Narcisa e Giacinto

di Padme92
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'incontro ***
Capitolo 2: *** La prima lezione ***



Capitolo 1
*** L'incontro ***


1.


 
Era il mio trentatreesimo compleanno, e avevo già una consolidata carriera da concertista alle spalle. Per più di metà della mia vita avevo suonato il pianoforte tutti i giorni, tutto il giorno. Non c’era stato nient’altro al di fuori di quella serie finita di tasti neri e bianchi: l’unico amore che conoscessi era la musica. Essa riempiva le mie giornate come la presenza della persona amata. Ed io ero stato sempre così concentrato sul mio sogno di diventare pianista, da non avanzare nemmeno il tempo per scoprire se avrei mai potuto innamorarmi di qualunque altra cosa. E così ero arrivato alla veneranda età di trent’anni senza aver mai amato una donna. O meglio – sento di dover specificare – senza aver mai amato una donna che mi amasse a sua volta. E intendo l’amore vero, quello di due innamorati, quello che ti regala gioia e struggimento in egual misura, nel suo momento più appassionato. Io avevo dedicato tutto me stesso e il mio tempo allo studio del pianoforte, così come un religioso si regala a Dio. La differenza sostanziale è che la mia clausura musicale dipendeva dalla mia capacità di suonare meravigliosamente, e una volta venuta meno quella, era venuto meno anche tutto ciò su cui avevo basato fino ad allora la mia esistenza: i concerti. Un incidente banale mi provocò danni permanenti ai tendini passanti dal polso, e nel pieno della mia brillante carriera mi ritrovai a non poter più utilizzare la mano destra per mesi interi. E anche dopo che fu guarita la ferita, non importava quanto mi sforzassi: la mobilità delle dita non era più la stessa, non viaggiavo più a velocità folli sulla tastiera, come solevo fare. Allora mi resi conto che ciò che aveva tenuto insieme le varie parti della mia esistenza fino a quel momento, non era nient’altro che un filo, un tendine che solo a tirarlo troppo o a tagliarlo si disfaceva, come fosse stato spago, disfacendo così anche la mia vita.
Ormai erano quasi tre anni che non suonavo più ad alti livelli, ma il mio spirito non s’era ancora davvero ripreso da quel lutto: vagava depresso per la casa, troppo spesso sostando lo sguardo sul pianoforte, ma senza osare più accostarmi allo strumento. A che scopo, poi? Solo per rendermi conto, ancora e di nuovo, che non ero più in grado di suonare come una volta? No, faceva troppo male. Così cancellai completamente la voce pianoforte dalla routine delle mie giornate. Nemmeno di ascoltare la musica ero più in grado, perché tornare con la mente a ciò che avevo perduto per sempre – almeno così credevo - mi era troppo doloroso. Perciò lo rilegai in qualche angolo polveroso della testa, e seppellii i miei sentimenti per lui nell’anfratto più nascosto del mio cuore. Gli altri dovettero capire perfettamente, perché più nessuno osò nominare il pianoforte in mia presenza, almeno fino a quel giorno in cui, soffiando la candelina sulla torta, espressi il desiderio di innamorarmi di nuovo.
In primavera avevo lasciato la città per trasferirmi in un’altra casa, in campagna, pensando di godermi lì poi tutta l’estate. Vivevo da solo, ma per festeggiare avevo invitato parenti e amici che mi erano cari, i quali non mancavano mai di trovare qualche giovane fanciulla di buone maniere da presentarmi. Purtroppo per me, io non ero rimasto particolarmente affascinato da nessuna di loro, e iniziavo io stesso a considerarmi un caso senza speranza. Quel giorno, tuttavia, mentre eravamo intenti a spazzar via il dolce, un mio buon amico di nome Fiorenzo m’aveva buttato là una proposta inaspettata:
“Giacinto, amico mio, so bene che non intendete riprendere a suonare, ma ora che vivete qui, ci sarebbe una signorina squisita nella casa adiacente alla vostra, che desidera prendere lezioni di piano. Chissà mai che non potrebbe fare al caso vostro.”
Disse così, e io già facevo le mie riflessioni. Ovviamente avevo già dato lezioni, nella mia gioventù, ma non avevo mai gradito insegnare ai bambini. Mi raffigurai mentalmente un’adolescente scostante che voleva imparare a suonare qualche canzoncina per divertire i fratellini, oppure darsi arie da gran dama colta. Nonostante la riluttanza però, qualcosa mi spinse a chiedere il suo nome. E la risposta che arrivò, fu la parola che cambiò la mia vita per sempre:
“Narcisa.”
Da quel momento, nonostante non dessi ad intendere a nessuno che fosse mia intenzione riaccostarmi al pianoforte, quel nome mi rimase stampato in testa, come marchiato a fuoco nel mio lobo temporale, e piano piano cominciai a prendere in considerazione la possibilità di incontrare la ragazza.
“Quanti anni ha?” fu la seconda domanda che posi a suo riguardo.
“Non so con esattezza, ma penso abbia sui venti, ventuno anni,” disse Fiorenzo, per poi aggiungere, come per meglio convincermi: “E’ bella.”
Ed ecco che l’idea di conoscerla iniziò a ispirare in me immagini idilliache che ritraevano una bellissima donna, seduta al pianoforte, pendere dalle mie labbra e – soprattutto – dalla mia musica. Non risposi nulla al momento, ma durante la settimana seguente di fatto iniziai a pianificare lezioni, come già fosse mia allieva, cercando dentro di me il coraggio per andare a parlarle e – ancora di più – quello di riavvicinarmi allo strumento che era stato così a lungo la mia unica, dolce compagnia. L’avevo infatti fatto portare con me, nella nuova dimora, ma non avevo mai rimosso il telo che lo copriva, riparandolo dalla polvere sì, ma anche dalla mia vista. Era diventata una relazione del genere odi et amo, quella tra me e lo strumento, per cui sebbene non mi riuscisse più di vederlo, nondimeno potevo separarmene. Era come se fosse diventato ormai una parte di me, ma io non potessi più guardarmi attraverso di lui. Ma ecco che, dopo giorni di eccitazione e simil agonia, una mattina mi presentai – stupendo perfino me stesso – davanti alla piccola tenuta, la quale constava di un giardino fiorito molto curato che circondava una villetta di due piani, d’un bianco marmoreo, abbracciata su ambo i lati da un’edera rigogliosa, e un sentiero di ciottoli che correva dall’entrata fino al cancello di ferro battuto. Non appena fui investito dal profumo di tutti quei fiori dai mille colori, provai una sensazione paradisiaca, che invero mi fece notare il mio esser lì a mani vuote. Allora m’allontanai d’un bel pezzo alla ricerca di qualcosa con cui riempirmi le mani all’ultimo minuto, e la Provvidenza volle accordarmi la grazia di trovare, poco lontano, una famiglia di narcisi selvatici, di quelli dei poeti. Li colsi, attento a strapparli di netto dalle radici, e ne pulii alla bell’e meglio i gambi, formando un mazzolino che strinsi spasmodicamente tra le dita mentre tornavo al cancello per scoprire che una graziosa domestica scrutava la strada come se si domandasse dove ero finito.
“Eccovi!” disse lei, e pareva sollevata del fatto d’avermi infine trovato.
“Mi cercavate?” domandai, senza veramente capire: come poteva sapere che ero diretto proprio in quella casa?
“Sì, la padroncina vi ha intravisto poc’anzi dalla finestra, che indugiavate di fronte alla casa. Mi ha chiesto di invitarvi ad entrare, ma quando sono scesa, non c’eravate più.”
Uno stupore sincero s’impossessò del mio animo, insieme a un’eccitazione fanciullesca, tanto che farfugliai goffamente:
“Ebbene, sono tornato. Il mio nome è Giacinto Bello, vivo qua accanto e… E desidero vedere madamigella…” ma non finii la frase, perché mi rendevo conto che di lei non conoscevo che il nome.
“Narcisa Innocenti.” concluse la giovine per me, come se avesse indovinato la lacuna.
“Sì, proprio lei.” mi affrettai a confermarle, per poi seguirla oltre il cancello, lungo il sentiero di sassolini bianchi, fino alla porta d’entrata. La servetta m’accompagnò in una saletta laterale, un rustico salottino per ospiti, dominato dai colori chiari dei copridivani e delle tende, e da un forte profumo di legno.
“Attendete qui, per favore,” disse lei, prima di sparire chiudendosi la porta alle spalle. Ma non feci tempo ad ansiarmi troppo, che quella si riaprì, e una figura sottile, con le spalle piccole ma il collo lungo e flessuoso, apparve nella stanza, colmandola interamente della sua presenza, che improvvisa mi schiacciava contro le pareti. Mi irrigidii di riflesso, e feci un buffo inchino per salutare la signorina, la quale ricambiò il gesto con disinvoltura invidiabile.
“E così voi siete il musicista.”
Queste furono le sue prime parole, e una volta di più mi stupii: a quanto pare già mi conosceva. “Ero impaziente di incontrarvi. Prego,” aggiunse subito dopo, sembrando deliziata di vedermi.
“Mi attendevate?” domandai, mentre prendevamo posto l’uno di fronte all’altra, cercando di dissimulare il tripudio di emozioni che invero mi s’agitava dentro.
“E’ da quando vi siete trasferito qui che speravo di parlare con voi. Ma non osavo venire a bussare alla vostra porta: mi stato riferito che non eravate affatto di stato d’animo allegro. E che non suonavate più d’altra parte.”
La guardai trasecolato, in parte rapito dalla sua delicata bellezza, come quella di un fragile fiorellino di campo, in parte incredulo che lei fosse a conoscenza di questi dettagli. Lei dovette decifrare correttamente la mia espressione, perché s’affrettò ad aggiungere:
“Non volevo essere invadente, ma ero curiosa di voi.”
Nel mentre alzò appena le spalle e abbassò lo sguardo, in un’ironica contrapposizione di atteggiamenti: l’uno remissivo e l’altro spavaldo.
“Non lo siete stata,” la rassicurai immediatamente, “D’altronde, è cosa nota che abbia dovuto abbandonare la carriera concertistica.”
La mia intenzione non era quella di vantarmi, ma il mio nome era conosciuto – o almeno lo era stato – in tutto il paese: un motivo in più per volermi nascondere da tutti quanti, ma questo ovviamente non lo dissi. Lei sembrava particolarmente contenta del fatto che fossi venuto spontaneamente. Probabilmente desiderava conoscerne la ragione, e decisi di accontentarla: “Un mio buon amico m’ha detto che siete in cerca di un insegnante…”
Sul volto di lei guizzò un sorriso.
“…e pensavo di propormi per il ruolo,” conclusi, palesando subito le mie intenzioni.
“E’ così,” rispose lei, visibilmente sollevata per la notizia, “E sarei davvero estasiata se voleste essere voi il mio maestro.”
Poi, mossa come da una curiosità invincibile, a voce un poco più bassa, domandò a bruciapelo:
“Avete dunque ripreso a suonare?”
Mi agitai appena sul posto, prima di risponderle, sperando di suonare convincente:
“Riprenderò per voi.”
Lei mi guardò confusa, ma evitò di porre altre domande a riguardo. Forse nemmeno lei aveva poi tanta fretta di svelare tutto l’arcano della vicenda, dunque cambiò argomento.
“Allora possiamo accordarci sulla frequenza e il prezzo di queste lezioni…”
Stava ancora parlando quando, automaticamente, la interruppi:
“No, assolutamente. Non voglio compenso.”
La ragazza parve scandalizzata.
“Non volete essere pagato?” chiese, sicura di non aver capito bene.
“E’ così,” ribadii, “Non mi serve denaro. E la vostra sola compagnia già mi ripagherebbe dello sforzo, ne sono sicuro.”
Ma a quelle parole il suo viso parve adombrarsi, e Narcisa commentò solo:
“Come volete. Ma badate bene che sono un’allieva affatto ostica.”
E con questo sembrò arrendersi alla mia decisione. Ci demmo appuntamento per un’ora di lezione il lunedì alle 16 e il giovedì alle 11, poi mi congedai. Mentre riattraversavo il giardino, diretto a casa, provai una sensazione inebriante di trionfo. Non mi ero mai sentito così in vita mia, nemmeno dopo un concerto particolarmente importante. Era come iniziare a vivere.

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Capitolo 2
*** La prima lezione ***


2.




Trascorsi il finesettimana fremendo all’idea di passare del tempo da solo con quella donna meravigliosa, ma allo stesso tempo mi angosciava l’inevitabile avvicinarsi del momento in cui avrei dovuto rimettere mano sul pianoforte. E se non ce l’avessi fatta? Se mi fossi scoperto incapace per sempre di fare musica? Temevo innanzitutto una figuraccia, e ancora di più l’idea di perdere ogni scusa per trovarmi in compagnia della signorina. Ciò a cui invece non dedicai un solo pensiero, era il fatto che lei potesse risultare un’allieva difficile: nessun’ombra scuriva l’immagine che ormai mi ero fatto di lei, ora al pari di una Beatrice dantesca.
Il lunedì arrivò presto, rimpiazzando la domenica con una fretta quasi sconveniente. Quel mattino mi alzai dal letto con la sensazione di essermi appena messo a dormire, e passai la giornata nella vana speranza di riuscire a toccare quei tasti bianchi e neri prima ancora di recarmi a casa Innocenti. Ma alla fine, alle quattro meno dieci minuti, mandai al diavolo la sagoma del mio pianoforte - sempre avvolto dal lenzuolo – e uscii in preda a un impeto d’incosciente spavalderia. Pochi minuti dopo ero introdotto di nuovo nella villetta, ma stavolta la domestica – che scoprii chiamarsi Rosa – mi guidò su per la scala principale e poi lungo un corridoio che portava a un’unica porticina di legno pitturato di bianco. Al di là si trovava la stanza da letto di Narcisa, che era molto grande, ed ospitava un Bluethner a coda, nero e dall’aria vissuta. Lo strumento sembrava riempire tutta la stanza con la sua presenza imponente, tanto che non notai subito il piccolo scrittoio di legno e il letto, sistemati in un angolo, accanto a un’ampia finestra. Il letto era molto alto, dall’aria soffice, e un focolaio spento dominava la parete in fondo, di fronte al quale stavano due poltroncine. L’atmosfera generale era di profonda quiete, ma dei cinguettii irregolari provenivano da un altro angolo della stanza, dove un canarino dal piumaggio rosato saltellava con allegrezza all’interno di una gabbia, che però mi parve troppo grande per un solo animaletto. Narcisa non c’era.
“Potete attendere qui. La padroncina farà presto,” mi informò Rosa, prima di lasciare la stanza. Una volta solo, nonostante mi guardassi intorno con attenzione, non osai quasi muovermi, tenendo stretta in mano la mia cartella contenente gli spartiti che avevo scelto di portare. Percepivo la presenza del pianoforte come un’ombra minacciosa in attesa di afferrarmi, dunque non mi azzardavo ad avvicinarmi allo strumento. Consapevole della necessità di risolvere il prima possibile quel problema assillante che – senza dubbio alcuno – risiedeva solo nella mia immaginazione, tentai di ricompormi e affrontare almeno con lo sguardo quel concerto chiaroscuro di tasti che ora ai miei occhi rassomigliavano quanto mai a un sinistro sorriso.
“Che hai da ridere?” bisbigliai infastidito in direzione del Bluethner. Ovviamente non rispose. Dovevo sembrare pazzo, ma ho sempre avvertito gli strumenti musicali come provvisti di una sorta di anima musicale. Oggetti inerti che però prendevano vita in mano a un musicista. Ora, l’anima musicale dell’oggetto e quella dell’artista – almeno secondo la mia discutibile teoria – si fondono nell’atto creativo del fare musica insieme, tanto che non è più possibile separare nettamente ciò che viene dall’uno e dall’altro. La bellezza che ne nasce non è altro che l’espressione di questa armonia di anime, che s’incontrano, si riconoscono e si amano profondamente. Dunque, siccome anche tra musicisti e strumenti musicali esistono le cosiddette affinità elettive, - esattamente come tra gli esseri umani – è normale che non sempre s’instauri quel feeling che permette la nascita di una relazione duratura. Può darsi che qualcuno abbia già scritto un trattato dal titolo: “Anche gli strumenti musicali hanno un’anima”. Se così non fosse forse un giorno lo farò io. Ad ogni modo, il rapporto tra me e il pianoforte si è sempre basato su un imprinting avuto quando ero solo un marmocchio di tre o quattro anni, e la paura che provavo in quel momento all’idea di rimettermi a suonare probabilmente era dovuta non tanto al fatto di avere una mano offesa, quanto alla sensazione che quella naturalezza del rapporto fosse ormai mutata e divenuta qualcosa di artificiale. Proprio come quando, nel rapporto di coppia, tutto diventa un’abitudine al punto che, un giorno qualunque, ti alzi e capisci che non la ami più. Ecco, forse era proprio questa la domanda giusta da pormi: all’alba dei trent’anni avevo già consumato tutto l’amore per il piano? Ma se così fosse stato, la ragione da ricercarsi era solo una: l’avevo amato male. In musica, come in ogni cosa, prendersi le proprie responsabilità è fondamentale. Eppure il senso di colpa non dovrebbe mai essere tale da annegare il desiderio di riscoprire la gioia di amare ancora, e amare meglio. Perché un rimorso – o un rimpianto – che non funga da molla per un cambiamento, è inutile e nocivo come un veleno che, protratto nel tempo, ti corrode internamente in modo irrimediabile. Ora, la cura del senso di colpa non può risiedere che in un due cose differenti: l’una è il perdono, e l’altra è l’azione volta a rimediare. Ed ecco ciò che avrei dovuto fare in quella situazione, qualcosa di molto semplice: sedermi e suonare, e – comunque fosse andata – perdonarmi di aver tanto a lungo trascurato il mio compagno. Tanto da essere quasi diventati due estranei. Ma cosa impedisce a due sconosciuti di ripresentarsi da capo? Solo la paura irrazionale di scoprirsi troppo cambiati. Ero dunque in codardo? Sicuramente lo ero stato. Ma non volevo esserlo più, dovevo smetterla di alimentare i sentimenti negativi, e spezzare una volta per tutte quel circolo vizioso. O almeno provarci, ed era esattamente per questo che mi trovavo in quella stanza. Tutti questi pensieri mi girarono per la testa nei pochi minuti che mi separavano dall’inizio di quella prima lezione di piano dopo tanto tempo, e s’interruppero solamente all’arrivo di colei che aspettavo: Narcisa entrò silenziosa come un fantasma, e il suono della sua voce mi ridestò bruscamente da quel viaggio interiore, facendomi voltare di scatto, palesemente colto di sorpresa.
“Siamo nervosi,” mi disse come prima cosa, con una vena canzonatoria nella voce.
“Nient’affatto,” mentii con decisione, maldisposto a esser giudicato così in fretta.
Ma non c’era risentimento in me. Anzi, il carattere spigliato di Narcisa era una delle cose che più apprezzavo della sua persona. Riusciva ad essere insieme estremamente sincera e piena di tatto, ma mi era ignoto il modo in cui vi giungeva.
“A ogni modo, buongiorno!” salutò lei con un sorriso radioso.
E già mi ero dimenticato perché mi trovavo lì, perso nei tratti del suo viso allegro.
“B-buongiorno,” balbettai in risposta. Ella ridacchiò. Poi scostò la panchetta del pianoforte e vi batté sopra con la mano, invitandomi a sedermi.
“Fatemi sentire qualcosa, vi va?”
Inarcai un sopracciglio.
“Dunque l’allievo sono io, qui?”
Rise di nuovo.
“Scherzavo. Sapevo che sareste stato terrorizzato. Non importa.”
Lo disse con semplicità, e alzando di nuovo le spalle, come se davvero fosse di poca importanza il fatto che non mi mettessi lì a suonare e basta. Mi sembrava di essere tornato per davvero un principiante, ma dal modo in cui lei mi parlava non mi riusciva di sentirmi umiliato. Al contrario, colsi l’occasione di reimparare a suonare da capo, se questo era ciò che mi toccava fare.
Narcisa s’attardò un momento a recuperare la sedia dello scrittoio per disporla accanto alla panchetta, lasciando il giusto agio per le braccia. Mi sedetti e lei fece altrettanto. Sul leggio era già presente uno spartito aperto: una composizione di Bach.
“Avete già preso lezioni prima d’ora?” domandai, incuriosito.
“Da ragazzina,” rispose lei, “Per qualche anno. Ma poi smisi quasi del tutto. Adesso che mi è venuta voglia di riprendere, mi sono messa da sola a provare qualche pezzo che studiavo all’epoca. Ma non sono molto brava.”
“Perché avete smesso?” domandai, con sincera curiosità.
“E voi?” replicò lei all’istante.
La domando mi spiazzò.
“Chiedo scusa. Ad ogni modo… Avevo un insegnante molto bravo, ma anche molto severo. Troppo, in effetti. Almeno per me. Non faceva che bacchettarmi sul tempo… Alla fine avevo delle crisi di nervi, in cui lanciavo gli spartiti nel camino.”
“La frustrazione è un nemico da tenere a bada, quando si studia uno strumento.”
“Forse dovrò farmi un cartello. Per tenerlo a mente.”
Sorrisi, poi tornai a rivolgere l’attenzione allo spartito.
“Questa è un’invenzione di Bach. Eravate già avanti.”
“Aspettate a dirlo. Ve la faccio sentire. Va bene?”
“Vi siete già scaldata le dita?”
“Sì, vicino al fuoco,” disse lei con disinvoltura.
Rimasi un attimo senza parole, poi scoppiai a ridere.
“Fatemi sentire un po’ di scale,” richiesi con fare da insegnante.
Allora Narcisa, docile, posò le dita sottili sulla tastiera, e fece una scala di do a moto parallelo. Poi la relativa minore. E così per le altre. Su alcune era un po’ incerta, ma tutto sommato le conosceva. Il moto non era regolare, e nemmeno particolarmente sciolto. Il polso della mano destra tendeva a muoversi su e giù, e il ritmo non era perfettamente regolare.
Quando ebbe terminato mi rivolse un sorriso di scusa.
“Chiedo venia per il mio dilettantismo.”
“Non devi scusarti. Fai quello che puoi e basta,” le risposi scuotendo la testa, “Fammi sentire Bach adesso.”
Narcisa prese un respiro profondo, e poi cominciò. Si trattava dell’invenzione numero quattro. Inizialmente era titubante, il tocco debole e svelto, quasi come se i tasti le scottassero i polpastrelli. Verso metà invece si era rilassata e procedeva per lo più grazie alla memoria muscolare, incurante delle piccole sfumature, ma in egual modo ispirata dal desiderio di esprimere qualcosa di normalmente ineffabile. Verso la fine in modo particolare mi stupì, interpretando con una sicurezza inattesa l’ultimo quarto del brano, che riuscì in qualche modo a farmi vibrare qualcosa dentro. Non saprei dire cosa esattamente mi colpì – forse solo l’aggressività con cui affrontò le ultime righe del pentagramma, così lontana dalla delicatezza del suo tocco sul resto del brano – eppure, nonostante nel complesso la sua esecuzione fosse stata imprecisa e il suono poco coltivato, essa suscitò qualcosa di curioso in me, durante l’ascolto. Mi accarezzò dentro.
Verificare il suo livello di preparazione, e conoscere i vizi a cui era inconsapevolmente attaccata, era basilare per poter stabilire una serie di obiettivi da perseguire. Uno alla volta avremmo rimosso i sassi dal letto del fiume – prima quelli più grandi, poi quelli più fini – dopodiché avremmo levigato il fondo a furia di far scorrere le dita sui tasti. Infine ci saremmo occupati degli argini. Era principalmente un lavoro di limatura, di grande pazienza. Non si finiva mai. Questo fu in sintesi quello che le spiegai dopo aver ascoltato la sua esecuzione.

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