La Casa dei Bambini Perduti

di channy_the_loner
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Orfana ***
Capitolo 2: *** Davanzale ***
Capitolo 3: *** Cena ***
Capitolo 4: *** Fuori ***
Capitolo 5: *** Incubo ***
Capitolo 6: *** Lezione ***
Capitolo 7: *** Imprevisto ***
Capitolo 8: *** Mostro ***
Capitolo 9: *** Shakespeare ***



Capitolo 1
*** Orfana ***


La bambina strinse forte la mano dell'anziano signore, i lineamenti delle labbra piegati all'ingiù.
Non aveva paura di quel posto nuovo, no; la paura era un sentimento forte e devastante, la paura era un tornado, non era per niente paragonabile alla morsa che percepiva allo stomaco in quel momento. Lei era solo intimorita. Continuava a ripeterselo: solo timore, niente paura.
«È bello qui?» le chiese l'anziano signore. Non era molto alto, ma la sua figura era slanciata ed elegante, accarezzata da un cappotto nero in abbinamento con la federa nera che copriva i suoi capelli color cenere. La bambina riusciva solo a scorgere due folti baffi bianchi e un sorriso tiepido sotto di essi, contornato da qualche ruga. «Ti piace?»
La bambina osservò ciò che la circondava, facendo saettare i suoi grandi e dolci occhi verde chiaro da una parte all'altra. Vide dei sentieri di ghiaia, erba ben curata e alberi altissimi, i cui rami venivano mossi, fatti danzare pacificamente dal tenue vento primaverile. Sull'erba c'erano dei bambini e delle bambine che la stavano guardando con curiosità, nonostante fossero abituati ai nuovi arrivi, anche se questi si facevano sempre meno frequenti col passare degli anni.
La piccola nuova arrivata annuì, in risposta alla domanda che le era stata precedentemente posta, poi s'incamminò con l'uomo sul sentiero principale che, a differenza degli altri, non era in ghiaia ma pavimentato, diretto alla grande struttura che padroneggiava negli occhi di chiunque guardasse nei dintorni.
L'anziano aprì l'uscio principale della costruzione e invitò la bambina ad entrare; lei obbedì e, subito dopo aver oltrepassato la soglia d'ingresso, schiuse le labbra, ammaliata dalla bellezza dell'arredamento, in particolar modo dal lungo tappeto rosso che attutiva i passi frettolosi di alcuni bambini, poco più in là. Le erano sempre piaciuti i tappeti, sin da quando non sapeva ancora reggersi in piedi a dovere; li trovava confortevoli e caldi, e le piaceva stare seduta su di essi a guardare un film della Disney in pieno inverno, quando la finestra del salotto della sua vecchia casa era appannata dalla condensa.
«Adesso» disse l'uomo, richiamando la sua attenzione «ti porterò in un'altra stanza. Lì ci sarà il Signor Roger. Sarà lui a prendersi cura di te.»
«Ma Signor Watari» fece la piccola, con un accenno di tremolio nella voce, «io voglio restare con te.»
Il vecchio s'inginocchiò, arrivando così all'altezza della fanciulla. «Purtroppo io non posso restare, però ti farò visita ogni tanto. Il Signor Roger è mio amico, ti tratterà bene.»
«Perché non puoi restare?»
«È un segreto.»
«Voglio venire con te.»
«Non puoi, piccola mia. Non ti troverai male qui, ci sono un sacco di bambini con cui potrai giocare.»
Lei restò in silenzio.
«Mi prometti che farai la brava?»
La bambina esitò per qualche attimo, poi rispose: «Va bene.»
I due ripresero a camminare. Salirono due rampe di scale e la piccola ne contò i gradini, poi percorsero tutto il corridoio che si stagliava alla fine della seconda scalinata, fino ad arrivare ad un'entrata a doppio uscio; all'interno c'era solo una scrivania con delle sedie, dietro di questa una libreria traboccante di tomi dall'aria malandata, che divideva due grandi finestre con la veduta sul cortile anteriore della tenuta. Dietro la scrivania in quercia c'era un uomo di mezza età comodamente seduto su una poltrona, che stava leggendo alcuni fogli, probabilmente documenti; aveva i tratti tipici di un europeo, eppure la forma degli occhi faceva pensare a tutt'altro. Roger - doveva essere lui -, accortosi della presenza dei due, si alzò dalla poltrona e, dopo aver dato loro il benvenuto, invitò l'uomo e la bambina ad entrare e a prender posto sulle due sedie che fronteggiavano la cattedra, poi si accomodò nuovamente.
«Chi è questa bambina?» chiese Roger con uno spiccato accento inglese.
Lei fece per rispondere, ma Watari la precedette. «Era da sola nei pressi della Stazione Centrale di Londra. Ero lì di passaggio e mi ero accorto di lei, pertanto ho deciso di portarla qui.»
L'altro si portò una mano al mento. «Capisco. Tuttavia non può restare qui, a meno che non possieda il livello standard di quoziente intellettivo che cerchiamo. Hai fatto delle verifiche?»
«No. Pioveva quando l'ho vista, non avrei potuto verificare se avesse i requisiti richiesti qui» rispose Watari.
«Ma ora lei è a conoscenza della posizione di questo posto. Potrebbe essere un problema, dovresti saperlo.»
«Cosa avrei dovuto fare? Lasciarla lì a morire di freddo?»
«Io...» I due uomini si voltarono verso la bambina. «Io non so dove sono mamma e papà.»
Roger tentò di mostrarle la sua espressione più dolce, nonostante la situazione venutasi a creare non glielo permettesse. «Neanche noi lo sappiamo, purtroppo...»
«Ho visto solo bambini fino ad ora. Questo è un orfanotrofio, vero?» I due uomini annuirono. «Se sono qui, vuol dire che i miei genitori sono morti? Non rispondetemi, tanto so che è così.»
Solo allora Watari notò l'ombra che attraversava gli occhi grandi della bambina, uno strato di oscura consapevolezza che era calato su di lei, come un velo, e l'aveva coperta dalla testa ai piedi. Guardò Roger e disse: «Credo che possa restare qui.»
«Sono d'accordo» rispose l'altro, annuendo. Poi si rivolse alla fanciulla. «Da oggi fino al tuo diciottesimo compleanno, vivrai qui» esordì. «In questo posto vige una regola fondamentale, che vale per tutti i bambini e anche per me e Watari: non bisogna rivelare a nessuno il proprio vero nome, mai.»
«È per la sicurezza di tutti?» chiese la bambina.
«Proprio così. Presentati a tutti con un soprannome a tua scelta.»
La piccola annuì, poi restò in silenzio per alcuni attimi, persa tra le centinaia di parole che occupavano la sua mente. Poi disse: «Voglio chiamarmi Blanca.»
Watari sorrise. «Ti calza a pennello.»
«Bene, Blanca. Da oggi in poi, il tuo nome sarà questo» esordì Roger, per poi porgerle una mano, che la nuova arrivata strinse. «Benvenuta alla Wammy's House. Benvenuta a casa.»









Angoletto dell'Autrice!!

Sì, sono incredibilmente viva. So che dovrei completare altre innumerevoli fanfiction (chi mi segue sugli altri fandom lo sa bene), ma ho comunque deciso di iniziare questa; Death Note è un'opera molto importante per me: la trama, la grafica, i personaggi... Mi hanno conquistata all'unisono, tanto da farmi appassionare nel giro di pochi giorni (ho visto TUTTI gli episodi in un giorno, e non vi dico il manga e i vari gadget...)
E quindi, eccomi qui.

-Channy

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Capitolo 2
*** Davanzale ***


Isabel era l'angelo della Wammy's House. Oltre a ricoprire il ruolo di responsabile dei dormitori, era come una vera e propria madre per tutti i bambini dell'orfanotrofio - non a caso, era la moglie di Roger; era una donna onesta, dolce come il miele e, spesso, si schierava dalla parte degli orfani, diventando loro complice e mettendosi volontariamente contro suo marito, ma solo per convincerlo a chiudere un occhio su una marachella combinata da qualcuno dei bambini. Tutti l'amavano, lì, e anche Blanca l'aveva presa subito in simpatia.
«Per ora, questi dovrebbero bastarti» disse Isabel, tirando fuori dall'armadio della sua camera alcuni indumenti femminili di piccola taglia, per poi porgerli alla bambina che, pazientemente, la stava osservando dallo stipite della porta.
«Come fai ad avere questi vestiti?» le chiese Blanca, guardandola con aria interrogativa. «Tu sei più grande, te ne servono altri.»
Isabel si scostò una ciocca di capelli neri dal visto. «Mi piace avere degli abiti per bambine nel mio armadio. Gli arrivi qui sono molto irregolari, per questo non si sa mai chi si presenta alla nostra porta. Sono abiti d'emergenza» disse, per poi aggiungere: «Non temere, in questi giorni faremo un salto in città per comprarne degli altri.»
Un sorriso fece capolino sul viso di Blanca. «Grazie.»
«Non devi ringraziarmi, tesoro» le rispose Isabel. «Adesso vieni con me, ti faccio vedere la tua camera.»
Detto questo, entrambe uscirono dalla camera matrimoniale della tenuta e iniziarono a percorrere il corridoio silenzioso; passarono davanti a una finestra, e Blanca poté vedere alcuni bambini che giocavano a rincorrersi.
«Ti piace stare in compagnia?» le chiese la donna tutto d'un tratto.
Blanca si girò a guardarla: le rughe attorno agli occhi erano deboli e appena accennate. «Dipende. Non mi piace stare in compagnia di brutte persone.»
«La tua compagna di stanza non è una brutta persona.»
La bambina chinò la testa di lato e, di conseguenza, una delle due piccole codine che raccoglievano i suoi capelli castani sfiorò una spalla. «Avrò una compagna di stanza?»
«Sì. Tutti i bambini hanno almeno un compagno di stanza. La tua si chiama Amy.»
A Blanca non parve affatto un nome cattivo, ma volle saperne di più. «E com'è?»
Isabel cambiò direzione, prendendo a salire le scale sulla sinistra del corridoio. «È molto timida, non è riuscita ancora ad integrarsi con gli altri bambini. Non esce mai dalla sua camera, se non per andare al bagno, di tanto in tanto» le spiegò la donna. «È arrivata qui qualche mese fa, ma non ha mai rivolto la parola a nessuno. Non riusciamo a capire il perché del suo blocco. Dobbiamo persino portarle da mangiare in camera, altrimenti morirebbe di fame.»
Blanca annuì silenziosamente; non sapeva cosa dire, si sentiva abbastanza impacciata.
«Potresti aiutarla?»
La bambina alzò immediatamente lo sguardo, facendolo incontrare con gli occhi color nocciola di Isabel.
«Prova a parlarle, a farla uscire dalla stanza, fate conoscenza con qualcuno. Non può restare chiusa tra quelle quattro mura per i prossimi dieci anni.»
«Ha la mia stessa età?» chiese Blanca con gli occhi che le brillavano.
«Sì» rispose Isabel. «Ci proverai?»
La bimba sorrise, colpita da uno dei suoi rari momenti di sicurezza. «Ci proverò.»
La donna le rivolse uno sguardo amorevole e la ringraziò in silenzio. Subito dopo, le indicò una porta in legno scuro, una delle tante che decoravano quel tratto di corridoio, dicendole che erano giunte a destinazione. Isabel bussò alla porta e, nonostante non avesse ricevuto il permesso per entrare, aprì l'uscio, seppur lentamente, ritrovandosi davanti ad una stanza immersa nella penombra del tramonto.
«Amy?» chiamò dolcemente la donna. «Hai una compagna di stanza. Non sarai più da sola.»
Davanti alla finestra, seduta sul davanzale interno a gambe incrociate, una bambina si voltò verso Isabel, per poi spostare gli occhi su Blanca, studiandola da capo a piedi; non disse neanche una parola, limitandosi a voltarsi nuovamente verso la finestra che affacciava sul cortile posteriore dell'orfanotrofio.
Isabel invitò Blanca ad entrare in camera, per poi indicarle il letto che era stato preparato per lei e la strada per arrivare ai bagni di quel piano.
«Prendetevi cura l'una dell'altra» disse la donna poco prima di congedarsi. Poi aggiunse: «Tra poco sarà pronta la cena. Potete raggiungere la sala da pranzo con gli altri bambini, loro sanno già la strada.» E se ne andò.
Blanca restò in piedi davanti alla porta d'ingresso, che era stata poco prima chiusa da Isabel; come avrebbe dovuto comportarsi? Quella bambina era rimasta totalmente insensibile al suo arrivo e, ancora, era ferma, immobile davanti alla finestra, ad osservare alcuni bambini giocare a calcio. Aveva i capelli castano scuro, ed erano molto corti per appartenere ad una femmina; la presenza della frangetta, però, le addolciva il viso, e le donava uno stile quasi unico nel suo genere.
Iniziò a sistemare i pochi vestiti che Isabel le aveva donato nell'unico armadio della stanza, facendo attenzione a non invadere gli spazi già occupati da Amy, anche se questi erano davvero pochi: nell'armadio c'erano solo qualche maglia - piegate e riposte su uno degli scaffali del mobile -, un grosso cappotto grigio e due paia di jeans. Si voltò verso la sua compagna di stanza e prese ad osservarla attentamente, senza però farsi scoprire; se nell'armadio c'erano così pochi vestiti appartenenti a lei, possibile che fosse arrivata da poco? No, impossibile; Isabel le aveva detto che era lì da mesi, ormai. Che fosse davvero così chiusa verso ciò che la circondava?
Decise di presentarsi. «Il mio nome è Blanca.»
Amy si voltò nuovamente verso di lei, lentamente, e annuì. «Tu già sai il mio.»
Blanca rimase colpita: quella bambina aveva la voce più acuta e fanciullesca che avesse mai sentito. «Da quanto tempo sei qui?»
«Sono arrivata lo scorso 31 dicembre» rispose Amy, scrutando le sagome degli orfani che ridevano nel cortile.
«Io sono arrivata oggi...» Venne interrotta dal balzo che fece la sua compagna di stanza: scese velocemente dal davanzale interno della finestra e vi ci nascose dietro, mostrando a Blanca un'espressione inquieta. Sembrava aver visto un fantasma. «Cosa è successo?»
«Niente. Sto bene» disse Amy, tornando in piedi; era bassa, ma non tanto. Balbettò, poi prese a mordicchiarsi il labbro inferiore.
La nuova arrivata fece spallucce tra sé e sé, e si avvicinò lentamente alla sua compagna di stanza, mentre l'altra restò completamente immobile. Poi le sorrise. «Abbiamo gli occhi dello stesso colore.»
Sul volto di Amy comparve un'espressione più rilassata; sembrava che solo quella frase fosse riuscita a tranquillizzarla o, almeno, a distrarla da ciò che aveva visto dalla finestra. «È vero.»
Restarono entrambe in silenzio, l'una in attesa che l'altra dicesse qualcosa.
«Perché non esci mai da qui?» le chiese Blanca tutto d'un tratto.
L'altra bambina non rispose subito, perché troppo impegnata a mantenere la calma interiore; non voleva cadere in balia della tempesta, non davanti alla sua nuova compagna di stanza, non subito.
Poi afferrò il lembo della sua maglietta verde e disse: «Mi piace la solitudine.»
«A nessuno piace la solitudine.»
«A me sì.»
Si squadrarono a lungo, studiando ogni minimo accenno di un'espressione facciale dell'altra.
Alla fine, fu Blanca ad arrendersi, e lo fece capire alla sua compagna di stanza con un sospiro. «Va bene, come vuoi. Ma sappi che ti farò cambiare idea.»
Amy accennò un sorriso di sfida. «Non ci è mai riuscito nessuno.»
«Vorrà dire che quando urlerai per strada di essere la regina del mondo, il merito sarà solo mio.»
L'altra rise, divertita da quell'insolita esclamazione. «Contaci.»
In quell'esatto momento, il campanile dell'orfanotrofio rintoccò un paio di volte, quattro per la precisione.
«Cosa significa?» chiese Blanca.
«Vuol dire che sono le sette e mezza di sera. La cena sarà pronta» le rispose Amy.
«Vieni a mangiare?»
I due paia di occhi verdi s'incontrarono, i primi due brillanti di speranza, l'altra coppia traboccante di indifferenza.
«Non ho fame.»
«Ma...»
«Non insistere, per favore.»
Amy tornò a sedersi nella sua nicchia e prese a guardare nuovamente il panorama oltre il vetro, mentre Blanca, delusa dalle sue stesse aspettative, mormorò un consenso. Abbassò la maniglia della porta e uscì, lasciando la sua compagna di stanza nella sua stessa solitudine a cui era tanto affezionata.
Non fece in tempo ad incamminarsi nel corridoio alla ricerca della strada conducente alla sala da pranzo, che scivolò su quella che, con la coda dell'occhio, le era sembrata una tessera completamente bianca di un puzzle.






Angoletto dell'Autrice!!

Ed ecco il secondo capitolo-- Che ne pensate dell'entrata in scena di Amy? Vi piace Isabel? Secondo voi, riuscirà Blanca a legare con la sua compagna di stanza? E cosa succederà nel prossimo capitolo? Scrivete una recensione e fatemi sapere cosa ne pensate!
Ringrazio tutti coloro che hanno scelto di leggere questa storia; vi do appuntamento al prossimo capitolo!

-Channy

QUESTO CALDO STA FACENDO PIÙ STRAGI DI MIKAMI COL DEATH NOTE

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Capitolo 3
*** Cena ***


«Ma che...?»
Blanca si sollevò sulle ginocchia, massaggiandosi lentamente il gomito sinistro, il quale aveva subito maggiormente il peso del suo corpo, appesantito dalla caduta improvvisa.
«Ecco dov'era, il pezzo mancante del mio puzzle.»
La bambina alzò lo sguardo e vide che, davanti a sé, se ne stava placidamente un bambino vestito interamente di bianco, in abbinamento con l'albina chioma riccia che gli ricadeva sulla fronte, coprendogliela tutta. Il fanciullo si chinò e raccolse la tessera lattea, ignorando bellamente l'infortunata, ormai con le lacrime agli occhi; le rivolse un'occhiata vitrea appena fu nuovamente in piedi, squadrandola. Blanca ricambiò lo sguardo, un occhio socchiuso dal dolore.
«E tu saresti...?»
La bambina rispose, ma dalle labbra uscì un lieve gemito di dolore. L'altro s'inginocchiò in parte a lei e, afferrandola per il polso, le fece alzare il gomito ferito e disse: «Non ti sei rotta niente, né ossa né legamenti. Vai in infermeria e fatti dare una borsa di ghiaccio secco, ti allevierà il dolore. Domani avrai solo una contusione violacea.»
Detto questo, le lasciò andare il braccio, che ricadde lungo il corpo di Blanca, la quale non si era azzardata a parlare. Il bambino si alzò e, dopo aver infilato il tassello del puzzle in una delle tasche anteriori dei suoi larghi pantaloni color panna, s'incamminò nel corridoio, diretto chissà dove. Lei si fece coraggio e si alzò a sua volta, iniziando a seguirlo cautamente; diminuì la distanza tra loro con poche falcate, poi alzò il braccio e picchiettò, con l'indice, sulla spalla del piccolo abitante dell'orfanotrofio. Lui si girò e, nel farlo, si accorse di essere più basso dell'altra; la invitò silenziosamente a parlare, nonostante fosse annoiato dalla sua presenza.
«Io... Io non so dov'è l'infermeria» balbettò Blanca. «Sono arrivata oggi.»
L'albino alzò gli occhi al cielo. «Piano terra, ultima sala in fondo al corridoio in direzione est.»
«Potresti accompagnarmi?»
«No» rispose secco lui. «Sto andando in sala da pranzo. Ho fame, è ora di cena.»
«Anch'io dopo devo andare a mangiare. Non mangio da due giorni.»
Il bambino sospirò, acconsentendo col capo; era seccato dall'idea di dover fare da badante, seppur temporaneo, alla nuova arrivata, tuttavia non voleva sembrare scortese ai suoi occhi - non troppo. Blanca gli rivolse un gran sorriso e iniziò a camminargli di fianco. Stettero in silenzio per tutta la durata del tragitto e anche in infermeria, dove l'infermiera diede alla bambina una pomata da spalmare sulla zona colpita ogni mattina e ogni sera, prima di andare a dormire.
I due orfani, successivamente, entrarono nella sala da pranzo e, dopo che gli furono consegnati un vassoio a testa, presero posto allo stesso tavolo.
Rivolse un sorriso caloroso al suo compagno di cena. «Mi chiamo Blanca.»
L'altro non ebbe nessuna reazione e continuò a masticare il boccone di carne. Poi ingoiò e disse, glaciale: «Near.»





«Si mangia con la bocca chiusa.»
«Senti, ho fame. Non darmi fastidio, per favore.»
«Ti stai ingozzando.»
«Non si dicono queste cose, specialmente alle fanciulle ben educate come me.»
«Le fanciulle ben educate non parlano con la bocca piena.»
Blanca ingoiò il boccone di tiramisù e sorrise. «Amo questo dessert!»
«Mi stai ignorando» puntualizzò Near, guardandola senza battere le palpebre.
La bambina fece spallucce e si leccò gli angoli della bocca, assaporando le ultime tracce di panna; poi puntò i suoi occhi color prato in quelli scuri dell'albino, pronta a prender parola. «Dimmi un po', chi è quel tizio che ti sta incenerendo con lo sguardo?» Lo aveva adocchiato già da parecchio tempo, quel bambino arrabbiato, e per tutta la cena non aveva fatto altro che pensare a cosa volesse da Near e, soprattutto, chi fosse.
«Ha i capelli biondi ed è vestito di nero?»
«Sì.»
«Affianco a lui c'è un bambino con i capelli rossi che sta giocando con un gameboy?»
«Sì.»
«Il primo si chiama Mello. L'altro è il suo compagno fidato, Matt.»
L'albino non si era nemmeno girato per vedere di chi Blanca stesse parlando, perché sembrava ne fosse già a conoscenza, che fosse abituato a quel brutto déjà vu, che ormai non ci facesse neanche più caso. Questo turbò molto la bambina dai capelli castani.
«Compagno fidato? Parli come se fossero degli adulti» disse lei. «Perché ti guarda così male?»
Near scrollò le spalle. «Non lo so. Non mi interessa.»
A quel punto, Blanca si alzò dal proprio posto, abbandonando il cucchiaino di metallo nel piattino di terracotta, ormai svuotato dal proprio dolce contenuto. Con passo deciso, si avvicinò al tavolo dei due bambini, che si trovava in uno degli angoli della sala, il quale pareva il più scuro di tutti, e forse faceva quell'effetto perché era parzialmente coperto da un pilastro addossato alla parete adiacente, colorata di un giallastro sbiancato dal tempo. Quanti anni avrebbe potuto avere quell'orfanotrofio?
Sentì addosso lo sguardo cocente del bambino biondo, e si pentì in anticipo di quello che stava per fare; persino il suo amico alzò lo sguardo dal proprio videogioco, avendola sentita arrivare.
«Hey, tu» lo chiamò Blanca. «Smettila di guardare Near in quel modo.»
Lui aggrottò le sopracciglia. «E tu chi saresti per dirmi quello che devo fare?»
Era una bella domanda, quella le era stata posta con voce fanciullesca e prepotente. Chi era lei?
«Non sta bene guardare qualcuno come stai facendo tu» disse la bambina. «Non è carino.»
Il biondo scattò in piedi e la fronteggiò, rivelandosi della sua stessa altezza. «Ascoltami bene, supereroina. Ti conviene farti gli affari tuoi, se non vuoi avere guai.»
Il bambino dai capelli rossi rise, senza staccare gli occhi dal proprio gameboy grigio. «Andiamo, Mello, stai esagerando. Cosa vorresti farle?»
Mello si girò di scatto verso l'amico. «Da che parte stai, Matt?!»
«Sto solo cercando di impedirti di cacciarti di nuovo nei guai» disse. Poi si rivolse alla bambina, dicendo: «Non ti ho mai vista da queste parti. Sei nuova?»
Lei annuì. «Sono arrivata oggi. Mi chiamo Blanca.»
«Forte. Non faccio le presentazioni, tanto hai già capito come ci chiamiamo. Ti piace qui?»
«Faccio meglio ad andarmene» intervenne Mello, girando i tacchi e abbandonando la sala.
Matt lo salutò, per niente turbato dal pessimo umore dell'amico biondo; Blanca si ripromise di andarci piano, con quel bambino vestito di nero. Lo seguì con gli occhi, dispiacendosi appena: gli aveva rovinato la cena? La sua porzione di carne con i fagiolini era ancora nel piatto bianco, ormai fredda e abbandonata; chi avrebbe finito il pasto al posto suo? Non era abituata agli sprechi. Prima di perdere tutto e di ritrovarsi nella Stazione Centrale londinese, senza neanche sapere come ci fosse arrivata, le era stato impartito un insegnamento vitale, il quale prevedeva di non sprecare cibo in nessuna occasione.
Stava per afferrare una forchetta per consumare il cibo, quando Matt allungò la propria posata nel piatto dell'amico e afferrò la fettina di vitello fattasi fredda, per poi portarsela alla bocca e masticarla senza curarsi di non emettere suoni.
«Ho ancora fame» si giustificò, lanciando uno sguardo d'intesa a Blanca, accompagnato da un sorriso.
La bambina sorrise a sua volta. Si voltò per tornare da Near, ma scoprì che se n'era andato, e il loro tavolo era già stato sparecchiato e imbandito per la colazione dell'indomani. Sul suo volto si fece largo un'espressione triste, l'ennesima di quella giornata. Aveva paura che quel posto le portasse esclusivamente desolazione e rassegnazione, le quali sarebbero state causa del suo cambiamento di personalità; perché le era capitato? No, no. Stava viaggiando troppo con la fantasia. Dopotutto, non era successo ancora nulla, era in quel posto da neanche ventiquattro ore. Avrebbe provato a stringere amicizia con qualcuno per poter rendere la sua vita lì piacevole, per non sentire troppo il peso del tempo e dell'oppressione gravare su di sé. Se proprio avesse dovuto porsi delle domande, si sarebbe chiesta cosa intendevano Watari e Roger riguardo la questione del quoziente intellettivo, mentre discutevano della custodia della stessa Blanca nell'ufficio del responsabile della Wammy's House.
Si voltò nuovamente verso Matt, il quale aveva mandato giù anche la maggior parte della verdura destinata a Mello.
«Senti» iniziò, «ti sta bene se in questi giorni ti sto attorno? Vorrei provare ad interagire con...»
«Mi sta benissimo!» esclamò il rosso, mostrandole un sorriso a trentadue denti. «Non mi dispiace ad avere un'altra persona con cui poter passare il tempo. Vedrai, non dispiacerà neanche a Mello. Solo, dagli un po' di tempo. È un tipo timido, sai?» Spense il gameboy e si alzò da tavola, invitandola silenziosamente a seguirlo fuori dalla sala.
«Non si direbbe» rispose Blanca, soffocando una risata.
«Già, non si direbbe. Dà quest'impressione a tutti, ma in fondo è gentile. Non gli piace l'aria che tira qui, ecco» le raccontò. «Dagli un po' di tempo, e vedrai che diventerete amici.»
La castana annuì appena, decidendo di fidarsi di Matt; sembrava onesto, e i suoi occhi non lasciavano trasparire alcuna malizia.
«A proposito, dove hai detto che è la tua stanza? Ti accompagno lì.»
«Al terzo piano.»
«La mia stanza è al quarto. La condivido con un ragazzo chiamato Arthur e, ovviamente, con Mello. In realtà, ho chiesto io che Mel fosse spostato nella camera mia e di Arthur, perché all'inizio lui era al primo piano. Non si trovava bene con i suoi compagni di stanza, quindi il Nasone ha accettato che Mello venisse da noi per evitare che lui se la prendesse con la tappezzeria, come aveva già fatto in passato.»
«Il Nasone?»
«Roger, no? Ha un naso enorme.»
Blanca rise di gusto, appuntandosi nella mente quel soprannome.
«All'inizio, ad Arthur non stava bene che Mello si trasferisse da noi, ma alla fine ha scoperto di tollerarlo. Questa è la dimostrazione che il lieto fine esiste.»
La bambina tentennò, e il sorriso dal suo volto scomparve.
«Ho colpito nel segno, vero?» disse Matt. «Come pensavo, anche tu sei spaventata da questo posto. Credi che, una volta qui, la possibilità di avere una vita felice sia impossibile da raggiungere. Ma è okay, tutti quando arrivano qui la pensano in questo modo, perciò non sei l'unica. Un po' mi dispiace, perché questo posto non è poi così tanto male come tutti pensano: abbiamo un letto dove dormire, cibo sempre in tavola e un riparo dalla pioggia. Ci sono persone che si prendono cura di noi, incluso il Nasone, anche se quello ci odia tutti.» Fece una breve pausa, il tempo di inginocchiarsi per allacciare i lacci della sua scarpa destra. Poi si alzò e continuò: «Quello che voglio dire è che tutti dovrebbero imparare ad apprezzare queste piccole cose. A me piace stare qui, per esempio. Non lo dico per vantarmi, ma perché è la verità. Se non fossi qui, probabilmente sarei già morto. Sono felice di essere ancora vivo.»
Gli occhi di Blanca erano ormai velati da lacrime pronte a sgorgare; Matt parlava un sacco, ma la bambina sapeva che lo faceva col cuore, glielo poteva leggere negli occhi, nonostante non fosse esperta in quella cosa. Il rosso aveva ragione, e lui stesso lo sapeva. Lo conosceva da pochi minuti, eppure già poteva affermare di potersi fidare ciecamente di lui.
«Parli in modo strano, Matt» gli disse, tirando su col naso.
«Vuol dire che sto facendo bene il mio lavoro» affermò il bambino. «È questo il compito degli orfani della Wammy's.»
«Che compito?»
«Non mi dire che il Nasone non ti ha detto niente!» disse Matt, accennando ad una risata. «Qui non siamo semplici bambini. Questa è un luogo d'addestramento. Uno di noi, qui dentro, è destinato a diventare il Successore.»
Se prima Blanca non aveva le idee chiare, allora in quel momento poteva definirsi completamente confusa.
«Siamo arrivati al terzo piano» annunciò il rosso, sottolineando l'ovvietà. «Ti lascio qui, io me ne torno in camera. Mi sono appena ricordato di una cosa molto importante. Buonanotte, Blanca!» disse liquidandola, e corse al piano superiore, sparendo dalla vista della castana e senza darle il tempo di rispondergli.
Lei si ripromise di tartassare Matt di domande l'indomani e, nel frattempo, arrivò di fronte all'uscio della propria stanza. Una volta dentro, vide la finestra aperta ed Amy avvolta da un pigiama bianco e un lenzuolo color lillà, ormai addormentatasi. Sulla scrivania, padroneggiava un vassoio sorreggente due piatti ormai vuoti.










Angoletto dell'Autrice!!

Ho da raccontare per chi è così annoiato da volerlo leggere un aneddoto divertente:
Prima di pubblicare questo capitolo, ero sul letto col portatile e stavo scrivendo un'altra fanfiction; mia madre mi aveva chiamata da un'altra stanza, così mi ero alzata, avevo lasciato il PC sul letto ed ero andata da lei. Poco dopo, tornata in camera mia, avevo notato che il computer era particolarmente caldo. E niente, stava andando tutto a fuoco e sono intervenuta giusto in tempo. Sono una piromane. Spero solo di poter recuperare ciò che stavo scrivendo altrimenti mi butto in un dirupo.

Tra dieci giorni tornerò sui banchi di scuola. Non credo debba aggiungere altro.

Ma passando al capitolo, come vi è sembrato? Il biondino darkettone e il nerd più nerd di me hanno fatto la loro comparsa, insieme all'apprendista nano numero uno della Wammy's! A proposito di Near, vi è sembrato OOC? Ho fatto del mio meglio per gestirlo, ma non sono intelligente abbastanza... Fatemi sapere cosa ne pensate con una recensione, e grazie per aver letto fin qui!

-Channy

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Capitolo 4
*** Fuori ***


Contro ogni sua aspettativa, dormire in quel letto, su quel materasso e avvolta da quella coperta profumata di pulito, le risultò parecchio rinsanante, tanto da farla russare. Non ricordava l'ultima volta in cui aveva avuto un sonno così comodo e adagiato - o, almeno, così avrebbe affermato se non si fosse svegliata nel bel mezzo della notte per via di un incubo. Rosso, fiamme, cenere. Percepiva ancora l'odore di bruciato invaderle le narici prepotentemente, e solo a ripensare al fumo le lacrimavano gli occhi. Quelle immagini sarebbero rimaste per sempre nella sua mente, incastonate tra i ricordi vecchi e quelli ancora da creare.

Blanca si mise a sedere tra le pieghe dei teli del suo letto e si guardò attorno, scorgendo la figura della sua compagna di stanza - ancora addormentata - alla sua destra; aveva i capelli scompigliati, i quali le lasciavano scoperta la fronte, e la bocca aperta, con un rivolo di bava a scendere da un angolo. In volto aveva un'espressione rilassata e gentile, completamente in contrasto con quella fredda e indifferente con la quale si era presentata il giorno precedente, tanto da far credere a Blanca che Amy fosse affetta da una doppia personalità - e, probabilmente, quella sua teoria non era errata.

Balzò giù dal letto e si vestì in fretta con la maglietta che Isabel le aveva dato il giorno prima, scoprendo che le calzava a pennello; decise di lasciar dormire la sua compagna di stanza e di scendere a fare colazione. Prima di riversarsi in corridoio, controllò bene che non ci fossero ostacoli in giro in grado di farla inciampare. Sul suo gomito albergava un livido violaceo e lei se ne stava prendendo cura, timorosa che la contusione potesse peggiorare.

Fu nella sala da pranzo in un batter d'occhio, perché era ormai esperta della strada da percorrere, seppur l'avesse ripassata solo due volte. Sperava di incontrare Matt o Near - o, perché no? Mello - per poter mangiare in compagnia, ma non fu così, poiché l'orologio a pendolo segnava un orario inadatto per fare colazione. Decise di uscire da lì e fare una passeggiata nel cortile dell'orfanotrofio, intenta a scoprirne ogni angolo. I raggi del sole l'abbracciavano tiepidamente e il cielo era privo di nuvole; non faceva caldo, eppure i fiori coltivati nelle aiuole chiedevano acqua, ed erano accontentati da Isabel che, con piacere e dedizione, li stava innaffiando con un innaffiatoio arancione. La bambina zampettò fino a raggiungere la donna, dandole un timido buongiorno; chiacchierarono allegramente per l'intero lasso di tempo impiegato nelle opere di giardinaggio di Isabel, la quale era felice di avere compagnia. Andarono nel ripostiglio per mettere al loro posto gli attrezzi per il verde, e fu allora che la donna propose alla bambina di raggiungere il centro di Winchester per acquistare vestiti e scarpe da indossare e aggiungere all'armadio. Blanca accettò di buon grado e, insieme, raggiunsero l'automobile di Roger.




Sembravano per davvero madre e figlia, Isabel e Blanca; non si somigliavano né geneticamente né fisicamente, eppure camminavano tenendosi per mano come fossero una vera famiglia. Ma lo erano, e questo rassicurava entrambe.

Erano appena uscite da un fast food, tutte e due con lo stomaco pieno, anche se Isabel non era stata favorevole nella scelta di quel locale per accomodarsi per l'ora di pranzo; avrebbe preferito di gran lunga essere cliente di un ristorante italiano e mangiare un generoso piatto di pasta, ma alla fine aveva ceduto alle suppliche della piccola orfana, che era curiosa di assaggiare cibo diverso da quello che era abituata a mangiare nella sua vecchia casa.

Che importa se non è salutare? Vorrei solo assaggiarlo, non mangiarne tanto. Potrebbe non capitarmi mai più - le aveva detto, facendole intenerire il cuore, il quale l'aveva spinta a pronunciare un consenso, che aveva fatto saltellare gioiosamente Blanca.

«Isabel?» la chiamò, e strinse un po' di più la stretta delle loro mani. La donna si voltò verso di lei, invitandola a continuare a parlare. «Ti rimangono ancora dei soldi?»

«Cosa vorresti comprare ancora? Ti serve dell'altro?» chiese Isabel, alludendo alle tre buste di cartone piene di maglie e pantaloni che stava sorreggendo con la mano libera da quella della bambina.

Blanca negò con la testa. «Vorrei portare qualcosa ad Amy.»

La donna non riuscì a trattenere un sorriso. «È un pensiero veramente gentile da parte tua» le disse. «Cosa vorresti comprarle?»

«Non lo so. Potresti suggerirmi tu?»

Isabel stava per risponderle, quando si bloccò; le tornò in mente suo marito, e anche Watari, con i loro volti severi e autoritari. Parlò: «Anche se da poco, fai parte della Wammy's House. Prova a pensare da sola.»

«Pensare da sola? E come? Non conosco i suoi gusti, non mi parla molto. Anzi, abbiamo parlato solo un po' ieri sera...»

«Però l'hai osservata.»

Non ci fu bisogno di altre parole. Blanca si perse ad osservare il vuoto davanti a sé, mentre nella sua testa facevano capolino immagini riguardanti la sua compagna di stanza: cosa indossava la sera precedente, cosa c'era in quell'armadio, con che pigiama l'aveva vista dormire e l'espressione che il suo volto aveva dato vita nel bel mezzo del sonno. Avanzò lentamente verso un negozio d'abbigliamento, trascinando Isabel con sé, la quale stava continuando a sorridere, compiaciuta dalla reazione della bambina; una volta dentro il punto vendita, l'adulta raccolse tutti gli abiti indicati dall'orfana, senza né opporsi né distrarla dal suo lavoro. Aveva deciso di cogliere la palla al balzo, perciò la stava sottoponendo ad uno dei test d'intelligenza di Watari: il test dell'osservazione, mirante a cogliere tutti i particolari, anche i più piccoli, di una situazione al fine di risolvere un problema, giocando sull'inconsapevolezza degli apprendisti. Giunsero alla cassa con una pila di vestiti tra le braccia di Isabel.

«Ne sei sicura?» chiese quest'ultima prima di pagare, e Blanca annuì.




Il cancello d'entrata della Wammy's House si aprì tramite il comando elettronico dettato da Roger dal suo ufficio, poiché aveva visto e udito l'auto presa in prestito da Isabel avvicinarsi all'ingresso della proprietà. La donna guidò fino al garage sotterraneo dell'orfanotrofio, dove parcheggiò l'automobile; subito dopo, lei e Blanca scesero dal veicolo ed estrassero gli acquisti dal bagagliaio, per poi raggiungere l'interno dell'edificio, passando per il cortile. Lì vi erano molti orfani, tra cui anche ragazzi e ragazze più grandi, intenti a giocare a calcio, usando due alberi paralleli tra loro come porta.

«Hey, Blanca!» urlò un bambino, alzandosi in piedi per farsi vedere dalla diretta interessata. Lei si voltò e scoprì che, a chiamarla, era stato Matt, il quale aveva preso posto su un muretto ombreggiato in compagnia di Mello, quest'ultimo poco interessato all'arrivo della bambina.

L'orfana raggiunse i due con andatura veloce, portando con sé tutte le buste ottenute nelle ore precedenti. Una volta raggiunto il muretto, salutò entrambi con un sorriso: era felice, dopotutto, di vederli, seppur il bambino con i capelli color oro la intimorisse ancora un po'.

«Dove sei stata?» le chiese Matt. «Ti sei persa la litigata più epica di sempre! Gemma e Lexie si sono strappate i capelli a vicenda per contendersi il posto a tavola vicino a quello di Darwin. È stato grandioso, vero Mello?»

«Sì» rispose il biondo, divertito. «Lexie ha tirato un pugno a Gemma e quella è scappata via piangendo.»

«Non farmici pensare, altrimenti scoppio di nuovo a ridere, e poi mi vengono i crampi.»

«Almeno queste femminucce sanno come intrattenere.»

Blanca roteò gli occhi, decidendo di far finta di non aver sentito l'ultima frase pronunciata da Mello, e disse: «Sono stata in centro a fare compere.»

Matt tornò a rivolgersi a lei. «E hai comprato tutte quelle cose?» le chiese, alludendo alle numerose buste di cartone che lei stava sorreggendo.

«Non è tutto per me» rispose la bambina, tentando - senza successo - di nascondere le borse dietro la schiena. «Ho pensato di comprare qualcosa anche alla mia compagna di stanza.»

«Hai una compagna di stanza? Chi è?»

«Si chiama Amy.»

«Mai sentita» sentenziò Mello, accompagnato dal capo di Matt, che aveva annuito per dargli ragione. «Da quanto tempo è qui?»

«Dallo scorso Capodanno» replicò lei, «però non esce quasi mai dalla nostra camera. È una persona solitaria.»

Mello si soffiò via un ciuffo di capelli da davanti al viso. «Patetica. E anche debole.»

Blanca s'imbronciò. «Non giudicare gli altri così in fretta. Non la conosci nemmeno.»

«Ancora a dirmi cosa devo o non devo fare, supereroina?»

La bambina lo ignorò, e disse: «Stasera spero di convincerla ad uscire.»

Matt le sorrise, estraendo dalla tasca posteriore dei suoi jeans il suo prezioso gameboy, pronto a giocarci. «Buona fortuna.»

L'orfana corse via, decisa a scollare Amy dalla finestra della loro stanza. Salì in fretta le scale dell'edificio, e fronteggiò l'uscio della sua camera; con violenza aprì la porta, buttando all'interno gli acquisti e poi se stessa. «Sono tornata!» esclamò, per poi chiudere l'uscio alle sue spalle.

«Potresti fare più piano la prossima volta? Mi fai spaventare.» Era vero: essendo abituata a stare da sola, Amy riusciva a spaventarsi con poco, e il suo cuore ne risentiva parecchio.

Blanca la guardò, realizzando che l'altra era coperta unicamente da un asciugamano rosa troppo grande, perché era appena uscita dalla doccia ed era intenta ad asciugarsi; si scusò per essere entrata senza bussare, e le porse due delle cinque borse di cartone che aveva portato. «Queste sono per te» le disse.

Amy spostò più volte lo sguardo da lei al bottino, per poi accettare quest'ultimo con un ringraziamento privo di ulteriori cerimonie. Guardò dentro le buste e ne scoprì il contenuto. «Perché?»

«Perché ho notato che hai pochi vestiti» rispose Blanca. «E perché speravo di riuscire a farti uscire da qui.»

L'altra le rivolse un'occhiata glaciale. «Non voglio uscire.»

«Allora facciamo così: dato che le buste sono due, una è perché hai pochi vestiti, mentre l'altra è per farti passare questa sera in compagnia mia e degli altri bambini. Ti sembra convincente? Ormai hai già accettato il regalo, quindi non puoi tirarti indietro.»

«Così imbrogli.»

«Non mi lasci altra scelta. È per il tuo bene.»

«Ti ho già detto che sto bene restando qui.»

«Ascolta» iniziò Blanca, «il Signor Watari, e anche il Nasone, hanno detto che dovremo rimanere in questo orfanotrofio fino ai nostri diciotto anni. Vuoi passare i prossimi dieci anni chiusa in questa stanza?»

Dapprima Amy restò in silenzio, poi disse: «Il Nasone sarebbe Roger?»

L'altra sorrise. «Sì, perché ha un naso enorme!» esclamò, citando il bambino dai capelli rossi che aveva conosciuto il giorno prima.

La solitaria rise, abbandonando la buia espressione priva di ogni emozione. «Ogni venerdì viene qui ed elenca una serie di motivi per cui, secondo lui, dovrei uscire. Ripete sempre le stesse cose, cambia solo il modo in cui le dice. Io mi annoio, e finisce sempre che gli chiudo la porta in faccia. Però quel naso non si è ancora ammaccato.»

Anche Blanca rise. «Non riesco ad immaginare Roger senza il suo naso.»

Amy annuì, ormai entrambe le braccia erano a sorreggere lo stomaco. Disse: «Va bene. Provo ad uscire.»

L'altra bambina, una volta realizzato ciò che la sua compagna di stanza le aveva appena detto, prese a saltellarle attorno, ringraziandola a gran voce. Si chinò a raccogliere una delle due buste, e vi estrasse un abito, che porse ad Amy: questo era di colore blu elettrico senza alcuna fantasia, con le maniche a tre quarti e un nastro argentato a disegnare la vita, dal quale partiva una gonna a campana che scivolava fin sotto al ginocchio.

«Metti questo» le disse, «così festeggiamo.»

«È molto bello» rispose l'altra. «Mettiti anche tu un vestito, così facciamo le gemelle.»

Blanca annuì - felice in cuor suo di essere riuscita a centrare i gusti dell'altra - e tirò fuori da una delle sue buste un abito giromanica dal corpetto nero con pois bianchi e una gonna rossa a sbuffo.

«Girati, che mi cambio.»

Si vestirono entrambe in fretta, e con le mani lisciarono le pieghe dei capi d'abbigliamento; si misero anche le scarpe, seppur queste non s'abbinavano bene con i vestiti da loro indossati. Alle due non importava di quel particolare, si vedevano bene allo specchio attaccato a una delle ante dell'armadio della loro camera. Si misero silenziosamente d'accordo per sistemare nel guardaroba gli acquisti di Blanca, dividendosi equamente gli spazi. Amy era completamente diversa dalla sera precedente, e la nuova arrivata non poté non notarlo; era sorridente, e di tanto in tanto le faceva un complimento riguardante un acquisto. Blanca credette che stesse fingendo, ma la sua compagna di stanza le trasmetteva energia e positività, tanto da farle cancellare l'ipotesi della menzogna dalla mente. Non si poteva - secondo Blanca - fingere uno stato d'animo senza che una persona vicina non se ne accorgesse. L'aria non serviva solo a mantenere in vita un individuo, ma anche a trasportare messaggi veritieri, i quali sarebbero stati ricevuti dai destinatari senza proteste. L'aria non mentiva, i sentimenti non mentivano. Amy non mentiva.

Entrambe fronteggiarono la porta della loro stanza; prima di aprirla per uscire, Blanca afferrò la mano dell'altra bambina con la propria, stringendola appena, come ad infonderle coraggio.

«Pronta?»

«Pronta.»

 

 

 

 

Angoletto dell'Autrice!!

Mi è mancato EFP, mi è mancato editare e, soprattutto, mi siete mancati voi, miei lettori! Non era mia intenzione mancare per così tanto tempo, ma quest'anno è letteralmente corso via e, diamine, se ne sono successe di cose... Ma ora sono qui, a godermi le meritate vacanze estive (le ultime, dato che tra tre mesi sono in quinta superiore O.O'), pronta ad affrontare un'avventura che spero mi rivoluzioni totalmente: sola soletta, starò via di casa per più di un mese per trascorrere del tempo in città francesi, con lo scopo di allargare i miei orizzonti, di ingrandire il mio bagaglio culturale e di voltare pagina, di lasciare indietro tutto il dolore che mi ha devastata in questi ultimi mesi. Tornerò più forte di prima, ne sono sicura, e non sto più nella pelle!

Ovviamente non abbandonerò la scrittura, che è tutta la mia vita; anzi, non vedo l'ora di concludere parecchi dei miei progetti!

Vi ringrazio per aver letto questo capitolo. Fatemi sapere cosa ne pensate!

-Channy

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Capitolo 5
*** Incubo ***


Amy guardava il corridoio del terzo piano dell'orfanotrofio come se non l'avesse mai visto prima; il lungo tappeto, i quadri appesi ai muri con le loro cornici stravaganti, le tende che coprivano le grandi finestre e altre che le lasciavano scoperte, un aspirapolvere abbandonato accanto ad una parete, un piccolo bonsai adagiato su un davanzale ombreggiato, era tutto così nuovo e così bello agli occhi verdi della piccola orfana. «Quello non c'era quando sono arrivata» disse, e col dito indice indicò un dipinto di natura morta.

Blanca storse il naso; non era appassionata di pittura, tuttavia i pochi quadri che catturavano la sua attenzione non appartenevano a quel genere – piuttosto un grande campo fiorito dove gli animali a quattro zampe correvano, rincorrendosi delle volte, danzando tra le api e il polline.

«Che poi, perché si chiama così?» continuò la solitaria. «I fiori e la frutta sono vegetali. Non fanno le stesse cose delle persone e degli animali, ma hanno le cellule viventi. Perché allora si chiama natura morta e non natura viva?»

«Si chiama natura morta perché i soggetti sono stati tolti dal loro ambiente naturale.»

Le due bambine si girarono per vedere chi, alle loro spalle, avesse parlato; un bambino dalla chioma albina era uscito da una delle stanze, tenendo sottobraccio una scatola grigia rettangolare. Le stava scrutando con occhi privi di emozione, e alcuni capelli glieli coprivano. «Near!» esclamò Blanca, felice di vederlo seppur sarebbe dovuta essere arrabbiata con lui per essersene andato senza dire nulla la sera precedente – ma, ormai, per lei era acqua passata. «Ciao!»

«Ciao.»

Amy osservò l'orfano: non l'aveva mai visto, dalla finestra di camera sua, in cortile a giocare con gli altri bambini; non sembrava un amante dei giochi all'aria aperta, a giudicare dalla damiera contenuta nello scatolo che stava trasportando – il nome del prodotto era ben leggibile. Balbettò un saluto.

«Tu chi saresti?»

«Lei» rispose Blanca, «è la mia compagna di stanza. Si chiama Amy.»

«Piacere di conoscerti» fece Near, per poi andarsene senza dire una parola.

«Scusalo, è che...»

«Non importa. Andiamo.»

Scesero le scale, ed Amy rischiò di inciampare per due volte, e negli altrettanti momenti incolpò la propria sbadataggine, promettendo all'altra di fare maggiore attenzione a dove avrebbe messo i piedi da allora in avanti; Blanca faticò a crederle, ma evitò di dirglielo. Giunsero al piano terra e, di conseguenza, nell'atrio, popolato da adolescenti addossati ai muri perché troppo svogliati per tenersi in piedi da soli, intenti a parlottare tra loro di argomenti che Blanca definiva per adulti.

«Quando sono arrivata» disse Amy, «qui era tutto sporco di neve e impronte. Proprio lì sono scivolata, ma non sono caduta perché zio Watari mi ha preso al volo.»

«Perché dici che il Signor Watari è tuo zio?» chiese l'altra.

«Gli ho chiesto se voleva esserlo, e lui ha detto sì.»

«Non ha molto senso.»

«Per me lo ha» rispose Amy, continuando a camminare affianco a Blanca. Varcarono la soglia della porta principale, e la solitaria si aggrappò al passamano per scendere i pochi gradini che le stavano davanti, i quali la stavano sfidando ad oltrepassarli senza restare ferita. Lo spazio anteriore adiacente all'edificio era ombrato, buio per via del sole calante dal versante opposto della proprietà; se le due bambine avessero sollevato la testa al fine di guardare il cielo, avrebbero sicuramente scorto la luna lattea nascosta parzialmente dal chiarore del cielo crepuscolare.

La piccola nuova arrivata afferrò la mano della solitaria e prese a camminare in direzione della partita di calcio improvvisata – che, a giudicare dagli schiamazzi allegri, era ancora in corso –, sostenendo di volerle far conoscere i suoi due nuovi amici. Amici? Perché li aveva chiamati in quel modo? Gli amici erano persone di cui ci si poteva fidare, che dimostravano affetto, solidarietà, disponibilità – e loro rispettavano quei canoni? In quel momento, Blanca definì se stessa precipitosa, imprudente, avventata, ma non fece in tempo a correggersi che scorse i due bambini asociali nello stesso luogo in cui si trovavano in precedenza; affrettò il passo, trasformando la camminata in una corsa lenta, dimenticandosi delle probabilità di caduta di Amy – la quale, tuttavia, non inciampò, sostenendo anzi l'andatura dell'altra.

In quell'istante Mello si voltò, quasi per casualità, e le vide arrivare, ancora un po' lontane dal muretto che lo ospitava insieme al suo migliore amico, ancora impegnato a giocare con la propria consolle portatile – il come facessero le batterie a durare così a lungo, rimaneva un mistero per il biondo; diede una lieve gomitata a Matt e, quando quest'ultimo lo guardò, con il capo gli fece cenno di voltarsi. Quando il rosso eseguì l'ordine, le due bambine erano già giunte dinanzi a loro; salutò entrambe e rivolse loro un sorriso, per poi abbandonare il proprio gameboy in una delle larghe tasche dei suoi jeans.

«Ho due domande da farti» fece Mello, rivolgendosi a Blanca, la quale gli prestò attenzione. «Chi è questa? E perché vi siete conciate in questo modo?»

«Non essere così scorbutico» lo rimproverò Matt.

«Io non sono scorbutico!»

Blanca si grattò la guancia destra. «Ci siamo vestite così perché ci andava. E poi, hai visto? Ho fatto una promessa e l'ho mantenuta. Lei è Amy, la mia compagna di stanza.»

«Piacere di conoscerti, Amy. Io sono Matt, e lui...»

«So parlare, per tua informazione» sibilò il biondo, per poi incrociare le braccia al petto. «Mi chiamo Mello.»

Amy pensò di dirgli di no, che non si chiamava in quel modo, che quello era solo uno pseudonimo per nascondere il suo vero nome, tuttavia non parlò; le era parso nervoso, lui, arrabbiato, così preferì non peggiorare il suo umore. Si limitò a porgere una mano e dire: «Piacere.»

I tre bambini guardarono la sua mano con un'espressione confusa in volto. «Che fai?»

«È un saluto, no?»

«Così si salutano i grandi» disse Blanca.

Come se la bambina avesse pronunciato una parola magica, a Mello s'illuminarono gli occhi e sorrise, stringendo la mano di Amy. «Piacere, maschiaccio.»

Amy piegò appena la testa di lato. «Perché mi chiami così?»

«È semplice. Perché hai i capelli corti pur essendo una femmina.»

«Tu sei un maschio e hai i capelli lunghi, ma mica ti chiamo femminuccia.»

Matt scoppiò in una risata fragorosa. «Hai trovato pane per i tuoi denti, Mel.»

«Stai zitto, Matt!»

Le due bambine si unirono alle risa divertite del rosso, lasciando l'altro in preda alla rabbia mista all'imbarazzo; odiava quando Matt non pensava prima di parlare, oppure quando parlava e basta – avrebbe preferito che in situazioni come quella lui non ci fosse, perché perso nel mondo videoludico.

Amy si premette le labbra con le dita di una mano, nel tentativo di smettere di ridere. «Scusami, non l'ho fatto apposta» disse con sincerità.

Dal canto suo, Mello le mise una mano su una spalla, in modo tale da darle una spinta. «Non mi piace essere preso in giro, capito?»

Lei fece qualche passo indietro, imbronciandosi appena. «Non ti ho preso in giro, stupido.»

«Come mi hai chiamato?!»

«Okay, credo che possa bastare» s'intromise Matt, con in volto un sorriso pacifico. Il campanile rintoccò per quattro volte. «Che tempismo, è ora di cena.»

Blanca assunse la medesima espressione del rosso. «Ceniamo insieme!»

«Ottima idea!»

«Andate voi, io non ho fame» sentenziò Mello, che però venne tradito dal brontolio del proprio stomaco. Arrossì appena, sentendosi osservato da così tanti occhi verdi – quanti paia ce n'erano? Tre? Sbuffò e mise il muso, non intenzionato a rendersi ulteriormente ridicolo davanti alle due orfane.

Senza aggiungere ulteriori esclamazioni, Matt s'incamminò verso l'entrata dell'edificio, sapendo di essere seguito dagli altri; era affamato, e avrebbe spazzolato via qualsiasi cibo contenuto nel piatto che gli sarebbe spettato. Davanti al portone, al di là dei pochi gradini d'accesso, se ne stava in piedi Roger, occupato a controllare che tutti gli orfani abbandonassero il cortile ed entrassero all'interno della struttura; era vietato, per i più piccoli, frequentare il giardino dopo l'orario del banchetto serale, poiché avrebbe potuto rappresentare un pericolo con l'ascesa del buio della notte. Ma egli, uno dei grandi pilastri della Wammy's House, cadde in ginocchio di fronte a quello che avrebbe potuto definire un miracolo; abbracciò le due bambine, commosso e incurante di essere visto dagli altri piccoli e grandi abitanti della proprietà. Ringraziò entrambe, sia in silenzio che ad alta voce; disse grazie a Blanca per aver insistito, e fece lo stesso con Amy, la quale si era arresa alla circostanza di essere lì.

 

 

 

 

Blanca afferrò la brocca piena del loro tavolo e versò un po' d'acqua nel proprio bicchiere. «Forse avremmo dovuto invitare anche Near a cena.»

«Non nominarlo neanche, in mia presenza.»

«Non devi essere così ostile.»

«Quale parte di taci non hai ancora capito, Matt?»

«Near chi?»

«Dai, Near. Te l'ho presentato prima.»

«Ah, quel Near.»

«Qui ce n'è solo uno, sai?»

«E per fortuna.»

«Mello!»

«Non iniziare a farmi la predica, supereroina» sbottò il biondo, aggrottando le sopracciglia. «Non sai nemmeno come stanno le cose.»

Blanca chiese: «E come stanno, allora?»

«Quel nano è il preferito di L» rispose lui. «Pensa che è stato L in persona a portarlo qui e a dargli il soprannome. Quello imbroglia.»

«Non è vero» sentenziò Matt. «Sì, è arrivato qui con L, ma questo non vuol dire che non è intelligente.»

Il biondo gli rivolse un'occhiata cattiva, ma restò zitto perché non sapeva come replicare; il rosso aveva ragione, dopotutto, ma lui non l'avrebbe ammesso mai, non ad alta voce, non se costretto, per nulla al mondo. Il suo odio per Near si rafforzava ogni giorno di più, e seppur sapesse benissimo che quella situazione non giovasse alla salute, non era disposto a condividere alcuna tregua. L'astio tra loro era destinato a durare per l'eternità.

Blanca fece slittare i propri occhi da Matt a Mello più volte, per poi chiedere: «Chi è L?»

«Sei qui e non sai chi è L!» esclamò il bambino dai capelli color oro. «Pazzesco!»

Matt si apprestò a rispondere alla domanda fatta dalla nuova arrivata, facendo in modo di collegarsi al discorso della sera precedente, tuttavia Amy – la quale non aveva aperto bocca sino ad allora, se non per mangiare la minestra di verdure – parlò: «L è la ragione per cui tutti noi siamo alla Wammy's House e non in un altro orfanotrofio» disse pacatamente, seppur la sua voce acuta stonasse di parecchio il suo stato d'animo. «Io non ci ho mai parlato quindi non so se è vero, ma è la persona più intelligente del mondo. Ha un cervello grande così» e allargò le braccia.

«Ma certo che è vero» intervenne Mello. «Io gli ho parlato, e l'ho pure visto in faccia.» Aggiunse, indicandosi gli occhi: «Con questi qui.»

«Perché non avresti dovuto vederlo?» domandò Blanca, mentre giocava con il cucchiaio che aveva usato per mangiare.

«L preferisce non essere visto» rispose Matt con un'espressione sconsolata in volto. «Devi essere molto fortunato per incontrarlo.»

«Oppure basta che guardi Beyond Birthday» fece il biondo. «Si somigliano molto.» Con il dito indice, indicò verso il bancone dove alcuni bambini stavano facendo la fila per avere il piatto con la propria cena; tra questi ne spiccava uno, un adolescente che attendeva con impazienza il proprio turno, immobile, ricurvo con la schiena, le mani nelle tasche anteriori dei suoi jeans e una zazzera di capelli neri sulla testa. Come se l'avessero chiamato ad alta voce, Beyond Birthday si voltò verso il tavolo ospitante i quattro orfani, e diede vita ad un sorriso tirato, troppo, il quale gli deformò sinistramente il viso. Matt borbottò qualcosa su quel ragazzo, definendolo strano, ma fu interrotto da un rumore acuto, e si girò verso la fonte del fragore, seguito a ruota da Mello e Blanca; Amy non rialzò la posata che le era scivolata via dalla mano, finendo inesorabilmente a terra, né tantomeno si preoccupò di tornare a respirare regolarmente, troppo impegnata a sostenere lo sguardo del ragazzo distante.

«Amy? Stai bene?» chiese Blanca, scuotendola appena.

«BB ha gli occhi rossi.»

«Cosa?»

«BB ha gli occhi rossi» ripeté la solitaria, balbettando. «Il rosso è il colore della Morte.»

Blanca cercò lo sguardo degli altri due compagni di cena, chiedendo silenziosamente sostegno.

Matt disse, con una risata forzata: «Il colore rosso per gli occhi non esiste, Amy.»

«BB è nato così» rispose lei, col corpo scosso da brividi sconnessi. «BB è nato con gli occhi della Morte.»

«La smetti con questo scherzo? Non fai ridere nessuno» esclamò Mello, per poi continuare: «È vero che è tra i primi nella classifica del Successore di L, ma nessuno gli ha ancora assegnato una lettera, quindi chiamalo col suo soprannome, e non BB.»

Velocemente, gli occhi di Amy si inumidirono e la bambina si rifugiò sotto al tavolo, dove prese a singhiozzare con il volto coperto da entrambe le mani; nessuno degli altri orfani presenti in sala si accorse di lei e della sua disperazione, perché erano tutti distratti da altro e creavano confusione – senza contare il volume alto del televisore acceso. Mello alzò un lembo della tovaglia e, una volta allontanatosi dalla tavola, prese ad osservarla ancora da seduto, mentre Blanca si era accovacciata in parte a lei; solo Matt si mise in ginocchio e l'abbracciò, iniziando ad accarezzarle la testa e i capelli castani. «Dai, non è successo niente» le disse, curandosi di farsi sentire solo da lei. «Mello non l'ha detto con cattiveria.»

Amy negò col capo. «Non è per quello. È che...», ma come avrebbe fatto a spiegarlo? Se avesse sputato il rospo , non le avrebbero creduto, e per giunta avrebbero riso spudoratamente, la bambina ne era convinta. E fu quello il motivo che la spinse ad allontanarsi da Matt, alzarsi in piedi e correre via, fuori dalla sala da pranzo e lungo i corridoi, su per le scale, senza cadere. Non avrebbe trovato la soluzione a quella situazione nel suo letto, sotto le coperte, ne era perfettamente a conoscenza, eppure in quel momento se lo stava facendo andare bene. Chiese mentalmente perdono alla propria compagna di stanza e, ancora vestita e con il lenzuolo a coprirla fin sopra la fronte, sperò di cadere velocemente tra le braccia di Morfeo.

 

 

 

 

 

Angoletto dell'Autrice!!

Finalmente ho un portatile nuovo di zecca, quindi scrivere e pubblicare sarà una passeggiata ^^ Ho in mente taaante cose riguardanti le mie storie, spero di riuscire a concretizzarle tutte... Ma passiamo al capitolo! Vi è piaciuto? Non vi è piaciuto? Fatemi sapere cosa ne pensate con una recensione, e grazie mille per aver letto!

Alla prossima,

-Channy

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Capitolo 6
*** Lezione ***


Non era servito a nulla. Quell'intera giornata passata a pensare a come avrebbe potuto iniziare a scalfire il cuore di pietra di Amy, si era rivelata tempo sprecato. Proprio mentre credeva che la cena insieme a Mello e Matt stesse procedendo bene, la piccola solitaria aveva iniziato a blaterare, per poi alzarsi e correre via. Blanca l'aveva seguita, ma la sua compagna di stanza le era parsa una vera e propria scheggia, mentre si precipitava verso la loro camera, per poi fiondarvisi, chiudendo la porta alle sue spalle – seppur non a chiave; l'altra, rimasta nel corridoio, aveva chiaramente udito le molle di un materasso smuoversi, accogliendo un piccolo corpo sopra di esse, con il lenzuolo a fare da intermediario. Non era riuscita ad entrare nella stanza. Era rimasta in piedi di fronte all'uscio, con la mente piena di domande a far capolino da ogni dove, e le promesse di trovare le risposte con l'aiuto del tempo faticavano a reggersi; si voltò, vedendo arrivare i due compagni di cena, e si lasciò sopraffare dallo sconforto.

 

 

 

 

Dopo esattamente tredici ore dalla cena, Blanca si ritrovò nuovamente nella sala da pranzo, seduta al tavolo utilizzato da lei la sera precedente, per fare colazione. Si guardava attorno, incuriosita dal repentino via vai degli altri abitanti dell'orfanotrofio, molti dei quali non sostavano ad un tavolo per consumare il cibo, piuttosto afferrava della pancetta o dei pancakes dal banco di distribuzione e correvano via, in un luogo a lei sconosciuto, seguiti da due o tre compari con altrettanta fretta. E dov'era la sua, di compare? Lei era rimasta in camera, appollaiata sul davanzale interno della finestra, abbracciando un orsetto di peluche bianco, con un nastro rosso scarlatto a circondargli il collo morbido e a decorarlo con un dolce fiocco, gli occhietti neri dell'animale di pezza tristi almeno quanto la proprietaria; le aveva detto che aveva già fatto colazione, ma Blanca non le aveva creduto, evitando tuttavia di accusarla di essere una bugiarda. Quest'ultima portò un boccone di uova strapazzate alla bocca, venendo subito dopo invasa dal sapore della portata; non era un piatto fuori dall'ordinario, né tantomeno era cucinato alla perfezione, ma era in grado di farle tornare in mente le abilità culinarie di sua madre. Sentiva molto la sua mancanza, eppure non aveva pianto quando aveva realizzato di averla persa; che diritto aveva di disperarsi per la perdita della sua genitrice, quando era stata lei stessa ad averla uccisa?

Furono due teste a destarla dai suoi pensieri malinconici, una bionda e una rossa, dirette verso una cuoca che diede loro delle merendine commerciali; impiegò una frazione di secondo per riconoscere i due orfani, e li chiamò a gran voce, speranzosa di poter passare con loro la mattinata. A raggiungerla, tuttavia, fu solo Matt, seppur Mello non se ne fosse andato, attendendo il ritorno dell'amico vicino all'ingresso della sala, senza tuttavia intralciare il flusso di bambini e giovani ragazzi che andavano e venivano.

«Ciao, Matt.»

«Buongiorno, Blanca. Scusaci, ma non possiamo proprio fare colazione con te oggi.» La bambina chiese, masticando, dove si stessero dirigendo tutti gli altri orfani. «Be', oggi ci sono le lezioni. Dovresti venire anche tu, sono corsi molto utili per superare i test mensili.»

«Test mensili?»

«Sì, e poi i risultati vengono pubblicati nella grande bacheca nell'atrio. Lì si vedono le graduatorie ed L si fa un'idea su chi è più predisposto ad essere il Successore.» Matt afferrò la bambina per un polso, costringendola a farla alzare dalla sedia di legno; Blanca non si oppose.

«Ma la mia colazione?»

«Tranquilla, se ne occuperà la persona addetta alle pulizie sorteggiata. Per fortuna che il turno mio e di Mello è stato la settimana scorsa.»

«No, non capisco» rispose la bambina seguendo il rosso a passo svelto.

«Si vede che sei una novellina» rise lui. «Da sempre, uno di noi viene scelto per aiutare le cuoche ad occuparsi della cucina e le domestiche a pulire i corridoi per tre giorni, e quando ha finito tocca ad un altro. È vero, è una scocciatura, specialmente perché dobbiamo studiare molto e passare tre giorni a svolgere altre attività ci fa perdere del tempo prezioso, però siamo in tanti e quindi è giusto così.»

Camminarono lungo il corridoio del piano terra dell'orfanotrofio, quello alla destra della mensa, fino a raggiungere una stanza con la porta a doppia anta, con all'interno molteplici banchi singoli, quelli che Blanca qualche anno prima aveva visto in un film ambientato in un liceo statunitense. Mello si fece largo tra gli orfani già presenti nell'aula e si andò a sedere in un banchetto, quello situato nella fila più lontana dalla cattedra e accanto alla parete, in modo che avesse meno contatti umani possibili; accanto a lui si accomodò Matt, e subito davanti trovò posto la bambina che, solo in quel momento, si accorse di non avere nulla con sé per prendere appunti. Non fece in tempo a preoccuparsi di chiedere in prestito qualcosa, che l'orfano dai capelli rossi le allungò dei fogli a quadretti, per poi tirare una leggera gomitata al biondo; questi alzò gli occhi al cielo e a Blanca diede una matita smangiucchiata all'apice e con la punta consumata. Lei ringraziò entrambi, e quando si voltò una donna era appena entrata nella stanza ed aveva invitato tutti i presenti ancora in piedi a prender posto, in modo che la lezione potesse cominciare; notando la novella presenza, si schiarì la voce e disse di chiamarsi Miss Begum. Lo sguardo assottigliato di quella donna di appena mezz'età lasciava trasparire, come un fiume durante una violenta piena, la sicurezza di anni d'esperienza accumulata come insegnante completo; durante l'età di giovinezza aveva studiato nelle scuole più prestigiose dell'Inghilterra e, prima di essere assunta come docente privata alla Wammy's House, aveva seguito corsi di specializzazione in vasti ambito dell'insegnamento, varianti dalla psicoanalisi di un individuo alle lingue straniere – era in grado di sostenere un discorso in nove idiomi differenti.

Quel giorno si concentrò sugli esami orali – che preferiva chiamare colloqui formali – in modo da permettere a Blanca di recuperare le lezioni passate. La bambina scriveva in maniera ordinata e precisa, mentre ascoltava incantata i dialoghi tra l'insegnante e gli alunni; Mello intervenne più volte nelle interrogazioni di sua spontanea volontà, e a lui si opponeva Matt, che disegnava di nascosto nel suo raccoglitore blu elettrico. Furono fatte diverse domande a tutti gli alunni, e la maggior parte di loro fu in grado di fornire risposte sufficienti o più; se era stata accettata in quell'orfanotrofio – pensò Blanca mentre continuava a prendere appunti, curandosi di fare meno rumore possibile – stava a significare che anche lei aveva le capacità necessarie per intraprendere un discorso a quei livelli di diplomazia? Trattenne un sorriso entusiasta e si ripromise di studiare costantemente; non aveva nessun altro posto dove andare, per cui sarebbe dovuta rimanere lì fino alla maggiore età, e quale passatempo sarebbe stato migliore di quello di accogliere la sfida per diventare il Successore? Sarebbe stata dura, lo sapeva perfettamente, perché tutti lì avevano il suo medesimo obiettivo e l'invisibile strato battagliero era quasi tangibile, ma cos'altro avrebbe potuto fare? Non conosceva né tantomeno aveva mai sentito parlare di L, se non la sera prima, ma se tutti quegli orfani arrivavano a competere rabbiosamente per farsi notare da lui e raggiungere le prime posizioni nelle classifiche dei test mensili, allora doveva trattarsi di una persona parecchio importante. Che fosse una celebrità? Lei aveva un debole per le persone famose, per quelle che avevano lottato con le unghie e con i denti per raggiungere una postazione di prestigio, perché tutte quelle battaglie avevano fatto di loro persone forti. Incuriosita, si chiese come e quando avrebbe potuto presentarsi ad L personalmente, sentire la sua voce, vedere com'era fatto – anche se la sera precedente aveva squadrato il suo sosia da capo a piedi. Non le importava se anche solo ascoltare tutte quelle parole pronunciate a raffica e riportarle su un foglio di carta le risultava difficile, lei si sarebbe impegnata; sarebbe cresciuta, sarebbe migliorata, sarebbe sbocciata come un fiore da campo in primavera. Chissà cos'aveva in serbo per lei il futuro? Delle volte aveva desiderato aprire il libro della sua vita e leggerne una pagina scelta casualmente, tutto per il solo piacere di avere un assaggio di ciò che avrebbe dovuto vivere, e arrivare preparata per gli eventi.

Lanciò uno sguardo rapido all'orologio appeso sopra la grande lavagna a muro, e scoprì che era già passata un'ora e mezza dal suo arrivo lì; si voltò appena verso Matt e, osservando la sua espressione annoiata, comprese che avrebbe dovuto continuare a scrivere ancora per molto.

 

 

 

 

«Finalmente è finita anche oggi!» esclamò Matt, stiracchiandosi braccia e gambe sulla sedia mentre il campanile dell'orfanotrofio rintoccava mezzogiorno. Miss Begum aveva dato loro il permesso di abbandonare l'aula e quest'ultima, nel giro di pochi attimi s'era svuotata per metà. «Non ce la facevo più.»

«Ma non hai fatto niente» fece Mello raggruppando le proprie cose e buttandole alla rinfusa nella propria tracolla grigia.

Il rosso assottigliò gli occhi e mostrò al migliore amico l'interno del proprio raccoglitore. «Certo, non ho fatto niente. E nel frattempo Donkey Kong e la Principessa Peach si sono disegnati da soli.»

I due, bisticciando, uscirono dalla stanza seguiti da Blanca, sorreggente i fogli che aveva riempito di scritte nelle ore precedenti; interveniva nella loro discussione – la quale, avendo raggiunto un livello troppo alto di comicità, aveva fatto crollare tutta la buona impressione che entrambi le avevano fatto durante i dialoghi della lezione – ma la sua mente era ancora persa ad immaginare le fattezze fisiche e mentali di L, la sua voce, il suo modo di porsi, i suoi hobby – una persona tanto importante come lui aveva dei passatempi?

Le parole le uscirono di bocca senza che lei potesse far qualcosa per fermare i suoi pensieri. Disse: «Potrò mai conoscere L?»

I due bambini non si scomposero dopo aver udito quella domanda. Mello rispose: «Potrai parlargli, se sarai fortunata.»

«In che senso?»

«Senza avvertire nessuno e senza una puntualità, L fa delle videochiamate per poter parlare con noi. In quest'edificio c'è una stanza priva di arredamento, contenente solo un computer che viene lasciato acceso ventiquattro ore su ventiquattro appositamente per lui. L ci può vedere attraverso la videocamera, ma noi non possiamo fare altrettanto. Se vuoi così tanto conoscerlo, ti consiglio di fare un salto in quella camera di tanto in tanto.»

Gli occhi di Blanca brillarono. «Dove si trova questa stanza?»

«È vicino all'ufficio del Nasone» fece Matt. «Due porte dopo, nella direzione della grande camera matrimoniale.»

«Quella di Roger e Isabel?»

«Sì.»

L'umore della bambina schizzò in alto, stampandole sul volto un sorriso smagliante. Trotterellò su per le scale, seguita dai due amici, in direzione della propria camera; lì avrebbe posato gli appunti delle ore precedenti, e successivamente avrebbe pranzato, rimandando al pomeriggio la richiesta di quaderni e penne al direttore dell'orfanotrofio, che avrebbe usato da subito per poter studiare. Raggiunse velocemente la propria camera da letto, e il suo sorriso si spense un po'; bussò alla porta e udì un flebile permesso di entrare. Amy era seduta alla scrivania, la testa china su un foglio bianco che stava riempiendo di ghirigori. «Sei stata a lezione, vero?»

«Sì» rispose Blanca. «Come fai a saperlo?»

«Dopo la colazione non sei tornata. Ho pensato che eri andata in posto importante, e a quell'ora d'importante ci sono solo le lezioni al piano terra.»

Matt lanciò uno sguardo intimidatorio a Mello. «So a cosa stai pensando. Non lo dire.»

Ma il biondo non l'ascoltò; irruppe nella camera delle due bambine con un'espressione severa. «Fossi, casomai.»

«Come?»

«È un congiuntivo, solitaria dei miei stivali. Si dice che fossi andata, non che eri andata.»

Amy pensò alle parole di Mello, per poi dire, allo scopo di giustificare il proprio errore grammaticale: «Nella mia vecchia scuola non avevamo ancora studiato il congiuntivo.»

Blanca annuì, dando ragione alla propria compagna di stanza.

«Non mi interessa, frignona. Non so come tu abbia fatto a superare i test dei due vecchi se sei a questo livello d'ignoranza, ma sei alla Wammy's House, quindi sei obbligata a stare in riga. Mi hai capito o devo ripetertelo con parole più semplici?» chiese il biondo, e il suo tono arrogante ricordava il sibilo di un serpente velenoso.

«Mello...»

«Non ora, Matt. Sto aspettando la risposta di questa qua.»

«Ti ho capito» rispose Amy. «Però... Che cosa significa frignona?»

Il biondo si passò una mano sul viso, indeciso se lasciarsi sopraffare dalle emozioni furenti o rimanere mite, per quanto gli fosse possibile. «Prendi un vocabolario dalla biblioteca e scoprilo da sola.»

Alla piccola s'illuminarono gli occhi. «C'è una biblioteca qui?»

 

 

 

 

Ciò che si presentava davanti agli occhi delle due bambine era così strabiliante che le aveva lasciate senza parole. Decine e decine di scaffali colmi di tomi di diverse grandezze riempivano la grande sala, estendendosi dal pavimento fin sopra al soffitto, e ogni libreria era fornita di uno scaletto a nove gradini ciascuno per permettere di raggiungere gli scaffali più alti. I libri erano ordinati per categoria – indicate su delle targhette laccate d'oro –, e per ogni categoria erano disposti in ordine alfabetico d'autore; quando più volumi possedevano la firma del medesimo scrittore, si procedeva cronologicamente la pubblicazione. La biblioteca godeva di una scala a chiocciola in ferro che conduceva al piano superiore, dove l'esposizione di tomi continuava – l'ingresso al piano successivo, però, era unicamente quella piccola scalinata, dovuta alla mancanza di una porta alla sala superiore; su entrambi i piani, nell'esatto centro delle sale, si trovavano molteplici tavoli sorreggenti dei computer con le attrezzature a loro connesse, uno per ogni posto a sedere. All'ingresso della biblioteca si trovava la scrivania assegnata al responsabile di quel luogo, Mister Souffrance, il quale si occupava di registrare la data e l'ora dei libri presi in prestito dagli orfani, in modo da evitare furti. Souffrance era un giovane uomo di origini francesi che aveva trascorso la sua infanzia ed adolescenza sotto le premure di Watari, perché anch'egli orfano di entrambi i genitori; aveva sempre odiato le materie scientifiche, perciò si era convinto di non poter mai essere un pari di L – che aveva conosciuto di persona, perché avevano vissuto all'orfanotrofio negli stessi anni – e fu per questo motivo che scelse, una volta divenuto maggiorenne, di restare tra quelle mura, ad occuparsi di ciò che gli stava più a cuore: i libri.

Mentre Blanca s'era seduta ad un tavolo ed era in procinto di ricopiare gli appunti della mattina in uno dei quaderni che, poco prima, Roger le aveva fornito, Amy stava camminando per gli scaffali della sala, alla ricerca di un vocabolario; appena ne trovò uno, non esitò a prenderlo e tornare dalla compagna di stanza, barcollando appena per la pesantezza del tomo. Si sedette accanto a Blanca, e quest'ultima le chiese: «Perché ne hai preso uno così grande? Potevi prendere un dizionario più piccolo, tanto devi cercare solo una parola.»

L'altra scosse la testa in segno di negazione. «Ho avuto un'idea» disse, per poi prendere un quaderno dalla copertina nera e una penna del medesimo colore.

«Che idea?»

«Quando ho visto la grandezza di questo vocabolario, ho pensato che ci sono tante parole che non conosco ancora. Quindi leggerò e scriverò i tutti termini nuovi, così li imparo più in fretta.»

«Ma sono tantissimi!»

«Lo so, ma Mello ha ragione» rispose Amy. «Questo è un istituto dove crescono geni. Io non voglio essere da meno. Devo riuscirci.»

Blanca sorrise, sapendo che la propria compagna di stanza – e amica – aveva appena fatto un progresso. La vide sfogliare il grande libro e fermarsi alla lettera F.

«Frignone, da frignare. Frignare, verbo transitivo e intransitivo. Lamentarsi in modo continuo e noioso.» Amy assunse un'espressione infastidita. «Mello non è stato affatto gentile. Devo vendicarmi.»

 

 

 

 

 

Angoletto dell'Autrice!!

Approfitterò di questi due giorni liberi per scrivere, così potrò aggiornare, avevo detto. Ho passato quattro ore a guardare video sugli One Direction. Fucilatemi, grazie.

Grazie per aver letto questo capitolo e per aver inserito la storia tra le preferite/ricordate/seguite! Se vi va, lasciate una recensione ^^

Hasta luego,

-Channy

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Capitolo 7
*** Imprevisto ***


È dal 2020 che non aggiorno questa storia??????
Il tempo vola, sono allibita. Nel corso di questo tempo ho postato qualche altro capitolo su Wattpad (anche lì sono channy_the_loner), ma finalmente torno a essere attiva anche qui. Perché mi sono resa conto che non è cambiato nulla dal 2018, che la Wammy’s è casa mia e lo sarà per sempre, e ultimamente ho letto  c o s e  in questo fandom che non riesco davvero ad accettare.
E io da brava Virgo devo avere il controllo su ogni cosa possa cascare il mondo

Non mi dilungo ulteriormente perché tutto ciò che conta è la storia ;)  Anzi, ne approfitto anche per fare una revisione dei capitoli precedenti.
Buon anno, monell*, e buona lettura

-Channy

Post Scriptum: neanche a farlo apposta poco fa è uscito il riassunto della puntata 31 del Libricyno, CORRETE DAL TRONO




Il forte odore di disinfettante si fece largo nelle sue cavità nasali, donandole un bizzarro senso di pace; l'infermeria era decisamente il suo luogo preferito alla Wammy's House, con tutti i suoi colori delicati e terapeutici a circondarla. Sarebbe stata in grado di rimanere in quella stanza per intere ore, se non per giorni, ad ammirare ogni singolo attrezzo sterilizzato dell'infermiera Harris e a fare domande a quest'ultima, chiederle i segreti del mestiere e il perché che l'aveva spinta ad intraprendere la carriera della medicina, della prevenzione, del prendersi cura degli altri e dell'essere così carica di responsabilità.
Gemette appena per il bruciore esteso, ma poi si rilassò, percependo un fresco tocco sul viso; chiuse gli occhi con forza.
L'infermiera sorrise, continuando a spalmarle la crema sul volto. «Hai imparato la lezione?»
«Sì, signorina Harris» rispose la bambina. «Niente più giochi all'aperto nelle ore più calde d'agosto.»
«Brava, Blanca.» Si voltò alla propria destra. «E tu hai capito?»
Lui, imbronciato, incrociò le braccia e prese a dondolarsi sulla sedia dove era seduto. «Non mi tiro indietro davanti alle sfide.»
«Sì, ma guardati» disse la dottoressa. «Sei pieno di eritemi, Mello.»
«Ne è valsa la pena.»
«Secondo me no» intervenne Matt, seduto in terra a gambe incrociate a mo' di indiano, alle prese con la propria consolle portatile.
Accanto a lui, spalla contro spalla, china su una copia de L'Isola del Tesoro, Amy sorrise beffardamente, dicendo: «Sei così ustionato da sembrare un semaforo.»
«Ti ho chiesto di commentare? Non mi pare.»
Amy inclinò la testa di lato. «Sai quanti anni ha impiegato Stevenson per scrivere questo romanzo, Matt?»
«No.»
«Neanch'io.»
«Non ignoratemi!»
Blanca rise notando l'espressione furiosa del biondo, e si massaggiò un braccio arrossato con la pomata curativa. Amy, dal canto suo, mise, poco più in là del centro, un segnalibro colorato tra le pagine del romanzo preso in prestito dalla libreria e si alzò in piedi, abbandonando lo scritto sulle gambe del bambino dai capelli rossi; si avvicinò a Mello e, repentinamente, si cosparse le mani di crema e passò questa sul viso del biondo, violentemente arrossato a causa del prepotente sole estivo, il quale pareva averlo preso a schiaffi.
«Che stai facendo, marmocchia?!» urlò lui, tirandosi bruscamente indietro; la sedia si mosse pericolosamente, ma non cadde.
Lei gli tirò le guance con il pollice e l'indice di entrambe le mani. «Ti sto dando attenzioni.»
Mello urlò, dolorante. «Mi fai male, idiota!»
«Hai la pelle delicata, principessa?»
Il biondo le tirò un calcio ed Amy cadde in terra. L'infermiera Harris fu veloce a mettersi tra i due per evitare che si facessero ulteriormente del male; disse, autoritaria: «Vi sembra questo il modo di comportarsi?»
I due s'indicarono a vicenda. «È colpa sua!»
«Siete entrambi colpevoli.»
«Che scemi» commentò Blanca, roteando gli occhi al cielo. «Fa' qualcosa, Matt, invece di guardare e basta.»
Chiamato in causa, il rosso alzò lo sguardo dal gameboy e lo puntò sulla scena tragicomica che gli si parava davanti. Sospirò. «E va bene. Amy, andiamo a bere un succo.»
La bambina, per niente in collera, annuì vivacemente e scattò in piedi; barcollò appena e la vista le si annebbiò, ma nessuno ci fece caso, tantomeno lei, troppo desiderosa di gustare del succo d'arancia, e si passò le mani sulla maglietta per spazzare via i residui della crema terapeutica. Matt le restituì il libro e, a piedi nudi, uscirono dall'infermeria, lasciando i loro amici alle cure dell'esperto medico.
Il corridoio era illuminato dal sole pomeridiano e l'aria era afosa e soffocante; la bambina agitò una mano davanti al proprio viso, nel tentativo di imitare un ventaglio. «Odio il caldo» mormorò, rivolta a se stessa.
L'altro la sentì e, nonostante fosse consapevole che quel commento non mirava a fare conversazione, decise di rispondere: «Manca poco alla fine dell'estate. Resisti.»
«Beato te che non sudi neanche per sbaglio.»
Matt indicò il proprio abbigliamento. «Sto sempre all'ombra, non mi agito e sono quasi in costume da bagno, al contrario di qualcun altro...»
Amy gonfiò le guance. «È colpa dei miei capelli. Sono cresciuti troppo, dovrei tagliarli.»
«E tornare ad averli corti come li portavi mesi fa? Mello tornerebbe ad affibbiarti aggettivi maschili.»
Non poté protestare, lei. Davanti ai due orfani vi era Roger con un'espressione spaventosamente seria in volto; io suoi occhi ghiacciati non lasciavano trasparire emozione alcuna, fatta eccezione per un sentimento non propriamente identificato né al direttore dell'istituto né tantomeno ai due piccoli. Senza parlare, fece cenno al rosso e alla castana di seguirlo; i due di scambiarono un silenzioso sguardo confuso e un attimo dopo presero a camminare dietro l'uomo. Che fosse successo qualcosa di grave? Perché Roger necessitava di convocare nel suo studio proprio loro, che passavano inosservati agli occhi di tutti, con la loro triste invisibilità?





Se il loro mentore, con tutti i soldi che aveva a disposizione, avesse donato loro una paghetta settimanale per ripagarli di tutti i loro costanti sforzi, avrebbero sicuramente unito tutti i risparmi per acquistare un ventilatore abbastanza grande da poter rinfrescare un'intera stanza piena di gente.
I fogli stampati d'inchiostro nero erano tenuti fermi da portapenne e spillatrici, ma alcuni angoli si ribellavano alle barriere e s'alzavano, danzavano e poi tornavano giù, a ritmo della rotazione della gabbia di ferro contenente quattro ventole affannate, e la suddetta gabbia era inseguita dai due bambini, desiderosi d'aria fresca – d'aria e basta. Non essendo abbastanza alti per raggiungere il ventilatore, i due s'erano arrampicati sulle sedie di fronte alla scrivania di Roger, e sembravano fare a gara a chi rubasse più aria ventilata all'altro. Il direttore, nel frattempo, li stava osservando con attenzione; osservava i loro movimenti, i loro occhi, i loro visi, le loro parole: stavano bisticciando lievemente perché entrambi avevano caldo e perché Amy si era spalmata addosso a Matt per rubargli qualche granello d'ossigeno, giustificandosi con frasi fatte e schiaffetti sulle spalle alle proteste dell'altro. Come aveva fatto a non accorgersene prima? Tutto ciò era palese. Dove aveva guardato durante quei sei mesi di conoscenza e compagnia?
Schiuse le labbra e disse: «Andate molto d'accordo, vero?»
I due orfani si zittirono nell'istante successivo all'aver udito quella domanda a sfumature retoriche. «Sì» rispose Matt, «siamo amici.»
Roger si voltò verso la bambina. «Cosa dici tu?»
Amy spostò lo sguardo dal direttore al ragazzino. «Amici? È una bella parola. In cosa consiste però?»
Il rosso si accostò maggiormente al ventilatore. «Tu pensa a tutte le cose divertenti da fare in compagnia. Le persone che accettano di fare con te quelle cose e non con qualcun altro, sono amici.»
«E se poi qualcuno non vuole divertirsi? Se ha solo voglia di piangere?» chiese la bambina, e inchinò la testa di lato.
«Si piange tutti insieme. Il dolore si divide e fa meno male.» Il direttore dell'orfanotrofio sorrise. Le sue labbra piegate all'insù erano l'unione di sentimenti contrastanti; se da un lato era compiaciuto delle parole pronunciate dal videogiocatore, d'altro canto non capiva perché si ostinasse a non studiare a dovere, non come tutti gli altri, non abbastanza da finire in graduatoria, in una posizione minimamente prestigiosa da riuscire a farsi notare dal detective più bravo del mondo. Le aveva, tutte le carte in regola per poterlo fare, per poterci riuscire, e allora perché si ostinava a non interessarsi del suo futuro?
Aprì il primo cassetto della scrivania a partire dall'alto e ne estrasse una cartella verde selva apparentemente magra; al suo interno, tuttavia, vi erano dei fogli spillati ricolmi di scritte accompagnate da grafici scientifici e analitici. E d'analisi si trattava, con la firma dell'infermiera Harris e qualche scarabocchio sconosciuto, sottile, di una distorta eleganza. Porse alcuni di quei documenti ai due bambini. «Questi sono i risultati dei test sanitari a cui siete stati posti una settimana fa» disse, guardandoli al di sopra dei suoi occhiali. «Vorrei ci deste un'occhiata.»
Matt incrociò le dita di entrambe le mani. «Ti prego, Fusajiro Yamauchi, fa' che non abbia il morbillo.»
«Immagina di averlo per davvero.»
«No, per favore, il morbillo no.»
«O magari la peste non è stata ancora debellata del tutto.»
«Aspetta, però. Il Nasone ha convocato anche te, quindi anche tu potresti avere una malattia grave, o peggio, mortale.»
Amy gli sfilò i fogli di mano, fece per leggere ciò che vi era meccanicamente inciso, ma un attimo dopo gli restituì il tutto, lamentandosi di non riuscire a capire il significato di quelle parole. Il rosso fece finta di inforcare un paio di lenti da lettura e poi iniziò a leggere con serietà; i suoi occhi color prato slittavano velocemente tra le righe del documento, si soffermavano unicamente quando incontravano un segno d'interpunzione o una parola che non avevano mai conosciuto prima d'allora, e lì entrava in gioco la sua abilità di memorizzazione, che fotocopiava il novello termine nella sua ampia mente, organizzata con laborioso ordine, e la metteva da parte, la conservava con cura. Voltò pagina e trovò delle tabelle colme di numeri e simboli scientifici; vi erano riportati due nomi a lui molto noti, in quanto il primo era il proprio e il secondo apparteneva alla bambina che era di fianco a lui. Non era un esperto di medicina – quel campo apparteneva pienamente ad Arthur –, ma qualcosa non gli tornava per niente; quei valori, quelle forme, quelle figure, si differenziavano tutte per cifre minime, decimali, le quali passavano inosservate agli occhi dei meno attenti. Ma Matt era attento. Tre lettere, una sigla, l'acido deossiribonucleico.
Roger lesse stupore negli occhi del bambino, lo stesso che aveva assunto lui stesso quella stessa mattina, quando si era ritrovato quelle carte tra le mani per la prima volta.
Il rosso si voltò verso la piccola orfana che lo fiancheggiava, facendo scontrare i loro sguardi: verde contro verde, sfumatura per sfumatura, iride contro iride, e neanche le pupille mentivano, urlavano insieme ai contorni marroncini della membrana oculare. La verità era palese, ovvia, chiara come il prato di un campo innevato.
«Amy» la chiamò il ragazzino. «Ho letto una cosa molto strana.»
Lei si sentì improvvisamente scossa – negativamente? Positivamente? «Che cosa, Matt?»
Le porse i fogli, nonostante sapesse che lei non li avrebbe afferrati. «Qui c'è scritto che abbiamo il DNA compatibile al settantacinque per cento.»
Ci fu silenzio da parte dell'altra, immobilizzata, con le secche e spaccate labbra schiuse; boccheggiava, smarrita nei propri pensieri, nei propri ricordi prive di presenze maschili, fatta eccezione per il vecchio pappagallo giallo e verde, che cantava con la sua voce rauca e svolazzava per le stanze della grande casa durante la notte, creando spaventose e fugaci ombre per i corridoi silenziosi e dormienti. Si decise a parlare, dopo un tempo che le parve infinito; disse: «Mia madre mi ha sempre detto che sono figlia unica. E allora perché mi dici di essere mio fratello?»
Matt deglutì a vuoto. «Io... Io non sono mai stato fuori da questo orfanotrofio. Il mio ricordo più vecchio è ambientato qui.» Strinse i fogli con forza, e questi si sgualcirono. «Ci deve essere per forza un errore, Roger.»
Il responsabile della struttura giunse le mani e intrecciò le dita fra loro, puntellando i gomiti sulla scrivania. «Le analisi sono state affidate ai professori più capaci dell'Università di Oxford. Le probabilità che i risultati siano errati sono minime, se non nulle.»
«C'è sempre un margine d'errore.»
«Si parla di professionisti di fama mondiale, Matt.»
«Cosa c'entra? Io sono il più grande gamer del mondo, ma anch'io a volte perdo a un livello.»
L'anziano sospirò. «Non è la stessa cosa.»
«Sì invece!
 Si scambiarono uno sguardo intriso di fulmini e saette, desiderosi di vincere la battaglia che avevano fatto scoppiare poco prima, ma furono interrotti dalla porta che s'apriva e si richiudeva e una figura femminile che avanzava autoritariamente nella stanza, pronta a mettere definitivamente fine al litigio. Amy volò verso di lei, abbracciandole le gambe coperte dalla lunga gonna estiva, ignorando bellamente il caldo afoso e appiccicoso. Le disse, mormorando: «Tu lo sapevi, Isabel?»
La donna, intuendo l'accaduto, si abbassò alla sua altezza e con una mano le scostò alcuni capelli dal viso. «L'ho saputo questa mattina, tesoro.»
«E... E ci credi?»
Lei accennò un sorriso, forse per infonderle conforto. «Sì. Tutto ciò che è scritto su quei fogli è veritiero.»
La bambina si voltò versoi due maschi di opposte età. «Se lo dice Isabel, è vero.»
Roger sospirò nuovamente e Matt restò in silenzio; anche lui le credeva, anche lui credeva in ciò che diceva Isabel, a prescindere dalle circostanze, perché lei era la loro madre adottiva – e le mamme, naturali o acquisite, non potevano mentire, vero?
Il bambino dai capelli rossi abbandonò i fogli sulla scrivania del direttore della tenuta e scese dalla sedia, facendo per avvicinarsi ad Amy; forse erano davvero legati dal sangue, e probabilmente era stato quello ad aiutarli ad entrare in confidenza in poco tempo, nel giro di qualche giorno. Matt odiava doversi relazionare con qualcuno, specialmente se era costretto, ed Amy parlava poco, se non per nulla; eppure, quando stavano insieme, tra loro si creava un'atmosfera famigliare, di piacevole torpore, ed era come se il tempo si fermasse, forse per permettere loro di recuperare un'ignota epoca perduta. E finalmente avevano compreso il perché dell'esistenza di quel volersi bene, di quella fiducia reciproca scoppiata nell'istante in cui si erano parlati da soli per la prima volta, in una piovosa serata primaverile.
Anche Roger raggiunse il piccolo gruppo al centro dello studio. Mise una mano sulla testa di Matt e disse: «Lasciate perdere tutto per oggi. Avete molto di cui parlare.»
I due orfani annuirono. E all'improvviso sentirono l'irrefrenabile bisogno di abbracciarsi.





C'era una calma anormale per i corridoi dell'orfanotrofio; sembrava che il sole in procinto di tramontare avesse succhiato via tutta la vitalità dei piccoli abitanti dell'edificio. Regnava il silenzio più totale ovunque, persino in giardino, ma a Mello andava bene – ne era addirittura compiaciuto, poiché era un amante della tranquillità e della triste solitudine. Tuttavia, da un imprecisato tempo a quella parte, restare da solo in una stanza gli creava un indescrivibile vuoto all'altezza dello stomaco; dalla stagione primaverile precedente non era più riuscito a stare da solo con se stesso e la cosa, seppur all'inizio l'avesse altamente turbato, col passare dei mesi aveva scemato d'importanza, fino a diventare di routine. Non era la presenza costante di Matt ad averlo cambiato – anzi, lui era perennemente chino sulla propria consolle portatile tanto da risultare quasi trasparente –, piuttosto l'arrivo all'orfanotrofio di Amy e Blanca; per quanto le trovasse dispettose – nel caso della prima – e logorroiche – nel caso della seconda –, aveva imparato a fidarsi di loro, seppur inizialmente si ostinasse a respingerle. Dopotutto, quelle due erano le uniche bambine a non evitarlo e a prendere l'iniziativa di invitarlo in un gruppo di studio o di giochi – e lui come poteva rimanere indifferente a tutta quella benevolenza e contagiosa allegria?
Non era più in grado di stare da solo, non per troppo tempo, ed era già passata un'ora e mezza da quando Blanca l'aveva salutato e lasciato da solo nella sala da pranzo alla fine dei minuti dedicati alla merenda, perché desiderosa di ritirarsi nella sua camera per schiacciare un pisolino rinsanante prima della cena. E lui nella sala da pranzo era rimasto, a riflettere, a studiare distrattamente, a spiare i suoi coetanei impegnati nelle loro rispettive attività; poi, stanco di starsene in panciolle, s'era incamminato nel corridoio, alla ricerca di una Amy da prendere in giro e a cui rubare ogni singolo romanzo che aveva preso in prestito da Mister Souffrance. Ma non la trovava; sia lei che Matt parevano essere spariti nel nulla, e ciò lo infastidiva appena. Quei due erano fin troppo amici e Mello, Mello aveva paura di essere lasciato indietro, di essere abbandonato, di aver perso. Perso cosa, poi?
Si grattò la nuca e si guardò attorno, accorgendosi di aver salito le scale fino al quarto piano e di aver imboccato la corsia per raggiungere la propria camera – tanto meglio, si sarebbe concentrato molto di più nello studio; magari Matt ed Amy erano proprio lì a giocare ad uno dei numerosi videogiochi del rosso in modalità multiplayer. Sentì qualcuno ridacchiare acutamente; "Amy", pensò subito non riuscendo a trattenere un sorriso, ma quella risata non era la stessa della bambina: quella risata cambiava tono e cadenza in continuazione, a scatti, come se chi stesse ridendo stesse scegliendo la propria espressione migliore. Si avvicinò maggiormente alla propria camera e notò qualcuno sbirciare all'interno di questa. Vestiti larghi, piedi scalzi, capelli disordinati; Mello lo riconobbe all'istante: era Beyond Birthday. Quest'ultimo si voltò lentamente verso il biondo, con gli occhi quasi fuori dalle orbite e un sorriso distorto stampato sul viso.
«Mello» lo chiamò sibilando l'ennesima risatina.
«Ciao» salutò lui. Cos'era quello strano brivido che dalla nuca era corso fino a giù, attraversando tutta la sua spina dorsale?
«Questa è», ridacchiò ancora, «la tua camera?»
L'altro alzò un sopracciglio. «Sì.» Era strano, il comportamento del ragazzo – Beyond era sempre stato molto bizzarro, ma quel giorno aveva una luce diversa negli occhi; era come se gli fosse successo qualcosa, come se fosse elettrizzato per una certa situazione. «È successo qualcosa?»
Il bruno allargò sproporzionatamente il proprio ghigno. «È successo qualcosa, dici tu? È successo, è successo. Arthur si è stancato di studiare, perciò si è messo a dormire.»
Mello arricciò il naso. «E qual è la parte che fa ridere?»
«Mi fa ridere il modo in cui si è addormentato, e ti dirò una cosa in più.» S'indicò gli occhi di un rosso luccicante, e sibilò: «Lo sapevo già. Non si sveglierà tanto presto.»
Infastidito e a tratti inquietato, il biondo si avvicinò maggiormente all'uscio e, spalancandolo con un colpo secco, poté osservare ciò che mai avrebbe voluto vedere. Dondolava, il corpo inerme di Arthur, in controluce, e spostava le ombre nella stanza che sembravano danzare macabramente tra loro, e tutt'intorno vi era il silenzio più pesante mai creatosi in quelle mura; il fragile lampadario conduceva la danza, ma pareva sul punto di spezzarsi, di cadere, di crollare, e trascinare con sé Arthur, ormai incapace di provare dolore. Aveva gli occhi aperti, l'adolescente, e li avrebbe avuti per sempre, e le sue pupille parevano voler continuare ad osservare il mondo seppur non avrebbero più potuto farne parte per la mancanza del riflesso della vitalità. Il collo era fermamente stretto nella corda, la quale l'aveva fatto diventare violaceo, ed era la parte del corpo che più aveva sofferto durante gli ultimi istanti di vita del giovane ragazzo. Cosa era stato così insormontabile da averlo indotto a compiere un gesto così drastico e disperato? Arthur era stato fragile, ecco la verità. Essere primo nella classifica di successione non gli aveva garantito l'immunità, piuttosto quel rango gli aveva riservato esclusivamente disgrazie, quali l'assegnazione di una lettera – la prima dell'alfabeto –, l'esaurimento nervoso e quello emotivo, ed erano stati quelli a spingerlo a tirare un calcio alla sedia che lo teneva ancora in vita, a un passo dalla morte, in bilico, e a farla finire in terra; e lì il cappio s'era stretto e i polmoni s'erano svuotati. Arthur era passato a miglior vita osservando ciò che più amava al mondo: la porta. Vedeva infinite metafore negli usci, ma quella che più amava andava a braccetto con la libertà; sognava di spalancare il portone della Wammy's House e correre verso l'ignoto, verso ciò che non aveva mai visto, se non nelle lunghe descrizioni dei libri. Morendo era riuscito a trovare la sua desiderata libertà. Non gli importava nulla di L e del compito a cui era costretto ad adempiere – Arthur aveva sempre desiderato una vita normale. E quel giorno aveva trovato il coraggio di ribellarsi; era riuscito ad aprire quella sofferente porta serrata e ad andarsene – ma cosa aveva trovato sulla soglia opposta? Una creatura simile al mostruoso lo osservava, famelica, a tratti ripugnante, con quel suo muso macchiato di sangue – no, era solo marmellata, ma quella tinta s'avvicinava parecchio al cremisi. Era suo secondo, e lo inquietava essere un gradino più in basso rispetto a lui; si sentiva costantemente scrutato, costantemente pedinato, costantemente con le spalle al muro – temeva si essere aggredito in qualsiasi momento della giornata, persino durante la notte. Vedeva L in Beyond Birthday per via delle numerosi similitudini tra i due, e ciò incrementava l'odio che provava nei confronti del detective più famoso del mondo, colui che gli impediva di vivere una vita sana. E Beyond? Lui era letteralmente ossessionato da L; non voleva eguagliarlo, bensì superarlo, e fino a dove si sarebbe spinto per riuscire a centrare il suo obiettivo?
Gli attimi successivi a quel momento furono confusi: si udiva un'alterata risata acuta, tonfi indistinti e la voce strozzata di Mello che supplicava l'aiuto di qualcuno col cuore in gola e i polmoni vuoti.




Le esequie si svolsero a distanza di quindici ore. Tutti gli orfani ebbero l'opportunità di riabbracciare Watari, il quale aveva insistito a partecipare personalmente al funerale, seppur L non ci sarebbe stato, in quanto impegnato in altri affari. Era infinitamente dispiaciuto per la perdita recentemente avvenuta, e si era addossato tutte le colpe; diceva di essere da sempre stato a conoscenza dei disturbi mentali di cui soffriva il defunto Arthur, ma di non essere mai riuscito a dargli un aiuto concreto. Tuttavia, Arthur non era stato l'unico ad aver abbandonato quella famiglia allargata; quella notte, Beyond Birthday era evaso per sempre da quelle mura, e la sua intelligenza gli aveva permesso di far sparire tutte le possibili piste che avrebbero potuto condurre qualcuno al suo ritrovamento. Dal canto suo, Mello non aveva chiuso occhio, e le sue palpebre spalancate dal terrore gli avevano permesso di scorgere la sagoma ossea di Beyond allontanarsi per sempre da quello che era stato il tetto sotto il quale aveva trovato riparo anni addietro, quando i suoi genitori l'avevano lasciato per sempre, esattamente il giorno prima del suo compleanno.
Le tragedie parevano essersi concluse, a detta di qualche pettegolo invisibile. Roger aveva ritrovato – o forse se n'era solo accorto – sul corpo freddo dell'adolescente una lettera d'addio, e dalla calligrafia con cui era stata scritta lasciava facilmente trasparire la felicità di Arthur, insieme ai suoi ultimi voleri; desiderava essere cremato, e che le sue ceneri fossero sparse in un vasto campo al di là degli invarcabili cancelli dell'orfanotrofio. E così fu fatto.
Si respirava un'aria tesa; erano pochi gli orfani in lacrime, ma nessuno s'azzardava a parlare, a consolare, a rassicurare. Era tutto un fermo immagine, tutto un silenzio. Neanche Roger riusciva a parlare; non riusciva a credere che uno dei suoi figliocci fosse stato così disperato da arrivare a togliersi la vita – ed era stato visto, per giunta. Era profondamente addolorato, ma non si sarebbe mai mostrato in lacrime – seppur la voglia di piangere fosse tanta – davanti alla moglie e ai bambini, per nulla al mondo, perché obbligato dall'orgoglio; odiava mostrarsi debole. Seppur non fosse all'altezza colossale di Watari, lui era un pilastro della Wammy's House, e pertanto non poteva permettersi di cedere, altrimenti tutto sarebbe crollato insieme a lui. Non sapeva neanche consolare i suoi abbandonati, ma era giustificato in quanto non c'era nulla di positivo nella faccenda. Si sarebbero dovuti fare forza da soli, ed era ciò che stavano già facendo, ciò che avrebbero dovuto sempre fare per crescere, per maturare, per raggiungere L.
Blanca si lasciò scappare l'ennesimo singhiozzo, mentre si asciugava le lacrime con un fazzoletto di seta; non aveva più la forza di continuare a piangere – le dolevano il capo e l'intero viso –, ma come avrebbe potuto smettere se si sentiva tremendamente in colpa? «Se non fosse stato per me,» continuava a ripetere come un disco rotto, «se non me ne fossi andata, se fossi rimasta con te, non avresti visto né Arthur né Beyond, e a quest'ora saresti stato meglio.»
Il biondo osservava il soffitto bianco con i suoi occhi circondati di stanchezza, standosene straiato a pancia in su sopra quello che era il letto di Amy. «Ti ho già detto che non fa niente, che non è colpa tua. Quella è anche camera mia, perciò l'avrei visto comunque.»
«Sì, ma a me dispiace davvero...»
«E sta' zitta» sbottò lui, per poi voltare la testa verso di lei e gli altri suoi unici amici. «Piuttosto, che fine avevate fatto voi due?»
Matt ad Amy si guardarono e si sentirono stranamente messi all'angolo; che il loro piccolo e novello segreto stesse già per essere svelato?
«Eravamo da Roger» disse Matt. «Voleva parlarci.»
«Parlare con voi due? E di cosa?»
«Fatti gli affari tuoi, impiccione.»
«Dai, Amy, a lui possiamo dirlo, e anche a Blanca.»
«Io lo direi solo a Blanca.»
«E perché a me no, idiota?»
«Perché tu sei una canaglia.»
«Canaglia io?!»
La castana e il biondo si guardarono in cagnesco e si avvicinarono l'uno all'altra, pronti a far continuare il litigio in maniera più violenta, quando Matt e Blanca si misero tra i due, decisi a non creare ulteriori disagi.
«Vi sembra il caso?» disse la bambina – ancora con il naso rosso per tutte le volte in cui l'aveva disturbato con un panno – con le mani ben puntellate sui fianchi in una posa autoritaria.
«Cos'è, hai già finito di piangere?»
«Ritira subito quello che hai detto, brutta canaglia!»
Il bambino dai capelli rossicci si passò una mano sul viso. «Va bene, non c'è nulla di male nel dirlo. Però state tutti calmi, okay?»
Amy gonfiò le guance e tornò a sedersi, imitata dall'amica e dall'altro litigante, imbronciato quanto lei o forse di più; in piedi tra loro rimase solo Matt, pronto a prendere la parola. E sputò tutto ciò che aveva da dire, nonostante non fosse molto, ma unicamente una frase: «Io ed Amy abbiamo scoperto di essere fratello e sorella.»
E ne seguirono ulteriori attimi privi di sonoro.

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Capitolo 8
*** Mostro ***


Il formicolio alle gambe e i polmoni mezzi vuoti non risultavano essere un ostacolo per lei e per il suo obiettivo; stava correndo all'impazzata per tutta la tenuta, urlando il nome della sua compagna di stanza allo scopo di trovarla al più presto possibile. Le era stato affidato un compito ben preciso, e lei, temeraria, era decisa a portarlo a termine, nonostante la pazza ricerca le stesse consumando molte più energie di quanto avesse pensato prima di accettare l'incarico.
Il suo interesse principale si sarebbe unito alla perfezione al volere della sua migliore amica, creando una combinazione equilibrata tra il dovere e il piacere; nella stanza priva d'arredamento sarebbe stata circondata dal silenzio e avrebbe potuto concentrarsi sulla lettura di decine e decine di romanzi, e col passare del tempo il detective più famoso al mondo si sarebbe fatto sentire, facendola scattare in piedi e poi fuori dalla stanza, a comunicare la venuta dell'idolo di tutti gli orfani prodigio, da brava sentinella qual'era. E così aveva fatto, appena aveva sentito una voce maschile mischiata ad un'impercettibile interferenza elettronica provenire dal computer che, di fronte a lei, non veniva mai spento.
«Buonasera. C'è qualcuno? ...Ehilà? Pronto pronto?»
Amy non riusciva a credere alle proprie orecchie e ai propri occhi; lo schermo del PC era diventato completamente bianco e una grossa L nera a carattere gotico al suo centro era un pugno all'occhio. Dopo tre interi mesi passati circondata da quattro spoglie mura, dalle quali evadeva unicamente per mangiare e per dormire, era finalmente riuscita a udire delle parole provenienti dal famoso sconosciuto.
Schiuse appena le labbra. «L...»
Il detective parve accorgersi della sua presenza solo in quel momento, nonostante la videocamera fosse sempre stata attiva. «Ciao. È la prima volta che ci incontriamo?» Lei annuì appena. «Piacere, io sono L, ma questo già lo sapevi. Tu invece chi sei?»
La gola dell'orfana era arida, ma un'ondata di determinazione le diede la forza per parlare. Disse, alzandosi lentamente in piedi: «Chi sono io non è importante.»
«Ah, no?»
«No» fece lei, stringendo il suo libro corrente tra le esili braccia. «Per favore, resti in linea. Non attacchi. Devo andare a chiamare qualcuno.» E schizzò via, alla ricerca della persona che, più di lei, desiderava conoscere L.
Ma dov'era finita la sua compagna di stanza? Non era da nessuna parte. Non la trovava. Si era volatilizzata nel nulla, ma Amy no, non avrebbe smesso di correre; chi avrebbe cercato avrebbe trovato, e difatti riuscì a scovarla, finalmente, dopo una manciata di minuti che non avrebbe saputo definire, ma che avrebbe descritto come interminabili e ansiogeni. La vide starsene appoggiata contro il legno della piccola baracca nel giardino sul retro, microscopica struttura che ospitava vecchi oggetti scartati durante gli anni ma che stavano lentamente tornando alla luce grazie allo zampino di Matt, improvvisamente appassionato di collezionismo, o forse solo curioso di ficcare il naso nella polvere e passare il pomeriggio a starnutire, condizionato dalla pessima influenza di Mello, che chissà quale strano obiettivo veritiero aveva per aver indotto il suo migliore amico a sporcarsi le mani e i vestiti di un fastidioso grigio. Possibile che quei tre stessero sempre insieme? Ogni volta che incontrava la sua compagna di stanza, la vedeva in compagnia di quei due ometti combinaguai a ridere e a scherzare, e non riusciva a spiegarsi in che modo avessero legato, cosa avessero fatto per approfondire così tanto la loro amicizia. Per un attimo, si sentì lasciata indietro, abbandonata; pensò di essersi persa una moltitudine di momenti speciali durante gli ultimi mesi, che aveva trascorso a leggere e a stare all'erta, a supplicare silenziosamente L di farsi sentire in modo da realizzare i sogni di Blanca. Scosse la testa, incitando quella negatività ad andarsene, tentando di convincersi che fossero solo sue stupide convinzioni basate sull'irreale; il buon senso e il ricordo del libro divorato per ultimo le fecero ricordare la sua posizione attuale, il suo ruolo da portatrice di ottime notizie - l'egoismo di essere partecipe ad ogni singola attività svolta dai suoi amici, ignorando la richiesta che aveva in prima persona accettato, era da evitare in ogni sua forma e misura.
Blanca si accorse dell'arrivo della sua compagna di stanza e fece repentinamente incontrare i loro rispettivi sguardi, il primo colmo di sorpresa e il secondo entusiasta. Amy avrebbe tanto voluto urlarle della chiamata di L, il quale era ancora in linea al primo piano dell'orfanotrofio, avrebbe voluto abbracciare la sua amica in preda all'emozione e incitarla a sbrigarsi a raggiungere la stanza spoglia, ma i suoi polmoni erano troppo vuoti e la voce proprio non voleva saperne di uscire con la sua solita caratterizzante acutezza. Si limitò a piegarsi sulle ginocchia, ansimante e sudata, e a sorridere debolmente, per poi soffiare un: «Corri.» E Blanca non se lo lasciò ripetere una seconda volta. Silenziosamente ma con l'emozionato cuore in gola, scattò verso la sua compagna di stanza, superandola e percorrendo la stessa strada che aveva fatto Amy per arrivare sin lì.
Attirati dai movimenti sospetti provenienti dall'esterno della claustrofobica casupola, Mello e Matt fecero capolino, giusto in tempo per osservare la figura della loro sentinella sparire dietro un angolo e quella della sorella del rosso sventolare il proprio romanzo, nel tentativo di soffiare un po' d'aria in più verso le sue narici.
«Che sta succedendo?» chiese il biondo, apparentemente confuso.
Amy tornò dritta. «L è in linea» disse, per poi aggiungere: «Voi cosa state...», ma non riuscì a concludere la domanda, poiché i due bambini imitarono la sua compagna di stanza e iniziarono a correre verso la meta ormai conosciuta. Desideravano con tutto il cuore parlare con il loro idolo indiscusso, sentire la sua voce - seppur non totalmente cristallina - e possibili notizie riguardanti un recente caso affidatogli dall'incapace polizia. Mai come quella volta furono tanto lesti; se avessero scattato in quella maniera durante una gara di velocità, avrebbero stabilito il nuovo record della Wammy's House, e mica era facile da battere, quello. Raggiunsero presto Blanca, ormai quasi giunta a destinazione, e tutti e tre insieme, nello stesso esatto momento, si catapultarono all'interno della camera in penombra, trovando già il detective impegnato in un'allegra chiacchierata con qualche altro orfano, ma i loro occhi caddero sulla bianca silhouette di Near, che era accomodato sul pavimento in parte a tutti gli altri bambini, intento a giocherellare con un cubo di Rubik; aveva visto, poco prima, Amy uscire da quella camera in tutta fretta, lei che era perennemente confinata lì sotto l'ordine di qualcun altro, e uno più uno donava un risultato ovvio. Non aveva alcuna intenzione di parlare direttamente con L - non avrebbe saputo che cosa chiedergli -, ma l'idea di ascoltarlo rispondere alle domande degli altri lo aveva spinto ad introdursi tra quelle pareti senza pensarci due volte.
Nonostante gli desse fastidio stare nella stessa stanza con la persona che più di tutte le altre gli dava ai nervi - a pochi metri l'uno dall'altro, per giunta -, Mello ignorò bellamente la presenza dell'albino e, scartata una tavoletta di cioccolato fondente e addentatala, si appoggiò ad una parete, tra due finestre, pronto ad assimilare ogni singola parola pronunciata dal detective che più ammirava; nel frattempo, Blanca si accomodò sulle proprie ginocchia in prima fila, a pochi passi dal computer acceso, e Matt restò in piedi a pochi passi da lei, lateralmente allo schermo, per lasciare a qualche altro orfano lo spazio necessario per essere catturato dalla telecamera posta sopra lo schermo del PC.
L fece ridere i presenti con una battutina di scarsa qualità, forse per metterli a loro agio, ma appena notò la presenza della castana, disse: «Tu, lì davanti. Sei un viso nuovo, o mi sbaglio?»
Si sentì le guance andare a fuoco, Blanca, e annuì con forza, presentandosi nella maniera più chiara possibile; non voleva risultare goffa agli occhi dell'indiscusso genio mondiale, piuttosto desiderava dargli un'ottima impressione. E allora perché ogni sillaba pronunciata aveva richiesto un'enorme fatica per poter uscire dalle sue labbra?
«Blanca, eh? È un bel nome. Da quanto tempo sei alla Wammy's, Blanca?»
Raccolse ancora una volta tutto il suo coraggio per rispondere. «Da circa nove mesi.»
«Ti trovi bene?»
Coraggio, coraggio, ancora coraggio. «Sì. Qui sono tutti molto amichevoli e si prendono sempre cura di me.»
Seppur non poteva vederlo, la bambina sapeva che L aveva sorriso. «Non potrebbe farmi più piacere» disse il maestro della deduzione. «È importante che i miei eredi crescano in un ambiente sano. Quando sarete grandi, ognuno di voi sarà un adulto ben capace, ma non per questo potete sentirvi liberi di lasciar correre ogni avvenimento che vi si presenterà nel corso della crescita. Ricordatevi di affrontare sempre i problemi. Impegnatevi a trovare sempre una soluzione. Non esiste quesito senza risposta. Non cadete nell'errore, non lasciatevi sopraffare dalla negatività. Scovate la vostra strada e percorretela tutta, anche se qualcuno vi dice che non ne siete capaci. Voi siete forti. Dimostratelo. Vincete.»
Era incredibile come L riuscisse a trasmettere ai suoi ascoltatori lezioni di vita come se nulla fosse, ad estrapolare un insegnamento da una singola affermazione, ad ammutolire tutti come se fosse il suo talento naturale, anche se a dirla tutta lo era, lui era la persona più intelligente al mondo, incantare dei bambini con qualche bella parola era il minimo che potesse - e che riuscisse - a fare; ma loro, loro non erano infanti qualsiasi, bensì erano gli orfani più ignoti dei dintorni Winchester, di Londra, dell'Inghilterra, del Regno Unito, dell'Europa, della Terra - spiazzarli non era affatto facile, eppure L ci riusciva alla perfezione, come se quelle giovani promesse di un futuro radioso avessero lo stesso quoziente intellettivo di tutti gli altri bimbi presenti sulla faccia del pianeta.
Il detective parlava, parlava e parlava, e Blanca ascoltava, ascoltava e ascoltava, ammirava la professionalità con cui pronunciava ogni frase, adorava la sua voce calma e rilassata, le sue brevi pause riflessive, le sue risate accennate; sarebbe stata capace di restare su quel freddo pavimento ad ascoltare i suoi discorsi per un tempo infinito. Perché, poi? Perché quel gelo neanche lo percepiva? Perché si sentiva così in pace col mondo tutto d'un tratto? Perché non le dispiaceva restare, per una volta, in silenzio? Perché le venivano in mente così tante cose che però dimenticava in un battito di ciglia? Perché, perché? Stava dimenticando qualcosa, ne era certa, ma cosa? Non riusciva a distogliere lo sguardo da quello schermo, da quella lettera nera, seppur i suoi occhi verdi iniziassero a bruciarle.
«... Ed è per questo che ho una pessima calligrafia.» Nell'aria si diffusero delle risate sincere. «Ci sono altre domande?»
La bambina seduta accanto a Blanca - quest'ultima rammendava il suo nome, Linda, il cui segno distintivo erano le perenni codine che imprigionavano i suoi capelli color castagna - alzò la mano, tutta pimpante. «Mi puoi dire se c'è qualcosa in cui non sei bravo? O anche, qualcosa che ti spaventa?»
«Qualcosa che mi spaventa?»
Matt ribatté con un accenno di veemenza. «Cosa? Andiamo, lui è L! Niente lo spaventa.»
«Credo... I mostri» rispose il detective, ancora una volta pacifico.
Scoppiarono altre brevi risate. «Anch'io lo sono» disse qualcuno di loro.
Mello, in disparte, ringhiò. «Silenzio. L non è come voi.»
«Ci sono molti tipi di mostri in questo mondo.» Improvvisamente, tutti gli orfani si ammutolirono. «Quelli che non si mostrano quando causano problemi, quelli che abusano dei bambini, quelli che divorano i sogni, quelli che succhiano il sangue, e... Quelli che mentono sempre.» Restò in silenzio per pochi attimi, il celebre detective. «I mostri bugiardi sono davvero fastidiosi, loro sono molto più abili degli altri mostri. Si comportano come umani nonostante non provino sentimenti. Mangiano anche se non hanno fame d'esperienza. Studiano ma non hanno interessi accademici. Stringono amicizia nonostante non sappiano amare. Se incontrassi un mostro del genere, probabilmente verrei divorato. Perché in verità, io sono quel mostro.»
La realtà dei fatti si abbatté su quei ragazzini come una violenta tempesta torrenziale; nessuno di loro osò commentare il pensiero del tanto ammirato L, e in molti si ritrovarono con la bocca improvvisamente asciutta. Tutti loro - fatta eccezione per Blanca, la quale ancora navigava nell'ignoto - conoscevano la storia del detective più famoso al mondo, ed erano altrettanto consapevoli di star seguendo le sue ombre quasi con perfezione. Perché - si chiesero silenziosamente con indescrivibile malinconia - non potevano essere come gli altri loro coetanei? Perché erano costretti a trasformarsi in mostri?










Il sole era ormai quasi tramontato del tutto e l'aria fresca autunnale aveva iniziato a diffondersi tutt'intorno, abbracciando i fili d'erba, i fiori e gli alberi, ma non lei, che se ne stava immobile, seduta in terra, con la schiena appoggiata alla parete della vecchia casupola; amava il fresco autunnale, Amy, ma non riusciva a sentirlo, nonostante si stesse sforzando, nonostante si stesse concentrando, nonostante lo stesse desiderando. Un soffio di sollievo era tutto ciò che chiedeva, ma sembrava che il suo corpo fosse circondato da un'invisibile barriera in grado di ostacolare il passaggio d'aria pulita.
Da quanto tempo era lì? Forse poco, forse tanto, forse era un sogno. No, quelle spiacevoli sensazioni erano completamente reali, e lei ne era consapevole. Voleva tornare nella stanza spoglia per ascoltare il discorso di L, non faceva altro che pensarci, eppure tutte le forze l'avevano abbandonata. Con una fatica che le parve disumana, sollevò il braccio sinistro e si portò la mano alla fronte - niente febbre. E allora cosa le stava succedendo? Aveva caldo, le mancava l'aria, stava grondando di sudore e le girava la testa, giravano tutte le cose che poteva osservare, girava anche lei, vorticosamente, incessantemente, e le orecchie fischiavano con violenza, come se fossero state gli sfiati di una locomotiva a vapore appena giunta in stazione. Batté appena le palpebre nella speranza di restare lucida, ma la vista le si appannò e delle enormi chiazze nere si materializzarono davanti a sé, o forse no, forse erano solo astratte, sicuramente erano solo astratte, eppure perché parevano così reali?
Doveva subito rientrare, Amy; non sapeva cosa le stesse succedendo, ma restare in quel luogo, da sola, non avrebbe affatto contribuito ad una pronta guarigione. Si convinse di avere unicamente sonno, e che una bella dormita nel suo comodo e caldo letto l'avrebbe fatta tornare come nuova - illusa. Lentamente, si alzò da dove si era vista costretta ad accomodarsi in precedenza, ma una serie di fitte allo stomaco la fece piegare in due; simboleggiavano sicuramente la nausea, quei dolori lancinanti al fegato, e lei provò a liberarsene mettendosi due dita in gola, tuttavia nulla uscì dal suo corpo, se non versi di lamento e sussurri che imploravano l'aiuto di chi non avrebbe potuto sentirla. Fece qualche passo in avanti, tenendo ben saldo il libro che mai l'aveva abbandonata durante quella serata, e all'appanno nero si aggiunsero delle chiazze giallastre; il tremolio che aveva alle gambe si fece più intenso, fino a quando i due arti inferiori non ressero più e la fecero crollare al suolo, inerme, con le ciocche di capelli ribelli che le si erano appiccicate sul viso, davanti agli occhi, ma non le importava di non riuscire a focalizzare nulla davanti al suo debole corpo privo di forze. Abbassò le palpebre, come era solita fare prima di addormentarsi, e aprì appena la bocca; un urlo avrebbe attirato l'attenzione di qualcuno, un urlo l'avrebbe salvata dal buco nero nel quale stava velocemente gravitando, ma le sue corde vocali non riuscirono a produrre nulla, fatta eccezione per l'ennesimo gemito di sofferenza che non poté trattenere. Anche il più piccolo rumore prodotto attorno a lei, giungeva alle sue orecchie in modo ovattato, e pareva così distante da far pensare ad Amy che era vero, era realmente finita in un altro universo.
E mentre l'ennesima ondata di fischi la travolgeva, la bambina desiderò con tutta se stessa di sparire per sempre, se quel dolore era davvero un presagio di morte.










«È stato incredibile!»
«Già.»
«Spettacolare!»
«Sì.»
«Meraviglioso!»
«Abbiamo capito.»
«Stupendo!»
«Smettila.»
«Non vedo l'ora che chiami di nuovo!»
«Hai rotto, sta' un po' zitta.»
«Ammettilo, Mello, sei dispiaciuto anche tu che sia già finita, la videochiamata.»
«Sì, Blanca, lo sono, ma se non la pianti di parlare ti arriva un rovescio.»
«Antipatico.»
Matt stoppò improvvisamente la loro camminata verso la sala da pranzo; disse, dopo essersene stato in silenzio per tutto quel tempo: «Ragazzi, qua ci manca qualcosa.»
I due si voltarono in contemporanea verso il bambino dai capelli rossi. «Se ti riferisci ad Amy» fece Mello, con aria annoiata, «starà sicuramente da qualche parte a fare l'asociale. Magari è da Souffrance, come al solito.»
«Sì, ma...»
«Non va affatto bene» sbottò Blanca. «È ora di cena, deve venire a mangiare.»
«Quello stecchino riscalda solo la sedia. Cavoli suoi se non viene a cenare, se muore non me ne frega niente.»
«Mello!»
«Che c'è?»
Matt si scompigliò i capelli con entrambe le mani, in preda ad un raro attacco di nervosismo. «Ecco cosa manca, la mia consolle! L'ho lasciata in quella catapecchia! Forse non l'ho neanche spenta! Ma ho salvato la partita prima di correre via? Quel livello è difficilissimo da battere, non mi capiterà mai più il punteggio che ero riuscito ad ottenere prima!»
La bambina puntellò i pugni sui fianchi. «Ti stai preoccupando del tuo gameboy e non di tua sorella?»
Il rosso fece spallucce. «Non c'è da preoccuparsi. Vedrai, Amy starà già mangiando.»
«Senza averci aspettato?»
Mello si passò il pollice e l'indice di una mano sugli occhi stanchi. «Ho capito, vado a recuperare sia quel topo da biblioteca sia il tuo videogioco, va bene?»
«Come mai hai deciso di fare qualcosa di gentile?» chiese Blanca, civettuola.
Il biondo la fulminò con una singola occhiata. «Così non vi sento per un po'.»
«Grazie» risposero i suoi due amici, il primo con sincera gratitudine e la seconda con evidente sarcasmo.
Sbuffando, Mello si allontanò dai due orfani tuffando le mani nelle tasche anteriori del pantalone della tuta nera che indossava; ascoltare quei due parlare - di cose futili, per giunta - gli aveva procurato unicamente un gran mal di testa, il quale si manifestava proprio lì, al centro della sua fronte, dove si trovava un nervo a fior di pelle che pulsava incessantemente da circa mezz'ora a quella parte. Nonostante quella stanchezza mentale, un senso di gioia gli stava riscaldando il petto già da un po', da quando aveva iniziato a correre verso la stanza che ospitava il computer con il quale L era solito contattare l'orfanotrofio; L era l'unica persona in grado di fargli abbandonare tutto il cattivo umore che risiedeva nel suo corpo e nella sua anima e di farlo rilassare, seppur ci volesse molta attenzione e concentrazione per poter stare al passo con i discorsi del detective, il quale non faceva mai intendere dove volesse andare a parare con le proprie parole, se non alla fine del monologo, quando il significato di quelle frasi apparentemente senza senso iniziava finalmente a filare in una direzione chiara, ovvia, che lasciava tutti gli ascoltatori senza fiato, senza modo di ribattere, perché la mente di L era un uragano capace di distruggere tutti i pregiudizi che le persone erano solite abbinare a qualcosa o a qualcuno - niente doveva essere dato per scontato, mai e poi mai.
Svoltò l'ultimo angolo, e finalmente giunse alla vecchia casupola di legno a cui aveva fatto visita diverse ore prima. Aguzzò la vista, col volto distorto in un'espressione dubbiosa; la luce del sole - quasi del tutto tramontato - illuminava debolmente qualcosa tra i fili d'erba soffice, a pochi metri dalla casetta contenente gli scarti materiali dell'orfanotrofio, qualcosa che, ne era certo, non si trovava lì quando era stato lui in persona ad avvicinarsi, quel pomeriggio, a quel luogo quasi misterioso della tenuta. Fece qualche passo in quella direzione, e solo quando fu quasi del tutto vicino a quel qualcosa capì di cosa si trattasse. Grugnì un: «Sei solo tu, marmocchia.» Accostò un piede al suo corpo disteso sul prato e la scosse appena. «Svegliati. Se non vai subito a cena, Blanca continuerà a rompere le scatole a me.»
Convinto di essere stato ascoltato, il biondo entrò nel piccolo sgabuzzino all'aperto e, dopo essersi guardato attorno per qualche istante, adocchiò la preziosa consolle portatile del suo migliore amico; la afferrò e se la rigirò tra le mani, constatando che le batterie dovevano essersi scaricate poiché, nonostante avesse premuto un paio di volte il tasto d'accensione, l'apparecchio non dava alcun segno di vita. Chissà quale sarebbe stata la reazione di Matt? Non voleva neanche pensarci; il rosso pareva perennemente tranquillo, ma quando si trattava dei suoi preziosi videogiochi sapeva bene come trasformarsi in una belva e mettere brividi di sgomento a chiunque si azzardasse ad averci a che fare.
Quando uscì dalla casupola e si richiuse la porta alle spalle, notò che la bambina era ancora distesa al suolo, nella stessa posizione di qualche minuto prima. Mello roteò gli occhi al cielo, infastidito. «Andiamo, scema, non è il momento di fare la bella addormentata nel bosco.»
Ma lei non si mosse. Fu solo in quel momento che il biondo notò un particolare che lo lasciò senza fiato; accanto all'orfana, vi era il libro che stava leggendo quel pomeriggio, il quale era aperto, con la copertina quasi del tutto rimossa e con alcune pagine stropicciate a causa della posizione nella quale l'oggetto si trovava, a contatto con un braccio della piccola che, al contrario delle altre innumerevoli volte in cui aveva potuto osservare, non lo stava reggendo. La bimba non si sarebbe mai azzardata, in condizioni normali, a trattare un romanzo in quell'orribile modo.
S'inginocchiò in parte a lei, le mise una mano sulla spalla e provò a scuoterla. «Hey, mi senti?» Non ottenendo risposta, portò due dita al polso sinistro, controllando il battito cardiaco della bambina; era lento, troppo lento. Ormai aveva capito, e come aveva fatto a non accorgersene prima? «Amy? Da quanto tempo sei svenuta?» le chiese, nonostante sapesse di non poter ottenere alcuna risposta. Decise che non era importante scoprire le circostanze di quel mancamento, non in quel momento - era l'unico a poter e a dover intervenire. Mise il gameboy di Matt in tasca, in modo che non gli fosse d'intralcio, e poi girò delicatamente il corpo della bambina, mettendola a pancia all'aria, e le poggiò il romanzo sul grembo; successivamente le mise un braccio dietro la schiena e l'altro dietro le ginocchia, sollevandola così da terra e compiacendosi della sua inconscia previsione - sapeva che non avrebbe fatto eccessivi sforzi per sollevare Amy, poiché il suo corpo era davvero leggero. Si incamminò verso l'interno dell'orfanotrofio, con l'obiettivo di raggiungere l'infermeria e chiedere assistenza alla dottoressa Harris, la quale sicuramente avrebbe saputo riportare la castana nel pieno delle sue forze.
Proprio la bambina strizzò gli occhi, per poi aprirli lentamente e mettere a fuoco la figura di colui che, taciturno, la stava portando in braccio. Le tornò magicamente la voce, seppur fosse ancora flebile. Disse: «Mello... Che ore sono?»
Come se non fosse successo - e come se stesse continuando a non accadere - nulla, il biondo le rispose, ironico: «Le ore di ieri a quest'ora.»
Lei arricciò il naso. «Ti sembra il caso? Sono svenuta, non è vero?»
Mello tornò serio. «Sì, sei svenuta. Sei stata fortunata, Matt aveva dimenticato il suo stupido aggeggio tra quell'ammasso di robaccia. Se non fosse stato per me, saresti rimasta là per ore. Comunque sono le otto meno un quarto.»
La bambina si portò una mano sul viso. «Ti ringrazio. Adesso posso camminare da sola.» Ma lui fece finta di non sentirla, e continuò a dirigersi verso l'infermeria. «Mello, non mi ignorare. Guarda che urlo, ora le ho, le forze. Mettimi giù, è imbarazzante! Mello!»
«E finiscila, altrimenti ti faccio svenire un'altra volta!» sbottò il biondo, mentre il nervo al centro della fronte ricominciava a pulsare. «Imbarazzante per chi? Non ci sta guardando nessuno. Come se stessimo facendo qualcosa di strano, poi. Ti sto semplicemente aiutando.»
Amy non rispose, dandogliela vinta, nonostante fosse davvero imbarazzata da quella situazione, ma fortunatamente la loro meta era vicina. Appena varcarono la sua soglia, l'infermiera Harris abbandonò la propria poltrona e la propria scrivania, precipitandosi dai due bambini bisognosi di aiuto.
«Cos'è successo?»
«L'ho trovata svenuta nel giardino sul retro» disse Mello, avvicinandosi al lettino della stanza e poggiandoci sopra l'amica.
L'infermiera prese il proprio stetoscopio e iniziò a visitare la bambina. Con un'apparente calma, le chiese: «Eri da sola quando sei svenuta?»
«Sì.»
«Ricordi perché sei ti sei sentita male?»
Amy si concesse alcuni secondi per riordinare i pensieri. «Ricordo tutto come se fosse accaduto pochi attimi fa
» disse. «Ero corsa a dire a Blanca che L aveva chiamato e che la stava aspettando in linea. Erano corsi tutti via, ed io volevo seguirli, ma non riuscivo a muovermi. La testa mi girava, mi fischiavano le orecchie, sudavo e vedevo appannato.» Aggiunse, con improvvisa tristezza: «Ho avuto paura. Ho provato a fare qualche passo, ma le gambe non hanno retto. Poi mi sono ritrovata con Mello, ma dev'essere passato molto tempo.»
L'infermiera annuì, con fare risoluto. «Dev'essere stato un calo di zuccheri. Niente di cui preoccuparsi, te lo posso assicurare. Per sicurezza, però, domani mattina voglio farti un prelievo di sangue, okay?»
Amy acconsentì, rincuorata; era una dei pochi bambini, in quell'orfanotrofio, a non aver paura degli aghi, dei prelievi o della semplice vista del sangue - perché i suoi coetanei ne erano così tanto terrorizzati? Non avrebbe mai saputo spiegarselo.
Per ottenere l'attenzione della bambina, Mello si schiarì appena la voce. «Che sia una cosa veloce, domani mi servi.»
La castana divenne improvvisamente curiosa. «Perché? Cosa succede domani?»
Lui sorrise beffardamente. «L ci ha lanciato una sfida con una ricompensa finale, e tu avrai l'onore di lavorare al mio fianco.»
«Perché proprio io?»
Mello aveva lo sguardo di chi aveva in mente qualcosa di pericoloso, ma quella luce rendeva così belli i suoi occhi color cielo, tanto da non spaventare Amy neanche un po'. «Perché nessuno sospetterebbe mai di te.»

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Capitolo 9
*** Shakespeare ***


«Finirà male.»
«Ti dico di no, andrà tutto come pianificato.»
«Sappi che se succede qualcosa, io do la colpa a te.»
«E smettila! Ti fidi di me?»
«Neanche un po'.»
«Ah, davvero? Peccato, è troppo tardi per tornare indietro.»
La bambina gonfiò le guance, ma non smise di correre; se in un quarto d'ora non avessero raggiunto la pianura, avrebbero sicuramente perso la corsa dell'autobus e avrebbero dato l'addio al progetto di Mello. Quest'ultimo, allegro come non mai, era deciso a portare a termine l'intero piano che aveva accuratamente programmato la sera precedente e limato durante tutta la notte; ad Amy aveva solamente detto che avrebbe dovuto leggere, nel giro di nove ore, tre romanzi che sarebbero potuti tornare utili durante la loro missione. Avrebbe fatto bene, poi, ad armarsi di vestiti comodi e fare un'abbondante colazione, dato che al resto avrebbe pensato lui – fiero di condurre un'operazione come quella.
Non era permesso a nessuno degli orfani di allontanarsi dalla Wammy's House, a meno che non autorizzati, accompagnati o maggiorenni, ma Mello ed Amy non rientravano in nessuna delle tre categorie; la castana aveva affermato che, agendo in quella maniera, si stavano velocemente trasformando in criminali e lui, troppo euforico per darle ascolto, a quelle parole aveva risposto con una grassa risata, ripetendole per l'ennesima volta che sarebbe filato tutto liscio e che per cena sarebbero stati di ritorno, in modo da non destare troppi sospetti. Del resto si era munito di un complice insospettabile, e altri non era che Souffrance; inizialmente il ragazzo era chiaramente contrario alla bravata che aveva in mente Mello, ma al biondo era bastato tirare in ballo Amy per ottenere il silenzio del bibliotecario – mossa meschina: sapeva che il ragazzetto era capace di fare qualsiasi pazzia pertanto, se aveva detto che avrebbe distrutto l'intera sezione di lettura preferita dalla bambina, certamente l'avrebbe fatto.
Dal canto suo, Souffrance avrebbe potuto ignorare la richiesta e riferire a Roger del ricatto – perché di una vera e propria prepotenza si trattava –, ma il suo spirito da codardo l'aveva spinto ad obbedire a un bambino di quasi undici anni che, con una bella faccia tosta, aveva terrorizzato Amy tanto da spingerla a pregare in ginocchio l'uomo di accettare la proposta di Mello; cos'avrebbe ricevuto in cambio? Un bel niente, piuttosto rischiava di ricevere un rimprovero coi fiocchi dai suoi superiori se i due fossero stati scoperti – quindi già si era preparato a riconoscere le proprie colpe e ad accettare l'idea di non essersi comportato in maniera corretta. Ma cosa ci poteva fare se considerava Amy un'apprendista? Cosa ci poteva fare se si rispecchiava in lei? Non voleva che la bambina facesse la sua stessa fine, ovvero restare per sempre rinchiusa in una casa a perdere la cognizione del tempo a causa di troppi libri; leggere era senza dubbio fonte di cultura, un'attività importante, ma la vita reale lo era di più e per questo motivo le consigliava letture in grado di esaltare la meraviglia dell'avventura, il piacere di seguire i propri sogni, qualsiasi cosa che la invogliasse a voler ripetere le stesse azioni, a vivere.
Si concessero di riprendere fiato poiché arrivati alla fermata dell'autobus. Si trovavano alle porte del paese ai piedi della collina sulla quale sorgeva la loro casa, dolce casa, al capolinea del mezzo di trasporto – una volta arrivato lì, il bus sarebbe tornato indietro e per giungere in città sarebbe bastato prestare attenzione ad ogni fermata. Amy strinse le fasce del proprio zaino color lavanda, gettando un occhio al compagno d'avventura; gli disse, sinceramente preoccupata: «Siamo ancora in tempo per tornare indietro.»
Il biondo la guardò torvo. «Non dire sciocchezze. Noi non torneremo indietro.»
«So che vuoi fare colpo su L, davvero, lo capisco», gli rispose, «ma così finiremo seriamente nei guai.»
Lui fece spallucce. «Non si ottiene nulla senza il rischio.»
«Ma questo rischio è davvero troppo grande per noi. Io ho nove anni e tu dieci. Mi spieghi come faremo a cavarcela in città?»
«Andiamo, frignona, è questione di un giorno, mica dobbiamo trasferirci per sempre», fece lui per poi scorgere il mezzo pubblico da lontano. «Guarda, Amy, la nostra attesa è finita.»
La bambina aguzzò la vista, ma tutto ciò che riuscì a vedere fu un punto appena sfocato procedere verso di loro; nel giro di due minuti l'autobus si fermò davanti ai due orfani e aprì le porte per far circolare i passeggeri. Mello le sussurrò: «Da adesso sei mia sorella. Niente domande e seguimi.» La prese per mano e la trascinò sul mezzo; comprò due biglietti, uno per sé e uno per la compagna, per poi condurre quest'ultima verso due dei tanti posti liberi.
Amy si lasciò scappare una risata di scherno. «Matt ne sarebbe geloso.»
Il biondo le rivolse un'occhiata confusa, poi notò che le loro mani erano ancora unite; come scottato, sciolse immediatamente la presa. «Non ne ha motivo, stiamo solo facendo finta.»
«E perché dobbiamo fingere di essere fratelli?»
«Perché così non desteremo sospetti. Se qualcuno in giro dovesse notarci, ci basterà dire che nostra madre ci ha mandati a fare una commissione e ci stiamo tenendo compagnia a vicenda. Non è normale vedere due bambini in giro per il centro senza un adulto.»
«Stai ammettendo di essere un bambino.»
«Zitta, Amy. Prima o poi crescerò. E vedrai, oltre a diventare bellissimo e ricchissimo, sarò il degno erede di L.»
La bambina gli sorrise, intenerita da quelle parole e da quel volto; era raro vederlo in quello stato, Mello, così pieno di grandi ambizioni caratterizzate dall'innocenza della fanciullezza. Il suo viso aveva abbandonato l'espressione burbera e scontrosa che indossava sempre, illuminando i suoi occhi azzurri come il cielo sereno; in essi brillava la luce del sole, tanto calda quanto rassicurante, così sincera da far arrossire l'orfana. Si sentiva fortunata nel vedere il biondo in quello stato; le piaceva pensare che nessuno mai aveva avuto il privilegio di vederlo sorridere per davvero, senza un briciolo di cattiveria o un doppio fine, e solo lei sapeva a quante cose avrebbe potuto rinunciare per poterlo vedere più spesso nei panni di un semplice bambino.
Aprì lo zaino che aveva con sé e ne estrasse un libro. «Che fai?», si sentì chiedere. Rispose: «Devo finire di leggere gli ultimi sei capitoli di questo volume. Stanotte sono riuscita a completare solo i primi due, mi manca questo.» Sfogliò le pagine fino a raggiungere il segnalibro che aveva piazzato poche ore prima e diede inizio alla lettura. Ben presto, tuttavia, percepì la propria testa girare vorticosamente, nonostante si trovasse immobile su quel seggiolino sporco e rovinato dal tempo, dalle innumerevoli persone che vi si erano accomodate in precedenza – pessimo segnale lanciato dal proprio corpo.
Mello, seduto dal lato del corridoio e attento ad osservare ogni individuo che saliva sul mezzo col passare delle fermate, si sentì silenziosamente chiamare dalla – quasi – coetanea; si voltò verso di lei e si allarmò non appena scorse il colorito che aveva assunto il suo volto. «Tutto bene? Hai una pessima cera.»
La bambina annuì, seppur con una quasi assente convinzione. «Sì, sì. È solo un po' di voltastomaco.»
Fu a quel punto che il biondo le strappò via il romanzo dalle mani. «È mal d'auto, cretina. Se leggi finirai per vomitare le brioches che hai divorato a colazione.»
Solo sentendo pronunciare quel vomitare, Amy ebbe un conato che trattenne a fatica. «Ma devo finire il libro, altrimenti che ci sto a fare qui?»
Lui sospirò, riponendo quelle duecentoventotto pagine nello zaino dell'altra. «Lo finirai dopo, tanto sei veloce a leggere. Però che diamine, Amy, solo una cosa ti avevo chiesto!»
La castana chiuse gli occhi e abbandonò il capo sul poggiatesta, ma non prima gli avergli mostrato un'espressione afflitta. «Mi dispiace. Credo che sia la stanchezza, non ho dormito molto stanotte.»
Ma Mello era consapevole che, quella, fosse una menzogna; lo poteva vedere semplicemente osservando quegli occhi, circondati da solchi di ore di riposo mancate. Aveva passato tutta la notte in bianco per poter accontentare quell'egoistica richiesta che le aveva fatto la sera precedente – proposta che lei aveva immediatamente accettato di buon grado. «Riposati. Controllo io le fermate», le sussurrò, senza essere udito; Amy si era addormentata in poche frazioni di secondo.










Nonostante la giornata non fosse affatto iniziata bene, i due orfani erano riusciti ad arrivare indenni alla loro destinazione: a pochi isolati dalla città, nel vico di Itchen Abbas, si ergeva la grande villa Philips circondata da voltanti della Polizia inglese, i quali agenti ordinavano ai curiosi e ai giornalisti di tenersi alla larga.
«Come facciamo a entrare?», sussurrò Amy al suo compare.
Mello le fece l'occhiolino. «Lascia fare a me.» Si avvicinò di soppiatto a un ispettore e gli bisbigliò qualcosa, attento a non farsi sentire dalle persone attorno; il detective sgranò gli occhi quando il biondo gli passò un foglio, per poi spostarsi quel tanto da consentire al ragazzino di oltrepassare la porta d'ingresso. La bambina s'affrettò a seguirlo, riuscendo a superare indenne i controlli – non si fece domande, troppo impegnata a studiare la scena del crimine che le si presentava davanti.
Il proprietario dell'abitazione era immobile su una delle poltrone del salone al piano terra, affianco a un tavolino elegante con sopra una scacchiera; era morto a causa di due proiettili impiantati nella fronte e al petto, dai quali fori si erano seccati dei rivoli di sangue. Dietro di lui, una libreria s'estendeva per tutta la parete ed era colma di romanzi e manuali di diverse dimensioni e diversi colori; nessuno di essi spiccava in particolare, fatta eccezione per un'enciclopedia a più volumi dalla copertina blu.
In un angolo della stanza, degli agenti della polizia mortuaria, già avvisati del ruolo dei due, fissavano i bambini senza parlare, attendendo un cenno da parte di Mello per poter portare via il cadavere. Il biondo indossò un paio di guanti per non inquinare la scena del crimine, poi si avvicinò al corpo, osservando le ferite mortali provocate da un'arma da fuoco. La vista di quell'uomo privato della vita non fece alcun effetto in lui; inizialmente si era sentito destabilizzato poiché memore della raccapricciante morte di Arthur, però era riuscito a riprendersi in fretta, tracciando una linea di confine tra il proprio trauma e il proprio lavoro – mai si sarebbero dovuti mischiare, quei due elementi, altrimenti come avrebbe fatto a dimostrare la sua bravura?
«Mello?»
Si voltò, guardando Amy con sufficienza. «Che vuoi?»
Lei tentò di non posare gli occhi sul cadavere. «C'è una donna.»
«Chi è?»
«Annie Cooper.»
Bastò quel nome a convincere Mello a dare la giusta attenzione alla persona che era appena entrata nella casa; era stata nominata sul reportage che L aveva fornito per lo studio del caso di omicidio: ventinove anni, addetta alle pulizie domestiche, era stata lei a trovare il cadavere e ad allertare le Forze dell'Ordine.
Autoritario come un uomo di Scotland Yard, il ragazzino fece accomodare la donna in un'altra stanza e le chiese di ripercorrere gli avvenimenti a partire dal suo ultimo incontro con la vittima. «Lavoravo per Aaron tutti i giorni», iniziò Annie, «dalle otto di mattina fino alle dieci di sera. Rimanevo così tanto tempo perché era solo. Ero io a prendermi cura di lui.» Si asciugò una lacrima solitaria con un fazzoletto di stoffa. «L'ultima volta che ho visto Aaron è stata due sere fa, alla fine del turno. Lui era in cucina a prendersi la pillola che era solito assumere prima di andare a letto. Sono tornata a casa mia, e ieri mattina sono tornata come di consueto. È stato in quel momento che ho trovato Aaron senza vita», balbettò, per poi scoppiare a piangere.
Amy storse la bocca in una smorfia di dispiacere, non smettendo di appuntare la dichiarazione della donna su un taccuino. Mello non batté ciglio e le ordinò: «Mi parli della famiglia della vittima.»
La donna annuì piano, prendendo qualche secondo per tornare calma. «Aaron era divorziato da tanti anni. Ha perso quasi completamente i rapporti con la sua ex moglie, Lucy Bassnett.»
«Quasi?»
«Una volta l'ho sentito parlare al telefono con lei», spiegò. «Non ho ben capito di cosa stessero parlando, ma mi è sembrata una conversazione tranquilla. È successo mesi fa, ormai.»
«E oltre a quella volta?»
Scosse la testa. «Aaron non parla mai con lei, né tantomeno la incontra. Per lui, la signora Bassnett è solo la madre dei suoi figli, niente di più.»
Mello estrasse dallo zaino di Amy una barretta di cioccolato fondente e, dopo averla scartata dal proprio involucro, la addentò. «Cosa mi sa dire su Francis e Isaac Philips?»
«Sono due bravi ragazzi», rispose la cameriera. «Il signor Isaac veniva spesso qui a trovare il padre. A volte litigavano, ma riuscivano a risolvere le loro questioni in fretta.»
«E che genere di litigi avevano?»
«Oh, nulla di preoccupante. Erano dei semplici battibecchi in famiglia. A volte discutevano per le loro idee discordanti sulla politica, altre volte per una multa presa per parcheggio in divieto di sosta.»
«E l'altro figlio? Francis Philips?»
«Di lui non so molto. Vive a una cinquantina di chilometri da qui e non si fa vedere spesso.»
Amy s'intromise nel discorso: «Non andavano d'accordo?»
La donna parve rifletterci su. «Immagino che il signor Francis sia rimasto molto legato alla madre. L'ho potuto incontrare solo alle cene di famiglia, quelle organizzate a Natale.»
«Questa casa era frequentata anche da qualcun altro?»
«Ogni tanto, mia sorella Mary veniva a farmi visita.» Notò lo sguardo freddo del ragazzino e si affrettò a specificare: «Ma non può essere stata lei. Mary non commetterebbe mai un simile gesto. E poi, ora è in luna di miele alle Hawaii.»
«Che lei sappia», fece Mello, «la vittima aveva dei nemici?»
«Nossignore! Aaron era benvoluto da tutti! È sempre stato un uomo leale e di buon cuore.»
Si ritenne soddisfatto dell'interrogatorio, ma proprio quando stava per invitare la domestica ad uscire, un agente della polizia chiese loro di dirigersi all'esterno dell'abitazione – i mortuari dovevano portare il cadavere, rimasto in quel luogo fin troppo a lungo, presso lo studio d'analisi. Per tale motivo, i due orfani si spostarono sul retro della villa e si sedettero all'ombra, in attesa di poter rientrare.
«Perché le hai fatto tutte quelle domande?», domandò Amy alludendo alla documentazione di cui entrambi erano forniti; su quel piccolo plico di moduli, erano stati spiegati alla lettera non solo la testimonianza di Annie Cooper, ma anche e soprattutto l'orario del decesso e un'analisi più approfondita della psicologia di Aaron Philips.
«Ah, Amy», fece Mello pizzicandole le guance con falsa tenerezza. «Piccola, dolce e innocente Amy, ti hanno mai detto che le persone possono dire le bugie?»
Lei si scostò malamente dalla sua presa. «Sospetti di lei?»
Il biondo incrociò le braccia al petto. «Tutti i conoscenti della vittima sono dei potenziali killer, per quanto mi riguarda. Compresa lei, sì. La scientifica ha anche trovato un suo capello sulla seconda poltrona del salotto.»
«Ma è normale, sta qui tutti i giorni. Poi, l'hai vista?», gli chiese retoricamente. «Era distrutta, poverina! Non può essere stata lei.»
«Tenera e innocua Amy, lo sai che esistono dei corsi di recitazione?» Lasciò che gli tirasse uno schiaffo sul braccio, poi cambiò discorso. «Tu piuttosto, hai scritto tutto?»
La bambina annuì e gli porse il taccuino. «Ogni singola parola.»
«Allora qualcosa la sai fare.»
«Finiscila di prendermi in giro!»
Mello si mise a ridere, per poi mettersi a confrontare le due dichiarazioni della donna delle pulizie. Sentenziò: «Sono un po' diverse.»
«Che?»
«Non ti agitare, va bene così.» Le mostrò i due testi e iniziò a spiegare: «Ha detto tutto quello che già sapevamo, ma usando parole differenti. Inoltre, ha dimenticato di dirci un particolare fondamentale, cioè la professione della vittima. Aaron Philips era un campione pluripremiato di scacchi, e la sua notorietà è stata la causa del divorzio con la moglie.»
«Che bisogno c'era di specificarlo? Non gliel'hai mai chiesto.»
Le mostrò un sorriso furbo. «Come dunque poss'io ritornare in buona salute, privo come sono del benefizio del riposo?»
Amy sorrise a sua volta. «Se l'oppressione del dì non è alleviata dalla notte, ma il dì m'è reso opprimente dalla notte, e la notte dal dì.»
«Bravissima», le rispose. «Vedi, hai imparato a memoria una poesia. La reciti sempre allo stesso modo, non importa quale sia il contesto. I menzogneri fanno la stessa cosa. Il fatto che Annie Cooper non solo abbia raccontato le cose in modo diverso, ma che si sia addirittura dimenticata di fornirci alcuni dettagli, la scagiona automaticamente.»
La bambina sollevò la testa verso l'alto, osservando il cielo. «Non sapevo leggessi Shakespeare.»
«Ci sono tante cose che non sai di me.»
Lo guardò mentre continuava a leggere il rapporto di L. «Me le dirai mai?»
Mello si voltò e fece incontrare i loro sguardi. «Mah, chi lo sa? Un giorno, forse.» Tornò a far scorrere gli occhi azzurri sui documenti. «Piuttosto, di cosa parlavano quei tre libri?»
Amy s'illuminò ed estrasse i romanzi dallo zainetto. «Sono l'uno indipendente dall'altro e sono diversi anche nel genere. Immagino che il signor Philips volesse sperimentare molteplici stili per trovare quello che meglio si adattasse con le sue idee e con il suo gusto personal--»
«Sì, sì, vai avanti.»
La bambina gonfiò le guance, infastidita. «Il Cavallo del Re è ambientato nell'Alto Medioevo e prende ispirazione dalle vicende di Re Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda», spiegò. «Narra di una lotta all'ultimo sangue con un popolo invasore e della prontezza di un fante con il suo destriero che ha scoperto i malvagi piani dei nemici. Si è sacrificato per il bene della Patria.»
Mello guardò la compagna, i cui occhi luccicavano dall'emozione: quello era il suo genere letterario prediletto, perciò non si stupì affatto della passione che la piccola aveva nella voce. Non la interruppe neanche.
«Poi, L'Importanza di un Pedone è un poliziesco ambientato nei giorni nostri. Una donna è stata assassinata brutalmente e un detective riesce a risalire al colpevole grazie alla dichiarazione di un testimone oculare. E per ultimo, La Regina Matta è un fantasy. Ricorda molto Alice nel Paese delle Meraviglie, ma stavolta i fatti sono narrati dal punto di vista dell'antagonista. Ci sono riferimenti agli scacchi ovunque, e in più mentre si legge si ha l'impressione di star assistendo a una partita. Questo in tutti e tre i libri. Ma dopotutto, era la ragione di vita del signor Philips.»
Il ragazzino annuì. «Hai trovato qualcosa che possa collegarsi all'omicidio?»
«Proprio no. Tutti e tre sono stati scritti da Philips stesso, e non credo proprio che potesse prevedere il futuro.»
«Fai poco la sarcastica», la ammonì. «Devono per forza c'entrare qualcosa con il caso. L li ha inseriti nel rapporto, non può averlo fatto senza un motivo.»
Amy assunse un'aria pensierosa. Fino a quel momento, non aveva fatto un granché per aiutare Mello a trovare la soluzione al delitto e, fattore di maggiore importanza, non aveva la minima idea di cosa andare a pensare; le sembrava di star perdendo tempo, senza contare che in cuor suo desiderasse dimostrare a se stessa e al compagno di essere all'altezza del compito assegnato dal paladino della giustizia degli orfani della Wammy's House e dell'intero globo. Quella era la prima volta in assoluto in cui si ritrovava a ragionare seriamente, senza nessuno a suggerirle quale fosse la risposta corretta o quale strada dovesse imboccare per andare nella giusta direzione. C'era lei, un uomo privo di vita e l'orgoglio del suo compagno di indagini – niente di più e niente di meno. Sapeva di dover osservare le cose da un'altra prospettiva.
«Mel?», lo chiamò dopo un po'.
«Sì?»
«Ma non è che è stato un suicidio?»
Il biondo la guardò, indeciso su che espressione assumere. «Sei seria?»
«Potrebbe essere, no?»
Sospirò pesantemente. «Innanzitutto, i colpi sono due. E poi l'arma del delitto non c'è.»
«E se qualcuno l'ha nascosta?» Mello le scoccò un'occhiata infuocata e lei arrossì, distogliendo lo sguardo. «Suonava meglio nella mia testa.»










Mello non era mai stato sicuro di nulla in tutta la sua vita, nonostante esistesse da appena un decennio: non sapeva com'erano fatti i suoi genitori, non sapeva se aveva ancora dei parenti, non sapeva da dove fosse nata la sua golosità per il cioccolato né da dove fosse spuntato quel suo carattere scorbutico – la sua unica certezza, era che la soluzione al caso d'omicidio si trovasse proprio sotto ai suoi occhi. Doveva solo capire di cosa si trattasse. Del resto, quello doveva essere un caso da analizzare e risolvere entro le mura della Wammy's House, ma come avrebbero fatto gli altri bambini a sciogliere quel grosso nodo stando a chilometri di distanza?
Riguardò l'istantanea che aveva tra le mani; era stata allegata ai documenti che L aveva consegnato agli orfani e raffigurava il cadavere di Aaron Philips. La fotografia era stata scattata dall'alto, in maniera tale che fossero visibili la maggior parte dei particolari di quella stanza: i quadri, i libri, il tappeto, il divano e le due poltrone accostate al tavolino della scacchiera. Fissò con attenzione quest'ultima, notando nuovamente – perché era impossibile non accorgersene dall'inizio – la disposizione dei pezzi: non erano in ordine, bensì distribuiti su tutto il campo di battaglia. Pensò che fosse strano poiché, stando all'identikit della vittima, Aaron Philips era una persona precisa; teneva moltissimo all'ordine ed era in grado di accorgersi di uno spillo fuori posto semplicemente appellandosi alla propria straordinaria memoria fotografica: ecco spiegato il motivo per il quale la domestica, Annie Cooper, doveva stare a turni lavorativi molto lunghi – non poteva appellarsi all'unico fattore dell'affetto che provava nei confronti del giocatore di scacchi.
Il ragazzino guardò il cadavere ritratto nell'istantanea che aveva tra le mani, tracciando con gli occhi le pieghe della vestaglia costosa e i fori dei proiettili. Che fosse impegnato in una partita con il suo assassino? Oppure si stava semplicemente allenando, nonostante fosse un campione degno di nota?
Si grattò la testa come se stesse cercando la soluzione con le dita. Come fare, come fare? C'era qualcosa che gli stava sfuggendo, ne era più che certo. Ma di cosa si trattava? Anche la Polizia, che ancora non aveva abbandonato quel luogo, pareva star brancolando nel buio più totale. E se fosse stato un ladro o un fanatico? Strinse le mascelle, ricordandosi che non vi erano videocamere di sorveglianza a osservare l'abitazione, né alcun tipo di sensore o sistema di sicurezza.
Prese un respiro profondo, accantonando l'agitazione in un angolo irraggiungibile della propria testa. Il killer doveva aver sparato dalla soglia della porta e non da distanza ravvicinata – a suggerirlo era la forma dei fori dei proiettili sul cadavere – ed era stato un mago a non lasciare né impronte né indizi in giro. Proprio per tale accuratezza, doveva trattarsi obbligatoriamente di un omicidio premeditato, e ad aver ucciso doveva essere qualcuno che si sapesse muovere lì.
«Mel?»
Il biondo si voltò lentamente, rimanendo in silenzio. Amy stava fissando la scacchiera con gli occhi spalancati, con un'aria incredula che raramente colpiva il suo viso.
«Non trovi anche tu che sia strano?»







Angoletto dell'Autrice!!
Questo omicidio è gentilmente offerto dal mio fratm perché la mia testa è un sacchetto sottovuoto e non è in grado di creare casi del genere.
Secondo voi, chi è l'assassino facendo finta che tutto questo non sia già stato pubblicato sul sito arancione da me medesima? :)
Vi do appuntamento al prossimo capitolo!

-Channy

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