Star Trek Destiny Vol. IX: Padrone del Fato

di Parmandil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Rompicapo ***
Capitolo 3: *** Pericoloso come un desiderio ***
Capitolo 4: *** Il dono di pace ***
Capitolo 5: *** Le sfaccettature del Fato ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Star Trek Destiny Vol. IX:
Padrone del Fato
 
 
LA DESTINY DOVEVA ESPLORARE IL MULTIVERSO,
MA QUALCOSA È ANDATO STORTO
E L’EQUIPAGGIO È STATO UCCISO.
ANNI DOPO, UNA BANDA DI CONTRABBANDIERI
HA ABBORDATO LA NAVE ALLA DERIVA,
VENENDO RISUCCHIATA NEL MULTIVERSO,
SENZA LE COORDINATE DI RITORNO.
AGLI AVVENTURIERI NON RESTA CHE
ESPLORARE UNA REALTÁ DOPO L’ALTRA,
IN CERCA D’INDIZI SULLA VIA DI CASA,
MENTRE CERCANO DI RISCOPRIRE IN LORO
QUELLO SPIRITO CHE CREÓ LA FEDERAZIONE...
 
 
-Prologo:
Data Stellare 2609.302
Luogo: Vothir, colonia Voth (Quadrante Delta)
 
   Dalla prospettiva degli altri Voth, Irvik era quel che si dice un sauro di successo. La sua brillante carriera nel settore ingegneristico lo aveva portato, ancor giovane, a divenire Ingegnere Capo sulla Nave Bastione Maastri. In seguito aveva ricoperto un incarico ancor più prestigioso: era stato chiamato nel team di progettazione dei nuovi Borg Killer, le supernavi destinate a contrastare la rinnovata minaccia dei Borg. E ora che questi nuovi vascelli erano finalmente operativi, Irvik aveva per così dire il mondo in mano. I più prestigiosi circoli scientifici facevano a gara per averlo e offrirgli nuovi incarichi. Insegnamento, convegni, ricerca pura... l’Ingegnere aveva solo l’imbarazzo della scelta. Tutto questo, a neanche cinquant’anni: pochi, per una specie che viveva cinque o sei volte tanto. Eppure Irvik non aveva ancora preso una decisione sul suo futuro. Non che fosse confuso: era incline ad accettare la proposta del Circolo dell’Ingegneria Quantistica, che gli avrebbe permesso di fare ricerca e all’occorrenza di partecipare ad altri importanti progetti astronavali. No, il motivo per cui l’Ingegnere prendeva tempo era puramente personale. Dietro la facciata del sauro di successo, infatti, si nascondeva un individuo profondamente infelice. Uno che aveva visto naufragare miseramente l’aspetto più importante della sua vita: quello familiare.
   Dieci anni prima, Irvik aveva sposato la dottoressa Maia, una ricercatrice nel campo dell’olografia. Le nozze erano state combinate dai rispettivi clan, com’era tipico nella società Voth. Tra i due però sembrava esserci una buona intesa, tanto che due anni dopo era nato il loro primogenito Dryos, e dopo altri tre anni la piccola Psitta aveva bucato l’uovo. Irvik era al settimo cielo e pensava che la felicità familiare fosse assicurata. I fatti avevano ben presto ridotto in cenere quest’illusione.
   La secondogenita, infatti, era nata proprio nel periodo in cui l’Ingegnere era stato chiamato nel team di progettazione dei Borg Killer ed era totalmente concentrato sul nuovo incarico. Le sue giornate trascorrevano nel laboratorio, a lavorare – e talvolta scontrarsi – coi colleghi. A volte ci aveva persino trascorso le notti, dormendo su una brandina, per non interrompersi un minuto più del necessario. Il progetto infatti aveva già subito dei ritardi, negli anni passati, e ora il governo impaziente aveva fissato delle scadenze ferree. Irvik si era quindi trovato risucchiato in un vortice di lavoro frenetico, che non gli lasciava tempo né energie da dedicare alla famiglia. In effetti gli capitava di passare interi giorni senza vedere dal vivo la moglie e i figli, accontentandosi di qualche breve chiamata in olo-presenza. Si era detto che alla fine sarebbe tutto finito, e allora si sarebbe accertato che il prossimo incarico gli consentisse ritmi di lavoro più rilassati. Ma prima che ciò avvenisse, Maia gli aveva fatto pervenire la lettera di divorzio.
   Fulminato dalla disgrazia inaspettata, Irvik aveva letto e riletto il documento, fino a sentirsi bruciare gli occhi. Maia sosteneva che di fatto vivevano già separati, quindi non restava che formalizzare la cosa. Precipitatosi a casa, l’Ingegnere si era offerto d’abbandonare il progetto – con gran danno della sua carriera – pur di salvare il loro matrimonio. Ma i suoi sforzi erano stati vani: Maia era irremovibile, e del resto la procedura di divorzio era già avviata. Non restava che navigarla, cercando di subire meno danni possibili. Cosa che, nella società Voth, era maledettamente difficile.
   Essendo una specie antichissima, e sotto molti aspetti in decadenza, i Voth infatti erano assai tradizionalisti, anche nel diritto matrimoniale. In caso di divorzio, i figli erano assegnati in custodia alla madre, a meno di gravi impedimenti. Il padre pagava un assegno di mantenimento e nel migliore dei casi li vedeva una volta alla settimana. Nel caso di Irvik, il giudice aveva decretato che li vedesse una volta ogni due. Naturalmente l’Ingegnere aveva dovuto andarsene di casa, optando per un piccolo alloggio nei pressi dei cantieri. Alloggio che peraltro usava pochissimo, dato che quando non era impegnato nelle beghe legali trascorreva ancora la maggior parte del tempo in laboratorio. I rari giorni che passava coi figli non bastavano a lenire il suo animo; tanto più che aveva il forte sospetto che Maia stesse cercando d’indisporli nei suoi confronti.
   Così ora Irvik, al termine del progetto, si trovava con un figlio di otto anni e una figlia di cinque che lo conoscevano appena. Sperava ancora che, quando fossero cresciuti, avrebbe potuto incontrarli più liberamente e ricucire il rapporto, per quanto possibile. Ma non gli andava di aspettare tanto. Se avessero potuto fare qualcosa di bello assieme, ora che aveva del tempo libero... magari una lunga, meritata vacanza... ecco, quello poteva fare miracoli per il loro rapporto.
   Era da qualche giorno che Irvik ci pensava, dopo aver visto uno spot che incoraggiava i Voth a visitare la Terra, il mondo in cui i loro remoti antenati si erano evoluti. L’afflusso di turisti era regolamentato dal Trattato di Chicxulub, firmato all’indomani dell’increscioso tentativo dei sauri di occupare la Terra, strappandola agli Umani e a tutta la Federazione. In questo trattato i Voth, reduci da una clamorosa sconfitta, rinunciavano a ogni pretesa sul pianeta. Conservavano una presenza simbolica, ovvero l’ambasciata e un centro culturale. Tuttavia potevano visitare la Terra come turisti, a patto di non soffermarsi più di un mese e di non sforare un tetto massimo di presenze. Erano condizioni dure, dovute al fatto che i sauri avevano perso il conflitto; ma per Irvik era sufficiente. Così, dopo aver brigato un po’, era riuscito a procurarsi quattro ambiti biglietti. Ora restava la parte più dura: convincere Maia ad accompagnarlo coi ragazzi.
   Ormai da diversi minuti Irvik camminava avanti e indietro nel suo alloggio, facendo e disfacendo mentalmente il discorso che intendeva rivolgere all’ex moglie. Alla fine si fermò, con uno sbuffo. «Oh, basta! Computer, chiama Maia! Canale in olo-presenza» ordinò, fermandosi davanti all’olocamera incassata nella parete.
   Il Voth dovette attendere un pezzo, spostando nervosamente il peso da un piede all’altro. Infine Maia apparve in olo-presenza davanti a lui. Da com’era vestita, sembrava in procinto d’uscire per cena. «Beh, che vuoi? Non ho molto tempo, sto per uscire» confermò sbrigativamente.
   «Uscire con...» indagò Irvik, già punto sul vivo.
   «Con Edmon, che domande!» confermò Maia, riferendosi al suo nuovo compagno. «Andremo alla presentazione del suo nuovo kolossal sulla Guerra Vaadwaur. Faremo le ore piccole... ovviamente i bambini staranno a casa, con l’olo-tata» precisò.
   «Potevi portarli da me» borbottò l’Ingegnere.
   «E perché mai? Tu li vedrai il prossimo week-end, come pattuito» rispose gelidamente Maia. «E poi, a loro non piace stare da te. Dicono che non hanno niente con cui giocare» infierì.
   Irvik trattenne le parole mordaci che gli venivano sul conto di Edmon. L’Ingegnere detestava quel rettile tronfio, che aveva ottenuto fama e soldi facili grazie all’industria delle sale ologrammi. Le sue opere, di dubbia qualità, erano una celebrazione degli aspetti più retrivi della società Voth: imprese di secoli o millenni addietro, buone solo per distrarsi dai problemi attuali. Però era un personaggio del jet set, sempre al centro del gossip; e aveva offerto a Maia quella notorietà che lei tanto desiderava.
   «Allora, perché questa chiamata? Non ho molto tempo» avvertì la Voth, impaziente.
   «Beh, come sai abbiamo finalmente varato i Borg Killer... cosa un tantino più importante di un olo-kolossal... a proposito, ti sarebbe piaciuta la celebrazione... c’era il Cancelliere Towt in persona...» cominciò Irvik.
   «Vieni al punto» lo spronò Maia, tamburellando col piede.
   «... e così, ora che posso godermi tutte le ferie accumulate, mi sono detto: perché non fare una meritata vacanza? E intendo una vera vacanza, in un mondo esotico, non quei miseri surrogati olografici che spaccia Edmon! Non in una luna dietro l’angolo, bada bene, ma in uno di quei posti che ti ricordi per il resto della vita...?» la provocò.
   «Sembra fantastico» disse Maia, per nulla coinvolta. «Quando parti?».
   «Fra tre giorni, con un trasporto turistico» rispose prontamente Irvik. «Prima classe, pacchetto tutto compreso. Ma non ti ho detto la cosa più importante... la destinazione è la Terra!» disse in tono teatrale. E restò in attesa della reazione, come un prestigiatore che si aspetta l’applauso.
   Maia lo fissò interdetta per qualche secondo, poi si riscosse. «Ah, intendi Vothan?» chiese.
   «Vothan, la Terra, il Mondo Perduto... chiamalo come ti pare» fece Irvik, deluso dalla scarsa reazione. «I biglietti sono introvabili, per via del tetto annuale al numero di turisti, ma io ho gli agganci necessari, così è tutto fatto» si vantò, criticando implicitamente Edmon.
   «Beh, divertiti» fece Maia. «Attento a non farti truffare dagli indigeni, ho sentito che non ci si può fidare di loro. E chiama, quando torni» raccomandò. Dopo di che fece il gesto di spegnere l’olo-proiettore.
   «Aspetta!» la trattenne Irvik. «Non ti ho ancora detto la cosa più importante. Vedi, io non ho preso un solo biglietto... ne ho presi quattro» disse, speranzoso.
   Maia lo fissò come se le avesse appena fatto uno scherzo di pessimo gusto. «Ma sei serio?» chiese.
   «Mai stato più serio in vita mia. Quattro biglietti di prima classe, per un tour completo delle mète turistiche più ambite, dallo Yucatán a Bozeman, passando per l’isola artificiale di Atlantide. Ho pensato che può essere l’occasione giusta per far divertire i ragazzi, oltre a legare con loro. E chissà che anche noi due possiamo – ehm – riavvicinarci» suggerì. «Sai, tutti e quattro insieme... come una vera famiglia...».
   Ci fu un breve silenzio. Infine Maia parlò con voce strascicata, colma d’indignazione. «Ti sei bevuto il cervello?! Non siamo più una famiglia da almeno cinque anni. Tu sarai anche rimasto bloccato nel passato, ma io sono andata avanti. Ho di meglio da fare che un insulso pellegrinaggio pseudo-religioso all’altro capo della Galassia! Adesso ho un nuovo compagno...».
   «Oh, andiamo! Che ci trovi in quel buffone dalle scaglie patinate?!» si scaldò Irvik. «A parte gettare la tua vita in pasto ai paparazzi, che ha mai fatto per te? O per i nostri figli?!».
   «I nostri figli?! No, quelli sono i miei figli! Sono io che li allevo, che li conosco, che provvedo alle loro necessità! Tu sei solo quello con cui perdono due giorni al mese!» sibilò Maia, fissandolo con sconfinato disprezzo.
   «Bada a come parli! Io sono pur sempre il padre...» s’inalberò Irvik.
   «No, adesso è Edmon a fargli da padre. L’unico vero padre che abbiano mai conosciuto. L’unico che si meritano» fece Maia, implacabile. «Sai che io e lui stiamo pensando di sposarci? Naturalmente andremo tutti a vivere nella sua villa. Così i ragazzi avranno finalmente un vero giardino in cui giocare e saranno assistiti in ogni necessità. Ecco, quello è il mio sogno, il mio obiettivo. E giuro sulla mia vita, sulla vita dei miei figli, che non ti permetterò di guastarcelo. Quindi sta’ alla larga da noi! Vattene sulla Terra, o dove ti pare... più lontano è, meglio è! E ricorda che non ti vogliamo nelle nostre vite!» inveì.
   «A questo siamo arrivati» disse Irvik, pieno d’amarezza. «Che ne è della saura che ho sposato, quella che voleva starmi accanto nella buona e nella cattiva sorte?».
   «Sono cresciuta, a differenza tua» rispose Maia. «Mi sto costruendo una nuova vita, una bella vita. Qualcosa per cui vale la pena lottare. E ora, se vuoi scusarmi, non voglio tardare all’appuntamento» disse, facendo di nuovo il gesto d’interrompere la chiamata.
   «Ferma là!» gridò l’Ingegnere. «Siccome parto fra tre giorni, non farò in tempo a rivedere i ragazzi. Quindi voglio vederli adesso. Voglio parlare con loro, dato che poi non potrò farlo per diverso tempo» spiegò.
   «E approfittarne per tentarli con questa vacanza? Te lo scordi! Non ti comprerai il loro affetto!» sibilò Maia. Si guardò brevemente alle spalle, per accertarsi che non fossero in camera e quindi non assistessero alla discussione. «Non ti azzardare a contattarli di nascosto per portarmeli via, col pretesto del viaggio! Se ci provi, giuro che ti denuncio per sottrazione di minore! Ti rovino, ti mando a marcire in galera!» minacciò.
   «Questo è intollerabile! Esigo almeno di parlare coi ragazzi, per spiegargli come mai sarò assente per qualche tempo! È un mio diritto, e anche un mio dovere, affinché non si sentano abbandonati. Non puoi negarmelo...» fece Irvik, le scaglie arrossate dall’ira.
   «Ci hai abbandonati tanto tempo fa. E sai la verità? È la cosa migliore che tu abbia mai fatto per noi. Ci ha permesso d’avere una vita felice, una vita in cui non c’è posto per te. Addio!». Ciò detto, Maia troncò la comunicazione, lasciando Irvik nella penombra del suo alloggio.
 
   L’Ingegnere restò a lungo immobile, fissando la parete ormai vuota, senza realmente vederla. Pensava alle scelte che aveva fatto, dal giorno in cui aveva sposato Maia. All’epoca gli era parsa felice e innamorata. Cos’aveva mai fatto per renderla così piena d’odio e disprezzo? Dove aveva sbagliato? E che poteva fare, ora, per impedire che avvelenasse anche i ragazzi contro di lui?
   Sulle prime Irvik fu tentato d’annullare la vacanza. Se restituiva i biglietti, poteva ancora farseli risarcire. Così non sarebbe mancato ai ragazzi, in quel misero giorno bisettimanale che avevano da passare assieme. Ma riflettendoci a fondo, il Voth decise di fare altrimenti. Il suo rapporto coi figli era già così danneggiato che perdere un giorno o due non avrebbe peggiorato più di tanto le cose. E lui aveva bisogno di uno stacco. Dopo cinque anni di lavoro frenetico, aggravati dallo stress del divorzio, ne aveva proprio bisogno. Altrimenti avrebbe rischiato davvero d’impazzire. Quindi avrebbe restituito i tre biglietti inutilizzati, per non privare altri del privilegio di visitare la Terra; ma avrebbe tenuto il quarto per sé. Non voleva rinunciare a quello straordinario viaggio, anche a costo di farlo malinconicamente da solo.
   Perché Maia aveva ragione almeno su un punto: visitare la Terra non era una semplice vacanza. Era qualcosa di più... era un pellegrinaggio, un’esperienza spirituale. E non perché quel pianeta si trovava all’altro capo della Galassia. No, anche se fosse stato nel sistema adiacente, andarci avrebbe comunque costituito un pellegrinaggio. Ed era di questo che Irvik aveva davvero bisogno. Voleva un’esperienza trasformativa... voleva qualcosa che lo aiutasse a riflettere sulla sua vita, e sulla direzione da intraprendere. L’ispirazione, ecco ciò di cui aveva un disperato bisogno! Intendeva visitare il Mondo Perduto, nella speranza che gli fosse d’ispirazione per rimettere assieme i cocci della sua vita.
   Presa la decisione, Irvik contattò l’agenzia di viaggi, restituendo i tre biglietti in soprannumero, ma confermando la propria adesione. Ricevuto l’okay, prese a fare i bagagli. Non volle appesantirsi troppo d’effetti personali... lo trovava contrario allo spirito del pellegrinaggio. Preferiva viaggiare leggero, e semmai procurarsi strada facendo quel che gli serviva. Così al ritorno avrebbe avuto tanti bei souvenir a ricordargli l’esperienza. Ma il ricordo più importante sarebbe stato il campione di suolo terrestre che intendeva raccogliere, alla maniera degli altri pellegrini. Irvik si accertò di prendere con sé una boccetta adibita a quello scopo. Al ritorno l’avrebbe mostrata ai suoi figli, assieme alle olografie del viaggio, e gli avrebbe raccontato le sue impressioni. Chissà, forse sarebbe bastato questo per suscitare il loro interesse. Il Voth non poteva immaginare che il suo viaggio lo avrebbe portato ancora più lontano, tanto da finire disperso nel Multiverso, su un’astronave di avventurieri. Né immaginava che ciò lo avrebbe separato dai suoi cari ben più a lungo del previsto...
 

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Capitolo 2
*** Rompicapo ***


-Capitolo 1: Rompicapo
Data Stellare 2614.37
Luogo: USS Destiny, in rotta verso Tarn Vedra
 
   «Capitano Rivera a tutti i ponti. Un momento d’attenzione, prego». La voce del Capitano risuonò in ogni sala e corridoio della Destiny, e persino negli alloggi privati. «Oggi è un giorno particolare, come molti di voi avranno notato. Questo è infatti il quarto anniversario dall’inizio della nostra odissea nel Multiverso. Sono stati anni difficili e pericolosi, densi di battaglie, e purtroppo abbiamo perso degli amici strada facendo. Capisco perfettamente la vostra nostalgia di casa: ma proprio per questo, vi esorto a non perdere la speranza.
   In questi anni, infatti, abbiamo compiuto enormi progressi. Abbiamo scoperto nuove realtà, che ci hanno spalancato orizzonti inimmaginabili. Abbiamo messo a segno duri colpi contro gli Undine, distruggendo prima la biosfera in cui ci davano la caccia, poi l’Harvester con cui razziavano interi mondi. Cosa ancora più importante, abbiamo avvertito decine di popoli della minaccia, facendoci parecchi alleati. Ora possiamo spostarci da un cosmo all’altro, godendo di porti sicuri e facendo gli affari più redditizi che ci siano mai capitati!».
   In molti ambienti della nave, gli avventurieri levarono grida d’entusiasmo. In effetti gli affari non erano mai andati così bene, dato che alcune merci di scarso valore in certi Universi erano preziosissime in altri. Così le ampie stive della Destiny si erano riempite di preziose mercanzie, e altro ancora era stato lasciato in depositi segreti, qua e là nel Multiverso.
   «In aggiunta a questo, lasciate che vi dica una cosa» proseguì il Capitano. «Da quando incontrai il Viaggiatore, sono sempre stato convinto che prima o poi lo rivedremo. Quell’individuo, e altri come lui, possono spostarsi agevolmente da una realtà all’altra e certo conoscono le coordinate della nostra. Perciò, se... no, quando li rivedremo... la nostra odissea avrà fine e torneremo a casa. Anche la Federazione dovrà darci l’amnistia, dopo tutto quel che abbiamo fatto per proteggerla. Quindi dobbiamo solo resistere fino ad allora. Resistete, fratelli miei, e saremo a posto per il resto della vita!» esclamò.
   In sala mensa, gli avventurieri brindarono e fecero gazzarra. Anche in altri ambienti fecero udire le loro voci d’approvazione. Malgrado il lungo viaggio, il morale era alto. In particolare nell’ultimo anno avevano vinto sfide così dure, nell’Universo dello Specchio e poi nello Spazio Fluido, da fargli pensare che potevano superare ogni ostacolo. Ora che si spostavano agevolmente da un porto sicuro all’altro, arricchendosi sempre più, trovare le coordinate quantiche di casa sembrava solo questione di tempo.
   Ma c’era qualcuno, a bordo, che non condivideva il diffuso ottimismo. Qualcuno che, anzi, lo trovava insopportabile, come se al danno si aggiungesse la beffa. Quell’individuo era Irvik, l’Ingegnere Capo. Da quando si era unito agli avventurieri, infatti, la sua vita – già abbastanza disastrata – era andata totalmente a rotoli. Tutto era cominciato quando il trasporto turistico che doveva condurlo alla Terra aveva avuto un guasto, ai confini dello spazio federale, che l’aveva costretto a una lunga sosta. Deciso a non sottrarre tempo al suo pellegrinaggio, Irvik aveva chiesto un passaggio a quello che sembrava un comune mercantile. Non poteva immaginare che quegli “onesti mercanti” fossero in realtà degli avventurieri pronti a tutto, dal contrabbando alla pirateria. Né immaginava che avrebbero trovato la Destiny alla deriva, che vi si sarebbero trasferiti dopo la perdita del mercantile, e che sarebbero stati risucchiati con essa in un’altra realtà, iniziando quell’interminabile viaggio nel Multiverso.
   Più ci pensava, più Irvik si convinceva che il pellegrinaggio alla Terra fosse stata la peggior decisione della sua vita. La Terra infatti non l’aveva mai vista, a eccezione della sua versione post-apocalittica, nell’Universo dello Specchio, dove gli abitanti avevano cercato d’ucciderlo. E lungi dal trovare ispirazione nel viaggio, il Voth aveva passato tanti di quei guai da portarlo sull’orlo del collasso nervoso. Ma il peggio era che, se prima poteva vedere i suoi figli almeno un paio di volte al mese, adesso non li vedeva da...
   «Quattro anni, maledizione!» si disse Irvik, battendo il pugno sul tavolino. In quel momento si trovava nel suo alloggio, e faceva colazione prima di prendere servizio. Ficcò la mano tridattila nella ciotola di larve molli e succose, per sbocconcellarle distrattamente. Se quattro anni parevano tanti a lui, figurarsi per i ragazzi. Dryos aveva otto anni quando si erano visti per l’ultima volta, quindi ora ne aveva dodici. E la piccola Psitta, che allora ne aveva appena cinque, ora doveva averne nove. Si era perso la loro infanzia, e se continuava così, si sarebbe perso anche la loro adolescenza. E nessun profitto, nessuna meraviglia del Multiverso poteva ripagarlo di quelle perdite.
   «Se solo ci fosse un modo di tornare indietro, evitando quell’errore...» vagheggiò il Voth, ma era pura follia. La Destiny aveva una tecnologia avanzatissima, ma non era un’astronave temporale. E anche se fossero tornati nel loro Universo d’origine, era assurdo pensare d’impadronirsi di una crono-navetta. No, doveva rassegnarsi a scontare le conseguenze dei suoi errori... come ogni altro mortale. Solo gli dèi, se ce n’erano nel Multiverso, potevano sfuggire a questa regola ferrea; e non concedevano seconde occasioni ai mortali.
 
   Terminata la colazione, Irvik restò per qualche minuto al tavolo, giocherellando con un oggettino sfizioso che gli aveva dato il Capitano. Un rompicapo, così gli aveva detto, inventato proprio sulla Terra. Aveva forma cubica, e infatti si chiamava Cubo di Rubik. Ogni faccia era divisa in nove quadratini colorati, per un totale di 54 riquadri in tutto. Erano divisi in sei colori (rosso, arancio, giallo, verde, blu e bianco), e quando il Cubo era risolto, ogni faccia era di tinta uniforme. Ma il Cubo al momento era scombinato, così che su ogni faccia si mischiavano colori diversi. Scopo del gioco era per l’appunto far sì che ogni faccia tornasse uniforme, grazie a un meccanismo interno che permetteva a ogni segmento quadrato di ruotare in modo indipendente dagli altri.
   Il problema era che spostare un tassello colorato ne spostava inevitabilmente anche altri, posti sullo stesso segmento rotante, e quindi era maledettamente difficile arrivare a uniformare le facce. C’era sempre qualche tassello fuori posto, e quando Irvik provava a correggerlo, finiva per guastare gli altri allineamenti, perdendo i progressi precedenti. Una volta, spazientito, aveva calcolato il numero di configurazioni possibili del Cubo. Era saltata fuori una cifra spropositata: 43.252.003.274.489.856.000. Quindi c’erano oltre 43 trilioni di configurazioni sbagliate, a fronte di una sola corretta. Non c’era da stupirsi se non riusciva a venirne a capo! La stranezza era che certi Umani ci perdessero del tempo, e alcuni – se doveva credere al Capitano – riuscissero persino a risolverlo.
   L’Ingegnere Capo pensò che dovevano esserci dei metodi logici, matematici per affrontare il problema, scomponendolo in operazioni più semplici, fino a raggiungere la soluzione. Ma al momento non ci aveva ancora pensato, e non era certo di volerlo fare. Dopotutto aveva cose più importanti che scervellarsi dietro un astruso gioco terrestre. Così lasciò il Cubo scombinato sul tavolo, per tornare a ragionarci solo se ne avesse avuto il tempo e la voglia. Infine lasciò il suo alloggio, diretto in sala macchine per un altro lungo e noioso turno.
   Era strano: quand’erano in battaglia il Voth agognava alla quiete, e ora che si trovavano in un periodo quieto (per quanto potesse esserlo viaggiare nel Multiverso), avrebbe voluto che qualcosa rompesse la monotonia. Qualcosa d’inaspettato, magari d’emozionante. Fu accontentato ancor prima di giungere in sala macchine.
   «Irvik a rapporto in plancia, abbiamo un’anomalia» lo chiamò il Capitano.
   «Qui Irvik, sto arrivando» sospirò il sauro, premendosi il comunicatore. Giunto al turboascensore, salì invece di scendere. Strada facendo, si fece un appunto mentale: mai desiderare i guai. Secondo un vecchio proverbio Voth, erano gli unici desideri che gli dèi si divertivano a esaudire...
 
   Giunto in plancia, Irvik guardò subito lo schermo principale. E vide il Nulla... che era diverso dal non vedere nulla. Lo spazio era punteggiato di stelle, ma proprio al centro dell’inquadratura si apriva una sorta di squarcio informe, dai contorni bluastri, entro cui c’era un’oscurità assoluta, senza stelle.
   «E quello cos’è?» chiese istintivamente il Voth.
   «Spero che possa spiegarlo lei a noi» rispose il Capitano. «Ci è apparso davanti, sebbene non sia segnato sulle mappe stellari che ci siamo procurati. Dev’essere un’anomalia recente».
   «Somiglia a un’interfase di spazio» notò Talyn, l’addetto a sensori e comunicazioni.
   «Oh, no! Ancora gli Undine?!» chiese Irvik, precipitandosi al suo fianco per verificare le letture dei sensori.
   «Non credo... quello non somiglia allo Spazio Fluido» rispose l’El-Auriano, proseguendo le scansioni. «E non sembra nemmeno il Vuoto» aggiunse, riferendosi al cosmo senza stelle in cui si erano spesso rifugiati in quegli anni. «Voglio dire, il Vuoto è appunto vuoto, cioè privo di materia, ma ha comunque delle dimensioni misurabili. In questo caso, però, i sensori non rilevano proprio nulla... nemmeno lo spazio vuoto. È come se l’anomalia davanti a noi non esistesse».
   «Se non esiste, perché non vediamo le stelle dall’altra parte? Se qualcosa le oscura, significa che qualcosa c’è!» obiettò Shati, la timoniera. «E qualunque cosa sia, suggerisco d’aggirarla. Traccio la rotta per girarci intorno...».
   «Un momento, adesso capto qualcosa all’interno dell’anomalia» avvertì Talyn. «Si direbbe un’astronave».
   «Uhm, di chiunque si tratti, potrebbe non essere salutare stare lì dentro. Forse ci sono finiti accidentalmente...» mormorò Irvik, cercando di dare un senso alle letture dei sensori.
   «Che astronave è? Aumentate la risoluzione, dobbiamo identificarla» disse il Capitano. Da questo dipendeva la decisione d’aiutarla o meno. Al momento si trovavano in un cosmo in cui gran parte della Via Lattea era unificata da un unico governo, il Commonwealth, con cui erano in buoni rapporti, tanto da essere in rotta per la capitale Tarn Vedra. Se la nave dispersa era del Commonwealth, valeva la pena soccorrerla, o almeno avvisare le autorità del problema. Se invece apparteneva a uno dei pochi sistemi indipendenti, o peggio ancora a qualche banda pirata, era meglio allontanarsi.
   «Risoluzione al massimo» disse Talyn, inquadrando una piccola porzione di quello spazio nero. Allora gli avventurieri trattennero il fiato. Quello davanti a loro non era uno dei sinuosi vascelli del Commonwealth. No, per la prima volta da quattro anni, gli avventurieri si trovarono a guardare un’altra astronave della Flotta Stellare.
 
   Era un piccolo vascello scientifico di classe Nautilus, una delle più diffuse nella Federazione. La sua forma ricordava quella del mollusco da cui prendeva il nome, in quanto la sezione a disco era più sviluppata in verticale che in orizzontale, somigliando a una conchiglia. Era anche semifusa con la sezione motori, dalla quale si distaccavano solo le due piccole gondole quantiche. La nave tuttavia era statica, quasi fosse alla deriva, nel cuore dell’anomalia. Osservando attentamente lo scafo curvilineo, gli avventurieri riuscirono a leggere il nome: USS Empirical.
   «Empirical... non è nel database. Forse è stata varata negli ultimi anni» notò Talyn.
   «Beh, ma è magnifico! È quel che aspettavamo... una nave federale pronta a riportarci a casa!» esclamò Irvik. D’un tratto la giornata gli pareva assai più rosea. Anche se nessuno gli avrebbe restituito gli anni perduti, tornare ora era pur sempre meglio che non tornare affatto. «Basta che ci forniscano le coordinate quantiche ed è fatta. Apri un canale, presto!» lo pressò.
   «Un momento!» fece il Capitano, insospettito. «Questo è ciò che abbiamo sempre sperato, certo. Ma ora che è successo... non posso fare a meno di chiedermi come ha fatto la Flotta Stellare a trovarci. In primo luogo, come sapevano che ci troviamo in questo cosmo, che è uno di quelli sconosciuti alla Flotta? E poi, anche sapendoci qui, come ci hanno localizzati con precisione? E cosa diavolo è quell’anomalia?!».
   «Beh, chiediamolo a loro!» obiettò Irvik, sorpreso da quella mancanza d’entusiasmo.
   «Già, sempre che non sia una trappola» mugugnò Rivera, ormai avvezzo agli inganni.
   «È possibile, Capitano» intervenne Naskeel, l’Ufficiale Tattico. La voce del Tholiano, resa dal traduttore istantaneo, risuonò fredda e metallica. «Vorrei ricordare che durante il nostro unico contatto con la Flotta, durante l’attacco all’Harvester, avevamo scambiato il numero di registro con la Destiny dello Specchio per ingannare gli Undine. E poiché l’altra Destiny fu distrutta in quella battaglia, la Flotta ne avrà dedotto erroneamente che siamo stati noi a perire. Quindi non ha motivo di cercarci».
   «Ehi, piano, uccellaccio del malaugurio!» si oppose Irvik. «La Flotta può benissimo aver scoperto come stanno le cose. Basta che abbia contattato una delle tante fazioni con cui abbiamo avuto a che fare negli ultimi mesi. Quanto alle altre domande... ribadisco che dobbiamo porle a loro» disse, indicando l’Empirical, che manteneva la posizione al centro dell’anomalia.
   «Uhm, se solo uscissero da lì...» mormorò Rivera, fissando con sospetto il piccolo vascello scientifico.
   Irvik si sentì urtato da quell’atteggiamento paranoico. Aveva la sgradevole sensazione che il Capitano, malgrado i proclami, non volesse porre fine alla loro odissea. Dopotutto, finché erano in viaggio, lui aveva un’autorità indiscussa. Ma se fossero tornati alla Federazione, avrebbe dovuto restituire la Destiny alla Flotta e affrontare il processo per i suoi passati crimini. Davanti a questa scelta, molti avrebbero preferito la prima opzione. Del resto, una volta Rivera gli aveva confidato di aver già rinunciato alla possibilità di tornare, proprio all’inizio del loro viaggio, perché non si fidava degli Undine e della loro proposta. Possibile che, dopo quattro anni d’avversità, rinunciasse a quest’altra occasione, ancora più ghiotta...?
   «Va bene, aprire un canale con l’Empirical» decise l’Umano, tornando a sedersi in poltrona. «Qui è il Capitano Rivera della Destiny. È bello trovare dei compatrioti così lontano da casa... possiamo sperare che siate qui per ricondurci alla Federazione?» chiese.
   La risposta non si fece attendere. La plancia dell’Empirical riempì lo schermo, con gli ufficiali in uniforme alle loro postazioni. Il Capitano era una donna Umana, sulla quarantina, dai capelli biondo malto raccolti in una coda di cavallo.
   «Qui è il Capitano Shaw, dell’Empirical» rispose l’Umana con un lieve sorriso. «Sorpreso di vedermi, Armando?» chiese in tono più familiare.
   «Debora! Hanno mandato te a cercarci?!» sobbalzò Rivera. Debora era stata la sua fidanzata ai tempi dell’Accademia, sebbene studiassero in sezioni diverse: lui nella Sicurezza, lei in Comando e Navigazione. Una volta diplomati, i loro incarichi li avevano divisi, e così anche la loro storia era finita. Rivera si era spesso chiesto se l’ex fidanzata avesse fatto carriera, fino a coronare il suo sogno di comandare un’astronave. Evidentemente c’era riuscita, e anche in fretta. «E con metodi più leciti dei miei» si disse con rimpianto.
   «La mia nave è stata modificata per seguirvi» confermò Debora... no, il Capitano Shaw. «E sì, siamo qui per riportarvi alla Federazione. Vi abbiamo cercati per mesi, contattando i popoli con cui siete stati in affari, per farci un’idea di dove potevate essere. Anche così, è stata una fortuna beccarvi».
   «Come risolvere un Cubo di Rubik in pochi secondi, e per giunta bendati» si trovò a pensare Irvik, con la parte più analitica della sua mente.
   «Quindi... è fatta? Si torna a casa?» chiese Rivera, incredulo.
   «Appena riusciremo a tirarci fuori da quest’anomalia, sì» disse Shaw con una traccia di nervosismo. «La cavitazione quantica non funziona qui dentro, e non riusciamo nemmeno ad aprire una fenditura per tornare nel nostro cosmo».
   «I motori a impulso?» suggerì Shati dal timone.
   «Morti anche quelli. Per quanto sia inappropriato, da parte di presunti soccorritori, devo chiedervi di aiutarci, prima che noi possiamo aiutare voi» rispose l’Umana. «Se poteste avvicinarvi un po’ e agganciarci col raggio traente, tirandoci fuori di qui, ecco che torneremo tutti alla Federazione in men che non si dica».
   «Uhm, che garanzie ci offre la Flotta? Che ne sarà del mio equipaggio?» chiese Rivera, accigliato.
   «Come, è questo che ti preoccupa? Oh, non devi farlo!» fece Shaw, agitando la mano, come per spazzar via dubbi e timori. «La Flotta ha ricevuto il vostro messaggio, l’ultima volta che avete affrontato gli Undine, quindi conosce i vostri meriti. Del resto la battaglia è stata osservata in diretta da Ferasa, prima che l’interfase si chiudesse. Quindi abbiamo le prove del vostro eroismo. Per questa ragione, vi comunico che il Comando di Flotta, in accordo con la Corte di Giustizia Federale, ha promulgato l’amnistia per tutti voi. La vostra fedina penale è pulita, signori. E questo vale anche per te, Armando. Una volta tornati, tu e i tuoi ufficiali non avrete nulla da temere. Anzi, credo proprio che chi lo desidera potrà rientrare nella Flotta Stellare» disse, alludendo chiaramente a lui.
   «Questa è... un’ottima notizia» disse il Capitano, che fin dall’inizio del viaggio si arrovellava al pensiero di cosa ne sarebbe stato di loro, qualora fossero tornati.
   «Allora, se non ci sono altre domande, vi chiedo d’attivare il raggio traente e farci uscire di qui» ripeté Shaw.
   «Aspettate un attimo» disse Rivera, e segnalò a Talyn d’interrompere la comunicazione. «Le vostre impressioni?» chiese a tutti gli ufficiali.
   «Per quanto le anomalie siano imprevedibili, è strano che questa gli abbia bloccato anche i motori a impulso» notò Shati.
   «Amnistia per tutti... sembra troppo bello per essere vero» disse la Comandante Losira, che era tra quelli con la fedina penale più lercia.
   «Stai insinuando che non sia vero? Che sia una trappola?» chiese Rivera.
   «Beh, dico solo di stare attenti alle nostre mosse» rispose la Risiana.
   «Di mosse per ora ce n’è una sola: tirare quell’astronave fuori dall’anomalia!» obiettò Irvik. «A quel punto vedremo se ci riportano alla Federazione oppure no. Ma finché non li tiriamo fuori, è una situazione di stallo».
   «Uhm... Talyn, hai qualche premonizione?» domandò il Capitano, che aveva imparato a fidarsi del sesto senso del giovane El-Auriano.
   «Non saprei... quel Nulla m’inquieta» rispose l’interpellato, osservando l’anomalia. «Ho quasi la sensazione che siamo osservati. Prima ce ne andiamo, meglio è».
   «Capitano... dopo quattro anni di ricerche, ora che finalmente abbiamo di fronte una nave federale, non possiamo ritirarci senza fare almeno un tentativo...» implorò Irvik.
   «No, non possiamo» sospirò Rivera, prendendo quella che in fondo era una decisione obbligata. «Shati, portaci a distanza di raggio traente, ma sta’ attenta a non entrare nell’anomalia!» raccomandò.
   «Non ci entrerei neanche per tutto il latinum del Grande Nagus» assicurò la timoniera. Diresse la Destiny in avanti a un quarto d’impulso, fermandosi a un migliaio di chilometri dall’orlo dell’anomalia. Gli avventurieri attesero, sudando freddo.
   «Siamo a distanza utile per il raggio traente» riferì l’addetto, un Ferengi.
   «Allora... agganciamo l’Empirical e tiriamola fuori» ordinò il Capitano, intrecciando le dita. «Tutti all’erta, se qualcosa andasse storto» raccomandò.
   La Destiny attivò il raggio traente, agganciando il vascello più piccolo e trascinandolo verso di sé. Nei primi momenti tutto procedette regolarmente, anche se la considerevole distanza dell’Empirical faceva sì che l’operazione fosse lunga. Ma a un tratto ci fu uno scossone e le stelle svanirono dallo schermo, che si riempì di una foschia bluastra.
   «Caramba, che scherzo è questo?! Dove sono finite le stelle?!» esclamò Rivera, sobbalzando sulla poltroncina.
   «Suppongo che siano ancora al loro posto» rispose Talyn, con aria tesa. «Siamo noi che non le vediamo più. Questa dannata anomalia si è appena espansa. Vale a dire che ci ha inglobati... come se non aspettasse altro».
 
   Ci fu un breve silenzio, mentre gli avventurieri osservavano l’inquietante foschia bluastra. Si sentivano come topi presi in trappola... e avevano la netta sensazione che l’Empirical fosse il formaggio.
   «Basta col raggio traente» ordinò il Capitano, dato che ormai era inutile. «Talyn, pensi che quest’anomalia sia in qualche modo senziente? O controllata da esseri senzienti?».
   «Beh, la sua pronta reazione denota un certo grado d’intenzionalità» rispose l’El-Auriano. «Consiglio di uscirne subito, se i motori a impulso rispondono ancora».
   «Rispondono, sì!» confermò Shati, attivandoli.
   «Allora facciamo inversione di rotta, e via di qui! Il salvataggio dell’Empirical dovrà aspettare» decise Rivera. Per quanto detestasse lasciare Debora nei guai, riteneva che l’avrebbero aiutata maggiormente uscendo da lì e chiedendo aiuto al Commonwealth, anziché restando bloccati a loro volta.
   Shati eseguì una rapida inversione e diresse la Destiny a massimo impulso, sempre più lontano dall’Empirical. Trascorsero i minuti, mentre gli avventurieri fissavano nervosamente la foschia bluastra, aspettandosi di veder riapparire le stelle. Ma il tempo passava e gli astri non sembravano in vena di mostrarsi.
   «Che distanza abbiamo percorso?» chiese a un tratto il Capitano.
   «Cinquanta milioni di chilometri in linea retta» rispose Shati.
   «E non siamo ancora fuori? Si può sapere quant’è grande adesso l’anomalia?».
   «Questo lo chieda ai sensori» fece la timoniera, innervosita.
   «Allora?» fece Rivera, rivolto a Talyn.
   «Difficile a dirsi, Capitano» rispose il giovane, in difficoltà. «I sensori non vedono oltre l’anomalia, quindi non ci sono punti di riferimento esterni che permettano di stabilire la sua attuale estensione. L’unico riferimento che abbiamo è l’Empirical, che resta sempre più indietro».
   «Proviamo a balzare a cavitazione quantica, se sembra sicura» decise il Capitano, rivolto a Irvik. «Quest’anomalia non può aver fagocitato l’intera Galassia».
   L’Ingegnere Capo era già alla sua postazione, in comunicazione con la sala macchine. Dopo aver ricevuto una sfilza di «Go!» dai capi-reparto, stabilì che anche la cavitazione era sicura.
   «Allora io procedo...» fece Shati, dando piena potenza alle gondole. La Destiny balzò a cavitazione, viaggiando assai più veloce della luce. Di lì a pochi attimi i sensori rilevarono qualcosa.
   «Capitano, c’è un’altra nave proprio davanti a noi» avvertì Talyn.
   «Altri dispersi in quest’anomalia?» fece Rivera, corrucciato. «Okay, vediamo di chi si tratta. Arresto totale».
   La Destiny scese a velocità subluce e si arrestò. Il Capitano si alzò dalla poltrona, stropicciandosi gli occhi, mentre gli altri avventurieri borbottavano imprecazioni. Davanti a loro, infatti, campeggiava un’altra astronave di classe Nautilus, identica alla precedente.
   «Ma che scherzo è questo? Una nave gemella?!» fece Rivera.
   «È peggio di così, Capitano» fece Talyn, inquadrando una sezione dello scafo. Tutti poterono leggerne il nome: USS Empirical. «È proprio quella di prima, identica in ogni dettaglio» confermò l’El-Auriano.
   «Quindi abbiamo girato in tondo?!» fece Rivera, esterrefatto, rivolgendosi a Shati.
   «Ehi, non guardi me! Io ho pilotato sempre dritto!» si difese la timoniera.
   «Se fossimo andati dritti, non saremmo tornati al punto di partenza...» insisté il Capitano, spazientito.
   «Sì invece, se ci troviamo in una pocket dimension» intervenne Irvik. «Intendo un continuum spazio-temporale di piccole dimensioni, come l’interno di un buco nero. In questo caso lo spazio è così piccolo che, allontanandosi di un certo tratto, ci si ritrova al punto di partenza. È un po’ come fare il giro del mondo, muovendosi sulla superficie fino a tracciare un cerchio completo».
   «E come ci siamo finiti? Quest’anomalia non è un buco nero, non ha un orizzonte degli eventi...» obiettò Rivera.
   «No, ma è comunque uno spazio curvo, chiuso in se stesso, non più grande di un sistema stellare» precisò l’Ingegnere Capo. «Se è così, non possiamo uscire... salvo forse passando a un’altra realtà» suggerì.
   «Procedere. Torniamo nel Vuoto... e tiriamoci dietro l’Empirical» ordinò il Capitano, risedendo in poltrona.
   Gli ingegneri cercarono d’eseguire la procedura, già fatta cento volte, per aprire una fenditura interdimensionale che li portasse in un’altra realtà. Ma a metà del procedimento, il nucleo quantico perse energia. Il deflettore secondario brillò e si spense, senza aver raggiunto il potenziale d’accensione.
   «E adesso che succede?!» fece Rivera, esasperato.
   «No-non riesco a s-spiegarmelo» balbettò Irvik, consultando affannosamente i dati sulla consolle. «Sembra tutto in ordine, ma a un tratto l’energia è sparita. Forse è successa la stessa cosa sull’Empirical» ipotizzò.
   «Già, l’Empirical è sempre al centro di questo rompicapo...» rimuginò il Capitano, osservando la nave scientifica. «Beh, io mi sono stancato di girarci attorno. Talyn, contatta quella nave e di’ che sto per trasferirmi a bordo. Voglio verificare la situazione coi miei occhi».
   «Sei sicuro che sia prudente?» chiese Losira. «Temevamo una trappola, ed è ciò che si è verificato. Non sappiamo nemmeno se quella sia realmente una nave federale. Se ora vai a bordo, potrebbero catturarti o peggio...».
   «Siamo già tutti prigionieri di questo Nulla» ribatté l’Umano. «Se vado su quella nave, forse comincerò a capirci qualcosa. Per sicurezza terremo sempre aperto il canale dei comunicatori. Voi tenete i sensori su di me e state pronti a riprendermi a bordo, al primo segno di pericolo» raccomandò a tutti gli avventurieri.
   «Beh, almeno prenda con sé una squadra della Sicurezza!» consigliò Irvik.
   «Farò di meglio: prenderò il nostro miglior ingegnere. Mi segua, signor Irvik. Andiamo in esplorazione» ordinò il Capitano. Lasciò la sua poltroncina e si diresse verso la sala teletrasporto, adiacente alla plancia.
   «Io? Ma – ehm – perché proprio io?!» fece il Voth, allargandosi il colletto per respirare meglio.
   «Perché è l’unico che potrebbe capirci qualcosa, di questo Nulla in cui siamo intrappolati. Se i suoi colleghi dell’Empirical hanno fatto qualche analisi, qualche scoperta, voglio che lei ci dia un’occhiata. Forza, non perdiamo tutto il giorno!» lo esortò l’Umano.
   «Vengo anch’io! Passo a prendere le armi pesanti nel mio alloggio...» si offrì Shati.
   «No, tu resta qui al timone. Ho la sensazione che, qualunque sia la natura del problema, non lo risolveremo sparando. Se in qualunque momento scorgete la possibilità di fuggite, fatelo!» ordinò il Capitano, rivolgendosi di nuovo a tutti i presenti.
   «Dopo averci ripresi a bordo, s’intende!» aggiunse Irvik.
   Malgrado l’affermazione di Rivera, entrambi si munirono di phaser, più per ragioni di sicurezza psicologica che per altro. Se sull’Empirical li aspettavano guai, non sarebbero state quelle due armi a salvarli. Il Capitano e l’Ingegnere Capo salirono sulla pedana di teletrasporto e furono trasferiti sul vascello scientifico. Appena tornarono a vedere si guardarono attorno, pronti a impugnare i phaser alla prima dimostrazione d’ostilità. Ma si accorsero con sgomento che la sala teletrasporto dell’altra nave era vuota; non c’era nessuno ad accoglierli.
 
   «Beh, che maniere sono?! Non mi aspettavo trombe e grancassa, ma almeno uno straccio di ufficiale ad accoglierci... dopotutto avevamo avvertito del nostro arrivo...» commentò Irvik, guardandosi attorno deluso.
   «Uhm, molto strano...» fece Rivera, guardandosi attorno con circospezione. Impugnò il phaser e scese dalla pedana, inducendo il Voth a fare altrettanto.
   «Rivera a Shaw, mi senti? Rivera a plancia, mi sentite? Rivera a chiunque sia in ascolto... rispondete, per favore!» disse il Capitano. Ottenne solo un silenzio di tomba. «Dovrebbero esserci un centinaio di persone su questa nave, non possono essere tutte occupate» mormorò.
   «Forse hanno dei problemi alle comunicazioni. Magari non hanno captato neanche il nostro avviso d’arrivo» suggerì Irvik.
   «Può darsi... comunque non mi piace. Andiamo in plancia, lì ci sarà per forza qualcuno» borbottò Rivera.
   I due lasciarono la saletta teletrasporto, ritrovandosi direttamente in plancia. I loro sguardi spaziarono sulla sala vuota. «Questa, poi! Dove sono finiti tutti? Possibile che si siano volatilizzati negli ultimi minuti?!» sbottò Irvik.
   «Comincio a credere che non ci siano mai stati» disse il Capitano, sentendo un brivido lungo la schiena. Si accostò alla poltroncina del Capitano e del Primo Ufficiale, tastandone le superfici d’appoggio. «Come temevo, sono fredde. Nessuno è stato seduto qui, almeno negli ultimi minuti» constatò.
   «Ma li abbiamo visti coi nostri occhi...» fece Irvik, bloccandosi a metà frase. «No, come non detto. Abbiamo visto solo una trasmissione inviata da questa nave. Chiunque sia a dirigere i giochi, può farci vedere quel che vuole. Fortuna che non è altrettanto bravo con le illusioni in presenza».
   «Chissà... forse si è solo stancato del gioco. Io temo che sia un illusionista ancora più bravo di quel che credi» disse Rivera, sempre guardandosi nervosamente attorno.
   «Perché?».
   «Perché mi sono appena ricordato di una cosa. Sulle navi di questa classe, la sala teletrasporto non è adiacente alla plancia. Per salire qui avremmo dovuto prendere un turboascensore» rispose il Capitano.
 
   Ci fu un lungo, spaventoso silenzio. Infine l’Ingegnere Capo si riscosse. «Beh, allora non restano molte opzioni. La prima è che siamo impazziti...».
   «Non la compro. Dammene un’altra» fece Rivera.
   «La seconda è che ci troviamo in un ponte ologrammi...».
   «Già meglio, ma ancora non mi convince».
   «La terza è che in questa pocket dimension le leggi della fisica sono diverse dalle nostre, o comunque possono essere manipolate da chiunque diriga la baracca» concluse Irvik.
   «Ecco, temevo che ci saremmo arrivati» sospirò il Capitano. «Abbiamo affrontato nemici d’ogni risma, ma le entità sovrannaturali ancora ci mancavano».
   «Non parlo di dèi o demoni, ma di alieni basati su una fisica per noi incomprensibile» chiarì il Voth. «A questo punto potremmo davvero trovarci in un’interfase di spazio con un’altra realtà, in cui questi contorcimenti sono possibili».
   «E l’Empirical che ci sta a fare?» obiettò Rivera. «Se è una vera nave federale, che fine ha fatto l’equipaggio? E se è tutta un’illusione... chi la sta generando, e perché?».
   «Non conosco la risposta, ma credo che faremmo meglio a tornare sulla Destiny» propose Irvik.
   «Aspetta, voglio andare nell’ufficio del Capitano e vedere se ci sono dei diari» decise l’Umano. Se mai Debora era stata su quella nave, voleva capire che fine aveva fatto. Varcò la porta che portava dalla plancia all’ufficio... e si ritrovò di nuovo in plancia. Stavolta però era sull’altro lato, come se fosse appena uscito dalla sala tattica.
   «Beh?!» fece Irvik, girandosi verso di lui. «Ma come ha fatto a...».
   «Non chiedermelo. Ho varcato la soglia e mi sono ritrovato qui» disse Rivera. Attraversò in fretta la plancia, finché fu nuovamente accanto al sauro. Insieme, i due si accostarono alla porta dell’ufficio. Questa si aprì... e li introdusse a un’altra plancia. O forse era sempre la stessa?
   «Fantastico, una nave fatta solo di plance» commentò l’Umano.
   «Bello, così ciascuno può giocare a fare il Capitano» lo canzonò il Voth, meritandosi un’occhiataccia.
   «Chiunque stia facendo questo, ha un perverso senso dell’umorismo» borbottò Rivera. Si avvicinò a un’altra porta, lasciando che si aprisse, ma senza varcarla. Vide di nuovo la plancia... e anche se stesso, di schiena, che guardava attraverso la porta. Sentendosi osservato, si girò di scatto... e vide un altro se stesso che lo spiava da dietro, salvo girarsi a sua volta, e così via all’infinito. La vista era così disturbante che dovette arretrare, lasciando che l’ingresso si richiudesse, ponendo fine a quel gioco di specchi.
   «Okay, lo ammetto... adesso ho la pelle d’oca» confessò il Capitano. «Rivera a Destiny, teletrasporto immediato per due!» ordinò. Non ebbe risposta, né il raggio teletrasporto li trasse da quella nave spettrale. «Caramba, abbiamo perso i contatti» mormorò, sempre più angosciato.
   «Vuol dire che siamo bloccati qui? No, mi rifiuto di crederlo! Dev’esserci un modo per tornare in sala teletrasporto!» gridò Irvik, in preda al panico. Si guardò attorno, finché riconobbe la porta che avevano varcato quand’erano entrati per la prima volta in plancia, provenendo appunto dal teletrasporto. Si avvicinò, fece per varcarla... e barcollò sulla soglia.
   Rivera gli si precipitò accanto, e capì cosa lo aveva sconvolto. Davanti a loro si stendeva un ambiente che pareva uscito dai disegni surreali di Escher. Alto e basso non avevano senso, tanto che non si riusciva a decidere da che parte guardarlo. Era un intrico di scale che salivano e scendevano, svoltavano a destra e sinistra, si dividevano, senza che si capisse da dove venivano e dove conducevano. C’erano porte e finestre su quello che avrebbe dovuto essere il soffitto, e anche sul presunto pavimento. Alcune porte erano persino disposte orizzontalmente lungo le pareti, costringendo a scavalcare quello che appariva come un cornicione e a piegare la schiena per oltrepassarle. Quanto alle finestre, davano su analoghi ambienti labirintici. Si sarebbe detto che quel posto assurdo si estendeva all’infinito, a dispetto delle piccole dimensioni dell’Empirical.
   «Ho letto qualcosa sulle torsioni spaziali, ma questo... questo è troppo» fece Rivera, provando un senso di vertigini. In quella vide una figura umanoide che si muoveva con apparente naturalezza in quell’ambiente assurdo. Era Debora, sempre con l’uniforme da Capitano e i capelli biondi raccolti da un fermaglio in una coda di cavallo. Alzò brevemente gli occhi, guardandolo con calma surreale, e riprese a camminare lentamente, senza proferir parola. Dove mai poteva essere diretta, in quell’ambiente fatto solo di scale, porte e finestre?
   «Ehi, Debora! Dove vai... mi devi una spiegazione!» gridò il Capitano, sul punto d’oltrepassare la soglia per gettarsi in quel luogo delirante.
   «Fermo, Capitano! Se ci perdiamo laggiù, potremmo non tornare mai indietro!» lo ammonì Irvik. Poiché le parole non bastavano, lo agguantò e lo trattenne fisicamente, impedendogli di varcare la soglia. «Crede che quella sia la sua Debora? L’ha ammesso anche lei che siamo in balìa di qualche fenomeno – probabilmente di qualche entità – sovrannaturale. Sono pronto a scommettere che la sua vecchia fiamma è ancora nella Federazione, e quella è solo un’illusione!».
   «Sì, hai ragione» ammise Rivera, ricomponendosi. «Ma non posso fare a meno di chiedermi... se questa fosse davvero l’Empirical, alterata dalla lunga permanenza nell’anomalia? Se Debora e il suo equipaggio ne fossero stati in qualche modo... assorbiti? E se lo stesso capitasse, alla lunga, anche alla Destiny e a noi?!».
   Così dicendo, il Capitano osservò Debora che scendeva una lunga scalinata. Un altro ufficiale stava salendo lungo la stessa scala, così che si sarebbero incrociati pressappoco a metà. Il secondo individuo però calcava i gradini lungo l’altro lato, così che il suo corpo era inclinato a un angolo di 90º rispetto a Debora. Morbosamente affascinato, Rivera osservò i due che si passavano accanto, assurdamente inclinati ad angoli diversi. Non rallentarono il passo, non si guardarono, non parlarono; insomma non entrarono minimamente in contatto. Chissà se s’ignoravano volutamente, o se erano prigionieri ciascuno della propria sfaccettatura di realtà, incapaci di vedere il quadro completo? Entrambe le possibilità erano disturbanti.
   L’Umano e il Voth indugiarono sul ciglio di quel mondo surreale e infinito, che pareva sul punto d’avvolgerli e assorbirli nel suo nonsense. Poi, come un’ancora di salvezza, il comunicatore del Capitano si attivò. «Bzzzt... ci riceve, signore? Abbiamo superato le interferenze gravimetriche» risuonò la voce di Talyn. «Va tutto bene laggiù, o vuole che vi riprendiamo a bordo?».
   «Rivera a Destiny, teletrasporto d’emergenza per due, ora!» gridò il Capitano. Lui e l’Ingegnere Capo restarono immobili, mentre il teletrasporto della loro nave li traeva in salvo da quell’incubo.
 
   «Allora?» chiese Losira, quando rimisero piede sulla plancia della Destiny.
   «Allora siamo sotto attacco» rispose senza mezzi termini il Capitano. «Qualcuno ci ha attirati in quest’anomalia, sfruttando l’Empirical... o una sua proiezione, perché dubito che quella sia una vera astronave. L’interno è labirintico e l’equipaggio non reagisce alla nostra presenza. Il punto è che ora siamo in ostaggio, e può capitarci di tutto».
   «Aspetta... chi o cosa ci ha intrappolati?!» si allarmò la Comandante.
   «Non lo so ancora. Deve trattarsi di una qualche entità incorporea, direi extra-dimensionale. Una a cui piacciono gli esperimenti. Non so... forse un Q» ipotizzò Rivera.
   «Uhm, questo non sembra il modus operandi dei Q» obiettò Irvik. Sedette a una consolle e aprì il database federale, scorrendolo rapidamente.
   «Che stai facendo?» chiese il Capitano, ancora scosso dall’esperienza.
   «Studio tutte le entità incorporee a noi note, cercando delle similarità comportamentali nei precedenti incontri» rispose il Voth. «Vediamo... escluderei gli Organiani, che sono troppo pacifici, e non sembrano in grado d’alterare lo spazio-tempo nel modo che abbiamo visto. Escludo anche i Profeti e i Pah-wraith di Bajor, che hanno bisogno d’intervenire attraverso degli Emissari o degli oggetti come i Cristalli. Metron, Thasiani... forse. Douwd... già più probabile. Ah-ah!» esclamò, fermandosi su una pagina.
   «Hai trovato qualcosa?» s’interessò Rivera, accostandosi.
   «Eccome. Guardi qui, Capitano!» si animò Irvik. «Due secoli e mezzo fa, l’Enterprise-D incappò in un’anomalia identica a quella in cui ci troviamo ora. Anche loro non riuscivano a uscirne, perché facendo un certo tragitto si ritrovavano sempre al punto di partenza. Anche loro videro astronavi che parevano reali, ma non lo erano: prima un Falco da Guerra romulano, poi l’USS Yamato. Addirittura, la squadra che visitò la Yamato osservò un interno labirintico come quello che abbiamo visto noi. Quelli dell’Enterprise giunsero alla conclusione d’essere come topi da laboratorio, le cui reazioni erano testate e osservate da una strana entità...».
   «Quale entità?» chiese il Capitano, sulle spine.
   «Quando infine si palesò, l’essere disse di chiamarsi... Nagilum» lesse l’Ingegnere Capo. «Pareva trascendere lo spazio e il tempo, al punto da non avere familiarità nemmeno coi concetti più basilari dell’esistenza umanoide. Ad esempio, gli servì qualche minuto per comprendere l’esistenza di due sessi, col dimorfismo maschi-femmine».
   «Urca, non fanno educazione sessuale dalle sue parti?» ironizzò Losira.
   «Ma la cosa più preoccupante» proseguì Irvik, «era che non conosceva nemmeno il concetto di morte. L’idea che un essere senziente sia vivo in un dato momento, e non lo sia più in seguito, era estranea alla sua mente. Durante i colloqui col Capitano Picard, arrivò a chiedergli espressamente che cos’è la morte».
   Cadde un silenzio greve d’inquietudine, persino di terrore. Infine il Capitano si schiarì la voce. «Mi domando... quanto si debba essere alieni, per non conoscere la morte» mormorò. «Voglio dire, persino gli esseri inorganici la comprendono» aggiunse, alludendo a Naskeel.
   «Confermo» disse il Tholiano. «Noi possediamo il concetto di morte, fin dall’alba della nostra civiltà. Tutti gli esseri senzienti, organici o inorganici, l’hanno necessariamente sviluppato».
   «Già, persino le Intelligenze Artificiali sanno che la loro esistenza può avere fine...» rimuginò Irvik. «Gli unici a non saperlo sono...» si bloccò.
   «Sì? Continua!» lo esortò il Capitano.
   «... i bambini molto piccoli» rivelò il sauro, pensando ai suoi figli. «Loro non hanno mai visto la morte, e anche se la vedono, stentano a comprenderla. Fino ai cinque anni non la capiscono affatto, pur soffrendo per l’eventuale scomparsa dei parenti; ad esempio continuano a chiedere dove siano andati. Dai cinque ai nove anni ne hanno una comprensione limitata, ad esempio confondendola col sonno o la malattia, o pensando che sia reversibile, o che riguardi solo “gli altri” e non anche loro stessi. Solo dal nono anno in poi ne afferrano le implicazioni. L’età esatta può variare da un individuo all’altro, dato che alcuni bambini sono più precoci anche in questo. Il fatto che Nagilum non conoscesse la morte mi fa pensare che...».
   «... che sia un bambino troppo cresciuto?!» chiese Losira.
   «In un certo senso, sì. È chiaramente un essere senziente, e molto intelligente, ma gli manca la conoscenza pratica, applicata. Perciò deve fare degli esperimenti per progredire nella comprensione. E purtroppo, per questi esperimenti si serve di gente come noi» disse, continuando a scorrere il documento. «Qui dice che uccise il timoniere dell’Enterprise, Haskell, con la sola forza del pensiero...».
   A queste parole Shati lasciò silenziosamente la postazione del timone.
   «... e manifestò la volontà di uccidere altri, fino a un terzo dell’equipaggio, o persino la metà, solo per comprendere tutte le possibili sfaccettature della morte» proseguì Irvik. «Era così inarrestabile che Picard fu costretto a ricorrere a un terribile bluff, se di bluff si trattava. Attivò l’autodistruzione dell’Enterprise, preferendo uccidere tutti, anziché assistere a una lenta strage. Funzionò, poiché all’ultimo momento Nagilum liberò l’astronave dall’anomalia. Ma anche dopo di allora fu capace di contattare Picard, sostenendo che un giorno sarebbe tornato a studiare i mortali».
   «E quel giorno è arrivato» sospirò Rivera. «Mi chiedo perché proprio noi...».
   «È semplice, Capitano» disse una voce cavernosa alle sue spalle. «Io viaggio tra una realtà e l’altra, e voi fate altrettanto. I vostri continui spostamenti hanno attirato la mia attenzione. Vi ho osservati a lungo, senza mai interferire... ma ritengo che sia ora di prendere contatto».
   Il Capitano, che dava le spalle allo schermo principale, s’irrigidì a quella voce. Si girò lentamente, preparandosi al confronto. A loro volta, Irvik e gli altri si voltarono o alzarono gli occhi allo schermo. E videro l’entità... o per meglio dire, videro l’immagine con cui quell’entità incorporea aveva deciso di palesarsi.
   Era un volto, solo un volto triangolare, che galleggiava nel Nulla. La sua epidermide era di un grigio-verde, come quella di un rettile, un poco cangiante in base alle espressioni. La bocca senza labbra era sottile come un taglio, il naso una sporgenza appena accennata. Gli unici elementi ben definiti erano gli occhi. Due occhi indagatori, ben distanziati, scuri e a mandorla. Con quell’aspetto Nagilum si era mostrato agli ufficiali dell’Enterprise-D, tanto tempo prima. Ma non era che una proiezione: un espediente per dare agli umanoidi qualcosa con cui interloquire. Il vero Nagilum, qualunque cosa fosse, era tutt’attorno a loro, invisibile e incorporeo.
   «Nagilum» esordì il Capitano, «siamo – ehm – onorati di fare la tua conoscenza...».
   «Voi avete paura» lo interruppe l’entità. «Tutti voi temete che sia qui per uccidere, come minacciai di fare con l’equipaggio dell’Enterprise».
   «Visti i precedenti, è un’eventualità che dobbiamo prendere in considerazione» ammise Rivera.
   «I vostri timori sono immotivati. Le mie intenzioni non sono ostili» sostenne Nagilum. «Così come i vostri popoli hanno continuato a esplorare in questi secoli, accrescendo le proprie conoscenze, altrettanto ho fatto io. Ora comprendo la morte, e l’angoscia che essa vi provoca. Non intendo arrecare distruzione, a meno che non sia per difendermi».
   «Lieti di sentirlo» disse il Capitano, ancora teso come una corda di violino. «Il modo in cui ci hai attirati in quest’anomalia ci aveva fatto temere il peggio. Allora l’Empirical e il suo equipaggio cosa sono, un’illusione?» volle sapere.
   «Voi la chiamereste così. Un’illusione molto realistica, ai limiti della realtà... praticamente reale, finché io la tengo in essere» confermò Nagilum. «Ma quando non mi occorre più...» lasciò in sospeso. L’astronave, ancora inquadrata dietro di lui, si dissolse.
   «È svanita» confermò Talyn dalla postazione sensori. «Niente rottami, nessun residuo. Come se non fosse mai esistita».
   Rivera tirò un sospiro di sollievo. Almeno Debora e il suo equipaggio erano salvi. «Già, ma noi?» si chiese, fronteggiando quell’entità aliena e incomprensibile. «Grazie del chiarimento. Ora però vorrei capire che bisogno c’era d’attirarci con l’inganno. Non potevi prendere contatto in modo più diretto, come stai facendo ora?» chiese.
   «Mi serviva che foste nel mio dominio, e sapevo che non ci sareste entrati spontaneamente» rispose Nagilum con schiettezza.
   «Perché ti serviva? Aspetta... questo è il tuo campo giochi, non è così? Un pezzo del tuo cosmo, traslato in un altro. Solo così sei al massimo dei tuoi poteri... solo così mantieni il controllo della situazione» indovinò il Capitano.
   Dietro di lui, Irvik si era recato silenziosamente alla postazione sensori. Prese a esaminare lo spazio circostante assieme a Talyn, cercando di rilevare Nagilum. Anche se era incorporeo, doveva pur essere fatto di qualcosa. Un flusso di particelle, un campo elettromagnetico, un’alterazione del tessuto spazio-temporale... doveva esserci qualcosa che lo differenziasse da dove non c’era. A suo tempo l’Enterprise-D non aveva rilevato nulla, ma la Destiny aveva sensori assai più evoluti, quindi valeva la pena tentare, mentre Rivera lo distraeva.
   «La sua deduzione è corretta, Capitano, anche se mi sfugge il senso dell’espressione “campo giochi”» ammise Nagilum.
   «Quindi che cosa vuoi da noi? Stai ancora cercando di familiarizzare con l’esistenza corporea?» chiese Rivera.
   «In un certo senso» confermò l’essere. «Ora ho compreso concetti come la mortalità e il dualismo maschio/femmina. Sto anche familiarizzando con le nozioni di bene e male, per quanto esse mi sembrino piuttosto relative...».
   «In certi casi sono oggettive» disse a mezza voce il Capitano.
   «Come preferisce, non è di questo che intendo occuparmi adesso» tagliò corto Nagilum. «Ultimamente mi sono interessato al concetto di Fato o Destino. Gli esseri senzienti, come me e voi, sono destinati ad agire in un determinato modo? In questo senso, siamo tutti prigionieri della Sorte? Oppure godiamo di quello che alcuni di voi hanno definito “libero arbitrio”?».
   «Che domandina da nulla, eh?» fece Losira.
   Rivera dovette radunare i pensieri prima di rispondere. «Nagilum, hai fatto una delle domande più complesse... forse la più complessa che un essere senziente possa porsi. Di certo la più destabilizzante, visto che ci mette tutti in discussione. Siamo liberi o meno? Siamo artefici della nostra sorte o schiavi di un Fato irrevocabile? Francamente, io non lo so. Non sono un filosofo, e del resto mi pare che i filosofi abbiano detto tutto e il contrario di tutto. Comunque mi piace pensare che, malgrado la nostra ignoranza e la nostra limitatezza, abbiamo la possibilità di scegliere. Ad esempio, noi abbiamo scelto di provarle tutte per tornare a casa, anziché fermarci da qualche parte».
   «Un interessante punto di vista» concesse Nagilum. «Ma ipotesi e opinioni non mi bastano. Devo procedere alla verifica sperimentale».
   «E come conti di procedere? Che vuoi farci?!» sobbalzò Rivera, vedendo avvicinarsi il punto cruciale di tutta la faccenda.
   «Come ho detto, non sono qui per distruggervi. Intendo solo esplorare il regno del possibile» rispose l’entità, sibillina. «Designerò uno di voi – uno solo – per il mio esperimento. Devo ancora decidere chi, dato che tra voi ci sono molti individui interessanti. Tra poco renderò nota la mia scelta e passerò alla fase sperimentale. Il resto di voi sarà libero, al termine della prova».
   «E il prescelto? Non sarà libero?!» si allarmò il Capitano.
   «Dipende dal fatto che il libero arbitrio esista o meno» rivelò Nagilum. «Se esiste, il vostro collega starà meglio di prima. Altrimenti, suppongo che non cambierà nulla. A presto, Capitano; non vedo l’ora di discutere i risultati» disse l’entità. E com’era apparsa, così svanì, lasciando lo schermo invaso dalla foschia bluastra del Nulla.
 
   «Allora, facciamo il punto della situazione» disse il Capitano di lì a poco. Aveva convocato gli ufficiali superiori in sala tattica per una riunione d’emergenza, compresa Giely, il medico di bordo, nonché sua attuale compagna. «Siamo alle prese con un’entità semi-onnipotente, dotata di grande intelligenza e conoscenze, ma di scarsa esperienza pratica. Un’entità che ci tiene prigionieri in quest’anomalia, che poi è una sacca del suo Universo d’origine. Un’entità capace di creare illusioni così realistiche da essere praticamente reali, almeno finché le tiene in essere. Con tutto questo, Nagilum mi sembra come un bambino che fa esperimenti... e questa è la cosa che più mi preoccupa» ammise.
   «Peggio ancora, è come un bambino a cui nessuno ha mai detto no» commentò Irvik.
   «Uhm, tra tutti noi, tu sei l’unico ad avere figli. Puoi spiegarti meglio?» chiese Rivera.
   «Beh, non ho mai potuto trascorrere molto tempo con loro, ma una cosa l’ho capita» disse il Voth. «Ricevere dei no, cioè vedersi porre dei limiti, è fondamentale per la maturazione psichica. Avete mai visto un bambino che fa i capricci? Un bambino che piange, si getta a terra, magari cerca di rompere gli oggetti che gli capitano a tiro? Guai a cedere davanti a queste scenate, guai ad accontentarlo, perché il pargolo ne dedurrà di poter sempre ottenere ciò che vuole. E si porterà dietro questa convinzione – magari in forma inconscia – fino all’età adulta, con risultati disastrosi. La maggior parte dei comportamenti criminali e violenti deriva proprio dal non accettare l’autorità, le imposizioni sociali, l’inevitabile confronto con gli altri. Ebbene, ho l’impressione che questo Nagilum sia come un grosso bambino che non si è mai visto imporre la disciplina. Ai tempi dell’Enterprise uccise solo per curiosità. Stavolta si è mostrato più conciliante, ma provate a scontentarlo, a negargli ciò che vuole... e sarà la fine» avvertì.
   «Ma insomma, cos’è questo Nagilum?» chiese Giely. «Non sembra essersi evoluto da creature inferiori, o avrebbe ricordato cos’è la morte, senza doverlo imparare daccapo. E non sembra nemmeno essere stato creato da qualcun altro, come un’Intelligenza Artificiale. In effetti, sembra del tutto incorporeo... cosa che, come medico, stento a credere...».
   «Conosciamo altre creature incorporee, che sfuggono alle nostre classificazioni» sospirò Irvik. «Ma in questo caso, sospetto che siamo di fronte a un’Intelligenza Auto-Generata, come diciamo noi Voth».
   «Un Cervello di Boltzmann?» chiese Rivera.
   «Sì, credo che voi federali lo chiamiate così. Strana definizione. Quindi sa di che si tratta?» chiese l’Ingegnere Capo.
   «Solo a grandi linee. Un Cervello di Boltzmann è un’ipotetica entità consapevole di sé, nata a causa di fluttuazioni quantistiche da uno stato di caos» disse il Capitano, ricordando vagamente le lezioni d’Accademia. «Non chiedermi cosa significa all’atto pratico, però».
   A questo punto Talyn, che già da un pezzo scalpitava per dire la sua, prese la parola. «È semplice, Capitano. L’idea è che, dato un tempo sufficientemente lungo, le fluttuazioni quantistiche casuali possono formare spontaneamente particelle di qualunque struttura e complessità, fino ad approssimare un cervello umanoide, forse persino con false memorie. In effetti, c’è chi pensa che tutti noi siamo Cervelli di Boltzmann, che s’illudono d’essere persone in carne e ossa» spiegò l’El-Auriano. «Comunque, anche senza arrivare a questi estremi, resta la possibilità di un’Intelligenza Auto-Generata, come la chiama Irvik. Si ritiene che il nostro Universo, e anche la maggior parte degli altri, sia troppo giovane perché ciò sia accaduto. Ma se il cosmo di Nagilum è abbastanza vecchio, tanto da aver raggiunto lo stato di Morte Termica, ecco che potrebbe essersi verificata quest’occorrenza».
   «Okay, quindi Nagilum ha una data di nascita» ragionò Losira. «Ma quindi potrebbe anche morire? Sì, ho capito che non aveva il concetto di morte... ma questo è irrilevante. Un bambino non conosce la morte, eppure questo non lo mette al riparo da essa. Per Nagilum potrebbe valere lo stesso? Ammettiamo che non invecchi e non possa perire di morte naturale... ma potrebbe essere ucciso?».
   A questa domanda calò il silenzio. Infine Irvik prese la parola, con voce raschiante. «Ehm, consiglio caldamente a tutti di moderare i termini. Questo Nagilum sembra essere un buon osservatore. Non è da escludere che ci stia ascoltando, proprio in questo momento. Quindi v’invito a fare discorsi più... concilianti» suggerì.
   Il Capitano fissò cupamente il tavolo, su cui teneva le mani intrecciate. Poi si rivolse a Talyn. «Hai detto che un Cervello di Boltzmann dovrebbe essere fatto pur sempre di particelle» disse.
   «In teoria, sì...».
   «Quindi è comunque materia. Magari diffusa, magari impalpabile, ma pur sempre materia» insisté Rivera.
   «Sì».
   «I sensori hanno rilevato niente del genere, attorno a noi? Nessun sistema complesso e stabile?» chiese cautamente il Capitano, quasi aspettandosi d’essere fulminato da Nagilum.
   «Gravitoni» sussurrò Irvik, prima che potesse farlo il giovane. «C’è un campo di gravitoni che si comporta assai stranamente, con delle oscillazioni armoniche. Non so se sia proprio Nagilum, o piuttosto una manifestazione del suo pensiero o del suo potere. Diamine, forse è solo la cosa che tiene aperta quest’anomalia».
   «Continui a indagare... con discrezione» mormorò Rivera. Avevano tutti abbassato la voce, da quando Irvik aveva ventilato la possibilità che Nagilum li stesse ascoltando. Naturalmente era una precauzione inutile. Se quell’essere era in ascolto, li avrebbe uditi comunque. Il Capitano non disse altro, ma le implicazioni erano chiare. Voleva che Irvik determinasse se Nagilum poteva essere ucciso, e si preparasse a farlo, qualora la situazione fosse degenerata. Un asso nella manica, da usare solo in caso d’estrema necessità.
   «Capisco, signore» bisbigliò il sauro, tornando ad allargarsi il colletto per respirare meglio. «Guarda un po’ in che situazione mi ritrovo» si disse. «Se questo Nagilum si accorge delle nostre macchinazioni, sarò il primo che fulminerà!».
 
   Per il resto della giornata Irvik si concentrò sui sensori, assieme a Talyn e ad altri esperti. Cercarono di determinare la natura di Nagilum, il modo di combatterlo ed eventualmente ucciderlo. Ma non ottennero granché. Rilevavano il campo armonico di gravitoni, ma non erano certi di come guastarlo. Soprattutto non sapevano se questo avrebbe davvero ucciso l’entità, o l’avrebbe solo fatta arrabbiare. Inoltre non si spiegavano come, a partire da quelle rade particelle, Nagilum fosse in grado di manipolare così drasticamente l’ambiente. Come creava l’anomalia, come proiettava le illusioni? E cosa più importante, come riusciva a uccidere?
   A sera, Irvik si sentiva stanco e deluso dalla mancanza di progressi. Nagilum non c’era più fatto sentire, dopo la chiacchierata di quella mattina. Ma tutti ricordavano che aveva promesso di scegliere a breve uno di loro, con cui condurre chissà quale esperimento. Così ognuno era distratto dal timore che toccasse proprio a lui; e il passare del tempo accresceva la tensione. Ormai il giudizio doveva essere imminente...
   «Ehi, che brutta cera» notò il Capitano, accostandosi all’Ingegnere Capo. «Torna nel tuo alloggio, fatti una dormita» consigliò.
   «E se Nagilum si rifacesse vivo?» obiettò Irvik.
   «Hai trovato il modo per liberarci?».
   «No» ammise il sauro, scornato.
   «Allora non farà differenza. Basta, abbiamo fatto un doppio turno, ora è inutile che ci priviamo anche del sonno. Dico a tutti: lasciate la plancia al turno di notte!» ordinò Rivera.
   Gli avventurieri erano così stanchi, a parte Naskeel, che nessuno si oppose all’ordine. Lasciarono la plancia ai colleghi del turno successivo e tornarono ai loro alloggi, sperando di vedere l’indomani. Quelli del turno di notte avevano comunque l’ordine di svegliare il Capitano e gli ufficiali superiori, se Nagilum fosse riapparso. Inoltre Naskeel, che in quanto Tholiano non aveva bisogno di dormire, si offrì di restare in plancia fino al termine dell’emergenza.
 
   Con queste rassicurazioni, anche Irvik tornò al suo alloggio. Consumò una rapida cena, dopo di che, malgrado la stanchezza, non andò subito a dormire. Era troppo nervoso, aveva bisogno di qualcosa per distrarsi e calmarsi. Mentre era ancora seduto in tavola, gli cadde lo sguardo sul Cubo di Rubik. Lo aveva lasciato lì quella mattina, tutto scombinato. Allora il Voth lo prese tra le mani tridattile e tornò a giocherellarci. In breve riuscì a uniformare uno dei lati, quello bianco. Allora passò a un altro, quello blu, ma si accorse che qualunque tentativo di metterlo in ordine finiva invariabilmente per scombinare il lato bianco. Dopo parecchi minuti di sforzi si ritrovò con un Cubo che era tornato un guazzabuglio, con nessun lato in ordine.
   «Sigh... sembra tanto la mia vita» mormorò l’Ingegnere Capo, sconsolato. «Ogni volta che riesco ad accomodare un lato, ne guasto un altro».
   «Io posso aiutarti» disse una voce cavernosa alle sue spalle. Una voce che Irvik ricordava fin troppo bene.
   Il Voth sobbalzò sulla sedia per lo spavento. Il Cubo gli sfuggì dalle mani tridattile, cadendo sul pavimento e rotolando per un breve tratto, prima di fermarsi. Sulle prime Irvik rimase paralizzato dal terrore, con la bocca semiaperta e il cuore che batteva all’impazzata. L’entità era tornata... e ce l’aveva proprio con lui. Forse voleva punirlo per aver cercato di sondarlo... ma un momento, cos’aveva detto? Che era lì per aiutarlo?!
   Passati i primi attimi di terrore, l’Ingegnere Capo si volse lentamente, con tutta la sedia girevole. Il suo alloggio era vuoto. Ma l’oloschermo della scrivania si era acceso, mostrando l’inquietante volto senza corpo di Nagilum. Gli occhi da rettile erano fissi su di lui. Da quanto lo stava osservando?
   «Ehm, benvenuto nel mio umile alloggio!» lo accolse Irvik, riuscendo finalmente ad alzarsi. «Cosa posso fare per te?».
   «Puoi collaborare al mio esperimento» rispose prontamente l’essere.
   Il Voth, che aveva temuto per la propria incolumità, rimase interdetto. «Collaborare...?» mormorò.
   «... al mio esperimento, sì» confermò Nagilum. «Non ricordi cosa vi ho detto qualche ora fa? Intendo verificare se esiste il libero arbitrio, e per questo mi occorre uno di voi. Non è stato facile scegliere, ma infine ho deciso che sarai tu il mio soggetto. Tu, che per primo hai intuito la mia vera natura. E soprattutto, tu che desideri più d’ogni altro tornare a casa. Io posso esaudire questo desiderio, sai?».
   «Davvero?!» si emozionò Irvik. Quando aveva capito che l’Empirical era un’illusione, anche le sue speranze di tornare a casa era svanite. Ma le parole dell’entità le riaccesero improvvisamente.
   «Sì, certo. Perché, temi forse un inganno?» si accigliò Nagilum. «Ah, capisco... i miei esperimenti di stamane ti hanno reso sospettoso. Avendo sperimentato le mie illusioni, temi che anche questa offerta sia illusoria. Ma ti garantisco che non è così. Vedi, io posso viaggiare da una realtà all’altra, e posso anche coprire grandi distanze spaziali, raggiungendo qualunque punto del cosmo desidero. Cosa più importante, ai fini dell’esperimento, posso portare con me ciò che desidero. Oggetti fisici... e anche persone. In questo caso, potrei portarti con me. Ti andrebbe se ti riportassi a casa tua, sul tuo pianeta natale, nel Quadrante Delta?» lo tentò.
   Irvik si umettò le labbra, mentre rigirava mentalmente le parole dell’entità, cercando di capire se contenevano ambiguità o inganni. Non ne trovò nessuno. Nagilum pareva bene intenzionato... a meno che l’intero discorso fosse una grande menzogna.
   «Non nego che mi piacerebbe moltissimo tornare a casa» ammise il Voth. «Rivedere i luoghi in cui sono cresciuto, riabbracciare amici e parenti. E soprattutto... tornare dai miei figli».
   «Sì, i tuoi sentimenti per loro sono forti» percepì Nagilum. «Perché li ami così tanto? Loro non hanno mai fatto nulla di utile per te».
   «Sono ancora dei bambini... ma non è questo il punto» deglutì Irvik. «Non so se posso spiegare... loro sono i miei figli. Sono parte di me, della mia identità. Stare lontano da loro... non so, è come perdere una parte di me stesso».
   «Una parte di te stesso... interessante. Io non ho mai perso parti di me stesso» rimuginò Nagilum. «Ebbene, a maggior ragione dovresti accettare la mia offerta».
   «Infatti vorrei, ma... che ne sarà degli altri? I miei compagni della Destiny, intendo. Anche loro desiderano ardentemente tornare a casa» ricordò Irvik.
   «Ho promesso di non coinvolgerli nel mio esperimento» ricordò l’entità.
   Irvik rimase interdetto. Da un lato era lieto che Nagilum si concentrasse solo su di lui, senza minacciare gli altri. D’altro canto, però, il suo “esperimento” non sembrava affatto pericoloso. Diamine, se era disposto a riportarli a casa, allora che lo estendesse pure a tutta la nave!
   «Un momento... tu cosa ci guadagni?» chiese il Voth, assalito da un pensiero allarmante. «In che modo riportarmi a casa ti aiuterà a indagare il libero arbitrio?».
   «Domanda pertinente» riconobbe Nagilum. «Devi sapere che è da un po’ che ti osservo, anche da prima di rivelarmi. Stamattina pensavi che, se anche riuscissi a tornare, ormai è troppo tardi. Temi che la tua vita sia rovinata. Non è così?».
   «In effetti...» ammise Irvik, chiedendosi dove volesse andare a parare. «È tutta colpa del mio divorzio. Per cinque anni ho visto pochissimo i miei figli. Solo due giorni al mese, secondo la sentenza del giudice. Poi ho avuto la dabbenaggine di fare un pellegrinaggio sulla Terra... e mi sono ritrovato su questa nave, persa nel Multiverso! Così sono quattro anni che i miei figli non li vedo per niente. Non so come siano diventati... e loro non conoscono me. Sanno solo quel che gli ha detto Maia – la mia ex moglie – e dubito che siano belle cose. Quindi, anche se tornassi da loro oggi stesso... ormai il danno è fatto. Saranno del tutto estraniati. Non ne vorranno sapere di me. Ecco, è questo che non riesco a sopportare!» si sfogò.
   Nagilum aveva ascoltato attentamente la lamentela, senza interromperla. Solo quando fu conclusa riprese la parola. «Dici che ormai il danno è fatto. Ecco, è questo il tuo errore. Sei un essere limitato, e come tale ragioni. Ma io non soffro queste limitazioni. Lo sai che posso riportarti indietro non solo nello spazio, ma anche nel tempo?» rivelò.
   A queste parole, Irvik rimase ammutolito. Il suo sogno più selvaggio e irrealizzabile era d’un tratto a portata di mano. Poteva fare ciò che ogni mortale aveva sempre sognato: riscrivere la propria vita, cancellando gli errori peggiori. «Indietro nel tempo! È una proposta allettante, ma... se torno indietro, non incontrerò me stesso? Dovrei convincere il mio alter-ego passato a non fare certe cose. E se ci riesco, cambiando la linea temporale... io non svanirò?!» squittì, nuovamente angosciato.
   «Il tipo di viaggio che ti propongo non è come quelli degli Agenti Temporali» spiegò Nagilum. «Tu non sarai fisicamente trasferito nel passato. No, io infonderò la tua coscienza attuale nel tuo corpo del passato. Dunque ci sarà una sola versione di te, quella più giovane, ma con la mente e i ricordi che hai adesso. Grazie alla conoscenza del futuro, potrai agire diversamente. Potrai evitare quegli errori che oggi ti fanno tanto soffrire e imboccare una strada diversa. Non appena la scelta sarà fatta, il continuum spazio-temporale si riassesterà. Allora la tua coscienza tornerà al presente. Un presente che, tuttavia, sarà cambiato... si spera in meglio. Sarai a casa tua, e i tuoi figli non avranno mai sofferto la lontananza. Questo è ciò che ti offro. E pochi mortali invero rifiuterebbero una tale occasione».
   Pochi? Nessuno, si disse Irvik. Questo era il più grande dono che si potesse immaginare. Altro che viaggi indietro nel tempo, scontri con gli alter-ego e paradossi temporali! In questo modo tutto sarebbe filato liscio. Avrebbe potuto evitare quel singolo errore che gli aveva rovinato la vita, e quella dei suoi figli. E in men che non si dica si sarebbe trovato in una nuova linea temporale, dove le cose erano andate per il meglio.
   «É... molto generoso da parte tua» mormorò il Voth. «Ma ancora non capisco. Tu dicevi di voler appurare se esiste il libero arbitrio...».
   «Infatti è questo il mio scopo» confermò Nagilum. «Se otterrai ciò che desideri, significherà che l’arbitrio esiste, e che tutto dipende dalle nostre scelte. Scelte buone conducono alla felicità, scelte cattive – o anche solo male informate – alla sofferenza. Viceversa, se nemmeno col mio aiuto realizzerai il tuo desiderio, vorrà dire che ciascuno di noi è asservito a un Destino superiore, che non si può in alcun modo contrastare. Non ti nascondo che preferirei il primo esito. Ma accetterò il risultato, quale che sia. Ebbene, ci stai? Perché la riuscita dell’esperimento dipende anche dalla tua collaborazione. Se non accetti, sarò costretto a designare un altro al posto tuo» avvertì.
   «No! Non c’è bisogno d’interpellare altri! Accetto la tua offerta!» gridò Irvik, temendo di farsi sfuggire quell’occasione irripetibile. Quando mai un altro essere semi-onnipotente si sarebbe offerto di realizzare il suo più grande desiderio? E senza chiedere nulla in cambio, peraltro! Nulla, tranne osservare il lieto fine?
   «Mi fa piacere. Ero quasi certo che avresti accettato» commentò Nagilum.
   «Certo, perché non... uh» fece l’Ingegnere Capo, guardandosi attorno. Gli era appena venuto un dubbio atroce. «Se cambio la mia vita, che ne sarà della Destiny?» mormorò.
   «Non è ovvio? Se non salirai mai su questa nave, i suoi occupanti dovranno cavarsela senza di te» rispose l’entità.
   «Già... chissà se ci riusciranno» disse Irvik a disagio. Ricordava bene come le sue competenze avessero salvato la nave in più di un’occasione. E non solo la nave! Quand’erano nello Specchio, lui e gli altri avevano salvato la Terra dalla distruzione. In seguito avevano impedito agli Undine d’attirare il pianeta Ferasa nello Spazio Fluido, aggiungendolo alla loro collezione. Senza di lui, gli avventurieri sarebbero riusciti in queste imprese? O piuttosto si sarebbero fatti ammazzare già alla prima avventura?
   «Ti vedo titubante» notò Nagilum. «Non starai riconsiderando la mia generosa offerta, spero».
   «Io... sono solo preoccupato per loro. Ormai sono dei cari amici» confessò il Voth.
   «Hai la presunzione di credere che senza di te siano spacciati?».
   «Beh, no... o sì. Non saprei, sono confuso!».
   «Considera che il nostro esperimento varrà anche per loro» ragionò l’entità. «Se esiste il libero arbitrio, e il futuro è nelle nostre mani, allora avranno buone probabilità di cavarsela. Se invece il Destino è già scritto... allora nemmeno io potrò mai alterarlo».
   «Sì... sembra logico...» mormorò Irvik, ancora a disagio. «Del resto, se io torno, potrei avvertire la Flotta Stellare affinché mandi soccorsi...» ragionò, cercando di sollevarsi dal senso di colpa per abbandonare i compagni.
   «Anche questo è corretto. Allora sei pronto a procedere?» lo pressò Nagilum, fissandolo con gli occhi scuri e indagatori.
   «S-sì, sono pronto» mormorò il Voth. Si guardò attorno, quasi temendo di vedere il Capitano o altri che lo osservavano con disapprovazione per quello che, ai loro occhi, doveva apparire come un tradimento. Ma Irvik non aveva mai chiesto di finire disperso con loro, era successo e basta. Non aveva alcun obbligo nei loro confronti. No, i suoi obblighi erano solo verso la sua patria e la sua famiglia; ed era proprio la famiglia che intendeva salvare.
   «Bene, allora raccogli quell’oggetto» disse Nagilum, accennando al Cubo di Rubik che giaceva dimenticato sul pavimento.
   «Quale... oh, intendi il Cubo? Come vuoi...» fece Irvik, sorpreso. Raccattò il rompicapo e lo accostò all’oloschermo da cui l’essere gli parlava. «È solo un vecchio gioco terrestre. Perché t’interessa?».
   «Le sue innumerevoli combinazioni sono come i possibili esiti della linea temporale. Ci sono molti modi per fallire, e pochi per riuscire» notò l’entità. «Mi sembra l’oggetto adatto per restare in contatto con te. Perché naturalmente dobbiamo restare in contatto, altrimenti come potremmo discutere l’esito dell’esperimento? Quindi lo trasformerò in un tracciatore, che mi permetta di localizzarti nello spazio e nel tempo. Osserva!».
   Sotto gli occhi sgranati di Irvik, il Cubo prese a muoversi da sé, coi segmenti che ruotavano sugli assi indipendenti.
   «Ora mi serve la tua collaborazione» avvertì Nagilum. «Io posso fornire l’energia per il trasferimento di coscienza, ma tu devi fare da guida. Concentrati! Pensa qual è stata la scelta sbagliata che vuoi rimediare. Pensa qual è il momento cruciale del passato che devi cambiare, per correggere i successivi eventi. Focalizza tutta la tua attenzione sul bersaglio» lo istruì, mentre il Cubo continuava a ruotare all’impazzata.
   «Sì, cerco di concentrarmi...» mormorò Irvik, chiudendo gli occhi. Qual era il momento cruciale? Strano che non ci avesse ancora pensato. La prima risposta che gli venne in mente fu il giorno in cui aveva acquistato i biglietti per il viaggio sulla Terra. Aveva proposto a Maia d’accompagnarlo, portando anche i ragazzi, e lei aveva rifiutato con sdegno. Allora lui aveva restituito tre biglietti, ma aveva conservato il quarto, decidendo di compiere un pellegrinaggio in solitaria. Stupida decisione. Se fosse rimasto lì, a battersi per il diritto all’affido condiviso dei figli...
   «Ci sono, so dove andare!» disse, richiamando i ricordi di quel giorno ormai lontano.
   «Bene, mantieni la concentrazione. Non distrarti, o finirai nel luogo e nel tempo sbagliato!» raccomandò Nagilum.
   Sferzato da quell’ammonimento, il Voth si concentrò con tutte le sue forze su quella giornata. Sì... ricordava distintamente il momento in cui aveva chiamato Maia, tutto trepidante, ed era rimasto deluso dalla sua reazione... come scordarlo?
   «È fatto» tuonò Nagilum, mentre il Cubo di Rubik si fermava con un sonoro click. Irvik riaprì gli occhi, accorgendosi che una delle facce era d’uniforme color bianco. Le altre, però, erano ancora scombinate. L’attimo dopo tutto svanì attorno a lui, mentre la sua consapevolezza abbandonava il corpo, per essere proiettata alla velocità del pensiero attraverso lo spazio e il tempo.
 

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Capitolo 3
*** Pericoloso come un desiderio ***


-Capitolo 2: Pericoloso come un desiderio
 
   Irvik provò la più strana delle sensazioni, quella d’uscire dal proprio corpo. In parte era come essere teletrasportati, ma in questo caso lo spaesamento fu ancor più marcato. Per un attimo si chiese se stesse morendo. Poi gradualmente i sensi gli tornarono. Si accorse d’essere steso sul pavimento, con tutto il lato sinistro del corpo indolenzito. Dedusse che era svenuto, in modo tanto subitaneo da cadere a terra. Sbatté gli occhi, ma la vista era confusa e la testa gli girava. Poco alla volta gli tornarono le memorie dell’ultima giornata. L’anomalia, l’Empirical... e soprattutto Nagilum. Aveva davvero interagito con quell’essere, o se l’era sognato a causa dello svanimento?
   Il Voth si sollevò, mettendosi dapprima carponi, mentre aspettava che la testa smettesse di girargli. Le sue mani, tastando il pavimento, incontrarono un oggetto spigoloso. Allora si schiarì la vista... e vide il Cubo di Rubik sul pavimento. Un solo lato era uniforme, quello bianco; gli altri rimanevano scombinati.
   «È tutto vero!» ansimò Irvik, guardandosi attorno. Era in un alloggio... ma non quello che occupava sulla Destiny. No, quello era il suo vecchio alloggio su Vothir, nel Quadrante Delta. Un luogo che non vedeva da quattro anni. Tutto era come lo ricordava. L’arredamento era spartano e disordinato, poiché era l’unico occupante e ci trascorreva così poco tempo da non riuscire mai ad arredarlo come si deve. Fuori dalla finestra, il sole tramontava sull’industriosa metropoli Voth. Scioccato, il sauro balzò in piedi. «Computer, fornire data!» ordinò con voce tremante.
   «Siamo in data 20.000.701, giorno 425» rispose il computer, usando l’antico calendario Voth.
   «Il giorno in cui ho acquistato i biglietti per la Terra» rabbrividì Irvik. Ebbene sì, era tutto vero. Il patto con Nagilum, il viaggio nel tempo... la sua mente era stata rispedita nel passato, a occupare il suo corpo di quattro anni più giovane. E il Cubo era lì, come pegno dell’accordo. Cosa aveva detto Nagilum? Ne aveva fatto una sorta di tracciatore, per rimanere in contatto con lui, anche qualora la linea temporale si fosse alterata. Irvik lo raccolse con mani tremanti, senza osare scombinarlo, e lo posò su una mensola.
   Così facendo, il sauro si avvicinò al piccolo specchio inserito nell’anta dell’armadio e vide il proprio riflesso. Sì, sembrava davvero più giovane... non che quattro anni facessero una gran differenza, nella vita secolare dei Voth. Ma gli parve d’avere il viso più in carne, gli occhi meno cerchiati dalla stanchezza. E naturalmente indossava i suoi comodi abiti Voth, anziché la tenuta paramilitare degli avventurieri, che aveva adottato sulla Destiny. Ecco, questo era l’Irvik che aveva ancora qualche speranza per il futuro.
   «Computer, per caso ho comprato dei biglietti turistici?» chiese, con voce più calma.
   «Affermativo. Quattro biglietti di prima classe, per un viaggio tutto compreso sulla Terra della durata di...».
   «Va bene, ho capito!» tagliò corto il Voth. «Ma sai, ci ho ripensato. Cancella... anzi no, prima voglio fare un’altra cosa». Rinunciare al pellegrinaggio non era l’unica azione necessaria a correggere la sua vita. Ce n’era un’altra, altrettanto importante. «Computer, chiama Maia! Canale in olo-presenza» ordinò, ponendosi davanti all’olocamera incassata nella parete.
   Dovette attendere più a lungo di quanto ricordasse, e ne approfittò per ripassare mentalmente il nuovo discorso che intendeva farle. Ma quando finalmente se la vide di fronte, per la prima volta in quattro anni, fu sopraffatto dall’emozione e non riuscì a spiccicare parola.
   «Beh, che vuoi? Non ho molto tempo, sto per uscire» disse Maia in tono sbrigativo.
   «Già... con Edmon, vero?!» sbottò Irvik, ritrovando assieme l’uso della parola e l’acredine verso il suo rivale.
   «Certo, che domande. Hai qualcosa in contrario? Ti ricordo che sono libera adesso, ed esco con chi mi pare. Dovresti provarci anche tu» consigliò la Voth.
   «Sì, adesso ricordo. Siete andati – voglio dire, andrete – alla presentazione del suo nuovo kolossal sulla Guerra Vaadwaur» disse Irvik, rammentando i dettagli della passata conversazione.
   «Sì, proprio così» fece Maia, un po’ stupita dal suo atteggiamento. «Naturalmente i bambini staranno a casa, con l’olo-tata» precisò.
   «Potevi portarli da me... va beh, lasciamo perdere» fece Irvik, non volendo ripetere l’alterco dell’altra volta.
   «Sì, meglio lasciar perdere» convenne Maia. «Allora, posso sapere perché questa chiamata?» avvertì, impaziente.
   «Oh, volevo giusto dirti una cosa» fece Irvik, ritrovando la sicurezza. Aveva viaggiato nel tempo per avere quella seconda occasione... non poteva sprecarla. «Ora che abbiamo varato i Borg Killer, ho un sacco di ferie arretrate. In un momento di debolezza, pensavo d’approfittarne per una lunga vacanza... ma poi ho capito che il mio posto è qui, coi miei figli» avvertì.
   «Che intendi?» si rabbuiò Maia.
   «Intendo che non mi basta vederli due miseri giorni al mese. D’ora in poi potrò dedicargli più tempo, quindi voglio avere tutti i finesettimana con loro» annunciò l’Ingegnere. Maia aprì la bocca, sul punto di replicare, ma lui non gliene lasciò il tempo. «Te lo comunico perché vorrei davvero che potessimo trovare una conciliazione amichevole su questo. Ma in caso contrario, sono pronto ad andare dal mio avvocato e far partire un procedimento d’appello contro la sentenza d’affido. Possiamo fare nel modo più facile, o in quello più difficile; decidi tu» disse con fermezza.
   Per un attimo Maia restò a bocca aperta, troppo scioccata per replicare. Ma passò in fretta. «Pezzo di dren, ora mostri il vero colore delle tue scaglie!» sibilò. «Quando c’erano le beghe dell’infanzia li hai lasciati a me, e ora che le cose si fanno più facili, me li vuoi strappare! Beh, te lo scordi! Io li ho allevati, io ho sempre provveduto a loro, quindi sono i miei figli! Miei e di Edmon, visto che gli ha fatto lui da padre. Tu... sei solo un estraneo che vuole rovinare la nostra felicità. Ma non te lo permetterò! Chiama pure il tuo avvocato; io chiamerò il mio e quelli di Edmon. E ce la vedremo in tribunale. Ti ho messo al tappeto una volta, non vedo l’ora di farlo ancora!» minacciò.
   «Quanto odio contro il padre dei tuoi figli» commentò Irvik, scuotendo la testa sconsolato. «Ti perdonerei se facessi del male solo a me. Ma siccome in tal modo danneggi anche loro, privandoli del vero padre... no, non posso lasciar correre. Combatterò fino in fondo per far valere i miei diritti... mi correggo, i loro diritti» ribadì.
   «Non mi ruberai il loro affetto!» tuonò Maia, pestando i piedi per la stizza. «Il giudice d’appello non ribalterà la sentenza... ma se anche fosse, non credere che sia finita. Non mi stancherò mai, mai di combatterti! Non ti darò tregua, trasformerò la tua vita in un inferno. Ti avverto: se io vado a fondo, ti trascinerò a fondo con me. E i bambini resteranno soli!». Gridata questa minaccia, la Voth troncò la comunicazione.
 
   «Non è andata come speravo» si disse Irvik, rimuginando nella penombra. Aveva scordato, o almeno sottovalutato, quanto Maia fosse arrivata a odiarlo. Lo detestava così tanto da usare i loro figli come armi... da farli soffrire al solo scopo di far soffrire anche lui. Ebbene, questo era un motivo in più per sottrarli alle sue grinfie. Altro che i finesettimana, avrebbe chiesto l’affido esclusivo! Certo che era desolante essere arrivati a tal punto. Osservando il Cubo di Rubik, che gli rammentava il patto con Nagilum, Irvik si chiese se non aveva sbagliato tutto. Non avrebbe fatto meglio ad andare ancor più indietro nel tempo, prima che Maia lo prendesse così in odio? Se fosse risalito a prima della loro separazione... ma no, era inutile pensarci. Nagilum gli aveva già fatto un enorme dono, sarebbe stato incauto pretendere di più. Doveva approfittare della situazione e salvare il salvabile. Almeno non rischiava più di finire disperso nel Multiverso... era già qualcosa. Poteva finalmente dedicarsi alle sue responsabilità.
   «Devo muovermi... a quest’ora Maia starà già chiamando il suo avvocato» si riscosse l’Ingegnere. Ma prima c’era un ultimo dettaglio da sistemare. «Computer, cancella la prenotazione turistica per il viaggio alla Terra. Restituisci i biglietti. Tutti e quattro, mi raccomando!» ordinò.
   «Ricevuto. L’agenzia avverte che l’improvvisa cancellazione può comportare un rimborso parziale del costo...» fece il computer.
   «Non m’importa. Voglio restituire i biglietti, subito!» gridò Irvik, sbattendo il pugno sul tavolo in un momento di collera.
   «Ricevuto» fece il computer, imperturbabile. «Operazione in corso, attendere... operazione eseguita. Il viaggio è stato cancellato, i biglietti sono stati restituiti. L’agenzia porge i suoi saluti e invita a visionare altre offerte last minute».
   «Ah, te lo scordi! Sono reduce da una “vacanza” lunghissima... ben quattro anni! Ho visto abbastanza posti esotici da bastarmi per tutta la vita!» sbottò il Voth.
   «Affermazione non riconosciuta».
   «Lascia stare... piuttosto, passami lo studio del mio avvocato. Non so chi mi risponderà a quest’ora, ma... di’ che è un’urgenza» ordinò Irvik. Mentre aspettava che qualcuno gli rispondesse, lo sguardo gli cadde nuovamente sul Cubo di Rubik. Cos’aveva detto esattamente Nagilum? «Non appena la scelta sarà fatta, il continuum spazio-temporale si riassesterà. Allora la tua coscienza tornerà al presente. Un presente che, tuttavia, sarà cambiato... si spera in meglio». Sì, era quello il discorso. Quindi non doveva rivivere gli ultimi quattro anni...
   In quel momento il Voth si sentì di nuovo mancare. Tutto divenne buio, mentre la nuova realtà che aveva innescato collassava in un presente alternativo.
 
   «Gasp!» fece Irvik, cercando d’alzarsi non appena ebbe ripreso conoscenza. Annaspò tra le coperte, al buio. Si trovava a letto... sì, ma quale? «Computer, luci!» ordinò.
   Si attivò un’illuminazione tenue, che rischiarò la stanza senza abbagliarlo. L’Ingegnere si guardò attorno... e scoprì d’essere sempre nel suo alloggio urbano, su Vothir. «Computer, fornire data!» boccheggiò, ancora confuso.
   «Siamo in data 20.000.706, giorno 16» rispose il processore, sempre usando il calendario Voth.
   «Urca, ha funzionato!» fece Irvik, districandosi dalle coperte. Era davvero tornato al presente, dopo aver apportato un cambiamento chiave al passato. «E secondo la Data Stellare della Federazione?» chiese per sicurezza.
   «Secondo il computo federale, siamo in Data Stellare 2614.38» rispose il computer.
   «Quindi ho incontrato Nagilum... ieri sera» comprese Irvik. Dunque una volta tornato al presente non si era riavuto subito, ma aveva trascorso una meritata notte di sonno. «Bene, è tempo di vedere com’è cambiata la mia vita. Intanto sono a casa mia, anziché sulla Destiny... già questo è un buon segno. Vediamo il resto».
   Il Voth scese dal letto e si vestì in fretta e furia. Notò che nell’armadio c’erano solo abiti civili, nessuna uniforme da Ingegnere. Questo lo inquietò leggermente. Significava forse che aveva lasciato la Milizia Voth, accettando un incarico da insegnante? Poteva essere... se si era impegnato a passare del tempo coi figli, in condizioni di stabilità e sicurezza, era la scelta più indicata. Niente vagabondaggi tra le stelle, niente battaglie spaziali... solo pace. Sì, poteva farci l’abitudine.
   Lasciata la camera da letto, Irvik giunse in soggiorno. Qui ebbe il primo brutto colpo. Il soggiorno era ancor più disordinato di come lo ricordava; ma non era il tipo di disordine che fanno i bambini. Non c’erano giochi sparsi sul pavimento, né disegni vivaci attaccati alle pareti. No, quello era il disordine deprimente di chi vive solo. Sui mobili c’era anche un considerevole strato di polvere, come se non si fosse dato pena di tenerli puliti.
   «Ahi-ahi» mormorò Irvik, ricordando le minacce dell’ex moglie. «Computer, oggi devo andare al lavoro?» chiese, ancora un po’ frastornato con le date.
   «Negativo».
   Bene, era fortunato che quello fosse il giorno di riposo settimanale. Così poteva informarsi su ciò che era successo nel frattempo. Aveva un’intera nuova vita con cui familiarizzare. Per prima cosa fece colazione... una vera colazione Voth, non quella robaccia sfornata dal replicatore della Destiny. Appena si sentì in forze, sedette alla scrivania e attivò l’oloschermo.
   «Computer, voglio dati aggiornati sull’affido dei miei figli. Con chi stanno attualmente?» chiese, temendo il peggio.
   «I vostri figli sono stati affidati alla madre Maia e al suo compagno Edmon, secondo sentenza del giudice di cassazione» fu la temuta risposta, mentre l’oloschermo mostrava il documento.
   «Yotz! Com’è possibile?!» imprecò Irvik, sbattendo i pugni sul tavolo. «Computer, voglio tutti i dati del processo. Mostrami lo storico degli ultimi quattro anni».
   Per accontentarlo, il computer dovette attivare degli oloschermi aggiuntivi. Davanti agli occhi esterrefatti del sauro apparve un calvario giudiziario lungo quattro anni, e da poco concluso. Appelli e contro-appelli, ricorsi e contro-ricorsi. Ritardi procedurali, pratiche smarrite per guadagnare tempo. Accuse d’ogni genere, perizie psichiatriche, ingerenze da parte d’assistenti sociali. Maia non scherzava, quando aveva minacciato di trasformare la sua vita in un inferno. Pareva che negli ultimi quattro anni non avesse fatto altro che tormentarlo. Tra tutti e due, dovevano aver dato lavoro a interi studi legali. Irvik scorse con rabbia l’elenco delle puntate di una famosa emittente olovisiva, presso cui Maia era andata a piangere e lanciare accuse contro di lui, trasformando il loro contenzioso in una sceneggiata mediatica.
   E dopo tutta l’ansia, la rabbia, il dolore, lo sfinimento... dopo le incalcolabili spese legali... dopo l’umiliazione pubblica... Irvik aveva perso. E aveva perso su tutta la linea. Se in precedenza poteva vedere i figli due volte al mese, adesso Maia aveva ottenuto l’affido esclusivo. Sconvolto, Irvik lesse la sentenza giudiziaria che gli faceva divieto d’avvicinarsi a loro. Non riuscì ad arrivare in fondo. Pieno di disgusto, spense gli oloschermi con un gesto rabbioso e scattò in piedi.
   «Devo fare una passeggiata... schiarirmi le idee...» si disse. Ma quando fu davanti all’uscita del suo alloggio, restò sgomento nel vedere che non si apriva. Che fosse rotta?
   «Beh, che succede?! Computer, fammi uscire!» ordinò, stizzito.
   «Impossibile eseguire» rispose il processore, con una calma che suonava beffarda. «Lei è agli arresti domiciliari, come da ultima sentenza».
   «Arresti domiciliari?!» fece Irvik, sputacchiando saliva. «Come... quando... insomma, computer, fammi vedere la sentenza!» ordinò, precipitandosi di nuovo alla scrivania.
   L’oloschermo si riattivò, mostrandogli la sentenza, ma evidenziando le ultime righe, quelle che ancora non aveva letto. Stavolta il Voth dovette farlo, assaporandone il fiele. Le sue scaglie si scolorirono, divenendo di un grigio smorto. Non era possibile... stava davvero leggendo questo? Sei mesi prima, quand’era sul punto di perdere la causa, Maia lo aveva accusato di violenze nei confronti dei bambini. Gli accertamenti medici erano inconcludenti, ma in via cautelare i piccoli erano stati allontanati, assegnandoli alla madre e al suo nuovo compagno. E lui, Irvik, era finito agli arresti domiciliari. Arresti che, in mancanza di prove, stavano per scadere... ma anche in seguito gli era fatto divieto d’avvicinarsi ai figli.
   Irvik si abbandonò sulla sedia, amareggiato. Sapeva per certo che non avrebbe mai fatto del male ai bambini. Le accuse di Maia erano certamente false, un espediente dell’ultimo minuto per ribaltare la sentenza. Ma nella società Voth, questo genere d’accuse distruggeva la reputazione, anche se poi si rivelavano infondate. E la reputazione tra i Voth era tutto. Senza di quella ti ritrovavi senza amici, senza opportunità di carriera, talvolta persino senza impiego...
   «Senza impiego?!» pensò il sauro, colto da un orrendo sospetto. Quando aveva chiesto al computer se quel giorno doveva andare al lavoro, il processore aveva risposto di no. Ma non aveva detto espressamente che quello fosse il giorno di riposo. Del resto, è difficile lavorare quando sei agli arresti domiciliari...
   «Computer» fece Irvik con voce tremante, «qual è il mio impiego attuale?».
   «Il suo ultimo impiego è stato come docente/ricercatore presso la facoltà d’ingegneria dell’Università. Il contratto è stato rescisso in seguito alla sentenza definitiva del tribunale. Attualmente lei non ha alcun impiego» fu la temuta risposta.
   Il Voth si prese la testa fra le mani. Si era accordato con un’entità aliena, aveva viaggiato nel tempo, abbandonato la Destiny... e tutto per questo?! Per trovarsi comunque senza i figli, e inoltre senza reputazione, senza soldi, senza lavoro, e per giunta costretto ai domiciliari?! Non era possibile, doveva essere un incubo. Adesso sarebbe tornato a letto, per risvegliarsi sulla Destiny e scoprire che s’era sognato tutto... o no?
   Colto da un raptus, Irvik corse alla mensola su cui quattro anni prima aveva lasciato il Cubo di Rubik. Lo trovò ancora lì, tutto impolverato, con una ragnatela che lo collegava al muro. Sembrava che nessuno lo avesse toccato da allora. Rabbioso, il sauro lo afferrò e lo scosse. «Mi senti, Nagilum? Dobbiamo parlare, io e te! Le cose non sono andate come previsto!» gridò.
   Per un attimo Irvik si accorse di quant’era surreale la situazione. Se un poliziotto o un assistente sociale fosse entrato adesso e lo avesse visto prendersela con quell’oggetto, aspettandosi una risposta, che avrebbe pensato delle sue condizioni mentali? Fortunatamente nessuno entrò nell’alloggio. Nessuno, cioè, tranne colui che era stato convocato.
   «Eccomi» disse Nagilum, il cui volto senza corpo riempì l’oloschermo ancora acceso. «Ah, vedo che molte cose sono cambiate. Sei a casa tua, sul tuo mondo, anziché smarrito nel Multiverso. Allora perché non mi sembri contento? Eppure io ho fatto la mia parte» notò.
   «Sì, l’hai fatta» ammise Irvik, sbollendo leggermente l’ira. «E io ho fatto la mia, o almeno così credevo. Ho apportato quei cambiamenti che ritenevo necessari... e infatti il cambiamento c’è stato. Ma non in positivo, mannaggia!», sbottò, riponendo il Cubo sulla mensola.
   «Davvero? Ciò è assai strano. Racconta, mi servono i dettagli per comprendere il problema» lo esortò Nagilum.
   E Irvik dovette raccontare, anche se le sue scaglie rosseggiavano per l’imbarazzo di dover spiattellare i suoi problemi familiari a quell’entità aliena, che probabilmente li avrebbe ricordati per i secoli dei secoli. Nagilum ascoltò con attenzione, interrompendo solo occasionalmente per chiedere precisazioni. «E così, questo è tutto. A parte vivere sul mio pianeta, non ho ottenuto niente di ciò che speravo... anzi, se possibile la mia vita è ancora più a pezzi!» concluse il Voth.
   «Sono perplesso» commentò Nagilum. «Lo scopo di questo esperimento era verificare l’esistenza del libero arbitrio. Tu dovevi alterare la tua sorte, in accordo coi tuoi desideri. E in effetti l’hai modificata: una scelta diversa ha condotto a un esito diverso, il che depone in favore dell’arbitrio. Però non hai ottenuto ciò che volevi, anzi, sembri ancora più infelice di prima. In questo senso, pare che il tuo destino sia di soffrire la mancanza dei figli, in un modo o nell’altro, e che niente possa cambiarlo».
   «Lo so, fammi riflettere un momento» disse Irvik, sprofondato su una poltroncina. «Devo aver sbagliato qualcosa. Il piano in sé era giusto, ho solo sbagliato a eseguirlo. Un errore procedurale, sì! Ecco la spiegazione!» si animò.
   «Stai dicendo che hai apportato i cambiamenti sbagliati, per una tua... limitatezza?» s’incuriosì Nagilum.
   «Hrump, diciamo così!» fece il Voth, punto nell’orgoglio. «Non avrei dovuto prendere così di petto Maia. In tal modo ho scatenato una guerra legale che in effetti avevo poche speranze di vincere. Certo che... comunque avessi agito, non credo che lei sarebbe stata più conciliante» ammise, avvilito.
   «Quindi eri destinato a fallire in ogni caso?».
   «Non ho detto questo!» fece Irvik, temendo che Nagilum lo abbandonasse. «Il punto d’intervento, ecco l’errore!» esclamò, balzando in piedi. «Sono tornato al momento in cui chiesi a Maia d’accompagnarmi sulla Terra e, davanti al suo rifiuto, decisi d’andarci da solo. Negli ultimi quattro anni mi sono detto e ridetto che quello era stato l’errore della mia vita, perché mi portò a perdermi nel Multiverso. Ma in realtà la mia vita familiare era già rovinata a quel punto. Maia mi odiava, s’era messa con quel gran bastardo di Edmon e non voleva farmi vedere i ragazzi. Qualunque cosa facessi da quel momento in poi, era destinata al fallimento. Sarei dovuto tornare più indietro nel tempo... molto più indietro!» s’illuminò.
   «Molto più indietro? E quando, esattamente?» chiese Nagilum, con cauto interesse.
   «Vediamo... vediamo... devo pensarci bene. Stavolta non devo commettere errori!» rimuginò il Voth, camminando avanti e indietro. D’un tratto si fermò. «Sì, ci sono! Non può essere che quello! Il vero momento che mi ha condannato a perdere i ragazzi fu quando accettai d’entrare nel team di progettazione dei Borg Killer. Era un incarico importante, sai, e pensavo che avrebbe dato grande impulso alla mia carriera. Seeehhh... ora ne vedo i risultati!» brontolò, alludendo all’alloggio in cui scontava gli arresti domiciliari. «Prima d’allora eravamo una famiglia unita. Ma quel dannato progetto mi assorbì a tal punto da farmi trascurare i miei cari. E fu allora... fu allora che li persi. Se fossi stato più presente, in quegli anni critici, tutto sarebbe andato diversamente. Ne sono certo!».
   «Un’ipotesi interessante» concesse Nagilum. «Direi di passare senza indugio alla verifica sperimentale».
   «Che, mi offri un’altra opportunità?!» fece Irvik, che si era quasi rassegnato alla nuova vita.
   «Certo, altrimenti che ne sarebbe del mio studio? Devo ancora stabilire se il libero arbitrio esiste o meno» confermò l’entità. «Però ti esorto ad agire con più accortezza. Quel che stiamo facendo è assai complicato, e richiede molta energia, e influisce su un gran numero di vite. Non voglio che i risultati dell’esperimento siano falsati dalla tua goffaggine. Altrimenti potrei scegliermi un altro soggetto» ammonì, scrutandolo severamente.
   «Ehm, sono certo che non sarà necessario. Stavolta andrà tutto liscio, vedrai» mormorò il Voth, temendo di perdere quello che ormai era a tutti gli effetti il suo nume tutelare.
   «In tal caso, concentrati. Focalizza i pensieri sulla tua nuova destinazione, ancora più indietro nel tempo» lo istruì Nagilum.
   Irvik riprese il Cubo di Rubik, vedendolo modificarsi tra le sue mani. I movimenti erano rapidi e certi, come se una forza invisibile lo manovrasse. La faccia bianca si scompose in un mosaico caotico, mentre i segmenti ruotavano attorno al perno centrale. In pochi attimi un nuovo lato si uniformò, quello giallo. Gli altri rimasero mischiati. Allora Irvik, che si stava concentrando spasmodicamente sulla destinazione, si sentì nuovamente avvolgere dall’oscurità.
 
   Ancora una volta il sauro ebbe l’impressione d’essere strappato dal suo corpo. Lottò per riaversi, finché sentì qualcosa di duro e freddo sotto di sé. Il pavimento... era disteso sul pavimento. Sopra di lui si udiva un brusio di voci confuse. Sagome sfocate si muovevano, alcune s’inginocchiavano per aiutarlo.
   «Irvik... ehi, Irvik!».
   «Che ti prende, hai bevuto troppo? O stai cercando di farci spaventare?».
   «Eddai, alzati... il bel gioco dura poco».
   «Basta, non vedete che sta male? Io chiamo l’infermeria!».
   «Amore, che ti succede? Guardami, sono qui!».
   Il sauro riconobbe quelle voci, la maggior parte delle quali non udiva da anni. Anche la sua vista cominciò a schiarirsi. Erano i suoi colleghi ingegneri, del tempo in cui lavorava sulla Nave Bastione Maastri. Cara, vecchia Maastri... lì si era fatto le ossa, cominciando come ingegnere junior e salendo rapidamente di grado. E la voce femminile, invece...
   «Maia!» gemette Irvik, drizzando la schiena di scatto. Si trovò faccia a faccia con la sua ex moglie... no, era ancora sua moglie... più giovane e affezionata di quanto la ricordasse.
   «Sono qui, tesoro. Cosa ti è preso? Sei crollato sul pavimento... mi hai spaventata a morte. Siamo tutti spaventati» disse Maia, aiutandolo a rialzarsi in piedi.
   «Non è niente, piccola scaglia del mio cuore» disse lui, pronunciando quelle parole affettuose per la prima volta dopo tanti anni. «Un po’ il brandy sauriano, un po’ l’emozione... ma ora sto bene, davvero».
   «Sei sicuro, capo? Un salto in infermeria lo farei...» consigliò un subordinato. Come si chiamava, già? Tenon, ricordò vagamente Irvik. Non lo vedeva da parecchi anni.
   «Mio marito ha detto che sta bene!» fece Maia, fulminando con lo sguardo il sottoposto. «Gli serve solo un po’ di spazio. Su, fatelo respirare!» si rivolse a tutti.
   I presenti allargarono il cerchio attorno a loro. Allora Irvik si guardò attorno e riconobbe il posto. Era il salone dei ricevimenti della Maastri, che come tutte le Navi Bastione trasportava civili e possedeva tutti i comfort. Una delle pareti era adibita a finestra panoramica, mostrando lo spazio trapunto di stelle. Ah, le familiari stelle del Quadrante Delta... aria di casa! In fondo alla sala c’era il bancone degli aperitivi. Molti ufficiali si erano radunati lì, compreso il Capitano, anche se il piccolo trambusto aveva attirato la loro attenzione.
   Irvik si guardò attorno, con la vaga sensazione che mancasse qualcosa. Infine lo vide: il Cubo di Rubik era rotolato presso un tavolino più piccolo. La faccia gialla era rivolta verso l’alto, a ricordare il patto in virtù del quale si trovava lì. All’improvviso l’Ingegnere temette che qualcuno potesse sottrargli il Cubo, impedendogli di contattare Nagilum. Preso dall’agitazione, si avvicinò rapido e si affrettò a raccoglierlo.
   «E quello cos’è?» s’incuriosì Maia.
   «Oh, niente... solo un rompicapo che ho preso al mercatino del ponte 12» mentì l’Ingegnere, e subito lo fece scomparire nell’ampia tasca.
   «Okay...» fece sua moglie, un po’ insoddisfatta, ma lasciò cadere l’argomento. Il Capitano infatti si stava facendo avanti. Allora ci fu un gran rimescolamento tra i presenti. Alcuni ingegneri si fecero avanti e si allinearono, come per una premiazione. «Che aspetti? Vai!» sussurrò Maia, quasi sospingendolo in avanti.
   Irvik si affrettò a prendere posto tra i colleghi, sei in tutto. Ora ricordava... tutti e sei avevano fatto domanda per partecipare alla progettazione dei Borg Killer. Ma solo uno poteva essere accettato, e il Capitano stava quindi per annunciare il prescelto. «Buona fortuna, signore» disse sportivamente Tenon, ponendosi accanto a lui.
   «Altrettanto» mormorò Irvik, con la bocca secca. Già, all’epoca considerava una fortuna essere designato per il prestigioso incarico. Solo la sua nuova consapevolezza, arrivata da un triste futuro, gli diceva il contrario. Con la coda dell’occhio guardò Maia, che gli sorrise, mandandogli un bacio a distanza. Lei naturalmente credeva ancora che fosse una fortuna... e quindi faceva il tifo per lui... che peccato doverla deludere...
   «Un momento d’attenzione, prego» invitò il Capitano. Sul vasto auditorio scese un silenzio carico d’emozione. Tutti fissavano i sei concorrenti, chiedendosi chi sarebbe stato designato. «Stasera siamo qui riuniti per un annuncio speciale» riprese il Capitano. «Uno dei nostri Ingegneri è stato selezionato per un incarico d’enorme responsabilità. Sarà trasferito presso i Laboratori Militari Centrali di Vothir, per collaborare alla progettazione dei Borg Killer, i nuovi strumenti di difesa dalla Collettività. La nostra sicurezza, le nostre stesse vite, dipendono dalla buona riuscita del progetto. È quindi fondamentale che solo i migliori vi partecipino; ed essi dovranno dedicarvi la massima devozione, anteponendolo ad ogni altra necessità. Detto questo, passo senza indugio ad annunciare il nome del vincitore. E questi è...».
   Pausa a effetto. Gli ingegneri s’irrigidirono, mentre i loro amici e parenti li osservavano ansiosi.
   «... il Tenente Irvik!» concluse il Capitano. Ci fu uno scroscio d’applausi. Irvik vide che Maia saltellava dalla gioia e applaudiva a più non posso, sorridendogli radiosa. Ma stava per arrivare la tempesta...
   «Congratulazioni, Tenente» disse il Capitano, venendo a stringergli la mano. «Una giusta nomina, se l’è meritata. Ci spiace perderla, ma siamo tutti fieri di sapere cosa farà per la patria».
   «Io... non posso accettare» disse l’Ingegnere con un filo di voce.
   «Sì, tutti molto fieri... come?!» fece il Capitano, sgranando gli occhi. Gli lasciò la mano e indietreggiò di un passo. Anche gli ufficiali lo fissarono sbalorditi, e così gli altri cinque finalisti dietro di lui. In un attimo l’intero salone era piombato nel silenzio. Anche Maia fu zittita, nel mezzo della sua allegria, e si trovò a guardarlo confusa.
   «Forse ho sentito male» disse il Capitano, fissandolo con gravità. «Lei accetta l’incarico, signor Irvik, sì o no?».
   «Sono spiacente, Capitano, ma non posso accettare!» rispose l’Ingegnere con voce stentorea. Le sue parole gravarono sulla folla ammutolita. Nella società Voth, così orientata al prestigio personale, era un grave scandalo che qualcuno rifiutasse una promozione. Soprattutto era scandaloso che si ritirasse all’ultimo momento, durante la premiazione, dopo che lui stesso s’era candidato. Tutti lo fissarono senza parole. Ma più scioccata di tutti era Maia, che indietreggiò e si coprì il volto per la vergogna.
   «Posso conoscere le ragioni di questo inaspettato rifiuto?» chiese il Capitano, incerto lui stesso sulla procedura.
   «Sono desolato, signore, non era mia intenzione mancare di rispetto a nessuno» disse Irvik. «Ma cinque anni sono lunghi, per dedicarli assiduamente a un progetto. Come lei ha giustamente ricordato, questo incarico richiede un’assoluta devozione. Ma io sono sposato, ho un figlio piccolo, e un secondo uovo in arrivo. Dopo attenta riflessione, sono giunto alla conclusione che siano questi, i miei doveri inderogabili. Perciò faccio un passo indietro, nella convinzione che sia meglio per tutti. Cedo l’incarico al secondo classificato».
   L’Ingegnere dette una fugace occhiata a sua moglie. La vide scuotere disperatamente la testa, ma era troppo tardi. Sperò che avrebbe capito, col tempo... almeno stavolta lui le sarebbe stato accanto...
   «Beh, Tenente, tutto ciò è inconsueto, ma... se vuol rinunciare all’incarico, ne ha facoltà» disse il Capitano, ancora meravigliato. «Passo quindi a designare il secondo classificato, che è... il sotto-tenente Tenon!» disse, leggendo frettolosamente da un d-pad.
   Ci fu un secondo applauso, più discreto del primo, per via dell’insolita situazione. Tenon si guardò attorno, confuso. «Non doveva farlo, signore...» sussurrò a Irvik.
   «Sì, invece. Ormai è fatta. Veditela tu» rispose l’Ingegnere, allontanandosi dai colleghi allineati, per mischiarsi alla folla mormorante.
   «Lei accetta l’incarico, signor Tenon?» chiese il Capitano, quasi aspettandosi un secondo, clamoroso rifiuto.
   «I-io... sì, certo, signore. Lo accetto eccome. Voglio dire, lo accetto con umiltà» incespicò il giovane Ingegnere.
   «Allora buona fortuna» augurò il Capitano, stringendogli la mano. «Si faccia onore laggiù, tenga alto il nome della Maastri. Il suo trasporto partirà domani alle diciotto in punto, dall’hangar principale».
   «Grazie, signore. Non mancherò» promise Tenon, ancora incredulo della sua fortuna.
   Nel frattempo Irvik inseguiva sua moglie, che si era ritirata in un angolo del salone, le scaglie rosse di vergogna. Fece per sfiorarle il braccio, ma lei si ritrasse di scatto.
   «Ti ha dato di volta il cervello?! Quell’incarico era ciò che volevi... ciò che volevamo entrambi. Un trasferimento sul pianeta, per almeno cinque anni, così da poter crescere i nostri figli al sicuro!» disse Maia, con aria ferita.
   «Così credevo, ma ci ho ripensato. Ascoltami, cara... dove vai, ascoltami» la trattenne. «Quell’incarico non è ciò che credi. Hai sentito il Capitano: sarei stato costretto a seppellirmi in un laboratorio ultraprotetto per cinque interminabili anni. Avrei passato lì tutto il giorno... magari a volte ci avrei persino dormito. E nel frattempo tu saresti rimasta sola! Sola, amore, con due bambini piccoli di cui occuparti. Altro che sogno... sarebbe diventato un incubo. Sarebbe stata la tomba del nostro amore. Ne sono certo!» disse con foga.
   «Ah, ne sei certo? Beh, avresti potuto parlarmene prima! E avresti potuto evitare di candidarti, se temevi così tanto di vincere» disse Maia, ricomponendosi.
   «Purtroppo ho compreso solo ora la realtà. Ma sono certo di aver preso la decisione giusta. Al diavolo la fama... le mie priorità siete tu e i bambini!» ribadì Irvik.
   «Se lo dici tu... ormai non sapremo come sarebbero andate le cose» sospirò Maia. E lasciò frettolosamente il salone, ancora in preda alla vergogna.
   Irvik fece per inseguirla, ma fu assalito dall’ormai familiare mancamento. Ancora una volta si sentì strappare dal corpo e spedire lontano, mentre una nuova linea temporale si dipanava da quell’evento.
 
   Ripresa conoscenza, Irvik si ritrovò accasciato su una scrivania. Si tirò su, ancora confuso, e si guardò attorno. Si trovava in un piccolo ufficio mai visto prima. La finestra aperta mostrava la capitale sotto i caldi raggi del sole. Anche stavolta era su Vothir, anziché su un’astronave. Già, ma in che condizione si trovava? Osservando l’oloschermo acceso davanti a sé, vide il simbolo dell’Università che sormontava un documento scritto. Altri documenti del genere erano consultabili dal menu laterale. Lezioni... quelle erano tutte lezioni universitarie. E lui le stava preparando, perché era un docente. Anche il piccolo ufficio, ora che lo riguardava, pareva uno di quelli a disposizione dei professori.
   «Computer, mostrami lo storico della mia carriera accademica» ordinò.
   L’oloschermo mostrò una nuova pagina, e Irvik la lesse avidamente. Scoprì che aveva lasciato la Maastri – e con essa la carriera nella Milizia Voth – e s’era trasferito nella capitale ben sette anni prima, con la famiglia. Aveva ottenuto l’impiego di docente/ricercatore presso la facoltà d’Ingegneria dell’Università, anche se non era mai riuscito a farsi ammettere nei Circoli scientifici più prestigiosi della società. In questo dovevano aver pesato la rinuncia al programma dei Borg Killer, nonché il suo addio alla Milizia. La sua poteva definirsi una carriera ordinaria... non eccelsa, ma comunque dignitosa.
   «Mi sta bene così» pensò Irvik. Di gloria e onori non sapeva che farsene, ora che aveva visto dove l’avrebbero condotto. Preferiva mille volte una vita normale. Ma ciò che davvero gli stava a cuore era la sua situazione familiare. Così aprì la sua scheda personale, un documento d’identità che conteneva informazioni dettagliate anche su questo. Stato civile... sposato. Maia si occupava di olografia, come in tutte le linee temporali precedenti. Figli... due, di dodici e nove anni. Indirizzo... corrispondeva a quello della loro casa coniugale, anziché dell’alloggio da divorziato.
   Irvik lesse con crescente emozione. Finalmente aveva fatto centro! La famiglia era unita, lui e Maia stavano crescendo assieme i ragazzi. L’unico dettaglio che lo adombrò fu notare che i voti scolastici dei figli erano scarsi. Beh, pazienza... d’ora in poi si sarebbe accertato che studiassero. Nel complesso era una situazione più che accettabile. Di certo migliore delle altre che aveva sperimentato.
   Confortato, Irvik approfittò del tempo di cui disponeva per informarsi il più possibile della sua nuova vita. S’interruppe solo quando il computer lo avvertì che doveva tenere una lezione. Sulle prime il sauro temette di non essere pronto, ma una rapida verifica dell’argomento lo convinse che non sarebbe stato difficile. Doveva insegnare i rudimenti della meccanica di curvatura alle matricole del primo anno... poteva farlo a occhi chiusi.
   Le ore di lezione scorsero senza grossi problemi. Spiegare, rispondere alle domande, assegnare le pagine da studiare e i test di verifica... gli veniva tutto naturale, come se non avesse mai fatto altro. Gli spiacque solo notare che le sue lezioni erano poco frequentate, e quei pochi studenti non sembravano concentrati. Soprattutto non mostravano gran rispetto nei suoi confronti, visto come risposero alle sue esortazioni a stare attenti. Irvik si fece un appunto mentale: anche con loro ci voleva più disciplina.
   Terminate le lezioni, il Voth si recò in sala docenti, cercando di familiarizzare con quelli che adesso erano i suoi colleghi. Aveva visto i loro volti nel database e cercò di riconoscerli. Un paio di volte provò ad attaccare bottone, ma anche lì notò che tutti sembravano ignorarlo o trattarlo con sufficienza. Questa cosa stava diventando fastidiosa. Okay, la sua non era la carriera più brillante che si fosse vista su Vothir... ma le loro erano forse meglio? Non erano tutti uguali, lì? E allora cos’erano quei sorrisetti fugaci che gli sembrava di vedere sui loro volti?
   A un tratto il suo comunicatore si attivò. Era una chiamata audio-video da Maia. Siccome un gruppo di colleghi si era messo a chiacchierare proprio davanti alla porta, Irvik dovette appartarsi in un angolo per rispondere. Premette il comunicatore, che proiettò un piccolo ologramma di sua moglie, dalle spalle in su. «Ciao, caro» lo salutò Maia.
   «Amore! Che bello vederti!» esclamò Irvik, con più foga di quanto le circostanze avrebbero richiesto. Era ancora emozionato per il fatto di aver creato una realtà in cui il loro matrimonio aveva retto e lei non lo odiava.
   «Uh... è tutto a posto? Mi guardi come se non mi vedessi da un secolo» notò Maia.
   «Non posso guardarti con affetto? Sei bella come il giorno che ti ho conosciuta, tesoro. Allora, perché questa chiamata?» si ricompose Irvik.
   «Oh, era solo per avvisarti che stasera farò tardi» rispose sua moglie con nonchalance. «Sai com’è, un’altra di quelle riunioni serali... più si avvicina il lancio del nuovo modello di MOE, più ne abbiamo. Forse riesco a ripassare da casa, per mettere a tavola i ragazzi».
   «Non ti preoccupare, tesoro, ci penso io ai diavoletti. Tanto qui ho finito e sto per rincasare. Fa’ con calma quel che devi. A presto, amore».
   «Grazie, caro, sapevo che avresti capito. Baci-baci!» fece Maia, e chiuse la comunicazione.
   Irvik fece per andarsene, ansioso di rivedere finalmente i suoi figli. Tuttavia, nel girarsi, intercettò l’occhiata beffarda di un collega.
   «Tutto a posto, vecchio mio?» chiese questi.
   «Certo, perché?» fece Irvik. Lo riconobbe: era il dottor Camptos, un collega con cui secondo il database aveva spesso lavorato assieme, il che spiegava il suo tono familiare.
   «Oh, niente... se lo dici tu» fece l’altro, sempre con quel sorrisetto beffardo, e fece per svicolare. Ma Irvik lo trattenne.
   «Eh no, vecchio mio, non te la cavi così!» avvertì Irvik, che cominciava a stancarsi di quell’atteggiamento generalizzato nei suoi confronti. «Se hai qualcosa da dire, esprimiti in modo chiaro!» intimò, con quel piglio deciso che gli veniva dall’essere vissuto quattro anni con gli avventurieri.
   Camptos aggrottò la fronte, sorpreso da quella grinta inaspettata, e le sue scaglie trascolorarono leggermente. «Caspita, che ti prende? Hai avuto una brutta giornata?».
   «Sapessi che giornate ho avuto... ma lasciamo stare. Allora, cosa stavi dicendo?».
   «Niente, dico solo che sei un marito esemplare. Sai com’è... tua moglie a volte ha le riunioni serali, a volte la palestra, a volte il circolo delle amiche... sembra che le sue serate siano più indaffarate delle giornate. Qualcun altro potrebbe insospettirsi, ma... evidentemente il vostro è un matrimonio di ferro! Complimenti per la fiducia!» ridacchiò il collega.
   «Tu stai insinuando...» fece Irvik, sbuffando dalle narici.
   «Ho solo detto quel che tutti mormorano alle tue spalle, povero amico mio. Sii tu a trarne le conseguenze» disse Camptos, e si disimpegnò da quella tesa conversazione.
   Irvik lo guardò allontanarsi, imbronciato. Possibile che quel tipo avesse ragione? No, non voleva crederci. Non poteva cominciare la sua nuova vita con quel sospetto. Non doveva lasciare che lo tormentasse. Giurò a se stesso che non ci avrebbe più pensato.
 
   «Non ci penserò più» si disse Irvik, per la centesima volta consecutiva. Era a casa, finalmente... a casa dai suoi figli! Non vedeva l’ora di riabbracciarli. «Ehilà, sono tornato!» disse giulivo. Non ebbe risposta. Dovette setacciare la casa per trovare i ragazzi. Dryos era nella sua cameretta, a suonare a tutto volume uno strano strumento alieno che chiamò “chitarra elettronica”: disse che veniva dalla Terra, dove a suo dire la suonavano tutti. La piccola Psitta invece era in cucina, dove aveva ordinato un’enorme quantità di dolci al replicatore e se li stava sbafando.
   «Ehi, signorina, basta così, o non ti resterà spazio per la cena!» la rimproverò Irvik, sottraendole il piattino.
   «Ma voglio quelli!» protestò la bambina, cercando di riafferrare il piatto colmo. Il padre dovette tenerglielo alto, così che non arrivasse a ghermirlo.
   «Uhm, devo ricordarmi di mettere una codifica al replicatore» borbottò Irvik. «Ma insomma, dov’è l’olo-tata? Dovrebbe vegliare su di voi, mentre io e mamma siamo fuori casa!».
   «Dryos l’ha disattivata. Dice che solo i poppanti hanno l’olo-tata!» strillò Psitta con la sua vocetta acuta. Salì sul tavolo, sempre nel tentativo di recuperare il piatto coi dolci.
   «Non è solo per i poppanti. E visto come siete allo sbando, credo proprio che ne abbiate bisogno!» fece Irvik. Ficcò il piatto nel replicatore e lo riconvertì in energia. Allora Psitta strillò di rabbia e corse via, mentre dal piano di sopra veniva un assolo spaccatimpani di chitarra.
   «Sono a casa, già» si disse Irvik, accorgendosi che c’era molto da fare.
 
   Di lì a poco tornò Maia, per mettere tutti a tavola come promesso. «Ciao caro, tutto bene?» chiese, dirigendosi frettolosamente verso la cucina.
   «Mah, insomma...» fece Irvik. «Non pensarci più» si disse per la duecentesima volta. «I ragazzi mi sembrano un po’ allo sbando. Non so se hai notato, ma i loro voti sono colati a picco nell’ultimo quadrimestre. Inoltre Dryos non si stacca da quella cosa aliena...» disse accennando al piano di sopra, dove il figlio maggiore continuava a strimpellare.
   «Intendi la chitarra? Beh, adesso che ha formato la band con gli amichetti, dobbiamo farci l’abitudine» spiegò Maia. «Non so, forse potremmo insonorizzargli la stanza».
   «Potrebbe essere il caso» convenne Irvik, che non ne poteva più del frastuono. «Ma il peggio è che ha disattivato l’olo-tata, così che non gli facesse fare i compiti. E ha sbloccato i controlli del replicatore, così che lui e Psitta potessero ingozzarsi di dolci. Non stupirti se adesso avranno poco appetito».
   «Oh no, ancora?!» si lamentò Maia, che intanto stava preparando la tavola. «È proprio il figlio di un ingegnere! Continua a neutralizzare i parental control di casa».
   «Dopo cena inserirò una codifica di sicurezza progettata contro i Borg. Spero che tratterrà per un poco quel dodicenne e la sua affamata sorellina» promise Irvik, mentre l’aiutava ad apparecchiare.
   Riuscirono a consumare una cena decente, facendo conversazione leggera. Irvik ne fu oltremodo grato: aveva bisogno di rilassarsi. Poteva soprassedere su tutti i problemi fin lì notati, promettendosi che li avrebbe affrontati nei giorni a venire. L’importante era che fossero finalmente lì riuniti, attorno alla tavola, come aveva sempre desiderato. Solo per un attimo si chiese che ne era stato dei suoi amici della Destiny, senza di lui... ma scacciò il pensiero. Il suo dovere era quello, non poteva esserci nulla di più importante. E se Nagilum fosse riapparso, avrebbe potuto confermargli che l’arbitrio esisteva, visto come aveva cambiato in meglio la sua vita, facendo le scelte giuste.
   «È tardi, devo scappare. Sai, la riunione...» disse Maia, alzandosi per prima dalla tavola. Corse in bagno, per darsi una sistemata alla faccia.
   «L’hanno organizzata proprio tardi, eh? Addirittura dopocena...» notò Irvik.
   «Infatti, è una cosa indecente» confermò sua moglie. Per un’antipatica riunione serale, stava curando fin troppo il suo aspetto.
   «Non pensarci più» si disse Irvik per la trecentesima volta. Ma il comunicatore di Maia, lasciato nella sua borsetta, esercitava su di lui un fascino simile al replicatore su Psitta. Doveva metterci le mani, per appurare come stavano le cose. Così, con l’agile mano di un borseggiatore, s’impadronì del dispositivo. Come sperava, sua moglie andava così di corsa che uscì di casa senza controllare di averlo ancora con sé.
 
   «Soli, finalmente» si disse l’ex Ingegnere, rigirandosi il comunicatore tra le mani. Intendeva estrarne la verità, tutta la verità. Dopo aver riattivato l’olo-tata, affinché sparecchiasse la tavola e costringesse i ragazzi a fare i compiti, si ritirò nel suo studio. Come sperava, non si era del tutto lasciato indietro il suo passato d’ingegnere militare. Lo studio era attrezzato di tutto punto con apparecchiature all’avanguardia, alcune delle quali probabilmente venivano dall’astronave, o erano delle repliche fedeli. Qualche ricordino dei vecchi tempi. Irvik depose con cura il comunicatore su un lettore quantico e si scrocchiò le dita, ansioso di verificarne il contenuto.
   Dovette sudare sette camice per venirne a capo. In tutta la sua vita, l’ex Ingegnere non aveva mai visto un comunicatore per uso civile così pesantemente criptato. Oltre al consueto riconoscimento vocale, serviva una password e persino un’analisi genetica per accedere alla memoria interna. Questo non fece che corroborare i suoi sospetti. Lavorando di buona lena, coi trucchi appresi nell’arco della sua carriera, Irvik riuscì infine ad hackerare il dispositivo. L’elenco delle chiamate e dei messaggi precedenti fu finalmente proiettato davanti a lui.
   Per un attimo Irvik fu tentato di non leggere. Aveva cambiato la linea temporale pur di riunire la famiglia, e ora stava per fare qualcosa che poteva nuovamente dividerla. Non poteva semplicemente lasciar perdere, e accontentarsi di ciò che aveva ottenuto...?
   No, non poteva. Sarà stata una deformazione professionale, ma era convinto che l’ignoranza non risolvesse mai niente. Doveva acquisire tutte le informazioni, e solo allora avrebbe potuto agire con cognizione di causa. Così il sauro si fece coraggio e guardò.
   Quindici minuti dopo, avrebbe preferito non avere guardato. Al diavolo la conoscenza... era l’ignoranza l’unico balsamo della vita! Beata ignoranza, convinta che finalmente Maia lo amasse e la famiglia fosse integra. Ma la conoscenza gli raccontava un’altra storia. Una storia in cui il loro matrimonio era solo una facciata, e neanche tanto convincente, visto come tutti gli sparlavano alle spalle. E Maia... quella stessa Maia che poco prima era seduta a tavola con lui... non perdeva occasione per correre tra le braccia di un altro. No, peggio ancora: per correre tra le braccia di Edmon, il produttore olografico dal dubbio talento. Sempre lui... non c’era realtà in cui non si avventasse su sua moglie, come una mosca sul miele. Sarà stato che i loro lavori, basati sugli ologrammi, li facevano incontrare ogni volta. E purtroppo, non c’era realtà in cui sua moglie resistesse alle avances. Che fosse una relazione alla luce del sole, in seguito al divorzio, o peggio ancora una relazione adulterina, quei due finivano sempre insieme. Si sarebbe detto che, se c’era un Destino capace di trascendere ogni altra forza, era il loro.
   La cosa che fece soffrire maggiormente Irvik, persino più del tradimento in sé, fu il modo in cui Maia parlava di lui in quei messaggi. Non perdeva occasione per denigrarlo, per accusarlo d’essere un fallito che si era lasciato sfuggire le migliori occasioni, condannandosi (e di riflesso, condannando anche lei) a una vita di mediocrità. Quelle stesse attenzioni che, nelle altre linee temporali, lui non aveva potuto riservare alla famiglia, qui diventavano ragione di scherno. Come se, non avendo nulla d’importante da fare fuori casa, non gli restasse che perdere tempo nelle quisquilie domestiche. Negli ultimi messaggi, Maia arrivava a dire che le sarebbe piaciuto fuggire da quella casa opprimente. Non specificava se, in questa ipotetica fuga d’amore, intendeva portarsi dietro i figli oppure no. Il tono suggeriva che non parlasse sul serio, che fossero delle iperboli romantiche. Anche così, Irvik sentì ciò che restava del suo cuore sbriciolarsi, polverizzarsi e venire soffiato via.
 
   Più tardi, dopo aver messo a letto i ragazzi ed essersi coricato lui stesso, Irvik ebbe tempo per pensare. Si era sempre incolpato del fallimento del suo matrimonio, ma vedendo come andavano le cose in tutte le linee temporali, ora capiva che anche Maia aveva grosse responsabilità. A ben vedere, non erano fatti l’uno per l’altra; non lo erano mai stati. Le difficoltà della vita, quali che fossero, non facevano che portare a galla questo problema di fondo. Se fosse stato solo per loro due, Irvik avrebbe accettato il divorzio. Avrebbe lasciato Maia con Edmon... finché non si sarebbe stancata anche di lui, data la sua indole incontentabile... e a sua volta si sarebbe cercato un’altra. Il problema erano i figli. Irvik non voleva che crescessero con una madre siffatta e con quel fetente di Edmon. Che cos’avrebbero imparato da loro? A prendere tutto quel che potevano arraffare?
   No, non poteva lasciare i ragazzi in mano a quegli scriteriati. Ora più che mai, Irvik sentiva di dover essere presente nelle loro vite. Ma se avesse divorziato, sapeva già come sarebbe andata a finire. Lo sapeva fin troppo bene, avendolo visto nella precedente linea temporale. Anni di battaglie legali, di rancori, di false accuse, coi ragazzi sballottati e usati come armi, solo per finire comunque assegnati a Maia... no, non poteva fargli questo. Quindi non restava che stringere i denti e andare avanti, accettando che il suo matrimonio era una farsa, e concentrandosi solo sul bene dei figli. Se fosse riuscito a portarli all’età adulta, allora avrebbero potuto capire, e accettare la separazione senza esserne rovinati. Certo che, con un figlio di dodici anni e una figlioletta di nove, era lunga aspettare che fossero maggiorenni...
   Colto da un improvviso dubbio, Irvik osservò la stanza in penombra. Che ne era stato del Cubo di Rubik, il suo contatto con Nagilum, in tutti quegli anni? Poteva essere finito disperso, o persino distrutto? In una casa con due bambini, il ricambio di giochi era frequente, e il Cubo poteva essere stato scambiato per un giocattolo rotto. «Ma Nagilum lo permetterebbe? Il suo scopo non è forse contattarmi, ai fini del suo maledetto esperimento?» si chiese Irvik.
   Rialzatosi, il Voth aprì il cassetto del comodino che teneva sul suo lato del letto matrimoniale. E lo vide: il Cubo era lì, come un inseparabile testimone della sua vita. Era ancora regolato in modo da mostrare un lato giallo e gli altri in disordine. E Irvik aveva la netta sensazione che, se avesse cercato di smuoverlo, avrebbe solo attirato l’attenzione di Nagilum. Ma non era ancora pronto a farlo. Prima voleva familiarizzare maggiormente con la nuova vita. Solo quando si fosse sentito pronto avrebbe chiamato Nagilum, confermandogli che il suo esperimento era un successo e il libero arbitrio esisteva. Così facendo, sperava di liberarsi definitivamente della strana entità. A quel punto non gli sarebbe rimasto che sopportare la nuova esistenza, per il bene dei suoi figli.
   Con questo pensiero, non tanto consolante, Irvik richiuse il cassetto e si riadagiò sotto le coperte. Era stata una lunga giornata, che lo aveva stancato. Quando riuscì a prendere sonno, sua moglie non era ancora tornata.
 
   La mattina successiva, Irvik e Maia non parlarono del comunicatore, sebbene lei si fosse certamente accorta che le era stato sottratto. L’ex Ingegnere glielo aveva lasciato sul tavolo, vicino a dove lei aveva lasciato la borsetta la sera prima, come a suggerire che poteva esserne sfuggito accidentalmente. Aveva anche fatto del suo meglio per cancellare le prove dell’hackeraggio. Maia lo riprese senza dire una parola. Forse sospettava già che lui conoscesse i suoi traffici. Per il resto della mattinata si scambiarono solo poche parole indispensabili. Poi, dopo aver teletrasportato i ragazzi a scuola e aver impostato l’olo-tata affinché sbrigasse i lavori domestici, si lasciarono con un semplice «Buon lavoro».
   La giornata trascorse senza grossi scossoni. Irvik cominciava già ad abituarsi all’insegnamento, per quanto dovesse ancora familiarizzare con certi meccanismi della vita accademica. «Non può essere più difficile che mandare avanti la sala macchine di un’astronave dispersa nel Multiverso» si ripeté, ogni volta che incontrava una difficoltà. Adesso però capiva l’atteggiamento di sufficienza con cui i colleghi, e persino gli studenti, lo trattavano. Le scappatelle di sua moglie dovevano essere note a tutti. Probabilmente lo avevano reso lo zimbello della facoltà. L’ex Ingegnere tenne duro, cercando d’imporsi almeno con gli studenti, richiamando severamente quelli che sonnecchiavano durante le sue lezioni.
   Quando fu di ritorno a casa, Irvik trovò un po’ d’agitazione. L’olo-tata stava cercando di far sbrigare i compiti ai bambini, come da suo ordine, mentre questi protestavano, dicendo che a quell’ora avevano il permesso di giocare. La piccola Psitta si era persino messa a piangere, mentre Dryos stava facendo un lavoro raffazzonato, nella speranza di liberarsene al più presto. Ah, se solo avessero saputo cosa si stava sobbarcando per loro! Irvik mise in chiaro che i compiti dovevano essere terminati prima di cena, non dopo, anche se temeva le prodezze chitarristiche in cui il primogenito si sarebbe esibito a tarda ora.
   Appena fu libero, il Voth si chiuse nel suo studio. C’era qualcosa che aveva rimandato fino a quel momento, ma il rovello era cresciuto sino a farsi insostenibile. Come la sera prima, con le infedeltà di sua moglie, anche stavolta doveva sapere.
   «Computer, accedi ai dati aggiornati sulla Federazione Unita dei Pianeti» ordinò. «Ti risulta che sia in servizio un’astronave chiamata USS Destiny?» chiese.
   «Negativo, non risulta in servizio alcuna nave con tale nome».
   «E tra le navi disperse?» chiese Irvik, con crescente tensione.
   «Affermativo. USS Destiny, dispersa nel viaggio inaugurale in Data Stellare 2605.44, che nel nostro calendario...».
   «Lo so» tagliò corto il Voth. «Non c’è stato nessun avvistamento dopo di allora? Nessun contatto?».
   «Ci sono stati 47 avvistamenti indagati dalla Flotta Stellare, ma nessun contatto ufficiale. Si ritiene che tutti gli avvistamenti fossero infondati».
   «Già, la nave fantasma che tutti intravedono sui sensori!» brontolò Irvik, sapendo come andavano queste cose.
   «Tuttavia gran parte delle informazioni concernenti l’USS Destiny sono classificate dalla Flotta Stellare per ragioni di sicurezza. Di conseguenza è possibile che vi siano stati contatti non divulgati» aggiunse il computer.
   «No, non credo» mormorò l’ex Ingegnere, con la bocca secca. Pensò a tutte le volte che l’avevano scampata di un soffio, grazie al suo contributo. Non per vantarsi, ma... erano state tante. Quei bricconi se la sarebbero cavata senza di lui? Irvik non riusciva a crederci. I loro volti gli passarono davanti, nitidi nella memoria. Rivera, Losira, Naskeel, Shati, Giely... e poi il giovane Talyn, così entusiasta d’imparare da lui i trucchi del mestiere. Che ne era stato di loro? Potevano essere sopravvissuti? O piuttosto erano periti subito dopo l’arrivo nello Spazio Fluido, quando i mostruosi Undine li avevano braccati come animali? Ricordando gli effetti degli artigli Undine, con le cellule aliene che infettavano le vittime e le consumavano, Irvik rabbrividì.
   «Computer, ci sono informazioni su un mercantile Ferengi di nome Ishka?» tornò a chiedere. Era quella la loro nave, prima che abbordassero la Destiny.
   «Affermativo. Il mercantile Ishka risulta tra le navi ricercate dalla Flotta, per reati di truffa e contrabbando. Ultimo avvistamento in Data Stellare 2610.35».
   «Quando ci nascondemmo in quella nebulosa, trovando la Destiny alla deriva» ricordò Irvik. Così era iniziata la loro odissea nel Multiverso. «E dimmi... non c’è alcuna informazione su quella banda d’avventurieri, dopo di allora? Anche in assenza della nave?» tornò a chiedere.
   «Negativo. Per avere informazioni più aggiornate e dettagliate, è consigliabile rivolgersi all’ambasciata federale» consigliò il computer.
   «Uhm» fece Irvik, aggrottando la fronte scagliosa. Se fosse stato un Ingegnere all’apice della fama, con contatti presso la Milizia Voth e i Circoli scientifici, forse avrebbe potuto smuovere le acque. Ma nella sua attuale vita di modesto professore... no, non credeva che all’ambasciata lo avrebbero ascoltato.
   D’un tratto gli venne in mente che c’era un modo per dedurre cosa poteva essere successo alla Destiny. Nella linea temporale originale, meno di un anno prima, erano tornati nello Spazio Fluido per dare battaglia agli Undine. Avevano distrutto l’Harvester, la loro grande stazione, impedendo che traslasse il pianeta Ferasa nel loro spazio. Avevano salvato un intero popolo, quello dei Caitiani. Ma nella nuova linea temporale, in cui lui non era lì a fare la sua parte...
   «Computer» disse Irvik con voce tremante, «ci sono informazioni aggiornate sul pianeta federale chiamato Ferasa?».
   «Affermativo. Il pianeta Ferasa risulta svanito in Data Stellare 2613.145 all’interno di un’anomalia, identificata come un’interfase di spazio. Cause dell’interfase: sconosciute. Attuale collocazione del pianeta: sconosciuta. Sorte dei suoi abitanti: sconosciuta. In seguito all’incidente, la Flotta Stellare è in allarme e ha presidiato il sistema di Ferasa. La Federazione ha chiuso le frontiere, decretando lo stato d’emergenza. Per i dettagli, rimando alle seguenti fonti».
   L’oloschermo mostrò un lungo elenco di notiziari e articoli scientifici, sia federali che d’altre fonti, dedicati alla crisi. Irvik non aveva bisogno di leggerli. Era evidente che, senza il messaggio d’allarme trasmesso dalla Destiny, la Flotta Stellare brancolava nel buio. E questo avvantaggiava gli Undine, che erano liberi di colpire ancora. Forse non avrebbero più tormentato la Federazione, passando ad altri obiettivi... ma forse sì. In ogni caso si erano presi Ferasa, e se l’Harvester era ancora integro, potevano prendersi altri mondi. Tutto perché lui, Irvik, aveva riscritto la Storia, al solo scopo di riunirsi a una moglie fedifraga e ai loro sventurati figli...
   A questo pensiero, il Voth rimase impietrito. Preso com’era dai suoi problemi personali, non si era mai reso pienamente conto di quanto fossero state importanti le loro imprese con la Destiny, di quanto avessero aiutato altri popoli. Sì, avevano anche combinato dei pasticci, ma erano quasi sempre riusciti a rimediare. E nel complesso, la bilancia era a loro favore. Nell’Universo dello Specchio, ad esempio, avevano aiutato i ribelli a combattere la Confederazione, avevano curato un’epidemia di sterilità e avevano salvato la Terra dalla distruzione totale. Com’erano le cose laggiù, adesso che niente di tutto ciò era accaduto? E i Caitiani come se la passavano, ora che erano finiti nello Spazio Fluido, alla mercé degli Undine? Quanti di loro erano già stati trascinati sul mondo Arena, per bagnare la sabbia riarsa col loro sangue?
   «Che cosa ho fatto...» mormorò Irvik, prendendosi la testa fra le mani. Aveva condannato interi popoli, intere civiltà... in cambio di una famiglia che non era nemmeno certo di poter aiutare. Come Ingegnere Capo della Destiny, aveva contribuito a salvare dei pianeti. Ma nelle altre linee temporali non gli era mai capitato di fare cose così importanti. La sua vita era stata molto più ordinaria, per non dire anonima. Non aveva fatto nulla che gli meritasse il rispetto, la stima dei suoi figli.
   Fu allora che Irvik capì cosa doveva fare, sebbene ciò gli lacerasse il cuore. Se aveva a cuore il bene, doveva rinunciare al suo più grande desiderio, la vicinanza dei figli. Del resto, loro sarebbero sopravvissuti anche senza di lui. E al suo ritorno – se fosse tornato – avrebbero trovato un padre di cui essere fieri. Non uno che fuggiva dalle proprie responsabilità.
 
   Presa la decisione, Irvik decise d’attuarla subito, prima di poterci ripensare. Ma prima doveva fare una cosa che, in precedenza, gli era stata negata. Doveva dire addio alle sue creature. Andò nella camera dei figli, trovandoli in piena attività. Dryos suonava la chitarra a tutto volume, mentre Psitta aveva preso la corda elastica e saltellava, vagamente al ritmo.
   «Abbiamo finito i compiti, pà!» si giustificò il ragazzino, interrompendosi.
   «Lo so, tranquilli, non sono qui per richiamarvi» lo rassicurò Irvik. «Volevo solo essere certo che... che capiste» disse, emozionandosi.
   «Capire che cosa, papà?!» chiese Psitta con la sua vocetta acuta.
   «Quanto vi voglio bene» rispose Irvik, abbracciando uno dopo l’altro i figli. «Tenetelo sempre a mente, mi raccomando. Di tutte le cose che ho fatto... o che potrei fare... in vita mia, nessuna sarà mai più importante che essere vostro padre. E anche se non potrò essere sempre con voi, saremo sempre una famiglia. Vicini o lontani, lo saremo sempre» disse, trattenendo a stento le lacrime. Poi si ritirò, lasciandosi alle spalle i ragazzini perplessi. Sperò che non lo seguissero, in cerca di spiegazioni, e infatti fu così; aveva fatto pochi passi che udì nuovamente il frastuono della chitarra. Bene così... avrebbe coperto le altre voci.
   Recuperato il Cubo di Rubik, Irvik tornò rapidamente nel suo studio. Bloccò la porta, per accertarsi di non essere disturbato. Infine posò il Cubo sulla scrivania, col lato giallo in avanti, e gli si rivolse in tono aspro: «Avanti, Nagilum, so che sei lì! So che mi senti quando parlo! Rispondi!».
   E Nagilum rispose, materializzando il suo inquietante volto senza corpo sull’oloschermo dietro al Cubo. «Eccomi, Irvik. Stavolta ce ne hai messo di tempo a contattarmi. Allora, come ti vanno le cose?» s’interessò.
   «Che premuroso! T’interesserà sapere che la mia vita è cambiata in meglio» ammise il sauro, e gli riassunse le principali differenze. Anche stavolta Nagilum ascoltò con interesse, chiedendo occasionalmente degli approfondimenti. «Questo è tutto. Come vedi ci sono alti e bassi, ma... nel complesso ho ottenuto di tenere unita la famiglia» concluse.
   «Interessante. Quindi la tua congettura era corretta... intervenendo al momento giusto, la sorte può essere alterata» concluse Nagilum. «Questo depone in favore dell’arbitrio. Il maggior problema di voi mortali sembra essere l’ignoranza, che offusca il vostro giudizio. Ciò v’induce a compiere scelte affrettate, o comunque errate, condannandovi all’infelicità. Per contro, più la vostra comprensione si espande, più le vostre scelte si orientano verso il successo. Davvero interessante». Il suo volto impallidì.
   «Aspetta, non te ne andare!» lo richiamò Irvik. «Spiegami una cosa... il tuo esperimento è finito? Sei soddisfatto?».
   «Ho ottenuto nuove informazioni su cui ragionare. Perché?» chiese l’entità, riprendendo consistenza.
   «Perché solo ora mi accorgo che stravolgere la linea temporale per il mio tornaconto è stato egoista» ammise il Voth. «La mia vita potrà anche essere migliorata, ma quella di molti altri è peggiorata in modo drammatico. Senza il mio contributo, gli amici della Destiny sono morti o prigionieri. E senza la Destiny, interi popoli hanno sofferto o sono stati persino sterminati. Non avevo riflettuto sulle ramificazioni delle mie azioni, ma ora sì. E per quanto mi dispiaccia, sono costretto a rinunciare. Se puoi annullare tutte queste alterazioni, e riportarmi sulla Destiny, ti prego di farlo».
   Nagilum lo scrutò a lungo con gli occhi insondabili. «Questo è inaspettato» disse infine. «Proprio ora che abbiamo fatto progressi, vuoi annullare tutto?».
   «A te che importa? Hai fatto il tuo esperimento e puoi meditare sui risultati. Per noi mortali, però, sarebbe d’enorme importanza cancellare i miei errori» spiegò Irvik.
   «La tua volontà è mutata... ma che ne è delle tue responsabilità familiari? In precedenza non parlavi d’altro» insisté l’entità.
   «Non le ho scordate. Il fatto è che ho delle responsabilità anche verso i compagni della Destiny, e verso i popoli che abbiamo aiutato. Per questo dobbiamo riportare tutto com’era prima. Puoi farlo? Dimmi di sì, ti supplico!» implorò il Voth, temendo che fosse impossibile.
   «Posso farlo» rivelò Nagilum. «E lo farò, se insisti che è così importante. Sì, ora mi accorgo che, nel grande schema delle cose, abbiamo creato un piccolo bene da una parte, ma un grande male dall’altra. Così non resta che annullare tutto. Solo io e te conserveremo il ricordo di questo esperimento».
   «Magnifico!» gioì Irvik.
   «Questo però confuta le mie precedenti conclusioni» avvertì Nagilum, facendosi severo. «Se dobbiamo annullare tutto, ciò significa che c’è davvero un Fato ineluttabile, contro cui non possiamo opporci. Sono turbato... devo riflettere a fondo, e magari procurarmi altri dati» rimuginò.
   Il sauro stava per chiedergli come contava di procurarseli. Ma il suo sguardo cadde sul Cubo di Rubik, che aveva preso a riconfigurarsi. La faccia gialla si scompose e anche le altre mutarono, fino a ripristinare l’esatta configurazione che aveva prima dei viaggi temporali. Allora Irvik sprofondò, una volta di più, nelle tenebre dell’incoscienza.
 

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Capitolo 4
*** Il dono di pace ***


-Capitolo 3: Il dono di pace
 
   «Groan... promemoria per il futuro... mai più accordarsi con entità extra-dimensionali...» mugugnò Irvik, massaggiandosi le tempie. Ancora una volta si accorse d’essere steso sul freddo pavimento. Si stropicciò gli occhi, si guardò attorno... e riconobbe d’essere nel suo alloggio sulla Destiny. Per un attimo si chiese se non avesse sognato tutto. I viaggi nel tempo, le realtà alternative coi loro mille problemi... potevano essere tutta una fantasia? Poi vide il Cubo di Rubik, a terra accanto a lui, e malgrado il suo aspetto normalissimo sentì che era tutto vero.
   «Argh!» gemette il Voth, tirandosi in piedi di scatto. Si guardò attorno, temendo di vedere Nagilum che lo spiava, e magari gli proponeva altri esperimenti. Ma il viso senza corpo dell’entità non era in vista. Con mani tremanti, Irvik raccolse il Cubo e lo posò sul tavolino, stando attento a non scombinarlo. «Computer, fornire data e ora» ordinò con voce roca.
   «Data Stellare 2614.38, ore 7:47» rispose il processore.
   «Una sola notte» rimuginò l’Ingegnere Capo. Era passata una sola notte da quando Nagilum gli aveva parlato, proponendogli i suoi maledetti esperimenti. Eppure lui aveva trascorso almeno due giorni nei presenti alternativi. Se serviva qualche altra prova del potere dell’entità, eccola servita. E adesso, che sarebbe accaduto? Nagilum non aveva promesso di liberare la Destiny... al contrario, aveva detto di volersi procurare altri dati. Non era finita, purtroppo...
   Uno sguardo al finestrone dell’alloggio confermò che la Destiny si trovava ancora nell’anomalia di Nagilum. Non c’erano stelle in vista, solo quell’inquietante foschia bluastra. Fatta una rapidissima colazione, Irvik si precipitò in plancia. Non ebbe nemmeno bisogno di vestirsi, dato che indossava ancora gli abiti della sera prima.
   «Ah, sei qui!» lo accolse il Capitano. «Stavo per chiamarti. Ehi, che faccia... che ti è successo? Notte insonne?» chiese, notando l’aria stralunata del Voth.
   «Oh, è... una storia lunga. Troppo lunga per parlarne» borbottò Irvik. Non gli andava d’ammettere che si era accordato con Nagilum per abbandonarli tutti. «Perché mi voleva, Capitano? Come vanno le cose col nostro ospite?» chiese, alludendo alla nebbia sullo schermo.
   «Di male in peggio» disse Rivera, corrucciato. «Quel mascherone ci tiene imprigionati nel suo campo giochi. Nelle ultime ore ha cominciato a fare strani esperimenti sull’equipaggio».
   «Che genere d’esperimenti?» s’inquietò Irvik.
   «Di tutto. Ad alcuni ha chiesto di fare dei test probabilistici. Altri si sono trovati a vagare in ambienti sottosopra, come quelli che abbiamo visto sull’Empirical, forse per verificare la probabilità che ritrovassero la via d’uscita. Il povero Lum è ancora disperso sul ponte 8. Altri sembrano essere stati in qualche modo scansionati a livello cerebrale» spiegò il Capitano.
   «Oh, no... ha ancora la fissa del libero arbitrio» comprese l’Ingegnere Capo.
   «Così sembra. A te ha fatto niente?» chiese Rivera.
   «In un certo senso... ehm, abbiamo parlato di scelte e di destino» rispose eufemisticamente il Voth. «Mi ha dato la sensazione d’essere pressoché onnipotente. Dobbiamo stare molto attenti, Capitano» raccomandò.
   «Come se non ci pensassi! Ma non posso lasciare che questa nave diventi il suo giocattolo, e noi le sue pedine» brontolò l’Umano. «Quindi devi continuare a studiarlo, e a studiare... contromisure. Ricordi, parlavi di un campo gravitonico che potrebbe essere disturbato...».
   «Uhm, questo potrebbe condurci alla catastrofe» mormorò Irvik. «Se ci libereremo, non sarà grazie alla forza bruta».
   In quel momento Naskeel indietreggiò dalla sua postazione tattica. Sull’oloschermo infatti le scansioni dell’anomalia erano scomparse, rimpiazzate dall’immagine di tre carte coperte. Allora il volto di Nagilum comparve sullo schermo principale e la sua voce rimbombò nella plancia: «Tholiano, tu sei diverso dagli altri. La tua fisiologia unica merita un’analisi approfondita. Per cominciare, scegli una di queste tre carte».
   «Negativo» rispose Naskeel. «Rifiuto di partecipare a questi esperimenti. Il tuo infantile tentativo di comprendere le leggi di probabilità non approderà a nessun risultato significativo. La tua ricerca è viziata in partenza. L’unica condotta logica consiste nel liberarci e lasciarci proseguire per la nostra rotta».
   Un attimo di silenzio, poi Nagilum parlò in tono irritato. «Non ho chiesto il tuo parere, solo la tua collaborazione. Scegli una carta, avanti».
   «Fa’ come dice, o finirà male!» sussurrò Irvik, angosciato.
   «Negativo» ripeté Naskeel. «Non sono tenuto a sottostare alla tua volontà. Nessuno di noi è tenuto a farlo. Io non parteciperò ad alcuna prova, e non dovreste farlo neanche voi» disse, rivolgendosi ai colleghi e in particolare al Capitano.
   «Resistenza passiva, eh? Proprio adesso dovevi diventare Gandhi?» disse Rivera a mezza voce, incerto sull’efficacia di quell’approccio.
   «Questa è la tua risposta definitiva?» chiese Nagilum, ancora concentrato sul Tholiano.
   «Affermativo. Considerala la dimostrazione che l’arbitrio esiste, almeno da parte nostra, poiché scegliamo di disobbedirti» rispose Naskeel.
   «Siete liberi di scegliere la disobbedienza, ma non dalle conseguenze di questa scelta» ribatté Nagilum, facendosi minaccioso. «La mia ricerca è giunta a un punto critico e non può essere interrotta. Non posso consentirvi di rifiutare i test, e certamente non posso lasciar andare la vostra nave. A questo punto, ritengo che sia necessaria una dimostrazione».
   Il campo di forza che avvolgeva Naskeel, proteggendo la sua fisiologia tholiana dalla temperatura troppo bassa, sfrigolò e si spense. Subito il suo esoscheletro cristallino si scurì, mentre il calore ne sfuggiva. Il Tholiano emise uno stridio lacerante, in gran parte ultrasonico. Le crepe comparvero sull’esoscheletro, ramificandosi a vista d’occhio. Gli restavano pochi secondi.
   «Fermo, così lo uccidi!» gridò il Capitano all’indirizzo di Nagilum.
   «È quella l’idea» rispose l’entità, impassibile. «Sarà un esempio per tutti voi».
   «Avevi promesso che non avresti ucciso nessuno!» ringhiò l’Umano, maledicendo quel volto senza corpo, che non offriva alcun bersaglio contro cui sparare.
   «Avevo detto che le mie intenzioni non sono ostili, e lo confermo» rispose Nagilum. «Ma la vostra opposizione, dettata dall’ignoranza, richiede dei correttivi. Poiché non date ascolto alla logica, non mi resta che usare metodi a voi comprensibili. Ucciderò coloro che rifiutano di collaborare; spetta a voi decidere se saranno pochi o molti».
   Lo stridio di Naskeel divenne assordante, mentre le crepe si allargavano e si estendevano a tutto il corpo. Prima che chiunque potesse intervenire, il Tholiano si frantumò in una miriade di schegge irregolari, quasi esplodendo dall’interno. Gli avventurieri dovettero coprirsi gli occhi o girarsi per non esserne graffiati. Quando tornarono a vedere, dell’Ufficiale Tattico non restava che un mucchietto di detriti sfrigolanti, che puzzavano di zolfo.
   «Spero che la lezione sia sufficiente» disse Nagilum. Dopo di che si rivolse a un altro ufficiale tattico, un Nausicaano di nome Ruuvan. «Nausicaano, se ho compreso la vostra catena di comando, adesso sei tu il capo della Sicurezza. Ti spiace recarti alla postazione tattica e scegliere una delle carte?» chiese con calma.
   Ruuvan fissò il Capitano con aria allarmata. Questi non poté far altro che annuire, con un sospiro rassegnato. Il nuovo capo della Sicurezza andò alla postazione, dove fu costretto a eseguire gli insulsi test di Nagilum. Il volto incorporeo campeggiava ancora sullo schermo, per dargli istruzioni e osservare i risultati.
   «Di là» ordinò Rivera agli ufficiali superiori, accennando alla sala tattica. Urgeva un consiglio di guerra.
 
   «Irvik» disse il Capitano, quando furono tutti seduti attorno al tavolo.
   «Sì?» mormorò l’interessato, facendosi piccino.
   «Avevi detto che Nagilum è come un bambino, mosso dalla curiosità. Ebbene, adesso è un bambino che uccide. Come lo fermiamo?».
   «Io... non so se possa essere fermato» confessò l’Ingegnere Capo. «È talmente ossessionato dalla sua ricerca che non vuol sentire ragioni. E purtroppo è così potente che non abbiamo strumenti di pressione su di lui.».
   «A meno di voler ripetere il bluff di Picard, e attivare l’autodistruzione» commentò Shati.
   «Non credo che funzionerebbe ancora» avvertì il Voth. «La sua capacità di manipolare il mondo fisico sembra migliorata, quindi potrebbe fermare l’autodistruzione. O peggio ancora, potrebbe lasciare che ci autodistruggiamo, e poi andare in cerca d’altre astronavi – o persino interi mondi – da prendere in ostaggio».
   «Uhm, non voglio sguinzagliare un’entità del genere» rimuginò il Capitano. «In un modo o nell’altro, dobbiamo farla finita noi. Continua a studiare quel campo di gravitoni, cerca di capire se è davvero la sua mente. E poi... trova un modo per destabilizzarlo» ordinò.
   «Se mi scopre...» mormorò Irvik. Si guardò nervosamente attorno, aspettandosi di veder comparire il volto di Nagilum su qualunque schermo o superficie riflettente.
   «Per quanto sia potente, non credo che sia perennemente dappertutto» disse Rivera. «Al momento è concentrato su questi bislacchi test, quindi lasciamo che lo rimanga. Ordinerò all’equipaggio di collaborare, e anche noi faremo altrettanto, per tenerlo occupato. Intanto, però... ci siamo capiti. Fa’ più in fretta che puoi, e ricorda che potremmo avere una sola occasione» raccomandò.
   «Groan... ho voluto tornare sulla Destiny, ed eccomi qui. Un giorno come un altro nel Multiverso...» si disse il Voth, mentre lasciavano la sala tattica.
 
   Irvik andò in sala macchine, dove spiegò sinteticamente la situazione ai colleghi. Selezionati i collaboratori più esperti, si recò con loro nel laboratorio astrometrico, per proseguire le analisi. A un certo punto anche Talyn li raggiunse. Lavorarono per tutta la giornata, mentre attorno a loro la nave era in subbuglio per via dei bizzarri esperimenti di Nagilum. Alcuni erano semplici test da fare al computer, ma in altre occasioni l’entità mise effettivamente in pericolo certi individui, per vedere se riuscivano a cavarsela. Irvik si teneva aggiornato, così si rese conto che gli esperimenti di Nagilum erano sempre più pericolosi. Era in corso un’escalation, e l’Ingegnere Capo non sapeva fin dove sarebbe arrivata. Nel dubbio, non poteva far altro che concentrarsi sul suo incarico.
   Irvik scoprì così che effettivamente la Destiny era circondata da un campo armonico di gravitoni e altre particelle esotiche. Alcune particelle, che in natura avevano vite brevissime – frazioni di picosecondo – lì stranamente erano stabili. Tutti questi flussi e riflussi di particelle in effetti somigliavano in modo impressionante all’attività elettrochimica di un cervello. Questo corroborava l’ipotesi che Nagilum fosse un’Intelligenza Auto-Generata o, come dicevano i federali, un Cervello di Boltzmann.
   «Ecco, vedete come i flussi particellari hanno un picco ogni volta che Nagilum usa i suoi poteri?» fece Irvik ai colleghi, evidenziando il fenomeno. Sullo schermo scorrevano due grafici: uno mostrava i flussi di particelle, l’altro i momenti in cui (stando ai rapporti) Nagilum era intervenuto sulla nave. La corrispondenza era perfetta. I picchi erano gli stessi, e l’intensità delle particelle era anche proporzionata all’entità dell’intervento.
   «Quindi quell’essere può intervenire sulla materia a livello subatomico» commentò Talyn. «Creare e distruggere col pensiero...».
   «Non creare» lo corresse Irvik. «Credo che possa solo manipolare. Come un bambino che smonta le costruzioni e le rimonta in ordine differente, dandogli un’altra forma. Potremmo chiamarla Sintesi di Particelle, qualcosa su cui il mio popolo lavora da tempo. Deve richiedere un’immensa capacità di calcolo... ma in effetti Nagilum sembra più affine a un computer che a un cervello come i nostri. In qualche modo riesce anche a piegare le dimensioni, come gli ho visto fare sull’Empirical».
   «È un potere enorme» rabbrividì Talyn. «Se partisse alla conquista della Galassia, sarebbe inarrestabile. L’unica volta che mi sono imbattuto in capacità vagamente simili fu quando incontrai il Viaggiatore... e lui mi mise in guardia dall’uso irresponsabile di questi poteri. Disse che il potere corrompe, se non è al servizio del bene. E non credo che Nagilum serva altri che se stesso».
   «Temo di no... vede gli altri come strumenti» convenne Irvik, ricordando come anche i suoi viaggi indietro nel tempo non fossero dovuti a carità, ma rientrassero negli esperimenti dell’entità. «Ma guarda, queste scansioni ci suggeriscono il modo di contrastarlo. Alla fin fine, Nagilum non è altro che un campo di risonanza di particelle. Una risonanza delicatissima, e per questo facile da scombinare. È vero, possiamo passarci attraverso con tutta l’astronave e non fare danni significativi. Ma un impulso covariante di gravitoni dal deflettore potrebbe guastare la risonanza, trasformando l’ordine nel caos...».
 
   Fatta l’ipotesi, non restava che verificarla. Irvik e gli ingegneri tornarono in sala macchine, per preparare il deflettore, mentre Talyn si recò in plancia. Notarono che nelle ultime ore la situazione era peggiorata: gli esperimenti di Nagilum si facevano sempre più invasivi e l’equipaggio era esasperato.
   «Progressi?!» chiese Rivera.
   Talyn annuì, pur non osando spiegare tutto a voce alta. Era probabile che Nagilum tenesse d’occhio la plancia. Il giovane si recò alla postazione ingegneristica, coordinandosi con la sala macchine per predisporre l’impulso del deflettore.
   Di lì a poco anche Irvik tornò in plancia. Spettava a lui, infatti, inserire le istruzioni finali per lanciare l’impulso. Fece un cenno a Talyn e gli si avvicinò, ma proprio in quel momento Nagilum apparve sullo schermo.
   «Capitano Rivera, la informo che ho completato la prima sessione di prove» annunciò l’essere senza corpo.
   «Solo la prima?» si rabbuiò l’Umano.
   «Certo, ne ho in mente molte altre. Tutti i dati che ho raccolto finora restano inconcludenti. Vi suggerisco di riposare, in vista della prossima giornata».
   «Fantastico, adesso ci fai anche da baby-sitter!» sbottò Rivera.
   «Ehm, quello che il Capitano intendeva dire è che quest’infinita serie di test non porterà a niente» intervenne Irvik, in un ultimo tentativo di ragionare con Nagilum. Talyn tuttavia pensò che volesse solo distrarlo, per consentire a lui di lanciare l’impulso gravitonico. Col cuore che batteva forte, il giovane inserì gli ultimi comandi. L’attività del nucleo aumentò e il deflettore s’illuminò, caricandosi d’energia. Irvik però non se ne accorse, concentrato com’era sulla conversazione.
   «... e quindi il calcolo probabilistico non ti aiuterà a determinare l’esistenza del libero arbitrio. La domanda in sé è più filosofica che scientifica» proseguì il Voth, accorato. «Io credo che la cosa migliore sia confrontarti con altri pensatori, amico mio. E per tua fortuna, nel nostro database ci sono testi dedicati all’argomento. Leggendoli potresti trovare l’ispirazione che cerchi. Te li trasmetterò volentieri, se avrai la bontà di liberarci da quest’anomalia. Del resto, una grande mente come la tua deve confrontarsi con grandi pensatori, non con dei miseri avventurieri come noi...» lo blandì.
   Nagilum ascoltava con vago interesse, ma a un tratto i suoi occhi si fissarono su qualcosa alle spalle del Voth. Si fissarono su Talyn. «Cosa credi di fare, ragazzo?!» tuonò l’entità, più spaventosa che mai.
   La consolle d’ingegneria sfrigolò, avvolta da scariche elettriche ad alta intensità. E Talyn, che aveva le mani sui comandi, se le prese in pieno. Le folgori azzurrine gli crepitarono su per le braccia, attorno al torace, fino al cuore. L’El-Auriano lanciò un grido straziante, incapace di staccare le mani dall’interfaccia sovraccarica. Nessuno tra i presenti gli era vicino in quel momento, e quindi nessuno fu abbastanza veloce da staccarlo. Del resto, chiunque ci avesse provato sarebbe stato folgorato a sua volta. L’energia crebbe finché la consolle esplose in una cascata di scintille. Allora il giovane cadde all’indietro e stramazzò sul pavimento, inanimato.
   «NO!» gridò Losira, accorrendo presso di lui. Gli si chinò accanto e gli prese il polso, trafelata.
«Non sento il battito... non sento il battito!» gemette, tastandogli anche la carotide.
   «Plancia a infermeria, teletrasporto d’emergenza per Talyn. Codice bianco di rianimazione!» ordinò Rivera, premendosi il comunicatore. L’El-Auriano fu prontamente trasferito, come anche la Risiana che gli era accanto. Allora ci fu un breve silenzio. Nessuno osava fiatare dopo quella tragedia; tutti attendevano la prossima mossa.
   Il Capitano alzò gli occhi furenti su Nagilum. «Che cosa hai fatto?!» ringhiò.
   «Ho solo protetto me stesso» si giustificò l’entità. «Vi avevo ammoniti a non compiere azioni sconsiderate. Ma il suo sottoposto ha cercato di colpirmi, e del resto non credo che l’abbia fatto a sua insaputa, Capitano. Quindi ho dovuto neutralizzare sia lui, sia le vostre macchine. D’ora in poi la vostra nave opererà al minimo dell’energia. Mi assicurerò che non siate più in grado di lanciare simili attacchi. Quanto a lei, Capitano... si consideri fortunato che non le riservi la stessa sorte. Forse dovrei, come monito per l’equipaggio. Di certo lo farò, al prossimo segno di ribellione. Sono stato chiaro?».
   A confermare le sue parole, le luci si spensero, lasciando solo i faretti d’emergenza. La maggior parte delle consolle si oscurò. Nello stesso momento, in sala macchine, il nucleo si spegneva. Anche il disco del deflettore, illuminato fino a poco prima, divenne scuro e inerte. La Destiny era un relitto alla deriva, al centro dell’anomalia. E la ciurma era completamente in balia dell’entità aliena.
 
   Rivera entrò di corsa in infermeria, seguito da Irvik. Il Voth ansimava per lo sforzo di stargli dietro. Ma non poteva esimersi... in fondo era colpa sua se Talyn era stato colpito. Entrarono in sala operatoria, dove Giely e il Medico Olografico lottavano per rianimare il giovane. Fu subito chiaro che le sue condizioni erano disperate. I medici si affannavano, provando un trattamento dopo l’altro, ma Talyn non reagiva. Qualche passo più indietro stava Losira, immobile come una statua, gli occhi fissi sul figlio adottivo.
   «Avrei dovuto esserci io a quella consolle, non il ragazzo» si disse Irvik, oppresso dai sensi di colpa. «Cosa m’è saltato in mente di provare a ragionare con Nagilum, quando ormai eravamo pronti a colpire? Non si può ragionare con lui. Dovevo andare dritto alla consolle e lanciare l’impulso...». Naturalmente anche in quel caso Nagilum avrebbe percepito e neutralizzato la minaccia. E adesso sul lettino operatorio ci sarebbe stato lui, Irvik, anziché il giovane. In quel momento, il sauro rimpianse che non fosse stato così.
   «Stimolatore corticale, adesso!» disse Giely, dopo aver fissato le piastrine alla fronte di Talyn. Emise due impulsi, che gli fecero scattare la testa per la reazione nervosa automatica, ma non valsero a rianimarlo.
   «Non reagisce, attività neurale in diminuzione. Lo stiamo perdendo» avvertì il Medico Olografico.
   «Altri due impulsi, aumenta del 50%» ordinò la dottoressa. «Ancora... ancora!» esclamò, non rassegnandosi al fallimento. Ma ad ogni tentativo gli scanner medici rimanevano critici. Giely praticò delle iniezioni nella carotide, regolò lo stimolatore corticale e provò ancora, con crescente disperazione.
   «È inutile... attività neurale assente. Il paziente è in stato di morte cerebrale» dichiarò il Medico Olografico, leggendo gli scanner. «Mi spiace, dottoressa, abbiamo fatto il possibile» disse quietamente.
   Irvik si sentì mancare. Aveva davvero sentito quelle parole? Il giovane era morto?! Accanto a lui, anche il Capitano era scioccato.
   Giely si asciugò gli occhi dalle lacrime che li imperlavano e indietreggiò di due passi, appellandosi a tutto il suo autocontrollo per mantenere la compostezza. «Computer, certifica l’ora del decesso. Causa della morte: intenso shock elettrico cerebrale» disse con voce incrinata.
   «No, no!» gridò Losira, accorrendo accanto al lettino. Si chinò sul figlio adottivo, piangendo a dirotto. Infine si lasciò scivolare a terra, scossa dai singhiozzi.
   Davanti a quella scena straziante, Irvik si sentì soffrire come se fosse stato figlio suo. Talyn era la seconda vittima dell’entità aliena, dopo Naskeel; quante altre ce ne sarebbero state? Il Voth fece per lasciare la sala operatoria, affranto. Ma nel girarsi, vide il volto imperscrutabile di Nagilum che lo fissava da un display parietale.
   «Sono dolente, ma è stato necessario» disse l’entità.
   Allora Irvik disse una cosa che sarebbe stata assurda, se l’avesse rivolta a chiunque altro. Ma con Nagilum, niente sembrava impossibile. «Tu... tu puoi fare ciò che vuoi. Non è che potresti rianimarlo?!» supplicò.
   «Non dopo che è sopraggiunta la morte cerebrale» rispose Nagilum. «Dovete rassegnarvi alla perdita del vostro collega».
   «Va’ all’Inferno!» strillò Losira, gli occhi arrossati dal pianto.
   «Tuttavia, per quelli di voi che sono inconsolabili, forse posso fare qualcosa» rivelò l’entità, concentrando lo sguardo su di lei.
   «Non hai fatto abbastanza?! Che altro...» fece la Risiana, ma si bloccò di colpo. I suoi occhi si strabuzzarono, la bocca si chiuse di scatto, tutto il volto s’irrigidì. Dalla posizione accasciata in cui si trovava, Losira scattò in piedi, con la schiena rigida e le braccia distese lungo il corpo, quasi fosse sull’attenti. Ogni muscolo del suo corpo sembrava contratto fino allo spasmo.
   «Lasciala stare, bastardo! Prenditela con me, piuttosto!» gridò il Capitano, tempestando di pugni l’interfaccia su cui campeggiava il viso di Nagilum.
   «Lei è in errore, Capitano. Non la sto torturando. Al contrario, la sto aiutando a superare il trauma» rivelò l’entità.
   «Come la stai...» mormorò Rivera, ma non ebbe la forza di finire. Lui e gli altri fissarono la Comandante, con la sensazione che il peggio dovesse ancora arrivare.
   Gli occhi grigi di Losira ruotarono all’interno della testa, così che per parecchi secondi fu visibile solo il bianco. Quanto tornarono in posizione normale, le pupille erano contratte come capocchie di spillo. Allora la sua espressione si stiracchiò, divenendo uno stranissimo sorriso, in stridente contrasto col dolore di poco prima. Un sorriso inquietante, forzato, che faceva sembrare il suo volto una maschera di plastica. Le labbra si schiusero, emettendo un lungo sospiro soddisfatto, e la posa si rilassò.
   «Che ti succede? Tutto bene?» mormorò il Capitano, pur avendo la certezza che non era così.
   «Sì Capitano, sto benissimo. Mai stata meglio in vita mia» rispose Losira, con una voce così lenta e bassa che non sembrava nemmeno la sua. Sul suo volto restava il sorriso plastificato e le palpebre non sbattevano mai.
   «No, non stai bene. Non stai bene per niente» disse Rivera, accostandosi. «Ascolta, non vorrei rigirare il coltello nella piaga, ma... ricordi cos’è successo?» disse, accennando al corpo ancora caldo di Talyn, disteso sul lettino.
   Losira si girò, osservando il cadavere del figlio adottivo senza battere ciglio. Poi si rivolse di nuovo al Capitano. «Ma certo che mi ricordo, è tutto chiaro. Talyn ha cercato di colpire Nagilum con l’impulso del deflettore, e questi si è difeso uccidendolo. Col tuo permesso, Capitano, vorrei riscrivere i turni di servizio, così da coprire l’ammanco» disse. Tutti la fissarono inorriditi.
   «Ammanco? Losira... è di Talyn che stiamo parlando» disse Rivera, cercando di scuoterla dal suo stato catatonico. «Il nostro Talyn, pieno di sorprese, che hai cresciuto fin da quand’era un ragazzo di strada. Gli hai sempre voluto bene come a un figlio... era un figlio, per te. Non lo ricordi?!».
   «Ricordo perfettamente, perché non dovrei? Ti assicuro che la mia memoria è intatta» garantì Losira, sempre con quel sorriso di plastica e gli occhi sbarrati.
   «E adesso che è morto... ucciso da quella cosa...» disse il Capitano, accennando a Nagilum, «non provi neanche un po’ di dolore? Non hai un senso di perdita, di lutto?!» incalzò. Lui di sicuro lo provava.
   «Non capisco di cosa parli, Capitano. Tutto sta andando come deve andare. Io sto bene e ti auguro lo stesso. Organizzerò il funerale e riscriverò i turni per coprire l’ammanco. Sei soddisfatto?» chiese la Risiana, come se stessero parlando del dessert.
   «No, non lo sono!» sbraitò Rivera. «Ma non ce l’ho con te... ce l’ho con lui!» gridò, indicando Nagilum. «E tu, non lo detesti nemmeno un po’?! Ha ucciso Talyn... non vuoi fargliela pagare?!» incalzò, nell’estremo tentativo di scuoterla.
   «No, Capitano» rispose Losira, con calma celestiale. «Al contrario, mi fido ciecamente di Nagilum. So che vuole solo il meglio per noi. Presto lo capirete tutti» disse con quel sorriso artefatto. E se ne andò a passo lento, senza aver sbattuto una sola volta le palpebre.
   Irvik, che aveva assistito alla scena senza azzardarsi a intervenire, si lasciò cadere contro la parete dell’infermeria, troppo annientato per fare alcunché. Quanto accaduto a Losira lo aveva raccapricciato ancor più della morte di Talyn. Lui che era padre, non osava immaginare come si sarebbe sentito, nel vedere i suoi figli morti. Il dolore di un genitore che perde la propria creatura è il sentimento più profondo, più incancellabile che un essere di carne e sangue possa provare. Nagilum lo aveva cancellato in pochi istanti, con la massima facilità. Se poteva fare questo... allora poteva fare qualunque cosa. Era davvero onnipotente.
   «Su, non siate così sconvolti» disse Nagilum, a sua volta spettatore della scena. «Ho solo aiutato la vostra collega a superare il lutto. D’ora in poi sarà più serena di quanto sia mai stata prima. E sarà più collaborativa coi miei esperimenti. Come vedete, è un guadagno per tutti» disse, e svanì.
 
   Troppo affranti per tentare altre mosse, gli avventurieri si ritirarono nei loro alloggi per la notte. Tornando nel proprio, Irvik vide sul tavolo il Cubo, il maledetto Cubo stregato che ormai lo ossessionava. I suoi colori disordinati, caotici, lo disgustavano, ricordandogli i suoi innumerevoli fallimenti. Avrebbe voluto prendere il phaser e disintegrarlo, ma si trattenne. Probabilmente Nagilum non l’avrebbe presa bene. E Irvik sentiva che il loro patto, di cui il Cubo era in qualche modo garante, non era ancora esaurito. Si profilava una resa dei conti, anche se al momento il Voth non riusciva a immaginare che forma avrebbe assunto. Come poteva lottare contro una creatura pressoché onnipotente?
   O forse lottare era inutile... in effetti, ogni tentativo finora condotto non aveva fatto che peggiorare le cose. Prima avevano perso Naskeel, poi Talyn, infine in un certo senso anche Losira. Se fossero rimasti calmi, senza protestare, sopportando con stoicismo, niente di tutto questo sarebbe accaduto. Ma come potevano restare calmi, quand’erano usati come cavie da laboratorio? Nagilum non dava segno di voler terminare gli esperimenti. E questi si facevano sempre più invasivi e pericolosi. A un certo punto bisognava dire basta! Qualcuno doveva insegnare a quel bambino spaziale che non poteva averla sempre vinta. Sì, ma come?
   Irvik consultò il database federale, studiando i precedenti incontri della Flotta Stellare con entità semi-onnipotenti. C’erano dei punti in comune... queste entità tendevano ad annoiarsi, ad abbassare la guardia, confidando nella propria potenza. E così a volte tradivano qualche inaspettata debolezza. Nagilum, ad esempio, aveva implicitamente ammesso che l’impulso covariante del deflettore poteva ferirlo, forse ucciderlo; altrimenti perché bloccarlo? Peccato che il tentativo fosse fallito e che, col nucleo disattivato e la maggior parte dei sistemi offline, non ci fosse modo di riprovare.
   Proseguendo la lettura, Irvik notò che a volte le entità potevano essere sconfitte costringendole ad attenersi a un patto, rivoltando in qualche modo il loro potere contro di loro. «Beh, anch’io ho stretto un patto... ma non vedo come avvantaggiarmene» pensò il Voth, osservando cupamente il Cubo di Rubik. L’unica cosa che aveva ottenuto dall’accordo, finora, era un senso di fallimento, d’inadeguatezza. Per quanto si arrabattasse, non riusciva mai a ottenere ciò che voleva. Se questo accadeva quando Nagilum era dalla sua parte... come sarebbe andata ad averlo come nemico?! Irvik non volle neanche pensarci. Lasciò il terminale e si trascinò a letto, trascorrendo una notte di sonno frammentato e agitato.
 
   La mattina dopo Irvik si recò in sala macchine, cercando di determinare le condizioni della nave. Come temeva, il nucleo era inerte e non rispondeva ai comandi. Solo i generatori d’emergenza erano in funzione. Per il momento la situazione era stabile, dato che l’astronave era ferma e consumava poca energia; ma non potevano resistere a lungo così.
   Di lì a poco Irvik fu chiamato con gli altri per assistere al funerale di Talyn. La cerimonia fu breve e Rivera disse poche parole. Chi lo conosceva meglio ne comprese il motivo; prolungare il discorso lo avrebbe solo fatto crollare in lacrime. E invece, in quel momento più che mai, il Capitano doveva apparire forte. Com’era consuetudine per chi viveva sulle astronavi, la bara – ricavata dal guscio di un siluro – fu lanciata nello spazio. In quel caso, però, non c’erano le stelle a vegliare sul suo eterno riposo... solo l’odiosa foschia blu dell’anomalia. Vedendo la capsula che si allontanava, Irvik soffrì fino in fondo al cuore. Rimase a lungo davanti alla finestra panoramica, anche dopo che gli altri si furono allontanati. E fu allora che ebbe un’ultima, disperata idea. La Destiny era bloccata al minimo dell’energia, ma il Centurion – la navicella del Capitano – non lo era. Forse si poteva lanciare un impulso gravitonico anche da lì. Già, ma sarebbe bastato a distruggere Nagilum? L’Ingegnere Capo ne dubitava seriamente. Tuttavia sentì di doverne discutere col Capitano. Beninteso, stavolta ci sarebbe stato lui ai comandi. Non avrebbe lasciato che qualcun altro si sacrificasse al suo posto.
 
   Perfezionata l’idea, Irvik si recò dal Capitano. Lo trovò in infermeria, dove Giely stava visitando Losira, nella speranza di poterla riportare alla normalità. Al momento la dottoressa stava eseguendo delle approfondite scansioni cerebrali, senza che la paziente protestasse. Il Capitano osservava a debita distanza. Dopo aver officiato il funerale di Talyn, voleva sapere se potevano fare qualcosa almeno per Losira.
   «Capitano, devo parlarle» mormorò Irvik.
   «È urgente?».
   «Beh, non urgentissimo...».
   «Allora abbi pazienza» disse Rivera, e l’Ingegnere Capo non osò insistere. Rimase anche lui ad assistere alla visita.
   «Scansioni completate» disse Giely di lì a poco. Si recò innanzi a un grande schermo parietale, per studiarle a fondo. Intanto Losira restava stesa sul lettino, tranquillissima. Aveva ancora quel sorriso plastificato e quegli occhi spiritati che Irvik trovava agghiaccianti.
   «Allora?!» fece il Capitano, impaziente.
   «Beh, mi servirà del tempo per fare una diagnosi completa, ma quel che vedo qui è... devastante» rivelò Giely. «I centri del pensiero autonomo nel lobo frontale e nella corteccia prefrontale sono stati alterati, e in gran parte soppressi, con una precisione che non ho mai visto prima. Le memorie sono state... non cancellate, ma riconfigurate, separandole dalla sfera emotiva. Questo spiega il suo assoluto distacco emozionale. Le aree cerebrali associate a dolore, paura e rabbia sono inattive, mentre i centri del piacere sono iper-stimolati. Lo stesso dicasi per l’attività ormonale: la dopamina, la serotonina, l’ossitocina e le endorfine sono alle stelle».
   «Quindi è come se fosse drogata?» chiese Rivera, cupo. Almeno dalle droghe ci si poteva disintossicare...
   «In parte, ma... è peggio di così» avvertì la dottoressa, sempre studiando le scansioni. «Quel che vedo è una pesante riconfigurazione del cervello. Alcuni collegamenti nervosi sono recisi, mentre ce ne sono altri dove non dovrebbero. È come se il suo cervello fosse... forzato a funzionare in un certo modo, molto ristretto, e solo in quello».
   «Senza il libero arbitrio» comprese Irvik.
   «Come?» fece Rivera, girandosi verso di lui.
   «Non vede, signore? Nagilum è ossessionato dal concetto di arbitrio. Vuole capire se esiste... a sentir lui sembra una curiosità accademica, ma sospetto che si preoccupi più del suo arbitrio che del nostro» spiegò il Voth. «Dopo averci analizzati, testati, usati come cavie da laboratorio, è diventato abbastanza esperto di neurologia da fare una cosa del genere. È diventato capace di privarci, a tutti gli effetti, del libero arbitrio. E allora mi domando... se ci prendesse gusto?» sussurrò, atterrito.
   Ci fu un lungo silenzio. Le implicazioni erano terrificanti. Infine il Capitano si riebbe. «Teniamo queste considerazioni per noi, okay? La prima cosa da fare è capire se questo intervento è reversibile. Giely, so che la neurologia non è la tua specializzazione, ma... pensi di poter fare qualcosa per Losira?» chiese, rivolgendosi alla compagna.
   Non ci fu risposta. Giely continuava a fissare lo schermo parietale, come se fosse totalmente assorbita dalle scansioni. Solo allora gli altri due notarono che la sua posa si era irrigidita. La schiena era dritta come un palo, le braccia distese lungo i fianchi.
   «Querida, mi senti?!» chiese Rivera, colto da un orribile presentimento. Si avvicinò, per costringerla a voltarsi. Ma prima che potesse farlo, la Vorta si girò da sé.
   La sua espressione era congelata in un sorriso plastificato. Gli occhioni viola erano completamente spalancati, cosa che li faceva sembrare ancora più grandi. Per contro, le pupille erano contratte come spilli. E quegli enormi occhi sbarrati non sbattevano mai, né si muovevano nelle orbite. Restavano sempre fissi in avanti, come quelli di una civetta.
   «Ti sento, caro» rispose la dottoressa con una voce irriconoscibile per quant’era bassa e monocorde. «Ora comprendo pienamente il dono di Nagilum. È una cosa bella, una cosa meravigliosa. Immagina di non conoscere più ansie, paure, incertezze. Immagina che ogni sofferenza sia cancellata, ogni trauma rimosso, e resti solo il benessere. Un assoluto, immacolato benessere. Questo è il dono che Nagilum ha fatto a Losira, e ora anche a me. Sono onorata di averlo ricevuto».
   «Maledizione, svegliati! Questa non sei tu!» gridò Rivera. L’afferrò per le spalle, scuotendola come una marionetta. Giely si lasciò fare tutto, senza opporre resistenza.
   «Capitano, no! Così rischia solo di ferirla!» avvertì Irvik, pur non osando avvicinarsi, nel timore di divenire bersaglio della sua collera.
   A quelle parole, l’Umano smise di sbatacchiarla, pur continuando a tenerla per le spalle. «Ti prego, amore, ti prego, cerca di ragionare. Siamo alle prese con un demonio che si sta impossessando della nave. Prima i sistemi, poi le persone. Ha ucciso Talyn, e anche Naskeel. Poi ha privato Losira dell’arbitrio, ne ha fatto una marionetta. E quando tu l’hai esaminata, per capire se si poteva guarire, ha fatto lo stesso con te. Lo capisci che sei influenzata da una forza ostile?! Ascoltami, ti supplico... qualunque cosa provi, qualunque cosa credi, non sei davvero tu, ma una costrizione esterna. Devi combatterla! Ti sei sempre ribellata al dispotismo, hai lottato tutta la vita per sviluppare la tua individualità. Devi farlo anche stavolta... so che ce la puoi fare!» disse con foga.
   A queste parole, Giely lo fissò con intensità. «Ho compreso il tuo discorso, caro» assicurò.
   «Davvero?!» fece Rivera, con una flebile speranza.
   «Sì, certo. Ma vedi, il fatto è che mi fido ciecamente di Nagilum. So che vuole solo il meglio per noi. Presto lo capirete tutti» disse. Erano le stesse parole di Losira, pronunciate con le stesse inflessioni vocali. E identico era il sorriso da bambola di Giely, identici i suoi occhi senza vita.
   A quella vista, il Capitano la lasciò andare con un rantolo. Indietreggiò fino a sbattere contro la parete, e lì rimase, troppo sconvolto per reagire.
   Poco lontano, Irvik si guardò attorno, finché trovò ciò che cercava: il volto di Nagilum che li osservava da uno schermo. Da quanto li stava spiando? Era possibile che li spiasse sempre, anche senza mostrarsi? Il Voth non volle pensarci. «Perché lo hai fatto?» mormorò. «Posso capire – pur senza approvare – che tu lo abbia fatto a Losira, pensando di lenire il suo dolore. Ma che bisogno c’era di farlo anche a Giely?!» protestò.
   «Non è ovvio?» fece Nagilum. «Ho fatto un dono a Losira e non posso consentirvi di revocarlo. Se la faceste tornare come prima, ricomincerebbe a soffrire. Non voglio che ciò accada. Quindi era necessario intervenire sulla dottoressa. Del resto, anche lei ne ha tratto giovamento. Guardala: ora non soffre più per i traumi passati, né si angoscia per l’avvenire. Esiste solo nel presente, un presente di pace. Non è così?» si rivolse all’interessata.
   «Sì, sono totalmente pacificata» confermò Giely, annuendo vistosamente. «Ti ringrazio per questo splendido dono, e spero di poterlo condividere con gli altri. Tutti meritano questa pace, tutti ne hanno bisogno, anche se non se ne rendono conto» disse con voce appagata.
   «Interessante... forse lo farò. Ora devo tornare ai miei esperimenti, ci risentiamo a presto» disse Nagilum, e svanì.
   Allora la dottoressa si rimise in attività. Cancellò le scansioni cerebrali di Losira, spense lo schermo parietale e si mise tranquillamente a riordinare l’infermeria. I suoi movimenti erano calmi, precisi, robotici. Nel frattempo anche Losira si mosse. Lasciò il lettino e si diresse alla porta, sempre con movenze calme e lente. «Se non avete più bisogno di me, torno alle mie incombenze» disse serafica, e lasciò l’infermeria.
 
   «Capitano... Capitano, mi sente?» chiamò Irvik, sfiorandogli il braccio.
   «È la fine... la fine di tutto» mormorò Rivera, sfregandosi gli occhi. «Quel demonio ci sta prendendo tutti, uno dopo l’altro. Non possiamo combatterlo, non possiamo fuggire. Stavolta è finita» mormorò.
   «Ascoltami, mammifero! Come ho imparato da voi... non è finita, finché non è finita! E noi abbiamo un’ultima carta da giocare» rivelò il Voth. «Ma è meglio che ne parliamo lontano da orecchie indiscrete» aggiunse, accennando a Giely. Aveva il sospetto che le vittime di Nagilum fossero in qualche modo connesse a lui, tanto da essere i suoi occhi e le sue orecchie.
   «Andiamo» si riscosse il Capitano, lasciando in fretta l’infermeria. Irvik dovette trottare per stargli dietro. «Allora, quest’idea?» chiese Rivera quando furono fuori.
   L’Ingegnere Capo gliela spiegò. Al termine dell’esposizione, il Capitano lo fissò con aria grave. «Irvik, nemmeno io farei una cosa così pazza. Nel momento in cui proverai a lasciare l’hangar, Nagilum se ne accorgerà... sa tutto, quello! E ti ucciderà, o peggio» avvertì.
   «Sono pronto a correre il rischio» disse il sauro. «Vede, non posso spiegare tutto, ma... ho l’impressione che Nagilum si fidi di me, più che di altri».
   «Sei riuscito ad arruffianartelo?!» fece Rivera, sorpreso.
   «In un certo senso... se non equivoco sul significato del termine. Credo d’essere la cosa più simile a un amico che quell’essere abbia mai avuto. Questo potrebbe... rallentarlo, nella sua reazione» spiegò Irvik.
   «È un grosso azzardo... ma nella nostra situazione, non sarò io a fermarti» disse il Capitano.
   «Però c’è un altro problema» aggiunse l’Ingegnere Capo. «Se io dovrò stare ai controlli del deflettore, pronto a lanciare un impulso, non potrò pilotare il Centurion. Qualcun altro dovrà accompagnarmi» avvertì.
   «Eccomi» disse Rivera.
   «Capitano, no!» fece Irvik. «Lei deve restare in plancia. Intanto, credo che Nagilum segua i suoi movimenti più che quelli altrui. Se la vedesse salire sul Centurion, il nostro piano fallirebbe. E poi... lei deve sopravvivere. Perché se il mio viaggio fosse senza ritorno, com’è assai probabile, la Destiny avrà ancora bisogno del suo Capitano».
   «Io... non so se ne avrò la forza, dopo quel che è successo» disse l’Umano, accennando all’infermeria, dove Giely si aggirava come una marionetta.
   «Deve trovarla! Lei è il Capitano... deve resistere quando tutti gli altri cadono!» lo esortò l’Ingegnere Capo.
   «Ma se non potrò pilotare il Centurion... allora con chi pensi d’andare?» s’incupì Rivera.
   «Non c’è che una possibilità» disse Irvik, con voce grave. «Ci serve la nostra miglior timoniera. E conoscendola... non credo che si tirerà indietro».
 
   La delicatezza della missione richiedeva vari accorgimenti, tra cui evitare l’uso dei comunicatori, che potevano essere sorvegliati da Nagilum. Così il Capitano e l’Ingegnere Capo andarono in plancia, al doloroso scopo di reclutare Shati per quella che, quasi certamente, era la sua ultima missione.
   In plancia trovarono una situazione apatica. Gli ufficiali erano ai loro posti, ma non avevano nulla da fare, dato che l’astronave era bloccata e senza energia. Rivera avvertì subito che il morale era a terra. Forse più a terra di quanto fosse mai stato. Intercettò anche qualche occhiata ostile nei suoi confronti. Capì che la scintilla dell’ammutinamento poteva scoccare in ogni momento. Anche se poi, una volta ammutinati, cos’avrebbero fatto gli avventurieri? Erano sempre bloccati lì, in balia di un’entità invincibile. Forse era solo questo a trattenerli dalla rivolta. Finché c’era lui, potevano sperare che li tirasse fuori dai guai all’ultimo momento, come del resto aveva già fatto tante volte in passato.
   Shati era al timone, coi piedi indecorosamente posati sulla consolle, intenta a girarsi i pollici. Quando si accorse che il Capitano e l’Ingegnere Capo l’avevano affiancata, uno a destra e l’altro a sinistra, si riscosse e si raddrizzò. «Ehm, scusi, signore. Allora, ci sono novità? Come sta Losira?» s’interessò.
   «Al momento non sembra recuperabile» sospirò Rivera, sconfortato. «E neanche Giely, che aveva cominciato a esaminarla». Era una dura confessione, ma era il necessario preambolo a una missione suicida.
   «Frell!» imprecò la Caitiana. «Quanto vorrei che quel bastardo di Nagilum avesse un corpo! Saprei io come sforacchiarlo!» ringhiò.
   «Forse ne avrai la possibilità» disse il Capitano. «Ma ti avverto, è una missione ad altissimo rischio. Non te la proporrei, se avessimo alternative» rivelò.
   «Qualunque cosa è meglio che stare qui a marcire, mentre i nostri amici vengono uccisi o peggio!» sbuffò la timoniera. «Allora, di che si tratta?».
   «Aspettate, possiamo parlare liberamente? Che fa Nagilum?» chiese Irvik, temendo d’essere colto sul fatto.
   Shati consultò la consolle, su cui aveva programmato un display per controllare la nave. «Non l’ho mai visto così indaffarato. Ha creato prove assurde su quasi tutti i ponti, ha trasformato la nave in un labirinto. Forse è vicino al culmine dei suoi esperimenti. Se mai è stato distratto, è adesso» riferì.
   «Bene, allora parliamo» disse Rivera. In pochi minuti espose il piano di usare il Centurion al posto della Destiny. Sulle prime Shati lo fissò speranzosa, ma poi si prese la testa fra le mani e posò i gomiti sulla consolle, fissando la foschia bluastra oltre lo schermo. Ora capiva il significato di missione ad alto rischio.
   «Supponendo che riusciate a lanciare l’impulso, non siamo certi di cosa succederà» ammise il Capitano. «Dopotutto il Centurion non ha la potenza della Destiny. L’impulso potrebbe ferire Nagilum, ma senza ucciderlo. E in quel caso la sua reazione sarà imprevedibile. Il mio consiglio è questo: se vedete che l’impulso ha aperto una breccia nell’anomalia, rendendo visibili le stelle, non perdete tempo. Attraversate la breccia e lasciate l’anomalia! Non attardatevi a contattarci. A quel punto potrete raggiungere Tarn Vedra e chiedere aiuto. Naturalmente spiegherete la situazione. Non so se il Commonwealth si muoverà per noi... ma se anche non fosse, almeno voi due sopravvivrete» auspicò Rivera. «Lo so, è una speranza esile, e mi spiace non avere di meglio da offrirti. Sappi che non sei tenuta ad accettare: si tratta di una missione volontaria» concluse.
   Ora che il Capitano taceva, sia lui che Irvik fissarono la timoniera, in attesa della risposta. Shati però non reagiva. Continuava a fissare le volute bluastre oltre lo schermo, senza proferir parola.
   «Mi spiace, ma abbiamo poco tempo!» la pressò Rivera. «Se non te la senti, dillo e basta. Troverò qualcun altro» promise, sebbene in realtà pensasse a se stesso.
   Finalmente la timoniera si riscosse. Raddrizzò la testa, si posò le mani in grembo e ruotò sulla sedia girevole, così da fronteggiare i superiori. Allora questi compresero il motivo del suo lungo silenzio. Gli occhi felini di Shati erano spalancati, mentre le pupille verticali erano contratte, così da apparire sottilissime. Un ampio sorriso le marcava il volto, dandole un’aria da Stregatto. «Lei non deve trovare nessuno, Capitano. La missione di cui parla non avrà luogo. La Destiny si trova dov’è giusto che sia. Noi resteremo qui, dove Nagilum si prenderà cura di noi» spiegò con voce lenta e appagata, simile a un gatto che fa le fusa.
   «Anche tu!» rantolò il Capitano, prossimo al crollo mentale. Afferrò la Caitiana e la sbatacchiò, come aveva fatto con Giely. «No, no... dimmi che il tuo cervello da predatore si ribella a tutto questo. Dimmi che sei ancora lì dentro, da qualche parte!» la supplicò.
   «Ma certo che sono qui» assicurò Shati, col suo sorriso stregato e gli occhi spiritati. «Siamo tutti qui, dove possiamo fidarci ciecamente di Nagilum. Lui vuole solo il meglio per noi. Presto lo capirete tutti» annunciò soddisfatta.
 
   «Capitano...» mormorò Irvik, tirandolo discretamente per la manica.
   «Che altro c’è?!» fece Rivera, esasperato. Lasciò Shati e si girò, curvo per la disperazione.
   «Abbiamo un grosso problema» disse l’Ingegnere Capo, alludendo al resto della ciurma.
   Il Capitano alzò lo sguardo... e vide che tutti gli ufficiali di plancia erano caduti sotto l’influsso di Nagilum. E qualcosa gli diceva che lo stesso stava accadendo nel resto della nave, ponte dopo ponte. Ormai non aveva più un equipaggio... non uno che valesse la pena salvare.
   «NO!» urlò Rivera, perdendo l’ultimo briciolo d’autocontrollo. In preda a un raptus, corse verso la sala teletrasporto, per trasferirsi sul Centurion e lanciare l’ultimo, disperato attacco. Se non poteva salvare il suo equipaggio, forse poteva almeno vendicarlo. Ma anche questo gli fu negato.
   Nel momento in cui la porta gli si aprì davanti, il Capitano non si trovò innanzi la sala teletrasporto, bensì il vuoto siderale. Senza dubbio era un altro dei contorcimenti dimensionali in cui Nagilum sembrava assai versato. L’atmosfera della plancia ne fu risucchiata, con la forza di un uragano. Tutti si afferrarono a qualcosa, consolle o sedie, per non esserne trascinati. Anche Irvik, ancora vicino alla consolle del timone, riuscì a reggersi. Ma Rivera, che si trovava proprio davanti alla soglia, non trovò alcun appiglio. In un attimo fu risucchiato nel vuoto; il suo ultimo grido si perse nel boato dell’aria che usciva. Subito dopo la porta si richiuse, sigillando la perdita atmosferica.
   I superstiti poterono lasciare i loro appigli. Nessuno di loro, tranne Irvik, appariva minimamente scosso dall’accaduto. Tornarono semplicemente alle loro incombenze – o piuttosto all’assenza di queste – come se tutto fosse regolare. Solo il Voth si avvicinò allo schermo, osservando il Capitano della Destiny che fluttuava nello spazio, senza tuta né altri strumenti di supporto, allontanandosi dall’astronave. Il gelo e la decompressione lo uccisero in pochi secondi. Il suo corpo coperto di brina rimpicciolì nella distanza, fino a perdersi nella foschia bluastra.
 
   Scosso dai singhiozzi, Irvik girò le spalle allo schermo. Per strano che sembrasse, era lieto di soffrire. Era giusto che, su tutta la nave, ci fosse qualcuno capace di piangere il valoroso Capitano.
   In quella Losira entrò in plancia e si guardò attorno, muovendo lentamente tutta la testa, con gli occhi sempre fissi in avanti. «Bene, vedo che avete ricevuto il dono. Sono felice per voi. Dov’è il Capitano?» chiese.
   «Fuori» rispose Shati, indicando lo spazio oltre lo schermo principale.
   «È stato assassinato da Nagilum, se questo significa qualcosa per te!» gridò Irvik, con le lacrime agli occhi.
   «Ma certo che significa qualcosa» disse Losira, senza battere ciglio. Si fece avanti e sedette sulla poltrona del Capitano, con la massima naturalezza. La sua posa era composta, con la schiena dritta e le braccia ben distese sui braccioli. «Computer, protocollo di successione. Trasferisci i codici di comando al Primo Ufficiale, in seguito alla morte del Capitano» ordinò con voce serafica.
   Fatti i dovuti controlli di sicurezza, il computer eseguì. «Procedura di successione completata. Il Capitano Losira è ora al comando dell’USS Destiny» riferì il processore.
   «Molto bene. Losira a tutti i ponti, v’informo che ora sono al comando di questa nave. I test sono finiti e va tutto bene. Possiamo fidarci ciecamente di Nagilum, lui sa cos’è meglio per noi. Restate in attesa d’istruzioni. Losira, chiudo». Detto questo, la Risiana rimase immobile, fissando lo schermo nebuloso. Del tutto priva di volontà, attese placidamente di ricevere gli ordini di Nagilum.
   E l’entità non si fece attendere. Il suo volto incorporeo giganteggiò sullo schermo, passando in rassegna le sue marionette, fino a soffermarsi sull’unico ancora padrone di sé: Irvik. «Eccoti qui. Sarai lieto di sapere che i miei esperimenti sono terminati. Ho raggiunto una conclusione soddisfacente» annunciò.
   «Ah sì, e quale?» chiese il Voth, chiedendosi perché lo avesse risparmiato. La risposta gli balenò spontanea: per avere qualcuno a cui comunicare l’esito della sua ricerca. O almeno, qualcuno in grado di rispondergli. Con tutto il suo potere, quell’essere doveva sentirsi piuttosto solo. Forse si era affezionato alle loro conversazioni e non voleva perderle.
   «È semplice» rispose Nagilum. «Voi mortali desiderate ciò che non potete avere e questo vi fa soffrire. La vostra limitatezza, unita alle circostanze avverse, v’imprigiona. Del resto, se anche possedete una qualche forma d’arbitrio, potete esserne privati con estrema facilità, come hanno dimostrato i miei esperimenti. E in fondo è meglio così, perché in tal modo vi risparmiate infinite sofferenze».
   «Può darsi» ammise Irvik ricordando quanto lo avevano fatto soffrire i suoi fallimenti nel riunire la famiglia. «Ma sembra che, azzerando il dolore, si azzeri anche l’amore. Come se uno non potesse esistere senza l’altro» notò, dando un’occhiata inquieta ai colleghi, nessuno dei quali aveva pianto il Capitano.
   «Irrilevante. Grazie al mio intervento, i tuoi colleghi sono più sereni di quanto siano mai stati» insisté Nagilum. «Ciò mi spinge a perseverare su questa strada. D’ora in poi percorrerò il Multiverso, portando questo dono a tutti i mortali che incontrerò. Avevi ragione, Irvik: quest’esperienza mi ha insegnato molto e mi è stata di grande ispirazione. Forse non ci sarei riuscito, se non ti avessi incontrato. Non sei contento?» chiese in tono benevolo. E attese educatamente la risposta. 
 

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Capitolo 5
*** Le sfaccettature del Fato ***


-Capitolo 4: Le sfaccettature del Fato
 
   Irvik si guardò brevemente attorno, consapevole che non avrebbe avuto alcun aiuto dai colleghi. Era l’ultimo, sull’astronave, ancora capace di pensiero autonomo, e di conseguenza l’unico che potesse salvare la situazione. Già, ma come affrontare un’entità pressoché onnipotente, che poteva ucciderlo o ridurlo come gli altri in qualunque momento? Eppure... forse c’era una flebile speranza. Malgrado tutti i suoi poteri, e le conoscenze accumulate, Nagilum era pur sempre ingenuo come un bambinone, che non ha molta esperienza pratica. «Ritorci il suo potere contro di lui. Fallo cadere vittima del suo stesso patto» si disse Irvik. L’attimo dopo tornò a concentrarsi sull’entità.
   «Mi spiace, ma non sono affatto soddisfatto» annunciò il Voth. «Perché tu non sei rimasto fedele alle premesse della tua ricerca».
   «Cosa ti fa credere questo?» si adombrò Nagilum.
   «Dicevi di voler capire se esiste l’arbitrio, o se siamo in balia di un Fato imperscrutabile e ineluttabile» disse Irvik con lentezza. «Ma tutto ciò che hai scoperto è che i mortali possono essere condizionati in vari modi. Questa non è una novità, lo sapevamo già. In ogni caso, non risponde alla domanda iniziale. Non hai stabilito se esiste il Destino. E ti dirò un’altra cosa: io so perché la questione t’interessa tanto. Finora hai parlato soprattutto dei mortali, ma la domanda che ti tormenta è un’altra. Vuoi sapere se tu hai un arbitrio, o sei a tua volta servo del Fato. Non è così?!».
   Nagilum attese a lungo prima di rispondere, e infine lo fece con riluttanza. «Sei perspicace, per essere un mortale. Sì, il dubbio mi ha sfiorato. Ma come sai, non si può studiare se stessi. Per osservare un fenomeno con imparzialità, bisogna porsi all’esterno di esso. Quindi, non potendo studiare me stesso, non mi resta che studiare voi» si giustificò.
   «Metodo scientifico, eh? In tal caso, ti ricordo che non si può studiare un fenomeno senza alterarlo in qualche modo. Nel momento in cui entri in rapporto coi tuoi soggetti, li stai influenzando. Diamine, guarda quanto li hai influenzati!» esclamò il Voth, alludendo ai colleghi immobili e silenziosi dietro di lui.
   «Stai dicendo che la mia ricerca è vana? Che sarà sempre vana? Non posso accettarlo» disse Nagilum.
   «Non dico neanche questo. Penso solo che, se vuoi stabilire l’esistenza del Fato, devi osservare le conseguenze a lungo termine delle azioni compiute liberamente. Come abbiamo fatto prima, coi nostri esperimenti di viaggio nel tempo. Quelli sì che sono stati illuminanti!» sostenne l’Ingegnere Capo.
   «Niente affatto, sono stati inconcludenti. Abbiamo ottenuto dei risultati parziali, che sembravano confermare l’arbitrio, ma poi abbiamo dovuto revocarli, il che ha smentito tutto» obiettò l’entità.
   «E se stavolta non li revocassimo? Se facessimo un ultimo esperimento, quello definitivo? Se cambiassimo drasticamente la linea temporale, in spregio al Fato?» incalzò Irvik. «Questo non proverebbe che siamo padroni della nostra sorte?».
   «Mi tenti» ammise Nagilum. «A quale cambiamento stai pensando?».
   Questa domanda confermò un sospetto di Irvik. Nagilum era empatico – poteva percepire gli stati d’animo – ma non telepatico: non conosceva i pensieri esatti dell’interlocutore. A meno che non lo condizionasse, forse; ma con lui non l’aveva fatto. Il che gli dava una via di scampo.
   «Beh, visto che i precedenti esperimenti riguardavano la mia famiglia, sarebbe opportuno insistere su questa strada» suggerì il Voth. «In fondo, ogni esperimento dev’essere ripetuto per avere valore scientifico. Lo si ripete, con delle varianti, e si confrontano i risultati».
   «Non avevi deciso di rinunciare a tutto, per evitare che la tua assenza pesasse sulla nave, e anche su altri popoli?» ricordò Nagilum.
   «Sì, ma... se vogliamo sfidare il Destino, dobbiamo essere disposti a compiere grandi sacrifici. Prima non ne avevo il coraggio, ma tu mi hai ispirato a farlo. E tu? Sei disposto a fare quest’ultimo, grande esperimento? Quello che ci darà una riposta certa e definitiva?» lo tentò Irvik.
   «Se decido che è così importante, sì» concesse Nagilum. «Ma non mi hai ancora detto cosa vuoi fare esattamente. Finora i tuoi tentativi di riunire la famiglia hanno avuto scarsi risultati. Il primo tentativo è stato un fallimento completo, mentre al secondo hai salvato il tuo matrimonio solo nell’apparenza, ma non nella sostanza. Cosa conti di fare, per salvarlo davvero?» s’incuriosì.
   «Eh, eh, farò una cosa che ho desiderato per tanto tempo!» ghignò Irvik, fregandosi le mani. «Hai notato qual è il comune denominatore di tutte le linee temporali? Ogni volta, per quanto mi arrabatti, mia moglie finisce con quella carogna di Edmon. È lui l’artefice delle mie disgrazie! A volte si prende Maia apertamente, dopo il divorzio; altrimenti se la cucca alle mie spalle. Comunque vada, è lui il colpevole. Lui l’ostacolo da rimuovere!» proclamò, gesticolando animato.
   «Non starai pensando di...».
   «Oh sì, invece!» gongolò Irvik. «Lo ucciderò con le mie mani, quello smidollato. Ti ho mai raccontato di come lo abbiamo incontrato la prima volta? Successe dieci anni fa, quando io e Maia vivevamo sull’astronave Maastri. Un bel giorno ci fu questa conferenza di olografia, alla quale parteciparono invitati da tutta l’Autorità Voth. Mia moglie, che lavora nel settore, naturalmente vi partecipò. E anch’io, che sono ingegnere, l’andai a sentire. Più tardi, durante il ricevimento, chiacchierammo con gli invitati. E indovina un po’ chi c’era fra loro?».
   «Edmon?».
   «Proprio lui, il marpione. All’inizio della sua scadentissima carriera di produttore» confermò il Voth. «Gli ho stretto la mano e gli ho presentato Maia, senza sapere che così mi davo la zappa sui piedi. Ma tutto questo sta per cambiare... cambierà, altroché!».
   «Dunque vuoi ucciderlo» ragionò Nagilum. «E non pensi che, così facendo, andrai in prigione? La tua vita familiare sarà ugualmente rovinata. Tua moglie ti odierà e i tuoi figli cresceranno senza di te» avvertì.
   «Beh, naturalmente dovrò fare attenzione a non essere scoperto» convenne Irvik. «Simulerò un incidente... un incidente col teletrasporto. So io come fare! Quel pallone gonfiato non arriverà vivo sulla nostra nave. Non potrà neanche vederla, mia moglie. Nessuno sospetterà di niente... dopotutto, gli incidenti accadono. E il mio matrimonio sarà salvo, finalmente!» si esaltò.
   «Sembra un piano scaltro» ammise Nagilum. «Sono curioso di vedere se funzionerà. Perché tutto dipende da questo. Se riesci a farla franca, dimostrerai che il Fato avverso può essere sconfitto. Altrimenti, se le forze dell’ordine ti scoprono... confermerai d’essere destinato all’infelicità, lontano dai tuoi cari. In tal caso, ti avverto che non verrò più a salvarti».
   «Accetto la sfida. E tu, sei pronto a spedirmi nel passato?» chiese Irvik.
   «Non vedo l’ora» rispose l’entità, pienamente convinta.
   «Ottimo. Andiamo nel mio alloggio, così potrò concentrarmi. Non ci riesco, davanti a questi zombie» disse il Voth, accennando ai colleghi immobili e silenziosi.
 
   Di lì a poco Irvik era seduto al suo tavolino, col Cubo di Rubik tra le mani. Lo osservava cupamente, sperando che il piano funzionasse. A un tratto l’oloschermo della scrivania si attivò, mostrando il volto di Nagilum.
   «Io sono pronto, e tu?» chiese l’entità.
   «Mai stato così pronto» garantì il Voth.
   «Sì, percepisco la tua volontà omicida» commentò Nagilum. «Devi odiarlo proprio tanto, il tuo rivale».
   «Mi ha portato via tutto... è il momento di rifarmi, con gli interessi» confermò Irvik, lo sguardo feroce. La sua bocca si piegò in una smorfia soddisfatta. Come previsto, l’entità aveva percepito la sua volontà assassina... ma non aveva capito contro chi era rivolta.
   «Ecco, concentrati sul momento al quale vuoi tornare» disse Nagilum, mentre il Cubo di Rubik si riconfigurava tra le mani del Voth. E questi lo fece. Si concentrò al massimo su quel momento del suo passato al quale doveva tornare, per salvare ciò che gli stava a cuore. Lo rivide nitido nella sua mente, come se fosse lì in quel momento.
   Click. Il Cubo terminò di riconfigurarsi: ora la sua faccia anteriore era rossa. Nello stesso attimo Irvik perse i sensi, mentre la sua consapevolezza strappata dal corpo risaliva le correnti vorticose del tempo.
 
   «Ehi, Irvik, che ti succede? Mi senti?» chiese una voce familiare.
   «Forse è meglio chiamare l’infermeria» consigliò un’altra.
   Per l’ennesima volta il sauro si trovò steso sul freddo pavimento, un po’ indolenzito per lo svenimento. Altre persone erano chine su di lui e confabulavano, per decidere come aiutarlo. Gradualmente le mise a fuoco... e il suo cuore si riempì di gioia. «Capitano! Comandante!» esclamò, saltando in piedi come un grillo. Gli altri si fecero indietro, sorpresi da quell’energia.
   «Sì, chi altri ti aspettavi?» chiese Rivera, vivo e vegeto, anche se perplesso. «Ti abbiamo chiamato per sentire il tuo parere su quell’anomalia, ma tu sei crollato appena hai messo piede in plancia».
   «Sicuro di stare bene? Ci guardi come se vedessi dei fantasmi» aggiunse Losira. Cara Losira, sempre un po’ bisbetica, ma col cuore d’oro... era una gioia vederla normale.
   «In un certo senso» ammise Irvik, guardandosi attorno. Talyn, Naskeel, Shati... erano tutti al loro posto. E nessuno mostrava segni di condizionamento mentale. Come potevano? La Destiny non era ancora entrata nel Nulla. Il piano aveva funzionato: anziché tornare indietro di dieci anni, Irvik era arretrato di appena due giorni, al momento fatidico in cui si erano imbattuti nell’anomalia di Nagilum. Là dentro, nel suo regno, l’entità aveva un potere pressoché illimitato. Ma fuori, era un’altra storia... fuori potevano combatterla.
   «Ascoltatemi tutti! Ci troviamo in pericolo mortale a causa di quell’anomalia!» esclamò il Voth. Indicò la chiazza senza stelle sullo schermo, contornata di blu.
   «Addirittura! E tu come lo sai?» chiese Rivera, perplesso.
   «Capitano, non c’è tempo di spiegare! Se vi è cara la vita e la libertà, dobbiamo agire subito» raccomandò Irvik.
   «Beh, posso correggere la rotta per aggirarla... del resto non è molto grande...» si offrì Shati dal timone.
   «No, non basta aggirarla! Bisogna colpirla con un fascio covariante di gravitoni dal deflettore, per far collassare i suoi campi armonici. Per fortuna ho avuto tempo di studiare il problema» disse il Voth, correndo alla consolle ingegneristica.
   «Quale tempo? Irvik, abbiamo appena trovato quest’anomalia, e tu sei rimasto svenuto sì e no dieci secondi! Non ti sarai sognato tutto?!» insinuò il Capitano, guardandolo con crescente apprensione.
   «No che non me lo sono sognato! Come non mi sono sognato questa procedura» disse l’Ingegnere Capo, impostando i parametri per l’emissione di gravitoni. Le sue mani si muovevano svelte sui comandi, senza esitazione. Vedendo la sua sicurezza, gli altri esitarono.
   «Un momento, adesso capto qualcosa all’interno dell’anomalia» avvertì Talyn. «Si direbbe un’astronave».
   «Di chiunque si tratti, potrebbe non essere salutare stare lì dentro. Forse ci sono finiti accidentalmente...» ipotizzò Shati.
   «Che astronave è? Aumentate la risoluzione, dobbiamo identificarla» disse il Capitano, sapendo che da questo dipendeva la decisione d’aiutarla o meno.
   «Risoluzione al massimo» disse Talyn, inquadrando una piccola porzione di quello spazio nero. Allora gli avventurieri trattennero il fiato, riconoscendo un’altra astronave della Flotta Stellare. Era un piccolo vascello scientifico di classe Nautilus, alla deriva nel cuore dell’anomalia. Osservando attentamente lo scafo curvilineo, riuscirono a leggere il nome: USS Empirical.
   «Empirical... non è nel database. Forse è stata varata negli ultimi anni» notò Talyn.
   «No! Quella non è un’astronave della Flotta... non è affatto un’astronave. È solo un’illusione, un subdolo inganno, per attirarci nell’anomalia e impossessarsi della Destiny!» avvertì Irvik, temendo che la storia si ripetesse.
   «Un inganno da parte di chi? E poi, come fai a sapere tutte queste cose? Voglio una riposta!» ordinò il Capitano.
   «E l’avrà, lo giuro. Ma non adesso... non c’è tempo» insisté l’Ingegnere Capo, sempre concentrato sulla procedura.
   «Capitano, l’Empirical ci chiama. Non dovremmo almeno rispondere, per sentire cos’hanno da dire?» fece Talyn.
   «No, fa parte dell’inganno! Non rispondete!» raccomandò Irvik. Non voleva che il Capitano vedesse l’immagine di Debora, la sua vecchia fiamma, e fosse spronato a soccorrere la nave. «Per adesso, riflettete su questo: come mai la Flotta ci sta cercando? Durante l’attacco all’Harvester abbiamo scambiato il numero di registro con la Destiny dello Specchio, che è andata distrutta. La Flotta ne avrà dedotto erroneamente che siamo periti, quindi non ha motivo di cercarci».
   «La sua logica è coerente» riconobbe Naskeel.
   «Certo, perché è la sua logica!» ricordò il Voth. «Questa conversazione ha già avuto luogo, anche se a ruoli invertiti. Lei, Capitano, era giustamente scettico e temeva una trappola. Io, d’altro canto, ho avuto la dabbenaggine di spingervi lì dentro, nella vana speranza di tornare a casa. Per colpa mia ci siamo trovati in trappola... e siete morti, o peggio che morti» rivelò.
   «Stai dicendo che siamo alle prese con un circolo temporale?! Odio queste cose» disse il Capitano con una smorfia.
   «In un certo senso... sì, chiamiamolo così» disse Irvik, anche se non era esatto. Accorgendosi che aveva bisogno di testimoni per convalidare le sue affermazioni, si rivolse a Talyn. «Figliolo, tu hai un sesto senso per queste cose. Non avverti una sensazione di pericolo? O magari un déjà vu?» suggerì.
   «Beh, ad essere onesto... quel Nulla m’inquieta» ammise il giovane, osservando la chiazza senza stelle, in cui l’Empirical galleggiava come un’esca. «Ho quasi la sensazione... no, mi correggo... ho la netta sensazione che siamo osservati» disse, aggrottando la fronte.
   «Sì, da una maligna intelligenza primeva che vuol fare orribili esperimenti a nostro danno!» ululò Irvik, ormai vicino a completare la procedura. «Ci distruggerà tutti, se non la fermiamo!».
   Il Capitano lo fissò, chiedendosi se non fosse impazzito.
   «Ehi, e questo che ci fa qui?» chiese Talyn. Si chinò a raccogliere il Cubo di Rubik dalla faccia rossa, che era rotolato vicino alla sua sedia, e lo mostrò agli altri.
   «Orrore, il nemico ci spia! Mettilo già, presto!» si agitò Irvik.
   «Ti ha dato di volta il cervello?! Quello è un innocuo rompicapo. Te l’ho dato io, la settimana scorsa!» gli ricordò Rivera, sempre più preoccupato.
   «Sì, sembrano sempre innocui. Poi, quando meno te l’aspetti... zac! Ed è la fine» brontolò l’Ingegnere Capo. «Ma ora chiuderò quella dannata anomalia. E vedrete che anche l’Empirical svanirà, come l’illusione che è!» promise.
   «Quell’anomalia somiglia a un’interfase di spazio» disse però Talyn, posando cautamente il Cubo. «Se la chiudiamo, allora sì che bandiremo l’Empirical da questa realtà. E così perderemo la possibilità di tornare».
   «No, no... quella è solo una trappola per topi. L’Empirical è il formaggio, serve ad attirarci dentro. Dobbiamo essere più furbi dei topi!» raccomandò Irvik, picchettandosi la testa. Accortosi che tutti lo fissavano come se fosse pazzo, si schiarì la voce. «Signori, so che ai vostri occhi sembra un delirio. Io stesso quasi non mi capacito degli eventi di cui sono stato testimone. Ma vi giuro che, se non lanciamo subito quell’impulso, siamo tutti perduti. Voi sapete che, in questi anni, nessuno quanto me è stato ossessionato dall’idea di tornare a casa. Ossessionato al punto da correre rischi inutili. Se ora io vi dico che lì dentro non c’è salvezza, ma solo rovina, dovete credermi. Se ho mai fatto qualcosa per meritare la vostra fiducia... questo è il momento di dimostrarlo. Vi prego, fidatevi di me!» implorò, fissando il Capitano.
   «Signore?» fece Naskeel, pronto a intervenire.
   Rivera dette una lunga occhiata a Irvik, pensando a quante volte il suo acume li aveva tolti dai guai. Se proprio lui, il più deciso a tornare, si comportava in quel modo, doveva esserci un motivo. «Lasciatelo fare» ordinò con calma. Ormai era troppo curioso di vedere cosa sarebbe successo.
   Naskeel indietreggiò, tornando alla sua postazione. E Irvik poté completare la procedura. «Beccati questo, vecchio mio» disse, premendo l’ultimo comando.
   Il deflettore della Destiny s’illuminò, emettendo un potentissimo fascio covariante di gravitoni. Le particelle colpirono l’anomalia, scombinando il suo delicato equilibrio interno. In un attimo, l’armonia dei flussi particellari lasciò il posto al caos. La macchia scura si contrasse, mentre l’Empirical al suo interno impallidiva, sfarfallava e infine svaniva del tutto.
   «L’anomalia sta collassando!» confermò Talyn, mentre la Destiny vibrava per lo sforzo. Il nucleo era al massimo per produrre abbastanza energia.
   «Sì, così...» mormorò Irvik, un occhio allo schermo e l’altro ai dati che scorrevano sulla sua consolle. Ancora pochi secondi ed era fatta.
   A un tratto il viso da rettile di Nagilum apparve sullo schermo, enorme e minaccioso. I suoi occhi scuri e indagatori fissarono gli avventurieri, soffermandosi sull’Ingegnere Capo. «No, fermatevi... così mi uccidete... volevo solo conoscervi... imparare da voi...» gemette in agonia.
   «Mi spiace, vecchio mio, ma a volte il prezzo della conoscenza è troppo alto. Addio» disse Irvik, senza rimpianto.
   «No, ti prego... abbi pietà... NOOOOOO!» tuonò Nagilum, spalancando la bocca senza labbra. All’interno c’era solo il Nulla. Il suo volto incorporeo svanì, mentre anche l’anomalia si dissolveva in uno sbuffo di particelle caotiche. Ora davanti alla Destiny c’era di nuovo il firmamento trapunto di stelle. Stelle terse, non oscurate da alcuna foschia o distorsione. Allora Irvik cessò l’emissione di gravitoni e si lasciò cadere sulla poltroncina. Emise un lungo sospiro di sollievo, mentre la tensione fin lì accumulata lo abbandonava. Dietro di lui, i colleghi erano ammutoliti.
   «Cos’era quella specie di Mago di Oz?» chiese il Capitano, ritrovando la voce.
   «Quello, signori miei, era Nagilum. E siete tutti fortunati a non averlo mai conosciuto» spiegò Irvik, stanco e soddisfatto. Pensò che era il momento buono per assaggiare un brandy sauriano.
 
   Nel pomeriggio, Irvik fu chiamato nell’ufficio del Capitano, dove gli fece un resoconto dettagliato della sua esperienza. Il Voth vuotò il sacco, senza nascondere le proprie responsabilità nei primi esperimenti di viaggio nel tempo, che avevano condannato la Destiny a una probabile distruzione. Al termine della confessione, fissò il pavimento, imbarazzato. «Questo è tutto, Capitano. Come vede, ho tradito lei e gli altri. Ho barattato le vostre vite con un’illusione di felicità... solo per scoprire che la mia famiglia era destinata a sfasciarsi in ogni caso. Sono mortificato... accetterò qualunque punizione vorrà assegnarmi» disse con un groppo in gola.
   «Amico mio, credo che tu sia già stato punito abbastanza» sospirò il Capitano. «Semmai sono io a sentirmi in colpa. Ti ho strappato ai tuoi affetti, costringendoti a quest’interminabile odissea nel Multiverso. Tra l’altro, quest’esperienza ci ha dimostrato in modo inoppugnabile quanto sei indispensabile alla nave. Senza di te, saremmo periti il primo giorno. Ti garantisco che non lascerò nulla d’intentato per riportarci a casa. Se c’è qualcuno che merita di tornare, sei tu».
   Avendo ascoltato tutta la storia, compreso l’inganno finale, Rivera sapeva quanto Irvik avesse sacrificato per salvarli. Aveva rinunciato alla vendetta sul rivale in amore, aveva rinunciato a sua moglie e persino ai propri figli, pur di salvare tutti loro da Nagilum. Quanti avrebbero saputo fare altrettanto?
   «A dirla tutta, Capitano... ho maturato la convinzione che non importa solo tornare, ma anche e soprattutto come tornerò» disse Irvik. «Se tornassi come un sauro che si vergogna di se stesso, che fugge dalle proprie responsabilità, non potrei essere d’esempio per i miei figli. A quel punto, tanto varrebbe che non tornassi affatto. Così, se tornerò, lo farò come la persona migliore possibile... e vada come vada».
   «Molto saggio» riconobbe Rivera.
   «Certo che... continuo a pormi la stessa domanda di Nagilum» ammise il Voth. «Questo libero arbitrio di cui tutti parlano, esiste o non esiste? Perché a conti fatti, sembra che io fossi destinato a trovarmi qui. Forse tutti noi lo eravamo».
   «Beh, indubbiamente ci sono forze fuori dal nostro controllo. Non siamo onnipotenti... e anche chi lo sembra, come Nagilum, può fare una brutta fine» notò il Capitano. «Se dovessi azzardare un giudizio, direi che possiamo scegliere almeno di provare, senza garanzia di successo. Provare, desiderare, gareggiare... forse sono ancora più importanti che vincere».
   «Già... e per ottenere qualcosa, bisogna sempre sacrificare qualcos’altro» sospirò Irvik, pensando ai suoi figli lontani. «Forse l’arbitrio consiste proprio in questo: nello scegliere cosa sacrificare. Sperando di prenderci» concluse. Per qualche momento vi fu silenzio.
   «Beh, a questo punto resta un ultimo dettaglio» disse il Capitano, estraendo qualcosa da un cassetto della scrivania. «Che vuoi farne di questo?» chiese, mostrandogli il Cubo di Rubik. Una faccia era ancora di uniforme color rosso, mentre le altre restavano scombinate.
   «Ah, no! Non voglio più averci niente a che fare!» si ritrasse il Voth. «Tra l’altro, Nagilum lo ha stregato. Sì, insomma, vi ha infuso il suo potere».
   «Ma quell’essere è morto. Questo non dovrebbe risolvere tutto?».
   «Non saprei... ho ancora il timore che, se oso scombinarlo, mi ritroverò nella vecchia linea temporale, dove Nagilum vi aveva trasformati in fantocci» avvertì Irvik.
   «Se hai ancora questo dubbio, c’è un solo modo per verificarlo» disse il Capitano, serissimo. Sotto lo sguardo perplesso dell’Ingegnere Capo, si allontanò di qualche passo dalla scrivania e depose il Cubo sul pavimento, stando attento a non scombinarlo. Poi tornò alla scrivania e aprì uno scomparto, estraendone un phaser, che consegnò al Voth. «Non possiamo tarantolarci per il resto della vita. Fallo e basta» consigliò.
   Irvik prese con riluttanza il phaser. Lo regolò su disintegrazione e mirò il Cubo che lo aveva ossessionato per giorni. E se distruggendolo avesse rovinato tutto? Fu tentato di lasciar perdere. Poi, preso da un impulso irresistibile, aprì il fuoco. Il raggio centrò il Cubo e lo vaporizzò, lasciando una piccola chiazza scura sul pavimento. Il Voth rabbrividì, aspettandosi di veder svanire il Capitano e apparire al suo posto il viso incollerito di Nagilum, che lo accusava di aver rotto l’accordo. Ma i secondi passarono e Rivera era sempre lì. La nuova linea temporale reggeva.
   «Direi che è andata bene» mormorò il Capitano, giusto un po’ impallidito per la tensione.
   «Più che bene. Viva l’arbitrio» disse Irvik, restituendogli il phaser.
   L’Umano si affrettò a riporlo, prima che capitasse qualcos’altro. «Bene, visto che hai dovuto distruggere il tuo rompicapo, forse t’interesserà averne un altro al suo posto» disse, estraendo un altro oggettino dal cassetto. Questo aveva la forma di una piramide tetraedrica, cioè a base triangolare. Ciascuna faccia era divisa a sua volta in sedici triangoli più piccoli. Al momento era ancora in ordine, con ogni faccia di un colore uniforme, ma bastava un nonnulla per scombinarla. «Si chiama Pyraminx, è un’evoluzione del Cubo di Rubik» spiegò il Capitano. «Come vedi, ogni componente può ruotare su ciascuno degli assi principali...».
   «Ah-ah, basta così, Capitano» l’interruppe il Voth, arretrando con tutta la sedia. Si alzò e si diresse verso la porta. «Se non le spiace, ne ho abbastanza di rompicapi. Credo che d’ora in poi non farò nulla di più complicato di un rubamazzo per svagarmi. Ci sono meno colpi di scena» disse, e lasciò l’ufficio, mentre l’Umano rideva a crepapelle dietro di lui.
 
 
FINE
 
 

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