Guardare oltre di Fiore di Giada (/viewuser.php?uid=695733)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Collisione ***
Capitolo 2: *** Un triste risveglio ***
Capitolo 3: *** La generosità del Kaiser ***
Capitolo 4: *** Dall'avvocato ***
Capitolo 5: *** Il giorno della verità ***
Capitolo 6: *** Incertezze ***
Capitolo 7: *** Si rompono le catene? ***
Capitolo 8: *** Quiete prima della tempesta ***
Capitolo 9: *** Un ritorno problematico ***
Capitolo 10: *** Disastro annunciato ***
Capitolo 11: *** Semi di dolore ***
Capitolo 12: *** La bomba scoppia ***
Capitolo 13: *** La scelta della meta ***
Capitolo 14: *** La proposta di un amico inaspettato ***
Capitolo 15: *** Una triste partenza ***
Capitolo 16: *** Pausa ***
Capitolo 17: *** Arrivo in Romania ***
Capitolo 18: *** Sorpresa ***
Capitolo 19: *** Nuova strada all'orizzonte ***
Capitolo 20: *** Un nuovo interlocutore ***
Capitolo 21: *** Intervista ***
Capitolo 1 *** Collisione ***
Lo
sguardo di Genzo, attento, scrutava la strada e le sue mani, ferme,
stringevano il volante.
Il
sole tramontante colpiva coi suoi raggi gli alberi, i cartelli e gli
edifici e le colorava di un vivo colore arancione.
Le
automobili percorrevano la strada in entrambi i sensi di marcia,
mentre decine di persone camminavano nelle aree pedonali o entravano
e uscivano dagli edifici.
Un
mezzo sorriso sollevò le labbra del portiere. Aveva fatto la
scelta migliore per la sua prima giornata di vacanza.
Una
serata a teatro sarebbe stata piacevole per lui e gli avrebbe
permesso di rilassarsi, dopo le fatiche calcistiche.
E
a Monaco di Baviera, al National Theater, era in programma Parsifal,
con dei costumi sontuosi e degli attori validi.
Un
fremito di piacere attraversò il suo corpo. La sua permanenza
in Germania gli aveva permesso di apprezzarne la cultura.
Lo
studio era stato fruttuoso, seppur duro, e gli aveva dato la
possibilità di allargare la sua mente.
Il
gioco del calcio rimaneva il suo principale interesse e non vi
avrebbe mai rinunciato, ma aveva imparato a godere di altri raffinati
piaceri.
La
musica classica si era rivelata una insperata fonte di divertimento
per lui e il suo musicista preferito era Richard Wagner.
Le
sue melodie riuscivano a stuzzicare la sua fantasia e a evocare le
immagini di un mondo sublime, popolato di dame e cavalieri.
Ed
egli era desideroso di lasciarsi avviluppare dalla magia di quelle
note.
Ad
un tratto, da una strada laterale , apparve un motociclista, in sella
ad una Ducati rossa.
Genzo
sbarrò gli occhi, sorpreso. Impallidì.
Poi,
strinse le mani sul volante e premette il piede sul freno. No, doveva
impedire una tragedia!
L’auto,
tuttavia, non si fermò e investì la Ducati.
La
moto cadde e il corpo del motociclista venne sbalzato a diversi metri
di distanza.
L’energia
dell’impatto piegò il metallo del paraurti e il
parabrezza, con un forte scricchiolio, si infranse.
Il
braccio destro del giovane si piegò in un angolo innaturale e
l’osso squarciò la pelle.
Poco
dopo, l’atleta nipponico si accasciò sul volante, quasi
privo di conoscenza. Era dunque finita?
Sarebbero
morti insieme?
La
BMW, con un lungo, fastidioso stridio, si fermò, lasciando
solchi neri sull’asfalto.
Pochi
istanti dopo, Genzo aprì gli occhi, poi spalancò la
portiera e scese dall’automobile.
Il
suo braccio destro pendeva inerte e una lesione piuttosto ampia, si
apriva all’altezza del gomito, facendo emergere un pezzo di
osso.
Il
suo volto, bianco d’angoscia, era sfregiato da escoriazioni e
lividi e dai suoi occhi, rossi di spavento, sgorgavano lacrime.
Ansimando,
si avvicinò al corpo del motociclista, che giaceva sulla
strada, in una pozza di sangue.
Si
chinò e, cauto, posò la mano sinistra sul collo del
centauro, sinistramente reclinato sulla spalla.
Sbarrò
gli occhi e una debole speranza palpitò nel suo cuore. Sentiva
un flebile battito contro le sue dita.
Forse,
c’era una possibilità di salvargli la vita.
Ma
non doveva perdere tempo.
Ogni
istante era prezioso.
Girò
la testa e i suoi occhi fissarono i presenti, che assistevano,
pietrificati.
– Chiamate
un’ambulanza e la polizia! Presto! – gridò, angosciato.
No, non doveva lasciarlo morire.
Non
se lo sarebbe mai perdonato.
Allungò
la mano verso il torace del centauro. Forse, poteva fare qualcosa.
Doveva
tentare una prima manovra di soccorso, affinché le possibilità
di un esito positivo aumentassero.
Per
fortuna, grazie ad un corso, conosceva la rianimazione
cardiopolmonare.
Una
mano, ferma, si posò sulla sua spalla sinistra e il giovane,
d’istinto, si girò.
Vide
un uomo tarchiato, con corti capelli biondi e occhi verdi, nascosti
dietro occhiali quadrati, dalla montatura sottile.
– Che
vuoi? – gridò, la voce vibrante di angoscia rabbiosa.
Perché lo aveva fermato?
Non
comprendeva.
– Con
il braccio in quello stato, non puoi fare nulla. Lascia che sia io a
fargli il massaggio cardiaco. Sono un paramedico. – affermò
l’uomo in un tedesco perfetto, seppur macchiato da un lieve
accento rumeno.
Il
giovane nipponico ansimò e lo fissò, quasi stupito, poi
abbassò lo sguardo sul suo braccio destro.
– Sì…
Ha ragione. – ammise, il tono colpevole.
Vedendo
la ferita dell'asiatico, l'uomo imprecò, poi prese dalla
tasca destra della giacca un fazzoletto di seta e glielo consegnò.
– Che...
Che cosa ci devo fare? – domandò il giocatore.
– Premilo
sulla ferita. Purtroppo, non ho garze sterili. Per fortuna, è
pulito. – spiegò.
Genzo
annuì e premette la stoffa sulla lesione.
Il
rumeno annuì, si inginocchiò e abbassò la zip
della tuta del motociclista.
Poi,
posò le mani sul suo petto e cominciò il massaggio
cardiaco.
Il
lungo fischio di tre sirene, ad un tratto, lacerò l’aria.
Due
ambulanze, accompagnate da tre auto della polizia, si fermarono.
Qualche
istante dopo, le porte dei mezzi si aprirono e scesero due squadre di
barellieri.
Una
di queste si avvicinò a Genzo e il giovane venne disteso sulla
barella.
Un
poliziotto scese dall’automobile e, a passo rapido, si avvicinò
a loro.
– Avrei
bisogno di fare delle domande al guidatore. E’ possibile? –
chiese, monocorde.
Genzo
provò a parlare, ma solo flebili lamenti uscirono dalle sue
labbra livide, come se avesse dei sassi in gola. Gli sembrava di
soffocare…
Eppure,
doveva rivelare la verità alla polizia!
Non
doveva fuggire dalle sue responsabilità.
– Tragga
lei le sue conclusioni. E’ cosciente, ma ha bisogno di cure
immediate. – rispose uno dei soccorritori, severo.
Il
poliziotto lanciò uno sguardo perplesso a Genzo, poi fissò
i soccorritori.
– Va
bene. Ma, a tempo debito, faremo le nostre indagini. –
dichiarò.
I
barellanti non risposero e rientrarono nell’ambulanza.
Qualche
minuto dopo, partì.
Genzo,
perplesso, squadrò i soccorritori. Perché si erano
affaccendati attorno a lui?
L’incidente
era stato dannoso per quel motociclista, che era stato sbalzato a
diversi metri di distanza dall’impatto con la sua auto.
Quali
danni aveva riportato? Poteva essere salvato?
Certo,
quell’uomo era intervenuto e gli aveva effettuato un efficiente
massaggio cardiaco, ma sarebbe bastato?
Gli
era parso che il motociclista avesse il collo spezzato.
Ma
poteva essere una sua impressione errata, dettata dall’angoscia.
Doveva
essere un suo errore di valutazione!
A
lui sarebbe bastata una ingessatura, perché aveva una semplice
frattura ad un braccio e simili danni non avevano bisogno di cure
immediate.
Il
suo respiro accelerò e il suo sguardo si fissò in un
punto indefinito. Aveva quasi ucciso una persona per il suo desiderio
di andare a teatro…
Una
splendida serata, per lui e per quello sfortunato sconosciuto, si era
tramutata in un incubo.
Deboli
ronzii giungevano alle sue orecchie e l’ambiente, davanti ai
suoi occhi, cominciò a scolorirsi, come fosse coperto da
nebbia grigia . Non sapeva perché, ma non riusciva a vedere
nulla.
Che
cosa stava succedendo?
Il
suo fisico era prossimo al collasso?
Eppure,
si era solo fratturato un braccio e simili lesioni non erano
portatrici di complicanze gravi.
Qualche
istante dopo, l’oscurità velò i suoi occhi e
perse i sensi.
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Capitolo 2 *** Un triste risveglio ***
Genzo,
con fatica, sollevò le palpebre.
Una
densa tenebra, come la volta d’un sarcofago, sovrastava il suo
sguardo, mentre il suo corpo era inerte, quasi pietrificato da un
incantesimo.
Cauto,
provò a stringere la mano a pugno.
Una
fitta di dolore, implacabile, trapassò la sua spalla.
Genzo
sbarrò gli occhi, aprì la bocca e un flebile rantolo
morì sulle sue labbra, simile al lamento d’un animale
agonizzante.
Ansimò
e strinse gli occhi, cercando di frenare le lacrime, che minacciavano
di rigargli le guance. Quella sofferenza, come una stilettata, gli
aveva ricordato l’accaduto.
Era
stato coinvolto in un incidente terribile ed era sopravvissuto.
Il
forte dolore, che si irradiava lungo tutte le sue membra, era un
segnale di vita.
Eppure,
non riusciva a sentirsi sereno.
Il
suo istinto lo avvertiva di un evento tragico, malgrado fosse
sopravvissuto.
Che
cosa era successo? Perché sentiva una tale, orribile emozione?
Sbatté
le palpebre e l’oscurità si dissolse.
Si
accorse di essere disteso su un letto d’ospedale, collocato in
una stanza rettangolare.
Una
lampada a neon, appesa al soffitto, illuminava d’una luce
gialla l’ambiente e una finestra si apriva sulla parete di
destra, rivelando un giardino alberato, immerso nella luce del sole
primaverile.
Immersa
nel suo braccio sinistro, era una flebo, da cui gocciava soluzione
fisiologica
– Ben
svegliato, bell’addormentato! – urlò una voce
maschile, vibrante di gioia.
Il
giovane girò la testa e, seduto accanto al suo letto, scorse
Hermann Kaltz, mentre, appoggiato al muro, era Karl Heinz Schneider,
le braccia incrociate sul petto.
Per
alcuni istanti, il giovane nipponico fissò sui suoi amici uno
sguardo confuso, stralunato. Malgrado le loro espressioni ferme e
controllate, scorgeva sui loro visi l’ombra della tensione.
Ed
era ben differente dall’emozione di una partita.
– Che
cosa è successo? Mi sembra di essere qui da molto tempo. E non
capisco perché… – domandò, sorpreso.
Un
mezzo sorriso sollevò le labbra di Karl.
– Sei
stato dieci giorni in stato di coma farmacologico. Hai riportato una
frattura esposta al braccio destro e ha preso infezione. Hai avuto
anche febbre alta. – rispose Karl, pacato. Quando aveva
ricevuto la notizia dell’incidente del suo amico nipponico, si
era sentito travolgere da un’ondata d’angoscia.
Aveva
creduto di perderlo.
Quasi
era crollato, vedendolo inerme, abbandonato sul letto, circondato dai
macchinari della terapia intensiva.
Si
era affezionato a quell’ombroso giovane nipponico e quei dieci
giorni erano stati un crudele logorio.
L’ansietà
aveva reso difficoltoso il suo gioco, perché faticava a
trovare la concentrazione.
Per
fortuna, si è ripreso., pensò. Certo, era debole e
provato, ma era vivo.
Con
un’adeguata cura, avrebbe potuto tornare a giocare a calcio.
Irrigidì
la mascella. Certo, era sopravvissuto, ma quel terribile incidente
non era rimasto privo di conseguenze.
E
Genzo doveva conoscere la verità.
Ma
come avrebbe potuto dirgliela, senza annientare il suo spirito?
Genzo,
accortosi del mutamento d’umore del compagno, sussultò.
In quel momento, un solo pensiero poteva turbare la calma granitica
del suo amico tedesco.
E
il ricordo di quell’orribile evento, prima nebuloso, si
spiegava nella sua mente, come una lugubre pellicola.
L’incidente
aveva coinvolto lui e un motociclista e a quel giovane era toccata la
sorte peggiore.
Ricordava
bene l’incoscienza del suo corpo, a stento animata dal debole
battito del cuore.
Gelidi
brividi attraversarono la sua schiena, come scosse elettriche, e la
sua mano sana si strinse attorno al lenzuolo del letto. Che cosa era
accaduto a quel motociclista?
Era
vivo? Era morto?
Un
nodo gli strinse la gola. No, non poteva essere accaduto.
Entrambi
dovevano essere sopravvissuti a quella violenta collisione.
Certo,
erano feriti, ma dovevano essere vivi.
Entrambi
dovevano riprendere a condurre le loro esistenze.
Cauto,
girò la testa e il suo sguardo cupo, lucido d’affanno,
si fissò in quello ceruleo di Karl.
– Per
favore, dimmi cosa è successo. Devo saperlo. – mormorò,
supplichevole.
Il
giovane calciatore tedesco provò a parlare, ma le parole
rimasero imprigionate, come se le sue labbra fossero coperte di
colla. Aveva sempre creduto che la verità rendesse liberi, ma,
in quel momento, non riusciva a proferire parola.
L’angoscia
dell’amico gli rendeva arduo un simile compito e sentiva la
gola stretta, come se gli avessero applicato una garrota.
– E’
morto. – intervenne Hernann, lapidario.
Karl
lo fulminò con lo sguardo e, a stento, trattenne un ringhio di
furore.
Un
pallore spettrale si diffuse sul viso di Genzo e ansiti sempre più
rapidi sollevarono il suo petto.
Strinse
la mascella e chiuse gli occhi, cercando di frenare le lacrime. Non
c’era più speranza.
Si
era macchiato d’omicidio.
Le
sue mani erano rosse di sangue.
Con
la sua macchina, aveva distrutto una famiglia e distrutto le speranze
e i sogni d’un innocente.
Brevi
singhiozzi, ad un tratto, straziarono il suo petto e, d’istinto,
girò la testa dalla parte opposta.
– L’ho
ucciso… L’ho ucciso… – balbettò.
Avrebbe dovuto essere più reattivo, come era sui campi di
calcio!
– Ehi,
guarda che tu non hai colpa. Sarebbe morto in ogni caso! –
affermò Hermann.
– Usciamo.
Genzo, se hai bisogno di qualcosa, non esitare a chiamarci. –
intervenne Karl, con tono imperioso. La reazione di Genzo era
limpida.
Lo
sconcerto e il dolore l’avevano annientato e desiderava
rinchiudersi nella solitudine, per non rivelare a nessuno la sua
pena.
Il
suo desiderio di solitudine e riservatezza meritava rispetto.
Perplesso,
il centrocampista seguì il capitano tedesco.
Percorsero
alcuni metri e si fermarono davanti ad un distributore.
– Ti
sembra il caso, Kaltz? – lo aggredì Karl. Con quelle
parole, prive di qualsiasi delicatezza, Hermann si era confermato un
completo idiota.
Genzo
era appena uscito da un danno potenzialmente mortale e la notizia
della morte di quello sfortunato motociclista lo aveva annientato.
Aveva
visto negli occhi del suo compagno la tenebra del rimorso.
– In
un modo o nell’altro, lo avrebbe saputo. E nutrire speranze
irrealistiche gli avrebbe fatto ancora più male.–
rispose Hermann, piccato. Non voleva provocare dolore ad una persona
da lui rispettata e ammirata, ma la menzogna gli sembrava un insulto
all’intelligenza del portiere.
Non
era stupido e si era ben accorto del disagio di Karl.
Si
passò una mano tra i corti capelli biondi. In quei giorni, per
loro assai duri, erano andati in onda servizi giornalistici
vergognosi, che dipingevano Genzo con i colori dell’infamia.
Davano
di lui un ritratto di ricco annoiato e cinico, assolutamente lontano
dalla realtà, che aveva investito un motociclista sfortunato
per il puro piacere della velocità.
Oltre
al dovuto procedimento in tribunale, lo attendeva un delirante
processo mediatico.
I
mezzi di comunicazione di massa si erano assunti il ruolo di giudice,
giuria e boia.
Sentì
un accesso di nausea montare alla bocca, come un fiotto di veleno.
Come poteva la gente essere tanto stupida?
Eppure,
avevano avuto modo di conoscere la limpidezza di Genzo, ben celata
dalle sue maniere ruvide.
– Karl,
c’è un altro problema. – mormorò il
difensore.
Con
un cenno della testa, l’attaccante della nazionale tedesca lo
invitò a continuare.
– A
causa della setticemia, non poteva andare a testimoniare in
tribunale. Adesso la situazione è cambiata e dovrà
farlo. Ma, in quelle condizioni, non è in grado di scegliersi
un avvocato. – spiegò.
Karl,
a stento, trattenne una risata cinica e amara. Nel suo stato attuale,
Genzo non era in grado di creare un pensiero semplice.
La
sua mente era dominata da un rimorso cieco e si macerava nel
tormento.
– Sì,
hai ragione. E penso sia il caso che ci pensiamo noi. –
affermò.
Hermann
corrugò le sopracciglia, perplesso.
– Perché?
Pensi che la sua famiglia o lo staff della nazionale giapponese non
si preoccuperebbero per lui? – domandò.
– No.
Anzi, sono sicuro che non si tirerebbero indietro pur di aiutarlo. Ma
il diritto giapponese e quello tedesco non sono uguali. Non del
tutto, almeno. – rispose, pacato. Non metteva in dubbio la
sollecitudine della famiglia Wakabayashi e della nazionale nipponica,
ma preferiva affidarsi ad un legale teutonico, ben addentrato
nell’ambiente giudiziario.
Un
avvocato nipponico, per quanto esperto e abile, avrebbe potuto essere
ingannato e il loro amico e rivale aveva bisogno della migliore
assistenza.
– Capisco.
Non perdiamo tempo. – affermò Hermann.
Karl
annuì e i due giovani si avviarono verso l’uscita
dell’ospedale.
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Capitolo 3 *** La generosità del Kaiser ***
Karl
posteggiò l'auto nell'ampio parcheggio della Therapiepunk.
Poi,
sollevò il polso destro e guardò il suo orologio. Tra
poco, Genzo sarebbe uscito dalla clinica.
Per
fortuna, la sua fisioterapia proseguiva e, presto, il suo braccio si
sarebbe ristabilito.
Sospirò.
Era la sola notizia positiva in quella sequenza di eventi dolorosi.
Genzo
non doveva solo affrontare il processo per la morte di Andreas
Schumann, ma doveva sopportare il peso del giudizio mediatico.
Sospirò.
Non aveva intenzione di compiangersi e di perdere tempo prezioso.
Per
fortuna, sapeva come aiutare il suo compagno.
Qualche
istante dopo, Genzo uscì, portando con sé una borsa da
palestra.
Spostò
le iridi ora a destra, ora a sinistra, cauto, poi il suo sguardo si
posò sull'automobile di Karl.
Con
passo calmo, ma deciso, gli si avvicinò, poi picchiettò
sul vetro.
–
Ciao,
Karl. Perché sei qui? – chiese, stupito.
–
Che
domande fai? Sono venuto a prenderti, per portarti a casa. –
rispose il tedesco.
Genzo,
sentendo queste parole, sospirò e reclinò la testa.
–
Karl,
non preoccuparti. Io posso prendere l'autobous. Tu non puoi
trascurare il calcio per me. – replicò il portiere
orientale, la voce vibrante d'amarezza.
–
Ti
senti quando parli? Ti dovrei lasciare su un autobus, solo, col
rischio quasi certo di incontrare degli esaltati? – replicò
il centravanti teutonico.
Un
sospiro stanco fuggì dalle labbra dell’asiatico e i suoi
occhi si velarono di lacrime.
–
Grazie.
– mormorò, commosso.
Karl
accennò ad un sorriso, aprì la portiera dell’auto
e lo lasciò entrare.
La
macchina avanzava sulle strade di Monaco.
–
Come
va il tuo braccio? – chiese Karl.
–
Bene.
Sto recuperando la piena funzionalità dell’arto. –
rispose, laconico, Genzo.
Il
tedesco mantenne lo sguardo fisso sulla strada. Di solito, un simile
recupero era motivo di gioia.
Presto,
Genzo avrebbe potuto riprendere a giocare a calcio.
Eppure,
non era felice.
E
non era difficile capire il motivo della sua angoscia.
Deboli
singhiozzi, ad un tratto, riempirono l’abitacolo dell’auto.
Karl
parcheggiò e girò la testa.
Genzo
si era irrigidito, come fosse diventato di marmo, mentre il suo
volto, pallido, era umido di lacrime.
–
Non
ne posso più… Finirò per impazzire… –
confessò.
L’europeo,
con gesti gentili, gli prese le mani e gliele strinse.
–
Guardami.
– gli disse.
Genzo,
per alcuni istanti, esitò, poi sollevò il viso verso il
compagno.
Per
lunghi, eterni istanti i loro sguardi si specchiarono l’uno
nell’altro, come se fossero impegnati in una lotta surreale.
–
Tu
non hai nessuna colpa. Quel giovane sfortunato è morto per una
tragica fatalità. La giustizia farà il suo corso. Te lo
prometto, amico mio. – scandì, risoluto.
Un
debole sorriso, colmo di amarezza, sollevò le labbra
dell’asiatico. Apprezzava la fermezza del suo amico tedesco, ma
il suo rimorso andava oltre le pur importanti conclusioni legali.
Tuttavia,
non poteva non ringraziare la ferma vicinanza dei suoi due compagni.
–
Grazie.
–
La
macchina riprese ad avanzare.
–
Genzo,
sei sicuro di non volere l'aiuto della tua famiglia e dei tuoi
compagni di nazionale? Non credo ti abbandonerebbero. ─
osservò Karl.
Si
pentì e si morse le labbra. Avevano discusso a lungo di quella
possibilità e la risposta del suo compagno era stata chiara,
priva di ambiguità.
Non
voleva i suoi compagni e la sua famiglia coinvolti in una storia così
amara.
Certo,
tale proposito era generoso da parte sua, ma quanto avrebbe potuto
tollerare l’assenza di amici conterranei e della sua famiglia?
Genzo,
sentendo quella frase, sbiancò.
–
Ne
abbiamo già parlato, Karl. Non voglio ritornare più su
questo argomento. – tagliò corto.
L’europeo,
sentendo quelle poche, ferme parole, sospirò.
–
Sì.
E scusami per la domanda inopportuna. –
Diverso
tempo dopo, l’auto si fermò davanti ad una villa di
medie dimensioni, a due piani, col tetto piatto, immersa in un verde
giardino.
Karl
fermò l’auto, aprì la portiera e scese, imitato
dal compagno.
I
due giovani, a passo rapido, percorsero alcuni metri.
Ad
un tratto, Genzo alzò la testa e il suo volto si scolorò.
Sul
tetto era stato posizionato uno striscione bianco, su cui, circondata
da teschi ghignanti e ossa umane, macchiate di rosso, risaltava la
scritta in tedesco “questa è la casa di un assassino”.
–
No,
basta… – sussurrò.
Karl
alzò a sua volta la testa e, d’istinto, strinse il
pugno.
–
Dovresti
denunciarli. Quello che fanno è un reato punibile col carcere.
– sibilò, rabbioso.
Genzo
chinò la testa e serrò le labbra in una piega amara.
–
Perché
dovrei? Non si può censurare la verità, Karl… –
replicò, stanco. Quello striscione era l’ennesima pietra
aggiunta alla montagna del suo rimorso.
Gli
volevano ricordare la sua infamia.
Per
lunghi, eterni istanti il silenzio gravò sui due giovani
calciatori.
Frenetica,
la mente di Karl lavorava. Doveva trovare un modo per proteggere il
suo compagno.
Ma
tutte le soluzioni gli apparivano incomplete, stupide, insensate.
–
Prepara
la valigia. – esordì, laconico.
Genzo,
sentendo quelle parole, girò la testa e gli lanciò uno
sguardo confuso.
–
Cosa
stai dicendo? Sai bene che non posso muovermi dal paese, fino a
termine del processo. – osservò.
Un
mezzo sorriso sollevò le labbra sottili del Kaiser.
–
Non
ho detto che dobbiamo andare alle Maldive. Ma non ti è
proibito venire a stare da me. – dichiarò.
Sorpreso,
l’asiatico sbarrò gli occhi.
–
Non
se ne parla nemmeno, Karl. Ti sto dando troppi problemi e non voglio
causartene altri. – replicò, deciso.
Lo
sguardo ceruleo del tedesco si indurì, come una lastra di
ghiaccio. Per quanto encomiabile, la sollecitudine di Genzo era
inopportuna.
–
Credimi,
se verrai a casa mia, mi darai meno preoccupazioni. Qui, sei molto
vulnerabile e la solitudine acuisce l’angoscia. E tu hai
bisogno della massima lucidità per affrontare il processo. –
replicò, il tono apparentemente tranquillo. Era ben cosciente
che il suo solo aiuto, per quanto disinteressato, non era sufficiente
a placare l’animo ferito del compagno.
Ma
come poteva scardinare il muro di diffidenza dietro il quale si era
richiuso?
Genzo
rifletté, poi annuì. Avrebbe voluto chiudersi in un
guscio di silenzio, ma non poteva non essere d’accordo con
Karl.
Per
quanto possibile, doveva mantenere la lucidità, affinché
il processo avesse un esito positivo.
Lo
doveva ai suoi compagni di squadra e alla loro generosità.
A
passo rapido, attraversarono l’ampio giardino.
Genzo
si chinò, poggiò a terra la borsa e aprì una
delle sue tasche.
Vi
infilò la mano sana e prese una chiave, a cui era appesa una
riproduzione della bandiera giapponese.
Infilò
la chiave nella serratura, la fece girare e, dopo alcuni istanti, la
porta si aprì.
Con
un gesto fermo della mano, Karl lo fermò.
–
Tranquillo,
ti porto io la borsa. – lo rassicurò.
–
Grazie.
– si limitò a dire Genzo.
Salirono
le scale, che collegavano il primo al secondo piano, e si fermarono
davanti ad una porta lignea.
Il
portiere la aprì e i due giovani entrarono in una stanza di
medie dimensioni, di forma rettangolare.
Al
centro, era collocato un letto singolo, su cui erano posate lenzuola
blu e il pavimento di ceramica era coperto in parte da un tappeto
arancione.
Sulla
parete corta di destra, si apriva una finestra quadrata, coperta da
una tenda anche essa blu, e, alla parete opposta, era collocato un
armadio.
Accanto
al letto, c’erano dei comodini e, sotto un abat jour, era
collocata una copia di Guerra e Pace, contrassegnata
da un segnalibro.
–
Ti
sei dato a letture impegnative? Spero che non lo legga in russo. –
ironizzò Karl.
Il
portiere alzò le spalle e un debole sorriso sollevò le
sue labbra.
–
No,
per me l’alfabeto cirillico è incomprensibile. –
rispose.
Poi,
il suo sguardo si fece di nuovo serio e spaziò nella stanza,
quasi volesse imprimersi ogni dettaglio nella mente.
–
Penso
porterò poche cose. Non voglio occuparti spazio in casa. –
dichiarò.
Karl
sbuffò e gli appoggiò una mano sulla spalla.
–
Porta
quello che ti serve. Al massimo, mi ripasserò l’opera
completa di Wagner. – affermò.
Il
nipponico annuì e i due giovani iniziarono la preparazione dei
bagagli.
N.B:
prima della vera e propria udienza, dedicherò due capitoli a
mostrare in azione Schneider e Kaltz. Spero siano piaciuti.
Si
capisce qui (almeno mi auguro) perché Genzo non vuole avere
accanto a sé i suoi compagni nipponici. Gli si può dare
torto?
|
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Capitolo 4 *** Dall'avvocato ***
A
passo rapido e deciso, Karl uscì dal suo appartamento,
stringendo tra le mani una valigia di pelle marrone.
Percorsi
cento metri, vide una Volkwagen azzurra.
Il
finestrino si aprì e uscì il volto angoloso di Hermann.
– Salta
su! Ti accompagno io! – abbaiò il difensore.
Il
centravanti gli lanciò uno sguardo stupefatto.
– Perché?
Non devo andare in capo al mondo. Posso prendere i mezzi. Non ti devi
disturbare.– replicò.
Hermann
ringhiò, frustrato.
– Per
favore, non farti contagiare dalle manie di Genzo. E’ meglio
non farsi vedere troppo sui mezzi pubblici, fino a quando questa
storia non finisce. – dichiarò.
Karl
rifletté. Il suo compagno aveva ragione, anche se gli costava
ammetterlo.
Un
eventuale attacco di esaltati avrebbe potuto mettere in pericolo la
sua valigetta.
E
non poteva accadere.
Si
avvicinò all’automobile ed Hermann aprì la
portiera dal lato del passeggero.
Karl
salì e, qualche istante dopo, la macchina si mise in moto.
– Hai
preso tutto? – chiese ad un tratto Hermann.
– Sì.
Ci ho messo un po’ di tempo, ma ho ottenuto tutta la
documentazione. Le analisi di Genzo, il risultato dei rilievi e i
video delle telecamere del bar. Inoltre, come supporto, ho la
testimonianza di un amico. Sì, non manca niente. –
affermò il Kaiser, apparentemente tranquillo.
– E
allora perché sei così teso? Non dovremmo avere alcun
problema a scagionarlo da queste accuse ingiuste. – replicò.
Si
interruppe, sentendo un sospiro sgorgare dalle labbra del compagno, e
la preoccupazione si ravvivò. Qualcos’altro turbava il
suo compagno di squadra.
Poteva
essere dovuto al rimorso per la tragedia?
Ma
non aveva senso.
Ne
era sicuro, Genzo non era un incosciente.
– Hai
indovinato, Hermann. Genzo si sente in colpa. Gli ho imposto di
venire a stare da me, perché, solo, nel suo appartamento,
sarebbe crollato, ma è cambiato poco. – mormorò
Karl, serio.
Hermann,
dentro di sé, sussultò, ma mantenne lo sguardo fisso
sulla strada.
– Che
intendi? – azzardò.
– Soffre
d’insonnia e d’incubi e io lo sento spesso vagare per la
casa come un’anima in pena. Piange in silenzio, anche se per
pochi minuti, come se se avesse vergogna del suo dolore. –
confessò il centravanti, il tono frustrato.
Hermann
scosse lievemente la testa, sconfortato. Non faticava a credere alle
parole del compagno di squadra.
Una
simile, terribile vicenda oltrepassava le loro pur imponenti fatiche
calcistiche e metteva in discussione la dignità personale di
Genzo.
Si
sentiva circondato da belve prive di volto, pronte ad aggredirlo e a
sbranargli l’anima.
– Non
credi che avrebbe bisogno di un terapeuta? – domandò il
difensore.
– Probabilmente
sì, ma lui fa fatica ad accettare la nostra presenza.
Oltretutto, penso che non si fidi di nessuno. Puoi dargli torto? –
chiese a sua volta l’altro. La proposta del suo compagno non
era insensata, ma si scontrava con una realtà aspra.
Genzo,
pur volendo, faticava a fidarsi di estranei e tale diffidenza era
comprensibile.
Hermann
rifletté.
– No,
Karl. Non posso proprio dargli torto. –
Parcheggiarono
l’auto a circa cento metri di distanza da un edificio di forma
quadrata, piuttosto grande, collocato in un ampio spiazzo verde,
adorno di querce fronzute.
Il
sole colpiva il vetro e l’acciaio dell’edificio,
accentuandone il nitore geometrico, mentre diverse persone ora
entravano, ora uscivano dall’edificio.
– Karl,
non rischiamo di esporci troppo? – chiese Hermann.
Il
capitano della nazionale tedesca rise.
– Qui
lavora uno degli avvocati migliori di Monaco di Baviera. Sono
disposto a correre il rischio. – rispose.
Il
suo sguardo si indurì, come una lama di ghiaccio, mentre le
sue labbra si serrarono in una linea diritta, severa, quasi da idolo
antico.
– Hai
ragione. Non dobbiamo lasciare nulla di intentato. – concordò
l’altro.
Poi,
aprì la portiera dell’auto e Karl, presa la valigetta,
scese.
– Te
la senti di aspettarmi qui? – chiese.
Il
ruvido difensore sollevò il pollice in un gesto di assenso.
– Anche
tutto il giorno. Vai tranquillo. –
Karl
gli lanciò uno sguardo lungo, colmo di gratitudine, poi girò
la schiena e si inoltrò per il vialetto di ingresso.
Percorse
l’ampio spiazzo, lo sguardo serio e fisso davanti a sé.
Chi
si accorgeva della sua presenza gli lanciava sguardi ora sprezzanti,
ora curiosi, ora ironici.
Fantastico.
Mi guardano come se fossi un criminale., pensò.
Aveva avvertito su di sé il biasimo di quelle persone.
Nel
loro delirio mentale, lo vedevano come il complice di un assassino.
Quelle
occhiate erano per lui fonte di fastidio, ma riusciva a non badarci.
Gli
dava una vaghissima idea della situazione di Genzo.
Accennò
ad un sorriso ironico. Credevano di piegarlo con il loro inutile
biasimo, ma non era così.
Rendevano
più forte e fermo il suo proposito
Entrò
nella sala d’aspetto e, senza alcuna esitazione, si avviò
verso la reception.
– Che
cosa desidera? – chiese l’addetta, gentile.
– Vorrei
sapere se lo studio dell’avvocato Theodore Husserl è
ancora al secondo piano di questo edificio. E se e quanto dovrò
aspettare. – spiegò il giovane.
La
ragazza non rispose e cominciò a ticchettare le mani sul
computer.
– Sì,
lo studio è al secondo piano. Dovrà però
aspettare almeno mezz’ora, perché è impegnato con
un cliente importante. In caso di variazioni, la chiamo. Però mi deve
mostrare i suoi documenti. – gli ingiunse lei.
Karl
annuì,aprì una tasca esterna della valigia, prese la
sua carta d’identità e la porse alla ragazza.
Questa,
con occhio attento, la controllò, poi gliela restituì.
– La
ringrazio per la cortesia. – affermò il giocatore.
– Lavoro.
– rispose lei.
Il
giovane, poi, si avviò verso una delle poltrone e si sedette.
Aprì
di nuovo la tasca della valigia, prese una copia di Addio
alle armi e cominciò a
leggere.
Qualche
ora dopo, il telefono risuonò.
La
ragazza prese la chiamata e, dopo alcuni minuti, riagganciò.
– Signor
Schneider, è il suo turno. L’avvocato Husserl è
libero e la sta aspettando. – gli annunciò.
Il
giovane, sentendo le parole di lei, chiuse il libro, si alzò,
stringendo tra le mani la valigetta e si avviò verso
l’ascensore. Poteva salire a piedi senza alcun problema, ma, in
quel momento, non desiderava fare alcuno sforzo fisico.
Le
porte metalliche si aprirono e un uomo e una donna uscirono.
Karl
entrò e, con forza, premette il due sul tastierino numerico.
Con
uno scatto, le porte metalliche si chiusero e l’ascensore
cominciò a salire.
Il
giovane, con gesti colmi di nervosismo, strinse la valigetta contro
il petto, quasi fosse un tesoro prezioso. Un senso di ansia si era
insinuato in lui, nonostante tentasse di mantenere la calma.
Theodore
Husserl era un valido uomo di legge, esperto in diritto penale, ma
sarebbe bastato ad aiutare Genzo?
Inoltre,
lo preoccupava il suo stato di prostrazione.
Il
suo amico e rivale asiatico, con una forza encomiabile, cercava di
mantenere la dignità, ma era una lotta assai sfibrante.
E
non voleva nemmeno ricorrere a tranquillanti, per paura.
Strinse
i pugni e le sue labbra si sollevarono in un ringhio di belva. No,
non avrebbe permesso un simile esito.
L’ascensore
si aprì e il giovane uscì.
Percorse
alcuni metri, poi si fermò davanti ad una porta, sormontata da
una targa d’ottone con sopra il nome: avvocato Theodore
Husserl.
Pochi
istanti dopo, con uno scatto, si aprì e apparve un uomo basso,
tarchiato, vestito con una maglia e un pantalone bianco.
Dietro
i suoi occhiali, dalla montatura dorata, si celavano sottili occhi
celesti e il suo volto dai lineamenti duri, segnato da rughe sottili,
era circondato da folti capelli bianchi.
– Puoi
entrare. – gli disse.
Karl
lanciò brevi sguardi guardinghi, ora a destra, ora a sinistra, poi si inoltrò nello studio.
Era
un ambiente piuttosto ampio, di forma rettangolare, che riceveva la
luce del sole da un’ampia finestra, che dava sul giardino.
Una
grossa scrivania di quercia, ingombra di carte e penne, dominava la
stanza e, appoggiata alla parete posteriore, v’era un’ampia
vetrina, nella quale erano collocate diversi volumi di giurisprudenza
e storia in varie lingue.
Diverse
sedie erano collocate davanti alla scrivania, mentre il pavimento
scompariva sotto un ampio tappeto bianco e giallo.
Nell’angolo
sinistro, in un vaso di ceramica, fioriva una rigogliosa pianta di
orchidea vermiglia, dalla quale si spandeva un forte profumo.
– Hai
portato quello che ti ho chiesto? – chiese Theodore, spiccio.
– Sì.
E’ tutto in questa valigetta. – rispose il giocatore.
– Siediti.
E aspetta alcuni minuti. – gli disse l’uomo di legge.
Karl
gli consegnò la borsa e si sedette.
L’avvocato
la aprì e, con occhio attento, cominciò a esaminare i
vari documenti.
Di
tanto in tanto, si accarezzava il mento glabro con la mano.
Qualche
minuto dopo, l’uomo alzò i suoi occhi grigi e li fissò
in quelli cerulei del giocatore.
– Che
cosa ne pensa? Ha bisogno di qualcos’altro? – chiese
Karl, ansioso.
– Per
ora nulla. Ma ci sono alcune cose che depongono a favore del tuo
compagno. – spiegò il legale.
– Quali?
– chiese Karl.
– Non
era ubriaco o drogato. Dai risultati delle analisi del sangue,
risulta solo un elevato livello di adrenalina e vari ormoni dello
stress. Comprensibile, dato il suo stato di tensione. A questo, si
aggiungono i risultati dei rilievi. La sua velocità non era
elevata. Non sembra avere fatto manovre da pilota di Formula 1, se
non quella per evitare l’impatto con la moto. – spiegò.
Il
campione tedesco sentì un lieve sollievo pervadere la sua
anima. Forse, una vaga speranza c’era.
– Non
ti consiglierei di lasciarti andare a esagerate manifestazioni
d’ottimismo. Prima, voglio esaminare il video dell’incidente.
Ah, so che è stato soccorso da un paramedico, prima
dell’arrivo dell’ambulanza. O mi sbaglio? – chiese.
– No.
E’ una persona che conosco bene. Si chiama Andrei Ionescu ed è
anche un importante scacchista. – rispose Schneider.
– Bene.
Desidero parlarci. – affermò Theodore.
– Capisco.
Glielo riferirò. – promise Karl.
– Se
tu riuscissi a trovare altri testimoni, sarebbe meglio. Ora, puoi
andare? Devo lavorare e ho bisogno di silenzio. – affermò
l’avvocato.
– D’accordo.
Buon lavoro. – lo salutò il giocatore.
Si
alzò, chinò la testa e uscì dallo studio.
Un
po’ di tempo dopo, uscì dall’edificio e si avviò
verso l’auto di Hermann.
Questi,
vedendolo arrivare, aprì la portiera e lo fece salire.
– Come
è andata? – chiese.
Karl
si lasciò andare sul sedile, come se le sue energie fossero
scomparse.
– Qualche
possibilità c’è… Le analisi del sangue di
Genzo non mostrano tracce di alcool o droghe e i rilievi sulla sua
auto sembrano indicare una guida prudente. Ma lui mi ha detto di non
sbilanciarmi troppo, perché vuole esaminare tutto meglio.
Soprattutto il video della telecamera del bar. – spiegò.
– Non
dovresti sorprenderti. Hai detto tu che non vuoi lasciare nulla al
caso. – lo incoraggiò Hermann.
– Poi,
mi ha detto che vuole parlare con Andrei. – continuò.
Il
difensore dell’Amburgo sbarrò gli occhi, stupito.
– Chi?
Il tuo amico scacchista? Ma sarà facile trovarlo? –
domandò.
Karl
accennò ad un sorriso e si passò la mano tra i capelli
biondi.
– Stai
tranquillo. Non è un pazzo alla Bobby Fisher. Se può
aiutare qualcuno, lo fa. Del resto, non ha cercato di soccorrere
quello sventurato motociclista? –
Hermann
grugnì un breve cenno d’assenso, poi inserì la
chiave nel cruscotto e la macchina partì.
1)
il nome dell’avvocato è una fusione tra i nomi dei
filosofi Theodore Adorno e Edmond Husserl, mentre il cognome di
Andrei Ionescu (è il paramedico del 1 capaitolo) è
quello del grande drammaturgo.
Schneider
ha citato Bobby Fisher, che, oltre alla grande bravura negli
scacchi, ha anche mostrato atteggiamenti arroganti e opinioni
discutibili. (vedi l’antisemitismo).
Ho
cercato di creare una situazione credibile per il diritto tedesco, ma
non vorrei avere cannato. Se sì, attribuitela alla
balordaggine delle informazioni.
Ho
messo alcune varianti nella storia, rispetto alle one shots, per
evitare che risulti ripetitivo.
Che
ve ne pare? Vi piace Schneider in questa veste?
|
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Capitolo 5 *** Il giorno della verità ***
Genzo,
a passo rapido, scese dall'appartamento e attese.
Lanciò
sguardi circospetti, ora a destra, ora a sinistra. Era giunto il
giorno del processo.
Avrebbe
dovuto vedere il dolore negli occhi dei familiari di Andreas
Schumann.
Aprì
la bocca e aspirò aria, cercando di calmare i palpiti sempre più rapidi e dolorosi del suo
cuore. Aveva voglia di fuggire dagli eventi, ma non poteva.
Doveva
comportarsi come un uomo e affrontare le conseguenze delle sue
azioni.
L'auto
di Schneider parcheggiò e il centravanti tedesco aprì
la portiera, invitando il compagno ad entrare.
Senza
alcuna parola, il giovane nipponico annuì ed entrò.
Poi,
chiuse e l'auto partì.
Karl,
di tanto in tanto, lanciava occhiate oblique all'altro.
Sta
sempre peggio..., pensò.
Il suo amico e rivale,
nonostante tentasse di mantenere un'apparenza stoica, era la
personificazione dell'amarezza.
E
le sue preoccupazioni non erano legate all'imminente udienza.
O
meglio, non era la sua sola ragione di angoscia.
‒ Tu
non sei preoccupato per l'udienza. O meglio, non solo. ‒
affermò il centravanti tedesco, neutro.
Un
sorriso amaro sollevò le labbra dell'asiatico. L'intelligenza
del suo rivale era penetrante, come una lama affilata.
Senza
sdolcinatezze, lui ed Hermann lo stavano aiutando a non precipitare
nell'abisso.
Ed
era suo dovere non nascondere le sue emozioni, per quanto possibile.
‒ Hai
ragione. Sono preoccupato anche per la squadra. Non voglio che abbia
ulteriori problemi a causa mia. ‒ confessò. In quelle
giornate d'inferno, aveva avuto modo di leggere gli articoli di
giornale ed era rimasto agghiacciato.
Molte
testate accusavano la società dell'Amburgo di proteggere un
assassino.
Complici.
Barbari. Criminali. Para – nazisti.
Tali,
sferzanti parole martellavano la sua anima e si irradiavano nel suo
corpo, come una raffica di pugni colpisce un pugile.
Mai
avrebbe voluto danneggiare i suoi compagni.
Non
se lo sarebbe mai perdonato.
Eppure,
stava accadendo.
‒
Un
problema alla volta, Genzo. Ora, pensa all'udienza e non preoccuparti di nient'altro. ‒
replicò Karl, deciso. Le preoccupazioni del compagno erano
comprensibili, ma doveva aiutarlo a non disperdere le sue energie in
mille, inutili rivoli.
Altrimenti,
non sarebbero usciti da un siffatto, lugubre tunnel.
Karl
fermò l'auto a circa cento metri di distanza dal Palazzo di
Giustizia di Monaco di Baviera.
Decine
di poliziotti presidiavano l'entrata principale, assediati da
giornalisti di varie emittenti, armati di microfono, taccuino, penna
e macchina fotografica.
Lampi
d'ira brillarono negli occhi di Karl e la sua mano destra si strinse
a pugno.
‒ Iene.
Vanno sempre dove sentono l'odore di una carcassa. ‒ ringhiò.
Imprecò
contro se stesso e strinse le mani sul volante. Si era fatto
trascinare dalla rabbia.
Con
poche parole, aveva cancellato gli incoraggiamenti dati a Genzo.
Ma
si poteva essere più stupidi?
‒ Mi
dispiace. Credimi, non volevo offenderti, ma odio chi si comporta in
questo modo. ‒ si scusò.
Genzo,
con un gesto apparentemente noncurante, alzò le spalle.
‒ Hai
fatto anche troppo per me. Non posso certo pretendere la perfezione.
‒ affermò, sincero.
Il
tedesco, rinfrancato, accennò ad un sorriso, che però
si spense in un'espressione seria.
‒ Qui
ci dobbiamo separare, ma non preoccuparti: io e d Hermann saremo tra
il pubblico. Non dovrai sopportare un processo lungo. ‒ affermò
il tedesco, risoluto.
Con
un cenno del capo, il nipponico annuì. Schneider, in campo,
era una macchina da guerra, ma, in quell'occasione tanto tragica, si
era rivelato un amico affidabile e incrollabile.
Aveva
un debito incolmabile nei confronti suoi e di Hermann.
‒ Ho
un'ultima domanda da porti. Il tuo amico scacchista sarà
all'altezza della situazione? Non vorrei che lo manipolassero, usando
la lingua come un'arma. ‒ osservò.
Karl,
sentendo l'affermazione di Genzo, sorrise.
‒
No, non c'è nessun pericolo. Conosce il tedesco quasi a livello madrelingua e
gli scacchi gli hanno insegnato a non perdere il controllo dei nervi. Inoltre,
è un paramedico e potrà fugare ogni dubbio sulla
veridicità delle tue analisi. Del resto, ha visto che hai
cercato di soccorrere quel povero ragazzo. ‒ rispose.
Gli
appoggiò una mano sul braccio e fissò i suoi occhi
cerulei, fermi, nelle iridi nere di Genzo.
Quest'ultimo
accennò ad un sorriso. Una simile azione gli sembrava una
fatica erculea, ma non poteva opprimere Karl col peso della sua
disperazione.
Gli
doveva dare un segnale di fiducia.
Pochi
istanti dopo, scesero dall'auto e si separarono.
Genzo,
a passo rapido, quasi da marcia militare, si avviò verso
l'entrata principale del Palazzo di Giustizia.
Decine
di giornalisti, vedendolo arrivare, si precipitarono verso di lui.
– Signor
Wakabayashi, come si sente? –
– Non
ha paura di affrontare gli sguardi dei parenti di Andreas Schumann? –
– Tornerà
a giocare a calcio? –
Il
giovane, sopraffatto dalla tempesta verbale, abbassò la testa
e tacque.
Poi,
in un moto d'orgoglio, drizzò il capo e dardeggiò sui
giornalisti uno sguardo fiero.
– Non
ho la sfera di cristallo. E ora, se non vi dispiace, devo entrare in
tribunale. Odio le attese inutili. – dichiarò,
conciso e fermo.
Colti
di sorpresa dalla sua risposta, si allontanarono e lo lasciarono
entrare.
Il
giovane, all'interno della struttura, si concesse un sospiro e si
passò una mano sulla fronte, umida di sudore. Era sorpreso
della sua risposta.
Aveva
creduto di crollare, ma era riemerso il suo orgoglio.
Il
rumore frettoloso di alcuni passi attirò la sua attenzione.
Vide
avanzare a passo rapido l'avvocato, che stringeva nella mano una
valigia.
– Buongiorno,
avvocato Husserl. – lo salutò il portiere asiatico, con
un breve cenno della testa.
– Buongiorno,
Wakabayashi. Ti ripeto la mia unica raccomandazione: la brevità.
Non fornire spiegazioni non richieste. – scandì
l'uomo, pacato.
– Ho
compreso. Non si preoccupi. – assentì il giovane.
Un
mezzo sorriso sollevò le labbra dell'avvocato. Le sue speranze
di un esito positivo del processo si erano rafforzate.
Genzo
era intelligente e la sua collaborazione, ne era sicuro, sarebbe
stata brillante.
Ma
non potevano perdere tempo.
Girò
le spalle e si allontanò, seguito dal giovane, che era dietro di lui.
L'aula
del tribunale, a poco a poco, si riempì.
Genzo,
seduto al banco degli imputati, lanciò brevi sguardi verso il
pubblico.
Scorse,
tra la folla, Hermann e Karl, in piedi.
Per
un lungo, eterno istante i loro sguardi si incrociarono e i due
giovani europei annuirono, in segno d'incoraggiamento.
Grazie
di tutto..., pensò
il nipponico, gli occhi lucidi di commozione. Pur essendo distanti,
non lo avevano abbandonato.
Tale
presenza era confortante e gli dava la motivazione per mantenere un
comportamento dignitoso.
Tra
il pubblico, scorse un uomo di statura piuttosto alta e di
corporatura atletica, vestito d'un sobrio completo nero.
Sul
suo viso, dai lineamenti duri, segnato da rughe, spiccavano gli occhi
cerulei e un filo di barba bianca circondava le labbra sottili e la
mascella.
Una
folta chioma bianca, riccioluta, circondava il suo viso e al collo
era appeso un crocifisso d'oro.
Accanto
a lui, era una ragazza di media statura, con lunghi capelli biondi,
raccolti in una treccia, e occhi verdi.
Indossava
un abito anche esso nero, lungo fino al ginocchio, e al polso destro
aveva un bracciale d'oro.
Tra
le mani, stringeva una foto quadrata di un giovane uomo di
venticinque anni.
I
suoi occhi celesti, dal taglio allungato, fissavano decisi
l'obiettivo e una lunga chioma dorata circondava il suo viso.
A
poca distanza da loro, era un uomo alto e magro, calvo, vestito d'un
sobrio completo celeste.
I
piccoli occhi, d'un intenso color grigio, sparivano dietro le lenti
degli occhiali.
Genzo
sospirò e una morsa di dolore strinse il suo petto. Erano il
padre di Andreas, Martin, e la sorella minore, Hilda, accompagnati
dal loro avvocato.
Per
pochi istanti, aveva incrociato i loro sguardi e una morsa di gelo aveva stretto il suo animo.
Irrigidì
la mascella. No, non era una sua impressione.
Nei
loro occhi, pieni di dolore, brillava il riflesso livido dell'odio.
E
non poteva non comprenderne la motivazione, anche se dilaniava la sua
anima.
Le
sue mani erano rosse del sangue del loro figlio e fratello.
E,
anche se fosse stato assolto, questa realtà era immutabile.
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Capitolo 6 *** Incertezze ***
Il
giudice, con espressione attenta, squadrò l'intera aula.
Una
morsa di gelo strinse il cuore di Genzo e il suo volto si scolorò.
Quell'uomo eseguiva il suo dovere, ne era cosciente.
Eppure,
la sua mente debilitata vedeva in lui un demone della vendetta,
bramoso del suo dolore.
Karl,
vedendo l'espressione del compagno, scosse la testa, sconfortato.
Tutti
lo odiano. E lui sente il peso., pensò
il centravanti tedesco. Perfino lui, che pure non era incline a
perdere la calma, era preoccupato.
Eppure,
il loro avvocato era calmo e tranquillo.
Come
era possibile?
Una
mano si posò sull'avambraccio dell'attaccante tedesco.
Come
punto da una vespa, il centravanti sussultò e girò la
testa.
I
suoi occhi cerulei, colmi di domande, si rifletterono nelle sottili
iridi castane di Hermann.
Karl,
per alcuni istanti, sostenne il suo sguardo, poi, con un debole cenno
del capo, annuì. No, non poteva cedere allo sconforto.
Genzo
aveva bisogno della loro fermezza.
–
Qui,
in quest'aula, oggi si celebra il processo a carico di Genzo
Wakabayashi, accusato della morte di Andreas Schumann per omicidio
stradale. La parola agli avvocati. – ordinò il
magistrato.
– Giudice
Hoffmann, posso chiedere la parola? – intervenne Theodore.
Il
magistrato, per alcuni istanti, tacque, pensieroso.
– Concesso.
– affermò.
– Mi
appello al principio dell'economicità del procedimento. Questo
processo rischia di rivelarsi estenuante per entrambe le parti in
causa. Io qui voglio procedere alla discussione delle prove. –
dichiarò l'uomo, deciso.
Il
silenzio calò nella sala del tribunale e, per alcuni istanti,
le parole dell'avvocato parvero aleggiare nell'aria.
– Avvocato
Husserl, la sua è una proposta intelligente e onesta. Speriamo
solo non sia una perdita di tempo. – commentò, ironico,
il legale della famiglia Schumann.
Lacrime
bagnarono il viso di Martinn e Hilda, con un gesto affettuoso,
strinse la mano del padre.
– Avvocato
Heinrich Hartmann, non è mia abitudine presentare prove meno
che solide a sostegno delle mie affermazioni . – rispose
Theodore.
Il
giudice, con decisione, picchiò due volte il martelletto sul
tavolo.
–
Invito
i due legali a cessare queste inutili schermaglie. Proceda pure,
avvocato Husserl. – ordinò.
Con
un gesto deciso, Theodore aprì la valigia, che conteneva
diversi fogli e un portatile.
Prese
alcune carte e le mostrò al pubblico.
– Qui
ci sono i risultati dei rilievi, delle indagini sulla vettura e i
documenti dei controlli effettuati dal mio assistito. –
affermò, calmo.
Fece
alcuni passi e li consegnò all'avvocato Hartmann.
Questi,
con sguardo attento, li visionò, poi li consegnò al
giudice.
Genzo
strinse le mani. Quei fogli contenevano informazioni vitali per la
sua salvezza.
Eppure,
non poteva fare a meno di sentirsi esaminato.
Ed
era una emozione sgradevole, che gli stringeva la gola in una morsa
d'acciaio.
– E'
vero, queste pagine mostrano una condotta di guida esemplare.
Tuttavia, non bastano a scagionare il suo assistito. – commentò
il giudice Hoffmann.
– Ne
sono consapevole. Ho qui anche i risultati delle sue analisi, poco
dopo l'impatto. – replicò, pronto, l'altro legale.
Prese
un altro fascicolo e lo diede al giudice, che, con sguardo attento,
lo controllò.
Poi
lo consegnò ad Hartmann, che lo lesse.
– Sì.
Le analisi sembrano negare la presenza di droga o alcool. Però,
avvocato Husserl, io desidero sentire la voce di una persona esperta.
Chiamo a testimoniare Andrei Ionescu. – dichiarò questi.
Il
viso di Theodore rimase impassibile.
– Ha
qualcosa in contrario, avvocato Husserl? – domandò il
magistrato.
– No,
signor giudice. – rispose l'interpellato, pacato.
A
passo rapido e deciso, Andrei Ionescu entrò nell'aula e si
sedette al banco dei testimoni.
Martin
fissò il suo sguardo nelle iridi dello scacchista, che lo
fronteggiò senza abbassare il capo.
–
Andrei
Ionescu, deduco che lei non è tedesco. – cominciò.
– Infatti,
non sono tedesco. Sono nato in Romania, a Iasì. –
rispose lo scacchista calmo.
– Come
mai è qui in Germania? – domandò poi l'uomo di
legge.
– Sono
paramedico, ma la mia passione è sempre stata quella degli
scacchi. Quest'anno, in Germania, c'è il Torneo dei Candidati.
Desideravo parteciparci per potere sfidare i più grandi
campioni di scacchi del mondo. – dichiarò lo scacchista.
– Ma
non ha potuto farlo, a causa di questo processo. – osservò
l'uomo di legge.
– Obiezione:
è una domanda non pertinente. – intervenne Husserl.
– Accolta.
Avvocato Hartmann, si limiti a domande pertinenti. – affermò
il giudice, risoluto.
A
quella reprimenda, l'altro togato chinò il capo.
– Chiedo
venia. Desideravo solo conoscere la ragione della sua presenza qui. A
quanto ne so, lei è amico di Karl Heinz Schneider, compagno
di squadra dell'imputato. E questo legame potrebbe influenzare il
suo giudizio. – dichiarò.
Il
viso di Karl, sentendo tali affermazioni, si distorse in una maschera
di collera e le sue guance s'imporporarono. Tale affermazione era
odiosa e metteva in dubbio la sua onestà.
La
mano di Hermann, come una tenaglia, si strinse sul suo polso.
Il
giovane centravanti prese dei respiri profondi e fissò
sull'amico uno sguardo lucido di gratitudine.
Il
mediano accennò ad un sorriso. Perdere il controllo dei nervi
non sarebbe servito a nulla.
Dovevano
fidarsi del loro avvocato.
–
No.
Non conoscevo neanche l'identità del guidatore. Solo dopo, ho
saputo che era amico di Karl. – spiegò Andrei.
Heinrich
guardò meravigliato lo scacchista.
– Come?
Non ha riconosciuto il grande campione nipponico Genzo Wakabayashi? –
domandò l'avvocato, apparentemente meravigliato.
– No.
Anche se Schneider è mio amico, per me il calcio è uno
sport noioso. Per questo, non riesco ad associare nomi e volti. –
spiegò ancora.
Heinrich
meditò e si accarezzò il mento.
– Quindi,
per lei, era un automobilista qualunque coinvolto in un tragico
incidente. – dichiarò.
– Sì.
Come paramedico, il mio obiettivo era aumentare le possibilità
di sopravvivenza di Andreas Schumann. Mi dispiace di non esserci
riuscito. – affermò, amaro.
– Capisco.
E come ha trovato il signor Wakabayashi? Le è sembrato in
stato di alterazione? – lo interrogò ancora.
–Sì.
Come chiunque, in una simile situazione. – affermò
Andrei.
– Che
cosa intende? – chiese l'avvocato, aggrottando un sopracciglio.
– Alterato
per l'ansia e la paura. – affermò lo scacchista rumeno,
calmo.
– Non
potrebbe avere assunto droghe? – lo interrogò ancora
l'avvocato.
– No,
lo escludo categoricamente. – dichiarò Andrei.
Hartmann
alzò un sopracciglio in segno di perplessità.
– Ci
spieghi perché. – lo invitò.
– Era
angosciato, ma si rendeva conto della situazione. Ha chiesto ai
presenti di chiamare l'ambulanza e la polizia e ha avuto l'intenzione
di effettuare il massaggio cardiaco. Come paramedico, le posso dire
che i tossicodipendenti e le persone in stato di ubriachezza non
hanno la lucidità mentale che lui ha mostrato. Anzi, non hanno
proprio lucidità. – rispose ancora Andrei.
– Tutto
bene. Ma come ha potuto pensare di fare un massaggio cardiaco con il
braccio rotto? Con una frattura, non si può muovere il
braccio. – ribatté il legale.
Lo
sguardo dello scacchista rimase imperscrutabile.
– Adrenalina.
Quando l'organismo è in forte stato di stress, anche grazie a
questo ormone, avviene quello che si può definire un vero
terremoto. E la soglia del dolore si alza. Ci sono stati casi di
sportivi che hanno terminato le gare con lesioni gravi. –
affermò.
Il
legale, per alcuni istanti, rimase immobile e si accarezzò il
viso.
– Non
ho altre domande, giudice. – dichiarò l'avvocato.
Andrei
si alzò, salutò con un cenno breve della testa e si
allontanò.
Genzo
si strinse le tempie, trapassate da fitte di dolore e sbatté
le palpebre.
Che
male..., pensò. Gli
sembrava di avere la testa stretta da una morsa e la sua vista, per
alcuni istanti, si annebbiò.
Hermann
e Karl sbarrarono gli occhi, sgomenti. Il pallore sul viso del loro
compagno di squadra era diventato livido, quasi cadaverico!
Sarebbe
stato crudele proseguire la seduta con il loro compagno in quelle
condizioni.
Il
giudice aggrottò il sopracciglio, poi batté il
martelletto.
– La
seduta è sospesa. Riprenderà tra quaranta minuti. –
ordinò.
Poco
dopo, le persone sciamarono fuori e l'aula si svuotò.
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Capitolo 7 *** Si rompono le catene? ***
Genzo,
con fatica, percorse circa cento metri e si appoggiò al muro.
La pausa era benedetta.
Ma
non poteva cullarsi troppo.
Era
una temporanea dilazione alla sua agonia.
Karl
ed Hermann, solleciti, lo raggiunsero e lo aiutarono a sedersi su una
sedia.
—
Che cosa ti è successo? Eri pallido come un lenzuolo. —
chiese Hermann.
L'asiatico
tacque e, per alcuni istanti, rimase immobile, la testa china e le
mani abbandonate in grembo.
— Non
lo so. Posso solo dirvi che sentivo una feroce emicrania. Senza
questa pausa, sarei crollato svenuto e non sarebbe andato bene. —
confessò.
Karl
strinse le labbra, preoccupato, poi appoggiò la mano sulla
fronte di Genzo.
— Non
hai febbre, stai tranquillo. Vuoi una compressa per il mal di testa?
—chiese.
— Ne
abbiamo tante. Ieri, ho fatto rifornimento. Non si può mai
sapere. —intervenne Hermann.
Genzo
sollevò le labbra in un tenue sorriso, poi scosse la testa in
segno di diniego.
— No,
ragazzi. In questo momento, ho bisogno di tutta la mia residua
lucidità. Avrò tempo di prendere farmaci, quando questa
storia finirà. — provò a scherzare.
La
sua risata artefatta, ben presto, si spense in un debole singhiozzo.
I
due giocatori europei si sedettero accanto a lui, Karl a destra,
Hermann a sinistra.
—Sapete,
invidio il padre e la sorella di Andreas Schumann... —confessò.
I
due tedeschi, sentendo tali parole, sbarrarono gli occhi.
— Che
cosa stai dicendo? — esclamò Hermann, stupito.
— Loro
possono mostrarsi come una famiglia, senza alcuna vergogna. Per me,
questo non è possibile. E questo mi pesa tantissimo, anche se
non mi pento della scelta che ho fatto. E devo chiedere scusa anche a
voi per quanto avete sopportato a causa mia. — si scusò.
—
Smettila
di scusarti per le cazzate! — ringhiò Hermann, piccato.
Genzo
girò la testa e lo guardò, stupito.
— Ci
conosciamo da parecchio tempo, Genzo. E tu non hai l'abitudine di
fare il coglione sulle strade. Un amico innocente si difende. Sempre.
— affermò il mediano teutonico, risoluto.
Con
un cenno della testa, Karl annuì.
Diverso
tempo dopo, l'aula si riempì.
Il
giudice, con sguardo attento, scrutò i presenti e il suo
sguardo si focalizzò ora su Genzo, ora su Martinn e Hilda.
— Spero
che questa pausa sia servita a tutti. Come si sente, signor
Wakabayashi? — domandò.
— Sto
bene. — rispose, laconico, il giovane.
Poi,
il magistrato volse la sua attenzione verso Hilda e Martinn.
— Voi?
Come state? — chiese.
— Stiamo
bene. Questa pausa ci è stata utile. — confermò
Hilda.
Un
mezzo sorriso sollevò le labbra di Hoffman, poi le sue labbra
si distesero in una linea seria.
—
L'udienza
riprende. — scandì.
‒ Signor
giudice, voglio chiamare a testimoniare anche Julius Lehmann. Era uno
dei barellieri che ha soccorso il mio assistito in quella terribile
giornata. ‒ affermò Theodore.
‒
Concesso.
Fate entrare Julius Lehmann. ‒ ordinò Hoffmann.
Diverso
tempo dopo, un uomo alto e magro, con corti capelli biondi e occhi
castani, vestito con una giacca nera e pantaloni neri.
Si
sedette al banco dei testimoni e attese.
‒
Benvenuto,
signor Lehman. Da quanto tempo lavora sulle ambulanze come
barelliere? ‒ chiese l'avvocato.
‒ Dieci
anni, avvocato. ‒rispose questo.
Il
legale, per alcuni istanti, annuì e parve meditare.
‒
Quindi,
può dire a questa corte se il mio assistito era sotto effetto
di droghe, in quella tragica giornata? Lei e i suoi colleghi lo avete
visto molto da vicino. ‒ affermò.
‒ Certo.
I miei colleghi non sono potuti venire qui, a causa di problemi
personali piuttosto seri, ma io per loro posso affermare che il
signor Wakabayashi non era sotto effetto di droghe. ‒ spiegò
il barelliere.
‒
Perché?
Non tutte le sostanze sono uguali. ‒ affermò ancora
l'avvocato.
‒
Escluderei
l'eroina, perché è un sedativo e restringe le pupille.
Il signor Wakabayashi, invece, aveva le pupille dilatate ed era fin
troppo agitato, prima di svenire. ‒ spiegò Julius.
Il
legale fece tre passi avanti e tre passi indietro, poi si fermò
e fissò il suo sguardo in quello del barelliere.
‒ Non
può essere stata la cocaina? ‒ chiese.
Un
mormorio perplesso si levò dal pubblico, come il ronzio di uno
sciame di api in avvicinamento.
Hoffmann,
con decisione, batté il martelletto.
‒
Silenzio!
‒ ordinò.
Qualche
istante dopo, il brusio cessò e il silenzio ritornò.
‒
Prosegua
pure, signor Lehman. ‒
‒ No,
lo escludo. Non aveva tracce da assunzione di sostanze. Non aveva
segni di puntura sulle braccia, i seni paranasali erano intatti e
così il palato. Inoltre, la sua temperatura non era
esageratamente elevata e l'ipertermia è un sintomo del consumo
di cocaina, specialmente continuato nel tempo. Inoltre, era
disperato. Se non fosse svenuto, credo avremo dovuto sedarlo per
poterlo stabilizzare. ‒ spiegò il barelliere.
‒ Cosa
intende? ‒ chiese Theodore.
‒ I
suoi occhi erano disperati e preoccupati per quello che era accaduto.
E le posso dire che un tossicodipendente non ha quell'angoscia
consapevole nello sguardo. Il suo solo pensiero è la droga. ‒
concluse Julius.
Theodore,
con un cenno della testa, annuì.
‒
Capisco.
Può andare. ‒
‒
Avvocato
Husserl, ci ha detto che lei è in possesso di un filmato che
prova l'innocenza del suo assistito. Può mostrarlo alla corte?
‒ chiese Hoffmann.
‒ Certo,
signor giudice. Datemi alcuni minuti. ‒ annuì Theodore.
Accese
il pc, armeggiò un poco col cd e, poco dopo, davanti agli
occhi dei convenuti, si spiegò il resoconto dell'incidente.
Brividi
di gelo scossero Hermann. Il suo compagno aveva rischiato la vita,
eppure non aveva esitato a pensare a salvare uno sconosciuto.
Non
si era curato delle sue ferite.
Il
dolore, per quanto forte, non l'aveva fermato.
Il
corpo di Karl, invece, tremò di rabbia. Quel video era più
chiaro di tante, troppe parole.
Avevano
visto Genzo uscire dall'auto, ferito, insanguinato, incurante della
sua salvezza.
Accennò
ad un sorriso. Pur di salvare quel giovane, aveva risposto male ad
Andrei, che lo aveva fermato.
La
sua generosità, in quel momento, aveva sopravanzato il suo
buonsenso e la calma razionalità di Andrei gli aveva permesso
di accettare la realtà.
Quella
registrazione era la prova dell'innocenza di Genzo.
Con
la visione di una simile testimonianza, non potevano condannarlo.
‒ Molto
bene. La Corte ora si ritira per deliberare. ‒ annunciò
il giudice.
Karl
ed Hermann tremarono, mentre il volto di Genzo si scolorò. Il
momento della verità era giunto.
Presto,
si sarebbero liberati dal peso di una simile angoscia.
Diverso
tempo dopo, il giudice, accompagnato dai giurati, ritornò.
Si
sedette e il suo sguardo scrutò i presenti.
Questi
rimasero silenziosi, come i seguaci di un predicatore in attesa di un
sermone.
─ Questa
corte ha raggiunto un verdetto. ─ annunciò Hoffmann.
─ Viste
le prove e ascoltati i testimoni, io assolvo l'imputato Genzo
Wakabayashi dall'accusa di omicidio stradale. La sua condotta di
guida è sempre stata corretta e prudente e non ha mai fatto
uso di sostanze stupefacenti. La manutenzione dell'automobile è
risultata impeccabile. Ha cercato di evitare la collisione con la
moto guidata dalla vittima e, non riuscendoci, nonostante le sue
condizioni di salute precarie, ha tentato di soccorrerlo. ─
proseguì.
Batté
il martelletto, poi si rialzò.
─ Così
è deciso, l'udienza è tolta. ─
A
fatica, il giovane portiere si alzò dal suo posto. Era stato
assolto.
Eppure,
perché non era felice?
Si
avvicinò all'avvocato e, con un gesto quasi meccanico, gli
strinse la mano.
─ Le
devo tantissimo... ─ cominciò.
Il
legale, deciso, scosse la testa.
─ Tu
non mi devi nulla. I tuoi compagni hanno pensato a tutto. Se non
giocassero a calcio, sarebbero ottimi uomini di legge. ─
ironizzò.
Genzo,
per alcuni istanti, tacque, poi si allontanò, tenendo
sollevata la mano in segno di saluto.
Karl
ed Hermann, raggianti, gli si avvicinarono.
─ Che
cosa ti avevo detto? Il processo non sarebbe durato a lungo. ─
gli disse il Kaiser.
Il
portiere fissò su di loro uno sguardo lucido di gratitudine.
Con loro, aveva un debito incolmabile.
Non
lo avevano abbandonato, nonostante l'indole solitaria.
Ad
un tratto, colto da una vertigine, barcollò.
Hermann,
pronto, allungò la mano e la strinse sul suo braccio.
Karl
lanciò sguardi attenti ora a destra, ora a sinistra. Troppe
persone fissavano su tutti e tre sguardi non proprio amichevoli.
E
non era un buon segnale.
─
Andiamo.
Abbiamo bisogno tutti e tre di riposo. ─ dichiarò.
Senza
alcuna parola, i tre uscirono dalla sala del tribunale.
P.S.:
doveva uscire ieri, ma ho avuto un piccolo problema di salute (in
pratica, mi sono abbassata per cercare un libro e mi sono alzata di
scatto. Mai l'avessi fatto! Giramenti di testa per tutta la sera)
Il
processo si è concluso. Come vi è parso?
Io
non ho cultura giuridica tedesca, ho cercato di essere quantomeno
plausibile. Se ho mischiato giurisprudenza italiana e statunitense
(troppi thriller) fatemelo sapere.
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Capitolo 8 *** Quiete prima della tempesta ***
La
luce sanguigna della luna, a fatica, filtrava tra i rami secchi degli
alberi, creando sul terreno effimeri e contorti disegni, simili a
creature mostruose.
Di
tanto in tanto, lugubri arpie si alzavano in volo, riempiendo l'aria
di sinistri frullii.
Genzo
avanzava, il cuore palpitante contro le costole e il volto umido di
gelido sudore. Gli sembrava di camminare da tempo in quel bosco privo
di vita e greve di spettri.
Cosa
ne era stato dei suoi compagni? Perché non li vedeva più?
Come
aveva potuto perdere il senso dell'orientamento?
Il
respiro del giovane accelerò, mentre il cuore martellò
le costole, quasi volesse romperle. Doveva trovare i suoi compagni.
Ma
dove erano?
Ad
un tratto, un raggio di luna, crudele, illuminò alcuni alberi.
Genzo,
inorridito, arretrò e il suo volto si scolorò.
I
corpi dei suoi compagni, appesi ai rami degli alberi, ondeggiavano,
straziati da ampie ferite.
Mosse
le labbra, ma da esse sgorgò un gemito sottile, simile al
lamento di un animale impaurito.
I
suoi amici erano morti.
E
lui non riusciva a spiegarsene la ragione.
A
passo lento, innaturalmente calmo, uscì una figura umana di
alta statura.
Un
raggio livido di luna la colpì, rivelando il volto di un
giovane uomo, dilaniato da gravi lesioni.
Rade
ciocche di capelli biondi, sporchi di terra, coprivano la sua testa e
un ampio squarcio si apriva sulla sommità del cranio,
scoprendo il biancore dell'osso.
L'occhio
destro, scomparso, rivelava l'orbita vuota, mentre dal sinistro, d'un
verde spento, sgorgavano lacrime vermiglie.
Le
guance, prive di pelle, rivelavano il biancore dello scheletro e la
sua bocca era contorta in un ghigno beffardo.
Gli
abiti, ridotti a brandelli insanguinati, scoprivano il corpo magro,
nero di ecchimosi.
Genzo
ansimò. Quello era Andreas Schumann.
Quale
forza l'aveva trasformato in un orrido simulacro di vita?
Quale
legame c'era tra lui e i suoi compagni morti?
Con
passo lento, barcollante, Andreas avanzò.
Genzo
provò ad arretrare, ma le sue gambe rimasero bloccate, come
fossero congelate.
− Li
hai uccisi tu... Li hai uccisi tu... Li hai uccisi tu... −
ripeté, la voce flebile.
Genzo
ansimò, sempre più angosciato. Lui era l'assassino dei
suoi amici...
Ne
era sicuro, Andreas, come uno spirito vendicativo, aveva ucciso le
persone a lui care.
Voleva
restituirgli il dolore da lui patito.
Un
conato di nausea colpì Genzo allo stomaco, come un forte
pugno. Sul suo volto, sentiva le mani scheletriche di Andreas...
Quel
tocco era nauseabondo, ma non riusciva a sottrarvisi.
Le
mani, leggere, scesero sul collo del portiere, poi si insinuarono sul
petto.
− Li
hai uccisi tu... Ed è giunta ora di pagare... −
mormorò
ancora Andreas.
Un
dolore atroce, repentino, lacerò il petto di Genzo. Il sangue,
d'impeto, schizzò.
Abbassò
la testa e vide le mani scheletriche di Andreas immerse nel suo
petto.
Senza
alcun lamento, si piegò sulle ginocchia e le palpebre si
abbassarono. Finalmente, era finita.
Il
cerchio della sofferenza era chiuso.
Con
un grido soffocato, Genzo sbarrò gli occhi e si alzò a
sedere sul letto. Di nuovo, sogni dolorosi avevano popolato il suo
sonno.
Eppure,
erano trascorse due settimane da quel terribile processo.
La
fine di quel procedimento legale non aveva portato alla cessazione
delle malignità e delle infamie.
Tanti,
troppi media descrivevano la sua figura con tinte fosche e crudeli.
Finirò
per impazzire..., si
disse, lo sguardo fisso nel vuoto.
Si
alzò dal letto e, a grandi passi, attraversò la stanza.
Presto, avrebbe potuto ritornare a giocare a calcio.
Forse,
sul rettangolo verde, avrebbe recuperato la serenità perduta.
Sì,
ne era sicuro, il calcio gli avrebbe dato la possibilità di
rinascere.
Eppure,
perché quel senso di amarezza non scompariva?
Si
avvicinò alla libreria e, con attenzione, guardò
i libri ordinatamente posti.
Prese Guerra
e Pace e, per alcuni istanti, se lo rigirò tra le mani.
Ne era sicuro, non avrebbe dormito.
Il
sonno faceva riemergere i rimorsi, a stento contenuti dalla sua forza
di volontà, durante la giornata.
Deboli
singhiozzi sollevarono il suo petto e le lacrime tremarono sulle sue
ciglia. Era giusta la sua sopravvivenza?
Andreas
Schumann era d'animo nobile e si impegnava per diventare un medico,
capace di curare le malattie infantili.
Eppure,
una simile persona giaceva in una bara fredda, mentre lui, Genzo
Wakabayashi, era vivo.
Presto,
avrebbe ricominciato a giocare.
Con
uno sforzo supremo, allontanò i pensieri, aprì il libro
e cominciò a leggerlo. Doveva sforzarsi di non pensare.
E
i libri, in parte, gli donavano quiete, seppur per poco.
Due
mani, forti e decise, si posarono sulle sue spalle.
Genzo,
sentendo quel tocco, sussultò e si irrigidì.
Le
sue mani tremarono e il libro cadde sul pavimento con un tonfo.
Poi,
il giovane si girò e i suoi occhi neri si rifletterono nelle
iridi cerulee di Karl.
‒ Che
cosa è successo? Ti ho svegliato? ‒ chiese il portiere
nipponico.
Un
mezzo sorriso sollevò le labbra del giocatore tedesco.
‒ E
tu che volevi tornare a casa tua... No, almeno finché resti in
Germania, è meglio che rimani qui. ‒ dichiarò,
deciso.
Genzo
rimase immobile e, per alcuni istanti, tacque.
‒ Ti
ho disturbato? So che domani hai una partita importante e dovresti
riposare. ‒ mormorò.
Il
teutonico, a quelle parole, sbuffò.
‒ Genzo,
non dire idiozie. Non mi sveglio certo perché tu hai acceso la
luce per leggere. Sai che ho il sonno molto pesante. ‒
dichiarò.
Il
portiere asiatico si girò e guardò fisso il compagno.
‒ E
allora cosa è successo? Perché sei sveglio? ‒
chiese.
Karl,
per alcuni istanti, esitò, indeciso.
‒ Mi
dispiace per la famiglia Schumann. I media non li lasciano in pace,
pur di vendere qualche copia in più. Vorrei potere fare
qualcosa per loro, ma ho paura di essere visto come inopportuno, nel
migliore dei casi. ‒ mormorò, quasi in tono di scuse.
Il
calciatore orientale sollevò le labbra in un tenue sorriso e
gli occhi si velarono di lacrime. Karl provava compassione per la
sventurata famiglia di Andreas Schumann.
Però,
tale encomiabile sentimento gli sembrava offensivo verso il loro
legame.
‒ Se
è per questo, stai tranquillo. Solo un cuore di pietra non
proverebbe compassione per le loro sofferenze. E tu non lo sei di
sicuro. ‒ lo rassicurò.
Karl
scosse la testa, inquieto. Il suo compagno aveva cercato di
rassicurarlo.
Ma
il suo volto non era sereno e questo gli colpiva il cuore con fitte
di dispiacere.
Tanta
pena era ingiusta, perché Genzo non era colpevole della morte
di quel giovane.
Come
poteva aiutarlo a distrarsi, seppur per poco?
‒ Voglio
vedere un film. Te la senti di farmi compagnia? ‒ chiese.
Genzo
si scosse dai suoi pensieri e gli lanciò uno sguardo
perplesso.
Poi,
comprese e annuì.
‒ Puoi
scegliere tu? Hai dei gusti migliori dei miei. ‒ chiese.
‒ Nessun
problema. Però dammi un'indicazione generale. Così,
trascorriamo un'ora e mezza piacevole, se non ci addormentiamo prima.
‒ affermò Karl.
Il
portiere asiatico, per alcuni istanti, rifletté.
‒ Un
film wester con Clint Eastwood. ‒ rispose.
‒ D'accordo.
Vada per i western. Vieni in camera mia. Lì, ho quello che ci
serve. ‒ acconsentì.
Genzo
acconsentì e lo seguì.
Pochi
minuti dopo, i due giovani si fermarono davanti alla porta della
stanza di Karl.
Il
giocatore europeo spalancò l'uscio, entrò e accese la
luce.
‒ Entra,
non stare sulla porta. ‒ gli disse.
Genzo,
senza alcuna parola, obbedì.
L'ambiente,
di forma rettangolare, era di dimensioni piuttosto ampie e le pareti
erano tinte d'un blu intenso.
Il
pavimento era ricoperto da un tappeto verde scuro e al soffitto era
appesa una lampada, composta da cinque globi, grossi come palloni da
calcio.
Alla
parete di destra, era appoggiato un letto e, sopra questo, c'era
una finestra di forma quadrata, coperta da tende, anche esse blu e, a
poca distanza, era un porta dvd ligneo, colmo di CD.
Alla
parete opposta, era appoggiata una scrivania e, a poca distanza,
c'era un mobile porta tv, anche esso ligneo, su cui erano posati una
televisione e un lettore DVD.
A
destra della scrivania, era una libreria ricolma di volumi e, a
sinistra del letto, era presente un armadio chiuso.
‒ Stenditi
sul letto. C'è spazio per entrambi. ‒ disse il
campione tedesco.
Sorpreso,
il nipponico sbarrò gli occhi. Un po' di ritrosia stringeva il
suo cuore...
Gli
pareva strano un contatto così stretto.
Poi,
scosse la testa. Di che cosa si preoccupava?
Cauto,
quasi temesse di scottarsi, si distese sul letto e attese.
Karl
gli sorrise, poi si avvicinò al porta dvd, lo aprì e
controllò i DVD.
Prese un
disco e, per alcuni istanti, si affaccendò attorno alla
televisione e al lettore.
Qualche
istante dopo, la stanza si riempì delle note di Ennio
Morricone e, sullo schermo, apparvero i titoli di testa di Per
qualche dollaro in più.
‒ Spero
ti faccia piacere. Oggi, serata Sergio Leone. Per fortuna, sono
doppiati. ‒ affermò Karl, un tenue sorriso sulle labbra.
‒ Va
bene. Grazie. ‒ rispose il portiere asiatico.
Il
tedesco gli si stese accanto e cominciarono a vedere il film.
P.S:
in questo capitolo, vediamo gli incubi di cui soffre Genzo, ma ancora
la situazione è calma.
Scopriamo
inoltre che il Kaiser è cinefilo, oltre ad essere un
appassionato lettore. (abbiamo visto che, mentre era dall'avvocato,
per passare il tempo, si è messo a leggere Addio alle
armi)
No,
non c'è yaoi in questa scena. Ho pensato a due fratelli stesi
sullo stesso letto a vedere un film. Anche se chi ama questa coppia
può vederla come vuole.
Avevo
pensato di mettere i due che si addormentavano insieme, ma ho
cambiato idea, perché mi sembrava eccessivamente melensa. Che
ne pensate?
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Capitolo 9 *** Un ritorno problematico ***
L'aereo
si dirigeva verso Stoccarda, lasciando dietro di sé una coda
di condensa.
Genzo,
seduto vicino al finestrino, fissava il cielo. Quattro lunghi,
terribili mesi erano trascorsi da quell'incidente.
Poteva
riprendere a giocare a calcio.
Eppure,
non era completamente sereno.
Il
suo corpo era tornato in piena efficienza?
Non
devo pensarci. Il mio unico pensiero deve essere la partita., si
disse. Era uscito da un infortunio e doveva affrontare lo Stoccarda
in una importante competizione.
I
suoi pensieri e le sue energie dovevano focalizzarsi sui loro
avversari.
Eppure,
perché quel senso d'angoscia non si allontanava?
Con
un sospiro, aprì la borsa prese Guerra e pace e lo
aprì.
‒ Non
fingere di leggere! Anche un cieco capisce che in questo momento hai
la testa da tutt'altra parte! ‒esclamò Hermann.
Karl
si tolse le cuffie dalle orecchie e lanciò al compagno uno
sguardo perplesso.
Poi,
guardò gli altri giocatori, che abbassarono lo sguardo,
imbarazzati.
Hermann
ringhiò e scosse la testa.
‒ Karl,
scendi sul pianeta Terra! Non ti sei accorto che il nostro collega è
distratto? ‒ domandò il mediano.
‒ Ti
sembra il caso di urlarlo così? Hai la discrezione di un
elefante in una cristalleria. ‒ obiettò il centravanti.
Genzo
sospirò e abbandonò le mani in grembo.
‒ Non
fa niente. Non si può negare la realtà. ‒
dichiarò.
Con
gesti delicati, cominciò a sfiorare la copertina del libro,
come un padrone affettuoso accarezza un gatto.
‒ Che
cosa ti succede? Non sei felice di ricominciare a giocare? ‒
chiese, lo sguardo crucciato.
Il
portiere, per alcuni istanti, rimase silenzioso. Cosa avrebbe potuto
dire ai suoi compagni?
Non
voleva preoccuparli con la sua angoscia, di cui non capiva l'origine.
O
forse non voleva capire?
‒ Voglio
essere sincero con voi: ho paura. Ho paura di non essere al massimo
della forma e di danneggiare la squadra. ‒ confessò. Non
voleva gravare su di loro un ulteriore peso.
Tuttavia,
poteva svelare una parte della verità.
I
due tedeschi corrugarono la fronte, perplessi. Non erano del tutto
convinti delle sue parole, ma non desideravano forzarlo.
‒ Tutto
qui? Non farti problemi che non esistono. ‒ affermò
Karl.
‒ Ti
ricordo che è una partita importante. ‒ replicò
Genzo.
‒ E'
vero, ma non possiamo pretendere la luna da te. Ti sei appena
ripreso. ‒ esclamò Hermann.
‒ Ti
sei dato alla filosofia? ‒ domandò il centravanti, un
sorriso ironico sulle labbra sottili.
‒ No,
ho detto solo la verità. E non servono i libri per dire cose
così scontate. ‒ replicò il mediano, sarcastico.
Un
mezzo sorriso sollevò le labbra dell'asiatico.
Diverso
tempo dopo, l'aereo atterrò all'aereoporto Manfred Rommell.
Le
porte si aprirono e i giocatori sciamarono all'esterno.
Le
nuvole, ad un tratto, coprirono il cielo e, qualche istante dopo, la
pioggia cadde, impetuosa, sull'intera struttura.
‒ Fantastico,
abbiamo portato la pioggia qui? ‒ esclamò Hermann,
irritato.
‒ Non
perdiamo tempo e andiamo a recuperare i nostri bagagli. ‒
dichiarò Karl.
Il
pullman, diverso tempo dopo, uscì dall'aereoporto e si diresse
verso l'hotel Royal.
Genzo,
a differenza dei suoi compagni di squadra, che ridevano e
scherzavano, leggeva. Era riuscito a recuperare un po' di
concentrazione.
Karl
ed Hermann, con le loro rassicurazioni, lo avevano liberato di una
parte del peso che, da tanto, troppo tempo, opprimeva il suo cuore.
Gli
chiedevano il suo solito, forte impegno nella competizione.
E
non gli pareva una impresa impossibile.
‒ Porca
puttana, ma non hanno altro da fare? ‒ imprecò Hermann.
Tutti
interruppero le loro attività e guardarono diritto.
Attorno
all'albergo, si erano radunate decine di persone di ogni età,
sesso e ceto sociale.
Nelle
mani, stringevano dei grandi cartelli, su cui risaltavano, in
carattere nero, scritte quali “Morte al mostro asiatico”,
“Fuori i complici del mostro”, “Stoccarda non è
una galera a cielo aperto”, “Giustizia per un figlio
della Germania”.
Un
lungo brivido attraversò la schiena di Genzo e le sue mani
tremarono. Quelle persone erano lì per lui.
Contestavano
la sua presenza.
Vedevano
in lui un mostro.
Si
strinse la testa tra le mani. Il suo errore stava coinvolgendo i suoi
compagni di squadra.
Su
di loro, come massi, cadevano accuse crudeli.
Con
un gesto deciso, Karl si alzò e, a passo rapido e deciso, si
avvicinò al conducente.
‒ Che
cosa c'è? ‒ chiese quest'ultimo.
‒ Puoi
aspettare qualche minuto? Devo fare una cosa. ‒ gli domandò.
Con
un cenno della testa, l'uomo annuì.
Il
giovane, poi, si girò verso i suoi compagni di squadra e li
guardò.
‒ Cosa
vuoi fare, Karl? ‒ chiese Hermann, stupito.
‒ Mi
sembra ovvio: chiamare la polizia. Qui rischia di andare di mezzo
l'incolumità di tutti noi. ‒ rispose il Kaiser, fermo.
Prese
il cellulare e compose il numero della polizia.
Diverso
tempo dopo, i ragazzi tornarono in albergo.
Salirono
sugli ascensori e, a passo rapido, si diressero verso le loro stanze.
‒ Per
fortuna, si è concluso tutto bene. Hai avuto fegato, Karl. ‒
si complimentò Hermann.
‒ Niente
di così difficile, Hermann. Ma possiamo essere sicuri che
continui così? ‒ si domandò il giovane
centravanti.
Un
brivido sgradevole percorse la schiena di Genzo. Le parole del
compagno erano veritiere, per quanto dolorose.
I
suoi compagni, per una sua colpa, avevano corso rischi elevati.
E
non era giusto.
Vedendo
l'espressione malinconica dell'asiatico, lo sguardo di Karl si
addolcì.
‒ Non
sentirti in colpa. Tu non hai potere sul cervello degli stupidi. ‒
dichiarò il giocatore tedesco.
‒ Perché?
Hanno un cervello? ‒ intervenne Hermann.
Karl
ridacchiò, mentre sulle labbra dell'asiatico si sollevarono in
un debole sorriso. Per pochi, dolci istanti gli era parso che
quell'orribile disgrazia non fosse accaduta.
Ed
era una sensazione meravigliosa, che non avvertiva da tanto, troppo
tempo.
Tuttavia,
una domanda angosciante non svaniva dalla sua mente.
Cosa
sarebbe successo?
‒ Andiamo
a disfare le valigie. Non dobbiamo fare tardi agli allenamenti. ‒
dichiarò poi Karl.
I
tre giovani si separarono e raggiunsero le loro stanze.
Alla
sera, provati dalla stanchezza, ritornarono nell'albergo.
‒ Finalmente,
è finita. Non me ne volete, ma vado a dormire. La mia stanza
mi attende. ‒ dichiarò Hermann.
‒ Buonanotte.
‒ lo salutò Genzo.
‒ Vedi
di metterti del ghiaccio sul ginocchio. Ce l'hai gonfio, dopo quel
contrasto. ‒ dichiarò Karl.
Un
mezzo sorriso sorriso sollevò le labbra del mediano.
‒ Come
desidera, dottore. ‒ dichiarò, ironico.
Poi,
si diresse verso la sua stanza.
Poco
dopo, Genzo e Karl entrarono nella loro camera.
L'ambiente,
di dimensioni assai ampie e di forma rettangolare, era illuminata
dalla luce di una lampada a neon rotonda, appesa al soffitto.
Alla
parete lunga di sinistra erano addossati i letti e, sul pavimento,
coperto da una moquette a scacchi bianchi e verdi, erano poggiate le
valigie semiaperte dei due giovani.
Davanti
al letto, era collocata una scrivania, ingombra di libri, e una
finestra, coperta da una tenda bianca, si apriva sulla parete di
destra.
Sulla
scrivania, era collocato un televisore, incastrato in un supporto
nero, mentre, a poca distanza dalla scrivania, era una porta, su cui
era collocata una targhetta con la scritta “BAGNO”.
Con
un sospiro, Genzo si lasciò cadere sul suo letto, le braccia
aperte come un crocifisso e lo sguardo fisso sul soffitto.
‒ Ti
senti bene? ‒ domandò il tedesco, perplesso.
‒ Vengo
da un lungo periodo di inattività, te lo sei dimenticato? ‒
replicò il giapponese.
Per
alcuni istanti tacque e rifletté. Prepotente, era ritornata la
preoccupazione.
Karl,
senza alcuna esitazione, aveva denunciato le persone che si erano
radunate davanti al loro albergo, con quei cartelli minacciosi.
E
questo atto crudele non era stato gradito.
Quali
potevano essere le conseguenze?
‒ Hai
avuto coraggio a denunciarli. ‒ mormorò, ad un tratto.
Il
giovane centravanti teutonico, che stava controllando la sua valigia,
alzò la testa. Come aveva immaginato, la stanchezza del suo
compagno non era solo fisica, ma morale.
‒ Ho
fatto quello che dovevo. Niente di più, niente di meno. ‒
si limitò a rispondere, tranquillo.
Poi,
il suo sguardo si addolcì.
‒ Non
pensiamoci più. Piuttosto, ti va di vedere un film con me e di
farmi compagnia? Ho portato il mio computer. Non mi fido della
televisione dell'albergo. ‒ dichiarò.
‒ Va
bene. Ma non ti stupire se mi addormento presto. ‒ annuì.
Si
alzò dal letto ed entrò nel bagno, mentre Karl cominciò
a cercare il suo computer.
Ciao
a tutti.
Sono
ritornata dopo una settimana complicata (sono andata a Milano a
trovare mio fratello, ho preso una simpatica tosse allergica, il mio
pc è andato) e sono tornata con questo capitolo. Ho fatto un
po' di fatica, spero vi piaccia.
Sto
cercando di dare a Kaltz un linguaggio meno forbito. Cosa ne pensate?
|
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Capitolo 10 *** Disastro annunciato ***
Nello
spogliatoio dell'Amburgo, i giocatori si preparavano, discutevano tra
loro, riempiendo l'ambiente di vari accenti.
Genzo
infilò i suoi guanti e, cauto, provò ora a stringere le
dita a pugno, ora ad allargarle.
La
mano è in buono stato. Non sento nessun dolore., pensò.
La riabilitazione aveva dato ottimi risultati.
Non
avrebbe perduto la funzionalità dell'arto.
Scosse
la testa e strinse le labbra. Doveva concentrarsi sulla partita.
La
squadra contava sulla sua esperienza di portiere.
Poco
dopo, il tonfo della porta che si apriva interruppe il vocio e il
silenzio calò nello spogliatoio..
L'allenatore,
a passo di carica, entrò , con in mano un taccuino e, coon
voce forte e decisa, iniziò a scandire i nomi dei titolari.
‒ Wakabayashi!
‒ concluse.
‒ Eccomi.
‒ rispose l'asiatico, apparentemente pacato.
L'uomo
gli lanciò uno sguardo indagatore, quasi volesse leggergli
nell'anima, poi, con un gesto calmo, gli appoggiò una mano
sulla spalla.
‒ Cerca
di non badare agli idioti. ‒ lo incoraggiò.
Anche
oggi ricominciano quei cori..., pensò il portiere,
sconfortato. L'allenatore aveva pensato di incoraggiarlo con quelle
parole, ma gli aveva ricordato la realtà.
L'incubo
non era terminato.
Non
aveva pagato abbastanza per la morte di Andreas Schumann?
Fissò
i suoi occhi in quelli del tecnico e accennò ad un sorriso.
‒ Farò
del mio meglio. ‒
Qualche
minuto dopo, i giocatori di entrambe le squadre uscirono dagli
spogliatoio ed entrarono in campo.
I
tifosi, quasi fossero un unico organismo, cominciarono a battere i
piedi, accompagnando il rumore con epiteti coloriti.
― Feccia!
―
― La
galera, non il campo da gioco! ―
― Assassino!
―
― Hai
comprato la sentenza! ―
― Vigliacchi!
―
― Complici!
―
― Criminali!
―
Alcuni,
in segno di disapprovazione, si passavano la mano destra sul collo,
imitando il gesto di un macellaio che sgozza un maiale, altri , con
smorfie teatrali, imitavano le pose e le espressioni degli impiccati.
Genzo,
apparentemente incurante, proseguiva. Non doveva dare ascolto a
quelle grida così crudeli.
La
sua mente era concentrata sulla competizione.
Doveva
dimostrarsi ben più forte di loro.
Eppure,
perché il suo cuore continuava a sanguinare?
Poco
dopo, le squadre si disposero nelle rispettive metà campo.
L'arbitro
fischiò e lo Stoccarda batté il calcio d'inizio.
Genzo,
dopo avere dato ordini alla difesa dell'Amburgo, piegò le
gambe e lanciò sguardi ora a destra, ora a sinistra. Tutto
sembrava stesse andando bene.
Le
urla sprezzanti del pubblico non avevano danneggiato nessuno e i suoi
compagni giocavano senza alcun timore.
Lui
non poteva dimostrarsi indegno degli sforzi dell'Amburgo.
Un
attaccante dello Stoccarda, giunto davanti alla porta, caricò
un diagonale destro.
Genzo,
fulmineo, si lanciò verso destra.
Allungò
le braccia e le sue mani, decise, si chiusero sulla palla.
Piegò
le gambe e atterrò in piedi, quasi serrando la sfera contro il
petto. Ci era riuscito.
Non
aveva perduto le sue capacità, nonostante il lungo riposo
forzato.
Senza
ulteriori esitazione, calciò il pallone con la gamba sinistra.
La
sfera descrisse un lungo arco nell'aria, poi cadde a qualche metro
distanza dal centrocampo.
Karl,
che era appostato, come un predatore in attesa della preda, saltò
e stoppò la palla di petto.
Poi,
rapido, scattò verso l'area dello Stoccarda, seguito da
Hermann Kaltz e Schmidt.
Un
difensore avversario gli corse incontro, ma il capitano dell'Amburgo
si liberò della sfera e la passò a Hermann.
Questi,
a sua volta, la passò a Schmidt, che la lanciò a Karl.
Reinahrt
Bauer, vedendo l'avanzata del capitano avversario, allargò le
gambe e le braccia, il corpo pronto a scattare. Si compiaceva della
grinta dei giocatori dell'Amburgo.
Karl
e i suoi compagni si mostravano ben degni del loro ruolo.
E
anche Genzo Wakabayashi, nonostante il tragico incidente, faceva
onore alla sua abilità.
Sorrise
e un lampo compiaciuto balenò nei suoi occhi. La partita,
contro ogni sua previsione, si stava rivelando complicata.
Ed
era giusto così.
Avversari
capaci e battaglieri rinvigorivano il suo orgoglio sportivo.
Giunto
al limite dell'area avversaria, Karl sollevò la gamba destra,
pronto a calciare a rete.
Ad
un tratto, diverse pietre cominciarono a piovere sul campo da gioco,
accompagnate da insulti assai coloriti.
Colti
dal panico, i giocatori cercarono di evitare i sassi.
Una
pietra, implacabile, colpì il centravanti dell'Amburgo alla
tempia destra.
Fulminato
dal dolore, il giovane s'arrestò.
Barcollò,
poi, sopraffatto, stramazzò sul terreno, mentre un rivolo di
sangue rigava la sua tempia destra.
Reinhart,
stupefatto, lanciò sguardi rapidi ora a destra, ora a
sinistra. Non riusciva a credere a quello che vedeva...
Perché
si erano lasciati trascinare da un istinto bestiale?
Hermann,
di gran carriera, corse verso la porta dell'Amburgo. Ne era sicuro,
quello era un segnale a Genzo.
Una
pietra, ad un tratto, colpì il mediano alla testa.
Il
masso si riempì di crepe, poi si sgretolò e la polvere
sporcò i suoi capelli.
Si
fermò davanti alla porta e posò lo sguardo su Genzo.
Il
portiere giapponese, in piedi, il volto pallido, fissava la
sassaiola. I suoi presentimenti più tristi si erano
concretizzati.
Gli
era parso di vedere Karl crollare, colpito da una pietra.
Un
tocco fermo, risoluto, lo scosse dai suoi pensieri e il giovane fissò
il suo sguardo negli occhi piccoli, ma attenti di Hermann.
― Stai...
Stai bene? I sassi ti hanno colpito? ― chiese,
atono.
Un
grugnito di dissenso fu la risposta.
― Non
preoccuparti. Quelle pietre sono troppo piccole per me. Piuttosto,
aiutami a fermare questi stronzi. Non dobbiamo avere paura. ―
esclamò, risoluto.
Genzo,
per alcuni istanti, esitò, poi annuì.
Reinhart,
fulmineo, uscì dalla porta. Doveva allontanare la palla.
Alcune
pietre si abbatterono su di lui e il gigante, con violenti pugni, le
colpì.
Queste
si sbriciolarono, come fossero fatte di gesso, e la polvere sporcò
i suoi guanti e parte della sua tuta.
Si
avvicinò a Karl, gli cinse la vita col braccio e lo sollevò.
Il
centravanti, sentendo quel tocco, aprì gli occhi e fissò
sul portiere uno sguardo sofferente.
― La
mia testa... ― balbettò.
Reinhart
scosse il capo. Quel colpo alla tempia aveva stordito Karl.
Ma
non lo avrebbe lasciato stare.
Sostenendo
il compagno di nazionale, si sollevò in tutta la sua statura.
Era ben rischioso quello che voleva fare, ma non c'era nessuna
alternativa.
Non
dovevano mostrare alcuna paura dei codardi.
Il
suo sguardo, gelido, tagliente, spaziò sull'intero stadio.
Quello non era il calcio duro, ma leale, che lui apprezzava.
Quei
vigliacchi meritavano di conoscere le galere della Germania.
I
tifosi, come ipnotizzati dalla durezza del suo sguardo, si bloccarono
e un silenzio spettrale gravò sull'intero stadio.
Poco
dopo, Karl e Reinhart, presto seguiti dagli altri giocatori,
raggiunsero Hermann e Genzo.
Un
brivido gelido attraversò la schiena del nipponico e il suo
viso si scolorò. Aveva visto bene!
Karl
era stato colpito!
Ed
era colpa sua!
― La
partita finisce qui. ― scandì Reinhart, fermo, deciso,
risoluto.
― Mi
congratulo con voi: avete trasformato una partita in un linciaggio.
Congratulazioni, camerati. L'intero popolo tedesco è fiero di
voi. ― esclamò, la voce vibrante d'una feroce ironia.
Guardò
Hermann, che annuì.
Poi,
le due squadre, serie, silenziose, si incamminarono verso gli
spogliatoi.
Con
delicatezza, Reinhart aiutò Karl a sedersi su una panca.
― Che...
Che mal di testa... ― si lamentò quest'ultimo,
stringendosi la tempia con la mano.
Reinhart
si inginocchiò e il suo sguardo, attento, si posò sulla
ferita del compagno.
― Non
sembra nulla di grave. Tuttavia, una visita è necessaria. ―
affermò.
― Sei...Sei
per caso un medico? Io... Io devo denunciare quei codardi... ―
balbettò Karl.
Provò
a rimettersi in piedi, ma un accesso di nausea, come un pugno, lo
colpì e barcollò.
Hermann,
deciso, appoggiò le sue mani sulle spalle e lo costrinse a
sedersi.
― Sembri
un ubriaco all'Oktoberfest. A questo pensiamo noi. ― gli disse.
Con
un cenno del capo, il colosso dello Stoccarda annuì.
― Kaltz,
per favore, chiama un medico. Io andrò a chiamare la polizia.
Nessuno si deve muovere, fino a quando non sarà tutto finito.
Avete capito bene? ― domandò, secco.
Comprendendo
la giustezza delle sue parole, i giocatori annuirono.
Con
un sospiro, Genzo si lasciò cadere sulla panchina accanto a
Karl, la testa tra le mani. Non aveva pagato abbastanza?
Perché
avevano colpito i suoi compagni e avversari?
Loro
non erano colpevoli di quel tragico incidente.
Non
sarebbe mai finita una simile situazione?
Karl,
accortosi della sua espressione amareggiata, gli appoggiò la
mano sul braccio.
― Non
darti... Non darti colpe che non hai... Non osare... ― gli
ingiunse, la voce rotta, ma priva di esitazioni. No, non era
responsabile di quello che era accaduto.
I
colpevoli erano i vili che avevano disonorato il gioco del calcio per
sfogare la loro stupidità.
Il
nipponico sentì gli occhi riempirglisi di lacrime e abbassò
la testa, amareggiato. Quelle rassicurazioni, pur nobili, dilaniavano
la sua anima.
La
ferita di Karl non sembrava grave, ma non si poteva fare affidamento
sulla fortuna.
Quante
persone dovevano rischiare la vita a causa sua?
P.S.:
ecco il disastro. Povero Genzo.
Spero
che la partita sia descritta discretamente.
Ci
sono certe esagerazioni che mi intrigavano. Abbiate pietà.
P.S.:
ho dovuto sistemare alcune parti perché le frasi mi sembravano
zoppicanti. Spero non vi dispiaccia.
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Capitolo 11 *** Semi di dolore ***
Scuri
in volto, Genzo e Karl ritornarono nell'appartamento.
L'asiatico,
con un gesto brusco, quasi rabbioso, si chiuse la porta dietro di sé
e appoggiò le valigie sul pavimento.
A
quel suono secco, per un istante, un fremito di dolore distorse il
viso del giocatore tedesco.
‒ Puoi
fare attenzione? Vuoi fare esplodere un cannone? − domandò.
Genzo soffriva per quella disastrosa partita.
Il
suo gesto era uno sfogo rabbioso e disperato.
Ma
quel suono, nella sua mente, come un martello, colpiva la sua mente
ed esarcebava la sua emicrania.
Genzo,
a quelle parole, sospirò e scosse la testa. L'ira, in quelle
ore, era sopravvenuta all'amarezza e al dolore.
Provava
un desiderio viscerale di fare male.
Ma
non poteva rivolgere la sua collera contro qualcuno.
Lui
era l'artefice dell'accaduto.
E,
per questo, poteva biasimare solo se stesso.
− Scusami.
Se vuoi, mi occupo io di tutto. Tu vai a riposare. − si offrì
il nipponico.
Il
tedesco aprì la bocca per rispondere, ma una nuova, dolorosa
fitta trapassò la sua testa, come una spada.
Il
suo volto si scolorò, poi, d'istinto, si portò una mano
alla tempia e barcollò, come fosse brillo.
Genzo,
d'istinto, avanzò d'un passo e gli cinse la vita con le
braccia, impedendogli di cadere.
− Che
cosa hai? Vuoi che chiami il medico? −chiese.
Un
mezzo sorriso sollevò le labbra del tedesco.
− Per
cosa? Per un crollo causato dallo stress? Genzo, è stata una
giornata pesante per tutti, non solo per me. − replicò,
apparentemente pacato.
L'altro
sospirò.
− Tu
però sei stato colpito da una pietra in
testa, non dimenticarlo. −
replicò, atono.
Karl
alzò gli occhi al cielo e, con gesti calmi, si svicolò
dall'abbraccio dell'amico.
− A
dire il vero, quei sassi sono piovuti sulle teste di Hermanm e Bauer.
L'unica differenza è che loro sono stati piùreattivi di
me. Io sono caduto come un birillo nel bowling.− affermò.
Poi,
i suoi occhi cerulei si rifletterono nelle iridi cupe di Genzo.
− Poi,
dimentichi che ho fatto le visite necessarie. Non sono state rilevate
lesioni gravi a livello
neurologico, anche se
l'impatto è stato davvero forte. Quest'emicrania passerà.
− proseguì.
Genzo
gli lanciò sguardi dubbiosi, poi annuì. Forse, la sua
preoccupazione lo portava a vedere ombre inesistenti.
− Va
bene. Ma se senti qualcosa di anomalo, dimmelo. − affermò.
Karl
accennò ad un breve sorriso. Era paradossale una simile
situazione.
Genzo,
che aveva giocato partite senza curarsi dei suoi infortuni, lo
invitava a prendersi cura della sua salute.
− Se
proprio vuoi fare qualcosa, lascia stare le valigie e prepara del the
per entrambi. Lo berremo insieme. Abbiamo bisogno di rilassarci, dopo
questa giornata terribile. − rispose Karl.
Genzo
sussultò, poi annuì e i due si separarono.
A
passo rapido, il giovane entrò nella cucina.
Si
bloccò, per alcuni istanti. Karl aveva mostrato una lodevole
delicatezza, pur di non acuire il suo stato di pena.
Ma
il dolore, per quanto negato, si disegnava sui lineamenti del suo
viso.
Certo,
erano state escluse lesioni gravi, ma questo non cambiava la
situazione.
Non
si poteva rischiare la vita così, senza alcuna ragione!
Ed
è colpa mia..., pensò, sempre più
amareggiato. Avevano colpito i suoi compagni per lanciargli un
crudele segnale.
Genzo,
con violenza, scosse il capo e iniziò a preparare il the.
Con
un sospiro, il giocatore tedesco si lasciò cadere sul letto e
chiuse gli occhi.
Così
non va. Povero Genzo., si disse. Nella sua mente, come in un
terribile film, si susseguivano i fotogrammi di quella partita.
E
poi, implacabile, sentiva il tonfo della pietra sulla sua testa.
Emise
un debole gemito e si massaggiò la tempia destra. Perfino il
ricordo di quell’evento gli procurava una pena fisica.
Con
uno scatto, la porta si aprì ed entrò Genzo, con in
mano il cellulare del compagno.
− Scusami,
ma sono i tuoi genitori. Te li passo? − chiese.
− Sì,
grazie. Sarà meglio rassicurarli. − rispose il
centravanti teutonico.
Il
portiere asiatico gli consegnò il telefono, che aveva nella
mano, e uscì dalla stanza.
Karl
accettò la chiamata e accostò l'apparecchio
all'orecchio.
− Sì,
sto bene. Ho solo mal di testa, ma mi passerà con un po' di
riposo. Evidentemente, dovrò allenarmi a schivare i sassi dei
tifosi violenti. − spiegò, tranquillo. Forse, un tono
ironico, quasi leggero, gli avrebbe permesso di abbreviare la
conversazione e di
rassicurare i suoi cari.
Amava
la sua famiglia, ma, in quel momento, desiderava il silenzio.
Ad
un tratto, la sua fronte si corrugò e, d'istinto, le sue dita
si strinsero attorno all'apparecchio. Suo padre, con tono mellifluo,
gli aveva consigliato di tirarsi fuori da una tale storia.
Le
sue parole dipingevano Genzo come il problema della squadra, che
andava eliminato con una azione radicale.
− Papà,
vorrei ricordarti che noi siamo le vittime. E Genzo lo è più
di tutti. Stanno usando la morte di quel ragazzo come un pretesto e
lui deve essere trattato come colpevole? − sibilò,
sarcastico.
Con
un gesto nervoso, chiuse la chiamata e si distese sul letto. Forse,
le parole di suo padre erano dettate dalla preoccupazione, ma non
cambiava la realtà.
Scaricavano
su Genzo colpe inesistenti.
Un
forte rumore di ceramiche rotte attirò la sua attenzione.
Si
alzò in piedi, percorse la camera a passo rapido e uscì.
A
poca distanza dalla porta, Genzo era seduto sul pavimento, le gambe
piegate contro il petto e il volto pallido d'angoscia.
Decine
di cocci di ceramica erano sparsi attorno a lui e una macchia di the
si allargava sulle piastrelle del pavimento.
Karl,
a stento, trattenne un'imprecazione . Ne era sicuro, Genzo aveva
sentito la sua conversazione.
E
il peso dei sensi di colpe si era esacerbato.
Si
chinò e, con gesto fermo, deciso, gli appoggiò le mani
sulle spalle.
− Guardami.
− disse, calmo.
Il
campione asiatico si scosse dal suo stato di apatia e, per alcuni
istanti, i suoi occhi neri si specchiarono nelle iridi cerulee
dell'amico. La risolutezza di Karl non era mutata e questo era per
lui rassicurante.
Tuttavia,
non poteva dimenticare la preoccupazione espressa da suo padre.
Ne
era sicuro, anche gli altri suoi famigliari condividevano le medesime
emozioni.
Ed
era incontrovertibile.
− Non
dare retta a quello che dice mio padre. Ha parlato senza riflettere,
ma era preoccupato per me. − gli disse, dispiaciuto.
Genzo,
con un gesto lento, dignitoso, si alzò in piedi e fissò
ora i cocci, ora Karl. No, non poteva portare avanti una simile
situazione.
Era
suo dovere prendere una decisione chiara e salvaguardare l'incolumità
fisica e mentale dei suoi compagni e avversari.
E,
forse, sapeva quello che doveva fare.
Per
alcuni istanti, rimase immobile, silenzioso, poi allungò la
mano verso Karl, che era chinato, e lo aiutò a sollevarsi.
Aprì
le braccia e lo strinse a sé in un forte abbraccio.
− Che
ti succede? − chiese il tedesco, meravigliato. Cosa aveva
spinto Genzo ad un simile atto?
Lui
non era mai stato tanto espansivo.
Un'amarezza
a stento contenuta palpitava in quelle dita, strette attorno alle sue
spalle.
E
lui non ne capiva la ragione.
Genzo
sorrise, mentre gli occhi gli si velarono di lacrime. Quanto doveva
fare fare era doloroso, ma non poteva essere rinviato.
La
sicurezza dei suoi compagni e avversari era prioritaria.
Eppure,
dilaniava il suo cuore, non poteva negarlo.
− Grazie
di tutto, amico mio. −
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Capitolo 12 *** La bomba scoppia ***
Il
campo d'allenamento dell'Amburgo risuonava di tonfi e grida decise.
Genzo,
attento, scrutava i suoi compagni. Sembravano essersi lasciati alle
spalle la partita contro lo Stoccarda.
Karl,
inoltre, giocava con la solita, letale precisione.
Pareva
che quella tragedia non fosse mai avvenuta.
Scosse
la testa. No, non poteva basarsi su una normalità così
precaria.
La
sua presenza era dannosa per la squadra e per eventuali, futuri
avversari.
Anche
i suoi compagni nipponici avrebbero corso rischi inutili.
Qualche
istante dopo, Karl giunse a diversi metri di distanza dalla porta,
sollevò la gamba destra e calciò a rete.
La
palla, come una cometa, disegnò un lungo arco nell'aria.
Il
portiere, per alcuni istanti, fissò la sfera, un sorriso amaro
sulle labbra sottili. Mai più avrebbe goduto d'una simile
emozione.
Si
lanciò verso destra e, con presa ferma, le sue mani si
strinsero attorno al pallone.
Avanzò
d’un passo ed estese il braccio destro, pronto a lanciare la
palla al centrocampo.
Ad
un tratto, uno scalpiccio di passi interruppe l’allenamento
della squadra.
A
passo rapido, giunse un uomo moro, alto e robusto, vestito d’un
sobrio completo nero.
-
Il presidente Neumann. Non viene mai da solo al campo. Perché
è qui? - sussurrò Hermann, la fronte aggrottata.
Con
un cenno silenzioso della testa, Karl annuì e, d’istinto,
incrociò le braccia sul petto. Nemmeno a lui piaceva questa
novità.
L’uomo
si avvicinò a Genzo e, per alcuni istanti, i loro occhi si
fronteggiarono.
-
Potete andare? Devo parlare da solo con lui. - chiese il dirigente.
Un
mezzo sorriso sollevò le labbra del portiere asiatico. Forse,
aveva capito quello che il dirigente voleva dirgli.
-
No. Non c’è niente che i miei compagni che non possano
ascoltare. - dichiarò, atono.
-
Wakabayashi… Voi siete un pilastro della squadra e, grazie a
voi, l’Amburgo ha conquistato dei risultati importanti. E non
avremo mai pensato di doverle chiedere questo. - cominciò
l’uomo.
Genzo,
con un gesto pacato, quasi di prete nell’atto di officiare la
messa, interruppe il discorso del dirigente.
Karl
corrugò la fronte e gli lanciò un’occhiata torva.
Non gli piaceva quella calma.
Pareva
il preludio ad una tempesta.
-
Per favore, diamo un taglio a questa inutile commedia. Non sono
stupido. - dichiarò il giocatore nipponico, lugubre.
Il
dirigente, colto di sorpresa dalle parole dello sportivo, tacque.
-
So bene che per voi sono diventato un problema. E questo si è
accentuato dopo la partita contro lo Stoccarda. Ma so bene qual è
il mio compito. - continuò, il tono sempre più
incolore.
I
suoi compagni, come fossero un unico corpo, fissarono i loro occhi su
di lui.
Genzo,
per alcuni istanti, tacque. Era per lui una decisione alquanto
dolorosa, ma era necessaria.
Aveva
esitato, ma le parole del presidente dell’Amburgo avevano
rafforzato la sua risoluzione.
-
Cosa intendi fare? - domandò il dirigente.
-
Lascio il calcio. Non solo, lascio la Germania. - rispose il giovane
portiere, tetro.
A
questa affermazione, tutti sbiancarono.
-
Ma che cosa stai dicendo? - esclamò Karl. In quel momento,
capiva il senso dell’abbraccio di pochi giorni prima.
Voleva
congedarsi da lui e dall’intero mondo calcistico, dopo quella
terribile partita contro lo Stoccarda.
Hermann,
d’istinto, avanzò d’un passo, ma la mano del
capitano dell’Amburgo si posò sulla sua spalla e lo
bloccò.
Il
portiere orientale, poi, tornò a scrutare il presidente della
squadra tedesca, lo sguardo malinconico, ma fiero.
-
Perché mi guarda in quel modo? Credeva che non avrei compreso
la situazione? - chiese, amaro. Era una decisione pesante e il suo
cuore era dilaniato, ma non si pentiva di avere compiuto una simile
scelta.
Con
la sua partenza, i suoi compagni non avrebbero avuto paura e
avrebbero giocato al meglio.
Neumann
scosse la testa e un flebile sospiro fluì dalle sue labbra.
Era una scelta difficile, ma Genzo Wakabayashi si era rivelato
intelligente e aveva compreso la situazione.
-
Mi dispiace che sia finita così. - si limitò a dire
l’umo.
Poi,
girò le spalle e si allontanò dal campo di allenamento.
Gli
allenamenti ripresero, fiacchi, nervosi, svogliati.
L’allenatore
soffiò aria nel suo fischietto e un lungo trillo risuonò
nel campo di allenamento.
I
giocatori si fermarono e, rapidi, si avvicinarono a lui.
-
Andate a casa. Per oggi, può bastare. - dichiarò, il
tono risoluto. Si era ben accorto della mancanza di concentrazione
dei suoi ragazzi, a seguito della visita del presidente della
squadra.
Il
ricordo di quella partita, che stavano cercando di dimenticare, era
riemerso.
I
giocatori gli lanciarono uno sguardo colmo di gratitudine e seri,
cupi, sciamarono verso gli spogliatoi.
-
Vuoi dargliela vinta a quei bastardi, Genzo? Ti ritenevo più
forte! - ringhiò Hermann ad un tratto, gli occhi lucidi di
lacrime. Non riusciva ad accettare la scelta di Genzo.
Perché
aveva deciso di arrendersi a quegli stronzi?
L’atleta
orientale sospirò e fissò il suo sguardo ora sul
mediano, ora su Karl.
-
C’è un limite a tutto. E io l’ho oltrepassato in
quella partita disastrosa. Me ne sono accorto ora. - confessò,
amaro.
-
Non stai esagerando? In fondo, siamo usciti vivi. - replicò
Mayer, stupito dalla gravità delle sue parole.
-
Ha ragione. Non è scoppiata una guerra! - affermò
Hermann, il tono apparentemente fermo.
Genzo,
d’istinto, avanzò d’un passo, le braccia alzate,
poi si fermò e strinse i pugni convulsamente.
-
Siamo usciti vivi, è vero. Ma quanto durerà una simile
fortuna? Voi, i miei compagni di nazionale, i miei futuri avversari…
Ora, chiunque entra in contatto con me, può rischiare grosso.
E io non posso sopportare il peso di ulteriori morti. Non ci
riuscirei. - replicò
Emise
un sospiro stanco e fissò sui suoi compagni uno sguardo
diretto, privo di ombre.
-
Vi devo chiedere un ultimo favore: vincete anche per me. -
Poi,
finì di preparare la sua borsa, girò la schiena e si
allontanò. La sua forza, in quel momento, rischiava di
crollare.
E
lui voleva lasciare ai suoi compagni un’immagine di dignità,
perfino nella sconfitta.
-
Vi consiglierei di seguirlo. Almeno, fatevi dire dove va. - dichiarò
ancora Mayer.
-
E’ più facile scardinare una cassaforte con uno
stuzzicadenti che farlo parlare. - affermò Hermann.
Karl
sospirò e si passò una mano sulla tempia destra.
-
Tu, piuttosto… Non hai quasi detto una parola. Come va con la
testa? - chiese ancora Hermann, l’espressione preoccupata.
Una
risata ironica, colma di amarezza, risuonò sulle labbra del
capitano dell’Amburgo, ma il suo sguardo ceruleo si incupì,
come un cielo in prossimità d’una tempesta.
-
Penso che l’abbia fatto soprattutto per me. Sto cercando di
trovare una soluzione, perché mi sento responsabile. -
confessò.
-
Non hai scelto tu di essere colpito. Piuttosto, andiamogli dietro. -
I
due ragazzi uscirono dagli spogliatoi, percorsero alcuni metri e
raggiunsero il loro compagno, che si era appoggiato ad un palo della
luce, come fosse oppresso dalla stanchezza.
Non
è così strano. Bel lavoro, presidente Neumann., pensò
Karl, irritato. Con quella visita, sale era stato aggiunto sulle
ferite di Genzo e questo aveva influenzato la sua scelta.
Ma
come potevano convincerlo a ritornare sui suoi passi?
-
Sei proprio sicuro di volere abbandonare tutto? Hai lavorato tanto
per arrivare dove sei arrivato! - affermò poi il capitano
teutonico.
-
Sì. E, per favore, non dare retta alle stronzate che ho detto.
Parlo senza riflettere. - intervenne Hermann.
Il
portiere si scosse dai suoi pensieri e girò la testa verso di
loro.
-
Confermo. Non sono fatto di ferro, anche se mi piace crederlo. -
affermò.
I
due giocatori europei tacquero. Quello sguardo, tanto triste quanto
fermo, non ammetteva alcuna replica.
Oltre
quelle iridi, scorgevano le ragioni di una scelta tanto dolorosa.
-
Ho bisogno però di un grosso favore. Me lo farete? - chiese
poi.
-
Di che si tratta? - domandò a sua volta Karl.
-
Io… Io so dove devo andare. Quando sarà il momento, lo
saprete anche voi. Ma nessun altro deve conoscere questa
informazione. Nessuno… - spiegò. Il silenzio sarebbe
stato il compagno della sua esistenza.
E
nessuno avrebbe pagato il prezzo dei suoi errori.
Karl
ed Hermann si scambiarono un lungo sguardo, colmo di perplessità,
poi, con un breve cenno della testa, annuirono.
Il
giocatore nipponico fissò sui suoi amici uno sguardo liquido,
lucido di gratitudine, e strinse loro le mani.
-
Grazie di tutto, amici. -
P.S.:
la bomba è scoppiata.
Non
ricordo il nome del presidente dell’Amburgo in Captain Tsubasa,
per cui ho creato io una mezza comparsa.
Spero
di avere reso al meglio la dignità triste del portiere e di
fare capire perché non vuole che nessuno sappia nulla della
sua residenza futura.
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Capitolo 13 *** La scelta della meta ***
Le
dita di Genzo, rapide, vagavano sul computer.
Sullo
schermo, rapide, si susseguivano diverse immagini di paesaggi,
alternate a pagine web.
Ad
un tratto, il giovane si fermò e si stropicciò gli
occhi, leggermente arrossati. La sua decisione, per quanto dolorosa,
gli aveva donato una debole serenità.
Eppure,
nessun luogo, in quel momento, gli pareva abbastanza lontano.
Aveva
paura di essere raggiunto ovunque andasse.
Prese
un grosso respiro, poi riprese a fare ricerche sul portatile.
– Forse,
questo va bene... – mormorò, lo sguardo attento. Sullo
schermo, era presente l'immagine della città di Gustavurus,
accompagnata da una didascalia.
Per
alcuni istanti, rifletté. Quella piccola cittadina dell'Alaska
era magnifica, immersa in una natura incontaminata, ed era abitata da
poche centinaia di persone.
Ne
era sicuro, quel luogo era silenzioso e ben lontano dal caos e dal
pettegolezzo.
Qualche
istante dopo, la porta della camera, con un rumore secco, si aprì
ed entrò Karl.
– Hai
deciso di trasformarti in un hacker? – chiese, il tono
apparentemente ironico.
Poi,
il suo sguardo si fece serio e piegò le labbra in una smorfia
d'amarezza. La rabbia premeva sul suo petto, come un masso, e aveva
voglia di gridare.
Anche
lui era causa della dolorosa decisione di Genzo.
Vedendo
l'espressione dispiaciuta del compagno, il giocatore nipponico scosse
la testa.
Spense
il computer, si alzò e gli appoggiò una mano sulla
spalla.
– Non
sentirti in colpa. E' stata una mia scelta. Un vero uomo non può
fare pagare il peso dei propri sbagli ad altri. – dichiarò,
pacato.
A
stento, il centravanti teutonico frenò un ruggito di
frustrazione. Il pensiero di Genzo era encomiabile, ma si sbriciolava
sotto il peso della realtà.
Lui
non aveva commesso alcuno sbaglio.
Che
cosa stava pagando ancora?
Sospirò,
cercando di calmarsi, e guardò l'amico.
– Hai
trovato qualcosa? – domandò poi.
– Sì.
Penso che andrò a Gustavurus, in Alaska. Il posto è
bellissimo, immerso nella natura, e vi risiedono poche centinaia di
persone. – rispose, calmo.
Il
giocatore tedesco sbarrò gli occhi, sconvolto. Perfino lui,
che pure era istruito, non conosceva l'esistenza di tale cittadina.
Genzo
cercava di scomparire per il mondo, ma non poteva permetterglielo.
Col
tempo, avrebbero smesso di condannarlo e avrebbe potuto riprendere a
giocare.
– Non
lo fare. Non ha senso andare fino lì. – affermò,
secco.
Genzo,
sorpreso dalla reazione del compagno di squadra, sbarrò gli
occhi.
– Perché?
Io stesso non conoscevo l'esistenza di questa città. A nessuno
verrà in mente di cercarmi lì. – replicò
l'asiatico.
A
quell'affermazione, a stento, il centravanti teutonico trattenne una
risata. Gli sembrava di fare una surreale lezione di geografia.
– Sei
giapponese e sei alto. La natura dell'Alaska è magnifica, non
lo nego, ma, in quei posti isolati, tanto lontani, ti guarderebbero
come un animale esotico in un circo. E dubito che tu voglia questo. –
dichiarò.
Genzo,
per alcuni istanti, tacque. Si era lasciato trascinare dalla bellezza
del paesaggio, ma le parole del suo amico non erano insensate.
Aveva
bisogno di quiete e di silenzio e, forse, era stato frettoloso nella
sua scelta.
– E
allora cosa suggerisci? – domandò.
– La
Romania. Anche lì ci sono villaggi piccoli e tranquilli. E la
natura dei Carpazi non ha niente da invidiare a quella dell'Alaska.
Poi, ci sono musei, chiese e diversi siti archeologici, alcuni
risalenti all'età romana. – iniziò.
Tacque
e posò le mani sulle spalle del portiere.
– Io
ti conosco bene. In questi anni, ho visto il tuo interesse sempre
crescente per la cultura. Ascoltami, l'Alaska non può darti,
in questo campo, quello che ti può dare la Romania. –
proseguì, il tono percorso da una nota di fervore.
Perplesso,
Genzo alzò un sopracciglio.
– Parli
come se avessi visitato la Romania. Sembri innamorato di quel luogo.
– azzardò.
Con
un cenno del capo, il Kaiser annuì.
– Sì.
Ogni estate, da quando avevo quindici anni, torno in quel paese. Non
ho avuto occasione di visitarlo tutto, ma conosco bene città
come Bucarest e Timisoara. Negli ultimi anni, Andrei è stato
per me una guida preziosa. – spiegò.
– Sai
che non riceverò nessuno. La mia esistenza, per il mondo, deve
restare segreta. – obiettò l'altro.
Karl,
con un gesto apparentemente noncurante, alzò le spalle. Sì,
era a conoscenza di una simile, triste decisione.
Il
tempo, ne era sicuro, avrebbe cambiato le carte in tavola, ma non
riusciva a non provare rabbia per una scelta non libera.
– Non
l'ho dimenticato. Ma preferisco saperti in Romania. – dichiarò
poi.
Genzo
rifletté, poi annuì. Le considerazioni di Karl erano
sensate.
Forse,
in un paese europeo, il suo aspetto sarebbe passato inosservato.
– Va
bene. Vada per la Romania. –
– Hai
bisogno di qualcosa? Devo uscire. – dichiarò, ad un
tratto.
Karl
corrugò la fronte, impensierito.
– Dove
vuoi andare? – chiese.
– A
comprare un dizionario tedesco – rumeno e una valida
grammatica. Prima di partire, vorrei essere ad un livello linguistico
presentabile. – affermò poi, deciso.
– Ho
capito, ma verrò con te... – mormorò, ma la sua
voce si spense in un sussulto di dolore.
Con
calma, allontanò le mani dalle spalle di Genzo e cominciò
a massaggiarsi le tempie. Di nuovo, era tornata l'emicrania.
La
sua testa era dilaniata da lame di dolore e faticava a fermare lo
sguardo su un oggetto.
Genzo,
preoccupato, lo afferrò per le braccia e lo aiutò a
distendersi sul letto. Odiava quella pena, riflessa sul viso del
compagno.
Quando
vedeva la sofferenza sul viso dell'amico, il peso del suo senso di
colpa, inesorabile, aumentava.
– Vuoi
che ti dia un farmaco per il dolore? – chiese.
– No...
Sono attacchi dolorosi, ma passano. Devo riposarmi un po'. Puoi anche
andare a fare compere senza di me. – lo rassicurò
l'europeo.
Il
portiere orientale scosse la testa in segno di diniego e, con un
gesto apparentemente noncurante, gli sfiorò il viso.
– Il
vocabolario e la grammatica possono aspettare. Come posso aiutarti? –
lo interrogò.
L'altro
chiuse gli occhi e si distese meglio sul letto.
– Mi
faresti un massaggio qui? – domandò e appoggiò i
suoi indici sulle tempie.
Genzo,
senza alcuna parola, posò le sue dita sulle tempie del
compagno e iniziò a crearvi piccoli cerchi.
A
quel tocco leggero, il volto del tedesco si rilassò e un tenue
sorriso sollevò le sue labbra. Non voleva pensare agli eventi
futuri.
–
Grazie,
Genzo. –
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Capitolo 14 *** La proposta di un amico inaspettato ***
Il
trillo del cellulare scosse Genzo dalla sua lettura.
Con
un sospiro, il giovane chiuse il libro, prese il cellulare e lo
accostò all'orecchio.
–
Ciao,
Karl. Cosa c'è? – domandò il portiere asiatico.
–
Voglio
farti una proposta per la tua partenza. Ma non sono solo. Aspettami a
casa. – gli disse il tedesco dall'altro capo del cellulare.
Genzo
accennò ad un sorriso ironico e chiuse gli occhi. Non avrebbe
mai dimenticato la gentilezza dei suoi due compagni.
Non
condividevano la sua scelta, ma non si risparmiavano per aiutarlo.
– Che
hai? – chiese il teutonico, interdetto dal silenzio
dell'interlocutore.
– Stai
tranquillo, non ho intenzione di uscire. Devo finire di leggere un
libro di storia del popolo rumeno. – gli spiegò.
Sentì
un respiro sollevato dall'altra parte del telefono.
–
Meglio
così. – dichiarò.
Poi,
chiuse la conversazione e il giovane asiatico riprese la lettura.
Diverso
tempo dopo, il trillo del campanello lo riscosse dai suoi pensieri.
Posò
il libro sulla scrivania, si avviò verso l'ingresso e lo aprì.
Karl,
a passo rapido, entrò, accompagnato da Andrei.
– Non
mi aspettavo la sua visita. Desidera qualcosa? – chiese,
stupito.
Un
sorriso sollevò le labbra dell'uomo e, con un gesto deciso, si
aggiustò gli occhiali.
– No,
o meglio sì. Non chiamarmi con il voi. Non siamo ad un
congresso di medicina. – rispose l'uomo, calmo.
Genzo
lanciò a Karl uno sguardo confuso e il tedesco, a sua volta,
accennò ad un sorriso ironico.
– E'
fatto così. Piuttosto, andiamo nel soggiorno. C'è
abbastanza spazio per discutere. –
L'ambiente,
di dimensioni piuttosto ampie, era dominato da un tavolo di legno,
circondato da diverse sedie.
Al
centro del soffitto, era appeso un lampadario di forma quadrata, che
illuminava la stanza d'una forte luce bianca e, a destra, era
presente un mobile basso di legno, su cui era posato un televisore.
Sulla
strada, si priva un'ampia porta finestra con un balcone, mentre alla
parete di destra era appeso un quadro, raffigurante un paesaggio
marino.
–
Sempre
il solito, Karl? Ami le cose in grande. La tua casa è enorme. – esclamò
Andrei, ironico.
Il
tedesco alzò le spalle con un gesto noncurante.
– Sono
semplicemente rimasto troppo tempo nel Mediterraneo. –si limitò
a replicare.
Poi,
il suo sguardo si fece serio e si posò ora su Genzo, ora su
Andrei.
–
Qualche
giorno fa, tu mi hai fatto una proposta. Puoi ripetere a Genzo quello
che hai detto a me? – chiese.
Con
un cenno deciso del capo, lo scacchista annuì.
–
Sì.
Vedi, io ho vissuto
per alcuni anni a Bucarest, ma
i miei nonni mi hanno lasciato una casa a Iasì, che è
il mio luogo di nascita, e una casa a Ciocăneşti.
Ti propongo di essere mio ospite. –
Un
vivo rossore colorò il viso del giovane asiatico. Sì,
gli sembrava una splendida proposta, ma non voleva arrecare ulteriore
disturbo.
Karl,
che pure non gli aveva mai detto nulla, era stato fin troppo generoso
e non poteva profittarsi di un'altra persona.
–
Non
posso accettare la tua offerta. Credo che mi troverò una
residenza per mio conto. I soldi, per fortuna, non mi mancano. –
affermò,
atono.
Il
giocatore tedesco sospirò e fece per replicare, ma Andrei gli
lanciò uno sguardo d'intesa.
Il
centravanti tacque, perplesso. Quale era l'intenzione del suo amico
scacchista?
–
Non
è una questione economica, ma di praticità. Tu hai
detto che hai lasciato il calcio per evitare danni a compagni e
avversari, sbaglio? –
chiese.
Di
scatto, l'asiatico chinò la testa e Karl lanciò ad
Andrei uno sguardo truce.
Quest'ultimo
non se ne curò e fissò i suoi occhi chiari in quelli
color carbone dell'asiatico. Quel giovane, d'indole chiusa, non
voleva gravare su nessuno.
Tale
sentimento era encomiabile, ma, in quel momento, era inutile.
–
Per
comprare una casa, avrai bisogno di tempo e dovrai comunque lasciare
tracce. Vuoi questo? –
gli domandò, il tono deciso.
L'ex
giocatore nipponico impallidì e il suo cuore accelerò i
battiti. No, non voleva lasciare tracce.
La
sua presenza aveva causato troppi danni agli altri.
–
Va
bene, accetto la tua offerta. Quanto devo pagarti? –
chiese.
Il
viso, prima serio, di Andrei, si addolcì e un sorriso sollevò
le sue labbra.
–
Mi
pagherai in partite di scacchi. Niente di più, niente di meno.
–
rispose.
Il
giovane nipponico sbarrò gli occhi perplesso. Una simile
richiesta gli pareva inconsueta.
–
Non
si chiede denaro agli ospiti, se non se ne ha bisogno. Ma lunghe
partite di scacchi sì. – rispose, ironico.
Un
debole sollievo si impadronì di Genzo. Non credeva di meritare
un tale aiuto, ma era felice.
La
fortuna non doveva essere rifiutata.
–
Perché
mi aiuti? – chiese Genzo. Non capiva la ragione di una simile
disponibilità.
A
quella domanda, lo sguardo dello scacchista si incupì e si
aggiustò gli occhiali, che erano scivolati sul naso.
–
Anche
io ho subito la rabbia di tifosi stupidi. Siamo simili, anche se
abbiamo praticato sport diversi. – rispose, la bocca tesa in
una smorfia seria.
L'asiatico
tacque, stupefatto. Certo, Andrei aveva la corporatura di un uomo
allenato, ma non riusciva a vedere in lui un atleta di livello
agonistico.
–
Sì.
Vedi, io non ho solo la passione degli scacchi. Fino all'età
di vent'anni, ho praticato rugby. Anzi, giocavo nella nazionale
rumena. –
Gli
occhiali si appannarono e, con movimenti calmi, l'uomo se li tolse.
Poi,
trasse un debole respiro e, per alcuni istanti, tacque, immerso in un
silenzio pensoso.
Karl
scosse la testa. Andrei era un uomo forte e deciso, ma il ricordo di
quell'evento era ancora sgradevole.
E
anche a lui, che pure non l'aveva vissuto in prima persona, aveva
lasciato una sensazione di disgusto.
–
La
mia nazionale, dieci anni fa, ha giocato contro quella tedesca e ha
vinto, anche con un grosso margine di vantaggio. Ma ho pagato quella
vittoria a caro prezzo. – continuò.
–
Andrei,
non riaprire oltre quella ferita. Ti fai solo del male. –
intervenne Karl, premuroso.
Lo
scacchista rumeno, per alcuni istanti, non rispose, poi appoggiò
i polpastrelli della mano destra contro quelli della sinistra, quasi
a creare un triangolo.
–
Mi
hanno picchiato. Grazie alla loro gentilezza, ho perso la possibilità
di continuare a giocare a rugby. Grazie alla generosità del
presente kaiser, sono ancora vivo e ho una vita soddisfacente. –
spiegò.
Poi,
di scatto, si alzò e uscì dalla cucina.
Genzo
avanzò d'un passo, ma la mano dell'amico, poggiata sulla sua
spalla, lo trattenne.
–
Sono
un idiota. Ho rievocato un'esperienza per lui dolorosa. La mia
situazione mi ha reso egoista. – spiegò, irritato verso
se stesso.
Kal
sorrise. Genzo non conosceva bene Andrei, ma la sua preoccupazione
smentiva quell'affermazione.
Capiva
bene il sentimento del suo interlocutore.
–
La
tua era una domanda legittima. Tu e Andrei vi conoscete poco e volevi
capire la ragione della sua disponibilità. Gli ha fatto male
il ricordo della fine della sua carriera. Chi fa sport a livello
agonistico accetta la possibilità di un infortunio senza
appello, ma non può tollerare un pestaggio. Erano in sei
contro uno. – rispose, lugubre.
Un
brivido sferzò la schiena dell'asiatico, come una frustata
gelida. Tutto, in quel momento, gli era dolorosamente chiaro.
Tuttavia,
gli restava un dubbio.
–
Se
non è stata colpa mia, perché si è allontanato?
–
domandò ancora.
–
Ha
bisogno di silenzio. Lasciamolo solo. Tornerà più forte
di prima. –
affermò il tedesco.
Genzo
gli lanciò uno sguardo dubbioso.
–
Va
bene. –
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Capitolo 15 *** Una triste partenza ***
Con
un gesto deciso, Genzo chiuse le valigie, che erano posate sul suo
letto.
Poi,
le prese e le appoggiò contro il muro. Finalmente, aveva terminato
di preparare le sue valigie.
Mancavano
circa quattro ore alla partenza del suo pullman e poteva concedersi
un breve riposo.
Si
distese sul letto e incrociò le mani dietro la schiena, lo sguardo
fisso sul soffitto. Presto, tutto sarebbe concluso,
Nessuno
avrebbe dovuto temere per la propria incolumità, a causa della sua
presenza.
Con
lentezza, chiuse le palpebre e l'ira divampò nel suo cuore. Perché
si accanivano con gli innocenti?
Era
colpevole, ne era cosciente, ma non era giusto colpire le persone a
lui più care.
Scosse
la testa e aprì gli occhi. Perché la sua mente era occupata da
simili pensieri?
La
sua sofferenza si inaspriva e, inesorabile, si aggiungeva al peso che
opprimeva il suo cuore.
Spero
possiate capirmi., pensò. Non
sapeva perché, ma, in quel momento, il suo pensiero si volgeva ai
suoi compagni di nazionale.
Con
loro, aveva condiviso una gran parte del suo cammino di calciatore e
gli erano assi cari, malgrado le pur forti divergenze.
No,
non posso cedere ai ricordi. Devo essere forte., si
disse, deciso. I ricordi, per quanto dolci, indebolivano la sua
decisione.
Ma
non poteva permettersi tali, dolci debolezze.
Con
un debole fruscio, la porta della stanza si aprì ed entrò Karl.
Il
giovane lanciò brevi occhiate all'ambiente, poi un mezzo sorriso
sollevò le sue labbra.
– Hai
lasciato qui parte dei tuoi libri e dei tuoi CD. – affermò. Forse,
non era tutto perduto.
Genzo
voleva ritornare nella sua terra d'adozione, ma riteneva questo suo
legittimo desiderio un'utopia e cercava di soffocarlo.
Quegli
oggetti, a lui così cari, lasciati sugli scaffali, indicavano una
volontà di non abbandonare la sua vecchia vita.
La
sua indole energica, per quanto provata dagli eventi, non era
svanita.
Genzo
si alzò dal letto e, per alcuni istanti, fissò lo sguardo sui
libri.
– Puoi
prenderli. Abbiamo gusti letterari e musicali simili. – affermò,
la voce pacata, seppur percorsa da una nota di malinconia.
– Hai
detto bene. Per questo declino la tua offerta. Non mi piacciono i
doppioni. – replicò il tedesco, apparentemente tranquillo. In
realtà, aveva compreso le intenzioni del compagno.
Nelle
intenzioni di Genzo, quello era un regalo d'addio, ma lui, nei limiti
delle sue possibilità, doveva lasciare la porta aperta alla
speranza.
No,
non avrebbe contribuito al rafforzamento di una simile idea nel suo
compagno.
L'asiatico,
per alcuni istanti, tacque, poi gli appoggiò le mani sulle spalle.
– Va
bene. Però, ho un'ultima richiesta. Puoi esaudirla? – domandò.
– Di
che si tratta? – chiese il tedesco.
– A
te piacciono i Queen, mentre a Hermann i Pink Floyd. Ho diversi
vinili di queste band. Prendeteli, sono vostri. – affermò.
A
stento, il giocatore tedesco trattenne un gemito. No, doveva
mantenere il controllo.
– Puoi
sempre darglieli di persona. E
vorrei riceverli anche io dalle tue mani.
– obiettò l'altro.
Il
giocatore orientale, per alcuni istanti, rifletté sulla frase del
compagno, poi annuì. Sì, la mente di Karl, ancora una volta, si era
mostrata lucida e penetrante, come una lama affilata.
Entrambi
meritavano un addio personale.
Un
po' di tempo dopo, l'auto di Karl arrivò alla Stazione Centrale di
Amburgo.
Decine
di persone percorrevano in entrambi i sensi il parcheggio.
Genzo,
per alcuni istanti, rimase immobile, come una sbarra di metallo, il
petto sollevato da lievi ansiti.
–
Che
ti succede? –
chiese
Karl, la fronte corrucciata.
–
Non
sareste dovuti venire. Potrebbero riconoscervi. E non so cosa
potrebbe succedere. –
dichiarò.
Nella sua mente, si dispiegavano i ricordi della dolorosa partita
contro lo Stoccarda.
Temeva
la natura imprevedibile di simili soggetti e nella sua mente si
affollavano scenari inquietanti.
–
Non
angosciarti. Non ci guarderanno. –
affermò,
il tono tranquillo.
L'orientale
lo squadrò, perplesso. L'affermazione di Karl gli pareva alquanto
strana.
Lui
aveva subito le peggiori conseguenze di quell'ondata di odio, eppure
non sembrava turbato.
–
Questi
soggetti sono violenti, è vero, ma sono anche stupidi. Loro si
aspettano che tu parta in aereo, magari con un jet privato. Non
concepiscono che una star del calcio, nonostante i soldi guadagnati,
possa essere di costumi sobri. Per questo, non hai nulla da temere. –
affermò,
calmo.
Si
massaggiò le tempie e sbatté le palpebre. Credeva nelle sue
affermazioni, ma non poteva negare la sua inquietudine, a causa della
remota possibilità di una loro presenza.
Tuttavia,
doveva mantenere la calma, per dare al suo compagno una partenza
serena.
–
Entriamo.
Andrei ed Hermann ci stanno aspettando. –
I
due giovani uscirono dall'auto e si avviarono verso la stazione.
Di
tanto in tanto, qualcuno posava sguardi sui due, poi ritornava alle
proprie attività.
Bene.
Per ora, sta andando tutto bene., si
disse il Kaiser. Certo, si era accorto delle occhiate perplesse dei
presenti, ma erano state passeggere.
Nessuno
si era accorto di loro.
Giunsero
nella piazzola di sosta degli pullman e si guardarono intorno, in
cerca di Andrei ed Hermann.
Poco
dopo, Karl li scorse a diversi metri di distanza, impegnati in una
animata conversazione.
Di
tanto in tanto, l'ex rugbista rumeno, ad un'affermazione del tedesco,
accennava ad un sorriso.
–
Ma
guarda. Parlano come vecchi amici. –
esclamò
il centravanti, compiaciuto.
Genzo
gli lanciò un'occhiata stupita.
– Andrei
è gentile, ma non ama mostrare le sue emozioni, se non con persone
di sua fiducia. Quel pestaggio ha accentuato questo lato del suo
carattere. E' strano vederlo sorridere con una persona che conosce da
poco. – spiegò.
– Non
è stupido. Ha capito la natura di Hermann. –
affermò
Genzo, deciso.
Il
Kaiser, a quelle parole, annuì, poi, assieme all'amico, si avviò
verso gli altri due.
Pochi
minuti dopo, li raggiunsero.
– Manca
ancora molto, Andrei? – chiese
l'attaccante tedesco in rumeno.
L'ex
rugbista abbassò lo sguardo sull'orologio e controllò l'ora.
– Circa
quarantacinque minuti. Perché? – domandò,
perplesso.
Genzo,
comprendendo la ragione della domanda di Karl, si tolse lo zaino, che
aveva sulle spalle, lo aprì e ne trasse dei dischi in vinile, chiusi
in custodie di cartone nere.
Su
alcuni di essi, era presente il logo dei Pink Floyd, su altri erano
rappresentati i membri dei Queen.
Con
espressione seria, consegnò i vinili dei Pink Floyd a Hermann e
diede i dischi dei Queen a Karl.
Il
mediano, sorpreso, si rigirò tra le mani i CD, poi fissò sul
compagno un'espressione interrogativa.
Questi
accennò ad un sorriso e guardò prima uno, poi l'altro. Certo, aveva
rispettato i loro gusti, ma il suo dono d'addio gli sembrava quasi
un'offesa.
I
suoi due compagni gli erano stati vicini, nonostante la sua ritrosia
ed erano disposti a sostenerlo, se avesse cambiato idea.
Tale
generosità meritava un premio migliore di alcune scatole di vinili,
per quanto rare.
–
Non
sorprendetevi. Io vi devo molto. Spero che i miei regali vi
piacciano. –
si
limitò a dire. Anche le parole, per quanto sentite, gli apparivano
deboli o troppo roboanti e non esprimevano il suo sentimento di
riconoscenza.
Karl,
a quelle parole, reclinò la testa verso destra, mentre Hermann
indurì la mascella e strinse il pugno. Quello era un addio, ma lui
non accettava un tale distacco.
Il
suo compagno non aveva nessuna colpa, ma quei bastardi avevano deciso
di distruggerlo colpendo loro.
–
Non
stai partendo per la guerra. Tornerai. Tutto questo finirà. E
custodirò questi vinili come un tesoro.
–
affermò Hermann, deciso, come se stesse pronunciando un'arringa in
un tribunale.
Genzo
scosse la testa. Voleva credere alla speranza dei suoi compagni, ma
la sua mente gli rammentava la crudele realtà.
Ormai,
il calcio non faceva più parte della sua vita.
Poco
dopo, il pullman da loro aspettato giunse nella stazione.
–
Dobbiamo
andare, Genzo. –
dichiarò
Andrei, serio.
Con
un cenno del capo, l'asiatico annuì e strinse la mano prima a Karl,
poi a Hermann.
–
Grazie
ancora di tutto. –
mormorò,
il tono forzatamente deciso. Era giunto il momento dell'addio e il
suo cuore era dilaniato.
Ma
non poteva mostrare la sua pena o avrebbe aumentato il distacco.
Sistemò
i suoi bagagli nella stiva, che era stata aperta, poi salì sul
pullman, seguito da Andrei.
L'ex
rugbista provò a sollevare la valigia, ma una fitta di dolore
deformò il suo viso e piegò il ginocchio.
– Aspetta,
ti aiuto io. Siediti.– si offrì Genzo.
Andrei
sedette e, senza alcuna fatica, il giovane prese la valigia
dell'altro e la sistemò sulla cappelliera.
Poi,
occupò il posto accanto a quello del compagno e appoggiò la fronte
contro il vetro del finestrone.
I
suoi occhi si posarono sulle figure dei tedeschi, che erano rimasti
ad attenderlo, e luccicarono di commozione. Erano ancora lì e
attendevano la sua partenza.
Sollevò
la mano in un breve cenno di saluto, poi girò la testa verso Andrei.
Non poteva prolungare con loro un contatto doloroso, per quanto
labile.
Avrebbe
inasprito la pena per la sua partenza.
Poco
dopo, con un breve scoppiettio, il pullman si mise in moto e si
allontanò.
P.S.:
sono tornata, dopo un periodo un po' infernale.
Spero
che ora si sia concluso.
Sono
riuscita a scrivere il capitolo della partenza di Genzo. Spero vi
piaccia, anche se a me pare confusionario. Se avete obiezioni
logistiche, fatemele sapere.
Che
dite, vi piacciono i gusti musicali dei nostri? O avreste preferito
altro? (no, non sono gruppi che seguo)
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Capitolo 16 *** Pausa ***
Nell'autobus,
le persone leggevano, ascoltavano musica, discutevano, riempiendo
l'aria di accenti sempre diversi.
Lo
sguardo di Genzo, quasi assente, si fissava sui paesaggi, che
scorrevano oltre il finestrino. Forse, aveva già lasciato la
Germania.
Un
lieve sorriso sollevò le sue labbra. Ne era certo, i problemi si
sarebbero risolti.
Si
voltò verso Andrei, che aveva appoggiato la mano sul ginocchio, e di
tanto in tanto, contraeva le labbra in smorfie infastidite.
–
Che
cosa hai? – domandò preoccupato. Il suo viso esprimeva dolore, per
quanto contenuto.
–
Sforzi
eccessivi. Ma sono fitte fastidiose, nient'altro.
– rispose Andrei.
Genzo
aprì la bocca per controbattere, ma si trattenne. Quell'uomo era
stato gentile con lui e gli dispiaceva vederlo soffrire.
Ma
sarebbe stato stupido da parte sua consigliargli una visita medica.
Lui
stesso aveva sforzato il suo corpo, pur di non abbandonare i suoi
compagni di squadra.
No,
non posso pensarci. Ormai non fa più parte della mia vita. Non
serviva a nulla macerarsi nei rimpianti.
–
Senti,
volevo farti una proposta. – dichiarò ad un tratto il rumeno.
Genzo
gli lanciò uno sguardo attento e, con un cenno del capo, lo invitò
a continuare.
–
Karl
mi ha parlato di te. Mi ha detto che sei un giovane curioso, con
grandi interessi culturali, anche se, a volte, hai un carattere
scorbutico. – cominciò.
Un
mezzo sorriso sollevò le labbra dell'asiatico. Quella definizione
era legata ad un passato recente, che gli sembrava lontano.
–
La
Romania è un paese meraviglioso. Tutti la associano a Vlad
l'Impalatore, ma ha una storia molto più antica. – proseguì.
Sempre
più perplesso, il nipponico alzò il sopracciglio.
–
I
miei nonni e miei zii, spesso, mi portavano a vedere questi luoghi e,
quando ne ho la possibilità, ci ritorno. Ti piacerebbe
accompagnarmi? – domandò.
Genzo
scosse la testa e fissò il suo compagno di viaggio. La proposta era
stuzzicante, ma non poteva accettare.
–
Entrare
in una zona turistica? Non vorrei essere riconosciuto. Meno esco allo
scoperto, meglio è. – rispose.
L'ex
rugbista sospirò, deluso.
– Ti
ringrazio per la proposta. Se fosse avvenuta in un'altra occasione,
avrei accettato con entusiasmo. Ma rischierei di danneggiare anche te
e non lo meriti. – rispose.
Andrei,
a quell'affermazione, si lasciò andare ad un sorriso malinconico.
– Non
preoccuparti per questo. Non
possono farmi più male di quello che già mi hanno fatto. –
Diverso
tempo dopo, l'autobus si fermò davanti ad un Hotel.
Genzo
si irrigidì sul suo sedile e il suo cuore accelerò i battiti, come
se volesse spaccargli le costole.
Andrei,
con un gesto calmo, deciso, gli posò la mano sull'avambraccio.
A
quel tocco, il portiere si rilassò e i battiti del suo cuore, prima
rimbombanti, si ridussero ad un debole rintocco, come quello degli
orologi.
–
Che
succede? Dove siamo? – domandò l'asiatico.
Lo
scacchista rumeno, per alcuni istanti, rifletté.
–
Non
ne ho idea. Provo a chiedere informazioni. Tu, però, stai calmo. –
disse Andrei.
Si
alzò e, a passo rapido, si avvicinò al macchinista.
Per
alcuni minuti, parlarono, poi Andrei tornò al suo posto e si lasciò
cadere sul sedile.
–
Cosa
ti ha detto il macchinista? – domandò l'ex portiere.
─
Forse,
ha
forato una ruota.
Ci vorrà un po’ di tempo per risolvere il problema. Mi dispiace di
non avere con me una scacchiera. Avrei cominciato a insegnarti
qualcosa. ─
affermò.
Genzo
non rispose. Con suo sempre, maggiore stupore solo
il ricordo di quel pestaggio alterava la calma del suo compagno.
E,
doveva ammetterlo, invidiava tale serenità.
L’autobus,
poco dopo, riprese il
suo viaggio.
Andrei
e Genzo, per alcuni minuti, rimasero silenziosi.
─
Puoi
parlarmi degli scacchi? ─ domandò, ad un tratto, il portiere
asiatico.
Lo
scacchista rumeno gli sorrise e i suoi occhi brillarono di gioia.
Nelle parole di Genzo scorgeva un interesse sincero per quel gioco
magnifico.
E
questo era un segnale di ottimismo.
─
Gli
scacchi hanno una storia antichissima. Secondo una leggenda,
l’inventore fu il persiano Sessa Ebu Daher, che presentò al re il
gioco da lui inventato, ossia gli scacchi. O forse, si è fatto
passare per tale. ─ cominciò.
Genzo,
rapito dalle sue parole, ascoltava.
Diverse
ore dopo, il mezzo si fermò nel parcheggio di un hotel.
L’edificio,
di forma rettangolare, era piuttosto grande e, sulla facciata
anteriore, si aprivano decine di finestre.
L’entrata
era percorsa in entrata e in uscita da varie persone, che entravano e
uscivano.
Gli
occupanti del mezzo scesero dall’autobus e presero i loro bagagli.
Andrei
fece per prendere una valigia, ma Genzo, con un gesto deciso,
risoluto, gli fermò il braccio.
─
Che
fai? ─ chiese, esterefatto.
─
Mi
hai detto tu stesso che forzare la gamba ti fa male. Porterò io la
valigia. ─ dichiarò Genzo, calmo.
Andrei,
per alcuni istanti, tacque, turbato, poi accennò ad un sorriso
imbarazzato.
─
Ti
ringrazio. ─
Compiute
le procedure necessarie, i due salirono le scale, percorsero un breve
corridoio ed entrarono nella loro camera.
La
stanza, di forma rettangolare, era di dimensioni medie e, al
soffitto, d’un tenue color grigio, era appesa una lampada, dalla
quale si spandeva una tenue luce gialla.
Al
centro, a poca distanza l’uno dall’altro, erano collocati due
letti singoli e, al muro, era appeso un quadro raffigurante la reggia
di Schonbrunn.
Tra
i letti, era una consolle lignea, su cui era posata una lampada da
tavolo blu.
Sulla
parete di destra, si apriva una finestra quadrata, coperta da tende
bianche.
Con
un sospiro, Andrei si lasciò cadere sul letto e chiuse gli occhi.
─
Complimenti.
Il tuo racconto sugli scacchi è stato molto interessante. ─
affermò Genzo, appoggiando la valigia alla parete.
Andrei,
sentendo quelle parole, sorrise, ma mantenne la sua posizione.
─
Solo
una persona intelligente può apprezzare la storia e la bellezza di
un gioco così bello. E io, modestamente, so riconoscere le persone
intelligenti. O, almeno, credo di avere imparato a farlo. ─
dichiarò.
Il
giapponese non rispose e si sedette sul suo letto. Andrei, con lui,
condivideva un carattere chiuso.
In
quel momento, però, aveva avvertito una nota d’amarezza.
Forse,
poteva aiutarlo e ricambiare in parte la sua gentilezza.
─
Senti,
mi insegneresti le regole degli scacchi? O sei stanco? ─ chiese.
A
quella richiesta, il rumeno aprì gli occhi e si sollevò a sedere
sul letto.
─
Certo.
─
─
Scacco
matto! ─ scandì, decisa, la voce di Andrei.
Genzo
scosse la testa, sempre più stupito. Di nuovo, il suo compagno aveva
vinto.
La
sua capacità di riflessione, pur elevata, non riusciva a cogliere di
sorpresa quel fine stratega.
─
Non
avere fretta. La genialità si crea, non nasce da sola. E questo non
vale solo negli scacchi. ─ dichiarò il rumeno, pacato.
─
Grazie,
Genzo. ─ affermò poi.
Il
portiere fissò i suoi occhi neri, confusi, nelle iridi cerulee
dell’altro.
─
Sei
stato premuroso con me, ma hai rispettato la mia storia sportiva e la
mia intelligenza. E non è da tutti. ─ affermò.
Il
giocatore asiatico si irrigidì e il suo viso si imporporò. Nelle
sue parole, avvertiva la vergogna per quel rimpianto controllato, ma
mai scomparso.
─
Non
scusarti. Piuttosto, riposiamoci. Il viaggio riprenderà presto. ─
Poco
dopo, i due uomini si addormentarono.
P.S.:
anche questa è stata una settimana abbastanza campale. Ho dovuto
anche fare formattare il PC.
Spero
vi piaccia questo capitolo. Mi rincresce di non averlo postato per
Natale, ma tre bicchieri di prosecco mi hanno steso.
La
frase di Andrei è di Laslo Polgar, padre di Judit, Zsuzsa e Zsofia,
che era convinto che le sue tre figlie fossero brave negli scacchi
per gli allenamenti da lui impartiti. Non so quanto essere d’accordo,
dal momento che anche lui era scacchista.
Spero
vi sia piaciuto questo intermezzo in Austria.
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Capitolo 17 *** Arrivo in Romania ***
La
luce del sole nascente filtrò da una finestra semiaperta e si
posò sul pavimento della stanza.
Di
scatto, Genzo aprì gli occhi e si alzò a sedere. Quanto
aveva dormito?
Non
ho avuto incubi. O almeno non ricordo., si
disse, sorpreso. Non era stato un sonno riposante, ma gli incubi non
lo avevano tormentato.
Era
un segnale positivo?
Ad
un tratto, la porta del bagno si aprì e Andrei uscì, un
asciugamano sui capelli ancora umidi.
Genzo
aggrottò la fronte e fissò sull'ex rugbista uno sguardo
perplesso.
– No,
non preoccuparti. Non sei tu ritardatario. Sono io ad avere bisogno
di poche ore di sonno. – lo rassicurò.
Con
un sospiro, l'ex portiere allontanò le lenzuola e si alzò
in piedi.
– Come
va la tua gamba? – chiese.
Un
mezzo sorriso sollevò le labbra dell'ex sportivo.
– Per
ora, non mi fa male. Ora, siamo in anticipo. Decidi cosa vuoi fare. –
affermò.
Genzo,
per alcuni istanti, rimase silenzioso.
– Dammi
il tempo di prepararmi. Poi, vorrei fare una partita a scacchi. –
dichiarò, il tono deciso.
A
quelle parole, un leggero sorriso sollevò le labbra del
rumeno. L'allontanamento, pur straziante, aveva liberato la sua mente
da parte delle sue angosce.
Forse,
in un ambiente diverso, avrebbe visto la realtà nella sua
interezza.
Diverso
tempo dopo, i due salirono sull'autobus e si sedettero ai loro posti.
– Andrei,
posso farti una domanda? – domandò Genzo, cauto.
– Di
che si tratta? – chiese, a sua volta, l'ex rugbista.
Per
alcuni istanti, il giovane asiatico tacque. Desiderava conoscere
meglio quell'inaspettato amico.
Ma
la domanda era troppo personale, ne era certo.
– Guarda
che non ti morderò il collo. Non sono discendente di Vlad
l'Impalatore. – ironizzò Andrei, lo sguardo fisso sul
paesaggio.
– Come
fai a non odiare chi ti ha fatto così male? – chiese il
giovane.
A
quella domanda, il corpo del paramedico si irrigidì e la sua
mano si strinse a pugno.
Sono
un idiota!, si disse il portiere
asiatico, irritato con se stesso. Andrei non amava i rimpianti, ma il
dolore di quel sogno spezzato non era svanito.
– Ho
la possibilità di vivere una bella vita, anche se diversa. Non
posso sperperare un simile dono. L'odio è uno spreco di
energie, perché rende importanti gli imbecilli. –
rispose, il tono calmo.
Lo
sportivo orientale lo fissò, perplesso. Quelle parole, così
calme, non lo lasciavano indifferente.
Ad
un tratto, l'autobus si rimise in moto e partì.
Diverso
tempo dopo, il mezzo si fermò nella stazione di Bucarest Nord.
Un
sospiro sgorgò dalle labbra di Genzo. La fine del loro viaggio
era vicina.
Si
alzò e fece per prendere le valigie, ma Andrei gli strinse la
mano sul braccio.
– Che
c'è? – chiese il nipponico, meravigliato.
– Ti
darò una mano. Per ora, non sento fastidio alla gamba. –
affermò l'altro, serio.
Genzo,
per alcuni istanti, tacque, poi annuì.
– Va
bene, ma se il dolore ritorna, avvertimi. – dichiarò.
L'ex
giocatore rumeno gli sorrise, divertito.
– E'
un compromesso accettabile. – affermò, calmo.
Poi,
i due giovani uomini, seguendo il flusso dei viaggiatori, scesero dal
mezzo.
Percorsero
alcuni metri, poi Andrei comprò due biglietti del taxi e ne
consegnò uno a Genzo.
– Manca
poco. Presto, potremo giocare a scacchi con tranquillità. –
affermò l'europeo, ironico.
Si
passò una mano sulla fronte, come per scacciare del sudore, e
un fremito attraversò il suo viso.
– Sicuro
di stare bene? – chiese Genzo, la fronte corrucciata.
Di
scatto, l'altro alzò le spalle in un gesto apparentemente
noncurante.
– Niente
di irrisolvibile. Ma non sono abituato a viaggi troppo lunghi in
autobus. Di solito, uso l'aereo per spostarmi. – spiegò.
Genzo
fece per parlare, ma il taxi giunse e i due salirono.
Un
po' di tempo dopo, davanti agli occhi dei due giovani, si
materializzò un paesaggio collinare, costellato di boschi e
case basse, vivacemente dipinte.
Persone
di ogni età, sesso e condizione sociale percorrevano le
strade, impegnati in varie attività.
Lo
sguardo di Genzo, attento, contemplava il panorama.
– E'
bellissimo... Karl aveva ragione... – mormorò. Gli
sembrava di essere in un quadro dai colori vivi.
L'amarezza
velò i suoi occhi. Implacabile, riemergeva nella sua mente il
ricordo di un addio amaro.
E,
forse, il suo compagno di squadra si sentiva responsabile
dell'accaduto.
– Andrei,
vorrei ripagarti in altro modo. Come? – domandò, ad un
tratto.
L'interpellato,
che era assorto nei suoi pensieri, si scosse e girò la testa
verso di lui.
– Come
pagamento, mi bastano le partite di scacchi. Ma, se vuoi, puoi
aiutarmi a imparare il giapponese. Io ti aiuterò col rumeno. –
fu
la risposta.
Genzo
aggrottò le sopracciglia, mentre un debole sorriso sollevava
le sue labbra. Quell'uomo cercava di riequilibrare le sue offerte.
Quella
gentilezza era per lui sempre sorprendente.
Scesero
dal taxi e, a passo rapido, si incamminarono verso una casa a due
piani, a pianta quadrata.
Il
tetto, triangolare, era ricoperto di tegole rossastre e le pareti
esterne, d'un tenue rosato, erano adorne di disegni floreali
policromi.
Le
finestre, di forma rettangolare, erano piuttosto grandi e, sulla
facciata anteriore, si apriva una porta lignea.
Il
giardino, piuttosto ampio, era circondato da una staccionata color
blu, avvolta da rose canine dai petali bianchi.
– Andiamo.
Presto, ci potremo riposare. – affermò Andrei.
Fece
alcuni passi, ma le fitte alla gamba, inesorabili, trapassarono il
suo ginocchio.
L'europeo
si morse le labbra e, a stento, frenò un'imprecazione.
– Forse,
ho esagerato. – sibilò.
L'asiatico
sospirò e prese le valigie del compagno.
– Porto
io queste. Guidami. –
Percorsero
il giardino ed entrarono nella casa.
Oltrepassato
l'ingresso, giunsero in un'ampia sala, illuminata dalla luce dorata
di una lampada, appesa al soffitto.
Le
pareti, d'un intenso blu, erano ricoperte di disegni floreali e vi
erano appesi quadri ad olio, raffiguranti paesaggi, santi e
personaggi di entrambi i sessi, avvolti in abiti colorati.
Sul
tavolo, era posato un vaso di ceramica bianca ad un'ansa, ornato di
vivaci motivi floreali su pancia e collo.
Alla
parete destra, era appoggiato un angolo cottura d'acciaio e, accanto
a questa, era un frigorifero bianco, di dimensioni piuttosto
contenute.
Un
grosso divano letto azzurro era collocato al lato opposto e, a poca
distanza, c'era un armadio di quercia rettangolare.
A
poca distanza dell'armadio, era presente una credenza a doppio
scomparto, con un vetro, nella quale era collocata una scacchiera a
riquadri bianchi e verdi, coi pezzi degli scacchi.
– Bene.
Siamo arrivati. Cosa ne dici di iniziare una partita a scacchi? –
domandò Andrei, un sorriso sulle labbra.
L'asiatico,
con un cenno della testa, annuì.
– Va
bene. –
P.S.:
sono tornata con questa storia. Spero di non abbandonarla di nuovo.
Sono
un po' arrugginita, spero che non vi sia dispiaciuto. Ho preferito
lasciare un po' nel vago determinate descrizioni, per evitare di
confondermi con troppi calcoli. Con me, la confusione è
assicurata. Se c'è qualche castroneria, attribuitela alla mia
imbecillità matematica. E i due arrivarono nella terra del
conte Dracula. Ho una piccola indecisione sulla trama, spero di
poterla risolvere.
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Capitolo 18 *** Sorpresa ***
A passo rapido, Karl entrò nel cimitero di Monaco di Baviera, stringendo tra le mani un mazzo di orchidee bianche.
Diverse persone, di ogni etnia, sesso ed età percorrevano il sepolcreto e, di tanto in tanto, si fermavano davanti alle tombe.
Il giovane, di tanto in tanto, si fermava e lanciava sguardi inquieti, ora a destra, ora a sinistra. Con la partenza di Genzo, gli idioti avevano attenuato le loro intemperanze..
Tuttavia, l'ansia non era scomparsa.
Si passò una mano sulla fronte e un debole sospiro fuggì dalle sue labbra. Genzo, in Romania, si stava riprendendo.
Ma tale notizia, pur moderatamente positiva, non alleviava la sua amarezza.
E i suoi compagni condividevano questo sentimento.
Non è giusto. Lui non dovrebbe stare recluso., pensò. Andrei era stato generoso e gli aveva permesso di mantenere un contatto con Genzo.
Ma il suo posto non era in quel villaggio rumeno.
Si avvicinò ad una croce marmorea, ricoperta di fiori policromi, dai quali si spandevano profumi ora delicati, ora forti.
Su di essa, in caratteri dorati, risaltava la seguente scritta:
Andrea Schumann
7/12/1982 – 20/6/2007
Il Fato ci ha divisi
ma nulla può la morte
contro la forza dirompente dell'amore.
Anche noi, presto, supereremo quella barriera
e un giorno ci rivedremo.
Karl si inginocchiò e, con garbo, posò il mazzo di orchidee a poca distanza dalla lapide.
– Mi dispiace per quello che ti è accaduto, anche se non ci siamo mai conosciuti. Nessuno merita quello che hai passato tu. – mormorò.
Fissò lo sguardo sull'epitaffio e un amaro sorriso sollevò le sue labbra. Quelle parole vibravano d'amore.
Capiva la dilaniante pena dei familiari di Andreas Schumann.
Allungò il braccio verso la pietra tombale, poi lo abbassò. No, non poteva sfiorare quella pietra.
Quel gesto, così affettuoso, apparteneva alla sua famiglia, che piangeva la sua tragica morte.
– Genzo, però, non ha nessuna colpa. Ha cercato di soccorrerti, anche se era ferito. – continuò.
Strinse il pugno e, a stento, frenò un'imprecazione. Che senso aveva un simile monologo?
Quel giovane sfortunato non poteva rispondergli.
Per alcuni istanti, rimase immobile, poi girò le spalle e si allontanò.
Ad un tratto, si fermò, si girò e lanciò brevi sguardi ora a destra, ora a sinistra. Non sapeva perché, ma sentiva qualcuno dietro di sé.
Si passò una mano tra i capelli biondi e un debole sospiro sgorgò dalle sue labbra. Forse, il trauma aveva acuito la sua sensibilità.
Ma non poteva cedere alla paura.
Diverso tempo dopo, l’auto si fermò davanti al campo di allenamento della nazionale tedesca.
Prese il suo borsone, scese e vi si avviò.
I giocatori, sotto lo sguardo vigile di Mike Gildo, si allenavano e correvano attorno al campo.
‒ Che cosa è successo? ‒ domandò il tecnico.
‒ Chiedo scusa per il ritardo. Ma dovevo fare una cosa che avevo rimandato da troppo tempo. ‒ spiegò il centravanti, serio.
L’allenatore corrugò le sopracciglia, poi annuì.
‒ Va bene. Vai a cambiarti. ‒
Diverso tempo dopo, un vigilante entrò nel campo e si avvicinò all’allenatore.
Questi, con un cenno della testa, annuì, poi prese il suo fischietto e soffiò.
Un lungo trillo risuonò nell’aria e i giocatori cessarono di allenarsi e si avvicinarono.
‒ Che succede? ‒ domandò Karl, stupito.
Per alcuni istanti, il vigilante tacque.
‒ Vi ricordate la sorella di quel ragazzo investito da Wakabayashi? Ecco… E’ qui. E vorrebbe parlarvi. ‒ spiegò.
Con un gesto stizzito, Hermann si schiaffeggiò la fronte con la mano.
‒ Che cazzo vuole? Non le basta che cosa è successo a Genzo? ‒ ringhiò, irritato.
Diversi giocatori, quasi accordandosi con le parole del mediano, cominciarono a parlare tra loro.
Con un gesto della mano, il tecnico invitò i giovani a tacere.
‒ Per me, lei non dovrebbe essere qui, ma Schneider e Kaltz sono i più coinvolti nella vicenda. Però, vi consiglio di non agire impulsivamente. ‒ affermò.
‒ A mio parere, non deve entrare in campo. Ma tu cosa ne pensi, Karl? ‒ domandò il mediano.
Per alcuni istanti, il giovane attaccante tacque e rifletté.
‒ Lasciamola entrare. Diamole il beneficio del dubbio. ‒
Poco dopo, Hilda entrò nel campo di allenamento.
‒ Benvenuta, signorina Schumann. Cosa possiamo fare per lei? ‒ chiese Karl, serio.
A quella domanda, la ragazza si strinse le mani e sbarrò gli occhi.
‒ Vorrei parlare con Wakabayashi. Sa dove posso trovarlo? ‒ domandò, il tono fermo.
D’istinto, Hermann avanzò d’un passo, ma Karl, con un gesto pacato del braccio, lo bloccò.
‒ Signorina, non è qui. E non sappiamo dove sia. ‒ affermò lui, deciso.
Lo sguardo di Hilda si adombrò e una ruga attraversò la sua fronte.
– Poi, non pensate che abbia sofferto abbastanza? – la interrogò, il tono vibrante d'una nota tagliente. Comprendeva la pena dei familiari di quel ragazzo sfortunato, ma non era riuscito a contenere la rabbia.
A quella domanda, Hilda sbarrò gli occhi e alzò le mani.
– Mi avete frainteso. Io non voglio accusarlo di nulla, anzi. Voglio chiedergli scusa, a nome dei miei genitori e del mio povero fratello. – spiegò lei.
Gli sguardi dei giocatori, perplessi, si fissarono sulla giovane.
– Perché questa scelta? – chiese Reiner, la fronte aggrottata.
Per alcuni istanti, Hilda tacque, come intimorita dall'imponente portiere.
– Per mio fratello, rinunciare a qualcosa di amato per proteggere qualcuno era un segno di generosità. Un campione annoiato non avrebbe mai fatto quello che ha fatto Wakabayashi. Mi dispiace di non averlo capito prima. – spiegò.
E’ sincera., si disse Karl. Aveva vinto il suo nervosismo, pur di perseguire il suo obiettivo e non aveva distolto lo sguardo né da lui, né da Bauer.
‒ Beh, meglio tardi che mai. ‒ commentò Hermann, il tono ironico.
Lo sguardo della giovane, ad un tratto, si indurì e strinse il pugno.
– Poi, pochi sono interessati alla tragedia di mio fratello. Vogliono avere un motivo per sfogare la loro stupidità. E la nostra famiglia non merita questo. – spiegò ancora.
‒ Signorina, le sue intenzioni sono lodevoli, ma Genzo, ora, non riuscirebbe a parlarle. E ne comprenderà il motivo. ‒ affermò Karl. Era felice del cambiamento di idee della sorella di Andreas Schumann, ma come avrebbe potuto influire sulla condizione del suo compagno?
‒ Ma non si può nemmeno aspettare che lui cambi idea spontaneamente. ‒ intervenne ad un tratto Reiner.
Perplessi, si voltarono verso il portiere.
‒ Che cosa intendi dire? ‒ domandò Hermann.
Il gigante incrociò le braccia sul petto e roteò gli occhi, seccato.
‒ Per me, avete fatto male a non parlare con i suoi compagni di nazionale. Loro devono sapere la verità. ‒ affermò, secco.
Hilda, stupita, sbarrò gli occhi e scrutò la squadra, quasi cercasse conferme alle parole del portiere.
Karl ed Hermann, per alcuni istanti, rifletterono. Forse, le parole di Bauer non erano insensate.
Ma come avrebbero potuto aiutare il loro compagno?
‒ Posso fare qualcosa per rimediare? ‒ domandò Hilda, dispiaciuta.
Un mezzo sorriso sollevò le labbra di Karl. Ricordava bene lo sguardo d’odio che lei, al processo, aveva loro rivolto.
Le sue intenzioni, pur nobili, l’avrebbero portata a compiere atti avventati.
‒ Sì, può fare una cosa. Non agisca d’impulso. Potremmo avere bisogno di lei. ‒ spiegò lui.
Lei, per alcuni istanti, tacque, poi annuì.
Poi, aprì la borsa, prese un blocchetto di appunti e una penna e vi scarabocchiò sopra.
‒ Mi affiderò a voi, dato che conoscete meglio Wakabayashi. Però, chiedo di essere informata su quello che fate. ‒ disse.
D’istinto, Karl annuì e prese il numero di telefono.
‒ Grazie per non avermi mandato via. Ah, Schneider, vi ringrazio per le orchidee. Sono fiori meravigliosi. ‒ affermò.
Il giocatore sbarrò gli occhi e un debole rossore velò le sue guance.
‒ Si figuri. ‒
Qualche tempo dopo, Hilda salutò i giocatori, volse le spalle al campo e si allontanò.
‒ Schneider, lei ti ha ringraziato. Perché? ‒ chiese l’allenatore.
Di nuovo, il centravanti tacque. Il ringraziamento di Hilda confermava la bontà delle sue opinioni, ma non riusciva a non sentirsi a disagio.
‒ Sei andato al cimitero e hai deposto dei fiori sulla tomba di quel ragazzo. Perché non lo dici? Non hai ammazzato cento persone a colpi d’ascia. ‒ intervenne Hermann.
A quell’osservazione, Karl gli scoccò un’occhiata irritata. A volte, odiava l’inopportunità del suo compagno di squadra.
Un mezzo sorriso sollevò le labbra dell’allenatore e posò la mano sulla spalla del centravanti.
‒ Kaltz ha ragione. Non hai nulla da nascondere. Lei ha apprezzato il tuo gesto. ‒
Per alcuni istanti, il giovane meditò sulle parole del tecnico, poi annuì.
‒ Forse, ha ragione. ‒
Poco dopo, ripresero gli allenamenti.
P.S.: bene, qualcosa comincia a muoversi.
La sorella di Andreas spero si sia mostrata intelligente. Vorrebbe chiedere scusa a Genzo, ma non può e si rende disponibile per aiutare i ragazzi a toglierlo dal suo esilio rumeno.
Ho usato l’allenatore della Germania nel manga del 1981 (non ricordo se appare anche nell’anime). Viene detto che è “un ottimo leader” e ho cercato di dargli un po’ di testa. (anche perché, nel manga, gli allenatori lasciano un WTF perenne).
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Capitolo 19 *** Nuova strada all'orizzonte ***
Karl,
con un debole sospiro, controllò l’orologio, poi lanciò brevi
sguardi, ora a destra, ora a sinistra.
Diverse
persone di ogni età, etnia e ceto sociale percorrevano l’Englisher
Garten.
Non
sembra ci siano idioti in giro., pensò. Nessuno, per fortuna,
fissava su di lui uno sguardo ostile.
Un
sospiro sgorgò dalle sue labbra. Aveva appoggiato Genzo, pur non
essendo concorde con la sua decisione di ritirarsi.
Però,
quella tranquillità instillava dei dubbi nella sua mente.
Si
passò una mano tra i capelli biondi. Le parole di Bauer non
svanivano dalla sua mente.
Loro
devono sapere la verità., si disse. Genzo non aveva voluto
coinvolgerli in quell’assurda vicenda.
Ma
cosa avevano pensato del suo silenzio impenetrabile?
Avevano
sospettato qualcosa o si erano lasciati intrappolare dal sospetto?
Forse,
Bauer ha ragione., pensò. I compagni di squadra di Genzo
meritavano la verità.
La
sua figura non doveva essere macchiata da nessun sospetto.
‒ Siamo
qui! ‒ urlò una forte voce maschile.
Il
giovane girò la testa e vide avanzare verso di lui Hermann ed Hilda
a passo sostenuto.
‒ Chiedo
perdono per il mio abbigliamento. Ma la mia professione di ballerina
richiede ore e ore di allenamento e non mi sono potuta cambiare. ‒
spiegò lei.
Karl,
perplesso, posò lo sguardo sulla figura snella della giovane,
coperta da una tuta d’allenamento blu intera, e sul suo borsone,
appoggiato su una spalla.
‒ Signorina,
siamo sportivi professionisti anche noi. ‒ affermò, un mezzo
sorriso sulle labbra.
‒ Già,
non ci formalizziamo certo su simili stronzate. ‒ aggiunse Hermann,
il tono ironico.
A
quelle parole, il centravanti roteò gli occhi, poi si passò una
mano sulla fronte.
Perplesso,
Hermann aggrottò la fronte e incrociò le braccia.
‒ Stai
bene? La testa ti da’ problemi? ‒domandò, il tono ruvido, seppur
affettuoso. Con la partenza di Genzo, le emicranie di Karl si erano
ridotte, ma non erano scomparse.
Genzo,
a poco a poco, si riprendeva, ma la preoccupazione di Karl non si
allontanava.
A
quelle parole, il centravanti sollevò le labbra in un sorriso.
‒ Sto
bene. Sono stanco, anche se non dovrei. ‒ rispose in fretta.
Hilda,
ad un tratto, posò a terra il suo borsone, lo aprì e trasse una
piccola borsa.
‒ Che
vuol fare? ‒ domandò
Hermann, stupefatto.
‒ Vado
a prendere del caffè forte ad uno dei chioschetti. E’ ottimo
contro il mal di testa. Mi potete guardare il borsone? ‒ chiese
poi.
Fece
per allontanarsi, ma Hermann la prese per un polso.
Lei
si girò e fissò sul mediano uno sguardo sorpreso.
‒ Un
caffè è una buona idea. Ma lo prenderemo tutti e tre. ‒
I
tre giovani, a passo rapido, si avviarono verso un chiosco, attorno
al quale si affollavano diverse persone.
Ad
un tratto, Hermann si fermò e tese l’orecchio.
Karl,
d’istinto, afferrò il polso di Hilda e lei gli lanciò uno sguardo
perplesso.
‒ Che
succede? ‒ domandò la giovane.
‒ C’è
odore di imbecilli nell’aria. Me ne occupo io. ‒ dichiarò
Hermann, un sorriso beffardo sulle labbra sottili.
Karl
avanzò d’un passo, ma una fitta di dolore, come una lama,
attraversò la sua testa.
Il
centravanti sbarrò gli occhi, poi, sopraffatto dal dolore, barcollò
un poco.
Hilda,
d’istinto, gli cinse le spalle con un braccio.
‒ Sì,
stagli accanto. Non voglio avere morti sulla coscienza. ‒ dichiarò
Hermann, divertito.
Un
veloce scalpiccio e un sibilo giunsero alle orecchie del mediano.
Di
scatto, Hermann si girò.
Di
gran carriera, giungeva un uomo bruno, tarchiato, armato di coltello,
gli occhi ardenti d’odio.
Il
difensore, con un movimento brusco del capo verso destra, schivò
l’assalto, poi sollevò il ginocchio e colpì l’assalitore al
ventre.
Questi,
dolorante, cadde sul terreno.
Hermann,
poi, gli afferrò il braccio, glielo torse dietro la schiena e lo
costrinse a rilasciare il coltello.
‒ Cosa
state aspettando? Chiamate la polizia. ‒dichiarò, deciso.
Karl,
con un cenno del capo, annuì e prese il suo cellulare.
Diverso
tempo dopo, i tre giovani uscirono dalla centrale di polizia.
‒ Signorina,
che le succede? ‒ domandò Hermann. Per diverso tempo, lei non
aveva detto alcuna parola.
Il
suo sguardo era turbato.
‒ Non
avrei mai pensato che aveste sofferto così tanto. Mi sento colpevole
per voi… ‒ confessò lei, amareggiata. Con
quell’assalto insensato, la figura di suo fratello era stata
offesa.
E
lui non meritava un uso distorto del suo nome.
‒ Non
dica idiozie. Non ha certo incitato lei quei bastardi. ‒ sibilò
Karl, la mascella contratta in uno spasmo d’ira. No, una simile
situazione doveva cessare.
E,
forse, sapeva cosa fare.
‒ Per
favore, potete venire a casa mia? ‒ domandò poi.
‒ Per
me non ci sono problemi. Per lei? ‒ chiese a sua volta Hermann.
Hilda
prese il suo cellulare e chiamò i suoi familiari.
‒ No,
non preoccuparti mamma. Sono ancora tutta intera. Uno dei compagni di
Wakabayashi ha difeso anche me. Anche per questo, devo aiutarli. ‒
dichiarò, decisa.
Parlarono
ancora un poco, poi la giovane chiuse la chiamata.
‒ Verrò
anche io con lei. ‒
Diverso
tempo dopo, i tre giovani raggiunsero un palazzo di forma
rettangolare, la facciata anteriore coperta di mattoni.
Il
tetto, triangolare, era sormontato da un abbaino, coperto di tegole
rosso scuro.
I
tre giovani attraversarono l’ingresso e salirono le scale.
Karl
aprì la porta e i tre si introdussero nell’appartamento.
Con
un sospiro, l’attaccante appoggiò la mano contro il muro. Il peso
di quell’attacco era stato orribile.
Eppure,
Hermann aveva difeso tutti e tre con la maestria di un combattente di
strada consumato!
‒ Qualche
problema? ‒ chiese il difensore.
Di
scatto, il Kaiser si girò e fissò uno sguardo risoluto ora sul
compagno, ora su Hilda.
‒ Sono
stanco di queste menzogne! Questa storia deve concludersi! ‒
sibilò. Dubbi, ormai, non erano rimasti.
‒ E
che cosa pensi di fare? ‒ domandò Hermann, stupito. Comprendeva la
ragione del suo compagno, ma come avrebbero potuto dare una svolta a
tutto?
Per
alcuni istanti, Karl tacque, le labbra strette in una linea diritta.
‒ Voglio
umiliarli e, se necessario, sbatterli in galera. La loro non è
giustizia, è violenza insensata. ‒ commentò.
‒ Dica
pure manipolazione. ‒ intervenne Hilda, il tono lugubre.
A
quelle parole, vibranti d’amarezza, il giovane campione scosse la
testa.
‒ Signorina,
per questo avremmo bisogno del suo aiuto. E’ disposta a mettersi in
gioco? ‒ chiese ancora.
Un
leggero sorriso sollevò le labbra della ragazza.
‒ Certo.
E, se sarà necessario, sarò disposta a parlare coi suoi compagni. ‒
affermò, ferma.
Karl
scosse la testa e, per alcuni istanti, fissò i suoi occhi cerulei
nelle iridi simili della ragazza. Il suo sguardo era limpido, ma i
compagni di Genzo l’avrebbero guardata con diffidenza.
Poi,
lei era necessaria in Germania.
‒ No,
è meglio che parli io con loro. Lei può essere più utile qui. ‒
affermò.
La
ragazza reclinò la testa da un lato e lo fissò, interdetta.
‒ Quando
i giornalisti la cercheranno, lei dovrebbe dire quello che pensa. Se
la sente? ‒
Con
un deciso cenno della testa, Hilda annuì.
Poi,
si volse verso Hermann e gli appoggiò le mani sulle spalle.
‒ Parla
ai nostri compagni. Anche loro hanno il diritto e il dovere di dire
la verità. ‒ affermò, risoluto.
Hermann,
per alcuni istanti, tacque, poi annuì. Un grande peso, in quel
momento, era scomparso dal suo petto.
Presto,
tutto questo avrebbe avuto fine.
Prese
le mani di Karl tra le sue e i suoi sottili occhi neri si
specchiarono in quelli cerulei del compagno.
‒ Conta
su di me, capitano. ‒
P.S.:
no, il caffè come medicinale per il mal di testa non è una mia
invenzione. La caffeina può aiutare. Un esempio è la Coca – Cola.
(a me, per esempio, aiuta coi mal di testa da stress)
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Capitolo 20 *** Un nuovo interlocutore ***
Karl
ed Hermann parcheggiarono presso la Bavaria Academy Ballet.
Il
sole si posava sugli ampi vetri dell’edificio, illuminandolo di
riflessi dorati, mentre un debole vento soffiava tra i rami degli
alberi.
Diverse
auto erano presenti nell’area parcheggio e, di tanto in tanto,
alcune persone uscivano dall’edificio, avviandosi verso le proprie
vetture.
Poi,
partivano e si allontanavano.
‒ Sei
sicuro della tua idea? ‒ domandò ad un tratto Hermann. Karl gli
aveva accennato a qualcosa, ma percepiva una forte indecisione.
E
non gli sembrava una buona premessa per la riuscita del suo piano.
A
quella domanda, il giovane attaccante si passò una mano tra i
capelli biondi. Il suo compagno di nazionale aveva saputo intuire le
sue perplessità.
‒ Vuoi
la verità? Mi sembra di tradire la fiducia di Genzo. Andrei mi ha
detto che, a poco a poco, si sta riprendendo. Ma credo sia anche
giusto che i suoi compagni di nazionale conoscano la verità. ‒
mormorò. Non ci dovevano essere dubbi sulla morale del suo compagno
di squadra dell’Amburgo.
Strinse
le mani attorno al volante e un sospiro sgorgò dalle sue labbra.
Cosa avevano pensato loro dell’improvvisa scomparsa di Genzo?
Alzò
la testa e fissò lo sguardo sull’edificio.
‒ Anche
la signorina Schumann ha il diritto di conoscere le mie intenzioni.
Anche perché devo chiederle un favore enorme. ‒ mormorò.
Perplesso,
il mediano aggrottò la fronte. Queste novità incuriosivano anche
lui.
‒ Di
che si tratta? ‒ chiese.
‒ Presto
lo saprai. ‒
Qualche
minuto dopo, la ragazza uscì zoppicando dall’edificio, reggendo il
borsone.
Karl,
d’istinto, appoggiò la mano sul manico, ma Hermann, con un gesto
deciso, gli bloccò il braccio.
‒ Stai
tranquillo. La aiuterò io. E’ meglio non correre rischi stupidi. ‒
affermò, risoluto.
Scese
dall’auto e, di gran carriera, le andò incontro.
‒ Signorina,
che cosa è successo? Le è passato un treno sulla gamba? ‒
domandò.
Lei
girò la testa verso di lui e le sue labbra si distesero in una linea
diritta.
‒ No,
semplice tendinite alla caviglia. Infortunio comune per i danzatori.
‒ spiegò la giovane, calma.
Hermann,
per alcuni istanti, la fissò, poi le passò un braccio attorno alle
sue spalle.
‒ Ehi!
So camminare! ‒ esclamò lei, sorpresa.
‒ Non
lo metto in dubbio, ma non è il caso di fare sforzi inutili. E poi
il suo borsone è sempre pesante. ‒
Hermann
aiutò Hilda ad entrare nella macchina.
‒ Salve,
Schneider. Come si sente? ‒ lo salutò lei.
‒ Per
ora, non ho mal di testa. Vi ringrazio per la premura. ‒ rispose
lui, calmo.
Poi,
il suo sguardo si adombrò e abbassò le palpebre.
‒ Signorina
Schumann, ho intenzione di parlare coi compagni di nazionale di
Wakabayashi. Penso che voi dobbiate saperlo. ‒ affermò.
Per
alcuni istanti, la ballerina tacque, pensierosa.
‒ Vi
ringrazio per la vostra correttezza, ma non ne avevate già parlato
al parco? ‒ domandò, meravigliata.
‒ E’
vero, ma ho avuto modo di riflettere. Credo che voi dobbiate essere
messa al corrente di tutto. Anche perché devo chiedervi un grosso
favore. ‒ rispose il giovane.
Con
un cenno deciso del capo, la ragazza annuì.
‒ Vi
ascolto. ‒
‒ Per
ora, parlerò con uno dei suoi compagni di nazionale, poi deciderò
cosa fare. ‒ cominciò.
‒ E
dove andrete? ‒ domandò Hilda, attenta.
‒ In
Italia. Alcuni suoi compagni giocano lì. ‒ spiegò il capitano
della nazionale tedesca.
Per
alcuni istanti, la giovane tacque e si grattò il mento.
‒ Che
cosa c’è? ‒ domandò Hermann, stupito dall’improvviso silenzio
di lei.
‒ Non
penso che tutti giochino nello stesso posto. Ci avete pensato, quando
dovrete parlare a tutti? ‒ domandò.
‒ Sì.
Ma questo è un aspetto che valuterò in seguito. Un passo alla
volta, mi comprende signorina? ‒
Lei
gli posò una mano sul polso e fissò i suoi occhi cerulei nelle
iridi simili di lui.
‒ Comprendo.
Non vi preoccupate. ‒
‒ Mi
avete detto che volete chiedermi un grosso favore. Di che si tratta?
‒ chiese poi la giovane.
Karl,
per alcuni istanti, tacque e fissò su Hermann uno sguardo
interrogativo.
Con
un cenno del capo, il mediano annuì.
‒ Signorina,
nei limiti delle sue possibilità, le chiedo di venire allo stadio e
di seguire le partite della nostra squadra. ‒ affermò lui.
La
ragazza, per alcuni istanti, lo guardò perplessa, poi, con un cenno
del capo, annuì.
‒ Ho
capito. Pensate di sfruttare la popolarità del calcio per dare un
messaggio agli idioti. La mia presenza, in un simile luogo, sarebbe
mediaticamente efficace. ‒ dichiarò, pacata.
‒ Esatto.
Sarete adeguatamente tutelata, anche dai miei compagni, ma non siete
obbligata ad un simile passo. Se avete paura, vi comprendo. ‒
Un
lieve sorriso sollevò le labbra di Hilda, mentre un’ombra
malinconica velava i suoi occhi. Il garbo di Karl era quasi
commovente, ma, in quel momento, era inutile e insensato.
‒ No.
Non ho intenzione di restare fuori. La memoria di mio fratello non
deve diventare un pretesto per una inutile violenza. Farò quello che
posso per aiutare tutti voi, ma ad una condizione. ‒
I
due giocatori, perplessi, fissarono la giovane. Che cosa intendeva
dire?
‒ Vi
prego di non usare il voi. Ho un nome. ‒ dichiarò lei, ferma. Una
simile distanza non aveva più senso.
Loro
meritavano il suo rispetto.
Karl
ed Hermann, prima tesi, si rilassarono. Quelle parole donavano
speranza ai loro cuori.
‒ Va
bene… Hilda. ‒
Diverso
tempo dopo, il centravanti tedesco entrò nel suo appartamento.
Si
lasciò cadere sul letto e, per alcuni istanti, rimase immobile, lo
sguardo fisso sul soffitto. Hilda Schumann, prima loro avversaria,
aveva cambiato idea ed era disposta ad aiutarli.
Non
voleva ammetterlo, ma tale mutamento innestava una debole speranza di
una risoluzione positiva della vicenda.
Si
scosse dalle sue fantasticherie, prese il portatile e lo aprì e
digitò il nome utente e la password del suo account e – mail.
Con
calma, cominciò a scorrere la posta elettronica.
Il
suo sguardo, ad un tratto, si concentrò su una mail appena arrivata,
sepolto da centinaia di messaggi di spam.
Bene,
ha risposto., si disse il centravanti, un sorriso leggero sulle
labbra sottili. Genzo gli aveva parlato del carattere aspro di Kojiro
Hyuuga, frutto di una vita dura.
Lo
sguardo di Karl si incupì. Non commetteva un torto nei confronti di
Tsubasa?
Si
era ben accorto del legame affettivo tra il suo compagno di squadra e
il capitano nipponico.
Forse,
doveva essere il primo a conoscere le ragioni di Genzo.
Scosse
la testa, risoluto. No, Tsubasa era d’animo limpido, ma non avrebbe
compreso le ragioni del suo amico.
Anzi,
avrebbe sentito su di sé il peso di un senso di colpa immotivato.
Con
un movimento deciso, premette l’indice sul tasto destro del mouse
e, qualche secondo dopo, la mail si aprì.
Ci
ho messo un po’ di tempo a rispondere alla tua e-mail, Schneider.
Questo
silenzio da parte vostra è stato snervante.
Perché
non ci avete detto nulla delle condizioni di Wakabayashi?
Anche
i suoi familiari erano disperati. E non meritavano questo. Ci avete
pensato?
Per
fortuna, fisicamente si è ripreso.
Però,
ha deciso di continuare con questo silenzio.
E
voi avete deciso di aiutarlo.
A
mente fredda, posso capire le sue ragioni. Si sente colpevole della
morte di quello sfortunato ragazzo.
Ne
sono certo, è insopportabile, ma ha una morale.
Ma
ha sbagliato. E avete sbagliato ad assecondare una simile decisione.
Non
siamo stupidi. Lo avremmo aiutato.
Nessuno
ha mai visto in lui un assassino.
P.S:
se vuoi incontrarmi, vieni a Bologna, precisamente all’Università.
Un
mezzo sorriso sollevò le labbra di Karl. Kojiro Hyuga, pur non
comprendendo in pieno le ragioni di Genzo, si era schierato dalla sua
parte.
Certo,
nelle sue parole, si respirava rabbia, ma era comprensibile un tale
sentimento.
Sì,
iniziare con lui era la scelta migliore.
Spense
il computer, lo chiuse e lo ripose nella sua custodia. Un altro peso
si era allontanato dal suo cuore.
Provato
dalla fatica, si lasciò cadere sul letto e si addormentò.
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Capitolo 21 *** Intervista ***
La
squadra dell’Amburgo entrò nello stadio assieme a quella del Bayer
Monaco.
Lo
sguardo di Karl fissava un punto davanti a sé. Il chiasso del tifo
giungeva alle sue orecchie.
Eppure,
il dolore alla testa sembrava sopportabile.
Un
mezzo sorriso sollevò le sue labbra. Forse, la speranza di una
risoluzione positiva allontanava quella pena martellante.
Di
tanto in tanto, lanciava occhiate fugaci agli spalti.
Ad
un tratto, il suo sguardo si posò sulla figura snella di Hilda,
seduta accanto a suo padre e una donna alta, non più giovane, dai
lunghi capelli rossi.
La
ragazza, quasi sentisse le occhiate del tedesco, alzò la mano in un
breve cenno di saluto.
Un
debole sorriso sollevò le sue labbra. Lei aveva mantenuto la
promessa.
E,
accanto a lei, erano presenti i suoi genitori.
Quello
era un buon segnale.
Grazie.,
si disse, un lieve sorriso sulle labbra. Lei era riuscita a
convincere i suoi genitori a venire allo stadio.
Questo
era un risultato migliore di quanto si potesse sperare.
Si
scosse dai suoi pensieri e, poco dopo, si avvicinò per il sorteggio.
Al
fischio dell’arbitro, le squadre cessarono di giocare ed entrarono
negli spogliatoi.
‒ Hilda,
sei sicura dell’utilità della nostra presenza? ‒ domandò la
donna, il tono dubbioso.
‒ Sì,
mamma. Dobbiamo essere chiari. Nessuno di noi è d’accordo con la
violenza ingiustificata. ‒ rispose la giovane, lo sguardo fisso sul
campo. Non poteva non comprendere il timore di sua madre, dopo quanto
era accaduto giorni prima.
Ma
la sua onestà le imponeva di continuare la sua battaglia.
‒ Susanna,
nostra figlia ha ragione. Troppi si stanno servendo di Andreas, senza
nemmeno chiedere la nostra opinione. ‒ intervenne l’uomo, lo
sguardo cupo e la fronte aggrottata.
La
donna si girò verso il coniuge e fissò su di lui i suoi occhi
azzurro scuro, velati da un forte turbamento.
L’uomo,
per alcuni istanti, strinse le labbra e il suo sguardo vagò sullo
stadio.
‒ Per
mesi, noi ci siamo nascosti dietro al lutto, per non affrontare la
verità. Odiavamo Wakabayashi perché è sopravvissuto, al contrario
di Andreas. Ma la morte di nostro figlio è stata una tragica
fatalità… ‒
Si
interruppe e, d’istinto, coprì la bocca con la mano, mentre le
lacrime cadevano dai suoi occhi cerulei. Davanti ai suoi occhi, si
materializzava l’immagine del corpo di suo figlio, steso
sull’asfalto, come un manichino ormai inutile.
Susanna
strinse le labbra e gli posò una mano sul braccio. Il suo
meraviglioso marito, come lei, soffriva per la morte del loro amato
figlio.
Ma
era riuscito a vedere gli eventi da un punto di vista differente.
Hilda,
d’impeto, lo abbracciò e posò la testa bionda sulla sua spalla.
Il tempo non aveva placato la loro pena per Andreas.
‒ Genzo
Wakabayashi è un ragazzo, come lo era Andreas. E, a causa di una
violenza insensata, si è allontanato dalle persone a lui care. Non
so come faccia a sopportare un tale peso. Io, al suo posto,
impazzirei, se non dovessi vedervi più. ‒ spiegò lui.
Susanna,
con un cenno del capo, annuì. In quel momento, il suo pensiero
correva ai genitori del campione giapponese, privi di sue notizie.
E
lei non era certa della sua reazione, se fosse accaduto a lei.
Rise
di sé e la sua mano, leggera, accarezzò ancora il braccio di
Martin. No, non doveva mentire a se stessa.
Anche
lei avrebbe vissuto come un incubo una simile eventualità.
Al
termine della partita, le due squadre rientrarono negli spogliatoi.
Hilda
e i suoi genitori, seguendo il flusso degli spettatori, si avviarono
verso l’uscita.
‒ Figlia
mia, ho una proposta da farti. ‒ mormorò ad un tratto Susanna.
‒ Di
che si tratta? ‒ domandò la ragazza, stupita.
Susanna
fece per rispondere, ma alcuni giornalisti si avvicinarono, i
microfoni protesi.
Senza
alcuna esitazione, Hilda si parò davanti ai suoi genitori, come uno
scudo.
‒ Signorina
Schumann, è un po’ strano vedere in uno stadio una persona come
lei. ‒ esordì un giornalista alto e magro, il tono pacato.
La
ballerina aggrottò le sopracciglia e fissò sull’interlocutore uno
sguardo imperscrutabile.
‒ Per
quel che ricordo, nessuna legge proibisce a me e alla mia famiglia di
frequentare gli stadi. ‒ rispose lei, ferma. Non le piaceva
quell’affollamento di esponenti della carta stampata.
Sorpreso
dalla risposta della giovane, il giornalista, per alcuni istanti,
tacque.
‒ Signorina,
fino a poco tempo fa la sua opinione era diversa. ‒ continuò
l’uomo, un lampo ironico negli occhi metallici.
Hilda,
a stento, frenò un sospiro di disappunto. Comprendeva quello che
aveva sofferto Wakabayashi con l’assalto di una stampa stupida.
‒ Sa,
si può cambiare idea nel corso dei mesi, se si è abbastanza
intelligenti. ‒ rispose lei, il tono vibrante di sarcasmo.
Il
sorriso sul viso del giornalista si accentuò.
‒ E’
vero, ma la gente mormora. Ci ha mai pensato? ‒ chiese ancora.
Di
scatto, Susanna avanzò d’un passo, gli occhi castani ardenti
d’ira. Come osavano parlare così della loro famiglia?
Hilda,
con un movimento deciso del braccio, bloccò la madre.
Poi
fissò un breve sguardo sul personale segalino del suo interlocutore
e i suoi occhi si fermarono sul badge dell’uomo, a destra del
petto, su cui risaltava il nome Oskar Weber.
‒ Mamma,
non è il caso. Non si può sprecare il proprio tempo con chi
proietta sugli altri la propria stupidità. E il signor Weber non fa
onore alla sua professione. ‒ affermò lei, la voce apparentemente
calma. Forse, avrebbe potuto essere condannata per diffamazione, ma
non le importava.
Nessuno
doveva permettersi di mettere in dubbio il loro affetto per Andreas.
L’uomo,
colto di sorpresa dalla risposta della ragazza, ansimò, come un
pesce spiaggiato.
‒ E
ora, scusate, dobbiamo andare. ‒ affermò.
Girò
le spalle e, a passo rapido e deciso, si allontanò, presto seguita
dai suoi genitori,
Qualche
tempo dopo, uscirono dallo stadio e si avviarono verso il parcheggio.
‒ Mamma,
qual è la proposta che mi volevi fare? ‒ chiese Hilda.
La
donna fece per rispondere, ma un deciso calpestio fece voltare tutti
e tre.
Videro
Karl ed Hermann avanzare a grandi passi verso di loro, le spalle
gravate dai loro borsoni.
‒ I
ruoli si sono invertiti, signorina. ‒ ironizzò Hermann.
A
quell’affermazione, le labbra della giovane si sollevarono in un
sorriso divertito. Era ben felice di avere cambiato idea.
Malgrado
le apparenze, quei ragazzi si stavano rivelando intelligenti.
‒ E
io rispondo come te: non formalizziamoci su simili idiozie. Anche io
sono sportiva. ‒ replicò lei.
Perplessi,
Martin e Susanna fissarono Karl e il centravanti scosse la testa in
un gesto rassegnato.
‒ Hermann,
non è il momento. Signori Schumann, io e il mio compagno siamo qui
per ringraziare vostra figlia. E’ una ragazza coraggiosa. ‒
mormorò, il viso velato d’un tenue rossore.
‒ Karl,
hai problemi di memoria? Anche i signori meritano il nostro
ringraziamento. ‒ affermò Hermann, ironico. La loro presenza era
un segno di speranza.
Non
dovevano mostrare alcuna chiusura.
Con
un gesto deciso il mediano prima strinse la mano di Martin, poi di
Susanna.
‒ Come
avrete capito, siamo qui perché Hilda ha deciso di aiutarvi.
All’inizio, non eravamo d’accordo con la sua scelta, ma abbiamo
cambiato idea anche noi. Possiamo aiutarvi in qualche modo? ‒
chiese Martin.
Karl,
a stento, frenò un sospiro. Quello sguardo rispettoso riempiva il
suo cuore di soddisfazione.
Eppure,
non poteva non sentire la mancanza di Genzo.
‒ Karl,
sei diventato una statua di sale? ‒ intervenne il difensore,
ironico.
A
quelle parole, il capitano tedesco si scosse e si passò una mano
sulla fronte.
‒ Continuate
a combattere per la verità. E, quando potete, venite allo stadio.
Niente di più, niente di meno. ‒ spiegò poi.
Susanna
scosse la testa e strinse le labbra, quasi non condividesse le loro
parole.
‒ Sì,
è una proposta di buonsenso, ma non basta. ‒ commentò.
Tutti,
perplessi, fissarono su di lei sguardi perplessi.
‒ Io,
tra tre mesi, organizzerò una mostra al Museo Internazionale
Marittimo di Amburgo. Vorrei invitarvi tutti e tre. Ma, se non sarà
possibile, vorrei potergli parlare. Ne sono sicura, Martin lo
desidera quanto me. ‒ spiegò lei.
L’uomo,
con un deciso cenno della testa, annuì.
Il
corpo di Karl si irrigidì, come una sbarra di metallo e, d’istinto,
strinse i pugni. L’enormità del suo compito gli aveva procurato
una vertigine.
Hermann
appoggiò la mano sulla sua spalla e gli rivolse un sorriso
incoraggiante.
Le
membra del giovane si rilassarono e il giovane campione annuì. No,
non poteva lasciarsi frenare da paure insensate.
Guardò
prima Hilda, poi Martin e Susanna. La loro offerta era degna dei suoi
sforzi.
‒ Farò
quello che posso. ‒
1)
Ogni promessa è debito. Hilda è venuta allo stadio e ha portato i
suoi genitori.
2)
Si vede la mia rigidità nei dialoghi? In venti e passa anni di
fanwriting, ho scritto pochissime long. (tutta abbozzate) Spero di
riuscire a completare questa.
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