Variabili

di theGan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il nuovo compagno ***
Capitolo 2: *** Parentesi ***
Capitolo 3: *** Avanti e indietro ***
Capitolo 4: *** Input et output ***
Capitolo 5: *** Bene, ma non benissimo. ***
Capitolo 6: *** Grandi pulizie ***
Capitolo 7: *** Cose che capitano ***
Capitolo 8: *** A prescindere (p.1) ***
Capitolo 9: *** A prescindere (p.2) ***
Capitolo 10: *** Fratture ***
Capitolo 11: *** Tatsuo Mikami ***
Capitolo 12: *** Quantità sconosciute ***
Capitolo 13: *** Quello che non ti ho detto (pt.1) ***
Capitolo 14: *** Quello che non ti ho detto (pt.2) ***
Capitolo 15: *** Le cose belle quando finiscono (pt.1) ***
Capitolo 16: *** Le cose belle quando finiscono (pt.2) ***



Capitolo 1
*** Il nuovo compagno ***


* questa fiction viaggia parallela al canon: ci flirta insieme, ma non se lo sposa.

* Karl e Genzo sono entrambi queer in questa storia, non sarà però il focus di questo capitolo.


 

VARIABILI

 

 

1. Il nuovo compagno

 

 

A partire dal diciassette marzo ci sarà un nuovo studente in classe.

Li ha avvisati questa mattina la signorina Bumgarner che insegna matematica. Quando i professori parlano, Karl sente come dello statico, ma la parola Giappone la capisce pure lui. La Bumgarner aggiunge qualcosa sull’aiutare il nuovo compagno ad inserirsi visto che non parlerà ancora bene la loro lingua.

- Mi raccomando, ragazzi. Vediamo di non fare come l’anno scorso.

Anna Kuster, che sta in prima fila, annuisce convinta, altri borbottano qualcosa che potrebbe essere un “sì” o un gargarismo, alcuni ridacchiano. Karl non fa nessuna di queste cose, guarda fuori dalla finestra e conta nella mente quanti minuti restano alla fine della giornata di scuola. Se si concentra può vedere il campo da calcio dove l’Amburgo SV junior si allena. Qualche cretino mesi fa ha sparpagliato dei semi di menta tra l’erba e ora il prato è un insieme di chiazze profumate e sconnesse.

Cosa diavolo ci viene a fare un giapponese in Germania?

Vogel sta distribuendo le verifiche della settimana scorsa, la Bumgarner sceglie sempre lui per queste cose, forse perché è il primo della classe o perché è suo nipote. Quando si ferma al suo banco sussurra qualcosa di meschino e irrilevante. Karl sospira: ha lasciato l’ultimo compito praticamente in bianco, ma non ha bisogno di guardare il foglio per sapere di aver strappato l’ennesima sufficienza. Ci sono dei vantaggi ad essere una promessa del calcio e che il tuo coach sia il fratello del preside.

È passato quasi un anno dall’ultima volta in cui ha portato una verifica a casa, a volte si domanda se mamma si accorga che stia falsificando la sua firma o non le importi.

Sopravvive al resto della mattina, ignora il ragazzo basso dell’altra sezione che lo saluta in cortile e va dritto a casa. Vive a dieci minuti a piedi dalla scuola, sedici dal campetto, era stato papà a insistere per quella zona della città.

- Non c’è posto più sicuro in tutta Amburgo.

Ci hanno vissuti tutti e quattro per quasi tre settimane, poi Rudi Frank Schneider ha deciso di fare le valigie ed uscire dalle loro vite. Karl non è arrabbiato con suo padre, se n’è andato per proteggerli. Lo sa. Gliel’ha spiegato mamma. Però alle volte lei se ne dimentica, come adesso quando Karl entra e la sente urlare al telefono.

- Come sarebbe che non torni per il compleanno di Maria?! Cos… COME OSI?!

È tentato di girare sui tacchi ed andarsene, ma Maria è seduta sull’ultimo gradino delle scale e sta sentendo tutto, quindi ignora il ronzio nelle orecchie e raggiunge sua sorella.

- Che ne dici se io e te adesso usciamo e andiamo a prenderci un gelato?

Maria annuisce senza guardarlo, la aiuta ad alzarsi, le allaccia le scarpe e si assicura che abbia la giacca ben chiusa. Lascia un biglietto per mamma sul mobile delle scarpe ed escono. L’arretrare dell’inverno allunga pigramente le giornate, Maria indica i fiori che spuntano dal letto irregolare del prato e Karl le sorride. Sa che la sua espressione è tutta sbagliata, negli ultimi anni la sua faccia è diventata una maschera di pietra e gomma, ma cerca sempre di farla sembrare umana. Per sua sorella.

Maria dice di aver chiesto a papà un cane per il compleanno, le risponde che è una buona idea, ma che deve sentire anche con mamma.

- Mamma dirà di no.

- Questo non lo puoi sapere.

- Mamma dirà di no, perché papà ha già detto sì.

Logica inoppugnabile in effetti. La gelateria è in centro, prendono un pullman e Karl si assicura di tenere sempre sua sorella per mano. Una volta arrivati Maria sceglie una mostruosità colorata dai gusti improbabili come “chewingum” e “puffo”, non riuscirà mai a finirla e Karl decide saggiamente di non prendere nulla per sé e limitarsi ad aspettare l’inevitabile:

- Kaaaarl, non ne posso più!

E finire il mostro di Frankenstein semi-sciolto al posto di sua sorella. L’orologio del municipio rintocca ricordandogli che in questo momento dovrebbe essere da un’altra parte. Maria lo prende per mano e lo trascina a una di quelle macchinette automatiche che hanno installato appena fuori dal negozio, Karl ha abbastanza monetine per tre sorprese. Sua sorella adora il portachiavi morbido a forma di giraffa, non ha un’opinione particolare su quello a forma di mucca da schiacciare e, molto generosamente, gli consegna quello a forma di orso.

- Così ti protegge! Vedi che aria un sacco tosta?!

Rientrano alle quattro, Maria è molto stanca, così la prende in spalla e la trasporta per il breve tratto che separa casa dalla fermata degli autobus. Al loro rientro, mamma è in giardino a raccogliere i panni, l’aria preoccupata che si allunga come un’ombra sul suo viso evapora quando li vede arrivare.

- Vi siete rovinati di nuovo la cena!

Dice, ma sorride, un sorriso tirato. Ha una ruga sulla fronte che Karl potrebbe giurare ieri non c’era. Si offre di prendere Maria, le risponde che non le pesa e le chiede se ha bisogno di una mano per cena.

- Niente compiti?

Fa segno di no con la testa. Il frigorifero è praticamente vuoto, mamma ha quell’aria che ha spesso ultimamente in cui sembra distratta e sorpresa allo stesso momento.

- Potremmo… andare a mangiare fuori.

Non gli va, ma risponde di sì, poi Maria si sveglia e dice che è stupido uscire e che vuole le uova con la salsiccia questa sera. Ma dove pensa di metterle? Mamma ridacchia e dice che una cosa così semplice è ancora capace di gestirla da sola, lo spinge fuori dalla cucina e gli ricorda di divertirsi all’allenamento.

- Salutami tanto Hermann!

Sono le cinque del pomeriggio, la squadra si trova alle due e finisce alle sei. Forse se si sbriga… indossa le scarpe da ginnastica, esita, prende il pallone, esce e si dirige nella direzione opposta. È il quarto giorno consecutivo che salta gli allenamenti, ha fatto di peggio. Il mister ha persino smesso di minacciare di metterlo in seconda squadra. Però non gli va di vedere la faccia dei suoi compagni: metà di loro se la trascina dalle elementari, si ricorda benissimo cosa pensavano di lui prima che iniziasse a farli vincere. O di suo padre.

Fa freddo: è uscito senza mettere guanti o sciarpa. O giacca. Dovrebbe avere lasciato un maglione pesante nell’armadietto… Si concede un minuto per riflettere: potrebbe tornare a casa, ignorare l’espressione vuota di sua madre o il fatto che sia troppo distratta per ricordare quando sia uscito, andare in camera sua e studiare per la verifica di storia; oppure potrebbe andare al campetto, fare finta di niente e lasciare che il mister gli trafori i timpani per mezz’ora. E poi gli faccia fare trenta giri di campo. Decide di rischiare.

I giri di campo sono quaranta.

***

Il ragazzo nuovo arriva un lunedì mattina. È parecchio alto, non sa bene perché, ma Karl pensava che gli asiatici fossero più bassi. Parla bene il tedesco anche se lo fa con un accento strano che metà della classe trova esilarante. Idioti.

Se con la Bumgarner non vola una mosca, nelle ore di storia della Baer volano palline di carta. Alla terza il giapponese si volta, alza un sopracciglio e sorride in un modo che dice: la prossima ve la infilo su per il naso. La professoressa chiede se c’è qualche problema, il ragazzo fa segno di no e Karl non è certo si sia accorto che non si stava rivolgendo a lui.

La Baer è molto simile agli insegnanti della sua vecchia scuola. Karl non è mai stato granché come studente, ma si è sempre impegnato per quanto il suo massimo fosse sotto la media. Il suo vecchio professore di matematica scherzava spesso con suo padre:

- Speriamo che col calcio gli vada bene come a te o qui siamo messi male.

Poi c’era stata quella partita.

Il professore di matematica aveva smesso di scherzare. Tutto il quartiere aveva smesso di scherzare.

Per prime erano arrivate le telefonate, Maria aveva tre anni e aveva preso l’abitudine di nascondersi nel suo letto quando l’apparecchio cominciava a squillare. Mamma e papà all’inizio avevano provato a rispondere, poi lo avevano staccato, infine avevano cambiato numero. Un giorno, tornando a casa da scuola, aveva trovato il portone del garage ricoperto di vernice. Papà si era irrigidito e l’aveva costretto a rientrare, ma Karl aveva fatto in tempo a leggere cosa avevano scritto. Conosceva quelle parole: erano quelle che gli ripetevano a scuola.

Karl rimane seduto al banco durante la ricreazione, potrebbe uscire e andare a cercare Kaltz che sta nell’altra sezione al piano di sotto, ma non gli va. Metterebbe su quella faccia che fa alle volte, quella non esattamente preoccupata, e poi sorriderebbe e direbbe qualcosa di stupido. Tipo: questa sera vieni a mangiare da me. A cena riderebbero e parlerebbero dei baffi che sta cercando di farsi crescere Koertig, poi Karl noterebbe qualcosa di insignificante, come il padre di Kaltz dare un bacio tra i capelli di sua moglie o la madre di Kaltz chiedere se vogliono il bis, e il cibo gli si strozzerebbe in gola.

Così rimane in classe, tira fuori il quaderno, finge di fare i compiti e ascolta Herz, Rothstein e Beike girare come squali attorno al ragazzo giapponese.

- Ehi, cinesino! Ma riesci a vedere qualcosa da quegli occhi?

- Povelino, plobabilmente non capisce niente di quello che dici.

La Baer, seduta alla cattedra, finge di non sentire. C’è questa cosa che non ti dicono riguardo agli insegnanti: a loro non frega un accidente. Sicuro, gli importa che tu stia seduto, fermo, composto, che tu stia zitto. Ti sgridano se non fai i compiti, ti umiliano quando sbagli durante un’interrogazione, ma sono preoccupati per te come un macellaio per un taglio di carne. Probabilmente meno.

Il giapponese aggrotta le sopracciglia e pare leggermente confuso.

- Ma siete cretini o non avete ancora capito che sono giapponese? Se volete ridere di come parlo, almeno fatelo nel modo giusto.

A Karl piace il nuovo compagno.

Un’opinione che il passare dei giorni non fa che confermare. Il giapponese è sfrontato, siede in uno dei banchi davanti e non ha paura ad alzare la mano quando non capisce, non cerca di farsi piccolo per non farsi notare. Una fortuna: è troppo alto, non funzionerebbe. Durante l’intervallo nota spesso Kuster e Vogel parlarci assieme, sente qualcosa riguardo a degli appunti e a delle ripetizioni di latino, secchioni infami.

Il giapponese continua a peggiorare la sua precaria posizione nella catena alimentare della classe, ma non sembra importargli, il suo sorriso è particolarmente affilato e pare non aspettare altro che una battaglia aperta. Non ha speranze. Chi ha il vantaggio del numero vince sempre.

Si morde le labbra, non è Karl stesso la prova vivente del contrario? Non hanno spezzato lui, forse il ragazzo nuovo ha qualche speranza. Buffo. Era da un po’ che non si interessava a qualcuno al di fuori della propria famiglia. O a Kaltz. Deve essere la novità, magari l’accento o il modo in cui a volte aggiunge una “u” alla fine delle parole. Una curiosità passeggera destinata a svanire con l’arrivo della primavera.

Due giorni dopo Karl se lo ritrova seduto accanto durante la pausa pranzo.

***

Per risparmiare sul gas la scuola ha deciso di organizzare due rientri pomeridiani il giovedì e il venerdì dalle quattordici alle sedici. Gli studenti che partecipano alle attività del club di calcio sono esonerati dagli allenamenti durante quei giorni, cosa che ha causato parecchia acrimonia tra coach e corpo insegnante. La Bumgarner come vicepreside funge da antenna parafulmine per le proteste.

- La squadra di calcio subirà un duro colpo.

- Se il club giovanile dell’Amburgo non riesce a reggere un terzo dei suoi membri perdere quattro ore di allenamento a settimana, allora il coach non sta facendo il suo lavoro.

- Due rientri pomeridiani sono troppo pesanti per gli studenti.

- Anche non avere il riscaldamento il prossimo inverno.

- Non c’è la sala mensa.

- Ci stiamo lavorando.

Il laboratorio d’arte subisce un restyling e agli studenti con permesso firmato viene concesso di rimanere in classe per consumare il proprio pranzo al sacco. La scuola promette di fornirne uno gratuito a partire dal mese prossimo.

Karl ha portato la circolare a casa, ha detto a sua madre che serve per avere accesso alla mensa e non ha menzionato l’ intenzione di prendere possesso di una delle aule libere per ribattezzarla sua personale “fortezza della solitudine”. In ogni caso il piano fallisce. Le aule in cui agli studenti è permesso sostare durante la pausa sono limitate così Karl sceglie di rimanere in classe. Non è l’unico.

Ci sono i secchioni, gente strana, ma generalmente a posto. La Kuster si porta dietro le amiche che ha nell’altra sezione e s’impadronisce della prima fila di banchi. Le ragazze li riorganizzano in un semicerchio dove vengono passate merendine e succhi di frutta in una sorta di rituale iniziatico.

Rimangono anche i tipi strani, quelli che giocano a quella roba americana tipo gioco di ruolo e che si appartano sul fondo della classe sedendosi per terra come animali.

Karl rimane al suo banco. Non spreca tempo a cercare una soluzione più appartata, Vogel è uno stronzetto acido, ma gli altri sono tipi a posto. La Kuster si era pure offerta di passargli gli appunti quando si era trasferito l’anno scorso. In classe ci sono ancora Reinhard e Schroder che sono amici di Kaltz e si sono sentiti in dovere di convincerlo circa un milione di volte ad unirsi al loro gruppo. Ci sono volute due settimane perché si rassegnassero a lasciarlo educatamente in pace. Insieme al resto della scuola in effetti.

Le persone come la Kuster o Schroder lo fanno perché hanno abbastanza cervello per capire quando la loro compagnia non è né voluta, né richiesta. Quelli come Herz, Rothstein o Beike lo fanno perché sanno che in una scuola in cui tutto o quasi gira attorno allo sport, non è una mossa intelligente prendere di mira la persona che la stampa ha iniziato a soprannominare “il piccolo Kaiser” e definire “la promessa del calcio giovanile tedesco”. I ragazzi della squadra non la fanno passare liscia anche solo a chi pensa di sfiorarlo.

Questo si traduce in un campo di forze attivo attorno a Karl ventiquattrore su ventiquattro, sette giorni su sette. Il limitato numero di persone autorizzate ad oltrepassarlo sono sua madre, Maria e, per sua sfortuna, Hermann Kaltz.

Non sa se sia frustrante o solo bizzarro il fatto che il giapponese rientri in classe, noti come il suo banco sia stato sequestrato dal circolo delle secchione, recuperi il suo pranzo, rifiuti l’invito di unirsi a loro e si diriga dritto verso di lui. Forse è un errore. Il giapponese lo fissa, agguanta una sedia, la gira e si siede al suo banco. La fa sembrare pure una cosa naturale.

Karl sbatte le palpebre due volte, la soluzione più semplice sarebbe applicare la strategia abituale: rifiutarsi di riconoscere di essere in presenza di un altro essere umano. Poi fa l’errore di alzare gli occhi e incrociare lo sguardo dell’altro. Il giapponese lo prende come un invito per sbattergli una mano davanti alla faccia e dire:

- Piacere, Genzo Wakabayashi.

Rifiutare di stringerla servirebbe a far passare il messaggio. Passano circa trenta secondi in cui il giapponese non muove un singolo muscolo.

- Kaltz dice che siamo compagni di squadra nell’Amburgo SV. Prendi ‘sta mano e facciamola finita che non ho tutto il giorno.

Karl stringe la mano, il tipo Waka… com’è che si pronuncia? GENZO, apparentemente soddisfatto, si accomoda meglio sulla sedia e si mette a mangiare come se nulla fosse.

Il suo portapranzo è una scatola rettangolare alta e di un materiale che non si capisce bene se sia legno, metallo o plastica. C’è una stampa sul dorso e Karl la riconosce perché è uguale all’orso che Maria gli ha regalato come portachiavi. Mangia usando le bacchette. Non ha mai visto qualcuno mangiare usando le bacchette. Forse è maleducato fissare.

Nel portapranzo dell’altro c’è, ma che sorpresa, del riso, delle verdure cotte tagliate in modo strano e un sacco di un qualcosa che potrebbe essere carne o pesce, ma che emana un odore delizioso.

- Vuoi assaggiare?

Genzo ha un sopracciglio sollevato. Karl è stato colto in flagrante e ora non ha molta scelta se non sembrare maleducato o scemo. Cosa fare? Karl non ha alcuna intenzione di fare amicizia con il ragazzino straniero, innanzi tutto perché Karl è un pessimo amico e il giapponese probabilmente merita di meglio. In secondo luogo Karl ha già abbastanza scocciature nella sua vita senza andare a cercarsene un’altra.

- Senti, se ti schifa dillo e basta. Altrimenti sposta la mano che te ne metto un po’ nel piatto.

Karl obbedisce. Allunga così rapidamente il piatto di plastica che l’altro si mette a ridere. Non è un brutto suono. L’alimento misterioso è pollo, ma è tiepido, delizioso e con un retrogusto particolare che non riesce bene ad identificare.

- È la salsa di soia. Mister Mikami lascia il pollo ammollo nel latte e poi lo cuoce in padella con le mandorle.

Genzo dice qualcosa riguardo alle bacchette che Karl non capisce bene, poi aggiunge nel suo piatto anche le verdure, a quanto pare cotte al vapore, e il riso che ha una consistenza completamente diversa da quella a cui è abituato. Sarebbe bello cucinarlo per Maria. A sua sorella piacciono un sacco le novità anche se poi finisce sempre per mangiare le solite quattro cose.

Karl ha dimenticato come gestire una relazione interpersonale che fuoriesca dal campo da calcio. Di solito ha Kaltz a reggere anche la sua parte di conversazione. In ogni caso un’offerta di cibo, può essere ricambiata solo con un’altra offerta di cibo. Afferra senza preavviso il portapranzo di Genzo e ci rovescia dentro metà del suo.

Forse avrebbe dovuto chiedergli se soffre di qualche allergia. Maria e Kaltz non possono mangiare mandorle e nocciole.

Genzo assaggia con cautela, si ferma e poi procede a spazzolare il resto del pranzo a velocità record. Quando incrocia lo sguardo perplesso di Karl, alza un sopracciglio e replica.

- Che c’è? Era buono.

Ha le guance un poco rosse. A Karl sboccia nel petto quella gioia discreta di quando le piante si vestono delle prime gemme alla fine dell’inverno. È un pensiero talmente imbarazzante che ora è costretto a presentarsi.

- Karl Heinz Schneider.

Genzo fa una smorfia con la bocca, poi si china verso lo zaino, tira fuori un thermos gigantesco e gli fa segno di passargli il bicchiere.

- Dovresti bere qualcosa quando mangi Karl Heinz Schneider. Altrimenti finisce che ti ci strozzi.

Sente le guance tirare, per qualche ragione non è difficile sorridere se sta parlando con Genzo. Porta il bicchiere di plastica alla bocca e quasi sputa: a quanto pare Genzo Wakabayashi è tipo da portare a scuola un thermos grande quanto il suo braccio pieno zeppo di caffè. Non c’è neanche lo zucchero. È praticamente la fotocopia asiatica di Hermann Kaltz. Ma più alta.

- Parli bene il tedesco.

Chissà da quanto lo studia. Karl non riesce a immaginarsi a parlare un’altra lingua. In teoria dovrebbe stare studiando latino e inglese, ma se in matematica galleggia qui è aprire uno scenario francamente pietoso. Genzo ha una pronuncia strana, strascica un paio di parole, ma si capisce sempre quello che sta dicendo e, checché ne dicano i coglioni in classe, il suo accento è piacevole.

Forse i suoi genitori si sono trasferiti qui per lavoro come hanno fatto quelli di Kaltz, solo che loro prima vivevano a Tosdet che è praticamente a mezz’ora di macchina da Amburgo. Lo sta fissando di nuovo probabilmente.

- Parlo il giapponese anche meglio.

Genzo gli fa l’occhiolino, riempie di caffè la tazza del thermos e poi se la scola tutta in un colpo. Karl è un costrutto di ghiaccio in forma umana, una città decomposta di lava seppellita sotto venti strati di neve. A volte appaiono delle fratture.

Scopre che stare in silenzio con Genzo non è strano, ma che parlare di nulla è altrettanto rilassante. Karl chiede come facesse il suo cibo a essere tiepido e l’altro prende il portapranzo, lo chiama bento e gli mostra una specie di piastra nascosta in uno scomparto e alimentata a batteria. Deve assolutamente procurarsene uno uguale per Maria.

Genzo chiede cosa gli abbia rifilato da mangiare, perché era “un sacco squisito” e mentre lo dice incespica sulla “q” come se avesse cambiato idea all’ultimo su dove andasse l’accento. Karl spiega di aver improvvisato qualcosa con gli avanzi del giorno prima e di non essere sicuro di cosa ci sia effettivamente dentro. La risposta è uno sguardo pieno di ammirazione.

- Cazzo, ma sei bravo.

Le lezioni riprendono troppo presto. La campanella suona mentre stanno ancora parlando, Genzo è convinto che a Maria potrebbero piacere i prodotti di una ditta chiamata Sanrio vedendo i suoi gusti in fatto di portachiavi e disegni. Karl potrebbe avergli mostrato i pasticci che sua sorella gli ha fatto sul quaderno di tedesco e che lui conserva con religioso zelo. Il corridoio si riempie di schiamazzi e rumore di piedi. Karl si congela.

Genzo è simpatico, ma non vuole che lo vedano con lui.

È una cosa stupida anche solo da pensare e figurati se può dirla ad alta voce.

Così sta zitto e non guarda mentre Genzo decide per tutti e due. Ritira bacchette, thermos, portapranzo, raggiunge la Kuster e la aiuta a sistemare i banchi. Si siede.

Karl fissa la sua schiena per circa metà del pomeriggio, a un certo punto l’altro si gira e gli strizza un occhio.

Che scemo.

 


 

NOTE:

 

BENVENUTI! Celebriamo l’inizio di un luuungo percorso. Come avete potuto leggere nel riassunto “Variabili” è una long story dedicata all’amicizia del terzetto amburghese attraverso gli anni a partire dall’arrivo di Genzo in Germania (con un certo grado di libertà sugli eventi della continuity del manga).

Questo capitolo è in particolare una rielaborazione di una mia storia scritta in precedenza in inglese e che potete leggere qui.

Karl/Genzo sono endgame, ma l’amicizia con Kaltz giocherà un ruolo assolutamente primario. Se avete letto “Cambiare l’ordine degli addendi” sapete già come la penso.

Ho fatto molte ricerche su scuole e club giovanili calcistici tedeschi negli anni ’80, ma siccome mi fumavano le orecchie e la vita è già molto difficile, tenete presente che anche qui mi prendo grossi margini di libertà.

Come al solito: una recensione anche breve è la benzina che convince l’autrice ad anteporre scrivere questa storia alle scadenze di lavoro.

 

Ci vediamo il primo mercoledì del mese con il secondo capitolo scritto dal POV del caro Genzo.

 

                                                                                         >>> 2. Parentesi.

Misaki parte per la Francia, Tsubasa NON se ne va in Brasile e Genzo deve prendere una grossa decisione.

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Capitolo 2
*** Parentesi ***


* questa fiction viaggia parallela al canon: ci flirta insieme, ma non se lo sposa.

* niente Schneider o Kaltz in questo capitolo.

 


 

2.Parentesi.

 

Dicembre ’85.

Tre mesi prima.

 

In Giappone le finali di calcio del torneo nazionale per la categoria pulcini sono terminate da una settimana. La favorita Nankatsu ha strappato una sudata vittoria al Meiwa di Kojiro Hyuga, nonostante tre dei suoi giocatori di punta fossero infortunati.

La caviglia di Misaki è praticamente a posto, la brutta storta che l’aveva gonfiata come una pallina da tennis è sfiorita e il riposo forzato non pare aver scalfito la gentilezza del suo carattere. Tsubasa s’è ripreso, fisicamente parlando, ma la fuga dell’INNOMINABILE gli ha spezzato qualcosa dentro che ci vorrà parecchio a riparare. Genzo reprime il desiderio di contattare suo fratello e chiedere di assumere qualcuno per gambizzare quel pezzo di merda brasiliano.

Non importa che Genzo e Roberto Hongo siano d’accordo che a undici anni a Tsubasa faccia meglio il Giappone che il Brasile. Al diavolo, quel bambino è finalmente riuscito a trovare degli amici disposti a darsi fuoco per lui: la sua carriera può aspettare ancora qualche anno. Non importa che Genzo e Roberto Hongo siano d’accordo perché quello stronzo ha fatto piangere Tsubasa e ora Genzo lo vuole vedere morto. O almeno tirargli un pugno nei coglioni.

Hongo non avrebbe dovuto promettergli il Brasile DAL PRINCIPIO. E poi andarsene così… senza manco il coraggio di guardare il ragazzino in faccia e spiegargli perché partire sarebbe stata una pessima, pessima idea.

Ma è difficile concentrarsi su propositi di vendetta con Mister Mikami che incombe su di lui come un avvoltoio impagliato.

- Le hai prese le medicine, Genzo?

- Siediti. Dov’è la tua stampella? Il dottore ha chiaramente specificato di continuare ad usarla per le prossime due settimane!

La sua gamba è A POSTO! Sicuro, se salta l’antidolorifico fa un male della madonna e deve stare attento a non darci peso se non vuole lucidare il pavimento con la faccia, ma ci saranno un milione di cose più importanti di cui Mikami potrebbe passare il tempo a preoccuparsi.

Genzo, ad esempio, ha un sacco di cose a cui pensare.

Misaki parte per la Francia fra tre settimane. È assurdo che non sappia ancora l’indirizzo di dove andrà ad abitare, la merdina non glielo vuole semplicemente dire. Spera solo che il regalo d’addio che Tsubasa e gli altri vogliono preparare lo convinca che certe ferite è meglio lasciarle sanguinare. Negare che esistano è solo un invito perché si infettino.

Lo sa per esperienza personale. Gli è successo con il polpaccio destro una volta.

Al di là del dramma condensato che sono le vite di Misaki e Tsubasa, Genzo e Takasugi sembrano gli unici a ricordare che tra poco ci saranno gli esami d’ammissione per le scuole medie. L’alloro della vittoria deve lasciare il posto a un libro di testo altrimenti saranno tutti fottuti. Tranne lui. Genzo ha una media fantastica.

Anche Takasugi e Morisaki non avranno problemi. Ishizaki non ha speranze.

Genzo guarda la stampella: è grigia con l’impugnatura blu elettrico. Un colore stupido. Fa venire voglia di lanciarla. Mister Mikami è uscito trafelato un’ora fa dopo aver ricevuto una telefonata. Ha detto che sarà una cosa lunga e di non aspettarlo per cena. Bene.

Genzo ignora la stampella, si tira in piedi e fa esattamente nove passi prima di crollare scompostamente a terra. Miss Asano, l’anziana cameriera che ha avuto il privilegio di vederlo fare cose ben più umilianti nei suoi undici anni di vita, lo intercetta mentre striscia verso il divano. L’espressione placida della donna può significare solo qualcosa di molto, molto pericoloso. Genzo accetta di usare la stampella.

Ci mette il doppio del tempo per raggiungere il telefono che sta in cucina. Suda e si deve sedere per fare il numero di casa di Takasugi.

Il suo difensore preferito risponde al terzo squillo. Un’ora dopo arriva a casa sua con Taki, Teppei e Izawa al seguito, c’è pure Morisaki che agita una mano per salutarlo in modo assolutamente adorabile. Poi nota la stampella.

- Capitano! Ma allora non sta ancora bene!

Merda, ora la vedono anche Teppei, Taki e Izawa che iniziano ad agitarsi. I Cinque della Shutetsu sono un po’ come i leoni che formano GoLion, una forza terrificante. E ora tutta quella forza è concentrata in un unico mostro preoccupato. STA BENE.

- Per l’ultima volta: il dottore ha detto che il danno al tendine non è a lungo termine. – Izawa solleva un sopracciglio. Taki e Teppei si scambiano un’occhiata significativa e si voltano verso Takasugi che si limita ad annuire in modo grave. – Devo solo farci attenzione nelle prossime settimane, prendere le medicine, fare fisioterapia… entro fine mese sarà come se non fosse mai successo.

Taki, Teppei, Izawa e persino Takasugi sospirano e si voltano verso Morisaki.

- Il capitano QUESTA volta non mente. – Sentenzia la merdina traditrice.

Appaiono tutti molto sollevati, tranne Genzo che si sente offeso.

Ma, in effetti, se uno di loro gli avesse mentito in faccia e giocato contro il parere del medico, Genzo gli avrebbe polverizzato il culo a forza di pedate.  Quindi per questa volta la mancanza di rispetto passi.

- Ovviamente oggi siamo qui per studiare. –  Un’occhiataccia ai suoi compagni serve a convincerli che l’argomento salute è definitivamente archiviato. – La sufficienza in tutte le materia basta a garantire il passaggio dalle elementari alle medie all’istituto Shutetsu. TUTTAVIA!

Taki e Teppei che si erano messi a borbottare qualcosa ritornano imbarazzati a prestare attenzione.

- Tuttavia… - Riprende con severità. – Non è scontato fare domanda anche per altre scuole.

Una piccola, trascurabile scintilla di panico inizia a serpeggiare negli sguardi di metà dei presenti.

Con Takasugi, Genzo ha discusso la possibilità al telefono, mentre Morisaki è responsabile di avergli messo l’idea in testa da principio quando lo aveva avvicinato dopo la vittoria contro il Meiwa:

- È un vero peccato che non giocheremo più con Tsubasa l’anno prossimo. Almeno le medie pubbliche di Nankatsu sono un istituto prestigioso.  

Tsubasa sì o no, Genzo non ha dubbi che la sua Shutetsu non avrebbe problemi ad asfaltare la squadra della scuola pubblica. Il calcio si gioca in undici e un centrocampista, per quanto bravo, non può essere dappertutto.

Se la JFA non impone anche per le medie un compattamento delle squadre nei tornei regionali, Tsubasa finirà per esserne escluso come era successo a Hyuga. O a Matsuyama. Un grande spreco. Quindi: o Tsubasa va alla Shutetsu o sarà la Shutetsu ad andare da Tsubasa.

E poi ha controllato: il programma delle scuole pubbliche di Nankatsu è davvero buono, accidenti.

- Capitano… - Prova Izawa.

- Quindi… - Genzo lo ignora ed estrae dallo zaino i ventisette quaderni pieni zeppi di appunti e facsimile delle domande per i test d’ammissione. Morisaki li fa circolare. – Quindi mi sono preso la libertà di iscrivervi agli esami. Poi fate voi.

Il verso che esce dalle bocche di Taki, Teppei e Izawa è una sorta di lungo latrato, poi però i quaderni li prendono e si mettono a ripassare. Ah, è bello essere re. 

***

Genzo ama Tatsuo Mikami come e più di suo padre.

È persino imbarazzante, specialmente da quando Izawa gli ha fatto notare come la sua voce vada tipo un’ottava sopra quando parla con il suo coach.

Mikami c’è sempre per lui e Genzo intellettualmente sa che viene pagato per questo. È uno di quei programmi che girando in background consumano la sua RAM. A volte è bello pretendere che Mikami sia suo zio, uno zio figo, che ama trascorrere il tempo con il nipote preferito.

Poi ci sono occasioni come questa. Momenti in cui Genzo è assolutamente certo che Mikami sia a tutti gli effetti membro onorario della famiglia. Solo i suoi genitori riescono a farlo impazzire a questi livelli.

- Cosa SIGNIFICA che se ne va in GERMANIA?!

Quindici minuti fa il mondo di Genzo girava tranquillamente intorno al suo asse. La gamba è finalmente a posto, persino il dottore ha ceduto e dato, controvoglia, il permesso per tornare ad allenarsi. È appunto quello che stava facendo insieme a Mikami come ogni pomeriggio dell’anno, dalle quattordici alle sedici e trenta, sette giorni su sette, con il sole o il brutto tempo. Da quando aveva cinque anni.

Dieci minuti fa, Mister Mikami, la faccia tirata in un’espressione placida come quella di Buddha, aveva casualmente lanciato la bomba.

- La JFA mi ha offerto un lavoro in Germania, ho deciso di accettare.

Al cervello di Genzo manca corrente, gira a vuoto e poi si inceppa. Mai, nella sua breve vita, l’ha sfiorato il pensiero che Mister Mikami lo potesse lasciare. Tsubasa ha pianto per tre settimane di fila quando quell’uomo orribile che è Roberto Hongo se n’è andato e lo conosceva da tipo cinque mesi. Mikami è la sua figura genitoriale di riferimento da sei anni. Non se ne può… andare.

Oh. OH!

Mikami non lo sta guardando in faccia, sta fissando un punto impreciso collocato tra la traversa e il palo sinistro della porta che sta in giardino.

Sta succedendo davvero.

Passano tre secondi, i tre secondi più lunghi della vita di Genzo Wakabayashi. Il mondo smette di girare, i suoi polmoni si svuotano di tutta l’aria. Poi Mikami decide di aprire bocca e assestare il colpo definitivo al suo precario equilibrio mentale.

- E tu dovresti venire con me!

- EH?!

Tatsuo Mikami non è un uomo passionale. Severo e pragmatico, ride poco, sorride spesso e alza la voce solo per abbaiare istruzioni  durante l’allenamento e in partita. Genzo può contare sulle dita di una mano il numero di volte in cui l’ha visto arrabbiato che coincidono anche con quelle in cui lui l’ha fatto arrabbiare. Questo per dire che non ha mai visto Mister Mikami così. Il suo coach sfoggia un sorriso scemo che starebbe bene sulla faccia di Tsubasa ed emana entusiasmo come un proiettore dello stadio.

Genzo si prende un minuto per ricordare al cervello come funzionare e rassicurarlo che, sì, Mister Mikami non sta pianificando di andarsene per sempre. A posto? Bene. Ora può incazzarsi.

- COME sarebbe a DIRE che se ne va in GERMANIA?!

Mister Mikami sorride, appoggia una mano sulla sua spalla e lo pascola dentro casa. Vanno in cucina a prendere da bere e si siedono nel portico. Mikami sorseggia la sua birra, Genzo sta praticamente vibrando attorno al succo di frutta. La JFA ha stabilito che è tempo per il calcio giapponese di mettersi in pari con quello delle grandi teste di serie come Italia, Francia e Germania. Ha così selezionato un gruppo di allenatori con esperienza internazionale da inviare ad affiancare quelli delle squadre europee che hanno dato l’adesione al progetto. Limitato al momento alle sole giovanili, l’obbiettivo della JFA è di formare allenatori con maggiore prospettiva sul calcio mondiale che siano poi in grado di riportare le nozioni apprese in Giappone. Il progetto è firmato Munemasa Katagiri, un vecchio compagno di squadra del suo coach. È, in sintesi, il futuro che Tatsuo Mikami ha sempre sognato e vuole che Genzo ne faccia parte.

-  Rifletti Genzo, per come sono le cose ora il tuo talento sarebbe sprecato in Giappone. Se vuoi avere una chance per diventare un vero professionista internazionale è meglio partire ora che sei giovane.

Ha senso. Fa quasi paura quanto ha senso. Fa ancora più paura che la possibilità di lasciare il Giappone non gli sia mai occorsa prima. Sarebbe la cosa migliore nell’ottica della sua carriera futura. Senza dubbio.

Tsubasa sarebbe andato in Brasile se quel deficiente di Roberto Hongo non si fosse rimangiato la parola. Misaki parte per la Francia.

E lui cosa vuole fare? Cosa c’è a Nankatsu a trattenerlo?

Un sacco di cose. Vero?

Si volta, Mister Mikami gli sorride e gli passa una mano tra i capelli come faceva quando era piccolo.

Genzo dice di sì. Non se ne pentirà mai.

Sul lungo periodo.

Su quello breve è il disastro. Ci sono troppe cose di cui preoccuparsi per avere tempo di pentirsene. Deve chiamare sua Madre. Ovviamente la donna sa già tutto, perché Mikami è un adulto responsabile e prima di aprire la ciabatta sulla faccenda Germania con Genzo ha chiesto il permesso dei suoi genitori. E datori di lavoro. Non come un certo qualcuno.

Genzo ce l’ha il passaporto? Deve fare il passaporto. Quanto tempo ci vuole per fare il passaporto?

Ah. Dovrà andare in una scuola tedesca. Come funzionano? L’enciclopedia non è di aiuto, ha bisogno di fonti più attendibili.

Oh. Deve imparare il tedesco. Ma perché la JFA non mandava Mikami in Inghilterra o in Cina? Genzo sa già quelle lingue perché sua Madre ha insistito per fargliele studiare da quando aveva tipo due anni. Probabilmente perché le industrie della famiglia fanno un sacco di affari con quei Paesi.

Ha bisogno di sedersi. Sta per implodere. Pensieri rilassanti, pensieri rilassanti. Inspira. Tsubasa che gli chiede di giocare, la faccia di Morisaki, Izawa che lo chiama “capitano”, il cane John che gli lecca la faccia, Ishizaki che si schianta contro un palo. Espira. Meglio.

Non c’è motivo di preoccuparsi. La sua partenza ha ottenuto l’approvazione genitoriale e i segretari che i Wakabayashi hanno sul libro paga sono incredibili. Deve smettere di agitarsi come un gallina senza testa e lasciare che facciano il loro lavoro. La vita, come il calcio, è un gioco di squadra.

Il giorno seguente le scartoffie burocratiche sono risolte. L’iscrizione alla gesamtschule di Amburgo consociata al club della squadra è stata finalizzata e Katagiri ha fornito le lettere di raccomandazione necessarie a Genzo per entrare nella prestigiosa accademia calcistica. È una fortuna che la DFL tedesca riconosca la JFA, altrimenti i giudizi espressi da gente come mister Shiroyama o Mikami non avrebbero avuto peso per la sua ammissione. Genzo dovrà sostenere un provino con mister Friedman e passare il controllo medico e poi entrerà ufficialmente a far parte dell’Amburgo SV junior.

Riguardo alla questione lingua, nel pomeriggio incontra la sua nuova tutor, Marie Luft Tanaka. La donna è alta, ha la permanente, occhi grigi e un piglio deciso. Non gli indora la pillola: un mese non è abbastanza, ma se è pronto a sputare sangue allora lei è disposta a provarci. Gli piace questa donna. Il programma è serrato, l’obbiettivo è padroneggiare le basi, essere in grado di comprendere ordini o istruzioni e di sostenere una conversazione. Il fattore tempo è contro di loro.

- Non poteva, che ne so, avvisarmi prima?

Tatsuo Mikami si trova nella bizzarra posizione di passare da insegnante a studente. Si siede accanto al suo pupillo e partecipa alle lezioni della Luft Tanaka con postura rigida e sguardo assente. Non è molto disciplinato. Con il passare dei giorni, delle ore, il suo volto assume colore e consistenza delle piastrelle del pavimento. Quando non chiede una breve pausa per andare in bagno a fumare, sospira, si leva gli occhiali e li pulisce con il fondo della manica.

- La JFA non è famosa per il suo tempismo. Amano… stupire con questo genere di sorprese.

- Beh, ma QUESTO è stupido e INEFFICENTE!

Ci sono delle volte in cui il suo coach sorride in modo diverso, è un’espressione calda con una tristezza segreta che trasuda dai solchi sulla pelle. Mikami allunga una mano e gli dà un pizzicotto sulla guancia.

- Allora quando sarai cresciuto, sarò molto fiero di saperti suo direttore esecutivo. Così finalmente ci sarà qualcuno a costringere quei fannulloni a prendere le cose sul serio.

Genzo chiude gli occhi e lascia che la mente si svuoti. Il futuro è distante e non gli importa. Ci sono solo sei persone al mondo autorizzate a toccarlo, vede cinque di loro al massimo tre volte all’anno. L’ultima è Mikami.

In parte la colpa è sua. Non è solo il suo cognome a intimidire le persone. Genzo proietta attorno un’aurea di intoccabilità che persino i suoi amici sono restii a penetrare. Tranne Tsubasa. Certo che dopo una vittoria potrebbero venire anche ad abbracciarlo! Sarebbe strano, imbarazzante e se ne lamenterebbe per settimane, ma non sarebbe male, okay?!

A sedici anni, al termine della sua prima partita nella Bundesliga, i suoi compagni di squadra stabiliranno di festeggiare lanciandolo in aria e Genzo deciderà che l’Amburgo sarà per sempre casa sua.

Fino a coach Zeaman.

Nel presente Tatsuo Mikami è pronto a dichiarare la resa passando attraverso tutte e cinque le fasi del lutto. Negazione:

- Lo impareremo sul posto!

Mikami sbatte le mani contro le pagine dedicate ai verbi irregolari (rabbia), poi sfila gli occhiali e si massaggia le tempie. Contrattazione:

- Possiamo usare l’inglese per comunicare nel frattempo.

Genzo dorme tre ore per notte abbracciato al dizionario. Ripete monocorde le frasi imparate borbottandole sotto la doccia, mentre corre, mentre mangia. Ha i nervi a pezzi ed è la prova vivente che non sia saggio dare caffè a un bambino. Tutto l’amore che prova per il suo mister non salverà Mikami ora.

- E lei crede che il coach dell’Amburgo si metterà a parlare alla squadra in inglese per farle un piacere?

Mikami fissa il libro di testo con l’espressione vuota che Genzo ha visto su Taki e Teppei almeno un milione di volte. Dice: “mi appellerò a qualsiasi scusa per non fare questa roba”.

- L’inglese e il tedesco non sono tanto diversi. – Mikami mette la palla al centro e coordina l’attacco, una manovra rischiosa che lascia la difesa sguarnita. – Qualcosa dovrei riuscire comunque a…

Genzo arriva in contropiede.

- Mister Mikami, lei è certo di saperlo l’inglese?

La schiena dell’uomo si irrigidisce, l’espressione nascosta dagli occhiali da sole è indecifrabile. Mikami può offendersi quanto vuole, ma questo non significa che abbia ragione. Il coach inspira, chiude gli occhi, conta mentalmente fino a dieci, poi lo fissa con la sicurezza che può avere solo un madrelingua o la più atomica delle capre. Dice:

- Offo cOUrse imma goodo atto spekku Engrish! Donotto worri.

La vita di Genzo Wakabayashi si struttura attorno poche certezze: ama il calcio, sua Madre è oggettivamente terrificante, Tsubasa è il fratello che non potrà mai avere e Tatsuo Mikami è l’adulto più figo che sia mai esistito. Sta iniziando a riconsiderare l’ultimo punto.

Nel silenzio la risata soffocata della Luft Tanaka rimbomba a ricordargli che non sono soli. Mikami stringe la bocca in una linea sottile che gli cancella le labbra. Si accomoda meglio sulla sedia, riapre il libro e non aggiunge niente. Scivola come un professionista dalla fase della depressione a quella dell’accettazione. Lo studio riprende e nessun adulto prova più ad interromperlo.

***

La mente di Genzo è una spugna gonfia ed esausta. Realizza di non aver detto ancora nulla ai suoi compagni di squadra quando il telefono di casa squilla e Miss Asano arriva ad informarlo che il suo amico Morisaki lo aspetta dall’altra parte della linea. Il suo portiere preferito l’ha chiamato per avvisarlo che hanno deciso di trovarsi nel pomeriggio a casa di Tsubasa per decidere cosa preparare per la partenza di Misaki.

Oh! Giusto. Misaki va a vivere in Francia.

Parigi e Amburgo avranno lo stesso fuso orario? Prende l’atlante e controlla. Ce l’hanno.

La madre di Tsubasa è una signora gentile con un’energia che la fa sembrare dieci anni più giovane. È facile capire da chi Tsubasa abbia ereditato il carattere. Si accomodano in soggiorno, dopo l’obbligatorio pellegrinaggio in camera di Tsubasa che insiste per mostrargli alcuni dei suoi album di ritagli, ce n’è pure uno col suo nome e Genzo se ne sente particolarmente onorato. Gli fa venire voglia di meritarselo.

Non lo dice, sa che il numero dieci della Nankatsu lo guarderebbe senza capire. Ai suoi occhi Genzo Wakabayashi non ha niente da fare per essere degno di essere amato e ricordato, eccetto, forse, esistere.

Ci vuole un’ora perché arrivino tutti, o quasi: Urabe e Ishizaki sono in ritardo, un paio di riservisti hanno fatto sapere che non riusciranno proprio ad esserci. Si decide per il regalo proposto da Izawa e cioè un quaderno da riempire con le foto della squadra, articoli sulle loro vittorie e le firme di ognuno di loro.

Tsubasa si alza in piedi e recupera un vecchio pallone da calcio. Lo piazza sul tavolo.

- Dovremmo firmare anche questo. – Spiega. – Ci siamo incontrati grazie al calcio. Credo che sarebbe la cosa più giusta dirci addio allo stesso modo.

Poetico. E questa è la ragione per cui Tsubasa è un genio matto e adorabile. Sono tutti d’accordo, penna e pallone vengono fatti circolare nell’affollato soggiorno. Takasugi ha appena finito di firmare quando Ishizaki irrompe nella stanza. Le sue guance sono chiazzate di rosso e respira faticosamente.

- MISAKI SE NE STA ANDANDO!

- Non essere stupido. – Prova Izawa. – Ha detto che il pullman per l’aeroporto ce l’ha domani a mezzogiorno, abbiamo ancor…

- E IO TI STO DICENDO… - Urla Ishizaki. – … che il bastardo HA MENTITO! L’ho visto seduto su quel accidenti di pullman CINQUE MINUTI FA!

Corrono alla stazione dei bus come fosse l’ultimo minuto della partita e stessero perdendo tre a zero. Lo mancano per un soffio. Quando arrivano il pullman è partito da pochi secondi, Taro Misaki è… no. Tsubasa non lo accetta.

- MISAKI!!!

Urla e corre verso il pullman nonostante quello stia prendendo velocità e si allontani all’orizzonte. Genzo e il resto della squadra lo seguono. A un certo punto la testa di Misaki spunta dal finestrino, li vede e scoppia a piangere. Genzo vorrebbe essere arrabbiato con lui, ma è molto difficile in questo momento. Il suo cervello ha iniziato a comprendere il desiderio di volersene andare senza dire addio.

- Misaki! – Tsubasa non demorde. – AL VOLO!

Il numero dieci non smette di correre, appoggia il pallone a terra e lo calcia con tutte le sue forze. È impossibile come lo sono i lieti fine. Misaki riesce ad afferrare il pallone, vede le firme e piange più forte. L’ultima immagine di Taro Misaki è quella di un bambino che sorride e si sbraccia a salutare con la testa fuori dal finestrino.

Quando tornano al quartier generale, cioè la casa di Tsubasa, lo fanno con un’energia che era mancata. Teppei e Taki parlottano tra di loro ridendo. Izawa dice qualcosa di criptico sugli esami d’ammissione. Takasugi si offre di aiutare Tsubasa a prendere da bere. Ishizaki cerca di morire su una sedia, ma viene interrotto da Urabe che ha finalmente deciso di arrivare. Morisaki gli si siede vicino e apre la bocca per chiedere qualcosa.

Oh. Mi sa che è arrivato il momento.

Aspetta che Tsubasa abbia appoggiato il vassoio con i bicchieri e poi dice.

- Tra due settimane mi trasferisco in Germania.

 

 

 


 

Genzo, amore, l’ipocrisia di “la carriera può aspettare” e poi decidere che, ma sì, la Germania suona come una splendida idea.

Nessun Roberto Hongo è stato maltrattato durante la scrittura di questo capitolo. Tatsuo Mikami è stato bistrattato con amore: avete mai provato a fare lezione di lingua agli adulti?  

Il passo indietro rispetto al pre-Germania ci servirà per contrastare il prima con il dopo. Poi io amo il trio Shutetsu (più Takasugi e Morisaki) per cui mantengo la stessa caratterizzazione di “Pressione sarà applicata dove necessario” che tecnicamente si ambienta nella stessa AU/CanonDivergence di questa storia.

Inoltre non potevo non citare Misaki, visto che è nel canon che durante la permanenza di entrambi in Europa siano rimasti in contatto.

 

Nel prossimo capitolo torniamo in Germania, conosciamo meglio Kaltz e vediamo l’inizio della sua amicizia con Karl e Genzo.

Ci vediamo il primo mercoledì del mese!

 

                                                                                         >>> 3. Avanti e indietro.

Hermann matura un senso di responsabilità verso quel bambino biondo che incontra nel parco. La sua amicizia con Genzo invece è tutta un’altra storia.

 

PS: tanti auguri a me, tanti auguri a me… è il mio compleanno!

 

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Capitolo 3
*** Avanti e indietro ***


* questa fiction viaggia parallela al canon: ci flirta insieme, ma non se lo sposa.

 


 

3.Avanti e indietro.

 

 

Hermann Kaltz nasce il ventiquattro marzo. Questo lo rende un Ariete per mamma e lo mette sotto la protezione di Caterina di Svezia secondo la nonna. Un po’ inutile perché Hermann non ha un utero e quindi non gli serve a nulla essere salvaguardato da un aborto spontaneo.

- Quando sarai sposato cambierai idea.

Sentenzia la nonna. Si sbaglia: Hermann Kaltz non avrà mai figli. I suoi amici saranno già un “come se”.

Crescendo, Hermann imparerà a non dare per scontato avere un tetto sopra la testa o cibo in tavola. La sua famiglia appartiene solidamente al ceto medio, ma i racconti del nonno bastano.  Al vecchio Stephan Kaltz non rimane un solo dente originale, rifiuta per anni di mettere la dentiera e si arrende solo quando la nonna minaccia di lasciarlo. Quando lui e sua sorella vanno a trovarlo passa il tempo a fissare un punto tra il crocifisso e la crepa sulla parete con un sorriso strano. Hermann dubita che odi davvero l’Unione Sovietica visto il tono nostalgico con cui ama lamentarsene.

La famiglia di mamma, invece, vive a Tostedt da almeno tre generazioni. Hermann non ha opinioni particolari sulla sua città natale a parte che l’ingresso gratuito alla piscina comunale sia pratico, così il nonno non borbotta troppo quando lo ci deve portare.

Un’altra cosa gratis sono i Bienenstich, i Käsekuchen e in generale qualsiasi tipo di dolce un bambino possa desiderare, visto che suo padre è pasticcere e possiede il negozio all’angolo del municipio. Sarà pure il suo adorato secondogenito, ma papà minaccia di proibirgli l’accesso in cucina se Hermann continua a pasticciare con l’impasto dei biscotti o a portare gli amici. Eh, anche i genitori fighi sanno essere una palla.

Mamma fa l’architetto. Il suo studio è ad Amburgo, a mezz’ora di macchina da Tostedt. Non le sta bene e insiste perché la famiglia si trasferisca nell’altra città. Dice che papà potrebbe aprire un nuovo negozio e che Hermann e sua sorella frequenterebbero scuole migliori.

- I miei genitori non sarebbero disposti a fare avanti e indietro. – Controbatte papà. – Sai quanto ci sono d’aiuto con i bambini.

- C’è un asilo aziendale che…

- Il piccoletto si dovrebbe svegliare troppo presto e Leon ha appena iniziato il suo terzo anno di realschule. Rimandiamo a quando Hermann sarà abbastanza grande per le elementari. 

La questione viene archiviata con l’obbligo di revisione dei termini. Per allora sua sorella avrà spiegato di essere stata una ragazza tipo da sempre e deciderà di chiamarsi Emilia. Un deciso miglioramento rispetto a Leon: Hermann conosce quattro bambini con quel nome a scuola e sono tutti dei coglioni.

In futuro rifletterà come cambiare nome in Germania negli anni Ottanta sia un vero schifo. Coinvolge un insopportabile numero di psicologi, scartoffie e denaro.

Nel presente, invece, sua sorella lo prende per mano e lo trascina in giardino quando le urla di padre e nonno raggiungono livelli fotonici. Hanno tutti gli occhi un po’ lucidi quando quella sera papà dice che gli va bene chiudere la pasticceria e trasferirsi ad Amburgo.

Non è un processo immediato, ci vogliono tre mesi perché sia tutto pronto e per allora il nonno smette di dire che Emilia non sia più sua nipote. Non si scuserà mai. Nonna sì ed è l’unica ragione per cui se li sorbiscono ancora entrambi alle feste comandate.

Papà invece di aprire un negozio viene assunto da un ristorante. Dice che è un’occasione unica, perché il posto dove lavorerà ha ben due di una cosa chiamata stelle Michelin. Hermann preferiva la pasticceria, ma finché il vecchio è felice, gli va bene tutto.

La nuova città è comunque sul fiume, anche se loro ci vivono distante. A Tostedt avevano un cortile per giocare, l’appartamento è più scomodo, ma è vicino a un parco, a un cinema e ad una sala giochi. Un bel posto, un po’ chic, ma un bel posto.

- Ma lo sai almeno cosa significa chic? – Lo sfotte sua sorella.

Certo che lo sa, Hermann ha nove anni, non è un idiota. Passano un sacco di tempo insieme lui ed Emilia, ultimamente si è fatta più topo da biblioteca, ma trascorrono comunque interi pomeriggi a giocare a calcio. Emilia era nella squadra di Tostedt prima, ma non le va di parlarne.

Le porte che stanno nel parco vicino a casa sono troppo piccole per essere regolamentari e le linee che delimitano l’area di rigore sono colorate di azzurro. Emilia dice di non riferire mai a papà e mamma che non giocano sull’erba, ma sul cemento armato. Hermann pensa che se non l’hanno intuito dalle ginocchia sbucciate, allora i loro genitori sono troppo stupidi per averli generati.

Non sono gli unici bambini a rincorrere un pallone, in quanto inquilino regolare Hermann sente di aver maturato un certo grado di responsabilità nei confronti dei piccoli. Specialmente verso il tizio biondo che si trascina dietro la sorellina e si apposta sulla panchina più vicina come un condor. Non gioca mai anche se è evidente che lo vuole. Un giorno Emilia gli si siede vicino, dopo un quarto d’ora di negoziazioni il bambino raggiunge Hermann lasciando la sorella con la sua.

Se lo prende in squadra insieme e giocano due contro due con Micheal e Andreas che sono nell’altra sezione a scuola e che vengono al parco quando capita. Gli asfaltano. In senso letterale. Questo campetto è oggettivamente orribile. Il tizio nuovo all’inizio non gli passa palla, così Hermann gliela frega da sotto i piedi e ci entra in porta. L’altro lo fissa strano, sbatte le palpebre e smette di fare la primadonna.

Però è davvero bravo. Nei giorni successivi Hermann si fa spiegare come fare il pallonetto. Il suo nuovo amico dice di chiamarsi Karl Heinz Weiss, ma esita sul cognome e Hermann decide che sia finto. Magari i suoi sono agenti segreti. Magari è solo un po’ idiota. Sua sorella è decisamente più simpatica. Si chiama Maria ed è innamorata di Emilia come metà dei bambini piccoli del parco.

- Dovresti fare la babysitter.

Sua sorella fa la stessa faccia di papà quando guarda le trasmissioni di cucina.

- Lo faccio già a tempo pieno.

Ah, ah. A volte Emilia, oltre a guardare la sorella di Karl, fa loro da portiere, altre da arbitro. Dopo un paio di mesi inizia ad orbitare attorno ai ragazzi più grandi che siedono sulle panchine vicino alla fontana e passano il tempo ad ascoltare musica e lamentarsi. Alla fine Karl concorda che la madre di Philipp Pabst è sufficientemente degna di fiducia e piazza Maria nella buca della sabbia insieme all’altro bambino dopo aver riempito la povera donna di istruzioni.

Hermann intanto tiene d’occhio la sua di sorella. Smette dopo una settima, quando la sente ridere, parlare di scemenze e gli altri ragazzi iniziano a chiamarla per nome. Serve a togliergli un peso dal cuore che non sapeva di avere. Il peso, non il cuore.

Un giorno Karl si presenta con una faccia più grigia e tirata del solito. Dice che si trasferiscono e che la loro nuova casa sarà troppo lontana dal quartiere perché possano continuare a frequentarsi.

- A Maria mancherà tua sorella.

Lo dice guardandogli le caviglie, Hermann è abbastanza fluente in Karlese per capire che Emilia non sarà l’unica persona a mancargli. Così gli tira una pacca sulla schiena che lo manda a terra lungo e tirato. Deve lavorarci su questa cosa o al primo tackle lo faranno saltare come un birillo.

Le elementari volgono al termine, ma ad Amburgo c’è da poco una gesamtschule, quindi la scelta verso un indirizzo di studio più o meno professionale può essere rimandata ancora di qualche anno. La scuola è abbastanza distante, ma è la stessa che sua sorella aveva considerato prima di propendere per il gymnasium ed è davvero un buon istituto. Nel dépliant c’è pure scritto che sono consociati con l’accademia calcistica dell’Amburgo SV.

Per Hermann è una rivelazione.

Se deve fare venti minuti di pullman ogni giorno avanti e indietro allora vuole fare il calciatore. Ci riflette per circa cinque minuti e poi lo dice a mamma e papà. Hermann ha solidi argomenti pronti: l’Amburgo è uno dei migliori club calcistici della Germania e la sua accademia giovanile vanta il cinque per cento degli iscritti militare per una squadra della Bundesliga entro i vent’anni. Persino meglio del Bayern Monaco.

Si trova a soli quindici minuti a piedi dalla scuola. È perfetta.

Però non è gratis. C’è una rette annuale. Esita e in quell’esitazione i suoi genitori si convincono.

- Non fare lo sciocco!- Dice mamma. – Certo che ce la possiamo permettere.

- Tesoro, se siamo preoccupati non è per il costo. – Le viene dietro papà. – Questi club… possono essere molto selettivi. Ascolta, se non va bene quest’anno ci riproviamo il prossimo, ok?

C’è una ragione per cui Hermann Kaltz affronta la vita come un impavido carro armato e questa ragione sono loro. Ed Emilia.

È sua sorella ad accompagnarlo ai provini che si tengono la prima settimana del mese.

A Hermann viene assegnato un numero e un giorno: il mercoledì. Si presenta il mattino alle nove con venti minuti di anticipo, nel campetto ci sono già una cinquantina di ragazzi tra i nove e i dodici anni ad aspettare.

I coach e i loro assistenti sono gentili, li dividono in gruppi e li fanno fare stretching per più di un’ora prima di iniziare. Fanno qualche giro di campo e un ragazzotto dell’under diciassette li cronometra.

Poi c’è un percorso ad ostacoli da attraversare con e senza pallone. Li dividono in coppie per provare dribbling e passaggi, prima di farli calciare un paio di rigori contro i portieri titolari dell’under tredici. Provano palleggi, colpi di testa. Misurano la loro altezza e poi li fanno saltare e battere con le mani contro una specie di asse di legno graduata.

Hermann a occhio e croce è il più basso tra i presenti, l’assistente del coach che aiuta a prendere le misure, gli fa un cenno con la testa, sposta di lato la cartelletta e gli fa sbirciare i risultati. Non misurano solo l’altezza, ma anche la capacità d’elevazione.

- Non ti preoccupare. – Dice il ragazzo che un giorno sarà suo capitano nell’Amburgo seria. – Anche io non ero tanto alto alla tua età. Non ti escludono per questo.

Nella decade successiva Hermann Kaltz acquisirà quindici gloriosi centimetri. E basta. Quindici centimetri che lo renderanno il secondo giocatore più basso dell’intera Bundesliga. Gioca comunque, Bausler aveva ragione.

Alle undici e mezza coach e assistenti li raccolgono a centro campo e distribuiscono frutta, panini e acqua fresca. Gli danno un’ora per conoscersi e compilare i questionari che sono stati fatti girare.

Hermann siede vicino ad Hans Krüger, un ragazzo dai capelli rossi, che è al suo secondo provino e le cui informazioni non sono affidabili. Ci sono le domande standard come nome, numero assegnato, età, peso e altezza. Krüger dice che servono a nascondere le altre come: operazioni, allergie, infortuni passati e malattie in famiglia. Probabilmente ha ragione. È stato richiesto di fornire un certificato medico in fase di iscrizione, ma serve solo a dire che il partecipante sta bene ora. Qui cercano investimenti a lungo termine.

Ci sono anche le domande più o meno innocenti come “perché vuoi fare il calciatore?”, “qual è la tua squadra del cuore?”, “come ti vedi tra dieci anni” e, soprattutto: “in che posizione ti piacerebbe giocare?”

Tutti vogliono fare l’attaccante, quelli che scrivono centrocampista intendono la stessa cosa. Qualcuno prova ad essere estroso e scrive trequartista o ala, ma il senso non cambia: sono tutti lì per fare goal.

C’è una settantina di bambini, contando gli altri giorni, ne parteciperanno più di trecento a questa tornata. Per quanto siano bravi non c’è possibilità che riescano tutti a passare. Così Hermann guarda il foglio, ricorda quanto sia stato divertente mandare Karl gambe all’aria e scrive: difensore.

Nel pomeriggio li dividono in squadre di otto giocatori più il portiere, anziché undici. Le partite durano trenta minuti, poi li fanno cambiare casacca, compagni e ricominciare da capo. I quattro disgraziati che devono aver segnato “portiere” finiscono per stare sempre in campo. Tra questi c’è pure Hans Krüger. Hermann gli fa un gesto di incoraggiamento col pollice e poi va a recuperare un giubbetto giallo con il numero 118 attaccato con lo scotch. Lo indossa sulla tuta da ginnastica e si diverte un mondo.

Sa di non essere il miglior giocatore e questa consapevolezza lo rende invincibile. Si concentra su quello che sa fare ed Hermann è dannatamente bravo a marcare a uomo. Al fischio del coach individua il bastardo più pericoloso tra gli attaccanti avversari e gli si appiccica come una zecca. Passa i successivi trenta minuti a smantellare il suo gioco, recuperare palloni e lanciarli in profondità ai compagni.

Al fischio finale ha dieci minuti per rilassarsi e studiare a che gruppo sarà riassegnato. Ricominciano a giocare e Hermann dimostra per esteso quanto riesca ad essere fastidioso. Ad un paio di ragazzi saltano i nervi e finiscono per essere ammoniti. Nessuno di loro riesce a segnare.

Altri difensori provano la sua strategia, ma non si fanno scrupolo a rompere la formazione in cerca di gloria personale. Non può dargli torto: hanno un tempo limitato per impressionare e un goal aiuta sempre.

Hermann ha un altro approccio. Non è lì per segnare, ma per fare sì che gli avversari non segnino. Magari organizzare un contropiede o due. Un centrocampista gli urla qualcosa di irrepetibile quando Hermann gli soffia il pallone nell’esatto momento in cui quello si apprestava a tirare.

Hermann gli sorride e quando la partita finisce va a cercarlo.

- Quella rovesciata che ti sei inventato? Cavolo, amico, non pensavo ci fosse uno della nostra età in grado di farla.

Fa la stessa cosa con tutti gli altri. Hermann è sincero nel distribuire sorrisi e complimenti e i sentimenti feriti diventano storia vecchia. È importante perché tra dieci, venti minuti potrebbero essere riassortiti nella stessa squadra. Hermann non ha bisogno che gli guardino le spalle, ma in uno sport come il calcio, se vogliono brillare, non c’è spazio per gelosie o inimicizie.

A fine giornata Hans Krüger lo approccia:

- Ma lo sai che mi hai fatto sentire come in una vera squadra?! Dov’è che giocavi?

Nel cortile e poi nel campetto vicino casa. Ovviamente non lo dice. Ringrazia e si chiede quanti di loro passeranno le selezioni. I provini non sono l’unico modo per accedere alla squadra: metà dei giocatori effettivi provengono da piccoli club, tre raccomandazioni da coach riconosciuti dalla lega bastano ad aprire le porte ad un periodo di prova che si estende dai due ai nove mesi. Altri facevano parte del club pulcini dell’Amburgo SV e il passaggio all’under tredici è scontato.

Meno del dieci percento dei ragazzi che partecipano alle selezioni pubbliche sono ammessi in squadra. Di questi meno dell’un percento giocherà un giorno come professionista. Hermann non brilla in matematica, ma se ci è arrivato lui lo sanno anche i coach. 

Sulle copertine delle riviste patinate capeggiano i prodigi, i geni che riescono da soli a rovesciare le sorti di una partita. Piacciono tanto ai club e ai tifosi, ma la realtà non cambia: il calcio si gioca in undici. Ficcare una palla in rete non è l’unica dote richiesta. Così Hermann si concentra sul suo modo di giocare: organizzare la difesa, distruggere il gioco avversario, seguire lo schema e lavorare in squadra.

Un’etica che in futuro Karl definirà scialba, patetica e noiosa. Commenti che, a ventun anni, gli faranno scattare qualcosa in testa tanto da rifilare all’altro un diretto al volto a un quarto d’ora dalla fine della partita più importante della stagione. Non si pentirà mai di quel pugno, ma ne rimpiangerà le conseguenze.

Hermann a dieci anni non si preoccupa di aver scoperchiato con un cazzotto una decade di marciume e potenzialmente minato le due amicizie più importanti della sua vita. No. Ora ha solo da sedersi e respirare. Il provino per la giovanile dell’Amburgo SV è la prima parte di un sogno ed Hermann sa di averlo gestito alla grande. 

Così, quando torna eroicamente a casa, corre in bagno a vomitare il pranzo e sua sorella gli ficca un fazzoletto imbevuto d’aceto su per una narice. La sua famiglia ha i suoi momenti.

Ci vogliono due settimane per avere una risposta dall’Amburgo SV.

Un tempo standard che Hermann passa scavando un buco nel tappeto di camera sua andando avanti e indietro. Il risultato arriva via lettera, non per le telefono come aveva detto Krüger. Non sa se sia un segno buono o cattivo. Hermann palpa la busta di carta mentre l’attenzione di un terzo della famiglia gli brucia la schiena. Mamma e papà sono al lavoro, quindi è sua sorella a chiedere:

- Vuoi che la apra per te?

Fa segno di no e poi prova a sbirciare il contenuto mettendo la busta in controluce. La lettera è piegata dentro e non si riesce a capire. Decidono di aspettare il rientro genitoriale.

È l’una di notte quando papà striscia attraverso il portone d’ingresso. Osserva il comitato e dice solo:

- È arrivata?

Il momento è giunto. Hermann è calmo, si osserva strappare la busta da un punto come tra la finestra e il lampadario. Legge e contemporaneamente galleggia in aria e si chiede se non ci starebbe bene una busta di popcorn.

- Mi hanno preso nella squadra principale.

La combinata forza dell’affetto famigliare lo strizza in un abbraccio che gli fa mancare l’aria. Quanti altri bambini che ha conosciuto ce l’hanno fatta?

Papà stappa una bottiglia di vino buono e Hermann non pensa che essere in squadra sia solo il primo passo. Dovrà guadagnarsi un posto come titolare e poi, chissà. La pazienza non è mai stata un problema.

***

Il primo allenamento ufficiale come membro della giovanile dell’Amburgo è tra quattro settimane. La scuola non aspetta e il lunedì mattina lo prende in contropiede facendolo arrivare al cancello scomposto e mezzo addormentato.

Sono ventitré in classe, ma non è un problema perché più della metà sono ragazze. Non ha idea di come sia l’altra sezione, ma Hermann ha fatto centro.

È un primo giorno rilassato, i professori di storia, matematica e tedesco presentano il programma, spiegano come si terranno interrogazioni e verifiche e avvisano che partecipare alle attività del club di calcio non sarà mai una scusa accettabile per presentarsi impreparati.

Gli lasciano tempo per fare conoscenza, Hermann è felice di notare di non essere per una volta il più basso in classe e batte il cinque a Max Theiss che a quindici anni impatterà la pubertà e si stabilizzerà poi sul metro e novantasette. Traditore. Durante la ricreazione siede vicino ai gemelli Strauss: Melanie, che ha dei bellissimi boccoli castani, vuole fare il dottore, Jara il calciatore.

Gioca anche lui nell’Amburgo SV.

- Che giorno hai fatto i provini? – chiede Kaltz addentando un panino.

- Ah, no. Non li ho fatti. Il coach del mio club mi ha scritto una raccomandazione e così ho dovuto passare un esame medico e fare un’intervista a parte.

Oh. Uno di quelli. L’assistente simpatico ha commentato qualcosa riguardo questo particolare genere umano:

- O sono prodigi o uno spreco di spazio. A volte il potenziale di un bambino dice che l’apice della sua carriera sarà ad undici anni.

Hermann non è uno stronzo, quindi il pensiero lo tiene per sé.

- Forte, allora saprai già un sacco su come funziona.

Strauss sorride, gonfia il petto e inizia a raccontare come se non avesse aspettato altro. Dice che ci sono altri tre ragazzi, passati fuori dai provini, a cui prestare attenzione.

- Klaus Hertz è un bruto, me lo sono trovato contro una infinità di volte ed è sempre un accidente di incubo. Bernd Hinmel… so che giocava nei pulcini dell’Amburgo come centrocampista. Dicono che sia bravo, ma che abbia un pessimo carattere.

Strauss finisce il suo succo, apre la bocca, ci ripensa e la chiude. La sua bellissima sorella interviene ad informare che il loro coach è il fratello del preside.

- Ignora cosa dicono i prof. – Sentenzia la voce d’angelo. – Se giochi bene ti favoriscono SEMPRE, lo fa persino la vicepreside e dicono che sia terribile.

Non ha intenzione di far dipendere la sua vita scolastica da quella calcistica, ma è certamente rassicurante. Un titolo di studio secondo mamma ci vuole, anche uno di serie b. I calciatori professionisti non lo rimangono per sempre.

Strauss giocherella con la cannuccia, la stringe tra i denti e dice che è rilassante. Hermann sorride, prende uno degli stuzzicadenti che papà ha messo per tenere fermo il sandwich e se lo ficca in bocca. Oh. Non male. Dovrebbe masticarli più spesso.

- Il terzo tipo è così terribile? – Hermann chiede.

Strauss si strozza con la saliva, sua sorella lo batte sulla schiena e spiega al suo posto.

- Ah, beh… è Schneider! – Dice come se il cognome spiegasse tutto, non lo fa. Con una smorfia adorabile Melanie continua. – È… bravo. Ma dopo il casino con suo padre qualche anno fa, nessuno pensava rimanesse nel club.

Strauss ha finito di soffocare e abbassa la voce con fare cospiratorio.

- Era nella squadra pulcini. Dicono che Hinmel e gli altri gli abbiano fatto qualcosa, non so cosa, ma Schneider ha smesso di andare agli allenamenti e a scuola. È in squadra solo perché coach Friedman ha insistito.

La campanella taglia corto il gossip. Peccato. Hermann fa l’occhiolino a Melanie e accompagna il meno interessante dei fratelli Strauss al banco.

A casa si piazza sul divano mentre sua sorella fa zapping. Il nome Schneider gli suona.

- Ehi, ma conosciamo qualcuno che si chiama Schneider?

- Intendi lo stronzo che si è venduto la partita?

Ah ecco perché. È quell’allenatore che due anni fa è costato all’Amburgo Bundesliga e qualifica in Champions. Sua madre dopo la partita aveva lanciato il telecomando e rotto una finestra, papà aveva passato la settima successiva a borbottare minacce di morte all’impasto dei biscotti.

Rudy-qualcosa-Schneider. L’avevano pure indagato. Come si era risolta poi?

- Non lo so e non mi interessa. – Sentenza Emilia. - L’unica cosa buona fatta da quel tipo è stata rassegnare le dimissioni.

Negli anni la famiglia di Kaltz si ricrederà sul conto di Rudy Frank Schneider, più tardi il resto della Germania.

A quasi dieci anni dalla partita che aveva mandato la carriera dell’ex stella e poi coach dell’Amburgo nel bidone, un giocatore, che preferirà restare anonimo, rilascerà un intervista shock. Apparentemente i cinque titolari esclusi insieme al capitano dalle partite più importanti della stagione, si erano macchiati di un certo crimine durante una notta brava poche settimane prima. I vertici della squadra avevano pagato bene, le vittime erano state zitte, le denunce ritirate e l’intera faccenda era stata passata sotto silenzio. Rudy Frank Schneider non c’era stato e, in mancanza d’altro, aveva inchiodato i loro culi alla panchina per il resto del campionato.

Una scelta che, per molti, era costata all’Amburgo vittoria e titolo. L’inflessibile condanna di stampa e opinione pubblica aveva fatto il resto. Emilia ci scriverà un articolo un giorno quando diventerà una famosa giornalista sportiva.

Ma al momento ad Hermann non importa affatto di Schneider senior, lui è preoccupato per il junior. Emilia schiocca le dita, sparisce per un’ora in camera, ritorna con una rivista in mano e un sguardo trionfante.

- Sapevo di aver conservato qualcosa.

L’unica ragione per cui sua sorella ha tenuto il giornale è che in quarta di copertina ci sta quel giocatore del Bayern a torso nudo. Emilia punta il dito contro un titolo: “Il mister del fallimento indagato”. Ci sta una foto, una vecchia perché l’uomo sorride mentre tiene un braccio attorno alla vita della moglie e una mano sulla spalla di un bambino biondo. Un bambino biondo dall’aria famigliare.

- Scheisse.

Sussurra Emilia. Dalla fotografia sorride loro con aria goffa Karl Heinz Weiss.

***

Hermann Kaltz avrà diversi problemi crescendo: convincere che un calciatore sotto il metro e sessanta possa giocare nella Bundesliga, evitare di strozzarsi con lo stecchino che rumina costantemente, fare in modo che le sue fidanzate rimangano ignoranti della reciproca esistenza.

Fare amicizia non è uno di quelli. La sua rubrica telefonica è alta come un piccolo dizionario, Genzo per i suoi sedici anni gliene compra una fatta su misura ad anelli. L’avvento dei telefoni cellulari sarà un piccolo incubo prima di capire che i numeri si possono trasferire da un modello all’altro attraverso la SIM.

Hermann piace. È una dote naturale che ha dedicato anni ad affilare. Talk-show e giornalisti lo ameranno per la sua autoironia, indiscussa preparazione e capacità di sapere esattamente quando parlare e tacere. In un mondo popolato da primedonne, Hermann Kaltz sa qual è il suo posto nella catena alimentare. Molto in alto e sufficientemente di lato perché nessuno venga a rompergli le balle.

Una simile inclinazione caratteriale porta a due conseguenze: un sacco di amici e nessuno di cui fidarsi. A parte la famiglia e tipo altre due persone.

La prima è Karl Heinz (mento sul mio cognome al nostro primo incontro) Schneider. Averlo come amico equivale adottare un gatto. O un cucciolo di puma. Puoi sempre contare su Karl per essere la definizione  di “scostante”: amare intensamente e ferire con altrettanta facilità.

La loro amicizia sarà pure iniziata perché Hermann sentiva un mix di responsabilità e senso di colpa, ma l’affetto è sempre stato sincero. Esiste un segreto per gestire Schneider: non prenderlo troppo sul serio. Altrimenti si finisce per diventare frustrati e sganciarli un pugno sul grugno, cosa che succederà con preoccupante regolarità.

La seconda è Genzo Wakabayashi. In caso di Apocalisse Zombie, Hermann sarebbe disposto a sparare a Schneider, ma a Genzo… no, sarebbe come ammazzare sua sorella. Genzo è il fratello alto, asiatico e un po’ frigido che non sapeva di avere o volere. La sua anima gemella. Platonicamente parlando.

Hermann ha dodici anni, una sudata posizione da titolare e un forte cerchio alla testa. Coach Friedman annuncia che arriverà un tipo mandato dalla Federcalcio giapponese ad assistere agli allenamenti.

- Vedete di non farmi fare figure di merda!

Si dimentica di avvisare che insieme al tizio ci sarebbe stato il figlio e che il ragazzino sarebbe entrato in squadra. Quando lo scoprono non la prendono benissimo.

Hinmel si incazza come se lui il posto non l’avesse avuto per nepotismo, Lintz dice che è un’ingiustizia bella e buona e Krüger ripete di aver assistito al provino del giapponese e di smettere di fare gli imbecilli.   

- Tanto viene a stare qui per cosa? Due mesi, tre? – Sostiene. – Il mister dice che è in regola, mica può essere peggio di Schneider, no?!

Hans Krüger cambierà registro quando entro l’inizio dell’estate il nuovo arrivato insedierà la sua posizione di portiere titolare.

Hermann non sa bene cosa pensare, a parte che i suoi compagni sono un branco di ipocriti, così decide di aspettare e stare a vedere. L’adulto mandato dalla Federazione è più dandy che samurai ed è un sacco deludente. Lo becca una volta a fumare nascosto dietro le tribune, il giapponese lo fissa severo, poi mette una mano in tasca e gli lancia una strana moneta bucata. Dice:

- Il fumo uccide, ragazzo.

Spegne la sigaretta, si ficca il mozzicone in tasca e se ne va.

Il figlio è un’altra storia. Hermann sospetta che sia adottato: non si assomigliano per niente e hanno un cognome diverso. Magari è una cosa dei giapponesi.

Si chiama Genzo Waka-boh e pare invulnerabile alla diffusa ostilità generale. Hinmel dice:

- Perché non te ne torni al tuo paese, muso giallo?

E l’altro risponde passandogli la palla. Il giapponese fallisce un placcaggio e il pallone si insacca in rete? Si tira su, ignora le risate e rilancia indietro la sfera. Intoccabile. Qualcuno lo trova snervante, altri sostengono che sia toccato in testa. I più gentili ammettono che magari è perché non conosce la lingua.

Durante l’allenamento il mister li fa coprire più ruoli. Hermann ne era rimasto stupito quando aveva iniziato a giocare, specialmente perché era stato assegnato al centrocampo piuttosto che alla difesa. Uh. Il giapponese spazia parecchio e Hertz approfitta di ogni occasione per andarci giù duro e spedirlo a terra.

Il mister e i suoi assistenti non dicono niente, i suoi compagni intascano il tacito consenso e passano le successive due settimane a cercare di rompere il nuovo giocattolo.

Hermann si prende lo stesso tempo per formarsi un’opinione. Genzo, se devono essere compagni tanto vale iniziare ad usare il suo nome, ha delle basi solide, qualche difficoltà a coordinarsi ed ha disperatamente bisogno di maggiore resistenza se non vuole esplodere. Ha l’aria di uno che non sa quando fermarsi e questo lo piazza abbastanza in alto nella stima di Hermann. Si può sempre contare sui tizi testardi come i muli.

Una linea frustrata si allarga sulla sua fronte quando commette un errore o quando arriva la voce di coach Friedman o del tipo nuovo a ordinargli di andare a riposare. Hermann va a prendere da bere e sente il mister chiedergli come vada la gamba. Ah. Ora è più chiaro perché la forma del giapponese sia giusta, ma non sia in grado di reggere uno sforzo prolungato. Deve essere stato fermo per un po’.

Hermann tiene la cosa per sé. Aspetta che l’allenamento finisca, ignora Hinmel spintonare il giapponese sulla strada per gli armadietti e si trattiene dal ridere quando quello non si muove di un millimetro. Il centrocampista sussurra qualcosa che Hermann non riesce a sentire. Le spalle di Genzo sono un po’ troppo rilassate quando si gira e gli fa l’occhiolino. Questi si menano.

Krüger rovina il magico momento prendendo Hinmel sotto braccio e trascinandolo fuori. Il giapponese fa spallucce, si siede e inizia a togliersi le scarpe.

- Siamo parecchio popolari. – Hermann sta in bilico, una spalla appoggiata contro l’armadietto con studiata noncuranza. Il giapponese mette su un ghigno storto.

- Merito del mio carisma naturale. Se ne faranno una ragione.  

Nuova informazione: il tedesco lo capisce. Non ne era del tutto certo, aveva persino sospettato che fosse duro d’orecchi visto che il mister aveva ripetuto il suo nome quattro volte prima che il ragazzino capisse si stesse rivolgendo a lui.

- La sai una cosa? Saranno insopportabili per settimane, troveranno un milione di modi per farti incazzare, ma poi se ne faranno un ragione. – Hermann lo pensa davvero, i suoi compagni di squadra sono deficienti, ma non irrecuperabili. E nel caso ci penserà coach Friedman a riavviargli il cervello, così come ha fatto per Schneider. – In bocca al lupo… Wakabayashi, giusto?

Il giapponese ha un’espressione indecifrabile. Corruccia le sopracciglia e si morde l’interno della guancia come se non sapesse se offendersi o scoppiare a ridere. Ah. Ora Hermann capisce perché non risponde al mister. Glielo stanno storpiando proprio bene il cognome, eh?!

- Genzo Wakabayashi. Sì.

Okay, Hermann è in grado di riconoscere una battaglia persa: non c’è alcun modo perché impari a pronunciare quella cosa nel modo giusto. Fortunatamente la soluzione è semplice.

- Sicuro, Genz-man. Hermann Kaltz, benvenuto in squadra, credo.

Il sorriso dell’altro si fa più autentico, lo fa sembrare ingenuo e un po’ timido. Non deve assolutamente mostrarlo in squadra, proprio mai. Ma qui, con Hermann, è al sicuro.

- Grazie, credo.

 


 

NOTE:

 

Ah, Hermann Kaltz, mio amato e unica persona pressoché normale in questo manga, se l’autore non ti dà una backstory, ci pensa mamma.

Mi prendo la libertà di abbassare Kaltz di qualche centimetro rispetto ai dati ufficiali presenti sulla wikipedia di CT: dalle scansioni è IMPOSSIBILE che quell’uomo vada oltre il metro e sessanta da adulto.

Lo scandalo di Rudy Frank Schneider assume un’ombra nuova (anche) per distinguerlo in motivazione e gravità da quello che vedremo succedere più avanti con coach Zeaman.

I nomi dei compagni di squadra all'Amburgo juniores sono presi dai dati ufficiali, con un po' di creatività su nomi e cognomi (cioè aggiungo quando mancano, per esempio Hans viene sempre e solo citato per nome, così qui diventa “Hans Krüger”).

BTW, l'anno in cui Genzo arriva in Germania (non ricordo se l'ho già specificato) in questa fic è il 1986, in modo da tenere Schneider come capitano della Germania Ovest per l'arrivo di Tsubasa. Ciò comporta in futuro ricollocare eventi importanti a livello spaziale, perché per convenzione se tenessimo le location del manga i nostri ora sarebbero oltre la cinquantina. 

 

 

A livello personale, questi sono mesi molto impegnativi e difficili. Sono contenta di essere arrivata a finire l'editing del cap.7 e avere l'ottavo già avviato, perché altrimenti non potrei assicurare la regolarità degli aggiornamenti (btw mi fa un sacco piacere vedere come nei commenti notiate un sacco di riferimenti o inner jokes!). Avrei anche un paio di storie brevi (in particolare la AU a cui Hermann fa riferimento in questo capitolo, quella dell'Apocalisse Zombie, e una "fake dating" con Kojiro come guest star), ma vorrei terminarle prima di iniziare a pubblicarle e in questo periodo sono un po' in crisi.

A partire dal prossimo mese vi allego fan art, pensate che per la partita nel cap.6 ho fatto il finto campo con i faccini in miniatura dei vari componenti dell'Amburgo SV juniores. Uno dei miei gatti ha invece maciullato a morsi gli appunti con le timeline.

 

 

Ci vediamo il prossimo primo mercoledì del mese per un bel po’ di trama, un sacco di Schneider e Wakabayashi che avrebbe davvero bisogno di un break.

 

>>> 4. Input e output.

Karl decide di tornare a frequentare gli allenamenti, ma non è geloso. Perché sarebbe una cosa stupida.

 

 

 

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Capitolo 4
*** Input et output ***


* questa fiction viaggia parallela al canon: ci flirta insieme, ma non se lo sposa .

 

 


 

4. Input et output.

 

 

L’assenza più lunga fatta da Karl agli allenamenti è stata di tre mesi, due settimane e quattro giorni. Aveva nove anni ed un tizio molto arrabbiato aveva rotto la finestra della cucina con un mattone costringendoli a cambiare casa per la seconda volta.

Da qualche settimana papà aveva cominciato ad uscire ed a non tornare per giorni, un’abitudine che pigramente avrebbe allungato l’elastico della loro famiglia fino a spezzarlo. A casa si nascondeva in cantina, ne usciva con gli occhi cerchiati, l’alito che puzzava e vigeva norma non scritta di guardare dall’altra parte se si metteva a piangere. Mamma aveva chiesto a Karl e Maria di essere gentili, ma dopo un po’ lei aveva smesso di esserlo.  

A volte li sentiva urlare.

Un giorno Karl era tornato da scuola, pulito lo zaino dalle cicche attaccate alla cinghia dopo che lo aveva ripescato dal cestino e si era sdraiato a letto, la testa avvolta da una specie di nebbia. Si sentiva così stanco. Non aveva voglia di muoversi, o alzarsi, o respirare, così si era messo a fissare il soffitto.

Erano stati felici, un milione di anni fa. Ne è abbastanza sicuro. Mamma lo accompagnava in macchina al campetto e si sedeva sugli spalti sconnessi a guardarlo giocare mentre Maria le dormiva in braccio. Quando finiva con il lavoro papà li raggiungeva o se ne stava in un angolo a cospirare con gli assistenti di campo. Se i loro sguardi si incrociavano, gli sorrideva e faceva un gesto con la mano come ad indicargli il resto della squadra: “occhi sul pallone”.

Un milione di anni fa.

A dodici anni la casa di Karl dista poco meno di venti minuti da dove si allena, ma a nove deve prendere un bus perché il campetto è lontano e mamma ha smesso di accompagnarlo. Non è arrabbiato, la capisce: anche lui non ci vuole andare più. L’erba ha lo stesso colore e il sole si riflette sul bianco dei pali come quando erano felici ed insieme. Una volta Karl poteva lasciare i vestiti nell’armadietto e ritrovarli a fine giornata. Una volta la gente non li odiava.

Sul soffitto c’è un poster di Lothar Matthӓus, ce l’ha attaccato con lo scotch quando si sono trasferiti. Stava anche nella casa di prima. Aveva fatto molta attenzione a staccarlo, ma i bordi si sono strappati comunque. Se non lo sai, non si nota. Karl chiude gli occhi e si sente fatto di carta.

Ha nove anni e ama il calcio, ma agli allenamenti non ci vuole andare più. Così smette.

Un giorno si presenta alla porta un uomo che Karl non ha mai visto: è meno vecchio di papà, ha occhi e capelli nerissimi e quando lo nota appostato dietro le scale gli fa un cenno che Karl non ricambia. Chiede a mamma dove “si sia nascosto Rudy”, lei gli indica le scale che portano in cantina e poi al garage, l’uomo stringe le labbra in una fessura sottile e sparisce in quella direzione.

Karl non è curioso, rimane in cucina con mamma e la aiuta a preparare la cena di Maria: una pappetta informe che sua sorella usa per decorare le pareti. Ha un grande senso artistico. Mamma singhiozza e si prende la testa tra le mani. Karl spegne il fuoco e cerca di pulire il disastro. Dopo un’ora papà bussa alla porta, come a scusarsi per l’invasione di campo. Karl prende Maria in braccio, ma papà scuote la testa e gli chiede di restare, così è mamma quella a portarla a letto. Quando torna rimane in piedi e chiude una mano sulla spalla di Karl come una specie di artiglio.

L’amico di papà si chiama Emmanuel Friedman e a partire dalla prossima settimana sarà l’allenatore dell’under tredici dell’Amburgo SV.

- Di norma si dovrebbe aspettare ancora un paio d’anni. – Dice. – Non sarai titolare, ma non ti andrebbe di giocare con i ragazzi grandi?

Le mani di mamma stringono e fanno male. Papà e coach Friedman assicurano che nessuno è arrabbiato perché ha lasciato la squadra senza avvisare. Mentono. Papà ha gli occhi rossi, affossati in due tasche di nero, è pallido ed è arrabbiato, ma non con lui quando dice:

- Tesoro, non permettere che quattro idioti ti rovinino il calcio.

Così non glielo permette.

Karl non ha mai smesso di giocare: Hermann dei giardini pubblici vale dieci volte i suoi vecchi compagni ed è l’unica persona che vuole nella sua squadra. Un sentimento che non cambierà quando di anni ne avrà dieci, quattordici o ventuno e il suo cuore si amplierà abbastanza per aggiungere un addendum alto e giapponese. Solo che, a quel punto, Karl indosserà una maglietta diversa e sarà così spaventato dal perderli da rovinare tutto.

Mamma molla la presa. Gli accarezza i capelli e non guarda papà quando chiede se preferisce che lo accompagni in macchina.

Lo vuole. Lo vuole moltissimo. Mamma lo ama, ma non può far tornare le cose com’erano. Quando avevano senso. Così i mesi si incancreniscono in anni e la sua famiglia gli si sgretola lentamente tra le dita.

Qualche mese dopo aver cambiato compagni di squadra tocca a scuola e quartiere. Abbastanza vicino perché la macchina resti in garage, abbastanza sicuro perché suo padre si senta libero di andarsene.

Nella casa nuova, non c’è più il poster di Matthӓus da appendere: non è stato abbastanza attento quando lo ha staccato e il taglio si è allargato in uno sfregio che corre fino al centro della carta. Ne piega i resti e li conserva in una scatola nell’armadio.

Giocare con l’under tredici è… diverso. I ragazzi più grandi sono rumorosi, ma meno crudeli e coach Friedman si assicura che lo rimangano. Karl non mancherà più agli allenamenti così a lungo, ma ci andrà vicino. Parecchie volte.

Una di queste è nel 1986, tra i mesi di febbraio e marzo perché martedì incrocia papà sulle scale con una valigia e la primavera gli esplode nel petto. Poi vede che sta scendendo, che la porta di camera dei suoi è rimasta aperta e capisce che papà è solo venuto a recuperare i vestiti. L’inverno ritorna e gli ghiaccia muscoli e cervello. Il giorno dopo si trascina fino alla stazione dei bus, si siede sul primo e si lascia trasportare fino al capolinea prima di tornare indietro.

I giorni scivolano in settimane e ne passano tre prima che coach Friedman decida che il troppo è troppo e telefoni a sua madre. Quando torna a casa Katrine Weiss in Schneider lo aspetta sulla porta con le braccia conserte. Quella piega triste che le serra lo sguardo è sparita.

- Dobbiamo parlare.

Niente scenate in giardino, mamma lo calamita fino in cucina e lo costringe a sedersi.

Karl è un pessimo figlio. Un fratello appena decente e un pessimo figlio. Mente a questa donna costantemente. A volte spera che il terreno lo inghiotta e sputi fuori una persona del tutto diversa, capace di fare le cose nel modo giusto. Si sente stanco come un nuotatore che, annaspando sulla superficie dei suoi pensieri voglia solo distendercisi sopra e galleggiare.

Sua madre sospira e gli sfiora la mano disegnando tra gli spazi vuoti delle nocche.

- Se il calcio non ti piace più, non è un problema. Hai dodici anni, amore: puoi fare qualunque cosa.

Così. Dannatamente. Comprensiva.

Lo ama e non lo capisce. A Karl il calcio SERVE.

- Non vado agli allenamenti… - Ritrae la mano e parla così piano che potrebbe urlare. – Non vado agli allenamenti perché non mi servono: faccio più progressi da solo. I miei compagni sono un peso di cui fare volentieri a meno.

Ha detto troppo, seminato una parte di sé tra le righe. Quella parte brutta e odiosa che la sua famiglia non dovrebbe vedere. Quella che non riesce a perdonarli o a dimenticare. Quella che…

Mamma non è contenta, ma è presente, più di quanto l’abbia vista negli ultimi mesi. È un peccato che sia per qualcosa di così stupido come una strigliata di coach Friedman. A mamma non piace nemmeno, il calcio.

- Anche Hermann? – Chiede. – Anche di lui faresti volentieri a meno?

Questo è ingiusto. Karl non ha detto questo. Hermann Kaltz è… una brava persona. Suo amico, forse. Esita troppo e mamma scuote la testa. Decide di non insistere. Forse perché non le importa abbastanza.

- Va bene, tesoro. Però agli allenamenti adesso ci andiamo, d’accordo? – Insegue la mano fuggita e la stringe, Karl la lascia fare. – Non importa se arrivi in ritardo, ok? Ho parlato io con il mister e gli ho spiegato quanto mi stai aiutando con Maria. Potresti farla questa cosa per me, amore?

Mamma detesta il calcio.

Karl crede lo amasse una volta, o almeno amasse suo padre. Ha lasciato una promettente carriera in televisione per sposarselo.

Sa che sua madre lo ama. Non l’ha mai messo in discussione. Nemmeno quando lei ha iniziato a distrarsi e a lasciare la cena nel forno o a dimenticare che Maria ha bisogno di cose pulite da mettere. O che ora sia o che Karl dovrebbe essere a scuola. È normale. Capita quando sei in lutto.

Anche se a mancarti non è la persona, ma la vita che hai perso.

Chiude gli occhi, respira, lascia che il freddo congeli le ceneri della rabbia. Non importa cosa Karl voglia, se può aiutare sua madre a stare meglio allora la farà. 

Sopporta il fine settimana, dimentica i giorni e il mercoledì pomeriggio si presenta in campo in ritardo. Non lo fa apposta: la vetrina della merceria che sta all’angolo ha cambiato allestimento e a guardarlo i minuti si sono come rincorsi e scappati tra le dita. Coach Friedman non è neanche arrabbiato.

- Spero che l’influenza sia passata, abbiamo una lunga stagione davanti.

Quando Karl torna dagli spogliatoi, la squadra si sta già allenando. Rifiuta di cercare Kaltz, ma lo trova comunque correre vicino a un altro: un ragazzino alto, un cappellino calato a coprire capelli scuri e che si era annunciato dicendo sarebbero stati insieme in squadra. Karl se n’era dimenticato.

C’è Genzo Wakabayashi in campo.

***

Ci sono momenti che riscrivono il corso di un’esistenza, rimescolano le carte, ti colpiscono nel costato e ti fanno credere che esista il destino. O un piano superiore.

Karl non ci crede. Non c’è nulla di epico nel vedere Genzo, l’uomo di cui sarà ossessionato per il resto della vita, correre in maglietta e calzoncini corti. Non ancora. La pubertà ridimensionerà certe dichiarazioni.

In meno di un giro di campo è evidente che Genzo Wakabayashi sia il nuovo nemico pubblico numero uno. Karl non pensava che la corona potesse mai scivolargli di mano e invece.

L’ostilità della squadra è una coltre viscida che si appiccica alla pelle come carta moschicida. Lo odiano. Si domanderebbe perché se non lo avesse già visto a scuola. La Kuster e un altro paio di ragazze hanno deciso di sbattersene e coinvolgerlo nel circolo delle secchione. Reinhard, Schroder e, curiosamente, Vogel hanno iniziato a parlarci assieme, ma il resto è gelo. Una guerra che rimane fredda da quando Wakabayashi ha intercettato una pallina diretta alla sua zucca, si è tirato in piedi e l’ha ficcata a forza in bocca al mittente.

- Se spari merda, poi ti tocca mangiarla.

È successo nell’intervallo, lontano dagli occhi del personale docente, ma Karl ha l’impressione che Wakabayashi l’avrebbe fatto anche con il preside in cattedra.

Finisce di fare stretching, Kaltz arriva ad aiutarlo coi piegamenti. Sta a guardare mentre Jara Strauss, il tranquillo pacifico Jara Strauss, tira al giapponese una gomitata in faccia mascherata da placcaggio. L’altro grugnisce, incespica e perde il pallone.

Coach Friedman lascia giocare.

Non c’è modo di girarci attorno, Karl slaccia e riallaccia le scarpe tre volte prima di raggiungere gli altri. I suoi compagni lo accolgono con un sorriso tirato, ma caldo, Hertz gli rifila una pacca sulla spalla, una di quelle buone.

- Felice di rivedere il tuo brutto muso! – Dice, ma non è felice. Nessuno a parte Kaltz lo è davvero. – Utile l’influenza selettiva che ti fa andare a scuola e saltare la tortura pomeridiana.

Gli strizza un occhio. Come se capisse, come se avesse deciso che lui e Karl sono complici in questa assurda giostra. È la prima volta che la neutralità dello stallo, lascia il posto a un timido cameratismo. Perché?

Genzo sbaglia un intervento, il coach gli urla dietro qualcosa di incomprensibile ed Hertz sghignazza.

- Ha i giorni contati quello.

Non vedono la stessa cosa. Diventerà più chiaro col passare dei giorni: Genzo ha lacune pericolose, una resistenza su cui lavorare e una potenza di tiro mica da ridere. È qualcuno che coach Friedman ha deciso di tenere d’occhio. Non abbastanza, non come Karl. Ma questo perché Karl è, nel bene e nel male, figlio di Rudy Frank Schneider.

Il ghiaccio sale e gli congela lo stomaco. Non c’è calore nelle risate, negli insulti condivisi. Le regole non sono cambiate, solo le posizioni dei giocatori. Il giapponese non gli ha fatto niente. Sembra anche una brava persona. Non è suo nemico e non lo diventerà per compiacere un branco di idioti. Si scolla di dosso la mano sudata di Hertz e raggiunge Strauss per lavorare sui palleggi.

Coach Friedman insiste perché le tre punte della squadra, si esercitino insieme. I compagni di Karl non gli rendono la vita facile. Tranne oggi, dove, a quanto pare, tutto è possibile se chiudi gli occhi, sorridi e accetti che quello che sta succedendo ti vada bene. Non gli va bene. È sempre lo stesso schifo, ma non sarà lui a cambiarlo.

Ignora i due attaccanti, va a cercare Kaltz e si unisce ai centrocampisti. Coach Friedman non lo richiama all’ordine, l’allenamento torna ostile e quasi piacevole.

***

Il giovedì a scuola, hanno storia e matematica. Se la Baer non fosse una piaga, l’argomento gli interesserebbe: le rivoluzioni, anche se francesi, sono divertenti. Nelle verifiche però chiedono date e con quelle fatica e rinuncia. I numeri gli si confondono in testa.

La pausa pranzo si allunga come un’ombra sullo stomaco e lo stringe. Non ha nemmeno fame.

Genzo Wakabayashi è un idiota.

La soluzione preferita di Karl è quella della testuggine che prevede: chiudersi a guscio, aspettare che passi e sperare non ti gettino da una rupe. Consolidata, non utilissima. Quella del mulo, tirare dritto e inzuccarsi su ogni cazzo di roccia, è quella di Wakabayashi ed è un disastro. Soprattutto quando il mulo in questione scalcia. 

Il giapponese ignora commenti acidi, insulti non bisbigliati, spallate ed interventi che puzzano di fallo. Procede per la sua strada in silenzio con una cocciutaggine che Karl ammira. Fino a un certo punto. Non c’è un pattern, a volte Wakabayashi si gira, sorride in quel modo storto che ti fa venire voglia di tiragli una sberla, dice qualcosa di tagliente e soffia sul fuoco.

Non sa bene perché, ma la cosa lo fa…. arrabbiare.

È stupido, perché Wakabayashi ha tutte le ragioni per essere frustrato, ma non abbastanza criterio per capire quando stare zitto. Così colleziona lividi, vestiti rovinati, scritte sul banco, sull’armadietto e prosegue imperterrito come se gli rimbalzassero addosso. Accettare l’ordine naturale cambierebbe qualcosa? Non saperlo stringe Karl allo stomaco, gli annebbia la testa e fa salire come un ronzio alle orecchie.

È stupido.

Dal giorno in cui Wakabayashi l’ha approcciato, hanno sempre passato intervallo e pausa pranzo assieme. Quasi sempre. Karl non è bravo in matematica, ma non gli è sfuggito il passaggio: mostrarsi amichevole con il nuovo arrivato equivale attrarre tutta una serie di attenzioni, positive o meno. Significa anche la resurrezione di un altro genere di battute che lo riguardano a cui non gli va di esporre Wakabayashi che ha già abbastanza problemi.

Meglio tenere le loro vite separate. Così inizia ad evitarlo. In modo del tutto naturale. Aspetta che Genzo ficchi la testa nello zaino per prendere il panino e Karl si tira in piedi, evita il suo sguardo e marcia fuori dall’aula. Non è una fuga, ma una ritirata strategica. Scende di un piano ed entra nell’altra terza.

- Ehi, Schneider! – Dice quel ragazzino troppo basso per essere vero di cui Karl non ricorda il nome. Non lo ricorderà nemmeno quando Max Theiss diventerà una star della pallacanestro tedesca, succede. – Se cerchi Hermann è in mensa.

Il problema di riscoprire la gioia del contatto umano è che poi fatichi a rinunciarvi. Ci ha provato, ma avere qualcuno con cui parlare di niente mentre stai mangiando è sorprendentemente piacevole. Kaltz lo prova a coinvolgere da una vita e per la prima volta la prospettiva non gli sembra insopportabile.

Sicuro Kaltz e Wakabayashi non sono la stessa cosa, ma si assomigliano abbastanza per essere intercambiabili. O quasi. Solo che Kaltz non è in aula oggi, così, in mancanza di una vera scelta, lascia che i suoi piedi lo trascinino. Raggiunge l’aula di disegno/mensa e cerca una testa bionda distante un metro e un’aspirina dal suolo.

Hermann Kaltz è, sfortunatamente, il suo migliore amico ed è una contraddizione: sempre disponibile, non ama parlare di sé; chi lo circonda ha di lui un’immagine imprecisa e sfocata, che Kaltz lascia riempire di aspettative e conclusioni. Forse è per questo che attrae le persone come falene alla fiamma. È il suo polare opposto: alla gente Kaltz piace.

Piacerà anche Schneider, un giorno, ma questo sarà per l’attenzione che riverseranno su di lui società e stampa. Lo chiameranno “il kaiser del calcio” e “il giocatore più rappresentativo della Germania”. Lo ameranno così tanto e sempre nella maniera sbagliata.

Quella giusta ce l’ha davanti mentre Hermann Kaltz, seduto, rilassato, avvolge un braccio attorno al collo di Genzo Wakabayashi e scoppia a ridere. Semplice, naturale.

Gira sui tacchi prima che lo vedano, torna in classe. Si sente profondamente stupido.

***

Repressione e negazione sono due capacità che ha passato secoli ad affilare in armi a doppio taglio, ma ignorare Wakabayashi e Kaltz risulta una missione impossibile.

Il primo gli si piazza davanti in classe per chiedergli com’è andato il compito in classe di sua sorella. Sorride e Karl pensa: traditore. Cosa abbastanza stupida, perché qui nessuno gli deve niente. Non importa quanto la senta giusta. Avrebbe dovuto seguire il suo primo istinto: fare finta che il giapponese non esistesse. Fortunatamente c’è sempre tempo per rimediare.

Karl non risponde, fissa il sorriso di Genzo irrigidirsi in una linea noncurante.

- Come vuoi.

Sbuffa Wakabayashi e smette di avvicinarlo in classe e a pranzo. Non durerà, ma Karl non lo può sapere.

Gli incidenti di gioco continuano e sempre quando il coach non guarda. Anche il suo assistente, un tizio nuovo con gli occhiali da sole, sembra distratto, ma ha quell’aria costipata che a volte mettono gli adulti quando rifiutano di accettare l’esistenza di un problema che non sanno risolvere.

Ci vorranno altri tre mesi prima che Karl intuisca che occhiali-da-sole e Wakabayashi siano collegati. Succede quando salti gli annunci del mister alla squadra e il tuo migliore amico ti lascia sguazzare nell’ignoranza come forma di spasso.

Suddetto migliore amico lo avvicina il giorno dopo il disastroso aborto che è stato il pranzo, nelle ore extra che coach Friedman è riuscito a strappare alla scuola in coda alle classi pomeridiane. La vicepreside non ne è stata per niente felice. In un’ora, massimo due, non si riesce a concludere molto.

- Max ha detto che mi cercavi. Che ti capita?

Domanda stupida, non la degna di una risposta. Finisce di fare stretching, fa il doppio nodo alle scarpe e inizia a correre. Nella periferia dello sguardo, Kaltz scuote la testa e con un sospiro gli viene dietro. Aspetta un paio di secondi, poi Karl rallenta l’andatura per adeguarla a quella del compagno: Kaltz è uno scattista terrificante, una minaccia durante un contropiede, ma è svantaggiato sulla tenuta.

Dopo un’ora in cui coach Friedman li tartassa, si sdraiano sul prato coperti di sudore, puzzano e Karl dimentica perché era arrabbiato. Solo quando l’aria diventa fredda e il resto della squadra gocciola via, Karl realizza di non aver visto Wakabayashi da un po’. O Hinmel, o Hertz o un altro paio di coglioni.  

L’acqua che beve sa di marcio e gli chiude la bocca dello stomaco. Non sono affari suoi.

- Hanno iniziato questa cosa da un paio di giorni. – Dice Hermann, maledetto telepate, sfilandosi lo stecchino di bocca e girandolo tra le dita. – Lo chiamano allenamento, ma è una scusa per ridergli dietro quando manca un rigore.

Karl non sapeva che Wakabayashi stesse puntando al posto di portiere. In allenamento mister Friedman lo muove dal centrocampo alla difesa a volte persino in attacco, ma raramente lo fa piazzare tra i pali. Un giorno Genzo gli spiegherà che: uno, gli sweeper-keeper devono essere flessibili per natura; due, i giocatori giovani dovrebbero sempre provare più ruoli per acquisire maggiore comprensione degli schemi di gioco. Pratica che in Giappone per lui si era limitata alla teoria, mentre Karl ricorda anni passati a saltare da una posizione all’altra in squadra pulcini prima di cristallizzarsi come punta.

- Li manca spesso?

È la cosa sbagliata da chiedere, o forse no, Kaltz solleva un sopracciglio e risponde comunque.

- Sì, ma non per molto. Vuoi vedere?

No, non vuole.

Forse.

Kaltz deve essere sempre così dannatamente criptico che ora è costretto a sbirciare.

Lo segue fino al campetto dove ha finito di allenarsi l’under undici, quello con la porta un po’ arrugginita negli angoli. Si siede sull’erba e guarda Wakabayashi cadere per terra un numero di volte imprecisato.

Ah. Ma guarda…

Alle sei di sera, il sole è un’indistinta linea di fuoco all’orizzonte, Genzo Wakabayashi manca un tiro, atterra su una spalla, si tira in piedi, prende posizione e ci riprova.

Hinmel si è trascinato dietro Gongels e Briegel che ridono, mentre Hertz dice qualcosa che tutta la pazienza di coach Friedman non potrebbe ignorare. Ma il loro mister non c’è, ci sono solo Kaltz e Schneider e loro non fanno niente. Genzo è entrato in fase mutismo, dura da un paio di giorni, quando esploderà sarà uno spettacolo.

Karl è affascinato. È evidente che diventerà un portiere eccezionale.

I rigori sono intrinsecamente sfavorevoli al disgraziato tra i pali e questi idioti non gli danno il tempo di rialzarsi prima di tirare. Sghignazzano e non realizzano che l’altro manca i loro palloni di poco. Pochissimo. Forse pensano davvero di umiliarlo, mentre Wakabayashi indovina la traiettoria del tiro e non sbaglia un piazzamento. La sordità selettiva di Genzo agli insulti acquista nuovo senso: ha bisogno di loro per fare pratica.

Ah.

Gongels borbotta qualcosa sulla cena, Briegel annuisce, Genzo sputa a terra e chiede se sono già stanchi. Non aggiunge “mammolette flaccide”, ma è come se. Hinmel risponde con un gestaccio e Hertz con qualcosa come:

- Stessimo qui anche tutto il giorno, tu rimani un caso senza speranza.

Karl fa un paio di conti: Wakabayashi sarà portiere titolare entro due, tre mesi al massimo.

Si alza.

Quando lo vedono i suoi compagni si voltano di scatto con l’aria dei bambini sorpresi con le mani nella marmellata. Karl recupera uno dei palloni e lo piazza sul dischetto. Si rilassano ed Hertz gli sorride pure. Non Hinmel che lo odia, né Wakabayashi che è troppo concentrato. Karl lo guarda dritto negli occhi, aspetta un secondo, sorride, tre. Calcia.

Non esagerano quando definiscono Karl Heinz Schneider un prodigio. Un talento di quelli che trovi una volta su un milione. Coach Friedman ha iniziato a farlo giocare assieme all’under quindici qualche volta, quando Karl ricorda di presentarsi. Matthias Bausler, capitano dell’under diciassette, ha fischiato quando l’ha visto segnare al povero Budenski. I tiri di Karl sono veloci, precisi, ma soprattutto FORTI.

Ma Wakabayashi è piazzato al posto giusto e non muove altro che le mani. Di nuovo corretto. Karl ha mirato alla sua faccia.   

La sorpresa vera è che non cada a terra.

- Parato.

Il portiere ha i vestiti coperti di terra, i capelli dritti, incollati dal sudore, e un livido che si allarga sotto lo zigomo sinistro. Sta sorridendo. È quella roba storta che dice: io mi sto divertendo, e tu?

Karl ricambia. I tiri successivi glieli spara tutti angolati e Wakabayashi ci arranca inutilmente dietro.

Hinmel e gli altri se ne vanno. Karl se ne accorge solo quando Kaltz gli arriva alle spalle con una borraccia, la lancia a Genzo.

- Ragazzi, siete molto carini, ma adesso io andrei a mangiare.

Karl e Genzo annuiscono e riprendono posizione per continuare, Kaltz decide di essere più esplicito e gli ricorda che il campo mica lo tengono aperto per loro. Così finiscono per ritrovarsi a casa di Hermann a cenare, perché la minaccia in miniatura dice di aver già avvisato i genitori di entrambi e quindi la scelta è abbastanza obbligata.

La serata si allunga in ore trascorse insieme ad Emilia Kaltz sul divano a discutere di calcio e strategia militare. Quando il dipinto che forma il quadrilatero dei Kaltz diventa un po’ troppo perfetto, Karl incrocia lo sguardo di Wakabayashi che gli sorride storto e si sente subito meglio.

È l’inizio di qualcosa.

***

Il ritmo immutabile di giornate scivolose accelera e cambia direzione. Karl arriva in ritardo agli allenamenti e rimane più a lungo, sparisce nel campetto dell’under undici insieme a Wakabayashi e ci rimane per i successivi tre quarti d’ora.

Kaltz li segue una volta sì e tre no, dice:

- Sapete, c’è gente che ce l’ha una vita oltre il pallone. – Quando si unisce a loro.

- Divertitevi ai vostri appuntamenti. – Quando preferisce saltare. Pigro bastardo.

Non sono appuntamenti.

Allenarsi con Genzo a tu per tu è diverso. Il portiere non ha la precisione data dalla pratica di Budenski, né la noiosa diligenza di Krüger, è rozzo come una pietra mal tagliata e testardo quanto un mattone. Non si irrigidisce quando Karl segna, è buffo perché è chiaro che gli dà fastidio, ma l’aggressività ruota tutta all’interno e non sgocciola fuori.

Hermann gli ha spiegato che alla gente più che al contenuto, bada alla forma di quello che si dice. L’ha sempre trovata una cazzata. Karl è diretto e a volte crudele, Wakabayashi, diversamente dai suoi compagni di squadra, lo apprezza. Però vuole che sia preciso. Non gli basta che Karl dimostri che sbagli, gli chiede di elaborare cosa dovrebbe fare per rimediare. Karl scuote le spalle, non risponde e riprende a giocare: Wakabayashi ci mette sempre un po’, ma alla fine la soluzione la trova.

Con il passare delle settimane comincia ad anticiparlo ed è strano, perché non è che il portiere sia diventato più veloce, solo che alle volte sembra leggergli nel pensiero.

- Quando fai una finta in area scegli la sinistra una volta su tre. A un certo punto diventa prevedibile.

Ah. Ci fa più attenzione. Salta fuori che ci sono un sacco di cose che Karl non ha notato di sé. Fragilità che Wakabayashi non ha problemi a condividere se glielo chiede.

- In allenamento sei completamente scoordinato con la difesa e ti lasci troppo aperto al contropiede.

Nei suoi dodici anni Karl si è lasciato più che altro guidare dall’intuito, Genzo, viceversa, ragiona attorno alle cose, le frattura in pezzi finissimi prima di ricomporle nel cervello. L’esperienza fornisce al portiere dati e scenari, il carattere gli permette di marciare come un bulldozer attraverso gli imprevisti.

Karl scopre che mettere in parole ciò che l’istinto percepisce è un modo utilissimo per analizzare un errore. E non rifarlo due volte. Wakabayashi ha una frase per questo, una cosa come:

- Se non capisci come fai a farlo giusto, allora non sai rimediare quando ti viene sbagliato.

La borbotta attorno alla bottiglia dell’acqua senza guardarlo, quasi timido come se si allargasse a qualcosa che va oltre al calcio. Lo è o lo sarà. Karl, un giorno, si domanderà come facesse la loro amicizia a funzionare e cosa fare per rimetterla a posto. Fortunatamente, anche in quel caso, Wakabayashi avrà la risposta.

A dodici anni, il portiere rimane saldamente attratto alla sua orbita e il cervello di Karl scongela aree nuove e misteriose, prende a farle girare. Prova:

- Devi lavorare di più sui riflessi. Non serve a nulla sapere dove va il pallone se poi non riesci a prenderlo.

Wakabayashi sbuffa “grazie tante e complimenti Einstein”, ma poi gli dà una pacca sulle spalle e gli chiede se vuole continuare. È tardi. Mamma ha iniziato a notare i ritardi di Karl, aveva pensato di mentirle e dirle che coach Friedman ha allungato le giornate e chiesto di rimanere qualche altra ora, ma alla fine non ce l’ha fatta. Così ha optato per una bugia che puzza di verità:

- Sto facendo pratica con un amico.

- Chi? Hermann?

La voce di mamma era stata tagliente, preoccupata. Karl una volta aveva amici oltre a Kaltz, non era finita bene. Si era sbrigato a precisare:

- No, un altro. Non lo conosci si è trasferito qui da qualche mese.

La faccia di mamma si era tutta trasformata, illuminata da un ritrovato entusiasmo. Aveva preso ad insistere per invitare il suo “nuovo amico” a cena. Umiliante. Inevitabile.

È venerdì sera, è tardi ed è uno dei giorni in cui Kaltz ha deciso di disertare, così chiede:

- Vieni a cena da me.

Si scorda il punto interrogativo da qualche parte, Wakabayashi si alza e sparisce per un minuto che dura un quarto d’ora. Quando torna, dice di aver avvisato un certo “Mikami” e che non c’è problema. Karl ha voglia di tirarli un calcio: non poteva dire di sì e basta?

Casa è a venti minuti e se li fanno a piedi. Quando arrivano, si accorge di aver dimenticato un’altra volta le chiavi, così è costretto a suonare. Risponde Maria e a Karl viene un colpo: sua sorella a otto anni dovrebbe sapere di non aprire la porta a nessuno. Soprattutto dopo… Glielo ricorda una volta dentro, Maria si limita a sbuffare.

- Ma se eri tu! E poi mamma è a casa, da qualche parte.

Non è questo il punto. Davvero non capisce? Genzo gli appoggia una mano sulla spalla.

- A tuo fratello spiace aver perso la scommessa. Avevo promesso a lui e a te un gelato se avesse aperto vostra madre.

Cosa? Ah. Maria dice che possono rifare e che se escono questa volta chiama mamma. Genzo scrolla la testa, ma concede di ripetere l’esperimento in futuro e che ogni volta non sarà lei ad aprire, Karl le dovrà un orsacchiotto di pezza. È la legge. Quando sua sorella sparisce a ripescare la genitrice addormentata sul divano, Karl tira un pugno sulla spalla di Genzo. Piano.

- Che c’è? Se la sgridi, poi fa il contrario per principio.

Ha un punto. Gli tira un altro pugno quando aggiunge “soprattutto se assomiglia a suo fratello”. Meno piano. Le donne della famiglia Schneider s’innamorano del suo portiere in meno di trenta minuti. Nemmeno Kaltz aveva riscosso tanto successo. Maria gli chiede di pronunciare parole complicate per stralunarsi al suo accento, corre a prendere uno dei suoi libri illustrati e chiede glielo traduca in giapponese. Impazzisce quando scopre che Wakabayashi parla pure il cinese mandarino.

- Oh, non bene, eh?! Sia chiaro.

Mamma si scusa di non avere niente di pronto, Genzo dice che non è un problema e finiscono per ordinare da quel locale turco che fa asporto.

- Io e Mister Mikami stiamo vivendo di questa roba.

È lo spazio che usa mamma per saltare la barriera e segnare nella porta avversaria: l’interrogatorio ha inizio. Vive con suo padre? No, Mikami è un amico di famiglia. No, i suoi genitori stanno da un’altra parte per lavoro. Sì, hanno un appartamento in affitto a Rotherbaum.

- Non molto distante da qui in effetti.

Mamma, più che modella e valletta di talk show, doveva essere una spia dei servizi segreti: in pochi minuti ha scucito cose che a lui non sono riuscite di sapere in quasi due mesi. Ma, effettivamente, non gliele ha mai chieste. Un giorno Karl diventerà fluente in Genzese imparando a interpretare silenzi, parole e pause. Per esempio “amico di famiglia” si traduce in “impiegato che vorrei fosse mio padre” e “non molto distante” in “non vi liberete facilmente di me” o “posso benissimo tornare a piedi”.

Per ora lascia che la conversazione scorra, a scuola aveva già intuito che Wakabayashi fosse un po’ tocco, ma a quanto pare pure l’arte gli interessa. Dopo aver visitato la cattedrale di San Michele e quella di San Nicola con i Kaltz, sta progettando la Deichtor Hallen o la Kunshtalle come prossima gita esplorativa. Se Genzo fosse una ragazza, mamma starebbe già progettando il loro matrimonio. Lo sta facendo in effetti. Sua madre lo conosce meglio di quanto lui creda.

- Ah, per la fotografia vai sulla Deichtor di sicuro, ma la Kunshtalle ha un sacco di scelta tra arte moderna e classica. Ero ospite fissa ogni volta presentavano un’esibizione, oh… ma saranno passati anni.

Karl non sapeva questo di sua madre. Non sapeva nemmeno che Genzo avesse iniziato ad esplorare la città con Kaltz senza di lui. Se gliel’avessero chiesto avrebbe detto di no, però… Mamma sommerge il portiere di domande e l’altro alza le mani e si schernisce come a difendersi.

- Ah non sono io l’esperto, ma il padre di un mio amico. – Bugia: il papà di Kaltz lavora in un ristorante, lo sanno tutti. Karl accosta il bicchiere alle labbra: un altro amico? – Si è trasferito a Parigi da poco e mi ha caldamente consigliato di aggiungere questi musei come tappe del tour. Ma sarei incantato se potesse accompagnarci, confesso di non saperne molto sull’argomento.

Bugia numero due: quando a settembre, mamma agguanterà figli e portiere per una gita in famiglia, Wakabayashi saprà tutto su storia, allestimenti e mostre in programma. Ma questo perché è un pazzo maniaco fissato col controllo e ha passato settimane a farci ricerche sopra.

Wakabayashi parla con mamma in modo diverso: educato e quasi signorile, caratteristiche che Karl non è abituato ad associarci. Così come l’esistenza di “amici giapponesi” di cui non ha mai sentito parlare, ma che il portiere tira fuori come conigli da un cilindro. L’amico artista si chiama Misaki, ne nomina altri quattro o cinque i cui nomi inciampano gli uni negli altri fino a confondersi. C’è un certo Tsubasa che registra come importante, perché il tono di Wakabayashi cambia come quando Karl parla di sua sorella.  

Genzo sorride senza quella patina sfocata che lo appanna ai lati, è la prima volta che lo vede con le difese abbassate. Non si era accorto di quanto le tenesse alte. È bravo. A fingere.

È strano, perché era più facile pensare a Wakabayashi come a un carrarmato spuntato per generazione spontanea con un passato indistinto e un futuro da scrivere. Un po’ meno di una persona reale. Ora ha dei sentimenti e quelli possono essere feriti.

È davvero tardi, mamma vince l’insistenza di Genzo di prendere un taxi, la macchina esce per la prima volta in settimane dal garage. Fatica ad accendersi, ma poi parte. Karl saluta e rimane a casa a guardare Maria. La distanza tra le case è meno di un quarto d’ora in macchina, una sciocchezza rispetto a quella che la serata ha allargato nell’asfalto delle sue certezze.

Mamma torna quando Maria è già a letto, bevono la solita tisana menta e liquirizia, pessima per il reflusso, ma terribilmente buona.

- Sembra proprio un bravo ragazzo.

Parola chiave: sembra. Genzo è in gamba, ma è anche l’idiota più testardo che Karl abbia mai conosciuto.

- Karl… come si è fatto il tuo amico quei lividi?

- In allenamento.

Non guarda sua madre in faccia, non la vede mentre cerca nei suo occhi, sulle sua braccia, su ogni suo centimetro visibile di pelle lo stesso trattamento. Non lo trova, così la sente sospirare e basta.

- Gli amici sono importanti, amore. Sono contenta per te.

Per una volta madre e figlio sono completamente d’accordo.

 


 

NOTE:

 

Il poster di Karl è una metafora.

Vivo da sempre nella convinzione che Karl Heinz Schneider sia un idiota con una cotta gigante per Genzo. Schneider sa anche essere tossico e possessivo una volta su due. Le cose coesistono.

Inizia a profilarsi con l'apparizione delle "voci" su Schneider un aspetto più delicato: non mi concentrerò sull'omofobia imperante tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio dei Novanta, consideratela una presenza non ingombrante sullo sfondo. 

 

E mi è venuto il dubbio che non fosse chiaro: la ship Genzo/Karl (o Karl/Genzo è uguale) è il pairing di fondo di questa storia.

L'amicizia del terzetto amburghese e la storia delle tribolazioni che incontreranno sulla strada per il professionismo, rimane sempre il focus di "Variabili".

 

Questi capitoli diventano ogni giorno più lunghi: dalle 2.500 parole del primo, alle 10.000 del settimo, mentre l'ottavo è a 11.000 e non è ancora finito. Santo cielo.

Intanto sto scrivendo un'altra fic, decisamente più breve, sempre su CT: "Trentasette giorni", un'apocalisse zombie AU molto meno angst di quanto il setting suggerirebbe. 

E: mi sono presa il Covid. Ho febbre alta da più di quindici giorni e mi sono saltate le vacanze a Barcellona. C'è la probabilità che questa pausa forzata costringerà dopo il capitolo sette a un breve hiatus, ma spero proprio di no ^^"

 

 

Nel prossimo capitolo torniamo al POV di Genzo, lo vediamo orientarsi ad Amburgo e fare amicizia con Hermann Kaltz.

 

 

> >> 5. Bene, ma non benissimo.

Genzo Wakabayashi sbarca in Germania e sbatte contro un muro. Per fortuna è abbastanza incosciente da abbatterlo a zuccate.

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** Bene, ma non benissimo. ***


 

* questa fiction viaggia parallela al canon: ci flirta insieme, ma non se lo sposa.

 


 

5. Bene, ma non benissimo.

 

C’è uno scarto di sette ore tra l’aeroporto di Shizuoka, Giappone e quello di Amburgo, Germania.

Genzo e Mister Mikami si alzano alle sei del mattino, arrivano in aeroporto alle otto e prendono il volo targato Lufthansa alle undici. Le due città distano in linea d’aria circa ottomila novecento chilometri e dodici ore di volo aiutano a sentirli tutti. Non è la prima volta su un areo per nessuno dei due: Genzo a dieci anni è stato costretto a Milano per la settimana della moda da sua madre e poi a New York per vedere fallire il matrimonio di suo fratello maggiore. La sposa è fuggita all’altare, la damigella d’onore ha confessato una tresca con il sacerdote e uno dei testimoni ha tentato la fuga con le costose fedi. Grasse risate. Il cibo era buono.

Mikami è volato in Messico nel ’68 insieme al resto della Nazionale giapponese. Gli ha confidato di essere stato anche in Baviera quando aveva più o meno la sua età per il secondo matrimonio di sua madre.

L’esperienza aerea di Mikami si riassume in un sorriso stretto e una presa di ferro attorno al bracciolo del sedile. L’aereo inizia a rollare.

- Va tutto bene, Genzo. – Rassicura, volto grigio e voce quasi ferma. – È normalissimo che faccia così.

Borbotta qualcosa di appena percettibile, probabilmente: “moriremo tutti”. Gli ricorda un po’ Takasugi e il suo modo di sembrare più grande delle cose che gli fanno paura. È naturale appoggiare una mano su quella di Mikami e lasciare che gliela stringa come se fosse Genzo quello ad aver bisogno di rassicurazioni. L’orgoglio del suo mister sufficientemente protetto, Genzo prende nota menta mentale di chiedere quanto prima ad una delle hostess un bicchiere d’acqua. Mikami è astemio. Forse pure buddhista. Recitare il Nam-myoho-renge-kyo almeno sembra calmarlo.

Sarà un viaggio lungo. Le prime tre ore, in particolare, si stiracchiano e moltiplicano di peso e volume. Non tanto a causa del suo adulto di riferimento preferito, Mikami, appena prendono quota, stabilisce di non aver mai avuto paura di volare e decide di affondare il naso nell’ultimo numero del Weltfußball con il triplo scopo di: esercitare la lingua, aggiornarsi sul calcio tedesco ed evitare il marmocchio che è strisciato dove sono seduti e ha deciso di fare conversazione.

- Quello è un giornale di CALCIO? Ehi, ehi, io ADORO IL CALCIO!!! Giochi? Io gioco! Gioco un sacco! Ma sei giapponese? Lo sono anche io!

Tsubasa 2.0, versione “mai dare bambini troppi zuccheri” è la principale ragione del suo mal di testa. Genzo prova a sbirciare la presenza di genitori allarmati, non ne trova. Forse dovrebbe avvisare un’hostess. Sospira, hanno un sacco di tempo prima dello scalo, Genzo ha una certa esperienza in bambini soli-ed-entusiasti, si sposta un po’ sul sedile e gli fa segno. Shingo Aoi lo interpreta come un invito a piazzarglisi in braccio. Ma perché?

Nei quaranta minuti che occorrono perché la madre di Shingo compaia con le guance rosse, i capelli scomposti e gli occhi umidi per le lacrime, il bambino gli ha praticamente raccontato la storia della sua vita. È più grande di quello che statura e carattere suggeriscono e il mistero di come abbia fatto a perdersi su un areo rimane ancora tutto da chiarire.

- Mi scusi tanto! – La signora agguanta il pargolo, bypassa Genzo e si rivolge direttamente a Mikami. – Non posso levargli gli occhi di dosso un minuto.

- Non si preoccupi.

Facile per il suo mister fare lo splendido, non era lui ad avere venticinque chili di gesticolante entusiasmo in grembo. Non che gli sia dispiaciuto, sotto un leggero strato di scorza, i marmocchi rumorosi e un po’ fanatici gli piacciono: fanno sembrare il mondo un posto colorato ed affascinante.

- Dal prossimo anno giocherò nel Nakahara FC! Lo so perché mister Fujimoto mi ha detto che sono bravissimo a palleggiare anche più dei ragazzi delle medie! – Gli aveva ripetuto Shingo fino alla nausea. – E se ci sono io il prossimo torneo lo vinceremo di sicuro!

- Allora avrai da battere squadre come il Meiwa o la Nankatsu.

- FACILISSIMO!

Si era trattenuto dal ridere. Il Nakahara FC è un’ottima squadra, ma… come dire: senza speranza. Però nel calcio non si può mai dire, il Meiwa aveva mancato di qualificarsi per anni ai Nazionali. Se Shingo è bravo almeno la metà di quanto sembra convinto, chissà. Si appunta di fare il suo nome a Tsubasa nella sua prima lettera. Se ne ricorderà alla terza.

Shingo e sua madre gli tengono compagnia fino a Dubai, dove il volo fa scalo. Anche loro sono diretti in Europa, ma un po’ più a sud: precisamente all’aeroporto di Milano Malpensa.

- Andiamo a trovare lo zio! Ci ospita a casa sua che è vicina allo stadio!!! Ehi lo conosci l’Inter? Un giorno ci andrò a giocare.

Ci vogliono altre sette ore circa prima che le loro strade si dividano, Shingo si sbraccia, sua madre non gli molla la mano mentre corre, con tutta la grazia concessa dai tacchi bassi, verso un altro terminal. Genzo non si sente più un orecchio, Mikami gli appoggia una mano sulla spalla e fa un gesto verso uno dei bar presenti in aeroporto. Il panino è unto e gli rimane sullo stomaco, ma la compagnia rende tutto migliore.

Mister Mikami aveva i capelli castani una volta, ora sono tutti grigi, o quasi. Scherza sempre che sono merito suo e Genzo un giorno, un braccio rotto legato al collo e mano steccata, gli ricorderà per chi sono dovuti correre in ospedale. Seriamente, lasciare degenerare una cosa stupida come un’appendicite perché Mikami si era dimenticato di non averla già tolta… il suo mister ha un modo originale per ripagarlo con la stessa moneta.

Nel presente Mikami insiste per ripassare il programma: arriveranno ad Amburgo martedì diciotto alle quattro del mattino circa, hanno prenotato due stanze al Raddison Blue vicino all’aeroporto e nel pomeriggio alle diciassette c’è l’appuntamento con miss Rosemaier per visitare l’appartamento e recuperare le chiavi. L’appartamento a Rotherbaum rimarrà la sua casa per la decade successiva, ma Genzo non lo sa ancora. A diciassette anni deciderà di riconfigurare lo studio di Mikami in mini palestra, ma la camera che era stata del suo mister la lascerà uguale. Nel periodo imbarazzante che separerà i quattordici anni dai tredici, Genzo userà quella stanza come rifugio. Li capiterà di accendere una sigaretta e lasciarla nel portacenere per ripristinare il giusto odore. Sarà una cosa stupida e non ammetterà mai di averla fatta neanche in punto di morte, o particolarmente ubriaco. Soprattutto con Hermann Kaltz.

Giovedì alle otto ha appuntamento per l’orientamento con la vicepreside della gesamschule ai cui i suoi, o meglio, i di loro segretari hanno stabilito di iscriverlo. Venerdì alle quattordici ha i provini per la squadra. Ci sarà un colloquio, una lunga prova pratica e, infine, una visita medica. Genzo non è preoccupato: la gamba è a posto, ma il medico ha insistito perché ci andasse piano. Apparirà debole. Nessuna squadra vuole un giocatore dall’infortunio facile.

Un po’ meno di dieci anni dopo Genzo rifletterà su quella verità indiscutibile, una frattura scomposta e un problema al tendine che nove mesi di fisioterapia riusciranno lentamente ad aggiustare. La società deciderà di rinnovare il suo contratto, ma, se le ferite guariranno, la sottile linea della fiducia finirà per riempirsi di fango e minaccerà di farlo sprofondare.

- Sei sicuro che non vuoi ti accompagni a parlare con Miss Bumgarner?

Miss Bumgarner è la vicepreside, Genzo alza un sopracciglio, afferra il succo d’arancia e non risponde. Gestisce professori e presidi da solo da quando di anni ne aveva sette, non vede ragione per cambiare la tradizione. Anche se è un Paese nuovo e la lingua gli crea ancora problemi. Mikami ha di meglio da fare che tenerlo per mano tutto il tempo! Deve incontrare coach Friedman, i rappresentanti della Federcalcio tedesca e rilasciare un’intervista per i giornalisti giapponesi invitati. È una scuola. Non c’è niente di spaventoso in una scuola. Non può essere tanto, troppo diversa da quella vecchia, infondo.

Mikami sospira e lascia cadere l’argomento. Genzo la conta come una vittoria. Finisce il succo, respira. Che strano. Non aveva notato di avere la mani sudate.

***

Il colloquio con la Bumgarner fila liscio, o quasi. Genzo non crede che la presenza di Mikami gli avrebbe risparmiato tre settimane di orientamento linguistico. Assurdo e umiliante.

La donna intuisce il filo dei suoi pensieri, sposta un fermacarte a forma di porcospino ed estrae un libro di letteratura. Glielo porge e Genzo realizza di essersi concentrato con la Luft Tanaka più sul tedesco parlato, che su quello scritto. L’alfabeto lo sa dall’inglese, ma ci sono gli accenti! Nessun problema, la può risolvere.

- Alla nostra gesamschule ci sono tanti ragazzi che inseguono una carriera nello sport. – La vicepreside interrompe la crescente crisi di non-panico con un sorriso conciliante. – Per questo invece che due anni di orientamento ne facciamo tre. Dal prossimo le classi inizieranno a distinguersi non in sezioni, ma per materia e livello di apprendimento. Se ti ci metti sotto puoi recuperare.

Sono le prime ed uniche parole di incoraggiamento che Genzo si sentirà rivolgere per il resto del mese.

Annuisce e presta rinnovata attenzione al programma che gli illustra la Bumgarner. Gli piace questa donna. Un giorno la inviterà al suo matrimonio.

Non è l’unico immigrato dell’anno, ma il solo giapponese. Nelle settimane che precedono il suo inserimento in classe, Genzo prende ripetizioni insieme ad Afet Aydin che non ama il calcio, ma è una vera esperta di libri horror e pallavolo. Lo convince a leggersi “Shining” e “Christine la macchina infernale” spacciandoli come esercizi di tedesco. Genzo dopo il primo non dorme per due notti, ma i mesi successivi accompagnerà comunque la Aydin in libreria per l’uscita di “It” e quattro anni dopo al cinema per vederne l’adattamento sul grande schermo.

Le classi extra si rivelano indispensabili, la Bumgarner aveva ragione, quando passa la sufficienza in tedesco e storia confermano il suo inserimento in classe per il diciassette di marzo. Lo stesso giorno della Aydin che però sarà in un’altra sezione.

Quella parola “ausreichend”, sufficiente, gli brucia dentro, ne collezionerà parecchie che faranno doppio con i più rari, ma non meno dolorosi "mangelhaft”, insufficiente. Non è un idiota, sa che è normale, ma questo non significhi sia facile accettarlo. È venuto in Germania per il calcio. Se lo ripete come un mantra. Per il calcio.

Fa l’errore di chiedere a Mikami se sia possibile organizzare delle lezioni private per mettersi in pari più in fretta e il suo coach lo fissa serio, sospira, e gli fa segno di sedersi vicino.

- No. – È la risposta secca, Genzo gonfia i polmoni, ma Mikami blocca le sue argomentazioni. – No, in questi anni hai esagerato e abbiamo sbagliato a lasciartelo fare. È un Paese nuovo, hai bisogno di orientarti e hai già un sacco da fare con la squadra. I voti a scuola sono un compromesso per essere felice.

Ma Genzo non si sente felice. Si sente frustrato e, con il passare delle settimane, un sacco informe di lividi. Quello però centra poco con la scuola che si profila come un’oasi sicura in un oceano di errori e incertezze, nonostante gli Herz, i Rothstein e i Beike della classe. Branco di idioti. Ma sono molli. La consolazione di potergli spaccare la faccia in qualsiasi momento lo aiuta a sedere composto e ignorare la cascata degli insulti. Non sono nemmeno creativi, Taki e Teppei saprebbero inventare qualcosa di meglio.

Continua a studiare, ingoia nostalgia ed orgoglio, ricorda a se stesso che il calcio si gioca in undici e chiede appunti e consigli a gente in gamba come la Kuster o Vogel. La prima arriva con l’elenco delle letture obbligatorie degli anni passati e un sacco di suggerimenti per edizioni in tedesco di libri per ragazzi:

- La lingua è più semplice, ma sono dei classici a cui si fa riferimento in classe.

Vogel è più acido, ma, quando si accorge che non lo sta sfottendo, si dimostra un sacco utile. Confrontano i rispettivi programmi di matematica, individuano dove Genzo è più avanti o più indietro. Vogel prepara uno schema puntato su come disporre le argomentazioni di un problema e su termini tecnici oggettivamente intraducibili. Il tipo ha una faida aperta con i calciatori che frequentano l’istituto.

- Credo che tu e Kaltz siate le uniche “teste rotonde” che provano davvero a studiare, gli altri fanno finta perché sanno che finché stanno in squadra tutti chiudono un occhio.

- “Teste rotonde”?

- Ma, sì: il pallone, no? È rotondo! Un insulto sottile e chiaramente perfetto.

- Amico…

Vogel dal giorno successivo inizierà a riferirsi ai giocatori di calcio come “palle sgonfie”, Genzo ne sarà esente per ragioni che non avranno nulla a che fare con quattro ore spese ad aiutare il tedesco a perfezionare il suo “trash talk”.

Per lo scritto, la Aydin suggerisce di scambiarsi lettere per discutere di quello che stanno leggendo. Diventa una sorta del club del libro formato epistolare, dove Genzo si firma con il nome della madre su richiesta dell’amica per evitarle grane a casa.

Ci vorranno mesi, ma del suo primo “befriedigend”, soddisfacente, in tedesco Genzo ne farà stampare una copia e lo conserverà piegato nell’album di fotografie della squadra. Non l’Amburgo SV, la sua squadra: la Nankatsu/Shutetsu.

***

Genzo è venuto in Germania per il calcio, se lo ripete nella testa quando il ventuno febbraio incontra coach Friedman per il provino.

Emmanuel Friedman ha un naso schiacciato e una statura imponente che sfrutta per guardarli dall’alto in basso. Non prova a nascondere quello che pensa di Mikami o dell’appendice minorenne che si è trascinato dietro. L’accordo tra la DFL e la JFA si è svolto senza il suo permesso e lo ricorda in commenti insipidi e frecciate taglienti. Ora, Genzo è una persona paziente, ma se quell’uomo si rivolge ancora a Mikami come al primo imbecille che passa, Genzo gli rifilerà un pugno sul grugno. Mikami, imperscrutabile dietro i suoi occhiali da sole, chiude una mano attorno alla sua spalla e stringe. Genzo sospira, giusto: ha promesso di “fare il bravo”.

Qui nessuno ha fiducia, Genzo ha fatto a botte solo una volta dopo l’incidente alla gamba e quello era stato inevitabile: un pezzo di merda delle medie aveva detto che Sanae non sembrava una femmina, cosa vera, ma non quando detta per sfottere. Non ha mai picchiato chi non se lo meritasse o non iniziasse per primo. Ha degli standard, mica è un violento.

Genzo non è l’unico a riflettere: mister Friedman sopravvive ad adolescenti e marmocchi da anni, il suo istinto di autoconservazione è fuori scala. Come quello di valutazione. Per la prima volta dalle due di quel pomeriggio considera Genzo qualcosa di più di un bagaglio a mano. Il colloquio è finito. Sorride.

- Beh, vediamo come giochi.

Rimanere fermi per quasi quattro mesi ha conseguenze. Quello e il jet-lag. Dopo un’ora in cui Genzo salta, corre, dribbla e palleggia, la gamba gli inizia come a vibrare. Stupida gamba. Chi ha tempo per starla ad ascoltare? Marcia verso Krüger, il suo partner per le esercitazioni di oggi. Il ragazzino ha i capelli corti e rossi, si è presentato parlando molto lentamente, scandendo comicamente ogni lettera. Anche la Kuster e l’altra sua amica, la Özkan, lo fanno, ma in modo del tutto diverso. In modo gentile. Questo qua sembra solo volerlo pigliare per il culo. Magari si sbaglia, il dolore tende a renderlo irritabile. Quello e la tensione.

Coach Friedman lo fa giocare con gli under undici, piazzandolo in tutte le posizioni tranne che in porta. Essere costretto con bambini più piccoli di due o tre anni è abbastanza umiliante, fortunatamente evita di coprirsi di ridicolo. Qualcuno dei mocciosi gli batte persino il cinque e Genzo decide di concentrarsi su quello e non sugli sguardi brucianti che gli perforano schiena, testa e spalle da parte di tutti gli altri.

Torna a fare coppia con Krüger e, finalmente, coach Friedman decide di metterlo tra i pali, l’unico posto in cui Genzo dovrebbe mai stare. Solo che sono passati quarantasette minuti dall’ultimo segnale di allarme della gamba, così, al terzo tiro dal dischetto, quella stronza decide di cedere e farlo inciampare. Forse, i coach non l’hanno…

Friedman fischia e lo chiama a raccolta. Mikami, il traditore, deve averglielo detto.

- Ho visto abbastanza. – No che non l’ha fatto, Genzo può e deve essere migliore di così. – Cominci tra due lunedì, l’orario lo sai, i ritardatari si fanno trenta giri di campo. Non farmene pentire.

Genzo siglerà il suo primo contratto da professionista a quattordici anni, perché il suo compleanno arriva così in ritardo che è quasi ridicolo. Lo farà con l’Amburgo di Madorf, subentrando a quindici come terzo portiere dopo l’infortunio di Voeller. Friedman avrà per lui parole più rassicuranti una volta smarrito nel viale dei ricordi.

- Era stato un ottimo provino, Mikami mi aveva avvisato della gamba e passavo il tempo a domandarmi quanto a lungo ci avresti saltellato sopra se non avessi deciso di fermarti. Ho pensato: “un’ostinazione davvero tedesca”.

O davvero giapponese. Ha visto Tsubasa, Wakashimazu e Misaki fare di peggio, Misugi merita un capitolo a parte. A qualche mese dai suoi sedici anni, Genzo si limiterà a sorridere ed a offrire al proprio mister da bere. Non si lamenterà del complimento. Lo voleva essere. Wakabayashi, il calciatore, sarà sempre questa cosa ibrida per società e stampa. Genzo, la persona, pure. Imparerà a farsi scivolare frasi insignificanti di dosso. Questione di sopravvivenza. Il loro accumularsi lascerà sulla pelle strade e cicatrici di inadeguatezza e marcio. Insinueranno il dubbio.

A dodici anni Genzo si morde l’interno della guancia fino a farlo sanguinare, sa che avrebbe potuto fare meglio e decide di meritarsi quella fiducia. È il chiodo fisso che lo porta a trascinarsi attraverso settimane in cui i suoi nuovi compagni stabiliscono che: uno, è un incapace; due, è un completo idiota.

È perfettamente consapevole di essere più lento, meno preciso e più veloce a stancarsi degli altri. Non solo a causa della gamba. I ragazzi dell’Amburgo SV sono semplicemente più bravi. È rinfrescante non essere il riferimento da seguire in campo e gli viene persino da sorridere. Coach Friedman lo muove dalla difesa al centrocampo, dice che è strano non abbia provato altri ruoli quando stava in Giappone.

- Meglio tardi che mai, hop, hop.

Genzo non vedrà più una porta, se lo sente nelle ossa. Fortunatamente fa schifo come chiromante. Pochi riservisti seguono lo stesso regime, c’è Haness che punta alla posizione di mediano, ma che si specializzerà come stopper; Yilmaz, l’unico non-precisamente-ariano presente in squadra oltre a lui e Lintz che ha passato i provini quest’anno dopo aver militato in un club minore.

Ogni tentativo di istituire una qualche forma di necessario cameratismo, si scontra con un muro. A volte letteralmente: Bernd Hinmel, uno dei quasi-titolari, lo chiama “idiota giallo” prima di rifilargli spallate come se fosse un birillo del bowling. Genzo ricorda la promessa fatta a Mikami e non reitera. Ancora.

Il prendersi gioco del giapponese diventa un lavoro di squadra. Beh, almeno sono uniti in qualcosa. Genzo li divide in gruppi: ci sono i “cavernicoli violenti” che giocano duro, civettano con il fallo e sparano battute prive di una qualsiasi originalità; i “benpensanti” cioè quelli che stanno da una parte, scuotono la testa, ma ridono a ogni cazzo di battuta e i “tiratori liberi” quelli che non si capisce cosa pensino e che per questo si credono migliori di tutti gli altri.

Hinmel non è il peggiore della cricca, è solo quello più diretto e questo rende il suo odio semplice e prevedibile. Come un coltello. Dopo due settimane in cui Genzo ha accumulato più lividi della finale con il Meiwa, Hinmel lo accosta mentre si sta cambiando per sibilare qualcosa sull’apparente mancanza di virilità dei giapponesi. È una cosa così stupida che Genzo è costretto a girarsi e a sillabargli muovendo le labbra molto, molto lentamente.

- Perché, curioso?

E a questo punto NON PUO’ non fargli l’occhiolino. Sarebbe contro la legge.

L’attaccane si gonfia, sbianca ed implode, il tutto è estremamente soddisfacente. Genzo ha un sacco di frustrazione repressa da sfogare ed è evidente da come Hinmel si muove che favorirà il sinistro, mentre il  carattere gli indica che punterà alla faccia. Mikami non potrà neanche sgridarlo quando scoprirà come ha asfaltato questo cretino. Dopotutto è stata legittima difesa.

OVVIAMENTE arriva Hans Krüger, professione merda umana, a trascinare via il suo amichetto. In una squadra che lo odia per il semplice fatto di esistere, il portiere titolare dell’under tredici non è l’esempio di umanità peggiore. Durante gli allenamenti Krüger sospira e, quando diventa chiaro che Genzo rimarrà ancora una volta senza compagno, si offre di fare coppia.

Ha smesso di contare i sorrisi bonari, le correzioni su accento e pronuncia, il modo peculiare in cui il primo portiere aggrotta le labbra quando Genzo fa qualcosa di giusto, come a stupirsi per un trucco bene eseguito dal cane. Se fosse per Hertz, Krüger sarebbe già candidato alla santità. Quando Genzo sbaglia o è costretto a fermarsi o qualcuno in squadra decide di mettere alla prova la capacità di Friedman di guardare dall’altra parte, Krüger è sempre lì, nella coda dell’occhio. A ridere.

Sa esattamente cosa sia Hans Krüger: un vigliacco.

È stupido che sia il tipo di persona capace di tirare la carta della sua autostima fino a spezzarne le fibre. Di allargare il senso di marcio che gli cresce dentro. Mister Mikami se ne sta zitto durante la pratica, cosa che Genzo apprezza: un intervento adulto, specialmente da questo adulto, peggiorerebbe le cose.

A casa Mikami tira fuori crema, bende, cerotti e disinfettante e lo aiuta a pulire i tagli, gli chiede solo una volta se ne vuole parlare. Genzo dice di no e il discorso viene chiuso.

Va in camera, lascia che le lettere di quell’alfabeto distante si mischino in kanji ed hiragana famigliari. Prende un pezzo di carta ed inizia a scrivere, non ai suoi Shutetsu che ha sentito settimane prima al telefono per aggiornamenti sull’esito dei loro esami d’ingresso, tutti passati persino Ishizaki e Urabe di cui non ha mai chiesto. Non a Tsubasa che progetta di imparare portoghese e spagnolo durante le medie, ma a Taro Misaki. Il recapito l’ha ottenuto solo quattro giorni fa, dalla signorina Morino, come piacere personale.

Sospira. Se Misaki avesse voluto rimanere in contatto, avrebbe comunicato a tutti il suo nuovo indirizzo. Genzo butta la testa contro lo schienale della sedia, si gira e guarda il cappello dell’Adidas rosso coperto dalle firme dei suoi amici e compagni. Da qualche parte a Parigi ci sta un pallone con gli stessi sgorbi.

È certo che Misaki stia gestendo questa cosa dell’Europa molto meglio. Taro Misaki è una delle persone più amabili che Genzo abbia avuto il piacere di incontrare. Poi è tutt’altro che ingenuo e abituato a scivolare in maschere che gli consentano di sopravvivere agli ambienti più ostili. Ma se non fosse così? Se la città lo stesse rigettando come un corpo estraneo? Se gli stesse succedendo la stessa cosa che…

Scuote la testa, prende il pensiero, lo schiaccia tra le mani e lo pigia in basso. Tiè.

Genzo scrive: “pensavi di esserti liberato di me?” e racconta del viaggio in areo, del fatto che Mikami voglia prendere un gatto e su quanto la nuova casa sia vicina allo stadio . Di tutto e di niente. Gli chiede come stia e se si sia già ambientato nella nuova città. Misaki, come lui, non gli confiderà mai dubbi o problemi. Genzo dovrà inferirli via testo, ma ha bisogno di stabilire una linea, di ricordare che, se mai desideri parlarne, lui c’è.

Trasferisce il kit del pronto soccorso in camera, non c’è bisogno che Mikami si torturi nell’impotenza ogni giorno. Genzo può pensarci da solo. Sono ferite superficiali. Lascia che il senso di marcio galleggi sull’olio della voce che in testa bisbiglia che forse se lo merita, che c’è una ragione per cui non piace a nessuno. Che non apparterrà mai a questo posto. Raccoglie anche questa robaccia nel retino, la schiaffa in una scatola e la nasconde molto in fondo nella discarica della mente.

***

Hermann Kaltz è un tipo originale.

Una categoria a parte. Non percepisce ostilità dal ragazzino tedesco che per qualche ragione corre con uno stecchino in bocca. Come fa? E se lo ingoia? Succederà una volta in partita contro il Borussia Dortmund, un’esperienza imbarazzante per tutte le parti coinvolte. Kaltz sosterrà di essersi accasciato a terra a causa di una storta. Genzo e Magath il giocatore che stava marcando, la racconteranno diversa.

Kaltz si allena come difensore e centrocampista, specializzandosi sia come mediano che regista, due ruoli che ricoprirà in modo eccellente anche in Nazionale e nel resto della sua carriera. Si presenta il suo primo giorno con una stretta di mano e procede a non rivolgergli la parola per due settimane. È abbastanza sicuro che, in caso di linciaggio, Hermann Kaltz si procurerebbe sedia, popcorn e starebbe a godersi lo spettacolo.

- Siamo parecchio popolari.

Il numero otto dell’Amburgo SV si annuncia negli spogliatoi con un sorriso a coloragli la voce e una posa talmente naturale da sembrare finta. Le labbra di Genzo tirano, non ci può fare niente.

- Merito del mio carisma naturale. Se ne faranno una ragione. 

L’altro si mette a ridere, poi si siede vicino e gli dà un buffetto sulla spalla che non lo fa irrigidire. È la prima volta in un mese che, a parte Mikami, contatto fisico non si traduce in violenza. Kaltz dice qualcosa sul portare pazienza col resto della squadra, che l’odio collettivo non potrà durare che un paio di settimane. Li sopravvaluta: ci vorranno mesi, tre costole incrinate e una partita vinta quattro a cinque nel recupero. Ma sono le parole che ha bisogno di sentirsi dire, in quel momento.

Genzo Wakabayashi ha un mantra, un modo per vivere e accettare la realtà per come la vede: non aspettarti mai dalle persone più di quanto ti possano dare. Per ora è più un pensiero inconscio, partorito dall’esperienza di una famiglia assente, ma che sa di amare e da una figura paterna presente il cui rapporto diventa ogni anno meno lineare. L’amore, per Genzo, non si riceve e basta, lo si deve guadagnare. È una delle ragioni per cui quello di Tsubasa non smetterà di essere così importante: non ha mai capito cos’abbia fatto per meritarselo. Gli è stato regalato.

Hermann Kaltz lo chiama “Genzo”, “Genz-man” e, almeno in tre diverse occasioni, “Winnie-the-Genz”. Non Wakabayashi. È una delle sette persone al mondo autorizzate a farlo, non perché gli abbia dato il permesso: Kaltz, se lo è semplicemente preso, come per molte altre cose. Genzo capisce di avere aspettato una vita che qualcuno lo facesse.

Ci vorranno anni, ma riuscirà a ricavare un posto per sé in Germania, una casa, una versione di sé che non avrebbe mai potuto vivere in Giappone. Hermann Kaltz è il suo primo vero amico lontano da casa, un giorno il suo migliore amico in generale: suo pari in tutto ciò che conta. Condivideranno pure lo stesso sangue e saranno gli unici a scherzare sopra a una trasfusione d’emergenza. Come se un piccolo dissanguamento avrebbe davvero potuto ucciderlo.

- Non sei più autorizzato a morirmi davanti. – Gli dirà a ventun anni in ospedale Kojiro Hyuga, Misaki alle calcagna e un’espressione ostile come quando avevano fatto a pugni.

- Spiacente di averti rovinato la maglietta. – Gli risponderà, perché, accidenti, il sangue è davvero difficile da levare.

Il punto è che Genzo Wakabayashi sarebbe disposto a morire ed uccidere per Hermann Kaltz e questa cosa, nel tempo, gli farà dimenticare il suo mantra e riscriverà col bianchetto sopra la sua prima impressione: Hermann Kaltz farà sempre il necessario per sopravvivere.

Se ne ricorderà un secolo dopo, quando il suo Paese d’adozione diventerà un mostro soffocante e il Giappone l’unica via di fuga. O di salvezza. Si sentirà tradito e stupido per sentirsi tradito. L’errore era stato suo: mai aspettarsi dalle persone più di quanto ti possono dare.

È la ragione per cui finirà per perdonare Schneider, rimarrà in rapporti amichevoli con Hinmel e inizierà a dodici anni a fare coppia con Kaltz durante l’allenamento. L’ostilità della squadra è un muro solido di immutabilità, ma qualcuno degli ignavi smette di stargli troppo col fiato sul collo. Corrono fianco a fianco un po’ indietro rispetto agli altri, perché Kaltz è veloce, ma con una resistenza sereno-variabile e Genzo ha una gamba su cui il mister ha insistito ci andasse ancora piano.

Non sa perché Hermann Kaltz abbia deciso di abbandonare il fortino della neutralità, ma è perfettamente consapevole che a questo mondo non esiste un’azione priva di conseguenze. Così dice:

- Guarda che non ti si ritorca contro. – Kaltz al suo fianco aggrotta le sopracciglia. Genzo non rallenta, ma chiarifica. – Non diventare “l’indesiderabile numero due” a causa mia.

Il tedesco assume un’aria contemplativa, un terzo di giro di campo dopo scoppia a ridere. È un suono grasso e senza gioia, diverso da quello a cui si abituerà ad associare all’amico. Ma ha ragione: non c’è proprio nulla di divertente. Si sfila lo stecchino di bocca.

- Per quello hanno già Schneider.

Il nome non gli è famigliare, così Kaltz gli racconta del fantomatico numero dieci (poi undici), imperterrito assenteista della squadra il cui talento lo piazza comunque fra i titolari.

- Suo padre è tornato a casa qualche giorno fa. – Aggiunge Kaltz quando si fermano per bere, come se la cosa spiegasse tutto. – Mancherà almeno per un’altra settimana.

Lo dice con un sopracciglio sollevato e un labbro piegato che informano Genzo che il tedesco sia stato volutamente criptico. Ah. È così che funziona, sta aspettando che chieda. Così non lo fa. Questo Schneider avrà le sue circostanze e Genzo non si impiccia dove non è invitato (a parte per i suoi amici, dove si sente pienamente autorizzato). Poi i giochetti mentali gli danno fastidio. Kaltz sorride come se col suo silenzio avesse superato un qualche altro test. 

Non rimangono appiccicati per il resto dell’allenamento, hanno un sacco da fare e giocano in due posizioni diverse. Però Mayer è meno scorbutico quando gli ripete un ordine del mister che non aveva capito e Lintz lo sbatte a terra una volta sola. Gongels decide di rimediare e per quando ritorna negli spogliatoi Genzo si sente tutto un livido e fiero per non aver piantato nessuno nel terreno.

Una minuscola, insignificante, parte del suo cervello pensa che sia lui quello che sbaglia, quello fuori posto. Che si meriti quello che gli sta succedendo. Hermann gli crolla accanto con una smorfia. Genzo gli lancia la bottiglietta, in un gesto che con Takasugi e Izawa è diventato automatico. Kaltz la afferra al volo e storta il naso.

- È blu.

- È piena di sali minerali. Bevi.

Kaltz fa spallucce, obbedisce. Un sorso e sputa a terra. L’espressione tradita è quasi comica, poi però ci riprova e Genzo decide di premiarlo con una tavoletta proteica. Una di quelle che sanno di qualcosa che non sia polvere e segatura.

- Spero che a casa mangi qualcosa di diverso. Perché questo… - Kaltz agita la barretta in aria. – Questo è uno schifo.

Certo che mangia di meglio: Mister Mikami si è messo a cucinare! Non sa bene dove si sia procurato la salsa di soia, ma il bollitore era in una delle valigie che si sono portati dal Giappone. È una strategia: usa cibo famigliare per distrarlo. Un po’ funziona. Non tanto per il mangiare che è buono, ma non potrà mai sapere come quello di casa, no, è perché gli ricorda ogni giorno che qualcuno a lui ci tiene.

Tempo qualche settimana, la fiducia crescente di Friedman riempirà Tatsuo Mikami di impegni. Inizieranno a vivere di cibo d’asporto fino a quando miss Rosemaier, del complesso di appartamenti, non coinvolgerà un’amica per preparargli monoporzioni da ficcare in congelatore per la settimana. Continuerà a farlo anche quando Genzo sarà un adulto. Almeno fino a quando starà ad Amburgo.

Kaltz insiste perché un giorno provi la vera cucina tedesca e fa il nome di un ristorante.

- Pensa che ha persino due stelle Michelin.

Dimentica di menzionare che è dove lavora suo padre. Hermann Kaltz è un uomo immensamente fortunato.

Genzo recupera le chiavi del lucchetto che ha dovuto fissare all’armadietto giorno quattro, dopo che si è trovato le scarpe piene di piscio. In teoria gli armadietti hanno una combinazione, ma è la stessa da anni e non si può cambiare: così la conoscono tutti ed è come non averla. Un sacco di cose sono buone solo in teoria.

- A proposito di Schneider… - Kaltz tira fuori l’argomento con la grazia del prestigiatore, un naso ficcato sotto l’ascella a verificarne la percentuale di puzza. – Ci potresti, che so, buttare un occhio? Sta in classe tua.

Genzo scrolla le spalle, chiede che faccia abbia e Kaltz risponde una cosa come:

- Un incrocio tra Crystal il Cigno e un gatto bagnato.

Non esattamente il modo in cui Genzo descriverà Karl Heinz Schneider in futuro, ma c’è da dire che Kaltz ha un eccellente dono per la sintesi. Il diciannove marzo, Genzo recupera il suo bento, studia le facce di chi è rimasto in classe e individua Schneider immediatamente.

Non sa bene se è perché l’ha promesso a Kaltz o per la speranza di sentirsi un po’ meno solo, di confrontarsi le cicatrici, ma Genzo agguanta una sedia, la trascina al banco dell’altro, si siede e procede a cambiare il corso di due esistenze.

Passerà anni a chiedersi se in meglio.

 

 


 

NOTE:

 

Hola! Prima di tutto mi scuso con i miei due amatissimi recensori (e ragione per cui pubblico questa fic sempre in orario) se rispondo ultra in ritardo ai loro commenti. Purtroppo il LONG COVID ha mietuto una vittima e dopo un mese e mezzo di febbre sono ancora kaput. Ciò non mi ha impedito di terminare un progetto per un concorso a fumetti: speriamo in bene, dita incrociate e prego di qualificarmi tra i primi quindici.

E riprendere a scrivere questa fic perché il capitolo otto lievita oltre le 11.000 battute, dannazione!

 

Su questo capitolo invece:

 

Mikami sta cercando di fare del suo meglio. Intanto Genzo continua ad essere un bulldozer in formato umano, ma reprimere non impedisce di essere feriti ed il bullismo ha conseguenze a lungo termine: si insinua nell’autostima di una persona e la riempie di crepe. Sarà stupido, ma mi è sempre stato di grande consolazione crescendo sapere che anche un carrarmato come Genzo Wakabayashi poteva finire vittima dei bulli. Ma avrei voluto avere la sua forza (fisica: sto gracile) di prenderli fisicamente a pedate.

Se i compagni di squadra nell'Amburgo hanno un riscontro in canon, i compagni di classe sono tutti OC e frutto di ricerche assurde che fanno impazzire l’algoritmo di google (youtube non sapendo più che pubblicità propormi ha iniziato a mostrarmi quelle in tedesco). “It” è uscito nel 1986, la distanza oraria dei voli è quella attuale che corrisponde all’incirca a quella degli anni ’90, mentre la “Gatorade” non viene citata per nome perché tecnicamente inizia ad essere importata in Europa solo dal 1988 (quindi Genzo offre una generale bibita blu per sportivi).

E giustizia per Vogel: odia Karl non per la faccenda di suo padre, ma perché passa le verifiche senza studiare (mi incazzerei anche io).  

Al prossimo primo mercoledì del mese per tornare all’unica persona sana di mente di Captain Tsubasa: Hermann Kaltz! La storia di un’amicizia per la vita ed un’amichevole contro la giovanile del Borussia Dortmund.

 

>>> Grandi pulizie.

Kaltz adotta i suoi amici. Non si aspettava di essere adottato a sua volta.

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Capitolo 6
*** Grandi pulizie ***


* questa fiction viaggia parallela al canon: ci flirta insieme, ma non se lo sposa.


 

6. Grandi pulizie.

 

 

 

Hermann Kaltz ha questa tendenza ad adottare le persone. A vent’anni Samantha Bronski, la sua fidanzata presto ex, gli dirà attraverso denti stretti una cosa come:

- Ti circondi di sfigati per sentirti migliore di loro.

Non è vero. Probabilmente. No, non lo è. Avrà pure marcato Schneider così stretto da farselo amico perché gli faceva un po’ compassione. Avrà anche avvicinato Genzo perché, accidenti, qualcuno in squadra lo doveva fare. Ma non è la ragione per cui se li è tenuti. Se li è tenuti perché li ama.

E poi perché i suoi amici sono esilaranti. In modo del tutto spontaneo, perché quando cercano di esserlo sul serio i risultati sono disastrosi. Specialmente Schneider.

Karl, quando non è in campo, si distrae per ogni cosa. Ora, sa, intellettualmente, che è una risposta dell’amico al trauma e una predisposizione di carattere ereditata dalla madre, ma se non fosse spaventoso vederlo quasi schiacciato da un tir perché si è dimenticato di guardare il semaforo, ci sarebbe da farsi delle grasse risate. Genzo fallisce sempre di vedere il lato comico della cosa.

Wakabayashi viaggia su tre binari diversi: il primo è lo shock culturale. Nelle prime settimane in cui la tentativa collaborazione in campo si trasforma in un rapporto vero, Hermann trova continue ragioni di spasso nel vederlo decriptare il prezzo in marchi di ogni cosa, consumare litri di caffè nero e bevande energetiche, masticare cibo piccantissimo con una straordinaria faccia da poker e strozzarsi con l’ayran perché “non se lo aspettava così viscido”.

- Ma se mangiate il pesce crudo!

- Ma che ci fa lo yogurt nel bere?

Così Hermann gli spiega l’azione dei latticini nel contrastare l’eccessivo piccante e Genzo si converte velocemente al credo: quando vai a mangiare in un ristorante di cucina turca tradizionale, prendi il latte da bere.

Il secondo binario è: l’oggettiva stranezza del carattere. Se Schneider, con le sue tendenze possessive e gli altarini fatti con magliette rubate, è strano, Genzo è oltremodo bizzarro. Nel corso dell’aprile del 1986, il portiere diventerà una presenza fissa a casa Kaltz prendendo parte a tutti gli obbligatori riti famigliari come le grandi pulizie. Schneider ha imparato a sconigliare quando l’ultimo martedì del mese, cioè il giorno in cui il ristorante di papà è chiuso, si approssima. Genzo no. Dice qualcosa della sua follia interiore che ci parteciperà volentieri per anni.

- Questo a che serve?

- Lo spruzzi per pulir… NON SUI VETRI!

Quel ragazzo si comporta come se non avesse mai visto uno sgrassatore in vita sua. O non avesse mai pulito un bagno. C’è da dire che impara in fretta. Un giorno molto lontano, Hermann Kaltz deciderà di passare la convalescenza insieme all’amico in Giappone, precisamente a Nankatsu, dove abitava, proprio vicino al Monte Fuji. Vedrà la casa dei suoi genitori, saluterà un’anziana donna vestita da cameriera, fisserà passivamente i giardini in stile italiano, l’argenteria, le porcellane antiche, la piscina interna e molti pezzi del puzzle andranno a posto. Sarà motivo di un certo orgoglio avere avuto in svariate occasioni il giovane rampollo di un antico casato nobiliare a pulire il suo vomito. O aiutarlo con le lavatrici delle mutande sporche. Beccati questo Samantha.

Ecco, per esempio: Genzo non si schifa quasi di fronte a niente, ma ha tipo un rifiuto per i piatti sporchi.

- Ci sono dei resti di cibo, sopra.

- Ma se non hai avuto problemi con la lettiera del gatto!

- Quella non conteneva cose che vanno in BOCCA!

Davvero, non c’è mai da annoiarsi. Ai suoi Genzo piace più di Schneider anche se non vogliono ammetterlo. Forse per via del cognome o forse perché il giapponese non si è mai alzato a metà della cena per andarsene senza salutare. Verso maggio Emilia gli chiede se Genzo stia cominciando ad adattarsi a scuola e squadra, o meglio: se scuola e squadra si stiano adattando a Genzo, quel tipo è come un panzer, conviene siano gli altri a spostarsi. Hermann scrolla le spalle, a scuola le cose dovrebbero andare meglio, ma per l’altra cosa...

Fratello e sorella hanno notato come il portiere porti maniche e pantaloni lunghi anche in pomeriggi torridi passati a scrostare e riverniciare imposte. I loro sospetti sono infondati: a Genzo piace vestire a strati e, pur avendone il cervello, manca dello spirito per occultare le prove. Ma i lividi c’erano.

Un settimana fa mister Friedman gli ha fatto un complimento e alla sera qualcuno gli ha imbrattato l’armadietto. Hermann è entrato negli spogliatoi e ci ha trovato Genzo con il naso ficcato nel borsone. Quando il portiere l’ha sentito arrivare si è tirato su di scatto e ha impiegato mezzo secondo per riordinare la faccia in un’espressione noncurante alla “che ci vuoi fare”. Genzo ha tirato fuori dalla sacca guanti, spugna e sgrassatore liquido. Hermann è rimasto interdetto: se aveva i prodotti con sé significava che questa non era la prima volta.

Quando? Quante volte? Non lo sa. Qualcosa sta succedendo alla sua squadra, fuori dalla sua vista o dal suo controllo. Non gli piace. Aveva aiutato Genzo a finire di pulire e poi erano usciti a mangiare.

L’incidente rimane pallido e isolato nel suo cervello. Macera. Un caso. Scherzi puerili. Un giorno di questi mister Friedman farà una strigliata generale e rimetterà le cose a posto come era successo con Schneider. Hermann è sveglio, dovrebbe sapere che le cose non sono mai semplici.

***

Il terzo binario, cioè la terza ragione per cui Genzo Wakabayashi è suo amico è… perché è Genzo. Semplicemente. A metà aprile Hermann appoggia male il piede, scivola e cade. Ha piovuto per due giorni e il terreno zuppo attutisce la caduta. Sorride a Mayer quando lo aiuta a rialzarsi, commemora la precoce dipartita del suo stecchino anti-stress e stringe i denti attraverso il resto dell’allenamento. O almeno, fino a quando Wakabayashi non decide di saltare fuori dal nulla e dire:

- Uno degli assistenti ti cerca, seguimi.

Hermann “non” zoppica fino agli spogliatoi, quando arriva fa un cenno a Mikami che risponde con una piega divertita delle labbra prima di invitarlo a sedersi. Genzo è sparito a recuperare un contenitore di plastica trasparente pieno di una crema viscida e un kit del pronto soccorso.

- Forse è meglio se fai una doccia prima. – Il suggerimento di Mikami nasconde un ordine.

Quando Hermann torna con un asciugamano legato in vita e uno attorno ai capelli, l’assistente del coach è andato, rimane Genzo.

- Siediti, che non ho mica tutto il giorno.

Il portiere ha mani sorprendentemente delicate, gli massaggia la caviglia dolorante con il viscidume misterioso che è come ghiaccio sulla pelle e un’esplosione di menta per il naso. È quasi piacevole e Hermann lascia che le preoccupazioni scivolino insieme alla stanchezza. Genzo gli fascia la caviglia in un gesto naturale praticato un milione di volte. Hermann emette un verso basso e nasale che l’altro interpreta correttamente. Come sempre. Decide di rispondere:

- Mikami mi ha insegnato quando avevo sette anni. Ho fatto un sacco di pratica col povero Izawa.

Genzo e i suoi amici giapponesi… gente di cui si preoccupa e descrive con l’orgoglio del fratello maggiore. Una settimana prima Schneider, i piedi allungati e stiracchiati sul divano per impedire l’altrui accesso, aveva detto una cosa come:

- Lo sai che tu e Genzo vi somigliate un sacco?

Hermann aveva riso e negato: che ci piglia un giapponese alto e testardo, con un tedesco basso, biondo e... Ah.

Anche Genzo adotta le persone.

Questo significa che Hermann è stato adottato. Non se lo aspettava, non se n’era accorto. Ma gli va bene. Si possono adottare a vicenda. Dopotutto ci sono modi più strani per formare una famiglia.

Se Genzo fosse stato una donna o Hermann meno etero, sarebbero stati una coppia perfetta. Tipo anime gemelle. Anche se fosse, non sono fatti per vivere insieme: lo scopriranno a diciannove anni, quando Hermann deciderà che se Genzo ha una camera che non usa in un appartamento vicino allo stadio, tanto vale diventare coinquilini. Durerà tre mesi e verranno quasi alle mani quattro volte, una riguarderà la spazzatura.

- Non l’ho lasciato in giro! L’ho buttato nel cestino!

- L’hai buttato in quello per la raccolta del vetro!!! KALTZ!

L’oggetto in questione: un preservativo usato. Ora ama Genzo, è suo fratello e tutto il resto, ma quel ragazzo si fissa un po’ troppo sui dettagli. E sul pulito.

Per il resto Genzo è una delle persone più rilassanti che abbia mai incontrato e ci si può parlare insieme di tutto. Hermann adora quel piccolo fetente di Schneider, ma, onestamente, saranno uomini, ma non si può sempre stare a discutere di calcio e motori. Le donne sono una casistica a parte.

Per tutte le stranezze, invece, visto che il 1998 con Google è ancora lontano, chiede prima a Genzo. Impara questa lezione quando sua sorella, in quei mesi dell’86 che mordono la coda all’estate, arriva con una specie di trottola di legno che non riesce a far funzionare bene, così Hermann la porta a scuola. Nell’intervallo si manifesta nell’altra sezione dove ci stanno Reinhard e Schroder che adorano questo genere di stronzate, i suoi amici non sono eccessivamente utili.

- Forse la devi ruotare in senso antiorario? – Prova il primo.

- Nah, secondo me è la punta che sta sproporzionata. – Sostiene il secondo.

- Manca la corda. – Genzo si manifesta. – Prestami il laccio delle scarpe.

Si arrabattano un attimo, ma poi la trottola funziona. Apparentemente si chiama una cosa tipo “Edo Goma” e nessuno capisce bene come un giocattolo giapponese abbia fatto ad arrivare a un mercatino delle pulci tedesco. Forse è una metafora. In ogni caso Genzo ne sa un sacco, racconta che queste cose sono state persino un oggetto di lusso, prima di una riforma che non colpiva proprio i giocattoli, ma ha contribuito a renderle tali.

- Da appannaggio dei daimyo a spasso per i bambini. È buffo se ci pensi.

Hermann non sa che sia un daimyo, ma annuisce e sta a sentire quando Reinhard chiede se al portiere interessino questo genere di cose. È una domanda trappola: questi due stanno disperatamente cercando gente per il loro gruppo di D&D. Non hanno fortuna, sapeva della trottola perché un certo Hajime Taki dal Giappone, o meglio suo padre, ha un negozio di giocattoli.

Genzo c’ha questa cosa per cui memorizza un sacco di stronzate che riguardano i suoi amici. Hermann crede che sia il suo modo di amare. Così quando il portiere stabilisce di esplorare la città per mandare documentazione fotografica a tale Taro Misaki, Hermann decide che è un’ottima idea, si trascina dietro Emilia e la trasformano in una gita di famiglia.

Genzo mantiene quella giapponese con una caparbietà che non lascia trasparire chi tra la sua nazione di arrivo e partenza sia la signora e chi l’amante. A una settimana dalla fine di maggio, il portiere viene a cercarlo per sganciargli circa un quintale di cioccolato.

- Ti piacciono i dolci, no?

Sì ed Hermann è stato decisamente adottato. Le scritte sulle confezioni sono in un alfabeto assurdo, tipo disegnato, ma è abbastanza sicuro che Genzo non stia cercando di avvelenarlo. Sarebbe uno schema un po’ troppo sottile per un tipo così quadrato. La roba è buona, un po’ troppo zuccherata, ma buona. Hermann cerca di allungare le mani su delle cose che sembrano Kitekat, ma verdi e Genzo glieli porta via.

- Ehi, questi sono per Schneider!

C’è un’altra cosa che il portiere non gli fa toccare: una bustina con un fiocco che studia con distratta delicatezza.

- È fatto a mano. – Spiega Genzo che di tanto in tanto decide di non restituirgli pan per focaccia sulla cripticità. – Il pacco è arrivato in ritardo, non so se dopo un mese e mezzo sia ancora commestibile.

Hermann fa un paio di conti. Oh. Ma ‘sta roba gliel’hanno mica spedita per San Valentino? In effetti, ora che ci pensa, Genzo è un mezzo marpione: c’ha la Kuster, la Aydin e pure la Özkan a ronzargli attorno. Lui dice che sono amiche, ma è la stessa scusa di Schneider. Oh. Improvvisamente la questione si fa interessante.

Genzo affonda rapidamente le teorie: non ha una fidanzata (o una serie), ma una squadra. Di calcio.

- Sì, maschile, Kaltz! Per quella femminile a scuola c’è mancato il numero!

Ora, va bene lo stacco culturale, ma ad Hermann non sembra troppo normale. Il portiere fa spallucce.

- È che per anni non gli ho detto quand’era il mio compleanno. – Spiegazione debole. Hermann si appunta di scoprire quando Genzo sia nato. – Così hanno scelto un giorno. Penso siano stati Izawa o Teppei a decidere per il quattordici febbraio, sarebbe una cosa da loro.

Apparentemente in Giappone esiste qualcosa come “cioccolato platonico tipo di ringraziamento”. Future ricerche gli confermeranno che è più una cosa da ragazze e che comunque non spiega il cioccolato a mano.

- Oh, questo è di Morisaki. È bravissimo in economia domestica.

Hermann Kaltz è pronto a scommettere il suo alluce sinistro che l’idea di scegliere San Valentino come giorno neutro abbia un preciso artefice e che questo Morisaki sia un genio del male con una terribile, terribile cotta.

Uhm. Nuova teoria: Genzo è un idiota, ma non gli dà le stesse vibrazioni di Schneider. Quasi. Non proprio. Magari è una cosa giapponese. O forse la pubertà avrà pure innaffiato l’amico come una gramigna, ma non l’ha corrotto alle gioie del gentil sesso. Ancora. 

Hermann Kaltz non prende tante cantonate sui propri amici. Questa è una di quelle.

***

Le ultime partite della Bundesliga si giocano in maggio, ma l’Amburgo SV versione poppanti ha la sua personale fissata con il Borussia Dortmund juniores alla prima domenica di giugno.

Hermann ha iniziato a giocare nell’under tredici da titolare da alcuni mesi, non si stupisce che mister Friedman lo scelga per la rosa dell’amichevole. Sarà la formazione che il coach si trascinerà per tutta l’under sedici, con pochi cambiamenti, fino a conquistare la medaglia d’oro alle giovanili, attirare gli occhi del Bayern su Schneider e tutte cose. Ovviamente il sopracitato gioca titolare da quando di anni ne aveva dieci.

Mister Friedman disegna sulla lavagna, Hermann batte un cinque discreto a Genzo che starà in panchina, ma non si perde una parola. Hermann dovrà marcare Peter Magath, il capitano e miglior realizzatore della squadra avversaria. Curiosamente in Nazionale Magath sarà poi fisso in difesa, Hermann apprezza un giocatore complesso.

Dopo il riscaldamento molla Schneider a Genzo. Ringrazia Iddio di avere avuto l’idea di farli conoscere: Karl ha smesso di appestare il campetto come una nube scura e limitato il numero di interventi fallosi sui propri compagni di squadra. O le pallonate in pancia. O in faccia. Ha pure preso a partecipare regolarmente, cosa che l’ha fatto risalire nella stima di gente che si fa il mazzo come Mayer, Strauss e Briegel.

Gli viene da ridere. Certo se la gemella di Strauss si presentasse in campo in calzoncini anche Hermann si sentirebbe ugualmente motivato. C’è da dire che Genzo quando può indossa più strati di una cipolla, ma ciò non impedisce a Schneider di fissarlo con un’intensità che scioglierebbe il ghiaccio.

Non pensa che Karl se ne sia accorto. Quel ragazzo ha l’introspezione di una mazza di legno. Finché gente come Hertz non fa due più due e Hinmel mantiene la promessa di starsene zitto, Hermann non ha alcuna ragione per non divertirsi alle spalle dei suoi amici.

Poi ha indagato: Genzo è super ok sulla cosa. Hermann gliel’ha appoggiata pianissimo ieri mentre tiravano giù le tende per metterle in lavatrice perché era martedì e il portiere l’ha seguito dopo scuola per sapere se avessero bisogno.

- Cioè, metti l’ipotetico caso che un nostro compagno di squadra sia gay.

Aveva aspettato che Genzo fosse in bilico sulla scala per parlare. Ora, di norma Hermann è più sottile, ma puoi capire molto di una persona quando le schiaffi una domanda del genere mentre è in equilibrio su un piede solo. Il portiere non aveva traballato. Dopo trenta secondi di mutismo, la cosa si è fatta strana.

- Genz-man?

- Che? Ehi, ma lo vuoi tenere fermo questo aggeggio del male?!

Afferra la scala con due mani, finiscono con la cucina e vanno verso il salotto. Hermann risente la conversazione in testa e si accorge di non aver mai fatto una domanda. Sta merdina nipponica.  C’ha pure su quel suo ghigno storto. Aspetta che sia salito di due gradini per scuotere la scala. Il bastardo si mette pure a ridere.

- Cosa faresti? – Si sente in dovere di specificare. – Cosa faresti se saltasse fuori che a un nostro compagno di squadra piacciono gli uomini?

- Niente, mica sono cazzi miei. - Genzo sbuffa e inizia a passargli le gruccette. Un battito e si irrigidisce. – Perché se la stanno prendendo con qualcuno per questo? Chi? Uno di quelli grandi o dei piccoli?

Hermann lo stoppa prima che parta per la tangente. È rassicurante questa cosa di Genzo: Hertz ieri gli ha tirato apposta una gomitata in pancia mentre lo marcava, Hinmel da un mese lo chiama “piccolo Mao”, gente in gamba come Lintz o Mayer ha paura a parlarci assieme perché teme ritorsioni da parte del resto degli idioti e Genzo trova pure lo spirito di indignarsi e dichiarare guerra in nome di un completo sconosciuto. Gli viene come naturale. Hermann ha fatto bene ad appioppargli Schneider.

Ci vogliono altre quattro ore per finire con camere e bagni. Ovviamente Genzo rimane per cena, poi si fa così tardi che Emilia lo convince a rimanere a dormire. Preparano il materasso gonfiabile comprato per Karl e lo piazzano vicino al suo letto. Ora, mamma si è tanto raccomandata di trattare bene gli ospiti (specialmente quelli che ti aiutano a pulire casa come attività ricreativa), ma Hermann è convinto che a Genzo non dispiaccia evitare le sue lenzuola sporche e cioè l’unica cosa che non hanno fatto in tempo a cambiare. Ha ragione. Il portiere solleva un sopracciglio.

- Sei sicuro di volerci dormire in quello schifo?

E poi parte con qualcosa del tipo “abbiamo passato il pomeriggio a pulire” e “dov’è che tieni le altre che ti aiuto a cambiarle”. Genzo a volte è una versione un po’ più gentile di sua madre. Si arrende quando gli fa notare che l’unico paio pulito l’hanno messo al materasso gonfiabile e poi gli mostra la pila di panni sporchi nascosta in un anfratto dell’armadio. Lo sguardo di Genzo è quasi ammirato.

- Come? – No, Hermann si era sbagliato, non ammirato: orripilato.

Avrebbe dovuto capirlo allora che ritrovarselo come coinquilino sarebbe stata una pessima, pessima idea.

- Un sacco di pratica.

Poi spegne la luce e li costringe a dormire. O almeno ci prova. Hermann ha giusto preso sonno, quando la voce di Genzo taglia l’oscurità come una fetta di pane.

- È Schneider, giusto?

Hermann dà una zuccata al cuscino, è troppo stanco per avere questa conversazione ora. L’altro interpreta correttamente il muggito, ma procede ugualmente.

- Hinmel ha detto una cosa… Lascia perdere.

E ora, ora che Hermann è allerta, preoccupato e necessita spiegazioni, Genzo si gira su un fianco e si mette a russare. Gli lancia un cuscino. Il fetente lo prende al volo e lo aggiunge a quello dietro alla testa. Nessuna protesta serve a farselo restituire.

Il mattino dopo, Kaltz blocca Hinmel al cancello della scuola, lo trascina in bagno e rende molto chiaro cosa gli farà se proverà ad aprire di nuovo bocca con qualcuno. Stranamente lo starà a sentire. Salterà fuori che degli orribili coglioni che Hermann ha scoperto di ritrovarsi in squadra, Hinmel è il meno peggio. E di un discreto margine.

***

Domenica primo giugno arriva a veloci falcate. Mister Friedman si conferma per tempismo e incapacità di leggere gli umori dello spogliatoio quando lancia la fascetta di capitano a Schneider. Ha senso, perché da quando Hardwig si è trasferito ed è passato alla giovanile dello Schalke 04, la posizione è rimasta scoperta. Ma proprio adesso? E proprio a Schneider?

Se spera che il ruolo aiuti Karl a prendere maggiore consapevolezza del suo posto in squadra, Friedman ha dannatamente ragione. Però non è un affare immediato, nel frattempo l’ostilità quadruplica e qualcuno la dovrà pagare. Non sarà Schneider.

Sta per entrare in campo quando Hinmel lo avvicina. Il trequartista non è lì per rivangare l’amichevole discussione del mercoledì.

Un giorno l’ex numero cinque dell’Amburgo SV juniores gli confesserà come quel suo gesto, cioè quello di trascinarlo per una spalla e sbattergli la testa contro un lavandino di ceramica, gli avesse fatto cambiare idea sul suo compagno di squadra. Non Schneider. Con lui non si riuscirà a vedere per il resto della vita, ma idea su di lui: Hermann Kaltz.

- Pensavo fossi uno stronzo tutto sorrisi, tipo Krüger. – Dirà, il naso nascosto dalla schiuma della birra. – Avresti dovuto incazzarti più spesso.

A quindici minuti dall’inizio della sua sesta partita come titolare, Hermann non sa di essere risalito di almeno ventisette posizioni nella stima di Bernd Hinmel, così quando il compagno dice un verissimo:

- Per me il mister avrebbe dovuto fare te capitano. 

La risposta di Hermann Kaltz è un rutto. Poi va in campo ed inizia col riscaldamento.

L’under tredici dell’Amburgo SV non è una squadrona, non come la loro under quindici o diciassette o quello che diventeranno tra qualche anno. Friedman è un bravo coach, ma uno che ragiona sul lungo termine, il che ha abbastanza senso visto che si trova a gestire un branco d’adolescenti con manie di grandezza.

Il loro centrocampo è buono, ma Hermann, uno dei sopracitati adolescenti, tende a pensarlo perché se lo gestisce lui. La loro difesa scricchiola e il loro attacco, beh, è tipo un one-man-show.

Schneider è il perno attorno cui la squadra si muove.

In ventun partite disputate, Karl ha centrato una tripletta in diciannove. Sta diventando una sorta di marchio di fabbrica. Però solo dieci di quelle partite le hanno poi vinte.

Se Schneider arriva in area con la palla fa goal. È tautologico. Però gli avversari possono sempre rispondere e lo sbilanciamento in attacco li rende troppo suscettibili al contropiede. L’under tredici è scoordinata, litigiosa ed Hermann prova a metterci una pezza, ma non può essere ovunque.

Karl sarà pure un trascinatore, ma non è integrato. Parte troppo di testa sua e la sua assenza agli allenamenti si fa sentire, c’è da dire che ci sta provando. A cambiare. Mister Friedman piazza Lintz in difesa, sembra tanto una manovra alla spera in Dio. 

Hermann si concentra sul suo compito che è quello di bloccare Magath e disturbare lo schema d’attacco avversario. E passare a Schneider… che ovviamente ha più giocatori addosso che palline su un albero di Natale. No. Vediamo chi c’è.

Cerca e trova Strauss, ma Milews intercetta e ora sono loro a doversi difendere. Magath prova a svicolarsi, ma col cazzo. Schneider si è sparato metà del campo per entrare in scivolata sul numero sei del Borussia, solo che Milews quel pallone lo passa. L’arbitro lascia giocare ed Egora, uno dei giocatori più piccoli della squadra avversaria, segna con un tiro impossibile dal punto cieco che la difesa ha lasciato al portiere.

Quindici minuti e sono sotto di un goal. La rimessa di Krüger arriva ai piedi di Hinmel che si coordina con Hertz per il contrattacco. Solo che Hertz è in fuorigioco e questa volta l’arbitro fischia. Il pallone arriva a Magath e tutta la buona volontà di Hermann non impedisce al numero dieci di arrivargli dritto in area e segnare, ancora.

Venticinque minuti e la situazione è parecchio frustrante. Schneider si avvicina a Krüger:

- Il prossimo mandalo a me.

Un passaggio lungo è impensabile: prima di tutto il loro portiere è parecchio impreciso, secondo appena Schneider arriva nella metà campo avversaria ha gli altri addosso come mosche. Così il loro nuovo capitano si piazza vicino al dischetto, al loro dischetto.

Krüger dà un buffetto al pallone e poi Schneider parte. Hermann non si stancherà mai di vederglielo fare. Schneider si fa tutto il campo di corsa, salta gli avversarsi come birilli e non passa manco a pagare. Non è da solo. Hermann tiene occupato Magath mentre Strauss distrae la difesa e Heintz diventa l’ombra arretrata di Schneider. Karl non arriva all’area avversaria, si ferma prima e spara un tiro al volo veloce, angolato e imprendibile.

Due a uno. Dieci minuti dopo Schneider ripete il miracolo. Due a due.

L’arbitro fischia la fine del primo tempo, Karl cerca il capitano avversario allunga una mano verso di lui e gli punta un dito contro, in un gesto che diventerà poi iconico e che causerà svariati travasi di bile ai giocatori che se lo vedranno rivolgere. Magath la prende sportivamente, dice:

- Vi schiacceremo.

E finisce lì. Mister Friedman non è felice, i primi due goal erano evitabili. Fa un mazzo un po’ immeritato a Krüger. Gongels prende le sue difese, ma il mister non ha finito.

- Ne abbiamo parlato un milione di volte. – Dice Friedman. – Non puoi rimanere incollato alla linea di porta per tutta la partita. Il calcio non funziona più così.

L’assistente giapponese di Friedman tende a non impicciarsi, ma oggi emerge dall’ombra: mette una mano sulla spalla del coach e fa un gesto amichevole verso il loro numero uno. Linguaggio universale: ci parlo io. Friedman alza gli occhi al cielo, espelle una quantità sorprendente di aria, poi sorride e fa un cenno d’assenso. I rapporti tra i due sono migliorati negli ultimi mesi.

Soprattutto da quando è risultato a tutti evidente che provenire da una differente tradizione calcistica non ti rende un totale idiota. Tatsuo Mikami è in gamba. Molti dei suoi compagni hanno iniziato ad orbitare su di lui per consigli che trascendono il calcio. Un po’ aiuta l’aria generale da “saggio maestro asiatico”. Poi il tizio viaggia sulla quarantina, gliene aveva dati almeno dieci in più. I capelli fanno tanto.

Krüger non ha simpatie per il Giappone in generale, quando si riunisce al resto della squadra è praticamente livido:

- Ma chi li ha mai sentiti questi Gyula Grosics e Jan Jongbloed. – Un sacco di persone in effetti, la faccia che mette Mayer al secondo è tra il costipato e l’incredulo. – Questi stupidi musi gialli che pretendono di insegnarci il calcio…

Se queste fossero le prime settimane di marzo i suoi compagni avrebbero sorriso, annuito e aggiunto un qualche commento brillante su occhi troppo stretti per vedere dove va il pallone.

Questo è giugno e alla squadra Mikami, con la sua presenza gentile e discreta, piace. Se avesse parlato male di Genzo sarebbe stato diverso. O forse no. Non per tutti. Mayer, Haness, Lintz e persino Briegel iniziano ad avere se non un debole, almeno un certo rispetto per il loro giapponese. Il suo essere una testa minchia incapace di capire quando è ora di stramazzare al suolo ha aiutato.  

A sorpresa è Hinmel a uscirsene con un:

- Hans, se il portiere libero non lo sai fare, non sono loro che hanno un problema.

Il gioco riprende.

Hermann arretra definitivamente in difesa. Non sa quanto aiuti. Schneider non ha più tre uomini addosso, ma direttamente Magath che è un cazzo di francobollo. Questo libera due giocatori avversari e, nei venticinque minuti successivi, il Borussia Dortmund dimostra ampiamente perché quest’anno è arrivato secondo ai giochi juniores. Dopo il Werder Brema.

Quattro a due. La loro difesa fa schifo. Il mister ha sostituito Gongels con Haness durante l’intervallo e ora sembra pronto a tentare di nuovo. Il pallone esce.

Non capita spesso che ti sostituiscano il portiere. Se si fa male è un conto, ma Krüger è fresco come un fiore. Un fiore allarmato certo, perché c’è solo un giocatore che Friedman sta facendo scaldare: Genzo Wakabayashi.

***

Negli anni Settanta, la posizione del libero nel calcio è definitivamente tramontata. L’idea però era buona e gente come i sopracitati Grosics e Jongbloed, pensano qualcosa come: ehi, chi è l’unico giocatore che non ci incasina con il fuorigioco? Il portiere.

Inizia in Ungheria, sale alla ribalta in Olanda e si diffonda a macchia d’olio in Germania, è ovvio quindi che siano gli inglesi a darci un nome: sweeper-keeper, il portiere libero.

Una posizione che comporta una serie di limiti, ovviamente. Prima di tutto c’è bisogno di un giocatore con una forte presenza fisica e mentale, capace di leggere il campo e ricoprire posizioni che vadano al di là della semplice difesa. Qualcuno di affidabile e anche un po’ idiota, perché, diciamocelo, ci vuole un certo coraggio per abbandonare la propria porta ed arrivare palla al piede nella metà area avversaria. Se fai giusto sei un genio. Se sbagli il tempo e ti apri a un goal a porta vuota viceversa…

Genzo Wakabayashi è tutte queste cose. Hermann a dodici anni non aveva l’esperienza per vederlo. Coach Friedman sì e tante cose sull’allenamento a cui ha sottoposto il portiere negli ultimi mesi acquistano senso. Tatsuo Mikami non era stato il solo ad averlo capito: l’altro era stato Schneider.

Ora, a Karl il termine sweeper-keeper viaggia sopra la testa, ma quel ragazzo ha per il calcio la stessa fame di un coyote per una bistecca. Ah. Ecco con cosa si stavano esercitando. Cioè, oltre a quello stupido tiro che Karl si è messo in zucca di perfezionare.

Genzo entra, non è chiaro se dica qualcosa a Krüger, ma il primo portiere fa una faccia strana. Hermann se ne dimenticherà presto. Hanno meno di venti minuti per ribaltare il risultato.

- Non fateli entrare in profondità. – Dice Genzo serafico. – Usate il fuorigioco per convincerli a tirare da fuori. Hermann avrò bisogno di te.

La voce di Wakabayashi è chiara, dura, ha un che del generale o del mister. È tranquillizzante. Ti dà l’idea di non essere sotto di due goal, ma in vantaggio di uno. Gongels non sarebbe stato ad ascoltare una parola, ma Lintz, Mayer ed Haness annuiscono e si lasciano guidare alle posizioni che gli indica il portiere.

Così Hermann ignora Milews, mentre Briegel lo guarda con un’aria da “che cazzo fai”. Schneider rimane sbilanciato in attacco, in attesa. Hanno davvero fiducia in quella bestiaccia dagli occhi a mandorla, eh?

Fanno bene. L’azione del Borussia si scontra con quel muro umano che è Wakabayashi, Hermann non si volta e inizia a correre. Sa che Genzo parerà e sa che quel pallone ha il suo nome sopra. Non rimane deluso. La sfera arriva ai suoi piedi come se avesse una calamita, Magath era andato in avanti a dar manforte a Milews e questo lascia Schneider praticamente solo. Grosso errore. Il capitano del Borussia se ne accorge subito, ma non fa in tempo. Hermann passa al volo. Karl salta i due poveri difensori rimasti ed entra in porta col pallone.

Quattro a tre. Tripletta di Schneider. Rimangono quindici minuti, sono sotto di un goal, ma l’atmosfera è cambiata. Non sa se sia solo lui a sentirla questa sicurezza che proviene alle loro spalle. O forse è solo la voce di Genzo che dimostra notevoli polmoni mentre strilla ai suoi difensori schemi che hanno provato alla nausea, ma che l’essere in svantaggio a venti minuti dalla fine aveva come cancellato dal cervello.

Il Borussia non ci sta, nel quarto d’ora che gli separa dal fischio dell’arbitro, Magath stabilisce che la migliore difesa sia l’attacco. Sono al settantacinquesimo e l’Amburgo è stanco. Persino Schneider che ha passato tutto il primo tempo a correre su è giù come un pazzo. Hanno bisogno di…

Di nulla, hanno Genzo. E i suoi difensori parrebbe. Il quadrilatero formato dai tre giocatori, più portiere, non è quella macchina oliata che diventerà nel giro di mesi, ma per ora, quando il Borussia non se l’aspettava, basta. Cinque minuti alla fine, Magath è pronto a tirare da fuori, il pallone gli sparisce da sotto i piedi. Genzo è uscito e ora corre verso la metà area avversaria. Schneider è marcatissimo, così urla.

- MAO!

E passa, di tutte le persone in squadra, all’unica veramente ben piazzata: Bernd Hinmel. Se è sorpreso, il suo sorriso non lo dimostra. Hinmel insacca la palla nell’angolo destro. Un tiro lento che per loro fortuna Franz Stein non intercetta.

Quattro a quattro. Un’amichevole che potrebbe benissimo finire in pareggio.

Hermann sputa lo stecchino a terra. Col cazzo. Sono qui per vincere.

L’arbitro concede cinque minuti di recupero, ne hanno così sette per dare una lezione a quelle merdine perfide. La palla ce l’hanno loro. Magath nella sua area sembra avere tutto il tempo del mondo, passa pigramente a Milews e aspetta che si sbilancino. Che provino a prendergliela. Mancano cinque minuti e mezzo, così lo fanno. Magath scatta in profondità, arriva in area… Hertz gli entra su un piede e lo manda lungo e tirato.

L’azione fallosa costa un cartellino giallo e un rigore. Schneider non protesta, il resto della squadra sì.

Magath si prende tutto il tempo prima di calciare. Tre minuti. Due minuti e mezzo.

Hermann sente il fischio e inizia a correre in avanti, Schneider uguale. Hinmel si piazza a centro campo ed aspetta. Un minuto e mezzo. Magath tira, Genzo para. Un minuto e quindici. Il pallone gli atterra sui piedi. Schneider finta sulla destra, una manovra che hanno provato insieme. La boccheggiante difesa del Borussia si prepara ad intercettare il passaggio, ma non arriva. Hermann si butta sul lato cieco del portiere e calcia.

L’arbitro fischia. Il pallone entra.

Quattro a cinque. Strauss ed Heintz arrivano e lo prendono in braccio. Il resto dei difensori gli si butta addosso come una simpatica montagna umana. Tanto Hermann è troppo felice per respirare.

Non vincono una medaglia o una coppa. Schneider marcia verso Magath e gli stringe diplomaticamente la mano. Genzo è da qualche parte, incerto, verso la metà campo. Hermann scivola da sotto, lo insegue e lo sbatte a terra. HANNO VINTO! Genzo ride, Mayer e Lintz hanno notato la grande fuga ed arrivano a buttarsi contro di loro. Rotolano. HANNO VINTO! Schneider lo pungola con un piede, leggermente scettico. Il braccio di Genzo scatta dalla pila, lo agguanta per i calzoncini e lo tira giù.

Gli era mancato sentire Schneider ridere. Forse non lo aveva mai sentito davvero.

Quando si ricompongono mister Friedman ha tutta una serie di appunti da fare sui quei primi venti minuti del secondo tempo, ma poi sorride e apre la Coca-Cola per festeggiare. Hermann pensa che lo spumante ci sarebbe stato meglio, ma tant’è.

Strauss ed Heintz cercano Schneider spontaneamente e sono tutto un rivangare il momento in cui la punta ha saltato la squadra avversaria. Stranamente Karl non se ne va, non sorride, ma dice qualcosa come:

- È stato possibile perché c’eravate voi a distrarmi la difesa.

Che è un avvenimento così straordinario che Strauss arrossisce e balbetta ed Heintz quasi si commuove. C’è speranza per il loro capitano.

Dall’altra parte Mayer, Lintz e Haness sono tutti un chiocciare attorno a Genzo. Hinmel arriva per rifilargli una pacca “amichevole” sulla schiena che non muove il portiere di un millimetro. Genzo sorride storto e dice qualcosa probabilmente di stupido che Hermann non riesce a sentire, Hinmel si gonfia, ma poi scoppia a ridere. Progressi parte due, insomma.

I festeggiamenti si protraggono per diverse ore e quando Hermann, docciato e distrutto, si ricongiunge col letto di casa, non si sente più le gambe, ma è pienamente felice. Hanno vinto. Hanno lavato la zozzeria che si era incancrenita come pus nel cuore della squadra. Il domani si srotola pacifico e carico di sfide che sono pronti a vincere.

Hermann ha torto. Il domani sarà tutt’altro che pacifico.

 


 

NOTE:

 

DUM-DUM eccoci di nuovo, tra ospedali ed esami vari in qualche modo si sopravvive e si finisce quella BESTIACCIA del capitolo 8 che è levitato a 17.000 parole e che dovrò seriamente considerare se spezzare in due.

Ancora un enorme abbraccio a voi che mi lasciate sempre un commento, davvero <3.

 

Ogni volta che da piccola vedevo il caro Genzo partire in quarta e lasciare la sua porta ero spaccata tra il "EPICO" e il "DO' CAZZO VAI?!". Per la stesura della partita ho fatto ricerche (perché calcisticamente sono poco ferrata) e, ohi, ho scoperto l'esistenza del "portiere libero" che è praticamente il ritratto del caro Genzo come giocatore. Mannaggia a te Takahashi!

I capitoli di Hermann sono assai difficili da scrivere, però mi lasciano più allegra: l'unica persona stabile e sana di mente di CT, davvero. La scena della trottola è liberamente tratta da un "omake" del manga in cui ero incappata un secolo fa che mi aveva fatto un sacco ridere e che non potevo non includere. Mi ci vedo invece gli Shutetsu a spedire cioccolato in modo del tutto non ironico.

ALSO se siete curiosi sulla crema usata per la botta/slogatura: ESISTE! Tecnicamente è per cavalli, ma va bene anche per le persone.

 

Al prossimo mese per il compleanno della piccola Maria e un certo Karl Heinz Schneider che dovrebbe riflettere prima di fare certe cagate.

 

 

>>> Cose che capitano.

A Karl la vita capita come addosso.

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Capitolo 7
*** Cose che capitano ***


* questa fiction viaggia parallela al canon: ci flirta insieme, ma non se lo sposa.

* trigger warning: in questo capitolo sono presenti tematiche legate al bullismo ed esempi espliciti di violenza.

 


 

7.Cose che capitano.

 

Karl e Maria sono separati da quattro anni e un mese per quanto riguarda l’età anagrafica e circa diciassette anni luce per il carattere. Sua sorella sarà sempre l’essere umano più funzionale della famiglia Schneider. Maria sa chi è, cosa vuole e non è un pezzo di merda cubico quando si impegna per ottenerlo. Avrebbe molto da imparare da lei: diciassette anni luce. Proprio.

A diciannove anni, Maria aspetterà che si siano accomodati a tavola per annunciare la sua scelta di iscriversi a giurisprudenza. L’obbiettivo? Diventare un avvocato divorzista. Quando lo racconterà agli amici che sono tornati a parlargli assieme: Kaltz scoppierà a ridere e Genzo annuirà gravemente. Salterà fuori che lo sapeva già, ovviamente, Maria si era consultata. Papà e mamma non la prenderanno benissimo, metteranno su un’aria costipata che spingerà sua sorella a replicare qualcosa come:

- È impensabile scaricare le difficoltà di un matrimonio sui figli.

Un quarto d’ora d’applausi, mentali. Non si può riassumere in una frase la felicità di Karl a quindici anni nello scoprire che i propri genitori hanno deciso di tornare a essere una famiglia di quattro persone. A dodici quello scenario è una fantasia con cui torturarsi, a ventidue troverà surreale quanto quel tira a molla gli avesse ingobbito l’anima. Karl ventitreenne sarà un mostro molto diverso dalla sua versione adolescente, soprattutto perché avrà messo in una scatola paura e vergogna e sarà finalmente felice.

La versione dodicenne è solo preoccupata: Maria vuole invitare le amiche a casa per il compleanno. Mamma è entusiasta.

- Di quante persone parliamo?

Chiedono contemporaneamente madre e figlio: i toni non potrebbero essere più diversi, la risposta non piace ad entrambi.

- Mah, pensavo le amiche… - Un numero, Maria dacci un numero. – E poi la classe e i compagni del corso di nuoto e di…

Sua sorella mantiene un profilo vago, una faccia da poker e, accidenti, sarà davvero un ottimo avvocato un giorno. Sua madre è un poliziotto anche migliore, dopo un interrogatorio serrato Maria cede. Le voci si alzano, ma alla fine le parti giungono a un accordo, anche perché c’è poco da discutere quando mamma dà un ultimatum: venti persone. Massimo.

Maria gonfia le guance, Karl stringe i pugni, pensa che li abbia fregati e si interroga su dove diavolo stipare venti persone in casa. Vabbè che i bambini viaggiano in formato ridotto, ma di solito sono accompagnati dai genitori. Non gli piacciono gli adulti: l’ultima volta che hanno organizzato una festa in casa, cinque o sei di loro avevano addosso quell’espressione costipata che spazia da “se lo meritano” a “quella bambina mi fa tanta pena”. Soprattutto perché mamma dimentica sempre qualcosa: l’anno scorso è capitato a bibite e festoni e quelli passino, ma quando era mancata la torta… beh, diciamo che s’era notato.

Maria l’aveva presa da vera campionessa e insistito per mettere le candeline nei popcorn. Un rischio biologico. Karl capisce perché Genzo e sua sorella vanno tanto d’accordo. Mamma è sempre più presente: a tavola ha detto che appena Maria sarà più grande tornerà al lavoro. Magari qualcosa in radio. Usando il suo cognome da nubile.

Karl ha una buona sensazione per questo compleanno: il paesaggio gelido, immutato, seppellito da nove tonnellate di neve ha iniziato a mutare in una slavina che va nella direzione giusta. Sarà stato l’arrivo dell’estate o il vento dal Giappone, ma anche gli allenamenti della squadra pesano di meno.

L’altro ieri ha persino detto a Strauss “bel passaggio” e poi ha cercato Genzo per controllare che avesse sentito. Il suo portiere però era preso a complottare con Mayer e Haness e la cosa a Karl non aveva dato fastidio. Per niente. Poi Strauss e Heintz hanno iniziato a giocare oggettivamente meglio. Forse lo facevano già e lui non se n’era accorto.

Salta fuori che presentarsi regolarmente fa miracoli per la sua coordinazione con gli altri giocatori della squadra, specialmente per difesa ed attacco, sul centrocampo soprassiede perché con Kaltz non ha mai avuto problemi. Un giorno di questi Mister Friedman si deciderà a silurare Krüger e a piazzare Genzo tra i pali. Per ora il coach sembra solo contento che Karl si sia finalmente integrato, dice di avere grandi progetti e tende a credergli. Friedman gli ha sempre dato fiducia anche quando non se la meritava, pare giusto ricambiare il favore.

Tra qualche giorno dovrebbe annunciare la rosa per l’amichevole con il Borussia, la sconfitta di sei mesi fa brucia ancora, ma Magath è un tipo parzialmente a posto e oggettivamente sprecato come attaccante. Mister Friedman se vuole vincere dovrà rivoluzionare la strategia dell’Amburgo di parecchio, Karl non ha problema a trascinarsi dietro la squadra, ma la difesa del Borussia è buona e la loro una valle di lacrime. Sono lenti. Il tempo di portare la palla a metà campo e Karl si trova addosso la squadra avversaria. Gongels è una prima donna scoordinata che, incespicando, crea punti ciechi al loro portiere e Krüger è… bravino, ma incapace di formulare un pensiero suo. Wakabayashi è più versatile.

Mister Friedman sarebbe un idiota a non sfruttarlo. I toni soavi di Genzo sono come avere un secondo coach in campo, lo tranquillizzano.

Cioè l’antitesi di quello che è ora a quattro ore dall’arrivo degli invitati. Mamma ha il naso infilato nelle buste della spesa, Karl nella scatola delle decorazioni: i tovaglioli di carta di “Cenerentola” avanzati dall’anno scorso hanno preso umidità e sono inservibili.

- Tesoro vai a prendermi quelli di stoffa nella credenza in soggiorno: terzo cassetto.

Mamma vuole davvero mettere i tovaglioli ricamati a mano di nonna? Quelli del servizio buono? Karl si impossessa del rotolo di Scottex e ne fa quadratini: sono colorati, hanno i fiori ed andranno benissimo per resistere all’invasione dei piccoli unni. Hanno finito le forchettine di plastica: quelle rosa. Niente panico. Da qualche parte mamma recupera dei cucchiaini, sono bianchi, ma andranno benissimo per la torta. Dove accidenti sono quelle candeline coi numeri?

- Kaaaarl!!! Aiutami coi palloncini!

Maria è in salotto. La cucina puzza di bruciato. Mamma infila i guantoni e procede al salvataggio. CE LA POSSONO FARE. Crede fortemente in questa squadra. Si materializza in salotto e intercetta sua sorella prima che faccia scoppiare un’altra di quelle diavoleria di plastica: all’ultima mamma si è come bloccata e ci sono voluti venti minuti e la “Regina della notte” per farla riprendere. Karl non ne è sicuro, ma crede che il rifiuto per le esplosioni derivi da quella volta in cui le hanno gettato i petardi contro in cortile.

I palloncini che Maria ha comprato al supermercato non sono rotondi: sono quella schifezza oblunga a cui devi dare le forme. Sua sorella lo fissa piena d’aspettativa. Karl crede molto in questa squadra e capisce che è ora di chiamare i rinforzi.

Emilia ed Hermann Kaltz arrivano nel giro di mezz’ora e solo perché la prima era in stand-by: Maria aveva insistito tanto per invitarla. Appena entrati sua sorella si attacca tipo polipo alla gamba di Emilia, rifiuta di staccarsi fin quando l’altra non la prende in braccio e la lancia in aria. Emilia ride, prende atto del caos, si siede sul divano e afferra la scatola dei palloncini. Nel giro di pochi minuti ha realizzato una corona rosa e una spada gialla. Ma come fa?

Hermann si rende utile: appoggia una spalla contro la parete, sfila lo stecchino di bocca e fissa le decorazioni che Karl ha passato gli ultimi venti minuti a piazzare.

- Quello è storto.

Oggetto: il festone. Non gli darà la soddisfazione di inerpicarsi sulla sedia per raddrizzarlo. Kaltz riaddenta lo stecchino, Karl sbatte le palpebre: chi si muove per primo perde. Emilia produce un fiore molto rosso e un cane pericolosamente verde alla cui vista Maria come si illumina e grida:

- ALLORA MAMMA MI HA PRESO DAVVERO UN CUCCIOLO!

Sua sorella corre in cucina, la abbraccia, chiede dove si trovi ora l’animale e se, per piacere, non è che lo può accarezzare? Tipo ora? Karl incontra lo sguardo di sua madre e non tenta di reprimere il panico. Cosa hanno comprato per il compleanno di Maria? Una casa per le bambole? Uno di quei walk-man… no, quello lo vuole lui. Un orsetto? Oh. Quest’anno si che sarà diverso.

Si sono dimenticati il regalo. 

- Esco.

Dice e non offre spiegazioni. Va dritto alla porta, infila le scarpe, dimentica il portafoglio e corre in strada. È domenica, ma questa è Amburgo: ci sarà un accidente di negozio aperto. Magari, ecco, non il macellaio o il verduriere: uno che venda giocattoli. Qualcosa di abbastanza costoso da far dimenticare ad una bambina di rimanere delusa per l’assenza di un cane. O del padre. Si ferma. Respira.

Nulla. Non c’è nulla che possa comprare per rimediare, che sia all’altezza. Karl deve procurarsi un cane.

Gira sui tacchi, si fa mezzo isolato e rientra in casa. Kaltz, dannatamente più sveglio, è già al telefono, elenco in braccio e block-notes su cui annotare indirizzi dei negozi d’animali in grembo. Respira. Crede fortemente in questa squadra. Il festone storto si stacca e rovina al suolo. Mancano meno di due ore, la festa sarà un disastro. Si siede e lascia che il tempo gli scorra addosso.

Kaltz è ancora al telefono, ma la sua voce è tutta sbagliata, non come quella che mette per sembrare responsabile agli adulti. Sta dicendo:

- Ehi, Genz-man, che il tuo Mikami ce l’ha la macchina?

È la ragione per cui la sua squadra stava perdendo: le mancava un numero. Coach Emilia decide di espellerlo dal salotto e riassegnarlo alla difesa per aiutare mamma con torta, tartine e pasticcini; Kaltz rimane a centrocampo per un assist sulle decorazioni; Genzo, il nuovo acquisto schierato in attacco, regge le sorti della partita.

Se la giocano ai supplementari.

Le amiche di Maria arrivano, Karl non molla la posizione strategica in cucina mentre le bambine si riempiono di torta, glitter e così tante bevande gassate che si stupisce non galleggino. Fa abbastanza caldo perché gli adulti spazino tra il giardino e il salotto, Emilia è costretta nel ruolo di animatrice volontaria, mentre Kaltz è sparito nel nulla. Riemerge un’ora dopo con una bottiglia di vino che Karl non ha mai visto e gliene versa un bicchiere.

- Hanno tirato fuori Twister, prendi che ne avrai bisogno.

Ha ragione: le bambine sono terribili. Una delle invitate stabilisce che è giunto il momento di giocarsi la tiara che Maria indossa dall’inizio della festa. Sua sorella sottolinea come sia lei la festeggiata, l’altra ribatte di trovare un rospo e baciarselo.

- E perché? – Chiede Maria.

- Perché è l’unico modo in cui una come te possa diventarla una principessa.

Il rissone è imminente. Il telefono squilla, forse dovrebbe andare a rispondere. Emilia piazza un cuscino in mano a sua sorella e organizza una battaglia meno dolorosa: Maria ha denti affilatissimi. Kaltz si versa un altro bicchiere, la gradazione sarà almeno bassa? Forse è quella cosa che mamma mette nei dolci. Alla fine è lei a raggiungere il telefono per prima, le pieghe attorno alla bocca le si distendono in un sorriso e Karl capisce che non c’è suo padre sulla linea.

Genzo arriva tre quarti d’ora dopo quando metà delle invitate ha seguito Maria sul divano, dichiarato uno stato autonomo in cui tutte sono principesse e iniziato a lanciare orsacchiotti contro le altre bambine. Sono scappati un paio di libri prima che Karl corresse a intercettarli: Emilia era andata al bagno. Si accorge della presenza del portiere solo perché Anna A. (da non confondere con Anna B. con cui Maria non va d’accordo) pianta un grido che nulla ha d’umano.

- È un CUCCIOLO!!!

Karl pensa che la ragione per cui le squadre di calcio non siano miste è che le femmine li stenderebbero a gomitate in faccia. Ne ha conferma quando una ventina di bambine in crisi da troppo zucchero si butta verso la porta con la golosità di un branco di iene. Genzo però, come Emilia, ha il gene del domatore di bestie: quando allunga una mano e ordina l’alt, quelle si ricompongono e sembrano quasi gente normale.

Il portiere, cucciolo in braccio, avanza verso il tappeto calciando via orsacchiotti di pezza, cuscini e le occasionali ali da fata. Si siede e aspetta che le bambine prendano posizione attorno a lui prima di dichiarare:

- È spaventato. – Genzo cerca e trova gli occhi di Maria. – Sei la sua mamma ora, conta su di te per proteggerlo. 

Qualcosa di indecifrabile passa nella testa di sua sorella, la sua espressione si distende ed arriccia, quando allunga una mano ad accarezzare la testa del cucciolo lo fa con ritrovata delicatezza. Forse le altre bambine capiscono l’importanza del momento o forse sono intimidite da Wakabayashi, in ogni caso rimangono ad ascoltare in silenzio le spiegazioni del portiere su come slacciare la pettorina del cane o attaccarvi il guinzaglio.

- È estensibile, dovrete allargarla almeno una volta a settimana finché non passerà a quella per adulti.

Poi Genzo estrae una pallina da tennis dalla tasca della giaccia, il cucciolo prende a scodinzolare così forte che Karl teme gli si stacchi la coda. Il portiere la passa a Maria che raduna le truppe e si dirige in giardino, Sauzer, il pointer inglese, la segue. Genzo si tira in piedi mentre prova e fallisce di scollarsi dai jeans i peli del cane. Ne è ricoperto in effetti, Karl spera non provengano tutti dalla stessa bestia: il filtro della lavatrice, altrimenti, vorrà la loro testa.

- Ho lasciato le buste col cibo nel taxi. Vieni a darmi una mano.

Un ordine semplice, facile da seguire. Le buste sono otto. Genzo gli sgancia quelle che pesano di meno e quando rientrano urla qualcosa di incomprensibile, forse in giapponese, finché il naso di Kaltz non spunta dalla porta della cucina. Hermann non tenta nemmeno la fuga, borbotta e viene ad aiutarli. In qualche modo i sacchetti atterrano sul tavolo, facendosi spazio tra bicchieri sporchi e bottiglie quasi vuote.

Karl non pensava che ai cani servissero tante cose, le buste contengono: quattro cuscini di piccola e media grandezza, sei ciotole (“alluminio, non plastica… vanno meglio per i germi” dice Genzo), sei tipi di cibo secco e umido, tre guinzagli, due collari ( “questo è antiparassitario, devi aspettare che Sauzer sia più grande per metterglielo”), snack vari ed eventuali e almeno una ventina tra peluche e giochi. Poi c’è il libretto del cane. Non pensava nemmeno che ai cani occorresse una genealogia: qui ci stanno indicati i genitori e progenitori per almeno tre generazioni. I pointer inglesi sono forse una schiatta reale?

- Per evitare incroci tra parenti. – Suggerisce il portiere. Karl poteva arrivarci in effetti. – Sauzer però dovrà essere castrato, è un obbligo imposto dall’allevamento.

Detto questo Genzo procede a fargli una testa quadra su pastiglie, filaria e vaccinazioni.

- I pointer hanno bisogno di fare molto movimento, non basta il giardino, me lo devi portare a spasso almeno tre volte al giorno. Sauzer ha quattro mesi DEVE essere addestrato. Vi ho prenotato le prime dodici lezioni con la Hundeschule che sta a tre isolati: la signorina Rassler vi aspetta il prossimo sabato alle 10. Ho avvisato tua madre e ha detto che ti ci porta in macchina. Poi l’allevamento ha confermato che è tutto a posto per il chip, ma una visita di controllo dal veterinario per una radiografia all’anca ci… Schneider? Ci sei?!

Karl ha bisogno di quel bicchiere di vino, no: della bottiglia. Hermann gliela manifesta in mano, Genzo schiocca la lingua, corruccia le sopracciglia, ma alla fine accetta un bicchiere pure lui.

La risata di Maria si confonde a quella delle altre bambine attraverso la parete che li separa dal giardino e Karl ricaccia a fondo il pensiero che sarebbe stato meglio procurarsi una bambola. O un set da piccolo chimico. Un reattore nucleare. Qualunque altra cosa. Il chiacchiericcio di Hermann e Genzo è una melodia confusa sull’eterno dilemma che affligge l’umanità: meglio i cani o i gatti?

- Dico solo che un gatto sarebbe stato più gestibile.

Se Kaltz si riferisce a quella sua bestia satanica di color arancione che risponde al nome di “Marmellata”, il termine “gestibile” non è esattamente quello che Karl avrebbe usato. Genzo borbotta qualcosa sulla strada e sull’incapacità patologica degli Schneider di controllare che la porta sia chiusa il che è… beh, corretto.

- E poi al telefono mi hai detto di prendere un cane!

Hermann alza le mani: resa. Genzo si sgonfia, annuisce e rifiuta un altro bicchiere di vino, qualcosa-qualcosa sull’aspettare i vent’anni e sul fatto che se continuano così diventeranno degli alcolizzati. Esagerato. Uh. Ma è la stessa bottiglia? No, è decisamente un'altra. Karl abbandona la testa contro il divano e calcia Genzo finché quello non gli afferra le gambe e se le cala in braccio. Meglio. Ci starebbe bene un pisolino. Il portiere nomina un certo “John” e Karl si sente sveglissimo, poi capisce che è il cane di Genzo in Giappone e lascia che il cuscino prenda la forma della sua schiena. Le voci degli amici lo trasportano in un sogno popolato da animali con sopracciglia disegnate a pennarello.

Quando si sveglia il sole è sparito dietro il tetto della casa dei vicini colorando il salotto del freddo dei toni d’azzurro. I festoni brillano dove sono rovinati sul pavimento, le bottiglie di vino sono sparite e Karl è troppo stanco per domandarsi se mamma le abbia viste o Kaltz sia stato abbastanza sveglio da farle sparire. Non ha sentito urlare quindi dovrebbe essere a posto, mamma gli impedisce di toccare persino lo spumante a Capodanno. La stanchezza che gli fa le fusa nelle ossa è quella roba piena e un po’ fragile delle giornate trascorse sulle montagne russe. Richiude gli occhi. Li riapre: qualcosa gli sta toccando un piede.

Karl non è un uomo in questo momento, ma un budino. Lo sforzo è immane, si gira e guarda in basso: Sauzer sta tentando di scalare il divano. Un giorno peserà venticinque chili e sparirà per quattro giorni procurando alla famiglia Schneider un infarto collettivo. Karl appenderà manifesti in mezza Amburgo prima di ricevere una telefonata dal canile di Lüneburg: il loro idiota a quattro zampe era salito sul furgone delle consegne del corriere. Ora Sauzer è un botolo di quattro chili e mezzo, un insieme di occhi languidi e sventolanti orecchie marroni. Gli evoca dentro sentimenti incerti. Il cane piazza le zampe anteriori sul divano, Karl lo fissa mentre quello tenta inutilmente di darsi la spinta con le posteriori prima di rovinare a terra. Sauzer uggiola, gira su se stesso e ci riprova. Karl sente le labbra come tirare. Aspetta.

Occorrono altri sette tentativi, ma la manovra riesce e Sauzer approda sul divano. Il cane prende un minuto per grattarsi la testa, annusarsi le parti intime, piazzarsi sullo stomaco di Karl e mettersi a dormire. Ah. Che strano. Karl allunga una mano e lo accarezza, Sauzer scodinzola. È… caldo. Karl gli gratta dietro le orecchie fino a che il cucciolo si arrotola su se stesso e finisce a pancia in su . È… morbido. Karl sussurra:

- Bravo cane.

Una voce grassa, bassa, sgradevole interrompe il filo dei suoi pensieri:

- Ti fossi preoccupato la metà quando c’è stato il mio di compleanno.

Hermann Kaltz lo sta fissando, braccia conserte e schiena appoggiata contro la porta che dà in cucina. Ah. Dietro di lui una sagoma famigliare cappello munita aiuta sua madre a ritirare gli avanzi del compleanno in appositi contenitori ermetici dal tappo di plastica, quelli che spariscono sempre quando servono. I suoi amici, invece, restano sempre anche se oggi è solo per cena.

***

Karl Heinz Schneider non si sente particolarmente fortunato. La vita, semplicemente, gli capita addosso.

Il calcio rappresenta l’unica brillante eccezione, o quasi. Ama il calcio, l’odore dell’erba che si mischia a quello del sudore, il pallone che batte contro i piedi e che Karl non ha bisogno di guardare per sapere come calciare, ruotare, manipolare. Tsubasa Ozora definisce il pallone il proprio migliore amico, per Karl è diverso: è come un braccio o una gamba, un’estensione di sé.

La gente lo chiama talento.

A otto anni a Karl capita di essere il giocatore più coccolato della squadra pulcini: figlio dell’ex stella dell’Amburgo SV e ora suo allenatore in una stagione che promette solo vittorie, Karl guarda i suoi coetanei arrancare e pensa “idioti”. Bernd Hinmel è il suo migliore amico ed è un mattacchione: dice di voler fare l’attaccante come suo padre prima di lui, ma poi inciampa e tira in porta come se avesse paura della palla. Karl decide di mostrargli come si fa. Una volta, due, sette. Poi si stanca. Tanto è tempo sprecato: Hinmel non si impegna, altrimenti non sarebbe così scarso.

A otto anni Karl non capisce che per lui il calcio è come la matematica per gente come Albert Einstein.

Dice a Hinmel quello che pensa di lui e non si guarda più indietro.

A diciannove anni Karl lascerà che la marea lo riporti ad Amburgo per il matrimonio di coach Friedman, si attaccherà a cozza a Genzo per aiutarlo con la mano steccata ed eviterà i suoi ex compagni di squadra con precisione chirurgica. Bernd Hinmel gioca professionista in una squadra minore, l’idiota. Ben gli sta. Durante il buffet Hermann si porta via Genzo senza una spiegazione, significa che ha una nuova ragazza a cui lo vuole presentare. Karl è diventato bravissimo a soffocare il fastidio che striscia attraverso la bocca dello stomaco in occasioni come questa, si versa un altro bicchiere e se ne va a salutare Jara Strauss. L’ala sinistra delle juniores dell’Amburgo SV ha messo la fidanzata incinta e ora lavora al salumificio di famiglia. Strauss lo dice con un sorriso tirato: la seconda parte, della prima è entusiasta.

Karl ha passato anni a vedere Jara Strauss sputare sangue per la squadra, presentarsi venti minuti in anticipo all’allenamento, studiarsi insieme a Wakabayashi i filmati delle vecchie partite, provare, provare, provare. Jara Strauss non otterrà mai un contratto come professionista. Non è giusto. Capita.

Rudy Frank Schneider era stato un giocatore di talento, non quanto Karl, ma abbastanza per diventare l’idolo della città. Un uomo che aveva fatto della correttezza fuori e dentro il campo un marchio di fabbrica. L’avevano amato per questo, poi avevano disegnato un nuovo limite alla decenza e avevano deciso di odiarlo. Non è giusto. Capita.

La vita è come il gioco dell’oca: non hai controllo sui dadi che ti tengono fermo un turno o ti fanno andare avanti dieci caselle.

Karl Heinz Schneider non ci riflette troppo sopra, ma lo accetta. Altri no.

Hanno il suo rispetto.

Gente come Tsubasa Ozora o Franz Schester sono gli eroi delle grandi storie. Corretti, puliti, diligenti ti danno l’idea che il mondo sia un posto migliore. Che se rispetti le regole, ti impegni e fai tutto giusto la ricompensa ad attenderti ci sarà sempre.

Gente come Genzo Wakabayashi o Kojiro Hyuga pensano che il gioco faccia schifo e ne riscrivono le regole. Prendono la vita a muso duro finché quella non arretra. O non gli spezza.  

Hanno il suo amore.

I dadi riservano a Karl l’affetto dei tifosi, un contratto da professionista quando è  troppo acerbo per imparare a crescere, una famiglia che lo sostiene, un’incapacità patologica per la geometria analitica e due amici che non si merita. Hermann e Genzo gli capitano. Li perde quasi per la stessa ragione.

Karl a dodici anni non ha idea di cosa gli riservi il futuro, ma mancano quindici minuti all’amichevole contro il Borussia Dortmund e ha una fascetta da capitano in mano. Tira il dado. Karl se la lega al braccio, pensa che Hermann sarebbe stata una scelta più saggia e non glielo dirà mai. Non è giusto. Capita.

La gente dovrebbe smetterla di gettargli contro cose e aspettarsi che non lo colpiscano.

Fortunatamente Karl ama il calcio e quando l’erba si piega sotto i tacchetti il mondo diventa semplice. Così come il giusto e lo sbagliato.

Kaltz frega il pallone dai piedi di Fischer, esita e consegna la sfera a Strauss. Milews scivola sulla sinistra, intercetta e Karl sa che se lo lascia arrivare in area farà goal. Così non glielo permette, il pallone scappa dai piedi del numero sei del Borussia e arriva a quelli di Egora che si inserisce nella pausa e nel buco lasciato da Gongels per segnare. Uno a zero. Non è un problema.

Quindici minuti dopo lo stacco raddoppia. Non è un problema. Karl Heinz Schneider si lascerà prendere dal panico in partita una volta sola e a separarlo da quel giorno ci sono dieci anni circa. A ventun anni la vista delle barelle in campo sarà nota e noiosa, ma ci sarà del sangue e Genzo non si starà rialzando ed Hermann gli starà urlando nelle orecchie, sbatterà Karl a terra, gli tirerà un cazzotto e crollerà quando Tsubasa Ozora gli spezzerà una costola. Sarà tutto come un lungo fischio. Stare sotto di due goal in una amichevole non è un problema.

Il vantaggio manda Magath su di giri e lo rende stupido: il primo tempo mica è finito. Krüger gli consegna il pallone e Karl lo accompagna fino a dove deve stare: la porta avversaria. Due a uno e mancano sette minuti all’intervallo. I suoi compagni non sono come lui, hanno bisogno di un pareggio per vedere che la partita è ancora aperta. Di crederci.

La fascia da capitano stringe e la caviglia sinistra brucia dove Magath entra pesante, l’arbitro non ferma il gioco. La porta è lontana, ma Karl sa cosa fare: lo vede. Stein non ci arriverà, non è Wakabayashi, Hernandez o Müller. Il pallone striscia contro il palo, ma poi si insacca in rete. Fine primo tempo.

Karl cerca e trova lo sguardo di Magath, gli punta contro un dito.

- Vi schiacceremo.

Il capitano del Borussia sorride quando lo dice e Karl si trova a ricambiare. Sono i denti scoperti di due predatori che girano in circolo. Un giorno Hermann gli dirà qualcosa come:

- Sai che in partita sei uno stronzo?

E non intenderà le pallonate in pancia e in faccia che Karl riserva agli avversari o le sue entrate al limite del fallo (mammolette, andate a giocare a qualcosa d’altro). No, Kaltz intenderà tutto ciò che alla partita sta di contorno e sosterrà che sia esilarante.

Kaltz smetterà di pensarlo quando si troverà dall’altra parte del coltello. A vent’anni e un occhio nero di distanza, Karl inizierà timidamente a realizzare come l’ecosistema chiuso del campo di calcio appartenga a un mondo più vasto. È stupido perché avrebbe dovuto impararlo da suo padre che esistono conseguenze fuori dal gioco, che alcuni equilibri indistruttibili possono rivelarsi molto fragili. Fatti d’aria.

Negli spogliatoi Mister Friedman passa al tritacarne la difesa. Karl ascolta una parola ogni tre, Genzo gli piazza una mano sulla spalla e lo pascola da uno degli assistenti del coach. Lo obbliga a farsi controllare la caviglia e, ah, non s’era accorto di quanto facesse male. Friedman arriva prima che gliela fascino. Karl non ha neanche bisogno di perorare il suo restare in partita: il mister sa di affrontare una causa persa.

- Non ti voglio più vedere in difesa. – Dice il coach. – Ti tengo in campo, ma se riprendi a correre su e giù come una gallina ti sostituisco. Se il male peggiora voglio che tu esca subito.

Genzo neanche aspetta che Friedman si volti per alzare gli occhi al cielo. A Karl viene un po’ da ridere. A Wakabayashi il concetto di “partita troppo insignificante per rischiare la salute di un giocatore” viaggerà sempre un po’ sopra la testa finché non sarà lui a fare il coach. È una delle ragioni per cui Karl e Hermann lo amano, ma, buon Dio, impareranno a non fidarsi di lui. Non quando riguarda il calcio. O la sua salute.

Una bottiglietta d’acqua sta puntando dritta contro la faccia di Karl. Genzo la afferra al volo, la stappa e gliela passa. Il colpevole, Franz Heintz, sorride prima di piazzarsi contro l’armadietto.

- Ehi, Schneider! Tutto bene?

Karl studia la bottiglietta. Un secondo, due. Annuisce, annusa e beve. Ugh. Frizzante. Ma cosa dice a Heintz il cervello?

Rientrano per il secondo tempo. Friedman silura Gongels prima che faccia altri danni, sostituendolo con Haness che ha sviluppato una buona intesa con Lintz e Mayer in allenamento. Kaltz viene fatto arretrare in difesa e il Borussia Dortmund è uno squalo che sente il sangue. Se smettono di attaccare sono finiti.

Magath lo sa e prende a stargli addosso come una zecca, mentre lo stallo tra le squadre si comprime ed esplode: in meno di venti minuti il Borussia li ficca altri due goal. Non è un prob… okay. Potrebbe essere un problema.

- Niente tripletta a ‘sto giro, Schneider?

Ora, Peter Magath a tredici anni dovrebbe avere sufficiente criterio per capire che un drago addormentato non è morto. È in agguato.

Kaltz mette fine all’allungo di Egora, il pallone rotola placidamente fuori campo. Krüger esce e Wakabayashi entra in campo.

In amore ed amicizia non c’è una regola fissa, così è per il calcio: alcuni giocatori cliccano e basta. Il Giappone avrà la sua “Golden Combi” con Misaki e Ozora, il duo argentino Diaz-Pascal farà impazzire il centrocampo degli stadi di mezzo mondo. Il Werder Brema farà carte false per tenere insieme Schester e Margas fino al loro ritiro, il Paris St. Germain fallirà il colpaccio con Elle Sid Pierre e Louis Napoleon, perché i due francesi nella vita non si sopportano.

Attacco e centrocampo. Ci si dimentica nell’equazione della difesa. A venti minuti dal termine di una partita dimenticabile nasce l’inarrestabile spina nel fianco degli attaccanti della Bundesliga. Wakabayashi entra in campo e Kaltz si trasforma. C’è qualcosa di soprannaturale nel modo in cui si trovano senza comunicare: Kaltz orbiterà naturalmente a chiudere gli angoli ciechi del portiere, le rimesse di Wakabayashi troveranno sempre i piedi del mediano come uniti da un filo invisibile. Metà dei goal realizzati da Hermann Kaltz come professionista saranno in contropiede su assist del portiere.  

La difesa dell’Amburgo SV si scioglie e rimpasta, la fronte di Kaltz si apre in un’espressione rilassata e il loro numero otto smette di sbattere su e giù come una trottola per spegnere ogni incendio. Karl vede e lascia che la calma gli ghiacci i nervi e glieli riaccenda. Il vantaggio ha reso Magath sordo e cieco. Meglio. Così è tutto più facile.

Attacco, centrocampo e difesa. Karl Heinz Schneider è accessorio, ma non smette di far parte di un mostro a tre teste: Schneider-Kaltz-Wakabayashi, il “trio dell’Amburgo SV”. Dopo aver dominato l’under tredici e quindici non giocheranno più insieme e non solo per il trasferimento al Bayern di Karl. No. Gli dei del calcio non glielo permetteranno. Sarebbero stati troppo invincibili. A parte per l’Olanda, quella volta…

Invincibile è come Karl si sente ora quando non sa che un giorno guarderà al passato con la disperazione di chi aspettandosi cemento sotto i piedi trova solo sabbia.

Wakabayashi non si fa problemi a parare il tiro del capitano avversario. La sua rimessa pulita, precisa, scivola tra i piedi di Kaltz senza interrompere la progressione del mediano in avanti. Non sta puntando alla porta, ma a Karl: Schneider ha promesso una tripletta.

Quattro a tre, le gocce dei minuti si congelano nella clessidra. Wakabayashi esce dall’area, entra in scivolata su Magath che guarda senza capire il portiere scattare lontano con il pallone. Kaltz è arretrato, Strauss è in fuorigioco e lui, Schneider, troppo marcato. C’è un altro giocatore, uno ben posizionato: un idiota che è un buco nero nella periferia dello sguardo avversario. L’assist di Wakabayashi è per Bernd Hinmel. Per la prima volta nella sua vita il trequartista fa qualcosa di buono: segna.

Pura fortuna. Il tiro faceva schifo. Il portiere avversario doveva essere distratto.

Pareggio.

L’arbitro stabilisce cinque minuti di recupero e ovviamente quella mina vagante che è Klaus Hertz decide di falciare Magath facendo fallo sull’ultimo uomo. Davanti agli occhi dell’arbitro. Scatta il giallo e pure un rigore. Ci sta tutto. Non importa quanto si lamentino i suoi compagni. Giocare duro non significa essere dei completi imbecilli. Due minuti e mezzo: sconfitta se il pallone entra, pareggio se Wakabayashi fa il miracolo.

Karl vede una terza opzione, così come Kaltz e… Hinmel. Un minuto e quindici, Karl non ha bisogno di guardare: il pallone che Wakabayashi ha appena fermato ha il nome di Hermann Kaltz. Il portiere lo troverà sempre dopo una parata difficile. Così Karl scatta in avanti, cerca una buona posizione per un assist che sa non arriverà, ma distrae ciò che rimane della difesa avversaria. Una manciata di secondi. Kaltz tira.

L’arbitro fischia: quattro a cinque.

Hanno vinto.

Hermann e Genzo lo trascinano a terra per i pantaloni e se lo schiacciano in un abbraccio di gruppo, Karl ride e si sente non soddisfatto, ma felice. Quando lo liberano va a stringere la mano a Magath.

- Hai dei compagni in gamba, Schneider.

È vero. Haness e Lintz tentano senza successo di avvicinare Wakabayashi per sollevarlo da terra. Strauss e Heintz cercano Karl durante i festeggiamenti perché sono felici di averci giocato assieme. Come una squadra. Un pezzo di ghiaccio, come una ferita nel cuore, si scioglie, diventa acqua e riempie il vuoto con un sorriso e qualcosa di vero.

Papà gli aveva chiesto di non farsi rovinare il calcio. Karl ci ha provato, c’è pure riuscito, ma non è bravo a scegliere come e quando le cose gli capitino. Inizia a pensare che giocare non basti a renderlo felice. Ci vuole…

Ruba Genzo al quadrato dei difensori, recupera Hermann alla macchinetta delle bibite e li trascina fuori dagli spogliatoi, dove c’è silenzio e tre bicchieri di cola. Sua madre non è venuta a guardarlo giocare, ma è giusto che per Kaltz Emilia ci sia. La saluta e stringe il tempo in cui è in compagnia dei suoi amici al petto.

Il calcio con Genzo ed Hermann è divertente.

Un posto a cui appartenere.

***

Le brutte giornate iniziano con la pioggia, un piede appoggiato male scendendo dal letto, un dolore alle articolazioni che non ti sai spiegare e il ricordo di non aver studiato per la verifica di storia.

Le PESSIME giornate iniziano come un giorno qualunque.

È il nove di giugno e il pomeriggio è un gatto pigro che fa le fusa contro i piedi di Karl. Scuola finisce tra due settimane, la Hawthorne ha assegnato quattro letture estive, mentre la Bumgarner fa comprare una sorta di eserciziario pieno di quell’assurdità che sono le disequazioni. Non servono a nulla e quindi non le capisce.

Il calcio invece rallenta, ma non si ferma, a parte per due settimane ad agosto che Friedman concede con una piega della pelle che gli accartoccia l’occhio sinistro. Forse gli sta venendo un tic. Un po’ di riposo gli farà bene.

Kaltz ha fatto un sacco di scene prima di annunciare che lui e il resto della famiglia quest’anno se ne vanno al mare in Italia. Ha comprato uno di quei dizionari per turisti e sta memorizzando frasi “da rimorchio”. Pare convinto che le italiane aspettino solo lui. Genzo gli si piazza accanto per decriptare la pronuncia, poi fissa un punto distante, aggrotta le sopracciglia e dice:

- Al mare ci sono le turiste. Ti insegno qualcosa in giapponese o cinese se vuoi.

Kaltz sussurra “genio” e qualcosa di completamente insensato come “le pupe in vacanza sono sempre in cerca d’avventure” che, onestamente, apre uno scenario inquietante sulla salute mentale del suo più vecchio amico. Genzo ripete scioglilingua inservibili e lo aiuta ad appuntarseli per iscritto. Ci mettono una ventina di minuti buona.

Il sole è alto e stanno morendo di sete, Kaltz perde a testa o croce, si tira in piedi e va a recuperare qualcosa da bere al bar che sta vicino. Quando il suo udito arriva fuori portata, Genzo si china verso Karl e gli bisbiglia all’orecchio:

- Le ragazze vanno matte per cose come “buongiorno, soffro di una malattia sessualmente trasmissibile”.

No.

Non l’ha fatto davvero.

Si volta, le labbra di Genzo vibrano prima di esplodere in una risata. Karl non s’era aspettato questo suo lato bastardo… gli piace. Sorride e spinge dove le loro spalle si sfiorano. Il portiere non si sposta e il sorriso di Karl si trasforma in un suono leggero e nasale. Ridere è stranamente facile. Quando Kaltz arriva, lattine in mano, li fissa sghignazzare ed i suoi occhi diventano fessure ancora più sottili. Prende il dizionario tascabile e glielo tira dietro. Dannato telepate.

Da qualche tempo, o almeno da quando mister Friedman ha preso a liberarli prima, appestano il campetto rovinato che sta a venti minuti a piedi da quello della squadra. Ci stanno dei cespugli di rovi appena dietro la porta che sono un attentato a piedi e mani, ma rispetto a quello dell’under undici o in generale delle juniores dell’Amburgo SV, questo è sempre aperto. Genzo l’ha scoperto in uno dei suoi giri d’esplorazione in jogging e Karl, da bravo capitano, l’ha ribattezzato loro rifugio. Kaltz non ne è stato entusiasta: “l’area è in pendenza Schneider” e “quella è ortica Schneider” e “hai presente quanto siamo distanti dalla fermata del bus Schneider?”

Rompiballe. Alla fine però li segue quasi sempre. Probabilmente per trovare nuove ragioni per cui lamentarsi. Oggi per esempio il programma prevede:

- Non potevi, che so, chiedere a Friedman di darti le chiavi? – Kaltz rantola sdraiato tipo stella marina. Il campo è storto e hanno corso fino a spaccarsi. Karl è troppo stanco per pungolarlo col piede, cerca senza successo di mandare un messaggio mentale a Genzo perché lo faccia al posto suo. – Quell’uomo ti adora e sa che hai Genz-man qui per essere responsabile. Vi state complicando la vita e basta.

No. Kaltz non capisce, questo campetto sarà pure distante, ostile e francamente impraticabile, ma è roba loro. Niente Hinmel di turno ad esitare sulle gradinate o Jara Strauss e Lintz a chiedere di partecipare con Genzo che fa spallucce e dice sì. Karl sarà anche il capitano, ma nessuno potrà mai obbligarlo a spendere il tempo libero col resto della squadra. O ad essere loro amico. Ha visto cosa sta sotto la vernice dei sorrisi, è imprudente dimenticarlo.

Onestamente non sa come Genzo ce la faccia.

Visto come andrà a finire la giornata, Karl non avrà mai il coraggio di chiederglielo.

Alle diciassette e trenta, la voce di Emilia Kaltz taglia l’aria. Hermann arranca in piedi, sostiene che per oggi ne ha avuto abbastanza dei loro brutti musi e chiede se vogliono un passaggio. Il sole è alto nel cielo, casa sarà distante quaranta minuti a passo spedito, ma il tempo si allunga e restringe quando è da solo con Genzo.

Il suo portiere borbotta qualcosa su un Mikami che farà tardi, poi rotola su un fianco, lo fissa negli occhi e gli chiede cosa voglia fare. “Ficcare questo momento nell’ambra e lasciarlo cristallizzare” non è una risposta, così Karl dice:

- Dammi quindici minuti e poi riproviamo il tiro.

Karl dice “tiro” ed intende quell’ibrido strano ancora troppo lento per meritarsi il titolo di “fire shot”. Per perfezionarlo gli ci vorranno sei mesi e l’assistenza di un portiere troppo idiota per capire quando dire basta. Genzo urla qualcosa a Kaltz che risponde con un ghigno, un sopracciglio sollevato e sillaba “stendilo tigre” in direzione di Karl quando il portiere non guarda. Che idiota.

Chissà poi cosa voleva dire.

La macchina di Emilia si allontana, Genzo si tira in piedi e gli offre una mano. Karl la prende e procedono a distruggersi per la successiva mezz’ora, finché il pallone non atterra tra le ortiche e nessuno di loro ha intenzione di estrarlo. Finiscono per recuperare un bastone, spingere la sfera in sicurezza ed inzupparla dell’acqua che è rimasta nella borraccia.

Saranno le diciotto e un quarto, Karl non ha portato l’orologio. Maria è a casa di un’amica e si ferma fuori a dormire, mamma va a cena con una vecchia collega dell’emittente televisiva. C’è una scatola d’avanzi in frigo e tutto il tempo del mondo ad aspettarlo.

Se svoltano a destra ora allungano la strada di un quarto d’ora però passano vicino al lungo lago. Perché no? I lampioni accesi colorano di verde le acque tremanti, Karl lascia che il silenzio strisci e riempia il brusio che di solito gli marcia in testa. Quando è da solo con Genzo, può permettersi di non pensare. Deve solo mettere un piede davanti all’altro.

La strada piega, abbandonano l’Außenalster per stradine scure che li riportano nei presi dello stadio. Forse è solo un impressione, ma c’è una voce che li sta chiamando. Genzo si blocca, Karl è mezzo tentato di afferrarlo per un braccio e trascinarselo dietro. La voce si spezza e moltiplica, smettono di essere soli.

Karl non ha un’opinione particolare su Hans Krüger. È portiere titolare da quando Hoffman è passato all’under diciassette, sorride spesso e galleggia in partita. Senza infamia e senza lode. Ci ha giocato contro un paio di volte quando aveva otto anni, ma non lo ricorda. Non lo trova spesso fuori dall’allenamento e mai senza divisa: Krüger frequenta un’altra scuola.

Adesso se lo vede attraversare la strada deserta in jeans e maglietta. Krüger si piazza a distanza di sputo dal lampione sotto cui lui e Genzo si sono fermati e saluta con un sorriso stanco e affilato. Non è da solo: tre ragazzotti gli trotterellano appresso. Due di loro Karl li riconosce subito: sono compagni di squadra.

Klaus Hertz e David Gongels sono due sfumature dello stesso incapace.

Hertz è entrato nell’Amburgo SV lo stesso anno di Hermann diplomandosi con un calcio in culo da una squadretta minore nella periferia cittadina. All’attaccante c’erano volute due settimane e quattro giorni per riportare alla ribalta pettegolezzi sui suoi vecchi avversari e ora nuovi compagni. La forza combinata di coach Friedman e del capitano dell’under 17, Matthias Bausler, aveva riportato la pace. Poi aveva aiutato che Mayer si facesse investire uscendo dall’allenamento: la juniores dell’Amburgo SV si era attaccata alla novità ed aveva smesso di rumoreggiare su altro. 

Le voci non erano riemerse.

David Gongels in difesa ha più buchi di un colabrodo. Hermann dice di esserselo beccato al provino per entrare in squadra, di avergli soffiato un pallone e non essersi beccato un cazzotto in faccia per un pelo. Per Karl, Friedman tiene Gongels titolare perché è alto e pesa due volte uno qualsiasi dei suoi coetanei. La fisicità nel calcio giovanile è un vantaggio flessibile. È la ragione per cui Yilmaz, praticamente uno scheletro vestito, non viene mai fatto giocare. Hermann l’ha guardato strano due settimane fa quando Karl l’ha detto e aggiunto:

- Ma sei serio Schneider?

Che è il modo gentile per chiedere se sia un idiota. Genzo invece aveva sorriso e basta, ma quell’affare tirato che sottintende che Karl si sia perso di nuovo qualcosa.

Il terzo tipo non sa chi sia: è alto, famigliare e coi capelli a spazzola. Sta alle calcagna di Krüger e ridacchia in modo affatto amichevole. Il brusio nella testa acquista potenza: “vattene”. Non gli dà retta. Sarebbe stupido. Karl non ha niente da temere da questi quattro idioti: è troppo indispensabile e lo sanno. Hertz ci tiene al posto in squadra, non rischierebbe mai l’ira di coach Friedman.

Genzo fa un cenno a Krüger che lo ignora e si rivolge direttamente a Karl.

- Ehi Schneider, allenamenti segreti? Guarda che con ‘sto muso giallo sprechi il tuo tempo.

Gongels e lo sconosciuto ridacchiano, Hertz no. L’attaccante corruccia le sopracciglia e fissa un punto distante tra l’orizzonte e la spalla di Genzo. Il fischio nelle orecchie diventa più forte. VATTENE. Lo soffoca, perché su questa cosa davvero non ci sta: Wakabayashi è un giocatore fantastico.

- Mai quanto quello che voi sprecate in partita. – Aspetta, ora ricorda perché lo sconosciuto ha un’aria famigliare: è una delle riserve. Tutta gente abbastanza inutile. – Non importa dove sei nato: se hai talento ce l’hai e basta. E poi Friedman da settembre mette Wakabayashi titolare, lo sanno anche le gradinate dello stadio.

Krüger no. Nemmeno Genzo. Nella coda dell’occhio le labbra del suo portiere si irrigidiscono in una piega rilassata, più sotto ci sta qualcosa di caldo, di vero. Idiota, è ovvio che il coach l’ha notato che sei in gamba, ti aspettavi mica ti tenesse in panchina per sempre? Karl non guarda Krüger arrossire e chiudere le mani in una presa così stretta da tagliare la circolazione. Non vede Hertz scuotere la testa, cambiare idea e prendere posto di fianco all’amico. Non nota Gongels e l’altro, Ernst Braun, scattare in avanti.

Non li vede neanche Genzo, perché ha le spalle voltate mentre dice:

- Se abbiamo finito qui, io me ne torno a casa.

Genzo fa un cenno a Karl e prende a marciare in direzione opposta aspettandosi di essere seguito da un amico. Non va lontano. Il primo pugno è di Gongels e colpisce Genzo alla nuca. Il portiere fa un suono come stupito e il rumore esplode nella testa di Karl. Stupido, stupido. VATTENE.

Il secondo è di Braun, arriva a mezzo secondo dal primo e centra Genzo sul collo, lo fa arretrare di un centimetro e perdere l’equilibrio. Così, mentre si tiene la gola, al portiere arriva un calcio, una gomitata in pancia e le ginocchia di Genzo cedono. Tamburi nelle orecchie. VATTENE.

Il portiere afferra Gongels per le caviglie e tira, il numero sei emette un suono impacciato e Hertz passa oltre Schneider per affondare un calcio nella costole di Genzo. Un suono sordo. Così rumoroso. Bianco in testa, freddo nelle ossa, Karl rimane immobile e perde conto dei pugni, dei calci. Sa che Krüger si è preso coraggio e che Braun sta dicendo qualcosa tipo “tornatene al tuo paese” o un più allarmante “allora i gialli sanguinano rosso” e sono in quattro e Gongels è il doppio di lui e da quanto stanno andando avanti? VATTENE. Come c’è finito in questa situazione?

Karl sta a guardare. Karl sta sempre a guardare. Papà fa le valige, scende le scale, si ferma sulla soglia. Karl guarda e non dice niente. Lo lascia andare. Hermann gli tira un cazzotto, piange e Karl guarda mentre il tappeto mobile che è il campo di calcio inesorabilmente si muove attorno. L’arbitro tira fuori il rosso, Hermann esce e Karl lo lascia andare.

Karl sta a guardare. Sta soprattutto a guardare quando Wakabayashi è coinvolto. Forse è una maledizione, un castigo. Un giorno Karl starà a guardare Misugi togliersi la maglietta, urlare a Hyuga di dargli una mano e premere la stoffa contro il collo e la schiena di Genzo che è a terra e Karl si domanderà cosa gli sia rimasto da lasciare andare.

Karl sta a guardare anche ora, mentre Genzo prova a rialzarsi e Krüger lo centra alle spalle col piatto del piede. Stupido, stupido. Il portiere si gira, si arrotola, cerca i suoi occhi.

L’incantesimo che inchioda Karl Heinz Schneider al terreno si spezza.

Come c’è finito in questa situazione?

VATTENE.

Karl volta le spalle a Genzo Wakabayashi e se ne torna a casa.

 

 

 


 

NOTE:

 

E... ci siamo arrivati: una delle scene oggettivamente più disturbanti del manga e volevamo forse che mancasse? Anche perchè è la ragione per cui questa storia esiste: un secolo fa avevo scritto una one shot in inglese che ho poi deciso di trasformare in una long in italiano (credo di aver tenuto dell'originale solo la scena dell'incontro nel primo capitolo).

 

In generale le scene tetre sono un sacco orribili da scrivere, accidenti.

 

Il prossimo capitolo sarà spezzato in due parti, quindi POV di Genzo per due mesi di fila cominciando da un flashback che ci porta indietro nel'estate del 1982 per tornare nel '86 ad osservare l'evoluzione del suo rapporto con Schneider.

 

 

>>> A prescindere dal bene e dal male (p.1)

Genzo Wakabayashi ha un'idea molto precisa su cosa significhi essere crudeli.

 

 

 

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Capitolo 8
*** A prescindere (p.1) ***


* questa fiction viaggia parallela al canon: ci flirta insieme, ma non se lo sposa.

* lungo flashback iniziale.

 


 

8. A prescindere dal bene e dal male (p.1).

 

Secondo Tatsuo Mikami la missione della vita di Genzo è fargli venire i capelli bianchi prima dei cinquanta. Genzo dissente, ma è difficile mantenere il punto quando il tuo coach rivanga di quando a sette anni sei stato rapito.

Una faccenda piuttosto umiliante per tutte le parti coinvolte, in effetti.

A sette anni la città di Nankatsu è un ecosistema grande quanto il vetrino di un microscopio. Eccetto per scuola, ripetizioni e allenamenti, Genzo non ha molte occasioni per lasciare la Villa ed esplorare. Forse è la ragione per cui da adolescente prima e da adulto poi farà punto in Germania di ficcarsi in ogni buco dimenticato dalle cartine. Scoprirà un sacco di negozi dell’usato, panetterie gestite da eccentriche anziane dai capelli blu e, almeno in un’occasione, gli rimarrà il piede incastrato in un tombino.

Nankatsu sarà sempre la sua città, ma Amburgo eserciterà su Genzo un fascino tutto particolare: quello di una casa costruita a partire dalle fondamenta.

Non riuscirà mai a farlo capire a Schneider.

Genzo, a sette anni, non si sente un organismo trapiantato in un corpo che, dopo averlo accolto, tenta il rigetto. No. Nankatsu porta il cognome Wakabayashi nel DNA e come ultimo e più giovane rampollo del casato, Genzo alla città semplicemente appartiene. Non è sempre facile.

Per esempio Genzo deve essere responsabile. Gli riesce naturale, in effetti, almeno secondo lui: prende buoni voti, segue le lezioni extra imposte dall’autorità genitoriale e passa il resto del tempo a baloccarsi sul futuro cercando di diventare un giocatore migliore. Ha stabilito di fare del calcio il suo lavoro e persino a sette anni Genzo non è tipo da ritornare sulle decisioni.

Non è testardo, è… risoluto.

Così la sua vita è rigidamente inscatolata in un susseguirsi di bambole russe che gli fanno girare la testa, lo tengono sveglio la notte e gli concedono poca libertà di movimento. In Germania, Hermann Kaltz lo aiuterà con quell’anatema che è per i Wakabayashi “il tempo libero” e sarà strano, ma anche parecchio fantastico.

A sette anni lo è un po’ di meno, Genzo finisce il turno di pulizia di classe che condivide con Teppei, scende le scale a due a due e raggiunge senza entusiasmo la macchina nera che lo aspetta appena fuori dal cancello della scuola. Oggi è mercoledì e questo significa da quattro settimane doposcuola all’istituto Tendo.

Il doposcuola è stata un’idea di Padre che ha ridotto le sue ore di lezione con tutori privati per ottimizzare con classi di storia e matematica direttamente in lingua inglese e cinese. L’istituto Tendo dista due ore e mezza di macchina da Nankatsu e lo frequentano tipi snob che al suo cognome diventano fastidiosamente cordiali. Secondo Padre, il Tendo lo aiuterà a socializzare.

- Un giorno mi ringrazierai. Devi iniziare a fare amicizia con la gente giusta.

Di norma Genzo non vede abbastanza i suoi genitori per litigarci assieme, questa volta è una di quelle. Finisce con Genzo che urla, suo padre che gli tira un ceffone e poi si prende la testa tra le mani, gli si siede vicino e non si scusa. Padre parla: principalmente stronzate e un sacco di cose odiose sui genitori di uno dei suoi amici che tanto Genzo sa già. Poi riparte per Tokyo. Come al solito.

Mister Mikami gli procura del ghiaccio per la guancia e lascia che il tempo insieme trascorra in silenzio. Non gli chiede se vuole allenarsi, ma recupera un filmato da una delle valigie che non disfa mai. Non è in cassetta, ma in bobina e ci mette un po’ a fare sì che funzioni. È una vecchia partita, precisamente la battaglia per la medaglia di bronzo alle olimpiadi del Messico del ’68. Genzo è distratto, passivo, ma quando la voce del telecronista inglese dice “Mikami” tutto sbagliato è come una scossa elettrica. Si gira verso il coach che arrossisce, mentre da dietro le lenti scure guarda tutto tranne che la partita, Genzo invece non sembra capace d’altro. Il giovane Mikami ha capelli chiari, maglia e pantaloni lunghi e un rapporto d’amore e odio con un giocatore della sua squadra.

È un pomeriggio diverso. Il Giappone vince.

- Il signor Wakabayashi sbaglia. – Dice Mister Mikami. – Gli amici veri, quelli su cui puoi contare, sei bravo a farteli.

Teppei Kisugi la settimana prima gli ha confessato di averlo avvicinato un secolo fa su richiesta dei propri genitori: la bolla speculativa dell’economia giapponese sarebbe esplosa nel Novanta, ma l’agenzia immobiliare Kisugi faticava con una decade di anticipo. Amicizie in alto avrebbero evitato loro di fallire. Durante un pomeriggio come tanti passato ad assemblare quel macello che un giorno sarà il club calcistico migliore della Nazione, Teppei Kisugi aveva la faccia bianchissima, si torceva le mani e diceva di non meritarsi un posto in squadra. O di essere suo amico. Genzo si era stretto nelle spalle e il giorno dopo in classe lo aveva salutato chiamandolo per nome. Teppei era arrossito, Taki lo aveva preso in giro e il messaggio “io e te siamo a posto” era arrivato a destinazione.

Sono a posto per davvero. Non importa perché la gente lo avvicini, importa perché resti.

Genzo è un accumulatore seriale di persone, tutte in gamba come i suoi quattro più uno della Shutetsu, Tsubasa, Misaki o Hermann Kaltz. Schneider è un capitolo a parte.

Lo è anche il maggio del 1982 per le industrie Wakabayashi, più precisamente per suo Padre. Genzo ha sette anni, va per gli otto e non sa che due ufficiali della polizia si sono presentati negli uffici dell’azienda per una conversazione amichevole e che informazioni altamente riservate sono gocciolate fuori dai confini di uno studio privato. Il caso muore prima che arrivi agli occhi affamati della stampa: i Wakabayashi raccolgono un paio di favori, spiattellano nomi e procedono a fare incazzare una serie di persone.

Genzo non lo sa, ma non lo risparmierà dal rigurgito che seguirà il precipitare delle caselle del domino.

Sono passate quattro settimane dalla discussione con suo padre, è mercoledì pomeriggio, Genzo saluta Teppei e sale in macchina. C’è Kenji Sugimoto alla guida. Genzo sbatte le palpebre, allaccia la cintura di sicurezza e riflette sull’ultima volta in cui ha visto l’autista. Sarà stato un mese o giù di lì. Curioso. Non ricorda di averlo più incrociato alla Villa. Merda. Genzo si affretta a chiedere se sia successo qualcosa in famiglia. Sugimoto si irrigidisce, aggiusta il finestrino e dice:

- Tutto bene signorino Wakabayashi, la ringrazio.

E smette di parlare per il resto del tragitto.

Due ore e mezza lo separano dall’istituto Tendo. Genzo soffoca la parte impicciona e si costringe a stare seduto. Composto. Leggere in macchina gli fa venire la nausea, così ignora quaderni e riviste che tiene nello zaino e osserva il profilo di Sugimoto. È bello che sia tornato: gli altri autisti che lavorano alla Villa sono rigidi e non gli rivolgono la parola se non per augurargli il buongiorno. Sugimoto è diverso.

Quando Genzo era più piccolo e faceva irruzione nei garage con delle lucertole vive in tasca, Sugimoto né lo sgridava né lo costringeva tra le grinfie del giardiniere o della signorina Asano. No, dopo aver liberato le povere bestie, lo prendeva in braccio nella macchina parcheggiata e gli spiegava dove stavano freno, acceleratore e cambio manuale. Genzo serberà quelle conoscenze nel cuore e non le applicherà mai nella vita reale perché in Germania si rifiuterà di imparare a guidare dalla parte sbagliata.

Farà la felicità di tassisti e mezzi pubblici.

L’estate si avvicina a piccoli passi e il sole indugia nel silenzio riflettendosi contro i vetri mentre i campi di riso si srotolano tutto attorno. Ugh. Genzo decide che la sofferenza fa parte della vita, afferra una delle riviste e ci ficca dentro il naso. Le parole scivolano insistenti le une sulle altre esplodendogli in testa e ci vogliono diciassette minuti perché si distragga abbastanza per capire che qualcosa non vada.

Il sedile non è ergonomico.

Curioso. Genzo non ha occhio per le macchine: ci sono quelle “lunghe e lisce” e “quelle corte e quadrate”, tutto il resto viene distinto per colore. Una lacuna formativa che rifiuterà di colmare anche e soprattutto perché manderà Schneider ai matti.

- Questa è una Ferrari è completamente diversa da una Porche!

- Ma se sono entrambe rosse.

Kaltz e Maria gli batteranno il cinque quando Karl non li vede.

Le macchine sono un semplice mezzo, un modo per arrivare da “A” a “B”,  così Genzo non ne tiene conto, non come fa per le persone o per i dettagli. Per esempio è abbastanza sicuro che Madre abbia insistito perché i sedili posteriori fossero ergonomici e il frigobar contenesse solo bevande analcoliche. Curioso.

La presa per attaccare la cintura di sicurezza è rossa, non arancione. È come vedere una formica e accorgersi di stare seduti sul formicaio. Il pulsante per attivare il vetro che separa l’autista dal passeggero è a sinistra invece che a destra, il tappetino sotto i suoi piedi ha una macchia ed è della fantasia sbagliata, il portabottiglie non è doppio. Curioso.

Nel finestrino Sugimoto lo sta fissando. Genzo deve dire qualcosa. Qualcosa di normale.

- Prendo una bibita dal frigobar. Lei vuole qualcosa?

- Temo di non potere alla guida, signorino, ricorda? Mani sul volante. – Il sorriso di Sugimoto è rigido.

Genzo fa spallucce, si china ed ignora in maniera studiata che la cintura faccia resistenza. Accanto all’aranciata ci stanno due lattine di birra. Macchina sbagliata. Si tira su, chiede al guidatore se è proprio sicuro di non volere niente: nemmeno una caramella? Sugimoto esita, ma accetta. Genzo estrae una mentina dallo zaino e gliela passa. Tutto normale. Siamo tra amici qui.

La cintura dopo essere stata sforzata stringe di più, se provasse a premere l’attacco si sgancerebbe? È un pensiero…. non stupido: il panorama che galleggia nella periferia del suo sguardo è tutto sbagliato.

Se appartieni a una delle venticinque famiglie più influenti del Giappone ricevi precise istruzioni crescendo: non muoverti da solo, segui sempre il programma e avvisa il personale di ogni cambiamento. Non salire in macchina con gli sconosciuti è tipo lo standard base.

Kenji Sugimoto lavora per la sua famiglia da quando è nato. Genzo è semplicemente paranoico: i Wakabayashi scorrazzano per Nankatsu da generazioni. Perfettamente al sicuro.

Sicuro.

Il signor Minamoto della sicurezza gli ha trivellato le orecchie l’ultima volta che è fuggito alla sorveglianza di Mikami per rincorrere un gatto. Tra qualche anno il capo della sicurezza annuncerà di volersi ritirare a causa di un trascurabile tête-à- tête tra Genzo e un cane. Al signor Minamoto gli animali non piacciono quanto le regole o i test. Ama spacciarglieli come allenamento e le costringe a memorizzare numeri, prendere lezioni di autodifesa, fare esercitazioni in caso di terremoto o di incendio. Forse è quello che sta succedendo ora.

Minamoto non fa test a sorpresa.

Respira. Conosci Sugimoto da una vita. È un test. Non succede nulla se sbagli.

Se è un test, Genzo sa come superarlo: pensare a Ryo Ishizaki ed incanalare la versione più rompiballe di sé.

- DEVO ANDARE AL BAGNO!

Madre Natura ha conferito a Genzo polmoni invidiabili e una testardaggine da competizione. Dopo cinque minuti Sugimoto si offre di accostare la macchina, Genzo si concede mezzo secondo per riflettere: attorno a loro ci sono solo campi. Certo, potrebbe tentare la fuga, ma non crede andrebbe molto lontano prima di essere riacchiappato. Un test. Non succede nulla se sbagli. Solo che poi se la giocherebbero a carte scoperte. Nessuna seconda possibilità.

Genzo odia perdere.

Scuote la testa, sostiene che sarebbe una cosa troppo volgare, sbatte i piedi a terra e decide che se deve essere basso, piccolo e abbandonato in un mondo progettato per gli adulti allora può avere un’altra cosa in comune con i normali bambini: essere MOLESTO. Sugimoto non ha alcuna possibilità. Dopo nove minuti, che Genzo conta in testa, l’autista accetta di fermarsi alla prima pompa di benzina.

Si fermano alla seconda: un po’ più fuori mano e completamente deserta. Sugimoto scende in fretta dalla macchina e fa il giro per aiutarlo con la cintura di sicurezza.

- Sono spiacente signorino, ultimamente quelle dietro tendono a bloccarsi.

Un test. Accetta di tenere il tizio per mano. Ora è abbastanza sicuro che Sugimoto non lo seguirà dentro al bagno, magari Genzo potrebbe sgattaiolare fuori dalla finestra… no. Mica è un film. Farebbe un sacco di rumore e lo si noterebbe subito. Genzo ha i numeri della sicurezza della Villa memorizzati, anche quello che serve per le emergenze e che Minamoto gli ha fatto una testa tanta di lasciare sempre libero. Quello che serve a Genzo è trovare un telefono e scollarsi Sugimoto di dosso abbastanza a lungo per chiedere aiuto. Accidenti.

È abbastanza certo che l’autista abbia pronto un copione in caso Genzo si rivolga al benzinaio, qualcosa come: “perdoni mio figlio, su Genzo, andiamo”. Forse userebbe un altro nome. No, qui c’è bisogno di un adulto che sia disposto a concedergli il beneficio del dubbio, ma gente così cade mica dagli alberi.

Una macchina scassata e vergognosamente gialla si fa strada boccheggiando e parcheggia accanto alla loro, ne scende una donna trafelata, cartina in una mano e mocciosa nell’altra. Sugimoto fa come per coprirlo e Genzo si sente improvvisamente molto tranquillo: la bambina ha un’aria famigliare.

- SANAE!

Si volta, sì, è proprio lei. La mano di Sugimoto si irrigidisce attorno al suo polso, fa quasi male. Ora anche Sanae l’ha notato e si sbraccia per salutarlo, sarebbe strano non andare a salutarla. Giusto? Occorre all’autista una decina di secondi, poi Sugimoto come si sgonfia e lo lascia andare. Genzo marcia dritto verso Sanae, le agguanta una spalla, sibila qualcosa come “emergenza” e procede verso la donna che molto probabilmente è sua madre. Poverina, ha sbagliato strada e cercava di fare il pieno. Genzo è troppo sollevato per sentirsi umiliato quando le chiede:

- Mi può accompagnare al bagno?

Natsumi Nakazawa, al secondo mese di gravidanza, è di ritorno da una visita fuori porta ai genitori che, dopo quasi quindici anni, sono ancora contrari al suo matrimonio. Però adorano Sanae, così Natsumi l’ha strappata per un giorno da scuola e se l’è portata dietro come buffer. L’auto su cui viaggia è a noleggio, le manca l’aria condizionata, ha un finestrino bloccato e un indicatore rotto. È riuscita a trovare una stazione per fare benzina prima che le lasciasse per strada. Che fortuna. Sanae ha pure trovato un amichetto. Un po’ pallidino in effetti e sua figlia ha una faccia veramente…

Cosa la donna veda, Genzo non lo sa: forse la signora Nakazawa nota la macchina nera posteggiata accanto coi vetri scuri e la targa curiosamente danneggiata o l’uomo alto dall’aria preoccupata che non assomiglia per niente al bambino che accompagna. O forse vede semplicemente la faccia bianca di Genzo e intuisce ci sia qualcosa di sinistro dietro l’improvvisa insistenza di Sanae per seguire un amico, maschio, in bagno.

Natsumi Nakazawa sorride a Sugimoto, agguanta i pargoli per mano e marcia verso il microscopico chiosco che sta accanto alla pompa di benzina con un sorriso tirato e una scusa sulle labbra.

- Non si preoccupi, questa è una cosa da mamme.

Una volta entrati, Genzo si proietta alla cassa dove, trincerato dietro riviste, snack e caramelle, sta un teenager mezzo addormentato. Genzo ha perso abbastanza tempo, dice:

- Quell’uomo sta cercando di rapirmi. Ho bisogno di fare una telefonata.

Alle sue spalle un rumore strozzato esce dalla signora Nakazawa, il ragazzotto ignora Genzo, e chiede alla donna se si senta bene. Lei scuote la testa, guarda di sfuggita verso il parcheggio e poi chiede se non si potrebbe chiudere la porta a chiave. Ora il teenager è sveglio, si sporge dal bancone, fissa Genzo dritto in faccia e decide di credergli.

Minamoto risponde al secondo squillo. La signora Nakazawa non fa in tempo a chiudere la porta che la macchina nera su cui Genzo ha viaggiato mette in moto e riparte. Il rumore gli  riverbera come nel cervello.

Non un test.

Se lo fosse stato il signor Sugimoto non avrebbe avuto ragione di andarsene o il signor Minamoto di essere preoccupato. Il capo della sicurezza gli dice al telefono che l’auto che doveva aspettarlo fuori scuola ha avuto un contrattempo ed è arrivata in ritardo. Non l’ha trovato. Uno degli insegnanti ha confermato di averlo visto allontanare su una macchina scura.

- Signorino Wakabayashi, dove si trova ora?

Prova a dirlo, la voce esce sbagliata e ha bisogno di chiedere conferma alla signora Nakazawa sul luogo esatto. Poi riattacca. Genzo si sente strano, molto distante da questo posto, da questo momento. Non un test. Avere ragione non gli dà la solita soddisfazione.

Stava succedendo? È successo per davvero?

- Ehi, Wakabayashi, respira: sei più rosso del tuo cappello.

Quando si è seduto? Non ricorda, ma adesso Sanae gli è tipo appiccicata addosso. La bambina gli appoggia una mano sulla fronte come a controllare la febbre, stabilisce che è disidrato, incespica sulla parola e si alza per recuperare qualcosa da bere. Cosa avrà capito Sanae Nakazawa, otto anni, di quello che è successo? Abbastanza per essere gentile.

Negli anni non discuteranno mai di quel pomeriggio d’estate. Gliene sarà profondamente grato.

Genzo ha lasciato lo zaino in macchina. Ah. Mi sa che è perso. Stringe i pugni. C’erano i suoi appunti di scuola, le sue riviste, i suoi libri! Perso. Sanae gli allunga una lattina di qualche cosa molto rosa. Sa tipo di cicca, ci sono dei pezzi di frutta dentro ed è disgustoso, lo finisce ugualmente.

Potrebbero essere passati pochi minuti così come qualche ora, ma la polizia arriva insieme alla sicurezza della Villa. La mamma di Sanae risponde alle domande, la schiena rigida contro i bambini e le braccia conserte come la statua di una dea guardiana. Non gli serve che lo protegga, ma è piacevole. Da una delle macchine arrivate scende Tatsuo Mikami. Il suo mister è molto, molto pallido, Genzo ci mette un secondo di troppo a riconoscerlo: non indossa gli occhiali e ha un’aria…

Mikami lo vede e parte a razzo. Il suo coach è un uomo riservato, poco incline ai gesti drammatici, però ora salta la madre di Sanae, si butta a terra, agguanta Genzo per un braccio e se lo stringe al petto. Gli fa cadere il cappellino, ma non è un problema. Mikami gli accarezza la testa e quando ripete il suo nome sbaglia spesso. Lo mischia ad un altro: quello di un bambino che Genzo sa non essere mai nato.

Ma non è un problema, Mikami ha diritto ad agitarsi e a confondersi qualche volta. Dopotutto anche Genzo adesso si sbaglia e lo chiama papà.

***

Esistono principalmente due modi per essere crudeli.

Nel silenzio stiracchiato che confonde il sonno alla veglia, Genzo ha dodici anni, lividi su braccia, spirito e gambe e pensa a Kenji Sugimoto.

L’autista era stato gentile con lui quando l’aveva rapito. Una brava persona. Sugimoto passava informazioni confidenziali ai rivali dell’azienda da mesi, la sicurezza dopo una soffiata l’aveva beccato. Dopo il licenziamento non era stato tenuto d’occhio, un errore: Sugimoto, un sacco di debiti, una madre malata e due figli piccoli, era stato avvicinato da un gruppo di persone vestite di nero, aveva pensato ai soldi e accettato l’offerta. Che poi il rapimento, se fosse andato a buon fine, sarebbe durato un paio di giorni al massimo. “Al signorino Wakabayashi”, Sugimoto avrebbe assicurato per iscritto, “non sarebbe stato torto un capello”. Glielo avevano promesso. Un modo gentile di certa gente per ricordare ai suoi genitori di chiudere il becco con la polizia e riprendere a farsi gli affari propri. L’autista sarebbe stato trovato impiccato in casa, alla famiglia non avrebbe lasciato debiti.

Non ce l’ha con Kenji Sugimoto: la disperazione, pensa, ti porta a fare cose crudeli.

Genzo non comprende il cappio di un mutuo o l’alito degli strozzini sul collo, non pretende di capire, perché non ci riuscirà mai. Non davvero. Però quel dolore, quel fischio sordo e acuto che rimbomba nelle orecchie cancellando ogni altro suono, quello sì, lo conosce. Per lui è la certezza di essere la versione sbagliata di se stesso, che per quanto la sua anima si stiracchi non potrà essere all’altezza dei suoi sogni. E diventa facilissimo essere crudeli quando si è spaventati. C’è passato e s’è ripromesso di non ricascarci.

Non è facilissimo. Ci vorrà tempo per realizzare che la paura può anche girare tutta all’interno: incrudelirti. Sabotarti. Glielo farà realizzare Deuter Müller, un ragazzo che non avrà problemi a confessargli di aver desiderato la sua morte. Ci berranno sopra, Müller gli racconterà delle sue sedute con l’analista e sarà un po’ come averle frequentate per interposta persona. Né Kaltz, né Schneider comprenderanno la loro amicizia o perché Genzo accetti la richiesta dell’altro portiere di sostituirlo per quell’amichevole contro l’Olanda che gli rovinerà in parte la vita. Il fatto è che Genzo Deuter Müller lo capisce.

Tutti hanno la capacità di essere crudeli, di ferire, di tagliare. Lo è Kaltz, quando distoglie lo sguardo da ciò che non gli piace o Mikami, quando ridefinisce a piacere il suo ruolo nella vita di Genzo. Lo è il coach della Shimada quando dice ai suoi ragazzi di spaccargli una gamba, lo sono i giocatori della Shimada quando l’ordine lo eseguono. Lo sono i professori a scuola, che ignorano gli insulti razzisti e lo fissano come se fosse Genzo il vero colpevole. Lo sono Strauss, Hinmel, Krüger, Hertz e il resto della squadra o coach Friedman che vede tutto e decide di lasciare perdere.

Perché non è un problema loro. La crudeltà, a volte, è questione di convenienza.

Questa è più difficile da capire, forse perché, come sostiene Kaltz, Genzo manca di istinto di autoconservazione. Non sceglie una battaglia, ma tutte quante ed insieme. In classe prende la faccia di Rothstein, la schiaccia contro il banco e gli fa leccare via i “muso giallo di merda” con la lingua. Si fottano le conseguenze. Lo spediscono dalla vicepreside, la signorina Bumgarner scuote la testa e chiede un giorno di tregua. Genzo le risponde di non averla cominciata lui la guerra.

In campo è diverso perché nella sua mente il calcio è un luogo a cui appartenere, la squadra una famiglia da proteggere. Così non sono i lividi o gli insulti, ma il rifiuto a tagliarlo. Quel “non ti vogliamo” che brucia e gli esplode in testa giorno dopo giorno. Genzo è testardo, qualcosa prima o poi dovrà cedere e non sarà lui.

Avere Hermann Kaltz aiuta. Passano insieme la maggior parte del tempo e non è come riavere Izawa, Takasugi, Morisaki o il resto della sua Shutetsu, ma è… spaventosamente semplice. La sua amicizia con Schneider è l’esatto opposto. Nelle settimane di marzo che scivolano in un piovoso aprile, Genzo approccia Schneider in classe. Al tedesco la vita non veste bene ed è un po’ il gatto bagnato che Kaltz aveva descritto: orgoglioso nell’assenza di una qualunque forma di grazia.

Secondo Albert Einstein non si può giudicare il valore assoluto di una persona: sarebbe come valutare attraverso lo stesso metro un pesce e una scimmia per la capacità di scalare gli alberi. Con Schneider è la stessa cosa. Se nel mondo reale è adorabile in modo trasversale e un po’ impacciato, vederlo giocare a calcio è un’esperienza religiosa.

Genzo con Tsubasa, Misugi e Hyuga ha fatto il callo a vedersi il talento schiaffato in faccia, ma Schneider è una bestia ancora diversa: è il dio del calcio sceso a farsi una partita. Non riesce a smettere di guardarlo.

- Guarda che se lo fissi così ci fai un buco.

Kaltz ovviamente lo becca subito. Genzo lo manda a stendere e l’altro scoppia a ridere. Schneider si presenta sempre in ritardo, Friedman lo esenta dai trenta giri di campo rituali e lo manda a fare coppia con Jara Strauss una volta su tre. Lo tiene d’occhio, come una puntina nella periferia e stabilisce di diventare un giocatore capace di instillare un simile grado di ossessione in qualcun altro. A vent’anni ripenserà a quei giorni e non gli sfuggirà l’ironia. A ventuno si domanderà se Schneider, dopo avergli involontariamente sabotato la carriera, non abbia di meglio da fare oltre gli appostamenti in macchina sotto casa. A ventitré ci vivrà assieme a Monaco e stabilirà che non è pareggio se entrambi hanno vinto.  

A dodici anni Genzo decide che Karl Heinz Schneider DEVE essere suo amico. Genzo è abituato ad essere ricercato e inseguito e il rovesciamento dei ruoli lo riempie di bollicine come una bibita frizzante. Ovviamente sarebbe tutto molto più facile se a scuola Schneider non cominciasse ad evitarlo. Non lo fa neanche in modo intelligente. Al suono della campanella il tedesco impallidisce, impacchetta il cibo e sgattaiola fuori dalla classe nell’apparente convinzione di essere invisibile.

- Ma che c’ha Schneider ultimamente?

Dice Anna Kuster, mentre Genzo aiuta Vogel a organizzare i banchi a forma di semicerchio per il pranzo. La Özkan ride, fa una battuta sul potere degli ormoni, Genzo stringe le mani a pugno, ingoia il fastidio e va a cercare Kaltz. Va bene. Va bene anche così. Nel pomeriggio prova l’approccio diretto, Schneider ama parlare della sorella, così gli chiede come sia andato il compito di cui era tanto preoccupata. Il tedesco lo fissa come se Genzo fosse un insetto particolarmente fastidioso. Ok. Ma vaffanculo.

- Come vuoi.

Sta bene. Che Schneider stabilisca pure i confini della loro non-amicizia. Dopotutto cos’aveva il tedesco da guadagnare ad essergli amico? Sta bene. Non lo tocca. Non lo ferisce. Schneider non si unisce agli altri idioti che in classe e in campo lo trattano come un appestato, come una cosa sporca ed usata e va bene. Va bene anche così.   

***

Quando si sono trasferiti, Genzo ha promesso a Tatsuo Mikami di “fare il bravo” che secondo il mister significa: non picchiare nessuno stavolta per l’amor di Dio. O almeno una versione buddhista della frase. Mikami ce l’ha ancora per il rissone dei club sportivi dell’istituto Shutetsu di due anni prima. Genzo giura di averci centrato pochissimo.

Durante la prima settimana dell’aprile del 1986, la promessa viene messa a dura prova. Ai provini per la squadra in febbraio, Genzo si era lasciato prendere dall’entusiasmo con Hans Krüger. Questo era stato prima di realizzare che il portiere tedesco lo considerasse un idiota. Genzo gli aveva confidato i sogni e le aspirazioni che lo avevano spinto a lasciare il Giappone per la Germania e per mesi Krüger se ne era stato seduto comodo, comodo sulla cosa. Fino ad ora.

Succede il giorno in cui Friedman piazza Genzo tra i pali per una partitella di riscaldamento, Schneider sta con l’under diciassette e Kaltz nella formazione opposta. Non è esattamente un disastro, ma quasi. Gongels non lo ascolta. Briegel cerca l’autogoal ed Yilmaz viene spinto e gli rovina tre volte addosso. Genzo lo aiuta a rialzarsi ed è diventato bravissimo ad ignorare gli insulti che gli volano addosso, perché sono veloci, in tedesco e l’ha promesso a Mikami quindi ci mette il filtro. Poi però sente Hinmel sghignazzare:

- Il portiere migliore della sua generazione.

E improvvisamente a quello che dicono ci fa attenzione. Hertz ride: giocano nella stessa squadra, stanno perdendo e quel pezzo di merda se la ride.

- E ‘sti musi gialli vogliono arrivare a vincere il mondiale! Ma quale? Quello delle mezze seghe?

Genzo vede rosso. Un giorno spiegherà a Tsubasa che gli sta bene essere odiato dai suoi compagni di squadra in Nazionale. Essere un ostacolo da superare. Gli sta bene perché ci è abituato e perché ha qualcosa di più importante del suo orgoglio da proteggere. Yuzo Morisaki, quando è convinto nessuno lo veda, si accartoccia negli spogliatoi e si chiede se sarà mai abbastanza. Taki e Teppei si allenano insieme oltre l’orario perché la coordinazione che a Tsubasa e Misaki viene naturale per loro è sangue e sudore. Takasugi ha difficoltà a frequentare il club in modo regolare perché dopo la scuola ha da aiutare i genitori con le gestione del tempio. Ishizaki ha praticamente un lavoro per quanto sta in quei cazzo di bagni pubblici a pulire le vasche. E non saranno suoi, ma c’è Hyuga che è una testa di minchia, ma la semifinale con il Furano se l’è sparata con la febbre; Matsuyama che viene da una città senza mezzi e che è praticamente uno sputo tra i monti e Misugi, cazzo Misugi, che ci crede persino più di Tsubasa. Tsubasa… Tutto della Germania è improvvisamente inaccettabile. L’aria si sgela, melma nei polmoni e Genzo non ha davvero altra scelta: deve sfondargli la faccia.

Qualcosa gli afferra un braccio. Una presa amica che lo costringe a ruotare su se stesso ed è Yilmaz che scuote la testa e dice:

- Non ne vale la pena.

Oh sì che ne vale! Ma Yilmaz intende che coach Friedman li sta guardando e che Hertz sta titolare, mentre loro due sono intercambiabili. Genzo in quel momento è sicuro che se tirasse il primo pugno, Yilmaz lo seguirebbe a ruota con tutti i suoi venticinque chili di sotto peso. E poi si farebbero espellere. E il giorno dopo i genitori dei ragazzi inizierebbero a lamentarsi come in squadra quest’anno ci siano troppi stranieri e Genzo ha una possibilità con una Federazione dietro, ma le scelte di un immigrato turco con borsa di studio sono più limitate.

Così non si calma, ma respira. Klaus Hertz non sa quanto sia stato fortunato. Lo saprà tra un paio di mesi quando Genzo, un occhio chiuso dai lividi, le nocche sbucciate, una commozione cerebrale e una certa sete di sangue lo intercetterà sulla strada di scuola per farlo pentire di essere nato. Forse lo intuisce già ora, mentre incrocia il suo sguardo. Genzo riprende posizione in campo e non permette a nessuno di questi stronzi di segnargli per il resto della partita. È più facile giocare quando sai che in campo i nemici sono venti invece di undici. Diciannove in realtà, perché Kaltz decide di averne a basta e prende a fare schifo apposta.

Quella sera a cena Mister Mikami dice di essere fiero di lui e Genzo si tira in piedi, marcia in camera sua e gli sbatte la porta in faccia. Fiero di cosa?

Genzo non dorme, pensa a Kenji Sugimoto e si domanda cos’abbia di sbagliato e perché la gente sia convinta che a colpirlo poi non sanguini.

***

La routine giornaliera, scuola, allenamento, Kaltz, crisi esistenziale e cena, subisce un mutamento sottile. Innanzi tutto Mikami è quasi sempre assente: Genzo non chiede un po’ perché è una cosa positiva che Friedman stia cercando di coinvolgerlo, un po’ perché ha sentito Mikami parlare al telefono con i tipi della JFA. Il suo Mister è un po’ troppo curioso sugli altri club giovanili che hanno dato l’adesione al progetto.

A Genzo sale l’acido in bocca. Non è giusto. Mikami si trova bene qui, ad Amburgo. Ai ragazzi della squadra piace, hanno persino iniziato a consultarsi con lui. Tre giorni fa Genzo ha sbirciato Hinmel andare a parlarci e tornare con gli occhi un po’ lucidi in campo. Genzo non ha indagato e Mikami se ne è stato muto, ma è probabile che il centrocampista abbia qualche problema a casa.

Se Mikami sta pensando di ricominciare in un’altra città è per lui, per Genzo. Quindi Genzo deve stare più attento e smettere di lagnarsi: non sarà la ragione per cui Tatsuo Mikami mette in pausa ancora una volta i suoi sogni. Non li farà scappare. Così scava dentro e si mostra entusiasta a cena quando racconta del gruppo di studio a cui gli hanno chiesto di partecipare a scuola. Approfitta della gentilezza di Kaltz e famiglia e ci spende più tempo assieme, così non è costretto a mentire quando dice che si ferma a cena da un amico e la ricompensa è vedere il suo coach sorridere, dire “davvero” e smettere con le telefonate. Ed è come indossare un maglione a collo alto, piuttosto che una maglietta corta, decidere di mostrare agli altri solo la parte che ti piace. Almeno finché non ti aderisce stretta addosso. Mikami non è un idiota, vede Genzo arrancare con la squadra, ma la chiave è non fargli sapere quanto. Risparmiargli le conseguenze.

Genzo è bravissimo a mentire, specialmente a se stesso.

Hinmel ha un fratello all’ospedale, informazione non richiesta riferita da Hermann Kaltz, e il centrocampista ha stabilito che il dramma sarà Genzo a spurgarselo. La scusa, perché una scusa ci deve essere sempre, è che Genzo ha barato durante l’allenamento perché “occhi a punta” non può aver parato i suoi tiri se non con l’aiuto di un qualche misterioso potere orientale. Sul serio. Un esamino di coscienza sul modo in cui Hinmel si blocca ogni volta che si trova in vista della porta, no?

- Si chiama talento. – Risponde Genzo. – Cercalo sul dizionario, ne avresti bisogno.

È la cosa sbagliata da dire. Lo vede nel modo in cui la frase affonda nel costato dell’altro fino a togliergli il fiato, merda. Quando Genzo ferisce e perché ha deciso di fare male, così è solo sbagliato. Quindi si allunga e tira un pugno sulla spalla dell’altro, Hinmel si irrigidisce, ma capisce e riprende ad abbaiare come un chihuahua. Genzo sorride e prega che le scenate piantate un secolo fa dopo aver preso quel goal da Tsubasa siano state un filo più dignitose, se no sai che imbarazzo. Forse a Hinmel farebbe bene quanto a lui un ceffone da girargli la faccia.

Yilmaz e Haness lo stanno chiamando, Genzo abbandona il numero cinque, si sente urlare dietro un “non finisce qui piccolo Mao” che è praticamente un “in bocca al lupo” nella lingua degli idioti . Oggi Friedman lo piazza in difesa, un po’ frustrante dopo essere tornato ad accarezzare i guantoni. Un mezzo battito di secondo e la testa gli si illumina.

- Ehi, ma se ci fermassimo oltre orario per un allenamento extra? – Haness sputacchia, mentre l’acqua che stava bevendo inizia ad uscirgli dal naso. – Andiamo, non vorrete fare le riserve per sempre?

Yilmaz risponde che a lui starebbe anche bene, ma ha da aiutare suo zio col negozio, Haness chiede se il caldo abbia dato ad entrambi alla testa e che lui alla sera l’unica cosa che vuole è un incontro ravvicinato con il letto. Sarebbe divertente se poi non aggiungesse “oh, ma tutti i giapponesi sono fissati come te?”. Così Genzo risponde “sì” e se ne va a cercare Kaltz.

Hermann Kaltz coltiva con precisione chirurgica un’impressione cafone e pressapochista di sé, ma è l’unico oltre a Genzo e a Jara Strauss ad arrivare ogni giorno in anticipo e rimanere fino all’ultimo secondo. Il soprannome “the worker”, il lavoratore, che gli affibbierà la stampa sportiva sarà più che meritato.

Kaltz è insieme agli altri centrocampisti quando lo intercetta, Genzo ignora il sopracciglio alzato e gli spara l’idea. Invece di Kaltz sono Hinmel e Briegel ad accettare. Maledizione. Forse Kaltz e Mikami hanno ragione e Genzo dovrebbe fermarsi a pensare qualche volta. Vabbè. Alla sera dopo l’allenamento, Hinmel e Briegel sono raggiunti da Gongels, che per qualche ragione lo odia più di tutti gli altri difensori messi assieme, ed Hertz che suggerisce di usare il campetto dell’under undici che a quest’ora è sempre vuoto. Kaltz li segue, ma lamenta di essere troppo stanco per giocare e si accascia in un angolo. Genzo si sente un po’ grato per questo.

Nei giorni seguenti quello che doveva essere un divertissement contro la noia di non potere stare tra i pali, si trasforma nell’attività ricreativa denominata: “rimettere il giapponese al suo posto”. Un extra a quanto pare necessario da quando Friedman ha deciso che Genzo non è una perdita di tempo totale o giù di lì.

Se pensano che il rituale delle umiliazioni scalfisca anche solo parzialmente il suo ego, stanno freschi: Genzo con Mikami s’è abituato a ben altro. Il suo coach sarà sempre gentile messo contro una mandria di ragazzini entusiasti, ma negli allenamenti a tu per tu è diabolico. Forse perché viene dalla “vecchia scuola” dei club sportivi giapponesi o forse perché è stato amico di Kozo Kira, in ogni caso Genzo s’è abituato alle elementari a sopravvivere ad allenamenti con persone grandi il doppio di lui pescate dal coach da medie e liceo.

Anni e una conversazione con Mister Mikami dopo illumineranno Genzo sul vero significato di quelle sessioni: imparare come il fallimento faccia parte del gioco.

- Orgoglio e perfezionismo sono tanto benzina quanto veleno per un calciatore. – Dirà Mikami, sigaretta abbandonata nel posacenere e una nuova ruga a tagliargli la fronte. – E tu, Genzo, ce l’hai per natura di portare le cose all’eccesso. Certo non mi aspettavo che tu i ragazzi più grandi li stracciassi.

Ad undici anni sarà una partita finita in pareggio con la scuola pubblica Nankatsu ad insegnare a Genzo che il professionista non è chi non commette errori, ma chi si rialza e ci riprova ad ogni smacco. Una lezione che Mikami sarebbe riuscito a trasmettergli prima se i liceali da lui assunti non avessero fatto così schifo a giocare a calcio. Hinmel e il resto della cricca, invece, sono bravissimi. Quando battono i rigori Genzo non becca un pallone, così diventa l’attività preferita dei suoi nuovi compagni di squadra. Ed è più facile ignorare il continuo berciare, quando sai di conoscerle tu le regole del gioco.

Queste sono sessioni di studio. Come si muovono, come piegano il piede per dare un certo effetto, quali sono i loro punti deboli, quali i suoi? Parare è secondario. Non importa cosa pretenda da se stesso, Genzo non è ancora onnipotente: non può bloccare tiri sparati ad angoli opposti quasi contemporaneamente. Però ci può provare. Accidenti.

Attorno alla seconda settimana d’aprile Karl Heinz Schneider si manifesta al campetto. Genzo aveva registrato un’altra testa bionda oltre a quella di Kaltz, ma aveva pensato si trattasse di Strauss o di Lintz. Non di Schneider.

Il numero dieci dell’Amburgo SV per la prima volta non ha occhi che per lui ed è un po’ un leone che decide se sei la sua preda. Genzo Wakabayashi è al top della catena alimentare, un orso, un’orca assassina, Schneider un micetto. Che venga. Il tedesco recupera un pallone, Hertz fischia, Briegel ridacchia e sono due idioti, perché non si accorgono che il copione su cui recita Schneider è diverso: lui è qui per giocare. Il tedesco piazza il pallone sul dischetto: i suoi piedi dicono a Genzo che il tiro sarà dritto, il suo busto che non sarà eccessivamente alto, gli occhi che lo stronzo glielo spara dritto in faccia.

‘Sta carogna. Genzo non si sposta, il pallone quando lo colpisce è più forte di quanto si aspettasse e gli ricorda quando la stessa cosa è successa a Morisaki contro il Meiwa. Kojiro Hyuga di merda. Un giorno gliela spaccherà lui la faccia. Genzo non cade, la sfera è salda nelle sue mani mentre la abbassa e dice:

- Parato.

Schneider sorride e i tiri successivi glieli spara tutti negli angoli. Dannato. È esilarante. Genzo non sente nemmeno gli altri andarsene, riemerge solo quando Kaltz li costringe a fare pausa ed andare a casa sua a mangiare. Schneider in campo e a scuola smette di evitarlo, Genzo non cerca più la Shutetsu nei frammenti della sua nuova vita e se ne costruisce una nuova. Ma alternativa non significa rinuncia e Genzo è bravissimo a tenere strette le cose che ti tagliano.

Misaki risponde alle sue lettere, dice di trovarsi bene e che tutto a Parigi costa un sacco. Stanno in un palazzo costruito a metà Ottocento e hanno il bagno in comune con gli altri appartamenti del piano. A scuola ha conosciuto una ragazza di origini giapponesi di nome Azumi che lo sta aiutando un sacco ad inserirsi e con la lingua. Genzo sorride all’inchiostro pasticciato da una macchia di the e gli racconta di Hermann Kaltz, causando per anni un involontario ed esilarante fraintendimento.

Due giorni dopo aver ricevuto il pacco di dolciumi e cioccolata dei suoi Shutetsu e aver consegnato i KiteKat al macha agli Schneider per la gioia della piccola Maria, Genzo riceve una chiamata a carico del destinatario da parte di Sanae:

- MA CHE SEI COMPLETAMENTE IDIOTA?!

Che lo tranquillizza enormemente sul proposito auto dichiarato dall’amica di diventare “femminile come un’autentica donna giapponese”. Sanae Nakazawa non ci riuscirà mai, ma diventerà bravissima a fingere in pubblico. Hanno questo in comune. Oltre a un gancio destro invidiabile.

- Sei la manager del club di calcio ora. Una telecamera ti torna utile.

Registrare gli allenamenti per poi guardarli, studiarti gli errori e rubare le tecniche altrui è tipo la base. Genzo passa ore davanti alle vecchie partite della Nazionale sui nastri di Mikami o quelle della Bundesliga nello studio di Friedman. Sanae è solo incazzata per non averci pensato e perché il club della scuola pubblica Nankatsu tecnicamente i fondi per una telecamera non ce li ha.

- Se è per le cassette te le mando io. Non c’è problema.

- WAKABAYASHI! Ugh, accidenti. Va bene, cos’è che vuoi in cambio?

Dritta al punto, è per questo che gli piace. Tsubasa farà il colpaccio quando se la sposerà. Quello che Genzo vuole è molto semplice: un doppione delle registrazioni di allenamenti e partite dei suoi ragazzi quando giocano. Facile. Del tutto normale. Sanae non è d’accordo.

- Wakabayashi… sicuro di stare bene lì, in Germania intendo?

Curioso, sarà la stessa domanda che gli farà Misaki tra qualche mese. Ishizaki tra svariati anni. Kozo Kira quando gli ordinerà di levare le tende e tornarsene di corsa in Giappone per aiutare lui e Misugi con l’organizzazione della nuova Nazionale.

Curioso perché Genzo in Germania ci sta benissimo, è i tedeschi che con lui hanno un problema.

E poi non sempre e non tutti. Sul serio.

A scuola ha fatto amicizia con Reinhard e Schroder, tipi oggettivamente strani che cercano di coinvolgerlo in quel loro gioco di ruolo. Ci sono dei dadi e un sacco di calcoli, così Genzo convince Vogel a partecipare e in ringraziamento una settimana dopo riceve una scheda personaggio col suo nome a caratteri svolazzanti sopra.

- Casomai trovassi il tempo.

Dice Schroder. Kaltz vede l’orso in cappello ed armatura sul foglio di carta leggera, fissa Genzo bene bene in faccia ed inizia a chiamarlo “Winnie-the-Genz”. Il soprannome non dura, le minacce di morte funzionano. Un giorno, quando Genzo accetterà di trasferirsi a Monaco, il suo migliore amico farà circolare una serie di portachiavi a sua immagine descrivibili solo come: orso imbronciato con cappello. Genzo avrebbe dovuto piantare Hermann Kaltz nel terreno e lasciarcelo.

In squadra sempre più persone come Lintz o Jara Strauss sono disposte a dargli il beneficio del dubbio. Haness e metà dei riservisti lo salutano quando arriva e rimangano a fare quattro chiacchiere prima di andarsene. Friedman gli regala un complimento di tanto in tanto. Kaltz e Mikami lo interpretano come la fine delle ostilità, ma l’odio degli stupidi peggiora di fronte alla perdita di un giocattolo. Genzo ci mette un’altra puntina e, quando serve, fallisce di ricordarselo.

Schneider si presenta agli allenamenti quasi in orario, Kaltz dice che è per merito della sua positiva influenza sgobbona e Genzo lo manda a cagare. La presenza regolare del numero dieci si traduce spesso in incidenti che coinvolgono il resto dei compagni. Schneider non è così quando si allena con lui o con Kaltz, cioè: tratta sempre il pallone come una bomba, ma entro certi limiti. C’è una certa crudeltà nello Schneider dodicenne che Genzo troverà solo in alcuni giocatori professionisti: quando Karl gioca vuole fare male.

Una pallonata centra Strauss in pancia, il numero dodici cade e si porta le mani alla bocca. Ah. Genzo abbandona Lintz, agguanta Strauss per le spalle e lo trascina al bagno. Dieci minuti e un pranzo uscito dalla parte in cui è entrato dopo, l’attaccante accetta una mentina con sguardo mesto.

- Grazie.

Schneider deve essere fermato. Genzo comprende il desiderio di spaccare la faccia a metà di questa gente, ma il campetto non è il luogo adatto, non così. Non a discapito della squadra, dei compagni o della bellezza del calcio. Così Genzo esce dagli spogliatoi e procede a fare una scenata.

Kaltz e Lintz fischiano, Schneider la subisce da vero campione e quella sera, quando si trovano a tu per tu ad allenarsi, procede a sparargli tutti i tiri in faccia. Ad entrargli sulle caviglie. A cercare senza successo di mandarlo lungo e tirato con una spallata.

È quasi comico. La madre di Schneider, accompagna Genzo a casa quando si ferma a cena ed osserva i lividi con occhi cerchiati. Il portiere vorrebbe ridere ed indicarle gli autografi lasciati dal figlio. La situazione, nella settimana che segue, continua a precipitare, ma è da marzo che la squadra cerca di farlo secco e non sarà certo il principino dei ghiacci a riuscirci. Tra dieci anni Genzo ritratterà l’affermazione. Salterà fuori che i tacchetti sono appuntiti e che il collo sia pieno di vasi sanguigni importanti.

Kaltz decide saggiamente di non lasciarli soli, a scuola suggerisce di prendere Schneider per le caviglie e gettarlo nel fiume quando esagera.

- Davvero, giuro che ti copro io il giorno dopo col mister.

Genzo ride di gusto, ma non è così che ha intenzione di giocarsela: Schneider è un animale ferito. La sua violenza non è un fatto personale. Genzo non è Tsubasa Ozora: non c’è niente di paziente o ispirato quando apre gli occhi ad un idiota.

Però Genzo è cocciuto come un asino, solido come una roccia ed abituato a gestire marmocchi problematici. Sei anni a capitano della Shutetsu gli hanno fatta fare pratica. Così aspetta e in quell’attesa dice: sono qui e non me ne vado. E lo fa perché a Schneider ci tiene. È stupido, ai limiti del masochismo, ma ci tiene.

Non rimane deluso. Martedì, quando il sole sfiorisce dietro i tetti, Genzo si ferma per bere e una mano gli sfiora il braccio, è Schneider. Il tedesco fissa il livido che ci ha piazzato domenica come se lo vedesse per la prima volta, forse è così. Schneider smette di tirargli pallonate in faccia o ad entrargli sulle caviglie. Smette di farlo anche con il resto della squadra.

In partita sarà un’altra storia, ma alla cattiveria del gioco duro di Schneider mancherà quella voglia di fare male che da professionisti accumunerà il calcio di Brian Cruyfford e Stephan Levin. La sua violenza sarà più calcolata e se Schneider in campo saprà di passarla liscia con l’arbitro la gamba te la falcerà sempre.

Il ridotto numero di incidenti di gioco non passa inosservato e tra i loro compagni si diffonde la voce che Genzo, Schneider, l’abbia addomesticato. Lintz vuole stappare lo spumante per festeggiare, Mayer promette santini a sua immagine, Hertz li sente, sorride e chiede in che “modo” a Genzo sia riuscita esattamente l’impresa. Parecchia gente ride. Qualcuno arrossisce, altri dicono di piantarla lì. Qui c’è un doppio senso che gli sfugge.

Due ore dopo, Bernd Hinmel gli incasina ancora di più le idee. Genzo se lo trova piantato davanti all’armadietto quando riemerge dalla doccia. Hinmel ci mette un po’ a notare il suo arrivo, così Genzo ha tutto il tempo di studiarselo mentre cerca di pulirgli le scritte oscene che qualcuno ha lasciato ad imbrattargli lo sportello. “Frocio di merda” è nuova. È un’altra parola della lingua tedesca da andare a cercare: significherà “straniero” o giù di lì.

- Che prodotto hai messo sullo straccio? – Genzo ha la soddisfazione di vedere Hinmel sobbalzare, irrigidirsi e cercare di fare finta di niente. – La pittura è fresca, ma se non ci stai attento lascia aloni. Ho l’olio di lino e l’acquaragia nell’armadietto, muovi il culo.

Hinmel si sposta, Genzo gli si piazza accanto, inserisce la combinazione nel lucchetto, estrae dal borsone la spugna che ha imparato a portarsi dietro, la impregna di prodotto e la passa all’altro ragazzo.

- Ecco, se vuoi continuare a renderti utile.

È difficile definire una rivalità tanto quanto un’amicizia. Ryo Ishizaki a cinque anni era il suo migliore amico, poi gli ha sganciato un diretto al volto e ha passato i sei anni successivi a rendersi insopportabile. E il resto della vita a confermarsi una delle venti persone su cui Genzo può fare affidamento. Bernd Hinmel è un bullo, un insicuro che per sentirsi grande cerca di rendere tutti più piccoli. Lo sono parecchi in questa squadra: gramigne velenose, cani che mangiano cani. Lo stress e i ritmi da adulti a cui sono costretti giustificano in parte e non scusano un accidente. Bernd Hinmel prende la spugna e lo aiuta a pulire.

- Non hai pensato… - Dice il tedesco, la fronte imperlata di sudore. – … di lasciarle e basta? Se Friedman le vede…

- Il coach lo sa già o uno dei suoi assistenti l’avrà informato. – Genzo imbeve lo straccio. Olio di gomito ci vuole. – Se pianto grane, dalla panchina il culo non lo schiodo più: “i musi gialli non ce la fanno a stare allo scherzo”.

Genzo l’ha visto declinato un’infinità di volte: “quelli del primo anno non reggono il ritmo”, “le ragazze sono fragili e non sanno a giocare”. Un sacco di scuse di merda. Per questo Takasugi ha tirato un calcio negli stinchi al capitano del club di baseball a scuola quando aveva detto quella cosa sui coreani dando inizio alla rissa entrata nella leggenda delle scuole elementari Shutetsu. Buffo, Germania e Giappone non sono così diverse. A coach Friedman, Genzo piace, ma più come strumento per incanalare l’aggressività dei suoi ragazzi che come persona.  

Misaki nella sua ultima lettera scrive: “tra scuola e lingua ho deciso di ambientarmi prima di pensare al calcio”. Per due anni giocherà solo nel campetto insieme ai suoi nuovi amici: sordo e cieco ad ogni domanda sul trovarsi una squadra vera. Taro Misaki è bravissimo a piantarsi in faccia la felicità finché non gli resta appiccicata addosso. Strati su strati.

L’olio di lino ammorbidisce la vernice, gli ha spiegato come usarlo Reinhard. Genzo l’ha visto maneggiare in pausa pranzo modellini simili ai Gunpla di cui Taki fa collezione, è rimasto ad osservarlo mentre mostrava a Schroder i colori che usa per dipingerli e si è inserito per chiedergli come fare quando c’è un errore che deve essere cancellato. I prodotti sono diversi, ma Reinhard a cosa servivano l’ha capito lo stesso.

- Non sono stato io a fare ‘sto macello. – Dice Hinmel nel presente e, mannaggia, certo che è veloce a pulire. Genzo non farà anche di questo una competizione. Nossignore. Poi Hinmel aveva iniziato prima. E gli aveva lasciato la spugna. – Però prima che ci mettessi il lucchetto sono stato io a pisciarti nelle scarpe. Mi dispiace, è stato stupido.

Sono le prime scuse che qualcuno gli rivolge in Germania, dovrebbero farlo sentire bene. Meglio. Invece smuovono quel grumo nero che strozza la gola e brucia in pancia. Grazie al cazzo Bernd Hinmel, fai bene a dispiacerti. Sarebbe molto facile essere crudeli ora, Genzo ha fatto la tara al centrocampista in questi quattro mesi: sa esattamente quali tasti premere per farlo saltare. Tipo la paura di non avere talento, il senso di inferiorità nei confronti di padre e fratello maggiore e qualcosa di bizzarro che lo costringe a essere la persona più fastidiosamente aggressiva della stanza. Non avrebbe neanche bisogno di alzare le mani. È il tipo di pensieri che lo porta ad alzare le spalle e commentare:

- Tanto avevo bisogno di un paio di scarpe nuovo.

Perché Genzo Wakabayashi non sceglie la strada facile e non farà scontare a questo idiota le colpe di qualcun altro. La Germania non farà di lui un bullo. Hinmel grugnisce, un suono nasale a metà strada da un sorriso, Genzo si trova a ricambiare e pensa: Tsubasa non sarebbe arrivato a farsi odiare da tre quarti della squadra. Si sbaglia, ma paragonarsi a un ideale è un errore che fa spesso, a ventun anni si chiederà che fine abbia fatto il Wakabayashi capace di affrontare tutto questo. Si domanderà se sia esistito per davvero. Genzo finisce di pulire la sua parte, mentre Hinmel si siede su una panca ed aspetta. Il centrocampista apre la bocca, la richiude, si mastica le labbra e riprova.

- Devi starci attento a Schneider.

Il cervello di Genzo prende un dosso e si inceppa. È un sovraccarico imprevisto: se Hinmel insulta Schneider ora, Genzo sarà costretto a girarsi e pestarlo. Non vuole, ma lo farà. Solo che Genzo ha braccia e gambe coperte di lividi e metà provengono da Schneider. Fatti di proposito. E detesta anche solo pensare ci sia una ragione per cui il tedesco in squadra non piaccia che a lui, Kaltz e Friedman, però quando si parla di Karl, Genzo si sente come il pirla entrato a teatro durante il secondo atto.

- Non intendo quello che dicono, sui suoi gusti o cosa. Quelli sono cazzi suoi. – Hinmel si inserisce nell’esitazione. Ottimo. Magari avesse lo stesso tempismo in partita. – È che alla fine c’è sempre qualcuno a pagare. Ti assicuro che non sarà mai Schneider.

Il silenzio è una corda, il pubblico aspetta in bilico sulla sedia. Genzo apre la bocca, Jara Strauss irrompe in scena con Lintz alle calcagna. Il momento si spezza, Hinmel afferra il borsone e fa calare il sipario.

 


 

NOTE:

 

Buon compleanno Genzo Wakabayashi! (v.2 perché amo sto ometto)

Che questo capitolo sia pubblicato proprio il 7 dicembre è una felice coincidenza. Peccato invece che la Croazia abbia sbattuto fuori il Giappone ai Mondiali, tutte le mie nazionali preferite adesso sono fuori. Sigh.

 

Siamo arrivati al famoso "capitolo spezzato". Lunghissimo flashback iniziale per stabilire alcune cosette sui Wakabayashi (ah btw diverse imprese che speculavano nel mercato immobiliare negli anni '80 e '90 ricorrevano alla Yakuza, qui è più un'implicazione che altro).

Karl e Genzo hanno un rapporto complicato.

Also Genzo preferisce spararsi in un piede piuttosto che chiedere aiuto a chicchesia.

 

Ci vediamo a gennaio con la seconda parte (sempre dal POV di Genzo) e tra un paio di settimane con un aggiornamento angst per "Trentasette giorni".

 

>>> A prescindere dal bene e dal male (p.2)

Genzo Wakabayashi i problemi se li risolve da solo.

 

 

 

* Nel pilota del manga Proto-Sanae e Genzo sono amici di infanzia. Per me lo sono anche in CT, ACCIDENTI!

* Mentre scrivevo la bozza di questo capitolo, Khrenek aveva già notato come Genzo chiamasse Teppei per nome. Qui diparto effettivamente dal canon nel tentativo di differenziare i quattro Shutetsu (più uno) nel loro rapportarsi con Genzo. Nota a margine: Morisaki e Takasugi sono i miei preferiti del gruppo (quando avevo sei anni ero tipo ossessionata da Takasugi, mistero sul perché).

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Capitolo 9
*** A prescindere (p.2) ***


* questa fiction viaggia parallela al canon: ci flirta insieme, ma non se lo sposa.

 



9. A prescindere dal bene e dal male (p.1).



Il venticinque maggio è il compleanno di Maria Schneider. Gliel’ha riferito Kaltz dicendogli di recuperare un regalo. Genzo si è trincerato in difesa:

- Guarda che mica mi hanno invitato.

Kaltz l’ha guardato fisso, sbattuto le palpebre due volte e specificato con voce grave:

- Pensi che faccia differenza?

Gli Schneider agli eventi non ti chiamano, ma si aspettano che tu ti tenga libero e ti presenti ugualmente. Genzo rifiuterà per mesi di crederci e il dieci settembre la mamma di Karl lo intercetterà con la macchina sulla strada di casa, dicendo qualcosa tipo “ma dove eri finito?” e costringendolo a salire per una gita di famiglia imprevista che la signora ha passato l’ultimo mese ad organizzare. Una volta arrivato alla Kunshtalle, Genzo cercherà una cabina telefonica per informare Mikami.

Settembre è a mesi di distanza, quindi Genzo ignora gli avvertimenti e si prepara ad una lunga domenica. Mikami è andato ad una riunione della Federazione, Genzo ha la casa per sé, una vaschetta di cibo piccante da scaldare, la sua copia di “It” da leggere, una lettera alla Aydin da scrivere e la prima registrazione inviatagli da Sanae.

Però fa caldo e tra due giorni mister Friedman annuncerà la rosa per un’amichevole con il Borussia Dortmund a cui Genzo sa di non partecipare, così decide di mettere in pausa la vita e di buttarsi a pesce sul divano. Si addormenta nel giro di sette minuti. Hermann Kaltz ne sarebbe fiero.

Riemerge perché il bollitore sta facendo un rumore assurdo, socchiude gli occhi, aspetta che il cotone nel cervello si sciolga per rendersi conto che quello che sta suonando è il telefono. Sono le due del pomeriggio e dall’altra parte della linea ci sta Hermann Kaltz che aveva ragione: il compleanno di Maria è un punto fisso nello spazio e nel tempo.

Hanno bisogno di un cane e questo significa: Genzo vai al negozio che ti dico e procuramene uno.

Sbatte le palpebre, fissa un punto impreciso e dice ok. Mikami ha segnato su un post-it i numeri dei taxi, Genzo ne chiama uno, recupera portafoglio, bancomat e chiavi. Lascia un biglietto al suo mister accanto al frigorifero nel caso rientri prima di lui, saluta la fotografia della signora Akane e parte all’avventura.

Lo Zoohandlung Reinhard sta a venti minuti in macchina e brilla per l’assenza d’animali che non siano canarini o pesci rossi. Però i gestori sono molto carini e l’equivoco viene chiarito in fretta: la sorella della proprietaria è quella con l’allevamento e, sì, ha ancora due cuccioli da piazzare.

- Hanno la coda un po’ arrotolata e non sono adatti alle competizioni, ma sono in ottima salute. – Specifica miss Bahner, mentre riempie le buste di plastica con la roba che Genzo continua ad agguantare in negozio e accumulare accanto al registratore di cassa. Oh, guarda: un giocattolo per denti a forma di bistecca, a John sarebbe piaciuto un sacco. Miss Bahner sorride. – Sono svezzati e perfetti per ragazzi che fanno molto movimento.

I pointer inglesi sono i cani da caccia per antonomasia. Aristocratici, rapidissimi, il loro naso è talmente infallibile che quando intercettano la preda quella è bella che spacciata. John, il cane di Genzo, invece, è uno shiba inu bianco. Questa razza, tipicamente giapponese, è caratterizzata da un certo grado di riservatezza verso gli estranei, forte sicurezza di sé e fedeltà assoluta. Il cacciatore contro il guardiano perfetto. Chissà se sono gli animali che assomigliano ai loro padroni o il contrario. C’è da dire che Sauzer, il pointer di Schneider, è infinitamente più carino del suo padrone quando lo sbatte a terra per leccargli la faccia.

Miss Bahner quando parla al telefono alla sorella è velocissima e il suo tedesco ha una cadenza così strana che Genzo afferra una parola ogni tre. Qualcosa come: “molto affidabile”, “ti ricordi degli Schneider” e “mi ha comprato mezzo negozio”. Dieci minuti dopo Genzo è di nuovo in macchina, l’allevamento è appena fuori città e ne dista quaranta, controlla di avere abbastanza contante perché dubita che accetteranno un assegno staccato da un minorenne.

Il posto vuoto del passeggero accanto gli ricorda che sarebbe stato bello avere Mikami. Fortunatamente la tizia del negozio si è bevuta che Genzo di anni ne abbia diciotto, ha aiutato un sacco giocarsi la carta dello stereotipo asiatico per cui “sembriamo tutti più piccoli”.

La proprietaria dell’allevamento è più scettica, ma Genzo è alto un metro e settanta circa, si comporta come un piccolo adulto e ama parlare di cani.

Jessica Bahner rimane affascinata dalla storia del cane Hachiko. La schifezza americana che sarà il film di Richard Gere uscirà nei cinema tra ventitré anni, nel frattempo l’allevamento Bahner avrà fatto conoscere e amare lo shiba inu alla Germania.

- Che il manto sia anallergico è una cazzata, non si lasci abbindolare da quello che le dicono.

Era successo a Padre ed era stato esilarante. Il ricordo gli tira le lebbra, Padre era stato carino con lui quando c’era stato quell’incidente. A nove anni Genzo aveva avvicinato il randagio sbagliato e s’era buscato una cicatrice sul polpaccio come ricordo. Oltre che una corsa all’ospedale, una serie di iniezioni e una visita paterna.

Da quell’avventura Genzo aveva guadagnato un cane, anche se, ufficialmente, John è e rimane il premio per aver spaccato agli esami di fine trimestre.

Il signor Minamoto della sicurezza non aveva apprezzato il nuovo arrivato, si era ricreduto quando John aveva inseguito e quasi morsicato Roberto Hongo per essergli entrato in cortile scavalcando il muro di cinta. Il signor Minamoto aveva lanciato un’occhiata eloquente:

- Finalmente qualcuno di responsabile.

E Genzo aveva evitato di ricordargli le volte in cui John si era lasciato disegnare le sopracciglia da Ishizaki rimanendo immobile come un tacchino bollito.

Miss Bahner gli racconta dei suoi esperimenti con i pointer. Più che l’aspetto le interessa l’olfatto, ma in mostre e competizioni il primo vuole la sua parte e qualche coccarda in più aiuterebbe l’allevamento ad acquistare prestigio.

Sauzer è l’ultimo rimasto, la sorella è prenotata da una coppia che viene da Lüneberg dove, curiosamente, un giorno il cane si imboscherà facendoli impazzire tutti. Miss Bahner iniziava a temere che Sauzer sarebbe cresciuto troppo per essere adottato, la gente li preferisce cuccioli.

- Ti va di andare a conoscerlo?

Gli va UN SACCO. Contegno. Sei un adulto ora.

Genzo segue Miss Bahner in giardino dove viene accolto da una cacofonia di quadrupedi bercianti. Ovviamente li deve conoscere TUTTI, miss Bahner sorride, gli riempie le tasche di biscotti e lascia che Genzo venga eletto “umano dell’anno”. Riemerge dai dieci minuti più belli della sua vita ricoperto di pelo, di bava e con un cucciolo che rifiuta di scendergli di dosso. Va bene perché Sauzer è TENERISSIMO. Le macchie marrone scuro del mantello iniziano a virare al nero, le sue orecchie, sproporzionate rispetto al resto, sventolano ogni volta che muove la testa.

Genzo distribuisce un’appropriata dose di grattini sulla pancia e Sauzer ricambia leccandogli la mano. Ora se il mondo finisse alle cinque meno un quarto del venticinque maggio 1986, Genzo morirebbe felice.

Invece l’orologio gli ricorda quanto sia tardi, che la festa a casa Schneider starà terminando e che Genzo ha ancora una missione da compiere. Miss Bahner lo aiuta a fissare un appuntamento con l’Hundeschule che gestisce un’amica in città.

L’allevamento ha un bancomat e Genzo sente un certo sollievo perché aveva fatto male i conti: i marchi lo confondono. Non che con gli yen se la cavasse meglio. La sua copertura intanto è saltata, Miss Bahner sorride mentre Genzo gioca con Sauzer. Dice:

- Sei davvero un caro ragazzo.

Maledizione.

Rotto per rotto chiede se può usare il telefono e avvisa la signora Schneider che sta arrivando. E scopre che nessuno l’ha avvisata del cane.

- Oh, caro, va tutto bene! Maria ne sarà sicuramente entusiasta e il giardino è grande. - I suoi amici sono dei COGLIONI. Katrine Weiss intuisce il filo dei suoi pensieri e ridacchia nella cornetta. – Solo che non abbiamo nulla in casa. Magari adesso esco…

- Non si preoccupi signora ci ho già pensato io.

Dall’altra parte della linea la madre di Karl, scuote la testa, sorride e ragiona che un giorno sarà interessante averlo come genero. Genzo ringrazia Miss Bahner e salta in macchina. Arriva dagli Schneider che è sera.

Maria “and friends” lo travolgono all’ingresso ed è come entrare negli spogliatoi della Shutetsu stringendo tra le mani l’ultimo trofeo.

Genzo è costretto a spiegare tutto tre volte: una per Schneider. Maria è quella che gli dà più soddisfazione, Karl e sua madre ascoltano le direttive su cibo e veterinario con quello sguardo vuoto che lo rende certo non abbiano capito un cazzo. La pastiglia della filaria è parecchio importante, Maria annuisce e gli fa il saluto militare. Non capirà mai se la più piccola degli Schneider lo prenda troppo sul serio o direttamente per il culo.

Kaltz ha recuperato una bottiglia di vino non si sa da dove, quando si siede gliene sgancia un bicchiere in mano. Qual è l’età legale per bere in Germania?

Schiocca le labbra, il livello della bottiglia è sceso di parecchio ed è pur vero che quella volta metà Shutetsu si era imboscata con il sakè procurato da Izawa durante il Tanabata. E quando si è a Roma… accetta.

Il liquido è dolciastro e disgustoso, lo risputa nel bicchiere. Kaltz ride, Genzo gli fa un gestaccio e si lascia affondare sul divano. Schneider che è già brillo prende a scalciare come un mulo. Genzo gli blocca le gambe e se le cala in braccio finché non si calma. Tempo due minuti e inizia a russare. Mikami tra meno di un mese porterà a casa un gatto e sarà più o meno la stessa cosa. Carini quando dormono.

Schneider ha le guance arrossate e capelli arruffati che ricadono sulla fronte in ciocche scomposte. Viene voglia di sistemarglieli.

- Non dovresti farlo bere.

- Fidati. – Dice Kaltz e non dovrebbe bere neanche lui accidenti. Qual è il problema dei tedeschi?! – Ne aveva bisogno. Suo padre non è tornato anche oggi, mi sa che finisce davvero in divorzio.

Ah. Sarà per questo che gli Schneider sono così strani, ma Genzo cosa ne può sapere? I suoi sono parentesi assenti: gli vogliono bene, certo, ma hanno di meglio da fare che stargli appresso. Non gli ha mai dato fastidio. Crede. Forse una volta, prima di Mikami.

Schneider si gira sul lato, grugnisce e gli viene da sorridere. Potrebbe prendere una coperta, avvolgercelo tipo tacos e sedercisisi sopra. Come un drago. Scuote la testa. Sta succedendo come quella volta con Morisaki.

- Almeno fai sparire le bottiglie prima che le veda sua madre.

- Guarda che stai parlando con un professionista.

È vero. Farà un sacco di cazzate insieme ad Hermann Kaltz negli anni: come entrare nottetempo in un manicomio abbandonato, fare il bagno nudo a dicembre e provare cibo scaduto in ristoranti i cui tavoli dovrebbero essere strizzati per levarli l’unto. Si faranno male un’infinità di volte, ma non saranno mai beccati.

Le amiche di Maria sono andate, Genzo si leva i piedi di Schneider di dosso e va ad aiutare Emilia con i festoni. La sorella di Kaltz chiede se sarà dei loro per le pulizie martedì e il sì parte automatico. I Kaltz sono forti, stare con loro viene come naturale. Se le famiglie sono fatte così allora capisce perché Karl stia tanto male all’idea di perdere la sua.

Genzo pensa alla fotografia della signora Akane in salotto, all’odore dell’incenso e a come si senta, invece, Mister Mikami.

Il suo coach arriva alle ventuno. Ringrazia la signora Schneider per le scatole piene di avanzi e dice a Genzo di salutare perché fuori il taxi aspetta. Una volta seduti Mikami guarda la  maglietta coperta di pelo e sorride.

- Ci siamo divertiti vedo.

Sì.

È vero.

È stata una bella giornata. Abbandona la testa sul sedile, incontra la spalla di Mikami e il suo coach rimane fermo, così Genzo ce la lascia lì. È stata una bella giornata.

È sicuro ce ne saranno altre.

***

Genzo Wakabayashi è particolarmente noto da amici e detrattori per quella che i primi definiscono “sicurezza”, tutti gli altri “pura e semplice spocchia”.

Nel fragile equilibrio che separa la maturità dai ventun anni, Taro Misaki, crisi d’identità in corso e lattina di caffè freddo in mano, gli chiederà come sia essere considerato “il portiere migliore della sua generazione”. Lo farà con quello sguardo appannato che non nasconde quanto la recente pressione di compagni e stampa stia lentamente erodendo i pilastri della sua certezza.

Genzo alle soglie del 1996 starà vivendo una crisi diversa, una strisciata attraverso lo spazio vuoto di palpebre chiuse. Non è quello di cui Taro ha bisogno, quindi risponde:

- Deuter Müller è un portiere migliore di me. – Misaki sbatte le palpebre due volte, lentamente. – È un rigorista eccezionale e ha dei riflessi che me li sogno. Wakashimazu è più versatile in attacco. Hernandez ha un sangue freddo impossibile e Morisaki non fa cazzate anche quando lo prende il panico.

Misaki lo fissa, Genzo gli fa segno di chiudere la bocca.

- Wakabayashi. Com… ma se sei sempre così sicuro di te!

La parola che Misaki cercava era “egocentrico”, però bel salvataggio. In corner. Davvero.

Merita un premio.

- Che c’entra? Sono fatti. Lo sai, invece, perché sono io quello considerato il migliore? – Le dita di Misaki sono molto bianche attorno alla lattina. – Perché gioco come Genzo Wakabayashi.

Ha sputato sangue per imparare cosa significhi.

Genzo non avrà la velocità di Wakashimazu o Müller, ma legge il gioco meglio di loro: gli attaccanti li anticipa. Non possiederà mai l’aplomb di Herndandez, piuttosto si plasma sulla squadra sopperendo a distrazioni o mancanze. Il calcio, dopotutto, si gioca in undici.

Deuter Müller è un portiere straordinario, ma è Genzo il giocatore migliore.

- Dev’essere bello. – Dice Misaki che dall’incidente alla gamba non smette di misurarsi con l’ombra di Tsubasa. – Guardare nello specchio e vederci solo te stesso.

“Se non sai come ti viene giusto, non sai come rimediare quando ti viene sbagliato”. A dieci anni di distanza da quelle parole, Genzo sorriderà e si domanderà quando sia stata l’ultima volta in cui ha visto “Genzo Wakabayashi” nel suo riflesso. 

***

È il primo giugno del 1986 e l’amichevole contro la giovanile del Borussia Dortmund lo prende un po’ alla sprovvista. Non c’è problema, tanto se la giocherà dalla panchina.

Friedman fa Schneider capitano. Magari Genzo non lo avrebbe annunciato a quindici minuti dall’inizio della partita, però condivide la nomina: Karl è una sicurezza in campo. Non tanto per le sue qualità come attaccante, ma per il sangue freddo che riesce a tenere indipendentemente dal vantaggio. O dagli arbitri.

Non è l’unico cambiamento apportato all’ultimo: Lintz entra al posto di Braun. Sarebbe stata la prima partita del numero ventidue e il ragazzo non la prende benissimo, ma ci sta: Lintz è più tecnico e in difesa hanno già Gongels a compensare sul piano fisico. Braun sarebbe stato ridondante.

Friedman ha deciso per un tre-quattro-tre, assegnando Kaltz a Magath e lasciando Schneider, Hertz e Strauss a coordinare l’attacco. A Genzo qualcosa non torna: Lintz, Mayer e Gongels sono ottimi difensori, ma hanno stili di gioco troppo diversi. Sopperire a mancanze reciproche serve a un cazzo se poi non ti trovi in partita, forse il coach vuole usare l’amichevole come test di prova.

Avrebbe potuto scegliere un avversario meno ostico: Genzo s’è guardato con Kaltz e Strauss le registrazioni del torneo di quest’anno e il Borussia con la sua combinazione Milews-Magath a centrocampo è una dannata fuoriserie del calcio giovanile. Vederli in tempo reale è anche peggio: in attacco sembrano avere un giocatore in più.

Nel giro di quindici minuti, un passaggio sbagliato fa scattare Milews sulla fascia. Schneider rientra a falciarlo, ma la difesa non chiude a tempo: Milews ha consegnato il pallone ad Egora che NON HA NESSUNO ADDOSSO. Gongels prova a rimediare, ma finisce per limitare lo spazio visivo del portiere e il goal è inevitabile. Genzo è costretto ad urlargli dietro.

Tutti incoraggiamenti, giura.

NIENTE PANICO. Difesa alta e vediamo di non rifare certe cazzate.

La rimessa di Krüger va lunga e un po’ imprecisa su Hinmel che insegue il pallone e si trova due avversari addosso, il numero cinque panica e passa ad Hertz prima che quello rientri dalla posizione di fuorigioco. L’arbitro fischia, il possesso passa al Borussia e Magath batte Kaltz in velocità scivolando senza problema nel buco lasciato ancora una volta dalla difesa.

Due a zero e Genzo è un orso in gabbia che marcia avanti e indietro. Stringe i denti e ignora gli inviti di Haness a sedersi.

Il Borussia Dortmund festeggia, allenta la presa su Schneider che si coordina con Krüger per il contrattacco. Kaltz blocca bene Magath, mentre Hertz e Strauss mettono pressione sulla difesa avversaria. Schneider sorprende il portiere con un tiro da fuori che si insacca nell’angolo destro. Genzo ha la certezza che lui lo avrebbe parato.

Due a uno.

I loro avversari si innervosiscono e alla prossima azione Magath entra duro su Schneider. Genzo, che si era seduto per tipo quattordici secondi dopo aver festeggiato il goal, scatta in piedi. Arbitro, ma sei COMPLETAMENTE CIECO?! No, ok, è per il vantaggio: l’Amburgo ha ancora il possesso palla. Strauss serve a Schneider un assist non proprio perfetto, ma il numero dieci s’inventa un tiro che striscia contro il palo prima di regalargli il pareggio.

E VORREI BEN VEDERE. Porca puttana.

- Fa sempre così?

- A volte è anche peggio.

Nella periferia del cervello Genzo è consapevole di stare dando spettacolo. Non importa: mister Mikami ci ha fatto il callo, Friedman se ne farà una ragione. Ci sono cose più importanti a cui pensare. Ad esempio…

L’arbitro fischia la fine del primo tempo, i giocatori rientrano negli spogliatoi, Schneider gli arriva a portata e Genzo lo sequestra per consegnarlo al medico della squadra. Ha la caviglia gonfia: se l’era aspettata peggio. Quelle di Misaki e Tsubasa erano praticamente raddoppiate di volume durante la partita contro il Meiwa. O Schneider è molto fortunato o Magath c’è andato piano o un po’ tutte e due le cose assieme.

Friedman ordina a Schneider di rallentare e sembra pure convinto lo starà ad ascoltare. Genzo alza gli occhi al cielo: se Schneider molla sono fottuti. L’Amburgo SV è pieno di buoni realizzatori: Hertz, Heintz, Kaltz e persino Hinmel quando non si perde nella testa. Il problema è che hanno paura.

I suoi compagni non stanno vedendo undici coetanei in calzoncini, ma la seconda classificata ai tornei giovanili di quest’anno. L’Amburgo SV è scesa in campo convinta di perdere e così lo farà. Hanno bisogno di Schneider perché è l’unico a credere di potercela fare.

Un’altra possibilità è scommettere su Hermann Kaltz, ma il mediano risente della stanchezza: si sta smazzando centrocampo, difesa e Magath da quarantacinque minuti. Non è umano. Friedman lo assegna alla difesa e butta dentro Haness al posto di Gongels.

Sulla carta è una mossa vincente: Haness e Lintz hanno una buona intesa e sono capaci di sfruttare il contropiede. Solo che sembrano esserselo dimenticato. Il Borussia Dortmund è rientrato carico dalla pausa e tiene il gioco saldamente sbilanciato nella metà campo dell’Amburgo. Friedman poteva risparmiarsi il discorsetto a Schneider: Magath gli sta addosso e riesce nell’impresa di annullarlo. Per ora.

Genzo stringe i pugni: Hans Krüger ci sta provando, dannazione. Sarà una persona orribile, ma come portiere ci sta provando ed è davvero difficile continuare ad odiarlo.  Milews segna il tre a due.

Krüger batte una mano contro il terreno e non piange. Cazzo stanno facendo Heintz e Briegel? Senza Kaltz a centrocampo, l’Amburgo si sfilaccia: non serve a niente che Mayer spazzi via se poi Briegel continua a perdere i palloni. Non aiuta che Krüger si lasci guidare dai nervi, sbagli quattro uscite e dieci minuti dopo regali ad Egora l’occasione per il quattro a due. 

Ok, ma adesso basta.

Qualcuno gli tocca la spalla. È coach Friedman che interrompe una sentita invettiva contro la loro difesa per avvisarlo di iniziare a scaldarsi. Eh?

Cioè: ottimo, fantastico. Al posto di chi?

Genzo è abituato in allenamento a coordinarsi con Lintz e Haness, Mayer sta dentro da inizio partita però si vede che ha ancora fiato. Quello pronto a scoppiare è Jara Strauss, però non esiste che Friedman piazzi Genzo in attacco, specialmente a questo punto della partita.

È imbarazzante quanto il suo cervello impieghi per arrivare all’impensabile: il coach lo mette come portiere al posto di Hans Krüger.

***

Genzo è il genere di persona che fa le scale a due a due. In Giappone ha sempre e solo giocato come titolare: la sua gavetta è stata formare il club calcistico Shutetsu, sezione elementari.

All’inizio era stata dura, parecchio: i ragazzi delle medie erano stati poco accomodanti, quelli del liceo li avevano impedito l’accesso al campetto e si erano dovuti aggiustare con quello pubblico. Genzo c’era venuto alle mani tre volte con o senza Takasugi.

Dopo qualche anno la qualifica per la prefettura di Shizuoka avrebbe portato il team delle elementari ad acquistare trazione e il fatto che un Wakabayashi fosse titolare e capitano avrebbe smesso di andare a genio.

A Genzo non importa l’opinione degli altri, sa che un giorno li costringerà a cambiare idea.

In sesta, quando la Federazione aveva costretto al compattamento per ogni distretto, Genzo non aveva dubitato per un istante che sarebbe stato selezionato come portiere e futuro capitano della nuova squadra di Nankatsu. E che Morisaki sarebbe stato confermato suo secondo.

Yuzo Morisaki predilige un gioco tecnico e chiuso sulla linea di porta. Gli ricorda lo stile di Krüger, ma il tedesco avrebbe molto da imparare sul non farsi prendere dal panico a metà partita. Morisaki aveva faticato a controllare i nervi quando aveva sostituito Genzo dopo l’infortunio, però non si era rassegnato, si era rimboccato le maniche e aveva vinto la battaglia contro se stesso.

Perché Yuzo Morisaki è un giocatore straordinario.

Gliel’ha mai detto? Genzo pensa di sì, ma la Germania gli incasina la testa.

L’ha mai fatto sentire piccolo? L’ha mai trattato con la malevola sufficienza che gli riserva Hans Krüger? Morisaki un giorno l’assicurerà di no.

- Semmai tutto il contrario.

Dirà e Genzo non sarà del tutto certo di credergli.

A venti minuti dalla fine di un’amichevole complicata sul piano della difesa, Genzo decide di prendere ad esempio il suo portiere preferito. Entrando in campo incrocia lo sguardo di Krüger, lo sostiene, dice:

- Coraggio, la prossima volta andrà meglio.

Hans Krüger si irrigidisce. Il problema è che Genzo non ha la faccia rilassante di Yuzo Morisaki. Su di lui la gentilezza veste come un coltello. O un cacciatorpediniere.

Anche il Borussia sostituisce uno dei giocatori e Genzo approfitta del break per richiamare all’ordine le truppe.

- Non fateli entrare in profondità. Sfruttate il fuorigioco. Hermann avrò bisogno di te.

Non hanno tempo per altro. Filmati, statistiche e partita hanno confermato la tendenza di Milews per i tiri da fuori, piuttosto che cercare di sfondare quando non ha un compagno dentro su cui piazzare un assist.

Genzo fa il culo a Mayer perché smetta di tenere un uomo in gioco.

- L’hai fatto una montagna di volte in allenamento, dà retta alle gambe: loro si ricordano come fare. FORZA!

Inducono Milews a provare dalla distanza. Il tentativo non lo impensierisce: i tiri lunghi sono la specialità di Genzo. Kaltz, come d’accordi, è rientrato e lo aspetta sulla fascia. Genzo non ha bisogno di guardare per spedirgli il pallone direttamente sui piedi. L’ha fatto con Izawa almeno un migliaio di volte.

Il contropiede riesce: Kaltz consegna il pallone a Schneider che realizza il quattro a tre. L’Amburgo SV rientra in gioco.

Il Borussia non ci sta. Lo sorprende: Genzo a un quarto d’ora dalla fine avrebbe fatto gabbia, sfruttato il centrocampo per un po’ di sana melina e difeso il vantaggio fino al fischio dell’arbitro.

Il calcio tedesco è diverso: attacco ad oltranza. Piacerebbe un sacco a Hyuga. Un giorno Genzo rifletterà sull’ironia: il portiere modellato da Mikami sul calcio italiano giocherà in Germania, mentre Hyuga, il profeta di “la difesa migliore è l’attacco” sarà titolare nella Juventus.

Genzo mantiene la calma, sopportare un attacco lungo e martellante è l’altra sua specialità. Se Ryo Ishizaki gli è venuto dietro contro il Meiwa, Lintz, Haness e Mayer non saranno da meno oggi. Non lo deludono. Cioè, lo fanno, ma in modo preciso: Genzo sa dove scricchiolano e si inserisce nel vuoto sapendo che lo faranno anche gli avversari. I giocatori intelligenti sanno essere prevedibili.

Mancano due minuti, o pareggiano o la svaccano. Genzo abbandona la porta, entra in tackle su Magath e scappa via col pallone oltre la linea di metà campo. Kaltz e Schneider sono out.

- MAO!

Bernd Hinmel non esita ed insacca il pallone nell’angolo destro dove Stein fatica ad arrivare. Genzo non vede il goal, corre verso la sua metà campo, incrocia Briegel che scuote la testa e gli fa segno dell’ok. Genzo risponde di non rilassarsi. Ci sono i recuperi. Cinque minuti. Il tempo giusto per vincere.

Lo pensano sia Hertz che Magath. Il capitano avversario scatta in avanti, un’azione pericolosa a cui Hertz mette fine in modo estremamente stupido. L’arbitro assegna il rigore, l’Amburgo protesta. Schneider arriva a calmare gli animi ed a impedire ad Hertz di farsi espellere.

Ok. Concentrati. Magath calcia di destro, Hertz gli ha preso la caviglia sinistra e sarà costretto a correggere lo sbilanciamento. L’hai visto in partita, l’hai visto in filmato. L’Amburgo ha realizzato tre volte con un tiro all’angolo destro di Stein. Magath farà l’esatto contrario. L’arbitro fischia, Genzo si butta ed intercetta. Non c’è tempo. Molla il pallone e lo calcia dritto, dritto su Hermann Kaltz.

Quattro a cinque. Kaltz regala a Genzo la sua prima vittoria in Germania.

Sì, beh. Schneider ha fatto una tripletta, ma sanno tutti chi è l’eroe della partita.

I suoi difensori corrono in avanti per festeggiare, Genzo li segue, esita. Come giocatore sa qual è il suo posto, come insopportabile spina nel fianco, pure, ma ora? Kaltz gli si schianta addosso a velocità supersonica, urla.

- ABBIAMO VINTO!

Mayer e Lintz arrivano a ruota, Genzo ride e lascia che la gravità abbia la meglio, che lo seppellisca sotto i suoi compagni di squadra. È piacevole, potrebbe farci l’abitudine. Schneider è un’ombra rigida ed incerta, Genzo lo agguanta per i pantaloncini e lo riporta al loro livello. Schneider ride ed è bello, giusto.

Come le cose dovrebbero essere.

***

Il senso di ogni esercizio è la ripetizione. A quattro anni, Genzo prende lezioni di calligrafia iniziando dal suo nome: il kanji per “tre” è facile, meno quello per “acqua/origine”. Le sue dita sono grasse e stupide, hanno bisogno di mesi per capire come misurare l’inchiostro, l’inclinazione, la pressione.

Il senso di ogni esercizio è la ripetizione. Hermann Kaltz a dodici anni gli ficca uno straccio in mano e gli spiega come pulire una vasca da bagno. Un fornello. Una specchiera. Chi l’avrebbe detto occorresse una quantità così bizzarra di prodotti? Ha una sua regalità, in effetti: prendere qualcosa di rovinato e rimetterla a nuovo. O quasi.

- Sono solo pulizie, Genz-man. Non una laurea in filosofia.

A volte Hermann Kaltz lo delude: non è il risultato, ma il gesto. Qualcosa di semplice, limato dalla ripetizione sul confine tra la follia e la perfezione umana.

È esercitarsi dai sette agli undici anni con Tatsuo Mikami ogni giorno, dopo il club, dopo la scuola per quattro ore con la pioggia o con il vento. È chiedere a Padre di installare riflettori nel cortile perché d’inverno la notte scende rapida ed il giorno non ha mai abbastanza ore.

Ad un certo punto la mente si arrende e pensa senza pensare. Il corpo si muove e il tuo nome s’imprime sulla carta senza sprecare inchiostro, un sussulto ti dice la direzione in cui si muoverà il pallone.

E non devi più ragionare per ricordarti che camminare è mettere un piede davanti all’altro.

Klaus Hertz, David Gongels, Ernst Braun e Hans Krüger.

Genzo ha un sasso conficcato da qualche parte tra il collo e lo sterno. Forse il sasso non esiste. Forse se lo immagina e basta. Però l’asfalto è rotto e caldo e freddo tra la maglietta e la schiena e la luce dei lampioni non fa nulla per coprire lo spicchio di bianco crescente che invade metà del suo cielo. Una luna nuova nella spaccatura dei palazzi.

A otto giorni di distanza dall’amichevole contro il Borussia Dortmund Genzo ha dimenticato come fare ad alzarsi. Come mettere un piede davanti all’altro.

Non se lo aspettava.

Hans Krüger, prima di andarsene, gli ha sputato addosso. Che cosa stupida. Dovrebbe pulirsi la faccia.

Mettere un piede davanti all’altro.

Gli epiloghi non danno la misura corretta del tempo e quella di oggi è stata una bella giornata. Genzo non avrebbe voluto lasciarla finire.

Scuola termina la prossima settimana e il sole di giugno riempie le ossa di una calma placida. Faceva caldo quasi come d’autunno a Nankatsu e Genzo aveva lasciato nel borsone una maglietta dei tanti strati a cui il freddo d’Amburgo lo costringe. L’erba del campetto era secca e alta dove non cresceva l’ortica. La gazzosa comprata da Hermann al bar era dolce e fresca ed un pomeriggio era scivolato a parlare d’estate.

Genzo aveva pensato al luglio dell’anno scorso quando Morisaki ed Izawa si erano alleati e umiliato lui e Takasugi allo stand dei pesci rossi. Non ha mai capito come la carta delle loro bacchette facesse a non spezzarsi. Forse quest’anno toccherà a Tsubasa dare povera prova di sé tra le bancarelle di legno nel giorno del Tanabata con Ishizaki dietro e Sanae a fargli la corte con quell’assurdo kimono giallo che era di sua madre. Le sta benissimo, ma quando lo mette loro la prendono in giro.

Hermann Kaltz aveva la bocca piena di spiagge affollate e granite.

- Le fanno anche al limoncello!

Poi il sole si era fatto freddo, Hermann se n’era andato, Schneider aveva voluto rimanere e Genzo aveva smesso di pensare ad un mondo che cresce e cambia senza lui dentro. Ed era stata una bella giornata, quella di oggi, Genzo non avrebbe voluto lasciarla finire.

Hermann se n’era andato e Schneider era finito in porta ed era stato così SCARSO! Il pallone era rotolato nell’ortica e si erano arresi. Le cose belle a volte finiscono.

Ma i limiti sono grigi, sfumature ed Amburgo è così bella di sera che è facile sorridere e accettare di fare il giro lungo per rientrare. Con Schneider i silenzi sono diversi, non come con Hermann o con il resto della squadra. Non sono né vuoto, né tregua: sono strade. È bello scoprire dove ti portano.

A Nankatsu non puoi perderti. Basta alzare gli occhi perché l’orizzonte diventi una linea sovrastata dalla grandezza: il monte Fuji con la cima fresca di neve ed i pendii di sempreverdi sarà sempre lì, a guardarti un po’ dall’alto in basso. A rassicurarti. Ad Amburgo le strade possono essere fiumi, ampli, tranquilli o torrenti capaci di scoppiare. C’è persino un lago dove, di notte, i battelli solcano le acque tagliandole di luci. Dov’è finito Schneider?

Ah.

Già.

L’acqua, dove la luce non arriva, è davvero nera. Di notte.

Klaus Hertz, David Gongels, Ernst Braun e Hans Krüger.

Avevano fatto la strada lunga per rientrare, quella che passa vicina allo stadio e che Genzo ha fatto solo un’altra volta e di giorno. Si era lasciato guidare da Schneider che ostenta sicurezza anche se li fa perdere. Succederà un sacco di volte, specialmente in macchina perché Karl non guarda i cartelli e sostiene che per certe cose basti l’istinto. Tra svariati anni si sfracelleranno contro un cavalcavia in vacanza perché Schneider convince lui e Kaltz che il camper preso a nolo ci sarebbe passato.

Genzo si lascia guidare da Schneider e non si aspetta di incontrare nessuno. Errore.

Hans Krüger li chiama, Genzo risponde con un cenno che l’altro ignora: sembra che a qualcuno la vittoria di domenica sia andata per traverso. Gongels tra i presenti è davvero l’unico giocatore con qualcosa da rimproverarsi, Braun è semplicemente incazzato per non essere sceso in campo. Cosa porti Klaus Hertz ad avere tre spanne di muso è un mistero che Genzo non ha alcun interesse a risolvere, ma che lo distrae dal berciare del loro primo portiere. Banale rumore di fondo, dimenticabile. Solo che Karl questa volta si impettisce e decide di difendere il suo onore, quello di Genzo cioè.

Ed era stato bello e strano e diverso, perché nessuno, nemmeno Hermann, da quando Genzo è arrivato in Germania l’ha fatto. O lo farà mai. Solo Karl.

Gli fa stiracchiare le labbra in qualcosa che potrebbe passare per un sorriso, gli fa capire che è ora di andare. Così saluta e marcia verso casa Schneider, sicuro di essere seguito.

Lo è, ma dalla persona sbagliata. Nuovo errore, forse è giusto che il gioco lo faccia rimanere fermo un giro.

Passi affrettati lo inseguono, ma non è Schneider a raggiungerlo. Cosa cazzo vuole David Gongels? Non fa in tempo a chiederlo. Il pugno arriva a sorpresa e Genzo è un idiota perché dovrebbe essere meglio di così, più preparato. Solo che è stanco e Gongels è uno dei tre giocatori in squadra più grossi di lui e Genzo è un idiota e non dovrebbe cercare scuse o scivolare o cadere.

Sanae Nakazawa e il signor Minamoto gli hanno insegnato a fare a botte meglio di così.

Se il senso di ogni esercizio è la ripetizione Genzo è abituato a combattere. Così lo fa. Solo che qualcosa lo colpisce da dietro e la testa gli diventa tutta lenta, confusa. Si lascia aperto al contropiede e Hertz infila un calcio nello stomaco o forse un po’ più in alto e da terra diventa tutto più difficile, persino respirare. Dovrebbe rialzarsi.

Gira su se stesso, riduce l’area di impatto e incrocia lo sguardo di Karl Heinz Schneider.

Negli anni che seguiranno il battesimo di fuoco in terra tedesca, Genzo Wakabayashi rifiuterà di esitare su quella giornata. Sicuro, gli rimarrà stampata per un mese nelle ossa e per il resto della vita in un segno sottile, ostile, stiracchiato nascosto dai capelli un po’ sopra l’orecchio destro. I momenti di debolezza saranno rari, incuneati tra il sonno e la veglia.

Takasugi, Izawa e Taki si sarebbero buttati nella mischia. Teppei e Morisaki avrebbero avuto più cervello: sarebbero andati a chiamare qualcuno.

Così il nove giugno quando Genzo perde conto dei pugni, dei calci e pensa solo a proteggersi le mani, stupidamente aspetta. Aspetta che qualcuno lo venga a salvare.

Poi Krüger gli sputa in faccia e Genzo dovrebbe pulirsi, ma non lo fa e rimane disteso a terra con un sasso incastrato nella schiena e non riesce ad alzarsi, così permette a quattro idioti di ridere e tornarsene a casa. La luna è alta nel cielo, Genzo aspetta, apre e chiude le mani. Non sono rotte. Qualcosa di giusto almeno gli è riuscito. Non sa quanto tempo sia passato, mezz’ora, un minuto? Genzo dovrebbe proprio alzarsi.

Gli fa male la gamba. Non la sinistra, la destra il che è stupidamente confortante. Dopo quella partita contro la Shimada il medico lo aveva obbligato a rimanere fermo per un mese. Dopo la finale contro il Meiwa il fisioterapista gli aveva piantato due occhi delusi in faccia e lo aveva costretto ad esercizi mirati e riposo forzoso. Era stata dura in effetti, ma poi la gamba era andata a posto. Era bastato stringere i denti, alzarsi, reimparare a mettere un piede davanti all’altro.

Klaus Hertz, David Gongels, Ernst Braun e Hans Krüger.

La saliva dell’ultimo gli si è congelata in faccia ed è una cosa COSÌ STUPIDA aver pensato anche solo per un minuto che la Germania sarebbe stata simile alla sua gamba.

E il mondo sarà pure storto e sfocato, ma è solo un occhio nero, razza di idiota.

Genzo mette in pausa il cervello e inizia la lenta marcia verso casa.

***

Genzo Wakabayashi non si considera una persona violenta. Certo, un sacco di gente avrebbe da ridire, ma sono idioti, hanno torto e la loro opinione non conta un cazzo.

L’appartamento di Rotherbaum è vuoto, Genzo lancia le scarpe senza allinearle, ignora le ciabatte e affonda direttamente nel divano. Ragiona. Dopo mezz’ora Mikami rientra e Genzo è costretto a portare il resto del ragionamento in camera: il suo Mister è leggermente isterico. Vuole sapere cosa sia successo, Genzo non risponde e, per sicurezza, chiudendo la porta gira due volte la chiave. Non ha tempo per questo. Per fingere o confessare. Per rimanere deluso comunque. È un errore aspettare l’aiuto sbagliato.

I casini, Genzo Wakabayashi, se li aggiusta da solo.

***

Klaus Hertz vive a due fermate di autobus. Genzo lo sa perché un giorno Yilmaz gli aveva chiesto dove si era sistemato con Mikami e poi, dopo avergli detto di Hertz, aveva aggiunto:

- È un bel quartiere. I prezzi delle case sono un sacco alti.

C’era un implicito che a Genzo non era sfuggito, l’esperienza con Ishizaki era riuscita a insegnargli qualcosa infondo. L’invidia è come brace contro una catasta di paglia, Genzo aveva cambiato argomento.

Klaus Hertz vive a due fermate di distanza, ma non frequenta la sua scuola. Non come Gongels e Braun che stanno nella sezione di Kaltz. Hans Krüger è un enigma, ma agli allenamenti del pomeriggio dovrà presentarsi comunque.

È terribilmente semplice, in effetti.

Mister Mikami ha mantenuto le tendenze da gufo acquisite dai turni di notte: al mattino ci vogliono le cannonate. Genzo evita scenate e scivola via prima che si svegli. Ha un sacco da fare e in ordine preciso. La guida del telefono recuperata in soggiorno aiuta un sacco.

Sono le cinque del mattino, la casa di Hertz è in fondo alla via, Genzo non indossa la giacca ed attende. E attende. E attende. Quando Hertz esce non è solo, c’è una signora con lui e non va bene. Se prende la macchina Genzo è fregato. Perché non ha pensato che alcuni ragazzi vanno a scuola accompagnati dai genitori?

Fortunatamente si sbaglia: Hertz e sua madre prendono direzioni diverse. Bene. Tempo di smettere di ignorare il rumore che fa le fusa nel cervello e trasformarlo in un tamburo di guerra. Genzo esce dall’ombra e a Klaus Hertz prende un colpo. Bene. È importante che quel pezzo d’asino lo veda arrivare: Genzo Wakabayashi non attacca i nemici alle spalle.

Hertz balbetta, Genzo gli rifila un diretto che lo schianta a terra. Non gli hanno dato il tempo di rialzarsi ieri, così ricambia il favore. Scollega il cervello e pesta duro. Qualcosa di profondo e fastidioso lo rallenta, gli impedisce di infierire, ma non riesce a farlo smettere. In verità non vuole farlo. Vuole, per la prima volta da tantissimo tempo, fare male. Tanto male.

- Per favore, basta…

La voce di Hertz è un pigolare indistinto, l’attaccante un foglio accartocciato. Ha il naso sporco di sangue. Paura. Puzza di marcio. Forse se l’è fatta addosso. Genzo Wakabayashi gli sputa in faccia e lo lascia a terra.

Ha ancora un sacco da fare.

***

Genzo ha perso tempo col primo deficiente in lista e manca l’ingresso a scuola degli altri due. Poco male. Un predatore sa attendere.

All’una la campanella fischia, un suono acido che sfoca i margini del suo mondo, ma solo per un attimo. Genzo rimette quella stronza della testa in linea col programma e non molla l’obiettivo. È un cane a cui non porteranno via l’osso.

Individua prima Gongels che supera di quindici centimetri buoni la ciurma degli studenti. Genzo si muove per intercettarlo, la gamba cede. Non oggi. Respira, l’ossigeno supera l’ostacolo del mattone che si sente sul petto. Non oggi. Rifletti, ragiona. Hai visto Gongels un migliaio di volte all’uscita da scuola, sai che pullman prende e che non lo fa da solo. Due al prezzo di uno. Dov’è Braun?

Eccolo.

Genzo prova qualcosa di indistinto: molto lontano nella luce del cortile saturato d’asfalto Hermann Kaltz batte una pacca sulla schiena di Braun e scoppia a ridere. 

Ah.

Un attimo solo. Sullo schermo nero delle palpebre la cinepresa indugia sul volto di Karl Heinz Schneider, si inventa un moto di fastidio nelle sopracciglia del capitano prima di inquadrarlo mentre gira i tacchi e lo abbandona. Ma non c’era niente sulla sua faccia, Genzo, niente.

Hermann Kaltz è sparito, Gongels e Braun procedono verso la fermata degli autobus. Genzo si muove, la gamba tiene. Se fosse più lucido noterebbe che Jara Strauss lo sta salutando che esiti ed emetta una specie di latrato. Se andasse meno di fretta chiederebbe scusa al tizio su cui va a sbattere o forse no perché è Bernd Hinmel. Ma Genzo Wakabayashi non ha tempo da perdere: deve agire prima che qualche buon samaritano si metta in mezzo tra lui e la preda.

Suppone che Gongels e Braun lo vedano arrivare: il secondo sbianca, mentre sulla faccia del primo si allarga lo spettro di un sorriso perciò è a lui che Genzo spacca il naso. Il difensore quando cade, perché cade, porta una mano alla faccia e Genzo gli affonda un calcio nello stomaco. Ma non si è dimenticato di Braun che, c’è da dire, ci mette pochissimo a riprendersi dallo shock e a scagliarglisi contro. Avrebbe preferito beccarli singolarmente: più margine di manovra per instillare in loro il sacro terrore che Genzo Wakabayashi sa inspirare. Gli imprevisti lo costringono ad essere creativo.

Sfrutta lo slancio di Braun, glielo rivolge contro e lo sbatte a terra, Ken Wakashimazu sarebbe fiero di lui anche se è judo, non karate. Le voci attorno si avvicinano, diventano più forti. Genzo agguanta Braun per il bavero, lo trascina per un metro, lo capovolge e gli ficca la testa nella spazzatura del cestino all’angolo. Si assicura che ci rimanga. Poi sputa a terra e dice:

- Ci vediamo in campo!

Si volta e se ne va.

Una tempia gli pulsa e non è del tutto certo su dove stia andando. Sicuramente non a casa perché è a un Oceano di distanza e lì non fa così freddo e lì non ha problemi a respirare. Sicuramente non dalla sua squadra perché la sua Shutetsu non esiste più senza di lui e con metà dei giocatori passati alla scuola pubblica di Nankatsu. Quindi marcia verso una direzione qualsiasi, verso il nulla, almeno finché ce la fa, finché i piedi gli reggono, finché non si accorge di avere compagnia.

- Che c’è? Vuoi una parte anche tu?

Non è un bluff. Bernd Hinmel non c’entrerà un cazzo con questa storia, ma la tregua delle ultime settimane non ha fatto dimenticare a Genzo i mesi passati dal centrocampista a sparargli merda in faccia. Ha scelto davvero il giorno sbagliato per venire a provocarlo.

- Stai andando dalla parte sbagliata.

Genzo sbatte le palpebre. Una, due volte. Fatica a farlo perché un occhio è molto gonfio e non si chiude bene.

- Il campo dell’Amburgo SV è dalla parte opposta. Se vuoi beccare Krüger prima che ci arrivi devi darti una mossa.

Ah.

Come fa a saperlo?

Genzo non lo chiede, il mondo è troppo appannato per capire cosa Hinmel stia dicendo o l’espressione che ha in faccia mentre gli si avvicina. Hinmel allunga una mano, cambia idea, gesticola verso destra e parte in quarta. Si ferma, si volta, controlla che lo segua. E Genzo Wakabayashi è un idiota che non imparerà mai, così lo fa.

Ci impiegano un’ora perché o Genzo si è allontanato davvero tanto dalla scuola o è lento a muoversi. Hinmel se ne sta zitto, non si lamenta e non offre altro aiuto che una frase quando arrivano in vista dello stadio:

 - Spaccagli il culo.

È abbastanza.

***

L’allenamento dell’Amburgo SV è iniziato da dieci minuti quando Genzo Wakabayashi fa irruzione in campo. Entrando evita gli spogliatoi, dribbla lo sguardo attonito e il vociare preoccupato degli assistenti di campo e raggiunge in scarpe da ginnastica il piccolo chiocciare dei giocatori dell’under tredici.

È un uomo con una missione. Così non si fa distrarre dalla sagoma di Hermann Kaltz o da quella della sua controparte più alta che gli fa bruciare gli occhi. No. Genzo rimane fermo sull’obbiettivo. I lividi sulla faccia di Hertz sono una nebbia di viola attorno al labbro spaccato, chissà se ci è andato a scuola o ha preferito nascondersi a casa. Non è solo, Gongels e Braun gli stanno stretti vicino e le macchie scure si imporporano su facce che diventano più pallide quando lo vedono arrivare.

Vigliacchi.

Neanche ora con il numero dalla loro avrebbero più il coraggio di affrontarlo. Hans Krüger gli dà le spalle e non va bene, il suo viso è troppo dannatamente simmetrico. Lo pensano anche gli amici attorno cui sta ronzando, glielo dice la piega quasi soddisfatta della bocca rotta di Hertz. Genzo ride, non è un suono piacevole.

Il portiere si volta e… ah. Genzo ha aspettato da mesi una ragione per farlo.

Alla fine sono Friedman e Mikami a correre in campo a separarli. Cioè: a rimuovere Genzo da Krüger che al primo buffetto crolla tipo marionetta senza fili. Sono Friedman e Mikami perché nessuno degli altri ragazzi muove un dito. Inatteso: Genzo si era aspettato che qualcuno aiutasse Krüger. Invece no. Sarà lo shock.

Vigliacchi.

È contro tutti loro che Genzo rivolge un perentorio: 

- Potete riprovarci quando volete! SEMPRE DISPONIBILE!!!

Perché Mikami ha la mano stretta attorno al suo polso, fa quasi male mentre lo trascina a bordocampo strepitando un rigurgito di parole che Genzo non è più in grado di distinguere. Mikami significa “sicuro” e l’adrenalina che lo tiene in piedi dalla notte precedente scivola dalle ossa e si scioglie contro il pavimento.

Forse il suo Mister se ne rende conto perché passa dal tedesco al giapponese e… perché ci sono delle pareti? Genzo è abbastanza sicuro che fossero vicino alle panchine, come accidenti ci sono finiti negli spogliatoi?

Sta giusto per chiederlo quando qualcosa di scuro, posizionato nella periferia destra si avvicina un po’ troppo rapidamente alla sua faccia. Genzo reagisce in automatico. Alza le mani per proteggersi il viso e restituire il colpo.

Ma non era un pugno. Non era neanche uno schiaffo. È Mikami che cercava di sentire se avesse la febbre.

Attraverso la nebbia fitta come panna montata questo è il momento che uccide la sua vittoria. La faccia di Tatsuo Mikami che si contrae come se Genzo gli avesse appena spezzato il cuore.



NOTE:


Ed ecco finalmente la seconda parte di quel mastodonte del capitolo di Genzo e FINALMENTE le timeline del terzetto si sono allineate (più o meno). Non che i salti temporali siano finiti, sia chiaro.

Vi lascio sotto lo schemino con i giocatori titolari dell'Amburgo SV juniores, che ho ridisegnato ispirandomi alle immagini ufficiali presenti sulla fan-pedia. Come vedete mister Friedman durante la partita contro il Borussia Dortmund applica parecchie sostituzioni, ma questa sarà la formazione che un giorno si scontrerà contro l'amatissima Nazionale nipponica.

Nota di colore meno positiva: la mia salute non va esattamente alla grandissima e mi fa rimanere indietro col lavoro, quindi, con GRANDISSIMO RAMMARICO, il capitolo 10 non uscirà il primo mercoledì del prossimo mese come da programa, bensì il PRIMO MARZO.

Così avrò più tempo per correggere, editare e sperare di non fare hiatus più lunghi.


Ci vediamo a marzo per sapere cosa combina Hermann Kaltz e intravedere le prime crepe in un'amicizia solida come il cemento armato.


>>>10. Fratture.

Hermann Kaltz si prepara ad andare in vacanza.


* Lo sketch iniziale prima o poi diventarà "la cover" di questa storia, accidenti alla mancanza di tempo.

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Capitolo 10
*** Fratture ***


* questa fiction viaggia parallela al canon: ci flirta insieme, ma non se lo sposa.


 

9. Fratture.

 

Hermann Kaltz non si sente le gambe e ieri non doveva lasciarsi convincere a seguire ancora quei due deficienti: solo perché ha una porta non significa che sia un campo da calcio, KARL! Ci sono le buche ed al terzo sasso in cui inciampa Hermann decide che su quella robaccia, lui, non corre più. Ovviamente quel fesso di Schneider adora quel campetto, se fosse per lui passerebbero il resto della vita a tirare calcioni all’erbaccia e confabulare sull’inclinazione del piede d’appoggio.

- Lo sai vero che l’effetto su un terreno così non glielo dai tu?!

Karl aveva piegato la testa, fissato un punto indistinto un po’ sopra la spalla destra di Hermann e ripreso a scivolare nel prato: della tua opinione me ne sbatte un piffero. Schneider non ha mai bisogno dirlo a voce alta ed è alquanto detestabile che questa volta abbia pure ragione. Come Karl Heinz Schneider riesca a cavare da un campo d’ortiche quel tiro imprendibile che sarà la rovina di un portiere in Bundesliga su due è il grande mistero che Hermann Kaltz sarà sempre troppo pigro per risolvere. Potrebbe chiedere a Genzo, ma l’amico non è propriamente affidabile quando Schneider è coinvolto.

Le viti della sedia affondano nella schiena mentre si dondola avanti e indietro. Quattro letture estive sono un sopruso, almeno la Aydin del banco davanti è felice: quando sorride le vengono due fossette che sono uno spettacolo e un’ottima distrazione dal tempo che non si decide a passare. Ugh.

Hermann ha cerchiato col rosso il tre di luglio, saranno tipo due anni che i Kaltz non riescono ad andare in vacanza e il dramma di cosa portarsi in valigia è appena iniziato.

- Che ci serve un adattatore per la corrente?

- È l’Italia bestia, mica l’Inghilterra.

Sua sorella adora sbattergli in faccia la sua “esperienza internazionale” solo perché LEI con la scuola è andata all’estero tipo quattro volte mentre lui stava fermo, ma non è Emilia quella con il migliore amico internazionale. Hermann ha imparato un sacco di cose senza muoversi: per esempio che in Giappone guidano dalla parte sbagliata per qualche stupida regola samurai e che hanno un dolce fatto con il riso che si chiama mochi. Non ha afferrato bene la storia del coniglio che lo prende a martellate sulla luna, ma sta bene perché Hermann sa che Genzo, approfittando della sua ignoranza, spara un sacco di stronzate.

La scorsa settimana hanno passato la pausa pranzo con Reinhard e Schroder. L’anno prossimo rimpastano le sezioni in base al profitto e Hermann è abbastanza sicuro di finire in classe avanzata di matematica col resto dei nerd, ci vuole arrivare preparato.

- Abbiamo bisogno di un codice.

La Bumgarner gli ha fatto una tirata pazzesca quando ha scoperto lui e Theiss mandarsi segnali in verifica tramite un mix di tosse e matite che cadono. La proposta di Schroder di imparare il codice morse viene presa in considerazione e affondata: troppo sbatti.

- Perché non studiate e basta?

Chi ha invitato Kurt Vogel al loro tavolo? Da quando è diventato pappa e ciccia con quei due professionisti dei giochi da tavolo, Hermann se lo ritrova dappertutto. La corte depenna dagli archivi il suggerimento non richiesto e Reinhard propone inservibili codici cifrati. Schneider finisce il suo panino senza guardarli, mentre Vogel si scalda, borbotta qualcosa tipo “non state mica creando il codice Enigma” e suggerisce qualcosa di completamente ridicolo come assegnare alle note musicali un valore relativo. 

- Così bypassiamo la carta.

Vuole davvero passarsi le informazioni fischiettando? Come pensa ‘sta gente di non essere beccata? O di riuscire a comunicare? Non è la sola proposta ridicola, ma stupisce che nella top five rientri quella di Genzo.

- Riso colorato?!

Hermann è incredulo, Genzo aiuta Schneider ad aprire la bottiglietta d’acqua. Al terzo insuccesso gli viene la faccia paonazza.

- Se andava bene ai ninja…

Bum! Davvero, ormai Genz-man si aspetta di fargli bere ogni cosa del suo Paese come i pavimenti canterini e i distributori di mutande usate. A ventun anni Hermann Kaltz visiterà il Giappone per pochi mesi in attesa del via libera medico sulla frattura, ci tornerà svariate volte e rivaluterà enormemente il senso dell’umorismo del suo portiere. I giapponesi sono STRANI.

Nel 1986 l’anno scolastico scivola pigramente tra le dita mentre Hermann Kaltz sale le scale, raggiunge l’altra sezione e scopre di essere stato abbandonato. TRADITO! Begli amici: quei due fetenti di Genzo e Karl non si sono visti. Bigiano SENZA AVVISARLO.

Hermann mastica il tradimento, ragiona che Schneider è una certezza sullo scanso, ma Genzo è davvero troppo quadrato per saltare le lezioni. Opzione due: ieri quegli idioti si sono persi. O si sono fatti male. Senza di lui a fare da grillo parlante avranno continuato a giocare fino a tardi e perso l’ultimo autobus, saranno rientrati all’alba sudati marci e ora se ne staranno a letto con quaranta di febbre. Sarebbe da loro.

- Wakabayashi sta bene?

La graditissima interruzione è fornita da Anna Kuster e dai suoi ottanta centimetri di capelli biondi legati in una coda alta. Forse, se Hermann è abbastanza gentile quando glielo chiede, Genzo lo lascia entrare nel suo club del libro privato. Proverà a proporglielo al rientro delle vacanze, in risposta riceverà una tonnellata e mezza di cartaccia rilegata e Hermann stabilirà che il portiere si può anche tenere la Kuster e la Aydin. I compiti per rimorchiare sono davvero troppo.

Dice:

-  Conosci Wakabayashi: praticamente indistruttibile.

Se quel deficiente si è preso l’influenza a giugno, Hermann lo prenderà in giro a vita. I capelli biondi della Kuster lo distraggono abbastanza da farlo tornare in classe sul filo della campanella, così quando si siede non ha tempo che per un gestaccio per Gongels dei banchi in fondo.

- Come sta il muso giallo oggi?

Un’altra voce da dietro, Ernst Braun, ridacchia con poca convinzione di fare silenzio. Hermann fa per voltarsi, ma entra la Baer e le preoccupazioni diventano altre.

Peccato per la sgradevole sensazione di essere fissato: Bernd Hinmel s’è trasferito in classe sua due mesi fa e se ne sta per i cazzi propri la maggior parte del tempo, tranne oggi in cui decide di rompergli i coglioni. A un’ora dal termine delle lezioni Hermann cede, si volta verso il centrocampista e gli rivolge l’inconfondibile gesto del “che accidenti vuoi dalla mia vita”.  Il messaggio passa e Hinmel smette di bruciargli la schiena, ma quando si alza per andare al bagno fa scivolare un biglietto sul banco di Hermann con la discrezione di un cammello ubriaco.

“Tutto bene con Mao?”

Hermann non si fida ciecamente dell’istinto: preferisce misurare l’altezza del pozzo prima di gettarcisi dentro. Questione di sopravvivenza. Così, se qualcosa puzza, Hermann aspetta ed accende orecchie e cervello. A nove anni quando è il bambino basso, appena arrivato in città e con l’accento strano assorbito dal nonno sorride in classe e non pianta grane. Dopo una settimana nessuno le pianta con lui perché Hermann si è fatto amico del tizio più grosso della scuola, grande appassionato di My Little Pony.

A dodici attende che la calca degli studenti in uscita si diradi per inserirsi nel buco lasciato dai difensori e intercettare l’anello debole della catena. Hermann batte una pacca sulla schiena di Ernst Braun e provoca ridendo:

- Ehi amico, per te è vero che Friedman mette Wakabayashi titolare?

Braun, l’eterna riserva, si irrigidisce all’impatto poi rilassa la faccia in un sorriso che non raggiunge gli occhi.

- Se occhi a mandorla è furbo la metà di quanto crede, vedrai che torna al Paese suo prima della fine del mese.

Non gli piace. Non gli piace un sacco.

Perché accidenti Genzo e Karl hanno scelto proprio oggi di non venire a scuola, ‘sti deficienti?!

Ernst Braun ha un livido un po’ sotto l’occhio destro. Robetta, da distanza nemmeno la vedi.

- Che hai sbattuto contro un palo ieri?

- Ehi Hermann, ma sai che hai lasciato la maglia in classe.

Max Theiss poteva portargliela invece che spuntargli da dietro e procurargli un principio di infarto. Braun si lamenta di fare tardi all’autobus e se ne va, Herman grugnisce e torna dentro.

Se le sue sopracciglia si corrucciano ancora gli creeranno un buco nero in faccia. La classe è deserta eccetto che per Rogers addormentato sul banco. Herman afferra la mostruosità color panna fatta da nonna e stabilisce di star piantando un casino sul nulla. Gli ultimi giorni di scuola sono per gli sfigati e l’assegnazione dei compiti, Karl avrà convinto Genzo a prendersela comoda e i due imbecilli saranno rimasti a casa a smaltire l’allenamento serale.

Gongels se ne esce con una puttanata razzista al giorno, è solo una coincidenza che il bersaglio oggi sia stato il portiere e non la Aydin. Braun sarà incespicato in allenamento o giù di lì.

Però aveva le nocche sbucciate.

Non gli piace. Non gli piace un sacco.

Hermann cincischia e perde nella sua interezza il casino che scoppia a meno di cinquecento metri.

***

Nel 1993 dopo le qualificazioni asiatiche e per il seguente mese e mezzo i medici non saranno certi se Genzo potrà tornare a giocare. Poi l’infortunio si rivelerà meno grave del previsto e il “per sempre” si tradurrà in un sei mesi di fermo variabile e fisioterapia per un annetto. A diciannove anni, Hermann Kaltz capirà ad un livello meno intellettuale che calciatori non lo rimarranno per sempre e che lui, al contrario di Schneider, non conterà al ritiro su un budget milionario. L’opzione di aprire un’azienda vinicola rimarrà aperta, ma anche per quello servono denaro e qualifiche ed Hermann non sarà il Kaltz meno studiato di famiglia. Se ci si mettono lui e Genzo l’Abitur lo possono passare.

E se Hermann lo coinvolge nel sostenere l’esame è solo perché vuole una spalla su cui piangere mentre le orecchie sanguinano per lo studio, non perché l’umore del portiere dall’incidente con la Cina sia andato a picco e l’inattività gli scavi la faccia in modi pericolosi.

Karl sale da Monaco una volta a settimana, Hermann scherza che dovrebbe farci il tagliando viste le volte in cui accompagna Genzo in ospedale, un giorno gli porta un orsetto di pezza come il premio di una giostra. Schneider non ride, ma non importa perché vederlo affannarsi dietro al portiere gli basta. Basta a convincerlo che il loro trio sia a posto e che le amicizie importanti resistano al tempo ed alla voglia di strozzare Schneider ogni volta che attacca a parlare.

In un’assolata giornata di marzo due terzi della loro formazione aspetta su sedie molto scomode che Genzo finisca la fisioterapia per andare al pub. Stanno zitti ed in regime di tregua perché ad Hermann, senza il portiere a fare da stato cuscinetto, non va di chiacchierare. Cioè, gli andrebbe, ma non gli va di incazzarsi.

Hermann quest’anno passa ufficialmente all’Amburgo SV dopo aver militato per anni come titolare della rispettiva under 21. La settimana scorsa s’è dovuto mettere in posa per quattro ore in uno studio fotografico per calendario, figurine e poster ufficiali. Ma queste cose Karl ha reso ben chiaro non interessino quando capitano a qualcuno che non faccia Schneider di cognome.

Così Hermann affonda il naso nel libro di psicologia, stringe gli occhi all’ennesimo quadro statistico sparato a caso e tasta il fondo del marsupio alla ricerca dell’evidenziatore giallo. Glielo passa Schneider.

- Ti era caduto.

Schneider sorride in una smorfia quasi timida e sono cazzate simili che rendono le sue ossa molli come gelatina e gli fanno ricordare che l’idiota accanto sia Karl, non il “Kaiser”. Il più vecchio dei suoi migliori amici. Così Hermann butta alle ortiche il cervello e spiega a Karl dell’Abitur. Sua Signoria non è affatto impressionata, Hermann prova:

- Insomma è una cosa buona avere un piano B.

- Solo chi non è bravo abbastanza per il piano A, ha bisogno di un piano B.

Ci sono bambini in sala d’attesa tre poltroncine più avanti ed è questa e solo questa la ragione per cui Karl Heinz Schneider quel giorno non torna a casa con un occhio nero. Il bastardo. Genzo ha sempre una giustificazione pronta, ma dopo un po’ è solo masochismo. Se manchi di rispetto con Hermann Kaltz hai chiuso.

Quando il mondano concatenarsi di frasi non dette logorerà la loro amicizia in una robaccia sottile quanto il filo interdentale, Hermann si volterà indietro e trasformerà momenti insignificanti in avvisaglie dell’esplosione.

Si dirà, sbagliando: avrei dovuto capirlo prima.

***

La casa di Hermann Kaltz sta a venti minuti di macchina dal campo dove la juniores dell’Amburgo SV si allena. Trenta con il traffico ed alle tredici ad Amburgo centro c’è SEMPRE traffico.

Da quando Emilia ha preso la patente, Hermann ha abbandonato i mezzi pubblici per trasformarsi in un pacco. Sua sorella lo accompagna OVUNQUE specialmente quando la possibilità di incrociare Mathias Bausler è uno dei fattori in gioco.

- Oh Mathias, sei così carino ad aiutare i ragazzi più piccoli.

- Oh Mathias, sei stato così brillante nella partita di domenica scorsa.

- Oh Mathias, sei così maschio ti prego fuggiamo a Los Angeles, giochiamo ai conigli e infiliamoci un metro di lingua in bocca.

Ok, l’ultima se l’è inventata, ma VERAMENTE… mortificante. Non tanto la strategia, Hermann farà molto peggio per accalappiare, ma il soggetto, Mathias Bausler: un sagomato di cartongesso con un naso più adatto a un tricheco che a un essere umano. Un accidente di brava persona però, Emilia ha ancora uno straccio di buon gusto.

- Sai quello che si dice su chi ha il naso grosso…

Molto in fondo.

Certe cose colpiscono diverso quando a dirle è tua sorella.

Oggi Hermann recupera il maglione in classe, stabilisce che la stretta allo stomaco sia fame e corre verso la Prinz 4 color mattone scrostato che è la macchina recuperata da Emilia da un amico di un amico di un conoscente per una cifra ridicola come le sue sospensioni. Apre il portello che devi spingere un poco in avanti e a destra per riuscire a sbloccare e salta dentro.

Emilia è imbambolata e le ci vuole un minuto ad accorgersi che sia arrivato. Poi scuote la testa e mette in moto, destinazione il chioschetto di kebab che sta tra scuola e campetto come un compromesso.

- È capitato qualcosa a scuola?

- UGH?

Sputacchia. Emilia accenna ad un certo casino in cortile che non è riuscita a vedere bene. Hermann lo archivia con una scrollata di spalle. Quel malato di gossip che è Jara Strauss lo aggiornerà in allenamento o ci penserà Max a scuola domani: dei deficienti che si prendono a botte non fanno andare ad Hermann il pranzo di traverso.

Mastica piano e ordina il bis. Coach Friedman nelle ultime settimane usa l’estate come scusa per liberarli in anticipo ed ha pure ridotto da trenta a venti i giri di campo per chi arriva in ritaro. Dieci se menti sul numero. Friedman è distratto ed Hermann sa perché: il coach s’è fatto la F-I-D-A-N-Z-A-T-A.

Fonti attendibili gli confermano che si chiama Camilla, abbia trentacinque anni e lavori come commessa al Netto. Quattro giorni fa è andato a verificare con Genzo che non ha compreso la segretezza dell’affare, ha riempito il carrello di fumetti americani e surgelati e si è presentato direttamente alla tipa in cassa. Camilla è carina, ha i capelli molto rossi, molto arruffati, un sorriso dolce ed occhiali spessi come fondi di bottiglia. Al coach piacciono le nerd.

Però quando Hermann ha sussurrato una bestemmia, è sgusciato da dietro il cassone dei prodotti a metà prezzo e ha raggiunto Genzo, Camilla li ha definiti “adorabili” e quindi almeno LEI ha DAVVERO buon gusto.

Emilia finisce di inalare il panino, corre a pagare, torna al tavolo, infila la felpa, sospira e si risiede: Hermann deve andare al bagno.

- Dovrei metterti il tassametro.

- Ma poi come faresti a lamentarti?

Occorrono venti minuti circa per atterrare negli spogliatoi. È nei tempi, ma sul rasoio del ritardo ed il silenzio che accoglie il suo ingresso gli fa un sacco strano. Tutti lo guardano, nessuno lo viene a salutare.

Hermann fa spallucce, marcia verso l’armadietto e controlla con la coda dell’occhio che quelli di Karl e di Genzo siano a posto. Il primo è mezzo aperto, il secondo chiuso. Karl deve essere arrivato in anticipo, Genzo il suo lo lascia serrato e quindi non significa un cazzo. Chiude lo sportello e Jara Strauss gli salta in braccio.

Porca paletta!

- Hai VISTO Wakabayashi?!

È il secondo infarto in meno di quattro ore, tutta questa tensione non può fargli bene.

Strauss interpreta il silenzio in modo corretto, prende fiato e procede a spiattellare con un sorriso a trentadue denti un resoconto da brivido su quello che è capitato nel cortile della scuola. È la scintilla che porta lo spogliatoio ad esplodere: TUTTI sanno, TUTTI conoscono un dettaglio che a Strauss è sfuggito.

- Ma avete visto la faccia di Hertz?!

Hermann non l’ha vista, Hertz, come Schneider, è arrivato al campetto prima di lui. E poi che centra col casino di questa mattina? Klaus sta in una scuola a tipo sei isolati dall’avvenuto disastro.

È Briegel a fornire nuove succulenti indiscrezioni. C’è stata un’altra rissa. Una precedente. Una più grossa. Una di cui Hertz si vergogna, ma che Briegel SA perché sono amici da quando militavano con Krüger nella pulcini dell’Altona93 e Klaus gli ha telefonato perché aveva ‘sto peso da levarsi prima di andare all’allenamento.

- Una gran vigliaccata secondo me. Ma Klaus non ha colpa, lui in mezzo c’è finito per sbaglio.

E per sbaglio Hermann Kaltz gli spaccherà tutti i denti. Almeno quando si sarà calmato a sufficienza per smettere di sorridere e vibrare attorno al suo stecchino.

Lintz, insieme al resto dell’Amburgo SV, gocciola dentro in ordine sparso e non capisce una mazza.

- Cioè, ma quindi Wakabayashi le ha date o le ha prese?

Tutti parlano e tutti assieme, Strauss dice che Gongels e Braun (eccoli sullo sfondo con le facce rotte a cambiarsi le scarpe ed a cercare di passare inosservati) hanno passato l’intervallo a vantarsi con Hinmel della loro “bella impresa”. Ad Hermann scoppia un capillare, perché Strauss non gliel’ha detto? Sono in classe assieme, alla campanella si sono fermati a parlare dei loro piani estivi. Sa che è amico di Genzo, CHE CAZZO.

Strauss percepisce, ingoia e abbassa la spensieratezza di quattro toni:

- Ovviamente pensavo che scherzassero, ma poi in cortile la faccia di Wakabayashi…

- CHE CAZZO HAI DETTO CHE HANNO FATTO?!

È la voce di Yilmaz quella ad esplodere. Il numero venticinque è appena arrivato, Mayer alza le mani: lui non c’era, lui non sa, riporta solo quello che hanno detto gli altri. Accende qualcosa nel cervello rintronato di Hermann, qualcosa di strano e che fatica ad identificare.

Ieri sera Krüger, Hertz, Gongels e Braun per ragioni che sapranno solo i cazzi, hanno deciso di tracciare col sangue il confine di chi sta fuori e di chi sta dentro. Quattro contro uno.

Schneider non rientra in nessuno dei racconti, lui e Genzo si saranno separati dopo che Hermann è andato a casa, lasciando il giapponese da solo contro il branco. Avrebbe dovuto rimanere. Caricarlo di peso in macchina.

Haness ride e chiede dettagli a Strauss che era presente per il terzo round. Vuole sapere se quando Genzo ha pestato Gongels e Braun in cortile sia stato come nel film “Karate kid”.

Gli adolescenti tra gli undici e i tredici anni sono tutti cafoni, però i vigliacchi non piacciono a nessuno. Quindi per i ragazzi dell’Amburgo SV questa è una storia divertente. Parla di un giapponese tutto matto che decide di andare a pigliare uno per uno quelli che il giorno prima l’hanno pestato e VINCE. Davvero divertente. Briegel difende Hertz, ma trova il tempo di ridere. Strauss alza le mani, le mette ad imbuto e inventa con Heintz una fantomatica arte marziale.

Hermann identifica quello che prova: disagio. Yilmaz chiude l’armadietto con un calcio ed Hermann SA. Sa che se il coglione protagonista fosse stato il turco e non uno dei suoi amici, Hermann ora starebbe a ridere insieme agli altri.

Ha bisogno d’aria.

Non corre, ma cammina a passo spedito e sopra i piedi di Mikami mentre l’altro lo chiama. Sarebbe più facile se i suoi compagni di squadra fossero cattivi. Invece... È strano. Non gli piace come lo fa sentire. Gli ricorda suo nonno, quel senso di grumo, tipo nebbia grigia che pasticcia il confine tra la terra ed il cielo. Hermann preferisce quando le cose sono semplici: individua Klaus Hertz in campo e si dirige dritto su di lui.

A non prestare attenzione ti fai male. Così Hermann sbatte contro la schiena di un cretino che sta rigido come un baccalà a centrocampo e rovinano entrambi a terra. Hermann prepara una tirata ad effetto, chiude la bocca: il tizio con cui ha fatto il frontale è Karl. Non è mai stato così felice di vedere quel brutto muso.

Non è che lo abbraccia, ma ci arriva vicino. Karl sta bene. Niente lividi o labbra spaccate che confermano che mentre ieri si girava il sequel di “Rocky”, Karl se ne stava placido a dormire. Hermann si rialza, leva un po’ di zozzeria dai pantaloncini. Karl non si muove, se ne sta culo a terra a fissarlo con occhi sgranati e fuori fuoco. Oggi siamo parecchio rimbecilliti. Forse ha saputo anche lui quello che è successo. Il pensiero distende i nervi e allunga i muscoli, Hermann gli porge la mano.

Karl la ignora. Si tira in piedi e sparisce a recuperare un pallone mentre il resto dell’Amburgo SV striscia all’interno. L’amore ha reso coach Friedman stupido o cieco perché la vista delle facce spaccate di tre dei suoi giocatori non lo smuove di una cicca.

- Ehi. - Hermann si piazza vicino a Schneider. – EHI!

Karl è una lastra vuota, ci puoi proiettare di tutto: disgusto, fastidio, terrore. Hermann un giorno perderà la capacità di leggerla, inizierà a confondere stupidità per cattiveria. Forse perché portano a conseguenze dello stesso colore. Ma a dodici anni Hermann Kaltz è un segugio. Guarda Schneider e capisce che al racconto di Hertz e Briegel è mancato un attore non protagonista.

- Quand’è che tu e Genz-man vi siete separati ieri?

A salvarlo non è il suono della campanella, ma Genzo Wakabayashi che fa il suo ingresso in scena.

***

La cosa più sorprendente di tutta la storia è che nessuna delle parti coinvolte sia sbattuta fuori dalla squadra a calci in culo.

***

Il rissone tra primo e secondo portiere dell’under tredici dell’AmburgoSV può essere descritto solo come EPICO. Dura si e no ottanta secondi, Hans Krüger viene annientato ed è un accidenti di spettacolo.

Inizia quando Wakabayashi spunta attorno alla linea di porta trascinandosi una gamba e con una faccia da incontro ravvicinato col tritacarne. Genzo ha un occhio gonfio, non spiccica parola, raggiunge Krüger e procede a sfondargli il cranio.

- Pensavate di passarla LISCIA, EH?! QUATTRO CONTRO UNO, EH?! Non tanto in gamba in uno scontro LEALE, EH!

In cinque mesi Hermann aveva fatto la tara a Genzo Wakabayashi: un can che abbaia, ma non morde.

Il genere di amico che è un incrocio tra un rottweiler e tua madre. Quello che ti chiede sei volte se sei SICURO di aver allacciato bene le scarpe, se non ci vuoi PROPRIO fare il doppio nodo e che scuote la testa quando poi inciampi e cadi. Una sorta di peluche formato umano: imbronciato, sarcastico, incattivito e generalmente innocuo.

Cazzo se si è sbagliato.

Strauss non aveva esagerato, ora Hermann CI CREDE che Genzo abbia sfasciato quel gigante di Gongels.

Krüger crolla a terra al primo cazzotto, si tiene la faccia e si lascia scoperto a una serie di calci che affondano nelle parti morbide. Genzo sta ridendo, è un suono basso e cattivo. Ci sarebbe da avere paura. Due settimane fa Hermann l’ha visto sbavare abbracciato ad un cuscino dopo un pomeriggio passato ad aiutarlo a pulire i bagni. Hermann non ne ha.

- Wakabayashi.

Dice Schneider, gli brillano gli occhi. Ah. Forse è quella la faccia che si fa quando ci si innamora. O ce ne si accorge. Parecchio in ritardo sul programma, Karl.

Hermann sorride e si sente giustificato a godersi lo spettacolo: Krüger se l’è andata a cercare. Lo pensa Klaus Hertz mentre si tiene la faccia rotta o Bernd Hinmel che è appena arrivato. Nessuno prova ad intervenire. Qualcuno rimane imbambolato, ragionando su quante volte da febbraio abbia attirato le ire di un giapponese che non conviene fare incazzare. Altri sono desensibilizzati alla violenza. Nessuno è così IDIOTA da mettersi in mezzo tra Wakabayashi e la preda.

Gli adulti sono costretti a farlo. Mikami e Friedman si materializzano a tirare via Genzo di peso mentre sta ancora gridando.

- Potete riprovarci quando volete! SEMPRE DISPONIBILE!!!

Allenatore e vice si dividono i compiti: Mikami trascina Genzo fuori dal campo e lontano dagli occhi dei compagni, Friedman si piega su Krüger a valutare i danni.

- Ce la fai ad alzarti? – Gli tocca il naso. – Non sembra rotto, ma meglio se lo facciamo…. e voi COSA FATE?! Non c’è niente da vedere! Riprendete a scaldarvi, SUBITO!

Il cervello degli allenatori di calcio funziona in modi misteriosi e Friedman si aspetta VERAMENTE che qualcuno stia a sentirlo. Per sua fortuna i club giovanili sono pieni di idioti che hanno speso troppo di sé per farsi buttare fuori, l’allenamento comincia, o meglio, riprende. La testa, però, sta da un’altra parte. I minuti scorrono lenti e veloci, mentre la gente inizia a sparire. Il primo è Krüger il cui naso non sarà rotto, ma ha decisamente bisogno di ghiaccio. Poi Hertz con Friedman. Dopo un quarto di secolo un assistente viene a portarsi via Gongels e Braun.

- Cosa pensi li stiano facendo?

Una tirata d’orecchi da svitarli la testa, Strauss. Hermann passa palla, aspetta che il tipo mandato dal coach sia distratto e prova ad imbucarsi. Viene rispedito indietro a calci.  Metaforici. Con quello che capita…

Schneider s’è dissolto. Uno degli assistenti simpatici dice che è andato a finire l’allenamento con l’under diciassette, quello antipatico di correre e smettere con le domande. Hermann fa un giro di campo, due, al terzo l’involata per gli spogliatoi riesce. Dilettanti.

Non trova nessuno. Né Friedman, né Hertz, né Genzo o Schneider. Spariti.

Hermann ha sete e nessuna voglia di rientrare, infila la maglia della tuta, va alla fontanella e la trova occupata. Christian Budenski sorride, finisce di bere, gli fa spazio e, appoggiando la schiena contro la parete, chiede:  

- Ehi, sai per chi hanno chiamato l’ambulanza?

***

Genzo Wakabayashi non prova dolore come un normale essere umano.

La leggenda, nata negli spogliatoi dell’Amburgo SV, si allargherà al resto della futura Nazionale giovanile della Germania Ovest quando, in una partita contro l’under quindici del Werder Brema, Wakabayashi, dopo uno scontro aereo con Manfred Margas, si tirerà in piedi, recupererà il canino che gli è volato oltre la linea di porta, lo ficcherà in mano a uno degli assistenti di campo e riprenderà a giocare.

A fine partita un odontoiatra glielo rimetterà a posto.

- Il segreto è conservare il dente nel latte.

Dirà, ma il punto che rimarrà bene impresso è un altro: Genzo Wakabayashi è matto come un cavallo. Ma del tipo di follia che un calciatore rispetta.

Che è poi la ragione per cui al torno di Parigi del 1989, la giovanile tedesca sarà l’unica a non sottovalutare l’arrivo di quella nipponica. Non tanto per le due amichevoli disputate, ma perché metà di loro ha avuto tre anni per abituarsi a quell’ecosistema a parte che è Wakabayashi. I loro allenatori otto con Yasuhiko Okudera. Gli “occhi a mandorla” non fanno più così ridere.

Hermann non ride manco adesso. Troppo scomodo.

Siede su una sedia progettata per il culo sbagliato. Tre file davanti una donna tossisce nella sciarpa mentre un tizio incartapecorito stringe le dita attorno ad una busta di plastica. Gli ospedali fanno nausea. Hermann lo registra ad undici anni, lo conferma a quindici, diciannove, ventuno e trentacinque. Sanno di artificiale. Non tanto per l’aria riciclata, i pavimenti scadenti o i cartelli con frecce troppo colorate. No, è quel mix di supermercato e stazione di servizio che dice che anche la disperazione è fatta in serie.

Lo fa sentire fuori posto.   

Hermann è al primo pit-stop al Marienkrankenhaus di Amburgo, non sa ancora che non lo faranno entrare. Dopo l’uscita di Budenski, Hermann è andato a cercare Emilia. Sua sorella, una volta scollata dalle tonsille di Bausler, aveva insistito per dirottarlo all’ospedale.

La receptionist era stata inflessibile, i Kaltz di più e dopo un’ora qualcuno era arrivato. Non Genzo, non Friedman, ma Mikami. Mikami con una gran brutta cera.

Hermann è abituato a piacere alla gente. È una dote, un talento. Chi potrebbe non amarlo con questa faccia? Dopo l’amichevole con l’Olanda che a nessuno piace ricordare, Karl si sbronzerà, perderà pantaloni e maglietta come sempre quando è ubriaco, lo fisserà negli occhi e annuncerà:

- Ma lo sai che sei uguale, uguale a Braccio di Ferro.

- Vaffanculo, Olivia.

Perché Wakabayashi è Bruto e lo SANNO.

A Tatsuo Mikami, Hermann non ricorda un simpatico personaggio dei cartoni animati. Al coach giapponese non piace. Affatto. Soprattutto in questo momento. Non ne capirà mai la ragione, ma oggi è uno schiaffo. Mikami non lo guarda, la sua voce lo oltrepassa rimbalzando contro sua sorella, gli occhiali scuri non aiutano a mascherare il disprezzo. Sillabe strascicate dicono:

- Lo tengono questa notte per accertamenti.

Poi gira sui tacchi e se ne va.

- Tutto bene?

Chiede Emilia ed Hermann impiega un secondo di troppo a capire che la domanda è per lui. Non sa che rispondere così grugnisce. Sua sorella dice che lo riaccompagna domani dopo scuola ed è un ultimatum più che un’offerta.

A casa mamma arriva tardi, brucia il filetto comprato al discount e passa mezz’ora a lamentarsi della gioventù disagiata.

- E pensa che figura che ci facciamo coi partner all’estero!

Ah. Se ne era dimenticato: Genzo e Mikami glieli ha mandati la Federcalcio giapponese. Ci hanno pure scritto degli articoli sopra, Emilia li ha conservati perché nelle foto ci stava anche Hermann. Forse è la pressione dei piani alti ad aver ficcato una scopa su per il culo a Mikami prima. Non Hermann. È un pensiero rassicurante. Lo aiuta a prendere sonno.

Il giorno dopo a scuola l’incidente è noto in misura variabile. Durante la prima ora la Baer scivola dalla cattedra alla lavagna, lasciando spazio al preside ed alla sua tirata sulla politica ad intolleranza zero su violenza e razzismo. Al terzo “bla” è chiaro che la passeranno tutti liscia.

All’intervallo Hermann dribbla Strauss, prende Max per un braccio e si materializza nell’altra sezione. Schneider è assente.

Schroder quando lo vede gli si schiaffa addosso seguito da una buona metà della classe. Quattro sono ragazze. Hermann sorride, un po’ scarsino Genzo, ma comunque niente male. Al secondo riassunto delle puntate precedenti, Vogel scoppia:

- Ma perché manca anche Schneider!

La Kuster gli sale sui piedi.

- Ci sarà stato male, poverino. Sai che è sensibile.

Che è mandare in caduta libera i punti di Karl sul piano sociale. La Özkan assume un’aria contrita, stabilendo la baseline del grande successo di Karl con le lesbiche. Hermann cambia argomento. È tardi, meglio se lui e Max tornano in classe.

Le sezioni stanno ad un piano di distanza, si deve fermare due volte ad assicurarsi che il sorriso gli rimanga incollato addosso.

- Finito di pavoneggiarti?

Hinmel ha una spalla contro lo stipite, braccia incrociate ed un’espressione indecifrabile. Non tirargli un calcio Hermann. Sii superiore. Conta fino a dieci. Al cinque gli spara un diretto al volto. Max e Strauss impediscono alla rissa di degenerare e  all’arrivo della Bumgarner sono tutti bravi e seduti e composti. La vicepreside li fissa e non commenta.

Un’energia fastidiosa è scivolata sotto la pelle di Hermann, prude. Forse il gatto gli ha attaccato le pulci. Strauss borbotta qualcosa a Hinmel, due ore e mezza dopo il numero cinque lo intercetta al cancello di scuola.

- Strauss mi… hai fatto bene! Qualcuno doveva raccontare agli altri la versione giusta.

E qual è esattamente? Hermann ieri, prima di cena e dopo l’ospedale, ha afferrato il cordless rosso, nuovo, fiammante si è chiuso in camera e ha telefonato a Schneider. Al terzo tentativo a vuoto ha riattaccato e chiamato direttamente Klaus Hertz. Hermann aveva già capito, ma voleva sentirselo dire.

Accetta le scuse di Hinmel con una scrollata di spalle, fa mezzo metro, alza gli occhi al cielo, torna indietro e ci aggiunge una pacca amichevole.

- Che ci vuoi venire a trovare il deficiente in ospedale?

Pro: qualcuno con cui lamentarsi in sala d’attesa. Contro: una compagnia piacevole quanto un nido di vespe nelle mutande. Hinmel dice di no ed è un sollievo.

- Dico al coach che non vieni.

Friedman lo sa già, però è un gesto carino.

***

Hermann ha in mano un foglio piegato in quattro, una cartolina ed un palloncino. Il primo a scartarlo contiene scritte in cirillico ingobbito che sono gli appunti di Anna Kuster sui compiti delle vacanze da consegnare strettamente a Genzo.

- E a Schneider!

La cartolina è un’idea di Emilia che ha afferrato il primo biglietto non riciclato nel credenzino che sta in cucina e ci ha scritto “guarisci presto” dentro. Hermann ci ha aggiunto “virgola pirla” a compensare il “Felice Natale” stampato in copertina.

Nei film americani ai pazienti portano fiori, peluche e un sacco di robaccia. Inutile è il tema, così Hermann recupera uno dei palloncini avanzati dal compleanno di Maria e tenta di darci una forma mentre aspetta su una sedia del Marienkrankenhaus che il suo culo diventi un quadrato.

Una casa ha preso fuoco in via Grindelhof vicino alla stazione degli autobus, Emilia è sparita a farci le foto per il giornale. Hermann aspetta. Ed aspetta. Sta cincischiando. Un uomo d’azione non si spaventa per un po’ di linoleum e quattro pareti bianche. Cerca un’infermiera, la impietosisce abbastanza da scoprire in che camera entrare.

Genzo ha una benda attorno alla testa, una garza sull’occhio e sta usando il bastone della flebo come supporto per scappare in bagno. Non si aspettava visite. La sua faccia si contrae, si chiude. Genzo ha due espressioni base: rabbia e ghigna. Al catalogo se ne aggiunge una terza, una molto neutra che ricorda ad Hermann quella di Schneider e che imparerà a non riconoscere negli anni. Forse perché gli fa un sacco paura.

Un battito e la maschera cade o slitta in sede.

- Quello che dovrebbe essere?

Genzo indica il palloncino che ha assunto l’aspetto di un fuoco artificiale o di un tratto dell’intestino tenue. Hermann non ha il talento di sua sorella.  

- Un cane.

Genzo ride. Hermann glielo tira in faccia.

***

Nelle settimane seguenti Friedman rivolta la squadra come un calzino. Krüger, Gongels e Braun vengono sospesi con obbligo di presenza: si manifestano agli allenamenti in anticipo, rimangono oltre l’orario e siedono in panchina. Saranno reintegrati quattro mesi dopo, tre contando la pausa estiva.

Klaus Hertz, la spia, la fa franca col coach, meno con la squadra. Aggiunge un lucchetto all’armadietto e fa coppia con Briegel quando possibile. Gli altri fingono studiatamente che non esista. Un mercoledì di settembre Wakabayashi prende una lattina di cola, si assicura di averla agitata e la sgancia ad Hertz. Una maglietta da lavare ed una risata collettiva dopo l’isolamento finisce.

- Basta usarmi come scusa per fare i coglioni.

Dice Genzo, quando chiede. Hermann sorride. Alla fine sono parecchio diversi loro due, lui sopra certe cose non sarebbe mai passato. Forse è per questo che Hermann è popolare, mentre al portiere la gente finisce per attaccarsi tipo carta moschicida.

In settimane che scivolano in mesi la giovanile dell’Amburgo SV stabilisce che odiare il giapponese non convenga quanto amarlo, ci si compatta attorno, lo assume come parte integrante dell’organismo.

Lo fa anche con Schneider, in misura minore.

Wakabayashi dopo l’INCIDENTE non viene sospeso, non ufficialmente. Praticamente tre costole incrinate lo bloccano per un mese e mezzo circa. Siede vicino a Gongels in panchina, passa il tempo ad urlare dietro ai compagni e ad assicurarsi che Karl si ricordi di fermarsi per bere. O Strauss. O Yilmaz. O Haness. O Hermann. Davvero, un incrocio tra un rottweiler e tua madre.

Heintz un giorno si sbaglierà pure. Arrossirà, balbetterà e renderà semplice dimenticare che Wakabayashi per la squadra sia mai sta stato altro. I coach hanno memoria più lunga. Per sei mesi il portiere è sotto scorta. Dopo l’allenamento un tizio dell’under diciassette arriva a verificare che Genzo salga in macchina con Emilia o stia composto ad aspettare Mikami. 

- Fottuti arresti domiciliari.

Dice Genzo. La stessa cosa era capitata a Schneider e al fratello di Hinmel l’anno prima. Hermann sopporta le lamentele, il brontolare e non tira una zuccata a nessuno.

Un giorno lo sfigato mandato a sorvegliarli è Christian Budenski che attacca un bottone invidiabile alla sua controparte asiatica in miniatura e finisce per acquisire un padawan. Genzo la pianta di sbuffare e, una volta ripreso, inizia ad orbitare con Schneider attorno ai ragazzi grandi. Hermann sarà trascinato controvoglia causa correnti gravitazionali.

Con circa un terzo dei nuovi e vecchi compagni Hermann giocherà per i dodici anni successivi.

Nel frattempo l’estate scorre leggera e i Kaltz riescono EFFETTIVAMENTE ad andare in vacanza. Hermann scopre che i campeggi italiani sono pieni di tedesche e finisce per rimorchiare una connazionale di cui in capo ad un anno avrà scordato il nome.

Al ritorno Amburgo lo accoglie un po’ più fredda di come la ricordava, ma meno ostile. Karl ha reimparato ad esprimersi oltre i monosillabi e ha preso la cattiva abitudine di portare il cane al campo durante gli allenamenti e Friedman GLIELO LASCIA FARE.

Sauzer, più educato del suo padrone, se ne sta tranquillo da un lato a prendersi coccole, grattini e a far risalire la popolarità di Schneider. Il più contento è Genzo che con gli animali si trasforma e… ah. È una strategia. Bravo Karl.

Forse per l’idiota c’è speranza.

- Lo sai che è scappato?

Hermann non ha voglia di ripensarci, ma il suo cervello ha altri programmi. Da quando è tornato dall’Italia non fa che riproporgli a nastro la telefonata con Klaus Hertz di un mese prima. 

– Sapevo che era molle, ma non lo facevo un codardo.

Neanche Hermann. Gli amici ti sorprendono sempre.

Oggi Karl è prevedibilmente appiccicato a Genzo, condividono le cuffie del walkman e si rintronano con quelle che scoprirà essere lezioni di lingua portoghese. Sono carini. Teneri. Un’amicizia conta se non ti puoi fidare?

Schneider due mesi fa ha lasciato che quattro coglioni pestassero il portiere senza muovere un dito. Se ci fosse stato Hermann al posto di Genzo non sarebbe stato diverso.  

Sono tutti disposti a perdonare Schneider. Sempre.

- La paura ti fa fare cose stupide.

Aveva detto il loro portiere in una stanza d’ospedale, dopo aver ascoltato Hermann raccontare di Rudy Frank Schneider e del casino fatto esplodere da Hertz due anni prima. Genzo era rimasto molto fermo, molto rigido. All’arrivo di Mikami avevano cambiato argomento. Più tardi un’infermiera li avrebbe autorizzati a tornare a casa.

Genzo era rientrato per l’ultimo giorno di scuola. Hermann lo aveva salvato dai compagni di classe e avevano trascorso in cortile intervallo e pausa pranzo. Non avevano parlato di Schneider. Genzo, per recuperare una merendina, era rimasto con un braccio incastrato nel distributore ed Hermann aveva riso tanto da tagliarsi la lingua con lo stecchino.

- Una volta ho avuto così paura da rinunciare al calcio.

Aveva detto Genzo, riprendendo una conversazione che Hermann pensava chiusa.

- Mister Mikami mi ha riavvitato la testa a forza di sberle quella volta.

Erano rimasti a lungo sdraiati nell’erba a farsi bruciare la faccia dal sole. Due giorni dopo Karl aveva smesso di evitarli. Forse, come per le scotole incrinate, certe cose hanno bisogno di essere lasciate stare perché la frattura non si allarghi.

Se, a vacanze finite, i suoi amici hanno deciso di fingere non sia successo niente, Hermann non starà a sindacare. Una preoccupazione in meno. Probabilmente.

Genzo pungola Karl col piatto del piede. L’estate si raggruma, olio sull’acqua, lascia settembre filtrare nell’increspatura.

- Com’è che stai messo coi compiti? - Silenzio. Il portiere annuisce. - Sta sera vieni a casa mia.

Karl si riscuote.

- Ci sarà anche Tartan?

Mikami ha recuperato un gatto: è grigio, tigrato e, a differenza di Marmellata, ama Karl alla follia.

La cosa a Genzo non piace.

- Perché a me morde e a lui fa le fusa?! Se SONO IO a dargli da mangiare!!!

- Forse è perché con te si sente al sicuro.

Hermann lo dice e il portiere deflagra in una litania di insulti che sembra sua nonna durante il rosario. Quando si scarica, butta indietro la testa, fissa Hermann e chiede:

- Sei dei nostri?

Domanda stupida.

Hermann non risponde neanche.

 

>>> FINE PARTE UNO: Amburgo, 1986.

 


 

NOTE:

 

Eccoci!

Incredibile, ma vero, ma la prima parte di questa long fic è finalmente finita!

Il primo anno del caro terzetto amburghese riunito con luci e molte ombre finisce con un’amicizia solida, ma con alcune pericolose crepe (che vedremo incancrenirsi negli anni che verranno).

Ma, ovviamente, la storia è ben al di là dal concludersi, perché l’obbiettivo sarebbe riaccordarsi teoricamente alla linea temporale del Rising Sun del terzetto. Ci vorrà un bel po’ ^_^

Volevo ringraziarvi tutti per i vostri commenti e il vostro sostegno nei messaggi. So che rispondo poco spesso (I’m a bit shy) e tardi, ma davvero mi illuminano sempre la giornata, specialmente in questi anni “terribilis” in cui sono sempre ammalata.

 

COSA SUCCEDE ORA?

Inizia la prossima sezione di questa storia: il primo INTERLUDIO!

Ci stacchiamo temporaneamente da Genzo, Karl ed Hermann per passare il testimone ad un altro personaggio (spoiler: un giorno ci sarà anche l’amato MorisakI).

Il primo prescelto è… TATSUO MIKAMI! Il cui POV ci accompagnerà teoricamente per i prossimi tre capitoli, per andare a riaccordarci con Genzo & CO.

 

 

Il prossimo aggiornamento sarà sempre tra due mesi mercoledì 3 maggio. 

 

>>> INIZIO INTERLUDIO UNO: Giappone ‘45/Germania ‘87

Tatsuo Mikami vuole essere un calciatore, non un padre.
La vita è piena di sorprese.

 

>>> 11.Tatsuo Mikami.

La cittadina di Tamagawa è un angolo di mondo a cui Tatsuo Mikami desidera solo scappare .

 

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Capitolo 11
*** Tatsuo Mikami ***


* questa fiction viaggia parallela al canon: ci flirta insieme, ma non se lo sposa.


 

 

INTERLUDIO 1:  Giappone ‘45-‘86; Germania ’86-‘87

 

11.Tatsuo Mikami.

 

La cittadina di Tamagawa nella prefettura di Saitama è un angolo di mondo a un’ora da Tokyo composto da pendolari, tre scuole elementari, zero licei ed estati umide che gonfiano i polmoni accartocciando il respiro.

Tatsuo Mikami ci nasce nel 1945.

A quella vita appartengono pareti pregne di fumo, l’odore del kerosene, il tatami rotto, sfilacciato con la muffa incastrata negli angoli, il calore di suo fratello Shisui che trema contro di lui nel futon e quello del sakè che non dovrebbe bere, ma che Kozo della casa accanto gli allunga come un segreto. A quella vita appartiene anche Akihito Mikami, suo padre.

Non Tatsuo.

Un giorno mamma si stufa di prendere botte, fa le valigie e scappa di casa lasciando indietro marito, l’obi dei regali di nozze e l’ultimo dei suo due figli. Tatsuo, invece, Hiromi Yoshida se lo porta dietro perché il primogenito le si attacca alle gambe e non le molla finché non appoggiano il culo sul sedile di un vagone del primo treno per Kyoto.

Il quartiere di Yamashina si srotola  confuso attorno, mentre il miracolo economico degli anni Cinquanta abbatte le case e le sostituisce con condomini affollati attorno a templi che resistono all’affannarsi del tempo. Hiromi Yoshida ha un diploma di scuola elementare, un figlio a carico e parenti che la aiutano a trovare lavoro in una delle industrie metalmeccaniche che anneriscono l’aria di Tokyo.

Tatsuo cresce con gli zii. Zio Akira ha sessant’anni, mette lo zucchero in barattoli stretti che nasconde nei cassetti dell’armadio, Tatsuo non sa che lavoro faccia, ma a casa lo vede solo a pranzo e mai a cena. Quando zia Chyo non vede, zio Akira scambia il natto di Tatsuo con una fetta di carne e gli strizza l’occhio.

Tatsuo frequenta la scuola pubblica del quartiere, fatica con le amicizie, con gli studi anche peggio, frequenta il club di baseball e si fa insegnare il dialetto del Kansai da zia Chyo alla sera. Un mese morde la coda all’altro, Tatsuo sostituisce “arigatou” con “ookini”, sorride più spesso, smette di indossare i vestiti riciclati del figlio morto di zio Akira e continua a non piacere.

Ripensa a Tamagawa, a Shisui, a Kozo e a quando scappavano coi bambini grandi a fare il bagno nel fiume. Tatsuo era quello coraggioso, lo pensavano tutti. Non aveva mai paura ad andare dove l’acqua era più profonda, la corrente più forte. Se ficcavi la testa dentro ci vedevi i pesci, quando le orecchie si stappavano Kozo urlava di uscire, che non era più divertente. Non lo è neanche Kyoto. Forse se Tatsuo ci affonda bene diventerà un salmone e nuoterà contro la corrente, all’indietro.

Mamma smette di fare la pendolare. Torna una volta al mese, gli zii non chiedono dove vada a dormire. Dopo sei mesi e due anni dalla fuga di una mattina che apparteneva alla notte, Hiromi Yoshida porta a casa un uomo. È alto, triste anche quando sorride e si chiama Hirohito Nakamura. Mamma l’ha conosciuto a un party aziendale. Il signor Nakamura è vedovo, ha quarant’anni, quindici in più di sua madre ed è uno dei colletti bianchi parcheggiati nel reparto contabile della filiale di Nara

Le brave persone capitano di rado e non sopravvivono alla cattiveria della vita. Il signor Nakamura resisterà più a lungo di altri: morirà quattordici anni dopo per un tumore al pancreas e mancherà di pochi mesi Tatsuo indossare il bronzo alle Olimpiadi del ‘68.

Nel dicembre del 1953, invece, la felicità sembra destinata a durare per sempre. Il gennaio seguente mamma lascia il lavoro e si trasferisce a vivere nella casa del signor Nakamura a Nara, due mesi dopo Tatsuo la raggiunge per la fine dell’anno scolastico. Lo iscrivono alla scuola elementare Shinjo.

Tatsuo passa per un soffio il test d’ingresso, viene assegnato a uno dei banchi in fondo e prova ad essere più come Kozo. Brillante. Non gli riesce benissimo. Però è fortunato, i nuovi compagni lo considerano riservato, ingessato, ma generalmente “un tipo a posto”. Gli occhiali aiutano con le emicranie e a risollevare i risultati scolastici e Tatsuo Mikami inizia quella grande farsa che comporta essere uno studente modello.

Ad inizio giugno mamma diventa la signora Nakamura in via ufficiale, a fine mese partono per un viaggio di nozze in Baviera dove il nuovo marito ha lontani parenti. Zia Chyo offre di tenere Tatsuo con sé, il signor Nakamura ha piani diversi:

- L’ometto viene con noi.

Tatsuo Mikami non sa cosa pensare della situazione o della Germania. Le case di Landsberg am Lech sono dritte, ordinate e coloratissime, le chiese di Monaco si alzano in guglie che strappano pezzi di cielo. La gente guida dalla parte sbagliata.

Non capisce un accidente di quella lingua che tra trent’anni gli suonerà nostalgica e che Genzo userà per imprecare contro i suoi compagni in Nazionale. Tatsuo non capisce, ma non può che orbitare attorno alle persone che si affollano contro i televisori in bianco e nero nei bar dove al pomeriggio i coniugi Nakamura, più uno, si fermano a cercare ristoro da una giornata trascorsa tra monumenti e passeggiate. Trasmettono una partita di quello strano sport di cui hanno il club nella nuova scuola. Sakkā?

Qui lo chiamano furßall, calcio e la gente ha opinioni molto forti al riguardo.

- Ti dico che l’Ungheria non ce la fa senza Puskás!

- Col cazzo! Se è stato Kocsis a rifilarci quattro pere nei quarti!

Al signor Nakamura il calcio piace, o, almeno, Tatsuo crede sia così perché traduce a voce alta per lui gli orari delle partite e gli siede accanto quando le guarda. Ovviamente alle semifinali si tiene Germania Ovest perché non ci tengono al linciaggio, il giorno dopo scoprirà dai giornali che Ungheria-Brasile è sfociata in rissa e si pentirà di non averla vista.

La finale dei Mondiali di calcio si gioca quattro giorni dopo, Monaco tiene il fiato così a lungo da dimenticare come si respira. Alle cinque del pomeriggio del quattro di luglio la Germana è appicciata allo schermo. È una febbre esilarante che Tatsuo vive in braccio al signor Nakamura perché al bar hanno finito le sedie.

Puskás, nonostante l’infortunio, segna al sesto. Meno di due minuti dopo Czibor raddoppia e ricorda che è l’Ungheria la squadra più forte. Domani mattina hanno l’aereo. Tanto vale tornarsene in camera.

- Non è ancora finita. Guarda.

Dice il signor Nakamura ed ha ragione. Non si possono avere certezze nel calcio. Al decimo Morlock segna il due a uno, la Germania Ovest è un topo sulla proboscide dell’elefante. Pareggia. Il tre a due rubato al secondo tempo ribalta pronostici, sedie, svuota barili e  bottiglie ed inonda di gente le teutoniche strade. Passa alla storia come “il miracolo di Berna” ed è il giorno in cui Tatsuo Mikami si innamora per la prima volta. La seconda sarà a venticinque anni quando conoscerà Akane Anzai.

Tornati a casa molla il club di baseball e corre ad iscriversi a quello di calcio. Sono in quindici e più della metà frequenta la sesta. Giocano in magliette spaiate e scarpe da ginnastica, quelle giuste il signor Nakamura le compra per corrispondenza ad un negozio di Tokyo. Arrivano tre taglie più grandi, mamma fa spallucce, lo costringe in calzini doppi, riempie le punte di cotone e sospira:

- Crescendo le riempirai.

Tatsuo le spacca prima. Il coach della Shinjo, la squadra della scuola, è il signor Tsukumo che insegna matematica ed è il referente di una delle tre sezioni della quinta. Ha venticinque anni, Tatsuo a nove non percepisce quanto sia giovane. Il signor Tsukumo dice:

- Giocavo anche io quando avevo la tua età.

E Tatsuo non pensa di chiedere:

- Perché ha smesso?

La Shinjo manca di qualificarsi per Nara per i tre anni che seguono, alle medie la situazione cambia. il signor Tsukumo si trasferisce in un’altra città ed ad allenarli arriva un ex calciatore vero. Mister Kajiyashiki lo vede giocare per tipo trenta secondi prima di dire:

- Sei alto per la tua età. Vai in porta.

Non capirà mai se è un insulto o un complimento. Sorprendentemente il ruolo del portiere gli si addice, scopre persino di avere talento. È l’unica matricola a giocare titolare l’anno in cui la Shinjo centra la qualifica approdando al torneo interscolastico. Mamma viene a guardarlo, si annoia e chiede se è proprio SICURO-SICURO di non voler dare un’altra chance al baseball.

NO, grazie.

Il campionato nazionale delle scuole medie si tiene a Tokyo durante la pausa estiva. Il signor Nakamura chiede una settimana di ferie e dà a mamma il cambio sugli spalti. Tatsuo Mikami decide di non deluderlo.

La Shinjo inaugura il suo ingresso in campionato con una sconfitta: il Naniwa gli asfalta sette a uno, costringendoli a vincere il resto del girone con un certo margine di scarto. Le partite delle under quindici durano sessanta minuti anziché novanta, ma sono una al giorno e la stanchezza affonda le squadre dalla panchina corta. Così come gli infortuni. 

La Shinjo arriva ai quarti senza fiato. Non che sarebbe cambiato qualcosa: il Meiwa ha una formazione eccezionale, specialmente nel suo numero dieci che corre come un dannato. E segna. A Tatsuo. Quattro volte. È un accidente di maledizione.

L’arbitro fischia senza concedere recupero e corre a cercare riparo da un agosto che cuoce le ossa. Tatsuo incassa. Non cerca consolazione tra gli spalti. Il signor Nakamura sarà così deluso.

- Ehi.

Fa quel nanerottolo del numero dieci. Tatsuo ingoia le lacrime. Sii superiore. Lo ignora. Hajime Hirawa, il capitano della Shinjo, stringe la mano a quello del Meiwa. Quelli dell’organizzazione portano ai giocatori acqua fresca in bicchieri di carta, meglio andare prima che finiscano.

– EHI! – Il microbo persiste. – Ehi, TACCHAN!

Il cervello di Tatsuo Mikami fa un frontale contro la traversa e si inchioda. Sono cinque anni che non sente quel soprannome. Si volta. Il numero die… Kozo Kira dal basso del suo metro e quindici, gonfia il petto e sorride.

- Lo sapevo che eri tu! Avrei riconosciuto quei capelli ovunque! Sai che tuo fratello se li è tinti per non averceli uguali?!

I capelli di Tatsuo sono castani, chiari. Un unicum per un giapponese ereditato da mamma e che insegnanti e compagni di classe non prendono benissimo. Suo padre, quello vecchio, quello di Tamagawa, nemmeno. Tatsuo si teneva Shisui stretto e stava molto fermo, molto zitto, quando le urla salivano e Akihito Mikami afferrava i capelli “della sgualdrina” e trascinava mamma contro il tavolo e…

Kozo lo veniva sempre a trovare, dopo. Due anni di differenza lo facevano apparire immenso, gli strilli della casa accanto toglievano il filo alla lama della pietà. Kozo portava una bottiglia, se Tatsuo chiedeva l’altro sorrideva e rispondeva che papà ne aveva tante.

- Se una sparisce non se ne accorge neanche.

Kozo aveva iniziato a bere prima dell’esame d’ingresso delle elementari, una parte di Tatsuo non gli perdonerà di essersi ripreso, di esserci ricaduto, di averci trascinato dentro suo fratello. Insieme ad altre cose.

Kozo Kira è Tamagawa, il bozzolo che Tatsuo ha seppellito nella metamorfosi in farfalla. Non ha alcun diritto di starsene qui, ora, a ridere, schioccare le labbra, dire:

- Ehi, scambiamoci la maglietta.

Tatsuo è preso talmente in contropiede che lo fa. Più tardi la abbondonerà negli spogliatoi.

Nara sta a tre ore e mezza da Tokyo. La Shinjo ha i posti prenotati in albergo, così come i biglietti del treno perché il pulmino della scuola ce l’ha il club di kendo. Mister Kajiyashiki dice che è una buona cosa, che guardare le altre squadre è “un’esperienza formativa”. Normalmente sarebbe d’accordo, oggi vuole solo tornare a casa.

Dice di non sentirsi bene, il mister lo consegna al signor Nakamura.

- Fa troppo caldo. Suo figlio si sarà preso un’insolazione.  

È troppo stanco per correggerlo. Non è sicuro di volere farlo.

Fanno il viaggio seduti accanto. Il treno non è un diretto e le ore salgono a quattro, cinque causa lavori sull’altro binario.

- Hai giocato bene. – Dice il signor Nakamura. – Mi hai reso fiero.

Tatsuo è un Mikami, ma i cognomi sono abiti stretti.

Chissà come sarebbe indossarne un altro. Risponde:

- Grazie papà.

***

Mamma non ha potuto studiare. Uno sgarbo che sarà Tatsuo a pagare.

- Al liceo ci vai punto e basta.

Quindi addio calcio e buongiorno doposcuola. Dall’oggi al domani Tatsuo diventa un sorvegliato speciale, perché i suoi voti basteranno a qualificarlo per un liceo di sottocategoria, ma per uno GIUSTO si deve mettere sotto.

- Altrimenti come fai ad entrare in una buona università?

Trovare lavoro in una buona azienda, mantenere una famiglia di tre-barra-quattro persone, comprare casa, mettere dei soldi da parte, invecchiare, morire. Tatsuo si toglie gli occhiali, li pulisce sul fondo della maglietta. Ok.

Ci prova. Nessuno gliene dà merito, ma ci prova. A farla contenta.

Non è abbastanza.

I tabelloni di fine trimestre grattano qualcosa che ha già capito: più di quello non riesce a dare. Sta tra i primi cinquanta studenti dell’istituto, se fosse stato un disastro totale mamma si sarebbe arresa, invece gli siede vicino mentre fa i compiti, compra libri con le simulazioni dei test d’ingresso, li accumula sulla sua scrivania, controlla che ne finisca uno al giorno.

Tatsuo molla amici, fidanzata. La sua giornata finisce alle quattro e ricomincia alle sette. Mamma ha comprato un cronometro, lo usa mentre Tatsuo studia, si esercita, mangia. I voti peggiorano invece di migliorare, mamma va a parlare con gli insegnanti, gli sventola in faccia i risultati delle ultime verifiche, chiede a gran voce se voglia la sua morte e poi gli taglia i viveri. Tatsuo vive di tre ciotole di riso al giorno.

- Per mangiare in questa casa uno deve meritarselo.

Un mese e mezzo e Tatsuo Mikami scappa di casa.

Non ha una meta precisa, quindi va a Tokyo.

La capitale è un cantiere. Non importa dove ti volti, sicuro che c’è un buco. Quelli più grossi sono per la metropolitana, gli altri per il nuovo sistema ferroviario. Nel caos è facile sparire e, quando i soldi che ha rubato dal portafoglio di mamma finiscono, si cerca un lavoro.

Inizia come addetto alle pulizie dell’hotel ad ore dove dorme. La proprietaria è una vecchia con la faccia ingobbita, tirata da ciglia finte quanto i suoi denti. Non crede che Tatsuo abbia sedici anni e se lo tiene a scrostare i cessi perché:

- Giovani lo si è una volta sola.

Il lavoro è orribile, pesante, sporco. I clienti lasciano indietro di tutto, specialmente in fluidi corporei. La signora Kaede lo paga in uno stanzino in cui dormire e in una colazione grassa quanto striminzita.

- Se non ti sta bene trovati qualcosa d’altro.

Tatsuo prova nei cantieri. Sono tanti e la fortuna gira, lo prendono per una mezza giornata, due, tre. Poi i supervisori si riempiono di scrupoli, vogliono che i documenti siano firmati da un tutore. Quando le bugie si accumulano, Tatsuo lascia e torna a cercare.

La signora Kaede lo prende in simpatia. Fa un paio di telefonate e gli trova qualcosa in un locale di Host. Tatsuo lava i piatti, rassetta in cucina e non ha il permesso di parlare con le clienti. Donne e uomini di tutte le età pagano cinquemila yen per una tazza di caffè istantaneo e una favola di ragazzi bellissimi pronti a chiedere dei loro interessi. Tutti gli impiegati usano un nome d’arte ispirato alla televisione, agli anime o al cinema. Lui sceglie “Ninomiya”, come il calciatore.

Dopo un mese le gambe iniziano a vibrare, Tatsuo cerca la sede del Tokyo Gas per sapere come entrare in squadra. Per giocare devi essere un impiegato della compagnia, Tatsuo a quattordici anni non è troppo sveglio. Lascia nome, numero del locale e si fa promettere di essere ricontattato per una chiacchierata informale.

Tre giorni dopo suo padre si manifesta dietro al bancone e lo riporta a casa per le orecchie.

- Hai idea di quanto fossimo preoccup…

- Hai presente cosa ti poteva succeder…

- Ti hanno fatto del male?

No. Ma adesso gli viene da ridere. Cattiva idea. Non farlo.

Il signor Nakamura smette di iperventilare, si prende la testa tra le mani e si accascia contro la prima panchina. Tatsuo esita, gli si accovaccia accanto, conta i capelli bianchi sulla testa di suo padre.

Una lunga discussione in treno porta alla nascita del Grande Compromesso: Tatsuo andrà al liceo. Sarà lui a scegliere quale e finché manterrà la sufficienza in tutte le materie, nessuno avrà diritto di mettere becco su quello che fa nel tempo libero. A condizione che sia legale. E che usi le protezioni.

Mamma non è contenta.

Alla fine della cena, la prima insieme dopo quasi due mesi, si alza e dice:

- Avrei dovuto prendere Shisui.

Tatuo non risponde. Il giorno dopo telefona agli zii. Riprende a studiare.

Tra quattro mesi passa gli esami d’ammissione ad un liceo di Kyoto.

Lascia per sempre l’appartamento di Nara.

***

Gli anni del liceo sono quelli dei romanzi: grandi vittorie e cocenti sconfitte. Vale anche per Tatsuo. Nel 1960 entra nel Kyoto Purple Sanga, la sua prima squadra “importante”. Ci militerà finché non si trasferirà a Tokyo.

Le “fenici viola” giocano nella Emperor’s Cup con risultati piuttosto deludenti, soprattutto perché, a differenza della stragrande maggioranza dei club al di fuori del circuito scolastico, non sono finanziati da una grande azienda. Andrà meglio negli anni Novanta, grazie agli investimenti di Kyocera e Nintendo, ma per allora esisterà già la J League e il calcio giapponese starà svestendo i panni della categoria “amatoriale”.

A diciotto anni il Kyoto Purple Sanga lo fa capitano. Nonostante le sconfitte, Tatsuo attira l’occhio lungo del nuovo CT della Nazionale Giapponese, il tedesco Dettmar Cramer.

L’anno seguente, è convocato come terzo portiere del team che rappresenterà il Giappone alle Olimpiadi di Tokyo del 1964. Cramer ricostruisce la Nazionale dalle fondamenta, basi talmente solide che gli varranno per la stampa internazionale buona parte del merito del bronzo conquistato alle Olimpiadi successive. Cramer insiste per un maggiore metodo, la creazione di un torneo nazionale più competitivo e maggiori investimenti per la formazione di arbitri ed allenatori. Tatsuo si scolpisce quanto può nel cervello. 

È il suo primo incontro col calcio internazionale al di fuori di uno schermo televisivo. L’ottimismo della giovinezza rasenta la stupidità, ma Tatsuo Mikami sa di essere obbiettivo: il Giappone non ha fatto completamente schifo. Vince contro l’Argentina e non riesce a passare ai quarti.

In panchina conosce Minato Gamo, centroavanti del Kashiwa Reysol ed ex ala destra del Naniwa, la squadra che al campionato interscolastico l’aveva fatto tanto penare. Gamo ha due peli sotto il naso che spaccia per baffi, è irruento, spaccone, ma intelligente e un po’ timido quando c’è da parlare col coach.

- È che quello che dice io non lo capisco proprio.

Neanche Tatsuo, per questo hanno un traduttore. In ogni caso con l’inglese brutto del liceo e un certo livello di intuizione qualcosa in tedesco lo capisce, i suoi compagni si convincono che questo lo renda un secondo interprete.

- Il coach ha fatto il mio nome. Che dice?

- No Kanzai, ha starnutito.

- Che fa per l’anno prossimo? Rimane?

- Credo dipenda dalle rispettive Federazioni e…

- Ehi, Tacchan! Dì al coach che io il meglio lo do in attacco, non in difesa.

Ah. Già. In Nazionale c’è Kozo Kira.

Hugh.

Kozo fa collezione di falli, minaccia gli assistenti di campo, tira una zuccata in pancia a Gamo e si presenta all’allenamento ubriaco in almeno nove occasioni. Però è preciso nei passaggi, ha una riserva infinita d’ossigeno e quando tira centro lo specchio della porta una volta su tre. Il talento perdona molte cose, Tatsuo Mikami no.

***

Il Kyoto Purple Sanga continua a non vincere.

- L’importante è che tu sia contento.

Dice zia Chyo. È il ’67 e Tatsuo risponde:

- Qualsiasi cosa voglia dire.

Il signor Nakamura è ammalato. Tatsuo fa avanti e indietro: ospedale-Kyoto, Kyoto-ospedale. Guarda il volto di suo padre spolparsi.

Sei mesi fa un pirata della strada ha investito Akihito Mikami. Tatsuo non è andato al funerale. Forse è il karma. Festeggia con il padre che l’ha cresciuto la convocazione alle Olimpiadi del Messico.

- Se guarisci ti porto una medaglia.

Tre settimane dopo mamma si sente male durante la veglia funebre, i colleghi di papà l’accompagnano a casa. Il signor Nakamura era ben voluto in azienda, hanno portato un sacco di fiori. Puzzano così tanto che cancellano l’odore dell’incenso. Tatsuo indossa il completo nero che ha comprato per la conferenza stampa, stringe mani e sorride. Non indossa gli occhiali. Un volto si confonde nell’altro.

Poi arriva Shisui.

Tatsuo è un collage famigliare: la mascella viene dal padre biologico, il naso dal nonno e la miopia da zia Chyo. Suo fratello è tutto mamma. Soprattutto nella rabbia vomitata in frasi taglienti che ribaltano la pelle e la sostituiscono con carta vetrata.

Un minuto e mezzo e volano i cazzotti.

- Quando tiri un pugno tieni la mano così.

Dirà Genzo in un futuro che Tatsuo non immagina. Sarà il 30 agosto del 1986 e il suo piccolo portiere sarà circondato dai compagni di squadra. Mamma chioccia coi pulcini.

– Se lasci il pollice tra le dita, quasi sicuro che lo spacchi. Ah e non mirate alla testa se non siete abituati o non indossate protezioni: fate più male a voi che agli altri.

A ventitré anni a Tatsuo Mikami sarebbe stato utile saperlo. Il  dieci giugno del ’68, Kozo agguanta Shisui per le ascelle, si scusa a nome d’entrambi e trascina suo fratello fuori. A casa Tatsuo mette del ghiaccio sulla mano, pensa: se è grave come faccio con il calcio?  

Si sente una persona un po’ orribile per questo.

***

La mano sta bene. Una fasciatura stretta, ghiaccio e una settimana di riposo rimettono Humpty Dumpty a nuovo. Il tempo scorre tra le dita e il quattro ottobre Tatsuo atterra all’aeroporto Benito Juárez come da programma. Si trattiene dal baciare il sacro suolo e corre a cercare un bagno.

Liberato dal cibo sbocconcellato in volo, si ricorda di aver lasciato solo Katagiri. Trova il compagno di squadra a cinque centimetri dalle lacrime: le sue valigie sono finite in Svizzera.

- Ci organizziamo. I vestiti di Watanabe dovrebbero andarti bene.

Non piantano grane, si ricongiungono al resto della Nazionale e viaggiano compatti. Due giorni prima c’è stato un casino tremendo in piazza, i giornali hanno parlato di almeno un centinaio di morti.

Hanno dieci giorni per abituarsi all’altitudine, alla mancanza d’ossigeno ed al caldo umido che è uno schiaffo in faccia. Kyoto d’estate è peggio.

Il Giappone è finito in un girone schiacciasassi con Spagna e Brasile. Fortunatamente il primo match è con la Nigeria. Kamamoto segna per primo, il vantaggio non dura che nove minuti. Kozo è un furetto sulla fascia, il Giappone si riporta in vantaggio. Vincono tre a uno.

Al fischio dell’arbitro Kozo lo trascina fuori dalla panchina, lo abbraccia e grida. Tatsuo ride e gli fa un gestaccio. Dopo l’incidente al funerale l’ha chiamato. Si sono risentiti un paio di volte e, dopo un incontro in “zona franca”, Tatsuo ha deciso di dare alla loro amicizia una seconda possibilità. Ha aiutato un sacco che Kozo abbia smesso di bere e che non lo chiami più “Tacchan”.

Due giorni dopo l’infortunio di Hamazaki costringe Tatsuo ad entrare per la prima volta in campo. Il Giappone strappa un pareggio all’ottantatréesimo al Brasile, altri due giorni e il miracolo si ripete contro la Spagna. Un’aria densa di aspettativa infetta i giocatori della loro nazionale. Forse…

Forse.

Katagiri vibra e ripete che stanno facendo la storia del calcio giapponese, che niente sarà più come prima. Tatsuo è un po’ più vecchio, un po’ più indurito, ma anche lui ci crede. Ci crede. Soprattutto perché è difficile non farlo quando a dichiararlo è Munemasa Katagiri, lo scricciolo che in tre partite ha servito nove assist a Kamamoto.  

Katagiri, a sedici anni, è il più giovane giocatore convocato in Nazionale ed è la mascotte del Kyoto Purple Sanga. È entrato in squadra quando ne aveva quattordici e non avevano una divisa che gli andasse. Un po’ per disperazione avevano tinto quella del Furano, il team delle medie in cui Katagiri militava ad Hokkaido, poi zia Chyo era riuscita a stringere una delle sue. Non una da portiere, una delle altre.

Tatsuo, dopo l’addio di Cramer e il silenzio sui Mondiali precedenti, non si era aspettato che lo convocassero per il Messico, ma la sua performance dalla panchina quattro anni prima aveva convinto. Quando coach Naganuma era venuto a vederlo giocare OVVIAMENTE aveva notato anche il piccoletto. Munemasa Katagiri è incredibile. Kozo Kira sarà un giocatore di talento, ma Katagiri È il talento. Sono tutti certi che andrà lontano.

Però è ancora un bambino, entusiasta ed acerbo. Il diciannove ottobre, Katagiri fa irruzione in stanza urlando “CAPITANO”, Tatsuo neanche lo corregge, “siamo in Nazionale non nei Sanga”, scende in reception e per poco non se lo prende per mano. La valigia di Munemasa non sta più in Svizzera, bene, ottimo. Tatsuo comunica a gesti, poi si gira verso il più giovane e dice:

- È in Australia.  

Il giorno dopo si confrontano con la Francia ai quarti. Il Giappone domina il campo, il sogno è così vicino che ci puoi affondare le dita. Manca solo la semifinale con l’Ungheria e poi affrontare la vincitrice di Bulgaria-Messico. Ma il “miracolo di Berna” non si ripete nello stadio Azteca: il Giappone perde cinque a zero.  

La vittoria è cenere tra i denti, la testa torna indietro, si fissa: forse più di questo non riusciamo a dare.

- C’è ancora la finalina per il bronzo! Non ci vorremo arrendere ora?!

Katagiri e Kamamoto, impediscono al Giappone di finire pancia all’aria. O forse a Tatsuo. Gamo, Kozo, Watanabe e gli altri sono belli carichi. Anche il coach.

Ok, non sarà l’oro, ma aveva promesso al signor Nakamura una medaglia.

Tra una decade e qualcosa, Genzo avrà sette anni e siederà vicino mentre il proiettore riporterà Tatsuo al passato. Mentirà a Genzo, dirà che è la vittoria che è valsa al Giappone il suo primo bronzo. Invece è il match con la Francia, perché quello contro il Messico, quello vero, Tatsuo non l’ha conservato se non in un cassetto della memoria. Non importa se hanno vinto.

Il ventiquattro ottobre si tiene la finalina contro il Messico. Kamamoto segna al ventesimo, raddoppia prima del fischio del primo tempo e il destino del Giappone è consegnato alla storia. Ma i giocatori quando sono stanchi fanno errori, in cattiva fede e nella buona.

Munemasa Katagiri ha sedici anni ed è la promessa del calcio giapponese. Ha giocato in cinque delle sei partite disputate, si è inventato azioni perfette e non ha segnato una sola rete. Vuole rimediare.

Entrare nella storia.

Il Giappone passa il secondo tempo a martellare in attacco. Il pallone sfugge dai piedi di Morales e si alza a campanile, Katagiri ci si avventa di testa, il difensore avversario anche. Se Tatsuo chiude gli occhi riesce ancora a sentire il crack.

- Sai. – Dirà Munemasa, la sigaretta abbandonata tra le dita. – Non è stato tanto lo scontro, ma l’atterraggio.

Il calciatore messicano è innocente. Non aveva intenzione di cadere di piede sulla faccia di Katagiri. Klein ferma il gioco, c’è un sacco di sangue. Le ferite in testa pisciano sempre. Katagiri viene portato via in barella e per il quarto d’ora che li separa dalla fine Tatsuo riesce a convincersi che il danno sia stato superficiale.

Il Giappone vince il bronzo.

Munemasa Katagiri perde l’occhio.

***

Tatsuo continua a giocare per il Kyoto Purple Sanga per i due anni successivi.

A venticinque decide che è il momento di cambiare. Non puoi vivere di calcio in Giappone. All’estero è un conto, ma Tatsuo non ha il talento di Kozo Kira o di Munemasa Katagiri. Dovrebbe renderlo semplice, non più difficile.

A Tokyo le scuole medie Musashi cercano un allenatore.

Da due mesi Tatsuo scende in campo con gli occhiali: confondere le facce degli avversari è un conto, ma quando non vedi arrivare la palla è un problema. Non sa come Annibale Frossi o Jef Jurion ce la facciano. Tatsuo spacca sei paia, al terzo frammento che gli taglia lo zigomo decide di fare una telefonata. Ottiene il posto al Musashi.

L’occhio di vetro di Munemasa lo perseguita.

Tatsuo non è bravo a proteggere le persone. Ha fallito con Shisui, non ripete l’errore.

I genitori di Katagiri sono brave persone, distinte. Vogliono il meglio per il loro unico figlio, i soldi possono dare a Munemasa tanto, ma non possono restituirgli il calcio. Per quello ci può provare Tatsuo.

A tre settimane dall’Incidente, sei dal rientro in Giappone e un anno e mezzo prima del suo trasferimento a Tokyo, Tatsuo si presenta a casa Katagiri e trascina Munemasa di peso in campo.

Come molte squadre fuori dal circuito delle grandi aziende, il Kyoto Purple Sanga non ha molto personale, ci si arrangia. Tatsuo ha giocato in porta, in difesa ed in attacco, ma è anche stato arbitro, guardialinee ed aiuto coach. Dice a Katagiri:

- Forse non potrai più giocare, ma il calcio ha ancora bisogno di te.

Quando non lavora o gioca, insegna a Munemasa quello che sa. Se non ha una risposta la cerca o se la inventa. Azzecca una volta su tre.

Munemasa Katagiri un giorno sarà uno dei dirigenti più giovani e influenti della JFA.

- Ho imparato tutto da lei, signor Mikami.

Lo dirà sempre con una tale convinzione che Tatsuo non riuscirà mai a smentirlo. O a fargli levare l’onorifico.

Nel 1970 Katagiri lo accompagna in stazione, è la prima volta che Tatsuo ha qualcuno a salutarlo. A dirgli addio.

Qualcosa vorrà dire.

 


 

NOTE:

 

Eh ci siamo! Ancora una volta grazie mille a chi legge e commenta (lo so, lo so: sono pessima e non rispondo mai, ma leggo tutto quello che scrivete e mi carica di endorfine).

Qualche info secondaria su questo capitolo:

 

* Tamagawa esiste davvero. Non trovando nel manga il nome della città dove vive Kojiro quando gioca nel Meiwa ho stabilito (causa ubicazione geografica) questa. Se sapete invece qual è il nome effettivo nel manga aiuterebbe un sacco!

* “obi dei regali di nozze” era usanza regalare l’obi alla nuora quando si sposava dentro la famiglia (cioè veniva a vivere a casa del marito);

* il dialetto del Kansai a chi legge manga sarà famigliare, per tutti gli altri specifico che è una variante del giapponese parlata in diverse provincie (tra cui quella di Nara);

* Kozo Kira è stato retroattivamente posto da Takahashi nel gruppo di giocatori che aveva spuntato la medaglia di bronzo alle Olimpiadi del Messico per il Giappone. Poiché non era stato detto prima del Golden 23 ho stabilito “fanonicamente” che fosse per passati rapporti burrascosi con altri membri della squadra;

* “Landsberg am Lech” googlatela è bellissima;

* tutte le squadre nominate in questo capitolo sono presenti in CT oppure nella realtà;

* “La capitale è un cantiere” in questi anni Tokyo stava completamente cambiando volto con ingenti rinnovi urbanistici spesso fuori controllo;

* “locali host”: anche qui penso che tra lettori di manga non ci siano dubbi, ma visto che tanto scrivo queste note aggiungo breve spiegazione. Gli “host” sono locali bar/ristoranti dove tecnicamente paghi per “un’esperienza” a seconda del target trovi personale maschile o femminile sempre avvenente e bellissimo. Al di là dei costi spesso proibitivi delle vivande si paga extra per diversi servizi: come essere serviti dal proprio host preferito, avere un gruppo di host dedicarti una canzone, ecc… Per normativa di legge gli host devono essere maggiorenni, ovviamente spesso si bara sull’età;

* “Kyoto Purple Sanga” squadra effettivamente esistente e una delle poche a quei tempi ad essere club indipendente senza azienda dietro;

* Dettmar Cramer: il calcio giapponese e quello tedesco hanno un sacco di legami (così come quello giapponese e brasiliano causa immigrati di seconda generazione che tornavano in Giappone negli anni ’80). Takahashi aveva fatto le sue ricerche, accidenti!

* coach e giocatori della Nazionale Giapponese sono sempre autentici (così come le azioni compiute sul campo), gli extra ovviamente sono Gamo, Mikami, Katagiri e Kira;

* “il casino tremendo in piazza” fa riferimento ad un fatto di cronaca: in breve una manifestazione contro le spese sostenute per le Olimpiadi era stata soppressa in modo violento dalla polizia, c’era pure scappato il morto e se non erro Oriana Fallaci era rimasta ferita;

* Katagiri nel manga si rivolge a Mikami sempre usando l’onorifico dicendo ad un certo punto “di aver imparato molto da Mikami”. Aka: BACKSTORY TIME!

 

 

Mettere tutto in nota è stata una morte, accidenti.

Così come scrivere questo capitolo, lol. Tendo a fare un sacco di ricerche (btw se conoscete come funzionavano i tornei giovanili del calcio tedesco scrivetemi in privato perché sto raccogliendo info per la parte post interludio).

 

Nel prossimo capitolo Mikami farà la conoscenza di una certa minaccia con cappello in miniatura, ma poiché devo ancora finire di scriverlo mi sa che ci rivediamo direttamente a mercoledì 2 agosto.

 

Mi dispiace per questi gap lunghi tra un capitolo e l’altro, ma purtroppo sono andata in pari col materiale che avevo scritto ed ho un sacco di scadenze lavorative ^^”

A presto <3

 

>>> 12. Quantità sconosciute.

L’amore non riesce bene a Tatsuo Mikami .

 

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Capitolo 12
*** Quantità sconosciute ***


 *questa fiction viaggia parallela al canon: ci flirta insieme, ma non se lo sposa.

*il passato di Tatsuo Mikami segue il canon, fin dove ho trovato, il resto è speculazione.


 

 

12. Quantità sconosciute.

 

Kozo Kira ha ripreso a bere. Il deficiente.

- Non so cosa fare.

Dice Gamo al telefono, è preoccupato. Lui e Kira da tre anni giocano per quell’abominazione rigonfia di talento che è il Furukawa Electric. Al mattino lavorano in azienda come bravi impiegati, al pomeriggio consumano il tartan del tappeto sintetico del campo di calcio e alle ventuno crollano nei dormitori messi a disposizione dalla compagnia.

Kozo si presenta in ritardo, quando si ricorda di farlo. A settembre sparisce per quattro mesi senza avvisare, la pazienza del Furukawa finisce e il suo supervisore lascia detto di non farsi più vedere del tutto.

Tatsuo ha altre preoccupazioni, cioè trovare casa a Tokyo. I soldi sono pochi, gli affitti alti e la scelta è tra un vomito architettonico di tre tatami e mezzo[1] tutto finestre con gabinetto a vista o uno scantinato composto principalmente da scale con il letto sotto una botola. Il palazzo dove sta la cantina ha in cortile l’attacco per doccia e lavatrice. La scelta di Tatsuo è automatica.

La puzza di umido è insopportabile. Tatsuo trasforma l’appartamento in una serra di aglaoneme e aspidistre, le piante succhiano dall’aria l’acqua che possono e i vestiti appesi riacquistano un odore accettabile.

Il contratto con il Musashi parte ad aprile, Tatsuo partecipa da febbraio a riunioni destinate all’orientamento del personale scolastico. Solo che non viene pagato. Ha bisogno di trovare qualche cosa.

Scopre di essere “troppo appariscente” per lavorare ad un conbini o ad un qualsiasi altro mini-market che dà in pasto part-time a studenti di università e superiori. Tokyo non è più il cantiere della sua infanzia, l’economia gira, grandi e piccole aziende sono a caccia, ma hanno orari inflessibili e Tatsuo non ha fatto tanta strada per chiudersi in un ufficio. Sta inseguendo un fantasma. Un sogno.

Il Giappone sul tetto del mondo.

Tatsuo non è un destinato, non lo è nessuno della sua generazione. Forse andrà meglio a quella seguente, se ci arriva preparata. Crede fermamente in quello che ha detto a Katagiri: il calcio ha bisogno di loro. C’è ancora un sacco da fare. 

Shisui è morto. È affondato nel fiume col camioncino delle consegne.

La notizia raggiunge Tatsuo quando suo fratello è già stato cremato. Chiede un permesso al locale di Host dove lavora cinque sere (e notti) a settimana, cambia due treni e, per la prima volta in più di vent’anni, torna a Tamagawa.

È una bella cittadina. Molto verde.

Visita il cimitero, consegna alla tomba di Shisui quattro onigiri con l’umeboshi come gli piacevano da bambino e un pacchetto di sigarette Camel. Non sa se suo fratello fumasse. Tatsuo ne accende una per entrambi.

- Cattiva abitudine, vero? – Dice alla lapide. – Ma cosa ci vuoi fare? Non potevo portarti il sakè.

Il camioncino di Shisui ha sbandato sei volte prima di cadere nel Toki. Al negozio dove era stato assunto un collega gli ha confidato che suo fratello da mesi si presentava al lavoro ubriaco.

Rimane in paese altri due giorni, la prima notte dorme in hotel, la seconda Kozo Kira scopre che è rientrato e lo invita da lui. Ha la faccia scavata, occhi sporchi di rosso e mani che tremano.

Tatsuo Mikami lo odia e se ne vergogna.

Accetta l’invito. Kozo non vive più nella casa diroccata sul lungo fiume, sta più all’interno in un appartamento altrettanto fatiscente, religiosamente pulito e nove volte più grande del suo a Tokyo.

Kozo ha un regalo per lui, una foto di Shisui già incorniciata. Suo fratello è in bianco e nero, sgranato, felice.

- Ho pensato ne volessi una recente. Se vuoi ne faccio sviluppare un’altra per tua madre.

- Non è il caso.

Tatsuo non ha spazio per un butsudan[2] o per Shisui nella casa di Tokyo. Kozo annuisce, i suoi vestiti sono sgualciti, ha perso peso e non è che un’imitazione pallida del calciatore a cui il Colonia aveva offerto un contratto per giocare nella Bundesliga tedesca.

Kozo alla Germania aveva risposto “picche” e Tatsuo gli aveva tolto amicizia e saluto.

Non è proprio gelosia, però lui avrebbe detto sì.

- Sai…

Dirà Kozo un giorno diverso, appesantito dall’esperienza dei cinquant’anni, un giorno che li vedrà accasciati sulle panche di fronte ai distributori automatici a parlare dei “loro ragazzi”. Kozo sarà il nuovo allenatore incaricato dalla JFA a dirigere la nazionale giapponese, quella svezzata da Tatsuo quando la “generazione d’oro” non era che un branco di adolescenti un po’ troppo entusiasti. 

- Non mi hai mai chiesto perché a quell’offerta ho detto di no.

Ha ragione.

Importa ancora?

***

I ragazzi del Musashi sono bravi, quelli delle medie molto più dei galletti del liceo, in pochi mesi si specializzano nel controllo palla e decidono di fare schifo nei passaggi. Si confondono. Portano sul campo da calcio gerarchie d’anzianità che dovrebbero rimanere ferme ai banchi di scuola[3].

Mister Kajiyashiki a quest’ora avrebbe già spaccato un bastone sulla testa di Yamamoto che in attacco si blocca ad aspettare l’arrivo di un coetaneo piuttosto che passare a uno di prima. Tatsuo inspira, conta fino a cinque, espira. Essere picchiato non l’ha mai aiutato ad imparare le cose prima. Solo peggio.

Si arma di pazienza, insegna con l’esempio riscrivendo su cattive abitudini entrate nel cromosoma. I ragazzi del Musashi diminuiscono il livello di idiozia, rimangono più tecnici che aggressivi, controllano il centrocampo e mancano di forti individualità. Tatsuo non condividerà l’affidarsi di coach Shiroyama unicamente ai “fuoriclasse” per la sua Nankatsu. Per Tatsuo non avere un grande talento nelle giovanili è quasi meglio: il calcio si gioca in undici.

Manca di capirlo la Toho quando fallirà di qualificarsi per la prefettura nei tre anni che seguono. Il preside dell’istituto un giorno proverà ad arruolarlo, ma per allora Tatsuo avrà preoccupazioni nuove.

Nel 1971 mister Mikami con l’istituto Musashi ha una reputazione complicata: i ragazzi lo adorano, le insegnanti pure, il resto del corpo docente no. La combo capelli quasi chiari, occhiali scuri, sigaretta e jeans alimenta la voce che “il signor Mikami” si dedichi ad attività collaterali molto distanti dall’istruzione.

Forse dovrebbe smettere di fare l’host. O arrotondare andando a letto con le clienti.

- Guarda che pensano che tu sia in una gang.  

Dice Amano, il giovane professore di matematica con cui si trova a fumare davanti all’inceneritore in cortile. È grazie a lui che Tatsuo si converte alle Winston rosse senza filtro. E conosce sua moglie. Non diventano amici, ma quasi.

In un assolato pomeriggio di settembre, Amano arranca fino al campo da calcio del Musashi, raggiunge una delle sedie pieghevoli e ci ansima sopra. Forse dovrebbe tagliare col fumo.

- Ichinose è ammalato. – Dice Amano quando accumula abbastanza aria. - Ci stai a sostituirlo ad un mixer[4]?

Tatsuo alza un sopracciglio, urla a Noritaka di smettere di entrare sui compagni col piede a martello e risponde di no. Il professorino apre la bocca, la richiude, accartoccia la fronte, riprova:

- Le ragazze sono dell’università di Tokyo[5]!

Traduzione: fuori dalla nostra portata. No grazie. Amano insiste:

- Se non abbiamo il numero salta tutto.

E allora? Non è un problema suo. E poi lo sanno tutti che a questi incontri non puoi sopravvivere da astemio e Tatsuo ha fatto voto. La faccia del professore è grigia e delusa. Amano è l’unico quasi coetaneo con cui negli ultimi mesi abbia legato. Il giovedì al suo secondo lavoro ha serata libera. Tatsuo sospira, chiede:

- Quando sarebbe questa cosa?

- Giovedì sera!

Mannaggia.

***

Il Meguro Cafè è una piccola izakaya[6] a gestione famigliare situata nel quartiere di Shibuya. L’appuntamento è per le venti e trenta, Tatsuo prende la metropolitana con Amano che promette di pagare il taxi e d’ospitarlo a casa sua se si farà una certa.

È il primo mixer a cui partecipa da tre anni, Amano lo presenta ai vecchi amici del liceo ed a tre delle sette ragazze presenti. Nel giro di venti minuti il tavolo si riempie di kara-aghe, spiedini di pollo, verdure in salamoia e pesce alla griglia, annegati da birra e sakè di qualità sospetta. L’aria di fumo e risate.

Quella più cristallina appartiene ad Akane Anzai.

Akane a questo incrocio della vita è per lui “la signorina Anzai”: una ragazza dai capelli a caschetto, occhi tristi e cinque anni più giovane. Una di quelle bellezze goffe ed anonime da farci il copia-incolla ai tavoli del suo secondo lavoro.

Amano le siede di fronte e passa mezz’ora a tentare di agganciarla. I complimenti rifilati a mitraglietta riguardano vestiti, educazione, portamento e sono talmente generici da applicarsi a tutte le donne presenti, tranne forse a Inoe che è la figlia dei proprietari ed ha sopracciglia così affilate da sembrare un tatuaggio. Forse prima di andare all’università era una di quelle teppiste dalla gonna lunga e i coltelli nascosti. Forse Tatsuo ha una grande immaginazione.

O forse non abbastanza. Era Akane la sukeban[7].

- Che cosa hai detto che studi?

Chiede Amano che finalmente ricorda che per rimorchiare è importante sia lei a parlare. La signorina Anzai fa la vaga, Inoe e Minoto due sedie più in là si irrigidiscono sulla sedia.

- Ingegneria informatica.

- Ah che scelta… praticamente cos’è che fate?

Akane prende fiato, stringe le mani molto forte ed attacca a parlare. E a parlare.

E A PARLARE.

Le parole si accavallano l’una sull’altra, indistinguibili, come se Akane temesse che a uscirle più lentamente finirebbe per dimenticarsene. La sua voce squilla fracassandosi contro le pareti di legno. Tatsuo Mikami conoscerà solo UNA PERSONA con altrettanto fiato. Amerà pure quella e in un modo totalmente diverso. Oggi è solo stordito.

E affascinato.

Due ore di monologo dopo e Amano è scappato. Tatsuo ha preso il suo posto e non si perde una sillaba. Crede che miss Anzai non si sia accorta dello scambio.

- Sai... – Lo smentirà lei tra due settimane, il corpo arrotolato contro il cuscino e la testa appoggiata sul palmo della mano. – L’ho pensato dal primo momento in cui ti ho visto: il modo in cui fumi è un sacco sexy.

Strascicherà la “x”, gli ruberà la sigaretta e lo bacerà in bocca. Un battito e inizierà a tossire, Tatsuo scoppierà a ridere e Akane lo soffocherà con le coperte.

Il primo amore di Akake Anzai è stato un computer. A dodici anni si intrufolava nel reparto della contabilità della Taisei dove lavorava suo padre per ammirarlo. Il computer, non suo padre. Era un DEC, un modello “snello” importato dagli Stati Uniti, che occupava SOLO un terzo della stanza e che un giorno non troppo lontano attirerà sentimenti complicati da parte di Tatsuo perché sua moglie glielo farà trovare in casa. Così. A sorpresa.

Oggi non c’è gelosia nel cuore di Tatsuo, mentre ascolta l’amore della sua vita raccontargli la storia.

- Hai mai sentito parlare di “Spacewar!”?

No. Di cosa si tratta? Ad Akane brillano gli occhi: è un videogioco! Davvero? E come funziona?

Calcoli ed algoritmi si trasformano in astronavi da abbattere e meteoriti da schivare. Tatsuo cerca di orientarsi e scopre, nel corso della serata, che Multics è un linguaggio infinitamente superiore rispetto a Fortran[8], che Ralph Baer è meglio di Elvis e che un giorno Akane ne dissezionerà il cervello per osservarne gli ingranaggi. 

- La Magnavox Odyssey userà un circuito STAMPATO! Hai presente?! Un computer apposta per giocare, Mikami! Qui siamo NEL FUTURO!

Il mondo attraverso le labbra di Akane acquista colore, consistenza. È precipitare in una dimensione alternativa. Tatsuo non ha idea di cosa significhi una frase su due. Si trasforma in un diapason, lascia che le parole gli vibrino dentro, che illuminino il suo mondo.

Tatsuo è un uomo razionale, aspetta il quarto appuntamento per chiederle di sposarlo.

***

Mamma Hiromi è molto rigida. Tatsuo le mostra una foto di Akane e ringrazia il contrattempo che l’ha bloccata a Tokyo. È già abbastanza pentito lui di aver perso soldi e tempo per tornare a Nara.

- È… carina. – Ammette mamma con una smorfia che dice il contrario. - Quand’è che lascia l’università?

Tatsuo sbatte le palpebre due volte, sfila gli occhiali, li passa contro il maglione infeltrito e li rimette su più sporchi di prima.

- Quando l’avrà finita.

Mamma Hiromi annuisce, le labbra chiuse a culo di gallina. Se ti tappi le orecchie e non la guardi in faccia passa per una donna ragionevole.

- Hai detto che le mancano quanto, due anni? Si fa un po’ tardino, ma ho amiche che hanno avuto figli da vecchie e una moglie istruita a casa dà un certo prestigio.

Mamma scuote la testa e, per la prima volta da quando Tatsuo è arrivato, scopre i denti e sorride.

- È un sollievo, in effetti. Temevo avresti passato il resto della vita con quella sciocchezza del calcio e invece… le Endo&Wakabayashi sono un’ottima compagnia. Quando hai detto che inizi?

Ok.

- Mamma, è Akane quella che prendono per uno stage. Gli osservatori sono rimasti molto impressionati dal suo ultimo modello di calcolo.

Silenzio.

Sua madre lo fissa, il sorriso incancrenito nelle pieghe della faccia. A riassumere il rapporto che lo stringe a sua madre Tatsuo sceglierebbe una parola: paura. Paura di perderla, paura di deluderla, paura di averla attorno. Paura soprattutto di diventare un giorno come lei. Così dice:

- Akane è mia moglie, non la mia balia.

Registreranno il certificato di matrimonio tra sei settimane, nella notte. Lo diranno agli amici a Tokyo a cose fatte. I colleghi di Tatsuo gli offriranno da bere, felici di non dover sborsare la tassa del goshukugi[9]. Katagiri manderà dei fiori.

A un mese e qualcosa da un evento così privato da essere rubato alla vita, Tatsuo torna in una casa vuota perché lui e Akane saranno pure sposati, ma lei vive in una camera presa in affitto con tre amiche dell’università. È più comoda, così.

L’appartamento sotterraneo in cui Tatsuo rimarrà sotterrato per i nove mesi successivi è quasi accogliente rispetto all’ombra di sua madre. Tatsuo usa la sigaretta per accendere il bastoncino d’incenso davanti alla foto di Shisui. Alla fine l’ha tenuta.

- A te Akane sarebbe piaciuta.  

***

Le Endo&Wakabayashi assumono Akane quattro giorni dopo il conseguimento della laurea.

La prima busta paga della signora Mikami supera di tre volte la cifra che Tatsuo suda con il Musashi al semestre. Akane quando vede gli zeri lancia uno strillo che gli sfonda un timpano. Escono a mangiare sushi in uno di quei posti di classe e Tatsuo insiste per pagare.

Non sarà quel tipo di uomo. Sarà felice e basta. Per lei.

Chiede ad Akane a cosa stia lavorando ora, un qualche tipo di algoritmo per la sezione contabilità.

- Praticamente stiamo cercando di ridurre il peso sulla RAM senza intaccare le funzioni di calcolo e rendendo l’interfaccia più intuibile per l’utente medio.

Akane voleva programmare videogiochi. Nel luglio del 1983 a Genzo arriverà, quindici giorni prima dell’uscita sul mercato, il Famicom[10], ma saranno Taki e Tatsuo quelli ad attaccarsi alla consolle marchio Nintendo. Taki per Mario Bros, Tatsuo per chiedersi se era questa la risposta ai sogni di sua moglie.

Negli anni ’70 le Endo&Wakabayshi non sono interessate ad investire in un campo instabile come quello dei videogiochi. Akane Anzai per l’azienda ha troppo talento da sprecare e così viene inghiottita dalla macchina. Tatsuo vede gli occhi di sua moglie appannarsi, coprirsi di spine. Non ne parlano. Non parlano più di un sacco di cose.

Per il terzo anniversario del loro matrimonio, Tatsuo si procura due costosissimi biglietti per quell’expo sulle nuove tecnologie che si tiene ad Akihabara e passa sei ore a saltellare dietro ad Akane che è tornata una bambina in un negozio di caramelle.

- Ho anche io un regalo per te. – Dice Akane con la testa abbandonata contro la sua spalla, mentre la metropolitana fa le fusa sul loro ritorno. – Ma dovrai aspettare di essere a casa.

Le ciglia di sua moglie sono molto lunghe, le sue labbra esageratamente piene. Tatsuo ingoia. Il mondo dovrebbe muoversi più in fretta. Scendono alla fermata di Honancho tenendosi stretti attorno all’ombrello mentre la chiave elettronica sfarfalla e Tatsuo è costretto a passarla due volte contro il jeans prima che li riconosca. Le tecnologie che ti semplificano la vita...

La porta dell’appartamento sbatte. Si chiude. Sua moglie abbatte le scarpe contro lo scalino di ingresso e corre in soggiorno senza ciabatte. Tatsuo la segue.

Forse è meglio la camera da letto. Qui, causa computer, c’è da fare gli acrobati. Tatsuo non ha più vent’anni. Akane esce dal vestito.

Si infila un maglione. 

Accende il computer.

Fottuto DEC.

- Forza Tatsuo vieni a vedere!

Tatsuo trascina i piedi e si accascia sulla sedia di legno presa ad una svendita. Una decina di minuti e Akane si sbraccia ad indicare lo schermo circolare del suo rivale in amore. Se le bacia il collo ora forse sua moglie si dimenticherà di quest’ultima sciocchezza. Però è così felice…

Tatsuo fissa il monitor, ci vede dei punti. Punti!

Akane lo ha abbandonato per dei punti. Punti verdi sul nero.

Akane lo fissa, i suoi occhi sono pieni d’amore. E aspettativa. Ok, Tatsuo, sorridile. I punti si muovono. Una volta. Due. La loro formazione segue uno schema. Uno schema famigliare.

A Tatsuo manca il respiro.

- Stanno giocando a calcio!

Il ghigno di Akane si allarga e Tatsuo vede, VEDE a cosa sua moglie stava lavorando tutte le sere da tre mesi a questa parte. Quel punto è chiaramente il portiere, quello il centroavanti… a seconda degli ordini digitati sulla tastiera la squadra avversaria risponde proponendo un nuovo schema. È lontano anni luce dall’aspetto pulito di “International Soccer” che uscirà tra dieci anni su Commodore64 e un milione di volte meglio di quel “Soccer” che gira negli arcade di mezzo mondo scopiazzando Pong.

È la cosa più perfetta che abbia mai visto.

L’amore è sempre riuscito difficile a Tatsuo ed ora straborda, esce ai lati.

Cinque minuti e la festa si sposta sul pavimento. Avrà conseguenze.

***

Akane è svenuta in ufficio. Tatsuo lo scopre dalla segreteria del Musashi quando sua moglie è già stata portata in ospedale. Corre.

Akane è molto pallida mentre affonda nel bianco del lettino. Sorride e il mondo riprende a girare.

- Tatsuo! Avremo un bambino!!!

A girare un po’ troppo in fretta.

Da farti venire il vomito.

***

Non si possono permettere questo bambino.

Tatsuo ha fatto i conti: tra affitto, spese mediche, bollette, cibo e rate per il dannatissimo DEC, i Mikami non hanno un centesimo da parte. Se ad Akane non passano la maternità sono fottuti.

Sua moglie, ovviamente, è entusiasta. Vuole cercare un appartamento più grande, comprare giocattoli, vestitini. Pensa ai nomi, alle medie, ai doposcuola migliori, mentre il caro pargolo non è che un disordinato insieme di cellule di cui non si sa ancora il sesso.

- Ma lo vuoi o no questo bambino?!

No.

Non lo vuole.

Akane quando si arrabbia vibra di un’energia luminosa, Tatsuo la ama. Non vuole vedere quella luce spegnersi, così mente.

- Certo che lo voglio.

Discorso chiuso.

***

Se vogliono sopravvivere Tatsuo deve trovarsi un altro lavoro. Uno, a citare sua madre, “vero”.

Il preside del Musashi gli offre un aumento, Tatsuo ringrazia, declina e si licenzia. Detesta la carità e comunque i soldi in più non basterebbero. L’offerta dell’istituto Toho è più ragionevole, ma arriverà in ritardo.

Il Musashi lo sostituisce con Asano aspettandosi, forse, che il professore di matematica abbia, negli anni, assorbito da Mikami il necessario per far girare la squadra. L’anno successivo, quando il Musashi divisione medie e superiori fallisce di qualificarsi per la prefettura, si cambierà registro.

Tatsuo chiude il calcio in una scatola, tira fuori giacca e cravatta ed inizia a cercare. Gli intervistatori non sono per niente impressionati dal suo curriculum, ma il boom economico gonfia le vele delle aziende giapponesi e Tatsuo dopo un mese e mezzo trova un impiego da colletto bianco senza scomodare favori.

Un giorno ragionerà su quanto sia più coraggioso chiedere aiuto: se avesse telefonato a Gamo un posto al Furukawa Electric glielo avrebbero trovato, Katagiri in Federazione. Ma sarebbe stato come ammettere un fallimento, collezionare debiti e favori e se Tatsuo ha ereditato qualcosa dai suoi genitori è l’orgoglio.

Quindi ricaccia il risentimento nelle budella e si stampa la felicità in faccia quando l’ultrasuono dice che suo figlio sarà un maschio.

- Visto! Che ti avevo detto!

Akane ride stringendogli un braccio. Almeno non sono gemelli, riflette Tatsuo, ma il pensiero ha perso qualcosa del solito mordente. Forse è solo la stanchezza. O la rassegnazione.

***

Al sesto mese di gravidanza, riceve una telefonata da Minato Gamo.

- Congratulazioni!

Tatsuo non sa come l’abbia saputo. È strano realizzare di non aver detto nulla del bambino ai suoi amici. O a sua madre. Gamo sta ancora parlando, il cervello di Tatsuo inchioda.

Cazzo.

Sta per diventare padre.

Probabilmente lo dice a voce alta perché Gamo scoppia a ridere e poi tossisce nella cornetta.

- Con riflessi così, meno male che hai smesso di fare il portiere.

***

Tatsuo Mikami sarà padre. Non è cambiato nulla rispetto al giorno prima: la cravatta dell’uniforme aziendale cerca sempre di strangolarlo, il cubicolo dell’ufficio succhia via l’aria. Però…

Parla con sua moglie. Onestamente.

Akane ha intenzione di riprendere a lavorare dopo la maternità, il fatto che Tatsuo avesse supposto il contrario la offende anche. Certo, per un annetto ci sarà da stringere la cinghia, ma la loro situazione non è più così nera. Si possono permettere questo bambino.

Il mondo non dipende da Tatsuo Mikami. Buffo, chissà quand’è che se n’era dimenticato.

Ed è bello immaginare il futuro. Tra qualche anno Akane potrebbe chiedere il trasferimento alla filiale di Kyoto: a zia Chyo farebbe piacere la compagnia e una vita fatta di prati e case in legno vestirebbe meglio ad un bambino di appartamenti stretti assiepati nel cemento. Tatsuo potrebbe ricominciare come allenatore nella sua vecchia città, magari, un giorno, allenare suo figlio.

- Com’è che abbiamo deciso di chiamarlo?

Non hanno ancora deciso. Akane gli lancia il giornale in faccia e poi si siede vicino a provare ogni combinazione di nome possibile.

- Emi è carino – sostiene Akane.

- È da ragazza.

- Haruna…

- Anche…

- Ma allora non ti va bene proprio niente!

Tatsuo sorride, Akane pensa di essere discreta nei suoi tentativi di appioppare uno dei kanji di Shisui al nome del nascituro. Ah. Questo gli suggerisce…

- Mizuki? Per “acqua” e “prezioso”.

Akane sorride, annuisce. I nomi a due ideogrammi sono poco originali, ma con Shisui e il papà di Akane messi a proteggerlo il futuro di questo bambino non potrà che essere fortunato.

***

La telefonata arriva domenica a mezzogiorno.

Tatsuo sabato è stato coscritto agli straordinari in ufficio e quando raggiunge il telefono la sua voce gocciola sonno. Quella dall’altra parte della cornetta è di una donna, una perfetta sconosciuta che insiste per sapere se questo sia il corretto recapito di Akane Mikami.

Sua moglie lascia il numero a un’infinità di call-center e Tatsuo è tentato di riattaccare alla tizia in faccia, l’educazione ha la meglio.

Non è un’impiegata di call-center, no, non è neanche un’amica di Akane.

Tatsuo Mikami è estremamente calmo mentre la receptionist del Kōsei Hospital lo informa che c’è stato un terribile, terribile incidente.

***

Akane Mikami il nove settembre del 1973 aveva voglia di arance.

Un po’ tardi per la stagione, ma esistono poche forze al mondo capaci di fermare una donna incinta. Il negozio sotto casa era stato una delusione, ma al conbini dell’altro isolato si sa che hanno di tutto.

Aveva pensato per un attimo di tornare dentro a lasciare qualcosa detto a Tatsuo, ma era da tanto che non vedeva suo marito dormire così bene. Così Akane s’era messa comoda nelle sue scarpe basse, ortopediche che la sua amica Inoe le aveva procurato per il compleanno ed aveva stabilito di fare due passi.

Arrivata all’incrocio sulla Kannana-Dori Ave aveva fissato con fastidio il passaggio pedonale sopraelevato che dista duecento metri dalle strisce pedonali e che ha gradini ripidi, sicuramente progettati per qualcuno senza pancione. Akane Mikami, al settimo mese, non poteva permettersi di scivolare, così si era rassegnata ad aspettare il verde e, semplicemente, aveva attraversato la strada.

***

Dicono a Tatsuo che la morte è stata istantanea.

Dicono che non abbia sofferto.

Dicono di aver tentato di salvare almeno il bambino.

***

Il diciannove settembre, quattro giorni dopo il funerale, Tatsuo Mikami torna al lavoro.

Accetta le condoglianze con un cenno del capo si chiude nel cubicolo e riemerge alle nove di sera o per sbocconcellare qualcosa in pausa pranzo. Un automa fatto di cotone.

Il telefono di casa suona spesso, Akane diceva di voler comprare una segreteria... Tatsuo ne stacca la spina. Un problema in meno.

Il latte in frigo è scaduto, sul formaggio c’è la muffa. Informazioni. Dettagli. Solleticano il cervello e scivolano tra le pieghe delle vita come il pigiama di sua moglie nel cassetto o i libri sui neonati accumulati sul tavolo.

Il DEC.

Detesta questo appartamento, gli fa venire voglia di uscire.

***

Il diciassette ottobre, trentasette giorni e sedici ore da quando il mondo ha smesso di girare, Tatsuo prende l’influenza. Un virus stagionale trasmesso da un collega che sfocia in febbre e lo costringe a prendersi qualche giorno di riposo. Tatsuo si avvolge nel futon e fissa la carcassa del computer in soggiorno, chissà se con una mazza da baseball conficcata nello schermo sia ancora possibile scaricarne i dati.

Non sa bene come funzioni.

Il lutto, cioè, o l’amore. Forse è come il DEC, invadente, ingombrante e del tutto inutile. Che senso ha aggrapparvisi? È un buco nero che, ai margini della testa, s’ingozza della vita che sta attorno. Forse se l’avesse portata via una malattia sarebbe stato diverso o forse no ed è stato Tatsuo quello a cambiare dopo suo padre e Shisui.

È che… avevano un piano! Un progetto dettagliato sul futuro.

Non è giusto che abbia perso prima sua moglie e poi anche quello. Che cosa è rimasto? A LUI?!

Un appartamento di merda, un lavoro che non gli piace.

In effetti non ha molto senso, tutto questo: svegliarsi, fare nove fermate di metro, vivere.

Non è diverso dall’agitarsi dei topi, dell’allungarsi dei fiori in un prato.

***

Tatsuo Mikami sprofonda.

***

Smette di andare in ufficio. Le telefonate arrivano ad un apparecchio staccato, due mesi e perde il lavoro.

Alcuni vicini abbandonano buste della spesa contro la sua porta, altri si lamentano con l’amministratore della puzza, tre mesi e arriva lo sfratto. Al sesto smette di contare.

Nel vuoto che si allarga come olio a Tatsuo occorrono cinque anni per ricordare come si faccia a nuotare.

***

È il sedici gennaio del 1979, Tatsuo vive da nove mesi a Nara insieme a sua madre. Dal lunedì al giovedì lavora in un bar del centro, nei week-end allena gratuitamente i ragazzi della Shinjo.

I giorni passano insipidi, sfarfallano di colori agli angoli un po’ fuori dalla portata dei suoi occhi, ma il cibo sa meno di carta quando ricorda di mangiare e lo considera un miglioramento generale. Le machine del pachinko[11] del locale dove l’hanno preso per fare piacere alla memoria di suo padre brillano forte e fanno ancora più rumore. Tatsuo asciuga i bicchieri fino a limarne gli angoli. Nell’inverno del suo cuore ha scoperto che non si è mai troppo vecchi per accumulare cattive abitudini e Tatsuo ha già abbastanza debiti.

La Shinjo supera con difficoltà le selezioni per la prefettura e si qualifica per la prima volta da sette anni ai campionati nazionali delle scuole medie di giugno. Sopravvive a sorpresa alla sessione a gironi e viene rispedita a casa al primo match ad eliminazione diretta. I ragazzini piangono, Tatsuo cerca la frase che metta quel dolore in prospettiva. Nelle lacrime che si asciugano spera di averla trovata.

Tornano in hotel a fare i bagagli, hanno tutto il tempo, il pullman che li riaccompagna a Nara arriverà a sera tarda. Tatsuo si abbandona su una sedia vicino all’ingresso a fumare.

I ragazzi che allena non hanno talento, ma Tatsuo non è quel tipo di uomo da dirglielo in faccia. Sfila gli occhiali e pulisce i vetri scuri con il polsino della camicia. Li indossa più sporchi di prima. Anche se uno dei suoi ragazzi fosse bravo non servirebbe a niente: non c’è futuro per il calcio in Giappone. Solo un irresponsabile vende illusioni per sogni.  

- Signor Mikami? - Tatsuo guarda in alto, incrocia un sorriso allargarsi su un volto noto. – Sapevo che era lei! Come sta?

Munemasa Katagiri è diventato un hippy.

Probabilmente, ne ha i capelli almeno. Chissà quanto tempo impiega per asciugare un simile volume tre volte a settimana… o se il completo Armani compensi la mancanza di serietà professionale per la Federazione. Il silenzio è un invito per Katagiri a sedersi ed infiocinarlo di chiacchiere, dieci minuti e Tatsuo si risponde “sì”: Katagiri è il responsabile della JFA per tutta la sezione juniores.

- Non che ci fosse molta concorrenza per il posto…

Non sente Katagiri da cinque anni, ma la distanza è relativa in una hall che raggomitola il tempo trasformando i mesi in minuti. Katagiri parla, Tatsuo ascolta. Osserva. Il suo kōhai indossa occhiali da sole dalle lenti riflettenti, un’armatura che nasconde un occhio di vetro e non cancella l’entusiasmo dell’ex ragazzo prodigio. Munemasa Katagiri ha trovato la sua strada. Il cotone che avvolge il cuore di Tatsuo rallenta la stretta, gli permette di sentirne i battiti ed è una sensazione non nuova, ma strana. Impiega qualche secondo a darle un nome: sollievo. Alla fine qualcosa di giusto nella vita l’ha fatto: Katagiri con la JFA è un fagiolo nel brodo.

Rimangono così fino a sera, finché a distrarre Tatsuo non arriva il tossicchiare dell’autista del pullman e lo strisciare di piedi imbarazzato dei ragazzi della Shinjo allineati in attesa. Katagiri ridacchia, lo segue ad aiutare i piccoli calciatori con valigie e borsoni e all’ultimo lo trattiene.

- Capitano… per lavoro sarebbe disposto a cambiare prefettura?

Katagiri  ha passato il pomeriggio a raccontargli del programma per l’educazione dei coach del circuito giovanile scolastico che sta gestendo per la JFA a Tokyo. La capitale è per Tatsuo una cicatrice di ricordi, ma Tokyo è una città grande. Aiuta lo zoppicante Hiroyuki a salire la scaletta del pullman e risponde.

- Perché no?

Sulla strada che li riporta a casa Tatsuo sente il sorriso svanirgli tra le dita. L’offerta di Katagiri è una di quelle cose che si dice, quelle tanto per dire e di cui poi non si farà niente.

È così.

Per una settimana e mezzo circa.

***

Tatsuo Mikami ucciderà Munemasa Katagiri.

Il “non si picchia uno con gli occhiali” perde di validità quando li si indossa  in due e quel piccolo figlio di puttana (con tutto rispetto per la signora Katagiri che è sempre stata molto gentile con lui e gli ha pure offerto the e biscotti quella volta…) quel piccolo pezzo di merda non la passerà liscia per averlo fregato.

Tatsuo è stato convocato dalla JFA per una chiacchierata informale alle diciotto e trenta di un sabato pomeriggio. Un colloquio da tenersi negli uffici della sede di Tokyo, per cui la Federazione è stata disposta a rimborsargli il biglietto del treno. Tatsuo aveva pensato di comprarsi un completo giacca e cravatta per questo, aveva visto i prezzi e chiesto di poterlo affittare.

In viaggio s’era preparato un discorso, strapazzato i bordi del curriculum e pregato che nessuno insistesse su quei cinque anni di vuoto. All’ingresso una receptionist con la permanente gli aveva chiesto di attendere, Tatsuo era rimasto in piedi con una mano in tasca ad aprire e chiudere il pacchetto di  Winston. Qualche minuto dopo un ometto tozzo vestito di marrone era sbucato trafelato a guidarlo in ufficio. Tatsuo avrebbe dovuto capirlo allora: le grandi aziende giapponesi non fanno colloqui di assunzione uno ad uno.

Il signor Nagano parla molto veloce scusandosi per l’assenza di aria condizionata quando non si asciuga il sudore dalla pelata. Tatsuo impiega venti minuti di convenevoli per capire che no, non vogliono che collabori ad alcun programma di formazione per allenatori né come studente, né come insegnante.

- È una posizione di prestigio…

Il signor Nagano raggrinzisce sulla sedia in pelle quando Tatsuo si tira in piedi ribaltandogli la scrivania. Non doveva muoversi di scatto, l’ufficio è un cubicolo. Chiede di parlare con Katagiri, ma lo stronzetto si è reso introvabile.

Il posto di lavoro non è neanche offerto dalla JFA, ma da un privato abbastanza influente per ricorrere all’intercessione della Federcalcio giapponese, abbastanza ricco da farla danzare sulle sue dita.

- Lo stipendio è molto buono.

Cerca di blandirlo lo sfortunato impiegato e Tatsuo CI CREDE che lo stipendio sia molto buono (ALMENO QUELLO) d’altronde si sta parlando dei Wakabayashi. Inspira. Conta fino a dieci. Espira.

Shuzou Wakabayashi, uno dei trentacinque uomini più ricchi del Giappone, ha un figlio, tre in effetti, ma il più piccolo della cricca si è recentemente appassionato al calcio e, visto che quest’anno il papà non gli prende il cane, ha chiesto un allenatore. I ricchi ai propri figli non comprano tricicli, ma direttamente persone.

Forse il tutto farebbe meno schifo se il marmocchio non avesse cinque anni.

- Va per i sei…

Dopo un silenzio di morte il signor Nagano stabilisce per ripiegare su un più neutrale:

- Secondo suo padre è davvero bravo.

Il diletto pargolo potrebbe essere anche lo Johan Cruyff giapponese e Tatsuo Mikami non lo allenerebbe comunque.

I bambini a cinque anni portano ancora i pannolini? Sicuramente era scritto su uno dei libri di Akane.

Però lo stipendio è davvero buono…

Il babysitter, Tatsuo Mikami a trentaquattro anni, viene assunto per fare il babysitter.

***

Tatsuo siede rigido, arrabbiato, scontento sul treno che parcheggerà il suo culo nella ridente cittadina di Nankatsu per i successivi sette anni. Rigido perché i sedili sono scomodi. Arrabbiato con Katagiri. Scontento perché la vita in generale è una merda.

Si ripete come un mantra di pensare ai soldi, al fatto che vitto e alloggio siano un extra incluso nel contratto, che trasferirsi in una nuova città si traduca in non dover più vedere sua madre. Che, se proprio non resiste, alla JFA hanno assicurato un periodo di prova. La Federazione si è dimenticata di specificare che quello in prova è, in effetti, lui; Tatsuo se ne renderà conto tra un paio di anni e per allora sarà troppo distratto dal volere bene a Genzo per prendersela a cuore. Anche se lo indispettirà sempre che i Wakabayashi nel 1981 rilevino la totalità dei suoi debiti.

- Non volevano un secondo Kenji Sugimoto.

Dirà il signor Minamoto della sicurezza davanti a una sigaretta e Tatsuo annuirà pur se l’insinuazione gli congelerà il sangue. Se i Wakabayashi pensavano che Tatsuo potesse essere comprato perché accidenti gli hanno lasciato carta bianca con Genzo? Certe persone non dovrebbero avere figli.

Nel 1979, però, Tatsuo Mikami non sa che quel lavoro che gli riempie le budella di fastidio colmerà un altro vuoto che gli macera dentro. O che lo renderà un padre.

No, nel 1979 osserva villa Wakabayashi stagliarsi contro la grandezza del Fuji e sente come uno schiaffo in faccia.  Se l’obbiettivo dell’architetto era quello di infondere ai visitatori un misto di terrore e disgusto, può dire di averlo centrato: tutto è… troppo. Un colosso di due piani in stile pseudo-liberty lo mangerà vivo, ma a questo gioco possono giocare in due.

Tatsuo si accende una sigaretta, ignora lo sguardo di rimprovero di una donna anziana in uniforme da cameriera che sembra uscita da una sitcom e procede al piano di sopra. Shuzou Wakabayashi, almeno, pare una persona ragionevole, lo accoglie in ufficio con un sorriso e non se la prende quando l’inchino di Tatsuo è meno basso del protocollo. Parlano.

- Un allenatore personale a questa età pare esagerato.

- Le cose o si fanno bene o non si fanno affatto.

Tatsuo si trova ad annuire e concludere che sia stupido impuntarsi a rifiutare. Non ha un orgoglio da difendere. Poi si tratta di calcio, per sopravvivere ha fatto cose ben più degradanti.

Un giorno ripenserà a quella conversazione, a quanto quel “fare le cose bene” abbia avvelenato Genzo. A quanto non abbia fatta nulla o abbastanza per rettificare una così profonda programmazione.

Oggi, , Tatsuo alza le spalle e segue il signor Wakabayashi in giardino.

 


NOTE:

 

Argh! Quasi ritardo di un giorno nel postare causa medico! Fortunatamente sono arrivata a tempo. 

In questo capitolo compaiono i mitici numerilli con le note a piè di pagina, se causano confusione dal prossimo aggiornamento li tolgo, spero che vi piacciano queste quattro curiosità. Ho visto che nel frattempo mi avete scritto in privato e mi metto sicuro entro domani a controllare e rispondere a tutto! Scusate per il disagio!!!

Scrivere Akane è stata una pugnalata al cuore, spero che vi siate innamorati un po' di lei e degli altri OC di questa storia. 

I capitoli di Tatsuo sono ovviamente levitati e nel prossimo ci dilungheremo sul suo rapporto con Genzo, per ora la bozza è scritta, ma chissà cosa spunterà dopo l'editing selvaggio! 

BTW intanto mi porto avanti e butto giù il ritorno del POV di Schneider (e la pubertà), ma rimarremo ancora su Tatsuo (e Genzo) per due capitoletti.

 

Prossimo aggiornamento mercoledì 4 ottobre per un incontro ravvicinato con la minaccia con cappello, una serie di epifanie e come accidenti Tatsuo e Genzo sono finiti in Germania. 

 

>>> 13. Quello che non ti ho detto.

A Tatsuo Mikami il nuovo lavoro veste stretto, ma forse perché lo indossa in modo sbagliato.

 

[1] circa sei metri quadri

[2] mobile tradizionale buddhista dove vengono conservate le fotografie dei cari scomparsi.

[3] quello delle gerarchie di anzianità sul campo da calcio è un problema di cui si sono lamentati molti coach stranieri che hanno lavorato negli anni ’70 in Giappone.

[4] incontri per single un po’ per svago, un po’ per trovare potenziali partner.

[5] università considerata molto prestigiosa in Giappone.

[6] locale caratteristico giapponese riconoscibile per alcune lanterne sempre appese all’esterno.

[7] sukeban è il termine con cui vengono indicate le ragazze che facevano parte di gang al femminile negli anni ’70, il look classico era gonna lunga, sopracciglia sottili ed armi più o meno nascoste. Al di là dell’aspetto criminale essere una sukeban era un modo per ribellarsi all’immagine tradizionale e imposta dall’alto della “tipica donna giapponese”. Un movimento di controcultura a tutti gli effetti che si è consolidato nell’immaginario popolare.

[8] non entro nel merito, ma era una discussione abbastanza aperta ed accesa.

[9] una somma di denaro variabile che equivale ad un dono della nostra lista nozze.

[10] in Italia era la “Nintendo 64”.

[11] gioco d’azzardo giapponese molto simile alle slot machine.

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Capitolo 13
*** Quello che non ti ho detto (pt.1) ***


*questa fiction viaggia parallela al canon: ci flirta insieme, ma non se lo sposa.

 


 

13.Quello che non ti ho detto.

 

 

Genzo Wakabayashi è, per una comprovata legge fisica, in grado di essere, in un dato momento, la persona più insopportabile che tu abbia avuto lo spiacere di incontrare. Poi lo conosci meglio.

Nel 1979 Tatsuo non ha alcun interesse a grattare sotto la superficie. Si lascia scortare attraverso i giardini della villa fino ad una sgargiante porta da calcio bianca incastrata tra i cespugli di peonie e fuori posto quanto il bambino basso e compatto che la appesta con aria scontrosa. Il marmocchio ha un cappellino nero pressato in testa, due lombrichi per sopracciglia ed un sorriso sghembo da iena. Villa Wakabayashi, a colpo d’occhio, aveva infuso in Tatsuo un vago senso di terrore e rispetto, Genzo fallisce nel fare altrettanto.  

Shuzou Wakabayashi si china, borbotta qualcosa nell’orecchio del figlio, appoggia una mano sulla sua spalla, lo sospinge verso Tatsuo e si allontana a passo svelto. Un criminale in fuga dalla scena del delitto. Tra meno di un’ora Shuzou Wakabayashi sarà su un areo per Tokyo, non chiederà mai come sia andato l’incontro.

La qualifica con cui Tatsuo è presentato a Genzo è quella di calciatore slash allenatore slash lontano amico di famiglia, da parte di madre, nella speranza di infondere nel diletto pargolo qualche particella di buona educazione residua. L’illusione si infrange rapida come un respiro:

- Lei sarebbe davvero l’allenatore migliore del mondo?

Il concentrato tascabile di spocchia ha le mani strette a pugno appoggiate sui fianchi a gonfiare il piccolo petto. Orgoglioso e ridicolo.

- Beh, ho vinto una medaglia di bronzo alle Olimpia…

- TSK!

Tatsuo sbatte le palpebre, si concede un istante.

Ok. Sapeva in partenza che sarebbe stata dura. Ok. Conta fino a venti nella testa e poi all’indietro. Non farai a botte con un bambino di cinque anni. Ma puoi desiderarlo.

Il marmocchio alza un sopracciglio, stabilisce che la loro conversazione sia chiusa, afferra il pallone ed inizia a palleggiare col piede sinistro. La sua postura è tutta sbagliata.

Dopo dieci minuti Tatsuo si avvicina, telegrafa i suoi movimenti nel modo in cui gli hanno spiegato vada utilizzato con i cavalli, indica il pallone finché la progenie del male non glielo passa. Tatsuo parla molto lentamente, mostra come fare, poi riconsegna la sfera e lo invita a provare di nuovo, questa volta Tatsuo tiene una mano contro la sua schiena, portandolo ad assumere la forma corretta.

Le rotelle alla bicicletta rimangono qualche istante, poi Tatsuo lascia la presa. Il piccoletto segue le istruzioni alla lettera con concentrate sopracciglia arruffate.

- Meglio.

Dice Tatsuo un po’ perché è vero, un po’ perché non ha niente di meglio da fare, un po’ perché l’impegno arrabbiato con cui il marmocchietto si concentra gli borbotta una sconosciuta tenerezza.

Il bambino si irrigidisce, ferma il pallone con il piede prima che scivoli tra i fiori. Si volta e fissa Tatsuo con un’intensità strana. Poi sorride.

A Genzo manca uno degli incisivi davanti.

***

L’unica vera costante della vita di Tatsuo Mikami è l’errore.

A ventitré anni dopo il funerale di suo padre, Tatsuo ha un occhio nero, una mano che trema che non ostacolerà il suo futuro olimpico e un grigiore in testa che lo annebbia come le ceneri di una lunga fiamma.

- Che Shisui se ne vada un po’ a fare in culo!

Pensa e quando le braci sbiadiscono, Tatsuo mantiene il silenzio radar con suo fratello. Un errore. Lo realizza solo quando accende una sigaretta sopra una lapide e si domanda se Shisui nel fiume col camioncino ci sia finito apposta.

A trent’anni la disperazione è rumore di statico, peso agli arti ed un “è uguale” risposto a qualsiasi domanda. Tatsuo combatte la corrente. Sopravvive senza sentirsi vivo. Ha bisogno di qualcosa a cui aggrapparsi. Quando esce per rimediare qualcosa al combini all’angolo dove tutto viene mille yen massimo, incrocia uno sguardo familiare: i capelli di Mister Kajiyashiki sono grigi e radi, l’uomo utilizza un bastone di legno per stare a galla ed è un riflesso pallido del severo allenatore della sua infanzia. Chissà cosa ci fa a Tokyo. La curiosità è un prurito piacevole da provare, convince Tatsuo a restare.

- A Tokyo ci sono degli ippodromi fantastici!

Mister Kajiyashiki chiede se domani non lo voglia accompagnare. Il salvagente viene lanciato.

- Perché no?

Tatsuo lo afferra. Un errore. Lo  realizza solo quando i debiti lo soffocano come la pioggia di giugno fa coi tombini. Il mese successivo ripiega da sua madre a Nara. È buffo quanto spesso salvagenti ed ancore si somiglino. 

A quarantadue anni una voce sfilacciata chiederà:

- Resti.

Tatsuo, i denti affondati in un sogno desiderato troppo a lungo, non capirà mai quale sarebbe stata la scelta giusta. Oggi, a trentaquattro anni, con le prime impressioni l’errore è invece dichiarato.

Nelle settimane che seguono il faccia a faccia con il Wakabayashi formato tascabile, Tatsuo schiaffa in una valigia ben chiusa qualsiasi mollezza e fa del suo meglio per evitare il marmocchio. Shuzou Wakabayashi lo ha assunto, sì, ma ha dimenticato di specificare monte orario o mansioni specifiche e per quanto riguarda Tatsuo, in mancanza di un contrordine dall’alto, il piccolo gremlin può allenarsi tipo un’ora ogni nove giorni, massimo due. Tanto lo stipendio è uguale.

Al personale di villa Wakabayashi, Tatsuo con il suo accento di Kyoto e la puzza di fumo incollata ai maglioni a collo alto non piacciono. L’ostilità, mai aperta, mai dichiarata, ha la faccia di Sayuri Asano, la più anziana delle domestiche ancora in servizio, fatta di rughe ed un chignon grigio, stretto a strizzarle i pensieri nella testa. A peggiorare le cose è l’impossibilità di evitarla:

- Non può fare certe cose in casa.

La sigaretta trema, Tatsuo l’allontana dall’accendino. In casa? Tatsuo, in un isolato avamposto della veranda, aveva guardato prima a destra e poi a sinistra prima di estrarre il pacchetto di Camel, miss Asano deve possedere una sorta di radar. Tatsuo sente le guance bruciare: sgridato dalla maestra.

Invece di difendere il punto, asseconda l’imbarazzo, china la testa e si allontana in giardino. Certe battaglie si vincono con una ritirata strategica.

Tatsuo si siede per terra, fa scattare l’accendino tre volte a vuoto, abbandona la testa contro la corteccia del ginkgo ed inspira a lungo. Apre gli occhi e ne trova un altro paio a fissarlo. MA CHE CAZZ… Tatsuo tossisce nella sigaretta: Genzo Wakabayashi a testa in giù, pende dai rami bassi dell’albero, dondolandosi pigramente avanti ed indietro come una scimmia dall’espressione assorta.

- Perché indossa gli occhiali scuri?

Gli scienziati sostengono che alla paura esistono due reazioni tipiche: la fuga o l’attacco. Tatsuo, un infarto lieve in corso, deglutisce ed applica la terza: fingersi morto. Non funziona. Genzo oscilla, una noce molto verde, molto acerba di ginkgo cade a Tatsuo in testa.

- Ho un problema alla vista. La luce lo peggiora.

- Ah. – Il piccoletto si dà lo slancio e, per la salute mentale di Tatsuo, torna col culo sul ramo. – Toya diceva che è perché è un pirata.

La voce del bambino è acuta e tradisce una nota di vaga speranza. Gli fa venire da sorridere.

- I pirati hanno una benda scura, non gli occhiali. – Corregge Tatsuo che non sta pensando a Katagiri o a quanto, per il bello scherzetto, gli starebbe bene un pappagallo sulla spalla. – Confonderli è un errore molto tipico.

Genzo, orgoglio ammansito, annuisce gravemente e, con un cenno, riprende la scalata. Tatsuo recupera la sigaretta sputacchiata, la finisce e rientra. Miss Asano, prevedibilmente, lo blocca all’ingresso.

- Ha visto il signorino?

Il volto della donna è bianco e sudato, Tatsuo è un bastardo e scrolla le spalle. La domestica assume un’espressione ancora più costipata e corre in giardino chiamando forte finché una testolina mora non spunta dalle foglie.

Quando Genzo viene costretto a marciare in casa, Tatsuo gli strizza un occhio. Più tardi si domanderà se il bambino lo abbia notato sotto le lenti scure.

***

Se la faccenda procede di questo passo, a giorni Tatsuo diventerà la star di una di quelle pubblicità progresso sul fumo che tra una ventina d’anni costringeranno ogni giapponese a restringere ogni attività fumatoria a precisi quadrati sociali, soprattutto all’aperto[1]. O potrebbe smettere di fumare.

Genzo è ovunque! Non sa come sia possibile, forse il marmocchio ha preso a prestito il rilevatore di Miss Asano, ma in generale Genzo si manifesta ogni qualvolta Tatsuo accenda una sigaretta. Stregoneria? Un giorno molto distante, schiaffandosi sull’avambraccio l’ennesimo cerotto alla nicotina, si ricorderà di chiederglielo. Genzo, un sopracciglio alzato in un volto quadrato senza più tracce di rotondità infantili, risponderà:

- Uh?

Il suo figlioccio lo seguiva in giardino solo per allenarsi.

E per parlare. E parlare. E PARLARE. La sua voce è fastidiosamente alta e irritante e ricorda a Tatsuo quella di un’altra persona. Una a cui voleva più bene.

- Mister Mikami, è vero che Yasuhiko Okudera[2] passa all’Hertha Berlino?

Però riporta sempre fatti interessanti. Tatsuo ripone la sigaretta nel pacchetto, appoggia il mento sulle nocche della mano destra e osserva Genzo sventolargli la rivista in faccia.

- Guardi!!! È proprio sulla copertina!

Okudera gioca in Germania da qualche anno, Sokka magazine[3], forse in mancanza di notizie più significative, dedica ad ogni suo starnuto un’ampia copertura.

- Il pivellino farà strada.

Ripeteva Gamo quando giocava nel Furukawa Electric. Le favole si avverano per davvero, ma non per tutti. Uno su un milione.

- Lo conosce?

Chiede Genzo, Tatsuo scuote la testa.

- Di vista.

Ordina a Genzo di iniziare a scaldarsi e finisce l’articolo in modo distratto. Il giornalista ama le parole difficili e lo sorprende che il piccoletto sia riuscito a leggerlo. Cinque anni, giusto? Si vede che i tutori che i genitori gli affibbiano non sono solo per gioco. Sospira. Genzo piega il busto a destra e sinistra e procede a correre tenendo le ginocchia alte. Forse è Tatsuo quello a dover iniziare a prendere la cosa sul serio.

Conferma con Miss Asano gli impegni educativi pregressi e stabilisce una nuova agenda. Gli allenamenti si consolidano in un’abitudine, poi in una routine. La maggiore esposizione a Genzo lo costringe ad una serie di rivalutazioni.

La prima è facile: il calcio per Genzo Wakabayashi non è un capriccio. Probabilmente non sarà il suo futuro, ma il bambino prende seriamente le istruzioni. Prende seriamente un po’ tutto, in effetti.

La seconda è meno evidente: in Genzo esiste un’educazione nascosta sotto diversi strati di decibel. Tatsuo lo riconosce dal modo in cui si rivolge agli altri domestici, o a come non utilizzi mai la sua posizione come scusa o schermo.

È molto facile inserire le persone in scatole, toglie il fastidio di osservarle da vicino. Quando Tatsuo smette di farlo si accorge che Genzo è fondamentalmente un bravo bambino. Irritante, spocchioso, dal cazzotto facile, ma buono. Negli anni lo vedrà affannarsi dietro un avversario perché indossi le scarpe giuste e non scivoli correndo in campo, telefonare ad amici che non chiamano mai per primi per assicurarsi dell’esito dei loro esami, accettare di apparire la persona che la gente crede che sia, perdere il rispetto di chi ama per dare loro un vantaggio. Genzo Wakabayashi, anche da adulto, si darebbe fuoco per un membro qualsiasi della sua famiglia allargata e, in quella cerchia, per qualche sconosciuta ragione, rientra pure Tatsuo.

Il nove settembre del 1980, Tatsuo si sveglia da una notte agitata, dimentica il giorno segnato sul calendario ed arriva in cucina in ritardo per la colazione. Genzo, già vestito, con la cartella sulle spalle, si alza di scatto, marcia verso la sua sedia e gli sbatte sul naso una scatola laccata. Dentro ci trova una mezza dozzina di onigiri con l’umeboshi[4] pressati talmente male da tradire l’impegno di una certa minaccia con cappello più che della cuoca di casa. Tra i tanti talenti di Genzo non ci sarà mai la cucina, nemmeno per sbaglio.

-Per Mizuki e la signora Akane.

Dice con un piccolo inchino, poi fa marcia indietro e corre in giardino verso l’automobile che l’accompagnerà a scuola. Un rinoceronte in una cristalleria. Tatsuo, inchiodato al pavimento, si accorge di avere una mano sollevata a salutarlo. Chissà chi è stato della servitù a vuotare il sacco…

Respira a fondo, lascia che il cuore gli martelli nel petto. L’anno precedente Tatsuo ha trascorso l’anniversario a sudare nelle coperte, oggi va a piedi in stazione, cambia due treni e tre fermate di metro per accendere l’incenso sopra una lapide. Rimane a dormire a Tokyo, il giorno successivo passa in Federazione, manca Katatagiri per un soffio, e fa in tempo a tornare a Nankatsu per intercettare Genzo all’uscita dal doposcuola.

Genzo sta parlando con un bambino molto alto, forse più grande o addirittura ripetente, ma quando lo vede vicino al cancello si blocca e gli corre incontro. Forse è normale, forse un bambino, in assenza di genitori responsabili, finisce per forza per attaccarsi all’approvazione della prima figura adulta disponibile.

Ma non capitava da un sacco di tempo che qualcuno fosse così felice di avere Tatsuo attorno.

Genzo sorride, Tatsuo gli spettina i capelli con una mano. Non importa perché sia successo.

Chi è Tatsuo Mikami per stare a discutere con il destino.

***

Fatto numero uno: è stato EFFETTIVAMENTE assunto come allenatore.

Tatsuo ci ha messo qualche mese di troppo a capirlo, ma le sinapsi prima o poi scattano. La tabella concordata con gli altri tutori prevede che lui e Genzo si allenino il pomeriggio dalle quattordici alle sedici e trenta. Nel caso di impegni o urgenze sono ammesse variazioni di fascia oraria, ma Tatsuo tiene il punto di mantenere una base di minimo due ore e mezza al giorno. Se vogliono andare da qualche parte, almeno.

Fatto numero due: Genzo è… problematico.

Tatsuo ha perso il conto di tagli, sbucciature e lividi. Un po’ è normale, il calcio è uno sport duro ed un bambino quando si muove si disastra, ma… un po’ è ostinazione a voler prendere il palo di faccia! O a sbilanciarsi. O a cadere. La coordinazione per Genzo non è di casa.

Più allarmante è che non importi il livello del danno, Genzo non si lamenta. Mai. Il piccoletto cade, fissa per un attimo la nuova tacca nel lungo elenco degli incidenti sportivi e non dice niente, nemmeno un “ahi”, si tira in piedi e riprende da dove ha lasciato. Quello che Tatsuo un anno prima avrebbe interpretato come un tentativo di impressionarlo ora lo manda ai matti.

- Il signorino è fatto così.

Gli conferma miss Asano del personale, mani eleganti piegano il collo della teiera finché la bassa tazza di ceramica smaltata non si riempie fino all’orlo. Il gesto è fluido, un’opera d’arte. Tatsuo piega il capo in segno di ringraziamento e ne beve un sorso. Non sa bene quando sia successo, ma l’anziana domestica ha deposto l’ascia di guerra.

Miss Asano si siede, tiene la sua tazza con entrambe le mani muovendo il liquido in gesti lenti e circolari, sorride.

- Una volta il signorino si è rotto un braccio cadendo da un albero. Il signor Toya ha dovuto intercettarlo prima che ritentasse la scalata con una mano sola. - La donna lo fissa con occhi seri e penetranti. – Si prenda cura di lui.

Non c’è problema: Tatsuo è diventato un professionista ad inseguire Genzo con cappello, crema solare, cerotti, disinfettante, ghiaccio. Imposta un timer quando si allenano per ricordare ad entrambi di fare pause, di bere.

I progressi di Genzo sono lenti, ma a scatti. Rimangono fermi per settimane su un punto, per trovare ogni difficoltà risolta nel giro di un pomeriggio. La regolarità della cosa tranquillizza Tatsuo quanto frustra il suo pupillo.

- NO! - Sbraita Genzo. Prova da ore a impartire al pallone un certo effetto, è sudato, stanco e Tatsuo lo ha appena informato che per oggi hanno finito. – Posso fare meglio di così!

Le mani del bambino sono pugni stretti e bianchi. L’insegnante di calligrafia arriva sempre in ritardo, se concede a Genzo una mezz’ora in più cosa mai sarà… Il calcio, dopotutto, lo aiuta a staccare. Tatsuo asseconda il capriccio e si ripromette di parlare dei suoi problemi attitudinali (e dei troppi impegni) al primo dei Wakabayashi che gli capiti a tiro. Di questa e dell’altra cosa.

La signora Wakabayashi non visita spesso la villa, da quando Tatsuo è stato assunto l’avrà vista una volta, due al massimo ed è un caso fortuito incrociarla prima del marito. Shoko Wakabayashi è una donna minuta: uscita da un lungo divorzio, si è risposata tardi e tardi ha avuto i suoi tre figli. Tatsuo la osserva annodare un pesante grembiule giallo attorno alla vita e ricorda come Akane la ammirasse.

- Non ha mai smesso di lavorare! Nemmeno durante la gravidanza!

La signora Wakabayashi pota con una forbice sottile le foglie di un bonsai, eliminando troppo in profondità le braccia di una pianta che non ha fatto niente per aiutare a crescere. Risponde ai dubbi di Tatsuo con un sorriso gentile ed una voce ferma.

- I diamanti si formano sotto pressione.

Le gemme più fragili.

Tatsuo non è il capitano delle cause perse, così annuisce e cambia discorso. La forma di Genzo va migliorando, ma il bambino non sogna di correre i cento metri piani e per fare veri progressi nel calcio ha bisogno di una squadra. Fortunatamente la scuola pubblica Nankatsu ha un piccolo club per gli studenti delle sue elementari, diversamente dalla Shutetsu che riserva i team per le sole medie e liceo. Il signor Nishibara, il vicepreside della Nankatsu, ha già accordato a Genzo un permesso speciale per permettergli di partecipare agli allenamenti della squadra.

Le labbra di Shoko Wakabayashi si irrigidiscono, la forbicina recide un ramo di troppo.

- È fuori questione!

Quella sera sarò miss Asano ad illustrare a Tatsuo la storia dell’antica rivalità tra i due istituti cittadini e di come la Shutetsu, fondata nell’era Meiji da Wakabayashi Genzaemon, rappresenti da più di ottant’anni il simbolo dell’influenza della famiglia sulla città.

- Chiedere aiuto alla scuola pubblica sarebbe disonorevole.

Tra qualche anno Genzo combinerà un bello scherzetto ai propri genitori quando convincerà metà dei giocatori di punta dell’istituto a trasferirsi alla fina della sesta. Ma quello è il futuro, nel presente Tatsuo opta per un cambio di strategia. Il preside della Shutetsu, Yūdai Hachimura, fa qualche storia, ma poi gli concede l’autorizzazione perché Genzo si alleni con i ragazzi delle medie.

Tatsuo avrebbe preferito sganciarlo ai coetanei, ma si consola pensando che, per avere sei anni, Genzo è piuttosto alto e potrebbe quasi passare per uno studente di seconda. Elementare. I ragazzi delle medie non gli danno scampo. Dopo quattro giorni di calma apparente, Genzo azzanna Hiejima, l’ala destra della Shutetsu, al polpaccio. Tatsuo fa irruzione di campo, trascina via il piccoletto per un polso e lo costringe a sedere.  

- Non m’importa cosa ti abbia detto! Non puoi reagire così ogni volta!

Gli adolescenti saranno pure crudeli, ma la violenza è una strada che taglia ponti e Genzo vi ricorre con una facilità istantanea. Tatsuo ha ben presente l’incidente dell’anno scorso e di come da allora nessuno alla villa faccia il nome di Ryo Ishizaki. Tatsuo non sa perché i bambini si siano picchiati, ma a volte incrocia lo sguardo di Ishizaki spiarli dal cancello del cortile. Quando prova ad avvicinarsi, il bambino fugge come se i piedi gli andassero a fuoco.

A meno di un mese dalla strigliata, una telefonata del vicepreside lo costringe a correre a scuola. Sorpresa: Genzo ha fatto a botte con due ragazzi delle medie. Tatsuo non è nemmeno arrabbiato, solo deluso.

Sono a due passi dalla macchina quando un bambino dall’aria timida li intercetta. Si presenta come Yuzo Morisaki ed è qui per ringraziare Genzo per averlo difeso. Genzo scrolla le spalle, dice:

- Stammi vicino a scuola.

E Tatsuo non è più deluso. Specialmente quando, di fronte ad un succo di frutta e ad un gelato, riesce a cavare al cucciolo il resto della storia: gli innocentissimi studenti delle medie avevano provato ad estorcere del denaro all’altro bambino. A volte la violenza è necessaria.

Tatsuo vuole dirgli quanto sia orgoglioso, poi ci ripensa. Ma che gli è venuto in mente a ‘sta testa cubica di mettersi contro due ragazzi più grandi ?! Se si faceva male?! Così invece attacca un altro disco. Genzo smette di ascoltare da qualche parte tra il “se sei in difficoltà chiedi ad un insegnante” ed il “non cercare sempre di farti giustizia da solo”. Tra meno di quattro anni, Tatsuo sarà tentato di sfondare una parete a zuccate, quando, a meno di una settimana dall’inizio dell’anno scolastico, sarà informato della rissa generalizzata che ha coinvolto una buona metà dei club sportivi dell’istituto Shutetsu.

- Giuro che non l’ho iniziata io!

Tatsuo gli terrà fermo il ghiaccio sulla fronte e farà finta di credergli. Anche se non è Genzo quello ad iniziare le cose, deve essere sempre lui a portarle a termine.

Dopo l’incidente Morisaki, il bambino inizia a frequentare villa Wakabayashi in misura più o meno stabile, portandosi dietro altre quattro disgrazie che rispondono al nome di Hajime Taki, Teppei Kisugi, Mamoru Izawa e Shingo Takasugi. Miss Asano li definisce “il terremoto” e trascorre buona parte del suo tempo a levare fragili porcellane dalle avide mani di Mamoru Izawa. Almeno Takasugi è un tipo tranquillo.

In presenza dei coetanei Genzo si atteggia da uomo vissuto, quando Tatsuo lo vede sfilare con gli altri bambini, non riesce a non pensare a mamma oca coi pulcini. L’immagine è talmente vivida da farlo scoppiare a ridere.

Un giorno, molto lontano, gli tornerà in mente quasi per sbaglio e lo menzionerà a Gamo.

- Il tuo figlioccio ti somiglia.

Risponderà e sorrideranno senza trovarlo divertente. Sarà il 1993 e Genzo si sarà appena fracassato le mani giocando contro la Cina nelle selezioni asiatiche per il mondiale U20, Tatsuo lo scoprirà in differita da Gamo causa ricovero in ospedale per una brutta appendicite.

Genzo è entrato in campo con un tendine lesionato. Gamo lo sapeva e l’ha lasciato giocare. I dottori temono che la gravità dell’infortunio possa segnare la fine della sua carriera sportiva. Genzo avrà diciannove anni, giocherà a livello professionistico da tre e Tatsuo non gli chiederà quale pressione l’abbia spinto a scendere in campo contro il parere del medico. Tatsuo saprà perché, dopotutto ne sarà una delle cause.

***

A settembre Genzo porta l’amicizia con il quintetto del “terremoto” al prossimo livello.

Raccoglie le adesioni e fonda insieme a loro la sezione elementari del club di calcio della Shutetsu.

***

Tatsuo ha della sua carriera calcistica un giudizio spietato e condiviso da pochi. Cioè unicamente da se stesso. Ha iniziato ad allenare perché non poteva più giocare e come coach ha cercato di dare il meglio ai suoi ragazzi, rendendo formativa la loro esperienza in squadra senza vendere illusioni per prospettive o permettere che i loro sogni un giorno si trasformassero in cicatrici.

A trentacinque anni realizza che, forse, ha fatto a quei ragazzi un torto: Genzo gli ricorda quanto per vivere sia importante sognare.

A gennaio la progressione di Genzo incappa in uno scoglio. Tatsuo ci lavora attorno e spinge il piccoletto a trascorrere più tempo con amici e squadra. Osservare il suo protetto giocare con gli altri piuttosto che allenarsi in solitaria, gli permette di verificare una supposizione che Tatsuo nutriva da tempo: Genzo è uno stratega.

Certe intuizioni vanno coltivate, ogni venerdì sera Tatsuo riesuma le pellicole Super8 con le registrazioni delle migliori partite di sempre, o meglio, quelle che sono disponibili: gli Europei in Italia del ’68, quelli in Belgio del ’72, i Mondiali del ’66 in Inghilterra.

Genzo, troppo giovane per sapere il risultato, passa novanta minuti fisicamente incollato allo schermo. Quando si stacca lo riempie di domande. Studiano insieme schemi e strategie che immancabilmente il giorno dopo il piccoletto riadatta in campo con la squadra.

Lo scoglio viene doppiato e Genzo mette le ali. Il piccoletto impara meglio per imitazione, una volta compreso, Tatsuo modifica il suo approccio. In pochi mesi il salto di qualità nel modo di giocare di Genzo è più che evidente e compenserà per anni una carenza di stamina che il portiere correggerà soltanto una volta arrivato in Germania.

La sua capacità di analisi è terrificante, quando Genzo gioca è come se vedesse quattro secondi nel futuro. Tatsuo assiste ai suoi progressi con un orgoglio sconosciuto. L’ultima volta in cui si è sentito così è stata quando la voce seria di coach Cramer lo informava della sua convocazione come secondo portiere della nazionale giapponese. Tatsuo ha LA CERTEZZA che Genzo farà strada.

Se vuole supportarlo ha il dovere di non rimanere fermo.

Nel 1982 la Shutetsu si qualifica per la prefettura di Shizuoka al campionato interscolastico delle elementari. È la prima volta che la squadra approda sul palcoscenico Nazionale e non sorprende che venga sbattuta fuori alla sessione a gironi. Genzo non la prende benissimo e Tatsuo rinuncia a spiegare a quella crapa dura che per un team composto per metà da giocatori di terza sia stato un risultato più che accettabile.

- Vedrà, il prossimo anno faremo meglio.

Dice Genzo e Tatsuo gli crede.

Fa bene. L’estate successiva la Shutetsu domina le qualificazioni, fatica ai Nazionali, ma si aggiudica comunque il titolo dopo una finale sofferta arrivata ai rigori. Forse il risultato sarebbe stato diverso se il Musashi fosse stato in grado di schierare la sua giovane stella, Jun Misugi, sparito dopo la sessione a gironi per un infortunio.

Genzo concorda con la sua analisi, fissa la bandiera del trofeo conquistato e sostiene:

- L’anno prossimo faremo meglio.

Ha ragione. Nel torrido agosto del 1984, la Shutetsu trionfa ai Nazionali di Tokyo. Nell’intero campionato Genzo, considerato il miglior giocatore in campo, non ha subito una sola rete. Il record attira curiosità e, complice la maggiore trazione che il calcio, specialmente quello giovanile, sta acquisendo in Giappone, viene ripresa da diverse testate giornalistiche.

Genzo finisce di sventolare la bandiera e corre verso gli spalti in cemento dove sa che Tatsuo lo aspetta.

- Sa come so che lei è l’allenatore migliore del mondo? – Dice e sorride. – Perché è il mio!

Tatsuo Mikami non crede nei miracoli, ma crede in Genzo Wakabayashi. Ed è sufficiente.

 


 

NOTE:

 

Ah rieccoci!!!

ALORS in primis ACCIDENTI mi sa che è passato più di un anno da quando ho iniziato a pubblicare questa storia LE GASP.

Di tanto in tanto nelle note vi ho aggiornato sui miei problemi di salute e dopo 5 anni di febbre costante per 15/20 giorni almeno al mese, ogni mese… salta fuori dai miei ultimi esami che avevo la polmonite. Da cinque anni! Ininterrottamente. 

Nel senso che il batterio contratto cinque anni fa non era mai stato debellato, era rimasto in corpo e ha continuato ad infiammare l’intero organismo/cercare di uccidermi/fare danni che speriamo essere reversibili. Nessun medico (del sacco di medici che sono stata costretta a frequentare da vicino causa la permanenza di gravi sintomi) ci era arrivato.

Ho iniziato la terapia e SPERO davvero che sia conclusiva (non è sicuro perché lo stronzo ha proliferato parecchio e si è bunkerato ben, bene nelle mie cellule). Quindi dovrei vivere ancora un po’ e si spera MEGLIO.

AH-EHM.

 

Questo capitolo ha subito una modifica di titolo da “Si fa presto a…” a “Quello che non ti ho detto”. Mikami finalmente conosce Genzo e reimpara ad amare.

Il capitolo è breve rispetto al solito perché era drasticamente LEVITATO!!! Così che senza allungare lo hiatus potrete leggere la P.2 due già il mese prossimo MERCOLEDÌ 1 NOVEMBRE.

Torneremo dai nostri amici tedeschi?! La risposta è sì! Ci stiamo arrivando con calma, ma ci arriviamo! Datemi il tempo (e la salute si spera) di fare arrivare Mikami in Germania nel capitolo 14!

Abbiate fede.

 

>>> 13. Quello che non ti ho detto (p.2).

Tatsuo Mikami è uno strano ibrido tra padre e allenatore.

 

 

 

[1] Le leggi sul fumo in Giappone sono particolarmente severe sugli spazi aperti in cui è concesso fumare, mentre sono storicamente più libere per quanto riguarda ristoranti e altri luoghi di aggregamento chiusi.

[2] Yasuhiko Okudera è un famossissimo calciatore giapponese ed il primo a giocare in una squadra europea. In Giappone giocava nel Furukawa Electric, durante un viaggio in Germania viene notato dall’allenatore del Colonia. Giocherà in Germania dal 1977 all’85 cambiando tre squadre: Colonia, Hertha Berlino e Werder Brema. È probabile che Yōichi Takahashi si sia ispirato a lui quando ha scritto il trasferimento di Genzo in Germania nel manga.

[3] Una popolarissima rivista di calcio giapponese del anni ’80 e ’90. L’articolo su Yasuhiko Okudera esiste, ma non era in prima pagina.

[4] Le umeboshi sono prugne salate usate tipicamente come condimento.

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Capitolo 14
*** Quello che non ti ho detto (pt.2) ***


*questa fiction viaggia parallela al canon: ci flirta insieme, ma non se lo sposa.

 


 

14.Quello che non ti ho detto (pt. 2)

 

 

A volte Tatsuo fa un sogno. L’ambientazione differisce a volte è la casa di sua madre a Nara, a volte la cucina di zia Chyo a Kyoto. In più occasioni è un urlare di stanze sovrapposte con il tatami rovinato e la stufa a kerosene di Tanagawa che sfuma nelle assi mangiate dal sole della veranda di villa Wakabayashi.

Akane lavora al computer, il rumore delle sue dita sulla tastiera è il mitragliare di un fucile a pallettoni. Se la chiama lei si volta e sorride, ma c’è sempre qualcosa che non va nella sua faccia. Forse è perché Tatsuo la ricorda sbagliata o perché è un sogno o perché ha già iniziato a dimenticarla. Ogni volta la confusione lo sveglia e quindi è da un pezzo che ha smesso di chiamarla.

Akane oggi è in cucina, affetta il tofu e canticchia Teru Teru Bōzo. La voce è proprio come la ricorda, ma Tatsuo preferisce non rischiare.

- Papà?

Dice un bambino alto dai capelli chiari e il naso storto. È Shisui, o come Tatsuo ritiene dalle foto suo fratello dovesse apparire a dodici anni. Scuote la testa, che errore: non è Shisui, ma Mizuki. Suo figlio ha un’espressione petulante che lo fa sorridere.

- Papà, puoi dire a Genzo che si può giocare a qualcos’altro oltre che a calcio?!

Tatsuo ride. Mizuki ha la maglietta sporca di terra. Tatsuo provando a ripulirlo peggiora le cose, così rinuncia e riflette su come a suo figlio, quando si arrabbia, venga la stessa fossetta sulla guancia di Akane.

- Avanti che sei il più grande, accontenta il fratellino.

Mizuki apre la bocca per protestare, la chiude e si allontana brontolando in giardino. Tatsuo rimane a guardare i suoi figli giocare finché la gola non gli si secca e lo porta a cercare ristoro in una lattina di the freddo. Akane, in piedi accanto al frigorifero, non canta più ora e forse questa volta sarà diverso. La chiama, lei si volta, lui si sveglia.

Il mondo lo accoglie sudato e tremante, una rabbia indefinibile si allarga pigramente nelle ossa. Impiega ore a scuotersela di dosso.

***

Da quando Genzo ha iniziato il secondo anno delle scuole elementari è diventato più difficile definire il loro rapporto. Maestro-allievo? Allenatore-giocatore? Poi capita la cosa del semi-rapimento e Tatsuo Mikami smette di mentire a se stesso: Genzo è il figlio che non ha mai avuto.

Non è giusto, per entrambi. E non è per niente professionale.

Shuzou Wakabayashi oggi è a casa. Qualche mese addietro aveva trascinato Genzo e un altro dei figli, Eiji gli pare, ad un picnic a Tokyo in occasione della fioritura dei ciliegi. Si era distratto un attimo e Genzo aveva finito per farsi mordere da un cane. Tatsuo non era stato presente, ma non aveva avuto difficoltà ad immaginarsi la scena: Shuzou Wakabayashi ha almeno otto capelli bianchi in testa che non ricordava.

È il sei novembre del 1984 e Shuzou Wakabayashi, dopo la porta, l’allenatore, il campetto ed i faretti per giocare in notturna nel giardino di casa, baratta il perdono di suo figlio con un cucciolo.

- Forse ora la smetterà di ficcare le dita nei cancelli per coccolare quelli degli altri…

Tatsuo non risponde, il signor Wakabayashi sospira. Il nuovo arrivato si chiama John ed è uno shiba inu bianco. Shuzou Wakabayashi sostiene che il suo pelo sia anallergico, poi starnutisce.

Genzo ama quel cane, ritaglia improbabili anfratti di tempo per insegnargli a stare in piedi sulle zampe posteriori e a tenere un biscotto sulla punta del naso.

- MISTER MIKAMI, LO GUARDI!

John ha il muso scarabocchiato di nero, due linee pesanti e oblique tagliano arrabbiate lo spazio sopra gli occhi neri profondi. Sopracciglia, qualcuno ha disegnato al cane un paio di sopracciglia. Non Genzo che scalpita come un posseduto.

- È stato Ishizaki!

- Gliel’hai visto fare?

- No, MA LO SENTO!!!

Tatsuo si morde le labbra e fa punto di non ridere. L’inimicizia che Genzo nutre per il capitano della squadra della scuola pubblica Nankatsu è infantile e non può fargli che bene. La tendenza di Genzo a prendere le cose troppo sul serio va in ferie quando Ryo Ishizaki è coinvolto.

Dopo la vittoria al campionato Nazionale, le attività di Genzo e Tatsuo sono sottoposte a maggiore scrutinio. L’altro dei fratelli di Genzo, Shuuichi, in visita alla villa, lo blocca sulle scale e gli chiede:

- Non è solo un abbaglio di papà, allora. La scimmietta è davvero brava…. 

Non una domanda in effetti.

Chissà come deve essere… Da quando ha iniziato a lavorare per loro, non ha mai visto un Wakabayashi ad una partita. Tatsuo si chiede se le registrino o se abbiano qualcuno oltre a lui a riferirgli difficoltà e risultati. I ricchi…

Tatsuo intensifica gli allenamenti pomeridiani, prende contatto con alcuni dei ragazzi più promettenti dei tempi del Musashi e della Shinjo e li chiama a Nankatsu per fargli da assistente. Un part-time ben pagato: anche quando dimenticato, Genzo, vent’anni più piccolo del suo fratello maggiore, rimane comunque la mascotte di famiglia. Esiste ben poco che Tatsuo non possa chiedere che i Wakabayashi non siano disposti a dare. A parte il loro tempo.

Genzo, dalla fine dell’estate, è in preda ad un’energia nervosa. Guarda gli assistenti di Tatsuo con malcelato sospetto e non nasconde l’ostilità quando fatica a prendere il ritmo. Però tace e si adegua in fretta nonostante i ragazzi lo superino in anzianità e centimetri.

Dopo i pasti Miss Asano ha preso ad imbottirlo di acqua e bicarbonato. Tatsuo se ne accorge in ritardo e manca di dargli importanza. A febbraio Genzo insiste per chiudere con le lezioni di autodifesa alla palestra Nakazawa e rivoluzionare il resto dei suoi impegni extra-scolastici. Dopotutto, a dieci anni, Genzo è un adolescente o quasi: è normale che voglia un maggiore controllo sulla propria vita e sulle sue attività. Il tempo guadagnato lo investe nel calcio. 

- Quest’anno il club ha i numeri per un team di soli riservisti. Il coach non ha tempo e qualcuno deve stargli dietro.

Genzo ha stabilito che quel qualcuno sarà lui.

Un bell’impegno, pensa Tatsuo in modo distratto e dimentica di chiedere altro. Katagiri da un mese lo perseguita telefonicamente.

- Pensi signor Mikami, un programma trasversale di formazione per gli allenatori delle squadre giovanili! In pochi anni avremo progressi a cascata nell’intero settore.

La vecchia iniziativa di Katagiri per corsi di formazione per allenatori under quaranta non è mai andata in porto, ma Munemasa è un cane con l’osso. Tatsuo aveva saputo della questione molto dopo ed era stato più facile perdonare a Katagiri lo scherzetto combinatogli coi Wakabayashi.

Il suo kohai, come sempre, punta in altro:  

- Quattro club europei hanno già mostrato un certo interesse.

Nel corso degli anni ’80 e ’90 il calcio in Giappone andrà incontro a molti cambiamenti: l’istituzione della J League, l’abolizione delle vecchie società sportive, il rebrand dei nuovi club, il passaggio dei calciatori allo statuto di professionista.

Munemasa Katagiri, il ragazzo prodigio delle “fenici viola”, corre veloce e gioca in anticipo. Il suo progetto prevede di spedire diversi allenatori di comprovata esperienza all’estero ad affiancare in qualità di osservatori quelli di società preesistenti. Il piano è, nel giro di qualche anno, riportare le conoscenze acquisite in madre patria per plasmare una nuova generazione di giocatori formando calciatori giapponesi di stampo europeo[1].

Un programma ambizioso verso cui Tatsuo mostra un educato interesse con la certezza che, anche questa volta, non se ne farà niente.

Si sbaglia, ma ha anche ragione.

Ha ragione perché tre club su quattro si svincolano dal progetto, facendo perdere in poche settimane a Katagiri l’appoggio di società inglesi e spagnole.

Si sbaglia perché i tedeschi dell’Amburgo SV, forse per una leggerezza amministrativa o una questione pubblicitaria, dimenticano di ritirare la loro adesione.

Si sbaglia perché Katagiri alla fine dell’estate si presenta da lui con un ultimatum: restare o partire.

- Se proprio non può chiederò a Gamo.

Certe occasioni capitano una volta, massimo due nella vita, Tatsuo accetterà d’istinto.

In un secondo momento si assicurerà di poter portare in Germania anche Genzo.

***

Una settimana prima dell’inizio della sesta elementare Genzo si procura una nemesi.

Il fortunato undicenne si chiama Tsubasa Ozora a cui, per uno strano scherzo del destino, compagni di squadra, amici e cronisti confonderanno sempre nome e cognome[2].

Tsubasa Ozora, fresco di trasferimento nella ridente Nankatsu, spara un pallone dritto sul grugno a Genzo a mo’ di sfida e mezz’ora dopo si affrontano nel campo dove si allenano i riservisti della Shutetsu. Tatsuo dedica alla faccenda l’attenzione che merita, Genzo no. Genzo la prende sul serio. Un po’ troppo sul serio in quel modo tra il paranoico e l’arrabbiato che lo contraddistingue da agosto dell’anno passato.

Il singolar tenzone ha regole precise: Ozora dovrà superare i riservisti e segnare, le proteste di Ishizaki vengono zittite ed ignorate e la sfida ha inizio. Ozora è un fenomeno, supera la difesa della Shutetsu come un coltello nel burro. Sarebbe stato diverso se a giocare fossero stati i titolari, ma il bilanciamento della competizione sta anche in questo. Ozora tira, preciso, pulito. Il pallone ha un leggero effetto, cambia idea e punta all’angolo sinistro della porta. La rabbia confonde Genzo, ma la preparazione gli permette di accorgersene in tempo. Para, non trattiene ed il pallone finisce a bordo campo. Sfida conclusa. Oppure no.

L’ubriacone, che meno di mezz’ora prima aveva fatto irruzione nel giardino di villa Wakabayashi seguendo il pallone tirato da Ozora, si sveglia. Raggiunge la sfera, la ributta in campo e Tatsuo capisce improvvisamente perché quel tizio gli era tanto famigliare: Roberto Hongo. Quel matto è il centroavanti della nazionale di calcio brasiliana!

L’assist di Hongo è perfetto, Genzo intuisce, si tira in piedi e salta. Troppo tardi. Ozora colpisce di testa, il pallone passa tra le mani tese del portiere e si insacca in rete.  Genzo, per riparare al ritardo, ha messo troppo slancio e per la seconda volta durante la giornata di oggi fa mancare il fiato a Tatsuo centrando il palo di faccia. Per un istante nessuno si muove, poi Ishizaki corre in campo.

Ozora ed Ishizaki si affrettano accanto al portiere, Genzo è una maschera di sangue, ma lui non sembra accorgersene. Guarda la riga bianca, il pallone ed urla che la sfida è tutta da rifare, che ci vuole una partita vera!

Dei punti di sutura, piuttosto. Tatsuo lo trascina via e gliene affibbia tre, proprio all’attaccatura dei capelli.

- Quel marm… com… gli faccio veder…

Genzo vibra sulla sedia come un pesce all’amo. Tatsuo tampona un altro taglio con il cotone idrofilo ed approfitta della distrazione per incollarci sopra uno di quei cerotti coi dinosauri che Miss Asano ha comprato e che Genzo rifiuta di mettere. Adolescenti…

La rabbia di Genzo, di norma, è un palloncino da fiera: si sgonfia con un niente. Questa invece perdura. Spinge Tatsuo ad intercettare Ozora davanti al cancello della villa prima che il portiere lo veda. Ad Ozora l’uniforme del club di calcio della scuola pubblica veste grande, il bambino spinge tra le sbarre il paio di scarpe che Genzo ha imposto gli fosse prestato perché, durante la sfida, non scivolasse.

- Come sta Wakabayashi? – Poi, prima che Tatsuo possa rispondere. – Gli dica che accetto la sfida!

La strana ossessione di Genzo per il nuovo arrivato è ricambiata. Sono quasi carini.

Quando Tatsuo rientra, sorprende Genzo a fissare la parete con mani bianche aggrappate ai braccioli della sedia come a voler che sanguinassero. Per un folle attimo in quell’espressione pallida e famigliare Tatsuo ci legge la paura, la stessa puara che lo tiene sveglio la notte. Poi il momento finisce e Genzo si gira ed è il solito cocciuto perfezionista quando giura:

- Farò di meglio.

I padri di Genzo hanno una cosa in comune: non riescono a dirgli di no. Non ci provano neanche.

Genzo non vuole andare a scuola le prossime settimane? Ok. Vuole sospendere con le attività del club? Non c’è problema. Stop a ripetizioni di matematica e lezioni private di lingua? Perché no.

Bigiare, in micro-porzioni, fa bene. Come una medicina.

Le ore strappate agli impegni istituzionali il portiere le impiega ad allenarsi. Trascorre ore coi liceali assunti da Tatsuo e rifiuta di presentarsi agli appuntamenti della squadra.

- Domani c’è l’amichevole col Nishigaoka. – Prova a ricordargli.

- Coach Irayama può mettere Morisaki in porta, è bravo.

Izawa passa un paio di volte scortato a turno da Taki e Kisugi, chiede:

- Ma il capitano è malato?

Lo è, in effetti, ma di qualcosa che Tatsuo non sa curare. La ricaduta di un virus che ci si busca quando ad un novantotto su cento in verifica, tuo padre risponde:

- Dai che la prossima volta andrà meglio.

Se si insegna ad un bambino che nulla sarà mai abbastanza la fame di successo diventa cannibalismo.

Tatsuo aspetta che il calore della sigaretta gli bruci le dita, scuote la testa, la spegne. Stupidaggini. Genzo è resiliente. Prima o poi gli passerà.

Invece no. Peggiora.

Tre settimane dopo ha il via il torneo sportivo interscolastico. L’iniziativa, in verità, coinvolge solo due scuole, ma a Nankatsu da più di vent’anni è la necessaria valvola di sfogo  per le tensioni che corrono tra scuola privata e pubblica. I club sportivi dei due istituti si sfidano, senza esclusione di colpi,  per rinfacciare all’altro la propria superiorità dimostrabile dal possesso di un trofeo: una bandiera tarlata che non è mai rimasta nello stesso posto per più di due anni di seguito.

La partita di calcio tra Nankatsu e Shutetsu si terrà a pomeriggio inoltrato e sarà l’occasione per decidere, al di là della questione scolastica, il vincitore della personalissima sfida tra Genzo e Tsubasa. Tatsuo spera solo che la vittoria della Shutetsu segni la fine delle paranoie del suo pupillo.

Le occhiaie di Genzo parlano di una notte insonne, la mattina il portiere lo tira scemo per allenarsi e poi insiste per andare a scuola a piedi. Tatsuo lo lascia fare: meglio energico che spento. Magari si calma. O si svuota. Svoltato l’angolo un pallone gli arriva dritto in faccia, quella di Genzo, che per fortuna lo placca.

- È pericoloso giocare per strada.

Dice Genzo al colpevole, un certo Taro Misaki, che arrossisce, si scusa e chiede indicazioni per raggiungere la scuola pubblica di Nankatsu.

- Io e mio padre ci siamo appena trasferiti.

Finiscono per perdere un sacco di tempo ed arrivano al campo di calcio della Shutetsu in ritardo, ma in tempo per sentire Urabe del Nishigaoka schiamazzare:

- Wakabayashi non viene perché si sta cagando sotto.

Kisugi ed Izawa minacciano di prenderlo a pugni, Genzo salta dagli spalti e raggiunge i propri compagni. Il portiere ha precise istruzioni per la squadra: oggi non sono qui per vincere, ma per umiliare gli avversari.

- State su Tsubasa, è l’unico decente tra questi idioti.

La partita, però, viaggia su un altro copione.

Da più di un mese Roberto Hongo allena i pulcini della scuola pubblica ed il giocatore brasiliano è riuscito nel miracolo: i saltafossi ora sono una vera squadra. Certo, il loro gioco ruota tutto su Tsubasa, ma la forma e la coordinazione degli altri bambini è decisamente migliorata. La Shutetsu, abituata a vincere contro di loro trenta a zero, viene colta impreparata, da Ishizaki specialmente. A Tatsuo scappa un sorriso. È evidente che i calciatori avversari si stiano divertendo un mondo.

Genzo, invece, non è per niente felice.

La Shutetsu, vincitrice incontrastata dell’ultimo torneo Nazionale, non riesce ad uscire dallo stallo imposto da una squadra considerata una barzelletta. Nella pausa tra primo e secondo tempo il portiere nasconde la testa tra le mani e chiede:

- Vi prego… un goal. Non dico più di farne cinquanta… almeno uno…

Kisugi, il miglior realizzatore della squadra, accusa il colpo. La Shutetsu è scesa in campo convinta di del proprio trionfo e, al primo segno di resistenza, s’è sfrangiata. Genzo è bravissimo in momenti come questo: la sua certezza nella vittoria è contagiosa e controlla gli umori della panchina, riapre una partita. La Shutetsu non è in svantaggio ed ha più di trenta minuti per dimostrare di che pasta sia davvero fatta. Però Genzo oggi non è il solito giocatore implacabile e sicuro quanto testardo: oggi Genzo Wakabayashi è nel panico.

Un panico controllato, certo, ma la squadra lo percepisce, lo sa. La faida personale con Tsubasa Ozora ne è la scintilla quando non la causa.

Un elastico ha bisogno di arrivare al punto di rottura per imparare quando smettere di tendersi. 

Genzo ha amici eccellenti, al rientro dal secondo tempo è la Shutetsu a sostenere il suo capitano. Un attacco a sorpresa della Nankatsu dà a Takasugi l’occasione per ottenere una rimessa che manda lunga su Izawa, pronto ad affrontare Ozora in uno scontro aereo. La palla scivola tra i piedi di Masaru della Nankatsu, Kisugi gliela strappa in corsa, tira al volo e segna.

La Nankatsu di Hongo risponde allo svantaggio cambiando formazione, Ozora passa dalla difesa all’attacco mettendo pressione sulla metà campo avversaria. La Shutetsu gli permette di insediare la porta, Genzo blocca tre tiri dall’area piccola e dalla distanza, poi rilancia la palla ad Izawa ed ordina di chiudere il gioco a centrocampo.

Tatsuo approva: la Shutetsu oggi non è in forma e fa bene a difendere il proprio vantaggio così a ridosso dal fischio finale. I tifosi della scuola pubblica non la pensano come Tatsuo, una ragazzina, in particolare, comincia ad urlare:

- VIGLIACCHI!

Tatsuo impiega un secondo di troppo per identificarla: Sanae Nakazawa. Lei e Genzo saranno pure amici, ma in curva ed in amore non conta.

Izawa prende l’iniziativa ed avanza, la Nankatsu si prepara a difendere. Izawa passa indietro a Taki e la melina ricomincia. Ozora prova ad intercettare la palla, corre avanti ed indietro, rimbalza da un giocatore all’altro. Mancano due minuti al fischio finale, Ishizaki intuisce la traiettoria della sfera, la intercetta prima che arrivi ai piedi di Taki ed inciampa, ma riesce a passare in avanti. La Shutetsu non se l’aspettava.

Ozora fa tunnel ad Izawa, si libera di Takasugi e tira sicuro verso l’angolo destro. Genzo l’ha previsto e lo respinge, ma non riesce a trattenere. La palla vola verso l’alto, rimbalzando sulla traversa e ritornando in campo. Ozora arriva prima dei difensori e insacca il pallone in rovesciata. Uno ad uno. Si va ai supplementari.

La panchina avversaria esulta, l’infortunato Ishizaki viene sostituito dalla nuova recluta, Taro Misaki, non senza qualche protesta da parte di Urabe e Kishida. Tatsuo scende dagli spalti in cemento e si dirige verso il bordo del campo. Non gli piace quello che, al fischio dell’arbitro, ha visto sulla faccia di Genzo.

Il portiere alla panchina, ignora le istruzioni del coach, si scolla dalle spalle la mano di Takasuki, leva i guantoni, li ficca nella sacca e se la mette in spalla.

- Ho perso la sfida con Tsubasa, me ne torno a casa. Ho chiuso con il calcio. 

***

Genzo ama il calcio.

Genzo non si diverte più a giocare.

Per Genzo Wakabayashi il calcio è una responsabilità.

Che qualcosa fosse cambiato Tatsuo l’aveva registrato tra la fine del torneo di Tokyo e metà gennaio, come quando vedi il cielo farsi scuro e capisci che presto si metterà a piovere.

- Nell’amichevole contro il Nagoya ho preso un solo goal anche se gli avversarsi erano tutti ragazzi più grandi.

Diceva Genzo quando aveva otto anni, sorrideva ed aspettava che Tatsuo gli dicesse quanto fosse stato bravo.

- Non avete difeso bene e nel secondo tempo avete buttato un sacco di occasioni.

Gli aveva risposto, perché era importante che non si accontentasse, che prendesse consapevolezza che nello sport si può sempre fare meglio.

- Il club di calcio delle elementari Shutetsu quest’anno ha vinto più premi di quello del liceo.

Diceva Genzo quando aveva nove anni ed il petto gonfio a cercare in se stesso la conferma che sperava sarebbe arrivata anche da Tatsuo.  

- Non mi interessa cosa fanno gli altri. E comunque non avete superato i risultati del liceo di Nankatsu.

Gli aveva risposto Tatsuo, perché era importante che non si montasse la testa.

Genzo a dieci anni, trionfa a Tokyo supera selezioni e torneo interscolastico senza subire una singola rete. Il record, destinato a rimanere imbattuto, attira su di lui interessi che eclissano l’importanza del suo cognome.

Tatsuo, quanto fosse orgoglioso di lui, non glielo avrebbe mai detto.

***

- Sai... - Dice Kozo Kira, nel 1995, con in mano una bottiglietta di acqua gelata. – Che cos’è il burnout?

- Un composto tra due parole inglesi.

Tatsuo non fuma da due mesi e ha un braccio che è un patchwork di cerotti alla nicotina. Kozo scuote la testa e gli fa un gestaccio. La Federazione l’ha voluto come allenatore della Nazionale Giapponese per le Olimpiadi al posto di Gamo e Kozo ha, ancora una volta e definitivamente, smesso di bere.

Tatsuo ha accettato la sfida e provato a fare lo stesso con le sigarette. Odia Kozo Kira, dovrebbe ascoltarlo di più. Va a momenti.

- Cosa sta succedendo in Germania al tuo Genzo?

 ***

Tatsuo Mikami non è un genitore migliore di Shuzou Wakabayashi.

***

- Ho chiuso con il calcio.

È il 1985, Tatsuo Mikami intercetta Genzo alla panchina e gli tira un ceffone da girargli la faccia.

Col senno di poi poteva gestirla meglio.

***

Tatsuo non ricorda precisamente cosa abbia detto.

Sa che Genzo rimane inchiodato a fissarlo, poi i suoi amici lo raggiungano e gli fanno muro attorno. Izawa e Taki dicono qualcosa di incoraggiante e quando il portiere torna in campo lo fa con cinque dita stampate in faccia ed un sollievo che Tatsuo non gli registrava da tanto.

Nei tempi supplementari Genzo Wakabayashi riprende a giocare.

- Mostriamo alla Nankatsu come si fa!

La Shutetsu i supplementari se li gioca in attacco, ma il nuovo arrivo della Nankatsu, Taro Misaki, è formidabile quanto Tsubasa Ozora. Misaki intercetta il pallone destinato ad Izawa si libera di Taki, passa ad Ozora che arriva a dare sostegno al contropiede e tenta il tiro. Genzo l’ha previsto, intercetta senza alcuna difficoltà e consegna la sfera a Kisugi che la porta in avanti, Misaki si inserisce ancora nel vuoto e la Nankatsu attacca.

Però non riesce a segnare.

Genzo è, dopo quasi sessanta minuti[3], finalmente in partita e così anche il resto della squadra. Senza più il peso dell’altrui aspettativa a premerlo tra due fuochi, Genzo si diverte pure: abbaia ordini ai suoi difensori e gioca con la leggerezza di chi può assumersi dei rischi.

All’inizio del secondo supplementare lo stallo tra le due squadre continua.

Taki si libera di Ozora e passa a Kisugi che riesce ad anticipare Misaki e tira in rete. Troppo lento, il portiere respinge di pugno e il pallone rotola fuori. Per la rimessa la Nankatsu si chiude in difesa ripristinando la marcatura a uomo. Taki sorride e passa indietro: la Shutetsu ha un altro giocatore e Genzo è uscito dai pali.

Tatsuo Mikami predica il gioco contenitivo. Il suo calcio è stretto tra centrocampo e difesa, sempre capace di sorprendere il frustrato avversario con un contropiede decisivo. Così gioca la Shutetsu, così ha sempre vinto.

Tatsuo non avrebbe fatto di Genzo un portiere libero. Coach Friedman e Kozo Kira, vedranno in Genzo qualcosa di diverso, una cosa che, in effetti, c’è stata da sempre.

Chi marcherebbe mai il portiere?

Il pallone di Taki arriva quando Genzo è fuori area, Ozora fissa impotente il portiere mentre quello li segna sotto il naso il goal del due ad uno. La Shutetsu esulta, ma i tempi supplementari non sono finiti.

A pochi secondi dallo scadere del tempo la difesa si distrae e lascia penetrare Misaki e Ozora in area, li lascia da soli di fronte al portiere. Chi sarà a calciare? Tsubasa serve un assist a Misaki che si appresta a tirare di testa, Genzo si sbilancia e Misaki trasforma il tiro in un passaggio angolato. Ozora segna e la partita finisce in pareggio.

La Nankatsu esulta come se avesse vinto, ma i giocatori della Shutetsu non se la prendono a male.

Il palloncino della rivalità e della rabbia s’è sgonfiato per davvero.

Taki cotrolla come stia la caviglia di Ishizaki, Kisugi chiede a Masaru come sia avere un coach brasiliano, Izawa e Takasugi intercettano Misaki per accertarsi che sia davvero “sicuro, sicuro” di non voler venire a giocare per la scuola privata.

- Guarda che l’anno scolastico è appena iniziato!

Ozora e Genzo rimangono stesi a terra a parlare, poi sorridono e si dirigono insieme a ricevere il trofeo in rappresentanza di entrambe le scuole.

Tatsuo la conta come una vittoria.

***

Alla fine dell’aprile del 1985, la Federazione rivisita pesantemente l’organizzazione dei tornei nazionali U12. In Giappone iniziano ad esserci “troppe squadre”, così viene ordinato un compattamento per distretto in funzione dei tornei di prefettura e questo si traduce in nuovi allenatori e provini per le squadre.

La selezione a Nankatsu si tiene all’inizio del mese di maggio. I provini durano tre giorni ed alla fine nella nuova “Nankatsu” convergono tutti i giocatori dell’ex Shutetsu più una manciata di facce nuove tra cui: Tsubasa Ozora, Taro Misaki, Ryo Ishizaki e Hanji Urabe. Il coach nominato dalla Federazione, mister Shiroyama, mette Genzo a capitano per scendere in campo appena due settimane dopo contro il Fuji FC.

La partita procede a senso unico e si conclude sette a zero per la Nankatsu. Un successo che continuerà per buona parte del torneo della prefettura, permettendo a Genzo di nascondere al coach ed a Tatsuo una brutta distorsione guadagnata durante un’ michevole tra la Shutetsu e il Nishigaoka.

A giocarci sopra, la lesione peggiora. Quando Tatsuo lo nota zoppicare, costringe Genzo a vuotare il sacco, poi lo spedisce in clinica e dal coach. Mister Shiroyama la prende con sportività e confina Genzo, “per la sua salute”, in panchina per l’incontro successivo.

- La Shimada di sicuro non ci impensierisce.

La Shimada è una squadretta della periferia della prefettura di Shizuoka. L’incontro è previsto per il prossimo sabato e, dato che Genzo non giocherà, Tatsuo approfitta dell’occasione per prendere appuntamento con Katagiri e discutere la questione tedesca.

Sì, l’Amburgo SV non s’è tirato fuori dall’accordo. Ancora.

Nel calcio non si può mai dare la vittoria per scontata e la partita con la Shimada si conclude in un contenuto disastro. Alla fine dei sudatissimi sessanta minuti, la Nankatsu strappa agli avversari un combattuto tre a due. Mister Shiroyama non ne è felice.

- Meno male che avevamo Tsubasa, senza Wakabayashi in campo gli Shutetsu sono persi.

Tatsuo sfila una sigaretta dal pacchetto e la gira tra le dita senza accenderla.

- Il problema è che non pensi a loro come ad un’unica squadra.

La Nankatsu è troppo nuova: non puoi sbattere assieme un gruppo di bambini che giocava ad odiarsi ed aspettarti che alla prima difficoltà non implodano. I calciatori hanno orgogli fragili.

La personalità… diciamo spiccata di Genzo aveva fatto da collante ai bambini, ma se la Nankatsu vuole avere una possibilità ai Nazionali qualcosa deve cambiare. Shiroyama è giovane, ha tutto il tempo per capire che una squadra di calcio è un sistema organico. Ci arriverà, ma non in fretta: il giovane coach si limiterà a soppiantare un culto della personalità con un altro.

Nella finale contro la Shimizu, Shiroyama preferisce non correre rischi e schierare Genzo dall’inizio. La squadra si compatta attorno al suo capitano e detta il ritmo della partita per tutto il primo tempo. La Shimizu però è un’avversaria da non sottovalutare e quando i giocatori rientrano in campo dopo la pausa il risultato è ancora bloccato sullo zero a zero.

E poi succede IL FATTO.

Nello sport esiste il fallo tattico. Rompere il ritmo dell’avversario è spesso il modo per rovesciare le sorti di una partita. Brian Cruyfford ne farà la sua specialità quando giocherà nella nazionale giovanile olandese negli anni ’90.

La Shimizu nel torneo U12 del 1985 non commette fallo tattico.

Fa una porcata e basta.

Tatsuo la partita la vede in differita, perché è a Tokyo quando la Nankatsu gioca per delle difficoltà col visto che dopo quttro ore si risolveranno in un foglio smarrito e ritrovato.

Al suo ritorno Genzo ha fatto le lastre e la Nankatsu ha vinto tre a zero. Dice che è stato un incidente, mister Shiroyama annuisce, ma non incontra il suo sguardo.

Quella sera Tatsuo cerca sulla guida del telefono il numero della signora Ozora. La mamma di Tsubasa è l’unica armata di telecamera alle partite.

- Mio marito lavora distante, ma non vuole perdersele!

Tatsuo manda il filmato avanti ed indietro, ancora ed ancora, lo blocca dopo che l’arbitro ha fischiato, sei giocatori della Shimizu si allontano, ridono. Genzo fatica, prende lo slancio, si accascia durante la rimessa.

‘Sti piccoli mostri gli  sono intenzionalmente saltati sulle gambe.

Genzo ci ha rimesso una frattura alla caviglia e legamenti del ginocchio lesionati.

Gli incidenti capitano, i giocatori si fanno male, a volte in modo irreversibile com’è successo ad Hongo e Katagiri. Tatsuo manda indietro, guarda il coach della Shimizu dare ordini ai suoi giocatori nella pausa tra primo e secondo tempo e ne è certo: a chiedere di azzoppare Genzo è stato lui.

Ah.

Tatsuo non ha nessuno da prendere a pugni e poi non ne è il tipo, così conficca le unghie nella carne del palmo. Intuizioni e presentimenti non sono prove e senza Katagiri ha le mani legate, così Tatsuo telefona alla signora Wakabayashi, gli risponde la segretaria.

Il coach della Shimizu non allenerà più nessuno.

***

Il signor Tanaka, il medico di famiglia, conferma quanto previsto: Genzo non potrà giocare ai nazionali di quest’anno.

- Almeno un mese e mezzo di fermo.

Genzo protesta, sbraita, poi aggrotta le sopracciglia e si ammansisce:

- Quindi alla finale in agosto potrò giocare!

Il signor Tanaka suda freddo e si nasconde la testa tra le mani.

La Nankatsu, checché i suoi giocatori sostengano, non si può permettere di rimanere senza capitano per un torneo intero. Coach Shiroyama nomina Ozora come sostituto e Genzo due ore dopo lo va a trovare per fargli le sue congratulazioni e raccomandarsi su Kojiro Hyuga.

- Vincerò! Arriverò alla finale con il Meiwa senza mai perdere!

Promette Ozora, Genzo annuisce, la considera come cosa fatta e Tatsuo non gli chiede chi sia o cosa gli abbia fatto questo Hyuga. Conoscendolo sarà qualche stupidata di lesa maestà ed orgoglio.

Due settimane dopo Tatsuo lo accompagna a salutare la squadra all’aeroporto. Prima di entrare, Genzo cambia idea e si limita ad aspettare fuori che l’aereo si sollevi in aria.

- Sono bravi, non hanno bisogno di me per farcela.

Dice Genzo con una convinzione tutt’altro che malinconica.

- D’accordo.

Risponde Tatsuo per non dirgli che si sbaglia.

 

 


 

NOTE:

 

E ci siamo con la seconda parte!!!

Alla fine ce l'abbiamo fatta! Anche se tematicamente mi è dispiaciuto spezzare in due tranche il capitolo 13, insieme veniva un po' troppo voluminoso.

Visto che uso queste note come bollettino medico: i 28 giorni di antibiotico non hanno funzionato, il batterio è troppo radicato e tra qualche mese dovrò ripetere la cura spacca-stomaco/polmoni sperando che funzioni. Ora ho un'esperienza in prima persona di cose che un giorno scriverò in modo realistico. 

 

Finalmente la storia di Tatsuo si sta ricongiungendo con quella del terzetto e presto la doppierà (quindi post incidente e prime partite per regionali ) prima di lasciare di nuovo la parola a Schneider. Il capitolo 14 sta, come al solito, levitando e lo spezzerò almeno in due parti.

Volevo davvero riuscire a pubblicarlo a dicembre, ma non ce la posso fare.

Quindi festeggeremo l'anno nuovo mercoledì 3 gennaio con la fine del campionato interscolastico, un magico cameo di Kozo Kira e le grandi preparazioni per lo sbarco in terra tedesca!

 

 

>>> 14. Le cose belle quando finiscono (p.1).

Mentre il torneo interscolastico è agli sgoccioli Tatsuo Mikami sogna la Germania.

 

 

[1] Anche se nella realtà il programma di Katagiri non fu applicato (dopotutto si tratta di un personaggio di finzione), il resto delle riforme fu estremamente reale. Il calcio giapponese tra le metà degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 subisce modifiche profonde che per motivi di spazio non posso citare nella loro interezza, ma che portano ad una standardizzazione della neonata J-League su modelli europei.

[2] Di norma in Giappone si utilizzano i cognomi per riferirsi gli uni agli altri. Il nome viene riservato ai membri della famiglia ed agli amici intimi o di vecchia data. Il caso di Tsubasa è curioso proprio perché nel manga tutti si rivolgono a lui per nome (probabilmente per mantenere il “nome parlante”: “ali”, sinonimo di libertà e voglia di vivere). Curiosamente, invece, gli unici personaggi che si riferiscono a Genzo col nome proprio sono mister Mikami, Wakabayashi senior ed Hermann Kaltz.

[3] Tenendo fede al manga le partite delle squadre giovanili di medie ed elementari giapponesi negli anni ’80 e ’90 sono di sessanta minuti, invece che di novanta.

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Capitolo 15
*** Le cose belle quando finiscono (pt.1) ***


*questa fiction viaggia parallela al canon: ci flirta insieme, ma non se lo sposa.


 

 

14. Le cose belle quando finiscono (pt.1).

 

Tatsuo non sa come sia possibile, ma Tv Tokyo[1] quest’anno trasmetterà le partite del torneo nazionale di calcio U12. Non tutte e solo all’interno di una certa fascia oraria, così per le altre lui e Genzo si arrangiano con qualche radio amatore locale.

La Nankatsu è sfortunata ed il suo primo avversario per la fase a gironi è proprio il Meiwa. Genzo, inconsolabile, conficca un pugno nel cuscino e sparisce in bagno ad urlare. Quando riemerge è quasi a posto.

- Va bene, fa niente. L’importante è che vincano.

Invece la Nankatsu perde. Tatsuo osserva Genzo passare attraverso tutte le fasi del lutto senza sapere bene cosa dire. I giocatori rientrano negli spogliatoi, Genzo si tira in piedi, va in salotto, scava nel cassetto dello scrittoio del salotto ed emerge con la guida telefonica. Impiega quattro tentativi prima di riuscire a collegarsi con l’interno giusto.

- Mister Shiroyama, sono Wakabayashi. Potrebbe passarmi Morisaki?

Tatsuo si siede ed aspetta l’esplosione della bomba. Genzo sorride.

- Ehi, Morisaki! Ma non vi sarete mica scoraggiati? Abbiamo perso, ma tu hai giocato benissimo! Ti sei battuto con coraggio. La porta della Nankatsu è nelle tue mani fino al mio ritorno! Ehi, ma Tsubasa è tanto giù? Fa che passarmelo un attimo.

Non c’è pietà nella voce di Genzo, è sicura e decisa come sempre quando ricorda ad Ozora che questa, del girone, è, infondo, solo la prima partita.

- Non siete mica fuori dal campionato. Vincete le altre che ci giochiamo con Hyuga la rivincita in finale, d’accordo?!

Dall’altra parte della cornetta i malumori si trasformano in grida entusiaste. Genzo riattacca.

- Genzo…

“Sono tanto orgoglioso” vorrebbe dire, ma non lo fa. Genzo interpreta male la pausa, incrocia le braccia e non lo guarda negli occhi.

- È vero che hanno giocato bene. Solo un idiota se la prende con qualcuno che fallisce anche quando si impegna.

Tatsuo non sorride, il cuore colmo di una tenerezza che fa male. S’è distratto e Genzo ha finito per crescere. Vanno insieme in veranda e trovano la frequenza su cui trasmettono la partita del Furano.

***

L’incantesimo che malediva la Nankatsu con Genzo assente si dissolve con il sole dell’estate.

Vincono con l’Osu di Fukuoka per nove a zero e ripetono il successo nella giornata successiva, fino ad arrivare con l’incontro con l’Hanawa che, dopo il pareggio con il Meiwa, è saldamente qualificata al secondo posto del girone.

La Nankatsu è in forma perfetta, nonostante le difficoltà date dalla combinazione dei gemelli Tachibana, domina il primo tempo e va alla pausa sull’uno a zero. Genzo va in giardino a fare ginnastica, sicuro della vittoria dei compagni. Un po’ ingenuo, dovrebbe sapere che il calcio non è quasi mai prevedibile.

Tatsuo lo richiama all’ordine quando l’Hanawa segna il goal del pareggio.

- Ma giocavano così bene!

- Sì, ma anche gli altri.

Genzo torna dentro in tempo per vedere Ishizaki, entrato in campo per la prima volta dall’inizio del torneo, segnare l’autogoal dello svantaggio.

- Ora me lo linciano.

Commenta Genzo e, nonostante la strana rivalità che lo anima ogni qualvolta Ishizaki è coinvolto, non ne pare contento.

I giocatori della Nankatsu convergono su Ishizaki, ma l’arrivo di Misaki calma gli animi e si ritorna in campo con pochi minuti a disposizione e l’obbligo di vincere. Genzo sposta la sedia più vicino al televisore, Tatsuo è costretto a guardare la partita da sopra la sua testa. Misaki segna il goal del pareggio, trasformando in assist il tentativo a rete di Ishizaki. La Nankatsu torna in partita e si aggiudica la vittoria quando Tsubasa, pochi minuti dopo, s’inventa un’improbabile rovesciata.

Genzo si abbandona contro lo schienale della sedia.

- Da adesso le partite ce le guardiamo tutte dall’inizio alla fine.

Tatsuo gli tira un buffetto sulla testa.

***

La caviglia di Genzo migliora, ma non abbastanza per rientrare in campo agli ottavi di finale come aveva sperato. Tatsuo può impedirgli di giocare (per ora), ma non di comprare ad entrambi un biglietto di sola andata per Tokyo: treno, non aereo. Per fortuna.

- Sei sicuro di volere andare lo stesso?

- Certo!

I posti sul treno sono prenotati, hanno giusto il tempo per vedere un’ultima partita prima di precipitarsi in stazione. Per mantenere i ritmi serrati delle pause scolastiche estive i giocatori delle U12 sono costretti a giocare tutti i giorni senza pause e nel pomeriggio la Nankatsu affronta il Naniwa che quest’anno schiera come suo capitano Taichi Nakanishi: un bestione che pare più uno studente di seconda liceo che di sesta elementare. L’adagio di Tatsuo per cui giocare in porta non sia questione di stazza[2] pare, ancora una volta, andare inascoltato. La difesa del Naniwa è eccellente, lo stesso Nakanishi è, al di là di tutto, davvero bravo e la Nankatsu ha qualche difficoltà di troppo a segnare.

Ozora non si lascia intimorire e prima della fine del primo tempo sblocca insieme a Kisugi il risultato. Nella ripresa il vantaggio si allunga grazie ad Izawa e Misaki, ma la Nankatsu è incontenibile e continuane a pressare fino a segnare il cinque ad uno.

C’è qualcosa di aggressivo, questo sabato, nel calcio della Nankatsu, qualcosa che era mancato alle altre partite e che sparirà da quelle successive: l’intera squadra nei trenta gradi all’ombra di un pomeriggio di sole ha deliberatamente martellato nel cuore dell’avversario un unico punto. 

- Sai Genzo… - Prova Tatsuo. – Pare che Nakanishi volesse emulare il tuo record dell’anno scorso. Credo che ai tuoi amici non sia andato a genio.

Tsubasa Ozora e il quintetto della Shutetsu hanno un forte attaccamento per Genzo. Tatsuo se lo vede il piccolo capitano della Nankatsu incitare i compagni al grido “Nessun portiere sarà mai bravo quanto Wakabayashi!” come ha fatto e farà in allenamento almeno un milione di volte per il consenso generale dei presenti, Ishizaki compreso. Il “Genzo Wakabayashi fan club”. Tsubasa Ozora dimostrerà negli anni una fede incrollabile nel suo portiere e una certa propensione a fare male, emotivamente parlando, a chiunque cerchi di ferirlo.

Tatsuo sorride e pensa sia tenero che l’ossessione di Genzo per l’altro calciatore sia ricambiata con gli interessi. Da quanto Tsubasa Ozora è entrato nelle loro vite, l’energia nervosa che consumava Genzo si è dispersa come le foglie in autunno. Il suo piccolo portiere è tornano a divertirsi, a crescere.

Quella sera partono per Tokyo.

***

Tatsuo passa i due giorni successivi dentro e fuori dalla Federazione. L’Amburgo SV ha perso l’ultima occasione per rimangiarsi l’offerta e ora il contratto è nero su bianco: Tatsuo Mikami andrà in Germania.

A sentire Katagiri, l’iniziativa è già stata pubblicizzata in Europa. Riscuote simpatia ed approvazione: tutti amano gli underdogs che dal Sol Levante, capo asperso di cenere, vengono ad imparare dal grande Occidente. Ma che vadano un po’ a…

- Siamo stati contattati dal Werder Brema e da alcuni club tedeschi e francesi. Di questo passo quando sarà in Europa, avrà parecchi posti da visitare.

L’Europa, la Germania, come Yasuhiko Okudera. Uno su un milione. Ci ha messo un po’ di più certo, ma anche Tatsuo Mikami è arrivato.

Si ricorda di Genzo solo quando ritorna all’appartamento e lo trova con la testa infilata nei bagagli.  Tatsuo impiega un attimo per ricordare che oggi la Nankatsu giocava la semifinale con il Musashi. A giudicare dalla reazione andare a vederla in diretta non ha portato bene.

- Ma che dice? Domani c’è la finale, vado a stare al refettorio con gli altri!

Ah. Come non detto.

- Genzo, mister Shiroyama LO SA?

Genzo si siede sulla valigia e sfrutta il peso per vincere la resistenza della zip.

- Sicuro. Mi hanno visto tutti oggi al campetto!

Tatsuo respira. Sfila gli occhiali scuri, li pulisce con il dorso della manica e li rimette più sporchi di prima.

- Cos’è successo durante la partita?

E Genzo glielo spiega. Jun Misugi, la star del Musashi, ha un grave problema cardiaco. Ah, Tatsuo non lo sapeva, spiega parecchio: il ragazzino ha iniziato a bazzicare i tornei nazionali nello stesso periodo di Genzo ed è sempre stato… bravo. Assente. Un talento che trovi una volta su... sfortuna.

Nel racconto che Genzo fa della partita Tsubasa s’è lasciato soverchiare, non tanto dalla tragedia, ma da Misugi in sé, dalla consapevolezza che a volte non conta la capacità o la passione, ma la fortuna di nascere coi geni giusti. Quando bastano, perché poi ci sono gli incidenti…

Tatsuo non pensa a Katagiri, pensa a quanto la consapevolezza del limite faccia male e spera che crescere non spezzi il sorriso di Tsubasa Ozora come aveva quasi fatto col suo Genzo.

- Quindi, cos’ha gli hai detto?

Chiede.

- Che a Tokyo non sono venuto per vederlo fare il pirla! Tsubasa mi ha promesso LA FINALE!

Beh, almeno è stato efficace.

Al refettorio comunque non ci vanno: troppo tardi ed una telefonata conferma che hanno a mala pena posto per un futon extra, figurarsi per una stanza con letto. Tatsuo pensa il mondo di Genzo, ma sa anche che su igiene e spazio personale sia la versione giapponese della “principessa sul pisello”.

- Guarda che se poi non dormi, mister Shiroyama mica ti fa giocare.

E le proteste sul raggiungere i propri compagni, magicamente, hanno fine.

Tatsuo realizza più o meno alle due del mattino di aver assicurato a Genzo che alla finale di domani sarà in campo. Merda.

***

Mister Shiroyama schiera Genzo dall’inizio. Tatsuo ricopre entrambi di raccomandazioni che entrano da un orecchio ed escono dall’altro e poi va a cercare un posto a sedere.

La caviglia è ancora fragile, ma quasi a posto. I portieri saltano, ma non corrono. Le partite dell’U12 durano solo sessanta minuti. Ok. Andrà bene, poi Tatsuo potrà inchiodare il culo di Genzo ad una sedia fino al giorno della partenza.

I piccoli della Nankatsu ascoltano composti le istruzioni del coach, Genzo tocca la spalla di Ozora ed indica gli spalti: Sanae Nakazawa ha portato la bandiera. Ozora alza una mano a salutarla e Genzo scoppia a ridere. Questa sarà la loro ultima partita insieme. Se anche Genzo non partisse, sarà Ozora a farlo:  Roberto Hongo gli ha promesso, a fine torneo, di portarlo con sé in Brasile.

È triste quanto naturale: le amicizie d’infanzia non sono destinate a durare, la distanza le sfalda. Forse è per questo che Tatsuo non ho voluto impedire a Genzo oggi di giocare: se questo deve essere un addio allora che lo viva senza rimpianti. Ovviamente sulla faccenda degli addii, come al solito, Tatsuo si sbaglia.

- Qual è il suo?

Gli chiede un uomo che non ha mai visto prima, è sulla quarantina, indossa un cappello e ha l’aria buona di chi non s’è lasciato incattivire dalle ferite della vita. Si chiama Ichiro ed è il padre di Taro Misaki.

- Ah, Wakabayashi! Quello che ha aiutato Taro a trovare la scuola! – Dice il signor Ichiro e poi torna a guardare il prato. – Speriamo che i nostri ragazzi oggi si divertano un mondo!

Non che facciano del loro meglio, che vincano. Che si divertano.

Tatsuo annuisce e si chiede se sia quello che i genitori giusti debbano volere dai propri figli.

La partita inizia con la Nankatsu che veloce soffia il possesso palla al Meiwa e si lancia in avanti. Hyuga tenta un approccio un po’ aggressivo che si inchioda contro il tecnicismo di Ozora e Misaki, l’azione si conclude nell’uscita del bravo portiere del Meiwa che intercetta il tiro di Ozora senza farsi impensierire. Ken Wakashimazu, portiere alto e slanciato, tocca il terreno dopo una capriola in aria che sorprende e causa soggezione negli avversari e una certa dose di perplessità in Tatsuo.

I calciatori del Meiwa saranno eccentrici, ma sono anche efficaci.  Prendono dal loro coach: Kozo Kira stravaccato sulla panchina di metallo agita una bottiglia di sakè in loro direzione, Tatsuo evita di guardarlo. È invecchiato. Pare avere più cinquant’anni invece che quaranta.

Un paio di azioni pericolose da parte della Nankatsu ed ecco che il Meiwa parte al contrattacco, l’assist di Sawada arriva a Hyuga anticipando Takasugi e lasciandolo da solo di fronte al portiere. Ma Genzo è già uscito e intercetta il pallone ancora prima che il capitano del Meiwa riesca a tirare.

La rimessa arriva lunga su Izawa che si coordina con Misaki per consegnare la palla a ad Ozora che si trova ancora una volta ad affrontare la superiore fisicità del gioco di Hyuga. Ozora la butta sul tecnico e lo scontro tra i due capitani si risolve con un’impasse. A complicare ulteriormente le cose c’è il gioco acrobatico e decisamente anticonformista di Ken Wakashimazu che spiazza i giocatori della Nankatsu con prove atletiche che appartengono più a un dojo di karate che ad un campo di calcio. Tatsuo sopprime il desiderio di chiedere dove l’abbia scovato a Kozo Kira.

Il gioco di Genzo sarà meno spettacolare, ma è altrettanto efficace. La buona coordinazione tra Sawada e Hyuga non può molto contro di lui o la sua difesa. Genzo regala il pallone a Taki, la Nankatsu stordisce il Meiwa con una serie di passaggi veloci. Ozora aspetta che Wakashimazu si sbilanci per passare a Kisugi che tenta il tiro, il portiere del Meiwa riesce ad arrivare a tempo  e respinge senza trattenere. Misaki e Ozora arrivano contemporaneamente sul pallone. È difficile stabilire chi dei due tiri. Forse entrambi, dato l’effetto impresso alla sfera quando si insacca in rete consegnando alla Nankatsu il goal del vantaggio.   

Kozo Kira aspetta che la frustrazione smetta di annebbiare i suoi piccoli campioni, dà istruzioni a Sawada che Tatsuo non riesce a sentire e si fa in disparte. Ma non si siede. Il Meiwa riprende la partita con energia nuova, Hyuga è incontenibile e martella la difesa della Nankatsu che si chiude in area lasciando al capitano avversario campo libero per tirare da fuori. La presunta invincibilità di Genzo sui tiri dalla distanza pare convincere i compagni che per arginare la tigre del Meiwa tanto basti. E….

Hanno ragione. Hyuga supera buona parte dei giocatori avversari per capacità fisica e preparazione, ma non può nulla contro un portiere che lo legge come un libro aperto. La cosa diventa frustrante molto rapidamente: Genzo para, consegna la palla lunga su Izawa o Taki o Misaki, la difesa del Meiwa intercetta, passa a Sawada che regala palloni su palloni a Hyuga che tenta il tiro dalla distanza e si fa intercettare. Il gioco ricomincia.

E Tatsuo sperava che Genzo potesse prendersela comoda. Cosa accidenti sta facendo la difesa? Lo pensa anche il portiere quando Takeshi Sawada spunta all’improvviso dal suo angolo cieco e devia di testa il tiro lungo che Hyuga aveva tentato di insaccare nell’angolo destro. La Nankatsu trattiene il respiro. Genzo, in qualche modo, riesce a deviare la nuova traiettoria di piede.

L’arbitro fischia la fine del primo tempo. A bordo campo i giocatori del Meiwa hanno una discussione accesa, tanto che per un attimo Tatsuo si domanda se finirà in rissa. Poi Hyuga si contrae e lascia che gli amici gli si compattino attorno. Scoprirà dopo da Kozo e Katagiri che sul risultato di quella partita si scommetteva la possibilità per Hyuga di continuare a studiare oltre la licenza elementare: una borsa di studio all’istituto Toho a coprire, per meriti sportivi, medie, liceo ed università. Troppa tensione per un ragazzino di dodici anni. Fortunatamente per lui il Meiwa ama il suo capitano tanto quanto la Nankatsu il suo portiere.

Quando gli undici giocatori avversari tornano in campo dopo la ripresa sono animati da un unico obbiettivo: fare in modo che Kojiro Hyuga quella borse di studio LA VINCA!

La Nankatsu si fa prendere in contropiede, il Meiwa è un fiume in piena che la trascina in basso. Hyuga smette con le imprese personali e si coordina con Sawada per bucare la difesa avversaria. Ci riesce. Ma sulla linea della vittoria c’è sempre Genzo. Gli occhiali di Tatsuo gli scivolano sulla punta del naso, quando si tira in piedi. Genzo ha preso il tiro di Hyuga in piena pancia ed è stato sbalzato direttamente in rete.

La Nankatsu esulta quando realizza che il suo portiere ha bloccato la sfera al di là della linea di porta. Tatsuo aggiusta gli occhiali e non si rimette a sedere. Questo non è il Musashi di Misugi o il Furano, Hyuga supera Genzo in forza, statura e resistenza. Se non lo chiudono sicuramente riuscirà a segnare.

Tatsuo non è preoccupato del potenziale pareggio del Meiwa. Guarda Genzo riposizionarsi, esitare, modificare il piede d’appoggio e non ha bisogno d’altro per sapere che la caviglia gli fa ancora male.

Finché non crolla coach Shiroyama non lo sostituirà. Tatsuo deve scendere in campo e dirgli qualcosa. La Nankatsu approfitta della confusione del Meiwa per avanzare. La bella azione di Misaki rovina sull’uscita di Takeshi Sawada che ignora il pallone e gli va direttamente sui piedi. Ozora intercetta la sfera e tenta la sua proverbiale rovesciata, Wakashimazu si coordina a tempo e dopo aver volato i due giocatori rovinano entrambi al suolo.

Il portiere del Meiwa si rialza, Misaki ed Ozora no.

- Taro!

Tatsuo si era dimenticato della presenza di Ichiro Misaki. I giocatori del Meiwa, poco sportivamente, non fermano il gioco e approfittano della distrazione avversaria per cercare il goal del pareggio. Genzo mantiene la calma, coordina la difesa e riesce ancora una volta a spiazzare Hyuga intercettando un tiro pericoloso direttamente in area. Però non trattiene, Ishizaki prova a spazzare, Hyuga è più veloce e segna di testa il goal dell’uno a uno.  

Ozora raggiunge i compagni in area, Taro Misaki no. L’intervento di Sawada è stato pesante e la caviglia destra del numero undici della Nankatsu è una maschera di sangue. L’arbitro decide finalmente di interrompere il gioco e lasciare che la panchina intervenga. La partita ricomincia, mister Shiroyama esita con le sostituzioni e la Nankatsu gioca con un uomo di meno.

Con la squadra allo sbando Genzo assume il comando e il Meiwa fallisce nel raddoppio.

Mancano dodici minuti al fischio finale, la gamba di Genzo cede di colpo. Un momento il portiere è in piedi ad abbaiare ordini alla sua difesa, l’altro è a terra.

La Nankatsu non si può permettere di andare ai supplementari, Genzo non si può permettere di andare ai supplementari.

- Signor Misaki, mi segua.

***

Il campo da calcio in cui si tiene la finale del torneo interscolastico di calcio U-12 non è uno stadio. Negli anni gli investimenti delle società permetteranno ai giovani giocatori collocazioni più agevoli, ma nel 1985 per arrivare alle panchine devi superare il cordone dei genitori assiepati ai lati del campo.

- Oh signor Mikami, una cosa orribile! - Dice la signora Ishizaki quando lo vede, poi torna a fissare il prato. – Così! Di testa Ryo!

La Nankatsu difende disperatamente il risultato, Genzo è di nuovo in piedi: il tremore che gli scuote la gamba sinistra è insopportabile. Misaki rientra zoppicando e regala ad Ozora un ultimo pallone. Wakashimazu lo anticipa, il pallone arriva ancora una volta a Hyuga e questa volta Genzo non ripete il miracolo: a tre minuti dalla fine il Meiwa passa in vantaggio.

- La partita non è ancora finita.

Dice Ozora ed è così: nessun giocatore della Nankatsu è disposto ad accettare questo risultato. La squadra sale lasciando indietro Ishizaki e Takasugi a fornire supporto alla difesa. Izawa recupera sull’ala destra e serve Taki, il Meiwa chiude in fretta e Taki rilancia a Misaki che finta e tenta di aprire la stretta maglia della difesa avversaria. Ancora una volta il suo assist è per Ozora e ancora una volta Wakashimazu lo intercetta. Kisugi prova ad inserirsi, ma la difesa del Meiwa spazza.

Ad un minuto dalla fine il pallone arriva comodo, comodo ai piedi di Kojiro Hyuga.

Il Meiwa esulta. Tatsuo non ha tempo di prendersi la testa tra le mani: sa cosa sta per succedere. Alla faccia di andarci piano…

Kojiro Hyuga non ha il tempo di coordinarsi con Sawada che la sfera gli sfugge dai piedi. Gli attaccanti non si aspettano il portiere a metà campo. Genzo corre sulla gamba distrutta, supera Hyuga, due difensori avversari e prova dalla distanza, il tiro corretto da Misaki ed Ozora finisce per insaccarsi in rete.

Pareggio, si va ai tempi supplementari.

- Siete sicuri di riuscire ancora a giocare?

- Certo!

Rispondono in coro quei tre fessi di Genzo, Osora e Misaki. Mister Shiroyama vuole vincere e non tenta nemmeno di farli ragionare. Non lo fanno nemmeno Ichiro Misaki e Tatsuo Mikami.

- Lasci che ci pensi io.

Dice Tatsuo ad Onogoya, l’assistente di coach Shiroyama. Recupera la cassetta del pronto soccorso e si siede vicino a Genzo.

- Capisco come ti senti. Con un bendaggio stretto dovresti farcela fino alla fine della partita. Fa del tuo meglio e cerca di non esagerare.

Genzo sorride entusiasta. Ichiro Misaki, un metro più avanti, fa lo stesso discorso a suo figlio.

***

Data la giovane età dei giocatori e i trentacinque gradi di temperatura percepita in campo, l’arbitraggio fissa dieci minuti di gioco extra divisi in due tempi supplementari da cinque minuti ciascuno.

Nankatsu e Meiwa non si risparmiano e il pallone rimbalza da una parte all’altra come una roulette impazzita. Ozora trova l’occasione giusta e sblocca la situazione mandando la palla in rete, la squadra festeggia per meno di un minuto prima che il fischio dell’arbitro invalidi il goal. I tifosi di entrambe le squadre, per motivi opposti, rumoreggiano, qualcuno, complice il caldo, si sente male, persino quella lattina di energia imbottigliata che è Sanae Nakazawa si puntella con la bandiera per non cadere.

Ha fatto male a lasciare che Genzo rientrasse? Lo avrebbe potuto fermare?

I minuti corrono veloci, nel secondo tempo supplementare il Meiwa domina il campo, la difesa stremata della Nankatsu gli permette di avanzare. Hyuga e Sawada penetrano in area ed è ancora una volta il capitano avversario a tentare l’impresa con un tiro fortissimo destinato ad insaccarsi sulla sinistra quasi a ridosso della traversa. Ma per Genzo, Hyuga è un libro aperto. Salta un istante prima alto, altissimo, dandosi lo slancio con la gamba sana e intercetta. E poi si schianta con la spalla sul palo.

L’arbitro fischia. I tempi supplementari sono finiti.

- È probabile che dichiarino il pareggio.

Tatsuo annuisce, sospira e non risponde alle speranza di coach Shiroyama. Alza una mano in segno di saluto verso Kozo Kira ed aspetta di essere deluso dalla dirigenza. L’attesa è breve. Altri dieci minuti di supplementari. Tatsuo sistema la fasciatura a Genzo.

Il portiere prende da parte i compagni per una riunione strategica: la Nankatsu farà onore al suo passato da Shutetsu chiudendosi in difesa per i successivi cinque minuti.

- Lasciamo che si stanchino. Voi vi riposate e li prendiamo in contropiede nella seconda metà.

Una strategia un po’ ingenua e tuttavia solida. La difesa della Nankatsu fa onore al suo nome, il Meiwa intuisce le intenzioni avversarie e decide di pressare ancora più saldamente in attacco. Dopo cinque minuti di tentativi falliti, la palla ritorna alla Nankatsu e la combinazione d’oro Misaki-Tsubasa all’ottavo minuto riesce finalmente a trionfare.

Genzo è crollato al suolo. Ishizaki prova ad aiutarlo, cerca Takasugi per farlo alzare. Coach Shiroyama FINALMENTE chiama il suo primo cambio.

Il Meiwa non glielo permette. Misaki intercetta Hyuga e dà tempo a Genzo di rimettersi in asse. La Nankatsu respinge l’offesa e Ozora allontana il pallone, portandolo fino alla metà campo avversaria e regalando una lunghezza in più alla vittoria della Nankatsu.

***

I piccoli calciatori si stringono l’uno all’altro. Genzo e Misaki si puntellano per raggiungere gli amici a centro campo. Hyuga, molto sportivamente, regala le sue congratulazioni quando ancora non sa che la borsa di studio gli sarà assegnata lo stesso.

Roberto Hongo si rimangia il Brasile. La combo Ozora madre-figlio lo scopre insieme a tutti gli altri, quando il calciatore straniero se n’è già andato ed i festeggiamenti per la vittoria si trasformano in una corsa senza successo verso l’aeroporto.

Genzo è livido.

- Quel pezzo di merda, quando lo vedo gli spac…

Quando il suo pupillo inizia è meglio lasciarlo finire, tanto più se di mezzo ci si aggiunge Ishizaki. Il difensore incrocia le braccia, storta le sopracciglia e dichiara:

- Roberto Hongo è un uomo morto.

- Signor Mikami, la disturbo?

Munemasa Katagiri appare come un angelo all’uscita degli spogliatoi, dando a Tatsuo l’occasione per smollare a coach Shiroyama la gestione dell’ira funesta di metà della squadra. Genzo rientrerà in aereo con i compagni domani. Tatsuo si raccomanda di usare una stampella e non dare peso al piede, niente affatto rassicurato, ripete la stessa cosa a Shiroyama tre volte e poi raggiunge Katagiri.

La collaborazione tra Amburgo SV e JFA è stata finalizzata per l’inizio del prossimo anno. C’è di che festeggiare, così lo fanno. L’izakaya Watami nella periferia di Adachi quella sera ospita più della metà degli impiegati e dirigenti della JFA under quaranta, oltre vari ed eventuali. Katagiri non fa mai il nome di Tatsuo, ma almeno venti persone si offrono di versargli da bere. Tatsuo sorride e quando nessuno lo guarda, svuota il sakè nella pianta dietro, Katagiri sapendo che è astemio se la ride, al terzo travaso Kira piazza il culo nella sedia accanto la sua e scambia i loro bicchieri.

Tatsuo non lo ringrazia, invece dice:

- Il Meiwa è una bella squadra.

Kozo storta la bocca in un sorriso sghembo che aumenta il volume delle rughe e fallisce nel farlo apparire più giovane.

- Visto che bravo il mio Kojiro! Quei deficienti della Toho hanno fatto un affarone, senti a me!

Tatsuo raccoglierà la vicenda della borsa di studio uno spizzico alla volta durante il resto della sera, per ora si limita ad annuire ed a cambiare argomento.

- Il tuo Wakabayashi è in gamba. – Aggiunge Kozo, quando arriva al settimo bicchiere. – Ha un lato selvatico che non sei riuscito a domare, eh. Chissà che ne esce ora che lo lasci e te ne vai in Gemarn…

- Genzo lo porto con me.

Le spalle di Kozo hanno un sussulto, il sakè trema e schizza sul tavolo, prima che il suo vecchio nemico appoggi il bicchiere sul tavolo e si volti a fissarlo.

- Ma davvero… e la sua famiglia è d’accordo?

Certo. Sicuro.

All’incirca.

***

Quando Munemasa Katagiri se n’era uscito con la sua bella trovata tedesca in aprile, Tatsuo aveva detto accettato di getto e poi aveva mantenuto la guardia alta nella convinzione che non se ne sarebbe fatto niente. I mesi erano passati e il caos aveva preso corpo e Tatsuo aveva iniziato a non dormirci la notte. Non puoi controllare la vita: i cambiamenti arrivano di colpo come un incidente. Tatsuo non è sicuro quanto sia meglio per la propria salute mentale vedere il muro avvicinarsi senza poter fare nulla per evitarlo. Però si può provare a smorzare l’impatto.

Aveva preparato una lista mentale in tre punti: al primo posto la questione finanziaria. Un appuntamento in banca lo aveva fatto sentire più tranquillo: anni di eccellente stipendio a fronte di zero spese  erano riusciti nel miracolo facendo scendere il suo debito sotto il milione[3] di yen. Anche con la paga da fame della JFA Tatsuo può riuscire a sopravvivere.

Secondo punto: verificare con Katagiri.

- Non si preoccupi signor Mikami, ormai è cosa fatta. Ah, per Wakabayashi mi manca ancora la valutazione di coach Shiroyama, me la faccia avere al più presto.

Meno rassicurato, Tatsuo aveva stabilito di smetterla di rimandare e spuntare un ultimo, trascurabile, punto: il permesso dei signori Wakabayashi di portarsi via il figlio. Non era andata benissimo.

- Le abbiamo mai fatto mancare qualcosa per abbandonarci così?!

Shuzou Wakabayashi quando si arrabbia arruffa le sopracciglia e abbassa di due toni la voce, gli ricorda un po’ quando Genzo a sette anni si rifiutava di mangiare il natto.

-  È viscido e sa di schifo.

Tatsuo prende fiato, incrocia lo sguardo più misurato della signora Wakabayashi ed attacca con il copione che ha passato l’ultima settimana a ripassare. Sì, non c’è ancora nulla di assolutamente certo. Sì, è felice e grato della sua attuale occupazione, davvero. No, l’offerta della Federazione non entra in contrasto coi suoi attuali doveri e obblighi. Come? Beh è chiaro che ad Amburgo ha intenzione di andare con Genzo.

-  È la scelta migliore nell’ottica del suo futuro

Che è un po’ come lanciare una bomba.

Shuzou Wakabayashi apre la bocca, la richiude, sgrana gli occhi e sputacchia un verso che si strozza quando la sua signora appoggia una mano sul suo braccio. Shoko Wakabayashi fissa Tatsuo negli occhi, contrae la fronte e per un secondo appare furiosa. Poi l’attimo passa, la donna distoglie lo sguardo e chiede:

- Non è… troppo presto?

Se fossero stati dei genitori più presenti, più giusti, più affettuosi nei confronti del figlio, Tatsuo si sarebbe sentito mortificato nel risponderle che no, non lo è. I giocatori giapponesi non sono granché quotati all’estero e la mancanza di competizioni internazionali di rilievo rende quasi impossibile per loro “essere scoperti” dalle grandi squadre straniere, il caso Okudera rimane l’eccezione di una regola fin troppo severa.

- I club giovanili reclutano calciatori ancora più giovani di vostro figlio. È solo grazie all’intercessione dalla JFA se l’AmburgoSV ha accordato di sottoporre Genzo ad un provino.

- Un provino? – Sbotta Shuzou un po’ indignato. – Quindi non è nemmeno certo che…

- Genzo passerà. – La voce brusca di Tatsuo silenzia il fiume di obiezioni. – È impensabile il contrario.

Forse i padri vedono i figli con il filtro, ma Tatsuo è prima di tutto un allenatore e Genzo ha la stoffa giusta, quella su cui si cuciono i grandi campioni. La forza di questa convinzione, piega ogni altra protesta, i coniugi Wakabayashi, dopo un fiume di borbottii a mezza voce, dicono di sì. Le due ore successive Tatsuo le passa ad affinare con loro i dettagli su visto, permessi e domicilio. Quando si congeda la voce fredda di Shoko Wakabayashi lo congela sulla porta.

- L’ultima parola sulla faccenda spetta a Genzo.

E tanto basta a fare strisciare l’insicurezza, Tatsuo cincischia e decide di posporre la questione a quando la gamba di Genzo non sarà guarita, così che manca solo un mese alla loro eventuale partenza prima che al suo piccolo portiere venga chiesto di fare una scelta.

Genzo alla Germania dice sì, Tatsuo non è sicuro se sentirsene sollevato.

 


NOTE: 

 

E CI SIAMO! L'ultimo capitolo dedicato a Mikami è LUNGHISSIMO e quindi lo divido in tre parti (sto ancora finendo di scrivere la terza). Dopo questo lungo flashback si ritorna al POV del mitico terzetto.

BTW per scrivere le partite sono andata a seguirmi paro, paro il manga per chi passa la palla a chi, chi segna, quando, ecc... cosa che dovrò rifare quando arriveremo al campionato di Parigi (argh). Peccato che alcune informazioni uscite negli speciali (ex il nome del padre di Kojiro che so esistere, ma accidenti se trovo la pagina) non riesco a trovarle su nessun sito. Se avete strumenti da suggerire (anche in altre lingue) ve ne sarei davvero grata!

Mi piacerebbe riuscire a tornare agli aggiornamenti mensili, ma la salute vuole altrimenti (da un anno a questa parte siamo in caduta libera). In attesa di giorni migliori ci vediamo mercoledì 6 marzo.

 

PS: grazie un sacco per i commenti e per gli auguri di pronta guarigione! Vi auguro un meraviglioso inizio d'anno <3

 

>>> 14. Le cose belle quando finiscono (p.2).

Tatsuo Mikami gestisce lo shock culturale in cucina e Genzo si fa nuovi nemici.

 

[1] Tv Tokyo è uno dei canale più popolari in Giappone, ma è anche la rete televisiva dove nel 1983 è andato per la prima volta in onda “Capitan Tsubasa”.

[2] Nello speciale "Memories: I'm Wakabayashi Genzo" Tatsuo lamenta con Genzo che le squadre giapponesi preferiscano mettere in porta giocatori grandi e grossi, ma non spesso capaci o agili.

[3] Un milione di yen equivale a poco più di seimila euro. Lascio alla vostra immaginazione quanto i debiti di Mikami ammontassero PRIMA di lavorare dai Wakabayashi.

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Capitolo 16
*** Le cose belle quando finiscono (pt.2) ***


*questa fiction viaggia parallela al canon: ci flirta insieme, ma non se lo sposa.

 


 

14. Le cose belle quando finiscono (pt. 2)

 

Lo shock culturale è un cerotto che strappi piano.

Tatsuo e Genzo arrivano ad Amburgo il 18 febbraio 1986. Piove, un clima che scopriranno essere la norma per la grande città tedesca. Si concedono due giorni per regolare l’orologio interno sul fuso tedesco[1], poi Genzo comincia con l’orientamento a scuola e Tatsuo prende servizio in squadra.

La JFA non ha stanziato molti fondi al progetto di Katagiri e il suo stipendio è un quinto rispetto a quello che aveva coi Wakabayashi, sicuramente non abbastanza per garantirsi più di un letto in dormitorio o una stanza fuori mano. Però ad Amburgo Tatsuo è andato con Genzo e come bonus di buonuscita i Wakabayashi gli permettono di restare nell’appartamento che hanno affittato per il figlio nel bel quartiere di Rotherbaum.

Miss Rosemaier, la responsabile del complesso, accoglie il loro arrivo in un perfetto inglese a cui Tatsuo risponde con un cenno del capo ed un accento pesante che lascia all’entusiasmo di Genzo dirigere il gioco.

- Allora anche i tedeschi tolgono le scarpe all’ingresso!

Esclama stupito quando Miss Rosemaier gli allunga le pattine. Un segno di civiltà che lascia Tatsuo più tranquillo e non lo prepara minimamente al cuoci-uova. Cos’hanno i tedeschi contro i pentolini? O con le prese della corrente?

L’appartamento a Rotherbaum è un quadrilocale più bagno di centocinque metri quadri costruito alle metà del secolo scorso e rinnovato negli anni Settanta. Tatsuo si aggiudica due stanze: una camera da letto e lo studio che Genzo ha libertà d’usare. Lascia al piccoletto la camera padronale più ampia e vicina al bagno, all’UNICO bagno. La cosa, a partire dal secondo giorno di convivenza, inizia a creare problemi:

- Mister Mikami!!! Il suo dopobarba è ANCORA una volta nella MIA metà dell’armadietto!

- Mister Mikami!!! Se FINISCE la carta igienica la deve rimettere!

- Mister Mikami!!! QUANTO le ci vuole ancora?! Non è che a guardarsi allo specchio i capelli grigi se ne vanno!

Forse i Wakabayashi hanno scelto questo appartamento per tormentarlo: Genzo, coi suoi ritmi ed idiosincrasie, è un coinquilino pessimo. Non che Tatsuo sia tanto meglio: almeno sulla carte igienica il piccoletto ha ragione. Però è Genzo quello a lasciare sempre l’asciugamano fradicio e inzozzare lo specchio ogni volta che si lava i denti, quindi sono pari.

No, il problema non è vivere insieme a Genzo, ma l’appartamento di Rotherbaum di per sé. Cioè, sia chiaro, Tatsuo ne è grato, davvero: l’appartamento è ampio, ad un tiro di schioppo dal suo nuovo posto di lavoro e lo condivide con una delle poche persone con cui riesce a stare più di nove ore da solo senza tentare di strangolare o tentare la fuga scappando da una finestra. Il problema dell’appartamento di Rotherbaum alla fine è uno: è troppo tedesco. Prendi la vasca da bagno: quella a villa Wakabayashi aveva l’altezza giusta per rimanere immerso fino alle spalle da seduto. Quella di Rotherbaum, invece, è lunga, poco profonda e scomoda e sul fondo ospita una tenda con doccino installata dai proprietari precedenti che non si può usare da in piedi. Tra un anno e mezzo la rottura di una tubatura costringerà Genzo a rifare il bagno e al posto della vasca installerà una doccia, ma per allora Tatsuo sarà già tornato in Giappone. Glielo farà sapere per lettera.

Miss Rosemaier lascia sul tavolo in cucina i pacchi spediti prima della loro partenza dal personale di villa Wakabayashi: quello più grosso con lo scotch scollato e riattaccato male, aperto e sbirciato dagli agenti della dogana o, forse, dalla nuova impicciona tedesca, contiene la cuociriso che Tatsuo sapeva di non trovare all’estero e per cui dovrà procurarsi un adattore. Il pacco con la salsa di soia, invece, è stato bloccato alla frontiera, arriverà tra quattro settimane e per allora Tatsuo avrà trovato in un market di costosissimi prodotti “etnici”, una variante di pessima qualità del condimento e se la sarà fatta bastare. Dopo anni di pasti preparati da qualcun altro, Tatsuo scoprirà che non gli dispiace cucinare, ma che odia fare la spesa: forse per i cassieri che ti guardano storto se non imbusti a velocità supersonica, per i prezzi da decriptare o per l’assenza di prodotti fondamentali come il miso o il daikon. In compenso i negozi tedeschi sono pieni di pane di ogni forma e consistenza, la carne costa un terzo e le torte sono buone come quelle dei caffè di Tokyo a cui si accede dopo un’ora di attesa. I nomi rimangono, tuttavia, impronunciabili.

La Germania e il suo cibo hanno un che di… interessante, qualcosa a cui abituarsi senza vivercene. Persino il the non ha lo stesso sapore.

- È il calcare.

Dirà Genzo tra tre anni a Parigi, la schiena ingobbita su una rivista di calcio scritta in francese. A quindici anni Genzo lo supererà in altezza di circa dieci centimetri e Tatsuo non avrà alcun più diritto di definirlo “piccoletto”. Lo farà ugualmente, per quella stessa ragione per cui Genzo lo seguirà in corridoio a parlare di calcio e della qualità infima dei the sputati dalla macchinetta: la ricerca di una famigliarità perduta.

– L’acqua è più dura e il sapore ne viene alterato. A casa lo faccio con quella in bottiglia…Kaltz dice che è strano.

Tatsuo annuirà e non gli domanderà se la salsa di soia ed il wasabi Genzo se li procuri ancora a quel mercato turco che gli ha suggerito Yilmaz. Il  loro rapporto dopo l’esperienza Amburghese è alterato quanto il gusto del the tedesco.

***

A marzo Genzo finisce coi recuperi ed inizia ufficialmente la scuola, Tatsuo spende o spreca buona parte della mattina a pulire l’appartamento, annuire come un idiota in Federazione e ad ignorare la dirigenza alla sede del club. Tre i tre team juniores, Tatsuo viene assegnato alla supervisione dell’U13 e cioè ad Emmanuel Friedman più giovane di lui di una buona decina di anni.

- Si ricordi di essere solo una trovata pubblicitaria, non mi stia tra i piedi ed andremo d’accordo.

La franchezza dell’ostilità di Friedman sta tra lo stronzo e l’adorabile ed è più rinfrancante di quella sottile di buona metà del personale, Tatsuo per niente intimidito, la lascia sullo sfondo e finge che non lo ferisca. Però lo logora. Raggiunta una certa età si decide di fingere che certe cose non ci tocchino, un po’ come smettere di usare “crescere” e cominciare con “invecchiare”. Un po’ come dire che dalle ferite si impara sempre qualcosa per ignorare quanto ti facciano male.

L’adesione della squadra al progetto della JFA, non è stata frutto di quell’unanime consenso che l’entusiasmo di Katagiri aveva suggerito. La spaccatura coinvolge diversi piani, ma risulta evidente nel conflittuale atteggiamento della dirigenza: se da una parte i vertici dell’Amburgo SV sono più che lieti di rifugiarsi all’ombra della pubblicità positiva che l’iniziativa garantisce, dall’altra il loro sostegno vacilla fino a scomparire quando Società e tifosi vomitano critiche e vecchi nazionalismi[2]. Frederik Madorf, allenatore storico delle juniores ed ora del team ufficiale, si lascia sfuggire in pausa pranzo:

- Per me hanno detto di sì perché il Giappone è abbastanza esotico da farli sembrare moderni ed abbastanza occidentale da non fare paura.

A smentirlo è il titolo “Prima i turchi, adesso i giapponesi?!” con cui apre la pagina sportiva di un quotidiano locale. Tatsuo se lo ritrova al suo ritorno sopra la giacca, si siede, ignora l’articolo e apre il giornale sulla pagina di cronaca ringraziando a voce alta l’anonimo donatore.

- Oggi non lo avevo ancora letto.

Friedman emette un verso doloroso dal naso, Tatsuo è abbastanza convinto non sia stato lui il colpevole: la guerriglia psicologica è una roba troppo sottile per un tizio così dritto. Forse ha fatto bene ad impedire a Genzo di tirargli un pugno sul naso.

- Fai il bravo.

Si era raccomandato al provino, un po’ per ricordarlo a se stesso.

- Fai il bravo.

La rabbia è il gioco di cui l’avversario ha il libretto delle istruzioni, Genzo si infiamma con un  niente, ma ad Amburgo non sono nelle condizioni di raccogliere le sue braci.

- Non si preoccupi, mister.

Tatsuo lo fa ugualmente per deformazione professionale, ma c’è da dire che Genzo nell’ultimo anno sia notevolmente maturato: per quanto lo spingano, lo pungolino, lo trattino come l’ultimo degli idioti le settimane passano ed il portiere non sfascia la faccia a nessuno. Ancora una volta Tatsuo è ispirato dal suo esempio e non sa come dirglielo, così cerca di trasmetterglielo. Non è certo che ci riesca.

- Che roba è quella?

È marzo e Genzo raggiunge la cucina con un passo da trattore, inala senza guardare la colazione e s’immobilizza di fronte ad una scatola rettangolare grandezza quattordici centimetri per sedici. Tatsuo si sfila gli occhiali e cerca invano un fazzoletto pulito su cui passarli.

- Il bento.

Genzo sbatte le palpebre una, due volte, mentre gli ingranaggi del suo cervello girano rumorosi. Tatsuo aspetta che il computer risolva l’algoritmo, utilizza il tovagliolo per pulire le lenti, le rimette sul naso e storta la bocca: perfetto, ora l’appartamento è immerso nella nebbia. Genzo solleva il coperchio, regala al contenuto un’occhiata distratta e richiude il cestino del pranzo. Davvero, non c’è ragione per essere così perplessi, dopotutto chi crede abbia cucinato nell’ultimo mese e mezzo.

- Perché…- Genzo esita, sbatte le palpebre, prende fiato. - L’orso ha un fiocco sulla testa.

Ah, già. C’è quella cosa in effetti. Il pacco rimasto bloccato alla frontiera è arrivato all’appartamento solo ieri. Tatsuo oltre alla salsa di soia e il mirin, ha trovato al suo interno un portapranzo nuovo con tanto di comparto per tenere il cibo al caldo. Al supermercato aveva registrato distrattamente la presenza sui lati ed il coperchio di una mascotte della Sanrio[3] e solo ora che Genzo gliela indica, Tatsuo si trova a realizzare con un discreto imbarazzo che quel bento sia decisamente più adatto ad una bambina.

- Temo che Miss Asano abbia scambiato il fiocco dell’orsetta per un cappello da baseball. – Corre Tatsuo ai ripari, dopotutto è vero che alla vecchia domestica la vista sia calata, Genzo NON ha bisogno di sapere chi abbia EFFETTIVAMENTE comprato cosa.  – Mi dispiace, cerco un altro contenitore e…

- Nah… - Genzo ficca il bento nella tasca esterna dello zaino e richiude la zip. – Non importa, almeno questo è riscaldato.

E poi è stato un suo regalo. Genzo non lo dice, ma il messaggio passa comunque forte e chiaro. Tatsuo è davvero fiero dell’uomo che sta diventando, così fiero che quando la settimana seguente riceve una telefonata irritata dalla preside della nuova scuola riguardo a compagni di classe appesi agli armadietti e a palline di carta fatte ingoiare a forza, Tatsuo si limita a sorridere e considerare che in fondo sia giusto: ha detto a Genzo di fare il bravo con la squadra non a scuola. E se qualche coglione nella sua classe ora ha un incubo in più, Tatsuo confida che sia per il meglio: Genzo ha sempre avuto un certo tocco nel gestire i bulli.

***

Finito il circo mediatico generato dal loro arrivo, Tatsuo si trova mattine più libere da dedicare ai corsi di lingua inglese e tedesca. Fatica, nonostante l’esposizione diretta, con la seconda, non tanto durante le lezioni, ma nella vita vera quando la gente urla o parla l’una sull’altra. Katagiri sostiene, in vista del futuro soggiorno a Parigi, che dovrebbe studiare anche un po’ di francese, ma Tatsuo è un uomo solo ed ha i suoi limiti.  

I tedeschi sorridono poco in generale, ma specialmente durante le riunioni, sono anche abbastanza silenziosi, se non per ridacchiare quando a parlare è il turno di Tatsuo. Dà una certa soddisfazione essere in grado, ora, di zittirli in un accento quasi perfetto:

- Non avete ancora finito?

Mi avete chiamato voi, forse è il caso di iniziare a ricordarvelo.

Il momento preferito delle sue giornate è il pomeriggio trascorso a supervisionare il lavoro di Friedman con la squadra. Il suo apporto è certamente limitato, oltre che dai limiti linguistici, dall’ingerenza di quest’ultimo, ma l’allenatore tedesco sa quello che fa e Tatsuo scivola agilmente oltre il fastidio che prova dall’essere escluso. Tuttavia Tatsuo Mikami non è nato per stare fermo: nella mancanza di compiti istituzionali assegnati se ne inventa di nuovi. L’U13 dell’Amburgo SV, anche se meglio organizzata, non è diversa dalle giovanili di cui si occupa da una vita e così come un allenatore non può essere dappertutto, è anche vero che in ogni gruppo esistono sempre degli outsider. Tatsuo lo è stato per buona parte della sua infanzia e se c’è una cosa che ha imparato da essa è che i ragazzini più timidi hanno bisogno di essere incoraggiati di più e sgridati di meno per poter brillare.

- Dovete respirare dal naso. – Ripete Tatsuo per la terza settimana di seguito. – È più facile dalla bocca, ma vi dà più resistenza in partita.

Il giovane Yilmaz annuisce serio come a siglare con la testa una nota mentale, arriccia le narici e riprende a correre. Ha una buona coordinazione ed un discreto gioco di gambe, un giorno si farà un nome nel Fortuna Düsseldorf. Sarà uno di quelli a farcela, un altro sarà Bernd Hinmel, lo spauracchio che, vagando senza branco, si parcheggia sempre a portata d’orecchio quando Tatsuo dà istruzioni. Forse perché la voce di Tatsuo è sempre pacata, forse perché trasuda un’aura di calma, forse perché a Bernd Hinmel gli adulti che urlano fanno paura.

- Stai andando bene.

Gli dice Tatsuo, Hinmel finge di non sentire e ci dà ancora più dentro, gli ricorda un altro ragazzino bravo, ma privo di quel talento che contraddistingue i campioni che ha conosciuto una vita fa.

- Mi rubi i giocatori, Mikami?

Chiede Friedman, Tatsuo non si volta neanche: è passato più di un mese da quando ha iniziato ad occuparsi dei giocatori trascurati dall’allenatore tedesco, se Friedman non fosse stato d’accordo con la sua iniziativa avrebbe avuto tutto il tempo per fermarlo, se non se non se ne fosse accorto prima non ne avrebbe il diritto.

- Respirare dal naso, eh? Una cosa vostra orientale tipo zen?

- La respirazione nasale garantisce una migliore ossigenazione alla luce di un minore sforzo cardiaco. Minore battito, meno sforzo, migliore resa in campo. Ci sono diversi studi a riguardo[4].

La padronanza di Tatsuo della lingua lascia ancora a desiderare e non è certo cosa effettivamente sia riuscito a passare, ma è abbastanza perché Friedman si faccia serio e risponda.

- Lo so, li ho letti anche io. Per un calciatore il fiato è tutto.

- Ci vuole anche sinergia di squadra.

Non voleva essere una frecciata sull’atteggiamento del collega, ma il fuoco amico colpisce lo stesso e Friedman accusa il colpo, scuote la testa e storta la bocca in una smorfia penitente. Da giocatore Emmanuel Friedman non ha avuto una vita facile, Tatsuo non ne conosce i retroscena se non per sentito dire, ma da minoranza trapiantata all’estero qualche idea se l’è fatta: è dura rimanere corretti quando senti di avere qualcosa da dimostrare.

- Il piccolo Hinmel si fida di lei. Sta vivendo un periodo difficile a casa dopo il divorzio e quello che è successo a suo fratello. Ci butti un occhio se può.

Tatsuo annuisce, i cambiamenti si costruiscono piano e ti travolgono in una volta.

***

Genzo, come e più di lui, ha difficoltà ad integrarsi. La vicepreside dell’istituto che frequenta telefona a casa una volta ogni due settimane e, al contrario del suo diretto superiore, non lo fa tanto per lamentarsi dell’atteggiamento di Genzo, ma piuttosto per esprimere una certa preoccupazione. Più che per la scuola, Tatsuo è preoccupato per la squadra: in Giappone Genzo si è sempre trovato male coi ragazzi più grandi, ma non ha mai avuto grosse difficoltà coi coetanei. Tatsuo immaginava che dopo qualche settimana le difficoltà scemassero, non che andassero a peggiorare e risulta sempre più evidente che non è solo il carattere diciamo “deciso” del portiere che alla squadra non vada a genio. Non sapendo bene cosa fare, Tatsuo cucina piatti che riportino in mezzo alla tensione un po’ di aria di casa e tenta, senza successo, di mantenere un canale aperto.

L’inversione a U di Friedman nei suoi confronti sommerge Tatsuo di impegni, il coach tedesco ora, con la scusa che il tempo che ha in Germania è limitato, pare volerlo coinvolgere in ogni cosa e le occasioni per confrontarsi con Genzo si diradano.

A cena Genzo parla poco, trangugia il cibo con la voracità di un buco nero, consegna rumorosamente piatti e stoviglie al centro del lavandino nella convinzione che si lavino da soli e si abbandona sul divano a studiare la collezione giornaliera dei lividi. In Giappone durante gli allentamenti non si faceva male così spesso, non così… deliberatamente. Qui è tutto diverso, Tatsuo sente che è tutto diverso. Una sera, mentre ritira pomata e disinfettante, prova a parlargliene, Genzo risponde con un grugnito e una porta sbattuta in faccia. Dal giorno successivo Genzo smette di passare del tempo in salotto dopo cena e le ferite passa a curarsele direttamente in camera.

Quando un adulto si mette in mezzo alle faccende dei bambini deve muoversi in modo intelligente. Le buone intenzioni servono a poco se fretta e arroganza fanno precipitare il castello di carte su chi cerchi di aiutare e Genzo è forte, ma non indistruttibile.

La pubblicità positiva che l’Amburgo SV ha guadagnato dalla collaborazione con la JFA ha portato altri club stranieri a mostrare un tardivo interesse nell’iniziativa, persino alcuni nomi prestigiosi come la giovanile del Werder Brema. Meno di un’ora di treno da Amburgo. Tatsuo chiama Katagiri e gli chiede di iniziare ad informarsi per un possibile trasferimento.

Genzo fa amicizia con Hermann Kaltz ed improvvisamente diventa introvabile.

- È il primo martedì del mese. – Mastica con tre quarti di mela in bocca. – Dormo fuori ‘sta notte.

È come se qualcosa nel portiere sia scattato, Tatsuo rientra tardi per cenare con un post-it che lo avvisa che Genzo è di nuovo dai Kaltz. Poi c’è il gruppo di studio con la Kuster e il figlio della vicepreside:

- Io li aiuto con matematica, loro col tedesco.

Gli allenamenti extra serali, il club del libro… Tatsuo si è ritagliato uno spazio proprio all’Amburgo SV, con Friedman e Madorf è pure nata un’intesa che comincia a puzzare d’amicizia. Decide di credere alla bugia. Informa Katagiri di sospendere le telefonate, lui e Genzo restano ad Amburgo.

***

L’U13 dell’Amburgo SV di quest’anno è un progetto portato avanti dal club in modo sistematico. Per garantire continuità ai ragazzi è stato stabilito che coach Friedman li traghetterà oltre l’U16 e solo allora lascerà i sopravvissuti alle mani di Jochem Dreher. Una manciata di loro finirà per giocare un giorno nella squadra ufficiale di Frederik Madorf o di chi, per allora, l’avrà sostituito. Diversi giocatori in futuro passeranno ad altri club, specialmente in circuiti minori, un po’ meno della metà smetterà di giocare del tutto.

Friedman allena questi ragazzi da più di un anno, alcuni di loro li conosce da sempre. Per la buona pace di Shiroyama, non è affamato di titoli: non ha bisogno di buone figure superficiali per garantirsi il rinnovo del contratto. Quello che il club ha chiesto a Friedman è d’investire sul lungo periodo: di creare una squadra. Non sarà un caso che il venticinque per cento dei suoi ragazzi riuscirà un giorno ad avere la meglio sulle statistiche e garantirsi un futuro da professionista.

Al momento l’Amburgo di Friedman è sbilanciato in attacco e lascia scoperti centrocampo e difesa. Il surplus di centroavanti si riversa un po’ a sorpresa sulla vita privata di Tatsuo nel momento in cui Genzo sviluppa una nuova ossessione alta un metro e quaranta, bionda e che fa di nome Karl Heinz Schneider, altrimenti noto come il GRANDE ASSENTE. Tatsuo conosce da Friedman una sintesi della storia: padre brillante ed in disgrazia, figlio talentuoso e problematico.

Da marzo Schneider si presenta agli allenamenti dopo una lunga assenza attribuita ad un malanno di stagione. Arriva sempre in ritardo, Friedman, invece di lamentarsene, ne pare sollevato e non gli assegna giri di campo extra. Durante il riscaldamento Schneider orbita saldamente attorno a Jara Strauss ed Hermann Kaltz. Verso la fine del mese Strauss svanisce sullo sfondo ed il suo posto nel gruppo lo prende Genzo che dopo gli allenamenti persegue con le sparizioni.

– C’è un campetto non tanto distante…. Non si preoccupi signor Mikami: se facciamo tardi ci fermiamo fuori a cena.

Era stato lui il primo ad augurarsi che Genzo si facesse degli amici in squadra, ma sperava in qualcuno di un po’ più tranquillo come Yilmaz o Krüger. Dopo un paio di giorni di esitazione Tatsuo si convince che sia comunque una cosa buona: il talento di Schneider come calciatore è di quelli che compaiono una volta per generazione, confrontarsi con una montagna non può che nutrire la crescita di Genzo. Inoltre fornisce un ottimo argomento di conversazione durante i pasti.

- E poi Schneider ha detto che vuole chiamare il suo tiro dalla distanza fire shot, che è davvero una cosa cretina se ci pensa, però nel contesto…

Tatsuo mescola l’insalata, zittisce un pensiero fatto di melma alimentato da pettegolezzi sciocchi sentiti in panchina dagli altri ragazzi su Schneider. Ragiona che l’atteggiamento di Genzo per il giocatore tedesco non sia tanto diverso da quello mostrato verso Hyuga o con Tsubasa e che se ne parla con tanto entusiasmo è solo per il fascino della novità.

- E a quando la grande sfida col nuovo rivale?

- Ma di che accidenti… Schneider è… -  Genzo arruffa le sopracciglia come le piume di un gufo ed affonda il cucchiaio nella zuppa spargendo un po’ dappertutto gocce di brodo. – È più un amico, credo.

Tatsuo sorride, perché Karl Heinz Schneider sarà volatile come una fiamma lasciata bruciare senza controllo, ma se accende l’espressione di  Genzo di questa felicità imbarazzata allora per Tatsuo è a posto. Ed è bello che Genzo si sia fatto un amico in squadra al di fuori di Hermann-teppista-Kaltz! La settimana scorsa Tatsuo ha beccato il mediano accordarsi coi ragazzi grandi per contrabbandare alcolici fuori dagli spogliatoi.

- È solo birra, Mikami. – Aveva commentato Madorf, l’altro testimone involontario. – Finché le trasgressioni sono queste chiudiamo un occhio.

Tatsuo ne chiude anche due, allena adolescenti da sempre, però questa cosa gli dà fastidio. Forse perché Kaltz passa troppo tempo cucito su Genzo. Forse perché il suo ghigno sornione gli ricorda quello di un altro ragazzino basso e chiassoso che ha galleggiato attraverso la vita finché quella non l’ha trascinato a fondo. Tatsuo aveva scosso la testa, preso dell’acqua ghiacciata dalla macchinetta e stabilito di non lasciare che il ricordo di Kozo Kira interferisse sul suo posto di lavoro.

È un bene, però, pensa mentre aprile si allunga pigramente verso maggio, è un bene che Genzo passi più tempo con Schneider e meno con Hermann Kaltz. Lo pensa anche Friedman.

-  Wakabayashi ha un’influenza positiva su di lui. – Dice il coach tedesco e Tatsuo non sa se si riferisca all’improvvisa capacità di Schneider di manifestarsi agli allenamenti in orario o alla fine del suo lanciare pallonate contro i compagni. - Non so come facessimo prima che arrivasse.

Tatsuo non commenta. Le scritte sull’armadietto di Genzo sono peggiorate. Ragazzate. Inutile intervenire, lui o Friedman finirebbero per esacerbare la situazione proprio adesso che il portiere sta trovando il proprio posto in squadra.

Dopo aver consolidato il centrocampo, Friedman stabilisce sia tempo per l’Amburgo SV di piantarla di fare schifo in difesa. L’allenatore tedesco, promotore del contropiede rapido e profeta dell’attacco ad oltranza, non disponendo di giocatori adatti alla sua visione, tenta di plasmare a sua immagine quelli che gli capitano a tiro. Gli esseri umani non sono fatti di argilla ed Hans Krüger è più simile ad un blocco di marmo.    

- È bravo, ma così rigido… Se solo riuscissi a farlo sbloccare.

Genzo passa dalla fascia alla tre quarti, ogni settimana copre in campo una posizione diversa, solo raramente Friedman lo mette in porta per qualche partitella sei contro sei. Quando capita il coach tedesco si piazza sempre vicino a Tatsuo a spiare sul suo volto una prima impressione dei risultati, perché i risultati ci sono: Genzo è incredibile.

La resistenza, il suo tallone d’Achille, è tornata ai livelli precedenti l’infortunio, se non persino migliorata, la sua visione di gioco si è fatta più completa e il nuovo regime d’allenamento imposto da Friedman e da Ludwig Henze, il preparatore atletico, ha portato a notevoli progressi anche sul piano fisico. Tatsuo è fiero di lui, ma anche di se stesso: portarlo in Germania è stata la scelta giusta.

- Suo figl… Wakabayashi ha un intuito eccezionale, giocare in altri ruoli gli ha permesso di affinarlo. Sarebbe davvero un’ottima aggiunta alla squadra.

In campo qualche ragazzo protesta dopo un azione combattuta, è davvero un peccato che Hinmel e Genzo non vadano d’accordo perché come giocatori sono piuttosto compatibili. Il portiere dice qualcosa e Hinmel s’infiamma, fortunatamente le parole non degenerano in una scazzottata. Le prestazioni di Genzo in campo sono migliorate tanto quanto il suo autocontrollo, così che quando le voci dei ragazzi si alzano Tatsuo non vi presta che un’attenzione marginale. Sa di potersi fidare.

- Perché insiste con Krüger? – Chiede Tatsuo al collega. – Perché non prova a mettere Genzo dentro nella prossima partita?

Friedman contrae le labbra, guarda fisso in avanti e Tatsuo si domanda se non abbia sbagliato ad affrontare in modo così diretto la questione. Chiude gli occhi, li riapre, al diavolo. Se Genzo fosse un giocatore qualunque da collega avrebbe chiesto la stessa cosa. Friedman rimane in silenzio a lungo, tanto che Tatsuo pensa che l’argomento sia chiuso, poi l’allenatore tedesco attacca.

- Signor Mikami… questa squadra deve funzionare a lungo termine. Suo figlio è un giocatore eccellente, ma non mi va di causare dissapori tra i miei ragazzi per qualcuno che tra un po’ sbaracca e se ne torna in Giappone.

Oh. Qui c’è stato un fraintendimento serio.

- Genzo non è mio figlio.

Friedman si irrigidisce, ma davvero, perché tutti continuano a pensare che siano parenti? Lui e Genzo non si somigliano neanche! Di aspetto, almeno, perché a sentire Gamo di carattere sono sputati… e poi non è questo il punto! Hanno anche cognomi diversi.

- È vero che il mio tempo qui all’Amburgo è limitato, ma l’ingresso di Genzo in squadra non è mediato dal mio contratto con la Federazione. Alla mia partenza Genzo rimarrà qui in Germania.

Ah. Dirlo ad alta voce lo rende un po’ più vero. Tatsuo non ama riflettere su questo futuro. Qualche mese fa era stato intenzionato ad insistere per fare rientrare il portiere in Giappone insieme a lui alla fine del suo contratto, ma ora è diverso: i progressi di Genzo in campo sono evidenti e poi, ora, sembra trovarsi davvero bene in squadra e…

Friedman apre la bocca, la chiude. Tatsuo inchioda l’urlo mentale per venire in suo soccorso.

- È comprensibile che abbia frainteso. – Concede. – Infondo è stata proprio la mia partenza ad ispirare i genitori di Genzo a farlo partire.

L’altro annuisce distrattamente e non incontra il suo sguardo, Friedman guarda lontano, più o meno nel punto del campo in cui Genzo si sta trattenendo da levare a Gongels i denti uno ad uno. L’allenatore tedesco inclina la testa, le sopracciglia strette in un’espressione meditabonda, i fattori sulla sua lavagna mentale hanno appena cambiato ordine.

Quella sera lui e Genzo tornano a casa assieme, finita la cena Tatsuo prende coraggio e dice per la prima volta a voce alta quanto sia fiero di lui. Genzo, come risposta, gli sbatte la porta in faccia. È consolante che sui livelli di maturità ci siano ancora margini di miglioramento. Forse dovrebbe procurarsi un animale domestico, Genzo dà il suo meglio quando è costretto a prendersi cura di qualcun altro. Magari, visti i ritmi intensi e lo spazio limitato dell’appartamento, potrebbero prendere un gatto invece che un cane. Così Genzo si sentirebbe anche meno solo quando lui…

Tatsuo accende dell’incenso di fronte alla fotografia di Akane, chiude in cassetto la realtà e va a dormire. La prossima estate inizierà le visite ai club francesi e della Germania meridionale per rientrare ad Amburgo a fine agosto e da lì ripartire alla volta del Giappone, senza Genzo: lui ad Amburgo è venuto per restare.

Ma il futuro è vago e distante. Tatsuo chiude gli occhi.

E in un anno tante cose possono cambiare.

 


 

NOTE: 

 

HOLA!

E... ecco svelati i retroscena del perché a Mikami sta antipatico Hermann! Un premio a chi l'aveva indovinato!!! In questo capitolo Mikami equivoca decisamente alcuni atteggiamenti di Genzo come il suo sparire di casa e il suo riempirsi di impegni (in realtà per non farlo preoccupare e non farlo sentire in obbligo di cambiare squadra e città) o le ragioni per cui il portiere si arrabbia quando Mikami gli dice per la prima volta di essere fiero di lui. 

Adoro riscrivere alcuni di questi momenti invertendo il punto di vista, è simile a prendere la testa dei personaggi e sbatterla l'una contro l'altra. 

 

Uff.. puff... ci siamo quasi, ancora un capitolo (davvero, giurin giuretto) e la parte di questa storia dedicata a Mikami sarà finita. Forse è per questo che sto facendo un sacco fatica a scriverla! 

Davvero! Non sono riuscita a buttare giù una parola in due mesi! Tranne che iniziare ad impostare il capitolo di Schneider. Sicuramente non aiuta il carosello di medicine e il dover progettare a partire da zero il torneo Regionale/Nazionale dell'U15 a cui parteciperanno Genzo & CO (UGH ho bisogno di una guida telefonica per i nomi tedeschi)

Spero vivamente di non mancare il prossimo aggiornamento mercoledì 5 giugno

Un abbraccio fortissimo a voi che commentate! 

 

 

 

 

>>> 14. Le cose belle quando finiscono (p.3).

Tatsuo Mikami stabilisce le sue priorità.

[1] Germania e Giappone hanno una differenza di fuso orario di circa sette ore.

[2] Negli anni ’80 gruppi di estrema destra hanno iniziato a militare nella tifoseria dell’Amburgo SV, sporcando l’immagine della squadra e polarizzando la rivalità con l’altro team cittadino più progressista, il St. Pauli FC.

[3] La Sanrio è la compagnia giapponese famosa per “Hello Kitty”. In “Il nuovo compagno”, Genzo porta a scuola un bento decorato con una delle tante famose mascotte della ditta. Il mio riferimento era l’orsetto “Rilakkuma”, ma dopo ulteriori ricerche, ho scoperto che il personaggio ha esordito per il brand solo nel 2003. Fatto un rapido controllo sulle altre mascotte basate su orsi ed orsetti ho pensato di inserire Koro-Chan (1973), per optare alla fine per Tiny Chum (1984) in quanto il successo del personaggio debuttato proprio in questi anni rende più probabile la presenza sul mercato di numerosi gadget. Tiny Chum, tuttavia, è un’orsetta con un simpatico fiocco rosso in testa, ragione per cui Genzo è ovviamente perplesso.

[4] Nei momenti di maggiore sforzo gli atleti ovviamente respirano dalla bocca, ma vi sono diversi studi (soprattutto spagnoli) di medicina dello sport che trattano i benefici della respirazione nasale su sforzi lunghi come maratone, corse e partite di calcio.

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