciò dei sette colori dell’arcobaleno, di luci e di contraddizioni. Le montagne crollarono coi loro templi. L’alba boreale si fece tramonto australe, la sauna fredda, Helsinki bolliva nel sole caldo di un contatto visivo. In un bar dove un uomo ruttava destino e i tavoli odoravano di antico.
Un ragazzo accanto a lui prese un sorso di birra e poi si mise a urlare. Il suo profilo, sovrapposto alle luci stroboscopiche dall’altro lato, brillava in ombra come una foto in positivo.
Si voltò e incontrò i suoi occhi.
Remus gli prese il viso tra le mani e si spinse verso di lui. Se avesse potuto, Sirius gli avrebbe chiesto se poteva premere così forte da passargli la cicatrice sul labbro, per baciarlo per sempre.
Il pensiero lo fece ridere.
Ripeti da capo.
La lancetta vacillò, lottò per riprendere il conto che aveva perso.
“Perché sorridi?” gli domandò Remus. Sorrideva anche lui, premeva la fronte contro la sua, il sale si addensava in una bolla.
“Ah?”
Incontrò.
“Ti ho chiesto perché sorridi.”
Lo baciò di nuovo.
Sirius era un ammasso di esplosivi e micce e il timer suonò.
 

Sott’acqua, la bomba esplose. In superficie risalì solo una bolla. Scoppiò, un’onda la riportò a riva.
Sirius Black prese un solo respiro profondo, quando espirò l’aria vibrò appena. Guardò il modo in cui nuvole di zucchero filato si posavano su uno sfondo che era solo antefatto di tramonto. Osservò l’acqua cambiare colore, la rete di onde in superficie dividersi in scaglie, la sabbia ammucchiarsi nei punti in cui qualcuno o qualcosa l’aveva segnata. Dietro di lui, l’isola respirava.
Qualcosa gli arpionò la gola. Era il contrario di un groppo, era un’assenza, l’opposto della carta vetrata: invece di levigare rendeva ruvido.
Quando qualche settimana prima aveva creduto di aver perso la vista e Remus aveva acceso la lampada, quando gli aveva detto cosa stava succedendo, aveva già buttato la bomba sul fondale.
James era stato fantastico a prevenire la sua drammatica ammissione. A un certo punto, quattro mesi prima, Sirius sarebbe davvero andato a casa sua durante una notte di pioggia, senza saper distinguere il sotto dal sopra, gli avrebbe detto qualche stronzata, che il temporale veniva dal centro della Terra, che era l’inferno a essere in cielo. E James avrebbe dovuto interpretare tutte le informazioni che non sarebbe comunque stato in grado di dire, tutte le debolezze che non avrebbe saputo articolare né da sobrio né da ubriaco né da morto né nei momenti più cruciali per James, quando invece ci sarebbe dovuto essere. Ma per quanto James fosse stato fantastico a prevenire, prevedere, capire con uno sguardo, c’era una certa conquista nell’essersi volontariamente raccontati, senza venire sorpresi con metà avambraccio nella merda.
“Facciamo un gioco,” disse.
James voltò la testa a guardarlo, da qualche parte sull’isola qualcuno stava facendo un tour guidato.
“Io chiudo gli occhi, dimmi quello che vedi. Così ci alleniamo per quando sarà.”
Lui si schiarì la voce. “Allora,” Sirius si sistemò meglio sulla sua sdraio, in attesa. “Il cielo è un po’ meno blu del mare.”
“Porca puttana, James.”
“Che vuoi? Se non ti sta bene chiedi a Remus, è lui il poeta.”
“Ma che poeta?” Sirius teneva ancora gli occhi chiusi, era solo più nervoso.
“Che ne so, dice cose strane a volte.”
“Perché tu dici cose normali.”
“Okay, okay,” James inspirò, poi espirò in uno sbuffo concentrato. “C’è il molo a sinistra. Ha le tegole un po’ mangiucchiate dall’umidità e con questa luce non si vede bene, ma i pilastri che lo reggono, dove toccano il mare, hanno attaccate un po’ di quelle alghe tipiche che si attaccano alle cose, insieme alle conchiglie.”
Sirius schiuse un occhio e lo guardò di sottecchi. Aveva le sopracciglia aggrottate, come se vedere di colpo fosse diventata un’attività meno passiva. Le foglie dell’albero facevano passare una luce a chiazze, che lo colorava sulla guancia, a metà del collo e poco sotto la spalla. Distingueva a stento il modo in cui quello che diceva si rifletteva liquido negli occhi. La stanghetta degli occhiali si metteva in mezzo quando muoveva la faccia.
“Vabbè, poi c’è il mare. Non ha in tutti i punti lo stesso colore. Comunque è una bella spiaggia, se chiedi a me. Ne abbiamo viste varie, però è diverso quando ti affezioni così. Personalmente la più divertente è stata quella su cui abbiamo giocato a calcio. Te lo ricordi, il tizio che tifava United? Un bastardo allucinante. Infatti non era neanche troppo forte, a un certo punto Pete gli ha preso la palla come se gliel’avesse praticamente regalata…”
“È una descrizione penosa, Jamie,” stavolta Sirius voltò anche la faccia, guardandolo direttamente. Suo malgrado sorrideva.
James ricambiò, simile. “Ti dovrai accontentare.”
Si sporse verso di lui, ruotando il braccio alla cieca per colpirlo, ma James si ritrasse con una risata.
“Oppure devi veramente chiedere alla tua dolce metà.”
Sirius fece per rispondere, poi assottigliò lo sguardo. “Aspetta, che ne sai…”
“È un’isola piccola, le voci girano.” James sollevò le sopracciglia, su e giù, un saggio su un pizzo di una montagna o uno scemo che vinceva un premio. “Grazie, comunque, per aver lasciato la stanza a me e Lily.”
“Non lo voglio sapere.”
“È fantastica, davvero. È semplice. Non mi sono mai…” Si guardarono di nuovo, indietro nel tempo, sull’isola ma sulla soglia della porta e sull’antefatto del dolore. La bomba negli abissi sbuffò una volta. “Sentito così.”
“Ne sono felice. Era ora.” Sirius annuì. “Anche se è davvero troppo per te.”
James alzò le mani, l’aria tornò leggera. “Non so come sia successo.”
“Dev’essere pazza. Forse vive in montagna, il cambio d’altitudine.”
“Sì, per forza.”
 

Sirius chiuse gli occhi. Li voleva aprire, veramente, ma non ce la faceva. Cercò di respirare piano, riuscì solo nell’alleggerirsi la testa. Remus risalì con la bocca dalla clavicola alla guancia, poi si fermò. Sirius fu costretto ad aprire gli occhi.
“Non lo so, a volte mi sembra che ci conosciamo da una vita.”
Lo vedeva in penombra, mentre diceva le sue cose romantiche. Lo vedeva in penombra perché di notte l’isola spegneva le luci e scendeva il buio più buio che lui, dalla sua megalopoli di quasi nove milioni di abitanti, avesse mai anche solo concepito. E, controintuitivamente, questo significava che diventava anche la notte più illuminata che avesse mai anche solo ritenuto possibile. Quello, e avevano una candela. “È una vita, la Finlandia.” Sirius mosse la testa in su e lo baciò, poi tornò a guardarlo dal basso.
In realtà capiva cosa intendeva, ma capiva meglio anche il fenomeno. Era proprio di certe tragedie; diventavano devastanti al punto da trasformarsi in magia. E se le pubblicità delle merendine avevano ragione, bastavano le stelle. Bastava sedersi su un balcone e parlare di rapine, seguire un pazzo che avevano conosciuto in sauna e che forse stava condividendo nuove salsicce proprio in quel momento. Bastava non riuscire a dormire o lasciarsi distruggere di desiderio davanti a una candela. Da qualche parte dovevano essere esperti di magia e navigavano un mondo di scherzi e di segreti.
“Posso stare sopra?”
Remus disse: “Come vuoi, basta che fai qualcosa”, ma Sirius già lo stava spingendo di lato in ogni caso.
“Io? Tu ti sei messo a dire le cose intergalattiche.”
“Doveva essere un’osservazione eccitante.”
“Ma dove?” Si piegò su di lui. Remus alzò una mano a fermargli i capelli dietro un orecchio. La gravità non fu del tutto d’accordo.
“Atmosfera.”
“L’atmosfera già c’era, mi stavi letteralmente togliendo i pantaloni.”
Remus lo tirò giù per la maglietta. “Okay, basta.”
Sirius avrebbe acconsentito, ma si sentì di darsi un’occhiata alle spalle.
“Che c’è?”
“Non lo so, l’ultima volta che siamo stati così vicini su una spiaggia ci siamo inzuppati.”
Era buio, ma Sirius distinse benissimo che Remus aveva sgranato gli occhi. Balbettò qualcosa di incomprensibile. “Veramente l’ultima volta era una settimana fa e ci siamo baciati. E siamo a sei metri dall’acqua.”
“Era uno stacchetto comico, volevo farti ridere.”
“Mi fai venire solo voglia di alzarmi e andarmene.”
“Allora innanzitutto non penso proprio,” nella vita bisognava essere diretti, quindi gli infilò una mano nei pantaloni. Poi gli parlò nell’orecchio. Questa era un’acrobazia. Ci volevano anni di allenamento per questo genere di flessioni, ma non c’era da preoccuparsi, perché Sirius li aveva. “Capisco che sono irresistibile e non ce la fai più, tranquillo. So cosa fare.”
Se quello che Remus fece era un verso derisorio non gli venne molto bene.
 

“Non so perché ti assecondo,” Sirius tirò un calcio al gancio e sperò che affondasse così. Non affondò.
“Ho trascinato questa tenda per tutto il mondo. Letteralmente!” James infossava i suoi chiodi come se non avesse aspettato altro per quattro lunghi mesi. In effetti non aveva aspettato altro per quattro lunghi mesi. Addirittura certe volte fischiettava. “Non me ne andrò di qui senza dormire in tenda. È l’ultima sera!”
“Ma dormici tu in tenda.”
“No.”
Così era.
In ogni caso sarebbe stato stupido aiutarlo a piazzarla e rifiutarsi di dormirci, per quanto Sirius non si stesse sfrozando troppo.
“E poi,” cominciò James, mettendo le mani sui fianchi e ammirando il suo lavoro. “Tu hai dormito in spiaggia. Questa tenda è un cinque stelle, per i tuoi standard.”
Sirius afferrò il terzo gancio e glielo sventolò davanti alla faccia. “Molto divertente.”
“Non sto mentendo,” ma sorrideva.
Per la cronaca, Sirius non aveva previsto di addormentarsi con Remus sulla spiaggia, qualche sera prima. E assolutamente non aveva sperato di venire svegliato da James che lo buttava a mare, la mattina dopo.
 

Gli occhi dell’extraterrestre

L'extraterrestre potrebbe essere solo una cellula, ma, ammesso che ce ne sia, che ci sia stato o che ce ne sarà almeno un tipo provvisto di appendici predisposte alla visione, puntando il suo telescopio sulla Terra potrebbe vedere più cose.
Tipo un dinosauro o Carlo Magno.
Ma se ci mettiamo nel caso certamente specifico ma non impossibile in cui l’extraterrestre si trovi a una distanza dalla Terra tale che si riesca a osservare solo un grappolo di inutili esseri umani che, sempre per caso, sono gli stessi che osserviamo noi, vedrebbe questo:

Vedrebbe due ragazzini che si stringono la mano, un patto di sangue ridicolo per chi è rimasto ferito ancora troppe poche volte per sapere cosa sia un patto e cosa sia il sangue. Li vedrebbe correre per campi di calcio così ininfluenti da non avere un nome, poi picchiarsi quando la noia conta tutti i minuti di tutte le ore. Li vedrebbe raccontarsi i segreti alla luce del sole e al buio delle notti senza luna, quando non ci sono sveglie programmate per il giorno dopo né per un’esplosione. Ne vedrebbe uno dire all’altro che il livido enorme sul braccio non se l’è fatto cadendo, lo vedrebbe costruire così il suo primo ordigno. Li vedrebbe colorarsi di due colori, scoprirsi attraverso falsi amori e retrogusti di emozioni.
Li vedrebbe sbagliare.
Ne vedrebbe uno fare un solo piccolo pensiero distratto, guardare un fratello rinnegato in suo stesso onore e dirsi: lo bacerei. Sulle labbra, come si fa con le ragazze. Scatenerebbe l’inferno per quel bacio e lo guarderebbe bruciare una volta dato, il campo minato un susseguirsi di sbuffi senza preavviso. Vedrebbe l’altro farne il centro del suo mondo, del suo tradimento, e cristallizzare in una morte una scusa che non avrebbe saputo comporre neanche con mille altri anni a disposizione. Li vedrebbe ricostruire su fondamenta marce, ma che in qualche modo reggono.
Li vedrà occuparsi di loro in quattro mesi di condanna.
E su una spiaggia su un’isola con una popolazione di a quel punto sette abitanti e un cane, vedrà James raccontare di quella volta che un turista americano ha spaccato il tavolo mentre la madre di Theo gli gridava, dall’alto dei suoi ottantasette anni, che era un coglione-testa-di-cazzo-se-ti-prendo e poi non potersi alzare. Vedrà Sirius fingere cento volte di saper fare drink e risultare particolarmente convincente con un paio di voli di bottiglie dietro la schiena un po’ sfrontati. Vedrà come lo guardava Remus. Vedrà Peter ballare con una turista svizzera, lasciarle un bacio su una mano. Vedrà la sera della tempesta, con quattro visitatori bloccati sull’isola per tre notti e ogni notte una storia di fantasmi. Vedrà Lily mettersi in combutta con Sirius e far trovare un serpente finto nel letto di James. Visti certi decibel raggiunti, è possibile che lo sentirà anche urlare. Li vedrà mangiare davanti a quelle storie cibo sporco di sabbia, ridere a denti scoperti.
Li vedrà seduti davanti alla tenda alla fine di quel viaggio, a condividere una sigaretta, una storia per ogni borsa sotto gli occhi, le stelle così pesanti con quel buio da rischiare di cadere su di loro, portare giù tutti i loro sistemi planetari e riunirli all’extraterrestre ancora non nato.
Vedrà Peter Minus annunciare che non tornerà a casa con loro, che resterà ancora qualche mese a lavorare sull’isola.
Vedrà gli altri partire, la mattina dopo, l’alba incandescente ancora impressa nel retro delle pupille, la tenda richiusa nello zaino, le dita intrecciate, la Scozia con le sue montagne così infinitamente lontana.
Con una leggera ricalibrazione di sguardo, vedrà il signor Roope correre con nuovi amici nella sua macchina da cartone animato e la signora delle fragole portare ancora una volta i limoni al pescatore e Marlene baciare Dorcas su un prato innevato. E, sulle scogliere d’Irlanda, vento e oceano ancora litigheranno e ancora si stringeranno la mano.
E se la visione fosse relativa, se non fossero gli occhi dell’extraterrestre, se bastasse una percezione qualunque a raccontare una storia, allora sarebbe sufficiente un rigo.
Gli occhi del lettore
vedono queste parole. Per tutto il tempo non hanno visto altro che queste parole.







 
NotEl: ueeeeee, il prossimo è l'ultimo capitolo, alla fine ho deciso di non spezzare l'Australia, non c'era un punto appropriato per farlo.
Allora. Devo dire delle cose, innanzitutto sono consapevole che è un delirio, mi dovete perdonare, però giuro che ha senso, cioè davvero non sono parole a caso, anche se LO SEMBRANO AHAHAHA.
La questione del lavoro sull'isola Australiana è ispirata ai video su tiktok di Lindylenix, una ragazza che ha fatto veramente questa esperienza, tutta la roba della posta, il molo, i turisti bloccati è presa da lì, immaginatemi mentre bloccavo i suoi video ogni cinque secondi perché decidevo a caso che c'erano dettagli FONDAMENTALI per questa storia... imbarazzante.
Comunque il grande segreto è svelato, è sempre un po' criptico ma sarà ovvio ormai che mancano degli occhi, qui, quindi sapete cosa aspettarvi dal prossimo capitolo :DDDD
Io veramente spero che la cosa non vi abbia turbato, ma NON POTEVO taggare la past relationship all'inizio perché volevo che questo motore secondario di trama girasse a ritroso una volta avuta la spiegazione (qua). Ora, non so se abbia fatto un buon "effetto lucchetto" sul senso di sospensione che ho cercato di creare fino a questo punto, ma dovevo almeno tentare! 

Grazie per aver letto, amici.
Ci vediamo prestooo

El.
 

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Capitolo 7
*** Occhi ***


Gli occhi di James Potter

Tre anni erano una vita.
Una vita breve, ma comunque una vita.
Se qualcuno gli avesse detto da adolescente che a un certo punto avrebbe sofferto per tre anni filati, James avrebbe riso.
La sofferenza l’aveva incassata come aveva incassato qualunque altra cosa: si era appoggiato sulle spalle un mantello che serviva a scrollarla via ogni volta che pesava e a stringervisi dentro ogni volta che questa lo ingoiava. Non aveva mai smesso di ridere, non aveva mai smesso di mangiare, non aveva mai smesso di progettare, dare acqua alle piante, portare il suo corpo ad allenarsi, quando serviva.
Solo, a volte, fissava il vuoto.
Capitava che smettesse dopo tredici secondi o dopo un paio d’ore. Quando il mondo ripartiva, ripartiva anche lui, perché che altro avrebbe dovuto fare? Piangere?
Quando aveva avuto la notizia era stato il vuoto a fissare lui, per un tempo che non aveva mai contato, ma doveva essere stato straordinario, perché l’amico sempre reperibile all’improvviso era sparito dai radar.
Le sofferenze intermittenti si prendevano più tempo per guarire.
Sirius aveva bussato alla sua porta tre volte con il cuore in mano. Ogni volta aveva avuto un cuore diverso e ogni volta James era stato costretto a crescere un po’ più in fretta.
La prima, a sedici anni, Sirius aveva avuto gli occhi rossi di qualcosa che James non aveva mai saputo collocare sullo spettro che connetteva le lacrime alla deprivazione di sonno. Era scappato dai mostri sotto al letto, fatti di una stoffa notturna così fitta e così resistente perché a lavorarli a maglia erano stati quelli che avrebbero dovuto insegnargli a combatterli. Gli aveva fatto il tè, gli aveva dato metà letto e aveva imparato a prendersi cura degli altri.
La seconda volta, a ventidue anni, Sirius aveva le guance incavate e il peso della sua anima in litri di alcol in circolo. Puzzava di una serie di cose che facevano schifo e suo fratello era morto. Gli aveva dato un colpetto su una guancia, gli aveva sorriso, e poi aveva detto: ‘ora che fai, piangi? Ti vesti di nero finché non schiatti anche tu?’. James nelle orecchie aveva sentito lo stesso rumore che facevano le conchiglie, quando le si ascoltava lontano dal mare. James gli aveva detto che avrebbe preferito che fosse morto Sirius. Poi gli aveva detto di andarsene e aveva imparato a prendersi cura di sé.
La terza volta, a venticinque anni, James aveva anticipato la sua bussata. Stavano mettendo a posto gli ultimi cocci di una cosa solida che avevano rotto in cinque minuti. Visto che James era James e Sirius era Sirius, erano tre anni che un argomento proibito aleggiava su di loro. Due tristezze disperate che non si erano mai guardate negli occhi per diventarne una. Se gli amici si vedevano nel momento del bisogno, loro non si guardavano negli occhi ogni volta che il bisogno si faceva lutto. Quando Sirius si era seduto sotto la luce della lampada, James aveva imparato a prendersi cura di entrambi allo stesso tempo.
Perché ad alcune vite succedeva così: iniziavano da sole e finivano affiancate. E, indipendentemente dalla loro volontà, James e Sirius sarebbero morti nella stessa vita.
Sapeva che anche Sirius era cresciuto, perché per la prima volta James non aveva avuto bisogno di parlare, lui aveva capito che era più di un desiderio di vedere il mondo, era la formula per guardare (per guardarsi).
“Che?” la barca saltava sull’acqua e schizzava ai lati. Se si fosse sporto con un braccio, il mare gli avrebbe staccato la mano?
Sirius si avvicinò all
orecchio. “Ho spedito la lettera mentre eravamo sull’isola.”
Si guardarono, finché potevano, alla fine dei quattro mesi, sull’orlo della data di scadenza. In bilico, come tutto quello che facevano, che fosse ricerca adrenalinica o stravaganza senza motivo.
“James, mi dispiace.”
Cinque stadi del dolore, ma iniziavano subito. Il primo era stato innamorarsi della persona sbagliata, buttare al cesso anni di odio solidale contro la famiglia del suo migliore amico per poi rendersi conto che le vittime erano sempre state due. Il secondo era stato sfiorarlo, il senso di colpa che lo mangiava vivo, la consapevolezza condivisa del pericolo e della bomba senza timer che sarebbe scoppiata dopo. Il terzo era esistere nella proibizione di qualcosa che meno poteva avere più diventava cruciale, un fiore disgustoso lasciato a crescere in una teca. Il quarto era processare una morte improvvisa, vivere continuando a chiedersi quanti dei commenti di sale di Sirius avrebbe potuto sopportare prima che la ferita fosse condannata a non cicatrizzarsi più. La rabbia di Sirius era il terzo fratello, lo era sempre stato. Credeva che sguinzagliarla fosse corretto, forse, che alludere a qualcosa che non era successa fino in fondo non potesse fare troppo male. Il quinto stadio era vivere nel terrore che Sirius si scusasse. Però lo sapevano tutti: il quinto stadio era anche il più saggio. Il dolore era un pillola rassegnata.
Regulus Black era stato un colore più brillante del profilo del suo cognome. Non era stato una fiamma, ma era stato un incendio. James, che aveva vissuto senza un solo problema al mondo, aveva nascosto ogni singola cosa perché non c’era verso che qualcuno potesse vedere che cosa c’era sotto il sorriso di pubblicità e l’ironia. E quindi aveva frenato la macchina in Scozia e si era seduto a guardare le montagne venate di amaranto per nessuna ragione; quindi era uscito dalle luci stroboscopiche magenta brillante del locale a Helsinki per nessuna ragione; quindi nel cielo esploso di verde di aurora si era appoggiato a Sirius quando aveva notato i riflessi porpora e aveva sentito il bisogno di dire una stronzata, per nessuna ragione. Quindi aveva fissato il tramonto di fuoco del nord della Thailandia e quando la notte aveva chiuso gli occhi, sdraiato accanto a Peter, aveva dovuto sopportare i soliti flash vermigli, per nessuna ragione.
Solo che poi aveva perso il passaporto e il mondo si era acceso di luce e si era sentito in colpa. Nel modo disperato con cui si stringono le cose prima di lasciarle andare, nella semplicità con cui ogni paesaggio era sempre stato tinto anche di verde.
Non gli era servito, misurare l’amore su un termometro rotto, a volte ne serviva solo un altro, che non fosse più bello o più comodo o meno complicato da usare. Uno che misurasse soltanto un altro colore, uno che gli mostrasse che esisteva.
La sofferenza James l’aveva incassata come aveva incassato qualunque altra cosa, l’aveva stipata così bene che era diventata fumo sul fondo del mare, camminava e si impennava seguendo correnti che non prevedeva mai davvero. E Lily Evans, che aveva conosciuto solo per voce su un balcone fatto di vento, l’aveva baciato mentre Sydney esplodeva e gli aveva dato un po’ della vita che aveva in più. Gli avesse dato uno schiaffo, gliene avrebbe passata lo stesso.
Incredibile, che cercasse una cosa con cui era nato.
“Sì, ci ho pensato anch’io, mentre guardavamo l’aurora boreale,” disse Sirius.
James gli appoggiò un braccio sulle spalle. “Hai paura di questa cosa della vista?”
“Non ti sto chiedendo scusa perché ho paura di non poterlo fare dopo.” Cercò il suo sguardo. “Tu hai trovato quello che cercavi?”
“Non cercavo niente. Siamo partiti perché tu stavi perdendo la vista.”
“James.”
James sorrise, poi inspirò a fondo. “Sei un cazzone.”
“Non ti liberi di me. È la tua fottuta maledizione.”
Strinse la presa sul collo di Sirius. Lui ridacchiò e si divincolò.
Se avesse potuto, avrebbe smesso di vedere al posto suo.
 

 
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Londra, aprile 2018

Gli uccelli cantavano, i passi delle persone si affollavano tra i tavolini del bar.
“Davvero?” disse Remus, una risata appoggiata sulla voce. Forse pensava che sfotterlo affievolisse l’imbarazzo che provava, peccato che Sirius avesse imparato a leggerlo. “Là fuori si regalano gioielli, nel mondo vero.”
Sirius si strinse nelle spalle. “Qualcuno è dell’idea che bisogni fare solo regali utili e spontanei, meglio se non c’è alcuna occasione speciale. Sto seguendo le tue regole, Lupin.” Gli aveva regalato un orologio. “Non è il tuo compleanno e so che l’ultimo si è rotto. Se non sbaglio non ne hai ancora preso un altro.”
Il fatto era che a volte il conto più salato che si pagava dopo una confidenza era dover accettare aiuto.
James arrivò proprio in quel momento. Fece un casino allucinante tra sedie trascinate e tavolini. “Mi ha scritto Peter, sta tornando!”
“Ciao, ragazzi,” Lily prese posto accanto a Sirius.
“C’era bisogno di chiamarci e vederci, cito, urgentemente, è un’emergenza?”
“Sì,” James si sedette. Perché in tutto questo ancora non si era seduto, aveva solo schiaffeggiato il tavolo con entrambe le mani. Erano saltate tutte le tazze. “Perché mi ha mandato una mappa segnata. Vuole girare l’America.”
Remus rise, fece schioccare la lingua. “Cosa c’è nel suo itinerario? Famose capre mummificate?”
“Lo porta il berretto con le tasche per metterci il coltellino svizzero?” intervenne Sirius.
“Tour di fogne con popolazione batterica più varia e numerosa?” continuò Lily.
James parlò attraverso una risata. “Non lo so, ma preparo la tenda.”







 
NotEl: oltre trentamila parole, non potete davvero essere sorpres* da questo finale :)
Che dire, "gli occhi di James" sono stati la mia croce nera per mesi. Saranno tre, quattro mesi che ho a che fare con questo paragrafo, l'ho cambiato, tagliato, modificato, riscritto cinquantasette volte, non state leggendo la versione che ho rincorso in questi mesi, state leggendo la mia resa. Ma va bene perché tanto scrivere è la forma più elegante di fallimento comunicativo che conosco (questa è una giustificazione perché avrei potuto correre ancora, forse avrei trovato la formula giusta, idk). COMUNQUE vi ringrazio per aver letto fino alla fine, anche se SO che il finale è aperto credo ci sia un indizio della risposta nelle premesse della ff MA NIENTE let me know se secondo voi questa vista è stata persa o meno :)) Come promesso (? l'ho promesso a inizio storia? Non ricordo) di seguito l'itinerario più o meno esplicito della fic (potete saltarlo se non vi interessa, le note finiscono qui!)



SCOZIA: Sono solo lungo il lago di Loch Ness, Foyers è letteralmente un villaggio di circa 300 abitanti lungo la strada per Inverness. La strada in cui si fermano a guardare le montagne è da qualche parte lì vicino, non ricordo precisamente dove. Casa di Marlene è ispirata a una casa in cui sono stata in Svizzera, quindi non esiste. Il castello è mi pare un collage di castelli nella zona di Inverness.
FINLANDIA: Nella prima parte sono a Helsinki (la ruota senza un dente è la ruota con la cabina sauna della capitale). La sauna in Lapponia è unspecified, i paesaggi pure sono un collage di varie strade, lo spiazzo dell’aurora è un laghetto ghiacciato.
THAILANDIA: Partono da Chiang Mai (le porte in mattoni e il mercato della domenica), Peter lo acchiappano lungo la strada per Bangkok, nella provincia di Lamphun, il tempio sulla montagna pure è un mash-up di vari templi sulla montagna ma per la maggior parte è il wat phra phutthabat pha nam (LO SO CHE NON L’AVETE LETTO TUTTO >:( ), poi vanno oltre Bangkok (senza moto) e la parte del pescatore con la spiaggia è un richiamo intero tutto di un pezzo del mio drama thai del cuore che è bad buddy, quindi la spiaggia di riferimento è Suan Son Pradipat Beach (la montagna sullo sfondo come riferimento). Dopo scendono a Krabi e fanno island hopping. L’isola in cui giocano a calcio coi ragazzi e incontrano Lily ecc ecc è super unspecified, la parte in cui dormono in quella casetta sul mare è ispirata a una casetta sul mare a Koh Phi Phi ma ho perso il link di booking rip comunque mi pare si trovasse nel punto in cui l’isola è più strozzata, poi però altri sfondi vengono da Koh Samui e un altro paio di isolette mini di cui ho dimenticato il nome mi dispiace.
CAMBOGIA: la primissima scena è a Phnom Penh il rooftop bar non me lo sono scritto aridaje. Poi il parco nazionale è Phnom Kulen.
VIETNAM: è solo menzionato, comunque Hoi An è nominata e altre descrizioni successive sono di Trang An.
AUSTRALIA: Sydney è stato abbastanza chiaro sec me e mi pare che casa di Mary fosse nel quartiere Surry Hills(?) L’isola allora, gran parte delle descrizioni sono dell’isola della creator su tiktok ahahah (Woody island), ma alcune sono di Rottnest (solito mashup).

 

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