Guardare oltre

di Fiore di Giada
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Collisione ***
Capitolo 2: *** Un triste risveglio ***
Capitolo 3: *** La generosità del Kaiser ***
Capitolo 4: *** Dall'avvocato ***
Capitolo 5: *** Il giorno della verità ***
Capitolo 6: *** Incertezze ***
Capitolo 7: *** Si rompono le catene? ***
Capitolo 8: *** Quiete prima della tempesta ***
Capitolo 9: *** Un ritorno problematico ***
Capitolo 10: *** Disastro annunciato ***
Capitolo 11: *** Semi di dolore ***
Capitolo 12: *** La bomba scoppia ***
Capitolo 13: *** La scelta della meta ***
Capitolo 14: *** La proposta di un amico inaspettato ***
Capitolo 15: *** Una triste partenza ***
Capitolo 16: *** Pausa ***
Capitolo 17: *** Arrivo in Romania ***
Capitolo 18: *** Sorpresa ***
Capitolo 19: *** Nuova strada all'orizzonte ***
Capitolo 20: *** Un nuovo interlocutore ***
Capitolo 21: *** Intervista ***



Capitolo 1
*** Collisione ***


Lo sguardo di Genzo, attento, scrutava la strada e le sue mani, ferme, stringevano il volante.
Il sole tramontante colpiva coi suoi raggi gli alberi, i cartelli e gli edifici e le colorava di un vivo colore arancione.
Le automobili percorrevano la strada in entrambi i sensi di marcia, mentre decine di persone camminavano nelle aree pedonali o entravano e uscivano dagli edifici.
Un mezzo sorriso sollevò le labbra del portiere. Aveva fatto la scelta migliore per la sua prima giornata di vacanza.
Una serata a teatro sarebbe stata piacevole per lui e gli avrebbe permesso di rilassarsi, dopo le fatiche calcistiche.
E a Monaco di Baviera, al National Theater, era in programma Parsifal, con dei costumi sontuosi e degli attori validi.
Un fremito di piacere attraversò il suo corpo. La sua permanenza in Germania gli aveva permesso di apprezzarne la cultura.
Lo studio era stato fruttuoso, seppur duro, e gli aveva dato la possibilità di allargare la sua mente.
Il gioco del calcio rimaneva il suo principale interesse e non vi avrebbe mai rinunciato, ma aveva imparato a godere di altri raffinati piaceri.
La musica classica si era rivelata una insperata fonte di divertimento per lui e il suo musicista preferito era Richard Wagner.
Le sue melodie riuscivano a stuzzicare la sua fantasia e a evocare le immagini di un mondo sublime, popolato di dame e cavalieri.
Ed egli era desideroso di lasciarsi avviluppare dalla magia di quelle note.

Ad un tratto, da una strada laterale , apparve un motociclista, in sella ad una Ducati rossa.
Genzo sbarrò gli occhi, sorpreso. Impallidì.
Poi, strinse le mani sul volante e premette il piede sul freno. No, doveva impedire una tragedia!
L’auto, tuttavia, non si fermò e investì la Ducati.
La moto cadde e il corpo del motociclista venne sbalzato a diversi metri di distanza.
L’energia dell’impatto piegò il metallo del paraurti e il parabrezza, con un forte scricchiolio, si infranse.
Il braccio destro del giovane si piegò in un angolo innaturale e l’osso squarciò la pelle.
Poco dopo, l’atleta nipponico si accasciò sul volante, quasi privo di conoscenza. Era dunque finita?
Sarebbero morti insieme?
La BMW, con un lungo, fastidioso stridio, si fermò, lasciando solchi neri sull’asfalto.

Pochi istanti dopo, Genzo aprì gli occhi, poi spalancò la portiera e scese dall’automobile.
Il suo braccio destro pendeva inerte e una lesione piuttosto ampia, si apriva all’altezza del gomito, facendo emergere un pezzo di osso.
Il suo volto, bianco d’angoscia, era sfregiato da escoriazioni e lividi e dai suoi occhi, rossi di spavento, sgorgavano lacrime.
Ansimando, si avvicinò al corpo del motociclista, che giaceva sulla strada, in una pozza di sangue.
Si chinò e, cauto, posò la mano sinistra sul collo del centauro, sinistramente reclinato sulla spalla.
Sbarrò gli occhi e una debole speranza palpitò nel suo cuore. Sentiva un flebile battito contro le sue dita.
Forse, c’era una possibilità di salvargli la vita.
Ma non doveva perdere tempo.
Ogni istante era prezioso.
Girò la testa e i suoi occhi fissarono i presenti, che assistevano, pietrificati.
– Chiamate un’ambulanza e la polizia! Presto! – gridò, angosciato. No, non doveva lasciarlo morire.
Non se lo sarebbe mai perdonato.
Allungò la mano verso il torace del centauro. Forse, poteva fare qualcosa.
Doveva tentare una prima manovra di soccorso, affinché le possibilità di un esito positivo aumentassero.
Per fortuna, grazie ad un corso, conosceva la rianimazione cardiopolmonare.
Una mano, ferma, si posò sulla sua spalla sinistra e il giovane, d’istinto, si girò.
Vide un uomo tarchiato, con corti capelli biondi e occhi verdi, nascosti dietro occhiali quadrati, dalla montatura sottile.
– Che vuoi? – gridò, la voce vibrante di angoscia rabbiosa. Perché lo aveva fermato?
Non comprendeva.
– Con il braccio in quello stato, non puoi fare nulla. Lascia che sia io a fargli il massaggio cardiaco. Sono un paramedico. – affermò l’uomo in un tedesco perfetto, seppur macchiato da un lieve accento rumeno.
Il giovane nipponico ansimò e lo fissò, quasi stupito, poi abbassò lo sguardo sul suo braccio destro.
– Sì… Ha ragione. – ammise, il tono colpevole.
Vedendo la ferita dell'asiatico, l'uomo imprecò, poi prese dalla tasca destra della giacca un fazzoletto di seta e glielo consegnò.
Che... Che cosa ci devo fare? – domandò il giocatore.
Premilo sulla ferita. Purtroppo, non ho garze sterili. Per fortuna, è pulito. – spiegò.
Genzo annuì e premette la stoffa sulla lesione.
Il rumeno annuì, si inginocchiò e abbassò la zip della tuta del motociclista.
Poi, posò le mani sul suo petto e cominciò il massaggio cardiaco.

Il lungo fischio di tre sirene, ad un tratto, lacerò l’aria.
Due ambulanze, accompagnate da tre auto della polizia, si fermarono.
Qualche istante dopo, le porte dei mezzi si aprirono e scesero due squadre di barellieri.
Una di queste si avvicinò a Genzo e il giovane venne disteso sulla barella.
Un poliziotto scese dall’automobile e, a passo rapido, si avvicinò a loro.
– Avrei bisogno di fare delle domande al guidatore. E’ possibile? – chiese, monocorde.
Genzo provò a parlare, ma solo flebili lamenti uscirono dalle sue labbra livide, come se avesse dei sassi in gola. Gli sembrava di soffocare…
Eppure, doveva rivelare la verità alla polizia!
Non doveva fuggire dalle sue responsabilità.
– Tragga lei le sue conclusioni. E’ cosciente, ma ha bisogno di cure immediate. – rispose uno dei soccorritori, severo.
Il poliziotto lanciò uno sguardo perplesso a Genzo, poi fissò i soccorritori.
– Va bene. Ma, a tempo debito, faremo le nostre indagini. – dichiarò.
I barellanti non risposero e rientrarono nell’ambulanza.

Qualche minuto dopo, partì.
Genzo, perplesso, squadrò i soccorritori. Perché si erano affaccendati attorno a lui?
L’incidente era stato dannoso per quel motociclista, che era stato sbalzato a diversi metri di distanza dall’impatto con la sua auto.
Quali danni aveva riportato? Poteva essere salvato?
Certo, quell’uomo era intervenuto e gli aveva effettuato un efficiente massaggio cardiaco, ma sarebbe bastato?
Gli era parso che il motociclista avesse il collo spezzato.
Ma poteva essere una sua impressione errata, dettata dall’angoscia.
Doveva essere un suo errore di valutazione!
A lui sarebbe bastata una ingessatura, perché aveva una semplice frattura ad un braccio e simili danni non avevano bisogno di cure immediate.
Il suo respiro accelerò e il suo sguardo si fissò in un punto indefinito. Aveva quasi ucciso una persona per il suo desiderio di andare a teatro…
Una splendida serata, per lui e per quello sfortunato sconosciuto, si era tramutata in un incubo.
Deboli ronzii giungevano alle sue orecchie e l’ambiente, davanti ai suoi occhi, cominciò a scolorirsi, come fosse coperto da nebbia grigia . Non sapeva perché, ma non riusciva a vedere nulla.
Che cosa stava succedendo?
Il suo fisico era prossimo al collasso?
Eppure, si era solo fratturato un braccio e simili lesioni non erano portatrici di complicanze gravi.
Qualche istante dopo, l’oscurità velò i suoi occhi e perse i sensi.

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Capitolo 2
*** Un triste risveglio ***


Genzo, con fatica, sollevò le palpebre.
Una densa tenebra, come la volta d’un sarcofago, sovrastava il suo sguardo, mentre il suo corpo era inerte, quasi pietrificato da un incantesimo.
Cauto, provò a stringere la mano a pugno.
Una fitta di dolore, implacabile, trapassò la sua spalla.
Genzo sbarrò gli occhi, aprì la bocca e un flebile rantolo morì sulle sue labbra, simile al lamento d’un animale agonizzante.
Ansimò e strinse gli occhi, cercando di frenare le lacrime, che minacciavano di rigargli le guance. Quella sofferenza, come una stilettata, gli aveva ricordato l’accaduto.
Era stato coinvolto in un incidente terribile ed era sopravvissuto.
Il forte dolore, che si irradiava lungo tutte le sue membra, era un segnale di vita.
Eppure, non riusciva a sentirsi sereno.
Il suo istinto lo avvertiva di un evento tragico, malgrado fosse sopravvissuto.
Che cosa era successo? Perché sentiva una tale, orribile emozione?

Sbatté le palpebre e l’oscurità si dissolse.
Si accorse di essere disteso su un letto d’ospedale, collocato in una stanza rettangolare.
Una lampada a neon, appesa al soffitto, illuminava d’una luce gialla l’ambiente e una finestra si apriva sulla parete di destra, rivelando un giardino alberato, immerso nella luce del sole primaverile.
Immersa nel suo braccio sinistro, era una flebo, da cui gocciava soluzione fisiologica
– Ben svegliato, bell’addormentato! – urlò una voce maschile, vibrante di gioia.
Il giovane girò la testa e, seduto accanto al suo letto, scorse Hermann Kaltz, mentre, appoggiato al muro, era Karl Heinz Schneider, le braccia incrociate sul petto.
Per alcuni istanti, il giovane nipponico fissò sui suoi amici uno sguardo confuso, stralunato. Malgrado le loro espressioni ferme e controllate, scorgeva sui loro visi l’ombra della tensione.
Ed era ben differente dall’emozione di una partita.
– Che cosa è successo? Mi sembra di essere qui da molto tempo. E non capisco perché… – domandò, sorpreso.
Un mezzo sorriso sollevò le labbra di Karl.
– Sei stato dieci giorni in stato di coma farmacologico. Hai riportato una frattura esposta al braccio destro e ha preso infezione. Hai avuto anche febbre alta. – rispose Karl, pacato. Quando aveva ricevuto la notizia dell’incidente del suo amico nipponico, si era sentito travolgere da un’ondata d’angoscia.
Aveva creduto di perderlo.
Quasi era crollato, vedendolo inerme, abbandonato sul letto, circondato dai macchinari della terapia intensiva.
Si era affezionato a quell’ombroso giovane nipponico e quei dieci giorni erano stati un crudele logorio.
L’ansietà aveva reso difficoltoso il suo gioco, perché faticava a trovare la concentrazione.
Per fortuna, si è ripreso., pensò. Certo, era debole e provato, ma era vivo.
Con un’adeguata cura, avrebbe potuto tornare a giocare a calcio.
Irrigidì la mascella. Certo, era sopravvissuto, ma quel terribile incidente non era rimasto privo di conseguenze.
E Genzo doveva conoscere la verità.
Ma come avrebbe potuto dirgliela, senza annientare il suo spirito?

Genzo, accortosi del mutamento d’umore del compagno, sussultò. In quel momento, un solo pensiero poteva turbare la calma granitica del suo amico tedesco.
E il ricordo di quell’orribile evento, prima nebuloso, si spiegava nella sua mente, come una lugubre pellicola.
L’incidente aveva coinvolto lui e un motociclista e a quel giovane era toccata la sorte peggiore.
Ricordava bene l’incoscienza del suo corpo, a stento animata dal debole battito del cuore.
Gelidi brividi attraversarono la sua schiena, come scosse elettriche, e la sua mano sana si strinse attorno al lenzuolo del letto. Che cosa era accaduto a quel motociclista?
Era vivo? Era morto?
Un nodo gli strinse la gola. No, non poteva essere accaduto.
Entrambi dovevano essere sopravvissuti a quella violenta collisione.
Certo, erano feriti, ma dovevano essere vivi.
Entrambi dovevano riprendere a condurre le loro esistenze.
Cauto, girò la testa e il suo sguardo cupo, lucido d’affanno, si fissò in quello ceruleo di Karl.
– Per favore, dimmi cosa è successo. Devo saperlo. – mormorò, supplichevole.
Il giovane calciatore tedesco provò a parlare, ma le parole rimasero imprigionate, come se le sue labbra fossero coperte di colla. Aveva sempre creduto che la verità rendesse liberi, ma, in quel momento, non riusciva a proferire parola.
L’angoscia dell’amico gli rendeva arduo un simile compito e sentiva la gola stretta, come se gli avessero applicato una garrota.
– E’ morto. – intervenne Hernann, lapidario.
Karl lo fulminò con lo sguardo e, a stento, trattenne un ringhio di furore.
Un pallore spettrale si diffuse sul viso di Genzo e ansiti sempre più rapidi sollevarono il suo petto.
Strinse la mascella e chiuse gli occhi, cercando di frenare le lacrime. Non c’era più speranza.
Si era macchiato d’omicidio.
Le sue mani erano rosse di sangue.
Con la sua macchina, aveva distrutto una famiglia e distrutto le speranze e i sogni d’un innocente.
Brevi singhiozzi, ad un tratto, straziarono il suo petto e, d’istinto, girò la testa dalla parte opposta.
– L’ho ucciso… L’ho ucciso… – balbettò. Avrebbe dovuto essere più reattivo, come era sui campi di calcio!
– Ehi, guarda che tu non hai colpa. Sarebbe morto in ogni caso! – affermò Hermann.
– Usciamo. Genzo, se hai bisogno di qualcosa, non esitare a chiamarci. – intervenne Karl, con tono imperioso. La reazione di Genzo era limpida.
Lo sconcerto e il dolore l’avevano annientato e desiderava rinchiudersi nella solitudine, per non rivelare a nessuno la sua pena.
Il suo desiderio di solitudine e riservatezza meritava rispetto.
Perplesso, il centrocampista seguì il capitano tedesco.


Percorsero alcuni metri e si fermarono davanti ad un distributore.
– Ti sembra il caso, Kaltz? – lo aggredì Karl. Con quelle parole, prive di qualsiasi delicatezza, Hermann si era confermato un completo idiota.
Genzo era appena uscito da un danno potenzialmente mortale e la notizia della morte di quello sfortunato motociclista lo aveva annientato.
Aveva visto negli occhi del suo compagno la tenebra del rimorso.
– In un modo o nell’altro, lo avrebbe saputo. E nutrire speranze irrealistiche gli avrebbe fatto ancora più male.– rispose Hermann, piccato. Non voleva provocare dolore ad una persona da lui rispettata e ammirata, ma la menzogna gli sembrava un insulto all’intelligenza del portiere.
Non era stupido e si era ben accorto del disagio di Karl.
Si passò una mano tra i corti capelli biondi. In quei giorni, per loro assai duri, erano andati in onda servizi giornalistici vergognosi, che dipingevano Genzo con i colori dell’infamia.
Davano di lui un ritratto di ricco annoiato e cinico, assolutamente lontano dalla realtà, che aveva investito un motociclista sfortunato per il puro piacere della velocità.
Oltre al dovuto procedimento in tribunale, lo attendeva un delirante processo mediatico.
I mezzi di comunicazione di massa si erano assunti il ruolo di giudice, giuria e boia.
Sentì un accesso di nausea montare alla bocca, come un fiotto di veleno. Come poteva la gente essere tanto stupida?
Eppure, avevano avuto modo di conoscere la limpidezza di Genzo, ben celata dalle sue maniere ruvide.
– Karl, c’è un altro problema. – mormorò il difensore.
Con un cenno della testa, l’attaccante della nazionale tedesca lo invitò a continuare.
– A causa della setticemia, non poteva andare a testimoniare in tribunale. Adesso la situazione è cambiata e dovrà farlo. Ma, in quelle condizioni, non è in grado di scegliersi un avvocato. – spiegò.
Karl, a stento, trattenne una risata cinica e amara. Nel suo stato attuale, Genzo non era in grado di creare un pensiero semplice.
La sua mente era dominata da un rimorso cieco e si macerava nel tormento.
– Sì, hai ragione. E penso sia il caso che ci pensiamo noi. – affermò.
Hermann corrugò le sopracciglia, perplesso.
– Perché? Pensi che la sua famiglia o lo staff della nazionale giapponese non si preoccuperebbero per lui? – domandò.
– No. Anzi, sono sicuro che non si tirerebbero indietro pur di aiutarlo. Ma il diritto giapponese e quello tedesco non sono uguali. Non del tutto, almeno. – rispose, pacato. Non metteva in dubbio la sollecitudine della famiglia Wakabayashi e della nazionale nipponica, ma preferiva affidarsi ad un legale teutonico, ben addentrato nell’ambiente giudiziario.
Un avvocato nipponico, per quanto esperto e abile, avrebbe potuto essere ingannato e il loro amico e rivale aveva bisogno della migliore assistenza.
– Capisco. Non perdiamo tempo. – affermò Hermann.
Karl annuì e i due giovani si avviarono verso l’uscita dell’ospedale.




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Capitolo 3
*** La generosità del Kaiser ***


Karl posteggiò l'auto nell'ampio parcheggio della Therapiepunk.

Poi, sollevò il polso destro e guardò il suo orologio. Tra poco, Genzo sarebbe uscito dalla clinica.

Per fortuna, la sua fisioterapia proseguiva e, presto, il suo braccio si sarebbe ristabilito.

Sospirò. Era la sola notizia positiva in quella sequenza di eventi dolorosi.

Genzo non doveva solo affrontare il processo per la morte di Andreas Schumann, ma doveva sopportare il peso del giudizio mediatico.

Sospirò. Non aveva intenzione di compiangersi e di perdere tempo prezioso.

Per fortuna, sapeva come aiutare il suo compagno.


Qualche istante dopo, Genzo uscì, portando con sé una borsa da palestra.

Spostò le iridi ora a destra, ora a sinistra, cauto, poi il suo sguardo si posò sull'automobile di Karl.

Con passo calmo, ma deciso, gli si avvicinò, poi picchiettò sul vetro.

Ciao, Karl. Perché sei qui? – chiese, stupito.

Che domande fai? Sono venuto a prenderti, per portarti a casa. – rispose il tedesco.

Genzo, sentendo queste parole, sospirò e reclinò la testa.

Karl, non preoccuparti. Io posso prendere l'autobous. Tu non puoi trascurare il calcio per me. – replicò il portiere orientale, la voce vibrante d'amarezza.

Ti senti quando parli? Ti dovrei lasciare su un autobus, solo, col rischio quasi certo di incontrare degli esaltati? – replicò il centravanti teutonico.

Un sospiro stanco fuggì dalle labbra dell’asiatico e i suoi occhi si velarono di lacrime.

Grazie. – mormorò, commosso.

Karl accennò ad un sorriso, aprì la portiera dell’auto e lo lasciò entrare.


La macchina avanzava sulle strade di Monaco.

Come va il tuo braccio? – chiese Karl.

Bene. Sto recuperando la piena funzionalità dell’arto. – rispose, laconico, Genzo.

Il tedesco mantenne lo sguardo fisso sulla strada. Di solito, un simile recupero era motivo di gioia.

Presto, Genzo avrebbe potuto riprendere a giocare a calcio.

Eppure, non era felice.

E non era difficile capire il motivo della sua angoscia.

Deboli singhiozzi, ad un tratto, riempirono l’abitacolo dell’auto.

Karl parcheggiò e girò la testa.

Genzo si era irrigidito, come fosse diventato di marmo, mentre il suo volto, pallido, era umido di lacrime.

Non ne posso più… Finirò per impazzire… – confessò.

L’europeo, con gesti gentili, gli prese le mani e gliele strinse.

Guardami. – gli disse.

Genzo, per alcuni istanti, esitò, poi sollevò il viso verso il compagno.

Per lunghi, eterni istanti i loro sguardi si specchiarono l’uno nell’altro, come se fossero impegnati in una lotta surreale.

Tu non hai nessuna colpa. Quel giovane sfortunato è morto per una tragica fatalità. La giustizia farà il suo corso. Te lo prometto, amico mio. – scandì, risoluto.

Un debole sorriso, colmo di amarezza, sollevò le labbra dell’asiatico. Apprezzava la fermezza del suo amico tedesco, ma il suo rimorso andava oltre le pur importanti conclusioni legali.

Tuttavia, non poteva non ringraziare la ferma vicinanza dei suoi due compagni.

Grazie. –


La macchina riprese ad avanzare.

Genzo, sei sicuro di non volere l'aiuto della tua famiglia e dei tuoi compagni di nazionale? Non credo ti abbandonerebbero. ─ osservò Karl.

Si pentì e si morse le labbra. Avevano discusso a lungo di quella possibilità e la risposta del suo compagno era stata chiara, priva di ambiguità.

Non voleva i suoi compagni e la sua famiglia coinvolti in una storia così amara.

Certo, tale proposito era generoso da parte sua, ma quanto avrebbe potuto tollerare l’assenza di amici conterranei e della sua famiglia?

Genzo, sentendo quella frase, sbiancò.

Ne abbiamo già parlato, Karl. Non voglio ritornare più su questo argomento. – tagliò corto.

L’europeo, sentendo quelle poche, ferme parole, sospirò.

Sì. E scusami per la domanda inopportuna. –


Diverso tempo dopo, l’auto si fermò davanti ad una villa di medie dimensioni, a due piani, col tetto piatto, immersa in un verde giardino.

Karl fermò l’auto, aprì la portiera e scese, imitato dal compagno.

I due giovani, a passo rapido, percorsero alcuni metri.

Ad un tratto, Genzo alzò la testa e il suo volto si scolorò.

Sul tetto era stato posizionato uno striscione bianco, su cui, circondata da teschi ghignanti e ossa umane, macchiate di rosso, risaltava la scritta in tedesco “questa è la casa di un assassino”.

No, basta… – sussurrò.

Karl alzò a sua volta la testa e, d’istinto, strinse il pugno.

Dovresti denunciarli. Quello che fanno è un reato punibile col carcere. – sibilò, rabbioso.

Genzo chinò la testa e serrò le labbra in una piega amara.

Perché dovrei? Non si può censurare la verità, Karl… – replicò, stanco. Quello striscione era l’ennesima pietra aggiunta alla montagna del suo rimorso.

Gli volevano ricordare la sua infamia.


Per lunghi, eterni istanti il silenzio gravò sui due giovani calciatori.

Frenetica, la mente di Karl lavorava. Doveva trovare un modo per proteggere il suo compagno.

Ma tutte le soluzioni gli apparivano incomplete, stupide, insensate.

Prepara la valigia. – esordì, laconico.

Genzo, sentendo quelle parole, girò la testa e gli lanciò uno sguardo confuso.

Cosa stai dicendo? Sai bene che non posso muovermi dal paese, fino a termine del processo. – osservò.

Un mezzo sorriso sollevò le labbra sottili del Kaiser.

Non ho detto che dobbiamo andare alle Maldive. Ma non ti è proibito venire a stare da me. – dichiarò.

Sorpreso, l’asiatico sbarrò gli occhi.

Non se ne parla nemmeno, Karl. Ti sto dando troppi problemi e non voglio causartene altri. – replicò, deciso.

Lo sguardo ceruleo del tedesco si indurì, come una lastra di ghiaccio. Per quanto encomiabile, la sollecitudine di Genzo era inopportuna.

Credimi, se verrai a casa mia, mi darai meno preoccupazioni. Qui, sei molto vulnerabile e la solitudine acuisce l’angoscia. E tu hai bisogno della massima lucidità per affrontare il processo. – replicò, il tono apparentemente tranquillo. Era ben cosciente che il suo solo aiuto, per quanto disinteressato, non era sufficiente a placare l’animo ferito del compagno.

Ma come poteva scardinare il muro di diffidenza dietro il quale si era richiuso?

Genzo rifletté, poi annuì. Avrebbe voluto chiudersi in un guscio di silenzio, ma non poteva non essere d’accordo con Karl.

Per quanto possibile, doveva mantenere la lucidità, affinché il processo avesse un esito positivo.

Lo doveva ai suoi compagni di squadra e alla loro generosità.


A passo rapido, attraversarono l’ampio giardino.

Genzo si chinò, poggiò a terra la borsa e aprì una delle sue tasche.

Vi infilò la mano sana e prese una chiave, a cui era appesa una riproduzione della bandiera giapponese.

Infilò la chiave nella serratura, la fece girare e, dopo alcuni istanti, la porta si aprì.

Con un gesto fermo della mano, Karl lo fermò.

Tranquillo, ti porto io la borsa. – lo rassicurò.

Grazie. – si limitò a dire Genzo.

Salirono le scale, che collegavano il primo al secondo piano, e si fermarono davanti ad una porta lignea.

Il portiere la aprì e i due giovani entrarono in una stanza di medie dimensioni, di forma rettangolare.

Al centro, era collocato un letto singolo, su cui erano posate lenzuola blu e il pavimento di ceramica era coperto in parte da un tappeto arancione.

Sulla parete corta di destra, si apriva una finestra quadrata, coperta da una tenda anche essa blu, e, alla parete opposta, era collocato un armadio.

Accanto al letto, c’erano dei comodini e, sotto un abat jour, era collocata una copia di Guerra e Pace, contrassegnata da un segnalibro.

Ti sei dato a letture impegnative? Spero che non lo legga in russo. – ironizzò Karl.

Il portiere alzò le spalle e un debole sorriso sollevò le sue labbra.

No, per me l’alfabeto cirillico è incomprensibile. – rispose.

Poi, il suo sguardo si fece di nuovo serio e spaziò nella stanza, quasi volesse imprimersi ogni dettaglio nella mente.

Penso porterò poche cose. Non voglio occuparti spazio in casa. – dichiarò.

Karl sbuffò e gli appoggiò una mano sulla spalla.

Porta quello che ti serve. Al massimo, mi ripasserò l’opera completa di Wagner. – affermò.

Il nipponico annuì e i due giovani iniziarono la preparazione dei bagagli.


N.B: prima della vera e propria udienza, dedicherò due capitoli a mostrare in azione Schneider e Kaltz. Spero siano piaciuti.

Si capisce qui (almeno mi auguro) perché Genzo non vuole avere accanto a sé i suoi compagni nipponici. Gli si può dare torto?

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Capitolo 4
*** Dall'avvocato ***


A passo rapido e deciso, Karl uscì dal suo appartamento, stringendo tra le mani una valigia di pelle marrone.
Percorsi cento metri, vide una Volkwagen azzurra.
Il finestrino si aprì e uscì il volto angoloso di Hermann.
Salta su! Ti accompagno io! – abbaiò il difensore.
Il centravanti gli lanciò uno sguardo stupefatto.
Perché? Non devo andare in capo al mondo. Posso prendere i mezzi. Non ti devi disturbare.– replicò.
Hermann ringhiò, frustrato.
Per favore, non farti contagiare dalle manie di Genzo. E’ meglio non farsi vedere troppo sui mezzi pubblici, fino a quando questa storia non finisce. – dichiarò.
Karl rifletté. Il suo compagno aveva ragione, anche se gli costava ammetterlo.
Un eventuale attacco di esaltati avrebbe potuto mettere in pericolo la sua valigetta.
E non poteva accadere.
Si avvicinò all’automobile ed Hermann aprì la portiera dal lato del passeggero.
Karl salì e, qualche istante dopo, la macchina si mise in moto.

Hai preso tutto? – chiese ad un tratto Hermann.
Sì. Ci ho messo un po’ di tempo, ma ho ottenuto tutta la documentazione. Le analisi di Genzo, il risultato dei rilievi e i video delle telecamere del bar. Inoltre, come supporto, ho la testimonianza di un amico. Sì, non manca niente. – affermò il Kaiser, apparentemente tranquillo.
E allora perché sei così teso? Non dovremmo avere alcun problema a scagionarlo da queste accuse ingiuste. – replicò.
Si interruppe, sentendo un sospiro sgorgare dalle labbra del compagno, e la preoccupazione si ravvivò. Qualcos’altro turbava il suo compagno di squadra.
Poteva essere dovuto al rimorso per la tragedia?
Ma non aveva senso.
Ne era sicuro, Genzo non era un incosciente.
Hai indovinato, Hermann. Genzo si sente in colpa. Gli ho imposto di venire a stare da me, perché, solo, nel suo appartamento, sarebbe crollato, ma è cambiato poco. – mormorò Karl, serio.
Hermann, dentro di sé, sussultò, ma mantenne lo sguardo fisso sulla strada.
Che intendi? – azzardò.
Soffre d’insonnia e d’incubi e io lo sento spesso vagare per la casa come un’anima in pena. Piange in silenzio, anche se per pochi minuti, come se se avesse vergogna del suo dolore. – confessò il centravanti, il tono frustrato.
Hermann scosse lievemente la testa, sconfortato. Non faticava a credere alle parole del compagno di squadra.
Una simile, terribile vicenda oltrepassava le loro pur imponenti fatiche calcistiche e metteva in discussione la dignità personale di Genzo.
Si sentiva circondato da belve prive di volto, pronte ad aggredirlo e a sbranargli l’anima.
Non credi che avrebbe bisogno di un terapeuta? – domandò il difensore.
Probabilmente sì, ma lui fa fatica ad accettare la nostra presenza. Oltretutto, penso che non si fidi di nessuno. Puoi dargli torto? – chiese a sua volta l’altro. La proposta del suo compagno non era insensata, ma si scontrava con una realtà aspra.
Genzo, pur volendo, faticava a fidarsi di estranei e tale diffidenza era comprensibile.
Hermann rifletté.
No, Karl. Non posso proprio dargli torto. –

Parcheggiarono l’auto a circa cento metri di distanza da un edificio di forma quadrata, piuttosto grande, collocato in un ampio spiazzo verde, adorno di querce fronzute.
Il sole colpiva il vetro e l’acciaio dell’edificio, accentuandone il nitore geometrico, mentre diverse persone ora entravano, ora uscivano dall’edificio.
Karl, non rischiamo di esporci troppo? – chiese Hermann.
Il capitano della nazionale tedesca rise.
Qui lavora uno degli avvocati migliori di Monaco di Baviera. Sono disposto a correre il rischio. – rispose.
Il suo sguardo si indurì, come una lama di ghiaccio, mentre le sue labbra si serrarono in una linea diritta, severa, quasi da idolo antico.
Hai ragione. Non dobbiamo lasciare nulla di intentato. – concordò l’altro.
Poi, aprì la portiera dell’auto e Karl, presa la valigetta, scese.
Te la senti di aspettarmi qui? – chiese.
Il ruvido difensore sollevò il pollice in un gesto di assenso.
Anche tutto il giorno. Vai tranquillo. –
Karl gli lanciò uno sguardo lungo, colmo di gratitudine, poi girò la schiena e si inoltrò per il vialetto di ingresso.

Percorse l’ampio spiazzo, lo sguardo serio e fisso davanti a sé.
Chi si accorgeva della sua presenza gli lanciava sguardi ora sprezzanti, ora curiosi, ora ironici.
Fantastico. Mi guardano come se fossi un criminale., pensò. Aveva avvertito su di sé il biasimo di quelle persone.
Nel loro delirio mentale, lo vedevano come il complice di un assassino.
Quelle occhiate erano per lui fonte di fastidio, ma riusciva a non badarci.
Gli dava una vaghissima idea della situazione di Genzo.
Accennò ad un sorriso ironico. Credevano di piegarlo con il loro inutile biasimo, ma non era così.
Rendevano più forte e fermo il suo proposito


Entrò nella sala d’aspetto e, senza alcuna esitazione, si avviò verso la reception.
Che cosa desidera? – chiese l’addetta, gentile.
Vorrei sapere se lo studio dell’avvocato Theodore Husserl è ancora al secondo piano di questo edificio. E se e quanto dovrò aspettare. – spiegò il giovane.
La ragazza non rispose e cominciò a ticchettare le mani sul computer.
Sì, lo studio è al secondo piano. Dovrà però aspettare almeno mezz’ora, perché è impegnato con un cliente importante. In caso di variazioni, la chiamo. Però mi deve mostrare i suoi documenti. – gli ingiunse lei.
Karl annuì,aprì una tasca esterna della valigia, prese la sua carta d’identità e la porse alla ragazza.
Questa, con occhio attento, la controllò, poi gliela restituì.
La ringrazio per la cortesia. – affermò il giocatore.
Lavoro. – rispose lei.
Il giovane, poi, si avviò verso una delle poltrone e si sedette.
Aprì di nuovo la tasca della valigia, prese una copia di Addio alle armi e cominciò a leggere.


Qualche ora dopo, il telefono risuonò.
La ragazza prese la chiamata e, dopo alcuni minuti, riagganciò.
Signor Schneider, è il suo turno. L’avvocato Husserl è libero e la sta aspettando. – gli annunciò.
Il giovane, sentendo le parole di lei, chiuse il libro, si alzò, stringendo tra le mani la valigetta e si avviò verso l’ascensore. Poteva salire a piedi senza alcun problema, ma, in quel momento, non desiderava fare alcuno sforzo fisico.
Le porte metalliche si aprirono e un uomo e una donna uscirono.
Karl entrò e, con forza, premette il due sul tastierino numerico.
Con uno scatto, le porte metalliche si chiusero e l’ascensore cominciò a salire.
Il giovane, con gesti colmi di nervosismo, strinse la valigetta contro il petto, quasi fosse un tesoro prezioso. Un senso di ansia si era insinuato in lui, nonostante tentasse di mantenere la calma.
Theodore Husserl era un valido uomo di legge, esperto in diritto penale, ma sarebbe bastato ad aiutare Genzo?
Inoltre, lo preoccupava il suo stato di prostrazione.
Il suo amico e rivale asiatico, con una forza encomiabile, cercava di mantenere la dignità, ma era una lotta assai sfibrante.
E non voleva nemmeno ricorrere a tranquillanti, per paura.
Strinse i pugni e le sue labbra si sollevarono in un ringhio di belva. No, non avrebbe permesso un simile esito.

L’ascensore si aprì e il giovane uscì.
Percorse alcuni metri, poi si fermò davanti ad una porta, sormontata da una targa d’ottone con sopra il nome: avvocato Theodore Husserl.
Pochi istanti dopo, con uno scatto, si aprì e apparve un uomo basso, tarchiato, vestito con una maglia e un pantalone bianco.
Dietro i suoi occhiali, dalla montatura dorata, si celavano sottili occhi celesti e il suo volto dai lineamenti duri, segnato da rughe sottili, era circondato da folti capelli bianchi.
Puoi entrare. – gli disse.
Karl lanciò brevi sguardi guardinghi, ora a destra, ora a sinistra, poi si inoltrò nello studio.
Era un ambiente piuttosto ampio, di forma rettangolare, che riceveva la luce del sole da un’ampia finestra, che dava sul giardino.
Una grossa scrivania di quercia, ingombra di carte e penne, dominava la stanza e, appoggiata alla parete posteriore, v’era un’ampia vetrina, nella quale erano collocate diversi volumi di giurisprudenza e storia in varie lingue.
Diverse sedie erano collocate davanti alla scrivania, mentre il pavimento scompariva sotto un ampio tappeto bianco e giallo.
Nell’angolo sinistro, in un vaso di ceramica, fioriva una rigogliosa pianta di orchidea vermiglia, dalla quale si spandeva un forte profumo.
Hai portato quello che ti ho chiesto? – chiese Theodore, spiccio.
Sì. E’ tutto in questa valigetta. – rispose il giocatore.
Siediti. E aspetta alcuni minuti. – gli disse l’uomo di legge.
Karl gli consegnò la borsa e si sedette.

L’avvocato la aprì e, con occhio attento, cominciò a esaminare i vari documenti.
Di tanto in tanto, si accarezzava il mento glabro con la mano.
Qualche minuto dopo, l’uomo alzò i suoi occhi grigi e li fissò in quelli cerulei del giocatore.
Che cosa ne pensa? Ha bisogno di qualcos’altro? – chiese Karl, ansioso.
Per ora nulla. Ma ci sono alcune cose che depongono a favore del tuo compagno. – spiegò il legale.
Quali? – chiese Karl.
Non era ubriaco o drogato. Dai risultati delle analisi del sangue, risulta solo un elevato livello di adrenalina e vari ormoni dello stress. Comprensibile, dato il suo stato di tensione. A questo, si aggiungono i risultati dei rilievi. La sua velocità non era elevata. Non sembra avere fatto manovre da pilota di Formula 1, se non quella per evitare l’impatto con la moto. – spiegò.
Il campione tedesco sentì un lieve sollievo pervadere la sua anima. Forse, una vaga speranza c’era.
Non ti consiglierei di lasciarti andare a esagerate manifestazioni d’ottimismo. Prima, voglio esaminare il video dell’incidente. Ah, so che è stato soccorso da un paramedico, prima dell’arrivo dell’ambulanza. O mi sbaglio? – chiese.
No. E’ una persona che conosco bene. Si chiama Andrei Ionescu ed è anche un importante scacchista. – rispose Schneider.
Bene. Desidero parlarci. – affermò Theodore.
Capisco. Glielo riferirò. – promise Karl.
Se tu riuscissi a trovare altri testimoni, sarebbe meglio. Ora, puoi andare? Devo lavorare e ho bisogno di silenzio. – affermò l’avvocato.
D’accordo. Buon lavoro. – lo salutò il giocatore.
Si alzò, chinò la testa e uscì dallo studio.

Un po’ di tempo dopo, uscì dall’edificio e si avviò verso l’auto di Hermann.
Questi, vedendolo arrivare, aprì la portiera e lo fece salire.
Come è andata? – chiese.
Karl si lasciò andare sul sedile, come se le sue energie fossero scomparse.
Qualche possibilità c’è… Le analisi del sangue di Genzo non mostrano tracce di alcool o droghe e i rilievi sulla sua auto sembrano indicare una guida prudente. Ma lui mi ha detto di non sbilanciarmi troppo, perché vuole esaminare tutto meglio. Soprattutto il video della telecamera del bar. – spiegò.
Non dovresti sorprenderti. Hai detto tu che non vuoi lasciare nulla al caso. – lo incoraggiò Hermann.
Poi, mi ha detto che vuole parlare con Andrei. – continuò.
Il difensore dell’Amburgo sbarrò gli occhi, stupito.
Chi? Il tuo amico scacchista? Ma sarà facile trovarlo? – domandò.
Karl accennò ad un sorriso e si passò la mano tra i capelli biondi.
Stai tranquillo. Non è un pazzo alla Bobby Fisher. Se può aiutare qualcuno, lo fa. Del resto, non ha cercato di soccorrere quello sventurato motociclista? –
Hermann grugnì un breve cenno d’assenso, poi inserì la chiave nel cruscotto e la macchina partì.


1) il nome dell’avvocato è una fusione tra i nomi dei filosofi Theodore Adorno e Edmond Husserl, mentre il cognome di Andrei Ionescu (è il paramedico del 1 capaitolo) è quello del grande drammaturgo.
Schneider ha citato Bobby Fisher, che, oltre alla grande bravura negli scacchi, ha anche mostrato atteggiamenti arroganti e opinioni discutibili. (vedi l’antisemitismo).
Ho cercato di creare una situazione credibile per il diritto tedesco, ma non vorrei avere cannato. Se sì, attribuitela alla balordaggine delle informazioni.
Ho messo alcune varianti nella storia, rispetto alle one shots, per evitare che risulti ripetitivo.
Che ve ne pare? Vi piace Schneider in questa veste?

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Capitolo 5
*** Il giorno della verità ***


Genzo, a passo rapido, scese dall'appartamento e attese.

Lanciò sguardi circospetti, ora a destra, ora a sinistra. Era giunto il giorno del processo.

Avrebbe dovuto vedere il dolore negli occhi dei familiari di Andreas Schumann.

Aprì la bocca e aspirò aria, cercando di calmare i palpiti sempre più rapidi e dolorosi del suo cuore. Aveva voglia di fuggire dagli eventi, ma non poteva.

Doveva comportarsi come un uomo e affrontare le conseguenze delle sue azioni.

L'auto di Schneider parcheggiò e il centravanti tedesco aprì la portiera, invitando il compagno ad entrare.

Senza alcuna parola, il giovane nipponico annuì ed entrò.

Poi, chiuse e l'auto partì.


Karl, di tanto in tanto, lanciava occhiate oblique all'altro.

Sta sempre peggio..., pensò. Il suo amico e rivale, nonostante tentasse di mantenere un'apparenza stoica, era la personificazione dell'amarezza.

E le sue preoccupazioni non erano legate all'imminente udienza.

O meglio, non era la sua sola ragione di angoscia.

Tu non sei preoccupato per l'udienza. O meglio, non solo. ‒ affermò il centravanti tedesco, neutro.

Un sorriso amaro sollevò le labbra dell'asiatico. L'intelligenza del suo rivale era penetrante, come una lama affilata.

Senza sdolcinatezze, lui ed Hermann lo stavano aiutando a non precipitare nell'abisso.

Ed era suo dovere non nascondere le sue emozioni, per quanto possibile.

Hai ragione. Sono preoccupato anche per la squadra. Non voglio che abbia ulteriori problemi a causa mia. ‒ confessò. In quelle giornate d'inferno, aveva avuto modo di leggere gli articoli di giornale ed era rimasto agghiacciato.

Molte testate accusavano la società dell'Amburgo di proteggere un assassino.

Complici. Barbari. Criminali. Para – nazisti.

Tali, sferzanti parole martellavano la sua anima e si irradiavano nel suo corpo, come una raffica di pugni colpisce un pugile.

Mai avrebbe voluto danneggiare i suoi compagni.

Non se lo sarebbe mai perdonato.

Eppure, stava accadendo.

Un problema alla volta, Genzo. Ora, pensa all'udienza e non preoccuparti di nient'altro. ‒ replicò Karl, deciso. Le preoccupazioni del compagno erano comprensibili, ma doveva aiutarlo a non disperdere le sue energie in mille, inutili rivoli.

Altrimenti, non sarebbero usciti da un siffatto, lugubre tunnel.


Karl fermò l'auto a circa cento metri di distanza dal Palazzo di Giustizia di Monaco di Baviera.

Decine di poliziotti presidiavano l'entrata principale, assediati da giornalisti di varie emittenti, armati di microfono, taccuino, penna e macchina fotografica.

Lampi d'ira brillarono negli occhi di Karl e la sua mano destra si strinse a pugno.

Iene. Vanno sempre dove sentono l'odore di una carcassa. ‒ ringhiò.

Imprecò contro se stesso e strinse le mani sul volante. Si era fatto trascinare dalla rabbia.

Con poche parole, aveva cancellato gli incoraggiamenti dati a Genzo.

Ma si poteva essere più stupidi?

Mi dispiace. Credimi, non volevo offenderti, ma odio chi si comporta in questo modo. ‒ si scusò.

Genzo, con un gesto apparentemente noncurante, alzò le spalle.

Hai fatto anche troppo per me. Non posso certo pretendere la perfezione. ‒ affermò, sincero.

Il tedesco, rinfrancato, accennò ad un sorriso, che però si spense in un'espressione seria.

Qui ci dobbiamo separare, ma non preoccuparti: io e d Hermann saremo tra il pubblico. Non dovrai sopportare un processo lungo. ‒ affermò il tedesco, risoluto.

Con un cenno del capo, il nipponico annuì. Schneider, in campo, era una macchina da guerra, ma, in quell'occasione tanto tragica, si era rivelato un amico affidabile e incrollabile.

Aveva un debito incolmabile nei confronti suoi e di Hermann.

Ho un'ultima domanda da porti. Il tuo amico scacchista sarà all'altezza della situazione? Non vorrei che lo manipolassero, usando la lingua come un'arma. ‒ osservò.

Karl, sentendo l'affermazione di Genzo, sorrise.

No, non c'è nessun pericolo. Conosce il tedesco quasi a livello madrelingua e gli scacchi gli hanno insegnato a non perdere il controllo dei nervi. Inoltre, è un paramedico e potrà fugare ogni dubbio sulla veridicità delle tue analisi. Del resto, ha visto che hai cercato di soccorrere quel povero ragazzo. ‒ rispose.

Gli appoggiò una mano sul braccio e fissò i suoi occhi cerulei, fermi, nelle iridi nere di Genzo.

Quest'ultimo accennò ad un sorriso. Una simile azione gli sembrava una fatica erculea, ma non poteva opprimere Karl col peso della sua disperazione.

Gli doveva dare un segnale di fiducia.

Pochi istanti dopo, scesero dall'auto e si separarono.


Genzo, a passo rapido, quasi da marcia militare, si avviò verso l'entrata principale del Palazzo di Giustizia.

Decine di giornalisti, vedendolo arrivare, si precipitarono verso di lui.

Signor Wakabayashi, come si sente? –

Non ha paura di affrontare gli sguardi dei parenti di Andreas Schumann? –

Tornerà a giocare a calcio?

Il giovane, sopraffatto dalla tempesta verbale, abbassò la testa e tacque.

Poi, in un moto d'orgoglio, drizzò il capo e dardeggiò sui giornalisti uno sguardo fiero.

Non ho la sfera di cristallo. E ora, se non vi dispiace, devo entrare in tribunale. Odio le attese inutili. – dichiarò, conciso e fermo.

Colti di sorpresa dalla sua risposta, si allontanarono e lo lasciarono entrare.



Il giovane, all'interno della struttura, si concesse un sospiro e si passò una mano sulla fronte, umida di sudore. Era sorpreso della sua risposta.

Aveva creduto di crollare, ma era riemerso il suo orgoglio.

Il rumore frettoloso di alcuni passi attirò la sua attenzione.

Vide avanzare a passo rapido l'avvocato, che stringeva nella mano una valigia.

Buongiorno, avvocato Husserl. – lo salutò il portiere asiatico, con un breve cenno della testa.

Buongiorno, Wakabayashi. Ti ripeto la mia unica raccomandazione: la brevità. Non fornire spiegazioni non richieste. – scandì l'uomo, pacato.

Ho compreso. Non si preoccupi. – assentì il giovane.

Un mezzo sorriso sollevò le labbra dell'avvocato. Le sue speranze di un esito positivo del processo si erano rafforzate.

Genzo era intelligente e la sua collaborazione, ne era sicuro, sarebbe stata brillante.

Ma non potevano perdere tempo.

Girò le spalle e si allontanò, seguito dal giovane, che era dietro di lui.


L'aula del tribunale, a poco a poco, si riempì.

Genzo, seduto al banco degli imputati, lanciò brevi sguardi verso il pubblico.

Scorse, tra la folla, Hermann e Karl, in piedi.

Per un lungo, eterno istante i loro sguardi si incrociarono e i due giovani europei annuirono, in segno d'incoraggiamento.

Grazie di tutto..., pensò il nipponico, gli occhi lucidi di commozione. Pur essendo distanti, non lo avevano abbandonato.

Tale presenza era confortante e gli dava la motivazione per mantenere un comportamento dignitoso.

Tra il pubblico, scorse un uomo di statura piuttosto alta e di corporatura atletica, vestito d'un sobrio completo nero.

Sul suo viso, dai lineamenti duri, segnato da rughe, spiccavano gli occhi cerulei e un filo di barba bianca circondava le labbra sottili e la mascella.

Una folta chioma bianca, riccioluta, circondava il suo viso e al collo era appeso un crocifisso d'oro.

Accanto a lui, era una ragazza di media statura, con lunghi capelli biondi, raccolti in una treccia, e occhi verdi.

Indossava un abito anche esso nero, lungo fino al ginocchio, e al polso destro aveva un bracciale d'oro.

Tra le mani, stringeva una foto quadrata di un giovane uomo di venticinque anni.

I suoi occhi celesti, dal taglio allungato, fissavano decisi l'obiettivo e una lunga chioma dorata circondava il suo viso.

A poca distanza da loro, era un uomo alto e magro, calvo, vestito d'un sobrio completo celeste.

I piccoli occhi, d'un intenso color grigio, sparivano dietro le lenti degli occhiali.

Genzo sospirò e una morsa di dolore strinse il suo petto. Erano il padre di Andreas, Martin, e la sorella minore, Hilda, accompagnati dal loro avvocato.

Per pochi istanti, aveva incrociato i loro sguardi e una morsa di gelo aveva stretto il suo animo.

Irrigidì la mascella. No, non era una sua impressione.

Nei loro occhi, pieni di dolore, brillava il riflesso livido dell'odio.

E non poteva non comprenderne la motivazione, anche se dilaniava la sua anima.

Le sue mani erano rosse del sangue del loro figlio e fratello.

E, anche se fosse stato assolto, questa realtà era immutabile.

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Capitolo 6
*** Incertezze ***


Il giudice, con espressione attenta, squadrò l'intera aula.

Una morsa di gelo strinse il cuore di Genzo e il suo volto si scolorò. Quell'uomo eseguiva il suo dovere, ne era cosciente.

Eppure, la sua mente debilitata vedeva in lui un demone della vendetta, bramoso del suo dolore.

Karl, vedendo l'espressione del compagno, scosse la testa, sconfortato.

Tutti lo odiano. E lui sente il peso., pensò il centravanti tedesco. Perfino lui, che pure non era incline a perdere la calma, era preoccupato.

Eppure, il loro avvocato era calmo e tranquillo.

Come era possibile?

Una mano si posò sull'avambraccio dell'attaccante tedesco.

Come punto da una vespa, il centravanti sussultò e girò la testa.

I suoi occhi cerulei, colmi di domande, si rifletterono nelle sottili iridi castane di Hermann.

Karl, per alcuni istanti, sostenne il suo sguardo, poi, con un debole cenno del capo, annuì. No, non poteva cedere allo sconforto.

Genzo aveva bisogno della loro fermezza.



Qui, in quest'aula, oggi si celebra il processo a carico di Genzo Wakabayashi, accusato della morte di Andreas Schumann per omicidio stradale. La parola agli avvocati. – ordinò il magistrato.

Giudice Hoffmann, posso chiedere la parola? – intervenne Theodore.

Il magistrato, per alcuni istanti, tacque, pensieroso.

Concesso. – affermò.

Mi appello al principio dell'economicità del procedimento. Questo processo rischia di rivelarsi estenuante per entrambe le parti in causa. Io qui voglio procedere alla discussione delle prove. – dichiarò l'uomo, deciso.

Il silenzio calò nella sala del tribunale e, per alcuni istanti, le parole dell'avvocato parvero aleggiare nell'aria.

Avvocato Husserl, la sua è una proposta intelligente e onesta. Speriamo solo non sia una perdita di tempo. – commentò, ironico, il legale della famiglia Schumann.

Lacrime bagnarono il viso di Martinn e Hilda, con un gesto affettuoso, strinse la mano del padre.

Avvocato Heinrich Hartmann, non è mia abitudine presentare prove meno che solide a sostegno delle mie affermazioni . – rispose Theodore.

Il giudice, con decisione, picchiò due volte il martelletto sul tavolo.

Invito i due legali a cessare queste inutili schermaglie. Proceda pure, avvocato Husserl. – ordinò.


Con un gesto deciso, Theodore aprì la valigia, che conteneva diversi fogli e un portatile.

Prese alcune carte e le mostrò al pubblico.

Qui ci sono i risultati dei rilievi, delle indagini sulla vettura e i documenti dei controlli effettuati dal mio assistito. – affermò, calmo.

Fece alcuni passi e li consegnò all'avvocato Hartmann.

Questi, con sguardo attento, li visionò, poi li consegnò al giudice.

Genzo strinse le mani. Quei fogli contenevano informazioni vitali per la sua salvezza.

Eppure, non poteva fare a meno di sentirsi esaminato.

Ed era una emozione sgradevole, che gli stringeva la gola in una morsa d'acciaio.


E' vero, queste pagine mostrano una condotta di guida esemplare. Tuttavia, non bastano a scagionare il suo assistito. – commentò il giudice Hoffmann.

Ne sono consapevole. Ho qui anche i risultati delle sue analisi, poco dopo l'impatto. – replicò, pronto, l'altro legale.

Prese un altro fascicolo e lo diede al giudice, che, con sguardo attento, lo controllò.

Poi lo consegnò ad Hartmann, che lo lesse.

Sì. Le analisi sembrano negare la presenza di droga o alcool. Però, avvocato Husserl, io desidero sentire la voce di una persona esperta. Chiamo a testimoniare Andrei Ionescu. – dichiarò questi.

Il viso di Theodore rimase impassibile.

Ha qualcosa in contrario, avvocato Husserl? – domandò il magistrato.

No, signor giudice. – rispose l'interpellato, pacato.


A passo rapido e deciso, Andrei Ionescu entrò nell'aula e si sedette al banco dei testimoni.

Martin fissò il suo sguardo nelle iridi dello scacchista, che lo fronteggiò senza abbassare il capo.

Andrei Ionescu, deduco che lei non è tedesco. – cominciò.

Infatti, non sono tedesco. Sono nato in Romania, a Iasì. – rispose lo scacchista calmo.

Come mai è qui in Germania? – domandò poi l'uomo di legge.

Sono paramedico, ma la mia passione è sempre stata quella degli scacchi. Quest'anno, in Germania, c'è il Torneo dei Candidati. Desideravo parteciparci per potere sfidare i più grandi campioni di scacchi del mondo. – dichiarò lo scacchista.

Ma non ha potuto farlo, a causa di questo processo. – osservò l'uomo di legge.

Obiezione: è una domanda non pertinente. – intervenne Husserl.

Accolta. Avvocato Hartmann, si limiti a domande pertinenti. – affermò il giudice, risoluto.


A quella reprimenda, l'altro togato chinò il capo.

Chiedo venia. Desideravo solo conoscere la ragione della sua presenza qui. A quanto ne so, lei è amico di Karl Heinz Schneider, compagno di squadra dell'imputato. E questo legame potrebbe influenzare il suo giudizio. – dichiarò.

Il viso di Karl, sentendo tali affermazioni, si distorse in una maschera di collera e le sue guance s'imporporarono. Tale affermazione era odiosa e metteva in dubbio la sua onestà.

La mano di Hermann, come una tenaglia, si strinse sul suo polso.

Il giovane centravanti prese dei respiri profondi e fissò sull'amico uno sguardo lucido di gratitudine.

Il mediano accennò ad un sorriso. Perdere il controllo dei nervi non sarebbe servito a nulla.

Dovevano fidarsi del loro avvocato.


No. Non conoscevo neanche l'identità del guidatore. Solo dopo, ho saputo che era amico di Karl. – spiegò Andrei.

Heinrich guardò meravigliato lo scacchista.

Come? Non ha riconosciuto il grande campione nipponico Genzo Wakabayashi? – domandò l'avvocato, apparentemente meravigliato.

No. Anche se Schneider è mio amico, per me il calcio è uno sport noioso. Per questo, non riesco ad associare nomi e volti. – spiegò ancora.

Heinrich meditò e si accarezzò il mento.

Quindi, per lei, era un automobilista qualunque coinvolto in un tragico incidente. – dichiarò.

Sì. Come paramedico, il mio obiettivo era aumentare le possibilità di sopravvivenza di Andreas Schumann. Mi dispiace di non esserci riuscito. – affermò, amaro.

Capisco. E come ha trovato il signor Wakabayashi? Le è sembrato in stato di alterazione? – lo interrogò ancora.

Sì. Come chiunque, in una simile situazione. – affermò Andrei.

Che cosa intende? – chiese l'avvocato, aggrottando un sopracciglio.

Alterato per l'ansia e la paura. – affermò lo scacchista rumeno, calmo.

Non potrebbe avere assunto droghe? – lo interrogò ancora l'avvocato.

No, lo escludo categoricamente. – dichiarò Andrei.

Hartmann alzò un sopracciglio in segno di perplessità.

Ci spieghi perché. – lo invitò.

Era angosciato, ma si rendeva conto della situazione. Ha chiesto ai presenti di chiamare l'ambulanza e la polizia e ha avuto l'intenzione di effettuare il massaggio cardiaco. Come paramedico, le posso dire che i tossicodipendenti e le persone in stato di ubriachezza non hanno la lucidità mentale che lui ha mostrato. Anzi, non hanno proprio lucidità. – rispose ancora Andrei.

Tutto bene. Ma come ha potuto pensare di fare un massaggio cardiaco con il braccio rotto? Con una frattura, non si può muovere il braccio. – ribatté il legale.

Lo sguardo dello scacchista rimase imperscrutabile.

Adrenalina. Quando l'organismo è in forte stato di stress, anche grazie a questo ormone, avviene quello che si può definire un vero terremoto. E la soglia del dolore si alza. Ci sono stati casi di sportivi che hanno terminato le gare con lesioni gravi. – affermò.

Il legale, per alcuni istanti, rimase immobile e si accarezzò il viso.

Non ho altre domande, giudice. – dichiarò l'avvocato.

Andrei si alzò, salutò con un cenno breve della testa e si allontanò.


Genzo si strinse le tempie, trapassate da fitte di dolore e sbatté le palpebre.

Che male..., pensò. Gli sembrava di avere la testa stretta da una morsa e la sua vista, per alcuni istanti, si annebbiò.

Hermann e Karl sbarrarono gli occhi, sgomenti. Il pallore sul viso del loro compagno di squadra era diventato livido, quasi cadaverico!

Sarebbe stato crudele proseguire la seduta con il loro compagno in quelle condizioni.

Il giudice aggrottò il sopracciglio, poi batté il martelletto.

La seduta è sospesa. Riprenderà tra quaranta minuti. – ordinò.

Poco dopo, le persone sciamarono fuori e l'aula si svuotò.

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Capitolo 7
*** Si rompono le catene? ***


Genzo, con fatica, percorse circa cento metri e si appoggiò al muro. La pausa era benedetta.
Ma non poteva cullarsi troppo.
Era una temporanea dilazione alla sua agonia.
Karl ed Hermann, solleciti, lo raggiunsero e lo aiutarono a sedersi su una sedia.
­— Che cosa ti è successo? Eri pallido come un lenzuolo. — chiese Hermann.
L'asiatico tacque e, per alcuni istanti, rimase immobile, la testa china e le mani abbandonate in grembo.
Non lo so. Posso solo dirvi che sentivo una feroce emicrania. Senza questa pausa, sarei crollato svenuto e non sarebbe andato bene. — confessò.
Karl strinse le labbra, preoccupato, poi appoggiò la mano sulla fronte di Genzo.
Non hai febbre, stai tranquillo. Vuoi una compressa per il mal di testa? —chiese.
Ne abbiamo tante. Ieri, ho fatto rifornimento. Non si può mai sapere. —intervenne Hermann.
Genzo sollevò le labbra in un tenue sorriso, poi scosse la testa in segno di diniego.
No, ragazzi. In questo momento, ho bisogno di tutta la mia residua lucidità. Avrò tempo di prendere farmaci, quando questa storia finirà. — provò a scherzare.
La sua risata artefatta, ben presto, si spense in un debole singhiozzo.
I due giocatori europei si sedettero accanto a lui, Karl a destra, Hermann a sinistra.
Sapete, invidio il padre e la sorella di Andreas Schumann... —confessò.
I due tedeschi, sentendo tali parole, sbarrarono gli occhi.
Che cosa stai dicendo? — esclamò Hermann, stupito.
Loro possono mostrarsi come una famiglia, senza alcuna vergogna. Per me, questo non è possibile. E questo mi pesa tantissimo, anche se non mi pento della scelta che ho fatto. E devo chiedere scusa anche a voi per quanto avete sopportato a causa mia. — si scusò.
Smettila di scusarti per le cazzate! — ringhiò Hermann, piccato.
Genzo girò la testa e lo guardò, stupito.
Ci conosciamo da parecchio tempo, Genzo. E tu non hai l'abitudine di fare il coglione sulle strade. Un amico innocente si difende. Sempre. — affermò il mediano teutonico, risoluto.
Con un cenno della testa, Karl annuì.

Diverso tempo dopo, l'aula si riempì.
Il giudice, con sguardo attento, scrutò i presenti e il suo sguardo si focalizzò ora su Genzo, ora su Martinn e Hilda.
Spero che questa pausa sia servita a tutti. Come si sente, signor Wakabayashi? — domandò.
Sto bene. — rispose, laconico, il giovane.
Poi, il magistrato volse la sua attenzione verso Hilda e Martinn.
Voi? Come state? — chiese.
Stiamo bene. Questa pausa ci è stata utile. — confermò Hilda.
Un mezzo sorriso sollevò le labbra di Hoffman, poi le sue labbra si distesero in una linea seria.
L'udienza riprende. — scandì.

Signor giudice, voglio chiamare a testimoniare anche Julius Lehmann. Era uno dei barellieri che ha soccorso il mio assistito in quella terribile giornata. ‒ affermò Theodore.
Concesso. Fate entrare Julius Lehmann. ‒ ordinò Hoffmann.
Diverso tempo dopo, un uomo alto e magro, con corti capelli biondi e occhi castani, vestito con una giacca nera e pantaloni neri.
Si sedette al banco dei testimoni e attese.
Benvenuto, signor Lehman. Da quanto tempo lavora sulle ambulanze come barelliere? ‒ chiese l'avvocato.
Dieci anni, avvocato. ‒rispose questo.
Il legale, per alcuni istanti, annuì e parve meditare.
Quindi, può dire a questa corte se il mio assistito era sotto effetto di droghe, in quella tragica giornata? Lei e i suoi colleghi lo avete visto molto da vicino. ‒ affermò.
Certo. I miei colleghi non sono potuti venire qui, a causa di problemi personali piuttosto seri, ma io per loro posso affermare che il signor Wakabayashi non era sotto effetto di droghe. ‒ spiegò il barelliere.
Perché? Non tutte le sostanze sono uguali. ‒ affermò ancora l'avvocato.
Escluderei l'eroina, perché è un sedativo e restringe le pupille. Il signor Wakabayashi, invece, aveva le pupille dilatate ed era fin troppo agitato, prima di svenire. ‒ spiegò Julius.
Il legale fece tre passi avanti e tre passi indietro, poi si fermò e fissò il suo sguardo in quello del barelliere.
Non può essere stata la cocaina? ‒ chiese.
Un mormorio perplesso si levò dal pubblico, come il ronzio di uno sciame di api in avvicinamento.
Hoffmann, con decisione, batté il martelletto.
Silenzio! ‒ ordinò.
Qualche istante dopo, il brusio cessò e il silenzio ritornò.
Prosegua pure, signor Lehman. ‒

No, lo escludo. Non aveva tracce da assunzione di sostanze. Non aveva segni di puntura sulle braccia, i seni paranasali erano intatti e così il palato. Inoltre, la sua temperatura non era esageratamente elevata e l'ipertermia è un sintomo del consumo di cocaina, specialmente continuato nel tempo. Inoltre, era disperato. Se non fosse svenuto, credo avremo dovuto sedarlo per poterlo stabilizzare. ‒ spiegò il barelliere.
Cosa intende? ‒ chiese Theodore.
I suoi occhi erano disperati e preoccupati per quello che era accaduto. E le posso dire che un tossicodipendente non ha quell'angoscia consapevole nello sguardo. Il suo solo pensiero è la droga. ‒ concluse Julius.
Theodore, con un cenno della testa, annuì.
Capisco. Può andare. ‒


Avvocato Husserl, ci ha detto che lei è in possesso di un filmato che prova l'innocenza del suo assistito. Può mostrarlo alla corte? ‒ chiese Hoffmann.
Certo, signor giudice. Datemi alcuni minuti. ‒ annuì Theodore.
Accese il pc, armeggiò un poco col cd e, poco dopo, davanti agli occhi dei convenuti, si spiegò il resoconto dell'incidente.

Brividi di gelo scossero Hermann. Il suo compagno aveva rischiato la vita, eppure non aveva esitato a pensare a salvare uno sconosciuto.
Non si era curato delle sue ferite.
Il dolore, per quanto forte, non l'aveva fermato.
Il corpo di Karl, invece, tremò di rabbia. Quel video era più chiaro di tante, troppe parole.
Avevano visto Genzo uscire dall'auto, ferito, insanguinato, incurante della sua salvezza.
Accennò ad un sorriso. Pur di salvare quel giovane, aveva risposto male ad Andrei, che lo aveva fermato.
La sua generosità, in quel momento, aveva sopravanzato il suo buonsenso e la calma razionalità di Andrei gli aveva permesso di accettare la realtà.
Quella registrazione era la prova dell'innocenza di Genzo.
Con la visione di una simile testimonianza, non potevano condannarlo.

Molto bene. La Corte ora si ritira per deliberare. ‒ annunciò il giudice.
Karl ed Hermann tremarono, mentre il volto di Genzo si scolorò. Il momento della verità era giunto.
Presto, si sarebbero liberati dal peso di una simile angoscia.

Diverso tempo dopo, il giudice, accompagnato dai giurati, ritornò.
Si sedette e il suo sguardo scrutò i presenti.
Questi rimasero silenziosi, come i seguaci di un predicatore in attesa di un sermone.
Questa corte ha raggiunto un verdetto. ─ annunciò Hoffmann.
Viste le prove e ascoltati i testimoni, io assolvo l'imputato Genzo Wakabayashi dall'accusa di omicidio stradale. La sua condotta di guida è sempre stata corretta e prudente e non ha mai fatto uso di sostanze stupefacenti. La manutenzione dell'automobile è risultata impeccabile. Ha cercato di evitare la collisione con la moto guidata dalla vittima e, non riuscendoci, nonostante le sue condizioni di salute precarie, ha tentato di soccorrerlo. ─ proseguì.
Batté il martelletto, poi si rialzò.
Così è deciso, l'udienza è tolta. ─

A fatica, il giovane portiere si alzò dal suo posto. Era stato assolto.
Eppure, perché non era felice?
Si avvicinò all'avvocato e, con un gesto quasi meccanico, gli strinse la mano.
Le devo tantissimo... ─ cominciò.
Il legale, deciso, scosse la testa.
Tu non mi devi nulla. I tuoi compagni hanno pensato a tutto. Se non giocassero a calcio, sarebbero ottimi uomini di legge. ─ ironizzò.
Genzo, per alcuni istanti, tacque, poi si allontanò, tenendo sollevata la mano in segno di saluto.

Karl ed Hermann, raggianti, gli si avvicinarono.
Che cosa ti avevo detto? Il processo non sarebbe durato a lungo. ─ gli disse il Kaiser.
Il portiere fissò su di loro uno sguardo lucido di gratitudine. Con loro, aveva un debito incolmabile.
Non lo avevano abbandonato, nonostante l'indole solitaria.
Ad un tratto, colto da una vertigine, barcollò.
Hermann, pronto, allungò la mano e la strinse sul suo braccio.
Karl lanciò sguardi attenti ora a destra, ora a sinistra. Troppe persone fissavano su tutti e tre sguardi non proprio amichevoli.
E non era un buon segnale.
Andiamo. Abbiamo bisogno tutti e tre di riposo. ─ dichiarò.
Senza alcuna parola, i tre uscirono dalla sala del tribunale.

P.S.: doveva uscire ieri, ma ho avuto un piccolo problema di salute (in pratica, mi sono abbassata per cercare un libro e mi sono alzata di scatto. Mai l'avessi fatto! Giramenti di testa per tutta la sera)
Il processo si è concluso. Come vi è parso?
Io non ho cultura giuridica tedesca, ho cercato di essere quantomeno plausibile. Se ho mischiato giurisprudenza italiana e statunitense (troppi thriller) fatemelo sapere.

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Capitolo 8
*** Quiete prima della tempesta ***


La luce sanguigna della luna, a fatica, filtrava tra i rami secchi degli alberi, creando sul terreno effimeri e contorti disegni, simili a creature mostruose.
Di tanto in tanto, lugubri arpie si alzavano in volo, riempiendo l'aria di sinistri frullii.
Genzo avanzava, il cuore palpitante contro le costole e il volto umido di gelido sudore. Gli sembrava di camminare da tempo in quel bosco privo di vita e greve di spettri.
Cosa ne era stato dei suoi compagni? Perché non li vedeva più?
Come aveva potuto perdere il senso dell'orientamento?
Il respiro del giovane accelerò, mentre il cuore martellò le costole, quasi volesse romperle. Doveva trovare i suoi compagni.
Ma dove erano?
Ad un tratto, un raggio di luna, crudele, illuminò alcuni alberi.
Genzo, inorridito, arretrò e il suo volto si scolorò.
I corpi dei suoi compagni, appesi ai rami degli alberi, ondeggiavano, straziati da ampie ferite.
Mosse le labbra, ma da esse sgorgò un gemito sottile, simile al lamento di un animale impaurito.
I suoi amici erano morti.
E lui non riusciva a spiegarsene la ragione.

A passo lento, innaturalmente calmo, uscì una figura umana di alta statura.
Un raggio livido di luna la colpì, rivelando il volto di un giovane uomo, dilaniato da gravi lesioni.
Rade ciocche di capelli biondi, sporchi di terra, coprivano la sua testa e un ampio squarcio si apriva sulla sommità del cranio, scoprendo il biancore dell'osso.
L'occhio destro, scomparso, rivelava l'orbita vuota, mentre dal sinistro, d'un verde spento, sgorgavano lacrime vermiglie.
Le guance, prive di pelle, rivelavano il biancore dello scheletro e la sua bocca era contorta in un ghigno beffardo.
Gli abiti, ridotti a brandelli insanguinati, scoprivano il corpo magro, nero di ecchimosi.
Genzo ansimò. Quello era Andreas Schumann.
Quale forza l'aveva trasformato in un orrido simulacro di vita?
Quale legame c'era tra lui e i suoi compagni morti?

Con passo lento, barcollante, Andreas avanzò.
Genzo provò ad arretrare, ma le sue gambe rimasero bloccate, come fossero congelate.
− Li hai uccisi tu... Li hai uccisi tu... Li hai uccisi tu... − ripeté, la voce flebile.
Genzo ansimò, sempre più angosciato. Lui era l'assassino dei suoi amici...
Ne era sicuro, Andreas, come uno spirito vendicativo, aveva ucciso le persone a lui care.
Voleva restituirgli il dolore da lui patito.
Un conato di nausea colpì Genzo allo stomaco, come un forte pugno. Sul suo volto, sentiva le mani scheletriche di Andreas...
Quel tocco era nauseabondo, ma non riusciva a sottrarvisi.
Le mani, leggere, scesero sul collo del portiere, poi si insinuarono sul petto.
− Li hai uccisi tu... Ed è giunta ora di pagare... −
mormorò ancora Andreas.
Un dolore atroce, repentino, lacerò il petto di Genzo. Il sangue, d'impeto, schizzò.
Abbassò la testa e vide le mani scheletriche di Andreas immerse nel suo petto.
Senza alcun lamento, si piegò sulle ginocchia e le palpebre si abbassarono. Finalmente, era finita.
Il cerchio della sofferenza era chiuso.



Con un grido soffocato, Genzo sbarrò gli occhi e si alzò a sedere sul letto. Di nuovo, sogni dolorosi avevano popolato il suo sonno.
Eppure, erano trascorse due settimane da quel terribile processo.
La fine di quel procedimento legale non aveva portato alla cessazione delle malignità e delle infamie.
Tanti, troppi media descrivevano la sua figura con tinte fosche e crudeli.
Finirò per impazzire..., si disse, lo sguardo fisso nel vuoto.
Si alzò dal letto e, a grandi passi, attraversò la stanza. Presto, avrebbe potuto ritornare a giocare a calcio.
Forse, sul rettangolo verde, avrebbe recuperato la serenità perduta.
Sì, ne era sicuro, il calcio gli avrebbe dato la possibilità di rinascere.
Eppure, perché quel senso di amarezza non scompariva?

Si avvicinò alla libreria e, con attenzione, guardò i libri ordinatamente posti.
Prese Guerra e Pace e, per alcuni istanti, se lo rigirò tra le mani. Ne era sicuro, non avrebbe dormito.
Il sonno faceva riemergere i rimorsi, a stento contenuti dalla sua forza di volontà, durante la giornata.
Deboli singhiozzi sollevarono il suo petto e le lacrime tremarono sulle sue ciglia. Era giusta la sua sopravvivenza?
Andreas Schumann era d'animo nobile e si impegnava per diventare un medico, capace di curare le malattie infantili.
Eppure, una simile persona giaceva in una bara fredda, mentre lui, Genzo Wakabayashi, era vivo.
Presto, avrebbe ricominciato a giocare.
Con uno sforzo supremo, allontanò i pensieri, aprì il libro e cominciò a leggerlo. Doveva sforzarsi di non pensare.
E i libri, in parte, gli donavano quiete, seppur per poco.


Due mani, forti e decise, si posarono sulle sue spalle.
Genzo, sentendo quel tocco, sussultò e si irrigidì.
Le sue mani tremarono e il libro cadde sul pavimento con un tonfo.
Poi, il giovane si girò e i suoi occhi neri si rifletterono nelle iridi cerulee di Karl.
‒ Che cosa è successo? Ti ho svegliato? ‒ chiese il portiere nipponico.
Un mezzo sorriso sollevò le labbra del giocatore tedesco.
‒ E tu che volevi tornare a casa tua... No, almeno finché resti in Germania, è meglio che rimani qui. ‒ dichiarò, deciso.
Genzo rimase immobile e, per alcuni istanti, tacque.
‒ Ti ho disturbato? So che domani hai una partita importante e dovresti riposare. ‒ mormorò.
Il teutonico, a quelle parole, sbuffò.
‒ Genzo, non dire idiozie. Non mi sveglio certo perché tu hai acceso la luce per leggere. Sai che ho il sonno molto pesante. ‒ dichiarò.
Il portiere asiatico si girò e guardò fisso il compagno.
‒ E allora cosa è successo? Perché sei sveglio? ‒ chiese.
Karl, per alcuni istanti, esitò, indeciso.
‒ Mi dispiace per la famiglia Schumann. I media non li lasciano in pace, pur di vendere qualche copia in più. Vorrei potere fare qualcosa per loro, ma ho paura di essere visto come inopportuno, nel migliore dei casi. ‒ mormorò, quasi in tono di scuse.
Il calciatore orientale sollevò le labbra in un tenue sorriso e gli occhi si velarono di lacrime. Karl provava compassione per la sventurata famiglia di Andreas Schumann.
Però, tale encomiabile sentimento gli sembrava offensivo verso il loro legame.
‒ Se è per questo, stai tranquillo. Solo un cuore di pietra non proverebbe compassione per le loro sofferenze. E tu non lo sei di sicuro. ‒ lo rassicurò.
Karl scosse la testa, inquieto. Il suo compagno aveva cercato di rassicurarlo.
Ma il suo volto non era sereno e questo gli colpiva il cuore con fitte di dispiacere.
Tanta pena era ingiusta, perché Genzo non era colpevole della morte di quel giovane.
Come poteva aiutarlo a distrarsi, seppur per poco?

‒ Voglio vedere un film. Te la senti di farmi compagnia? ‒ chiese.
Genzo si scosse dai suoi pensieri e gli lanciò uno sguardo perplesso.
Poi, comprese e annuì.
‒ Puoi scegliere tu? Hai dei gusti migliori dei miei. ‒ chiese.
‒ Nessun problema. Però dammi un'indicazione generale. Così, trascorriamo un'ora e mezza piacevole, se non ci addormentiamo prima. ‒ affermò Karl.
Il portiere asiatico, per alcuni istanti, rifletté.
‒ Un film wester con Clint Eastwood. ‒ rispose.
‒ D'accordo. Vada per i western. Vieni in camera mia. Lì, ho quello che ci serve. ‒ acconsentì.
Genzo acconsentì e lo seguì.

Pochi minuti dopo, i due giovani si fermarono davanti alla porta della stanza di Karl.
Il giocatore europeo spalancò l'uscio, entrò e accese la luce.
‒ Entra, non stare sulla porta. ‒ gli disse.
Genzo, senza alcuna parola, obbedì.
L'ambiente, di forma rettangolare, era di dimensioni piuttosto ampie e le pareti erano tinte d'un blu intenso.
Il pavimento era ricoperto da un tappeto verde scuro e al soffitto era appesa una lampada, composta da cinque globi, grossi come palloni da calcio.
Alla parete di destra, era appoggiato un letto e, sopra questo, c'era una finestra di forma quadrata, coperta da tende, anche esse blu e, a poca distanza, era un porta dvd ligneo, colmo di CD.
Alla parete opposta, era appoggiata una scrivania e, a poca distanza, c'era un mobile porta tv, anche esso ligneo, su cui erano posati una televisione e un lettore DVD.
A destra della scrivania, era una libreria ricolma di volumi e, a sinistra del letto, era presente un armadio chiuso.
‒ Stenditi sul letto. C'è spazio per entrambi. ‒ disse il campione tedesco.
Sorpreso, il nipponico sbarrò gli occhi. Un po' di ritrosia stringeva il suo cuore...
Gli pareva strano un contatto così stretto.
Poi, scosse la testa. Di che cosa si preoccupava?
Cauto, quasi temesse di scottarsi, si distese sul letto e attese.

Karl gli sorrise, poi si avvicinò al porta dvd, lo aprì e controllò i DVD.
Prese un disco e, per alcuni istanti, si affaccendò attorno alla televisione e al lettore.
Qualche istante dopo, la stanza si riempì delle note di Ennio Morricone e, sullo schermo, apparvero i titoli di testa di Per qualche dollaro in più.
‒ Spero ti faccia piacere. Oggi, serata Sergio Leone. Per fortuna, sono doppiati. ‒ affermò Karl, un tenue sorriso sulle labbra.
‒ Va bene. Grazie. ‒ rispose il portiere asiatico.
Il tedesco gli si stese accanto e cominciarono a vedere il film.

P.S: in questo capitolo, vediamo gli incubi di cui soffre Genzo, ma ancora la situazione è calma.
Scopriamo inoltre che il Kaiser è cinefilo, oltre ad essere un appassionato lettore. (abbiamo visto che, mentre era dall'avvocato, per passare il tempo, si è messo a leggere Addio alle armi)
No, non c'è yaoi in questa scena. Ho pensato a due fratelli stesi sullo stesso letto a vedere un film. Anche se chi ama questa coppia può vederla come vuole.
Avevo pensato di mettere i due che si addormentavano insieme, ma ho cambiato idea, perché mi sembrava eccessivamente melensa. Che ne pensate?



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Capitolo 9
*** Un ritorno problematico ***


L'aereo si dirigeva verso Stoccarda, lasciando dietro di sé una coda di condensa.
Genzo, seduto vicino al finestrino, fissava il cielo. Quattro lunghi, terribili mesi erano trascorsi da quell'incidente.
Poteva riprendere a giocare a calcio.
Eppure, non era completamente sereno.
Il suo corpo era tornato in piena efficienza?
Non devo pensarci. Il mio unico pensiero deve essere la partita., si disse. Era uscito da un infortunio e doveva affrontare lo Stoccarda in una importante competizione.
I suoi pensieri e le sue energie dovevano focalizzarsi sui loro avversari.
Eppure, perché quel senso d'angoscia non si allontanava?
Con un sospiro, aprì la borsa prese Guerra e pace e lo aprì.

‒ Non fingere di leggere! Anche un cieco capisce che in questo momento hai la testa da tutt'altra parte! ‒esclamò Hermann.
Karl si tolse le cuffie dalle orecchie e lanciò al compagno uno sguardo perplesso.
Poi, guardò gli altri giocatori, che abbassarono lo sguardo, imbarazzati.
Hermann ringhiò e scosse la testa.
‒ Karl, scendi sul pianeta Terra! Non ti sei accorto che il nostro collega è distratto? ‒ domandò il mediano.
‒ Ti sembra il caso di urlarlo così? Hai la discrezione di un elefante in una cristalleria. ‒ obiettò il centravanti.
Genzo sospirò e abbandonò le mani in grembo.
‒ Non fa niente. Non si può negare la realtà. ‒ dichiarò.
Con gesti delicati, cominciò a sfiorare la copertina del libro, come un padrone affettuoso accarezza un gatto.
‒ Che cosa ti succede? Non sei felice di ricominciare a giocare? ‒ chiese, lo sguardo crucciato.
Il portiere, per alcuni istanti, rimase silenzioso. Cosa avrebbe potuto dire ai suoi compagni?
Non voleva preoccuparli con la sua angoscia, di cui non capiva l'origine.
O forse non voleva capire?

‒ Voglio essere sincero con voi: ho paura. Ho paura di non essere al massimo della forma e di danneggiare la squadra. ‒ confessò. Non voleva gravare su di loro un ulteriore peso.
Tuttavia, poteva svelare una parte della verità.
I due tedeschi corrugarono la fronte, perplessi. Non erano del tutto convinti delle sue parole, ma non desideravano forzarlo.
‒ Tutto qui? Non farti problemi che non esistono. ‒ affermò Karl.
‒ Ti ricordo che è una partita importante. ‒ replicò Genzo.
‒ E' vero, ma non possiamo pretendere la luna da te. Ti sei appena ripreso. ‒ esclamò Hermann.
‒ Ti sei dato alla filosofia? ‒ domandò il centravanti, un sorriso ironico sulle labbra sottili.
‒ No, ho detto solo la verità. E non servono i libri per dire cose così scontate. ‒ replicò il mediano, sarcastico.
Un mezzo sorriso sollevò le labbra dell'asiatico.

Diverso tempo dopo, l'aereo atterrò all'aereoporto Manfred Rommell.
Le porte si aprirono e i giocatori sciamarono all'esterno.
Le nuvole, ad un tratto, coprirono il cielo e, qualche istante dopo, la pioggia cadde, impetuosa, sull'intera struttura.
‒ Fantastico, abbiamo portato la pioggia qui? ‒ esclamò Hermann, irritato.
‒ Non perdiamo tempo e andiamo a recuperare i nostri bagagli. ‒ dichiarò Karl.

Il pullman, diverso tempo dopo, uscì dall'aereoporto e si diresse verso l'hotel Royal.
Genzo, a differenza dei suoi compagni di squadra, che ridevano e scherzavano, leggeva. Era riuscito a recuperare un po' di concentrazione.
Karl ed Hermann, con le loro rassicurazioni, lo avevano liberato di una parte del peso che, da tanto, troppo tempo, opprimeva il suo cuore.
Gli chiedevano il suo solito, forte impegno nella competizione.
E non gli pareva una impresa impossibile.

‒ Porca puttana, ma non hanno altro da fare? ‒ imprecò Hermann.
Tutti interruppero le loro attività e guardarono diritto.
Attorno all'albergo, si erano radunate decine di persone di ogni età, sesso e ceto sociale.
Nelle mani, stringevano dei grandi cartelli, su cui risaltavano, in carattere nero, scritte quali “Morte al mostro asiatico”, “Fuori i complici del mostro”, “Stoccarda non è una galera a cielo aperto”, “Giustizia per un figlio della Germania”.
Un lungo brivido attraversò la schiena di Genzo e le sue mani tremarono. Quelle persone erano lì per lui.
Contestavano la sua presenza.
Vedevano in lui un mostro.
Si strinse la testa tra le mani. Il suo errore stava coinvolgendo i suoi compagni di squadra.
Su di loro, come massi, cadevano accuse crudeli.

Con un gesto deciso, Karl si alzò e, a passo rapido e deciso, si avvicinò al conducente.
‒ Che cosa c'è? ‒ chiese quest'ultimo.
‒ Puoi aspettare qualche minuto? Devo fare una cosa. ‒ gli domandò.
Con un cenno della testa, l'uomo annuì.
Il giovane, poi, si girò verso i suoi compagni di squadra e li guardò.
‒ Cosa vuoi fare, Karl? ‒ chiese Hermann, stupito.
‒ Mi sembra ovvio: chiamare la polizia. Qui rischia di andare di mezzo l'incolumità di tutti noi. ‒ rispose il Kaiser, fermo.
Prese il cellulare e compose il numero della polizia.

Diverso tempo dopo, i ragazzi tornarono in albergo.
Salirono sugli ascensori e, a passo rapido, si diressero verso le loro stanze.
‒ Per fortuna, si è concluso tutto bene. Hai avuto fegato, Karl. ‒ si complimentò Hermann.
‒ Niente di così difficile, Hermann. Ma possiamo essere sicuri che continui così? ‒ si domandò il giovane centravanti.
Un brivido sgradevole percorse la schiena di Genzo. Le parole del compagno erano veritiere, per quanto dolorose.
I suoi compagni, per una sua colpa, avevano corso rischi elevati.
E non era giusto.

Vedendo l'espressione malinconica dell'asiatico, lo sguardo di Karl si addolcì.
‒ Non sentirti in colpa. Tu non hai potere sul cervello degli stupidi. ‒ dichiarò il giocatore tedesco.
‒ Perché? Hanno un cervello? ‒ intervenne Hermann.
Karl ridacchiò, mentre sulle labbra dell'asiatico si sollevarono in un debole sorriso. Per pochi, dolci istanti gli era parso che quell'orribile disgrazia non fosse accaduta.
Ed era una sensazione meravigliosa, che non avvertiva da tanto, troppo tempo.
Tuttavia, una domanda angosciante non svaniva dalla sua mente.
Cosa sarebbe successo?
‒ Andiamo a disfare le valigie. Non dobbiamo fare tardi agli allenamenti. ‒ dichiarò poi Karl.
I tre giovani si separarono e raggiunsero le loro stanze.

Alla sera, provati dalla stanchezza, ritornarono nell'albergo.
‒ Finalmente, è finita. Non me ne volete, ma vado a dormire. La mia stanza mi attende. ‒ dichiarò Hermann.
‒ Buonanotte. ‒ lo salutò Genzo.
‒ Vedi di metterti del ghiaccio sul ginocchio. Ce l'hai gonfio, dopo quel contrasto. ‒ dichiarò Karl.
Un mezzo sorriso sorriso sollevò le labbra del mediano.
‒ Come desidera, dottore. ‒ dichiarò, ironico.
Poi, si diresse verso la sua stanza.

Poco dopo, Genzo e Karl entrarono nella loro camera.
L'ambiente, di dimensioni assai ampie e di forma rettangolare, era illuminata dalla luce di una lampada a neon rotonda, appesa al soffitto.
Alla parete lunga di sinistra erano addossati i letti e, sul pavimento, coperto da una moquette a scacchi bianchi e verdi, erano poggiate le valigie semiaperte dei due giovani.
Davanti al letto, era collocata una scrivania, ingombra di libri, e una finestra, coperta da una tenda bianca, si apriva sulla parete di destra.
Sulla scrivania, era collocato un televisore, incastrato in un supporto nero, mentre, a poca distanza dalla scrivania, era una porta, su cui era collocata una targhetta con la scritta “BAGNO”.
Con un sospiro, Genzo si lasciò cadere sul suo letto, le braccia aperte come un crocifisso e lo sguardo fisso sul soffitto.
‒ Ti senti bene? ‒ domandò il tedesco, perplesso.
‒ Vengo da un lungo periodo di inattività, te lo sei dimenticato? ‒ replicò il giapponese.
Per alcuni istanti tacque e rifletté. Prepotente, era ritornata la preoccupazione.
Karl, senza alcuna esitazione, aveva denunciato le persone che si erano radunate davanti al loro albergo, con quei cartelli minacciosi.
E questo atto crudele non era stato gradito.
Quali potevano essere le conseguenze?
‒ Hai avuto coraggio a denunciarli. ‒ mormorò, ad un tratto.
Il giovane centravanti teutonico, che stava controllando la sua valigia, alzò la testa. Come aveva immaginato, la stanchezza del suo compagno non era solo fisica, ma morale.
‒ Ho fatto quello che dovevo. Niente di più, niente di meno. ‒ si limitò a rispondere, tranquillo.
Poi, il suo sguardo si addolcì.
‒ Non pensiamoci più. Piuttosto, ti va di vedere un film con me e di farmi compagnia? Ho portato il mio computer. Non mi fido della televisione dell'albergo. ‒ dichiarò.
‒ Va bene. Ma non ti stupire se mi addormento presto. ‒ annuì.
Si alzò dal letto ed entrò nel bagno, mentre Karl cominciò a cercare il suo computer.

Ciao a tutti.
Sono ritornata dopo una settimana complicata (sono andata a Milano a trovare mio fratello, ho preso una simpatica tosse allergica, il mio pc è andato) e sono tornata con questo capitolo. Ho fatto un po' di fatica, spero vi piaccia.
Sto cercando di dare a Kaltz un linguaggio meno forbito. Cosa ne pensate?



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Capitolo 10
*** Disastro annunciato ***


Nello spogliatoio dell'Amburgo, i giocatori si preparavano, discutevano tra loro, riempiendo l'ambiente di vari accenti.
Genzo infilò i suoi guanti e, cauto, provò ora a stringere le dita a pugno, ora ad allargarle.
La mano è in buono stato. Non sento nessun dolore., pensò. La riabilitazione aveva dato ottimi risultati.
Non avrebbe perduto la funzionalità dell'arto.
Scosse la testa e strinse le labbra. Doveva concentrarsi sulla partita.
La squadra contava sulla sua esperienza di portiere.
Poco dopo, il tonfo della porta che si apriva interruppe il vocio e il silenzio calò nello spogliatoio..
L'allenatore, a passo di carica, entrò , con in mano un taccuino e, coon voce forte e decisa, iniziò a scandire i nomi dei titolari.
‒ Wakabayashi! ‒ concluse.
‒ Eccomi. ‒ rispose l'asiatico, apparentemente pacato.
L'uomo gli lanciò uno sguardo indagatore, quasi volesse leggergli nell'anima, poi, con un gesto calmo, gli appoggiò una mano sulla spalla.
‒ Cerca di non badare agli idioti. ‒ lo incoraggiò.
Anche oggi ricominciano quei cori..., pensò il portiere, sconfortato. L'allenatore aveva pensato di incoraggiarlo con quelle parole, ma gli aveva ricordato la realtà.
L'incubo non era terminato.
Non aveva pagato abbastanza per la morte di Andreas Schumann?
Fissò i suoi occhi in quelli del tecnico e accennò ad un sorriso.
‒ Farò del mio meglio. ‒

Qualche minuto dopo, i giocatori di entrambe le squadre uscirono dagli spogliatoio ed entrarono in campo.
I tifosi, quasi fossero un unico organismo, cominciarono a battere i piedi, accompagnando il rumore con epiteti coloriti.
― Feccia! ―
― La galera, non il campo da gioco! ―
― Assassino! ―
― Hai comprato la sentenza! ―
― Vigliacchi! ―
― Complici! ―
― Criminali! ―

Alcuni, in segno di disapprovazione, si passavano la mano destra sul collo, imitando il gesto di un macellaio che sgozza un maiale, altri , con smorfie teatrali, imitavano le pose e le espressioni degli impiccati.
Genzo, apparentemente incurante, proseguiva. Non doveva dare ascolto a quelle grida così crudeli.
La sua mente era concentrata sulla competizione.
Doveva dimostrarsi ben più forte di loro.
Eppure, perché il suo cuore continuava a sanguinare?


Poco dopo, le squadre si disposero nelle rispettive metà campo.
L'arbitro fischiò e lo Stoccarda batté il calcio d'inizio.

Genzo, dopo avere dato ordini alla difesa dell'Amburgo, piegò le gambe e lanciò sguardi ora a destra, ora a sinistra. Tutto sembrava stesse andando bene.
Le urla sprezzanti del pubblico non avevano danneggiato nessuno e i suoi compagni giocavano senza alcun timore.
Lui non poteva dimostrarsi indegno degli sforzi dell'Amburgo.
Un attaccante dello Stoccarda, giunto davanti alla porta, caricò un diagonale destro.
Genzo, fulmineo, si lanciò verso destra.
Allungò le braccia e le sue mani, decise, si chiusero sulla palla.
Piegò le gambe e atterrò in piedi, quasi serrando la sfera contro il petto. Ci era riuscito.
Non aveva perduto le sue capacità, nonostante il lungo riposo forzato.
Senza ulteriori esitazione, calciò il pallone con la gamba sinistra.

La sfera descrisse un lungo arco nell'aria, poi cadde a qualche metro distanza dal centrocampo.
Karl, che era appostato, come un predatore in attesa della preda, saltò e stoppò la palla di petto.
Poi, rapido, scattò verso l'area dello Stoccarda, seguito da Hermann Kaltz e Schmidt.
Un difensore avversario gli corse incontro, ma il capitano dell'Amburgo si liberò della sfera e la passò a Hermann.
Questi, a sua volta, la passò a Schmidt, che la lanciò a Karl.

Reinahrt Bauer, vedendo l'avanzata del capitano avversario, allargò le gambe e le braccia, il corpo pronto a scattare. Si compiaceva della grinta dei giocatori dell'Amburgo.
Karl e i suoi compagni si mostravano ben degni del loro ruolo.
E anche Genzo Wakabayashi, nonostante il tragico incidente, faceva onore alla sua abilità.
Sorrise e un lampo compiaciuto balenò nei suoi occhi. La partita, contro ogni sua previsione, si stava rivelando complicata.
Ed era giusto così.
Avversari capaci e battaglieri rinvigorivano il suo orgoglio sportivo.

Giunto al limite dell'area avversaria, Karl sollevò la gamba destra, pronto a calciare a rete.
Ad un tratto, diverse pietre cominciarono a piovere sul campo da gioco, accompagnate da insulti assai coloriti.
Colti dal panico, i giocatori cercarono di evitare i sassi.
Una pietra, implacabile, colpì il centravanti dell'Amburgo alla tempia destra.
Fulminato dal dolore, il giovane s'arrestò.
Barcollò, poi, sopraffatto, stramazzò sul terreno, mentre un rivolo di sangue rigava la sua tempia destra.
Reinhart, stupefatto, lanciò sguardi rapidi ora a destra, ora a sinistra. Non riusciva a credere a quello che vedeva...
Perché si erano lasciati trascinare da un istinto bestiale?

Hermann, di gran carriera, corse verso la porta dell'Amburgo. Ne era sicuro, quello era un segnale a Genzo.
Una pietra, ad un tratto, colpì il mediano alla testa.
Il masso si riempì di crepe, poi si sgretolò e la polvere sporcò i suoi capelli.
Si fermò davanti alla porta e posò lo sguardo su Genzo.
Il portiere giapponese, in piedi, il volto pallido, fissava la sassaiola. I suoi presentimenti più tristi si erano concretizzati.
Gli era parso di vedere Karl crollare, colpito da una pietra.
Un tocco fermo, risoluto, lo scosse dai suoi pensieri e il giovane fissò il suo sguardo negli occhi piccoli, ma attenti di Hermann.
― Stai... Stai bene? I sassi ti hanno colpito? ― chiese, atono.
Un grugnito di dissenso fu la risposta.
― Non preoccuparti. Quelle pietre sono troppo piccole per me. Piuttosto, aiutami a fermare questi stronzi. Non dobbiamo avere paura. ― esclamò, risoluto.
Genzo, per alcuni istanti, esitò, poi annuì.

Reinhart, fulmineo, uscì dalla porta. Doveva allontanare la palla.
Alcune pietre si abbatterono su di lui e il gigante, con violenti pugni, le colpì.
Queste si sbriciolarono, come fossero fatte di gesso, e la polvere sporcò i suoi guanti e parte della sua tuta.
Si avvicinò a Karl, gli cinse la vita col braccio e lo sollevò.
Il centravanti, sentendo quel tocco, aprì gli occhi e fissò sul portiere uno sguardo sofferente.
― La mia testa... ― balbettò.
Reinhart scosse il capo. Quel colpo alla tempia aveva stordito Karl.
Ma non lo avrebbe lasciato stare.
Sostenendo il compagno di nazionale, si sollevò in tutta la sua statura. Era ben rischioso quello che voleva fare, ma non c'era nessuna alternativa.
Non dovevano mostrare alcuna paura dei codardi.
Il suo sguardo, gelido, tagliente, spaziò sull'intero stadio. Quello non era il calcio duro, ma leale, che lui apprezzava.
Quei vigliacchi meritavano di conoscere le galere della Germania.

I tifosi, come ipnotizzati dalla durezza del suo sguardo, si bloccarono e un silenzio spettrale gravò sull'intero stadio.
Poco dopo, Karl e Reinhart, presto seguiti dagli altri giocatori, raggiunsero Hermann e Genzo.
Un brivido gelido attraversò la schiena del nipponico e il suo viso si scolorò. Aveva visto bene!
Karl era stato colpito!
Ed era colpa sua!
― La partita finisce qui. ― scandì Reinhart, fermo, deciso, risoluto.
― Mi congratulo con voi: avete trasformato una partita in un linciaggio. Congratulazioni, camerati. L'intero popolo tedesco è fiero di voi. ― esclamò, la voce vibrante d'una feroce ironia.
Guardò Hermann, che annuì.
Poi, le due squadre, serie, silenziose, si incamminarono verso gli spogliatoi.

Con delicatezza, Reinhart aiutò Karl a sedersi su una panca.
― Che... Che mal di testa... ― si lamentò quest'ultimo, stringendosi la tempia con la mano.
Reinhart si inginocchiò e il suo sguardo, attento, si posò sulla ferita del compagno.
― Non sembra nulla di grave. Tuttavia, una visita è necessaria. ― affermò.
― Sei...Sei per caso un medico? Io... Io devo denunciare quei codardi... ― balbettò Karl.
Provò a rimettersi in piedi, ma un accesso di nausea, come un pugno, lo colpì e barcollò.
Hermann, deciso, appoggiò le sue mani sulle spalle e lo costrinse a sedersi.
― Sembri un ubriaco all'Oktoberfest. A questo pensiamo noi. ― gli disse.
Con un cenno del capo, il colosso dello Stoccarda annuì.
Kaltz, per favore, chiama un medico. Io andrò a chiamare la polizia. Nessuno si deve muovere, fino a quando non sarà tutto finito. Avete capito bene? ― domandò, secco.
Comprendendo la giustezza delle sue parole, i giocatori annuirono.

Con un sospiro, Genzo si lasciò cadere sulla panchina accanto a Karl, la testa tra le mani. Non aveva pagato abbastanza?
Perché avevano colpito i suoi compagni e avversari?
Loro non erano colpevoli di quel tragico incidente.
Non sarebbe mai finita una simile situazione?
Karl, accortosi della sua espressione amareggiata, gli appoggiò la mano sul braccio.
― Non darti... Non darti colpe che non hai... Non osare... ― gli ingiunse, la voce rotta, ma priva di esitazioni. No, non era responsabile di quello che era accaduto.
I colpevoli erano i vili che avevano disonorato il gioco del calcio per sfogare la loro stupidità.
Il nipponico sentì gli occhi riempirglisi di lacrime e abbassò la testa, amareggiato. Quelle rassicurazioni, pur nobili, dilaniavano la sua anima.
La ferita di Karl non sembrava grave, ma non si poteva fare affidamento sulla fortuna.
Quante persone dovevano rischiare la vita a causa sua?

P.S.: ecco il disastro. Povero Genzo.
Spero che la partita sia descritta discretamente.
Ci sono certe esagerazioni che mi intrigavano. Abbiate pietà.

P.S.: ho dovuto sistemare alcune parti perché le frasi mi sembravano zoppicanti. Spero non vi dispiaccia.

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Capitolo 11
*** Semi di dolore ***


Scuri in volto, Genzo e Karl ritornarono nell'appartamento.
L'asiatico, con un gesto brusco, quasi rabbioso, si chiuse la porta dietro di sé e appoggiò le valigie sul pavimento.
A quel suono secco, per un istante, un fremito di dolore distorse il viso del giocatore tedesco.
‒ Puoi fare attenzione? Vuoi fare esplodere un cannone? − domandò. Genzo soffriva per quella disastrosa partita.
Il suo gesto era uno sfogo rabbioso e disperato.
Ma quel suono, nella sua mente, come un martello, colpiva la sua mente ed esarcebava la sua emicrania.
Genzo, a quelle parole, sospirò e scosse la testa. L'ira, in quelle ore, era sopravvenuta all'amarezza e al dolore.
Provava un desiderio viscerale di fare male.
Ma non poteva rivolgere la sua collera contro qualcuno.
Lui era l'artefice dell'accaduto.
E, per questo, poteva biasimare solo se stesso.

− Scusami. Se vuoi, mi occupo io di tutto. Tu vai a riposare. − si offrì il nipponico.
Il tedesco aprì la bocca per rispondere, ma una nuova, dolorosa fitta trapassò la sua testa, come una spada.
Il suo volto si scolorò, poi, d'istinto, si portò una mano alla tempia e barcollò, come fosse brillo.
Genzo, d'istinto, avanzò d'un passo e gli cinse la vita con le braccia, impedendogli di cadere.
− Che cosa hai? Vuoi che chiami il medico? −chiese.
Un mezzo sorriso sollevò le labbra del tedesco.
− Per cosa? Per un crollo causato dallo stress? Genzo, è stata una giornata pesante per tutti, non solo per me. − replicò, apparentemente pacato.
L'altro sospirò.
− Tu però sei stato colpito da una pietra in testa, non dimenticarlo. − replicò, atono.
Karl alzò gli occhi al cielo e, con gesti calmi, si svicolò dall'abbraccio dell'amico.
− A dire il vero, quei sassi sono piovuti sulle teste di Hermanm e Bauer. L'unica differenza è che loro sono stati piùreattivi di me. Io sono caduto come un birillo nel bowling.− affermò.
Poi, i suoi occhi cerulei si rifletterono nelle iridi cupe di Genzo.
− Poi, dimentichi che ho fatto le visite necessarie. Non sono state rilevate lesioni gravi a livello neurologico, anche se l'impatto è stato davvero forte. Quest'emicrania passerà. − proseguì.
Genzo gli lanciò sguardi dubbiosi, poi annuì. Forse, la sua preoccupazione lo portava a vedere ombre inesistenti.
− Va bene. Ma se senti qualcosa di anomalo, dimmelo. − affermò.
Karl accennò ad un breve sorriso. Era paradossale una simile situazione.
Genzo, che aveva giocato partite senza curarsi dei suoi infortuni, lo invitava a prendersi cura della sua salute.
− Se proprio vuoi fare qualcosa, lascia stare le valigie e prepara del the per entrambi. Lo berremo insieme. Abbiamo bisogno di rilassarci, dopo questa giornata terribile. − rispose Karl.
Genzo sussultò, poi annuì e i due si separarono.

A passo rapido, il giovane entrò nella cucina.
Si bloccò, per alcuni istanti. Karl aveva mostrato una lodevole delicatezza, pur di non acuire il suo stato di pena.
Ma il dolore, per quanto negato, si disegnava sui lineamenti del suo viso.
Certo, erano state escluse lesioni gravi, ma questo non cambiava la situazione.
Non si poteva rischiare la vita così, senza alcuna ragione!
Ed è colpa mia..., pensò, sempre più amareggiato. Avevano colpito i suoi compagni per lanciargli un crudele segnale.
Genzo, con violenza, scosse il capo e iniziò a preparare il the.

Con un sospiro, il giocatore tedesco si lasciò cadere sul letto e chiuse gli occhi.
Così non va. Povero Genzo., si disse. Nella sua mente, come in un terribile film, si susseguivano i fotogrammi di quella partita.
E poi, implacabile, sentiva il tonfo della pietra sulla sua testa.
Emise un debole gemito e si massaggiò la tempia destra. Perfino il ricordo di quell’evento gli procurava una pena fisica.
Con uno scatto, la porta si aprì ed entrò Genzo, con in mano il cellulare del compagno.
− Scusami, ma sono i tuoi genitori. Te li passo? − chiese.
− Sì, grazie. Sarà meglio rassicurarli. − rispose il centravanti teutonico.
Il portiere asiatico gli consegnò il telefono, che aveva nella mano, e uscì dalla stanza.

Karl accettò la chiamata e accostò l'apparecchio all'orecchio.
− Sì, sto bene. Ho solo mal di testa, ma mi passerà con un po' di riposo. Evidentemente, dovrò allenarmi a schivare i sassi dei tifosi violenti. − spiegò, tranquillo. Forse, un tono ironico, quasi leggero, gli avrebbe permesso di abbreviare la conversazione e di rassicurare i suoi cari.
Amava la sua famiglia, ma, in quel momento, desiderava il silenzio.
Ad un tratto, la sua fronte si corrugò e, d'istinto, le sue dita si strinsero attorno all'apparecchio. Suo padre, con tono mellifluo, gli aveva consigliato di tirarsi fuori da una tale storia.
Le sue parole dipingevano Genzo come il problema della squadra, che andava eliminato con una azione radicale.
− Papà, vorrei ricordarti che noi siamo le vittime. E Genzo lo è più di tutti. Stanno usando la morte di quel ragazzo come un pretesto e lui deve essere trattato come colpevole? − sibilò, sarcastico.
Con un gesto nervoso, chiuse la chiamata e si distese sul letto. Forse, le parole di suo padre erano dettate dalla preoccupazione, ma non cambiava la realtà.
Scaricavano su Genzo colpe inesistenti.

Un forte rumore di ceramiche rotte attirò la sua attenzione.
Si alzò in piedi, percorse la camera a passo rapido e uscì.
A poca distanza dalla porta, Genzo era seduto sul pavimento, le gambe piegate contro il petto e il volto pallido d'angoscia.
Decine di cocci di ceramica erano sparsi attorno a lui e una macchia di the si allargava sulle piastrelle del pavimento.
Karl, a stento, trattenne un'imprecazione . Ne era sicuro, Genzo aveva sentito la sua conversazione.
E il peso dei sensi di colpe si era esacerbato.
Si chinò e, con gesto fermo, deciso, gli appoggiò le mani sulle spalle.
− Guardami. − disse, calmo.
Il campione asiatico si scosse dal suo stato di apatia e, per alcuni istanti, i suoi occhi neri si specchiarono nelle iridi cerulee dell'amico. La risolutezza di Karl non era mutata e questo era per lui rassicurante.
Tuttavia, non poteva dimenticare la preoccupazione espressa da suo padre.
Ne era sicuro, anche gli altri suoi famigliari condividevano le medesime emozioni.
Ed era incontrovertibile.
− Non dare retta a quello che dice mio padre. Ha parlato senza riflettere, ma era preoccupato per me. − gli disse, dispiaciuto.
Genzo, con un gesto lento, dignitoso, si alzò in piedi e fissò ora i cocci, ora Karl. No, non poteva portare avanti una simile situazione.
Era suo dovere prendere una decisione chiara e salvaguardare l'incolumità fisica e mentale dei suoi compagni e avversari.
E, forse, sapeva quello che doveva fare.
Per alcuni istanti, rimase immobile, silenzioso, poi allungò la mano verso Karl, che era chinato, e lo aiutò a sollevarsi.
Aprì le braccia e lo strinse a sé in un forte abbraccio.
− Che ti succede? − chiese il tedesco, meravigliato. Cosa aveva spinto Genzo ad un simile atto?
Lui non era mai stato tanto espansivo.
Un'amarezza a stento contenuta palpitava in quelle dita, strette attorno alle sue spalle.
E lui non ne capiva la ragione.
Genzo sorrise, mentre gli occhi gli si velarono di lacrime. Quanto doveva fare fare era doloroso, ma non poteva essere rinviato.
La sicurezza dei suoi compagni e avversari era prioritaria.
Eppure, dilaniava il suo cuore, non poteva negarlo.
− Grazie di tutto, amico mio. −



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Capitolo 12
*** La bomba scoppia ***


Il campo d'allenamento dell'Amburgo risuonava di tonfi e grida decise.
Genzo, attento, scrutava i suoi compagni. Sembravano essersi lasciati alle spalle la partita contro lo Stoccarda.
Karl, inoltre, giocava con la solita, letale precisione.
Pareva che quella tragedia non fosse mai avvenuta.
Scosse la testa. No, non poteva basarsi su una normalità così precaria.
La sua presenza era dannosa per la squadra e per eventuali, futuri avversari.
Anche i suoi compagni nipponici avrebbero corso rischi inutili.
Qualche istante dopo, Karl giunse a diversi metri di distanza dalla porta, sollevò la gamba destra e calciò a rete.
La palla, come una cometa, disegnò un lungo arco nell'aria.
Il portiere, per alcuni istanti, fissò la sfera, un sorriso amaro sulle labbra sottili. Mai più avrebbe goduto d'una simile emozione.
Si lanciò verso destra e, con presa ferma, le sue mani si strinsero attorno al pallone.
Avanzò d’un passo ed estese il braccio destro, pronto a lanciare la palla al centrocampo.
Ad un tratto, uno scalpiccio di passi interruppe l’allenamento della squadra.

A passo rapido, giunse un uomo moro, alto e robusto, vestito d’un sobrio completo nero.
- Il presidente Neumann. Non viene mai da solo al campo. Perché è qui? - sussurrò Hermann, la fronte aggrottata.
Con un cenno silenzioso della testa, Karl annuì e, d’istinto, incrociò le braccia sul petto. Nemmeno a lui piaceva questa novità.
L’uomo si avvicinò a Genzo e, per alcuni istanti, i loro occhi si fronteggiarono.
- Potete andare? Devo parlare da solo con lui. - chiese il dirigente.
Un mezzo sorriso sollevò le labbra del portiere asiatico. Forse, aveva capito quello che il dirigente voleva dirgli.
- No. Non c’è niente che i miei compagni che non possano ascoltare. - dichiarò, atono.


- Wakabayashi… Voi siete un pilastro della squadra e, grazie a voi, l’Amburgo ha conquistato dei risultati importanti. E non avremo mai pensato di doverle chiedere questo. - cominciò l’uomo.
Genzo, con un gesto pacato, quasi di prete nell’atto di officiare la messa, interruppe il discorso del dirigente.
Karl corrugò la fronte e gli lanciò un’occhiata torva. Non gli piaceva quella calma.
Pareva il preludio ad una tempesta.
- Per favore, diamo un taglio a questa inutile commedia. Non sono stupido. - dichiarò il giocatore nipponico, lugubre.
Il dirigente, colto di sorpresa dalle parole dello sportivo, tacque.
- So bene che per voi sono diventato un problema. E questo si è accentuato dopo la partita contro lo Stoccarda. Ma so bene qual è il mio compito. - continuò, il tono sempre più incolore.
I suoi compagni, come fossero un unico corpo, fissarono i loro occhi su di lui.
Genzo, per alcuni istanti, tacque. Era per lui una decisione alquanto dolorosa, ma era necessaria.
Aveva esitato, ma le parole del presidente dell’Amburgo avevano rafforzato la sua risoluzione.
- Cosa intendi fare? - domandò il dirigente.
- Lascio il calcio. Non solo, lascio la Germania. - rispose il giovane portiere, tetro.

A questa affermazione, tutti sbiancarono.
- Ma che cosa stai dicendo? - esclamò Karl. In quel momento, capiva il senso dell’abbraccio di pochi giorni prima.
Voleva congedarsi da lui e dall’intero mondo calcistico, dopo quella terribile partita contro lo Stoccarda.
Hermann, d’istinto, avanzò d’un passo, ma la mano del capitano dell’Amburgo si posò sulla sua spalla e lo bloccò.
Il portiere orientale, poi, tornò a scrutare il presidente della squadra tedesca, lo sguardo malinconico, ma fiero.
- Perché mi guarda in quel modo? Credeva che non avrei compreso la situazione? - chiese, amaro. Era una decisione pesante e il suo cuore era dilaniato, ma non si pentiva di avere compiuto una simile scelta.
Con la sua partenza, i suoi compagni non avrebbero avuto paura e avrebbero giocato al meglio.
Neumann scosse la testa e un flebile sospiro fluì dalle sue labbra. Era una scelta difficile, ma Genzo Wakabayashi si era rivelato intelligente e aveva compreso la situazione.
- Mi dispiace che sia finita così. - si limitò a dire l’umo.
Poi, girò le spalle e si allontanò dal campo di allenamento.

Gli allenamenti ripresero, fiacchi, nervosi, svogliati.
L’allenatore soffiò aria nel suo fischietto e un lungo trillo risuonò nel campo di allenamento.
I giocatori si fermarono e, rapidi, si avvicinarono a lui.
- Andate a casa. Per oggi, può bastare. - dichiarò, il tono risoluto. Si era ben accorto della mancanza di concentrazione dei suoi ragazzi, a seguito della visita del presidente della squadra.
Il ricordo di quella partita, che stavano cercando di dimenticare, era riemerso.
I giocatori gli lanciarono uno sguardo colmo di gratitudine e seri, cupi, sciamarono verso gli spogliatoi.

- Vuoi dargliela vinta a quei bastardi, Genzo? Ti ritenevo più forte! - ringhiò Hermann ad un tratto, gli occhi lucidi di lacrime. Non riusciva ad accettare la scelta di Genzo.
Perché aveva deciso di arrendersi a quegli stronzi?
L’atleta orientale sospirò e fissò il suo sguardo ora sul mediano, ora su Karl.
- C’è un limite a tutto. E io l’ho oltrepassato in quella partita disastrosa. Me ne sono accorto ora. - confessò, amaro.
- Non stai esagerando? In fondo, siamo usciti vivi. - replicò Mayer, stupito dalla gravità delle sue parole.
- Ha ragione. Non è scoppiata una guerra! - affermò Hermann, il tono apparentemente fermo.
Genzo, d’istinto, avanzò d’un passo, le braccia alzate, poi si fermò e strinse i pugni convulsamente.
- Siamo usciti vivi, è vero. Ma quanto durerà una simile fortuna? Voi, i miei compagni di nazionale, i miei futuri avversari… Ora, chiunque entra in contatto con me, può rischiare grosso. E io non posso sopportare il peso di ulteriori morti. Non ci riuscirei. - replicò
Emise un sospiro stanco e fissò sui suoi compagni uno sguardo diretto, privo di ombre.
- Vi devo chiedere un ultimo favore: vincete anche per me. -
Poi, finì di preparare la sua borsa, girò la schiena e si allontanò. La sua forza, in quel momento, rischiava di crollare.
E lui voleva lasciare ai suoi compagni un’immagine di dignità, perfino nella sconfitta.

- Vi consiglierei di seguirlo. Almeno, fatevi dire dove va. - dichiarò ancora Mayer.
- E’ più facile scardinare una cassaforte con uno stuzzicadenti che farlo parlare. - affermò Hermann.
Karl sospirò e si passò una mano sulla tempia destra.
- Tu, piuttosto… Non hai quasi detto una parola. Come va con la testa? - chiese ancora Hermann, l’espressione preoccupata.
Una risata ironica, colma di amarezza, risuonò sulle labbra del capitano dell’Amburgo, ma il suo sguardo ceruleo si incupì, come un cielo in prossimità d’una tempesta.
- Penso che l’abbia fatto soprattutto per me. Sto cercando di trovare una soluzione, perché mi sento responsabile. - confessò.
- Non hai scelto tu di essere colpito. Piuttosto, andiamogli dietro. -

I due ragazzi uscirono dagli spogliatoi, percorsero alcuni metri e raggiunsero il loro compagno, che si era appoggiato ad un palo della luce, come fosse oppresso dalla stanchezza.
Non è così strano. Bel lavoro, presidente Neumann., pensò Karl, irritato. Con quella visita, sale era stato aggiunto sulle ferite di Genzo e questo aveva influenzato la sua scelta.
Ma come potevano convincerlo a ritornare sui suoi passi?
- Sei proprio sicuro di volere abbandonare tutto? Hai lavorato tanto per arrivare dove sei arrivato! - affermò poi il capitano teutonico.
- Sì. E, per favore, non dare retta alle stronzate che ho detto. Parlo senza riflettere. - intervenne Hermann.
Il portiere si scosse dai suoi pensieri e girò la testa verso di loro.
- Confermo. Non sono fatto di ferro, anche se mi piace crederlo. - affermò.
I due giocatori europei tacquero. Quello sguardo, tanto triste quanto fermo, non ammetteva alcuna replica.
Oltre quelle iridi, scorgevano le ragioni di una scelta tanto dolorosa.
- Ho bisogno però di un grosso favore. Me lo farete? - chiese poi.
- Di che si tratta? - domandò a sua volta Karl.
- Io… Io so dove devo andare. Quando sarà il momento, lo saprete anche voi. Ma nessun altro deve conoscere questa informazione. Nessuno… - spiegò. Il silenzio sarebbe stato il compagno della sua esistenza.
E nessuno avrebbe pagato il prezzo dei suoi errori.
Karl ed Hermann si scambiarono un lungo sguardo, colmo di perplessità, poi, con un breve cenno della testa, annuirono.
Il giocatore nipponico fissò sui suoi amici uno sguardo liquido, lucido di gratitudine, e strinse loro le mani.
- Grazie di tutto, amici. -

P.S.: la bomba è scoppiata.
Non ricordo il nome del presidente dell’Amburgo in Captain Tsubasa, per cui ho creato io una mezza comparsa.
Spero di avere reso al meglio la dignità triste del portiere e di fare capire perché non vuole che nessuno sappia nulla della sua residenza futura.


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Capitolo 13
*** La scelta della meta ***


Le dita di Genzo, rapide, vagavano sul computer.
Sullo schermo, rapide, si susseguivano diverse immagini di paesaggi, alternate a pagine web.
Ad un tratto, il giovane si fermò e si stropicciò gli occhi, leggermente arrossati. La sua decisione, per quanto dolorosa, gli aveva donato una debole serenità.
Eppure, nessun luogo, in quel momento, gli pareva abbastanza lontano.
Aveva paura di essere raggiunto ovunque andasse.
Prese un grosso respiro, poi riprese a fare ricerche sul portatile.
Forse, questo va bene... – mormorò, lo sguardo attento. Sullo schermo, era presente l'immagine della città di Gustavurus, accompagnata da una didascalia.
Per alcuni istanti, rifletté. Quella piccola cittadina dell'Alaska era magnifica, immersa in una natura incontaminata, ed era abitata da poche centinaia di persone.
Ne era sicuro, quel luogo era silenzioso e ben lontano dal caos e dal pettegolezzo.

Qualche istante dopo, la porta della camera, con un rumore secco, si aprì ed entrò Karl.
Hai deciso di trasformarti in un hacker? – chiese, il tono apparentemente ironico.
Poi, il suo sguardo si fece serio e piegò le labbra in una smorfia d'amarezza. La rabbia premeva sul suo petto, come un masso, e aveva voglia di gridare.
Anche lui era causa della dolorosa decisione di Genzo.
Vedendo l'espressione dispiaciuta del compagno, il giocatore nipponico scosse la testa.
Spense il computer, si alzò e gli appoggiò una mano sulla spalla.
Non sentirti in colpa. E' stata una mia scelta. Un vero uomo non può fare pagare il peso dei propri sbagli ad altri. – dichiarò, pacato.
A stento, il centravanti teutonico frenò un ruggito di frustrazione. Il pensiero di Genzo era encomiabile, ma si sbriciolava sotto il peso della realtà.
Lui non aveva commesso alcuno sbaglio.
Che cosa stava pagando ancora?

Sospirò, cercando di calmarsi, e guardò l'amico.
Hai trovato qualcosa? – domandò poi.
Sì. Penso che andrò a Gustavurus, in Alaska. Il posto è bellissimo, immerso nella natura, e vi risiedono poche centinaia di persone. – rispose, calmo.
Il giocatore tedesco sbarrò gli occhi, sconvolto. Perfino lui, che pure era istruito, non conosceva l'esistenza di tale cittadina.
Genzo cercava di scomparire per il mondo, ma non poteva permetterglielo.
Col tempo, avrebbero smesso di condannarlo e avrebbe potuto riprendere a giocare.
Non lo fare. Non ha senso andare fino lì. – affermò, secco.
Genzo, sorpreso dalla reazione del compagno di squadra, sbarrò gli occhi.
Perché? Io stesso non conoscevo l'esistenza di questa città. A nessuno verrà in mente di cercarmi lì. – replicò l'asiatico.
A quell'affermazione, a stento, il centravanti teutonico trattenne una risata. Gli sembrava di fare una surreale lezione di geografia.
Sei giapponese e sei alto. La natura dell'Alaska è magnifica, non lo nego, ma, in quei posti isolati, tanto lontani, ti guarderebbero come un animale esotico in un circo. E dubito che tu voglia questo. – dichiarò.
Genzo, per alcuni istanti, tacque. Si era lasciato trascinare dalla bellezza del paesaggio, ma le parole del suo amico non erano insensate.
Aveva bisogno di quiete e di silenzio e, forse, era stato frettoloso nella sua scelta.

E allora cosa suggerisci? – domandò.
La Romania. Anche lì ci sono villaggi piccoli e tranquilli. E la natura dei Carpazi non ha niente da invidiare a quella dell'Alaska. Poi, ci sono musei, chiese e diversi siti archeologici, alcuni risalenti all'età romana. – iniziò.
Tacque e posò le mani sulle spalle del portiere.
Io ti conosco bene. In questi anni, ho visto il tuo interesse sempre crescente per la cultura. Ascoltami, l'Alaska non può darti, in questo campo, quello che ti può dare la Romania. – proseguì, il tono percorso da una nota di fervore.
Perplesso, Genzo alzò un sopracciglio.
Parli come se avessi visitato la Romania. Sembri innamorato di quel luogo. – azzardò.
Con un cenno del capo, il Kaiser annuì.
Sì. Ogni estate, da quando avevo quindici anni, torno in quel paese. Non ho avuto occasione di visitarlo tutto, ma conosco bene città come Bucarest e Timisoara. Negli ultimi anni, Andrei è stato per me una guida preziosa. – spiegò.
Sai che non riceverò nessuno. La mia esistenza, per il mondo, deve restare segreta. – obiettò l'altro.
Karl, con un gesto apparentemente noncurante, alzò le spalle. Sì, era a conoscenza di una simile, triste decisione.
Il tempo, ne era sicuro, avrebbe cambiato le carte in tavola, ma non riusciva a non provare rabbia per una scelta non libera.
Non l'ho dimenticato. Ma preferisco saperti in Romania. – dichiarò poi.
Genzo rifletté, poi annuì. Le considerazioni di Karl erano sensate.
Forse, in un paese europeo, il suo aspetto sarebbe passato inosservato.
Va bene. Vada per la Romania. –

Hai bisogno di qualcosa? Devo uscire. – dichiarò, ad un tratto.
Karl corrugò la fronte, impensierito.
Dove vuoi andare? – chiese.
A comprare un dizionario tedesco – rumeno e una valida grammatica. Prima di partire, vorrei essere ad un livello linguistico presentabile. – affermò poi, deciso.
Ho capito, ma verrò con te... – mormorò, ma la sua voce si spense in un sussulto di dolore.
Con calma, allontanò le mani dalle spalle di Genzo e cominciò a massaggiarsi le tempie. Di nuovo, era tornata l'emicrania.
La sua testa era dilaniata da lame di dolore e faticava a fermare lo sguardo su un oggetto.
Genzo, preoccupato, lo afferrò per le braccia e lo aiutò a distendersi sul letto. Odiava quella pena, riflessa sul viso del compagno.
Quando vedeva la sofferenza sul viso dell'amico, il peso del suo senso di colpa, inesorabile, aumentava.
Vuoi che ti dia un farmaco per il dolore? – chiese.
No... Sono attacchi dolorosi, ma passano. Devo riposarmi un po'. Puoi anche andare a fare compere senza di me. – lo rassicurò l'europeo.
Il portiere orientale scosse la testa in segno di diniego e, con un gesto apparentemente noncurante, gli sfiorò il viso.
Il vocabolario e la grammatica possono aspettare. Come posso aiutarti? – lo interrogò.
L'altro chiuse gli occhi e si distese meglio sul letto.
Mi faresti un massaggio qui? – domandò e appoggiò i suoi indici sulle tempie.
Genzo, senza alcuna parola, posò le sue dita sulle tempie del compagno e iniziò a crearvi piccoli cerchi.
A quel tocco leggero, il volto del tedesco si rilassò e un tenue sorriso sollevò le sue labbra. Non voleva pensare agli eventi futuri.
Grazie, Genzo. –

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Capitolo 14
*** La proposta di un amico inaspettato ***


Il trillo del cellulare scosse Genzo dalla sua lettura.
Con un sospiro, il giovane chiuse il libro, prese il cellulare e lo accostò all'orecchio.
Ciao, Karl. Cosa c'è? – domandò il portiere asiatico.
Voglio farti una proposta per la tua partenza. Ma non sono solo. Aspettami a casa. – gli disse il tedesco dall'altro capo del cellulare.
Genzo accennò ad un sorriso ironico e chiuse gli occhi. Non avrebbe mai dimenticato la gentilezza dei suoi due compagni.
Non condividevano la sua scelta, ma non si risparmiavano per aiutarlo.
Che hai? – chiese il teutonico, interdetto dal silenzio dell'interlocutore.
Stai tranquillo, non ho intenzione di uscire. Devo finire di leggere un libro di storia del popolo rumeno. – gli spiegò.
Sentì un respiro sollevato dall'altra parte del telefono.
Meglio così. – dichiarò.
Poi, chiuse la conversazione e il giovane asiatico riprese la lettura.

Diverso tempo dopo, il trillo del campanello lo riscosse dai suoi pensieri.
Posò il libro sulla scrivania, si avviò verso l'ingresso e lo aprì.
Karl, a passo rapido, entrò, accompagnato da Andrei.
Non mi aspettavo la sua visita. Desidera qualcosa? – chiese, stupito.
Un sorriso sollevò le labbra dell'uomo e, con un gesto deciso, si aggiustò gli occhiali.
No, o meglio sì. Non chiamarmi con il voi. Non siamo ad un congresso di medicina. – rispose l'uomo, calmo.
Genzo lanciò a Karl uno sguardo confuso e il tedesco, a sua volta, accennò ad un sorriso ironico.
E' fatto così. Piuttosto, andiamo nel soggiorno. C'è abbastanza spazio per discutere. –

L'ambiente, di dimensioni piuttosto ampie, era dominato da un tavolo di legno, circondato da diverse sedie.
Al centro del soffitto, era appeso un lampadario di forma quadrata, che illuminava la stanza d'una forte luce bianca e, a destra, era presente un mobile basso di legno, su cui era posato un televisore.
Sulla strada, si priva un'ampia porta finestra con un balcone, mentre alla parete di destra era appeso un quadro, raffigurante un paesaggio marino.
Sempre il solito, Karl? Ami le cose in grande. La tua casa è enorme. – esclamò Andrei, ironico.
Il tedesco alzò le spalle con un gesto noncurante.
Sono semplicemente rimasto troppo tempo nel Mediterraneo. –si limitò a replicare.
Poi, il suo sguardo si fece serio e si posò ora su Genzo, ora su Andrei.
Qualche giorno fa, tu mi hai fatto una proposta. Puoi ripetere a Genzo quello che hai detto a me? – chiese.
Con un cenno deciso del capo, lo scacchista annuì.
Sì. Vedi, io ho vissuto per alcuni anni a Bucarest, ma i miei nonni mi hanno lasciato una casa a Iasì, che è il mio luogo di nascita, e una casa a Ciocăneşti. Ti propongo di essere mio ospite.

Un vivo rossore colorò il viso del giovane asiatico. Sì, gli sembrava una splendida proposta, ma non voleva arrecare ulteriore disturbo.
Karl, che pure non gli aveva mai detto nulla, era stato fin troppo generoso e non poteva profittarsi di un'altra persona.
Non posso accettare la tua offerta. Credo che mi troverò una residenza per mio conto. I soldi, per fortuna, non mi mancano. affermò, atono.
Il giocatore tedesco sospirò e fece per replicare, ma Andrei gli lanciò uno sguardo d'intesa.
Il centravanti tacque, perplesso. Quale era l'intenzione del suo amico scacchista?
Non è una questione economica, ma di praticità. Tu hai detto che hai lasciato il calcio per evitare danni a compagni e avversari, sbaglio? chiese.
Di scatto, l'asiatico chinò la testa e Karl lanciò ad Andrei uno sguardo truce.
Quest'ultimo non se ne curò e fissò i suoi occhi chiari in quelli color carbone dell'asiatico. Quel giovane, d'indole chiusa, non voleva gravare su nessuno.
Tale sentimento era encomiabile, ma, in quel momento, era inutile.
Per comprare una casa, avrai bisogno di tempo e dovrai comunque lasciare tracce. Vuoi questo? gli domandò, il tono deciso.
L'ex giocatore nipponico impallidì e il suo cuore accelerò i battiti. No, non voleva lasciare tracce.
La sua presenza aveva causato troppi danni agli altri.

Va bene, accetto la tua offerta. Quanto devo pagarti? chiese.
Il viso, prima serio, di Andrei, si addolcì e un sorriso sollevò le sue labbra.
Mi pagherai in partite di scacchi. Niente di più, niente di meno. rispose.
Il giovane nipponico sbarrò gli occhi perplesso. Una simile richiesta gli pareva inconsueta.
Non si chiede denaro agli ospiti, se non se ne ha bisogno. Ma lunghe partite di scacchi sì. – rispose, ironico.
Un debole sollievo si impadronì di Genzo. Non credeva di meritare un tale aiuto, ma era felice.
La fortuna non doveva essere rifiutata.

Perché mi aiuti? – chiese Genzo. Non capiva la ragione di una simile disponibilità.
A quella domanda, lo sguardo dello scacchista si incupì e si aggiustò gli occhiali, che erano scivolati sul naso.
Anche io ho subito la rabbia di tifosi stupidi. Siamo simili, anche se abbiamo praticato sport diversi. – rispose, la bocca tesa in una smorfia seria.
L'asiatico tacque, stupefatto. Certo, Andrei aveva la corporatura di un uomo allenato, ma non riusciva a vedere in lui un atleta di livello agonistico.
Sì. Vedi, io non ho solo la passione degli scacchi. Fino all'età di vent'anni, ho praticato rugby. Anzi, giocavo nella nazionale rumena. –
Gli occhiali si appannarono e, con movimenti calmi, l'uomo se li tolse.
Poi, trasse un debole respiro e, per alcuni istanti, tacque, immerso in un silenzio pensoso.
Karl scosse la testa. Andrei era un uomo forte e deciso, ma il ricordo di quell'evento era ancora sgradevole.
E anche a lui, che pure non l'aveva vissuto in prima persona, aveva lasciato una sensazione di disgusto.
La mia nazionale, dieci anni fa, ha giocato contro quella tedesca e ha vinto, anche con un grosso margine di vantaggio. Ma ho pagato quella vittoria a caro prezzo. – continuò.
Andrei, non riaprire oltre quella ferita. Ti fai solo del male. – intervenne Karl, premuroso.
Lo scacchista rumeno, per alcuni istanti, non rispose, poi appoggiò i polpastrelli della mano destra contro quelli della sinistra, quasi a creare un triangolo.
Mi hanno picchiato. Grazie alla loro gentilezza, ho perso la possibilità di continuare a giocare a rugby. Grazie alla generosità del presente kaiser, sono ancora vivo e ho una vita soddisfacente. – spiegò.
Poi, di scatto, si alzò e uscì dalla cucina.

Genzo avanzò d'un passo, ma la mano dell'amico, poggiata sulla sua spalla, lo trattenne.
Sono un idiota. Ho rievocato un'esperienza per lui dolorosa. La mia situazione mi ha reso egoista. – spiegò, irritato verso se stesso.
Kal sorrise. Genzo non conosceva bene Andrei, ma la sua preoccupazione smentiva quell'affermazione.
Capiva bene il sentimento del suo interlocutore.
La tua era una domanda legittima. Tu e Andrei vi conoscete poco e volevi capire la ragione della sua disponibilità. Gli ha fatto male il ricordo della fine della sua carriera. Chi fa sport a livello agonistico accetta la possibilità di un infortunio senza appello, ma non può tollerare un pestaggio. Erano in sei contro uno. – rispose, lugubre.
Un brivido sferzò la schiena dell'asiatico, come una frustata gelida. Tutto, in quel momento, gli era dolorosamente chiaro.
Tuttavia, gli restava un dubbio.
Se non è stata colpa mia, perché si è allontanato? domandò ancora.
Ha bisogno di silenzio. Lasciamolo solo. Tornerà più forte di prima. affermò il tedesco.
Genzo gli lanciò uno sguardo dubbioso.
Va bene.









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Capitolo 15
*** Una triste partenza ***


Con un gesto deciso, Genzo chiuse le valigie, che erano posate sul suo letto.
Poi, le prese e le appoggiò contro il muro. Finalmente, aveva terminato di preparare le sue valigie.
Mancavano circa quattro ore alla partenza del suo pullman e poteva concedersi un breve riposo.
Si distese sul letto e incrociò le mani dietro la schiena, lo sguardo fisso sul soffitto. Presto, tutto sarebbe concluso,
Nessuno avrebbe dovuto temere per la propria incolumità, a causa della sua presenza.
Con lentezza, chiuse le palpebre e l'ira divampò nel suo cuore. Perché si accanivano con gli innocenti?
Era colpevole, ne era cosciente, ma non era giusto colpire le persone a lui più care.
Scosse la testa e aprì gli occhi. Perché la sua mente era occupata da simili pensieri?
La sua sofferenza si inaspriva e, inesorabile, si aggiungeva al peso che opprimeva il suo cuore.
Spero possiate capirmi., pensò. Non sapeva perché, ma, in quel momento, il suo pensiero si volgeva ai suoi compagni di nazionale.
Con loro, aveva condiviso una gran parte del suo cammino di calciatore e gli erano assi cari, malgrado le pur forti divergenze.
No, non posso cedere ai ricordi. Devo essere forte., si disse, deciso. I ricordi, per quanto dolci, indebolivano la sua decisione.
Ma non poteva permettersi tali, dolci debolezze.

Con un debole fruscio, la porta della stanza si aprì ed entrò Karl.
Il giovane lanciò brevi occhiate all'ambiente, poi un mezzo sorriso sollevò le sue labbra.
Hai lasciato qui parte dei tuoi libri e dei tuoi CD. – affermò. Forse, non era tutto perduto.
Genzo voleva ritornare nella sua terra d'adozione, ma riteneva questo suo legittimo desiderio un'utopia e cercava di soffocarlo.
Quegli oggetti, a lui così cari, lasciati sugli scaffali, indicavano una volontà di non abbandonare la sua vecchia vita.
La sua indole energica, per quanto provata dagli eventi, non era svanita.
Genzo si alzò dal letto e, per alcuni istanti, fissò lo sguardo sui libri.
Puoi prenderli. Abbiamo gusti letterari e musicali simili. – affermò, la voce pacata, seppur percorsa da una nota di malinconia.
Hai detto bene. Per questo declino la tua offerta. Non mi piacciono i doppioni. – replicò il tedesco, apparentemente tranquillo. In realtà, aveva compreso le intenzioni del compagno.
Nelle intenzioni di Genzo, quello era un regalo d'addio, ma lui, nei limiti delle sue possibilità, doveva lasciare la porta aperta alla speranza.
No, non avrebbe contribuito al rafforzamento di una simile idea nel suo compagno.
L'asiatico, per alcuni istanti, tacque, poi gli appoggiò le mani sulle spalle.
Va bene. Però, ho un'ultima richiesta. Puoi esaudirla? – domandò.
Di che si tratta? – chiese il tedesco.
A te piacciono i Queen, mentre a Hermann i Pink Floyd. Ho diversi vinili di queste band. Prendeteli, sono vostri. – affermò.
A stento, il giocatore tedesco trattenne un gemito. No, doveva mantenere il controllo.
Puoi sempre darglieli di persona. E vorrei riceverli anche io dalle tue mani. – obiettò l'altro.
Il giocatore orientale, per alcuni istanti, rifletté sulla frase del compagno, poi annuì. Sì, la mente di Karl, ancora una volta, si era mostrata lucida e penetrante, come una lama affilata.
Entrambi meritavano un addio personale.

Un po' di tempo dopo, l'auto di Karl arrivò alla Stazione Centrale di Amburgo.
Decine di persone percorrevano in entrambi i sensi il parcheggio.
Genzo, per alcuni istanti, rimase immobile, come una sbarra di metallo, il petto sollevato da lievi ansiti.
Che ti succede? chiese Karl, la fronte corrucciata.
Non sareste dovuti venire. Potrebbero riconoscervi. E non so cosa potrebbe succedere. dichiarò. Nella sua mente, si dispiegavano i ricordi della dolorosa partita contro lo Stoccarda.
Temeva la natura imprevedibile di simili soggetti e nella sua mente si affollavano scenari inquietanti.
Non angosciarti. Non ci guarderanno. affermò, il tono tranquillo.
L'orientale lo squadrò, perplesso. L'affermazione di Karl gli pareva alquanto strana.
Lui aveva subito le peggiori conseguenze di quell'ondata di odio, eppure non sembrava turbato.
Questi soggetti sono violenti, è vero, ma sono anche stupidi. Loro si aspettano che tu parta in aereo, magari con un jet privato. Non concepiscono che una star del calcio, nonostante i soldi guadagnati, possa essere di costumi sobri. Per questo, non hai nulla da temere. affermò, calmo.
Si massaggiò le tempie e sbatté le palpebre. Credeva nelle sue affermazioni, ma non poteva negare la sua inquietudine, a causa della remota possibilità di una loro presenza.
Tuttavia, doveva mantenere la calma, per dare al suo compagno una partenza serena.
Entriamo. Andrei ed Hermann ci stanno aspettando.

I due giovani uscirono dall'auto e si avviarono verso la stazione.
Di tanto in tanto, qualcuno posava sguardi sui due, poi ritornava alle proprie attività.
Bene. Per ora, sta andando tutto bene., si disse il Kaiser. Certo, si era accorto delle occhiate perplesse dei presenti, ma erano state passeggere.
Nessuno si era accorto di loro.

Giunsero nella piazzola di sosta degli pullman e si guardarono intorno, in cerca di Andrei ed Hermann.
Poco dopo, Karl li scorse a diversi metri di distanza, impegnati in una animata conversazione.
Di tanto in tanto, l'ex rugbista rumeno, ad un'affermazione del tedesco, accennava ad un sorriso.
Ma guarda. Parlano come vecchi amici. esclamò il centravanti, compiaciuto.
Genzo gli lanciò un'occhiata stupita.
Andrei è gentile, ma non ama mostrare le sue emozioni, se non con persone di sua fiducia. Quel pestaggio ha accentuato questo lato del suo carattere. E' strano vederlo sorridere con una persona che conosce da poco. – spiegò.
Non è stupido. Ha capito la natura di Hermann. affermò Genzo, deciso.
Il Kaiser, a quelle parole, annuì, poi, assieme all'amico, si avviò verso gli altri due.

Pochi minuti dopo, li raggiunsero.
Manca ancora molto, Andrei? chiese l'attaccante tedesco in rumeno.
L'ex rugbista abbassò lo sguardo sull'orologio e controllò l'ora.
Circa quarantacinque minuti. Perché? domandò, perplesso.
Genzo, comprendendo la ragione della domanda di Karl, si tolse lo zaino, che aveva sulle spalle, lo aprì e ne trasse dei dischi in vinile, chiusi in custodie di cartone nere.
Su alcuni di essi, era presente il logo dei Pink Floyd, su altri erano rappresentati i membri dei Queen.
Con espressione seria, consegnò i vinili dei Pink Floyd a Hermann e diede i dischi dei Queen a Karl.
Il mediano, sorpreso, si rigirò tra le mani i CD, poi fissò sul compagno un'espressione interrogativa.
Questi accennò ad un sorriso e guardò prima uno, poi l'altro. Certo, aveva rispettato i loro gusti, ma il suo dono d'addio gli sembrava quasi un'offesa.
I suoi due compagni gli erano stati vicini, nonostante la sua ritrosia ed erano disposti a sostenerlo, se avesse cambiato idea.
Tale generosità meritava un premio migliore di alcune scatole di vinili, per quanto rare.
Non sorprendetevi. Io vi devo molto. Spero che i miei regali vi piacciano. si limitò a dire. Anche le parole, per quanto sentite, gli apparivano deboli o troppo roboanti e non esprimevano il suo sentimento di riconoscenza.
Karl, a quelle parole, reclinò la testa verso destra, mentre Hermann indurì la mascella e strinse il pugno. Quello era un addio, ma lui non accettava un tale distacco.
Il suo compagno non aveva nessuna colpa, ma quei bastardi avevano deciso di distruggerlo colpendo loro.
Non stai partendo per la guerra. Tornerai. Tutto questo finirà. E custodirò questi vinili come un tesoro. affermò Hermann, deciso, come se stesse pronunciando un'arringa in un tribunale.
Genzo scosse la testa. Voleva credere alla speranza dei suoi compagni, ma la sua mente gli rammentava la crudele realtà.
Ormai, il calcio non faceva più parte della sua vita.


Poco dopo, il pullman da loro aspettato giunse nella stazione.
Dobbiamo andare, Genzo. dichiarò Andrei, serio.
Con un cenno del capo, l'asiatico annuì e strinse la mano prima a Karl, poi a Hermann.
Grazie ancora di tutto. mormorò, il tono forzatamente deciso. Era giunto il momento dell'addio e il suo cuore era dilaniato.
Ma non poteva mostrare la sua pena o avrebbe aumentato il distacco.
Sistemò i suoi bagagli nella stiva, che era stata aperta, poi salì sul pullman, seguito da Andrei.
L'ex rugbista provò a sollevare la valigia, ma una fitta di dolore deformò il suo viso e piegò il ginocchio.
Aspetta, ti aiuto io. Siediti.– si offrì Genzo.
Andrei sedette e, senza alcuna fatica, il giovane prese la valigia dell'altro e la sistemò sulla cappelliera.
Poi, occupò il posto accanto a quello del compagno e appoggiò la fronte contro il vetro del finestrone.
I suoi occhi si posarono sulle figure dei tedeschi, che erano rimasti ad attenderlo, e luccicarono di commozione. Erano ancora lì e attendevano la sua partenza.
Sollevò la mano in un breve cenno di saluto, poi girò la testa verso Andrei. Non poteva prolungare con loro un contatto doloroso, per quanto labile.
Avrebbe inasprito la pena per la sua partenza.
Poco dopo, con un breve scoppiettio, il pullman si mise in moto e si allontanò.


P.S.: sono tornata, dopo un periodo un po' infernale.
Spero che ora si sia concluso.
Sono riuscita a scrivere il capitolo della partenza di Genzo. Spero vi piaccia, anche se a me pare confusionario. Se avete obiezioni logistiche, fatemele sapere.
Che dite, vi piacciono i gusti musicali dei nostri? O avreste preferito altro? (no, non sono gruppi che seguo)

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Capitolo 16
*** Pausa ***


Nell'autobus, le persone leggevano, ascoltavano musica, discutevano, riempiendo l'aria di accenti sempre diversi.

Lo sguardo di Genzo, quasi assente, si fissava sui paesaggi, che scorrevano oltre il finestrino. Forse, aveva già lasciato la Germania.

Un lieve sorriso sollevò le sue labbra. Ne era certo, i problemi si sarebbero risolti.

Si voltò verso Andrei, che aveva appoggiato la mano sul ginocchio, e di tanto in tanto, contraeva le labbra in smorfie infastidite.

Che cosa hai? – domandò preoccupato. Il suo viso esprimeva dolore, per quanto contenuto.

Sforzi eccessivi. Ma sono fitte fastidiose, nient'altro.rispose Andrei.

Genzo aprì la bocca per controbattere, ma si trattenne. Quell'uomo era stato gentile con lui e gli dispiaceva vederlo soffrire.

Ma sarebbe stato stupido da parte sua consigliargli una visita medica.

Lui stesso aveva sforzato il suo corpo, pur di non abbandonare i suoi compagni di squadra.

No, non posso pensarci. Ormai non fa più parte della mia vita. Non serviva a nulla macerarsi nei rimpianti.

Senti, volevo farti una proposta. – dichiarò ad un tratto il rumeno.

Genzo gli lanciò uno sguardo attento e, con un cenno del capo, lo invitò a continuare.

Karl mi ha parlato di te. Mi ha detto che sei un giovane curioso, con grandi interessi culturali, anche se, a volte, hai un carattere scorbutico. – cominciò.

Un mezzo sorriso sollevò le labbra dell'asiatico. Quella definizione era legata ad un passato recente, che gli sembrava lontano.

La Romania è un paese meraviglioso. Tutti la associano a Vlad l'Impalatore, ma ha una storia molto più antica. – proseguì.

Sempre più perplesso, il nipponico alzò il sopracciglio.

I miei nonni e miei zii, spesso, mi portavano a vedere questi luoghi e, quando ne ho la possibilità, ci ritorno. Ti piacerebbe accompagnarmi? – domandò.

Genzo scosse la testa e fissò il suo compagno di viaggio. La proposta era stuzzicante, ma non poteva accettare.

Entrare in una zona turistica? Non vorrei essere riconosciuto. Meno esco allo scoperto, meglio è. – rispose.

L'ex rugbista sospirò, deluso.

Ti ringrazio per la proposta. Se fosse avvenuta in un'altra occasione, avrei accettato con entusiasmo. Ma rischierei di danneggiare anche te e non lo meriti. – rispose.

Andrei, a quell'affermazione, si lasciò andare ad un sorriso malinconico.

Non preoccuparti per questo. Non possono farmi più male di quello che già mi hanno fatto.



Diverso tempo dopo, l'autobus si fermò davanti ad un Hotel.

Genzo si irrigidì sul suo sedile e il suo cuore accelerò i battiti, come se volesse spaccargli le costole.

Andrei, con un gesto calmo, deciso, gli posò la mano sull'avambraccio.

A quel tocco, il portiere si rilassò e i battiti del suo cuore, prima rimbombanti, si ridussero ad un debole rintocco, come quello degli orologi.

Che succede? Dove siamo? – domandò l'asiatico.

Lo scacchista rumeno, per alcuni istanti, rifletté.

Non ne ho idea. Provo a chiedere informazioni. Tu, però, stai calmo. – disse Andrei.

Si alzò e, a passo rapido, si avvicinò al macchinista.

Per alcuni minuti, parlarono, poi Andrei tornò al suo posto e si lasciò cadere sul sedile.

Cosa ti ha detto il macchinista? – domandò l'ex portiere.

Forse, ha forato una ruota. Ci vorrà un po’ di tempo per risolvere il problema. Mi dispiace di non avere con me una scacchiera. Avrei cominciato a insegnarti qualcosa. affermò.

Genzo non rispose. Con suo sempre, maggiore stupore solo il ricordo di quel pestaggio alterava la calma del suo compagno.

E, doveva ammetterlo, invidiava tale serenità.


L’autobus, poco dopo, riprese il suo viaggio.

Andrei e Genzo, per alcuni minuti, rimasero silenziosi.

Puoi parlarmi degli scacchi? ─ domandò, ad un tratto, il portiere asiatico.

Lo scacchista rumeno gli sorrise e i suoi occhi brillarono di gioia. Nelle parole di Genzo scorgeva un interesse sincero per quel gioco magnifico.

E questo era un segnale di ottimismo.

Gli scacchi hanno una storia antichissima. Secondo una leggenda, l’inventore fu il persiano Sessa Ebu Daher, che presentò al re il gioco da lui inventato, ossia gli scacchi. O forse, si è fatto passare per tale. ─ cominciò.

Genzo, rapito dalle sue parole, ascoltava.


Diverse ore dopo, il mezzo si fermò nel parcheggio di un hotel.

L’edificio, di forma rettangolare, era piuttosto grande e, sulla facciata anteriore, si aprivano decine di finestre.

L’entrata era percorsa in entrata e in uscita da varie persone, che entravano e uscivano.

Gli occupanti del mezzo scesero dall’autobus e presero i loro bagagli.

Andrei fece per prendere una valigia, ma Genzo, con un gesto deciso, risoluto, gli fermò il braccio.

Che fai? ─ chiese, esterefatto.

Mi hai detto tu stesso che forzare la gamba ti fa male. Porterò io la valigia. ─ dichiarò Genzo, calmo.

Andrei, per alcuni istanti, tacque, turbato, poi accennò ad un sorriso imbarazzato.

Ti ringrazio.


Compiute le procedure necessarie, i due salirono le scale, percorsero un breve corridoio ed entrarono nella loro camera.

La stanza, di forma rettangolare, era di dimensioni medie e, al soffitto, d’un tenue color grigio, era appesa una lampada, dalla quale si spandeva una tenue luce gialla.

Al centro, a poca distanza l’uno dall’altro, erano collocati due letti singoli e, al muro, era appeso un quadro raffigurante la reggia di Schonbrunn.

Tra i letti, era una consolle lignea, su cui era posata una lampada da tavolo blu.

Sulla parete di destra, si apriva una finestra quadrata, coperta da tende bianche.

Con un sospiro, Andrei si lasciò cadere sul letto e chiuse gli occhi.

Complimenti. Il tuo racconto sugli scacchi è stato molto interessante. ─ affermò Genzo, appoggiando la valigia alla parete.

Andrei, sentendo quelle parole, sorrise, ma mantenne la sua posizione.

Solo una persona intelligente può apprezzare la storia e la bellezza di un gioco così bello. E io, modestamente, so riconoscere le persone intelligenti. O, almeno, credo di avere imparato a farlo. ─ dichiarò.

Il giapponese non rispose e si sedette sul suo letto. Andrei, con lui, condivideva un carattere chiuso.

In quel momento, però, aveva avvertito una nota d’amarezza.

Forse, poteva aiutarlo e ricambiare in parte la sua gentilezza.

Senti, mi insegneresti le regole degli scacchi? O sei stanco? ─ chiese.

A quella richiesta, il rumeno aprì gli occhi e si sollevò a sedere sul letto.

Certo. ─


Scacco matto! ─ scandì, decisa, la voce di Andrei.

Genzo scosse la testa, sempre più stupito. Di nuovo, il suo compagno aveva vinto.

La sua capacità di riflessione, pur elevata, non riusciva a cogliere di sorpresa quel fine stratega.

Non avere fretta. La genialità si crea, non nasce da sola. E questo non vale solo negli scacchi. ─ dichiarò il rumeno, pacato.

Grazie, Genzo. ─ affermò poi.

Il portiere fissò i suoi occhi neri, confusi, nelle iridi cerulee dell’altro.

Sei stato premuroso con me, ma hai rispettato la mia storia sportiva e la mia intelligenza. E non è da tutti. ─ affermò.

Il giocatore asiatico si irrigidì e il suo viso si imporporò. Nelle sue parole, avvertiva la vergogna per quel rimpianto controllato, ma mai scomparso.

Non scusarti. Piuttosto, riposiamoci. Il viaggio riprenderà presto. ─

Poco dopo, i due uomini si addormentarono.


P.S.: anche questa è stata una settimana abbastanza campale. Ho dovuto anche fare formattare il PC.

Spero vi piaccia questo capitolo. Mi rincresce di non averlo postato per Natale, ma tre bicchieri di prosecco mi hanno steso.

La frase di Andrei è di Laslo Polgar, padre di Judit, Zsuzsa e Zsofia, che era convinto che le sue tre figlie fossero brave negli scacchi per gli allenamenti da lui impartiti. Non so quanto essere d’accordo, dal momento che anche lui era scacchista.

Spero vi sia piaciuto questo intermezzo in Austria.

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Capitolo 17
*** Arrivo in Romania ***


La luce del sole nascente filtrò da una finestra semiaperta e si posò sul pavimento della stanza.

Di scatto, Genzo aprì gli occhi e si alzò a sedere. Quanto aveva dormito?

Non ho avuto incubi. O almeno non ricordo., si disse, sorpreso. Non era stato un sonno riposante, ma gli incubi non lo avevano tormentato.

Era un segnale positivo?

Ad un tratto, la porta del bagno si aprì e Andrei uscì, un asciugamano sui capelli ancora umidi.

Genzo aggrottò la fronte e fissò sull'ex rugbista uno sguardo perplesso.

No, non preoccuparti. Non sei tu ritardatario. Sono io ad avere bisogno di poche ore di sonno. – lo rassicurò.

Con un sospiro, l'ex portiere allontanò le lenzuola e si alzò in piedi.

Come va la tua gamba? – chiese.

Un mezzo sorriso sollevò le labbra dell'ex sportivo.

Per ora, non mi fa male. Ora, siamo in anticipo. Decidi cosa vuoi fare. – affermò.

Genzo, per alcuni istanti, rimase silenzioso.

Dammi il tempo di prepararmi. Poi, vorrei fare una partita a scacchi. – dichiarò, il tono deciso.

A quelle parole, un leggero sorriso sollevò le labbra del rumeno. L'allontanamento, pur straziante, aveva liberato la sua mente da parte delle sue angosce.

Forse, in un ambiente diverso, avrebbe visto la realtà nella sua interezza.


Diverso tempo dopo, i due salirono sull'autobus e si sedettero ai loro posti.

Andrei, posso farti una domanda? – domandò Genzo, cauto.

Di che si tratta? – chiese, a sua volta, l'ex rugbista.

Per alcuni istanti, il giovane asiatico tacque. Desiderava conoscere meglio quell'inaspettato amico.

Ma la domanda era troppo personale, ne era certo.

Guarda che non ti morderò il collo. Non sono discendente di Vlad l'Impalatore. – ironizzò Andrei, lo sguardo fisso sul paesaggio.

Come fai a non odiare chi ti ha fatto così male? – chiese il giovane.

A quella domanda, il corpo del paramedico si irrigidì e la sua mano si strinse a pugno.

Sono un idiota!, si disse il portiere asiatico, irritato con se stesso. Andrei non amava i rimpianti, ma il dolore di quel sogno spezzato non era svanito.

Ho la possibilità di vivere una bella vita, anche se diversa. Non posso sperperare un simile dono. L'odio è uno spreco di energie, perché rende importanti gli imbecilli. – rispose, il tono calmo.

Lo sportivo orientale lo fissò, perplesso. Quelle parole, così calme, non lo lasciavano indifferente.

Ad un tratto, l'autobus si rimise in moto e partì.


Diverso tempo dopo, il mezzo si fermò nella stazione di Bucarest Nord.

Un sospiro sgorgò dalle labbra di Genzo. La fine del loro viaggio era vicina.

Si alzò e fece per prendere le valigie, ma Andrei gli strinse la mano sul braccio.

Che c'è? – chiese il nipponico, meravigliato.

Ti darò una mano. Per ora, non sento fastidio alla gamba. – affermò l'altro, serio.

Genzo, per alcuni istanti, tacque, poi annuì.

Va bene, ma se il dolore ritorna, avvertimi. – dichiarò.

L'ex giocatore rumeno gli sorrise, divertito.

E' un compromesso accettabile. – affermò, calmo.

Poi, i due giovani uomini, seguendo il flusso dei viaggiatori, scesero dal mezzo.


Percorsero alcuni metri, poi Andrei comprò due biglietti del taxi e ne consegnò uno a Genzo.

Manca poco. Presto, potremo giocare a scacchi con tranquillità. – affermò l'europeo, ironico.

Si passò una mano sulla fronte, come per scacciare del sudore, e un fremito attraversò il suo viso.

Sicuro di stare bene? – chiese Genzo, la fronte corrucciata.

Di scatto, l'altro alzò le spalle in un gesto apparentemente noncurante.

Niente di irrisolvibile. Ma non sono abituato a viaggi troppo lunghi in autobus. Di solito, uso l'aereo per spostarmi. – spiegò.

Genzo fece per parlare, ma il taxi giunse e i due salirono.



Un po' di tempo dopo, davanti agli occhi dei due giovani, si materializzò un paesaggio collinare, costellato di boschi e case basse, vivacemente dipinte.

Persone di ogni età, sesso e condizione sociale percorrevano le strade, impegnati in varie attività.

Lo sguardo di Genzo, attento, contemplava il panorama.

E' bellissimo... Karl aveva ragione... – mormorò. Gli sembrava di essere in un quadro dai colori vivi.

L'amarezza velò i suoi occhi. Implacabile, riemergeva nella sua mente il ricordo di un addio amaro.

E, forse, il suo compagno di squadra si sentiva responsabile dell'accaduto.

Andrei, vorrei ripagarti in altro modo. Come? – domandò, ad un tratto.

L'interpellato, che era assorto nei suoi pensieri, si scosse e girò la testa verso di lui.

Come pagamento, mi bastano le partite di scacchi. Ma, se vuoi, puoi aiutarmi a imparare il giapponese. Io ti aiuterò col rumeno. fu la risposta.

Genzo aggrottò le sopracciglia, mentre un debole sorriso sollevava le sue labbra. Quell'uomo cercava di riequilibrare le sue offerte.

Quella gentilezza era per lui sempre sorprendente.


Scesero dal taxi e, a passo rapido, si incamminarono verso una casa a due piani, a pianta quadrata.

Il tetto, triangolare, era ricoperto di tegole rossastre e le pareti esterne, d'un tenue rosato, erano adorne di disegni floreali policromi.

Le finestre, di forma rettangolare, erano piuttosto grandi e, sulla facciata anteriore, si apriva una porta lignea.

Il giardino, piuttosto ampio, era circondato da una staccionata color blu, avvolta da rose canine dai petali bianchi.

Andiamo. Presto, ci potremo riposare. – affermò Andrei.

Fece alcuni passi, ma le fitte alla gamba, inesorabili, trapassarono il suo ginocchio.

L'europeo si morse le labbra e, a stento, frenò un'imprecazione.

Forse, ho esagerato. – sibilò.

L'asiatico sospirò e prese le valigie del compagno.

Porto io queste. Guidami. –


Percorsero il giardino ed entrarono nella casa.

Oltrepassato l'ingresso, giunsero in un'ampia sala, illuminata dalla luce dorata di una lampada, appesa al soffitto.

Le pareti, d'un intenso blu, erano ricoperte di disegni floreali e vi erano appesi quadri ad olio, raffiguranti paesaggi, santi e personaggi di entrambi i sessi, avvolti in abiti colorati.

Sul tavolo, era posato un vaso di ceramica bianca ad un'ansa, ornato di vivaci motivi floreali su pancia e collo.

Alla parete destra, era appoggiato un angolo cottura d'acciaio e, accanto a questa, era un frigorifero bianco, di dimensioni piuttosto contenute.

Un grosso divano letto azzurro era collocato al lato opposto e, a poca distanza, c'era un armadio di quercia rettangolare.

A poca distanza dell'armadio, era presente una credenza a doppio scomparto, con un vetro, nella quale era collocata una scacchiera a riquadri bianchi e verdi, coi pezzi degli scacchi.

Bene. Siamo arrivati. Cosa ne dici di iniziare una partita a scacchi? – domandò Andrei, un sorriso sulle labbra.

L'asiatico, con un cenno della testa, annuì.

Va bene. –



P.S.: sono tornata con questa storia. Spero di non abbandonarla di nuovo.

Sono un po' arrugginita, spero che non vi sia dispiaciuto.
Ho preferito lasciare un po' nel vago determinate descrizioni, per evitare di confondermi con troppi calcoli. Con me, la confusione è assicurata. Se c'è qualche castroneria, attribuitela alla mia imbecillità matematica.
E i due arrivarono nella terra del conte Dracula. Ho una piccola indecisione sulla trama, spero di poterla risolvere.









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Capitolo 18
*** Sorpresa ***


A passo rapido, Karl entrò nel cimitero di Monaco di Baviera, stringendo tra le mani un mazzo di orchidee bianche.
Diverse persone, di ogni etnia, sesso ed età percorrevano il sepolcreto e, di tanto in tanto, si fermavano davanti alle tombe.
Il giovane, di tanto in tanto, si fermava e lanciava sguardi inquieti, ora a destra, ora a sinistra. Con la partenza di Genzo, gli idioti avevano attenuato le loro intemperanze..
Tuttavia, l'ansia non era scomparsa.
Si passò una mano sulla fronte e un debole sospiro fuggì dalle sue labbra. Genzo, in Romania, si stava riprendendo.
Ma tale notizia, pur moderatamente positiva, non alleviava la sua amarezza.
E i suoi compagni condividevano questo sentimento.
Non è giusto. Lui non dovrebbe stare recluso., pensò. Andrei era stato generoso e gli aveva permesso di mantenere un contatto con Genzo.
Ma il suo posto non era in quel villaggio rumeno.
Si avvicinò ad una croce marmorea, ricoperta di fiori policromi, dai quali si spandevano profumi ora delicati, ora forti.
Su di essa, in caratteri dorati, risaltava la seguente scritta:

Andrea Schumann
7/12/1982 – 20/6/2007
Il Fato ci ha divisi
ma nulla può la morte contro la forza dirompente dell'amore.
Anche noi, presto, supereremo quella barriera
e un giorno ci rivedremo.

Karl si inginocchiò e, con garbo, posò il mazzo di orchidee a poca distanza dalla lapide.
– Mi dispiace per quello che ti è accaduto, anche se non ci siamo mai conosciuti. Nessuno merita quello che hai passato tu. – mormorò.
Fissò lo sguardo sull'epitaffio e un amaro sorriso sollevò le sue labbra. Quelle parole vibravano d'amore.
Capiva la dilaniante pena dei familiari di Andreas Schumann.
Allungò il braccio verso la pietra tombale, poi lo abbassò. No, non poteva sfiorare quella pietra.
Quel gesto, così affettuoso, apparteneva alla sua famiglia, che piangeva la sua tragica morte.
– Genzo, però, non ha nessuna colpa. Ha cercato di soccorrerti, anche se era ferito. – continuò.
Strinse il pugno e, a stento, frenò un'imprecazione. Che senso aveva un simile monologo?
Quel giovane sfortunato non poteva rispondergli.
Per alcuni istanti, rimase immobile, poi girò le spalle e si allontanò.
Ad un tratto, si fermò, si girò e lanciò brevi sguardi ora a destra, ora a sinistra. Non sapeva perché, ma sentiva qualcuno dietro di sé.
Si passò una mano tra i capelli biondi e un debole sospiro sgorgò dalle sue labbra. Forse, il trauma aveva acuito la sua sensibilità.
Ma non poteva cedere alla paura.

Diverso tempo dopo, l’auto si fermò davanti al campo di allenamento della nazionale tedesca.
Prese il suo borsone, scese e vi si avviò.
I giocatori, sotto lo sguardo vigile di Mike Gildo, si allenavano e correvano attorno al campo.
‒ Che cosa è successo? ‒ domandò il tecnico.
‒ Chiedo scusa per il ritardo. Ma dovevo fare una cosa che avevo rimandato da troppo tempo. ‒ spiegò il centravanti, serio.
L’allenatore corrugò le sopracciglia, poi annuì.
‒ Va bene. Vai a cambiarti. ‒

Diverso tempo dopo, un vigilante entrò nel campo e si avvicinò all’allenatore.
Questi, con un cenno della testa, annuì, poi prese il suo fischietto e soffiò.
Un lungo trillo risuonò nell’aria e i giocatori cessarono di allenarsi e si avvicinarono.
‒ Che succede? ‒ domandò Karl, stupito.
Per alcuni istanti, il vigilante tacque.
‒ Vi ricordate la sorella di quel ragazzo investito da Wakabayashi? Ecco… E’ qui. E vorrebbe parlarvi. ‒ spiegò.
Con un gesto stizzito, Hermann si schiaffeggiò la fronte con la mano.
‒ Che cazzo vuole? Non le basta che cosa è successo a Genzo? ‒ ringhiò, irritato.
Diversi giocatori, quasi accordandosi con le parole del mediano, cominciarono a parlare tra loro.
Con un gesto della mano, il tecnico invitò i giovani a tacere.
‒ Per me, lei non dovrebbe essere qui, ma Schneider e Kaltz sono i più coinvolti nella vicenda. Però, vi consiglio di non agire impulsivamente. ‒ affermò.
‒ A mio parere, non deve entrare in campo. Ma tu cosa ne pensi, Karl? ‒ domandò il mediano.
Per alcuni istanti, il giovane attaccante tacque e rifletté.
‒ Lasciamola entrare. Diamole il beneficio del dubbio. ‒

Poco dopo, Hilda entrò nel campo di allenamento.
‒ Benvenuta, signorina Schumann. Cosa possiamo fare per lei? ‒ chiese Karl, serio.
A quella domanda, la ragazza si strinse le mani e sbarrò gli occhi.
‒ Vorrei parlare con Wakabayashi. Sa dove posso trovarlo? ‒ domandò, il tono fermo.
D’istinto, Hermann avanzò d’un passo, ma Karl, con un gesto pacato del braccio, lo bloccò.
‒ Signorina, non è qui. E non sappiamo dove sia. ‒ affermò lui, deciso.
Lo sguardo di Hilda si adombrò e una ruga attraversò la sua fronte.
– Poi, non pensate che abbia sofferto abbastanza? – la interrogò, il tono vibrante d'una nota tagliente. Comprendeva la pena dei familiari di quel ragazzo sfortunato, ma non era riuscito a contenere la rabbia.
A quella domanda, Hilda sbarrò gli occhi e alzò le mani.
– Mi avete frainteso. Io non voglio accusarlo di nulla, anzi. Voglio chiedergli scusa, a nome dei miei genitori e del mio povero fratello. – spiegò lei.
Gli sguardi dei giocatori, perplessi, si fissarono sulla giovane.
– Perché questa scelta? – chiese Reiner, la fronte aggrottata.
Per alcuni istanti, Hilda tacque, come intimorita dall'imponente portiere.
– Per mio fratello, rinunciare a qualcosa di amato per proteggere qualcuno era un segno di generosità. Un campione annoiato non avrebbe mai fatto quello che ha fatto Wakabayashi. Mi dispiace di non averlo capito prima. – spiegò.
E’ sincera., si disse Karl. Aveva vinto il suo nervosismo, pur di perseguire il suo obiettivo e non aveva distolto lo sguardo né da lui, né da Bauer.
‒ Beh, meglio tardi che mai. ‒ commentò Hermann, il tono ironico.
Lo sguardo della giovane, ad un tratto, si indurì e strinse il pugno.
– Poi, pochi sono interessati alla tragedia di mio fratello. Vogliono avere un motivo per sfogare la loro stupidità. E la nostra famiglia non merita questo. – spiegò ancora.
‒ Signorina, le sue intenzioni sono lodevoli, ma Genzo, ora, non riuscirebbe a parlarle. E ne comprenderà il motivo. ‒ affermò Karl. Era felice del cambiamento di idee della sorella di Andreas Schumann, ma come avrebbe potuto influire sulla condizione del suo compagno?
‒ Ma non si può nemmeno aspettare che lui cambi idea spontaneamente. ‒ intervenne ad un tratto Reiner.
Perplessi, si voltarono verso il portiere.
‒ Che cosa intendi dire? ‒ domandò Hermann.
Il gigante incrociò le braccia sul petto e roteò gli occhi, seccato.
‒ Per me, avete fatto male a non parlare con i suoi compagni di nazionale. Loro devono sapere la verità. ‒ affermò, secco.
Hilda, stupita, sbarrò gli occhi e scrutò la squadra, quasi cercasse conferme alle parole del portiere.
Karl ed Hermann, per alcuni istanti, rifletterono. Forse, le parole di Bauer non erano insensate.
Ma come avrebbero potuto aiutare il loro compagno?

‒ Posso fare qualcosa per rimediare? ‒ domandò Hilda, dispiaciuta.
Un mezzo sorriso sollevò le labbra di Karl. Ricordava bene lo sguardo d’odio che lei, al processo, aveva loro rivolto.
Le sue intenzioni, pur nobili, l’avrebbero portata a compiere atti avventati.
‒ Sì, può fare una cosa. Non agisca d’impulso. Potremmo avere bisogno di lei. ‒ spiegò lui.
Lei, per alcuni istanti, tacque, poi annuì.
Poi, aprì la borsa, prese un blocchetto di appunti e una penna e vi scarabocchiò sopra.
‒ Mi affiderò a voi, dato che conoscete meglio Wakabayashi. Però, chiedo di essere informata su quello che fate. ‒ disse.
D’istinto, Karl annuì e prese il numero di telefono.
‒ Grazie per non avermi mandato via. Ah, Schneider, vi ringrazio per le orchidee. Sono fiori meravigliosi. ‒ affermò.
Il giocatore sbarrò gli occhi e un debole rossore velò le sue guance.
‒ Si figuri. ‒

Qualche tempo dopo, Hilda salutò i giocatori, volse le spalle al campo e si allontanò.
‒ Schneider, lei ti ha ringraziato. Perché? ‒ chiese l’allenatore.
Di nuovo, il centravanti tacque. Il ringraziamento di Hilda confermava la bontà delle sue opinioni, ma non riusciva a non sentirsi a disagio.
‒ Sei andato al cimitero e hai deposto dei fiori sulla tomba di quel ragazzo. Perché non lo dici? Non hai ammazzato cento persone a colpi d’ascia. ‒ intervenne Hermann.
A quell’osservazione, Karl gli scoccò un’occhiata irritata. A volte, odiava l’inopportunità del suo compagno di squadra.
Un mezzo sorriso sollevò le labbra dell’allenatore e posò la mano sulla spalla del centravanti.
‒ Kaltz ha ragione. Non hai nulla da nascondere. Lei ha apprezzato il tuo gesto. ‒
Per alcuni istanti, il giovane meditò sulle parole del tecnico, poi annuì.
‒ Forse, ha ragione. ‒
Poco dopo, ripresero gli allenamenti.

P.S.: bene, qualcosa comincia a muoversi.
La sorella di Andreas spero si sia mostrata intelligente. Vorrebbe chiedere scusa a Genzo, ma non può e si rende disponibile per aiutare i ragazzi a toglierlo dal suo esilio rumeno.
Ho usato l’allenatore della Germania nel manga del 1981 (non ricordo se appare anche nell’anime). Viene detto che è “un ottimo leader” e ho cercato di dargli un po’ di testa. (anche perché, nel manga, gli allenatori lasciano un WTF perenne).

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Capitolo 19
*** Nuova strada all'orizzonte ***


Karl, con un debole sospiro, controllò l’orologio, poi lanciò brevi sguardi, ora a destra, ora a sinistra.
Diverse persone di ogni età, etnia e ceto sociale percorrevano l’Englisher Garten.
Non sembra ci siano idioti in giro., pensò. Nessuno, per fortuna, fissava su di lui uno sguardo ostile.
Un sospiro sgorgò dalle sue labbra. Aveva appoggiato Genzo, pur non essendo concorde con la sua decisione di ritirarsi.
Però, quella tranquillità instillava dei dubbi nella sua mente.
Si passò una mano tra i capelli biondi. Le parole di Bauer non svanivano dalla sua mente.
Loro devono sapere la verità., si disse. Genzo non aveva voluto coinvolgerli in quell’assurda vicenda.
Ma cosa avevano pensato del suo silenzio impenetrabile?
Avevano sospettato qualcosa o si erano lasciati intrappolare dal sospetto?
Forse, Bauer ha ragione., pensò. I compagni di squadra di Genzo meritavano la verità.
La sua figura non doveva essere macchiata da nessun sospetto.

Siamo qui! ‒ urlò una forte voce maschile.
Il giovane girò la testa e vide avanzare verso di lui Hermann ed Hilda a passo sostenuto.
Chiedo perdono per il mio abbigliamento. Ma la mia professione di ballerina richiede ore e ore di allenamento e non mi sono potuta cambiare. ‒ spiegò lei.
Karl, perplesso, posò lo sguardo sulla figura snella della giovane, coperta da una tuta d’allenamento blu intera, e sul suo borsone, appoggiato su una spalla.
Signorina, siamo sportivi professionisti anche noi. ‒ affermò, un mezzo sorriso sulle labbra.
Già, non ci formalizziamo certo su simili stronzate. ‒ aggiunse Hermann, il tono ironico.
A quelle parole, il centravanti roteò gli occhi, poi si passò una mano sulla fronte.
Perplesso, Hermann aggrottò la fronte e incrociò le braccia.
Stai bene? La testa ti da’ problemi? ‒domandò, il tono ruvido, seppur affettuoso. Con la partenza di Genzo, le emicranie di Karl si erano ridotte, ma non erano scomparse.
Genzo, a poco a poco, si riprendeva, ma la preoccupazione di Karl non si allontanava.
A quelle parole, il centravanti sollevò le labbra in un sorriso.
Sto bene. Sono stanco, anche se non dovrei. ‒ rispose in fretta.
Hilda, ad un tratto, posò a terra il suo borsone, lo aprì e trasse una piccola borsa.
Che vuol fare? ‒ domandò Hermann, stupefatto.
Vado a prendere del caffè forte ad uno dei chioschetti. E’ ottimo contro il mal di testa. Mi potete guardare il borsone? ‒ chiese poi.
Fece per allontanarsi, ma Hermann la prese per un polso.
Lei si girò e fissò sul mediano uno sguardo sorpreso.
Un caffè è una buona idea. Ma lo prenderemo tutti e tre. ‒

I tre giovani, a passo rapido, si avviarono verso un chiosco, attorno al quale si affollavano diverse persone.
Ad un tratto, Hermann si fermò e tese l’orecchio.
Karl, d’istinto, afferrò il polso di Hilda e lei gli lanciò uno sguardo perplesso.
Che succede? ‒ domandò la giovane.
C’è odore di imbecilli nell’aria. Me ne occupo io. ‒ dichiarò Hermann, un sorriso beffardo sulle labbra sottili.
Karl avanzò d’un passo, ma una fitta di dolore, come una lama, attraversò la sua testa.
Il centravanti sbarrò gli occhi, poi, sopraffatto dal dolore, barcollò un poco.
Hilda, d’istinto, gli cinse le spalle con un braccio.
Sì, stagli accanto. Non voglio avere morti sulla coscienza. ‒ dichiarò Hermann, divertito.
Un veloce scalpiccio e un sibilo giunsero alle orecchie del mediano.
Di scatto, Hermann si girò.
Di gran carriera, giungeva un uomo bruno, tarchiato, armato di coltello, gli occhi ardenti d’odio.
Il difensore, con un movimento brusco del capo verso destra, schivò l’assalto, poi sollevò il ginocchio e colpì l’assalitore al ventre.
Questi, dolorante, cadde sul terreno.
Hermann, poi, gli afferrò il braccio, glielo torse dietro la schiena e lo costrinse a rilasciare il coltello.
Cosa state aspettando? Chiamate la polizia. ‒dichiarò, deciso.
Karl, con un cenno del capo, annuì e prese il suo cellulare.

Diverso tempo dopo, i tre giovani uscirono dalla centrale di polizia.
Signorina, che le succede? ‒ domandò Hermann. Per diverso tempo, lei non aveva detto alcuna parola.
Il suo sguardo era turbato.
Non avrei mai pensato che aveste sofferto così tanto. Mi sento colpevole per voi… ‒ confessò lei, amareggiata. Con quell’assalto insensato, la figura di suo fratello era stata offesa.
E lui non meritava un uso distorto del suo nome.
Non dica idiozie. Non ha certo incitato lei quei bastardi. ‒ sibilò Karl, la mascella contratta in uno spasmo d’ira. No, una simile situazione doveva cessare.
E, forse, sapeva cosa fare.
Per favore, potete venire a casa mia? ‒ domandò poi.
Per me non ci sono problemi. Per lei? ‒ chiese a sua volta Hermann.
Hilda prese il suo cellulare e chiamò i suoi familiari.
No, non preoccuparti mamma. Sono ancora tutta intera. Uno dei compagni di Wakabayashi ha difeso anche me. Anche per questo, devo aiutarli. ‒ dichiarò, decisa.
Parlarono ancora un poco, poi la giovane chiuse la chiamata.
Verrò anche io con lei. ‒

Diverso tempo dopo, i tre giovani raggiunsero un palazzo di forma rettangolare, la facciata anteriore coperta di mattoni.
Il tetto, triangolare, era sormontato da un abbaino, coperto di tegole rosso scuro.
I tre giovani attraversarono l’ingresso e salirono le scale.
Karl aprì la porta e i tre si introdussero nell’appartamento.
Con un sospiro, l’attaccante appoggiò la mano contro il muro. Il peso di quell’attacco era stato orribile.
Eppure, Hermann aveva difeso tutti e tre con la maestria di un combattente di strada consumato!
Qualche problema? ‒ chiese il difensore.
Di scatto, il Kaiser si girò e fissò uno sguardo risoluto ora sul compagno, ora su Hilda.
Sono stanco di queste menzogne! Questa storia deve concludersi! ‒ sibilò. Dubbi, ormai, non erano rimasti.
E che cosa pensi di fare? ‒ domandò Hermann, stupito. Comprendeva la ragione del suo compagno, ma come avrebbero potuto dare una svolta a tutto?
Per alcuni istanti, Karl tacque, le labbra strette in una linea diritta.
Voglio umiliarli e, se necessario, sbatterli in galera. La loro non è giustizia, è violenza insensata. ‒ commentò.
Dica pure manipolazione. ‒ intervenne Hilda, il tono lugubre.
A quelle parole, vibranti d’amarezza, il giovane campione scosse la testa.
Signorina, per questo avremmo bisogno del suo aiuto. E’ disposta a mettersi in gioco? ‒ chiese ancora.
Un leggero sorriso sollevò le labbra della ragazza.
Certo. E, se sarà necessario, sarò disposta a parlare coi suoi compagni. ‒ affermò, ferma.
Karl scosse la testa e, per alcuni istanti, fissò i suoi occhi cerulei nelle iridi simili della ragazza. Il suo sguardo era limpido, ma i compagni di Genzo l’avrebbero guardata con diffidenza.
Poi, lei era necessaria in Germania.
No, è meglio che parli io con loro. Lei può essere più utile qui. ‒ affermò.
La ragazza reclinò la testa da un lato e lo fissò, interdetta.
Quando i giornalisti la cercheranno, lei dovrebbe dire quello che pensa. Se la sente? ‒
Con un deciso cenno della testa, Hilda annuì.
Poi, si volse verso Hermann e gli appoggiò le mani sulle spalle.
Parla ai nostri compagni. Anche loro hanno il diritto e il dovere di dire la verità. ‒ affermò, risoluto.
Hermann, per alcuni istanti, tacque, poi annuì. Un grande peso, in quel momento, era scomparso dal suo petto.
Presto, tutto questo avrebbe avuto fine.
Prese le mani di Karl tra le sue e i suoi sottili occhi neri si specchiarono in quelli cerulei del compagno.
Conta su di me, capitano. ‒

P.S.: no, il caffè come medicinale per il mal di testa non è una mia invenzione. La caffeina può aiutare. Un esempio è la Coca – Cola. (a me, per esempio, aiuta coi mal di testa da stress)






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Capitolo 20
*** Un nuovo interlocutore ***


Karl ed Hermann parcheggiarono presso la Bavaria Academy Ballet.
Il sole si posava sugli ampi vetri dell’edificio, illuminandolo di riflessi dorati, mentre un debole vento soffiava tra i rami degli alberi.
Diverse auto erano presenti nell’area parcheggio e, di tanto in tanto, alcune persone uscivano dall’edificio, avviandosi verso le proprie vetture.
Poi, partivano e si allontanavano.
Sei sicuro della tua idea? ‒ domandò ad un tratto Hermann. Karl gli aveva accennato a qualcosa, ma percepiva una forte indecisione.
E non gli sembrava una buona premessa per la riuscita del suo piano.
A quella domanda, il giovane attaccante si passò una mano tra i capelli biondi. Il suo compagno di nazionale aveva saputo intuire le sue perplessità.
Vuoi la verità? Mi sembra di tradire la fiducia di Genzo. Andrei mi ha detto che, a poco a poco, si sta riprendendo. Ma credo sia anche giusto che i suoi compagni di nazionale conoscano la verità. ‒ mormorò. Non ci dovevano essere dubbi sulla morale del suo compagno di squadra dell’Amburgo.
Strinse le mani attorno al volante e un sospiro sgorgò dalle sue labbra. Cosa avevano pensato loro dell’improvvisa scomparsa di Genzo?
Alzò la testa e fissò lo sguardo sull’edificio.
Anche la signorina Schumann ha il diritto di conoscere le mie intenzioni. Anche perché devo chiederle un favore enorme. ‒ mormorò.
Perplesso, il mediano aggrottò la fronte. Queste novità incuriosivano anche lui.
Di che si tratta? ‒ chiese.
Presto lo saprai. ‒

Qualche minuto dopo, la ragazza uscì zoppicando dall’edificio, reggendo il borsone.
Karl, d’istinto, appoggiò la mano sul manico, ma Hermann, con un gesto deciso, gli bloccò il braccio.
Stai tranquillo. La aiuterò io. E’ meglio non correre rischi stupidi. ‒ affermò, risoluto.
Scese dall’auto e, di gran carriera, le andò incontro.
Signorina, che cosa è successo? Le è passato un treno sulla gamba? ‒ domandò.
Lei girò la testa verso di lui e le sue labbra si distesero in una linea diritta.
No, semplice tendinite alla caviglia. Infortunio comune per i danzatori. ‒ spiegò la giovane, calma.
Hermann, per alcuni istanti, la fissò, poi le passò un braccio attorno alle sue spalle.
Ehi! So camminare! ‒ esclamò lei, sorpresa.
Non lo metto in dubbio, ma non è il caso di fare sforzi inutili. E poi il suo borsone è sempre pesante. ‒

Hermann aiutò Hilda ad entrare nella macchina.
Salve, Schneider. Come si sente? ‒ lo salutò lei.
Per ora, non ho mal di testa. Vi ringrazio per la premura. ‒ rispose lui, calmo.
Poi, il suo sguardo si adombrò e abbassò le palpebre.
Signorina Schumann, ho intenzione di parlare coi compagni di nazionale di Wakabayashi. Penso che voi dobbiate saperlo. ‒ affermò.
Per alcuni istanti, la ballerina tacque, pensierosa.
Vi ringrazio per la vostra correttezza, ma non ne avevate già parlato al parco? ‒ domandò, meravigliata.
E’ vero, ma ho avuto modo di riflettere. Credo che voi dobbiate essere messa al corrente di tutto. Anche perché devo chiedervi un grosso favore. ‒ rispose il giovane.
Con un cenno deciso del capo, la ragazza annuì.
Vi ascolto. ‒

Per ora, parlerò con uno dei suoi compagni di nazionale, poi deciderò cosa fare. ‒ cominciò.
E dove andrete? ‒ domandò Hilda, attenta.
In Italia. Alcuni suoi compagni giocano lì. ‒ spiegò il capitano della nazionale tedesca.
Per alcuni istanti, la giovane tacque e si grattò il mento.
Che cosa c’è? ‒ domandò Hermann, stupito dall’improvviso silenzio di lei.
Non penso che tutti giochino nello stesso posto. Ci avete pensato, quando dovrete parlare a tutti? ‒ domandò.
Sì. Ma questo è un aspetto che valuterò in seguito. Un passo alla volta, mi comprende signorina? ‒
Lei gli posò una mano sul polso e fissò i suoi occhi cerulei nelle iridi simili di lui.
Comprendo. Non vi preoccupate. ‒

Mi avete detto che volete chiedermi un grosso favore. Di che si tratta? ‒ chiese poi la giovane.
Karl, per alcuni istanti, tacque e fissò su Hermann uno sguardo interrogativo.
Con un cenno del capo, il mediano annuì.
Signorina, nei limiti delle sue possibilità, le chiedo di venire allo stadio e di seguire le partite della nostra squadra. ‒ affermò lui.
La ragazza, per alcuni istanti, lo guardò perplessa, poi, con un cenno del capo, annuì.
Ho capito. Pensate di sfruttare la popolarità del calcio per dare un messaggio agli idioti. La mia presenza, in un simile luogo, sarebbe mediaticamente efficace. ‒ dichiarò, pacata.
Esatto. Sarete adeguatamente tutelata, anche dai miei compagni, ma non siete obbligata ad un simile passo. Se avete paura, vi comprendo. ‒
Un lieve sorriso sollevò le labbra di Hilda, mentre un’ombra malinconica velava i suoi occhi. Il garbo di Karl era quasi commovente, ma, in quel momento, era inutile e insensato.
No. Non ho intenzione di restare fuori. La memoria di mio fratello non deve diventare un pretesto per una inutile violenza. Farò quello che posso per aiutare tutti voi, ma ad una condizione. ‒
I due giocatori, perplessi, fissarono la giovane. Che cosa intendeva dire?
Vi prego di non usare il voi. Ho un nome. ‒ dichiarò lei, ferma. Una simile distanza non aveva più senso.
Loro meritavano il suo rispetto.
Karl ed Hermann, prima tesi, si rilassarono. Quelle parole donavano speranza ai loro cuori.
Va bene… Hilda. ‒

Diverso tempo dopo, il centravanti tedesco entrò nel suo appartamento.
Si lasciò cadere sul letto e, per alcuni istanti, rimase immobile, lo sguardo fisso sul soffitto. Hilda Schumann, prima loro avversaria, aveva cambiato idea ed era disposta ad aiutarli.
Non voleva ammetterlo, ma tale mutamento innestava una debole speranza di una risoluzione positiva della vicenda.
Si scosse dalle sue fantasticherie, prese il portatile e lo aprì e digitò il nome utente e la password del suo account e – mail.
Con calma, cominciò a scorrere la posta elettronica.
Il suo sguardo, ad un tratto, si concentrò su una mail appena arrivata, sepolto da centinaia di messaggi di spam.
Bene, ha risposto., si disse il centravanti, un sorriso leggero sulle labbra sottili. Genzo gli aveva parlato del carattere aspro di Kojiro Hyuuga, frutto di una vita dura.
Lo sguardo di Karl si incupì. Non commetteva un torto nei confronti di Tsubasa?
Si era ben accorto del legame affettivo tra il suo compagno di squadra e il capitano nipponico.
Forse, doveva essere il primo a conoscere le ragioni di Genzo.
Scosse la testa, risoluto. No, Tsubasa era d’animo limpido, ma non avrebbe compreso le ragioni del suo amico.
Anzi, avrebbe sentito su di sé il peso di un senso di colpa immotivato.
Con un movimento deciso, premette l’indice sul tasto destro del mouse e, qualche secondo dopo, la mail si aprì.

Ci ho messo un po’ di tempo a rispondere alla tua e-mail, Schneider.
Questo silenzio da parte vostra è stato snervante.
Perché non ci avete detto nulla delle condizioni di Wakabayashi?
Anche i suoi familiari erano disperati. E non meritavano questo. Ci avete pensato?
Per fortuna, fisicamente si è ripreso.
Però, ha deciso di continuare con questo silenzio.
E voi avete deciso di aiutarlo.
A mente fredda, posso capire le sue ragioni. Si sente colpevole della morte di quello sfortunato ragazzo.
Ne sono certo, è insopportabile, ma ha una morale.
Ma ha sbagliato. E avete sbagliato ad assecondare una simile decisione.
Non siamo stupidi. Lo avremmo aiutato.
Nessuno ha mai visto in lui un assassino.

P.S: se vuoi incontrarmi, vieni a Bologna, precisamente all’Università.



Un mezzo sorriso sollevò le labbra di Karl. Kojiro Hyuga, pur non comprendendo in pieno le ragioni di Genzo, si era schierato dalla sua parte.
Certo, nelle sue parole, si respirava rabbia, ma era comprensibile un tale sentimento.
Sì, iniziare con lui era la scelta migliore.
Spense il computer, lo chiuse e lo ripose nella sua custodia. Un altro peso si era allontanato dal suo cuore.
Provato dalla fatica, si lasciò cadere sul letto e si addormentò.










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Capitolo 21
*** Intervista ***



La squadra dell’Amburgo entrò nello stadio assieme a quella del Bayer Monaco.
Lo sguardo di Karl fissava un punto davanti a sé. Il chiasso del tifo giungeva alle sue orecchie.
Eppure, il dolore alla testa sembrava sopportabile.
Un mezzo sorriso sollevò le sue labbra. Forse, la speranza di una risoluzione positiva allontanava quella pena martellante.
Di tanto in tanto, lanciava occhiate fugaci agli spalti.
Ad un tratto, il suo sguardo si posò sulla figura snella di Hilda, seduta accanto a suo padre e una donna alta, non più giovane, dai lunghi capelli rossi.
La ragazza, quasi sentisse le occhiate del tedesco, alzò la mano in un breve cenno di saluto.
Un debole sorriso sollevò le sue labbra. Lei aveva mantenuto la promessa.
E, accanto a lei, erano presenti i suoi genitori.
Quello era un buon segnale.
Grazie., si disse, un lieve sorriso sulle labbra. Lei era riuscita a convincere i suoi genitori a venire allo stadio.
Questo era un risultato migliore di quanto si potesse sperare.
Si scosse dai suoi pensieri e, poco dopo, si avvicinò per il sorteggio.

Al fischio dell’arbitro, le squadre cessarono di giocare ed entrarono negli spogliatoi.
Hilda, sei sicura dell’utilità della nostra presenza? ‒ domandò la donna, il tono dubbioso.
Sì, mamma. Dobbiamo essere chiari. Nessuno di noi è d’accordo con la violenza ingiustificata. ‒ rispose la giovane, lo sguardo fisso sul campo. Non poteva non comprendere il timore di sua madre, dopo quanto era accaduto giorni prima.
Ma la sua onestà le imponeva di continuare la sua battaglia.
Susanna, nostra figlia ha ragione. Troppi si stanno servendo di Andreas, senza nemmeno chiedere la nostra opinione. ‒ intervenne l’uomo, lo sguardo cupo e la fronte aggrottata.
La donna si girò verso il coniuge e fissò su di lui i suoi occhi azzurro scuro, velati da un forte turbamento.
L’uomo, per alcuni istanti, strinse le labbra e il suo sguardo vagò sullo stadio.
Per mesi, noi ci siamo nascosti dietro al lutto, per non affrontare la verità. Odiavamo Wakabayashi perché è sopravvissuto, al contrario di Andreas. Ma la morte di nostro figlio è stata una tragica fatalità… ‒
Si interruppe e, d’istinto, coprì la bocca con la mano, mentre le lacrime cadevano dai suoi occhi cerulei. Davanti ai suoi occhi, si materializzava l’immagine del corpo di suo figlio, steso sull’asfalto, come un manichino ormai inutile.
Susanna strinse le labbra e gli posò una mano sul braccio. Il suo meraviglioso marito, come lei, soffriva per la morte del loro amato figlio.
Ma era riuscito a vedere gli eventi da un punto di vista differente.
Hilda, d’impeto, lo abbracciò e posò la testa bionda sulla sua spalla. Il tempo non aveva placato la loro pena per Andreas.
Genzo Wakabayashi è un ragazzo, come lo era Andreas. E, a causa di una violenza insensata, si è allontanato dalle persone a lui care. Non so come faccia a sopportare un tale peso. Io, al suo posto, impazzirei, se non dovessi vedervi più. ‒ spiegò lui.
Susanna, con un cenno del capo, annuì. In quel momento, il suo pensiero correva ai genitori del campione giapponese, privi di sue notizie.
E lei non era certa della sua reazione, se fosse accaduto a lei.
Rise di sé e la sua mano, leggera, accarezzò ancora il braccio di Martin. No, non doveva mentire a se stessa.
Anche lei avrebbe vissuto come un incubo una simile eventualità.

Al termine della partita, le due squadre rientrarono negli spogliatoi.
Hilda e i suoi genitori, seguendo il flusso degli spettatori, si avviarono verso l’uscita.
Figlia mia, ho una proposta da farti. ‒ mormorò ad un tratto Susanna.
Di che si tratta? ‒ domandò la ragazza, stupita.
Susanna fece per rispondere, ma alcuni giornalisti si avvicinarono, i microfoni protesi.
Senza alcuna esitazione, Hilda si parò davanti ai suoi genitori, come uno scudo.
Signorina Schumann, è un po’ strano vedere in uno stadio una persona come lei. ‒ esordì un giornalista alto e magro, il tono pacato.
La ballerina aggrottò le sopracciglia e fissò sull’interlocutore uno sguardo imperscrutabile.
Per quel che ricordo, nessuna legge proibisce a me e alla mia famiglia di frequentare gli stadi. ‒ rispose lei, ferma. Non le piaceva quell’affollamento di esponenti della carta stampata.
Sorpreso dalla risposta della giovane, il giornalista, per alcuni istanti, tacque.
Signorina, fino a poco tempo fa la sua opinione era diversa. ‒ continuò l’uomo, un lampo ironico negli occhi metallici.
Hilda, a stento, frenò un sospiro di disappunto. Comprendeva quello che aveva sofferto Wakabayashi con l’assalto di una stampa stupida.
Sa, si può cambiare idea nel corso dei mesi, se si è abbastanza intelligenti. ‒ rispose lei, il tono vibrante di sarcasmo.
Il sorriso sul viso del giornalista si accentuò.
E’ vero, ma la gente mormora. Ci ha mai pensato? ‒ chiese ancora.
Di scatto, Susanna avanzò d’un passo, gli occhi castani ardenti d’ira. Come osavano parlare così della loro famiglia?
Hilda, con un movimento deciso del braccio, bloccò la madre.
Poi fissò un breve sguardo sul personale segalino del suo interlocutore e i suoi occhi si fermarono sul badge dell’uomo, a destra del petto, su cui risaltava il nome Oskar Weber.
Mamma, non è il caso. Non si può sprecare il proprio tempo con chi proietta sugli altri la propria stupidità. E il signor Weber non fa onore alla sua professione. ‒ affermò lei, la voce apparentemente calma. Forse, avrebbe potuto essere condannata per diffamazione, ma non le importava.
Nessuno doveva permettersi di mettere in dubbio il loro affetto per Andreas.
L’uomo, colto di sorpresa dalla risposta della ragazza, ansimò, come un pesce spiaggiato.
E ora, scusate, dobbiamo andare. ‒ affermò.
Girò le spalle e, a passo rapido e deciso, si allontanò, presto seguita dai suoi genitori,

Qualche tempo dopo, uscirono dallo stadio e si avviarono verso il parcheggio.
Mamma, qual è la proposta che mi volevi fare? ‒ chiese Hilda.
La donna fece per rispondere, ma un deciso calpestio fece voltare tutti e tre.
Videro Karl ed Hermann avanzare a grandi passi verso di loro, le spalle gravate dai loro borsoni.
I ruoli si sono invertiti, signorina. ‒ ironizzò Hermann.
A quell’affermazione, le labbra della giovane si sollevarono in un sorriso divertito. Era ben felice di avere cambiato idea.
Malgrado le apparenze, quei ragazzi si stavano rivelando intelligenti.
E io rispondo come te: non formalizziamoci su simili idiozie. Anche io sono sportiva. ‒ replicò lei.
Perplessi, Martin e Susanna fissarono Karl e il centravanti scosse la testa in un gesto rassegnato.
Hermann, non è il momento. Signori Schumann, io e il mio compagno siamo qui per ringraziare vostra figlia. E’ una ragazza coraggiosa. ‒ mormorò, il viso velato d’un tenue rossore.
Karl, hai problemi di memoria? Anche i signori meritano il nostro ringraziamento. ‒ affermò Hermann, ironico. La loro presenza era un segno di speranza.
Non dovevano mostrare alcuna chiusura.
Con un gesto deciso il mediano prima strinse la mano di Martin, poi di Susanna.
Come avrete capito, siamo qui perché Hilda ha deciso di aiutarvi. All’inizio, non eravamo d’accordo con la sua scelta, ma abbiamo cambiato idea anche noi. Possiamo aiutarvi in qualche modo? ‒ chiese Martin.
Karl, a stento, frenò un sospiro. Quello sguardo rispettoso riempiva il suo cuore di soddisfazione.
Eppure, non poteva non sentire la mancanza di Genzo.
Karl, sei diventato una statua di sale? ‒ intervenne il difensore, ironico.
A quelle parole, il capitano tedesco si scosse e si passò una mano sulla fronte.
Continuate a combattere per la verità. E, quando potete, venite allo stadio. Niente di più, niente di meno. ‒ spiegò poi.
Susanna scosse la testa e strinse le labbra, quasi non condividesse le loro parole.
Sì, è una proposta di buonsenso, ma non basta. ‒ commentò.
Tutti, perplessi, fissarono su di lei sguardi perplessi.
Io, tra tre mesi, organizzerò una mostra al Museo Internazionale Marittimo di Amburgo. Vorrei invitarvi tutti e tre. Ma, se non sarà possibile, vorrei potergli parlare. Ne sono sicura, Martin lo desidera quanto me. ‒ spiegò lei.
L’uomo, con un deciso cenno della testa, annuì.
Il corpo di Karl si irrigidì, come una sbarra di metallo e, d’istinto, strinse i pugni. L’enormità del suo compito gli aveva procurato una vertigine.
Hermann appoggiò la mano sulla sua spalla e gli rivolse un sorriso incoraggiante.
Le membra del giovane si rilassarono e il giovane campione annuì. No, non poteva lasciarsi frenare da paure insensate.
Guardò prima Hilda, poi Martin e Susanna. La loro offerta era degna dei suoi sforzi.
Farò quello che posso. ‒

1) Ogni promessa è debito. Hilda è venuta allo stadio e ha portato i suoi genitori.
2) Si vede la mia rigidità nei dialoghi? In venti e passa anni di fanwriting, ho scritto pochissime long. (tutta abbozzate) Spero di riuscire a completare questa.












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