Il nostro lieto fine

di Greenleaf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 
 
Ed eccomi con una nuova storia. A differenza dell’altra che ho pubblicato (e che dovrò presto revisionare) questa è totalmente diversa: meno cruda, meno volgare, per nulla dark, meno spicy (le scene di sesso alla vaniglia non sono spicy, non credete?). È ambientata dopo la fine del manga/anime e tratterà di alcune tematiche delicate e d’attualità, tra cui l’asessualità (ma c’è altro. Lo scoprirete al prossimo capitolo). Mi sono documentata parecchio, in quanto sappiamo ben poco sull’argomento. Addirittura alcune persone scoprono di essere asessuali dopo la visione di alcuni video o dopo la lettura di alcuni libri. Ci sono davvero pochissime informazioni, perciò, mesi addietro, per sviscerare l’argomento ho letto un libro, diciamo un libro e mezzo, con protagonisti asessuali: Love, Theoretically di Ali Hazelwood e qualche capitolo di Loveless di Alice Oseman. Il primo che vi ho citato è un romance con ambientazione STEM, bellissimo. La protagonista è asessuale e aromantica. Penso che  sia stata una lettura molto interessante. C’è solo un piccolissimo problema: non sono purtroppo Ali Hazelwood, quindi non aspettatevi niente di che.
In realtà questa storia è nata dopo la lettura di C’è sempre un domani di Kamony qui su Efp che tratta il mio stesso tema. Storia che si sta rivelando bellissima. E tengo a ringraziarla per essermi stata d’ispirazione e per il sostegno e l’aiuto che mi ha sempre dato. Potrei tessere le sue lodi ed occupare una pagina di word, ma penso che lei stessa con la sua bravura riesca a farsi valere meglio delle mie parole. Quindi grazie tante per esserci stata. E ovviamente grazie a tutti coloro che vorranno leggere o semplicemente dare un'occhiata.
Approfitto subito per informarvi che la prossima volta che ci vedremo sarà tra circa dieci giorni. Ho due storie in corso e devo occuparmi di entrambe. Chiedo venia.
Detto ciò, vi lascio e vi auguro buona lettura. Per altre informazioni ci rivedremo alla fine, altrimenti rischio di spoilerare il prologo.
 
 

 
 
 
Il nostro lieto fine


 
 

Il paradiso non è un posto in cui vai quando muori,
è dentro la persona per cui vale la pena morire.

Ti ritroverò, Adeline (Il gatto e il topo Vol. 2 H.D. Carlton)

 



 
Prologo

 
 
Passato


Il mare luccicava come un drappo di raso azzurro. Hanji estasiata continuava ad agitarsi insieme a Sasha e gli altri ragazzi. Era più insopportabile del solito ma non le dissi nulla, intimamente ero lieto di trovarla così entusiasta. Eravamo  giunti a Marley grazie al sangue dei nostri compagni e, passeggiare lungo la strada, con l’odore di salsedine ed il vociare perpetuo poteva considerarsi una vittoria.  Sprofondai le mani nelle tasche dei pantaloni e lanciai uno sguardo truce al pagliaccio che mi aveva offerto una caramella poco fa. Un tale idiota. Non mi avrebbe più infastidito, lo sapevo. La mia faccia era come una maschera da guerra.
Invece di godermi la giornata al sole continuavo a guardarmi alle spalle, a controllare i mocciosi, ad ascoltare le conversazioni di gente che nemmeno conoscevo. Ero teso e guardingo. Quel posto strano non mi convinceva né tantomeno gli uomini allampanati nei loro completi gessati.
 Qualcuno mi spintonò, altri mi fissarono incuriositi. Delle donne cercarono il mio sguardo e risero imbarazzate appena sollevai le sopracciglia. Che galline! Immaginai che i loro capelli dai colori sgargianti fossero più pesanti dei loro cervelli.
Superai delle bancarelle e mi fermai incuriosito da un piccolo oggetto ammassato tra mille cianfrusaglie. Si trattava di uno scrigno dalla filigrana dorata. D’un tratto la scatola si aprì rivelando un rivestimento di velluto rosso. Da lì sbucò una ballerina bianca che ruotava sotto le note di una dolce melodia. Era ipnotizzante. Continuai a fissarla per qualche istante di troppo. Mi accorsi che le mancava una gamba e che pendeva di lato, tutta storta. Eppure continuava a volteggiare nello scrigno, con determinazione e coraggio. Era strano come un insignificante pezzo di latta potesse risultare più intrigante della gente intorno a me.
“Signore, è interessato al carillon?” una vecchietta sulla settantina mi dedicò un sorriso gentile, indicando la ballerina con un dito.
Continuai a fissare la gamba spezzata poi alzai lo sguardo per incrociare gli occhi della donna. “No.” sistemai il cappello e girai i tacchi. Mi infilai tra la folla ma dopo qualche passo mi voltai per ammirare il carillon da lontano.
La ballerina continuava a girare quasi volesse sfidare la sorte, quasi volesse ammaliare me.


 
Presente


 
Dovevo sentirmi fiero per aver concluso la mia missione: avevo scoperto cosa c’era oltre le mura, avevo sconfitto i giganti, avevo ucciso Zeke Jaeger. Ma non riuscivo a trovare pace. Non potevo trovare pace. La vittoria mi aveva portato via i miei compagni, uno a uno. Si erano spenti come candele, rabbuiando il mio percorso e lasciandomi brancolare nell’ombra. Eppure, oltre la cortina di pioggia dentro al mio petto, vi era altro: speranza. La vedevo negli occhi di quei bambini che mi cercavano per sentire la mia storia, la sentivo nelle loro risate, la fiutavo nei loro respiri. Era intrecciata in quelle giornate così lunghe dove la solitudine mi costringeva a ripercorrere il mio passato a testa bassa. Con una mano sopra il petto, non per offrire il mio cuore, ma per scongiurare le mie colpe. Quei massacri, le serate a riempire fosse, le grida delle famiglie che avevano perso i loro cari. Era tutto finito, sebbene dentro di me percepivo come delle fiamme che consumavano un terreno spoglio e sterile.
Il cielo sfoggiava sfumature albicocca e rosa. Così allegre in contrasto al grigio perenne che colorava le mie ore su questa terra.
La mia sopravvivenza, forse, era una pena e basta, chissà. Non mi sarei sicuramente tirato indietro adesso che aveva inizio la vera sfida di sempre: vivere. E non sopravvivere. Dovevo conoscere il mondo di pace che ognuno dei miei soldati aveva bramato. Dovevo farlo per loro. Anche se non sembrava vero. Anche se non assomigliava più a quell’immagine eterea che brillava come l’oro.
“Ci sono ancora caramelle?” i mocciosi si spingevano e ridevano tra loro. Le bambine mi fissavano con sguardi teneri, i maschietti erano in fila davanti a me con le mani aperte.
Infilai le due dita nella cassa blu e trovai un lollipop rosa con una spirale azzurra. I bambini esultarono. Io mi imbronciai perché nella mia mente riaffiorò un altro ricordo: riaffiorò Hanji. Riaffiorano sguardi di stupore per quella terra sconosciuta che ci sembrava così perfetta ma che si era rivelata terribile. Proprio come lo era Paradis. Serrai le palpebre e porsi il dolce al bambino con il cappello rosso che lo afferrò con aria vittoriosa e scappò via da me.
“Posso averlo anch’io?”scostai velocemente gli involucri di plastica per accontentare un altro bambino. Forse quei dolci avrebbero di poco attutito le loro paure, avrebbero consolato i loro piccoli cuori. Gli porsi un altro lollipop. Era rosso. E dallo sguardo d’ammirazione del piccoletto intuii che lo avesse gradito.
Si fecero avanti altri bambini. Ed alcuni che avevano già ricevuto i dolci girarono intorno al gruppo per rimettersi in fila ed ottenere altre caramelle.
Dalle tende, ogni tanto udivo dei lamenti, lo scrosciare di piatti o il calpestio di piedi. Ma non ci feci caso. Continuai a frugare nella cassa per evitare di tornare a riposare nel pagliericcio che Onyankopon aveva sistemato per me. Mi imbroccai al solo pensiero.
Essere costretto in una sedia a rotelle, per uno come me, era una vera e propria tortura. E sentire la gente che si preoccupava non faceva che aggravare quel  fardello, rendendolo insopportabile.  Sapevo cavarmela. Lo avevo sempre fatto da quando l’aria mi aveva disteso i polmoni la prima volta che avevo visto la luce.
Quindi meglio accontentare i mocciosi che sorbirsi le lagne dei più grandi.
“Posso averne un altro blu?” con un ditino sulle labbra ed i codini storti una bambina si aggrappò ai miei pantaloni. Le avevo già dato una merendina, ma da come mi fissava non riuscii a negargli nulla.
“Bambini…” una voce squillante ruppe il momento tranquillo,  si infilò nelle mie orecchie e mi costrinse a voltare la testa. Dietro di me, trovai la proprietaria della voce.
Lei.
La Pazza.
Non c’era termine migliore per descriverla perché era pazza in tutti i sensi. E l’avevo incrociata solo qualche volta ma sapevo di non sbagliarmi. Era un po’ più alta di me. Capelli castano chiaro, un viso ovale, un sorriso teso sulle labbra. Occhioni nocciola che brillavano di determinazione. Sembrava uscita da un libro, non dalla guerra che aveva strappato a tutti noi qualcosa.
Sollevò la gonna nera e con aria decisa si avvicinò ad un bimbo che si era seduto su una cassa per gustarsi il suo premio. “Basta mangiare dolci.” Afferrò la caramella e gli accarezzò i capelli. “Risparmiateli per dopo. Altrimenti non mangerete nulla a cena. E di là stanno già servendo il riso. Forza, venite con me e mettete a posto le caramelle.”
Ovviamente i ragazzini non si mostrarono felici a quella richiesta. Misero il broncio e  alzarono gli occhi al cielo “Ma Irina…” le corse incontro un bambino.
“Ah no. Non mi guardate così. È un ordine. Posate le caramelle e correte a prendere il riso. Dopo mangiato vi farò assaggiare la torta di mele che ho preparato.”
“La torta alle mele. Yeah!” era così strano come quei bambini cambiassero umore per niente. Riuscivano a distendere un sorriso sulle labbra per una banalissima torta.
Il gruppetto la seguì tra una giravolta e dei saltelli. Si aggrapparono con le manine sporche di zucchero alla gonna della ragazza e la fissarono quasi con adulazione.
“Ma c'è solo una?”
“No. Ne ho preparate tante. Una sola non sarebbe bastata per tutti.”
“Dopo possiamo mangiare le caramelle?”
“Certo. Dopo aver cenato.”
“E la passeggiata?” speranzosa la più piccola del gruppo la guardò con l’indice sulle labbra.
“La passeggiata la faremo stasera come sempre.”
Si arrotolò le maniche, prese in braccio un bambino dalla pelle scura, gli diede un bacio e strinse la mano ad una mocciosetta con il muco che le colava dal naso. Camminò seguita dai bambini, quasi fosse lei stessa una caramella vivente pronta per essere scartata. Mi superò, ma ovviamente non mi risparmiò la sua occhiata colma d’apprensione.
Pertanto il mio cipiglio le fece aggrottare le sopracciglia. Respirò a pieni polmoni e posò ancora una volta gli occhi nocciola sul mio volto “La cosa vale anche per te. Vieni a prendere un piatto di riso con noi.” Il tono era basso, esitante. L’occhio destro si strinse palesando il nervosismo che nutriva.
“Risparmia gli ordini per i mocciosi.”
“Dovresti mangiare.” Insisté voltandosi. Non riusciva a tenersi in equilibrio così tirò su il bimbo prendendolo dal sedere.
“Dovrebbe non interessarti.”
“Vieni con noi.”
Quella donna…
Non risposi, serrai le palpebre percependo la sua occhiata trafiggere la mia pelle.
“Non abbiamo altro nell’accampamento. Ci hanno solo offerto del riso, pane e qualcosa in scatola tipo tonno, acciughe e funghi. Forza seguici, i bambini sembrano adorarti. Così mangeranno tutto anche loro senza fare i capricci.” In effetti gli occhi dei ragazzi si illuminarono all’idea di avermi tra di loro.
“Il problema non è il riso.”
“Guarda che la torta è anche per te.”
“Dalla agli altri.” feci scorrere i polpastrelli sulle ruote della carrozzella. Mi girai per dirigermi alla mia tenda, lontano dalla ragazza pazza che dava ordini a tutti e aveva gli occhi curiosi e tristi.
Avevo superato ben tre tende quando dietro di me la sentii urlare: “Va bene, te ne porto un pezzo più tardi.”
“A dopo signor Levi.” l’entusiasmo dei bambini mi investii come un’onda anomala. Ovviamente, niente di tutto ciò mi spinse a tornare indietro, tantomeno a voltare la testa per guardarli.
 


 
Note:
Vi ringrazio ancora per aver letto.
 Dunque, la parte iniziale la capirete più avanti, evito di dilungarmi oltre. Ci sono due scene in cui Levi sente di aver goduto di una vittoria: la prima è quando sono giunti a Marley, la seconda è alla fine della guerra. Solo che questa sensazione non è affatto positiva visto le perdite subite. Spero vivamente di essere riuscita a scrivere qualcosa di decente, con la speranza di regalare un po’ d’amore al nostro capitano preferito.
Dalle prime battute tra i protagonisti penso abbiate intuito che si tratti di un enemies to lovers. La storia è ambientata a Marley, nell’accampamento in cui abbiamo visto l’ultima volta Levi. Irina, che è la protagonista assieme al bel capitano, sarà veramente così spensierata come Levi pensa?
Vorrei dirvi già da adesso che le varie comparse altri non sono che le persone che abbiamo visto nelle tende nell’ultima scena di AoT. Ho dato un nome ai bambini e agli altri che vedrete nel corso della lettura.
Adesso vi lascio. Buona serata, a presto!
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1
⋅ʚ♡ɞ⋅
Irina
 
Le impronte dei giganti colossali impresse sul terreno, erano colme d’acqua. Le stelle riflettevano silenziose il loro scintillio sulla superficie frastagliata, quasi volessero buttarsi dal cielo e tuffarsi dentro le pozzanghere. I bambini ridevano e saltellavano. Con le scarpe sporche di fango calpestavano l’erba fresca e i fiori di tarassaco che erano spuntati ai lati delle tende. Distesi un sorriso sulle labbra e accarezzai la guanciotta paffuta di Raul. Ero affezionata a loro, a tutte quelle piccole pesti. Lo ero da quando mi avevano abbracciata, facendomi scordare del mio dolore. Mi avevano aiutata a rialzarmi, pensando che fossi io quella forte. Quanto si sbagliavano! 

Mi sedetti e mugugnai appena il terreno freddo mi gelò il sedere. Presi il piatto di riso e mangiai silenziosamente, lanciando sguardi distratti alla gente in fila davanti alle grosse pentole fumanti. Pensare che, l’indomani sarei dovuta alzarmi per cucinare, pulire e aiutare mi stava già facendo venire un gran mal di testa. Certo, la cosa mi faceva stare bene, ma richiedeva uno sforzo consistente, da parte mia.
Sara, con il suo foulard legato intorno al collo, afferrò la sorellina da sotto le ascelle e la strinse a sé. La maggior parte di quei bambini erano orfani. Senza alcun conforto, a parte quello di una semisconosciuta mandata da chissà quale Dio per aiutarli.
 
“Andiamo a camminare?”
 
“Avete finito tutti di mangiare?” Guardai i loro visi sognanti. I cucchiai ancora stretti ai denti e, i loro occhi furbi.
 
“Mh, mh.” Annuì Raul, balzando in piedi. Per accontentarli consumai in fretta la cena e chiesi a due di loro di recuperare dei piatti per Amelia, - Una donna anziana incapace di muoversi  - e per il capitano dalla faccia inespressiva. Lo conoscevo solo di vista, avevo scambiato con lui sì e no qualche parola e, avevo intuito al volo di non stargli simpatica. In realtà, a parte i suoi conoscenti, non parlava quasi mai con nessuno. Era un tipo solitario, con un volto che trasudava tristezza e uno sguardo severo. Guardarlo sfrecciare sulla sedia a rotelle, però, mi tagliava il cuore in due. Non doveva essere facile per lui, tenendo conto del suo orgoglio. Pertanto, non gli avevo mai offerto il mio aiuto, timorosa di ferirlo.
 
Passeggiammo come sempre in quelle stradine affollate. Accompagnati dal canto dolce di un mandolino e dalle risate di alcune donne che avevano rivisto i figli dopo una giornata di lavoro. In molti uscivano dall’accampamento per raggiungere la pianura e piantare alberelli. Non c’ero mai andata sebbene avessi ricevuto parecchi inviti. Preferivo dare una mano qui, nella tendopoli. Onestamente, mi riusciva difficile trafficare con gli attrezzi da giardinaggio.
 
“Irina.”La voce di Gabi mi raggiunse da dietro le spalle. Mi voltai per incrociare i suoi occhioni color cioccolato. Dietro di lei Falco correva esultante, facendo lo slalom tra la gente. Le lanterne a terra li condussero fino a me. Si piegarono sulle ginocchiata. Erano sudati, le camicie a quadri aderivano perfettamente ai loro corpicini.
 
“Li avete visti?” Gabi sollevò il mento. “I gabbiani. Hanno volato in cielo, sulle nostre teste. Erano grossi quanto Falco. Non ne ho mai visti tanti prima d’ora. Eravamo lì fuori a piantare gli alberi e… I gabbiani!” Urlò con le palpebre sgranate.
 
“Mi sa che me li sono persi.”
 
“Un vero peccato.” Aggiunse il piccolo dai capelli color del grano.
 
I bambini intorno a me si emozionarono a tale racconto e sgusciarono avanti per saperne di più.
 
“Ma sì, Irina. Li abbiamo visti prima che tu arrivassi. Chissà se torneranno anche domani, così potrai vederli anche tu.”
 
“Non credo.” Rispose Gabi
 
“Perché no?” Chiese con il labbro tremante la piccola Emily.
 
“Non so. Non li ho mai visti qui. Non abbiamo visto nessun altro animale, a parte i cavalli.” Era vero e ciò mi fece aggrottare le sopracciglia e corrucciare le labbra in un broncio.
 
“Ma tutto è possibile.” Scompigliai i capelli di Emily e schiacciai l’occhio a Falco. “Stiamo andando verso la tenda della vecchia Amelia. Venite con noi, dopo avervi dato una lavata?” Da una tenda sbucò la madre di Gabi, mi rivolse un sorriso e fissò la sua bambina con amore.
 
“Certo, ci vediamo dopo.”
 
Continuammo a camminare, illuminati dalle lanterne che delineavano il percorso, quasi fossero dei fuochi fatui nel bel mezzo della notte. L’aria fresca mi scompigliò i capelli e, nel mio petto, inevitabilmente, calò una nube scura. Era sempre così! Superati i panni appesi a dei fili traballanti, raggiungemmo la vecchia Amelia. Mi chinai e consegnai a Raul il piatto di riso coperto da un panno.
 
“Hai un compito speciale.”Alzai le ciglia per trovare oltre un albero, la sagoma di quell’uomo con il volto pieno di cicatrici. Levi Ackerman. Il capitano che, aveva contribuito a salvarci tutti. “Vai da lui e dagli questo. Non dirgli che ti ho mandato io, però. Mi trovi da Amelia.”
 
“Dalla nonnina?”
 
“Già.”
 
Avvolse il piatto caldo nelle manine e raggiunse Levi con delle larghe falcate. Gli porse il riso. Vidi Levi guardarlo con le sopracciglia aggrottate. All’improvviso si girò e intercettò la mia occhiata. Con uno “Tcs” poco udibile, accolse il pasto e posò le due dita sui capelli ricciolini di Raul. Intuivo che fosse contrario alla mia solidarietà e mi guardavo dal girargli intorno. Infondo, perché avrei dovuto farlo se lui stesso voleva stare per i fatti suoi a guardare indisturbato le stelle? Un momento così intimo non poteva essere rovinato dalla mia presenza.
 
Sospirai lasciando che la brezza agitasse la mia gonna.
 
“Amelia, si può?”
 
“Entra Irina.”
 
“Noi due possiamo aspettarti fuori?” Mi chiese Emily in braccio a sua sorella Sara.
 
“Certo.” Scostai le spesse tende ed entrai nel rifugio di Amelia. Come sempre, quel posto, mi faceva stringere il cuore nel petto. Tutte le foto sparse a terra, i vestiti abbandonati dentro un baule decrepito, e lei, ormai senza forze, distesa sotto le coperte sgualcite.
 
“Ehilà.” Mi sedetti a terra e lasciai il piatto su una panca.
 
La luce di una candela fendette l’oscurità, agitandosi nel buio. In silenzio mi abbracciai le ginocchia e la osservai mentre si asciugava le lacrime. Ammirò con adorazione le uniche reliquie che le ricordavano di aver avuto una famiglia. La capivo. Ma a sua differenza, ero riuscita a superarla. Mi ero rialzata, avevo leccato le mie ferite e, le avevo coperte con delle bende. Ma erano sempre lì e sanguinavano quanto quelle di Amelia.
 
“Passerà mai?” Le chiesi afferrando una foto vicino ai miei piedi.
 
“Mai.”
 
“È vero. Impossibile dimenticare. Ma loro vorrebbero questo, Amelia?”
 
“Non lo so. Ma io vorrei loro indietro.” Era così avvilente vedere una donna di settantasei anni con le lacrime che solcavano le rughe e nuovi dolori a frantumarle il cuore.
 
“Anch’io li rivoglio con me. Non riesco a sbarazzarmi nemmeno degli oggetti che gli appartenevano.” Le porsi la mano. Amelia me la strinse nella sua stretta tremolante.
 
“Ma se piango, sono persa Amelia. E se non piango, mi sento in colpa. È tutto sbagliato. L’unica cosa che riesco a fare per loro è combattere. Lo faccio per i bambini che come Thomas…” La mia voce si affievolì, nuove lacrime mi punsero gli occhi. Il mio Thomas. Il mio bambino che a oggi avrebbe avuto gli stessi anni di Raul. Lui non c’era più. Il suo sorriso non poteva più scaldarmi il cuore. Il mio sole, era tramontato per sempre. Non poteva più essere coccolato dalla sua mamma. I giganti, me lo avevano portato via, insieme a Charlie, l’unico uomo della mia vita. Io ero sopravvissuta e li avevo pianti con una tale disperazione da credere che mi sarei sciolta tra le lacrime. A terra. In quella terra che aveva assorbito il loro sangue e li aveva sepolti senza darmi il tempo di rivederli.
 
La stretta di Amelia mi riportò al presente. “Loro sono insieme ai miei figli e ai miei nipoti. Sono i nostri angeli custodi. Per sempre.”
 
“Per sempre.” Rafforzai la presa e, prima di andare le chiesi di mangiare tutto. I bambini fuori si agitarono, entusiasti di continuare il giro. E io li avrei accontentati prima che i loro occhietti vispi si fossero chiusi per via della stanchezza. Li accontentavo sempre e mi prendevo cura di loro, come fossero figli miei. Perché una cosa l’avevo capita, infondo: se ero sopravvissuta, era solo per aiutare quelle piccole creature che non avevano più un appiglio. Per tergere le loro lacrime.
 
Non potevo dire di sentirmi meglio, ma vedere i loro volti spensierati, alleggeriva il peso che sentivo sulle spalle. Mi faceva sentire meno sola. Meno in colpa.
 
Così finii per farmi due volte il giro delle tende. Parlai con alcuni che avevo incontrato lungo la strada e, in fine, condussi i piccoli nel padiglione più grande. In realtà, quel rifugio, assomigliava più a un castello di stoffa che a una semplice tenda. I tessuti in vinile e pelle l’avvolgevano e riparavano i bimbi dalle intemperie. Un luogo adatto per ospitarli tutti quanti.
 
Con le spalle doloranti, percorsi tutta sola la strada che mi separava dalla mia piccola casetta. Così mi piaceva definirla. Stropicciai gli occhi e, assorbii il paesaggio che si stagliava contro il cielo blu scuro pezzato di stelle. Le punte delle tende parevano toccare la luna, il fumo dei falò si innalzava in cielo, regalandomi un invitante aroma di cibo. La via stretta era coperta da ciottoli e da qualche fiorellino. Sollevai il bordo della gonna prima di scorgere l’uomo in sedia a rotelle.
 
Mi fermai.
 
Lui pure.
 
Mi dedicò l’occhiata più miserabile mai ricevuta: sopracciglia tese, occhi assottigliati, un broncio indignato che gli conferiva un aspetto quasi minaccioso. Posò le mani sulle ruote e premette la schiena contro la spalliera che lo sosteneva. Non era robusto ma nonostante ciò, dalla camicia bianca, sporgevano fasci di muscoli definiti.
 
Sbattei le palpebre e mi imposi di camminare. Lo superai ma la sua voce, graffiante e calda, mi costrinse a tornare sui miei passi.
 
“Smettila di mandare i mocciosi da me.”
 
“Come prego?” Mi voltai un po’ sorpresa.
 
Levi sospirò. Come se si trovasse davanti a un problema irrisolto che stava spingendo a limite la sua pazienza. Mi guardò oltre la spalla, con il suo unico occhio buono e quelle cicatrici che gli tagliavano la guancia a metà. “Se voglio mangiare, non ho di certo bisogno di te. Smettila d'impicciarti.” Parlò pacatamente.
 
Respinsi l’irritazione che mi stava facendo contorcere le budella e scelsi di essere ragionevole. “Non potresti ringraziarmi e basta?” Gli avevo solo offerto del cibo, mica gli avevo fatto un torto.
 
“Non ho motivo di ringraziarti. Ti sto solo chiedendo di non fare nulla, per me. Se vuoi aiutare gli altri, beh, fa pure. Ma io non sono un moccioso da accudire. Non mi fissare con quegli occhi pietosi.”
 
Ma era serio? In quel tempo che avevo trascorso lì, mai nessuno mi aveva risposto con così tanta arroganza. Solitamente la gente era così felice di ricevere il mio aiuto. Ci scambiavamo quattro chiacchiere e, con alcuni condividevamo i nostri ricordi più intimi. Quel Levi invece si stava rivelando un gran insolente. “Dunque…” Mi schiarii la voce e il suo occhio blu scintillò curioso. “Io non ti offro da mangiare per pietà, ma perché mi va di farlo. E tu, in questo momento, sei molto maleducato a venirmi a rimproverare per una buona azione. Quindi non ti permettere.”
 
“Se vuoi sentirti lodata va dagli altri.”

Cosa?

“Io non voglio sentirmi lodata.”
 
“Allora mi pare che non abbiamo più nulla da dirci.” Si voltò e avanzò come se nulla fosse. I miei occhi finirono per fissare i capelli rasati dall’orecchio in giù.
 
“No, non è finita qui,” girai sui tacchi e lo raggiunsi in fretta. Lui non si fermò. Io nemmeno. “Mi dispiace non averti fatto una buona impressione, ma trovo che tu sia stato scorretto. Infondo ti ho solo offerto un piatto caldo. Non mi merito i tuoi rimproveri e… Scusami ma ti puoi fermare un attimo?”
 
Si bloccò con uno scatto veloce e si voltò per trafiggermi con l’occhio carico di tensione. “Ma quanto cazzo urli? “
 
Allungai le braccia ai fianchi e mi accigliai “Io non urlo. Ma…” Solo allora notai che alcune persone avevano fatto capolino per gustarsi la scena. In effetti, mi fissavano con occhiate interdette. Quindi, forse sì, avevo un po’ alzato la voce. “Non mi sono resa conto.”
 
Sollevò un sopracciglio. “Meglio che tu vada a riposare.”
 
“Ma…”
 
“Credimi, non ha importanza.” Mi lasciò lì, superandomi con la sua sedia a rotelle. Il rumore delle ruote che sferzavano sul terriccio, le sue spalle forti che coprivano la strada e, dentro di me un senso di sconcerto, che mi avvinghiava lentamente lasciandomi senza parole.
 
Decisi che non ci avrei pensato. Non potevo piacere a tutti anche se l’idea non mi rendeva felice. Tra l’altro non avevamo nulla da spartire io e lui, ed era inutile impensierirsi solo per un fugace scambio di parole. Non mi conosceva. Non lo conoscevo. Eravamo estranei. Era troppo presto per farmi un’idea generale, specie adesso che le palpebre si stavano abbassando per la stanchezza. Avrei risolto la faccenda domani.
 
Mi accucciai sotto le coperte e, come sempre, abbracciai stretto al petto il piccolo completino di mio figlio, la camicia di mio marito e, nelle mani, il ciuccio di bambù. Questi oggetti li avevo portati con me nel tascapane quando ero fuggita in fretta e furia dal ghetto per salvarmi. Momenti come quelli non li avrei mai cancellati dalla mente. Quando mio marito mi aveva spinto sul treno, e aveva cercato di salirci a sua volta non riuscendoci, mi ero sentita morire. Il bambino aveva gridato per venire da me e io, con le braccia protese, avevo tentato di prenderlo e salvarlo da quella carneficina.
 
Invece li avevo persi entrambi.
 
Perché il treno era partito senza di loro. E l’unica cosa che mi restava erano quei vestiti e delle foto che, troppo addolorata, avrei preferito non rivedere più.
 
Note:
Tadan rieccomi, come per magiaxD
In questo capitolo abbiamo conosciuto un po’ meglio Irina. La tematica delicata di cui vi ho parlato nelle scorse note è la perdita. Il lutto. Direi che è una situazione così tragica per tutti, purtroppo. Abbiamo visto tante persone soffrire nell’ultima puntata. Così ho pensato a Irina e l’ho scritta come meglio ho potuto. Anche se, ad un certo punto, è stata lei a definirsi entrando nella mia testa. L’incontro/scontro con Levi vi è piaciuto? Questi due battibeccheranno sempre, fino a… beh, fino a piacersi.
Mi sono ispirata ad Anastasia per la scena del treno, se a qualcuno interessa saperlo.
Amelia sarà anche un personaggio che vedrete spesso, insieme ai bambini. Non è un mio Oc, però. Amelia è lei:

Appena l’ho vista, mi sono sentita così triste. Possiamo intuire che sia sopravvissuta ma che la sua famiglia non ce l’abbia fatta. Così ho subito pensato di darle un ruolo. Spero che abbiate apprezzato:)
Ringrazio come sempre voi che avete letto. E un grazie speciale a chi ha commentato lo scorso capitolo ♡
Ci vediamo tra una settimana o dieci giorni. A presto!
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2
⋅ʚ♡ɞ⋅
 Levi
 
Lasciai la sedia a rotelle in un angolo e mi sostenni al pilastro di legno in mezzo alla tenda. La ferita, anche se ormai guarita da tempo, pulsava come quando l’avevo ricevuta, ma ciò non m’impedii di rimanere in piedi. Arrancai verso il pagliericcio, facendo scivolare il palmo sulle ruvide coperte di ginestra. Non volevo rimanere per sempre su quella ferraglia, costretto a muovermi come un relitto. No. Non riuscivo ad accettarlo, dovevo trovare un modo per rimettermi in sesto. Me l’ero promesso. Forse avrei avuto bisogno di tempo, ma ce l’avrei fatta, da solo, come sempre. Mi accomodai sul misero giaciglio e schiacciai i polpastrelli sulla cicatrice.
 
Dannazione!
 
Ero diventato l’ombra di me stesso. Un fantoccio ferito, con il cuore pieno d’amarezza e nessuno che mi potesse comprendere realmente. In realtà, poche volte avevo cercato un conforto in vita mia e, quando ne avevo avvertito il bisogno, puntualmente, avevo trovato Hanji a condividere le mie stesse paure. E le notti, a quei tempi, erano sembrate meno torbide. Adesso, non riuscivo a vedere oltre. Vedevo solo la carne lacerata e, dietro di me, un passato oscuro, da dimenticare.
 
Sentivo i pianti di gente che non conoscevo, ma non c’era nessuno della mia squadra che potesse godersi quella nuova vita che non faceva assolutamente per me. Per uno che aveva patito così tanto, era quasi impossibile adattarsi a una stentata idea di pace. Ma se fosse dipeso da me, se fossi riuscito a recuperare le forze, sarei tornato a Paradis per porgere l’estremo saluto ai miei ex compagni.
 
Mi liberai della camicia, rivelando i pettorali turgidi. L’aria fresca della sera coprii la mia pelle di brividi. Ansimai e, come accadeva quasi tutte le notti, rimasi con gli occhi aperti.
 

 
I raggi timidi del sole filtrarono attraverso il tessuto spesso della mia tenda. Avevo riposato per circa due ore. Andava bene così, nonostante le lamentele di Onyankopon. Non aveva capito un emerito cazzo su di me, quel ragazzo. Ero ormai da tempo abituato a tenere la guardia, e lo facevo anche adesso senza nessun intoppo. Perché, in quel campo, tante cose non quadravano. C’erano le brave persone e le solite teste di cazzo che gironzolavano liberamente, disinteressandosi dell’equilibrio precario in cui tutti noi vivevamo. Quindi, rimanendo vigile, avrei potuto dare una bella lezione a qualche farabutto, qualora fosse stato richiesto il mio intervento.
 
Mi alzai lasciando l’impronta del mio corpo sulle lenzuola. Le sistemai velocemente e, mi assicurai prima di mettere piede fuori, che quel posto fosse in ordine, pulito. Per quanto una tenda potesse realmente esserlo.
 
Scivolai sulla sedia a rotelle e, prima di andarmene, percepii in lontananza dei rumori ovattati ma persistenti. Erano abbastanza forti da riuscire a svegliare anche chi diversamente da me riposava. Uscii un po’ curioso. Il mondo giaceva nella staticità del primo mattino, il sole ancora troppo debole per illuminare il campo. Alcuni raggi irradiarono il terreno, creando contrasti di luci e ombre sulla strada deserta. Le tende erano serrate, avvolte da un alone di nebbia che mi impedii di vedere oltre. Anche se riuscii a inquadrare la piccola figura che si spostava con una torre di cassette in mezzo al sentiero.
 
 Era lei la causa di quel frastuono.
 
Irina.
 
E ne reggeva talmente tante, di casse, che non riuscii nemmeno a guardarla in faccia. Così fissai la sua vita sottile, fasciata da una camicia inamidata. Mi superò con le mani tese e i piedi che scivolavano lentamente sul terriccio. Lasciò le casse vicino a un albero e si girò di scatto, ripulendosi le mani sul grembiule bianco. Perle di sudore le inumidivano la fronte. Aveva i capelli castani, appiccicati alle guance e, gli occhi nocciola carichi di determinazione. Non sembrava così forzuta. Avrei scommesso l’occhio buono che la tizia non avesse mai faticato così tanto prima d’ora, considerando come si sollevava affannoso il suo petto. La camicetta bianca dentro la gonna tortora delineava bene le sue curve, quelle poche che c’erano, regalandole un aspetto ordinato ma comodo.
 
Si accorse di me. Schiuse le labbra e si premurò di nascondere il suo stupore dietro una maschera di disappunto. Strinse i pugni e, camminò verso un’altra torre di casse lasciate nel bel mezzo dello spiazzo, proprio sotto i pali della luce. Era a disagio, lo notavo dal modo in cui le tremavano le mani. Cercava di non darlo a vedere ma, non poté nasconderlo a lungo visto che per poco un recipiente le scivolò sulla testa. Si incamminò per raggiungere l’albero e, appena mi passò di fronte, i suoi occhi cercarono i miei.
 
“Non è meglio lasciare questo compito alla donna barbuta o ad Onyankopon?” Chiesi con voce atona.
 
“Credevo che non volessi parlare con me.”
 
“Mi trovo costretto, visto tutto il baccano che stai facendo.”
 
Si morse il labbro inferiore e mi scoccò un’occhiata in tralice. “Poco fa è arrivato un camion pieno di scorte. E siccome non ho nulla per preparare la colazione, ho deciso di portare alcune casse vicino all’albero in modo da prendere l’occorrente senza…”strinse i denti. Le dita erano rosse sotto il bordo di legno ruvido, minacciavano di cedere da un momento all’altro. Si piegò sulle ginocchia e, con un certo sforzo, le buttò a terra sollevando uno strato di polvere.
 
“Irina.” Da un vicolo stretto sbucò Onyankopon. Anche lui aveva la pelle coperta da linee di sudore e reggeva sulle spalle altre tre casse di pomodori. Non l’avevo mai visto con un’espressione così preoccupata per roba del genere, ma dal modo in cui guardava la ragazza, compresi che anche lui avesse intuito di trovarsi davanti a un elemento alquanto disturbante. Le andò incontro e, con un certa delicatezza, le strinse le spalle e le sorrise smielato. “Ascolta, abbiamo scaricato tutta la merce. Vai a cucinare, non puoi pensare anche a questo. Ti sentirai male.”
 
Non accolse bene la critica. Si accigliò, corrugando la fronte e stringendo le labbra. “Sto bene. Ce la faccio, se ci sono altre cose da portare qui, vado a prenderle.”
 
“C’è Yelena che mi sta aiutando, non serve, veramente.” Era in difficoltà. I suoi occhi cercarono i miei, ma se possibile mi accigliai di più. Non desideravo assolutamente mettermi in mezzo, specie se c’era quella donna che non sapeva stare un attimo ferma. E onestamente, non ero nemmeno dell’umore adatto per assistere a una scenata di quel tipo. Avevo altro a cui pensare. Per esempio, potevo rendere la mia presenza più utile e scappare via da quella città fatta di tende.
 
Un’ora dopo, la luce del sole scaldò la terra e si infranse sulle grosse pozzanghere che accerchiavano l’accampamento. Gli uomini si svegliarono e andarono in soccorso di Onyankopon, aiutandolo a sistemare le scorte che avevamo ricevuto. Le donne si affrettarono a stendere i panni, a dare una mano ai bisognosi. C’era gente che era messa peggio di me. Gente che non aveva gli arti, a cui mancava totalmente la vista e che era rimasta paralizzata in un letto. Nessuno era rimasto indifferente a tale dolore e chi poteva, aiutava.
 
I bambini, di tutti quei problemi, sembravano esenti, come se fossero protetti da un’armatura e non riuscissero a vedere oltre a un mondo fatto di giochi e favole. Si rincorrevano felici, gridavano, saltavano, ballavano e si chiamavano per nome. Io li fissavo in silenzio sotto l’ombra della mia tenda e, senza saperlo, loro mi diedero in qualche modo un buon motivo per affrontare il nuovo giorno. Da una parte ero stupito da come avessero reagito a un evento così catastrofico, dall’altra ne ero affascinato. Vederli sorridere mi faceva credere che, magari, l’umanità avrebbe potuto rialzarsi senza commettere certi errori, che la felicità esisteva anche se era sul volto di creature innocenti. Tutto ciò, per il mio spirito ormai frantumato, fu catartico.
 
Feci scorrere i palmi sulle ruote della sedia a rotelle, avanzai sulla stradina e raggiunsi Onyankopon. Si passò una mano in faccia e si voltò per guardarmi.
 
“I braccianti sono già partiti?”
 
“Il primo gruppo sì, ma c’è già gente che si sta preparando per andare a lavorare.”
 
La notizia mi soddisfò. Ignorai il disappunto nell’espressione di Onyankopon e lanciai un veloce sguardo alla tenda dove nascondevamo gli attrezzi. “Bene, digli di aspettarmi.”
 
“Aspettarti?” Si pulì in fretta le mani e mi corse dietro. Mi serrò il percorso, parandosi davanti a me. Si chinò in modo da guardarmi bene in faccia e si morse l’interno della guancia. “Cosa vuoi fare?”
 
“Vado con loro a lavorare.”
 
“Levi ti prego…”
 
“Non iniziare a blaterare,” indicai con il pollice la viuzza che conduceva al mio alloggio momentaneo. “Se credi che rimarrò rinchiuso in quella tenda a riposare, bè ti sbagli. E non starò nemmeno qui a dare le caramelle ai mocciosi. Ottima mossa la tua, ma non attacca più. Quindi, aiutami a trovare gli attrezzi o fatti da parte.” Sapevo che era contrario alla mia iniziativa e lui sapeva che non mi avrebbe schiodato dalla mia decisione. Non era stato poi così male passare del tempo con i ragazzini, ma se avessi continuato a stare fermo, mi sarebbe scoppiata la testa. Dovevo fare qualcosa. Ce la potevo fare. La forza fisica non mi aveva mai abbandonato e, una vecchia ferita, sicuramente non mi avrebbe rovinato la vita.
 
Sospirò e strinse i palmi sui pantaloni color burro.
 
“Levi, io non posso. Aspetta qualche altro giorno…”
 
“Sono anni che continui a chiedermi di aspettare.”
 
“E allora che sarà mai attendere un po’ di più? Non abbiamo un bravo dottore nel campo, lo sai, e le tue condizioni sono già preoccupanti. Siamo in ginocchio. Ci dobbiamo occupare di questa gente, ma tempo due settimane e arriveranno i ragazzi con un’equipe pronta a soccorrerci.” I ragazzi. Parlava di Armin e gli altri che erano a Hizuru.
 
Era proprio la fine del mondo. E potevo anche sforzarmi a comprendere i suoi sproloqui. L’unico dottore mezzo decente in zona, riusciva a darti qualcosa per un banale raffreddore, ma di certo non avrebbe potuto trattare una ferita seria come la mia, anche perché non c’erano gli strumenti adatti. Serrai le palpebre, sentii un soffio d’aria sulla fronte, segno che Onyankopon si era spostato.
 
Siccome ragionare con gli adulti era un’impresa snervante, affidai a un moccioso il compito di recuperare almeno una zappa e portarmela. Quando avevo detto di voler andare con i braccianti, ero stato serio. Ma non mi piaceva perdermi in inutile chiacchiere. Attesi che mi fosse dato il necessario, appartato vicino a un piccolo falò, ormai spento. Il bambino con il cappello rosso, corse con gli occhioni sgranati verso di me, a mani vuote. Non comprendevo. Sollevai un sopracciglio e incrociai le braccia appena posò le manine ai lati del cuscino della carrozzella.
 
“Io non posso darti nulla.”
 
“Quando ti ho parlato la prima volta non mi hai detto così.”
 
Si morse il labbro inferiore e lanciò un’occhiata intimorita dietro le sue spalle. Seguii la traiettoria del suo sguardo e, al di là del piccolo spiazzo che ci separava dalla tenda degli attrezzi, inquadrai la figura della donna pazza. Mani sui fianchi, sguardo deciso e postura da comandante. Anche lei mi fissò con aria di sfida prima di spezzare il contatto visivo e scomparire dentro una strada adiacente.
 
“Ti ha detto lei di non darmi gli attrezzi?”
 
Il bambino torturò le dita paffute e fissò il punto in cui la ragazza si era fermata qualche secondo fa. “Emh, no?”
 
Quanta pazienza mi serve. Riempii i polmoni d’aria avvertendo l’odore ormai conosciuto della terra pungermi le narici. “Che ti ha detto?”
 
“Lei…” Passò qualche momento prima che gli occhioni puri del ragazzetto incrociassero i miei. “Però non dirle che io te l’ho detto.”
 
“È fatta.”
 
Lo dovetti convincere dal modo in cui rilassò le spalle. “Bè, mi ha detto che non stai bene, che non devo darti retta perché sei un musone cocciuto con un brutto carattere e che rischieresti di peggiorare la tua situazione.”
 
Musone cocciuto con un brutto carattere.
 
Digrignai i denti, strofinandoli tra loro. Quella ragazza chi cazzo l’aveva messa sulla mia strada? Non mi scomposi, pur sentendomi infastidito da questo nuovo titolo. Fissai il mocciosetto con risolutezza e mi assicurai che non ci fosse nessuno intorno quando proposi: “Se vai e fai quello che ti ho detto, ti darò qualche caramella.”
 
“Sul serio?” Puntini luminosi baluginarono nelle sue iridi.
 
“Hai la mia parola”
 


 
 
Lo sfondo che si palesò davanti ai miei occhi era ricco di colori e di vita. Non sembrava reale. Assomigliava molto di più a uno di quei dipinti su tela che avevo potuto ammirare nel palazzo di Historia, a Paradis. Il cielo avvolgeva la terra in una distesa infinita di azzurro e, sembrava così limpido e lucente, da ricordarmi la seta. Le nuvole si spostavano adagio, mosse da una leggera brezza. La terra, seppur martoriata dalla marcia dei giganti, sembrava morbida, pronta a ospitare nuove piante, nuova vita. Alcuni alberi delimitavano la pianura. Erano verdi e rigogliosi, quasi severi a una prima occhiata. Mi piacque pensare che fossero riusciti a sopravvivere a quell’apocalisse perché forti e impenetrabili.
 
Gabi fece scivolare da un recipiente alcuni rastrelli arrugginiti. Si raccolse i capelli in una coda e mi indicò i tavoli che erano stati sistemati in vicinanza. Potevamo mangiare fuori, subito dopo aver piantato gli alberi, senza dover tornare all’accampamento che era distante qualche metro da dov’eravamo. Non fu certo facile spostarsi con quel dannato affare. Le ruote a volte si incastravano al terreno o addirittura ci affondavano dentro. Non mi diedi per vinto. Arrivato nel primo spiazzo coltivato, scivolai dal cuscino imbottito, caricando il peso sulla gamba sana.
 
Aiutato da una vanga scavai, per circa venti centimetri, tanto da scoprire uno strato umido in profondità. Falco mi passò un piccolo alberello e io lo ricoprii di terra. Le mani erano sporche e le unghie erano intrise di lerciume. Ma non mi interessai, pur promettendomi di finire la giornata dentro la tinozza. Muovermi, piantare alberi, non sentire alcun commento inopportuno, mi aiutò. Anzi, sembrò avere l’effetto di un balsamo sui miei nervi scoperti.
 
“Non sei abituato a tutto questo?” Gabi poco prima di partire mi raggiunse nella panca e mi affiancò. Posò il cappello di paglia sul tavolo e scrocchiò le dita con un sospirò affaticato.
 
“Affatto.”
 
“Però è bello stare fuori, anch’io non ero più abituata. Nei ghetti non potevamo fare un granché e, quando uscivamo, lo facevamo solo per prendere parte alle guerre.”
 
Involontariamente le mie palpebre si assottigliarono e rughe di rammarico mi incresparono la fronte. Per quanto fosse stata grave la situazione a Paradis, non avevamo mai accettato ragazzini di dodici anni nel gruppo di ricerca. Certo, le reclute avevano anche quindici anni, un età molto tenera. Ma pensare a Gabi con il fucile in mano e immaginarla più piccola, costretta a combattere in un campo minato, mi fece attorcigliare le viscere dal nervoso. “
È così che dovrete vivere adesso. La tua unica preoccupazione sarà annaffiare le piante e crescere con la testa a posto, senza dare problemi.”
 
Mi guardò con i suoi occhioni colmi di determinazione. Mi sentii quasi rilassato nello scorgere le foglioline tenere agitarsi sotto i raggi ambrati del tramonto; tirai un sospiro di sollievo. Perché oltre alle morti, oltre alla sofferenza, stava crescendo qualcosa di buono, in quel posto. I cuori che i miei compagni avevano offerto, erano serviti a donare un angolo di paradiso ai più giovani. E io, anche se impossibilitato a camminare, avrei vissuto per loro. Avrei guardato attraverso i loro occhi il mondo che stava fiorendo. E avrei piantato alberi per ogni soldato che si era spento con la speranza di un futuro migliore.
 
 
 
Una giornata così interessante non poteva non concludersi con una buona tazza di tè nero. Mi piaceva rimanere un po’ solo quando le stelle ricoprivano il firmamento. Ammirarle in silenzio mi ricordava attimi di pace e, leniva le ferite del cuore. Il fumo bianco si distese nel blu infinito. I canti di alcune donne si alzarono e mi raggiunsero, ma non mi diedero fastidio, anzi, mi rasserenarono. Strinsi i polpastrelli sul bordo della tazza e posai il gomito sul ginocchio.
 
“Hai un minuto?” Scorsi il profilo della donna che infranse il mio angolo di pace. Si chinò e spostò con la mano alcuni rami che le si erano infilati tra i capelli.
 
“Direi di no.”
 
“Bè, io penso sia necessario parlare,” ignorando il mio palese rifiuto ad averla intorno, la ragazza si parò davanti a me, si inginocchiò e mi guardò dritto in faccia, senza nessun imbarazzo. Le sue labbra erano serrate e i suoi occhioni riflettevano il verde delle foglie che si agitavano dietro di me. Sembrava così tenace, come se la terra avesse piantato radici in lei. “È evidente che ci sia un problema, ma non possiamo ignorarci. Le tue occhiate torve, giuro che mi stanno facendo perdere la ragione,”sospirò. “Ma se ne discutiamo come due persone adulte, sono convinta che risolveremo la cosa.”
 
“Credo invece che potremmo continuare a ignorarci. Non abbiamo nulla da risolvere, io e te.”
 
“E se invece ci sforzassimo?” Tese le labbra, palesemente infastidita dalla mia risposta che non le lasciò un appiglio. “Senti,” respirò profondamente, come a riprendere il controllo di sé stessa. “Ho un’idea: ricominciamo da capo. Mi presento, sono Irina.” Mi tese la mano.
 
La guardai e, con la stessa espressione annoiata di sempre, cercai i suoi occhi. “Non ha senso quello che stai facendo. Io conosco il tuo nome e tu conosci il mio, dunque, se a parte questa pagliacciata del cazzo non hai nulla di serio da dire, io andrei.” Le ruote della sedia a rotelle strisciarono indietro, lasciando la ragazza allibita. Irina si allungò e sbatté le palpebre, mentre io le voltavo le spalle per tornare nella mia tenda.
 
“Quindi essere gentili per te è una pagliacciata?” La sua voce conservava l’astio che per tutto il tempo aveva cercato di nascondere.
 
Mi bloccai vicino al tronco. Persino uno come me, che non era affatto ferrato in materia di donne, sapeva che non avrei potuto comportarmi da stronzo e che invece avrei dovuto trattarla da gentiluomo. Non potevo di certo sferrarle un calcio come avevo fatto in passato con Eren, o addirittura afferrarla dal colletto e metterla a tacere. Non lo faresti mai, Levi. Ma lei sembrava abile a intaccare la mia calma. Mi voltai per incontrare il suo sguardo. ”Avevi detto di volerti comportare da adulta. Quindi, non venirmi a rifilare queste scemenze sull’essere gentili,” e smettila di preoccuparti di me, è snervante. Ma non glielo dissi. Già detestavo Onyankopon per tutte le premure non richieste, figuriamoci dover sopportare anche quelle di una sconosciuta.
 
“Dimmi, ti senti più maturo tu a corrompere i bambini con le caramelle per avere una zappa? Mi sembra logico.” Incrociò con aria sicura le braccia sotto il seno e mi scoccò un’occhiata quasi orgogliosa.
 
Ma guarda tu questa…
 
“Se ti sei delegata balia dei mocciosi, ciò non implica che io non possa offrirgli dei dolciumi quando vengono a chiedermeli. Non ho corrotto un bel niente.”
 
“Ah no?” Alzò il suo nasino, quasi sfidandomi.
 
Strinsi le labbra e assottigliai le palpebre. “No.” La mia voce era secca.
 
“Bè, sai che Raul ha trovato l’intera cassa di dolci e ne ha mangiati così tanti da avere male al pancino?”
 
Schioccai la lingua, non riuscendo a trattenere uno sbuffo.”Vai a fare la predica a lui se è così. Con la tua voce squillante, scommetto che lo metteresti in riga. Sempre che non sia già sordo per via dei tuoi rimproveri.”
 
“Io non urlò.” Asserì alzando la voce. Le labbra strette e le mani sulla vita.
 
“No, certo, e non sei nemmeno pazza.”
 
“Io pazza?” Si indicò con gli occhi sgranati.
 
“Di certo non sono stato io sbattere le casse questa mattina, rischiando di svegliare tutto l’accampamento.”
 
Le sopracciglia schizzarono in alto. Strinse il labbro superiore tra i denti, mosse un passo in avanti e mi superò.
 
“Sembra un complimento detto da un brontolone come te. Guarda, la colpa è mia perché non dovevo pensare di venirti a parlare.” Mugugnò qualcosa e agitò le mani in aria. “Dimentica tutto e rimani dove sei, 
io me ne vado via .”
 
“Bene.”
 
“Bene.” E riuscendo ad avere l‘ultima parola, scomparve illuminata dalle lanterne.
 
 
 
Note:
 
Perdonate il ritardo, eccomi con un altro capitolo. Ahhh gli enemies-to-lovers, quanto sono esilaranti(spero)? Siccome è uno dei miei trope preferiti, spero tanto che sia riuscita a scrivere qualcosa di decente. Prometto che tornerò a pubblicare presto. Ho bisogno di tempo per finire a postare l’altra mia storia e rivedere i capitoli di questa, ma ce la farò.
 
Grazie ai lettori e, in particolare a chi ha commentato lo scorso capitolo<3<3<3
 
Un abbraccio!

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