Battle Scars di rose07 (/viewuser.php?uid=53347)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Eravamo ***
Capitolo 3: *** Siamo ***
Capitolo 4: *** Uniti ***
Capitolo 5: *** Incertezze ***
Capitolo 6: *** Memorie ***
Capitolo 7: *** Festa ***
Capitolo 8: *** Simboli ribaltati ***
Capitolo 9: *** Confronti ***
Capitolo 10: *** Cenere ***
Capitolo 11: *** Silenzio ***
Capitolo 12: *** Tempo ***
Capitolo 13: *** Il tempo di cambiare ***
Capitolo 14: *** Psicologia inversa ***
Capitolo 15: *** Lotta ***
Capitolo 16: *** Anime affini ***
Capitolo 17: *** Bivio ***
Capitolo 18: *** Casa nostra ***
Capitolo 19: *** Fine ***
Capitolo 20: *** O forse no ***
Capitolo 21: *** Pioggia ***
Capitolo 22: *** Stazione ***
Capitolo 23: *** Casa ***
Capitolo 24: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
PROLOGO
«Allora,
com’è andata?»
La voce di Taichi non era
mai stata così ansiosa.
Nessun evento al mondo fino ad allora avrebbe potuto superare
l’importanza di
quel fatidico giorno, il giorno in cui avrebbero detto addio, il giorno
dell’assoluta libertà.
Sora guardò il
suo migliore amico con un sorrisino che
a stento riusciva a trattenere. Yamato, accanto a lui, la pregava con
lo
sguardo affinché parlasse. I suoi occhi cerulei erano dei
pozzi profondi, ed
erano quelli i momenti in cui lei ci sapeva leggere dentro.
«Lo volete
proprio sapere?» ci scherzò su, perché
quelli erano i tempi in cui insieme ci si divertiva anche con poco.
Aveva imprecato Tai, e
poi si era spettinato i capelli
nervosamente. Perché lui faceva sempre così
quando era teso.
«Avanti, Sora,
non tenerci sulle spine, per favore»
Rideva Sora, spensierata
e leggera come mai lo era
stata.
«E va bene,
preparatevi allora»
Era strano come quei due
ragazzi riuscissero a pendere
così attentamente dalle sue labbra, come lei per loro fosse
da sempre stata la
loro ancora di salvezza, la loro luce nei momenti più bui.
Gli occhi castani le
luccicavano quando parlò, ed
erano i tempi in cui tutto sembrava più bello, persino il
suono della sua voce.
«Evvai! Evvai,
cazzo, sì!» Non era mai importato a Tai
di apparire fine o delicato. Quando era felice non badava a nulla,
riusciva a
godersi perfino ogni singolo attimo di felicità.
Perché erano quelli i giorni
in cui saltellava per il corridoio della scuola quando prendeva un bel
voto, in
cui le sue piccole vittorie non erano poi così piccole.
«Mims! Sono
qua, Mims!» Agitava la mano verso di lei,
che si era messa a correre per raggiungerlo, e poco importava se gli
altri
l’avrebbero guardata male, perché
l’unica cosa che contava era stringersi e non
lasciarsi più.
«Settanta su
cento» Erano quelli i momenti per cui si
andava avanti, erano quelli i momenti per cui non si mollava e si
faceva meglio
di prima.
Lo aveva stretto, Mimi,
forte, perché mai nella vita
avrebbe permesso che lui andasse via, ed erano quelli i momenti in cui
credeva
davvero nell’amore, in cui davvero valeva la pena vivere.
«Ti
amo» Erano i tempi in cui ci si guardava negli
occhi e ci si sorrideva, in cui le labbra si univano e diventavano un
tutt’uno.
In cui la
felicità era appena dietro una porta.
Sora sorrise, sentendosi
cingere la vita da chi amava
con tutto il cuore, perché ai tempi si amava tanto e
sembrava non potesse
svanire mai.
Matt continuava a
stringerla, e lei poteva sentire la
testa girare per quanto desiderava tutto quello. Non c’era
niente che contava
se non tenersi stretti per paura di perdersi.
«Settantacinque»
Gliel’avrebbe ripetuto ogni santo
giorno pur di vedere nuovamente quel sorriso stupendo increspare il suo
viso.
Lui le scostò
i capelli dagli occhi, era questo ciò
che faceva sempre, perché mai e poi mai avrebbe potuto fare
a meno di
guardarla.
«E
tu?»
Sora si sentì
leggera come una piuma, perché erano
quelli i pesi di cui ci si liberava.
«Novantasette»
Era per quello che la voce tremava
dall’emozione, perché le piccole vittorie non
erano piccole, erano tutta la
loro vita.
Matt la baciò
di sorpresa, e poteva giurare che
avrebbe dato di tutto per momenti come quelli. Per momenti in cui
sentirsi era
la cosa più importante, in cui ridere era la
felicità, in cui diplomarsi era la
vita.
«Ti
amo»
I tempi in cui amarsi era
così facile.
«Ti amo
anch’io»
****
Smise di suonare quella
musica
piacevole, ma anche un po’ malinconica, che aveva inventato.
Buttò su un foglio
alcune parole, poi, distratto dai raggi del sole che entravano dalla
finestra,
ripose la sua chitarra al sicuro e, alzandosi dal letto, chiuse il
foglio in un
cassetto. Si stiracchiò, leggermente stanco.
Afferrò il
pacco di sigarette che
erano rimaste dentro la tasca dei suoi jeans del giorno prima, se ne
accese
una. Spalancando la finestra, socchiuse gli occhi a quella leggera
brezza
mattutina. Il vento era qualcosa di meraviglioso, pensò,
tirando e rilasciando
boccate di fumo.
Lo faceva riflettere, lo
faceva
sentire leggero. Pensò che in fin dei conti era una cazzata
credere che uno
stupido vento potesse rallegrargli la giornata, perché da
quando Tai era stato
convocato alle giovanili di calcio a Kyoto si sentiva solo.
Aveva ancora i suoi
amici, che tra
un impegno e l’altro ogni tanto vedeva, e aveva anche Sora...
Aspirò il fumo
nervosamente, appena l’ immagine della ragazza che gli
sorrideva si fece strada
nella sua mente. Il fatto che lui e Sora riuscivano a vedersi poco e
niente lo
scoraggiava sempre di più...
Dopo il liceo la sua
più grande aspirazione era sempre
stata quella di prendere una facoltà psico-pedagogica
all’università, data la
sua grande pazienza e la sua voglia di ascoltare ed aiutare gli altri
– e con
Mimi come migliore amica ce ne voleva tanta - e grazie al suo brillante
voto
che custodiva orgogliosamente, era riuscita a passare il test
d’ ammissione.
Era stata una bella notizia quella dell’ ingresso
all’ università, aveva festeggiato
insieme ai suoi amici e...
Matt...
Il pensiero di lui la
rese improvvisamente triste. Da
qualche mese il rapporto con Matt era cambiato, non era più
lo stesso. I due
riuscivano a vedersi sì e no due volte la settimana, dato
l’ indirizzo di
conservatorio che il ragazzo aveva scelto, ed ogni dannata volta tutto
le sembrava
apparentemente forzato. La passione che una volta li univa sembrava
affievolirsi ogni giorno di più, e lei si sentiva
così distante da Matt, così
cambiata...
Sospirò
tristemente ripensando al
suo ragazzo che adesso si trovava a Kyoto, lontano chilometri da lei.
Lo
sentiva poco, si vedevano raramente. Se andava bene un weekend ogni due
settimane, e lui era quasi sempre stanco a causa dei duri allenamenti.
La ragazza
sospirò volgendo gli
occhi marroni alla finestra di quell’aula cupa. Tra una
settimana avrebbe
compiuto diciotto anni, chissà se sarebbe potuto venire alla
sua festa. Ci
teneva tanto a stare con lui in quel giorno così importante,
voleva che fosse
tutto perfetto. Raggiungere la maggiore età per lei
significava in un certo
senso spiccare il volo verso la libertà, e voleva
festeggiare quella fase della
sua vita con il ragazzo che amava...
«Hai un minuto
di tempo per raggiungere il campo!»
L’allenatore
della squadra in cui giocava urlò quella
frase con tono autoritario facendo quasi spaventare il ragazzo che
aveva appena
finito di cambiarsi e indossare la divisa. Fece una smorfia di
disappunto, il
mister era davvero insopportabile di prima mattina, e lui era uno
spirito
libero, odiava chi gli impartiva degli ordini.
Si limitò a
non rispondere, tanto non sarebbe servito
a niente, avrebbe comunque raggiunto il campo in perfetto orario per
gli
allenamenti... quei duri allenamenti che non gli permettevano quasi di
respirare! Sospirò, leggermente stanco...
...quell’
impiastro di Taichi gli mancava da morire, ma soprattutto sentiva la
mancanza
della sua fidanzata. Non una mancanza fisica, perché per il
sesso trovavano
quasi sempre un po’ di tempo. Le mancava stare con lei a
chiacchierare, ridere
come una volta, stare abbracciati a lungo senza dire niente. E forse
chi li
stava allontanando era proprio lui, che spendeva troppo tempo per
dedicarsi
alle sue cose e non a lei, trascurandola senza che se lo meritasse...
...inviò
sperando in una risposta.
Purtroppo attese invano come una stupida, perché,
checché ne dicesse il suo
cuore, la sua mente razionale le diceva che Tai non avrebbe potuto
risponderle.
Era davvero così dura la vita in una squadra di calcio? Era
così difficile
mantenere una relazione a distanza, sebbene fosse importante per tutti
e due?
Sapeva solo che da quando
il suo Taichi
si era trasferito, le giornate apparivano più cupe e le
toglievano perfino la
voglia di sorridere...
...adesso si trovava in
quel residence a kilometri
lontani da Odaiba, dalla sua famiglia, dai suoi amici e da lei... Mimi,
che
purtroppo stava trascurando e che gli mancava terribilmente. Mentre si
accingeva
a raggiungere il campo, per caso rovistò nel suo borsone
afferrando il
cellulare soltanto per osservare una sua foto. Di solito lo faceva
prima di
ogni partita, gli incuteva forza, speranza.
Sorrise appena lesse un
messaggio suo e uno del suo
migliore amico.
Continuò a
sorridere tristemente, perché anche i
momenti con Matt gli mancavano più del previsto, e il tempo
che avevano a
disposizione per vedersi era davvero limitato.
«Allora Yagami,
entro quest’ anno sarai pronto?!»
sbottò l’allenatore nervoso, mentre il castano
alzava gli occhi al cielo.
Tai strinse un pugno, poi
posò il cellulare dentro il
suo borsone, senza poter rispondere.
A malincuore, mentre
correva per il campo, pensò che
per colpa di quel dannato calcio non riusciva nemmeno a godersi un
momento con
le persone che più amava nella sua vita...
...rispose all’
sms di Victor. Un
leggero senso di colpa la catturò, e non seppe nemmeno lei
il motivo.
Per tentare di scacciarlo afferrò il suo libro e si
trasferì in cucina dove si
preparò un caffè. Lo bevve tentando di non
pensarci, in fondo era solo un
messaggio e Victor era solamente un suo compagno di
università che vedeva qualche
volta.
Non
c’era bisogno di sentirsi
sporca, eppure qualcosa nella sua testa la convinceva del contrario...
****
Era bellissima fasciata
in quel
vestito rosa antico con i capelli castani che le ricadevano morbidi
sulle
spalle. Era riuscito a liberarsi e le avrebbe fatto una sorpresa,
perché lei
non si aspettava che riuscisse a venire al suo compleanno. Ebbe un
tuffo al
cuore quando la vide ridere e scherzare insieme a qualcuno che non era
lui, e
forse era un po’ colpa sua che non era presente e che aveva
anteposto il calcio
a lei, ma faceva male, tanto male sapere che piano piano andava avanti
con la
sua vita.
«Tai! Sei
qui!»
Era venuto per lei,
sì, ma vederla
insieme a quel suo amico americano aveva suscitato in lui qualcosa di
forte che
andava ben oltre ad una semplice gelosia. Forse era egoismo,
l’egoismo più puro
che non gli permetteva di concepire lei libera di costruire qualcosa
senza di
lui.
«Faccio
cinquecento chilometri per
venire da te e poi ti ritrovo insieme a questo tizio?!»
Gli occhi spaventati,
lucidi, tristi
di Mimi non li avrebbe dimenticati mai.
Se le avessero piantato
un coltello sul fianco avrebbe
sicuramente sentito meno dolore... Perché non poteva mai
immaginare nella sua
vita, mai, che Tai fosse diventato così.
Così
arrabbiato, così egoista, così ottuso da non
accorgersi come lei avesse solo lui nel cuore, e mai da lì
sarebbe potuto
uscire.
Lo guardava con stupore,
e un senso di inquietudine la
pervadeva senza dargli tempo di respirare. Le aveva urlato contro le
peggiori
accuse, le aveva rinfacciato tutti i sacrifici che aveva dovuto
compiere per
lei...
Ma se si ama e tanto non
bisognerebbe andare oltre
tutto questo?, si chiedeva disperata.
E le lacrime versate quel
giorno sarebbero state
lacrime che avrebbe ricordato sempre, delle lacrime amare che avrebbero
dato
vita ad una crepa così profonda da perdersi dentro...
Forse era stata una
stupida a
pensare che lui avrebbe potuto in qualche modo dimenticarsi di lei e
della loro
storia, ma le circostanze della vita l’avevano portata a
crederlo.
Lei adesso era
all’università,
mentre Matt faceva avanti e indietro per studiare al conservatorio a
cui aveva
sempre aspirato.
Gli avrebbe mai
potuto chiedere che mettesse tutte quelle cose da parte e che tornasse
a darle
le attenzioni d’un tempo?
Sora non era
mai stata egoista, ma adesso aveva delle nuove consapevolezze. Amava
ancora
quel ragazzo biondo che aveva conosciuto anni e anni fa, ma la sua
testa la
metteva in guardia. Non sapeva se quella crepa aperta sarebbe riuscita
mai a
risanarsi. Non sapeva se con il passare degli anni sarebbe stata
così forte da
seguire quella scia.
Lui la
stringeva a sé, lei faceva lo stesso, perché
niente e nessuno avrebbe potuto
comparare la protezione che lui le dava.
Anche se
avrebbe dovuto combattere con tutte le sue forze per rimanere attaccata
a lui,
per mantenere a
galla quell’amore fragile che li univa.
Un pensiero
insistente si faceva largo nella sua mente, e avrebbe dovuto essere
forte per
non dargli retta.
Le aveva dedicato una
canzone scritta apposta per lei,
perché non era mai stato bravo con le parole, anzi quando
non riusciva ad
esprimersi prendeva una matita e scriveva. Lei si era commossa e in
quel
momento aveva capito quanto bisogno aveva di quella ragazza nella sua
vita.
Se per una volta fosse
riuscito a mettere l’orgoglio
da parte allora avrebbero potuto continuare ad amarsi senza ostacoli,
perché
era tutto ciò di cui avevano bisogno...
Forse i muri che li
dividevano erano deboli e insieme
potevano superare ogni cosa...
Forse ciò che
avrebbero dovuto fare era tenersi per
mano...
Forse ciò che
serviva era stringersi un po’ di più...
****
La distanza era un
ostacolo
insormontabile che li aveva divisi negli anni e che ancora continuava a
farlo.
«Io non posso
farci niente se siamo
così lontani»
Non poteva farci niente,
Tai, se
aveva scelto di fare quella vita.
«E io non
riesco più ad andare
avanti così»
Mimi piangeva, era quello
ciò che le
rimaneva di tutti quegli anni insieme.
«Hai deciso,
quindi?»
«Se tu volessi,
potresti fermarmi»
Perché la
speranza era sempre
l’ultima a morire. Ma in questo caso, ciò che
rimaneva ai due ragazzi era i
pezzi di un amore appena distrutto.
«Non posso
farci niente, io»
Ed era vero,
perché lui non poteva
mettere di nuovo insieme qualcosa che con il tempo si era rotto,
perché aveva
dato il massimo, ma il massimo non era bastato...
L’osservava
uscire da quella porta in silenzio, con le
mani in tasca, come faceva sempre lui.
Rimase pietrificata a
piangere e tremare... Perché
tutto ciò era segno che niente poteva più essere
messo in ordine e che quelle
cicatrici di battaglia avrebbero bruciato sulla sua pelle per sempre...
Si sbagliava.
Perché in
realtà non era capace di
vincere il suo orgoglio, era come una corazza che lo voleva difendere a
tutti i
costi, non sapendo che in realtà lo stava distruggendo
completamente.
Posò la
sigaretta sul posacenere e
prese il telefono.
Nessuna chiamata da parte
sua,
nemmeno l’ombra di un minuscolo messaggio. Forse era a questo
che erano
destinati, starsi lontano con la consapevolezza che avevano bisogno di
stare
insieme...
Magari, se fosse stato
davvero per
una volta capace di dar retta ai suoi sentimenti e non a tutto
ciò che gli
girava intorno, forse qualcosa sarebbe potuta cambiare...
Ma non era questo che
cercava.
Perché il suo rifugio era la musica, era in quel mondo che
si richiudeva quando
ne aveva bisogno.
Niente adesso contava se
non andare
avanti per la sua strada.
Posò il
cellulare e ancora una volta
si rifiutò di chiamare.
Adesso quello di cui
aveva bisogno
era chiudere gli occhi e ascoltare il suono della sua vita...
«Take, sei
proprio una sbadata!»
Era grazie a lui se
riusciva a mettere in ordine i
casini dell’università, e forse anche quelli della
sua vita.
Le aveva restituito il
quaderno che distrattamente
aveva dimenticato sul banco. Gli sorrise con un po’ di
imbarazzo, e si chiese
da quanto tempo era che non provava tutte quelle sensazioni in una
volta, da
quanto tempo era che non rideva di gusto ad una battuta, che non si
perdeva
negli occhi di qualcuno.
Quel ragazzo era entrato
nella sua vita come un
fulmine a ciel sereno, e quello di cui aveva bisogno era rimarginare le
cicatrici che l’inerzia aveva causato...
Le sfiorò una
mano, e lei non potette fare a meno di
mordersi un labbro, perché ciò che provava era
capace di farla sognare ad occhi
aperti, ma nello stesso tempo risvegliarla dopo un lungo sonno.
«Ti va di fare
un giro?»
Perché
sì, forse era questo di cui aveva bisogno.
Dimenticarsi che tutto ciò che aveva amato e desiderato
negli anni si trovava
dietro di lei ad aspettare che qualcosa cambiasse, ma nel frattempo
niente
cambiava, e allora lo stava pian piano facendo lei...
Mentre passeggiava, il
suo pensiero volò verso di lui,
e si chiedeva se quella battaglia che stavano combattendo, avrebbe un
giorno
lasciato i segni di una dolorosa cicatrice su chi tra i due pensava di
vincere...
Ciao a tutti.
Torno dopo molto, moltissimo tempo con questa nuova
fresca storia sui personaggi di
Digimon Adventure, terminata e tormentata.
Non credo che possiate ricordarvi di me, ma ho scritto un paio di
storie a riguardo molti anni fa, poi rivedute e corrette, che, in un
certo senso, delineano una sorta di continuum degli eventi dei due
principali pairing che tratterò: Sorato e Michi.
So che non sono le coppie più gettonate su questa sezione,
ma mi auguro che, nonostate tutto, questa lettura trasmetta
curiosità a qualcuno di voi in cerca di una long a
prescindere dalle preferenze.
Questo prologo è un po' particolare e visualizza sprazzi di
ricordi legati al passato dei protagonisti in cui hanno età
differenti, - partendo dagli eventi menzionati nella mia ultima storia
- e servono oltremodo a dare un'idea su quello che avverrà
dopo. Questi momenti sono decisivi per la vita di Taichi, Yamato, Sora
e Mimi, potremmo considerarli il perno dei loro problemi due anni
dopo. Ho scelto di mixarli, rendendoli un flusso ininterrotto
dove potrebbe essere difficile rilevare a chi appartengono, ma sono
certa che saprete collegare bene i pezzi del puzzle.
Se vi va di dare una lettura veloce alle storie passate - considerate
che il mio stile di scrittura era molto diverso, meno introspettivo ed
incline a squarci comici teatrali - ne sarei davvero felice, non vi
prenderanno molto tempo, sono scorrevoli e per certi versi perfino
divertenti ( se consideriamo l'estremizzazione del personaggio di Joe,
caratterizzazione che verrà portata avanti anche in questa
storia ).
Potrete trovarle in elenco ordinato cliccando sulla serie "Stay together in the end"
Sappiate che il tono gioviale, frizzantino e adolescenziale
lascerà spazio ad un altro serio, maturo, per certi versi dai toni ombrosi, ma vi assicuro che non
mancherà di farvi sorridere se appassionante.
Spero apprezziate questa storia, la delineazione dei personaggi, il
contesto creato attorno- non fedele all'ultimo film Kizuna- l'idea del
mio ( e anche quello di una mia cara amica ) digiuniverso che accantona
le vicende di avventura ma si sofferma sugli intrecci amorosi e di
amicizia proiettati nel mondo reale in un'età adulta ma non
ancora del tutto decisiva.
Rose07
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Capitolo 2 *** Eravamo ***
Taichi
amava la pioggia. Amava la sensazione di avere il viso e i capelli
bagnati, mentre correva a perdifiato per il campo di calcio. Amava il
fatto che arrivasse così, senza preavviso, scatenando una
tempesta a cui era impossibile resistere.
Lui
però era forte, si disse. Era così forte che
avrebbe sfidato tutto e tutti pur di appropriarsi di quel pallone che
adesso si trovava ai piedi dell’avversario e di portarlo con
sé in un percorso ad ostacoli che precedeva la meta finale.
La vittoria.
Un
po’ com’ era la sua vita, pensò, mentre
correva, trascinandolo con sé. Un lungo percorso per
arrivare ad unico obbiettivo, un obbiettivo da sempre desiderato, un
obbiettivo che aveva rappresentato per tanto tempo il sogno della sua
vita.
Sorpassò
con facilità gli avversari, sentendo la pioggia
intensificarsi di più. Lo avrebbe inzuppato, ma non
l’avrebbe certo piegato al suo volere.
Perché
lui era Taichi Yagami, e niente avrebbe potuto sottometterlo.
Sorrise tra
sé, mentre si avvicinava alla difesa. Poteva scorgere i
volti dei suoi rivali cambiare espressione, mentre si preparava a
tirare.
Qualcuno
pensò di fermarlo, provò a tirarlo dalla maglia,
cercando di sottrargli il pallone con scarsi risultati. Troppo tardi.
Lui era
Taichi Yagami e segnava sempre.
Ci furono
dei secondi di silenzio in cui l’unico rumore che poteva
udire oltre la pioggia era il battito accelerato del suo cuore. Si
accasciò sulle ginocchia, che cedettero improvvisamente, e
sentì i suoi compagni di squadra che urlavano e
festeggiavano. Alcuni gli si lanciarono di sopra, stringendolo in degli
abbracci calorosi, altri gli spettinarono i capelli bagnati, gridando
il suo nome come se fosse un dio da osannare.
Guardò
la porta d’innanzi a sé, notando il portiere
avversario che imprecava e si dannava, chiedendosi cosa mai avesse
sbagliato.
Tai
pensò che anni fa tutto
quello lo avrebbe portato
alla felicità immediata. Tutto
il clamore di aver vinto, la soddisfazione di ricevere complimenti, i
cori dei tifosi che lo appoggiavano, la consapevolezza di aver
raggiunto il suo obbiettivo. Volse
lo sguardo al cielo grigio, mentre la pioggia picchiava sempre di
più.
Cosa
cercava adesso?
Era una
domanda che si ripeteva costantemente. Tempo fa avrebbe risposto senza
esitare. Ma adesso... Adesso per la prima volta metteva in discussione
tutto.
Non era
più sicuro che quella vita fosse ciò che
realmente desiderava. Non era più sicuro che tutta quella
felicità fosse autentica. Non era più sicuro di
voler stare lontano dalla sua famiglia e dai suoi amici.
«Sei
un campione!» gli urlò qualcuno.
Non era
più sicuro di essere un campione, e forse non lo era stato
mai. Sentì
un tuono squarciare il cielo. Alcuni urlarono e corsero via. I suoi
compagni finalmente lo mollarono e lui si mise di nuovo in piedi.
Aveva
raggiunto la vittoria, ma non era niente in confronto a quel vuoto
incolmabile che sentiva nel cuore.
Lentamente,
si mise in cammino per raggiungere gli spogliatoi. Tirò un
calcio al pallone, rimasto immobile al centro del campo.
Non era
questa la vittoria che voleva.
Forse si
sarebbe beccato un bel raffreddore, ma poco male. Si
sciacquò accuratamente, godendosi l’acqua calda
della doccia che scivolava lungo il suo corpo tonico. Era cambiato
molto durante il corso degli anni. Il ragazzino adolescente, magro e
poco sfilato, aveva lasciato spazio ad un uomo di venticinque anni alto
e muscoloso. I capelli castani erano meno ribelli, avevano perso quella
forma sbarazzina che lo aveva da sempre contraddistinto. Adesso si
guardava allo specchio e quasi stentava a riconoscersi.
Era Tai, ma
non era veramente lui. La voglia di ridere e scherzare lo aveva
abbandonato lasciando posto ad un grigiume e ad un senso di mancanza
che gli attanagliava il cuore. Tutti quegli anni lontani da Tokyo lo
avevano segnato nel profondo. Gli mancava persino la più
piccola cosa legata a quel luogo. Gli mancava alzarsi la mattina e
inspirare quella leggera brezza, gli mancavano quelle lunghe
passeggiate in centro, gli mancava quella caoticità calorosa
che non lo faceva sentire così solo.
Sospirò,
mentre finiva di risciacquarsi. Da cinque anni a quella parte si era
sentito sempre solo. Solo in mezzo ad una folla di persone nelle quali
lui non si riconosceva.
Gli mancava
tanto la sua famiglia. Gli mancava la sua casa accogliente. Gli mancava
andare in cucina e trovare sua madre che canticchiava allegramente,
mentre preparava il pranzo e gli chiedeva se aveva dormito bene. Gli
mancava andare a pesca con suo padre, sorbirsi i suoi pallosi discorsi
sulla gioventù e finire sempre per battibeccare
perché facevano scappare i pesci. Gli mancava la sua
sorellina, Hikari, la luce dei
suoi occhi, che lo accoglieva con un bacio sulla guancia e un
sorriso... la sua sorellina che adesso era diventata una splendida
donna, che frequentava l’università e che non
stava vedendo crescere...
Gli
mancavano i suoi amici. Gli mancava da morire Yamato, il suo migliore amico,
il suo punto fermo, la sua ancora di salvezza... gli mancava ridere e
scherzare con lui, gli mancavano i loro lunghi discorsi, gli mancavano
i suoi rimproveri, gli mancavano perfino le loro liti... Gli mancava
voltarsi e trovarlo sempre al suo fianco...
Gli mancava
la sua piccola Sora, gli mancava abbracciarla, ascoltare i suoi
consigli materni, bearsi del suo sorriso... lei, la sua migliore
amica... Sora, verso la quale provava un affetto così
profondo, un senso di protezione, un amore fraterno
inossidabile... Lei che aveva sempre aperto gli occhi a lui e Matt...
Loro due che erano così importanti...
E poi gli
altri... Gli mancava quel cibernetico di Koushiro, sempre
così attento e preciso, che con il suo pacifismo e la sua saggezza riusciva
sempre a mettere in ordine i casini delle loro vite... Come avrebbero
fatto senza quel rosso pignolo?
E il
piccolo Takeru, che non era più così piccolo, che
era cresciuto e che con il suo ottimismo aveva sempre acceso un lume di speranza in
ognuno di loro... Quel biondino che amava divertirsi e godersi la vita,
e si pentiva amaramente di aver dubitato di lui, perché non
avrebbe visto altro ragazzo al fianco di Kari...
Perfino
quel burino di Jyou, quell’impiastro spropositato che
alimentava lunghe catene di guai... che con la sua voce acuta e con la
sua irruenza, diceva le cose con sincerità senza
farsi troppi problemi... che risultava goffo e idiota, ma che era senza
dubbio di animo buono e viscerale...
E poi...
c’era lei... Mimi...
Quanto
tempo era passato? Uno, forse due anni da quando si erano detti
addio... Due anni senza di lei, due anni senza sentire la sua voce, due
anni senza bearsi della purezza dei
suoi abbracci e dei suoi baci... Mimi...
che aveva lasciato una ferita ancora aperta dentro di lui... E lui, che
adesso si trovava inerme, senza saper bene cosa fare, senza avere la
forza di ricominciare... Perso in quell’oblio, svuotato da
ogni singola emozione...
Era questo
a cui era destinato?
Per seguire
il suo sogno, la sua passione aveva dovuto sacrificare tutto, il luogo
in cui era nato e cresciuto, la sua casa, la sua famiglia, i suoi
amici, l’amore...
L’amore...
Ripensò
a lei, pensò a quanto erano felici insieme... Mano nella
mano al parco... sorridendo alla vita... stretti nella
vitalità della gioventù...
Perché
doveva fare così male l’amore?
Quando
chiuse il rubinetto della doccia si accorse di aver pianto. Rise
amaramente e si asciugò il volto con l’asciugamano.
Era per
questo che amava la pioggia, perché confondeva e nascondeva
le lacrime.
Ma lui era
Taichi Yagami e non piangeva.
Scosse la
testa e si rivestì, perso ancora nei suoi pensieri.
Lui era
Taichi Yagami e piangeva invece, era un essere umano, amava, soffriva
come tutti... e non avrebbe permesso a nessuno di rovinargli
l’esistenza, perché adesso aveva capito quale
fosse il suo destino, e di certo non era lì, non era in quel
luogo, non era con quelle persone.
Per anni
aveva dovuto sacrificare le cose che più amava, aveva dovuto
mettere al primo posto quella vita, senza poter ritagliare il
più piccolo spazio per lui.
Aprì
il phon e si guardò allo specchio. Quella persona riflessa
non era più lui. Era qualcuno nel quale non si riconosceva,
una macchina che obbediva a degli ordini senza avere il coraggio di
opporsi.
Il
coraggio...
Una volta
era il suo simbolo, ma adesso aveva quasi dimenticato cosa fosse.
Eppure ne
aveva tanto bisogno, aveva tanto bisogno di evadere da
quell’incubo, aveva tanto bisogno di tornare in quella realtà,
la sua realtà
che per anni gli era stata sottratta.
Adesso
sapeva bene che cosa fare.
Udì
distrattamente la porta dello spogliatoio aprirsi, e con la coda
dell’occhio notò il suo allenatore che si
avvicinava verso di lui a gran passi. Posò il phon e si
voltò a guardarlo.
«Yagami,
devo parlare con te» proferì duro, in un tono che
non ammetteva repliche.
Era
così, Akira, severo ed esigente. Tentava di manipolare la
vita di tutti loro, imponendo delle regole a cui nessuno poteva
sottrarsi.
Ne aveva
abbastanza dei suoi ordini che per tutti quegli anni aveva dovuto
subire.
«Prego»
disse Tai, distaccato. Non avrebbe mai più permesso che
qualcuno intralciasse la sua vita, perché solo adesso aveva
capito quanto era importante.
«Sono
venuti a vederti da Osaka e gli sei piaciuto. Dicono che hai molto
potenziale e vorrebbero allenarti»
L’uomo
lo guardava fisso come se si aspettasse qualcosa, ma lui
spostò lo sguardo. Perché tempo fa una notizia
del genere lo avrebbe fatto saltare dalla gioia, mentre adesso...
«Hai
capito, Yagami?» lo riscosse Akira, mentre il ragazzo annuiva
debolmente
«Perciò
il prossimo mese sarai trasferito e comincerai con loro»
Che
cos’era il coraggio?, si chiese
Tai, mentre l’allenatore si allontanava e faceva per uscire
dalla porta.
Era
qualcosa che aveva da sempre fatto parte di lui, che non lo aveva mai
abbandonato, nemmeno adesso, nemmeno adesso che, con i pugni chiusi,
fremeva per poter uscire.
«Aspetti»
lo fermò, mentre quello si voltava interrogativo.
Sapeva
adesso cosa doveva fare.
Lui era
Taichi Yagami, e nessuno poteva decidere al suo posto.
«Io
non ho ancora dato la mia risposta»
L’allenatore
lo fissò basito, chiuse la porta dietro di sé e
rientrò nello spogliatoio.
«Forse
non hai capito, ragazzo» ripeté, come se fosse un
malato mentale.
Il castano
ebbe una gran voglia di urlargli in faccia, perché non
riusciva più a sopportare che lo si trattasse
così.
«Ti
vogliono in prima divisione. Verrai allenato nel Gamba Osaka e
sarà una buona occasione sia per te che per me, dato che mi
pagheranno bene»
Taichi
scosse la testa. Sarebbe
stato un sogno che si avverava, una vittoria personale a cui aveva
aspirato a lungo. Ridacchiò
amaramente.
La notizia
non gli faceva nessun effetto, adesso. Adesso che aveva capito di cosa
aveva bisogno per star bene.
«Ho
bisogno di andare a casa» disse lentamente.
Akira rise
di cattivo gusto.
«Smettila
con i capricci, Yagami, e fila ad allenarti! Devi essere pronto per la
prima divisione o ti cacceranno subito»
Non aveva
mai mancato di rispetto ad un suo superiore, tranne a scuola, a volte,
quando lui e Matt facevano gli idioti con i professori. Non aveva mai
risposto per le rime a quell’arrogante di Akira, ma adesso
sentiva di scoppiare. Non ce
la faceva più. Non riusciva più a reggere il peso
di quella vita. Voleva andare via, scappare, e l’avrebbe
fatto.
Strinse i
pugni.
Nessuno
l’avrebbe intralciato.
«Voglio
andare a casa, ho detto!» ripeté, arrabbiato.
L’allenatore lo guardò sbieco.
«Le
partite sono concluse ed io ho il diritto di tornarmene a
Tokyo!»
Akira
strinse i denti per quell’affronto, mentre Tai sentiva la
rabbia crescere a dismisura e tutto il risentimento di quegli anni
uscire fuori.
Era per
colpa di quel calcio se aveva mandato a puttane la sua vita.
«Io,
invece, voglio i miei soldi» ringhiò
l’uomo.
Ecco
cos’ era diventato, una macchina che produceva denaro. Aveva
perso i suoi diritti umani solo per compiacere ad un branco di orditori
che non avevano il minimo rispetto per lui.
«E
li avrà, ma mi lasci tornare a casa! Non sono il suo cazzo
di burattino, mi ha capito? Ho una fottuta vita fuori di qui!»
Aveva
urlato così forte da far rimbombare la sua voce per tutti
gli spogliatoi.
Si era
liberato. Finalmente aveva liberato la sua voglia di evadere. Poteva
sentire il peso sciogliersi sotto di lui.
L’uomo
lo guardò duro e strinse la mascella. Taichi era un ragazzo
forte e determinato e sicuramente gli serviva più di quanto
pensasse.
«Una
settimana» proclamò, infine, mentre si voltava e
raggiungeva la porta.
Tai
sospirò, sentendo il cuore battere forte.
«Un
giorno in più, Yagami, e sei fuori» aggiunse, poi,
tagliente.
Lo
lasciò così, con il fiato spezzato e le gambe che
gli tremavano. Non poteva credere di averlo fatto.
Si
coprì il volto con le mani, stritolato da un vortice di
emozioni che non provava da tanto tempo.
Gioia.
Orgoglio.
Libertà.
Coraggio.
Il coraggio
di cambiare, il coraggio di ricominciare.
Lui era
Taichi Yagami e adesso lo sapeva bene. Sapeva bene di cosa aveva
bisogno.
Aveva da
sempre amato il suono che produceva la sua chitarra. Yamato
accordò le ultime note, e si perse in quella melodia. La
musica gli dava benessere, gli procurava una gioia interiore con cui
niente poteva comparare.
Da anni era
stata la sua vita, la sua forza, il senso di quell’esistenza
malinconica e segnata da sofferenze.
Niente era
andato come voleva.
Ma lui era
Yamato Ishida e aveva sempre stretto i pugni per andare avanti.
Fin da
piccolo, aveva desiderato con tutta la sua anima che sua madre e suo
padre tornassero insieme, che fossero di nuovo una famiglia felice, che
lui e suo fratello Takeru potessero stare di nuovo sotto lo stesso
tetto.
Strinse gli
occhi, al ricordo di alcune immagini dolorose. Quando suo fratello gli
era stato portato via, gli era stata portata via anche la speranza, e
aveva sentito un dolore al cuore, proprio lì.
Qualcosa a
cui niente poteva essere paragonato.
“My brother has always given me
the hope that I’ve ever
needed”
Più
tardi, era riuscito a farsene una ragione, era riuscito ad andare
avanti perché aveva conosciuto delle persone speciali che
gli avevano fatto riscoprire il senso dell’amicizia,
un valore in cui prima di allora non aveva mai creduto.
Avvicinò
il microfono e continuò a cantare quel pezzo di canzone.
“You’re
so brave and so strong, my old friend,
you’re
the one that I love”
Taichi era
la persona che più gli mancava. Avrebbe dato di tutto per
passare dei momenti con lui, ma erano mesi che non si vedevano. La sua
vita da calciatore lo teneva occupato, lontano per kilometri da Tokyo.
Sospirò
con tristezza. Gli mancava da morire Tai... lui era l’unica
persona della quale si fidava, era l’unico per il quale
nutriva del bene profondo... gli voleva così bene che mai
nessuno poteva mettersi a confronto...
Sentì
la voce roca incrinarsi. Adesso era da solo. Solo in mezzo a quella
marea di gente con la quale non aveva voglia di parlare.
Perché
lui era Yamato Ishida e aveva sempre avuto difficoltà ad
esprimersi.
Vedeva gli
altri raramente, ognuno era impegnato con la sua vita. Non aveva
nessun’altro con cui parlare, perché era solo con
lui che lo faceva.
Ogni tanto
sentiva Koushiro, ma era impegnato con
l’università ed era una persona troppo pacata con
cui confrontarsi.
“A ginger boy so calm and wise,
is he so different from who am I?”
Di
discutere con Jyou proprio non era il caso. Non era un ragazzo molto
affidabile, anche se non aveva di certo freni inibitori nel dire la sua
su qualsiasi argomento. E poi in quel periodo era troppo impegnato a
laurearsi che sentire altro.
Gli venne
da ridere pensando al burino che
aveva quasi terminato i suoi studi.
“Sincerely, I did not believe
that he would come up here”
Provava
anche a chiamare TK, ma lui non si mostrava mai troppo propenso ad
ascoltarlo. Era sempre impegnato ad amoreggiare con la sua fidanzata
storica, la sorella minore di Tai, Hikari.
Scosse la
testa con un sorriso che velava un alone di malinconia. Come aveva
fatto suo fratello a portare avanti una relazione senza aver avuto mai
dubbi o incertezze?
“I want you to teach me how
that girl
brights your days”
Non era
finita così male come tra Tai e Mimi, ma spesso credeva che
fosse stato meglio prendere una posizione definitiva piuttosto che
rimanere in bilico. Anche se l’amore faceva così
male e lo poteva leggere negli occhi di chi soffriva...
“The purity of her eyes
made me realize”
E
la cosa che più faceva male dell’amore era
l’indifferenza. Faceva male quando c’era qualcosa
che non andava da tempo, ma tutto ciò che ci si limitava a
fare era stare in silenzio, senza avere il coraggio di affrontarsi.
“Closed in my silence without saying that I love
you
and I still want to be with you”
Finì
di cantare e appuntò il titolo della canzone su un foglio.
Lui era
Yamato Ishida e riusciva a comunicare cantando.
Anche se
era molto difficile esprimersi quando non c’era molto da
dire. Era molto difficile cercare di mettere apposto le cose quando
tutto era in disordine.
Tra lui e
Sora c’erano ormai delle barriere insormontabili, muri
invalicabili che si erano innalzati negli anni e che nessuno dei due
aveva cercato di abbattere.
Chiusi nei
loro silenzi, avevano lasciato scorrere le loro vite senza realmente
intrecciarle tra di loro, lasciando che tutto accadesse senza
intervenire.
Si
sentivano poco e le volte che si vedevano era contate. Lei era
impegnata all’università, lui con le prove della
band e con il lavoro di barman che faceva per racimolare qualche soldo.
Dopo il
conservatorio, si era dedicato a far funzionare il suo gruppo, avevano
inciso due dischi ed erano andati in giro nei quartieri di Tokyo a
tenere concerti in locali e pub. Erano perfino usciti fuori
città, sperando di farsi conoscere da qualcuno.
La musica
lo aveva allontanato da Sora più di quanto credesse. Lo
aveva fatto chiudere ancora di più in sé stesso,
lo aveva imprigionato dentro gli abissi della sua
interiorità senza curarsi di ciò che succedeva
intorno.
La sua
introversione aveva lasciato che Sora andasse via da lui lentamente
come un’onda che si ritirava dalla spiaggia, e adesso era
molto difficile tornare indietro.
Da circa
due anni a quella parte, la loro relazione si era ridotta a piccoli
incontri fugaci in cui la maggior parte delle volte finivano per
discutere o per stare in silenzio, senza niente da raccontarsi.
La passione
che li univa, la spontaneità, la fiducia reciproca erano
gradualmente scemate, lasciando spazio ad una monotonia distruttiva
dalla quale non riuscivano più a liberarsi.
Matt smise
di suonare. L’inerzia che li caratterizzava aveva preso in
loro il sopravvento. Li stritolava e non gli permetteva di fare un
passo in avanti.
Più
volte aveva cercato di rimettere in sesto i pezzi della loro storia,
tentando di mettere da parte quel forte orgoglio che lo frenava; ma la
verità era che non aveva né la forza
né la determinazione di cucire quelle cicatrici.
Perché
lui era Yamato Ishida e stava bene così.
Quando le
prove terminarono, prese una bottiglia d’acqua e si
rinfrescò la gola. Mentre gli altri si premuravano di posare
gli strumenti, il batterista gli si avvicinò lentamente.
«Devo
parlarti, Matt» gli disse, con un’espressione
preoccupata.
Il biondo
lasciò la sua chitarra e lo guardò interrogativo.
Dopodiché gli fece cenno di seguirlo e si distaccarono dal
resto del gruppo.
«Ci
ho pensato molto in questo periodo e sono arrivato a una
conclusione»
Il tono con
cui Masaru aveva proferito quelle parole non portava niente di buono.
Incontrò
lo sguardo dispiaciuto di questi, che si spettinava i capelli scuri.
«Sono
mesi che siamo fermi. I soldi non bastano nemmeno per comprare un nuovo
pedale per la batteria e Sen ha due corde rotte al basso»
Indicò
il ragazzo che imprecava in direzione del suo strumento. Matt
sospirò, voltando la testa e incrociando le braccia.
«Io
sono indietro con l’università. Ho ventisette
anni, non combinerò più niente di buono di questo
passo!»
Il ragazzo
aveva allargato le braccia, e poteva comprendere la sua disperazione.
Da un po’ di tempo la band risentiva della mancanza di serate
e di soldi, per questo i componenti non erano molto entusiasti di
continuare a provare nonostante quella staticità.
L’unico che ancora perseverava era lui.
Che poi non
capiva nemmeno il motivo. Perché continuava ad inseguire
qualcosa che gli sfuggiva dalle mani?
Sen e
Yakamochi, l’altro chitarrista, si voltarono verso di loro
nello stesso momento. Il batterista continuò, afferrando
Matt dalle spalle.
«Io
so che questa band è la cosa più preziosa che
abbiamo, ma dobbiamo prendere una decisione»
Il biondo
spostò lo sguardo verso il pavimento, sentendo i suoni
ovattati, distanti. Notò vagamente gli altri due che si
avvicinavano.
«Dobbiamo
capire se tutto questo ci gioverà o ci farà
crollare ancora di più»
Ciò
che Masaru stava dicendo rifletteva il pensiero di tutti. Forse, in
cuor suo, era quello che anche lui pensava, ma non aveva mai avuto il
coraggio di ammetterlo.
Si
guardò intorno. Come aveva fatto a non accorgersi prima
delle condizioni in cui cercavano di tirare avanti? La buia e umida
saletta dove si riunivano per provare, gli strumenti che avevano
bisogno di essere cambiati, la sua fantasia che vacillava e che non gli
permetteva più di scrivere buoni testi...
Era stato
uno stupido, fino ad ora, perché si era illuso volutamente
senza mai guardarsi intorno.
«Matt,
è difficile da accettare, per tutti noi... Però
è ora di chiudere questo capitolo, almeno per un
po’, almeno fino a quando non ci sistemeremo tutti. Almeno
fino a quando le nostre vite non si stabilizzeranno»
Sen era da
sempre stato il più ragionevole del gruppo, e apprezzava
quelle parole sincere. Anche
se sentiva di sprofondare piano piano, perché era come se un
pezzo di sé lo stesse abbandonando per sempre.
Yakamochi
gli mise una mano sulla spalla in segno di conforto. Erano tutti
d’accordo, quindi. Erano tutti d’accordo
sull’idea di sciogliere la band ed andare avanti ognuno con
la sua vita.
Ma qual era
la sua direzione, adesso?
Che piega
avrebbe assunto la sua vita, adesso che avrebbe detto addio a quello
che, per anni, aveva rappresentato il suo mondo, la sua esistenza?
Forse era
vero. Era vero che era egoista, che non riusciva a capacitarsi di
ciò che accadeva intorno a lui, che badava solo a
sé stesso, senza curarsi se le persone che gli stavano
accanto stavano bene.
Un suo
pensiero andò a Sora, e gli si strinse il cuore. Aveva
sbagliato tutto, e lo stava facendo anche con lei.
Lei non gli
avrebbe mai detto di mollare, lo avrebbe abbracciato e lo avrebbe
spronato ad andare avanti.
Ma adesso
che cosa avrebbe dovuto fare?
Adesso che
lei era così lontana...
I ragazzi
ancora lo fissavano e lui non aveva detto una parola. Si
passò una mano tra i lunghi capelli biondi e si
schiarì la voce.
«Avete
ragione, è meglio così. Scusate se non me ne sono
reso conto prima»
Era la
miglior cosa da fare, arrivati a questo punto.
Recuperò
la sua chitarra e si allontanò. Sentì la voce
roca di Masaru che lo chiamava, ma non era il momento di tornare sui
suoi passi.
Chiuse gli
occhi e camminò lentamente, in direzione
dell’uscita. Faceva male arrivare a certe consapevolezze.
Faceva male rendersi conto come il sogno che aveva inseguito per
così tanti anni fosse effimero, e mai avrebbe potuto
raggiungerlo.
Si era
racchiuso nelle sue convinzioni per un tempo infinito, senza aver dato
uno sguardo alla realtà. E adesso che si ritrovava
catapultato bruscamente al presente faceva male.
Faceva male
rendersi conto di come tutto ciò che aveva fatto non era
servito a niente, e che adesso si ritrovava da solo.
Solo, senza
sapere cosa fare.
Solo, senza
una via d’uscita.
Solo.
I corridoi
di quella sala buia sembravano immensi e la luce in fondo al tunnel era
debole e lontana.
Afferrò
il cellulare e percorse la rubrica. Si fermò al suo nome, e
il cuore sembrava impazzito.
Aveva
bisogno di lei.
Sì,
aveva tanto bisogno di lei.
Faceva male
arrivare a certe consapevolezze.
Posò
il telefono in tasca, nuovamente, senza fare nulla. Uscì
finalmente da quel luogo e inspirò aria pura.
Lui era
Yamato Ishida e faceva sempre a modo suo.
Nonostante
fosse sbagliato, nonostante facesse male, nessuno lo avrebbe cambiato.
Posò
la matita sul foglio dove aveva disegnato un insoddisfacente kimono
dalla fantasia floreale e si stiracchiò le braccia. Era
stanchissima, e aveva passato l’ennesima giornata senza aver
concluso niente. Mimi sospirò, spostando gli occhi castani
verso il balcone. Fuori era una bella giornata e avrebbe volentieri
gradito una passeggiata al parco piuttosto che rimanere seduta a
spremersi il cervello per metter su qualcosa di decente da presentare
al corso di collezione.
Le
rimanevano pochi esami da dare e poi avrebbe potuto laurearsi anche lei.
Spostò
lo sguardo verso la pila di piatti sporchi che avrebbe dovuto lavare
quello scansafatiche di Jyou, con il quale lei e Sora condividevano un
appartamento nel quartiere di Tokyo più vicino
all’università.
Scosse la
testa, pensando che ultimamente quell’impiastro era
così impegnato a laurearsi tanto da essere diventato
più insopportabile di prima. La data era fissata due giorni
dopo e la ragazza continuava a stupirsi di come avesse fatto quel
burino a terminare i suoi studi in medicina. Non era una
facoltà da poco e, ad essere sinceri,
lei e Sora non avevano mai visto Joe studiare seriamente. Stava per la
maggior parte del tempo fuori, anche dopo aver finito i corsi, e quando
gli chiedevano a che punto fosse arrivato con gli esami, si arrabbiava
e rispondeva sgarbatamente.
Afferrò
un altro foglio e abbozzò qualcosa. Joe aveva ventisette
anni e non era cambiato di una virgola. L’annuncio della sua
laurea aveva lasciato tutti a bocca aperta. Aveva agito
all’insaputa di tutti e quando aveva comunicato loro la
notizia, Mimi aveva pensato che c’era speranza per tutti in
quel mondo ingiusto.
I piatti
giacevano ancora sul lavello, e la cosa migliore da fare sarebbe stata
alzarsi e lavarli, dato che Joe non era ancora tornato. Storse il naso
e decise di non farlo.
Era pur
sempre Mimi Tachikawa e neppure lei era così cambiata.
Non avrebbe
fatto qualcosa al posto di qualcun altro, specie senza ricevere niente
in cambio. Era sempre stata un poco opportunista, lo ammetteva, ma
doveva dare una bella lezione a quel burino vagabondo.
Ridacchiò, e continuò a disegnare.
Era
cresciuta molto rispetto a tanti anni fa. Adesso aveva ventiquattro
anni, frequentava l’università di Tokyo al corso
di Design della Moda, si era trasferita di casa insieme ai suoi amici e
puntava a trovare il lavoro perfetto. Si spostò dal volto
una ciocca dei suoi lunghi capelli castano chiaro. Da quando si era
iscritta all’università, la sua vita aveva subito
una piega diversa e aveva preso decisioni delle quali ancora portava le
cicatrici.
Si morse le
labbra rosee e tentò di scacciare dalla testa quei pensieri
tristi ed insistenti, ma da un po’ di tempo a quella parte
erano tornati a destabilizzarla, anzi forse non l’avevano mai
abbandonata del tutto.
Sospirò
profondamente e con tutte le sue forze tentò di non
lasciarsi andare, cercò di non perdersi dentro le immagini
del passato che puntualmente tornavano a travolgerla.
Lei era
Mimi Tachikawa e ci voleva ben altro per trascinarla giù.
La
compagnia di Sora le incuteva forza e le trasmetteva così
tanto amore fraterno
da non sentirsi mai da sola. L’aveva aiutata molto da due
anni a quella parte, nonostante anche lei avesse dei problemi, e
l’aveva aiutata a crescere e a fortificarsi.
Solo che
adesso lei non c’era, e quando i pensieri bussavano
insistenti non riusciva a resistere così a lungo.
Continuò
a disegnare per il suo esame, tentando con tutte le sue forze di non
cedere. Era difficile
trattenersi quando si era pronti a scoppiare. La solitudine
in quegli ultimi mesi non l’aiutava affatto. Odiava rimanere
a casa da sola, perché erano quelli i momenti in cui faceva
i conti con sé stessa.
Joe era
irrintracciabile, sperduto in chissà quale recondito luogo;
la sua amica da un po’ di tempo frequentava una scuola di
balli caraibici, altrimenti andava in biblioteca o si barricava in
camera a studiare.
Lei si
ritrovava seduta in cucina a perdersi tra le righe dei suoi libri o tra
le linee della sua matita.
Ogni tanto
telefonava a Koushiro, poteva considerarlo quasi come un migliore
amico. Era l’esatto opposto di lei, perciò quando
aveva bisogno di un parere saggio e
razionale lo chiamava. Purtroppo il rosso era impegnato anche lui a
portare a termine i suoi studi da ingegnere, quindi Mimi si ritrovava
più volte da sola con i suoi dubbi e le sue incertezze.
Cancellò
qualcosa, dopo decise di alzarsi e prepararsi un the verde. Era una
bevanda che l’aiutava a rilassarsi, a differenza della
camomilla che la faceva addormentare subito.
Forse aveva
bisogno di uscire; sì, forse era in quel modo. Era da
così tanto tempo che non organizzava qualcosa con Sora e gli
altri. Magari una pausa da tutto quello studio e da quei pensieri
stremanti l’avrebbe aiutata a star meglio.
Non sentiva
i ragazzi da tempo. Tutti erano impegnati con le loro cose; chi
studiava all’università, chi lavorava e chi era
lontano circa cinquecento kilometri da Tokyo... Calcò con la
matita, spezzando la punta.
Per
sciogliere quel groppo in gola che le si era appena formato, bevve un
sorso del suo the. L'aiutava a sviare i tristi pensieri.
Ma lei era
Mimi Tachikawa e pensava tanto.
Era la
numero uno dei pensieri tristi e dei desideri infranti.
Aveva
bisogno di staccare. Aveva bisogno di rivedere i suoi amici, parlare
con loro, divertirsi come i vecchi tempi. Perché insieme
stavano bene, avevano superato tante difficoltà e
c’erano sempre stati l’uno per l’altro.
L’amicizia
era per lei un bene prezioso e incomparabile.
Ripensò
all’amicizia tra lei e Sora, un' amicizia salda e profonda,
un rapporto stretto che avevano mantenuto con il tempo tanto da aver
deciso di andare a vivere insieme. Quel burino di Joe si era poi
aggiunto in seguito.
Ripensò
alla piccola Hikari, che si era iscritta a Scienze della Formazione
Primaria ed era già al terzo anno per poter diventare
maestra. La sua dolcezza e la sua comprensione la facevano brillare di luce propria.
Insieme a
Takeru avevano da sempre rappresentato il modello di coppia perfetta e
tuttora andavano alla grande. Il biondino non aveva perso tempo a
godersi la vita, frequentando locali e facendo il PR in varie
discoteche. Forse Yamato non era felice dello stile di vita adottato
dal fratello, ma per lui c’era ancora una speranza.
La storia
tra il maggiore e Sora continuava, ma non era delle migliori. Anche se
la ramata non amava parlarne, lei aveva capito che c’era
qualcosa che non andava tra di loro, e non riusciva a capacitarsi di
come non si fossero ancora affrontati per sistemare le cose.
Se solo
loro due l’avessero fatto bene, allora...
La sua mano
continuava a muoversi, ispirata.
Matt non
era il tipo di ragazzo che si apriva facilmente agli altri, era per
questo che Sora si era rintanata in un guscio ad aspettare che facesse
un passo verso di lei. Il fatto era che così avevano
sprecato del tempo prezioso a entrambi.
Sospirò,
malinconica.
Matt
riusciva a parlare con una sola persona. Era con quella persona che
riusciva ad aprirsi completamente e ad esporre i suoi dubbi e le sue
paure. Quella persona era Taichi, il suo migliore amico.
Non era
riuscita a sviare quei pensieri del tutto, perché la sua
mente era tornata lì, imperterrita, senza che lei riuscisse
a fermarla.
Le vennero
le lacrime agli occhi.
Quasi due
anni per cercare di dimenticare la persona più importante
delle sua vita, ma era come tentare di eliminare una parte di
sé, del proprio vissuto...
E lei era
Mimi Tachikawa e non era abituata a dimenticare ciò che era
stato.
Perché
tutto quello era stato la sua vita, il suo amore, la sua forza.
Lui era
stato così coraggioso ad
andare avanti per la sua strada senza mai voltarsi indietro, ma lei non
ci era riuscita.
La
cicatrice nel suo cuore bruciava ancora, pulsava e sembrava voler
esplodere da un momento all’altro.
Tai le
mancava da morire, aveva lasciato dentro di lei un vuoto inestimabile,
una mancanza insanabile che nessun’altro avrebbe mai potuto
sostituire.
La sua
mente, il suo cuore, tutto la riconduceva a Tai.
Tai, che
aveva preferito un’altra vita a quella insieme a lei.
Tai, che
non l’aveva fermata quando aveva deciso di rinunciare a lui.
Tai, che
era stato il suo unico e vero amore.
Si accorse
di star piangendo, una lacrima bagnò il foglio del suo album
da disegno e si apprestò ad asciugarla.
Pensi mai a
me, Tai?
Perché
io non riesco a non farlo.
Fu
distratta dal suono del suo cellulare che, prepotentemente, la
riportò alla realtà. Si asciugò il
naso con un fazzoletto e lesse lo schermo del telefono.
Scosse la
testa con un’espressione amara, poi portò
l’aggeggio all’orecchio.
«Pronto?»
tirò su col naso, tentando di assumere un tono adeguato.
Il ragazzo
dall’altro filo si schiarì la voce.
«Come
va, Mimi?» le chiese.
La castana
si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e
puntò lo sguardo per terra.
Era
Shinichi, un ragazzo che aveva conosciuto ad una festa a casa di alcuni
colleghi universitari. Era da circa due mesi che uscivano insieme, lui
le dava attenzioni, la chiamava spesso ed era presente. Troppo presente.
Mimi non
sapeva se era quello di cui aveva bisogno.
«Bene,
grazie» La sua testa cercava di spingerla tra le braccia di
quel tipo, ma il suo cuore era fermo.
«Ti
va se ci vediamo stasera?» Il tono di Shinichi si sforzava di
essere allegro, e apprezzava il tentativo, ma era inutile.
«Devo
studiare, mi dispiace»
Il ragazzo
non demorse.
«Facciamo
domani, allora»
Le
dispiaceva che si fosse preso una cotta per lei, in fondo era un bravo
ragazzo ed era pure carino. Il fatto era che non si sentiva pronta. Era
passato tanto tempo e ancora non si sentiva pronta a lasciarsi andare,
a viversi qualcosa con qualcuno che non fosse lui.
«D’accordo»
Però
doveva sforzarsi, si disse, doveva sforzarsi di andare avanti e
lasciarsi il passato alle spalle. Anche se era estremamente difficile,
doveva tentare di prendere in mano le redini della sua vita.
Quando
riattaccò, fu assalita da un brutto senso di vuoto e
solitudine. Non era brava a mentire, il suo animo era puro.
Il the si
era ormai freddato. Si portò le mani sul capo.
Tai non
l’aveva chiamata, né lo aveva chiamato lei. Si
erano solo visti di sfuggita le poche volte che avevano organizzato
un’uscita tutti insieme.
Cosa
pretendeva adesso?
Lui non
sarebbe mai tornato sulla sua decisione, e lei non poteva mostrarsi
così debole.
Aveva senso
aspettare qualcosa che non sarebbe mai successa?
Un senso di
sconforto la pervase, si sentì sola ed abbattuta. Si diede
della stupida, si diede la colpa per averci messo così tanto
a terminare gli studi, si incolpò per aver iniziato quella
frequentazione con Shinichi che non meritava di essere illuso.
Ma
soprattutto, si sentì responsabile di tutto quello che era
accaduto in quegli ultimi due anni. Era stata colpa sua se Tai aveva
deciso di non vederla più.
Il cuore le
batteva forte e per dei minuti che sembrarono
un’eternità rimase con la testa appoggiata sul
tavolo.
D’un
tratto qualcosa catturò la sua attenzione, qualcosa di cui
si era dimenticata. Erano i suoi disegni. Prese in mano i fogli dove
aveva abbozzato alcuni modelli di kimono e si rese conto di essersi
ispirata a loro, i suoi amici.
Rise di
cuore e volse gli occhi al balcone, dove il sole stava tramontando.
Anche se
faceva male, doveva rimettersi in piedi e lottare.
Avrebbe
dato quell’esame che per anni la bloccava. Scacciò
le lacrime, e si accinse a fornire descrizioni e misure.
Lei era
Mimi Tachikawa e il buio non l’avrebbe inghiottita.
Perché
la purezza del suo spirito vinceva il dolore.
*****
Si era
fatta crescere i capelli che adesso superavano le spalle. Quel ramato
acceso si era scurito con il passare del tempo, era diventato un colore
più tenue, ma brillante. Nonostante tutto era sempre lei,
Sora, non molto alta, un corpo discreto e un sorriso rassicurante. Si
guardò allo specchio dello spogliatoio, e tentò
di appuntarsi i capelli in una coda di cavallo. Si trovava
all’interno di una scuola di balli caraibici che da un
po’ di tempo frequentava. Ballare era diventata ormai una
valvola di sfogo che la distraeva dallo studio e dai pensieri. Era
perfino diventata abbastanza brava, lei che in venticinque anni di vita
non aveva mai imparato un passo, nemmeno quando aveva partecipato alla
recita del liceo.
Adesso si
muoveva sensualmente al ritmo di quella musica straniera senza
sbagliarne uno.
Era Sora
Takenouchi, lei, ed imparava sempre tutto.
Studiava
all’università, si stava specializzando in
Psicologia Clinica e della Salute e adesso aveva da scontare le ultime
quarantadue ore di tirocinio in una struttura apposita. Amava mettersi
a lavoro, prendere appunti sul metodo utilizzato, sedersi accanto a dei
professionisti e imparare da loro.
Inoltre, il
fine settimana impartiva delle lezioni di inglese -si occupava della
didattica ludica- ad un gruppo di bambini di una scuola privata, dove
era diventata assistente temporanea grazie al suo attestato di lingua.
Questo impiego part-time le permetteva, così, di guadagnare
qualche soldo in più per potersi mantenere.
Aveva una
mente aperta e brillante, era altruista, schietta e sincera. Non era
poi così cambiata dalla ragazza che era anni fa. Era
diventata più adulta, aveva acquisito maggiori
consapevolezze e fatto nuove esperienze, ma era pur sempre lei.
Perché
a Sora Takenouchi non piacevano i cambiamenti.
Anche se
aveva dovuto imparare ad adeguarsi, aveva dovuto imparare a frenare la
sua impulsività e a chiudersi forzatamente in sé
stessa.
Si
sistemò la maglietta aderente che le metteva in evidenza il
seno.
Da qualche
tempo le cose non andavano più bene come una volta. E
nonostante odiasse i cambiamenti, non riusciva a fare niente per
evitarli.
Sospirò,
un po’ rassegnata. Era strano tutto quello, era strano non
poter condividere tutto quello che le stava succedendo con la persona
più importante, era strano dover stare seduta ad aspettare
che le cose si sistemassero.
Ma niente
poteva aggiustarsi da solo, senza che qualcuno non gli desse una spinta. Era un
po’ come il primo principio d'inerzia.
Forse lo
studio la stava facendo delirare, se pensava a leggi fisiche in quel
momento. Ad interrompere i suoi pensieri arrivò lui, che
spalancò la porta con un sorriso gigante e la
guardò con una luce negli occhi.
Sora si
sentì avvampare e deglutì lentamente.
Per quanto
si sforzasse a controllare le sue emozioni, queste la vincevano sempre.
Victor era
un ragazzo di origini americane che si era iscritto nella sua stessa
facoltà. Si erano conosciuti il primo anno e da allora erano
diventati amici. Ogni tanto uscivano insieme, si passavano gli appunti,
si sentivano al cellulare. Ultimamente si vedevano quasi ogni giorno,
perché lui era il nipote del proprietario della scuola di
ballo e l’aveva convinta ad iscriversi.
Era davvero
bravo a ballare, e quando le faceva da partner, Sora si sentiva in
completo imbarazzo.
Come sempre
quando si trovava con lui.
«Take,
sei pronta?» le chiese, rivolgendosi a lei con il nomignolo
con cui la chiamava abitualmente. Era l’abbreviatura del suo
cognome.
«Sei
troppo lenta»
Ridevano e
si prendevano in giro sempre. Lei si avvicinò cercando di
colpirlo scherzosamente, ma lui l’aveva già
afferrata.
Sora
guardò i suoi occhi grigi, e si perse dentro.
Erano come
le onde di un mare in tempesta, una tempesta che infuriava dentro di
lei.
Victor la
scosse dalle braccia, senza mollarla.
«Non
potresti essere più bella di così»
alluse al fatto che ci stesse mettendo un sacco di tempo a prepararsi,
e in effetti Sora non capiva nemmeno il perché.
Lo
guardò con gli occhi spalancati, mentre lui continuava a
sorridere, impacciato.
«Però
adesso è ora di andare»
Avrebbe
passato tutto il tempo a guardarlo e a sentire i battiti del suo cuore
riecheggiare nelle sue orecchie.
Ma lei era
Sora Takenouchi e non si faceva trascinare da quelle onde.
Si
staccò da lui e gli diede una spinta.
«Stupido!»
lo apostrofò, sentendosi impacciata.
Victor
scoppiò a ridere e insieme lasciarono lo spogliatoio.
Entrarono
in sala da ballo dove c’erano altre persone che aspettavano
l’inizio della lezione. La ragazza si mise al suo posto e
alzò gli occhi su di lui che con un braccio le cingeva la
schiena, mentre con la mano libera aveva afferrato la sua.
«Ti
guido io» le sussurrò all’orecchio, e
Sora sentì dei brividi.
Era
così ogni volta che ballavano insieme. Quel ballo era
iniziato per gioco, ma era pian piano diventato sempre più
intimo.
«Potrei
abituarmici troppo» ridacchiò per smorzare
l’imbarazzo «Magari poi capito con qualcuno meno
bravo di te»
Il ragazzo
la strinse di più al suo petto, mentre lei abbassava lo
sguardo. La sua mente, il
suo cuore, tutto era rivolto verso di lui.
«Faremo
in modo di ballare sempre insieme, allora»
La musica
partì e Victor le diede una leggera spinta per guidarla.
Cominciarono a muoversi, seguendo dei passi già memorizzati,
e con loro tutto il resto della sala.
Sora si
lasciò accompagnare, muovendosi a tempo. Socchiuse gli
occhi, pensando a quando stava bene, lì, così.
Era da
tempo che non si sentiva così serena, così
libera, così sé stessa.
E tutto
questo lo doveva a lui.
Lo
guardò. Era così bello mentre ballava,
così concentrato, mentre la faceva volteggiare.
Si sentiva
come una farfalla pronta a spiccare il volo.
Che cosa le
stava succedendo?
Si
guardarono fisso e ripresero a muoversi.
Era da un
po’ di tempo a quella parte che sentiva qualcosa per Victor.
Era stato tutto un crescendo, un rapporto che si era alimentato con lo
scorrere degli anni, e piano piano, lui era diventato sempre
più presente, sempre più vivido.
Era di
questo che aveva bisogno.
Perché
lei era Sora Takenouchi e voleva sentirsi amata.
Pensò
ai suoi amici. Cosa avrebbero detto se l’avessero vista
proprio ora? Agghindata in quel modo che ballava quelle musiche.
Le
mancavano così tanto, tutti... Avrebbe fatto qualunque cosa
per poterli vedere anche solo un’ora, perché con
loro aveva condiviso tutto.
Avrebbe
condiviso perfino il ballo. Avrebbe assegnato ad ognuno di loro il tipo
di danza che più li rappresentava.
Per prima
cosa Taichi, il suo migliore amico, la sua forza... Avrebbe volentieri
ballato con lui una bachata,
degna del tipo di uomo che era diventato. Lo poteva quasi vedere mentre
si muoveva a tempo di musica, volteggiando con i fianchi e seguendo i
passi con le gambe. Era il tipo di ballo per lui, lui che era
così coraggioso e
riusciva a portare a termine ciò che desiderava... Le
mancava tantissimo, avrebbe tanto voluto vederlo...
La musica
terminò e ne partì un’altra. Si
creò un po’ di baccano e lei si sentì
stringere ancora di più da Victor.
Chiuse gli
occhi e continuò a pensare.
Mimi
l’avrebbe vista con addosso un lungo vestito con le balze, i
capelli appuntati in uno chignon ed un rossetto rosso sulle labbra a
ballare il flamenco.
La sua migliore amica con quell’animo così ingenuo
e puro, mentre si
muoveva in quella danza straniera, pestando i piedi e battendo le mani,
volteggiando di qua e di là, un po’ come faceva
nella vita.
E Koushiro,
quel rosso cervellone a cui era tanto legata, che per la sua saggezza gli
ricordava tanto un uomo di altri tempi, un uomo vissuto con tante cose
da insegnare agli altri. Lo avrebbe visto mentre ballava un twist morbido,
sciogliendosi dai pensieri e dagli affanni.
Le vennero
le lacrime agli occhi. Erano così cresciuti, ognuno di loro
era andato avanti con le loro vite, ma nessuno di loro aveva
dimenticato. Nessuno di loro si era dimenticato di ciò che
era stato, di ciò che avevano vissuto insieme, solo loro.
Anche se le
cose non erano andate come volevano. Pensò a Tai e Mimi che
si erano lasciati da tanto tempo, e ripensò a tutte le volte
che aveva visto la sua amica piangere di nascosto, alle poche volte che
aveva potuto incontrare il suo amico quando gli era concessa una pausa,
al suo volto triste, infelice.
Era Sora
Takenouchi e riusciva a vederle certe cose.
Anche se
quando si trattava di lei diventava d’un tratto cieca.
Ma per
fortuna c’erano loro due, i più piccoli, ma non
così tanto piccoli, che la facevano ancora credere
nell’amore.
La giovane
Hikari che aveva sempre un sorriso smagliante, uno sguardo benevolo,
una parola di conforto per tutti. Lei sarebbe stata così lucente fasciata
in un vestito dorato mentre si muoveva in un leggero valzer.
E il suo partner, Takeru, così diverso da lei, la sua
perfetta metà, avrebbe ballato un mambo,
per mettere in evidenza il suo essere forte e libero, per urlare in
faccia a tutti loro che c’era una speranza per
ognuno.
Victor le
sorrideva e lei ricambiò, mentre si muoveva sensualmente.
Il pensiero
della laurea di quel matto di Jyou le fece desiderare di incontrarli
tutti. Poteva essere un buon pretesto e Joe era pure il coinquilino suo
e di Mimi, pensò, anche se non faceva mai le faccende
domestiche. La sua sincerità disarmante
la investiva ogni volta sorprendendola sempre di più, per
questo gli avrebbe affidato un tip
tap, che rispecchiava al meglio la personalità
dell’amico, goffa ed esibizionista.
Si mise a
ridere da sola, facendo voltare alcune persone verso di sé.
Tentò di smettere mordendosi le labbra, ma il solo pensiero
di Joe che ballava in quel modo la faceva divertire troppo.
Quando
Victor le fece fare un casquè dove la distanza dei loro
volti si minimizzò di molto, Sora ebbe un tuffo al cuore.
Per tutto
quel tempo aveva pensato a quanto era stata bene con altre persone che
non fossero lui, dimenticando di quanto loro due fossero stati bene
insieme.
Erano
passati tanti anni, e loro erano lontani più che mai e non
solo fisicamente.
Le cose
avevano incominciato ad incrinarsi da quando lui aveva iniziato a
frequentare le lezioni al conservatorio. Non aveva più tempo
per stare con lei, si vedevano pochissimo e Sora ne soffriva
terribilmente. Gli scontri avevano lasciato pian piano spazio a dei
silenzi pesanti, dove non riuscivano più a parlarsi, a
raccontarsi... erano rimasti così, insieme forse per paura
di restare da soli, ma senza il coraggio di affrontarsi. Avrebbe tanto
avuto bisogno di qualcuno con cui parlare, avrebbe tanto avuto bisogno
di Tai che l’aiutava sempre quando era in
difficoltà, nonostante fosse anche il suo migliore amico.
Guardò
il ragazzo con cui stava ballando e i sensi di colpa la catturarono.
Lui non era
la persona giusta, perché quegli sguardi, quei sorrisi,
quegli abbracci appartenevano a Yamato, e solo a lui.
E allora
perché continuava a chiudersi circondata dalla sua inerzia?
Sentì
nuovamente le lacrime agli occhi e i suoni scomparvero d’un
tratto.
Immaginò
di essere presa da lui, con vigore, di essere stretta al suo petto come
non lo faceva da tanto. Lo avrebbe guardato negli occhi e lui avrebbe
fatto lo stesso, persi l’uno dentro l’altra, e poi
avrebbero danzato un sensuale tango,
senza smettere mai di toccarsi, complici di un ballo che rappresentava
la loro storia, passionale e burrascosa.
Matt,
perché hai lasciato che andassi via dalle tue braccia?
Perché
non hai fatto niente per potermi trattenere a te?
Perché
hai dovuto fare in modo che io guardassi qualcun altro che non fossi tu?
Si morse il
labbro, colpevole di quelle mani e quegli occhi che la toccavano, la
cercavano.
La lezione
terminò e si ritrovò stretta tra le braccia di
Victor. Il cuore le batteva forte, sia per l’affanno che per
tutto quello che provava.
Sentimenti
contrastanti, emozioni forti che credeva di non provare più.
Si era
sentita così spenta per tutti quegli anni, mentre adesso
splendeva di vita.
«Ti
chiamo domani» mormorò quello al suo orecchio, e
la pelle divenne più sensibile, lo stomaco si chiuse, e la
testa le girò.
Sentiva le
gambe molli.
Lo
guardò e annuì con un sorriso timido,
dopodiché, lentamente, si accinse a tornare negli spogliatoi.
Perché
hai dovuto lasciarmi sola in balia di tutto questo, Matt?
Non era
forse così forte il nostro amore come pensavamo?
Si sentiva
debole e distrutta. Si sciacquò il viso, si sciolse i
capelli e si guardò allo specchio.
Aveva tanto
bisogno di crederci ancora.
Aveva tanto
bisogno di sentirselo dire.
Lei era
Sora Takenouchi e aveva bisogno di essere amata con tutto il cuore.
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Capitolo 3 *** Siamo ***
L’autobus
ripartì, mentre un ragazzo alto con i capelli castani alzava
gli occhi al cielo. Si guardò intorno, godendosi quel
paesaggio che tanto gli era mancato.
Il sole era
alto e batteva sui palazzi, i passanti frettolosi si accingevano a
tornare a casa, le auto sfrecciavano a tutto gas non appena il semaforo
era diventato verde.
Ispirò
l’aria di casa, una leggera brezza che gli rinfrescava il
viso. Si strinse in spalla il borsone e con una mano afferrò
la valigia.
Camminò
lentamente, osservando ogni minima cosa che gli si presentava dinanzi. Gli
era mancato tutto.
Gli erano
mancati i rumori, gli odori, il caos di Tokyo. Erano mesi che non si
beava di tutto quello, erano mesi che era costretto a fare quei duri
allenamenti che lo avevano stremato, erano mesi che l’unica
cosa che gli era concessa vedere era la sua camera del residence.
Era come se
stesse riprendendo vita, era come se il sangue fosse tornato a
scorrergli nelle vene dopo tanto tempo, era come se si fosse svegliato
da un lungo sonno.
Gli
scappò un sorriso, mentre guardava con attenzione le vie e i
negozi. Passò vicino ad un parco, osservò gli
alberi e le panchine.
Come aveva
fatto per così tanto tempo ad aver rinunciato a tutto quello?
Girò
da una via e imboccò un’altra strada. Si era fatto
lasciare in quel quartiere perché aveva intenzione di andare
a trovare una persona.
Si
fermò di fronte ad un appartamento non molto grande,
notò che il portone era aperto ed entrò.
Salì un paio di scale fino ad arrivare dinanzi a una porta.
Era
lì che abitava da circa tre anni. Dall’odore che
proveniva da dentro sicuramente stava cucinando qualcosa di buono, e
ora che ci pensava era quasi l’una del pomeriggio ed aveva
una fame da lupi. Suonò e attese.
Quando la
porta si aprì, Taichi sorrise alla visione di un Yamato con
i capelli scompigliati e una vecchia tuta addosso.
Lui che era
sempre così perfettino.
Questi lo
guardò boccheggiando, spalancando gli occhi.
Era
lì. Il suo migliore amico era lì.
Si chiese
se non stesse ancora sognando, ma il ragazzo aveva incominciato a
ridere con la sua solita risata fragorosa, e lui pensò che
era tutto vero.
Non avrebbe
mai potuto dimenticare quella risata.
La sua
risata.
«E’
così che accogli il tuo vecchio?!» gli chiese con
sarcasmo, mentre l’altro era ancora fermo sulla soglia e lo
fissava interdetto.
Si
risvegliò da quello stato di trance e sentì la
gioia pervaderlo, perché non era uno scherzo, lui era
lì, era tornato.
Taichi era
tornato.
Scoppiò
a ridere e l’altro fece lo stesso. Era straordinario come una
merdosa giornata di fine maggio potesse diventare in un attimo
splendida.
Matt si
sporse e lo abbracciò. Gli era mancato tantissimo. Il
castano ricambiò la stretta e pensò la stessa
cosa.
«Tai»
sussurrò con affetto sincero. Questi continuò a
ridere, tirandogli pacche sulla schiena.
«Cazzo,
sei qui» Il biondo si stancò
dall’abbraccio e lo esaminò, ancora con
un’espressione interrogativa in volto.
Tai si
passò una mano tra i capelli, poi prese la sua valigia.
«Allora,
mi fai entrare o ci sediamo sulle scale?»
Matt
annuì e si spostò per farlo passare. Quando varcò
la soglia, fu investito da un forte odore di cibo e il suo stomaco
reagì subito, brontolando.
Si
guardò intorno, esaminando bene l’appartamento.
Era un piccolo monolocale con cucina e soggiorno insieme.
Ciò che gli saltò all’occhio fu senza
dubbio il ventilatore da soffitto e la carta da parati a righe sfumate,
senape e marroni. Appena si entrava, sulla sinistra, c’era un
grosso frigo vecchio stile di color ottanio. La cucina, invece, era di
un blu smorto e proseguiva ad angolo retto fino all’altro
muro. Il tavolo in legno sembrava più una penisola, e aveva
solo due sedie a disposizione. In fondo, sulla destra,
c’erano un divano grigio a due posti e un televisore poco
moderno appoggiato su un mobiletto. La casa non era molto arredata se
non per una piccola libreria dove c’erano libri e altre
cianfrusaglie. La luce era poca, entrava dall’unica finestra
che c’era in fondo e dava l’idea di un antro
segreto. Matt si sforzava di tenere in ordine, ma c’erano
spartiti sparsi qua e là, cianfrusaglie sopra il mobile
all’entrata, la sua chitarra appoggiata sul divano e le tazze
della colazione ancora dentro il lavello. Però gli piaceva.
Nonostante fosse piccola e poco luminosa, era accogliente.
Era da Matt.
«Cosa
stai cucinando?» gli chiese, avvicinandosi ai fornelli e
alzando il coperchio della pentola.
«Uno
spezzatino con le patate»
Tai si
voltò a guardarlo, sorridente.
«Non
sei affatto cambiato» alluse alle sue capacità
culinarie che lo avevano da sempre contraddistinto.
Il biondo
scosse la testa, e continuò a guardarlo.
Erano da
più di sette mesi che non si vedevano e il corpo di Tai era
ancora più tonico, aveva una leggera barbetta e si era
perfino tagliato i capelli.
Ma era
sempre il solito Taichi. Magari un po’ più serio,
un po’ più maturo, ma era sempre lui. Ed era per
questo che Matt gli voleva bene.
«Neanche
tu» gli sorrise, mentre lo osservava sedersi sul divano con
le braccia incrociate dietro il capo.
Il biondo
si avvicinò ai fornelli e diede una controllata al cibo. Poi
lo scrutò, indagatore.
«Come
mai sei qui?» gli chiese finalmente, notando il cambio di
espressione dell’amico. Tai, infatti, aveva fatto una smorfia.
«Mi
sono preso una pausa, non ce la facevo più»
spiegò, passandosi una mano sul volto.
Aveva
trascorso mesi e mesi di inferno, obbligato ad allenarsi fino allo
stremo delle forze, segregato dentro una camera senza poter vedere
nessuno.
«Ho
anche litigato con il mio allenatore» continuò,
ricordando i dissapori avuti con Akira. Era un uomo meschino e
arrogante, non aveva nessun rispetto per i suoi calciatori, e badava
solo a guadagnare denaro.
Tai strinse
un pugno. Non sarebbe stato
la macchinetta di nessuno da quel giorno in poi.
Matt
notò l’espressione tesa del suo volto.
«Quanto
rimani?»
Il castano
spostò lo sguardo verso la finestra. Avrebbe voluto rimanere
per sempre a Tokyo senza dover dare conto a nessuno, ma non si poteva
avere tutto dalla vita.
Per seguire
il suo sogno doveva rinunciare alla sua serenità.
«Solo
una settimana» proferì infine con un sospiro.
Matt
aprì la bocca, deluso. Credeva che con l’avvento
dell’estate e la fine delle partite poteva restare molto di
più.
«Cazzo...»
imprecò a bassa voce, mentre Tai ridacchiava amaramente.
Erano
così rari quei momenti che non si aveva nemmeno il tempo di
viverli. Ma era risoluto questa volta, si sarebbe goduto tutto di quel
luogo, della sua famiglia e dei suoi amici.
Non avrebbe
avuto rimpianti, quelli sì che straziavano il cuore.
Si
alzò dal divano e lo raggiunse. Gli si parò di
fronte e notò che erano alti uguali. Matt aveva allungato di
nuovo i capelli e aveva un po’ di barba che gli incorniciava
il viso. Aveva sempre avuto quell’aspetto angelico e un
po’ sofferente, quello di un ragazzo bello e dannato.
Gli
posò una mano sulla spalla, e lui alzò gli occhi
cerulei.
«Ehi,
amico, ti prometto che recupereremo tutto»
Sapeva che
manteneva le promesse, eppure il biondo pensò che non
sarebbe mai bastato tutto il tempo del mondo per attenuare la mancanza
che aveva dentro.
Ma era
sempre stato un tipo silenzioso e non aveva mai preteso niente da
nessuno. Tai aveva la sua
vita.
Lui era
solo un idiota che non aveva ancora fatto i conti con sé
stesso.
Il rumore
della pentola lo distrasse e si premurò di abbassare il
fuoco. L’altro si accorse che c’era qualcosa che
non andava.
«Che
succede qui intorno?»
Nel
frattempo, lo aiutava ad apparecchiare la tavola. Matt alzò
le spalle e prese due piatti dalla credenza.
«Uno
schifo» mormorò, mentre spegneva i fornelli
«Lavoro quattro giorni a settimana e mi pagano di
merda»
Non era
solo questo, però. Lo sentiva.
«E
con la band come va?»
Tai era
sempre stato bravo a sganciare bombe, ma questa era peggio di una ad
idrogeno. Il biondo sentì il cuore battere più
forte e un immane senso di tristezza lo pervase.
«Abbiamo
rotto definitivamente» disse atono, mentre l’altro
spalancava gli occhi e lo guardava interrogativo.
«No,
e quando?!» Tai era stupito, ma Matt guardava in faccia la
realtà.
Non serviva
a niente perdere tempo con qualcosa che non aveva futuro.
«Giusto
ieri» rivelò, godendosi la faccia stupefatta
dell’altro.
Il castano
non poteva udire alle sue orecchie. La musica era tutto per Yamato, era
il suo mondo, la sua valvola di sfogo, e quella band andava avanti da
un paio d’anni. Perché
era finito tutto?
«Che
cazzo... Ma perché?» diede voce ai suoi pensieri.
Matt
strinse la pezza tra le dita e cominciò a versare il cibo
sui piatti.
«C’erano
più spese che guadagni» disse con voce roca, dopo
qualche secondo
Mentre
parlava faceva rumore con i piatti e le pentole. Tai notò
che era segno di nervosismo.
«E
poi, parliamoci chiaro» si voltò di scatto e lo
guardò serio
«Le
band non piacciono a nessuno, sono passate di moda, ormai. Si erano
rotti le palle tutti, ero io l’unico idiota che ancora ci
credeva...»
La sua voce
si spezzò, e lo vide mordersi il labbro. Tornò a
trafficare in cucina, e a Tai fece tanta tenerezza. Si sforzava di
essere il più razionale e indifferente possibile, come
faceva sempre d’altronde, ma lo conosceva fin troppo bene per
crederci.
Soffriva
per quella decisione, perché tutto quello aveva
rappresentato per anni il suo unico obbiettivo di vita. Era andato a
vivere in un altro quartiere di Tokyo per frequentare il conservatorio,
lavorava in un bar da quattro soldi per mantenersi l’affitto
e le spese, non sapeva dove sbattere la testa perché era
solo e non c’era nessuno ad aiutarlo.
Non poteva
mollare dopo tutti quei sacrifici.
«Non
sei un idiota se tutto ciò che hai fatto è stato
seguire il tuo sogno»
Disse
quelle parole un po’ per confortare anche sé
stesso. Aveva dovuto dire addio a diverse cose pur di giocare a calcio.
Ne era
valsa veramente la pena?
Matt
posò i due piatti a tavola e non lo guardò. Forse
il suo amico ancora ci credeva, ma lui sapeva qual era la
verità.
«A
patto che non sia effimero»
Era duro
quando parlava, lo era sempre stato, ma questa voltò
turbò Tai più del dovuto.
Un sogno
effimero... E se io stessi
inseguendo qualcosa che non mi appartiene, che non mi
apparterrà mai...
E se io
scoprissi che tutto ciò che ho fatto non è
servito a niente, che ho speso cinque anni della mia vita dietro al
nulla...
E se quello
che pensavo fosse il mio sogno, il mio unico obbiettivo di vita, si
rivelasse... effimero?
Taichi si
morse le labbra, lo sguardo perso nel vuoto. Forse
il suo amico aveva ragione. Forse... forse il gioco non valeva la
candela, e se ne stava pian piano rendendo conto anche lui... Era per
questo che aveva deciso di tornare a casa, era per questo che non
sopportava più i modi del suo allenatore e quelli dei suoi
compagni...
Era per
questo che aveva incominciato ad odiare quella vita.
Alzò
gli occhi castani sull’altro, che aveva incominciato a
mangiare. Il suo stomaco gorgogliava e decise di imitarlo, spegnendo
quel flusso di pensieri che mano a mano lo stavano inglobando.
Decise di
cambiare discorso e si schiarì la voce.
«E
con Sora come va?»
Voleva solo
essere una semplice domanda, ma aveva quasi rischiato di strozzarlo.
Matt bevve un bicchiere d’acqua e spostò lo
sguardo da un’altra parte.
Come andava
con Sora?
Beh, era
tutto così strano... Era così strano svegliarsi
la mattina e ritrovarsi solo sul suo letto quando avrebbe desiderato
trovare lei al suo fianco...
Come andava
con Sora?
Era tutto
così strano non sentirla per telefono da così
tanto tempo, era strano non vederla ogni giorno, era strano non
stringerla a sé...
Come andava
con Sora?
«Ah,
sì, con lei... Potrebbe andare meglio»
mormorò, tentando di mantenersi il più neutro
possibile. Ma Tai era il suo migliore amico, forse se lo era
dimenticato, e capiva quando c’era qualcosa che non andava.
Quando
c’era tutto che non andava.
«E’
successo qualcosa?» glielo aveva chiesto con un sospiro,
perché lui e Sora erano i suoi punti di riferimento, e mai
nella vita avrebbe voluto che accadesse qualcosa tra di loro.
Però
adesso Matt aveva gli occhi bassi, e sentiva che soffriva,
perché qualsiasi cosa fosse accaduta, lui a Sora teneva
molto.
«No,
non è successo niente. E’ proprio questo il
fatto» ammise ridacchiando, mentre torturava il cucchiaio.
Avrebbe
voluto succedesse qualcosa perché non riusciva
più a sopportare quella situazione.
Era
diventato così pesante gestire il peso di quel lungo
silenzio.
Tai lo
guardò serio.
«Matt...»
fece per parlare, per dirgli che non doveva comportarsi
così, che doveva andare da lei a chiarire se c’era
qualcosa che non andava, perché lui e Sora si appartenevano,
e Tai non voleva che soffrissero.
Il biondo
però l’interruppe infastidito, come sempre quando
si trattava di un fatto suo personale.
«Non
mi va di parlarne, Tai, davvero» Pensò di averlo
zittito, ma non era tipico del castano starsene zitto in quelle
situazioni.
«Non
essere stupido! Smettila di piangerti addosso come un
bambino!»
Aveva
alzato un po’ la voce, però era questo
l’unico metodo che funzionava con Yamato. Lo fissò
duramente, aspettando che dicesse qualcosa.
Quando uno
dei due non capiva, l’altro gli apriva gli occhi, era sempre
così.
E
nonostante Taichi stesse rischiando di alimentare un litigio, lo aveva
fatto comunque, perché colpendolo in uno dei suoi punti
più sensibili lo avrebbe fatto ragionare.
Matt
continuò a stringere la posata tra le dita, e il cibo si era
ormai freddato.
Forse Tai
aveva ragione.
Aveva
ragione a dirgli che era un fottuto bambino del cazzo. Aveva compiuto
ventisei anni e non era capace di mettere apposto le cose con la sua
donna.
L’unica
cosa che aveva saputo fare per tutti quegli anni era piangersi addosso
e sperare che tutto si sistemasse da solo.
Era per
questo che aveva sempre raccattato fallimenti.
Lo
guardò.
Era
contento che fosse tornato.
Annuì,
convinto.
«Le
parlerò» disse, senza aggiungere altro, e Tai
sospirò di sollievo.
Yamato
capiva sempre.
Gli
regalò un sorriso e finirono di mangiare.
Era sempre
così, tra loro due. Erano un continuo volersi bene e poi
odiarsi e poi volersi bene ancora.
Erano
Taichi e Yamato ed erano unici nel loro genere.
Dopo che
finirono di mangiare, Matt si mise a preparare un caffè.
Nel
frattempo, l’altro chiedeva ancora informazioni sulla vita a
Tokyo.
«Domani
si laurea il burino» venne spiazzato da quella notizia
inaspettata, tanto che quasi cadde dalla sedia.
«JOE?!
Domani si laurea Joe?!» urlò stupito, mentre
cominciava ad essere scosso da un attacco di risate.
«Lo
so che fa strano, ma è così»
Tai aveva
incominciato a ridere come un pazzo.
«Cazzo,
se si laurea il burino allora la fine del mondo è
vicina!»
Continuarono
a ridere come idioti.
«E
ci ha invitati quel coglione?»
Il biondo
spense il caffè che era appena salito.
«Siamo
invitati tutti, ci saranno pure gli altri»
Il castano
sentì i battiti fermarsi non appena apprese che avrebbe
potuto rincontrare i suoi amici.
«Dio,
non li vedo da una vita...» mormorò, mentre il
biondo gli passava il caffè.
Non la
vedeva da una vita.
Come
sarebbe stato rivederla dopo così tanto tempo?
Sentire di
nuovo la sua voce, vederla ridere, rendersi conto di cos’era
lei per lui.
E non
sapeva se incontrarla gli avrebbe fatto bene o ancora più
male, ma era come se i suoi sensi reclamassero di andare lì
da lei e vederla, anche solo vederla...
Matt
l’osservò perso nei suoi pensieri.
«Hai
conosciuto qualcuno lì?» glielo chiese
discretamente, perché si differenziavano perfino nei modi di
parlare.
Tai non si
preoccupava di essere esplicito, Matt invece stava attento.
Tai agiva
sempre d’istinto, Matt invece era razionale.
Il castano
negò con la testa, stringendo le labbra. Aveva avuto diverse
possibilità di sotterrare una volta per tutte quello che era
stato, ma non era ancora pronto.
Dopo Mimi,
era come se gli si fosse inaridito il cuore...
Sospirò,
pensando che se era andata così, un motivo c’era. Il
fatto era che dopo quasi due anni non riusciva a trovarlo,
perché se pensavano che la distanza li avrebbe allontanati,
allora non avevano capito niente, o forse era stato lui a non averlo
fatto...
Aveva fatto
sì che fossero più lontani con il corpo, ma non
con il cuore.
«Che
ne dici se chiamo tutti e andiamo a berci qualcosa più
tardi?» propose spontaneamente.
«Si
potrebbe fare»
Finirono di
bere il caffè.
«Allora
più tardi telefono a Sora»
Il cuore
del biondo perse un battito e annuì. Se
non la chiamava lui, era bene che lo facesse l’altro.
Tai voleva molto bene a Sora, e glielo dimostrava.
Lui invece
non era capace di fare un cazzo.
Sospirò,
poi raccolse le tazzine. Aveva
bisogno del suo aiuto per riuscire a combattere sé stesso.
«Vuoi
farti una doccia?» deviò il discorso, come sempre.
Tai
annuì e tirò fuori il cellulare.
«Sì,
grazie, amico. Però prima avverto mia madre che sono a
Tokyo, non ho visto nessuno ancora»
Yamato si
voltò interrogativo a guardarlo.
«Sono
venuto direttamente da te» rivelò e poi gli
sorrise eloquente.
Non seppe
perché, ma ebbe voglia di abbracciarlo.
Taichi era
andato subito da lui, non aveva perso tempo, lo aveva perfino anteposto
alla sua famiglia.
A volte si
sentiva così inadeguato, credeva di non essere adatto a
certi tipi di rapporti, perché era così
introverso da non riuscire a trasmettere ciò che sentiva
realmente.
Ma con lui
era diverso, con lui tutto migliorava.
Riusciva a
colorargli le giornate.
Gli era
mancato da morire, il suo migliore amico.
«Tai»
lo chiamò, mentre l’altro si stava dirigendo verso
il bagno.
«Mh?»
Lo
guardò con affetto.
«Bentornato
a casa»
*****
Il ragazzo
che il giorno dopo avrebbe dovuto laurearsi entrò in camera
di Sora come una furia, senza preoccuparsi di bussare.
La ragazza
lo guardò stralunata e si coprì immediatamente,
mentre Jyou la fissava in cagnesco e con in mano una padella sporca di
cibo.
«Ti
sembra questo il modo di entrare?!» lo redarguì,
finendo di mettersi la maglietta, voltata di spalle.
Joe faceva
sempre in quel modo. Non aveva la concezione di stanze separate, per
lui la casa era un tutt’uno e gli spazi erano in comune.
Quando si
faceva la doccia non chiudeva mai a chiave e quando lei e Mimi erano a
loro volta in bagno entrava senza tanti problemi.
Per fortuna
che ormai ci avevano fatto l’abitudine e che lui era un
farlocco totale.
Lo vide
assumere un’espressione ancora più arrabbiata.
«E
a voi sembra questo il modo di comportarvi nei confronti di uno
studente laureato?!»
Sora
alzò gli occhi al cielo, sbuffando. Ogni volta era la stessa
storia; si lamentava con loro perché sosteneva che non gli
portavano il giusto rispetto e tesseva le proprie lodi petulantemente.
«Non
sei ancora laureato, non dimenticarlo» lo riportò
alla realtà, finendo di preparare la sua borsa.
Erano quasi
le quattro del pomeriggio e doveva andare a lezione di ballo. Joe le
avrebbe fatto perdere ancora più tempo, doveva scansarlo.
«Che
c’entra, è come se lo fossi. A chi importa
realmente delle date?» la seguì per tutta la
stanza con aria inquisitoria
«Se
Gesù fosse resuscitato il secondo giorno e non il terzo
avrebbe fatto differenza?»
Sora si
portò le mani al capo.
«Non
me lo dire!»
«La
risposta è no, sarebbe comunque risorto»
Non capiva
le fisse religiose di Joe verso il cristianesimo. Non era mai andato in
una chiesa cattolica ed era uno di quelle persone pettegole che poi
magari chiedevano una grazia.
«E
questo cosa significa?»
«Che
tu e quella meretrice di Mimi vi siete coalizzate contro di
me!» spiegò, mostrando la padella che aveva in mano
La ramata
incrociò le braccia.
«Per
forza, Joe, non lavi mai i piatti e non fai le pulizie da mesi, ormai.
Ci sono dei turni da rispettare!»
Questi si
portò una mano al petto con fare teatrale. Mosse i capelli
neri tendenti al blu con voracità e le puntò il
dito contro.
«Sono
un uomo impegnato, io!
Che credete che perda tempo come voi due ragazzine?! Domani
sarà il giorno più importante della mia e della
vostra vita!»
«Della nostra?»
chiese lei, senza capire.
«Avrete
un dottore in casa, per la miseria! Parlerete, interagirete con lui!
Potrete toccarlo, anche!»
Sora
alzò gli occhi al cielo, sconsolata, mentre quello
continuava a sproloquiare a vanvera. Con Joe era così: lui
parlava e loro lo lasciavano perdere.
Erano anni
che si conoscevano e non era affatto cambiato. Aveva compiuto
ventisette anni, ma era rimasto il solito ragazzo strambo e con
l’arrabbiatura facile. In compenso, aveva terminato i suoi
studi in medicina ed era stato uno studente eccellente. Sora continuava
a chiedersi come avesse fatto a laurearsi con quella testa che si
ritrovava, ma, nonostante tutto, non sapeva come avrebbero fatto lei e
Mimi da sole in casa senza di lui.
Le faceva
sempre ridere, ne aveva in serbo una per tutti e combinava disastri a
catena.
Era sempre
lui, l’inimitabile Joe Kido.
Il burino
sincero a cui volevano bene comunque.
Sora chiuse
la zip della borsa e fece per uscire dalla camera.
«Senti,
sono in ritardo, ne parliamo dopo» tentò di
liquidarlo, ma il maggiore la guardò con uno sguardo
malizioso.
Poteva
vedere uno strano luccichio dietro i suoi occhiali da vista rossi, e
non era niente di buono.
«Dì
un po’, non è che questa cagata dei balli
caraibici ti ha dato alla testa? Forse è solo una scusa per
incontrare qualche baldo giovine?»
A volte si
stupiva di come riuscisse ad essere peggio di una comare pettegola. La
ragazza si sentì avvampare e fu scossa da un colpo di tosse.
«Non
dire stupidaggini» lo contestò, anche se non
sembrava molto convinta.
Il ragazzo
infatti continuò ad indagare, le braccia conserte e la
padella penzolante.
«Secondo
me, ti piace qualche fusto ballerino, dì la
verità, piccola Sora. Non c’è niente di
cui vergognarsi»
E si
avvicinò pericolosamente con l’intento di fare
chissà cosa, mentre lei cercava di fuggire alle sue grinfie.
Il
cellulare della ramata vibrò improvvisamente e Joe
rizzò sull’attenti.
«Ecco,
adesso ho le prove!» si avventò sul telefono prima
di lei e avvicinò la faccia curioso
«Dio
mio, Joe, passami quel cellulare e falla finita! Non dovevi ripetere la
tesi per domani?»
Il ragazzo
la guardò con astio, forse perché il destinatario
non confermava la sua versione.
«Cosa
vuoi che me ne fotta di cinque minuti di merda, e poi sono un genio,
Cristo santo!»
Le
passò il cellulare sgarbatamente.
«E
comunque tieni, è quel cretino di Taichi»
Sora
guardò lo schermo del telefono, stupita. Quel burino non
scherzava, era realmente Tai. Non lo sentiva da un sacco di tempo!
Si
apprestò a rispondere.
«Tai!»
esclamò allegra, pensando che anche se era un po’
in ritardo, il ballo poteva aspettare quando si trattava del suo
migliore amico.
«Ehi,
Sora! Indovina un po’» rispose lui con lo stesso
entusiasmo.
La ragazza
non capì.
«Che
cosa?»
«Dove
mi trovo?»
Sora
pensò che se la memoria non la ingannava, Taichi si trovava
a cinquecento kilometri lontani da lei.
«A...
Kyoto?» chiese incerta, perché se le poneva una
domanda del genere c’era qualcosa sotto.
Lo
sentì ridacchiare. Era da così tanto tempo che
non sentiva la risata di Tai.
«E
se ti dicessi che sono più vicino di quanto pensi?»
Il cuore
della ragazza batté più forte. Cosa voleva dire?
Dove si trovava adesso?
E se forse
era...
«Tai,
cosa-»
Non
riuscì a terminare la frase, che il ragazzo
l’interruppe.
«Sono
a casa di Matt»
Sentì
un groppo alla gola quando udì il suo nome.
Tai era a
Tokyo, non riusciva a crederci, ma era così.
Era
lì con lui, e doveva aspettarselo, perché erano
amici per la pelle, contavano l’uno sopra l’altro,
erano come due facce della stesse medaglia.
Si morse un
labbro.
Tempo fa
avrebbe gioito sapendo che Tai era insieme a lui, ma adesso...
Aveva un
gran voglia di fuggire via.
Nonostante
ciò, voleva bene veramente a Taichi, ed era felice che lui
fosse tornato.
«No,
non ci posso credere! Sei qui!» urlò di gioia.
Erano due
persone diverse, in fondo, l’uno non doveva necessariamente
includere l’altro.
«Esatto»
le rispose il ragazzo.
Tai era
molto importante per Sora, lo era sempre stato. Era una di quelle
persone che non chiedeva niente in cambio, che c’era per lei
in qualunque circostanza e la proteggeva dalle grinfie del mondo intero.
Fin da
quando facevano le scuole elementari, lui non l’aveva mai
abbandonata, le era stato sempre accanto, e l’esperienza a
Digiworld li aveva avvicinati ancora di più.
Un tempo
credeva di provare qualcosa per lui, ma era ancora troppo piccola e
ingenua per capire. Adesso era consapevole del fatto che Taichi per lei
rappresentava il suo punto di forza, il suo supporto morale, il suo
migliore amico.
Interruppe
quel flusso di pensieri uno stupito Joe, che aveva sentito del fatto
che lui fosse lì, e le si era parato dinanzi.
«Taichi
è qui?!» cercò di scipparle il telefono
dalle mani
«Fammi
sentire, battona!»
Fece una
smorfia e spinse il ragazzo lontano, poi portò nuovamente il
cellulare all’orecchio e mise il vivavoce.
«Sono
arrivato oggi» spiegò quello, che intanto aveva
lanciato un’occhiata eloquente a Yamato
«Senti,
che ne dici se ci vediamo insieme agli altri?»
Si
fermò a riflettere. Vedere gli altri significava incontrare lui dopo
tanto tempo, e non sapeva se era ancora pronta.
Il solo
pensiero la metteva in agitazione.
«Certo,
sarebbe fantastico!» esclamò, però,
nascondendo la preoccupazione.
Tai voleva
vedere lei e gli altri, era da un sacco di tempo che non stavano
insieme. Era arrivato il
momento di fare un passo in avanti.
«Facciamo
alle sei?» propose, infatti, sorridendo.
«Alle
sei da Vancouver» confermò lui. Poi
lanciò un altro sguardo a Matt che si mordeva un dito.
«Ti
passiamo a prendere?»
Questi
alzò la testa nell’udire quella domanda, e gli
fece cenno di piantarla. Il castano, però, gli
tirò una gomitata.
Sora si
attorcigliò una ciocca di capelli, e pensò. La
lezione di caraibico finiva alle cinque e mezza, aveva tutto il tempo
di farsi una doccia e prepararsi.
Il fatto
era che non aveva voglia che venissero a prenderla proprio
lì, in quel luogo dove c’era qualcun altro ad
aspettarla.
«No,
grazie, vengo da sola appena finisco la lezione di ballo»
Tai fece
una faccia interrogativa.
«Ballo?
Certo che ne hai di cose da raccontarmi»
Ed era
veramente così. Sora era sempre uguale, ma nello stesso
tempo c’erano cose di lei che erano cambiate. Tipo il fatto
che ballasse; lei era sempre stata un po’ maschiaccio, sia
negli atteggiamenti sia nelle cose che le piacevano.
Con il
passare del tempo era diventata più femminile, aveva smesso
di giocare a calcio, aveva mollato anche il tennis e curava di
più il suo aspetto.
Adesso
aveva venticinque anni ed era una donna splendida.
Lei sorrise
con affetto.
«Mi
era mancata la tua voce» gli rivelò, mentre Joe,
accanto a lei, faceva una smorfia di disgusto.
Ed era vero
che gli era mancato, Taichi, perché lui era una di quelle
persone che entrava dentro e non usciva più.
«E
a me sei mancata tu»
Era anche
una di quelle persone che stupivano e lo facevano davvero bene.
La ragazza
sentì le lacrime agli occhi. Era così sensibile,
a volte, che bastava poco per renderla felice e ancor meno per farla
diventare triste.
Avrebbe
aggiunto qualche altra cosa, se solo il ragazzo che si trovava alla sua
destra non le avesse scippato con forza il telefono dalle mani.
«Basta
con queste smancerie» portò l’aggeggio
all’orecchio e spinse Sora da un lato
«Taichi!»
urlò Joe, la voce acuta e petulante
Quello
alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa.
«Sei
ufficialmente obbligato a partecipare all’evento che tutti
aspettavamo: il mio incoronamento con alloro»
Tentò
di darsi un tono, ma ciò che provocò fu un
attacco di risate.
«Cioè
la tua laurea, burino» specificò Tai
Joe
ghignò sardonico.
«Un
evento più importante del giubileo»
Il castano
sospirò rassegnato. Ventisette anni solo
all’anagrafe, il resto non era variato.
«Sei
sempre il solito. Ci vediamo più tardi, idiota»
L’altro
assunse la tipica espressione di quando era pronto a colpire nel segno.
«Senz’altro, frocetto»
Almeno non
erano cambiate nemmeno le prese in giro.
Joe
restituì il cellulare a Sora con una faccia fiera, poi si
riprese la padella sporca e tornò in cucina.
Non
l’avrebbero ammesso mai, ma in fondo Tai e Matt
volevano bene veramente a Joe, e lo stesso valeva per lui.
Nonostante
fosse una persona goffa ed irritante, era un loro caro amico, e il
giorno dopo avrebbe raggiunto una meta molto importante.
Prese la
borsa ed uscì di casa.
Matt non
l’aveva chiamata, era stato Tai a farlo. Non si era degnato
nemmeno di farsela passare ed era certa fosse seduto accanto a lui.
Alzò
gli occhi al cielo blu, tristemente.
Non erano
capaci di continuare ad amarsi, loro due, e lei incominciava a sentire
stretto il peso di quel rifiuto.
Aveva
voglia di correre e rifugiarsi tra le braccia di qualcuno, aveva voglia
di sentire il suo cuore battere come una volta, aveva voglia di amare.
Corse, per
correre, e arrivò dritto lì, alla scuola di ballo.
Là
dentro c’era qualcuno che l’aspettava, qualcuno che
la faceva sentire donna, qualcuno che la faceva sentire desiderata,
qualcuno di cui lei aveva bisogno e adesso più che mai.
*****
Aveva
così tanto insistito per vederla che Mimi, alla fine, non
aveva potuto fare a meno di accettare. Così aveva lasciato i
libri sul tavolo ed era corsa a prepararsi.
Una volta
avrebbe liquidato senza troppi problemi qualcuno con cui non aveva
voglia di uscire, ma Shinichi si comportava bene con lei, e non
riusciva a mettere un punto fermo in tutta quella storia.
Era passato
a prenderla con la sua macchina, e lei era salita su, salutandolo con
un sorriso più di cortesia che di altro. Lui era contento di
vederla, tant’è che si era sporto per darle un
bacio, ma Mimi aveva allontanato il viso.
Era
già successo che si baciassero, e in quei momenti lei non
riusciva a ritrarsi perché non voleva apparire come
schizzinosa o maleducata, ma la verità era che non sentiva
l’esigenza di farlo.
Era grave
che non provasse così tanta attrazione per un ragazzo;
eppure Shinichi era carino. Aveva gli occhi azzurri e i capelli scuri,
un sorriso rassicurante e un corpo tonico, nonostante non fosse molto
alto.
Si
interessava di tutto, gli piaceva leggere e sapeva ascoltarla. Era il
tipo di ragazzo che sapeva coinvolgere una donna, per questo aveva
deciso di conoscerlo meglio.
Si trovava
in un periodo in cui la sua autostima era calata molto, si sentiva
brutta e trascurata, e lui era riuscito almeno in parte a tirarla su e
a distrarla da tutto quello studio che la opprimeva.
Da quando
si era lasciata con Tai, aveva incominciato a vivere in un lungo
baratro di sofferenza, e per quanto cercasse di andare avanti riusciva
solo a fare dei passi indietro.
Dopo quella
rottura, aveva smesso di studiare, si era rinchiusa in casa e non
voleva vedere nessuno.
Piano
piano, con l’aiuto di Sora, era riuscita a guardare oltre, la
luce aveva irrotto su di lei e finalmente le cose avevano incominciato
a sistemarsi.
Poi aveva
conosciuto Shinichi a quella festa. E dire che non voleva nemmeno
andarci, pioveva e voleva per forza mettersi un vestito e dei collant.
Alla fine
si era convinta e ci aveva trovato lui.
E adesso
eccola lì, in quella macchina a guardare fuori.
A tentare
di mantenere uniti i pezzi di lei che cercavano di fuggire via.
Il ragazzo
parcheggiò vicino ad un parco che aveva la vista sul fiume,
e Mimi si rese conto che si erano allontanati un bel po’ dal
quartiere dove viveva.
Fecero una
passeggiata in silenzio, godendosi il rumore dell’acqua e le
urla dei bambini stramazzanti.
Avrebbe
dovuto ringraziarlo per averla portata in quel luogo, ma
l’unica cosa che riusciva a pensare era di voler fuggire.
Shinichi
parlava di qualcosa che lei non sentiva, e quel paesaggio era
così bello che le faceva venire in menti ricordi felici.
Lei e Tai
che camminavano mano nella mano, sorridenti, che si amavano da morire.
Tai che
l’abbracciava, che d’un tratto la sollevava
facendola urlare di paura, e poi rideva.
Tai che la
baciava e lei che si aggrappava a lui come fosse il suo unico appiglio.
Facevano
male i ricordi, faceva male avere la consapevolezza di non poter fare
niente per tornare indietro, faceva male voltarsi e trovare al suo
posto un’altra persona che non avrebbe mai potuto eguagliarlo.
E le
dispiaceva per Shinichi, perché era davvero buono con lei,
ma non riusciva a non pensare a ciò che era stato.
Gli occhi
le diventarono improvvisamente lucidi, e quando tirò su con
il naso, il ragazzo la guardò.
Era strana,
Mimi, da quando l’aveva conosciuta non aveva fatto altro che
starsene per i fatti suoi a contemplare qualcosa che chissà
cos’era.
Un
po’ le piaceva il fatto che stesse sempre sulle sue, il fatto
che d’un tratto aprisse gli occhi e si rendesse conto dove si
trovava. Era una sua peculiarità quella di svegliarsi
all’improvviso.
Adesso,
però, non capiva cosa le prendeva. Da un paio di giorni era
come se lo stesse evitando e meritava una spiegazione.
«Che cos’hai?»
le chiese ad un certo punto, interrompendo il suo flusso di pensieri.
Shinichi la guardava seriamente, non era stupido e aveva capito che
qualcosa non andava.
La ragazza
si schiarì la voce, pensando che non era giusto rovinare un
momento così speciale per qualcosa che non c’era
più.
«Niente»
si sforzò di sorridere, ma era una pessima attrice e lui
aveva imparato a conoscerla.
«Non
ti piace qui?»
Entrambi
volsero lo sguardo verso il panorama mozzafiato e Mimi pensò
che sì, le piaceva tantissimo, ma che al suo posto avrebbe
desiderato qualcun altro.
«E’
perfetto, solo che...» si azzardò a dire, infatti.
Si morse la lingua, interrompendosi improvvisamente.
Non era
carino aggiungere un ma o un però dopo che lui le stava
offrendo tutto quello.
Il fatto
era che non riusciva a trattenersi, sapeva che prima o poi sarebbe
scoppiata.
Ma doveva
tentare di non darlo a vedere, doveva inscenare che tutto andava bene e
sorridere.
«Solo
che cosa?» Shinichi voleva delle spiegazioni, ma lei non
voleva coinvolgerlo.
Tirò
fuori il cellulare e lo puntò sul fiume.
«Ci
vuole una foto» dissimulò, sperando che si bevesse
quella bugia.
Scattò
un paio di fotografie, mentre con la coda dell’occhio
controllava che lui non facesse più domande.
Ma Mimi non
capiva che era così pura e spontanea, alle volte, che le si
leggeva negli occhi cosa provava.
Shinichi,
infatti, non demorse.
«Sei
distante» constatò, continuando ad essere serio.
Voleva
affrontare il discorso a tutti i costi, ed era meglio che lo
rassicurasse subito perché non aveva voglia di parlare.
«Non
è vero, non sono distante» negò,
sforzandosi di utilizzare un tono allegro.
Continuò
a scattare foto che neanche più guardava, fino a quando il
ragazzo non la prese da un braccio.
Mimi
boccheggiò, alzando gli occhi castani su di lui.
Solo Tai la
prendeva con quell’ardore, solo lui riusciva a trasmetterle
tutto con un solo tocco, solo lui e lui soltanto poteva toccarla in
quel modo.
Si
scansò di riflesso e lo guardò interrogativa.
«Sei
distante da tutto, sei con la testa tra le nuvole. Lo sei fin da quando
ti ho conosciuta» spiegò Shinichi con la voce che
mano a mano si spegneva
Si
passò una mano tra i capelli e glielo disse.
«Sembra
che ti manchi qualcosa»
Mimi si
sentì tremare, trafitta nel profondo. Perfino lui si era
accorto che vagava a metà, senza una parte di sé
che la completava, una parte di sé che le mancava e che
cercava invano.
Aveva
ragione a dire che aveva sempre la testa sulle nuvole,
perché era così fin da quando era bambina, era
una sua specialità esserlo, e adesso più che mai.
La ragazza
abbassò lo sguardo.
Sentiva un
dolore lacerante vicino al suo cuore spezzato e Shinichi non avrebbe
mai potuto rimetterne insieme i pezzi e curare quella ferita.
Tentò
di ridacchiare, prendendolo in giro.
«Non
essere tragico»
Ma lui non
aveva voglia di scherzare.
«Sono
realista»
E aveva
ragione. Shinichi aveva ragione su tutto. Lei era distante, lo era da
sempre stata. C’era fisicamente, ma era assente con la testa
e con il cuore.
Non
riusciva nemmeno ad avvicinarsi perché era ancora vivido in
lei il modo in cui Tai l’abbracciava.
«Mimi,
se c’è qualcosa che non va puoi dirlo»
Era
così paziente e disponibile. Non meritava una persona che
non riusciva a dargli quello che voleva, che non riusciva ad essere
sua, che non riusciva ad apprezzare ogni suo gesto.
«Quando
ci sarà qualcosa che non andrà, allora puoi
starne certo che lo farò» gli promise, e poi gli
accarezzò un braccio.
Shinichi
aveva bisogno di qualcuno che lo accettasse per quello che era.
Lei invece
di che cosa aveva bisogno?
Doveva
smetterla di compiangersi e guardare avanti perché il
passato non glielo avrebbe potuto restituire mai nessuno oppure era
destinata a rimanere bloccata in un limbo di emozioni che non le
permettevano di vivere?
Ad un
tratto il suo cellulare vibrò. Lo prese in mano e lesse il
messaggio.
Era come se
il tempo si fosse fermato e i rumori si fossero improvvisamente spenti,
perché, adesso, era il battito del suo cuore che sentiva
rimbombare.
*****
Fece un
gran respiro prima di entrare in sala. Il fatto che lui non avesse
voluto parlare con lei l’addolorava sempre di più,
e nello stesso tempo qualcosa dentro di sé la spingeva verso
l’altro.
Sora si
passò una mano sulla fronte e fece altri respiri profondi.
Non riusciva a contenersi in situazioni del genere. C’era
qualcosa che la bloccava nell’entrare in quella dannata sala.
Aveva paura di incontrarlo, aveva paura di guardarlo negli occhi, aveva
paura di stringersi a lui.
Il fatto
che Matt non sentisse l’esigenza di parlare con lei
l’uccideva e si sentiva così disperata
perché era consapevole di essere talmente volubile da poter
cedere.
Si morse il
labbro, mentre la musica terminava. Era in ritardo di
mezz’ora e forse l’avrebbero pure mandata a casa.
Non sapeva
che cosa fare. Non sapeva se era meglio entrare e fare finta di niente
oppure girare i tacchi e andarsene il più lontano possibile.
Si trovava
nella più grande delle difficoltà, e la
consapevolezza che a due passi da lei ci fosse Victor che probabilmente
l’aspettava, peggiorava la situazione.
Doveva
essere razionale, non poteva lasciarsi coinvolgere completamente solo
perché lui non voleva sentirla.
Doveva
essere matura, affrontare le situazioni con calma e prudenza, non
doveva lasciarsi andare per nessuna cosa al mondo.
Il pensiero
di Matt che continuava ad evitarla le tartassava la mente e non si
accorse che, pian piano, le sue gambe si muovevano in direzione della
sala da ballo.
Quando se
ne rese conto, aveva ormai aperto la porta.
Alcune
persone le lanciarono uno sguardo curioso, ma l’unica cosa
che vide fu il sorriso sorpreso di Victor.
Sentì
improvvisamente il cuore in gola e i battiti accelerati.
Perché
hai dovuto fare in modo che io aspettassi così
impazientemente di godere di un altro sorriso?
Il ragazzo
le si avvicinò e si guardarono negli occhi. Era bellissimo
vestito con quella maglietta a maniche corte e quei pantaloni della
tuta. I lunghi capelli color grano erano appuntati in una coda bassa e
i suoi occhi grigi la scrutavano.
«Sei
in ritardo, Take» constatò, mentre lei si portava
una ciocca di capelli dietro un orecchio.
«Sì,
scusa, mi ha chiamato il mio migliore amico che sta a Kyoto. Non lo
vedo da tanto tempo ed è tornato oggi»
Non sapeva
nemmeno perché si stesse giustificando, ma era partita da
sola, un po’ come faceva sempre quando si trovava in sua
presenza.
Victor
scosse la testa con un sorriso, facendole intendere che non importava
realmente se aveva ritardato, ciò che contava era che fosse
venuta.
«Allora
sei perdonata» disse infatti, e fece appena in tempo a
prenderla per mano e portarla al centro della sala che
l’altra musica partì.
Sora si
attaccò al suo petto e si lasciò guidare da lui.
Si muoveva talmente bene da farle girare la testa. Le aveva posato una
mano sul fianco e la stringeva, facendo aderire bene i loro corpi.
Sentiva le
farfalle allo stomaco, era come se glielo volessero mangiare.
Era
un’attrazione letale che la stava portando lentamente alla
deriva e non riusciva più a risalire su.
Lui
l’abbracciò da dietro i fianchi e la fece muovere
dolcemente. Sora chiuse gli occhi e lasciò andare
all’indietro la testa, sopra la sua spalla.
Forse Matt
non si rendeva conto di cosa aveva scatenato.
Era una
lotta imponente tra ragione e passione e non riusciva a capire chi era
giusto ascoltare.
Lui le dava
così sicurezza e conforto anche solo toccandola, e non
poteva fare a mano di perdersi tra quelle braccia.
La canzone
straniera raccontava di una proposta d’amore, di un bacio
rubato che aveva il sapore di un bicchiere di vino.
Stava
impazzendo, lo sentiva.
Lentamente,
i suoi sensi la stavano abbandonando, e lei si sentiva meno che niente
stretta a lui.
Quando la
canzone terminò, il ragazzo
l’abbracciò, e non appena sentì forte
quella presa su di lei, aprì gli occhi.
Quel tocco
la riportò alla realtà, e con timore si
liberò rapidamente.
Senza
guardarlo in faccia, corse verso l’uscita della sala. Il
cuore le batteva frenetico e sentiva le gambe cedere.
Arrivò
allo spogliatoio e si guardò allo specchio. Era rossa e
stravolta, i capelli erano scompigliati ed aveva in volto
un’espressione preoccupata.
Non poteva
starci, non doveva farlo assolutamente.
Mentre si
sciacquava il volto e le braccia, pensava a Matt e tutto quello che
avevano fatto insieme.
Nonostante
lui fosse distante, non poteva farlo.
Imprecò
disperata, mentre afferrava una canottiera dalla sua borsa e si
cambiava velocemente.
Dio, quello
che aveva sentito era così travolgente da non vederci
più.
Avrebbe
voluto stare stretta a lui per tutto il giorno.
Oh Dio,
aiutami, sto impazzendo.
Si mise un
leggero cardigan, dopodiché si alzò per
sistemarsi un po’ il trucco e i capelli.
Doveva
andare via di lì, doveva farlo prima che...
La porta
dello spogliatoio si aprì, e lui entrò
silenziosamente.
No, non
questo, ti prego, tutto tranne questo...
«Sora»
la chiamò, e lei si sentì morire.
Si
voltò guardandolo spaventata, mentre quello si avvicinava.
«Victor»
mormorò, sentendo la gola secca.
Era
così imbarazzata da non riuscire a sostenere il suo sguardo
per più di qualche secondo e sentiva un calore immane
diffondersi per tutto il corpo.
Lui
avanzava sempre di più e automaticamente lei retrocedeva
impaurita.
Doveva
inventare una scusa e andarsene via al più presto,
sì, doveva dire che aveva un appuntamento con i suoi amici e
che non poteva trattenersi.
Non
riusciva a spiccicare una parola.
Era
immobile, indifesa di fronte a lui.
Non
riusciva a fare un passo.
Cosa le
stava succedendo?
Non
riusciva a non provare il fuoco quando lui la guardava.
Victor fece
un respiro profondo e poi si passò una mano tra i capelli.
Non era l’unica ad essere nervosa, e qualcosa le disse che
era in trappola e che la resa dei conti era arrivata.
«Sai,
pensavo che non avrei mai provato tutto questo se non ti avessi
conosciuta» le confessò, mentre lei sentiva il
cuore battere sempre più veloce.
«C-cosa?»
le chiese balbettando, e forse era un po’ masochista a
volerlo sapere.
Il ragazzo
le sorrise imbarazzato. Dopo poggiò la mano aperta sul muro
e si fece ancora più vicino.
Sora si
trovava lì, impotente, bloccata senza via d’uscita.
E forse una
parte di sé non voleva realmente andar via.
«Quando
ballo con te sento qualcosa che non ho mai sentito, qualcosa che mi
lega inevitabilmente a te» mormorò lui,
guardandola negli occhi castani.
«Tu...
tu sei speciale per me... Lo sei da sempre stata, da appena ti ho
vista, da appena abbiamo parlato»
Sentiva il
cervello in pappa, era così talmente presa da lui, da quelle
parole, da quelle labbra che gli avrebbe fatto fare qualunque cosa.
Deglutì
lentamente.
«Victor...»
provò a parlare, ma non ne uscì altro che un
sussurro spezzato.
Era
lì, era impazzita, era completamente andata.
E lui era
vicino, troppo vicino.
«Mi
piaci, Sora, davvero tanto e... se non te lo dicevo diventavo
pazzo» fece un respiro profondo, lui, quando le disse quelle
cose.
Le stava
confessando tutto, e Sora forse se lo aspettava perché il
loro rapporto era nato e cresciuto di pari passo.
L’attrazione che sentiva per lui era reciproca, lo era da
sempre stata, e lei lo sapeva, lo sentiva, perché era sempre
stata brava in quelle cose.
Era per
questo che si sentiva da sempre legata a lui.
Però
non poteva, si disse, tentando di tornare con i piedi per terra. Lei
stava ancora con Matt, non poteva fargli una cosa del genere.
Per quanto
la loro relazione fosse quasi giunta al capolinea, era Matt, era Yamato
la persona che voleva, che aveva sempre voluto, fin da quando andavano
a scuola, fin da quando lo aveva conosciuto a Digiworld.
Matt era il
suo unico e vero amore e non poteva mandare tutto a monte per
un’attrazione che sarebbe sfiorita alla prima occasione.
«Io...
io però... adesso io non...» provò a
spiegarsi, ma non riusciva a parlare.
Era
talmente ipnotizzata, era talmente presa da lui che ogni parola
risultava superflua.
Victor
sospirò, spostando lo sguardo da un’altra parte.
Era un ragazzo loquace e sapeva che lei era già impegnata,
che ciò che le aveva rivelato l’aveva messa in
difficoltà. Ma non potevano continuare a fingere che tra di
loro non ci fosse niente.
«Stai
ancora con lui?»
chiese duro.
Odiava il
fatto che lei potesse stare con un altro, che non riuscisse a lasciarsi
andare, che dovesse rispettare una persona che non aveva rispetto per
lei e i suoi sentimenti.
Sora emise
un sospiro e abbassò gli occhi.
«Sì»
Stavano
insieme, ma era come se fossero due estranei.
Si
rattristì, sentendo le lacrime premere per uscire. Le faceva
così male che lui non fosse presente, era un dolore che la
distruggeva.
«Lo
ami?» Victor la guardava serio.
Se lo amava?
Sì,
lo amava, amava Matt e tutto ciò che faceva parte di lui,
della sua persona, del suo essere.
Amava Matt
e il modo in cui cantava, il modo in cui suonava, il modo in cui
scriveva le sue canzoni.
Amava Matt
e il modo in cui la baciava, l’abbracciava, il modo in cui
facevano l’amore.
Le mancava
tanto fare l’amore con lui.
I suoi
occhi erano lucidi e pronti a scoppiare.
Lo amava
ancora, non aveva mai smesso di farlo probabilmente, ma quel silenzio,
quell’estraneità che si era creata tra di loro era
qualcosa di insopportabile.
Più
si allontanava da Matt, più si avvicinava a Victor.
Ogni volta
che Matt le voltava le spalle, lei si lasciava cullare da quelle
emozioni.
«Oh,
Victor, per favore...» lo stava pregando affinché
non lo facesse, perché era talmente vulnerabile, era
talmente disperata che qualsiasi passo in più le sarebbe
costato caro.
Voleva
tanto rispondergli che amava Matt e nessun’altro, ma non
riusciva.
Tutto
ciò che provava adesso era più forte.
Il ragazzo
le posò una mano sulla guancia e le sorrise.
«Meriti
tanto amore, Sora»
Poteva
sentire il cuore frantumarsi lentamente. Lui sapeva sempre di cosa lei
aveva bisogno, sapeva capirla, sapeva rispettarla.
L’amore...
Una volta
era il suo simbolo, glielo avevano affidato quando aveva appena undici
anni e lei aveva avuto così tanta paura che non sapeva che
cosa farne, non sapeva come si facesse ad amare.
Poi aveva
conosciuto Matt ed aveva imparato.
Ma ora lui
non c’era, era così lontano da lei,
così distante da tutto quello che le stava succedendo...
Victor si
era avvicinato alle sue labbra e Sora non riuscì a fare
niente per impedirlo. Lui la baciava e lei non si spostava, non faceva
un passo.
Non appena
il ragazzo la spinse contro il muro e la fece aderire ancora di
più a sé, schiuse la bocca, arrendendosi
completamente.
Le lingue
si accarezzavano, ora lente, ora voraci e la sua era così
calda, così giusta in quel momento che non
desiderò essere da nessun’altra parte.
Si stavano
baciando ed era qualcosa che le ardeva dentro, era qualcosa di cui
aveva bisogno.
Gli aveva
stretto i capelli tra le dita e non aveva capito più niente.
Non sapeva
né dove si trovasse, né che giorno fosse.
Era tutto
così scollegato ed annebbiato, poteva sentire solo i battiti
del suo cuore scandire il tempo.
Quando
tornò alla realtà, si staccò
improvvisamente e puntò lo sguardo sul pavimento.
Aveva il
fiato corto e le labbra gonfie. Il suo cuore era impazzito e lei
credeva di svenire.
Oh, no.
Non poteva
crederci.
Era
successo veramente.
Cosa
diavolo aveva combinato?!
Victor la
guardava e aspettava una sua reazione, ma aveva voglia di scappare il
più lontano possibile.
Non poteva
credere di averlo fatto veramente.
«Io...
devo andare, adesso» biascicò a voce bassa, poi si
scansò da lui e andò a recuperare la sua borsa.
Si era
lasciata così andare da aver scatenato in lei la
più pericolosa delle tempeste.
Perché
era stata così debole?
Il ragazzo
la raggiunse.
«Ti
accompagno?» tentò, anche se sapeva che era tutto
inutile e che lei adesso avrebbe dovuto fare i conti con sé
stessa.
Sora,
infatti, negò con la testa e, senza guardarlo,
uscì dallo spogliatoio fino ad arrivare alla porta
principale.
Rilasciò
tutta l’aria che aveva trattenuto e un groppo le si
formò in gola.
Che cazzo
aveva combinato?
Come
diavolo aveva potuto lasciare che accadesse?
I sensi di
colpa la pervasero, erano così forti che la stritolavano e
le facevano male.
Aveva
tradito Matt.
Lo aveva
tradito.
Si
fermò, sentendo la testa girare.
Aveva
lasciato che quelle emozioni la facessero sua, che la travolgessero
senza che potesse liberarsi.
Non era
riuscita a contenersi, era stata una stupida.
Come aveva
potuto fare una cosa del genere?
Si sedette
in una panchina e cominciò a piangere, logorata dai sensi di
colpa che l’attanagliavano crudelmente.
Sciocca,
Sora, sei una cazzo di sciocca.
Voleva
scomparire, voleva tornare indietro nel tempo e fare in modo che non
succedesse.
Il volto di
Matt che le sorrideva si sovrappose nella sua testa, e lei si
tastò le labbra con le mani che le tremavano.
Poteva
sentire ancora il sapore di Victor.
Alzò
gli occhi al cielo, le lacrime che sgorgavano a fiumi.
Che cosa
aveva fatto?
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Capitolo 4 *** Uniti ***
Erano
appena arrivati di fronte al locale, quando Yamato fu scosso da un
violento capogiro. Un senso di vertigine lo sorprese, sentì
il pavimento mancare sotto di lui e fu costretto ad aggrapparsi a
Taichi. Il castano si voltò allarmato non appena
sentì quella stretta al braccio, e lo sostenne prontamente.
«Matt,
che ti succede?»
La
voce dell’amico arrivò ovattata, e passarono
alcuni secondi in cui l’unica cosa che vide fu il buio totale.
Sentiva la
voce di Sora.
In mezzo
alle tenebre, gli rimbombava nelle orecchie la sua voce.
«Cazzo,
Matt!» lo chiamava Tai, scuotendolo dalle braccia.
Pian
piano riacquistò conoscenza e alzò gli occhi
azzurri sul volto preoccupato del castano. Era pallido e sembrava
scosso.
«Stai
bene?» gli chiese, prendendogli il volto tra le mani.
Il
biondo annuì e strinse le labbra.
Era come se
gli fosse mancata l’aria, credeva di star precipitando in
fondo al mare.
Si
passò una mano sul viso, socchiudendo gli occhi
«Sì,
fa troppo caldo oggi» cercò di trovare un senso a
quell’episodio, ma Tai lo guardava ancora apprensivo.
«Sei
sicuro?»
Era
ancora stordito e gli fischiavano le orecchie, ma annuì lo
stesso. Non voleva allarmarlo inutilmente, era stato un semplice calo
di zuccheri a provocargli quel capogiro.
Eppure
aveva sentito Sora nella sua testa.
Sembrava
fosse lì, vicino a lui, era come se fosse disperata.
Si
morse il labbro ed evitò lo sguardo del castano che lo
fissava, pronto a soccorrerlo un’altra volta.
Forse stava
impazzendo.
«Fratellone!»
Si voltarono entrambi verso la ragazza che si trovava di fronte a loro
e si avvicinava a gran passi.
Tai
sorrise felice quando vide sua sorella Hikari attraversare la strada e
venirgli incontro. Aveva una maglietta a maniche corte che stava dentro
una gonna a vita alta, i capelli castani erano più lunghi e
li aveva legati in una coda laterale.
Era
semplice e bella, fasciata nella freschezza della sua
gioventù.
«Kari!»
Suo fratello fece un balzo e corse ad abbracciarla.
La
sollevò da terra, come era solito fare quando erano piccoli,
e le fece fare un giro a trecentosessanta gradi. La ragazza
cominciò a ridere e si tenne la gonna perché non
si sollevasse.
Matt
li guardò, felici di essersi rivisti, e improvvisamente si
dimenticò delle sensazioni spiacevoli che aveva provato poco
fa.
Il bene tra
due fratelli era un unico e inossidabile, qualcosa che andava oltre
ogni legame esistente.
Tai
la guardava con gli occhi che gli luccicavano e lei sorrideva
teneramente.
«Non
riuscivo a crederci quando mi hai chiamato. Mamma quasi sveniva dalla
gioia, la conosci, non vede l’ora di averti a casa»
Il
castano la scrutava e sorrideva, perché era diventata una
donna splendida, e non la vedeva da così tanto tempo che
adesso pregava Dio affinché potesse godere per sempre della
sua vista. Era diventata
così bella che odiava se qualcuno si avvicinava a lei,
perché sua sorella era il gioiello più prezioso
che la vita gli avesse mai potuto regalare.
«Volevo
farvi una sorpresa» spiegò, mentre si avvicinava
per abbassarle la gonna che saliva su. La guardò con uno
sguardo eloquente, e lei alzò gli occhi al cielo con un
sorrisino.
«E
ci sei riuscito» ammise, togliendogli le mani
Matt
aveva le braccia incrociate e seguiva tutta la scena con un ghigno.
Kari poteva compiere perfino trent’anni, ma Tai sarebbe stato
comunque geloso e protettivo nei suoi confronti.
«Anche
se personalmente mi sento offesa per non essere stata la prima a godere
del tuo arrivo» aggiunse lei, facendo finta di essere
arrabbiata.
Il
castano smise di pensare alla gonna e cercò di abbracciarla
per farsi perdonare.
«Dai,
sorellina, ci rifaremo! Non te la prendere»
L’avvolgeva
con le sue braccia possenti, mentre Kari tentava di liberarsi, anche se
non aveva nessuna intenzione di farlo.
«Dici
sempre così, scemo»
Taichi
vinse la lotta e riuscì ad abbracciarla. Annusò i
suoi capelli che sapevano di lavanda e le diede un bacio sulla fronte.
La sua
sorellina.
La sua
sorellina che era diventata grande, che era diventata donna, che era
splendida e brillava di luce propria.
La
malinconia lo pervase.
Avrebbe mai
accettato il fatto che fosse cresciuta?
Kari
sciolse l’abbraccio e indicò una direzione dietro
di loro.
«Ecco
TK» annunciò, e i
due ragazzi si voltarono a guardare la sagoma di quello che si
avvicinava.
Matt
strinse le labbra quando vide suo fratello. Era da un po’ di
tempo che non si sentivano e il loro rapporto ultimamente non era del
tutto idilliaco.
Lo
osservò mentre avanzava, notando che era più alto
e sfilato, aveva tagliato i capelli biondi e portava
l’orecchino all’orecchio sinistro. Aveva cambiato
modo di vestire, indossava una maglia larga, un gilè di
pelle, i pantaloni strappati e le scarpe con le borchie. Alle dita
aveva un sacco di anelli e si era fatto fare dei tatuaggi, alcuni
perfino nei punti più nascosti.
Era lui,
era sempre lui, il suo fratellino, ma nello stesso tempo era
così diverso che stentava a riconoscerlo.
Tai
lo guardava sorpreso, e quando gli si avvicinò con un
sorriso malizioso, gli diede una pacca amichevole sulla schiena.
«Guarda
un po’ chi si rivede, il piccolo Takeru alto due
metri»
Ed
era vero, era persino più alto di lui. Questi
ridacchiò in modo strano, e il castano notò che
aveva gli occhi un po’ arrossati.
«Te
l’avevo detto, Tai, gli ultimi saranno i primi»
contestò, mentre si davano un cinque.
Takeru
notò che suo fratello lo fissava e si limitò a
salutarlo con un cenno. Gli ultimi dissapori sul suo futuro bruciavano
ancora dentro e nessuno dei due aveva intenzione di fare il primo passo.
Taichi
ruppe quel silenzio, posizionandosi nel mezzo.
«Che
si dice da queste parti?» chiese, e TK spostò
l’attenzione su di lui.
Lo
vide alzare le spalle ed assumere una faccia annoiata.
«Solita
roba» rispose vago, e nel frattempo Kari lo
affiancò con un sorriso amorevole.
Matt
fece una smorfia quando lo sentì rispondere in quel modo.
«Ci
sediamo?» chiese infastidito, e Tai annuì.
Entrarono
dentro il locale dove c’era l’aria condizionata.
Il
Vancouver era un pub frequentato da molta gente per la sua
maestosità e la sua vasta produzione di bibite alcoliche e
piatti tipici del luogo. C’erano molti tavoli con dei
divanetti rossi, alcuni erano posizionati vicino alle vetrate che
davano sulla strada. Il bancone dei cocktail era grande e aveva delle
immagini della città canadese che lo ricoprivano per intero.
La
musica era di sottofondo ma non troppo forte, dato che era ancora
pomeriggio. La sera quel locale diventava una discoteca a tutti gli
effetti.
Raggiunsero
uno dei tavoli che dava la vista fuori e si sedettero uno di fronte
all’altro.
Tai
continuava ad osservare TK che parlava con Kari di qualcosa, e riprese
il discorso laddove lo avevano lasciato.
«Che
vuoi dire con solita roba?»
Non
che volesse essere ficcanaso, ma lui e sua sorella stavano insieme da
un sacco di anni, e voleva essere al corrente di cosa fosse diventato
in tutti quei mesi.
Questi
assunse di nuovo quell’espressione vaga e a tratti eloquente.
«Solito
traffico, solito giro... Kari ne sa qualcosa» disse, facendo
un sorriso verso la sua fidanzata che aveva spalancato leggermente gli
occhi.
Sia
Tai che Matt li guardarono interrogativi, e il biondo
fulminò il fratello con lo sguardo.
«Oh,
io veramente...» La ragazza era in difficoltà e il
biondino alla sua destra ridacchiava.
Yamato
sentì il sangue salire al cervello sentendo quella risata
sciocca e arrogante. Suo fratello stava giocando con il fuoco e lui lo
sapeva da un paio d’anni, ma che coinvolgesse Hikari in quel
modo proprio non ci stava.
Credeva
di poter fare quello che voleva solo perché non
c’era nessuno a controllarlo, ma non sapeva che sarebbe
finito con il bruciarsi cervello e denaro in quel modo.
«Che
cazzo stai combinando, TK?!» sbottò arrabbiato,
mentre quello alzava gli occhi azzurri così simili ai suoi
su di lui.
Aveva
sempre avuto un’indole protettiva nei suoi riguardi, fin da
quando erano stati catapultati a Digiworld e Takeru aveva solo otto
anni. Lo aveva accudito e aveva fatto sì che non si sentisse
solo, nonostante lui fosse a sua volta piccolo e indifeso. Suo fratello
aveva sempre avuto la capacità di infondergli speranza e
affetto con un solo sorriso, era buono e gentile, con un senso profondo
per la giustizia.
Adesso che
fine aveva fatto quel ragazzino allegro e altruista?
Era davvero
diventato un uomo superficiale, che badava solo al divertimento e a
spendere soldi?
Lo
aveva guardato con un sorriso di scherno.
«Robe
da grandi, Matt» La sua voleva essere una provocazione, lo
sapeva. Conosceva molto bene suo fratello quando assumeva
quell’espressione sarcastica e quel tono di voce irritante.
Il
fatto era che si era messo in testa di fare l’idiota senza
ascoltare i suoi consigli. Credeva
di sapere tutto dalla vita solo perché si era appena
affacciato fuori, ma non conosceva niente, non aveva ancora visto
ciò che il mondo aveva in serbo per lui.
Non era
ancora a conoscenza di quanta fatica, quante sofferenze, quante
delusioni avrebbe dovuto sopportare prima di aver vissuto realmente.
«Sei
ancora un ragazzino» affermò duro, mentre Kari
guardava preoccupata TK e si mordeva il labbro.
Suo
fratello rise e lo guardò con sfida.
«Ho
ventitré anni, adesso, è ora che tu
l’accetti» Non poteva accettare il fatto che suo
fratello minore fosse diventato un cazzo di drogato, che bevesse alcol
quasi ogni giorno, che frequentasse locali e discoteche senza fare
niente per guadagnarsi da vivere.
«Sei
proprio un...» Avrebbe voluto dirgliene di tutti colori,
avrebbe voluto dirgli che era uno sciocco a pensare che la vita si
limitasse solo ed esclusivamente a quello, che era un immaturo a
pensare che c’erano sempre gli altri a parargli il culo.
Avrebbe
voluto dirgli che rivoleva suo fratello Takeru e basta.
Fu
interrotto da Tai, che gli aveva stretto il braccio e lo aveva guardato
fisso. Aveva scosso la testa e solo grazie a lui riusciva a calmarsi.
«Non
litigate, non vale la pena» Fece scorrere lo sguardo da
entrambi per qualche secondo. Kari aveva sospirato e si guardava
insistentemente le mani.
Quando
constatò che la bufera si era placata, si rivolse di nuovo
al biondino.
«Quindi
cos’è che fai?»
Lo
aveva capito anche lui che TK seguiva uno stile di vita non del tutto
sobrio, e Matt aveva ragione ad arrabbiarsi in quel modo,
però era meglio prenderlo con le buone altrimenti sarebbe
stato peggio.
«Discoteca,
faccio il PR. Mi hanno anche preso come ragazzo immagine, appaio in un
sacco di locandine»
Mentre
parlava, si era acceso una sigaretta e aveva abbracciato Kari. Era
l’ennesima provocazione, ma Matt si era limitato a guardalo
male e non aveva fiatato.
«Quindi
il tuo obbiettivo sarebbe apparire in ogni cartellone pubblicitario di
Tokyo?» Non era riuscito a trattenersi, Tai, e gli aveva
fatto quella domanda un po’ sarcastica.
Se
pensava che potesse tirare avanti con quei lavoretti occasionali, si
sbagliava. Non avrebbe combinato niente di buono affidandosi alla
casualità e alla bella vita.
TK
rilasciò una boccata di fumo.
«Un
po’ come tutte quelle cazzate di sogni che inseguite voi,
sì»
Taichi
aprì la bocca, sentendosi punto. Si voltò a
guardare Yamato che aveva alzato gli occhi al cielo, esasperato.
TK
aveva utilizzato il suo stesso tono sarcastico, ma lo aveva colpito in
pieno.
Giocava
a calcio da tutta la vita, e diventare calciatore era da sempre stato
il suo sogno. Guardò il biondino che abbracciava Kari con
possessività.
Non avrebbe
lasciato che sua sorella finisse tra le mani sbagliate.
Lo
vide baciarla e tirarle un buffetto.
Il fatto
era che Takeru era l’unico che avrebbe visto al fianco di
Hikari, era l’unica persona di cui si fidava, era
l’unico ragazzo che avrebbe potuto prendere il suo posto.
E aveva
ragione. Sì, forse aveva ragione a dire che seguiva un sogno
del cazzo, che forse non l’avrebbe portato a niente, anzi lo
avrebbe distrutto.
«Ordinate?»
Un cameriere si era avvicinato e teneva in mano un block notes.
Tai
si risvegliò dal suo stato di riflessione e scosse la testa.
«No,
aspettiamo altre persone»
Quando
quello se ne andò, decise di cambiare discorso e rivolgersi
a Kari. Non le aveva ancora chiesto cosa stava facendo e a che punto
era arrivata.
Poteva
essere un buon diversivo da tutta quella tensione.
«E
tu, Kari, come va con l’università?»
La
ragazza si rasserenò e gli fece un sorriso.
«Bene,
tra poco incomincio il tirocinio agli asili»
Sua
sorella studiava per diventare maestra, era una professione che
l’aveva da sempre appassionata. Era dolce e affettuosa,
attenta e premurosa, la maestra ideale per prendersi cura dei bambini.
E poi era molto brava, aveva sempre eccelso nelle materie scolastiche.
Tra i due, era lei la mente della famiglia.
«E
a te, Taichi, cos’è che ti spinge da queste
parti?» a formulare quella domanda fu ancora TK, che aveva
portato l’attenzione su di lui e lo fissava inquisitorio.
Il
castano strinse le labbra e sentì lo sguardo di Matt addosso.
Avrebbe
voluto dare una marea di spiegazioni, motivi enormi che lo avevano
costretto a prendere quella decisione.
Guardò
gli occhi grandi di sua sorella. Lo
aveva fatto per lei. Pensò ai suoi genitori. Lo
aveva fatto per loro. E per Matt. Per i suoi amici. Per tutte le
persone che voleva bene, che amava e che gli mancavano immensamente.
Lo aveva
fatto per lui, perché non ne poteva più di
quell’incubo.
Tornare a
Tokyo era stato la sua mascherina d’ossigeno.
«Pausa
dall’inferno» dichiarò infine, e TK gli
regalò un sorrisino eloquente.
Era
sempre andato d’accordo con Tai. Quando aveva scoperto che
lui e Kari si erano messi insieme aveva fatto un po’ di
storie, ma adesso era tutto passato. Era uno di quei ragazzi con la
mente aperta e il cuore grande.
Ai
tempi di Digiworld era il suo idolo, il leader perfetto, il fratello
che tutti avrebbero voluto avere. E doveva ammettere che anche lui in
un momento di rabbia aveva desiderato che Tai lo fosse al posto di Matt.
Guardò
questi di sottecchi, che aveva spostato lo sguardo. Suo fratello non
capiva che era abbastanza grande per sapere ciò che fare
della sua vita.
Era
cambiato, e checché lo pensassero, era maturato molto. Il
fatto che non facesse ciò che Matt si aspettava, non voleva
dire che era un fallito.
Il
biondo si sentì osservato e voltò la testa. Si
guardarono.
TK
non distolse lo sguardo. Non voleva litigare con lui, ma era stanco di
dover sentirsi dire ciò che fare.
«Non
vorrei dirvelo, ma sta arrivando Joe» annunciò
d’un tratto Kari, e loro si voltarono nella stessa direzione.
Jyou
aveva appena aperto la porta del locale e si era precipitato a gran
passi verso il tavolo in cui erano seduti. Aveva i capelli corvini
più lunghi, portava una maglia bianca con dei bottoni vicino
al collo, dei jeans aderenti e degli occhiali rossi che gli
incorniciavano il viso a punta.
I
ragazzi fecero un sospiro quando lo videro arrivare, e lui, dal suo
canto, si preparò ad esordire con una delle sue estenuanti
battute.
Quando
osservò per bene Tai, però, si bloccò.
«Che
cosa hai fatto al tuo cespuglio,
Taichi?» chiese in tono grave e con la voce acuta che lo
contraddistingueva.
Il
castano scosse la testa e pensò che gli era mancata la sua
parlantina.
«Pensavo
di avvistarti da lontano grazie alla tua chioma ribelle»
TK
e Kari ridacchiarono, mentre Matt volgeva gli occhi al cielo, e lui si
alzava per salutarlo.
«Ho
sfoltito, burino. Dovresti fare lo stesso con la tua idiozia»
lo prese in giro, mentre si davano un abbraccio e si tiravano delle
pacche sulla schiena.
Joe
quasi cadde in avanti quando il castano lo toccò.
«Il
solito pappone del cazzo» lo derise a sua volta, rivolgendosi
poi al resto dei presenti
«Ciao
a tutti, comunque. E’ bello sapere che siete tutti vivi,
avreste oscurato il mio momento con uno dei vostri funerali»
Poi
adocchiò Hikari che sorrideva e perse la testa.
«Tranne
te, bella mia. Tu sei immortale, come sempre» si sporse per
darle un bacio sulla guancia e lei lo lasciò fare.
Joe
aveva da sempre avuto un debole per lei, e le cose non erano cambiate
nemmeno a distanza d’anni. Adesso che era diventata
più grande e più bella, poi, non perdeva tempo
per adularla e fare il cascamorto.
Questa
cosa non andava giù a Tai, che aveva sbuffato dietro di lui,
e TK lo guardava di traverso.
Il
maggiore se ne accorse e gli rivolse un ghigno malizioso.
«Non
essere geloso, TK. A lei non sono mai piaciuti i fanatici come
te» Lo chiamò con il soprannome con cui lo
chiamava da sempre.
Il
biondino annuì.
«Certo,
è da un paio di giorni che parla di te, infatti»
gli rivelò, mentre Kari lo guardava interrogativo e Joe
drizzava sull’attenti.
«Davvero?!»
esclamò con gli occhi che luccicavano.
Takeru
ghignò sarcastico.
«Ringrazia
a Dio che tu non sia il suo fidanzato»
Tutti
risero e lo presero in giro, perfino Matt non aveva potuto fare a meno
di trattenersi. La faccia del burino era uno sballo, c’era
rimasto di stucco e guardava il ragazzo più piccolo di lui
con sdegno per essere stato ingannato.
Si
aggiusti gli occhiali e si abbassò fino al suo orecchio.
«Non
avevamo detto che io e te saremmo stati complici per la
vita?» mormorò affinché nessuno
sentisse.
Il
rapporto tra Jyou e Takeru era qualcosa di misterioso.
C’erano delle volte che non si sopportavano e si
punzecchiavano a vicenda, specie Joe, che ne aveva sempre una in
riserva per tutti. Da qualche tempo a questa parte, però,
sembrava che le acque si fossero calmate.
«Sì,
ma avevamo anche fumato» gli ricordò il biondino.
Joe
sorrise sardonico e gli mollò una gomitata.
«Fattone!»
esclamò, mentre quello rideva.
Matt
lo sentì e lo guardò di sbieco. Ci mancava che
quello smidollato gli desse corda, adesso, e non ne sarebbe uscito
più.
Joe
si accorse di quello sguardo scontroso. Non gli sfuggiva nulla a
quell’occhio di lince.
«Yamato,
su, non fare quella faccia come se ti avessero spaccato una chitarra in
testa. C’est la vie»
citò una frase in francese, lui che si sentiva colto, e
afferrò una sedia rossa da un altro tavolo per sedersi.
Il
biondo sbuffò.
«Cristo
santo» imprecò tra i denti, mentre quello
continuava a deriderlo.
Dopo
aver detto qualche altra buffonata, si rivolse a Tai che stava
controllando il cellulare. Erano le sei e mezza e ancora mancavano gli
altri.
«E
comunque, Taichi, non ci hai ancora spiegato perché sei
qua» catturò la sua attenzione, e il castano
notò quella faccia da schiaffi a poca distanza da lui.
Posò
il telefono e fece finta di ammettere il vero motivo per cui era
tornato.
«Volevo
vedere te, Joe»
Alla
risposta sarcastica del ragazzo, questi si alzò in piedi
indicandolo con impeto.
«L’avete
sentito tutti!» puntò il dito anche verso tutti
gli altri
«E’
stata una dichiarazione in piena regola!» urlava e aveva
fatto voltare alcune persone incuriosite verso di loro.
I
più piccoli ridevano, e Matt tentava di metterlo nuovamente
a sedere. Era sempre stato un tipo che catturava l’attenzione
con quelle battute idiote e quella voce chiassosa.
Continuava
a guardarlo con aria vincente.
«Lo
sapevo io che quell’oca baldracca di Mimi era stata solo una
copertura per tutti questi anni» Lo disse con una
semplicità disarmante, e magari era davvero stata una frase
detta lì per far ridere senza l’intenzione di
voler provocare in lui quelle sensazioni.
Taichi
smise di ridere e s’incupì improvvisamente.
Anche il
solo sentire il suo nome dalle labbra di qualcuno gli procurava un
senso di tristezza e compianto.
Si
chiese dove fosse, se Sora l’avesse avvertita del suo arrivo,
se fosse mai venuta a quell’appuntamento.
Voleva
vederla, non lo negava, voleva vederla per scoprire se era cambiata, se
era ancora lei, se era bella come lo era da sempre stata, se era
allegra e spensierata come una volta.
Gli
venne da ridere amaramente.
Se
lui era così stupido da pensare ancora a lei, questo non
voleva dire che Mimi facesse lo stesso.
Forse
adesso lei stava bene senza di lui, si era rifatta una vita, aveva
conosciuto qualcun altro migliore di lui, qualcuno che non stava a
cinquecento kilometri lontano da lei, qualcuno che non aveva dovuto
scegliere tra lei e il suo sogno.
Qualcuno
che l’amava veramente.
Strinse
le labbra e fu attanagliato da un dolore al petto.
Forse
adesso si trovava in compagnia di un altro, sì, lo sentiva,
era per questo che non era ancora venuta e forse non lo avrebbe mai
fatto, non si sarebbero mai incontrati, perché lei aveva
scelto qualcun altro, perché lo odiava e non voleva
più vederlo.
Matt
lo guardò preoccupato. Aveva il volto scuro e lo sguardo
vacuo.
Qualcuno
mollò una gomitata tra le costole a Joe, che non aveva
ancora imparato a tenere chiusa la sua boccaccia.
Quello
si lamentò e si tenne la parte dolorante.
«E
io che cazzo ho detto?» mormorò inviperito, mentre
piano piano Tai tornava sulla terra e sorrideva a tutti.
Nonostante
avesse una cicatrice sul cuore, non si sarebbe mai buttato
giù.
Continuarono
a conversare un altro po’, fino a quando una ragazza di loro
conoscenza non varcò la soglia del pub.
Sora
aveva lo sguardo basso e avanzava lentamente verso di loro. Aveva
indugiato parecchio prima di entrare. I sensi di colpa la travolsero
nuovamente, quando alzò gli occhi e vide lui seduto
insieme agli altri, i capelli biondi che incorniciavo quel viso
bellissimo, gli occhi cerulei che vagavano da una parte
all’altra.
Sentì
il cuore sprofondare in un abisso, perché si odiava per
quello che aveva fatto, si sentiva terribilmente colpevole. Avanzava
verso quel tavolo come un condannato al patibolo, e pregò
con tutta sé stessa di avere la forza di reggere tutto
quello.
Tai
alzò gli occhi e la vide. Si alzò prontamente,
catturando l’attenzione di tutti.
Anche la
sua.
«Sora!»
esclamò felice, mentre si faceva largo per passare e
raggiungerla.
La
ragazza gli sorrise sinceramente, perché nonostante stesse
fremendo dentro, era contenta di rivederlo.
Matt
si morse il labbro nervoso appena la vide. Erano circa due mesi che non
si vedevano di persona e adesso la sua presenza lo metteva in
agitazione.
Era
bellissima, si era fatta crescere i capelli, aveva un fisico mozzafiato
e un sorriso angelico. Si
chiese quanto diamine era stupido per aver fatto a meno di lei per
tutto quel tempo.
La
guardava e sentiva il cuore battere forte, come se fosse la prima volta
che la vedeva veramente.
Forse era
vero che la distanza aiutava a comprendere quanto si amava una persona.
La
vide abbracciare Tai con trasporto. Strinse le labbra. Era
l’unica persona a cui avrebbe permesso di toccarla in quel
modo, e questo perché si fidava di lui.
Non avrebbe
mai permesso che qualcun’altro si avvicinasse.
«Scusa
il ritardo, Tai, ho avuto un imprevisto» si
giustificò senza che importasse, e quello si
staccò leggermente per sorriderle.
«L’importante
è che tu sia qui»
Il
rapporto tra Taichi e Sora era molto forte, e Yamato pensò
che il castano avrebbe perfino messo in discussione la loro amicizia
per lei. Si preoccupava così tanto che stessero bene
entrambi, soprattutto che Sora fosse felice.
Lo
notava da come la stringeva con affetto e dalla protezione che provava
nei suoi confronti.
Tai non
avrebbe mai permesso che le accadesse qualcosa, riusciva perfino a
prendersi cura di lei meglio di come lo facesse lui.
Lo
avrebbe pestato se solo si fosse permesso di farle del male.
Sora
lo stava guardando, stretta ancora tra le sue braccia.
Ricambiò lo sguardo, schiudendo le labbra.
Desiderava
tanto dirle qualcosa, ma come al solito aveva paura di sparare una
cazzata, aveva timore che non fosse abbastanza.
La
ragazza sospirò amareggiata, sopraffatta dalle emozioni.
Il ricordo
di Victor che la baciava era ancora vivido nella sua mente, e la faceva
così soffrire che voleva fuggire via, lontano da quel luogo,
lontano da quegli occhi limpidi che l’osservavano e le
facevano battere il cuore.
Sentì
le lacrime premere, e strinse ancora di più Tai, cercando di
trovare un rifugio tra le sue braccia.
«Che
bello rivederti» mormorò con la voce rotta, e il
ragazzo le accarezzò i capelli.
«Non
ci speravo più neanch’io»
Ed
era vero. Quando era a Kyoto non avrebbe mai creduto che un giorno
sarebbe tornato lì e li avrebbe rivisti tutti, non avrebbe
mai potuto pensare che avrebbe goduto del sorriso di sua sorella, delle
parole di Matt, degli abbracci di Sora e di tutti gli altri.
«Come
stai?» gli chiese questa, scrutandolo bene in volto.
Era felice,
dopo tanto tempo era felice.
Il
ragazzo sorrise e la prese dalla mano, facendola sedere tra lui e Matt.
«Adesso
bene. E tu?»
Sora
si sentì piccola piccola in mezzo a loro. Il suo braccio
sfiorava quello del biondo, e entrambi non osavano guardarsi.
Quel tocco
però era qualcosa che le era mancato terribilmente.
«Sì,
anch’io» E
risero insieme, perché erano così, Taichi e Sora,
ridevano per poco e si sentivano subito a casa.
Joe
prese la parola, rivolgendosi al castano con un ghigno sardonico e
malizioso.
«Dillo,
Taichi, che ancora ti piace» fece cenno verso la ramata che
stava, intanto, salutando gli altri.
Questi
sospirò, alzando gli occhi al cielo. Possibile dovesse
uscirsene sempre con quelle assurdità?
«Joe...»
Lo aveva incontrato da meno di mezz’ora e già non
ce la faceva più a sopportarlo.
Il
corvino aveva assunto una faccia sorniona e batteva ancora sul punto.
«Lo
sanno tutti che la volevi, tempo fa»
Il
ragazzo gettò uno sguardo ausiliatore a Matt, che scuoteva
la testa.
«Facevamo
le elementari» disse scettico, facendogli intendere che anche
se tra lui e Sora ci fosse stato qualcosa in passato non contava
perché erano bambini e adesso lei era la sua più
cara amica.
Joe,
però, non voleva dargliela vinta, perciò
alzò la voce come suo solito.
«Anche
Gesù a dodici anni interloquiva con i dottori della legge,
che significa, mica si giustificava che era un pivello!»
I
ragazzi sbuffarono nello stesso momento, Sora lo guardò
sbieco, mentre TK e Kari ridevano.
«Non
conta l’età, sempre Cristo è
diventato» E strizzò l’occhiolino ai
più piccoli.
Le
manie religiose di Joe persistevano, e la cosa più
divertente era che le tirava fuori per fare esempi e battute stupide.
Tai
si rivolse a Sora, guardandola con un’espressione esasperata.
«Ti
prego, non dargli ascolto»
Lei
lo guardò come per dire che aveva smesso di farlo
già da un po’.
Il
discorso andò avanti per un altro po’ di tempo,
fino a quando a qualcuno non venne in mente un ricordo particolare e
tutti si misero a ridere.
Nel
frattempo, Matt guardava Sora di sottecchi e voleva dirle qualcosa. Non
si era degnato nemmeno di salutarla, era un maleducato e un fifone di
prima categoria.
L’osservava
ridere e scherzare con gli altri, anche se ogni tanto si zittiva a il
volto le diventava scuro.
Possibile
si fosse ridotto in quel modo?
Senza
avere il minimo coraggio di aprire bocca, senza il minimo coraggio di
guardarla negli occhi e parlarle.
Possibile
che fosse diventato un vigliacco e che non avesse la minima accortezza
di avvicinarsi alla sua fidanzata ed abbracciarla?
Strinse
un pugno sotto il tavolo, e pensò che no, non era un
vigliacco, che la sua coscienza si sbagliava.
Anche se
aveva difficoltà ad esprimersi, questo non voleva dire che
aveva paura di fare il primo passo.
Si
voltò verso di lei e si decise.
«Ciao»
le sussurrò, mentre quella alzava gli occhi castani su di
lui e lo guardava sorpresa.
«Ciao»
gli disse in tutta risposta, e dopo strinse gli occhi pensando di nuovo
a quell’episodio che gli tormentava la mente.
Se solo
avessi fatto un passo prima, un unico passo prima, allora io non sarei
corsa da lui, non mi sarei lasciata così andare.
«Stai
bene?» continuò il ragazzo, sforzandosi di
utilizzare un tono neutro, nonostante fosse pronto a scoppiare.
La
ramata sentì un groppo in gola ed evitò il suo
sguardo.
Non
riusciva neanche a guardarlo avendo la consapevolezza che lo aveva
tradito, che aveva baciato un’altra persona, che era stata
così talmente disperata da aver lasciato che delle
sensazioni nuove la coinvolgessero.
Dove sei
stato per tutto questo tempo, Matt?
Tu che
popolavi disperatamente i miei sogni, che eri la causa del mio
malessere, che sei l’unico ragazzo che io abbia mai amato.
Si
sforzò di apparire allegra.
«Sì,
tutto... tutto apposto» Ma Sora era una di quelle persone che
non riusciva a nascondere ciò che provava. Era un libro
aperto e Matt capiva quando c’era qualcosa che non andava,
aveva ormai imparato a conoscerla.
Questo
fece sì che si rinchiudesse ancora di più nel suo
guscio, che s’immergesse ancora più a fondo.
Si sentiva
triste e abbattuto, perché non riusciva più a
gestire la sua storia, non riusciva più a comandare le sue
emozioni.
Era
così talmente stupido da non essere capace a continuare.
Taichi
lanciò loro uno sguardo. Notò che stavano
parlottando e che adesso si erano chiusi nuovamente in quella prigione
silenziosa.
Decise
di intervenire per non farli crollare ancora di più.
«Come
va con l’università?» chiese alla
ragazza, che alzò il viso e parve riprendersi.
«Oh,
tirocinio e poi ho finito»
Si
consolò pensando che presto anche lei come Joe avrebbe
concluso il suo percorso universitario durato ben cinque lunghi anni.
Tai
la guardò con ammirazione. Era sempre stata brava a scuola,
a differenza di lui e Matt che erano due capre in quasi tutte le
materie. Ricordava ancora con un sorriso tutte le strigliate da parte
sua perché non avevano mai voglia di studiare.
«Brava,
complimenti»
Continuarono
a parlare di qualcos’altro, battibeccando sopra un discorso e
ridendo su un altro. Il locale non era molto pieno, c’erano
solo loro in quel tavolo e qualcun altro lì vicino. Le
persone entravano ed uscivano.
In
mezzo ad un gruppo di ragazzi, una chioma rossa si fece largo chiedendo
scusa per averne spinto uno, e con una certa fretta, Koushiro si
volatilizzò di fronte a loro.
Aveva
il fiatone e li guardava come per accertarsi che fossero realmente chi
cercava, dopodiché sospirò di sollievo.
«Eccovi
qua, ragazzi, credevo foste seduti fuori»
Izzy
era magro e portava i capelli rosso mogano corti e ben pettinati. Non
vestiva molto alla moda, aveva uno stile tutto suo che guarniva la sua
personalità.
Non
era mai stato molto alto, e nonostante avesse venticinque anni compiuti
da poco non dimostrava la sua età.
Joe
prese subito la parola, anticipando Tai che stava per dire qualcosa.
«E
chi ce lo faceva fare, rosso pomodoro. Qui c’è
l’aria condizionata» chiamò anche lui
con uno degli antichi soprannomi che gli aveva affibbiato, e quello
aveva alzato un sopracciglio scuro.
Il
castano si avvicinò per salutarlo.
«Kou,
come stai?» si abbracciarono e poi si tirarono una pacca
amichevole.
Erano
sempre andati d’accordo. Koushiro era un ragazzo tranquillo e
a modo, se non era interrogato si faceva beatamente gli affari suoi,
anzi aveva più volte placato gli animi di tutti loro durante
le discussioni. Ricordò uno dei tanti episodi in cui Izzy
aveva intercesso da paciere quando lui e Matt avevano litigato una
volta tornati a Digiworld, un paio di anni fa.
«Bene,
Tai, e tu come stai?» si diedero un cinque, e questi
lanciò uno sguardo alla combriccola che ciarlava
rumorosamente.
«Bene.
Ci voleva» commentò spontaneamente, osservando i
suoi amici seduti insieme, riuniti ancora una volta in suo onore.
Era
così talmente fortunato ad avere accanto delle persone del
genere.
Il
rosso fece un sorriso ed annuì.
«A
chi lo dici» disse poi, sfumando le parole in una nota triste
e malinconica.
Taichi
lo fissò, cercando di capire perché avesse detto
in quel modo.
«E’
successo qualcosa?» gli chiese discretamente, mentre quello
negava con la testa e faceva uno sguardo enigmatico.
Furono
interrotti come al solito dai commenti di Joe, che si era rivolto ad
Izzy con un sorriso bislacco.
«Non
dirmi che ti sei portato il computer anche qui?»
Il
ragazzo alzò gli occhi al cielo, sedendosi in un angolo.
«No,
Joe, non avrebbe avuto senso» scandì le parole
come se questi fosse una bambino poco sveglio.
Il
più grande, che non voleva mai darla vinta a nessuno, si
avvicinò all’orecchio di Kari, seduta accanto a
lui.
«Anche
i suoi pantaloni e la sua maglia non hanno senso»
commentò come una comare pettegola.
La
castana cercò di trattenere le risate. Koushiro si vestiva
in modo semplice, aveva una maglia a maniche corte a righe e sopra un
gilè verde con la cerniera a zip, ma per Jyou ogni cosa era
un’occasione propizia per prendere in giro i suoi amici.
Gli
altri sapevano che scherzava e lo lasciavano perdere, lui era fatto
così.
«Sei
proprio un tipaccio» lo etichettò Takeru, con un
ghigno malizioso.
Il
ragazzo gli scompigliò i capelli con un sorriso.
«Come
te, fattone spilungone!»
Il
rosso aveva salutato anche gli altri e l’attenzione era tutta
rivolta verso di lui.
«Sono
secoli che non ci vediamo» aveva constatato Sora, e in
effetti aveva ragione. Era passato tanto tempo dall’ultima
volta che si erano incontrati.
Izzy
era un ragazzo che non usciva spesso, preferiva rimanere in casa a
studiare o a spiattellare con il computer. Studiava ingegneria
informatica e faceva parte del tutoraggio
dell’università.
«Cosa
stai facendo?» gli chiese Matt, mentre questi si raddrizzava
compostamente sul divanetto. Si schiarì la voce.
«Ho
dovuto rimettermi in pari con gli esami. Ero rimasto un po’
indietro a causa di... beh, di forze maggiori»
spiegò abbassando lo sguardo e torturandosi le mani.
Tai,
Matt e Sora si lanciarono degli sguardi interrogativi. Izzy non parlava
mai apertamente delle sue questioni personali, era riservato ed
introverso. Il tono con cui aveva parlato lasciava presagire che fosse
successo qualcosa di grave.
Joe
si avvicinò a TK e Kari, coprendosi la bocca e parlando a
bassa voce.
«Ho
sentito dire che Frankie c’era rimasta secca per un bel
po’ di tempo»
I
due più piccoli si avvicinarono interessati.
«Non
mi dire!» esclamò il biondino, con in volto
un’espressione sorpresa.
Non
riusciva a crederci che la ragazza di Koushiro fosse entrata in quel
giro. Eppure aveva delle conoscenze lì in mezzo, ma non
aveva mai incontrato Frankie.
Joe
lo aveva guardato con un sorrisino eloquente e gli aveva pizzicato
fastidiosamente una guancia.
«Non
tutti riescono a tenerla come fai tu, capo mastro»
Takeru
ridacchiò e gli tolse la mano. Hikari lo aveva guardato
preoccupata.
«Quindi
Frankie ha avuto problemi di droga?» non fu abbastanza
silenziosa, perché Taichi l’aveva sentita e aveva
alzato gli occhi su di loro.
Cosa
stavano confabulando? Era vero quello che dicevano?
Si
premurò di gettare un’occhiata al rosso
affinché non si accorgesse di nulla, ma Izzy stava parlando
ancora con Matt e Sora.
«Esatto.
Secondo me sniffava qualcosa, anche» continuò a
pettegolare Joe, con uno sguardo sardonico.
Il
castano scosse la testa, contrariato.
«L’ho
sempre detto io, che quella aveva qualche rotella fuori posto. Bastava
guardare i suoi piedi» fece un chiaro riferimento ad un
episodio passato in cui la bionda aveva lanciato il pallone fuori dal
campo durante una partita di calcio.
Da
quel giorno, l’aveva soprannominata “piedi
storti”.
Tai
lo guardò sbieco, pensando a quanto si divertisse Joe
nell’esagerare con le storie e nel tenere banco di fronte a
chi ne sapeva meno di lui.
Era
rimasto sempre il solito gradasso di tanti anni fa, nonostante avesse
ventisette anni e stesse per laurearsi.
Volse
lo sguardo verso Koushiro, che aveva smesso di parlare. Se
ciò che aveva raccontato quello smidollato era vero, voleva
che sapesse che loro lo avrebbero aiutato in qualunque circostanza.
«Noi
ci siamo, Izzy, ci saremo sempre per te» disse d’un
tratto, facendo alzare lo sguardo interrogativo del rosso.
Joe
fece una smorfia sorpresa, ma a prendere la parola fu anche Sora.
«Puoi
contare su di noi» gli fece l’eco, regalandogli un
sorriso.
Izzy
spostò lo sguardo su Yamato, che aveva incrociato le braccia
e aveva annuito, e sentì improvvisamente
l’emozione aumentare.
Nonostante
non avesse raccontato niente di tutto quello che era successo, loro
avevano già capito e gli facevano sentire tutto
l’affetto e la devozione che provavano. Avrebbe
potuto sempre fidarsi di loro, perché erano i suoi amici, e
anche se si vedevano poco, nulla era cambiato.
Dopo
un po’, TK fece uno sbadiglio.
«Non
ordiniamo niente, allora? Ho una sete!» esclamò
guardandoli con sufficienza. Era passata più di
mezz’ora e non avevano ancora chiamato il cameriere. Il sole
stava tramontando e lui ci stava mettendo le radici.
Joe,
come al solito, intervenne.
«Vuoi
un piccolo shottino alla frutta?» cinguettò
ingenuamente, mentre il biondino lo guardava strano.
«Veramente
preferirei un quattro bianchi»
Il
corvino lo fissò ammirato, pensando che i tempi in cui il
piccolo Takeru piangeva come una fontana e stava incollato alle sottane
di Yamato erano terminati.
«Ah
però, si tratta bene il piccolino»
commentò, sistemandosi gli occhiali.
Fece
un cenno al ragazzo di prima.
«Scusa, giovine!»
Sora
non fu d’accordo, e lo fermò da un braccio.
«Aspetta,
Joe, non vedi che manca qualcuno?»
Tai
aveva alzato appena la testa quando aveva sentito.
Era vero,
mancava solo lei.
Guardò
il tavolo di fronte a lui dove sedevano i suoi amici.
Sicuramente
si era rifiutata di venire, la conosceva bene. Non aveva intenzione di
andare a salutare il ragazzo che l’aveva lasciata, che non si
era fatto sentire per tutti quei mesi, che non l’aveva amata
abbastanza.
Sospirò,
passandosi una mano tra i capelli.
Era colpa
sua se non sarebbe venuta, lo aveva voluto lui.
La
conversazione continuava.
«E
chi, di grazia?» Il corvino aveva contato velocemente i
presenti e poi aveva fatto una smorfia
«Se
ti riferisci a quella stupida di Mimi, allora probabilmente
sarà a passeggio con quel manzo imbalsamato»
Taichi
si bloccò all’istante, irrigidendosi.
Sora
aveva intenzione di ucciderlo e, prontamente, lanciò uno
sguardo apprensivo verso il suo migliore amico che faceva finta di non
ascoltare.
«Sta
arrivando!» sbottò arrabbiata, spalancando gli
occhi come per fargli intendere che come al solito aveva la lingua
lunga e il cervello corto.
Joe
se ne rese conto e fece una faccia grave.
Mimi si
trovava insieme ad un’altra persona; gli pesava ammetterlo,
ma Joe aveva sicuramente ragione.
Doveva
aspettarselo, doveva essere pronto ad una cosa del genere.
Non poteva
pretendere che dopo circa due anni, lei fosse ancora lì ad
aspettarlo.
E tu cosa
stai facendo allora?
Io non lo
so.
Era giusto
che lei andasse avanti.
Tai
sentiva il cuore sprofondare lentamente.
Fanculo,
però non è giusto, non è giusto,
cazzo, non può essere così.
Perché
una persona doveva essere costretta a scegliere in quel modo; non si
poteva sempre avere tutto o era lui troppo vigliacco per accontentarsi?
«Eccola!»
annunciò d’un tratto Kari, e spostò
apaticamente gli occhi verso la porta che piano si apriva e vedeva
apparire lei, Mimi, in carne ed ossa, che camminava con esitazione e
con in volto uno sguardo titubante.
Era lei,
era arrivata davvero.
I
loro occhi s’incrociarono dopo tanto tempo, e Tai continuava
a sprofondare, sempre di più, ancora più
giù.
Gli
altri li guardavano con curiosità. Matt osservava
preoccupato il suo migliore amico.
La
ragazza avanzava verso il tavolo, e Taichi pensò che
nonostante fosse visibilmente agitato, doveva mantenere la calma e
salutarla.
Si
alzò in piedi sentendo le gambe molli, pronte a cedere. Mimi
era arrivata lì davanti e aveva guardato i suoi amici con
un’espressione trafelata.
«Ciao
a tutti, scusate il ritardo»
Joe
aveva il viso tra le mani e le aveva lanciato uno sguardo vago.
«Veramente
ci eravamo già dimenticati di te»
Sora
gli lanciò un calcio potente da sotto il tavolo, e lui
ululò dal dolore.
La
castana fece un sorrisino tirato, dopodiché alzò
lo sguardo su di lui,
che era in piedi e la guardava.
Sentiva il
cuore battere forte come un tamburo, era come se volesse fuoriuscire
dalla sua gabbia toracica, e il respiro cominciava ad essere corto e
irregolare.
Non appena
lo aveva saputo, si era fatta accompagnare subito.
Tai, lui
era lì, ed era alto, era bellissimo, era l’unico
ragazzo che avesse mai amato in tutta la sua vita.
Sentì
un brivido percorrerle la schiena.
Non avrebbe
mai pensato che una sola persona potesse provare insieme tutte quelle
sensazioni.
Si sentiva
una sciocca, si sentiva così debole di fronte a lui,
incapace di muovere un dito o dire qualcosa.
Lui
la guardava ed era tanto tempo che aveva desiderato di vederlo.
«Ciao»
sussurrò Tai, dopo un po’.
Sentire la
sua voce era come una beatitudine.
Sentì
improvvisamente un caldo immane.
«Ciao»
rispose al saluto, continuando a guardarlo, senza riuscire a togliergli
gli occhi di dosso.
Il
castano la guardava a sua volta e sembrava paralizzato.
Era bella,
era bellissima vestita in quel modo, con i capelli ondulati legati in
una morbida coda, con quella magliettina verde che metteva in evidenza
il suo corpo.
Aveva
voglia di avvicinarsi e stringerla forte, aveva voglia di dirle che gli
era mancato il suo sorriso, i suoi occhi, tutto...
«C-come
stai?» balbettò come un ragazzino alle prime armi.
Non
riusciva ed esserle indifferente, non riusciva.
Era una
lotta costante tra testa e cuore, e chi avrebbe avuto la meglio?
Mimi
si morse il labbro, abbassando per un attimo lo sguardo.
Non
riusciva ancora a crederci che lui fosse lì, che le stesse
rivolgendo la parola, che nonostante fosse passato così
tanto tempo non era cambiato niente.
Erano loro
due, chiusi in una bolla ad aspettare che qualcuno la scoppiasse.
Ci sarebbe
rimasta per sempre, là dentro.
«Bene»
rispose con la voce tremante «E tu?»
Tai
socchiuse gli occhi.
Era una
gara a chi avrebbe resistito di più, e nonostante lui amasse
vincere, non era sicuro di riuscire a tagliare il traguardo.
«Bene»
disse con voce roca, e avrebbe voluto aggiungere tante altre cose.
Mimi
lo guardava speranzosa, e lui, giurava a Dio, le avrebbe voluto
chiedere cosa faceva, dove era andata, con chi si era vista poco prima.
Ma non ne
aveva il diritto, non aveva il diritto di chiederle tutte quelle cose,
non aveva più nessun diritto sulla sua vita.
Con
l’amarezza nel cuore, si rimise a sedere e la vide fare lo
stesso, accomodandosi accanto a Koushiro e baciandogli le due guance.
Era tutto
ciò che aveva voluto e che aveva perso.
Si
sentì stringere il braccio da sotto il tavolo,
voltò lo sguardo e incontrò quello di Matt che lo
fissava per assicurarsi che stesse bene. Lui gli face un cenno per
fargli intendere che era tutto apposto.
Anche
Sora allungò una mano verso Mimi e la strinse tra la sua,
facendole un sorriso rassicurante. La castana la guardò
appena e si sforzò di ricambiare.
Finalmente
il cameriere si avvicinò.
«Che
prendete?»
Joe
prese la parola, abbracciando TK alla sua destra.
«Per
me e mio compare due quattro bianchi» dichiarò,
mentre quello scriveva e gli altri lo guardavano interrogativi.
Ogni
volta faceva il gradasso vantandosi di riuscire a bere gli alcolici
più forti senza ubriacarsi o sentirsi male, ma la
verità era che non riusciva a reggere neanche uno shottino.
«Ma
se nemmeno riesci a finirlo» osservò, infatti,
Izzy, rivolgendogli uno sguardo scettico.
Il
corvino fece finta di non sentire e parlò con il cameriere.
«Per
il cibernetico un’aranciata con poche bollicine»
«Smettila,
Joe!» si lamentò quello, mentre il ragazzo rideva
e lui correggeva l’ordine con un martini.
«Per
Kari pago io. Cosa desideri, cuore?» si sporse verso la
ragazza facendo il cascamorto, mentre lei rideva.
«Un
gin lemon, grazie»
Matt
approfittò della confusione che si era creata per
avvicinarsi di più a Sora.
Con
un gesto istintivo, le strinse il braccio che aveva poggiato sul tavolo
e la guardò negli occhi castani.
Non sapeva
cosa gli prendeva, a volte agiva senza pensare e gli faceva bene un
po’ di impulsività.
«Sora,
dobbiamo parlare» le sussurrò in tono perentorio,
e lei sentì il cuore sprofondare e subito dopo battere
più veloce.
Non sapeva
se lui gliel’avesse detto perché aveva capito
qualcosa o perché veramente aveva voglia di chiarire con lei.
Ma lui non
poteva sapere ciò che era successo quel pomeriggio,
perché c’erano solo lei e Victor,
nessun’altro oltre loro.
Cercò
di tranquillizzarsi, ma il cuore non ne voleva sapere di calmarsi.
Come
avrebbe reagito, Matt, se avesse saputo ciò che aveva fatto?
Sentì
lo stomaco chiudersi, assalita dal panico.
Si
sentiva così male, si sentiva così colpevole da
non riuscire quasi a guardarlo negli occhi. Aveva paura che lui lo
capisse, che potesse intendere qualcosa dalla sua voce, dal suo
sguardo, dal suo modo di comportarsi.
Doveva
dimenticare tutto.
Se voleva
ricominciare a stare bene con Matt, doveva fare finta che non fosse
successo niente.
«D’accordo»
annuì, pensando che sarebbe stato molto difficile.
Non era
brava a dire le bugie, non lo era mai stata.
E aveva
addosso una brutta sensazione che non la lasciava.
«Voi
quattro?» si rivolse a loro il cameriere, un po’
stufato da quella combriccola strana e chiassosa, specie da quel
curioso ragazzo dai capelli neri che continuava a dire idiozie.
La
ramata alzò lo sguardo.
«Uno
spritz» ordinò, ricordando una sera in cui lei e
Victor avevano fatto un aperitivo in un bar dall’altro lato
del quartiere che si affacciava sul mare.
Sia
Tai che Matt la fissarono chiedendosi da quando avesse cambiato gusti,
dato che era da sempre stata una tipa tradizionalista.
«Io
un cuba libre» fece il biondo, senza nemmeno alzare lo sguardo
Tai
si schiarì la voce,
«Va
bene anche per me. Tu cosa...?» si voltò
spontaneamente a guardare Mimi, bloccandosi subito non appena se ne
rese conto.
Quando
stavano insieme era abituato a chiederle sempre cosa prendeva, era un
po’ come un rito, voleva sapere prima di tutti ciò
che lei preferiva.
Forse era
un gesto un po’ egoistico, possessivo, ma gli era venuto
così naturale voltarsi a chiederglielo.
Mimi
strinse le labbra contornate da un po’ di rossetto e
tentò di calmarsi.
Reagisci,
stupida, non star lì impalata come un’idiota che
aspetta la manna dal cielo.
Prese
un respiro profondo, dopodiché si rivolse verso il cameriere
con un sorriso gigantesco.
«Una
vodka, grazie, come preferisci tu»
Tai
la guardò con un’espressione sorpresa. Si
era affidata a quel ragazzo con la semplicità più
pura di questo mondo, e lui adesso si trovava lì seduto
davanti a lei come un’idiota.
Era
libera di fare ciò che voleva, lui non aveva più
nessun diritto su di lei, continuava a ripetersi.
Mimi
non lo guardava, e lui si sentiva sprofondare.
Nonostante
cercasse di trovare un motivo razionale che lo tenesse ancorato,
sentiva di stare per staccarsi dalle sue radici.
«Che
fine ha fatto quella Luchia a cui sbavavi dietro?» chiese
d’un tratto TK a Joe, mentre quello alzava il volto con una
faccia altera.
«Io
le sbavavo dietro? Non dire stronzate!» esclamò
arrabbiato, diventando rosso in viso.
Luchia
era il grande amore di Jyou. Aveva trentacinque anni ed era una
ballerina professionista che aveva contattato tanti anni fa quando
avevano organizzato una festa di benvenuto in onore di Mimi. Si era da
subito infatuato di lei e da quel giorno la pedinava ovunque,
chiamandola in tutte le ore del giorno e della notte, nonostante lei lo
avesse sempre rifiutato.
«Quella
vecchiaccia adesso esce pazza per il sottoscritto, e voglio dire, chi
non lo sarebbe con questa faccia» si vantò,
beccandosi delle occhiate scettiche da parte dei suoi amici.
Sora
e Mimi si lanciarono uno sguardo eloquente. In realtà
sapevano che Joe ancora usciva pazzo per lei nonostante facesse finta
di disprezzarla, e ogni tanto Luchia veniva a casa e si chiudevano
insieme in stanza, Dio solo sapeva a fare cosa.
La
maggior parte delle volte, però, finivano per litigare e
mandarsi a quel paese.
Quando
i cocktail e gli apertivi arrivarono, ognuno si fiondò a
bere il proprio e mangiare, così per qualche secondo nessuno
disse più niente.
Tai
gettò uno sguardo al cocktail di Mimi, che era una vodka
alla pesca con quella che doveva essere una limonata.
Spostò
subito lo sguardo quando lei guardò lui.
«Quindi,
Taichi, da leader del gruppo hai pensato bene di riunirci tutti
qui» commentò Joe prendendo nuovamente la parola,
mentre faceva le bollicine con la cannuccia e sporcava il tavolo.
Il
castano fece una smorfia.
«Visto
che non ci vediamo da tanto tempo»
Il
più grande ebbe così tanta premura di
controbattere, che si affogò con il cocktail e gliene
uscì un po’ dal naso.
TK
e Kari risero a crepapelle.
«Lo
dici tu. Io con quelle due papere di Sora e Mimi ci convivo»
tossì Joe, mentre beveva facendo smorfie di disgusto.
«E’
proprio buono, ottima scelta» continuò a tossire,
schifato, ma era così orgoglioso da non volerlo dare a
vedere.
TK
scosse la testa, divertito.
La
castana si sentì chiamata in causa e alzò la
testa dal suo bicchiere, lanciandogli uno sguardo inceneritore.
«Oh,
piantala, Joe! Sei estremamente irritante!» si
lamentò, facendolo voltare verso di lei, indignato.
La
gola gli bruciava e gli lacrimavano gli occhi. Chi diavolo
gliel’aveva fatto fare di prendersi quella dannata sbobba?
«Vi
siete coalizzate contro di me!» urlò inviperito,
rimandando al fatto che le due ragazze, per punizione, lasciavano i
suoi piatti e le sue pentole sporchi in disparte senza lavarli al posto
suo e avevano nascosto piatti e bicchieri di plastica.
Mimi
gli lanciò contro la cannuccia del cocktail, bagnandogli la
maglia. Il ragazzo lanciò un urlo e gli altri scoppiarono a
ridere.
Tai
sorrise di rimando.
Era sempre
così simpatica e sapeva come difendersi.
«Se
facessi le pulizie e lavassi i piatti quand’è il
tuo turno, io e Sora non avremmo fatto questa coalizione»
spiegò con un ghigno, mentre la ramata annuiva e lo guardava
minacciosa.
Lui
si sentì in trappola, peraltro tutti i suoi amici adesso
avevano scoperto il suo segreto. Non poteva perdere la faccia da uomo
pulito e laureato, ma quelle due donne riuscivano sempre a batterlo.
«Stupide
stronze» ringhiò, mettendosi nuovamente a fare
bolle con il suo cocktail.
Sora
sentì il cellulare vibrare e lo prese in mano. Il cuore
batté più veloce quando lesse il destinatario di
quel messaggio.
Era Victor.
Dio, era
lui, era lui e gli diceva che voleva vederla, che voleva parlare con
lei, che non riusciva a non pensarla.
Si
fece piccola piccola e subito ripose il cellulare dentro la borsa, come
se si fosse appena scottata.
Oh Dio,
cosa diamine aveva combinato?
Si sentiva
come una criminale che doveva fuggire per difendersi, cancellare tutte
le tracce e agire nell’ombra.
Perché
era dovuto succedere tutto quello?
Non le
piaceva, non le piaceva quella situazione.
Matt
si accorse che le era arrivato un messaggio e l’aveva vista
leggerlo di sottecchi. Non sapeva chi fosse che la cercava, ma aveva
notato quella ruga di preoccupazione sul suo viso.
Forse era
esageratamente geloso, sì lo ammetteva, però
sarebbe stato meglio cogliere il momento propizio e parlare al
più presto.
Koushiro
riportò l’attenzione su Taichi.
«Non
ci hai ancora detto come va Kyoto»
Ed
effettivamente non aveva aperto bocca su quell’argomento. Il
castano si scompigliò i capelli e si sforzò di
non deludere le loro aspettative.
Lo
guardavano tutti, erano tutti curiosi di sapere cosa stesse facendo.
Anche Mimi aveva alzato gli occhi castani e lo fissava.
«Oh,
tutto bene, sì» dissimulò, cercando di
sorridere «C’era una pausa e ho deciso di
tornare»
Era
ancora sotto gli sguardi indagatori dei suoi amici e il rosso aveva
continuato.
«Quanto
starai?»
Aspettavano
tutti la risposta a quella fatidica domanda.
Tai
sospirò, e pensò alle parole di Akira. Era
costretto a tornare, era costretto ad eseguire gli ordini e sarebbe al
più presto stato trasferito.
«Una
settimana»
I
ragazzi si guardarono tra di loro, sorpresi e interrogativi.
«Così
poco?!» aveva ribattuto sua sorella Kari, mentre la tristezza
la pervadeva.
Suo
fratello era appena arrivato e già avrebbe dovuto ripartire
tra qualche giorno, era un’ ingiustizia. Voleva che Tai
rimanesse, lo voleva con tutta sé stessa.
Suo
fratello annuì, guardandola con un sorrisino rassegnato.
Mimi
sentì distrattamente i pezzi del suo cuore venire via.
D’altronde,
doveva aspettarselo.
Lui era
impegnato con la sua squadra, era impegnato a seguire il suo sogno e
non c’era niente di più importante per lui che
quello.
Come aveva
fatto anche per un solo secondo ad aver pensato che potesse stare di
più, che fosse tornato perché sentiva la sua
mancanza?
Le
vennero le lacrime agli occhi.
A
dar voce ai suoi pensieri fu Matt, che accanto al suo migliore amico
aveva stretto un pugno e si era rivolto a lui con uno sguardo duro.
«Non
puoi cercare di convincere il tuo allenatore?» lo guardava
serio, e Tai provò tanto affetto per lui, perché
sentiva che avrebbe voluto davvero che lui rimanesse.
Scosse
la testa.
«E’
una testa di cazzo, non mi ascolterà»
Ormai
viveva nella rassegnazione più totale, nel baratro
più oscuro che aveva risucchiato la sua esistenza.
La luce era
lontana e lui non riusciva a muovere un passo per raggiungerla.
Il
biondo non demorse.
«Ma
questa è anche la tua vita!» urlò,
facendo sussultare tutti.
Sora
lo guardò candidamente, e pensò che teneva tanto
a quell’amicizia, avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di far
sì che Tai restasse lì.
Non voleva
che lui andasse via, non era ancora pronto a dirgli addio
un’altra volta, non ora che aveva bisogno di lui, non ora che
si trovava da solo.
Il
castano lo guardò, si guardarono. Riuscivano a leggersi
negli occhi, era sempre stato così. La loro amicizia era
salda e incomparabile, un legame profondo che niente e nessuno avrebbe
mai potuto spezzare.
Taichi
sospirò.
Aveva
ragione a dirgli che quella era la sua vita, lui stesso ne era
consapevole. Era consapevole del fatto che avrebbe dovuto lasciare
tutto per andare lì, che lo aveva dovuto fare quando ancora
non era pronto a fare i conti con sé stesso, quando ancora
tutto gli sembrava gestibile.
Perché
Tai era sempre stato ottimista, niente lo aveva piegato, niente lo
aveva vinto.
Guardava
la vita con un ghigno di arroganza e determinazione, superava le
avversità con lo spirito combattivo che lo aveva da sempre
contraddistinto.
Ma adesso?
Adesso
aveva venticinque anni, era cresciuto, era maturato, il suo ottimismo
era sempre di più scemato.
Seguire un
sogno che eludeva la sua vera vita, la sua famiglia, i suoi amici,
l’amore... non riusciva a capire se fosse davvero un sogno o
un incubo.
Istintivamente,
guardò Mimi e lei lo stava già osservando da
tanto.
Cos’erano
valsi tutti quegli anni senza di lei?
Dov’era
la vera felicità dietro a tutto quello?
«Lo
so» ammise, ma non disse altro.
Yamato
lo fissò per un altro po’ di tempo, poi
voltò lo sguardo da un’altra parte. Sapeva che ci
era rimasto male, un po’ come tutti gli altri. Sora lo
guardava con un’espressione dispiaciuta, e si
premurò di accarezzarle il braccio.
Avrebbe
potuto dire loro di non preoccuparsi, di non rattristirsi se lui non
poteva stare per molto tempo, che la quantità di tempo era
relativa, l’importante era stare insieme senza mai perdersi.
Avrebbe
tanto voluto dirlo, Taichi, tranquillizzare gli animi di tutti, fare un
gran sorriso come avrebbe fatto una volta.
Una
volta li avrebbe incoraggiati e magari anche presi in giro; avrebbe
incitato loro a non buttarsi giù, a non arrendersi alle
più piccole difficoltà, perché insieme
avevano superato pericoli ben più grandi e solo uniti
potevano farcela.
Ma non era
più come una volta; adesso Tai sentiva solo una sensazione
di vuoto dentro che lo spiazzava...
Sentiva che
era cambiato e forse si stava arrendendo anche lui...
Koushiro
decise di rompere quel silenzio creatosi, gettando uno sguardo a Yamato
che fissava insistentemente fuori.
«E
tu, Matt, come va con la band?» credeva di aver fatto
un’opera di bene cambiando il discorso e portando
l’attenzione sul biondo.
Ma
forse il ruolo da mediano non gli calzava più.
Questi
si voltò lentamente, colpito nel segno. Aveva cercato di
sotterrare la questione e non pensarci più, ma era
impossibile.
Era
impossibile fare finta di niente, come se tutto andasse bene e lui
fosse felice.
La
verità gli straziava il cuore, e la cosa più
dolorosa era che lui lo aveva sempre saputo.
Aveva
sempre saputo che non avrebbe avuto futuro, che quella band stava in
piedi per miracolo, che gli altri ragazzi avevano provato
più volte ad allontanarsi.
Era stato
l’unico filo conduttore per tutti quegli anni, e si rese
conto di quanto era stato stupido.
I
suoi amici avevano voltato gli sguardi verso di lui, curiosi di sapere.
Aveva sentito Tai sospirare e aveva fatto un sorriso amaro.
«Ci
siamo sciolti, a dire il vero» incrociò le
braccia, dicendolo con una semplicità glaciale. Ed
era così Matt, diceva le cose sempre con quel tono duro e
sprezzante, ma la verità era che ci teneva in tutto quello
che faceva.
La
musica era una di queste. Era
la sua vita, il suo unico obbiettivo, la luce in fondo al suo tunnel
che faticava tanto per raggiungere.
Pensò
questo anche Sora che, spiazzata, si voltò a guardarlo con
gli occhi spalancati.
«Davvero?!»
esclamò, mentre si portava una mano alla bocca.
Non
poteva crederci, era tutto quello che aveva sempre agognato... Era uno
dei motivi per cui avevano incominciato a vedersi sempre più
di meno...
Lui aveva
messo la sua band prima di tutto, persino prima di lei. E nonostante
avesse più volte rimpianto i tempi in cui niente poteva
intromettersi tra di loro, non avrebbe mai voluto che succedesse questo.
Matt
fece per parlare, per provare a dare delle risposte a quelle numerose
domande. Fu, però, suo fratello Takeru a prendere la parola
e a farlo ammutolire.
«Era
per questo che rompevi le palle perché non volevo studiare e
me ne andavo in giro. Tu, nel frattempo, avevi perso ogni speranza e ti
mangiavi il fegato»
Lo
aveva guardato con un sorrisino amaro, e lui aveva aperto la bocca,
spiazzato, senza che ne uscisse alcun suono.
I
ragazzi li fissavano interdetti, solo Izzy disse qualcosa.
«Takeru,
cosa dici?» lo rimproverò, ma il più
piccolo non demorse.
Suo
fratello maggiore non smetteva di fargli pesare il fatto che non avesse
continuato gli studi e che facesse il pendolaro un po’ in
ogni dove. Criticava le sue scelte senza che ne avesse realmente il
diritto, e adesso era stufo.
Era
stufo che gli venisse detto ciò che era giusto o non era
giusto fare, sapeva badare a sé stesso, forse più
di quanto riuscisse a farlo Yamato.
Gettò
uno sguardo a Sora, che lo guardava con un’espressione
indecifrabile. Aveva capito che tra di loro non andava bene, non era
uno stupido, e credeva fosse migliore di lui?
Lui amava
Hikari e non avrebbe mai permesso che questa si allontanasse da lui,
mai, perché era la donna della sua vita e per lei avrebbe
fatto di tutto.
Matt,
invece, era diventato bravo a demordere, come lo stava facendo Tai,
come lo aveva fatto Izzy, e Mimi già da tempo... Nessuno
di loro credeva realmente in sé stesso, forse solo Joe,
nella sua stravaganza, ma la verità era che nessuno dei suoi
amici aveva la speranza nel cuore.
«E’
sempre stato bravo a sottolineare i fallimenti altrui, ma i
suoi...» gli si spezzò la voce, non volle
più continuare perché sapeva che avrebbe detto
qualcosa che lo avrebbe ferito.
Suo
fratello alzò gli occhi nel sentire quelle parole, e gli
rivolse uno sguardo di fuoco.
TK
si era messo in testa di volerla avere vinta a tutti costi, aveva
intrapreso quella battaglia contro di lui senza sentire ragioni.
Credeva che mettersi contro chi lo ostacolava potesse renderlo
più forte, più consapevole, ma si sbagliava.
Perché
anche se era cresciuto doveva fare ancora i conti con sé
stesso, e quelli erano veramente duri da fare.
Tu non sai
cosa ho dentro, non puoi capire quanta malinconia porto nel cuore.
Io non sto
bene qui fuori, non sto bene con nessuno
«Credi
di aver capito tutto della vita?» ribatté con un
tono sferzante, ed era questo ciò che detestava di Matt, il
fatto che non ammettesse i suoi errori e si chiudesse nella sua
prigione interiore del cazzo che lo rendeva infelice.
Il
biondino strinse i pugni, gli altri lo guardarono preoccupati.
«Me
la spiàno la mia cazzo di vita» gli fece intendere
che non avrebbe mai mollato come invece aveva fatto lui.
Era
per questo che si sentiva superiore, e non perché avesse
ventitré anni e stava scoprendo il mondo.
Riusciva a
guardare oltre.
Tu non sai
di cosa ho bisogno io per essere me stesso, tu non sai cosa voglio fare
io della mia vita, perché non riesci ad aprirti al mondo.
Io, invece,
col mondo ci convivo.
La
tensione che si era creata era palpabile e Tai strinse il braccio del
suo migliore amico per calmarlo.
«Matt,
dai, lascia stare» gli sussurrò, e piano piano il
respiro del biondo tornò regolare.
Kari
aveva fatto lo stesso con il suo fidanzato, e per smorzare
quell’atmosfera lugubre, si rivolse a Mimi, pensando di
rivolgerle qualche domanda e chiudere definitivamente il discorso.
«E
tu, Mimi, a che punto sei?» lo chiese con un tono un
po’ forzato, con la voce che le tremava.
I
due fratelli si guardavano ancora.
La
castana alzò la testa che aveva tenuta abbassata per tutto
il tempo della discussione. Non le erano mai piaciuti gli scontri, sia
quelli fisici che verbali.
Si
sentì chiamare e si passò una ciocca di capelli
lasciata libera dietro l’orecchio.
«Oh,
mi mancano due esami e richiedo la tesi. Non vedo l’ora di
finire!»
Kari
le rivolse un gran sorriso, specie quando notò che TK si era
alzato ed era andato fuori a fumare una sigaretta.
Le
sorrise allettata, poi lanciò uno sguardo eloquente a suo
fratello che, aveva notato, la guardava di nascosto.
Conosceva
benissimo Tai, e capiva quando qualcosa o qualcuno non gli era
indifferente.
Il
fatto che entrambi si ostinassero a fare finta di niente, questo non lo
capiva.
Il
castano rimuginò, pensando alle parole della ragazza.
Non
sapeva che avesse quasi finito con l’università...
non sapeva più niente della sua vita...
Quando
stavano insieme e non superava qualche esame le diceva che perdeva
subito la pazienza e non si impegnava veramente.
Adesso,
invece, aveva perso lei...
I
loro occhi si cercarono ancora, ma furono troppo codardi per mantenere
quel contatto, nonostante lo ricercassero insistentemente.
Sora
seguì con lo sguardo Matt che si era alzato per andare in
bagno.
Avrebbe
voluto seguirlo; fosse stato tempo fa sarebbe andata da lui a
consolarlo, a dirgli di non preoccuparsi se tutto era crollato
all’improvviso perché ogni sforzo lentamente
sarebbe stato ripagato.
Lo avrebbe
abbracciato, baciato, consolato per la lite avuta con suo fratello...
Ma adesso
non riusciva a muovere un passo.
Era
bloccata, imprigionata da quei sensi di colpa che sembravano volerla
soffocare.
Ripresero
a parlare tra di loro. Le acque si erano calmate, e dopo un
po’, entrambi i fratelli tornarono al proprio posto.
Nessuno
fece riferimento all’accaduto.
Joe,
che era stato in silenzio per tutto quel tempo, prese la parola.
«Perché
non parliamo un po’ di me?» non appena lo
sentirono, tutti fecero una smorfia.
«Domani
rosicherete come matti nel vedermi agghindato in quel modo»
ghignò perfido, alludendo al fatto che si sarebbe laureato e
avrebbe indossato la tunica.
Tai
si era accasciato sul tavolo, Matt era praticamente sdraiato con la
testa all’insù, Sora si era portata una mano in
viso, Izzy aveva detto qualcosa tra i denti e gli altri avevano
sbuffato.
Joe
perseverava.
«Quando
verrò proclamato dottore e la corona d’ alloro
verrà adagiata sul mio capo, potrò sentire i
sospiri di dolore provenire dalle vostre bocche invidiose»
Nell’udire
quelle parole, tutti incominciarono a spingerlo e a tirargli pacche
sulla schiena. Tai e Matt lo afferrarono dalle braccia e lui
urlò spaventato.
«Ma
smettila, burino!»
Scoppiarono
a ridere quando lo videro intrappolato tra le grinfie dei due ragazzi.
Joe aveva sempre avuto timore di loro, quando erano più
piccoli le prendeva ogni volta senza eccezioni.
Nonostante
il corvino fosse esagerato e si vantasse all’inverosimile,
riusciva sempre a sdrammatizzare ogni situazione, era per questo che in
fondo tutti gli volevano bene.
Mentre
cercava di liberarsi, urlava contro di loro come un ossesso.
«Vi
laureate voi in medicina, eh?! Rosiconi!»
Tai
lo aveva zittito, scompigliandogli in modo brusco i capelli. Ed
effettivamente aveva ragione, non era cosa da tutti riuscire a portare
a termine quegli studi, però era troppo chiassoso, la doveva
pagare.
Lo
lasciò tra le grinfie di Izzy, che si vendicava delle offese
ricevute, togliendogli gli occhiali e facendo in modo che tutti se li
passassero, mentre quello, invano, tentava di recuperarli.
Taichi
rise a crepapelle. Finiva sempre in quel modo con quel burino di Jyou:
nonostante fossero cresciuti tutti, concludevano sempre a modo loro.
Si
alzò e raggiunse il bancone con l’intento di
andare a pagare. Gettò loro un altro sguardo affettuoso, e
pensò che gli era mancato tutto quello più
dell’aria, più di ogni cosa.
Nonostante
le incomprensioni, nonostante gli ostacoli da superare, nonostante la
vita li stesse mettendo di fronte a delle scelte, loro sarebbero
rimasti uniti.
Sempre.
Non
appena si accorsero che si era defilato per offrire a tutti, lo
raggiunsero e si opposero categoricamente. Matt e Izzy tentarono di
afferrarlo e portarlo via, ma era molto difficile distogliere Tai
quando si metteva una cosa in testa.
Pagò
per tutti e sorrise. Loro fecero lo stesso.
Era
fortunato ad avere degli amici come loro.
Mimi
rimase gradevolmente stupita da quel gesto, e non appena i loro occhi
s’incrociarono nuovamente, si convinse.
Doveva
farlo.
Adesso
più che mai.
Il
telefono squillò un paio di volte e Shinichi si
affrettò per rispondere. Erano le otto di sera, non si
aspettava che lei lo chiamasse a quell’ora.
Rispose
un po’ titubante, sentendo un brutta sensazione.
«Shinichi»
lo chiamò Mimi, non appena udì la sua voce.
Il
ragazzo fece un gran respiro prima di parlare.
«Mimi,
dimmi»
La
ragazza gettò uno sguardo agli altri che si erano
già messi in cammino per tornare a casa.
Doveva
farlo adesso o non l’avrebbe fatto più.
Era troppo
importante.
«Ascoltami,
io... avevi detto di parlare se avessi avuto qualcosa e adesso io... te
lo devo dire» prese fiato, sentendo il cuore battere
più forte e non era perché temeva il confronto.
Era la
consapevolezza di quello che provava, la consapevolezza di quali
fossero i suoi veri sentimenti che le facevano provare tutte quelle sensazioni.
Sentì
l’adrenalina pervaderla.
«Cosa?»
domandò quello, confuso.
Mimi
prese un respiro profondo e si convinse.
Lei era
come Tai in quello, quando era sicura di qualcosa non perdeva tempo.
«Non
possiamo continuare a vederci. Mi dispiace, ma non ce la
faccio» aveva buttato giù, e le dispiaceva davvero
dover troncare in quel modo quella frequentazione. Shinichi era un
bravo ragazzo, era stata bene, ma non era lui che voleva.
Tai, era
lui, era dovunque.
Era sempre
stato Tai.
Lo aveva
visto, lo aveva sentito parlare, si erano guardati e lo aveva capito.
Era
più forte di lei, e non era una stupida a pensare che dopo
questo lui sarebbe tornato con lei, ma non era giusto continuare ad
illudere un’altra persona.
Per questo
non aveva aspettato, per questo aveva preferito farlo subito.
«Perché
non ce la fai? Cos’è successo?» Lui
voleva delle spiegazioni, ma non poteva dargliele, perché
era stata dura ammetterlo a sé stessa, non poteva dirgli
ciò che realmente provava.
«Lo
hai detto tu, Shinichi» citò le sue parole,
sperando che lui capisse
«Se
fosse successo qualcosa, di parlare... io, mi dispiace, ma devo
già scusarmi con me stessa per essermi presa in giro per
tutto questo tempo... E tu... sei un bravo ragazzo, meriti qualcuna che
non sia con la testa tra le nuvole»
Era per
questo che era assente, era per questo motivo che non riusciva ad
avvicinarsi, era a causa di questo che aveva la testa tra le nuvole.
Pensava a
lui.
Pensava a
lui e basta.
Shinichi
cercò di ribattere, spiazzato da tutte quelle affermazioni.
«Ma
Mimi, io non volevo dire-»
Lei
sorrise e sentì Sora che la chiamava, ormai lontana.
«So
quello che volevi dire. E ti dico che sì, avevi
ragione» interruppe la telefonata lasciandolo con quella
frase, senza che avesse il tempo di replicare.
Corse
in direzione della sua migliore amica più serena,
più libera, consapevole del fatto che non avrebbe
più continuato a mentire.
Era questo
ciò di cui aveva bisogno, era questo che aspettava da tanti
mesi a quella parte.
Liberarsi
da quella persona che non era lei, che non lo era mai stata, e gettarsi
a capofitto dentro quell’onda di sentimenti che non
l’avevano mai abbandonata.
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Capitolo 5 *** Incertezze ***
Era da
così tanto tempo che non dormiva sul suo letto che gli era
perso così comodo da non volersi più svegliare.
Taichi
sbadigliò e si stiracchiò le braccia, afferrando
a tentoni il cellulare con l’intento di chiudere la sveglia.
Era una musichetta insopportabile, gli ricordava quando era costretto
ad alzarsi presto per andare agli allenamenti.
Scese dal
letto e lentamente raggiunse la cucina. Un odore di caffè lo
investì in pieno, facendogli chiudere gli occhi. Era da
così tanto tempo che non percorreva quel corridoio, credeva
perfino di averne dimenticato i contorni.
Quasi aveva
dimenticato di quanto grande e accogliente fosse casa sua, di quanto
amasse l’odore che rimaneva impregnato in quelle pareti.
L’odore
di casa, di famiglia, di affetto.
Vide sua
madre che, di spalle, preparava la colazione e nello stesso tempo
canticchiava delle strofe di qualche canzone che apparteneva alla sua
gioventù.
Lei era
sempre allegra, cantava ovunque e si sforzava di non far mancare niente
a nessuno di loro.
Tai
pensò che la fretta di crescere e diventare grandi faceva
dimenticare quanto prezioso fosse il tempo da trascorrere con i
genitori.
Senza farsi
sentire, andò dietro di lei e
l’abbracciò, alzandola un poco da terra. La donna
smise di trafficare quando si sentì agguantata da quella
presa ferrea e si voltò a guardarlo impaurita, poi si
rasserenò quando constatò la sua presenza.
Il ragazzo
scoppiò a ridere e la rimise per terra. Era piccola e
delicata, la sua cara mammina. Avrebbe potuto alzarla con un solo
braccio.
«Buongiorno,
mà» la salutò, chinandosi per darle un
bacio sulla guancia.
Yuuko gli
sorrise, guardandolo con orgoglio. Suo figlio Taichi era diventato un
uomo bellissimo ed era fiera di tutto ciò che faceva.
«Buongiorno,
tesoro. Non sono più abituata a questi baci la
mattina» ammise, mentre gli versava il caffè e
glielo porgeva.
Tai, nel
frattempo, l’aveva attirata a sé e
l’aveva stretta in un abbraccio affettuoso. Aveva appoggiato
il mento sulla sua testa e aveva sorriso.
«Adesso
potrai avermi tutto per te» le disse sornione, mentre quella
rideva.
Gli era
mancato così tanto il suo bambino. Da quando si era
trasferito non era passato giorno che non aveva sentito la sua
mancanza. La sua allegria, il suo ottimismo, le sue battute, tutto
mancava in quella casa.
Quel
bambino di undici anni era diventato un uomo e lei pensava con
nostalgia al fatto che sarebbe sempre più andato lontano da
loro, che avrebbe preso scelte molto importanti per il suo futuro e,
nonostante lo incoraggiasse, il suo amore di madre voleva che rimanesse
per sempre lì, in quella casa.
Taichi
guardò malinconicamente fuori dal balcone, dove il cielo era
grigio e il sole faticava ad uscire.
Una volta
era sua madre che lo abbracciava così stretto, che gli
sussurrava di alzarsi quando cadeva, che alzava la voce quando
combinava qualche marachella. Adesso si ritrovava a farlo lui, a
tenerla stretta tra le sue braccia senza volerla lasciare andare,
facendo attenzione a non stringerla forte per non farle male.
Si morse il
labbro, pensando a quante cose erano cambiate.
Chi era
diventato?
Per cosa
stava combattendo?
Chi era
veramente Taichi?
Quei
pensieri tristi vennero scacciati all’improvviso da sua
sorella che entrò premurandosi di fare rumore.
«Ehi,
smettetela, sono gelosa!» aveva esclamato con le braccia
incrociate, mentre li fissava con un cipiglio.
Loro madre
si mise a ridere e Tai cambiò espressione. Le fece una
linguaccia e strinse ancora di più Yuuko, mentre Hikari
tentava di portarla via da lui.
«Tu
hai papà, fattelo bastare» diceva il
più grande, prendendola in giro.
Nel
frattempo, questi era entrato in cucina e Kari si era attaccata al suo
braccio, indicando la scena che le si presentava davanti.
«Diglielo
tu, papà, che devono smetterla»
Susumu
aveva scosso la testa cercando di mantenere le risate e poi aveva
assunto un’espressione corrucciata per dare man forte alla
figlia.
Tai lo
guardava con un sorriso, gli ricordava tanto lui quando si accingeva a
dire qualcosa di importante, avevano lo stesso temperamento.
«Certo,
smettetela subito e abbracciate anche la piccola» aveva
ordinato, infatti, e sua sorella aveva fatto un sorriso vittorioso e si
era fiondata da loro.
Tai aveva
mollato sua madre e aveva allargato le braccia per accogliere Kari.
Quella si accoccolò dal fratello, e i due si misero a ridere.
Sembrava di
essere tornato indietro nel tempo.
Non
sarebbero cambiati mai.
Niente era
cambiato e a lui stava bene così.
D’un
tratto l’attenzione fu catturata da suo padre, che
approfittando del caos appena creato, si era avvicinato a sua madre e
parlottava a bassa voce.
«Yuuko,
dobbiamo sbrigare quella faccenda» aveva sussurrato, e Tai si
sporse per sentire.
La donna si
era voltata a fulminarlo con lo sguardo, dopodiché aveva
continuato a fare quello che stava facendo.
Kari, nel
frattempo, gli stava dicendo qualcosa, ma lui non la sentiva. Era
curioso di sapere di cosa stavano parlando.
Che
faccenda riguardava?
«Possiamo
parlare dopo, adesso non mi sembra il momento» aggiunse poi
sua madre, mentre Susumu alzava gli occhi al cielo.
«Il
termine scade tra una settimana» ricordò alla
moglie e quella, con uno scatto, tentò di chiudere il
discorso.
«Voglio
stare un po’ con mio figlio» aveva affermato
guardando seriamente il marito.
La
discussione si concluse e Tai continuò a guardare i genitori
interrogativo.
Non capiva
di cosa stavano parlando, ma dal tono che aveva utilizzato suo padre
doveva essere qualcosa di importante.
Sua sorella
gli aveva tirato uno sberletto dato che aveva smesso di sentirla e lo
aveva lasciato da solo al centro della cucina.
Sua madre
continuava a sistemare le cose che erano rimaste nel lavello e lui
sorseggiò un po’ di caffè, guardandola
di sottecchi.
Si
respirava aria tesa e qualcosa gli diceva che non era una questione da
prendere sottogamba.
I suoi
genitori avevano sempre cercato di tagliare fuori dalle faccende
private sia lui che Kari, ma erano finiti i tempi in cui lui era un
ragazzino sconsiderato che pensava solo ai giochi.
Era un
uomo, aveva venticinque anni e tutto ciò che succedeva in
casa sua lo riguardava, anche se non abitava più
lì con loro.
Quando suo
padre uscì dalla cucina, si rivolse a sua madre.
«Va
tutto bene?» le chiese apprensivo, perché era
così, Taichi, aveva quel forte senso di protezione verso le
persone che amava che lo aveva da sempre contraddistinto.
Yuuko gli
rivolse un sorriso radioso e pensò che sua mamma era davvero
una donna splendida. I capelli castani così simili ai suoi
erano legati in una coda bassa e i suoi occhi grandi gli ricordavano
tanto quelli di Hikari.
«Sì,
non preoccuparti» asciugava piatti e bicchieri che erano
rimasti e cercava di dissimulare, ma non era uno stupido, aveva capito
che c’era qualcosa che non andava.
«Dovete
prepararvi. A che ora è la laurea?»
Improvvisamente
si ricordò della laurea di Joe e si morse il labbro. Forse
non era il momento più appropriato per aprire la discussione.
«Alle
dieci» rispose e controllò il cellulare per vedere
quanto tempo gli rimaneva prima di mettersi in cammino.
Kari, nel
frattempo, era entrata per prendere qualcosa che aveva lasciato.
«Allora
andate, su, che cosa aspettate!»
l’incitò, facendo intendere che se non si davano
una mossa avrebbero certamente ritardato
Sua sorella
stava per aggiungere qualcosa, ma loro madre l’interruppe.
«Sbrigati,
Kari, non fare aspettare tuo fratello» le disse, mentre la
ragazza lo guardava di sottecchi facendo finta di essersi offesa.
Solitamente
era lei la più coccolata di casa, e adesso che Tai era
tornato, invece, la sua mammina non aveva occhi che per il suo
primogenito.
Lo
minacciò di colpirlo con il suo beauty case e poi
lasciò la stanza ridendo, chiudendosi in bagno. Almeno
su quello voleva la prerogativa.
Il ragazzo
si alzò per sparecchiare.
Le parole
dei suoi genitori gli rimbombavano ancora in testa e lui non riusciva
ad uscire indifferente dalle situazioni.
Continuava
a guardare la donna pulire la cucina e decise di parlare.
«Mamma»
la chiamò, e quella si voltò a guardarlo.
«Sì,
Tai?» disse, sforzandosi di utilizzare un tono neutro.
Voleva
dirle che se c’era qualcosa che bisognava sistemare avrebbe
fatto tutto lui, che era cresciuto, che si sarebbe addossato tutte le
responsabilità della sua casa.
Non era
più quel ragazzino immaturo di tanti anni fa, semmai era
diventato ancora più cupo e malinconico, ma una cosa era
certa, avrebbe aiutato la sua famiglia in qualsiasi circostanza.
Ci sarebbe
stato sempre per loro.
«C’è
qualcosa che devi dirmi?» domandò con fermezza,
guardandola seriamente negli occhi.
Yuuko
pensò che sarebbe stato impossibile mentire a suo figlio,
perché quando assumeva quell’atteggiamento gli
sembrava già un adulto, e forse era lei quella a non volerlo
accettare pienamente.
Taichi era
diventato un uomo e lei non doveva essere egoista, doveva accettare che
suo figlio era pronto per vivere la sua vita senza di lei, senza che lo
proteggesse da ogni male del mondo.
Nonostante
il volto serio e risoluto di Tai l’intimoriva, decise di non
parlargliene per non angosciarlo. Sarebbe rimasto per pochi giorni e
non voleva coinvolgerlo in questioni che potevano sbrigare da soli.
«No,
sono solo felice che mio figlio sia tornato a casa» sorrise
ancora una volta, e il castano pensò che se aveva ereditato
da qualcuno la testardaggine di certo era stato da sua madre.
Si
avvicinò e l’abbracciò ancora una volta.
Le
esperienze che aveva raccattato gli avevano fatto capire come niente
fosse scontato, come tutto venisse messo in discussione quando meno ce
lo si aspettava.
Aveva
capito il modo in cui andava la vita, e nonostante sua madre faceva
finta di niente per proteggerlo, toccava a lui, adesso, proteggere lei.
«Anch’io,
mamma» mormorò, guardando il vuoto.
La sua
famiglia, la sua casa... Tutto quello aveva da sempre fatto parte di
lui e aveva fatto sì che diventasse l’uomo che era
diventato.
Era vero
che si capiva l’importanza e il valore di qualcosa quando la
si lasciava andare, e adesso più che mai capiva quanto i
suoi genitori avessero fatto per lui e Tai glielo doveva, si disse,
ogni cosa la doveva a loro.
Ogni
più piccola cosa di quello che era diventato la doveva a
loro, e non avrebbe permesso che qualcosa o qualcuno avrebbe potuto
fare del male alla sua famiglia.
Perché
nonostante fosse cresciuto, nonostante fosse cambiato, nonostante
avesse modificato il suo stile di vita era sempre lui, aveva sempre
messo al primo posto le persone che amava.
Forse era
per questo che a Kyoto la vita incominciava ad essere stretta,
perché aveva incominciato a fare i conti con sé
stesso.
Diede un
bacio sulla testa di sua madre e lasciò la cucina per andare
a prepararsi.
Non aveva
mai mancato alle sue responsabilità, non si era mai tirato
indietro e avrebbe aiutato la sua famiglia qualsiasi cosa fosse
successa.
*****
Si era
svegliata presto e aveva preparato il caffè per riprendersi
da quella lunga nottata.
Il suo era
stato un sonno agitato, non era riuscita a fare a meno di pensare e
ripensare a ciò che era successo il giorno prima.
Lei e
Victor si erano baciati.
Deglutì
piano, mentre il suo sguardo era perso nel vuoto e una brutta
sensazione le attanagliava il petto.
I sensi di
colpa la stritolavano fino quasi a prosciugare le sue forze, e si
chiese se era questo a cui era destinata.
Si chiese
se non fosse destinata a vivere con quel rimorso per sempre, se avesse
dovuto soffrire per essersi lasciata così andare, se tutto
quello fosse una pena che doveva scontare per aver sbagliato.
Si
lasciò cadere in una sedia, passandosi una mano tra i
capelli. La pancia le doleva e provava un forte senso di nausea.
Cosa
avrebbe dovuto fare, adesso?
Era
così difficile fingere che non fosse successo niente di
tutto quello, che non provasse niente per Victor, che la sua fosse
stata solo un’avventatezza dovuta al fatto che si sentisse
così sola e disperata?
Stava
trovando davvero una giustificazione?
Matt
meritava veramente quello?
Nonostante
stessero continuando quella battaglia silenziosa, lui meritava
veramente di essere trattato in quel modo?
Ripensò
a tutto ciò che avevano passato insieme, nella sua testa
scorrevano ricordi taglienti come lame.
Era stata
tutta la sua vita quella storia, aveva dato tutta sé stessa,
si era perfino annullata per stare con lui...
Voleva
veramente distruggere tutti quegli anni insieme solo perché
qualcun altro aveva bussato alla porta della sua vita?
Un odore
intenso di caffè si sprigionava dalla caffettiera e lei non
se ne rese conto.
Perché
aveva lasciato che quel bacio accadesse?
Non era
stata abbastanza decisa, non era stata abbastanza salda come lo era
sempre stata. Si era fatta trascinare da delle sensazioni nuove,
sconosciute, che non provava da tanto tempo.
Dio, era
stata così stupida, così avventata...
Cosa
avrebbe fatto, adesso, se Matt l’avesse scoperto?
La
caffettiera fischiava e interruppe la sua sfilza di pensieri, facendola
rinsavire appena in tempo prima che il caffè uscisse tutto
di fuori.
Imprecò
e nello stesso momento un urlo isterico si propagò per le
mura della casa.
Sora quasi
si scottò le dita e mise la caffettiera sotto
l’acqua corrente, mentre quelle urla disumane continuavano a
far tremare le pareti.
Diede uno
sguardo verso il corridoio e vide Mimi che lentamente entrava in cucina
con un’espressione insonnolita.
Aveva una
vestaglia corta che le arrivava fin sopra ai fianchi e dei pantaloncini
che le fasciavano le cosce.
Lanciò
un’occhiata verso la porta della camera di Joe che era
attaccata al salotto e alzò gli occhi al cielo.
«Ha
dimenticato di stirare la camicia» affermò
riferendosi al fatto che il ragazzo stesse urlando e imprecando per
essersi reso conto dello smacco.
Sora
sbuffò, mentre versava il caffè nelle tazze.
Era il
giorno tanto atteso da Joe. Avrebbe dovuto laurearsi tra meno di
un’ora e nemmeno quella mattina aveva deciso di starsene
calmo e buono per evitare crisi di panico. La sera prima lo avevano
raccomandato di preparare tutto affinché non avesse
ripercussioni il giorno dopo, ma a quanto pareva era lento di
comprendonio.
Mimi si
sedette al tavolo, lanciando un ultimo sguardo verso la porta della
stanza di Joe in cui era appeso un cartello scritto con un pennarello
indelebile.
La frase
“SIG. JOE
KIDO”
brillava a caratteri cubitali.
Scosse la
testa pensando a quanto quel ragazzo fosse cambiato negli anni. Gli
studi in medicina lo avevano fatto uscire dai gangheri ancora di
più, era per questo che sia lei che Sora aspettavano con
impazienza il fatidico giorno in cui avrebbe finalmente ottenuto la sua
promozione.
«Non
mi dire» commentò la ramata, sedendosi di fronte
all’amica.
Prima che
potessero aggiungere qualche altra cosa, il ragazzo uscì
come una furia dalla sua stanza con indosso una camicia bianca
spiegazzata e abbottonata a metà, la cravatta rossa
slacciata e i pantaloni neri aderenti che mettevano in risalto le sue
gambe ossute.
«Sacrilegio
disumano!» continuava ad imprecare, mentre tentava di
sistemarsi con difficoltà «Adesso come faccio?! Lo
sapevo io che qualcuno avrebbe tentato di sabotare la mia
laurea!»
Mimi scosse
la testa tappandosi le orecchie, e Sora si avvicinò mossa
dal compianto per fargli un nodo decente alla cravatta, dando uno
schiaffo su quelle manacce inesperte.
«Fai
ancora in tempo a stirarla» gli consigliò dopo che
finì, indicando la camicia in cui erano impresse delle
pieghe evidenti.
Joe
spalancò gli occhi e la guardò come se avesse
appena bestemmiato.
«Cosa
stai dicendo, donna?! Non ho mai stirato una camicia in vita mia e non
lo farò adesso!»
La castana
tolse le mani dalle orecchie e gli lanciò uno sguardo
interrogativo.
«E
allora cos’hai da urlare così tanto?»
chiese irritata, mentre Sora alzava le spalle e si allontanava da lui.
Era
così terribilmente nervoso ed instabile di prima mattina,
soprattutto quel giorno.
Il corvino
si era voltato a guardare Mimi con un luccichio folle.
«Brutta
vacca ibernata!» l’apostrofò come era
solito fare, tanto che le due non si stupirono più di tanto
«Ho
dimenticato di ripassare la tesi!» aveva esclamato facendo
una faccia grave, voltandosi in direzione della tesi rilegata in rosso
che era poggiata sopra un cuscino del divano.
Sora
sorseggiò il caffè e lo fissò scettico.
«Non
eri tu che dicevi che erano solo cinque minuti e che sei un
genio?»
Joe si era
avvicinato ai fornelli, mentre cercava di chiudersi i bottoni della
camicia. La ramata sbuffò e corse nuovamente in suo aiuto.
«Non
dire stronzate!» diceva, mentre quella gli chiudeva
accuratamente i bottoni
«Eri
fatta di acido cloridrico quando hai sentito queste
assurdità!»
Sembrava
sull’orlo di una crisi isterica, e le due ragazze temettero
seriamente che avrebbe combinato un disastro se non si fosse calmato.
Mimi si
sporse un po’ sul divano in maniera tale da leggere il titolo
della tesi. Forse aveva trattato un argomento troppo complicato e
credeva di non essere all’altezza.
Sulla
copertina brillava a caratteri cubitali l’assunto per il
quale il loro amico aveva faticato tanto per mesi.
“Uso
dei farmaci nei pazienti con cefalea: studio di farmacoepidemiologia e
analisi dei capelli [...].”
Aprì
il libro e sfogliò le prime pagine.
Ecco
perché erano mesi che continuava a dire loro di tagliarsi
una ciocca di capelli quando avevano mal di testa.
Ora che ci
pensava lo aveva sempre sentito rimproverare Gomamon a riguardo; che
non avesse avuto in mente di estendere quello studio ad un Digimon?
Non appena
si accorse che stava sbirciando senza il suo permesso, Joe corse a
togliere la tesi dalle mani della ragazza con possessività.
«Non
leggere che porta male, battona!» fece riferimento a delle
antiche credenze.
Dopo si
voltò nuovamente verso i fornelli e lanciò uno
sguardo al tavolo dove le due avevano consumato brioches e
caffè.
«Perché
non mi avete preparato la colazione?!»
Mimi
sorseggiò il suo caffè senza degnarlo di uno
sguardo.
«Noi
non ti abbiamo mai preparato la colazione, Joe» disse poi con
ovvietà, mentre quello si guardava intorno imbizzarrito.
Sora
pensò che sembrava un toro pronto ad infilzare con le sue
corna.
«Ma
oggi mi laureo, stronze! Era il minimo che poteste fare!»
sbottò, poi racimolò del caffè
avanzato nella caffettiera e se lo versò in una tazza,
mangiando in tutta velocità un muffin al cioccolato.
Mentre
faceva colazione, ripeteva la tesi come una macchinetta, rischiando
più volte di affogarsi.
Le due
ragazze si lanciarono uno sguardo esasperato, pensando a
perché di preciso avessero accettato di prendere casa con
lui, tre anni prima. Si erano fatte abbindolare dalla parlantina del
corvino che sosteneva di conoscere la proprietaria
dell’appartamento e che aveva trovato quell’offerta
che non potevano perdere.
In
realtà, non è che avessero risparmiato molto, ma
ogni qualvolta che tentavano di farglielo presente, Joe strepitava come
un matto.
Odiava chi
lo contraddiceva, e questo si era capito.
Sora fece
una smorfia mentre lo udì ripetere provocando una lamentosa
litania di sottofondo.
«Lascia
perdere, sai già tutto» lo ammonì, ed
era vero che fosse preparato, perché quel ragazzo aveva
mille difetti, ma eccelleva nelle materie scolastiche.
Aveva
passato tutte le materie con dei voti altissimi, anzi, si era perfino
lamentato quando aveva ricevuto un ventinove in una materia a scelta
che non faceva nemmeno parte del suo piano di studio. Insomma, era
davvero un genio in quel campo, e per questo motivo si aspettavano che
uscisse con il massimo dei voti da quella laurea.
Joe si era
interrotto improvvisamente e la guardava con uno sguardo truce. Con
fare minaccioso, le puntò contro un cucchiaio.
«Dillo
che vuoi vedermi crollare in un momento del genere» e
spostò il cucchiaio che usava come arma da Sora a Mimi
«volete tutti vedermi fallire... Ma oggi è il mio
giorno»
Si mise in
piedi, sopraffatto da una potente scarica di adrenalina. Le due ragazze
lo guardarono un tantino impaurite.
«Nessuno
riuscirà a piegare il grande, il mitico,
l’inimitabile Jyou Kido!»
Era come se
in qualche modo volesse convincere sé stesso,
perché sapevano che quella crisi isterica era dovuta al
fatto che si sentisse agitato e avesse paura lui stesso di fallire.
Lasciò
cadere il cucchiaio che fece un rumore sordo e si fiondò in
bagno a finire di prepararsi, lasciando le due amiche da sole in cucina.
Mimi si
appoggiò sopra il tavolo tenendosi la testa che le
scoppiava. Non era salutare che le si urlasse contro di prima mattina,
rendeva tutto ulteriormente stressante.
«Cristo,
io non lo reggo più!» aveva commentato,
riferendosi al fatto che la maturità di Joe fosse
equivalente a quella di una mela acerba nonostante avesse appena
compiuto ventisette anni.
Certo, a
volte le aiutava e dava dei consigli, a detta sua, utilissimi, ma da
quando era iniziato il conto alla rovescia per quella dannata laurea
aveva sempre di più dato segni di squilibrio.
Sora aveva
sospirato facendo gli stessi pensieri.
«Lascia
che se ne vada, altrimenti non riusciamo a fare nulla con lui in
giro»
Sentivano
l’acqua scrosciare e il phon a tutto volume;
chissà quanti capelli aveva lasciato in giro, dato che non
si degnava di prendere in mano una scopa.
La castana
si tenne ancora la testa, facendo passare qualche minuto di silenzio in
cui fu invasa da pensieri malinconici che dal giorno precedente
martellavano con forza dentro la sua mente.
Taichi era
tornato.
Non
riusciva a pensare ad altro dalla sera prima, per quanto si sforzasse
di fare finta di niente e continuare ad andare avanti con la sua vita,
la vita che da circa due anni aveva vissuto, non riusciva.
Si morse le
labbra.
Era
impossibile fare finta di niente, era impossibile portare avanti quella
farsa e cercare di non dare importanza a qualcosa che aveva a cuore.
Non poteva
fingere, era inutile continuare a mentire a sé stessa.
Sora si
accorse che qualcosa in lei non andava. Aveva notato come il ritorno di
Tai a Tokyo non le era stato indifferente e non era una stupida a
pensare che non lo pensasse più.
«Va
tutto bene, Mims?» le chiese apprensiva, mentre lei si
risvegliava dai suoi pensieri e si sforzava di annuire.
«Sì,
a parte il fracasso» rispose tentando di mantenere alta
quella facciata, ma era tutto fuorché costruita, Mimi, e
questo Sora lo sapeva.
«Non
intendo questo» le disse facendo un sorrisino allusivo,
mettendola come sempre alle strette.
Lei era
brava a farle tirare fuori ciò che veramente pensava quando
si trovava in difficoltà e Mimi riusciva a farlo con lei,
riuscivano a compensarsi solo come due vere amiche sapevano fare.
Si
sentì punta all’istante e per quanto volesse
sotterrare la faccenda, il cuore aveva già preso a battere
più veloce e i pensieri erano tornati a popolare la sua
mente.
«Ah...
beh, comunque sì» mormorò abbassando lo
sguardo, perché sapeva che in fondo con lei non avrebbe
retto quella recita.
Riusciva a
spogliarsi con lei come con nessun altro faceva, riusciva a mettere a
nudo i suoi sentimenti e le sue emozioni nonostante le venisse
difficoltoso.
Era con
Sora che si sentiva forte e sicura di sé.
«Non
sono cieca» le aveva detto questa, osservandola in viso,
piegando la testa.
Mimi aveva
sospirato, senza ricambiare lo sguardo.
«Lo
so»
E non
avrebbe potuto dirle altro perché era consapevole che lo
sapesse.
Glielo si
poteva leggere in faccia, anzi, si stupiva di come non se ne fossero
ancora accorti tutti i loro amici.
Quando lo
aveva incontrato, quando ci aveva parlato dopo tanto tempo aveva
sentito il cuore sprofondare, aveva sentito la terra mancare sotto i
suoi piedi, e si stupiva di come ancora riuscisse a provare tutte
quelle cose messe insieme.
Lei, che
aveva pensato di non riuscire più a provare nulla, di essere
prosciugata da tutte le sue emozioni.
Tai, lui,
con un solo sguardo, con una sola parola era riuscito a renderle di
nuovo vivide in lei.
La ramata
le strinse una mano e finalmente Mimi alzò gli occhi castani
su di lei che le fece un sorriso rassicurante.
«Andrà
tutto bene»
Non sapeva
se davvero sarebbe andata così, però forse a
volte era meglio rifugiarsi in una splendida illusione.
Tai era
l’unico ragazzo di cui si era innamorata.
E non era
cambiato niente rispetto a quando aveva diciassette anni, assolutamente
niente, perché per quanto loro fossero diversi, per quanto
fossero cresciuti, per quanto avessero preso delle strade differenti,
quello che provava non era variato, anzi, forse era maturato e
cresciuto.
Le si
inumidirono gli occhi.
«Sembra
che il tempo non sia mai passato» disse in un soffio,
pensando con nostalgia a quello che avevano trascorso insieme.
Loro due,
stretti e innamorati quando tutto ancora era bello e la loro unica
preoccupazione era stringersi un po’ di più per
non perdersi.
Sora la
guardò negli occhi, mostrandole determinazione.
«Non
buttarti giù» le consigliò, ed era
divertente il fatto che si facesse in quattro per aiutare la sua
migliore amica quando lei era inguaiata fino al collo.
Si stupiva
di quanto forte e altruista fosse la sua amica, la guardava con
orgoglio e ammirazione, perché sapeva che con Matt le cose
andavano male, ma nonostante tutto lei non mancava di esserci.
«Non
lo farò» annuì Mimi, risoluta e
giurò che avrebbe mantenuto la parola
«Tu,
piuttosto, come sta andando con Matt?»
Era da un
po’ di tempo che non glielo chiedeva, un po’
perché la situazione era statica, un po’
perché preferiva non trascinare giù in quel
baratro di tristezza Sora che era sempre stata solare e allegra.
La ragazza
si incupì, ripensando a quello che era successo.
«Lasciamo
stare» aveva proferito, passandosi una mano sulla fronte.
Non aveva
fatto parola con nessuno, nemmeno con lei, e adesso, trovandosi in
quello stato di intimità, sentiva il bisogno di mettere a
nudo la sua anima e raccontarle tutto.
Avrebbe
voluto spiegare a Mimi ciò che provava per quel collega
universitario che da anni conosceva e che non era mai andato via, che
aveva sempre avuto un occhio di riguardo per lei, che era bello e
gentile, che ballava insieme a lei quando andava a lezione di danza il
pomeriggio.
Avrebbe
voluto raccontarle di come le sensazioni che provava
l’avessero completamente travolta senza che se ne rendesse
conto, senza che potesse fare qualcosa per fermarle, e Matt con la sua
assenza, con quel continuo chiudersi nel suo mondo interiore non aveva
fatto altro che spingerla nel fondo di quegli abissi.
«Che
cos’è successo?»
Adesso era
Mimi a guardarla seriamente e forse era arrivata davvero
l’ora di sfogarsi, era arrivata l’ora di
confidarsi, era arrivata l’ora di raccontare ciò
che l’attanagliava da un po’ di tempo a quella
parte.
«Mimi,
devo dirti una cosa» Era seria quando parlava e non poteva
fare a meno di esserlo nonostante sentisse i battiti del suo cuore
accelerare e il mal di pancia aumentare a dismisura.
I sensi di
colpa la stavano divorando ancora e se non lo diceva adesso non avrebbe
parlato mai più.
L’amica
attese di ascoltare una confessione che non arrivò mai,
perché Joe era rientrato in soggiorno facendo baccano e
aveva fatto in modo che le due ragazze spostassero
l’attenzione su di lui.
«Cazzo,
sono le fottute nove!» aveva urlato, controllando
l’ora sul suo orologio da sessantamila yen.
Le
guardò con stizza, sedute in quelle sedie a raccontarsi
chissà quali segreti, mentre da lì a non molto
sarebbero dovute andare all’università per
assistere alla sua laurea.
Erano delle
gran belle egoiste, pensò.
«Andate
a prepararvi, sfaticate!» le rimproverò, saltando
da una gamba all’altra
«Io
devo fuggire, mi attendono i superiori»
Si
accorsero che aveva indossato una giacca scura con un parte del
colletto dentro. Mimi non riuscì a reggere quella visione.
Se doveva
festeggiare quel giorno così importante, che si desse un
tono e si sistemasse per bene!
Gli si
avvicinò di soppiatto, mentre quello indietreggiava
automaticamente. Odiava quando qualcuno cercava di violare la distanza
interpersonale, così diceva lui.
«Aspetta,
Joe, fatti sistemare questa giacca!» lo redarguì,
riuscendo ad afferrarlo appena in tempo.
Riuscì
a mettere apposto quel colletto e dargli un’ultima
controllata.
Il ragazzo
diede un’altra occhiata all’orologio, poi le
guardò per l’ennesima volta con fare minaccioso.
«Vi
avverto, se non arrivate puntuali vi mozzo quei capelli di merda che vi
ritrovate. Niente deve
andare storto oggi»
Mimi gli
diede uno spintone, mentre Sora incrociava le braccia,
«Sta’
calmo, però, non è bene partire nervosi»
Non capiva
che se continuava a comportarsi in quel modo, avrebbe rovinato tutto.
Invece di
tranquillizzarlo, il fatto che gli si venisse detto cosa fare lo
rendeva ancora più agitato e nervoso.
Prese la
ramata dalle spalle, tenendola stretta.
«Pensi
che io non riesca a controllarmi?!» La ragazza lo fissava con
la bocca aperta
«Pensi
che io sia nervoso? Mi vedi nervoso, Sora?» mollò
la presa mostrandole una mano che tremava, segno che confermava la loro
tesi.
Lei gli
mise una mano sulla spalla per cercare di calmarlo invano.
«Joe,
ti prego, pensa ai sacrifici e agli anni di studio»
Era tutto
inutile, perché quando il burino si innervosiva, niente
riusciva a portarlo nuovamente sulla terra.
Si
allontanò da loro e si avvicinò alla porta,
facendo per uscire.
«So
badare a me stesso, piccole stronzette, e oggi ve lo
dimostrerò» disse poi, tornando indietro e facendo
loro un sorriso che voleva essere rincuorante.
Poi
adottò nuovamente uno sguardo minaccioso.
«Piuttosto
voi, niente inciuci su quei coglioni di Taichi e Yamato! Andate subito
a prepararvi!» puntò contro loro il dito, facendo
intendere che qualsiasi discussione fosse in atto era bene che si
chiudesse per lasciare spazio a qualcosa di prioritario.
Nonostante
si comportasse come uno psicopatico il più delle volte, le
due ragazze sapevano che si preoccupava per loro.
Mentre
stava per uscire, si guardarono allarmate e lo richiamarono insieme.
«La
TESI!» A quel richiamo, il ragazzo tornò indietro
afferrando il suo gioiello e chiudendosi la porta alle spalle.
Una volta
andato via, Sora e Mimi si lanciarono uno sguardo contenente mille
parole.
«Sa
badare a sé stesso, lo hai capito?» chiese
sarcastica la più grande, mentre quella alzava le spalle.
«Lasciamo
perdere»
Il silenzio
che si era creato era assordante e ormai si era fatto davvero tardi per
continuare la loro discussione.
Si alzarono
dal tavolo nello stesso momento e raggiunsero le loro stanza per
prepararsi.
Il momento
della laurea era vicino.
*****
Il castano
si chiuse il portone alle spalle e gettò uno sguardo davanti
a sé.
Mancava un
quarto alle dieci e a causa di sua sorella Hikari che aveva occupato il
bagno per più di mezz’ora aveva ritardato.
Si
aggiustò la giacca blu e la camicia bianca che portava sopra
a dei pantaloni scuri. Aveva cercato di sistemare in modo decente i
capelli, ma il fatto che andassero un po’ dove volessero
delineava la sua personalità.
Vide Yamato
che lo aspettava sopra un auto che poteva definirsi
tutt’altro che nuova con la testa china sul cellulare,
intento a fare chissà cosa.
Aprì
la portiera e si sedette al suo fianco, catturando la sua attenzione.
Il biondo
alzò lo sguardo e gli lanciò
un’occhiata stufa perché aveva dovuto aspettarlo,
e lui automaticamente gli rivolse un sorrisino di scuse.
Quando mise
in moto per andare in direzione dell’università,
si perse a guardare fuori dal finestrino.
Tokyo era
veramente bellissima, gli era mancata come l’aria per tutti
quei mesi.
Era un
fiotto di colori e di insegne, era caotica, ma gli scaldava il cuore.
Sospirò
e fece un sorriso malinconico, abbandonandosi sullo schienale che era
un tantino scomodo.
Il suo
migliore amico non poteva permettersi una macchina costosa, e sapeva
per certo che Matt era troppo testardo e orgoglioso per poter
elemosinare un solo yen a suo padre. Il fatto che fosse andato via di
casa per vivere in quel monolocale faceva intendere la sua voglia di
autonomia e il fatto di voler dimostrare di sapersi gestire da solo.
Eppure gli
leggeva qualcosa dentro che gli faceva capire come in realtà
non stesse così bene come faceva credere, gli faceva capire
come tutto quello fosse solo una maschera per proteggere i suoi veri
sentimenti.
Taichi
strinse le labbra, mentre l’osservava di nascosto. Poteva
notare una ruga preoccupata che si era formata sulla sua fronte.
Era un
malessere tale che aveva ripercussioni anche sul suo fisico. Aveva il
viso più magro e incarnato, i suoi occhi cerulei erano cupi
e spenti.
Era sempre
stato un ragazzo malinconico, ma temeva che tutto quello che gli stava
succedendo stesse per soccomberlo definitivamente.
Quando si
fermarono al semaforo per aspettare il verde, Yamato lanciò
a sua volta uno sguardo a Taichi.
Il fatto
che fosse tornato gli incuteva tanta forza e stabilità, ed
era questo di cui aveva bisogno, qualcosa che per troppo tempo aveva
fatto a meno.
La sua vita
stava subendo una discesa, niente andava più come voleva.
Tutti i suoi progetti, i suoi piani di vita erano andati in fumo.
Non
riusciva più ad uscirne, si sentiva come intrappolato in un
vortice che lo stritolava sempre di più e non sapeva se
sarebbe mai riuscito a riprendersi da tutto quello.
L’assenza
di Sora non faceva altro che aggravare la situazione, era come un nodo
in gola che non andava via, una costante fitta allo stomaco con cui
aveva imparato a convivere, ma che contribuiva a mandarlo alla deriva.
Tai lo
fissava ancora di sottecchi, tuttavia non disse nulla.
Il biondo
era così, parlava quando voleva farlo e lui sapeva bene che
sarebbero arrivati ad un punto in cui non ce l’avrebbe fatta
più a tenersi tutto dentro.
Quando la
luce divenne verde, il ragazzo decise di metterlo al corrente di
ciò che gli si prospettava.
«Mio
padre insiste perché lo raggiunga a Shiodome»
sputò fuori con voce roca, mentre voltava da una strada e
proseguiva dritto.
Il castano
continuava a guardarlo con un’espressione interrogativa.
«Vuole
che entri a fare il cameraman» continuò, e Tai
pensò che suo padre sicuramente voleva aiutarlo a trovare un
lavoro perlomeno ben pagato, data la sua influenza negli ambienti
televisivi dove faceva il consulente da molti anni.
«E
tu?» chiese, interessato a sapere cosa aveva intenzione di
fare.
Non avrebbe
potuto continuare a vagare come un fantasma e sperare che qualcuno lo
chiamasse da chissà dove. Non faceva altro che incrementare
il suo malessere e la sua depressione.
Non che lui
stesso fosse al sicuro, anzi era così precario da potersi
ritrovare fuori da un momento all’altro.
Tai si
morse un labbro.
Aveva
così tanti dubbi e incertezze sul suo futuro che non
facevano altro che schiaffargli in faccia come in realtà la
scelta che aveva fatto non era poi così tanto sicura come
pensava.
Matt, nel
frattempo, aveva scosso la testa e aveva fatto una smorfia con le
labbra.
«Cinque
anni a studiare per il conservatorio, ho speso soldi e sangue
lì dentro» ed era vero, non avrebbe mai potuto
immaginare che tutto si potesse rivelare più difficile e
tortuoso del previsto.
Credeva che
una volta terminati gli studi avrebbe continuato con la musica e la
band. Non era così presuntuoso da pensare che avrebbe
trovato la strada spianata, ma non poteva mai immaginare di trovarsi
solo, al centro del nulla.
Tai
sospirò, preoccupato.
«E
adesso che il gruppo è sciolto cosa farai?»
Era una
domanda che tartassava la sua testa, e per quanto cercasse di trovare
una risposta, continuava lentamente a sprofondare nel buio.
Scosse il
capo, stringendo le labbra.
«Continuerò
con i turni in quel bar di merda, e nel frattempo proverò a
mandare curriculum» disse duro, provando per un attimo a
convincersi che così avrebbe risolto qualcosa.
L’altro
scosse di rimando la testa, pensando che non sarebbe stato
così semplice.
«Ma
guadagni una miseria!» sbottò contrariato, facendo
in modo che si voltasse a guardarlo.
Il biondo
strinse il volante fino a farsi diventare le nocche bianche, poi
proclamò con sicurezza
«Non
raggiungerò mio padre a Shiodome, non voglio fare il
cameraman»
Tai lo
guardava fisso, una smorfia sulle labbra, lo sguardo apprensivo.
Non capiva
che rifiutando quell’opportunità non avrebbe
guadagnato nulla di buono, avrebbe continuato a sperare in qualcosa che
non sarebbe mai arrivata, avrebbe sempre di più contribuito
al suo star male.
La
stabilità che ricercava non sarebbe mai arrivata e lui
sarebbe sempre di più crollato nel baratro.
Yamato
tirò su con il naso e rallentò fino a fermarsi a
causa di una coda.
Sapeva che
Taichi lo diceva per il suo bene, che si preoccupava per lui e voleva
vederlo sorridere, ma non sarebbe stato felice lì con suo
padre.
Non sarebbe
stato felice a lavorare per qualcosa che non lo appassionava, e forse
stava sbagliando a lasciarsi scivolare dalle dita
quell’occasione, ma preferiva continuare ad andare per la sua
strada, a sacrificarsi per ciò che amava.
«Ho
sempre amato la musica» mormorò d’un
tratto, quasi fosse qualcosa di così segreto che nessuno
poteva sapere
«Credo
che sia la cosa in cui io riesca meglio» continuò
con una punta amara, lanciando poi uno sguardo al suo migliore amico
«E’
un po’ come te con il calcio»
Rimise in
moto, la strada sembrava un po’ più libera.
Erano
entrambi così diversi, ma non si rendevano conto di quanto,
invece, fossero più simili di quanto pensassero.
Entrambi
correvano dietro a qualcosa che li appassionava, rischiando di perdere
loro stessi, rischiando di veder crollare da un momento
all’altro tutto ciò che avevano costruito in tutti
quegli anni, rischiando di veder andare via le persone che amavano.
Questo era
già successo, lo sapeva bene Taichi.
Lo sapeva
bene che aveva dovuto dire addio a quello che era il suo mondo, la sua
casa, la sua serenità per poter dare spazio a tutto quello.
Combatteva
per garantirsi un futuro migliore, una stabilità economica,
un appagamento personale; ma valeva veramente quando aveva lasciato il
cuore lì a Tokyo?
Si sentiva
come un estraneo.
«Non
è sempre facile» si lasciò scappare, la
voce ridotta in un sussurro.
Il biondo
gli lanciò uno sguardo interrogativo, chiedendosi di cosa
stesse parlando.
«A
volte mi sembra di vivere una vita che non mi appartiene» gli
confidò, passandosi una mano tra i capelli.
Era
così, Tai, ed era questa una delle differenza tra loro due.
Riusciva ad essere così spontaneo e sincero senza che
nessuno glielo avesse chiesto, ma solo perché lo sentiva.
Riusciva ad
essere sé stesso pienamente solo quando si trovava in
compagnia di Yamato, per questo gli era mancato da morire,
perché lui era il suo specchio.
Questi si
voltò a guardarlo con le sopracciglia aggrottate e
un’espressione stupita.
«Ma
tu ami giocare a calcio! E’ la tua passione»
cercò di riportarlo con i piedi per terra, sottolineando il
fatto che lui avesse speso tutto per seguire quello che più
gli piaceva fare.
E lo
sapeva, Tai, e amava anche il fatto che Matt, nonostante fosse
consapevole del fatto di quanto tempo, sacrifici, richiedesse seguire
il sogno della propria vita, cercasse comunque di incoraggiarlo.
Fece un
sorrisino amaro, guardando fuori dal finestrino il paesaggio che a mano
a mano cambiava.
«Sì...
sì, è la mia passione...»
mormorò, e poteva sentire una nota malinconica e di
rimpianto nella sua voce.
Matt lo
guardava di sottecchi e si chiedeva cos’aveva che non andava.
Il suo
migliore amico era sempre stato un ragazzo determinato e grintoso, una
persona che sapeva il fatto suo e non aveva mai avuto dubbi riguardo
ciò che voleva.
Giocava a
calcio da quando era bambino e il fatto che si fosse dovuto trasferire
a Kyoto faceva parte del prezzo che doveva pagare per raggiungere il
suo obbiettivo.
Vedeva
Taichi cambiato.
Da appena
era tornato aveva avuto a che fare con un ragazzo che non era lui, era
diventato più maturo, più serio e responsabile,
nonostante fosse comunque lui ad essere il più espansivo dei
due.
Gli faceva
piacere che stesse crescendo, ma era Tai a dargli forza quando
tentennava, e il fatto che stesse tentennando anche lui lo faceva
sprofondare ancora di più.
Yamato
sospirò, mentre fu costretto a fermarsi ancora a causa di
una coda.
«Cos’hai?»
gli rivolse quella domanda a bruciapelo, e solitamente era il castano a
porlo di fronte ad un vicolo cieco dove non aveva scampo.
Riusciva a
cavargli fuori le parole di bocca, e lui era capace di farlo con
l’altro. Riuscivano a compensarsi in un modo loro che non
aveva a che fare con il mondo esterno.
Questi si
morse il labbro inferiore e continuò a guardare fuori dal
finestrino.
«Niente»
dissimulò, e non seppe nemmeno perché lo stesse
facendo perché era consapevole che non l’avrebbe
mai scampata con lui.
Matt non lo
guardò nemmeno, continuò a controllare la strada
di fronte a sé.
«Non
mentirmi» disse solo, il tono di voce duro.
Era un
rimprovero, lo sapeva, ma era così confuso che non aveva
idea neppure da dove cominciare a raccontargli.
Avrebbe
tanto voluto dirgli del fatto che non riusciva più ad andare
avanti in quel modo, che gli allenamenti lo avevano stressato, che
odiava avere a che fare con quell’arrogante del suo
allenatore, che i suoi compagni di squadra erano così
diversi da lui che si sentiva un pesce fuor d’acqua.
Gli mancava
casa, gli mancava la sua famiglia che a quanto pareva aveva dei
problemi di cui lui si trovava fuori e ignorava, gli mancava passare
del tempo con sua sorella, con i suoi amici, con lui che era il suo
migliore amico...
Rivoleva la
vita di prima...
Forse era
egoista a pensarlo.
Rivoleva i
tempi in cui era felice e spensierato, in cui niente poteva scalfirlo,
in cui si era innamorato per la prima volta e sentiva il cuore battere
ad ogni singola emozione...
Si
schiarì la voce e glielo disse.
«Sarò
trasferito appena inizia il calciomercato estivo» si godette
il silenzio che ne susseguì dopo, come fosse un una musica
assordante.
Il traffico
si sciolse poco a poco e riuscirono a circolare normalmente.
Il biondo
si voltò a guardarlo con stupore.
«Davvero?!
E dove?» era incredulo e poteva capirlo, ma non riusciva ad
essere così entusiasta da quella notizia.
«Ad
Osaka, in prima divisione» spiegò Tai, e una volta
avrebbe veramente fatto i salti di gioia udendo una notizia del genere.
Sarebbe
stato felice, avrebbe urlato contro il cielo tutta la sua gioia, lo
avrebbe abbracciato e avrebbero festeggiato insieme.
«Cazzo,
Tai, è magnifico!» esclamò, infatti,
Matt, aspettandosi una reazione diversa da quella che il suo amico ebbe
in quel momento.
Si
limitò ad annuire e a stringersi di più sul
sedile, puntando lo sguardo sopra i viali alberati e fioriti in cui
erano appena entrati.
Erano
arrivati nell’ampio giardino
dell’università, e giravano alla ricerca di un
parcheggio.
Il sole si
era deciso ad uscire fuori e il cielo era così azzurro che
faceva male agli occhi.
«Sì?»
chiese retoricamente, chiedendosi se fosse davvero una buona notizia.
Il biondo
lo guardò apprensivo.
«Non
lo è?» chiese, mentre voltavano da una strada per
raggiungere i parcheggi.
Tai
sospirò pesantemente e questo fece allarmare ancora di
più l’altro.
Una volta
avrebbe pregato Dio affinché gli desse
quell’opportunità.
Una volta
era così inconsapevole che avrebbe venduto tutto per poter
arrivare dov’era adesso.
Una volta
era così diverso...
Adesso
invece... Chi era diventato?
«Sì,
forse sì» sussurrò, cercando di
convincere sé stesso.
Non sapeva
più cosa era giusto per lui.
Non sapeva
più se valeva la pena.
Non sapeva
più che cosa voleva.
Appena il
biondo parcheggiò, si voltò verso di lui e lo
prese da un braccio. I due amici si guardarono negli occhi e per
qualche secondo non dissero una parola.
Matt era
serio e poteva leggere in quel volto delicato tutta la sua premura.
«Se
ti va di parlare lo sai che io sono qua» gli disse senza
esitazioni, e Tai sentì tutto il bisogno di farlo.
Adesso che
lui lo guardava fisso e si aspettava delle spiegazioni, sentiva
più che mai il bisogno di sfogarsi.
Era
arrivato ad un punto in cui dare voce ai suoi pensieri, ai suoi dubbi,
alle sue incertezze lo avrebbero aiutato a star meglio.
«Non
riesco più a reggere quell’ambiente di
merda» confessò, abbassando lo sguardo.
Erano
ancora in macchina, fermi nel parcheggio. Matt continuava a guardarlo
seriamente, mentre lui alzava appena gli occhi.
«E’
come se mi mancasse l’aria» la voce gli
tremò, ed era incredibile come gli venisse naturale
raccontargli quello che provava.
Non aveva
ancora detto a nessuno quello che sentiva, non aveva ancora tolto
quella maschera di forza che possedeva.
Adesso,
guardandolo negli occhi castani e profondi, poteva leggergli tutto il
suo sconforto.
«Tai...»
mormorò Matt sentendo improvvisamente la gola secca.
Era come se
quella confessione gli avesse raggelato le viscere, non si aspettava
minimamente che stesse cedendo in quel modo.
Lui si
dimostrava sempre determinato e convinto delle sue scelte, lo era stato
anche quando aveva chiuso la storia con Mimi, niente lo distoglieva
dalle sue intenzioni.
Forse per
la prima volta, un dubbio si era insinuato nella mente di Taichi.
Si
sentì stringere a sua volta il braccio, e ancora senza
parole lo fissò.
Era serio,
sembrava fosse veramente combattuto e disperato. Riusciva a captarlo
dalla forza con cui lo stringeva.
«Credevo
che fossi stato sicuro quando un giorno avrei dovuto lasciare
tutto» gli veniva naturale, adesso, confessare tutto quello
che provava.
Guardava il
biondo in maniera così profonda e appassionata, tanto che
Matt se ne stupì.
Tai fece
una breve pausa, poi riprese.
«Il
fatto è che non lo sono» ammise con amarezza,
soffocando una risatina che niente aveva di felice.
Scosse la
testa, consapevole che quello che stava dicendo corrispondeva alla
realtà.
«Non
lo sono per niente» ripeté, continuando a
guardarlo negli occhi azzurri che improvvisamente si fecero lucidi.
Si
guardavano profondamente, ognuno con una diversa disperazione, ma che
portava dritto lì.
Cosa ne
sarebbe stato della loro vita?
Cosa ne
sarebbe stato del loro futuro?
Adesso che
non sapevano che fare, quale scelta compiere, dove andare cosa ne
sarebbe stato di loro?
Tai
mollò pian piano la presa nel suo braccio e Matt
sospirò malinconicamente.
L’unica
certezza, in quel momento, era lì, in quella macchina.
In quel
momento sentirono che la loro unica certezza in mezzo a tutti quei
dubbi e quella sofferenza era lì con loro.
L’uno
era la certezza dell’altro, la loro amicizia, nonostante
tutto, nonostante le difficoltà in cui li poneva la vita, li
faceva stare bene.
Il castano
voltò la testa verso l’altro e gli venne spontaneo
regalargli un sorriso.
Perché
nei momenti bui faceva sempre bene guardarsi e sorridere come se niente
potesse fare loro del male.
Matt
trattenne il fiato e infine ricambiò, liberandosi da tutta
l’angoscia che aveva appena provato.
Per questo
gli voleva bene, perché sfociava sempre tutto in un sorriso
con lui.
Quando si
resero conto che le dieci erano passate e che non erano ancora usciti
dalla macchina, si apprestarono ad incamminarsi verso
l’entrata dell’università.
Si
guardarono intorno spaesati, ammirando la maestosità che
quell’edificio trapelava. Non erano mai entrati dentro, meno
che mai assistito ad una laurea. L’università
appariva ai loro occhi sconosciuta, un po’ perché
dopo aver terminato il liceo non avevano pensato che il loro futuro
fosse dentro quelle mura.
C’erano
tantissimi studenti che circolavano da una zona all’altra e a
Tai quasi girò la testa vedendo tutte quelle persone
occupare la sua visuale.
Il biondo,
nel frattempo, si tastava le tasche dei pantaloni neri. Aveva una
semplice maglia bianca che portava sotto una giacca dello stesso colore
dei pantaloni.
Il suo modo
di vestire era tetro e corrispondeva a quello che era il suo animo.
«Cazzo,
ho lasciato a casa le chiavi!» imprecava, facendo uno sbuffo
irritato.
Per fortuna
lasciava sempre dentro il cruscotto una copia delle chiavi di casa da
quando era rimasto chiuso fuori perché le aveva perse
tornando dal lavoro.
Era stato
costretto ad entrare dalla scala antincendio e forzare la veranda per
entrare e per fortuna non aveva dovuto ripagare i danni.
«Dovresti
darle a qualcuno» commentò Tai, facendogli
intendere che in quel modo avrebbe avuto meno possibilità di
dimenticarle.
Matt aveva
fatto una smorfia.
«Il
giorno in cui darò le mie chiavi a qualcuno...»
lasciò la frase a mezz’aria, facendo percepire il
fatto che affidarsi a qualcun altro avrebbe significato ammettere di
aver bisogno di aiuto e che non aveva intenzione di esporsi
così tanto.
Regalare le
chiavi di un appartamento per lui equivaleva a dire che
l’altra persona era così importante nella sua vita
che avrebbe lasciato perfino aperto casa sua.
Adesso si
sentiva così solo e disilluso che non avrebbe mai fatto un
gesto del genere.
Non
replicarono più, si misero in cammino verso un punto
imprecisato, seguendo una massa di persone ben agghindate che,
deducevano, cercavano l’aula giusta in cui si celebravano le
lauree del giorno.
Quando li
persero di vista a causa della vasta folla, si sentirono chiamare da
una voce roca a loro familiare.
«Ehi,
ragazzi, siamo qui!» Koushiro agitava la mano in loro
direzione, trovandosi in mezzo ad una mandria di persone che si
accavallavano per entrare in aula dove la cerimonia ancora non era
iniziata.
I due
ragazzi si resero conto che il rosso non era da solo, ma si trovava in
compagnia di Sora e Mimi che li guardavano arrivare da lontano e a loro
volta si erano scambiate uno sguardo eloquente.
Erano
veramente belle fasciate in quei morbidi vestitini primaverili.
Nonostante un velo di imbarazzo calò tra di loro, non
mancarono di salutarsi.
Sora
portava i capelli ramato scuro sistemati in dei morbidi boccoli che le
scendevano sulle spalle scoperte. Il suo corpo snello era avvolto in
una tutina corta di un giallo tenue ricoperta da delle fantasie scure
che mettevano in risalto il suo seno. Le scarpe erano di un nero lucido
e un tacco più alto del solito, e anche la borsa che teneva
sottobraccio era dello stesso colore.
Matt la
fissava insistentemente sorpreso dal suo modo di vestirsi. La trovava
così esageratamente bella e sexy che una fitta di gelosia
gli attraversò il petto.
Sora era un
fiore così bello e profumato che non avrebbe permesso a
nessuno di avvicinarsi a lei nemmeno per guardarla.
Aveva
così tanta paura che qualcuno la sgualcisse, aveva
così tanta paura che qualcun altro potesse portargliela via,
e adesso più che mai si rendeva conto di quanto fosse stato
uno stupido ad averla esclusa per tutto quel tempo dalla sua vita.
Izzy aveva
proposto loro di entrare e sistemarsi, e i ragazzi lo seguirono.
Tai era
rimasto indietro e camminava lentamente. Non riusciva a non guardarla,
era appena davanti a lui e gli veniva realmente difficile concentrarsi
su qualcun'altra che non fosse lei.
Mimi aveva
un tubino rosa pallido che le arrivava sopra le ginocchia e metteva in
risalto il suo fisico meritevole. Si muoveva con grazia sopra le sue
scarpe con il tacco intrecciate sul davanti che riprendevano i colori
del vestito. Sulla spalla teneva una borsetta con delle rifiniture
argentate.
I suoi
lunghi capelli castani erano boccolati e setosi, e Tai si accorse come
alla luce si notassero delle sfumature rosa probabilmente reduci dalle
tinte precedenti.
Mimi era
una ventata di fresco e gli era mancato da morire sentire la sua risata
e ascoltare la sua voce.
Riusciva a
coinvolgere chiunque con il suo carisma e il suo viso da bambina, e
piano piano si rendeva conto di quanto vuota avesse reso la sua vita da
quando si erano detti addio.
Riuscirono
a trovare l’aula delle lauree. Era un’ampia sala
allestita con grandi tende beige che stavano ferme sopra delle enormi
vetrate che davano al di fuori.
I posti a
sedere erano limitati e rivestiti da un vellutato tessuto rosso. In
fondo alla sala c’erano seduti il presidente e i professori
che facevano parte della commissione e che avrebbero dovuto giudicare i
candidati.
Il castano
si guardò intorno spaesato, e rimase stupito nel notare
quanta gente era venuta ad assistere.
«Dio,
che casino!» commentò, guardando stufato gruppi di
persone che andavano avanti e indietro con in mano fotocamere, tutte
agghindate perfettamente.
Si sentiva
fuori luogo in mezzo a tutti quegli universitari e a quelle famiglie
riunite. Tutti indossavano abiti eleganti, gli uomini portavano giacca
e cravatta e le donne erano imbellettate in vestiti di ogni genere,
corti o lunghi che erano.
«E’
sempre così il giorno delle lauree»
spiegò Izzy, riferendosi al suo commento di prima, attirando
l’attenzione su di sé.
Lui non
aveva mai avuto molto gusto nel vestire, non seguiva un vero e proprio
stile, anzi, alternava vestiti sobri e anonimi ad abiti stravaganti e
colorati che non gli calzavano molto bene.
Quel giorno
portava una giacca beige a quadretti rossi e neri, sotto una camicia
bianca e dei semplici jeans chiari. La cosa che però era
veramente divertente era il fatto che avesse un papillon nero sotto il
collo della camicia.
Mimi
trattenne un risolino, cercando di non farsi notare. Lei curava
perfettamente il suo look nel vestire e conosceva bene ogni dettaglio
della moda. Non poteva fare a meno di pensare come il suo amico avesse
bisogno di rivoluzionare il suo armadio, ma nello stesso tempo tutto
quello era da Izzy e gli voleva bene lo stesso.
«Pensa
che i candidati oggi sono circa una ventina» stava
continuando lui, dimostrandosi informato.
«Che
cosa?!»
Tai lo
guardò con occhi sbarrati, mentre Matt alzò gli
occhi al cielo. Se i candidati erano così tanti
chissà a che ora si sarebbero sbrigati, considerando il
fatto che Joe sicuramente si trovava tra gli ultimi
nell’elenco.
Il rosso
fece una faccia rassegnata e alzò le spalle.
«Capita
alle lauree di maggio» spiegò, e nel frattempo
calò un silenzio strano.
Izzy aveva
abbassato gli occhi neri al pavimento e gli altri non dissero
più una parola.
Era come se
ci fosse qualcosa che non andava in quel ragazzo, qualcosa che non lo
rendeva sereno come lo era sempre stato.
Il castano
lo fissava chiedendosi se ciò che aveva sentito il giorno
primo fosse vero. Aveva davvero tanta voglia di parlargli, ma non
sapeva cosa dirgli esattamente. Era stato via per troppo tempo, davvero
troppo per potersi insinuare nella vita di tutti loro e cercare di
capire cosa fosse successo come faceva una volta.
Una volta
lui era il pilastro portante di quella compagnia, spendeva una parola
per ognuno e faceva in modo che nessuno si scoraggiasse; eppure adesso
si sentiva così debole e vuoto che non riusciva nemmeno a
guarire lui stesso.
Non capiva
chi diamine era diventato, e se lo chiedeva da così tanto
tempo, forse da anni, da aver perfino dimenticato il motivo.
Il vociare
di sottofondo copriva il silenzio che era calato tra di loro.
Tai
alzò lo sguardo e lo puntò nuovamente su di Mimi
che era intenta a guardarsi le scarpe.
Si chiedeva
se anche lei, come lui, stesse sentendo tutto quello adesso.
Si chiedeva
se anche lei, come lui, fosse così tanto destabilizzata da
non sapere cosa fare, da non sapere come comportarsi.
Si
ritrovava al centro di un ciclone talmente potente da rischiare di
spezzarsi e volare via.
«Mio
fratello è venuto?» aveva intanto chiesto Yamato,
rivolgendosi a Koushiro.
Poteva
notare il suo viso diventare più duro e la sua mascella
irrigidirsi, e si chiese il perché tra il suo migliore amico
e Takeru ci fossero tutte quelle divergenze.
Nonostante
il più piccolo fosse cresciuto, Matt aveva mantenuto sempre
quell’indole protettiva che infastidiva TK, forse
perché credeva che il maggiore volesse imporre la sua
volontà, ma sapeva che non era affatto così.
Matt si
preoccupava per lui perché era suo fratello e lui lo capiva
bene perché provava lo stesso per Kari.
Era
premuroso, aveva paura che lui frequentasse brutti giri che potevano
metterlo nei guai, voleva che si trovasse un lavoro e non fosse
così superficiale.
Matt sapeva
bene cosa significava compiere dei sacrifici, aveva studiato per anni
al conservatorio e tuttora non aveva un futuro certo, e non voleva che
suo fratello rimanesse con le mani in mano a pensare alle cose futili.
«L’ho
salutato prima, ma se n’è andato avanti con
Kari» spiegò il rosso, mentre Tai notò
come Matt avesse distolto lo sguardo.
Lo
sentì sospirare e non chiese più niente. Sapeva
che TK non li aveva voluti aspettare per non parlargli e questo lo
faceva star male anche se manteneva indosso quella maschera fredda e
distaccata.
Lo
conosceva troppo bene per cascarci, come il fatto che osservava Sora da
appena si erano incontrati senza avere il coraggio di avvicinarsi e
dirle qualcosa.
E lui aveva
il coraggio di parlare a lei?
Una volta
avrebbe colto la palla al balzo e si sarebbe fatto avanti senza
indugiare, ma adesso si trovava come bloccato, intrappolato nella sua
vigliaccheria che da un po’ faceva parte di lui.
Non era mai
stato così.
Non aveva
mai avuto paura a farsi avanti, a mettere in gioco perfino la sua
faccia per esprimere ciò che pensava e provava; adesso Mimi
era lì di fronte a lui, bella come mai lo era stata, e lui
non riusciva a fare niente per avvicinarla a sé.
Alzò
gli occhi castani su di lei, che si sentì osservata e
distolse lo sguardo.
Era
diventato così vigliacco da non riuscire nemmeno a guardarla
in modo pulito.
Si sentiva
sporco, si sentiva in colpa per tutto quello che le aveva fatto
passare, e non riusciva a concepire il fatto che lei, così
pura e limpida, potesse essere macchiata da lui.
Sora si
accorse di quello scambio di sguardi e notò come la sua
migliore amica si fosse irrigidita tutt’ad un tratto.
Spontaneamente,
la tirò da un braccio facendola rinsavire.
«Andiamo
di là, qui non ci sono posti» disse trascinandosi
dietro la castana e i ragazzi la seguirono senza obbiettare.
Passarono
velocemente da un lato all’altro e, riuscendo a scavalcare
numerose persone, notarono proprio quattro poltrone rosse in mezzo alla
penultima fila.
Matt
alzò gli occhi al cielo, mentre Mimi sbuffò
quando si resero conto che uno di loro sarebbe rimasto in piedi.
Izzy
lanciò loro un’occhiata e decise di tirarsi
indietro. Sapeva che avevano bisogno di stare un po’ insieme
per discutere e sarebbe stato meglio lasciare loro quella
priorità.
«Andate
voi, io aspetto vicino la porta» se ne uscì
facendo voltare tutti verso di lui, rivolgendogli delle occhiate
stupite.
Tai lo
guardò con uno sguardo interrogativo, e stette per
aggiungere di non andarsene, che al massimo sarebbe stato lui in piedi.
Non conosceva l’ambiente universitario, poteva benissimo fare
a meno di assistere, ma Mimi lo precedette.
«Perché?
Rimani con noi» la vide voltarsi e guardarlo con uno sguardo
supplice, tanto che Koushiro s’imbarazzò.
Si
passò una mano tra i capelli rossicci e negò con
la testa.
«Frankie
aveva detto che appena si liberava mi raggiungeva»
spiegò, e il castano capì che sicuramente avrebbe
aspettato a vuoto.
«Vado
a vedere se arriva»
La causa
del suo malessere era quella ragazza, gli stava poco a poco spegnendo
il sorriso, stava risucchiando tutte le sue forze.
Nessuno
ebbe da obbiettare, nemmeno Mimi parlò più. Il
ragazzo li salutò e si allontanò, così
che loro si sistemarono nei posti a sedere.
Sora
entrò per prima e subito dopo la raggiunse Matt. Si
sedettero vicini e non dissero nulla, si limitarono a guardare Mimi
accomodarsi e Tai accanto a lei.
Il castano
si morse un labbro, continuando a pensare a ciò che stava
succedendo ad Izzy. Per dei secondi che parvero
un’eternità nessuno di loro quattro disse
qualcosa, solo d’un tratto decise di dare voce ai suoi
pensieri.
«Quella
ragazza gli crea problemi» affermò con tono duro e
tutti si voltarono a guardarlo con espressione interrogativa.
«Perché
dici così?» gli domandò subito Sora
inquisitoria e lui diede un sospiro prima di riferire ufficialmente
ciò che aveva saputo.
«Credo
sia dovuto alla droga»
Si
guardarono tutti sorpresi e preoccupati e la reazione di Mimi fu
istantanea.
«Che
cosa?!» esclamò ad alta voce, mentre lui le
lanciava uno sguardo.
La ragazza
si ammutolì e si sistemò nervosamente i capelli.
«Chi
ti ha detto una cosa del genere?» chiese poi la ramata,
sporgendosi un po’ per guardarlo.
Tai fece
una faccia rassegnata e diede un sospiro.
«Ho
sentito Joe che lo diceva a TK e Kari» confessò,
mentre le ragazze continuavano ad essere sempre più sorprese
e preoccupate.
Matt
incrociò le braccia e gli lanciò uno sguardo
scettico.
«Sei
sicuro sia attendibile?» domandò, facendogli
intendere che le cose che raccontava il loro amico non erano sempre
veritiere, anzi tendeva ad esagerare per impressionare gli altri.
Era vero
che Joe era poco credibile, ma il castano sentiva che era la
verità.
«Penso
proprio di sì» affermò serio e
udì distrattamente il sospiro preoccupato di Mimi alla sua
destra.
La ragazza
si voltò a guardare il punto in cui Koushiro era sparito e
il suo cuore si strinse in una morsa.
Non poteva
lasciare che Izzy sprofondasse in quel modo. Non poteva permettere che
si buttasse giù senza un minimo di sostegno,
perché lo conosceva, era così riservato che non
parlava con nessuno, e lei era consapevole del fatto che aveva tanto
bisogno di aiuto per riprendersi.
«Povero
Kou» aveva commentato Sora scotendo la testa con apprensione.
Lei non
smise di guardare la direzione in cui se n’era andato.
Era uno dei
suoi più grandi amici, anzi, era il suo amico più
grande. C’era sempre stato per lei, le aveva sempre aperto
quegli occhi da sognatrice, l’aveva sempre riportata con i
piedi per terra.
Koushiro
era da sempre stato contrario a lei in tutto e per tutto, ed era per
questo che stava bene con lui, era per questo che per tutti quegli anni
aveva trovato in lui una persona da cui imparare.
Gli avrebbe
parlato, gli avrebbe fatto svuotare il sacco e lo avrebbe aiutato ad
uscirne.
Era
risoluta nel suo intento e Tai la guardò, immaginando a cosa
stesse meditando. Lei e il
rosso erano molto amici e sapeva che il suo animo era così
puro e buono, che aveva un senso profondo per la giustizia e desiderava
che le persone intorno a lei stessero bene.
L’ammirava
davvero tanto per questo.
Lui non
riusciva più ad essere d’aiuto a nessuno, nemmeno
a sé stesso.
D’un
tratto, il presidente della commissione prese la parola chiamando al
microfono il nome del primo candidato e la seduta di laurea
iniziò.
In sala
calò il silenzio e il primo ragazzo che si sedette
cominciò ad esporre l’argomento della sua tesi e
le ricerche che aveva apportato.
Le persone
davanti a loro si erano messe tutte in piedi per avere una migliore
visuale, e quindi furono costretti ad imitarli. Cercarono di seguire
l’intera discussione, sforzandosi di comprendere gli
argomenti trattati, ma in realtà era molto difficile
rimanere concentrati.
Ognuno di
loro aveva in testa dei pensieri che li distraevano, e non era affatto
semplice far finta di niente e focalizzarsi su delle discussioni delle
quali poco importava.
Matt si
voltò a guardare Sora con la coda dell’occhio. Era
molto difficile per lui avvicinarsi e fare il primo passo, lo era
sempre stato.
Lei
sembrava così attenta a seguire la discussione, ma in
realtà la sua vicinanza le toglieva il fiato e le faceva
sentire le gambe molli.
Era molto
difficile stare lì, retta in piedi accanto a lui, quando
dentro di sé era consapevole che fosse successo qualcosa che
aveva destabilizzato tutto.
Non poteva
far finta di nulla, non poteva continuare ad andare avanti con la sua
vita come se niente fosse, sarebbe stata meschina.
Sora era
stata sempre una ragazza sincera e leale, ma adesso si sentiva sporca e
infedele, specie quando sentì il braccio del biondo cingere
la sua schiena.
Perse un
battito per la sorpresa e d’un tratto sentì il
cuore salire in gola.
Tentò
di rimanere impassibile tra quelle braccia possenti che da tempo non la
stringevano più, ma era tutto fuorché semplice.
Matt si era
fatto coraggio e l’aveva abbracciata e dopo tutte quelle
seghe mentali gli era venuto così spontaneo farlo.
Non era
stato poi così difficile, adesso sentiva
l’adrenalina scorrere nelle sue vene e il cuore era più
leggero dopo che si era lasciato andare.
Lei era
paralizzata tra le sue braccia, ma lui sorrise e avvicinò le
labbra al suo orecchio.
«Mettiti
qui, si vede meglio» mormorò come se quella cosa
avesse importanza, e lei sentì i brividi scorrere sotto la
sua schiena.
Si morse il
labbro inferiore sentendosi in difficoltà, ma quando
sentì il tocco familiare di lui farsi più
insistente cominciò a rilassarsi.
«Va
bene, grazie» sussurrò a sua volta e rimasero in
quel modo per un po’ di tempo.
La mente
viaggiò indietro nel tempo, quando era così
facile per loro stringersi e non mollarsi, quando era così
spontaneo per loro cercarsi in un bacio o in un abbraccio.
Erano stati
per troppo tempo lontani, così lontani che avevano perfino
dimenticato quanto bene stavano stretti l’una tra le braccia
dell’altro.
Sora
sospirò e chiuse per un attimo gli occhi.
Aveva avuto
tanto bisogno di quello che adesso quasi non ci credeva, non credeva
fosse vero che lui era così vicino a lei. Aveva la testa
appoggiata sopra il suo petto e riusciva ad udire i battiti accelerati
del suo cuore e sorrise emozionata come fosse la prima volta.
Matt la
guardava per timore che potesse staccarsi e si schiarì la
voce per dire qualcosa.
«Lui
è quello con la cravatta rossa?» chiese, notando
Joe in prima fila, seduto insieme a tutti gli altri laureandi.
Sora si
spostò un po’ e si mise sulle punte per guardare
meglio il punto che aveva indicato e vide il loro amico che si passava
velocemente una mano tra i capelli nervoso.
Le venne da
sorridere.
«Sì,
ha anche la camicia spiegazzata» sottolineò,
pensando al fatto che non aveva voluto stirarla, sostenendo che le
pieghe davano un fascino particolare all’interno del vestito.
Entrambi si
misero a ridere, stando attenti a non alzare troppo la voce per non
disturbare. Parlare del burino aveva appianato un po’ la
tensione, ma nessuno di loro due aveva dimenticato la situazione in cui
si trovavano.
Il biondo
diede un sospiro e decise di riprendere il discorso del giorno prima.
Sapeva che non era il luogo né il momento opportuno, ma
sentiva un’irrefrenabile urgenza di parlare con lei al
più presto.
«Se
ti va, parliamo stasera» disse piano sfiorando il suo
orecchio con le labbra, e Sora si sentì sprofondare
tutt’ad un tratto.
Le emozioni
che provava per lui si fusero ai sensi di colpa per ciò che
era successo il giorno precedente, e d’un tratto un mal di
pancia la pervase.
Non avrebbe
voluto che succedesse... Dio, perché lo aveva fatto? Si era
lasciata andare fin troppo con una persona che non era lui, e adesso
Matt voleva parlare per chiarire le cose, non potendo immaginare che in
realtà era lei che doveva sistemare tutto dentro
sé stessa.
Nonostante
ciò annuì stringendo le labbra.
«Sì,
certo» mormorò con la voce roca, e nonostante
questo avrebbe dovuto tranquillizzarla la mise ancora di più
in agitazione.
Yamato
captò la sua irrequietudine e piano allentò la
stretta sui suoi fianchi.
Era
così attratto da lei, la amava talmente tanto, ma aveva una
grande paura che Sora non provasse più tutto quello per lui.
Aveva il
timore più grande che lei lo stesse poco a poco dimenticando
e lui era così stupido da lasciarglielo fare.
L’aveva
data talmente tanto per scontata che adesso la sentiva distante e si
rimproverava il fatto di non essere stato capace per tutto quel tempo
di dimostrarle il suo amore.
Tai si era
sporto a guardarli, chiedendosi come avevano fatto a ridursi in quel
modo. Sperò che sarebbero riusciti almeno loro due a
chiarire i loro malintesi, a mettere al primo posto l’amore
che provano l’uno per l’altro.
Era
così forte l’amore? Riusciva veramente a mettere
da parte tutto con la sua forza?
Guardò
per terra.
Era
così disilluso, e adesso che anche il rapporto tra Matt e
Sora vacillava, loro due che erano il suo punto fermo, le sue rocce, si
sentiva davvero senza speranze.
Sentì
Mimi muoversi accanto a lui e la osservò con la coda
dell’occhio. Si era messa sulle punte per cercare di vedere
meglio e quasi rischiò di finirgli addosso.
Si
scontrarono e il castano le mise una mano sulla schiena di riflesso per
non farla cadere. Lei, imbarazzata, si ridestò senza alzare
lo sguardo.
«Non
si vede niente» mormorò per giustificarsi,
passandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Quel
contatto le aveva fatto salire il cuore in gola e Tai si morse il
labbro per cercare di calmarsi.
Si disse
mentalmente di non fare lo sciocco e mostrarsi forte, perché
si stava rivelando un vero vigliacco. Gli era perfino complicato
voltarsi e guardarla negli occhi e di questo se ne accorse anche lei,
che rimase delusa quando lui restò in silenzio.
Deglutì
piano e alzò lo sguardo. Non
doveva essere così idiota, e va bene che non era
più abituato a sentire quella voce così vicino,
però era la più bella e soave che avesse mai
udito.
«Dovremmo
spostarci» se ne uscì dopo secondi interminabili,
e Mimi sospirò quasi sollevata.
Adesso
sembrava come se non avessero mai smesso di parlarsi, sembrava
così naturale voltarsi verso di lui e guardarlo, cercare i
suoi occhi come faceva un tempo.
Vide Sora e
Matt ancora abbracciati a fianco a loro, e le venne da sorridere.
Avrebbero
dovuto dirgli di provare a spostarsi più avanti, ma non se
la sentivano di destarli.
«Mi
sembra che siano abbastanza impegnati» osservò la
ragazza e finalmente entrambi si guardarono negli occhi.
Fecero un
sorrisino spontaneo, e fu quasi un toccasana in quel momento. Per un
attimo le tensioni si ruppero, i rancori si appianarono, e i sentimenti
furono vivi come non mai.
«Già»
fu d’accordo il ragazzo parlando con voce roca.
Era
veramente difficile mettere Taichi in difficoltà, solo lei
riusciva a fargli fare un passo indietro e rimpicciolire la sua
avventatezza.
Era per
quello che si era innamorato di lei, perché sapeva sempre
come frenarlo e nello stesso tempo fare uscire il meglio di
sé.
«Puoi
metterti qui se vuoi» le disse offrendogli il suo posto dove
c’era uno spiraglio in cui affacciarsi.
Era sempre
stato gentile in quelle cose, anche quando stavano insieme aveva quei
modi galanti che a lei allettavano e la facevano sentire speciale.
Fu sorpresa
di quello, e spontaneamente i due si cambiarono di posto.
Adesso
riusciva a vedere meglio, e tutto grazie a lui.
«Grazie»
disse Mimi, toccandosi nuovamente i capelli, e lui sapeva che faceva
sempre così quando era imbarazzata.
Ebbe voglia
di aggiungere qualche altra cosa, ma non riuscì
più ad aprir bocca.
Si
limitò a guardarla di nascosto e lei fece lo stesso, quando
spostava lo sguardo.
Si resero
conto in quel momento di quanto si erano mancati a vicenda, di quanto
quelle piccole azioni quotidiane erano importanti per loro.
Capirono
più che mai che niente era svanito, che quello che provavano
era ancora vivido in loro e bruciava più che mai.
Continuarono
per un bel po’ di tempo a sorbirsi le discussioni degli
studenti che sembravano non finire mai. Mancavano ancora cinque
candidati per arrivare al turno di Joe, perciò decisero di
alzarsi e sgranchirsi le gambe.
Molti
avevano avuto la loro stessa idea, e si ritrovarono in mezzo ad una
calca di persone. Si era creato un brusio di sottofondo,
tant’è che uno dei professori intimò di
fare silenzio. Mimi aveva sbuffato e si era stiracchiata le braccia,
mentre Sora aveva tirato fuori il cellulare dalla borsa.
Notò
che c’era un messaggio e lesse il nome del mittente con il
cuore in gola. Con la coda dell’occhio, si
assicurò che Matt fosse impegnato a parlare con Tai prima di
aprirlo.
“Esci
fuori, ho bisogno di parlarti”
Era Victor.
Si guardò intorno con il cuore che aveva preso a battere
più veloce.
E adesso
come avrebbe fatto a raggiungerlo? Non poteva uscire fuori e
incontrarlo davanti a tutti, davanti a Matt, sarebbe stato troppo
azzardato.
E poi anche
lui, in quel messaggio traspariva una vera e propria urgenza di
vederla, e forse avrebbe fatto male a fare finta di niente.
Non era
pulita in quella storia, e ignorandolo magari avrebbe potuto scatenare
delle reazioni contrastanti, avrebbe potuto persino entrare in aula e
cercarla personalmente.
Sentì
una fitta lancinante allo stomaco, impaurita dalla situazione in cui si
era cacciata. Si morse il labbro inferiore e gettò uno
sguardo d’aiuto a Mimi, che però era
all’oscuro di tutto.
Doveva
uscirne, doveva fare in modo che quella storia si chiudesse
là; e per questo motivo, l’unica persona che
avrebbe potuto sistemare le cose era lei.
Solamente
lei.
«Ciao,
ragazzi!» fu distratta dal saluto caloroso di Hikari che
avanzava verso di loro. Era veramente bella vestita in quel modo,
stretta in un tubino bianco che le arrivava alle cosce con una parte
velata che le fasciava le spalle. Ai piedi portava delle scarpe
argentate e lucide con il tacco, una borsetta e i capelli lunghi erano
lisci, lasciati liberi sulla schiena. Dietro di lei la seguiva Takeru,
intento a guardare il suo cellulare.
Era
stilosissimo con indosso quella lunga giacca nera e stropicciata,
abbinata ai pantaloni dello stesso colore. Sotto portava una maglietta
bianca con un disegno indistinguibile, al collo aveva fatto fare due
giri ad una sciarpa di tessuto fino e in testa portava un capello nero,
suo marchio da sempre.
Alzò
appena gli occhi cerulei a guardarli e li salutò con un
cenno. Notò con la coda dell’occhio Tai squadrare
dalla testa ai piedi la sorella e una lieve ruga si formò
sul suo volto quando incontrò lo sguardo di TK.
Matt non
aveva detto una parola, limitandosi a salutare, nonostante si era fatto
più rigido di fronte alla presenza del fratello.
«Dov’eravate?»
chiese il castano rivolgendosi alla ragazza.
Effettivamente
non li avevano visti per niente, anzi, non li avevano nemmeno voluti
aspettare per andare all’università insieme.
Taichi
continuava a fissare sua sorella con insistenza, e lei, gettando uno
sguardo fugace al suo fidanzato, si apprestò a rispondere.
«Avanti,
ma siamo dovuti rimanere in piedi» disse con un sorriso che
niente aveva di sereno, e i sospetti del maggiore aumentarono ancora di
più.
Yamato
scosse la testa. Era come se quella ragazza stesse in qualche modo
coprendo Takeru da qualcosa, e il fatto che quell’incosciente
di suo fratello la stesse coinvolgendo gli faceva salire il sangue al
cervello.
Guardò
il suo migliore amico che ancora esaminava la sorella. Questa
tentò di sviare il discorso, come al solito, sentendo
l’atmosfera farsi pesante.
«Avete
visto Izzy?» chiese guardandosi intorno, e nel frattempo Sora
sentì il telefono dentro la sua borsa vibrare
insistentemente.
Si
voltò dall’altro lato e si rese conto che Victor
la stava chiamando. Sentì il cuore accelerare di nuovo e
decise di approfittarne di quel momento di chiacchiere.
Avrebbe
fatto finta di uscire a fumare una sigaretta, pensò con il
cuore in gola, così avrebbe potuto raggiungerlo e parlargli.
«E’
andato dalla sua ragazza» aveva, nel frattempo, risposto
Mimi, e mentre continuavano a parlare si rivolse loro a bassa voce.
«Io
esco un attimo» comunicò senza alzare la testa,
poi voltò le spalle e si apprestò ad uscire
dall’aula di corsa, sentendo il timore,
l’adrenalina scorrere nelle sue vene.
Matt la
seguì con gli occhi, chiedendosi dove stesse andando e
perché fosse così agitata. Notò che
Tai aveva fatto la stessa cosa, e non appena incrociò il suo
sguardo, lui gli fece cenno di andare da lei. Il biondo scosse la testa
e diede uno sbuffo.
Le due
ragazze continuavano a parlare tra di loro, e TK stava in disparte
preso a fare chissà cosa con il suo cellulare. Matt
spostò nuovamente l’attenzione su di lui e
sentì un moto di fastidio di fronte a
quell’indifferenza che mostrava.
«Perché
non mi hai chiamato?» gli domandò d’un
tratto, non riuscendo a sopportare quel silenzio irritante.
Il
più piccolo terminò di trafficare con il
telefono, e dopo che lo ripose in tasca si degnò di alzare
gli occhi azzurri su di lui.
Si
guardavano in modo duro, e Matt si chiese il perché fossero
arrivati a quel punto.
«Non
avevo bisogno di chiamarti» rispose con ovvietà,
senza premurarsi del fatto che avrebbe potuto ferirlo.
Yamato
strinse un pugno, poi lo guardò duramente.
«Sarei
venuto a prenderti» lo disse con un enfasi tale da fare
girare le ragazze verso di loro.
Kari,
preoccupata, si portò un dito laccato di rosa in bocca. Mimi
alzò il capo con sguardo inquisitore.
Tai
osservava i due con attenzione, pronto ad intervenire nel caso ce ne
fosse stato bisogno.
Il biondino
aveva scosso la testa con un sorrisino sarcastico, poi aveva alzato le
sopracciglia.
«Sono
già qui come vedi» aprì le braccia
facendogli intendere che quello che stava dicendo era prettamente
inutile, in quanto sapeva muoversi da solo senza il suo aiuto.
Matt non la
prese bene. Continuò a stringere i pugni arrabbiato,
pensando che suo fratello lo stava provocando di proposito, e che non
valeva la pena continuare a preoccuparsi per lui. Tutta la premura,
tutto l’affetto che gli dimostrava valevano meno di zero a
quel punto, e non poteva continuare ad elemosinare le sue attenzioni in
quel modo.
L’orgoglio
ruggì in lui, e Tai quasi poté sentire i
marchingegni del suo cervello lavorare. Dopo dei secondi di silenzio,
senza nemmeno guardarlo in faccia, mormorò:
«Bene»
e sotto gli sguardi attoniti di tutti, si portò le mani in
tasca e si allontanò da loro, camminando lentamente verso
un’altra direzione.
Kari e Mimi
si guardarono preoccupate, mentre TK rimase lì, fermo, senza
fare nulla. Il castano tentò di fermare il suo migliore
amico, ma quello si era già confuso tra la folla, allora si
voltò a guardare il biondino.
Forse non
si rendeva veramente conto di quanto male faceva a Matt comportandosi
in quel modo freddo e arrogante.
Forse non
si rendeva veramente conto di quanto avesse fatto per lui in tutti
quegli anni, di quanto gli volesse bene, di quanto avrebbe dato tutto
per lui.
Strinse i
denti, con una gran voglia di urlargli in faccia che era solo un
immaturo del cazzo a comportarsi in quel modo, che se pensava di essere
diventato adulto solo perché frequentava locali e discoteche
o perché si fumava due canne, si sbagliava.
Non aveva
capito niente, Takeru, e stava esagerando a trattare Yamato con quella
sufficienza.
Bisognava
tenersele strette le cose belle della vita, bisognava rendersi conto di
chi si aveva al proprio fianco perché prima o poi sarebbero
scappate via e avrebbero lasciato un vuoto inestimabile.
Lui ne
sapeva qualcosa.
Riuscì
a controllarsi e si trattene, limitandosi a lanciargli
un’altra occhiata e a scuotere la testa. Si
precipitò a cercare il suo migliore amico, lasciando Takeru
e le ragazze sul posto, senza possibilità di replica.
Questi
assottigliò gli occhi. Era ora che la smettessero quei due
di sentirsi superiori a tutto, perché loro non capivano che
mondo aveva dentro.
Erano loro
a sbagliare, non lui.
Lui sapeva
per cosa stava combattendo; mentre Taichi e Yamato avevano raccattato
una serie di sbagli che adesso gli si stavano ritorcendo contro.
Avevano
perso l’amore, avevano perso la strada della loro vita.
Ma cosa
più importante, avevano perso sé stessi.
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Capitolo 6 *** Memorie ***
Sora era uscita
fuori dall’aula senza guardarsi indietro,
tentando di scorgere Victor in mezzo a quella marea di gente.
Il cuore pompava
ancora velocemente, e dovevano sbrigarsi se
non volevano essere intravisti da qualcuno. Fumava la sigaretta con
nervosismo,
tenendo la borsetta stretta al suo petto. La mano le tremava e stava
cominciando a farlo per tutto il corpo, fino a quando non vide il
ragazzo
sbucare dietro delle persone.
Avanzava verso
di lei, e Sora lanciò un sospiro per tentare
di tranquillizzarsi, anche se era estremamente difficile. Lui era
bellissimo,
aveva una camicia grigia stropicciata che aveva lasciato un
po’ aperta sul
davanti, un paio di jeans aderenti che mettevano in risalto le sue
gambe
toniche e, dettaglio molto importante, portava gli occhiali da vista.
Sora ebbe un
tuffo al cuore. Sicuramente si trovava in
biblioteca a studiare, spesso ci andavano insieme, era stato il loro
luogo di
ritrovo durante le pause dalle lezioni.
Lui si era
fermato di fronte a lei e la guardava in modo
così profondo che credeva che avesse potuto scorgere tutti i
suoi pensieri più
reconditi.
Poteva leggergli
in viso tutta la voglia, l’urgenza di
vederla, e si sentì sprofondare quando capì cosa
aveva scatenato.
«Sora»
la chiamò piano lui, e un brivido percorse la schiena
della ragazza che si fermò a guardare i suoi occhi grigi,
limpidi e sinceri
come il cielo.
Sentiva le gambe
molli, ma doveva reagire.
«Victor»
rispose, mentre il ragazzo si passava una mano tra
i capelli chiari e dava un sospiro.
Erano entrambi
senza
parole dopo quello che era successo, e Sora non sapeva veramente cosa
fare per
mettere apposto le cose.
Ci furono dei
secondi di silenzio e la ramata continuò a
tirare dalla sua sigaretta per tentare di calmarsi.
«Ti ho
cercata ieri sera, ma non mi hai risposto» osservò
lui con una nota amara, forse in cuor suo era consapevole che sarebbe
stato
difficile arrivare a quel punto.
Lei si
ricordò del messaggio e annuì.
«Sì,
scusa, ma ero con i miei amici» gli fece intendere che
non avrebbe potuto rispondere e destare troppi sospetti quel giorno.
Tentò
di fargli capire com’era complicato per lei mantenere
quella facciata dopo che si era lasciata andare con lui, che qualsiasi
passo
falso le sarebbe costato caro.
Anche in quel
momento stava rischiando, pensò impaurita,
guardandosi intorno, e dovevano fare presto a parlare,
perché avrebbe potuto
mettersi nei guai.
Victor,
però, aveva assunto uno sguardo duro.
«C’era
anche lui?»
lo disse con una punta di disprezzo, riferendosi a Matt, al fatto che
ancora
fosse presente nella sua vita.
Soffriva di
questo,
perché sarebbe stato sempre al secondo posto nel cuore di
Sora, e per lui non
era più un passatempo, era qualcosa di grande, qualcosa di
reale.
Lei
aprì la bocca, senza aspettarsi il tono di astio con cui
aveva proferito quelle parole.
Sì,
Matt c’era, e non
era mai andato via.
Era consapevole
che il
suo cuore era occupato da lui, e probabilmente lo sarebbe sempre stato,
ma
vacillava...
Adesso vacillava
perché
aveva riscoperto nel ragazzo che le stava di fronte qualcosa che per
tutto quel
tempo le era mancato, e nello stesso tempo soffriva, soffriva
perché aveva
combinato un casino.
Aveva lasciato
spazio a
diverse cose che avrebbe dovuto tenere lontano.
«Victor,
non posso dilungarmi molto. Si laurea un mio amico»
tentò di spiegare, sorvolando la domanda.
L’aveva
messa ancora più in soggezione, la sigaretta era
diventata già da tempo un lungo grumolo di cenere e la
gettò ai suoi piedi.
Lui scosse la
testa. Sora voleva andarsene al più presto, ma
non aveva intenzione di lasciare le cose in sospeso.
Non aveva
intenzione di tornare a casa e far finta di niente
quando per lei sentiva dei sentimenti reali, vividi, che lo
tormentavano.
«Dimmi
che ieri per te ha avuto un senso» irruppe
guardandola fissa negli occhi castani, spiazzandola più di
quanto lei non lo
fosse.
Ti prego, non
dirmi
così...
Non mettermi
più in
difficoltà di quanto già io lo sia.
Sentì
i rumori e le voci farsi ovattati, distanti anni luce
da lei. Il cuore aveva ripreso a battere come un tamburo, e la testa
vorticò
minacciosa.
«Victor...»
provò a dissuaderlo, facendogli intendere che
non potevano, che doveva smetterla, che lei era già
impegnata.
Lui non demorse,
si passò una mano sul viso in evidente
confusione. Poi fu preso da un attacco improvviso, e coraggiosamente le
confessò:
«Sono
pazzo di te, Sora»
E lei lentamente
continuò a sprofondare in quegli abissi senza
possibilità di risalire in
superficie.
I suoi occhi si
spalancarono e lei credé di poter cadere per
terra da un momento all’altro.
No, non poteva
essere...
La sua testa si
spaccò a
metà, e invece di uscirne, si addentrò ancora
più a fondo dentro quel mare
oscuro che la trascinava sempre più giù, fino a
soffocare.
Nel frattempo,
non si accorse che Yamato si era appostato
accanto alla vetrata che dava proprio al di fuori e stava assistendo
alla
scena. Non sentiva ciò che i due si stavano dicendo, ma il
fatto che Sora fosse
uscita per parlare con quello gli diede alla testa. Grugnì
innervosito, mentre
osservava i due discutere e si chiese chi potesse essere quel ragazzo e
perché
aveva cercato proprio lei.
I suoi sensi lo
misero in allerta; era sempre stato molto
geloso e possessivo nei suoi confronti, non riusciva nemmeno a
sopportare che
un'altra persona potesse avvicinarsi e parlare nel modo in cui quello
lì stava
facendo.
Si
dimenticò della discussione appena avuta con TK, e si
concentrò sui due.
Non gli piaceva
il modo
in cui quel ragazzo le parlava, odiava il modo in cui la guardava,
niente gli
andava giù.
Aveva voglia di
uscire
fuori e spaccare la faccia a quel coglione.
Voleva andare
lì da lei
e prendersela in braccio e portarla via con sé, al rifugio
da ogni tipo di
pericolo.
Tentò
di calmarsi e non saltare a decisioni affrettate.
Cercò di recuperare la parte razionale di sé che
lo aveva sempre
contraddistinto, ma era difficile tranquillizzarsi quando si trattava
di Sora.
Nonostante
tutto, nonostante sentisse una brutta sensazione
attanagliargli lo stomaco, incrociò le braccia e se ne
stette in silenzio ad
osservarli.
Taichi lo
raggiunse, intenzionato a dirgli qualcosa riguardo
la discussione precedente, ma si bloccò non appena gli si
presentò dinanzi
quella scena.
Affiancò
il suo migliore amico, e entrambi rimasero a guardare
fuori dalla vetrata.
«Chi
cazzo è quello?» chiese, facendo un cenno con il
capo e
assottigliando gli occhi, sentendo un moto di protezione nei confronti
di Sora.
Era sempre
così, quando qualcuno provava a varcare i confini
del suo territorio, diventava come un segugio.
Il senso di
protezione e il bene che provava verso di Sora
era grande, dopo sua madre e sua sorella la sua migliore amica aveva un
posto
speciale.
Una volta nel
suo cuore
anche lei aveva un peso, ma adesso le cose erano cambiate...
Ingoiò
il boccone amaro, e si voltò ad aspettare una
risposta da Matt, che nel frattempo aveva sospirato nervosamente.
«Non
lo so» ammise, e Tai si chiese come facesse a starsene
con le mani in mano, proprio lui che era talmente geloso da dilaniarsi
l’anima.
Lo vide
osservare la scena di fronte a loro, e rimase
sorpreso nel notare la mancata reazione del biondo.
«Non
ti avvicini?» chiese usando un tono ovvio,
sottolineando il fatto che avrebbe dovuto farlo.
Una volta non
avrebbe
perso tempo a rimuginare nascosto com’era, una volta si
sarebbe avvicinato a
lei e avrebbe tastato la situazione, le avrebbe passato un braccio
sulle spalle
per rimarcarne il possesso.
Era sempre stato
così, Yamato, e lui stesso ne era
consapevole, lui stesso soffriva nel starsene in silenzio a non fare
niente,
lasciando Sora a parlare con una certa intimità insieme ad
un tizio
sconosciuto.
Adesso,
però, era
difficile, pensò, era così difficile che non
sarebbe riuscito a irrompere nella
discussione e fare quello che faceva una volta.
Il loro rapporto
era
cambiato, cambiava sempre di più, e si sentiva bloccato,
paralizzato, come se
fosse estraneo a tutto quello che lei faceva.
Strinse un pugno
nervoso, perché avrebbe tanto voluto fare
qualcosa, ma non ne era capace.
«Dio,
Tai, smettila!» sbottò, riferendosi al fatto che
l’amico tendesse a girare il dito nella piaga, provasse a
imporgli sempre cosa
dovesse fare
«E’
troppo complicato, cazzo» ammise, passandosi una mano
tra i capelli biondi e socchiudendo gli occhi.
Era davvero
troppo
complicato, era così complicato che faceva male; faceva male
restare lì in
disparte mentre Sora andava avanti con la sua vita, conosceva altre
persone,
rimpiazzava quello che c’era stato tra di loro.
E lui non
riusciva a
fare altro che guardarla andare sempre un po’ più
via da lui, a lasciarla
andare avanti da sola, senza che lui ne prendesse parte.
Tai scosse la
testa contrariato. Forse non si rendeva conto
che in quel modo rischiava di perderla davvero.
Non avrebbe
sopportato
che loro due si allontanassero come era successo a lui.
Loro due erano i
suoi
amici più fidati, erano i suoi punti di riferimento, e
vederli in quel modo,
così distanti, faceva stare male anche lui.
Non capiva che
doveva
fare qualcosa.
«Per
te che pensi solo a compiangerti» soffiò con una
punta
di acidità, e lo fece di proposito perché sapeva
sempre dove puntare in Yamato.
Sapeva a memoria
tutte le sue fragilità, conosceva ogni
minima parte del suo essere da anticipare persino le sue mosse.
Questi si
voltò a guardarlo male, e sentì qualcosa di caldo
ribollirgli nelle vene.
Odiava quando
faceva in
quel modo, gli remava contro senza tener conto dei suoi limiti,
perché delle
volte Taichi era così pieno di sé da pretendere
che anche gli altri facessero
come lui.
Ma loro due
erano così
diversi, erano diversi come il giorno e la notte, e Matt non riusciva a
farle
tutte quelle cose che faceva lui.
S’irritò
ancora di più quando lo guardò in faccia. Aveva
sempre quell’espressione fiera, superiore, era sempre
consapevole che quello
che diceva era giusto.
Strinse un
pugno, pervaso da una rabbia improvvisa.
«Perché
non badi per te?» sibilò, e decise di sferrargli
il
contrattacco perché non era solito farsi mettere i piedi in
testa da nessuno.
«Sei
stato capace di lasciare la tua donna solo perché non
stava alle tue regole!»
Fu
così sonoro e crudele che Tai sentì qualcosa
incrinarsi
dentro di lui. Quella frase fu come un secchio d’acqua
congelata, forse perché
in qualche modo corrispondeva alla realtà.
Aveva lasciato
Mimi
perché lei non accettava la distanza, perché lo
voleva solo per lei, perché lei
non capiva quanto il calcio significasse per lui.
Era questo
ciò che era
trasparso, ma lui l’aveva amata veramente Mimi, lui non
avrebbe mai voluto
lasciarla, ma le circostanze della vita erano state così
crudeli da averlo
messo di fronte ad una scelta.
Deglutì
ferito, mentre alzava gli occhi castani sull’altro.
Si fissarono per qualche secondo, e non riusciva nemmeno ad odiarlo
veramente
anche se lo aveva voluto colpire di proposito, però la
cicatrice era aperta e
sanguinava ancora.
«Lo
sai benissimo che non è stato così»
mormorò, e Yamato lo
sapeva benissimo ciò che Taichi aveva provato, quanto tutto
quello per lui era
stato importante.
Lo
lasciò lì andandosene all’improvviso, e
in quel momento
il biondo aprì gli occhi e capì.
Quello che Tai
diceva e
faceva era per il suo bene, perché erano amici, erano legati
nell’anima così
talmente tanto che non avrebbe voluto che lui sprofondasse.
«Tai...
Tai, cazzo!» gli urlò dietro chiamandolo, ma
quello
non si voltò e superò la gente, e allora lui
corse in sua direzione.
E d’un
tratto Sora
scomparve, scomparvero le divergenze, scomparve tutto.
Non si accorse
di niente quest’ultima, così presa a sentire
ciò che l’altro aveva da dire, così
coinvolta da quelle sensazioni, da quei
brividi così intesi che la catturavano senza sosta.
Lui le aveva
rivelato di provare qualcosa di profondo per
lei e adesso si trovava di fronte ad un bivio enorme. Non sapeva che
fare, non
sapeva che dire, non sapeva se fosse giusto mantenere le distanze o
dare
manforte a tutto quello.
Si mordeva il
labbro spaesata, confusa, vittima da tutte
quelle emozioni che provava non appena incrociava gli occhi chiari del
ragazzo.
Abbassò
il capo, deglutendo lentamente, tentando di
recuperare dal profondo del suo animo quel briciolo di ragione che le
era
rimasto.
Era molto
difficile,
perché era sempre stata una persona molto impulsiva,
spontanea, sincera, non
sapeva se sarebbe riuscita a mantenere integra quella facciata.
«Victor,
per favore, non mettermi in difficoltà» aveva
mormorato, pregandolo affinché non continuasse a parlare,
affinché la smettesse
di metterla di fronte a qualcosa da cui non sapeva come uscirne
«Ti
prego... Ti giuro che stasera avremo modo di parlare, ma
adesso non posso proprio» le tremava la voce mentre lo
diceva, spaventata da
tutta quella situazione, impaurita da ciò che Victor avrebbe
potuto confessarle
ancora, intimorita dalla reazione di Yamato semmai avrebbe scoperto
qualcosa.
Il ragazzo
tentò con tutte le sue forze di trattenersi,
anche se faticava davvero tanto. Avrebbe voluto stare con lei e
lasciare tutto
quello che si portava dietro, perché era consapevole che
quella relazione che
Sora aveva non le faceva affatto bene, semmai la struggeva ancora di
più.
Fece un sospiro,
e la guardò con uno sguardo che trapelava
urgenza di stare con lei, bisogno di viverla senza timore.
«Sei
insieme ai tuoi amici, dove posso rintracciarti?»
chiese con una punta di disperazione, e Sora rimuginò su
cosa avrebbe dovuto
fare, su dove avrebbe dovuto incontrarlo.
Dovevano
chiarire e mettere apposto le cose al più presto,
senza timore, perché non potevano portarsi dietro una cosa
così grande.
Allora glielo
disse senza indugi, perché tanto nascondersi
avrebbe alterato ancora di più le cose e lei voleva
sistemare tutto.
«Vieni
a casa mia, il mio amico da una festa» era avventata
a consigliargli di venire alla festa di laurea di Joe, era molto
rischioso
farlo entrare nella tela del ragno.
Era consapevole
che avrebbe osato molto, ma in fondo il suo
intento era discutere e sotterrare la questione, non avrebbe voluto
portarsi
dietro ancora per molto tempo quel fardello troppo pesante che la stava
sopprimendo.
«Adesso
devo andare» terminò la discussione girando i
tacchi
e tornando in aula, lasciandolo lì fuori che la guardava
allontanarsi.
Varcò
la soglia con il cuore in gola, evitando lo sguardo di
Mimi che la interrogava su dove fosse andata.
Credeva di aver
placato
le acque, di star lentamente alleggerendo il peso che portava dentro di
sé, ma
non poteva sapere cosa avrebbe scatenato, come le sue azioni avrebbero
comportato delle conseguenze catastrofiche.
Non seppe
nemmeno dove stava andando, Taichi, precipitandosi
fuori dall’aula con le mani in tasca e lo sguardo basso.
Le parole di
Yamato lo avevano toccato nel profondo, anche
se in cuor suo sapeva che quello che aveva detto corrispondeva alla
realtà dei
fatti.
Si
fermò in un corridoio vuoto e puntò lo sguardo
alla
finestra. Era sempre stato un ragazzo impulsivo e a tratti irruento,
forse era
vero che non si rendeva conto di pretendere troppo dalla persone.
Aveva preteso
troppo da
lei, aveva preteso che lei non replicasse di fronte alla dura scelta
che aveva
fatto, le aveva tarpato le ali mettendola in una condizione in cui non
avrebbe
potuto obbiettare.
Si
passò una mano sulla fronte. Matt aveva ragione a
rinfacciargli quelle cose, perché anche lui esagerava con le
parole. Il fatto
era che non voleva che il suo migliore amico facesse la sua stessa fine.
Non voleva che
Matt
lasciasse andare via Sora a causa della sua testardaggine e di quel
senso di
malinconia che lo pervadeva.
Non voleva che
Matt rimanesse
da solo come lui.
Questi lo
raggiunse con il fiatone e si bloccò dietro di
lui. Guardava la sua schiena aspettandosi che si girasse, e Tai
capì subito che
lo aveva trovato.
Per dei secondi
non dissero niente, persi nei loro pensieri.
Il biondo aveva aggrottato la fronte con un’espressione
dispiaciuta. Voleva
dirgli qualcosa per scusarsi, ma sentiva sempre quella sensazione di
soffocamento.
«Tengo
molto a te e Sora» spezzò d’un tratto il
silenzio il
castano, lo sguardo fisso sul pavimento.
Matt
sentì il cuore battere più forte, poi diede un
sospiro
di sollievo non appena lo udì parlare.
Riusciva a
prendere in
mano le redini di qualunque discussione o situazione anche al posto
suo.
Era per questo
che si
compensavano.
«Lo
so» disse in risposta, mentre Tai chiudeva gli occhi e
ripensava a tutto quello che avevano passato durante il corso di quegli
anni.
Doveva saperlo,
Yamato,
il bene che voleva a entrambi, quanto avesse faticato inizialmente ad
accettarli insieme, quanto avesse dovuto scavare dentro sé
stesso per capire
ciò che realmente provava.
Viaggiò
con la mente
fino all’estate di tantissimi anni fa, quando non erano altro
che dei ragazzini
di quindici anni, inesperti, che per la prima volta si erano aperti ai
sentimenti.
Non aveva preso
bene la notizia
che proprio Sora, che credeva di amare, perché a
quell’età tutti i sentimenti
sembravano grandi e dolorosi, si frequentasse con lui, il suo migliore
amico.
Era stato un
pugno allo
stomaco così potente da aver quasi rischiato di vomitare
tutto ciò che avevano
mangiato a quel barbecue al parco, e si sentiva così male da
poter crollare.
«Perché
Sora?!» aveva
urlato arrabbiato al biondo che lo aveva appena raggiunto. Si era
nascosto in
una radura dove si era allontanato non appena aveva scoperto della loro
tresca.
Matt lo aveva
guardato
preoccupato, ma lui aveva continuato a dargli contro.
«Perché
tra tutte
proprio lei?» Non riusciva veramente a capire come avesse
potuto fargli una
cosa del genere. Era così disperato e umiliato che avrebbe
voluto prenderlo a
pugni e a calci per quanto si sentiva tradito.
«Cosa
stai dicendo?»
Matt era confuso, lo guardava senza capire, e lì, per la
prima volta, sentì che
forse si era sbagliato, che non poteva essere quello il suo migliore
amico, che
non poteva fare finta di non sapere ciò che aveva sempre
provato per lei.
«Avresti
potuto
scegliere qualcun’altra, non proprio lei!» Si era
messo in piedi e lo stava
fronteggiando bellamente, smosso dai sentimenti che credeva di provare,
perché
si sa, a quell’età si difendevano a spada tratta.
«Ci
sono un sacco di
ragazze che ti vogliono, perché sei andato da
Sora?!» e lo aveva spinto, perché
proprio non riusciva a capire il motivo di quella scelta.
Non riusciva
davvero a
rendersi conto del perché proprio loro due avevano deciso di
stare insieme a
sua insaputa.
Il biondo lo
aveva
guardato male e aveva stretto i pugni in difesa dei suoi attacchi.
«Qual
è il tuo
problema?» gli aveva urlato di rimando, e Tai
sentì nuovamente tutto il sangue
salire al cervello, la disperazione, l’umiliazione di aver
saputo una cosa del
genere che lo feriva e non poco.
«Tu e
lei siete il mio
problema» Aveva ammesso, e si era chiesto perché
non capiva che gli aveva fatto
male, perché continuava a guardarlo in quel modo come se
fosse un pazzo, perché
non tentava di mettersi nei suoi panni.
Aveva sbagliato,
Matt
non era il suo migliore amico. Lo pensò veramente in quel
momento di rabbia, si
era passato una mano tra i capelli castani e scompigliati, e poi si era
lasciato cadere per terra.
Sentiva gli
occhi lucidi
e un’irrefrenabile voglia di piangere, e forse lo avrebbe
fatto se solo lui non
si fosse abbassato alla sua altezza e non gli avesse detto quello.
«Sei
innamorato di lei?»
Si era bloccato
un
attimo, perché fondamentalmente non sapeva cosa fosse quel
sentimento. A volte
credeva di sì, altre volte di no, andava e veniva, ma era
qualcosa che lo
spingeva a tirare fuori gli artigli per difenderlo, perché
Sora era unica per
lui, lei non si toccava, lei era speciale.
Non rispose,
lasciò
quella domanda pronunciata a mezz’aria, e allora Matt gli
disse qualcosa che lo
stupì.
«Se
per te è un problema
allora la lascerò stare» lo disse con una
semplicità disarmante che riuscì a
riportarlo sulla terra. Aveva spalancato la bocca e aveva alzato gli
occhi su
di lui che lo guardava seriamente.
«Se
per te Sora è così
importante non mi metterò in mezzo» aveva ripetuto
e sentiva che gli stava
dicendo la verità. Si erano guardati negli occhi e allora si
rimangiò tutto,
tutte quelle cose cattive che aveva pensato su di lui, il fatto che lui
non
fosse degno di essere il suo migliore amico.
Matt non avrebbe
mai
fatto qualcosa che avrebbe potuto farlo soffrire, e gli fu
così grato che decise
di non fare niente, di non ostacolarli, perché
l’amicizia che il biondo gli
aveva appena dimostrato faceva parte anche di lui.
Gli venne in
mente quel ricordo di quando erano piccoli, il
giorno in cui aveva scoperto che loro due si piacevano e che lui non
faceva più
parte dei giochi.
Nonostante gli
avesse fatto male sapere tutto quello, era
stato proprio quel giorno che aveva consolidato ancora di
più la sua amicizia
con Yamato, che gli aveva permesso di prendersi cura di Sora.
«Per
questo mi incazzo quando fai finta di non capire»
spiegò allora, mentre quello abbassava lo sguardo trafitto.
Forse era
saltato alla mente anche a lui quel ricordo di
tanti anni fa, e in fondo gliene doveva se aveva continuato a stare con
lei
anche dopo.
Sapeva quanto
bene volesse a Sora e quanto tenesse alla loro
amicizia, era per questo che si affannava a riportarlo nel binario
giusto; lui,
invece, pensava solo ad offenderlo e a dedurre che gli volesse imporre
le cose.
«Mi
dispiace, Tai» soffiò realmente pentito,
perché credeva
che l’altro non riusciva a capire come stava quando invece
era proprio lui a non
capirlo.
Il ragazzo
finalmente si era voltato e lo aveva guardato
dritto in faccia. Si era già dimenticato del
perché avevano discusso, l’unica
cosa che notava adesso era il suo malessere e voleva che ne uscisse.
«Stai
male senza di lei. Perché continui a fare
così?» lo
mise di fronte alla realtà, sottolineando il fatto che il
suo comportamento nei
confronti della ragazza non faceva bene a nessuno dei due.
Matt
abbassò lo sguardo. Aveva ragione a dire in quel modo,
Tai aveva capito che il suo modo d’agire in realtà
lo faceva soffrire ancora di
più, perché lui voleva veramente stare con Sora,
parlarle, chiarire e sistemare
le cose, ma era bloccato.
Era bloccato
perché dentro di sé cominciava a maturare un
timore grande.
Aveva timore che
avvicinandosi troppo a lei le avrebbe fatto
del male.
Era un
controsenso, ne era consapevole, ma la verità era che
non riusciva, non riusciva proprio ad aprirsi.
Strinse le
labbra e socchiuse gli occhi, prima di proferire:
«Perché
ho una fottuta paura che lei non mi voglia più»
diede voce ai suoi pensieri più profondi, nascosti, mentre
il castano
continuava a guardarlo con uno sguardo apprensivo e serio.
La
verità era che aveva bisogno di stare con Sora
perché
dentro di sé era consapevole di amarla ancora; ma notava che
qualcosa tra di
loro era cambiato, si era spezzato, e non sapeva se sarebbe potuto
tornare come
una volta.
L’accumulo
di tutti quegli anni di inerzia e silenzio
avevano fatto sì che per lui diventasse difficile perfino
parlarle.
Gli veniva
difficile avvicinarsi e comportarsi come faceva
tempo fa, nonostante avesse una disperata esigenza di averla accanto.
E quel bisogno
vitale che aveva faceva nascere in lui una
tremenda paura che i sentimenti della ragazza fossero cambiati e che
nel suo
cuore non aveva più la stessa importanza.
Taichi parve
udire i suoi pensieri malinconici e disperati,
tanto alzò la testa e lo guardò con una smorfia.
Sapeva
ciò che stava pensando adesso, si sentiva inadeguato,
si sentiva uno scalino sotto a tutto e per lui sarebbe risultato
più semplice
lasciar andare Sora piuttosto che affrontarla.
«E
pensi che facendo così sistemerai le cose?» gli
chiese
retorico, alzando le sopracciglia e aprendo le braccia.
Non poteva dire
di non essere arrabbiato con lui e i suoi
complessi del cazzo, perché avrebbe mentito.
«Spiandola
attraverso una cazzo di vetrata?» quasi gli venne
da ridere per come si comportava. Lasciava che il tempo scorresse e
aspettava
che qualcosa accadesse per sistemare la situazione, quando non si
rendeva conto
che toccava a lui mettere nuovamente insieme i pezzi di quella
relazione.
Lui poteva
ancora farlo,
lui doveva farlo.
Il biondo aveva
alzato gli occhi azzurri che erano lucidi, e
sentiva un gran senso di rammarico pervaderlo.
Tai era stato
severo con lui, lo era sempre quando doveva
aprirgli gli occhi, però non ce la faceva più,
voleva essere appoggiato, voleva
che qualcuno capisse il suo stato d’animo fino in fondo.
I suoi sogni era
andati
in fumo, i cinque anni di studi che aveva sacrificato al conservatorio
erano
svaniti nel nulla, suo fratello ce l’aveva con lui... e poi
Sora che era
distante, sempre più distante...
Chiuse gli occhi
e si toccò la fronte, sentendola pulsare, e
udì distrattamente l’altro che gli diceva qualche
altra cosa.
«Fa’
qualcosa, Matt» aveva proferito per concludere il
discorso, e stava per andare via e lasciarlo lì da solo a
rimuginare sui suoi
sbagli.
Ma lui adesso
non aveva bisogno di restare da solo, voleva
che Tai rimanesse perché glielo doveva dire in faccia quello
che provava, quello
che sentiva.
Perché
solo provando a spiegargli quello che aveva dentro
poteva in qualche modo appianare le ferite.
Lo prese da una
mano e lo fece voltare verso di lui. Il
castano non oppose resistenza, ma lo guardò con un sospiro.
Yamato strinse
le labbra con gli occhi chiusi, un groppo in
gola che premeva e reclamava delle lacrime che aveva trattenuto per
mesi.
Li
riaprì e lo guardò fisso, cercando di
trasmettergli
quello che veramente portava dentro.
«Tu
sei l’unica persona con cui parlo, Tai» strinse la
presa
su di lui, mentre quello lo guardava stupito.
Lo vide portarsi
l’altra mano al petto, stringendo forte la
sua maglietta bianca.
«Ho
come un blocco dentro che mi logora, proprio qua» la sua
voce s’incrinò, e abbassò gli occhi per
terra.
Gli stava
confessando ciò che provava, quello che per tutto
quel tempo aveva tenuto dentro di lui. Cercava di trasmettergli il
dissidio
interiore che lo spogliava da tutte le sue certezze, che lo faceva
vacillare
continuamente come se fosse in bilico.
Gli costava
davvero tanto ammettere di aver bisogno di
aiuto, di aver bisogno di qualcuno, perché il suo orgoglio
era così forte da
creare intorno a sé barriere invalicabili.
«Tu
riesci a tirare fuori il meglio di me» gli confidò
alzando gli occhi chiari, guardandolo di uno sguardo disperato,
angosciato, e
Tai si morse la lingua per aver dubitato di lui.
Adesso, in quel
modo, gli sembrava così vulnerabile da
potersi frantumare in
mille pezzi.
«Matt...»
mormorò, la sua voce si spezzò e lo
guardò con
apprensione, sentendosi per un attimo incapace di continuare. Aveva le
sopracciglia aggrottate e lo fissava senza dire niente, percependo il
suo
malessere e la difficoltà che aveva
nell’esprimersi.
Il biondo aveva
la bocca semiaperta e si passò lentamente la
mano tra i capelli, scompigliandoli un po’. Si
umettò le labbra e sentì gli
occhi lucidi quando alzò lo sguardo e incontrò il
suo.
«Sei
mio fratello, sei il mio migliore amico, sei il mio
braccio destro» era come se stesse elencando tutti i ruoli
che ricopriva Taichi
nella sua vita, e l’altro ebbe un tuffo al cuore per la
profondità con cui
stava parlando
«cazzo,
sei tutto» aveva continuato con il fiato spezzato e
si sentì stordito da tutte quelle parole importanti che gli
aveva rivolto,
perché nessuno dei due aveva mai avuto il coraggio di dire
all’altro quello che
realmente provava.
Quelle parole
erano sempre state sottintese nella loro
amicizia, e solo adesso Yamato era stato capace di dirle dopo anni,
mentre lui
non sapeva se mai ne fosse stato all’altezza.
Si diede
dell’idiota, perché non si rendeva conto di essere
troppo avventato e irruento, non si rendeva conto di ferire gli altri
solamente
per dimostrare di avere ragione.
Matt aveva
bisogno di lui, aveva bisogno del suo appoggio, e
non avrebbe dovuto remargli contro in quel modo senza capire le sue
ragioni;
doveva stargli accanto ed aiutarlo a riflettere, aiutarlo ad uscire
pian piano
da quel lungo tunnel in cui si era perso.
Istintivamente,
si avvicinò e lo abbracciò, sentendo gli
occhi lucidi, emozionato da tutto ciò che gli aveva detto,
da tutto ciò che
adesso sentiva e che riusciva a trasmettergli.
Matt chiuse gli
occhi e lo strinse a sua volta,
abbandonandosi in quell’abbraccio liberatorio dove riusciva a
trovare rifugio
dopo mesi di sofferenza.
Tai
rafforzò la stretta mettendogli una mano dietro il capo.
La reazione che
aveva avuto il biondo era come uno scusarsi
di fronte ai suoi comportamenti, era un crollo psicologico reduce da un
accumulo di sentimenti contrastanti, e doveva aiutarlo,
perché solo con lui
Matt stava bene.
Non riusciva a
vedere oltre il suo naso, a volte, tanto da
dare per scontato tutto e pretendere che le altre persone facessero a
modo suo.
Si stupiva di
quanto risultasse così superficiale; dava così
poco peso ai sentimenti degli altri, vedeva solo quello che voleva
vedere.
Il suo senso di
protezione verso di Sora lo aveva accecato
completamente, e sapeva che Yamato doveva fare qualcosa per sistemare
tutto, ma
colpirlo in maniera gratuita senza ascoltare le sue ragioni era stato
da
vigliacco.
Mentre rimaneva
abbracciato a lui, il suo sguardo si perse
nel vuoto.
Era andato
perfino contro Matt per lei, perché quello che
aveva sentito per Sora era stato forte e tuttora le voleva un bene
così
profondo e intimo che non poteva comparare con nessuno.
Lei era stata la
prima ragazza che aveva fatto parte della
sua vita, era stata la ragazza che gli aveva sempre aperto gli occhi,
la
ragazza che lo aveva rimproverato per il suo spirito troppo istintivo,
la
ragazza che lo aveva sempre aiutato anche quando non lo meritava.
Sora era
riuscita a fargli capire quanto era importante aiutare
gli altri, quanto era importante non dare mai niente per scontato,
quanto era importante
andare al di là dei pregiudizi e delle facciate.
Chiuse gli occhi
e ripensò a quell’episodio di tanti anni
fa.
Quando
l’aveva vista
arrivare non aveva retto il peso del suo sguardo, e aveva voltato le
spalle per
andare via, lontano da entrambi.
Lei
però lo chiamava ad
alta voce, e per quanto volesse fuggire da quel luogo, non riusciva a
non
ascoltarla, non riusciva ad ignorarla.
«Tai!
Tai, per favore»
lo chiamava, e si voltò a guardarla in viso, disperata per
quello che era
successo, gli occhi supplici che tentavano di trattenere le lacrime.
Aveva deglutito,
perché
quegli occhi per lui significavano tanto, avrebbe fatto di tutto per
poterli
guardare sempre.
Sora lo aveva
raggiunto
e gli aveva stretto il braccio. Non riusciva a non sentire le farfalle
allo
stomaco quando era accanto a lei, era più forte di lui.
Vedeva solo lei,
era
sempre stata solo lei, nessun’altra esisteva per lui.
«per
favore, non
rovinare tutto...» aveva continuato con il fiatone,
pregandolo affinché non
facesse altro, affinché lasciasse quell’amicizia
intatta così com’era, non
smuovesse niente perché non voleva perderlo.
Aveva stretto i
pugni e
chiuso gli occhi.
Non voleva
sostituire
Sora con nessuno, non voleva guardare nessun’altra
così come guardava lei, non
voleva stare insieme ad un’altra che non fosse lei.
Il cuore gli
batteva più
veloce, e forse era arrivato il momento di dirle tutto, di mettere a
nudo quello
che provava, quei sentimenti che erano sempre esistiti in lui da appena
l’aveva
conosciuta.
«Provo
qualcosa per te,
Sora» gli confessò d’un tratto,
perché era sempre stato impulsivo, ed era
giusto che lo sapesse, che capisse quanto stesse male quando la vedeva
con
Matt, che si rendesse conto di cosa lei significasse per lui.
La ramata aveva
scosse
la testa bruscamente con un’ espressione contrariata.
«Non
è vero» gli disse,
e lui la guardò aggrottando le sopracciglia «Tu
non provi qualcosa per me, tu
pensi di provarlo»
Si chiese come
faceva a
dire questo, su che basi proferiva quelle parole senza sapere cosa lui
avesse
dentro, quanto grandi fossero i sentimenti che provava.
Si
sentì triste,
umiliato ed arrabbiato. Arrabbiato con lei, arrabbiato con gli altri,
arrabbiato con sé stesso. Perché lo contestava?
Cosa poteva sapere lei di
quello che aveva dentro?
«Perché
dici questo?» le
chiese in un soffio, non volendo utilizzò un tono disperato
e lei aveva fatto
un sospiro prima di guardarlo intensamente con quello sguardo amorevole
che gli
riservava sempre.
La vide
allargare le
braccia prima di spiegargli.
«Io ci
sono sempre
stata» ed era vero, lei c’era sempre stata nella
sua vita, c’era sempre stata
per lui, non aveva mai mancato di esserci.
«A
volte è più comodo
appoggiarsi a qualcuno più vicino a noi, perché
abbiamo paura di avventurarci
in qualcosa che non conosciamo» aveva continuato
rivolgendogli un sorriso
affettuoso, e lui deglutì sentendo un brivido percorrergli
di traverso la
schiena.
Era vero quello
che gli
aveva appena detto, lui l’aveva scelta, aveva scelto lei tra
tutte, anzi, non
esisteva nessun’altra nella sua visuale. E sì,
sicuramente era più semplice per
lui innamorarsi di lei che la conosceva così bene, che lo
capiva ed era compatibile
con lui, però... forse aveva ragione...
Aveva forzato un
po’
tutto, aveva smosso dei sentimenti contrastanti dentro di lui che lo
avevano
portato a credere qualcosa che forse non corrispondeva alla
realtà...
Notò
Sora con la coda
dell’occhio volgere lo sguardo al cielo.
«Io
pure credevo di
provare qualcosa per te e adesso ho capito
cos’è» Era sciocco ed infantile, ma
un sottile filo di speranza si accese in lui, anche se dentro il suo
cuore
stava piano piano prendendo consapevolezza.
La ragazza lo
aveva
guardato di nuovo, parlando in modo intimo e sincero.
«E’
quell’affetto così
profondo che ha un nome» Sentì distrattamente i
pezzi del suo cuore rompersi, e
pregò affinché non lo liquidasse in quel modo,
non dicesse quella frase.
«E’
amicizia, Tai» ma
lei lo aveva appena proferito, e l’aria che il ragazzo aveva
trattenuto fino a
quel momento venne rilasciata d’un tratto.
Buffo come una
semplice
parola potesse ferire così tanto i sentimenti e
l’orgoglio di una persona,
eppure Taichi si sentiva così vuoto e prosciugato da
chiedersi il motivo.
Perché
loro due non
potevano stare insieme? Perché Sora riusciva a
razionalizzare così tanto da
catalogarlo come un amico e basta?
Per lui tutto
quello era
di più, lei era qualcosa di più nella sua vita, e
non voleva che fosse
altrimenti.
Si
sentì triste e
amareggiato, quel rifiuto gli pesava dentro.
«Mi
stai facendo del
male» lo disse davvero ferito, perché odiava il
modo in cui Sora lo contestava
e in quel momento non capiva perché, era così
cieco e sordo da non voler
capire.
Lei allora gli
aveva
poggiato una mano sulla spalla e lo aveva scosso, parlando in quel modo
così
intenso e amorevole che più gli piaceva di lei, che
più la contraddistingueva.
«Io ti
sto facendo del
bene» alzò lo sguardo sui suoi occhi castano
chiaro che erano offuscati da un
velo di lacrime, forse era la paura di perdere anche lui.
«perché
incontrerai la
persona che ti farà battere veramente il cuore, e magari
sarà qualcuno che fino
ad adesso non hai mai considerato»
Non era riuscito
a
comprendere fino in fondo ciò che voleva dire in quel
momento, ma inconsciamente
era stata proprio lei, proprio Sora ad aprirgli gli occhi e fargli
vedere ciò
che di bello c’era al di fuori.
Matt si mosse
tra le sue braccia, e distrattamente lo vide
staccarsi da lui. Aveva il volto cupo e arrossato, lo vide scacciare
con
violenza una lacrima e ridestarsi come solo lui sapeva fare.
Tai lo
guardò e strinse le labbra.
Voleva che
reagisse a quello stato catatonico in cui era
piombato e andasse a chiarire con Sora. Dopo tutto quello che avevano
passato
insieme non potevano lasciarsi andare a delle incomprensioni
caratteriali che
li stavano allontanando sempre di più.
Desiderava con
tutto il cuore che il suo migliore amico non
commettesse il suo stesso dannato errore a cui non sapeva rimediare.
«Scusa
se ti ho detto quelle cose su Mimi...» udì Yamato
sussurrare quella frase e lui trattenne il fiato per qualche secondo.
Poteva anche
scusarsi e lo apprezzava per quello, ma in cuor
suo sapeva per certo che era la verità. Avevano un modo
spesso troppo brusco
nel dirsi le cose, a volte se le rinfacciavano, ma entrambi avevano
ragione.
Sapevano a
memoria il
punto debole dell’altro, da sempre.
Taichi
lasciò andare l’aria che aveva trattenuto. Volse
lo
sguardo verso una finestra che dava su un immenso prato verde e curato.
A che sarebbe
servito
crogiolarsi nella più egoista delle sofferenze quando non
aveva fatto altro che
evitare la soluzione al problema?
Forse... forse
era
diventato un vigliacco...
«Non
importa» mormorò di rimando.
E si perse
nuovamente a pensare al passato, a quel momento
in cui i suoi occhi si erano aperti per la prima volta...
Dopo aver avuto
quella
discussione con Yamato ed aver ascoltato le incomprensibili parole che
gli
aveva rivolto Sora, aveva deciso di non tornare al pic-nic dagli altri.
Aveva
bisogno di rimanere da solo a rimuginare su qualcosa che neppure lui
sapeva
più.
Mimi si trovava
in riva
al lago e guardava attentamente una barca di fronte a sé.
Mentre scendeva
Taichi aveva sbuffato nel vederla occupare la sua stessa traiettoria. Non avevano un
rapporto
idilliaco, né tantomeno amichevole. Si erano ritrovati
entrambi dentro lo
stesso gruppo di Digiprescelti e avevano dovuto ben presto abituarsi
alla
convivenza, ma a differenza di Sora, quella ragazzina era petulante e
vanitosa.
E il fatto che
una
ragazza poteva essere diversa da Sora lo mandava nel pallone. Non
sapeva
nemmeno come iniziare una discussione, ma si era ritrovato ad
affiancarla e ad
osservare la barca insieme a lei.
Mimi si
voltò a
guardarlo, e a dispetto di ciò che Tai aveva appena pensato,
bastò un semplice
sguardo complice per fare in modo che sciogliessero entrambi la fune
che la teneva
attraccata e a salirci su.
Remarono via
portando
dietro di loro uno strano senso di libertà, e per un
po’ di tempo si godettero
il sole sul volto e gli uccelli che svolazzavano sopra le loro teste.
Mimi si era
alzata i
capelli in una coda di cavallo, lasciando ricadere sul viso due
piccole
ciocche castane. Tai le rivolse uno sguardo di sottecchi, catturato da
quel
gesto.
«Ci
stiamo allontanando
un po’ troppo» la udì dire a un certo
punto, mentre si era portata una mano
sulla fronte per coprire gli occhi dal sole e osservare la distanza che
avevano
percorso.
Lui si era
voltato a
fare lo stesso.
«Preferisco
così»
rispose, rivolgendole per la prima volta parola in tutto quel lasso di
tempo.
Lei lo aveva
guardato
dura per qualche secondo, ma poi aveva assunto una faccia eloquente.
«Stai
male per Sora?»
gli chiese a bruciapelo in una domanda che assomigliava tanto ad
un’affermazione.
Taichi
alzò gli occhi
che aveva tenuto lontani dal suo viso senza ben sapere
perché, e anche se gli
sembrò strano, una fitta al cuore lo sorprese non appena la
guardò.
Aprì
la bocca senza dire
nulla, ma poi si costrinse a rispondere.
«Te lo
ha detto lei?»
risultò un po’ brusco, ma gli uscì
spontaneamente.
Mimi
alzò le spalle
guardando la superficie liscia del lago.
«Tra
amiche ci diciamo
tutto» ed era ovvio, come aveva fatto a non pensarci? Lo
guardò nuovamente
aggrottando le sopracciglia.
«E poi
si nota dalla tua
faccia» disse con sincerità, facendolo ammutolire.
Non capiva come
mai proprio
una ragazzina come Mimi, che aveva sempre ritenuto superficiale e
chiassosa, si
fosse accorta di come stava in quel momento – o di come
pensava di stare-
soltanto scrutandolo in volto.
«Che
faccia ho?» chiese
balbettando un po’.
Lei
sospirò e strinse le
labbra rosee.
«Sei
triste. Non ti ho
mai visto così triste»
Forse aveva
ragione. Lui
era sempre stato allegro come un fringuello e quello stato
d’animo non gli si
addiceva per niente. Avrebbe voluto tanto fare una battuta delle sue
per
stemperare la tensione, ma sentiva il petto carico di sensazioni
contrastanti e
aveva bisogno di farle uscire fuori.
Si
sdraiò portandosi le
braccia dietro la testa e chiuse gli occhi.
«Forse
ha ragione»
dichiarò dopo un po’ di tempo, riferendosi a Sora
«Crediamo di provare qualcosa
per le persone che abbiamo accanto, quando la verità
è che ci viene comodo»
Mimi non aveva
detto
niente, ma lo stava ascoltando.
«A me
fa comodo
innamorarmi di Sora, voglio dire, la conosco da una vita, lei
c’è sempre stata
per me... però... forse non mi rendo conto che non
è amore come penso... è amicizia. Solo
amicizia»
concluse.
La castana aveva
lo
sguardo perso nel vuoto e la sentì ripetere:
«Solo
amicizia»
Tai
aprì un occhio
guardandola interrogativo, e si chiese a cosa stesse pensando. Era
veramente
carina, e da molto tempo a quella parte Koushiro si era preso una cotta
per
lei.
D’un
tratto sentì
l’esigenza di sapere se anche lei come lui pensasse a
qualcuno, non sapeva
perché, sentiva solo di volerlo sapere e basta.
Si mise a sedere.
«Anche
Izzy ha una cotta
per te» gli rivelò, e poi maledì
mentalmente la sua impulsività, sentendosi in
colpa per averle confidato un segreto di un amico.
Mimi aveva
arricciato le
labbra in un’espressione mista tra l’irritato e il
dispiaciuto.
«Lo
so» disse poi, e il
ragazzo sospirò di sollievo.
Chissà
se anche lei ricambiava...
«Tu
che ne pensi?»
Non sapeva
nemmeno
perché gli importava così tanto... forse si stava
lasciando prendere troppo da
quei discorsi e stava perdendo il punto centrale.
Mimi lo
guardò in maniera
strana e potette giurare di vederla imbarazzarsi, ma non ci capiva
molto di
quelle cose.
«Penso
che la vita sia
troppo breve per... pensarci troppo» non capì bene
a cosa si stava riferendo,
sembrava più un divagare da parte sua «Ci fissiamo
su delle persone quando
magari abbiamo accanto qualcuno che non avevamo mai calcolato»
Taichi non era
riuscito
a distogliere lo sguardo da lei. Sembrava rapito da quello che stava
dicendo e
aveva probabilmente assunto una faccia da pesce lesso.
«O
della quale abbiamo
sempre avuto un’opinione sbagliata» disse a bassa
voce, avendo chiaro
improvvisamente il ritratto della ragazza che gli stava di fronte.
Mimi non era
solo quello
che aveva visto fino ad allora, o meglio quello che aveva voluto vedere
perché
offuscato dal pregiudizio; era sensibile e comprensiva, sveglia e
intelligente
come mai aveva pensato fosse.
«Sì,
capita» la sentì
rispondere per poi emettere una risata fresca e contagiosa.
Tai si morse il
labbro
inferiore, sentendo per la prima volta qualcosa di veramente strano.
Qualcosa
che lo aveva scosso dentro, ma in positivo, non nella più
cupa delle
rassegnazioni come era successo per tutto quel tempo con Sora.
Mimi era bella,
bellissima, soprattutto dentro, e lo aveva appena scoperto sopra quella
barca,
dopo anni di sonno.
Aveva appena
aperto gli
occhi.
«Come
fai?» le chiese
d’un tratto.
La
complicità tra di
loro era aumentata a dismisura, e lei aveva piegato leggermente la
testa d’un
lato e lo aveva guardato in maniera strana.
«Come
fai ad essere
sempre così spensierata, così... pura?»
continuò a chiederle.
La purezza era
il suo
simbolo e, nonostante tutto, poteva giurare di averle sempre invidiato
quella
caratteristica, le aveva sempre invidiato il modo di prendere le cose,
un modo
che poteva apparentemente apparire leggero e frivolo, ma che in
realtà, aveva
scoperto, era serio e profondo.
Lei lo
guardò alzando un
dito.
«Segreto»
fece
stuzzicandolo.
Taichi non aveva
smesso
di guardarla nemmeno per un secondo, e sentiva sempre di più
di volersi
avvicinare a quel viso candido e fine. Senza quasi rendersene conto,
aveva accostato
il volto a quello di lei, e ne ricordava ancora l’
espressione spaesata, prima
di chiudere gli occhi e posare le labbra su quelle sue.
La
baciò per la prima
volta sentendo di volerlo davvero, sentendo una miriade di sensazioni
positive,
del tutto nuove, percorrergli il corpo.
Le aveva
poggiato una
mano sulla guancia e l’aveva attirata di più a
sé, e si erano staccati da quel
primo bacio impacciato seppur infuocato solamente perché
interrotti dal
dondolio della barca.
Tai
tornò distrattamente
alla realtà, mentre Mimi lo aveva guardato stupita, e poi
aveva riso.
«E tu
come fai ad essere
sempre così coraggioso?» lo rimbeccò.
Lui
l’attirò nuovamente
verso di sé, sussurrando sulle sue labbra:
«Segreto»
E da quel
momento in poi
le sue ferite vennero ricucite all’istante, tutte le sue
insicurezze scomparirono
e, a mano a mano, Taichi Yagami conobbe cos’era veramente
l’amore che pensava
già di conoscere.
Si
risvegliò lentamente da quel vortice di ricordi in cui si
era perso, sentendo i suoi battiti accelerati e la gola secca.
Matt lo guardava
e aveva udito distrattamente ciò che aveva
detto.
«Importa,
invece, perché non te lo meriti»
Non era
così. Perché per quanto dolci erano i ricordi di
lui
e Mimi, non era riuscito a tenersela, anteponendo il suo egoismo, la
sua
sciocca professione che nemmeno più lo appassionava, il suo
stupido orgoglio
all’amore della sua vita.
«Me lo
merito eccome» ringhiò duro con sé
stesso.
Il biondo lo
guardò tristemente e non riuscì a contraddirlo.
Si sentiva esattamente come lui, vuoto e solo, inerme e rassegnato di
fronte
alla schiavitù dei sentimenti, di fronte
all’incapacità di reagire per tenersi
stretto la sua vita e la sua donna.
Rimasero per un
altro po’ in silenzio in quel corridoio
deserto, immersi nei loro pensieri soffocanti, fino a quando non
udirono il
nome di Joe venire chiamato al microfono.
«Lo
hanno chiamato?» chiese Matt, risvegliandosi
improvvisamente.
Tai
annuì, sospirando.
«Sì,
rientriamo» affermò, ed entrambi si diressero
nuovamente dentro l’aula, facendosi largo tra le file per
raggiungere i posti
precedentemente occupati.
Mimi si rese
conto della loro presenza e si limitò a
lanciare un’occhiata fugace nella loro direzione. Poi si
voltò verso Sora,
accanto a lei. Sembrava stesse osservando attentamente i membri della
commissione, ma la castana potette giurare che non si era voltata di
proposito.
Joe si
alzò dalla poltrona su cui era seduto barcollando un
po’. Lo videro portarsi una mano alla cravatta, allentandola
dal collo;
probabilmente stava sudando freddo. Camminò in maniera
sbilenca fino alla
pedana rialzata dove si trovava la commissione, posizionando la sua
tesi
rilegata di rosso in bella vista come fosse un gioiello prezioso. Poi
salì sul podio
e sistemò il microfono con uno sguardo risoluto.
Tai fece una
faccia strana non appena lo guardò bene. Aveva
la camicia spiegazzata e dei ciuffi di capelli tesi. Lanciò
uno sguardo a Matt
e i due risero sommessamente.
Vennero
interrotti dalla voce tuonante del presidente di
commissione che presentava al pubblico l’operato del loro
amico.
«Il
candidato Kido Jyou presenta alla seduta di laurea in
Medicina e Chirurgia una tesi dal titolo...»
Questi assunse
una faccia da funerale non appena sentì
chiamare il suo nome e lo videro muoversi in maniera nervosa sul posto.
Sembrava stesse per avere un mancamento, ma non appena fu il suo turno
di
parlare, afferrò il microfono e cominciò ad
esporre l’argomento con una
sicurezza impeccabile.
La sua voce
acuta risuonava per tutta l’aula. Tentarono di
mantenere alto il livello di concentrazione per non perdersi dietro i
concetti
che il corvino stava spiegando, ma il tono lamentoso che Joe aveva
assunto e i
termini medici che l’argomento comprendeva fecero
sì che le menti dei ragazzi
si perdessero in un vuoto inevitabile.
Non appena
sentirono nominare la parola “capelli”,
Taichi non mancò di guardare Yamato
con una smorfia, e questi ricambiò alzando le spalle. Le
ragazze sembravano
pendere dalle labbra del coinquilino senza interruzioni, ma erano
sicuri che
nemmeno loro ci stessero capendo molto.
Mimi, difatti,
rivolse uno sguardo ai due di natura
confusionaria e Tai ricambiò il sorrisino stremato che
questa regalò loro.
Matt si sporse
per vedere la reazione di Sora, ma la ramata
aveva afferrato il cellulare e non si degnava di alzare la testa.
Strinse le
labbra e si chiese che cosa avesse da guardare
con così tanta attenzione proprio in quel momento importante.
Sentì
un’altra fitta di gelosia percorrergli il petto,
ricordando la figura di quel ragazzo che poco prima le aveva parlato
con così
tanta confidenza. Aveva voglia di andare vicino a lei e chiederle chi
fosse e
perché si erano appartati a discutere in quel modo fitto, ma
nonostante il
discorso con Tai e la sua pancia che gli imponeva impulsivamente di
farlo, si
rese conto che non era né il luogo né il momento.
Se voleva
ricominciare ad avere un’empatia con lei era
meglio che non si mostrasse geloso ed invadente come lo era un tempo,
perché
sapeva che quel lato del suo carattere era qualcosa che aveva sempre
causato
danni al loro rapporto di coppia.
Decise di
concentrarsi su qualcos’altro, e notò suo fratello
posizionato ai lati dell’aula che immortalava la discussione
di Joe con un
cellulare all’ultima moda.
Strinse le
labbra e si chiese dove avesse trovato i soldi
per comprarlo, ma poi gli tornò in testa come TK stesse
svolgendo una vita
frenetica all’insegna della pubblicità e dei
locali, lavori che seppur per lui
discutibili, gli permettevano di tirare avanti senza problemi.
I suoi pensieri
altalenanti vennero interrotti
improvvisamente da una domanda invasiva da parte di uno dei professori
della
commissione nei confronti di Joe, che era stato costretto ad arrestare
il suo
esposto per riflettere su come rispondere.
Lo vide agitarsi
sul posto e schiarirsi la voce per poter replicare
con il suo solito modo altezzoso, ma probabilmente contenente una
risposta
soddisfacente, e dopo quel colpo basso inaspettato nessuno lo
bloccò più.
«Il
burino si è arrabbiato» constatò Tai a
bassa voce, e
insieme continuarono ad osservare Joe colloquiare con una certa fretta,
sicuramente indispettito e impaziente di terminare il più
presto possibile.
La discussione
durò in tutto un quarto d’ora scarso. Joe
lanciò un sospiro di sollievo non appena il presidente disse
che aveva concluso
e i professori erano pronti a giudicare il suo operato. Scese dal podio
e tornò
a sedere con in volto un’espressione lugubre.
Non appena le
sedute terminarono, tutti i candidati furono
costretti ad alzarsi e posizionarsi di fronte alla commissione in
maniera tale
che venisse loro proclamato il proprio voto di laurea.
Videro il
corvino seguire i suoi colleghi con ancora in
volto quella faccia sconvolta, e Tai non potette fare a meno di
sussurrare agli
altri:
«Il
solito secchione che si lamenta e poi prende il massimo»
Matt
annuì con una smorfia. Le due ragazze, dal loro canto,
si guardarono e pregarono Dio affinché tutto andasse per il
meglio e quella
seduta di laurea si concludesse in maniera tale da non dover sopportare
ulteriori capricci da parte del loro coinquilino. Era da un anno a
quella parte
che avevano dovuto sorbire scenate e pianti isterici, e a parte tutto,
sapevano
che Joe lo meritava davvero.
La folla era in
fermento e quasi non riuscirono più a vedere
nulla.
«Con i poteri conferitimi
dalla legge, proclamo il candidato Kido Jyou dottore in Medicina e
Chirurgia con
il voto di centodieci su centodieci e lode!»
Non appena
udirono il suono di quella proclamazione, si
guardarono tutti e quattro con un’espressione inaspettata.
Poi adottarono una
faccia giubilante e si unirono agli applausi scroscianti.
Sora e Mimi si
abbracciarono spontaneamente, sentendosi
molto vicine a quel contesto; per loro era un’emozione grande
ascoltare quelle
parole che presto o tardi avrebbero coinvolto anche loro. E poi si
sentivano realmente
felici per quell’impiastro di Joe, che adesso stringeva con
un sorriso la mano
a tutti i professori. Al turno di colui che lo aveva messo in
difficoltà
indugiò un attimo, ma poi gliela diede con
superiorità.
Taichi
lanciò uno sguardo a Yamato di natura sorniona e
questi scosse la testa con un ghigno ironico.
Udirono TK
lanciare un urlo di giubilo, tant’è che il
corvino si voltò a salutarlo emozionato, poi
tornò in fila e aspettarono la
fine della proclamazione dei voti.
Quando la
cerimonia si concluse, le persone attorno
cominciarono a spostarsi da tutte le parti, urtando chiunque capitasse
a tiro.
Mimi disse
qualcosa riguardo l’aspettare l’amico fuori in
giardino. Quella confusione non permetteva loro di raggiungerlo dove si
era
appartato con quello che supposero essere il professore molesto, e
vennero
quasi spinti fuori automaticamente dalla folla che svuotava
l’aula.
«Che
gli starà dicendo adesso?» chiese sofferente Sora
a
Mimi, mentre si trovava dietro di lei e la teneva da una spalla per non
perderla durante il tragitto d’uscita.
Mimi
sbuffò.
«Non
lo so, ma spero non qualcosa di sconveniente. Lo sai
quanto è orgoglioso e poi non vorrei...»
continuò a parlare, ma la ramata non
capì quello che le stava dicendo, e nel tentativo di farsi
ripetere la frase
sbatté contro la schiena di qualcuno.
Matt si
voltò e la vide dietro di lui che cercava di farsi
largo. Allora l’afferrò da una mano e fece in modo
che passasse avanti. La
tenne dai fianchi guidandola dove c’era spazio.
Sora
sentì un’ondata di calore investirla e non disse
nulla,
immobilizzata dalla sua presenza così vicina e i suoi
tocchi. Non appena
riuscirono a sgusciare via in giardino, si liberò dalla sua
presa e raggiunse
Mimi.
Il ragazzo fece
in tempo a guardarla in modo strano, ma lei
non alzò più lo sguardo in sua direzione.
«Izzy
dov’è?» chiese poi in tono tetro.
Tai si
girò in varie direzioni prima di adocchiarlo e alzare
il braccio per farsi vedere.
«Eccolo»
disse, e osservò il rosso avanzare verso di loro.
Notarono fosse
solo, e si chiesero tutti come mai la sua
fidanzata non lo avesse raggiunto. Mimi strinse le labbra pensando a
qualcosa
di serio e di grave che stava toccando il loro amico da vicino.
Lui li
guardò tutti con uno sguardo impacciato, lo videro
abbassare e alzare gli occhi in maniera nervosa.
«Bravo,
no?» domandò in maniera retorica.
La castana
incrociò le braccia al petto e fu sul punto di
chiedergli perché non era rimasto insieme a loro se Frankie
non era venuta, ma venne
interrotta da una voce a loro familiare.
Joe era appena
uscito dal portone principale e portava
indosso una lunga tunica nera e una corona d’alloro adagiata
sulla fronte. Non
appena li vide si rallegrò, e le due ragazze lasciarono
perdere quello a cui
stavano pensando e gli andarono incontro per abbracciarlo.
Lui
spalancò le braccia e, forse per la prima volta, le
strinse in modo sincero.
«Sei
stato bravissimo!» esclamò Sora, raggiante.
«Congratulazioni!»
la seguì a ruota Mimi, guardandolo bene
in volto e sistemandogli la corona di alloro in testa.
Il ragazzo rise
in maniera isterica ma liberatoria, poi si
scontrò con le figure di Tai e Matt che si trovavano di
fronte a lui.
Lasciò
andare le due coinquiline e li guardò in maniera un
tantino spaventata non appena li vide avvicinarsi, forse reduce da
tutte le
volte che i due ragazzi lo avevano schernito e malmenato da piccoli.
Tai se ne
accorse e alzò le mani in segno di resa.
«Vieni,
burino, fatti abbracciare» lo tranquillizzò.
Il biondo fece
lo stesso.
«Vogliamo
solo farti gli auguri» e lo abbracciarono a turno
complimentandosi con lui, mentre Joe evitava di stare a contatto con
loro per
tanto tempo.
«Sì,
ma non stringete troppo che ho la sciatica e ho parlato
tutto il tempo con un orecchio tappato» se ne uscì
tirandogli delle pacche
leggere sulla schiena e allontanandosi quasi subito dalle loro strette.
I due si
guardarono straniti, e ciò causò le risatine
degli
altri. Izzy si avvicinò e gli baciò le due
guance.
«La
parlantina non ti manca neanche in questi casi»
commentò
rassegnato, ammettendo poi:
«Sei
stato bravissimo, comunque»
«Sei
invidioso, cyber?»
ghignò Joe, mentre si abbassava alla sua altezza per farsi
baciare.
I due erano in
continua lotta, o per meglio dire, Joe si
divertiva a stuzzicare Koushiro non appena ne aveva il modo.
Il rosso
allargò le braccia con in volto un’espressione
stufata.
«Ma
no, non incominciare!» lo troncò.
Prima che
l’altro potesse replicare, furono destati
dall’arrivo dei più piccoli del gruppo, i quali si
fecero largo tra di essi e
si piombarono a salutarlo e a fargli gli auguri. Hikari
consegnò al ragazzo un
enorme mazzo di fiori rilegato in della carta colorata e adornata con
una
retina rossa, e lui quasi si commosse non appena li prese tra le mani.
«Congratulazioni,
Joe! Cento di questi giorni!» gli augurò,
abbracciandolo con affetto.
Lui guardava
ancora i fiori e gli altri potettero giurare di
vedere delle lacrime in procinto di fuoriuscire dai suoi occhi scuri.
«Grazie,
bella mia» la strinse in maniera protettiva.
Era da sempre
affezionato a lei e Takeru, erano i suoi più
grandi seguaci dai tempi di Digiworld. Adorava raccontare loro storie a
volte
esagerandone il contenuto per impressionarli perché sapeva
che lo consideravano
il loro “senpai”
e lui, dal suo
canto, li chiamava affettuosamente “i
figlioli”.
«Ho
sempre sognato un bouquet» lo udirono commentare, mentre
si asciugava le lacrime, probabilmente lasciate cadere giù
come sfogo di quella
dura e intensa giornata.
TK gli diede il
cinque, abbracciandolo.
«Hai
spaccato il culo a tutti!» urlò senza curarsi di
chi
gli stava intorno.
Yamato si
irrigidì sul posto, ma chiuse gli occhi
costringendosi a fare finta di niente.
«Perfino
io ho capito certe cose. D’ora in avanti andrò dal
barbiere quando avrò mal di testa»
continuò il biondino elettrizzato, e Joe
rise facendo finta di non aver sentito quello che aveva appena detto.
Fosse stato in
un altro momento avrebbe iniziato con una filippica
riguardo la gente che si permetteva a deridere il suo lavoro, ma adesso
era
visibilmente emozionato e felice da lasciar perdere.
O forse
perché aveva ancora l’orecchio tappato.
«Amico
mio adorato» lo chiamò, mettendogli la mano libera
sulla spalla «Lo sai che per me sei come un figlio»
mormorò, mentre la voce gli
si incrinava.
Gli altri
mormorarono qualcosa. Matt aprì le braccia in
segno di esagerazione, mentre Tai alzava un sopracciglio.
«Ma
Joe, gli passi solo quattro anni!» commentò Mimi
esasperata,
ma divertita.
Questi
alzò un dito per incominciare la sua solita
ramanzina.
«Gesù
anche a dodici anni...»
«...faceva
miracoli, lo sappiamo» risposero i suoi amici
all’unisono.
Il
più grande li fissò dapprima indispettito,
osservandoli
ridere e prenderlo in giro, ma poi si sistemò gli occhiali
neri sul naso.
«Imparate
in fretta» osservò con un ghigno soddisfatto.
Era un giorno
troppo importante per prendersela con loro
come faceva sempre.
Appena smisero
di scherzare, i parenti di Joe varcarono
l’uscita e li raggiunsero eleganti ed entusiasti di poter
congratularsi con il
loro figlio diletto.
La madre di Joe
portava i capelli scuri boccolati sulle
spalle e gli occhiali da vista, aveva un tailleur con una gonna molto
raffinata, mentre il dottor Kido, suo padre, mostrava in volto
un’espressione
indecifrabile e la teneva dal braccio. Accanto a loro c’erano
due ragazzi che
supposero essere Shin, il fratello maggiore, e un altro uomo di cui
ignoravano
la conoscenza.
Non appena Joe
li scorse, una ruga di preoccupazione figurò
sul suo viso scarno. Lo videro deglutire e stringere un pugno.
Prima che
qualcuno della sua famiglia si accingesse ad
aprire bocca, lui scattò in attacco portandosi teatralmente
una mano sul volto.
«No,
papà!» lo udirono esclamare, con una punta di
frustrazione «Non dire niente! Lo so che sei deluso da me,
che potevo fare
ancora di più, che avrei potuto raggiungere la vetta
più alta del monte e che
ho fallito...»
L’uomo
lo guardava allibito.
«Ma
Joe, io non...» provò a ribattere.
Quello
continuò a sproloquiare senza sentirlo.
«Anche
se non sei fiero di me, anche se quel losco del
professore ha cercato di farmi fallare, io ho dato il massimo di me
stesso,
papà!»
La cosa
estremamente divertente in tutta quella faccenda era
che nessuno dei suoi genitori si era permesso a lamentarsi con lui,
né
tantomeno a mostrare delusione per quella vittoria così
importante.
«Figliolo,
io non sono affatto-» provò nuovamente a spiegare
suo padre, il quale venne ancora una volta interrotto bruscamente.
Nel frattempo,
TK aveva fatto una risata acuta, Sora e Mimi
si erano coperte il volto scotendo la testa e Tai e Matt si guardavano
con le
labbra strette in una risata forzatamente trattenuta.
Joe si
voltò rivolgendosi a sua madre, che lo guardava con
occhi benevoli e carichi di gioia e orgoglio. Si chiesero come fosse
possibile
che da una donna così calma e a modo ne fosse uscito un
tizio poco
raccomandabile come lui.
«Mamma,
lo so che non sono il figlio che desideravate» si
coprì nuovamente gli occhi inscenando un pianto di tristezza
«lo so che mi
avete concepito in una notte senza TV e ho mandato all’aria
tutti i vostri
piani...»
La donna
cascò dalle nuvole.
«Cosa
dici, tesoro?»
Joe
continuò con la sua solfa immotivata.
«E so
benissimo che preferite Shuu a
me...» partorì quella frase come se stesse per
morire in
quel momento.
Gli lessero
negli occhi una reale sofferenza della quale non
trovavano un senso logico.
Taichi si
rivolse agli altri.
«Chi
diamine è Shuu?» domandò perplesso,
capendoci ben poco
da tutto quel discorso.
«Credo
sia suo fratello maggiore» rispose Izzy, indicando
con un cenno l’uomo che si grattava la testa.
Matt fece una
faccia stupita.
«Ha un
altro fratello e noi non lo sapevamo?!» esclamò
basito, guardando il castano che alzava le spalle facendogli intendere
che ne
sapeva quanto lui.
Lo sproloquio
isterico di Joe continuava.
«... e
visto che ho avuto tutti contro, da sempre, mi sono
fatto da solo le mie spalle e sono diventato più
forte!»
Shin
sospirò e allargò le braccia.
«Non
essere drastico, Joe!» si azzardò a commentare,
stufato
da tutto quel teatrino cui suo fratello minore era solito mettere in
piedi.
Ci furono dei
secondi di silenzio nei quali temettero che il
corvino potesse esplodere come una bomba ad orologeria. Lo videro
guardare il
fratello con una faccia tinta di diverse tonalità di rosso.
Poi aprì la bocca,
sputandogli contro tutto il risentimento che provava:
«Tu
stai zitto, che sei la pecora nera della famiglia!»
urlò
inviperito, e con uno scatto lasciò malamente i fiori nelle
mani di Koushiro
alla sua sinistra e si avvicinò a fronteggiare Shin
«Non hai mai creduto in me
e hai cercato di mettermi sempre i bastoni tra le ruote!»
Sapevano come
ben poco Joe tollerasse il fratello, e dalle
sue parole era fuoriuscita una rabbia e un’umiliazione che si
portava dentro da
anni, probabilmente per il duro confronto a cui era stato abituato a
soffrire
fin da piccolo.
Shin era
incredulo, ma nello stesso tempo infastidito da
quei discorsi che ben poco filavano.
«Ma
che diavolo stai dicendo-»
Joe lo
afferrò dal bavero e gli urlò contro:
«Uno
sfruttatore razzista, ecco cosa sei!»
Suo padre fu
costretto a metter pace, separando i due
fratelli e, soprattutto, sua madre andò a calmare il corvino
che ancora
guardava con risentimento l’altro e sibilava parole poco
gentili.
La vita di Joe
era un
circo che lui addestrava caparbiamente e senza remore
nell’aprirsi ad altre
prospettive diverse dalla sua.
Le acque si
calmarono e, finalmente, i genitori riuscirono a
congratularsi come si deve. Sora e Mimi avanzarono a salutare
educatamente i signori,
con in volto un’espressione che trapelava scuse per quelle
scenate fuori luogo.
La situazione si
ribaltò completamente non appena nel lungo
viale dell’università apparve in tutto il suo
splendore ed eleganza, la donna
che da sempre aveva fatto battere il duro cuore di Jyou Kido.
Luchia avanzava
con in volto un’espressione fiera e austera,
ben poco differente da come l’avevano conosciuta anni fa.
Camminava come
fosse una regina, tenendo con le mani i lembi
del lungo vestito blu notte che le fasciava il corpo tonico da
ballerina.
Lasciato morbido dalla vita in giù, nel busto
l’abito lasciava intravedere le
forme del suo seno coperto soltanto da dei ricami dello stesso colore.
I
capelli castani e lunghi erano legati in una coda perfettamente
pettinata senza
una sola ciocca fuori posto.
Joe
cambiò sguardo non appena la vide, i suoi occhi
s’illuminarono, e scacciò la mano premurosa della
madre che tentava di
sistemargli la cravatta.
Luchia
attirò l’attenzione di tutti i presenti per quanto
era bella.
Koushiro, che da
sempre nutriva un’ammirazione per lei,
spostò lo sguardo imbarazzato. Perfino Tai e Matt la
fissarono interdetti, chiedendosi
come facesse una donna del suo calibro ad essersi innamorata di quel
burino.
«Salve
a tutti» disse questa, squadrando uno per uno i
presenti e soffermandosi sulla famiglia di Joe che la guardava come
fosse una
visione celestiale.
Questi si
divincolò da sua madre che guardava la nuora con
gli occhi sbarrati, e si precipitò ad affiancarla.
«Lei
è la mia fidanzata da dieci anni ormai» la
presentò «E’
una donna di classe, come vedete, e tra tutti ha scelto me»
si vantò.
Luchia tendeva
le mani a tutti, presentandosi con
educazione.
«Piacere,
signori. Lieta di fare la vostra conoscenza»
diceva, estasiata.
Si chiesero come
mai Joe avesse presentato Luchia per la
prima volta ai genitori dopo dieci anni di relazione. Forse stentavano
a
credere alla sua parola di avere una ragazza, e in effetti, notando la
differenza tra i due era lecito avere dubbi.
Joe si
avvicinò a Shin, che osservava Luchia dalla testa ai
piedi con la bocca aperta e senza sapere che dire.
«Hai
visto che gnoccona?» gli sussurrò tirandogli una
gomitata, con un ghigno sardonico e di rivincita impresso sulle labbra.
«Joe,
abbiamo la vettura qui parcheggiata» lo informò
questa.
Per vettura,
Luchia intendeva la vecchia macchina gialla
ereditata da Joe, cui suo nonno aveva premurosamente deciso di regalare
al
nipote per il suo venticinquesimo compleanno.
Taichi volse lo
sguardo sull’auto logora e di vecchio stile,
facendo una smorfia spontanea. Se aveva pensato che la macchina di
seconda mano
di Yamato fosse estremamente usata doveva ricredersi.
«Perfetto,
allora andiamo» lo udirono rispondere.
I suoi parenti
lo guardarono stupiti, perfino gli altri si
interrogarono su dove volesse andare a quell’ora di pranzo.
«Vi
saluto, gente» li liquidò, prendendo una mano di
Luchia
e guidandola fino a dove aveva parcheggiato l’automobile.
Lo osservarono
salire dal lato passeggeri, mentre la donna
si posizionava al volante, inforcando un paio di occhiali neri
probabilmente
firmati.
«Ma
dove vai?» fu spontaneo urlare a Sora, sentendo la
chiave girare.
«Torna
indietro!» le fece eco Mimi, preoccupata.
L’amico
non le ascoltò, indossò a sua volta un paio di
occhiali da sole graduati, vecchio stile anche quelli, e
poggiò un braccio sul
finestrino.
«Mi
godo la mia libertà» rispose solo.
Suo padre lo
raggiunse a fatica, con sua madre dietro che lo
chiamava.
«Joe,
aspetta! Abbiamo prenotato il ristorante!» lo
sentirono urlare da lontano.
Luchia, nel
frattempo, eseguiva una sciolta retromarcia per
uscire dal parcheggio.
Sua madre si
portò una mano al petto preoccupata e agitata.
«Per
l’amor del cielo, perché reagisce
così?!»
Il ragazzo li
salutò allegramente, mentre l’auto partiva
facendo un rumore ingolfato, lasciando dietro una scia di fumo nero.
Le ragazze si
tapparono il naso, e fecero appena in tempo ad
alzare la testa e vedere Joe affacciato dal finestrino che dondolava
tra due
dita la sua corona d’alloro.
«Per
voi, paperelle! Vi porterà fortuna!» e la
lanciò in
loro direzione.
Di riflesso, sia
Sora che Mimi allungarono le mani e
l’afferrarono al volo entrambe. Poi si guardarono con una
faccia trafelata,
sentendo le risate contagiose di Hikari e Takeru espandersi
nell’aria.
Koushiro
sospirava rassegnato ai comportamenti esagerati di
Joe, mentre Taichi e Yamato guardavano la direzione in cui
l’auto era sparita.
Il biondo aveva
le braccia incrociate e un broncio
indecifrabile in volto.
Il castano si
passò una mano tra i capelli e spostò gli
occhi verso Sora e Mimi che si erano precipitate dai genitori e dai
fratelli di
Joe, tentando di intrattenerli in qualche modo, sentendosi responsabili
di quel
trambusto creatosi.
Scosse la testa
e un sorrisino increspò le sue labbra.
Jyou era matto
da legare, o forse solo adrenalinico dopo
un’intensa seduta di laurea che aveva portato lui i risultati
tanto sperati.
Gettò
uno sguardo a Mimi che teneva tra le mani la corona di
alloro e conversava con Shin di qualcosa.
Sentiva che
sarebbe stata una festa di laurea che
difficilmente avrebbe dimenticato.
Non sapeva su
che basi
aveva partorito quel pensiero, sapeva soltanto che da quella mattina
percepiva
una sensazione strana che si espandeva dal suo petto e che, in un certo
senso,
lo metteva in allerta sul fatto che quell’atmosfera era
soltanto la quiete
prima della tempesta.
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Capitolo 7 *** Festa ***
Non appena
tornarono a casa, Mimi tolse i tacchi vertiginosi che indossava e
subito si
fiondò sul divano di pelle con un sospiro. Era stanca di
quella mattinata
indaffarata e, a suo modo, carica di emozioni. Poggiò la
testa sopra lo schienale
e sentì lentamente le palpebre chiudersi.
Matt
aveva accompagnato lei e Sora in macchina, e Tai lo aveva seguito. Il
fatto che
si fossero rivolti la parola le procurava un nodo allo stomaco che la
stringeva
sempre di più, come se avesse fame.
E in
effetti, non avevano mangiato nulla, lei e Sora, così
assente e persa nei suoi
pensieri chissà per quale motivo.
Avrebbe
voluto alzarsi da quel divano in cui si stava appisolando lentamente,
ma gli
occhi erano già chiusi e sentiva il sonno incombere sul suo
corpo.
Udì
in
modo ovattato i passi della ramata che raggiungeva il corridoio e
probabilmente
si chiudeva in stanza.
Avrebbe dovuto
parlare con lei, sì, avrebbe
dovuto farlo. Dovevano parlare della laurea, dovevano parlare di quello
che
avevano provato... loro erano amiche...
Aprì
la
bocca e la sua testa pian piano ricadde su un lato.
L’immagine
di Taichi offuscò la sua mente. Risentì la sua
voce, la sua risata propagarsi
nella sala.
Le
sembrò fosse accanto a lei, e scioccamente,
desiderò che lui l’abbracciasse.
Che stupida...
Vedeva Taichi
dovunque, anche nei suoi
sogni. Non era capace di distinguerli dalla realtà, si
perdeva in essi come
fossero l’unico appiglio per farla star bene.
Solo
nei sogni lei e Tai erano felici insieme. Perché in quella
realtà nessuno dei
due aveva il coraggio di avvicinarsi all’altro, erano
entrambi due vigliacchi,
e lei era anche egoista a rimanere lì ferma senza fare
nulla.
Una gelida
egoista...
A pensare che
Taichi... l’avrebbe presto
raggiunta...
Quello
stato di dormiveglia ben presto l’abbandonò, il
pensiero di lui sfumò e
improvvisamente tutto divenne buio.
Sora
continuava a guardare fuori dal balcone. Era seduta sul letto e non era
andata
nemmeno a pranzare. Lo stomaco era serrato, non riusciva a ingurgitare
neanche
un bicchiere di succo di frutta.
Si era
tolta di dosso la tutina e l’aveva riposta
nell’armadio, rimanendo con indosso
una vestaglia di pizzo. Stava seduta sul letto tenendo le mani strette
al
petto, con in volto un’espressione grave, spaventata,
distrutta.
I
pensieri si persero nel vuoto, tornando e ritornando lì,
incessantemente,
inesorabilmente.
Yamato...
Lo aveva
tradito.
Sentì
nuovamente le lacrime agli occhi.
Era una
stupida, una sciocca traditrice, non meritava che lui la guardasse
ancora, che
lui stesse ancora con lei senza saperlo.
Si
sentiva così in colpa che avrebbe voluto correre a
dirglielo, urlargli che
aveva dato un bacio ad un uomo che non era lui, che non ci aveva capito
più
niente, ma cosa peggiore di tutte, che non aveva voluto
nient’altro che farlo in
quel momento.
Le
lacrime sgorgarono all’improvviso, e per un po’ di
tempo si abbandonò
silenziosamente a quel supplizio.
A quel
pentimento che caratterizzava ogni
condannato.
Aveva
bisogno di parlare, di sfogarsi con qualcuno, forse con Mimi sarebbe
stato
giusto... Confidarle i suoi più intimi pensieri, sperare che
la potesse capire,
che non la giudicasse così come lei stava facendo in quel
momento.
Scosse
la testa.
Nonostante lo
volesse, non riusciva a fare
un passo. Si sentiva bloccata, prigioniera di sé stessa, di
quella situazione
che non sapeva come affrontare.
E
quella festa imminente che Joe aveva organizzato per celebrare la sua
laurea
era qualcosa che non ci voleva.
Non
voleva lanciarsi nella mischia, non se la sentiva, si sentiva troppo
sporca per
gioire e divertirsi. Avrebbe voluto rintanarsi in quella stanza per
sempre,
senza uscire e incontrare gli altri, incontrare Matt, parlare con lui,
affrontarlo.
Si
coricò
sul letto tenendosi la pancia.
Voleva
scomparire.
Scomparire per
sempre...
Dopo
chissà quanto tempo, aprì gli occhi. Il sole
stava tramontando ed ebbe
l’impressione di essersi dimenticata di fare qualcosa.
Afferrò
a tentoni il cellulare e guardò l’orario.
Strabuzzò
gli occhi, e scese dal letto di corsa con i capelli scompigliati.
Spalancò la
porta scorrevole del soggiorno e trovò Mimi ancora
placidamente addormenta sul
divano. Ebbe l’istinto di chiamarla a gran voce per fare in
modo che si muovesse,
ma si fermò a guardarla.
Aveva
delle ciocche che le ricoprivano il viso.
Era bella e pura
anche mentre dormiva.
Si
avvicinò a lei e si sedette. Il suo istinto materno e
protettivo prese il
sopravvento, e invece di destarla con irruenza, le accarezzò
un braccio.
Mimi
aprì gli occhi a fatica. Guardò il volto
dell’amica che la fissava con un
sorriso, e le venne da ricambiare in maniera impacciata.
Sora era sempre
bella e amorevole.
«Dobbiamo
sbrigarci» le disse, mentre lei alzava lo sguardo
all’orologio appeso al muro.
«Tra
due ore arrivano le persone e dobbiamo sistemare tutto»
La
ramata si mise in piedi e volse uno sguardo malinconico al balcone.
Non
trovava la forza, ma era necessario cambiare stato d’animo se
voleva essere
pronta ad affrontare quella serata.
La
castana si stiracchiò le braccia e sentì lo
stomaco brontolare.
«Io
non
ho mangiato» constatò con un sorrisino, sentendo i
crampi farsi più insistenti.
Sora
incrociò
le braccia, segno di rimprovero, ma poi si ricordò di aver
fatto lo stesso. Allora
lasciò il soggiorno ed entrò in cucina, prendendo
una padella con l’intento di
cucinare qualcosa al volo.
«Mangiamo»
proclamò, estraendo delle uova dal frigo.
Mimi
scese dal divano e la raggiunse, sedendosi su uno sgabello che dava al
muretto
dell’entrata, su cui a volte pranzavano velocemente
appoggiandoci solo i piatti.
«Joe
non si è ancora fatto vedere?» domandò
stufata, con la testa appoggiata su una
mano.
«Nemmeno
l’ombra» Sora le diede la sua porzione e iniziarono
entrambe a mangiare.
Evitava
lo sguardo dell’amica, e Mimi sbadigliò, decidendo
di chiederle cosa avesse da
quella mattinata.
La
ramata, però, l’anticipò sul tempo,
quasi come avesse intuito la domanda che
voleva farle e volesse sviarla.
«Odio
il fatto che dobbiamo sistemare tutto noi, ogni volta.
Perché non viene a dare
una mano, quello scellerato?»
La
castana si fece prendere dalla foga di controbattere a sfavore di Joe.
«Lo
penso anch’io. Dobbiamo aprire noi ai fattorini che portano
il cibo e dobbiamo
andare a preparare quella dannata sangria!»
E
continuarono a parlare male delle cattive abitudini del loro
coinquilino, senza
però rinunciare alla sistemazione della casa e alla buona
riuscita della festa,
perché, nonostante tutto, tenevano anche loro che Joe
facesse bella figura.
Dopo
aver mangiato al volo, cominciarono a pulire dov’era sporco e
a spostare il
divano e il tavolo in modo tale che in soggiorno si creasse
più spazio.
Tirarono
fuori le varie bottiglie di alcolici conservate accuratamente in
frigorifero,
le depositarono sul tavolo e si diedero da fare nella preparazione
della
sangria.
Tagliuzzarono
la frutta più veloce che potettero, presero il vino e lo
scolarono dentro un
vecchio recipiente che avevano precedentemente lavato e conservato a
tal
proposito.
Mimi si
asciugò la fronte, sentendo caldo. Sora si tagliò
accidentalmente un dito con
il coltello appuntito.
Dopo
circa un’ora di preparativi, suonarono al campanello della
porta.
Le due ragazze
si guardarono speranzose, credendo fosse Joe di ritorno, ma non appena
aprirono,
si trovarono di fronte i fattorini del cibo che consegnavano le
ordinazioni.
Rassegnate,
sistemarono tutto sul tavolo allargato e sopra i vari mobiletti da dove
avevano
tolto i soprammobili e le cianfrusaglie lasciate in giro.
Dopodiché,
resesi conto che mancava solo mezz’ora all’orario
prestabilito, corsero a farsi
una doccia e a sistemare trucco e capelli per come potevano.
Fecero
appena in tempo a darsi l’ultima passata di rossetto prima
che il campanello
suonasse ancora. Corsero ad aprire, ormai convinte del fatto che Joe
non
sarebbe arrivato in tempo, e in effetti così fu. Per la
mezz’ora seguente si
apprestarono ad accogliere i vari invitati che portavano con loro
regali o
bottiglie di alcol come augurio.
I primi
membri del gruppo a figurare furono Takeru e Hikari, belli e splendenti
nella
loro gioventù, la mano di uno stretto in quella
dell’altra.
Entrambe
li guardarono con uno sguardo malinconico, associando quella
beatitudine che li
avvolgeva alla felicità che loro aveva perso da tempo.
La
più
piccola salutò le ragazze con dei baci sulle guance e il
biondino diede un
buffetto a quella di Sora, per poi dirigersi in salotto a prepararsi un
cocktail e a impostare la musica adeguata.
La
ramata si morse il labbro guardando il ragazzo fiero e libertino, con
un ghigno
arrogante che gli increspava il viso.
Takeru
era oggetto di apprensione per Yamato, lo era da sempre stato fin dai
tempi di
Digiworld. Era certa che per lui rappresentasse la persona per la quale
avrebbe
rischiato tutto, per la quale si sarebbe perfino gettato nel fuoco nel
caso ce
ne fosse stato il bisogno.
Matt
probabilmente non avrebbe mai fatto
niente di tutto ciò per lei.
Ne era
consapevole, e si dava dell’ipocrita nel pensarlo e nel
disperarsi per quella
constatazione, perché lei non era affatto nella giusta
posizione di poter
provare rammarico.
Vergogna.
Era solo questo
il sentimento che provava
di sé stessa.
Mimi
alzò gli occhi su di lei, e notò il suo viso
oscurarsi improvvisamente, le sue
labbra disegnate di rosso chiudersi in un broncio del quale non
riconosceva la
causa. Aggrottò la fronte e poi assunse
un’espressione risoluta.
Questa volta le
avrebbe chiesto, ne era
sicura, si sarebbe fatta dire il motivo di quella disperazione.
Non poteva
essere egoista,
doveva pensare anche al benessere
della sua migliore amica, così come Sora faceva per lei.
«Va
tutto bene?» le domandò di getto, risultando un
tantino brusca.
La
ramata si distolse dai suoi pensieri e la guardò con gli
occhi nocciola lucidi.
Aveva
l’occasione propizia per raccontarle
tutto ciò che era successo, poteva parlarle a cuore aperto
ritrovando una
spalla su cui piangere e sfogarsi, perché fondamentalmente,
Sora ne aveva
bisogno più dell’aria in quel momento.
Ma stava
così male, si sentiva così sporca
dentro da non riuscire a spiaccicare una parola.
Afferrò
il cellulare e lo guardò, aspettandosi con timore
chissà cosa.
«Sì,
Mims» rispose dopo un po’, sforzandosi di mantenere
una facciata di distacco
che in quel momento non le apparteneva.
La
castana alzò un sopracciglio continuando a fissarla.
«Ti
vedo strana» dichiarò, incrociando le braccia
sotto il seno.
Ed era
vero che era strana, anzi era molto strana a starsene lì in
silenzio quando la
festa era appena iniziata e lei non aveva neanche azzardato un sorriso.
Alzò
lo
sguardo su quello dell’amica, che la guardava ancora
profondamente e in cerca
di qualcosa.
Per
paura che Mimi potesse scorgere tutto dentro i suoi occhi limpidi,
decise di
spezzare quel contatto al più presto.
«E’
solo un’impressione» concluse, sperando che la
castana non insistesse più di
tanto, e infatti così fece.
Il
silenzio calò su di loro, mentre la musica rimbombava nelle
loro orecchie e il
vociare di sottofondo aveva preso posto alle parole.
Vennero
scosse soltanto dall’ennesimo suono di campanello e, stufate,
si prepararono a
dare gli ulteriori onori di casa per qualcuno che avrebbe dovuto farlo
al loro
posto.
Mimi
aprì la porta con un’espressione infastidita che
la tradiva, preparandosi a
recitare un sorriso e un saluto gioviale.
Strabuzzò
gli occhi non appena si rese conto che chi avevano suonato alla porta
non erano
delle persone qualunque.
Si
morse il labbro inferiore.
Taichi
e Yamato si trovavano ritti nella soglia. Erano entrambi vestiti con
delle
giacche e delle camicie; semplici ma eleganti, portavano con
sé un’aurea di
imponenza e superiorità.
Erano
alti e slanciati, belli come mai lo erano stati, e Mimi
sentì lo stomaco
agitarsi non appena gli occhi castani di Tai si posarono su di lei.
«Ciao»
li salutò incerta, chiedendosi se non avesse balbettato come
una sciocca.
I due
ragazzi si lanciarono uno sguardo fugace, e potette giurare di vedere
il
castano nella sua stessa identica difficoltà prima che uno
dei due rispondesse.
«Ehi»
fece secco Matt, sforzando il volto in quello che doveva essere un
sorriso, che
subito dopo si tramutò nella sua solita espressione dura.
«Ciao»
ripeté Tai, evitando di guardarla, e lei si
rabbuiò pensando a come difficile
fosse diventato per loro perfino salutarsi.
Eppure si erano
rivolti parola, si erano
guardati a vicenda, si erano perfino regalati un sorriso.
Adesso Taichi
non la guardava e lei odiava
il fatto che non lo facesse. Voleva che la guardasse e le parlasse, che
le
dicesse anche una stronzata, e per quanto la sua testa le suggeriva di
fare lei
il primo passo, il suo orgoglio ruggiva nel farla agire al contrario.
Si
spostò dalla porta facendo intendere loro di seguirla.
Taichi
rilasciò il fiato che aveva trattenuto nel vederla apparire
all’improvviso, e
cercò di distrarsi dal suo pensiero facendo vagare lo
sguardo per l’intero
appartamento che non aveva ancora mai visitato.
Il muro
era tutto in pietra finta. Al lato si trovava lo stanzino dove tenevano
le
scarpe e altre cianfrusaglie, mentre percorrendo un corridoio, a
destra,
arrivavano alla cucina separata dall’entrata da un lungo
muretto, da dove
s’intravedeva un lungo bancone attaccato alle vetrate che
davano al soggiorno. Proseguendo
dritto il corridoio, invece, si arrivava ad una porta scorrevole che,
supponeva,
separava le stanze delle ragazze e di Joe e il bagno che avevano in
comune dal
resto.
Il
salotto era abbastanza ampio, si entrava da una porta ad arco e
conteneva un divano
in pelle bianca che era stato spostato da un lato per fare
più spazio, diversi
mobiletti tra cui quello che reggeva la TV e il tavolo di legno
pregiato che
era stato attaccato al muro con le vetrate che separava il piccolo
spazio
cucina.
Il
ragazzo rimase stupito dalla grandezza dell’appartamento
oltre che dall’arredamento
curato sul quale la mano femminile s’ intravedeva eccome.
La sua
attenzione fu catturata da alcune persone che entravano e uscivano
dall’ampio balcone
che si estendeva per tutta la lunghezza della casa. Intravide persino
delle
tende a righe, in quanto, probabilmente, era un appartamento molto
luminoso.
«Joe
non è ancora arrivato» sentì dire a
Mimi che si trovava avanti con Matt.
Alzò
il
sopracciglio, mentre la ragazza li conduceva dentro la cucina in cui si
trovava
Sora seduta su uno sgabello.
«E
dov’è
ancora?» udì la risposta energica del biondo.
«E’
andato a mangiare in un ristorante di lusso con i suoi e
Luchia» fu la risposta
che ne susseguì.
Yamato
si voltò a guardarlo e i due si scambiarono un espressione
perplessa. Dove
diamine si era cacciato quel burino di Joe?
Si
avvicinarono a Sora che era intenta a guardare il suo cellulare e,
notò Tai,
aveva sulla fronte una ruga nervosa. Strinse le labbra, e
guardò con la coda
dell’occhio il suo amico che si era irrigidito non appena
l’aveva vista.
Lanciò
un lungo sospiro, e si avvicinò a lei, facendola sussultare.
«Che
fai?» le chiese all’orecchio, buttando
l’occhio spontaneamente allo schermo del
suo cellulare.
La
ragazza trasalì.
Si
voltò e la faccia familiare di Taichi le apparve
all’improvviso, constatando da
vicino come il suo migliore amico si fosse fatto crescere una leggera
barba.
Il
cuore le batté forte per lo spavento e si passò
una ciocca di capelli mossi
dietro l’orecchio.
«Oh,
ciao, niente...» mormorò cercando di apparire
evasiva, ma il castano non smise
di fissarla in maniera inquisitoria.
Sora
spostò lo sguardo su di Matt che si trovava affianco a lui e
la guardava esitante.
Aprì
leggermente la bocca.
Era troppo bello
per essere vero, sembrava
una di quelle rock star dannate, vestito di nero e con i capelli biondi
che gli
incorniciavano il viso angelico ma nello stesso tempo duro.
Sentì
lo stomaco aggrovigliarsi.
«Ciao»
la salutò semplicemente lui, e lei abbassò lo
sguardo per poi sussurrare lo
stesso flebile saluto.
Yamato
continuò a guardarla, chiedendosi perché lo
evitava in quel modo. Eppure erano
rimasti d’accordo che avrebbero parlato, avrebbero provato a
chiarire tutte le
loro questioni in sospeso, perché arrivati a quel punto
c’era da prendere una
decisione.
Lei sembrava
evitarlo di proposito e questo
gli faceva male.
Mimi si
fece largo passando davanti a Taichi, sfiorandolo involontariamente con
il fondoschiena.
Il ragazzo si distanziò togliendosi le mani dalla tasca.
Lei
venne colta da un caldo imbarazzo e, per dissimulare, si
portò all’orecchio il
cellulare.
«Provo
a chiamarlo. Sono arrivati quasi tutti» e si voltò
in direzione dei fornelli
facendo squillare il telefono.
Il
castano non riuscì a fare a meno di rivolgere uno sguardo
alle forme del suo
corpo messe in risalto dal tubino rosa pallido.
Sentì
il desiderio di stringerla farsi strada e, per contenere i bollenti
spiriti,
lanciò un lungo sospiro voltandosi a guardare la gente
ridere e divertirsi dalla
finestra che si affacciava sul salotto.
«Magari
è rimasto nella statale con quel catorcio»
commentò continuando a guardare in
un’altra direzione.
Mimi
strinse le labbra non appena lo udì rivolgersi a lei.
«Si
ostina a prenderla» rispose a sua volta senza voltarsi.
Non riuscivano
neanche a guardarsi negli
occhi dopo anni di relazione; erano diventati due veri vigliacchi,
egoisti,
estranei.
Come avevano
fatto?
La
ragazza lanciò un sbuffo.
«Ecco,
non risponde!» esclamò, non appena udì
la voce della segreteria telefonica.
Poi si
voltò, portandosi una mano su un fianco e guardando la
schiena di Tai.
Matt
s’innervosì, già provato da tutta
quella situazione.
«Sempre
il solito coglione» imprecò tra i denti
«E’ la sua festa e lui non
c’è»
E aveva ragione
a dirlo.
Joe aveva
involontariamente creato una
situazione parecchio scomoda tra di loro. Non si era presentato prima
onde
evitare che venissero così strettamente a contatto, aveva
messo su tutto quel
teatrino nel quale loro non riuscivano affatto a recitare.
Era un gioco
delle parti così estremamente
duro e complicato che non sapevano se ne sarebbero mai usciti integri.
Il
campanello suonò nuovamente, e Sora, che era rimasta in
silenzio fino a quel
momento, rizzò sullo sgabello e decise di andare ad aprire.
«Forse
è lui. Vado io» disse sbrigativa, sperando con
tutto il cuore che fosse veramente
l’amico e non chi temeva potesse essere.
Aveva una strana
sensazione in corpo.
Non sapeva
perché, ma quando ne aveva una,
di sensazione, si rivelava sempre esatta.
Matt
ancora la guardava, sembrava la ispezionasse in modo clinico, tanto da
darle
l’impressione che avesse capito qualcosa.
Strinse
la maniglia della porta.
E se fosse stato
Victor?
Ebbe
paura ad aprire.
Non poteva
sopportare che si trovassero
entrambi faccia a faccia, l’uno inconsapevole di
ciò che era successo, l’altro
speranzoso che lei prendesse una decisione.
Cominciò
a tremare, e indugiò sulla porta.
Dio,
perché gli aveva detto di venire lì?
Quanto era stata
avventata ed
incosciente... non si era resa conto che in quel modo era esposta a
trecentosessanta gradi... lo avrebbe trascinato direttamente nella tela
del
ragno, e avrebbe trascinato lì anche lei.
Chiuse
gli occhi e aprì.
Davanti
a lei apparve Koushiro, e questo le permise di rilasciare
l’aria che aveva
trattenuto. Gli fece un sorriso di gratitudine che il rosso non
capì. Poi
guardò con maggiore attenzione che accanto
all’amico c’era la sua fidanzata,
Frajiko.
I
biondi capelli erano lisci e corti, gli occhi azzurri erano come sempre
trasparenti e brillanti. Il viso era scarno e con poco trucco; in
compenso
portava un vestito a spalline nero con delle stampe colorate che le
fasciava il
corpo e dei tacchi dello stesso colore. Era dimagrita molto e poteva
vedere le
ossa sporgenti della clavicola.
Li
salutò entrambi, e abbracciò la ragazza che non
vedeva da molto tempo.
Mimi e i
ragazzi la raggiunsero e rimasero stupiti nel trovarla accanto al
rosso.
Credevano non si sarebbe presentata, e invece era lì che
affiancava Izzy con un
sorriso sghembo.
«Ciao,
ragazzi» udirono biascicare a Koushiro.
Taichi
e Yamato smisero di fissare la bionda e salutarono a loro volta, mentre
Mimi
mise su un sorriso accogliente e si sporse per abbracciarla
calorosamente.
«Ciao
a
tutti. E’ tanto che non ci si vede» li
salutò uno per uno Frankie, dando loro dei
baci sulle guance.
«Come
stai, cara?» le chiese Mimi, senza riuscire a nascondere una
nota di
apprensione.
Gli
sguardi di tutti si posarono su Izzy, che era intento a sistemarsi la
giacca a
righe. Ognuno si chiese se Frankie fosse realmente uscita da quel
tunnel nel
quale si supponesse fosse caduta, e se la sua riabilitazione non stesse
facendo
cadere a pezzi Koushiro in un modo prima d’ora mai avvenuto.
«Sì,
bene, grazie» la risposta della ragazza li riscosse
improvvisamente dai loro
pensieri.
Videro
Frankie volgere lo sguardo verso il suo fidanzato e sorridergli, di un
sorriso
strano che sembrava trapelare eloquenza.
Izzy la
guardò nervoso per un secondo e poi si schiarì la
voce, rivolgendosi agli
altri.
«Notizie
di Joe?» chiese, dando uno sguardo in giro.
La casa
era già abbastanza piena. Gli ospiti andavano avanti e
indietro per il
soggiorno, alcuni si erano già sistemati fuori del balcone.
Sora
udì la risata di TK provenire da lì.
«Si
è
volatilizzato nel nulla. Abbiamo dovuto fare tutto noi»
sospirò Mimi
infastidita.
Izzy
scosse la testa. Il più grande aveva una sorta di abitudine
malsana nel credere
che tutti gli altri fossero sempre a sua disposizione.
Non si
rendeva conto di come apparisse antipatico e scorretto, specie con le
ragazze,
che per quanto si lamentavano di lui non avrebbero mai voluto che la
festa di
laurea sabotasse.
«Tipico
suo» commentò, sospirando.
Si
erano appostati in cucina, e per dei secondi nessuno disse
più niente, intenti
ad osservare le persone intorno a loro.
Il
campanello suonò altre volte, e Sora, pur di non restare
lì ferma a sentire lo
sguardo di Yamato addosso, si premurò di fare gli onori.
«Viene
sempre più gente» constatò tra i denti,
mentre apriva la porta agli ennesimi
ospiti che avevano portato delle bottiglie di prosecco come regalo.
Sorrise
a tutti in maniera circostanziale, tentando di nascondere il suo
fastidio.
«Accomodatevi,
prego. Joe arriverà tra poco» aveva appena detto
ad una coppia di ragazzi che
la guardava come se fosse un alieno proveniente chissà da
quale pianeta.
Subito
dopo si voltò a guardare in modo esasperato Mimi che aveva
le mani sui fianchi
e scoteva la testa.
Dove diavolo si
era cacciato Joe?
Matt
osservò
Sora sbuffare e sentì la rabbia salire fino alla punta dei
capelli.
Non
capiva perché lei e la castana si ostinassero, nonostante i
capricci del
coinquilino, - e quella scenata della mattina prima ne era la prova-, a
tutelarlo in quel modo e a stare dietro ad ogni suo gesto eclatante,
come se
fossero due madri apprensive.
Non era
affatto corretto come Joe si comportava con loro. Il fatto che
condividessero
un appartamento non gli dava il diritto di fare quel che voleva, anche
se era
il giorno della sua laurea e dovevano festeggiarlo.
«E’
indecente!» sbottò alzando la voce e facendo
voltare tutti in sua direzione
«Chiamatelo» ringhiò.
Sora
ebbe l’istinto di rispondergli, ma sentì la gola
secca, perciò la richiuse.
Evitò nuovamente il suo sguardo in modo vigliacco, mentre
Mimi parlava al suo
posto.
«Ha il
cavolo del telefono staccato!» esclamò, le braccia
incrociate e lo sguardo che
fulminava il biondo per averle rimproverate come se fosse colpa loro
della poca
affidabilità del corvino.
Yamato
incrociò le braccia a sua volta e continuò a
guardare la sua fidanzata.
Perché
non si degnava neanche di alzare la
testa?
Era stato
così stronzo e irrispettoso da
non meritarsi neanche una risposta ad una domanda?
Che Sora ce
l’avesse con lui era palese, ma
non capiva il motivo del quale sfuggiva perennemente al suo sguardo.
Tai prese
la parola all’improvviso, tirando fuori il cellulare dalla
tasca.
«Aspetta,
provo io» con un dito scorse tra i nomi della rubrica con
l’intento di trovare
il numero giusto.
Mimi lo
interruppe di getto, senza nemmeno esitare se farlo o meno.
«Ha
cambiato numero» lo informò, sentendosi in
imbarazzo poi quando vide lui alzare
la testa per guardarla.
«Devi
segnarlo» continuò affondando la faccia sul
telefono per trovare il contatto.
Il
castano si avvicinò a lei e passò qualche secondo
imbarazzante durante il quale
si impegnarono a memorizzare correttamente il numero di Joe.
Gli
altri si mandarono delle occhiatine furtive nel vederli così
vicini. Sembrava
come se il tempo non fosse mai passato e loro due fossero ancora
insieme
racchiusi nella loro complicità e nella loro esigenza di
tenersi vicini.
La
castana alzò appena il volto per fissarlo, mentre lui
terminava di salvare il
contatto in rubrica.
Da vicino Taichi
era ancora più bello.
Si era quasi
dimenticata di quanto fosse
diventato uomo, con quei lineamenti decisi ma nello stesso tempo
delicati, quel
suo sguardo profondo, i suoi capelli castani che seppur accorciati non
ne
volevano sapere di stare in ordine.
«C’è
una così bell’aria d’amore da queste
parti, non trovate?» irruppe Frankie,
spostando sognante lo sguardo dai due a Sora e Matt.
Tai si
sentì osservato, alzò lo sguardo e si
passò una mano in testa per sciogliere
l’imbarazzo. Mimi, dal suo canto, si allontanò di
getto.
Sembrava uno
scherzo di cattivo gusto.
Tre coppie che
forse non erano più coppie,
che si amavano, o forse non si amavano più...
Oppure
semplicemente avevano solo
dimenticato come si faceva.
«Per...perché
non incominciamo a bere qualcosa?» propose Izzy per
stemperare quell’atmosfera
pesante.
La
bionda cambiò espressione non appena udì quella
domanda. Sembrava non
aspettasse altro fin dall’inizio.
«Perfetto.
Direi una sangria per scioglierci» disse improvvisamente
interessata, e
prendendo il rosso a braccetto, fece in modo che si allontanassero per
raggiungere il tavolo delle bibite.
Li
guardarono per un po’ di tempo senza aggiungere altro. Mimi
si portò un dito
laccato di rosa in bocca, pensando alle complicazioni che Koushiro
probabilmente stava vivendo e le dispiacque molto per il suo amico.
Lo
trovava in evidente difficoltà a gestire la situazione, e
Frankie era ancora
abbastanza sbandata, da come poteva notare.
Sospirò,
pensando che aveva bisogno di ritrovare sé stesso, il
ragazzo razionale e
autoritario che era da sempre stato in tutti
quegli
anni.
Adesso gli
sembrava caduto in un limbo di
oscurità dal quale non riusciva ad uscire; non riusciva a
reagire a quei demoni
intorno a lui.
Udì
d’un tratto la voce di Taichi fare capolino da dietro di lei.
«Staccato»
constatò, chiudendo subito dopo il cellulare e riponendolo
dentro la tasca dei
pantaloni.
Le
ragazze sbuffarono nello stesso momento.
«Che
coglione!» commentò Matt.
Sarebbero
rimasti per tutta la sera loro
quattro a non sapere che dire, che fare e come comportarsi.
Sora si
strinse con le braccia, e abbassò lo sguardo sulle sue gambe
nude, messe in
evidenza dalla sua tutina corta.
Non
appena rialzò lo sguardo incontrò nuovamente
quello di Yamato che teneva il suo
fermo su di lei. Il cuore prese a batterle forte e spostò
gli occhi in
direzione del corridoio, dove qualcuno era appena entrato.
«Sono
arrivati Yolei e gli altri» fu lieta di annunciare per
divagare.
Mimi
salutò con una mano la ragazza, che li aveva appena
adocchiati.
«Andiamo
a salutarli» disse poi in modo perentorio.
Il
biondo, però, alzò gli occhi al cielo stringendo
un braccio di Tai.
«Ti
prego, no!» lo supplicò «Io non
vengo» annunciò duro, mentre quegli altri si
avvicinavano.
La
castana lo guardò male e incrociò le braccia.
«Oh,
andiamo, non fare il maleducato!» esclamò,
guardandolo con un cipiglio.
Dopo quasi
quindici anni che si conoscevano
voleva ben capire perché Yamato continuava a mostrarsi
asociale e intollerante nei
confronti delle altre persone, spesso perfino nei confronti dei suoi
amici.
L’unico
di cui non avrebbe mai fatto a meno
era Taichi.
Lo vide
restituirle uno sguardo irritato.
«Maleducato?
Non hai visto che tipo è Daisuke?» la
rimbeccò, facendole cenno verso il
turbolento ragazzo che aveva già attirato
l’attenzione della gente intorno con
la sua voce alta e i suoi modi bruschi.
Mimi
continuò, imperterrita.
«Dobbiamo
solo salutarli!» esclamò.
Il
biondo sembrava irremovibile, si era seduto su di uno sgabello e
guardava
stufato la direzione in cui si trovavano gli altri ragazzi.
Fece
una smorfia verso la castana che ancora lo guardava sbieco.
Non capiva
perché doveva essere sempre così
fastidiosa e petulante quando ci si metteva, non era cambiata affatto
di una
virgola in tutti quegli anni, o almeno, così sembrava.
Voleva dare e
ricevere la benevolenza di
tutti, ma a lui mica tanto importava.
In quel periodo,
soprattutto, meno gente
vedeva, meglio era...
«Andiamo,
Matt» sentì, però, fuoriuscire dalle
labbra di Tai
«Non
li
vedo da molto tempo» constatò con un tono che non
ammetteva possibilità di
remore.
E in
effetti, non vedevano gli amici di Takeru e Hikari da un bel
po’ di mesi a
quella parte.
Non
erano esattamente dei tipi con cui andavano d’accordo. Era
consapevole del
fatto che fossero brave persone, li conoscevano anche abbastanza bene
dopo le
esperienze lontane che avevano condiviso insieme, ma appunto per
quello, se
potevano evitare di coinvolgerli era decisamente meglio.
Quel
Daisuke, poi, sempre così fuori dai gangheri ed egocentrico,
aveva preso una
strada senz’altro discutibile, finendo complessivamente
nell’alcol e in
sostanze illegali.
Alzò
gli occhi cerulei sopra il suo migliore amico che lo guardava fermo, di
uno
sguardo che lasciava trasparire l’impossibilità di
rinunciare a quel saluto,
nonostante nemmeno lui avesse tanta voglia di farlo.
Sospirò,
e si mise in piedi, convinto.
A Mimi
scappò un risolino per la lestezza con cui si era fatto
persuadere da Taichi, mentre
gli tirava una gomitata per prenderlo in giro, nello stesso modo in cui
facevano anni fa.
«Tundra» gli mormorò,
chiamandolo con
quel nomignolo che gli aveva affibbiato e che sapeva lo facesse
arrabbiare.
Matt,
infatti, cominciò a risponderle per le rime e
battibeccarono, passando avanti e
lasciando gli altri due indietro.
Tai li
guardò con un sorrisino. Avevano due caratteri troppo
opposti, non sarebbero
mai andati d’accordo quei due, e ancora dopo anni gli
mettevano allegria quelle
battute pungenti che si rifilavano.
Lanciò
uno sguardo eloquente a Sora che si era messa in piedi e non lo
ricambiava.
Notò che era ancora intenta ad ispezionare il suo cellulare.
Si
chiese che cosa avesse di così tanto importante da leggere
per non emettere
suono o parola da quando erano arrivati.
Aveva
notato come lei e Yamato fossero rigidi, e lei sembrava nervosa e
preoccupata
per qualcosa. La conosceva bene dopo tanti anni, sapeva che quando la
ramata
evitava lo sguardo degli altri aveva qualcosa dentro che non andava.
Taichi
si avvicinò e le passò un braccio sulle spalle,
mentre lei, finalmente, lo
guardava sorpresa.
Se
c’era qualcosa che non andava in lei
doveva dirglielo, parlare con lui, perché avrebbe cercato un
modo per aiutarla.
Pendeva tanto
dalle labbra della sua
migliore amica, era come una specie di modello da seguire per lui, una
figura
femminile importante.
Non
l’avrebbe mai lasciata in disparte,
l’avrebbe sempre difesa, poco importava se Yamato rivendicava
la sua parte.
Lui e Sora
avevano un rapporto
indissolubile, da sempre.
«Lo
vuoi posare questo telefono?» gli chiese impaziente, facendo
in modo che lei si
ridestasse.
Beccata
nel segno, assunse una faccia di scuse.
«Ehm,
sì, scusa» biascicò, schiarendosi la
voce «Lo lascio qui» disse poi, posando
l’aggeggio sopra un cestino di vimini che si trovava sul
muretto dell’entrata.
Lasciò
perdere.
Non avrebbe
più controllato che Victor le
scrivesse.
Se non era
venuto fino ad allora, voleva
dire che non lo avrebbe fatto. Forse si era reso conto di quanto
rischioso
fosse presentarsi, e di quanto in difficoltà, soprattutto,
l’avrebbe messa con
la sua presenza.
Sospirò,
sentendosi leggermente rassicurata.
Era meglio
così.
Vide
Yamato e Mimi salutare i ragazzi.
Era decisamente
meglio così, con il braccio
di Taichi che la proteggeva da mille minacce esterne.
Le
venne spontaneo poggiare la testa sul suo petto, e il castano si
accorse di
come si fosse accoccolata su di lui, così la strinse ancora
di più.
Daisuke
li adocchiò e si avvicinò a loro con un sorriso
smagliante. Aveva i capelli in
disordine, tinti di amaranto da sempre, una camicia bianca cui aveva
lasciato
aperti dei bottoni per far intravedere il petto, delle bretelle
bizzarre e dei
pantaloni neri.
«Taichi
Yagami!» esclamò, rallegrandosi nel vederlo.
Aveva
da sempre rappresentato per lui un’icona da seguire, nel
calcio ma anche nella
vita.
Gli
diede un cinque e un pugno come saluto. Tai lo fissò in modo
critico, con un
sorrisino sbieco impresso sulle labbra.
«E
anche Yamato Ishida!» continuò l’altro,
facendo la stessa cosa con il biondo.
Questi si
limitò a dargli la mano, smontando il suo pavoneggiarsi.
Daisuke, però, non si
perse d’animo.
«Che
piacere vedervi!» esclamò, e poi
ispezionò le ragazze, soffermandosi sulle loro
forme.
I due
ragazzi se ne accorsero. Matt lo fissò in modo tagliente,
per poi voltare il
capo e vedere come Sora fosse ben stretta tra le braccia di Tai.
Aprì
leggermente la bocca.
Non poteva
essere geloso del suo migliore
amico, specie in quella circostanza.
Ma il fatto che
lei si fosse lasciata
andare con Taichi e non con lui gli stringeva il cuore in una morsa...
Si
oscurò in volto. Il castano non se ne accorse e si
dedicò a parlare con l’altro.
«Come
va, Davis?» gli aveva
chiesto,
chiamandolo con il soprannome con cui tutti lo additavano.
Quello
assunse un’espressione fiera, pompando il petto. Nella parte
scoperta dalla
camicia poteva intravedere una collana che raffigurava un piccolo
rosario.
«Bene,
amico. Si lavora sempre. L’unica cosa brutta della mia vita
è Miyako...» e si
voltò alla ricerca dell’amica, che
avanzò mollandogli un potente scappellotto
sulla nuca.
Yolei
aveva una lunga gonna a vita alta, dentro cui aveva inserito una
maglietta blu trasparente
con dei ricami. Era molto diversa dal maschiaccio logorroico che
avevano
conosciuto; adesso vestiva più femminile ed elegante.
Mimi
corse ad abbracciarla, e le due ragazze si strinsero forte.
Andavano
molto d’accordo fin dai tempi di Digiworld. La più
piccola adorava la castana;
una volta le aveva perfino confidato di averla tanto desiderata come
sorella. Tutto
ciò aveva sempre allettato Mimi, e il suo lato egocentrico
era inevitabilmente ingigantito
da quella spropositata ammirazione che Yolei nutriva nei suoi confronti.
«Mimi! Che bello vederti!» aveva
urlato,
abbracciandola e stritolandola tra le braccia.
Lei si
staccò a tentoni e tenne ancora tra le sue mani quelle
dell’altra.
«Tu
come stai, cara?» domandò poi.
Miyako
gettò uno sguardo al suo fidanzato, il quale si sporse per
salutare tutti gli
altri ragazzi con delle pacche sulla schiena.
«Benissimo.
Io e Ken ci siamo trasferiti di casa» le confidò,
strizzandole l’occhio «Le
cose alla bottega vanno bene, meno male che Joe mi da una mano ogni
tanto.
Hawkmon non è molto contenta, ma a me sta bene»
raccontò.
Il
corvino spesso e volentieri andava ad aiutare Miyako alla bottega di
famiglia
dove lavorava, entrando in pieno contrasto con il suo Digimon partner
che per
differenze caratteriali lo poteva soffrire decisamente poco.
Il
pennuto aveva il suo caratterino pungente e imperativo, cosa che andava
oltremodo in contrasto con lo spirito di Jyou.
«Ecco
Cody!» la violetta alzò il braccio per indirizzare
il ragazzo verso la loro
direzione.
Yamato
lo guardò, pensando che probabilmente quel ragazzo era
l’unico ad avere un
minimo di compostezza e buon senso all’interno di quel gruppo
di ragazzini.
Cody
arrivò e salutò tutti, mostrandosi più
alto dell’ultima volta e più sicuro di
sé.
Daisuke
gli lanciò un’occhiata torva, cominciando ad
insultarlo come faceva di solito.
«Nano,
vieni che ho bisogno!» gli ordinò urlandogli nelle
orecchie.
Il
più
piccolo si spostò con una smorfia, e si sistemò i
lembi delle maniche.
«Davis,
datti un contegno almeno per questa sera. Non è nemmeno casa
tua» gli sibilò,
consapevole del fatto che avrebbe dovuto raccoglierlo e rianimarlo
durante la
serata.
Quello
alzò le spalle.
«E’
casa di Kido! Non si offenderà mica il dottore!»
lo sbeffeggiò, ridendo solo della sua stupida battuta.
Mimi
alzò il sopracciglio chiaro.
«Guarda
che è anche casa nostra» lo avvisò, nel
caso se ne fosse dimenticato.
Che non
si permettesse a rompere qualcosa o a vomitare sul balcone, con
quell’indole
spastica che aveva, altrimenti gliel’avrebbe detto lei!
Davis
cambiò del tutto espressione non appena la castana gli
rivolse la parola, e da
lei fece ruotare lo sguardo verso Sora, che ancora si trovava
abbracciata a
Taichi.
«Ma
voi
siete due bellezze rare!» si passò una mano tra i
capelli, adulandole, tentando
di apparire suadente
«E
manca ancora la terza» aggiunse eloquente.
Tai
captò al volo di chi si trattava. Davis aveva fatto
riferimento a sua sorella
Kari, che non aveva ancora visto da appena era arrivato.
Aveva sempre
avuto una cotta per lei, fin da bambini, e anche se il ragazzo si era
addentrato in altre storielle di passaggio, quella sorta di
predilezione non lo
aveva ancora abbandonato.
Aggrottò
le sopracciglia, in modo ironico.
«Sognala
che poi ti svegli» lo troncò in netto, sentendo
scioccamente un moto di
gelosia.
Matt
rise insieme a lui per la faccia da pesce lesso che Daisuke aveva
assunto.
Perfino Sora ridacchiò, contagiata dal movimento ritmico del
petto del castano.
Volse gli occhi nocciola verso Mimi per vedere la sua reazione, ma la
trovò che
la guardava di uno sguardo strano.
Non aveva niente
da recriminare a Sora, lei
era la sua migliore amica, forse era egoista a pensarlo, lo sapeva, ma
vederla
abbracciata in quel modo a lui...
Erano amici, ma
in fondo sapeva quanto ci
stesse ancora male per Tai, quanto soffrisse per quel distacco, quanto
sentisse
ancora vividi quei sentimenti che la legavano a lui.
Dio, forse era
una stupida a pensare male,
lo sapeva...
La
ramata sciolse improvvisamente l’abbraccio con Taichi, come
se avesse potuto
sentire i suoi pensieri disperati.
Mimi,
dal suo canto, spostò lo sguardo verso la porta che si era
aperta da sola, o
per meglio dire, era stata aperta da qualcuno.
Con un
bel po’ di ore di ritardo, finalmente Jyou fece il suo
ingresso
nell’appartamento, trionfante. Luchia si trovava dietro di
lui e si teneva il
lungo abito blu, mentre avanzava con un portamento regale. Daisuke la
guardava
come fosse una dea greca, la lingua quasi gli penzolava di fuori.
Il
corvino venne accolto da tutti, ricevendo auguri a destra e a manca,
regali e
bottiglie di vino e prosecco come dono.
Portandone
due tra le mani, si avvicinò al gruppo con un sorriso a
trentatre denti.
La
cravatta rossa era slacciata e lasciata penzolare sul collo, la camicia
bianca
era sempre più stropicciata e fuori dai pantaloni. La giacca
nera non sapevano
che fine avesse fatto.
«Buonasera
a tutti, amici miei!» si annunciò, alzando la voce
affinché tutti gli invitati
potessero sentirlo «Eccomi qui, il dottore è
appena arrivato!» esclamò,
ricevendo uno scroscio di applausi, a cui lui reagì con
finta modestia.
Fece
cenno a Luchia di porgergli i bicchieri. La donna alzò la
testa e lo fulminò
con lo sguardo, poi obbedì, passando dei calici anche ai
ragazzi e a Sora e
Mimi.
Joe
riempì il suo con del prosecco, facendo cadere tutta la
schiuma per terra.
«La
festa può iniziare! Scatenatevi come bestie!»
urlò, alzando il bicchiere per
fare un brindisi a sé stesso e bevendo tutto ad un sorso.
Si
affogò istantaneamente, facendo uscire del prosecco fuori
dal naso.
Le
ragazze lo guardavano torve, mentre si asciugava il volto con il
braccio.
Taichi e Yamato lo fissavano nauseati.
Si fece
abbracciare da altre persone ricevendo ulteriori auguri e regali. Yolei
gli
diede due baci sulle guance stringendolo forte, e gli occhiali gli si
spostarono da un lato.
«Dov’eri
finito?» gli chiese bruscamente Sora, dopo che si ebbe
liberato.
Aveva
un cipiglio irritato, mentre Mimi lo fissava con le mani sui fianchi,
pronta ad
aggredirlo.
Il
ragazzo non le badò, avvicinandosi al tavolo dove
c’era da mangiare.
«I
cazzi tuoi li hai lasciati dai monaci buddisti, Sorys?»
chiese retorico, poi,
mangiando una tartina.
La
ramata aprì la bocca per parlare, e anche l’amica
si stava avvicinando per
redarguirlo.
Taichi,
però, fu più svelto e si mise in mezzo.
«Rispondi
per bene, burino. Hanno dovuto fare tutto senza di te» lo
ammonì con un tono
che non ammetteva repliche.
Joe
spostò lo sguardo su Yamato che lo guardava a sua volta in
modo tagliente, come
volesse mollargli un pugno se solo avesse aperto bocca.
Il
festeggiato lo fissò con gli occhi neri a fessure,
sfidandolo. Poteva
arrabbiarsi quanto voleva quel biondo scellerato, ma lui avrebbe
comunque
parlato con sincerità in
ogni
frangente.
«Schiave
sono e schiave resteranno» commentò in modo
maschilista e, dopo aver lanciato
un’occhiata veloce ai due ragazzi,- Matt avrebbe reagito, se
solo Tai non lo
avesse bloccato- decise di allontanarsi dalla loro visuale onde evitare
accapigliamenti.
Diceva le cose
con sincerità, era vero, ma
al suo bel faccino ci teneva.
Raggiunse
Davis che aveva già incominciato a bere con foga, e gli
posò una mano sulle
spalle.
«Daisuke,
fattelo dire, vedi di mantenerti e di non usufruire di quella cosa
bianca che sappiamo noi» fece una faccia
allusiva, poi lanciò uno sguardo in direzione del balcone da
dove si
intravedevano Koushiro e Frajiko che parlavano in modo fitto
«anche
perché in questa festa ci sono già persone in via
di disintossicazione»
Poi si
bloccò, posseduto da un flash improvviso.
«A
proposito, qualcuno levi quella margherita dal balcone, che ci tengo!
Non
vorrei che Frankie...» lasciò cadere la frase,
facendo intendere qualcosa di
affatto piacevole.
Il
biondo si mollò dal castano e si avvicinò con una
faccia che non lasciava
presagire nulla di buono.
Doveva
contenersi.
Contenersi, per
la miseria, non poteva
comportarsi in quel modo infantile e poco educato.
«Cosa
stai insinuando, idiota?!» esclamò, livido in
volto. Poi lanciò uno sguardo per
premurarsi che chi di dovere non stesse ascoltando.
«Non
parlare in questo modo davanti a Izzy!» lo avvertì
tra i denti.
Quando
scherzava su delle cose frivole poteva anche andare bene, ma
quell’argomento
era delicato per loro e soprattutto per Koushiro.
Sora e
Mimi si lanciarono un’occhiata preoccupata.
Joe
indietreggiò automaticamente, ma continuò ad
assumere un atteggiamento
spocchioso e strafottente.
«Calmo,
che il cibernetico recepisce solo con il codice binario» la
buttò lì, alzando
le mani.
Il
biondo guardò Taichi con rabbia. Questi fece pressione sulla
sua clavicola per
fargli intendere di calmarsi, che non era il caso di agitarsi in quel
contesto.
Era pur
sempre la festa di laurea di Joe e c’erano molte persone.
Yamato
si calmò, ma non tolse l’espressione dura dal viso.
Davis,
nel frattempo, continuava ad osservare Luchia come un maniaco. La donna
se ne
accorse e gli lanciò uno sguardo austero, che
però non venne ben inteso.
Si
avvicinò al fidanzato, che stava continuando a bere e
conversare con dei suoi
colleghi di università.
«Dì
a
questo ragazzino dalla chioma ribelle di smettere di
fissarmi» ordinò secca,
mentre Joe salutava i tizi e si voltava in direzione di questi.
Scosse
la testa e si avvicinò all’orecchio della donna.
«E’
un
cocainomane, Luchia» la informò, continuando a
guardarlo con una ruga di timore «Non lo aizzare»
la avvertì.
Luchia
sbuffò pesantemente e incrociò le braccia, mentre
Davis continuava a mangiarla
con gli occhi e a passarsi la lingua sulle labbra come segno di
provocazione.
Il
corvino si voltò e adocchiò Cody che veniva verso
di lui con l’intenzione di
fargli gli auguri. Gli diede formalmente la mano e lo guadò
di uno sguardo
strano, con gli occhi spalancati e un’espressione apprensiva.
«Ciao-come-stai?»
gli chiese, scandendo bene le parole come fosse un minorato mentale.
Accompagnarono anche dei gesti con le mani e le braccia.
Il
ragazzo lo guardò male e poi sospirò.
«Sì,
Joe, perché mi parli così?» chiese
stufato.
Quello
non l’ascoltò, e parlò ancora
all’orecchio della sua fidanzata.
«E’
un
ragazzo disturbato» pettegolò, mentre Luchia
alzava un sopracciglio e fissava
il più piccolo con superiorità «Non sai
cos’ha passato» continuò in un
sussurro, mentre Cody lo guardava scettico.
Da
sempre assumeva quel comportamento con lui, sostenendo che la sua
infanzia
turbolenta, segnata dalla morte del padre e dall’infanzia
passata a casa con il
nonno appassionato di kendo, lo avesse deviato mentalmente.
Non era
affatto così, era solo uno dei suoi stupidi modi per
prendere in giro gli
altri.
«Capisce
solo se scandisci le parole... Ti-senti-a-tuo-agio?»
formulò nuovamente ad alta
voce.
La
donna non si scomodò dalla sua posizione.
«Se lo
dici tu, caro» disse con sufficienza, per poi buttare
giù a vetro il suo
alcolico.
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Capitolo 8 *** Simboli ribaltati ***
I ragazzi
decisero di spostarsi in salotto dove la musica imperversava e molte
persone
avevano iniziato a darci dentro con l’alcol e a ballare.
Joe si
gettò
tra la mischia, venendo osannato dai suoi colleghi e da altra gente che
conosceva, i quali fecero brindisi in suo onore e gli cantarono una
canzone
riadattata.
Sora e Mimi
andarono verso il tavolo delle bevande, decise a prepararsi un
cocktail.
Erano stufate
ed irritate dal comportamento del loro coinquilino, irrispettoso e come
al solito
fuori luogo. La castana versò del gin e della limonata
dentro un bicchiere di
plastica e aggiunse una cannuccia.
Dovevano
smetterla di essere così consenzienti nei suoi confronti. Se
non altro,
facevano anche una figura del cavolo di fronte a Taichi e Yamato
mostrandosi troppo
accondiscendenti.
Lanciò
uno
sguardo proprio a questi che si tenevano a debita distanza da loro e
conversavano in un angolo del soggiorno.
Sospirò,
rattristandosi.
Perché
non potevano avere un rapporto normale? Perché
doveva aver paura perfino di rivolgergli una parola, intimorita da una
sua possibile
reazione...
Taichi sembrava
impostato e sostenuto. Non sapeva
nemmeno cosa stesse cercando, adesso, a sperare così in
fondo che lui si
avvicinasse a lei...
Vide Sora bere
il suo cocktail, immersa nei suoi pensieri.
Era diventata
così egoista da aver sentito della
gelosia per lei; come aveva potuto?
Quei sentimenti
la stavano logorando dentro e le
stavano facendo perdere il nesso delle cose, l’importanza
delle persone...
Si
avvicinò a
lei con un sorriso.
La ramata la
fissò senza capire. Vide che le aveva fatto cenno in
direzione di Yamato e
sentì il gin scenderle di traverso.
Tossicchiò
e
tentò subito di ridestarsi.
Fosse matta, ma
non si sarebbe avvicinata a lui... non
riusciva, non poteva...
E poi, se solo
avesse voluto, Matt avrebbe potuto fare
lo stesso, se non lo faceva voleva dire che non gli importava
così tanto.
Certo che era
veramente ipocrita a pensare che lui
avrebbe dovuto fare il primo passo...
Dopo quello che
aveva combinato lei il fatto che
Yamato non le si avvicinasse a parlare era solo una benedizione...
Dio,
perché continuava a mentire a sé stessa?
Guardò
Mimi e
negò con la testa. L’altra la fissò con
un una smorfia sulle labbra, ma poi la
prese da un braccio e fece in modo che ballassero insieme.
Volteggiarono
sinuosamente, pensando che, se non potevano avvicinarli, almeno
avrebbero
dovuto apparire spensierate, libere, donne.
L’alcolico
cominciò a fare i suoi effetti e iniziarono a scambiarsi
delle battutine
divertenti, ridendo in modo forse un tantino esagerato, ma che sfogava
tutto il
malessere che si portavano dentro.
Taichi e Yamato
le guardavano da lontano.
Erano tutto
ciò che avevano voluto e che, forse,
avevano perso...
Il castano
strinse le labbra, chiudendo per un attimo gli occhi.
«Cosa
vuoi?»
chiese poi all’amico, facendo trasparire urgenza di assumere
qualcosa di
alcolico, o comunque, di inebriante in modo tale da poter disperdere i
pensieri.
Doveva bere
qualcosa, oppure sarebbe impazzito lì, su
due piedi... neanche sapeva perché... o forse lo sapeva
talmente bene da odiare
ammetterlo.
Matt si
tastò
le tasche dei pantaloni e tirò fuori una sigaretta.
Sentiva il
nervosismo piombare su di lui, avvolgerlo
come un ciclone da cui non riusciva a uscirne vivo.
«Una
sangria»
borbottò.
Si guardarono
di sottecchi, di uno sguardo rassegnato.
«Ci
vuole»
commentò il castano con un sospiro.
I due si
spostarono da un lato, dirigendosi verso il tavolino dove era poggiato
il
recipiente che conteneva l’alcolico. Presero due bicchieri e
se lo versarono cautamente
con un mestolo. Videro il divano bianco vuoto e si accomodarono.
Bevvero i loro
cocktail in silenzio, continuando a guardare le ragazze che adesso
avevano
smesso di muoversi e stavano vicino al separé della cucina a
parlottare.
Tai non potette
fare a meno di notare come Sora continuasse ad essere spenta e di
malumore. Si
guardava intorno nervosa, e la conosceva troppo bene per potere
affermare che
c’era sicuramente qualcosa che non andava.
«Cosa
pensi che
abbia Sora?» chiese all’amico, che smise di bere
non appena la udì nominare.
Matt
deglutì in
difficoltà, e si spostò piano i capelli con la
mano con la quale teneva ancora
la sigaretta spenta.
Voleva saperlo
anche lui cosa le passava per la testa.
Non riusciva a
decifrarla, sembrava persa nel suo
mondo, chiusa dietro una barriera invalicabile.
Cosa poteva
dire, adesso, a Taichi?
«Sarà
stanca»
butto lì, ma non ci credeva neanche lui.
Il castano gli
rivolse uno sguardo di rimprovero, mentre il biondo mangiucchiava in
maniera
maniacale la cannuccia.
Quella sua stasi
ingiustificata gli faceva perdere la
testa; odiava quando faceva in quel modo, non si smuoveva di un
centimetro
anteponendo le sue mere convinzioni e il suo sciocco orgoglio di fronte
al
bisogno di una persona a lui cara.
Sapeva che
Yamato per lui avrebbe fatto di tutto, la
cosa era reciproca, ma non capiva quell’ astenersi
all’agire nei confronti di
Sora.
Gli dava davvero
fastidio.
«Certo
che tu
sei di un’intuizione...» lasciò la frase
al caso, facendogli, però, recepire direttamente
il messaggio.
L’altro
sospirò, portandosi una mano sulla fronte.
Perché
Taichi non capiva come diamine fosse difficile
per lui fare quel passo?
Era il risultato
di anni di parlare senza realmente
comunicare.
Avevano un
problema di fondo che mai avevano affrontato
e adesso questo peso era diventato un vero e proprio macigno.
«Sto
tirando a
indovinare, Tai» tagliò, forse risultando un
tantino gelido.
Questi
finì la
sua sangria e si sporse per posare il bicchiere vuoto su un mobiletto.
Si
voltò e lo
guardò negli occhi.
Da quelli non
poteva scappare.
«Perché
non le
parli?» gli chiese per l’ennesima volta.
Era risoluto nel
suo intento.
Se guadagnare il
benessere di Sora significava andare
contro Yamato lui l’avrebbe fatto, doveva metterselo in testa.
Tenne fisso lo
sguardo,
tant’è che il biondo distolse il suo, fulminato.
L’egoismo
e la vigliaccheria avevano distrutto la sua
storia.
Non voleva che
distruggessero anche quella dei suoi
amici più cari, perché sarebbe stato stupido se
lui stesso lo avrebbe permesso.
«Lo
farò dopo»
mormorò infine l’amico, consapevole del fatto che,
seppur tentasse di evitarlo,
avrebbe dovuto farlo lo stesso.
Lui e Sora
dovevano parlare.
Dovevano mettere
un punto a tutta quella vicenda che
stava risultando essere una battaglia a cuore aperto.
Lo sapeva,
sì, ma non riusciva a muoversi...
Continuarono a
guardare le ragazze senza dire nient’altro. Il loro volto si
tinse di
rimpianto, rimorso di qualcosa, compianto.
Taichi non
smise di osservare Mimi che parlava e gesticolava.
Se solo avesse
voluto, anche lui avrebbe potuto
provare a sistemare le cose.
Faceva la
ramanzina al biondo per proteggere lui
stesso, perché sapeva bene che quello che consigliava di
fare a Matt lui non
avrebbe potuto farlo.
Però,
perché?
Era diventato
davvero un vigliacco?
Si morse il
labbro.
«Sono...
davvero belle» si lasciò sfuggire poi.
Yamato
sembrò
non aver sentito, e forse era meglio così, pensò
Taichi. Era una constatazione
ridicola, specie fatta da quella posizione in cui si trovavano.
Si
passò una
mano tra i capelli per sistemarli e udì l’altro
rispondere:
«Già»
con un
tono che trapelava rammarico.
Gli venne da
sorridere amaramente.
Che fine
disonorevole che avevano fatto, loro due.
Credevano tanto
di essere due giganti dal forte
carattere e dalla distinta personalità, capaci di
assoggettare gli altri e
rigirare la situazione al loro volere.
Forse una volta
erano realmente così, sicuri di loro
stessi, con le spalle larghe, il carisma invidiabile.
Adesso... non
riconosceva niente dei due ragazzi che
erano stati.
Interruppe
quella sfilza di pensieri un allegro Joe, il quale, senza preavviso, si
infiltrò in mezzo ai due, e mise loro entrambe le braccia
sulle spalle.
Quelli si
lanciarono un’occhiata infastidita.
«Ragazzi,
come
sta andando?» chiese, facendo scorrere lo sguardo
dall’uno all’altro.
Non fecero in
tempo a rispondere, o probabilmente credevano non valesse nemmeno la
pena
farlo, che il maggiore prese nuovamente la parola.
«Ho
ricevuto un
orologio touch-screen!» esclamò, mollandoli e
alzando il braccio per mettere in
bella vista il polso.
L’orologio
aveva il cinturino rosso e il quadrante era diverso da quello standard;
era più
grande e sembrava, per l’appunto, uno schermo touch.
Joe lo
sfiorò
con un dito.
«Chissà
se
riesco a collegarmi con la mail da qui» borbottò e
si estraniò per qualche
secondo, mentre gli altri due guardavano in un’altra
direzione, stufati di
essere stati interrotti.
«Gomamon
mi ha
mandato una cartolina di auguri!» urlò
d’un tratto, probabilmente dopo essere
riuscito a collegarsi alla sua casella di posta elettronica.
Il suo tono era
allettato quanto stupito. Perfino i due ragazzi si voltarono a
guardarlo.
Il volto
estasiato si trasformò ben presto in indispettito e deluso.
«Si
è sprecato
quel mostro... Mai una volta che pensa al suo partner!» lo
udirono imprecare,
dopo aver letto il messaggio.
Finì
di
trafficare con l’orologio, e si rivolse nuovamente ai ragazzi
che, nel
frattempo, si erano serviti di un altro cocktail.
«Comunque,
ci
tengo alla buona riuscita di questa festa» disse,
osservandoli sedere in modo
sbieco «quindi vi prego di non litigare tra voi come al
solito»
Tai e Matt si
guardarono interrogativi.
Il fatto che si
stesse premurando di avvertirli faceva intendere quanto fosse risoluto
affinché
non si creassero situazioni spiacevoli.
Ammettevano
che, durante la loro adolescenza, erano stati due ragazzi un
po’ turbolenti, ma
adesso erano dotati di quel pizzico di raziocinio in più,
nonostante avessero
in testa idee ben differenti che li portavano inevitabilmente a
discutere.
E poi, Joe era
proprio l’ultimo a poter fare raccomandazioni; aveva sempre
messo su teatrini
studiati ad hoc per impressionare gli altri e se le cose non giravano
nel verso
che voleva lui non perdeva tempo a fare scenate isteriche.
«Non
abbiamo
intenzione» rispose Taichi, bevendo la sangria
tutt’ad un sorso.
Ed era vero;
checché potesse pensarlo, loro non avevano certo intenzione
di creare
scompiglio.
Quelli erano
altri tempi.
Altri tempi e
altre persone con le quali non si
riflettevano più.
Joe li
scrutò
indagatore per un po’, fino a quando non mise su un sorriso
di circostanza,
quello che assumeva quando si stava preparando ad annunciare qualcosa
che non
avrebbe di certo fatto piacere.
«Ecco,
perché
vi volevo far salutare una persona che conoscete
già» aveva assunto un tono
mellifluo e li fissava con una certa dose di rammarico.
I due
aggrottarono le sopracciglia, chiedendosi dove volesse andare a parare.
«E’
mio cugino
Tolomeo» spiegò con ancora quella sfumatura
melensa, guardandoli nervosamente,
soffermandosi soprattutto su Tai.
Questi
lanciò
uno sguardo esterrefatto a Matt, il quale emise una risatina sarcastica.
Stava
scherzando?
Che diamine di
problemi aveva Joe? Dovevano essere
veramente gravi se si era sprecato a dire una cosa del genere.
Tolomeo era un
loro vecchio compagno del liceo con cui avevano avuto dei diverbi
accesi in
passato. Non aveva fatto altro che pedinare e provarci con Mimi quando
era
fidanzata con Tai, oltre al fatto di aver portato con sé un
amico che aveva, a
sua volta, importunato Sora.
Sapevano che
erano passati anni e che era sciocco
avercela per una questione di quando erano ragazzini, ma loro due erano
così;
quando veniva toccato loro qualcosa di importante non lo dimenticavano
facilmente.
Il corvino si
accorse dei loro sguardi e si affrettò ad aggiungere:
«So
che tra di
voi non scorre buon sangue, ma ha anche messo incinta a una, quindi non
c’è
pericolo» annunciò, alzandosi dal divano.
«Chi
ha messo
incinta?» chiese il biondo, stranito da quella notizia.
Questi fece una
faccia stufata di dover dare informazioni.
«Una
di
Tottori. Devono sposarsi il mese prossimo» rispose
distaccato, guardandosi
attorno per adocchiare il cugino.
Era necessario
che i tre si salutassero e firmassero un armistizio in caso di
eventuali discordie
che puzzavano di decennio.
La sua festa di
laurea era qualcosa di agognato, una celebrazione che metteva in luce
l’impegno, i sacrifici e il sudore di tutti quegli anni di
studio. Il sol
pensiero che qualcuno potesse farla saltare in aria gli faceva venire
le
lacrime agli occhi.
Per questo era
previdente. Voleva che tutto andasse per il verso giusto, a costo di
dover
controllare personalmente le persone più quotate a guastarla.
Alzò
una mano
per chiamare il ragazzo, il quale subito si avvicinò a gran
passi.
Tolomeo non era
molto variato da come lo ricordavano. Aveva i capelli corti, non
portava più
quel caschetto ridicolo; in compenso inforcava ancora gli occhiali da
vista e
indossava una camicia con sopra disegnate delle palme, inserita dentro
dei
pantaloncini stretti da una cintura che portava il marchio in bella
vista. Ai
piedi, notarono con disgusto, aveva delle scarpe rosse.
Non appena li
vide s’intirizzì, poi assunse la sua solita faccia
sorniona e allungò una mano.
«Yamato.
Taichi» disse secco, salutandoli.
Quest’ultimo
la
strinse di getto e vigorosamente. Dopo lo fissò con le
sopracciglia aggrottate.
Era il solito
tamarro spropositato.
Non era cambiato
di una virgola.
«Come
va la
vita?» chiese, volgendo poi la mano al biondo.
«Bene»
rispose
lapidario questi, tenendo apposto la sua e finendo di bere
tutt’ad un sorso la
sangria.
Si sporse e
posò il bicchiere sul tavolino, alzando gli occhi cerulei
per guardarlo con
sufficienza.
Tolomeo,
però, spostò
lo sguardo sul castano e fece un sorrisino.
«Tutto
apposto,
Taichi?» chiese in tono di scherno sopito «So che
sei diventato un calciatore
famoso a Kyoto» lo adulò.
Il ragazzo
emise una risatina sarcastica.
«Non
lo sapevo
neanche io» rispose, spostando lo sguardo senza
più degnarlo di attenzione.
Joe era
sgattaiolato
chissà dove, e aveva smollato loro
quell’energumeno senza possibilità di
replica. Credeva che si sarebbero scambiati un segno di pace
rivolgendosi la
parola dopo tanti anni, ma imponendo la presenza di Tolomeo non aveva
fatto
altro che affilare ancora di più i suoi nervi tesi.
«E’
passato
molto tempo da quando abbiamo avuto quelle piccole
scaramucce» rinvangò,
sedendosi sul bracciolo del divano, guardandoli dall’alto in
basso.
Tai aveva fatto
una smorfia sentendolo.
«Adesso
ho
ingravidato una bella ragazza. Sono soddisfatto
così» disse gonfiando il petto
e portando una mano al cuore.
Nessuno dei due
rispose. Si limitarono a guardare verso un’unica direzione,
che era quella
occupate dalle ragazze.
Tolomeo li vide
e spostò gli occhi nella stessa, drizzando gli occhiali sul
naso non appena
scorse Mimi che rideva e ballava con grazia.
Un sorrisino
increspò le sue labbra.
«A
proposito,
sul fatto che abbiamo superato le liti» proruppe,
assottigliando gli occhi con
fare sadico «Stai ancora con quella ragazza,
Taichi?»
Nel sentirsi
chiamato in causa, questi si voltò a guardarlo con astio.
Ancora la
nominava?
Non gli era
servita a niente la lezione?
Che poi
perché si irritava così tanto... Era solo un
tamarro cafone che abitava in un paesino di montagna e non aveva mai
visto una
donna in tutta la sua vita.
Lo aveva fatto
apposta per provocarlo, lo notava dal
suo ghigno divertito, ma non capiva perché lui stesso si
ingelosiva così tanto
se nominava lei...
O forse
sì, lo capiva benissimo...
«Senza
offesa,
ma è proprio una venere di Botticelli!» lo
udì esordire con un tono ammiccante,
da prendere a pugni.
S’irrigidì
e trattenne
il fiato, mentre Yamato lo guardò duro, serrando la
mascella.
Joe pensava che
parlando avrebbero sotterrato i vecchi rancori, ma quel coglione non
stava
facendo altro che riesumarli.
Si sporse a
posare il bicchiere vuoto, e mormorò all’orecchio
del suo migliore amico:
«Andiamocene
altrimenti gli meno un pugno» lo avvertì, e il
biondo si mise in piedi per
seguirlo, lasciando Tolomeo seduto da solo a ridere di loro.
Che sfigati,
rigidi e gelosi di qualcuno che avevano
perso, forse per sempre.
Il treno sarebbe
passato una sola volta. Lui non era
riuscito a prenderlo, ma, probabilmente, Taichi era sceso alla stazione
sbagliata.
Non aveva
nemmeno idea di ciò che aveva perso.
Si versarono un
altro bicchiere e rimasero ritti in mezzo alla pista. La gente si
muoveva
tutt’intorno, ballando, bevendo e cantando.
Alcuni si
abbracciavano e saltavano in preda alla foga, probabilmente ubriachi.
Riuscirono a scorgere Daisuke tra questi spintonare le persone che
aveva
attorno, barcollando pericolosamente.
Taichi
sospirò.
Ci dava sempre dentro in un modo esagerato; probabilmente, il burino
non aveva
tutti i torti a voler tenere a bada certi soggetti come lui.
Davis era un
tipo brusco ed esuberante. Quando beveva o peggio assumeva qualcosa
diventava
proteso alle risse. Per questo motivo, Yamato e gli altri loro amici
non
vedevano di buon occhio una sua abituale presenza.
Bevve ancora,
lasciandosi per un attimo cullare dalla musica.
Cominciava a
sentire caldo in mezzo a quella calca di gente; forse sarebbe stato
meglio spostarsi.
La sua attenzione fu catturata da un insolito via vai che si era
formato nei
pressi del balcone. C’erano persone mai viste prima che si
attorniavano là
fuori.
Pensò
a degli
imbucati, probabilmente amici di qualcuno; era solito nelle feste
succedere,
anche lui ogni tanto lo era stato.
La cosa che non
gli andò giù del tutto fu quando uno di essi, in
maniera sospetta, uscì fuori
per poi rientrare dopo pochi minuti con qualcosa in mano che tutto gli
sembrava
fuorché un cellulare.
«Dove
si sarà
cacciato TK?» udì Matt domandare alla sua destra.
Assottigliò
gli
occhi castani e fece un veloce calcolo mentale.
Takeru aveva
fatto delle allusioni strane il giorno prima al Vancouver; sembrava
stesse
conducendo dei giochi di cui lui e Yamato erano all’oscuro.
Sentiva che
quella coda di persone che si apprestava a raggiungere il balcone non
era
casuale. Stava succedendo qualcosa lì, non era stupido.
Il biondino non
si era fatto vedere per una serata, e ora che ci pensava nemmeno
Hikari. Erano
scomparsi, e lui non ci mise molto a fare due più due.
Posò
il
bicchiere sopra il mobile che sosteneva la TV.
«Andiamo
a
vedere» disse secco, facendo un cenno verso quella direzione.
L’amico
lo
guardò interrogativo, ma non emise protesta. Tirò
fuori l’accendino con l’intento
di fumare una sigaretta.
Rimase
sbigottito
non appena uscirono nell’ampio balcone. Una serie di persone
occupava gli spazi
come se aspettasse qualcosa; c’era chi tornava da un punto
imprecisato e
rientrava dentro senza dire una parola.
Alcune di esse
parlavano tra di loro in maniera fitta. A Matt gli parve di riconoscere
Frankie
tra di loro, anche se non ne era sicuro.
«Che
diamine
sta succedendo qui?» chiese al castano, che guardava a sua
volta con
circospezione la zona.
Non aveva
più dubbi su quello che stava facendo
Takeru.
Aveva messo in
ordine i tasselli, aveva dato un
traduzione esclusiva alle sue parole vaghe, aveva inteso
all’improvviso, gli
era venuto in mente come un lapsus, ciò che stava accadendo
intorno a loro.
Non fece in
tempo a dirigersi verso il punto recondito dove, supponeva, fosse
stanziato il
fratello del suo migliore amico, che una voce familiare lo
chiamò alle spalle.
«Fratellone!
Aspettate, venite qui!» Kari si fece largo tra la folla con
difficoltà,
raggiungendo i due che la guardavano interrogativi.
Afferrò
il castano
dal braccio e tirò verso la sua direzione.
Tai oppose
resistenza, fulminandola con lo sguardo. Uno sguardo che,
giurò la ragazza,
voleva dire soltanto una cosa.
Arrabbiatura.
Rimprovero.
Delusione.
«Kari,
che sta
succedendo?» lo sentì chiederle in un tono
perentorio che non ammetteva di
certo repliche.
La castana
abbassò gli occhi, trafitta nel segno.
Suo fratello
l’avrebbe scoperta in un secondo.
Lei non era
brava a mentire, non lo era affatto. Era
pura e luminosa come una stella, e Taichi avrebbe sicuramente letto nei
meandri
del suo cuore.
«Niente...»
aveva sussurrato lei, lasciando la frase in sospeso.
Yamato aveva
incontrato qualcuno che conosceva e si era voltato a parlare.
Approfittandone
di quel momento di distrazione da parte del biondo, Tai strinse sua
sorella
dalle spalle.
«Guardami
negli
occhi» le intimò, tenendo fissi i suoi sul suo
viso.
Kari li
alzò
appena, ma non riuscì a reggere il peso di quelli del
fratello.
Questi si
passò
una mano tra i capelli, sospirando. Poi gettò un altro
sguardo languido
all’amico, assicurandosi che non si accorgesse di niente.
Doveva mettere
fine a quella situazione.
Lo doveva fare
per salvare sua sorella da quel vortice
in cui era caduta, lo doveva fare per mettere in pace il rapporto tra
Yamato e
Takeru.
«Vieni
con me» la
prese da una mano e si allontanarono, raggiungendo la fine del balcone
dove
nessuno circolava nei paraggi.
Udirono
qualcuno che urlava, ma il castano non ci fece caso. Guardava la
sorella con
uno sguardo duro.
Voleva che gli
dicesse la verità, voleva che la smettesse di nascondersi
dietro il suo
fidanzato e annegare sé stessa.
Lei era una
ragazza splendida, aveva sempre creduto in lei e nel suo buon senso.
Era
qualcosa in cui si ancorava quando perdeva il proprio; e in quegli anni
di
buono era rimasto soltanto il suo tiro in porta.
«Hikari,
non
farmi arrabbiare» disse tra i denti, mentre questa poggiava
le braccia sulla
ringhiera
«Cosa
sta
combinando Takeru?»
Avrebbe dovuto
dirglielo.
Non doveva
mentirgli perché tanto lo avrebbe capito.
La vide
stringere le labbra rosee.
«Niente,
Tai,
solo... business... affari...» mormorò guardando
giù, evitando volutamente il
suo sguardo severo.
Taichi scosse
la testa non potendo fare a meno di fare un sorrisino sarcastico.
Adesso era
economia quella che faceva girare?
A chi voleva
prendere in giro, TK?
Forse non aveva
affatto idea di come andava realmente
la vita, se credeva che con quel suo modo di fare avrebbe avuto tutti
ai suoi
piedi.
«Sta
spacciando,
vero?» chiese a bruciapelo, senza perdersi in chiacchiere.
Kari non
rispose, ma notò che si era irrigidita.
Taichi
sentì
per qualche secondo la terra mancargli da sotto i piedi. Il solo
pensiero che
sua sorella, la sua sorellina, così buona, gentile,
luminosa, potesse trovarsi
in mezzo a quei loschi affari lo impauriva, gli creava disgusto, gli
impartiva
una voglia matta di andare a spaccare la faccia a Takeru.
«Cosa
c’entri
tu in questo giro?!» urlò, scotendola da un
braccio e facendola voltare bruscamente
nella sua direzione.
Hikari lo
fissò
spaventata, le sopracciglia alzate, gli occhi liquidi.
Suo fratello non
le aveva mai risposto in quel modo,
con lei usava sempre un tono dolce e comprensivo, lei era la sua
sorellina...
Ebbe timore di
averlo deluso, sentì così paura tanto da prendere
una sua mano e stringerla
forte tra le sue, come se volesse aggrapparsi a lui per farsi salvare.
«Niente,
fratellone, solo gli sto... accanto... ha bisogno di soldi... non
è un
drogato...» spiegò, mentre la voce le si rompeva
e, inevitabilmente, le lacrime
solcavano il suo viso candido e fine.
A lui gli si
strinse il cuore nel vederla piangere in quel modo. Non avrebbe mai
voluto
vedere Kari star male, voleva solo che stesse bene e che non fosse
costretta a
coprire determinate cose che mettevano a repentaglio la sua
stabilità.
«Perché
lo stai
coprendo?! Tu devi starne fuori, Kari!» continuò a
dire categorico, arrabbiato,
preoccupato.
Poi si
passò
una mano sulla fronte e gettò uno sguardo nella direzione in
cui le persone si
affollavano.
«Matt
aveva
ragione... E’ uscito fuori di testa. Adesso vado a dirgliene
quattro»
impulsivamente, ebbe una gran voglia di sorpassare tutte quelle
persone,
spingerle via da dove si era posizionato il biondino e mollargli un
pugno così
potente da farlo rivoltare per terra.
Fece per
muoversi, ma la sorella lo bloccò da un braccio, tirandolo
con tutte le sue
forze verso di lei.
Le lacrime
cadevano ancora sulle sue guance rosse, come un fiume in piena.
«No,
Tai,
aspetta... ti prego, non dire niente... non dirgli niente...»
lo supplicò, la
voce spezzata, gli occhi che lo supplicavano.
Il ragazzo si
fermò ad osservarla con in volto un espressione sgomenta.
Come
l’aveva ridotta?
Come aveva
ridotto sua sorella, la luce dei suoi
occhi, il faro della sua vita, l’unica sua certezza in una
vita contornata di
dubbi e illusioni...
Sentì
la testa
farsi pesante, forse per colpa dell’alcol che non era
riuscito a metabolizzare.
Vederla
piangere in quel modo gli fece lacrimare il cuore a sua volta.
Non avrebbe mai
permesso che Hikari soffrisse.
Mai.
Mollò
dolcemente la sua presa dal braccio.
«Se ti
succede
qualcosa, Hikari... io ti giuro che lo ammazzo»
mormorò tra i denti, mentre gli
occhi brillavano di un bagliore strano.
Lo avrebbe
ammazzato.
Non aveva dubbi;
non gliene importava se Takeru era il
fratello di Yamato, se era solo un ragazzino incosciente...
Se solo avesse
rovinato la vita di sua sorella lui lo
avrebbe ammazzato.
La ragazza
scosse la testa e tirò su con il naso, tentando di asciugare
le guance con il
polso.
«Lui
è un bravo
ragazzo... litiga con Matt solo perché non si
capiscono...» sussurrò poi,
unendo le mani e portandole al petto «vuole il suo bene,
è solo ambizioso,
vuole... vuole arrivare a fare qualcosa che ha sempre
desiderato»
Si chiese se
non stesse realmente delirando o se il suo amore per il biondino fosse
così
talmente forte da averle offuscato la vista e averle fatto perdere la
ragione.
«Spacciando
erba?!» sbottò, e Kari notò come
qualcuno in lontananza si fosse voltato in loro
direzione «Ti sembra il modo più giusto? E,
soprattutto, pretendi che io stia
tranquillo sapendo che tu ci sei nel mezzo?»
Lei
abbassò
nuovamente lo sguardo.
«Io
non ci sono
nel mezzo e neanche lui» mormorò, tentando di
spiegare il loro punto di vista
«TK fuma saltuariamente. E’ solo uno dei tanti
mezzi per ottenere denaro... Sono
solo persone che conosce, quelle...»
Tai non disse
niente dopo aver udito quelle parole.
Non capiva cosa
avesse per la testa. Una volta credeva
di conoscerla così bene, sua sorella, ma adesso... si
ritrovava catapultato di
fronte ad una brusca realtà, una dura consapevolezza del
fatto che fosse
cresciuta, che si stesse avventurando in qualcosa che andava al di
là dei suoi
principi morali.
Si stava facendo
assoggettare da Takeru, si stava
facendo traviare, manipolare...
Non poteva
crederci.
Una volta lei
era così sicura, risoluta nelle sue
scelte, convinta dei suoi ideali.
Che fine aveva
fatto quella luce che aveva dentro di
sé?
Si era spenta
come un soffio ad una candela...
«Una
volta
brillavi così tanto di luce tua»
constatò, usando un tono rammaricato, deluso
«Adesso... sembri così spenta, sottomessa...
Perché?»
Le porse quella
domanda continuando a guardarla come se la stesse osservando realmente
per la
prima volta dopo tanto tempo.
E gli sembra
strano trovarla in quel modo, mutata, trasformata in qualcuno che non
era lei.
Hikari scosse
la testa, poi poggiò le braccia sulla ringhiera, volgendo lo
sguardo ai palazzi
di fronte.
Le urla e la
musica rimbombavano in strada. Le luci della palla di vetro
riflettevano sulle
tende.
«Tai,
io...
devo dirti una cosa» lo disse in tono talmente basso che il
castano pensò se
non lo avesse immaginato.
Rimase per
qualche secondo a fissare la sua schiena fasciata dal vestito bianco,
poi sospirò,
e si avvicinò a lei. Mise le braccia sulla ringhiera anche
lui e si voltò,
pronto ad ascoltarla.
«Dimmi
qualcosa
che smentisca tutto quello che ho visto» soffiò in
tono amareggiato.
A Kari le si
strinse il cuore. Suo fratello era veramente preoccupato per lei, e lei
doveva
spiegargli, doveva rompere quel patto che aveva fatto e dire lui tutto
quello
che doveva sapere.
Fece un respiro
profondo.
«Mamma
e papà
hanno un problema a casa» disse tutto ad un fiato, puntando
su di lui gli occhi
nocciola così simili a quelli suoi.
Questi,
nell’udire menzionare i suoi genitori,
s’irrigidì. Sentì
all’improvviso la gola
secca e il cuore battere forte. Non seppe nemmeno il motivo, ma i suoi
sensi lo
misero subito in allerta.
«Che
tipo di
problema?» domandò serio.
Notò
con la
coda dell’occhio la ragazza torturarsi le mani lisce e
delicate, mentre
all’improvviso, una folata di vento accarezzò i
suoi capelli, spostandoli viso
pallido.
«Ecco...
Hai
presente il proprietario dell’appartamento?» fece,
spostando delle ciocche
castano chiaro dal viso.
Taichi
annuì
quasi impercettibilmente.
Cosa diamine era
successo?
Perché,
soprattutto, glielo stava dicendo in quel
momento?
«Beh,
lui... ha
ricevuto un’offerta convenevole da parte di un altro
inquilino per comprarlo» spiegò,
mentre la sua voce diventava a mano a mano più bassa, fino a
trasformarsi in un
sussurro.
Il maggiore
alzò lo sguardo e la fissò. Aveva gli occhi
sbarrati e una ruga di
preoccupazione gli si era formata sulla fronte.
Non poteva
essere... era tutto fuori dalla norma,
fuori dai suoi pensieri...
Se era uno
scherzo era bene che glielo dicesse subito.
«Cosa
stai
dicendo?» chiese incredulo, sperando dentro di sé
che la castana si stesse
beffando di lui.
Lo avrebbe
meglio sopportato piuttosto che sapere quella
greve verità.
Kari
sospirò
tristemente, volgendo lo sguardo velato al cielo.
«E’
così. Lo
sai come questi tizi sono sciacalli in affari... Mamma e
papà non posso
permetterselo adesso. Ha posto la scadenza entro una settimana, se non
la
comprano ad un prezzo più alto del 20% saremo costretti ad
abbandonare la casa»
poi si voltò verso di lui, guardandolo con gli occhi
traboccanti di lacrime
«La
nostra
casa, Tai» ripeté disperatamente.
Taichi
udì
distrattamente il cuore rompersi.
La bocca era
semiaperta, arida, asciutta, senza possibilità di fiatare.
Non era
possibile... non che non lo era...
“Yuuko,
dobbiamo sbrigare quella faccenda”
“Il
termine scade tra una settimana”
“Voglio
stare
un po’ con mio figlio”
Ecco a cosa si
riferivano.
La casa... la
loro casa era in vendita.
Si
avvicinò
alla sorella e, con uno slancio, l’abbracciò. La
tenne stretta tra le sue
braccia, mentre lei appoggiava la testa sul suo petto e gli stringeva
la
camicia.
Fece in modo
che si sfogasse per un po’ di tempo, sentendo anche lui
stesso le lacrime
premere per poter uscire.
Kari
tirò su
con il naso, asciugandosi ancora una volta gli occhi impasticciati da
quel poco
di trucco che metteva.
«E’
per questo
che io, in un certo senso» balbettò con la voce
rotta «ho dato una mano a TK»
Tai
negò con la
testa, facendo per dire qualcosa. Lei lo interruppe.
«So
che è un
modo assolutamente sbagliato e fuori dalla mia etica, ma... Volevo
prenderci
qualcosa anch’io per aiutare mamma e
papà» alzò la testa, mollandosi dal suo
abbraccio ed acquisendo di nuovo sicurezza.
Il ragazzo la
vide sfatta davanti a lui, i capelli arruffati, le guance rigate, il
vestitino
bianco macchiato di mascara.
Si
appoggiò con
le braccia alla balconata e si tenne la testa con le mani.
Gli stava
scoppiando.
Lui stesso stava
scoppiando, e per tante ragioni...
Tante,
tantissime ragioni che lo stava scavalcando, lo
stavano attirando sempre più giù,
nell’abisso di quel mare di disperazione.
«Perché
diamine
non avete detto niente a me?» chiese, la voce attutita dalla
pelle delle mani
che gli stringevano il viso.
Hikari si morse
il labbro inferiore.
«Perché
volevano tenerti fuori, volevano escluderti a priori per non crearti
disturbi.
Sanno come sei stato impegnato negli ultimi anni»
nell’udire quelle stupide
spiegazioni, il ragazzo emise uno sbuffo esasperato.
Al diavolo il
calcio, tutte le restrizioni, tutti i
sacrifici... al diavolo quella merda di sport che lo aveva tenuto
lontano da
tutto, che lo aveva reso vigliacco, che lo aveva chiuso in
sé stesso...
Non era
più coinvolto negli affari della sua famiglia
a causa di esso.
Gli stava
rovinando la vita.
Lo stava
allontanando da tutto.
«Stanno
già
guardando alcune case per affittarne una temporaneamente. Per questa
ragione
non hanno voluto coinvolgerti» finì di spiegare la
ragazza.
Lui aveva
alzato lo sguardo, portandosi una mano sul viso, pasticciandolo in
maniera
stanca ed esasperata.
«Non
esiste...
non esiste, cazzo...» aveva sussurrato, forse più
a sé stesso che all’altra.
Kari lo
guardò
in maniera apprensiva e gli posò una mano sulla spalla, in
segno di conforto.
Il fratello alzò gli occhi e li puntò sui suoi.
«Non
lasceremo
mai la casa dove siamo cresciuti» lo udì affermare
con tono determinato.
I suoi occhi
brillarono nel buio e la sorella fu scossa da un brivido.
Li avrebbe
aiutati. Non c’era nemmeno bisogno di
fermarsi a pensare.
Avrebbe dato
loro tutto quello di cui avevano bisogno.
Non gli
importava di quello che avrebbero detto, lui
lo avrebbe fatto.
«Fratellone,
tu
non devi fare niente, è solo...» provò
a dissuaderlo Kari, percependo al volo i
pensieri che gli si stavano affollando nella testa.
Quello la
bloccò subito con una mano.
«Tu
puoi
gestire questioni illegali con il tuo fidanzato e io devo starmene con
le mani
in mano?!» sbottò nervoso, mentre lei si stringeva
nelle spalle.
La
rimproverò
con lo sguardo, e lei abbassò il suo. Poi le prese il mento
con due dita e fece
in modo che tornasse a guardalo.
«Hikari,
sono
io l’adulto qui» soffiò netto
«Tu bada bene a tenerti fuori da questo giro e a
portare Takeru sul binario giusto» la ragazza era nuovamente
sfuggita dai suoi
occhi.
Lui la scosse.
«Promettimelo»
disse, aspettando una sua reazione.
Lei non disse
nulla per un paio di secondi, poi sospirò, si
passò una ciocca dietro
l’orecchio e asserì:
«Io...
te lo
prometto, Tai»
Nell’udire
quelle parole, il ragazzo rilassò i nervi tesi del volto.
L’osservò con affetto
e l’attirò verso di sé, stringendola
tra le braccia e dandole un bacio in
testa.
Hikari si fece
trasportare dal calore di quell’abbraccio fraterno e chiuse
gli occhi.
Lui le
accarezzò con le dita alcune ciocche setose.
Era successo
tutto così di getto che non ci credeva
ancora.
Sua sorella
stava rischiando di spegnersi e lui doveva
rianimarla, accendere nuovamente quella scintilla di luce che portava
ancora
dentro di sé.
Doveva fare in
modo che quella fonte luminosa non
abbandonasse mai la sua famiglia, i suoi affetti, la sua casa.
Strinse un
pugno con l’altra mano.
Non lo avrebbe
permesso.
Si sarebbe
assunto lui la responsabilità, perché non
era più un ragazzino.
Avrebbe protetto
tutti, dal primo all’ultimo... a
costo di non proteggere più sé stesso...
Dopo del tempo
che sembrò quasi un’eternità, i due
fratelli si staccarono.
Kari si
asciugò
il volto, ridestandosi, mentre Tai le fece cenno di tornare indietro.
Raggiunsero Matt che si trovava da solo e aveva buttato giù
un altro cocktail.
Non appena li vide, gli venne da chiedere dove fossero andati, ma si
bloccò.
Probabilmente
avevano condiviso un momento intimo; d’altronde si volevano
molto bene, erano
due fratelli legati da un affetto incredibile.
Una volta anche
lui e Takeru avevano un rapporto
simile. Si capivano, si aiutavano a vicenda, si sarebbero difesi sempre
e
comunque.
Sospirò,
lanciando uno sguardo in un punto lontano del balcone dove dei gruppi
di
persone si dirigevano.
Adesso si erano
così talmente allontanati, si urlavano
contro, non si capivano più, e questo a lui faceva male.
Avrebbe tanto
voluto tornare ad essere quelli di
sempre, ma era difficile, estremamente difficile.
Assottigliò
gli
occhi azzurri verso quella direzione.
«Non
riesco a
vedere... E’ TK quello nella sdraio lì
fuori?» chiese ai due, in particolari a
Kari, che si strinse tra le spalle e indietreggiò di
riflesso sbattendo contro
Tai.
Il biondo
continuò ad osservare. Vedeva soltanto gente che si
accalcava, che usciva e
rientrava dal salotto, che ballava e rideva.
Suo fratello
non si era fatto vedere per tutta la serata.
Aveva un brutta
sensazione; non capiva se era l’alcol
a fargli quel brutto effetto, o un presentimento fondato.
Si
voltò
nuovamente verso la castana in attesa di una risposta. Taichi,
però, salvò la
situazione avvicinandosi e prendendolo da un braccio.
«Non
credo,
sarà andato in bagno» gli disse per rassicurarlo,
poi lanciò uno sguardo al suo
bicchiere vuoto, lo prese in mano e lo buttò dentro un
cestino «Stai bevendo
troppa sangria, amico» constatò come se
quell’allerta che sentiva era tutto
frutto dell’alcolico che gli aveva alterato i sensi.
Lanciò
uno
sguardo eloquente a sua sorella, che tirò un respiro di
sollievo, poi lo
trascinò dentro.
Era meglio che
non sapesse, almeno per quel momento.
Non era salutare
per lui conoscere la verità, era già
abbastanza destabilizzato per colpa della band, di Sora e di tutto il
resto;
doveva tenerlo lontano in qualche modo, almeno finché
avrebbe potuto.
Yamato fu
lì
per lì pronto per replicare, ma Taichi lo interruppe
nuovamente, alzando la
mano verso qualcuno.
«Ecco
Izzy»
disse, guardando il rosso che s’incamminava verso la loro
direzione.
Matt
sospirò,
passandosi una mano sulla fronte. Cominciava a sentire caldo e la testa
gli
girava.
«Ragazzi,
com’è?» chiese Koushiro, fermandosi di
fronte a loro.
Aveva dovuto
alzare la voce per farsi sentire. La musica era talmente forte da
rimbombare
nella strada sottostante.
Il castano gli
regalò un sorriso.
«Serata
regolare» alzò le spalle, dando
un’occhiata intorno alla ricerca di qualcuno
del quale nemmeno lui sapeva dire.
Vedeva soltanto
un ammasso di gente che non conosceva.
L’amico
lanciò
un’occhiata interrogativa al biondo che si tratteneva la
testa.
«Apposto,
Matt?» chiese, mentre questi annuiva meccanicamente.
Delle canzoni
degli anni 90 risuonavano imperterrite per tutta la casa. Taichi ne
riconobbe
una e la canticchiò.
Spostò
lo
sguardo sopra il rosso che non aveva più detto una parola e
rimuginò.
Perché
era nuovamente solo?
La sua
fidanzata non era al suo fianco, e lui sembrava talmente spento, mogio,
circospetto...
Non sapeva se
era una prerogativa di tutti, ormai, ma
non riconosceva più il vecchio Koushiro Izumi in lui.
«Izzy,
dov’è
Frankie?» si armò di coraggio e glielo chiese.
Lo
notò
bloccarsi all’improvviso. Matt lo fissò di uno
sguardo eloquente, probabilmente
si chiedeva perché glielo avesse domandato così
all’improvviso.
Tai sapeva che
meno se ne parlava più sarebbe stato facile per Izzy fingere
e andare avanti,
ma non sapeva che gli prendeva.
Vedere i suoi
amici, sua sorella star male innescava in lui un meccanismo di
protezione
involontaria.
«Oh,
l’ho
lasciata... in balcone, sta parlando...» balbettò
il più piccolo, lanciando uno
sguardo tetro nel punto in cui la bionda si trovava.
Tai e Matt lo
imitarono, notando come Frankie stesse discutendo allegramente con un
ragazzo
che non conoscevano di persona, ma che avevano già visto in
determinate
faccende non propriamente legali.
Era uno del
giro di spaccio, lo chiamavano per soprannome Big
Doll.
«Quello?»
chiese difatti Yamato con una faccia stupita.
Izzy
abbassò lo
sguardo, torturandosi le mani.
«E’
un amico suo»
spiegò mostrando una sicurezza che subito sfumò
lasciando spazio ad una nota
insicura e disperata nella voce «Così lei dice...
Non... non posso metterle dei
paletti»
Sembrava
perlopiù voler convincere sé stesso che
Frankie stesse bene, che non avesse bisogno del suo aiuto, che avrebbe
potuto
gestire qualunque situazione.
I due ragazzi
si fermarono entrambi a pensare.
Izzy era sempre
stato un ragazzo saggio, riflessivo, dedito alla conoscenza e al
sapere. La sua
mente era brillante, aperta, piena di idee; adesso si era combinato a
dover
scendere a patti con sé stesso per mandare avanti quella
situazione pesante in
cui era caduto.
Tai strinse gli
occhi.
Il fatto che
lui amasse la sua ragazza non significava certo che doveva annullarsi,
che
doveva fare a meno della sua personalità, che doveva
accettare in tutto e per
tutto i comportamenti di lei inciampando per terra e facendosi
distrattamente calpestare.
Lanciò
un altro
sguardo a Frankie che rideva in modo sguainato insieme al tizio.
«Amico,
non
potrai metterle dei paletti» incominciò cerando di
mantenere il tatto, ma nello
stesso tempo di dirgli quello che realmente pensava «ma
ciò non significa che
questa situazione debba ucciderti»
Izzy
sussultò
nell’udire quelle parole. Alzò la testa
guardandolo come fosse stato scoperto,
colpito, affondato; fece scorrere gli occhi dal castano a Matt, il
quale lo
fissava altrettanto duramente.
Voleva fuggire.
Taichi aveva
ragione, non aveva scusanti. Il fatto era
che non sapeva come uscirne. Aveva paura che tutto fosse andato
nuovamente a
rotoli.
Sapeva che stava
sbagliando, ma preferiva fingere che
tutto quello gli stesse bene in maniera tale da non perdere la persona
a cui
teneva di più al mondo.
Era
già successo e gli era mancata l’aria...
Nervoso,
strinse i pugni. Tentò di assumere un’espressione
fintamente risoluta, ma era
così talmente evidente il suo stato d’animo.
«E chi
lo
dice?!» esclamò, e poi riprese a balbettare
«Non è assolutamente così... lei
sta bene... io sto bene pure...» fece un profondo respiro
«E
poi, basta
freni inibitori, voglio prendermi il mio tempo in tutto... questo
essere
sempre... frenato, bloccato, non mi ha portato a niente»
Era un bravo
attore.
Recitava con
convinzione la sua parte, tentando di
prendere per i fondelli chi gli stava di fronte, ignorando il
particolare che
erano delle persone che lo conoscevano molto bene, nel profondo.
Taichi
gettò
un’occhiata a Yamato, parlandogli con gli occhi. Il biondo
negò appena con la
testa, chiudendo i suoi.
Era meglio non
insistere, gli stava cercando di comunicare l’amico.
Probabilmente era meglio
in quel modo, non girare il dito nella piaga, lasciare che il rosso
gestisse la
sua storia come meglio credeva.
Sarebbe stato
più comodo, più giusto farsi gli affari suoi.
Non ce la
faceva, però.
Sapeva che aveva
bisogno di parlare con qualcuno,
qualcuno da cui pendeva strettamente dalle labbra; una persona che,
seppure
diversa da lui, stimava, la considerava complementare.
Qualcuno da cui
avrebbe potuto prendere spunto, che
avrebbe ascoltato fino in fondo.
«Ti ha
portato
a crollare» sussurrò, ma nessuno lo
sentì.
Volse la testa
verso un’altra direzione, catturato da una risata che gli era
familiare.
Il suo cuore
perse involontariamente un battito.
Mimi era la
persona giusta per poter parlare con
Koushiro. Lo sapeva, era colei che poteva provare a farlo tornare sulla
buona
strada, a farlo ragionare usando i suoi modi eccentrici, seppur diretti.
Era la persona
giusta, pensò.
Lo era sempre
stata, anche per lui.
Questa
lanciò
un ultimo languido sguardo a Taichi, prima di voltarsi verso la sua
migliore
amica.
Sora stava
bevendo un cocktail, l’ennesimo della serata; gliene aveva
contati circa cinque
e quello era il sesto. Non sapeva nemmeno come riuscisse a reggerlo
tutto
quell’alcol. Lei sentiva la testa girare già al
terzo giro e aveva dovuto
fermarsi un po’ per non sentire caldo.
La vide
guardarsi intorno a destra e a manca, di uno sguardo che sembrava
nervoso e
inquieto. Non riusciva veramente a capire il motivo per il quale si
comportasse
in quel modo. Sembrava ispezionasse la zona, ogni singola persona che
entrava
dalla porta- e poteva giurare di averne visti molti di imbucati- come
se stesse
aspettando qualcuno; eppure Matt era dall’altro lato del
soggiorno.
Arricciò
le
labbra e la destò, scotendola da un braccio.
«Si
può sapere
perché ti guardi intorno così
nervosamente?» le chiese, forse un tantino troppo
brusca «Perché non pensi a divertirti?»
la rimbeccò.
La ramata la
guardò spaesata per qualche secondo, come se fosse stata
beccata in fallo.
Abbassò gli occhi nocciola e bevve ancora dal suo alcolico.
«Beh,
perché ho
il mangiare sullo stomaco...» la udì dire,
lasciando la frase a mezz’aria.
Mimi
incrociò
le braccia, guardandola di uno sguardo scettico.
Cercava di
prenderla in giro, forse?
Lo aveva capito
che c’era qualcosa che la turbava.
«Per
un’
omelette appiccicosa?» domandò retorica con una
faccia disgustata, alludendo
alla veloce cena che avevano preparato.
Sora non
rispose.
Era troppo
complicato da spiegare, e per quanto
volesse farlo, era consapevole del fatto che la sua amica non avrebbe
mai capito.
Era in ansia,
era irrequieta, aspettava l’arrivo di
qualcuno che avrebbe potuto metterla nei guai. E la cosa più
esilarante era che
non solo aveva ceduto a lui come una stupida qualsiasi, ma gli aveva
dato campo
libero, gli aveva fatto intendere che avrebbe potuto raggiungerla per
ricongiungersi a lei.
E lei non sapeva
che fare. Non sapeva come diamine
comportarsi.
Non aveva
minimamente idea di come affrontare la
situazione, di come riuscire a guardare negli occhi Yamato senza
sentire il
macigno dei sensi di colpa sopprimerla.
Continuò
a
bere, sperando che se non avesse più risposto forse la
castana non le avrebbe
più chiesto nulla.
Mimi,
però,
continuò.
«Non
me la
racconti giusta, Sory» disse, scrutandola indagatrice, in un
tono che non
lasciava scampo «Che ti passa per la testa?»
Quella
rilasciò
il fiato che stava trattenendo.
Non doveva
guardarla negli occhi.
Non doveva
assolutamente guardarla negli occhi, perché
sentiva i suoi lucidi, pronti a scoppiare.
«Io...
niente... sto bene, davvero» balbettò, incapace di
fingere, ma, nello stesso
tempo, decisa a non raccontarle nulla.
Non riusciva,
diamine, non riusciva ad aprirsi, a
lasciarsi andare...
Si sentiva
così macchiata, fragile, scoperta...
Era una
traditrice...
Sentì
un groppo
in gola e si voltò in direzione della cucina, tentando di
tenere a freno quelle
lacrime che probabilmente l’ebbrezza le stava provocando.
Mimi le
lanciò
uno sguardo, non sapendo che aggiungere.
Pensò
che forse
era solo stanca, che non era in vena di festeggiare e un po’
la capiva: avevano
faticato molto quella giornata, senza che Joe contribuisse ad aiutarle.
Volse
nuovamente lo sguardo in direzione di Tai e si accorse che il ragazzo
la
guardava già.
Sentì
i battiti
del suo cuore accelerare e, di getto, distolse lo sguardo.
Sora stava
facendo l’asociale, la sciocca petulante
che non voleva contribuire a divertirsi. Stava chiusa in sé
stessa senza un
motivo apparente, non aveva voglia di andare a parlare con Matt di
chissà quali
problemi avevano, e lei non aveva più intenzione di starle
dietro.
«Perché
non
andiamo dai ragazzi, allora?» tentò per
l’ultima volta «Non voglio starmene qui
in disparte!»
Avevano passato
tutta la prima parte della serata in quel modo, e poteva anche pensare
che
facesse i capricci, ma era stufa di stare da sola a crogiolarsi
nell’alcol.
Una parte di
sé, del suo cuore le sussurrò che lo
stava facendo esclusivamente per raggiungere Taichi.
Non voleva
privarsi della sua presenza per causa sua,
non voleva starle più dietro e mandare all’ aria
l’unica opportunità che aveva
per stare vicino a lui dopo tanto tempo che non si vedevano.
Non voleva
passare quella serata a levarle il moccio
dal naso quando si rifiutava perfino di parlare con lei.
Lei
tentò di
scacciare quei pensieri invadenti, ma non negò quella
verità.
«Vai
tu, Mims.
Io devo inviare un messaggio a... mia
madre...» la sentì dire, in un tono
strano, come se stesse piangendo.
Le
fissò la
schiena in attesa che si girasse, ma Sora indugiò.
«Tua
madre?»
ripeté perplessa.
Stava per
aggiungere qualche altra cosa per contestarla, fino a che la ramata non
si
voltò con gli occhi lucidi e un sorriso tirato, che ben poco
aveva di vero,
sulle labbra.
«Sì,
arrivo tra
poco» le comunicò, e senza aspettare una sua
risposta, lasciò il soggiorno ed
entrò in cucina.
Mimi rimase per
un po’ a guardarla dalla vetrata.
Le venne da
seguirla, scuoterla dalle braccia e
intimarle di parlare, dirle tutto, perché non poteva andare
avanti in quel
modo.
Per un secondo
pensò di farlo davvero.
Poi
spostò
nuovamente lo sguardo in direzione dei ragazzi, e la presenza di Tai a
pochi
passi da lei la condizionò a tal punto da lasciar perdere
Sora.
Che se ne stessa
da sola.
Lei era stata
per troppo tempo da sola.
Voleva guardare,
sentire Taichi.
Si mosse
automaticamente in direzione dei ragazzi.
Forse risultava
un po’ egoista, forse avrebbe dovuto
insistere di più con la sua amica; i sensi di colpa la
catturarono e,
prontamente, li sotterrò pensando che era meglio lasciare
Sora da sola per un
po’ di tempo, perché aveva bisogno di sbollire da
sola qualunque cosa avesse.
Lei aveva
bisogno di Taichi.
Voleva guardarlo
negli occhi, lo voleva toccare,
voleva bearsi di lui.
Era una lotta
contro sé stessa, e sapeva di aver perso
nell’esatto momento in cui si era resa conto di volerlo
ancora con tutta la sua
anima.
I sensi di
colpa non abbandonavano la ramata, la quale, entrata in cucina lontana
dal
fracasso e dalle voci, cominciò a sentire la testa pesante e
la stanza
vorticare intorno a sé.
Si diresse
verso la cesta dentro cui aveva lasciato il suo telefono, lo prese in
mano in
maniera quasi maniacale con l’intento di controllare se ci
fossero chiamate o
messaggi.
Non poteva, non
poteva farlo...
Era troppo
rivoltante, doveva far sì che Victor non
venisse, che non mettesse piede in quella casa.
Aveva paura,
troppa paura di poter rovinare tutto.
Le sue dita
scrivevano frenetiche senza che lei riuscisse a controllarle.
“Ti
prego, non venire. Ti spiegherò un’altra
volta”
Inviò,
in
attesa di una risposta, speranzosa che il ragazzo lo leggesse e che
capisse.
Non seppe per
quanto tempo rimase in quella posizione, sentì solamente la
testa cominciare a
girare e i battiti del suo cuore aumentare a dismisura.
Mimi prese un
respiro profondo e salutò i tre ragazzi con un sorriso.
Yamato le
lanciò uno sguardo torvo, ancora indispettito dai
battibecchi di prima,
Koushiro ricambiò il saluto alzando una mano un tantino
imbarazzato e Taichi
rimase a fissarla come un ebete.
Non se
l’aspettava che comparisse lì
all’improvviso,
credeva fosse ancora con Sora.
Chiuse la bocca
che aveva aperto, bevendo il cocktail.
Non sapeva se
l’alcol gli stesse smuovendo i bollenti
spiriti, ma sentiva una sensazione strana che gli partiva dal basso
ventre fino
ad arrivare al petto.
Mimi era
bellissima, sensuale in quel vestitino che le
metteva in evidenza le curve.
Sospirò
pesantemente.
Sembrava uno
sciocco, un ragazzino alle prime armi, ma
non riusciva a trattenersi nel pensare a quanto avrebbe voluto
stringerla...
Quel dannato
alcol gli aveva picchiato alla testa, non aveva dubbi.
Mimi si accorse
del suo sguardo insistente, quasi famelico, e si voltò
imbarazzata. Potette
giurare di vederla arrossire, e si chiese se anche lei non sentisse le
stesse
sensazioni che sentiva lui.
Aveva voglia di
dirle qualcosa, sì, adesso che si
sentiva più disinibito e che lei era accanto a lui voleva
avvicinarsi e
sussurrarle qualcosa all’orecchio, ma aveva i piedi fissati
al suolo,
incollati, come se facesse parte del pavimento stesso.
Diamine, era
così difficile... Sembrava come se gli togliesse il fiato e
lo facesse sentire
così talmente insicuro da non sapere nemmeno se era
all’altezza di quello che
stava facendo, se in quel vestito stava bene, se i suoi capelli non
fossero
troppo in disordine...
Riusciva a
metterlo in difficoltà disagiante, perché
lei era stupenda, fresca, vivace, tutto ciò di cui aveva
bisogno...
Che stupido...
Diede un sorso
del cocktail, e lanciò un sospiro basso.
Quel buzzurro
di Tolomeo aveva ragione, nessun altra avrebbe potuto competere con
Mimi, e non
che non lo sapesse già, ma adesso dentro di sé
sentiva quell’urgenza di stare
con lei che pulsava e faceva a pugni con la sua testa.
Era come se
qualcosa si fosse smosso dentro di lui, e
gli metteva davanti l’evidenza che aveva da sempre
volutamente ignorato per non
crollare quando era lontano.
Lui la voleva.
La voleva
più di quanto poteva immaginarsi.
Continuò
a
guardarla, fino a quando i suoi pensieri insistenti e peccaminosi
vennero
sciolti dall’arrivo di Joe.
Il corvino
s’infiltrò in mezzo a loro, trascinando con
sé uno stordito Davis che portava
la camicia slacciata e le bretelle scese fino ai pantaloni. In volto
era
sfatto, e nonostante la presa di Joe, continuava a ballare, barcollando.
Matt fece una
smorfia di disgusto.
«Ragazzi,
tutto
bene?» lo sentirono urlare per sovrastare la musica, tenendo
con chissà quale
famigerata forza il braccio del più piccolo. Poi li
fissò uno ad uno «Ci sono
state discussioni da queste parti?» chiese inquisitore.
Il biondo
scosse la testa, sospirando in maniera esasperata.
«Perché
dovrebbero, burino?» sbottò fulminandolo con gli
occhi celesti.
Non capiva
l’insistenza di questi nell’assicurarsi che tutto
andasse bene; che diamine
c’era che doveva andare storto?
Era tutto nella
norma, anzi, se doveva essere sincero,
si stava addirittura annoiando.
Quello si
avvicinò ai ragazzi per farsi sentire meglio.
«Chiedevo,
sapete, sto tenendo a bada Daisuke» fece un cenno verso il
tinto che si era
mollato dalla presa del maggiore e ora saltava e urlava in preda al
delirio.
«Voglio
evitare
che si faccia di troppa polvere d’angelo per questa
sera» confidò loro, portandosi
una mano davanti alla bocca per non farsi udire dal diretto interessato
«La
ciarlatana dice che ne è uscito, ma io sono come San
Tommaso: se non vedo non
credo»
Tai e Matt si
lanciarono un’occhiata sdegnata.
La ciarlatana per Joe doveva essere
sicuramente Yolei. In primis non capivano quel suo continuo affibbiare
nomignoli a tutti; chi si credeva di essere?
In secondo
luogo, non concepivano il fatto che avesse la lingua troppo lunga
quando si
trattava di quelle cose. Erano questioni delicate, e per quanto non
avesse
torto a voler dare un’occhiata di riguardo a quello che
combinava Daisuke, urlare
ai quattro venti che il ragazzo aveva avuto dei precedenti con la droga
lo
rendeva estremamente indiscreto e insensibile.
Che pettegolo,
irritante, esasperante...
Lo videro
voltarsi a guardare Izzy, assumendo una faccia perfida e arricciando le
labbra.
Era il suo
bersaglio preferito perché era l’unico che, in
genere, non rispondeva alle sue
provocazioni. Koushiro era l’eterno pacifista, o almeno lo
era prima di allora;
adesso non riuscivano a decifrarlo, era perso, chiuso nel suo mondo
grigio.
«Koushiro,
stai
pensando al giorno in cui ti laureerai finalmente?» lo
insultò, soffocando una
risatina di scherno.
Il rosso
s’irrigidì e spostò gli occhi scuri sul
maggiore.
«Vorresti
emularmi? Il centodieci e lode lo otterrai solo nei tuoi
sogni» continuò a
dire, alzando la voce per far sì che Izzy lo sentisse bene
«Lo sai che è da
perdenti non essere mai abbastanza»
Si
aggiustò la
cravatta al collo con un gesto di superiorità. Il rosso
continuava a guardarlo
senza saper bene che dire, mentre Tai e Matt lo fulminavano con lo
sguardo.
Il corvino non
si fece intimorire.
«Non
mi è mai
piaciuto stare nel mezzo. Il mezzo è da mediocri»
sibilò infine, dando il colpo
di grazia all’amico.
Mimi emise un
suono grave con la bocca. Izzy era rimasto interdetto, in volto
un’espressione spaesata.
Tai lo
fissò,
leggendogli l’umiliazione in volto. Quelle parole lo avevano
distrutto, lo
avevano buttato giù ancora di più di quanto
già non lo fosse.
Sembrava quasi
una scena a rallenty.
Izzy
sentì lo
stomaco dolergli, mentre, distrattamente, udiva la voce ovattata,
lontana,
distante dei suoi amici che prendevano le sue difese.
«Ma
che cazzo!»
aveva imprecato il castano, guardando Joe come se lo vedesse per la
prima
volta.
Era diventato
così cinico e freddo, pungente,
insensibile...
Perché
lo faceva?
Yamato aveva
stretto i pugni e si era avvicinato a lui con una faccia minacciosa.
«Smettila,
idiota!» gli urlò nero di rabbia.
Joe
indietreggiò fino alle casse della musica che si trovavano
su un mobile.
«Calmi,
stavo
solo scherzando...» si difese, guardando con timore dapprima
Matt che aveva una
faccia livida e poi Tai che lo fissava con disgusto.
Koushiro
intervenne balbettando di lasciare perdere, che era tutto okay, ma
sapevano per
certo che le parole taglienti di Joe lo avevano colpito nel profondo.
Il suo volto,
infatti, si oscurò e non disse più una parola per
tutto il tempo.
Il biondo
tentò
di calmarsi, senza riuscire a togliersi di dosso
l’espressione inferocita.
Ce
l’aveva
troppo con quel burino per tranquillizzarsi. Sapeva per certo che il
loro amico
stava soffrendo, e lui non aveva un minimo di tatto, un minimo di
discrezione;
si giustificava dicendo che il suo modo di fare era semplicemente
ironico, ma
quella lingua biforcuta spezzava le ossa il più delle volte,
e non era affatto
consapevole o, se lo era, se ne fregava altamente dei sentimenti altrui.
Lanciò
uno
sguardo a Taichi che si era versato un altro cocktail. Lo vide guardare
con la
coda dell’occhio Mimi la quale stava dicendo qualcosa per
smorzare la tensione,
qualcosa di cui onestamente non aveva premura, tanto la interruppe
prontamente:
«Dov’è
Sora?»
chiese un po’ brusco.
Mimi si
ammutolì
per un istante, e lui sentì distrattamente i sensi di colpa
non appena notò lo
sguardo ammonitore che gli aveva rivolto il suo migliore amico.
«E’
andata a
parlare al telefono con la madre» gli rispose secca la
ragazza, guardandolo con
stizza.
Matt fece una
smorfia.
Perché
cazzo si ostinava a starsene in disparte?!
Era una scusa,
diamine, lo sapeva... sua madre non
telefonava mai di sera, la conosceva da ormai più di dieci
anni.
Si
voltò a
guardare la vetrata che dava sulla cucina, dietro cui vedeva delle
persone
muoversi e aprire il frigorifero.
Cominciava a
sentire dentro di sé una strana sensazione, come
un’emozione contrastante che
non riusciva a spiegarsi.
Lui aveva delle
sorta di sensazioni premonitrici che
lo mettevano sempre in allerta quando qualcosa non andava o non sarebbe
andata
per il meglio.
Sospirò
esasperato, stanco, deluso.
Sperò
che
quelle sensazioni negative fossero solamente legate all’alcol
che le era salito
al cervello o al fatto che quel burino di Joe lo avesse fatto
arrabbiare già
tre volte in una serata.
Nel frattempo,
Koushiro aveva detto qualcosa che non avevano capito e si era
allontanato. Lo
videro che usciva fuori in balcone.
Mimi
fissò il
punto in cui era sparito con una certa apprensione e si
portò una mano sulla
bocca.
Si
sentì in
dovere di fare qualcosa, non poteva certo starsene lì,
all’impiedi con le mani
in mano.
Spostò
lo
sguardo verso Tai, che la guardava già in modo eloquente.
Inizialmente
lei non captò cosa le volesse far intendere con
quell’occhiata che le aveva
rivolto, e di riflesso assunse una faccia interrogativa.
Il castano
trasse un sospiro e si avvicinò appena a lei, abbassandosi
all’altezza del suo
orecchio.
«Ha
bisogno...
di parlare» le mormorò, stupendosi perfino lui
stesso dell’audacia che aveva
avuto.
La ragazza
sentì i brividi percorrerle la schiena a quel contatto
così vicino.
Era da tempo,
così tanto tempo che non si trovavano ad
una distanza così ravvicinata...
Non voleva
illudersi, ma sentiva l’adrenalina in
corpo, percepiva gli occhi di Taichi addosso come se la volessero
spogliare da
ogni solida barriera di protezione, come se la volessero avere vicina
sempre di
più...
Le aveva
sfiorato l’orecchio con una semplicità
disarmante, e lei sentiva che quel tocco non era altro che
l’inizio della sua
disfatta.
Si sarebbe rotta
in mille pezzi, ma il cuore sarebbe
rimasto integro a pompare.
Deglutì
in
difficoltà, sentendosi stordita. Poi annuì
decisa, assumendo uno sguardo serio
e mirato. Si allontanò da lì, facendosi largo tra
le persone.
Il castano
rimase a fissare il punto in cui era sparita.
Era
l’unica che
poteva far scattare qualcosa in testa a Koushiro. Era in grado di
dargli forza
come nessuno di loro sapeva fare; era certo che avrebbe usato le parole
giuste,
avrebbe scavato nella sua interiorità fino a riportarlo in
piedi.
Erano
così vicini... nonostante tutto, riuscivano a
capirsi quasi senza parlare. Era qualcosa che aveva sempre amato del
loro
rapporto, la complicità, lo stare sempre sulla stessa cresta
dell’onda.
Da un certo
punto di vista lui e Mimi erano molto
simili.
Due sciocchi
orgogliosi che, nonostante tentassero di
nasconderlo, non riuscivano a non cercarsi...
E doveva parlare.
Doveva dirle
qualcosa, farle capire che non riusciva a
smettere di pensare a lei nemmeno per un secondo da quando si erano
rivisti,
anzi, che diceva, da quando si erano lasciati.
Non era passato
un giorno senza che non avesse sentito
la sua mancanza.
Quello glielo
doveva dire, doveva tentare di
comunicarle tutto con la forza del suo sguardo e le sue parole, si
sarebbe
perfino spogliato del suo cuore e glielo avrebbe dato se era
necessario…
Vide Matt
avvicinarsi pericolosamente a Joe, strattonandolo dalla camicia. Il
corvino lanciò
un gridolino e si tenne da un braccio del biondo per non cadere.
«Vedi
di
smetterla di comportarti così, Joe!» gli aveva
intimato, mollando bruscamente
la presa senza che Tai dovesse intervenire.
Il ragazzo si
aggiustò la cravatta, allentandola dal collo.
«Il
fatto che
tu non abbia peli sulla lingua non ti da il diritto di ferire le
persone!» non
era riuscito a trattenersi, Matt, e lo capiva perfettamente.
Joe esagerava
sempre con i suoi comportamenti, e quella sera più che mai.
Era recidivo,
perseverava senza cognizione di causa. Era una macchinetta automatica,
non si
bloccava mai se non erano gli altri a porre un limite.
«Non
ho mai
ferito nessuno!» lo udì difendersi «Dico
solo le cose come stanno» sibilò in
tono sferzante, per poi aggiungere con scherno:
«Il
fatto che
tu sia il Digiprescelto dell’Amicizia non ti da il diritto,
invece, di
difendere l’indifendibile»
Il biondo scosse
la testa con un sorriso ironico.
«Non
c’entra un
cazzo questo!» sbraitò subito dopo «Tu
spari a zero senza curarti di chi può
rimanerci male e questo mi da fastidio!»
Joe aveva in
volto un’espressione di sfida, seppur aveva le mani
aggrappate al mobiletto per
poter fuggire via in caso di degenero.
«Non
t’importa
né dello stato d’animo dei tuoi amici,
né di te stesso, soprattutto, di come
passi agli occhi delle persone!» continuò il
biondo.
Ed era vero. Il
suo atteggiamento era spropositato, a volte fuori dal normale. Non si
curava di
chi gli stava intorno, dell’opinione che gli altri avevano di
lui, di come
fosse ampiamente esagerato nelle reazioni, nel prendersi gioco degli
amici
senza un briciolo di tatto.
Erano stufi.
Stufi di quella sua sincerità fuori
luogo, di quel suo modo di dire le cose senza soffermarsi a pensare se
ne era
veramente il caso.
Lui si
rizzò,
mollando la presa dal mobile. Assunse un’espressione
indignata, corrucciata.
«Certo
che mi
importa di me stesso!» ribatté con enfasi
«Non controllerei così tanto la
situazione, altrimenti» allargò le braccia,
riferendosi al fatto che era tutta
la serata che si preoccupava che non ci fossero accapigliamenti in giro
«Voglio
fare
bella figura il giorno della mia laurea, perché ho sudato
dieci anni per
ottenere il massimo!» lo videro gesticolare, puntando un dito
per terra.
Dopo
lanciò uno
sguardo d’astio verso la direzione in cui Izzy era sparito.
«Se
Koushiro ha
problemi che se li risolva al più presto, ma senza portare
malumore in giro» fu
categorico, facendo trasparire nel tono di voce una sfumatura di
risentimento
verso il rosso della quale non capirono l’origine.
Tai
continuò a
fissarlo, infastidito.
«Izzy
non porta
malumore» intervenne, anticipando Yamato che era pronto a
ribattere
«Sei
tu che lo
tratti sempre con sufficienza»
Lo faceva un
po’ con tutti, in realtà. Quando erano
più ragazzini aveva quel modo di fare
scherzoso e fuori dalle righe che a tratti risultava perfino piacevole.
Era una
persona con cui non ci si annoiava mai, e nonostante si comportasse il
più
delle volte come il giullare di corte, la sua trasparenza era una
qualità che
certamente gli riconoscevano.
Adesso
però usava quell’arma a suo favore, ferendo le
persone che gli stavano intorno, gli amici, che non meritavano affatto
quel
trattamento.
Era ora che si
desse una regolata, era ora che la
smettesse definitivamente.
Come a
percepire i pensieri del castano, Joe intervenne con un cipiglio.
«Beh,
io ho le
mie ragioni» affermò con sicurezza, squadrandoli
bene dalla testa ai piedi «Voi
potete anche credere che io sia uno stronzo, ma pure io penso delle
cose non
belle di voi!»
Nell’udire
quell’esclamazione, entrambi i ragazzi lo fissarono attenti.
Si chiesero per
un attimo cos’era veramente quello che
non andava in loro, perché, in fondo, avevano bisogno di
qualcuno che glielo
dicesse per aiutarli ad essere consapevoli dei loro limiti, per
aiutarli a
rivedere tutti gli errori che avevano commesso in quegli anni, per
aiutarli ad
essere due persone migliori.
Ma si trattava
di Joe, e pensarono che lo diceva appositamente per voltare la ragione
su di
lui, nient’altro.
Il biondo
incrociò le braccia, guardandolo con un sorrisino sarcastico.
«Ah
sì? E che
cosa pensi, avanti!» lo provocò, curioso di
sentire la miriade di stronzate che
si sarebbe inventato.
Il maggiore
strinse i pugni. Dovevano saperlo che provocarlo che non era buono ai
fini
della sua salute. Lui non riusciva a essere diplomatico, era un vulcano
esplosivo pronto ad eruttare. Era più forte di lui: le
parole gli uscivano di
bocca come se stesse vomitando un pranzo intero e la pressione gli
saliva come
una giostra facendogli cambiare colore.
«Penso
che
siete due coglioni per aver creato
questa situazione con le ragazze!» urlò
inviperito, rosso in volto.
Tai e Matt
rimasero senza parole, fermi davanti a lui, non aspettandosi che li
avrebbe
colpiti proprio in quel punto.
«Voi
pensate di
essere fighi solo perché siete Taichi e Yamato e “oh mio Dio!” come
sono forti questi due machi, questi due boss che
digievolvono sempre per primi!» continuò,
avvicinandosi a loro con le orbite di
fuori «Ma non vi rendete conto di come a ventisei anni siate
solo due ipocriti falliti! Falliti
nel pensare,
nell’agire, nell’amore, nel lavoro! In ogni minimo
campo, voi fate cagare!
Ca-ga-re!»
Era come se
avesse sputato veleno sui loro volti.
Rosso di
rabbia, fece per andarsene. Ma poi si rivoltò.
«Mmmh-ABBRACADABBRA!»
gli urlò contro, con una mano aperta.
Ma che diamine
faceva, adesso?
Era ubriaco?
I due
spalancarono le orbite, interdetti.
Lo videro fare
una
smorfia quasi dispiaciuta, come se chissà che si aspettasse.
«Niente
da
fare, avete visto... Siete ancora due coglioni!»
sputò fuori, indicandoli con una mano, sprezzante.
Distrattamente,
lo videro lanciare loro un ultimo sguardo furioso per poi girare i
tacchi e
andarsene davvero, lasciandoli come due stoccafissi, due ebeti, due
pesci lessi
che erano stati appena infilzati con un amo di grandi dimensioni al
cuore.
Taichi
sbatté
le palpebre più volte per ritornare alla realtà,
mentre Yamato, una volta riprese
le sue facoltà motorie, fece dei passi avanti per
raggiungerlo e questa volta
spingerlo al muro con un pugno.
Il castano lo
strinse da dietro i fianchi. Era dura mantenere la calma in quel
momento dato
che i loro cuori battevano forte per l’umiliazione e la
rabbia, ma non potevano
farlo.
«Lascialo
stare» mormorò all’altezza del suo
orecchio, ma pieno di un rammarico che lo
aveva pervaso all’improvviso.
Spostò
lo
sguardo tra la folla.
«Non
gli rovineremo
questo giorno così importante» concluse fermo, e
il biondo si lasciò andare ad
un sospiro, rilassando le spalle.
Si
voltò a
guardare il suo migliore amico così talmente vicino a lui, e
con un solo e
profondo sguardo si dissero tutto.
Aveva ragione.
Loro malgrado,
non aveva nient’altro che ragione.
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Capitolo 9 *** Confronti ***
«Izzy!»
Mimi si fece
largo tra le persone, spintonandone qualcuna. Si scusò di
riflesso senza alzare
lo sguardo. Uscì nel balcone, rimanendo qualche secondo
ferma a guardarsi
intorno, scavalcando con gli occhi la pila di gente che andava avanti e
indietro occupando la visuale.
Dove era finito
Koushiro? Era scappato
via in quella direzione, ma c’erano così
tante persone che non riusciva ad orientarsi su dove potesse essere
andato a
finire.
Fece per un
po’
avanti e indietro, stizzita dal fatto che la urtassero e la guardassero
come se
fosse una matta.
Fece una
smorfia e tentò di non curarsene.
Doveva trovarlo. Sapeva in cuor
suo che il ragazzo era rimasto ferito dalle parole di Joe e
soprattutto aveva captato già dal pomeriggio prima che
c’era qualcosa che non
andava in lui. Si era promessa di parlargli e doveva farlo, anche
perché era
quello che si aspettava Tai da lei.
Si
bloccò per
un attimo a pensare.
Era diventata
così talmente dipendente e disperata da
fare quello che il suo ex ragazzo voleva che lei facesse?
Solo per potere,
in qualche modo, riaverlo vicino?
La castana
strinse le labbra.
Quello non
l’avrebbe portato vicino a lei, doveva farsene una ragione.
Taichi l’aveva
esortata a seguire Koushiro solo perché era il suo migliore
amico, nient’altro.
Doveva metterselo in testa che la loro
storia era finita.
Il fatto che le
avesse rivolto la parola o che la
guardasse erano solamente delle sue impressioni; o magari aveva bevuto
parecchio, sì, era questo il motivo per cui si era rivolto a
lei, si sentiva
più sciolto e non aveva nemmeno fatto caso alla persona che
si era trovato
davanti.
Sospirò
d’un
tratto triste.
Non sapeva che
fare, non sapeva come comportarsi, e
soprattutto, era davvero così disperata da pensare alla
benevolenza di Tai nei
suoi confronti quando in quel momento aveva una priorità
maggiore.
Si
bloccò,
notando all’improvviso dei capelli rossi spuntare da dietro
una delle sdraio in
legno che tenevano in balcone.
Un sorrisino di
vittoria apparve sulle sue labbra non appena si rese conto di aver
trovato
Izzy.
Si
avvicinò di
soppiatto, vedendo l’amico perso nei suoi pensieri, gli occhi
chiusi. Senza
esitare, si sedette accanto a lui, aspettando che si accorgesse della
sua
presenza. Koushiro aprì gli occhi e li sgranò non
appena la vide vicino.
«Mimi...
ehi,
cosa ci fai a...» balbettò in
difficoltà senza riuscire a terminare la frase.
La castana piegò le labbra in un sorriso sornione, poi
assunse una faccia
seria.
Era ora di
parlare chiaro.
«Ascoltami.
Voglio dirti una cosa» disse scrutandolo in volto come a
voler scovare ogni
singola traccia della sua debolezza.
Izzy
abbassò lo
sguardo, e lei ne approfittò per stringergli un braccio e
far sì che la
guardasse ancora.
«Ricordi
quando
eravamo piccoli?» sospirò, in volto
un’espressione sognante e divertita «Tu mi
aprivi gli occhi in tante situazioni. E anche se a volte ti trattavo
male, in
realtà apprezzavo il fatto che tu lo facessi,
perché ti ho sempre considerato
saggio e maturo»
Ed era
veramente in quel modo. Loro due fin da bambini, fin dai tempi in cui
avevano
condiviso insieme agli altri quell’avventura a Digiworld
avevano sempre avuto
quel rapporto speciale, seppur fossero talmente diversi.
Mimi insegnava a
Koushiro ad essere più leggero,
mentre Koushiro insegnava a Mimi a rimanere con i piedi per terra.
Il ragazzo
diede un sospiro malinconico, e spostò inevitabilmente gli
occhi.
«Non
sono più
quello di un tempo. E’ cambiato tutto...»
sussurrò, lo sguardo velato da una
grande sofferenza.
Lei non si
perse d’animo e strinse ancora di più la presa al
suo braccio.
«Può
darsi» gli
concesse, e lui quando si voltò notò gli occhi
che le brillavano «Ma in te io
rivedo ancora Koushiro Izumi. Il ragazzo con i capelli rossi malato di
informatica
che ci ha sempre salvato la pelle nei momenti più
brutti»
E gli
regalò
uno sguardo eloquente insieme a un grande sorriso d’intesa.
Izzy rimase stupito
di fronte a quell’enfasi che l’amica gli aveva
appena mostrato, tant’è che
piegò le labbra anche lui in quello che risultò
essere un ghigno.
«In
effetti
senza di me eravate già morti» scherzò,
e Mimi emise una risata acuta,
mollandogli una gomitata.
Aveva ragione
su quello. Era sempre stato la mente del
gruppo, il topo da biblioteca, colui il quale aveva quasi sempre messo
insieme
i puzzle più difficili per completare l’opera.
Era ora che
tornasse ad esserlo.
«Esatto»
affermò «Il fatto che tu sapessi razionalizzare
tutto mi ha sempre affascinato»
gli rivelò forse per la prima volta.
Koushiro quasi
si sentì in imbarazzo. La vide seduta sulla sdraio, persa
nei suoi pensieri
come mai l’aveva vista.
«Avrei
voluto farlo
anch’io molte volte» la udì mormorare.
Mimi volse gli
occhi verso il paesaggio di fronte a loro. Avrebbe
voluto essere più decisiva in tante circostanze della sua
vita, perfino in quel
momento. Avrebbe voluto avere la fermezza di voltare pagina, la
razionalità di
pensare che tutto era ormai terminato, la maturità di
seguire la sua strada.
Invece era
sempre la solita, più cupa magari, ma sempre
la solita sognatrice...
Vide con la
coda dell’occhio che l’amico aveva abbassato la
testa.
«Riprendi
in
mano la tua vita» gli disse a voce bassa, con tatto
«Torna in te. Affronta
Frankie e dille che così non va. Ti sei distrutto per lei e
ci sta da un certo
punto di vista, ma adesso basta» gli disse quelle cose
alzando la testa,
risoluta.
Non riusciva a
non pensare alla sua situazione, perché in fondo non si
sentiva così diversa da
Koushiro. Anche lei doveva riprendere in mano la sua vita ed uscire
fuori da
quel tunnel di ricordi a cui si aggrappava.
Quelle parole
servivano anche a lei.
In quel riflesso
rivedeva anche lei.
«Non
voglio
perderla... è successo tempo fa... L’ho lasciata
andare e lei si è
completamente sbandata» le confidò Izzy con la
voce spezzata.
Faceva fatica a
raccontarsi in quel modo, ma nello stesso tempo si fidava della castana.
«E’
andata con
compagnie discutibili. Ha avuto perfino un altro...» la voce
gli si spezzò e
Mimi socchiuse la bocca, consapevole del fatto che era la prima a cui
l’aveva
detto «Adesso non so che fare perché... sono
consapevole che dovrei rialzarmi,
ma ho paura che vedendomi meno predisposto lei scappi di nuovo
via»
Non seppe se
aveva versato qualche lacrima, lo udì solo tirare con il
naso e voltarsi
dall’altro lato.
Provò
tanta
tenerezza per lui. Non si meritava affatto niente di tutto quello. Un
po’ lo
capiva se tentava di tenersi stretto la persona che amava per paura che
andasse
via da lui.
Lei aveva
sbagliato a lasciare andare Taichi e adesso
si ritrovava sola con delle inutili speranze nel cuore.
Sentì
anche lei
le lacrime agli occhi.
Perché
non si era stretta di più a lui e aveva
lasciato andare una cosa così preziosa, così
vitale...
Era tutta colpa
sua; sì, era lei ad aver sbagliato,
era stata lei a far pesare lui il fatto che fosse lontano e che
mettesse il
calcio al primo posto.
Era stata
egoista.
Forse lo era
anche adesso; a crogiolarsi nei suoi
sensi di colpa senza fare nulla per cambiare le cose.
Che posso fare?,
pensò triste,
disperata.
In ogni cosa che
aveva fatto ci aveva comunque messo
il cuore, bene o male che era andata.
Aveva sempre
rischiato tutto.
Ogni piccolo
brandello di cuore.
«Rischia»
disse
dopo dei momenti di silenzio. La sua voce risultò
gracchiante, e Izzy la guardò
in modo strano.
«Mettici
comunque il cuore. Falle capire che non la lascerai mai da sola, ma che
deve
riprendersi completamente per lei e per te» alzò
lo sguardo e gli fece un
sorriso allusivo, un po’ amaro
«Ne
vale
comunque la pena, Izzy. In qualunque modo vada» concluse.
Lui stette a
rimuginare per un po’ di tempo. Le parole che gli aveva detto
erano giuste,
veritiere, lo sapeva: Mimi non riusciva a mentire, per quanto si
sforzasse.
La conosceva
bene, non diceva le cose così, tanto per dire. Le rivolse
uno sguardo
comprensivo.
«Parli
per
convincere me o te stessa?» le chiese poi in maniera
eloquente.
Sapeva quanto
probabilmente stesse pensando e ripensando a Taichi. Conosceva anche
quel lato
di lei, il lato che non riusciva a dire addio alle persone
così tanto
facilmente.
Mimi
alzò lo
sguardo con un’espressione trafitta.
«Io...
parlo
per te» borbottò, ma Koushiro scosse la testa.
C’era
sempre qualcosa che li accomunava, che li
avrebbe sempre accomunati. Perché erano così
diversi, ma nello stesso tempo,
così dannatamente simili.
Volse lo
sguardo verso un punto e vide Frankie ridere e scherzare con delle
persone.
Strinse gli
occhi.
Mimi aveva
ragione. Quello non era più lui, era solo l’ombra
del ragazzo forte che era
stato. Non avrebbe lasciato che l’ignoranza lo avrebbe
battuto ancora una
volta. Lui era un pozzo di conoscenza, una persona razionale che non
aveva
paura ad affrontare ciò che non sapeva.
E adesso sapeva cosa doveva fare.
«Grazie»
disse
alla ragazza regalandole uno sguardo nuovo, d’intesa
«Ne avevo bisogno,
davvero»
Mimi lo vide
mettersi in piedi, aggiustarsi la giacca e guardare verso una direzione
precisa.
«Adesso
scusami, ma devo andare a parlare con Frankie» lo
udì dire, e lo guardò andare
via a testa alta, ad affrontare la sua più grande debolezza.
Non conoscere e
non conoscersi.
La ragazza
sorrise soddisfatta non appena lo vide interrompere la discussione
prendendo la
bionda dalla mano per poi scomparire chissà dove.
Spostò
gli
occhi verso destra e vide Joe tra la gente. Di riflesso,
alzò un braccio per
chiamarlo, ma il corvino, non appena incrociato il suo sguardo, la
fulminò e
gli regalò un gesto brusco di stizza.
Raggiunse la
sdraio sopra cui era sistemata Luchia, il lungo abito blu le cadeva ai
lati e
tra le dita teneva una sigaretta sottile. Gli lanciò uno
sguardo interrogativo
che risultò comunque austero, vendendolo nervoso che tentava
di sistemare i
lembi della camicia spiegazzata.
Joe
imprecò e,
con un gesto irritato, si sedette ai bordi della sdraio.
«Cosa
è
successo, mio caro?» gli rivolse la domanda rilasciando il
fumo dalle narici.
Il ragazzo si
alzò
nuovamente, andando avanti e indietro con le mani dietro la schiena.
Come si erano
permessi?
Come avevano
solo minimamente potuto pensare che dal
basso della loro posizione potessero rimproverarlo in quel modo?
«Non
ne
parlare, Luchia! Non ne parlare!» esclamò con voce
acuta, mentre alcuni degli
invitati si voltavano a guardarlo.
La donna
sospirò, facendo una faccia rassegnata. Adesso avrebbe
incominciato a vomitare
una sfilza di frasi senza fermarsi nemmeno a prendere aria.
Chiuse gli
occhi e così avvenne.
«Quegli
zotici
impertinenti! Da quale diamine cella frigorifera li hanno scongelati?!
Stavo
così bene senza di loro!» lo udì
lamentarsi, isolandosi per qualche secondo
onde evitare che i suoi timpani delicati venissero frantumati da quelle
urla
disumane.
«Sono
i tuoi
amici, Joe» affermò dopo che ebbe finito,
rilasciando il fumo con sensualità.
Dei ragazzi passarono gettandole uno sguardo affascinato.
«Non
dire cose
di cui poi te ne penti» disse, consapevole del fatto che
sarebbe probabilmente
successo.
Ormai lo sapeva
per esperienza. Il suo fidanzato era
solito sparare un mucchio di chiacchiere come fossero proiettili,
feriva
chiunque si trovasse nella sua traiettoria senza possibilità
di scanso; poi si
pentiva e si crogiolava nei suoi rimorsi.
Quello scosse
la testa come un folle.
«Io
non me ne
pento affatto!» urlò, alzando un dito. Poi
lanciò un’occhiata piena di astio in
direzione del soggiorno «Che tornassero a scimmiottare
Cristiano Ronaldo e Kurt
Cobain, che solo quello sanno fare, scimmiottare,
perché io non li sopporto più, quei fottuti
fasulli fanfaroni!»
Luchia
gettò la
sigaretta dal balcone con un gesto leggero, per poi portarsi le mani
alla
testa. Tastò le orecchie con i palmi.
Poi gli rivolse
uno sguardo con gli occhi da cerbiatta che aveva un qualcosa di
malizioso e,
nello stesso tempo, indispettito.
«Lo
dici per
difendere le tue amiche?» gli chiese, punzecchiandolo. Il
corvino, nel
frattempo, si era seduto
«Vedi,
in
fondo, come tieni a loro e anche molto»
Continuò
a fissarlo
di uno sguardo strano, uno sguardo in cui Joe poteva giurare di vedere
gelosia.
Sora e Mimi
erano le sue migliori amiche, nonché le sue coinquiline da
due anni, ormai. Non
poteva permettere che per una debolezza d’animo rimanessero
nuovamente incastrate
tra le grinfie di quei due avvoltoi.
Le facevano
sentire insicure e inadeguate. Lui aveva
vissuto appieno tutte le loro crisi, seppur avesse tentato di sminuirle
per non
farle deprimere ancora di più; sapeva perfettamente quanto
soffrivano per
Taichi e Yamato, quanto la loro fosse una ferita aperta che aveva
lasciato pian
piano spazio ad una profonda cicatrice.
«Qualcuno
deve
pur prendersi cura di quelle papere provinciali»
borbottò tra i denti,
pensandole dentro disperate e indifese.
«Da
sole
combinano una miriade di cazzate!» constatò come
dato di fatto.
Luchia
incrociò
le braccia, rivolgendogli uno sguardo altero. Aveva trentacinque anni e
aveva
da un pezzo superato l’età giusta. Sua madre
glielo diceva sempre che era ora
di sistemarsi e mettere su famiglia, e quel burino pensava alle
problematiche
inesistenti di quelle due ragazzine?!
«E
alla tua
fidanzata quando ci pensi?» lo rimbeccò, facendolo
voltare con in viso
un’espressione confusa.
«Sto
aspettando
da più di cinque anni...» lasciò cadere
la frase su un discorso che Joe non
afferrò immediatamente.
La sua faccia,
infatti, mutò dall’interrogativo allo stizzito.
Odiava quando quella donna
parlava a rune. Lui era un tipo diretto, non gli andava di ascoltare
indovinelli e risolverli. E poi, in quelle cose era più
bravo quel cervellotico
di Koushiro!
«Di
che cosa
diamine stai parlando, per le palme di Gerusalemme?!»
sbottò, adoperando come
al solito un tono esagerato.
La donna
sospirò, voltandosi verso di lui con un gesto brusco. Lo
guardò con uno sguardo
eloquente, da cui Joe riuscì ad evincere ciò che
tentava di comunicargli ancora
prima che aprisse bocca.
«Avevi
promesso
di sposarmi, Joe» vide soltanto la sua bocca carnosa muoversi
su e giù, isolata
da tutto il resto del corpo.
La donna fece
un ghigno.
«Sposami
e
tutti i tuoi problemi finiranno» concluse in tono ovvio.
Il ragazzo
rimase paralizzato sul posto, fissandola con uno sguardo ebete. Per la
prima
volta non seppe che fare, che dire, come comportarsi. Sentì
solamente che aveva
bisogno di fuggire.
Era ancora
giovane, si era appena laureato, doveva
iniziare a lavorare in ospedale... Come poteva quella donna volerlo
incastrare
in quel modo?
Non era pronto,
santo Cielo, aveva ancora bisogno dei
suoi spazi, non voleva condividere il letto con quella sanguisuga
decrepita;
voleva continuare a fare tutte le cose da ragazzino, perché
era ciò che ancora sentiva
di essere.
Pensò
gli
stesse per venire un infarto, tanto si tastò stupidamente il
braccio sinistro
per constatare.
Luchia lo
fissava impaziente, e lui non riuscì a fare altro che
mettersi in piedi,
sentendo le gambe molli.
«Joe...»
lo
richiamò lei, sospirando, immaginando da lì a
poco la reazione.
Il ragazzo,
infatti, si portò le mani alle orecchie.
«Non
ti sento»
lo udì dire, guardandolo andare su e giù a gran
passi.
Luchia gli
lanciò un’occhiata cinica, per poi afferrare un
calice da dietro la sdraio e
portalo alla bocca.
«Smettila,
insomma. Sii maturo» lo redarguì.
Il ragazzo non
mollò.
«Sono
sordo!»
esclamò, mandando avanti quella sceneggiata solo per
svincolarsi «Questa
dannata musica! I miei timpani sono fracassati! Qualcuno chiami un
medico!»
La donna si
portò un’altra sigaretta alle labbra, accendendola
con un accendino a forma di
rossetto.
«Sei
tu il
medico» soffiò.
Joe si
fermò
dal suo andare avanti e indietro.
«Io...
porca
vacca» imprecò tra i denti, cercando tra tutte
quelle persone una celere via di
fuga.
Notò
con la
coda dell’occhio Mimi che si era appena alzata dalla sdraio
in cui era seduta,
così lasciò Luchia da sola e si
precipitò dall’amica.
La donna
rilasciò il fumo, guardando il fidanzato correre con uno
sguardo esasperato.
«Sempre
la
stessa storia» sbottò, stringendo tra le dita la
sigaretta, quasi spezzandola
in due.
Joe
arrivò
dinanzi a Mimi che lo guardò sorpresa, poi
l’afferrò da un braccio,
stringendolo con forza.
«A
ballare!»
urlò, trascinandola dietro di sé.
La ragazza
sentì la presa troppo forte al suo braccio e
tentò di opporre resistenza. Che
gli prendeva? Prima le faceva un cenno irritato e poi le si gettava
addosso in
quel modo!
«Joe,
mollami!
Mi fai male!» si lamentò, tentando di divincolarsi
dalla sua presa.
Il corvino
usciva sempre fuori una forza da animale in quelle situazioni. La
trascinò
dentro, guardandosi intorno nervosamente.
«Dov’è
Sora?!»
le chiese, fulminandola da dietro gli occhiali rossi.
La castana non
fece in tempo a rispondere, che da dietro la finestra che separava il
soggiorno
dalla cucina, videro spuntare i capelli ramati dell’ amica,
seduta sugli
sgabelli della penisola.
Joe si
precipitò come una furia dalla ragazza, spalancando la porta
e parandoglisi di
fronte. A Sora venne quasi un accidente quando se lo trovò
così vicino.
Impaurita, trasalì in un gesto di difesa, come se si
aspettasse che al suo
posto ci fosse qualcun altro.
Poi la vide
rilassare le spalle, ridendo in maniera decisamente poco sobria, ma che
aveva
un accenno di sollievo.
«A
ballare,
fedifraga!» le intimò quello, stringendo anche lei
dal braccio.
Sora oppose
resistenza.
«Joe,
cosa
diavolo...» provò a ribattere, ma il corvino non
volle sentire scuse.
«A
ballare, ho
detto!» ripeté, e le due ragazze notarono un
luccichio folle dentro i suoi
occhi scuri.
Si guardarono
stralunate, e Sora fece in tempo a lasciare il cellulare dentro la
cesta di
vimini prima che il coinquilino trascinasse lei e l’amica
nell’altra sala senza
possibilità di remore.
Le
portò al
centro del soggiorno dove le persone ballavano e si dimenavano su della
musica
tecnohouse molto rumorosa. Vedendole spaesate e con delle
espressività di due
orate, Joe si inviperì ulteriormente e le spinse con forza
sopra i ragazzi.
Così
avrebbero interagito un po’, per la miseria, era
ora che parlassero e chiarissero!
Quelle paperelle
dovevano riprendersi, lo faceva
esclusivamente per il loro bene.
E che nessuno
venisse a dirgli che era stronzo o
antipatico, perché non era...
Vide
improvvisamente
Sora tra le braccia di Taichi che si teneva dalla sua giacca per non
cadere e
Mimi inciampare sui suoi tacchi a spillo e sbattere contro Yamato.
Il castano
sorrise all’amica, mentre il biondo si levò di
dosso con stizza la ragazza, la
quale si sistemava il vestitino rosa con imbarazzo.
Joe si
schiaffò
cinque dita sulla faccia.
«Cazzo,
ho
sbagliato bersaglio!» disse tra i denti.
Non era mai
stato bravo nemmeno con le freccette!,
pensò, per poi individuare la figura imponente di
Luchia comparire sulla soglia del balcone come fosse lo yeti.
Si
amalgamò
alla folla, arrivando a stento di fronte alla tv. Premette un tasto a
caso dal
telecomando e il volume della musica venne aumentato di grado,
espandendosi
dalle casse.
Ad un certo
punto altra gente si riversò a ballare. Joe
incitò i ragazzi ad unirsi, e tutti
insieme incominciarono a muoversi a ritmo.
Sora e Mimi non
capirono più niente, si avvicinarono l’una
all’altra e ballarono strette, in un
ballo sensuale. L’alcol stava dando ai suoi frutti. Le
ragazze risero e
trascinarono con loro anche Hikari, che era rientrata e le guardava in
disparte
con un sorriso affettuoso.
Joe
cominciò a
saltare come un matto, pervaso dall’eccitazione e
l’adrenalina che gli scorreva
come un fiume dentro le vene. Abbracciò con foga Tai e Matt
facendoli
barcollare per il peso ricevuto all’improvviso.
I due si
guardarono stralunati, ma poi notarono tutti gli altri che si erano
scatenati
allo stesso modo.
TK si
avvicinò
loro facendosi spazio tra la folla. Aveva in mano una sigaretta troppo
lunga
per risultare tale. La passò al corvino che si
mollò dai due ragazzi per
afferrarla con entusiasmo e portarla alle labbra.
Inspirò
un paio
di volte e rilasciò il fumo facendo dei cerchietti in aria.
Tossì
ripetutamente, incapace di continuare, le lacrime agli occhi.
La porse a
Taichi che lo fissava con un cipiglio.
Guardò
le dita
dell’amico reggere la canna e strinse le labbra. Ultimamente
evitava perfino le
sigarette, il suo allenatore glielo aveva severamente vietato per poter
mantenere a lungo il fiato durante le corse. Aveva più volte
fumato erba con il
biondo da adolescenti, non era qualcosa che lo toccava moralmente,
però sarebbe
stato dare il via libera a Takeru e risultare incoerente rispetto ai
rimproveri
che aveva fatto a sua sorella.
Volse lo
sguardo in direzione di questa che ballava scatenata insieme alle due
amiche e
strinse le sopracciglia.
Non sapeva se
fosse la sangria ad agire al suo posto,
ma stava diventando troppo frenato, troppo perfettino, e lui era tutto
al di
fuori di quello.
Al diavolo
ciò che era giusto per una volta!
Tanto, ne aveva
già sbagliate tante di cose...
Joe
urlò qualcosa
e lui afferrò di getto la canna, portandola alle labbra.
Erano le persone
intorno a lui che non voleva che si
facessero del male, che non voleva si macchiassero; lui non contava,
lui si era
sempre lanciato nel vuoto, e forse quella sera desiderava farlo di
nuovo.
Aspirò
un paio
di volte, muovendosi a ritmo di musica. Vide TK e Davis ballare in modo
strano,
in una specie di shuffle dance.
Gli venne da
ridere e sentì piegare la pancia in due. Le palpebre
cominciarono a diventare
pesanti, gli occhi lucidi e rossi, provava una sorta di sensazione di
galleggiamento.
Non li ricordava
così accentuati gli effetti...
Si sentiva
così leggero adesso, libero, era perfino
contento di essere lì, insieme ai suoi amici, di nuovo tutti
insieme...
Quanto gli era
mancato tutto quello... si sentiva
rinascere... si sentiva così vivo...
Vide Yamato
accanto a sé e gli fece cenno di avvicinarsi. Questi lo
guardò interrogativo,
mentre Tai mise la canna all’estremità della
lingua, e lo afferrò dal volto.
Il biondo non
replicò e si avvicinò con il viso, aspirando
direttamente il fumo dalla bocca dell’amico.
Dopo un paio di
aspirazioni, i due si guardarono con delle facce da ebeti e scoppiarono
a
ridere, più sciolti e rilassati.
Joe disse
qualcosa in merito a quel gesto, ma non lo sentirono. Matt si prese la
canna e
la portò nuovamente alle labbra, continuando a fumare.
Per un
po’ di
tempo ballarono in quel modo, passandosi lo spinello fino a farlo
arrivare al
filtro.
Aspettarono per
un po’ gli effetti della marijuana fino a quando
l’estasi non salì loro al
cervello. La musica li annebbiò, non capirono più
niente se non che avevano una
gran voglia di ridere.
Taichi si
avvicinò a Yamato, quasi inciampando sui suoi piedi. Si
tenne dall’amico
mettendogli un braccio sulle spalle.
«Mi
sono
sballato» gli disse all’orecchio e
ridacchiò stupidamente, mentre quello lo
tratteneva e faceva lo stesso.
Continuarono a
sbellicarsi, sentendo le lacrime agli occhi. Poi Tai
abbracciò di slancio Matt,
e questi lo strinse a sua volta.
Chiusero gli
occhi.
Erano due
stupidi, testoni, bugiardi con loro stessi e
ipocriti se non ammettevano che tra le braccia dell’amico era
il posto più
sicuro in cui erano mai stati.
Il biondo
accarezzò la testa dell’altro.
Erano da sempre
predestinati l’uno all’altro, fin da
Digiworld, lo sarebbero stati per sempre... quell’amicizia
era così bella e ne
avevano così tanto bisogno che veniva loro quasi da
piangere...
Piangere per
tutto.
Joe interruppe
quel momento illuminandoli con un flash improvviso. I due si
risvegliarono da
quel torpore e tentarono di capire cos’era appena successo.
«Questa
va su
ogni social esistente!» lo videro trafficare con il cellulare
e di colpo si
scaraventarono su di lui per tentare di cavarglielo dalle mani,
provocando le
risate poco sobrie delle ragazze.
S’interruppero
solo quando videro Izzy venire in loro direzione con la cannuccia di un
cocktail in bocca e gli occhi socchiusi.
Lasciarono
perdere il maggiore, e si avvicinarono chiamandolo a gran voce,
sollevandolo in
alto.
Risero tutti,
abbracciandosi, saltando, ballando.
Formarono un
cerchio in mezzo alla sala, trascinando anche gli altri.
Nonostante
tutto, nonostante le difficoltà, le
avversità, la sofferenza, la diversità, loro
sarebbero rimasti uniti, sarebbero
rimasti per sempre un gruppo.
Si guardarono
tutti, come se fosse una scena a rallenty.
Avevano
condiviso le cose più belle, ma anche quelle
più brutte.
Ed erano ancora
lì.
Nessuno voleva
andare via.
Nessuno sarebbe
andato via.
D’un
tratto la
canzone terminò e venne sostituita con una bachata
latinoamericana. I ragazzi
si dispersero, chi andò a servirsi un cocktail, chi come
Matt si accese una
sigaretta, chi sparì insieme alla fidanzata.
Al centro della
sala comparve inaspettatamente la figura leggiadra e sinuosa di Luchia
che, con
sensualità, cominciò a muoversi e a mettere in
mostra le sue curve prosperose.
Joe la guardò e si rabbuiò per qualche secondo,
poi strinse i denti e fece in
modo che le persone si dislocassero per lasciare spazio alla donna.
«Spostatevi,
bestie di satana!» imprecò, spingendone da dietro
alcuni che erano intenti a
fissarla.
«Lasciate
che
la vera danza parli!»
presentò così
la sua fidanzata, maestra di ballo, la quale cominciò a
danzare con movimenti
rapidi e ammaliatori.
Alcune ragazze
provarono ad imitarla con scarsi risultati.
Taichi
adocchiò
Sora in disparte che si era versata un cocktail e aveva appena portato
la
cannuccia alla bocca. Si decise ad avvicinarsi, muovendosi a ritmo di
musica. Le
porse la mano e la ramata lo fissò con uno sguardo
tutt’altro che lucido, in
quella che doveva risultare un’espressione interrogativa.
Senza farci
caso, porse il bicchiere a Mimi che guardava la scena con un cipiglio e
si
gettò tra le braccia del suo migliore amico.
Questa
portò la
cannuccia usata alla bocca e li guardò con disappunto.
L’altra,
nel
frattempo, si strinse al castano e gli diede le mani, cominciando a
muoversi
esibendosi in dei passi mirati. Tai cercò di starle dietro,
sbagliando di tanto
in tanto, ma, nel complesso, tenendo bene il passo.
«Quindi
adesso
sei diventata ballerina?» le chiese con un ghigno, mentre lei
rideva in maniera
acuta e gli dava uno spintone.
«Dai,
scemo!»
risero insieme, e il castano si cimentò nel fargli fare una
giravolta, continuando
subito dopo a tenere il ritmo dei passi.
Era
così
diversa dalla Sora che conosceva. Ammetteva che era cambiata molto da
quando
avevano terminato il liceo. Adesso era più donna,
più curata, aveva i capelli
un po’ più lunghi, ma negli occhi sempre quello
sguardo amorevole e gentile.
Eppure scorgeva
in lei qualcosa che non andava. Sapeva
leggere il volto di Sora, riusciva a decifrare perfino la
più piccola ruga che
le si formava in volto; forse perché avevano passato
così tanti anni insieme,
forse perché era legato dentro a lei da qualcosa di forte,
forse perché aveva
imparato a concentrarsi un po’ di più sugli altri
e meno su sé stesso.
Tentò
di farla
ridere.
«In
effetti
quando giocavi a calcio avevi un colpo di tacco, lo avevo capito
già» fece il
gesto di colpire una palla immaginaria con il destro, prendendola in
giro, e la
ramata si bloccò a guardarlo con una faccia divertita.
Poi si
avventò
su di lui e gli tirò degli scappellotti.
«Cretino!»
quello cercò di non farsi colpire
«Deficiente!» ma lo colpì sul braccio
«Sei
sempre il solito!» concluse, ridendo esageratamente.
Tai le
bloccò
le braccia e, per farla smettere, l’attirò verso
di lui, facendo in modo che si
scontrassero.
Forse
perché era
stordita dall’alcol, Sora si sentì leggermente in
imbarazzo e spostò lo
sguardo.
Mimi non aveva
tolto loro gli occhi di dosso, e non potette fare a meno di stringere
un po’
più forte il bicchiere che aveva tra le mani.
Perché
facevano in quel modo?
Forse era tutta
una sua impressione, ma perché loro
potevano essere così vicini, mentre lei non riusciva neanche
a rivolgere la
parola a Tai senza aver paura di sbagliare...
Si sentiva
sciocca, insicura e inadeguata di fronte a quella scena.
Voleva solo che
la smettessero, e sapeva di essere un
po’ ridicola perché era pienamente consapevole del
fatto che fossero amici da
tanto tempo, ma recepiva tutto in modo amplificato, i sentimenti
contrastanti
derivati da quello che ancora provava per Taichi non le permettevano di
usare
la ragione.
E questo
perché era sicura che mai sarebbe riuscita a
recuperare quel rapporto che tanto le mancava, e sapeva per certo che
era stata
colpa sua e del suo egoismo.
Sora non era
come lei, era una persona gentile e amorevole,
non stava lì ferma a farsi un sacco di seghe mentali sul suo
ex ragazzo.
Non avrebbe
provato quella gelosia egoista perché
avrebbe voluto essere stretta lei in quel modo.
Si morse forte
il labbro, sentendo gli occhi lucidi.
«Ma tu
mi vuoi
bene per questo» aveva continuato a dire
quest’ultimo a Sora.
Quella
sospirò,
sentendo la testa galleggiare nello spazio.
«Ti
sopporto da
vent’anni... Sei troppo stressante...»
borbottò con la guancia attutita dal suo
petto. Poi sbadigliò, sentendo una stanchezza pesante
pervaderla.
Non era vero,
comunque, era l’amico migliore del
mondo, era il suo appiglio nei momenti più bui.
Dal fronte
femminile aveva Mimi, ma c’erano tante cose
in cui le due ragazze erano diverse, mentre con Tai riusciva a leggersi
dentro
come fosse una specie di libro aperto.
«Mh,
sì, ci sto
credendo...» canzonò lui.
Tanto sapeva che
a lei faceva più che piacere la sua
vicinanza, che lo considerava un porto sicuro dove attraccare. E anche
lui
considerava lei il suo angolo di pace, un focolare in cui amava
rifugiarsi per
staccare un po’ da tutto.
Era per questo
che non poteva fare a meno di preoccuparsi per lei. Matt aveva un altro
modo di
agire; magari non si rendeva subito conto se qualcosa non andava,
oppure si
faceva frenare dall’orgoglio in certe situazioni in cui un
abbraccio o una
parola sussurrata potevano valere più di cento discorsi.
Lei si
staccò
dalla sua presa e gli diede le spalle, lui le prese una mano, guidandola
da un
fianco. Continuarono a muoversi senza nemmeno più seguire il
ritmo.
Tai
adocchiò in
lontananza il corvino ballare in maniera goffa e fuori tempo insieme a
Luchia e
si abbassò all’altezza suo orecchio.
«Joe
ha
sbroccato contro me e Matt» le riferì, non
riuscendo a trattenere un sorriso.
Sora chiuse gli
occhi facendosi cullare dalla musica.
Aveva sonno.
Aveva una
così grande stanchezza fisica, ma
soprattutto mentale...
«Ah
sì?» chiese
senza aprirli «Che vi ha detto?»
Tai si
fermò.
«Che
siamo due
falliti. E poi ci ha fatto un incantesimo, ma non ha
funzionato» disse e fu
scosso da delle risatine che coinvolsero anche la ramata e ben presto,
spinte
dall’ebbrezza, divamparono fino a risultare rumorose e
strascicanti.
La ragazza si
portò una mano alla bocca, sentendo le lacrime traboccare
per gli spasmi. Tai,
invece, si tenne la pancia facendo una smorfia di dolore.
Sembravano
divertirsi così tanto...
Mimi
spostò lo
sguardo e si rese conto di essere stata affiancata da qualcuno. Si
voltò alla
sua sinistra e vide Yamato ritto accanto a lei, che fissava la scena
con in viso
un’ espressione indecifrabile.
Sora riusciva a
lasciarsi andare con Taichi in un modo
leggero e così complice che mai le aveva visto fare con lui.
Rideva
liberamente, scherzava e perfino ballava.
Con lui non
provava tutta quella gioia, le portava
solo scompiglio nella vita, tristezza e pesantezza. Con lui non
c’era mai
chiarezza, solo parole non dette o dette a metà; mentre con
Tai riusciva ad
essere pienamente sé stessa.
Forse uno come
Taichi era la persona giusta per lei.
Se non sapesse
che i due fossero amici e che questi
non avesse ancora i suoi pensieri rivolti verso un’altra
persona, li avrebbe
visti veramente bene insieme...
Sentì
lo
stomaco aggrovigliarsi in una fitta di gelosia, tanto che
abbassò il capo per
guardare proprio
Mimi, la quale lo stava
già fissando da un po’.
La castana,
istintivamente, pensò di afferrare il biondo e irrompere
anche loro nella pista
come stavano facendo gli altri due, magari facendo provare le stesse
sensazioni
contrastanti che stavano percependo in quel momento loro stessi.
Poi
rilassò le
spalle e il suo raziocinio la bloccò.
Non sarebbe
stata la stessa cosa. Matt non era il tipo che avrebbe ballato per
tenerle il
comodo, anzi, lo vedeva da sempre ostile a lei, forse perché
erano così
talmente diversi da non riuscire ad emulare il rapporto speciale che
avevano
Sora e Tai.
«Dammi
una
sigaretta» gli ordinò seccata, e infatti quello
sbuffò tastandosi comunque la
tasca dei pantaloni.
Gliela porse e
lei gliela cavò dalle mani, decidendo di uscire fuori in
balcone e smettere di
crogiolarsi in quella visione.
Matt
incrociò
le braccia e si voltò per lanciarle uno sguardo
interrogativo. Non sapeva che
fumasse e sospettava che neanche lo sapesse fare bene, però
aveva capito che
quella situazione la stava infastidendo, e, ad essere sincero, era una
sensazione
che fomentava anche lui.
Ma non
perché ce l’aveva con il suo migliore amico, ma
perché sapeva che era incapace di fare lo stesso con Sora.
E sapeva per
certo che Mimi si sentiva in quel modo
perché desiderava avvicinarsi a Tai da tutta la serata, ma
non ci riusciva.
Erano nella
stessa barca, così diversi, ma uniti in
quella lotta di sentimenti.
Tai
continuò a
parlarle dopo che si ridestarono dalle risate.
«Non
ha torto,
sai...» volse lo sguardo verso il balcone, dove Mimi si
intravedeva «e poi che
abbiamo fatto i coglioni con voi...» soffiò con
una punta di amarezza.
La ramata
sospirò, sentendo gli occhi acquosi.
«Nemmeno
su questo
ha torto» affermò sicura, sistemandosi la tutina
spostata dalla parte delle
spalline.
Il castano le
fece fare una giravolta in modo da finire direttamente di fronte a lui.
La
fissò in
modo inquisitorio, tentando di scrutare sul suo viso qualcosa che
potesse
suggerirgli il motivo di quel turbamento che le vedeva impresso negli
occhi.
«Tu
stai bene?»
le domandò apprensivo.
Non voleva
porsi come una semplice domanda, e questo la ragazza lo aveva capito
bene. Era
più che altro un “so che
hai qualcosa”
celato dietro un punto interrogativo.
Sora si
sforzò
di sorridere, ingannando perfino sé stessa che tutto stesse
andando liscio come
l’olio.
Ma era
più uno scivolare verso il fondo della
bottiglia.
«Sì,
non mi
vedi?» chiese retorica, mostrandosi allegra e pervasa
dall’alcol.
Tai scosse la
testa.
«Adesso
sei
ubriaca, non conta» non aveva ancora abbandonato quel tono
risoluto, ma nello
stesso tempo preoccupato.
Sapeva che
quando si metteva una cosa in testa non
mollava facilmente.
Tentò
di
girarla a suo favore.
«Ma
come, dici
di conoscermi bene!» esclamò, fingendosi offesa.
Lui si
fermò e
fece in modo che smettesse di ballare anche lei. Sora non
riuscì ad alzare gli
occhi nocciola.
«Appunto
non ci
credo» era serio, quasi stentava a credere che poco prima
avevano riso a
crepapelle come due ebeti.
La ramata
sospirò e incontrò i suoi di occhi. Erano fermi e
indagatori. Se stava in quel
modo impalata l’avrebbe scoperta, e non poteva di certo
rivelare il suo stato
d’animo al migliore amico di Yamato, si sarebbe messa nei
guai da sola.
E poi adesso era
un po’ più serena.
Victor aveva
visualizzato il messaggio e avrebbe
sicuramente capito che non doveva assolutamente farsi vedere quella
sera.
Giurò
che gli avrebbe quanto presto parlato, messo a posto
le cose e spiegato quello che provava. Era giusto dimenticare tutto e
tornare
alla sua vita normale di sempre.
Non avrebbe
più ceduto a un errore del genere, ne era
sicura.
Matt non
l’avrebbe mai saputo, sarebbe rimasto un
segreto tenuto nascosto nei meandri del suo cuore. Sarebbe passato del
tempo e
lo avrebbe perfino dimenticato.
Doveva lasciarsi
andare, annullare tutto dentro di sé,
e per farlo aveva bisogno di sentirsi al sicuro, in modo che niente
avrebbe
potuto scalfirla.
Mise le braccia
al collo dell’amico e lo strinse.
«Va
tutto bene,
Tai» ripeté, e questa volta suonò
veramente convincente
«Se mi
dai un
abbraccio starò ancora meglio» disse in tono
affettuoso, mollando tutto il peso
sopra di lui.
Questi la
trattenne e, vedendola rilassata in quel modo, distese
l’espressione.
«Passerò
sopra
il fatto che tu mi abbia detto che sono stressante»
l’abbracciò forte,
accarezzandole la testa con una mano.
Sora sorrise
contro la sua spalla.
«Scherzavo...
sei l’amico più ciccioso e patatoso che
ho» disse con una voce da bambina,
facendolo ridacchiare.
Ci credeva. Se
glielo diceva con quella
spensieratezza, se glielo dimostrava con quell’abbraccio
sincero credeva alla
sua parola.
Anche
perché lei non sapeva dire bugie.
E, soprattutto,
era sicuro che mai avrebbe mentito a
lui. Si capivano troppo per potersi sfuggire a vicenda.
«Anche
tu,
scema» rispose, alzando la testa e vedendo Matt in disparte
con in viso
un’espressione triste.
Strinse le
sopracciglia e decise di agire.
Prese Sora
dalle mani e eseguì ancora dei passi di danza, spostandosi
verso sinistra.
Calcolò la distanza e prese bene la mira, facendole fare una
giravolta talmente
veloce da farle perdere l’equilibrio.
La ragazza
barcollò e sbatté contro il petto di qualcun
altro, il quale la sostenne
fermamente per evitare che cadesse. Alzò lo sguardo e
notò che era finita
proprio tra le braccia di Yamato, il quale la fissava a sua volta senza
emettere parola.
I cuori dei due
battevano allo stesso modo, e fu come
se il tempo si fosse fermato proprio in quel momento.
Tai si
allontanò con un ghigno soddisfatto, facendo un occhiolino
eloquente all’amico.
Questi lo guardò da sopra la testa di Sora con
un’espressione preoccupata, ma
poi assunse un atteggiamento serio e mirato, annuendo
impercettibilmente.
Doveva farlo.
O adesso o mai
più.
«Scusa...
io
non avevo visto...» mormorò sommessamente la
ragazza ancora stretta contro di
lui.
Non voleva
andarsene da quel corpo caldo e tonico.
Stava così bene stretta a lui, perché ne aveva
fatto a meno per tutto quel
tempo?
Una mano era
appoggiata
sul suo petto e lo sguardo lucido sfuggiva dal suo per paura.
Matt
tentò di
rilassare le spalle, ma aveva tutti i muscoli in tensione.
«Non
ti
preoccupare» soffiò, e gli uscì una
voce roca, bassa, imbarazzata.
Era da
così tanto tempo che non provava imbarazzo
nello stare con lei. Era una situazione davvero delicata; entrambi si
guardavano aspettandosi un passo dall’altro.
Sora era
confusa e spaesata dalla sua presenza, e il biondo decise di spezzare
quel
silenzio.
«Dove
sei
stata?» le chiese, pensando subito dopo che probabilmente
detto in quel modo
avrebbe potuto suonare invasivo.
Non gli
importava, voleva che sapesse che nonostante
tutto lui la considerava la sua fidanzata e aveva premura di lei come
da sempre
in quegli anni.
La ramata
strinse le labbra contornate dal rossetto rosso.
Doveva calmarsi
o avrebbe alimentato degli
interrogativi che non voleva alimentare di certo. Il fatto era che
sentiva il
suo sguardo inquisitore addosso e quegli occhi celesti la mettevano in
soggezione.
«In
cucina»
rispose, tentando di essere il più possibile disinvolta.
Yamato
sospirò,
mentre una musica lenta si era sparsa, quasi come coincidenza, in tutta
la sala.
La strinse a sé maggiormente, e si mossero adagio.
«Ti va
se
parliamo?» le chiese a un certo punto all’orecchio,
costretto dal fastidioso
baccano che si era creato intorno.
Joe e Luchia
stavano danzando abbracciati nel centro della soggiorno, e gli invitati
battevano le mani e fischiavano maliziosamente.
Sora smise di
fissarli e si concentrò sulla domanda di Matt.
Avrebbero dovuto
parlare, certo, era da così tanto
tempo che aspettava quel momento. Il fatto era che si sentiva
così
terribilmente sconvolta e ubriaca da non riuscire a reggere quella
vicinanza.
Era stordita e
sentiva il cuore batterle forte,
sembrava quasi voler uscire via dalla gabbia toracica.
Matt si prese
di coraggio e decise di lasciarsi andare.
Era ora che lo
facesse. Taichi aveva pienamente
ragione, anzi lo ringraziava per averli fatti scontrare. Adesso non
poteva
fuggire da quella situazione, aveva Sora attaccata a lui e doveva
trovare la
virilità di ammettere le sue colpe.
«Mi
dispiace
per tutto» le disse, prendendola dalle spalle e
allontanandola leggermente da
lui, quel tanto da poterla guardare in viso.
Lei lo
fissò
con gli occhi lucidi. Lui rilasciò nuovamente il fiato e si
passò una mano tra
i capelli, scompigliandoli un po’.
Era in
difficoltà, come sempre d’altronde quando si
trattava di mettere a nudo le proprie debolezze. Sora lo guardava e non
voleva
deluderla.
«Per
come mi
sono comportato in questi anni, per essere stato brusco, per i miei
silenzi...»
prese fiato dopo aver gettato fuori tutto quello che sentiva, che
portava sulle
spalle grevemente «io... non riuscivo a comunicare con te. Ti
sentivo distante.
E forse in realtà ero io ad esserlo» ammise,
sentendo pian piano il macigno
scomparire e rendere il suo corpo più leggero.
Avrebbe dovuto
farlo prima. Se dire la verità,
chiedere perdono valeva quella sensazione di libertà avrebbe
dovuto farlo tempo
prima.
Che sciocco
orgoglioso, pauroso, stupido che era
stato...
Sora lo
guardava con le labbra socchiuse. Non riusciva a capacitarsi di
ciò che le
aveva appena detto.
Le aveva chiesto
scusa per tutti quegli anni di lotte
al silenzio e all’abitudine; delle cose che avevano spento il
loro rapporto
fino a farlo sgretolare in cenere.
Finalmente
Yamato le stava parlando a cuore aperto, e
lei, invece, lo aveva ripagato baciando un altro uomo.
Che incosciente,
stupida, traditrice che era...
«Matt,
io...»
mormorò, sentendo impulsivamente la voglia di riferirgli
tutto.
Il coraggio,
però, le mancò presto, frenata dalla sua testa.
Avrebbe combinato un danno
irrimediabile, lo sapeva.
Seppur in quel
momento quel segreto era duro come la
roccia e pesava tanto da schiacciarla, doveva portarlo dentro di
sé,
custodirlo, per il bene della loro relazione.
Non lo avrebbe
mai saputo... avrebbe parlato con
Victor e avrebbe messo in chiaro le cose... sì, lo avrebbe
fatto dopo... dopo...
«Tu
sei l’unica
persona che voglio, Sora» si sentì dire, stretta
nuovamente nel suo abbraccio
«Ti amo da sempre e ti amerò per sempre... voglio
recuperare tutto con te» la
guardò intensamente, tanto che la ragazza sentì
le lacrime pizzicarle il bordo
degli occhi.
Le aveva detto
che l’amava dopo tanto tempo...
Era
così vero, così sincero... voleva che mettessero
a
posto le cose e sì, lo voleva anche lei, lo voleva tanto
anche lei da così
tanto tempo...
Cos’avrebbe
dovuto fare?
Era tutto
così complicato, ma nello stesso tempo così
infinitamente dolce e sentito...
Matt si sporse
sul suo viso. Lei, interdetta, non capì più
niente. Sentì la presa di lui sulla
sua nuca e le labbra del ragazzo sulle sue.
Il biondo la
stava baciando e lei, dapprima, rimase spaventata, scottata da quel
contatto.
Poi chiuse gli occhi e si lasciò andare, permettendo alla
lingua del ragazzo di
incontrare la sua e di riscoprirsi dopo tanto tempo.
Dopo aver
conosciuto quella di un altro...
Strinse gli
occhi, sentendosi pervasa da Matt. Lui approfondì quel bacio
con trasporto,
stringendole il viso con entrambe le mani.
La voleva.
Lo sentiva che
la voleva, la desiderava talmente
tanto...
Si
staccò e la
guardò con gli occhi azzurri liquidi che le trasmisero un
amore puro, qualcosa
che non era più riuscita a leggergli da tanto.
«Mi
sei
mancata» le sussurrò.
Sora
sentì un
colpo al cuore, e quasi potette udire i cocci rompersi uno per uno.
Come aveva
potuto fargli quello?
«Anche
tu...»
rispose frastornata.
Vide solo lui
che le sorrideva prima di prenderle il viso e baciarla di nuovo.
Cosa aveva
combinato?
Era arrivata a
fingere che tutto andasse bene, che
niente fosse successo, ma sapeva che non era affatto così.
Si sarebbe persa
in Yamato, avrebbe voluto stare in
quella posizione per tutto il resto della sua vita se quello
significava
eludere ciò che era stato.
Ma non poteva
scappare dalla realtà.
Essa era pronta
a colpire, inesorabile, squarciarle il
petto con forza fino a farla sanguinare.
Nel frattempo,
però, non riusciva a fare a meno di
staccarsi.
Tutto quello era
il suo paradiso perduto che aveva smarrito
e che adesso aveva ritrovato.
Tai li
fissò
con un sorriso sulle labbra. Li vide baciarsi e provò una
gioia così profonda
nel saperli uniti.
Portò
il
bicchiere alle labbra e bevve.
Forse era giunto
anche per lui il momento di fare i
conti con i suoi sentimenti. Non riusciva più a fingere,
aveva bisogno di parlare
e mettere a posto le cose dentro il suo cuore.
Si
voltò verso
il balcone e vide Mimi da sola.
Pensò
che era
il momento adatto, incoraggiato dalla riconciliazione dei suoi migliore
amici.
Non era
difficile. Non era difficile seguire il cuore,
anche se lo aveva messo da parte per tanto tempo.
Doveva parlare,
doveva farlo.
Se non lo faceva
in quel momento che tutto sembrava
minimamente a favore, forse non lo avrebbe fatto mai più.
Coraggio, gli
serviva del coraggio...
Si decise a
fare un passo verso di lei, quando qualcuno lo urtò
involontariamente. Stufato,
si voltò a vedere chi fosse, pensando a un dispetto da parte
di Joe, quando
vide un ragazzo sconosciuto andare in direzione di Mimi e afferrarla
dalle
braccia.
Aprì
la bocca e
rimase impietrito di fronte a quella scena.
Chi diavolo era
quello, adesso?
Non gli sembrava
una faccia conosciuta. Doveva essere
qualcuno che conosceva solo lei, qualcuno del calibro della sfilza di
ammiratori che aveva e che ci provavano incessantemente.
Li odiava, li
odiava tutti.
Specie quello.
Non gli dava una
buona impressione.
Sembrava fosse
lì per farle qualcosa, non solo per
farsi il bello e mostrare i muscoli.
La sua mente
lavorò frenetica e sentì i battiti accelerati.
Istintivamente, pensò di uscire
anche lui e fare una scenata, togliere quelle mani da sopra il corpo di
Mimi e
portarsela dietro.
Trattenne il
fiato e rimuginò.
Non poteva, non
ne aveva il diritto.
Non aveva nessun
diritto di irrompere e pararsi nel
mezzo a dire poi chissà cosa, quando era una serata che non
si decideva ad
andare a parlarle.
Lui non era
nessuno in quel momento, non faceva parte
della sua vita, non ne faceva parte da un bel po’, e avrebbe
fatto una figura
di merda colossale ad andare lì come per rivendicare
qualcosa che era sua.
Perché
Mimi non era più sua, doveva metterselo in
testa.
Con un sospiro,
decise di cercare di mantenere la calma e avvicinarsi di più
alla soglia del
balcone per poter ascoltare, senza smettere si sentire vivo quel senso
di
allarme e protezione che l’arrivo di quel ragazzo gli aveva
scaturito.
La ragazza si
voltò di scatto e rimase stupita non appena si
trovò davanti la figura di
Shinichi. Era lui in carne ed ossa, che la tratteneva dalle braccia e
non sembrava
volerla mollare.
Presa alla
sprovvista, fece cadere la sigaretta spenta dalla mano e lo
guardò di uno
sguardo misto tra l’incredulo e l’intimorito.
Come aveva fatto
a trovarla? Perché era lì, in casa
sua, senza preavviso?
Cielo, credeva
di averlo liquidato con quella
chiamata, mentre lui era lì...
Non voleva lui,
non voleva che fosse Shinichi quello
ad averla raggiunta.
Era qualcun
altro che aspettava.
«Mimi»
la
chiamò puntando gli occhi azzurri su di lei.
La castana
aprì
la bocca senza sapere che dire.
Era
così
talmente spiazzata dalla sua presenza che non sapeva cosa dirgli e,
soprattutto, sentiva quella presa troppo salda per i suoi gusti.
Perché
non la lasciava?
Le dava fastidio
anche solo sentire un altro tocco su
di sé.
Sapeva bene
quale voleva.
«Shinichi?» chiese scrutandolo
con gli
occhi spalancati «Che... che ci fai qui?»
balbettò trafelata.
Lui diede un
gran sospiro disperato.
«Mi ha
aperto
il tuo coinquilino» la informò, e Mimi
pensò che Joe doveva essere ubriaco per
averlo fatto. Non gli era mai stato troppo simpatico.
«Devo
parlarti,
per favore, ascoltami» la scosse dalle braccia, facendo
trasparire un’urgenza che
la lasciava interdetta.
Perché
insisteva ancora?
Le dispiaceva
pure giocare il ruolo della cattiva, non
voleva certo che lui stesse ancora a pensare a lei, però
pensava di essere
stata chiara.
«Abbiamo
già
parlato, io...» tentò di liquidarlo, dando
un’occhiata nei dintorni per cercare
una via di fuga.
Il ragazzo non
sembrava avere intenzione di mollarla e lei cominciava davvero ad
essere in
soggezione.
«Mimi,
ascoltami!» Shinichi alzò la voce e la scosse un
po’ troppo forte, tanto da
farla barcollare.
Taichi, che
stava sentendo, cacciò un sospiro infastidito da quella
veemenza, rizzandosi
sul posto.
Non doveva
intervenire, doveva capire cosa stava
succedendo e cosa quel tizio volesse da lei, doveva stare fermo...
Non importava se
quello le aveva alzato la voce, non
importava se la stava importunando stringendola, e lui conosceva Mimi,
odiava
quando si sfiorava una certa linea con il contatto fisico e sapeva che
ne era
infastidita.
Calmo, doveva
stare calmo...
Tentò
di
mantenere tutta la sua forza di volontà per restare sulla
soglia, di spalle,
senza emettere suono.
«Devi
ascoltarmi, perché io non posso sopportare di stare a casa
sapendo che hai
voluto chiudere con me!» lo udì esclamare, e
alzò un sopracciglio
interrogativo.
Mimi era stata
insieme a quello lì?
Ci aveva avuto
una storia oppure solo una semplice
frequentazione?
Allora Joe
diceva il vero il giorno prima al locale, non era una delle sue solite
frottole.
Lo aveva fatto
entrare nella sua vita come aveva fatto
con lui, tempo fa.
Magari gli aveva
fatto vedere il meglio e il peggio di
sé, lo aveva portato a casa, nel suo letto, gli aveva dato
tutto il bello della
persona che era...
Si morse piano
il labbro inferiore costringendosi ad ascoltare ancora, nonostante si
sentiva
improvvisamente pervaso da un inaspettato senso di gelosia.
Mimi aveva avuto
tutto il diritto di frequentare
qualcun altro.
Non era come
lui, fissato con il passato e incapace di
mettere un punto e vedere altre persone.
Però
faceva male, porca puttana...
Un male cane che
non gli permetteva di respirare al
sol pensiero che lei potesse aver provato anche solo un minimo delle
emozioni
che avevano provato entrambi.
«Per
cosa, poi?
Non l’ho mica capito» udì continuare il
tizio.
Shinichi
aprì
le braccia e Mimi abbassò lo sguardo sentendosi colpita.
«Hai
parlato di
testa e di nuvole, ma io non riesco a crederci! Quando stavamo insieme
stavamo
bene, non c’era niente che non andava, quindi
perché hai voluto finirla?»
A sentire
quelle parole, Tai smise di mordersi il labbro e fece una smorfia in
maniera
spontanea. Poi diede un’occhiata al suo bicchiere e bevve.
Quando stavano
insieme, aveva detto... evidentemente
non lo erano mai stai veramente se era bastato così poco per
farli lasciare.
Un vero peccato,
decisamente...
Gli venne da
credere che forse Mimi pensava ancora a lui, ma non voleva avere la
presunzione
di insinuarlo.
Anche se era
bello immaginare che anche lei non
riuscisse a portare avanti una relazione a causa del suo pensiero
invadente.
Perché
era quello che era successo a lui.
Due anni con la
porta chiusa a qualsiasi ragazza
avesse mai cercato di avvicinarsi, e di occasioni ne aveva avute
parecchie.
Ma niente,
nessuna era riuscita ad aprirla.
Sentì
questa
bisbigliare qualcosa.
«Te
l’ho detto,
Shinichi... E’ complicato... troppo complicato...»
ma cosa c’era di così
complicato?
Se quel ragazzo
le piaceva, qual era il motivo per cui
lo aveva mollato?
Perché
non lo diceva e basta?
Stava
impazzendo, voleva capirlo, voleva sentirglielo
dire...
La ragazza
percepì i battiti del suo cuore accelerare. Shinichi la
fissava con le orbite
di fuori, desiderava una risposta più esauriente, ma lei non
aveva intenzione
di dargliela.
Era stato
già difficile fare i conti con sé stessa,
ammetterlo per prima; non avrebbe mai detto a lui di provare ancora
qualcosa
per una persona che non pensava a lei.
Per una persona
che non aveva fatto niente per
trattenerla.
Per una persona
che non l’aveva cercata per quasi due
anni.
Per una persona
che tuttora non le rivolgeva la parola
se non costretta.
Alzò
lo sguardo
per sbaglio e vide il ragazzo di fronte che la osservava livido in
volto.
«Abbi
almeno la
decenza di dirmelo in faccia!» la rimproverò, e da
un certo punto di vista nemmeno
riusciva a dargli torto.
«Io ho
dato
tutto per te, forse troppo e non lo meritavi!»
esclamò con passione.
Doveva tenerci
veramente se le diceva una cosa del genere.
Eppure, per quanto le dispiacesse, non riusciva a coglierne la logica.
Si erano
frequentati per poco tempo, era
matematicamente impossibile che Shinichi fosse preso così
tanto da lei.
Adesso le
sembrava solamente un modo per farla sentire
in colpa.
«Ci
vedevamo da
soli due mesi, cosa volevi che ci fosse...» si
lasciò sfuggire forse un tantino
troppo cinica.
Lo vide
assumere un’espressione spaesata per qualche secondo, e ne
approfittò per
cercare di dileguarsi dalla sua presa. Quello, però, la
bloccò nuovamente, e
Tai emise uno sbuffo irritato.
Perché
non si rassegnava e la lasciava andare?
Perché
era così fottutamente invadente?
Era lui che
doveva esserci lì, non un tizio qualsiasi
che tentava di avere qualche diritto su di lei quando non aveva nemmeno
idea di
come fosse essere amato da una persona come Mimi.
Lui lo sapeva, e
dannazione, gli stava logorando
l’anima il ricordarlo.
«Il
problema
non è la durata» disse, assumendo improvvisamente
una faccia seria nella quale
la castana lesse della malizia
«Il
problema è
che tu sei ancora innamorata del tuo ex, giusto? Non dire bugie, sii
sincera
con te stessa per una volta» la volle colpire appositamente e
in maniera
gratuita.
Mimi si
sentì
sprofondare di fronte a quell’affermazione.
Sembrava
l’avesse letta nel pensiero, e sentire così ad
alta voce qualcosa che teneva
ben sotterrata dentro di sé la destabilizzò.
Tai
aprì la
bocca stupefatto.
Lei non aveva
ancora risposto, ma sperò con tutto il cuore che gli desse
una risposta
positiva, che lo mandasse a quel paese senza tanti giri di parole.
Il cuore aveva
cominciato a tamburellare, e d’un tratto provò una
sensazione di inquietudine coglierlo.
Mimi non aveva
ancora reagito. Aveva in volto un’espressione ferita e
provò a farsi forza per
non apparire debole di fronte a quelle accuse.
«Tu...
tu non
sai niente...» le uscì dalla bocca in un mormorio
spezzato.
Come si era
permesso a colpirla nel suo punto più
vulnerabile?
Non riusciva a
reagire, sembrava stesse per
sciogliersi sul posto e forse sarebbe stato anche meglio che dover
affrontare
quel discorso.
Shinichi la
guardò arrabbiato e indispettito. Decise di rincarare la
dose, smosso dalla
rabbia e dalla frustrazione.
«Lo
ami ancora,
dopo tutto quello che ti ha fatto passare!»
esclamò, tentando di farla
rinsavire da quel torpore.
Doveva
svegliarsi, doveva capire a cosa stava andando
incontro.
«Sei
stata male
per colpa sua, per colpa del suo egoismo! Pensaci, Mimi. Vuoi ancora
andargli
dietro?!» continuò, scotendola ancora dalle
braccia e provocando in lei una
tristezza infinita oltre che un senso di umiliazione.
Era vero... era
sciocca ad esserne ancora
innamorata...
Lo sapeva anche
lei...
Una sciocca,
stupida innamorata.
Taichi,
nell’udire quelle parole proferite su di lui, tirò
un profondo sospiro per
mantenere ancora saldo il suo già precario autocontrollo.
Fece un sorrisino
sarcastico, pensando a quanta voglia aveva di andare a mollare un pugno
in
pieno viso a quel coglione che stava cercando di metterlo in cattiva
luce davanti
agli occhi di Mimi in modo da poterne risaltare.
Lui non sapeva
niente, assolutamente niente di com’era
stata la loro storia, di cosa avevano passato, di come si erano
lasciati.
Lui non sapeva
niente di quanto la loro storia fosse
stata la cosa più bella che gli fosse capitata nella vita.
Lui non sapeva
un cazzo dell’amore che li legava.
La castana
alzò
lo sguardo con un luccichio negli occhi.
Shinichi non
conosceva Tai, non poteva sapere che tipo
era.
Non avrebbe mai
saputo cosa i due avevano provato
insieme, come lui si era comportato con lei o come lei si era
comportata con
lui.
Avevano
sbagliato, forse aveva ragione a reputarla una
sciocca per essere ancora così dentro a quella storia, ma
non gli avrebbe
permesso di giudicare una persona che per lei era stata ed era
importante.
Non aveva il
diritto di giudicare lei e Tai.
Tutti, ma non
lui.
«Non
parlare
male di Tai» disse ferma con le iridi che mandavano scintille
«tu non lo
conosci e non conosci nemmeno me» continuò,
sentendo dentro di sé una rabbia
divampare.
Questi rimase
stupito per l’ardore con cui lo difese, mentre Shinichi emise
una risatina
bassa, di scherno.
«Non
mi serve a
niente conoscerlo» disse facendo una smorfia che designava
indifferenza «Ho
capito abbastanza di lui. Ha messo al primo posto la sua professione
invece che
te! Come fai a negarlo?!» continuò a pressarla
psicologicamente.
La ragazza
cominciò a tentennare e a sentire il peso di quelle
constatazioni.
Erano delle cose
che lei stessa gli aveva rivelato
durante il corso della loro frequentazione, ma sentendole fuoriuscire
dalla
bocca del ragazzo facevano male.
Perché
lei ne era consapevole.
Era consapevole
che ormai era tutto finito... ogni
cosa...
«Lui
non è
così» tentò nuovamente di difenderlo
«Tu non sai niente...» ma la voce
cominciò
a spegnersi e insieme a quella le speranze.
Shinichi la
fissò per qualche secondo. Poi decise di darle il colpo di
grazia.
«Non
ti ama,
Mimi» lo riferì quasi con dolcezza. Lei lo
guardò con gli occhi che
incominciarono a farsi lucidi
«Non
ti merita
uno così. E’ venuto da te a parlarti dopo tutto
questo tempo?» la sua era una
domanda certamente retorica, perché sapeva già la
risposta.
La ragazza
abbassò lo sguardo e non rispose.
No, non le aveva
parlato.
Non avevano mai
parlato seriamente... probabilmente
non lo avrebbero mai fatto, ma era ingiusto... era veramente ingiusto
tutto
quello...
«Perché
è ovvio
che non gli importa» soffiò infine, tagliente come
la lama di un coltello.
Tai
aprì la
bocca, fissando il vuoto.
Come si era
permesso?
Come poteva
anche solo minimamente fare un’illazione
del genere soltanto per ferirla?
Non sapeva
niente, quel coglione, voleva colpirla nel
suo punto più debole, ma lui era lì, era
lì e non lo avrebbe permesso.
Lei era
così fragile, bastava un soffio per farla
crollare giù come un castello di cristallo, e a volte anche
ingenua, perché aveva
fatto sì che un tizio qualunque scavasse dentro i meandri
delle sue debolezze
per usarle contro di lei.
Mimi si
sentì
completamente distrutta. Cominciò a sentire le gambe
diventare molli ed essere
sul punto di cedere.
Certo che non
gli importava, non gli era mai
importato... sarebbe rimasta da sola per il resto della sua vita ad
inseguire
un amore perduto che mai avrebbe ritrovato...
Sentì
le
lacrime al bordo degli occhi.
Lo aveva fatto
apposta per ferirla... le aveva detto
tutte quelle cose per restituirle il male che gli aveva inferto...
Forse un
po’ lo meritava.
Però
non gliel’avrebbe data vinta, non sarebbe
crollata di fronte a lui.
Alzò
gli occhi
castani e lo guardò con fervore.
«Questa
conversazione è durata abbastanza per quanto mi riguarda.
Lasciami andare» con
un movimento brusco, si liberò dalla presa di Shinichi e lo
lasciò lì fuori.
Le lacrime la
colsero all’istante mentre abbandonava la sala, passando
accanto a Taichi senza
accorgersi della sua presenza.
Questi la
guardò andare via e si convinse a farlo. Diede un ultimo
sorso al suo alcolico
e posò il bicchiere sopra il mobiletto.
Era ora di
affrontarsi una volta per tutte.
Non
l’avrebbe fatta scappare.
Quella volta
sarebbe riuscita a raggiungerla.
Le sue gambe si
mossero verso la stessa direzione in cui era sparita nel corridoio.
Il cuore
batteva forte per la sbornia che gli era appena salita al cervello, ma
era
sicuro che non fosse solo per quello.
Sora e Matt
erano ancora abbracciati. Non si dissero più niente se non
qualche parola
sussurrata con imbarazzo. Si erano limitati a godersi quella vicinanza
reciproca dopo tanto tempo.
La ramata aveva
la testa appoggiata sul suo petto, sentendo la presa ferrea del biondo
su di
lei.
Adesso che si
erano baciati, che avevano trovato
quello stato di pace le sembrava veramente sciocco aver dubitato per
tutto il
lasso di quel tempo della loro relazione.
Chiuse gli
occhi, facendosi cullare dalla musica e dall’alcol che le
inebriava la mente.
Sembrava la
sciocca ragazzina di tanti anni fa, quando
si era innamorata di lui e sentiva il cuore battere forte e le farfalle
nello
stomaco divorarlo...
Era una
sensazione di piacere, di appagamento totale,
anche se, nel profondo del suo cuore, sentiva che quello stato in cui
si
trovavano non era altro che uno stato di pace apparente.
Forse era
ansiosa di natura, ma era più forte di lei
controllare certe preoccupazioni...
D’un
tratto,
udì un fracasso provenire verso la loro destra.
Alzò lo sguardo verso quella
direzione e notò che anche Matt si era incuriosito.
Nel bel mezzo
della sala, illuminati dalla palla di luce colorata, si trovava Takeru
che inveiva
contro Daisuke. Notò Hikari al lato che aveva una mano alla
bocca, ma ci volle
un po’ per capire cosa stesse succedendo.
Vide il
biondino spingere con forza l’altro, allontanandolo dalla
ragazza che li
guardava timorosa. Avevano catturato l’attenzione delle
persone attorno.
«Non
la
toccare!» lo sentirono urlare, e Matt
s’irrigidì nel vedere il fratello reagire
in quel modo «Vai a farti fottere, Daisuke!»
Questi aveva il
volto strafatto e i capelli scompigliati. Probabilmente aveva cercato
in qualche
modo di avvicinarsi a Kari; magari era stato invasivo e TK si era
innervosito.
Lo videro
alzare le braccia in segno di difesa.
«Calmo,
amico,
non c’è bisogno di farti scoppiare la vena del
collo!» esclamò quello con un
sorrisino di scherno.
Yamato si
staccò da Sora con una ruga di apprensione in volto non
appena vide Takeru
avanzare pericolosamente verso l’altro.
«Se ti
avvicini
di nuovo alla mia ragazza ti giuro su Dio che ti faccio riuscire la
cocaina dal
naso!» gli disse sferzante, minacciandolo in un modo che il
fratello giurò mai
gli aveva visto fare.
Davis
indietreggiò, mentre lui fece un passo avanti per
raggiungerli, ma venne subito
preceduto da Joe che aveva visto tutto e si era premurato di
intervenire.
«ALT!»
li
separò, guardandoli dall’alto in basso.
«Che
sta
succedendo qui?» vide il biondino ignorare la sua domanda e
guardare Kari con
uno sguardo indecifrabile, allora si rivolse al tinto amaranto che lo
fissava e
rideva.
«Daisuke,
figlio delle bestie, ti avevo detto di starmi attaccato al deretano!
Vieni
qui!» gli urlò, poi lo afferrò da un
braccio senza riscontrare una certa resistenza.
Lo
trascinò con
sé come fosse un sacco di patate, rivolgendosi alle persone
che si erano
avvicinate per constatare cosa fosse successo.
«Non
è successo
niente, ragazzi, continuate pure!» lo udirono esclamare con
un sorriso di
scuse, allontanandosi dal soggiorno con l’altro alle calcagna.
TK non fece
passare un secondo in più, mise un braccio sulle spalle di
Kari e la portò con
sé fuori dal balcone.
Sora
alzò lo
sguardo verso Matt che fissava la direzione in cui era scomparso il
fratello.
Lo vide preoccupato e scosso da ciò a cui avevano assistito,
così gli strinse
un braccio per infondergli calore.
Aveva le
sopracciglia contratte e sentiva di voler andare al più
presto a parlare con TK
di quello che gli stava succedendo.
Perché
era diventato in quel modo? Perché era il
riflesso di un ragazzo che non conosceva più?
Si
voltò a
guardare la ragazza e le fece uno sguardo allusivo.
«Scusami»
le
disse e decise di andare da lui e affrontarlo una volta per tutte.
Sapeva che
avrebbe lasciato di nuovo Sora da sola, ma
era così preoccupato da non riuscire più a
evitarlo.
La ramata lo
fissò andar via con un sospiro.
Sorpassò
alcuni
ragazzi che ridevano proprio sulla soglia del balcone e uscì
fuori. Individuò
suo fratello appartato in un angolo insieme ad Hikari. I due stavano
parlando
fitto fitto e si avvicinò per tentare di capire cosa
stessero dicendo.
«Perché
ti sei
fatta avvicinare da quell’idiota?!» suo fratello
era livido, lo captava dal suo
tono di voce e dalla foga con cui stava stringendo la ragazza.
Questa fece una
faccia spaesata.
«Si
è
avvicinato lui, io ti giuro che non ho fatto niente!» la
udì difendersi,
allargando le braccia per potersi spiegare.
Avanzò
ancora
di più fino ad arrivare dietro TK che ancora inveiva.
«Io
non lo
sopporto! Mi viene voglia di prenderlo a calci in faccia!»
aveva esclamato,
passandosi violentemente una mano tra i capelli biondi.
Notò
che non
portava il cappello. Rimase lì dietro con le braccia
incrociate, fino a quando
Kari si accorse di lui e fece una faccia stupefatta.
Decise allora
di intervenire.
«Cosa
diamine è
successo?» chiese con un tono di voce duro, mentre il
fratello si voltava e lo
fissava interrogativo.
«Volevate
prendervi a botte davanti a tutti?» forse fu un tantino
troppo brusco, perché
vide TK irrigidirsi di fronte alla sua presenza e fare una faccia
irritata.
«Ci
mancavi
giusto tu a rompere il cazzo!» imprecò, e gli
lesse il risentimento nel suo
tono di voce.
Matt si
infastidì e si avvicinò al ragazzo, stringendogli
un braccio. Kari li guardava
preoccupata e con gli occhi lucidi.
Adesso basta.
Doveva
smetterla. Era ora che la finisse di avere
quell’atteggiamento arrogante e strafottente. Era suo
fratello maggiore, lo
aveva sempre aiutato, aveva sempre creduto in lui... perché
si comportava così?
Perché
era così cambiato?
«Stai
esagerando con me, Takeru» soffiò lapidario,
vedendo per qualche secondo le
difese dell’altro abbassarsi di fronte a quel gesto
inaspettato.
«Non
credere di
potermi rispondere in questo modo perché non te lo
permetto!» ringhiò, mollando
la presa con ribrezzo.
Quello lo
fissò
incredulo e si portò spontaneamente una mano al braccio dove
gli aveva fatto
male.
Come si
permetteva? Come si permetteva a fargli male
in quel modo come fosse una persona qualunque?
Proprio a lui...
Matt lo fissava
con disgusto.
«Guardati
come
sei combinato...» sibilò, riferendosi ai suoi
capelli scompigliati, la sua
giacca trasandata, i suoi occhi arrossati per colpa del fumo.
Poi lo vide
assumere un’espressione di rammarico.
«Eri
un ragazzo
così in gamba... Mi fidavo di te!»
esclamò con vigore, tentando di
trasmettergli tutto il dolore che provava nel vederlo in quel modo.
TK strinse le
labbra.
Lo capiva che
non l’accettava, ma non gliene
importava. Se pensava di potergli fare la morale solo perché
aveva qualche anno
in più cadeva male.
Aveva visto come
si era ridotto alla sua età e
preferiva fare quello che già faceva pur di non diventare
come lui.
Sapeva che erano
pensieri forti, sapeva che Yamato lo
diceva perché ci teneva a lui, ma non riusciva a frenare
quel risentimento nel
vederlo in quel modo.
«Senti,
a me di
quello che pensi tu non importa» sputò fuori
utilizzando un tono di sufficienza
che colpì l’altro
«Sei
l’ultimo
che può farmi la morale. Guarda dentro te stesso una volta
tanto e preoccupati
meno degli altri»
Si
avvicinò
automaticamente verso di lui arrivando ad un palmo del suo viso.
Erano diventanti
alti uguali... il suo fratellino...
aveva dato così tanto per lui...
«Non
sei
migliore di me. Tu non sei migliore di nessuno» gli
sussurrò con un tono ovvio
che lasciava trasparire una certa soddisfazione nel constatarlo.
Il biondo
sentì
distrattamente un vuoto allo stomaco.
Erano arrivati
veramente a tanto senza nemmeno
accorgersene? Erano arrivati a combattere una guerra che mai avrebbe
desiderato
combattere solo per orgoglio di prevalere sull’altro...
Rivoleva
indietro il suo fratellino...
Ne aveva bisogno
più dell’aria.
«Mi
stai
deludendo così tanto, TK» soffiò
disperato, e l’altro riuscì a leggergli la
sincerità negli occhi.
Erano limpidi
come i suoi; si somigliavano così tanto
anche se era evidente quanto erano diversi.
Si
voltò di
spalle.
«Mai
quanto tu
hai deluso me» disse di rimando, per poi voltarsi con la
testa e dargli un
ultimo sguardo.
«Quello
non si
può comparare» udì il suo tono
amareggiato e nello stesso tempo risoluto prima
di vederlo afferrare Kari da una mano e andare via.
Non
riuscì
nemmeno a seguirlo. Sentì solo gli occhi lucidi, una voglia
irrefrenabile di
piangere, sfogarsi per tutto quello che aveva passato.
Si sentiva
distrutto, svuotato da ogni singola emozione.
Suo fratello gli
aveva dato il colpo di grazia e
adesso non riusciva nemmeno a muoversi. Sembrava come una teca di
vetro, che se
solo un leggero colpo di vento l’avesse spostata si sarebbe
frantumata in mille
pezzi.
E la fine era
vicina, molto vicina.
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Capitolo 10 *** Cenere ***
Mimi
entrò in bagno con le lacrime agli occhi. Aprì il
rubinetto del lavandino in
modo brusco, sentendo dentro di sé l’umiliazione e
la disperazione tenerla
stretta.
Shinichi
aveva voluto ferirla appositamente
solo perché non ricambiava i suoi sentimenti, e lei adesso
stava così male
perché ne era consapevole.
Era
consapevole di essere una sciocca,
illusa, ragazzina che aspettava qualcosa che probabilmente non sarebbe
accaduta
mai... lo sapeva... certo che lo sapeva...
Si
sentiva così dannatamente vuota e inutile
nel constatare quanto ancora soffrisse per lui... era un dolore troppo
forte,
le partiva da dentro e la distruggeva...
La
rendeva vulnerabile, incapace di reagire
se non piangere lacrime amare.
Tirò
sul con il naso mentre due lacrime le solcavano il viso.
Strappò con forza
della carta igienica per asciugarsi gli occhi.
Non
voleva trovarsi in quello stato. Voleva
tanto essere forte, indifferente a quelle dure parole che le erano
state
rivolte, ma come faceva?
Era
la cosa che più in assoluto aveva paura
di affrontare. E adesso che era stata messa di fronte alla
realtà, questa
tentava di stritolarla.
Mise le
mani sotto l’acqua corrente e portò le dita al
bordo degli occhi castani,
tamponando leggermente per cercare di salvare il trucco.
Taichi
la raggiunse e la vide impegnata a guardarsi allo specchio. Non si era
nemmeno
premurata di chiudere la porta, e pensò che era stato meglio
così.
Non
avrebbe sopportato un’altra scusa per
rimandare quel momento.
Si
sentiva agitato, nervoso; gli effetti dello spinello e di tutto
l’alcol che
aveva bevuto non facevano altro che amplificare quel suo senso di
tensione.
Mimi
non si era accorta di lui, non si rese conto nemmeno della porta che
venne
chiusa e della mandata di chiave che il ragazzo diede subito dopo.
Sarebbero
stati soli.
Solo
loro due, nessuno li avrebbe
disturbati. Nessuno poteva interrompere quel momento tanto atteso.
Non
lo avrebbe permesso a nessuno perché
aveva aspettato per troppo tempo, due anni prima di fare i conti con i
suoi
sentimenti.
Non
poteva più fingere. Adesso che aveva
visto Mimi piangere e dimostrare che ancora teneva a lui doveva farlo...
Con un
sospiro, il ragazzo si avvicinò lentamente a lei. La vide
impegnata a piegare
un fazzoletto bagnato e a portarlo in viso, troppo attenta a rendersi
presentabile agli occhi della gente.
Come
sempre.
Come
sempre indossava una maschera che non
le apparteneva.
Ma
lui aveva imparato a conoscerla bene. La
conosceva come le sue tasche. E lei conosceva lui.
Per
questo non potevano più scappare da quello
che provavano.
La
guardò per un altro po’ fino a quando non decise
di parlare.
«Era quello il manzo imbalsamato?»
la domanda
risuonò per tutto il bagno e Mimi s’interruppe
improvvisamente da quello che
stava facendo, spaventata, con gli occhi sgranati di fronte alla
visione del
ragazzo appoggiato contro il muro.
Gli
dava fastidio... fremeva dalla gelosia
nel pensare che lei avesse permesso che un altro giudicasse la loro
storia.
Quella
storia era solo loro e di
nessun’altro.
Nessun’altro
poteva valicare quelle
barriere, solo loro due.
Tai la
guardava con uno sguardo che non riusciva a decifrare, era
lì dietro di lei, lo
aveva visto dallo specchio, e il cuore aveva fatto un balzo fino alla
gola per
lo spavento e l’emozione.
Da
quanto tempo era lì?
Come
aveva fatto a non accorgersene?
Probabilmente l’aveva vista piangere, e che figura ci aveva
fatto... era
nuovamente passata per la più debole, la più
succube, e lei non voleva essere
in quel modo.
Con un
sospiro, tentò di ridestarsi, ma aveva lo stomaco in
subbuglio.
«Non...
non so di cosa tu stia parlando...» la voce le si rinchiuse
in un sussurro, e
odiò il suo tentennamento nel rispondere, il tremolio con
cui disse quelle
parole.
Doveva
risultare convincente e invece era
così spaesata nell’averlo trovato dietro di lei
che non sapeva cosa fare, cosa
dire, come comportarsi...
Tai
strinse le labbra e fece un’espressione strana.
Alzò le sopracciglia
scetticamente, come a voler contestare quello che gli aveva appena
risposto.
Non
doveva mentire a lui, perché la scovava
senza il bisogno di guardarla. Bastava solamente
l’indecisione della sua voce a
fargli decifrare il suo stato d’animo.
Certe
cose rimanevano invariate per quanto
avessero cercato di cambiarle.
«Eppure
mi è sembrato abbastanza insistente»
soffiò il castano con voluta eloquenza.
Non
sapeva nemmeno perché le diceva quelle
cose, forse avrebbe dovuto rivolgerle parole diverse dopo
così tanto che non
innescavano una discussione da soli, ma non ce la faceva.
Nella
sua testa risuonavano le frasi di
quel tizio che voleva trascinarla giù, macchiare la memoria
del loro amore,
gettare merda su di lui insinuando che non avesse un minimo di riguardo
per
lei.
Non
era vero.
Lui
stava fremendo per quanto la voleva.
Mimi
rimase impietrita sul posto, non sapendo come controbattere.
Perché
le diceva quelle cose? Forse aveva
captato qualcosa del discorso con Shinichi, era per questo che le si
rivolgeva
con quelle frasi allusive...
Voleva
farle sapere che lui era lì, anche
quando credeva di essere da sola.
E,
figurativamente, sapeva che era vero,
perché la sua presenza non l’aveva mai
abbandonata, era come la sua più dura
ossessione, la sua pena più grande ma anche quella
più dolce.
Strinse
le sopracciglia.
«Cos’hai sentito?» chiese con una nota infastidita, stringendo il
fazzoletto bagnato
tra le dita.
Tai
alzò le spalle facendo una smorfia con le labbra, poi la
guardò con
un’espressione carica di rammarico.
«Tutto»
le rivelò, sapendo che non sarebbe servito a niente mentire.
Voleva
che sapesse che aveva capito cosa
c’era stato con quel ragazzo, che aveva udito le sue parole
difensive nei suoi
confronti, che era consapevole del fatto che lei fosse rimasta ferita
dalle frasi
appositamente taglienti che le erano state rivolte.
Voleva
che sapesse che il petto gli
bruciava dalla gelosia.
Voleva
che sapesse tutto.
La
castana boccheggiò, incredula, spaesata, colta in fallo.
Aveva
sentito tutto.
Dio,
aveva sentito tutto quello che
Shinichi le aveva detto, il fatto che erano stati insieme, la sua
decisione di
aver voluto mettere un punto a quella frequentazione...
Taichi
la fissava ancora, le braccia dietro la schiena, ancora contro il muro
e lo
vide mordersi il labbro in un gesto nervoso.
Lei
deglutì, impaurita, denudata, l’orgoglio
completamente fatto a pezzi.
Aveva
sentito lei che aveva preso le sue
difese con vigore dopo che per due anni non si erano più
cercati, dopo che
avevano chiuso la loro relazione... aveva capito quanto le parole di
Shinichi
l’avessero ferita più di una coltellata...
L’aveva
scoperta.
Tentò
di acquisire quella sicurezza ormai persa da un po’.
«Non...
non è educato origliare» se ne uscì
usando un tono che avrebbe voluto apparire redarguente,
ma che alle orecchie dell’altro suonò come segno
di evidente difficoltà.
Taichi
si spostò dal muro e fece dei passi avanti.
Lei non
ricambiava il suo sguardo, faceva finta di piegare
quell’inutile fazzoletto tra
le mani come se fosse una cosa di estrema importanza.
Tanto
non avrebbe potuto sfuggirgli.
«Nemmeno
non guardare negli occhi le persone» replicò lui
beffardamente, avvicinandosi a
lei, violando la distanza interpersonale che li separava.
Era
come se la stesse provocando apposta, piccato, ingelosito, colpito.
Voleva
che lo guardasse, così da essere
entrambi fottuti.
Mimi
alzò
gli occhi di riflesso e quasi le venne un colpo quando se lo
ritrovò così
vicino. Lo scrutò in viso, si scrutarono entrambi dopo tanto
tempo.
Non
si guardavano in quel modo intenso
negli occhi da due lunghi, lunghissimi anni e adesso sembravano volersi
beare
di quella visione che avevano dell’altro.
Lei
pensò a quanto fosse bello, più bello
di come era stato. I capelli più corti ma sempre sbarazzini,
il volto
espressivo, gli occhi castani che, seppur lucidi, la accarezzavano
fermamente.
«Cosa
vuoi, Tai?» le chiese tentando di scorgere la più
piccola espressione sul suo
volto che poteva anticiparle le sue intenzioni.
Voglio
te.
Avrebbe
desiderato dirglielo, sentì l’impulso di farlo,
probabilmente spinto dallo
stato alterato in cui si trovava.
Aveva
una voglia spropositata di stringerla
a sé.
Alzò
leggermente la testa e sospirò.
«Parlarti»
le disse, cercando di contenersi con tutte le sue forze.
Era
questa la sua intenzione iniziale, ma
non capiva se quell’atmosfera pesante in cui si trovavano o
la sua condizione
psichica lo stessero spingendo sempre di più a fare
dell’altro.
Si
sentiva attratto da lei come una
calamita, e forse l’astinenza del non vederla, non toccarla,
gli provocava
delle sensazioni contrastanti, delle voglie irrefrenabili che faticava
a
controllare.
Era
in bilico sul suo autocontrollo.
«Non
abbiamo niente da dirci» udì rispondere da quelle
labbra rosee, e si disse che
probabilmente non aveva neanche tanto torto.
Tai si
avvicinò ancora di più, mantenendo fisso il suo
sguardo, mentre Mimi
indietreggiò automaticamente, sentendosi nella
più pericolosa delle trappole.
Dio
mio... che stava succedendo?
Era
vicino, troppo vicino...
«Ne
sei
sicura?» sussurrò lui, ma sembrava lo avesse detto
di riflesso, troppo
impegnato a guardarla come volesse leggerle dentro.
Catturarla.
E
ci sarebbe riuscito, se solo non si fosse
spostata.
«Non
mi
sembra il momento giusto questo» obbiettò e con un
gesto fece per passargli
avanti, ma lui l’afferrò dalle braccia e la
bloccò contro il muro.
Lo fece
con foga, ma senza farle male.
Solo
voleva che non andasse via, che non
scappasse. Voleva che stesse lì davanti a lui, solo loro due
insieme e i loro
respiri.
Quello
della ragazza si fece più pesante. Il cuore batteva forte
come un tamburo ed
era stordita, incredula, eccitata.
«Hai
paura di ferire il tuo ragazzo?» la provocò lui,
guardandola di uno sguardo
indispettito, cinico, quello che era solito rivolgerle quando era
geloso.
E
lo era, geloso. Era così geloso che
avrebbe ammazzato quello stupido con le proprie mani se solo lo avesse
visto
un’altra volta con lei.
Aveva
cercato di screditarlo ai suoi occhi,
aveva cercato di prendersela, ma con scarsi risultati...
Mimi
era sua.
Lui
lo sapeva.
Lo
sentiva.
Questa
strinse le braccia che ancora la brandivano, e gli rivolse uno sguardo
infuocato.
Le
faceva quelle scenate dopo anni, si
ingelosiva immotivatamente quando non si era premurato di rivolgerle la
parola,
quando l’aveva lasciata marcire nella più cupa
delle sofferenze...
Era
la prima volta che parlavano così da
vicino da quando si erano lasciati, e lui pretendeva di avere il
primato sulle
sue scelte... non sapeva più niente di lei, non sapeva
più niente della sua
vita, quindi perché doveva immischiarsi in quel modo?
«Non
è
il mio ragazzo!» esclamò, spingendolo
affinché si spostasse. Lo guardò con
rabbia, risentimento, umiliazione per non aver ricambiato il suo amore
quando
avrebbe dovuto farlo.
«Cosa
ti aspettavi, Taichi?» gli urlò in faccia,
accecata dal peso della sofferenza
che aveva dovuto subire.
«Dopo
tutto questo tempo, ti aspettavi che non conoscessi nessuno?»
continuò
retorica, mentre lui abbozzava un sorrisino sulle labbra.
«Sono
sicura che anche tu sei stato con qualcuna, quindi non venire
a...»
Venne
interrotta dal braccio di lui che rimase a mezz’aria e la
rinchiuse nuovamente,
appoggiando il pugno contro il muro.
Mimi
spalancò gli occhi.
Lo vide
scuotere la testa amaramente, con uno sguardo velato negli occhi.
«Non
sono stato con nessuno» mormorò e sentì
il suo respiro contro il volto. Vide
che la guardava intensamente, come volesse spogliarla con lo sguardo.
Era
bellissima, forse la ragazza più bella
che avesse mai visto.
Il
suo volto era fine e candido, i suoi
occhi luminosi e sinceri... e il suo corpo... Dio, sentiva che sarebbe
esploso
se solo non si fosse avvicinato di più.
La
voleva con tutto il suo cuore, sentiva
le difese abbassarsi gradualmente, l’eccitazione per averla
vicina prendere il
sopravvento...
Al
diavolo quella piccatezza, a lui che si
era innervosito, perché quando la guardava negli occhi non
riusciva a non
pensare che era la persona più pura che avesse mai
incontrato.
«Specie
dopo averti vista adesso... Non credo riuscirò
mai» le confidò facendola
rimanere di stucco, senza parole, svuotata perfino da ogni singolo
pensiero.
Si
guardarono ancora, di uno sguardo che trapelava disperazione, desiderio.
Mimi lo
vide farsi sempre più vicino.
Vicino,
troppo vicino...
Vicino...
Al
diavolo quel tizio, al diavolo tutto...
Tai le
prese il mento con le mani e si avventò sulle sue labbra,
senza lasciarle il
tempo di dire qualcosa. Mimi strinse gli occhi e sentì la
testa girare; pensò
se non fosse tutto un sogno, ma quando la presa del ragazzo
passò salda ai suoi
fianchi, non ci pensò due volte a lasciarsi andare e gettare
a sua volta le
braccia al suo collo.
Schiuse
le labbra e lo baciò con passione, sentendo la lingua del
ragazzo lambire la
sua con urgenza folle, quasi potesse scappare da un momento
all’altro.
Le
passò una mano dietro la nuca, stringendole i capelli
castani. La ragazza sentì
il suo corpo premere contro di lei e con una mano strinse il suo fianco
per
farlo aderire ancore di più a sé.
Se
quello era il paradiso avrebbero dovuto
dirglielo, perché sentiva di esserci finalmente arrivata...
L’odore,
il sapore di Taichi dopo tanto
tempo era la cosa più bella che le fosse mai capitato...
Si
staccarono appena, solamente per mancanza d’aria. Si
guardarono per qualche
secondo, rossi in volto, il respiro affannato.
Era
troppo presto per smettere...
Troppo
bello per farlo finire.
Tai si
sporse per baciarla ancora e lei, stordita, lo strinse di nuovo a
sé. Sentì la
mano del ragazzo scendere sotto la sua schiena, fin troppo sotto, ed
emise un
mugolio spontaneo. Lui interruppe il contatto con le sue labbra e scese
a
baciarle il collo, mentre lei cacciò leggermente la testa
all’indietro, gli
occhi chiusi, completamente persa.
Lo
voleva, lo voleva ancora, lo voleva di
più...
Sentiva
una strana sensazione, erano come delle scariche elettriche che
partivano dal
suo basso ventre e le facevano perdere il controllo, totalmente.
Sentì
la presa al suo fondoschiena farsi più insistente, poi il
ragazzo salì con le
mani accarezzandole i fianchi, la schiena e poi sfiorarle il seno.
Credette
di impazzire quando premette maggiormente sopra di lei e
sentì la sua erezione
contro il suo corpo.
Alzò
gli occhi e lo vide ansimare davanti al suo viso, il fiato corto, il
volto
arrossato.
Aveva
voglia di lei.
Dio,
aveva una voglia spropositata di
lei...
Mimi
strinse la sua camicia con una mano.
Sentiva
i rumori provenire da fuori ovattati e la testa galleggiare.
Non
voleva pensare, voleva solo agire,
voleva godersi quel momento.
Lanciò
uno sguardo a Tai che ancora la guardava, e con un gesto delle braccia
lo tolse
di peso da sopra di lei e lo spinse contro il muro di fronte.
Si
inginocchiò
all’altezza del suo ventre e cominciò ad
armeggiare con i suoi pantaloni,
sentendosi stordita dall’alcol e dai sentimenti,
così tanto da non riuscire a
controllarsi.
Il
castano fece una faccia sorpresa, eccitandosi ulteriormente non appena
la vide
abbassargli i pantaloni e i boxer.
Mimi
accarezzò il suo membro eretto con una mano, pensando
distrattamente a quanto
tempo fosse passato. Lo accarezzò andando su e
giù per un paio di volte, mentre
Taichi stringeva le labbra per non emettere nessun suono rumoroso.
Era
veramente difficile mantenersi.
Quando
la ragazza si avvicinò e lo accolse in bocca, non
riuscì a non lasciare andare
un sospiro roco e di piacere. Mimi lo succhiava e andava su e
giù, mentre con
una mano continuava a tenere ferma l’estremità.
Le
lanciò uno sguardo sconvolto, vedendo lei che aveva fatto lo
stesso, gli occhi
lucidi e pregni di desiderio.
«Ah...
oh, Mimi...»
sussurrò con la voce
spezzata, e le mise una mano sulla testa, stringendole appena i
capelli,
facendo in modo che affondasse ancora contro il suo membro.
Mimi
alzò un braccio e gli accarezzò
l’inguine facendolo indietreggiare di più verso
il muro.
Dio,
sarebbe scoppiato, lo sapeva... era
passato così tanto tempo... sarebbe venuto tra non molto se
avesse continuato
in quel modo e lui voleva di più...
Voleva
di più, molto di più...
La
bloccò,
facendola staccare da lui. Con un gesto repentino la mise in piedi
alzandola
dalle braccia, poi la prese dai fianchi, caricandosela in braccio.
La
castana gli si agguantò al collo baciandolo di un bacio
umido, sentendo i suoi
capelli di mezzo, mentre Tai la trascinava con foga verso una direzione.
Sentì
la cintura del ragazzo strisciare per terra e tintinnare.
La
posizionò sopra la lavatrice di peso, e nel movimento
caddero un paio di cose
che stavano appoggiate, facendo un rumore sordo.
«Tai...»
lo chiamò con gli occhi chiusi, come fosse
un’invocazione.
Lui non
gli diede modo di parlare.
«Sssh...»
le mormorò, baciandola ancora sulle labbra, reclamando la
sua lingua.
Mimi
aprì un braccio appoggiandosi al muro, mentre con
l’altro teneva stretto Tai
che era sceso a baciarle il collo. La sua mano si insinuò
dentro il suo reggiseno
e ben presto le abbassò le spalline del tubino fino a sotto
le spalle per
poterlo succhiare liberamente. Lei non riuscì a fare a meno
di emettere un
gemito, e d’un tratto sentì la mano di lui
arrivare fin sotto il suo inguine.
Le
spostò le mutandine e cominciò ad accarezzarla
con le dita, continuando a
baciarla dappertutto, mentre lei non potette fare a meno di ansimare.
Ne
voleva ancora, ancora, non era mai
abbastanza...
Dopo un
po’ di tempo, Tai si allontanò leggermente e lei lo
guardò preoccupata. Poi lo
vide abbassarsi, alzarle ancora di più il vestitino fin
sopra alla vita.
Dio,
cosa stava succedendo...
Era
così eccitata da non avere la
cognizione.
Lo
guardò sfatta, desiderosa, vedendo le mani del castano che
le sfilavano le
mutande e le lasciavano ricadere su di una gamba.
Poi con
le mani le stringeva le cosce, allargandole, abbassandosi quel tanto da
arrivare con
il volto all’altezza del suo inguine. Mimi
boccheggiò. Non appena sentì la sua
lingua farsi strada dentro di lei, che le toccava quel
punto, una scossa di cariche di piacere la pervasero.
Inarcò
la schiena, gettando indietro la testa.
«Oh,
Dio...» gemette, allargando di più le cosce,
stringendo di riflesso i suoi
capelli per poterlo sentire meglio.
La
stava leccando, la stava assaporando
come non aveva mai fatto.
Era
qualcosa di così intimo, così sensuale,
così eccitante... sentiva di volere la lingua di Taichi
dentro di lei per
sempre...
Per
sempre...
La
ragazza si strinse di più a lui con una gamba, stando
attenta a non fargli male
con il tacco della scarpa.
Era
estasiata, eccitata, completamente
senza difese.
Sentì
la lingua di Tai leccarla con più decisione. Si mosse con il
bacino,
contraendosi per gli spasmi, mentre lui la leccava ed inseriva un dito,
due
dita, la stuzzicava facendole sentire un piacere così
intenso da pensare di
essere arrivata già al limite.
Il
ragazzo, però, passò a baciarle
l’interno cosce, fino ad alzare il capo e
guardarla.
Mimi
era sconvolta, i capelli scompigliati, il trucco ormai sbavato.
Era
così attraente sfatta in quel modo, non
ce la faceva, voleva prenderla subito.
Era
passato troppo tempo, così tanto tempo
che non importava né il luogo, né il momento.
Importava
solo che fossero loro due, chiusi
nella loro bolla, lontani dal mondo circostante.
Si
alzò, e lei non perse tempo, si avventò a togliergli la giacca, a slacciargli la
camicia, mentre lui si piegava e le baciava il seno nudo.
Lo vide
prendere in mano il suo membro turgido, e quasi ebbe paura non appena
capì
quello che sarebbe successo, ma la sua mente si era soffermata su
Taichi, solo
su di lui, e ogni dubbio, ogni incertezza sfumò.
Sentì
il suo pene che si appoggiava all’entrata, faceva leggermente
fatica a
insinuarsi e lo vide abbassarsi con la fronte contro la sua prima di
penetrarla completamente con un’unica spinta.
Mimi
lanciò un mugolio acuto non appena lo sentì
dentro di sé e Tai emise un gemito virile
di piacere.
Era
calda e stretta, troppo stretta, ma
pian piano cominciava ad abituarsi di nuovo alla sua presenza, ad
accoglierlo
come faceva una volta.
Era
da tanto, troppo tempo che non era
stata con qualcuno... aveva aspettato lui...
E
lui si sentiva grato che lo avesse fatto.
Spinse
in lei dapprima moderato per farla abituare, poi accelerò il
ritmo. Mimi sentì
la testa girare, le braccia intorno al collo dell’altro che
lo tenevano stretto
a sé.
Lui la
stringeva dai fianchi, i pantaloni abbassati sotto le cosce, la cintura
che
ciondolava per terra.
Doveva
contenersi, era troppo tempo che non
provava quelle sensazioni, sarebbe venuto subito...
Mimi
ansimava all’altezza del suo orecchio e quello non fece altro
che incrementare
la sua eccitazione.
Con un
ringhio la penetrò più forte, facendola urlare,
rivoltare la testa all’indietro.
Era
così piena di lui... troppo... non
avrebbe desiderato nient’altro...
Lo
giurava...
Aprì
gli occhi impastati e lo guardò fisso. Lui la guardava
già, e in quello sguardo
intenso lesse un sentimento così grande, un amore contenuto,
ma troppo grande
da tenerlo ancora a bada.
Si
chinò sulle sue labbra e la baciò ancora con
forza, mentre lei mugolava, persa
in tutto il piacere che le stava donando.
Poi si
staccò e la guardò ancora.
«Mi
sei
mancata...» le sussurrò con la voce spezzata, con
un’intensità tale che le fece
salire dei brividi su per la schiena.
Vide i
suoi occhi lucidi e rimase impietrita dalla sincerità con
cui glielo aveva
detto. Non capì più niente, letteralmente,
né riuscì ad aggiungere qualcosa.
Aveva ripreso ad affondare in lei sempre più forte e,
ansimando, strinse la sua
schiena graffiandolo superficialmente.
Non
voleva nient’altro dalla vita.
Nient’altro
avrebbe avuto senso dopo
quello.
Niente...
Proprio
niente...
Sora
lanciò uno sguardo a Yolei che si era avvicinata a salutarla
e adesso stava
uscendo dalla porta insieme a Ken. Le aveva detto di dover andar via
perché il
giorno dopo aveva da lavorare e, curiosa, lanciò
un’occhiata all’orologio
appeso sul muro per constatare che ora si fosse fatta.
Erano
le due di notte appena scoccate, e ancora la festa era nel suo vivo.
Si
avvicinò al tavolo dove c’erano gli alcolici e si
versò un cocktail.
Ripensò
ai baci con Matt e lanciò un sospiro.
Dov’era
finito?
Era
uscito fuori in balcone per parlare con
suo fratello e non era più tornato da lei.
Bevve
succhiando dalla cannuccia, sentendo la testa pesante.
Forse
stava esagerando con l’alcol, ma non
ne riusciva a fare a meno quella sera, l’aiutava a pensare
poco.
Guardò
le persone che ballavano intorno a sé. C’era chi
andava via, ma la maggior
parte erano tutte riversate sulla pista.
I
suoi sensi erano così abbassati e le sue
voglie amplificate da voler fermare quella musica e tutta quella gente.
Fermarli
come se il tempo potesse scomparire in modo tale che le si figurasse
Yamato in
mezzo a quella calca.
Aveva
voglia di raggiungerlo e
abbracciarlo, baciarlo ancora e poi stringerlo a sé...
andare in camera sua e
fare l’amore...
Chiuse
appena gli occhi, trasportata dalle sensazioni ampliate che le
procurava
l’alcol, muovendosi lentamente a ritmo di una canzone.
D’un
tratto, si sentì stringere da dietro le braccia e
percepì una forza
strattonarla. Si voltò aprendo gli occhi, aspettandosi che
quelle mani che
adesso la stavano stringendo appartenessero a Matt.
Sulle
sue labbra s’increspò spontaneamente un sorrisino
ebete, che però sfumò non
appena si rese conto di chi aveva davanti.
Victor.
Spalancò
gli occhi.
No,
non poteva essere... non poteva essere
possibile...
Strizzò
bene gli occhi e constatò che era proprio lui. Aveva i
capelli color del grano
scompigliati, il volto trafelato, gli occhi che, fermi, erano puntati
sui suoi.
Lei
aprì la bocca, interdetta, mentre lui la strinse ancora di
più.
«Eccoti»
le disse, alzando la voce per farsi udire sopra il fracasso, poi lo
vide
assumere una faccia angosciata «Ti giuro, non riuscivo a non
venire. E’ stato
più forte di me!»
Sora
percepì il cuore battere forte.
Le
aveva visualizzato il messaggio...
credeva non venisse... era così tranquilla, era
così serena del fatto che non fosse
venuto...
Aprì
la
bocca, cominciando a guardarsi freneticamente intorno.
«Victor,
che ci fai qui?» gli chiese allarmata, guardandolo con uno
sguardo impaurito.
Non
poteva stare lì... aveva paura...
doveva andarsene...
Che
diavolo aveva combinato?
Tentò
di sottrarsi dalla sua presa, barcollando un po’. Era
stordita e la vista
risultava a tratti appannata.
Il
cuore le era salito in gola.
Non
immaginava che avrebbe mai avuto timore
in quel modo in tutta la sua vita.
Si
sentiva tremare, voleva urlare, voleva
scappare...
«Aspetta,
Sora, lasciami spiegare!» esclamò lui,
trattenendola saldamente dai polsi.
La
ramata lasciò andare il bicchiere vuoto che
rotolò per terra.
Victor
la strattonò contro di sé e la fissò
con uno sguardo risoluto.
Doveva
allontanarsi, doveva andare via...
Dio, perché era venuto...
Non
stava capendo più niente, si trovava in un macabro limbo di sensazioni contrastanti, credeva di poter svenire.
«Non
puoi stare qui!» alzò la voce, intimorita,
sconvolta «Ti prego, devi
andartene!» lo supplicò.
Victor
rimase impietrito nel vederla in quel modo.
Opponeva
resistenza, sembrava volesse
urlare dalla paura. Continuava a guardarsi intorno con quegli occhi
velati
dall’alcol, lucidi, abbassati.
Scosse
la testa, mettendole una mano dietro la schiena per attirarla
maggiormente a sé.
«Come
pretendi che me ne vada?» le sussurrò contro il
viso, mentre con una mano le
accarezzava il volto.
Sora
rimase immobilizzata, completamente incapace di muoversi.
«Non
ce
la faccio a pensare a te qui» disse in tono duro.
La
ragazza scosse la testa, risvegliandosi dal trance in cui era caduta.
Sarebbe
successo qualcosa.
Se
non andava via era sicura del fatto che
sarebbe successo qualcosa di sconveniente.
Sentiva
i battiti del suo cuore accelerati, un’ondata di caldo la
pervase e continuò a
guardarsi intorno come fosse impazzita.
«C’è
il
mio fidanzato!» esclamò gravemente, facendo leva
verso di sé affinché potesse
liberarsi.
Victor
sembrava non avere intenzione di mollarla.
«Ti
prego, te ne devi andare... ti scongiuro...» lo
pregò, sentendosi d’un tratto
stanca, senza forze.
Si
fermò sul posto sentendo la testa girare.
Non
ce la faceva... sarebbe crollata...
Socchiuse
gli occhi, mentre l’altro la tirava dolcemente contro di
sé dai polsi.
«Io
sono innamorato di te, Sora» le confidò
guardandola negli occhi castani
traboccanti di lacrime.
Lacrime
di disperazione, frustrazione, timore.
Lo
guardò interdetta, la bocca semiaperta, incapace di
rispondere a ciò che le
aveva appena detto.
Era
innamorato di lei...
Le
aveva detto che si era innamorato di
lei.
Non
poteva essere...
Sentiva
le voci distanti anni luce.
Colpita,
affondata, sotterrata.
Colpito,
affondato, sotterrato.
Era
così che si sentiva in quel momento. Sentiva la testa
vorticare e un forte
senso di rabbia, tristezza, frustrazione sopprimerlo.
Tirò
un
sospiro, mentre si trovava lontano dal soggiorno, lontano dalla calca
di
persone che non smettevano di spingere, ballare, urlare.
Era
lui che avrebbe voluto urlare.
Abbassò
lo sguardo sulle scarpe, mentre ripensava a quello che era successo con
suo
fratello.
Takeru
lo disprezzava.
Non
lo stimava più, glielo aveva detto
semplicemente, lo aveva ucciso con solo quelle quattro parole.
Scosse piano
il capo, gli occhi lucidi, il peso di quelle frasi che gli rimbombavano
in
testa.
Mai
sarebbe arrivato a presagirlo.
Mai
in tutta la sua vita avrebbe potuto
pensare che il rapporto con TK potesse vacillare in quel modo talmente
brusco e
straziante.
Mai
avrebbe immaginato di non poter più
contare sull’appoggio del suo fratellino.
Era accostato
contro la cucina, accanto al muretto dell’entrata. Udiva la
musica provenire
dal salotto, le urla, il vociare.
Aveva
bisogno di staccare. Non riusciva più
a reggere quel chiasso, gli doleva la testa per colpa
dell’alcol, del nervosismo,
di tutto lo stress che aveva subito in quei mesi.
In
quegli anni turbolenti.
Si
portò una mano alla testa, stringendola.
Sarebbe
scoppiato.
Si
sentiva arrivato al limite...
Era
sicuro che se solo la goccia fosse
caduta male avrebbe fatto traboccare tutto il vaso.
«Daisuke,
io ti giuro sopra il Crocifisso che non la passerai liscia!»
udì esclamare
dalla voce acuta e petulante di Joe.
Spostò
appena lo sguardo e lo vide nella stessa traiettoria del piano cucina,
accanto
al frigorifero. Con un giornale sventolava Davis, il quale era
letteralmente
spalmato sopra una sedia, ubriaco e strafatto.
«Mi
avevi promesso che non avresti fatto il bufalo inferocito per non farmi
fare la
figura degli zulù e poi vai ad aizzarmi Takeru! Proprio Takeru!» sentì
ancora dire dal maggiore.
Chiuse
gli occhi per dei secondi non appena sentì nominare il
fratello.
Non
avrebbero recuperato mai più il
rapporto...
Era
tutto perso...
Andato...
La voce
stridula di Joe lo portò nuovamente alla realtà.
«Che
cos’hai in testa, noci?!» inveiva contro Daisuke
con in volto un’espressione
inviperita, ma risoluta «Te le spacco subito subito nel
caso!» fece un gesto
lesto per fare intendere che lo avrebbe rimesso sulla buona strada a
suon di
mazzate.
Il
ragazzo emise un suono gutturale dalla bocca, portandosi le mani sul
capo.
«Non
urlare, Joe, mi scoppia la testa...» borbottò
facendo una brutta smorfia con il
naso.
Questi,
nel frattempo, aveva posato il giornale e prendeva uno strofinaccio da
un
cassetto. Lo vide avvicinarsi e pulire il volto del più
piccolo con
un’espressione disgustata.
«Quando
la smetterai di sniffarti anche la colla sarà un giorno di
prosperità... Vuoi
un po’ d’acqua? Un succo al kiwi? Bevi
qualcosa, bestia, altrimenti...»
sentì aprire il frigorifero e le bottiglie tintinnare.
Matt si
isolò nuovamente, udendo in sottofondo le voci ovattate dei
due.
Aveva
voglia di andare a casa.
Voleva
lasciare quella festa e rintanarsi a
letto, coprirsi da quel gelo che sentiva dentro di sé e
dormire.
Dormire
fino a dimenticare perfino chi
fosse...
Alzò
gli occhi cerulei e guardò apaticamente verso il soggiorno.
Le vetrate del
separé erano scorrevoli ed erano state lasciate aperte.
Per un
po’ non pensò a nulla, fino a quando una visione
strana gli apparse davanti.
Sora...
Era
Sora quella ragazza che intravedeva
dalla vetrata. Era voltata di spalle, ma la riconosceva; riconosceva
nonostante
le luci alterne la sua tutina gialla, i suoi capelli ramati e mossi che
le
arrivavano fin sulle spalle.
Era
lei e non era sola.
Strizzò
bene gli occhi.
C’era
qualcuno lì con lei, qualcuno che aveva un aria familiare.
La teneva dalle
braccia e le parlava fitto, in tono confidenziale.
Cominciò
a sentire dei gorgoglii provenire dal suo stomaco. Era
come un segnale di emergenza, come se lo stesse mettendo in all’erta
da qualcosa.
Riconobbe
lo stesso ragazzo con cui l’aveva vista discutere la mattina
prima, fuori
dall’università. Era lo
stesso che aveva
visto, ne era sicuro.
Si
raddrizzò tenendosi dal mobile della cucina, facendo una
faccia interrogativa,
le sopracciglia contratte.
Perché
stavano parlando di nuovo?
Che
ci faceva quello in casa loro?
Non gli
risultava che fosse un conoscente di Joe. Doveva essere venuto
appositamente
per qualcosa, e il suo intuito gli suggeriva tempestivamente che la
voleva
proprio da lei.
Cominciò
a sentire dei campanelli d’allarme invadere la sua testa non
appena lo vide
attirarla contro di lui.
Strinse
la mascella e provò dei sentimenti contrastanti
così forti, una sensazione così
dannatamente pesante che gli procurò un peso allo stomaco.
Venne
distratto dal suono di un cellulare, e forse fu un caso che i suoi
occhi si
spostarono automaticamente verso quella direzione. Notò che
c’erano tre
cellulari riposti sul muretto all’interno di un cestino di
vimini, e riconobbe
tra di essi quello di Sora.
L’idea
che lo colse all’improvviso
probabilmente era scorretta, ma sentiva i battiti del cuore accelerati
e un
senso di angoscia sopprimerlo.
Lanciò
un altro sguardo al soggiorno, poi allungò la mano verso il
telefonino. Lo
prese e lo guardò per un po’.
Non
avrebbe dovuto farlo.
Sapeva
che non avrebbe dovuto farlo, sapeva
già che gli sarebbe costato caro.
Sentiva
delle profonde martellate al petto mentre lo sbloccava.
I
suoi sensi lo avvertivano, aveva un presentimento
talmente nefasto che gli veniva da vomitare.
Aprì
le
conversazioni e vide in cima una chat rinominata sotto il nome “Victor”.
Il
cuore continuava a tamburellare.
Con un
dito, subito aprì la foto del profilo. Era un ragazzo con i
capelli biondo
scuro, quasi castani, legati in una coda. Un sorriso smagliante, rideva
verso
l’obbiettivo.
Alzò
gli occhi che bruciavano verso la direzione in cui ancora si trovavano
e lo
riconobbe.
Era
lui.
Corrispondeva
al profilo.
Strinse
le labbra e premette sulla conversazione. Gli si aprirono numerosi
messaggi, e
scorrette su e giù, a casaccio, con la mano che gli tremava.
Udì
lontanamente Joe che imprecava contro Daisuke per qualcosa.
Nemmeno
riusciva a leggere tanto si sentiva offuscato, adrenalinico,
sopraffatto da una
serie di emozioni che lo stavano asfissiando.
Decise
di calmarsi, prese un sospiro e lesse qualche messaggio a caso.
Parlavano
di come stavano, come era andato
l’esame, il tirocinio... tutte cose di cui lui e Sora non
avevano mai
discusso... avevano una certa confidenza... parlavano di quando si
sarebbero
rivisti... di andare a bere uno Spritz insieme...
Il
cuore sembrava poter esplodere.
Scese
ancora fino agli ultimi messaggi.
La mano
gli tremò ancora di più.
“Non
riesco a non sentirti... quel bacio
per me ha significato più di quanto immagini...”
“Ti
prego, non venire. Ti spiegherò un’altra
volta”
VV
Alzò
lo
sguardo, gli occhi vitrei, i pezzi del suo cuore che si ruppero.
Li
udì fracassarsi in mille cocci...
Il
cellulare gli scivolò dalle mani.
Sentì
un dolore immondo espandersi dal suo petto, delle fitte percorrergli il
corpo.
Un senso di nausea lo pervase, gli salì fino alla gola e
pensò di dover
rigettare tutto.
Tutto
quello che aveva mangiato, tutto
quello che aveva bevuto, tutto quello che aveva dentro.
Non
era possibile...
Doveva
essere un incubo, doveva essere
tutta una finzione... non poteva crederci...
Era
tutto un incubo...
Non
era reale.
Rimase
per dei secondi fermo, senza riuscire ad assimilare ciò che
aveva appena letto.
Si sentiva come in shock, si sentiva alienato dal suo corpo, estraneo a
tutto
quello che lo circondava.
I
rumori erano distanti, ovattati, come se fossero fuori da una bolla.
Non
ci poteva credere...
Sora...
La
sua Sora...
Guardò
ancora verso la vetrata da dove si intravedevano i due. Vide lui che
ancora la
tratteneva e, d’un tratto, realizzò.
Realizzò
cos’era successo, cosa aveva appena scoperto e una sensazione
estenuante gli si
propagò dal petto.
Cominciò
a sentire sentimenti contrastanti tutti insieme, una flotta di
sensazioni
negative che lo invadevano.
E
il cuore...
Bum...
Bum...
Bum...
Poteva
sentirlo così nitido, così vicino...
Strinse
i pugni improvvisamente e in volto gli si disegnò
un’espressione folle.
Poteva
sentire la rabbia, il dolore, l’umiliazione, la vergogna
tutte insieme, tutte
nello stesso istante.
Sentì
il vaso traboccare ed andare in
frantumi...
Le sue
gambe si mossero automaticamente verso l’uscita della cucina.
Cominciò a non
capire più niente, aveva solo in testa un pensiero fisso.
Voleva
fargli del male.
Voleva
toglierlo di mezzo.
Voleva
ammazzarlo.
Nel
viso era irriconoscibile, e sbatté forte la porta quando
attraversò la soglia,
attirando l’attenzione di Joe su di sé.
«Bevi
piano che è più ghiacciata del Monte Fuji...
cos-?» si bloccò da quello che stava
facendo, il bicchiere pieno d’acqua in mano.
Vide
Yamato uscire dalla cucina come una furia e, improvvisamente,
collegò quanto
stava succedendo.
Come se
fosse una scena a rallenty, il maggiore gettò un urlo
allarmato, stringendo
forte il bicchiere tra le dita e spruzzando in faccia l’acqua
a Daisuke.
«FERMATELO!»
gridò con tutta la forza che aveva in corpo, chiudendo gli
occhi e alzando la
testa al cielo.
Matt
era entrato nel soggiorno tenendo gli occhi fissi al suo bersaglio.
Senza
lasciar trasparire un segno di risentimento, spostò con
forza le persone che lo
intralciavano.
Sentiva
la rabbia prenderlo dai capelli, la disperazione farlo suo.
Spostò
da un lato un povero malcapitato che si era ritrovato per caso davanti
il suo
passaggio e poi, con un calcio, ribaltò il tavolino sopra il
quale vi erano
riposte le bottiglie di vetro e i bicchieri che si fracassarono di
rimando.
Sora si
voltò all’improvviso, spaventata, e lo vide andare
contro di Victor con una
luce negli occhi che non aveva mai visto prima. Aprì la
bocca, ma non ne uscì
alcun suono, perché Yamato lo aveva afferrato dal collo e lo
aveva trascinato via.
Non
appena la ragazza realizzò, si portò le mani alla
bocca e lanciò un urlo.
Il
biondo lo aveva inchiodato contro il muro, lo stringeva e lo fissava
con il
demonio impresso negli occhi.
«Figlio
di puttana!» ringhiò, per poi lanciarlo con forza
sopra il divano e prenderlo a
pugni.
Le
persone si scansarono impaurite, lasciando che si creasse un vuoto
attorno a
loro. Victor tentò di scrollarselo di dosso con scarsi
risultati, mentre Matt
lo prendeva dalla nuca e lo spingeva di nuovo contro il muro.
Sora,
disperata e con le lacrime agli occhi, si avvicinò tentando
di fermalo.
«No,
Matt! Ti prego!» gridò, afferrandolo da un braccio
«Ti prego! Lascialo stare!»
la sua voce sfiorava l’isteria, il corpo tremava di paura.
Quello
scansò la sua presa e si avventò nuovamente
sull’altro, il quale, riuscendo per
dei secondi a liberarsi, mise le braccia davanti e tentò di
bloccarlo dal
lanciarglisi addosso.
Matt venne
spintonato all’indietro, e quella reazione lo fece adirare
ancora di più. Gli
si scaraventò addosso e lo colpì allo stomaco,
mentre l’altro si attaccò alla
sua schiena e riuscì a difendersi restituendogli un colpo.
Nel
frattempo, Joe era entrato in soggiorno e aveva scavalcato le persone
che,
interdette, non sapevano che fare, impaurite dal modo cruento con cui
si
stavano pestando.
«Qualcuno
lo fermi!» strillò con una voce acuta che sfiorava
gli ultrasuoni «AIUTO!» si
rivolse con gli occhi fuori dalle orbite verso dei suoi conoscenti
«Porca
vacca zozza!» si portò le mani alla faccia
disperato e incapace di fare
qualcosa.
Non
avrebbe mai potuto fermare Yamato da solo. Aveva una forza
impressionante,
mentre lui si rompeva come un grissino fresco.
Vide la
figura di qualcuno che tentò di togliere Matt da sopra
l’altro, ma non fu una
buona idea, perché il biondo si infervorò ancora
di più e, con un gesto repentino,
spinse contro il divano anche quello.
Joe
spalancò
le orbite non appena lo vide scaraventare Victor contro un mobiletto e
far
cadere quello che c’era sopra, tra cui delle statuine di
porcellana che gli
aveva regalato sua nonna.
Si
morse la lingua e lanciò un urlo disperato.
Sora
era immobile, paralizzata a guardare la scena. Non riusciva a muovere
un arto, era
in stato di shock completo. Le lacrime le sgorgavano fuori come un
fiume in
piena e si spaventò a morte non appena Matt strinse ancora
il collo dell’altro.
«Ti
ammazzo!» udì dire al biondo in faccia al ragazzo,
e sentì di poter crollare da
un momento all’altro.
Il
cuore le martellava al petto e il corpo era pervaso dagli spasmi.
«Mio
Dio!» urlò, non appena lo vide bloccare Victor
contro il mobile
«Lascialo
stare! TI PREGO!» ma non venne ascoltata, anzi, quelle urla
di difesa non
fecero altro che incrementare nel biondo la voglia di fargli ancora di
più del
male.
Lo
alzò
dal mobile e lo spinse per terra.
Non
appena videro quella scena, alcune persone cominciarono ad andare via.
Joe
tentò di fermarle, saltando su un piede e l’altro,
e cercando di pararsi di
fronte per occultare la scena.
«Non
sta succedendo niente, signore e signori, non preoccupatevi!»
esclamava,
tentando di mantenere un sorriso finto sul volto, mentre le persone lo
guardavano intimorite e andavano via
«E’
solo una scenetta di intrattenimento!» continuava a
saltellare costringendosi a
ridere, ma quello che ne uscì fuori fu solamente un nitrito
isterico.
Si
voltò a fissare quello che stava succedendo e strinse i
pugni. Poi si rivolse
nuovamente ai suoi amici e colleghi.
«Continuate
a ballare!» urlò in preda alla schizofrenia,
afferrando a caso delle persone e
spingendole da un lato
«Continuate!»
corse verso varie direzioni, acciuffando un tizio che stava cercando di
sgattaiolare fuori.
«CONTINUATE!»
strillò tra i denti, esibendo un’ espressione
imbizzarrita con un luccichio
folle riflesso negli occhi.
Il
malcapitato fece una faccia spaventata, e Joe lo spinse con forza
disumana
sopra una sdraio in balcone.
Si
girò
sentendo un fracasso provenire da dietro. Victor aveva delle ferite in
viso e
aveva il fiato corto, spezzato.
Quando
il biondo fece per lanciarglisi ancora addosso, lo strinse dalle gambe
e riuscì
a spingerlo a sua volta contro il muro.
Matt
aveva a suo volta il fiato pesante e il rivale ne approfittò
di quel momento di
debolezza per sferrargli un pugno di contrattacco.
Sora
cacciò un altro urlo.
In
quello stesso frangente, apparvero sulla soglia TK e Kari, attirati dal
frastuono
e dalla gente che si era riversata a guardare.
La
castana spalancò gli occhi non appena vide quella scena, e
si voltò verso il
fidanzato che fissava con un cipiglio suo fratello scontrarsi con
l’altro.
«Fa’
qualcosa!» lo supplicò la ragazza, tirandolo da un
braccio «Per l’amor di Dio!»
esclamò, portandosi una mano alla bocca.
Takeru
continuò ad osservarli senza fare una piega. Hikari,
sconvolta, lo strattonò
con forza.
Perché
si comportava in quel modo?
«E’
tuo
fratello!» lo scosse, tentando di farlo agire.
Il
biondino si tastò le tasche e tirò fuori una
sigaretta.
Era
ora che venisse a contatto con i suoi
demoni.
Solo
in quel modo avrebbe capito.
Se
l’accese e fece un paio di tiri.
Victor
era riuscito a primeggiare su Matt per un po’, fino a quando
quello non oppose
resistenza e lo bloccò dal busto, per poi prenderlo e
trascinarlo sopra il
mobile su cui era ritta la TV e le casse.
Joe
corse subito a togliere la televisione da là sopra, urlando
a più non posso
parole di protesta.
Victor
gli bloccò le mani che tenevano stretto il suo collo,
cercando di fargli
allentare la presa. Aveva la bocca piena di sangue.
«Non
ti
meriti una ragazza come lei» gli ringhiò con
ribrezzo, mentre il sangue gli
colava ai lati.
«Lasciala
andare se ci tieni un minimo» continuò a dirgli, e
quelle parole colpirono in
pieno Yamato ancora di più di quanto avesse potuto fare un
pugno in pieno viso.
Non
aveva torto...
Stava
dicendo il vero... era successo tutto
quello perché non se la meritava...
Strinse
di più la presa.
«Stai
zitto, bastardo!» la voce gli si incrinò tra i
denti e con una mano gli strinse
forte i capelli e lo scaraventò per terra.
Joe
lanciò uno sguardo a Sora che piangeva angosciata, e subito
pensò a una
soluzione. Le persone stavano andando via, e quelle che erano rimaste
si
facevano i fatti loro per non essere messe in mezzo.
Pensò
e
ripensò, e si portò all’improvviso una
mano al capo, socchiudendo gli occhi.
Avrebbe
fatto finta di svenire... così lo
avrebbero soccorso e le cose si sarebbero risolte...
Fece
per barcollare e gettarsi per terra, quando, improvvisamente, una
lampadina si
accese nel suo cervello.
«Porca
puttana, TAICHI!» urlò con gli occhi fuori dalle
orbite, chiedendosi dove fosse
quell’idiota e perché non ci avesse pensato prima.
Solo
Tai avrebbe potuto fermare Matt, ne era sicuro, era l’unico
che poteva tenergli
testa e farlo ragionare.
«Dove
cazzo è Taichi?!» strillò nel panico,
guardando da una parte all’altra della
sala, uscendo fuori e correndo per il balcone.
Il
castano non si trovava.
Non
l’avrebbe mai immaginato, ma aveva un
urgente bisogno di Taichi.
Ritornò
dentro come una furia e sorpassò Matt e Victor che si
stavano ancora picchiando
a vicenda, aprì con foga la porta scorrevole del corridoio e
si mise a urlare
come uno squilibrato.
Dove
era andato a finire?!
«TAICHI!»
urlò a perdifiato, spalancando la porta della sua stanza e
rimanendo di stucco
non appena una scena disgustosa gli si presentò davanti.
Fece
una faccia schifata, portandosi una mano alla bocca come se avesse
potuto
vomitare da un momento all’altro.
Koushiro
e la sua fidanzata si trovavano in atteggiamenti intimi sopra il suo
letto.
Il
suo letto.
Il
suo candido e immacolato letto.
Si
sentì svenire.
Era
tutto un complotto...
Dio,
perché ce l’hai con me?,
pensò
disperato.
«Questa
me la paghi, rosso mal pelo!» gli sbraitò contro,
mentre Izzy e Frankie lo
fissavano stralunati e senza veli, coperti solo dalle lenzuola.
Chiuse
la porta con forza, arrabbiato, continuando a correre come un matto
verso le
altre stanze. Le spalancò entrambe, ma non vi
trovò nessuno.
Provò
la sua ultima spiaggia e si diresse verso il bagno, muovendo su e
giù la
maniglia con foga.
«Taichi!»
urlò ancora, mentre si rese conto che la porta era serrata a
chiave.
Fece
una faccia di giubilo e pensò che forse l’amico
era lì dentro. Doveva
assolutamente farlo uscire da lì.
Cominciò
a bussare imperterrito e a trascinare su e giù la maniglia.
Mimi
aprì gli occhi che aveva tenuto chiusi fino a quel momento.
Tai era
sopra di lei e spingeva ritmicamente, affondando in
profondità, sempre di più,
fino a farle sentire delle sensazioni di piacere intenso, delle
sensazioni che
pensava di non poter provare mai più.
Le
braccia erano al suo collo, e con una mano gli stringeva i capelli.
Cominciava
a sentire un piacere così
talmente profondo da non capirci più niente.
Avrebbe
voluto spingesse in eterno proprio
lì, in quel punto che stava colpendo con vigore.
Cacciò
la testa all’indietro e chiuse di nuovo gli occhi.
L’orgasmo
la stava cogliendo, sentiva delle
scariche di piacere che le partivano da dentro e raggiungevano il suo
cervello.
Contrasse
il bacino, stringendosi ancora di più a lui.
Lo
sentiva, era vicino... le veniva voglia
di urlare per quanto era bello...
Ansimò
più forte, portando una mano sul sedere del castano
affinché non smettesse.
Non
doveva smettere... doveva continuare...
doveva spingere.. c’era quasi...
Quasi...
Lanciò
un urlo strozzato, lasciandosi andare all’orgasmo, sentendo
come un’esplosione
dentro di sé. Le gambe le tremarono, il respiro era corto e
irregolare, il viso
era stravolto e arrossato.
Tai si
accorse quello che era successo, e quella visione lo indusse a spingere
ancora
più forte, eccitato.
Vederla
venire lo aveva fatto impazzire...
Sentiva
il suo membro pulsare, stava per
arrivare anche lui, lo sentiva... Spinse
ritmicamente, con colpi
precisi e intensi.
Mimi
gli accarezzò una guancia, e quel gesto lo fece
letteralmente scoppiare.
Sentì
un’ondata di piacere avvolgerlo, capì che
l’orgasmo stava per cogliere anche
lui, allora fece per spostarsi da sopra di lei.
La
ragazza, però, lo strinse con le gambe contro il suo bacino
trapelando
sicurezza, e lui rimase per qualche secondo spaesato, prima di
abbandonare i
sensi e riversarsi completamente dentro di lei con un gemito
liberatorio.
Mimi
sentì un fiotto caldo pervaderla e tremò per il
piacere.
Era
venuto dentro di lei.
Non
era mai successo prima di allora,
nemmeno quando stavano insieme.
Il
ragazzo alzò lo sguardo e la guardò con il
respiro pesante, gli occhi che
trapelavano stupore, soddisfazione, sentimento.
Piano
abbassò il capo fino a farlo congiungere con la sua fronte.
Non
ci poteva credere... avevano fatto
l’amore... era stato così bello, così
intenso, così soddisfacente da sentirsi
stordito, confuso...
Era
così bella in quel modo...
Mimi
sospirò e socchiuse gli occhi. Sentì
distrattamente delle urla provenire dal
corridoio, ma nessuno dei due se ne curò.
Non
ce la faceva più.
Lo
voleva con tutta sé stessa...
Voleva
lui e solo lui... adesso lo sapeva,
lo sentiva sulla sua pelle, lo sentiva dentro il suo cuore...
«Ti
amo, Tai» mormorò d’un tratto contro il
suo viso.
Il
ragazzo si bloccò non appena udì quelle parole.
Fece un’espressione strana,
stupita, come se non avesse sentito bene.
Lo
amava?
Gli
aveva detto che lo amava ancora?
Il
cuore cominciò a martellargli nel petto, sentì di
voler dire qualcosa, di
volerle rispondere, ma la gola era secca.
Era
spiazzato, interdetto, non sapeva cosa
fare...
Glielo
aveva detto così all’improvviso,
spontaneamente, e adesso lo fissava con una luce speranzosa negli occhi
che gli
struggeva il cuore.
Quel
silenzio venne squarciato improvvisamente da dei colpi insistenti alla
porta.
«Taichi!»
lo chiamava qualcuno di vagamente familiare
«Esci,
TAICHI!» urlava, ma lui non sentiva.
Guardava
la ragazza sotto di sé e non si capacitava di quello che
aveva appena udito.
Lo
amava...
Mimi
lo amava...
I colpi
s’intensificarono, e Mimi si morse il labbro intimorita
vedendolo indugiare per
così tanto tempo.
Forse
era stata precipitosa, forse avrebbe
dovuto aspettare... magari non se l’aspettava, non se la
sentiva di dover
ascoltare quelle parole così importanti...
Non
appena il ragazzo fece per aprire bocca, un calcio colpì la
porta.
«Taichi! Yamato sta pestando a sangue
uno! ESCI DI LI’!» la voce isterica di Joe irruppe
nelle loro orecchie e li
riportò improvvisamente alla realtà, rompendo
quell’idillio che si era creato.
Il
castano spalancò gli occhi non appena sentì
nominare l’amico. Alzò la testa
allarmato, assimilando quello che era stato detto.
Udì
dei
rumori forti provenire dal soggiorno, e subito uscì da Mimi
con un balzo. Si
ripulì in fretta e si rialzò i pantaloni.
«Cazzo!»
imprecò, mentre si abbottonava in maniera disuguale i
bottoni.
Sentì
la preoccupazione avvolgerlo, e Mimi, a sua volta, si rialzò
le mutandine e
tentava di abbassarsi il vestito con difficoltà.
Era
successo qualcosa a Yamato, doveva
correre...
Senza
pensare ad altro, girò la chiave nella toppa e
spalancò la porta, facendo fare
un balzo a Joe all’indietro.
Quello
lo guardò stralunato, accorgendosi poi della ragazza dietro, ma Tai aveva
incominciato a correre verso il salotto e il maggiore si rimise in
piedi,
seguendolo.
Entrò
di corsa e vide Matt scagliarsi contro un ragazzo che non conosceva,
prenderlo
dai capelli e spingerlo con la faccia contro il muro.
Spalancò
gli occhi, intimorito, e subito scansò le persone per
potersi avvicinare.
Che
cos’era successo?
Perché
faceva in quel modo?
Non
riuscì a trovare delle risposte adatte ai suoi interrogativi
perché il biondo
si era avventato nuovamente contro l’altro, e fu costretto ad
intervenire
subito.
Gli si
lanciò addosso e lo bloccò da dietro la schiena,
stringendolo forte. Matt si
sentì agguantare e mollò per qualche secondo la
presa da Victor, sanguinante e
senza forze.
«Matt!»
urlò Tai, tentando di scansarlo dal ragazzo, nonostante
opponesse resistenza.
«Che
cazzo sta succedendo?!» gli chiese, senza essere ascoltato.
Il
biondo cercò di togliere le mani dell’amico e per
un po’ lottarono in quel
modo. Tai lo tenne ben stretto, ma Matt fu più lesto,
riuscì a liberarsi
facendo barcollare il castano all’indietro, e si
lanciò nuovamente come una
furia contro Victor.
Gli
tirò un calcio, facendolo accasciare per terra.
«Lascialo!
» gridò Tai, e si lanciò nuovamente
addosso per fermarlo. Lo strinse con le
braccia imprigionando le sue, e il biondo non ce la fece più
a muoversi.
Tentò
ancora di liberarsi e, non riuscendoci, allungò una gamba
per rifilare un altro
calcio al malcapitato.
«Lascialo
ho detto!» Il castano lo spinse contro il muro, facendo
spostare le persone
terrorizzante da quanto stava succedendo.
Il
biondo non ne voleva sapere di cedere. Gli lesse negli occhi la furia,
la
rabbia, la frustrazione. Rimase interdetto di fronte a tutto quello che
traspariva dallo sguardo.
«YAMATO!»
lo scosse, e con una mano lo tenne dalla nuca, stringendogli i capelli
per
farlo rinsavire.
Matt
fece una smorfia di dolore, allora lui ne approfittò per
prenderlo dal volto
con entrambe le mani.
«Guardami»
gli intimò, ma quello aveva il volto arrossato, il fiato
spezzato, e guardava
verso la direzione di Victor con l’odio negli occhi
«Guardami, Matt» lo scosse
più forte, facendogli emettere un ringhio.
Provò
ancora a mollarsi, ma Taichi fu più risoluto.
«GUARDAMI,
CAZZO!» gli urlò in faccia, facendo congiungere la
fronte a quella sua.
Matt
spostò gli occhi velati dalla rabbia verso di lui, e Tai
cercò di trasmettergli
con la forza dei suoi calma e sicurezza.
Piano
il ragazzo cominciò a respirare in modo più
regolare, ipnotizzando dallo
sguardo magnetico dell’amico, cominciando a calmarsi a mano a
mano.
Victor
era per terra dolorante e sanguinolento, e Sora accorse subito per
vedere come
stava. Si abbassò per terra e lo tenne da un braccio.
Matt
spostò lo sguardo e la vide.
Quella
scena gli provocò un dolore così atroce che non
riuscì a reggere. Con una
smorfia sofferente, tolse le mani dell’amico da sopra il suo
volto, lanciando
un urlo disperato.
Tai
indietreggiò
per la spinta. Lo vide d’un tratto sorpassare le persone e
andare in direzione
dell’uscita.
Si
voltò a guardare ciò che era successo.
C’era il tavolino ribaltato, le
bottiglie in cocci di vetro, dei soprammobili rivoltati.
Vide
quel ragazzo per terra e Sora vicino a lui che lo tratteneva.
Aprì la bocca
senza capire cosa fosse successo, mentre gli occhi pieni di lacrime
della
ragazza si posavano sopra i suoi.
Ebbe
l’istinto di avvicinarsi a lei, per qualche secondo fu
combattuto sul da farsi,
ma poi sentì che doveva andare da Yamato, e allora si
voltò e corse verso la
direzione in cui era sparito.
Mimi
sopraggiunse nello stesso frangente in cui il ragazzo scappò
via. Lo vide
uscire fuori dalla porta correndo.
Un
senso di vuoto la colse.
Cambiò
espressione non appena spostò lo sguardo e vide Sora
accasciata per terra,
chinata su un ragazzo sanguinante.
Spalancò
gli occhi, spaventata, e si portò una mano alla bocca.
La
ramata mise le mani sulle spalle di Victor per sorreggerlo, sentendo
distrattamente
i pezzi del cuore che volavano via.
«Mi
dispiace...» sussurrò con un’espressione
vacua, gli occhi all’infuori, le
orecchie che oramai sembravano assordate.
Quello
si portò una mano contro il naso e si ripulì il
sangue con la manica. Alcune
persone si avvicinarono per soccorrerlo. Lo misero in piedi e lo
trascinarono
verso la cucina.
Sora si
rialzò automaticamente, guardando il vuoto.
Era
stata tutta colpa sua...
Aveva
causato un errore madornale che non
poteva mai e poi mai essere messo apposto...
Aveva
rovinato tutto...
Tutto...
Era in
stato di shock, e piano si accasciò contro il muro, sentendo
di poter scivolare
rovinosamente per terra da un momento all’altro.
Mimi la
notò e subito si lanciò in suo salvataggio,
afferrandola prima che toccasse
terra. Si accasciarono insieme, mentre l’amica la strinse tra
le braccia.
Era
tutto finito...
Tutto
finito...
Le
persone andavano via. Uscivano dalla porta sconvolte, scosse da tutto
quello
che era successo.
Era
tutta colpa sua...
Joe le
guardava con gli occhi sbarrati. Tentava di fermarle per non farle
andare,
biascicando scuse che non reggevano affatto.
Aveva
rovinato tutto...
Non
appena si rese conto che la festa era stata sabotata, si
voltò ad esaminare in che stato era la casa. Era tutto ribaltato. Il tavolino, le sedie,
l’alcol
tutto per terra... la bomboniere e i soprammobili frantumati, i
centrini
scomparsi, il divano sporco di sangue...
Gli
prese un colpo al cuore e cominciò ad urlare.
«FIGLI
DEL DEMONIO!» si piegò in due dalla rabbia
«BASTARDI! SODOMITI!» non appena lo
udirono imprecare in quel modo, anche le ultime persone decisero di
andarsene.
«Avete
rovinato la mia festa! Avete buttato
all’aria tutto!» stringeva i pugni e si dimenava
«Perché, perché devo meritarmi
questo?!» ripensò alla sua laurea e a quello che
aveva dovuto passare, ai
sacrifici di una vita intera, allo studio, ai soldi.
Le
lacrime spuntarono amare nel bordo dei suoi occhi. Lanciò
uno sguardo
assatanato in direzione di Sora tra le braccia di Mimi, la testa
appoggiata
sulla sua spalla, lo sguardo fisso senza vedere realmente.
«Questo
puttanaio in casa mia!» la indicò, incolpandola
con fervore e disprezzo «Questo
disonore in casa mia il giorno della mia laurea!» si
portò le mani ai capelli,
strappandosi alcune ciocche «Sacrilegio disumano! IO VI
MALEDICO!» continuò ad
imprecare in piena crisi isterica.
Takeru
chiuse gli occhi con un sospiro e voltò le spalle. Mentre le
urla di Joe
continuavano a propagarsi per la casa, uscì in balcone. Kari
se ne accorse e lo
seguì con il cuore che le usciva dal petto per lo sgomento.
Sora
alzò appena gli occhi e li puntò sulla cucina.
Sembrava una scena a rallenty.
Victor era vicino ai fornelli, mentre qualcuno si stava premurando di
medicarlo. Lo vide fare delle smorfie di dolore ad ogni tocco sul suo
viso.
La ramata
sentì le lacrime agli occhi. Incrociò il suo
sguardo e i due si guardarono
intensamente.
Era
stata tutta colpa sua...
L'espressione di Victor era indecifrabile. Si guardarono per
qualche secondo, poi il ragazzo scansò la mano di Cody e lasciò la
cucina raggiungendo l’uscita.
La
ragazza si sentì morire.
«Mi
dispiace... mi dispiace tanto...» sussurrò
addolorata, mentre le lacrime
sgorgavano da sole e tracciavano delle linee sulle sue guance.
Sarebbe
stato meglio morire piuttosto che
vivere tutto quello.
Mimi la
strinse forte a sé, chiudendo gli occhi in
un’espressione angosciata, sentendo
a sua volta le lacrime premere per uscire.
Le
accarezzò la testa amorevolmente.
Joe si
era gettato a terra e pestava con i pugni contro il pavimento.
«Cosa
ho fatto di male per meritarmi tutto questo?!» ululava
piangendo come un matto,
la faccia per terra. Emise un lamento simile ad un nitrito.
«Sono
un uomo di fede... un uomo puro e buono come il pane...»
disse penosamente,
mentre le ultime persone che si trovavano fuori dal balcone andavano
via.
Lui
alzò un braccio in direzione di quelle.
«Non
andate via, vi prego!» le pregò, strisciando
invano verso di loro «Non
andate...» disse in un lamento acuto e spezzato, mentre il
braccio ricadeva per
terra.
Nel
frattempo, Luchia rientrò dentro. Vide tutto quello che le
si presentava
dinnanzi senza sbattere ciglio, la solita faccia austera, lo sguardo
altero.
Tra le
dita teneva un lunga sigaretta. Fece un paio di tiri e
sorpassò Joe che,
prostrato per terra, singhiozzava.
Arrivò
fino in cucina e vide dei tovaglioli ripieni di sangue e del ghiaccio
squagliato. Il suo sguardo fu catturato da qualcosa che era per terra.
Afferrò
il cellulare e vide che lo schermo era ampiamente rigato.
Strinse
le sopracciglia e si avvicinò a passi eleganti verso di Sora.
«Questo
deve essere tuo» le disse piatta, porgendoglielo.
La
ramata la guardò in pena. Allungò un braccio in
maniera automatica e lo afferrò.
Capì
tutto.
Lo
strinse in una mano.
Era
tutto finito.
Tutto...
La
sua vita era finita...
Scoppiò
a piangere disperata, mentre Luchia si allontanava lasciando dietro di
sé una
scia di cenere.
Mimi la
strinse ancora più forte, sconvolta, e le lacrime colsero
anche lei. Joe urlava
ancora miserabilmente.
Erano
colpiti, affondati, sotterrati.
Erano
cenere.
Cenere
che era appena volata via...
Taichi
corse in direzione di Yamato. Con il respiro affannato tentò
di stargli dietro,
vedendolo correre a sua volta senza fermarsi.
Lo
chiamò a squarciagola, ma quello non si fermò.
Lo vide
sorpassare l’isolato e scagliarsi contro dei bidoni della
spazzatura che si
trovavano ai lati della strada. Lanciò dei calci
così talmente forti da farli
rotolare per terra, i rifiuti sparsi per la strada, le bottiglie in
vetro fare
rumore nell’impatto.
Lo
sentì urlare e ribaltare tutto.
«Yamato!»
lo chiamò, raggiungendolo «Fermati!
FERMATI!» gridò, la voce amalgamata al
rumore dei bidoni che si fracassavano.
Chiuse
gli occhi dal fastidio, mentre Matt si fermava e respirava
pesantemente. Vide
il suo petto alzarsi e abbassarsi ritmicamente, il volto scuro, i
capelli
appiccicati alla faccia.
Emise
un ringhio e si lasciò cadere sul marciapiede, sedendosi e
portandosi le mani
alla nuca.
Taichi
lo sentì piangere e si avvicinò preoccupato.
Cosa
diamine stava succedendo?
«Perché
fai così?» gli domandò basito,
guardandolo dall’alto.
Il
biondo non rispose, continuò a piangere con le mani sul
volto sanguinante,
emettendo dei suoni sofferenti e disperati.
Tai
strinse i pugni.
Doveva
smetterla.
Doveva
uscirne.
«Amico,
non puoi continuare a reagire in questo modo, ti prego...»
disse esasperato,
tra i denti «ti fai del male così... questa
gelosia è troppo!» esclamò in tono
duro.
Doveva
controllarsi, per diamine...
diventava ingestibile, non riusciva a fermarlo nessuno...
Si
tastò il polso che gli faceva male per la presa.
Matt
non disse nulla. Lo vide scuotere la testa e continuare a tirare su con
il
naso.
Quella
sua mancata reazione lo fece arrabbiare ulteriormente.
Si
distruggeva da solo ed esasperava Sora
in quel modo. Non era salutare. Era nocivo. Era terribilmente
annientante.
Doveva
smetterla...
Aveva
fatto andare via tutti... aveva
rovinato tutto...
Tutto.
«Rovini
la vita a Sora!» sbottò, infervorato
«Non puoi scaricare la rabbia contro le
persone solo perché sei geloso!» lo vide
abbassarsi e poggiare la testa sopra
le braccia. Strinse ancora di più i pugni, adirato.
Non
capiva niente.
Faceva
sempre di testa sua e mandava
all’aria tutto!
Era
pericoloso, perdeva la ragione... non
ce la faceva più a stargli dietro in quel modo...
«Non
ne
hai motivo!» lo redarguì di nuovo, ma ancora una
volta non trovò reazione «Hai
capito? E’ da stupidi! E’ da insicuri!»
sembrava fosse piombato in un silenzio
disperato e assordante e odiava quando faceva in quel modo.
«MATT!»
lo richiamò brusco, tanto che la sua voce
rimbombò per la strada.
Il
biondo alzò all’improvviso il viso rigato dalle
lacrime, il sangue che
fuoriusciva dal labbro e lo fissò con uno sguardo
martoriato, uno sguardo che
conteneva rabbia, ma anche un’espressione spenta.
Come
se fosse morto dentro.
«Mi ha
tradito, Tai!» urlò, schiaffandogli in faccia
ciò che era successo, ciò che
aveva scoperto leggendo quei due soli messaggi.
Lo
aveva tradito...
Sora
lo aveva tradito...
Strinse
i denti e le lacrime continuarono a sgorgare.
Il
castano aprì la bocca, fermandosi.
«C-cosa?»
biascicò incredulo, sentendo la voce tremare.
Il
biondo lo guardò ancora e poi chinò nuovamente il
capo.
Tai
rimase interdetto, ritto davanti a lui. La mente lavorava frenetica e
tentava
di trovare un senso a ciò che aveva appena sentito.
Era
stato tradito.
Era
vero?
Matt
era stato tradito da Sora...
Non
era possibile, doveva esserci un
errore... uno di quegli errori madornali che andavano corretti...
Gli
occhi erano spalancati, il cuore gli batteva forte dentro il petto.
Udì
ancora i singhiozzi dell’amico, e lentamente,
cominciò ad assimilare.
«Dio
mio, no...» mormorò sconvolto, realizzando che
quello che gli aveva detto
corrispondeva alla realtà.
Spontaneamente,
si piegò all’altezza dell’altro e si
sedette accanto a lui. Portò un braccio
attorno alle sue spalle e lo attirò a sé, facendo
scontrare le loro fronti.
«Mi ha
tradito...» ripeté Yamato, disperato, non appena
percepì la stretta dell’amico,
sentendo di potersi lasciare andare a lui, sfogarsi, mostrarsi debole.
Il
dolore lo stava straziando.
Lo
aveva spezzato in due.
Tai
guardava la strada senza vederla realmente, il pianto di Matt gli
rimbombava
nelle orecchie.
Era
l’unico rumore che poteva udire intorno.
Erano
distrutti.
Colpiti,
affondati, sotterrati...
Nient’altro
che cenere.
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Capitolo 11 *** Silenzio ***
Salve a tutti.
Prima di passare al capitolo,
volevo semplicemente appellarmi alle persone che
seguono la storia. Mi sento un po' insicura arrivata a questo punto; la
mancanza dei vostri pareri, per quanto le letture persistano, mi
scoraggiano.
Arrivati ad una fase clou della narrazione mi piacerebbe sapere cosa ne
pensiate, se
quella cosa vi è piaciuta, se, al contrario, non siete stati
proprio d'accordo.
Non chiedo niente di così particolare, semplicemente la
vostra sincera opinione
in poche righe. Continuare a pubblicare come
archivio personale mi va bene, io alla fin fine scrivo principalmente
per me
stessa, anzi; scrivere questa storia dopo tanto tempo che ero ferma mi
ha
davvero fatto star bene. Però pensare che questo non arrivi
mi rende davvero
insicura se continuare, penso di star sbagliando qualcosa se non vale
la pena
spendere un solo secondo per lasciare una piccola recensione. In
mancanza di
sostegno mi sento un po' scoraggiata e temo di avere
difficoltà a continuare a
postare. O perlomeno, potrei prendere ancora più tempo di
adesso proprio perché
non trovo qualcuno che sente la storia veramente. Confido che qualche
lettore
si faccia vivo. Ne avrei davvero bisogno.
Buona lettura!
Il
silenzio della notte.
Notte
che invadeva le strade, le vie, i
palazzi, il cuore.
Notte
che copriva tutto con il suo mantello
di oscurità.
Notte
fredda, crudele, solitaria,
silenziosa.
Taichi
alzò appena lo sguardo e lo volse verso l’altro.
Erano
sdraiati entrambi sul letto del biondo, a casa sua. Avevano percorso la
strada
senza dire niente, troppo sconvolti, disperati, dannati.
Le loro
certezze erano crollate d’un tratto, in un modo brusco,
violento, sotterrandoli
entrambi con le macerie.
Non
sarebbero risaliti mai più.
Non
avrebbero mai più rivisto la luce.
Sentì
Yamato muoversi accanto a lui. Era voltato dall’altro lato,
rannicchiato come
un fardello.
Chiuse
gli occhi per qualche secondo, udendo il silenzio regnare nella stanza.
Si
era chiuso in sé stesso.
Tanti
anni di fatica per farlo aprire, per
farlo parlare, e adesso si era ammutolito, si era serrato
all’interno del suo
essere, non lasciando trapelare nemmeno uno spiraglio.
Tai
sospirò, angosciato, triste.
Come
avrebbe fatto a rimettere insieme i
pezzi di Yamato?
Poteva
vederli lì, sparsi per terra, inermi...
Si
sentì in colpa per come si era comportato con lui. Lo aveva
rimproverato, lo
aveva giudicato senza dargli prima la possibilità di replica.
Forse
non lo avrebbe capito mai Yamato...
Forse
era colpa sua che voleva
assoggettarlo, voleva imporgli il suo modo di fare ignorando la sua
vera
natura.
Lo
sentì tirare su con il naso e lo guardò ancora.
Allungò un braccio e gli toccò
la spalla, sentendolo irrigidirsi non appena percepì quel
contatto.
«Matt...»
sussurrò nell’oscurità.
L’unica
luce che intravedeva era quella che filtrava attraverso le tapparelle
abbassate
a metà.
Era
tutto oscurità.
L’oscurità
di una notte che non avrebbero
mai dimenticato.
Lo
strinse più forte.
«Ti va
di parlare?» gli chiese con voce roca, sperando che si
girasse in sua
direzione.
Il
silenzio lo aveva inglobato.
Lo
aveva sotterrato, facendolo suo, in una sorta di tunnel angustiante.
Il
biondo negò impercettibilmente con la testa.
Ormai
faceva parte di lui.
Tai
sospirò.
Come
avrebbero fatto?
Sarebbe
stata una lotta contro il vuoto. Lo avrebbe risucchiati, non avevano
possibilità di salvezza.
Strinse
le labbra.
Forse
se solo lo avesse capito di più... se
solo fosse stato più presente in quegli anni...
Lo
avrebbe aiutato a non sprofondare.
Sentì
i
sensi di colpa attanagliare il suo petto.
Non
lo aveva mai capito realmente.
Lo
aveva lasciato lì, vittima del suo
destino...
Avevano
sempre avuto quel temperamento,
loro due. Andavano d’accordo, erano amici, ma talvolta le
loro idee entravano
così in contrasto e i loro caratteri prendevano subito fuoco.
Si
mischiavano così tanto da generare una
tempesta talmente fitta da coinvolgere chiunque era intorno.
«Non
puoi pretendere di avere sempre
ragione!» aveva urlato il castano, stringendo i pugni contro
l’amico.
Lo
guardava come volesse fulminarlo, mentre
l’altro aveva fatto una faccia disgustata, di sufficienza.
«Quello
che vuole avere sempre ragione sei
tu, Taichi» lo aveva rimbeccato «Io dico solo le
cose come stanno» soffiò
gelido.
Non
riuscivano a capirsi. Erano un continuo
scontro, una continua lotta a chi avrebbe prevalso.
«Guarda
che il presuntuoso sei tu!» sbottò
Tai con un tono ovvio «Non accetti opinioni diverse dalla
tua»
Un
continuo rinfacciarsi gli errori, un
continuo puntare il dito su chi, secondo l’altro, sbagliava.
Erano
fatti così.
Matt
aveva incrociato le braccia e gli
aveva rivolto uno sguardo cinico.
«Tu
dici cazzate, non opinioni» sputò in
tono sferzante.
Tai
si sentì offeso.
«Ah,
scusa, abbiamo di fronte il
paroliere!» esclamò sarcastico.
«Sicuramente
sono più equilibrato di te»
affermò l’altro senza far trasparire nessuna
emozione.
Il
castano strinse di più i pugni.
Lo
odiava quando faceva in quel modo!
«Ma
dai, con questa faccia di cazzo...» sibilò
provocandolo volutamente.
Matt
non se lo fece ripetere due volte.
Cedeva facilmente alle provocazioni, lo conosceva a memoria. Si
avvicinò pronto
a tirargli un pugno in viso.
Vennero
interrotti dall’arrivo improvviso di
Sora, che li fissava con in volto uno sguardo preoccupato ed esasperato.
«Che
state facendo?!» urlò loro contro,
afferrando entrambi dalle braccia «Siete sempre i soliti!
Smettetela! Sono stufa
delle vostre liti!» li redarguì.
Si
voltarono a guardarla automaticamente.
Aveva il potere di fermarli, di calmarli, li assoggettava con un solo
cenno o
parola.
Dopo
qualche secondo in cui non dissero
nulla, Matt le rivolse uno sguardo infervorato.
«Non
prendertela solo con me!» esclamò
duro, mentre Tai alzò la testa interrogativo
«E’ Taichi che provoca, lo sai»
continuò in tono ovvio.
Sora
aveva aperto per un attimo la bocca,
spaesata. Poi aveva stretto le mani al petto.
«Non
lo so, Matt, tu salti subito in
quarta!» lo rimbeccò facendo un sospiro
«Lo sai che è fatto così, quindi
non...»
Non
le lasciò finire la frase che aveva
preso ad urlarle contro.
«Non
te lo difendere troppo!» aveva
gridato, spiazzando entrambi.
Tai
aggrottò le sopracciglia, invece Sora
lo guardava intimorita.
«Una
volta nella tua vita dà ragione a me!»
continuò, rosso in viso, arrabbiato.
«Io
do ragione a te, cosa stai...» la
ragazza tentò di difendersi.
Matt
non volle sentire altro.
«Taichi
di qua, Taichi di là... E’ sempre
Taichi!» si voltò a fissarla con disprezzo, mentre
nel volto di lei si
disegnava una ruga di sconforto.
«Mi
hai rotto il cazzo!» lo sentì urlare, e
lì non capì più niente.
Si
avventò su di lui prendendolo dalla
maglia. Gli occhi erano incendiati. Lo spinse contro il muro.
«Insultami,
prendimi a botte, fai quello
che vuoi con me, ma non prendertela con Sora» gli
sibilò in volto, vedendo
l’espressione spaesata dell’altro.
«Mi
hai capito?» gli intimò.
Matt
aveva lanciato un ultimo sguardo alla
ragazza che a sua volta lo fissava con le lacrime agli occhi. Incapace
di
proferire altro, si mollò dalla presa dell’amico e
andò via.
Tai
guardò la direzione in cui era sparito
con uno sguardo serio, poi si era avvicinato all’amica e le
aveva circondato le
spalle con un abbraccio.
Ed era
vero.
Aveva
sempre messo Sora al primo posto rispetto a lui. Lei era parte
integrante della
sua vita, aveva sempre fatto parte di lui, fin da quando era piccoli.
Era
la prima bambina con cui aveva parlato,
l’unica amica femmina che aveva avuto, la sua prima cotta
infantile che non
avrebbe mai dimenticato.
Sora
era un punto fermo per lui, l’avrebbe
protetta sempre, anche a costo di andare contro Yamato.
Sospirò
pesantemente, sentendo il cuore che si sgretolava.
Dopo
la discussione, aveva raggiunto il
biondo a casa sua. Matt era rimasto stupito quando lo aveva visto
entrare,
soprattutto per il fatto che sembrava aver recuperato il buon senso.
Parlarono
un po’ tra di loro, ammettendo di
essere stati troppo precipitosi nell’essersi scontrati in
quel modo. Poi il
discorso verté su Sora, e Matt aveva abbassato lo sguardo
colpevole.
Tai
lo guardava appoggiato alla soglia del balcone
con una sigaretta tra le dita.
«Non
m’importa se sei geloso» proclamò,
rilasciando il fumo dalla bocca.
Il
biondo alzò lo sguardo e lo fissò
tagliente.
«Io
non sono geloso!» sbottò, sentendosi
imbarazzato.
Tai
gli lanciò uno sguardo scettico.
«E’
solo che... mi fa male quando non mi
capisce...» lo udì rispondere con un filo di voce,
mentre si scompigliava nervosamente
i capelli.
Il
castano scosse la testa facendo l’ultimo
tiro e spegnendo la sigaretta sul posacenere.
«Per
capirti ci vorrebbe scritta
un’enciclopedia di dieci volumi» berciò.
Matt
non rispose. Lo sentì sospirare con
afflizione, lo sguardo puntato sul pavimento.
«Chiedile
scusa» affermò poi lapidario dopo
dei secondi di silenzio.
L’amico
alzò lo sguardo su di lui e vi
lesse fastidio mischiato con la frustrazione di dover essere
rimproverato.
«Certo
che lo farò, per chi mi hai preso?!»
esclamò brusco.
Sapeva
di aver sbagliato e che la ragazza,
probabilmente, stava soffrendo per i suoi modi.
Tai
chiuse gli occhi per un attimo.
«Se
facessi del male a Sora non te lo
perdonerei mai» soffiò, mentre l’altro
lo guardava duro ma colpito.
Poi
li riaprì e lo fronteggiò, seppur da
lontano.
«Sei
il mio migliore amico, Yamato, ma non
me ne frega un cazzo quando si tratta di Sora» gli
uscì dalla bocca
semplicemente, come fosse ovvio.
Il
biondo strinse le sopracciglia. Tai gli
diede le spalle e volse lo sguardo verso il tramonto.
«Non
starò mai dalla tua parte contro di
lei» mormorò statuario.
Matt
sentì come uno schiaffo raggelante in
pieno viso. Lo vide voltarsi a guardarlo nuovamente.
«E’
bene che tu lo sappia» concluse.
Si
guardarono per un altro po’ di tempo,
poi il biondo annuì, consapevole che il posto che Sora
occupava nel cuore di
Taichi e viceversa era qualcosa che non avrebbe mai potuto spezzare e,
da
alcuni punti di vista, nemmeno equiparare.
Credeva
che il bene che provava per lei non avrebbe mai potuto mettersi a
paragone con
quello che provava per Yamato.
Ne
era così convinto, fino alla sera prima
ne era convinto, quando le si era avvicinato a parlarle per assicurarsi
che
tutto andasse bene...
Gli
aveva mentito.
Sora
aveva mentito a lui.
Tutte
le sue certezze crollarono.
Credeva
che quel rapporto platonico che
avessero fosse talmente forte da non ammettere le bugie, da non
ammettere frasi
non dette o dette a metà; lui si fidava così
tanto di lei, lei era la sua
certezza, una delle poche che aveva insieme alla sua famiglia.
Come
aveva potuto condannare Matt in quel
modo?
Dirgli
tutte quelle cose, spingerlo verso
di Sora, quando era lei ad essere marcia...
Sentì
gli occhi lucidi e si arrabbiò con sé stesso.
Lei
lo aveva sempre accecato in tutti
quegli anni.
Non
ci aveva capito niente quando aveva
saputo che si frequentavano alle sue spalle, non ci aveva capito niente
quando
aveva scoperto che Yamato se l’era portata a letto ed era
sparito, non ci aveva
capito niente quando si era reso conto che tra di loro la storia non
andava.
Era
stato cieco.
Aveva
così talmente sperato che la loro
relazione andasse bene, quasi lo aveva imposto, solo per non doversi
staccare
da loro, solo per non doversi dividere dall’uno e
dall’altra.
E
invece quel suo egoismo lo aveva portato
con i piedi per terra.
Sora
aveva tradito Yamato e lui era rimasto
lì, come un coglione che non aveva mai voluto credere alla
realtà dei fatti.
Strinse
le labbra triste, deluso.
La mano
era ancora sul fianco di Matt e lo strinse un po’ di
più.
«Lo
sai
che sono qui...» mormorò, mentre il tono di voce
gli si incrinò.
Non
riusciva a sopportarlo.
Gli
dava pena, sconforto...
Rabbia...
Il
biondo non rispose. Si limitò ad annuire piano con la testa
dopo un po’ di
tempo, tanto che Tai pensò se non lo avesse immaginato.
Con un gesto
spontaneo, avvicinò ancora di più il suo corpo
contro quello dell’amico in
maniera tale da averlo più vicino.
Voleva
solo che sapesse che c’era davvero.
Voleva
solo che sapesse che se per tutto
quel tempo lo aveva messo in dubbio, se non aveva creduto ai suoi buoni
sentimenti, se lo aveva posto in secondo piano da quel momento in poi
avrebbe
fatto tutto il contrario.
Dopo un
po’ di tempo, Taichi chiuse gli occhi, stanco e con la testa
che gli doleva.
Fece un
sonno agitato, popolato da strane presenze che si alternavano e gli
facevano
rivivere le scene che aveva vissuto poche ore prima.
Quando
le prime luci del sole entrarono dalla finestra, aprì di
nuovo gli occhi,
incapace di continuare a tenerli chiusi.
Constatò
se l’amico si fosse addormentato e, sentendo il suo respiro
regolare, tirò un
respiro di sollievo.
Dormendo
avrebbe lenito un po’ della sua
pena.
Tolse
il braccio da sopra di lui e si spostò di posizione con la
faccia rivolta al
soffitto.
Lui
però non riusciva a dormire.
Gli
ronzava in testa tutto quello che era
successo, e sentiva di dover fare qualcosa.
Doveva
parlare.
Doveva
capire.
Si
alzò
lentamente dal letto, stando ben attento a non svegliare il biondo. Si
mise le
scarpe e gli gettò un ultimo sguardo, prima di aprire la
porta di casa e
chiudersela dietro le spalle.
Silenzio.
La casa
era dominata dal silenzio.
I resti
della sera prima non erano stati ripuliti. Il tavolino era ancora
rivolto per
terra. Le carte, i bicchieri, le cicche di sigarette erano sparsi per
le
stanze.
Per
terra c’era del sangue, aveva lasciato dei segni anche sul
muro. Le sedie erano
in disordine, la luce della kappa della cucina era stata lasciata
aperta.
Silenzio.
Joe
dormiva sopra il divano, le gambe divaricate, le braccia incrociate al
petto.
Aveva la bocca aperta e gli occhiali spostati di traverso.
Il suo
russare squarciò il
silenzio.
Sora
aprì gli occhi a fatica. Il sole filtrava attraverso le
tende, gli uccelli
avevano preso a cantare, il rumore delle automobili si riversava in
strada.
Si
portò una mano alla testa che le doleva, spostando
apaticamente lo sguardo
accanto a sé, dove Mimi dormiva placidamente, un suo braccio
che la stringeva
dai fianchi come se potesse scappare via.
Sospirò
pesantemente, sentendo i primi spasmi di dolore coglierla. I ricordi
delle ore
precedenti la pervasero, e si sentì morire.
Cosa
aveva combinato?
Tirò
su
con il naso.
Come
aveva potuto pensare che non
succedesse?
Aveva
paura, aveva un senso di ansia sullo
stomaco che non le permetteva di respirare.
Si
sentì vuota, disperata, angosciata.
Le
lacrime cominciarono a invadere i suoi occhi.
Era
successo l’irreparabile... niente
sarebbe stato più come prima... adesso avrebbe dovuto
imparare a convivere con
il peso di quello sbaglio sulle spalle...
Come
avrebbe fatto?
Il solo
pensiero le provocò una disperazione tale che le lacrime
sgorgarono come un
fiume in piena.
Singhiozzò
senza riuscire a contenersi, mentre Mimi apriva gli occhi, disturbata
dal
rumore. La vide piangere e le si strinse il cuore.
Non
voleva vederla soffrire...
Non
voleva stesse male in quel modo... non
riusciva a vederla persa in quell’oblio... lei che era sempre
stata così forte,
così genuina...
Le
accarezzò i capelli.
«Sora...»
mormorò dolcemente.
La
ragazza scoppiò in un lamento ancora più forte,
lasciando l’amica con gli occhi
sbarrati per l’imponenza di quel pianto.
La
strinse in un abbraccio, ma Sora tentò di staccarsi,
disperata, i sensi di
colpa che le suggerivano che non aveva bisogno di essere consolata.
Doveva
soffrire, doveva pagare per il male
che aveva inferto ad una persona che l’amava...
Doveva
crogiolarsi nella più cupa delle
disperazioni, nella più cruda delle colpe fino a quando di
lei non sarebbe
rimasto meno che niente.
Passarono
alcuni minuti in cui Mimi la lasciò sfogare senza dire
nulla.
Aveva
bisogno di farlo, aveva bisogno di
buttare fuori tutto quello che sentiva.
Pian
piano, la ramata cominciò a calmarsi, asciugandosi gli occhi
con il palmo delle
mani. Lo sguardo si perse nella stanza, sentendo distrattamente il
ticchettio
dell’orologio che scandiva i minuti.
Con un
gesto repentino si mise a sedere sul letto.
La
castana le gettò uno sguardo preoccupata e, spontaneamente,
le strinse
delicatamente il braccio con una mano.
«Aspetta,
dove vai?» le chiese, mentre l’altra si metteva le
ciabatte ai piedi.
Non si
voltò a guardarla, ma poté sentire il tono
martoriato con cui le rispose.
«Devo
andare in bagno» e si staccò dalla sua presa per
poi trascinarsi a tentoni
verso la porta ed aprirla.
Appena
andò via, Mimi si lasciò andare in un sospiro
triste.
Era
successo un casino.
Non
sapeva neanche come descrivere ciò che era accaduto poche
ore prima. Era stato
tutto così improvviso e inaspettato che ancora stentava a
crederci.
Alzò
le
braccia sul cuscino.
Era
stato un duro colpo per lei vedere la
sua migliore amica accasciata in quel modo. Vederla crollare era stato
bruttissimo, era come se le si fosse frantumato un enorme scoglio
proprio sotto
i piedi.
Non
riusciva nemmeno a parlare, tanto era scioccata, aveva dovuto scuoterla
più
volte per incitarla a raccontarle l’accaduto.
Subito
dopo era subentrato il pianto disperato, isterico, e Mimi non sapeva
come fare.
L’aveva portata in bagno, le aveva sciacquato il volto, e
dopo del tempo che le
era sembrato un’eternità, finalmente si era decisa
a confessarle ciò che era
successo.
Sora
aveva tradito Yamato.
Si
chiese come avesse fatto a non accorgersene, a non aver sospettato di
nulla.
Eppure pensava di conoscerla bene. Avrebbe dovuto cogliere dei segnali
contrastanti.
Era
così talmente egoista, concentrata su
lei stessa da non rendersi più conto di quello che le
succedeva intorno?
Sentì
l’acqua del rubinetto aprirsi e sospirò ancora.
Era
una situazione delicata. Non se la
sentiva nemmeno di aggiungere niente di più alle parole di
conforto che aveva
cercato di sussurrarle la sera prima.
Spostò
lo sguardo verso le tende.
Non
poteva crederci che tutto quello era
successo proprio nel momento in cui lei e Taichi si erano finalmente
riuniti.
Una
fitta percorse il suo cuore.
Avevano
fatto l’amore.
Lei
e Tai erano stati insieme dopo tanto
tempo, ed era stata così felice, così talmente
felice da non vederci più.
Gli
aveva detto di amarlo...
Chiuse
gli occhi, sentendosi imbarazzata.
Aveva
fatto bene a farlo?
Lui non
gli aveva neanche risposto, e capiva che la situazione aveva preso dei
risvolti
negativi tutt’ad un tratto, ma non riusciva a non sentirsi
sporca, pessimista.
Si era
aperta di nuovo a lui dopo tanto tempo, forse si era esposta
più del
necessario.
Tai era
corso via da Matt, e ne apprezzava la lealtà, la solida
amicizia che lo univa a
lui come era solida quella che legava lei a Sora.
Però
si aspettava un suo cenno, un qualcosa
che le potesse fare capire che non si era dimenticato di quello che era
successo, che non aveva sorvolato quello che lei gli aveva detto.
Per
quanto tentasse di smetterla di fare quei pensieri che al contempo le
sembravano inopportuni dato ciò che era successo, non
riusciva a non pensare di
essere la sola.
L’unica
e sola che prova quell’amore
malcelato e per troppo tempo contenuto.
Le
palpebre si fecero sempre più pesanti e piombò in
un sonno profondo.
Sora si chiuse
la porta dietro le spalle.
Rimase per
qualche secondo appoggiata su di essa, lo sguardo
perso nel vuoto.
Non
aveva la forza...
Non
aveva nemmeno la
forza di muoversi.
Si
sentiva come
svuotata, letteralmente vuota da ogni singola emozione se non la
disperazione.
Strinse gli
occhi umidi.
Piano,
arrancò fino al lavandino, strisciando per terra le
ciabatte. Sentì come un mancamento coglierla
all’improvviso, tanto che fu
costretta a tenersi per evitare di cadere.
Alzò
lo sguardo sullo specchio e vide la sua immagine
riflessa.
I capelli
aggrovigliati, il trucco sbavato, il volto
tumefatto e gli occhi pieni di lacrime.
Come
si era ridotta?
Cominciò
a piangere silenziosamente, mentre continuava a
guardarsi non riconoscendo nulla della ragazza che era.
Era
il fantasma di sé
stessa.
Qualcuno
che aveva
occupato il suo posto da un po’ di tempo a quella parte.
Si
faceva schifo, si
faceva letteralmente pena...
Strinse le dita
ai bordi del lavandino e il pianto
s’intensificò. Sentiva le gambe cedere, la testa
scoppiare.
Aveva
rovinato tutto...
Con
un gesto aveva
distrutto la sua relazione, l’aveva buttata nel cesso senza
riguardi, aveva
mancato di rispetto all’unica persona che probabilmente non
lo meritava...
Non
sapeva amare.
Era questa la
più rude delle verità.
Non
aveva mai saputo
amare, non aveva mai donato amore a chi le stava intorno... non era
riuscita a
trasmetterlo a Yamato, non era riuscita a portare rispetto a quello che
lui
provava...
Proprio
lei...
Sembrava uno
scherzo di cattivo gusto.
Lei
aveva tradito, era
stata infedele..
Proprio
lei, la Digiprescelta
dell’Amore...
Si
accasciò piegandosi in avanti, le mani sul viso. Le
lacrime la inondarono, mentre stringeva i denti e urlava dal dolore.
Il campanello
suonò.
Il suono
rimbombò per tutto il soggiorno. Joe aprì appena
un
occhio, disturbato da quel rumore molesto, una smorfia irritata dipinta
sul
viso.
Il sonno lo
colse nuovamente e continuò a russare.
Dopo pochi
secondi, il campanello suonò ancora. Joe aggrottò
le sopracciglia.
Chi
diamine era che
rompeva le palle?
Pensò
ad uno scherzo da parte del vicino di sopra con il
quale non scorreva affatto buon sangue. Quell’idiota era
fastidioso e petulante,
quel Martin il pagliaccio, come era
abituato a chiamarlo lui... se lo prendeva era fritto...
I suoni si
fecero continui ed insistenti, e saltò sul divano
impaurito, il cuore che gli batteva forte.
Santo
cielo, gli sarebbe
preso un infarto!
Si mise in piedi
con un’espressione arrabbiata, gli occhiali
ancora di traverso. Non si premurò neanche di mettersi le
ciabatte, tanto
camminò scalzo fino alla porta, calpestando i detriti sparsi
per il pavimento.
Imprecò
per aver messo il piede su qualcosa di appuntito.
Il campanello
suonò ancora. Fece un’espressione assatanata e
urlò. A gran passi si avvicinò alla porta e la
spalancò con gli occhi fuori
dalle orbite.
Lo
avrebbe ucciso a quel
farabutto che...
La sua
espressione mutò e si trasformò in interrogativa.
Taichi si
trovava ritto davanti a lui, in viso uno sguardo
stanco di chi non aveva dormito affatto.
Doveva
rompere i
coglioni a lui che stava dormendo, allora?
Aveva indosso i
vestiti della sera prima e sembrava fosse di
fretta.
Aggrottò
le sopracciglia con irritazione. Non aveva
intenzione di far mettere piede in casa a quel tizio, assolutamente no,
non
dopo come la situazione si era rivoltata, non dopo come avevano
sabotato la sua
laurea.
«Cosa
ci fai tu qui?!» sbottò, guardandolo
dall’alto in
basso come fosse un insetto altamente pericoloso.
Tai
sospirò e fece un passo in avanti.
«Lasciami
entrare» gli disse solo, tentando di liquidarlo.
Joe,
però, fu più lesto. Lo afferrò da un
braccio e lo
costrinse ad indietreggiare. In volto aveva uno sguardo truce, come
potesse
ucciderlo da un momento all’altro.
«Non
vi è bastato lo schifo di ieri sera?!»
esclamò, mentre
la sua voce acuta rimbombava sul pianerottolo.
Si
preparò a ricoprirlo di insulti e rinfacciamenti, lo
avrebbe cacciato fuori a calci nel deretano. Non sarebbero mai
più entrati
quegli stolti distruttori di case, li avrebbe spediti a casa loro in
men che
non si dica!
Aprì
la bocca per parlare, ma il castano gli diede uno
spintone facendolo barcollare all’indietro.
«Lasciami
entrare, Joe!» gli urlò, riuscendo ad infiltrarsi.
Il maggiore lo
fissò allarmato.
Che
intenzione aveva?
Voleva
creare scompiglio
un’altra volta?
Quando
avrebbe meritato
un po’ di pace nella sua vita?
«Stupido
calciatore bislacco!» gli gridò dietro,
insultandolo «Che diamine vuoi dalla mia vita?!» lo
raggiunse e tentò di
afferrarlo nuovamente da un braccio.
«Esci
subito! Sei all’interno di una proprietà
privata!»
tentò di spaventarlo mettendo di mezzo la legge.
L’altro
non si fece intimorire. Strinse un pugno e lo guardò
sprizzando scintille dagli occhi.
«Dov’è
Sora?» chiese tenendo fisso lo sguardo, uno sguardo
che fece raggelare il sangue nelle vene del burino.
Cosa
voleva da lei?
Non
avrebbe permesso che
succedessero altre dispute, né tantomeno che
quell’idiota le dicesse qualcosa
di sconveniente...
Doveva
passare sul suo
corpo se solo pensava di poter raggiungere la camera della ramata.
Si
avvicinò e lo tirò con forza, tentando di
portarlo via da
dove stava andando. Spinse più che potette, notando,
però, che Taichi non si
muoveva di un centimetro.
«Lascia
stare quella paperella, non è il momento!»
urlò inviperito,
gli occhi sbarrati, una smorfia allarmata sul viso.
«Mi
hai sentito, cespuglio di bacche?!» gridò
infervorato,
senza lasciare la presa dal suo braccio «Non è il
momento!» ripeté allusivo.
Insospettita da
quel rumore, Sora si trascinò fino al soggiorno.
Guardò i due amici con uno sguardo apatico e vagamente
interrogativo.
I due si
voltarono a guardarla di rimando. Notò
l’espressione sul volto di Taichi mutare improvvisamente, poi
diede una brusca spinta
a Joe che, preso alla sprovvista, quasi fece un capitombolo
all’indietro.
Lo vide avanzare
verso di lei, afferrarla saldamente dalle
spalle e bloccarla contro il muro. Il cuore le salì fino
alla gola, aprì la
bocca spiazzata per quel gesto.
Udì
distrattamente Joe urlare gravemente, le mani sul viso, forse
spaventato.
Tai la fissava
con uno sguardo serio, risoluto, uno sguardo
che le mise soggezione.
Non
l’aveva mai visto
utilizzare quell’atteggiamento con lei.
Era
sempre delicato,
gentile, mentre adesso l’aveva spinta con forza e la guardava
duro.
Un brivido le
percorse la schiena.
Il ragazzo non
smise di fissarla. La guardava negli occhi
nocciola e sentiva lentamente il cuore sprofondare adesso che ce
l’aveva
davanti.
Come
aveva potuto fare
quello?
Lei
che era così buona,
così generosa... era un esempio per tutti loro... era
cascata nella tela del
ragno, aveva fatto del male a Matt...
La strinse
più forte dalle spalle.
Aveva
voglia di urlarle
quanto era stata stupida, quanto adesso che la guardava in viso le
sembrava di
vedere un’altra.
Qualcuno
che non era
lei, non era Sora.
«Che
cosa hai fatto?» soffiò in un tono basso ma che
trapelava una punta di disperazione.
La ramata
sentì i battiti accelerati e percepì subito le
lacrime invadere nuovamente il bordo degli occhi.
Il
modo in cui l’aveva
detto le aveva toccato il cuore.
Era
stato come una lama
infilzata nello stomaco, una lama appuntita che la stava facendo
sanguinare
copiosamente.
Tai non aveva
smesso di guardarla. Non riusciva a toglierle
gli occhi di dosso. La guardava con pena, rammarico, rabbia.
Era
come se la stesse
vedendo per la prima volta.
Come
se si fosse
improvvisamente svegliato e si fosse reso conto solo in quel momento di
chi
avesse di fronte.
«Mi
fidavo di te...» lo udì sussurrare e
sentì un altro
pezzo di cuore rompersi «eri l’unica persona di cui
mi sarei fidato fino alla
morte...» piano la voce gli si incrinò, e Sora
chiuse gli occhi, angosciata.
Cercò
con urgenza la sua mano, in una sorta di premonizione
di qualcosa di irrimediabile.
«Tai,
io...» provò a dire, ma l’altro
scostò la presa. L’osservava
con una smorfia
dipinta sul viso e lei
si bloccò.
Era
arrabbiato, era
deluso, era così talmente serio in quel momento che aveva
veramente timore.
Timore
di avergli fatto
del male.
Come
aveva potuto fare
del male a così tante persone?
«Mi
avevi detto che andava tutto bene... che tu stavi
bene... mi hai mentito, Sora!» esclamò
scuotendola, guardandola con degli occhi
che sembravano bruciare
«Hai
mentito a me, a Matt, a te stessa» continuò con un
tono
fermo, struggente, così tanto che la ramata sentì
gli occhi inumidirsi di
lacrime.
Aveva
mentito, era
vero...
Era
vero, gli aveva
mentito... aveva mentito a Taichi, il suo migliore amico, una delle
persone più
importanti della sua vita...
Gli
aveva detto che
stava bene, che era tutto apposto, quando in realtà avrebbe
voluto scappare via
dalla disperazione.
Se
solo glielo avesse
detto lui l’avrebbe aiutata, forse l’avrebbe
capita, mentre adesso... adesso la
guardava con quel fuoco che bruciava dentro i suoi occhi e la lasciava
spiazzata, incapace di fare nulla, assoggettata a lui.
Tai si
passò una mano tra i capelli, gettandole un altro
sguardo. Notò che aveva gli occhi rossi e colmi di lacrime.
Adesso
piangeva?
Avrebbe
dovuto pensarci
prima... avrebbe dovuto pensare prima alle conseguenze delle sue
azioni, a
quanto male aveva inferto a Yamato...
Dio,
non lo poteva
sopportare...
Non
poteva sopportare
niente di tutto quello.
«Perché
gli hai fatto una cosa del genere?!» sbottò, e
voleva saperlo veramente.
Voleva
essere a
conoscenza dei motivi, del perché fosse andato insieme ad un
altro, del perché
avesse dovuto rompere in quel modo la loro relazione.
Il
loro rapporto era
così solido... loro erano diversi dagli altri, si amavano
così tanto, si
compensavano in tutto e per tutto...
Lui
si era fatto da
parte per loro, perché aveva dovuto causare quello?
Perché
era stata così
stupida?
«Taichi!»
sentì Joe che lo chiamava arrabbiato, in un tono
che significava che doveva darci un taglio.
Lui non lo
ascoltò, e Sora nemmeno gli prestò attenzione.
Guardava il suo
migliore amico negli occhi e
non riusciva a distogliere lo sguardo.
Non
doveva guardarlo
così... non doveva rivolgergli quello sguardo supplice...
lui non riusciva a
volerle male...
Ma
sentiva un sentimento
di rabbia nei suoi confronti, un rammarico così talmente
grande che in quel
momento avrebbe voluto fare tutto fuorché guardarla.
La prese di
nuovo dalle spalle.
«Perché
ti sei trasformata in quello che non sei?» la
strinse forte, sentendosi angosciato
«Tu
eri l’unica persona di cui ci fidavamo, avremmo fatto di
tutto per te... lui avrebbe fatto di tutto per te...» si
fermò per qualche
istante, poi prese fiato
«Io avrei fatto di
tutto per te!» aggiunse, facendola completamente crollare.
Cominciò
a piangere, portandosi una mano alla bocca. Le
lacrime scorrevano sulle sue guance e lei tentava di nasconderle, ma
erano così
evidenti, così disperate...
Tai
l’aveva colpita in
pieno.
Le
aveva fatto capire
che da quel momento in poi qualcosa era cambiato tra di loro, e
l’aveva ferita,
l’aveva fatta sentire in colpa come non lo era mai stata.
Non
voleva che lui
l’abbandonasse...
Aveva
bisogno della sua
amicizia.
Alzò
lo sguardo e incontrò di nuovo il suo. Vide i suoi
occhi velati e capì che si sentiva allo stesso modo anche
lui.
Abbandonato.
Solo.
«Da
quanto tempo va avanti questa storia?» gli chiese poi,
dopo che la ebbe mollata. Lo disse in modo brusco, come ne fosse
schifato, come
gli facesse male perfino pronunciare quella semplice frase.
Sora
tirò su con il naso, tentando di asciugarsi gli occhi.
«Io
non... ti prego, Tai...» provò a contestare.
Il castano,
però, le rivolse uno sguardo lapidario che la
fece subito ammutolire.
«Dimmelo.
Sii sincera questa volta» berciò, colpendola forse
di proposito.
La ramata
aprì la bocca, interdetta.
Aveva
paura.
Aveva
paura che se
avesse detto come stavano le cose lui l’avrebbe abbandonata
definitivamente,
nello stesso modo in cui aveva fatto Yamato...
Avrebbe
perso entrambi,
e come avrebbe fatto?
Come
avrebbe fatto a
stare senza di loro?
Lo sguardo di
Taichi era fermo e seppe che non poteva
sfuggire.
«Io...
è da un po’ di tempo che... lo conosco dal primo
anno
di università...» la voce gli tremò,
spostò gli occhi verso un’altra direzione
sentendo quelli del ragazzo troppo pesanti «ci
frequentavamo... Non è mai
successo nulla, te lo giuro... qualche giorno fa
c’è stato un bacio...»
confessò con il cuore in gola.
Ebbe paura ad
alzare la testa.
Tai non le aveva
tolto nemmeno per un secondo gli occhi di
dosso.
Adesso
sapeva tutto.
Era
una storia che andava
avanti da tempo... il bacio era stato solo l’ultimo dei
problemi...
Perché
non aveva avuto
il coraggio di lasciare Matt se non lo amava più?
«Io
non ti capisco...» soffiò interdetto, mentre lei
alzava il
capo e le lacrime prendevano di nuovo il sopravvento.
Non
la riconosceva più.
Si
era trasformata in
un’altra che non era lei.
La
Sora che conosceva
non avrebbe mai fatto in quel modo... avrebbe affrontato tutto, avrebbe
messo
fin da subito le cose in chiaro...
Chi
era adesso lei?
«Mi
sentivo sola, abbandonata...» pianse, mettendogli una
mano sul braccio, stringendolo «lui è stato sempre
distante da me in questi
anni... Avevo bisogno di qualcuno che si prendesse cura di
me...» tentò di
spiegarsi, ma che valeva giustificarsi adesso?
Taichi non
riusciva neppure a guardarla.
Non
riusciva più a
starle davanti, voleva andare via...
Via.
«Ti
prego, Tai...» lo invocò lei, trattenendolo dal
braccio.
Il ragazzo si
scansò in automatico, senza alzare gli occhi.
Non
riusciva più a
reggere.
Era
arrivato al limite.
A
che serviva più
perdere tempo in chiacchiere, stupide spiegazioni... era finita... era
finito
tutto...
«Lasciami
stare» affermò, in un tono che non sembrava voler
ammettere repliche «Non riesco neanche a
guardarti...» soffiò tra i denti con
una punta di frustrazione.
Sora
sentì una dopo l’altra le ultime sue certezze
crollare.
Era
finita...
Stava
perdendo anche
lui...
Lo strinse
forte, si attaccò alla sua schiena, mentre Tai
tentava di levarla. Lottarono per un po’ in quel modo.
La ramata
piangeva, urlava, lo incitava a non lasciarla.
Era come una
scena a rallenty.
Mimi giunse alla
soglia, destata dalle urla e il pianto
dell’amica, vedendo figurare davanti ai suoi occhi quella
scena struggente.
Aprì
la bocca e rimase confusa, chiedendosi cosa stesse
succedendo, perché lui fosse venuto a casa loro,
perché Sora stesse piangendo e
cercasse di trattenerlo.
Tai, nel
frattempo, era riuscito a staccarsi da lei. Si era
voltato e l’aveva vista disperata, le braccia strette al
petto.
Non
avrebbe mai pensato
di dover pronunciare quelle parole.
«Mi
hai così deluso, Sora» disse, e poi scosse la
testa
amaramente «Sarei andato contro di lui per te... adesso mi
sento uno stupido
per averti creduto» la voce si affievolì.
Si
sentiva uno stupido.
Si
sentiva uno stupido
per aver dipeso da lei, per non aver messo al primo posto Yamato quando
era lui
ad averne più bisogno.
Uno
stupido anche per
essere andato lì, a cercare nuovamente conferme, a cercare
una verità che gli
aveva fatto più male del previsto.
Si
sentiva uno
stupido...
Così
stupido che non
riusciva nemmeno più a guardarla negli occhi, voleva andare
via da quella
dannata casa...
Distolse lo
sguardo senza aspettare una sua risposta.
Apaticamente, spostò gli occhi verso la soglia del corridoio
e il cuore gli si
bloccò.
Deglutì,
sentendo un’ondata di caldo travolgerlo.
Mimi...
Mimi era
lì che lo osservava con in volto un’espressione
confusa, interrogativa, ma nello stesso tempo piena di luce.
Si
bloccò per qualche secondo a guardarla e la ragazza fece
lo stesso.
Si fissarono
entrambi con intensità, e per un po’ di tempo
il pianto di Sora passò in secondo piano, sentendolo
ovattato, distante anni
luce.
Lei
era lì... davanti a
lui...
Gli vennero in
mente i ricordi della sera prima, i loro
baci, i loro tocchi, il modo in cui avevano fatto l’amore.
Mimi...
Gli
aveva detto di
amarlo...
Lei lo amava e
lui non aveva detto nulla, troppo preso da
quello che era successo, troppo sconvolto per darle peso.
Non
lo meritava.
Che
sciocco, stupido,
insensibile che era stato.
In
tutti quegli anni, lo
era stato...
La ragazza lo
fissava speranzosa, gli occhi castani intrisi
dal sonno, ma ben fermi sul suo volto.
Era
come se volessero
comunicargli che aveva bisogno di lui, che doveva fermarsi
lì a parlarle, che
aveva un’urgenza immane di sentirlo vicino dopo quello che
era successo tra di
loro.
Taichi
continuò a guardarla.
Voleva
dirle qualcosa,
qualsiasi cosa, sentiva l’esigenza di prenderla tra le
braccia e dirle che non
aveva dimenticato ciò che gli aveva confessato.
Voleva
dirle che lui
c’era, che era stato un cretino a non aver fatto nulla in
quei due anni, ma che
quello che avevano vissuto poche ore prima bastava per annullarli tutti.
Voleva
farlo veramente,
ma si sentiva un vigliacco, così vigliacco da non riuscire
nemmeno a
salutarla...
Perché
aveva paura, non
sapeva bene da cosa, ma non si sentiva all’altezza di
ciò che era successo,
delle aspettative che lei aveva su di lui.
Lei
probabilmente si
aspettava che lui le dicesse qualcosa, ma lui era
bloccato, un codardo, stritolato dagli eventi e da quel flusso di
emozioni
contrastanti che aveva sentito, che continuava a sentire.
Era
sconvolto, inerme,
dolorosamente perso.
Non
ce la faceva...
La gola era
secca, il cuore batteva delle dolorose
martellate, e le urla disperate di Sora gli rimbombarono nelle orecchie
costringendolo a distogliere bruscamente lo sguardo da lei.
Mimi lo
guardò voltare le spalle e raggiungere a gran passi
la porta.
Era
come se stesse fuggendo.
Fuggendo
da lei, da lui
stesso, dai ricordi della notte passata.
Il
cuore le si spezzò in
mille pezzi rassegnati.
Non
le aveva neanche
rivolto la parola, non l’aveva nemmeno salutata...
Perché
le aveva fatto
quello?
Erano
stati così bene,
erano stati in paradiso dopo tanti mesi all’inferno.
Quindi
aveva ragione,
quello che era successo tra di loro non aveva avuto significato per
lui, era
stato solo un ritorno di fiamma di una notte per sfogare gli spiriti
bollenti...
Era
stata cieca e
sciocca ad essersi lasciata andare, ad avergli detto di amarlo...
Perché
era stata così
debole?
Avrebbe
dovuto
aspettarsi il muro che si sarebbe erto la mattina dopo.
Lui
non l’amava, era
questa la verità, la più cruda e nuda
verità che adesso le stava squarciando il
petto.
Udì
Sora urlare il suo nome, chiamarlo per tentare di farlo
tornare indietro. Automaticamente, si avvicinò
all’amica e la strinse forte,
continuando a guardare distrutta il ragazzo che aveva varcato la soglia.
Era
andato via.
Era
andato di nuovo
via...
Era
andato via e
probabilmente non sarebbe tornato mai più.
La ramata si
accasciò tra le sue braccia e lei la strinse
forte, accarezzandole la nuca. Rimase a fissare a lungo la direzione in
cui Tai
era sparito, troppo sconvolta per parlare, la delusione troppo grande
per
essere contenuta.
Dopo qualche
secondo di interdizione, vide Joe stringere i
pugni e i denti. Si precipitò sul pianerottolo, la porta era
rimasta aperta.
Come
si era permesso?
Come
aveva osato entrare
con quell’irruenza a casa loro e dire tutte quelle cose
brutte a Sora?
Sentì
i lamenti della ragazza sempre più forti e vide con la
coda dell’occhio Mimi che tentava di farla riprendere.
Sentì
la rabbia esplodergli in petto.
«Figlio
delle puritane!» strillò, insultandolo, facendo
rimbombare
la voce per tutto il condominio «Fantoccio insensibile e
megalomane! Ti pesto
come i torroni se ti prendo!» sbraitò, mentre
alcuni vicini aprivano la porta
per vedere chi fosse quel pazzo che urlava
«Ti
frullo l’ego come un frappè!»
continuò, sentendo poi il
portone principale sbattere.
Imprecò
e chiuse la porta con un calcio.
Corse come un
matto fino al balcone, scontrandosi contro una
sdraio lasciata lì davanti e rischiando di cadere.
Gliel’avrebbe
detto lui!
Quell’egocentrico,
maleducato, leader dei moscerini, questo era...
Nessuno
doveva
permettersi ad insultare le sue paperelle, lui teneva tanto a loro,
nonostante
spesso si comportasse in modo molesto.
Non
avrebbe permesso a
nessuno di rovinare quei bei faccini con le lacrime.
Si
affacciò come una furia.
«Fatti
un bagno di umiltà, calciatore delle mie palle!»
riprese
ad urlare, e l’eco della sua voce risuonò tra i
palazzi.
Non riusciva a
trattenersi; quando si infervorava diventava
scurrile e violento.
Perfino i vicini
di fronte si affacciarono.
Tai, invece, non
alzò la testa, continuò a camminare con le
mani in tasca, svoltando da una strada a fianco.
Joe strinse i
denti.
«Sì,
bravo, svolta da quella via... la via per andare a fanculo!»
strepitò, alzando un dito,
gesticolando a più non posso.
Bastardo,
infame,
apocalittico presagio...
Sora era ancora
stretta a Mimi, la testa appoggiata sul suo
seno, gli occhi che piano le si chiudevano per il dolore e
l’umiliazione.
Aveva
perso tutto.
In
quella battaglia di
cicatrici, era lei ad aver avuto la peggio.
La castana la
sostenne, preoccupata nel vederla crollare.
Era
finita.
Era
finito tutto in un
baratro di oscurità... Si erano bruciate, volavano via come
cenere...
In casa
tornò a regnare il silenzio.
Vincitore
ineluttabile.
Il
silenzio regnava
attorno a lui, s’insidiava dentro il suo cuore rendendolo
ancora più arido e
vulnerabile.
Yamato
aprì gli occhi.
Li
sentì gonfi e irritati, le ciglia dure, le guance gli
pizzicavano per le lacrime che avevano lasciato delle leggere righe
sulla sua
pelle.
Silenzio,
solo silenzio
attorno a lui.
Guardò
il soffitto per un tempo che sembrò
un’eternità.
Silenzio...
non riusciva
ritrovare la sua voce, ad udire i rumori...
Era
come un involucro
vuoto.
Non
sentiva più niente
dentro di sé.
Si
passò una mano sugli occhi e li pasticciò. La
testa gli
doleva così forte che gli fece emettere un sospiro di dolore.
Non
avrebbe voluto
svegliarsi.
Non
avrebbe voluto
vivere con quella sofferenza che sentiva addosso sulle spalle.
Voleva
chiudere di nuovo
gli occhi e non risvegliarsi mai più.
Li chiuse di
nuovo.
Sarebbe
morto...
Ecco,
era la soluzione
migliore. Evadere via da tutto quello che gli era successo, scappare
lontano da
quel male che gli si era infiltrato sulla pelle, dentro le ossa.
Perché
non era morto?
Automaticamente,
aprì di nuovo gli occhi cerulei, rossi e
irritati.
Sarebbe stato fin troppo
facile...
Voltò
la testa alla sua destra e notò che Taichi non
c’era.
Non
riuscì a pensare ad altro, solo sentì
l’esigenza di
mettersi in piedi. Scese dal letto in maniera meccanica, alzandosi di
peso,
sentendo una stanchezza cronica prendere il sopravvento.
La testa gli
girò e chiuse gli occhi.
Credeva
di aver toccato
l’apice del dolore quella notte appena passata, invece
l’alba del giorno dopo
era devastante.
Arrancò
fino al bagno. Si tenne con le mani dal lavandino
senza avere il coraggio di guardarsi allo specchio.
Si
sarebbe fatto pena.
Non
voleva compiangersi,
non voleva farsi pena.
Voleva
svuotare la mente
più di quanto già non lo fosse, voleva lasciarla
libera da ogni dolore, ogni
tipo di sentimento contrastante.
Aprì
il rubinetto sentendo la mano che tremava leggermente.
Avvicinò entrambe all’acqua corrente e si
sciacquò il viso.
Doveva
resistere.
Per
quanto dentro il suo
petto sentiva una sensazione che lo logorava, doveva tentare di
isolarsi,
perdersi nel silenzio, chiudere ogni cosa fuori.
Si
asciugò il volto.
Era
difficile... sentiva
un dolore atroce sprigionarsi dal cuore, lo stava asfissiando, aveva
bisogno di
liberarsene.
Strinse la
tovaglia sul viso.
Non
doveva lasciarsi
andare.
Era
tutto finito...
sebbene sentiva di voler morire, sapeva che era tutto finito...
Ogni
cosa.
Le sue gambe si
mossero e lo fecero arrivare in cucina. La
luce filtrava poco dalle finestre oscurate dai palazzi.
L’oscurità
incombeva.
Come un automa,
si avvicinò al frigorifero e guardò
apaticamente cosa c’era dentro.
Non
avrebbe ceduto.
Non
avrebbe lasciato
sprigionare niente.
Senza nemmeno
pensarci, prese due, tre cose, le mise sulla
cucina. Afferrò dei piatti, le bacchette,
cominciò a preparare qualcosa della
quale non sapeva nemmeno lui.
Doveva
evadere, non
doveva pensarci...
Era
in bilico, così in
bilico che un solo soffio di vento l’avrebbe fatto cadere
giù.
Prese un uovo e
lo ruppe involontariamente facendo troppa
pressione. Il liquido appiccicoso gli scolò tra le dita e
mise una mano sotto
l’acqua per pulirsi.
Doveva
trattenersi...
Doveva
farlo.
Ruppe un altro
uovo dentro una ciotola e prese le bacchette
per amalgamarlo.
Quel
pensiero insidioso
tornava a tormentarlo, non riusciva a bloccarlo, a tenerlo fuori dalla
sua
testa.
Era
così difficile liberarsi da quel senso di nausea che lo
pervadeva.
Non
riusciva a chiudere
tutto fuori, non riusciva a negare a sé stesso quella
realtà, era incapace di
non pensare a quello che aveva fatto Sora...
Sora...
Strinse un pugno
tenendo forte le bacchette tra le dita. I
suoi pensieri vennero interrotti dal campanello che suonò.
Voltò
la testa in direzione della porta e le sue gambe si
mossero lentamente per andare ad aprire.
Il viso di
Taichi gli figurò davanti.
Era
trafelato, stanco,
segnato da un dolore che vagamente gli ricordava il suo.
Distolse lo
sguardo per evitare quello del suo migliore
amico. Lo scrutava con apprensione, lo fissava quasi volesse spogliarlo
da ogni
sorta di difesa.
I suoi occhi
erano fermi, attenti, e Matt li sentì addosso
per tutto il tempo. Continuò a trafficare con il cibo senza
saper bene quello
che stava facendo, evitandolo volutamente.
Non
riusciva a
guardarlo, non voleva guardarlo...
Lo
avrebbe spogliato, lo
sapeva, lo avrebbe reso meno che niente.
Il castano
continuava ad osservarlo e per un po’ non osò
dire una parola.
Il biondo si era
limitato a guardarlo di sfuggita e aveva
subito eluso il suo sguardo.
Non smetteva di
preparare la colazione come se realmente
fosse interessato a farlo, come se se lo stesse imponendo forzatamente.
Tai diede un
lungo sospiro. Aspettava una reazione che
tardava ad arrivare. Sapeva che lo stava evitando di proposito e, per
quanto
cercasse di nasconderlo, poteva percepire quanto la sua psiche fosse
sul filo
di un rasoio.
«Matt...»
lo chiamò in un sussurro.
Era appoggiato
contro il frigorifero e continuava a
guardarlo. Il biondo sentì il suo sguardo insistente
perforarlo da corpo a
corpo e strinse forte le bacchette tra le dita.
La gola era
secca, arida, non riusciva neanche ad emettere
suono.
Non
voleva quel
compianto, voleva solo sorvolare ogni tipo di discorso, voleva chiudere
fuori
da lui quella situazione, voleva evadere via da
quell’incubo...
Taichi
sembrò udire quei pensieri. Notò come si fosse
apprestato a tagliare il cibo, segno di evidente nervosismo e tensione.
Socchiuse gli
occhi, stanco.
Era
dalla sera prima che
non parlava, non aveva emesso più alcun suono per tutta la
notte. Non lo
guardava in faccia, lo evitava per non crollare di fronte al suo
sguardo, ma
lui lo sapeva che era in procinto di scoppiare.
Voleva
che reagisse, voleva
che dicesse qualcosa, seppur un pianto, un urlo, una parolaccia...
Yamato non
doveva chiudersi in sé stesso, era troppo
deleterio per lui.
Sarebbe
morto
lentamente.
«Parliamone»
sbottò secco, tenendo gli occhi fissi su di
lui.
Sembrava
volessero incendiarlo.
Il biondo
percepì dal suo tono di voce
l’impossibilità di
sfuggirgli, ma era proprio quello che intendeva fare.
Non
avrebbe parlato.
Non
avrebbe detto
nulla... perché non riusciva a dire nulla... si sentiva
disarmato, svuotato,
devastato...
Non
riusciva a guardare
Taichi in faccia.
Gli
occhi del suo
migliore amico bruciavano, lui lo sapeva, lo sapeva che lo avrebbe
fatto
cedere, perché aveva una capacità straordinaria
nel farlo...
Senza rendersi
conto, cominciò a fare un rumore sordo con i
piatti, fece tintinnare il coltello con il quale stava tagliuzzando
qualcosa,
spostò delle pentole a caso sui fornelli.
Il castano lo
fissò interdetto.
Tentava
di scappare via,
tentava di eludere quel confronto, era nervoso e addolorato, lo
percepiva.
«Non
chiuderti in te stesso... ti prego, Matt...» lo
supplicò sentendosi in pena per lui.
Questi
continuò a non prestargli attenzione, e ciò fece
irritare l’amico.
Non
poteva finire in
quel modo, non poteva ammutolirsi e tentare di far finta che non fosse
successo
niente.
Odiava
vederlo così,
odiava quel suo modo di fare così talmente introspettivo.
Doveva reagire,
dannazione, doveva buttare fuori tutto quello che provava...
Aggrottò
le sopracciglia, risoluto.
Non
gli sarebbe
sfuggito.
Lo
avrebbe fatto
parlare, non lo avrebbe fatto rinchiudere nuovamente
all’interno della sua
prigione dorata.
Con un gesto
improvviso, sbatté un pugno forte sul tavolo,
facendo cascare il posacenere per terra. Il rumore fece bloccare il
biondo da
quello che stava facendo, sentendo i battiti del cuore accelerare per
lo
spavento.
«Reagisci!»
urlò adirato, tentando di farlo rinsavire da
quel torpore lugubre «Cazzo, fa’ qualcosa,
qualunque cosa, ma reagisci!» sputò
fuori come fosse veleno.
Gli occhi
profondi di Tai non lo mollavano.
Era
stato brusco, lo
sapeva, ma era consapevole anche che era l’unico modo per
farlo svegliare.
Sentiva a sua
volta il petto alzarsi ed abbassarsi
ritmicamente per la tensione.
Voleva
che lo guardasse,
voleva che gli parlasse... che facesse un cenno per fargli intendere
che era
vivo, che era ancora in grado di reagire...
Odiava
vederlo in quel
modo, lo odiava...
Matt
posò le bacchette in modo apparentemente calmo. Si
voltò verso di lui, e non appena Tai vide i suoi occhi
sentì una fitta al cuore
agguantarlo.
I suoi occhi
azzurri erano arrossati, velati da un dolore
enorme, pieni di una sofferenza che mai gli aveva visto impressa in
quel volto
angelico.
Era
uno sguardo
martoriato, distrutto. Tentava di
mantenere le lacrime dallo
sgorgare, ma nonostante ebbe pena di lui in quel momento, strinse un
pugno e
decise di continuare.
Glielo
avrebbe detto.
Doveva
saperlo, doveva
esserne consapevole. Lo avrebbe aiutato a rigettare fuori tutto quello
che
provava.
«Sono
andato da lei» mormorò in un tono dietro cui non
riuscì a mascherare la durezza, la delusione «mi
sono fatto dire come stanno le
cose» continuò fermo, non lasciandosi impietosire
dal suo sguardo.
Non appena
udì quelle parole, Yamato chiuse gli occhi. Li
strinse come se avesse timore di guardare quello che gli stava di
fronte, e si
sarebbe perfino tappato le orecchie se solo avesse avuto la forza di
alzare le
braccia.
Non
voleva sentirlo...
non voleva...
Voleva
sparire, voleva
scappare, voleva essere dovunque fuorché lì...
L’altro
strinse le labbra e decise di rincarare la dose.
Doveva
farlo.
Doveva
reagire.
Doveva
essere
consapevole.
«Quello
che è successo è stato solo il culmine»
spiegò
lapidario, facendo dei passi in avanti per risultare più
vicino a lui.
Il biondo
cominciò a sentire la testa scoppiare. Afferrò
con
entrambe le mani dei piatti senza muoversi dalla posizione in cui si
trovava.
Tai era sempre
più vicino e lo scrutava attento, lo sguardo
duro, un luccichio strano impresso nel suo sguardo.
«questa
storia va avanti da un po’» affermò,
ricordando per
filo e per segno le parole che gli aveva detto Sora.
Sentì
un profondo
rammarico coglierlo, sapeva che lo stava ferendo più di
quanto già non lo
fosse, ma era necessario, doveva farlo, non riusciva più a
vederlo chiuso nel
suo silenzio.
Vide il petto di
Matt andare su e giù, il suo respiro farsi
più pesante, le dita stringevano forte il bordo dei piatti.
«Le
piace, è attratta...» continuò, forse
un tantino crudele
«la fa sentire bene» soffiò infine in un
sussurro.
Reagisci,
reagisci,
cazzo...
Fu un attimo.
Yamato
lasciò cadere i piatti per terra. I cocci si sparsero
per tutto il pavimento e fecero un fracasso terribile. Taichi chiuse
appena gli
occhi, spostandosi per non calpestarli.
Quando li
riaprì vide l’altro tremare, lo vide portarsi le
braccia
alla testa e urlare. Urlò talmente
forte, in un ringhio così disperato
che quasi ne ebbe timore.
Lo vide
improvvisamente sbattere le cose per terra, il cibo,
le posate. Urlava in tono straziante, come se dentro fosse costernato
da dei
demoni che lo stavano possedendo.
Con il cuore che
gli doleva si avvicinò a lui. Lo strinse da
dietro la schiena, forte, come potesse perderlo da un momento
all’altro.
Yamato si
accasciò in due, disperato, le lacrime gli
tranciavano le guance.
Era
finito.
Era
un uomo finito.
La
sua vita era finita.
Suo
fratello, la band,
Sora... non gli era rimasto più niente...
Niente.
Taichi lo
strinse ancora di più e poggiò la testa sopra la
sua schiena. Sentì gli spasmi di dolore e i singhiozzi
attraverso la sua pelle.
Chiuse gli occhi
e rimasero in quel modo per del tempo che
sembrò un’eternità.
Niente.
Non
era rimasto che
niente.
Solo
un triste, crudele,
nefasto silenzio.
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Capitolo 12 *** Tempo ***
Il tempo scorreva
inesorabilmente, trascinando via con sé gli eventi come se
essi non fossero mai
accaduti, ma lasciava dentro la pelle un solco profondo.
Il
solco del tempo.
Scorreva,
scandiva i
minuti, le ore, lasciava dietro di sé una scia di ricordi.
Sora guardava la
TV spenta, gli occhi vacui, l’espressione
atterrita. Una sigaretta penzolava dalle sue dita, un grumolo di cenere
si era
formato all’estremità.
Si sporse sul
tavolino e con un colpetto automatico la
lasciò cadere dentro il posacenere, poi portò il
filtro alle labbra aspirando
nervosamente.
Tempo.
Più
passava il tempo più
lei aveva paura, aveva timore di essere rimasta da sola.
Più
il tempo scorreva,
più lei sentiva un dolore profondo all’altezza del
petto, uno spasmo che la
squarciava dentro, la faceva sanguinare.
Il
tempo sapeva uccidere
lentamente.
La mano le
tremava mentre fumava quella sigaretta. Sentiva
la testa pesante, i sensi di colpa le rimbombavano dentro, la voglia di
urlare
si faceva sempre più viva.
Il pensiero di
ciò che aveva causato non la faceva dormire.
Era un pensiero fisso che lo scandire dei minuti, delle ore, non
riusciva a
portare via con sé.
Strinse gli
occhi.
Non
poteva più emergere
da quel profondo oceano di sofferenza. Era stata attirata
giù senza possibilità
di risalire.
Era
impigliata alle reti
della colpa, della vergogna, del bisogno di spiegarsi, e quella corda
la
tratteneva giù senza possibilità di emergere.
Sempre
più giù.
Il telefono
squillò tutt’ad un tratto, distogliendola
bruscamente dai suoi pensieri disperati.
Lo schermo
rigato si illuminò, si sporse appena per leggere
il destinatario, e il cuore cominciò a batterle forte.
Sperò
con tutta la sua
anima che fosse Yamato, sperò così tanto e
scioccamente che lui la stesse
chiamando, che volesse parlarle...
Ma la delusione
attraversò i suoi occhi non appena lesse un
altro nome apparire nello schermo.
Victor.
La
stava chiamando.
Lasciò
il cellulare sul tavolino quasi scottata, intimorita
che se solo avesse risposto a quella chiamata avrebbe causato
nuovamente
qualcosa di irreparabile.
Cosa
voleva da lei?
Probabilmente
voleva
parlarle, dirle che ce l’aveva con lei perché il
suo fidanzato lo aveva preso a
botte, urlarle che era stata una stronza per essersi comportata in quel
modo.
E
lei lo sapeva di
esserlo.
Le notifiche dei
messaggi la indussero a spostare ancora lo
sguardo, ma non volle controllare.
Non
riusciva, aveva
paura, aveva timore a leggere qualcosa che non avrebbe mai voluto
leggere,
aveva timore che facendolo avrebbe inferto un torto ancora
più grande a Matt.
Si morse
un’ unghia pensierosa, la sigaretta che penzolava
ancora tra le dita.
Aveva
bisogno di
sentirlo.
Non
poteva stare con le
mani in mano a crogiolarsi in quel modo vigliacco.
Doveva
chiamarlo, doveva
parlare con lui, doveva dirgli che aveva sbagliato, che si scusava, che
era
stata una stupida...
Yamato...
Aveva
bisogno di lui.
Afferrò
impulsivamente il telefono e digitò dei numeri.
Subito lo portò all’orecchio, sentendo gli squilli
uno dopo l’altro.
Sperò
che rispondesse,
lo sperò con tutto il cuore.
Non
sapeva nemmeno se
era il reale caso di farlo, di chiamarlo, ma sentiva
un’esigenza enorme.
Yamato...
Dopo numerosi
squilli partì la segreteria telefonica. Sora
imprecò e, nervosamente, ricompose il numero.
Sembrava
un’ossessa...
Aveva le orbite
di fuori e si mordeva il labbro.
Ti
prego, rispondi...
Ma il telefono
era staccato, probabilmente era stato lui a
farlo. Disperata, lanciò il cellulare sopra il tavolino,
emettendo uno strillo
angosciato.
La
evitava volutamente,
probabilmente non voleva sentirla, né in quel momento,
né l’avrebbe voluta
sentire mai più.
Lo
aveva perso.
Perso
completamente.
Le lacrime
cominciarono a scorrere sul suo viso.
Non
poteva essere... non
poteva essere che aveva perso tutto...
Aveva
perso l’amore
della sua vita.
Aveva
perso il suo
migliore amico.
Aveva
perso tutto...
Con
un gesto aveva
distrutto tutto quello che aveva creato.
I
ricordi volarono verso
una giornata di fine aprile. Lei e Matt avevano appena fatto
l’amore ed erano
sdraiati sul suo letto, coperti da solo le lenzuola.
Lui
le accarezzava il
volto, le toccava i capelli, la guardava come se fosse la cosa
più preziosa al
mondo, tanto da farla imbarazzare sentendo su di sé quello
sguardo insistente.
«Sei
troppo bella» le
aveva detto, e lei si sentì ancora di più
impacciata.
Il
cuore aveva preso a
batterle forte e si reputava un tantino stupida ad emozionarsi per una
semplice
frase.
«Dai,
smettila, scemo»
lo aveva rimproverato con un sorriso.
Faceva
sempre in quel
modo, declinava i complimenti perché non sapeva come
rispondere.
«E’
la verità» affermò
il biondo.
Sora
allargò le braccia
e lo abbracciò. Avrebbe voluto sempre stare in quel modo con
lui, si sarebbe
persa in quel corpo forte e possente per tutta la vita.
«Mi
dispiace se ti
faccio quelle scenate» aveva detto lui mogio, riferendosi ad
una sua scenata di
gelosia per qualcosa «Non riesco a trattenermi il
più delle volte»
La
sua voce si spense e
la ramata non potette fare a meno di allontanarsi leggermente da lui
per
guardarlo meglio in viso.
«Io
mi fido di te»
affermò sinceramente «E’ solo che ho
paura di perderti. Per questo sbrocco in
quel modo» le confidò tristemente.
Sapeva
per certo quanto
le facesse male quando reagiva in quel modo.
Sora
aveva sospirato.
«Lo
so, ma se ti fidi di
me devi saperlo che non hai motivo» disse seria, tentando una
volta per tutte
di ficcargli in testa che non guardava nessuno oltre lui, che non amava
nessuno
se non lui.
Matt
si era morso il
labbro pensieroso. Per qualche secondo non avevano più detto
niente, fino a
quando lui non ruppe di nuovo il silenzio.
«E’
solo che ho paura
che tu ti stanchi di me» mormorò.
La
ragazza rimase
spiazzata da tutte quelle rivelazioni che le stava facendo. Non era
tipo da
esporsi più di tanto se non era proprio costretto.
Evidentemente, ne sentiva
l’esigenza perché era un argomento che gli stava
particolarmente a cuore.
«Ho
paura che troverai
qualcuno migliore di me perché sono consapevole di essere
pesante, aggressivo,
troppo duro per te...» si dannò, elencando tutti
quelli che erano i suoi
difetti.
Lei
fu pronta ad
intervenire.
«Io
ti voglio così come
sei» gli fece una carezza sul viso.
Ed
era vero.
Matt
sorrise lievemente,
ma il suo sguardo era perso nel vuoto. Stava pensando a qualcosa che
gli faceva
veramente male, perché la sua espressione era dura e a
tratti disperata.
«Non
potrei mai
sopportare se un giorno dovessi tradirmi...»
mormorò, mentre lei sentì una
fitta inspiegabile al cuore «non riuscirei più ad
essere lo stesso... mi
distrugge il solo pensiero...» la voce gli si
spezzò, e la ramata non ci pensò
due volte ad accoglierlo tra le sue braccia.
Matt
aveva nascosto la
testa nell’incavo del suo collo.
Non
doveva dire
sciocchezze. Le sue erano paranoie infondate, che mai si sarebbero
adempiute,
ne era sicura, nemmeno nei sogni.
«Non
succederà mai»
affermò.
Eppure
non avrebbe mai
potuto sapere che le cose sarebbero andate in un altro modo.
Continuò
a piangere disperatamente, annebbiata dai sensi di
colpa, dai pensieri tristi, dai ricordi che il tempo abbandonava dietro
di sé.
Il rumore del
suo pianto coprì quello della porta che si
apriva.
Mimi era appena
rincasata dopo aver fatto la spesa e trasportava
due buste di medie dimensioni barcollando un po’ per il peso.
Non si accorse di
niente ed entrò direttamente in cucina, trafelata e con i
capelli davanti agli
occhi, posando le buste sopra il tavolo.
«Ehi,
Sory» la chiamò poi, ignara, dopo aver riposto la
roba
congelata in freezer «ho trovato in offerta le... Sora!» si voltò
all’improvviso con in mano un pacchetto, e rimase
impietrita non appena quella scena le si figurò oltre le
finestre della
vetrata.
L’amica
era seduta sul divano e un fiume di lacrime solcava
il suo viso stanco e triste.
Strinse le
labbra con un’espressione apprensiva.
Le
venne da pensare
perché si fosse cacciata in quella situazione,
perché avesse dovuto agire in
quel modo deleterio, perché avesse dovuto fare del male
così tanto a lei stessa
e a Matt.
Sospirò
appena, e decise di varcare la soglia che la
separava dal salotto. Si avvicinò a passi lenti e leggeri,
mentre l’altra non
la guardava.
Aveva il volto
stravolto, le labbra semiaperte, gli occhi
arrossati e ricolmi di lacrime.
Le
dispiaceva così
tanto, non la riconosceva più.
Voleva
che reagisse,
odiava vederla crollare in quel modo. Sora era da sempre stata la sua
roccia,
l’aveva aiutata in momenti difficili, in momenti in cui lei
stessa pensava che
mai ce l’avrebbe fatta.
E
adesso, vedendola in
quel modo, le si stringeva il cuore.
La
sentì tirare su con il naso. Si avvicinò e si
sedette
accanto a lei. Per qualche secondo non disse niente, si
limitò a fissarla.
Le
dispiaceva, non
sapeva come incominciare un discorso, aveva paura di dire qualcosa di
troppo,
magari ferirla ancora più di quanto già non lo
fosse.
La sua
attenzione fu catturata dal cellulare poggiato sul
tavolino, lo schermo era illuminato e lei assottigliò gli
occhi. Sembrava fosse
aperto sul registro delle chiamate.
Sora emise un
singhiozzò e Mimi si voltò subito in sua
direzione.
Doveva
cercare di
distrarla.
Strinse tra le
mani il sacchetto e glielo porse.
«Ho
comprato le caramelle gommose, quelle che ci piacciono
tanto» disse con un sorriso che cercò in tutti i
modi di far apparire come vero
e sincero.
«Guarda!»
la esortò, muovendo il pacco delle caramelle di
fronte al suo viso.
La ramata si
limitò a lanciare un’occhiata apatica, per poi
abbassare nuovamente lo sguardo. La castana arricciò le
labbra di fronte a
quella mancata reazione.
Aprì
il pacco e infilò dentro una mano, afferrando un
orsetto gommoso tra le dita. Lo porse all’amica.
«Dai,
mangiane una» la incitò, muovendo la caramella di
fronte alla sua bocca «Sono buonissime!»
esclamò, facendo una faccia buffa per
tentare di strapparle via una risata.
Sora,
però, non fece una piega. Strinse i pugni che teneva
serrati sulle gambe, e cominciò a tremare. Ben presto, calde
lacrime la colsero
nuovamente.
Mimi
posò il dolcetto dentro il pacco e lo mise di lato. La
vide piangere in maniera esasperata, e ebbe timore su cosa dirle.
Non
l’aveva mai vista
così devastata come in quei due dannati giorni.
Una sua mano si
alzò automaticamente, e si fermò
all’altezza
dei suoi capelli, accarezzandoli.
«Ti
prego, non fare così...» le sussurrò in
pena per lei.
Continuò
ad accarezzarle piano la testa, mentre la ramata si
teneva stretta le braccia e tremava.
Mimi
pensò tristemente ad un altro dei suoi sfoghi, e decise
di lasciarla fare, fino a quando Sora non parlò.
«Non
risponde alle chiamate...» balbettò con le lacrime
che
le scendevano fino alla bocca «ha chiuso il
telefono...» raccontò all’amica in
tono spezzato.
Poi
alzò lo sguardo verso di lei, che la fissava interdetta.
Vide i suoi occhi nocciola che le cercavano aiuto, che avevano bisogno
di
appoggio.
Era
martoriata, debole,
distrutta.
«Cosa
faccio?» chiese in un sussurro disperato.
Mimi diede un
gran sospiro.
Cosa
avrebbe dovuto
fare?
Non
doveva far altro che
stare ferma, immobile, ad aspettare che la tempesta passasse, ad
attendere che
Matt avesse voglia di parlarle.
Era
stata avventata, lo
aveva ferito, e adesso lui non voleva saperne di ascoltarla.
In
cuor suo non riusciva
a dare torto al biondo, soprattutto conoscendo la sua
personalità orgogliosa e
testarda.
Anche
lei era in quel
modo, per parlare con Tai le ci erano voluti due anni,
d’altronde.
«Devo
parlare con lui... devo spiegargli... devo...» Sora
continuava a biascicare parole confuse, mentre i singhiozzi non le
permettevano
di terminare le frasi.
La castana
decise di intervenire per spezzare quel corteo
funebre.
Non
doveva piangersi
addosso, non sarebbe servito a niente.
Lei
lo aveva scoperto a
sue spese.
Poggiò
le mani sulle sue.
«Sora,
ascoltami, l’unica cosa che devi fare è dargli del
tempo» proruppe sinceramente, guardandola fissa negli occhi,
cercando di
trasmetterle tutta la sicurezza e l’affetto che aveva.
La ramata
aprì la bocca e la guardò a sua volta spaesata.
Tempo...
Non
poteva, non
riusciva... il tempo scorreva troppo lentamente, non ce
l’avrebbe fatta...
L’
avrebbe uccisa.
«Ha
bisogno del tempo per capire» continuò Mimi,
convinta.
«Non
chiamarlo più» affermò in un tono che
non prevedeva
repliche ulteriori.
La ramata non
era di quell’avviso. Nell’udire quelle parole
fuoriuscire dalla bocca dell’amica, provò un
sensazione di sconforto tale da
gettarla nel baratro.
Si
agitò sul posto, scacciando via le mani da quelle
dell’altra.
«Non
posso stare così, devo vederlo...» si lamentava,
scotendo la testa con fervore «Devo vederlo,
Mimi...» la voce le si spezzò
nuovamente, mentre con un’occhiata trasmetteva
all’amica tutta la sua
disperazione, la sua frustrazione per non poter fare nulla.
Questa le
bloccò ancora le mani, e puntò con fermezza gli
occhi sopra i suoi.
Doveva
ascoltarla.
Non
doveva chiamarlo,
doveva dargli del tempo per assimilare. Più avrebbe tentato
di mettersi in
contatto con lui, più Matt l’avrebbe rifiutata.
Era
ancora presto,
troppo presto, le ferite sanguinavano vivamente, il dolore era ancora
troppo
grande per essere messo da parte.
«Non
è il momento!» alzò un po’ la
voce per costringere
l’altra a fermarsi ad ascoltarla. La fissò in
volto con la caparbietà che la
contraddistingueva.
«Lo
sai com’è fatto Matt. Non gli passa facilmente,
specie
una cosa del genere» la portò con i piedi per
terra.
L’altra
lanciò un profondo sospiro di afflizione.
«Devi
aspettare, Sora, solo aspettare» affermò risoluta,
convinta di quello che le aveva appena detto.
Non
poteva fare altro.
Solo
mettersi in un
angolino ad attendere quello che sarebbe successo, la piega che da quel
momento
in poi avrebbe preso la sua relazione.
Aveva
sbagliato, aveva
ferito una persona che l’amava e tanto; perché per
quanto Yamato e lei fossero
talmente diversi da cozzare inevitabilmente, da alcuni punti di vista
lo
capiva, si rivedeva, e per quanto avesse commesso la sua porzione di
errori in
quella storia, sapeva che l’amore che provava per Sora era da
sempre stato
vero, reale, puro.
Yamato
amava Sora in un
modo nel quale Taichi, probabilmente, non avrebbe mai amato lei.
Quella
constatazione le procurò un groppo alla gola.
Il silenzio
calò sulle due ragazze. L’unico rumore che si
udiva era la lancetta dell’orologio che scandiva il tempo.
Sora non disse
nulla per qualche secondo, colpita, fino a
quando non si staccò dalla sua presa e si mise in piedi.
Mimi la vide
raggiungere il corridoio e sparire, percependo un senso di rabbia e
umiliazione
in quel gesto.
Sospirò,
e per un po’ si limitò a guardare anche lei la TV
spenta.
Cosa
avevano combinato
tutti quanti...
Erano
successe così
tante cose, sembrava che il mondo, il loro mondo si fosse capovolto...
Loro
non erano così.
Non
erano mai stati
così.
Si mise in piedi
a sua volta e si portò svogliatamente verso
la cucina. Aprì le buste e terminò di riporre
dentro la credenza il resto della
spesa.
Avevano
sbagliato,
avevano esagerato tutti.
Sembrava
una sorta di
lotta, una sorta di battaglia che imperversava tra di loro.
Si
bloccò e strinse in mano le buste, stropicciandole, lo
sguardo vitreo.
Aveva
dato un consiglio
a Sora, le aveva detto ciò che era giusto fare, ma lei?
Lei
stessa cosa avrebbe
dovuto fare?
Come
avrebbe dovuto
agire?
Lasciò
la cucina e lentamente si avviò verso il bagno,
superando la porta chiusa della stanza di Joe, il quale non usciva a
parlare
loro dal giorno prima.
Aprì
piano la porta e si ficcò dentro.
Non
sapeva dove andare,
non sapeva che strada intraprendere. Dovunque andava, qualunque scelta
prendeva, sembrava quella sbagliata.
Pronta
ad inghiottirla e
a non farla uscire più viva.
Spostò
gli occhi verso la lavatrice e cominciò a mettere
apposto alcune cose. Cacciò meccanicamente dei panni che si
trovavano sopra dei
cesti, e la sua attenzione fu catturata da qualcosa.
Era
una giacca.
La
afferrò, sentendo tra le dita il morbido tessuto di
cotone. La sua mente fu invasa dai ricordi e collegò tutto.
Era
la giacca di Taichi.
Era
rimasta lì da quella
sera, da quando loro due avevano fatto l’amore lì,
proprio in quel punto...
Il
punto in cui gli
aveva detto di amarlo...
Dove
non aveva ricevuto
risposta e forse non l’avrebbe ricevuta mai.
Sentì
le lacrime invadere i suoi occhi, mentre portava la giacca
del ragazzo alle narici e annusava il profumo che ne era rimasto
impregnato.
L’aveva
lasciata di
nuovo da sola.
Non
l’avrebbe mai
amata...
Gemette,
martoriata.
Come
aveva potuto anche
solo per un momento pensare che fare l’amore avrebbe
cancellato quei due anni?
Aveva
davvero creduto
che con un “ti amo” sarebbe riuscita ad arrivare al
cuore di Taichi?
Voleva
fargli pena?
Perché
era quello che
faceva a sé stessa, in quel momento.
Era stata
così talmente sciocca e volubile, sconvolta
perché
Shinichi l’aveva ferita rivelandole quello che, in fondo,
aveva sempre saputo.
Tai
non pensava a lei.
Talmente debole
da essersi lasciata andare, alzare tutti i
suoi freni inibitori e ritrovarsi prigioniera dell’amore.
Lei... lei che
era così libera da ogni forma di prigionia...
Lo
era.
Quell’amore
risultava
essere una prigionia.
E adesso si
ritrovava a stringere tra le mani quella giacca,
scioccamente, come fosse l’unico appiglio con cui poteva
sperare di liberarsi.
Con cui poteva
sperare di riaverlo accanto, stringerlo,
illudendosi che fosse lui.
Il sussurro di
quel pensiero sprezzante ma così conforme
alla realtà dei fatti le ferì il cuore
più di quanto non lo fosse già.
Tai
l’aveva solo
desiderata.
Era stato
così ubriaco da non averci capito più niente,
come
lei, prigionieri di quel bagno le cui pareti sembravano essere scolpite
dal
fuoco.
Strinse il capo
al petto, sentendo il cuore battere forte.
Capiva
come si sentiva
Yamato in quel momento.
Capiva
perfettamente
come si sentiva dopo essere stato deluso dalla persona che amava.
E
probabilmente nemmeno
il tempo, nemmeno il suo scorrere avrebbe mai potuto guarire quelle
ferite che
portava dentro.
Taichi
portò un biscotto in bocca. Lanciò uno sguardo a
Yamato che si trovava seduto accanto a lui, lo sguardo fisso nel vuoto,
perso
nei suoi pensieri.
Stavano facendo
colazione in silenzio, un silenzio che
all’orecchie del castano risultava pesante, terribile da
sopportare.
Fece un sospiro
e bevve un po’ di the, senza togliere gli
occhi di dosso all’amico.
Il
giorno prima aveva
fatto di tutto per far uscire fuori il dolore che aveva dentro; eppure,
dopo
uno sfogo straziante, il biondo era piombato nuovamente nella sua
prigione
silenziosa.
Sapeva
che Matt non
amava parlare delle cose che lo ferivano, anzi, non amava parlare in
generale.
Eppure, Tai pensava che era necessario, era qualcosa di cui aveva
strettamente
bisogno per reagire a tutta quella situazione.
Lo vide fermo,
senza toccare cibo. Era scarno e pallido, le
occhiaie erano accentuate al di sotto degli occhi. Aveva bisogno di
mettere
qualcosa sotto i denti o si sarebbe sentito male.
«Che
buoni questi biscotti» commentò prendendone un
altro,
in maniera tale da attirare la sua attenzione.
«Di
che marca sono?» chiese, fingendosi interessato.
Matt volse
appena lo sguardo su di lui, poi lo spostò
nuovamente senza rispondere.
Il castano
sospirò, scuotendo la testa. Posò il biscotto sul
tavolo e si concentrò sulla sua figura.
Sembrava
uno zombie,
aveva il volto provato, l’espressione dura e persa in
chissà quali pensieri
distruttivi.
«Bevi
un po’ di the Olong» provò nuovamente,
adocchiando la
bottiglia quasi piena «Izzy dice che fa vedere i
dinosauri» ridacchiò, tentando
di strappargli un sorriso.
Niente.
Yamato non emise
suono, non si mosse dalla posizione in cui
si trovava.
Taichi si morse
il labbro e fece una faccia preoccupata.
Era
spento, svuotato,
sembrava un involucro senza nulla dentro.
Non
poteva ridursi in
quel modo. Lo sapeva che stava male, che stava soffrendo, ma era troppo
per lui,
non sarebbe rimasto niente della persona che era.
Fece per dire
qualcos’altro, quando fu interrotto dalla
vibrazione del cellulare del biondo che si trovava sopra il tavolo.
Matt
spostò gli occhi in direzione dello schermo e Tai non
riuscì a fare a meno di sbirciare a sua volta.
Sora.
Lo
stava chiamando.
Il castano
alzò subito lo sguardo verso l’amico. Lo vide
fare una smorfia sofferente con il viso, mentre con tutta la sua forza
di
volontà spostava gli occhi onde evitare di leggere quel nome
a caratteri
cubitali.
Quella
sola chiamata gli
aveva fatto battere forte il cuore, lo aveva riportato sulla via della
vita.
Pensava
di essere morto,
ormai, invece non appena aveva letto il nome di Sora sul telefonino
aveva
sentito così tante sensazioni messe insieme che gli sembrava
di essere appena
stato messo al mondo.
Il cellulare
continuò a vibrare, e lui si conficcò le unghie
sul palmo della mano pur di non allungare il braccio e rispondere.
Non
avrebbe risposto...
Doveva
lasciarlo in
pace, non voleva sentirla, non voleva più vederla...
Lo
aveva distrutto.
Lei
era l’artefice della
sua distruzione, gli faceva male perfino sentire una stupida vibrazione
e
associarla a lei.
Sentì
lo sguardo apprensivo di Tai perforarlo da corpo a
corpo.
Il telefono
tacque.
Tentò
con tutte le sue forze di mantenere l’ autocontrollo,
sentiva che stava sprofondando nuovamente.
Prima che
qualcuno potesse dire qualcosa, il cellulare
cominciò a vibrare nuovamente.
Aprì
gli occhi che aveva socchiuso con un’espressione
risoluta, smosso da una serie di sentimenti contrastanti.
La
rabbia,
l’umiliazione, la disperazione presero il sopravvento.
Afferrò
il telefono e con un gesto di stizza lo chiuse, poi
lo lanciò sul tavolo.
Il castano
seguì la scena senza dire nulla. E per un paio di
secondi decise di non intervenire, vedendolo portarsi una mano sugli
occhi.
Non
poteva continuare
così.
Aveva
bisogno di
assimilare tutto, aveva bisogno di tempo, lo sapeva; ma in quel modo
avrebbe
solo peggiorato le cose con Sora e con sé stesso.
«Matt...»
lo chiamò piano.
Quello non si
voltò. Lo vide mordersi il labbro in maniera
nervosa. Sembrava sul punto di crollare, e lui tese una mano fino al
suo
braccio, stringendolo.
Il biondo smise
di fare quello che stava facendo e lo guardò
a sua volta, in uno sguardo costernato.
Lo
aveva destabilizzato,
lo aveva nuovamente trascinato sul filo del rasoio, sulla linea sottile
che lo
separava dal crollare.
Lo
fissò con determinazione negli occhi azzurri.
«Matt,
ascoltami» dichiarò, stringendo la presa
«Prenditi
tutto il tempo che ti serve, ne hai il diritto. Però prima o
poi la dovrai
affrontare, Matt, non potrai...» le parole gli erano uscite
spontaneamente, ma
venne interrotto da un brusco gesto del biondo, il quale si
liberò dalla sua
presa.
Lo
guardò con gli occhi che mandavano fiamme, ma nello
stesso tempo sembravano pronti a traboccare di lacrime.
«Io
non affronterò proprio nessuno!»
esclamò, squarciando
finalmente il silenzio che lo aveva caratterizzato per un tempo
infinito.
Non
avrebbe affrontato
la persona che più gli aveva fatto male al mondo.
Non
c’era stato niente
che lo aveva fatto soffrire in quel modo, nessuno, nemmeno i suoi
genitori
quando avevano preso la decisione di separarsi ed era stato allontanato
da suo
fratello.
Sentì
gli occhi inumidirsi.
Tai,
però, non era dello stesso avviso.
«Dovrai
farlo, dovrai parlarle!» tentò di ricondurlo con i
piedi
per terra, in quella realtà che, seppur dolorosa,
corrispondeva al vero.
Non
poteva ignorarla per
sempre, aveva bisogno di confrontarsi con lei, capire il
perché lo avesse
fatto, provare a mettere insieme i pezzi del suo cuore.
Yamato scuoteva
la testa con vigore, in un gesto che a
Taichi sembrò isterico.
Stava
uscendo fuori di
sé.
Gli strinse
nuovamente il braccio.
«Non
puoi continuare a stare così, devi capire, dovrete
parlarne prima o poi!» insistette, ma l’amico si
spostò con malgarbo.
Lo
guardò con un’espressione rabbiosa.
Non
doveva dirgli ciò
che fare.
Lo
sapeva lui quello che
era giusto.
«Non
voglio parlare di niente!» sbottò, infervorato e
frustrato. Poi abbassò il capo «Per me la
questione è chiusa qui» pronunciò a
voce bassa.
Tai non ci
credette. Sapeva
che l’amava comunque, che era ferito da Sora in maniera
profonda, ma che dentro
il suo cuore l’amore che provava per lei non era spento, anzi
divampava come
non mai.
Era
solo orgoglioso, e
lo capiva.
Lei
gli aveva mancato di
rispetto, aveva tradito la sua fiducia, aveva deluso anche lui stesso.
Però
era consapevole del
fatto che tutto succedeva per una ragione, e toccava proprio al biondo
scoprire
se ne era valsa la pena.
Sospirò
malinconicamente.
«So
che hai bisogno di tempo, ma meriti una spiegazione»
soffiò, e lo vide indugiare con lo sguardo su di lui e
sentirsi trafitto, tanto
lo spostò da un’altra parte.
Non dissero
più niente.
Le
lancette
dell’orologio scandivano i minuti.
Il
tempo passava e loro
erano ancora lì, senza che la pena li avesse lasciati andare.
Senza
che uno spiraglio
di luce s’intravedesse dalla finestra.
Luce...
Il castano
controllò l’orario.
Fece una faccia
stupita. Era tardi, erano passati due giorni
che non aveva messo piede a casa. Non si era azzardato a lasciare il
suo
migliore amico da solo, ma era necessario tornare per qualche ora o sua
madre
si sarebbe preoccupata.
Le aveva
lasciato un messaggio di avvertimento, ma era
sicuro lo stesse aspettando per trascorrere un po’ di tempo
con lui.
Fissò
il biondo e strinse le sopracciglia.
Lo vide nuovamente perso nei suoi pensieri, e
si chiese se fosse una buona idea lasciarlo da solo.
«Devo
tornare a casa per qualche ora» annunciò, mentre
l’altro non rispondeva «però poi in
serata torno qui» si affrettò ad aggiungere
per rassicurarlo.
Matt
continuò a non dire nulla, così Tai, con un
sospiro, si
mise in piedi e lo raggiunse, parandosi di fronte.
Il biondo lo
guardò interrogativo.
L’altro
gli prese il mento tra le dita e fece in modo che
alzasse la testa in sua direzione.
«Posso
lasciarti qui da solo per un po’?» gli chiese
allusivo.
Gli occhi
dell’amico scrutavano a fondo i suoi e Matt si
trovò ad annuire piano, in maniera automatica.
Tai
rilasciò lentamente la presa.
«Mi
raccomando» si rassicurò, non riuscendo a
nascondere una
nota di apprensione nella voce «Ci vediamo dopo» lo
salutò dandogli un buffetto
affettuoso sulla guancia.
Prese il suo
telefono, il portafogli e le chiavi, poi gli
lanciò un ultimo sguardo prima di aprire la porta di casa e
chiudersela dietro
le spalle.
Una volta fuori
in pianerottolo emise un profondo sospiro.
Gli
costava andarsene e
lasciarlo lì, ma aveva bisogno di staccare anche lui per un
po’, o sarebbe
crollato uguale.
E
non poteva permettersi
di mostrarsi debole di fronte a Matt quando l’amico aveva
bisogno di lui.
Indugiò
per qualche secondo dietro la porta, tentando di
udire qualche suono strano provenire da dentro, un singhiozzo, o un
urlo.
Niente di tutto
ciò accadde, e pensò che il biondo,
probabilmente, era rimasto nella stessa posizione in cui lo aveva
lasciato.
Si
sistemò il colletto della camicia ormai spiegazzata e si
accinse a scendere le scale.
Subito raggiunse
la strada, e aspirò l’aria fresca di Tokyo.
Si mise in
cammino con le mani in tasca, la camicia spiegazzata
e alzata fino ai gomiti, il volto stanco e segnato.
Se
solo qualcuno glielo
avesse detto solamente qualche giorno fa non ci avrebbe creduto.
Gli
sembrava tutto così
surreale, così onirico quello che era successo, che si
chiedeva se quella vita
che adesso stava vivendo fosse vera o no.
Sospirò
pesantemente, alzando lo sguardo verso le persone
che andavano e venivano, le insegne grandi e colorate, i negozi adibiti.
Gli era mancato
tutto quello, eppure per un secondo aveva
pensato che sarebbe stato meglio non essere tornato.
Era
diventato davvero un
vigliacco?
Si
era pentito di essere
tornato quando tornare fino a pochi giorni fa era il suo desiderio
più grande.
Voleva
riavvolgere il
nastro e cancellare tutto solo perché non era più
capace di gestire nulla.
Non
era capace di
aiutare la sua famiglia, non era capace di badare a Hikari, non era
capace di
sostenere separatamente i suoi amici...
Aveva
urlato contro di
Sora, non era riuscito a far riprendere Yamato...
Non
era stato capace di
rispondere a Mimi, a quello che gli aveva detto.
Era
un vigliacco.
Gli venne da
piangere, ma per fortuna il pullman passò
proprio in quel momento. Salì su, e si sedette.
Eppure
si prendeva a
carico i problemi di tutti.
Era
solo lui ad essere
incapace di gestire i suoi.
Non appena
arrivò a casa, girò la chiave nella toppa,
aspettandosi di trovare sua madre in salotto che lo aspettava.
Non
trovò niente di ciò che si aspettava, e rimase
deluso.
Con un gesto automatico, si diresse verso camera sua e aprì
l’armadio.
Scelse dei
vestiti e si condusse in bagno. Si spogliò e si
mise sotto la doccia, tentando di trovare conforto sotto il getto
dell’acqua.
Niente
avrebbe potuto
confortarlo in quel momento.
Si
sentiva come
estraniato dal suo corpo.
Continuava
a rivivere quei
momenti, come se la sua mente fosse rimasta ancorata lì.
Poteva
sentire la
musica, le urla, i sospiri di piacere di Mimi...
Strinse gli
occhi e si portò due mani al volto.
Che
stupido, vigliacco,
idiota...
Aveva
fatto l’amore con
lei e l’aveva lasciata da sola.
Mimi
gli aveva
confessato di amarlo ancora, e lui?
Lui
era così vigliacco
che aveva ringraziato a Dio che in quell’esatto momento Joe
lo avesse chiamato.
Non
sapeva cosa le
avrebbe risposto. Non sapeva se quello che sarebbe uscito dalla sua
bocca
sarebbe stato sensato o piacevole da udire per lei.
E
lui non voleva farle
del male...
Fuggiva
e basta per non
fare del male a nessuno.
Si
faceva così pena...
Una
volta non era in
quel modo, una volta avrebbe affrontato tutta la sua merda senza
timore, niente
lo avrebbe piegato, perché sapeva quello che voleva e non
vedeva l’ora di
dimostrarlo.
Adesso...
adesso,
però...
Non
l’aveva nemmeno salutata, non l’aveva nemmeno
degnata di
uno sguardo quando era andato lì il giorno dopo.
Non una
chiamata, non un messaggio.
Era stato
così impegnato ad urlare contro Sora che non si
era premurato di parlare con lei, nemmeno a farle un cenno con il capo.
E probabilmente
l’aveva spaventata, si era mostrato come il
solito stronzo autoritario quando lui non voleva mostrarsi
così...
Ma
era troppo vigliacco
per dimostrare di essere un altro.
Quello
di sempre.
Finì
di lavarsi ed uscì dalla doccia, stringendosi una
tovaglia alla vita. Si guardò allo specchio, i capelli
bagnati, la barba
incolta.
Si
sentì in colpa per
come si era comportato con Matt, con Sora, con Mimi...
Con
tutti.
Sentiva
di tenerli in
pugno tutti, e una stretta più forte li avrebbe potuti
schiacciare.
Si
rivestì e decise di andare in cucina a prepararsi
qualcosa da mangiare. Era quasi ora di pranzo.
Non appena
entrò, notò una figura seduta di spalle sullo
sgabello della penisola. Non appena udì i suoi passi si
voltò a guardarlo, e il
viso candido e preoccupato di sua sorella gli procurò una
fitta al cuore.
«Fratellone»
lo chiamò, portandosi le mani al petto.
Taichi fece il
giro della penisola e le andò incontro.
«Kari»
la chiamò di riflesso, e si sporse per darle un bacio
sulla guancia.
Aveva la pelle
morbida e profumata.
Si sedette di
fianco a lei, mentre quella non smetteva di
guardarlo di uno sguardo apprensivo e indagatore.
«Meno
male che sei tornato!» la udì esclamare
«Stavo così in
pensiero» aggiunse allusiva.
Il castano si
appoggiò con il gomito alla penisola e si
tenne la testa con una mano.
«Tutto
quel putiferio che è successo alla festa... ero
così
spaventata!» Kari continuò a parlare, facendo
riferimento al fatto che Matt
avesse preso a botte quel tizio e lei si era spaventata a morte, specie
non
vedendo tornare lui.
La
conosceva bene, come
le sue tasche la sua sorellina premurosa e gentile.
Gli sorrise.
«Va
tutto bene, Kari» l’accarezzò con lo
sguardo, nonostante
la stanchezza impressa negli occhi non lo abbandonava.
Sarebbe
salito in camera
e avrebbe dormito per giorni.
La
più piccola emise un sospiro, poi indugiò un
po’ prima di
chiedere:
«Non
per Matt, è così?»
Tai la
guardò negli occhi per qualche secondo. Aveva
l’espressione seria, una ruga di preoccupazione le si era
formata in fronte.
Il ragazzo
sospirò, ma non riuscì a rispondere,
perché lei
aveva ripreso.
«Sora
piangeva...» mormorò triste, e lui socchiuse gli
occhi
ripensando nuovamente a quelle scene «Volevo che TK
intervenisse, ma... lo sai
che i loro rapporti sono alterati ultimamente» disse
alludendo alle tensione
tra il biondino e Yamato.
«Io
avevo capito che fosse successo qualcosa di grave»
dichiarò poi.
Taichi fece una
smorfia con le labbra, lo sguardo perso nel
vuoto.
Si
sentiva a pezzi.
In
centinaia di pezzi.
C’erano
così tante
ragioni in mezzo...
«Sora...
non si è comportata bene con Matt»
sussurrò dopo
secondi che sembrarono un’eternità, gli occhi
ancora vacui.
Poi li
spostò sopra la sorella che aspettava una
spiegazione. Tentennò se dirle tutta la verità,
forse era meglio eludere
qualcosa, non voleva farla preoccupare ulteriormente.
Notò
la sua espressione risoluta e pensò che non era
più una
bambina, era necessario metterla al corrente di tutto.
Cominciò
a raccontare la vicenda per filo e per segno. Kari
ascoltava con un’espressione stupefatta, ora basita. La vide
portarsi una mano
alla bocca non appena terminò.
«Non
ci posso credere...» biascicò, e Taichi
pensò che
nemmeno lui ci poteva credere, eppure tutto corrispondeva ai fatti
reali.
Stettero in
silenzio per un po’ di tempo, interrotti solo
dal ticchettio dell’orologio.
Gli unici rumori
erano quelli delle auto che provenivano da
fuori.
Sua sorella
aveva lo sguardo basso e si guardava le
ginocchia. Poi la vide alzare la testa con in volto
un’espressione abbattuta.
«Vorrei
solo che TK chiarisse con Matt, che gli stesse
vicino in questo momento...» sussurrò triste, e
poi la vide puntare i suoi
occhi nocciola in direzione del balcone «lui è un
bravo ragazzo, rispettoso,
gentile...» la udì parlare del fidanzato con un
tono strano, come se volesse
elogiarlo per auto convincersi.
Tai
aggrottò le sopracciglia.
Non
aveva dimenticato la
loro discussione, la sera della laurea. Takeru stava gestendo dei giri
illeciti, e a lui non piaceva affatto la situazione in cui era
coinvolto, né
tantomeno il fatto che di mezzo ci fosse lei.
Strinse le
labbra sentendo la rabbia partirgli dalle gambe e
arrivare dritta fino alla punta dei capelli.
Il
modo in cui Hikari
fosse talmente dipendente da Takeru lo infastidiva. Sembrava avesse una
concezione idealizzata del ragazzo, come se non riuscisse a vederne i
difetti.
Era
preoccupato, non
voleva che fosse succube di lui, non voleva sentirla parlare con quel
tono
stucchevole.
Aveva
avuto esperienza
di rapporti insani, ed ecco dove erano arrivati...
«Perché
te lo difendi così tanto?» chiese tra i denti
«Sembri inebriata quando parli di lui! Che ti
prende?» la squadrò dall’alto in
basso come se la stesse vedendo per la prima volta.
Kari distolse lo
sguardo.
«Io...
so quanto vale» rispose poi, tentando di recuperare
la fermezza nella sua voce «So che è un bravo
ragazzo, che i suoi scopi sono
buoni. Non agisce mai con cattiveria» aveva portato le
braccia sulle ginocchia,
e aveva parlato con talmente tanta sicurezza che il castano
sentì il
voltastomaco.
Il fatto che
fosse così sicura di lui lo fece mandare in
bestia, sentì un tormento tale da dargli gelosia e angoscia.
«Eppure
continua a frequentare certi giri coinvolgendo anche
te!» sbottò, guardandola di uno sguardo serio e
redarguente.
Kari rimase
dapprima colpita, poi strinse i pugni.
«Non
sono mai stata coinvolta!» gli confessò, alzando
il
tono della voce. Suo fratello la fissò, alzando appena la
testa.
Lei si
portò una mano alle labbra.
«Lui...
mi dava qualcosa di soldi... ma gliel’ho detto,
l’ho
ringraziato e gli ho detto che non ne ho più
bisogno» gli raccontò, mentre lo
guardava con gli occhi lucidi.
Il fratello
aprì leggermente la bocca vedendola in quello
stato. Piano il volto di Hikari venne pervaso da delle calde lacrime.
«Non
voglio deluderti per nessuna ragione al mondo,
fratellone» disse tra il pianto, spezzando definitivamente il
già precario
cuore di Taichi.
Vederla
piangere era una
di quelle torture medievali orrende, oltraggiose.
Si
sentì in colpa,
nuovamente, si sentì in colpa perché
l’aveva accusata a priori, aveva dato per
scontato che non avesse mantenuto la promessa fattagli,
l’aveva giudicata male
perché difendeva a spada tratta il suo amore solo
perché era uno stupido
fratello geloso.
Kari
lo aveva fatto solo
per tentare di aiutare i loro genitori che si trovavano nel bilico, e
lui
l’aveva fatta piangere...
Si
rese conto di essere
bravo a far piangere le persone.
Allungò
una mano e toccò quella sua. Kari la strinse di
rimando e lui si sporse di più per avvolgerla in un lungo
abbraccio protettivo,
mentre lei continuava a piangere, bagnandogli la maglietta.
Non
voleva che quella
luce si spegnesse del tutto.
L’aveva
vista debole,
fioca, come se fosse alla sua fine. Voleva solo che tornasse a
splendere più
luminosa e bella che mai.
L’allontanò
leggermente da sé per poterla scrutare in viso.
Kari tirò su con il naso e afferrò dei fazzoletti
per asciugarsi.
Non dissero
niente per una manciata di secondi.
Tai
pensò al fatto che avrebbe dovuto scusarsi, ma
evidentemente la ragazza lo aveva già, in cuor suo,
perdonato, perché aveva
alzato il volto e gli aveva rivolto un’espressione serena.
«Tu
stai bene?» gli chiese poi, cambiando totalmente discorso
«Non mi racconti niente?»
La vide
riprendersi e tirò un sospiro.
Dire
che stava bene era
una bugia.
Pensò
di nuovo a quello
che era successo, il calcio, il tradimento di Sora, la confessione di
Mimi...
Non
stava bene, tentava
solo di mantenere alta la facciata di persona forte, ma era crollata a
Yamato
quella maschera, dubitava che sarebbe riuscito a mantenerla lui per
molto
tempo.
«Non
ho niente da raccontarti, sorellina» mentì in un
sussurro.
E probabilmente
lo fece con poca bravura, perché lei non
aveva smesso di guardarlo interrogativa e inquisitoria.
Aveva
paura che
riuscisse a leggergli nel pensiero.
Quando
erano piccoli lo
facevano, pensavano entrambi di avere un potere speciale, ma lui ormai
aveva
perso anche quello...
«Non
è vero» affermò, infatti, Kari con
decisione «Lo so che
c’è qualcosa che ti porti dentro, ma non vuoi
dirmelo» poi lo scosse da un
braccio, mentre lei apriva la bocca.
«Dai,
dimmelo!» lo esortò, guardandolo di uno sguardo
risoluto che gli ricordava tanto il suo.
Taichi
sospirò.
Sì
che c’era qualcosa
che si portava dentro...
Non
aveva smesso di
pensarci fino a poco fa, solo che si sentiva terribilmente in colpa,
sentiva la
vergogna gravare pesantemente su di lui.
Non
credeva di riuscire
a rivelarlo a Kari, lei avrebbe potuto giudicarlo, pensare male di
lui...
«Non...
io...» La guardò ancora, e pensò che
sua sorella non
era come lui. Lo fissava con gli occhi luminosi e speranzosi.
Forse...
avrebbe potuto
lasciarsi andare per una volta...
Ne
aveva bisogno.
Lo
sentiva realmente
dentro, il bisogno di sfogarsi.
«In
effetti, io... E’ successa una cosa la sera della
laurea» mormorò sinceramente, e Kari si
rizzò sul posto, stando ben attenta a
catturare ogni sua singola sfaccettatura.
«Un’
altra?» chiese, indagatrice.
Tai
alzò gli occhi su di lei e poi li spostò,
sentendosi un
po’ in imbarazzo nel confessarle quello che stava per dirle.
Cosa
avrebbe pensato di
lui?
Non
parlavano di
quell’argomento da molto tempo, aveva paura come avrebbe
potuto prenderla...
Avrebbe
pensato che
fosse un idiota, e in effetti lo era.
«Io e
Mimi... insomma, siamo stati insieme» dopo
l’indugio
iniziale, ammise quello che era successo.
Scrutò
in viso l’espressione della sorella mutare da
interrogativo a stupefatto.
Ci
credeva che era
stupita, era stupito anche lui per la semplicità, la
spontaneità, l’intimità di
quello che era successo tra loro.
Erano
passati due anni,
ma niente era cambiato dentro il suo cuore.
Anzi,
se possibile, era
ancora più amplificato.
«Tu e
Mimi?!» esclamò, sorpresa.
«Davvero
dici? E... com’è stato?» chiese, udendo
nella sua
voce una punta di contentezza.
Forse
pensava che le
cose erano tornate apposto tra di loro, ma la verità era che
aveva fatto il
coglione, lo aveva sempre fatto in tutti quegli anni della loro
relazione, e
non sapeva come si sarebbe risolto tutto...
Avrebbe
dovuto
semplicemente parlare, non avrebbe dovuto farsi trascinare dal vortice
di
sentimenti contrastanti che lo avevano annebbiato non appena quel tizio
si era
messo in mezzo...
Non
avrebbe dovuto
nemmeno bere in quantità esagerate, né fumare
quello spinello… E poi faceva la
morale a TK…
Non
aveva fatto altro
che spingerlo in una situazione dalla quale apparentemente non
c’era via
d’uscita, se non quella di fare
i conti con sé stesso.
«Bello,
io...» ammise, e sì era stato bello, bellissimo,
non
poteva mai credere dopo due desertici anni di riuscire a provare ancora
quelle
sensazioni così forti.
Ripensò
ancora quello che la ragazza gli aveva confidato, e
si sentì morire.
«credo
però di aver combinato un casino»
affermò subito
dopo, e Kari fece una faccia esasperata.
Lui
alzò gli occhi con uno sguardo colpevole.
«Ha
detto di amarmi» le rivelò, e la più
piccola quasi
saltò giù dalla sedia.
Si
portò le mani alla bocca felice, emettendo uno strillo.
Lui si morse il
labbro, sentendosi imbarazzato.
«Oddio!»
la sentì esclamare, portandosi le mani alla bocca.
«E
tu?» poi gli aveva rivolto uno sguardo indagatore.
Lui
abbassò lo sguardo.
«Sono
andato via» disse e vide le orbite di sua sorella
quasi uscire di fuori «Aspetta, ho dovuto farlo! Joe mi
chiamava, dovevo
aiutare Matt» si affrettò ad aggiungere, per
spiegare quell’inconveniente.
«Credo
che lei ci sia rimasta male» constatò in tono
flebile.
Kari
incrociò le braccia, scuotendo la testa.
Ne
avrebbe mai combinata
una giusta?
Desiderava
tanto che suo
fratello e Mimi tornassero insieme, lo voleva da due anni, da quando il
sorriso
sincero di suo fratello si era spento.
«Ci
credo! Non è stato affatto carino»
commentò
indispettita.
Il castano
sbuffò, portandosi una mano tra i capelli.
«Già...
Non so che fare» le confidò mogio, tenendosi la
testa con una mano.
Si
sentiva in trappola
in tutti i sensi, non sapeva come uscirne, ogni volta che si avvicinava
ad un
cancello ne spuntavano altri cento da scavalcare.
La castana lo
guardò determinata.
«Lei
è ancora innamorata di te» ripeté, e
lui sentì una
fitta al cuore quando formulò quella frase «E tu?
La ami ancora?» chiese poi, a
bruciapelo.
Già...
E
lui?
Era
questo ciò che più
gli premeva.
Sentiva
delle sensazioni
forti per lei, qualcosa che non pensava di poter provare ancora dopo
tanto
tempo e dopo come era terminata la loro storia, in maniera brusca e
quasi a
corto di spiegazioni.
Si
era messo in testa di
dimenticarla, archiviarla completamente dalla sua vita, che erano
diversi, che
erano due persone che volevano cose differenti.
Aveva
provato ad
odiarla, ma non ci era riuscito; anzi, non era riuscito a concludere
niente con
nessuna delle ragazze che aveva conosciuto, perché
l’immagine del volto di Mimi
non lo aveva mai abbandonato, lo aveva perseguitato per tutto quel
tempo come
fosse un fantasma.
E
quando, le rare volte
che si erano incontrati, la vedeva il cuore gli era sempre salito fino
alla
gola, aveva provato le stesse sensazioni che aveva sentito la prima
volta che
aveva capito di essere innamorato di lei.
Avevano
fatto l’amore,
era stata la cosa più bella che gli era capitata da quasi
due anni a quella
parte, lei gli aveva detto di amarlo...
Sentiva
così tanto per
lei, dei sentimenti così forti e travolgenti che lo
spaventavano, lo
confondevano, lo facevano rintanare dentro il suo guscio protettivo e
vigliacco.
«Io...
non lo so... sono confuso...» biascicò, scuotendo
la
testa.
Sua sorella gli
rivolse un’espressione di chi la sapeva
lunga.
«Beh,
io cercherei la risposta nei fatti» disse in tono
ovvio, facendogli intendere che se erano stati insieme dopo tanto tempo
qualcosa doveva pur dire.
E
aveva ragione, ma non
poteva cancellare ciò che era stato.
Le
difficoltà c’erano
allora e avrebbero continuato ad esserci.
Non
sarebbe cambiato
tutto schioccando le dita, forse non sarebbe bastata nemmeno la
volontà, perché
il tempo l’avrebbe scolorita, li avrebbe fatti nuovamente
mollare.
Lui
era un vigliacco,
cosa avrebbe potuto fare per cambiare le cose?
Cos’avrebbe
potuto fare
per sistemare tutto?
«Ma
come potrebbe funzionare, Kari?» sbottò
impulsivamente
«Ci
siamo lasciati per la lontananza, cosa cambierebbe
adesso?» sembravano più delle domande retoriche
volte a sé stesso per auto
convincersi.
«Il
mio lavoro mi opprime, non trovo tempo per me, come
potrei farlo per lei?» continuò, sentendo la
tristezza pervaderlo al sol pensiero
che tra pochi giorni sarebbe dovuto tornare da Akira e avrebbe detto di
nuovo
addio a tutto.
A
lei...
Mimi...
L’unica
ragazza della
sua vita.
«E ha
anche ragione, sono stato uno stupido a tagliarla
fuori, e lei non se lo meritava...» si dannò,
mentre la voce gli si spezzava.
La sorella lo
vide tenersi la testa con le mani. Era davvero
disperato, gli leggeva il pentimento negli occhi e
l’impotenza nel tono di
voce.
Non
era così che doveva
finire.
Se
Taichi e Mimi si
amavano ancora non era giusto che a causa della vigliaccheria e
dell’egoismo
mandassero all’aria tutto.
L’amore
andava ben oltre
questo; lei lo sapeva bene.
Qualsiasi
cosa sarebbe
successa, se si amavano davvero avrebbero trovato il modo di viversi
ancora,
con più voglia, con una maturità che prima non
avevano.
Ne
era certa.
«In
due anni si cambia il modo di vedere le cose» proruppe
d’un tratto e con decisione
«Mimi
è una ragazza intelligente. Sono sicura che insieme
troverete il modo, perché è
ovvio. Voi due vi amate»
lo guardò
fisso e con una determinazione che sconvolse l’altro.
Si
amavano...
Lui
l’amava?
L’amava
ancora anche
lui?
Aveva
così paura a trovare la risposta in fondo al suo
cuore, perché era sicuro che sarebbe crollato, non avrebbe
retto la
disperazione di doversene andare via ancora una volta.
La
guardò con un’espressione stupita, ma nello stesso
tempo,
dentro di sé, sentiva che quello che sua sorella gli aveva
detto era la più
semplice delle verità.
Lui
e Mimi avevano
rovinato tutto per dei capricci caratteriali, non erano stati
sufficientemente
tenaci nel mandare avanti la loro storia, nonostante il forte
sentimento che
accomunava entrambi.
Se
ancora si amavano
veramente, avrebbero fatto di tutto per stare insieme...
Eppure,
lui si sentiva
ancora radicato a quella seggiola, aveva paura di affrontarla, aveva
timore di
essere nuovamente coinvolto in quel turbine di sentimenti che lo
avevano sempre
trascinato e tuttora tentavano di staccarlo dalle sue radici.
Guardò
ancora il volto sorridente di Hikari.
Sentiva
di dover fare
qualcosa, ma aveva paura che fosse troppo tardi, che avesse ancora una
volta
rovinato tutto con il suo dannato temperamento.
Perché
lui, Taichi, era
un vigliacco.
Non fece in
tempo ad aggiungere nulla, che udirono la chiave
girare nella toppa e il volto familiare di loro madre fece capolino.
Non appena li
vide insieme sorrise con gioia, e posò la
spesa sul tavolo. Subito andò loro incontro e si sporse per
abbracciarli.
«I
miei due bambini!» esclamò, dando a entrambi dei
baci e
guardandoli allegra «Cosa volete per pranzo? Vi cucino tutti
i vostri piatti
preferiti, potete incominciare già a leccarvi i
baffi!» esclamò, avvicinandoli
a sé mettendo loro le braccia al collo e facendo congiungere
le guance.
I due vennero
letteralmente travolti dall’entusiasmo della
madre.
Kari fece appena
in tempo a nascondere il fazzoletto con cui
si era asciugata gli occhi, mentre Tai smise di tenersi la testa.
Si guardarono
con un sorriso eloquente.
Un
abbraccio di loro
madre aveva il potere di farli rinascere, di lenire le loro ferite e,
per un
po’, dimenticarsi del resto del mondo.
Tra
quelle braccia era
come se il tempo non fosse mai passato.
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Capitolo 13 *** Il tempo di cambiare ***
Il fumo della
sigaretta volò via attraverso la finestra.
Fece un altro
tiro quasi subito. In mano aveva un matita, e
scriveva qualcosa su di un foglio.
Era
rinchiuso in una
cappa di fumo e oscurità.
Posò
la matita sul tavolo e afferrò la chitarra.
Tempo.
Doveva
dimenticarsi del
tempo.
Doveva
fare in modo che
rimanesse impresso su di un foglio bianco, in delle note imperfette, ma
doveva
allontanarlo da dentro di lui.
Cancellò
una parola e la sostituì con un’altra.
Era
quasi divertente.
Era
ironico il fatto che
riuscisse dare il meglio di sé quando stava male.
La
sofferenza gli dava
ispirazione, forse perché, in fondo, era sempre stato
sofferente durante il
corso della sua vita.
Fin
da bambino, fin da
quando sua madre aveva portato via suo fratello da lui. Fin da quando
aveva
dovuto sopportare di stare solo, ad abituarsi fino ad allora.
Solo
lei era riuscita a
fargli tornare il sorriso.
Nello
stesso modo in cui
glielo aveva tolto.
Falling
out of love is hard
Falling
for betrayal is worst
Broken
trust and broken hearts
I
know, I know
Strinse gli
occhi.
Poi
portò la sigaretta alla bocca e si concentrò
sulla
chitarra. Abbozzò degli accordi che gli sembravano
più adatti in quel momento.
Un
musica triste,
malinconica.
La
musica era il
riflesso di ciò che aveva dentro, lo era sempre stata.
Nonostante
tutto, lo
faceva sentire meglio.
Anche
se era solo per
pochi secondi, riusciva a lenire superficialmente tutte le ferite che
aveva
addosso.
Si perse in quel
componimento, non accorgendosi che la
sigaretta fumava da sola. Un grumolo di cenere si era formato
all’estremità.
Ma
non importava.
Non
gli importava di
niente in quel momento.
Voleva
solo perdersi in
quelle note, in quelle parole che tartassavano la sua testa, che
rispecchiavano
quello che aveva dentro.
Tell them
I was happy
And
my heart is broken
All
my scars are open
Tell
them what I hoped would be
Impossible,
impossible
Impossible,
impossible
Perso.
Sempre
di più.
Perso
nei ricordi di un
tempo passato che era finito, che non sarebbe mai più
tornato, che lo aveva
lasciato indietro, schiacciato, senza averlo nemmeno avvertito.
Il campanello
suonò.
Aprì
gli occhi, tornando al presente. Lentamente si tolse di
dosso la chitarra e, nel gesto, la cenere cadde per terra.
Come
lui.
Meccanicamente,
si mosse in direzione della porta, pensando
a Tai di ritorno. Non appena l’aprì,
però, davanti a lui figurò tutt’altro.
Takeru gli stava
di fronte, appoggiato alla soglia, gli
occhi blu che lo scrutavano profondamente. Portava il suo solito
cappello in
testa, un’aria esitante, ma nello stesso tempo risoluta. In
mano aveva qualcosa
incartata dentro una carta gialla.
Rimase spiazzato
nel vederlo.
Stava ritto con
la mano ancora chiusa contro la maniglia e
lo fissava stupito, confuso, anche un po’ allettato.
Suo
fratello era lì.
Era
venuto lì, a casa
sua.
Takeru...
Dopo dei secondi
che sembrarono ore, si fece finalmente da
parte, spostandosi quel poco per farlo passare.
Il biondino
afferrò il segnale e, con un sospiro, entrò in
casa.
Si
guardò intorno curioso, analizzando ogni cosa che lo
circondava, la cucina, il divano, il tavolo con le sedie.
Fece scorrere un
dito sulla superficie di legno, lanciando
un’occhiata fugace al posacenere con le sigarette spente, il
foglio in cui
aveva scritto la sua canzone.
Lesse qualcosa
di sfuggita, poi il suo sguardo fu catturata
dalla chitarra lasciata incustodita contro la sedia.
Era
l’unica cosa che gli
dava pace, l’unica fonte di salvezza in cui si specchiava
quando si sentiva
perso.
Strinse a
sé il pacco e con un gesto si voltò. Matt lo
fissava interdetto davanti a lui. Poteva notare i suoi occhi azzurri
lucidi e
rossi, il suo volto tumefatto e triste.
Strinse le
labbra.
Probabilmente si
aspettava che dicesse qualcosa. Era andato
a casa sua, e certamente non lo aveva fatto senza un motivo valido.
Non
dopo come si erano
lasciati, non dopo come si era comportato con lui.
Fece un gran
respiro.
Non
sapeva come
iniziare, ma avrebbe trovato il modo.
«Sono
venuto per farti vedere una cosa» mormorò dopo un
po’.
Tentennò per qualche secondo stringendo il pacco tra le
mani, poi lo porse al
fratello.
Yamato sciolse
le braccia che aveva incrociato sotto il
petto, e guardò interrogativo quello che gli stava porgendo.
Allungò
una mano e lo prese, ispezionandolo per capire cosa
fosse.
«Aprilo»
lo esortò TK, e lui gli lanciò uno sguardo
indecifrabile.
Non
sapeva perché era
venuto, né tantomeno perché gli aveva dato
quell’oggetto misterioso. Il fatto,
però, che gli leggesse quella sicurezza negli occhi lo
incentivò ad obbedire,
forse perché lui in quel momento si sentiva tutto
fuorché sicuro.
Scartò
con un gesto repentino la carta che avvolgeva
l’oggetto e, con suo stupore, notò che dentro vi
era riposto un libro.
Lo
girò tra le mani osservandolo, cercando di capire di cosa
si trattasse. Lo aprì, alla fine, mantenendo lo sguardo
interrogativo mentre
sfogliava quelle pagine.
Gradualmente, la
sua espressione facciale mutò.
Era
un libro che
riguardava loro. Parlava della loro infanzia, la loro adolescenza, la
loro
avventura a Digiworld, la loro amicizia, le loro liti, tutta la loro
vita
incisa indelebilmente su delle pagine.
C’era
un capitolo sopra
ogni avvenimento, delle descrizioni su ognuno di loro, descrizioni
minuziose,
così dettagliate, che si stupì perfino di come
avesse fatto a riportarle tutte
lì.
Subito, lo
chiuse di scatto e diede un’occhiata al titolo e
all’autore.
Il
tempo di cambiare
di
Takeru
Takaishi
Alzò
lo sguardo verso suo fratello, e vide che lui lo
guardava già. Era impaziente, ma anche leggermente
impaurito.
Matt non
riuscì a dire nulla, solo non riusciva a smettere
di guardarlo.
Il biondino
rilassò le spalle e puntò gli occhi sul libro.
«Questo
è quello che ho sempre desiderato fare nella vita»
disse fermo, sicuro di quello che stava dicendo «Ho speso
tutto questo tempo
per cercare di realizzare il mio sogno» alzò gli
occhi cerulei su quelli di
Matt.
Questi era
interdetto, la bocca semiaperta.
Era
questo il suo sogno,
scrivere.
Come
aveva fatto a non
capirlo?
Ricordò
lentamente tutte le volte che lo aveva visto
appuntare qualcosa su un taccuino da piccoli, le volte che arrivava a
casa di
loro madre e lo trovava intento a battere sul computer.
Tutti
i tasselli vennero
messi in ordine.
TK si
avvicinò leggermente a lui.
«Ho
sbagliato, è vero» proclamò, e il suono
di quelle parole
gli fece nuovamente alzare lo sguardo su di lui, leggendo nel suo la
sincerità
e il rispetto «Mi sono commissionato facendo lavori
discutibili, ho trascinato
anche Kari con me e questo probabilmente non me lo perdonerò
mai» udì la sua
voce ridursi in un sussurro, un pugno serrato «Ma
l’ho fatto per una buona
causa. L’ho fatto per non perdere la speranza,
Matt» lo fissò con uno sguardo intenso, lucido,
pronto a scoppiare.
Il fratello
chiuse le labbra e assunse un’espressione
indulgente.
Lo vide
stringere entrambi i pugni.
«Avevo
pensato di averla persa per un periodo, proprio
io...» sussurrò con la voce spezzata, mentre gli
occhi gli si erano inumiditi
incredibilmente.
Alludeva
a qualcosa che
gli faceva male. Forse aveva commesso degli sbagli in passato, errori
per cui
si biasimava, ma che era stato costretto a compiere per portare a
termine
quello che desiderava di più al mondo.
«Invece
ce l’ho fatta» si riprese, riuscendo a ricacciare
indietro quelle lacrime amare «Il mio libro è
stato pubblicato, sta andando
benissimo, tutti vogliono conoscere la nostra storia... e ce ne ho
altri in
cantiere... non voglio smettere mai di farlo. E’ quello per
cui sono nato»
dichiarò risoluto, mentre un sorriso si increspava sulle sue
labbra.
Spostò
la sua attenzione verso il foglio dove era stata
abbozzata la canzone e la chitarra adagiata contro la sedia.
«Come
te con la musica» disse piano.
Yamato
sentì una stretta lacerante al cuore non appena gli
venne in mente dello scioglimento improvviso della band.
Anni
di sacrifici
gettati al vento, tutto perso in una folata, come se non fosse mai
esistito.
Gli venne
sistematico scuotere la testa, ma il fratello non
se ne accorse. Si era fatto più vicino e lo guardava
supplice.
«Io ti
chiedo scusa, fratellone» lo udì dire, e rimase
spiazzato dal fatto che glielo avesse detto
«Perché sono stato così crudele con
te...» il tono della sua voce si era nuovamente inclinato e
Matt sentì
un’ondata di tenerezza nei suoi confronti.
«odiavo
il fatto che tu ti fossi buttato giù, fossi
diventato un altro, non reagissi» gliele stava dicendo con
una sincerità
spiazzante tutte quelle cose e lui apprezzava il fatto che gli stesse
finalmente parlando dopo tutto quel tempo.
«tu
sei sempre stato il mio punto fermo, e quando ero
sbandato credevo di poterti mettere da parte, finalmente, che non mi
servivi
più...» una lacrima solcò il suo viso
all’improvviso «invece ho capito di avere
un fottuto bisogno di te» confessò, mentre le
lacrime lo coglievano.
Yamato
sentì a sua volta un groppo alla gola e, di slancio,
si avvicinò ad abbracciarlo. Lo strinse forte a
sé come quando erano piccoli e
lui aveva paura del buio, mentre Takeru si lasciava andare ad un pianto
liberatorio
e di biasimo verso sé stesso.
Aveva
trattato male suo
fratello, aveva giocato a fare l’arrogante presuntuoso,
mentre non aveva ancora
capito un cazzo di niente, di nessuno.
Non
aveva capito quanto
suo fratello avesse bisogno di lui, di quanto fosse un incosciente nei
suoi
confronti, di quanto soffrisse per come lo aveva trattato.
Il biondo aveva
gli occhi chiusi.
Non
gli importava più
nulla di quello che era successo, quello che contava adesso era
stringere il
suo fratellino tra le braccia, bearsi di quel momento che mai avrebbe
immaginato sarebbe capitato.
TK si
staccò leggermente da lui per potergli parlare.
«Ti
prometto che sarò un uomo migliore, mi iscriverò
all’università e mi guadagnerò un
titolo. Sarò molto di più di quello che sono
stato fino ad adesso» disse tirando su con il naso, e a Matt
venne da sorridere
perché gli ricordava quando da piccoli combinava un
pasticcio e piangeva
disperato promettendogli che non avrebbe più fatto il
cattivo.
«Tu
vai bene così come sei» soffiò, e
quella frase gli uscì
su due piedi, spontaneamente.
Il biondino lo
fissò grato, poi si lanciò nuovamente ad
abbracciarlo.
Il
perdono non era altro
che la dimostrazione che l’amore, qualsiasi esso fosse,
qualsiasi forma incarnasse,
era più forte di ogni rabbia e ogni rancore.
Quando si
staccarono e il più piccolo si ebbe ridestato, decise
di intraprendere quella discussione.
Lo
guardò apprensivo, notando come il suo aspetto fosse
peggiorato. Aveva i neri sotto gli occhi, lo sguardo stanco e
sofferente,
sembrava un fantasma.
Doveva
aver sofferto
tanto, doveva averlo destabilizzato più di ogni altra cosa
quello che gli era
successo.
Lui
lo sapeva, perché lo
sentiva, riusciva a captare ogni sensazione provata da suo fratello,
fin da
quando erano piccoli.
«Hai
parlato con lei?» gli chiese tentando di mantenersi
discreto per non urtarlo.
Questi
cambiò espressione di repente. Il suo viso sfumò
diventando
oscuro, lugubre, macchiato dal dolore.
«No»
rispose secco, puntando lo sguardo in un’altra
direzione.
Non
voleva parlare di
lei, gli straziava il cuore il solo nominarla...
Voleva
solo disperdere i
pensieri, non doverla pensare, non essere costretto a parlare con una
persona
che gli aveva fatto del male.
Nonostante
quello che
più desiderava era averla ancora accanto.
TK
sospirò.
«Perché
non ci parli?» chiese ancora.
Era
più facile a dirlo
che a farlo, senza dubbio.
Parlare
con Sora
significava mettersi nuovamente faccia a faccia con il dolore, e lui
non ne
poteva più di soffrire.
Non
sarebbe riuscito a
guardarla negli occhi, non sarebbe stato capace di sentire le sue
giustificazioni, lui non le voleva, non voleva saperne più
niente...
Perché
se solo se la
fosse trovata davanti sarebbe crollato definitivamente, lo sapeva, non
sarebbe
rimasto neanche l’ultimo brandello di lui.
Non rispose.
Il fratello lo
fissava con uno sguardo apprensivo.
«Avevo
capito che c’era qualcosa che non andava tra di
voi»
gli rivelò «E quello che non potevo sopportare era
vederti fermo a non fare
nulla»
Sentì
il biondo emettere un gran sospiro, sfuggendo al suo
sguardo. Gli strinse un braccio con una mano.
«E’
sempre stato necessario per te trovarti faccia a faccia
con le tue debolezze» mormorò, e a sentire quelle
parole alzò finalmente gli
occhi su di lui.
Takeru parlava
come se sapesse molto bene quello che stava
dicendo. Le sue non erano illazioni, ma semplici costatazioni che
provenivano
da anni di conoscenza della sua persona.
«Per
questo non ti ho fermato quella sera» soffiò
infine,
sentendosi un po’ in colpa, ma anche sicuro che
ciò che stava dicendo
corrispondeva alla verità.
Matt chiuse gli
occhi.
Non
voleva sentire più
nulla di quella storia.
Voleva
andare avanti e
dimenticarsi di tutto ciò che era successo, chiedeva troppo?
Ogni
parola di
riferimento a quel dannato fatto lo distruggeva, voleva chiudere tutto
fuori,
voleva essere estraneo a tutto quel dolore...
«TK,
ti prego... non ho voglia di parlarne...» sussurrò
in
un tono martoriato che gli uscì fuori spontaneamente.
Questi lo vide
portarsi una mano alla fronte sofferente.
Sapeva che gli faceva male rivangare, ma era necessario, strettamente
necessario affinché lo superasse, andasse avanti, lo
vincesse.
Solo
in quel mondo
avrebbe riacquistato la sua forza e la sua sicurezza. Non era fuggendo
da un
problema che sarebbe sparito.
E
lui sapeva benissimo
che era quello di cui Yamato aveva bisogno onde evitare di collassare
definitivamente, per quanto masochista potesse sembrare.
«Devi
affrontarlo» affermò «Anche se fa male,
devi sbatterci
contro, solo così sarai consapevole di quello che non andava
tra di voi» disse
semplicemente, e quello che aveva detto corrispondeva al vero, lo
sapeva.
Era la stessa
cosa che gli aveva detto Taichi, quello che,
in cuor suo, sentiva giusto, qualcosa da cui non poteva scappare.
Ma
non riusciva, era
bloccato, chiuso, serrato in quelle quattro mura.
Non
voleva parlare con
lei, perché in fondo era consapevole del fatto che se Sora
aveva fatto quello
che aveva fatto era anche per colpa sua.
Anzi,
forse era
completamente colpa sua.
Sapeva
che le cose tra
di loro erano statiche da tempo, la loro relazione era su di un binario
morto,
e lui invece di fare qualcosa per recuperare tutto si era chiuso nella
sua
indifferenza, nel suo orgoglio, come stava facendo proprio in quel
momento.
«Quello
che non andava ero io!» esclamò d’un
tratto, gli
occhi cerulei accecati da qualcosa che sembrava tanto deplorazione
«Non
le ho dimostrato attenzioni, non la cercavo, non c’ero
mai per lei... per questo mi ha tradito...»
la voce gli si incrinò, spegnendosi nell’ultima
parola pronunciata.
Faceva
male dirlo ad
alta voce.
Faceva
davvero male
essere consapevole di tutta la sofferenza che probabilmente le aveva
causato, e
cominciò a sentire un biasimo profondo per sé
stesso, iniziò a pensare che se
ciò era successo era solo e unicamente per colpa sua.
Colpa
sua...
Takeru lo vide
guardare per terra con un’espressione
disperata.
Non
sarebbe finita così.
Lui
lo sapeva che Yamato
sarebbe presto rinsavito, che avrebbe presto affrontato quella
situazione e
avrebbe preso in mano le redini della sua vita.
«Beh
sì, ma chi dice che il fine non giustifica i mezzi
sbaglia» mormorò, avvicinandosi con la testa
vicino a lui «Tu adesso hai capito
cosa ti mancava. Forse quello che è successo farà
bene ad entrambi»
Nell’udire
quelle parole, Matt negò vigorosamente con la
testa.
Non
avrebbe fatto bene a
niente e a nessuno.
Lui
avrebbe portato per
sempre sulle spalle il peso di quel tradimento, mentre Sora si sarebbe
presto
resa conto che non lo amava, anzi, probabilmente se n’era
già resa conto da
molto prima.
Strinse i pugni
sopra le ginocchia.
La
cosa migliore da fare
per entrambi era non vedersi e non sentirsi più.
Lui
lo sapeva, non
sarebbe mai riuscito ad andare avanti, né tantomeno voleva
essere un ripiego
nella vita di Sora.
Lei
stava meglio senza
di lui.
Non dissero
più niente per un po’ di tempo. Le lancette dei
secondi dell’orologio erano l’unico rumore che li
circondavano, oltre quello
dei loro pensieri.
Era
difficile, molto
difficile.
Takeru non aveva
smesso di guardare suo fratello.
Ma
credeva in Matt, era
sicuro che ce l’avrebbe fatta a superarla.
D’altronde,
era lui che gli
aveva imparato ad essere forte, era lui che l’aveva sempre
protetto, era lui
che gli aveva insegnato a perdonare.
Il campanello
suonò.
Con la coda
dell’occhio vide questi non fare una piega,
ancora intento a fissare il pavimento.
Si
alzò dalla sedia e andò a vedere chi era.
Tai apparve di
fronte a lui, in mano una busta bianca che
teneva all’altezza del viso e faceva penzolare.
«Ho
comprato il sushi... ah, TK!» esclamò sorpreso,
non
appena si rese conto di chi aveva di fronte.
Subito lo vide
guardare dietro di lui, probabilmente in
cerca di Matt per assicurarsi in che condizioni si trovasse, se magari
avessero
nuovamente litigato.
«E’
tutto okay?» gli chiese a bassa voce preoccupato,
vedendo il biondo seduto senza emettere un suono.
Il biondino
annuì e decise di sciogliere la sua apprensione.
«Sono
venuto a scusarmi» lo informò.
Il castano lo
fissò indagatore per un po’ di tempo, tentando
di capire se fosse la verità. Gli occhi azzurri di TK erano
limpidi e sinceri,
così scrollò le spalle e tirò un
sospiro di sollievo.
«Bene»
rispose, poi avanzò dentro, mentre l’altro
chiudeva
la porta alle spalle.
Posò
la busta con il sushi comprato sul tavolo, poi diede un
buffetto affettuoso a Matt sulla guancia, il quale, però,
non reagì.
Tai strinse le
labbra e si voltò verso l’altro.
Lo
esaminò per un po’, pensando alla discussione che
aveva
avuto quella mattina con Kari.
Avrebbe
dovuto fidarsi
di lui?
Sua
sorella lo aveva
rassicurato che era un ragazzo per bene, che la trattava come meritava,
che
qualsiasi cosa aveva fatto lo aveva fatto per una giusta causa.
Sentiva
che in qualche
modo quelle parole rispecchiavano la realtà.
Lui
conosceva Takeru,
sapeva che non era affatto una cattiva persona, e il fatto che
finalmente fosse
andato a scusarsi con Yamato e gli fosse stato vicino era una
esauriente dimostrazione.
«Rimani
qui a cena?» gli chiese usando un tono pacato, anche
se non aveva smesso di scrutarlo.
Quello
sentì addosso lo sguardo, ma fece finta di niente.
Puntò gli occhi su Matt che era ancora seduto.
«Se il
mio fratellone vuole...» lasciò la frase a
mezz’aria,
cercando il suo permesso.
Il biondo
alzò la testa e, con uno sguardo apatico e
un’espressone statuaria, annuì leggermente.
Non appena
ebbero quel segnale, i due si lanciarono un’altra
occhiata eloquente prima di mobilitarsi per pulire il tavolo da quel
grumolo di
cenere e sigarette e apparecchiare.
Tai
tirò fuori dalla busta le due confezioni del sushi che
aveva comprato e le aprì.
Si sedettero e
mangiarono.
Matt si
limitò a prendere un po’ di pesce e a pasticciarlo
con le bacchette, lo sguardo ancora perso nel vuoto.
Non
riusciva a smettere
di pensare e quello gli aveva chiuso lo stomaco.
Non
riusciva più a
mangiare da due giorni, era più forte di lui. Il solo
portarsi il cibo alla
bocca gli dava la sensazione che avrebbe potuto rigettare.
Giocò
con le bacchette, catturando su di sé gli sguardi
preoccupati di suo fratello e il suo migliore amico.
Taichi fece per
dire qualcosa, ma Takeru lo precedette.
«Il
salmone è gustoso. Dovresti provarlo» lo
incitò, dopo
averne mangiato un pezzo.
Il biondo non
fece una piega, continuando muovere le
bacchette in un gesto che adesso risultava nervoso.
Non
riusciva.
Gli
faceva senso il solo
semplice gesto di portare il cibo alla bocca e masticarlo.
Chiuse appena
gli occhi.
Non
ce la faceva, non
riusciva nemmeno a stare seduto... sentiva l’esigenza di
andare via o sarebbe
scoppiato lì davanti a loro...
Non
voleva farsi vedere
in quel modo, non più.
Odiava
mostrarsi debole,
lo odiava da morire.
Lasciò
cadere le bacchette sul tavolo, e si alzò dalla
sedia.
«Scusate...»
biascicò in tono basso senza alzare lo sguardo.
Voltò le spalle e tirò dritto verso la sua camera.
Tai e TK
rimasero interdetti. Non ebbero la forza nemmeno di
richiamarlo. Si limitarono a lanciarsi uno sguardo preoccupato e
continuarono a
mangiare.
Dopo aver
terminato e sparecchiato, entrambi si diressero
verso la stanza di Matt per vedere come stava.
Aprirono appena
la porta e l’oscurità li pervase.
L’unica
luce proveniva dai lampioni e filtrava attraverso le tapparelle.
Yamato era
coricato da un fianco e dava loro le spalle.
Non
seppero cosa dire,
pensarono fosse meglio non aggiungere altro in quel momento.
Matt
aveva bisogno di
stare un po’ da solo con sé stesso, a pensare,
riflettere su cos’era giusto
fare.
Non
potevano forzarlo a
fare qualcosa che non voleva, dovevano rispettare quel momento di
sofferenza
senza alterare ulteriormente il suo stato d’animo.
«Si
chiude in sé stesso» constatò TK a
bassa voce,
osservando il fratello inerte sul letto.
Tai
sospirò.
Era
qualcosa contro cui
aveva sempre dovuto lottare durante tutti quegli anni di amicizia.
Aveva
dovuto lavorare
tanto per farlo uscire fuori, per farlo essere sé stesso,
eppure, in un attimo,
tutti quegli sforzi erano risultati vani.
«Lo
so» mormorò di rimando.
Non dissero
niente per un paio di secondi, continuando a
fissare l’altro sulla soglia della porta, non osando entrare.
In
momenti come quelli
si sentivano inermi, incapaci di fare qualcosa per poterlo aiutare.
Eppure
loro erano due
delle persone più importati della vita di Yamato, ma in quel
momento si
sentirono come perfetti estranei.
Takeru decise di
prendere di nuovo la parola.
«Temo
che per un po’ di tempo sarà
così» fece, alzando lo
sguardo verso il più grande in modo da fargli intendere che
non avrebbero
cavato un ragno dal buco stando lì.
L’altro
fu d’accordo.
«Già.
Lasciamolo riposare» e con un gesto repentino chiuse
la porta della camera.
Camminarono fino
alla cucina.
Il biondino si
voltò e gli porse una sigaretta facendogli
cenno di uscire fuori dal balcone.
Il castano
l’accettò e se l’accesero.
Fuori
c’era un venticello leggero. Tai guardò sotto per
un
po’, perdendosi a contemplare il paesaggio. Fece un paio di
tiri e rilasciò il
fumo, perdendosi a pensare a quanto dura fosse diventata quella
situazione.
Matt
non reagiva, si era
chiuso nel suo mondo buio.
Non
riusciva a
sopportarla una cosa del genere, per quanto fosse consapevole che il
biondo
doveva avere tempo per assimilare e riprendersi.
Era
più forte di lui,
odiava vederlo in quel modo.
«Non
sopporto vederlo star male» non riuscì a
trattenersi
nel dirlo, mentre rilasciava una boccata di fumo.
TK si
voltò lentamente a guardarlo, le braccia appoggiate
sopra la ringhiera.
«No,
nemmeno io» rispose in tono triste.
Si ammutolirono.
In
quei casi non
sapevano cosa aggiungere, qualsiasi cosa avrebbero detto probabilmente
sarebbe
suonata stupida, o superflua.
Il biondino si
voltò nuovamente verso l’altro. Lo
scrutò per
bene, osservandolo portarsi una mano tra i capelli disordinati.
Aveva
sempre ammirato
l’indole di Taichi, fin dai tempi di Digiworld.
Il
modo in cui prendeva
in mano le redini del gruppo, forse con un tantino di arroganza, ma
sempre con
determinazione e sicurezza glielo aveva sempre invidiato.
Il
modo in cui si
preoccupava per le persone che amava era toccante.
Era
di natura leale e
sincero, sapeva benissimo che quello che diceva ai suoi amici era
esclusivamente
perché teneva al loro bene.
«Sei
un grande amico, Tai» sussurrò con tutta la
semplicità
del mondo, riferendosi a tutto quello che stava facendo nei confronti
di suo
fratello.
Il castano si
sentì in leggero imbarazzo udendo quelle
parole, e si scompigliò nuovamente i capelli in un familiare
gesto di impaccio.
«Io...
grazie» rispose, e notò come TK gli stesse
sorridendo
di rimando.
Era da molto
tempo che non rimanevano da soli a parlare.
Takeru
gli sembrava così
cresciuto, e non solo fisicamente. Sembrava avesse capito parecchie
cose, forse
aveva sempre avuto questa capacità di leggere dentro le
persone.
Non
riuscì a smettere di osservarlo.
Era
il fidanzato di sua
sorella, era stato geloso di lui quando aveva scoperto che si erano
messi
insieme, seppur consapevole che mai l’avrebbe affidata a
nessun’altro.
La
sua natura protettiva
gli faceva tuttora provare quella sorta di gelosia immotivata, che
altro non
era che la paura di dire addio a sua sorella, alla sua famiglia, ai
suoi
affetti.
TK si rese conto
che stava pensando a qualcosa che lo
riguardava.
Aveva
sicuramente pensato
male di lui.
Si
era mostrato
sfrontato, arrogante, capriccioso.
Aveva
paura che in
qualche modo potesse portargli via Hikari, lo sapeva, che potesse
ferirla, che
potesse trascinarla in strade sbagliate.
Lo
capiva dal modo in
cui lo guardava, lo ispezionava come volesse trovare qualcosa di marcio
in lui,
e Takeru non riusciva nemmeno a biasimarlo.
«Tai...
volevo dirti che non farei mai del male a Kari»
soffio d’un tratto e inaspettatamente, tanto che il castano
aggrottò le
sopracciglia non appena udì quelle parole, sentendosi colto
in fallo.
Il biondino
spense la sigaretta e lo fissò serio.
«Lei
è la persona più importante per me»
affermò, poi si
tolse il cappello nero e si passò una mano tra i capelli,
sistemandoli.
Tai
pensò che lo aveva visto poche volte senza. Era la sua
firma, l’accessorio che più lo caratterizzava.
«Piuttosto
farei del male a me stesso per non ferire lei»
continuò, stringendo un pugno, odiandosi per averla
coinvolta in quei brutti
giri.
Il maggiore
emise un sospiro basso.
Avrebbe
voluto
chiedergli se ne era uscito completamente, se era entrato solo per
racimolare
qualche soldo, seppur immoralmente e illegalmente.
Non se la
sentì di fargli la predica; lui quando era più
piccolo aveva giocato a fare la testa di cazzo tante volte, non era
nella
posizione di poter fare la paternale a nessuno.
Solo, si
preoccupava per sua sorella, sapeva fosse sensibile
e docile, ma era anche consapevole dell’amore sincero che
legava i due ragazzi
fin dai tempi in cui erano bambini.
Per
questo dentro di sé
sentì che doveva fidarsi di Takeru.
«Mi
prenderò sempre cura di Kari, sempre» disse questi
guardandolo fisso negli occhi, facendogli una promessa che sapeva per
certo
avrebbe mantenuto.
Lo
sapeva già.
Dentro
di sé, lo aveva
sempre saputo.
«Non
ho mai avuto dubbi su di te» gli rivelò dando voce
ai
suoi pensieri.
Poi si
voltò e gli sorrise. L’altro lo guardò
dapprima
stupefatto, dopo non potette fare a meno di sorridere anche lui.
«Grazie»
gli rispose rassicurato.
Continuarono a
guardare giù, mentre il buio della notte
aveva ormai preso il sopravvento.
Il
tempo passava, non si
fermava mai, scorreva via come un fiume.
Ma
una cosa era certa,
non poteva mai cancellare la vera essenza di una persona.
Mai.
La televisione
dava su un canale di poco conto. Gli unici
rumori che si sentivano erano il tintinnio delle bacchette e dei
coltelli sui
piatti.
Stavano cenando
in silenzio, senza che nessuno aprisse
bocca.
Mimi
gettò uno sguardo a Sora, seduta accanto a lei. Portava
distrattamente il cibo alla bocca, persa nei suoi pensieri.
Con un sospiro,
spostò gli occhi verso Joe che emetteva dei
suoni fastidiosi con la lingua mentre mangiava, probabilmente facendolo
di
proposito per infastidirle.
Luchia si
schiarì la voce per richiamare su di sé
l’attenzione del fidanzato in modo tale che la smettesse, ma
questi si limitò a
lanciargli uno sguardo torvo.
Dopo che si
sbrodolò con un albicocca, si mise in piedi
senza degnarle di uno sguardo, poi si diresse a gran passi verso il
corridoio,
in direzione della sua camera.
Si
sentì la porta sbattere forte.
Sora
alzò lo sguardo e osservò il punto in cui
l’amico era
sparito, emettendo un sospiro triste.
Ce
l’aveva con lei
perché per colpa sua era successo tutto quel putiferio il
giorno della sua
festa di laurea, oltre al fatto che Tai, il giorno successivo, era
venuto a
casa come una furia e lo aveva disturbato ulteriormente.
Mimi
lanciò uno sguardo allarmato a Luchia, ma la donna fece
finta di non capire. Si alzò dalla sua postazione,
ripiegando accuratamente e
con grazia il tovagliolo che aveva adagiato sulle sue gambe per non
sporcarsi.
«Buonanotte»
disse loro altezzosamente, poi girò i tacchi e
andò via nella stessa direzione in cui si era volatilizzato
Joe.
Non appena le
porte scorrevoli si chiusero, Mimi lanciò
stizzita il tovagliolo sul tavolo e incrociò le braccia.
Non
si erano premurati
nemmeno di riporre i piatti dentro il lavello, avevano lasciato tutto
lì come
se era scritto da qualche parte che toccasse a loro sparecchiare e
pulire
tutto!
Lanciò
uno sguardo alla ramata che era ancora scossa e aveva
lo sguardo perso nel vuoto.
Non
poteva lasciare
certo a lei quella pila di piatti e stoviglie sporche. Era meglio che
si desse
subito da fare.
Con un gesto
repentino, si mise in piedi e cominciò a
sparecchiare. Poi indossò dei guanti rosa e
iniziò a lavare.
Con la coda
dell’occhio, vide Sora uscire fuori in balcone e
sedersi su di una sdraio.
Probabilmente
pensava
ancora ed ossessivamente a quello che era successo.
Forse
ce l’aveva con lei
perché la mattina stessa le aveva decisamente proibito di
chiamare Matt.
Beh,
non era stata lei a
volere quella situazione. Aveva creato tutto quel casino
perché non aveva avuto
il coraggio di ammettere che le cose tra lei e il suo fidanzato non
andavano
più bene e, piuttosto, le era venuto meglio abbandonarsi tra
le braccia di un
altro ragazzo.
Mimi
cominciò a spostare le stoviglie in maniera celere.
Le
dispiaceva fare certi
pensieri, ma un po’ anche lei pensava che era stata
vigliacca. Quella era una
situazione molto delicata, non poteva certo pretendere che in quattro e
quattr’otto Yamato sarebbe stato disposto ad affrontarla.
Nel frattempo,
Sora aveva portato nuovamente il cellulare
all’orecchio.
Non
sapeva nemmeno
perché lo stava facendo, ma sentiva l’esigenza di
chiamarlo, provare per
l’ennesima volta a vedere se le avesse risposto.
Il telefono era
ancora staccato, e lei se lo aspettava.
Si
portò una mano sulla fronte, triste e disperata.
Cosa
avrebbe dovuto
fare?
Non
riusciva a stare in
quel modo, avrebbe dovuto fare qualcosa, agire, perché
quella sensazione di
impotenza la stava uccidendo.
Avrebbe
preferito
discutere, urlare, sbattere qualcosa per terra, ma non lasciare che il
tempo
passasse senza poter fare nulla.
Rimase per
qualche secondo in silenzio a pensare.
Dopo un
po’ le venne in mente di chiamare Taichi. Forse lui
le avrebbe risposto, magari era con Yamato e avrebbe almeno potuto
dirgli come
stava.
Cercò
il numero in rubrica e fece partire la chiamata.
Squillò
per un bel po’ di volte, fino a quando non partì
automaticamente la segreteria telefonica.
Sospirò
affranta e si portò un’unghia alla bocca.
Nemmeno
Tai voleva
parlare con lei.
L’aveva
rimproverata
duramente, in un modo che non si sarebbe mai aspettata, e aveva anche
ragione,
aveva sbagliato tutto...
Aveva
fatto soffrire il
suo migliore amico, e Sora lo sapeva che lui era sempre andato contro
di Matt
per lei, ma adesso, dopo quello che aveva causato, non era
più sicura che
avrebbero mai potuto recuperare il loro rapporto...
Le venne
nuovamente da piangere per l’ennesima volta in quei
due giorni, ma venne interrotta dall’arrivo di Mimi, la quale
aveva terminato
di lavare i piatti e la fissava indagatrice.
«Non
dirmi che ci hai provato ancora?» le chiese in tono
seccato, riferendosi al fatto che avesse tentato di telefonare di
nascosto a
Matt.
La ramata fu
colta con le mani nel sacco. Abbassò lo sguardo
per terra.
Aveva
ragione, ma non
riusciva.
Diamine,
quell’attesa la
stava logorando...
«Non
ce la faccio a stare così...» mormorò,
mentre la
castana si sedeva sulla sdraio accanto «nemmeno Tai vuole
parlare con me»
constatò in un tono amaro e rammaricato. Poi
puntò gli occhi verso il cielo.
«E
forse ha ragione... Lui si è sempre fidato di me, mentre
io gli ho mentito, ho fatto soffrire il suo migliore
amico...» soffiò
angosciata e piena di rimorsi.
Mimi
l’osservò per un paio di secondi senza dire nulla.
Sapeva
per certo che il
posto che Sora aveva nel cuore di Tai non si poteva comparare con
nessuno, e
provava anche un po’ di stizza nel constatarlo.
Loro
due erano sempre
stati uniti, li aveva conosciuti così da quando avevano
messo piede a
Digiworld.
Era
consapevole del
fatto che Taichi avrebbe fatto di tutto per lei e che, probabilmente,
se gli
avessero chiesto in quel momento di scegliere tra loro due avrebbe
scelto la
sua amica.
«Anche
tu sei la sua migliore amica» disse in un tono che
suonò strano.
«Forse
qualcosa in più» aggiunse senza riuscire a
nascondere
un pizzico di rancore.
Di
certo non ce l’aveva
con Sora, non poteva mai e poi mai avercela con lei.
Nemmeno
sapeva di quello
che era successo tra loro quella sera, e non poteva certo aspettarsi
che per il
suo stupido egoismo lei e Taichi smettessero di volersi così
bene.
Però
il fatto che lui l’avesse
messa da parte in quel modo le bruciava così tanto da farle
vedere il marcio
ovunque.
Si
sentiva così
dannatamente umiliata e frustrata dal fatto che Tai non le avesse
parlato, non
l’avesse nemmeno cercata che desiderava quasi essere al posto
di Sora solamente
per occupare quel ruolo così importante nella sua vita.
La vide scuotere
la testa.
«Adesso
sono meno che niente, Mimi» mormorò, guardandola
fissa negli occhi «Per entrambi»
sottolineò, pensando a quanto fosse stato così
semplice scivolare giù da quelle ancora di salvezza che
l’avevano sempre tenuta
ben piantata per terra, al sicuro.
L’amica
alzò un braccio e lo mise sopra le sue braccia.
Poteva
immaginare come
si sentiva.
Rifiutata
in una sola
volta da due delle persone più importanti della sua vita,
senza la possibilità
di replica.
Non
capiva cosa l’avesse
spinta a compiere quel gesto.
Lei
stessa credeva che,
nonostante ci fossero degli evidenti problemi di fondo, la storia tra
lei e
Yamato non sarebbe mai finita in quel modo.
Non
avrebbe mai potuto
fare la fine che aveva fatto quella sua e di Taichi.
Eppure,
Sora era stata
con un altro, un'altra persona che non era Matt e che le aveva dato
qualcosa in
più.
Ma
cosa?
«Dimmi
la verità» disse d’un tratto,
guardandola
intensamente
«Cosa
c’era con quel ragazzo?» le chiese a bruciapelo.
Sora
aprì leggermente gli occhi. Non avevano parlato
apertamente di quella situazione, anzi, Mimi non era neanche a
conoscenza che
Victor esistesse.
Era
stata brava a
fingere per tutto quel tempo, con tutti, dovevano dargli il premio per
la
migliore bugiarda traditrice dell’anno.
Sospirò
piano, stringendo il telefono tra le mani.
Cosa
c’era?
Non
lo sapeva nemmeno
lei di preciso; sapeva solo che non era stato qualcosa che era riuscita
ad
ignorare, era stato un trasporto forte e passionale, qualcosa che le
era
mancato da circa due anni a quella parte.
Victor
le aveva dato
quel qualcosa in più che Matt non era più
riuscito a dargli, forse per
orgoglio, forse per visioni di vita differenti, ma l’aveva
travolta così talmente
tanto da essersi lasciata andare.
«Io...
sono un paio di anni che lo conosco» cominciò a
raccontarle a cuore aperto «Lui è sempre stato
gentile, abbiamo sempre avuto un
bel rapporto... mi piaceva, era quello di cui avevo bisogno al
momento» terminò
guardandola negli occhi castani.
Mimi si morse il
labbro inferiore, dapprima non sapendo che
dire.
Quel
ragazzo le piaceva,
era questo il problema.
Non
riusciva a capire se
volesse a tutti i costi un confronto con Yamato per i sensi di colpa in
maniera
tale da ripulirsi la coscienza, o perché effettivamente lo
amava.
«Perché
non hai lasciato Matt?» le venne da chiedere.
Sora scosse la
testa, sospirando.
Le
era sfiorato
minimamente il pensiero in quegli anni, ma aveva visto come Mimi era
stata male
per Tai dopo che avevano preso quella decisione, non voleva prendere
anche lei
decisione affrettate che avrebbero avuto dolorose ripercussioni.
«Non
ho mai voluto lasciarlo» le confidò, poi strinse
al
cuore il telefono, facendo vagare lo sguardo nel vuoto.
«Non
posso stare senza di lui» mormorò sinceramente.
Mimi lesse la
disperazione in quelle parole.
Non
sapeva che pensare,
non sapeva come reputarla. Non sapeva se era un bene per lei reprimere
totalmente quella passione che aveva nei confronti dell’altro
ragazzo pur di
salvare il suo rapporto con Matt per la sola paura.
Lo
avrebbe solo fatto
soffrire ancora di più, com’era già
successo.
«Ma tu
gli hai fatto più del male così!» le
uscì, forse per
la prima volta esplicitamente biasimante «Se non stavate bene
avreste dovuto
parlarne» aggiunse poi, premurandosi di constatare se
l’avesse offesa.
Sora strinse
ancora più forte il cellulare tra le mani.
«Lo
so» sussurrò piano.
Mimi
notò quel gesto nervoso e fece una faccia esasperata.
«Adesso
non concluderai niente a chiamarlo, Sora» affermò,
stroncando sul nascere ulteriori pensieri al riguardo.
«Lo
so» ripeté l’altra, e si
voltò a guardarla con gli occhi
lucidi.
La castana
sospirò triste.
Dio,
non riusciva a
vederla così, le faceva una tenerezza immensa... faceva
piangere anche lei in
quel modo...
«L’ho
perso per sempre, Mimi» la udì mormorare,
costatando a
sé stessa quella probabile verità.
Non
sapeva se fosse
stato realmente così, era una situazione talmente complicata
che non aveva
realmente idea se tutto si sarebbe risolto.
Non
riuscì nemmeno a
negare a sé stessa il contrario.
Decise di
abbracciarla e sussurrarle comunque delle parole
di conforto.
«Sono
sicura che sistemerete tutto... forse ci vorrà del
tempo, ma ce la farete» le disse in tono dolce, mentre la
ramata aveva posta la
testa sulla sua spalla.
La
udì tirare su con il naso, probabilmente tentando di
frenare un imminente pianto.
Le
sembrò tanto di
rivedere sé stessa.
Aveva
così sofferto per
la fine della sua storia che Sora aveva sempre dovuto consolarla in
quel modo,
l’aveva dovuta abbracciare così come stava facendo
lei, le aveva dovuto
accarezzare i capelli nella stessa maniera, le aveva dovuto sussurrare
parole
incoraggianti in egual modo.
E
nonostante stesse
restituendo tutto ciò che l’amica le aveva dato,
Mimi non riusciva a non
sentirsi angosciata.
Taichi
non l’aveva più
chiamata, non aveva più pensato a lei, non aveva risposto
quando gli aveva
detto che lo amava.
Era
triste, disperata,
delusa.
Voleva
urlare per quanto
male quel rifiuto le aveva inferto.
Spostò
leggermente Sora da sé per guardarla negli occhi,
scossa dall’impeto di raccontarle tutto.
Avrebbe
voluto dirle che
avevano fatto l’amore insieme in un modo talmente profondo e
passionale che mai
se lo sarebbe scordato, avrebbe voluto dirle che gli aveva confidato di
amarlo
ancora, che non aveva mai smesso di amarlo in realtà, che
Tai non aveva
ricambiato i suoi sentimenti né in quel momento,
né in quei giorni a seguire.
Avrebbe tanto
voluto dirglielo, ma si sentì bloccata.
Non
poteva, non ne era
il caso, non era il suo momento.
Non
era tempo per lei...
Con un sospiro,
fece appoggiare di nuovo Sora contro la sua
spalla e continuò ad accarezzarle i capelli, consapevole del
fatto che era
destinata a crogiolarsi nella sua silenziosa sofferenza.
Non
ancora...
Pensò
che di quel passo non lo sarebbe stato mai.
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Capitolo 14 *** Psicologia inversa ***
Era appena
uscita dalla doccia e si era seduta sul divano.
I capelli erano
raccolti in un turbante e una tovaglia
bianca era rinchiusa attorno al suo corpo umido.
Non
aveva fatto altro
che pensare tutta la notte a Taichi e a tutto quello che era successo.
Quello
stato di quiete
apparente l’agitava come non mai, sapeva per certo che era
solamente un
anticipo alla tempesta.
Ed
era dentro di lei che
stava infuriando una tempesta, una sanguinosa lotta tra cuore e
ragione, che
imperversava senza confini, che non le permetteva di prendere una
posizione.
Cosa
avrebbe dovuto
fare?
Non
ci stava capendo più
niente...
Era
tutto così
complicato, così dannatamente difficile che quasi preferiva
che non fosse
successo niente...
Afferrò
il cellulare che era poggiato sopra il tavolino.
Aprì le chat e scorrette con il dito fino a quella di Taichi.
Rimase a fissare
per dei secondi la sua foto come una
stupida, aspettandosi chissà che cosa, forse che
improvvisamente la chat si
illuminasse e le arrivasse una notifica da parte sua.
Niente.
Non
la cercava, non la
chiamava, non le mandava nemmeno un messaggio.
Perché
lo hai fatto?
Sei
stata una sciocca.
La sua coscienza
la rimproverava duramente e Mimi sapeva che
aveva ragione.
Non
avrebbe dovuto
esporsi, non avrebbe dovuto dirgli di amarlo, non avrebbe dovuto fare
l’amore
con lui.
Quello
era il risultato.
Lui
non la voleva,
probabilmente l’aveva già dimenticata da un bel
po’ di tempo; era stato con lei
solamente per soddisfare le sue voglie.
Non
voleva starci
nuovamente con una che non lo aveva capito, che aveva cercato di
tarpargli le
ali e la libertà che aveva guadagnato in quegli anni.
Non
voleva sicuramente
stare con una ragazza egoista qual era.
Era stata colpa
sua se le cose tra di loro avevano iniziato
ad andare di male in peggio, perché non aveva accettato i
compromessi che
comportava quella relazione.
Era
colpa sua e della
sua dannata voglia di avere tutto e subito.
Era una
ragazzina, una stupida ragazzina che non riusciva ad
accettare il fatto che il ragazzo di cui era innamorata stava per
iniziare una
nuova vita lontano da lei.
Non aveva colpe
lui, se non quella di aver inseguito il suo
sogno fino a raggiungerlo.
Mentre le
sue… erano così talmente grandi da potersi
perdere
all’interno.
Era
la sera prima della
partenza di Tai per Kyoto. Si erano tutti riuniti all’interno
di un pub per
brindare in suo onore ed augurargli una buona fortuna con la carriera
che gli
si prospettava.
Mimi
non aveva voluto
presentarsi, triste perché il suo fidanzato sarebbe andato
lontano da lei, e
questo non lo poteva affatto sopportare. Non poteva sopportare che per
quello
stupido calcio lei e Tai si sarebbero dovuti separare. Era
così triste e
frustrata che aveva deciso di starsene a casa, non se la sentiva di
prendere
parte a quei festeggiamenti. Sarebbero stati falsi e distruttivi per
lei.
Aveva
subito ricevuto
una telefonata da parte di Sora.
«Mims,
dai, vieni! Siamo
tutti qui» aveva provato a convincerla, ma lei non aveva
assolutamente
intenzione di andare.
«No,
non vengo, Sora» le
aveva risposto con le lacrime agli occhi «Non mi sento
bene» inventò una scusa
scontata alla quale l’amica non credette.
«Tai
ci è rimasto male.
Voleva ci fossi anche tu» le aveva sussurrato, e Mimi aveva
sentito una fitta
al cuore e la tristezza aumentare a dismisura.
«Salutamelo»
aveva detto
in tutta risposta con la voce rotta.
«Mimi,
smettila di fare
la ragazzina! Gli fai del male così!»
Sora
l’aveva
rimproverata duramente, ma lei non sentiva ragioni. Non capiva quanto
male
poteva procurare a Taichi comportandosi in quel modo perché
quell’atteggiamento
era una difesa per non fare del male a sé stessa.
Quest’ultimo
se l’era
fatta passare al telefono a sua insaputa.
«Perché
non sei venuta?»
gli aveva chiesto, e aveva scorto una punta di delusione nel suo tono
di voce.
Mimi
chiuse gli occhi,
tirando su con il naso.
«Non
mi andava...» era
la risposta più egoista del mondo, lo sapeva, ma non era
riuscita a fare a meno
di dargliela.
Tai
aveva sospirato e si
era passato una mano sulla fronte.
«Ce
l’hai con me?» le
aveva chiesto poi.
Avrebbe
voluto
rispondergli che ce l’aveva con lui perché la
stava lasciando da sola, e lei
aveva bisogno di stare con lui, non voleva andasse via...
Sentiva
il cuore
rompersi in mille pezzi.
«Devi
partire per
forza?» domandò con le lacrime che solcavano il
suo viso.
«Mimi,
lo sai che...»
aveva provato a ribattere il ragazzo, ma come al solito lo aveva
preceduto,
tirando le sue conclusioni.
«Bene.
Parti, allora.
Buon viaggio» proclamò secca, pronta a mettere
giù il telefono.
Era
arrabbiata, delusa,
frustrata.
Tai,
però, l’aveva
bloccata.
«Perché
non capisci? E’
il mio sogno! E’ quello che voglio fare!» aveva
esclamato, stringendo il
telefonino di Sora tra le dita. Poi tentò di calmarsi e
prendere fiato.
«Dovremmo
stare separati
per un po’, ma verrò appena sono libero. Sono solo
poche ore di viaggio...»
aveva provato a spiegarle per tranquillizzarla.
Mimi
aveva il volto
inondato di lacrime e la testa le doleva. Voleva urlargli contro che
era uno
stupido, che non l’amava se aveva deciso di prendere quella
decisione, che lo
stava odiando come non mai.
Sentiva
un rancore
dentro e una disperazione così forte da voler spaccare tutto.
«Non
m’importa!» gli
rispose in tono brusco.
Il
castano era rimasto
basito, amareggiato da come lei stava reagendo. Gli stava facendo
pesare il
fatto di dover fare quello che più amava al mondo, e lui non
riusciva a
capacitarsi di come fossero lontani anni luce in quel momento.
«Perché
devi essere così
egoista?!» aveva alzato la voce.
Lei
aveva stretto forte
il telefono, asciugandosi violentemente le lacrime con un gesto della
mano.
«Sei
tu quello
egoista... E adesso ciao» lo aveva liquidato, stizzita,
delusa.
«Aspet...»
aveva provato
a ribattere Tai, ma lei aveva messo giù senza voler sentire
altro.
Aveva
lanciato il cellulare
sul letto e si era coricata, riversando tutte le sue lacrime. Non le
importava
se risultava egoista, se risultava immatura, lei non voleva che lui
andasse
via, non voleva che il calcio fosse più importante di lei,
non voleva che tutto
quello fosse vero...
Ritornò
al presente e sentì anche in quel momento le lacrime
pizzicare il bordo dei suoi occhi castani.
Egoista.
Era
stata per colpa del
suo egoismo se Tai aveva vissuto male la sera prima della partenza, se
le cose
tra di loro avevano incominciato ad incrinarsi.
Come
aveva potuto
pensare di vietargli di giocare a calcio?
Lo
aveva fatto solo
perché pretendeva che stesse con lei giorno e notte, senza
contare quanto
potesse farlo soffrire.
Una
sciocca egoista.
Ecco
cos’era stata.
E
lo era anche in quel
momento.
Perché
sperava che lui
avrebbe potuto fare un passo indietro e tornare lì da lei,
quando ormai la vita
di Taichi era lì a Kyoto.
Non
aveva più niente a
che fare con lei... ma lei... Dio, lei lo voleva, voleva provarle tutte
per
fargli cambiare idea, fargli intendere che forse poteva cambiare, che
le cose
erano diverse adesso che si era resa conto di quello che era stata e
che ancora
era.
Egoista.
Perché
fino a quel momento
non aveva smesso di pensare a sé stessa, continuava a
mettere il suo benessere
al di sopra di quello di Tai.
Non
riusciva a
sopportare il distacco, l’abbandono, la freddezza, voleva che
lui tornasse
indietro e le dicesse che ci aveva ripensato, che l’amava.
Ma
se lui fosse solo
bloccato perché lei non gli aveva permesso di vivere bene la
vita che
desiderava vivere?
E
se lui non riuscisse
più a considerarla parte della sua?
Come
poteva pretendere
che Tai facesse un passo verso di lei dopo tutto quello che era
successo, dopo
come lei stessa lo aveva trattato in passato.
Quel ricordo era
più doloroso che mai, non faceva altro che
sottolineare come dall’inizio lei fosse stata poco empatica,
volta a sé stessa
e a quello che a quell’età credeva fosse giusto,
ma non era affatto come
pensava.
Aveva
iniziato una lunga
lotta contro di Taichi quasi senza rendersene conto, una lotta che si
era
protratta per lungo tempo, che li aveva coinvolti e fatti scontrare
duramente
fino all’ultima cicatrice.
Aveva cercato
più volte di farlo cedere, ricordava ancora
l’espressione sconvolta e impotente di fronte ai suoi pianti
isterici ogni
volta che lui doveva partire, o quando gli chiudeva il telefono in
faccia non
appena l’avvertiva che quella settimana aveva una partita
importante e non
poteva tornare.
Provava ad
includerla, le diceva di andare un po’ lei lì da
lui, ma odiava Kyoto, lo aveva eliminato dai luoghi che conosceva
perché era
una città maledetta.
Lo aveva
raggiunto poche volte e di malavoglia, era sempre
lui a tornare da lei, perché Mimi era troppo capricciosa,
troppo egoista da
fare un passo verso di lui.
Lei
era la principessa
viziata, lui il cavaliere valoroso, che doveva esaudire ogni suo
desiderio.
Si
poteva essere più
sciocchi di così?
Egoista.
Era
l’unica parola che
le risuonava in mente.
Le sue dita
avevano preso a digitare a raffica delle frasi
delle quali nemmeno lei era pienamente consapevole. Scrisse un testo
lunghissimo, forse uno dei più lunghi che aveva mai scritto.
Fu sul punto di
premere invio.
Non appena la
scritta “online” apparve sotto il contatto di
Taichi sentì il cuore battere forte.
Un pensiero
forse illusorio le sfiorò la mente. Pensò che
lui si era collegato per lei, per scriverle qualcosa a sua volta.
Attese, sentendo
i battiti del suo cuore all’altezza del suo
orecchio.
Non successe
niente.
Strinse le
labbra e il suo pollice si avvicinò allo schermo.
Doveva
inviarlo lei?
Non
sapeva che fare...
Non
sapeva se mai le
avrebbe risposto, se mai avrebbe voluto avere a che fare con lei da
quel
momento in poi...
Rimase per
qualche secondo a riflettere fino a quando il
ragazzo non si scollegò.
Vinta da un
attacco di disperazione, lanciò il cellulare sul
divano e si portò le mani alla testa.
Le lacrime
cominciarono a sgorgare senza che lei potesse
controllarle.
Lui
non la voleva,
doveva metterselo in testa.
Lo
immaginava impegnato
a parlare chissà con chi, forse non vedeva l’ora
di trasferirsi in quella nuova
squadra.
Sarebbe
stato peggio,
forse tutto peggio dell’ultima volta.
Era
inutile provare a
contattarlo, non doveva più esporsi...
Aveva
già fatto
abbastanza ed evidentemente non era bastato.
I suoi
singhiozzi s’intensificarono, erano talmente forti
che, d’un tratto, la porta scorrevole si spalancò
e Sora apparve sulla soglia
con un’espressione confusa impressa sul viso.
Era a sua volta
appena uscita dalla doccia, e con una mano si
teneva stretta la tovaglia intorno al corpo. Si avvicinò
lentamente verso di
lei, chiedendosi perché Mimi stesse piangendo in quel modo
così disperato.
«Mims!»
esclamò, guardandola preoccupata, ritta di fronte a
lei.
La castana quasi
ebbe un colpo non appena si sentì chiamare.
Spalancò gli occhi e si bloccò, alzando lo
sguardo verso l’amica.
Dannazione,
l’aveva
vista piangere!
Non
voleva farsi trovare
in quelle condizioni, lo aveva promesso fino alla sera prima... non
poteva
assolutamente farsi vedere da Sora, doveva preservarla dai suoi
problemi perché
non era affatto il momento per lei di mettersi dietro ai suoi
piagnistei.
Tentò
di asciugarsi le lacrime, voltandosi in un’altra
direzione per non farsi vedere.
«Sora,
non... mi dispiace... io non...» balbettò,
provando a
giustificarsi.
Le parole le
morirono in gola perché le lacrime continuavano
a scorrere sulle sue guance senza darle modo di continuare.
La ramata si
sedette accanto a lei, guardandola con
apprensione. Alzò un braccio e le accarezzò i
capelli.
«Cos’è
successo?» le chiese premurosa.
Doveva essere
accaduto qualcosa di grave se Mimi
singhiozzava in quel modo.
Sembrava
stesse buttando
giù tutte le lacrime che aveva trattenuto per tanto tempo in
una lotta contro
sé stessa e il suo orgoglio, e adesso quelle
l’avevano vinta.
Lei
tentò di ridestarsi, asciugandosi gli occhi con la
tovaglia.
«Niente...
non preoccuparti, veramente, non è successo
niente...» continuò a ripetere, convinta che Sora
si bevesse la balla e la
lasciasse stare.
Questa, invece,
scosse la testa contrariata e le strinse un
braccio.
«Mimi,
dimmi cos’è successo» proferì
ferma, guardandola
fissa negli occhi.
La castana si
bloccò e cominciò a provare timore.
Aveva
timore a
parlargliene, pensava potesse giudicarla, credeva l’avesse
biasimata per
essersi lasciata così andare.
E
poi non voleva
angustiarla ulteriormente, sarebbe apparsa come la solita ragazza
debole ed
egocentrica che non dava il giusto peso ai sentimenti e al dolore delle
altre
persone perché li scavalcava con i propri.
Non
voleva essere più
così.
«Hai
altro a cui pensare, non posso parlarti di me...»
soffiò triste, e fece per alzarsi onde evitare di rimanere
fin troppo ancorata
a quel divano in sua compagnia.
Era
sicura che non
avrebbe retto per molto.
Sora diede un
lungo sospiro non appena la vide mettersi in
piedi.
Era
vero che era
successo l’impensabile e in quei giorni aveva altro a cui
pensare, che
probabilmente chi doveva piangere e disperarsi doveva essere lei e non
l’amica;
però era altrettanto vero che l’amicizia era un
sorreggersi a vicenda, un
confortarsi quando l’altro ne aveva bisogno a prescindere dai
momenti dell’uno
e dell’altro.
L’amicizia
era un darsi
conforto in ogni momento senza pensare a chi veniva prima o a chi
veniva dopo.
Glielo
aveva insegnato
Matt, tanto tempo fa...
«Sei
la mia migliore amica» irruppe, mentre lei si bloccava
dall’andar via «Pensi davvero che non abbia tempo
per te?» le pose quella
domanda retorica alzando la testa e guardandola di uno sguardo risoluto
che
fece sentire ancora più amareggiata l’altra.
Era
vero, comportandosi
in quel modo metteva in discussione la benevolenza che Sora aveva nei
suoi
confronti.
Lo
aveva già fatto prima,
mossa da quel sentimento di rabbia e frustrazione solo
perché lei non poteva
più essere unica nella vita di Tai.
Con lo sguardo
perso, fece un passo indietro e tornò a
sedersi.
Nonostante
volesse
tenerla fuori dai suoi problemi per non dargliene il peso, la
verità era che
sentiva l’esigenza di raccontarlo.
Il
suo tempo era
arrivato, forse prima del previsto di quando se lo era imposto, ma
aveva retto
per troppo tempo.
In
quella lotta era
finalmente arrivata a crollare.
Sora sembrava
convinta nel volerla ascoltare, e aveva
bisogno almeno di dirle ciò che era successo solo per
tentare di levarsi via di
dosso quella sensazione di sporco.
Portò
le mani sulle cosce e le chiuse a pugno.
«Non
ho potuto dirtelo prima, ma...» prese un gran sospiro e
la guardò negli occhi «alla festa è
successo che... è successo che io e Tai
abbiamo... lo abbiamo fatto» concluse un po’
balbettante.
Vide Sora
spalancare le orbite di riflesso e quella reazione
la fece piombare subito in uno stato di angoscia.
Per qualche
secondo il silenzio regnò come sovrano, fino a
che l’amica non reagì alla notizia.
«Mimi...»
mormorò, captando nel suo tono di voce un nota di
preoccupazione.
Lei
lo sapeva quanto Tai
fosse importante nella sua vita, non era mica cieca.
Era
consapevole del
fatto che lei ne era ancora innamorata ed era preoccupata che quello
che fosse
successo l’avrebbe fatta soffrire ancora di più di
quanto lo aveva fatto oltre
che illuso pesantemente.
Mimi
cominciò a sentire un forte calore e lo sguardo che le
rivolgeva Sora le trasmetteva irrequietezza.
Aveva
bisogno di
spiegarle.
«Sì,
lo so che sono stata una stupida, sono stata una
sciocca» disse, dura con sé stessa
«Shinichi mi aveva detto delle cose brutte e
lui credo che abbia sentito, mi ha vista piangere, io... non sapevo che
fare,
mi ha letteralmente bloccata e non ci ho capito più niente,
Sora...» la sua
voce si spense e le lacrime invasero nuovamente i suoi occhi.
Ecco,
lo sapeva.
Adesso
la sua amica
l’avrebbe rimproverata, le avrebbe detto che era stata
un’incosciente a
concedersi così facilmente ad un ragazzo con il quale aveva
interrotto una
relazione molto prima, un ragazzo che non aveva fatto niente per lei,
che era
rimasto a Kyoto a farsi i fatti suoi, che aveva messo in primo luogo il
lavoro...
Questo
lo pensava anche
lei, e si biasimava terribilmente per essere stata così
debole.
I
sentimenti l’avevano
offuscata, le avevano fatto perdere la ragione. Erano talmente
incontenibili da
averla fatta cadere ancora una volta in trappola.
Si
meritava di essere
biasimata, lei probabilmente lo avrebbe fatto a qualcun altro al suo
posto.
Lo
meritava per essersi
così illusa...
Sora
inaspettatamente posò una mano sulla sua.
Non appena
sentì quel tocco, Mimi alzò gli occhi lucidi su
di lei e vide che la guardava serenamente. Il suo non era uno sguardo
di
rimprovero, né sembrava avere intenzione di rimproverarla in
seguito.
«Ehi,
tranquilla» le disse amorevolmente «Non devi
giustificarti» aggiunse scotendo la testa con
l’ombra di un sorrisino
rassicurante.
La castana
rimase interdetta.
Lo
pensava davvero o era
solo una frase detta lì, di circostanza?
Lei
non riusciva affatto
ad essere tranquilla, quella situazione la dilaniava, soprattutto per
il fatto
che si era dichiarata, gli aveva confessato apertamente quello che
provava e
questo adesso la rendeva più vulnerabile.
«Sì,
perché... non ce l’ho fatta, gli ho detto che lo
amo»
le confidò, e Sora alzò la testa in un gesto
stupito.
Mimi
abbassò lo sguardo per terra con espressione colpevole.
«E’
la verità, non riuscivo più a mentire di essere
andata
avanti... era frustrante per me...» confessò
tristemente.
Quella
verità la
distruggeva.
La
consapevolezza di
amare ancora una persona dopo tanto tempo, di non essere riuscita ad
archiviarla, di esserne così dipendente la straziava.
La ramata la
fissò con circospezione.
«E
lui?» si azzardò a chiedere, cosciente che non era
andata
bene altrimenti non sarebbe stata in quel modo.
Mimi si
torturò le mani.
Sentiva
il cuore
sgretolarsi in mille pezzi al solo pensiero... Era così
difficile dirlo, era
così difficile dare coscienza a sé stessa di
quello.
Chiuse gli occhi.
«Niente.
Non ha risposto. Joe lo ha chiamato per andare da
Matt» soffiò con voce roca, rendendo
l’amica partecipe di quella triste realtà.
Sora si morse il
labbro inferiore.
Immaginava
quanto fosse
stato complicato per Mimi ammettere i suoi sentimenti dopo aver passato
quasi
due anni a tentare di nasconderli, spesso a negarli con la speranza di
apparire
più forte.
La
capiva, capiva
appieno il suo stato d’animo, la disperazione di non sapere
cosa Taichi
provasse per lei, il terrore del rifiuto, il biasimo per essersi
comportata in
maniera avventata, forse incosciente...
La
capiva perché provava
quelle sensazioni anche lei.
«Non
mi ha nemmeno salutata» aggiunse questa dopo qualche
secondo di silenzio, lo sguardo fisso nel vuoto «non mi ha
nemmeno mandato un
messaggio... mi sento una stupida...» la voce le
s’incrinò e si portò le mani
al viso.
«Non
avrei dovuto fare niente, non avrei dovuto dirgli
niente... sbaglio sempre tutto...» cominciò
nuovamente a piangere,
singhiozzando come una bambina.
La ramata si
sporse e la strinse in un abbraccio,
accarezzandole i capelli bagnati e spostandoli dal suo viso segnato.
«Hai
fatto solo ciò che sentivi» mormorò,
credendo veramente
a quello che aveva detto.
Non
riusciva a darle una
colpa per quello che aveva fatto.
Si
era aperta a Taichi,
gli aveva detto di amarlo, forse aveva rischiato, ma non era
assolutamente
imputabile.
Era
quello che provava,
e Sora credeva che era meglio essere sinceri con sé stessi
per poter vivere
meglio.
I singhiozzi di
Mimi s’intensificarono, e sul pianerottolo, un
ragazzo con gli occhiali e i capelli corvini rimase con il braccio a
mezz’aria
dall’inserire la chiave dentro la toppa.
Strinse gli
occhi e si avvicinò alla porta non appena udì dei
lamenti provenire da dentro casa.
Cosa
stava succedendo?
Joe
attaccò un orecchio alla porta per captare con
più
chiarezza e fece una faccia indecifrabile non appena sentì
la voce di Mimi
rotta dal pianto e dalla disperazione.
«Avrei
dovuto continuare a tenermelo dentro... ho sbagliato
tutto!» esclamò, stringendosi di più al
seno dell’amica.
Quella
continuava a sussurrarle parole confortanti.
«No,
credimi, hai fatto bene» tentò di suonare
convincente
per farla smettere di piangere «Hai fatto più che
bene a dirgli ciò che provi»
la consolò.
Il ragazzo
strinse tra le mani la chiave, sentendo
un’arrabbiatura non indifferente attraversargli il petto.
«Ma
lui non ha risposto!» quasi urlò la castana,
staccandosi
dall’abbraccio dell’amica e guardandola in modo
afflitto.
Sora
sospirò.
Quello non
voleva dire che non ricambiava i suoi sentimenti.
Lo
aveva notato anche
lei come Tai fosse inquieto quando Mimi si trovava vicino a lui, come
la
guardasse di nascosto, ma mantenesse quell’atteggiamento
distaccato solo per
non apparire ancora coinvolto.
Cercava
di preservare sé
stesso, di non mostrare quello che probabilmente ancora provava per lei
in modo
da non ossessionarsi troppo e poter continuare ad andare avanti con la
sua
vita.
Lui
aveva fatto una
scelta, e per quanto fosse dura quella vita frenetica e così
controllata,
tentava di mostrarsi convinto e appagato solo per mantenere la coerenza
della
sua decisione.
Ma
Sora sapeva per certo
che non stava bene, che parte di quel malessere era dovuto a quel
repentino
distacco che aveva dovuto soffrire da Mimi.
Se
era successo quello
tra di loro, era sicura che per l’amico aveva avuto
importanza.
«Se lo
conosco bene si sarà solo un po’
spaventato» non
appena parlò, la castana alzò la testa a
guardarla con interesse.
Sora distolse
gli occhi e li volse in direzione del balcone.
Ricordò
il modo brusco e arrabbiato con cui gli aveva
parlato Tai e si rabbuiò.
Il suo migliore
amico era in collera con lei per come si era
comportata e non riusciva a dargli torto.
Gli
mancava parlare con
lui liberamente e senza finzioni... sembrava che tutto quello
appartenesse ad
una vita fa, perché quella che stava vivendo doveva essere
una realtà
parallela.
«Tai
è fatto così. Ma torna sempre indietro,
sempre...» le
uscì dalla bocca cercando anche di convincere sé
stessa che ben presto le cose
con Tai si sarebbero chiarite.
Regalò
a Mimi un sorriso, mentre quest’ultima la guardava
angosciata.
Non fecero in
tempo ad aggiungere altro che la porta
principale si spalancò e Joe entrò in casa come
una furia.
Le due ragazze
si voltarono nello stesso istante, spaventate
da un improvviso tonfo sordo. Nella foga, il corvino aveva sbattuto con
una
gamba e si era fatto male.
«Ho
sentito tutto!» esclamò, squadrandole in maniera
torva,
poi lanciò un’imprecazione parecchio volgare per
sfogare il dolore.
Lo udirono
lamentarsi, e si ridestarono, tentando di
coprirsi come potevano. Avevano dimenticato di trovarsi seminude in
salotto con
una sola tovaglia a coprirle.
Sora si
coprì all’altezza del seno, mentre Mimi si
alzò dal
divano con l’intento di andar via.
Joe,
però, non era del loro stesso avviso e, zoppicando, si
avvicinò in loro direzione.
«Oh,
non c’è bisogno che facciate le finte pudiche con
me!»
le riprese, alzando gli occhi al cielo.
«Dio
ci ha creati nudi ed Eva era una battona» disse loro
annoiato, come se fossero delle bambine poco sveglie. Poi
lanciò le chiavi sul
tavolino e si sedette in mezzo a loro, afferrando da una mano Mimi
affinché
tornasse al suo posto.
Questa
lanciò allarmata uno sguardo a Sora da dietro la
schiena del ragazzo, ricevendo un’occhiata di rimando.
Quello se ne
accorse e incrociò le braccia, indispettito.
Era inutile che
continuavano a guardarsi con quelle stupide
espressioni da pesci lessi, come se fosse possibile anche solo pensare
in
quelle due testoline bacate di potergli nascondere qualcosa.
Era il loro
coinquilino da un paio d’anni e i muri erano di
cartapesta. Sentiva tutto anche se faceva finta di niente, era a
conoscenza dei
fatti accaduti e, cosa ancora più importante, le conosceva.
Conosceva Sora e
Mimi da quando avevano undici anni, aveva
subito i primi piagnistei d’amore da quando ne avevano
quattordici, aveva fatto
loro da amico, da spalla, da confidente quando più ne
avevano bisogno, oltre
che condannato a martire in quel particolare periodo del mese.
Si
portò una mano alla testa, pensando a quante ne aveva
dovute sopportare.
Luchia forse
aveva ragione a dire che si preoccupava troppo
per quelle papere provinciali, ma era più forte di lui.
Nonostante fossero
estremamente antipatiche e maestrine, sapeva per certo che da sole non
riuscivano a cavarsela. Avevano bisogno di un aiuto, una spinta in
più per
capire e lui doveva dargliela, perché sentiva un forte senso
di protezione nei
loro confronti che per una volta avrebbe messo il suo sacro orgoglio da
parte
per avergli rovinato la festa di laurea.
La
sua laurea... anni di
sacrifici...
Strinse forte i
pugni e quasi cambiò idea, ma poi le guardò
in viso, confuse e disperate, e si ricordò il motivo per cui
aveva deciso di
darsi una tregua.
«Ho
sentito anche quello che è successo ieri» disse
dopo un
po’, lanciando uno sguardo di traverso a Sora.
Questa si morse
il labbro e abbassò gli occhi per terra.
Il corvino
sospirò.
«Perché
non me ne avete parlato?» chiese loro in tono
accusatorio.
Il loro
più grande difetto era quello di tenere le cose per
sé senza cercare aiuto. Era per questo che si ritrovavano a
non saper gestire
le situazioni e a combinare danni a catena.
Mimi
alzò la testa, accigliata.
«Ci
tieni il muso da tre giorni!» esclamò con le
braccia
incrociate.
Ecco,
in effetti era una
buona motivazione...
Joe si
grattò la testa.
«Beh...
inutili dettagli» borbottò, tentando di sviare,
ritornando subito serio e arrabbiato «Avrei potuto aiutarvi!
Invece di
crogiolarvi in stupidi piagnistei infantili, avreste dovuto rivolgervi
a me!» tentò
di farle sentire in colpa, riuscendo a farle ammutolire e,
probabilmente,
rimuginare.
Sospirò
e posò una mano sulle spalle di entrambe.
«Voi
non avete niente da temere!» le scosse poi, utilizzando
per la prima volta nei loro confronti un tono gioviale
«Siete
giovani, belle, forse giusto un po’ rompiballe, e
quando non vi allenate ritmicamente vi si affloscia il
culo...»
«JOE!»
lo ammonirono nello stesso momento le due ragazze.
Era
sempre il solito...
Quello si
ridestò, alzando le mani in segno di resa.
Si era un
po’ fatto prendere la mano.
«Sì,
dicevo... dovete fare ciò che sentite»
continuò, poi le
guardò di sottecchi e di uno sguardo infido.
Avrebbe
utilizzato quel
metodo.
Era un metodo
efficace, avrebbe dato per certo frutti. Erano
troppo vulnerabili, avrebbero abboccato come due balenottere, ne era
sicuro.
Si trattava di
un metodo di psicologia inversa che gli aveva
insegnato una sua cara zia, sua zia Janna.
Le
avrebbe fatte sentire
in colpa in maniera così semplice da indurle nuovamente a
sbagliare e sbattere
con la testa.
Sarebbe
stato un colpo così
forte che avrebbe potuto buttare giù il muro di Berlino, se
solo non fosse
stato già fatto abbattere, si sarebbero fatte molto male, ma
poi, finalmente,
avrebbero capito.
«Non
ha mai portato a niente di buono reprimere una voglia,
Sora» voltò la testa in direzione della ramata,
che lo fissò interrogativa.
«Pensa
a chi fa il Ramadan» continuò con nonchalance,
buttando a caso dei riferimenti religiosi come suo solito, in maniera
tale da
rendersi più credibile
«I
musulmani almeno lo fanno per Allah. Tu, invece?» le
chiese inquisitorio, tanto che i suoi occhi sembravano brillare di uno
strano
bagliore da dietro le lenti,
Sora
aprì appena la bocca, non sapendo come ribattere.
Cosa
voleva dire?
«Perché
hai paura di Yamato?» le chiese con una voce
melliflua «Ormai l’hai cornificato, che diamine te
ne frega? Un colpo, due,
tre, poco cambia a lui, ma cambia a te»
si allontanò godendosi la reazione che stava avendo Sora in
quel momento.
Era sconvolta,
imbarazzata, colpita nel segno.
«Se
pensi che quel fusto possa freddarti i bollenti spiriti,
va’ da lui! Se ti invade la testa e ti manda in fiamme le
cosce non lasciartelo
scappare» concluse con una risatina diabolica, come se le
avesse appena
suggerito il consiglio più efficace del mondo.
Sora lo fissava
senza riuscire a dire niente, sconvolta da
quelle parole che, per quanto proferite in tono stucchevole,
l’avevano colpita.
Spostò
lo sguardo verso il vuoto e si immerse nei suoi
pensieri.
Joe le
lanciò un’ultima occhiata soddisfatto prima di
rivolgersi alla castana.
«E
tu... ti sei fatta una bella scopata, vero?» le
domandò,
tentando di apparire divertito dal fatto, ma continuando ad utilizzare
quel
tono mellifluo.
Mimi fece un
gesto impacciato con la testa che aveva un
qualcosa di rassegnato.
Joe
tornò subito serio.
«Ma
cosa cambia?» chiese senza voler attendere risposte
«Credevi che con un’entrata e un’uscita
in galleria sarebbe andato tutto
apposto? La verità è che Taichi pensa
più alle curve del suo pallone da calcio
che alle tue» ammise fingendo di fare uno sforzo immane nel
dirlo.
Vide
l’amica guardarlo di uno sguardo ferito.
Non
poteva dirle in
quel modo...
«Ancora
pensi di cercarlo?» lanciò uno sguardo al suo
cellulare abbandonato sul tavolino. Mimi seguì con lo
sguardo la direzione
indicata, poi alzò la testa e incontrò gli occhi
scuri di Joe.
«Archivialo
dalla tua testa, Mimi. Lascialo morire
lentamente e non pensare mai più di dargli
un’altra possibilità» le disse come
se la stesse in qualche modo ipnotizzando.
Per una manciata
di secondi non aggiunse più niente, troppo
impegnato a constatare se il metodo efficace di sua zia Janna
funzionasse
realmente.
Le due ragazze
non avevano detto nulla, avevano lo sguardo
perso nel vuoto e sembravano consapevolmente colpite.
Al che Joe
decise di dare loro il colpo di grazia.
Si mise in piedi
e le squadrò per bene.
«Oppure
potreste fare al contrario» si rivolse nuovamente a
Sora «Prostrarti ai piedi di Yamato implorando il suo
perdono, senza magari
riceverlo e, nel frattempo, continuare a pensare all’organo
riproduttivo di un
altro» e infine si voltò verso Mimi «e
contattare Taichi perdendo l’ultima briciola
di dignità dopo avergli fatto praticamente una spaccata in
faccia e balbettato
“t-t-t-t-i amo”. Che tenera! Bleah!»
fece finta di ficcarsi due dita in gola e vomitare.
Poi
alzò lo sguardo e le guardò seriamente.
«Pensateci!»
le esortò «Qualunque scelta prendiate
sarà
sbagliata, ma tocca a voi scegliere di sbagliare. Solo così
potrete capire»
concluse in tono di chi la sapeva lunga, e poteva giurare di averci
preso con
quelle due.
Continuavano a
stare in silenzio, i capelli raccolti in dei
turbanti e i corpi fasciati in delle tovaglie bianche.
Doveva
ammettere che
erano proprio belle, il loro volto era fine e senza una macchia, le
loro gambe
erano perfettamente depilate e longilinee, i loro seni si intravedevano
da
dietro la fasciatura della tovaglia in un gioco di vedo non vedo che...
Diventò
paonazzo non appena si rese conto del fatto che
erano seminude davanti a lui.
«Che
cazzo ci fate con le zinne di fuori?!» urlò
indignato,
mentre loro si guardavano allarmate «Andate subito a
coprirvi, svergognate!
False puritane!»
Si misero subito
in piedi e si defilarono, obbedendo senza
remore.
Joe
fissò per un po’ di tempo la porta scorrevole che
dava
al corridoio, per poi abbandonarsi sul divano e tenersi il ginocchio
dolorante.
Dovevano
vederle gli
altri le puttanate che era costretto a fare e a dire per rendere felici
le sue
paperelle del cuore...
Aveva
ragione.
Joe
aveva ragione,
pienamente ragione.
Mimi si era
chiusa la porta alle spalle e si era appoggiata
contro, guardando di fronte a sé la finestra.
Perché
stava perdendo
tutto quel tempo? Perché aveva solo minimamente pensato che
uno come Taichi,
che l’aveva lasciata andare tempo fa, potesse volerla di
nuovo?
Joe
aveva ragione.
Lui
non la voleva, non
la meritava, pensava più al calcio che a lei.
Come
era sempre stato.
Non
l’avrebbe privata
della sua dignità ancora una volta, del suo buon senso,
della sua purezza.
Aveva
già sbagliato per troppo tempo, non avrebbe continuato
più.
Anche
se ciò significava
perderlo, perdere Tai che era l’amore della sua vita, non
vederlo più, non
sentirlo più...
Strinse il
cellulare tra le dita, perdendosi in dei pensieri
contrastanti.
Non
poteva smettere di
lottare, non adesso che aveva realmente capito di amarlo ancora, non
dopo che
si era nuovamente concessa a lui in tutti i sensi...
Però
a Tai non
importava, non gli era mai importato realmente...
Sentì
nuovamente le lacrime agli occhi, ma si costrinse a
farlo. Tirò fuori il telefono e andò
giù nella rubrica, fino ad arrivare al
contatto di Tai.
Bloccò
in un gesto il suo numero, poi afferrò la giacca blu
che il ragazzo aveva dimenticato in bagno e la gettò dentro
un armadio.
Quello era il
primo passo verso il suo star bene.
Dimenticarlo...
archiviarlo... abbandonarlo...
Dimenticarsi
perfino chi
era e chi era stato.
Aveva
ragione.
Joe
aveva ragione,
pienamente ragione.
Sora si trovava
seduta sul suo letto, lo sguardo perso nel
vuoto, i pensieri che le si accavallavano in mente.
Perché
stava
fingendo?
Perché
diamine fingeva
che quello che aveva fatto per lei non avesse avuto una minima
importanza, che
il bacio con Victor fosse stato solamente un errore spropositato, che
quello
che provava era solo un abbaglio di pochi giorni?
Chiuse gli
occhi, tentando di trattenere le lacrime.
Joe
aveva ragione.
Si
sentiva in colpa come
non mai nei confronti di Matt, e forse era per quello che cercava in
tutti i
modi di ricevere il suo perdono, di avere una risposta alle sue
chiamate, di
allontanare con tutte le sue forze quello che realmente sentiva.
Matt
probabilmente non l’avrebbe perdonata mai, anzi, ne era
completamente convinta.
Non si sarebbe
voltato indietro, lo conosceva. Lui era irremovibile
nelle sue decisioni, specie se qualcuno gli faceva del male.
E
Victor... non poteva
essere liquidato così.
Non
poteva fingere di
non sentire qualcosa che l’attirava verso di lui solo per
paura di perdere
Yamato.
Yamato
che non l’avrebbe
più voluta...
Si prese di
coraggio e aprì finalmente i messaggi che
l’altro le aveva mandato in quei giorni.
Doveva
scegliere chi
amare davvero.
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Capitolo 15 *** Lotta ***
Era
una lotta contro il
dolore.
Era
una lotta contro i
suoi sentimenti, contro la realtà, contro sé
stesso.
Matt si trovava
seduto su una sedia, in mano una matita con
la quale gettava giù delle parole su un foglio, la sua
fedele chitarra
appoggiata sulle gambe.
Dentro
di sé infuriava
una lotta senza eguali.
Il
cuore e la ragione
facevano a pugni fino a fargli sentire una pena che lo attanagliava
crudelmente.
Aveva
bisogno di una via
d’evasione, una fuga a tutto quel dolore che stava sentendo.
Solo
scrivendo, solo
cantando, solo suonando riusciva a lenire per un po’ di tempo
tutta la
sofferenza che aveva dentro.
Bevve un
po’ di birra e posò la bottiglia sul tavolo in
maniera piuttosto brusca.
Delle gocce
bagnarono la superficie del foglio su cui aveva
scritto un testo lungo e a tratti scarabocchiato.
La testa
cominciava a farsi pesante, ma non lo bloccò dal
provare gli accordi di quella nuova canzone.
Era
il risultato di quei
giorni silenti, era il vomito di emozioni che non riusciva a trattenere
dentro,
altrimenti sarebbe scoppiato.
Aveva
bisogno di buttare
fuori quello che provava.
Per un
po’ di tempo si perse a suonare, ad aggiustare delle
note stonate, ad accompagnare quella musica con il suono della sua voce.
Una voce
graffiata, malinconica, intrisa di un dolore che
aveva da sempre abbracciato la sua vita.
Chiuse gli occhi.
Non
sapeva che fare...
come comportarsi...
Si
sentiva estraniato,
in un mondo parallelo nel quale era approdato improvvisamente dopo
quella sera.
Sentiva
che la sua vita
stava lentamente cadendo a pezzi, e lui non riusciva a fare nulla per
ricomporla.
Smise di suonare
e prese in mano il suo telefonino.
Lo
fissò per qualche secondo, riflettendo su come quel
semplice oggetto rappresentasse il suo collegamento con la
realtà esterna, una
realtà che lui aveva smesso di conoscere e dalla quale stava
fuggendo.
Lo strinse tra
le dita, poi decise di aprirlo.
Avrebbe
avvertito il datore del bar dove lavorava che non
poteva andarci quella sera, si sarebbe inventato qualcosa, o
più semplicemente,
si sarebbe licenziato.
Perché
no?
Non
aveva senso
continuare a lavorare per un misero stipendio che non gli permetteva di
campare
come doveva.
Non
aveva più niente da
perdere, in niente.
Non appena lo
schermo s’ illuminò, fu investito da degli
avvisi di chiamata.
Non volle
nemmeno constatare a chi appartenessero, forse
perché gli faceva troppo male o perché aveva
troppa paura.
Il telefono
cominciò ben presto a squillare.
Il biondo fu
destato improvvisamente dal suo torpore e
guardò il display con il cuore che aveva preso a battere
più veloce.
Non
seppe che pensare.
Non
seppe se tirare un
sospiro di sollievo per il fatto che chi lo chiamava fosse suo padre o
se
sentirsi triste del fatto che non fosse lei.
Era
confuso, si trovava
in una posizione in cui aveva bisogno di fuggire, ma da un lato non
riusciva a
fare a meno di pensare a dov’è che andava...
«Pronto?»
disse con un sospiro non appena portò il cellulare
all’orecchio.
Non sentiva suo
padre da un paio di giorni.
Cos’aveva
da dirgli
proprio in quel momento?
Non era un tipo
fin troppo presente, anzi, era molto spesso
burbero e intransigente con lui e suo fratello.
O
almeno da quando si
era separato da sua madre, tanti anni fa... prima di allora, era una
persona
gioviale, qualcuno con il quale riusciva a parlare, essere
sé stesso...
«Yamato,
si può sapere perché hai il telefono staccato da
due giorni?» arrivò subito la predica proprio come
si aspettava
«Ho
provato a chiamarti circa dieci volte!»
Dal tono di
voce, Matt dedusse che si era realmente
preoccupato.
In effetti,
aveva tenuto il telefonino chiuso per tutto quel
tempo, e aveva avuto le sue buone ragioni...
Spostò
apaticamente gli occhi azzurri verso la cucina.
«Hai
bisogno di qualcosa?» chiese poi in un tono di voce che
risuonò brusco, sorvolando quello che il padre gli aveva
appena fatto notare.
Hiroaki
allontanò per dei secondi il telefono
dall’orecchio.
«Smettila
di utilizzare questo tono!» lo rimproverò
«Mi sono
preoccupato. Anche tua madre ha
chiamato
me per chiedermi che fine avessi fatto» aggiunse, calcando
maggiormente su
quell’ultima notizia.
Matt chiuse gli
occhi.
Sua
madre...
Adesso
faceva finta di
preoccuparsi per lui? Si degnava ad alzare il telefono e chiamare?
Ma
dov’era stata in tutti
quegli anni?
Lo
aveva sempre trattato
come fosse un estraneo, si rivolgeva a lui formalmente tanto da
cambiare
addirittura la mimica facciale, si premurava di chiamare solo e
unicamente
Takeru dimenticandosi del fatto che erano maggiorenni da un bel
po’ di tempo e
che non c’era più bisogno di mantenere quel gioco
delle parti imposto loro dal
giudice.
Poteva
essere sua madre
per davvero adesso, non solamente per mantenere la facciata del
genitore
lontano che ogni tanto chiedeva come stava e poi spariva...
Avrebbero
potuto
sistemare le cose con suo padre se tenevano così tanto ai
loro figli, e invece
avevano preferito mettere in mezzo gli avvocati e farsi una guerra che
era
rimasta nei loro cuori e li aveva cosparsi di odio e rancore.
«Senti,
non m’interessa di quello che fa mia madre» disse
secco «Cosa vuoi?» chiese poi sbrigativo,
tagliente, come lo era sempre.
Oramai
la maschera cui
era stato costretto ad assumere fin da bambino aveva aderito
perfettamente al
suo volto.
Non
riusciva più a
toglierla, seppur volesse disfarsene.
L’uomo
diede un sospiro.
Sapeva per certo
che l’argomento della madre era spinoso per
il figlio.
Nonostante loro
due avessero messo da parte gli asti e le
questioni legali per il bene di Yamato e Takeru, sapeva per certo che
il più
grande aveva sofferto la loro separazione maggiormente e che ancora non
aveva
smaltito il risentimento.
«Vorrei
capire da chi ne hai preso...» borbottò, scotendo
la
testa con un gesto stanco.
La maggior parte
delle volte, Matt era nervoso ed arrabbiato.
Era come se portasse sulle spalle un fardello troppo pesante che non
gli
permetteva di sorridere e vivere con leggerezza.
Era
diventato grande
troppo presto, e la resa dei conti con la vita gli si era subito
mostrata
dinnanzi senza esclusioni di colpi.
«Beh,
voglio che tu mi dia una risposta alla proposta che ti
ho fatto» spiegò spiccio, e nell’udire
quelle parole il ragazzo s’irrigidì.
«Mi
raggiungi a Shiodome o no?» chiese Hiroaki dando voce a
ciò che il figlio aveva supposto «Abbiamo bisogno
di un sostituto e ne abbiamo
bisogno entro la settimana prossima. Non posso continuare a rimandare o
creerò
del malcontento tra i colleghi» lo mise al corrente
dell’urgenza della
questione.
Yamato strinse
con le dita la bottiglia di birra vuota.
Insisteva
nuovamente a portarlo a lavorare con lui.
Non mollava il
colpo, e lo capiva perfettamente, voleva che
suo figlio si sistemasse, che avesse in un certo senso una
stabilità che in
quel momento gli mancava.
Avrebbe dovuto
ringraziarlo, se dall’alto delle sue influenze
poteva regalargli un posto di lavoro senza faticare. Probabilmente,
chiunque
avrebbe accettato al suo posto, ma lui non era d’accordo.
Yamato
era orgoglioso,
troppo orgoglioso per ammettere che suo padre aveva ragione, che aveva
bisogno
di quel posto, che quella vita non gli bastava più, che si
trovava con l’acqua
alla gola da fin troppo tempo...
Prese un
profondo respiro.
«Papà,
io non lavorerò alla Fuji TV» proclamò
tra i denti,
in una sentenza che non poteva essere contestata in nessun modo.
Il padre scosse
la testa e si fece scappare un’imprecazione
di fronte alla testardaggine del figlio.
«Ma
perché non ci provi almeno!» esclamò
irritato dal fatto
che fosse categorico senza uno straccio di minima
possibilità di remore.
«Cosa
stai facendo adesso per guadagnarti da vivere? Non ti
pagano abbastanza, mentre qui potrai avere un buon
stipendio!» continuò a
rimproverarlo, mentre Matt chiudeva gli occhi in un gesto di stanchezza
fisica
e mentale.
«Hai
ventisei anni, devi mettere in ordine la tua vita!» di
fronte a quell’ultima esclamazione, il ragazzo li
riaprì di scatto, sentendo
improvvisamente una rabbia divampare da tutto il suo petto.
Sapeva
che suo padre
aveva ragione, ma non doveva dirglielo, nessuno doveva dirgli niente,
perché
spettava a lui, spettava solo ed esclusivamente a lui prendere in mano
la sua
fottuta vita e fare qualcosa.
Non
ce la faceva più,
non ce la faceva più a sentirsi dire che non stava facendo
nulla di
quell’esistenza già prettamente vuota e inutile, e
Sora lo aveva fottutamente
tradito, e adesso ci mancava suo padre che sottolineava crudelmente il
fatto
che fosse un illuso.
Non
ce la faceva più...
«Lo so
quanti cazzo di anni ho!» urlò, mettendosi in
piedi
in un gesto repentino «Non devi dirmi tu ciò di
cui ho bisogno!» sferrò un
colpo al tavolo vicino alla bottiglia che per poco non cadde.
Era
asfissiante vivere
in quel modo...
Se
la sua vita doveva
essere un continuo rimembrare gli errori che aveva commesso durante,
tanto
valeva smettere di vivere...
Hiroaki si
ammutolì per dei secondi non appena udì quella
reazione.
«Io lo
faccio per te, Matt» disse poi quando capì che si
era
calmato «Voglio che ti sistemi, che tu abbia una buona
indipendenza economica»
Il ragazzo si
portò una mano sul volto, ripensando allo
studio di quegli anni al conservatorio, ai concerti con una band che
ormai non
esisteva più, a ciò per cui aveva impegnato tutto
il suo tempo, sacrificando
anche l’amore...
Adesso
l’amore lo aveva
abbandonato e a lui non restava niente, solo un sogno irrealizzato...
Suo
padre aveva ragione,
ne aveva sempre avuta, ma come faceva?
Avrebbe
dovuto
arrendersi a quella lotta che durava da quando era bambino.
«Lo so
che non è quello per cui impegneresti la tua vita, ma
è un buon modo per cominciare a guardare al
futuro» aggiunse l’uomo, come se lo
avesse appena letto nel pensiero.
Lui si sedette
nuovamente, sentendo le gambe molli, come se
fossero di gelatina.
La testa
cominciava a vorticare e tutto, a poco a poco, iniziava
a farsi sempre più confuso.
«Io
non ci vengo...» farfugliò, il capo ancora chino,
le
mani tra i capelli a sostenerlo come potesse crollare da un momento
all’altro
sulla fredda superficie del tavolo.
Suo padre non
demorse.
«Non
puoi accontentarti» disse e quella frase lo colpì
come
un pugnale.
Era
quello che stava
facendo.
Lavorava
in un bar per
guadagnarsi da vivere, conscio che quel vivere era misero e non
appagante, in
attesa che una casa discografica lo contattasse, che uscisse un
concorso
pubblico per insegnare, eventi che probabilmente non si sarebbero mai
verificati perché tutto gli remava contro.
«Hai
bisogno di una sicurezza e stare lì a sperare che dal
cielo piova una possibilità vale a dire sprecare altro
tempo» continuò Hiroaki,
persuasivo e sicuro di ciò che stava dicendo
«Fidati
di me, Matt. Vieni a Shiodome» concluse fermo.
Passarono dei
secondi in cui nessuno di loro aggiunse più
niente.
Matt si
crogiolò nel suo silenzio, rimuginando su cosa era
giusto fare.
Era
giusto continuare a
sperare di realizzare il suo sogno, quello per il quale era nato, per
il quale
aveva studiato anni o intraprendere una strada che non gli piaceva
affatto, ma
che senza dubbio gli avrebbe dato la stabilità che da tempo
cercava?
Sarebbe
stato ammettere
di aver bisogno di aiuto, e lui non voleva ammettere di sentirsi debole
e
finito.
In entrambi i
casi si sarebbe accontentato; sia continuando
a sperare di ricevere una qualche chiamata e, nel frattempo, lavorando
in un
bar da quattro soldi, da cui probabilmente lo avevano già
licenziato per non
essersi presentato, sia trasferendosi a Shiodome e fare il cameraman
per suo
padre.
Era
così confuso... era
talmente combattuto da non vederci più...
Hiroaki ruppe
quel silenzio creatosi, percependo
l’inquietudine e l’indecisione che regnava sul
figlio e non gli permetteva di
prendere una scelta in maniera lucida.
«Senti,
facciamo così, pensaci fino a domani» gli
concesse,
decidendo di appianare la tensione.
«Però
mi raccomando, fa’ la scelta giusta»
sospirò infine
apprensivo.
La chiamata
terminò e Yamato piombò nuovamente nel suo stato
di solitudine.
Era
una situazione
talmente complicata che non sapeva neanche da dove iniziare a pensare a
ciò che
doveva fare.
Tutto
ciò che era successo in quei giorni con Sora gli
faceva pensare che era meglio per lui evadere da Odaiba, abbandonare
tutto,
quella casa di merda, quel mezzo lavoro che aveva, la sua relazione che
era
naufragata nel bel mezzo di una tempesta.
Tutto
ciò che gli era successo fino ad allora lo convinceva
a lasciarsi alle spalle ogni cosa, prendere per buone le parole di suo
padre e
accettare quell’impiego lontano da lì, lontano da
quel luogo che era sempre
stato per lui fonte di sofferenza.
Si
portò le mani alle tempie che pulsavano come non mai.
Che
avrebbe dovuto fare?
Non
lo sapeva nemmeno
lui, tutto intorno a lui sembrava vorticare minaccioso, si sentiva
terribilmente vulnerabile, appeso a un filo sottile...
«Porca
puttana...» mormorò, sentendo il peso
dell’indecisione sopprimerlo, i ricordi dei giorni addietro
agguantarlo.
Non
ce la faceva più...
era arrivato al limite, al bordo del suo precipizio...
Le lacrime
cominciarono a colargli senza possibilità di
fermarle, e ben presto venne colto da una crisi.
Il petto si
alzava e si abbassava ritmicamente, gli occhi
erano serrati in un modo che quasi gli faceva male.
Era
tutto nero.
Ed
era colpa sua, era
fottutamente colpa sua...
Sora
lo aveva tradito e lui
se l’era cercata, perché non l’aveva
trattata come meritava di essere trattata,
l’aveva messa in secondo piano in ogni cosa.
Ora
ricordava... ora ricordava
tutte le volte che lei gli aveva dato un indizio, una richiesta di
aiuto
affinché salvasse la loro storia.
Aveva
rovinato tutto...
ogni cosa...
Aveva
distrutto la cosa
più bella che aveva nella sua vita perché non era
capace di donare amore, né amicizia,
né tantomeno sicurezza.
Adesso
ricordava
tutto...
Si
trovavano in
macchina, rinchiusi forzatamente a causa di un violento temporale che
si era
scatenato da un momento all’altro.
Era
in compagnia di Sora
e i suoi amici del conservatorio lo tartassavano di chiamate
affinché lo
raggiungesse al pub per bere qualcosa insieme.
Il
problema era che la
ramata non era dello stesso avviso.
«Non
ci vengo» aveva
detto «C’è una burrasca, voglio tornare
a casa!»
Matt
aveva alzato gli
occhi al cielo, infastidito da quella risposta.
«Senti,
mi hanno
chiamato per salutarli!» esclamò «Non li
vedo da un sacco di tempo!»
Sora
aveva incrociato le
braccia, arrabbiata. Lo aveva guardato con gli occhi nocciola che
sprigionavano
fiamme.
«E
me, allora? Da quanto
non passiamo del tempo insieme?!» lo aveva incolpato
duramente, e questo a lui
non era per niente andato giù.
Se
voleva farlo passare
come quello assente non doveva nemmeno provarci...
«Sei
sempre impegnata
con lo studio!» ribatté, credendo fortemente a
quello che diceva.
Lei
scosse la testa
contrariata e i toni si fecero sempre più accesi.
«Non
sempre!» precisò
«Sei tu che non hai voglia di stare con me!»
A
Matt venne quasi da
ridere. Adesso stava trovando una scusa per scaricare tutta la colpa su
di lui?
Era lei a non volere mai uscire, a non voler far nulla di quello che
lui le
proponeva, e infatti si era visto quella sera, si era messa a fare i
capricci
perché non voleva fargli vedere i suoi amici.
«Non
darmi la colpa! Io
se non vengo a casa tua è perché sono
impegnato!»
Ed
era vero.
Aveva
gli impegni con la
band e il conservatorio a cui stava per laurearsi. Se lei teneva tanto
ai suoi
studi universitari, allora anche lui ne aveva premura.
Sora
si voltò a
guardarlo con una faccia nera di rabbia.
«Torna
ai tuoi impegni,
allora» lo incitò sarcasticamente
«Perché sei venuto a prendermi se sapevi di
dover vedere i tuoi colleghi?»
Matt
sentì a sua volta
la rabbia invaderlo. Non voleva capire oppure lo faceva apposta per
farlo
sentire in colpa, per farlo sentire sbagliato nei suoi confronti, ma
cascava
male.
Non
si sarebbe addossato
tutta la colpa del loro poco tempo insieme solo perché dei
colleghi di
conservatorio lo avevano invitato a bere una birra e mangiare un panino.
«Io
non lo sapevo! Ci
senti?» la rimbeccò nella stessa maniera
sarcastica «Non vuoi mai capire!
Sembra ci sia proprio un rifiuto da parte tua!»
l’aveva aggredita ad un certo
punto, facendola ammutolire per il modo con il quale le si stava
rivolgendo.
Non
ci vide più e mise
in moto la macchina, nonostante ancora fuori la pioggia cadesse a
catinelle.
«Mi
metti di cattivo
umore! Mi fai innervosire!» continuava ad urlare il biondo,
mentre guidava
senza una meta «Se devi rompermi così le palle la
prossima volta stattene a
casa!»
A
quell’esclamazione,
seguì il rombo di un tuono.
Fu
costretto a fermarsi
a causa di una coda, mentre i tergicristalli lavavano via
l’acqua piovana dal
vetro. Sora non aveva detto nulla. Aveva il volto chino e si torturava
le mani.
«Bene,
puoi
accompagnarmi già adesso» sibilò poi,
senza neanche guardarlo in faccia.
Matt
si voltò a
guardarla male, innervosito ancora di più da quella
risposta.
Voleva
provocarlo? Non
l’avrebbe avuta vinta lei, assolutamente...
Sterzò
all’improvviso.
«Bene,
lo faccio subito.
Lo sai che non ci metto niente a farlo!» continuò
a urlarle contro, mentre la
ragazza, sorpresa dal gesto immediato e inaspettato, aveva alzato lo
sguardo su
di lui con le lacrime agli occhi.
«Tu
accompagnami a casa
e con me hai chiuso» soffiò lapidaria, arrabbiata.
I
due continuarono a
discutere girando per il quartiere, mentre la pioggia batteva sui
vetri, i
tuoni si sentivano in lontananza e i loro cuori cominciavano lentamente
a
sprofondare in un abisso senza risalita.
Era
stata tutta colpa
sua.
Non
aveva saputo tenersi
Sora, l’aveva volontariamente consegnata nelle braccia di un
altro perché era
stato così cieco, così sordo, così
terribilmente mancante di tatto in tutti
quegli anni da averla fatta allontanare da lui, da aver lentamente
deteriorato
il loro rapporto.
Adesso
non rimaneva
altro che dannarsi, sparire dalla faccia della terra, lasciarla andare
perché
era troppo il male che le aveva fatto.
Si mise in piedi
e poggiò entrambe le mani sul tavolo, la
testa china.
Anche
se adesso era lui
a star male per lei, perché lasciarla andare per lui
significava rinunciare
all’amore più grande che aveva ricevuto nella sua
vita.
Un
amore che, senza di
lei, non avrebbe mai potuto ritrovare.
Una lacrima
arrivò dritta sopra il foglio della canzone.
Lui lo vide e lo
prese tra le mani, lesse qualche parola di
sfuggita e, in un impeto, l’ appallottolò.
Era
tutto finito.
Si
trascinò fino al bagno, alzò lo sguardo e si
specchiò.
Si
faceva più schifo di
quanto immaginava. Si faceva schifo perché sbagliava sempre
i tempi, perché
ammetteva troppo tardi le sue colpe, perché a causa del suo
carattere di merda
aveva perso tutto.
Voleva
cancellare
quell’immagine che adesso vedeva di sé stesso,
voleva distruggerla per sempre.
Tirò
un pugno contro il vetro dello specchio e lo ruppe.
Urlò per il dolore quasi in contemporanea, tenendosi la mano
ricoperta di
sangue.
Avrebbe
volentieri
distrutto sé stesso fino a diventare irriconoscibile.
Tornò
in cucina senza prestare attenzione al sangue che
colava lungo tutto il pavimento, spalancò il frigo, poi una
dispensa dove
teneva degli alcolici.
Cominciò
a bere senza fermarsi, sentendo dei sapori forti,
pungenti, che gli bruciarono il palato.
Era
perso, ormai.
Non
aveva più senso
continuare a vivere quando non aveva più una vita.
Quando
ormai non aveva
più nulla per cui lottare.
Si era asciugata
i capelli e si era vestita subito dopo.
Aveva afferrato il suo cellulare e lo aveva fissato per un
po’ di tempo,
chiedendosi se quello che stava per fare era la cosa giusta.
Le parole di Joe
le tartassavano la testa ininterrottamente.
Per
tutti quegli anni,
Victor aveva fatto parte della sua vita, si era infilato senza far
rumore quasi
facendole credere che era stato lì da sempre, le aveva
invaso la testa fino a
farle desiderare di averlo ancora più vicino, fino a farle
credere che era ciò
di cui aveva realmente bisogno.
I problemi con
Yamato l’avevano involontariamente spinta a
cercare in lui un appiglio, un porto sicuro in cui rifugiarsi nei
momenti di
tempesta.
Il modo in cui
Victor la coinvolgeva era gentile, allegro,
comprensivo, qualcosa che Sora aveva sempre ricercato in un rapporto,
qualcosa
che da un paio d’anni a quella parte era andata a svanire con
Matt.
I contrasti
caratteriali, gli studi, i problemi lavorativi
avevano accentuato sempre di più una lontananza fisica e
mentale, che l’aveva
inevitabilmente trascinata in altre braccia, le braccia del suo
compagno di
università.
Sora strinse il
telefono tra le dita.
Non
poteva negare di
avere un gran trasporto fisico nei suoi confronti. Ogni volta che le
parlava,
che le sorrideva, che si avvicinava a lei per abbracciarla, sentiva un
coinvolgimento
tale da trasformarsi in bisogno di averlo.
Sospirò
confusa.
Forse
stava esagerando,
ma era come se le parole che le aveva rivolto Joe avessero aperto in
lei il
vaso di Pandora, e tutte le sensazioni che provava nei confronti di
Victor era
saltate fuori a schiacciarla.
Si
era sempre frenata
per non mancare di rispetto a Matt, ma il trasporto era stato tale da
aver
ceduto, e forse era vero, doveva provarci ancora.
Yamato
non la voleva
più, era ovvio, e lei doveva in qualche modo mettere ordine
nella sua vita,
nella sua testa, nel suo cuore...
Si prese di
coraggio e aprì i messaggi che il ragazzo gli
aveva inviato in quei giorni e che non era riuscita a leggere per
timore.
“Mi
dispiace che sia finita così... perdonami se non ti ho
ascoltato e sono venuto
lo stesso...”
“Ti
prego, perdonami”
Ma fu
l’ultimo a toccarla particolarmente.
“Se
non mi vuoi me ne farò una ragione, ma rispondimi, ti
prego...”
Era vero, doveva
rispondergli.
Non poteva
ignorarlo come se niente fosse, far finta che non
fosse successo niente. Erano passati quattro giorni e meritava un
confronto.
Lo
meritavano entrambi.
Decisa, fece
partire la chiamata e attese. Si portò un dito
in bocca nervosamente, mentre ad ogni squillo sentiva nitidamente
corrispondere
il battito del suo cuore.
Forse
non le avrebbe
risposto nemmeno... d’altronde, lo aveva ignorato per tutto
quel tempo, come se
la questione non fosse mai esistita, come se non c’entrasse
affatto in tutta
quella storia, quando in realtà lui c’entrava
eccome, anzi, era stato uno dei
punti scatenanti...
«Sora!»
d’un tratto, lo udì rispondere proprio quando
aveva
perso le speranze, e sentire quella voce calda e preoccupata le
procurò un nodo
fastidioso alla gola.
Tentò
di calmarsi anche se, inevitabilmente, il cuore aveva
preso a battere più veloce.
«Victor,
io...» mormorò e si bloccò subito,
sentendo la gola
secca, non sapendo come continuare.
Non aveva idea
di come cominciare, si sentiva in difficoltà
come non mai. Aveva paura di dire qualcosa di sbagliato come aveva
già fatto e
non voleva ferire più nessuno a causa della sua insicurezza.
Victor si
accorse di quel suo tentennamento.
«Puoi
parlare?» le chiese infatti cauto, accertandosi che
nessuno la stesse intralciando.
Quell’allusione
gettò nello sconforto Sora, facendole
immediatamente pensare a Matt e a come avrebbe reagito se solo avesse
saputo
quello che stava per fare.
«Sì...»
disse piano, per poi mordersi il labbro inferiore.
Matt
sarebbe impazzito,
non l’avrebbe mai più perdonata, si sarebbe
perfino rifiutato di guardarla in
faccia...
«Perdonami»
sentì dire dall’altro con voce rotta «Ho
rovinato tutto. Sono stato uno stupido ad averti messa nei guai in quel
modo»
Il mea culpa di
Victor la fece rinsavire e le fece stringere
i denti.
Non
era colpa di
nessun’altro se non la sua... aveva trascinato entrambi in
quel gioco
pericoloso e non si era curata dei sentimenti di nessuno di loro...
Nemmeno
dei suoi.
«Non
è stata colpa tua» ribatté ferma
«Sono stata io a non
essermi resa conto di quello che stavo combinando»
La voce le si
affievolì e la mente cominciò a viaggiare.
Non
era stata capace di
gestire la sua relazione, né tantomeno di mettere le cose in
chiaro con
un’altra persona, rovinando entrambe, distruggendo
ciò che di buono ancora
resisteva.
«Mi
dispiace...» fu il commento malinconico di Victor, anche
se, Sora poteva giurarlo, percepiva un filo di soddisfazione nel suo
tono di
voce.
Si
lasciò andare in un sospiro.
Lo
capiva, probabilmente
pensava che ben le stava ad aver voluto giocare sporco senza prendere
una
posizione fino a quel momento.
Eppure,
adesso era
arrivato il momento di prenderla.
Anche
se... come avrebbe
reagito Matt?
Gli
avrebbe fatto più
male di quanto gliene aveva già inferto... non poteva
farlo...
Però
probabilmente lui
non la voleva più, la odiava, la disprezzava già
talmente tanto che quello non
lo avrebbe colpito...
Non
aveva niente da
perdere se lo faceva...
Victor la
richiamò e lei alzò la testa, risoluta.
«Se
vuoi parliamo di persona» disse, e per qualche secondo
non sentì alcun rumore provenire dall’altra parte.
Chiuse gli occhi.
Forse
era stata
avventata, forse non avrebbe dovuto dirglielo in quel modo... lo
sapeva, doveva
starsene nel suo a non farsi coinvolgere da certe esigenze...
Che
stupida, era proprio
una svitata...
«Certo»
udì improvvisamente rispondere, e rilasciò tutto
il
fiato che aveva trattenuto.
Non appena
chiuse il telefono cominciò nuovamente ad essere
pervasa dalla paura.
Era
la cosa giusta da
fare?
Forse
no, ma era quello
di cui aveva bisogno in quel momento, perché il solo
pensiero di Yamato la
distruggeva.
Non
poteva più tirarsi
indietro.
Sgattaiolò
fuori di casa e attese sotto il portone
principale.
Si era vestita
leggera, si era truccata un po’ per
riprendere colorito al viso e nascondere le occhiaie insistenti.
Non sapeva
perché, ma continuava a guardarsi indietro come
se si aspettasse uscire qualcuno, come se fosse una ladra che stava
scappando.
Guardò
l’orologio con il cuore che non smetteva di battere
forte.
Di
cosa aveva timore?
In fondo non
stava facendo nulla di male, stava solo andando
a chiarire la situazione perché ne sentiva il bisogno.
E
allora perché aveva
quella sensazione angosciante addosso?
Lanciò
un sospiro.
Non riusciva a
smettere di essere paranoica, sentiva un peso
allo stomaco che quasi la faceva piegare in due.
Era
una lotta tra
istinto e paura, e non sapeva chi avrebbe avuto la meglio.
Fu quasi sul
punto di riaprire il portone e infilarsi
nuovamente su per le scale, quando un clacson suonò e vide
il volto di Victor
spuntare dall’automobile.
Sora
provò un senso di agitazione e non smise di fissarlo
con uno sguardo vacuo per tutto il tempo che parcheggiò di
fronte.
Lo vide scendere
dalla macchina e avvicinarsi a lei, gli
occhi grigi che la scrutavano profondamente come se avessero paura di
farle del
male.
La ramata rimase
a guardarlo in silenzio, percependo
solamente la sua presenza farsi sempre più vicina.
«Sora...»
mormorò lui e, dopo un ultimo intenso sguardo, si
sporse per abbracciarla.
Non appena la
strinse, una sensazione di calore la pervase e
chiuse gli occhi, la testa appoggiata sul suo petto.
Non
ce la faceva in quel modo...
Era
come se stesse
liberando tutto quello che provava, un vomito di emozioni che aveva
cercato
sempre di trattenere.
Lui la
baciò tra i capelli, mentre lei non potette fare a
meno di annusare il profumo che era impregnato nei suoi vestiti.
Le
faceva girare la
testa... era buonissimo...
Dopo qualche
secondo, Victor l’allontanò leggermente da
sé e
si guardarono negli occhi. Provò un brivido non appena
notò le ferite e i
lividi intorno agli occhi, agli zigomi, il sangue incrostato sotto il
labbro.
Alzò
spontaneamente una mano e lo sfiorò con pena.
Era
stata lei a
provocare ciò.
Come
aveva potuto
permettere che accadesse?
«Come
stai?» le venne da chiedere, senza ancora distogliere
lo sguardo dal suo volto tumefatto.
Il ragazzo la
bloccò dalla mano e le sorrise.
«Adesso
bene» rispose, e lei sentì una stretta allo
stomaco.
Invece
avrebbe dovuto
odiarla per aver permesso che venisse malmenato, insultato
pesantemente, solo
perché lei, da vigliacca, non era stata capace di tenere a
bada i suoi
sentimenti.
Gli sorrise di
rimando, ma era un sorriso senza luce, e lui
lo notò.
«Tu
come stai?» domandò preoccupato.
Aveva
forse paura che
Matt se la fosse presa anche con lei, magari le avesse urlato contro,
l’avesse
spinta, le avesse fatto del male, ma non era stato affatto
così...
Lui
non aveva nemmeno
risposto alle sue chiamate, teneva il telefono staccato solo per non
sentirla,
l’aveva ormai esclusa dalla sua vita, archiviata, come se non
fosse mai
esistita.
Sentì
le lacrime agli occhi.
Non
la voleva più, non
l’avrebbe voluta più...
«Male...»
biascicò con voce rotta.
Victor
sospirò e si premurò di aprire la portiera della
sua
auto per aiutarla a salire su.
Sembrava
come svuotata
da ogni sorta di linfa vitale.
Era
lo scheletro di sé
stessa.
Non smise di
rivolgerle occhiate per tutto il tragitto,
vedendola occupata a guardare fuori dal finestrino alla ricerca di
chissà cosa.
O
chi...
Il ragazzo
aggrottò le sopracciglia.
«Lui lo sa che sei
qui?» azzardò a chiederle, vedendola destarsi
improvvisamente come se si fosse
appena scottata.
Aveva bisogno di
saperlo, capire cos’era successo tra di
loro, se Sora avrebbe compiuto finalmente una scelta.
La vide puntare
lo sguardo sulle sue scarpe.
«No...
non... non ci siamo sentiti» gli rivelò triste, ma
lui non potette negare di aver provato una sensazione di sollievo e
piacere
insieme.
Non dissero
niente per un po’, fino a quando Victor non le
propose:
«Se
vuoi andiamo a casa mia. Saremo indisturbati»
Sora si
voltò a guardarlo. Gli occhi del ragazzo le infondevano
sicurezza e lei non poteva fare altro che sentirsi attratta.
Si
ritrovò ad annuire.
Non appena mise
piede a casa di Victor, venne investita da
un ambiente confortevole e caloroso. La prima cosa che le
saltò all’occhio
furono dei dipinti ad acqua appesi alle pareti.
Ricordò
improvvisamente la passione del ragazzo verso il
disegno, e fu allettata nell’ammirare la sua bravura.
La sua
attenzione venne catturata da uno in particolare.
Raffigurava una donna dal volto chino, i capelli le accarezzavano il
viso come
una tenda protettiva, gli occhi erano bassi e vaghi come se stesse
sfuggendo da
qualcosa.
I
suoi sentimenti...
Si
avvicinò automaticamente e lo toccò con un dito.
Non
sapeva come mai,
forse era un po’ egocentrica a pensarlo, ma era come se
quella figura
rappresentasse lei.
Lei
che si trovava in
lotta con sé stessa, che sfuggiva all’amore,
quando l’amore era da sempre stato
l’unica cosa che l’alimentava.
Victor la
raggiunse e le si posizionò dietro. Non appena
sentì la sua presenza, si voltò con fare
impacciato, trovandosi stretta contro
il suo petto.
Il cuor batteva
come un tamburo, non capiva se era per
l’adrenalina o per qualcos’altro.
Aveva
bisogno di
sperimentarlo.
Ne
sentiva la completa
esigenza...
«Volevo
chiederti scusa... sono io che ti ho messo in
mezzo...» disse con voce roca, pensando che fosse giusto
dirglielo.
Con una mano
accarezzò il suo petto.
«No,
Sora, non dire così» la contestò lui, e
piano le strinse le
mani tra le proprie.
Si guardarono
negli occhi.
Lui
era così bello,
aveva qualcosa di speciale, qualcosa che cercava da tanto tempo, forse
da una
vita...
«Sì,
Victor» sussurrò, mentre lo osservava rapita, come
se
si trovasse fuori dal tempo e dallo spazio, beandosi di
quell’immagine come
fosse uno dei suoi dipinti
«E’
stata tutta colpa mia se ti ha picchiato» lo disse
chiaramente.
Il ragazzo la
strinse a sé e lei lo fece fare.
Sentiva
una voglia
irrefrenabile di stargli ancora più vicino, più
di quanto già non lo fossero in
quel momento.
Lui
cambiò espressione per un secondo.
«Avrei
potuto denunciarlo» affermò, riferendosi al fatto
che
era stato aggredito dall’altro, riportando anche diverse
ferite.
Sora si
agitò, improvvisamente distolta dal suo torpore,
facendo a pugni con la realtà dei fatti.
Era
vero, avrebbe potuto
denunciare Matt per averlo picchiato.
Come
aveva fatto a non
pensarci al rischio che aveva corso?
Non
poteva permettere
che succedesse, non lo voleva, non voleva che Yamato subisse
conseguenze
penali...
«Oh
no, ti prego, non lo denunciare!» lo strinse dalla
maglia, gli occhi sbarrati, avvicinandosi ancora di più al
suo viso.
Sembrava
lo stesse
implorando di non ucciderla.
Victor la
fissò interdetto, vedendo i suoi occhi nocciola
riempirsi di lacrime di paura.
L’accarezzò
per tranquillizzarla.
«Non lo
faccio solo per te» precisò, mentre lei ritornava
a
respirare regolarmente «Perché so quanto ci
tieni» aggiunse, e dovette
costargli molto.
Sora
tirò un sospiro e abbassò il capo, ma lui la
prese dal
mento e la costrinse a ad alzare lo sguardo.
«Vuoi
stare con lui, quindi?» si decise a domandarle a
bruciapelo.
Lei si
sentì sprofondare non appena udì quelle parole.
«Io...»
balbettò, pronta ad eludere il discorso.
Victor,
però, non era di quell’avviso.
«Sii
sincera» soffiò caparbio.
La ramata si
perse nei suoi pensieri, sentendo lentamente i
pezzi del suo cuore staccarsi e volare via come cenere.
Non
sapeva cosa fare...
non sapeva cosa voleva, chi voleva, di cosa aveva bisogno realmente...
Si
sentiva così confusa,
intimorita, colpevole...
Sentiva
delle sensazioni
così vivide nei confronti di Victor, non poteva negarlo, non
poteva nascondersi
più dietro un dito.
Yamato
non la voleva
più, forse nemmeno l’amava, e lei non poteva fare
nient’altro.
Cosa
doveva fare?
Aveva
paura, ma nello
stesso tempo sentiva la voglia incontenibile di gettarsi a capofitto...
Lo strinse dalla
maglia.
«Adesso
no» sussurrò sinceramente, e quelle parole seppe
che
gli uscirono dal cuore.
Lui la
guardò di uno sguardo indecifrabile. Non riuscì a
capire cosa stava succedendo fino a quando non sentì un
braccio cingerle la
schiena e una mano accarezzarle la guancia.
In pochi
secondi, le labbra dell’altro raggiunsero le sue, e
Sora si ritrovò completamente in sua balìa,
trascinata da un vortice di
emozioni troppo forti dalle quali scappare.
Lo strinse dalla
nuca e aderì maggiormente a lui per avere
un contatto più intenso, e
per un
po’ di tempo si isolò dal mondo, non
pensò più a
niente, solo a sé stessa, a quello che il suo cuore le
dettava.
Non appena si
staccarono sentì le gote andare in fiamme e
una sensazione strana al bassoventre.
Victor era di
fronte a sé e la stringeva ancora.
«Ti
amo, Sora» lo udì sussurrare.
Quella
confessione la turbò, aprì la bocca per dire
qualcosa, ma non fece in tempo. Lui la prese nuovamente tra le braccia
e la
baciò ancora, famelico, come se non aspettasse altro da
più di una vita.
La ragazza
chiuse gli occhi, sentendosi pian piano
trascinare fino al corridoio. Non capiva più dove si
trovava, percepiva le
gambe molli, la testa pesante, delle sensazioni contrastanti che la
mettevano
in allerta.
Cosa
stava facendo?
Doveva
permettere che
succedesse?
Non appena
Victor, a tentoni, aprì la porta di una stanza,
ripensò a Matt, ripensò a tutto quello che
avevano condiviso insieme, ripensò
alla felicità di quei tempi.
Gli
stava dicendo addio.
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Capitolo 16 *** Anime affini ***
Taichi immise la
carta di credito dentro lo sportello
automatico. Pigiò alcuni tasti e inserì il codice
pin, poi attese.
Vide apparire il
numero del saldo e strinse le labbra, poi
ritirò la carta, posandola accuratamente dentro il
portafogli.
Aveva parlato
con sua sorella quella mattina. Si era
informato riguardo la cifra che mancava ai loro genitori per poter
acquistare
la casa, e si era sempre di più convinto che lo doveva fare.
Era necessario.
Doveva essere
lui ad
aiutarli.
Era loro figlio
maggiore,
glielo doveva per tutto quello che avevano fatto per lui, per i loro
figli, per
tutti i sacrifici, il sudore e il sangue.
Taichi sentiva
sulle
spalle il peso di quella responsabilità. Ne sentiva il peso
di tante altre,
anzi, il più delle volte si prendeva a carico quelle che non
gli convenivano,
ma era fatto così.
Lasciò
lo sportello e, con le mani in tasca, si mise in
cammino.
Non aveva detto
della sua decisione a Hikari, era sicuro che
avrebbe fatto delle storie, ma lui non avrebbe mollato.
Avrebbe
acquistato la
loro casa, la casa della loro infanzia, la casa di tutta loro vita.
Se lo poteva
permettere, aveva dei soldi di lato, un buon
stipendio, e li avrebbe recuperati presto o tardi.
I suoi genitori
faticavano per mandare avanti la famiglia,
mentre sua sorella frequentava l’università e
aveva altre spese. Toccava a lui
prendersi cura di loro, adesso, e restituire con gli interessi tutto
quello che
gli avevano offerto.
Gli venne da
sorridere, e pensò che avrebbe agito quando
meno se lo aspettavano così da fare loro una sorpresa.
Non lo avrebbe
fermato
nessuno.
Sentì
dentro il petto una sensazione strana, che lo caricò
di una strana forza. Tirò fuori il cellulare e
aprì uno dei contatti.
Era quello di
Mimi.
Il cuore prese
ad accelerare tutt’ad un tratto, pensando che
avrebbe dovuto farlo.
Non faceva altro
che aprire e riaprire quella chat da quella
mattina, per poi scollegarsi vigliaccamente.
Ma adesso era
tempo di
farlo.
Anche un
semplice saluto andava bene, per quanto riduttivo,
non doveva mica iniziare con una solfa melensa, solo constatare se lei
aveva
intenzione di parlargli.
Si
scompigliò i capelli, sentendosi in difficoltà.
Doveva almeno
provarci.
Non era poi
così
difficile.
Si
sentì pervaso da un senso di adrenalina, per quanto il
cuore palpitava dall’ansia.
Scrisse qualcosa
di getto, non controllò nemmeno se la frase
avesse senso compiuto.
Volevo
parlarti ma è successo un casino...
Inviò.
Apparve una
spunta.
Sembrava non
avesse neanche ricevuto il messaggio.
Forse non era
nemmeno il numero giusto, d’altronde era
plausibile che lo avesse cambiato e lui non ne fosse a conoscenza...
Sentì
un senso di angoscia pervaderlo.
E se fosse stato
troppo
tardi?
E se lei lo
avesse
dimenticato, archiviato, abbandonato?
Quella lotta era
durata
per così tanto tempo...
I suoi pensieri
vennero improvvisamente destati dal suono
del cellulare.
Controllò
il numero con il cuore in gola, aspettandosi
chissà cosa, ma vide che era sconosciuto.
«Pronto?»
rispose, sperando non chiamassero da uno di quei
call center che gli propinavano ogni mese delle tariffe speciali.
Sentì
un rumore dall’altro capo, poi una voce fece capolino,
e urtò repentinamente il suo sistema nervoso.
«Yagami»
era la voce di Akira, il suo allenatore.
Tai assunse
un’espressione infastidita non appena si sentì
chiamare da quell’uomo.
Cosa diavolo
voleva da
lui?
Non erano ancora
terminati i suoi giorni di permesso, non voleva starlo a sentire. Aveva
già i
suoi bei grattacapi senza che si immischiasse anche lui.
Strinse
automaticamente un pugno e si preparò ad ascoltare.
«Mi
dispiace interrompere la tua vacanza, ma abbiamo avuto
un incontro con il procuratore dell’Osaka»
continuò, mentre Tai sbuffava di
rimando.
«La
trattativa si è conclusa prima del previsto e vogliono
il tuo trasferimento immediato» lo informò atono,
come fosse uno di quegli
annunci che venivano fatti nelle stazioni ferroviarie.
Il ragazzo si
fermò in mezzo al marciapiede.
Le parole di
Akira gli rimbombarono in testa, si alienò
dalla realtà, mentre l’uomo continuava a dire cose
che non sentiva.
Se volevano il
suo trasferimento immediato ad Osaka quello
voleva dire che non poteva più rimanere a Tokyo.
Non ci poteva
credere...
quell’uomo era la sua rovina, gli stava distruggendo il
benessere, lo stava facendo
impazzire...
Aveva voglia di
urlare.
Fermarsi
lì, in mezzo
quella strada e urlare.
«Che
cosa?!» sbottò infatti «Mi aveva
garantito una
settimana!» rivendicò, citando l’accordo
che avevano stretto solamente pochi
giorni prima, alla fine del campionato stagionale.
Akira emise una
risatina bassa, e quello lo fece adirare
ancora di più.
«Andiamo,
Yagami, non essere un ragazzino sentimentale!» lo
prese in giro con il suo solito tono beffardo.
«Devi
iniziare l’allenamento, ti vogliono in forma prima
dell’inizio del campionato» tuonò serio,
mentre il castano cominciava a sentire
lentamente tutti i pezzi di sé sgretolarsi.
«La
società non può sfigurare per colpa dei tuoi
capricci»
sibilò poi, colpendolo volontariamente.
Taichi scosse la
testa, incredulo.
Non poteva
essere che
stava succedendo davvero...
Fino a poco
prima il suo
unico pensiero era quello di andare a sistemare una questione
finanziaria
familiare, e adesso doveva rientrare in quello stupido campo di calcio
che lo
stava logorando dentro più di quanto non lo fosse
già.
Sentì
l’aria mancare improvvisamente, e chiese a sé
stesso
se non stesse vivendo un incubo.
«Io
non posso rientrare prima!» si oppose, poi si
passò una
mano sulla fronte ripensando a tutto quello che era successo in quei
giorni, alle
situazioni irrisolte che non poteva assolutamente lasciare.
«Ho
dei problemi qui a casa, devo dilungarmi, devo...»
biascicò in preda alla confusione, tentando di spiegare,
anche se
consapevolmente invano.
Akira, difatti,
non lo lasciò terminare.
«Devi, devi!»
ringhiò, facendogli il verso
«Quello che devi realmente fare, Yagami, è
ciò per cui hai sacrificato una
vita» lo rimproverò, facendogli venire in mente
tutti i sacrifici che aveva
dovuto compiere in quegli anni, le mancanze, le privazioni.
Cosa ci aveva
guadagnato, a parte i soldi?
Niente, proprio
niente.
Solo un vuoto
nel
cuore...
«Domani
devi
tornare e anche in fretta» continuò a dire
l’allenatore «E’ la mia ultima
parola» concluse poi perentorio.
Tai chiuse gli
occhi, li strinse più che potette. Sentiva il
sangue ribollirgli nelle vene quasi volesse esplodere via come un
vulcano.
Era furioso,
frustrato,
deluso da quella vita che aveva dovuto vivere, ma soprattutto deluso da
sé
stesso perché, ancora una volta, era bloccato.
Non riusciva a
prendere
una decisione, aveva timore di compiere una scelta azzardata.
Lui, che di
coraggio una
volta ne aveva da vendere, era diventato il più grande
vigliacco del secolo.
Per la rabbia,
sentì le lacrime pizzicargli il bordo degli
occhi.
«Lei
è un voltagabbana!» si ritrovò ad
inveire contro quell’uomo
che non l’aveva certamente aiutato a fortificarsi, ma solo
strumentalizzato ai
voleri della società.
Per Tai non era
quello
il valore del calcio.
Il calcio era
stato
tutto per lui, probabilmente ancora lo era, ma non corrispondeva a
quello che
intendeva quel bastardo.
«Quello
che le interessa è solo il denaro! Non è la
passione, non è la dedizione, è solo una
questione di soldi!» sputò fuori,
liberandosi da un macigno troppo pesante che lo aveva piegato in due
dal dolore
per fin troppo tempo.
Non
sentì nulla per qualche secondo e tentò di
calmarsi,
riprendendo a respirare regolarmente, ma la risposta di Akira non
tardò ad
arrivare:
«Ben
presto imparerai, caro Taichi, che è necessario
improntare la vita su una questione di soldi se vuoi essere
qualcuno»
Il castano
strinse forte il telefono tra le dita.
Non erano dei
fottuti
soldi a dargli la felicità, ma la famiglia,
l’amicizia, l’amore.
Tutte cose che
aveva
trascurato, e non poteva permettersi di farlo ancora, non sarebbe
più stato
Taichi, e lui aveva bisogno di tornare ad essere Taichi.
«Io
voglio essere me stesso!» esclamò con fervore,
talmente
che alcune persone si voltarono a guardarlo.
Akira fu
tagliente come non mai.
«Allora
ti accontenti di così poco» lo udì dire
con
sufficienza, e gli sembrò come un eco lontano.
Sembrava fosse
distante
anni luce dal suo corpo, dalla sua mente, dalla sua coscienza...
«Mi
aspetto il tuo rientro domani» disse fermo quello,
ridestandolo.
«Buona
serata da campione» lo prese in giro, infine, per poi
interrompere la telefonata.
Lui rimase
fermo, ritto sul posto con ancora il cellulare all’orecchio.
Si sentiva
impotente,
umiliato, svuotato da ogni singola emozione. Quella notizia lo aveva
distrutto,
lo aveva prosciugato più di quanto non lo fosse
già.
Lentamente,
ripose il telefonino in tasca e riprese a
muoversi, accertandosi che le sue gambe riuscissero a svolgere la loro
funzione.
Sarebbe dovuto
tornare
il giorno dopo, avrebbe dovuto lasciare nuovamente la sua famiglia, non
avrebbe
potuto dare loro i soldi per la casa, avrebbe dovuto abbandonare Matt
proprio
in quel momento che aveva bisogno di lui più di chiunque
altro, avrebbe dovuto ignorare
ancora una volta i sentimenti che invadevano il suo cuore.
Ebbe
l’esigenza di sedersi, ma non c’erano panchine.
Il pensiero
volò inevitabilmente verso di Mimi, e sentì un
nodo allo stomaco così forte che quasi gli venne da vomitare.
Avrebbe dovuto
lasciarla
di nuovo, per l’ennesima volta sarebbe tornato senza di lei,
senza i suoi
abbracci, senza il suo profumo, senza la sua voce...
Una punizione
più
cattiva di quella non esisteva al mondo.
Non riusciva a
stare
senza di lei... forse, per la prima volta dopo tanto tempo, lo stava
ammettendo
a sé stesso.
Mimi era quello
di cui
aveva sempre avuto bisogno, ciò che gli era mancato in
quegli anni, la spinta
che lo faceva andare avanti.
Non poteva
rinunciare a
lei ancora una volta...
Doveva mollare
tutto,
doveva lasciare il calcio, Kyoto, l’Osaka, mandare a quel
paese Akira e la
squadra.
Doveva
ricominciare,
essere sé stesso, riappropriarsi di quella vita che gli era
stata tolta,
privata.
Ma come faceva?
Lui non ne aveva
il
coraggio.
Non aveva il
coraggio di
abbandonare tutto, non aveva il coraggio di rinunciare alla prima
divisione,
non aveva il coraggio di andare da Mimi dopo che l’aveva
abbandonata e dirle
che era ancora innamorato di lei.
A quel pensiero,
volse lo sguardo verso il crepuscolo e si
rese conto che era quasi calata la sera, così come in fondo
al suo cuore.
Avrebbe
nuovamente
lasciato andare tutto per colpa della sua codardia, e questa volta ne
era
consapevole, sarebbe stato un prezzo ancora più alto da
pagare.
Un prezzo che
nemmeno
tutti i soldi di Akira avrebbero potuto raggiungere.
Si diresse verso
casa del suo migliore amico con ancora quei
pensieri insistenti in testa, con ancora il contorno di tutti quei
dubbi.
Era una lotta
incessante, lo distruggeva, lo metteva di fronte ai suoi limiti, alle
sue
incertezze, alle sue paure.
E lui, Taichi,
partiva
in svantaggio, perché era già finito ancora prima
di combattere.
Non appena mise
piede sul pianerottolo udì una fastidiosa
musica elettronica provenire proprio da dentro l’appartamento
di Yamato.
Stranito,
allungò il passo, tirando fuori la chiave che
aveva preso in prestito per poter liberamente entrare e uscire da casa
sua.
Non appena
spalancò la porta, la visione che gli si parò
davanti lo fece rimanere di stucco.
Intorno a lui
c’era il caos; cicche di sigarette sparse per
il tavolo e per terra, bottiglie di alcol rivoltate sul pavimento, la
cenere
dispersa dovunque.
Taichi rimase
per qualche secondo sul ciglio della porta ad
osservare le condizioni in cui si trovava la stanza.
Cosa stava
succedendo?
La musica
elettronica era sempre più insistente, così non
ci
pensò due volte prima di entrare e chiudersi la porta alle
spalle, onde evitare
di disturbare i condomini.
Fece dei passi
avanti senza smettere di guardarsi intorno.
Nell’aria c’era una cappa di fumo e un odore
sgradevole che gli fece arricciare
il naso.
Spostò
una sedia che gli intralciava il cammino e la sua attenzione
ricadde su un foglio che era rimasto inerte sul tavolo. Era
appallottolato e
sembrava ci fosse scritto qualcosa. Mosso dalla curiosità,
lo srotolò e lesse.
Era sicuramente
il testo di una canzone.
Una canzone che
aveva
scritto Matt, delle parole messe nero su bianco per sfogarsi e fare
intendere
com’è che si sentiva, quello che aveva provato,
quelli che erano i suoi
sentimenti.
Strinse il
foglio tra le mani, spiegazzandolo ulteriormente.
Lo aveva
stropicciato,
ma non aveva avuto il coraggio di farlo a pezzetti e buttarlo.
Era come se
stesse
cercando di scappare dalle sue emozioni, era come una sorta di barriera
protettiva dietro la quale si era imposto di nascondersi.
Ma Taichi sapeva
per
certo che non riusciva a liberarsi da quello che provava.
Aggrottò
le sopracciglia e strinse un pugno.
Fece un passo
indietro involontariamente e calpestò un
coccio di vetro. Imprecò, poi abbassò gli occhi e
notò delle gocce di sangue
sparse per il pavimento. Formavano una scia che portava verso
un’unica
direzione.
Così
alzò lo sguardo e lo vide.
Yamato era ritto
in piedi, la camicia sbottonata fino a
lasciare il petto completamente scoperto, i capelli scompigliati sul
volto, i
piedi scalzi.
Suonava la
chitarra elettrica a tutto volume, emettendo
accordi sconclusionati e volontariamente rumorosi.
Non sembrava
essersi accorto della presenza di Taichi nella
stanza, al che, quest’ultimo, si diresse verso di lui.
«Matt!»
esclamò a voce alta, senza essere degnato di uno
sguardo.
Il biondo
continuava a schitarrare senza il minimo cenno di
essersi accorto dell’amico o, semplicemente, non aveva
intenzione di dargli
retta.
Il castano lo
fissò con in volto un’espressione infastidita,
a tratti sdegnata.
Non poteva
essere che si
fosse ridotto in quel modo...
Non sembrava
più lui,
era l’ombra di sé stesso, un’ombra
sbiadita del Yamato che conosceva.
Sembrava come se
avesse
perso la ragione.
«Come
ti sei conciato?!» gli chiese ancora, avvinandosi di
più.
Questi
s’irrigidì non appena percepì la sua
presenza dietro
le spalle, poi chiuse gli occhi e continuò ad emettere
stridii di chitarra
sempre più intensi.
Tai fece una
faccia innervosita, disturbato da quel suono
grave.
Lo stava facendo
di
proposito.
Voleva evitarlo
per fare
in modo che se ne andasse e lo lasciasse lì, in mezzo a
quello schifo, in balìa
dei suoi demoni, ma non sapeva con chi aveva a che fare.
Con uno scatto,
si avvicinò alla presa della corrente e
staccò la spina con forza.
«MATT!»
urlò, mentre il suono della chitarra cessava
all’improvviso.
Lo vide
bloccarsi di rimando, le dita a mezz’aria che
andavano a chiudersi in dei pugni. Per dei secondi non successe niente,
ma Tai
non smise di fissare la sua schiena, aspettandosi un cenno, fino a che
l’altro
non si voltò a guardarlo.
«Che
cazzo fai?!» lo udì inveire in sua direzione,
notando gli
occhi azzurri arrossati e pesanti, le occhiaie scure come contorno, i
capelli
biondi sporchi dal fumo e dall’alcol.
Tai
sentì una fitta alla pancia non appena lo vide conciato
in quel modo.
Sembrava fosse
stato
pestato da qualcuno, come se fosse rimasto vittima di un pestaggio
irruento e
faticasse a reggersi in piedi.
Provò
un misto di rabbia e compassione.
«Svegli
tutti così» gli fece notare tra i denti, senza
smettere di osservarlo.
Era
più forte di lui,
non riusciva a fare a meno di guardarlo e chiedersi a quanto si era
dovuto
spingere oltre.
«Cosa
ti salta in mente?» gli chiese duro, in un tono di
rimprovero cui Matt era abituato a sentire da giorni, forse anni, ormai.
Chiuse gli occhi
e non gli rispose.
Voleva che la
smettesse
di redarguirlo, voleva che, per una volta, cercasse di comprenderlo
fino in
fondo.
Era disperato,
tradito,
fallito... non riusciva a trovare il suo posto in quel fottuto mondo,
si
sentiva un pesce fuor d’acqua incapace di tornare a nuotare
e, fanculo, lui in
quel modo non faceva altro che ricordarglielo.
Allungò
un braccio e afferrò una bottiglia. La portò alle
labbra e cominciò a bere.
La testa gli
doleva, il
corpo gli doleva, ma soprattutto era il cuore a non volersi placare.
Tai si
avvicinò e, repentinamente, gli tolse la bottiglia
dalle mani.
«Smettila!»
gli sibilò, gli occhi che mandavano scintille.
Era ridicolo,
era così
talmente volubile se pensava che continuare a comportarsi in quel modo
infantile lo avrebbe aiutato a dimenticare.
Matt
sentì la rabbia aumentare a dismisura non appena fu
capace di metabolizzare quel gesto.
Si
avvicinò a lui, tentando di riprendersi la bottiglia.
«Ridammela!»
ringhiò, mentre l’altro la metteva dietro la
schiena per non fargliela prendere.
Perché
non lo lasciava
fottutamente in pace, Taichi?
Cosa voleva da
lui,
perché andava lì con l’intenzione di
dirgli ciò che doveva fare...
Era stufo di
essere lui
quello sbagliato tra i due.
Continuò
a cercare di cavargli la bottiglia dalle mani,
facendolo indietreggiare fino al tavolo. Il castano fu più
lesto e la adagiò
sopra, riuscendo a liberare entrambe le mani per sorreggerlo.
«Sei
ubriaco!» sottolineò, trattenendolo dalle braccia
per
evitare che gli si spalmasse addosso.
Matt non demorse
e continuò a spingerlo.
«Ridammi
quella bottiglia!» esclamò arrabbiato, e per
qualche secondo lottarono in quel modo, con l’amico che
tentava di tenerlo
fermo, mentre lui si agitava per levarsi la sua presa di dosso.
Non appena Tai
rinchiuse una mano sulla sua, Matt si lasciò
andare ad un’imprecazione di dolore.
Il castano lo
lasciò di riflesso e subito si rese conto che
aveva qualcosa sul dorso.
«Che
hai fatto?» domandò apprensivo, prendendogli
nuovamente
la mano.
Il sangue era
vivo sulla ferita aperta da dove riusciva a
intravedere dei cocci di vetro infilzati dentro la carne.
Fece una
smorfia, ma non riuscì a dire altro, perché il
biondo la ritrasse, infastidito.
«Non
sono cazzi tuoi!» gli urlò aggressivo, ad un palmo
del
suo viso, tant’è che potette sentire
l’odore dell’alcol.
«Lasciami
stare!» e lo spinse, facendolo quasi sbattere
contro il tavolo.
Taichi non disse
nulla, si limitò a guardarlo.
Si guardarono
entrambi.
Perché
faceva in quel
modo?
Rifiutava ogni
tipo di
aiuto che provava a dargli, era estenuante.
Era
terribilmente
testardo e orgoglioso, preferiva precipitare
nell’oscurità ignorando
volutamente lo spiraglio di luce che stava provando ad offrirgli.
Voleva salvarlo
da
quell’oblio, voleva riuscire a metterlo nuovamente insieme,
perché gli mancava
da morire la persona che era.
Yamato si teneva
la mano ferita.
Lo faceva
solamente per
levarsi dalle scatole un coglione come lui.
Aveva rovinato
la
permanenza di Taichi, lo aveva assillato con le sue fottute scenate, lo
stava
facendo anche in quel momento, e lo sapeva, lo sapeva che voleva solo
salvarsi
la faccia, rimarcare ancora una volta quella posizione da leader che
tanto
gravava sulle loro spalle.
Era venuto
ancora una
volta a vederlo crollare, beffarsi dei suoi fallimenti
perché lui era un
calciatore rinomato, mentre Matt non era stato capace di mantenere
integra la
sua band, né di cercarsi un lavoro decente.
Tai aveva scelto
il
lavoro all’amore, ma almeno lo aveva fatto con
determinazione. Lui, invece, era
riuscito a far stancare Sora, l’aveva spinta tra le braccia
di un altro uomo,
essendo incapace di decidere per una volta e per tutte ciò
che era giusto fare
per lui.
Ecco
perché il suo
migliore amico andava da lui, voleva spiattellargli in faccia quando
facesse
schifo, mentre, al contrario, dimostrare quanto lui era forte e
indipendente.
Sentì
distrattamente gli occhi inumidirsi, e non riuscì a
trattenersi. Con un impeto, arrivò di fronte
all’altro e lo scosse dalle
spalle.
«Cosa
fai sempre qui?!» diede adito ai suoi pensieri
malsani, rivolgendoglisi in tono brusco, per poi fissarlo con uno
sguardo
adirato, ingelosito.
«Pensi
che non possa cavarmela da solo?! Oppure pensi che
possa fare qualche cazzata...» la voce gli si spense senza
volerlo.
Tai lo
guardò spiazzato. Lentamente, portò le mani sulle
sue
braccia.
«Sono
qui per aiutarti» disse fermo, cercando di
comunicargli con gli occhi quelle che erano realmente le sue intenzioni.
Matt,
però, non lo guardava.
Aveva lo sguardo
fisso per terra, come se volesse sfuggire dal
peso di quello dell’altro.
Rimasero in
silenzio per qualche secondo, fino a quando il
castano non si sentì strattonare nuovamente.
«Io
non ho bisogno di te!» esclamò il biondo,
infervorato,
gli occhi adesso che sprizzavano fuoco da tutte le parti.
Tai
sentì una fitta al cuore nell’udire quelle parole.
Perché
gli diceva in
quel modo?
Credeva che
fosse andato
lì da lui solo per fargli la lezioncina in modo tale da
farlo sentire una
merda?
Non era la
persona più
adatta a farlo, perché moralmente era colui che aveva
peccato più di tutti.
«Non
ho bisogno che tu mi dimostri quanto sei buono,
responsabile, il migliore di tutti...» l’altro
continuava a scuoterlo, mentre
da quelle frasi strascicanti ne evinceva disperazione, frustrazione per
non
riuscire a considerarsi alla pari.
Un senso di
vuoto e inferiorità.
«Vattene
via!» esclamò poi, ma con l’intento di
dargli un
altro spintone, inciampò sui suoi piedi e finì
addosso all’amico.
Tai lo trattenne
tra le sue braccia.
Non avrebbe mai
voluto
che Matt sentisse quelle sensazioni negative quando si trovavano
insieme.
La loro amicizia
era più
forte di tutte le altre, era il sentimento più vero,
più profondo che aveva
condiviso in tutta la sua vita.
Era
così leale e sincera
che si chiedeva come facesse, anche soltanto per un secondo, a
dubitarne.
«Matt...
ti prego, smettila...» gli sussurrò costernato,
mentre lo reggeva.
Questi si
appoggiò per un po’ contro il suo petto, sentendo
i battiti accelerati del suo cuore, e si bloccò.
Che impressione
gli
stava dando?
Stava apparendo
come
l’invidioso, il frustrato, colui che non riusciva a passare
oltre a quella
differenza caratteriale, a quel modo di fare così diverso,
ma nello stesso
tempo così simile.
Lo strinse dalle
braccia.
Era arrivato
perfino ad
urlargli in faccia la sua frustrazione... era piombato in un marciume
talmente
tale da puzzare.
Si
allontanò da lui e gli diede le spalle. Lentamente
raggiunse un angolo della stanza e si sedette per terra, contro il muro.
Si
portò le mani alla testa, sentendola pesante.
Sembrava tutto
sconnesso, amplificato. Forse era l’alcol a fargli venire in
mente quei
pensieri, ma si sentiva così sfatto, così
terribilmente abbattuto da voler
scomparire dalla faccia della terra.
«Sono
un coglione... un cazzo di coglione...» si dannò,
mentre gli venivano in mente i flash di ciò che aveva
causato.
Era per colpa
sua se
adesso si trovava in quella situazione dove non sembrava esserci
un’uscita.
Era per colpa
sua e dei
suoi silenzi, delle sue mancanze, dei suoi pensieri fuori luogo, del
suo essere
poco risoluto...
Tai lo
seguì con lo sguardo.
«Cosa-?»
provò a dire, stupito, sentendolo farneticare delle
parole sottovoce.
Lui non gli
diede neanche il tempo di finire la domanda che
sentì una rabbia improvvisa salirgli dai piedi e raggiungere
la punta dei suoi
capelli.
Lo
fissò con gli occhi azzurri infuocati.
«Guardami
negli occhi, cazzo, dimmelo!» gridò in sua
direzione, lasciando l’altro senza parole «Dimmelo
che sono un fallito, che ti
faccio schifo!» continuò, mettendosi in piedi con
difficoltà, fino a
raggiungerlo lentamente.
«Perché
è questo quello che pensi, Tai, lo so...» gli
sussurrò non appena fu vicino al suo viso.
Quegli occhi
trapelavano disperazione, una convinzione tale
che il castano rimase lì, fermo, a non sapere cosa dire per
paura di ferirlo.
Lo vedeva
così vulnerabile, incapace di reagire.
Aveva timore di
essere
considerato un buona nulla e, soprattutto, aveva timore di essere
giudicato
male proprio da lui.
Alzò
una mano e sfiorò il suo braccio.
«Io
non penso affatto questo» disse sincero, accarezzandolo
con uno sguardo d’affetto, uno sguardo che intendeva
comunicare mille parole.
Matt si
limitò a guardarlo distrattamente, per poi
ripiombare nella sua inquietudine.
Lo vide
stringersi i capelli con le dita fino a tirarli, gli
occhi vacui, l’espressione folle.
«E’
colpa mia se Sora mi ha tradito...» lo sentì
lamentarsi,
per poi vederlo lasciarsi scivolare per terra «è
solo colpa mia...» continuò
come se fosse una fastidiosa litania.
Tai
serrò gli occhi.
Adesso basta,
era ora di
finirla.
Non poteva
sopportare
più scene del genere, crolli del genere, parole del genere.
Yamato stava
mandando a
rotoli la sua vita, la stava letteralmente buttando
nell’immondizia come se
fosse un giocattolo rotto senza nemmeno provare ad aggiustarlo.
Si
avvicinò a lui.
Ne aveva
abbastanza di
quei piagnistei.
Non avrebbe
più permesso
che si lasciasse andare in quel modo, a costo di litigare, a costo di
farsi
odiare da lui.
Gli mise una
mano sulla spalla e lo strattonò con forza.
«Alzati,
cazzo!» gli urlò, affondando con le unghie sulla
sua pelle, facendolo voltare di scatto dal dolore.
Lo
fissò con una rabbia inspiegabile, trattenuta per troppo
tempo.
«Non
ti riconosco più, alzati!» lo prese dalle ascelle
e lo
fece mettere in piedi, senza nemmeno troppi sforzi.
Yamato si
ritrovò ritto dinnanzi a lui e Taichi lo fissò
con
disgusto.
«Tu
non sei il mio migliore amico, non sei Matt!» gli
puntò
il dito contro fino a toccargli il petto.
L’altro
si limitò ad aprire la bocca, spiazzato, ma non ebbe
tempo di replicare perché Tai era un fiume in piena pronto a
inondare.
«Dov’è
quell’uomo forte e determinato? Dov’è
quell’uomo che
si faceva in quattro per le persone che ama... che non avrebbe mai
mollato la
musica... chi cazzo sei diventato, Matt?!» gli chiese,
sibilandogli in faccia
tutto il suo risentimento.
Questi non
riuscì a proferire nulla, sconvolto dall’ardore
con
il quale l’amico aveva parlato.
Aveva ragione,
non era
più sé stesso.
Era diventato
un’altra
persona, e non aveva fatto altro che dimostrarlo con quegli stupidi
comportamenti i quali avevano solamente peggiorato la situazione...
Guardò
Tai che lo fissava a sua volta in maniera dura.
Però...
perché non lo
aiutava veramente?
Perché
intendeva farlo
soffrire ancora di più rinfacciandogli quanto avesse
sbagliato, quanto stesse
continuando a farlo, quanto fosse sciocco...
Non aveva
bisogno di
questo, aveva bisogno di tatto, di comprensione... perché
doveva sempre
sottolineare quello che non andava in lui?
Perché
non badava per sé
stesso?
«Vaffanculo!»
fu un attimo e gli si scaraventò addosso,
prendendolo dalle braccia e facendolo sbattere contro il tavolo.
Il posacenere
rotolò per terra, facendo riversare tutte le
cicche e sporcando il pavimento.
Tai
tentò di trattenerlo, ma lui non ci vedeva più.
Aveva
incominciato a colpirlo, gli aveva sferrato un pugno in viso, e poi un
altro ancora.
Il castano si
dimenò e, nella foga, un paio di bottiglie si
ruppero causando cocci di vetro dappertutto.
Cercò
di non rispondere ai suoi colpi, nonostante gli avesse
fatto male alla mascella. Riuscì con difficoltà a
bloccargli le braccia, mentre
Matt alzava gli occhi su di lui e lo guardava con uno sguardo
indemoniato.
«Sai
solo giudicare gli altri quando poi tu non riesci a
guardare in faccia la verità!» gli urlò
in viso cercando di liberarsi dalla sua
stretta.
Voleva ferirlo,
voleva
fargli del male, voleva fargli provare un pezzetto della sofferenza che
provava
ogni volta lui nel doversi sentire sbagliato...
«Sei
un codardo!» lo disse con tutta la forza che aveva in
corpo.
Taichi socchiuse
gli occhi.
Lo sapeva, di
essere un
codardo, da tanto tempo ormai.
Biasimava Yamato
perché
gli sembrava diverso da quello che era una volta, ma in
realtà era lui stesso
ad essere completamente cambiato.
Non aveva il
coraggio di
compiere una scelta, non aveva il coraggio di ammettere che aveva
sbagliato,
non aveva il coraggio di dichiarare i suoi sentimenti.
Era vero, era un
codardo, e gli doleva talmente tanto quella consapevolezza.
In
quell’attimo di distrazione, l’altro
riuscì a
divincolarsi e a spingerlo contro una sedia.
Tai lo
guardò con fermezza.
Si stavano
scontrando
fisicamente dopo tanto, tantissimo tempo.
Era una lotta
infinita,
la loro.
Una lotta di
caratteri
forti, ma fragili nello stesso tempo, diversi per mille sfaccettature,
simili
per altrettanto altre.
La loro amicizia
era
sempre stata la colonna portante della loro vita, e lui lo sapeva per
certo che
avevano bisogno di affrontarsi per mettere a tacere i loro dubbi, le
loro
incertezze, le loro fissazioni.
Avevano
l’uno bisogno
dell’altro per capire.
Era sempre stato
così;
era un continuo amarsi, ma anche odiarsi, una continua
affinità che sfociava
nella più giusta e sana delle competizioni.
Si mise in piedi
e gli sferrò un pugno in pieno volto.
Matt rimase
fermo sul posto, poi si portò una mano allo
zigomo. Non fece neanche in tempo ad alzare lo sguardo, che Tai lo
afferrò dai
capelli e lo sbatté contro il tavolo.
Caddero per
terra altre cose che causarono un fracasso di
sottofondo.
Lottarono per un
po’ di tempo in quel modo, fino a quando il
castano lo prese dalla maglia, avvicinando il viso al suo.
«Tu
invece sei un piagnone del cazzo!» gli disse con
ribrezzo, pensando a quante volte avrebbe voluto dirglielo, a quanto
sicuramente lo avrebbe fatto star male, ma a quanto fosse necessario
per lui
saperlo, superarlo, crescere
«Pensi
sempre a compiangerti, a fare la vittima, ma non è
così che risolverai i tuoi problemi, non è
così che migliorerai te stesso»
glielo disse a raffica con un tono di voce mellifluo, come se gli
stesse
donando una benedizione.
Matt lo fissava
con gli occhi sbarrati, il naso sanguinante.
Decise di
sferrargli il
colpo di grazia, quello per il quale nutriva una forte paura, un forte
timore
che corrispondesse alla realtà.
Lo strinse
ancora di più dalla maglia.
Doveva capire.
«Mi
fai schifo!» gli sibilò crudelmente sul suo viso,
poi
gli diede uno spintone e lo lasciò andare.
Si guardarono
negli occhi.
Matt
cominciò a sentire distrattamente le lacrime inondare i
propri. Il cuore batteva forte per la foga e per
l’umiliazione.
Faceva schifo a
Taichi.
Il suo migliore
amico lo
disprezzava, lo odiava, era venuto da lui solo per assistere alla sua
più
clamorosa disfatta.
Strinse i pugni.
Gli aveva
sussurrato che
gli faceva schifo, a lui, dopo tutti gli anni passati insieme, dopo
tutto
quello che avevano condiviso, dopo il loro esserci, dopo il loro
comprendersi,
dopo che si erano giurati amicizia eterna, dopo tutti i loro litigi
sfociati in
segni di pace, dopo tutte le volte che lo aveva incoraggiato a essere
sempre sé
stesso...
Lo vide
voltarsi, ma non riuscì a fargli fare un passo. Lo
fece girare bruscamente verso di lui.
«Sei
un pezzo di merda!» gli vomitò addosso con
risentimento, mentre lo colpiva con un altro pugno.
Avevano
sbagliato tutto,
allora...
Non
c’era nulla di
quell’amicizia che era autentico, era da sempre stato tutto
finto, tutto basato
su delle persone che non erano loro.
Continuarono a
colpirsi, ma Matt era una furia. Prese Tai
dalle braccia e lo fece sbattere per terra.
«Non
hai capito niente di me, Taichi, proprio niente!» lo
incolpò con rabbia, frustrazione, guardandolo con uno
sguardo velato, ricolmo
di lacrime.
Lo odiava...
Era la persona
che più
odiava nella sua vita perché non lo capiva,
perché non lo sosteneva, perché
voleva dimostrare a tutti quanto fosse migliore di lui.
Lo odiava
perché era la
persona che mai sarebbe riuscito ad eguagliare.
Era il suo punto
di
forza, ma nello stesso tempo il suo più grande punto debole.
Si
preparò nuovamente a scagliarsi contro di lui, quando lo
vide alzare un braccio per fermarlo, negli occhi
un’espressione che trapelava
qualcosa che non era affatto rabbia o risentimento.
«Ho
capito tutto, invece» lo sentì dire con fervore
«Odio
vederti così! Svegliati! Porca puttana,
svegliati!» urlò con tutte le sue
forze.
Era affetto,
quello che
gli vedeva impresso in viso.
Era un amore
fraterno
incontenibile, qualcosa che non si poteva comparare con niente al mondo.
Era un
sentimento così
puro, così vero, così dannatamente sincero che si
chiedeva come avesse fatto a
dubitarne.
Lo
fissò con il pugno a mezz’aria senza riuscire ad
emettere
suono.
Tai lo guardava
a sua volta con il petto che si alzava ed
abbassava ritmicamente a causa dell’affanno.
Il volto era
sanguinante, tumefatto, la maglia stropicciata
e sporca.
Taichi...
Era il suo
migliore
amico, era la sua casa, era tutto per lui...
Era lui a non
aver
capito niente.
Tutto quello che
aveva
fatto, tutto quello che aveva detto era per aiutarlo, era per riuscire
a
tirarlo fuori da quella prigione oscura in cui si era rinchiuso.
Lo
guardò ancora e si rese improvvisamente conto di
ciò che
era successo.
Non lo aveva
nemmeno
ringraziato, lo aveva solo incolpato di volerlo vedere finito, inerte,
solo
perché aveva provato invidia, solo perché era
geloso della sua determinazione,
del suo modo di fare, del suo modo di agire.
Che pena si
faceva...
Come aveva fatto
a
dubitare dell’amicizia di Taichi?
Si
portò improvvisamente le mani al volto. Piano, si
avvicinò all’amico e si lasciò
scivolare per terra, vicino a lui.
«Che
cazzo ho fatto?» sussurrò incredulo, sconvolto,
incapace di intendere a come fosse arrivato a quel punto.
Tai lo
udì piangere e sospirò piano.
Aveva finalmente
capito.
Stava lentamente
razionalizzando tutto, e adesso quei pugni, quei calci, quelle ferite
facevano
meno male.
«Non
piangere» gli mormorò, appoggiando la testa contro
il
muro e voltandosi a guardarlo.
Lo vide con la
testa tra le mani che singhiozzava.
Sentì
distrattamente i sensi di colpa invaderlo. Lo
sapeva di essere stato fin troppo duro,
aveva toccato dei punti sensibili per Yamato, lo aveva, in un certo
senso,
posto faccia a faccia con i demoni che invadevano la sua anima.
Forse poteva
sembrare egoista, uno stronzo senza cuore per
avergli urlato contro tutto quelle cose, ma lui sapeva il motivo per
cui lo
aveva fatto, sapeva benissimo che il suo migliore amico ne aveva
bisogno, di
combattere le sue più grandi debolezze.
E Taichi, che
era da
sempre stato il suo punto di forza, era l’unico che poteva
aiutarlo
nell’impresa.
«Non
volevo...» biascicò ancora, il tono di voce che
trapelava pentimento, una richiesta di perdono dopo una serie di
nefandezze.
Il castano non
fece passare neanche un secondo di pausa.
«Lo
so» disse convinto, e quella fermezza fece sì che
Matt
alzasse il capo e lo guardasse.
I suoi occhi
azzurri erano deturpati dalle lacrime, il volto
fine era scuro e segnato.
Si chiedeva come
facesse,
adesso, a non dubitare di lui dopo come gli si era rivoltato contro.
Si fidava ancora
di lui,
lo notava da come lo fissava negli occhi, di uno sguardo buono, pieno
di
affetto, pieno di un sentimento così puro e inestimabile.
Sentì
d’un tratto il calore della mano di Tai sulla sua.
«Sei
il mio migliore amico, sei mio fratello, sei il mio
braccio destro...» lo sentì elencare, come volesse
rispondere alle sue domande
insistenti
«sei
tutto» concluse con un sorriso, e il biondo, lentamente,
capì che non aveva fatto altro che citare le sue parole,
quelle che gli aveva
confidato il giorno della laurea di Joe, quando aveva avuto un crollo
nervoso e
si era, per l’ennesima volta, reso conto di quanto avesse
bisogno di lui.
Sentì
i battiti del suo cuore accelerare.
Era come se gli
volesse
far capire che tutto quello che provava era esattamente lo stesso di
quello che
provava lui.
«Tai...»
mormorò emozionato, gli occhi nuovamente umidi.
Lo sguardo
dell’amico lo accarezzava dolcemente e si sentì
subito confortato, aiutato, capito.
Era come se
avesse
appena trovato il suo posto nel mondo, finalmente.
«Riprendi
in mano la tua vita» gli disse serio «Sii
l’uomo
forte che eri. Rivoglio quel Matt» lo esortò con
gli occhi castani che gli
luccicavano, che lo invocavano affinché tornasse ad essere
sé stesso.
«Ho
bisogno di quel
Matt» sottolineò, infine, con la risolutezza che
lo caratterizzava.
Appoggiò
la testa sulla sua spalla e quella vicinanza non
fece altro che far piombare ulteriormente l’altro in un
baratro di dolore e
sensi di colpa.
Strinse gli
occhi, tentando di frenare le lacrime di rabbia,
sofferenza, abbandono.
E fu inevitabile
pensare
a Sora.
A quanto la loro
storia
fosse stata importante, a quanto lei fosse fondamentale per lui, a
quanto ancora
la amasse.
Ripensò
al fatto che lei
lo aveva tradito, era andata con un altro ragazzo che non era lui,
altre labbra
avevano toccato le sue, altre mani l’avevano accarezzata, e
chissà che altro...
Alla sola
ipotesi sentì un groppo alla gola così forte da
non riuscire a reggere.
Le lacrime
fuoriuscirono rapide, silenziose e crudeli, lo
pervasero senza possibilità di difendersi.
Si
sentiva così talmente debole, spiazzato, non sapeva
più come avrebbe fatto per
andare avanti...
Era
così destabilizzato da non riuscire più a
ragionare, la sua mente era come
spenta, in balia della sofferenza.
Tai
percepì il suo petto andare su e giù per i
singhiozzi. Alzò
la testa e lo vide in quelle condizioni.
Sentì
una fitta al cuore per la tristezza.
Lo prese dal
mento e lo fece voltare in sua direzione. Si
fissarono senza dire nulla.
«D’accordo,
ha sbagliato» pronunciò duramente, dandogli
ragione, perché era lecito che lui stesse male per Sora, che
si dannasse per
averla persa
«ma
è la tua vita che mandi per aria» aggiunse dopo,
cercando di fargli capire che, nonostante tutto, lui doveva andare
avanti,
doveva vivere.
Si era
dimenticato di
farlo da troppo tempo, e adesso sembrava avesse paura.
Sembrava avesse
paura di
rimettersi nuovamente in piedi, ma era necessario, era necessario
affinché
l’oblio non lo inghiottisse.
Matt
cambiò espressione, e il suo volto, ancora rinchiuso
tra le dita dell’amico, si ammorbidì.
Gli occhi
ricolmi di lacrime, arrossati per lo sforzo,
sembravano adorarlo, come se non avessero visto nient’altro
di più bello al
mondo.
«Insegnami
ad essere come te...» sussurrò poi, mentre Tai
sbarrava i suoi, incredulo da quell’affermazione biascicata.
«Perché
per quanto ci provi io non riesco... non riesco,
Tai...» la sua voce si spense, e il castano non
riuscì a fare altro che
lasciare la presa dal suo viso.
Voleva essere
come
lui...
Gli aveva appena
detto
che era il suo modello, una persona che avrebbe voluto emulare per via
del suo
modo di essere, del suo modo di fare, della sua personalità.
Lo
guardò ancora, stupito, spiazzato.
Non poteva
sapere chi
fosse diventato, quanto anche lui aveva da combattere con gli spettri
del suo
passato, quanto, in realtà, sembrasse forte agli occhi degli
altri, ma fosse
debole, pervaso da dubbi e incertezze.
Viveva da
burattino, non
era stato capace neppure di contestare Akira che pretendeva tornasse,
era così
talmente distante dalla realtà che perfino sua sorella e i
suoi genitori lo
avevano tagliato fuori dalle questioni familiari.
Non era stato
capace di
tenersi Mimi, l’aveva allontanata bruscamente dalla sua vita,
e aveva mandato a
quel paese perfino l’ultima possibilità di
ritornare insieme.
Non era riuscito
a dirle
che l’amava, che ricambiava i suoi sentimenti, anzi, che non
erano mai mutati
nel tempo.
Si era ritirato
così com’era
venuto, richiudendosi in sé stesso per non dover affrontare
la vita che
rivoleva indietro.
«Io
non sono così perfetto, Matt...»
sussurrò in risposta ai
suoi pensieri, sentendo allo stesso modo gli occhi inumidirsi di fronte
alla
constatazione dei suoi sbagli.
Un giorno, a
diciassette
anni, gli aveva detto di provare ad essere come lui.
Glielo aveva
detto per
incitarlo a prendere una posizione, più come una
provocazione che altro.
Eppure, adesso,
quello
che Matt doveva fare era proprio essere diverso da lui.
Perché, nonostante
tutto, era riuscito a fare uscire fuori le sue debolezze, mentre lui,
Taichi,
continuava a fingere, continuava a fingere che tutto andasse bene, che
lui
fosse forte, che lui fosse il leader, che lui dovesse aiutare tutti,
che lui
bastasse per tutti...
«Lo
sei per me» gli rivelò Matt inaspettatamente, e
quella
frase incrinò subito l’equilibrio già
precario delle sue emozioni.
Si
voltò a guardarlo senza fiato. Vide che gli sorrideva, i
suoi occhi azzurri lo accarezzavano dolcemente e perse un battito.
Il suo sguardo
vagò per il volto tumefatto dell’amico, i
lineamenti
sottili, le ciglia umide, le sue labbra, e non riuscì a
trattenersi.
Scoppiò
a piangere, forse per la prima volta realmente
consapevole di ciò che era diventato, di ciò che
aveva causato, di ciò che
aveva perso.
Si
portò una mano al viso.
Pianse
perché, a pesare
di tutto, Matt credeva in lui, voleva essere come lui perché
lo riteneva
fondamentale, mentre Tai non si reputava buono neanche per
sé stesso.
Si era fatto
trascinare
con foga dalla marea, era arrivato a largo, lontano dalla riva, e
adesso non
sapeva più come tornare ad accarezzare la sabbia.
Pianse
perché voleva
tornare indietro e cancellare tutto, agire diversamente, non dare nulla
per
scontato.
Voleva tanto
ritrovare
il suo coraggio, quello che aveva miseramente perso e non si era
più curato di
cercare.
Piano il respiro
tornò regolare, aprì di nuovo gli occhi e
tirò su con il naso. Matt non aveva aggiunto più
nulla, solo si trovava accanto
a lui.
La sua
attenzione fu catturata dalla sua mano ferita. Vide
il sangue incrostato e dei piccoli cocci di vetro infilati dentro la
carne.
Adagio, la prese
tra le sue.
«Stupido...»
lo rimproverò e, riacquisendo contegno, si mise
in piedi, dirigendosi verso le dispense.
Il biondo non si
oppose, si limitò a seguirlo con lo sguardo
stanco, per poi vederlo tornare da lui, afferrargli la mano, rimuovere
le
scaglie di vetro con un ago e, subito dopo, tamponare la ferita con del
cotone
imbevuto per non fargli sentire dolore.
Erano un
continuo
prendersi cura dell’altro, un continuo esserci, un continuo
scontrarsi per poi
esserci ancora più forte.
Entrambi
sapevano di
essere legati indissolubilmente da un sentimento che superava perfino
la
semplice amicizia.
Era una lotta
senza
eguali, quella tra di loro, ma nello stesso tempo, non era altro che un
sovrapporsi di anime affini, gemelle, che non si sarebbero mai dette
addio.
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Capitolo 17 *** Bivio ***
Sembrava
fosse arrivata.
Lenta,
inesorabile, distruttiva.
La fine.
Un rombo di
tuono squarciò il silenzio della notte.
Taichi si mosse
nel letto, cercando di trovare una posizione
adeguata. Gli faceva male il volto e aveva sicuramente un livido sul
fianco
destro.
Non riusciva a
prendere sonno da un po’. Dentro di sé sentiva
un’agitazione tale da costringerlo a tenere gli occhi ben
aperti come due fari
nella notte.
Voltò
la testa e lanciò uno sguardo a Yamato, sdraiato
accanto a lui. Era rivolto verso la sua direzione, teneva le palpebre
chiuse,
ma non era sicuro che dormisse.
Non sentiva il
suo respiro regolare, anzi, poteva giurare di
udire i suoi sospiri nell’oscurità.
Sembrava
che
quell’acquazzone che si era appena scatenato potesse
inondarli completamente,
bagnarli di insicurezze e disperazione.
Era
come se stessero lentamente
affogando dentro una pozzanghera e non riuscissero a risalire in
superficie,
seppur toccassero con i piedi la terra sottostante.
Erano
loro stessi a non
volersi salvare, come se arrivare alla fine fosse la loro unica meta,
poco
importava il modo.
L’importante
era
arrivarci.
Tai strinse le
labbra.
Il pensiero
dell’imminente partenza anticipata gli
tartassava la mente. Le parole dure di Akira sembravano rimbombargli in
testa,
senza che riuscisse a scacciarle.
Che
cosa doveva fare?
Ormai se lo
chiedeva da tanto tempo, e non riusciva mai a
trovare una risposta.
Doveva tornare
per firmare il contratto di trasferimento,
incontrare i membri della società dell’Osaka,
allenarsi duramente per
dimostrare che era stato un buon acquisto, il migliore che avrebbero
potuto
fare.
Da un lato
sentiva che quella era la cosa più giusta per
lui, l’ambizione più grande che, nonostante tutto,
continuava ad avere.
Dall’altro,
voleva solo
scomparire.
Un altro tuono
rombò e lui lanciò un’occhiata alla
finestra,
da dove sentiva il rumore dell’acqua picchiare contro le
tapparelle semi
abbassate.
Tornare a Kyoto
significava riprendere la vita che aveva da
quasi sette anni, una vita che, almeno da due, gli stava stretta, lo
logorava,
lo faceva sempre sentire sul filo del rasoio.
Era consapevole
di non stare più bene in quell’ambiente, e
sapeva per certo che adesso, passando in prima divisione, tutto si
sarebbe
amplificato.
Si
toccò i capelli, continuando a pensare.
Sarebbe
stato un
suicidio vero e proprio quello che si stava accingendo a fare, ma
d’altronde,
lui aspettava di vedere la fine.
Qualunque
essa fosse.
Sentì
Matt muoversi nel letto.
Forse
era giusto
tornare, ma come avrebbe fatto a reggere, cosciente di tutto quello che
stava
lasciando dietro, come una scia?
I sensi di colpa
cominciarono ad assalirlo.
Avrebbe lasciato
da solo Yamato proprio in quel determinato
momento della sua vita, rischiando di vederlo morire lentamente nella
pozza di
sangue provocata da lui stesso.
Come
avrebbe fatto a
mantenere la coscienza a posto?
Non riusciva a
pensare che l’avrebbe dovuto lasciare da
solo, senza nessuno, a lottare contro le sue debolezze.
Avrebbe voluto
preservarlo da tutto, avrebbe voluto che
niente di tutto quello gli fosse capitato.
Non
sapeva che fare, non
sapeva come affrontare quella situazione.
Tornare a Kyoto
valeva a dire non riuscire a mettere in
ordine niente della sua vita, significava lasciare ancora una volta in
disordine i casini che la invadevano.
Avrebbe dovuto
discutere seriamente con i suoi genitori per
la faccenda dell’appartamento. Non era riuscito nemmeno a
goderseli come
doveva, troppo preso da quello che era successo.
Come
avrebbe fatto a
lasciare in sospeso quella questione?
Avrebbe vissuto
con il timore che i suoi venissero sfrattati
da un momento all’altro senza possibilità di
aiutarli e quello gli procurava un
nodo alla gola.
La pioggia
continuava a picchiare incessantemente.
Prese il
telefonino e controllò l’orario. Erano ancora le
quattro di notte, e i suoi pensieri non avevano intenzione di
attenuarsi.
Gli premeva
così tanto prendere quella
decisione. Sentiva che se non lo avesse fatto una volta per
tutte sarebbe morto.
I sensi di colpa
continuarono a bussare nella porta del suo
cuore.
Il viso candido
di Mimi si sovrappose prepotentemente a
tutte le immagini che gli scorrevano in testa.
Sembrava fosse
subentrata per renderlo ancora più insicuro e
irrequieto.
Cominciò
a ricordare perfettamente i tratti del suo volto,
in modo vivido, come se fosse lì di fronte a lui.
I
suoi occhi nocciola
grandi e luminosi, il suo naso piccolo e un po’
all’insù, le sue labbra rosee,
i suoi morbidi capelli castano chiaro cui sotto il sole splendevano di
un
sottotono rosa.
Risentì
rimbombare nelle orecchie il suono acuto della sua
risata.
Lei era
bellissima, era diventata una donna straordinaria,
lo percepiva, lo captava dalle sue movenze, da come parlava, dal fatto
che gli
avesse detto di amarlo ancora.
Come
faceva ad amarlo
ancora dopo come si era comportato?
L’aveva
praticamente abbandonata, era come se si fosse
dimenticato di lei, sia durante tutto quel periodo di tempo in cui si
erano
lasciati, sia in quei giorni.
Si
portò una mano alla fronte, massaggiandola. Poi
afferrò
il telefono che si trovava sul comodino, di scatto. Lo aveva fatto un
paio di
volte durante quelle ore, ma non aveva ricevuto un segnale diverso di
una
mancata risposta.
Sospirò
pesantemente e si passò una mano tra i capelli
scompigliati.
Era sicuro di
averle fatto del male, glielo aveva letto
negli occhi l’ultima volta che l’aveva guardata,
quando non era riuscito
nemmeno a muovere un muscolo di fronte a quello sguardo inteso e
speranzoso.
Aveva preferito
voltarle le spalle, accantonandola come
fosse un oggetto usato, ignorando di aver fatto l’amore
insieme dopo tanto
tempo.
Aveva sepolto la
questione lì, come se non fosse importante,
sotterrandola ancora una volta nei meandri del suo cuore, sopra un
accumulo di
macerie.
Era fuggito via
dalle responsabilità, dalla realtà dei
fatti, dai suoi veri sentimenti, e aveva corso lontano per
così tanto tempo,
pensando che mai quelli l’avrebbero raggiunto, mentre adesso
li sentiva
strattonarlo dalla maglia.
Doveva
chiamarla.
Non gli aveva
risposto, era sicuramente arrabbiata con lui e
aveva ragione.
Doveva
fare un passo.
Un
passo vero.
Strinse forte
gli occhi fino a sentire dolore alla fronte.
Non
riusciva a voltarsi.
Era
così combattuto ...
Per
quanto volesse
farlo, aveva paura, aveva il timore di non riuscire a gestire tutto
quello,
aveva la totale convinzione di non essere capace ad affrontare i suoi
sentimenti.
Sbuffando,
lanciò nuovamente il cellulare sul comodino, con
sgarbo, e si voltò dall’altro lato.
Si
sentiva rassegnato.
Afflitto.
Gettò
uno sguardo al biondo accanto a lui, e vide che aveva
aperto gli occhi. Li teneva vacui, persi in chissà quale
universo.
Strinse le
labbra.
«Sei
sveglio?» gli chiese in un sussurro, la testa voltata
appena in sua direzione.
Matt non rispose
subito, e lui si chiese se non avesse
intenzione di fingere che stesse dormendo per non sentirlo parlare.
Sarebbe stato
tipico suo.
«Mh»
lo udì sospirare dopo un po’, dandogli segno della
sua
presenza.
Tai
rilasciò il fiato trattenuto.
Volse gli occhi
al soffitto, le braccia sotto la testa e
subito la mente si perse nuovamente nei pensieri. Assunse
un’espressione
corrucciata quando quel pensiero lo
sfiorò.
«Senti,
non te l’ho ancora detto, ma ha telefonato il mio
allenatore» mormorò all’improvviso,
decidendo finalmente di dirglielo.
La frase
echeggiò nella stanza, quasi sovrapponendo i rumori
del temporale.
Matt era
sdraiato su un fianco e aveva lo sguardo perso nel
vuoto. Non sembrava minimamente aver fatto un cenno al riguardo, ma Tai
sapeva
che aveva dato importanza a quello che aveva detto.
Lanciò
un sospiro.
«Devo
rientrare domani, anzi... già oggi» si corresse,
rendendosi conto che erano le quattro passate del giorno dopo.
Si
voltò a vedere la sua reazione, rendendosi conto che Matt
si era limitato a fissarlo con gli occhi celesti lucidi e spenti.
Era
come se fosse
svuotato da ogni sorta di emozione, come se la luce che dapprima
invadeva i
suoi occhi lo avesse abbandonato, lasciando al suo posto riflessa
l’oscurità.
Tai
sentì un brivido percorrergli la schiena.
Lo
avrebbe lasciato lì
da solo a perdersi ancora di più nell’oblio, a
soffrire senza la spalla di
nessuno, senza che ci fosse lui a scuoterlo, a tirarlo su.
Non
era sicuro di
poterlo sopportare.
Spontaneamente,
alzò un braccio e gli sfiorò la guancia con
la mano. A quel tocco, l’amico socchiuse gli occhi.
«Non
voglio lasciarti solo...» si lasciò scappare con
sincerità, in un tono di voce mortificato, frustrato per non
avere altra
scelta.
O
forse sì...
Matt scosse
piano la testa.
Era
abitudine.
Lo
stare soli, era
un’abitudine che si infiltrava nelle ossa, nelle vene, nel
sangue.
Ci
si abituava a star da
soli senza neanche accorgersene, a tal punto che si rifiutava di
accettare
qualunque tipo di aiuto.
E
lui lo era da sempre
stato.
«Me la
caverò» soffiò, e forse non era sua
intenzione far
trasparire la nota amara che captò Taichi.
I sensi di colpa
lo inondarono nuovamente e, piano, tolse la
mano dalla sua guancia, come se si fosse sporcato.
Guardò
ancora il soffitto, riflettendo incessantemente sulla
sua vita.
Come
aveva fatto a non
rendersi conto prima di essere diventato in quel modo?
Era sottostato
al volere degli eventi, delle altre persone,
si era piegato al fluire del tempo senza mai alzare un dito per
cambiare le
cose.
Non si era
più voltato a guardare in faccia nessuno, e
adesso che si trovava in bilico, sentiva che era arrivato il momento di
farlo.
Adesso
che era
consapevole di quanto facesse schifo quell’esistenza vuota
che aveva vissuto,
ora che guardava bene gli occhi del suo migliore amico, che comprendeva
le
esigenze della sua famiglia, che soffriva per aver sputato addosso ai
suoi sentimenti
sentiva più che mai gravare il peso delle sue decisioni.
«Vorrei...
vorrei non essere mai andato via» mormorò quasi
senza rendersene conto, invaso dalla tristezza.
«Vorrei
aver preso delle scelte diverse» ammise per la prima
volta ad alta voce, tanto che l’altro aggrottò le
sopracciglia per la sorpresa.
Aveva intuito
che Taichi si portava dentro un pesante
fardello legato al suo radicale cambio di vita, al suo aver dovuto
tagliare i ponti
con la sua relazione passata, ad essersi dovuto trasferire a
cinquecento
kilometri lontano da casa.
Lui
lo sapeva già da un
po’, adesso più che mai, che il suo migliore amico
fingeva.
Si preoccupava
per gli altri nonostante avesse cucito
addosso il peso delle sue sofferenze dalle quali non riusciva a
spogliarsi.
Eppure,
non smetteva di
ammirarlo per la forza d’animo che aveva mantenuto, per il
semplice fatto che
non crollava mai fino in fondo e, semmai quel fondo lo raggiungeva, si
rimetteva in piedi subito, come un vero guerriero.
«Le
tue scelte ti hanno portato ad essere quello che sei»
gli disse, mentre l’altro si voltava a guardarlo, quasi non
aspettandosi una
risposta a quello sfogo improvviso e per niente intenzionale.
Strinse le
labbra mentre si guardavano.
Non gliene aveva
mai parlato apertamente, gli aveva solo
fatto recepire qualcosa in quei giorni, in un modo del tutto confuso e
delirante.
Aveva
bisogno di
farglielo capire, come realmente si sentiva.
Doveva
tirarlo fuori.
«Appunto,
io non voglio essere questo che sono» affermò,
sicuro di quello che stava dicendo, come se ci avesse messo una vita
per
capirlo e adesso voleva in tutti i modi allontanare quella facciata da
lui
«Sono
diventato un vigliacco, Matt» sussurrò, duro con
sé
stesso, in un tono sferzante, che mai gli aveva sentito usare per
descriversi.
Il biondo non
disse niente, si limitò solamente ad
ascoltarlo.
«Sono
arrivato al punto di non riuscire a guardare in faccia
le persone... io... io non ero così...» disse in
un soffio, guardandolo negli
occhi con un’espressione tormentata, affranta.
«Ti
riferisci a Mimi?» gli chiese l’altro a bruciapelo,
e
quella domanda lo fece andare in tilt.
Percepì
i battiti del suo cuore accelerare e la gola si
seccò.
Cosa
avrebbe dovuto
dire?
Si
faceva pena da solo
per quello che era diventato...
Non
aveva nemmeno il
coraggio di prendere il telefono e far partire quella chiamata che
tanto sentiva
di dover fare, anzi, il fatto che non avesse ricevuto risposta a quel
messaggio
idiota lo rendeva ancora più insicuro se andare avanti.
Coglione
e vigliacco.
Perché
in fondo si
sentiva confortato da tutto ciò.
Yamato socchiuse
gli occhi e si lasciò scappare appena un
sorriso.
Lui
lo sapeva realmente
com’era fatto.
Conosceva la
vera essenza di Taichi da una vita, e se tante
volte era arrivato a sentirsi inferiore era proprio per quello che lui
aveva
dentro, quello che era una sorta di peculiarità innata.
Il
suo coraggio.
Una
forza d’animo
impiegabile, qualcosa che usciva fuori anche quando si sentiva perso,
quando
sentiva che la fine era arrivata.
«Quello
che hai fatto in questi giorni per me, il modo in
cui mi hai affrontato... non mi danno l’idea che tu sia
veramente un vigliacco»
mormorò serio, guardandolo intensamente negli occhi.
Gli
sembrò quasi che per un momento i suoi avessero ripreso
a brillare di una luce accecante, e provò subito un senso di
pesantezza allo
stomaco.
Rimase stupito
da ciò che gli aveva detto, ma nello stesso
tempo non aveva dubbi a riguardo.
Perché
anche se non
sembrava, anche se lo teneva nascosto, il modo in cui dimostrava di
tenere agli
altri era unico.
Anche se
commetteva degli errori, lui rimediava sempre con
una maggiore consapevolezza di ciò che era, di quello che
era giusto fare,
delle parole che era giusto dire.
E aveva sempre
le parole adatte per lui, questo Taichi lo
sapeva bene.
L’amicizia.
Era
un valore che faceva
parte di Matt da sempre, un sentimento in cui, nonostante la sua
personalità
difficile da gestire, da comprendere, da ammaestrare, credeva
fortemente.
Lo
guardò, racchiuso nel suo silenzio a pensare a qualcosa
di facilmente prevedibile.
Cosa
avrebbe dovuto
fare?
Voleva
che stesse bene,
che smettesse di pensare di non essere abbastanza, che cominciasse
ancora una
volta a vivere...
E
rimanendo lì da solo
era sicuro che non sarebbe riuscito a farlo.
Gli venne in
mente un’ idea improvvisa, come fosse rimasto
abbagliato da un flash.
«Vieni
con me!» quasi urlò e, mettendosi a sedere, lo
scosse
dalle spalle.
Il biondo lo
fissò interrogativo, stupefatto dall’enfasi che
ci aveva messo nell’emettere quell’esclamazione.
Per qualche
secondo si fermò a pensare, ma subito la sua
mente razionale lo ricondusse al presente.
«No...»
si oppose, come se fosse qualcosa di categoricamente
impossibile da compiere.
Nonostante
ciò, era come se si aspettasse dell’altro per
essere convinto, e infatti non tardò ad arrivare.
«Sì,
vieni con me» continuò Tai, in un tono di voce
serio,
ma nello stesso tempo entusiasmato.
«Vieni
con me al residence fino a quando non ti sentirai
pronto a tornare» aggiunse, pensando in quel momento a
com’era così semplice la
soluzione.
Lo
avrebbe accompagnato
a Kyoto e poi ad Osaka, sarebbero stati per un po’ di tempo
insieme al
residence dove avrebbe alloggiato, nessuno dei due avrebbe mollato
l’altro
precipitare nel proprio inferno.
Si guardarono
intensamente negli occhi.
Come
aveva fatto a non
pensarci prima?
Con
Matt accanto non
avrebbe pensato a niente, tutto sarebbe stato più semplice,
si sarebbero
sostenuti a vicenda e avrebbero, a poco a poco, superato le
difficoltà che in
quel momento sembravano loro delle montagne insormontabili.
Era
la cosa giusta da
fare, come aveva fatto a non pensarci prima...
La
soluzione era lì, era
sempre stata lì.
Vide che il
biondo lo fissava ancora incerto, allora si
lasciò andare in un sospiro e la sua espressione si
ammorbidì.
Gli mise una
mano dietro il collo e lo avvicinò leggermente
a lui.
«Fanculo,
siamo stati separati per troppo tempo!» esclamò
con
passione, tanto che strinse di più la stretta e le loro
fronti si congiunsero.
Rimasero per
qualche secondo fermi, in quel modo.
Il biondo
continuava a guardarlo come se lo stesse vedendo
per la prima volta, stupito da quella proposta inaspettata, ma
consapevole che
l’altro lo stesse facendo per aiutarlo, per aiutare entrambi
ad uscire fuori da
quella situazione tormentata.
Loro
stavano bene solo
quando erano insieme, respiravano solo quando l’altro era
accanto.
Andare via con
Taichi significava evadere da quella vita,
magari temporaneamente, o magari in maniera stabile, perché
no...
Avrebbe potuto
cercarsi un lavoro lì ad Osaka, ricominciare
tutto senza voltarsi indietro, ma con a fianco il suo migliore amico, e
il sol
pensiero lo rendeva allettato.
Però...
suo padre attendeva una risposta da lui, lo aveva
chiamato proprio per quello, per dargli
un’opportunità, e lo avrebbe deluso in
quel modo.
Suo padre gli
stava offrendo un posto di lavoro sicuro,
mentre seguire Tai valeva a dire dipendere nuovamente da qualcuno, non
essere ancora
soddisfatto economicamente, riempire di preoccupazioni una persona che
aveva di
per sé i suoi grandi impegni.
Continuò
a guardarlo.
Non sapeva in
quel momento quale fosse la cosa giusta da
fare, si sentiva confuso, stranito, ma bastava guardare lo sguardo
risoluto
dell’altro per dargli forza, la sua espressione speranzosa
per farlo commuovere,
facendogli intendere quanto realmente Taichi tenesse a lui, quanta
ricchezza
d’animo possedesse.
Non sapeva in
quel momento se realmente lo avrebbe seguito,
ma quello gli bastava per andare avanti.
Sapere
che lui non lo
avrebbe abbandonato.
«Oh,
Tai...» sussurrò con la voce spezzata dalla
gratitudine
e dall’affetto.
Allargò
le braccia e lo abbracciò, stringendolo forte a
sé
come mai aveva fatto. L’altro chiuse gli occhi e lo strinse a
sua volta,
sentendo l’emozione prendere il sopravvento.
Nessuno
dei due avrebbe
lasciato solo l’altro, era questo ciò che
importava, era la spinta che li
faceva andare avanti, che dava loro forza, che non li faceva sentire
soli.
Insieme
avevano lottato
contro i loro nemici più grandi, contro le loro
più grandi paure, e li avevano
sconfitti grazie al loro legame, alle loro mani strette, ai loro
sguardi
complici.
Si coricarono
nuovamente, vicini, abbracciati, cercando di
recuperare quel poco di sonno che rimaneva loro.
Ce
l’avrebbero fatta
anche quella volta, ce l’avrebbero fatta sempre.
Insieme,
fino alla fine.
Tai
aprì gli occhi, sentendosi stordito.
Aveva smesso da
un pezzo di piovere, ma sentiva ancora le
goccioline del tetto cadere sulla ringhiera del balcone.
Tolse il braccio
da sopra il fianco di Matt, il quale gli
dava le spalle.
Prese il
cellulare per constatare l’orario. La luce dello
schermo gli diede fastidio agli occhi, ma non appena si rese conto che
era tardi,
non perse altro tempo.
Si mise seduto e
s’infilò le scarpe. Raccolse tutte le sue cose
e poi diede uno sguardo al biondo che ancora dormiva.
Risalì
con una gamba sul letto e gli posò una mano sulla
spalla.
«Ehi...»
sussurrò per svegliarlo.
Questi
aprì gli occhi lentamente e lo guardò insonnolito.
Tai gli fece un
sorriso.
«Vado
a casa a sbrigare una cosa» lo informò, poi
lanciò
un’occhiata allusiva all’ armadio di fronte
«Appena
torno fai la valigia e andiamo, okay?» e lo scosse
leggermente per ottenere un suo consenso.
Matt si
limitò ad annuire senza aggiungere altro.
Non appena il
castano fu abbastanza convinto da quella
risposta, aprì la porta della camera e andò via.
Il biondo
udì la porta principale sbattere a causa del
vento, e non potette fare a meno di lanciare un sospiro.
Si
girò dall’altro lato del letto e si perse nei suoi
pensieri.
Si
ritrovava ancora una
volta di fronte ad un bivio.
La pioggia si
era placata, lasciando spazio a delle nuvole
grigie che invadevano il cielo. L’aria era umida e fresca,
tanto che aveva
dovuto subito chiudere la porta del balcone per evitare di rabbrividire.
Mimi
tornò a sedersi al tavolo, portando alla bocca la sua
tazza bollente di the verde. Intorno a lei, vi erano sparsi biscotti,
cereali,
brioches al cioccolato e alla crema per la colazione.
In quei giorni
sentiva più che mai l’esigenza di mangiare,
come se nel cibo trovasse un appiglio di conforto.
Volse lo sguardo
verso la vetrata da dove s’intravedeva il
cielo. Gli occhi castani erano malinconici e vagavano alla ricerca di
qualcosa
che non sapeva nemmeno lei.
Addentò
un biscotto.
Sentiva
freddo.
E non solo per
il fatto che la temperatura era scesa di
colpo a causa del temporale e lei indossava una semplice camicia da
notte di
lino che le lasciava le braccia e le gambe scoperte.
Sentiva
del freddo
dentro, nella pelle, nelle ossa.
Si
sentiva vuota e
abbandonata, lasciata marcire al suo destino senza che nessuno si
curasse di
lei.
La sua paura
più grande era sempre stata quella di rimanere
da sola, per questo amava circondarsi di cose e persone, solo per non
sentire
addosso il peso della solitudine.
Anche se quella
solitudine beffarda l’aveva seguita come
un’ombra da due anni a quella parte.
Aveva tentato di
ricostruirsi una vita, aveva tentato di non
cedervi, di sbarazzarsi di quel peso doloroso che non la lasciava
nemmeno respirare.
Quasi credeva di
avercela fatta, si era circondata di amici,
persone come Shinichi con il quale aveva perfino tentato di costruire
qualcosa.
Ma
era stato tutto
inutile.
La solitudine
l’aveva assalita, e i ricordi dolorosi,
strazianti l’avevano atterrita fin da subito, non appena
aveva incontrato i suoi occhi.
Sospirò
pesantemente, stringendo la tazza tra le mani.
Aveva sofferto
senza di lui, si era improvvisamente resa
conto di quanto si era sentita sola senza la sua presenza, senza il suo
calore,
senza tutto di lui.
E quella sua
stupida convinzione di essere andata avanti era
svanita così come era arrivata assurdamente, facendola
scontrare faccia a
faccia con la realtà e farle una volta per tutte capire
quanto fosse ancora
innamorata di lui.
Quanto
ancora amasse
Taichi.
Ammettendolo a
sé stessa non aveva fatto altro che scatenare
in lei la più sciocca delle idee che qualcosa poteva essere
ricostruita.
Aveva pensato
che quel sentimento ancora acceso, ancora
vivo, continuasse a bruciare allo stesso modo in lui, che il modo in
cui Tai
aveva fatto l’amore con lei fosse una risposta a tutti i suoi
dubbi.
Si
portò una mano sulla fronte.
Non sapeva
quanto era stata stupida, quanto era stata
azzardata a pensare una sciocchezza simile, una cosa per niente
scontata.
Quella volta
aveva fatto male ad affidarsi alle sue
sensazioni, alle sue percezioni. Era talmente offuscata da
quell’amore da non
essersi resa conto che ormai era unilaterale.
Forse lo era
sempre stato, perché non riusciva a concepire
come un sentimento così grande potesse essersi spento.
Non importava
quanto tempo fosse passato, l’amore vero per
lei era destinato a non avere mai una fine.
E il fatto che
Taichi non l’amasse più le procurava un
dolore inspiegabile al petto che non le permetteva di respirare.
Posò
la tazza e si portò una mano alla bocca.
Non riusciva a
capacitarsi di come aveva fatto ad essere
così sciocca e vulnerabile allo stesso tempo.
Si era
sopravvalutata, aveva creduto che sarebbe stata capace
di uscire indenne da quell’incontro con lui dopo tanto
tempo, ed invece, si
era solo bruciata.
Come
un colpo di grazia
che aveva sancito la parola fine.
Un rombo di
tuono in lontananza squarciò il silenzio, mentre
il campanello della porta principale suonava e subito faceva in modo
che si ridestasse
dal torpore dei pensieri malsani.
Si
voltò lentamente e fissò per qualche secondo il
robusto
pezzo di legno che la separava dall’esterno, chiedendosi chi
potesse essere a
quell’ora.
Erano a malapena
le nove.
Con un sospiro,
s’infilò le ciabattine e si trascinò ad
aprire la porta.
La faccia
trafelata di Koushiro apparve sull’uscio
inaspettatamente. I suoi occhi scuri si alzarono sul suo viso
stupefatto e
l’espressione che adottò fu di automatico
imbarazzo.
Izzy era sempre
così con lei, da quando erano bambini gli
leggeva in volto una sorta di timore a parlarle o anche solo a
guardarla.
A volte aveva
come la sensazione che il ragazzo sentisse per
lei una qualche specie di riverenza a cui non riusciva ad attribuirne
vero
senso.
Eppure, anche
Mimi sentiva di avere un legame speciale con
Koushiro di cui non risaliva a data; forse la loro era semplicemente
una
complementarità di anime sorelle destinate fin dal loro
primo incontro a
Digiworld.
Lo
fissò analizzandolo bene da cima a fondo. I suoi vestiti
erano
perennemente mal abbinati, ma notava con un pizzico di sollievo che le
occhiaie
in viso sembravano essere diminuite.
«Ehi,
buongiorno!» trillò un po’ troppo forte
per i gusti di
Izzy che quasi sussultò spaventato.
La sua voce era
rimbombata per tutto il pianerottolo e lui
doveva ancora abituarsi a quei repentini sbalzi di tono da parte di
Mimi.
Non perdeva mai
occasione per urlargli nelle orecchie e
prenderlo in giro, ma d’altronde, era l’unica con
cui riusciva in qualche modo
a parlare.
«Eh...
B-buongiorno, sì» borbottò,
sistemandosi il colletto
della maglia, attirando le risatine della castana per essere
così serioso.
Lo guardava con
le braccia incrociate, appoggiata all’uscio
della porta.
Gli occhi del
rosso vagarono sul completino che indossava, chiedendosi
se non avesse freddo a dormire con solo quella semplice camicetta da
notte.
Tra
l’altro era praticamente impossibile evitare che il suo
sguardo ricadesse sulle sue curve, eppure stava cercando in tutti i
modi di non
soffermarsi per più di un secondo...
«Cos’hai,
tutto rigido?» gli chiese lei, con un sorrisetto
increspato sul viso di cui conosceva nettamente la natura.
Lo stava
canzonando come al solito, ma lui doveva evitare di
farsi sgamare.
I suoi occhi
erano fissi sul tavolo che si intravedeva da
dietro l’uscio. Riconobbe la roba per la colazione e
tentò di concentrarsi su
quella che sembrava una brioche alla crema.
Il suo stomaco
brontolò di rimando.
«Niente,
io... sono venuto p-per recuperare...» continuò a
strizzare gli occhi pur di fissare la tavola imbandita, nonostante Mimi
si
fosse spostata e il tessuto si era mosso tra le sue cosce.
Adesso non
sapeva nemmeno cosa diamine inventarsi per
uscirne.
Era venuto con
un intento, ma quasi aveva timore ad aprire
bocca e dirlo a lei.
Magari la
prossima volta avrebbe dovuto tentare di dare
un’occhiata dallo spioncello per capire cosa stava
indossando, prima di suonare.
«Per
recuperare il... il...» continuò a blaterare
mentre nel
frattempo analizzava ogni più piccolo dettaglio della
brioche in fondo, quasi
senza sbattere le ciglia.
Poi il colpo di
genio.
«Sì,
per recuperare il papillon!»
esclamò, alzando perfino un dito.
Mimi lo
fissò scettica, facendo una smorfietta di
disappunto.
Che ancora si
ostinasse a celare le sue vere intenzioni,
specie a lei, lo faceva apparire oltremodo buffo, ma anche un tantino
ridicolo.
Sapeva che il
suo vero intento non era quello di recuperare
un vecchio papillon probabilmente preso in prestito
dall’armadio di suo padre.
Continuò
a fissarlo inquisitoria, fino a quando il rosso non
spostò lentamente lo sguardo e i loro occhi si incrociarono.
Izzy
deglutì e tentò ancora di appigliarsi ad una
scusa.
«L’ho
lasciato il giorno della festa. Sarà sicuramente in
camera di Joe» spiegò, annuendo da solo e facendo
per osservare con attenzione
oltre la porta, come se in qualche modo potesse intravederlo da
lì.
La ragazza
sospirò.
Non ci credeva
che si era fatto tutta quella strada
probabilmente a piedi per andare a riprendersi un’inutile
pezzo di stoffa a
quell’ora del mattino.
C’era
ovviamente un’altra motivazione, glielo leggeva in
faccia.
«Izzy...»
lo richiamò con un tono che trapelava
esasperazione, ma anche una sorta di rimprovero a quella solfa che
stava
blaterando.
Lui si
voltò nuovamente a guardarla, e gli occhi caddero sul
suo seno senza riuscire a controllare il gesto.
Sentì
di essere diventato paonazzo e non riuscì a
trattenersi.
«Oh,
d’accordo! Sono passato per chiedere una cosa a
Sora!»
urlò quasi, mentre i suoi occhi erano ancora incollati
lì, in quel benedetto
punto.
Mimi
notò come fosse diventato quasi del colore dei capelli
e tentò di trattenere una risata, ma era impossibile
vedendolo in quel modo.
Si
portò una mano alla bocca e con tutte le sue forse
cercò
di contenersi, mentre lui con un gesto repentino la spostava da un lato
ed
entrava in casa senza aspettare un invito, imbarazzato ed anche
irritato.
Mentre Mimi fece
per chiudere la porta lo sentì
puntualizzare:
«Ma ti
assicuro che la cosa del papillon è vera! E poi copriti, santo cielo!»
La castana
lanciò un’occhiata al suo decolté e si
rese conto
di avere la camicia da notte leggermente spostata, allora si
premurò a
sistemarla, ridacchiando.
Non appena
chiuse la porta d’ingresso si voltò per guardalo
e lo trovò seduto al tavolo con un’espressione
burbera in viso.
Guardava la
brioche alla crema come se la volesse divorare,
e pensò che era meglio dare a lui un po’ di
calorie piuttosto che metterle lei
sui fianchi.
«Dai,
mangiala, lo so che la vuoi» lo rimbeccò, per poi
sedersi di fronte a lui ed esibire un sorriso sornione.
Koushiro la
guardò sorpreso che avesse indovinato i suoi
pensieri, poi fece per dire qualcosa, ma il suo stomaco
parlò per lui,
brontolando funestamente.
Sospirò
e con un gesto afferrò la brioche.
Mimi lo
guardò mangiare continuando a sorridere.
Era proprio una
sagoma di ragazzo, e non solo perché era
naturalmente buffo e goffo, ma anche perché in qualche modo
riusciva sempre ad
emergere usando la sua piccatezza e la sua retorica impeccabile.
Ricordava tutte
le volte in cui aveva zittito prontamente Tai
e Matt durante una delle loro litigate da adolescenti e di come li
aveva fatti
rigare dritto con un solo semplice discorso e delle occhiati fulminanti.
Anche Joe,
seppur più fumantino, non riusciva a sovrastare
l’indole innata da pacifista di Izzy e le sue frasi steccanti.
Lo
ricordava anche per
la sua saggezza, ma non sapeva se era riuscito a recuperarla dopo
averla
completamente persa per strada.
Lo vide che
aveva finito di mangiare. Si era persino scolato
un bicchiere di succo al mirtillo che personalmente le faceva schifo,
ma che
Joe si ostinava a comprare perché sempre in offerta alla
bottega lì vicino.
«Allora»
lo rimbeccò Mimi d’un tratto, mentre lui sentiva
puzza di domande e si versava dell’altro succo per
tergiversare con il tempo
«Cosa
dovevi chiedere a Sora che non puoi chiedere a me?»
gli chiese canzonatoria, con le
unghie picchiettava la superficie del tavolo scandendo i secondi di
imbarazzo.
Ad Izzy scese di
traverso il succo.
Cominciò
a tossire, mentre lei aveva il viso appoggiato
contro il palmo della mano e non smetteva di fissarlo allusivamente.
Se
c’era uno dei fatti assodati, era che Mimi adorava
mettere in difficoltà Koushiro.
Era
scientificamente provato, pensava Izzy, che quella
ragazza si divertisse a tendergli delle trappole celandole dietro delle
semplici frasi apparentemente innocue.
«Ehm,
no, non è come pensi...» borbottò,
cercando di
ignorare le sue risatine derisorie che alludevano a chissà
quale favore lui
volesse da Sora.
Aveva certamente
uno scopo ben mirato quella sua visita, e
in parte lo doveva anche a lei se si era fatto avanti dopo tanto tempo.
Tentò
di ridestarsi e si raddrizzò sulla sedia,
aggiustandosi il colletto della polo viola leggermente spiegazzata.
Doveva molto a
Mimi, comunque, da quella sera alla festa.
L’aver parlato con lei lo aveva aiutato a farsi forza e
superare le sue paure,
dei limiti che si era possibilmente ed esclusivamente imposto
perché convinto
di non essere capace a superarli.
Non aveva mai
passato un periodo della sua vita in cui non
aveva provato stima verso sé stesso. Era consapevole di
quelle che erano le sue
doti e le sue abilità, e ne era sempre andato fiero.
Eppure con
l’avvento della condizione di salute di Frankie
si era sentito così strettamente inadeguato da non riuscire
a trovare la forza
dentro di sé per cambiare le cose. Forse, si
ritrovò a pensare, aveva solo
bisogno che qualcuno con una grande forza interiore, qualcuno di
così diverso,
ma nello stesso tempo propriamente simile a lui lo smuovesse e lo
risvegliasse
da quel torpore.
Mimi
ce l’aveva fatta
con lui, ed Izzy le era grato.
Glielo
sarebbe stato a
vita.
Si
schiarì di poco la voce.
«Insomma,
so che lei sta facendo il tirocinio in una clinica
specializzata e... volevo sapere delle informazioni riguardo la clinica
di
riabilitazione, sai... per Frankie» concluse, tentando di
essere il più
esaustivo possibile.
Per qualche
secondo si sentì nettamente stupido ad essersi
aperto in quel modo senza omettere nulla, tanto che chiuse
spontaneamente
entrambi gli occhi e ne aprì solo uno per spiare la reazione
della ragazza di
fronte a sé.
Mimi era nello
stesso tempo meravigliata ed un po’
emozionata.
Non sapeva se la
sua precaria condizione mentale le giocava
degli scherzi, ma sentiva che Izzy aveva compiuto un piccolo passo
avanti che
risultava essere uno di quelli grandi e decisivi.
L’accettazione,
poi la
cura.
Dopo
la cura, la
rinascita.
Per
entrambi.
«Sei
riuscito a convincerla?» le chiese con un sorriso
incoraggiante e radioso, allungando spontaneamente una mano verso di
lui e
stringendo la sua.
La pelle di
Koushiro era fredda e secca, tanto che sentì
l’istinto di riscaldarla con le sue lisce e calde.
Lui
fissò le loro mani strette come se quel gesto fosse
inusuale, ma nello stesso tempo necessario per incoraggiarlo ad andare
avanti,
e lo trovò così intimo che, superando
l’impaccio, decise di racchiudere con
l’altra mano libera quella della ragazza.
«Sì,
abbiamo parlato tanto e lei è stata comprensiva»
la sua
bocca parlò per lui «Dice che lo farà
per me, per noi, per la nostra storia»
annunciò in tono quasi solenne e si vedeva che questa volta
Frankie lo aveva
detto con convinzione, non era una delle sue solite bugie
perché Izzy ci credeva
veramente.
Mimi sorrise,
sentendo gli occhi distrattamente lucidi.
Forse era
diventata estremamente romantica e si
contraddiceva da sola perché non era mai stata
un’amante di romanzi rosa o
smancerie troppo eccessive; credeva solamente di essere felice per un
amico.
O
semplicemente, in cuor
suo, sperava che quella felicità sarebbe toccata a lei, un
giorno.
Con
Taichi.
«Avevo
solo bisogno di sbloccarmi» continuò Koushiro,
mentre
faceva un sorrisino timido e si grattava la testa.
Poi le rivolse
uno sguardo in cui vi lesse della gratitudine
e dell’affetto.
«E
credo di avercela fatta. Anche grazie a te» le disse poi,
e capì che ne era realmente convinto, non lo diceva solo
perché si trovava di
fronte a lei.
Mimi si
sentì compiaciuta e pensò che era da un
po’ di tempo
che non si sentiva utile per qualcuno, specie con qualcuno dei suoi
più cari
amici.
Con Sora era
stata assente per troppo tempo, troppo presa
dalle sue cose.
Si era solo
degnata di aprir bocca quando aveva qualcosa che
l’affliggeva personalmente ed aveva bisogno di sfogarsi.
Era
stata davvero
egoista.
Aveva persino
provato gelosia verso la sua migliore amica.
E
tutto per chi?
Per
colpa di Tai.
Sospirò.
Sperò solamente che la ramata avesse capito e
avesse perdonato quell’essere perennemente imperfetta che
tanto si ostinava a
coprire in perfezione.
«Ma
va, io non ho fatto niente» rispose ad Izzy, pensando
che non valeva prendersi il merito per qualcosa di cui aveva solamente
fatto
parte per breve tempo.
Lei era solo
arrivata nel momento giusto e aveva scosso
Koushiro nel modo giusto.
Era stato lui a
trovare la forza dentro di sé, e lo ammirava
per quello.
Avrebbe dovuto
prendere esempio da lui, piuttosto che essere
allettata da dei complimenti immeritati.
«Era
tutto racchiuso in quel testone da scienziato!»
esclamò
poi, facendogli la linguaccia e premendo un dito sulla sua fronte.
Il rosso quasi
sussultò spaventato, poi si rilassò
lasciandosi andare ad una risata.
Risero insieme.
Subito dopo Mimi si
portò una ciocca di capelli castani dietro
l’orecchio, cambiò espressione e spostò
lo sguardo pensierosa.
Izzy se ne
accorse e l’osservò.
Sapeva che era
una ragazza testarda ed orgogliosa, ma era
spesso tutta un’apparenza che si ostinava a tenere
rigidamente costruita
intorno a sé.
Mimi era una
ragazza sensibile ed assorbiva tutto ciò che le
succedeva intorno.
Sapeva che la
rottura con Taichi era una cicatrice ancora
aperta, ed aveva perfino capito come anche per il castano quella storia
non era
del tutto chiusa.
Lui non sapeva
niente dei loro trascorsi privati, poteva
solo immaginarli perché conosceva bene entrambi ed aveva una
chiara percezione
di quello che tutti e due potevano potenzialmente avere bisogno.
Erano simili, e
a causa di ciò tendevano entrambi a
primeggiare.
Avevano solo
bisogno di fermare quella guerra che stavano
combattendo l’uno contro l’altro.
Non seppe se era
il caso di intervenire, ma Mimi lo aveva
fatto con lui, ed aveva usato solo semplici parole, ma buone.
E lo sapeva che
bastava solo arrivare al momento giusto.
«Senti,
Mimi, volevo anche dirti... perdonami se te lo
dico...» s’introdusse, perché sapeva
come fosse anche oltremodo permalosa, e
voleva evitare di entrare nel suo privato a gamba tesa e ferirla.
La castana
alzò la testa e lo fissò incuriosita.
Izzy si
sentì un po’ sotto pressione e si
allentò il
colletto della maglia.
«Volevo
dirti che mi piacerebbe se tu facessi lo stesso»
affermò poi, guardandola seriamente e in un modo che Mimi
conosceva bene.
Era tipo un
rimprovero quello che il rosso le stava
rivolgendo, e lei non aveva mica capito a cosa si riferisse.
O forse, lo
poteva benissimo sospettare, ma sperava di sbagliarsi...
«In
che senso?» gli pose quella domanda cercando di fare la
finta tonta, ma forse risultò essere un tantino troppo
brusca.
Non era altro
che espressione del timore che si affrontasse
quell’argomento.
Non riusciva a
non pensare ad altro, e aveva paura di
scoprire che per gli altri, per Koushiro stesso, lei aveva torto, aveva
sbagliato tutto.
Perché
già ne era consapevole.
Izzy la
guardò con aria di chi la sapeva lunga.
«Con
Tai» pronunciò quel nome fermamente, senza esitare.
La vide
bloccarsi, mollare le sue mani e fare una smorfia,
ma sapeva che stava solo fingendo di non essere particolarmente
coinvolta; si
vedeva lontano da un miglio come i suoi occhi esprimessero
tutt’altro.
Il rosso
sospirò.
Non sapeva se
era perché si sentiva particolarmente in forma
dopo tanto tempo, ma sentiva che era necessario che usasse delle frasi
dirette
per arrivare a Mimi.
Lei era
abituata, spesso e volentieri, a girarci intorno
alle cose, ma ciò di cui necessitava in quel momento era che
qualcuno la
scuotesse.
Come
aveva fatto lei con
lui.
Al
momento giusto e con
le parole giuste.
«Io lo
so che siete ancora innamorati» sentì quelle
parole
che uscivano da sole dalla sua bocca e per l’ennesima volta
in quel giorno fu
lieto di aver acquistato nuovamente il suo temperamento.
Ne fu lieta e
sorpresa anche Mimi, che alzò lo sguardo a
fissarlo con le orbite leggermente spalancate.
Izzy non demorse.
«Non
fare quella faccia» la redarguì «conosco
entrambi,
siete solo un tantino egoisti, codardi ed anche orgogliosi»
La
colpì in pieno come un getto di acqua fredda.
Ebbe freddo sul
serio e tentò di coprirsi con le braccia
stupidamente.
L’amico
la guardava ancora, e lei si trovava ad avere gli
occhi vacui nel nulla e la mente che rimuginava, lavorava frenetica e
risaliva
a dei giorni addietro.
Quando
lei e Taichi avevano
fatto l’amore.
Forse aveva
ragione a dire che era una codarda, egoista ed
anche orgogliosa, lo ammetteva, ma non aveva ricevuto niente in cambio
all’aprire il suo cuore di nuovo dopo mesi e mesi di silenzio.
Lui
l’aveva abbandonata per l’ennesima volta senza
curarsi
dei suoi sentimenti, o perlomeno, senza aver avuto un briciolo di
rispetto
verso la loro storia passata.
Cosa
si aspettava che
facesse, adesso?
Mimi era stanca,
esausta, non aveva più le forze necessarie
per lottare.
Aveva fatto il
possibile, e non riusciva ad immaginare di
poter toccare il fondo oltre come aveva fatto quella
volta.
Scosse la testa.
«Senti,
io ci ho provato con lui, ma non è andata. Anzi,
questa volta è andata peggio
dell’ultima» rispose velocemente come per cercare
di sotterrare la questione e zittire Koushiro che era in vena di
scavare nei
meandri della sua psiche.
Fece per aprire
un qualsiasi altro discorso, ma l’altro fu
più veloce.
«Sai
qual è la cosa che non va bene tra te e Tai?» le
chiese
a bruciapelo, e lei rimase di stucco.
Si chiese quale
fosse, perché forse non l’aveva capito
nemmeno lei.
Per un attimo
ebbe paura di sentire la risposta, ma poi fece
cenno all’altro di continuare a parlare.
«Il
fatto che siate entrambi egocentrici» rispose Izzy con
un pizzico di ribrezzo.
Mimi si
portò una mano alla testa, sospirando piano.
Niente
di nuovo,
insomma...
«Non
vi siete mai fermati un attimo a pensare qual è
realmente la cosa che desidera l’altro. Non l’avete
mai fatto!» esclamò Izzy,
alzando le mani, sottolineando una realtà che Mimi cercava
di nascondere a sé
stessa da tempo.
Non
riuscì a dire niente.
«E’
stato proprio questo a farvi allontanare» dichiarò
il
rosso con cognizione, mentre lei aveva lo sguardo basso e gli occhi che
piano
cominciavano a diventare lucidi.
Non
doveva scoppiare,
doveva trattenersi ancora per un po’...
Izzy se ne
accorse e si sporse per guardarla meglio e far in
modo che anche lei lo guardasse.
Si vedeva che
era ferita, ma era necessario che aprisse gli
occhi e la smettesse di vivere in un modo tutto suo.
«Però
il fatto che siete simili dovete trasformarlo in punto
di forza, in comprensione. Come abbiamo fatto io e Frankie. Voi,
invece,
l’avete fatto diventare lo scoglio più grande della vostra
relazione»
A Mimi scese una
piccola lacrima. Subito si apprestò a
tamponarla con il palmo delle dita.
Koushiro aveva
pienamente ragione.
Era esattamente
quello che pensava lei, ma che non aveva mai
espresso ad alta voce.
Era per questo
che si sentiva ferita nel profondo nel
constatare come avessero rovinato tutto, come anche lei avesse
distrutto tutto
con l’unica persona che aveva mai realmente amato.
Izzy le prese di
nuovo una mano.
«Se ce
l’abbiamo fatta noi, potrete farcela anche voi»
l’incoraggiò con un sorriso, e poi le diede dei
buffi colpetti sulla spalla.
Mimi
seguì il gesto con gli occhi e le venne da ridere forte
tra le lacrime.
Le era mancato
vederlo in quel modo, incoraggiare gli altri
quando li vedeva crollare; Koushiro era la loro roccia, il loro
appiglio nei
momenti di sconforto, quando credevano di non potercela fare, lui era
lì a
motivarli tutti ad andare avanti.
Era la ruota
motrice del gruppo, e senza di lui, nessuno di
loro sarebbe riuscito a rialzarsi completamente.
Specie
lei.
«Sono
contenta che tu abbia recuperato la tua saggezza»
gli confidò sentendosi
realmente fiera di avere un amico come lui.
Koushiro non
fece in tempo a dire nulla, perché la castana
lo aveva tirato dalla mano con cui stringeva la sua, si era sporta sul
tavolo e
lo aveva abbracciato.
Lui
arrossì come da indole, ma non mancò di alzare il
braccio libero e poggiare la mano sui suoi capelli.
Le faceva
così tenerezza il modo goffo con cui stava
ricambiando il suo abbraccio.
Izzy aveva
passato un periodo duro a causa dei problemi di
droga di Frankie, forse il periodo peggiore della sua vita, e nemmeno
poteva
immaginare come ci si poteva sentire in quella situazione.
La sua
sofferenza per Taichi era egoista al confronto, ma
Koushiro non l’aveva trattata come se fosse una bambina
esagerata, aveva
rispettato il suo malessere e le aveva insegnato come bastava poco per
superare
i momenti bui.
Izzy le aveva
fatto intendere che con un po’ di buona
volontà le cose in un rapporto potevano sistemarsi se solo
si arrotondavano un
po’ gli angoli più spigolosi del carattere.
Era
lei che doveva tanto
a lui, non viceversa.
Joe
aprì improvvisamente la porta scorrevole del soggiorno e
rimase sulla soglia a guardarli.
Mimi si accorse
subito della sua presenza e si staccò
dall’amico. Questi fu destato dal rumore dietro le sue spalle
e, a sua volta,
si voltò.
Cadde il gelo
nella stanza.
I due ragazzi si
fissarono come volessero testarsi e per
qualche secondo nessuno disse niente, ma lei riusciva a captare la
tensione nei
loro sguardi.
Non si parlavano
dal giorno della festa di laurea, e come al
solito si erano battibeccati per qualcosa; ma stavolta, da
ciò che aveva capito,
Joe ci era andato giù pesante, e non che fosse una
novità, ma Izzy se l’era
presa sul personale più delle altre volte.
Decise di non
intervenire e lasciare che loro stessi facessero
qualcosa o perlomeno si salutassero, nonostante nessuno accennasse ad
aprir
bocca.
Non tolse gli
occhi da Joe, però, il quale sentì il suo
sguardo severo addosso e con uno sbuffo raddrizzò le spalle
e si fece avanti.
«Ciao,
Koushiro» lo salutò, sforzandosi di utilizzare un
tono mellifluo che non gli apparteneva affatto, ma di cui, anzi, si
serviva
solo per sbeffeggiarsi di qualcuno oppure sputare fuori una serie di
semi
cattiverie.
Il rosso,
infatti, lo riconobbe e fece una smorfia di
rimando.
Mimi
pensò che non gli avrebbe nemmeno risposto, ma quello
alzò la testa facendogli un cenno di saluto.
Il corvino diede
un sospiro che aveva tutto tranne che
rammarico. Sembrava piuttosto sottolineare il suo essere infastidito
dall’averlo
tra i piedi.
Pensò
se non gli avrebbe urlato nelle orecchie che le buone
maniere le aveva lasciate Dio, qualcosa inerente alla religione, ma non
fu
quello che successe.
«Possiamo
parlare?» gli chiese inaspettatamente.
Quella domanda
fu così strana che gettò entrambi nel panico.
Che
stava succedendo?
Izzy
aggrottò le sopracciglia e si voltò verso Mimi,
lanciandole uno sguardo stupito.
Lo
aveva chiesto sul
serio?
La castana
alzò le spalle come segno che non ne sapeva
niente e portò alle labbra la tazza con il the verde ormai
freddato.
«Visto
che sono in casa tua...» gli diede quella risposta
ovvia Izzy, utilizzando un tono distaccato che faceva intendere che non
avrebbe
potuto fare a meno di sorbirselo.
Joe
gonfiò il petto e il suo viso si colorò per
qualche
secondo, segno che aveva una voglia matta di rispondergli e digliene
quattro,
ma probabilmente aveva fatto una specie di fioretto a qualche
divinità e aveva
una missione da compiere.
Così,
alzò una mano, mosse le dita e le strinse a pugno per
calmarsi.
«Mh»
emise uno di quei suoni che era solito fare quando in
tv passavano le modelle di Victoria’s Secret e non voleva
ammettere che erano
bellissime.
Poi si
avvicinò di più all’amico che lo
guardava in modo
scettico.
«Io...
beh, volevo dirti, riguardo l’altra sera che...»
cominciò a farneticare, ma si vedeva lontano un miglio come
si stesse sforzando
a dire qualcosa di cui non era d’accordo, tanto che
scoppiò come pronostico
«Beh,
che è vero! Quello che io ho detto è
vero!» esclamò non riuscendo a vincere
le buone intenzioni di porsi con un certo garbo.
Izzy fece un
gesto con la mano che significava “che ti avevo
detto” verso di Mimi.
Joe era del
tutto incapace a riconoscere le sue colpe.
Aveva una specie
di handicap quando si trovava a ragionare
su cosa era politicamente corretto o meno, per non parlare di quando si
trattava
dell’ammettere di avere torto!
Era un tipo
testardo e spesso arrogante, delle volte diventava
davvero impossibile
tenere un discorso
decente con lui perché voleva averla vinta ad ogni costo,
per questo Koushiro
non aveva più intenzione di starlo a sentire.
Non
sarebbe cambiato
mai, non veramente.
«Grazie
tante» affermò tagliente «Se sei venuto
per
rimarcare-»
Joe,
però, non aveva realmente intenzione di aprire
un’altra
faida.
«No,
aspetta!» lo bloccò, passandosi una mano sul volto.
O
almeno, voleva
tentare; poi con lui non si sapeva mai, non riusciva a tenersi a freno
nemmeno
legato da due incudini.
«Porca
zozza... è così difficile per me...»
mormorò
sconsolato più a sé stesso che a chi lo stava
ascoltando.
Aveva un vero
problema a pesare le parole, e questo perché
aveva il dono della sincerità,
un
sigillo impostogli da quando era stato a Digiworld, e se prima
l’essere sincero
lo aveva aiutato tante volte a farsi valere, o così almeno
pensava lui, da un
po’ di tempo a quella parte gli aveva recato solo palesi
danni.
Aveva fatto del
male a persone a cui voleva bene, e si era
reso conto che, forse, nella vita era meglio essere un po’
più cauti ed
omettere determinate cose che ferivano e basta.
Il fatto era che
lui non era certo della pasta di quelle due
fesse di Sora e Mimi che perdevano un sacco di tempo a fare sermoni
l’una
all’altra, e quando mai ne avevano fatte una giusta poi!
Lui amava
gustarsi il sapore della sincerità, sapeva di vino
vecchio di vent’anni e tre gocce di Chanel n° 5.
Fu destato dal
suo torpore da Koushiro che gli rispose
piccato.
«Prova
ad urlarlo offensivamente, come fai sempre» lo
rimbeccò, e gli si sgretolò addosso il muro della
pazienza, altra sua virtù
mancante.
Mimi
soffocò un risolino e lui si gonfiò di rabbia.
Ci provava anche
ad essere gentile, ma quel dannato
cibernetico...
«No,
aspetta che uso il linguaggio HTML così faccio
collegare la tua testa rosso pomodoro ad internet!» gli
sputò contro con
sarcasmo, alludendo al fatto che non capiva un’acca che non
aveva a che fare
con i computer.
I soliti
cliché, insomma.
Izzy
sospirò e poi diede un’occhiata
all’orologio. Si erano
fatte le dieci ed era andato a casa loro con un intento ben preciso,
non di
certo per ascoltare le sue solite uscite del cavolo.
Si rivolse alla
castana, ignorandolo.
«Mimi,
se puoi gentilmente chiamare Sora...» le disse per
tagliare corto la discussione, ma la ragazza non fece nemmeno in tempo
ad
alzarsi dalla sedia che il corvino s’intromise nuovamente.
«Lascia
stare quell’emo sconsolato! Si starà tagliando le
vene con la lametta dei peli» fece un gesto con una mano per
rinviare a dopo la
questione.
Caspita, allora
aveva realmente qualcosa da dirgli,
nonostante non riuscisse ad esprimersi in maniera diversa dallo
starnazzare.
La castana si
mise sull’attenti ed anche Koushiro lo guardò
parecchio stralunato.
«E
allora hai intenzione di dire qualcosa di sensato?» lo
provocò.
Joe chiuse per
una attimo gli occhi e invocò Dio affinché
gli desse la forza giusta per controbattere con giudizio.
Koushiro che gli
parlava di sensato con quella maglia, quei
pantaloni e, soprattutto, quei capelli...
Ma
d’altronde, se i ghiacciai si stavano sciogliendo…
era un
mondo tutto sottosopra...
«D’accordo»
gli concesse, poi schiarì la voce e si preparò
ad iniziare un discorso.
Mimi
sgranocchiò un biscotto, coinvolta.
«Allora,
Koushiro...» incominciò pacato, per poi iniziare a
gesticolare nervosamente «quello che volevo dirti
è che... insomma quella sera
io ho... beh, quello che sto cercando di spiegare è...
quello che non posso
negare è che probabilmente quella sera io sarò
stato un po’ bevuto a dirti...»
Come da copione
scoppiò.
«No,
non posso mentirti!» sbatté un pugno contro il
tavolo,
facendo spaventare Mimi che stava prendendo un altro biscotto.
Ritirò
subito la mano.
«Sono
cose che penso realmente!» urlò e dalla faccia
sembrava un ossesso, le mani erano aperte e le muoveva davanti al viso.
Izzy fece per
dire qualcosa.
«Però
aspetta, il mio intento non era ferirti...»
biascicò
dopo tentando di tamponare, ma il rosso non gli diede modo di
esprimersi perché
gli rivolse uno sguardo omicida con gli occhi neri.
Stava
scherzando?
Forse aveva
dimenticato tutte le stronzate che gli aveva
detto, una serie di cattiverie allucinanti che erano troppo pure per un
soggetto trashomane come lui.
«Era
complimentarti con me per essere... com’è che hai
detto?» fece finta di non ricordarsi, interrogandolo, e Joe
fece finta di
pensarci.
«Forse...
che sei un po’ indietro con gli studi, mi pare...»
«Che
sono una persona mediocre? Che non prenderò mai una
laurea? Che tu con le persone mediocri non ti ci mischi?»
«E’
che mi ricordavo che studiavi scienze della
comunicazione...»
«Ti
ricordo che io studio ingegneria informatica, sono un
tutor retribuito e mi sono dovuto fermare per delle questioni personali
e
soprattutto delicate, questioni legate a Frankie di cui per quanto mi
risulta hai
anche sparlato e deriso»
Joe
scrollò le spalle.
«Non
l’ho tolta davvero quella margherita»
Izzy si
interruppe e lo guardò in modo redarguente. Joe si
zittì di rimando.
«Il
mio percorso è stato brillante esattamente come il
tuo»
concluse con fierezza, con una luce negli occhi che Mimi colse e
apprezzò.
Il suo sguardo
teneva testa a quello di Joe, avrebbe potuto
tenere testa a tutti, in realtà, perché Koushiro
aveva carattere da vendere
dietro la sua timidezza e il suo essere riservato.
E questo Joe lo
sapeva, per questo lo stuzzicava in continuazione,
perché era l’unico che non cedeva alle sue
provocazioni, anzi, gliele
restituiva di getto.
Il corvino,
infatti, gli lanciò un’occhiataccia.
«Non
c’è bisogno di fare il fanatico!»
incrociò le braccia ed
usò un tono petulante
«Io lo
so benissimo che tu sei un asso di coppe, però avevo
paura che confondessi la briscola!»
Il rosso fece
una faccia esasperata e confusa.
«Ma
come parli...» soffiò, stanco di sentirlo
arrampicare
sugli specchi e girare intorno al discorso senza arrivare al dunque.
Il maggiore
imprecò e perse nuovamente la pazienza.
Quel maniaco
ossessivo compulsivo di computer voleva proprio
che parlasse, non c’era niente da fare, avrebbe dovuto
spiegargli tutto...
E lui che
pensava che fosse intelligente sul serio!
«Oh,
insomma, Koushiro! Volevo solo spronarti, farti
arrabbiare! Volevo che ti riprendessi da quel tuo stato di
invertebrato!»
sbottò, aprendo le braccia.
Izzy emise un
suono indignato con la bocca.
«Invertebrato?»
ripeté.
«Nel
senso di privo di carattere e forza morale, mica che non
hai la colonna vertebrale!»
Il rosso chiuse
gli occhi per accusare il colpo e Mimi
scosse la testa.
Ma
faceva davvero?
«Io lo
so che spesso utilizzo la mia sincerità per
ferire»
continuò Joe, che ancora più che parlare a loro
sembrava fare un monologo con
sé stesso.
Quasi come se
stesse cercando di far riconoscere quelle cose
al suo essere.
«E
ammetto anche che, beh... che io possa esagerare
un po’...» mormorò.
Izzy fece una
faccia canzonatoria.
«Perché
è un’arma a doppio taglio» lo
provocò.
Joe si stava
rendendo conto di come sparlare a vanvera solo
per proclamarsi sincero danneggiava gli altri, ma anche sé
stesso.
Se ne capacitava
solo adesso dopo anni in cui si era comportato
esattamente alla stessa maniera, e adesso che gli altri non accettavano
più il
suo modo di fare perché non risultava affatto essere
divertente, aveva
realizzato che era giusto darsi un contegno.
«No,
è una sciabolata morbida, te lo giuro!» lo vide
avanzare verso di lui con le mani giunte a preghiera.
Non sapeva cosa
aspettarsi da lui, seriamente.
Lo vide
guardarlo come se volesse supplicarlo, ma non sapeva
fino a che punto avere fiducia, se era pentito sul serio o era un altro
dei
suoi teatrini giullareschi.
Joe
capì che Izzy non gli credeva, allora decise di
ammettere finalmente le sue colpe e pronunciare quelle fatidiche parole.
«Io ti chiedo scusa,
Koushiro» dichiarò celebre «La
sincerità deve essere maneggiata con cautela.
Prometto che lo farò da oggi in poi»
Non seppe se il
modo in cui l’aveva pronunciato o il modo in
cui si teneva il petto con gli occhi chiusi, Mimi seppe solo che non
appena
Izzy incontrò il suo sguardo regalandole
un’espressione scioccata non potette
fare a meno di scoppiare a ridere.
Nessuno
poteva crederci.
Era
successo realmente?
Era
una data da segnare
nel calendario.
«Mi
hai davvero chiesto scusa?»
chiese il rosso con gli occhi spalancati.
Joe
aprì un occhio per guardarlo.
Metteva in
discussione la sua buona fede?
Non lo sapeva
che provava quella frase da giorni di fronte
allo specchio pur di dirla così bene com’era
uscita?
«Perché,
che c’è di strano?!» lo
rimbeccò sulla difensiva,
notando che anche la castana lo guardava con un’aria di
scherno
Nessuno ci
credeva.
«Io
sono una persona umile, a differenza di voi tutti!»
guardò con rabbia Mimi che non riusciva in nessun modo a
trattenere le risate.
Izzy lo
guardò scettico.
«Ma
per favore, ci hai messo ventisette anni ad ammettere di
aver sbagliato qualcosa!»
«Ognuno
ha i suoi tempi, okay?!» sbottò Joe, cercando di
giustificare il suo ritardo nell’avere una visione obbiettiva
dei suoi errori.
Non capiva
perché quel cibernetico non si prendeva le scuse
e non la smettesse di uscirsene ogni volta con delle note stonate a
piè di
pagina.
Nemmeno la sua
tesi ne aveva così tante!
S’infervorò.
«Lo
vedi? Lo vedi come non riesco a comunicare con te,
cibernetico che non sei altro?! Devo aprire l’Adsl,
altrimenti non ti arrivano
le informazioni in quella testa rosso pomodoro!»
Lo faceva
proprio incazzare quel finto Einstein nano di
merda...
Si
frugò una tasca, mentre continuava ad inveire.
Se ne tornasse
in mezzo ai computer ad ammazzarsi di porno,
che tanto lo sapeva a cosa gli serviva la fibra, altro che tutor
retribuito dei
suoi stivali...
Nel frattempo,
Izzy aveva tirato fuori il cellulare ed
impostato la modalità live su Instagram, riprendendolo a sua
insaputa.
Accettava le sue
scuse tardive perché era troppo un bislacco
per eliminarlo dalla sua vita e non avere un caso particolare su cui
fare
ricerche scientifiche, ma gliel’avrebbe fatta pagare in
qualche modo.
«E
comunque, ecco qua il tuo papillon ingiallito che hai
lasciato sul mio letto! Ho dovuto lavare il materasso con la candeggina
per
colpa tua, maniaco, squilibrato... tu e quella piedi storti che-CHE
CAZZO FAI,
FILMI?!»
Izzy si
alzò dalla sedia e si allontanò per non farsi
acchiappare, mentre le risate di Mimi si sentivano da sottofondo a
quella serie
di insulti ed urla.
Si
allontanò subito dal tavolo e si mise al riparo vicino
alla porta scorrevole, pronta a fuggire.
«Tu
sei un infame!» inveiva Joe, mentre cercava di
afferrarlo senza successo.
Andava da un
lato del tavolo e lui scappava dall’altro,
andava dall’altro e lui scappava da...
Strinse i denti.
«GRRRR!
IO TI SPEZZO LE-»
«Fermo,
che ci faccio un milione di visualizzazioni con
questo!» lo avvertì il rosso alzando un braccio,
facendogli drizzare le
orecchie.
Lo vide fermarsi
di getto.
«Dove
lo pubblichi?»
«Instagram»
«Quanti
followers hai?»
«Parecchi»
«Aspetta,
allora»
Tirò
fuori uno specchietto e si sistemò i capelli e gli
occhiali.
«Premi
Rec»
E
cominciò lo show.
«Tu
vuoi solo infangarmi in realtà, Koushiro, vuoi prenderti
giuoco di me! Io, anche se non sembra, ho sempre voluto essere amico
tuo, ma
non è possibile, non riesco, mi sei troppo
ostile!» si dannava, alzando le mani
al cielo con teatralità magistrale.
Poi la
situazione cominciò a sfuggirgli di mano e
afferrò i
cuscini del divano, gettandoli addosso all’amico.
«Faccio
bene a preferire TK a te, faccio bene!» si tolse una
ciabatta e gliela lanciò a sua volta, rischiando di
colpirlo.
«Oh,
piano!»
Si era calato
fin troppo nella parte.
Si tolse
l’altra e si avvicinò, colpendolo più
volte al
braccio.
«Mi
fai girare le nacchere!» diceva, scandendo sillaba per
sillaba «Mi riempi il sangue di veleno, mi fai esplodere le
palle come il Big
Bang, mi fai-»
Mimi si chiuse
la porta scorrevole alle spalle, scegliendo
di abbandonare il campo di battaglia e lasciando che quei due si
divertissero
da soli.
Le era venuto il
mal di testa.
Decise di
recarsi in camera di Sora e svegliarla, non si era
ancora fatta viva.
In
realtà, non la vedeva dalla sera prima, era andata
probabilmente a letto presto, per questo era strano che a
quell’ora non fosse
ancora in piedi.
Specie con quel
fracasso.
SBAM.
Una ciabatta
colpì la porta e lei sussultò dallo spavento.
Fece una smorfia
e le venne da sorridere, pensando che Joe
ed Izzy era un duo bucolico quando ci si mettevano.
Era contenta che
avevano fatto pace; ci voleva una ventata
di positività dopo tutto il grigiume di quei giorni.
Bussò
in camera della ramata, ma questa non rispose, allora
riprovò un’altra volta.
Fece una faccia
interrogativa.
Perché
non rispondeva?
Decise di aprire
la porta senza attendere oltre ed entro di
gettò.
«Sora...»
la chiamò, ma spalancò le orbite non appena si
rese conto che il letto era vuoto, intatto.
Strizzò
gli occhi per constatare se vedeva bene.
Non
era lì.
Sora
non aveva passato
la notte a casa.
Si
avvicinò al letto e sfiorò la trapunta con un
dito.
Era strano e
perlopiù non aveva nemmeno avvertito, una roba
non da lei.
Durante gli anni
passati capitava che passasse la notte
fuori a casa di Matt, ma adesso la situazione non era così
talmente idilliaca
da permetterselo.
Si sedette sul
letto e gettò uno sguardo fuori dal balcone,
sospirando, mentre il vociare ovattato dei due ragazzi era
l’unico rumore a
spezzare il silenzio della stanza.
Dov’era
andata Sora?
Non aveva
affatto un sensazione positiva.
|
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Capitolo 18 *** Casa nostra ***
Taichi uscì dalla banca dopo aver fatto la fila per
più di
mezz’ora.
Aveva contato
male il tempo, credeva di riuscire a finire
prima del previsto, eppure si erano già fatte le dieci e un
quarto e ancora non
era riuscito ad arrivare a casa.
Guardò
il cellulare e serrò la mandibola, sperando di
arrivare in tempo per l’appuntamento che era fissato per
quella mattina.
Salì
a bordo di un pullman e si strinse alla giacca,
sentendo nella tasca interna il gruzzolo che aveva prelevato.
Guardò
fuori e non riuscì a pensare ad altro se non arrivare
a destinazione. Le strade erano affollate e temeva di giungere in
ritardo.
Non appena scese
dal mezzo che lo lasciò a cento metri dalla
sua abitazione, si mise a correre senza badare ai passanti che di
trovavano
nella sua traiettoria.
Doveva
farcela.
Aveva
giurato a sé
stesso che ce l’avrebbe dovuta fare e ce l’avrebbe
fatta.
Sarebbe
riuscito a
giungere in tempo.
Una signora di
mezz’età stava entrando proprio in quel
momento, si fermò per darle educatamente il tempo di tirar
fuori la chiave ed
aprire, nonostante avesse voglia di farlo da sé per
anticipare i tempi.
La donna
infilò la chiave nella toppa ma non riuscì a
spingere il portone che rimase chiuso, ci provò un paio di
volte ed ogni
secondo che passava Tai pensava che avrebbe fatto tardi.
Imprecò
mentalmente.
Doveva
farcela,
dannazione.
Senza pensarci
afferrò la chiave dalle mani della signora e
girò verso destra, una spinta forte ed il portone si
aprì.
Non si rese
nemmeno conto che la signora si era spaventata
dall’irruenza che aveva utilizzato, così non
mancò di scusarsi e le tenne pure
la porta per farla passare.
Era impulsivo
delle volte, ma il tempo passava velocemente
ed ogni minuto perso equivaleva arrivare alla fine.
Non
poteva perdere, era
come nel calcio, doveva battere gli avversari sul tempo e raggiungere
il suo
obbiettivo.
Corse nelle
scale, superando cinque piani a piedi.
Per fortuna che
quegli allenamenti stremanti lo avevano
aiutato a rinforzare la sua resistenza e il suo fiato.
Ce
l’aveva fatta, era arrivato alla porta di casa sua.
Una mandata di
chiavi ed entrò di scatto, la porta sbatté e
le persone all’interno si voltarono a guardarlo,
interrogativi.
Sua madre e suo
padre si trovavano seduti al tavolo con di
fronte il proprietario della casa, il signor Robert Shinamoto, insieme
ad
un’altra persona vestita di tutto punto che stava ritta in
piedi quasi fosse un
suo body-guard.
«Fermi!»
quasi urlò e sentì il cuore che gli saliva fin
sopra alla gola.
Aveva il
fiatone, ma puntò gli occhi verso di lui con un uno
sguardo fermo e lanciò le chiavi sul muretto facendo
oltremodo rumore.
Non sapeva
perché l’aveva fatto, in realtà, ma
sentiva una
strana adrenalina in corpo, qualcosa che non provava da tanto tempo.
Non aveva idea
di cosa fosse di preciso, sapeva solo che
l’aveva già sentita altre volte in passato; semplicemente
non ne ricordava più le
sensazioni.
«Non
firmate niente!» ordinò, mentre i suoi genitori lo
guardavano
come se fosse impazzito tutt’ad un tratto.
«Tai,
cosa stai-» provò a dire Yuuko, sua madre, ma lui
non
le diede modo di proseguire oltre.
Si
avvicinò al tavolo senza distogliere lo sguardo da
Shinamoto, che lo fissava annoiato da dietro i suoi occhiali fini.
Tirò
fuori dalla tasca interna della giacca di pelle un
mazzo di banconote e lo poggiò sul tavolo facendo un rumore
sordo.
L’uomo
quasi sussultò.
Sua madre
capì subito e guardo allarmata suo padre, il quale
aveva in volto un’espressione interdetta ed aveva spalancato
la bocca.
«Taichi,
cosa diavolo stai facendo?!» lo rimproverò alzando
gli occhi con lo stesso sguardo severo di quando lo sgridava da piccolo.
Il ragazzo si
morse la guancia dall’interno.
Suo padre
sembrava invecchiato di almeno dieci anni in più
di quelli che aveva e sapeva per certo a cosa era dovuto tutto quel
malessere.
I problemi con
il lavoro erano subentrati da qualche anno e
mantenere l’affitto era diventato pesante.
I suoi non
avevano una condizione economica delle peggiori,
ma non navigavano certo nell’oro, e la casa in cui era
cresciuto da quando
aveva iniziato le scuole elementari, dopo il trasferimento da
Hikarigaoka, era
sempre stato quell’acquisto che sognavano di fare da una vita.
Purtroppo non
avevano un denaro tale da compararla
nell’immediato senza mancare ai beni di prima
necessità, e quello stronzo del
proprietario se n’era uscito di punto in bianco con il
volerla vendere al
migliore acquirente.
Così
i suoi si erano ritrovati in un paio di mesi con le
spalle al muro e la possibilità di sfratto
all’insegna della scadenza del
contratto.
Era questo il
motivo per il quale Tai era lì con quei soldi.
Voleva
comprargliela lui quella casa, anche se ciò valeva a
dire buttare via i suoi risparmi dopo anni di fatica.
«Questi
sono i contanti» si rivolse a Shinamoto, ignorando
la domanda di Susumu.
Il proprietario,
nel frattempo, si era pulito gli occhiali e
li aveva indossati nuovamente per vedere meglio.
Poi li
tirò fuori dalla carta e li contò. Non appena
terminò
alzò lo sguardo verso il signore vestito con la giacca e la
cravatta ed i due
si scambiarono un tacita occhiata.
Taichi
capì subito di cosa si stavano interrogando.
«Non
ho potuto prelevare oltre, quindi ho qua un assegno»
spiegò, tirando fuori dalla giacca della tuta un blocchetto.
Non appena i
suoi genitori notarono che faceva sul serio,
suo padre imprecò qualcosa, mentre sua madre gli strinse un
braccio con una
mano.
«No,
non farlo!» lo pregò, e si voltò a
guardarla notando
come i suoi occhi nocciola così simili ai suoi erano lucidi.
Susumu
tentò di riacquisire un certo contegno, e si
sistemò
il colletto della camicia.
«Siamo
già arrivati ad una condizione con il signor
Shinamoto» affermò, tentando di mostrare controllo
e facendo un breve cenno con
la mano in direzione dell’uomo.
«Ci
permetterà di vivere qui per altri tre mesi»
interrogò
quello che annuì lentamente, senza togliere di dosso lo
sguardo dal denaro
«fino a che non faremo il trasloco ad Arakawa»
Non appena
sentì nominare quel posto, Tai alzò la testa e
sentì la pelle d’oca.
«Arakawa?» mormorò
interdetto, come se non avesse sentito bene.
Suo padre non
poteva star parlando sul serio.
Arakawa era il
quartiere meno costoso di Tokyo, ma proprio per
questo il luogo meno raccomandabile di tutta la città.
La poca
ospitalità e la sporcizia erano immonde, per non
parlare della gente che viveva, tutta affollata in delle case
perlopiù popolari
dove le crepe erano ben visibili dall’esterno.
«Lì
c’è un appartamento di sessanta metri quadrati
dove
possiamo trasferirci ed abbiamo anche le condizioni necessarie per
acquistarlo
grazie ad un mutuo»
Susumu parlava
mantenendo alta la sua dignità di padre di
famiglia.
Non potevano
acquistare il loro appartamento spazioso e
luminoso in una zona centrale e praticata?
Beh, ne
avrebbero acquistato un altro, non sarebbero rimasti
per strada di certo; ma Tai sapeva che non sarebbe stato lo stesso.
Non sarebbe
stata più casa sua, la casa in cui era diventato
un ragazzo, in cui stava muovendo i suoi primi passi da uomo adulto.
Non voleva che
si adeguassero ad un appartamento poco
spazioso in una zona poco raccomandabile solo perché non
accettavano di ricevere
un aiuto da lui.
Era
quello che avevano
fatto per lui da una vita e lui glielo doveva.
Era
il minimo che poteva
fare per ringraziarli.
D'un tratto la
porta del soggiorno si aprì e il viso dolce
di sua sorella Hikari comparve sulla soglia.
Si votarono
tutti a guardarla, perfino il signore impostato
con la giacca.
Probabilmente
attirata dal trambusto aveva abbandonato i
libri in stanza per andare ad accertarsi di ciò che stava
succedendo.
Fece una faccia
stupita quando lo vide in casa, e subito
lanciò uno sguardo ai soldi.
Capì
subito e si avvicinò, affiancandolo.
Taichi si
sentì più sicuro non appena il profumo di rose
della sorella gli arrivò alle narici.
Le rivolse uno
sguardo fermo e continuò.
«Questa
è la casa dove sono cresciuto, dove io e mia sorella
siamo cresciuti» affermò con crescente coraggio, e
sentì che quella sensazione
gli era così mancata durante tutto quel tempo.
Si sentiva come
di aver ritrovato il luogo in cui apparteneva,
e ne era orgoglioso, era una sensazione bellissima.
«Nessuno
di voi si muoverà da qui. Nessuno richiederà un
mutuo alla banca»
Yuuko lo strinse
da un braccio e Tai poté contare le rughe
di preoccupazione sul suo volto.
Sua madre aveva
mantenuto quella fragile bellezza giovanile,
ma il suo sguardo trapelava stanchezza e più la guardava
attentamente più
riusciva ad intravedere i segni del tempo segnare l'incavatura del suo
viso.
«Tai,
tesoro, questi soldi sono i tuoi, devi metterli di
lato per una casa tutta tua. Il tuo futuro è più
importante» gli disse, e lui
si sentì piano sprofondare.
Il
suo futuro?
Lui non sapeva
nemmeno se avrebbe avuto un futuro roseo o se
semplicemente avrebbe acconsentito che gli eventi lo trascinassero alla
deriva.
Si trovava in un
limbo di emozioni contrastanti che lo
stavano spingendo sempre più all’interno del
baratro.
«È
questa casa
mia» affermò convinto, poi il suo volto si
oscurò «Ed il mio futuro non ha poi
così
tanta importanza...» mormorò quasi più
a sé stesso che a qualcuno in
particolare.
Si sentiva
svuotato, con un perenne bisogno di fare
qualcosa, agire in qualche modo per raggiungere un obbiettivo mancante.
Lui era fatto
così, anche nel calcio, se non segnava si
ritrovava a metà, si sentiva di non aver dato il meglio di
sé.
Il
fatto era che sentiva
di non aver dato il meglio di sé nella sua vita da due anni
a quella parte,
nonostante segnasse ad ogni match.
«Cosa
dici, Tai?» intervenne Susumu con enfasi «Noi non
possiamo accettare una cosa del genere. Tu sei nostro figlio!»
Notò
con la coda dell’occhio sua sorella portarsi una mano
alla bocca, segno che era pensierosa.
Lui gli
passò un braccio sulla spalla con fermezza.
«Adesso
tocca a me darvi qualcosa in cambio» disse, poi
ricambiò lo sguardo a Kari che sorrise emozionata.
Yuuko si
coprì il viso con le lacrime agli occhi.
Susumu era
combattuto, lo notava da come cercava di
intervenire ma nello stesso tempo non riusciva a trovare le giuste
parole per
contestarlo.
Tai sapeva che
stava facendo loro un grande regalo, ma che
per amor di loro figlio non riuscivano ad accettare ad occhi chiusi.
Non volevano che
investisse i suoi risparmi meritati in
qualcosa che riguardava direttamente loro.
Un
appartamento, un
appartamento che sarebbe rimasto a loro senza che Taichi ne avesse uno
per sé.
Eppure il
castano sentiva che quei soldi erano di
investimento comune perché quella casa era anche la sua, era
stata la casa
della sua infanzia, dove era diventato quel che era.
Ed anche se non
sapeva bene chi era diventato, beh, era
comunque cresciuto lì e non avrebbe immaginato altro posto
in cui tornare e
sentire quel calore.
Notò
che Kari aveva nel volto fine un sorriso emozionato, e
l'orgoglio con cui lo guardava era diverso da quello che aveva per anni
mantenuto lui.
Un
orgoglio egoista e
codardo, un sentimento contrastante che sapeva bene che non gli
apparteneva.
Lui era
determinato e generoso, aveva vissuto sulla pelle
esperienze più grandi di lui e aveva sconfitto mostri reali,
non solo quelli
interiori che adesso cercavano di tagliargli la gola.
A Digiworld
aveva scoperto il suo vero io, aveva faticato
così tanto, per questo doveva tentare di ritrovare
sé stesso e venire fuori da
quel mare oscuro da cui era stato risucchiato e in cui rischiava di
annegare.
Shinamoto aveva
in viso un'espressione annoiata e li fissava
come se stesse assistendo ad un'opera tragicomica di poco conto.
Strinse i pugni,
sentendo una rabbia crescente.
A lui non
fregava mica un cazzo di ciò che valeva a dire
tutto quello per loro, voleva solo riscuotere il maggior numero
possibile di
soldi.
I
soldi... era sempre
una fottuta questione di soldi...
«Come
farai con il lavoro?» gli chiese suo padre d'un
tratto e un'ombra oscura attraversò il suo volto.
I
soldi...
Pensò
ad Akira e la sua risata sarcastica gli attraversò le
orecchie.
Giocare a calcio
era diventato come un macigno fastidioso
che trascinava legato ai piedi e non gli permetteva di camminare.
Ogni passo che
tentava di fare, in realtà, era solo uno
sforzo immane che non gli permetteva di muoversi di un centimetro da
dov'era.
Aveva
così tanto bisogno di liberarsi di quel peso, ma aveva
anche timore.
Aveva paura di
trovarsi da solo, esposto, senza più qualcosa
per cui impegnarsi, lottare.
Una volta
avrebbe lottato per ciò in cui credeva ed amava,
ma adesso...
Sospirò.
«Sarò
in prima divisione... Non ve l'ho detto perché non
sapevo se era quello che volevo, trasferirmi ad Osaka e stare lontano
da tutto
questo... Solo che adesso non vedo alternativa»
spiegò mentre la voce si era
ridotta ad un sussurro.
Vide di sfuggita
i suoi genitori che lo guardavano
preoccupati e sorpresi della notizia.
Non aveva ancora
riferito loro della sua promozione, né del
suo imminente trasferimento.
Gli ultimi
eventi lo avevano trattenuto fuori dalle mura
familiari più del dovuto, non aveva trascorso con loro il
tempo necessario.
Aveva fatto
passare quella settimana come se non fosse mai
esistita, ma la verità era un'altra.
Credeva che non
parlarne avrebbe lenito un po' quel senso di
disagio che portava dentro, credeva che non affrontando la
realtà dei fatti lo
avrebbe aiutato a pensare che non stava succedendo davvero.
«È
come un cazzo di buco nero che incombe su di me» volse lo
sguardo verso la vetrata che dava al balcone, fissando con occhi vacui
le tende
color panna.
Yuuko emise un
suono di sconforto, Susumu aveva una dura
ruga dipinta in viso, mentre Hikari non aveva smesso di guardarlo
fermamente.
«Taichi..»
la udì sussurrare.
Sapeva che sua
sorella credeva in lui, dipendeva da lui e
dalle sue scelte.
Era sempre stato
così.
Lui era la sua
roccia e vederlo crollare equivaleva a dire
distruggere le sue certezze, lasciandola scoperta e senza una
protezione.
Allora lo
avrebbe fatto per lei, avrebbe mantenuto quella
corazza di determinazione per lei.
Avrebbe
tentato di tener
accesa quella luce in lei affinché continuasse a brillare.
Avrebbe
scavato a fondo
per ritrovare quel briciolo di coraggio che aveva perduto.
Per lui crollare
in ginocchio equivaleva solo a dire vincere
una partita dopo tanta fatica.
«Beh,
non importa più» disse seccamente, cercando di
archiviare perlomeno in testa e non nel cuore quella questione
«ho
preso la mia scelta, ormai» annunciò, poi fu
catturato
dalla finta tosse che il proprietario emise per richiamare l'attenzione
da quel
quadretto familiare.
Lui strinse la
mascella ed alzò le sopracciglia.
Si
voltò in sua direzione.
«Quindi,
se il signor Shinamoto volesse prendere quel
fottuto assegno e levarsi dal cazzo, adesso, gliene sarei
grato» usò un tono
enfatico, forse arrogante, ma conclusivo.
Shinamoto
aggrottò le sopracciglia e si raddrizzò sulla
sedia stupito per essere stato improvvisamente chiamato in causa,
mentre suo
padre cercò di dire qualcosa che non ascoltò.
Era consapevole
che ogni cosa era superflua a quel punto.
La decisione era
stata presa e non c'erano obiezioni che
tenevano.
Tai tenne lo
sguardo sul proprietario fino a che questi alzò
la testa verso il signore vestito in giacca e cravatta e per un po' li
vide
discutere tra di loro.
Non
osò voltarsi verso i suoi genitori mentre avveniva
quella discussione, tentò di mantenere il contatto visivo
per non perdersi una
singola scena.
Udì
solo dei sussurri dietro di sé e la voce calma di sua
sorella Hikari che diceva loro qualcosa, qualcosa per tranquillizzarli
forse.
Poco dopo,
Shinamoto e l'altro finirono di consultarsi.
Vide il damerino
sedersi al posto dell'altro, afferrare una
valigetta e tirare fuori dei fogli che appoggiò sul tavolo.
Adesso la sua
figura gli era chiara.
Era il
consulente di Shinamoto.
«Direi
che se non ci sono ripensamenti possiamo firmare il
contratto» parlò per la prima volta utilizzando un
tono serio e profondo, poi
alzò gli occhi su di lui.
«Vuole
fare lei da acquirente, signor Yagami?»
Sentì
il cuore accelerare.
Non appena si
rese conto che era tutto vero e il consulente aveva
con sé tutti i documenti, Yuuko inizia a piangere.
Susumu
andò ad abbracciarla quasi subito e la strinse al suo
petto.
Tai
tentò di non scomporsi nonostante i singhiozzi
emozionati di sua madre gli toccarono il cuore e sperò che
la voce non gli si
incrinasse di conseguenza.
Se la
schiarì, volendo trapelare fermezza.
«Certamente»
affermò.
Quello gli
passò una penna stilografica e lui la prese tra
le mani, sentendo il peso di quella responsabilità.
Stava per
firmare il contratto di vendita di immobile.
Avrebbero
acquistato la
loro casa.
Nessuno disse
niente nel momento in cui alzò il braccio con
la penna pronto per firmare.
Fu solo
Shinamoto ad interromperlo emettendo quel fastidioso
colpo di tosse.
Tutti rivolsero
l'attenzione su di lui, e Taichi ruotò i
suoi occhi in modo sbieco.
«Non
dimentichiamo che ci sono tutte le spese contrattuali
da includere» precisò con un tono di voce
estremamente pungente.
Il castano
strinse la mascella, ma non demorse.
«Bene.
Li prenderà dal mio conto» disse freddamente, ma
prima ancora che la penna potesse toccare il foglio non si accorse
dell'espressione contrariata dipinta sul volto di Hikari.
«NO!»
la udirono esclamare.
Tai s'interruppe
nuovamente e la fissò interdetto.
Lei gli
lanciò uno sguardo fermo tentando di passargli
mentalmente un messaggio, poi lasciò la cucina.
Yuuko e Susumu
si guardarono preoccupati. Il consulente batté
leggermente con le nocche sul tavolo.
Non conosceva
per certo le intenzioni di Kari, ma sapeva che
doveva fidarsi.
Nonostante il
ticchettio insistente della lancetta dei
secondi che gli ricordava di come il tempo passava e si avvicinava
sempre di
più alla fine,
continuò a guardare la
direzione in cui sua sorella era sparita.
La vide tornare
poco dopo con in mano una busta contente dei
soldi.
E subito
capì le sue intenzioni.
«Garantisco
io» la sentì dire dopo averla poggiata sul
tavolo,- si stupì del fatto che l’aveva quasi
lanciata- e quell'occhiata
eloquente che gli rivolse dopo gli fece ricordare tutto.
Il luogo da cui
quei soldi provenivano, il modo in cui erano
arrivati nelle sue mani, la discussione che avevano avuto a riguardo
non appena
lo aveva scoperto.
Fece un
sorrisino accarezzandosi la mandibola con una mano.
Aveva fatto
tutto quello per arrivare a quel punto, per far
sì che potesse dare una mano nel momento del bisogno.
E
cosa importava della
natura di quei soldi, se era immorale, di fronte alla ragione degli
stessi?
Hikari sarebbe
stata sempre migliore di lui perché aiutava
le persone dal basso della sua umiltà, anche se non aveva
niente.
Lo aveva sempre
fatto, non aveva guardato in faccia il mezzo
o le conseguenze delle azioni; agiva solo per bene e per amore dei suoi
cari.
Era
oltremodo più
coraggiosa di lui.
Strinse gli
occhi per un po', poi li riaprì e si rivolse ai
due uomini che osservavano il malloppo quasi a chiedersi se fosse
sicuro
prenderli.
Lui fece una
faccia canzonatoria.
«Li
prendiate pure. Sono di... buona pianta»
commentò, poi lanciò uno sguardo divertito alla
ragazza che
colse subito il riferimento ed insieme scoppiarono a ridere.
I loro genitori
avevano ancora in volto un'espressione
basita e si sussurravano parole che non riusciva a captare.
Prese nuovamente
la penna e la portò al foglio, lasciando
una firma svolazzante.
Gli era perfino
uscita meglio di tutte le volte in cui aveva
firmato la presenza in campo.
Si
premurò inoltre di fare lo stesso con l’assegno
scoperto.
Sentì
un'ondata di soddisfazione coglierlo non appena
terminò quelle azioni, si alzò dalla postazione e
lasciò che venissero discusse
le ultime trattative.
Non appena
finirono Shinamoto e suo padre si strinsero la
mano, poi fu la volta di sua madre, ancora sommariamente scossa da
tutto quello
che era successo.
Sarebbe stato da
maleducati ignorare lui e il suo amico consulente
da strapazzo, quindi non mancò di allungare il suo braccio e
fare lo stesso.
Il sorrisino che
ne susseguì non fu certamente di sincera
simpatia, ma bastò per dimostrare come non erano riusciti a
prendersi ciò che
volevano grazie alla sua forza ed ostinazione.
Ecco
chi era il vero
Taichi; assomigliava molto a quell’esatta persona.
Non appena la
porta venne chiusa susseguirono dei secondi di
silenzio durante i quali le lancette dell’orologio scandivano
ancora
fastidiosamente il rintocco.
Ebbe quasi
timore ad alzare la testa, ma appena lo fece vide
sua madre andargli incontro con le braccia spalancate.
Gli si era
gettata addosso e lo aveva abbracciato forte. I
suoi capelli gli invadevano le narici e lui dovette spostare il viso
stizzito
per non starnutire.
Nonostante
quello, la strinse a sua volta tra le braccia.
«Tesoro
mio!» la udiva esclamare tra le lacrime, mentre
bagnava la sua maglia «Non so come ringraziarti per quello
che hai fatto per
noi!»
Non aveva fatto
nient’altro se non ciò che andava fatto fin
dall’inizio.
«Non
mi devi ringraziare, mamma» le disse, allontanandola un
po’ perché la guardasse negli occhi.
Solo in questo
modo non aveva reso vani tutti quegli anni
trascorsi a Kyoto, lontano da tutto e da tutti; aveva fatto
sì che i suoi
sforzi avessero avuto un senso, perché ciò che
aveva coltivato era stato
investito per qualcosa della cui mai avrebbe potuto pensare meglio, di
cui mai
si sarebbe pentito.
Per
la prima volta si
sentì felice di aver giocato a calcio per tutti quegli anni.
Notò
suo padre che lo guardava da dietro sua madre, ancora
stretta piccola tra le sue braccia, e non poté fare a meno
di reggere il suo
sguardo algido.
Voleva
forse
rimproverarlo?
Dirgli che aveva
sbagliato a non farsi gli affari propri,
che era sempre il solito impulsivo e non sarebbe cambiato mai.
Susumu lo aveva
sempre redarguito per quel modo di fare
troppo turbolento e poco riflessivo, anche per il suo essere leggero e
a tratti
superficiale.
Gli diceva che
doveva mettere giudizio in tutto ciò che
faceva, per questo ebbe quasi timore che lo avrebbe definito
irresponsabile.
D’altronde,
nonostante il gesto onorevole, aveva dato via
quasi tutti i suoi risparmi in un soffio senza curarsi delle
conseguenze,
quando aveva quasi ventisei anni e non viveva in una casa stabile; ma
lui lo
aveva fatto per una buona causa, la stessa causa per cui anche Kari si
era
gettata nell’oscurità dell’oblio per un
po’ di tempo.
Per
amore della sua
famiglia.
Per
tornare a brillare
di luce.
Per
ritrovare il
coraggio di lottare.
Perché
Taichi lo sapeva che aveva agito per questo e che
quella era la scelta più giusta che avrebbe potuto prendere
in mezzo ad un mare
di sbagli, e suo padre lo sapeva pure.
A sorpresa, il
suo volto serio si sciolse e lo sguardo che
gli rivolse fu diverso.
Era pieno di
affetto e devozione.
«Sono
fiero dell’uomo che sei diventato, Taichi. Forte, orgoglioso,
coraggioso» gli disse e
seppe nel
profondo che si riferiva a tante cose, non solo alla questione
dell’appartamento.
Si riferiva a
tutto il suo operato, alla sua crescita, ai
risultati della sua carriera, al suo non essersi perso
d’animo, mai.
Si
sentì distrattamente un’ipocrita e non sapeva
nemmeno
bene perché.
Era come se
stesse mentendo, quando in realtà aveva fatto
tutto quello con trasparenza; eppure sentiva di non aver finito.
Di non aver
acquisito appieno quel titolo.
«Sono
fiero di te e anche di questo scricciolo» aveva
continuato suo padre, e con un sorriso aveva attirato con un abbraccio
sua
figlia.
Sentì
Kari ridere contenta e si estraniò per un po’ di
tempo.
Non meritava
quei baci, quegli abbracci, l’essere definito
quasi un eroe.
La questione dei
soldi era più semplice rispetto a quella
dei suoi sentimenti; in quel caso si trovava ancora nel limbo
dell’orizzonte
degli eventi.
Dall’esterno
sembrava
non si muovesse, eppure lui precipitava dentro ad una
velocità simile a quella
della luce.
Si
sarebbe distrutto,
ridotto in cenere; anzi no, nelle più piccole delle
particelle.
Osservò
ancora la sua famiglia di fronte a sé.
Sua madre aveva
abbracciato Susumu.
«Riavremo
la nostra casa» sussurrava tra le lacrime di
gioia.
Suo padre aveva
appoggiato il mento sulla sua testa.
«Sì,
Yuuko. La riavremo»
Strinse gli
occhi.
Dov’era
stato tutto quel
tempo?
Vittima degli
eventi in un orizzonte oscuro, mentre si era
perso ogni momento, ogni attimo di felicità.
Sarebbe
dovuto davvero
andar via?
Sua sorella lo
fissava da un po’ di tempo, si era accorta
del suo sguardo vitreo. Lo toccò appena sfiorandogli un
braccio e ruppe il suo
flusso di pensieri.
I suoi occhi
nocciola erano caldi e gentili.
«Devi
andare, vero?» gli chiese ed il suo tono di voce era
sereno, quasi un sussurro prima di addormentarsi.
Sentì
distrattamente le lacrime agli occhi.
Sì,
ma in quella casa
avrebbe lasciato il vero Taichi.
Annuì
senza riuscire a nascondere quel velo di tristezza.
«Vado,
ma non davvero» e non seppe nemmeno se a rispondere
fosse stata la sua bocca o il suo cuore.
Gli occhi della
ragazza erano colmi di lacrime allo stesso
modo, ma non mancò di sorridergli.
Quel
suo caldo sorriso lo
avrebbe portato con sé per le gelide notti
d’inverno.
Si
avvicinò e le accarezzò una guancia.
Forse
avrebbe dovuto
prevederlo che sarebbe arrivata la parola fine fin
dall’inizio.
L’attirò
a sé e l’abbraccio, mentre Hikari si lasciava
andare a dei silenziosi singhiozzi.
I rintocchi
dell’orologio erano insistenti.
Forse
un giorno la fine
non sarebbe mai giunta.
Parlò
con i suoi genitori e gli raccontò tutto, della
scadenza delle sue ferie, del suo trasferimento, della sua decisione.
Sapeva che sua
madre non avrebbe preso bene il distacco, che
era stato pochissimo tempo lì con loro; lo sapeva, ma non
poteva più farci
niente.
Suo padre lo
appoggiò.
Fine.
Raggiunse la sua
stanza, si fece una doccia veloce e si
cambiò, indossando una tuta per sentirsi più
comodo durante il viaggio sotto la
giacchetta di pelle.
Raggruppò
le poche cose che aveva portato e le rimise dentro
il borsone.
Chiuse la
cerniera sonoramente e chiuse anche gli occhi.
Gli
veniva da piangere.
Andò
verso la cucina e salutò un’ultima volta la sua
famiglia, lasciando in quella casa la scia del suo profumo.
Scese le scale,
non prese l’ascensore nemmeno quella volta.
Gli
veniva da piangere.
Spalancò
il portone principale e l’aria fredda invase il suo
volto.
Gli
veniva da piangere
perché non era solo in quella casa che stava lasciando un
pezzo di sé.
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Capitolo 19 *** Fine ***
Un
rombò di tuono la svegliò.
Impaurita, si
mosse appena sul letto sentendo freddo. Si
rese subito conto di trovarsi in un ambiente estraneo da camera sua.
Il letto era
diverso, era morbido e si adattava alla forma
del corpo, mentre il cuscino era più sottile del suo.
Decisamente non
aveva
passato la notte a casa.
Era stata fuori,
in
camera di qualcuno, con qualcuno, e adesso che ci pensava tutto le
tornava
lentamente in mente...
Si
voltò di scatto alzandosi appena, mentre il braccio che
leggermente
le stringeva un fianco scivolò sul materasso.
Il cuore le
salì fino alla gola non appena vide Victor
sdraiato alla sua destra, ma soprattutto, sentì
l’aria mancarle completamente
quando constatò che era per la maggior parte svestita.
Svestita su un
letto che non era il suo e con una persona
che non era Yamato.
Yamato...
Si
portò il lenzuolo fino al petto e si mise seduta.
Si
guardò intorno spaesata, cercando di ricostruire nella
sua testa gli ultimi avvenimenti della sera precedente.
Lei e Victor si
erano incontrati per parlare, era salita in
auto con lui e si erano diretti a casa sua, dove avevano discusso o
forse no...
era come se la sua testa avesse rimosso i ricordi, era come se cercasse
di
oscurare le immagini e le sensazioni.
Eppure erano
lì, i
ricordi pian piano tornavano a percuoterla vividi e chiari, come se
fossero
tanti spilli che intendevano pungerla uno per volta.
Cominciò
a boccheggiare, a fare dei respiri profondi, ma il
suo cuore non accennava a calmarsi, era impazzito, dava delle profonde
martellate che le infondevano dei sensi di colpa terribili.
Chiuse gli occhi
e tentò di ricacciare via le lacrime.
Non aveva senso
piangersi addosso dopo tutto quello.
Non poteva
pensare che era stata guidata da qualcun altro
che non fosse la sua coscienza fin sopra quel letto; non aveva fatto
altro che
assecondare i suoi istinti, le sue voglie, e fanculo, era tutta colpa
sua.
Era colpa sua se
aveva finito con il cedere tra le braccia
di un altro ragazzo per ben due volte, e questa volta aveva fatto
peggio... per
quanto tentasse di scacciare via i ricordi non poteva fare a meno di
sentire
quei momenti intimi così autentici da udire il sussurro e
gli ansimi ancora
dentro le sue orecchie.
Sussultò
e lasciò cadere il lenzuolo, rimanendo in
reggiseno.
Si
portò le mani al capo ed emise un lamento.
Aveva nuovamente
sbagliato tutto, anche se non riusciva a pensare di non averne avuto
bisogno
fino ad allora.
Per quanto
sentisse la testa andare in fiamme, non riusciva
a condannarsi completamente, perché sarebbe stata
un’ipocrita a dire che non
l’aveva voluto.
Piano,
udì dei leggeri movimenti provenire alla sua destra.
Strinse le
labbra.
Sì,
lo aveva voluto, ma
adesso non riusciva a smettere di pensare che le era bastato.
Non riusciva a
smettere di pensare a quanto avesse esagerato
a lasciarsi andare in quel modo, in un letto che non fosse quello di
sempre,
poco importava cosa fosse successo.
Non avrebbe
dovuto, perché se dopo averlo fatto il suo primo
pensiero era rivolto a Matt e a come avrebbe voluto svegliarsi con il
peso del
suo corpo addosso, e avrebbe voluto sentire i suoi capelli sulla sua
pelle, e
il suo tocco, le sue labbra...
Dio, era uno
strazio, voleva Matt su quel letto, voleva che
il braccio che adesso la stava cingendo fosse il suo, e quei baci sul
braccio
appartenessero alla sua bocca.
Cosa aveva fatto?
Ormai era
diventata brava a creare dei casini e a pentirsene
subito dopo. Era maestra del latte versato e dei piagnistei conseguenti.
Ansimò
disperata, sentendo tutto ciò come un supplizio
infernale.
Voleva Matt, e
non
sapeva se dall’inferno avrebbe potuto scorgere mai
più quell’angelo...
Nel frattempo,
Victor non aveva smesso di passare le labbra
sul suo braccio, e poi sul suo fianco fino a morderlo leggermente.
Sora
sussultò e si strinse sul lenzuolo.
Il ragazzo si
rese subito conto che c’era qualcosa che non
andava. La vide piccola e tremante, tutta raccolta, gli occhi chiusi e
nel viso
un’espressione di disagio, sconforto, timore.
«Sora...»
la richiamò piano, poi ricacciò indietro i
pensieri negativi e si sporse per provare a baciarla sulle labbra.
La ramata, con
un gesto spontaneo, ruotò la testa verso
sinistra, tenendo gli occhi bassi, mentre lui la fissava senza saper
bene che
dire.
Lo aveva
rifiutato e sapeva bene cosa significasse tutto
quello.
Era la ragione
per la quale aveva avuto gli incubi tutta la
notte, nonostante avesse passato le ore più dolci e
piacevoli della sua vita.
«Che
succede?» le domandò preoccupato, come se non
sapesse o
si aspettasse una risposta a quell’interrogativo.
Sora era ancora
voltata dall’altro lato, piano alzò gli
occhi nocciola lucidi con sguardo inespressivo, troppo vacuo per far
trapelare
emozioni.
Si sentiva
svuotata da ogni tipo di sentimento.
Adesso che si
ritrovava con lui accanto, non riusciva a
sentire altro se non un senso di disagio addosso, sulla pelle, nel
cuore.
Eppure fino a
qualche ora fa era stata così vicina a Victor
da pensare di voler fondersi in un tutt’uno.
Non poteva
essere così sfuggente, doveva almeno cercare di
dissimulare quel malessere terribile che la stava opprimendo.
Gli occhi chiari
del ragazzo la guardavano in cerca di un
cenno o una parola, allora lei si schiarì la voce.
«N-niente...»
mormorò, voltandosi appena.
Poi si
portò una mano sui capelli spettinati, cercando di
darsi una sistemata, tentando in tutti i modi di sfuggire al suo
sguardo.
«Hai
dormito male?» Victor provò nuovamente a cavarle
le
parole di bocca senza alcun risultato.
Lei non rispose,
non volle.
Il ragazzo
sospirò e decise di alzarsi e preparare la
colazione così da lasciarla da sola a rimuginare senza
risultare troppo
insistente.
Si mise in piedi
e si allontanò in cucina vestito solamente dai
propri boxer.
Non appena lo
sentì trafficare con le stoviglie e la
macchinetta del caffè, Sora rilasciò tutta
l’aria che aveva trattenuto fino ad
allora.
Cosa diamine
aveva
fatto?
Come aveva fatto
a
finirci lì dentro, dentro quel letto?
Era stata
così talmente
abbagliata da aver perso la ragione ed aver spinto affinché
succedesse?
Il volto di Matt
continuava a fare capolino nei suoi
pensieri, e sentiva una sensazione pesante allo stomaco, come se
dovesse
vomitare.
Cos’avrebbe
pensato
adesso di lei?
Non
c’era più nessuna speranza di tornare insieme,
perché
aveva fallito la sua battaglia con l’amore, oramai.
Aveva tradito,
gettato
al vento quei sentimenti che aveva curato da anni non permettendo a
nessuno di
scalfirli.
Aveva mandato
tutto
all’aria, per cosa poi?
Volse uno
sguardo in direzione di Victor, ma non ebbe il
coraggio di tenerlo fermo per molto, così lo distolse
velocemente.
Lui le aveva
fatto provare delle sensazioni vivide, l’aveva
fatta sentire speciale, l’aveva corteggiata per anni
nascondendosi dietro
l’amicizia universitaria, eppure, lei lo sapeva come stesse
pian piano insidiandosi
nei meandri del suo cuore e di come sarebbe stato decisivo nella resa
dei conti
dei suoi sentimenti.
La storia con
Matt era già oltremodo sfracellata, ma Victor
era stato un punto che ne aveva accelerato la fine.
Si sentiva
rassegnata, persa nel suo malessere, nel suo
dolore.
Ma la
domanda era, voleva realmente mettere la parola fine?
Il ragazzo si
avvicinò a letto con un vassoio, sentiva
distrattamente che le diceva qualcosa a riguardo delle brioches e dei
biscotti.
Non aveva tanta
fame, ma non voleva allarmarlo. Così,
meccanicamente, prese una tazza e la portò alla bocca,
bevendo un sorso di
caffè che le restituì un po’ di forze
dopo giorni di stremo.
Non
proferì parola per tutta la durata del pasto, troppo
occupata a rimuginare e, allo stesso tempo, troppo spaventata per
voltarsi e
dare a Victor uno sguardo di troppo che avrebbe potuto essere frainteso.
Questi,
però, non era dello stesso avviso. Credeva che se
non aveva intenzione di parlare o affrontare il discorso era meglio
comportarsi
come se niente fosse e riprendere da dove avevano lasciato.
Non voleva darle
tempo di pensare, aveva timore che avrebbe
potuto fare i conti con il suo cuore troppo presto, e lui voleva che
restasse
ancora un po’.
«Vieni
qui» le sussurrò. Le tolse la tazza dalle mani e
la
posò via, senza distoglierle gli occhi di dosso, le mani la
cercarono e
l’abbracciarono.
Sora non
riuscì ad opporsi e d’un tratto le labbra di
Victor
furono sulle sue.
Sentì
la sua lingua che chiedeva un permesso, e allora,
nonostante fosse titubante, glielo diede, schiudendo le labbra.
Il ragazzo fece
in modo che si sdraiasse e subito le fu
addosso, cominciando ad accarezzarla e a baciarla veracemente.
Le sua mani le
toccavano le cosce e risalivano lungo la
pancia, e ricadevano di nuovo su per i fianchi. Il tocco era gentile ma
deciso;
Sora cominciò a sentire caldo, chiuse gli occhi e si
lasciò trasportare dalle
sensazioni.
Victor
passò a baciarle il collo, succhiando dei lembi di
pelle e le mordicchiò, facendola ansimare profondamente.
Quando
riaprì gli occhi lo vide che la guardava come per la
ricerca di un permesso, così ricambiò quel tacito
sguardo sentendo il fiato
corto e la voglia farsi strada in lei.
Non appena il
ragazzo le sfiorò le cosce subito le aprì e
fece in modo che si incastrasse sopra di lei; riprese a baciarla e
furono
travolti dalla foga.
Non
pensò a niente per dei secondi, chiudendo gli occhi e
smarrendosi
nel tocco dell’altro, mentre le fitte al ventre cominciavano
ad essere forti e
la sua pelle era diventata sensibile, scottata da ogni singolo bacio.
Victor spinse
leggermente con il bacino e Sora percepì da
sotto la stoffa dei boxer la sua erezione, la sentì proprio
a contatto con quel punto e subito
lo fermò.
Lo strinse dai
capelli e fece in modo che smettesse di
baciarla.
I due si
guardarono per qualche secondo, tempo in cui erano
udibili solo i battiti accelerati del suo cuore.
Le sue palpebre
cominciarono a scendere da sole.
Dio, era...
Non lo sapeva
nemmeno
lei che era, ma aveva caldo e lo voleva...
Lo
attirò verso di sé e lo baciò lei
questa volta, le
braccia attorno al suo collo e la testa impazzita.
Sì,
era impazzita...
Era totalmente
fuori di testa sapeva bene di esserlo, di
aver mandato a monte tutto, di star facendo la sciocca incoerente, e
stupida,
solo perché era eccitata...
Eccitata da un
ragazzo che aveva gli occhi buoni e la
guardava come fosse l’unica al mondo, che la faceva ridere,
che la faceva
sentire importante, che la toccava e le faceva perdere la connessione
con la
realtà.
Quando aveva
smesso di
provare tutto questo con Yamato?
Victor
continuava a baciarla, una sua mano si faceva strada
lungo il suo corpo.
Non aveva mai
smesso di provarlo, era solo il suo cuore ad
essersi inaridito, disilluso, ad aver distrutto le barriere solide di
quell’amore.
Perché
gli eventi li avevano trascinati con foga verso la
deriva, avevano demolito tutti i loro sogni più solidi.
Lei che voleva
costruirsi una famiglia, Matt che voleva
suonare con la band, diventare qualcuno, mostrarsi per quello che era...
Solo Sora
conosceva il vero lato di Yamato, a parte Taichi.
Il pensiero del
suo migliore amico proprio in quel momento la
infastidì, e strinse gli occhi cominciando a perdere tutta
la libido provata
fino ad allora.
Loro lo
conoscevano realmente, e sapevano i suoi desideri
più nascosti, più profondi.
Sapevano quanto
era vulnerabile, anche se non lasciava
trasparire nemmeno un pezzo di quella che era la sua
fragilità, perché si era
reso forte con la vita, l’esperienze, il lavoro che tardava
ad arrivare e
adesso... adesso lei, Sora, che lo aveva tradito, lo aveva abbandonato
così, su
due piedi.
Victor
allontanò le labbra dalle sue, abbassandosi e
spostando l’attenzione su di un’altra zona del suo
corpo.
Lei si trovava
sdraiata supina, aveva aperto gli occhi e
guardava il soffitto con sguardo vacuo, mentre i pensieri non
l’abbandonavano.
La vita era
stata dura con Matt, sembrava lo avesse messo da
parte, non si fosse curata più di lui perché era
stata egoista, così come i
suoi genitori che si erano separati improvvisamente senza pensare al
bene dei
loro figli; così come lei, che aveva pensato di aver bisogno
di aprire le gambe
sotto il peso di un altro uomo piuttosto che andare da lui a parlargli,
chiedergli perdono, spiegargli le sue motivazioni.
Sora chiuse gli
occhi, le lacrime le colarono sulle guance.
Aveva preferito
scappare
e rifugiarsi lontano dai suoi sensi di colpa, lontana dal giudizio, ma
non
riusciva a scappare da sé stessa.
Non riusciva a
togliersi dalla testa che tutto ciò era
sbagliato, non era quello il letto su cui voleva sdraiarsi, non era per
quel
ragazzo che voleva svestirsi, non era Victor la persona per la quale
provava amore.
Finalmente,
l’amore...
Era da tanto
tempo che l’aveva messo da parte, sotterrato
dall’indifferenza.
L’esatto
contrario
dell’amore non era l’odio, ma il pensare che non
valeva la pena quando sì che
ne valeva, valeva tutta la vita tentare di amare.
D’un
tratto aprì gli occhi e le labbra di Victor non furono
più quelle di Victor, le braccia che la stringevano non
furono quelle sue, il
corpo caldo non gli apparteneva più, perché
Yamato era diventato Victor, e lui,
solo lui poteva prendere quel posto.
Era lui che la
baciava, che la desiderava e lei lo voleva,
oh sì, voleva fare l’amore con Matt, voleva
ricominciare così come le aveva
detto lui la sera della festa...
Aveva fatto
ammenda delle sue colpe, le aveva detto di
amarla ancora e sul serio, voleva che si lasciassero alle spalle quella
brutta
situazione e ricominciassero insieme, più forti che mai...
Mentre lei
dentro di sé
era macchiata da una colpa grande.
Lo aveva tradito
nella testa, nelle labbra, e adesso nel
corpo...
Immaginò
Matt che la prendeva, che le faceva perdere la
testa, che scendeva giù, oh Dio, che la toccava e la faceva
venire...
Matt...
Voleva Matt,
sopra di
lei...
Voleva
l’amore di Matt.
Non appena
sentì Victor spostarle l’elastico delle mutandine
aprì gli occhi. Con un gesto repentino richiuse le sue dita
attorno al suo
posto e lo bloccò.
«NO!»
urlò sentendo il cuore battere forte per l’affanno
e
per il terrore.
Non voleva che
la toccasse, non voleva che succedesse
ancora.
Non riusciva ad
andare
avanti senza il peso nel cuore che urlava il nome di Yamato.
Lo spinse via
forse un tantino bruscamente, mentre il
ragazzo assunse un’espressione spaesata.
Lei amava
Yamato, non ce
la faceva più...
Non ce la faceva
più a sentire il peso di un altro corpo
sopra di lei.
Voleva Yamato.
Lei amava Yamato.
Si mise a sedere
sul bordo del letto e si sistemò il
reggiseno, coprendosi. Lo sguardo era basso, sfuggente, le guance erano
colorate di rosso.
Si vergognava
perfino ad essere là, ad essere in quella
posizione, in quella situazione.
Come aveva fatto
a
finire in quel modo?
La spallina del
reggiseno le cadde sulla spalle e subito la
ritirò su. Diede un languido sguardo a Victor che
l’osservava in attesa di una
sua parola e sentì lo stomaco dolerle forte.
Si sentiva una
stupida per aver causato tutto quello, per
aver causato del male a tante persone, per aver ferito sé
stessa, nell’orgoglio
e nella dignità.
«Non
ce la faccio, s-scusa...» biascicò e la voce le
s’incrinò.
Si
portò le mani al viso, coprendolo tutto, disperata.
Si vergognava
come una ladra di essere lì, in casa di
Victor, mezza nuda, avvolta tra le sue lenzuola...
Se ne vergognava
perché aveva creduto di averne bisogno,
mentre adesso aveva ricevuto una secchiata d’acqua gelata ed
era stata
catapultata alla realtà.
Lei non voleva
tutto
quello.
Non lo voleva
affatto, si era solo illusa di aver bisogno di
stimoli nuovi, aveva giocato a seguire i suoi istinti ed aveva fallito.
Perché
Victor non era la persona che desiderava e quella che
desiderava non l’avrebbe voluta più da quel
momento in poi.
Mentre lei non
poteva fare
a meno di volere Matt.
Ansimò
contro i palmi delle sue mani, piena di dolore,
rabbia e rancore verso sé stessa, mentre sentiva la lieve
stretta dell’altro sul
suo braccio.
«Posso
sapere che hai?» le aveva chiesto seriamente
guardandola negli occhi con un’espressione che le fece ancora
più male perché
era di consapevolezza, ma allo stesso tempo di speranza
affinché non si
trattasse di quello.
Tolse le mani e
rimase per un paio di secondi con lo sguardo
perso nel vuoto. Fino a quando non sentì il tocco di Victor
sulla sua guancia
che andava a spostarle una ciocca di capelli di fronte al viso.
Sospirò
a disagio e fece una faccia infastidita.
Non riusciva
più a
sentire quello che le stava dicendo, non voleva quelle mani su di
sé ancora,
voleva andare via da lì...
Stava fremendo
perché
non riusciva ad uscirne, e voleva alzarsi e lasciare tutto
lì, correre via,
andare da Matt...
Mentre Victor
l’accarezzava il volto del biondo non lasciava
i suoi pensieri.
Sapeva cosa
doveva fare, e forse era quello che avrebbe
dovuto fare da tanto tempo.
Non avrebbe
dovuto lasciar passare tutto quel tempo, non
avrebbe dovuto lasciare che tutto quello accadesse facendosi
trasportare come
dalla corrente di un fiume.
Si era svegliata
troppo tardi ed adesso stava patendo le
pene dell’inferno.
Avrebbe dovuto
dire subito a Matt che aveva baciato un altro
ragazzo, non avrebbe dovuto lasciare quel fottuto cellulare
incustodito,
avrebbe dovuto parlargli a cuore aperto e sperare che lui la
perdonasse, non
peggiorare le cose...
Aveva coinvolto
troppe cose, troppe persone nel bel mezzo di
una fottuta guerra che imperversava all’interno del suo cuore.
Non sapeva amare.
Non sapeva amare
come
pensava, perché adesso Matt non era lì con lei, e
lei voleva andare da Matt,
voleva dire a Matt che l’amava...
Tolse la mano
dell’altro dal suo volto facendo finta di non
vedere la sua espressione delusa.
«Non
posso più farlo, Victor» sentì uscire
dalla sua bocca,
poi alzò lo sguardo con gli occhi lucidi, pieni di lacrime
amare
«Non
posso, ti prego, non ti avvicinare...» mormorò
tremante
ed impaurita, come se una semplice carezza potesse bruciarla e
provocarle delle
ferite.
Il ragazzo
rimase per alcuni momenti in silenzio, poi
sospirò profondamente.
«Hai
già cambiato idea?» le chiese forse un tantino
troppo pungente,
ma sarebbe stato ipocrita da parte sua affermare che non gli facesse
male.
Era preparato,
ma non
così tanto.
Non
così tanto dopo che fino a qualche minuto fa era sotto
di lui a stringerlo, ricambiare i suoi baci e gemere.
Sora
lasciò cadere due calde lacrime che sapevano di tutto.
Di rimorso, di
dannazione, di dispiacere.
Era dispiaciuta,
non solo per tutto quello che aveva
causato, per aver rovinato in un soffio la sua storia con Matt, ma
perché era
consapevole di star inferendo del male ad una persona come Victor che
non lo
meritava affatto.
Era un ragazzo
buono, leale e generoso, l’aveva aiutata
tanto e gli aveva permesso di entrare a gamba tesa nella sua vita,
nella sua
relazione... era colpa sua, non di Victor se aveva mandato tutto a
monte, perché
lui si era innamorato di lei e lei non aveva fatto nulla
affinché non
succedesse.
E adesso doveva
prendere coraggio, affrontare sé stessa ed
il suo cuore, e dirgli tutta la verità anche se sentiva un
groppo in gola
grande come un sasso.
«Non
possiamo andare avanti. Io sto facendo una cazzata...»
lo ammise per la prima volta ad alta voce e per un po’ la
fece sentire meglio.
La faceva
sentire come
se non fosse ormai troppo tardi...
Il ragazzo,
però, non la pensava allo stesso modo. Cominciò
a sentire un senso di amarezza percorrergli il corpo, e ciò
che voleva in quel
momento era quello di ricondurla sulle sue azioni precedenti per farle
intendere come non poteva aver finto fino a poco prima.
Forse voleva
colpirla di proposito, ma voleva solo vendicarsi
un po’ di tutta la sofferenza che stava sentendo...
«Una
cazzata?» chiese retoricamente, emettendo una risatina
«Strano,
fino a ieri la pensavi diversamente» terminò,
tagliente.
Le immagini
della serata trascorsa attanagliarono la testa
di Sora, così tanto da farle chiudere gli occhi.
Non riusciva a
toglierle dalla testa, la perseguitavano, e
Victor aveva tutte le ragioni del mondo per prenderla in contropiede.
Era stata troppo
avventata, troppo fuori di sé, non si
riconosceva più, era come una versione degradata della Sora
che pensava di
essere.
E adesso...
adesso non c’era modo affinché potesse tornare
indietro a cancellare tutto quello che era stato, perché
avrebbe pagato sulla
pelle e sui sentimenti tutto quello che aveva fatto...
Si
portò le mani alle tempie.
«Cazzo...»
imprecò a bassa voce, nei guai con la sua
coscienza.
Non poteva
neanche pensare di poter correre da Matt ed
invocare il suo perdono dopo ciò che aveva fatto fino a poco
prima.
Sarebbe stata
una bugiarda, non avrebbe guardato in faccia il
peso della sua lealtà, non che fosse stata leale, ma non
poteva nemmeno sperare
che il biondo provasse anche solo a pensare di prendersi del tempo per
perdonarla.
Victor la
fissava ancora, poi vide che si portava anche lui
una mano sulla fronte.
Voleva correre
da Yamato, ma non avrebbe potuto mai più
mettere le cose a posto, perché lei lo conosceva, sapeva
quanto era orgoglioso;
aver scoperto quel tradimento l’aveva fatto letteralmente
sparire, era sicura
che se solo si fosse avvicinata a tentare di parlargli le avrebbe
chiuso la
porta in faccia seduta stante.
Emise un suono
martoriato.
Non
c’era alcuna
possibilità di tornare insieme a Matt...
Cosa aveva
combinato?
Un rombo di
tuono.
Udì
il ragazzo al suo fianco prendere la parola d’un tratto.
«So a
cosa stai pensando, anzi a chi»
affermò con un tono di voce statico.
Lei si
voltò, colpita di essere stata scoperta.
Non si aspettava
che Victor avrebbe toccato l’argomento in
quel modo brusco, ma in effetti era sciocco pensare che non avrebbe
capito a
cosa era dovuto quell’improvviso cambiamento.
Credeva che
avrebbe dovuto andarci piano, ma forse Victor
meritava di essere parlato a cuore aperto.
Glielo doveva,
perché nonostante tutto non l’aveva forzata,
non l’aveva minacciata di riferire tutto a Matt, non
l’aveva denunciato dopo
che lo aveva picchiato.
Meritava tutta
la
verità.
«Sì,
penso a lui»
rispose secca, senza preoccuparsi di come sarebbe suonata la sua voce.
Lui chiuse gli
occhi e le sue labbra si piegarono in un
sorrisino amaro.
«Lo
sapevo...» sussurrò più a sé
stesso che a lei.
Non dissero
nulla.
L’unico
rumore era quello di alcuni tuoni in lontananza che
incutevano un certo timore che la fine
fosse arrivata.
L’orologio
segnava i minuti che trascorrevano, e Sora pensò
che stava solo prendendo tempo perché aveva paura.
Aveva paura di
uscire fuori da quella casa ed affrontare lo
spettro del suo cuore.
Uno spettro che
era lei
stessa.
Fece un respiro
profondo e si avvicinò di più a lui. Victor
aveva ancora una mano che tratteneva il viso. Gli sfiorò
delicatamente un
braccio in modo da richiamare la sua attenzione.
«Guardami,
per favore» lo esortò.
Non se lo fece
ripetere due volte, nonostante il dolore al
cuore si voltò a guardarla.
Sora emise un
sospiro per infondersi coraggio, ma sapeva già
che quelle parole le sarebbero uscite fuori da sole, senza che le
controllasse.
Perché
era consapevole
di ciò che provava, era consapevole del suo amore, e lei
parlava alle persone
tramite l’amore.
«Io
amo Matt» pronunciò quella frase come se stesse
lenendo
finalmente una ferita, come se dicendolo avrebbe potuto curare un male
«E ho
fatto un errore. Ho sbagliato a fargli tutto questo»
gli strinse ancora più forte il braccio «E ho
sbagliato a mettere te in mezzo.
Tu non meritavi di diventare il capro espiatorio della nostra
storia»
Victor non
riusciva neanche ad alzare lo sguardo su di lei,
ad ogni parola tanto sentiva una sofferenza tale da togliergli il
respiro.
Sora,
però, insistette. Gli prese il volto e lo costrinse a
guardarla.
«Tu
meriti una persona che ti ami sul serio, interamente,
non come me... non così,
a metà...» gli
diede una carezza.
Si guardarono
per un po’ e Sora sentì sullo stomaco
l’amarezza di quell’addio.
Gli stava
dicendo che
era finita.
Victor lo
sapeva, ma non voleva sentire delle frasi fatte.
«Risparmiatela...»
disse tra i denti, ma ciò che ne trapelò
fu soltanto un sussurro spezzato e disperato.
Lei non demorse.
Sentiva il cuore
star
facendo una parte enorme in quel momento.
Proprio come una
volta.
«No,
non lo farò» lo contestò, poi
abbassò lo sguardo e
ripensò ad un profumo, una risata, a degli avvenimenti
passati, quando era
libera di amare
«Per
me l’amore ha sempre avuto un valore fondamentale nella
mia vita»
Ripensò
ai tempi a Digiworld, le notti insonni, la paura di
non poter più tornare a casa, di perdere i suoi amici, di
non ricevere indietro
l’amore che lei sentiva, di non saperlo donare...
«Avevo
perso tutto... adesso l’ho capito» alzò
la testa e lo
guardò con uno sguardo sereno e limpido
«Adesso
so cosa devo fare» concluse.
Doveva andare da
Matt e
dirgli che lo amava.
Doveva andare da
lui e
dirgli che gli dispiaceva, che lo aveva fatto perché non ci
aveva creduto
abbastanza, e che si pentiva, che voleva ricominciare da dove avevano
lasciato...
Doveva
riaccogliere
l’amore tra le sue braccia, nel suo cuore.
«Certo
che lo sai» le fece subito eco Victor.
Lo vide
massaggiarsi la fronte in segno di stanchezza, poi
si voltò a guardarla.
Quello sguardo,
quegli occhi grigi erano feriti, ma fermi,
consapevoli, e trasparivano un senso di protezione.
Era come se non
la stesse condannando, solo aveva provato a
colpirla per non crollare da solo, ma la verità era che non
aveva pensato solo
un secondo che potesse andare diversamente.
«Quando
ti ho baciata sapevo che la tua storia era in crisi,
ma che nonostante tutto tu lo amavi ancora» le
rivelò, poi si fermò e diede
un’altra risatina
«Ho
sempre saputo di non essere abbastanza per te, che non
avrei mai potuto superare lui»
La ramata
aprì per un secondo la bocca, sorpresa nel sentire
quella confessione.
«E
allora... allora perché l’hai fatto? Se lo sapevi,
perché
ci hai provato comunque?»
Il ragazzo
alzò le spalle guardando un punto senza vederlo
realmente.
Per lo stesso
motivo per cui lei voleva tentare di
ricostruire la sua storia, ma forse non lo sapeva ancora.
«Perché
vale sempre la pena. Anche se sai come andrà a
finire, per lo meno potrai dire “io ci ho
provato”» proferì in tono sicuro, e
quelle parole la spezzarono.
Victor ci aveva
provato con lei nonostante sapesse che non
aveva mai smesso di amare un altro e che ne avrebbe certamente rimesso
solo per
tentare di poter cambiare qualcosa e dimostrare che non aveva timore ad
affrontare il suo cuore.
E lei?
Voleva correre
da Yamato, era vero, ma aveva una paura
fottuta che lui l’avrebbe rifiutata senza nemmeno darle modo
di spiegarsi.
Sapeva che ogni
spiegazione era superflua in quei casi, però
era il punto debole della loro relazione, quello di aver smesso di
parlare...
Se Matt la
rifiutava voleva dire che non era destino
continuare a stare insieme e che tutto quello era successo solamente
per
condurli ad una fine.
E lei voleva
solo stare
bene, alla fine.
«So
che è quello che hai fatto anche tu con me»
continuò
l’altro, distogliendola dai suoi pensieri «per
questo non riesco a non dirti
che è giusto che tu segua il tuo amore»
Sora lo
fissò senza fiato.
Davvero lo
pensava?
Che stronza che
era
stata...
Infliggere anche
a lui tutto quel male quando avrebbe potuto
evitarlo... ma lui l’aveva capita, aveva capito che aveva
bisogno di provarci,
comprendere se tutto quello era reale, se poteva contrastare quello che
realmente sentiva dentro.
Lo aveva
sentito, lo
aveva vissuto, e adesso aveva capito.
«Victor...»
soffiò toccata nel profondo dalla compostezza e
dalla benevolenza che, nonostante non meritasse, quel ragazzo le stava
riservando.
«Va’
da lui» l’esortò poi, ma senza avere la
piena forza di
alzare lo sguardo sui suoi occhi nocciola
«Io...
io me ne farò un ragione se ciò vale a dire
renderti
felice»
Si
sentì colpita, schiaffeggiata nell’anima.
Victor era
innamorato di
lei e le stava dicendo addio.
Stava accettando
di lasciarla andare perché non lo
ricambiava.
Le stava dicendo
di raggiungere la persona che amava
davvero, piuttosto che tentare di convincerla a rimanere o ad usare
ciò che
avevano fatto contro di lei.
I suoi occhi si
riempirono di lacrime di affetto.
Era triste allo
stesso tempo, perché sapeva che stava
lasciando dietro di sé un ragazzo speciale, intelligente,
che la rispettava,
che non voleva farle del male.
In quel momento
non si sentì sollevata, si sentì nuovamente
sconfitta.
Stava lasciando
Victor che l’amava per andare da Matt di cui
non sapeva più niente... non sapeva se l’avrebbe
perdonata, se sarebbe funzionata
di nuovo, se il peso di tutto quello che era successo avrebbe ucciso da
subito
i buoni propositi di ricominciare tutto d’accapo.
Si sentiva in
colpa, si sentiva macchiata di una colpa
troppo grande per affrontarla.
«Lui
non mi vuole più...» non seppe nemmeno
perché l’avesse
proferito, perché avesse detto quella frase proprio alla
persona che stava
lasciando come volesse in qualche modo ottenere una rassicurazione.
Era ridicola a
pensare di poter ricercare del conforto
proprio in lui, specie durante quel momento.
Quello,
però, scosse la testa e finalmente la guardò.
«Io...
sono sicuro che lui ti abbia solo lasciato scegliere
di essere te stessa» glielo disse facendo un po’ di
fatica, ma lei capì che
diceva il vero.
Rimase senza
parole per un po’.
Con quello
intendeva
dirle che Matt l’aveva solo lasciata libera di scegliere?
Aveva fatto in
modo che non si annullasse per compiacere il
suo volere, l’aveva lasciata libera di capire cosa aveva
bisogno senza
limitarsi, e se ciò valeva a dire ricercare la
felicità in un altro, beh,
allora l’avrebbe lasciata fare.
Forse... forse
era anche questo il motivo se non si era reso
reperibile, voleva che non si facesse condizionare da lui e si facesse
guidare
solamente dai sensi di colpa o di dovere nei suoi confronti.
Matt non avrebbe
accettato che tornasse in ginocchio da lui
solo perché era giusto chiedere scusa, mentre dentro di lei
non ci sarebbe
stato niente di sistemato.
L’aveva
lasciata agire secondo il suo istinto, il volere dei
suoi sentimenti; ma nonostante tutto, lui era sempre là, ad
aspettare lei
perché forse... forse Matt
l’amava
ancora...
Aveva paura a
constatarlo, aveva un’enorme paura che non
fosse affatto così, ma la frase di Victor le diede un motivo
in più per
sperare.
Matt forse
l’aveva solo lasciata libera di essere sé stessa,
chi voleva essere, di sceglier qualcun altro che non fosse lui anche se
ciò
valeva a dire non scegliere lui.
Ma nonostante
tutto era lì, che l’aspettava.
Era quello
l’amore.
Si
avvicinò a Victor e gli passò una mano sulla
guancia, ne
sfiorò i lividi e lo vide sussultare leggermente.
«Victor...»
mormorò emozionata, sinceramente toccata dalle
parole che le aveva rivolto sebbene lei lo avesse scaricato.
Lo vide
socchiudere gli occhi, l’espressione sofferente.
«Mi
dispiace...» glielo disse con il cuore e Sora lo sapeva
che lo stava facendo proprio con quello e, per quanto valeva, aveva un
senso.
Comunicava
attraverso il
suo cuore.
Lo aveva sempre
fatto,
era quello che sapeva più fare, trasmettere amore anche nei
momenti più bui.
Lui
capì, le prese la mano e gliela strinse.
«Anche
a me, Take» la chiamò con quel nomignolo che le
riservava da anni, e a lei scappò un lieve sorriso.
Doveva tornare a
sapere
amare.
Amare davvero.
Presto, si
premurò di recuperare il resto dei suoi vestiti e
cominciò ad indossarli. Si abbottonò la camicetta
ed alzò la zip dei jeans. Poi
indossò le scarpe, si passò i capelli dietro le
orecchie, cercando il suo
cellulare.
Lo
trovò dietro l’abatjour sul comodino, lo
afferrò e lo
mise in borsa. Afferrò la sua giacca di pelle e la borsa,
pronta ad andar via.
Si
voltò verso l’altro e lo vide seduto sul bordo del
letto,
in silenzio, la schiena rivolta in sua direzione.
Non riusciva a
vedere il suo viso, ma immaginava lo avesse
contratto. I capelli le ricaddero sul volto e lei li riportò
dietro le
orecchie.
«Io...
Grazie di tutto» le uscì fuori, ma non seppe se
aveva
fatto bene a dirlo.
Non voleva
aggiungere nient’altro che potesse farlo
soffrire, voleva solo sgusciare via da quell’appartamento e
ritrovare la sua
pace interiore.
Il ragazzo non
rispose, si limitò ad annuire chiudendo gli
occhi, come per gustarsi gli ultimi istanti del suono della sua voce.
Sora
posò una mano sulla maniglia della porta, rivolgendogli
un ultimo sguardo. Indugiò ancora un po’, come se
sentisse il dovere di dire
altro, aggiungere qualche altra cosa per spiegarsi meglio.
Aprì
la bocca, ma non ne uscì alcun suono, così la
richiuse
ed assunse un’espressione seria.
Victor era
già provato ed abbattuto; inoltre sapeva bene che
aveva capito come si sentiva, perciò non avrebbe aggiunto
più niente.
Sarebbe andata
via da quella casa e dalla sua vita,
lentamente, scivolando via senza quasi salutare per non far rumore.
Sospirò,
e spalancò la porta, diede un’ultima occhiata
mentre la richiudeva e lui era lì, seduto, non si era mosso
di un centimetro.
Lasciò
dentro quella
casa quello che era stata, ciò che l’aveva fatta
sentire diversa e che l’aveva
ricondotta sui suoi passi.
Scese le scale e
si ritrovò davanti al portone principale.
Con un profondo
respiro, lo aprì.
Fuori il tempo
era nuvoloso e cominciava a tirare un po’ di venticello.
Si mise il giubbotto sulle spalle e si strinse alle braccia.
Cominciò
a camminare sul marciapiede.
Aveva
abbandonato la perdizione di una Sora triste ed
abbattuta, frustrata dal non ricevere ciò che voleva dalla
vita, dalla sua
storia d’amore; tentata da una persona che l’aveva
illusa di poter provare
delle sensazioni diverse da quelle che era abituata a sentire.
Tutto
ciò, nonostante
tutto, nonostante le lacrime, le era servito.
Le era servito a
star
bene con sé stessa.
Anche se
ciò valeva a dire ritrovarsi da sola, sperduta,
senza nessuno da cui andare.
Tuonava ancora.
Non sapeva dove
sarebbe andata. Poco prima aveva una voglia
matta di correre da Yamato, ma adesso...
Era come se
avesse eliminato via tutte le forze.
Come se fosse
prosciugata, sbiadita, alienata in uno stato
catatonico di pensieri.
Qualsiasi scelta
avrebbe fatto desiderava solamente una cosa
da quella storia: che stesse bene, che fosse felice.
E forse quello
non lo
avrebbe mai saputo se non fosse arrivata alla fine.
Un rombo di
tuono.
Yamato
alzò il viso verso l’orologio affisso sul muro di
fronte a sé. Le lancette dei secondi scandivano lo scorrere
inesorabile del
tempo, e ad ogni rintocco sentiva la fine
giungere, vicina, sempre più vicina.
Aveva il viso
pallido e scarno, gli occhi rossi, lo sguardo
fisso in un punto imprecisato, immerso nei suoi pensieri.
Si era messo in
piedi dopo non molto che Tai era andato via
ed era andato a farsi una doccia, non riusciva più a
rimanere sdraiato sul
letto; sentiva una sensazione pesante allo stomaco, come se dovesse
vomitare.
Inoltre aveva un dolore acuto al fianco dopo quello scontro fisico che
non gli
permetteva di rimanere per molto tempo nella stessa posizione.
Chiuse qualche
secondo gli occhi, stringendo forte la tazza
doveva aveva versato del caffelatte che aveva solo sorseggiato.
La sua mente era
in subbuglio così come il suo cuore.
Si sentiva
svuotato, come se non fosse rimasto meno che
niente dentro di lui.
Aveva sofferto
così tanto che adesso i suoi occhi erano
asciutti, secchi, volevano lacrimare ma non era rimasta più
alcuna lacrima da
piangere.
Guardò
di nuovo l’orologio, erano le undici e quindici e Tai
non era ancora tornato.
Gli aveva
promesso che sarebbe passato a prenderlo per
portarlo con sé a Kyoto, avrebbe vissuto con lui al
residence dove alloggiava
con gli altri compagni.
Lo avrebbe fatto
per lui, solo ed unicamente affinché stesse
meglio, affinché si estraniasse da tutto quello che gli era
capitato durante
quegli ultimi giorni.
Era come se
fossero passate settimane tanto quella pena gli
era sembrata infinita.
Aveva lasciato
che il dolore attanagliasse il suo corpo, che
lo distogliesse completamente dalla realtà. Si era
trascurato, si era lasciato
letteralmente morire su un letto lasciando che la vita al di fuori
scorresse...
non era andato a lavorare al bar, aveva evaso le chiamate del
responsabile che
probabilmente lo aveva licenziato seduta stante.
Poco male,
odiava quel fottuto lavoro, odiava tutto di
quella vita; i soldi che aveva guadagnato gli erano serviti per
arrivare con le
stringhe a fine mese.
Il ricordo dei
suoi tempi al conservatorio gli riaffiorarono
in mente, e si perse per un po’ di tempo nel piacere dei
giorni passati a
studiare, a suonare la chitarra, ad uscire insieme ai suoi colleghi di
studi.
Ricordò
con piacere la supplenza di un anno che aveva
sperimentato subito dopo la sua laurea, il contatto con gli studenti e
l’ambiente di insegnamento che lo aveva reso felice e fiero
di ciò che aveva
conseguito.
Aveva reso i
suoi sforzi sensati e aggradanti; poi il
contratto era terminato e da allora era iniziato il declino, il buio,
la fine di lui.
Strinse forte le
labbra.
Adesso si vedeva
lì,
fermo, di fronte ad un bivio.
Taichi voleva
che andasse con lui, che lo seguisse per
potergli stare vicino, mentre suo padre gli aveva offerto un posto di
lavoro
alla Fuji TV, dove grazie alla sua influenza lo avrebbe raccomandato,
avrebbe
scavalcato tutti i curriculum di chi aveva studiato seriamente per
quella
professione solo perché figlio di un cameraman influente.
A lui non
fregava un cazzo di quella professione, e cosa
ancora più importante non intendeva essere riconosciuto come
il figlio di papà
raccomandato.
Lui voleva
occupare un posto di lavoro con le sue sole forze,
con i propri sforzi, con sudore; non avrebbe voluto togliere
un’opportunità a
chi veramente voleva essere qualcuno in quel settore.
Se lo avessero
fatto a lui avrebbe gridato all’ingiustizia.
Si
portò due dita ad entrambe le tempie, il viso contratto
in un’espressione di fastidio fisico ed interiore.
Non era giusto,
già, ma non riusciva a trovare una soluzione
migliore a quella situazione di merda in cui si trovava da tempo.
E poi... sarebbe
dovuto
scappare via da lì.
Avrebbe dovuto
lasciare dietro di sé quella scia di dolore e
lacrime che lo avevano distrutto, che non gli avevano più
fatto vedere la luce
del sole; voleva rinascere via da quella merda di casupola di quaranta
metri
quadrati, lontano dalla band disgregata che aveva lasciato in lui il
segno
amaro dell’illusione, via da quell’infame colpo al
cuore che Sora gli aveva
inferto.
Il solo pensare
al suo nome gli procurava delle fitte che
quasi lo piegavano in due.
Avrebbe dovuto
correre via da lì, fuggire, rifugiarsi da
qualcuno perché era stanco, era fottutamente stanco di stare
lì da solo.
Tai aveva
ragione, aveva bisogno di evadere, aveva bisogno
di abbandonare anche per un po’ di tempo quella dannata vita.
Lui si
preoccupava di come stava dal primo giorno che era
tornato a Tokyo, non lo aveva lasciato neanche un attimo da solo,
seppure
meritasse di ricevere una porta sbattuta sul muso per
l’indisponenza con cui si
era porto.
Aveva
quell’atteggiamento da mercenario del cazzo che lo
aveva condotto solo alla rovina, voleva mostrarsi forte in maniera che
niente
potesse scalfire la maschera di ferro che si era costruito da solo, ma
in
realtà gli era crollata anche quella.
E si era ridotta
in mille pezzettini, gli era caduta addosso
e lo aveva lasciato senza più alcuna copertura.
Si sentiva solo
e vulnerabile, così talmente esposto agli
attacchi esterni; solo Taichi lo aveva protetto da tutto quello.
Non lo aveva
forzato a fare nulla, solo era stato lì, era
rimasto lì, in casa sua, sul suo letto a vegliare su di lui
come se gli fosse
dovuto, ma non gli era dovuto un cazzo.
Avrebbe potuto
benissimo lasciarlo da solo a piagnucolare
sulle scelte di merda che aveva preso, sulla vita azzardata che si era
creato
intorno, perché l’avrebbe capito e se lo sarebbe
meritato.
Lui stesso si
sarebbe lasciato marcire nel suo stesso
sangue, in quella fossa stretta e buia che si era scavato.
Mentre Tai no,
non l’aveva fatto; lo aveva affrontato, al
costo di rimetterci dei lividi, lo aveva messo con le spalle contro al
muro e
aveva fatto sì che aprisse gli occhi, che non si lasciasse
morire.
E lui, cosa
aveva fatto
in cambio?
Lo aveva
picchiato, gli aveva riversato addosso tutto il suo
odio, la sua frustrazione per non essere uguale a lui, coraggioso,
libero, con
una carriera alle spalle.
Taichi sarebbe
stato
sempre migliore di lui, in tutto.
E si vergognava
così talmente tanto per aver provato quel
sentimento di astio nei suoi confronti da volersi sbattere la testa
contro il
muro.
Strinse un
pugno, arrabbiato con sé stesso, mentre le
immagini dei ricordi appartenenti ai giorni precedenti lo invadevano.
Era stato
così ingrato nei confronti del suo migliore amico,
non meritava quella benevolenza che gli stava dando, perché
aveva dissacrato
quell’amicizia, era stato il primo ad averci buttato merda,
trascinandolo
contro il muro ogni volta che qualcosa non andava solo per il semplice
gusto di
dargli il ben servito, di vederlo sottomesso a lui, al suo volere.
Lui non sarebbe
mai stato un leader, non avrebbe mai preso
il posto di Tai.
Eppure aveva
giurato di esserci stato messo allo stesso
piano tante volte proprio da Tai stesso.
Lui lo aveva
innalzato
al suo stesso livello, non lo aveva mai lasciato indietro
perché loro due erano
una cosa sola, non c’era Yamato senza Taichi, e di
conseguenza non esisteva
Taichi senza Yamato.
Quella fottuta
lotta che stava mandando avanti non era altro
che il suo senso di frustrazione che graffiava per averla vinta, per
dimostrare
a sé stesso che era più coraggioso di Tai,
più responsabile di Tai, più capace
di Tai.
Ma non lo era.
Non aveva
eccelso in niente che Tai non avesse fatto meglio.
E tutto
perché il suo migliore amico sapeva andare oltre un
pugno chiuso, una testa china, un voler star da solo.
L’empatia
che aveva Taichi non l’avrebbe mai guadagnata, la
determinazione di non veder soffiare via i propri sogni, le proprie
speranze,
la schiettezza con cui prendeva parola erano tutte qualità
che lui non
possedeva.
Yamato era solo
un masochista, rinchiuso nella sua
solitudine, nella sua commiserazione, nel suo rancore.
Taichi, no.
Taichi guardava
sempre avanti, a testa alta, e non lasciava
mai dietro chi amava.
Non aveva smesso
di volere il suo bene sacrificando i suoi
giorni liberi solo perché non aveva voluto reagire ad un
cazzo di tradimento,
rinchiudendosi nell’alcol, nel fumo e
nell’orgoglio, imbevendosi fino
all’ultima goccia ed annegandovi.
Tutto quello
perché?, gli
veniva da chiedersi.
Perché
loro due erano una squadra, avevano combattuto
insieme, si erano buttati giù insieme, ma si erano anche
rialzati a vicenda,
spalla a spalla.
La sua vita non
aveva senso senza quella di Tai al suo
fianco e anche lui lo sapeva bene, perché tutto quel tempo
separati non aveva
fatto altro che accentuare la loro disperazione e i loro errori.
Tai voleva che
lo seguisse, e non avrebbe potuto affrontarlo
apertamente negandogli quella volontà, perché
avrebbe insistito e l’avrebbe
convinto, come sempre.
E lui non voleva
affatto rovinare la sua permanenza lì, non
voleva ingrigire i suoi giorni con la sua presenza.
D’un
tratto la mente volò a quella sera di sei anni fa.
Tai era immerso
nei suoi
pensieri rivolto verso la vetrata del pub che dava alla strada.
Erano tutti
riuniti lì a
festeggiare la sua ammissione nella squadra, il giorno prima della sua
partenza
per Kyoto; era tutti lì a bere e mangiare, gli avevano
perfino regalato una
torta in suo onore.
Lo aveva visto
staccarsi
da quel coro di auguri e portarsi lì di fronte
l’uscita, pensieroso, come se
avesse intenzione di andar via, di fuggire il prima possibile.
Matt lo fissava
seduto
al tavolo con una ruga di preoccupazione in volto. Sapeva
perché stava in quel
modo, era per colpa di Mimi che non si era presentata e lui ci era
rimasto
male.
Voleva
condividere quella
sera di addio con la ragazza che amava, ma purtroppo Mimi si era
comportata
come al solito infantilmente, sbattendo i piedi per terra
perché non era stata
ascoltata.
Il biondo aveva
sospirato, poi aveva posato il suo boccale di birra sul tavolo e lo
aveva
raggiunto.
Lo aveva
osservato per
un paio di secondi senza dire nulla, notando come nel suo viso avesse
dipinto
un’espressione seria, rigida, esattamente come tutte le volte
in cui si sentiva
sconfortato.
Non voleva che
avesse un
brutto ricordo la sera prima della sua partenza. Voleva che portasse
con sé
delle buone sensazioni, non di tristezza.
In un gesto
spontaneo,
aprì le braccia e lo abbracciò da dietro.
Tai rimase
interdetto
per un po’ quando sentì quella stretta, poi
riconobbe lui e sorrise lievemente.
«Ehi...»
gli sussurrò,
posando una mano sopra le sue che erano strette al suo ventre.
Matt gli
sfiorò spalla
con le labbra, poi vi appoggiò sopra il mento.
«Come
ti senti?» gli
chiese dopo un po’.
Tai
lanciò un’altra
occhiata fuori dal vetro con gli occhi pesanti.
«Confuso»
gli confidò.
Era vero, lo
percepiva.
L’assenza di Mimi lo aveva abbattuto totalmente, se prima era
lieto di
festeggiare insieme a tutti i loro amici adesso sentiva il suo urgente
bisogno
di fuggire via da lì.
Ma non si
sarebbe mosso,
perché sapeva bene che l’orgoglio lo frenava.
Quello sarebbe
stato
solo l’inizio di una lunga serie; non avrebbe raggiunto Mimi
per parlare quella
volta e sarebbe stato l’inizio di tutte le altre volte
mancate.
Tai
però non poteva
saperlo, nonostante Matt lo avesse appena predetto.
Rimuginava sul
da farsi
e cominciava a sentirsi spaesato, confuso di fronte a tutto
ciò che avrebbe
dovuto affrontare. Una nuova vita, un nuovo inizio, una carriera
brillante su
cui affidarsi.
No, non poteva
indietreggiare per i capricci di Mimi.
Se non
c’era lei a
rendere quella serata piacevole allora ci sarebbe stato lui, il suo
migliore
amico.
Gli sarebbe
mancato da
morire...
Lo strinse
più forte.
«Sarà
dura» commentò
riferendosi a tutto quello.
Tai aveva appena
increspato le labbra in un sorrisino amaro e malinconico, solo che lui
non
l’aveva visto.
«Spero
non tanto» si
augurò, lanciando un sospiro carico di rammarico.
Poi lentamente
si mosse
e Matt allentò la stretta affinché si voltasse.
Erano di fronte, faccia a
faccia, quasi della stessa altezza, diversi nell’aspetto
fisico, ma non
sapevano che si guardavano dello stesso sguardo.
Il biondo
strinse le
labbra mentre lo fissava in silenzio, non riuscendo a non sentire
dentro di sé
il cuore battere forte per la tristezza di doverlo salutare.
Non voleva
separarsi da
Tai, non poteva, era l’altra sua metà.
Non voleva
essere
sentimentale, ma credeva così tanto nella loro amicizia...
Il castano aveva
sicuramente pensato a qualcosa di simile perché non appena
sentì gli occhi
farsi lucidi tentò di sdrammatizzare ed emise una risata.
«Non
mi guardare così,
testina» lo redarguì affettuosamente chiamandolo
come erano soliti insultarsi.
La sua voce
s’incrinò un
po’.
«Mi
fai piangere, sennò»
soffiò mentre la sua voce si spegneva e tentava in tutti i
modi di trattenere
le lacrime alzando gli occhi al tetto.
Matt fece
altrettanto e
rilasciò una risata bassa, poi tirò su con il
naso.
Meno male che
quei
momenti tra di loro erano solo loro e basta.
Tai era forte,
sicuramente più forte di lui, ed il fatto che fosse
sull’orlo delle lacrime era
dovuto a tante cose, ma lo apprezzava per mostrarsi così
vulnerabile.
Gli
regalò un sorriso e
i suoi occhi celesti brillarono sotto le fioche luci del pub.
«Fai
il bravo» lo
raccomandò.
«Io
faccio sempre il
bravo» gli rispose lui con un’espressione di
superiorità.
Poi scoppiarono
entrambi
a ridere. Quando terminarono, la tristezza ritornò ed
attanagliò entrambi
nuovamente.
Era come se
stessero
separando una sola persona, come se tutti e due dovessero fare a meno
di una
metà del loro corpo. Era così che appariva quel
distacco dopo anni che avevano
camminato l’uno a fianco all’altro.
Matt si sporse e
lo
abbracciò di getto. L’altro dapprima rimase fermo,
immobile, chiudendo gli
occhi; poi alzò le braccia e lo strinse forte.
«Mi
mancherai, Tai...»
glielo disse sinceramente.
Lui aveva
pensato che
gli sarebbe mancato allo stesso modo, forse anche di più,
perché a Kyoto
sarebbe stato solo senza conoscere nessuno e qualsiasi altra conoscenza
sapeva
che non avrebbe mai potuto eguagliare quello che c’era tra di
loro, il rapporto
con gli altri ragazzi...
«Torno
presto, scemo» lo
prese in giro tentando di smorzare la situazione, ma la
verità era che aveva
una gran voglia di urlare.
Si sentiva
già
perdutamente solo.
Matt lo scosse
un po’,
risvegliandolo dal torpore.
«Non
me ne frega, mi
mancherai lo stesso» proferì duro.
Non importava se
appariva troppo sdolcinato.
Tai sorrise e
gli
strinse leggermente i capelli.
«Anche
tu, Matt»
Rimasero per un
po’ in
quel modo, in silenzio, fino a quando non si staccarono nello stesso
momento.
Si guardarono in
modo
complice e si diedero un cinque.
«We
slay!» esclamò Tai
citando sicuramente qualcosa.
Entrambi risero.
E Matt
capì che anche se
li avrebbero separati cinquecento kilometri, sarebbero rimasti sempre
uniti nel
cuore e nella mente, perché nessuno avrebbe potuto
interrompere quel rapporto
così solido, così ferreo, nessuno, nemmeno la
lontananza, perché loro erano
Taichi e Yamato ed avevano combattuto una miriade di battaglie insieme,
prima
di allora.
E coloro che
avevano
battuto i nemici insieme erano desinati a rimanere insieme.
Quel
ricordò gli aveva attraversato la mente e lo aveva
fatto perdere.
Taichi... il
pensiero di Taichi lo tartassava perché non voleva
trascinarlo nel baratro
insieme a lui, non più, non aveva intenzione di rovinare
ancora la sua vita
allegra, piena di colori.
Taichi era
l’unica ragione per cui credeva ancora
nell’amicizia.
E lui era Yamato
Ishida
e l’amicizia per lui era tutto.
Si
alzò di scatto, andò in stanza e
recupererò la valigia da
sopra l’armadio. Cominciò a prendere una serie di
vestiti ed infilarli dentro,
un po’ a casaccio.
Poi fece lo
stesso con la roba intima, e i calzini, le
scarpe, quante cose più possibili potevano entrarci dentro,
li ficcò tutti lì.
Chiuse la
cerniera.
Recuperò
le sigarette, l’accendino, le mise dentro la giacca
di pelle nera. Prese il telefono e chiamò qualcuno, poi
mandò un messaggio a
suo fratello per lasciargli la macchina.
Aveva preso la
sua
scelta.
Si
infilò il giubbotto e si legò gli anfibi. Poi si
tastò le
tasche in cerca della chiave che come al solito non trovò.
Si
guardò intorno fino a quando non la vide sopra il comodino.
L’afferrò
e subito un’idea gli sfiorò la mente.
Guardò
l’orologio.
Doveva sbrigarsi.
Aprì
un cassetto dove teneva una serie di pentagrammi e dei
fogli. Erano tutti scarabocchiati, così si
accontentò di strappare l’ultima
pagina di un’agenda.
Scrisse qualcosa.
Afferrò
la valigia e percorse l’entrata della cucina. Spense
tutte le luci dall’impianto. Volse lo sguardo e vide la sua
chitarra appoggiata
sopra il divano.
L’avrebbe
lasciata lì, non aveva senso portarla con sé.
Fece per
chiudere la porta, ma non ci riuscì.
Rientrò
e la prese, caricandosela in spalla.
Era arrivata la fine.
Scese le scale
ed arrivò di fronte al portone principale.
Non vedeva la
luce da tanto tempo, gli sembrava fosse
passata un’eternità.
Un clacson
suonò, le foglie degli alberi si muovevano per il
vento.
Non aveva nessun
dubbio, voleva ricominciare.
Ricominciare
davvero.
E cosa ancora
più
importante, in mezzo a tutto quello, nemmeno per una volta il viso di
Sora aveva
attraversato la sua mente.
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Capitolo 20 *** O forse no ***
Tai strinse in
spalla il borsone ed allungò il passo,
attraversando la strada. Guardava l’orologio mentre
camminava, sperando che non
fosse troppo tardi.
Aveva perso il
primo pullman disponibile per raggiungere il
quartiere dove abitava Matt, e l’autobus per Kyoto sarebbe
partito tra soli
quaranta minuti.
Era
in ritardo, doveva
muoversi.
Cominciò
a sorpassare le persone che si trovavano nella sua
traiettoria. Il peso del borsone lo ingombrava e lo faceva muovere
goffamente.
Pensò
di lasciarlo sulla soglia del marciapiede, si fermò
perfino intenzionato, ma poi ci ripensò quasi subito.
Qualcuno ci avrebbe
sicuramente messo le mani.
Sospirò,
cominciò a correre, sperando che Matt fosse già
pronto.
Svoltò
l’angolo e si ritrovo di fronte casa sua.
Il portone
principale era aperto, il postino stava
recapitando delle lettere infilandole dentro le apposite cassette che
si
trovavano al lato.
Non
salutò nemmeno, si precipitò su per le scale.
Arrivato di
fronte la porta dell’appartamento del biondo,
lasciò finalmente cadere per terra il borsone.
Aveva il fiato
corto, ma non si fermò a riprendersi, suonò
il campanello di corsa.
Non rispose
nessuno.
Sospirò
e alzò gli occhi al cielo.
Erano
in fottuto ritardo...
Risuonò
un’altra volta, poi ancora, ma niente.
«Cazzo...»
imprecò a bassa voce, poi rimase per qualche
secondo fermo, le mani sui fianchi, insicuro sul da farsi.
Perché
non gli apriva la
porta?
Credeva
che facendo in
quel modo si sarebbe stancato a suonare e sarebbe andato via senza di
lui?
Era
questo ciò che
voleva Yamato?
Beh, non
l’avrebbe avuta vinta.
Prese a suonare
ossessivamente, nonostante nessuno si
palesasse e il tempo scorreva lento e infame.
Cominciò
ad agitarsi ed imprecare.
Poi gli venne
l’idea di chiamarlo al cellulare. Lo tirò
fuori dalla tasca e fece partire il contatto.
“La persona da lei
chiamata non è al momento raggiungibile...”
«Diavolo,
Matt...» mise giù, sentendo in corpo una
sensazione spiacevole, di allerta, come se avrebbe dovuto fare qualcosa.
E se si fosse
sentito male? E se avesse tirato un altro
fottuto pugno ad uno specchio, magari stavolta al vetro della finestra;
si
sarebbe dissanguato tutto e lui non era lì.
Cazzo, non era
lì a vedere cosa stava combinando, a capire
se stava bene...
Lo
aveva lasciato fuori.
Non veniva ad
aprirgli nonostante gli avesse raccomandato di
stare lì ad aspettarlo perché sarebbero andati
via insieme.
Ne
sarebbero usciti
insieme, fianco a fianco, come sempre.
Perché
non voleva
ascoltarlo?
Cominciò
a tirare dei pugni alla porta, arrabbiato.
«Matt!
Apri! APRI!» urlò e la sua voce
rimbombò per tutto il
pianerottolo.
Era
così dannatamente incazzato con lui che voleva mettere
giù quel pezzo di legno. Amava chiudersi in sé
stesso ed annegare nel suo
dolore senza capire che c’erano persone come lui,
c’era lui lì,
a cui avrebbe dovuto appoggiarsi.
Non avrebbe
dovuto lasciarsi soffocare da quel mare oscuro,
avrebbe dovuto ascoltarlo, avrebbe dovuto lasciargli il tempo di
tornare, aveva
corso per arrivare in tempo perché gli aveva promesso che lo
avrebbe trascinato
via da quello schifo.
Perché
non lo lasciava
entrare nel suo cuore?
Diede un altro
pugno forte alla porta, facendosi anche un
po’ male.
Emise un urlo di
frustrazione.
Si
portò il pugno alla bocca, poggiò le labbra sulle
nocche,
chiudendo gli occhi per il dolore.
Fottuto
stronzo, sei uno
stronzo, Matt...
Credevo
che non avresti
mai dubitato di me, della nostra amicizia, del nostro legame, di noi...
E poi fu tutta
una sequenza di azioni compulsive.
Andò
avanti e indietro, riprese il telefono, suonò
nuovamente.
Vaffanculo,
Matt...
Si
portò le mani al viso, si alzò i capelli dalla
fronte.
Vuoi
lasciarmi fuori...
Vuoi
lasciarmi fuori
quando hai bisogno di me, e io pure ho bisogno di te.
Rimase fermo,
una mano sulla bocca, a pensare.
Avrebbe dovuto
andarsene. Non aveva senso continuare ad
attendere una persona che non voleva vederlo.
Matt non gli
avrebbe mai aperto quella porta, aveva fatto la
sua scelta, e la sua scelta rispecchiava il voler stare chiuso in casa
a
nascondersi dal mondo esterno.
Si
sentì deluso, colpito alle spalle.
Non era valso a
niente tutto ciò che aveva fatto per lui in
quei giorni, per lui non aveva significato nulla il fatto che lo
avrebbe
portato con sé a Kyoto per provare a dargli
un’opportunità di rinascita.
Voleva annegare
nel suo dolore, o forse, non voleva mischiarsi
con la sua merda, perché era così; Taichi
distruggeva tutto ciò che toccava,
dissipava il terreno su cui camminava.
Voleva tagliarlo
fuori perché lo aveva maltrattato, gli
aveva urlato delle cose contro che lo avevano ferito e sapeva
com’era fatto
Matt.
Ci rimuginava a
fondo sulle cose, e le parole avevano un
peso su di lui.
Le
serrava dentro e le
trasformava in rancore.
Si strinse il
volto, sofferente.
Era stata
nuovamente colpa sua, gli aveva dato il colpo
finale, aveva giocato con il suo equilibrio precario, non aveva
rispettato i
suoi spazi e i suoi tempi.
Il tempo
continua a scorrere, sentì di essere arrivato alla fine.
Doveva
andarsene,
avrebbe dovuto abbandonare tutto...
Fece per farlo,
quando il suo sguardo ricadde per terra dove
c’era lo zerbino. Incastrato al lato c’era
qualcosa, non capiva bene cosa
fosse, ma aveva le sembianze di una piccola busta.
Subito
allungò una mano e la prese tra le mani. Sentì
che
conteneva qualcosa di solido all’interno.
La
voltò e lesse su scritto il suo nome.
TAI
Era la
calligrafia di Matt.
Non perse tempo,
si precipitò ad aprire la busta, rischiando
perfino di strappare il foglio che c’era
all’interno.
Era un foglio a
quadretti ripiegato a quattro, lo aprì e
vide una chiave attaccata all’estremità con dello
scotch.
Quella chiave...
era quella di casa sua.
La
staccò e subito si precipitò ad aprire la porta.
Faticò
un po’, la serratura era vecchia, ma riuscì grazie
ad una secca spinta.
«MATT!»
chiamò, ma nuovamente nessuno rispose.
Dentro era come
se non fosse successo nulla. Tutto si trovava
al suo posto, c’era solo un odore strano, come di fumo
rimasto impregnato nelle
pareti.
Le uniche due
stanze, camera sua e il bagno era aperte,
spalancate, riusciva ad intravedere benissimo che erano vuote.
Fece avanti ed
indietro per il soggiorno, tentò di trovare
un indizio riconducibile alla sua presenza.
Forse
era solamente
uscito?
Magari era
andato solamente a prendere una boccata d’aria,
non usciva da cinque giorni, ne aveva bisogno per riprendersi.
Forse era andato
solo al supermercato, sì... poteva essere,
cazzo, perché doveva essere per forza successo qualcosa di
grave?
Forse era per
questo che gli aveva lasciato la chiave, per
aprire ed aspettarlo, magari adesso arrivava, magari avrebbe...
D’un
tratto ricordò qualcosa.
“Il giorno in cui
lascerò la mia chiave a qualcuno...”
Non perse tempo,
si precipitò in camera sua ed aprì
l’armadio.
Le ante erano
vuote, vi erano soli pochi vecchi vestiti
rimasti sul fondo. Fece lo stesso con il comodino, spalancò
impulsivamente i
cassetti, poi si recò in bagno ed aprì il
mobiletto dove non trovò traccia
nemmeno di un misero dopobarba.
I suoi dubbi
cominciarono a prendere piede, si fecero pian
piano vividi, reali.
Matt
era andato via.
Aveva preso la
sua roba ed era partito.
Ritornò
in cucina, gli occhi vacui, la bocca semiaperta.
Era
andato via... ma
dove?
Perché
non lo aveva aspettato? Perché non era partito
insieme a lui?
E
adesso come avrebbe
fatto senza di Matt?
Senza guardarlo
negli occhi e salutarlo... e adesso lui
doveva partire lo stesso, doveva andarsene di nuovo da solo, senza
nessuno che
gli facesse compagnia...
Si era illuso
che avrebbe potuto ricominciare tutto
d’accapo, ma ciò non sarebbe successo,
perché non era riuscito a cambiare la
storia.
Di
nuovo da solo,
Taichi.
«Dove
cazzo è...» sussurrò sconvolto, esausto
da tutto ciò
che era successo.
Guardava il
vuoto e sentiva gli occhi lucidi, inerme,
incapace di far nulla.
In tutto quel
frangente, però, non si rese conto di non aver
nemmeno per una volta mollato il bigliettino dalla mano.
Lentamente, gli
gettò un’occhiata. Lo voltò e vide che
c’era
scritto qualcosa.
Those
who slay together,
stay together
Lentamente
cominciò a capire tutto.
La sua testa
collegò ogni cosa, la frase, il bigliettino, la
chiave che gli aveva lasciato.
Era stato lui
stesso a proferire quelle parole la sera prima
della sua partenza per Kyoto, in quel pub, quando credevano che la
lontananza
avrebbe potuto separarli.
Avevano
combattuto nemici ben peggiori della lontananza, e
ne erano usciti inermi, vincitori, avevano abbattuto tutto.
Sarebbero
rimasti comunque insieme, la loro amicizia era un
legame imprescindibile, non avrebbe subito attacchi esterni,
perché loro
avevano già lottato insieme contro di quelli più
e più volte.
Erano
destinati a
restare insieme, uniti, come un tutt’uno.
Era questo
quello che voleva comunicargli Matt.
Gli aveva
lasciato la copia della chiave di casa sua perché
la custodisse, la tenesse sempre con sé, come segno di
fiducia, come simbolo di
lealtà.
Erano
l’uno la casa dell’altro, se si perdeva
l’uno allora
ci sarebbe stato l’altro e l’avrebbe ricondotto al
sicuro perché ad entrambi
apparteneva la salvezza dell’altro.
Matt non si
fidava abbastanza di nessuna persona al punto
tale da lasciargli aperta la porta di casa sua; tranne di lui.
Si
fidava solo di lui
tra tutti.
Lasciò
scivolare una lacrima, finalmente, dopo giorni di
resistenza, dopo giorni in cui le emozioni lo avevano stritolato.
E poi
un’altra ancora.
Stava
piangendo per
tutto.
Piangeva
perché era come se il terreno sotto i suoi piedi si
fosse staccato a causa di tutte i salti, le spinte che aveva provocato.
Si sentiva
inerme, così piccolo ed insicuro, mentre il tempo
scorreva e lui era lì, a sentirsi uno stupido per aver
pensato di avere il
controllo su tutto.
Non
aveva il controllo
sulla sua vita, non lo aveva del suo cuore, non lo aveva delle scelte
degli
altri...
Credeva che
sarebbe riuscito ad evitare ogni fottuto
dispiacere alle persone che amava, si era erto ad eroe, il protettore
dei
deboli, ma era risultato lui debole.
Perché
non era riuscito ad evitare tutto quello.
Yamato stava
andando da suo padre, aveva deciso di non
seguire lui per non recargli altro danno, aveva scelto di ricominciare
senza
mettere apposto niente.
Un
lavoro che non
avrebbe amato senza aver affrontato la donna che ancora amava.
Gli venne quasi
da ridere amaramente.
Sembrava
persino
divertente da quel punto di vista, perché si trovava
decisamente sulla stessa
barca.
Adottò
un’espressione risoluta.
Solo
che, a differenza sua, Yamato non lo meritava, non meritava affatto
tutto ciò.
Portò
la chiave alle labbra, tamburellandola appena.
Poi in un gesto
repentino depositò il foglio a quadretti in
tasca e sgusciò via da quella casa.
Afferrò
il borsone che era rimasto sulla soglia della porta
e corse via per le scale.
Avrebbe avuto
soltanto mezz’ora di tempo per raggiungere la
giusta banchina da dove sarebbe partito l’autobus diretto a
Kyoto.
Cominciò
ad accelerare il passo, pensando che sicuramente
non ce l’avrebbe fatta, ma valeva la pena tentare.
Si diede uno
sguardo intorno.
L’auto
di Matt era ancora parcheggiata lì davanti, quello
significava che stava raggiungendo la stazione più vicina.
Doveva almeno
tentare di fermarlo, o perlomeno, dargli un motivo in più
per pensarci e non
gettare tutto al vento.
Tirò
fuori il cellulare e lo portò nuovamente
all’orecchio.
Forse
era stupido
azzardare con l’ennesimo gesto eroico, era da veri
egocentrici, ma doveva
farlo.
Non poteva
sopravvivere sei mesi lontano, trasferirsi ad
Osaka senza aver perlomeno provato a fare qualcosa.
Attese che
qualcuno rispondesse dall’altro capo.
Sora aveva ormai
percorso più di un chilometro dall’appartamento.
Ogni tanto si
voltava a guardare indietro, come se qualcuno
avesse potuto seguirla, ma non c’era altro che una serie di
passanti frettolosi
che si accingevano a tornare a casa in previsione del temporale che si
sarebbe
scatenato da lì a poco.
Il vento che
soffiava e faceva spostare le foglie degli
alberi le dava l’impressione di qualcuno che la chiamava,
così si strinse alla
giacca e si premurò a sbrigarsi.
Qualche
gocciolina cominciava già a cadere giù.
Sarebbe tornata
a casa propria. Mimi le aveva mandato un
paio di messaggi, avrebbe dovuto tornare per tranquillizzarla.
Non era
dell’umore adatto di fare nulla, sentiva la testa ed
il corpo pesante; forse più dai sensi di colpa che dalla
stanchezza.
Voleva solo
andare a farsi una doccia, sgrassare di dosso
quella sensazione di sporco che sentiva fuori e dentro.
Stava
scappando, lo
sapeva.
Si sentiva
così piccola ed insignificante, lì che correva
via da qualcosa che aveva consumato coscientemente.
Si
faceva pena per aver
ceduto.
Gli occhi
presero ad inumidirsi ancora, ma raddrizzò le
spalle, si strinse il colletto della giacca alla gola e
continuò a camminare.
Aveva appena
imboccato un viale alberato, una foglia le
arrivò addosso. La prese in mano e
l’esaminò, lugubre.
Il vento
l’aveva appena spazzata via, proprio come gli
eventi avevano fatto con lei.
E adesso era
lì, a farsi trascinare da esso senza avere una
meta ben precisa.
Voleva
andare a casa, ma
qual era la sua vera casa?
Aveva perso la
cognizione, aveva perso dentro di sé
qualsiasi contatto con la realtà; sembrava come se si fosse
appena svegliata da
un lungo sonno e non riuscisse a mantenere il contatto con il mondo
della
veglia, aveva bisogno di qualcuno che la trascinasse via da quello
stato
sonnambulo.
D’un
tratto il suo telefono cominciò a vibrare e squillare
dentro la sua borsa.
Sora
sussultò e si fermò dei secondi per tirarlo fuori.
Lesse il
contatto e il suo cuore ebbe un guizzo.
Era
Taichi.
Non si sarebbe
mai aspettata di ricevere una sua telefonata
dopo quello che le aveva detto, dopo come si erano affrontati il giorno
dopo
della festa.
Le aveva
espresso tutta la sua delusione per essersi
comportata in quel modo, e lo capiva, lo capiva benissimo.
Era sempre stato
dalla sua parte, aveva tante volte
contestato Matt per lei, era perfino arrivato a discutere con il suo
migliore
amico per causa sua, perché la proteggeva, le voleva bene,
stava con lei a
prescindere.
Ma
non quella volta.
Quella volta
aveva sbagliato lei, e Tai non poteva più stare
dalla sua parte perché aveva vissuto il dolore di Matt,
mentre lei gli aveva
perfino mentito, gli aveva fatto credere che non stava succedendo
niente quando
invece stava accadendo tutto.
Se
solo si fosse aperta
a lui, se solo lo avesse ascoltato quando l’aveva esortata a
parlargli...
magari le cose sarebbero andate in maniera diversa...
Preso fiato e
portò il cellulare all’orecchio.
«Tai...»
rispose lievemente, mentre il fruscio del vento si
faceva insistente.
Il castano diede
un sospiro di sollievo non appena sentì la
sua voce.
Non
avrebbe sopportato
di non sentire nemmeno lei.
Poco
prima della fine.
«Sora,
dove sei?» le chiese trafelato, mentre camminava
velocemente per arrivare a svoltare l’angolo.
La ramata fece
una faccia interrogativa non appena lo udì
così frettoloso, come se avesse urgenza di dire o fare
qualcosa.
Si
guardò intorno tentando di rilevare degli indizi
riconoscibili. Era appena uscita fuori dal viale, rimase lì
ferma, e si rese
conto di trovarsi in adiacenza del locale in cui si erano riuniti tutti
all’inizio di quella settimana.
«Io...
sono in strada, vicino al Vancouver» rispose,
stringendosi ancora di più alla giacca.
Cominciava a
fare freddo e le nuvole erano nere.
Tai percorreva
il marciapiede ed era in procinto di svoltare
l’angolo. Si rese subito conto di trovarsi nella strada
giusta.
Alzò
lo sguardo e lesse il nome della via.
«Ad
Huiji Dori?» chiese, poi il locale si volatilizzò
alla
sua destra, ne riconobbe le vetrate e i divanetti rossi.
La sua mente lo
riportò al giorno in cui era arrivato lì.
Gli passarono in
testa una serie di immagini, loro che
ridevano, che parlavano, che scherzavano ignari, inconsapevoli di
quello che
sarebbe successo da lì a breve.
Di come tutto
sarebbe finito.
E adesso eccolo
lì, nuovamente di fronte a quel locale poco
prima della sua partenza; il tempo era passato troppo velocemente.
Li
aveva resi
vulnerabili.
«Ehm,
sì, credo sì...» soffiò
Sora, distogliendolo dai rimugini.
Non era
completamente sicura se la locazione era corretta.
Non percorreva quelle strade di solito, abitava tre isolati
più avanti.
Si
guardò intorno compulsivamente, cercando di cogliere
qualsiasi segnale da ogni dove, ma non vedeva nulla.
Anche Tai era
fermo sul ciglio della strada, il borsone gli
era ricaduto per terra.
«Non
ti vedo. Da che parte?» cominciò a muoversi verso
destra, guardò oltre le macchine, poi fece lo stesso verso
sinistra.
Lo avrebbero
preso per matto.
La ragazza
capì che si trovavano nelle vicinanze, allora
decise di allontanarsi dal viale alberato e raggiungere il ciglio anche
lei.
Una macchina le
tagliò la strada diretta alla pompa di
benzina a lato. Emise uno strillo, spaventata, portandosi una mano al
petto.
Poi
deglutì e tentò di ripristinarsi.
«Vicino
al benzinaio» gli diede un altro indizio, mentre
proseguiva diritto.
Tai
capì subito e si recò dalla direzione opposta.
«sulla
destra, all’uscita del viale alberato, sul... Ecco»
Sora s’interruppe perché lo aveva visto,
finalmente.
Il castano la
fissò con il fiato corto dalla strada
parallela senza dire nulla, solo tolse il telefono
dall’orecchio.
Lei
unì le mani al seno, lo sguardo velato, i capelli che le
ricadevano sul viso.
Tai ripose il
telefono in tasca, poi recuperò il borsone, lo
mise in spalla e, senza smettere di guardarla, si accinse ad
attraversare la
strada.
Per
fortuna era lì, per
fortuna l’aveva trovata.
Non si chiese
nemmeno perché fosse in giro a quell’ora, solo
aveva il cuore in gola per la paura di non riuscire a fare in tempo a
parlarle.
Non
poteva perdonarsi di
andar via senza aver prima parlato con Sora.
La raggiunse e
furono uno davanti all’altro.
La ramata lo
fissava titubante, in volto aveva
un’espressione spaesata, quasi spaurita, il viso gonfio come
se avesse pianto
da poco.
La
esaminò involontariamente e, nonostante non potesse
negare la sua bellezza, il suo essere come al solito in ordine, con il
suo
profumo di rose riconoscibile tra tanti, le vedeva in viso qualcosa di
differente, di estraneo.
Come
se avesse subito
una metamorfosi dentro di sé.
Sora non
smetteva di guardarlo negli occhi, come
ipnotizzata.
«Taichi...»
sussurrò, poi vide che i suoi occhi nocciola si
inumidirono.
Loro due non
litigavano mai, solo si sfottevano
affettuosamente; era sempre stata lei a rimproverarlo, a strigliarlo
quando
aveva commesso uno sbaglio.
Però
quegli errori erano sempre stati riparabili, erano
figli dei banchi di scuola e dell’immaturità che,
nel tempo, era sfumata.
Quella volta era
stato Tai ad alzare la voce con lei, ad
affrontarla come mai aveva fatto, e questo l’aveva resa
insicura, l’aveva resa
incapace di reagire, perché aveva paura di averlo deluso
così tanto da non
riuscire a risanare il loro rapporto.
Aveva paura di
averlo perso.
E
lei non sapeva
cos’avrebbe fatto senza l’amicizia di Taichi.
Sarebbe stata
persa, sola e persa, un po’ come lo era
adesso; ma adesso lui era lì di fronte a lei, e nonostante
la sua imponenza la
intimorisse, si sentiva al sicuro.
Perché
lui le dava
sicurezza con un solo sguardo.
Tai dovette
pensare la stessa cosa, perché si passò un mano
tra i capelli castani un po’ spettinati, e alzò
lievemente gli occhi al cielo,
sospirando.
Vedendola in
quel modo gli stringeva il cuore.
Non riusciva ad
essere indifferente a Sora, al suo stato
d’animo, perché era uno dei legami più
solidi che condizionava la sua vita.
Era come se
avesse donato una piccola parte di sé a lei il
giorno in cui si erano conosciuti, e lei lo aveva continuato a
custodire
amorevolmente.
Non perse tempo,
frugò nella tasca dei pantaloni e tirò
fuori la chiave che Matt gli aveva lasciato.
Lei la
guardò senza capire.
«Sta
andando via» proferì, secco.
Non
c’era nemmeno bisogno che specificasse il soggetto; Sora
aveva capito dal tono di voce, dallo sguardo serio nei suoi occhi
nocciola,
dalle rughe di preoccupazione sulla sua fronte.
Yamato
stava andando
via.
Cominciò
a sentire il cuore battere forte, una sensazione di
calore, come se stesse per perdere i sensi tutt’ad un tratto.
La testa le
girò e le sembrò di trovarsi su una barca in un
mare agitato.
Si
isolò per dei secondi, gli occhi sgranati che fissavano
il vuoto.
Tai
notò la mancata reazione, allora strinse la mascella ed
insistette.
«Sta
andando a Shiodome, da suo padre» la informò
duramente,
così da ottenere la sua attenzione.
Lei
alzò gli occhi rossi a guardarlo, stordita.
Non ne sapeva
niente, non aveva mai parlato con lei della
remota possibilità di raggiungere suo padre agli studi
televisivi.
Non pensava
potesse mai e poi mai prendere in considerazione
un’opportunità del genere, e invece, a quanto
pareva, aveva deciso di andarci.
Distolse subito
lo sguardo, vergognandosi dello stato in cui
si trovava.
Non sapeva
più niente di lui, di quello che intendeva fare,
delle sue scelte... era diventato nettamente un estraneo, non avevano
più
parlato di loro, non avevano più discusso di quella che
sarebbe stata la loro
vita.
Adesso
lui stava andando
via e lo aveva saputo da Taichi... poteva esserci cosa più
triste di quella?
«Gli
avevo detto di venire con me al residence, ma ha fatto
la valigia e se n’è andato»
continuò il castano, abbassando leggermente la
testa per incontrare il suo sguardo.
Sora si sentiva
così a disagio da voler sotterrarsi. Lo
eluse.
Era tutta colpa
sua se Matt era andato via... lo aveva fatto
perché non riusciva a reggere la situazione in cui lo aveva
gettato, il
tradimento che gli aveva inferto proprio dritto alle costole, come
fosse un
nemico qualunque.
Stava andando
via per evitarla, per far sì che i suoi giorni
tornassero ad essere luminosi: rimanere ad Odaiba equivaleva a dire
vivere con
i demoni di quella vita spettarle, dover sopportare giorno dopo giorno
il
dolore che lei gli aveva inferto.
Era sicura che
stava fuggendo da lei per non doverla
affrontare, ma soprattutto perché credeva che quella era la
cosa più giusta da
fare.
Lasciarla libera
di essere chi voleva; poco importava se ciò
implicava perdere lui, dire addio alla loro storia d’amore,
lasciarsi soffrire
come un cane, da solo, senza nessuno che si prendesse cura di lui.
Si
portò una mano alla bocca.
«Cosa
ho fatto...» mormorò spaesata, pronta a crollare
sulle
sue gambe cedevoli.
Tutto intorno a
sé sembrava vorticare minacciosamente, e il
vento contribuiva a smuovere ciò che c’era intorno
a loro.
Le foglie si
alzavano dai rami e volavano per aria.
Le veniva da
accasciarsi per terra per quanto si sentiva
persa in quell’oblio. Era come se sentisse il suo essere
alienato dal corpo.
Non
c’era altro che la
teneva ancorata lì.
Credeva di poter
essere spazzata via all’istante e nessuno
avrebbe potuto salvarla.
Era destinata a
vagare senza meta fino a cadere improvvisamente
in un covo di serpi, pronte a morderla.
Rinvenne solo
quando sentì la mano forte di Tai che le si
posava sulla spalla.
La guardava
risoluto e in quello sguardo riconosceva il
ragazzo di sempre, quello che non aveva mai smesso di dar loro dei
motivi in
più per lottare e non mollare.
Sembrava
risplendesse di una luce completamente nuova, che
non gli vedeva impressa sul viso da molto tempo.
Sembrava
Taichi.
«Sora,
ascoltami... se vuoi salvare la vostra relazione devi
fare qualcosa, adesso»
affermò senza
un’apparente possibilità di replica.
La ragazza
cominciò ad agitarsi, sentendo il cuore martellare
sordamente.
Non poteva fare
nulla, adesso, era senza luce, confinata in
una sensazione di intorpidimento e paura.
Non poteva
andare da lui, non sapeva come affrontarlo, si
sentiva piccola e confusa... si sentiva macchiata nella coscienza ed
era sicura
che qualsiasi tipo di spiegazione avrebbe dato, lui non
l’avrebbe capita.
Era
imperdonabile...
«Prima
che prenda il treno» la riscosse l’amico
«Va’ da lui,
fermalo, dagli le tue spiegazioni, ma fermalo»
Tai era serio,
era seriamente convinto che avrebbe dovuto
farlo.
Lui conosceva
bene Matt, probabilmente più di lei, sapeva di
cosa aveva bisogno, dei tempi che necessitava, delle parole che gli
servivano
sentire.
Se diceva in
quel modo, se l’esortava in quel modo
accalorato valeva a dire che avrebbe dovuto davvero muoversi.
Però...
però non poteva...
Non poteva
andare da lui a tentare di convincerlo a rimanere
quando aveva preso la sua decisione, lo sapeva, lui era irremovibile.
Ci rimuginava
molto sulle cose, ma quando giungeva ad una
conclusione allora era tale; non avrebbe avuto possibilità
di farlo tornare
indietro.
E pure se
riuscisse ad attirare la sua attenzione, lei non
sapeva che dire...
Non sapeva come
porsi, come cercare di farsi perdonare...
Si sentiva
così talmente piccola, vuota, indecente.
Taichi la vide
portarsi le mani al viso, coprendolo tutto.
Cominciò a tirare su con il naso e ad annaspare, tanto da
farlo preoccupare.
«Lui
non mi vorrà più...» la udì
borbottare disperatamente.
Aprì
la bocca e poi la richiuse.
Non era
d’accordo su quello.
Sapeva
più di tutti di quanto Yamato fosse innamorato di
lei, e nonostante tutta quella merda, non aveva smesso di pensare un
attimo
alla possibilità che lui potesse perdonarla.
Matt era un tipo
duro, imperativo, era schematico e non
lasciava passarne una a chi intendeva approfittarsi di lui.
Però
aveva un debole: le persone che amava.
Quando si
trattava di loro aveva sempre un momento in cui
cedeva e dava loro modo di spiegarsi, di avvicinarsi a lui.
Era quello che
aveva bisogno, l’affetto, l’amore, qualcuno
che gli dicesse che non l’avrebbe lasciato solo nemmeno nel
peggior momento
della sua vita.
E sebbene
credesse che Sora avrebbe dovuto faticare, si
fidava pienamente del fatto che lei potesse riuscirci perché
aveva quella capacità
di arrivare alle persone come nessun’altro poteva.
Le tolse le mani
dal volto.
«Non
è vero» la redarguì, poi le tolse dal
volto una ciocca
di capelli rimasta attaccata sulla guancia a causa delle lacrime.
«Sei
sempre stata brava a far parlare il tuo cuore» le disse
poi.
Lei si
portò una mano al petto e fece vagare lo sguardo
sulla strada.
Una volta era
brava, sì... ricordava anche lei quei tempi
dolci quando riusciva ad arrivare dritta al cuore di chi le stava
davanti
proprio perché parlava con il suo.
Lo aveva fatto
con Tai a suo tempo quando le aveva
confessato di avere una cotta per lei, lo aveva fatto con Mimi per
esortarla a
non mollare gli studi, lo aveva fatto con Joe dopo ogni litigio con
qualcuno di
loro...
Non riusciva
più a farlo adesso, perché il suo cuore era
stretto, attorcigliato a delle spine che lo infilzavano e lo facevano
sanguinare.
Aveva tradito
per primo il suo cuore quando aveva smesso di
parlare con Matt, quando aveva rimandato i loro incontri
perché riteneva quelle
serate tutte uguali, monotone, dove il divano di casa le sembrava
stretto;
aveva tradito in primis sé stessa quando era caduta in
quello stato di inerzia
più totale, dove si accontentava di mandare avanti la sua
relazione solo perché
stavano insieme da tempo.
Eppure, era
sicura che Yamato l’avrebbe capita se solo
gliene avesse parlato a suo tempo, avrebbero potuto realmente
discuterne e
tentare di sistemare le cose tra loro, solo tra loro; invece no, non
l’aveva
fatto, aveva avuto paura di mettere le dita dentro quel fuoco per
timore di
scottarsi.
Aveva preferito
degradare la loro storia lentamente, e
infliggergli il colpo di grazia senza guardarlo negli occhi.
Perché
sapeva che se lo avesse guardato negli occhi si
sarebbe sentita sporca.
Ripensò
alla serata passata a casa di Victor ed ebbe un
fremito.
«Lui...
lui non mi vorrà più dopo oggi...»
rivelò a Tai, gli
occhi ancora fissi, fermi sul ciglio della strada, senza che la vedesse
realmente.
Non avrebbe mai
potuto volerla ancora dopo ciò che era
successo, perché l’aveva voluto lei, e per quanto
avrebbe potuto tentare di
parlargli e dargli tutte le giustificazioni possibili, sarebbe rimasta
per
sempre macchiata.
Seppur le
concedesse di vederla e parlargli, non l’avrebbe
mai potuta perdonare.
Quello lo sapeva
già, per questo si sentiva già sconfitta in
partenza.
Tai la
fissò per un po’ senza dire niente.
Subito gli
passarono in mente una serie di immagini a cui
non riuscì, non volle dare luogo perché troppo
pesanti da sopportare.
Se parlava in
quel modo significava che qualcosa era
successo, dell’altro.
Non sapeva cosa,
non sapeva fino a che punto, non sapeva
niente, ma solo lo immaginava dal modo in cui Sora lo aveva proferito
in
maniera colpevole.
Si
passò una mano sulla fronte.
Cominciò
a sentirsi scomodo dopo quella sorta di
dichiarazione, come se in qualche modo stesse assistendo ad un misfatto
che non
stava denunciando.
La
consapevolezza che Sora fosse andata oltre con quel tipo
lo infastidiva, perché sentiva ancora di più il
peso gravare sulle spalle di
Matt e lui, in un certo senso, ne stava diventando complice.
Quello non lo
aveva affatto calcolato, aveva sottovalutato
il modo di agire di Sora, credendola capace di non muoversi oltre
alcuni
segnati passi.
Invece Sora lo
aveva fatto, probabilmente non aveva pensato a
quanto avrebbe potuto appesantire ancora di più le cose,
aveva seguito il suo
istinto; eppure sapeva che lei imparava da ogni tipo di esperienza che
le
capitava a tiro, sia positiva che negativa, lei ne faceva tesoro e la
trasformava in forza.
Quindi che
importava, arrivati a quel punto.
Non aveva
più importanza quello che aveva fatto se non perché
lo aveva fatto.
Lo aveva fatto
perché credeva di poter star bene in quel
modo, ma glielo leggeva in viso il fatto che ancora amasse Matt, che
probabilmente non aveva mai smesso di amarlo, nonostante potesse essere
stata a
letto con un altro.
Sospirò
sentendo della collera per tutta quella situazione,
ma tentò di calmarsi.
Lui non era
nessuno per dire agli altri ciò che era giusto o
sbagliato; poteva solo aiutarli a rimettersi in piedi dopo una brutta
caduta.
E voleva che
Matt tornasse a stare bene dopo quella ferita.
E sapeva anche
che la felicità del biondo risiedeva in Sora,
solo ed unicamente in lei, quindi poteva anche andare contro tutti i
suoi
principi morali del cazzo ma doveva fare in modo che la ramata
raggiungesse
quella stazione e lo fermasse.
«Senti,
non importa... qualsiasi
cosa... Vai!» lo disse scuotendo la testa, come per liberarsi
dai pensieri
contrastanti, e incatenò i suoi occhi a quelli di Sora.
Lei
rilasciò tutto il fiato che aveva trattenuto fino ad
allora.
Taichi non
l’aveva giudicata, continuava ad esortarla a
raggiungere Yamato, non aveva pensato male di lei quando aveva lasciato
trapelare ciò che era successo...
Credeva
l’avrebbe disprezzata, eppure, nonostante fosse
evidente il suo sforzo nell’ingoiare quella situazione, era
ancora lì, con la
mano sulla sua spalla a spronarla affinché non mollasse con
Matt, affinché lo
raggiungesse e gli parlasse.
Forse
avrebbe dovuto
realmente farlo.
Perché
se Tai insisteva così tanto forse era la cosa giusta
da fare, cercava solo di trasmettergli del coraggio.
Un
valore di cui lui ne
era portatore.
Il suo sguardo
si perse ancora e la sua mente viaggiò.
Non poteva
lasciare che Matt andasse via senza che avessero
perlomeno parlato.
Gli doveva delle
spiegazioni, anche se sapeva che tutto
faceva acqua, ma sentiva che doveva farlo in nome della loro storia, di
tutti
quegli anni che avevano passato insieme, per rispetto di tutti quei
momenti in
cui l’uno c’era stato per l’altro.
In
nome del loro amore.
Lei lo amava
ancora, era una consapevolezza vivida dentro di
sé, e dopo aver toccato il fondo in quel modo sapeva che non
avrebbe potuto
andare oltre.
Il suo cuore
batté forte.
Era come se
fosse ritornato a pompare.
«Io lo
amo» mormorò quasi senza accorgersene, lasciando
Tai
leggermente stupito dal modo in cui lo aveva proferito.
Lo aveva detto
come se non potesse farci nulla, come se
fosse il destino che lo avesse designato a lei e a
nessun’altro oltre lei.
Era come se
fosse arrivata alla sentenza, il cuore aveva già
deciso al suo posto.
Il castano
espirò una grande quantità d’aria, poi
la
rilasciò.
Era
arrivato il momento.
Si
avvicinò e le strinse il mento con una mano in modo che
lei lo guardasse.
«Se
credi ancora nell’amore, Sora, come una volta... ti
prego, non lasciarlo andare via per sempre»
sussurrò in tono deciso e toccante,
tanto che le lacrime che prima aveva tentato di nascondere con le sue
mani.
Pianse.
Credeva
nell’amore...
sì, ci credeva ancora, non aveva mai smesso di crederci.
Per
lei l’amore era Matt.
Voleva
Matt...
Amava
Matt.
Vederla in quel
modo così indifeso gli toccò il cuore.
Ricordò il modo duro con cui l’aveva trattata.
Nonostante tutto
quello che era successo, Sora non lo
meritava.
Non meritava
qualcuno che la rimproverasse o le dicesse che
non era giusto quello che aveva fatto; era in grado di capirlo da sola,
glielo
leggeva in viso che era convinta, sicura di voler affrontare
ciò che aveva
evitato per paura.
Era stato troppo
rude a trattarla in quel modo, ingrato, letteralmente
uno stupido.
Non avrebbe
dovuto usare quel tono di merda con lei,
nonostante si fosse sentito deluso da ciò che aveva fatto a
Matt.
Lui credeva che
Sora non fosse come loro, che fosse diversa,
migliore.
L’aveva
innalzata a modello, e si era visto improvvisamente
crollare quella figura che aveva di lei.
L’attirò
a sé e l’abbracciò, appoggiando il
mento sulla sua
testa.
La
verità era che crollavano tutti lentamente, si
sgretolavano come un castello di sabbia alla prima ondata.
Nessuno era
immune dalla lotta dei sentimenti; portavano
tutti delle cicatrici di battaglia.
«Mi
dispiace se ti ho detto quelle cose...» sussurrò
riferendosi al loro scontro, e la udì tirare su con il naso.
Le lacrime le
scendevano sulle guance e bagnavano la maglia
di lui. Sicuramente l’avrebbe trovata sporca di mascara.
Non
avrebbe mai smesso
di credere in Sora, mai.
Lui
lo sapeva che era
fatta di amore.
«Non
volevo ferirti... io... non voglio ferire nessuno...»
continuò a dire flebilmente,
mentre le accarezzava con entrambe le mani i capelli ramati.
I riferimenti
erano larghi, lo sapevano entrambi.
Tai lo sapeva
che le sue azioni erano solo frutto della sua
avventatezza, ma anche del fatto che non riusciva a controllare le sue
emozioni.
Quando quelle
uscivano fuori si rendeva incontrollabile,
commetteva danni di cui faticava a trovare un rimedio, o quasi.
Era bravo a
consolare gli altri, ad incoraggiarli di
compiere la scelta giusta, di non tradire il proprio cuore; ma quando
toccava a
lui diventava il più codardo dei codardi perché
non ce la faceva proprio ad
essere uno specchio dei suoi sentimenti.
Sora si
staccò da lui e lo guardò ancora, vedendolo
pensieroso.
Lei lo sapeva
che stava tutto chiuso lì, in quel petto, il
coraggio di Taichi.
Poteva sentirlo
ruggire dentro insieme al suo orgoglio, ma
lo sentiva graffiare più forte che mai, pronto a vincere
quella battaglia ed
uscire fuori.
Gli doveva molto
per quello che gli aveva detto, per essere
tornato da lei a farla riflettere quando sentiva di star vagando in
giro senza
più un senso.
Avrebbe mollato
certamente tutto senza di lui.
Tai infondeva
coraggio ed animo alle persone; solo chi ne
possedeva tanto avrebbe potuto farlo in quel modo sottile e determinato.
«Non
smetterò mai di ringraziarti» gli disse
stringendogli
le mani, negli occhi un luccichio di devozione, di affetto.
Sembrava una
fiamma che bruciava, ardeva a dismisura.
Tai non
riuscì a ricambiare per molto quello sguardo, tanto
lo distolse con un sorrisino, sentendo di essere quasi arrivato al
limite.
Era carico di
emozioni e sapeva che presto o tardi sarebbero
tutte scoppiate via.
Evitando il suo
sguardo per non piangere di fronte a lei, le
diede un piccolo bacio sui capelli, poi la strinse ancora.
Quello
era un segno di
pace.
Era
finita, tutta quella
lotta era finita.
Tirò
su con il naso, mentre Sora faceva un sorriso commosso.
Cercava di
salvare gli altri ma forse aveva bisogno solo di
qualcuno che salvasse lui.
Tai questo lo
sapeva, perciò non si trattenne oltre in
quella posizione.
Non voleva
crollare, non in quel momento perché Sora doveva
andare, mentre lui... Non sapeva cosa lo
aspettava, là fuori.
Era tardi, i
minuti scorrevano velocemente; avrebbe dovuto
prendere l’autobus tra meno di mezz’ora ed ancora
non era pienamente convinto a
ritornare.
Era come se
stesse indugiando di proposito lì perché non
voleva andar via.
Sora lo
capì, capì a cos’era dovuto tutto quel
rimugino.
«Adesso
va’. Stazione di Ariake. Corri!» si
sentì
sollecitare, e lei annuì con la bocca semiaperta, mentre la
sua mano gli
sfiorava la guancia come per accertarsi che l’avrebbe rivisto
un’altra volta.
Poi le ricadde
fino a stringere la sua mano.
Era
così bello, una
persona meravigliosa.
Si guardarono e
Sora si morse il labbro.
Era
giunta l’ora della fine.
Ma
non poteva lasciare
che quella arrivasse lasciando altre due anime a marcire da sole,
vittime
dell’incoscienza e dello scorrere del tempo.
Doveva
finire bene.
Mentre si
salutarono, Tai fece per lasciare andarle la mano
e andare dalla direzione opposta, ma lei non la mollò.
Si
voltò a guardarla interrogativo, lei invece lo
guardò
fermo, gli occhi che brillavano ancora di quella luce nuova.
Erano
così, con le mani intrecciate, a mezz’aria.
Sora conosceva
la forza di Taichi, ma ne sapeva riconoscere
anche la debolezza, il dolore, il tormento.
Quella
prova riguardava
anche lui, non solo lei.
Avrebbe
provato a
parlare come tanto piaceva a lui, usando il cuore, e lo avrebbe colpito
in
pieno.
«Se
solo tu volessi potresti fare lo stesso con Mimi»
affermò, e lui fu schiaffeggiato dall’invito alla
realtà che gli diede.
Il nome di Mimi
lo destabilizzò, lentamente cominciò a
sentire i rumori ovattati.
Non
poteva crederci...
Poteva
una persona
sentire tutte quelle sensazioni insieme?
Lo
avrebbero abbattuto.
Credeva che non
sentire il suo nome ad alta voce lo avrebbe
aiutato a fingere che non fosse così presente in lui, e che
magari sarebbe
potuto andare via facendo finta di niente, come se quella settimana non
fosse
mai esistita.
Era veramente
ridicolo, e questo Sora lo sapeva, perché lo
aveva fatto di proposito.
Avrebbe dovuto
immaginarlo che non lo avrebbe lasciato andar
via senza che non avesse intercesso per conto dei suoi sentimenti.
Glielo
doveva,
d’altronde.
Lei
lanciò un’occhiata allusiva al suo borsone, sapeva
stesse per ripartire a breve, poi gli strinse più forte la
mano.
«C’è
sempre tempo per un atto di coraggio» la sentì
dire, e
lui la guardò senza dire nulla, incapace di aggiungere
qualcosa di sensato.
Gli aveva appena
detto che qualsiasi cosa veniva dopo il
cuore, e lui doveva esserne consapevole dato che si prodigava per
incitare gli
altri a compiere dei gesti eclatanti e si ergeva a paladino ed eroe.
Voleva salvare
le altre persone, ma non si curava di sé
stesso, perché l’unica volta in cui aveva messo il
suo ego al primo posto aveva
perso la parte più importante di sé.
E
Sora glielo stava
dicendo: abbi coraggio, cazzo.
Proprio
tu che ce l’hai
dentro.
Ma
che doveva fare?
Non appena
andò via a passò svelto, lui rimase fermo sul
posto per un paio di secondi a pensare.
Mimi...
Il volto di Mimi
occupava i suoi pensieri, non era mai
andato via davvero.
Da due lunghi
anni.
Lo
ammetteva, adesso.
Poteva
fingere e mentire
con gli altri, ma non con sé stesso.
Non si accorse
di aver preso nuovamente in mano la chiave di
Matt e di averla portata alle labbra, sfiorandola, come se potesse
dargli
forza, come se potesse aiutarlo in qualche modo a pensare.
Un
atto di coraggio...
Se chiudeva gli
occhi poteva benissimo immaginare quale
sarebbe stato.
S’incamminò.
Aveva solo venti minuti a disposizione, ma gli
pesavano sulle spalle come se stesse trasportando l’intero
cielo.
Arrivò alla banchina da dove partivano i bus. Non
c’era
quasi nessun’altro oltre lui, così
riuscì a sedersi. Posò il borsone per terra,
emettendo un tonfo sordo.
Alzò
lo sguardo e volse gli occhi alle nuvole da dove non
riusciva più ad intravedere una sola porzione di cielo.
Sembrava che
oltre al suo cuore l’oscurità avesse
abbracciato tutto intorno sé, come se fosse esattamente il
riflesso della sua
anima.
Lanciò
un gran sospiro, continuando ad aver davanti la
figura di Mimi che gli sorrideva e gli parlava.
Non sapeva bene
cosa gli stesse dicendo, vedeva solo la sua
bocca muoversi.
Chiuse gli occhi
e si perse nei ricordi.
Erano
così dolci e
felici, sapevano di gioia e dolore insieme.
Il
giorno in cui si
erano baciati su quella barca al lago, il giorno in cui lei era tornata
dagli
Stati Uniti e si era reso conto che gli era mancata e che si era
innamorato di
lei, il giorno in cui si erano messi insieme, il giorno in cui avevano
fatto
l’amore per la prima volta.
Ricordi felici
ma lontani, lontanissimi, che lo tormentavano
senza lasciargli scampo. Gli attanagliavano il cuore e non poteva
pensare che
non avrebbe mai più potuto riviverli sulla sua pelle.
Aveva lasciato
che lei andasse via, svanisse dalla sua vita
come se la pioggia l’avesse cancellata in un soffio; eppure
quello che sentiva
dentro continuava a bruciare.
Adesso se
n’era reso conto, e non che prima non sapesse
quanto diavolo gli mancasse la presenza di Mimi nella sua vita vuota,
circondata da ciechi abbellimenti, ma adesso cominciava a pesare
gravemente
come un macigno.
Stava andando
via senza nemmeno salutarla, senza nemmeno
averla guardata negli occhi e averle detto che gli dispiaceva.
Gli dispiaceva
per come si era comportato dopo che erano
stati insieme, dopo che lei si era aperta con lui.
Mimi
gli aveva detto che
l’amava.
Dopo anni non
aveva avuto paura di dichiaragli i suoi
sentimenti con una spontaneità che non si sarebbe mai
aspettata.
Lei
lo amava, glielo
aveva detto; quindi perché aveva paura a tornare indietro?
Mancavano dieci
minuti all’arrivo del bus e lui era lì,
seduto ad una cazzo di banchina per tornare a Kyoto quando avrebbe
voluto
essere da tutt’altra parte.
Il suo cuore gli
suggeriva di andare da tutt’altra parte, ma
le sue gambe erano bloccate, ben affisse al terreno come pali.
Le parole di
Sora gli tartassavano la testa, la martellavano
e non riusciva a pensare che non avessero ragione.
Era
lì, fermo, ma non avrebbe dovuto essere lì.
Un
atto di coraggio...
Tentò
di eliminare via quei pensieri e di distrarsi, tirò
fuori il cellulare e scorse la bacheca su Instagram.
Vide che
Koushiro aveva pubblicato una diretta poco prima,
così, senza pensarci, l’aprì.
C’era
Joe in primo piano che sbraitava, la telecamera si
muoveva e le riprese non era ferme su un unico obbiettivo.
I due si
insultavano a vicenda, vide dei cuscini volare e la
risata di Izzy fare capolino
Venne da ridere
anche a lui.
Erano
proprio due stupidi...
Quando le
riprese si stabilizzarono, lentamente si rese
conto del luogo in cui si trovavano ed un brivido percorse la schiena.
Quella casa la
conosceva, era casa di Joe, di Sora e di...
Non appena Izzy
spostò appena la telecamera intravide lei,
Mimi che rideva e correva via dall’inquadratura con i capelli
castani al vento
fino a chiudersi alle spalle la porta scorrevole.
Un cuscino la
colpì subito dopo facendo un tonfo.
Il cuore di
Taichi perse un battito e poi prese a battere
forte non appena la vide inquadrata seppur per pochi secondi.
Non
poteva essere,
sembrava quasi un segno...
Chiuse
d’un tratto il cellulare e lo strinse tra le mani.
Sembrava un
segno del destino, il fatto che volesse evitare
con tutte le sue forze il volto di Mimi e quello gli appariva dovunque,
perfino
in un video.
Incominciava a
delirare, sicuramente.
Il
destino non esisteva,
esistevano le scelte; e lui la sua l’aveva compiuta tempo fa.
La
stava ricompiendo
quel giorno, decidendo di andare via.
Non
poteva guardarsi
indietro, lui non lo faceva mai.
Si morse il
labbro inferiore, chiudendo gli occhi e
facendosi male.
Ma
cosa ne sapeva di
quello che faceva di solito?
Non
era più la persona
di prima.
Il vero Taichi
era una persona che probabilmente non gli
apparteneva più e che non avrebbe più avuto
speranza di recuperare.
Il vero Taichi
avrebbe combattuto contro tutti pur di
ottenere tutto quello che voleva, e per tutto intendeva proprio tutto.
Lui stava
scappando, stava lasciando lì i fantasmi del suo passato
che erano adesso più che mai il suo presente e dei quali
probabilmente non
sarebbe riuscito a liberarsi in futuro.
Il vero Taichi
avrebbe avuto il coraggio di prendere una
posizione in quella fottuta storia, non sarebbe rimasto lì
seduto con le mani
in mano ad obbedire agli ordini di qualcuno al di sopra di lui che
voleva
solamente arricchirsi alle sue spalle.
Il
calcio...
Voleva
ancora giocare a
calcio?
Doveva
disperatamente trovare una risposta a quella domanda,
ma non c’era più tempo, era appena arrivato
l’autobus, ed insieme ad esso, la fine
era giunta.
Automaticamente
si mise in piedi, il borsone in spalla e si
avvicinò.
Un
atto di coraggio...
Se lo tolse
dalla spalla e lo sistemò dentro il bagagliaio.
Si
fermò a pensare per dei secondi, volse lo sguardo al
cielo e prontamente una goccia di pioggia gli bagnò il viso.
Poi un’altra e
un’altra ancora.
Ripensò
alla sua ultima partita in campo prima di tornare.
Lui amava la
pioggia, amava sentirla, amava che lo bagnasse
come se potesse purificarlo da tutti gli errori che aveva compiuto.
Potesse lavare
via ogni senso di colpa e di fallo che aveva
fatto, poteva farlo rinascere in persona migliore.
Il telefonino
squillò, ruotò gli occhi appena per leggere il
nome di Akira sul display.
Chiuse gli occhi
con un’espressione contorta, alzò
nuovamente il viso al cielo.
Non
voleva... non voleva
più...
Non
voleva tornare a
giocare a calcio, dannazione...
Non
la voleva più quella
vita.
Non
voleva scegliere di
perdere.
Non
voleva essere un
perdente.
Aprì
gli occhi risoluto.
Era quella la
sua risposta, l’aveva trovata, finalmente.
Voleva
essere Taichi e
basta; solo Taichi.
Qualcosa si
mosse dentro di sé, si agitò e lo
risvegliò da
quel brutto stato catatonico.
Non poteva
lasciare che succedesse di nuovo.
Lui
era Taichi Yagami e
doveva compiere quell’atto di coraggio.
Qualcuno lo
chiamò, sollecitandolo a salire, ma lui si era
voltato in direzione opposta a quella del bus e guardava oltre
l’orizzonte.
Era
finita.
In uno scatto
cominciò a correre via, non si voltò, non
guardò mai più indietro.
Sentì
solo la pioggia che picchiava contro il suo viso ma
era così piacevole che gli venne da sorridere.
Era
la fine di tutto.
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Capitolo 21 *** Pioggia ***
Mimi si trovava con la
testa china sui libri a tentare di riprendere a studiare da dove aveva
lasciato in quei giorni.
L’esame si
avvicinava e non era ancora stata capace di rifinire al meglio quella
progettazione. Eppure la parte teorica l’aveva studiata bene,
solo quella pratica la stava mandando in confusione.
Non riusciva a rifinire
il suo modello, quegli schizzi le sembravano sagome senza alcun senso
gettate lì solo per macchiare un foglio.
Non riusciva per niente
al mondo a togliersi dalla testa tutto ciò che era successo
durante quegli ultimi giorni, non era capace di cancellare neppure un
briciolo di quelli che erano i ricordi, le immagini, le sensazioni.
Izzy e Joe erano andati via da
poco. Le avevano detto che avrebbero pranzato in un ristorante per
festeggiare.
Cosa ci fosse da
festeggiare non lo capiva, anzi lo capiva, ma non aveva intenzione di
unirsi a loro.
Il suo umore era secco,
spento. Per quanto si sforzasse di riuscire a rimanere lucida ed
ancorata alla realtà dei fatti, ebbene, non ne era capace.
Perché il
pensiero di Taichi la tartassava giorno e
notte e non poteva farci nulla.
Non poteva farci nulla se
lo amava ancora ed era rinchiusa in quelle quattro mura a piangersi
addosso perché era tutto finito; e quella volta peggio
della precedente.
Lui non sarebbe mai
più tornato indietro da lei e lo capiva; aveva provato a
tarpargli le ali, aveva tentato di riportarlo indietro solo
perché lo voleva accanto a sé come presenza
fissa, senza pensare alle conseguenze che quelle pretese avrebbero
avuto nella sua vita.
Che avevano alla fine
avuto sul loro rapporto.
Era stata tutta colpa sua
se quella storia era giunta alla fine.
Non aveva fatto altro che
pensare a sé stessa, a come stava, a come avrebbe voluto
essere al primo posto nella vita del castano quasi sentendosi in
competizione con il calcio, la sua passione, il suo lavoro.
Poteva essere
più sfigata ed egoista di così?
Sicuramente non avrebbe
potuto toccare un vertice peggiore di quello.
Non si rese conto di aver
spinto troppo duramente con la punta della matita e quella si
spezzò, sporcando una porzione di foglio.
Prese subito la gomma ma
ciò che ne uscì fuori fu solo una macchia
più grande, così sbuffò e
lasciò perdere.
Si mise in piedi,
portandosi alla finestra. Spostò leggermente le tende e
diede uno sguardo al paesaggio circostante.
Fuori cominciava a
piovere, poteva vedere e sentire le goccioline che picchiettavano
contro il vetro.
Sembrava che perfino il
tempo rispecchiasse ciò che aveva nel cuore.
Sentì le
lacrime salirle al bordo degli occhi, così
deglutì e aspettò che quel momento buio passasse.
Ne era abituata ormai, a
perdersi nei pensieri e subire l’influenza del
tempo.
Sora diceva che era
meteoropatica o qualcosa del genere...
Sora.. Dov’era andata
a finire?
Mancava dalla sera prima
e non era ancora tornata a casa. Non le rispondeva al telefono e
cominciava a preoccuparsi sul serio.
E se le fosse successo
qualcosa?
E lei era lì a
guardare la gente frettolosa di andare a casa sotto quelle nubi
scure.
Era lì ferma
che come al solito non riusciva a non pensare a Taichi.
Chiuse gli occhi con un
sospiro e lasciò cadere la tenda, coprendo la finestra.
Doveva mettersi
l’anima in pace, forse.
Se lui non era tornato
indietro a parlarle ciò significava solamente una cosa: che il
suo sentimento era unilaterale, non era affatto ricambiato come aveva
pensato per un secondo la sera della laurea di Joe.
Aveva creduto che Tai provasse lo stesso,
eppure tutto quello non era andato minimamente oltre, non aveva avuto
proseguo.
Ma sapeva il motivo,
d’altronde.
Era arrivata a quella
consapevolezza forse un po’ troppo tardi ma era tutta
lì.
La colpa non era altri
che sua, aveva spinto affinché la loro relazione si
degradasse, aveva reso i giorni in cui stavano insieme a distanza un
inferno, aveva fatto sì che Tai scappasse via da lei e
non si voltasse più.
Probabilmente non gli era
indifferente fisicamente, ma i sentimenti in lui erano palesemente
cambiati.
Era andato avanti, si era
gettato tutto alle spalle e lo capiva.
Nessuno avrebbe voluto
stare con una persona così egoista ed egocentrica come lei.
Non pensava ad altri che
a sé stessa e a come sarebbe stata; era arrivata a pesare
addirittura il suo dolore con quello degli altri, credendo di meritarlo
meno.
Lei lo meritava tutto, lo
meritava perfino più di Sora.
Non aveva tradito
fisicamente Tai ma lo aveva fatto
soffrire giornalmente chiedendogli di rinunciare alla sua vita.
Nemmeno Sora aveva
sbagliato così pesantemente.
Avrebbe dovuto mostrare
comprensione e sostegno, avrebbe dovuto trovare una soluzione efficace
senza rischiare di perderlo completamente.
E invece aveva gettato
tutto al vento solamente per una sua questione di orgoglio.
Poco importava se gli
aveva detto di amarlo ancora; lui non l’aveva perdonata e,
d’altronde, non poteva fidarsi di una persona che diceva di
amarlo quando non l’aveva mai fatto nel modo giusto.
Erano solo altre parole
al vento.
Si voltò e la
sua attenzione fu catturata dall’armadio al lato;
d’un tratto le sue gambe si mossero da sole.
Arrivò
lì di fronte e lo aprì. Tirò fuori
qualcosa che non le apparteneva ma che sentiva comunque sua.
Era una giacca blu scuro
di un tessuto liscio e primaverile. Continuò ad accarezzarla
per un po’, persa nei pensieri.
Era la giacca che Tai aveva lasciato
lì la sera della festa.
La portò alle
narici e ne inspirò ancora una volta il profumo, come se
fosse una maniaca compulsiva.
Non l’avrebbe
vista nessuno, d’altronde, se lo avesse fatto solo per
qualche secondo.
Si portò di
fronte allo specchio, si fissò incerta per un po’;
poi infilò la giacca sopra la sua camicia da notte di lino.
Le stava grande di circa
tre volte, ma quel dettaglio non la disturbò affatto.
Sembrava ai suoi occhi fatta apposta per lei.
Perché
apparteneva a Taichi, e sapeva di appartenere
a lui anche lei stessa.
Si guardò per
un po’ allo specchio, squadrandosi dall’alto in
basso e facendo un paio di moine.
Si strinse con le braccia
la
petto come se in quel modo
avesse potuto abbracciarlo.
Almeno in quel modo era
come se lo stesse salutando, era come se gli stesse dicendo finalmente
addio.
Taichi correva a perdifiato da
più di dieci minuti.
La pioggia cominciava a
farsi più fitta e batteva sulla sua testa. I capelli erano
umidi ed aveva anche messo un piede dentro una pozzanghera.
Imprecò, poi
attraversò la strada. Si fermò di colpo
trattenendosi da un palo della luce per prendere un po’ di
fiato.
Cazzo, cominciava a
perdere l’orientamento...
Tirò fuori il
telefono e scrisse qualcosa, attese ed inviò il messaggio.
Respirò
pesantemente ed alzò gli occhi al cielo.
Dannazione, non gli
appariva il suo ultimo accesso, nemmeno la sua foto del profilo...
Si accarezzò il
mente con fare nervoso.
Sperò che non
fosse ormai troppo tardi...
Le goccioline
cominciarono a cadere sullo schermo.
Trovò riparo
sotto un balcone e senza demordere portò il cellulare
all’orecchio facendo partire la chiamata.
Si perse a pensare,
mentre toglieva lentamente il cellulare dall’orecchio.
Non poteva mettersi in
contatto con lei.
Capì
finalmente perché non aveva mai ricevuto risposta al testo
precedente, perché la spunta era solo una, perché
non poteva vedere nulla di lei.
Mimi aveva bloccato il suo numero; non
poteva chiamarla, non poteva mandarle messaggi, o meglio li avrebbe
potuti mandare ma lei non li avrebbe mai ricevuti.
Aveva tagliato ogni
contatto telefonico con lui e forse quello era un segno.
Si passò una
mano tra i capelli castani umidi, sentendo il cuore che gli rimbombava
nel petto.
Doveva aspettarselo,
l’aveva trattata di merda, le aveva mancato di rispetto nel
modo più assoluto.
Non solo negli ultimi
giorni, lo aveva fatto da sempre, da quando aveva scelto di vivere
lontano da lei e poi senza di lei.
Strinse gli occhi con
espressione corrucciata; poi li riaprì.
Sentiva in petto una
sensazione di adrenalina pura.
Non avrebbe mollato
quella volta, l’avrebbe raggiunta lo stesso, avrebbe fatto in
modo di trovarla e le avrebbe detto che aveva sbagliato.
E che era innamorato di
lei.
Quella consapevolezza
arse dentro di lui e gli diede la forza.
L’amava, cazzo,
l’amava...
Si lasciò
andare ad una risata divertita ed amara allo stesso tempo, una risata
che aveva il sapore della verità.
Ripose il cellulare sulla
tasca e riprese a correre.
Mimi sussultò
spaventata non appena udì un rombo di tuono che la
destò bruscamente dal suo ammirarsi allo specchio.
Subito si
precipitò a chiudere la porta del balcone che il vento aveva
fatto sbattere e, voltandosi sulla destra, vide sparsi per terra tutti
i suoi fogli da disegno.
Andò a
raccoglierli dando ancora un ultimo sguardo agli schizzi, poi
lanciò un’altra occhiata alla sua immagine
riflessa.
Quella giacca aveva
qualcosa che le piaceva e non si riferiva solamente al profumo che era
rimasto impregnato.
Ancora rimasta per terra,
si rialzò posando i fogli sulla scrivania e si
avvicinò nuovamente allo specchio.
Si osservò e
fece dei giri lenti su sé stessa, studiandosi.
Avrebbe potuto prenderne
ispirazione, certo.
Poteva inserire quella
giacca come uno dei pezzi mancati alla sua collezione; come aveva fatto
a non pensarci prima?
L’accostamento
kimono-giacca di tessuto liscio maschile era una combinazione mai vista
che spezzava le regole della tradizione e dava un tocco più
moderno e modaiolo al costume.
Perché le
sembrava così ovvio?
Era l’ultimo
abbinamento da inserire, e ora che ci pensava, poteva anche aggiungerci
una bella cintura in vita, e magari alzare le maniche fino ai gomiti...
Eseguì quelle
azioni allo specchio e si ispezionò per un po’ di
tempo.
Non sapeva come mai, ma
si sentiva stranamente quieta e la malinconia era quasi svanita come se
l’avesse trascinata via il vento.
Si tolse la cintura dalla
vita e la gettò sul letto, poi si portò i capelli
dietro le orecchie e rimase a pensare.
Tutto ciò che
era successo era solamente frutto del destino che non riteneva
fattibile tornare indietro e forzare una situazione probabilmente
satura da molto tempo.
Doveva accettarlo e
trovare pace dentro sé stessa perché aveva
provato un bel po’ di sentimenti contrastanti che
l’avevano cambiata in tutti quegli anni.
Era abituata ad accettare
tutto ciò che il destino le poneva davanti al suo cammino e
ne aveva fatto dei fallimenti la sua più grande forza.
Tutto quello non era un
fallimento, si disse.
Non era un fallimento se
tra lei e Tai non era andata come
sperava; era probabilmente soltanto ciò di cui aveva bisogno.
Aggrottò le
sopracciglia con una nuova consapevolezza, con un nuovo stato
d’animo.
Avrebbe accettato tutto
ciò che le sarebbe capitato davanti, da quel momento in poi,
avrebbe fatto meno domande e gridato poco alle ingiustizie.
Tutto aveva un senso,
anche il fatto che lui non era tornato indietro, anche se a quel
“ti amo” detto ci aveva creduto solo lei.
Era stata una stupida ad
essersi fatta trascinare da quella sorta di realtà
soggettiva ed esasperata, non si riconosceva più.
Se l’era presa
con molte persone meno che con sé stessa: adesso aveva
capito e lo accettava pienamente.
E Taichi... Lanciò uno
sguardo al suo cellulare rimasto incustodito sopra il
comodino.
Andò a
recuperarlo e liberò il suo numero dalla lista dei contatti
bloccati.
Era stata una sciocca ad
aver compiuto un atto del genere, infantile ed egoista, se ne
vergognava da sola.
Tai non aveva colpe se non
quella di averla cambiata, ma in meglio.
Perché aver
capito di averlo perso le aveva fatto venire in mente di quanta
necessità aveva di alzarsi e lottare veramente per chi amava.
Strinse il cellulare tra
le mani, alzò appena la testa e chiuse gli occhi,
assaporando la calma che le infondeva il picchiettio della pioggia
contro il vetro.
Le era mancata quella
sensazione.
Lei era Mimi Tachikawa e voleva vivere per
sempre in quel sentimento di purezza.
Non seppe nemmeno quanto
rimase in quella posizione, ferma ad ascoltare il rumore sordo delle
gocce e assaggiare il gusto della serenità.
Era serena, sembrava
strano, ma lo era in fondo al cuore.
Si sentiva in pace con
sé stessa e con il mondo; le sembrava quasi di sognare.
Un sogno in cui fluttuava
sopra la città, addormentata dal candore della pioggia, come
se fosse dentro una bolla.
Si sentiva finalmente
purificata.
Tai correva tra la pioggia
che gli bagnava il viso, i capelli, gli inzuppava i calzini e le scarpe
avevano superato una pozzanghera profonda.
Una larga macchia
bagnò la tuta, ma non se ne curò,
continuò a correre fino a che l’appartamento non
gli si palesò davanti.
Il cuore gli era salito
in gola dall’affanno e l’adrenalina,
così tanto da non perdere neanche il tempo di portarsi sotto
al portone e suonare al citofono.
Non smise di correre,
alzò lo sguardo verso la finestra da dove delle tende verdi
filtravano l’ombra di una sagoma e, nemmeno sicuro se fosse
lei, cominciò ad urlare.
La ragazza
aprì gli occhi di scatto.
Non seppe se era
solamente la sua immaginazione che le giocava brutti scherzi o se
realmente qualcuno là fuori la stava chiamando.
Cercò di
concentrarsi nuovamente sulla sua meditazione, un tantino infastidita
dall’essere stata bruscamente richiamata al presente ed aver
lasciato la sua bolla purificante, ma quella voce si fece insistente.
Sussultò e
spalancò gli occhi nocciola.
Non poteva crederci...
quella voce apparteneva proprio a lui...
Era Taichi, quella voce era di Taichi.
Subito si
precipitò di fronte alla finestra e scostò la
tenda per guardare giù. La pioggia si era infittita, ma
sotto, proprio adiacente al suo piano c’era lui.
Poggiò la mano
sul vetro in un’azione spontanea, come se in quel modo
potesse toccarlo e raggiungerlo.
La sua espressione era
stupita e il respiro le si era mozzato.
Vide il ragazzo che
alzava lo sguardo e finalmente la guardava, si guardarono negli occhi
per un paio di secondi senza che nessuno facesse alcun cenno o urlasse
qualcosa.
Tai aveva il fiato corto e
la guardava di uno sguardo che avrebbe potuto penetrarla per quanto era
profondo e lei aprì la finestra in un gesto repentino.
La pioggia scrosciava
rumorosa e le gambe del ragazzo cedettero per lo sforzo,
così si inginocchiò per terra e sentì
l’acqua che gli bagnava il volto e gli entrava perfino in
bocca, ma non ricacciò gli occhi da lei.
Mimi si portò
una mano sulle labbra, colpita.
Sentiva distrattamente il
cuore che le martellava in petto, la testa le girò
improvvisamente e un’enorme
senso di calore la pervase.
Taichi... era tornato
indietro... non era una visione, si trovava proprio lì a
guardarla mentre si bagnava sotto di lei, mentre la guardava di uno
sguardo supplice ma nello stesso tempo fermo e che le chiedeva solo una
cosa.
Di dargli
un’opportunità.
La pioggia continuava a
battere, lei si risvegliò da quel
trance e chiuse di colpo la
finestra, dandole le spalle.
Fu colta da
un’improvvisa adrenalina e corse fuori dalla stanza senza
prendere nulla, con solo la giacca sopra la camicia da notte e le
infradito ai piedi.
Il cuore sembrava volesse
uscirle via fuori dalla gabbia toracica ed una sensazione di pura gioia
le scivolò lungo tutta la schiena.
Avrebbe messo la parola
fine.
Tai si abbandonò
ad un sospiro incerto quando la vide chiudere la finestra e scomparire
dentro.
Strinse i pugni sopra le
cosce, ancora inginocchiato sulla terra. Aveva i pantaloni macchiati di
fango, ma non gliene importava niente.
Con ancora il fiato corto
volse nuovamente gli occhi verso il punto in cui l’aveva
vista apparire poco prima, e il cuore gli si riempì di
speranza.
Se non fosse scesa
sarebbe stata la punizione perfetta alla sua codardia e al suo essere
prettamente menefreghista.
L’aveva ferita,
e sapeva quanto male faceva ad essere trattati in quel modo dalla
persona che si amava, ed era consapevole anche quanto lei fosse
orgogliosa e dignitosa.
Stava rischiando tutto, e
se Mimi non fosse scesa a perdonarlo lo avrebbe accettato, avrebbe
considerato quell’atto di coraggio come il ritorno al suo
vero io.
Gli avrebbe dato un
insegnamento con i fiocchi che lo avrebbe aiutato a crescere, certo, ne
era sicuro...
Strinse ancora
più forte i pugni.
Solo che adesso aveva
timore di ricevere un no, sentiva il cuore che batteva forte e la
speranza mischiata con l’ansia di non vederla arrivare lo
stava divorando.
«Ti
prego...» sussurrò, senza sapere bene a chi fosse
rivolta quell’invocazione.
Voleva solo avere
l’opportunità di guardarla in viso almeno
un’ultima volta e dirle tutto quello che non le aveva detto
prima.
Voleva ricominciare ad
essere migliore e voleva ricominciare da lei.
Non appena intravide la
luce da dentro il portone si mise automaticamente in piedi e si
sentì pervaso da un lungo fremito di eccitazione.
Socchiuse la bocca e
d’un tratto il portone venne aperto.
Mimi lo aveva spalancato
ed era apparsa sulla soglia, si era guardata intorno e finalmente i
suoi occhi avevano incontrato quelli di Taichi.
Si sentì come
alienato dalla realtà, i suoni gli arrivarono alle orecchie
ovattati, e fu come se il tempo si fosse fermato.
Non seppe cosa successe e
come, ma captò che era qualcosa dettato non dalla sua
ragione, perché le gambe gli si erano appena mosse da sole e
andavano incontro verso di lei che aveva sceso il dosso
dell’ingresso.
La vedeva sempre
più vicina.
I suoi capelli castano
chiaro si muovevano in entrambe le direzioni e subito non appena si
mise sotto la pioggia le gocce la bagnarono, scesero sul suo volto
fine, chiaro, senza l’ombra di un’imperfezione e
raggiunsero l’entrata delle sue labbra.
Tai non capì
più niente, era come se tutto scorresse a rallentatore e,
d’un tratto, le sue braccia si erano spalancate e quelle di
Mimi avevano fatto lo stesso aggrappandosi al suo collo.
Subito la strinse dalla
vita e i due si unirono in un abbraccio puro e spontaneo.
Fuori non udivano nemmeno
il rumore di una sola goccia sull’asfalto, solo il cuore
dell’uno e dell’altro che si fondevano
all’unisono e avevano un unico canto.
Il ragazzo la
alzò da terra e quando la fece volteggiare percepirono di
nuovo quella sensazione di rallentamento.
Come se quel momento
fosse destinato a durare per sempre.
I capelli di Mimi
fluttuarono sotto la pioggia come una cascata scintillante di riflessi
rosa mentre Tai gemette contro il suo
collo annusando il suo odore di viole.
Un sogno ad occhi
aperti...
Quando i piedi della
ragazza toccarono terra fu come risvegliarsi bruscamente e sentire in
viso delle gocce fredde che la torturavano.
Quella bolla di sinopsi
si era spezzata e adesso si ritrovavano entrambi in silenzio,
l’uno di fronte all’altro a guardarsi mentre il
temporale imperversava.
Entrambi si osservavano
aspettandosi qualcosa.
Tai deglutì e si
scostò dal volto delle ciocche bagnate che gli davano
fastidio e gli intralciavano la visuale.
Non che con quella
pioggia fitta riuscisse a vedere bene, ma voleva godersi la visione di
Mimi appieno.
Era come se non la
vedesse da tempo, era quasi come se si fosse dimenticato dei suoi
contorni e delle sue sfaccettature.
«Mimi...»
sussurrò quasi senza rendersene conto, per poi bloccarsi in
ovvia difficoltà senza sapere come continuare.
Lei continuava a
guardarlo di uno sguardo inquisitore, o forse era solo la sua
impressione a farglielo credere; si sentiva agitato e qualsiasi parola
gli veniva in mente non si azzardava a dirla perché aveva
paura risultasse sbagliata.
Mimi era in attesa di
qualcosa e sapeva per certo che avrebbe dovuto iniziare perlomeno con
il darle delle spiegazioni; solo che sembrava avesse perso
completamente l’uso della proprietà di linguaggio,
sembrava che qualsiasi spiegazione avesse intenzione di dare non stava
a galla.
Si era reso conto di come
non teneva qualsiasi altra motivazione al di fuori della sua
vigliaccheria e del suo essere orgoglioso ed infantile.
Ciò che
avrebbe detto agli occhi di Mimi sarebbe risultato puramente senza
senso.
Il suo sguardo ricadde
sul vestiario che portava e non potette fare a meno di lanciare
un’occhiata alla camicia rosa antico in lino che le copriva
il corpo, ma che forse per un puro caso del destino o a causa della
corsa, era scivolata lasciando trasparire un gioco di vedo non vedo
proprio sulla zona del seno.
Si morse le labbra e non
smise di scrutarla, ritenendola bellissima ed attraente sotto
l’affluenza di quella terribile pioggia che li stava bagnando
fino al midollo.
Poi si rese conto che la
giacca a cui si stringeva con le braccia, infreddolita, non era
esattamente della sua misura ed aveva un’aria vagamente
familiare.
«Questa... è la
mia?» le chiese incerto, non riusciva mica a vedere bene
sotto quella burrasca e tra l’altro aveva sempre avuto dei
problemi con il riconoscere i tessuti.
Eppure poteva giurare che
lo fosse, d’altronde non le pareva di aver tenuto qualcosa
indosso la sera in cui erano andati via bruscamente dalla festa e il
fatto che ce l’avesse lei aveva anche senso.
Si erano spogliati,
quella sera, l’uno aveva svestito l’altro e aveva
goduto del suo corpo caldo.
I vestiti erano stati di
troppo, erano stati scagliati via ritenuti i soli nemici che ancora li
tenevano lontano dall’altro.
Gli venne da sorridere,
ma Mimi si sentì terribilmente in imbarazzo.
Si rese conto
improvvisamente di essere scesa giù con quella giacca
addosso che aveva conservato come un gioiello dentro
l’armadio e di cui aveva odorato ogni singolo centimetro di
stoffa solamente affinché il profumo rimasto impregnato
potesse riportarla a lui.
Avrebbe dovuto evitare di
farsi scovare così debole e sconvolta, così
talmente attaccata a lui da aver indossato la sua giacca, aver sfilato
di fronte allo specchio e aver perfino avuto ispirazione per i suoi
disegni.
Si mostrava debole e
dipendente, e per quanto volesse la presenza di Taichi lì di fronte
non era intenzionata a dargli quell’impressione.
Con un gesto se la tolse
di dosso lasciando che l’acqua bagnasse le sue spalle nude.
Tai fece
un’espressione sorpresa.
«Sì,
io... sono scesa giù apposta per portartela»
biascicò con gli occhi che però non lo guardavano
perché consapevole di aver appena detto una bugia.
«Ecco... ecco,
tieni» disse, continuando ad eludere il suo sguardo.
Il castano vide la sua
mano tesa a mezz’aria, il suo corpo che veniva bagnato dalla
pioggia e il tremolio che ne subentrò subito dopo.
Scosse la testa, la prese
in mano e l’aprì in un gesto repentino.
«No!»
esclamò, poi gliela rimise sulle spalle «No,
rimettitela. Fa freddo»
Mimi aveva le braccia
giunte e lo guardava ancora di quello sguardo tra il sorpreso e
l’impaziente. Non osò contestare il suo gesto,
anzi, in fondo al suo cuore sentì un guizzo che la fece
sentire più speranzosa che mai.
Non sapeva bene cosa si
aspettasse da lui, ma erano lì, l’uno di fronte
all’altro con un tempo in burrasca e quello qualcosa doveva
pur significare.
Solo, non aveva
intenzione di aprire bocca se non prima lo faceva Tai; perché aveva
giurato a sé stessa di accogliere qualsiasi evento il
destino aveva in serbo per lei e se quello era un ultimo modo per dirsi
addio, beh, avrebbe dovuto accettarlo.
Ma Taichi sembrava risoluto nel
dirle qualcosa, quindi non gli diede altro che modo di prendere la
parola.
Questo successe e
all’improvviso.
«Stavo andando
via» lo udì dirle in un tono secco che la
ferì, forse perché tra tutto avrebbe voluto
sentire che invece sarebbe rimasto ancora per un altro po’.
«Oh...»
si lasciò scappare, delusa, senza nemmeno preoccuparsi di
darlo a vedere.
La speranza che le si era
accesa dentro poco prima si stava già lentamente spegnendo e
cominciò a sentire davvero freddo ma dentro le ossa e non
era così sicura che fosse per colpa della pioggia che
batteva.
Il fatto che fosse
tornato a salutarla, forse, era proprio la spiegazione.
«Stavo... però
adesso... non lo so...» mormorò Tai forse più a
sé stesso che a qualcun altro proprio per dare una
spiegazione logica al fatto che avesse imbarcato il borsone e fosse
scappato via lasciando che l’autobus partisse senza di lui.
Mimi aveva il viso basso,
così lui le prese delicatamente il mento in un gesto
spontaneo e fece in modo che alzasse gli occhi su quelli suoi.
Non seppe come mai, ma
gli venne da ridere.
Sapeva che era
così terribilmente fuori luogo, ma ciò che aveva
fatto, l’avventatezza con cui aveva lasciato che quella
coincidenza partisse dopo tutta quella fatica per non perderla nel
momento in cui aveva visto lei ridere in una fottuta live di Koushiro gli aveva fatto venire
in mente solo una cosa.
Mimi lo guardò
ridere e non capì il perché.
Si sentì in
imbarazzo e provò una certa indignazione a vederlo in quel
modo, che le sfiorava il viso e si prendeva gioco di lei.
Forse le faceva pena,
vederla conciata in quel modo?
Aveva assunto
un’espressione irritata e Tai se ne accorse,
così cercò di contenersi per non darle
un’idea sbagliata.
«Cazzo...
scusa, ma mi sento uno stupido...» biascicò con
ancora le risate che traboccavano tra una parola e l’altra.
Era come se
l’adrenalina gli si fosse sciolta tutt’ad un tratto
e quello era uno sfogo curativo bello e buono.
Diede infatti un gran
sospiro.
«Ti senti uno
stupido ad essere qui?» lo interruppe lei, tagliente.
Probabilmente si sentiva
un’idiota perché si era reso conto che stava
perdendo tempo quando avrebbe dovuto essere in partenza per Kyoto.
Non che non lo capisse,
ma che almeno provasse a non renderlo così esplicito...
Lui si premurò
ad intervenire per spiegarsi meglio.
«No, non ad
essere qui!» poi si diede un’occhiata intorno
vedendosi in mezzo ad un temporale ritti uno di fronte
all’altra proprio su una strada facilmente percorribile dalle
auto che per uno strano gioco del caso avevano rinunciato a passare
«Anche se... fa
freddo e ci stiamo bagnando...» aggiunse sottolineando la
situazione ironica in cui si trovavano.
Niente importava in quel
momento e quello ne era la dimostrazione.
Mimi non colse
l’ironia, anzi si accigliò ancora di
più.
«E allora
perché?» gli si rivolse bruscamente, cancellando
per un attimo dal suo viso quell’espressione giocosa.
Tai strinse le labbra per un
po’, sentendosi con le spalle al muro.
Gli occhi della ragazza
erano lucidi, fermi, lo guardavano ed attendevano una risposta che
aveva un enorme peso nei loro destini.
Lui doveva delle scuse a
Mimi, doveva far sì che capisse quanto realmente si fosse
pentito ad averla lasciata lì da sola e proprio per questo
aveva mandato praticamente a fanculo tutto nel momento esatto in cui si
era reso conto che non poteva più stare senza di lei.
«Perché...
perché avrei dovuto farlo molto tempo prima, ma
l’ho fatto solo adesso» le confessò con
ardore e talmente tanta sincerità da lasciarla spiazzata.
Lei lo guardò
con gli occhi leggermente sbarrati.
Cosa intendeva dire con
quello?
«Ti ho scritto
un messaggio» le rivelò, poi si
scompigliò i capelli.
Lei aggrottò
le sopracciglia.
Tai sentì i suoi
occhi indagatori e si sentì ancora più stupido.
Uscirsene che le aveva mandato un messaggio di merda quando era
totalmente sparito.
«Non mi risulta
che tu l’abbia fatto» commentò lei
secca, piccata dal fatto che se ne uscisse con quella frase come se
potesse avere il primato di pretendere qualcosa.
Non le era mai arrivato
niente del genere...
«Hai fatto bene
a bloccare il mio numero. Almeno sono venuto fin qui» le
tolse le parole di bocca e lei si sentì in completo
imbarazzo.
I battiti del cuore
accelerarono improvvisamente e spostò lo sguardo. Non
riuscì nemmeno a rivelargli che, in realtà, lo
aveva sbloccato perché aveva deciso di mettersi in pace con
sé stessa e i suoi sentimenti.
Il castano
deglutì e diede un sospiro.
«So che sei
arrabbiata con me» continuò scuotendo la testa e
facendo un sorrisino mesto.
Mimi non disse nulla, non
riuscì ad aggiungere niente nonostante probabilmente lui si
aspettava che lo facesse.
Aveva lo sguardo perso
nel vuoto e con le braccia si stringeva per darsi calore.
Tai non seppe a cosa stesse
pensando, solo attese dei secondi per darle modo di dire qualcosa,
confermare quello che aveva appena detto o magari dirgli che non era
vero, che magari lo aveva perdonato.
La ragazza
continuò a non dire nulla e il cuore del castano
crollò miseramente, deluso, nonostante dentro di
sé se lo aspettasse.
Mimi probabilmente aveva
già preso una decisione e quella non lo includeva.
Era lui il cretino a non
aver avuto il coraggio di prenderla fino ad allora; aveva lasciato che
il tempo scorresse e che tutto sbiadisse.
Era troppo tardi, aveva
seguito il suo cuore, il suo istinto quando ormai tutto si era
disgregato, e non riusciva nemmeno a biasimarla.
Un altro tuono
squarciò il rumore della pioggia.
Anche se Mimi non aveva
intenzione di perdonarlo, perlomeno lui avrebbe dovuto parlarle e dare
valore a quello che provava.
Non si sarebbe
più tirato indietro perché ne valeva la pena.
Valeva la pena essere
lì di fronte a lei inzuppato fino al midollo, poco importava
se si fosse beccato una bronchite; credeva che valesse la pena fino in
fondo, e se valeva la pena lui si sarebbe giocato perfino il
più minuscolo frammento di cuore.
Senza controllare i suoi
movimenti, fece un passo in avanti e posò le mani dietro la
sua nuca, stringendo leggermente i suoi capelli bagnati.
Lei alzò lo
sguardo su di lui, spiazzata.
«Hai tutte le
ragioni del mondo ad essere arrabbiata con me» le disse duro
con sé stesso, poi ripensò alla persona che era
stata per tutto quel tempo e sospirò
«Sono sparito
come un cazzo di codardo, ti ho lasciata lì senza dirti una
parola, ma solo perché...» si bloccò
ancora, Mimi si mosse nella sua stretta e sembrava si stesse per
mettere a piangere.
Lui non demorse e la
trattenne.
«Perché
non ho avuto il coraggio, lo ammetto» dichiarò,
sentendo ogni sua minuscola briciola di orgoglio rompersi e crollare
come creta.
Socchiuse appena gli
occhi, assaporò quelle parole appena pronunciate come una
liberazione, una rinascita.
Credeva fosse stato
peggio, mettere di lato l’orgoglio.
«Mi sento uno
stupido ad averti lasciata e a non aver fatto niente durante questi
anni» gli disse sinceramente e gli occhi nocciola di Mimi non
avevano smesso per un attimo di fissare i suoi.
Probabilmente non si
fidava, voleva capire se diceva il vero o meno.
Ma era fottutamente la
realtà dei fatti, era tutto quello a cui era arrivato dopo
due anni da solo, senza l’unica persona che lo faceva stare
bene, che lo rendeva migliore, la cui sola sua assenza lo aveva
trasformato in un automa.
Stupido era dire poco,
era stato un coglione.
E gliel’avrebbe
anche sottolineato se Mimi avesse voluto, avrebbe fatto di tutto per
dimostrarle quanto fosse pentito di quello che aveva fatto, anzi di
quello che non aveva fatto.
«Poi ti ho
vista e non ci ho capito più niente... Però avevo
paura a tornare indietro perché ormai avevo rovinato
tutto» le rivelò quello che aveva provato non
appena l’aveva vista il giorno dell’aperitivo.
Aver avuto modo di starle
vicino gli aveva procurato un effetto inaspettato, che gli aveva
cambiato tutte le carte in tavola.
La sua presenza, la sua
voce, il suo sorriso, tutto di lei gli avevano fatto riaffiorare in
mente quello che aveva perso, quello che non faceva più
parte della sua vita e che gli mancava fottutamente.
Non era riuscito a tenere
a bada i suoi sentimenti perché non erano mai spariti, ma il
senso di colpa e il non sapere bene come affrontare, come giustificare
la sua assenza lo avevano fatto chiudere in sé stesso.
Lo avevano fatto fuggire.
Ma Taichi non fuggiva mai, non era
abituato a lasciare dietro ciò che lo riguardava.
Solo che adesso non
sapeva se bastava, perché lo sguardo enigmatico di Mimi lo
metteva in soggezione, non sapeva cosa pensava, cosa gli avrebbe detto.
La sua presa si
allentò e rimase con il fiato sospeso, fino a quando lei non
diede un sospiro e strinse il suo braccio con le dita fini.
I suoi occhi parvero
brillare di uno sguardo fermo e di una sicurezza tale da fargli venire
i brividi su per la schiena.
«Non sei stato
l’unico ad aver rovinato tutto» soffiò
reduce di una consapevolezza nuova, qualcosa che derivava da una lunga
riflessione personale.
L’esame di
coscienza che aveva fatto su di sé le era servito ad
arrivare a quella constatazione che per due anni aveva evitato
volutamente.
«E’ stata colpa di entrambi.
Perché entrambi abbiamo pensato solo a noi stessi, Tai» lo
proferì in tono ovvio e con un sorrisino accennato che si
sposava bene con i suoi occhi illuminati di un bagliore nuovo.
Il castano
aspirò dell’aria e trattenne il fiato, speranzoso.
Lei continuò
in tono soave.
«Io ho pensato
che tu dovevi stare qui,
perché io volevo che tu stessi
qui, senza pensare al fatto che avevi davanti il sogno della tua vita e
che per colpa del mio egoismo io lo stavo rovinando» ammise
serenamente, come se quella verità stesse in qualche modo
lenendo una vecchia ferita che portava dentro e che adesso lasciava
spazio ad una larga cicatrice.
Era stato un duro
processo, quello di elaborare che larga parte della colpa era dovuta al
suo modo di approcciarsi alle difficoltà.
Non era riuscita a
digerirlo del tutto fino a poco tempo prima, proprio alcuni minuti
prima che lui era andato a cercarla.
Si sentiva in pace con
sé stessa, adesso. Era come se avesse imparato a valutarsi e
migliorarsi, era come se avesse visto di fronte a sé una
fiamma di pura redenzione.
Tai la vide sorridere in un
misto tra amarezza e compianto, così non riuscì a
trattenersi. Le sue mani passarono a stringerle le guance e fare in
modo che i suoi occhi si incastrassero perfettamente con i propri.
«Io voglio
stare qui» affermò seriamente e con ardore, al
punto tale da rompere la bolla di commiserazione a cui Mimi stava
facendo testo
«Non me ne
voglio più andare, te lo giuro, voglio stare qui, con
te...» continuò a sussurrare quelle parole come se
fossero una preghiera e lui la stesse recitando con devozione di fronte
ad un altare.
Non voleva che lei
pensasse di avere il torto maggiore in quella storia, perché
quello spettava a lui e solo a lui.
Mimi era stata
capricciosa perché lo desiderava semplicemente con
sé, si era fatta trascinare dal turbine di
un’età in cui il distacco faceva male
perché si aveva paura di non essere abbastanza da soli; ma Taichi, al contrario, aveva
messo al primo posto un lavoro di cui si era illuso potesse renderlo
ancora più forte e ci era voluto tutto quel tempo
affinché capisse che essere forti non significa essere da
soli.
Si prese di coraggio e lo
disse.
«Non voglio
tornare a giocare a calcio mai più»
affermò con la sensazione di star facendo la cosa migliore,
finalmente la cosa giusta.
Era una scelta che veniva
dal profondo del suo cuore, dai voleri più reconditi del suo
essere a cui non aveva mai dato adito per paura di mostrarsi debole.
Sospirò
languidamente e poi incollò gli occhi castani sul suo viso.
«Non voglio
svegliarmi la mattina da solo e pensare che l’unica persona
con cui vorrei essere è lontana cinquecento kilometri da me» si
liberò del peso che teneva dentro e fu terapeutico.
Aver dato voce a quello
che realmente provava lo aveva fatto sentire invincibile,
tutt’altro che debole o incoerente.
Mimi gli strinse una mano
che ancora le teneva il volto.
«No, Tai...»
mormorò, tentando di riportarlo indietro da quella decisione.
Non era la cosa giusta,
era solo una scelta dovuta dalla disperazione di aver perso una persona
importante; ma lei non voleva, non desiderava ripercorrere lo stesso
errore del passato.
Non voleva manipolare la
mente di Taichi e fare in modo che si
convincesse che tornare alla vita di cinque anni prima era la cosa
migliore per lui.
Lei lo conosceva, lo
sapeva quanto tutto quello gli stava costando, e anche se sembrava
risoluto, era a conoscenza di quanto il calcio fosse importante per lui
nonostante la fatica e la solitudine.
Diceva in quel modo
perché era esasperato, perché era stato per
troppo tempo da solo a reggere il peso di una vita crocifiggente; lei
stessa lo aveva vissuto nella sua pelle quando aveva per un attimo
pensato di abbandonare l’università.
Tai non avrebbe dovuto
lasciare il calcio, avrebbe dovuto continuare ad andare avanti con la
sua strada, ma con delle consapevolezze diverse e magari,
perché no, in compagnia di qualcuno che lo facesse stare
bene.
Lui continuò a
parlarle deciso, mentre la pioggia ancora batteva incessantemente.
«Sì,
invece» la contestò, poi prese un gran respiro
«Credevo che il calcio mi facesse sentire vivo, invece sei
tu» glielo disse così, semplicemente, come se la
conoscenza della verità dietro quelle parole fosse sempre
stata lì.
Mimi
boccheggiò non appena lo udì proferire quella
frase rivelatrice e non potette fare a meno di sentire gli occhi
inumidirsi.
La spontaneità
con cui parlava era sempre stato il suo punto debole; Taichi sapeva parlare in ambo i
lati.
Sapeva arrivare dritto al
cuore, ma sapeva anche ferire.
E lei ne era
così terribilmente affascinata, era talmente dipendente dal
modo in cui il castano riusciva sempre a scuoterla dentro.
Si morse il labbro e
abbassò lo sguardo per terra, incapace di reggere quel
contatto visivo per molto.
Sarebbe scoppiata a
piangere all’istante, e lei cercava sempre di mantenere
contegno anche se era decisamente poco brava.
Tai smise di stringerla e si
portò una mano sulla fronte ripensando a ciò che
era successo nelle ultime ore.
Sembrava fosse stato un
film, gli veniva persino da ridere per il modo avventato in cui aveva
preso delle decisioni e di come si riconoscesse a pieno in quello.
«L’autobus
è partito e a me non me ne fotte un cazzo,
capisci?» chiese retoricamente più a sé
stesso che alla ragazza, usando un tono pregno di adrenalina e di
consapevolezza.
Ripensò al suo
borsone abbandonato dentro il porta bagagli e scoppiò a
ridere da solo in una risata spinta che aveva un che di liberatorio e
di isterico.
Mimi alzò la
testa preoccupata, ma lui le aveva passato una mano tra i capelli
bagnati, spostandoglieli dal volto.
«Perché
volevo venire qui da te e non me ne voglio andare
più» riacquisì la sua sicurezza e
continuò ad accarezzarle i capelli, guardandola di uno
sguardo pieno di sentimento e lei lo riconobbe.
Lo riconobbe quello
sguardo, quello con il quale la guardava sempre.
Era uno sguardo di amore.
Deglutì in
difficoltà e si strinse ancora di più alla giacca.
«Tai, sei in promozione.
Pensa a ciò che diranno se non ti presenti...»
tentò di essere più razionale possibile per
riportarlo con i piedi per terra.
Non le piaceva il modo
drasticamente impulsivo in cui stava agendo; lo vedeva labile e
deleterio.
Aveva paura che non
avrebbe funzionato nemmeno quella volta se avessero fatto totalmente il
contrario dell’ultima.
Lo vide assumere una
faccia sarcastica.
«Non
m’importa» dichiarò, poi mise una mano
dentro la tasca dei jeans tirando fuori il cellulare che vibrava
«Akira? Che vada a fanculo!» allargò le
braccia, poi spense lo schermo.
Si voltò a
guardarla nuovamente.
«Io voglio
essere libero, voglio essere il vero Taichi» lo disse in
un modo che le ricordò tanto i tempi in cui erano a Digiworld e tutti loro pendevano
dalle sue labbra nonostante il più delle volte non aveva la
vaga idea da dove iniziare.
Si fidavano sempre di
lui, e anche lei si fidava di lui.
Le venne da sorridere e
si sentì in imbarazzo.
«E cosa farebbe
adesso il vero Taichi?» lo
provocò giocosamente, volendo scatenare un
sua reazione immediata.
Non sapeva di che tipo,
solo voleva che abboccasse come quando erano piccoli.
Sia mai che qualcuno lo
provocasse, sarebbe uscito fuori il leone che c’era in lui.
Difatti lui la
guardò senza fiato, poi l’attirò a
sé dalla nuca e la baciò.
Fu un bacio passionale,
ma tutt’altro che lento. Era uno di quei baci da far girare
la testa per l’intensità e la foga, era uno di
quei baci che anticipavano sempre qualcos’altro, e lei si
sentì distrattamente sollevata da terra a viaggiare per
mondi lontani, verso direzioni che non conosceva.
La lingua di Tai era in costante ricerca
della sua, la sua bocca era calda e sapeva di coscienza e
verità ritrovate, di parole che avevano tardato a dire ma
che avevano un gusto nuovo, un gusto migliore quando proferite.
Mimi si
aggrappò alla sua schiena e lui
l’abbracciò completamente, la coprì in
tutta la sua altezza e possanza, quasi non sentì
più le goccioline di pioggia picchiare sul suo viso.
Era un bacio di ritrovo,
un bacio che sapeva di voglia di ricominciare e di scuse, di voglia di
non lasciarsi più, di non sbagliare mai più.
La castana stringeva la
sua maglia da sotto la giacca e lui non le stava dando tregua, la
baciava come se gli era stato permesso solo una volta nella vita.
Mimi si lasciò
scappare un gemito contro la sua bocca, così Tai le strinse di
più i capelli bagnati e lentamente sciolse
quell’abbraccio.
La baciava ancora con le
mani intrecciate dietro i suoi capelli, il viso abbassato
all’altezza di quello suo, e non avrebbe interrotto quel
momento se non fosse perché l’ossigeno cominciava
a venire meno.
Quando si
allontanò dalla sua bocca non le mollò la nuca,
la guardò con le labbra gonfie, rossa in viso e spettinata.
Era bellissima, la voleva
da impazzire, più di quanto aveva pensato fino a quel
momento di volerla.
Lei era scossa e
stupefatta dal modo intenso in cui si erano baciati, così
tanto che avrebbe voluto baciarlo ancora.
Avvicinò le
sue labbra a quelle di Tai per sentirle nuovamente,
le palpebre cominciarono a chiudersi, ma questi l’interruppe.
«Ti
amo» lo udì dire come fosse una voce proveniente
dall’esterno di una bolla.
Si sentì
accarezzare il volto con delicatezza, con parsimonia, con una cura
maniacale nel non farle del male.
Alzò appena la
testa con la bocca socchiusa e gli occhi che cercavano quelli suoi.
«Ti amo tanto,
Mimi» ripeté lui in un sussurro come a risposta di
quel dubbio.
Era come se sapesse
leggerle la mente.
Chiuse gli occhi a
godersi l’effetto che quelle parole avevano su di lei.
Rimasero a
mezz’aria a guardarsi, stretti l’uno a
l’altra.
La pioggia le picchiava
prepotentemente il volto, mentre Tai le asciugava dal viso
tutte le goccioline e la guardava ancora in quel modo indescrivibile.
Mimi portò una
mano sulla sua guancia e lo accarezzò, poi congiunsero le
fronti in un gesto di intima complicità.
Quanto tempo era dovuto
passare prima che si potessero stringere in quel modo?
Sembrava trascorsa
un’eternità, un’eternità
sconosciuta dove avevano entrambi lottato per vivere o morire.
La castana gli diede
un’ultima carezza sentendo al tatto una barbetta leggermente
incolta, poi scese giù fino al collo liscio e morbido.
La bellezza di Tai era sempre stata
particolare; non era eterea ed imperiosa come quella di Matt, era
più trasandata, ogni suo lineamento sembrava suggerire
mascolinità e sicurezza.
I suoi occhi erano sempre
gli stessi, buoni, che sembravano comunicare al solo sguardo,
sembravano possedere il potere di leggere i meandri della mente altrui.
La pioggia imperversava,
ma loro non si spostarono da lì.
Sembrava che
l’uno attendesse un gesto dell’altro, e quando Tai allentò la
presa da Mimi questa sentì più freddo del dovuto.
Il calore che gli donava
lui era intenso e protettivo, non avrebbe voluto staccarsi mai da
quella presa salda e decisa.
Il castano,
però, non interruppe il contatto visivo e lo vide in leggera
difficoltà, come in attesa di formulare delle parole che non
riuscivano a prendere la forma giusta.
Poi sospirò
pesantemente e diede voce ai suoi pensieri.
«Potrai
perdonarmi per tutte le cazzate che ho fatto?» lo
sentì chiederle in tono lugubre e rassegnato.
Era il suo mea culpa, riconoscere di aver
sbagliato delle cose.
E lo apprezzava per non
aver sotterrato la questione subito dopo averla conquistata con un
bacio e degli abbracci; sembrava realmente voler mettere un punto
definitivo a quella storia, voler scavare fino in fondo di ogni loro
punto debole per renderlo forte e non avere più strascichi.
Voleva tornassero ad
essere forti, più forti di prima.
E quasi le fece
tenerezza, guardandolo con il suo immancabile ciuffo di capelli castani
piegato dalla pioggia che gli scendeva in viso e la sua espressione
esitante, come se avesse timore di conoscere la risposta.
A Mimi venne da sorridere
amorevolmente, mentre il cuore batteva forte di fronte
all’ennesima constatazione.
Quegli anni senza di lui,
quei giorni in cui erano stati lontani le erano serviti a cesellare il
suo di mea culpa dietro una lunga serie
di riflessioni pragmatiche.
«Solo se mi
prometti che non mollerai il calcio» soffiò in
modo del tutto inaspettato, tanto che l’altro aprì
la bocca dallo stupore.
Credeva fosse quello il
più grande problema per lei, lo scoglio contro il quale
erano affondati e annegati; credeva che dare voce in capitolo alla sua
inconfessata voglia di abbandonare il calcio potesse servire a
sistemare le cose con lei.
Distruggere il problema
dalla radice.
«Cosa?»
chiese confuso e con fervore, quasi volesse premurarsi di aver sentito
bene.
Non voleva pensare che lo
facesse per accontentarlo o che, ancora peggio, non le importava
veramente; se per lei era lo stesso averlo lontano allora valeva a dire
che non ci teneva più ad averlo tra i piedi, magari era una
scusa per mandarlo gentilmente a quel paese.
Sentì il cuore
sprofondare a quella sensazione.
Lui voleva tornare a
Tokyo per stare con lei; tornare a giocare a calcio sapendo di non
poterla vedere per mesi lo distruggeva dentro.
Supponendo che sarebbe
tornato a Kyoto e poi trasferito ad Osaka significava perderla ancora
di vista, rimanere lontani a condurre due vite prettamente separate in
cui lui avrebbe dovuto raccogliere il suo sudore e limitare la sua vita
sociale e di conseguenza privata a causa degli allenamenti e delle
partite.
Avrebbe giocato in serie
A, e questo non poteva dire che non contava nulla per lui, il suo cuore
era pieno di orgoglio se pensava di aver fatto così tanta
strada fino ad allora, ma non era la stessa cosa condurre una carriera
senza avere lei al suo fianco.
Il calcio non alimentava
più la sua felicità come si era illuso
perché aveva constatato che aveva da sempre cercato nel
posto sbagliato.
Mimi gli strinse le
guance e fece in modo che i loro occhi s’incastrassero.
Tai provò timore
a quello sguardo e una serie di interrogativi inondarono la sua testa
rendendogli perfino difficile respirare.
«Non sei solo
tu ad aver capito i tuoi errori» gli disse dando una risposta
a tutti i suoi dubbi «L’ho fatto anche io. E non
permetterò che tu rinunci nuovamente a qualcosa per
me» i suoi occhi parvero brillare di sicurezza e
determinazione.
Era da tanto tempo che
non le vedeva impresso quello sguardo risoluto nel viso limpido e
l’effetto che gli provocò fu incredibile.
Una morsa
attanagliò il suo stomaco e sentì le gambe pronte
a cedere sulla strada fangosa sotto di lui.
Tentò di
ridestarsi e prendere fiato, la guardò nuovamente negli
occhi e lei non aveva smesso di fissarlo in quel modo.
Fidati di me, pareva
volessero dirgli.
Mimi sembrava pienamente
convinta di quello che aveva detto, sembrava sapesse benissimo dove
stava andando a parare.
Ma lui non poteva cedere
in quel modo, perché non valeva lasciare che lei lo
proteggesse, che lei si sacrificasse per lui.
Doveva essere lui a
rinunciare a qualcosa per lei, voleva che fosse lui stesso a
dimostrarle che era cambiato, che era maturato e che l’amava.
Le strinse il viso di
rimando.
«Ma io voglio
farlo, Mimi» disse tra i denti, sicuro «Voglio
stare qui con te ed avere una vita normale. Quella che avremmo dovuto
avere insieme, tempo fa»
Si sentì
meglio, si sentì decisamente libero e forte non appena aveva
proferito quelle frasi che esprimevano i suoi desideri più
disperati.
Taichi non era niente senza di
lei.
Non era che un manichino
messo lì ad eseguire degli ordini a comando, lasciando che
la sua vita scorresse nuovamente e che non attingesse nemmeno ad un
attimo di vera felicità.
Non voleva tornarci, non
lo voleva fare senza di lei.
Senza di lei non avrebbe
più agito da quel momento in poi.
Questa mollò
la presa dalle sue guance e strinse le dita intorno a quelle del
ragazzo, facendo in modo che, lentamente, smettesse anche lui di
stringerla.
Tai fece
un’espressione interrogativa e guardò in basso,
dove le loro mani si stringevano ancora e con più
fervore.
Poi spostò di
nuovo lo sguardo sul suo viso e vide che sorrideva serena e comprensiva.
«L’avremo»
la sentì dire, e sentì un brivido lungo tutta la
schiena al suono di quel verbo pronunciato con convinzione.
«Tu andrai a
giocare ad Osaka ed io ti raggiungerò. Finirò gli
studi, mi manca davvero poco, e non dovremo rinunciare più a
niente di ciò che amiamo fare»
Non sapeva che ordine
stesse seguendo, stava semplicemente parlando per via libera, come se
le parole non avessero un copione, le uscivano semplicemente dal
più profondo del suo cuore.
«Sarà
una buona occasione per entrambi, ma staremo insieme, non dovremo
separarci mai più. Saremo noi stessi, saremo
migliori» aveva fatto sì che le loro dita si
intrecciassero a mezz’aria mentre lo guardava con una purezza
tale da sconvolgere tutti i suoi equilibri già precari.
Il cuore di Tai batteva forte, sembrava
un tamburo.
«E io ti
prometto che farò di tutto purché questo
accada!» esclamò con veemenza e lo
guardò di uno sguardo candido ed innamorato.
Quello sguardo gli
ricordò tanto il motivo per cui si era innamorato di lei a
diciassette anni, del perché si era innamorato della sua
purezza d’animo, della sua empatia, del suo modo di vedere il
mondo a colori.
Mimi accentuava i colori
della vita di Tai.
Mimi dava alla sua oramai
schematizzata esistenza un motivo in più per credere in
sé stesso e in ciò che amava fare.
Lei aveva il potere di
riportarlo nella giusta via quando si perdeva, lo impregnava di
ottimismo e profumo di vita, di libertà.
Mimi era la purezza fatta
a persona e lui lo sapeva di non poter fare a meno della sua cascata di
limpidezza ed esuberanza.
Il suono di quelle parole
lo avevano reso inerme e frastornato, quasi come se fosse lontano anni
luce dalla realtà, quasi come se non si trovasse davvero
sotto la pioggia che batteva ininterrottamente sopra le loro teste.
Si ritrovava
all’interno di una bolla ovattata dentro la quale sentiva i
rumori lontani.
Mimi lo voleva seguire,
glielo aveva appena riferito.
Non voleva che mollasse
il calcio, voleva che ritrovasse fede e passione nel suo lavoro, voleva
che non perdesse speranza nel sogno della sua infanzia, della sua
adolescenza, della sua vita.
Non voleva commettere gli
stessi errori del passato, voleva fare per due.
Voleva dare adito ad
entrambi.
Voleva che nessuno di
loro due si ritrovasse felice a metà, perciò era
pronta a stendere un velo di amnesia nei loro sbagli più
grandi e ricominciare d’accapo nel modo in cui sia Tai che Mimi meritavano.
Non seppe che dire per un
po’ di tempo, tanto aveva lo sguardo perso nel vuoto e la
bocca semiaperta.
La ragazza
cominciò a sentirsi a disagio, le parole che aveva proferito
le incominciarono a sembrare un tantino fuori luogo ed azzardate.
Forse lui non aveva
intenzione di fare un passo del genere, non dopo tutto quello a cui
erano andati incontro.
Era ancora troppo presto
per parlare di trasferimenti; un conto era vedersi ogni tanto e vivere
a Tokyo in delle case separate, un altro era iniziare una nuova vita
insieme, prendere casa, convivere...
Si sentiva una sciocca,
adesso, ad aver dato voce a quelle decisioni ottimistiche.
Abbassò lo
sguardo mesta, sentendo un groppo fastidioso alla gola.
Era comprensibile se lui
non voleva, d’altronde avevano appena fatto un passo dopo due
anni in cui nessuno di loro aveva provato a farsi avanti.
Poteva pensare che era
folle a volere una cosa del genere, come al solito...
Pensò di
tamponare l’impatto.
«Sempre...
sempre se tu lo vorrai, altrimenti-»
Ma Tai non le aveva dato
nemmeno modo di terminare perché si era sporto e
l’aveva baciata appassionatamente, emozionato.
Mollò le sue
mani e le portò dietro la sua schiena, circondandola con un
abbraccio.
Con un gesto repentino
l’alzò da terra, mentre la sua lingua lambiva la
propria e non le dava modo di scappare, imprigionata per sempre in
quell’amore straripante.
Certo che lo voglio,
riusciva solo a pensare.
La mise giù ma
solo un attimo per poterla prendere in braccio e farla volteggiare come
se fosse una principessa, nell’esatto modo in cui
l’aveva fatto a Digiworld.
Nell’esatta
maniera in cui l’aveva fatta sentire importante.
Nell’esatto
modo in cui avrebbe voluto tenerla stretta a sé per sempre.
Mimi rise divertita ed
emozionata, le braccia agguantate al suo collo, il viso pieno di gocce
di acqua che la facevano assomigliare ad una ninfea.
Tai la guardò e
s’innamorò ancora, con una mano fece aderire le
loro fronti.
«Tu sei
pazza» le sussurrò contro la sua bocca con il
fiato spezzato, i sensi completamente catturati dalla sua bellezza.
Mimi emise di nuovo una
risata e lui la spense baciandola.
Insieme in quel modo, non
contava più nient’altro.
Non contava nemmeno il
tempo che era passato se era servito a farli tornare di nuovo tra le
braccia dell’altro.
La ragazza si
staccò da lui, guardandolo con sfida.
«Guarda chi mi
sta baciando sotto una burrasca!» lo canzonò
guardandosi intorno e non vedendo altro che fitte gocce
d’acqua ad appannarle la vista.
Tai gettò
un’occhiata e fu come se per la prima volta si fosse
realmente accorto del luogo in cui si trovavano.
I due si lanciarono uno
sguardo complice e scoppiarono entrambi a ridere, quasi come se fossero
ubriachi di vino, per poi baciarsi ancora.
I tuoni squarciarono il
rumore del battito della pioggia, e questa aumentò di grado.
Una macchina si accinse a
percorrere a tutta velocità il vialetto.
Tai la notò, e
prese a correre con lei ancora in braccio per evitare che li
schizzasse.
Non riuscirono a schivare
totalmente l’ondata così si lasciarono andare di
nuovo alle risate, mentre si dirigevano verso il portone di casa.
La fine era arrivata e
loro ci erano arrivati insieme.
Bene, eccoci dopo
tantissimo tempo!
Cominciamo il nuovo anno
con il botto, come si suol dire.
Capitolo davvero
importante per Mimi e Taichi. Come andrà a
finire il resto? La storia sta quasi giungendo al termine, finalmente,
pertanto vi chiedo con tutta l’umiltà del mondo un
vostro parere, voi che leggete, perché ci siete, vi vedo e
mi fa tanto piacere che nonostante tutto e dopo tantissimi anni ancora
vi ritrovo a leggere una mia storia sui Digimon, la più
lunga in assoluto che abbia mai scritto e ci tengo davvero tanto. Ho
continuato ad aggiornare anche per un archivio personale, ho altri
brevi racconti in cantiere che ho già scritto e che mi
piacerebbe pubblicare, anche se il lasso di tempo è
precedente a questo. Semplicemente, vorrei sapere che ci siete leggendo
anche voi. A presto.
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Capitolo 22 *** Stazione ***
Aveva
smesso di piovere ma le gocce scivolavano ancora contro il vetro del
taxi che la stava scortando verso la stazione di Ariake.
Seduta
sui sedili posteriori guardava oltre il finestrino, la gamba che
tremolava nervosamente, le mani racchiuse una dentro l’altra
a
torturarsi come se potesse lenire in qualche modo l’ansia e
la
paura che in quel momento la sovrastava.
Avevano
imboccato un po’ di traffico, era l’ora di punta e
la gente si
apprestava a tornare a pranzare dal lavoro.
Guardò
con una ruga di preoccupazione l’orologio, poi si
infilzò le
unghie sulla carne del palmo.
Dovevano
muoversi, o non ce l’avrebbe mai fatta.
Non
poteva permettere che Yamato prendesse quel treno, non poteva
assolutamente fare in modo che lasciasse scivolare tra le dita
quell’unica occasione che aveva di parlargli.
Il
tassista disse qualcosa ma non l’ascoltò, troppo
presa a fissare
fuori il paesaggio lugubre e nuvoloso.
Si
sentiva così agitata che sarebbe potuta scoppiare a piangere
senza
neanche accorgersene. Lo stomaco sembrava gli si stesse
aggrovigliando in una morsa che le faceva provare pena e timore,
mentre il cuore non ne voleva sapere di calmarsi.
Strinse
i pugni sopra le ginocchia e guardò ancora fuori.
Non
doveva mancare molto, bisognava svoltare dalla via secondaria e
raggiungere l’imbocco della stazione ferroviaria.
L’avvicinarsi
della destinazione la rendeva spaventosamente inquieta ma nello
stesso tempo sentiva crescere dentro di sé una totale voglia
di
scendere dall’auto e correre via.
Doveva
andare da Matt, doveva parlargli, doveva dirgli tutto quello che
provava.
Doveva
perlomeno cercare di dimostragli che non aveva mai smesso di
crederci, seppur gli aveva inferto un male terribile.
Lo
aveva inferto anche a sé stessa, soprattutto a sé
stessa.
Infliggere
del male a sé stessa non era altro che la conseguenza di
aver ferito
Matt.
Lei
lo sapeva ormai, era consapevole dentro di sé di non voler
altro in
quella vita.
Forse
perché, come diceva qualcuno, si capisce di amare qualcuno
solo
sull’orlo della perdita, ed era questo quello che le stava
succedendo.
Stava
perdendo Matt.
Lo
stava perdendo completamente, non aveva né la forza
né il controllo
su di lui, lo aveva lasciato andare tanto tempo fa e adesso non
sapeva se avrebbe mai potuto farlo ritornare indietro.
Strinse
le labbra e sentì un senso di angoscia torturarla.
Gli
era scivolato via dalle dita come se fosse dell’acqua proprio
nel
momento in cui aveva maggiormente sete.
La
metafora della sua vita era estremamente ironica e pungente.
Si
ritrovava da sola e senza amore, proprio lei che aveva la
predilezione per le piccole cose e l’amor proprio,
l’amore verso
gli altri, la premura, la bontà.
Proprio
lei che era la detentrice di un valore così grande lo aveva
confuso
con un sorta di istinto primordiale dietro il quale si era nascosta
vigliaccamente.
Le
parole di Taichi le riaffiorarono in mente e si stupì di
come
riuscisse così bene a ricordarle, a rielaborare le sfumature
del suo
tono di voce, a rimarcare i contorni del suo viso.
Lui
si fidava di lei, non le aveva mai realmente voltato le spalle
seppure aveva avuto paura che lo avesse fatto e, in quel caso, lo
avrebbe perfino capito.
Tai
si fidava della persona che era, lo aveva sempre fatto e quello che
gli aveva detto era vero.
Sora
sapeva arrivare dritta al cuore delle persone, possedeva una forza
che in pochi avevano in quel mondo.
Era
stata scelta in passato da entità maggiori proprio per
quello.
L’amore.
L’auto
si fermò ad un parcheggio e la voce del tassista la distolse
dai
suoi pensieri.
«Arrivati
a destinazione» lo sentì dire, e con un
sospirò subito si apprestò
ad aprire la borsa per prendere i soldi.
Pagò
la corsa e aprì lo sportello del taxi, uscendo fuori e
sentendo sul
viso un vento freddo che le fece venire la pelle d’oca.
Di
fronte a sé si ergeva imponente la stazione ferroviaria di
Ariake.
Un
brivido le percorse la schiena e i capelli si sollevarono guidati da
un colpo di vento alle sue spalle.
Si
strinse infreddolita alla giacca e sentì il taxi che
eseguiva una
manovra e sgommava via, lasciandola lì da sola.
Per
un attimo ebbe l’istinto di voltarsi e chiamare a gran voce
il
tassista affinché tornasse indietro e la riportasse a casa.
Aveva
una paura folle che quel viaggio non le sarebbe servito a
nient’altro
se non ad annegare ancora di più nel suo dolore e nei suoi
rimorsi.
Si
sentiva sconfitta in partenza, come se stesse osando un passo troppo
lungo per il quale non disponeva la forza.
Ma
poi la voce di Tai le ritornò in mente.
Lei
poteva farlo perché aveva tutta la forza necessaria.
Non
c’era nessun altro meglio di lei che avrebbe potuto tentare
di
salvare gli ultimi pezzi di un amore perito.
Assunse
un’espressione sicura e a gran passi si accinse a salire le
scale
senza avere nessun’altro ripensamento.
La
struttura era grande ed affollata e lei non aveva idea da dove
iniziare. Non era una stazione che frequentava, né tantomeno
conosceva gli orari delle partenze.
Si
fece largo tra le persone urtandone qualcuna.
Doveva
trovare un tabellone con le informazioni, altrimenti non avrebbe
avuto possibilità di conoscere la sua sorte.
Corse
fino a quando non sentì la voce meccanica
dell’altoparlante
annunciare qualcosa e si fermò di scatto, poi
alzò lo sguardo e
vide palesarsi il tabellone.
Il
treno per Shiodome.
Doveva
esserci un treno diretto a Shiodome,
si disse, perché
non appariva
nel
led...
Aspettò
che la lista scorresse le molteplici partenze tutte accomunate dalla
stesso orario ma dal numero diverso dei binari.
Quasi
aveva perso la speranza, quando a caratteri cubitali
l’informazione
sul treno in partenza per Shiodome comparì di fronte a
sé.
Ore
12:34, binario 5.
Doveva
essere proprio quello che Matt attendeva.
Il
suo volto si illuminò di luce e in uno scatto
cominciò a correre
verso destra in direzione dei sottopassaggi.
Non
sapeva bene dove andare, ma le sue gambe avevano preso a muoversi da
sole, come se qualcosa di invisibile le guidasse.
D’un
tratto udì nuovamente la voce dell’altoparlante
annunciare
qualcosa.
“
Il
treno diretto a Tokyo 8642356 è in arrivo al binario 5, vi
preghiamo
di non oltrepassare la linea gialla. The
train directed to Tokyo 8642356 has just arrived to-”
Era
il
treno.
Era
sicuramente quello, doveva muoversi, doveva andare...
Cominciò
a salire le scale come una forsennata, urtando una signora che aveva
una borsa della spesa piena di frutta.
Un
paio di arance ruzzolarono via e la vecchia si lamentò,
imprecando
qualcosa. Lei continuò a salire, ma poi si fermò.
Chiuse
gli occhi.
Non
poteva essere così scortese, dannazione.
Con
un sospiro, tornò indietro e recupererò tutte le
arance rotolate
alla fine delle scale. Le riportò indietro e le rimise
dentro la
busta di pezza.
«Mi
scusi tanto, signora» borbottò, mentre quella
gliela scippava di
mano e andava via senza nemmeno dirle un grazie.
Rimase
come un’intontita con le mani ancora a mezz’aria,
ma poi si rese
conto che doveva
sbrigarsi.
Prese
a salire le scale di corsa, superò qualcuno fermo a
controllare la
borsa, ma altre persone che avevano difficoltà a salire la
valigia
le sbarrarono la strada.
Respirava
affannosamente e la testa le girava.
Cazzo,
non ce l’avrebbe fatta...
Sarebbe
rimasta bloccata lì dentro...
Dovevano
muoversi.
Doveva
muoversi.
Con
uno scatto, spostò di lato qualcuno che le sembrava un
turista e
prese a salire le ultime scale che la separavano dall’aria
aperta.
Intravide
i binari e il cuore cominciò a batterle forte.
Non
udiva il treno però, dov’era il treno, non sentiva
il rumore dello
stridio delle rotaie sui binari...
E
poi lo udì.
Ma
non era lì al binario di fronte, era a quello
dell’altra banchina.
E
stava partendo.
Il
cuore le salì fino alla gola, si diede un rapido sguardo
intorno ma
non vide nessuna faccia familiare, solo un via vai di gente, qualcuno
seduto che leggeva il giornale.
Poi
si rese conto.
Il
binario non era il 5, ma il 4.
Aveva
sbagliato, aveva preso il sottopassaggio sbagliato.
Il
treno si era messo in marcia e stava partendo, così lei
gemette e
cominciò stupidamente a correre per la banchina, ma subito
quello
prese velocità e sparì.
Respirando
affannosamente rimase a guardare la direzione in cui era sparito.
Le
gambe le cedettero da sole e si lasciò scivolare per terra,
stanca.
Il
volto basso, si guardava le ginocchia, i pugni chiusi.
Non
ce l’aveva fatta...
Era
partito.
Non
era riuscita a fermarlo, non era riuscita a parlargli, non era
riuscita nemmeno a guardarlo negli occhi e salutarlo...
Il
fiato era spezzato, gli occhi avevano preso ad inumidirsi.
Aveva
di nuovo sbagliato tutto.
Alzò
lentamente lo sguardo, alcune persone avevano preso a fissarla.
Probabilmente si chiedevano che ci facesse lì, appostata per
terra,
sconvolta.
Tentò
con tutte le sue forze di frenare le lacrime, stava per scoppiare, ma
non voleva destare ulteriore attenzione.
Non
ce l’aveva fatta.
Gli
occhi nocciola si posarono apaticamente alla banchina di fronte e
d’un tratto vide qualcosa.
Qualcuno,
che aveva un’aria familiare se ne stava seduto su una
panchetta,
vestito di nero, i capelli biondi che gli ricadevano in viso, una
valigia al lato. Se ne stava seduto con le gambe aperte, le mani
unite a pugno.
Il
viso era basso, nascosto, guardava per terra e sembrava perso nei
suoi pensieri.
Un
piccolo, minuscolo filo di speranza si riaccese in lei.
Lo
avrebbe riconosciuto tra mille.
Era
lui, era Yamato.
Non
pensò più a niente, non riuscì ad
elaborare qualsiasi altro
pensiero o constatazione, solo si mise lentamente in piedi senza
levargli gli occhi di dosso come per paura di perderlo di vista o che
potesse saltare via su un treno spuntato all’improvviso.
Si
strinse le mani al petto, poi gli diede un ultimo sguardo titubante e
corse via al sottopassaggio.
Non
era ancora finita.
Yamato
aveva il viso chino sui suoi stivali stringati in pelle nera, i
pensieri gli affollavano la testa e non riusciva a liberarsene
neanche per un secondo.
Qualcuno
avrebbe pensato che amasse crogiolarsi nel suo dolore, che era una di
quelle persone masochiste che trovavano una sorta di piacere perverso
nel combinare cose o situazioni che le facessero stare male; ebbene,
forse i fatti stavano in quel modo.
Era
così devoto a quella sofferenza che quasi si chiedeva
com’era
stato vivere per tutto quel tempo senza aver sentito quel dolore
lancinante all’altezza del cuore.
Si
trovava ad un passo dalla fine,
lì da solo, perduto in un oceano scuro che tanto gli
ricordava una
di quelle volte in cui si erano persi a Digiworld.
Si
erano smarriti così tante volte in quel luogo, e non parlava
di
smarrimento fisico; aveva dovuto fare talmente tanti conti con
sé
stesso che non credeva di poterne essere realmente pronto, non dopo
la separazione repentina dei suoi genitori, non dopo che gli era
stato portato via suo fratello ingiustamente.
La
vita era stata dura con lui sin da bambino, però poi aveva
scoperto
il suo vero io.
Era
successo tutto lì, su quell’isola strana e
sconosciuta, in quel
luogo così talmente lontano dove la realtà era
distorta e tutto gli
pareva ormai un sogno lontano.
Ma
era stato vero, era stato autentico, reale, così come quello
che era
successo in quei giorni, così come la pena che lo avvolgeva,
lo
attanagliava senza via di fuga.
Alzò
la testa e guardò il binario di fronte a sé;
facce sconosciute e
valigie troppo grandi sfilavano per la banchina, ognuno di esse aveva
una storia con sé.
Magari
almeno una di quelle persone provava lo stesso di quello che provava
lui, era stata tradita allo stesso modo e stava tentando di fuggire
dal suo passato, rifarsi una vita che potesse eliminare gli sbagli, i
fallimenti di quella precedente, trovare una scorciatoia che potesse
aiutarla a farla star bene con sé stessa.
Volse
lo sguardo alla chitarra appoggiata contro il sedile, ben riposta
dentro la sua custodia scura.
Ormai
era tutto finito.
Si
sentiva all’orlo del precipizio, al limite del baratro, e
avrebbe
dovuto saltare.
Si
passò una mano tra i capelli biondi, lunghi e spettinati
come mai lo
erano stati. Non
si era mai sentito così talmente in disordine come prima di
allora.
Socchiuse
leggermente gli occhi, mentre un pensiero lo sfiorava.
Cozzava
con la sua scelta, ma proveniva dai profondi e tormentati desideri
del suo cuore, della sua anima.
Avrebbe
voluto sentire quella voce ancora una volta, avrebbe voluto vedere
quel viso ancora una volta, avrebbe voluto che qualcuno provasse a
fermarlo.
Sora
salì di corsa le scale del sottopassaggio, stando ben
attenta ad
evitare che qualcuno la intralciasse nuovamente.
Non
poteva più tardare o se ne sarebbe pentita per sempre.
Non
appena la luce toccò i suoi occhi li socchiuse sentendo
dolore alla
testa, si portò una mano per coprirli e guardare oltre le
persone
che si accalcavano sulla banchina.
La
panchetta su dove si trovava Matt non doveva essere tanto lontana.
Cominciò
a camminare a gran passi fino a farsi largo e raggiungere il centro
del binario 5, proprio dove lo aveva adocchiato poco prima.
Infatti,
lo vide spuntare all’improvviso, ancora seduto da solo, non
era
cambiato nulla se non la sua posizione.
Non
aveva più lo sguardo basso, era rivolto verso destra a
guardare
chissà cosa, mentre le sue mani erano giunte.
La
tipica espressione di quando Yamato era sovrappensiero, di quando
c’era qualcosa che non andava in lui, qualcosa che lo rendeva
inquieto e nervoso.
Si
fermò a distanza e deglutì, mentre sentiva il
cuore battere forte
per l’ansia e, allo stesso tempo, l’adrenalina che
la spingeva
nel buttarsi a capofitto, a sciogliere quei nodi di titubanza che
ancora la stringevano.
Il
momento era arrivato, non poteva più tirarsi indietro.
Non
voleva più farlo.
Si
portò una mano alla bocca, aspirò una grande
quantità d’aria per
darsi forza e s’incamminò verso di lui.
Le
gambe sembravano muoversi da sole, non avevano tregua, così
come i
battiti accelerati del suo cuore.
Il
petto pareva esploderle, e mentre avanzava di passo la sua mente la
martellava di domande e pensieri scomodi.
Era
giusto quello che stava facendo?
Presentarsi
lì a parlargli era un po’ come forzare la mano, e
lei sapeva
quanto Matt odiasse chi provava ad imporgli qualcosa.
Non
era sicura che avrebbe voluto parlarle, anzi, prevedeva una reazione
interamente negativa e si vedeva già lì, gettata
a piangere nella
speranza di riuscire a dargli delle giustificazioni lecite.
Si
fermò e rimuginò.
Lei
non si sarebbe giustificata, non poteva farlo.
Non
aveva poi così tante giustificazioni, solo quello che era il
suo
punto di vista e dubitava altamente potesse essere condivisibile da
Matt.
Sapeva
anche come il ragazzo disprezzasse chi tentava di arrampicarsi sugli
specchi, lui era schietto, sincero, a volte persino affilato.
Non
avrebbe provocato pena in lui, non si sarebbe piegata a recitare una
parte fittizia dove invocava perdono e reclamava pentimento.
Lei
avrebbe parlato chiaro, e a parlare sarebbe stato il suo cuore.
Solo
e solamente il suo cuore.
Perché
lei era Sora Takenouchi e ci credeva ancora nell’amore.
Perciò
si sarebbe presa il rischio che ne comportava.
Continuò
a camminare con un’espressione altera in volto.
Arrivò
di fronte alla panchina, finalmente, ma lui non dava cenno di essersi
accorto della sua presenza. Stava ancora lì, seduto con le
gambe
aperte, le mani giunte e il viso angelico che non le rivolgeva uno
sguardo.
Fece
caso che aveva con sé solo una valigia di taglia
media,
non sembrava avesse portato molto dietro, ma fu lieta di notare la
sua chitarra elettrica spuntare da dietro il sedile.
Le
faceva credere che non tutto era poi così perduto.
Si
fece coraggio ripensando alle parole di Tai e sentì un
calore al
petto.
«Matt»
lo chiamò flebilmente ma con decisione, mentre una folata di
vento
le scompigliava i capelli e una ciocca ramata le sfiorava il volto.
Ad
udire il suono di quella
voce, questi s’irrigidì.
Non
si voltò subito, solo aggrottò le sopracciglia
fissando vacuamente
l’asfalto, mentre i suoi sensi lo allertavano e la saliva si
prosciugava.
Yamato
alzò lentamente la testa e incastrò gli occhi
celesti sopra i suoi
nocciola. Non riuscì a nascondere un’espressione
di stupore non
appena la vide lì, ritta davanti a lui che lo guardava di
uno
sguardo esitante ma nello stesso tempo fermo.
Sembrava
apparsa lì come se fosse un angelo di annunciazione, e non
riusciva
a fare a meno di perdersi nella bellezza gentile del suo viso
candido.
Sembrava
fosse lì affinché si beasse della sua immagine
luminosa dopo tanto
tempo in cui aveva vagato nel buio della notte.
Socchiuse
la bocca senza riuscire ad emettere suono.
Perché
era lì?
Come
aveva fatto a trovarlo?
Non
riusciva a pensare decentemente e con un minimo di raziocinio, solo
aveva male agli occhi come se prolungare lo sguardo su di lei lo
stesse abbagliando.
Il
cuore aveva incominciato a battere furiosamente, lo sentiva in modo
distratto nelle orecchie, e una serie di pensieri facevano a pugni
lottando dentro la sua testa.
Una
parte di sé, una piccola parte di sé sotterrata
in fondo al suo
cuore, aveva appena acceso un barlume di speranza che tentava di
sovrastare a tutti i costi.
«Che...
che ci fai qui?» chiese balbettando appena, sentendo un
groppo in
gola difficile da mandare giù.
Sembrava
come se non avesse mai imparato a parlare tanto la bocca era asciutta
e non dava cenni di ripresa.
Era
una domanda lecita, dopotutto.
Perché
si trovava lì di fronte a lui?
Ci
vedeva bene o era solo una visione impartita da quello stato di
sonnambulismo in cui si era imprigionato da giorni e dal quale non
riusciva a risvegliarsi completamente?
Eppure
l’averla vista apparire così
all’improvviso gli aveva regalato
un guizzo, qualcosa gli era smossa dentro e gli aveva fatto intendere
come non fosse ancora tutto finito.
Non
era ancora morto completamente se riusciva ancora a provare tutte
quelle sensazioni contrastanti e profondamente intense.
Sora
lo guardava fisso, non aveva smesso di osservarlo in un modo che gli
sembrava inquisitore, come se stesse cercando in lui la parte
più
debole su cui appigliarsi.
Non
sapeva cosa voleva da lui, ma non avrebbe mostrato quel lato.
Non
lo avrebbe mostrato a nessuno, mai più.
La
vide sospirare flebilmente.
«Ho
saputo che partivi» gli rispose con pochi giri di parole,
quasi come
se gli avesse appena rivelato un segreto.
Non
riusciva a distogliere lo sguardo da lei, la fissava completamente
incapace di aggiungere altro.
Lo
stupore era talmente grande da non riuscire ad avere una reazione,
specialmente perché l’apparizione di Sora era
qualcosa che aveva
desiderato segretamente.
Lei
era lì.
Sora
era lì, e lui non riusciva a capacitarsi di come il momento
di
affrontarla era arrivato senza che quasi se ne fosse accorto.
E
adesso aveva paura, provava timore anche solo ad attendere che lei
aprisse bocca e parlasse di quello che era successo.
Non
voleva, non aveva la forza giusta per sopportare un’ulteriore
tribolazione.
Era
così abituato a tenersi tutto dentro da rifiutare di dar
voce ai
suoi pensieri, ai suoi problemi, alle sue sofferenze.
Era
un meccanismo di difesa vecchio come le rovine di un tempio.
Sora
non aveva smesso di guardarlo in quella maniera indecifrabile.
Sembrava
volesse scovare tutte le sue più grandi debolezze, e questo
lo
irritava, perché sapeva già di combattere una
battaglia persa
contro di lei.
«Posso
sedermi?» la udì chiedergli, e lui
sentì un fremito al sol
pensiero di poter provare una sorta di riavvicinamento di qualunque
tipo.
Non
era pronto, si sentiva spodestato dal suo trono di fermezza.
Sarebbe
potuto crollare per terra da un momento all’altro come un re
caduto.
Negò
con la testa senza smettere di guardarla, in un gesto che alla ramata
sembrò di totale arresa dietro quella voglia di difendersi
ancora.
Riusciva
ancora a capirlo, a leggerlo dentro come aveva sempre fatto.
Non
demorse, con in volto un’espressione dura si piegò
e si sedette
accanto a lui ignorandone il divieto ed invadendo le sue narici di un
profumo di rose e spezie.
Matt
trattenne il fiato e si voltò da un’altra parte.
Non
riusciva a reggere il peso della sua presenza in modo talmente
ravvicinato; lo destabilizzava, il cuore infuriava una lotta contro
il suo sterno, una sensazione di calore non gli lasciava modo di
respirare, si sentiva totalmente alienato dal totale controllo di
sé.
Odiava
quella sensazione, ma ne aveva anche fottutamente bisogno.
Era
una lotta tra cuore e ragione.
La
ramata lo guardò piegando la testa.
Si
aspettava una reazione schiva del genere, a dire il vero era il
minimo di ciò che poteva immaginarsi. Il fatto che Matt
fosse ancora
lì, seppur si rifiutasse di guardarla, valeva a dire che non
era poi
così infastidito dalla sua presenza, o perlomeno, aveva
segretamente
voglia di farla parlare.
Forse
si aspettava da lei delle scuse, ma non era sua intenzione cominciare
a petularlo di asciutti piagnistei.
Doveva
parlare, doveva spiegarsi.
Non
aveva altro modo per poter sperare di sistemare le cose.
Stettero
per qualche secondo in silenzio, e Matt sentiva il suo sguardo
trapassarlo da corpo a corpo, non aveva smesso di mantenere
quell’aria inquisitrice che lo metteva in
difficoltà al solo
pensiero.
Poi
sentì la sua mano stringergli il braccio d’un
tratto.
«Andrai
da tuo padre?» gli chiese sporgendosi ancora di
più con la testa
per poterlo guardare in volto, e lui sussultò visibilmente a
quel
contatto inaspettato, quasi come se si fosse bruciato.
Non
rispose, solo si divincolò dalla sua presa in una reazione
difensiva
e portò la sua mano lontano, incrociando le braccia in modo
che non
ci potesse essere alcun altro tipo di contatto tra loro.
La
ramata ci rimase male a quello scatto brusco. Rimase con il braccio a
mezz’aria e l’espressione ferita impressa sul viso,
ma non si
fece intimorire.
Era
arrivata fin lì, non poteva mollare.
Aveva
preventivato tutto ciò, sarebbe stato arduo, molto arduo, ma
era
sicura che se non tornava indietro sui suoi passi se ne sarebbe
pentita amaramente.
Non
doveva farsi assoggettare dalle sue reazioni, né dai sensi
di colpa.
Sapeva
ciò che andava fatto.
«So
che andrai da tuo padre» soffiò ferma
«E’ stato Tai a dirmelo.
Era così preoccupato per te»
Matt
la udì distrattamente, ma alzò appena gli occhi
non appena udì
quel nome.
Aveva
letto il suo biglietto, aveva trovato la chiave, aveva capito tutto
senza realmente bisogno di parlare.
Come
sempre.
Quando
si trattava di Sora il suo migliore amico sembrava come inebriato da
qualcosa che non riusciva totalmente a capire, sfiorava
l’amicizia
e il sentimento platonico, doveva esserne geloso, o forse...
Forse
Tai si fidava semplicemente di lei, nonostante tutto.
E
di lui?
Taichi
si fidava di lui più che di sé stesso, glielo
aveva dimostrato in
quei giorni più che mai e lui gli doveva molto.
Molto
più che la sua amicizia.
Gli
doveva la vita.
Lei
non aveva smesso di guardarlo aspettando che si voltasse.
«Anche
io ero preoccupata per te» la sentì dire e,
d’un tratto, lo
scosse dai suoi pensieri rivolti altrove.
Assimilò
bene le parole che aveva proferito.
Preoccupata
per lui...
Preoccupata
per lui dopo non essersi minimamente resa conto di ciò che
gli stava
infliggendo dietro le spalle.
Non
riusciva a crederci nemmeno volendo.
Assunse
un sorrisino sarcastico ed emise un suono con la bocca, poi si
passò
una mano sul viso in segno di stanchezza.
Per
quanto avesse in fondo al suo cuore sperato di rivederla almeno per
l’ultima volta, sentiva quelle parole fittizie e
arrampicatrici.
Non
sapeva se tutto ciò fosse dovuto alla delusione o al crollo
nervoso
che aveva sofferto giorni prima, solo faceva fatica anche solo ad
udire qualcosa che volesse essere rappacificatrice o semplicemente
esplicativa.
Era
come se il suo cervello la rifiutasse, il suo stomaco la rigettasse
perché ormai troppo pieno di bile amara.
«Se
solo mi dessi l’opportunità di parlare, io potrei
provare a
spiegarti tutto» la sentì dire e gli venne il
voltastomaco al
pensiero di dover ascoltare mere spiegazioni e giustificazioni senza
fondo.
La
ragazza lo vide assumere un’espressione di disgusto e di
sofferenza
da sotto le dita che ancora coprivano il suo volto e strinse le
labbra.
«Potrei...
provare a dirti perché l’ho fatto»
aggiunse melliflua «Potrei
provare a darti un motivo giusto, un motivo valido e giustificante,
magari pietoso»
C’era
una ragione per la quale stava dicendo quelle cose.
Erano
delle semplici frasi retoriche che non volevano semplicemente girare
il dito in modo tale che Matt sentisse il vomito al solo udirle.
L’espressione
risoluta di Sora presagiva di sapere ciò che stava facendo.
Il
ragazzo non si era mosso da quella posizione, sembrava distaccato
dalla realtà, e lei si sporse ancora di più per
fare in modo che lo
ascoltasse interamente.
«Potrei
provare a dirti che non volevo farlo affatto, che magari è
stato
lui...» si bloccò come se le fosse appena balenata
in mente
quell’idea.
Matt
strinse più forte le dita sul viso graffiandosi la pelle.
Cominciò
a sentire una raffica di rabbia nel sentirla parlare in quel modo
come se lo stesse prendendo in giro.
Non
intendeva stare ad ascoltare i suoi monologhi che sembravano farsi
beffe di lui, poteva anche andarsene a quel paese.
«che
si è gettato addosso e io l’ho respinto, ma mentirei»
concluse e lo sconcertò.
Ammetteva
di aver fatto tutto quello che aveva fatto perché lo voleva?
Il
cuore gli batteva forte e ogni martellata era un dolore al petto.
Voleva
stare con quello e veniva a sbatterglielo in faccia, aveva proprio un
bel coraggio a farlo...
Aveva
voglia di sputarle contro le peggiori accuse, dirle che era una
stronza egoista a pensare di poterlo raggiungere mentre stava
partendo per dimenticare il male che lei
gli
aveva provocato solo per rimarcargli di essere stato con un altro
perché lo aveva voluto.
Non
voleva lasciarlo in pace, voleva tormentarlo fino alla fine, non
permettendogli di lasciare quel posto con perlomeno l’ultimo
piatto
ricordo.
Sentì
un forte impulso di reagire malamente.
«E
allora che farai?» sbottò, alzando la testa dalle
mani e voltandosi
a guardarla in un modo che a Sora fece venire i brividi.
Aveva
le mani giunte, la guardava come se volesse traforare la sua anima
con quegli occhi cerulei che le sembravano un cielo limpido in mezzo
a quella tempesta.
Limpidi,
ma vuoti, distrutti, senza un barlume di gioia.
Sembrava
come se si fossero svuotati della loro bellezza, della loro
vitalità,
della loro giovinezza.
Non
si lasciò intimorire da quel modo brusco con il quale le si
era
rivolto, lo aveva previsto, aveva messo tutto quello in conto ancora
prima di aver deciso di farsi trovare lì.
Ne
aveva avuto paura, a dire la verità, aveva avuto il cieco
timore che
lui la rigettasse, ma doveva prendersi quel rischio se ciò
valeva a
dire avere la minima possibilità di sistemare le cose.
«Ti
dirò la verità» affermò in
tono calmo, poi spostò lo sguardo
malinconicamente «Ti parlerò, come facevo una
volta» gli spiegò.
Riuscì
a percepire velatamente il rimorso di non averlo fatto per tutto quel
tempo.
Anche
lui provò un forte senso di rammarico nel constatare quanto
una
volta tra di loro fosse tutto diverso.
La
loro storia era qualcosa di meraviglioso, riuscivano ad essere la
parte mancante dell’altro perché si capivano, si
sostenevano.
I
loro litigi non erano altro che delle bazzecole innocue che non
servivano altro che a completare il quadro.
Non
avrebbe mai potuto immaginare che, un giorno, sarebbero arrivati a
quel punto di non ritorno.
Sora
l’osservò con le mani in tasca, tutto il suo corpo
sedeva voltato
verso la direzione opposta così da non dover interagire con
il suo
sguardo. Ma lei lo sapeva di averlo colpito, di aver premuto un tasto
dolente che comprendeva entrambi.
«Il
silenzio ha rovinato tutto ciò che avevamo per troppo tempo,
Matt»
sussurrò con gli occhi lucidi, colmi di tristezza e di
rassegnazione.
Non
riuscì a vederlo, ma anche quelli del biondo si erano
inumiditi.
Guardava un punto fisso della banchina e non riusciva a biascicare
alcuna parola.
Aveva
ragione, lo aveva fatto.
Li
aveva resi schiavi fino ad annientarli con la sua vittoria.
Si
era preso tutto ciò che di bello c’era tra di loro.
«Non
potrei lasciare che lo faccia anche adesso» sentì
dirle con
determinazione, quasi come se stesse lottando contro un nemico
immaginario.
Un
nemico con cui lui stesso combatteva da una vita.
Lei
sospirò con nostalgia e sapeva che non aveva smesso nemmeno
per un
secondo di guardarlo nonostante il suo linguaggio del corpo fosse
completamente ostile.
Era
una delle qualità che amava più di lei, la
determinazione, la
dedizione in tutto quello che faceva.
La
stava amando anche in quel momento.
«Sapevamo
comunicare, riuscivamo ad incastrarci perfettamente nonostante
provenissimo da due mondi diversi. Parlare con te era ciò
che di più
interessante e affascinante io facessi» ammise con gli occhi
che le
brillavano.
Poteva
percepire l’orgoglio con cui aveva proferito quelle parole.
Sentì
le sue dita fredde rinchiudersi intorno al suo polso lasciato libero
dalla giacca e si irrigidì, ma non gli dispiacque.
La
mano di Sora era fredda, ma riusciva sempre a donargli calore.
Quel
tocco gli fece da guida, non riuscì a fare a meno di
voltarsi
lentamente e incontrare le sue iridi nocciola, calde e gentili, che
s’illuminarono di un leggero bagliore non appena si accorsero
che
la stava guardando anche lui.
«Non
mi sono innamorata di te semplicemente per il tuo aspetto, ma per
quello che hai dentro, per tutte le sfumature che hai dentro di te,
quelle di luce e sì, anche quelle di buio» la sua
voce s’incrinò,
e lui sentì una fitta al cuore.
Il
suo carattere era anche il suo lato oscuro, di quello ne era
consapevole.
Aveva
provocato i peggiori danni per colpa del suo temperamento silenzioso,
sempre sulla difensiva e pieno di diffidenza.
Aveva
costruito intorno a sé come una solida muraglia di ghiaccio
dietro
la quale si celava il suo cuore e solo in poche persone erano
riusciti a scioglierla.
Sora.
Taichi.
Suo
fratello.
Ma
nessuno di loro meritava di avere a che fare con una persona del
genere.
Una
persona come lui che causava malumore, scontento, che rovinava ogni
cosa intorno a sé per colpa del suo orgoglio, della sua
perenne
insofferenza.
Sora
si premurò di aggiungere qualcosa.
«Siamo
tutti luce e buio» osservò, dando una risposta ai
suoi rimugini e
alle sue colpevolezze rispetto agli altri.
Avevano
tutti sbagliato, avevano tutti commesso degli errori che andavano al
di là di quello che erano, di quello che avevano dovuto
passare per
diventare ciò che erano diventati.
Loro
tutti avevano fallito.
La
vide sorridere mesta.
«Io
ho dovuto perdermi per ritrovare la mia luce, come tutti... lo
abbiamo dovuto fare tutti, Matt» disse alzando gli occhi che
erano
colmi di lacrime.
Ebbe
un tuffo al cuore quando la vide così vulnerabile, ma nello
stesso
tempo non le aveva mai vista impressa tanta forza in volto.
«Perché
non saremmo stati noi, altrimenti» sferzò
duramente, mentre una
lacrima bagnava la sua guancia liscia.
Lui
spostò lo sguardo e pensò a tutti loro.
Era
vero, avevano sbagliato tutti, erano diventati l’esatto
opposto di
quello che erano stati, di ciò che avevano cercato, di
quello che
maggiormente li caratterizzava.
«Siamo
sempre stati sottoposti a delle prove per ritrovare noi stessi, per
capirci appieno... Ricordi a Digiworld?» si
asciugò con una mano la
lacrima e tirò su con il naso, in volto una luce nuova piena
di
speranza e di malinconia.
Matt
arricciò le labbra e fece vagare la mente e i ricordi.
Se
ricordava i tempi di Digiworld?
Certo
che li ricordava, erano lì ben impressi nella sua memoria e
non
sarebbero mai più usciti di lì, li conteneva come
in uno scrigno
segreto perché, nonostante avevano dovuto faticare,
soffrire,
sentire la paura sulla pelle, loro erano cresciuti, erano diventati
loro stessi grazie a quell’esperienza.
Non
sarebbero arrivati fino a quel punto senza quelle falle che avevano
dovuto sopportare, tutti quei compiti, quelle prove.
E
ciò che era successo loro in quei giorni non era poi
così tanto
differente.
Taichi
agiva comportandosi vigliaccamente.
Koushiro
aveva perso la sua saggezza e la sua moralità.
Mimi
era diventata fredda ed egoista.
Takeru
aveva perso la sua speranza rischiando di infrangere i suoi sogni.
Hikari
si era spenta diventando l’ombra di sé stessa.
Jyou
usava la sua schiettezza per ferire gli altri.
Sora
aveva tradito la persona che amava.
E
lui, Yamato, non aveva più creduto in quelle persone.
I
suoi amici.
Gli
veniva da ridere tristemente.
Tutto
quello non si era dimostrato altro che una prova ad ostacoli,
nuovamente erano stati catapultati in qualcosa più grande di
loro, a
lottare contro dei demoni che intendevano distruggerli.
Gli
altri forse avevano trovato la loro luce, ma lui non lo aveva ancora
fatto completamente.
La
sentì muoversi vicino, non sapeva come aveva quasi annullato
lo
spazio che li distanziava sulla panchina, adesso poteva percepire una
gamba che sfiorava la sua.
«Credevo
di non sapere amare... L’ho pensato anche stavolta»
gli rivelò,
lasciandolo di stucco, immobile a quella rivelazione.
«E
questa volta è stato peggio perché ha coinvolto
te» gli strinse
ancora il braccio e sentì come se poteva spezzarsi da un
momento
all’altro.
Sentì
gli occhi lucidi, ebbe una gran voglia di scoppiare, urlare,
piangere.
Di
certo tradire la persona che diceva di amare poteva essere un buon
escamotage per pensare di poter imparare a farlo...
Non
seppe da dove quel pensiero proveniva, solo sentì una gran
rabbia
nel petto.
Lui
lo sapeva quello che era successo a Sora, sapeva che la sfida
più
importante per una come lei sarebbe stata quella di sfidare i suoi
sentimenti, ma udirlo con le proprie orecchie lo gettava nel
tormento, ancora.
Socchiuse
gli occhi, tentando di non esplodere.
«Questa
è stata la prova più grande per me»
continuò alzando gli occhi al
cielo che aveva placato la sua furia e si distendeva lentamente in
delle nuvole chiare.
Poi
abbassò lo sguardo e lo puntò su di lui.
«Credere
di non poterti amare più come una volta, come quando eravamo
dei
ragazzini» ad ogni parola che diceva, lui sentiva il petto
che si
alzava ed abbassava ritmicamente e il dolore che lo attanagliava in
una morsa.
Sora
insistette avvicinandosi ancora di più al suo viso.
«come
quando siamo stati insieme per la prima volta e io ho creduto
veramente all’amore»
Lei
non capiva.
Non
capiva che rimarcando una cosa del genere lo faceva sentire ancora
più male?
Sottolineando
il fatto che si fosse innamorata di lui per la prima e forse unica
volta lo distruggeva, lo disperava ancora di più
perché non
riusciva a capacitarsi di come erano potuti arrivare a qualcosa del
genere.
Di
come lei fosse potuta arrivare a tanto.
Come
poteva parlargli in quel modo appassionato se fino a poco prima i
suoi pensieri erano rivolti ad un altro?
Se
fino a non molto tempo prima il suo corpo era probabilmente stato di
proprietà di un’altra persona?
Si
sentiva preso in giro, si sentiva ferito nel profondo
dell’anima, e
non gli importava se Sora aveva dovuto intraprendere quella sfida
personale per capire certe cose, lo aveva ferito.
E
lo stava facendo ancora parlandogli di amore.
«Hai
finito?» sbottò rude, voltando esclusivamente il
viso da dietro le
mani giunte.
Quello
sguardo la stravolse, la rese meno che niente, distruggendo tutti i
propositi che si era fissata in mente.
Si
sentì a disagio, si sentì una stupida ad essere
lì e provare a
parlare a cuore aperto ad una persona che sembrava non avere
intenzione di ascoltare.
Strinse
i denti e non smise di tenere alto lo sguardo sui suoi occhi azzurri
che la guardavano con rancore, ma anche rassegnazione.
La
loro storia era finita, chiusa, archiviata, e lei aveva dato il colpo
di grazia.
Avrebbe
dovuto gettare la spugna?
Sarebbe
stata la strada più semplice, lasciarlo andare via senza
prostrarsi
oltre, rendersi ridicola di fronte a lui e a sé stessa.
Ma
lei non voleva rassegnarsi, non voleva chiuderla lì,
lasciarlo
partire senza tentare di fare il possibile.
Nessuno
di loro due lo aveva fatto davvero, e non sarebbe servito a niente
lasciarsi senza avere la consapevolezza di aver fatto tutto quello
che si poteva fare.
Tolse
la mano dal suo braccio e lo fissò perentoria.
«Per
quanto ancora credi che dovremmo evitarci?» chiese brusca,
mentre
lui tirava fuori una sigaretta dalla tasca dei jeans e se
l’accendeva
senza dare minimo cenno di averla udita.
«Un’ora,
una settimana, due mesi? Tutta la vita?» chiese retorica,
aprendo le
braccia in segno di esasperazione.
A
cosa sarebbe servito archiviare ancora una volta tutto in quel modo
quando lei lo sapeva, era sicura che una volta andati via non
avrebbero smesso di pensarci?
Credeva
davvero che tutto poteva risolversi usando nuovamente
l’indifferenza?
Quella
che li aveva trascinati alla deriva?
Non
poteva permettere che succedesse ancora, e se lui per ovvie ragioni
tentava di mantenersi distaccato, allora ci avrebbe pensato lei.
Avrebbe
resistito, avrebbe insistito.
Gli
afferrò il mento e fece in modo che la guardasse.
«E’
stato questo il nostro errore più grande»
sussurrò ad un palmo del
suo viso, facendogli tremare il cuore.
Lo
sguardo del biondo ricadde sulle sue labbra e dovette lottare contro
sé stesso duramente per non cedere a quella persuasione.
Rialzò
di nuovo gli occhi celesti terribilmente tristi, apatici, rossi di
sofferenza.
Un
errore che avrebbero pagato entrambi.
Lui
rinunciando a lei, mentre lei perdendo lui.
Rilasciò
il fumo dalla bocca, senza premurarsi se lo avesse fatto proprio
contro la sua faccia.
Sora
socchiuse solo leggermente gli occhi, ma poi li riaprì
continuando a
tenere fisso lo sguardo su quello suo.
«Stai
perdendo il tuo tempo qui, Sora... Non è quello che
realmente vuoi,
lo sappiamo entrambi» mormorò dopo un tempo che
parve infinito.
Matt
lo sapeva che lei ne aveva abbastanza di come si era comportato per
anni.
Aveva
cercato di salvare più volte la sua indole ossessiva e
masochista,
ma la verità era che non ci era riuscita, alla fine,
perché lui
aveva continuato a farsi del male senza guardare in faccia nessuno,
nemmeno una come lei.
Non
si era sentita veramente amata per tutti quegli anni perché
lui non
era stato capace di amare sé stesso.
Era
consapevole del fatto che Sora si fosse stufata di un tipo
problematico come lui e avesse cercato conforto, protezione, un luogo
ameno in qualcun altro che avrebbe potuto regalargli una vita
più
serena, magari anche stabile.
Yamato
non aveva fatto altro che ridursi ad uno scheletro e lei non meritava
di stargli ancora dietro, di perdere i tempi della sua giovinezza a
cercare di capire una persona invalicabile come lui.
Avrebbe
dovuto rinascere, senza tornare indietro sui suoi passi
perché si
sentiva in colpa di averlo abbandonato.
Faceva
male, ma probabilmente se lo meritava.
Abbassò
lo sguardo mollandosi dalla sua presa, in volto un compianto che
teneva stretto da molto tempo.
Forse
la cosa giusta era che Sora andasse avanti con la sua vita senza
voltarsi.
Avrebbe
accettato una cosa del genere se significava vederla serena, felice,
senza il peso logorante che quella relazione aveva causato in lei.
Lo
sapeva anche lui che non era ciò di cui aveva bisogno.
La
ramata si mise improvvisamente in piedi.
Quel
suo modo di reagire non faceva altro che trascinarlo sempre di
più a
fondo.
Quel
compianto, quel modo di vittimizzare sé stesso era
così tedioso e
fastidioso, non lo portava da nessuna parte se non a fondo del
baratro.
Doveva
smettere di cercare sempre scuse per allontanare le persone, specie
lei.
Ne
aveva abbastanza.
«Hai
ragione!» esclamò con enfasi, tanto che delle
persone che stavano
passando lì davanti le lanciarono delle occhiate.
Matt
la guardò interrogativo, la mano con la sigaretta stretta
tra le
dita che stava a mezz’aria.
«Non
è quello che voglio, questo
non è quello che voglio!» continuò
indicando il terreno come segno
della loro condizione instabile
«Perché
io voglio arrivarti dritto al cuore sul serio! Voglio rompere quelle
fottute barriere che hai innalzato intorno a te, Matt!»
Non
riusciva a smettere di fissarla, era come se ad ogni parola lo
incatenasse sempre di più nelle profondità del
suo sguardo.
«La
nostra storia, il lavoro, la band... tutto quello che volevi, tutto
quello che ti è successo!» la udì
esclamare con forza, con rabbia
e frustrazione, come se stesse ricercando dentro di sé un
motivo
valido a tutto quello.
«Mi
hai tagliato fuori, ma io ero lì, ero parte di tutto quello,
non
potevi pensare che io non c’entrassi niente!»
Spostò
gli occhi e tossicchiò appena. La cenere cadeva indisturbata
dalla
sigaretta lasciata al vento che penzolava tra le dita.
Era
vero, l’aveva esclusa quasi totalmente dalla sua vita.
Aveva
fatto in modo che lei non varcasse più quelle barriere
difensive.
Aveva
pensato che non bastava più, che nessuno di loro bastava
più per
lui, che quella vita non meritasse di essere vissuta.
Sora
continuò ancora, combattiva.
«Non
potevi pensare che io fossi un’estranea perché noi
abbiamo sempre
lavorato insieme, come una squadra. Io, tu... e Tai»
Sentire
il nome del castano lo scosse e gli fece venire in mente le immagini
in cui lo aveva picchiato e si diede del pezzo di merda.
Il
ragazzo prescelto dell’amicizia che aveva dubitato del suo
migliore
amico.
Doveva
essere stato folle, o solo uno stronzo... perché nonostante
tutto
Tai era ancora dalla sua parte, e quello non poteva fare altro che
farlo sentire ancora più in colpa per ciò che
aveva fatto.
Si
tamponò leggermente il naso con il dorso della mano, tirando
su.
«Io
e te... Io e te ci vivevamo sulla pelle, Matt. E sono stata
così
male quando abbiamo smesso»
Sora
continuava a parlare di loro con quella passione che lo dilaniava.
«I
problemi dell’uno diventavano dell’altro
perché da soli siamo un
problema per noi stessi, lo siamo sempre stati»
Probabilmente
stare da solo accentuava il suo malessere, questo lo aveva vissuto
chiaramente sulla sua pelle.
Tai,
Sora, i suoi amici, erano tutti persone di cui aveva bisogno e che
aveva per anni tagliato fuori dal suo privato.
Le
parole che gli rivolgeva erano cariche di significato, erano
veritiere e illustravano chiaramente il quadro della sua situazione
psicologica.
Lei
lo conosceva nel profondo, non riusciva a mentirle, era
l’unica
persona con la quale permetteva a sé stesso di essere
debole, il che
significava aprirsi.
Lasciarla
entrare nella parte più profonda della sua anima.
Ma
ammesso e concesso che lui avrebbe potuto prendere quelle parole per
buone, considerarle una dimostrazione che tutto ciò che
stava
facendo era sbagliato, lasciarsi andare al bisogno che, nonostante
tutto, aveva di lei, ciò non cambiava una cosa, non poteva
cambiarla.
Che
Sora era stata con un altro.
Sentì
una fitta lacerante al petto, volle quasi urlare.
Poteva
provare a lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare, poteva tentare
ad uscire fuori da quel suo guscio protettivo e magari cambiare
atteggiamento, il modo di prendere la vita, ma non riusciva a fare
finta che quello non fosse successo.
Lo
avviliva e lo rendeva meno che niente.
Gettò
la sigaretta per terra e rilasciò il fumo con lentezza
estenuante.
Sora
l’osservò, lo vide in procinto di prendere la
parola e il suo
petto palpitò.
Lui
si portò le mani dentro le tasche e incollò gli
occhi sopra i suoi.
Inquisitori.
Famelici.
«Sei
andata a letto con lui?» le chiese a bruciapelo, facendole
sentire i
battiti del cuore talmente accelerati che sembravano rimbombarle
dentro un orecchio.
Si
sentì vigliaccamente colpevole e non riuscì a
trattenere il suo
sguardo per molto.
Aprì
la bocca, ma non ne uscì suono, era come se fosse diventata
improvvisamente arida, completamente prosciugata dalla saliva.
La
richiuse, indugiando, mentre un raffica di immagini le riaffioravano
in mente.
Matt
non aveva smesso di guardarla, seriamente.
«Ci
sei andata?» ripeté, in un tono che
risultò tagliente e le arrivò
dritto come un pugno in pieno viso.
Alzò
nuovamente lo sguardo e gli occhi celesti del ragazzo la perforavano.
Ricordò
le ore prima, la sera prima quando era stata a casa di Victor, quando
era salita su e si erano baciati, si erano diretti verso la camera da
letto e non aveva potuto fare a meno di abbandonarsi ai suoi tocchi.
Non
poteva negare di averlo voluto, lo aveva ricercato, aveva sbattuto la
testa contro il muro proprio come diceva Joe.
Ne
aveva bisogno, doveva capire.
Adesso
che lui le aveva posto quella domanda si sentiva scomoda, a disagio,
sapeva che qualsiasi risposta gli avrebbe dato lo avrebbe ferito
ulteriormente, per questo non intendeva dargliela.
Non
voleva che lui pensasse che era tornata indietro solo perché
si era
pentita delle sue azioni, perché non era solo quello.
Lei
lo aveva fatto affinché non continuasse a vivere tormentata
da
quello che poteva essere senza viverlo.
Non
poteva dire di essere pentita; o meglio, provava rammarico, un forte
senso di colpa per aver inferto una ferita al cuore di Yamato, ma lo
avrebbe ferito ancora di più continuando a stare con lui
come
stavano da un paio d’anni a quella parte, passivamente, senza
provare vere emozioni se non inerzia.
Se
non fosse successo tutto quello, lei non avrebbe capito.
«Non
sono qui per parlare di lui...» mormorò, e in
fondo era vero.
Victor
non c’entrava veramente con loro, era stato solo una sorta di
strumento che era servito a sistemare le carte del suo cuore una
volta per tutte.
Era
stato il meccanismo che aveva innescato una bomba già ben
piazzata.
Adesso
tutto ciò riguardava loro, solo ed esclusivamente loro e
quello che
era stata la loro relazione, quello che non andava e che avrebbero
potuto sistemare.
O
almeno, era questo a cui disperatamente tentava di aggrapparsi con le
unghie, era questo quello che credeva importasse davvero.
Ma
forse era solo una sorta di tentativo di fuga da ciò che era
successo, e fino a poco prima, una sorta di lavarsi di dosso la colpa
per non dover affrontare la sua coscienza che era dura e severa.
E
aveva gli occhi di Matt.
Questi
scosse piano la testa, poi si mise in piedi e la fronteggiò.
Poteva
leggergli in viso la frustrazione, la rabbia, la sofferenza che la
consapevolezza di ciò che era successo gli provocava.
«Sei
qui per parlare di lui, cazzo!» lo sentì urlare a
ridosso del suo
viso, tanto da farla indietreggiare, intimorita
«Sei
qui perché mi stai dicendo che ti sentivi un cazzo di
problema e sei
andata a scopare con un altro!»
l’accusò, e lo vide assumere un
colorito acceso, la vena sul collo divenne più evidente e
lei
temette per quello che sarebbe potuto succedere.
«Non
sei stata solo tu ad aver sofferto, io morivo
per te»
Gli
occhi del ragazzo sprizzavano scintille, sembravano volerla
schiaffeggiare.
Come
poteva dirgli che quello non c’entrava niente dopo che lo
aveva
tradito ripetutamente?
Come
diavolo poteva pretendere di non parlare di quella storia, quando se
non fosse stato per quel fottuto messaggio letto per caso avrebbe
probabilmente continuato a farsela a sua insaputa...
Sentì
la testa girargli ed ebbe come un calo di pressione.
Lei
se ne accorse e si preoccupò.
«Matt...»
mormorò allungando una mano, tentando stupidamente di
afferrarlo.
Come
poteva pensare che quello non l’avrebbe più
toccato?
Gli
stava chiedendo di morire definitivamente.
Alzò
la testa su di lei con uno sguardo carico di risentimento, di
sarcasmo e il cuore che tirava delle dolorose martellate.
«Mi
parli di amore! Dopo che mi hai distrutto il cuore! Mi parli di
amore...»
la sua voce s’incrinò e si spense improvvisamente.
Sembrava
una grande presa per i fondelli...
Tutta
la sua cazzo di vita.
Sentì
le gambe cedere e fu costretto a trascinarsi nuovamente contro la
panchina, lasciandosi cadere a peso morto.
Le
mani arrancarono subito al suo viso, coprendolo.
Sora
lo sentì annaspare e fu assalita dallo sconforto, i sensi di
colpa
che la trafiggevano come lame.
Vederlo
in quel modo inerme, sconvolto, come se non avesse una via di fuga
dalla sofferenza le stritolò il cuore.
Era
stata lei a causargli del male e non poteva perdonarsi per quello.
Non
aveva mai visto Yamato in quello stato, debole ed esposto, talmente
rassegnato dalla vita come in quel momento.
Era
vero, gli aveva distrutto il cuore, ma era la sola a poter rimettere
insieme i pezzi.
Fece
alcuni passi e si parò di fronte a lui, poi si
abbassò quel tanto
per arrivare alla stessa altezza del suo viso.
«Sono
qui perché voglio sistemare quello che avremmo dovuto
sistemare anni
fa» parlò con sicurezza, cercando il suo viso che
però era ancora
coperto dalle mani
«Ecco
perché. Perché se ancora qualcosa si
può sistemare io sono qui a
farlo. Non mi tiro indietro, non scelgo la via più
semplice»
Poi
sospirò.
«Avrei
potuto farlo perché era tutta lì»
Al
chiaro riferimento a Victor, udì Matt gemere con rabbia, le
dita che
stringevano le ciocche bionde con forza.
«Cazzo...»
lo sentì lamentarsi tra i denti.
Stava
lottando con tutte le sue forze pur di non cedere.
La
ramata avvicinò una mano e strinse il suo polso, cercando di
toglierle dal viso e fare in modo che la guardasse.
«Avrei
potuto perché lui mi ama, voleva che stessimo insieme e io
avrei
voluto evitare di essere qui!» esclamò, facendo
leva sui polsi
tirando.
Gli
stava dicendo che quel coglione si era innamorato di lei e che
avrebbe potuto essere lì con lui invece di stare
lì a pregarlo...
La
testa era dentro un frullatore di emozioni contrastanti.
Perché
non lo lasciava in pace?
Perché
non evitava di sbattergli in faccia quelle merdate?
Si
divertiva a vederlo crollare...
Si
dimenò dalla sua presa bruscamente.
«Lasciami!
Cazzo, lasciami!» alzò la voce, non volendo le
diede una spinta che
la fece quasi cadere all’indietro.
I
suoi occhi erano rossi e pronti a scoppiare, infatti non appena
incrociò lo sguardo titubante di Sora le lacrime presero il
sopravvento.
Le
vide scorrere sulle sue guance, inondarle percorrendo i lineamenti
fini e delicati.
Venne
da piangere anche a lei, ma si trattenne, si rialzò appena e
gli
strinse le mani.
Lui
la guardò in pena, si sentì in colpa per averla
allontanata con
enfasi ed averla fatta arrivare con il sedere per terra.
La
guardava come se non riuscisse a vedere altro, come se la visione di
lei equivalesse ad una medicina che aspettava per star meglio.
Lui
lo sapeva, in fondo al suo cuore, che Sora era l’unica
persona che
avrebbe potuto risanarlo, l’unica persona di cui aveva
bisogno per
rinascere.
Quegli
anni spiritualmente lontano da lei lo avevano fatto perdere in strade
buie dove si era perso e da cui non aveva mai più trovato
una via
d’uscita.
Lo
sapeva, seppur con riluttanza, che anche se fosse partito a breve, il
suo cuore, la sua mente non si sarebbero mai ripresi.
Sora
era il suo dolore, ma anche la sua cura.
«Vattene,
Sora... ti prego...» la scongiurò spogliato da
qualsiasi forza
vitale.
Tentava
di allontanarla per principio, dentro di sé infuriava una
lotta
pericolosa tra ciò che credeva giusto fare e ciò
che desiderava
davvero.
Non
sapeva se sarebbe mai stato così lucido da prendere una
decisione.
«Non
me ne vado» affermò lei, seria «Io
starò qui perché te lo devo
dire. Te lo devo dire prima che tu vada via, che non posso cancellare
quello che ho fatto perché sentivo di doverlo fare, mi
bruciava
dentro!»
Poi
si portò una mano sul viso, disperata lo tratteneva come
fosse un
peso enorme.
«Non
potevo lasciare che mi rendesse cenere! Sì, ho reso cenere
te, ma
sono pronta a diventarlo anche io ma per te, con
te»
Quelle
parole lo stavano uccidendo come non mai, ma riconosceva quel tono di
voce, stava dicendo la verità.
Non
era mai stata così sincera come allora, e non sapeva se
doveva
apprezzare il gesto di non nascondersi dietro futili menzogne che non
avrebbero fatto altro che deturpare ancora di più la loro
relazione,
o chinarsi a lato e vomitare.
Le
lacrime avevano ormai invaso le sue guance senza sosta, senza
ritegno, si sentiva così stupido ad essere lì a
farsi vedere in
quello stato, ma proprio non riusciva a placarsi.
Perdere
Sora equivaleva a dire non avere più una casa, significava
perdere
tutto ciò che di bello aveva in quella merda di vita.
A
cosa valeva allontanarla definitivamente per salvare il suo orgoglio
quando lo sapeva benissimo che in realtà era stato lui ad
aver
sbagliato tutto con lei, dall’inizio, era stato lui ad averla
spinta tra le braccia di un altro tizio, era stato lui e sempre lui
ad aver smesso di darle valore, lentamente; e Sora meritava qualcuno
che la valorizzasse ogni giorno, non un fantoccio depresso a cui fare
da balia.
Anche
adesso, continuava a commiserarsi, a piangere, ma non era capace di
fare un passo verso di lei, lei che non aveva avuto timore a tornare
indietro sui suoi passi pur consapevole di trovare una porta
blindata; ci stava mettendo la faccia, il cuore, era pronta a
rischiare tutto, mentre lui non aveva avuto le palle nemmeno di
affrontarla e parlare di tutti i problemi che lo affliggevano.
L’aveva
tagliata fuori completamente, aveva ragione, l’aveva trattata
come
un’estranea, l’aveva lasciata da sola con un
ragazzo assente,
sempre occupato con le sue cose, con una band che non aveva mai
funzionato, con delle persone differenti dai suoi amici di sempre con
le quali credeva di poter essere diverso; un ragazzo a cui non poteva
appigliarsi durante i momenti di sconforto, durante le preoccupazioni
dovute agli esami, durante dei momenti in cui avrebbe voluto voltarsi
e trovare la persona che amava accanto a lei.
Credeva
davvero che ad averlo tradito era stata Sora?
Solo
perché non lo aveva fatto fisicamente non scagionava il male
che le
aveva procurato durante quegli ultimi anni.
Era
stato lui a procurarle l’arma, e questo non riusciva a
perdonarlo a
sé stesso più di quanto non riusciva a perdonare
lei.
Non
riusciva a smettere di piangere, i singhiozzi lo avevano vinto, per
quanto tentasse di fare meno rumore possibile era difficile
trattenere i sensi di colpa che lo mettevano di fronte ad una
realtà
ineluttabile.
Era
stato lui ad aver tradito Sora.
Questa
si avvicinò e gli prese il volto tra le mani, tentando di
asciugargli le lacrime.
«Guardami»
gli aveva sussurrato.
Piano
spostò gli occhi vitrei e tristi sopra i suoi e lei gli
rivolse un
sorrisino mesto, ma che aveva un qualcosa che lo confortava.
«Non
passerei un giorno della mia vita senza rischiare la mia
felicità
con te» poi fece un lungo sospiro chiudendo gli occhi.
Forse
andava contro sé stessa, i suoi ideali, tutto ciò
che in quel
momento serviva; ma era convinta, voleva riaverlo, voleva
ricominciare d’accapo, e se Matt aveva bisogno di prendersi
del
tempo che includeva anche… conoscere qualcun altro, renderle
pan
per focaccia affinché fossero in qualche modo pari, beh...
era
probabilmente immorale, ma glielo avrebbe concesso.
Avrebbe
fatto di tutto per tornare con lui.
«anche
se questo vorrà dire pagarne le conseguenze... anche se
questo vorrà
dire... ripagarmi con la stessa moneta» la voce le
s’incrinò e
spostò lo sguardo.
Avrebbe
potuto benissimo accettare di tornare insieme a lei, ma non superare
del tutto quello che aveva fatto, quindi questo lo avrebbe potuto
spingere a compiere un tradimento a sua volta, magari...
Erano
pensieri che le circolavano in testa da un po’, per i quali
aveva
paura a ricominciare tutto di nuovo, ma doveva assumersi quella
responsabilità e quel rischio.
Se
ciò serviva a Matt per metabolizzare, perdonarla
definitivamente lei
lo avrebbe in cuor suo accettato.
Questi,
nel frattempo, si era bloccato non appena aveva udito quelle parole.
Credeva
che vendicarsi lo avrebbe aiutato a stare meglio?
Come
fosse una partita di rivincita dopo la sconfitta?
Lui
non voleva vendicarsi su di lei, anche perché era chiaro
quello che
provava...
Alzò
lo sguardo e la guardò fisso con gli occhi umidi dal pianto.
Le
lacrime si erano fermate.
«Io
non voglio nessun’altro» mormorò in tono
lieve e indifeso,
inaspettatamente sincero, una dichiarazione che arrivò alla
ragazza
come un pugno allo stomaco di felicità.
Le
sue labbra si piegarono in un sorriso, e con una mano gli
accarezzò
la guancia.
Piano
gli prese il volto e fece in modo che le loro fronti si unissero.
Gli
occhi erano dentro gli occhi.
«Non
ti chiedo di perdonarmi» sussurrò lei, ad un palmo
del suo viso.
«E
allora cosa?» gli chiese lui di rimando.
«Di
conoscerci ancora» fu la risposta che ne susseguì.
Riscoprirsi,
ricapirsi, riamarsi.
Nessuno
parlò per un po’ di tempo.
I
secondi passavano lenti ed inesorabili scandendo il tempo della fine,
ma erano come racchiusi in un universo a sé stante, in un
luogo
sconosciuto agli altri che apparteneva solo a loro.
Bastava
poco e loro labbra si sarebbero sfiorate, e in quel caso Matt non
sarebbe riuscito a fare niente pur di evitarlo.
L’intensità
di quel momento era così struggente da non avere le forze di
interromperla, anzi, si sarebbe fatto trascinare piacevolmente alla
deriva.
Tra
le sue labbra, il suo sorriso, lei.
Gli
occhi si socchiusero automaticamente, il cuore batteva forte.
Forse
avrebbe dovuto lasciarsi andare, solo un pochino... solo quel tanto
che gli avrebbe permesso di vivere per un po’, di nuovo.
L’annuncio
del treno improvvisamente lo fece tornare sulla terra.
Entrambi
ascoltarono e un velo di tristezza colse entrambi.
La
fine.
Matt
spostò lo sguardo per terra e i pensieri gli si
accavallarono uno
dopo l’altro.
Aveva
bisogno di ricominciare.
«Hai
ragione» disse d’un tratto.
Sora
alzò gli occhi nocciola intinti di trepidante attesa,
speranza.
Lui
voltò il viso verso di lei e la guardò neutro.
«Sono
un problema. Io
sono il problema. Tutto questo è successo per causa
mia» le parole
gli scivolarono fuori dalla bocca senza che le controllasse.
La
ragazza aprì la sua senza che, al contrario, ne uscisse
nessun un
suono.
L’espressione
con cui la guardava era segnata, ma allo stesso tempo dura, come se
non potesse farci niente.
Era
la sua sentenza, la sua condanna a morte.
Sembrava
quasi sollevato.
«Matt,
non-» provò a stringergli il braccio, ma lui si
scostò.
«Non
conoscermi oltre, Sora» si abbassò a prendere la
chitarra e se la
mise in spalla. Gli occhi con cui la guardava erano rossi e
rassegnati.
«Sono
una mina vagante, distruggo tutto quello che tocco… Non
voglio
distruggere anche te» soffiò con un sorrisino
amaro.
La
ramata gemette, guardandolo con gli occhi sbarrati, mentre il treno
arrivava e lui si metteva in piedi, stringendo con una mano la sacca
dove teneva la chitarra e afferrando la valigia con l’altra.
Ancora
piegata sulle sue gambe, lo vide pronto ad andare.
Spostò
gli occhi pieni di lacrime e lo guardò in pena, incapace di
muoversi, mentre il treno frenava lentamente sul binario e si
fermava.
Stava
andando via, la stava lasciando lì.
Non
poteva succedere, non doveva.
Non
poteva lasciarla lì a convivere con il rimorso, il dolore di
averlo
perso, la possibilità perduta di ricominciare tutto
d’accapo,
tutto per bene, di essere nuovamente quello che erano stati, quando
erano giovani, felici, colmi d’amore...
Non
poteva, lei lo amava, non poteva lasciarlo...
Si
mise subito in piedi e gli si parò dinanzi, lo
afferrò dalle
braccia e lo bloccò.
«Aspetta,
Matt! Non andare!» esclamò disperata, il vento che
aveva ripreso a
soffiare e che le scompigliava i capelli ramati.
Lui
si scansò, lei lo afferrò di nuovo, lo strinse
dai fianchi.
«Non
puoi andare senza risolvere niente dentro di te!»
Era
una lotta.
Lei
lo tratteneva, lui la scostava.
Non
poteva lasciarla lì, non poteva vivere con quel peso greve
che
pesava sulle spalle di entrambi, con quel fuoco che bruciava e non li
lasciava stare, non li faceva vivere, non era quello che il destino
aveva scritto per loro, non era quello che doveva succedere...
«Pensi
che sia la cosa giusta? Pensi che sia quello che realmente
vuoi?»
gli urlava in viso, tentando di farlo ragionare, di fargli capire che
non era la soluzione a tutto ciò.
Fuggire
senza affrontarla, senza combattere contro i demoni che li avevano
tenuti prigionieri per anni, che li avevano distrutti.
Seguiva
il suo orgoglio, ma fosse mai stato l’orgoglio ad aver reso
felice
le persone.
Il
biondo l’aveva guardata appena.
Non
era quello che voleva, ma non poteva fare altrimenti.
Darle
anche solo una mera possibilità equivaleva a dire farle
ancora del
male, fare del male a sé stesso perché lui lo
sapeva, non sarebbe
mai riuscito ad andare avanti.
Non
avrebbe mai potuto guardarla negli occhi, toccarla, senza pensare a
tutto quello che era successo, al fatto che lei ormai non era
più
sua.
«Non
importa più quello che realmente voglio...»
rispose in un sussurro,
ripensando a quanto avesse cercato di realizzare i suoi sogni, ad
essere un’altra persona, ma non ci era riuscito.
Lui
non era quel tipo di persona che riusciva a rialzarsi, lui era
destinato a crollare miseramente, morto, con i corvi che volavano
attorno al suo cadavere.
Lui
era destinato alla fine.
Sora
spalancò gli occhi, si sentì inerme, vuota per
alcuni secondi.
Avrebbe
dovuto lasciarlo andare, era la cosa più giusta.
Doveva
permettergli di andar via e tentare una nuova vita lontano, via da
lei, dalla loro storia ormai tossica, dalle sue brutte abitudini, da
quella cazzo di casa che lo aveva inglobato tra le sue pareti
strette.
Doveva
rinascere, ma non con lei.
Se
lo amava doveva lasciarlo andare.
Lentamente
le sue dita mollarono la presa sul suo polso.
Ma
lei lo amava davvero e non contava ciò che era giusto,
contava
l’amore.
Amore
che condividevano entrambi e che era sicura che anche lui provasse
ancora per lei, perché lei li conosceva quegli occhi
cerulei, lei
conosceva l’anima di Matt.
Loro
due si completavano, dovevano stare insieme.
Lui
doveva realizzare il suo vero sogno, non uno imposto da un altro, non
un lavoro che gli raccomandava suo padre, non un mondo che non gli
apparteneva.
Con
uno scatto repentino, salì sopra la panchina e lo
afferrò da
dietro, circondandolo dalle spalle.
Lo
strinse forte e lui fu costretto a lasciare la chitarra.
Aveva
le labbra all’altezza del suo orecchio e lo abbracciava, lo
stringeva come se non avesse intenzione di mollarlo mai più.
Matt
chiuse gli occhi e si sentì inerme.
«Certo
che importa, stupido! Importa eccome perché è la
tua vita!» la
sentì esclamare appassionatamente e lo toccò.
Ricordò
le parole che gli aveva detto Tai il giorno prima, dopo che si erano
presi a botte, dopo che gli aveva afferrato il mento e lo aveva
costretto a guardarlo per rimproverarlo, dargli forza.
Era
la sua vita e l’avrebbe mandata per aria.
Sentì
le braccia di Sora che lo stringevano più forte.
«Perché
rinchiudersi in un mondo fittizio piuttosto che costruirne uno reale?
Ci sono io qui con te» la voce con cui parlava sembrava
accarezzarlo
placida e gli sembrò di potersi fare cullare docilmente.
Si
sarebbe lasciato andare tra le sue braccia senza esitazione se solo
avesse seguito quello che realmente voleva...
Ma
a che prezzo da pagare?
Affidarsi
di nuovo a lei, ricominciare a credere nella musica con la speranza
che prima o poi le cose sarebbero cambiate e la band sarebbe andata
alla grande, avrebbe trovato il lavoro della sua vita, ma avere
sempre e costantemente nel petto quel fardello grande che proprio non
riusciva a trasportare.
Però
andando via sarebbe stato lasciarsi schiacciare da solo, mentre in
quel modo, con lei, poteva essere un’occasione di ritrovare
davvero
sé stesso...
Fuggire
via non era la soluzione, non avrebbe raggiunto suo padre agli studi
e magicamente sarebbe diventato felice, a quello non ci credeva
affatto, anzi piuttosto gli veniva da impiccarsi per quanto odiava
quello che stava facendo...
Chiuse
gli occhi, il volto leggermente rivolto verso il cielo.
Era
combattuto.
Non
sapeva cosa lo avrebbe ucciso di più, se restare o andare
via...
O
meglio, forse lo sapeva, ma non riusciva a sopportarlo, lo faceva
sentire debole.
Sora
era ancora dietro di lui sopra la panca e lo stringeva, lo stringeva.
«Io
sono qui con te e non c’è altro posto in cui
vorrei stare, amore
mio...»
Fu
come lo chiamò che spezzò dentro di sé
gli ormai labili equilibri.
Il
petto cominciò nuovamente a farsi pesante e le lacrime
invasero i
suoi occhi ancora, come se non se ne fossero mai andate.
Amore
mio...
Non
lo chiamava così da tanto tempo, da una vita, forse.
Troppo
tardi per dirlo, quei tempi erano lontani...
Cominciò
lentamente a piegarsi verso il basso, lei lo trattenne.
«Lascerai
che l’unica occasione di rinascere dalla cenere rimanga solo
cenere?» gli chiese con voce di velluto contro il suo
orecchio.
Sentì
i brividi sulla pelle a quella domanda retorica, una domanda forse un
po’ poetica, l’avrebbe certamente trovata
all’interno di un
libro di poemi, ma non era altro che giusta in quel momento.
Cenere.
Descriveva
perfettamente quello che era in quel momento.
Cenere
da sempre, per lei, senza di lei...
Gli
spasmi erano incontrollabili per cercare di trattenere quel pianto.
Così
debole, versato, fragilmente incontrollabile.
«E
lascerai che il vento la trascini via per sempre?»
Trascinato
via come cenere che cadeva da una sigaretta, come cenere di un
falò,
come cenere di un cadavere cremato.
Il
suo.
Avrebbe
lasciato che quel vento fastidioso che gli invadeva gli occhi e non
gli permetteva quasi di aprirli lo avrebbe spazzato via, lo avrebbe
cancellato, fatto disperdere in granelli insignificanti?
Emise
un singhiozzo che non riuscì ad evitare.
Non
poteva, non doveva, era la sua vita, nonostante tutto...
Se
ne sarebbe pentito, si sarebbe rovinato…
Una
lacrima bagnò il suo collo, e dopo un’altra,
un’altra ancora. Si
fermò a trattenere il respiro alzando al testa, e si rese
conto che
anche Sora adesso stava piangendo.
«Per
quanto vale questo... perdonami, ti prego... io non potrei vivere
sapendo che tu non farai più parte della mia vita»
balbettava tra
un singhiozzo e l’altro, la sincerità, la purezza
del suo amore
che trapelava copiosamente e tristemente.
Gli
si strinse il cuore.
«Perché
tu sei tutta la mia vita, e io non potrei esistere altrimenti»
Il
ragazzo alzò piano un bracciò e sfiorò
la sua mano che gli
stringeva il petto.
Fu
spontaneo.
«Perché
per quanto vale questo, Matt... non andare via con la consapevolezza
che saremmo potuti essere chi meritavamo di essere, insieme»
Ci
furono dei secondi in cui nessuno di loro parlò, solo si
udì il
rumore dei singulti.
Poi
lui non ce la fece più, si sciolse dalla sua presa e si
voltò
piano.
Si
guardarono, lei con gli occhi gonfi e lui con un’ espressione
addolcita, quasi amorevole.
Sora
si beò della sua visione, gli spostò i capelli
biondi dal viso
umido e gli fece una carezza.
«E
perché ti faccio pena tutto questo?» le chiese lui
dopo, avendo
perfino paura di udirne la risposta.
La
gente si affrettava a salire sul treno trascinando con sé
valigie,
borse e li sorpassava come se non si trovavano lì, come se
non
esistevano.
E
forse era così, loro non esistevano per
nessun’altro se non per
loro stessi.
Sora
sorrise lievemente con amore.
«No,
è perché ti amo. Io ti amo»
ripeté con enfasi per poi abbassarsi
quel poco affinché le proprie labbra toccassero quelle
dell’altro.
Matt
non riuscì nemmeno ad opporre un minimo di falsa resistenza,
tanto
aprì le braccia e le portò dietro la sua nuca,
stringendole i
capelli.
Si
baciarono con intensità, non lasciarono che neppure una
porzione di
aria potesse infiltrarsi tra di loro e separarli.
Le
mani si cercavano, entrambi si stringevano, si volevano come se non
si fossero mai lasciati, come se il posto in cui si trovavano era
sempre stato quello a cui appartenevano da sempre.
Quel
bacio aveva una sapore nuovo, era diverso da tutti quelli che si
erano dati prima di allora, li univa in un turbine di sensazioni ed
emozioni intense, da far girare la testa e far perdere il respiro.
Era
da così tanto tempo che lo avevano desiderato.
Non
era passato giorno senza che non lo avessero voluto davvero.
Sembrava
di essere rinati...
Quando
si staccarono le loro fronti si toccarono, i loro sguardi erano
atterriti, le loro labbra rosse e i cuori battevano
all’unisono.
Sora
alzò lo sguardo per prima e, premurosamente, gli
accarezzò i
capelli vedendolo in quel modo, sfatto, perso, totalmente arreso.
E
sarebbe stato tutto perfetto se lui non l’avesse guardata di
uno
sguardo strano e non avesse aggiunto poco dopo:
«Mi
dispiace...» un sussurro strano, come se fosse stato
proferito da un
altro che non fosse lui.
Confusamente,
lo vide scostarsi dalla presa delle sue mani, abbassarsi da un lato e
afferrare la chitarra abbandonata per terra.
Era
talmente atterrita, sconvolta, che non riusciva a dire nulla.
Non
poteva essere...
«Ti
prego...» lo pregò debolmente, ma lui non la
guardava più, aveva
smesso ormai.
Aveva
preso la valigia e si stava per incamminare verso il treno.
«Mi
dispiace, non ce la faccio...» sussurrò e sembrava
davvero deciso,
così l’osservò muovere le gambe e
voltarle la schiena.
Sora
era ancora sopra la panchina e lo vide allontanarsi a gran passi.
«Matt!»
lo chiamò ad alta voce.
Era
talmente scioccata che credeva di poter barcollare e cadere per
terra.
Stava
andando via...
Andava
via, non era riuscito a trattenerlo...
Scese
dalla panchina e tentò di avvicinarsi, ma una folla di
persone la
travolse, la spintonò di qua e di là, le porte
stavano per
chiudersi e tutti si affrettavano.
«MATT!»
urlò con voce spezzata.
Nessuno
le rispose.
Non
lo vedeva più, era scomparso...
Aveva
preso quel treno, alla fine, non era servito a niente.
Piano
si ritrovò da sola, le gambe che sembravano fatte di burro
pronto a
sciogliersi.
Non
era servito a niente se non a lasciare entrambi con il cuore
spezzato.
Era
sconvolta, voltata verso una direzione opposta, aveva le mani sulla
testa, mentre sentiva le porte del treno che si chiudevano e i rumori
delle ruote sui binari che ingranavano la marcia di partenza.
Era
andato via...
Era
sola, quella volta per sempre.
Non
ci era riuscita, non era riuscita ad amare, non era riuscita a far
parlare il suo cuore, non era riuscita a farlo parlare a Matt...
Afferrò
il cellulare, fece partire un contatto, nessuno rispose, poi ne fece
partire un altro ancora.
Non
stava capendo più nulla, solo era stravolta.
Confusa,
stravolta...
Qualcuno
rispose.
«Mimi...
sono io... no, è tutto apposto... Sì, va bene,
solo... solo è
andato via...» la voce le s’incrinò e
scoppiò a piangere.
Disperata,
lasciò che lo sconforto l’avvolgesse, la
schiacciasse, la rendesse
ridicola e supplice, talmente sconvolta da voler lasciarsi crollare
giù per terra.
Era
racchiusa nel suo delirio, parlava al telefono, troppo stravolta per
curarsi di ciò che succedeva intorno a lei, delle persone,
degli
annunci, dei treni che arrivavano.
Non
si accorse nemmeno di alcuni passi dietro di lei.
«Ho
provato a fermarlo, ci ho provato, ho detto... gli ho detto quello
che...» piangeva forte
«E’
andato via, sì, cazzo... sì, lui non vuole,
è andato-»
Una
mano l’afferrò dalle spalle, la fece voltare di
scatto e spalancò
gli occhi spaventata per il modo in cui era stata strattonata.
Poi
si rese conto di chi era.
«...via»
mormorò stupita, mentre cominciò a non capire
più niente. Il cuore
gli salì in gola, gliela stava per sfondare e venire
giù dalla
bocca.
Era
Matt.
Era
lui, era tornato indietro.
L’aveva
afferrata e l’aveva stretta, baciandola appassionatamente, in
un
modo così verace che le tolse ogni minima
possibilità di pensiero
razionale.
Lei
alzò le braccia, non si chiese nemmeno perché era
successo,
solamente lasciò scivolare il cellulare per terra rompendolo
definitivamente.
Non
trovarono tregua, solo si baciavano come non sapessero fare altro
nella vita, non udirono più nulla, non pensarono.
Matt
l’abbracciò forte, nascondendo il viso
nell’incavo del suo
collo, le strinse i capelli mentre lei singhiozzava contro il suo
petto.
Poi
si staccarono, si guardarono e si baciarono ancora, senza mai
mollarsi.
Alla
fine il sole uscì, s’ intravide tra le nuvole
grigie, l’illuminò con il suo timido e tiepido
raggio.
E
si concentrarono sull’amore, lasciando semplicemente andare
il
resto.
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Capitolo 23 *** Casa ***
«Sora?
Sora, ci sei? Sora!»
Altrove,
nello stesso momento, Mimi si trovava ritta di fronte alla finestra
di camera sua, il telefono all’orecchio con cui un attimo
prima
stava parlando con la sua amica che l’aveva chiamata
inaspettatamente sconvolta.
Non
ci aveva capito molto, aveva solo menzionato Matt, pareva si fossero
incontrati ma non sembrava che tutto fosse andato per il meglio.
Ad
un certo punto aveva sentito un tonfo sordo, delle interferenze, come
dei fruscii, dei rumori metallici; poi d’un tratto il nulla,
non
l’aveva udita più.
La
chiamò altre volte ma niente, il telefono sembrava muto.
«Che
diamine! Ha riattaccato!» esclamò poi, guardando
il cellulare con
stizza ma anche con un cipiglio di apprensione.
Si
portò una mano sul fianco e con l’altra si tenne
la fronte,
pensierosa.
Cos’era
capitato?
Non
ci stava capendo più nulla, né di quello che
stava succedendo a
Sora, né di quello che era successo a lei poco fa.
Era
tutto un curioso macello di sentimenti da cui era difficile uscirne.
Aveva
il cervello talmente in pappa da non essersi minimamente accorta di
trovarsi senza niente addosso, il seno libero, nessuna ombra di uno
dei suoi reggiseni di pizzo; portava solo le mutandine.
E
stava lì ritta, impalata, di fronte alla finestra.
Doveva
essersi ammattita, o forse era completamente coinvolta da qualcosa di
più grande di lei da nemmeno curarsene, in fondo.
Dei
passi di piedi nudi si avvicinarono e, senza avvertirla, qualcuno la
strinse da dietro, sentì il contatto con il caldo del suo
corpo.
Chiuse
gli occhi, mentre piano si sentiva baciare il collo e non
riuscì a
fare a meno di lasciarsi cullare dai brividi, ansimando piano.
Quelle
labbra calde risalirono fin sopra la sua guancia, tracciandone dei
contorni umidi.
«Non
penso abbia riattaccato» soffiò Taichi tra un
bacio morbido e
l’altro, mentre continuava a stringerla a sé
facendo dondolare
entrambi leggermente.
Mimi
aprì gli occhi e nascose un sorriso di gioia, poi assunse
un’espressione di sfida, come tutte le volte in cui
parlavano.
Loro
erano fatti così, si prendevano in giro, si sfidavano, erano
un
botta e risposta continuo, amavano stuzzicarsi perché
sapevano che
l’altro era instancabile; d’altronde, l’
indole egocentrica li
accomunava.
Non
era cambiato nulla dall’ultima volta.
La
loro complicità era quella di sempre, anzi sembrava
triplicata.
«E
tu che ne sai?» lo rimbeccò lei, dandogli una
piccola gomitata tra
le costole.
Il
castano emise un lamento e rise tenendosi la parte colpita. Lei lo
fissava con le braccia conserte e l’espressione altera ma
divertita.
«Io
so sempre tutto» rispose in modo enigmatico, dandosi delle
arie.
La
castana gli lanciò un’occhiata scettica, poi si
voltò e riportò
il cellulare all’orecchio provando a richiamare la ramata.
Tai
alzò gli occhi al cielo, la bloccò dai fianchi e
tentò di cavarle
il telefono di mano. Mimi cacciò un urlo e lottarono per un
po’ in
quel modo, fino a quando il ragazzo la ebbe vinta.
Lei
si voltò con i capelli scompigliati. Lo guardò
interrogativa e un
po’ irritata.
Perché
insisteva affinché non avesse notizie di Sora?
Eppure
era la migliore amica di entrambi!
«Perché
non mi lasci riprovare? E se sta male?» obiettò.
Lui,
nel frattempo, aveva posato il telefono con la custodia rosa di
brillanti sulla scrivania, poi si era voltato a guardarla alzando le
sopracciglia scure.
«Starà
bene quasi quanto noi, non preoccuparti» la
tranquillizzò,
vedendola stupita sul posto, gli occhi castani che ancora lo
esaminavano dubbiosi.
Tai
le regalò un sorriso che aveva qualcosa di convincente.
Sapeva
cosa stava dicendo, doveva fidarsi.
Non
aveva mai avuto troppi dubbi a riguardo, era convinto che tutto si
stava risolvendo per il meglio.
Mimi
scrollò le spalle, poi lo continuò a fissare con
un ghigno che
aveva qualcosa di palesemente malizioso.
La
vide avvicinarsi piano, i suoi occhi ricaddero sul suo seno nudo.
Si
alzò sulle punte e si avvicinò al suo viso,
sfiorandogli la guancia
con un dito.
«Hai
detto bene... quasi» mormorò sulle sue labbra,
quel tanto da dargli
modo di attirarla a sé e baciarla.
Si
baciarono coprendo le risate, mentre giocavano ad un gioco di lingue
che si rincorrevano e lottavano in cerca di un attimo di paradiso.
Perduto,
ma ritrovato.
Si
lasciarono con uno schiocco e si guardarono per un po’ negli
occhi
assuefatti, persi in un mondo tutto loro che di bello non aveva poco,
aveva troppo .
I
contorni, le sfaccettature, il modo in cui si stringevano.
Tai
ruppe quel contatto avventandosi su di lei e afferrandola da dietro
la schiena. Con un braccio le coprì tutto il seno.
«Non
lo sai che da sotto si vede tutto?» la rimproverò
giocosamente,
mentre aveva il capo chino su di lei.
Mimi
lo fissava a mezz’aria, gli occhi che le brillavano.
Vero,
se n’ era completamente dimenticata, ormai.
«Bugiardo!»
lo apostrofò, prendendolo in giro.
C’era
comunque la tenda che copriva la visuale.
Tai
la fissò con un cipiglio spostando leggermente la testa come
per
dire “ah sì?”, ma lei incollò
nuovamente le labbra a quelle
sue.
Così
il ragazzo non resistette, la fece voltare mentre la prendeva in
braccio. Senza staccarsi da lei la trascinò di peso proprio
sul
davanzale della finestra, mentre lei si appoggiava con la schiena
nuda sentendo la stoffa della tenda farle il solletico.
Certo
che erano proprio due stupidi...
Si
baciarono e poi unirono le fronti ridendo, i nasi che si sfioravano.
Come
avevano potuto solo minimamente pensare di stare lontani per tutto
quel tempo quando loro due erano semplicemente fatti l’uno
per
l’altra?
Come
avevano potuto solo minimamente pensare che si sarebbero mai saziati
in tutta la loro vita?
Tai
continuava a baciarle il collo, lo mordicchiava, mentre lei si teneva
stretta dalle sue spalle e gettava la testa all’indietro,
ansimando.
Non
credeva che sarebbe mai più stata capace di fare a meno di
tutto
quello.
In
due ore avevano riempito tutto il vuoto lasciato in due anni e adesso
non lo avrebbero mai più svuotato di nuovo.
«Hai...
hai parlato con il tuo allenatore?» gli chiese
improvvisamente tra
un bacio e l’altro.
Tai
emise un leggero lamento mentre scendeva a baciarle il seno.
«Nh...
ti prego, non nominarmelo in un momento del genere...»
pigolò
sofferente.
Pensare
ad Akira in quel momento spegneva tutta la libido...
Mimi
ridacchiò e gli diede un buffetto in testa.
«Scemo,
dico sul serio» poi lo afferrò dal viso e fece in
modo che si
fermasse
«Glielo
hai detto?»
Il
ragazzo la guardò negli occhi, notando un cenno di
preoccupazione
nel suo sguardo limpido che gli fece scrollare le spalle.
Aveva
chiuso il cellulare al fine di non essere reperibile, non avrebbe
avuto problemi da ora in avanti.
Nessun’altro
allenatore o chi fosse avrebbe avuto il comando della sua vita.
Era
finita, quella volta per sempre.
«Che
ti importa?» domandò con un sorrisino ironico
«Ormai ho preso la
mia decisione. Se mi vogliono davvero me lo lasceranno fare»
Ed
era vero, se lo volevano sul serio in squadra ad Osaka allora
avrebbero rispettato i suoi tempi, nessuno gli avrebbe imposto di
tornare prima degli accordi, nessuno stronzo come Akira si sarebbe
mai più permesso di riempirgli la vita di obblighi e
incertezze che
avevano fatto di lui un burattino.
Avrebbe
ricominciato a vivere per sé stesso, non per accontentare
qualcuno.
Per
sé stesso e per Mimi.
Lei
sarebbe andata con lui, lo avrebbe seguito e avrebbero dato inizio ad
un sogno che per troppo tempo avevano smesso di ritenere importante.
«E
poi non posso andare via proprio adesso...»
mormorò maliziosamente
contro le sue labbra.
Lei
rise e lui la baciò ancora, ma Mimi si staccò
dopo poco guardandolo
ancora di quello sguardo apprensivo.
«E
se ti puniranno per questo?» tentò di farlo
ragionare, magari c’era
qualcosa che non aveva calcolato, a cui non aveva pensato a causa di
tutti quegli eventi...
Non
avrebbe voluto che Taichi perdesse un’occasione come quella
per
colpa di una resistenza nella quale c’entrava anche lei.
Non
sapeva bene come funzionava nel mondo del calcio, ma in prima
divisione le regole dovevano essere più rigide, non poteva
trasgredirle in quel modo!
«Dovresti
andarci subito!» esclamò ansiosa, scuotendolo
leggermente dalle
spalle affinché si rendesse conto.
Ma
lui si limitò a sorridere di un sorriso strano, pieno di
luce e,
nello stesso tempo, di qualcosa che assomigliava tanto a quel
sentimento che tutto aveva a che fare con l’amore.
«La
mia punizione è stata quella di stare due anni senza di te.
In tal
caso, sarà la mia ricompensa» lo sentì
dire con una sincerità
tale che la spiazzò, le fece salire il cuore in gola per
l’emozione.
A
Tai non importava realmente più del destino della sua
carriera, a
lui importava solamente di averla vicino, e basta, non c’era
più
nulla che avrebbe anteposto ai sentimenti e al bisogno che aveva di
lei.
Le
stampò un altro bacio che non le diede tempo di pensare e
poi un
altro, un altro ancora.
Quel
calore era così forte che avrebbe potuto bruciare.
Il
modo in cui la stringeva, e la baciava, la guardava tra un bacio e
l’altro le faceva sentire vivo il desiderio che aveva di lei.
Le
venne da ridere per la felicità.
«E
se diranno che è colpa mia che ti distraggo troppo dal
lavoro?» lo
provocò.
Tai
gli lanciò uno sguardo intenso, famelico.
«Gli
dirò che hanno ragione»
Poi
si guardarono e scoppiarono di nuovo a ridere in quel modo rumoroso,
esagerato, a tratti infantile, come se avessero appena tracannato una
bottiglia di vino rosso.
Mimi
sentì le palpebre che si abbassavano e vide il volto Tai
sempre più
vicino, impresse nella sua mente la forma delle sue labbra prima di
sentirle sulle proprie.
Poteva
avvertire sulla sua pelle la passione che li travolgeva nel suo
abbraccio, non dava loro modo di respirare, nemmeno di formulare un
pensiero utile se non quello di abbandonarsi a quel trasporto.
Mimi
gemette ancora, totalmente scossa, terribilmente indifesa tra le
braccia del ragazzo che amava, che aveva sempre amato, e al quale
doveva tutto, tutto quello che era diventata, quello che sarebbe
diventata ancora.
Si
abbandonava a lui come se non esistesse ragione per starne fuori,
come se Taichi era la parte mancante di sé alla quale doveva
necessariamente incastrarsi.
«Tai…
portami via con te...» sussurrò tra gli ansimi,
lambendo il suo
collo, mentre gli provocava dei brividi lungo la schiena.
Lui
ansimò di rimando.
Non
l’avrebbe lasciata mai più lì da sola,
non avrebbe più commesso
gli sbagli di un ragazzino accecato da qualcosa per cui aveva perso
di vista tutto ciò che era importante pur di conseguire dei
risultati che avrebbero sanato il suo ego e la sua ambizione.
Avrebbe
lottato per avere entrambi nella sua vita, l’amore e la
passione,
due fattori che si equilibravano perfettamente, cui senza
l’altro
erano incompleti.
Mimi
era la parte mancante nella sua vita, l’altra metà
di sé, l’unica
persona che aveva mai amato e che lo rendeva quello che era, il suo
vero io, colui che aveva lasciato addormentato per troppo tempo
dentro un cassetto.
E
che adesso si era risvegliato coraggiosamente.
«Ti
porterò via con me, te lo prometto...» le rispose,
poi la prese in
braccio facendo incastrare le sue gambe dietro la schiena.
L’allontanò
dalla finestra la cui tenda si era ormai spostata e qualcuno aveva
probabilmente goduto dello spettacolo, e fece alcuni passi.
Mimi
gli mordicchiò il lobo dell’orecchio.
«Partiamo
già adesso» disse imperativa con gli occhi che le
brillavano.
Tai
si fermò e la contemplò con un accenno di
ammirazione.
Poi
la fece cadere sul letto, trascinandosi a sua volta.
«Agli
ordini, principessa» le rispose provocante ma giocoso,
citando il
modo in cui la usava chiamare anni e anni prima, quando era rimasto
incantato da lei esattamente allo stesso modo in cui lo era adesso.
Mimi
rise mentre lui era sopra e cominciava a baciarla, sfiorandole il
collo, mordendole il seno, fino a scendere giù, sempre
più giù.
Gli
strinse i capelli e chiuse gli occhi.
Il
loro viaggio era appena iniziato.
La
porta di casa si aprì, sbattendo contro la solita porzione
di muro
dove già si era formato un buco per tutte le volte che era
stato
colpito.
Le
persiane erano semiaperte, nell’aria c’era il
solito odore di
muschio ormai rimasto impregnato tra le pareti.
Qualcuno
tentò di aprire la luce a tentoni, ma la lampadina emise
solo uno
stridio debole che segnava la sua fine.
Yamato
grugnì appena senza staccare le labbra da quelle di Sora,
con
difficoltà lasciò cadere per terra la sacca
contenente la chitarra
e la valigia rimase immobile all’entrata con la maniglia per
aria.
L’agguantò
dai fianchi e rotolarono verso destra dove c’era la cucina.
La
ramata sentì scivolare la borsa dalla spalla, ma non
riuscì a fare
nient’altro se non a ricambiare la veracità di
quei baci.
Si
appigliò alla cucina facendo cadere delle mele dal cestino,
poi alzò
la mano per trattenersi dal pomello della credenza.
Matt
le baciava il collo, le lasciava dei segni visibili, la sua lingua la
leccava e le mordeva la mascella.
Ansimò,
si torse su sé stessa e, nel muoversi, aprì lo
stipetto dove dei
biscotti in bilico caddero e s’inserirono tra di loro.
Udì
Matt ridacchiare contro il suo collo, e venne da sorridere anche a
lei.
Non
lo vedeva né sentiva ridere da così tanto tempo,
ormai.
Non
sapeva nemmeno lei quello che stava succedendo, solo era tutto
così
talmente eccitante che non voleva nemmeno fermarsi a chiedersi se
sarebbe durato.
Si
sentì trascinare contro il tavolo. Matt le aprì
le gambe e si
insinuò continuando a baciarla, mentre lei ricacciava la
testa
indietro e lo teneva stretto dalla nuca.
Aveva
dimenticato com’era provare tutto quelle sensazioni
meravigliose.
Sembrava
come se ci fosse un fuoco ad ardere le sue cosce, un fuoco che non si
placava e la bruciava dentro e fuori.
Il
biondo la bloccò dai capelli e fece congiungere le loro
fronti.
Ansimarono entrambi l’uno contro il volto
dell’altro, fino a
quando Sora non si leccò le labbra e lui lanciò
un grugnito.
Presero
a spogliarsi velocemente, si tolsero le rispettive giacche, poi
toccò
alle maglie. Lui gliela alzò fino al collo e
lasciò libero il suo
seno, le scese con forza il reggiseno e si avventò ai suoi
capezzoli, succhiandoli, lambendone i contorni con la lingua, e poi
succhiandoli ancora.
Sora
lanciò un gemito rumoroso e si attaccò al suo
collo, gli strinse i
capelli.
Dopo
le tolse la maglia completamente, la lanciò da qualche
parte, mentre
lei si slacciava il reggiseno, gli prendeva il mento e tornava a
baciarlo.
Matt
la stringeva forte, sentiva che la voleva interamente, e anche lei
desiderava così tanto ogni minima parte del suo corpo.
Si
staccò e lo liberò dalla maglia, segnò
una traiettoria di baci
direttamente sul suo petto fino a scendere alla sua pancia,
mordendola e facendogli il solletico.
Scese
dal tavolo e cominciò ad armeggiare con la cintura dei suoi
pantaloni, poi alzò gli occhi nocciola e lo
guardò negli occhi
famelica, pronta a farlo suo.
Lui
le portò una ciocca ramata dietro l’orecchio in un
gesto di
premura, mentre lei gli scendeva di colpo i pantaloni, poi le
mutande.
Si
abbassò all’altezza del suo ventre e prese in mano
la sua
erezione, muovendola per un po’ su e giù, dopo
segnò i contorni
con la sua lingua, tracciandone tutta la lunghezza come se fosse un
disegno da realizzare.
Matt
le strinse i capelli eccitato, lei alzò gli occhi a
guardarlo e,
senza attendere oltre, se lo portò in bocca.
Il
gemito roco che ne uscì fu talmente gratificante da farle
aumentare
il ritmo, succhiò con maggior vigore, lo portò in
fondo, dentro
fino a quanto poteva.
La
saliva le scendeva dai bordi ma non se ne curò.
Succhiava
e ogni tanto raschiava con i denti, mentre lui le aveva alzato i
capelli con una mano, non si perdeva la visione di lei e di quel
pompino così intenso.
Lei
sapeva tutti i segreti del suo corpo, era a conoscenza di tutti i
punti che lo facevano godere, sapeva a memoria dove toccarlo, come
stimolarlo per fargli perdere la testa, e lui non era affatto da
meno: riusciva a possederla in un modo rude, selvaggio, ma allo
stesso tempo così talmente protettivo che la lasciava inerme
al suo
volere.
La
fermò e, d’un tratto, la tirò su. La
fece sedere sul tavolo, a
sua volta gli tolse via i pantaloni sfilandoli con furia, la
denudò
delle mutandine.
Le
aprì le gambe e la fece sdraiare.
Scese
fino alle sue parti intime e la leccò, la bacio, le
succhiò il
clitoride fino a farla urlare dal piacere. Inseriva la lingua in
maniera ritmica e la penetrava, la vezzeggiava in un modo
così
profondo che le fece riversare la testa sul tavolo colpendolo,
completamente piegata, disarmata.
Gli
strinse i capelli, lo spinse ancora più in fondo nelle sue
cavità.
Stava
per venire, stava perdendo il controllo, aveva perso ogni minima
parte di ragione.
«Matt...
Oh, Matt!» urlò strozzatamente.
Inarcò
la schiena, pronta a sentire l’orgasmo che si faceva strada
in lei,
ma Matt si fermò, tolse la bocca e la lasciò
lì, tremante e piena
di umori che grondavano.
Lei
lo guardò toccarsi la bocca, ansimante ed eccitata.
Non
poteva lasciarla in quel modo.
Le
rivolse uno sguardo con gli occhi azzurri che brillavano, allora non
capì più niente, si alzò dal tavolo e
si precipitò da lui, lo
fece indietreggiare contro la cucina e si abbassò a prendere
di
nuovo in bocca il suo membro.
Il
biondo non riuscì a dire nulla, solo alzò la
testa e gemette
incontrollatamente.
Bastava
poco, le sarebbe venuto in faccia, in gola, sul seno,
l’avrebbe
marchiata a fuoco, lo voleva così tanto.
Lei
lo faceva dannare, ma lo faceva volare in paradiso un attimo dopo.
Solo
che voleva di più, voleva Sora interamente, la voleva per il
suo
modo di essere, per la sua bellezza, per la sua caparbietà,
per la
sua dolcezza.
L’amava
così tanto e in modo incancellabile.
La
scostò rudemente dalle spalle, lei lo fissò
titubante, ma lui la
fece alzare e la spinse sul tavolo di schiena.
Non
aspettò nemmeno il tempo di dire qualcosa che
afferrò il suo membro
e la penetrò da dietro, così come stava.
Sora
emise un gemito sorpreso non appena si sentì violata e ad
ogni
spinta che lui dava perdeva la testa, si sconnetteva dal mondo,
pronta a farsi cullare dalla sensazioni di fuoco.
Si
attaccò al tavolo e lasciò che la scopasse. Gli
ansimi risuonavano
per tutta la casa, le sue urla di piacere e di dolore erano come una
musica piacevole da sentire.
Si
incastravano perfettamente, non lasciavano spazio a
nient’altro.
Erano
solo loro due a godere del privilegio di quella passione
incommensurabile, di un sentimento d’amore che strabordava
per
quanto era ricco.
«Oh,
ti prego!» esclamò senza un senso, appoggiandosi
con un braccio
all’altra sponda del tavolo che cigolava.
Matt
spingeva e le afferrava i capelli, e poi spingeva e la toccava in un
punto sensibile, si abbassava al suo viso, le metteva una mano sulla
bocca, le leccava il collo, l’orecchio.
Sora
chiuse gli occhi , stordita, confusa, ma pronta a morirne.
E
poi ruotò nuovamente posizione, si sedette su una sedia, se
la portò
addosso e la fece sedere sopra di lui, in
lui.
Sora
spinse andando su e giù, attaccata al suo collo, gli morse
la
spalle, mentre lui baciava il suo seno, lo risucchiava avidamente
lasciandole dei succhiotti rossi.
Congiunse
le fronti stringendole la nuca.
«Sora...»
sussurrò contro le sue labbra, guardandola di uno sguardo
velato
dall’eccitazione.
Lei
gli strinse forte i capelli facendogli male.
«Sto
venendo... non fermarti... non fermarti!» lo
invocò urlando,
preparandosi a sentire il piacere esplodere dentro di sé.
Matt
strinse le labbra e un pensiero gli passò per la mente.
Qualcun
altro aveva goduto di lei allo stesso modo in cui lo stava facendo
lui?
L’aveva
presa, strattonata, amata come faceva lui?
Si
fermò, e lanciò un ringhio.
Non
riusciva a pensare di aver lasciato Sora nelle mani di qualcuno che
l’aveva contaminata con il suo tocco...
Lo
faceva morire, lo distruggeva.
La
spostò bruscamente da lui e si mise in piedi.
La
ragazza lo fissò con il cuore che batteva forte, sfatta, i
capelli
attaccati al viso, piena di segni e di eccitazione interrotta.
Il
biondo alzò gli occhi in uno sguardo livido che le
provocò un
brivido su per la schiena. Non appena provò a dire qualcosa,
ecco
che si vide spingere contro il tavolo ancora, da dietro, in maniera
sottomessa.
«Ti
ha fatto urlare così, eh?» gli sibilò
nell’orecchio, sferzante,
ma sofferente
«Hai
pregato anche lui in questo modo?»
Le
stringeva la nuca, ma lei riuscì a fare un respiro profondo.
Avrebbe
dovuto dirglielo...
Sentì
le sue dita che si insinuavano dentro la sua vagina e la stuzzicavano
e non riuscì a pensare lucidamente.
Doveva
sapere qual era la realtà dei fatti, quella
realtà per la quale era
successo tutto quello.
«No...»
mormorò in un gemito.
Matt
si bloccò, stupito.
Non
l’aveva fatto?
Non
aveva scopato con quel pezzo di merda?
«No?»
domandò con il fiato sospeso, togliendo lentamente le dita
grondanti.
Il
cuore gli batteva forte ed attendeva una risposta. Lei si
voltò
lentamente e incastrò gli occhi sopra i suoi in modo
lascivo, poi
salì sul tavolo spalancando le gambe di fronte a lui.
Matt
respirò piano e con attesa.
Lo
avrebbe ucciso in quel modo.
La
vide che cominciava a toccarsi da sola, gemendo, riversando la testa
all’indietro e sentì il fiato spezzarsi, emise una
smorfia
eccitata, il pene ancora più duro.
Ti
prego...
E
Sora incastrò gli occhi sopra i suoi.
«Non
ci sono mai andata a letto. Nessuno potrà mai avermi
così» disse
con voce bassa e provocante, mentre continuava a sfiorare la sua
entrata.
Matt
chiuse gli occhi.
«Nessuno
tranne te»
Li
riaprì e la guardò con le lacrime traboccanti.
Lentamente
si avvicinò, s’insinuò tra le sue cosce
e lei piano si sdraiò.
Si guardarono senza dire più nulla, lui entrò di
nuovo dentro di
lei ma fu dolce, la baciò con consapevolezza, con voglia di
ritrovare la pace.
Aumentò
le spinte mentre Sora si inarcava e spingeva a sua volta verso di
lui, avevano lo stesso ritmo, volevano entrambi di più,
volevano
perdersi nei meandri dell’altro e non avere più
via d’uscita.
Era
finita.
Tutta
quell’agonia non avrebbe più trovato luogo su cui
adagiarsi.
Vennero
insieme.
Yamato
si lasciò cadere su di lei,
l’abbracciò, la strinse, non voleva
lasciarla andare mai più. Le lacrime silenziose avevano
ormai
bagnato il suo petto, non c’era modo affinché
potesse contenere
quell’amore così grande.
Sora
gli accarezzò i capelli, stringendolo, il volto rivolto al
soffitto.
Era
finita, ma non era realmente finita.
Iniziava.
|
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Capitolo 24 *** Epilogo ***
L’aria
primaverile s’infiltrava attraverso gli ampi balconi della
sala
lasciati aperti per arieggiare. Il polline vagava poggiandosi sui
davanzali, ogni tanto qualche farfalla faceva capolino poggiandosi su
una delle grandi piante situate all’esterno.
La
sala da cerimonia era vasta, dai toni bianchi e grigi, ritagliata da
colonne simil-corinzie.
I
tavoli e le sedie erano immacolati, dei fiocchi lasciati pendere nel
bel mezzo delle fodere di lino.
Sopra
i tavoli troneggiavano dei vasi lunghi di cristallo da dove
spuntavano mazzi di fiori colorati. Dai tetti discendevano grandi
lucernari decorati con pietre scintillanti.
Al
fondo della sala, rialzato da un piccolo soppalco, si intravedeva il
lungo tavolo degli sposi, dove ai lati torreggiavano due grandi
piante che fuoriuscivano da longilinei vasi ad imbuto rivestiti da un
manto bianco pieno di ricami. Dietro, uno specchio quadrato a cornice
che rifletteva lo strano candelabro riposto nel bel mezzo del tavolo
nunziale.
Mimi si guardò
intorno circospetta ed esibì un sorrisino scettico.
Quella
sala era oltremodo elegante e sofisticata per accogliere i
celebrativi del matrimonio di Joe.
Non
immaginava che la scelta fosse toccata ad un tipo come lui: non aveva
un gusto degno di potersi ritenere buono, d’altronde.
Le
pietanze principali erano state servite e la gente si riversava in
sala conversando e godendosi la musica.
I
parenti di Luchia erano tantissimi, alcuni avevano indosso costumi
indiani tipici da cerimonia, altri invece portavano delle pellicce e
dei colbacchi. Qualcuno di loro aveva in volto espressioni strane,
come se fosse in allerta di qualcosa.
Mimi
pensò che probabilmente era dovuto alla poca conoscenza di
quei
luoghi, ma non ne era così sicura.
Camminò
per un po’ in cerca di qualcuno, si sporse per vedere meglio
oltre
un tizio che aveva lunghi capelli grigi ed una barba, il quale si
girò e la guardo di sbieco. Lei sorrise a mo’ di
scuse.
Poi
si defilò stando ben attenta a non calpestare nulla di
sconveniente
con i suoi tacchi neri lucidi di dodici centimetri che non erano
propriamente facili da camminare.
Il
vestito era un tubino in velluto color vinaccio che le fasciava
strettamente il corpo e le arrivava un po’ più
sotto alle
ginocchia. Il seno era rialzato grazie a delle coppe che si
spalancavano nel mezzo a forma di una V e uno spacco meritevole si
apriva al lato di una coscia.
Decisamente
non il vestito più comodo da indossare, lo ammetteva, ma lo
aveva
disegnato lei su misura in occasione del matrimonio. Lavorava come
una delle modelliste per una casa di moda medio conosciuta in
Giappone, la Ashida.
Taichi
era un giocatore di serie A, ormai, uno degli attaccanti più
forti
che avesse mai visto, e non che lei ci capisse molto di calcio. Non
aveva mancato alla promessa di portarla con sé dopo la fine
dei suoi
studi, e si erano stabiliti dapprima in una casa in affitto, poi
avevano deciso di comprare un appartamento proprio che lei stessa
aveva arredato da cima a fondo.
Era
contenta del suo buon gusto e del suo lavoro; quasi quanto era
soddisfatta della sua vita amorosa.
L’unica
cosa che le sfuggiva di mano, però, era riuscire a trovare
chi
cercava.
Passò
vicino ad un gruppo di persone che riconobbe essere Joe in tenuta da
sposo che conversava allegramente con Takeru e Hikari. Aveva i
pantaloni dello smoking che gli sfilavano le cosce più di
quanto non
le avesse già, la camicia bianca era stata risvoltata fino
ai
gomiti, della giacca nessuna traccia, mentre i capelli erano gellati
all’indietro tanto da farlo assomigliare al damerino che
sapeva
bene non fosse.
Lo
vedeva gesticolare animatamente e parlare di qualcosa che non
riusciva a captare, così, mossa dalla curiosità,
si avvicinò per
origliare.
«E
quanti anni ha questo bastardo?» lo sentì chiedere
in tono
diffidente.
Aggrottò
le sopracciglia, interrogativa.
«Ma
Joe, è un cucciolo. Avrà sì e no due
mesi» fu la precisa risposta
di Kari.
Mimi
lanciò un’occhiata alla ragazza. Si era fatta
crescere i capelli
castani e li portava legati in una treccia a spiga di pesce che le
scendeva morbidamente sulla spalla destra.
Il
vestito che indossava era lungo, rosa e a carattere floreale. Stava
veramente bene, sembrava una donna nuova, diversa dalla ragazzina che
conosceva.
Insegnava
ad una scuola materna di Odaiba e, da quello che raccontava a lei e
Tai, era la più amata di tutte.
«Poi
è un dobermann di razza» sentì dire a
TK che soffocò una risata.
Si
sporse meglio e notò che in braccio aveva un cucciolo di
cane dal
pelo nero e marrone.
Lo
avevano comprato da poco e lo portavano dovunque dentro il
trasportino. Erano davvero due tipi amorevoli entrambi, non mancavano
di un impegno.
TK
aveva smesso di fare il ragazzaccio subito dopo la pubblicazione del
suo libro. Era andato a ruba, c’erano così tante
persone curiose
di sapere la loro storia per filo e per segno che aveva dovuto
scrivere il seguito. Da che ne sapeva, si era iscritto
all’università
specializzandosi in Editoria, proprio un cammino di cui si
presagivano pochi prospetti.
Comunque
il look era rimasto invariato; il suo solito cappello, grigio per
l’occasione, gli si adagiava in testa sopra i capelli biondi,
la
giacca larga era lasciata aperta e lasciava intravedere una camicia
sbottonata senza ombra di una cravatta. I pantaloni neri erano stati
infilati dentro degli anfibi e gli cadevano sbarazzini provocando
delle bombature ai lati.
«Ah
sì? Ha origini inglesi?» sentì dire a
Joe, che guardava il cane
addormentato con titubanza.
Kari
ridacchiò.
«Perché
un cane dovrebbe avere una nazionalità?»
«Che
ne so, ha detto man!» rispose prontamente quello, e i due
scoppiarono a ridere.
Anche
Mimi scosse la testa divertita.
«Lo
abbiamo preso appena nato, comunque» spiegava TK.
Gli
occhi di Joe s’illuminarono da dietro gli occhiali scuri.
«Lo
avete adottato?!»
«In
un certo senso» rispose Kari, ma era dubbiosa.
Probabilmente
non voleva contraddirlo troppo, d’altronde era sempre il
solito
permaloso.
«E
le pratiche sono state lunghe? Dicono che ci vogliano mesi e
mesi...»
lasciò cadere la frase con un sospiro rassegnato.
Chissà se era un
segno di rammarico destinato a Luchia che aveva un pancione tondo da
sotto l’abito da sposa. D’altronde era stata una
gravidanza
scoperta al quinto mese, che si sapesse.
Kari
e TK si guardarono allusivi e scoppiarono a ridere. Joe li guardava
con le sopracciglia alzate.
Che
avevano da ridere?
«Ma
Joe, è solo un cane!» lo contraddisse Kari tra una
risata e
l’altra.
Come
poteva pensare che servissero le stesse pratiche legali di quando si
adottava un bambino?
Lo
sposo fece spallucce.
«E
quindi? Anche Koushiro è stato adottato! A voi sembra umano
quello
lì?» sibilò sardonico da dietro un
mano, indicando proprio questi
in lontananza che si dirigeva in loro direzione insieme a Frajiko.
Questa
aveva un vestito azzurro lungo, dei pois neri che si estendevano per
tutta la lunghezza. In vita una cintura che la fasciava e le creava
una bombatura in petto. I capelli biondi erano raccolti in
un’acconciatura a chignon, ma aveva lasciato due piccole
ciocche di
fronte al viso.
Il
suo volto era splendente, stava bene, non aveva più quella
scarnatura malaticcia. Si era ripresa totalmente, aveva portato
avanti la riabilitazione e le sedute psicologiche.
Izzy
aveva a sua volta il viso sereno, i capelli erano stati lasciati
crescere leggermente sul ciuffo davanti. Lavorava in
un’azienda di
sicurezza informatica tra le più conosciute del Giappone. Il
suo
stile era quello di sempre, non ne aveva molto da vendere, ma non
sarebbe stato sé stesso senza quella giacca color azzurro
pastello
con le righe verticali.
«Hai
fatto il mio nome, per caso?» intervenne con uno sguardo
critico.
Joe
si voltò dapprima spaesato trovandoselo lì
dietro, poi assunse
un’espressione pungente.
«Sì,
spiegavo ai ragazzi di quella volta che hai scoperto che ti hanno
adottato e hai pianto per una giornata intera tirando pugni contro il
muro. Ricordi?»
Izzy
non fece una piega, solo alzò le estremità della
bocca in un
ghigno.
«Tragico,
sì, come il giorno in cui ti sei rotto la testa cadendo dal
monopattino»
TK
e Kari scoppiarono a ridere e anche Frankie si portò una
mano alla
bocca nascondendo un sorriso.
Mimi
riuscì a vedere i pugni di Joe che si chiudevano di rabbia.
«Era
il monopattino truccato di Shin! E Taichi e Yamato avevano anche
manomesso i freni! Quei due hanno il cervelletto»
ribatté.
«Che
tecnicamente abbiamo tutti, Joe»
Il
corvino alzò gli occhi al cielo.
«Lo
so già che siete un branco di mentecatti. Non
c’è bisogno di
ricordarmi che frequento una banda di gente inutile per
l’umanità!»
TK
lo fissò con un sorriso sarcastico.
«Solo
perché tu curi la gente con i cerotti» lo
rimbeccò.
Joe
gli lanciò uno sguardo truce e incrociò le
braccia.
«In
quell’università da hipster non ve lo insegnano
che la pratica
medica discende dal sapere di Dio?»
Eccolo
là che si dava un sacco di arie, non era affatto cambiato.
Lavorava
in uno degli ospedali più rinomati di Tokyo e aveva perfino
ricevuto
numerose offerte di spostamenti, ma, ignorava il motivo, non si era
mai spostato di lì.
Izzy
scosse la testa.
«Joe
ha ancora la mentalità da basso medioevo» lo prese
in giro.
Questi
strinse gli occhi lanciandogli un’occhiata sprezzante.
«Infatti
fosse per me ti avrei legato ad un palo e messo al rogo seduta
stante. Quei capelli rossi sono chiaramente un segno del
male!» alzò
gli occhi a fissarli con ripugnanza
«Poi
dei tuoi resti ne avremmo fatto delle frittole»
Izzy
si tastò piano le orecchie, lanciando uno sguardo a Frankie
che
ricambiò con un sorriso impacciato.
«L’unico
segno del male che vedo qui è il tuo tono di voce da sirena
da
nebbia»
Li
udì ridere e non riuscì a trattenere una risatina
anche lei.
Nel
frattempo, una signora pomposa vestita con un lungo vestito rosso si
era avvicinata e aveva messo una mano sulla spalla di Joe. Questi si
voltò e fece una faccia allarmata, poi si
allontanò mentre questa
gli indicava qualcosa con i gesti. Poi andò via.
Il
ragazzo alzò gli occhi al cielo mormorando qualcosa che
sembravano
tanto delle maledizioni, poi si rivoltò verso gli altri.
«Posso
offrirvi il punch indiano preparato da mia suocera?» si
avvicinò ad
un tavolo dove c’era un grande contenitore di vetro pieno di
una
strana essenza rosa.
«Con
piacere, grazie. Di cosa sa?» chiese Frankie allegra.
Joe
si voltava e distribuiva i bicchieri.
«Oh»
si fermò a pensare «Hai presente la
candeggina?»
«Sì?»
Vide
Izzy bere.
«Uguale,
con un sofisticato gusto di Tavernello»
Il
rosso spalancò gli occhi e sputò.
TK
si precipitò a togliere il bicchiere dalle mani della sua
ragazza.
«Posalo,
Kari! Ti verrà la gastrite!»
Frankie
si avvicinò ad Izzy aiutandolo a pulirsi, così i
due si
allontanarono. Joe aveva lanciato loro un sorrisino soddisfatto.
Poi
lo vide pensieroso.
«Mia
suocera è una tipa strana. Ha un sacco di pacchetti in
celofan
sparsi per la casa. Suppongo per acchiappare le larve, con quel
giardino immenso se ne vedono a bizzeffe»
I
due più piccoli avevano alzato le sopracciglia ed assunto
una faccia
scettica. Persino Mimi emise un suono sarcastico.
«Una
volta ha cucinato una melma verde e l’ha spacciata per un
timballo
ai carciofi patè» lo vide che guardava un punto
imprecisato della
sala come se si stesse spremendo le meningi
«C’erano
delle strane foglioline come condimento. Non so perché ho
avuto un
attacco isterico di risa e sono svenuto. Devo aver subito un calo di
pressione, d’altronde era la prima volta che mangiavo da lei.
Sarà
stata l’agitazione»
Archiviò
tutto con un’alzata di spalle.
TK
aveva guardato Kari con uno sguardo allusivo. Forse c’era
qualcosa
che esattamente non quadrava.
«Che
lavoro fa tua suocera?»
Lui
rimase ancora lì fermo, rimuginante.
«Boh,
dice Luchia che ha un serra, ma non ho ben capito. A me sembrava di
averla vista a quel programma italiano di merda. Avete
presente?»
Quelli
negarono con la testa.
«Quello
dove vanno degli incapaci suonati e fanno cose stupide spacciandole
per talenti. Chi diamine se ne frega di un troglodita che sa saltare
su un alluce facendo capriole per aria?»
s’infervorò.
TK
annuì con uno sguardo che trapelava scherno ma che appariva
comprensivo.
«Non
serve a niente nella vita»
Joe
si voltò ad indicarlo.
«Appunto!»
gli diede ragione, poi si perse nuovamente a raccontare
«Fatto sta
che non parla se non da sola. Sospetto comunichi con gli dei della
religione politeista a cui crede. Tsk. Merdate!»
commentò
sprezzante.
Il
solito fanatico religioso che disprezzava le altre religioni. Che poi
non si era mai ben capito come mai fosse finito proprio a professare
la fede cattolica, non era affatto un culto contemplato dalle loro
parti.
«Ci
parla perfino in codice al telefono» aggiunse in tono
criptico.
Kari
sorrise falsamente. Joe rimase fermo per un paio di secondi, ancora
pensieroso. C’erano delle cose che non quadravano, in
realtà, ma
non poteva compiere lo stesso peccato di San Tommaso.
Cambiò
discorso.
«Comunque,
sono contento che hai smesso di spacciare» si rivolse a TK
«Non
avrei voluto al mio matrimonio uno perseguibile per legge»
Il
biondino strinse le labbra cercando di trattenere le risate.
«No,
hai ragione» fu la risposta accondiscendente di Kari.
Uno
dei tanti parenti chiamò Mimi e si fermò a
salutarla. Per un paio
di minuti li perse di vista, ma si rivoltò ad origliare non
appena
fu da sola.
«La
vita ha preso delle pieghe inaspettate, amici. Veramente
inaspettate»
sentì dire al corvino.
«Chi
l’avrebbe mai detto che uno dal quoziente intellettivo
superiore
alla media, destinato a diventare uno dei primi assistenti medici
dell’ Agenzia Spaziale Giapponese con uno stipendio netto di
586.825 yen al mese avrebbe dovuto rifiutare l’incarico
perché...»
strinse forte il lungo bicchiere in cristallo
«perché una stronza
subdola e patetica si è fatta mettere incinta con
l’inganno e ha
fatto giurare di sposarla di fronte alla tomba del padre scoperto
appartenere ad uno degli alti ranghi della D-Company»
TK
e Kari strabuzzarono gli occhi. Mimi spalancò la bocca.
Diceva
davvero?
Joe
aveva in volto uno sguardo livido. I suoi occhi scuri erano rossi e
sembravano poter lanciare fiamme. Si voltò verso i due
ragazzi che
lo fissavano ancora sconcertati dalla rivelazione appena fatta.
Le
sue labbra si piegarono in un improvviso sorriso mellifluo.
«Ovviamente
non sto parlando di me! Vi pare che io sia uno che cede ai ricatti
così...» scosse la testa quasi indignato di come
si era potuto
minimamente sfiorare il pensiero. Poi lanciò uno sguardo
intorno in
maniera titubante
«Io
mi sono sposato per amore!» esclamò e
lanciò una risata che apparì
un nitrito isterico e rassegnato.
Poi
bevve dal suo bicchiere in un sorso, facendo una smorfia.
«Il
Tavernello era scaduto da più di due mesi, mi sa»
commentò
tossendo con un occhio chiuso.
Takeru
lo fissava non del tutto convinto.
«E
comunque, un parente spastico di Luchia ha portato del rum centenario
dal Guatemala e dei sigari cubani firmati Montecristo» Joe
cambiò
discorso come se non avesse detto assolutamente nulla
«Mi
sono fatto il segno della croce, saranno stati probabilmente
benedetti sul monte Sinai. Certo, non ricordavo fosse a Cuba... Non
so se fidarmi, però, una volta l’ho visto dividere
lo zucchero a
strisce. Però forse se lo mette tutto nel caffè.
Eccolo, è quello
che sta parlando a Daisuke»
I
due si girarono e videro questi che prendeva qualcosa dalle mani di
uno tizio in sedia a rotelle vestito tutto di bianco.
«Ci
tengo perché è paraplegico, sapete. Dio dice di
aiutare i poveri e
bisognosi»
Kari
aveva guardato TK allarmata, mentre questi si grattava la testa.
«E
dove sono?» si riferì ai sigari e al rum.
«Li
ho dovuti nascondere. Ti pare che li lasciavo in bella vista sul
tavolo dei regali con quei primati di tuo fratello e Taichi? Mi
prendi per un ignorante così!» si agitò.
La
castana gli fece un sorrisino incoraggiante e gli strinse il braccio.
«Stai
tranquillo, Joe. Oggi andrà tutto per il meglio»
Lo
sposo si fermò a pensare. L’ultima volta che
qualcuno aveva detto
una cosa del genere era successo un putiferio madornale. Ma ormai
erano passati due anni, aveva imparato a sotterrare tutto dentro.
Non
poteva esserci qualcosa che sarebbe andato storto, oramai.
Sarebbe
stato un matrimonio tranquillo e godevole.
«Ne
sono sicuro anche io» cinguettò felice, poi li
prese entrambi a
braccetto e parlò con circospezione
«E
comunque non le troveranno, le ho messe proprio sotto la...»
Nel
frattempo, Yamato passò vicino a loro e si voltò
ad ascoltarli.
Aggrottò le sopracciglia e fece una smorfietta divertita ma
di base
scettica.
Poi
fece un cenno ai suoi compagni di band che erano rimasti agli
strumenti e questi annuirono, mettendo una musica casuale per
intrattenere gli invitati fino al suo ritorno.
Erano
stati incaricati di esibirsi per tutta la durata dei festeggiamenti,
e in effetti non era riuscito a mangiare quasi niente, aveva solo
bevuto del vino per caricarsi.
Non
sapeva se il genere che suonavano loro era ben apprezzato dai parenti
di Luchia, sembravano tutte delle persone strane e a tratti con la
puzza sotto il naso. Fatto sta che Joe non aveva perso tempo ad
insistere di fargli da sottospecie di intrattenitore dopo aver
scoperto che il gruppo stava andando alla grande e facevano un bel
po’ di concerti nelle aree metropolitane di tutto il Giappone.
L’attesa
gli aveva portato grandi sorprese e tutto il tempo che aveva
aspettato e penato alla fine non era stato niente in confronto ai
risultati che aveva raggiunto.
Oltre
ad aver trovato un manager che li aveva scovati da un paio di video
rilasciati sul web e che li aveva rivoluzionati, aveva superato un
concorso pubblico acquisendo la cattedra di chitarra elettrica al
conservatorio di Tokyo.
Ad
averlo persuaso e sostenuto c’era stata lei. Non osava
nemmeno
immaginare come si sarebbe ridotto se avesse scelto di intraprendere
un’altra vita.
Si
sistemò il completo scuro e fece un paio di passi.
Doveva
cercarla, aveva bisogno di stare un po’ in sua compagnia dato
che
non aveva potuto rivolgerle delle attenzioni durante tutto il resto
dei celebrativi.
I
parenti di Joe, soprattutto una delle sue zie, non smetteva di
battere su tavoli, piatti e bicchieri urlando di volere una serie di
cover improbabili che non si sarebbero mai sognati di esibire.
Erano
dannatamente inopportuni e pedanti. Capiva da che ramo della famiglia
discendeva Joe.
Fece
un altro paio di passi e si scontrò con qualcuno che andava
nella
direzione opposta.
«Oh!»
«Che-»
Mimi
alzò gli occhi e lo fissò bieca. Lui, a sua
volta, non mancò di
lanciarle uno sguardo stizzito.
Di
solito non concludevano mai un discorso senza battibeccare, loro due.
Lui non piaceva a lei perché era troppo musone, lei non
piaceva a
lui perché era troppo invasiva.
Fecero
per andare ognuno in una direzione, ma scelsero la stessa un paio di
volte ritrovandosi sempre uno di fronte all’altro.
Matt
grugnì, mentre Mimi sbuffò infastidita.
«Levati
dai piedi!» esclamò.
«Levati
tu dai piedi!» rispose l’altro, e presero a
spingersi.
Lui
riuscì a bloccarla.
«Hai
visto Sora?» le chiese poi.
«No,
sto andando a cercarla» fu la risposta di lei.
«Anche
io» disse Matt tra i denti.
I
due si guardarono con sfida.
«Ci
vado io. Sarà in bagno, non sei autorizzato ad
entrare!» esclamò
Mimi, incrociando le braccia.
Il
biondo la fissò con un sorriso di scherno.
«Perché?
Pensi che mi scandalizzerei?»
La
castana alzò le sopracciglia, squadrandolo critica. Sembrava
un
tronco di legno, ecco cosa.
«Tu
no, da bravo ameba, ma le altre invitate sì» lo
rimbeccò.
Matt
cominciò ad infastidirsi. Se voleva essere fastidiosa come
una
zanzara ci stava riuscendo.
«Te
lo dicono mai abbastanza di essere antipatica?»
grugnì.
Mimi
fece finta di pensarci.
«No,
veramente tu sei il primo. Ma te ne intendi solo di musica»
gli
sorrise falsamente.
Matt
si avventò a stringerle le braccia e tentare nuovamente di
cacciarla.
«Spostati!»
Lei
opponeva resistenza, spingendolo.
«Non
puoi lasciare vuoto il pianobar! Ci vado io, ho detto!»
Lottarono
ancora. Mimi alzò una gamba pronta a colpirlo con i suoi
tacchi a
spillo. Matt la schivò, e fece per darle dei colpetti, ma
lei si era
messa in posizione di combattimento e glieli parava tutti.
«Vattene,
tundra!» lo apostrofò, mentre gli dava uno
spintone dritto al
petto.
Matt
si sentì toccato dall’appellativo cui era solita
prenderlo in giro
anni prima.
«Ancora?!»
le chiese stizzito.
Provò
a metterle una mano tra i capelli per spettinarglieli, ma fu lei che
scompigliò i suoi.
Si
mise a ridere vedendo la sua faccia basita e lui che si premurava a
sistemarli.
Poi
qualcuno dei suoi compagni di band lo chiamò. Dovevano
sicuramente
ritornare ad esibirsi con la seconda parte dei pezzi
dell’album.
Matt
sospirò e Mimi gli lanciò un ghigno sardonico.
«Che
peccato, devi andare!» disse sarcasticamente, poi si
avvicinò
dicendo da dietro una mano:
«Non
dirlo a nessuno che hai perso»
Alluse
al fatto che non era riuscito a sorpassarla, e voltò i
tacchi
andandosene via con il sorriso stampato in volto, che il biondo fece
di rimando mentre la guardava andare via, scuotendo la testa.
Non
era vero che si detestavano, avevano imparato a volersi bene davvero.
Ma
era estremamente importante che l’altro ne restasse
all’oscuro.
Da
fuori le voci si sentivano ovattate, era tutto un brusio di gente che
chiacchierava, qualcuno rideva, qualcun altro urlava cose che non
riusciva a captare.
Provvide
a sistemarsi il vestitino nero che le arrivava a metà
coscia, delle
frange le ricadevano all’estremità e si aprivano
anche dalle
spalline ricoperte di perline bianche che le adornavano perfino la
vita creando un gioco di luci. Lo scollo era a V ed era profondo, si
apriva fino alla parte bassa del seno.
Sora
sospirò ed attese.
Forse
avrebbe dovuto dirlo a qualcuno, ma non ci era riuscita. Aveva un
po’
di paura a farsi vedere in un momento del genere, era come se
qualcosa dentro di sé le suggerisse di scoprirlo da sola.
Quanto
tempo era passato? Le sembrava un’eternità.
Controllò il
cellulare. Erano passati solo due minuti.
Tentò
di respirare. Chiuse gli occhi e pensò a qualcosa.
Pensò
al suo lavoro, a quanto era soddisfatta di quello che stava facendo.
Lavorava in un centro di psicologia clinica e riabilitativa a Tokyo.
L’avevano assunta dopo aver fatto del tirocinio per un
po’ di
tempo ed amava quello che faceva, la faceva sentire utile, stare a
contatto con tutta quelle gente la rendeva consapevole come era
estremamente importante non sottovalutare i problemi delle persone.
Era
stata anche lei a seguire Frankie nell’ultimo periodo
riabilitativo.
Guardò
di nuovo il telefono. Era ora di guardare.
Lo
fece. Poi alzò lo sguardo, indecifrabile.
Sentì
improvvisamente un rumore di tacchi fare capolino dalla porta
principale, e subito la voce di Mimi la ridestò dai suoi
pensieri.
«Sora,
sei qui?» la udì chiedere.
Il
cuore cominciò a batterle forte. Sentì dei colpi
alla porta della
sua cabina.
«Ehi,
Sora!» esclamò dato che non le aveva risposto.
Lei
sussultò per il rumore.
«S-sì?»
balbettò.
Mimi
sospirò di sollievo per averla trovata ed
incrociò le braccia.
«Ah,
meno male! Cominciavo a credere che qualcuno della famiglia di Luchia
ti avesse venduta al contrabbando!» scherzò.
Sora
non disse nulla, limitandosi a fissare un punto sul muro di
piastrelle lucide che riflettevano la sua immagine distorta.
Mimi
alzò un sopracciglio.
«Allora,
pensi di stare per molto là dentro?» la
incitò, seccatamente.
La
ramata sospirò.
«No,
adesso esco» soffiò, e con uno scatto ripose tutto
dentro la
borsetta.
Non
appena fece scattare la serratura le due amiche si guardarono. Mimi
la fissò a lungo, cercando di analizzare se stesse bene.
Aveva in
faccia qualcosa di diverso.
«E’
tutto apposto?» le chiese, un tantino preoccupata.
Sora
annuì automaticamente, ma si sentiva stordita. Mimi allora
l’afferrò
da un braccio e fece per trascinarla via, fuori dal bagno.
«Bene,
allora rientriamo in sala. Il tuo fidanzato cominciava ad avere le
paranoie, sai»
Non
appena venne fatto riferimento a Matt, la ragazza sentì il
cuore
salirle in gola.
«Diventa
sempre più suscettibile quando deve suonare. Forse ha
l’ansia da
prestazione. Spero non a letto» La castana fece una faccia
maliziosamente allusiva e si mise a ridere.
Quelle
risate rimbombavano in testa alla ramata come potessero
martellargliela. Non riuscì nemmeno ad ascoltare quello che
le aveva
detto dopo, tanto si fermò impulsivamente e fece resistenza
al
braccio.
Mimi
se ne accorse e si voltò interrogativa.
«Che
c’è?» le chiese spiccia.
Quella
la guardò negli occhi con uno sguardo lucido e serio.
«Devo
dirti una cosa» mormorò.
Mimi
alzò gli occhi al cielo, sospirando. Mai una volta che la
gente non
avesse da dire qualcosa, insomma, non potevano essere tutti meno
logorroici?
E
poi lo dicevano a lei...
«Non
potresti dirmela dopo? Tra poco Luchia lancerà il
bouquet» disse in
tono infantile, svelando anche il motivo dietro quella premura di
cercarla.
Voleva
essere tra le file delle invitate. Non sapeva perché, ci
teneva a
compiere quelle tradizioni, lo aveva sempre fatto ai matrimoni da
piccola. Una volta ne aveva perfino acchiappato uno, solo che aveva
dieci anni. Certo, poi aveva incontrato Tai a Digiworld, ma...
Sora
la destò dai suoi pensieri.
«Mimi...»
mormorò e le mostrò qualcosa.
L’amica
abbassò piano la testa con il broncio e guardò.
Subito la sua
espressione stufata si spense e alzò gli occhi castani su
quelli
nocciola dell’altra.
Beveva
un bicchiere di vino e guardava Matt e gli altri della band esibirsi.
Quella
musica era davvero forte, non aveva niente a che vedere con i pezzi
che erano soliti suonare anni fa. Si vedeva che avevano fatto un
salto di qualità incredibile ed era davvero contento per il
suo
migliore amico. Lo osservò cantare con un sorriso e bevve un
sorso.
Afferrò
il cellulare e lesse un messaggio.
Qualcuno
gli scriveva se era andato tutto bene e di fare gli auguri a Joe.
Fece
un sorrisino e rispose.
D’un
tratto arrivò Mimi e lui fece appena in tempo a posare il
telefono
nella tasca del suo completo blu. Si voltò con un sorrisino
allarmato, ma lei non ci fece caso, per fortuna, e si
avventò al suo
orecchio per dirgli qualcosa. Subito lui si voltò in
direzione di
Matt che aveva appena terminato il pezzo e tutti gli battevano le
mani. Non riuscì a smettere di fissarlo fino a quando non lo
vide
che veniva in sua direzione e spostò lo sguardo.
Il
biondo si avvicinò e Tai si accinse a cambiare subito
espressione.
«Complimenti,
testina. Siete una bomba!» esclamò dandogli una
pacca sulla spalla.
Matt
diede un sospiro, gli prese il bicchiere dalle mani e si
scolò il
vino.
«Sì,
guarda che gente che c’è. Non posso mettermi a
suonare il
rock-metal, questi preferiscono la musica hindi»
commentò lanciando
sguardi di traverso agli invitati.
Tai
fece lo stesso e notò che tanti altri sembravano avere etnie
diverse
dalla famiglia indiana da cui proveniva Luchia.
Scrollò
le spalle.
«Suonagli
un pezzo della Bollywood dance» scherzò.
Matt
spalancò gli occhi.
«Espatrio!»
commentò rabbrividendo e si misero a ridere.
Il
castano alzò gli occhi e la sua vista fu catturata dalla
figura di
Sora che raggiungeva uno dei balconi. Strinse gli occhi e
posò un
braccio intorno alle spalle di Matt.
«Comunque,
se vuoi riposarti approfittane adesso. Ho la sensazione che
più
tardi ci sarà il casino» gli lanciò
un’occhiata complice e i due
ghignarono nello stesso momento.
«Era
quello che stavo cercando di fare prima che la tua ragazza mi
mettesse il bastone tra le ruote» sputò con
risentimento, ma
sorrideva.
Tai
scosse la testa divertito e poi gli indicò una direzione.
«Sembra
abbia trovato Sora, però»
Matt
si voltò a guardarla e s’illuminò, poi
tornò a fissare il suo
migliore amico metabolizzando le parole che aveva appena detto.
Aveva
ragione, l’aveva trovata. Doveva andare da lei.
Tai
gli diede una pacca e lo vide che si allontanava, disperdendosi tra
gli altri invitati. Continuò a guardare il punto in cui Sora
si
trovava intenta a guardare fuori. Non era uscita sul balcone, era
semplicemente in piedi, ritta a guardare il paesaggio.
Come
se si fosse sentita osservata, questa si voltò e i loro
occhi
s’incrociarono. Tai piegò le labbra in un sorriso
guardandola con
affetto. Non seppe perché, ma sentì gli occhi
lucidi.
O
forse sì, lo sapeva bene perché.
Sora
ricambiò quel lungo sguardo e non riuscì a fare a
meno di sorridere
anche lei.
Forse
lo davano per scontato a volte, ma gli occhi riuscivano a comunicare
il bene che si voleva ad una persona in maniera più forte
delle
parole.
Matt
arrivò silenziosamente e la cinse da dietro con le braccia,
distogliendola improvvisamente. Lei riconobbe subito la stretta del
biondo e si morse piano il labbro.
«Finalmente
sei qui» sospirò lui in tono liberatorio, mentre
la stringeva e
affondava la testa sui suoi capelli socchiudendo gli occhi.
Sora
sorrise amorevolmente.
«Ero
in bagno, scusa» disse, accarezzandogli con le dita una mano.
Lui
le scostò i capelli mossi da un lato e si accinse a dargli
dei
leggeri baci sul collo.
«Ho
bisogno del tuo sguardo di supporto, lo sai»
lamentò.
Prima
dei concerti era d’obbligo ricevere le sue parole di
incoraggiamento, e spesso, quando cantava, si ritrovava a voltare lo
sguardo alla ricerca del volto gentile di lei per sentirsi sicuro.
Sora
lo guardava sempre in un modo che gli dava carica. La sua espressione
non era mai cinica, né tantomeno si prendeva gioco di lui.
Quando
per lei qualcosa non andava bene glielo diceva con calma e lo faceva
sempre ragionare.
«Ma
state andando benissimo! Te lo avranno detto tutti!»
esclamò
spegnendo subito quell’insicurezza.
Lui
si fermò dal baciarla.
«Sì,
ma a me importa solo di quello che dici tu» ammise e
continuò a
risalire con le labbra sul suo collo.
Sora
sospirò e guardò al di là del balcone,
puntando lo sguardo sul
largo giardino.
Ripensò
d’un tratto a quello che avevano dovuto passare quasi due
anni e
mezzo prima, quando tutto stava per andare a rotoli. Matt aveva
dovuto faticare tanto per aprirsi e per riprendersi completamente.
C’erano stati dei momenti in cui avevano creduto di non
poterci
riuscire. Lui aveva avuto timore di non essere più
abbastanza, ci
pensava e ripensava, ogni tanto tendeva ad isolarsi. Ma avevano
parlato, da quel giorno in poi. Seppur con le difficoltà,
non
avevano mai più smesso di confidarsi a cuore aperto e quello
li
aveva salvati e li aveva portati dove erano adesso, integri e
innamorati.
«Matt...»
sospirò lei, chiamandolo piano.
Il
biondo era a sua volta pensieroso, il mento sopra la sua testa.
«Mh?»
Sora
decise di dirglielo. Non c’era alcun motivo
affinché aspettasse,
lo doveva sapere.
«Prima
ero in bagno per un motivo» ammise.
Lui
sorrise tra i suoi capelli.
«Un
motivo fisiologico?» la prese in giro.
Ridacchiarono
entrambi, poi Sora si bloccò d’un tratto e i suoi
occhi
luccicarono, ma si dispersero nel vuoto.
«Più
o meno, sì. Ecco, pensavo al fatto se potesse cambiare
qualcosa tra
di noi» disse in un modo un tantino criptico che mise
sull’attenti
Matt.
Che
era successo? Perché gli diceva quelle cose?
«Cosa
dovrebbe cambiare?» chiese, irrigidendosi un poco.
Non
avrebbe voluto cambiare niente della vita che stava conducendo
adesso. Ci aveva messo così’ tanto per costruire
qualcosa di
solido ed era soddisfatto, finalmente. Specie la storia con lei
andava a gonfie vele, avevano ricostruito tutto ciò che
entrambi
avevano distrutto ripartendo da zero.
«Non
lo so, forse la percezione. Magari è ancora troppo
presto» continuò
a parlare in quel modo enigmatico e riflessivo.
Non
capiva cosa volesse dire con l’essere ancora troppo presto.
«Stiamo
insieme da più di dieci anni. Dovremmo essere in
ritardo» lo disse
in tono forse un tantino brusco.
Non
voleva risponderle male, ma aveva timore che potesse uscirsene con
qualcosa che non andava, non capiva dove volesse andare a parare.
Sora
alzò lo sguardo verso di lui, quasi come a cogliere la palla
al
balzo.
«Ecco,
appunto... Ce l’ho» disse.
Il
biondo era sempre più confuso.
«Che
cosa?»
Sora
sospirò profondamente. Non doveva più usare giri
di parole, doveva
essere diretta. Anche perché sentiva il cuore in gola per
l’emozione.
«Sono
incinta» gli confessò in un sussurro.
Il
silenzio che ne proseguì fece in modo che trattenesse il
fiato
sospeso.
Matt
aveva spalancato gli occhi e poi aggrottato le sopracciglia con
espressione stupefatta, ma non aveva ancora detto nulla.
Sora
chiuse gli occhi e aspettò che assimilasse la notizia, e con
lui
anche lei. Dicendolo ad alta voce la rendeva consapevole che fosse
vero.
D’un
tratto, lui la prese dalle braccia e la fece voltare verso di lui.
«Stai
scherzando?» gli chiese.
Lei
sorrise.
«In
effetti è primo aprile, ma no»
L’espressione
di Matt era a metà tra lo sconvolto e
l’emozionato. Non sapeva
come reagire, piano piano la sua testa cominciava ad assimilare
completamente la veridicità di quella notizia.
Sora
capì che non riusciva a crederci, così
tentò di aiutarlo aprendo
la sua borsetta.
«Guarda,
ho fatto il test poco fa. Mi dice anche da quanto» fece
vedere lo
stick avvolto nella carta da cui si riusciva ad intravedere la
piccola scritta che indicava quando era avvenuto il concepimento.
Tre
settimane prima.
Sora
era incinta esattamente da tre settimane.
«Non
ci posso credere...» biascicò il ragazzo alzando
lo sguardo su di
lei.
Si
sentiva morire.
«Sei...
felice?» gli chiese la ramata, mordendosi il labbro.
Aveva
paura che essendo del tutto inaspettato e fuori dal programma poteva
non renderli felici davvero. Diventare genitori così giovani
non
sarebbe stata una passeggiata. Aveva timore che poteva cambiarli, non
dare loro modo di godersi la vita realmente.
Ma
Matt distrusse quei pensieri negativi.
«Felice?»
chiese retorico e lei aveva aggrottato appena le sopracciglia.
Non
fece in tempo a formulare un pensiero che la risposta del ragazzo
arrivò, la prese e la baciò appassionatamente,
stringendola forte.
«Ti
amo da morire» le sussurrò gemendo con la testa
nell’incavo del
suo collo.
Sora
chiuse gli occhi e sentì le lacrime di gioia che la
pervadevano.
«Anche
io. Ti amo tanto» si aggrappò con le braccia alla
sua schiena e lo
strinse a sua volta.
Lui
le afferrò il volto e la baciò di nuovo.
Si
chiese come aveva fatto anche solo per un momento a chiedersi se
sarebbero stati davvero felici.
Si
erano distratti solo un attimo quando d’un tratto Sen si era
voltato e aveva notato una signora anziana che si avvicinava di
soppiatto in direzione del mixer.
Spalancò
gli occhi e si alzò da dov’era seduto rischiando
di travasare
tutto il drink sulla giacca.
«Ehi,
la vecchia sta toccando!» esclamò allarmato.
L’anziana
signora non dava cenni di aver udito, anzi ininterrotta armeggiava
con fili fino a staccare quello principale che spense la musica.
Yakamochi
la indicò.
«Qualcuno
la fermi!» chiese, ma nessuno dei parenti strambi della sposa
sembrava curarsene.
Avevano
tutti degli sguardi inquisitori e alteri.
L’altro
compagno di band tentò di avvicinarsi ma la vecchia si
voltò di
scatto puntandogli contro un bastone e facendolo indietreggiare con
le mani aperte in segno di resa.
I
due rimasero in quel modo mentre l’anziana li guardava di
sottecchi
e si chinava di nuovo a trafficare con le manopole e i fili del
microfono, inserendo a caso dei suoni amplificati per poi provocare
un forte effetto larsen a causa del quale furono tutti costretti a
tapparsi le orecchie.
Joe
corse subito a sistemare la situazione.
«Aspetta,
nonna, potresti prendere la corrente!» esclamò,
afferrandola dalle
braccia e cercando di allontanarla piano dalla postazione
«Lascia
che muoiano fulminati questi truzzi della dark polo gang!» li
apostrofò.
La
vecchia si fermò e si scostò dalla presa del
corvino, mettendosi
subito ad eseguire gesti arrabbiati con le mani e le braccia.
Alzò
il bastone e colpì Joe negli stinchi.
Quello
emise un urletto poco virile.
«Che
cosa cerchi di dirmi?!» sbottò esasperato
«Ho un pezzo di lattuga
tra i denti?» parlò con la bocca aperta toccandosi
un molare
«Ho
la cravatta messa male?» prese in mano i lembi della cravatta
lasciata aperta penzolante dai due lati
«Ho
i capelli rasati da un lato? Cosa?!»
La
nonnina lo guardava con le braccia incrociate come se fosse un matto
da legare.
Subito
Luchia si alzò dal tavolo degli sposi con uno sbuffo
irritato e
cominciò a camminare elegantemente verso suo marito.
«Jyou!»
lo ammonì, e quello si voltò a guardarla
stralunato.
Il
vestito da sposa lungo, davvero lungo, e aveva una scollatura
profondissima che tagliava il busto a metà e tratteneva il
seno con
delle coppe arcuate. L’abito aveva delle rifiniture ad onde
di un
tessuto che si sovrapponeva a quello della gonna e che partiva dalla
fine della scollatura e andava ad allargarsi sui fianchi. I capelli
erano pettinati in una strana e bombata acconciatura, si era tagliata
la frangetta e aveva degli orecchini ed una collana ricchi in
diamanti davvero appariscenti.
Joe
non riuscì a fare a meno di posare lo sguardo sulla sua
pancia
rotonda. Aveva mantenuto una forma fisica perfetta, nonostante tutto,
era sempre alta e slanciata e nemmeno sembrava incinta, a vederla
bene.
Forse
non lo era davvero, era solo una pancera e lo aveva preso in giro per
tutto quel tempo, o magari la pancia era scarsa perché era
di... Di
quanto era incinta? Cinque mesi? No, forse sei..
Aveva
in mano una sigaretta racchiusa in un bocchino che faceva tanto anni
Trenta e la esibiva tra le dita come fosse un trofeo.
«Daadee
ma vuole che venga messo il ballo tradizionale per il lancio del
bouquet!» lo rimproverò.
Suo
marito alzò gli occhi al cielo.
«E
non sa parlare daddala?» storpiò il nome
«Che ne sapevo io,
credevo volesse rubare la chitarra a Matt!» spiegò
indicando la
chitarra elettrica del biondo lasciata incustodita.
Poi
si rivolse agli altri due musicisti, mentre lei attendeva lì
in
piedi impaziente battendo un piede con i tacchi a spillo.
«Mettete
la musica tradizionale che dice mia moglie» ordinò
a bassa voce e
fece per andarsene.
Sen
si bloccò mentre sistemava il basso.
«Joe,
noi non abbiamo la minima idea di come suonarla!» si
lamentò
preoccupato.
Quello
emise un grugnito stizzito e si rivoltò.
«Mettetela
da youtube, santo cielo! Avrei dovuto chiamare una band più
capace!»
sbraitò.
I
due ragazzi si guardarono allarmati e andarono subito al computer a
cercare qualcosa.
Il
corvino sorrise a tutti i parenti di Luchia che lo fissavano sbieco,
soprattutto sua nonna. Si allontanò tentando di risultare
convincente su quello che stava facendo, ma doveva andare a cercare
il frontman di quella band del cavolo, cioè Yamato, e
trascinarlo di
forza a salvargli il sedere con un’improvvisazione.
Il
fatto era che non si vedeva in giro.
Allungò
il passo quasi scivolando su qualcosa di bagnato per terra e
improvvisamente qualcuno gli diede uno sberletto
sull’orecchio.
Era
suo fratello Shin. Lo odiava.
«Ehi,
Joe! Simpatica tua suocera!» esclamò indicando con
la testa la
donna che aveva ancora l’aria circospetta e indossava un velo
che
nascondeva metà viso.
«Mi
ha offerto del punch fatto in casa»
Lui
non gli diede nemmeno ascolto.
«Sì,
sì» fece un cenno con la mano per liquidarlo.
Che
si affogasse con quel punch schifoso!
Shin
lo trattenne ancora.
«Mi
ha anche detto che sono affascinante!» si vantò.
Joe
fece un’espressione adirata ma tentò di mantenere
la calma.
«Non
mette le lentine giuste» si limito a dire e cambiò
direzione
affinché si levasse davanti e non gli intralciasse la
strada. Aveva
intravisto i capelli biondo paglia di Matt e doveva trascinarlo al
pianobar.
Shin,
però, gli si parò di nuovo davanti.
«Ora
che ti sei sposato e stai per diventare padre posso dirti che ho
sempre creduto in te?» gli rivelò in tono serio e
mellifluo, mentre
lo stringeva da un braccio.
Joe
alzò gli occhi a guardarlo basito.
«Davvero?»
mormorò sentendo i lucciconi agli occhi.
Shin
gli sorrise e gli posò una mano sulla spalla.
Non
poteva crederci che stava succedendo, suo fratello gli aveva appena
fatto un complimento, questo voleva dire che in fondo teneva a lui...
Lo
sapeva, era sempre stato troppo avventato a criticarlo e a pensare
che era uno sporco sfruttatore razzista. Shin aveva un cuore, mentre
lui, Joe, aveva sempre cercato di distruggerglielo.
«No,
ovviamente. Era solo per farti fermare» rise e gli
tirò un pacca
potente sulla spalla che lo fece barcollare.
Joe
si guardò intorno e si rese conto di essere proprio al
centro della
sala, mentre tutti gli altri invitati si erano spostati e sistemati
ai lati formando un cerchio.
Assunse
una faccia inorridita.
«Che
diamine sta succedendo, per i Dieci Comandamenti!?» chiese
impaurito.
Alcuni
parenti russi di Luchia avevano delle facce che sembrava volessero
ammazzarlo. Che poi non capiva, quanti aprenti aveva nel mondo quella
lì?
Indiana
ma con una madre mezzo italiana, una serie di parenti mischiati tra
etnie indiane, russe, belga e cubane. Non ci capiva una mazza, dove
diamine era capitato?
Sua
suocera si avvicinò e gli mise addosso un specie di turbante
rosso
ornato di fiori e uno scialle. Si guardò inorridito, mentre
si
voltava e vedeva Luchia indossare un Mangtikka sulla fronte e un velo
rosso che le arrivava fino ai piedi.
«Ma
io... Io non posso!» esclamò intimorito, mentre
qualcuno gli alzava
le braccia e lo vestiva di altri fronzoli «State facendo un
errore,
non sono io a dover ballare!»
Luchia
si voltò a fulminarlo con lo sguardo da sotto il velo.
Sembrava
un’odalisca assassina. Gli avrebbe fatto tagliare la testa
come
Salomè e lui avrebbe fatto la fine di Giovanni il Battista,
lo
sentiva...
Si
fece il segno della croce di corsa.
«Gli
sposi devono aprire le danze e gli altri commensali tengono il
passo»
gli spiegò come se fosse ovvio.
Poi
aprì le braccia e un paio di sue cugine si adoperarono per
infilarle
degli anelli e dei bracciali.
«Non
lo hai mai studiato questo?» lo guardò poi,
arcigna.
Joe
alzò lo sguardo e vide uno che lo spazzolava con uno
spolverino da
barba facendogli entrare le setole dentro al naso. Un altro dei
parenti russi si avvicinava e gli metteva in bocca una bottiglia di
whiskey facendoglielo scendere giù forzatamente.
Tossì sentendosi
affogare.
Altri
due tizi gli toglievano le scarpe e gliene rifilavano un paio
appuntite a barca. Le guardò inorridito, poi uno degli zii
vichinghi
gli lanciò uno scappellotto e lo spinse di nuovo al centro
della
sala.
«Forse
nel libro di anatomia 3 avevo letto qualcosa, sai...»
riferì
sarcastico, mentre lei gli lanciava un semplice e breve sguardo
sprezzante.
«Parlo
del corso pre-matrimoniale che abbiamo fatto»
spiegò come se fosse
un bambino poco sveglio.
Joe
imprecò tra i denti.
«Lo
so che nei tuoi studi terapeutici non viene fatto accenno
all’arte
della sacra danza indiana» si beffò di lui mentre
si metteva in
posizione con le braccia al cielo.
Il
corvino strabuzzò gli occhi.
Stava
scherzando quella vacca, non era così?
Si
prendeva giuoco del suo mestiere, uno tra i più prestigiosi
e utili
al mondo, quando lei metteva i piedi uno dietro l’altro,
ondeggiava
con le braccia come un polpo e sapeva cucinare solo pollo al curry.
«Terapeutici?»
ripeté schifato, mentre fissava un punto imprecisato,
sconvolto da
quell’affermazione.
Ma
aveva idea in cosa consisteva l’arte medica? Credeva fosse
tutta
salti e movimenti volgari di bacino come faceva lei in quella scuola
di danza per esibizionisti?
Chi
glielo aveva fatto fare quel giorno di dieci anni prima a chiamarla
per intrattenerli con le sue danze? Era una stupida grigliata
organizzata a quella papera di Mimi, che non solo gli aveva fregato
la barca ma non lo aveva neanche ringraziato, che bisogno aveva di
chiamare una danzatrice del ventre indiana?
Potevano
giocare a tappo per intrattenersi da soli.
Quel
giorno si era incasinato la vita, e non solo perché si era
innamorato ignorantemente di lei, ma perché adesso quella
voleva
prendere il comando della sua persona.
Di
lui, di Jyou Kido.
«Perché
non ho adottato anche io un cane invece di imprenare questa figlia
dei bislacchi...» mormorò tra i denti, gettando
uno sguardo
invidioso e pieno di rimpianto verso il dobermann di TK e Kari.
Luchia
lo incenerì con gli occhi scuri.
«Cosa
hai detto?» sibilò minacciosa a denti stretti.
Lui
sussultò, poi deglutì, spaventato.
E
menava duro, tra l’altro. Meglio non farla adirare. Non
perché si
spaventasse, che fosse chiaro... solo, era per dimostrare
maturità.
«Che
ho voglia di ballare questa musica da matti!»
esclamò, esibendo un
sorriso a trenta denti.
La
donna alzò un sopracciglio, scettica.
«Bene,
allora seguimi» e schioccò le dita
affinché partisse la musica.
Cominciò
a muoversi in una strana danza fatta da saltelli e battiti di mano.
Joe era in evidente difficoltà, e non riusciva ad emulare un
passo
decente, solo zompava da un piede all’altro come se fosse
stato
morso da una tarantola, non beccava il tempo e rischiò pure
di fare
un ruzzolone.
Qualcuno
rise, alcuni dei parenti scellerati di sua moglie. Grugnì,
arrabbiato.
Doveva
essere deriso da un gruppo di sciocchi pellerossa oltraggiosi! Lui,
uno dei medici migliori di Tokyo!
Voleva
farli fuori tutti, pensò mentre eseguiva dei movimenti
circolari con
le mani come se stesse svitando una lampadina.
Sua
madre e suo padre lo fissavano con dei sorrisini preoccupati. Shin
rideva come una iena opportunista e carogna, qual era. Lì
accanto,
però, notò qualcuno che attirò la sua
attenzione. Sua suocera si
era tolta il velo che le copriva metà volto e aveva scostato
i
lunghi capelli castani, lanciandogli uno sguardo e una risata che gli
fece venire i brividi.
Aveva
già visto quella faccia, aveva capito chi era,
l’aveva
riconosciuta, finalmente!
Era
lei, dannazione, era lei!
«Adesso
ricordo chi è! Sabrina Ferilli!» la
indicò sembrando un ossesso,
mentre alcuni si voltavano a guardare il punto da lui indicato.
La
donna lo udì, si rimise il velo e si infiltrò tra
la folla.
Joe
allungò una mano.
«Sabrina!»
urlò.
Ma
proprio in quel momento tutta la gente si riversò a ballare
e gli
coprirono la visuale. Sua suocera era scomparsa e lui guardava ancora
con occhi sgranati il punto in cui si trovava prima.
Qualcuno
lo strattono da un braccio e lui si voltò pronto a sbottare.
«Forza,
bello di zia, è come fare zumba!»
Era
sua zia Janna che batteva le mani e saltava come un elefante
accalorato. Fece una smorfia inorridita, ma non riuscì a
sgattaiolare via da quella calca perché questa lo aveva
trascinato a
ballare con lei.
«’Nnaggia,
oh» imprecò tra i denti, mentre batteva le mani
con un sorriso
finto.
Tutte
a lui capitavano! Però meglio reagire con filosofia, proprio
come
stava facendo.. Ci teneva alla buona riuscita delle cose, e non amava
fare figure troppo umilianti. Perciò, nonostante si sentisse
uno
stupido dentro, doveva adeguarsi a tutto e continuare a fingere di
starsi divertendo da matti ad un matrimonio multietnico imposto,
sfoggiando proprio quel luminoso sorriso che avrebbe fatto invidia
perfino ad un cielo stellato.
Tai
ne approfittò di quella confusione per sgattaiolare via
dalla
mischia. Il cellulare gli vibrò nuovamente e diede una
veloce
occhiata al messaggio che ne susseguì. Fece un sorriso e lo
ripose
di nuovo in tasca, poi si disperse senza farsi notare.
Sora
e Matt, nel frattempo, camminavano tenendosi mano nella mano. Il
biondo si era chinato per darle un bacio a fior di labbra e la
ragazza aveva sorriso, felice.
D’un
tratto si resero conto di quello che stava succedendo intorno a loro
e si avvicinarono alla calca di gente che ballava e si dimenava nel
bel mezzo della sala.
Matt
si stranì.
«Ma
chi è che sta suonando? Non mi dirai che sono...»
Lanciarono
entrambi uno sguardo verso la postazione del pianobar e videro Sen,
Masaru e Yakamochi che si impegnavano a suonare con alcuni parenti di
Luchia.
La
musica hindi era stata sostituita da delle canzoni russe suonate da
una sorta di balalaika cui un signore barbuto era intento a
schitarrare.
Nel
centro Luchia e Joe saltellavano e si muovevano a ritmo della
Kalinka.
Sora
scoppiò a ridere fino a sentire le lacrime agli occhi. Il
cagnolino
di TK e Kari saltò giù dalle braccia di questa e
prese a
gironzolare intorno allo sposo cercando di mordergli i pantaloni.
Il
corvino tentò di scrollarselo di dosso.
«Kalinkakalinkaa-Pussa
via, sciò, mi stai facendo sbagliare!»
esclamò, pestando i piedi
per spaventarlo.
TK
era subito corso a recuperarlo.
Matt
fece un’espressione buffa aggrottando le sopracciglia e
guardò la
ramata, basito. Lei lo tirò per un braccio.
«Dai,
andiamo anche noi!» lo esortò, divertita.
Lui,
però, intravide Luchia che andava a recuperare il suo mazzo
di fiori
e oppose resistenza.
«No,
aspetta!» esclamò.
La
ramata lo guardò sospettosa. Allora lui la strinse da dietro
con le
braccia e fece in modo che si posizionassero in un punto tra le
persone da dove potevano aver ben chiara la visuale.
«Aspetta»
ripeté in un sussurro al suo orecchio, suonando convincente.
Sora
allora guardò avanti aspettandosi qualcosa.
Mimi
si muoveva a ritmo saltellando da un piede all’altro, poi
faceva
delle giravolte veloci attaccandosi al braccio di Yolei che era
euforica e riprendeva tutto con un cellulare sorretto da un lungo
bastone che registrava ampiamente a 180 gradi.
Non
riusciva quasi più a respirare. I balli erano cambiati
repentinamente da una canzone tradizionale all’altra, e tutte
erano
movimentate e prevedevano saltelli.
La
ragazza con i capelli viola urlava e si dimenava, e lei fece lo
stesso sentendo in testa la pesantezza del vino rosso. Mosse di qua e
là i capelli castani per l’occasione acconciati in
delle onde
perfette, e si spettinò tutta, poi scoppiò a
ridere, mentre Yolei
urlava cose come un’ossessa continuando a girare il video.
La
ragazza sentì la testa girare e dovette fermarsi un attimo,
alzandosi i capelli per aria e sventolandosi con le mani.
Ma
dov’era Tai? Lo aveva perso di vista, eppure gli era sembrato
di
averlo visto andare via poco fa in maniera furtiva... Che non le
stesse nascondendo qualcosa?
Prese
a ridere sguaiatamente quando Yolei urlò parole russe
inesistenti,
fino a quando le luci in sala non si abbassarono.
Si
guardò intorno spaesata.
Gli
invitati smisero di ballare e Luchia si erse da sopra un piedistallo.
Si era tolta via gli altri costumi tradizionali e manteneva il
semplice abito bianco.
Esibì
il grande bouquet.
«Mettetevi
in linea orizzontale, donne! Se c’è qualche uomo
che avanzi pure»
esclamò e suo marito la prese in parola mettendosi in prima
fila.
«Non
tu, stoccafisso!» lo riprese e Joe imprecò tra i
denti,
andandosene.
Mimi
si sentì spinta in avanti da una pila di ragazze che si
accalcavano
per accaparrarsi il posto migliore.
Subito
spalancò gli occhi e si rese conto di quello che sarebbe
successo.
La sposa avrebbe lanciato il suo bouquet. Non seppe come mai ma
sentì
il cuore batterle forte.
Forse
era ubriaca, o il lancio del mazzo le procurava sempre una forte che
emozione. Non sapeva nemmeno il perché; era ridicolo,
d’altronde.
«Arriva
il lancio! Uno, due, e...»
Mimi
si aspettò che dicesse tre, ma Luchia non parlò
oltre. Si fermò,
scese dal piedistallo e si voltò a guardarla. Stava
guardando
proprio lei, ne era sicura.
Le
si avvicinò e le diede il mazzo di fiori in mano, poi si
allontanò
con un sorriso enigmatico.
Perché
lo aveva fatto? Non ci stava capendo più niente... Le luci
erano
soffuse, la musica suonava una melodia lenta e dolce, e tutti gli
invitati si erano spostati da un lato. Si guardò intorno e,
stupita,
si rese conto di essere rimasta da sola al centro della sala.
Faceva
parte del ballo? Forse doveva dare il mazzo ad un’altra
invitata e
non lo sapeva... Diamine, ci stava facendo una figura pessima...
Inaspettatamente,
vide Taichi arrivare da un punto imprecisato, farsi largo da dietro
un paio di persone e camminare verso la sua direzione.
Sentì
il cuore che cominciava a salirle fino alla gola.
Lo
guardò con un’espressione stupefatta, mentre lui
manteneva in
volto un’aria misteriosa. Furono uno davanti
all’altro.
«Oddio,
che succede?» gli chiese preoccupata, mentre gli occhi erano
appannati e si sentiva stordita.
Nel
frattempo, Joe aveva spalancato le orbite non appena si era reso
conto di quello che stava succedendo.
«Ma
quello è...» provò ad urlare, ma Luchia
gli pestò prontamente un
piede con lo spillo del tacco.
«Chiudi
quel becco da uccello tuki tuki!» lo redarguì e
lui si tenne il
piede dolorante emettendo uno strillo di dolore acuto.
Sora
cominciò già a sentire le lacrime agli occhi e si
portò una mano
alla bocca, mentre Matt la stringeva ancora di più con un
sorriso.
Mimi
guardava Tai ancora stupita e un tantino allarmata. Non capiva bene
cosa stesse succedendo, o meglio, laddove il suo cervello tentasse di
formulare un pensiero razionale, lei stessa si dava della sciocca.
Il
castano si passò una mano tra i capelli e si decise a
parlare.
«So
che mi stavi cercando perché volevi trascinarmi a ballare,
infatti
l’ho fatto apposta a nascondermi» le
rivelò con una risatina che
voleva apparire divertita, ma che in realtà faceva trapelare
tutta
la sua agitazione.
Joe
grugnì dopo essersi rialzato.
«E
hai fatto bene...» commentò con rammarico.
La
castana lo fissava come se non fosse sicura che quello stesse
accadendo realmente e che lui fosse Taichi.
Questi
si rese conto che era un po’ a disagio e tentò di
sdrammatizzare.
«Anche
perché se fossi rimasto probabilmente mi sarei messo a
ballare anche
io sul serio e avremmo fatto casino come al solito. Quindi me ne
sarei dimenticato»
Mimi
sciolse finalmente le spalle e si mise a ridere, tenendosi il viso
con la mano libera.
Aveva
più che ragione. Si comportavano da scemi quando erano
insieme.
Tai
si schiarì la voce e divenne più serio.
Puntò gli occhi su quelli
di lei e vide che erano pervasi da uno strano bagliore.
«Per
questo ho pensato che non c’era momento migliore di questo.
Inaugurare quello che sto per fare proprio adesso» lo vide
mettersi
una mano in tasca e prendere qualcosa «è di buon
auspicio»
Sentì
il cuore che batteva distrattamente come fosse alienata. In sala era
calato il silenzio più assoluto.
Tai
tirò fuori una scatolina di velluto rosso e la
rigirò nelle mani
come se stesse pensando a qualcosa. Poi alzò lo sguardo con
un
sorriso rassegnato.
«Deve
esserlo, perché se mi dirai di no dovrei riciclarlo a Joe e
Luchia
come regalo»
Il
nominato in questione alzò le spalle.
«Taccagno...»
sibilò.
Mimi
cominciò a mettere lentamente insieme i pezzi del puzzle.
Gli occhi
le si riempirono di lacrime.
Non
appena lo vide inginocchiarsi pensò di poter cascare per
terra tanto
sentiva le gambe di gelatina e il vino non migliorava a stabilizzare
la sua condizione.
«Forse
è un po’ imbarazzante»
commentò il castano con una smorfia
mentre dava un’occhiata a tutte le persone che li stavano
osservando. Poi guardò di nuovo lei, risoluto.
«Ma
noi siamo così, lo sai, amore. Siamo egocentrici, ci piace
essere al
centro dell’attenzione. Non abbiamo misure, o tutto o
niente»
Era
assolutamente vero. Loro due erano fatti in quel modo, si
assomigliavano molto. Erravano insieme, si perdonavano insieme, si
amavano in maniera imperfetta ma straordinariamente intensa.
Le
scesero due lacrime che non riuscì a trattenere.
«Già»
mormorò.
Tai
socchiuse gli occhi e prese un gran respiro. Poi aprì la
scatolina e
la portò di fronte a lei.
Joe
cominciò a sentire intorno a sé singulti di gente
che si emozionava
e fece una smorfia, percependo dei conati di disgusto pervaderlo. Poi
Tai parlò di nuovo.
«Quindi
credo sia arrivato il momento dopo così tanti anni, dopo
esserci
persi e poi ritrovati con una consapevolezza diversa, cioè
quella di
voler stare insieme per sempre... credo sia arrivato il momento di
renderlo concreto» fece una pausa in cui Mimi
pensò di star
sognando.
Ma
era tutto reale, perché lui pronunciò quella
domanda.
«Mi
vuoi sposare?»
Il
silenzio era assordante e le lacrime si erano fermate. Aveva portato
entrambe le mani al viso, lasciando cadere il mazzo per terra e aveva
abbassato la testa. Non ci poteva credere che glielo aveva proposto
in quel modo, davanti a tutti...
Non
sapeva che dire, non sapeva cosa fare. Si sentiva bloccata come se
fosse scolpita nella pietra.
Tai
la fissava attendendo una risposta e cominciò a sentire
l’ansia
assalirlo. Quello sguardo non riusciva a decifrarlo, sembrava ci
stesse pensando, sembrava sconvolta, ma Mimi non era una che di
solito ci pensava troppo, quindi il fatto che stesse ritardando a
rispondergli era...
Non
riuscì a finire il pensiero che subito quella lo interruppe.
«Sì…
certo» alzò il viso guardandolo con un sorriso
«Certo che lo
voglio, certo!»
E
subito gli fu addosso abbracciandolo e baciandolo. Lui non
riuscì a
trattenere il peso ricevuto all’improvviso e perse
l’equilibrio
facendo cascare entrambi per terra.
Ci
fu uno scroscio di applausi, di urla e di fischi.
Mimi
non aveva smesso di baciarlo, lo baciava dovunque e le lacrime le
sgorgavano come un fiume in piena, ma rideva, continuava a ridere
incessantemente.
«Non
pensavo avessi mai potuto farlo!» esclamò,
sollevando appena la
testa mentre erano ancora sdraiati per terra e lei era sopra di lui.
«Mi
sottovaluti» ghignò il ragazzo, poi si
drizzò con il busto e si
mise a sedere.
Staccò
l’anello dalla scatola e subito le afferrò
l’anulare della mano
sinistra, infilandole l’anello. Mimi alzò la mano
e osservò i
diamanti che brillavano.
Si
guardarono e risero felici. Mimi si avvicinò e gli prese il
viso,
avvicinandolo al proprio.
«Ti
amo immensamente» mormorò sulle sue labbra.
Lui
sorrise.
«Anche
io, non hai idea di quanto ti amo» gli uscì
spontaneamente.
E
lei subito gli fu di nuovo addosso continuando a baciarlo, sdraiati
l’uno sopra l’altro. Dopo staccò a
malapena le labbra da quelle
sue e lo guardò ancora incredula.
«Gli
altri lo sapevano?» chiese, dando una veloce occhiata al
resto degli
invitati.
Tai
la teneva stretta dai fianchi, la testa appoggiata contro il
pavimento.
«Matt,
ovviamente. E Luchia, mi ha retto il gioco con il bouquet. Pensa che
anche Harumi sapeva tutto, gli chiedevo consigli» le
rivelò.
Harumi
era il suo allenatore dell’Osaka. Lo apprezzava, lo
incoraggiava,
avevano costruito un rapporto di amicizia che mai avrebbe pensato si
potesse costruire davvero dopo quello che gli era successo in
passato.
Mimi
spalancò gli occhi.
«No
va be!»
«Sì,
prima era lì che mi mandava messaggi chiedendomi
“allora l’hai
fatto, non l’hai fatto?”» gli
raccontò.
I
due risero e continuarono a baciarsi isolandosi dal resto che perse
improvvisamente di importanza.
Joe
li guardava con invidia e irritazione. Quell’indegno di
Taichi
aveva dovuto organizzare tutta quella piazzata solamente per rubargli
la scena e togliere tutta l’attenzione da lui!
Come
se non bastasse quella vacca grassa di sua moglie piangeva senza
ritegno.
«Cazzo
ti piangi? Non è altro che una corbelleria!» la
guardò schifato.
Quella
alzò gli occhi rossi e lo strozzò con lo sguardo.
«Taci,
Joe. Sono gli ormoni» biascicò con la voce
incrinata, soffiandosi
il naso.
Baggianate,
pensò Joe. Poi sentì un pesò sulla sua
spalla e qualcuno che lo
agguantava pesantemente da un braccio. Rabbrividì vedendo
sua zia
Janna che piangeva allo stesso modo.
«Zia,
ti prego! Rispettiamo un po’ di spazio interpersonale,
avanti!»
esclamò tentando di allontanarla stomacato.
Quella
si pulì il naso con un fazzoletto di stoffa facendo
parecchio
rumore.
«E’
che mi manca Tolomeo! Adesso che è in Costa Rica con quella
ragazza
e i suoi dieci figli mi manca tanto e tu me lo ricordi!» si
lamentò
tra le lacrime.
Joe
fece una smorfia sentendo di essere in procinto di vomitare. Si
scostò dalla presa di sua zia e andò al centro
della sala dove i
due promessi sposi erano ancora in terra a fare le zozzerie.
Si
accigliò e si avvicinò, picchiettando la spalla
di uno di loro.
«Scusate!»
si annunciò con voce melliflua, le mani giunte,
un’espressione
gentile.
Mimi
e Tai smisero di baciarsi e si voltarono a guardarlo.
Lui
mantenne un tono zuccheroso, gli zigomi rialzati in un sorriso
asimmetrico.
«Non
solo mi avete rubato la scena, ma sembrereste in procinto di
accoppiarvi nel bel mezzo della mia sala da cerimonia. Potreste, che
ne so, ALZARVI DA QUEL CAZZO DI PAVIMENTO E DARVI UN
CONTEGNO?!»
strepitò come un matto.
I
due non se lo fecero ripetere, si misero subito all’ impiedi
e
sgattaiolarono via.
Joe
sospirò pesantemente in quello che sembrava un ringhio
esasperato.
Si passò una mano tra i capelli ma subito fece una faccia
schifata.
Aveva esagerato con il gel.
Alzò
le braccia al cielo e con uno sbuffo si fece largo tra la folla
camminando senza una meta ben precisa.
Aveva
bisogno d’aria dopo quelle figure insabbianti.
In
successione alle canzoni tradizionali era toccato ai balli di gruppo
e, sinceramente, quello non lo poteva sopportare.
Vedere
Luchia e sua zia Janna che ballavano zumba era uno spettacolo
raccapricciante. Doveva dileguarsi nell’immediato altrimenti
avrebbero sicuramente incastrato anche lui.
Uscì
fuori dalla mischia di persone e, d’un tratto, uno strano
odore gli
fece rizzare le narici. Era un odore strano, come di pollo arrosto, e
proveniva perpendicolare ai bagni.
Rimase
con gli occhi sbarrati a pensare e fece due più due.
A
meno che qualcuno non stesse facendo un barbecue dentro un cesso,
quella puzza apparteneva a qualcosa di vagamente familiare...
La
sua mano si avvicinava lentamente alla maniglia della porta.
Ce
l’aveva in pugno.
Improvvisamente
qualcuno lo chiamò al microfono. Era Matt. Strinse i pugni e
imprecò.
«E
aspetta, non vedi che sto per aprire una dannata porta?!»
sbraitò.
Perché
non lo lasciavano mai in pace? Per diana, la privacy era una
sconosciuta per quegli individui!
Si
voltò di nuovo verso la porta e posò la mano
sopra la maniglia.
«Non
avevi detto che dovevamo fare quella cosa?» lo
destò il biondo, e
subito la lampadina del suo cervello si accese.
Si
voltò con un sorriso elettrizzato.
«Arrivo!»
urlò e si dimenticò della porta e di quello che
stava facendo.
Superò
velocemente le persone che gli intralciavano la strada spingendole
con sgarbo ed arrivò davanti al mixer dove Matt e gli altri
componenti della band lo attendevano.
Izzy
e TK avevano un bicchiere in mano e li raggiunsero.
«Che
intendi fare?» chiese il rosso scettico, vedendolo saltellare
gioiosamente come un bambino a Natale.
«Sicuramente
una cosa più sensata di tutta la tua esistenza,
Koushiro» fu la
frettolosa risposta che ne susseguì.
Quello
alzò un sopracciglio scuro e lanciò uno sguardo
interrogativo a
Takeru che sorrideva divertito mentre lo osservava trafficare.
Muoveva cose di qua e di là, afferrando fili e spostandoli
senza
nemmeno sapere cosa stesse facendo; solo era così fomentato
da non
vederci più.
Matt
lo afferrò da un polso stritolandolo e fece in modo che
posasse
subito uno degli amplificatori che stava maneggiando.
«Non
mi dire che vorresti cantare?» chiese poi TK non appena lo
vide
trasferire la sua attenzione verso un microfono rimasto incustodito
su un’asta.
Joe
si voltò a guardarlo con gli occhi che gli brillavano da
dietro gli
occhiali scuri.
«Lo
faremo tutti! Canteremo un pezzo scritto da me e arrangiato da
Yamato. Certo, l’emozione delle parole supera di gran lunga
la
banalità dell’arrangiamento, ma...»
spiegò con enfasi, poi si
distrasse e puntò lo sguardo sul cane del biondino che
scodinzolava
sotto di loro.
«A
proposito, il bastardo come si chiama? Ferdi? » chiese
pensieroso.
Ci
avrebbe scommesso un’anca che si chiamava Ferdi. Suonava
così bene
per inventare delle scuse.
Il
più piccolo lo prese in braccio accarezzandolo, poi fece un
sorrisino.
«Ehm,
in realtà lo abbiamo chiamato Kido» rispose
tentennando.
Joe
rimase pensieroso ancora per qualche secondo, poi rinsavì
non appena
collegò.
«Come
me?!»
«Beh...»
«Perché
non lo avete chiamato Matt come la bestiaccia di tuo
fratello?!»
lanciò per aria degli spartiti.
La
persona in questione strabuzzò gli occhi arrabbiato,
prendendolo
dalla nuca e facendo in modo che si piegasse per terra a raccogliere
i fogli che aveva gettato.
«Vedi
di darti una mossa e smettila di sparare cavolate, burino!»
ruggì,
poi lo lasciò dandogli una spinta. Sentì la mano
sporca di gel e
con una smorfia disgustata la pulì sopra la sua camicia
bianca piena
di pieghe. Della giacca ancora nemmeno l’ombra.
Quello
si rialzò e posò gli spartiti stizzito sopra una
tastiera. Poi si
sistemò gli occhiali che gli pendevano da un lato e si
portò le
mani sui fianchi facendogli il verso.
«Burino
è ormai passato di moda! Sii più originale dopo
vent’anni.
Potresti chiamarmi, che ne so, grossolano? Picaro?
Sobillatore?»
Izzy
aveva un’espressione scettica.
«Burino
renderà sempre il concetto di quello che sei. Solo che
sposato» e
bevve dal suo bicchiere.
Joe
ebbe un luccichio folle negli occhi non appena lo udì
parlare, così
si precipitò dal batterista che aveva appena alzato in aria
le
bacchette, sfilandogliele dalle mani.
Poi
con un urlo imbizzarrito si voltò in sua direzione pronto a
colpirlo.
«Grrrr!
Ti cavo gli occhi! Vieni qua! VIENI QUA!» strepitava
dimenandosi,
mentre TK lo bloccava dai fianchi e Kido aveva incominciato ad
abbaiare ai suoi piedi, mordendogli di nuovo i pantaloni.
Quella
lite ebbe vita breve perché Matt schioccò stufato
le dita e
partirono a suonare. La musica si espanse per tutta la sala, e Joe
cambiò espressione nell’immediato, scavalcando il
piano bar e
posizionandosi in bella vista per l’esibizione.
Tai
e Mimi si fecero largo tra la folla, incuriositi. Erano entrambi in
disordine e avevano le labbra rosse. Matt notò il suo
migliore amico
e gli fece cenno di avvicinarsi con un dito. Questo non se lo fece
ripetere due volte e lo raggiunse posizionandosi accanto a lui. Gli
sorrise entusiasta e Matt gli passò un braccio sulle spalle,
poi gli
passò un microfono ed iniziò a cantare i primi
versi leggendo il
testo dal monitor.
«Mugendai
na yume no ato no nanimo nai yo no naka ja...»
Gli
altri si avvicinarono a loro volta. Izzy posò il bicchiere e
trascinò Frankie dalla mano che emise uno strillo eccitato.
TK fece
cenno a Kari e questa lasciò il cagnolino alla zia Janna,
raggiungendolo. Mimi e Sora si presero per mano e corsero a
posizionarsi dal lato sinistro.
Joe
diede a fatica un aiuto a Luchia ed entrambi si issarono sopra il
tavolo nunziale, ballando.
Tutti
cantarono un pezzo di canzone a turno, storpiando un po’ il
ritmo,
ma divertendosi da morire.
Matt
suonava la chitarra elettrica in contemporanea e Tai ormai ci aveva
preso gusto a cantare. Voltarono la testa l’uno verso
l’altro, si
avvicinarono con la fronte e risero entrambi. I diamanti
dell’anello
di Mimi luccicavano mentre alzava in aria le mani unite di lei e
Sora. Kari volteggiava leggiadra dal lato opposto.
D’un
tratto Joe sparì sotto le gonne di Luchia e ne
uscì fuori con una
giarrettiera blu in bocca.
Tutti
scoppiarono a ridere e lui la fece girare tra le dita saltellando con
i piedi.
Izzy
chiamò qualcuno per farsi prestare qualcosa, poi si
staccò dalla
mandria portando Frankie con sé. Posizionò il
cellulare sul bastone
lungo e fece in modo che l’inquadratura prendesse tutti.
«Guardate
qua!» esclamò.
I
ragazzi si voltarono e TK fece in tempo a lanciare per aria il suo
cappello grigio che venne immortalato nella foto appena scattata.
Andava
tutto bene.
«AAAAAAAAARRRGH!»
Si
voltarono tutti verso la fonte di quell’urlo. Luchia si
trovava
ferma, piegata su sé stessa che si teneva la pancia rotonda
con in
volto un’espressione sofferente.
La
canzone era appena finita.
«Oddio,
che ha?» chiese Mimi, spaventata.
L’espressione
della donna non presagiva nulla di buono. Lentamente videro che si
accasciava sopra il tavolo quasi avesse perso i sensi.
Kari
gettò uno strillo.
«Sta
male!»
Joe,
che dapprima era rimasto lì fermo come un ebete, subito si
precipitò
a trattenerla da sotto le ascelle, mentre lei si aggrappava con una
mano al suo braccio per non scivolare.
Il
corvino aveva in volto una ruga di apprensione che gli divideva in
due la fronte.
«Hai
esagerato con le cozze?» gli chiedeva allarmato, mentre lei
continuava a lamentarsi e gli faceva cenno di tenergli il vestito.
Lui
la fece adagiare sul tavolo a gambe aperte e subito iniziava a
spostare l’ampio abito di qua e di là.
«Te
l’avevo detto che non dovevi mangiartele con il panino alla
Nutella!» la rimproverò.
Alcuni
fecero un’espressione stralunata, mentre la donna alzava la
testa e
lo guardava con un occhio aperto e uno chiuso e grugniva un
po’ per
il dolore, un po’ per l’ira.
Joe
mollò subito la sua mano e le alzò entrambe in
segno di difesa.
«Eh
la peppa! Non ti preoccupare, mica è gente che
giudica» e fece
cenno verso tutti gli altre che facevano da spettatori da sotto,
preoccupati ma interrogativi.
Luchi
strinse forte i denti e aprì anche l’altro occhio,
puntandolo su
di lui in maniera truce.
«Joe»
chiamò.
«Eh?»
Si
contorse per il dolore.
«Si
sono rotte le acque» annunciò poi, non appena
riuscì a respirare.
Subito
un mormorio si alzò dalla sala, qualcuno emise un gridolino
eccitato, la madre di Joe si portò una mano al petto e sua
zia Janna
cominciò a battere le mani.
Sora,
Mimi e Kari si avvicinarono a parlottare mentre mandavano loro
occhiatine. Il batterista diede un colpo al piatto per scaricare la
tensione.
Il
ragazzo non capì.
Di
che acque parlava?
Sbatté
le palpebre, perplesso.
«Eh…
e non si possono riparare? Dobbiamo chiamare
l’idraulico?»
Insomma,
gli dicesse ciò che doveva essere fatto e via, quante
storie. C’era
bisogno di fare tutto quel teatrino inutile che nemmeno Heidi quando
voleva tornare tra i monti...
Luchia
gettò un altro grugnito e gli strinse il braccio, affondando
le
lunghe unghie rifinite in gel dentro la sua carne e facendolo
abbassare alla sua altezza.
«Vuol
dire che ho le contrazioni, emerito idiota!»
sbottò con voce
altisonante.
Calò
il silenzio. Poi d’un tratto un mormorio, e un altro ancora.
Tutti
si mossero di qua e di là cominciando ad adoperarsi, sua
madre tirò
fuori un telefono.
«Chiamo
l’ambulanza!» comunicò, emozionata.
Joe
continuava a guardarla come se avesse parlato greco antico.
«Che…
che significa... non capisco...» biascicava in shock, mentre
le
ragazze aiutavano Luchia a scendere giù dal tavolo con non
poca
difficoltà.
Matt
scosse la testa mentre riponeva la chitarra elettrica dentro la
custodia, mentre Tai alzava le braccia e le faceva ricascare sulle
cosce emettendo un rumore in segno di esasperazione.
«Sta
per nascere tuo figlio!» lo illuminò.
Joe,
rimasto sopra il tavolo, lo fissò spaventato.
«Figlio?»
borbottò con gli occhi fuori dalle orbite.
Si
voltò a guardare Luchia tutta raccolta su sé
stessa che veniva
adagiata su delle sedie. Le avevano appoggiato le gambe e la
sventolavano come un sultano.
No,
non poteva essere, non lo aveva calcolato... Lui credeva che sarebbe
successo in un tempo futuro e lontano, non di certo quel giorno.
Doveva esserci un errore, ne era sicuro. Magari sua moglie aveva
esagerato con il cibo, d’altronde mangiava come una balena e
ruttava come un camionista. Non poteva essere che un mini lui fosse
pronto ad essere lanciato fuori dalle interiora di quella donna!
Non
si sentiva pronto ad affrontare tutto quello, non riusciva ad
immaginarsi intricato in notti insonni a cambiare pannolini
puzzolenti ed essere schizzato di latte bollente sul volto.
Aveva
bisogno della sua vita, bastava già lui ad essere un
tirapiedi, non
voleva averne un altro in casa e poi andare a fare il turno in
ospedale alle cinque di mattina!
Subito
scese dal tavolo con un balzo e si precipitò da Luchia, che
aveva le
gambe aperte, il vestito alzato fino al ventre e teneva strette le
mani di qualcuno.
L’afferrò
dalle spalle e fece in modo che lo guardasse.
«Luchia,
gioia della mia vita, cuore del mio cuore, io ti giuro che
farò di
tutto perché tu stia bene!» esclamò
celebre, mentre lei urlava per
il dolore delle contrazioni.
Doveva
tentare la sua ultima carta, quella poteva perfino sputarlo dalla
bocca!
Fece
finta di accarezzarle la testa con amore, ma si abbassò fino
al suo
orecchio di soppiatto.
«Sei
ancora in tempo, dimmelo. Dimmi, è veramente mio
figlio?» le
sussurrò tra i denti, mentre quella ruggiva con il sudore
che le
scendeva dalla fronte.
Lo
guardò sconvolta, ma lui continuò a darle
colpetti sulla testa.
«Puoi
dirmi la verità, non mi arrabbio. Dimmi se non lo
è, coraggio,
avanti, ti giuro che sarò molto diplomatico...»
continuava ancora a
dire tutt’ad un fiato.
Quella
strinse i denti.
«Certo
che è tuo figlio! Di chi dovrebbe essere,
sennò?!» urlò.
Lui
le prese una mano tra le sue e l’accarezzò,
facendole cenno di
tacere dolcemente altrimenti avrebbe sentito più dolore.
Poi
si riabbassò con una speranza impressa negli occhi.
«Quel
nero della scuola di danza, quel Carlos!» tentò.
«E’
gay!» sbottò lei.
Joe
rimase di stucco e fece cadere lentamente la sua mano.
Allora
era proprio vero, stava per diventare padre.
Si
allontanò camminando all’indietro lasciandola
ansimare e urlare.
Una mano sopra il suo petto come segno che stava iniziando a sentirsi
male. Sbatté contro qualcuno.
«Coraggio,
Joe! E’ questione di tempo ormai!» era suo fratello
Shin che gli
alzava il pollice, entusiasta.
Sentì
la rabbia rizzare i capelli neroblu.
«E’
questione di tempo prima che ti uccida definitivamente, flagello di
Dio!» ululò imbizzarrito, sentendo il corpo
iniziare a tremare.
Cominciò
a correre, cominciò a vedere tutto distorto. Dio, si sarebbe
sentito
male... Non sapeva dove stava andando, non sapeva nemmeno se esisteva
realmente...
«Non
è possibile! Credevo mancasse ancora del tempo! Deve esserci
una
telecamera nascosta!» sbraitava preso dal panico. Poi metteva
a
soqquadro i tavoli, lanciava le posate, prendeva le bacchette di Sen
e le spezzava in un colpo netto con un forza immane, spalancava le
tende e guardava negli angoli per constatare se tutto ciò
fosse una
candid in camera.
E
correva di nuovo, urlava, si toccava i capelli sporcandoli di gel.
Improvvisamente
s’ imbatté contro i suoi amici che lo fissavano
come se fosse
matto. Lui si portò le mani al volto rielaborando fedelmente
l’urlo
di Munch.
«Non
ero pronto nemmeno a sposarmi!» confessò con le
lacrime agli occhi
«Nessuno
di voi ha notato che balbettavo mentre leggevo le promesse? Volevo
fuggire in Kazakhistan! Non sono pronto per diventare padre!»
ammise
in un pianto disperato.
Il
cane di TK abbaiava imperterrito e questo cercava di farlo stare
buono, ma aveva addirittura preso a ringhiargli contro considerandolo
un pericolo da sopprimere.
«E
te ne rendi conto dopo nove mesi?» fu la domanda sarcastica
che gli
fece Izzy.
Volle
rispondere con sgarbo che aveva calcolato male usando il calendario
Maya, ma Luchia gettò un acuto così forte che
furono costretti a
tapparsi le orecchie.
Joe
aveva il panico che scorreva da dietro gli occhiali.
«Santo
cielo, sembra un cavallo che ha le coliche! Qualcuno
l’aiuti!»
cominciò a correre di nuovo, invocando nomi di gente che non
corrispondevano a quelli reali
«Ilir!
Saluan! Moujhu! Chiamate un medico! Chiamate
un’ambulanza!»
A
quell’urlo tutti si voltarono a guardarlo, perfino Luchia.
Lui
cominciò a barcollare lentamente.
«Cazzo,
sono io, s-sì… O-okay, allora so quello che devo
fare...» tentò
di fermarsi, si passò due dita sulle meningi per poter
pensare.
Fece
un respiro profondo.
«E-ecco,
allora... b-bisogna cominciare con la pressione, q-qualcuno porti il
misuratore...» biascicava, cominciando a vedere confuso, i
colori
che lentamente si scolorivano e i suoni che si spegnevano.
Girò
più volte su sé stesso per tentare di rimanere in
piedi.
«P-poi
bisogna a-aprire la b-b-bocca della p-p-paziente e infilarle il... il
termo… il termometro, p-possibilmente non uno della
C-chicco...
bisogna misurarle la... la...»
«LA?»
gli chiesero.
Lui
chiuse gli occhi e fece una smorfia irritata.
«La...
La... oh, cazzo vuoi, ci sono troppe cose da ricordare! Lasciami
pensare... la... N-non mi sento la faccia, è
normale?»
Lo
videro che faceva un altro giro di 360 gradi e lasciava cadere le
braccia sui fianchi. Li guardò. Loro guardarono lui.
Sorrise
sghembo.
«Io
non sono normale» ammise con una risatina isterica.
Poi
alzò gli occhi al cielo, gli occhi diventarono bianchi, le
palpebre
si chiusero e cadde per terra, svenuto.
Silenzio.
Tai
e Matt si lanciarono uno sguardo. Izzy rise. TK gli scattò
una foto.
Si
avvicinarono e lo tolsero da lì, facendolo strisciare per
terra,
mentre Kido continuava ad aggrapparsi ai pantaloni del vestito,
riuscendo perfino a strappargli un lembo di stoffa.
L’ambulanza
era ferma, parcheggiata di fronte il ristorante.
Subito
la porta centrale si aprì e ne uscirono di corsa degli
infermieri
che trascinavano una barella sopra cui giaceva Joe, privo di sensi,
un braccio che penzolava da un lato.
Dietro
di loro, Luchia alzava i lembi del vestito in maniera tale che non
strofinasse per terra ed avanzava imperiosamente senza farsi toccare
da nessuno.
Alcuni
di loro uscirono e guardarono la scena dall’ampio affaccio.
Il sole
stava tramontando e il cielo cominciava a tingersi di un meraviglioso
rosso.
Le
porte dell’ambulanza vennero spalancate e Luchia
salì a bordo
senza battere ciglio, sedendosi e guardando tutti con
un’espressione
altera.
Si
chiesero come riuscisse ad essere così tranquilla in un
momento del
genere. Stava andando a partorire e non batteva ciglio, al contrario
di Joe che, paradossalmente, era quello che aveva subito più
danni
psicologici, oltre che fisici. Aveva un bernoccolo sulla fronte e gli
occhiali gli si erano spezzati proprio nel mezzo dell’asta.
Della
madre della sposa nemmeno l’ombra.
Tai
arrivò proprio in quel momento e affiancò Matt,
porgendogli un
bicchiere. Questi non fu sorpreso, lo afferrò e
continuò a guardare
la barella che stava per essere imbarcata.
«Li
hai trovati?» chiese solo.
Il
castano afferrò un pacco dalla tasca destra e gli fece cenno
di
prendere qualcosa. Il biondo abbassò la mano e
sfilò un sigaro,
portandoselo alla bocca.
Tai
bevve un sorso di rum.
«Proprio
dove avevi sentito dire» disse.
Matt
alzò le labbra in un sorrisino.
Joe,
nel frattempo, rinvenne, aprendo lentamente gli occhi. Alzò
leggermente la testa e li vide proprio lì davanti,
così fece una
faccia disperata, alzò appena un braccio, indicandoli.
Il
suo rum cubano e i suoi sigari guatemaltechi! Quei bastardi! Quei
figli del demonio!
Volle
urlare, ma le forze gli mancarono e perse di nuovo i sensi. Le porte
dell’ambulanza vennero sbattute e venne acceso il motore.
I
due ragazzi alzarono una mano in segno di saluto con un ghigno
ironico.
«E’
proprio un burino» commentò Tai.
Matt
annuì, rilasciando il fumo. Poi si lanciarono
un’occhiata e
scoppiarono a ridere.
Nel
frattempo udirono il rumore di una sirena e videro
un’automobile
della polizia che arrivava sgommando. Subito parcheggiò di
fronte e
ne uscirono fuori dei poliziotti in divisa che entravano di corsa.
I
due si scambiarono uno sguardo sconcertato.
«Non
ho davvero idea di cosa stia succedendo oggi»
proferì Matt in tono
confuso.
Tai
fece un gesto con le sopracciglia come segno che aveva ragione.
«Forse
dovremmo continuare ad ignorarlo e goderci questo» disse poi
facendo
tentennare il rum e lanciando uno sguardo a Sora e Mimi che si
trovavano dietro di loro, un po’ più distanti.
L’amico
fece lo stesso, poi si voltò di nuovo a guardarlo con un
sorriso
radioso.
«Hai
ragione. Facciamo un brindisi» propose e subito alzarono i
bicchieri.
Tai
tirò un sospiro rilasciando tutta l’aria che aveva
trattenuto per
troppo tempo, come segno di pace interiore. E Matt aveva una luce
diversa sul viso, era cambiato.
Entrambi
erano felici, rigenerati, due persone nuove.
Si
augurava per loro tutto quello che di bello poteva augurarsi.
«A
noi. Un augurio per una vita migliore» disse, guardando fisso
negli
occhi il suo migliore amico che annuì concordante.
«All’arrivo
di una nuova» continuò, e si voltarono entrambi
verso Sora, che
sorrise amabilmente e portò una mano sul suo ventre.
«E
alla promessa di “per sempre”»
Mimi
rispose al loro sguardo con un cipiglio curioso. Poi si voltarono e
incastrarono nuovamente gli occhi su quelli dell’altro.
Tai
si morse il labbro inferiore come se fosse emozionato.
«Festeggiamo
quelli che siamo, quelli che saremo, festeggiamo noi che non abbiamo
mollato, che siamo ancora qui, uniti inesorabilmente»
concluse poi.
Lo
sguardo di Matt si fece velato.
«Mi
fai sciogliere, dannazione...» mormorò sentendo le
lacrime che
premevano per uscire.
Il
castano ridacchiò.
«Lo
so» soffiò, poi abbassò la testa.
«Mi
sciolgo anch’io» ammise sentendo di star cedendo a
sua volta
lentamente, come se tutto il peso di quegli anni stesse finalmente
andando via e li liberava dall’angoscia, dalla paura di non
essere
abbastanza, dalla solitudine con cui avevano dovuto lottare per
sopravvivere.
Batterono
i bicchieri, si guardarono ancora e bevvero.
Stava
incominciando, questa volta davvero.
Volsero
lo sguardo verso il tramonto e sorrisero.
Il
cane di TK e Kari apparve improvvisamente trascinando qualcosa in
bocca. Diede un morso e corse via, palesando per terra la piccola
miniatura di Joe che avrebbe dovuto figurare in cima alla torta
nunziale. Non aveva più la testa.
Vedendo
quella scena cominciarono a ridacchiare in maniera compulsiva, mentre
le lacrime premevano ancora per scendere, la vista era appannata e la
faccia sembrava andare a fuoco.
Si
guardarono interrogativi e allarmati, le risatine che fuoriuscivano
senza controllo e non si placavano, poi gettarono uno sguardo ai
sigari.
Con
un’ occhiatina sorpresa, alzarono le spalle decidendo di non
farsi
domande neanche in quel caso.
Sora
e Mimi erano ancora dietro di loro abbracciate, viso contro viso,
mentre il sole era tramontato e lasciava come scia il battito
emozionato dei loro cuori.
Andava
tutto bene davvero.
Fine.
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