Se solo fossi vero

di NowhereBoy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1 ***
Capitolo 3: *** 2 ***
Capitolo 4: *** 3 ***
Capitolo 5: *** 4 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Ennis Pierce stava vagando per le strade di Napoli con il telefonino in mano, cercando di seguire il GPS che, era convinto, lo stava portando lungo la strada sbagliata. Cotrollò nuovamente sul sito dell’annuncio dell’agenzia immobiliare e ricalcolò il percorso. Mancavano cinque minuti da quaranta, ormai. E stava cominciando a perdere ogni speranza. 

Pensò al povero agente immobiliare, nell’ androne del palazzo e storico, ad aspettarlo invano. Sarebbero passati gli anni, sarebbe invecchiato, magari morto e diventato polvere, mentre Ennis ancora vagava in cerca di quella casa, che aveva già pagato. 

So,at least the weather holds (Beh, dai, almeno il tempo regge) pensò. E fu come una maledizione, perchè dal cielo, già nuvoloso, comiciò a cadere una fitta pioggerella, di quelle che non riconosci immediatamente ma che fanno enormi danni alla cervicale. Ennis maledì qualche divinità in tutte le lingue che conosceva e si guardò intorno, in cerca di un riparo. Typical si disse Why on earth do you hope that something will go right? (perchè mai speri che qualcosa vada per il verso giusto?)

L’unico negozio aperto che vide, fu un piccolo bar dall’insegna luminosa mezza spenta. Doveva esserci scritto BAR, un tempo. Ma la A si era spenta da anni incalcolabili, per cui, nella penombra, si leggeva soltanto BR. Ennis vi corse all’interno, senza porsi altre domande. 

Ad essere onesti, era un posticino piuttosto carino, oltre che incredibilmente piccolo. C’era spazio per appena quattro tavoli da due posti, decorati da un vaso con un’essenza diversa per ognuno, così come il colore delle sedie, tutte differenti. Dietro il bancone, che correva lungo tutta la parete di fronte l’ingresso, c’era una donna sui cinquant’anni, capelli ricci biondi e un sorriso amichevole.

Ennis entrò trascinandosi dietro la valigia. Dalle casse proveniva il dolce suono di piano bar jazz, che per un momento lo fece sentire come a casa.

«Buongiorno!» lo accolse la donna. «Come posso aiutarla?» 

«Salve! Per caso saprebbe indicarmi la strada per questo indirizzo, per favore?» rispose Ennis. Ma la signora restò immobile a fissarlo, con un sorriso sbilenco sul viso, parecchio interdetta. Effettivamente, Ennis era convinto di aver detto quello. In realtà, dalla sua bocca era uscito un maccheronico «Salora! Indico casa cerca strada, por favia?» E naturalmente, la sigora non aveva capito un ciufolo di nulla. 

Restarono a fissarsi per un momento lunghissimo, con due sorrisi imbarazzati stampati sul volto. Poi lei disse «Uajo’, do you want a coffee? (lo vuoi un caffè?)» in inglese. E allora lui accettò, accomodandosi al bar, rassegnandosi all’idea che non fosse il caso di parlare italiano. 

«I still have to practice, sorry. I just arrived (Devo ancora fare pratica, mi scusi. Sono appena arrivato.

«Don’t worry, boy. Are you on holiday? (Non ti preoccupare, ragazzo. Sei in vacanza?)» domandò la barista, dandosi da fare con la macchina dell’espresso alle sue spalle. Ennis la guardava compiere quei gesti fluidamente, quasi rapito. Sembrava danzasse, mentre compiva quei gesti in maniera sicura, precisa, con arte. 

«No, I actually moved for work. In fact, I wanted to ask you if by any chance you could...

 (No, mi sono trasferito per lavoro. Anzi, volevo chiederle se per caso può…)»

«After, boy. Now drink the coffee. I made it special, ‘cause it’s your first italian coffee. And I’ll also take you a pizzetta, you look  hungry (Dopo, ragazzo. Ora beviti il caffè. Te l’ho fatto speciale, perchè è il tuo primo caffè italiano. E ti porto pure una pizzetta, che mi sembri affamato.)» e la signora sparì nella porta della cucina. 

Rimasto solo, Ennis guardò la tazzina contenente quel liquido scuro. Era estremamente poco. Certo, sapeva che gli italiani prendessero il caffè molto ristretto, ma non pensava così. A malapena sporcava la tazzina. Con una smorfia prese la tazzina la portò alle labbra. 

«Shit! (Merda!)» esclamò, ripoggiandola, quasi lanciandola, sul piattino. 

«Che c’è? T’ si appicciat’?» domandò la barista, ricomparendo dal nulla con un piattino con una pizzetta fumante, dall’aspetto decisamente invitante.  

Ennis non aveva capito esattamente cosa intendesse la donna, ma le sorrise, ringraziandola quando gli porse il piatto. Quella pizza aveva un aspetto piuttosto diverso da quelle cui era abituato, quando viveva a Chicago. Ma aveva un profumo assolutamente invitante. «Coffee is a break that should be enjoyed little by little. You seem lost to me. Get some rest. (Il caffè è una pausa che va gustata poco alla volta. Mi sembri spaesato. Riposati un po’.)»

Il ragazzo pensò all’agente immobiliare. Era in ritardo all’appuntamento di almeno mezz’ora. Lui odiava fare tardi. C’era poco campo e fuori aveva cominciato a cadere una tempesta. Era incredibile come fosse cambiato il tempo in così poco. 

Mandò un messaggio all’agente. E tornò a sorridere alla donna. 

 

Ci vollero dieci minuti di chiacchiere per far bere quel caffè ad Ennis. Amaro come il peccato originale. Scendeva a fatica, ma cazzo se era buono. A vedere le sue smorfie, la signora rideva di gusto. Nel frattempo, se ne era fatto uno pure lei, per tenergli compagnia. Era mercoledì, gli aveva detto, ed era una giornata fiacca perchè l’università lì di fianco era chiusa. 

Parlarono del più e del meno. L’americano raccontò che aveva preso posto come traduttore presso una casa editrice. Quel lavoro era l’occasione giusta per cambiare vita. Ne aveva assolutamente bisogno. Dopotutto, aveva quasi trent’anni, poteva permettersi di girovagare ancora un po’, no? Ennis le disse di parlare sei lingue. 

«Not italian, I think! (Ma l’italiano no, mi sa’)»

Lui si finse offeso «Seniora, io benissimo parlare. Lei poca capire. Onestà sicura di sei italiana?» e risero entrambi. 

Ennis cominciava a sentirsi più a suo agio. C’era un clima decisamente piacevole in quel posto. E quando assaggiò la pizzetta, il suo cuore aveva già deciso che sarebbe stato il bar preferito. 

Le cose cambiarono, tuttavia, quando ricevendo la risposta dell’agente immobiliare, l’americano si ricordò che doveva andare a prendere le chiavi di casa. 

«Pardon miss. It's all really delicious, but I have to go now. They are waiting for me for the keys to the apartment. Do you happen to know where this address is located? I'm a little lost (Scusi, signora. È tutto davvero buonissimo, ma ora devo andare. Mi aspettano per le chiavi dell’appartamento. Per caso sa dove si trova questo indirizzo? Mi sono u po’ perso)» e, ridendo, le porse il cellulare con l’annuncio. 

L’espressione della donna cambiò improvvisamente. 

«Ma… perchè hai preso questa casa? (But… Why do you take this house?)»

«Honestly? It was very cheap and I needed accommodation. Why? It’s ugly? It falls apart? (Onestamente? Costava pochissimo e io avevo bisogno di un alloggio. Perchè? È brutta? Cade a pezzi?)»

«No, no, on the contrary. It's a couple of houses down. Go, don't worry. You've made us wait long enough. (No no, anzi. Si trova a un paio di case più giù. Vai, non ti preoccupare. Hai fatto aspettare già abbastanza.» allora Ennis, piuttosto confuso, fece per prendere il portafogli per pagare la sua consumazione. Ma la donna lo fermò. «Don't dare, you offend me. This time it's on me. Welcome to Naples, giovanotto! (Non ti permettere, mi offendi. Questa volta offro io. Benvenuto a Napoli, giovanotto!)»

Ed Ennis era già uscito dal BR, per poterla sentire aggiungere. «E buona fortuna, che ne avrai bisogno.»


ANGOLO AUTORE:
Ciao a tutti! È iniziata così questa nuova avventura.
Vi presento il mio primo racconto, fatemi sapere cosa ne pensate. Ogni commento (soprattutto le critiche costruttive) è ben accetto. Non sono un traduttore, quindi le parti in lingua potrebbero essere sbagliate (se così fosse, fatemelo notare, che provvedo a correggere)
Grazie mille per essere arrivati fin qui.
Un abbraccio e buona giornata.
NowhereBoy

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Capitolo 2
*** 1 ***


ANGOLO AUTORE:
Ciao a tutti! Benvenuti al nuovo capitolo. Prima di cominciare la lettura, solo due paroline. Dal momento che il mio protagonista è un traduttore, parla diverse lingue. Ma il traduttore è lui, non io. Se con l'inglese me la cavo abbastanza, con le altre lingue no. Per cui chiedo scusa a chi le conosce e, se avete correzioni, fatemele notare così che io possa provvedere. In questo capitolo si parlerà anche in francese.
Inoltre, per chi invece le lingue non le conoscesse affatto, tra parentesi sono segnate le traduzioni, quindi potete leggere direttamente quelle.
Grazie mille per essere passati nella mia storia, buona lettura

1.
L’agente immobiliare era un uomo dall’aspetto piuttosto curioso: bassino, panciuto, con un grosso paio di baffi folti a contornargli il labbro superiore. Seppur Ennis fosse arrivato all’appuntamento in ritardo di quasi un’ora, non sembrava nervoso. Anzi, lo accolse con un gran sorriso, che confuse abbastanza il ragazzo americano. 

«Buongiorno» disse Ennis, porgendogli la mano in segno di saluto. «Sorry for the late, but I couldn’t find the house (mi dispiace per il ritardo, ma non riuscivo a trovare la casa)» 

«Don’t worry (non preoccuparti).» rispose l’agente, afferrandogli la stretta con dita leggermente sudate. Parlava con un accento marcatamente partenopeo, a differenza della signora del bar, e con enorme difficoltà. Infatti aggiunse: «Sai parlare un po’ di italiano?»

«Poco poco. Capire si. Parlaro ancora non bene»

«Allora parlo piano, così mi segui, va bene?» fece l’agente, ed Ennis non poté fare altro che annuire. 

Della visita che seguì, il ragazzo capì poco e niente. L’agente si dilungò a parlare dell’impianto di riscaldamento che funzionava a scatti, unica motivazione per cui poteva sentire un po’ di freddo; avvertì che la casa fosse antica, ottocentesca a dirla tutta, ragion per cui poteva avvertire dei rumori. Ma mentre l’uomo raccontava e raccontava, Ennis riusciva solo a guardarsi intorno, sorridendo. 

La sua prima casa. La sua prima vera casa. 

Una cucina spaziosa con un piccolo tavolo da pranzo, un salottino senza televisione, ma con un piccolo camino in pietra, due camere da letto, di cui una con balconcino, e un bagno. Ogni stanza, inoltre, aveva una finestra. Niente di più. Anche troppo, per le sue esigenze. 

«Ma, signore, ecco il vero must di questa casa. Il gioiello per cui vale ogni singolo mattone» aggiunse l’agente, avvicinandosi alla finestra del salotto, aperta sullo stesso lato di quella di una delle camere da letto. Ed Ennis si affacciò.

Il golfo di Napoli era immenso e maestoso, davanti ai suoi occhi, seppur coperto da una coltre di nuvole grigie. In silenzio, riusciva quasi a sentire l’infrangersi irruento delle onde sul lungomare, nonostante si trovasse abbastanza inoltrato nel quartiere. Seguendo il dito dell’agente, Ennis voltò il capo e lì, come una donna dormiente appoggiata sul fianco, il Vesuvio riposava cullato dalla pioggia. 

L’agente immobiliare lasciò le chiavi dell’appartamento sul davanzale della finestra, gli diede una pacca sulla spalla e augurò «In bocca al lupo per futuro. Good soggiorno, boy.» e andò via, lasciando Ennis solo.

 

Passò un po’ ed Ennis, con gli occhi pieni di meraviglia, decise di fare l’inventario delle cose utili. L’annuncio diceva che la casa fosse pronta all’uso, ma era abbastanza evidente che dovesse mettere mano praticamente a qualsiasi cosa. La cucina, però sembrava abbastanza fornita di utensili, anche se vi trovò degli attrezzi decisamente strani e che non aveva mai visto. Il frigo era naturalmente vuoto, come tutti gli scaffali con i prodotti per l’igiene della casa e personale. 

E mentre scriveva una lista mentale con tutto il necessario, il telefono squillò dal tavolo della cucina l’arrivo di una chiamata. Ennis si riscosse, e corse a rispondere. Guardò il mittente e accennò un sorriso. 

  • Salut, Gervais. (Ciao, Gervais) -

  • Mais bonsoir, Ennis. Vous voyagez toujours ou vous avez oublié de nous le faire savoir ? (Ma buonasera, Ennis. Sei ancora in viaggio o ti sei dimenticato di avvisare?)

  • J'ai oublié, bien sûr. (Dimenticato, naturalmente)

  • Quel trou dans la tête. Es-tu déjà à la maison? (Hai la testa bucata. Sei già a casa?)

  • Oui. L'agent immobilier est parti maintenant. (Si. L’agente immobiliare è andato via ora)

  • Parfait. Je vais prendre quelque chose à manger et je te rejoins. Envoie-moi l’emplacement. (Perfetto. Prendo qualcosa da mangiare e ti raggiungo. Mandami la posizione)

  • Il n'y a pas besoin. J'étais sur le point d'aller faire du shopping! (Non c’è bisogno. Stavo per andare a fare la spesa)

  • Arrête ça. Il y a un vrai besoin, tu ne sais pas manger. Baiser (ma smettila. C’è bisogno, che tu non sai mangiare. Baci!)

Quindi riattaccò. Ennis restò a fissare perplesso il suo telefono. E mentre appoggiava il telefono nuovamente sul bancone della cucina, un rumore attirò la sua attenzione. Proveniva dal salotto e sembrava il suono di una risata mascherata in malo modo. 

Il cuore accelerò appena i battiti. Circospetto, accennò un passo verso la stanza. Ma poi si ricordò di essere solo, quindi mormorò un Fuck-off, old pipes (fanculo, vecchie tubature), e tornò a personalizzare, per quanto possibile, il suo appartamento, prima dell’arrivo del suo migliore amico. 

 

«Mais dans quelle belle masure vous vous trouvez! (ma che bella catapecchia che ti sei trovato!)» esclamò Gervais, abbracciando Ennis dopo avergli stampato un sonoro bacio sulla guancia. «Enfin de retour dans la même ville (finalmente ci ritroviamo nella stessa città)»

«Combien de temps se sera écoulé? Quatre années? (Quanto tempo sarà passato? Quattro anni?)» domandò l’americano, sfilando il cappello all’amico per scompigliargli i capelli. 

Gervais rise, lanciandogli in mano una busta che profumava di rosticceria, e correndo ad esplorare l’appartamento. 

Ennis e Gervais s’erano conosciuti da adolescenti, durante uno scambio culturale tra la sua scuola ed un liceo della Francia. Erano stati sei mesi nei quali s’erano odiati, per poi legare improvvisamente ad un paio di settimane dalla partenza, grazie ad una festa durante la quale Ennis gli aveva salvato la vita, prendendosi un paio di cazzotti al suo posto. Da quel giorno, erano rimasti in contatto via skype, sui social, vedendosi durante qualche vacanza. Dopo la laurea in architettura (conseguita in Francia), Gervais aveva vissuto negli Stati Uniti per un paio d’anni, per poi trasferirsi a Napoli. Ennis, invece, non si era mai mosso da Chicago. Mai, prima di quel momento. 

Ennis abbandonò sul tavolo della cucina la busta dall’odore sospetto, sbirciando all’interno cosa potesse nascondere di così tanto delizioso, mentre l’amico ispezionava con cura ogni anfratto di quell’appartamento. Solo dopo diverso tempo lo vide ricomparire all’uscio della cucina, per poi sospirare ed esclamare «dépression, commisération et désolation: la maison parfaite pour toi! (depressione, commiserazione e desolazione: la casa perfetta per te!)». 

 

«Quando arriverà il resto delle tue cose?» domandò il francese in italiano, che aveva imparato piuttosto bene durante la sua permanenza. Se ne stava seduto a gambe incrociate sulla sedia di vimini della cucina, a stuzzicare da un vassoio con rustici, sfizi fritti assortiti e altro ben di Dio. 

Ennis lo guardò interrogativo. «Che senso?»

Allora Gervais accennò un sorriso. «C'est la première fois que je peux parler mieux que toi. Je me sens si intelligent! (È la prima volta che so parlare meglio di te. Mi sento così intelligente!)» ridacchiò, mentre l’americano storceva il naso. «Quand arrivera le reste de vos affaires? (Quando arriverà il resto delle tue cose?)» 

«Quel reste? Tout est là (Quale resto? È tutto qui.)» rispose allora, mettendo in bocca un pezzo di crocchè, chiedendosi come fosse possibile che patate bollite, formaggio e mortadella potessero avere un sapore così buono. 

Gervais restò per un momento a fissarlo. «Est-ce que tu plaisantes? (Stai scherzando?)»

L’altro, dal canto suo, scosse la testa, perplesso. «Quand je suis parti, j’ai tout laissé à Martin. Je ne voulais rien de lui. (Quando sono partito, ho lasciato tutto a Martin. Non volevo niente di suo)»

«C’est bien, mais ce ne sont pas que ses affaires, après six ans de vie commune. (Va bene, ma non è solo roba sua, dopo sei anni di convivenza).»

Ennis sbuffò. «Mais que veux-tu de moi? Je vais bien comme ça. Toute ma vie tenait dans une valise et un demi-sac à dos. il ne me reste plus qu'à recommencer et ce travail s'est parfaitement déroulé. Maintenant, je ne veux plus en parler, s'il te plaît. 

(Ma che vuoi da me? Sto bene così. Tutta la mia vita è entrata in una valigia e mezzo zaino. Ora devo solo ricominciare e questo lavoro è capitato alla perfezione. Non voglio più parlarne, per favore)»

Gervais alzò le sopracciglia folte in un’espressione più che eloquente.

«Quel dramatique (che drammatico)»

«Quel connard (che stronzo)» rispose Ennis.

Poi si guardarono e scoppiarono a ridere. E mentre il francese si alzò da tavola per andare a trafficare con la bottiglia di vino che aveva portato, chiedendogli dove fossero i calici, Ennis sentì come il rumore di una sedia che strusciava sul pavimento, proveniente ancora una volta dal salotto. Restò immobile a fissare quel battente chiuso, mentre l’amico non sembrava minimamente turbato.

 

Le due chiacchiere e l’aperitivo di benvenuto si erano protratte fino a sera, il temporale era esploso e si era calmato nel giro di pochi minuti. Approfittando della calma, Gervais aveva deciso di tornare a casa sua, rifiutando l’invito di Ennis di restare a cena. 

«Ton ami baise ce soie, j’espère! (Il tuo amico stasera scopa, se tutto va bene)» gli annunciò il francese, arrotolandosi la sciarpa intorno al collo. 

L’americano storse un po’ il naso. «N’es-tu pas trop vieux plurale l’université? (Non sei un po’ troppo vecchio per le universitarie?» 

Gervais scosse il capo, sorridendo orgoglioso. «Mec, je n'ai que trente ans! Mais vous savez: pour moi les jeunes femmes, pour toi les hommes mûrs. Un juste compromis, non? (Amico, ho solo trent’anni. Ma lo sai: per me le giovani donne, per te gli uomini maturi. Un giusto compromesso, no?)»

I due amici uscirono insieme, salutandosi al portone: Gervais verso il suo appuntamento, Ennis verso il supermercato (l’unico che gli indicava il navigatore), dove fece buona scorta di cibo, prodotti di pulizia e quanto avesse bisogno. Si sorprese di quanto fossero piccole le confezioni italiane, restando invece incantato davanti all’espositore del pane. Ce n’erano di tutti i gusti! Pagnotte, panini all’olio, farina bianca, ai cereali, nera, di lenticchie… era difficile scegliere! Immaginò cosa si dovesse provare passando di lì di primo mattino, col profumo del pane appena sfornato ad invadere l’aria. Afferrò una treccia classica, promettendosi che, prima o poi, li avrebbe assaggiati tutti. 

Tornato nel suo appartamento, in un tempo decisamente spropositato, accese della musica e cominciò a prepararsi la cena. Aveva fame e voleva della pasta. Era in Italia, dopotutto. Fuori, aveva cominciato a piovere di nuovo. 

Se c’era una cosa per cui Martin l’aveva amato, in quegli anni, era la cucina. Ennis si destreggiava davvero bene tra i fornelli. Quindi prese la padella, che riempì d’acqua, combatté un po’ col fornello per accenderlo e la mise sul fuoco. Immediatamente, allora, mise il sale e calò una generosa dose di maccheroni, senza aspettare che l’acqua bollisse. 

In quel momento, la sedia della cucina cadde a terra, facendo trasalire il ragazzo. Il suo sguardo corse all’oggetto che dondolava sulla curva dello schienale. What the hell pensò, ma poi vide la finestra aperta e pensò ad una folata improvvisa. Si mise in bocca un pezzo di pane, mentre andava a chiuderla, per tornare a trafficare ai fornelli. 

Aveva comprato un barattolo con su scritto sugo alla bolognese. Aveva un aspetto davvero buono, quindi lo verso dentro un altro tegame, per farlo scaldare. Si versò un generoso bicchiere di vino, mentre canticchiava le parole della canzone. Si sentiva tranquillo. Era quasi sereno.

Mentre mescolava con un cucchiaio, però, gli venne in mente il disastro. Sicuro, andò verso il frigo e prese il barattolo di ketchup appena comprato. Si avvicinò al tegame e lo aprì. Ma mentre stava per versarlo nel sugo, l’oggetto divenne come di marmo, e gli cadde di mano, sul davanzale. 

Il cuore saltò un battito. Accigliato, lo sguardo correva dal barattolo di ketchup al suo polso. Provò ad afferrarlo di nuovo, ma l’oggetto era incredibilmente pesante. Troppo. Tentò anche con entrambe le mani, ma era impossibile. 

«All right, what kind of joke is this?! (Va bene, che razza di gioco è questo!)» gridò, guardandosi intorno. 

E lì la vide. 

In piedi, accanto a lui, una donna dai ricci capelli scuri, corti sotto le orecchie, alta fino alle sue spalle lo fissava con aria severa, lo sguardo truce in viso. Indossava una camicia scura lunga sino ai piedi, legata in vita con una cintura. Era una bella donna, forse qualche anno più grande di lui, incredibilmente pallida e con le occhiaie marcate.

Ennis trasalì, alzando la voce. «Who the fuck are you? It’s my home! (Chi cazzo sei? È casa mia!)» 

La donna, fieramente, si passò una mano tra i capelli, spostandosi la frangia che le ricadeva sugli occhi. In quel momento, Ennis notò un piccolo particolare: all’altezza del collo e al centro della fronte c’erano due cicatrici rosse fiammanti, circolari. Sembravano chiaramente fori di proiettile. 

No… it’s not possible… 

Ennis era terrorizzato. Cominciò a sudare. Non era possibile. Non poteva essere davvero un…

I pensieri smisero di circolare nella sua mente quando lei, lentamente, gli puntò l’indice contro, con aria assolutamente minacciosa. Prese un respiro e parlò. Nonostante fosse in italiano, Ennis riuscì a comprendere chiaramente quelle parole, gridate con voce come proveniente da un altro posto. 

«Non mettere quella porcheria nella mia cucina!»

Un fulmine fuori il balcone, la pioggia scrosciante che ricominciava a cadere forte ed Ennis che si accasciava a terra, battendo la testa, svenuto.

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Capitolo 3
*** 2 ***


NOTE AUTORE:
Buongiorno a tutti. Scusate il forte ritardo nella pubblicazione, problemi personali. D’ora in avanti cercherò di essere più puntuale. Fatemi sapere cosa ne pensate. 
Vi auguro una buona lettura :) 
Un bacione

2.
Quando Ennis riprese i sensi, fuori era ancora buio, con la pioggia che scrosciava incessante. La testa gli doleva incredibilmente, forse per la botta della caduta o forse per lo svenimento. Non ricordava molto bene cosa fosse accaduto, e cercò di mettersi a sedere. Fu un’impresa molto più complessa di quanto immaginava. 

Poi, come un flash, ricordò la donna. E scattò a guardarsi intorno, circospetto, mentre il cuore accelerava il battito. Tuttavia, in quella cucina c’era soltanto lui. 
I fornelli erano stati spenti, anche se non ricordava di averlo fatto. La sedia era scostata dal tavolo e la finestra socchiusa. Piccoli dettagli, certo. Eppure appariva tutto così normale, che per un momento credette di essere semplicemente impazzito, complice la lontananza da casa e tutti i dolori dell’ultimo periodo. 
You’re just tired, It’s the jet lag (sei solo stanco. È il jet lag) si disse. Dopotutto, non potevano essere davvero… spiriti. No, probabilmente era stato soltanto un brutto scherzo di Gervais, o suggestione. 
Il barattolo di ketchup era ancora sul bancone della cucina. Un moto di disgusto gli accartocciò lo stomaco, così lo prese e lo ripose in frigo. Non aveva più voglia di mangiare. Quindi andò a farsi una lunga doccia, si mise il pigiama ed andò direttamente a letto. A tutto il resto, ci avrebbe pensato l’indomani. 

Ennis era sempre stato una persona mattiniera, di quelle che si svegliano col sole pur avendo fatto le ore piccole. Invece, era quasi ora di pranzo quando si destò, completamente intontito. Gettò un’occhiata intorno, riuscendo a focalizzare appena i mobili. Faticò a ricordare perfino dove si trovasse, in quale Stato, in quale città, come se si fosse svegliato da una potente sbronza. 
Indossò le pantofole pelose ai piedi del letto, ed andò ad affacciarsi alla finestra. Il sole era alto, seppur coperto da poche nuvole, ma Napoli era ancora bagnata dalla pioggia delle nottata, mentre si popolava di viandanti, negozi aperti e abitanti affacciati alle finestre delle loro case. 
Il suo dirimpettaio era un vecchio. Indossava una vestaglia aperta su una canotta bianca e un paio di pantaloni lunghi. Aveva in mano una tazzina di caffè. I loro sguardi si incrociarono ed il vecchio si corrucciò. Parve quasi confuso. Si guardò prima intorno, poi tornò a guardare Ennis. Infine, alzò una mano in segno di saluto. Ennis, dal canto suo, ricambiò stranito. Quando abitava a Chicago, aveva a malapena fatto amicizia con i suoi vicini di piano, figurarsi con quelli che abitavano nel palazzo di fronte. Il vecchio, allora, si affrettò a rientrare in casa e chiuse il balcone. 
Ennis pensò che fosse tutto abbastanza strano, ma non diede molto peso alla questione. Rientrò anche lui, con lo stomaco che brontolava, ma vagamente di buon umore. L’apparizione di quella donna la sera precedente sembrava incredibilmente lontana, come un sogno dai contorni sfumati. Non era importante. 
Si diresse spedito verso la cucina, passando davanti il salotto. Non notò la porta aperta.
Poi: «Buongiorno!» sentì provenire dal salotto. 
«Good Morning!» rispose, sorridente. 
Accennò ad entrare in cucina, quando si paralizzò di colpo. Il cuore accelerò nuovamente i suoi battiti e i pensieri tornarono ad affollarsi nella mente, mentre un brivido correva lungo la schiena. 

Ennis, quando era bambino, credeva ai fantasmi. A sei anni, aveva conosciuto al parchetto dietro casa sua una bambina dalle lunghe trecce rosse e un foulard al collo. Si chiamava Rosette, e aveva all’incirca la sua età. Si vedevano spesso nel tardo pomeriggio, quando il parco era ormai vuoto, perché “mi stanno tutti antipatici, non mi parlano mai” diceva lei. E lui non si era posto molte domande. 
Una volta nonno Wilu lo aveva accompagnato per conoscere questa bambina di cui parlava in continuazione. Ennis era emozionato, adorava passare del tempo con suo nonno, anche se tutti i suoi amici lo ritenevano strano, perché era cresciuto nella Riserva.
«You'll love Rosette! She always has braids too, like you. But she has bows (Rosette ti piacerà un sacco! Ha sempre le trecce anche lei, come te. Ma lei ha i fiocchetti)»
Nonno Wilu gli aveva sorriso e scompigliato i capelli. 
Arrivati al parco, Rosette era alle altalene. 
«Here she is (Eccola!)» aveva esclamato, correndole incontro. 
È stato Wilu il primo a comprendere che suo nipote avesse proprio quella sensibilità, quel dono, così comune nel suo popolo. E più tardi, quello stesso giorno, lo avrebbe spiegato anche al piccolo Ennis. Ma il nonno non ha mai nominato la parola fantasmi. Per lui, erano gli spiriti antichi, pertanto non bisognava avere paura di loro. 
Con entusiasmo, avevano parlato con i suoi genitori. E con entusiasmo, Ennis aveva passato i successivi dieci anni in terapia da uno psicologo, a suo parere non molto bravo. Allora pian piano il bambino, divenuto adolescente, aveva smesso di parlare con i fantasmi, provando ad ignorarli. E una volta uomo, aveva semplicemente smesso di vederli. 

Ennis si sentiva ansioso. Anzi, quasi impaurito. Tuttavia, non era certo in maniera assoluta a cosa attribuire questo suo status, se più al pensiero stesso di star ricominciando a vedere i fantasmi, cosa che credeva superata da tempo, o quanto più all’idea di dover ricominciare la terapia in un paese dove non conosceva nemmeno la lingua.
Fatto sta, che si trovava seduto su una poltrona scomoda, una coperta poggiata sulle spalle e una tazza di té in mano, a fissare quelli che era assolutamente certo fossero quattro spiriti, e non occupanti abusivi. Lo sguardo correva in maniera alternata su di loro: la donna, due uomini e un ragazzino sui dodici anni. 
La donna sedeva composta ad un angolo del divano, con i piedi intrecciati e le gambe spostate di lato, coperte dalla lunga camicia del giorno prima. Alla luce del sole, Ennis si accorse del rossetto che contornava le labbra, e che fosse giovane. Probabilmente erano coetanei. Era davvero molto bella, pur con il naso leggermente arcuato. 
Disse: «Lei non mi piace per niente.» increspando le labbra. Sembrava si sforzasse di mantenere un cipiglio nervoso che non le si addiceva affatto. 
In piedi, accanto a lei, c’era un uomo a poggiarle una mano sulla spalla. Sarà stato poco più grande di lei. Appariva del tutto rispettabile, con i capelli scuri, corti, pettinati all’indietro e un bel paio di baffi radi che non gli donavano affatto. Indossava una camicia chiara e un gilet doppiopetto marrone tenuto aperto, dal cui taschino spuntava la catenella dell'orologio. Il torace era completamente cosparso da almeno sei fori di proiettile. Si rivolse alla donna chiamandola Marilena. 
«Marile’, non ti ci mettere pure tu, mo. Non offendere il nostro ospite.» 
Ennis, allora, alzò un dito come a chiedere il permesso di parlare. «Sorry, I… I’m not a guest. This is my home. (Scusate, io… io non sono un’ospite. Questa è casa mia.)»
L’uomo ignorò ciò che l’americano avesse appena detto, pur tornando a guardarlo negli occhi, sorridendo. Gli disse: «La prego di perdonare mia moglie. Non è una persona cattiva, ma dimentica spesso la nostra situazione. Io sono l’avvocato Giovanni Donati, lei mia moglie Marilena. Questo giovanotto è nostro figlio Salvatore.»
Il ragazzino seduto all’altro capo del divano lo salutò alzando un braccio. Aveva occhi scuri vivaci e una zazzera di capelli ricci a malapena pettinati all’indietro. Indossava una maglietta a mezze maniche e un paio di calzoncini verdi lunghi sino alle ginocchia, i polpacci coperti da un alto paio di calze bianche. Non aveva segni di proiettile, ma sul collo erano chiari e distinguibili segni di dita che palesavano le cause della sua morte. 
«Buongiorno.» 
Ennis fece un cenno con la testa di saluto, per poi prendere un lungo sorso dalla tazza. 
Marilena, dal canto suo, fece il verso a suo marito, indispettita. Ennis l’avrebbe trovata piuttosto divertente, in altre circostanze. Poi, come a ricordarsi di essere osservata, regalò all’americano il sorriso più falso che potesse trovare. «Le offrirei qualcosa da mangiare, ma lei ha invaso la mia dispensa di oscenità.»
«Oh cielo, donna Marilena. Quest’uomo sarà stato mandato per cercare di risolvere la nostra situazione. Mostriamo un minimo di gratitudine. Perdonami l’insolenza, Gianni.» Ad intervenire, questa volta, era stato il secondo uomo, appoggiato alla parete accanto alla finestra, dalla quale entrava la forte luce di mezzogiorno, pur non proiettando ombre di alcun tipo sugli interlocutori. Era uomo di mezza età, quasi del tutto calvo, che indossava una camicia dalla stampa discutibile e un paio di occhialetti rettangolari. La lente sinistra era rotta, mostrando il foro di un proiettile nell’occhio. «Io sono il dottor Franco Marino. Eleonora le avrà sicuramente parlato di me.»
«È il nostro vicino» spiegò Gianni. «Lei è americano, giusto?»
Ennis annuì. 
«Certo, quando Eleonora ci ha detto che avrebbe mandato un americano a cercarci, ci aspettavamo… qualcosa di diverso.»
«Però è una cosa buona, vero padre? Intendo, che siano arrivati gli americani.» intervenne Salvatore. 
«Certo.» rispose Gianni. «Avete fatto in fretta. Mi era giunta notizia che appena un paio di settimane fa foste arrivati in sicilia.» Ennis si corrucciò appena, ma non osò parlare. Poi l’avvocato continuò. «Dunque? Avete buone notizie?»
E i quattro spiriti restarono a fissare Ennis in silenzio, in attesa, il quale sorseggiava il suo tè completamente assorto nei suoi pensieri. Fu solo dopo svariati minuti, che Ennis si rese conto che gli spiriti attendevano da lui una risposta. Allora si ricompose, sistemandosi meglio sulla sedia e stringendo la tazza calda tra le dita. Poi si grattò il capo. 
Infine disse: «Who the fuck is Eleonora? (Chi cazzo è Eleonora?)»
«Ma come “chi è?”. Aspettiamo sue notizie da mesi! Aveva detto che dovevamo nasconderci in casa e che avrebbe mandato qualcuno a cercarci.» sbottò Marilena. 
«Non vi manda Eleonora?» continuò a domandare, invece, il dottor Marino, in tono piuttosto preoccupato.
«I don't really know who Eleonora is. I'm just an interpreter. (Non so davvero chi sia Eleonora. Sono solo un interprete)» spiegò Ennis. «And I found the listing of this house through real estate. It has nothing to do with you, sorry. (E ho trovato l'annuncio di questa casa tramite agenzia immobiliare. Non ha niente a che fare con voi, scusate.)» 
Salvatore, deluso, si accasciò sul divano, mentre il dottor Marino si cacciava una mano sul viso, strofinandosi gli occhi. Marilena intrecciò le dita alla mano che il marito strinse sulla sua spalla, pur tentando di mantenere un’espressione composta in viso. 
«Sta dicendo che… lei non può fare niente per la nostra situazione?» domandò Gianni, incerto, anche se con un briciolo di speranza nello sguardo. 
Ennis scosse appena il capo, lentamente. Sinceramente, non aveva idea di come poter liberare quei fantasmi. Forse Eleonora era un’inquilina precedente che, come lui, riusciva a parlare con gli spiriti e aveva promesso loro di aiutarli. 
«Would my permission to leave be enough? For example, "I set you free," or something like that? (basterebbe il mio permesso di andare via? Per esempio, "io vi libero", o qualcosa del genere?)» 
La donna accennò una risata. Poi parlò con voce incredibilmente dolce «Se fosse bastata una cosa così, ce ne saremmo andati da tempo, non crede? Ci hanno provato a mandarci via. Nessuno ci è riuscito. Credevamo che lei potesse aiutarci.»
Ennis fece spallucce. Pensò che fosse una situazione terribile per lui. E che fosse palese che quegli spiriti non se ne sarebbero andati tanto presto. 
Poggiò, allora, la tazza ormai vuota sul pavimento. Dopodiché si accartocciò su se stesso, portandosi le ginocchia al petto e nascondendo il viso sulle cosce. Come avrebbe potuto convivere con una situazione del genere? Cosa avrebbe potuto fare? Chiamare il suo analista era fuori discussione. Era quasi sicuro che lo odiasse. Contattare Gervais si sarebbe rivelato solo un modo per prenderlo in giro. E lui aveva bisogno di essere preso sul serio. 
Chi altri conosceva, a Napoli? Nessuno. Non poteva di certo parlarne con i colleghi, quando avrebbe iniziato. Sarebbe immediatamente stato additato come quello strano
Shit, pensò. At least it doesn't look like these spirits want to kill me (Almeno non sembra che questi spiriti vogliano uccidermi). Magra consolazione. 
Tirò su col naso, quindi drizzò la testa. 
Gli spiriti erano svaniti nel nulla. 
Con circospezione, si guardò intorno in cerca di qualche traccia. Come se potessero essersi nascosti da qualche parte. Quindi, corse in camera da letto, si cambiò al volo con i panni presi direttamente dalla valigia, ed uscì più in fretta che poté. In cerca di cosa, ancora non lo sapeva. 

Ritornò in casa solo a notte fonda, dopo un lungo pomeriggio a passeggio per Napoli e una serata di chiacchiere con Gervais e un paio di suoi amici, Rino e Dario. Era stanco, ma allo stesso tempo in allerta al pensiero degli spiriti che lo attendevano in quelle quattro mura. 
Tuttavia, quando entrò nell'appartamento, gli sembrò di essere solo. Non un solo rumore, non un solo fiato. Leggermente più tranquillo, allora, si diresse verso il bagno per prepararsi per dormire.
Una volta sotto le coperte, pensò all’incontro con i fantasmi nella mattinata. Un’apparizione poteva essere suggestione, ma due? Davvero tutti quegli anni di terapia erano stati vani? E se semplicemente la sua mente avesse deciso di fare passi indietro, perché gli mancava casa? Forse in quel modo, il suo inconscio gli stava comunicando che aveva fatto una pessima scelta a lasciare l’America. Il desiderio di mettere più chilometri possibili tra lui e Martin aveva avuto la meglio, ma probabilmente era stato affrettato. Dopotutto, si erano lasciati solo da un mesetto. 
Certo, il divano di Michael era scomodo, ma in fin dei conti, così tanto?
Fu mentre era perso nei suoi pensieri, sospeso tra il sonno e la veglia, che sentì il materasso del letto matrimoniale cigolare sotto il peso di un corpo che si era seduto al suo fianco. Per un attimo, sorrise, ignorando il fatto che non fosse Martin. Quando rientrava da lavoro a notte fonda, Martin era solito sdraiarsi al suo fianco e abbracciarlo di schiena, carezzandogli il braccio e baciandolo dietro il collo. Era una sensazione di piacevole calore, che, in fondo, gli mancava. 
Tuttavia, nessun braccio era corso ad accarezzarlo. Piuttosto, una fastidiosa voce aveva preso a sussurrare. 
«Pss» fece. Ma Ennis ignorò il suono, forse credendo fosse il suono fastidioso di una mosca, mentre un groppo di nostalgia si formava alla base della gola. «Pss… oh! Americano!»
Quindi, Ennis si destò immediatamente. Una mosca, o Martin, non lo avrebbero mai chiamato in quel modo. Con circospezione, si voltò. E sobbalzò alla vista del ragazzino, seduto a gambe incrociate che lo fissava. 
«Shit!» quasi urlò, sedendosi velocemente e appoggiandosi contro la trabacca del letto. 
«No, non urlare! Gli altri si arrabbiano con me se sanno che sono qui.» sussurrò Salvatore, agitando le mani in aria.
«And why did you come to wake me up? (E perché sei venuto a svegliarmi?)» si ritrovò a sussurrare anche lui. 
Lo spirito fece spallucce, mordendosi il labbro. Sembrava profondamente interdetto. Ennis, che in fin dei conti aveva un animo gentile, sospirò, rassegnandosi all’idea che non avrebbe dormito quella notte. Così, mentre si sistemava seduto, lo incoraggiò a parlare. 
«É che… non lo so… non ho una buona sensazione…» bisbigliò, cominciando a contorcersi le dita. «Mi domando se… se tu sia venuto per l’uomo in soffitta.»
A quelle parole il sangue nelle vene di Ennis gelò. Cosa intendeva quel ragazzino con l’uomo in soffitta? Che fosse un demone? Un altro spirito? Non riuscì a fare in tempo a chiederlo che in un battito di ciglia e un cigolio del materasso, il ragazzino era nuovamente sparito, lasciando Ennis a fissare con occhi sbarrati il punto in cui prima si trovava. 
Ora era certo che non avrebbe più dormito. Probabilmente non lo avrebbe fatto mai più. 

ANGOLO DELL'AUTORE BIS:
Mi domandavo, voi cosa fareste nella situazione di Ennis? 

 

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Capitolo 4
*** 3 ***


Angolo dell'autore: 
Ciao a tutti. Mi dispiace per il ritardo. Vorrei davvero riuscire ad aggiornare con una cadenza più regolare, ma sono giorni difficili, tra la sessione che avanza e i parenti che cominciano ad arrivare. Con questo capitolo voglio augurarvi buone vacanze natalizie, buone feste e buon Natale a chi ci crede. 
Vi invito a farmi sapere cosa ne pensate della storia. Purtroppo è l'unico modo che noi autori abbiamo per capire se stiamo scrivendo cagate o qualcosa di decente, e per migliorarci come scrittori. 
Un bacione e buona lettura :)
 

3.
Dopo quell’ultima apparizione, Ennis non aveva più visto i fantasmi. Certo, qualche volta aveva sentito scricchiolare il pavimento come se qualcuno vi stesse camminando sopra, o un paio di porte si erano aperte senza apparente motivo. Ma tutto sommato, si stava abituando all’idea di non essere solo. 

Una mattina, mentre era sotto la doccia, pensò addirittura che fosse un bene, la presenza di quegli spiriti. Dopotutto, non era abituato a vivere senza qualcuno in casa. Era passato da casa dei suoi, dove viveva con loro, suo nonno, un fratello e una sorella, alla residenza universitaria, dove condivideva gli spazi con altri sette studenti, e infine a convivere con Martin. Se non fosse stato per l’uomo in soffitta, si sarebbe anche trovato comodo, in quella situazione. 

Dopo che il ragazzino aveva annunciato l’esistenza di questa soffitta, Ennis aveva passato giorni a cercarne l’ingresso, non trovandone alcuno. Aveva anche controllato l'annuncio della vendita della casa, ma a parte i vani descritti anche dall’agente immobiliare, una soffitta non era indicata da nessuna parte. Per cui, passate quasi tre settimane, semplicemente aveva creduto che fosse uno scherzo da parte di Salvatore, e lo aveva rimosso. 

 

Il lavoro era diverso da come immaginava, anche se era piuttosto piacevole. I colleghi erano tutti molto cordiali e amichevoli. Era stato travolto da un’ondata di affetto al quale decisamente non era abituato. Aveva addirittura ricevuto una torta di benvenuto, con tanto di dedica personalizzata che recitava Welcome to purgatory Ennis. E ben presto si rese conto del significato. 

La casa editrice che l’aveva assunto era grande, decisamente. E non conoscendo ancora l’italiano, il suo responsabile si era ritrovato un po’ in difficoltà nell’assegnargli incarichi. Si trattava di una donnetta bassa e tarchiata, con un paio di occhiali decisamente troppo grandi con un giro di perle viola a tenerli intorno al collo, che rispondeva al nome di Assunta. A un paio d’ore dal suo arrivo in ufficio, il primo giorno, lo aveva rimbeccato sulla necessità di imparare l’italiano «bene e in fretta», poiché, naturalmente, la maggior parte dei lavori che curavano era in quella lingua. In ogni caso, gli era stato affidato un romanzo di un autore napoletano, il quale, preso da una strana euforia, l’aveva tradotto lui stesso in un inglesse sgrammaticato e aberrante. Ennis aveva il compito di correggerlo quantomeno nella forma. 

Di traduttori, la struttura ne aveva altri due: Simone, un ragazzo biondino dall’aspetto piuttosto malaticcio, che parlava inglese, portoghese e spagnolo, e Mar, una ragazza piuttosto adulta per essere neolaureata, con una capigliatura riccia increspata e dai vestiti eccentrici, che parlava inglese, francese, russo e polacco, ma stava studiando anche il tedesco. Era con loro che aveva la maggior parte dei rapporti umani in ufficio, essendo i suoi “vicini di scrivania”. Si chiedevano pareri, qualche battuta e qualche caffè in pausa. Tutto molto formale, seppure in uno strano clima famigliare. 

Fuori dal lavoro, poca vita sociale, limitata ad uscite nel fine settimana con Gervais e qualche suo amico. Una volta era anche andato a cena con i colleghi. Tuttavia, la malinconia era assillante. Il pensiero di Martin tornava spesso a fargli visita. Gli mancava, in fondo. E a mancargli era proprio la loro quotidianità, i messaggi, le sorprese all’uscita dal lavoro. Si era domandato spesso se avesse fatto la scelta giusta ad abbandonare Chicago, o se fosse stata troppo affrettata, quasi da dramaQueen. Dopotutto, in molti vengono mollati, ma quanti arrivano a cambiare addirittura Stato, pur di non incontrare il proprio ex? 

 

Un giorno, Ennis si trovava in cucina a preparare il pranzo. S’era svegliato, se alzarsi dal letto dopo una notte insonne poteva davvero considerarsi svegliarsi, con la notifica di una mail sul cellulare, che gli annunciava che l’ufficio sarebbe rimasto chiuso per qualche giorno a causa della disinfestazione. 

La cosa lo aveva messo di cattivo umore. Non tanto il fatto di non dover andare a lavorare, ma il poco preavviso. Ne aveva parlato con qualche messaggio con sua sorella Evelyn, quella stessa mattina, nonostante il fatto che se a Napoli fosse quasi mezzogiorno, a Chicago fosse almeno incredibilmente presto. Le domandò se si fosse svegliata presto o se non fosse ancora andata a dormire, ma la sorella lo aveva del tutto ignorato. E forse, con quella mossa, aveva comunque risposto alla sua domanda. 

Lei gli aveva solo dato dell’idiota, invitandolo a spassarsela in quei pochi giorni di libertà, ma lui aveva sbuffato, prendendo un pacco di pappardelle ai funghi precotto dal congelatore. 

 

Evelyn <3

so, u are in one of the most beautiful cities in the world, u are still a fairly attractive guy. 

use these days to fuck and don’t compain! (quindi, sei in una delle città più belle del mondo, sei ancora un ragazzo discretamente attraente. usa questi giorni per scopare e non lamentarti)

 

Ennis

A queen

 

Evelyn <3

the best one (la migliore)

If I were you, I'd make it so that I could get to work without being able to walk (fossi in te, farei in modo da arrivare a lavoro senza riuscire a camminare)

 

Ennis guardò il telefono increspando le labbra, quindi lo posò sul marmo della cucina, decidendo che Evelyn, semplicemente, fosse pazza. O declinando tutto il suo arrapamento al fatto che fosse poco più che ventenne. Non che lui non pensasse affatto al sesso, per carità. Ma era giunto alla conclusione che fosse una cosa incredibilmente sopravvalutata. L’idea di passare il weekend nei bar a rimorchiare per fasi una cavalcata non lo entusiasmava per niente. Sentiva l’orticaria solo all’idea di doversi preparare bene per uscire. E poi, ammesso anche che fosse riuscito ad abbordare qualcuno, senza spiccicare una parola in italiano, dove avrebbe potuto portarlo? Era vero che i fantasmi non si facevano vedere da giorni, ma poteva fidarsi? 

Scacciò quel pensiero dalla mente, e mentre mandava qualche altro messaggio a sua sorella, deviando il discorso su qualche fotografia che gli aveva inviato prima di darle la buonanotte, prese il coltello per tagliarsi qualche fetta di bacon da amalgamare in mezzo.

Guardò il suo pasto che cucinava in padella, domandandosi se fosse davvero quello l’aspetto che doveva avere quel piatto. Sembrava fosse stato masticato e sputato. 

Perfect pensò Another gorgeous shitty day (un altro splendido giorno di merda)

Si domandò, allora, se lui avesse sempre cucinato in quella maniera terribile, o se fosse una concessione che riservava soltanto a se stesso, come a volersi punire, dopo essere stato mollato. Martin aveva sempre detto che fosse un ottimo cuoco. E allora perché aveva come la sensazione di non riuscire a fare più niente di buono? Niente per cui valesse la pena?

Per un momento, pensò che Martin gli avesse sempre mentito anche su quello. Dopotutto, era un bugiardo patologico. Gli ripeteva ogni mattina che lo amava, eppure ad Ennis si era infiammata la cervicale a furia di sostenere il peso delle corna che gli erano cresciute in testa. Non che lui lo avesse mai sospettato. Martin era stato davvero bravo, in questo. Naturalmente, tutte le sue storie erano venute fuori solo dopo che il suo ex aveva deciso di mollarlo. Quindi Ennis non era riuscito, dopo nove anni di cui sei di convivenza, nemmeno a prendersi il piacere di mandarlo a cagare lui. No. 

Un moto di rabbia gli aveva afferrato lo stomaco, e convulsivamente si ritrovò a grattar via il cibo dal fondo della padella, anche se non ce n’era effettivo bisogno. Sentì quasi le lacrime pizzicare gli occhi, e un fortissimo desiderio di urlare e lanciare quel padellino contro la parete alle sue spalle, non curandosi del fatto che, se lo avesse fatto, probabilmente la parete sarebbe venuta giù, rendendolo il quinto, se non il sesto, fantasma in quella casa. 

Con rabbia, e la fame che gli era del tutto passata, gettò la poltiglia nel piatto e restò immobile a fissarlo, mentre il cuore decelerava i battiti, e il respiro tornava normale. 

Poi accadde che in un alito di vento, sentì una presenza al suo fianco, ma non si voltò a guardare chi fosse. Inizialmente chiuse gli occhi, domandandosi perché uno spirito fosse comparso dopo tutto quel periodo di assenza. Poi decise che non gli importava. Sentiva solo le forze abbandonarlo e voleva piangere dal nervoso e dormire tutto il giorno. 

«Bello schifo» disse lo spirito. Ed Ennis fu sicuro che si trattasse di Marilena. 

In tutta onestà, non se la sentì di controbattere. Quel piatto era davvero brutto. Si augurò che quantomeno fosse buono. 

«Maybe with some ketchup... (Forse con del ketchup…)» mormorò, accennando un sorriso e sbirciando il fantasma che si era messa a braccia conserte e sul viso s’era disegnata una maschera di disgusto. 

«È per questo che voi americani avete tutti problemi allo stomaco» mormorò lei. Seguì Ennis con lo sguardo, mentre questi prendeva il piatto ed andava a sedersi al tavolo della cucina per consumare il pasto. «È così cattivo come sembra?» 

«No» rispose lui, mettendo in bocca un altro pezzo di bacon con l’uovo. «Yeah» continuò. «But now… (sì, ma oramai…)» 

Marilena si strinse nella vestaglia, ridendo appena. Poi il suo sorriso si fece malinconico. «Sa, prima della Guerra, ‘rind a chesta cas non si pativa mai la fame. Io ero na cuoca esaggerata. Bravissima. Mamm m’aveva insegnato buono. Il dottor Marino, pover’uomo, lui non s’è mai sposato perchè faticava troppo. E veniva sempre qua per mangiare con noi, sa, pe’ stare in compagnia. Si sentiva nu profumo, ‘rind o palazzo… E cucinavo l’abbacchio, i sufflé, ‘a carne non mancava mai. Era nu brav avvocato, mio marito. Poi la Guerra ha cambiato ogni cosa…E mo siamo costretti a nasconderci» 

Ennis continuò a mangiare, ponderando le parole di Marilena. Sentì la tensione farsi piuttosto alta, quindi decise di smorzarla. 

«Insted, my mother didn't know how to cook (Invece, mia madre non sapeva cucinare)»

Marilena rise nuovamente. «Non so perchè, ma me l’aspettavo.»

«Really, She was terrible. I don't know how I survived in my childhood. Maybe it's because of the school cafeteria. (Davvero, era terribile. Non so come ho fatto a sopravvivere nella mia infanzia. Forse grazie alla mensa a scuola)» 

Ennis rincorse il ricordo di sé stesso ragazzo mentre faceva la fila alla mensa in compagnia di qualche amico di classe, nell’ansia tremenda di incontrare qualche spirito e non riconoscerlo come tale, facendo la figura del pazzo che parlava da solo. Del suo dono, dopo la reazione dei genitori, non ne aveva parlato con nessuno. Si vergognava. 

«E mo mammt non sta in apprensione sapendo che stai a morì di fame da qualche parte, da solo?»

«No, she passed away three months ago, in a car accident, with my father too. (No, è morta tre mesi fa, in un incidente stradale, assieme a mio padre.)»

Marilena sgranò gli occhi, ed allungò la mano a prendere la sua, distesa accanto al piatto ancora pieno. Un’ondata di gelo colpì la pelle di Ennis nel punto in cui le dita della donna gli accarezzavano il palmo. S’irrigidì, ma non accennò a spostarla. La donna non aggiunse parole. Restarono così, in silenzio, per un tempo incredibilmente lungo, tanto che la mano di Ennis sul tavolo cominciò a dolere. 

«E tu come stai?»

Ennis fece spallucce. Non se l’era domandato spesso, in effetti. Aveva vissuto il suo essere rimasto orfano in maniera piuttosto pragmatica. Non c’era molto spazio ai sentimenti. Suo fratello maggiore Phil stava per diventare padre, Evelyn era al college. Lui stava trovando un nuovo equilibrio dopo la rottura con Martin. L’uomo di casa era diventato suo fratello, sua sorella era la piccolina da proteggere. Ennis se la sarebbe cavata. Lo faceva sempre. 

«I'm like an orphan who didn't talk to his parents very often. (Sto come sta un orfano che non parlava molto spesso con i suoi.)»

Marilena spostò la mano, passandosela tra i capelli. Sospirò. 

«I tuoi dovevano essere molto orgogliosi di te. T’ si accattato na casa, c’hai nu lavoro buono. Quando Salvo sarà grande, vorrei che fosse comme a te.»

Ennis accennò una risata, cercando di mascherare le lacrime di commozione che gli erano salite agli occhi. In verità, lui non era molto convinto che i suoi fossero orgogliosi di lui. Erano stati anni di litigi, soprattutto quelli dell’università. E il suo dono non aveva certo aiutato a creare un dialogo con loro. Paradossalmente, cercò di ricordare quando fosse stata l’ultima volta che sua madre gli aveva chiesto come stesse. Non si diede una risposta. 

Non voleva dare un dispiacere a Marilena, però. Immagino che lei, da viva, dovesse essere stata una madre migliore per Salvo di quanto la sua non fosse stata per lui. 

«Patm è morto quando ero bambina. Mia mamma ha allevato me e sette fratelli tutta sola. Ess è morta all’inizio della Guerra, invece. Non ho molti ricordi con lei, e mi dispiace assai… Era na donna strana, molto silenziosa e severa. S’addolciva solo quando cucinava. Pe’ questo amavo guardarla, e le rubavo tutti i segreti del mestiere. Mi sarebbe piaciuto avere na figlia femmina, pe insegnarci tutto quello che sapevo. Salvo è nu bravo figliuolo, ma certe cose non le capisce proprio.»

Ennis sorrise appena. 

Poi, di getto, esclamò: «Could you teach me? As we have seen, I am not capable of doing anything. I thought I was good, my ex loved how I cooked. But at this point, I guess he was lying. (potresti insegnare a me? Come abbiamo visto, non sono capace a fare niente. credevo di essere bravo, il mio ex adorava come cucinavo. Ma a questo punto, immagino che mentisse.)»

Marilena rimase per un momento interdetta, stretta nella sua vestaglia. Lo scrutava, ed Ennis, per tutto quel tempo, si sentì come nudo. «Come on, don't let me beg you. Do you want me to starve myself eating this crap for the rest of my days? (Dai, non farti pregare. Vuoi che muoia di fame a mangiare questa schifezza per il resto dei miei giorni?)»

Lo spirito, allora, si aprì in una risata fragorosa. 

«Ja, va buon. Lezione uno, butta sta schifezza che stai a magna’. Sta roba nella busta non si può proprio vede’.»

Ennis non se lo fece ripetere due volte, travolto da un nuovo entusiasmo. 

 

Nei mesi che seguirono, Ennis imparò a tagliare le cipolle finemente col coltello, a preparare brodi vegetali, frittate di maccheroni, a cucinare la pasta facendo bollire prima l’acqua, e una svariata quantità di sughi, contorni e secondi piatti. Scoprì che riscaldare cose precotte non equivaleva a saper cucinare. Scoprì l’amore per il cibo, e il vero sapore delle pappardelle coi funghi porcini. Imparò a preparare i dolci. E mise su cinque chili, tornando normopeso. 

Ma la sera della sua prima lezione, Ennis si sentì come un cuoco provetto per aver imparato a preparare le uova bollite. Le aveva condite sotto lo sguardo attento e giudicante di Marilena, che ad ogni errore faceva cadere una sedia della cucina o lo toccava dietro il collo. 

S’era steso sul letto, stanco ma soddisfatto, a guardare il soffitto. Il giorno seguente voleva prepararsi i pancake, ma non era sicuro che quella donna sapeva cosa fossero. Pensò alla conversazione avuta in cucina. Facendosi due conti, Marilena e la sua famiglia dovevano essere morti intorno al ‘43, probabilmente con una rappresaglia in casa loro da parte dei fascisti. Dopotutto, erano convinti che lui, da americano, fosse venuto a salvarli. E poi quella donna gli aveva dato l’impressione di essere una brava persona. Non poteva essere una fascista. I fori di proiettile erano da spiegarsi solo in quel modo. 

Mentre stava per addormentarsi, un pensiero gli accarezzò la mente. Che il famoso uomo in soffitta di cui parlava Salvatore, fosse…

Sgranò gli occhi e scattò a sedere. Ecco perchè non trovava alcuna porta d’ingresso. Per forza doveva essere nascosta. Una botola in soffitto, magari? Corse ad accendere tutte le luci di casa ed indagò ogni singolo angolo del tetto. Niente. Notò, allora, che la casa avesse dei soffitti molto alti, circa quattro metri. Tutte le stanze. Tutte. Tranne il bagno. 

Ma nel bagno non c’era alcuna traccia, né di botole dal soffitto, né di porte nascoste. 

Sconfortato, andò in cucina a prepararsi un té. E mentre sorseggiava la sua bevanda calda, si rese conto che la cucina confinava col bagno. E sulla parete che la divideva da quella stanza, c’era un’enorme credenza, copriva per intero tutto il muro. 

Titubante, Ennis poggiò la tazza sul davanzale della cucina ed andò ad aprire gli sportelli, alla ricerca di un possibile doppiofondo, che tuttavia non trovò. Fu solo quando spostò la credenza, a fatica e facendo un rumore tremendo, che una porta di legno antica, intagliata, si palesò davanti a lui. Il cuore gli batteva forte, e il freddo tornò prepotente, come un’alitata di vento. 

Così prese un respiro profondo. 

E afferrò la maniglia.

 

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Capitolo 5
*** 4 ***


4.
La soffitta era incredibilmente polverosa e umida, con un forte odore di muffa e di chiuso. Aveva salito le scale scricchiolanti di legno con passo incerto, illuminato dalla flebile luce della torcia del cellulare. Nessun rumore o squittio di topi.
Perfect pensò. At least, one positive note (se non altro, una nota positiva)

In cima alle scale, la luce pallida della luna bussava gentilmente alla piccola finestra appoggiata direttamente al pavimento, in una posizione insolitamente bassa. Si tradiva, così, la costruzione tarda di quel soppalco. Si domandò se non fosse stato fatto di proposito per la Guerra. Con cautela, andò ad aprirla, forzando con non poche difficoltà, il battente incrostato dalla salsedine e dal mancato utilizzo per così tanti anni. Who knows how long it will take to ventilate the room (chissà quanto tempo ci vorrà per far arieggiare l'ambiente) si domandò, affacciandosi per un momento alla finestra. Quindi, si voltò verso la stanza, mentre l’umidità gli soffiava sul collo, accompagnata da un brivido lungo la schiena. 

Il cuore di Ennis batteva all’impazzata, tanto che credeva gli avrebbe sfondato il petto. 

La soffitta era abbastanza alta da permettergli di stare in piedi, anche se la testa sfiorava il tetto. Ad una prima occhiata, rapida e ansiosa, casse di legno coperte da logori teli, qualche mobile malandato e qualche quadro rotto parevano essere gli unici inquilini. 

Sul muro opposto dove si trovava lui, scorse una libreria poco fornita e, nascosta da una pila di scatole, una branda montata alla bell'e meglio. Nel vederla, l’idea che la soffitta fosse abitata da un demone gli scivolò via dalla mente, semmai davvero ci fosse stata. In fondo, credere ai fantasmi, per lui, era sempre stato più semplice che credere ai mostri e ai demoni. Ennis, dopotutto, non era un uomo credente. Almeno non nel senso religioso del termine. 

Al pensiero dell’assenza del demone, seguì quello della presenza di un corpo. E l’idea, ora, di avere un cadavere in casa prese a tormentarlo. Un tormento molto più forte e inquieto rispetto a quello di avere spiriti. Di certo, la presenza di un corpo, anche se ormai mucchio di ossa, sarebbe stata una rogna maggiore rispetto a quella di fantasmi che, in ogni caso, vedeva solo lui.

L’odore, però, non c’era. O meglio, la puzza che sentiva non era certo acuita da quella del marcio di un cadavere. E cullandosi su questa speranza, fece qualche passo, sperando che il pavimento non fosse poi così marcio da farlo finire, nella migliore delle ipotesi, nella vasca da bagno. 

Fu in quel momento che si condensò davanti ai suoi occhi, l’anticamera della strage che si era consumata quasi cent’anni prima, in quella casa. Perché su tutta la superficie del pavimento, come piccoli spuntoni di schegge, decine, se non centinaia, fori di proiettile, sparati da basso. Sarebbe stato impossibile che chiunque sopravvivesse a così tanti spari, inferti da almeno tre, se non quattro soldati. 

Era stato un massacro. 

Improvvisamente, allora, Ennis sentì la gola stringersi in un nodo, e gli occhi pizzicare, mentre come schiacciato da un peso improvviso sulle spalle, s’accasciava a terra. La schiena poggiata contro la parete di fianco la finestra e le ginocchia tirate al petto. 

Why…? Si domandò. 

La famiglia Donati, dunque, era stata uccisa perché nascondeva qualcuno. Doveva essere stato per forza importante, per far incomodare un’azione del genere. Erano morti almeno in cinque, dopotutto. Un capo dei reazionari del regime? Un politico? Un mafioso?

Restò in quella posizione per molto tempo, tanto che l’aria sembrava essere quasi tollerabile. Il sole sembrava non voler sorgere a rischiarare quella notte. Poi, mentre con la fronte premuta sulle ginocchia, sembrava che il sonno stesse per coglierlo, una piccola folata di gelo improvvisa, seguita da un cigolio delle assi del pavimento davanti a lui. Lenti. Un passo dopo l’altro. 

Immediatamente si destò di colpo, ma cercò di rimanere immobile quanto più possibile, mentre il cuore riprendeva il suo battito accelerato, un martellare tremendo che sentiva rimbombare nelle orecchie. Non voleva rischiare di spaventare quel nuovo spirito. Poi accennò un sorriso, alla stupidità di quel pensiero. 

Così arricciò le dita dei piedi, e si mosse appena a stiracchiare le spalle. E così, i passi si arrestarono di colpo, tradendo comunque la vicinanza del nuovo ospite. In preda alla curiosità, mista a un briciolo di paura tirò su il capo ed andò a grattarsi una guancia, con gesti quasi solenni. Solo dopo, si concesse di aprire gli occhi. 

 

Aveva immaginato un vecchio, o quantomeno un uomo più che adulto. S’aspettava un professore, magari. Un uomo che, in ogni caso, trasmettesse un senso di riverenza o timore nei confronti delle persone. Un uomo per cui valesse la pena rischiare la vita per proteggerlo, e che giustificasse un’azione militare di quel tipo. Ma non trovò nulla di tutto ciò.

Seduto davanti ad Ennis, a gambe incrociate, con la schiena curva e gli occhi spenti, c’era un ragazzo, all’apparenza di poco più giovane di lui. La timida luce della luna dipingeva in tinte di azzurro quel volto stanco, forato su tutto il profilo sinistro, così come il corpo, finanche i piedi, con grosse macchie di sangue scuro rappreso. I capelli ricci erano lunghi fino alle spalle, la barba incolta, gli occhi scuri segnati da occhiaie profonde, molto più di quelle degli altri spiriti. Le labbra erano bianche, all’apparenza incredibilmente aride, come pallido e segnato era il resto del viso. Sembrava malato.

E la cosa incuriosì incredibilmente Ennis, che osservò lo spirito fare sforzi incredibili per respirare, come se l’aria non volesse entrare nei suoi polmoni. Ma lui si ostinava, affaticandosi, pur non avendone effettivo bisogno. 

Ennis lo trovò buffo. E accennò una risata amara. Quasi si sentì deluso, nel trovarsi davanti un giovane così… normale

Lo spirito lo scrutò, non accennando a muoversi. Sembrava allo stesso tempo curioso, sorpreso, quasi timoroso. 

Poi parlò, con voce incredibilmente chiara e profonda, quasi con forza, come se le parole non provenissero proprio da lui. 

Disse: «sei americano…»

Do I really look that much american? (sembro davvero così tanto americano?) pensò Ennis, accennando un sorriso.

«Yeah» rispose, anche se non c’era stata una vera e propria domanda. In tutto quel frangente, non aveva idea di cosa avrebbe potuto e dovuto dire. «I’m Ennis.»

«Io sono…» ma si bloccò, mentre un’auto rombava nella notte, saettando nella strada da basso. Lo spirito, allora, scattò indietro, allontanandosi dalla finestra, riparandosi all’ombra. Lo scatto fece sobbalzare l’americano, che tuttavia non accennò un minimo movimento. 

Poi, notando che pericolo non ci fosse, lo spirito aggiunse «Non devi stare così vicino alla finestra. Potrebbero vederti.» 

Ennis si voltò appena verso l’oggetto nominato, mentre la mente si svuotava completamente. 

«Io sono Elia» mormorò, poi, tendendogli la mano e accennando un sorriso incoraggiante. «I Donati nascondono anche te?» 

La domanda, per un momento, confuse Ennis. Poi si ricordò che gli spiriti, in quella casa, non sapevano di essere morti. 

Rispose: «No, I'm the new owner, actually (No, sono il nuovo proprietario in verità)»

Allora, una nuova ombra si dipinse sul volto di Elia. Ennis non seppe dire se si trattasse di paura o preoccupazione. «Cosa è successo a Gianni e Marilena? Stanno bene?»

La gola di Ennis si inaridì d’un tratto. Si domandò, in preda alla stanchezza, cosa mai fosse successo nella sua vita per condurlo in quella stanza; cosa mai possa aver fatto di male per farlo ritrovare in una soffitta mezza marcita a cercare di spiegare ad un fantasma, nascosto per ottant’anni, che lui, come la famiglia che lo proteggeva, erano morti da decenni. E tutti i pensieri s’accompagnarono ad un moto di tenerezza nei riguardi di quel ragazzo, chiuso per così tanti anni, senza nemmeno la serenità della morte.

Ennis, dunque, non rispose. Ragionava su cosa dire. Era una situazione surreale. 

Gli occhi di Elia, allora, si riempirono improvvisamente di lacrime. «Oh Cristo…» mormorò. «Li hanno presi… Anche Salvo?» 

Ennis cominciava ad essere preso dal panico. Con occhi persi, disse «No! No, They’re all fine! They’re sleeping, now, downstairs. (No! No, stanno tutti bene! Dormono, ora, da basso)»

Elia, allora, si corrucciò. «Quindi tu cosa ci fai qui? La guerra è finita?»

«I... I'm trying to figure out how best to resolve this situation. (io... sto cercando di capire come risolvere questa situazione nel migliore dei modi.)» Si passò una mano sul viso, premendo pollice e indice sugli occhi, incredibilmente stanchi. «You don't have to fear, the War is over. (Non devi temere, la guerra è finita.)»

Elia sospirò, come se avesse trattenuto il fiato fino a quel momento. «E abbiamo vinto? Se sei qui, abbiamo vinto! Siamo liberi?»

«I need to talk to all of you (Ho bisogno di parlare con tutti voi)» affermò risoluto.

S’alzò in piedi, seguito dallo sguardo di Elia. Chiuse la finestra e si mosse verso le scale per tornare da basso. Aveva già sceso il primo gradino, quando si voltò verso lo spirito, ancora seduto. Respirava a fatica, con gli occhi vitrei di chi sta rincorrendo pensieri confusi e lontani, o di chi sta metabolizzando una notizia inaspettata. 

«Come? (vieni?)» domandò l’americano. 

Elia si riscosse e puntò di nuovo gli occhi nei suoi. Ma accennò un movimento di dissenso del capo, prima di sparire, lasciando Ennis da solo.

 

ANGOLO AUTORE:

Buongiorno a tutti. Mi auguro che le vacanze invernali siano state più che produttive e riposanti per tutti voi. Che l’inizio di questo nuovo anno possa portarvi serenità, soddisfazioni e gioie (anche se ormai siamo al 10gennaio).

Come sempre, grazie per essere arrivati sino a qui. Fatemi sapere cosa ne pensate (anche un piccolo feedback è apprezzato)

Un abbraccione e buona giornata

 

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