Battle Scars

di rose07
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Eravamo ***
Capitolo 3: *** Siamo ***
Capitolo 4: *** Uniti ***
Capitolo 5: *** Incertezze ***
Capitolo 6: *** Memorie ***
Capitolo 7: *** Festa ***
Capitolo 8: *** Simboli ribaltati ***
Capitolo 9: *** Confronti ***
Capitolo 10: *** Cenere ***
Capitolo 11: *** Silenzio ***
Capitolo 12: *** Tempo ***
Capitolo 13: *** Il tempo di cambiare ***
Capitolo 14: *** Psicologia inversa ***
Capitolo 15: *** Lotta ***
Capitolo 16: *** Anime affini ***
Capitolo 17: *** Bivio ***
Capitolo 18: *** Casa nostra ***
Capitolo 19: *** Fine ***
Capitolo 20: *** O forse no ***
Capitolo 21: *** Pioggia ***
Capitolo 22: *** Stazione ***
Capitolo 23: *** Casa ***
Capitolo 24: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***




PROLOGO

 

 

 

«Allora, com’è andata?»
La voce di Taichi non era mai stata così ansiosa. Nessun evento al mondo fino ad allora avrebbe potuto superare l’importanza di quel fatidico giorno, il giorno in cui avrebbero detto addio, il giorno dell’assoluta libertà. 
Sora guardò il suo migliore amico con un sorrisino che a stento riusciva a trattenere. Yamato, accanto a lui, la pregava con lo sguardo affinché parlasse. I suoi occhi cerulei erano dei pozzi profondi, ed erano quelli i momenti in cui lei ci sapeva leggere dentro.
«Lo volete proprio sapere?» ci scherzò su, perché quelli erano i tempi in cui insieme ci si divertiva anche con poco.
Aveva imprecato Tai, e poi si era spettinato i capelli nervosamente. Perché lui faceva sempre così quando era teso.
«Avanti, Sora, non tenerci sulle spine, per favore»
Rideva Sora, spensierata e leggera come mai lo era stata.
«E va bene, preparatevi allora»
Era strano come quei due ragazzi riuscissero a pendere così attentamente dalle sue labbra, come lei per loro fosse da sempre stata la loro ancora di salvezza, la loro luce nei momenti più bui.
Gli occhi castani le luccicavano quando parlò, ed erano i tempi in cui tutto sembrava più bello, persino il suono della sua voce.
«Evvai! Evvai, cazzo, sì!» Non era mai importato a Tai di apparire fine o delicato. Quando era felice non badava a nulla, riusciva a godersi perfino ogni singolo attimo di felicità. Perché erano quelli i giorni in cui saltellava per il corridoio della scuola quando prendeva un bel voto, in cui le sue piccole vittorie non erano poi così piccole.
«Mims! Sono qua, Mims!» Agitava la mano verso di lei, che si era messa a correre per raggiungerlo, e poco importava se gli altri l’avrebbero guardata male, perché l’unica cosa che contava era stringersi e non lasciarsi più.
«Settanta su cento» Erano quelli i momenti per cui si andava avanti, erano quelli i momenti per cui non si mollava e si faceva meglio di prima.
Lo aveva stretto, Mimi, forte, perché mai nella vita avrebbe permesso che lui andasse via, ed erano quelli i momenti in cui credeva davvero nell’amore, in cui davvero valeva la pena vivere.
«Ti amo» Erano i tempi in cui ci si guardava negli occhi e ci si sorrideva, in cui le labbra si univano e diventavano un tutt’uno.
In cui la felicità era appena dietro una porta.
Sora sorrise, sentendosi cingere la vita da chi amava con tutto il cuore, perché ai tempi si amava tanto e sembrava non potesse svanire mai.
Matt continuava a stringerla, e lei poteva sentire la testa girare per quanto desiderava tutto quello. Non c’era niente che contava se non tenersi stretti per paura di perdersi.
«Settantacinque» Gliel’avrebbe ripetuto ogni santo giorno pur di vedere nuovamente quel sorriso stupendo increspare il suo viso.
Lui le scostò i capelli dagli occhi, era questo ciò che faceva sempre, perché mai e poi mai avrebbe potuto fare a meno di guardarla.
«E tu?»
Sora si sentì leggera come una piuma, perché erano quelli i pesi di cui ci si liberava.
«Novantasette» Era per quello che la voce tremava dall’emozione, perché le piccole vittorie non erano piccole, erano tutta la loro vita.
Matt la baciò di sorpresa, e poteva giurare che avrebbe dato di tutto per momenti come quelli. Per momenti in cui sentirsi era la cosa più importante, in cui ridere era la felicità, in cui diplomarsi era la vita.
«Ti amo»
I tempi in cui amarsi era così facile.
«Ti amo anch’io»
 
 
 
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Smise di suonare quella musica piacevole, ma anche un po’ malinconica, che aveva inventato. Buttò su un foglio alcune parole, poi, distratto dai raggi del sole che entravano dalla finestra, ripose la sua chitarra al sicuro e, alzandosi dal letto, chiuse il foglio in un cassetto. Si stiracchiò, leggermente stanco.
Afferrò il pacco di sigarette che erano rimaste dentro la tasca dei suoi jeans del giorno prima, se ne accese una. Spalancando la finestra, socchiuse gli occhi a quella leggera brezza mattutina. Il vento era qualcosa di meraviglioso, pensò, tirando e rilasciando boccate di fumo.
Lo faceva riflettere, lo faceva sentire leggero. Pensò che in fin dei conti era una cazzata credere che uno stupido vento potesse rallegrargli la giornata, perché da quando Tai era stato convocato alle giovanili di calcio a Kyoto si sentiva solo.
Aveva ancora i suoi amici, che tra un impegno e l’altro ogni tanto vedeva, e aveva anche Sora... Aspirò il fumo nervosamente, appena l’ immagine della ragazza che gli sorrideva si fece strada nella sua mente. Il fatto che lui e Sora riuscivano a vedersi poco e niente lo scoraggiava sempre di più...
 
 
 
 
 
Dopo il liceo la sua più grande aspirazione era sempre stata quella di prendere una facoltà psico-pedagogica all’università, data la sua grande pazienza e la sua voglia di ascoltare ed aiutare gli altri – e con Mimi come migliore amica ce ne voleva tanta - e grazie al suo brillante voto che custodiva orgogliosamente, era riuscita a passare il test d’ ammissione. Era stata una bella notizia quella dell’ ingresso all’ università, aveva festeggiato insieme ai suoi amici e...
Matt...
Il pensiero di lui la rese improvvisamente triste. Da qualche mese il rapporto con Matt era cambiato, non era più lo stesso. I due riuscivano a vedersi sì e no due volte la settimana, dato l’ indirizzo di conservatorio che il ragazzo aveva scelto, ed ogni dannata volta tutto le sembrava apparentemente forzato. La passione che una volta li univa sembrava affievolirsi ogni giorno di più, e lei si sentiva così distante da Matt, così cambiata...
 
 
 
 
 
Sospirò tristemente ripensando al suo ragazzo che adesso si trovava a Kyoto, lontano chilometri da lei. Lo sentiva poco, si vedevano raramente. Se andava bene un weekend ogni due settimane, e lui era quasi sempre stanco a causa dei duri allenamenti.
La ragazza sospirò volgendo gli occhi marroni alla finestra di quell’aula cupa. Tra una settimana avrebbe compiuto diciotto anni, chissà se sarebbe potuto venire alla sua festa. Ci teneva tanto a stare con lui in quel giorno così importante, voleva che fosse tutto perfetto. Raggiungere la maggiore età per lei significava in un certo senso spiccare il volo verso la libertà, e voleva festeggiare quella fase della sua vita con il ragazzo che amava...
 
 
 
«Hai un minuto di tempo per raggiungere il campo!»
L’allenatore della squadra in cui giocava urlò quella frase con tono autoritario facendo quasi spaventare il ragazzo che aveva appena finito di cambiarsi e indossare la divisa. Fece una smorfia di disappunto, il mister era davvero insopportabile di prima mattina, e lui era uno spirito libero, odiava chi gli impartiva degli ordini.
Si limitò a non rispondere, tanto non sarebbe servito a niente, avrebbe comunque raggiunto il campo in perfetto orario per gli allenamenti... quei duri allenamenti che non gli permettevano quasi di respirare! Sospirò, leggermente stanco...
 
 
 
 
...quell’ impiastro di Taichi gli mancava da morire, ma soprattutto sentiva la mancanza della sua fidanzata. Non una mancanza fisica, perché per il sesso trovavano quasi sempre un po’ di tempo. Le mancava stare con lei a chiacchierare, ridere come una volta, stare abbracciati a lungo senza dire niente. E forse chi li stava allontanando era proprio lui, che spendeva troppo tempo per dedicarsi alle sue cose e non a lei, trascurandola senza che se lo meritasse...
 
 
 
...inviò sperando in una risposta. Purtroppo attese invano come una stupida, perché, checché ne dicesse il suo cuore, la sua mente razionale le diceva che Tai non avrebbe potuto risponderle. Era davvero così dura la vita in una squadra di calcio? Era così difficile mantenere una relazione a distanza, sebbene fosse importante per tutti e due?
Sapeva solo che da quando il suo Taichi si era trasferito, le giornate apparivano più cupe e le toglievano perfino la voglia di sorridere...
 
 
 
 
 
 
 
...adesso si trovava in quel residence a kilometri lontani da Odaiba, dalla sua famiglia, dai suoi amici e da lei... Mimi, che purtroppo stava trascurando e che gli mancava terribilmente. Mentre si accingeva a raggiungere il campo, per caso rovistò nel suo borsone afferrando il cellulare soltanto per osservare una sua foto. Di solito lo faceva prima di ogni partita, gli incuteva forza, speranza.
Sorrise appena lesse un messaggio suo e uno del suo migliore amico.
Continuò a sorridere tristemente, perché anche i momenti con Matt gli mancavano più del previsto, e il tempo che avevano a disposizione per vedersi era davvero limitato.
«Allora Yagami, entro quest’ anno sarai pronto?!» sbottò l’allenatore nervoso, mentre il castano alzava gli occhi al cielo.
Tai strinse un pugno, poi posò il cellulare dentro il suo borsone, senza poter rispondere.
A malincuore, mentre correva per il campo, pensò che per colpa di quel dannato calcio non riusciva nemmeno a godersi un momento con le persone che più amava nella sua vita...
 
 
 
 
 
...rispose all’ sms di Victor. Un leggero senso di colpa la catturò, e non seppe nemmeno lei il motivo. Per tentare di scacciarlo afferrò il suo libro e si trasferì in cucina dove si preparò un caffè. Lo bevve tentando di non pensarci, in fondo era solo un messaggio e Victor era solamente un suo compagno di università che vedeva qualche volta.
 Non c’era bisogno di sentirsi sporca, eppure qualcosa nella sua testa la convinceva del contrario...
 
 
 
 
 
 
 
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Era bellissima fasciata in quel vestito rosa antico con i capelli castani che le ricadevano morbidi sulle spalle. Era riuscito a liberarsi e le avrebbe fatto una sorpresa, perché lei non si aspettava che riuscisse a venire al suo compleanno. Ebbe un tuffo al cuore quando la vide ridere e scherzare insieme a qualcuno che non era lui, e forse era un po’ colpa sua che non era presente e che aveva anteposto il calcio a lei, ma faceva male, tanto male sapere che piano piano andava avanti con la sua vita.
«Tai! Sei qui!»
Era venuto per lei, sì, ma vederla insieme a quel suo amico americano aveva suscitato in lui qualcosa di forte che andava ben oltre ad una semplice gelosia. Forse era egoismo, l’egoismo più puro che non gli permetteva di concepire lei libera di costruire qualcosa senza di lui.
«Faccio cinquecento chilometri per venire da te e poi ti ritrovo insieme a questo tizio?!»
Gli occhi spaventati, lucidi, tristi di Mimi non li avrebbe dimenticati mai.
 
 
 
Se le avessero piantato un coltello sul fianco avrebbe sicuramente sentito meno dolore... Perché non poteva mai immaginare nella sua vita, mai, che Tai fosse diventato così.
Così arrabbiato, così egoista, così ottuso da non accorgersi come lei avesse solo lui nel cuore, e mai da lì sarebbe potuto uscire.
Lo guardava con stupore, e un senso di inquietudine la pervadeva senza dargli tempo di respirare. Le aveva urlato contro le peggiori accuse, le aveva rinfacciato tutti i sacrifici che aveva dovuto compiere per lei...
Ma se si ama e tanto non bisognerebbe andare oltre tutto questo?, si chiedeva disperata.
E le lacrime versate quel giorno sarebbero state lacrime che avrebbe ricordato sempre, delle lacrime amare che avrebbero dato vita ad una crepa così profonda da perdersi dentro...
 
 
 
 
 
 
Forse era stata una stupida a pensare che lui avrebbe potuto in qualche modo dimenticarsi di lei e della loro storia, ma le circostanze della vita l’avevano portata a crederlo.
Lei adesso era all’università, mentre Matt faceva avanti e indietro per studiare al conservatorio a cui aveva sempre aspirato.
Gli avrebbe mai potuto chiedere che mettesse tutte quelle cose da parte e che tornasse a darle le attenzioni d’un tempo?
Sora non era mai stata egoista, ma adesso aveva delle nuove consapevolezze. Amava ancora quel ragazzo biondo che aveva conosciuto anni e anni fa, ma la sua testa la metteva in guardia. Non sapeva se quella crepa aperta sarebbe riuscita mai a risanarsi. Non sapeva se con il passare degli anni sarebbe stata così forte da seguire quella scia.
Lui la stringeva a sé, lei faceva lo stesso, perché niente e nessuno avrebbe potuto comparare la protezione che lui le dava.
Anche se avrebbe dovuto combattere con tutte le sue forze per rimanere attaccata a lui,
per mantenere a galla quell’amore fragile che li univa.
Un pensiero insistente si faceva largo nella sua mente, e avrebbe dovuto essere forte per non dargli retta.
 
 
 
 
 
 
 
Le aveva dedicato una canzone scritta apposta per lei, perché non era mai stato bravo con le parole, anzi quando non riusciva ad esprimersi prendeva una matita e scriveva. Lei si era commossa e in quel momento aveva capito quanto bisogno aveva di quella ragazza nella sua vita.
Se per una volta fosse riuscito a mettere l’orgoglio da parte allora avrebbero potuto continuare ad amarsi senza ostacoli, perché era tutto ciò di cui avevano bisogno...
Forse i muri che li dividevano erano deboli e insieme potevano superare ogni cosa...
Forse ciò che avrebbero dovuto fare era tenersi per mano...
Forse ciò che serviva era stringersi un po’ di più...
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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La distanza era un ostacolo insormontabile che li aveva divisi negli anni e che ancora continuava a farlo.
 
«Io non posso farci niente se siamo così lontani»
 
Non poteva farci niente, Tai, se aveva scelto di fare quella vita.
 
«E io non riesco più ad andare avanti così»
 
Mimi piangeva, era quello ciò che le rimaneva di tutti quegli anni insieme.
 
«Hai deciso, quindi?»
 
«Se tu volessi, potresti fermarmi»
 
Perché la speranza era sempre l’ultima a morire. Ma in questo caso, ciò che rimaneva ai due ragazzi era i pezzi di un amore appena distrutto.
 
«Non posso farci niente, io»
 
Ed era vero, perché lui non poteva mettere di nuovo insieme qualcosa che con il tempo si era rotto, perché aveva dato il massimo, ma il massimo non era bastato...
 
 
 
 
 
 
 
 
 
L’osservava uscire da quella porta in silenzio, con le mani in tasca, come faceva sempre lui.
Rimase pietrificata a piangere e tremare... Perché tutto ciò era segno che niente poteva più essere messo in ordine e che quelle cicatrici di battaglia avrebbero bruciato sulla sua pelle per sempre...
 
 
 
 
 
 
 
 
Si sbagliava.
 
 
Perché in realtà non era capace di vincere il suo orgoglio, era come una corazza che lo voleva difendere a tutti i costi, non sapendo che in realtà lo stava distruggendo completamente.
Posò la sigaretta sul posacenere e prese il telefono.
Nessuna chiamata da parte sua, nemmeno l’ombra di un minuscolo messaggio. Forse era a questo che erano destinati, starsi lontano con la consapevolezza che avevano bisogno di stare insieme...
Magari, se fosse stato davvero per una volta capace di dar retta ai suoi sentimenti e non a tutto ciò che gli girava intorno, forse qualcosa sarebbe potuta cambiare...
Ma non era questo che cercava. Perché il suo rifugio era la musica, era in quel mondo che si richiudeva quando ne aveva bisogno.
Niente adesso contava se non andare avanti per la sua strada.
Posò il cellulare e ancora una volta si rifiutò di chiamare.
Adesso quello di cui aveva bisogno era chiudere gli occhi e ascoltare il suono della sua vita...
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
«Take, sei proprio una sbadata!»
 
Era grazie a lui se riusciva a mettere in ordine i casini dell’università, e forse anche quelli della sua vita.
Le aveva restituito il quaderno che distrattamente aveva dimenticato sul banco. Gli sorrise con un po’ di imbarazzo, e si chiese da quanto tempo era che non provava tutte quelle sensazioni in una volta, da quanto tempo era che non rideva di gusto ad una battuta, che non si perdeva negli occhi di qualcuno.
Quel ragazzo era entrato nella sua vita come un fulmine a ciel sereno, e quello di cui aveva bisogno era rimarginare le cicatrici che l’inerzia aveva causato...
Le sfiorò una mano, e lei non potette fare a meno di mordersi un labbro, perché ciò che provava era capace di farla sognare ad occhi aperti, ma nello stesso tempo risvegliarla dopo un lungo sonno.
«Ti va di fare un giro?»
Perché sì, forse era questo di cui aveva bisogno. Dimenticarsi che tutto ciò che aveva amato e desiderato negli anni si trovava dietro di lei ad aspettare che qualcosa cambiasse, ma nel frattempo niente cambiava, e allora lo stava pian piano facendo lei...
Mentre passeggiava, il suo pensiero volò verso di lui, e si chiedeva se quella battaglia che stavano combattendo, avrebbe un giorno lasciato i segni di una dolorosa cicatrice su chi tra i due pensava di vincere...




















Ciao a tutti.
Torno dopo molto, moltissimo tempo con questa nuova
fresca storia sui personaggi di Digimon Adventure, terminata e tormentata.
Non credo che possiate ricordarvi di me, ma ho scritto un paio di storie a riguardo molti anni fa, poi rivedute e corrette, che, in un certo senso, delineano una sorta di continuum degli eventi dei due principali pairing che tratterò: Sorato e Michi.
So che non sono le coppie più gettonate su questa sezione, ma mi auguro che, nonostate tutto, questa lettura trasmetta curiosità a qualcuno di voi in cerca di una long a prescindere dalle preferenze.
Questo prologo è un po' particolare e visualizza sprazzi di ricordi legati al passato dei protagonisti in cui hanno età differenti, - partendo dagli eventi menzionati nella mia ultima storia - e servono oltremodo a dare un'idea su quello che avverrà dopo. Questi momenti sono decisivi per la vita di Taichi, Yamato, Sora e Mimi, potremmo considerarli il perno dei loro problemi due anni dopo.  Ho scelto di mixarli, rendendoli un flusso ininterrotto dove potrebbe essere difficile rilevare a chi appartengono, ma sono certa che saprete collegare bene i pezzi del puzzle.
Se vi va di dare una lettura veloce alle storie passate - considerate che il mio stile di scrittura era molto diverso, meno introspettivo ed incline a squarci comici teatrali - ne sarei davvero felice, non vi prenderanno molto tempo, sono scorrevoli e per certi versi perfino divertenti ( se consideriamo l'estremizzazione del personaggio di Joe, caratterizzazione che verrà portata avanti anche in questa storia ).
Potrete trovarle in elenco ordinato cliccando sulla serie "Stay together in the end"
Sappiate che il tono gioviale, frizzantino e adolescenziale lascerà spazio ad un altro serio, maturo, per certi versi dai toni ombrosi, ma vi assicuro che non mancherà di farvi sorridere se appassionante.
Spero apprezziate questa storia, la delineazione dei personaggi, il contesto creato attorno- non fedele all'ultimo film Kizuna- l'idea del mio ( e anche quello di una mia cara amica ) digiuniverso che accantona le vicende di avventura ma si sofferma sugli intrecci amorosi e di amicizia proiettati nel mondo reale in un'età adulta ma non ancora del tutto decisiva.

Rose07


















 

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Capitolo 2
*** Eravamo ***








Taichi amava la pioggia. Amava la sensazione di avere il viso e i capelli bagnati, mentre correva a perdifiato per il campo di calcio. Amava il fatto che arrivasse così, senza preavviso, scatenando una tempesta a cui era impossibile resistere.
Lui però era forte, si disse. Era così forte che avrebbe sfidato tutto e tutti pur di appropriarsi di quel pallone che adesso si trovava ai piedi dell’avversario e di portarlo con sé in un percorso ad ostacoli che precedeva la meta finale.
La vittoria.
Un po’ com’ era la sua vita, pensò, mentre correva, trascinandolo con sé. Un lungo percorso per arrivare ad unico obbiettivo, un obbiettivo da sempre desiderato, un obbiettivo che aveva rappresentato per tanto tempo il sogno della sua vita.
Sorpassò con facilità gli avversari, sentendo la pioggia intensificarsi di più. Lo avrebbe inzuppato, ma non l’avrebbe certo piegato al suo volere.
Perché lui era Taichi Yagami, e niente avrebbe potuto sottometterlo.
Sorrise tra sé, mentre si avvicinava alla difesa. Poteva scorgere i volti dei suoi rivali cambiare espressione, mentre si preparava a tirare.
Qualcuno pensò di fermarlo, provò a tirarlo dalla maglia, cercando di sottrargli il pallone con scarsi risultati. Troppo tardi.
Lui era Taichi Yagami e segnava sempre.
Ci furono dei secondi di silenzio in cui l’unico rumore che poteva udire oltre la pioggia era il battito accelerato del suo cuore. Si accasciò sulle ginocchia, che cedettero improvvisamente, e sentì i suoi compagni di squadra che urlavano e festeggiavano. Alcuni gli si lanciarono di sopra, stringendolo in degli abbracci calorosi, altri gli spettinarono i capelli bagnati, gridando il suo nome come se fosse un dio da osannare.
Guardò la porta d’innanzi a sé, notando il portiere avversario che imprecava e si dannava, chiedendosi cosa mai avesse sbagliato.
Tai pensò che anni fa tutto quello lo avrebbe portato alla felicità immediata. Tutto il clamore di aver vinto, la soddisfazione di ricevere complimenti, i cori dei tifosi che lo appoggiavano, la consapevolezza di aver raggiunto il suo obbiettivo. Volse lo sguardo al cielo grigio, mentre la pioggia picchiava sempre di più.
Cosa cercava adesso?
Era una domanda che si ripeteva costantemente. Tempo fa avrebbe risposto senza esitare. Ma adesso... Adesso per la prima volta metteva in discussione tutto.
Non era più sicuro che quella vita fosse ciò che realmente desiderava. Non era più sicuro che tutta quella felicità fosse autentica. Non era più sicuro di voler stare lontano dalla sua famiglia e dai suoi amici.
«Sei un campione!» gli urlò qualcuno.
Non era più sicuro di essere un campione, e forse non lo era stato mai. Sentì un tuono squarciare il cielo. Alcuni urlarono e corsero via. I suoi compagni finalmente lo mollarono e lui si mise di nuovo in piedi.
Aveva raggiunto la vittoria, ma non era niente in confronto a quel vuoto incolmabile che sentiva nel cuore.
Lentamente, si mise in cammino per raggiungere gli spogliatoi. Tirò un calcio al pallone, rimasto immobile al centro del campo.
Non era questa la vittoria che voleva.
 
 
 
 
 
 
Forse si sarebbe beccato un bel raffreddore, ma poco male. Si sciacquò accuratamente, godendosi l’acqua calda della doccia che scivolava lungo il suo corpo tonico. Era cambiato molto durante il corso degli anni. Il ragazzino adolescente, magro e poco sfilato, aveva lasciato spazio ad un uomo di venticinque anni alto e muscoloso. I capelli castani erano meno ribelli, avevano perso quella forma sbarazzina che lo aveva da sempre contraddistinto. Adesso si guardava allo specchio e quasi stentava a riconoscersi.
Era Tai, ma non era veramente lui. La voglia di ridere e scherzare lo aveva abbandonato lasciando posto ad un grigiume e ad un senso di mancanza che gli attanagliava il cuore. Tutti quegli anni lontani da Tokyo lo avevano segnato nel profondo. Gli mancava persino la più piccola cosa legata a quel luogo. Gli mancava alzarsi la mattina e inspirare quella leggera brezza, gli mancavano quelle lunghe passeggiate in centro, gli mancava quella caoticità calorosa che non lo faceva sentire così solo.
Sospirò, mentre finiva di risciacquarsi. Da cinque anni a quella parte si era sentito sempre solo. Solo in mezzo ad una folla di persone nelle quali lui non si riconosceva.
Gli mancava tanto la sua famiglia. Gli mancava la sua casa accogliente. Gli mancava andare in cucina e trovare sua madre che canticchiava allegramente, mentre preparava il pranzo e gli chiedeva se aveva dormito bene. Gli mancava andare a pesca con suo padre, sorbirsi i suoi pallosi discorsi sulla gioventù e finire sempre per battibeccare perché facevano scappare i pesci. Gli mancava la sua sorellina, Hikari, la luce dei suoi occhi, che lo accoglieva con un bacio sulla guancia e un sorriso... la sua sorellina che adesso era diventata una splendida donna, che frequentava l’università e che non stava vedendo crescere...
Gli mancavano i suoi amici. Gli mancava da morire Yamato, il suo migliore amico, il suo punto fermo, la sua ancora di salvezza... gli mancava ridere e scherzare con lui, gli mancavano i loro lunghi discorsi, gli mancavano i suoi rimproveri, gli mancavano perfino le loro liti... Gli mancava voltarsi e trovarlo sempre al suo fianco...
Gli mancava la sua piccola Sora, gli mancava abbracciarla, ascoltare i suoi consigli materni, bearsi del suo sorriso... lei, la sua migliore amica... Sora, verso la quale provava un affetto così profondo, un senso di protezione, un amore fraterno inossidabile... Lei che aveva sempre aperto gli occhi a lui e Matt... Loro due che erano così importanti...
E poi gli altri... Gli mancava quel cibernetico di Koushiro, sempre così attento e preciso, che con il suo pacifismo e la sua saggezza riusciva sempre a mettere in ordine i casini delle loro vite... Come avrebbero fatto senza quel rosso pignolo?
E il piccolo Takeru, che non era più così piccolo, che era cresciuto e che con il suo ottimismo aveva sempre acceso un lume di speranza in ognuno di loro... Quel biondino che amava divertirsi e godersi la vita, e si pentiva amaramente di aver dubitato di lui, perché non avrebbe visto altro ragazzo al fianco di Kari...
Perfino quel burino di Jyou, quell’impiastro spropositato che alimentava lunghe catene di guai... che con la sua voce acuta e con la sua irruenza, diceva le cose con sincerità senza farsi troppi problemi... che risultava goffo e idiota, ma che era senza dubbio di animo buono e viscerale...
E poi... c’era lei... Mimi...
Quanto tempo era passato? Uno, forse due anni da quando si erano detti addio... Due anni senza di lei, due anni senza sentire la sua voce, due anni senza bearsi della purezza dei suoi abbracci e dei suoi baci... Mimi... che aveva lasciato una ferita ancora aperta dentro di lui... E lui, che adesso si trovava inerme, senza saper bene cosa fare, senza avere la forza di ricominciare... Perso in quell’oblio, svuotato da ogni singola emozione...
Era questo a cui era destinato?
Per seguire il suo sogno, la sua passione aveva dovuto sacrificare tutto, il luogo in cui era nato e cresciuto, la sua casa, la sua famiglia, i suoi amici, l’amore...
L’amore...
Ripensò a lei, pensò a quanto erano felici insieme... Mano nella mano al parco... sorridendo alla vita... stretti nella vitalità della gioventù...
Perché doveva fare così male l’amore?
Quando chiuse il rubinetto della doccia si accorse di aver pianto. Rise amaramente e si asciugò il volto con l’asciugamano.
Era per questo che amava la pioggia, perché confondeva e nascondeva le lacrime.
Ma lui era Taichi Yagami e non piangeva.
Scosse la testa e si rivestì, perso ancora nei suoi pensieri.
Lui era Taichi Yagami e piangeva invece, era un essere umano, amava, soffriva come tutti... e non avrebbe permesso a nessuno di rovinargli l’esistenza, perché adesso aveva capito quale fosse il suo destino, e di certo non era lì, non era in quel luogo, non era con quelle persone.
Per anni aveva dovuto sacrificare le cose che più amava, aveva dovuto mettere al primo posto quella vita, senza poter ritagliare il più piccolo spazio per lui.
Aprì il phon e si guardò allo specchio. Quella persona riflessa non era più lui. Era qualcuno nel quale non si riconosceva, una macchina che obbediva a degli ordini senza avere il coraggio di opporsi.
Il coraggio...
Una volta era il suo simbolo, ma adesso aveva quasi dimenticato cosa fosse.
Eppure ne aveva tanto bisogno, aveva tanto bisogno di evadere da quell’incubo, aveva tanto bisogno di tornare in quella realtà, la sua realtà che per anni gli era stata sottratta.
Adesso sapeva bene che cosa fare.
Udì distrattamente la porta dello spogliatoio aprirsi, e con la coda dell’occhio notò il suo allenatore che si avvicinava verso di lui a gran passi. Posò il phon e si voltò a guardarlo.
«Yagami, devo parlare con te» proferì duro, in un tono che non ammetteva repliche.
Era così, Akira, severo ed esigente. Tentava di manipolare la vita di tutti loro, imponendo delle regole a cui nessuno poteva sottrarsi.
Ne aveva abbastanza dei suoi ordini che per tutti quegli anni aveva dovuto subire.
«Prego» disse Tai, distaccato. Non avrebbe mai più permesso che qualcuno intralciasse la sua vita, perché solo adesso aveva capito quanto era importante.
«Sono venuti a vederti da Osaka e gli sei piaciuto. Dicono che hai molto potenziale e vorrebbero allenarti»
L’uomo lo guardava fisso come se si aspettasse qualcosa, ma lui spostò lo sguardo. Perché tempo fa una notizia del genere lo avrebbe fatto saltare dalla gioia, mentre adesso...
«Hai capito, Yagami?» lo riscosse Akira, mentre il ragazzo annuiva debolmente
«Perciò il prossimo mese sarai trasferito e comincerai con loro»
Che cos’era il coraggio?, si chiese Tai, mentre l’allenatore si allontanava e faceva per uscire dalla porta.
Era qualcosa che aveva da sempre fatto parte di lui, che non lo aveva mai abbandonato, nemmeno adesso, nemmeno adesso che, con i pugni chiusi, fremeva per poter uscire.
«Aspetti» lo fermò, mentre quello si voltava interrogativo.
Sapeva adesso cosa doveva fare.
Lui era Taichi Yagami, e nessuno poteva decidere al suo posto.
«Io non ho ancora dato la mia risposta»
L’allenatore lo fissò basito, chiuse la porta dietro di sé e rientrò nello spogliatoio.
«Forse non hai capito, ragazzo» ripeté, come se fosse un malato mentale.
Il castano ebbe una gran voglia di urlargli in faccia, perché non riusciva più a sopportare che lo si trattasse così.
«Ti vogliono in prima divisione. Verrai allenato nel Gamba Osaka e sarà una buona occasione sia per te che per me, dato che mi pagheranno bene»
Taichi scosse la testa. Sarebbe stato un sogno che si avverava, una vittoria personale a cui aveva aspirato a lungo. Ridacchiò amaramente.
La notizia non gli faceva nessun effetto, adesso. Adesso che aveva capito di cosa aveva bisogno per star bene.
«Ho bisogno di andare a casa» disse lentamente.
Akira rise di cattivo gusto.
«Smettila con i capricci, Yagami, e fila ad allenarti! Devi essere pronto per la prima divisione o ti cacceranno subito»
Non aveva mai mancato di rispetto ad un suo superiore, tranne a scuola, a volte, quando lui e Matt facevano gli idioti con i professori. Non aveva mai risposto per le rime a quell’arrogante di Akira, ma adesso sentiva di scoppiare. Non ce la faceva più. Non riusciva più a reggere il peso di quella vita. Voleva andare via, scappare, e l’avrebbe fatto.
Strinse i pugni.
Nessuno l’avrebbe intralciato.
«Voglio andare a casa, ho detto!» ripeté, arrabbiato. L’allenatore lo guardò sbieco.
«Le partite sono concluse ed io ho il diritto di tornarmene a Tokyo!»
Akira strinse i denti per quell’affronto, mentre Tai sentiva la rabbia crescere a dismisura e tutto il risentimento di quegli anni uscire fuori.
Era per colpa di quel calcio se aveva mandato a puttane la sua vita.
«Io, invece, voglio i miei soldi» ringhiò l’uomo.
Ecco cos’ era diventato, una macchina che produceva denaro. Aveva perso i suoi diritti umani solo per compiacere ad un branco di orditori che non avevano il minimo rispetto per lui.
«E li avrà, ma mi lasci tornare a casa! Non sono il suo cazzo di burattino, mi ha capito? Ho una fottuta vita fuori di qui!»
Aveva urlato così forte da far rimbombare la sua voce per tutti gli spogliatoi.
Si era liberato. Finalmente aveva liberato la sua voglia di evadere. Poteva sentire il peso sciogliersi sotto di lui.
L’uomo lo guardò duro e strinse la mascella. Taichi era un ragazzo forte e determinato e sicuramente gli serviva più di quanto pensasse.
«Una settimana» proclamò, infine, mentre si voltava e raggiungeva la porta.
Tai sospirò, sentendo il cuore battere forte.
«Un giorno in più, Yagami, e sei fuori» aggiunse, poi, tagliente.
Lo lasciò così, con il fiato spezzato e le gambe che gli tremavano. Non poteva credere di averlo fatto.
Si coprì il volto con le mani, stritolato da un vortice di emozioni che non provava da tanto tempo.
Gioia.
Orgoglio.
Libertà.
Coraggio.
Il coraggio di cambiare, il coraggio di ricominciare.
 
Lui era Taichi Yagami e adesso lo sapeva bene. Sapeva bene di cosa aveva bisogno.
 
 
 
 
 



 
*****




 

 
 
 
Aveva da sempre amato il suono che produceva la sua chitarra. Yamato accordò le ultime note, e si perse in quella melodia. La musica gli dava benessere, gli procurava una gioia interiore con cui niente poteva comparare.
Da anni era stata la sua vita, la sua forza, il senso di quell’esistenza malinconica e segnata da sofferenze.
Niente era andato come voleva.
Ma lui era Yamato Ishida e aveva sempre stretto i pugni per andare avanti.
Fin da piccolo, aveva desiderato con tutta la sua anima che sua madre e suo padre tornassero insieme, che fossero di nuovo una famiglia felice, che lui e suo fratello Takeru potessero stare di nuovo sotto lo stesso tetto.
Strinse gli occhi, al ricordo di alcune immagini dolorose. Quando suo fratello gli era stato portato via, gli era stata portata via anche la speranza, e aveva sentito un dolore al cuore, proprio lì.
Qualcosa a cui niente poteva essere paragonato.

 
My brother has always given me
the hope that I’ve ever needed”


 
Più tardi, era riuscito a farsene una ragione, era riuscito ad andare avanti perché aveva conosciuto delle persone speciali che gli avevano fatto riscoprire il senso dell’amicizia, un valore in cui prima di allora non aveva mai creduto.
Avvicinò il microfono e continuò a cantare quel pezzo di canzone.
 

“You’re so brave and so strong, my old friend,
you’re the one that I love”

 
Taichi era la persona che più gli mancava. Avrebbe dato di tutto per passare dei momenti con lui, ma erano mesi che non si vedevano. La sua vita da calciatore lo teneva occupato, lontano per kilometri da Tokyo.
Sospirò con tristezza. Gli mancava da morire Tai... lui era l’unica persona della quale si fidava, era l’unico per il quale nutriva del bene profondo... gli voleva così bene che mai nessuno poteva mettersi a confronto...
Sentì la voce roca incrinarsi. Adesso era da solo. Solo in mezzo a quella marea di gente con la quale non aveva voglia di parlare.
Perché lui era Yamato Ishida e aveva sempre avuto difficoltà ad esprimersi.
Vedeva gli altri raramente, ognuno era impegnato con la sua vita. Non aveva nessun’altro con cui parlare, perché era solo con lui che lo faceva.
Ogni tanto sentiva Koushiro, ma era impegnato con l’università ed era una persona troppo pacata con cui confrontarsi.
 




“A ginger boy so calm and wise,
is he so different from who am I?”

 
Di discutere con Jyou proprio non era il caso. Non era un ragazzo molto affidabile, anche se non aveva di certo freni inibitori nel dire la sua su qualsiasi argomento. E poi in quel periodo era troppo impegnato a laurearsi che sentire altro.
Gli venne da ridere pensando al burino che aveva quasi terminato i suoi studi.

 
“Sincerely, I did not believe
that he would come up here”

 
Provava anche a chiamare TK, ma lui non si mostrava mai troppo propenso ad ascoltarlo. Era sempre impegnato ad amoreggiare con la sua fidanzata storica, la sorella minore di Tai, Hikari.
Scosse la testa con un sorriso che velava un alone di malinconia. Come aveva fatto suo fratello a portare avanti una relazione senza aver avuto mai dubbi o incertezze?

 

“I want you to teach me how
 that girl brights your days”

 
 
Non era finita così male come tra Tai e Mimi, ma spesso credeva che fosse stato meglio prendere una posizione definitiva piuttosto che rimanere in bilico. Anche se l’amore faceva così male e lo poteva leggere negli occhi di chi soffriva...


The purity of her eyes
made ​​me realize”

 
E la cosa che più faceva male dell’amore era l’indifferenza. Faceva male quando c’era qualcosa che non andava da tempo, ma tutto ciò che ci si limitava a fare era stare in silenzio, senza avere il coraggio di affrontarsi.

 
Closed in my silence without saying that I love you
and I still want to be with you”
 
 
 
 
Finì di cantare e appuntò il titolo della canzone su un foglio.
Lui era Yamato Ishida e riusciva a comunicare cantando.
Anche se era molto difficile esprimersi quando non c’era molto da dire. Era molto difficile cercare di mettere apposto le cose quando tutto era in disordine.
Tra lui e Sora c’erano ormai delle barriere insormontabili, muri invalicabili che si erano innalzati negli anni e che nessuno dei due aveva cercato di abbattere.
Chiusi nei loro silenzi, avevano lasciato scorrere le loro vite senza realmente intrecciarle tra di loro, lasciando che tutto accadesse senza intervenire.
Si sentivano poco e le volte che si vedevano era contate. Lei era impegnata all’università, lui con le prove della band e con il lavoro di barman che faceva per racimolare qualche soldo.
Dopo il conservatorio, si era dedicato a far funzionare il suo gruppo, avevano inciso due dischi ed erano andati in giro nei quartieri di Tokyo a tenere concerti in locali e pub. Erano perfino usciti fuori città, sperando di farsi conoscere da qualcuno.
La musica lo aveva allontanato da Sora più di quanto credesse. Lo aveva fatto chiudere ancora di più in sé stesso, lo aveva imprigionato dentro gli abissi della sua interiorità senza curarsi di ciò che succedeva intorno.
La sua introversione aveva lasciato che Sora andasse via da lui lentamente come un’onda che si ritirava dalla spiaggia, e adesso era molto difficile tornare indietro.
Da circa due anni a quella parte, la loro relazione si era ridotta a piccoli incontri fugaci in cui la maggior parte delle volte finivano per discutere o per stare in silenzio, senza niente da raccontarsi.
La passione che li univa, la spontaneità, la fiducia reciproca erano gradualmente scemate, lasciando spazio ad una monotonia distruttiva dalla quale non riuscivano più a liberarsi.
Matt smise di suonare. L’inerzia che li caratterizzava aveva preso in loro il sopravvento. Li stritolava e non gli permetteva di fare un passo in avanti.
Più volte aveva cercato di rimettere in sesto i pezzi della loro storia, tentando di mettere da parte quel forte orgoglio che lo frenava; ma la verità era che non aveva né la forza né la determinazione di cucire quelle cicatrici.
Perché lui era Yamato Ishida e stava bene così.
Quando le prove terminarono, prese una bottiglia d’acqua e si rinfrescò la gola. Mentre gli altri si premuravano di posare gli strumenti, il batterista gli si avvicinò lentamente.
«Devo parlarti, Matt» gli disse, con un’espressione preoccupata.
Il biondo lasciò la sua chitarra e lo guardò interrogativo. Dopodiché gli fece cenno di seguirlo e si distaccarono dal resto del gruppo.
«Ci ho pensato molto in questo periodo e sono arrivato a una conclusione»
Il tono con cui Masaru aveva proferito quelle parole non portava niente di buono.
Incontrò lo sguardo dispiaciuto di questi, che si spettinava i capelli scuri.
«Sono mesi che siamo fermi. I soldi non bastano nemmeno per comprare un nuovo pedale per la batteria e Sen ha due corde rotte al basso»
Indicò il ragazzo che imprecava in direzione del suo strumento. Matt sospirò, voltando la testa e incrociando le braccia.
«Io sono indietro con l’università. Ho ventisette anni, non combinerò più niente di buono di questo passo!»
Il ragazzo aveva allargato le braccia, e poteva comprendere la sua disperazione. Da un po’ di tempo la band risentiva della mancanza di serate e di soldi, per questo i componenti non erano molto entusiasti di continuare a provare nonostante quella staticità. L’unico che ancora perseverava era lui.
Che poi non capiva nemmeno il motivo. Perché continuava ad inseguire qualcosa che gli sfuggiva dalle mani?
Sen e Yakamochi, l’altro chitarrista, si voltarono verso di loro nello stesso momento. Il batterista continuò, afferrando Matt dalle spalle.
«Io so che questa band è la cosa più preziosa che abbiamo, ma dobbiamo prendere una decisione»
Il biondo spostò lo sguardo verso il pavimento, sentendo i suoni ovattati, distanti. Notò vagamente gli altri due che si avvicinavano.
«Dobbiamo capire se tutto questo ci gioverà o ci farà crollare ancora di più»
Ciò che Masaru stava dicendo rifletteva il pensiero di tutti. Forse, in cuor suo, era quello che anche lui pensava, ma non aveva mai avuto il coraggio di ammetterlo.
Si guardò intorno. Come aveva fatto a non accorgersi prima delle condizioni in cui cercavano di tirare avanti? La buia e umida saletta dove si riunivano per provare, gli strumenti che avevano bisogno di essere cambiati, la sua fantasia che vacillava e che non gli permetteva più di scrivere buoni testi...
Era stato uno stupido, fino ad ora, perché si era illuso volutamente senza mai guardarsi intorno.
«Matt, è difficile da accettare, per tutti noi... Però è ora di chiudere questo capitolo, almeno per un po’, almeno fino a quando non ci sistemeremo tutti. Almeno fino a quando le nostre vite non si stabilizzeranno»
Sen era da sempre stato il più ragionevole del gruppo, e apprezzava quelle parole sincere. Anche se sentiva di sprofondare piano piano, perché era come se un pezzo di sé lo stesse abbandonando per sempre.
Yakamochi gli mise una mano sulla spalla in segno di conforto. Erano tutti d’accordo, quindi. Erano tutti d’accordo sull’idea di sciogliere la band ed andare avanti ognuno con la sua vita.
Ma qual era la sua direzione, adesso?
Che piega avrebbe assunto la sua vita, adesso che avrebbe detto addio a quello che, per anni, aveva rappresentato il suo mondo, la sua esistenza?
Forse era vero. Era vero che era egoista, che non riusciva a capacitarsi di ciò che accadeva intorno a lui, che badava solo a sé stesso, senza curarsi se le persone che gli stavano accanto stavano bene.
Un suo pensiero andò a Sora, e gli si strinse il cuore. Aveva sbagliato tutto, e lo stava facendo anche con lei.
Lei non gli avrebbe mai detto di mollare, lo avrebbe abbracciato e lo avrebbe spronato ad andare avanti.
Ma adesso che cosa avrebbe dovuto fare?
Adesso che lei era così lontana...
I ragazzi ancora lo fissavano e lui non aveva detto una parola. Si passò una mano tra i lunghi capelli biondi e si schiarì la voce.
«Avete ragione, è meglio così. Scusate se non me ne sono reso conto prima»
Era la miglior cosa da fare, arrivati a questo punto.
Recuperò la sua chitarra e si allontanò. Sentì la voce roca di Masaru che lo chiamava, ma non era il momento di tornare sui suoi passi.
Chiuse gli occhi e camminò lentamente, in direzione dell’uscita. Faceva male arrivare a certe consapevolezze. Faceva male rendersi conto come il sogno che aveva inseguito per così tanti anni fosse effimero, e mai avrebbe potuto raggiungerlo.
Si era racchiuso nelle sue convinzioni per un tempo infinito, senza aver dato uno sguardo alla realtà. E adesso che si ritrovava catapultato bruscamente al presente faceva male.
Faceva male rendersi conto di come tutto ciò che aveva fatto non era servito a niente, e che adesso si ritrovava da solo.
Solo, senza sapere cosa fare.
Solo, senza una via d’uscita.
Solo.
I corridoi di quella sala buia sembravano immensi e la luce in fondo al tunnel era debole e lontana.
Afferrò il cellulare e percorse la rubrica. Si fermò al suo nome, e il cuore sembrava impazzito.
Aveva bisogno di lei.
Sì, aveva tanto bisogno di lei.
Faceva male arrivare a certe consapevolezze.
Posò il telefono in tasca, nuovamente, senza fare nulla. Uscì finalmente da quel luogo e inspirò aria pura.
Lui era Yamato Ishida e faceva sempre a modo suo.
Nonostante fosse sbagliato, nonostante facesse male, nessuno lo avrebbe cambiato.
 
 
 




 
******
 
 
 



 
Posò la matita sul foglio dove aveva disegnato un insoddisfacente kimono dalla fantasia floreale e si stiracchiò le braccia. Era stanchissima, e aveva passato l’ennesima giornata senza aver concluso niente. Mimi sospirò, spostando gli occhi castani verso il balcone. Fuori era una bella giornata e avrebbe volentieri gradito una passeggiata al parco piuttosto che rimanere seduta a spremersi il cervello per metter su qualcosa di decente da presentare al corso di collezione.
Le rimanevano pochi esami da dare e poi avrebbe potuto laurearsi anche lei.
Spostò lo sguardo verso la pila di piatti sporchi che avrebbe dovuto lavare quello scansafatiche di Jyou, con il quale lei e Sora condividevano un appartamento nel quartiere di Tokyo più vicino all’università.
Scosse la testa, pensando che ultimamente quell’impiastro era così impegnato a laurearsi tanto da essere diventato più insopportabile di prima. La data era fissata due giorni dopo e la ragazza continuava a stupirsi di come avesse fatto quel burino a terminare i suoi studi in medicina. Non era una facoltà da poco e, ad essere sinceri, lei e Sora non avevano mai visto Joe studiare seriamente. Stava per la maggior parte del tempo fuori, anche dopo aver finito i corsi, e quando gli chiedevano a che punto fosse arrivato con gli esami, si arrabbiava e rispondeva sgarbatamente.
Afferrò un altro foglio e abbozzò qualcosa. Joe aveva ventisette anni e non era cambiato di una virgola. L’annuncio della sua laurea aveva lasciato tutti a bocca aperta. Aveva agito all’insaputa di tutti e quando aveva comunicato loro la notizia, Mimi aveva pensato che c’era speranza per tutti in quel mondo ingiusto.
I piatti giacevano ancora sul lavello, e la cosa migliore da fare sarebbe stata alzarsi e lavarli, dato che Joe non era ancora tornato. Storse il naso e decise di non farlo.
Era pur sempre Mimi Tachikawa e neppure lei era così cambiata.
Non avrebbe fatto qualcosa al posto di qualcun altro, specie senza ricevere niente in cambio. Era sempre stata un poco opportunista, lo ammetteva, ma doveva dare una bella lezione a quel burino vagabondo. Ridacchiò, e continuò a disegnare.
Era cresciuta molto rispetto a tanti anni fa. Adesso aveva ventiquattro anni, frequentava l’università di Tokyo al corso di Design della Moda, si era trasferita di casa insieme ai suoi amici e puntava a trovare il lavoro perfetto. Si spostò dal volto una ciocca dei suoi lunghi capelli castano chiaro. Da quando si era iscritta all’università, la sua vita aveva subito una piega diversa e aveva preso decisioni delle quali ancora portava le cicatrici.
Si morse le labbra rosee e tentò di scacciare dalla testa quei pensieri tristi ed insistenti, ma da un po’ di tempo a quella parte erano tornati a destabilizzarla, anzi forse non l’avevano mai abbandonata del tutto.
Sospirò profondamente e con tutte le sue forze tentò di non lasciarsi andare, cercò di non perdersi dentro le immagini del passato che puntualmente tornavano a travolgerla.
Lei era Mimi Tachikawa e ci voleva ben altro per trascinarla giù.
La compagnia di Sora le incuteva forza e le trasmetteva così tanto amore fraterno da non sentirsi mai da sola. L’aveva aiutata molto da due anni a quella parte, nonostante anche lei avesse dei problemi, e l’aveva aiutata a crescere e a fortificarsi.
Solo che adesso lei non c’era, e quando i pensieri bussavano insistenti non riusciva a resistere così a lungo.
Continuò a disegnare per il suo esame, tentando con tutte le sue forze di non cedere. Era difficile trattenersi quando si era pronti a scoppiare. La solitudine in quegli ultimi mesi non l’aiutava affatto. Odiava rimanere a casa da sola, perché erano quelli i momenti in cui faceva i conti con sé stessa.
Joe era irrintracciabile, sperduto in chissà quale recondito luogo; la sua amica da un po’ di tempo frequentava una scuola di balli caraibici, altrimenti andava in biblioteca o si barricava in camera a studiare.
Lei si ritrovava seduta in cucina a perdersi tra le righe dei suoi libri o tra le linee della sua matita.
Ogni tanto telefonava a Koushiro, poteva considerarlo quasi come un migliore amico. Era l’esatto opposto di lei, perciò quando aveva bisogno di un parere saggio e razionale lo chiamava. Purtroppo il rosso era impegnato anche lui a portare a termine i suoi studi da ingegnere, quindi Mimi si ritrovava più volte da sola con i suoi dubbi e le sue incertezze.
Cancellò qualcosa, dopo decise di alzarsi e prepararsi un the verde. Era una bevanda che l’aiutava a rilassarsi, a differenza della camomilla che la faceva addormentare subito.
Forse aveva bisogno di uscire; sì, forse era in quel modo. Era da così tanto tempo che non organizzava qualcosa con Sora e gli altri. Magari una pausa da tutto quello studio e da quei pensieri stremanti l’avrebbe aiutata a star meglio.
Non sentiva i ragazzi da tempo. Tutti erano impegnati con le loro cose; chi studiava all’università, chi lavorava e chi era lontano circa cinquecento kilometri da Tokyo... Calcò con la matita, spezzando la punta.
Per sciogliere quel groppo in gola che le si era appena formato, bevve un sorso del suo the. L'aiutava a sviare i tristi pensieri.
Ma lei era Mimi Tachikawa e pensava tanto.
Era la numero uno dei pensieri tristi e dei desideri infranti.
Aveva bisogno di staccare. Aveva bisogno di rivedere i suoi amici, parlare con loro, divertirsi come i vecchi tempi. Perché insieme stavano bene, avevano superato tante difficoltà e c’erano sempre stati l’uno per l’altro.
L’amicizia era per lei un bene prezioso e incomparabile.
Ripensò all’amicizia tra lei e Sora, un' amicizia salda e profonda, un rapporto stretto che avevano mantenuto con il tempo tanto da aver deciso di andare a vivere insieme. Quel burino di Joe si era poi aggiunto in seguito.
Ripensò alla piccola Hikari, che si era iscritta a Scienze della Formazione Primaria ed era già al terzo anno per poter diventare maestra. La sua dolcezza e la sua comprensione la facevano brillare di luce propria.
Insieme a Takeru avevano da sempre rappresentato il modello di coppia perfetta e tuttora andavano alla grande. Il biondino non aveva perso tempo a godersi la vita, frequentando locali e facendo il PR in varie discoteche. Forse Yamato non era felice dello stile di vita adottato dal fratello, ma per lui c’era ancora una speranza.
La storia tra il maggiore e Sora continuava, ma non era delle migliori. Anche se la ramata non amava parlarne, lei aveva capito che c’era qualcosa che non andava tra di loro, e non riusciva a capacitarsi di come non si fossero ancora affrontati per sistemare le cose.
Se solo loro due l’avessero fatto bene, allora...
La sua mano continuava a muoversi, ispirata.
Matt non era il tipo di ragazzo che si apriva facilmente agli altri, era per questo che Sora si era rintanata in un guscio ad aspettare che facesse un passo verso di lei. Il fatto era che così avevano sprecato del tempo prezioso a entrambi.
Sospirò, malinconica.
Matt riusciva a parlare con una sola persona. Era con quella persona che riusciva ad aprirsi completamente e ad esporre i suoi dubbi e le sue paure. Quella persona era Taichi, il suo migliore amico.
Non era riuscita a sviare quei pensieri del tutto, perché la sua mente era tornata lì, imperterrita, senza che lei riuscisse a fermarla.
Le vennero le lacrime agli occhi.
Quasi due anni per cercare di dimenticare la persona più importante delle sua vita, ma era come tentare di eliminare una parte di sé, del proprio vissuto...
E lei era Mimi Tachikawa e non era abituata a dimenticare ciò che era stato.
Perché tutto quello era stato la sua vita, il suo amore, la sua forza.
Lui era stato così coraggioso ad andare avanti per la sua strada senza mai voltarsi indietro, ma lei non ci era riuscita.
La cicatrice nel suo cuore bruciava ancora, pulsava e sembrava voler esplodere da un momento all’altro.
Tai le mancava da morire, aveva lasciato dentro di lei un vuoto inestimabile, una mancanza insanabile che nessun’altro avrebbe mai potuto sostituire.
La sua mente, il suo cuore, tutto la riconduceva a Tai.
Tai, che aveva preferito un’altra vita a quella insieme a lei.
Tai, che non l’aveva fermata quando aveva deciso di rinunciare a lui.
Tai, che era stato il suo unico e vero amore.
Si accorse di star piangendo, una lacrima bagnò il foglio del suo album da disegno e si apprestò ad asciugarla.
Pensi mai a me, Tai?
Perché io non riesco a non farlo.
Fu distratta dal suono del suo cellulare che, prepotentemente, la riportò alla realtà. Si asciugò il naso con un fazzoletto e lesse lo schermo del telefono.
Scosse la testa con un’espressione amara, poi portò l’aggeggio all’orecchio.
«Pronto?» tirò su col naso, tentando di assumere un tono adeguato.
Il ragazzo dall’altro filo si schiarì la voce.
«Come va, Mimi?» le chiese.
La castana si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e puntò lo sguardo per terra.
Era Shinichi, un ragazzo che aveva conosciuto ad una festa a casa di alcuni colleghi universitari. Era da circa due mesi che uscivano insieme, lui le dava attenzioni, la chiamava spesso ed era presente. Troppo presente.
Mimi non sapeva se era quello di cui aveva bisogno.
«Bene, grazie» La sua testa cercava di spingerla tra le braccia di quel tipo, ma il suo cuore era fermo.
«Ti va se ci vediamo stasera?» Il tono di Shinichi si sforzava di essere allegro, e apprezzava il tentativo, ma era inutile.
«Devo studiare, mi dispiace»
Il ragazzo non demorse.
«Facciamo domani, allora»
Le dispiaceva che si fosse preso una cotta per lei, in fondo era un bravo ragazzo ed era pure carino. Il fatto era che non si sentiva pronta. Era passato tanto tempo e ancora non si sentiva pronta a lasciarsi andare, a viversi qualcosa con qualcuno che non fosse lui.
«D’accordo»
Però doveva sforzarsi, si disse, doveva sforzarsi di andare avanti e lasciarsi il passato alle spalle. Anche se era estremamente difficile, doveva tentare di prendere in mano le redini della sua vita.
Quando riattaccò, fu assalita da un brutto senso di vuoto e solitudine. Non era brava a mentire, il suo animo era puro.
Il the si era ormai freddato. Si portò le mani sul capo.
Tai non l’aveva chiamata, né lo aveva chiamato lei. Si erano solo visti di sfuggita le poche volte che avevano organizzato un’uscita tutti insieme.
Cosa pretendeva adesso?
Lui non sarebbe mai tornato sulla sua decisione, e lei non poteva mostrarsi così debole.
Aveva senso aspettare qualcosa che non sarebbe mai successa?
Un senso di sconforto la pervase, si sentì sola ed abbattuta. Si diede della stupida, si diede la colpa per averci messo così tanto a terminare gli studi, si incolpò per aver iniziato quella frequentazione con Shinichi che non meritava di essere illuso.
Ma soprattutto, si sentì responsabile di tutto quello che era accaduto in quegli ultimi due anni. Era stata colpa sua se Tai aveva deciso di non vederla più.
Il cuore le batteva forte e per dei minuti che sembrarono un’eternità rimase con la testa appoggiata sul tavolo.
D’un tratto qualcosa catturò la sua attenzione, qualcosa di cui si era dimenticata. Erano i suoi disegni. Prese in mano i fogli dove aveva abbozzato alcuni modelli di kimono e si rese conto di essersi ispirata a loro, i suoi amici.
Rise di cuore e volse gli occhi al balcone, dove il sole stava tramontando.
Anche se faceva male, doveva rimettersi in piedi e lottare.
Avrebbe dato quell’esame che per anni la bloccava. Scacciò le lacrime, e si accinse a fornire descrizioni e misure.
Lei era Mimi Tachikawa e il buio non l’avrebbe inghiottita.
Perché la purezza del suo spirito vinceva il dolore.
 
 
 


 

 
*****
 
 




 
Si era fatta crescere i capelli che adesso superavano le spalle. Quel ramato acceso si era scurito con il passare del tempo, era diventato un colore più tenue, ma brillante. Nonostante tutto era sempre lei, Sora, non molto alta, un corpo discreto e un sorriso rassicurante. Si guardò allo specchio dello spogliatoio, e tentò di appuntarsi i capelli in una coda di cavallo. Si trovava all’interno di una scuola di balli caraibici che da un po’ di tempo frequentava. Ballare era diventata ormai una valvola di sfogo che la distraeva dallo studio e dai pensieri. Era perfino diventata abbastanza brava, lei che in venticinque anni di vita non aveva mai imparato un passo, nemmeno quando aveva partecipato alla recita del liceo.
Adesso si muoveva sensualmente al ritmo di quella musica straniera senza sbagliarne uno.
Era Sora Takenouchi, lei, ed imparava sempre tutto.
Studiava all’università, si stava specializzando in Psicologia Clinica e della Salute e adesso aveva da scontare le ultime quarantadue ore di tirocinio in una struttura apposita. Amava mettersi a lavoro, prendere appunti sul metodo utilizzato, sedersi accanto a dei professionisti e imparare da loro.
Inoltre, il fine settimana impartiva delle lezioni di inglese -si occupava della didattica ludica- ad un gruppo di bambini di una scuola privata, dove era diventata assistente temporanea grazie al suo attestato di lingua. Questo impiego part-time le permetteva, così, di guadagnare qualche soldo in più per potersi mantenere.
Aveva una mente aperta e brillante, era altruista, schietta e sincera. Non era poi così cambiata dalla ragazza che era anni fa. Era diventata più adulta, aveva acquisito maggiori consapevolezze e fatto nuove esperienze, ma era pur sempre lei.
Perché a Sora Takenouchi non piacevano i cambiamenti.
Anche se aveva dovuto imparare ad adeguarsi, aveva dovuto imparare a frenare la sua impulsività e a chiudersi forzatamente in sé stessa.
Si sistemò la maglietta aderente che le metteva in evidenza il seno.
Da qualche tempo le cose non andavano più bene come una volta. E nonostante odiasse i cambiamenti, non riusciva a fare niente per evitarli.
Sospirò, un po’ rassegnata. Era strano tutto quello, era strano non poter condividere tutto quello che le stava succedendo con la persona più importante, era strano dover stare seduta ad aspettare che le cose si sistemassero.
Ma niente poteva aggiustarsi da solo, senza che qualcuno non gli desse una spinta. Era un po’ come il primo principio d'inerzia.
Forse lo studio la stava facendo delirare, se pensava a leggi fisiche in quel momento. Ad interrompere i suoi pensieri arrivò lui, che spalancò la porta con un sorriso gigante e la guardò con una luce negli occhi.
Sora si sentì avvampare e deglutì lentamente.
Per quanto si sforzasse a controllare le sue emozioni, queste la vincevano sempre.
Victor era un ragazzo di origini americane che si era iscritto nella sua stessa facoltà. Si erano conosciuti il primo anno e da allora erano diventati amici. Ogni tanto uscivano insieme, si passavano gli appunti, si sentivano al cellulare. Ultimamente si vedevano quasi ogni giorno, perché lui era il nipote del proprietario della scuola di ballo e l’aveva convinta ad iscriversi.
Era davvero bravo a ballare, e quando le faceva da partner, Sora si sentiva in completo imbarazzo.
Come sempre quando si trovava con lui.
«Take, sei pronta?» le chiese, rivolgendosi a lei con il nomignolo con cui la chiamava abitualmente. Era l’abbreviatura del suo cognome.
«Sei troppo lenta»
Ridevano e si prendevano in giro sempre. Lei si avvicinò cercando di colpirlo scherzosamente, ma lui l’aveva già afferrata.
Sora guardò i suoi occhi grigi, e si perse dentro.
Erano come le onde di un mare in tempesta, una tempesta che infuriava dentro di lei.
Victor la scosse dalle braccia, senza mollarla.
«Non potresti essere più bella di così» alluse al fatto che ci stesse mettendo un sacco di tempo a prepararsi, e in effetti Sora non capiva nemmeno il perché.
Lo guardò con gli occhi spalancati, mentre lui continuava a sorridere, impacciato.
«Però adesso è ora di andare»
Avrebbe passato tutto il tempo a guardarlo e a sentire i battiti del suo cuore riecheggiare nelle sue orecchie.
Ma lei era Sora Takenouchi e non si faceva trascinare da quelle onde.
Si staccò da lui e gli diede una spinta.
«Stupido!» lo apostrofò, sentendosi impacciata.
Victor scoppiò a ridere e insieme lasciarono lo spogliatoio.
Entrarono in sala da ballo dove c’erano altre persone che aspettavano l’inizio della lezione. La ragazza si mise al suo posto e alzò gli occhi su di lui che con un braccio le cingeva la schiena, mentre con la mano libera aveva afferrato la sua.
«Ti guido io» le sussurrò all’orecchio, e Sora sentì dei brividi.
Era così ogni volta che ballavano insieme. Quel ballo era iniziato per gioco, ma era pian piano diventato sempre più intimo.
«Potrei abituarmici troppo» ridacchiò per smorzare l’imbarazzo «Magari poi capito con qualcuno meno bravo di te»
Il ragazzo la strinse di più al suo petto, mentre lei abbassava lo sguardo. La sua mente, il suo cuore, tutto era rivolto verso di lui.
«Faremo in modo di ballare sempre insieme, allora»
La musica partì e Victor le diede una leggera spinta per guidarla. Cominciarono a muoversi, seguendo dei passi già memorizzati, e con loro tutto il resto della sala.
Sora si lasciò accompagnare, muovendosi a tempo. Socchiuse gli occhi, pensando a quando stava bene, lì, così.
Era da tempo che non si sentiva così serena, così libera, così sé stessa.
E tutto questo lo doveva a lui.
Lo guardò. Era così bello mentre ballava, così concentrato, mentre la faceva volteggiare.
Si sentiva come una farfalla pronta a spiccare il volo.
Che cosa le stava succedendo?
Si guardarono fisso e ripresero a muoversi.
Era da un po’ di tempo a quella parte che sentiva qualcosa per Victor. Era stato tutto un crescendo, un rapporto che si era alimentato con lo scorrere degli anni, e piano piano, lui era diventato sempre più presente, sempre più vivido.
Era di questo che aveva bisogno.
Perché lei era Sora Takenouchi e voleva sentirsi amata.
Pensò ai suoi amici. Cosa avrebbero detto se l’avessero vista proprio ora? Agghindata in quel modo che ballava quelle musiche.
Le mancavano così tanto, tutti... Avrebbe fatto qualunque cosa per poterli vedere anche solo un’ora, perché con loro aveva condiviso tutto.
Avrebbe condiviso perfino il ballo. Avrebbe assegnato ad ognuno di loro il tipo di danza che più li rappresentava.
Per prima cosa Taichi, il suo migliore amico, la sua forza... Avrebbe volentieri ballato con lui una bachata, degna del tipo di uomo che era diventato. Lo poteva quasi vedere mentre si muoveva a tempo di musica, volteggiando con i fianchi e seguendo i passi con le gambe. Era il tipo di ballo per lui, lui che era così coraggioso e riusciva a portare a termine ciò che desiderava... Le mancava tantissimo, avrebbe tanto voluto vederlo...
La musica terminò e ne partì un’altra. Si creò un po’ di baccano e lei si sentì stringere ancora di più da Victor.
Chiuse gli occhi e continuò a pensare.
Mimi l’avrebbe vista con addosso un lungo vestito con le balze, i capelli appuntati in uno chignon ed un rossetto rosso sulle labbra a ballare il flamenco. La sua migliore amica con quell’animo così ingenuo e puro, mentre si muoveva in quella danza straniera, pestando i piedi e battendo le mani, volteggiando di qua e di là, un po’ come faceva nella vita.
E Koushiro, quel rosso cervellone a cui era tanto legata, che per la sua saggezza gli ricordava tanto un uomo di altri tempi, un uomo vissuto con tante cose da insegnare agli altri. Lo avrebbe visto mentre ballava un twist morbido, sciogliendosi dai pensieri e dagli affanni.
Le vennero le lacrime agli occhi. Erano così cresciuti, ognuno di loro era andato avanti con le loro vite, ma nessuno di loro aveva dimenticato. Nessuno di loro si era dimenticato di ciò che era stato, di ciò che avevano vissuto insieme, solo loro.
Anche se le cose non erano andate come volevano. Pensò a Tai e Mimi che si erano lasciati da tanto tempo, e ripensò a tutte le volte che aveva visto la sua amica piangere di nascosto, alle poche volte che aveva potuto incontrare il suo amico quando gli era concessa una pausa, al suo volto triste, infelice.
Era Sora Takenouchi e riusciva a vederle certe cose.
Anche se quando si trattava di lei diventava d’un tratto cieca.
Ma per fortuna c’erano loro due, i più piccoli, ma non così tanto piccoli, che la facevano ancora credere nell’amore.
La giovane Hikari che aveva sempre un sorriso smagliante, uno sguardo benevolo, una parola di conforto per tutti. Lei sarebbe stata così lucente fasciata in un vestito dorato mentre si muoveva in un leggero valzer. E il suo partner, Takeru, così diverso da lei, la sua perfetta metà, avrebbe ballato un mambo, per mettere in evidenza il suo essere forte e libero, per urlare in faccia a tutti loro che c’era una speranza per ognuno.
Victor le sorrideva e lei ricambiò, mentre si muoveva sensualmente.
Il pensiero della laurea di quel matto di Jyou le fece desiderare di incontrarli tutti. Poteva essere un buon pretesto e Joe era pure il coinquilino suo e di Mimi, pensò, anche se non faceva mai le faccende domestiche. La sua sincerità disarmante la investiva ogni volta sorprendendola sempre di più, per questo gli avrebbe affidato un tip tap, che rispecchiava al meglio la personalità dell’amico, goffa ed esibizionista.
Si mise a ridere da sola, facendo voltare alcune persone verso di sé. Tentò di smettere mordendosi le labbra, ma il solo pensiero di Joe che ballava in quel modo la faceva divertire troppo.
Quando Victor le fece fare un casquè dove la distanza dei loro volti si minimizzò di molto, Sora ebbe un tuffo al cuore.
Per tutto quel tempo aveva pensato a quanto era stata bene con altre persone che non fossero lui, dimenticando di quanto loro due fossero stati bene insieme.
Erano passati tanti anni, e loro erano lontani più che mai e non solo fisicamente.
Le cose avevano incominciato ad incrinarsi da quando lui aveva iniziato a frequentare le lezioni al conservatorio. Non aveva più tempo per stare con lei, si vedevano pochissimo e Sora ne soffriva terribilmente. Gli scontri avevano lasciato pian piano spazio a dei silenzi pesanti, dove non riuscivano più a parlarsi, a raccontarsi... erano rimasti così, insieme forse per paura di restare da soli, ma senza il coraggio di affrontarsi. Avrebbe tanto avuto bisogno di qualcuno con cui parlare, avrebbe tanto avuto bisogno di Tai che l’aiutava sempre quando era in difficoltà, nonostante fosse anche il suo migliore amico.
Guardò il ragazzo con cui stava ballando e i sensi di colpa la catturarono.
Lui non era la persona giusta, perché quegli sguardi, quei sorrisi, quegli abbracci appartenevano a Yamato, e solo a lui.
E allora perché continuava a chiudersi circondata dalla sua inerzia?
Sentì nuovamente le lacrime agli occhi e i suoni scomparvero d’un tratto.
Immaginò di essere presa da lui, con vigore, di essere stretta al suo petto come non lo faceva da tanto. Lo avrebbe guardato negli occhi e lui avrebbe fatto lo stesso, persi l’uno dentro l’altra, e  poi avrebbero danzato un sensuale tango, senza smettere mai di toccarsi, complici di un ballo che rappresentava la loro storia, passionale e burrascosa.
Matt, perché hai lasciato che andassi via dalle tue braccia?
Perché non hai fatto niente per potermi trattenere a te?
Perché hai dovuto fare in modo che io guardassi qualcun altro che non fossi tu?
Si morse il labbro, colpevole di quelle mani e quegli occhi che la toccavano, la cercavano.
La lezione terminò e si ritrovò stretta tra le braccia di Victor. Il cuore le batteva forte, sia per l’affanno che per tutto quello che provava.
Sentimenti contrastanti, emozioni forti che credeva di non provare più.
Si era sentita così spenta per tutti quegli anni, mentre adesso splendeva di vita.
«Ti chiamo domani» mormorò quello al suo orecchio, e la pelle divenne più sensibile, lo stomaco si chiuse, e la testa le girò.
Sentiva le gambe molli.
Lo guardò e annuì con un sorriso timido, dopodiché, lentamente, si accinse a tornare negli spogliatoi.
Perché hai dovuto lasciarmi sola in balia di tutto questo, Matt?
Non era forse così forte il nostro amore come pensavamo?
Si sentiva debole e distrutta. Si sciacquò il viso, si sciolse i capelli e si guardò allo specchio.
Aveva tanto bisogno di crederci ancora.
Aveva tanto bisogno di sentirselo dire.
Lei era Sora Takenouchi e aveva bisogno di essere amata con tutto il cuore.






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Capitolo 3
*** Siamo ***








L’autobus ripartì, mentre un ragazzo alto con i capelli castani alzava gli occhi al cielo. Si guardò intorno, godendosi quel paesaggio che tanto gli era mancato.
Il sole era alto e batteva sui palazzi, i passanti frettolosi si accingevano a tornare a casa, le auto sfrecciavano a tutto gas non appena il semaforo era diventato verde.
Ispirò l’aria di casa, una leggera brezza che gli rinfrescava il viso. Si strinse in spalla il borsone e con una mano afferrò la valigia.
Camminò lentamente, osservando ogni minima cosa che gli si presentava dinanzi. Gli era mancato tutto.
Gli erano mancati i rumori, gli odori, il caos di Tokyo. Erano mesi che non si beava di tutto quello, erano mesi che era costretto a fare quei duri allenamenti che lo avevano stremato, erano mesi che l’unica cosa che gli era concessa vedere era la sua camera del residence. 
Era come se stesse riprendendo vita, era come se il sangue fosse tornato a scorrergli nelle vene dopo tanto tempo, era come se si fosse svegliato da un lungo sonno.
Gli scappò un sorriso, mentre guardava con attenzione le vie e i negozi. Passò vicino ad un parco, osservò gli alberi e le panchine.
Come aveva fatto per così tanto tempo ad aver rinunciato a tutto quello?
Girò da una via e imboccò un’altra strada. Si era fatto lasciare in quel quartiere perché aveva intenzione di andare a trovare una persona.
Si fermò di fronte ad un appartamento non molto grande, notò che il portone era aperto ed entrò. Salì un paio di scale fino ad arrivare dinanzi a una porta.
Era lì che abitava da circa tre anni. Dall’odore che proveniva da dentro sicuramente stava cucinando qualcosa di buono, e ora che ci pensava era quasi l’una del pomeriggio ed aveva una fame da lupi. Suonò e attese.
Quando la porta si aprì, Taichi sorrise alla visione di un Yamato con i capelli scompigliati e una vecchia tuta addosso.
Lui che era sempre così perfettino.
Questi lo guardò boccheggiando, spalancando gli occhi.
Era lì. Il suo migliore amico era lì.
Si chiese se non stesse ancora sognando, ma il ragazzo aveva incominciato a ridere con la sua solita risata fragorosa, e lui pensò che era tutto vero.
Non avrebbe mai potuto dimenticare quella risata.
La sua risata.
«E’ così che accogli il tuo vecchio?!» gli chiese con sarcasmo, mentre l’altro era ancora fermo sulla soglia e lo fissava interdetto.
Si risvegliò da quello stato di trance e sentì la gioia pervaderlo, perché non era uno scherzo, lui era lì, era tornato.
Taichi era tornato.
Scoppiò a ridere e l’altro fece lo stesso. Era straordinario come una merdosa giornata di fine maggio potesse diventare in un attimo splendida.
Matt si sporse e lo abbracciò. Gli era mancato tantissimo. Il castano ricambiò la stretta e pensò la stessa cosa.
«Tai» sussurrò con affetto sincero. Questi continuò a ridere, tirandogli pacche sulla schiena.
«Cazzo, sei qui» Il biondo si stancò dall’abbraccio e lo esaminò, ancora con un’espressione interrogativa in volto.
Tai si passò una mano tra i capelli, poi prese la sua valigia.
«Allora, mi fai entrare o ci sediamo sulle scale?»
Matt annuì e si spostò per farlo passare. Quando  varcò la soglia, fu investito da un forte odore di cibo e il suo stomaco reagì subito, brontolando.
Si guardò intorno, esaminando bene l’appartamento. Era un piccolo monolocale con cucina e soggiorno insieme. Ciò che gli saltò all’occhio fu senza dubbio il ventilatore da soffitto e la carta da parati a righe sfumate, senape e marroni. Appena si entrava, sulla sinistra, c’era un grosso frigo vecchio stile di color ottanio. La cucina, invece, era di un blu smorto e proseguiva ad angolo retto fino all’altro muro. Il tavolo in legno sembrava più una penisola, e aveva solo due sedie a disposizione. In fondo, sulla destra, c’erano un divano grigio a due posti e un televisore poco moderno appoggiato su un mobiletto. La casa non era molto arredata se non per una piccola libreria dove c’erano libri e altre cianfrusaglie. La luce era poca, entrava dall’unica finestra che c’era in fondo e dava l’idea di un antro segreto. Matt si sforzava di tenere in ordine, ma c’erano spartiti sparsi qua e là, cianfrusaglie sopra il mobile all’entrata, la sua chitarra appoggiata sul divano e le tazze della colazione ancora dentro il lavello. Però gli piaceva. Nonostante fosse piccola e poco luminosa, era accogliente.
Era da Matt.
«Cosa stai cucinando?» gli chiese, avvicinandosi ai fornelli e alzando il coperchio della pentola.
«Uno spezzatino con le patate»
Tai si voltò a guardarlo, sorridente.
«Non sei affatto cambiato» alluse alle sue capacità culinarie che lo avevano da sempre contraddistinto.
Il biondo scosse la testa, e continuò a guardarlo.
Erano da più di sette mesi che non si vedevano e il corpo di Tai era ancora più tonico, aveva una leggera barbetta e si era perfino tagliato i capelli.
Ma era sempre il solito Taichi. Magari un po’ più serio, un po’ più maturo, ma era sempre lui. Ed era per questo che Matt gli voleva bene.
«Neanche tu» gli sorrise, mentre lo osservava sedersi sul divano con le braccia incrociate dietro il capo.
Il biondo si avvicinò ai fornelli e diede una controllata al cibo. Poi lo scrutò, indagatore.
«Come mai sei qui?» gli chiese finalmente, notando il cambio di espressione dell’amico. Tai, infatti, aveva fatto una smorfia.
«Mi sono preso una pausa, non ce la facevo più» spiegò, passandosi una mano sul volto.
Aveva trascorso mesi e mesi di inferno, obbligato ad allenarsi fino allo stremo delle forze, segregato dentro una camera senza poter vedere nessuno.
«Ho anche litigato con il mio allenatore» continuò, ricordando i dissapori avuti con Akira. Era un uomo meschino e arrogante, non aveva nessun rispetto per i suoi calciatori, e badava solo a guadagnare denaro.
Tai strinse un pugno. Non sarebbe stato la macchinetta di nessuno da quel giorno in poi.
Matt notò l’espressione tesa del suo volto.
«Quanto rimani?»
Il castano spostò lo sguardo verso la finestra. Avrebbe voluto rimanere per sempre a Tokyo senza dover dare conto a nessuno, ma non si poteva avere tutto dalla vita.
Per seguire il suo sogno doveva rinunciare alla sua serenità.
«Solo una settimana» proferì infine con un sospiro.
Matt aprì la bocca, deluso. Credeva che con l’avvento dell’estate e la fine delle partite poteva restare molto di più.
«Cazzo...» imprecò a bassa voce, mentre Tai ridacchiava amaramente.
Erano così rari quei momenti che non si aveva nemmeno il tempo di viverli. Ma era risoluto questa volta, si sarebbe goduto tutto di quel luogo, della sua famiglia e dei suoi amici.
Non avrebbe avuto rimpianti, quelli sì che straziavano il cuore.
Si alzò dal divano e lo raggiunse. Gli si parò di fronte e notò che erano alti uguali. Matt aveva allungato di nuovo i capelli e aveva un po’ di barba che gli incorniciava il viso. Aveva sempre avuto quell’aspetto angelico e un po’ sofferente, quello di un ragazzo bello e dannato.
Gli posò una mano sulla spalla, e lui alzò gli occhi cerulei.
«Ehi, amico, ti prometto che recupereremo tutto»
Sapeva che manteneva le promesse, eppure il biondo pensò che non sarebbe mai bastato tutto il tempo del mondo per attenuare la mancanza che aveva dentro.
Ma era sempre stato un tipo silenzioso e non aveva mai preteso niente da nessuno. Tai aveva la sua vita.
Lui era solo un idiota che non aveva ancora fatto i conti con sé stesso.
Il rumore della pentola lo distrasse e si premurò di abbassare il fuoco. L’altro si accorse che c’era qualcosa che non andava.
«Che succede qui intorno?»
Nel frattempo, lo aiutava ad apparecchiare la tavola. Matt alzò le spalle e prese due piatti dalla credenza.
«Uno schifo» mormorò, mentre spegneva i fornelli «Lavoro quattro giorni a settimana e mi pagano di merda»
Non era solo questo, però. Lo sentiva.
«E con la band come va?»
Tai era sempre stato bravo a sganciare bombe, ma questa era peggio di una ad idrogeno. Il biondo sentì il cuore battere più forte e un immane senso di tristezza lo pervase.
«Abbiamo rotto definitivamente» disse atono, mentre l’altro spalancava gli occhi e lo guardava interrogativo.
«No, e quando?!» Tai era stupito, ma Matt guardava in faccia la realtà.
Non serviva a niente perdere tempo con qualcosa che non aveva futuro.
«Giusto ieri» rivelò, godendosi la faccia stupefatta dell’altro.
Il castano non poteva udire alle sue orecchie. La musica era tutto per Yamato, era il suo mondo, la sua valvola di sfogo, e quella band andava avanti da un paio d’anni. Perché era finito tutto?
«Che cazzo... Ma perché?» diede voce ai suoi pensieri.
Matt strinse la pezza tra le dita e cominciò a versare il cibo sui piatti.
«C’erano più spese che guadagni» disse con voce roca, dopo qualche secondo
Mentre parlava faceva rumore con i piatti e le pentole. Tai notò che era segno di nervosismo.
«E poi, parliamoci chiaro» si voltò di scatto e lo guardò serio
«Le band non piacciono a nessuno, sono passate di moda, ormai. Si erano rotti le palle tutti, ero io l’unico idiota che ancora ci credeva...»
La sua voce si spezzò, e lo vide mordersi il labbro. Tornò a trafficare in cucina, e a Tai fece tanta tenerezza. Si sforzava di essere il più razionale e indifferente possibile, come faceva sempre d’altronde, ma lo conosceva fin troppo bene per crederci.
Soffriva per quella decisione, perché tutto quello aveva rappresentato per anni il suo unico obbiettivo di vita. Era andato a vivere in un altro quartiere di Tokyo per frequentare il conservatorio, lavorava in un bar da quattro soldi per mantenersi l’affitto e le spese, non sapeva dove sbattere la testa perché era solo e non c’era nessuno ad aiutarlo.
Non poteva mollare dopo tutti quei sacrifici.
«Non sei un idiota se tutto ciò che hai fatto è stato seguire il tuo sogno»
Disse quelle parole un po’ per confortare anche sé stesso. Aveva dovuto dire addio a diverse cose pur di giocare a calcio.
Ne era valsa veramente la pena?
Matt posò i due piatti a tavola e non lo guardò. Forse il suo amico ancora ci credeva, ma lui sapeva qual era la verità.
«A patto che non sia effimero»
Era duro quando parlava, lo era sempre stato, ma questa voltò turbò Tai più del dovuto.
Un sogno effimero... E se io stessi inseguendo qualcosa che non mi appartiene, che non mi apparterrà mai...
E se io scoprissi che tutto ciò che ho fatto non è servito a niente, che ho speso cinque anni della mia vita dietro al nulla...
E se quello che pensavo fosse il mio sogno, il mio unico obbiettivo di vita, si rivelasse... effimero?
Taichi si morse le labbra, lo sguardo perso nel vuoto. Forse il suo amico aveva ragione. Forse... forse il gioco non valeva la candela, e se ne stava pian piano rendendo conto anche lui... Era per questo che aveva deciso di tornare a casa, era per questo che non sopportava più i modi del suo allenatore e quelli dei suoi compagni...
Era per questo che aveva incominciato ad odiare quella vita.
Alzò gli occhi castani sull’altro, che aveva incominciato a mangiare. Il suo stomaco gorgogliava e decise di imitarlo, spegnendo quel flusso di pensieri che mano a mano lo stavano inglobando.
Decise di cambiare discorso e si schiarì la voce.
«E con Sora come va?»
Voleva solo essere una semplice domanda, ma aveva quasi rischiato di strozzarlo. Matt bevve un bicchiere d’acqua e spostò lo sguardo da un’altra parte.
Come andava con Sora?
Beh, era tutto così strano... Era così strano svegliarsi la mattina e ritrovarsi solo sul suo letto quando avrebbe desiderato trovare lei al suo fianco...
Come andava con Sora?
Era tutto così strano non sentirla per telefono da così tanto tempo, era strano non vederla ogni giorno, era strano non stringerla a sé...
Come andava con Sora?
«Ah, sì, con lei... Potrebbe andare meglio» mormorò, tentando di mantenersi il più neutro possibile. Ma Tai era il suo migliore amico, forse se lo era dimenticato, e capiva quando c’era qualcosa che non andava.
Quando c’era tutto che non andava.
«E’ successo qualcosa?» glielo aveva chiesto con un sospiro, perché lui e Sora erano i suoi punti di riferimento, e mai nella vita avrebbe voluto che accadesse qualcosa tra di loro.
Però adesso Matt aveva gli occhi bassi, e sentiva che soffriva, perché qualsiasi cosa fosse accaduta, lui a Sora teneva molto.
«No, non è successo niente. E’ proprio questo il fatto» ammise ridacchiando, mentre torturava il cucchiaio.
Avrebbe voluto succedesse qualcosa perché non riusciva più a sopportare quella situazione.
Era diventato così pesante gestire il peso di quel lungo silenzio.
Tai lo guardò serio.
«Matt...» fece per parlare, per dirgli che non doveva comportarsi così, che doveva andare da lei a chiarire se c’era qualcosa che non andava, perché lui e Sora si appartenevano, e Tai non voleva che soffrissero.
Il biondo però l’interruppe infastidito, come sempre quando si trattava di un fatto suo personale.
«Non mi va di parlarne, Tai, davvero» Pensò di averlo zittito, ma non era tipico del castano starsene zitto in quelle situazioni.
«Non essere stupido! Smettila di piangerti addosso come un bambino!»
Aveva alzato un po’ la voce, però era questo l’unico metodo che funzionava con Yamato. Lo fissò duramente, aspettando che dicesse qualcosa.
Quando uno dei due non capiva, l’altro gli apriva gli occhi, era sempre così.
E nonostante Taichi stesse rischiando di alimentare un litigio, lo aveva fatto comunque, perché colpendolo in uno dei suoi punti più sensibili lo avrebbe fatto ragionare.
Matt continuò a stringere la posata tra le dita, e il cibo si era ormai freddato.
Forse Tai aveva ragione.
Aveva ragione a dirgli che era un fottuto bambino del cazzo. Aveva compiuto ventisei anni e non era capace di mettere apposto le cose con la sua donna.
L’unica cosa che aveva saputo fare per tutti quegli anni era piangersi addosso e sperare che tutto si sistemasse da solo.
Era per questo che aveva sempre raccattato fallimenti.
Lo guardò.
Era contento che fosse tornato.
Annuì, convinto.
«Le parlerò» disse, senza aggiungere altro, e Tai sospirò di sollievo.
Yamato capiva sempre.
Gli regalò un sorriso e finirono di mangiare.
Era sempre così, tra loro due. Erano un continuo volersi bene e poi odiarsi e poi volersi bene ancora.
Erano Taichi e Yamato ed erano unici nel loro genere.
Dopo che finirono di mangiare, Matt si mise a preparare un caffè.
Nel frattempo, l’altro chiedeva ancora informazioni sulla vita a Tokyo.
«Domani si laurea il burino» venne spiazzato da quella notizia inaspettata, tanto che quasi cadde dalla sedia.
«JOE?! Domani si laurea Joe?!» urlò stupito, mentre cominciava ad essere scosso da un attacco di risate.
«Lo so che fa strano, ma è così»
Tai aveva incominciato a ridere come un pazzo.
«Cazzo, se si laurea il burino allora la fine del mondo è vicina!»
Continuarono a ridere come idioti.
«E ci ha invitati quel coglione?»
Il biondo spense il caffè che era appena salito.
«Siamo invitati tutti, ci saranno pure gli altri»
Il castano sentì i battiti fermarsi non appena apprese che avrebbe potuto rincontrare i suoi amici.
«Dio, non li vedo da una vita...» mormorò, mentre il biondo gli passava il caffè.
Non la vedeva da una vita.
Come sarebbe stato rivederla dopo così tanto tempo?
Sentire di nuovo la sua voce, vederla ridere, rendersi conto di cos’era lei per lui.
E non sapeva se incontrarla gli avrebbe fatto bene o ancora più male, ma era come se i suoi sensi reclamassero di andare lì da lei e vederla, anche solo vederla...
Matt l’osservò perso nei suoi pensieri.
«Hai conosciuto qualcuno lì?» glielo chiese discretamente, perché si differenziavano perfino nei modi di parlare.
Tai non si preoccupava di essere esplicito, Matt invece stava attento.
Tai agiva sempre d’istinto, Matt invece era razionale.
Il castano negò con la testa, stringendo le labbra. Aveva avuto diverse possibilità di sotterrare una volta per tutte quello che era stato, ma non era ancora pronto.
Dopo Mimi, era come se gli si fosse inaridito il cuore...
Sospirò, pensando che se era andata così, un motivo c’era. Il fatto era che dopo quasi due anni non riusciva a trovarlo, perché se pensavano che la distanza li avrebbe allontanati, allora non avevano capito niente, o forse era stato lui a non averlo fatto...
Aveva fatto sì che fossero più lontani con il corpo, ma non con il cuore.
«Che ne dici se chiamo tutti e andiamo a berci qualcosa più tardi?» propose spontaneamente.
«Si potrebbe fare»
Finirono di bere il caffè.
«Allora più tardi telefono a Sora»
Il cuore del biondo perse un battito e annuì. Se non la chiamava lui, era bene che lo facesse l’altro. Tai voleva molto bene a Sora, e glielo dimostrava.
Lui invece non era capace di fare un cazzo.
Sospirò, poi raccolse le tazzine. Aveva bisogno del suo aiuto per riuscire a combattere sé stesso.
«Vuoi farti una doccia?» deviò il discorso, come sempre.
Tai annuì e tirò fuori il cellulare.
«Sì, grazie, amico. Però prima avverto mia madre che sono a Tokyo, non ho visto nessuno ancora»
Yamato si voltò interrogativo a guardarlo.
«Sono venuto direttamente da te» rivelò e poi gli sorrise eloquente.
Non seppe perché, ma ebbe voglia di abbracciarlo.
Taichi era andato subito da lui, non aveva perso tempo, lo aveva perfino anteposto alla sua famiglia.
A volte si sentiva così inadeguato, credeva di non essere adatto a certi tipi di rapporti, perché era così introverso da non riuscire a trasmettere ciò che sentiva realmente.
Ma con lui era diverso, con lui tutto migliorava.
Riusciva a colorargli le giornate.
Gli era mancato da morire, il suo migliore amico.
«Tai» lo chiamò, mentre l’altro si stava dirigendo verso il bagno.
«Mh?»
Lo guardò con affetto.
«Bentornato a casa»
 
 
 
 
 
*****
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il ragazzo che il giorno dopo avrebbe dovuto laurearsi entrò in camera di Sora come una furia, senza preoccuparsi di bussare.
La ragazza lo guardò stralunata e si coprì immediatamente, mentre Jyou la fissava in cagnesco e con in mano una padella sporca di cibo.
«Ti sembra questo il modo di entrare?!» lo redarguì, finendo di mettersi la maglietta, voltata di spalle.
Joe faceva sempre in quel modo. Non aveva la concezione di stanze separate, per lui la casa era un tutt’uno e gli spazi erano in comune.
Quando si faceva la doccia non chiudeva mai a chiave e quando lei e Mimi erano a loro volta in bagno entrava senza tanti problemi.
Per fortuna che ormai ci avevano fatto l’abitudine e che lui era un farlocco totale.
Lo vide assumere un’espressione ancora più arrabbiata.
«E a voi sembra questo il modo di comportarvi nei confronti di uno studente laureato?!»
Sora alzò gli occhi al cielo, sbuffando. Ogni volta era la stessa storia; si lamentava con loro perché sosteneva che non gli portavano il giusto rispetto e tesseva le proprie lodi petulantemente.
«Non sei ancora laureato, non dimenticarlo» lo riportò alla realtà, finendo di preparare la sua borsa.
Erano quasi le quattro del pomeriggio e doveva andare a lezione di ballo. Joe le avrebbe fatto perdere ancora più tempo, doveva scansarlo.
«Che c’entra, è come se lo fossi. A chi importa realmente delle date?» la seguì per tutta la stanza con aria inquisitoria
«Se Gesù fosse resuscitato il secondo giorno e non il terzo avrebbe fatto differenza?»
Sora si portò le mani al capo.
«Non me lo dire!»
«La risposta è no, sarebbe comunque risorto»
Non capiva le fisse religiose di Joe verso il cristianesimo. Non era mai andato in una chiesa cattolica ed era uno di quelle persone pettegole che poi magari chiedevano una grazia.
«E questo cosa significa?»
«Che tu e quella meretrice di Mimi vi siete coalizzate contro di me!» spiegò, mostrando la padella che aveva in mano
La ramata incrociò le braccia.
«Per forza, Joe, non lavi mai i piatti e non fai le pulizie da mesi, ormai. Ci sono dei turni da rispettare!»
Questi si portò una mano al petto con fare teatrale. Mosse i capelli neri tendenti al blu con voracità e le puntò il dito contro.
«Sono un uomo impegnato, io! Che credete che perda tempo come voi due ragazzine?! Domani sarà il giorno più importante della mia e della vostra vita!»
«Della nostra?» chiese lei, senza capire.
«Avrete un dottore in casa, per la miseria! Parlerete, interagirete con lui! Potrete toccarlo, anche!»
Sora alzò gli occhi al cielo, sconsolata, mentre quello continuava a sproloquiare a vanvera. Con Joe era così: lui parlava e loro lo lasciavano perdere.
Erano anni che si conoscevano e non era affatto cambiato. Aveva compiuto ventisette anni, ma era rimasto il solito ragazzo strambo e con l’arrabbiatura facile. In compenso, aveva terminato i suoi studi in medicina ed era stato uno studente eccellente. Sora continuava a chiedersi come avesse fatto a laurearsi con quella testa che si ritrovava, ma, nonostante tutto, non sapeva come avrebbero fatto lei e Mimi da sole in casa senza di lui.
Le faceva sempre ridere, ne aveva in serbo una per tutti e combinava disastri a catena.
Era sempre lui, l’inimitabile Joe Kido.
Il burino sincero a cui volevano bene comunque.
Sora chiuse la zip della borsa e fece per uscire dalla camera.
«Senti, sono in ritardo, ne parliamo dopo» tentò di liquidarlo, ma il maggiore la guardò con uno sguardo malizioso.
Poteva vedere uno strano luccichio dietro i suoi occhiali da vista rossi, e non era niente di buono.
«Dì un po’, non è che questa cagata dei balli caraibici ti ha dato alla testa? Forse è solo una scusa per incontrare qualche baldo giovine?»
A volte si stupiva di come riuscisse ad essere peggio di una comare pettegola. La ragazza si sentì avvampare e fu scossa da un colpo di tosse.
«Non dire stupidaggini» lo contestò, anche se non sembrava molto convinta.
Il ragazzo infatti continuò ad indagare, le braccia conserte e la padella penzolante.
«Secondo me, ti piace qualche fusto ballerino, dì la verità, piccola Sora. Non c’è niente di cui vergognarsi»
E si avvicinò pericolosamente con l’intento di fare chissà cosa, mentre lei cercava di fuggire alle sue grinfie.
Il cellulare della ramata vibrò improvvisamente e Joe rizzò sull’attenti.
«Ecco, adesso ho le prove!» si avventò sul telefono prima di lei e avvicinò la faccia curioso
«Dio mio, Joe, passami quel cellulare e falla finita! Non dovevi ripetere la tesi per domani?»
Il ragazzo la guardò con astio, forse perché il destinatario non confermava la sua versione.
«Cosa vuoi che me ne fotta di cinque minuti di merda, e poi sono un genio, Cristo santo!»
Le passò il cellulare sgarbatamente.
«E comunque tieni, è quel cretino di Taichi»
Sora guardò lo schermo del telefono, stupita. Quel burino non scherzava, era realmente Tai. Non lo sentiva da un sacco di tempo!
Si apprestò a rispondere.
«Tai!» esclamò allegra, pensando che anche se era un po’ in ritardo, il ballo poteva aspettare quando si trattava del suo migliore amico.
«Ehi, Sora! Indovina un po’» rispose lui con lo stesso entusiasmo.
La ragazza non capì.
«Che cosa?»
«Dove mi trovo?»
Sora pensò che se la memoria non la ingannava, Taichi si trovava a cinquecento kilometri lontani da lei.
«A... Kyoto?» chiese incerta, perché se le poneva una domanda del genere c’era qualcosa sotto.
Lo sentì ridacchiare. Era da così tanto tempo che non sentiva la risata di Tai.
«E se ti dicessi che sono più vicino di quanto pensi?»
Il cuore della ragazza batté più forte. Cosa voleva dire? Dove si trovava adesso?
E se forse era...
«Tai, cosa-»
Non riuscì a terminare la frase, che il ragazzo l’interruppe.
«Sono a casa di Matt»
Sentì un groppo alla gola quando udì il suo nome.
Tai era a Tokyo, non riusciva a crederci, ma era così.
Era lì con lui, e doveva aspettarselo, perché erano amici per la pelle, contavano l’uno sopra l’altro, erano come due facce della stesse medaglia.
Si morse un labbro.
Tempo fa avrebbe gioito sapendo che Tai era insieme a lui, ma adesso...
Aveva un gran voglia di fuggire via.
Nonostante ciò, voleva bene veramente a Taichi, ed era felice che lui fosse tornato.
«No, non ci posso credere! Sei qui!» urlò di gioia.
Erano due persone diverse, in fondo, l’uno non doveva necessariamente includere l’altro.
«Esatto» le rispose il ragazzo.
Tai era molto importante per Sora, lo era sempre stato. Era una di quelle persone che non chiedeva niente in cambio, che c’era per lei in qualunque circostanza e la proteggeva dalle grinfie del mondo intero.
Fin da quando facevano le scuole elementari, lui non l’aveva mai abbandonata, le era stato sempre accanto, e l’esperienza a Digiworld li aveva avvicinati ancora di più.
Un tempo credeva di provare qualcosa per lui, ma era ancora troppo piccola e ingenua per capire. Adesso era consapevole del fatto che Taichi per lei rappresentava il suo punto di forza, il suo supporto morale, il suo migliore amico.
Interruppe quel flusso di pensieri uno stupito Joe, che aveva sentito del fatto che lui fosse lì, e le si era parato dinanzi.
«Taichi è qui?!» cercò di scipparle il telefono dalle mani
«Fammi sentire, battona!»
Fece una smorfia e spinse il ragazzo lontano, poi portò nuovamente il cellulare all’orecchio e mise il vivavoce.
«Sono arrivato oggi» spiegò quello, che intanto aveva lanciato un’occhiata eloquente a Yamato
«Senti, che ne dici se ci vediamo insieme agli altri?»
Si fermò a riflettere. Vedere gli altri significava incontrare lui dopo tanto tempo, e non sapeva se era ancora pronta.
Il solo pensiero la metteva in agitazione.
«Certo, sarebbe fantastico!» esclamò, però, nascondendo la preoccupazione.
Tai voleva vedere lei e gli altri, era da un sacco di tempo che non stavano insieme. Era arrivato il momento di fare un passo in avanti.
«Facciamo alle sei?» propose, infatti, sorridendo.
«Alle sei da Vancouver» confermò lui. Poi lanciò un altro sguardo a Matt che si mordeva un dito.
«Ti passiamo a prendere?»
Questi alzò la testa nell’udire quella domanda, e gli fece cenno di piantarla. Il castano, però, gli tirò una gomitata.
Sora si attorcigliò una ciocca di capelli, e pensò. La lezione di caraibico finiva alle cinque e mezza, aveva tutto il tempo di farsi una doccia e prepararsi.
Il fatto era che non aveva voglia che venissero a prenderla proprio lì, in quel luogo dove c’era qualcun altro ad aspettarla.
«No, grazie, vengo da sola appena finisco la lezione di ballo»
Tai fece una faccia interrogativa.
«Ballo? Certo che ne hai di cose da raccontarmi»
Ed era veramente così. Sora era sempre uguale, ma nello stesso tempo c’erano cose di lei che erano cambiate. Tipo il fatto che ballasse; lei era sempre stata un po’ maschiaccio, sia negli atteggiamenti sia nelle cose che le piacevano.
Con il passare del tempo era diventata più femminile, aveva smesso di giocare a calcio, aveva mollato anche il tennis e curava di più il suo aspetto.
Adesso aveva venticinque anni ed era una donna splendida.
Lei sorrise con affetto.
«Mi era mancata la tua voce» gli rivelò, mentre Joe, accanto a lei, faceva una smorfia di disgusto.
Ed era vero che gli era mancato, Taichi, perché lui era una di quelle persone che entrava dentro e non usciva più.
«E a me sei mancata tu»
Era anche una di quelle persone che stupivano e lo facevano davvero bene.
La ragazza sentì le lacrime agli occhi. Era così sensibile, a volte, che bastava poco per renderla felice e ancor meno per farla diventare triste.
Avrebbe aggiunto qualche altra cosa, se solo il ragazzo che si trovava alla sua destra non le avesse scippato con forza il telefono dalle mani.
«Basta con queste smancerie» portò l’aggeggio all’orecchio e spinse Sora da un lato
«Taichi!» urlò Joe, la voce acuta e petulante
Quello alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa.
«Sei ufficialmente obbligato a partecipare all’evento che tutti aspettavamo: il mio incoronamento con alloro»
Tentò di darsi un tono, ma ciò che provocò fu un attacco di risate.
«Cioè la tua laurea, burino» specificò Tai
Joe ghignò sardonico.
«Un evento più importante del giubileo»
Il castano sospirò rassegnato. Ventisette anni solo all’anagrafe, il resto non era variato.
«Sei sempre il solito. Ci vediamo più tardi, idiota»
L’altro assunse la tipica espressione di quando era pronto a colpire nel segno.
«Senz’altro, frocetto»
Almeno non erano cambiate nemmeno le prese in giro.
Joe restituì il cellulare a Sora con una faccia fiera, poi si riprese la padella sporca e tornò in cucina.
Non l’avrebbero ammesso mai, ma in fondo Tai e  Matt volevano bene veramente a Joe, e lo stesso valeva per lui.
Nonostante fosse una persona goffa ed irritante, era un loro caro amico, e il giorno dopo avrebbe raggiunto una meta molto importante.
Prese la borsa ed uscì di casa.
Matt non l’aveva chiamata, era stato Tai a farlo. Non si era degnato nemmeno di farsela passare ed era certa fosse seduto accanto a lui.
Alzò gli occhi al cielo blu, tristemente.
Non erano capaci di continuare ad amarsi, loro due, e lei incominciava a sentire stretto il peso di quel rifiuto.
Aveva voglia di correre e rifugiarsi tra le braccia di qualcuno, aveva voglia di sentire il suo cuore battere come una volta, aveva voglia di amare.
Corse, per correre, e arrivò dritto lì, alla scuola di ballo.
Là dentro c’era qualcuno che l’aspettava, qualcuno che la faceva sentire donna, qualcuno che la faceva sentire desiderata, qualcuno di cui lei aveva bisogno e adesso più che mai.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*****
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Aveva così tanto insistito per vederla che Mimi, alla fine, non aveva potuto fare a meno di accettare. Così aveva lasciato i libri sul tavolo ed era corsa a prepararsi.
Una volta avrebbe liquidato senza troppi problemi qualcuno con cui non aveva voglia di uscire, ma Shinichi si comportava bene con lei, e non riusciva a mettere un punto fermo in tutta quella storia.
Era passato a prenderla con la sua macchina, e lei era salita su, salutandolo con un sorriso più di cortesia che di altro. Lui era contento di vederla, tant’è che si era sporto per darle un bacio, ma Mimi aveva allontanato il viso.
Era già successo che si baciassero, e in quei momenti lei non riusciva a ritrarsi perché non voleva apparire come schizzinosa o maleducata, ma la verità era che non sentiva l’esigenza di farlo.
Era grave che non provasse così tanta attrazione per un ragazzo; eppure Shinichi era carino. Aveva gli occhi azzurri e i capelli scuri, un sorriso rassicurante e un corpo tonico, nonostante non fosse molto alto.
Si interessava di tutto, gli piaceva leggere e sapeva ascoltarla. Era il tipo di ragazzo che sapeva coinvolgere una donna, per questo aveva deciso di conoscerlo meglio.
Si trovava in un periodo in cui la sua autostima era calata molto, si sentiva brutta e trascurata, e lui era riuscito almeno in parte a tirarla su e a distrarla da tutto quello studio che la opprimeva.
Da quando si era lasciata con Tai, aveva incominciato a vivere in un lungo baratro di sofferenza, e per quanto cercasse di andare avanti riusciva solo a fare dei passi indietro.
Dopo quella rottura, aveva smesso di studiare, si era rinchiusa in casa e non voleva vedere nessuno.
Piano piano, con l’aiuto di Sora, era riuscita a guardare oltre, la luce aveva irrotto su di lei e finalmente le cose avevano incominciato a sistemarsi.
Poi aveva conosciuto Shinichi a quella festa. E dire che non voleva nemmeno andarci, pioveva e voleva per forza mettersi un vestito e dei collant.
Alla fine si era convinta e ci aveva trovato lui.
E adesso eccola lì, in quella macchina a guardare fuori.
A tentare di mantenere uniti i pezzi di lei che cercavano di fuggire via.
Il ragazzo parcheggiò vicino ad un parco che aveva la vista sul fiume, e Mimi si rese conto che si erano allontanati un bel po’ dal quartiere dove viveva.
Fecero una passeggiata in silenzio, godendosi il rumore dell’acqua e le urla dei bambini stramazzanti.
Avrebbe dovuto ringraziarlo per averla portata in quel luogo, ma l’unica cosa che riusciva a pensare era di voler fuggire.
Shinichi parlava di qualcosa che lei non sentiva, e quel paesaggio era così bello che le faceva venire in menti ricordi felici.
Lei e Tai che camminavano mano nella mano, sorridenti, che si amavano da morire.
Tai che l’abbracciava, che d’un tratto la sollevava facendola urlare di paura, e poi rideva.
Tai che la baciava e lei che si aggrappava a lui come fosse il suo unico appiglio.
Facevano male i ricordi, faceva male avere la consapevolezza di non poter fare niente per tornare indietro, faceva male voltarsi e trovare al suo posto un’altra persona che non avrebbe mai potuto eguagliarlo.
E le dispiaceva per Shinichi, perché era davvero buono con lei, ma non riusciva a non pensare a ciò che era stato.
Gli occhi le diventarono improvvisamente lucidi, e quando tirò su con il naso, il ragazzo la guardò.
Era strana, Mimi, da quando l’aveva conosciuta non aveva fatto altro che starsene per i fatti suoi a contemplare qualcosa che chissà cos’era.
Un po’ le piaceva il fatto che stesse sempre sulle sue, il fatto che d’un tratto aprisse gli occhi e si rendesse conto dove si trovava. Era una sua peculiarità quella di svegliarsi all’improvviso.
Adesso, però, non capiva cosa le prendeva. Da un paio di giorni era come se lo stesse evitando e meritava una spiegazione.
«Che  cos’hai?» le chiese ad un certo punto, interrompendo il suo flusso di pensieri. Shinichi la guardava seriamente, non era stupido e aveva capito che qualcosa non andava.
La ragazza si schiarì la voce, pensando che non era giusto rovinare un momento così speciale per qualcosa che non c’era più.
«Niente» si sforzò di sorridere, ma era una pessima attrice e lui aveva imparato a conoscerla.
«Non ti piace qui?»
Entrambi volsero lo sguardo verso il panorama mozzafiato e Mimi pensò che sì, le piaceva tantissimo, ma che al suo posto avrebbe desiderato qualcun altro.
«E’ perfetto, solo che...» si azzardò a dire, infatti. Si morse la lingua, interrompendosi improvvisamente.
Non era carino aggiungere un ma o un però dopo che lui le stava offrendo tutto quello.
Il fatto era che non riusciva a trattenersi, sapeva che prima o poi sarebbe scoppiata.
Ma doveva tentare di non darlo a vedere, doveva inscenare che tutto andava bene e sorridere.
«Solo che cosa?» Shinichi voleva delle spiegazioni, ma lei non voleva coinvolgerlo.
Tirò fuori il cellulare e lo puntò sul fiume.
«Ci vuole una foto» dissimulò, sperando che si bevesse quella bugia.
Scattò un paio di fotografie, mentre con la coda dell’occhio controllava che lui non facesse più domande.
Ma Mimi non capiva che era così pura e spontanea, alle volte, che le si leggeva negli occhi cosa provava.
Shinichi, infatti, non demorse.
«Sei distante» constatò, continuando ad essere serio.
Voleva affrontare il discorso a tutti i costi, ed era meglio che lo rassicurasse subito perché non aveva voglia di parlare.
«Non è vero, non sono distante» negò, sforzandosi di utilizzare un tono allegro.
Continuò a scattare foto che neanche più guardava, fino a quando il ragazzo non la prese da un braccio.
Mimi boccheggiò, alzando gli occhi castani su di lui.
Solo Tai la prendeva con quell’ardore, solo lui riusciva a trasmetterle tutto con un solo tocco, solo lui e lui soltanto poteva toccarla in quel modo.
Si scansò di riflesso e lo guardò interrogativa.
«Sei distante da tutto, sei con la testa tra le nuvole. Lo sei fin da quando ti ho conosciuta» spiegò Shinichi con la voce che mano a mano si spegneva
Si passò una mano tra i capelli e glielo disse.
«Sembra che ti manchi qualcosa»
Mimi si sentì tremare, trafitta nel profondo. Perfino lui si era accorto che vagava a metà, senza una parte di sé che la completava, una parte di sé che le mancava e che cercava invano.
Aveva ragione a dire che aveva sempre la testa sulle nuvole, perché era così fin da quando era bambina, era una sua specialità esserlo, e adesso più che mai.
La ragazza abbassò lo sguardo.
Sentiva un dolore lacerante vicino al suo cuore spezzato e Shinichi non avrebbe mai potuto rimetterne insieme i pezzi e curare quella ferita.
Tentò di ridacchiare, prendendolo in giro.
«Non essere tragico»
Ma lui non aveva voglia di scherzare.
«Sono realista»
E aveva ragione. Shinichi aveva ragione su tutto. Lei era distante, lo era da sempre stata. C’era fisicamente, ma era assente con la testa e con il cuore.
Non riusciva nemmeno ad avvicinarsi perché era ancora vivido in lei il modo in cui Tai l’abbracciava.
«Mimi, se c’è qualcosa che non va puoi dirlo»
Era così paziente e disponibile. Non meritava una persona che non riusciva a dargli quello che voleva, che non riusciva ad essere sua, che non riusciva ad apprezzare ogni suo gesto.
«Quando ci sarà qualcosa che non andrà, allora puoi starne certo che lo farò» gli promise, e poi gli accarezzò un braccio.
Shinichi aveva bisogno di qualcuno che lo accettasse per quello che era.
Lei invece di che cosa aveva bisogno?
Doveva smetterla di compiangersi e guardare avanti perché il passato non glielo avrebbe potuto restituire mai nessuno oppure era destinata a rimanere bloccata in un limbo di emozioni che non le permettevano di vivere?
Ad un tratto il suo cellulare vibrò. Lo prese in mano e lesse il messaggio.
 
Era come se il tempo si fosse fermato e i rumori si fossero improvvisamente spenti, perché, adesso, era il battito del suo cuore che sentiva rimbombare.
 
 
 
 
 
 
 
 
*****
 



 
 
 
Fece un gran respiro prima di entrare in sala. Il fatto che lui non avesse voluto parlare con lei l’addolorava sempre di più, e nello stesso tempo qualcosa dentro di sé la spingeva verso l’altro.
Sora si passò una mano sulla fronte e fece altri respiri profondi. Non riusciva a contenersi in situazioni del genere. C’era qualcosa che la bloccava nell’entrare in quella dannata sala. Aveva paura di incontrarlo, aveva paura di guardarlo negli occhi, aveva paura di stringersi a lui.
Il fatto che Matt non sentisse l’esigenza di parlare con lei l’uccideva e si sentiva così disperata perché era consapevole di essere talmente volubile da poter cedere.
Si morse il labbro, mentre la musica terminava. Era in ritardo di mezz’ora e forse l’avrebbero pure mandata a casa.
Non sapeva che cosa fare. Non sapeva se era meglio entrare e fare finta di niente oppure girare i tacchi e andarsene il più lontano possibile.
Si trovava nella più grande delle difficoltà, e la consapevolezza che a due passi da lei ci fosse Victor che probabilmente l’aspettava, peggiorava la situazione.
Doveva essere razionale, non poteva lasciarsi coinvolgere completamente solo perché lui non voleva sentirla.
Doveva essere matura, affrontare le situazioni con calma e prudenza, non doveva lasciarsi andare per nessuna cosa al mondo.
Il pensiero di Matt che continuava ad evitarla le tartassava la mente e non si accorse che, pian piano, le sue gambe si muovevano in direzione della sala da ballo.
Quando se ne rese conto, aveva ormai aperto la porta.
Alcune persone le lanciarono uno sguardo curioso, ma l’unica cosa che vide fu il sorriso sorpreso di Victor.
Sentì improvvisamente il cuore in gola e i battiti accelerati.
Perché hai dovuto fare in modo che io aspettassi così impazientemente di godere di un altro sorriso?
Il ragazzo le si avvicinò e si guardarono negli occhi. Era bellissimo vestito con quella maglietta a maniche corte e quei pantaloni della tuta. I lunghi capelli color grano erano appuntati in una coda bassa e i suoi occhi grigi la scrutavano.
«Sei in ritardo, Take» constatò, mentre lei si portava una ciocca di capelli dietro un orecchio.
«Sì, scusa, mi ha chiamato il mio migliore amico che sta a Kyoto. Non lo vedo da tanto tempo ed è tornato oggi»
Non sapeva nemmeno perché si stesse giustificando, ma era partita da sola, un po’ come faceva sempre quando si trovava in sua presenza.
Victor scosse la testa con un sorriso, facendole intendere che non importava realmente se aveva ritardato, ciò che contava era che fosse venuta.
«Allora sei perdonata» disse infatti, e fece appena in tempo a prenderla per mano e portarla al centro della sala che l’altra musica partì.
Sora si attaccò al suo petto e si lasciò guidare da lui. Si muoveva talmente bene da farle girare la testa. Le aveva posato una mano sul fianco e la stringeva, facendo aderire bene i loro corpi.
Sentiva le farfalle allo stomaco, era come se glielo volessero mangiare.
Era un’attrazione letale che la stava portando lentamente alla deriva e non riusciva più a risalire su.
Lui l’abbracciò da dietro i fianchi e la fece muovere dolcemente. Sora chiuse gli occhi e lasciò andare all’indietro la testa, sopra la sua spalla.
Forse Matt non si rendeva conto di cosa aveva scatenato.
Era una lotta imponente tra ragione e passione e non riusciva a capire chi era giusto ascoltare.
Lui le dava così sicurezza e conforto anche solo toccandola, e non poteva fare a mano di perdersi tra quelle braccia.
La canzone straniera raccontava di una proposta d’amore, di un bacio rubato che aveva il sapore di un bicchiere di vino.
Stava impazzendo, lo sentiva.
Lentamente, i suoi sensi la stavano abbandonando, e lei si sentiva meno che niente stretta a lui.
Quando la canzone terminò, il ragazzo l’abbracciò, e non appena sentì forte quella presa su di lei, aprì gli occhi.
Quel tocco la riportò alla realtà, e con timore si liberò rapidamente.
Senza guardarlo in faccia, corse verso l’uscita della sala. Il cuore le batteva frenetico e sentiva le gambe cedere.
Arrivò allo spogliatoio e si guardò allo specchio. Era rossa e stravolta, i capelli erano scompigliati ed aveva in volto un’espressione preoccupata.
Non poteva starci, non doveva farlo assolutamente.
Mentre si sciacquava il volto e le braccia, pensava a Matt e tutto quello che avevano fatto insieme.
Nonostante lui fosse distante, non poteva farlo.
Imprecò disperata, mentre afferrava una canottiera dalla sua borsa e si cambiava velocemente.
Dio, quello che aveva sentito era così travolgente da non vederci più.
Avrebbe voluto stare stretta a lui per tutto il giorno.
Oh Dio, aiutami, sto impazzendo.
Si mise un leggero cardigan, dopodiché si alzò per sistemarsi un po’ il trucco e i capelli.
Doveva andare via di lì, doveva farlo prima che...
La porta dello spogliatoio si aprì, e lui entrò silenziosamente.
No, non questo, ti prego, tutto tranne questo...
«Sora» la chiamò, e lei si sentì morire.
Si voltò guardandolo spaventata, mentre quello si avvicinava.
«Victor» mormorò, sentendo la gola secca.
Era così imbarazzata da non riuscire a sostenere il suo sguardo per più di qualche secondo e sentiva un calore immane diffondersi per tutto il corpo.
Lui avanzava sempre di più e automaticamente lei retrocedeva impaurita.
Doveva inventare una scusa e andarsene via al più presto, sì, doveva dire che aveva un appuntamento con i suoi amici e che non poteva trattenersi.
Non riusciva a spiccicare una parola.
Era immobile, indifesa di fronte a lui.
Non riusciva a fare un passo.
Cosa le stava succedendo?
Non riusciva a non provare il fuoco quando lui la guardava.
Victor fece un respiro profondo e poi si passò una mano tra i capelli. Non era l’unica ad essere nervosa, e qualcosa le disse che era in trappola e che la resa dei conti era arrivata.
«Sai, pensavo che non avrei mai provato tutto questo se non ti avessi conosciuta» le confessò, mentre lei sentiva il cuore battere sempre più veloce.
«C-cosa?» le chiese balbettando, e forse era un po’ masochista a volerlo sapere.
Il ragazzo le sorrise imbarazzato. Dopo poggiò la mano aperta sul muro e si fece ancora più vicino.
Sora si trovava lì, impotente, bloccata senza via d’uscita.
E forse una parte di sé non voleva realmente andar via.
«Quando ballo con te sento qualcosa che non ho mai sentito, qualcosa che mi lega inevitabilmente a te» mormorò lui, guardandola negli occhi castani.
«Tu... tu sei speciale per me... Lo sei da sempre stata, da appena ti ho vista, da appena abbiamo parlato»
Sentiva il cervello in pappa, era così talmente presa da lui, da quelle parole, da quelle labbra che gli avrebbe fatto fare qualunque cosa.
Deglutì lentamente.
«Victor...» provò a parlare, ma non ne uscì altro che un sussurro spezzato.
Era lì, era impazzita, era completamente andata.
E lui era vicino, troppo vicino.
«Mi piaci, Sora, davvero tanto e... se non te lo dicevo diventavo pazzo» fece un respiro profondo, lui, quando le disse quelle cose.
Le stava confessando tutto, e Sora forse se lo aspettava perché il loro rapporto era nato e cresciuto di pari passo. L’attrazione che sentiva per lui era reciproca, lo era da sempre stata, e lei lo sapeva, lo sentiva, perché era sempre stata brava in quelle cose.
Era per questo che si sentiva da sempre legata a lui.
Però non poteva, si disse, tentando di tornare con i piedi per terra. Lei stava ancora con Matt, non poteva fargli una cosa del genere.
Per quanto la loro relazione fosse quasi giunta al capolinea, era Matt, era Yamato la persona che voleva, che aveva sempre voluto, fin da quando andavano a scuola, fin da quando lo aveva conosciuto a Digiworld.
Matt era il suo unico e vero amore e non poteva mandare tutto a monte per un’attrazione che sarebbe sfiorita alla prima occasione.
«Io... io però... adesso io non...» provò a spiegarsi, ma non riusciva a parlare.
Era talmente ipnotizzata, era talmente presa da lui che ogni parola risultava superflua.
Victor sospirò, spostando lo sguardo da un’altra parte. Era un ragazzo loquace e sapeva che lei era già impegnata, che ciò che le aveva rivelato l’aveva messa in difficoltà. Ma non potevano continuare a fingere che tra di loro non ci fosse niente.
«Stai ancora con lui?» chiese duro.
Odiava il fatto che lei potesse stare con un altro, che non riuscisse a lasciarsi andare, che dovesse rispettare una persona che non aveva rispetto per lei e i suoi sentimenti.
Sora emise un sospiro e abbassò gli occhi.
 «Sì»
Stavano insieme, ma era come se fossero due estranei.
Si rattristì, sentendo le lacrime premere per uscire. Le faceva così male che lui non fosse presente, era un dolore che la distruggeva.
«Lo ami?» Victor la guardava serio.
Se lo amava?
Sì, lo amava, amava Matt e tutto ciò che faceva parte di lui, della sua persona, del suo essere.
Amava Matt e il modo in cui cantava, il modo in cui suonava, il modo in cui scriveva le sue canzoni.
Amava Matt e il modo in cui la baciava, l’abbracciava, il modo in cui facevano l’amore.
Le mancava tanto fare l’amore con lui.
I suoi occhi erano lucidi e pronti a scoppiare.
Lo amava ancora, non aveva mai smesso di farlo probabilmente, ma quel silenzio, quell’estraneità che si era creata tra di loro era qualcosa di insopportabile.
Più si allontanava da Matt, più si avvicinava a Victor.
Ogni volta che Matt le voltava le spalle, lei si lasciava cullare da quelle emozioni.
«Oh, Victor, per favore...» lo stava pregando affinché non lo facesse, perché era talmente vulnerabile, era talmente disperata che qualsiasi passo in più le sarebbe costato caro.
Voleva tanto rispondergli che amava Matt e nessun’altro, ma non riusciva.
Tutto ciò che provava adesso era più forte.
Il ragazzo le posò una mano sulla guancia e le sorrise.
«Meriti tanto amore, Sora»
Poteva sentire il cuore frantumarsi lentamente. Lui sapeva sempre di cosa lei aveva bisogno, sapeva capirla, sapeva rispettarla.
L’amore...
Una volta era il suo simbolo, glielo avevano affidato quando aveva appena undici anni e lei aveva avuto così tanta paura che non sapeva che cosa farne, non sapeva come si facesse ad amare.
Poi aveva conosciuto Matt ed aveva imparato.
Ma ora lui non c’era, era così lontano da lei, così distante da tutto quello che le stava succedendo...
Victor si era avvicinato alle sue labbra e Sora non riuscì a fare niente per impedirlo. Lui la baciava e lei non si spostava, non faceva un passo.
Non appena il ragazzo la spinse contro il muro e la fece aderire ancora di più a sé, schiuse la bocca, arrendendosi completamente.
Le lingue si accarezzavano, ora lente, ora voraci e la sua era così calda, così giusta in quel momento che non desiderò essere da nessun’altra parte.
Si stavano baciando ed era qualcosa che le ardeva dentro, era qualcosa di cui aveva bisogno.
Gli aveva stretto i capelli tra le dita e non aveva capito più niente.
Non sapeva né dove si trovasse, né che giorno fosse.
Era tutto così scollegato ed annebbiato, poteva sentire solo i battiti del suo cuore scandire il tempo.
Quando tornò alla realtà, si staccò improvvisamente e puntò lo sguardo sul pavimento.
Aveva il fiato corto e le labbra gonfie. Il suo cuore era impazzito e lei credeva di svenire.
Oh, no.
Non poteva crederci.
Era successo veramente.
Cosa diavolo aveva combinato?!
Victor la guardava e aspettava una sua reazione, ma aveva voglia di scappare il più lontano possibile.
Non poteva credere di averlo fatto veramente.
«Io... devo andare, adesso» biascicò a voce bassa, poi si scansò da lui e andò a recuperare la sua borsa.
Si era lasciata così andare da aver scatenato in lei la più pericolosa delle tempeste.
Perché era stata così debole?
Il ragazzo la raggiunse.
«Ti accompagno?» tentò, anche se sapeva che era tutto inutile e che lei adesso avrebbe dovuto fare i conti con sé stessa.
Sora, infatti, negò con la testa e, senza guardarlo, uscì dallo spogliatoio fino ad arrivare alla porta principale.
Rilasciò tutta l’aria che aveva trattenuto e un groppo le si formò in gola.
Che cazzo aveva combinato?
Come diavolo aveva potuto lasciare che accadesse?
I sensi di colpa la pervasero, erano così forti che la stritolavano e le facevano male.
Aveva tradito Matt.
Lo aveva tradito.
Si fermò, sentendo la testa girare.
Aveva lasciato che quelle emozioni la facessero sua, che la travolgessero senza che potesse liberarsi.
Non era riuscita a contenersi, era stata una stupida.
Come aveva potuto fare una cosa del genere?
Si sedette in una panchina e cominciò a piangere, logorata dai sensi di colpa che l’attanagliavano crudelmente.
Sciocca, Sora, sei una cazzo di sciocca.
Voleva scomparire, voleva tornare indietro nel tempo e fare in modo che non succedesse.
Il volto di Matt che le sorrideva si sovrappose nella sua testa, e lei si tastò le labbra con le mani che le tremavano.
Poteva sentire ancora il sapore di Victor.
Alzò gli occhi al cielo, le lacrime che sgorgavano a fiumi.


 
Che cosa aveva fatto?






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Capitolo 4
*** Uniti ***








Erano appena arrivati di fronte al locale, quando Yamato fu scosso da un violento capogiro. Un senso di vertigine lo sorprese, sentì il pavimento mancare sotto di lui e fu costretto ad aggrapparsi a Taichi. Il castano si voltò allarmato non appena sentì quella stretta al braccio, e lo sostenne prontamente.
«Matt, che ti succede?»
La voce dell’amico arrivò ovattata, e passarono alcuni secondi in cui l’unica cosa che vide fu il buio totale.
 
Sentiva la voce di Sora.
 
In mezzo alle tenebre, gli rimbombava nelle orecchie la sua voce.
 
«Cazzo, Matt!» lo chiamava Tai, scuotendolo dalle braccia.
Pian piano riacquistò conoscenza e alzò gli occhi azzurri sul volto preoccupato del castano. Era pallido e sembrava scosso.
«Stai bene?» gli chiese, prendendogli il volto tra le mani.
Il biondo annuì e strinse le labbra.
Era come se gli fosse mancata l’aria, credeva di star precipitando in fondo al mare.
Si passò una mano sul viso, socchiudendo gli occhi
«Sì, fa troppo caldo oggi» cercò di trovare un senso a quell’episodio, ma Tai lo guardava ancora apprensivo.
«Sei sicuro?»
Era ancora stordito e gli fischiavano le orecchie, ma annuì lo stesso. Non voleva allarmarlo inutilmente, era stato un semplice calo di zuccheri a provocargli quel capogiro.
Eppure aveva sentito Sora nella sua testa.
Sembrava fosse lì, vicino a lui, era come se fosse disperata.
Si morse il labbro ed evitò lo sguardo del castano che lo fissava, pronto a soccorrerlo un’altra volta.
Forse stava impazzendo.
«Fratellone!» Si voltarono entrambi verso la ragazza che si trovava di fronte a loro e si avvicinava a gran passi.
Tai sorrise felice quando vide sua sorella Hikari attraversare la strada e venirgli incontro. Aveva una maglietta a maniche corte che stava dentro una gonna a vita alta, i capelli castani erano più lunghi e li aveva legati in una coda laterale.
Era semplice e bella, fasciata nella freschezza della sua gioventù.
«Kari!» Suo fratello fece un balzo e corse ad abbracciarla.
La sollevò da terra, come era solito fare quando erano piccoli, e le fece fare un giro a trecentosessanta gradi. La ragazza cominciò a ridere e si tenne la gonna perché non si sollevasse.
Matt li guardò, felici di essersi rivisti, e improvvisamente si dimenticò delle sensazioni spiacevoli che aveva provato poco fa.
Il bene tra due fratelli era un unico e inossidabile, qualcosa che andava oltre ogni legame esistente.
Tai la guardava con gli occhi che gli luccicavano e lei sorrideva teneramente.
«Non riuscivo a crederci quando mi hai chiamato. Mamma quasi sveniva dalla gioia, la conosci, non vede l’ora di averti a casa»
Il castano la scrutava e sorrideva, perché era diventata una donna splendida, e non la vedeva da così tanto tempo che adesso pregava Dio affinché potesse godere per sempre della sua vista. Era diventata così bella che odiava se qualcuno si avvicinava a lei, perché sua sorella era il gioiello più prezioso che la vita gli avesse mai potuto regalare.
«Volevo farvi una sorpresa» spiegò, mentre si avvicinava per abbassarle la gonna che saliva su. La guardò con uno sguardo eloquente, e lei alzò gli occhi al cielo con un sorrisino.
«E ci sei riuscito» ammise, togliendogli le mani
Matt aveva le braccia incrociate e seguiva tutta la scena con un ghigno. Kari poteva compiere perfino trent’anni, ma Tai sarebbe stato comunque geloso e protettivo nei suoi confronti.
«Anche se personalmente mi sento offesa per non essere stata la prima a godere del tuo arrivo» aggiunse lei, facendo finta di essere arrabbiata.
Il castano smise di pensare alla gonna e cercò di abbracciarla per farsi perdonare.
«Dai, sorellina, ci rifaremo! Non te la prendere»
L’avvolgeva con le sue braccia possenti, mentre Kari tentava di liberarsi, anche se non aveva nessuna intenzione di farlo.
«Dici sempre così, scemo»
Taichi vinse la lotta e riuscì ad abbracciarla. Annusò i suoi capelli che sapevano di lavanda e le diede un bacio sulla fronte.
La sua sorellina.
La sua sorellina che era diventata grande, che era diventata donna, che era splendida e brillava di luce propria.
La malinconia lo pervase.
Avrebbe mai accettato il fatto che fosse cresciuta?
Kari sciolse l’abbraccio e indicò una direzione dietro di loro.
«Ecco TK» annunciò, e  i due ragazzi si voltarono a guardare la sagoma di quello che si avvicinava.
Matt strinse le labbra quando vide suo fratello. Era da un po’ di tempo che non si sentivano e il loro rapporto ultimamente non era del tutto idilliaco.
Lo osservò mentre avanzava, notando che era più alto e sfilato, aveva tagliato i capelli biondi e portava l’orecchino all’orecchio sinistro. Aveva cambiato modo di vestire, indossava una maglia larga, un gilè di pelle, i pantaloni strappati e le scarpe con le borchie. Alle dita aveva un sacco di anelli e si era fatto fare dei tatuaggi, alcuni perfino nei punti più nascosti.
Era lui, era sempre lui, il suo fratellino, ma nello stesso tempo era così diverso che stentava a riconoscerlo.
Tai lo guardava sorpreso, e quando gli si avvicinò con un sorriso malizioso, gli diede una pacca amichevole sulla schiena.
«Guarda un po’ chi si rivede, il piccolo Takeru alto due metri»
Ed era vero, era persino più alto di lui. Questi ridacchiò in modo strano, e il castano notò che aveva gli occhi un po’ arrossati.
«Te l’avevo detto, Tai, gli ultimi saranno i primi» contestò, mentre si davano un cinque.
Takeru notò che suo fratello lo fissava e si limitò a salutarlo con un cenno. Gli ultimi dissapori sul suo futuro bruciavano ancora dentro e nessuno dei due aveva intenzione di fare il primo passo.
Taichi ruppe quel silenzio, posizionandosi nel mezzo.
«Che si dice da queste parti?» chiese, e TK spostò l’attenzione su di lui.
Lo vide alzare le spalle ed assumere una faccia annoiata.
«Solita roba» rispose vago, e nel frattempo Kari lo affiancò con un sorriso amorevole.
Matt fece una smorfia quando lo sentì rispondere in quel modo.
«Ci sediamo?» chiese infastidito, e Tai annuì.
Entrarono dentro il locale dove c’era l’aria condizionata.
Il Vancouver era un pub frequentato da molta gente per la sua maestosità e la sua vasta produzione di bibite alcoliche e piatti tipici del luogo. C’erano molti tavoli con dei divanetti rossi, alcuni erano posizionati vicino alle vetrate che davano sulla strada. Il bancone dei cocktail era grande e aveva delle immagini della città canadese che lo ricoprivano per intero.
La musica era di sottofondo ma non troppo forte, dato che era ancora pomeriggio. La sera quel locale diventava una discoteca a tutti gli effetti.
Raggiunsero uno dei tavoli che dava la vista fuori e si sedettero uno di fronte all’altro.
Tai continuava ad osservare TK che parlava con Kari di qualcosa, e riprese il discorso laddove lo avevano lasciato.
«Che vuoi dire con solita roba?»
Non che volesse essere ficcanaso, ma lui e sua sorella stavano insieme da un sacco di anni, e voleva essere al corrente di cosa fosse diventato in tutti quei mesi.
Questi assunse di nuovo quell’espressione vaga e a tratti eloquente.
«Solito traffico, solito giro... Kari ne sa qualcosa» disse, facendo un sorriso verso la sua fidanzata che aveva spalancato leggermente gli occhi.
Sia Tai che Matt li guardarono interrogativi, e il biondo fulminò il fratello con lo sguardo.
«Oh, io veramente...» La ragazza era in difficoltà e il biondino alla sua destra ridacchiava.
Yamato sentì il sangue salire al cervello sentendo quella risata sciocca e arrogante. Suo fratello stava giocando con il fuoco e lui lo sapeva da un paio d’anni, ma che coinvolgesse Hikari in quel modo proprio non ci stava.
Credeva di poter fare quello che voleva solo perché non c’era nessuno a controllarlo, ma non sapeva che sarebbe finito con il bruciarsi cervello e denaro in quel modo.
«Che cazzo stai combinando, TK?!» sbottò arrabbiato, mentre quello alzava gli occhi azzurri così simili ai suoi su di lui.
Aveva sempre avuto un’indole protettiva nei suoi riguardi, fin da quando erano stati catapultati a Digiworld e Takeru aveva solo otto anni. Lo aveva accudito e aveva fatto sì che non si sentisse solo, nonostante lui fosse a sua volta piccolo e indifeso. Suo fratello aveva sempre avuto la capacità di infondergli speranza e affetto con un solo sorriso, era buono e gentile, con un senso profondo per la giustizia.
Adesso che fine aveva fatto quel ragazzino allegro e altruista?
Era davvero diventato un uomo superficiale, che badava solo al divertimento e a spendere soldi?
Lo aveva guardato con un sorriso di scherno.
«Robe da grandi, Matt» La sua voleva essere una provocazione, lo sapeva. Conosceva molto bene suo fratello quando assumeva quell’espressione sarcastica e quel tono di voce irritante.
Il fatto era che si era messo in testa di fare l’idiota senza ascoltare i suoi consigli. Credeva di sapere tutto dalla vita solo perché si era appena affacciato fuori, ma non conosceva niente, non aveva ancora visto ciò che il mondo aveva in serbo per lui.
Non era ancora a conoscenza di quanta fatica, quante sofferenze, quante delusioni avrebbe dovuto sopportare prima di aver vissuto realmente.
«Sei ancora un ragazzino» affermò duro, mentre Kari guardava preoccupata TK e si mordeva il labbro.
Suo fratello rise e lo guardò con sfida.
«Ho ventitré anni, adesso, è ora che tu l’accetti» Non poteva accettare il fatto che suo fratello minore fosse diventato un cazzo di drogato, che bevesse alcol quasi ogni giorno, che frequentasse locali e discoteche senza fare niente per guadagnarsi da vivere.
«Sei proprio un...» Avrebbe voluto dirgliene di tutti colori, avrebbe voluto dirgli che era uno sciocco a pensare che la vita si limitasse solo ed esclusivamente a quello, che era un immaturo a pensare che c’erano sempre gli altri a parargli il culo.
Avrebbe voluto dirgli che rivoleva suo fratello Takeru e basta.
Fu interrotto da Tai, che gli aveva stretto il braccio e lo aveva guardato fisso. Aveva scosso la testa e solo grazie a lui riusciva a calmarsi.
«Non litigate, non vale la pena» Fece scorrere lo sguardo da entrambi per qualche secondo. Kari aveva sospirato e si guardava insistentemente le mani.
Quando constatò che la bufera si era placata, si rivolse di nuovo al biondino.
«Quindi cos’è che fai?»
Lo aveva capito anche lui che TK seguiva uno stile di vita non del tutto sobrio, e Matt aveva ragione ad arrabbiarsi in quel modo, però era meglio prenderlo con le buone altrimenti sarebbe stato peggio.
«Discoteca, faccio il PR. Mi hanno anche preso come ragazzo immagine, appaio in un sacco di locandine»
Mentre parlava, si era acceso una sigaretta e aveva abbracciato Kari. Era l’ennesima provocazione, ma Matt si era limitato a guardalo male e non aveva fiatato.
«Quindi il tuo obbiettivo sarebbe apparire in ogni cartellone pubblicitario di Tokyo?» Non era riuscito a trattenersi, Tai, e gli aveva fatto quella domanda un po’ sarcastica.
Se pensava che potesse tirare avanti con quei lavoretti occasionali, si sbagliava. Non avrebbe combinato niente di buono affidandosi alla casualità e alla bella vita.
TK rilasciò una boccata di fumo.
«Un po’ come tutte quelle cazzate di sogni che inseguite voi, sì»
Taichi aprì la bocca, sentendosi punto. Si voltò a guardare Yamato che aveva alzato gli occhi al cielo, esasperato.
TK aveva utilizzato il suo stesso tono sarcastico, ma lo aveva colpito in pieno.
Giocava a calcio da tutta la vita, e diventare calciatore era da sempre stato il suo sogno. Guardò il biondino che abbracciava Kari con possessività.
Non avrebbe lasciato che sua sorella finisse tra le mani sbagliate.
Lo vide baciarla e tirarle un buffetto.
Il fatto era che Takeru era l’unico che avrebbe visto al fianco di Hikari, era l’unica persona di cui si fidava, era l’unico ragazzo che avrebbe potuto prendere il suo posto.
E aveva ragione. Sì, forse aveva ragione a dire che seguiva un sogno del cazzo, che forse non l’avrebbe portato a niente, anzi lo avrebbe distrutto.
«Ordinate?» Un cameriere si era avvicinato e teneva in mano un block notes.
Tai si risvegliò dal suo stato di riflessione e scosse la testa.
«No, aspettiamo altre persone»
Quando quello se ne andò, decise di cambiare discorso e rivolgersi a Kari. Non le aveva ancora chiesto cosa stava facendo e a che punto era arrivata.
Poteva essere un buon diversivo da tutta quella tensione.
«E tu, Kari, come va con l’università?»
La ragazza si rasserenò e gli fece un sorriso.
«Bene, tra poco incomincio il tirocinio agli asili»
Sua sorella studiava per diventare maestra, era una professione che l’aveva da sempre appassionata. Era dolce e affettuosa, attenta e premurosa, la maestra ideale per prendersi cura dei bambini. E poi era molto brava, aveva sempre eccelso nelle materie scolastiche. Tra i due, era lei la mente della famiglia.
«E a te, Taichi, cos’è che ti spinge da queste parti?» a formulare quella domanda fu ancora TK, che aveva portato l’attenzione su di lui e lo fissava inquisitorio.
Il castano strinse le labbra e sentì lo sguardo di Matt addosso.
Avrebbe voluto dare una marea di spiegazioni, motivi enormi che lo avevano costretto a prendere quella decisione.
Guardò gli occhi grandi di sua sorella. Lo aveva fatto per lei. Pensò ai suoi genitori. Lo aveva fatto per loro. E per Matt. Per i suoi amici. Per tutte le persone che voleva bene, che amava e che gli mancavano immensamente.
Lo aveva fatto per lui, perché non ne poteva più di quell’incubo.
Tornare a Tokyo era stato la sua mascherina d’ossigeno.
«Pausa dall’inferno» dichiarò infine, e TK gli regalò un sorrisino eloquente.
Era sempre andato d’accordo con Tai. Quando aveva scoperto che lui e Kari si erano messi insieme aveva fatto un po’ di storie, ma adesso era tutto passato. Era uno di quei ragazzi con la mente aperta e il cuore grande.
Ai tempi di Digiworld era il suo idolo, il leader perfetto, il fratello che tutti avrebbero voluto avere. E doveva ammettere che anche lui in un momento di rabbia aveva desiderato che Tai lo fosse al posto di Matt.
Guardò questi di sottecchi, che aveva spostato lo sguardo. Suo fratello non capiva che era abbastanza grande per sapere ciò che fare della sua vita.
Era cambiato, e checché lo pensassero, era maturato molto. Il fatto che non facesse ciò che Matt si aspettava, non voleva dire che era un fallito.
Il biondo si sentì osservato e voltò la testa. Si guardarono.
TK non distolse lo sguardo. Non voleva litigare con lui, ma era stanco di dover sentirsi dire ciò che fare.
«Non vorrei dirvelo, ma sta arrivando Joe» annunciò d’un tratto Kari, e loro si voltarono nella stessa direzione.
Jyou aveva appena aperto la porta del locale e si era precipitato a gran passi verso il tavolo in cui erano seduti. Aveva i capelli corvini più lunghi, portava una maglia bianca con dei bottoni vicino al collo, dei jeans aderenti e degli occhiali rossi che gli incorniciavano il viso a punta.
I ragazzi fecero un sospiro quando lo videro arrivare, e lui, dal suo canto, si preparò ad esordire con una delle sue estenuanti battute.
Quando osservò per bene Tai, però, si bloccò.
«Che cosa hai fatto al tuo cespuglio, Taichi?» chiese in tono grave e con la voce acuta che lo contraddistingueva.
Il castano scosse la testa e pensò che gli era mancata la sua parlantina.
«Pensavo di avvistarti da lontano grazie alla tua chioma ribelle»
TK e Kari ridacchiarono, mentre Matt volgeva gli occhi al cielo, e lui si alzava per salutarlo.
«Ho sfoltito, burino. Dovresti fare lo stesso con la tua idiozia» lo prese in giro, mentre si davano un abbraccio e si tiravano delle pacche sulla schiena.
Joe quasi cadde in avanti quando il castano lo toccò.
«Il solito pappone del cazzo» lo derise a sua volta, rivolgendosi poi al resto dei presenti
«Ciao a tutti, comunque. E’ bello sapere che siete tutti vivi, avreste oscurato il mio momento con uno dei vostri funerali»
Poi adocchiò Hikari che sorrideva e perse la testa.
«Tranne te, bella mia. Tu sei immortale, come sempre» si sporse per darle un bacio sulla guancia e lei lo lasciò fare.
Joe aveva da sempre avuto un debole per lei, e le cose non erano cambiate nemmeno a distanza d’anni. Adesso che era diventata più grande e più bella, poi, non perdeva tempo per adularla e fare il cascamorto.
Questa cosa non andava giù a Tai, che aveva sbuffato dietro di lui, e TK lo guardava di traverso.
Il maggiore se ne accorse e gli rivolse un ghigno malizioso.
«Non essere geloso, TK. A lei non sono mai piaciuti i fanatici come te» Lo chiamò con il soprannome con cui lo chiamava da sempre.
Il biondino annuì.
«Certo, è da un paio di giorni che parla di te, infatti» gli rivelò, mentre Kari lo guardava interrogativo e Joe drizzava sull’attenti.
«Davvero?!» esclamò con gli occhi che luccicavano.
Takeru ghignò sarcastico.
«Ringrazia a Dio che tu non sia il suo fidanzato»
Tutti risero e lo presero in giro, perfino Matt non aveva potuto fare a meno di trattenersi. La faccia del burino era uno sballo, c’era rimasto di stucco e guardava il ragazzo più piccolo di lui con sdegno per essere stato ingannato.
Si aggiusti gli occhiali e si abbassò fino al suo orecchio.
«Non avevamo detto che io e te saremmo stati complici per la vita?» mormorò affinché nessuno sentisse.
Il rapporto tra Jyou e Takeru era qualcosa di misterioso. C’erano delle volte che non si sopportavano e si punzecchiavano a vicenda, specie Joe, che ne aveva sempre una in riserva per tutti. Da qualche tempo a questa parte, però, sembrava che le acque si fossero calmate.
«Sì, ma avevamo anche fumato» gli ricordò il biondino.
Joe sorrise sardonico e gli mollò una gomitata.
«Fattone!» esclamò, mentre quello rideva.
Matt lo sentì e lo guardò di sbieco. Ci mancava che quello smidollato gli desse corda, adesso, e non ne sarebbe uscito più.
Joe si accorse di quello sguardo scontroso. Non gli sfuggiva nulla a quell’occhio di lince.
«Yamato, su, non fare quella faccia come se ti avessero spaccato una chitarra in testa. C’est la vie» citò una frase in francese, lui che si sentiva colto, e afferrò una sedia rossa da un altro tavolo per sedersi.
Il biondo sbuffò.
«Cristo santo» imprecò tra i denti, mentre quello continuava a deriderlo.
Dopo aver detto qualche altra buffonata, si rivolse a Tai che stava controllando il cellulare. Erano le sei e mezza e ancora mancavano gli altri.
«E comunque, Taichi, non ci hai ancora spiegato perché sei qua» catturò la sua attenzione, e il castano notò quella faccia da schiaffi a poca distanza da lui.
Posò il telefono e fece finta di ammettere il vero motivo per cui era tornato.
«Volevo vedere te, Joe»
Alla risposta sarcastica del ragazzo, questi si alzò in piedi indicandolo con impeto.
«L’avete sentito tutti!» puntò il dito anche verso tutti gli altri
«E’ stata una dichiarazione in piena regola!» urlava e aveva fatto voltare alcune persone incuriosite verso di loro.
I più piccoli ridevano, e Matt tentava di metterlo nuovamente a sedere. Era sempre stato un tipo che catturava l’attenzione con quelle battute idiote e quella voce chiassosa.
Continuava a guardarlo con aria vincente.
«Lo sapevo io che quell’oca baldracca di Mimi era stata solo una copertura per tutti questi anni» Lo disse con una semplicità disarmante, e magari era davvero stata una frase detta lì per far ridere senza l’intenzione di voler provocare in lui quelle sensazioni.
Taichi smise di ridere e s’incupì improvvisamente.
Anche il solo sentire il suo nome dalle labbra di qualcuno gli procurava un senso di tristezza e compianto.
Si chiese dove fosse, se Sora l’avesse avvertita del suo arrivo, se fosse mai venuta a quell’appuntamento.
Voleva vederla, non lo negava, voleva vederla per scoprire se era cambiata, se era ancora lei, se era bella come lo era da sempre stata, se era allegra e spensierata come una volta.
Gli venne da ridere amaramente.
Se lui era così stupido da pensare ancora a lei, questo non voleva dire che Mimi facesse lo stesso.
Forse adesso lei stava bene senza di lui, si era rifatta una vita, aveva conosciuto qualcun altro migliore di lui, qualcuno che non stava a cinquecento kilometri lontano da lei, qualcuno che non aveva dovuto scegliere tra lei e il suo sogno.
Qualcuno che l’amava veramente.
Strinse le labbra e fu attanagliato da un dolore al petto.
Forse adesso si trovava in compagnia di un altro, sì, lo sentiva, era per questo che non era ancora venuta e forse non lo avrebbe mai fatto, non si sarebbero mai incontrati, perché lei aveva scelto qualcun altro, perché lo odiava e non voleva più vederlo.
Matt lo guardò preoccupato. Aveva il volto scuro e lo sguardo vacuo.
Qualcuno mollò una gomitata tra le costole a Joe, che non aveva ancora imparato a tenere chiusa la sua boccaccia.
Quello si lamentò e si tenne la parte dolorante.
«E io che cazzo ho detto?» mormorò inviperito, mentre piano piano Tai tornava sulla terra e sorrideva a tutti.
Nonostante avesse una cicatrice sul cuore, non si sarebbe mai buttato giù.
Continuarono a conversare un altro po’, fino a quando una ragazza di loro conoscenza non varcò la soglia del pub.
Sora aveva lo sguardo basso e avanzava lentamente verso di loro. Aveva indugiato parecchio prima di entrare. I sensi di colpa la travolsero nuovamente, quando alzò gli occhi e vide lui seduto insieme agli altri, i capelli biondi che incorniciavo quel viso bellissimo, gli occhi cerulei che vagavano da una parte all’altra.
Sentì il cuore sprofondare in un abisso, perché si odiava per quello che aveva fatto, si sentiva terribilmente colpevole. Avanzava verso quel tavolo come un condannato al patibolo, e pregò con tutta sé stessa di avere la forza di reggere tutto quello.
Tai alzò gli occhi e la vide. Si alzò prontamente, catturando l’attenzione di tutti.
Anche la sua.
«Sora!» esclamò felice, mentre si faceva largo per passare e raggiungerla.
La ragazza gli sorrise sinceramente, perché nonostante stesse fremendo dentro, era contenta di rivederlo.
Matt si morse il labbro nervoso appena la vide. Erano circa due mesi che non si vedevano di persona e adesso la sua presenza lo metteva in agitazione.
Era bellissima, si era fatta crescere i capelli, aveva un fisico mozzafiato e un sorriso angelico. Si chiese quanto diamine era stupido per aver fatto a meno di lei per tutto quel tempo.
La guardava e sentiva il cuore battere forte, come se fosse la prima volta che la vedeva veramente.
Forse era vero che la distanza aiutava a comprendere quanto si amava una persona.
La vide abbracciare Tai con trasporto. Strinse le labbra. Era l’unica persona a cui avrebbe permesso di toccarla in quel modo, e questo perché si fidava di lui.
Non avrebbe mai permesso che qualcun’altro si avvicinasse.
«Scusa il ritardo, Tai, ho avuto un imprevisto» si giustificò senza che importasse, e quello si staccò leggermente per sorriderle.
«L’importante è che tu sia qui»
Il rapporto tra Taichi e Sora era molto forte, e Yamato pensò che il castano avrebbe perfino messo in discussione la loro amicizia per lei. Si preoccupava così tanto che stessero bene entrambi, soprattutto che Sora fosse felice.
Lo notava da come la stringeva con affetto e dalla protezione che provava nei suoi confronti.
Tai non avrebbe mai permesso che le accadesse qualcosa, riusciva perfino a prendersi cura di lei meglio di come lo facesse lui.
Lo avrebbe pestato se solo si fosse permesso di farle del male.
Sora lo stava guardando, stretta ancora tra le sue braccia. Ricambiò lo sguardo, schiudendo le labbra.
Desiderava tanto dirle qualcosa, ma come al solito aveva paura di sparare una cazzata, aveva timore che non fosse abbastanza.
La ragazza sospirò amareggiata, sopraffatta dalle emozioni.
Il ricordo di Victor che la baciava era ancora vivido nella sua mente, e la faceva così soffrire che voleva fuggire via, lontano da quel luogo, lontano da quegli occhi limpidi che l’osservavano e le facevano battere il cuore.
Sentì le lacrime premere, e strinse ancora di più Tai, cercando di trovare un rifugio tra le sue braccia.
«Che bello rivederti» mormorò con la voce rotta, e il ragazzo le accarezzò i capelli.
«Non ci speravo più neanch’io»
Ed era vero. Quando era a Kyoto non avrebbe mai creduto che un giorno sarebbe tornato lì e li avrebbe rivisti tutti, non avrebbe mai potuto pensare che avrebbe goduto del sorriso di sua sorella, delle parole di Matt, degli abbracci di Sora e di tutti gli altri.
«Come stai?» gli chiese questa, scrutandolo bene in volto.
Era felice, dopo tanto tempo era felice.
Il ragazzo sorrise e la prese dalla mano, facendola sedere tra lui e Matt.
«Adesso bene. E tu?»
Sora si sentì piccola piccola in mezzo a loro. Il suo braccio sfiorava quello del biondo, e entrambi non osavano guardarsi.
Quel tocco però era qualcosa che le era mancato terribilmente.
«Sì, anch’io» E risero insieme, perché erano così, Taichi e Sora, ridevano per poco e si sentivano subito a casa.
Joe prese la parola, rivolgendosi al castano con un ghigno sardonico e malizioso.
«Dillo, Taichi, che ancora ti piace» fece cenno verso la ramata che stava, intanto, salutando gli altri.
Questi sospirò, alzando gli occhi al cielo. Possibile dovesse uscirsene sempre con quelle assurdità?
«Joe...» Lo aveva incontrato da meno di mezz’ora e già non ce la faceva più a sopportarlo.
Il corvino aveva assunto una faccia sorniona e batteva ancora sul punto.
«Lo sanno tutti che la volevi, tempo fa»
Il ragazzo gettò uno sguardo ausiliatore a Matt, che scuoteva la testa.
«Facevamo le elementari» disse scettico, facendogli intendere che anche se tra lui e Sora ci fosse stato qualcosa in passato non contava perché erano bambini e adesso lei era la sua più cara amica.
Joe, però, non voleva dargliela vinta, perciò alzò la voce come suo solito.
«Anche Gesù a dodici anni interloquiva con i dottori della legge, che significa, mica si giustificava che era un pivello!»
I ragazzi sbuffarono nello stesso momento, Sora lo guardò sbieco, mentre TK e Kari ridevano.
«Non conta l’età, sempre Cristo è diventato» E strizzò l’occhiolino ai più piccoli.
Le manie religiose di Joe persistevano, e la cosa più divertente era che le tirava fuori per fare esempi e battute stupide.
Tai si rivolse a Sora, guardandola con un’espressione esasperata.
«Ti prego, non dargli ascolto»
Lei lo guardò come per dire che aveva smesso di farlo già da un po’.
Il discorso andò avanti per un altro po’ di tempo, fino a quando a qualcuno non venne in mente un ricordo particolare e tutti si misero a ridere.
Nel frattempo, Matt guardava Sora di sottecchi e voleva dirle qualcosa. Non si era degnato nemmeno di salutarla, era un maleducato e un fifone di prima categoria.
L’osservava ridere e scherzare con gli altri, anche se ogni tanto si zittiva a il volto le diventava scuro.
Possibile si fosse ridotto in quel modo?
Senza avere il minimo coraggio di aprire bocca, senza il minimo coraggio di guardarla negli occhi e parlarle.
Possibile che fosse diventato un vigliacco e che non avesse la minima accortezza di avvicinarsi alla sua fidanzata ed abbracciarla?
Strinse un pugno sotto il tavolo, e pensò che no, non era un vigliacco, che la sua coscienza si sbagliava.
Anche se aveva difficoltà ad esprimersi, questo non voleva dire che aveva paura di fare il primo passo.
Si voltò verso di lei e si decise.
«Ciao» le sussurrò, mentre quella alzava gli occhi castani su di lui e lo guardava sorpresa.
«Ciao» gli disse in tutta risposta, e dopo strinse gli occhi pensando di nuovo a quell’episodio che gli tormentava la mente.
Se solo avessi fatto un passo prima, un unico passo prima, allora io non sarei corsa da lui, non mi sarei lasciata così andare.
«Stai bene?» continuò il ragazzo, sforzandosi di utilizzare un tono neutro, nonostante fosse pronto a scoppiare.
La ramata sentì un groppo in gola ed evitò il suo sguardo.
Non riusciva neanche a guardarlo avendo la consapevolezza che lo aveva tradito, che aveva baciato un’altra persona, che era stata così talmente disperata da aver lasciato che delle sensazioni nuove la coinvolgessero.
Dove sei stato per tutto questo tempo, Matt?
Tu che popolavi disperatamente i miei sogni, che eri la causa del mio malessere, che sei l’unico ragazzo che io abbia mai amato.
Si sforzò di apparire allegra.
«Sì, tutto... tutto apposto» Ma Sora era una di quelle persone che non riusciva a nascondere ciò che provava. Era un libro aperto e Matt capiva quando c’era qualcosa che non andava, aveva ormai imparato a conoscerla.
Questo fece sì che si rinchiudesse ancora di più nel suo guscio, che s’immergesse ancora più a fondo.
Si sentiva triste e abbattuto, perché non riusciva più a gestire la sua storia, non riusciva più a comandare le sue emozioni.
Era così talmente stupido da non essere capace a continuare.
Taichi lanciò loro uno sguardo. Notò che stavano parlottando e che adesso si erano chiusi nuovamente in quella prigione silenziosa.
Decise di intervenire per non farli crollare ancora di più.
«Come va con l’università?» chiese alla ragazza, che alzò il viso e parve riprendersi.
«Oh, tirocinio e poi ho finito»
Si consolò pensando che presto anche lei come Joe avrebbe concluso il suo percorso universitario durato ben cinque lunghi anni.
Tai la guardò con ammirazione. Era sempre stata brava a scuola, a differenza di lui e Matt che erano due capre in quasi tutte le materie. Ricordava ancora con un sorriso tutte le strigliate da parte sua perché non avevano mai voglia di studiare.
«Brava, complimenti»
Continuarono a parlare di qualcos’altro, battibeccando sopra un discorso e ridendo su un altro. Il locale non era molto pieno, c’erano solo loro in quel tavolo e qualcun altro lì vicino. Le persone entravano ed uscivano.
In mezzo ad un gruppo di ragazzi, una chioma rossa si fece largo chiedendo scusa per averne spinto uno, e con una certa fretta, Koushiro si volatilizzò di fronte a loro.
Aveva il fiatone e li guardava come per accertarsi che fossero realmente chi cercava, dopodiché sospirò di sollievo.
«Eccovi qua, ragazzi, credevo foste seduti fuori»
Izzy era magro e portava i capelli rosso mogano corti e ben pettinati. Non vestiva molto alla moda, aveva uno stile tutto suo che guarniva la sua personalità.
Non era mai stato molto alto, e nonostante avesse venticinque anni compiuti da poco non dimostrava la sua età.
Joe prese subito la parola, anticipando Tai che stava per dire qualcosa.
«E chi ce lo faceva fare, rosso pomodoro. Qui c’è l’aria condizionata» chiamò anche lui con uno degli antichi soprannomi che gli aveva affibbiato, e quello aveva alzato un sopracciglio scuro.
Il castano si avvicinò per salutarlo.
«Kou, come stai?» si abbracciarono e poi si tirarono una pacca amichevole.
Erano sempre andati d’accordo. Koushiro era un ragazzo tranquillo e a modo, se non era interrogato si faceva beatamente gli affari suoi, anzi aveva più volte placato gli animi di tutti loro durante le discussioni. Ricordò uno dei tanti episodi in cui Izzy aveva intercesso da paciere quando lui e Matt avevano litigato una volta tornati a Digiworld, un paio di anni fa.
«Bene, Tai, e tu come stai?» si diedero un cinque, e questi lanciò uno sguardo alla combriccola che ciarlava rumorosamente.
«Bene. Ci voleva» commentò spontaneamente, osservando i suoi amici seduti insieme, riuniti ancora una volta in suo onore.
Era così talmente fortunato ad avere accanto delle persone del genere.
Il rosso fece un sorriso ed annuì.
«A chi lo dici» disse poi, sfumando le parole in una nota triste e malinconica.
Taichi lo fissò, cercando di capire perché avesse detto in quel modo.
«E’ successo qualcosa?» gli chiese discretamente, mentre quello negava con la testa e faceva uno sguardo enigmatico.
Furono interrotti come al solito dai commenti di Joe, che si era rivolto ad Izzy con un sorriso bislacco.
«Non dirmi che ti sei portato il computer anche qui?»
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo, sedendosi in un angolo.
«No, Joe, non avrebbe avuto senso» scandì le parole come se questi fosse una bambino poco sveglio.
Il più grande, che non voleva mai darla vinta a nessuno, si avvicinò all’orecchio di Kari, seduta accanto a lui.
«Anche i suoi pantaloni e la sua maglia non hanno senso» commentò come una comare pettegola.
La castana cercò di trattenere le risate. Koushiro si vestiva in modo semplice, aveva una maglia a maniche corte a righe e sopra un gilè verde con la cerniera a zip, ma per Jyou ogni cosa era un’occasione propizia per prendere in giro i suoi amici.
Gli altri sapevano che scherzava e lo lasciavano perdere, lui era fatto così.
«Sei proprio un tipaccio» lo etichettò Takeru, con un ghigno malizioso.
Il ragazzo gli scompigliò i capelli con un sorriso.
«Come te, fattone spilungone!»
Il rosso aveva salutato anche gli altri e l’attenzione era tutta rivolta verso di lui.
«Sono secoli che non ci vediamo» aveva constatato Sora, e in effetti aveva ragione. Era passato tanto tempo dall’ultima volta che si erano incontrati.
Izzy era un ragazzo che non usciva spesso, preferiva rimanere in casa a studiare o a spiattellare con il computer. Studiava ingegneria informatica e faceva parte del tutoraggio dell’università.
«Cosa stai facendo?» gli chiese Matt, mentre questi si raddrizzava compostamente sul divanetto. Si schiarì la voce.
«Ho dovuto rimettermi in pari con gli esami. Ero rimasto un po’ indietro a causa di... beh, di forze maggiori» spiegò abbassando lo sguardo e torturandosi le mani.
Tai, Matt e Sora si lanciarono degli sguardi interrogativi. Izzy non parlava mai apertamente delle sue questioni personali, era riservato ed introverso. Il tono con cui aveva parlato lasciava presagire che fosse successo qualcosa di grave.
Joe si avvicinò a TK e Kari, coprendosi la bocca e parlando a bassa voce.
«Ho sentito dire che Frankie c’era rimasta secca per un bel po’ di tempo»
I due più piccoli si avvicinarono interessati.
«Non mi dire!» esclamò il biondino, con in volto un’espressione sorpresa.
Non riusciva a crederci che la ragazza di Koushiro fosse entrata in quel giro. Eppure aveva delle conoscenze lì in mezzo, ma non aveva mai incontrato Frankie.
Joe lo aveva guardato con un sorrisino eloquente e gli aveva pizzicato fastidiosamente una guancia.
«Non tutti riescono a tenerla come fai tu, capo mastro»
Takeru ridacchiò e gli tolse la mano. Hikari lo aveva guardato preoccupata.
«Quindi Frankie ha avuto problemi di droga?» non fu abbastanza silenziosa, perché Taichi l’aveva sentita e aveva alzato gli occhi su di loro.
Cosa stavano confabulando? Era vero quello che dicevano?
Si premurò di gettare un’occhiata al rosso affinché non si accorgesse di nulla, ma Izzy stava parlando ancora con Matt e Sora.
«Esatto. Secondo me sniffava qualcosa, anche» continuò a pettegolare Joe, con uno sguardo sardonico.
Il castano scosse la testa, contrariato.
«L’ho sempre detto io, che quella aveva qualche rotella fuori posto. Bastava guardare i suoi piedi» fece un chiaro riferimento ad un episodio passato in cui la bionda aveva lanciato il pallone fuori dal campo durante una partita di calcio.
Da quel giorno, l’aveva soprannominata “piedi storti”.
Tai lo guardò sbieco, pensando a quanto si divertisse Joe nell’esagerare con le storie e nel tenere banco di fronte a chi ne sapeva meno di lui.
Era rimasto sempre il solito gradasso di tanti anni fa, nonostante avesse ventisette anni e stesse per laurearsi.
Volse lo sguardo verso Koushiro, che aveva smesso di parlare. Se ciò che aveva raccontato quello smidollato era vero, voleva che sapesse che loro lo avrebbero aiutato in qualunque circostanza.
«Noi ci siamo, Izzy, ci saremo sempre per te» disse d’un tratto, facendo alzare lo sguardo interrogativo del rosso.
Joe fece una smorfia sorpresa, ma a prendere la parola fu anche Sora.
«Puoi contare su di noi» gli fece l’eco, regalandogli un sorriso.
Izzy spostò lo sguardo su Yamato, che aveva incrociato le braccia e aveva annuito, e sentì improvvisamente l’emozione aumentare.
Nonostante non avesse raccontato niente di tutto quello che era successo, loro avevano già capito e gli facevano sentire tutto l’affetto e la devozione che provavano. Avrebbe potuto sempre fidarsi di loro, perché erano i suoi amici, e anche se si vedevano poco, nulla era cambiato.
Dopo un po’, TK fece uno sbadiglio.
«Non ordiniamo niente, allora? Ho una sete!» esclamò guardandoli con sufficienza. Era passata più di mezz’ora e non avevano ancora chiamato il cameriere. Il sole stava tramontando e lui ci stava mettendo le radici.
Joe, come al solito, intervenne.
«Vuoi un piccolo shottino alla frutta?» cinguettò ingenuamente, mentre il biondino lo guardava strano.
«Veramente preferirei un quattro bianchi»
Il corvino lo fissò ammirato, pensando che i tempi in cui il piccolo Takeru piangeva come una fontana e stava incollato alle sottane di Yamato erano terminati.
«Ah però, si tratta bene il piccolino» commentò, sistemandosi gli occhiali.
Fece un cenno al ragazzo di prima.
«Scusa, giovine
Sora non fu d’accordo, e lo fermò da un braccio.
«Aspetta, Joe, non vedi che manca qualcuno?»
Tai aveva alzato appena la testa quando aveva sentito.
Era vero, mancava solo lei.
Guardò il tavolo di fronte a lui dove sedevano i suoi amici.
Sicuramente si era rifiutata di venire, la conosceva bene. Non aveva intenzione di andare a salutare il ragazzo che l’aveva lasciata, che non si era fatto sentire per tutti quei mesi, che non l’aveva amata abbastanza.
Sospirò, passandosi una mano tra i capelli.
Era colpa sua se non sarebbe venuta, lo aveva voluto lui.
La conversazione continuava.
«E chi, di grazia?» Il corvino aveva contato velocemente i presenti e poi aveva fatto una smorfia
«Se ti riferisci a quella stupida di Mimi, allora probabilmente sarà a passeggio con quel manzo imbalsamato»
Taichi si bloccò all’istante, irrigidendosi.
Sora aveva intenzione di ucciderlo e, prontamente, lanciò uno sguardo apprensivo verso il suo migliore amico che faceva finta di non ascoltare.
«Sta arrivando!» sbottò arrabbiata, spalancando gli occhi come per fargli intendere che come al solito aveva la lingua lunga e il cervello corto.
Joe se ne rese conto e fece una faccia grave.
Mimi si trovava insieme ad un’altra persona; gli pesava ammetterlo, ma Joe aveva sicuramente ragione.
Doveva aspettarselo, doveva essere pronto ad una cosa del genere.
Non poteva pretendere che dopo circa due anni, lei fosse ancora lì ad aspettarlo.
 
E tu cosa stai facendo allora?
 
Io non lo so.
 
Era giusto che lei andasse avanti.
Tai sentiva il cuore sprofondare lentamente.
Fanculo, però non è giusto, non è giusto, cazzo, non può essere così.
 
 
Perché una persona doveva essere costretta a scegliere in quel modo; non si poteva sempre avere tutto o era lui troppo vigliacco per accontentarsi?
 
«Eccola!» annunciò d’un tratto Kari, e spostò apaticamente gli occhi verso la porta che piano si apriva e vedeva apparire lei, Mimi, in carne ed ossa, che camminava con esitazione e con in volto uno sguardo titubante.
Era lei, era arrivata davvero.
I loro occhi s’incrociarono dopo tanto tempo, e Tai continuava a sprofondare, sempre di più, ancora più giù.
Gli altri li guardavano con curiosità. Matt osservava preoccupato il suo migliore amico.
La ragazza avanzava verso il tavolo, e Taichi pensò che nonostante fosse visibilmente agitato, doveva mantenere la calma e salutarla.
Si alzò in piedi sentendo le gambe molli, pronte a cedere. Mimi era arrivata lì davanti e aveva guardato i suoi amici con un’espressione trafelata.
«Ciao a tutti, scusate il ritardo»
Joe aveva il viso tra le mani e le aveva lanciato uno sguardo vago.
«Veramente ci eravamo già dimenticati di te»
Sora gli lanciò un calcio potente da sotto il tavolo, e lui ululò dal dolore.
La castana fece un sorrisino tirato, dopodiché alzò lo sguardo su di lui, che era in piedi e la guardava.
Sentiva  il cuore battere forte come un tamburo, era come se volesse fuoriuscire dalla sua gabbia toracica, e il respiro cominciava ad essere corto e irregolare.
Non appena lo aveva saputo, si era fatta accompagnare subito.
Tai, lui era lì, ed era alto, era bellissimo, era l’unico ragazzo che avesse mai amato in tutta la sua vita.
Sentì un brivido percorrerle la schiena.
Non avrebbe mai pensato che una sola persona potesse provare insieme tutte quelle sensazioni.
Si sentiva una sciocca, si sentiva così debole di fronte a lui, incapace di muovere un dito o dire qualcosa.
Lui la guardava ed era tanto tempo che aveva desiderato di vederlo.
«Ciao» sussurrò Tai, dopo un po’.
Sentire la sua voce era come una beatitudine.
Sentì improvvisamente un caldo immane.
«Ciao» rispose al saluto, continuando a guardarlo, senza riuscire a togliergli gli occhi di dosso.
Il castano la guardava a sua volta e sembrava paralizzato.
Era bella, era bellissima vestita in quel modo, con i capelli ondulati legati in una morbida coda, con quella magliettina verde che metteva in evidenza il suo corpo.
Aveva voglia di avvicinarsi e stringerla forte, aveva voglia di dirle che gli era mancato il suo sorriso, i suoi occhi, tutto...
«C-come stai?» balbettò come un ragazzino alle prime armi.
Non riusciva ed esserle indifferente, non riusciva.
Era una lotta costante tra testa e cuore, e chi avrebbe avuto la meglio?
Mimi si morse il labbro, abbassando per un attimo lo sguardo.
Non riusciva ancora a crederci che lui fosse lì, che le stesse rivolgendo la parola, che nonostante fosse passato così tanto tempo non era cambiato niente.
Erano loro due, chiusi in una bolla ad aspettare che qualcuno la scoppiasse.
Ci sarebbe rimasta per sempre, là dentro.
«Bene» rispose con la voce tremante «E tu?»
Tai socchiuse gli occhi.
Era una gara a chi avrebbe resistito di più, e nonostante lui amasse vincere, non era sicuro di riuscire a tagliare il traguardo.
«Bene» disse con voce roca, e avrebbe voluto aggiungere tante altre cose.
Mimi lo guardava speranzosa, e lui, giurava a Dio, le avrebbe voluto chiedere cosa faceva, dove era andata, con chi si era vista poco prima.
Ma non ne aveva il diritto, non aveva il diritto di chiederle tutte quelle cose, non aveva più nessun diritto sulla sua vita.
Con l’amarezza nel cuore, si rimise a sedere e la vide fare lo stesso, accomodandosi accanto a Koushiro e baciandogli le due guance.
Era tutto ciò che aveva voluto e che aveva perso.
Si sentì stringere il braccio da sotto il tavolo, voltò lo sguardo e incontrò quello di Matt che lo fissava per assicurarsi che stesse bene. Lui gli face un cenno per fargli intendere che era tutto apposto.
Anche Sora allungò una mano verso Mimi e la strinse tra la sua, facendole un sorriso rassicurante. La castana la guardò appena e si sforzò di ricambiare.
Finalmente il cameriere si avvicinò.
«Che prendete?»
Joe prese la parola, abbracciando TK alla sua destra.
«Per me e mio compare due quattro bianchi» dichiarò, mentre quello scriveva e gli altri lo guardavano interrogativi.
Ogni volta faceva il gradasso vantandosi di riuscire a bere gli alcolici più forti senza ubriacarsi o sentirsi male, ma la verità era che non riusciva a reggere neanche uno shottino.
«Ma se nemmeno riesci a finirlo» osservò, infatti, Izzy, rivolgendogli uno sguardo scettico.
Il corvino fece finta di non sentire e parlò con il cameriere.
«Per il cibernetico un’aranciata con poche bollicine»
«Smettila, Joe!» si lamentò quello, mentre il ragazzo rideva e lui correggeva l’ordine con un martini.
«Per Kari pago io. Cosa desideri, cuore?» si sporse verso la ragazza facendo il cascamorto, mentre lei rideva.
«Un gin lemon, grazie»
Matt approfittò della confusione che si era creata per avvicinarsi di più a Sora.
Con un gesto istintivo, le strinse il braccio che aveva poggiato sul tavolo e la guardò negli occhi castani.
Non sapeva cosa gli prendeva, a volte agiva senza pensare e gli faceva bene un po’ di impulsività.
«Sora, dobbiamo parlare» le sussurrò in tono perentorio, e lei sentì il cuore sprofondare e subito dopo battere più veloce.
Non sapeva se lui gliel’avesse detto perché aveva capito qualcosa o perché veramente aveva voglia di chiarire con lei.
Ma lui non poteva sapere ciò che era successo quel pomeriggio, perché c’erano solo lei e Victor, nessun’altro oltre loro.
Cercò di tranquillizzarsi, ma il cuore non ne voleva sapere di calmarsi.
Come avrebbe reagito, Matt, se avesse saputo ciò che aveva fatto?
Sentì lo stomaco chiudersi, assalita dal panico.
Si sentiva così male, si sentiva così colpevole da non riuscire quasi a guardarlo negli occhi. Aveva paura che lui lo capisse, che potesse intendere qualcosa dalla sua voce, dal suo sguardo, dal suo modo di comportarsi.
Doveva dimenticare tutto.
Se voleva ricominciare a stare bene con Matt, doveva fare finta che non fosse successo niente.
«D’accordo» annuì, pensando che sarebbe stato molto difficile.
Non era brava a dire le bugie, non lo era mai stata.
E aveva addosso una brutta sensazione che non la lasciava.
«Voi quattro?» si rivolse a loro il cameriere, un po’ stufato da quella combriccola strana e chiassosa, specie da quel curioso ragazzo dai capelli neri che continuava a dire idiozie.
La ramata alzò lo sguardo.
«Uno spritz» ordinò, ricordando una sera in cui lei e Victor avevano fatto un aperitivo in un bar dall’altro lato del quartiere che si affacciava sul mare.
Sia Tai che Matt la fissarono chiedendosi da quando avesse cambiato gusti, dato che era da sempre stata una tipa tradizionalista.
«Io un cuba libre» fece il biondo, senza nemmeno alzare lo sguardo
Tai si schiarì la voce,
«Va bene anche per me. Tu cosa...?» si voltò spontaneamente a guardare Mimi, bloccandosi subito non appena se ne rese conto.
Quando stavano insieme era abituato a chiederle sempre cosa prendeva, era un po’ come un rito, voleva sapere prima di tutti ciò che lei preferiva.
Forse era un gesto un po’ egoistico, possessivo, ma gli era venuto così naturale voltarsi a chiederglielo.
Mimi strinse le labbra contornate da un po’ di rossetto e tentò di calmarsi.
Reagisci, stupida, non star lì impalata come un’idiota che aspetta la manna dal cielo.
Prese un respiro profondo, dopodiché si rivolse verso il cameriere con un sorriso gigantesco.
«Una vodka, grazie, come preferisci tu»
Tai la guardò con un’espressione sorpresa. Si era affidata a quel ragazzo con la semplicità più pura di questo mondo, e lui adesso si trovava lì seduto davanti a lei come un’idiota.
Era libera di fare ciò che voleva, lui non aveva più nessun diritto su di lei, continuava a ripetersi.
Mimi non lo guardava, e lui si sentiva sprofondare.
Nonostante cercasse di trovare un motivo razionale che lo tenesse ancorato, sentiva di stare per staccarsi dalle sue radici.
«Che fine ha fatto quella Luchia a cui sbavavi dietro?» chiese d’un tratto TK a Joe, mentre quello alzava il volto con una faccia altera.
«Io le sbavavo dietro? Non dire stronzate!» esclamò arrabbiato, diventando rosso in viso.
Luchia era il grande amore di Jyou. Aveva trentacinque anni ed era una ballerina professionista che aveva contattato tanti anni fa quando avevano organizzato una festa di benvenuto in onore di Mimi. Si era da subito infatuato di lei e da quel giorno la pedinava ovunque, chiamandola in tutte le ore del giorno e della notte, nonostante lei lo avesse sempre rifiutato.
«Quella vecchiaccia adesso esce pazza per il sottoscritto, e voglio dire, chi non lo sarebbe con questa faccia» si vantò, beccandosi delle occhiate scettiche da parte dei suoi amici.
Sora e Mimi si lanciarono uno sguardo eloquente. In realtà sapevano che Joe ancora usciva pazzo per lei nonostante facesse finta di disprezzarla, e ogni tanto Luchia veniva a casa e si chiudevano insieme in stanza, Dio solo sapeva a fare cosa.
La maggior parte delle volte, però, finivano per litigare e mandarsi a quel paese.
Quando i cocktail e gli apertivi arrivarono, ognuno si fiondò a bere il proprio e mangiare, così per qualche secondo nessuno disse più niente.
Tai gettò uno sguardo al cocktail di Mimi, che era una vodka alla pesca con quella che doveva essere una limonata.
Spostò subito lo sguardo quando lei guardò lui.
«Quindi, Taichi, da leader del gruppo hai pensato bene di riunirci tutti qui» commentò Joe prendendo nuovamente la parola, mentre faceva le bollicine con la cannuccia e sporcava il tavolo.
Il castano fece una smorfia.
«Visto che non ci vediamo da tanto tempo»
Il più grande ebbe così tanta premura di controbattere, che si affogò con il cocktail e gliene uscì un po’ dal naso.
TK e Kari risero a crepapelle.
«Lo dici tu. Io con quelle due papere di Sora e Mimi ci convivo» tossì Joe, mentre beveva facendo smorfie di disgusto.
«E’ proprio buono, ottima scelta» continuò a tossire, schifato, ma era così orgoglioso da non volerlo dare a vedere.
TK scosse la testa, divertito.
La castana si sentì chiamata in causa e alzò la testa dal suo bicchiere, lanciandogli uno sguardo inceneritore.
«Oh, piantala, Joe! Sei estremamente irritante!» si lamentò, facendolo voltare verso di lei, indignato.
La gola gli bruciava e gli lacrimavano gli occhi. Chi diavolo gliel’aveva fatto fare di prendersi quella dannata sbobba?
«Vi siete coalizzate contro di me!» urlò inviperito, rimandando al fatto che le due ragazze, per punizione, lasciavano i suoi piatti e le sue pentole sporchi in disparte senza lavarli al posto suo e avevano nascosto piatti e bicchieri di plastica.
Mimi gli lanciò contro la cannuccia del cocktail, bagnandogli la maglia. Il ragazzo lanciò un urlo e gli altri scoppiarono a ridere.
Tai sorrise di rimando.
Era sempre così simpatica e sapeva come difendersi.
«Se facessi le pulizie e lavassi i piatti quand’è il tuo turno, io e Sora non avremmo fatto questa coalizione» spiegò con un ghigno, mentre la ramata annuiva e lo guardava minacciosa.
Lui si sentì in trappola, peraltro tutti i suoi amici adesso avevano scoperto il suo segreto. Non poteva perdere la faccia da uomo pulito e laureato, ma quelle due donne riuscivano sempre a batterlo.
«Stupide stronze» ringhiò, mettendosi nuovamente a fare bolle con il suo cocktail.
Sora sentì il cellulare vibrare e lo prese in mano. Il cuore batté più veloce quando lesse il destinatario di quel messaggio.
Era Victor.
Dio, era lui, era lui e gli diceva che voleva vederla, che voleva parlare con lei, che non riusciva a non pensarla.
Si fece piccola piccola e subito ripose il cellulare dentro la borsa, come se si fosse appena scottata.
Oh Dio, cosa diamine aveva combinato?
Si sentiva come una criminale che doveva fuggire per difendersi, cancellare tutte le tracce e agire nell’ombra.
Perché era dovuto succedere tutto quello?
Non le piaceva, non le piaceva quella situazione.
Matt si accorse che le era arrivato un messaggio e l’aveva vista leggerlo di sottecchi. Non sapeva chi fosse che la cercava, ma aveva notato quella ruga di preoccupazione sul suo viso.
Forse era esageratamente geloso, sì lo ammetteva, però sarebbe stato meglio cogliere il momento propizio e parlare al più presto.
Koushiro riportò l’attenzione su Taichi.
«Non ci hai ancora detto come va Kyoto»
Ed effettivamente non aveva aperto bocca su quell’argomento. Il castano si scompigliò i capelli e si sforzò di non deludere le loro aspettative.
Lo guardavano tutti, erano tutti curiosi di sapere cosa stesse facendo. Anche Mimi aveva alzato gli occhi castani e lo fissava.
«Oh, tutto bene, sì» dissimulò, cercando di sorridere «C’era una pausa e ho deciso di tornare»
Era ancora sotto gli sguardi indagatori dei suoi amici e il rosso aveva continuato.
«Quanto starai?»
Aspettavano tutti la risposta a quella fatidica domanda.
Tai sospirò, e pensò alle parole di Akira. Era costretto a tornare, era costretto ad eseguire gli ordini e sarebbe al più presto stato trasferito.
«Una settimana»
I ragazzi si guardarono tra di loro, sorpresi e interrogativi.
«Così poco?!» aveva ribattuto sua sorella Kari, mentre la tristezza la pervadeva.
Suo fratello era appena arrivato e già avrebbe dovuto ripartire tra qualche giorno, era un’ ingiustizia. Voleva che Tai rimanesse, lo voleva con tutta sé stessa.
Suo fratello annuì, guardandola con un sorrisino rassegnato.
Mimi sentì distrattamente i pezzi del suo cuore venire via.
D’altronde, doveva aspettarselo.
Lui era impegnato con la sua squadra, era impegnato a seguire il suo sogno e non c’era niente di più importante per lui che quello.
Come aveva fatto anche per un solo secondo ad aver pensato che potesse stare di più, che fosse tornato perché sentiva la sua mancanza?
Le vennero le lacrime agli occhi.
A dar voce ai suoi pensieri fu Matt, che accanto al suo migliore amico aveva stretto un pugno e si era rivolto a lui con uno sguardo duro.
«Non puoi cercare di convincere il tuo allenatore?» lo guardava serio, e Tai provò tanto affetto per lui, perché sentiva che avrebbe voluto davvero che lui rimanesse.
Scosse la testa.
«E’ una testa di cazzo, non mi ascolterà»
Ormai viveva nella rassegnazione più totale, nel baratro più oscuro che aveva risucchiato la sua esistenza.
La luce era lontana e lui non riusciva a muovere un passo per raggiungerla.
Il biondo non demorse.
«Ma questa è anche la tua vita!» urlò, facendo sussultare tutti.
Sora lo guardò candidamente, e pensò che teneva tanto a quell’amicizia, avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di far sì che Tai restasse lì.
Non voleva che lui andasse via, non era ancora pronto a dirgli addio un’altra volta, non ora che aveva bisogno di lui, non ora che si trovava da solo.
Il castano lo guardò, si guardarono. Riuscivano a leggersi negli occhi, era sempre stato così. La loro amicizia era salda e incomparabile, un legame profondo che niente e nessuno avrebbe mai potuto spezzare.
Taichi sospirò.
Aveva ragione a dirgli che quella era la sua vita, lui stesso ne era consapevole. Era consapevole del fatto che avrebbe dovuto lasciare tutto per andare lì, che lo aveva dovuto fare quando ancora non era pronto a fare i conti con sé stesso, quando ancora tutto gli sembrava gestibile.
Perché Tai era sempre stato ottimista, niente lo aveva piegato, niente lo aveva vinto.
Guardava la vita con un ghigno di arroganza e determinazione, superava le avversità con lo spirito combattivo che lo aveva da sempre contraddistinto.
Ma adesso?
Adesso aveva venticinque anni, era cresciuto, era maturato, il suo ottimismo era sempre di più scemato.
Seguire un sogno che eludeva la sua vera vita, la sua famiglia, i suoi amici, l’amore... non riusciva a capire se fosse davvero un sogno o un incubo.
Istintivamente, guardò Mimi e lei lo stava già osservando da tanto.
Cos’erano valsi tutti quegli anni senza di lei?
Dov’era la vera felicità dietro a tutto quello?
«Lo so» ammise, ma non disse altro.
Yamato lo fissò per un altro po’ di tempo, poi voltò lo sguardo da un’altra parte. Sapeva che ci era rimasto male, un po’ come tutti gli altri. Sora lo guardava con un’espressione dispiaciuta, e si premurò di accarezzarle il braccio.
Avrebbe potuto dire loro di non preoccuparsi, di non rattristirsi se lui non poteva stare per molto tempo, che la quantità di tempo era relativa, l’importante era stare insieme senza mai perdersi.
Avrebbe tanto voluto dirlo, Taichi, tranquillizzare gli animi di tutti, fare un gran sorriso come avrebbe fatto una volta.
Una volta li avrebbe incoraggiati e magari anche presi in giro; avrebbe incitato loro a non buttarsi giù, a non arrendersi alle più piccole difficoltà, perché insieme avevano superato pericoli ben più grandi e solo uniti potevano farcela.
Ma non era più come una volta; adesso Tai sentiva solo una sensazione di vuoto dentro che lo spiazzava...
Sentiva che era cambiato e forse si stava arrendendo anche lui...
Koushiro decise di rompere quel silenzio creatosi, gettando uno sguardo a Yamato che fissava insistentemente fuori.
«E tu, Matt, come va con la band?» credeva di aver fatto un’opera di bene cambiando il discorso e portando l’attenzione sul biondo.
Ma forse il ruolo da mediano non gli calzava più.
Questi si voltò lentamente, colpito nel segno. Aveva cercato di sotterrare la questione e non pensarci più, ma era impossibile.
Era impossibile fare finta di niente, come se tutto andasse bene e lui fosse felice.
La verità gli straziava il cuore, e la cosa più dolorosa era che lui lo aveva sempre saputo.
Aveva sempre saputo che non avrebbe avuto futuro, che quella band stava in piedi per miracolo, che gli altri ragazzi avevano provato più volte ad allontanarsi.
Era stato l’unico filo conduttore per tutti quegli anni, e si rese conto di quanto era stato stupido.
I suoi amici avevano voltato gli sguardi verso di lui, curiosi di sapere. Aveva sentito Tai sospirare e aveva fatto un sorriso amaro.
«Ci siamo sciolti, a dire il vero» incrociò le braccia, dicendolo con una semplicità glaciale. Ed era così Matt, diceva le cose sempre con quel tono duro e sprezzante, ma la verità era che ci teneva in tutto quello che faceva.
La musica era una di queste. Era la sua vita, il suo unico obbiettivo, la luce in fondo al suo tunnel che faticava tanto per raggiungere.
Pensò questo anche Sora che, spiazzata, si voltò a guardarlo con gli occhi spalancati.
«Davvero?!» esclamò, mentre si portava una mano alla bocca.
Non poteva crederci, era tutto quello che aveva sempre agognato... Era uno dei motivi per cui avevano incominciato a vedersi sempre più di meno...
Lui aveva messo la sua band prima di tutto, persino prima di lei. E nonostante avesse più volte rimpianto i tempi in cui niente poteva intromettersi tra di loro, non avrebbe mai voluto che succedesse questo.
Matt fece per parlare, per provare a dare delle risposte a quelle numerose domande. Fu, però, suo fratello Takeru a prendere la parola e a farlo ammutolire.
«Era per questo che rompevi le palle perché non volevo studiare e me ne andavo in giro. Tu, nel frattempo, avevi perso ogni speranza e ti mangiavi il fegato»
Lo aveva guardato con un sorrisino amaro, e lui aveva aperto la bocca, spiazzato, senza che ne uscisse alcun suono.
I ragazzi li fissavano interdetti, solo Izzy disse qualcosa.
«Takeru, cosa dici?» lo rimproverò, ma il più piccolo non demorse.
Suo fratello maggiore non smetteva di fargli pesare il fatto che non avesse continuato gli studi e che facesse il pendolaro un po’ in ogni dove. Criticava le sue scelte senza che ne avesse realmente il diritto, e adesso era stufo.
Era stufo che gli venisse detto ciò che era giusto o non era giusto fare, sapeva badare a sé stesso, forse più di quanto riuscisse a farlo Yamato.
Gettò uno sguardo a Sora, che lo guardava con un’espressione indecifrabile. Aveva capito che tra di loro non andava bene, non era uno stupido, e credeva fosse migliore di lui?
Lui amava Hikari e non avrebbe mai permesso che questa si allontanasse da lui, mai, perché era la donna della sua vita e per lei avrebbe fatto di tutto.
Matt, invece, era diventato bravo a demordere, come lo stava facendo Tai, come lo aveva fatto Izzy, e Mimi già da tempo... Nessuno di loro credeva realmente in sé stesso, forse solo Joe, nella sua stravaganza, ma la verità era che nessuno dei suoi amici aveva la speranza nel cuore.
«E’ sempre stato bravo a sottolineare i fallimenti altrui, ma i suoi...» gli si spezzò la voce, non volle più continuare perché sapeva che avrebbe detto qualcosa che lo avrebbe ferito.
Suo fratello alzò gli occhi nel sentire quelle parole, e gli rivolse uno sguardo di fuoco.
TK si era messo in testa di volerla avere vinta a tutti costi, aveva intrapreso quella battaglia contro di lui senza sentire ragioni. Credeva che mettersi contro chi lo ostacolava potesse renderlo più forte, più consapevole, ma si sbagliava.
Perché anche se era cresciuto doveva fare ancora i conti con sé stesso, e quelli erano veramente duri da fare.
 
Tu non sai cosa ho dentro, non puoi capire quanta malinconia porto nel cuore.
Io non sto bene qui fuori, non sto bene con nessuno
 
«Credi di aver capito tutto della vita?» ribatté con un tono sferzante, ed era questo ciò che detestava di Matt, il fatto che non ammettesse i suoi errori e si chiudesse nella sua prigione interiore del cazzo che lo rendeva infelice.
Il biondino strinse i pugni, gli altri lo guardarono preoccupati.
«Me la spiàno la mia cazzo di vita» gli fece intendere che non avrebbe mai mollato come invece aveva fatto lui.
Era per questo che si sentiva superiore, e non perché avesse ventitré anni e stava scoprendo il mondo.
Riusciva a guardare oltre.
 
Tu non sai di cosa ho bisogno io per essere me stesso, tu non sai cosa voglio fare io della mia vita, perché non riesci ad aprirti al mondo.
Io, invece, col mondo ci convivo.
 
La tensione che si era creata era palpabile e Tai strinse il braccio del suo migliore amico per calmarlo.
«Matt, dai, lascia stare» gli sussurrò, e piano piano il respiro del biondo tornò regolare.
Kari aveva fatto lo stesso con il suo fidanzato, e per smorzare quell’atmosfera lugubre, si rivolse a Mimi, pensando di rivolgerle qualche domanda e chiudere definitivamente il discorso.
«E tu, Mimi, a che punto sei?» lo chiese con un tono un po’ forzato, con la voce che le tremava.
I due fratelli si guardavano ancora.
La castana alzò la testa che aveva tenuta abbassata per tutto il tempo della discussione. Non le erano mai piaciuti gli scontri, sia quelli fisici che verbali.
Si sentì chiamare e si passò una ciocca di capelli lasciata libera dietro l’orecchio.
«Oh, mi mancano due esami e richiedo la tesi. Non vedo l’ora di finire!»
Kari le rivolse un gran sorriso, specie quando notò che TK si era alzato ed era andato fuori a fumare una sigaretta.
Le sorrise allettata, poi lanciò uno sguardo eloquente a suo fratello che, aveva notato, la guardava di nascosto.
Conosceva benissimo Tai, e capiva quando qualcosa o qualcuno non gli era indifferente.
Il fatto che entrambi si ostinassero a fare finta di niente, questo non lo capiva.
Il castano rimuginò, pensando alle parole della ragazza.
Non sapeva che avesse quasi finito con l’università... non sapeva più niente della sua vita...
Quando stavano insieme e non superava qualche esame le diceva che perdeva subito la pazienza e non si impegnava veramente.
Adesso, invece, aveva perso lei...
I loro occhi si cercarono ancora, ma furono troppo codardi per mantenere quel contatto, nonostante lo ricercassero insistentemente.
Sora seguì con lo sguardo Matt che si era alzato per andare in bagno.
Avrebbe voluto seguirlo; fosse stato tempo fa sarebbe andata da lui a consolarlo, a dirgli di non preoccuparsi se tutto era crollato all’improvviso perché ogni sforzo lentamente sarebbe stato ripagato.
Lo avrebbe abbracciato, baciato, consolato per la lite avuta con suo fratello...
Ma adesso non riusciva a muovere un passo.
Era bloccata, imprigionata da quei sensi di colpa che sembravano volerla soffocare.
Ripresero a parlare tra di loro. Le acque si erano calmate, e dopo un po’, entrambi i fratelli tornarono al proprio posto.
Nessuno fece riferimento all’accaduto.
Joe, che era stato in silenzio per tutto quel tempo, prese la parola.
«Perché non parliamo un po’ di me?» non appena lo sentirono, tutti fecero una smorfia.
«Domani rosicherete come matti nel vedermi agghindato in quel modo» ghignò perfido, alludendo al fatto che si sarebbe laureato e avrebbe indossato la tunica.
Tai si era accasciato sul tavolo, Matt era praticamente sdraiato con la testa all’insù, Sora si era portata una mano in viso, Izzy aveva detto qualcosa tra i denti e gli altri avevano sbuffato.
Joe perseverava.
«Quando verrò proclamato dottore e la corona d’ alloro verrà adagiata sul mio capo, potrò sentire i sospiri di dolore provenire dalle vostre bocche invidiose»
Nell’udire quelle parole, tutti incominciarono a spingerlo e a tirargli pacche sulla schiena. Tai e Matt lo afferrarono dalle braccia e lui urlò spaventato.
«Ma smettila, burino!»
Scoppiarono a ridere quando lo videro intrappolato tra le grinfie dei due ragazzi. Joe aveva sempre avuto timore di loro, quando erano più piccoli le prendeva ogni volta senza eccezioni.
Nonostante il corvino fosse esagerato e si vantasse all’inverosimile, riusciva sempre a sdrammatizzare ogni situazione, era per questo che in fondo tutti gli volevano bene.
Mentre cercava di liberarsi, urlava contro di loro come un ossesso.
«Vi laureate voi in medicina, eh?! Rosiconi!»
Tai lo aveva zittito, scompigliandogli in modo brusco i capelli. Ed effettivamente aveva ragione, non era cosa da tutti riuscire a portare a termine quegli studi, però era troppo chiassoso, la doveva pagare.
Lo lasciò tra le grinfie di Izzy, che si vendicava delle offese ricevute, togliendogli gli occhiali e facendo in modo che tutti se li passassero, mentre quello, invano, tentava di recuperarli.
Taichi rise a crepapelle. Finiva sempre in quel modo con quel burino di Jyou: nonostante fossero cresciuti tutti, concludevano sempre a modo loro.
Si alzò e raggiunse il bancone con l’intento di andare a pagare. Gettò loro un altro sguardo affettuoso, e pensò che gli era mancato tutto quello più dell’aria, più di ogni cosa.
Nonostante le incomprensioni, nonostante gli ostacoli da superare, nonostante la vita li stesse mettendo di fronte a delle scelte, loro sarebbero rimasti uniti.
Sempre.
Non appena si accorsero che si era defilato per offrire a tutti, lo raggiunsero e si opposero categoricamente. Matt e Izzy tentarono di afferrarlo e portarlo via, ma era molto difficile distogliere Tai quando si metteva una cosa in testa.
Pagò per tutti e sorrise. Loro fecero lo stesso.
Era fortunato ad avere degli amici come loro.
Mimi rimase gradevolmente stupita da quel gesto, e non appena i loro occhi s’incrociarono nuovamente, si convinse.
Doveva farlo.
Adesso più che mai.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il telefono squillò un paio di volte e Shinichi si affrettò per rispondere. Erano le otto di sera, non si aspettava che lei lo chiamasse a quell’ora.
Rispose un po’ titubante, sentendo un brutta sensazione.
«Shinichi» lo chiamò Mimi, non appena udì la sua voce.
Il ragazzo fece un gran respiro prima di parlare.
«Mimi, dimmi»
La ragazza gettò uno sguardo agli altri che si erano già messi in cammino per tornare a casa.
Doveva farlo adesso o non l’avrebbe fatto più.
Era troppo importante.
«Ascoltami, io... avevi detto di parlare se avessi avuto qualcosa e adesso io... te lo devo dire» prese fiato, sentendo il cuore battere più forte e non era perché temeva il confronto.
Era la consapevolezza di quello che provava, la consapevolezza di quali fossero i suoi veri sentimenti che le facevano provare tutte quelle sensazioni.
Sentì l’adrenalina pervaderla.
«Cosa?» domandò quello, confuso.
Mimi prese un respiro profondo e si convinse.
Lei era come Tai in quello, quando era sicura di qualcosa non perdeva tempo.
«Non possiamo continuare a vederci. Mi dispiace, ma non ce la faccio» aveva buttato giù, e le dispiaceva davvero dover troncare in quel modo quella frequentazione. Shinichi era un bravo ragazzo, era stata bene, ma non era lui che voleva.
Tai, era lui, era dovunque.
Era sempre stato Tai.
Lo aveva visto, lo aveva sentito parlare, si erano guardati e lo aveva capito.
Era più forte di lei, e non era una stupida a pensare che dopo questo lui sarebbe tornato con lei, ma non era giusto continuare ad illudere un’altra persona.
Per questo non aveva aspettato, per questo aveva preferito farlo subito.
«Perché non ce la fai? Cos’è successo?» Lui voleva delle spiegazioni, ma non poteva dargliele, perché era stata dura ammetterlo a sé stessa, non poteva dirgli ciò che realmente provava.
«Lo hai detto tu, Shinichi» citò le sue parole, sperando che lui capisse
«Se fosse successo qualcosa, di parlare... io, mi dispiace, ma devo già scusarmi con me stessa per essermi presa in giro per tutto questo tempo... E tu... sei un bravo ragazzo, meriti qualcuna che non sia con la testa tra le nuvole»
Era per questo che era assente, era per questo motivo che non riusciva ad avvicinarsi, era a causa di questo che aveva la testa tra le nuvole.
Pensava a lui.
Pensava a lui e basta.
Shinichi cercò di ribattere, spiazzato da tutte quelle affermazioni.
«Ma Mimi, io non volevo dire-»
Lei sorrise e sentì Sora che la chiamava, ormai lontana.
«So quello che volevi dire. E ti dico che sì, avevi ragione» interruppe la telefonata lasciandolo con quella frase, senza che avesse il tempo di replicare.
Corse in direzione della sua migliore amica più serena, più libera, consapevole del fatto che non avrebbe più continuato a mentire.
Era questo ciò di cui aveva bisogno, era questo che aspettava da tanti mesi a quella parte.
Liberarsi da quella persona che non era lei, che non lo era mai stata, e gettarsi a capofitto dentro quell’onda di sentimenti che non l’avevano mai abbandonata.
 
 
 
 




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Capitolo 5
*** Incertezze ***








Era da così tanto tempo che non dormiva sul suo letto che gli era perso così comodo da non volersi più svegliare.
Taichi sbadigliò e si stiracchiò le braccia, afferrando a tentoni il cellulare con l’intento di chiudere la sveglia. Era una musichetta insopportabile, gli ricordava quando era costretto ad alzarsi presto per andare agli allenamenti.
Scese dal letto e lentamente raggiunse la cucina. Un odore di caffè lo investì in pieno, facendogli chiudere gli occhi. Era da così tanto tempo che non percorreva quel corridoio, credeva perfino di averne dimenticato i contorni.
Quasi aveva dimenticato di quanto grande e accogliente fosse casa sua, di quanto amasse l’odore che rimaneva impregnato in quelle pareti.
L’odore di casa, di famiglia, di affetto.
Vide sua madre che, di spalle, preparava la colazione e nello stesso tempo canticchiava delle strofe di qualche canzone che apparteneva alla sua gioventù.
Lei era sempre allegra, cantava ovunque e si sforzava di non far mancare niente a nessuno di loro.
Tai pensò che la fretta di crescere e diventare grandi faceva dimenticare quanto prezioso fosse il tempo da trascorrere con i genitori.
Senza farsi sentire, andò dietro di lei e l’abbracciò, alzandola un poco da terra. La donna smise di trafficare quando si sentì agguantata da quella presa ferrea e si voltò a guardarlo impaurita, poi si rasserenò quando constatò la sua presenza.
Il ragazzo scoppiò a ridere e la rimise per terra. Era piccola e delicata, la sua cara mammina. Avrebbe potuto alzarla con un solo braccio.
«Buongiorno, mà» la salutò, chinandosi per darle un bacio sulla guancia.
Yuuko gli sorrise, guardandolo con orgoglio. Suo figlio Taichi era diventato un uomo bellissimo ed era fiera di tutto ciò che faceva.
«Buongiorno, tesoro. Non sono più abituata a questi baci la mattina» ammise, mentre gli versava il caffè e glielo porgeva.
Tai, nel frattempo, l’aveva attirata a sé e l’aveva stretta in un abbraccio affettuoso. Aveva appoggiato il mento sulla sua testa e aveva sorriso.
«Adesso potrai avermi tutto per te» le disse sornione, mentre quella rideva.
Gli era mancato così tanto il suo bambino. Da quando si era trasferito non era passato giorno che non aveva sentito la sua mancanza. La sua allegria, il suo ottimismo, le sue battute, tutto mancava in quella casa.
Quel bambino di undici anni era diventato un uomo e lei pensava con nostalgia al fatto che sarebbe sempre più andato lontano da loro, che avrebbe preso scelte molto importanti per il suo futuro e, nonostante lo incoraggiasse, il suo amore di madre voleva che rimanesse per sempre lì, in quella casa.
Taichi guardò malinconicamente fuori dal balcone, dove il cielo era grigio e il sole faticava ad uscire.
Una volta era sua madre che lo abbracciava così stretto, che gli sussurrava di alzarsi quando cadeva, che alzava la voce quando combinava qualche marachella. Adesso si ritrovava a farlo lui, a tenerla stretta tra le sue braccia senza volerla lasciare andare, facendo attenzione a non stringerla forte per non farle male.
Si morse il labbro, pensando a quante cose erano cambiate.
 
Chi era diventato?
 
Per cosa stava combattendo?
 
Chi era veramente Taichi?
 
Quei pensieri tristi vennero scacciati all’improvviso da sua sorella che entrò premurandosi di fare rumore.
«Ehi, smettetela, sono gelosa!» aveva esclamato con le braccia incrociate, mentre li fissava con un cipiglio.
Loro madre si mise a ridere e Tai cambiò espressione. Le fece una linguaccia e strinse ancora di più Yuuko, mentre Hikari tentava di portarla via da lui.
«Tu hai papà, fattelo bastare» diceva il più grande, prendendola in giro.
Nel frattempo, questi era entrato in cucina e Kari si era attaccata al suo braccio, indicando la scena che le si presentava davanti.
«Diglielo tu, papà, che devono smetterla»
Susumu aveva scosso la testa cercando di mantenere le risate e poi aveva assunto un’espressione corrucciata per dare man forte alla figlia.
Tai lo guardava con un sorriso, gli ricordava tanto lui quando si accingeva a dire qualcosa di importante, avevano lo stesso temperamento.
«Certo, smettetela subito e abbracciate anche la piccola» aveva ordinato, infatti, e sua sorella aveva fatto un sorriso vittorioso e si era fiondata da loro.
Tai aveva mollato sua madre e aveva allargato le braccia per accogliere Kari. Quella si accoccolò dal fratello, e i due si misero a ridere.
Sembrava di essere tornato indietro nel tempo.
Non sarebbero cambiati mai.
Niente era cambiato e a lui stava bene così.
D’un tratto l’attenzione fu catturata da suo padre, che approfittando del caos appena creato, si era avvicinato a sua madre e parlottava a bassa voce.
«Yuuko, dobbiamo sbrigare quella faccenda» aveva sussurrato, e Tai si sporse per sentire.
La donna si era voltata a fulminarlo con lo sguardo, dopodiché aveva continuato a fare quello che stava facendo.
Kari, nel frattempo, gli stava dicendo qualcosa, ma lui non la sentiva. Era curioso di sapere di cosa stavano parlando.
Che faccenda riguardava?
«Possiamo parlare dopo, adesso non mi sembra il momento» aggiunse poi sua madre, mentre Susumu alzava gli occhi al cielo.
«Il termine scade tra una settimana» ricordò alla moglie e quella, con uno scatto, tentò di chiudere il discorso.
«Voglio stare un po’ con mio figlio» aveva affermato guardando seriamente il marito.
La discussione si concluse e Tai continuò a guardare i genitori interrogativo.
Non capiva di cosa stavano parlando, ma dal tono che aveva utilizzato suo padre doveva essere qualcosa di importante.
Sua sorella gli aveva tirato uno sberletto dato che aveva smesso di sentirla e lo aveva lasciato da solo al centro della cucina.
Sua madre continuava a sistemare le cose che erano rimaste nel lavello e lui sorseggiò un po’ di caffè, guardandola di sottecchi.
Si respirava aria tesa e qualcosa gli diceva che non era una questione da prendere sottogamba.
I suoi genitori avevano sempre cercato di tagliare fuori dalle faccende private sia lui che Kari, ma erano finiti i tempi in cui lui era un ragazzino sconsiderato che pensava solo ai giochi.
Era un uomo, aveva venticinque anni e tutto ciò che succedeva in casa sua lo riguardava, anche se non abitava più lì con loro.
Quando suo padre uscì dalla cucina, si rivolse a sua madre.
«Va tutto bene?» le chiese apprensivo, perché era così, Taichi, aveva quel forte senso di protezione verso le persone che amava che lo aveva da sempre contraddistinto.
Yuuko gli rivolse un sorriso radioso e pensò che sua mamma era davvero una donna splendida. I capelli castani così simili ai suoi erano legati in una coda bassa e i suoi occhi grandi gli ricordavano tanto quelli di Hikari.
«Sì, non preoccuparti» asciugava piatti e bicchieri che erano rimasti e cercava di dissimulare, ma non era uno stupido, aveva capito che c’era qualcosa che non andava.
«Dovete prepararvi. A che ora è la laurea?»
Improvvisamente si ricordò della laurea di Joe e si morse il labbro. Forse non era il momento più appropriato per aprire la discussione.
«Alle dieci» rispose e controllò il cellulare per vedere quanto tempo gli rimaneva prima di mettersi in cammino.
Kari, nel frattempo, era entrata per prendere qualcosa che aveva lasciato.
«Allora andate, su, che cosa aspettate!» l’incitò, facendo intendere che se non si davano una mossa avrebbero certamente ritardato
Sua sorella stava per aggiungere qualcosa, ma loro madre l’interruppe.
«Sbrigati, Kari, non fare aspettare tuo fratello» le disse, mentre la ragazza lo guardava di sottecchi facendo finta di essersi offesa.
Solitamente era lei la più coccolata di casa, e adesso che Tai era tornato, invece, la sua mammina non aveva occhi che per il suo primogenito.
Lo minacciò di colpirlo con il suo beauty case e poi lasciò la stanza ridendo, chiudendosi in bagno.  Almeno su quello voleva la prerogativa.
Il ragazzo si alzò per sparecchiare.
Le parole dei suoi genitori gli rimbombavano ancora in testa e lui non riusciva ad uscire indifferente dalle situazioni.
Continuava a guardare la donna pulire la cucina e decise di parlare.
«Mamma» la chiamò, e quella si voltò a guardarlo.
«Sì, Tai?» disse, sforzandosi di utilizzare un tono neutro.
Voleva dirle che se c’era qualcosa che bisognava sistemare avrebbe fatto tutto lui, che era cresciuto, che si sarebbe addossato tutte le responsabilità della sua casa.
Non era più quel ragazzino immaturo di tanti anni fa, semmai era diventato ancora più cupo e malinconico, ma una cosa era certa, avrebbe aiutato la sua famiglia in qualsiasi circostanza.
Ci sarebbe stato sempre per loro.
«C’è qualcosa che devi dirmi?» domandò con fermezza, guardandola seriamente negli occhi.
Yuuko pensò che sarebbe stato impossibile mentire a suo figlio, perché quando assumeva quell’atteggiamento gli sembrava già un adulto, e forse era lei quella a non volerlo accettare pienamente.
Taichi era diventato un uomo e lei non doveva essere egoista, doveva accettare che suo figlio era pronto per vivere la sua vita senza di lei, senza che lo proteggesse da ogni male del mondo.
Nonostante il volto serio e risoluto di Tai l’intimoriva, decise di non parlargliene per non angosciarlo. Sarebbe rimasto per pochi giorni e non voleva coinvolgerlo in questioni che potevano sbrigare da soli.
«No, sono solo felice che mio figlio sia tornato a casa» sorrise ancora una volta, e il castano pensò che se aveva ereditato da qualcuno la testardaggine di certo era stato da sua madre.
Si avvicinò e l’abbracciò ancora una volta.
Le esperienze che aveva raccattato gli avevano fatto capire come niente fosse scontato, come tutto venisse messo in discussione quando meno ce lo si aspettava.
Aveva capito il modo in cui andava la vita, e nonostante sua madre faceva finta di niente per proteggerlo, toccava a lui, adesso, proteggere lei.
«Anch’io, mamma» mormorò, guardando il vuoto.
La sua famiglia, la sua casa... Tutto quello aveva da sempre fatto parte di lui e aveva fatto sì che diventasse l’uomo che era diventato.
Era vero che si capiva l’importanza e il valore di qualcosa quando la si lasciava andare, e adesso più che mai capiva quanto i suoi genitori avessero fatto per lui e Tai glielo doveva, si disse, ogni cosa la doveva a loro.
Ogni più piccola cosa di quello che era diventato la doveva a loro, e non avrebbe permesso che qualcosa o qualcuno avrebbe potuto fare del male alla sua famiglia.
Perché nonostante fosse cresciuto, nonostante fosse cambiato, nonostante avesse modificato il suo stile di vita era sempre lui, aveva sempre messo al primo posto le persone che amava.
Forse era per questo che a Kyoto la vita incominciava ad essere stretta, perché aveva incominciato a fare i conti con sé stesso.
Diede un bacio sulla testa di sua madre e lasciò la cucina per andare a prepararsi.
 
Non aveva mai mancato alle sue responsabilità, non si era mai tirato indietro e avrebbe aiutato la sua famiglia qualsiasi cosa fosse successa.
 
 
 
 
 
*****
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Si era svegliata presto e aveva preparato il caffè per riprendersi da quella lunga nottata.
Il suo era stato un sonno agitato, non era riuscita a fare a meno di pensare e ripensare a ciò che era successo il giorno prima.
Lei e Victor si erano baciati.
Deglutì piano, mentre il suo sguardo era perso nel vuoto e una brutta sensazione le attanagliava il petto.
I sensi di colpa la stritolavano fino quasi a prosciugare le sue forze, e si chiese se era questo a cui era destinata.
Si chiese se non fosse destinata a vivere con quel rimorso per sempre, se avesse dovuto soffrire per essersi lasciata così andare, se tutto quello fosse una pena che doveva scontare per aver sbagliato.
Si lasciò cadere in una sedia, passandosi una mano tra i capelli. La pancia le doleva e provava un forte senso di nausea.
Cosa avrebbe dovuto fare, adesso?
Era così difficile fingere che non fosse successo niente di tutto quello, che non provasse niente per Victor, che la sua fosse stata solo un’avventatezza dovuta al fatto che si sentisse così sola e disperata?
Stava trovando davvero una giustificazione?
Matt meritava veramente quello?
Nonostante stessero continuando quella battaglia silenziosa, lui meritava veramente di essere trattato in quel modo?
Ripensò a tutto ciò che avevano passato insieme, nella sua testa scorrevano ricordi taglienti come lame.
Era stata tutta la sua vita quella storia, aveva dato tutta sé stessa, si era perfino annullata per stare con lui...
Voleva veramente distruggere tutti quegli anni insieme solo perché qualcun altro aveva bussato alla porta della sua vita?
Un odore intenso di caffè si sprigionava dalla caffettiera e lei non se ne rese conto.
Perché aveva lasciato che quel bacio accadesse?
Non era stata abbastanza decisa, non era stata abbastanza salda come lo era sempre stata. Si era fatta trascinare da delle sensazioni  nuove, sconosciute, che non provava da tanto tempo.
Dio, era stata così stupida, così avventata...
Cosa avrebbe fatto, adesso, se Matt l’avesse scoperto?
La caffettiera fischiava e interruppe la sua sfilza di pensieri, facendola rinsavire appena in tempo prima che il caffè uscisse tutto di fuori.
Imprecò e nello stesso momento un urlo isterico si propagò per le mura della casa.
Sora quasi si scottò le dita e mise la caffettiera sotto l’acqua corrente, mentre quelle urla disumane continuavano a far tremare le pareti.
Diede uno sguardo verso il corridoio e vide Mimi che lentamente entrava in cucina con un’espressione insonnolita.
Aveva una vestaglia corta che le arrivava fin sopra ai fianchi e dei pantaloncini che le fasciavano le cosce.
Lanciò un’occhiata verso la porta della camera di Joe che era attaccata al salotto e alzò gli occhi al cielo.
«Ha dimenticato di stirare la camicia» affermò riferendosi al fatto che il ragazzo stesse urlando e imprecando per essersi reso conto dello smacco.
Sora sbuffò, mentre versava il caffè nelle tazze.
Era il giorno tanto atteso da Joe. Avrebbe dovuto laurearsi tra meno di un’ora e nemmeno quella mattina aveva deciso di starsene calmo e buono per evitare crisi di panico. La sera prima lo avevano raccomandato di preparare tutto affinché non avesse ripercussioni il giorno dopo, ma a quanto pareva era lento di comprendonio.
Mimi si sedette al tavolo, lanciando un ultimo sguardo verso la porta della stanza di Joe in cui era appeso un cartello scritto con un pennarello indelebile.
La frase “SIG. JOE KIDO” brillava a caratteri cubitali.
Scosse la testa pensando a quanto quel ragazzo fosse cambiato negli anni. Gli studi in medicina lo avevano fatto uscire dai gangheri ancora di più, era per questo che sia lei che Sora aspettavano con impazienza il fatidico giorno in cui avrebbe finalmente ottenuto la sua promozione.
«Non mi dire» commentò la ramata, sedendosi di fronte all’amica.
Prima che potessero aggiungere qualche altra cosa, il ragazzo uscì come una furia dalla sua stanza con indosso una camicia bianca spiegazzata e abbottonata a metà, la cravatta rossa slacciata e i pantaloni neri aderenti che mettevano in risalto le sue gambe ossute.
«Sacrilegio disumano!» continuava ad imprecare, mentre tentava di sistemarsi con difficoltà «Adesso come faccio?! Lo sapevo io che qualcuno avrebbe tentato di sabotare la mia laurea!»
Mimi scosse la testa tappandosi le orecchie, e Sora si avvicinò mossa dal compianto per fargli un nodo decente alla cravatta, dando uno schiaffo su quelle manacce inesperte.
«Fai ancora in tempo a stirarla» gli consigliò dopo che finì, indicando la camicia in cui erano impresse delle pieghe evidenti.
Joe spalancò gli occhi e la guardò come se avesse appena bestemmiato.
«Cosa stai dicendo, donna?! Non ho mai stirato una camicia in vita mia e non lo farò adesso!»
La castana tolse le mani dalle orecchie e gli lanciò uno sguardo interrogativo.
«E allora cos’hai da urlare così tanto?» chiese irritata, mentre Sora alzava le spalle e si allontanava da lui.
Era così terribilmente nervoso ed instabile di prima mattina, soprattutto quel giorno.
Il corvino si era voltato a guardare Mimi con un luccichio folle.
«Brutta vacca ibernata!» l’apostrofò come era solito fare, tanto che le due non si stupirono più di tanto
«Ho dimenticato di ripassare la tesi!» aveva esclamato facendo una faccia grave, voltandosi in direzione della tesi rilegata in rosso che era poggiata sopra un cuscino del divano.
Sora sorseggiò il caffè e lo fissò scettico.
«Non eri tu che dicevi che erano solo cinque minuti e che sei un genio?»
Joe si era avvicinato ai fornelli, mentre cercava di chiudersi i bottoni della camicia. La ramata sbuffò e corse nuovamente in suo aiuto.
«Non dire stronzate!» diceva, mentre quella gli chiudeva accuratamente i bottoni
«Eri fatta di acido cloridrico quando hai sentito queste assurdità!»
Sembrava sull’orlo di una crisi isterica, e le due ragazze temettero seriamente che avrebbe combinato un disastro se non si fosse calmato.
Mimi si sporse un po’ sul divano in maniera tale da leggere il titolo della tesi. Forse aveva trattato un argomento troppo complicato e credeva di non essere all’altezza.
Sulla copertina brillava a caratteri cubitali l’assunto per il quale il loro amico aveva faticato tanto per mesi.
 “Uso dei farmaci nei pazienti con cefalea: studio di farmacoepidemiologia e analisi dei capelli [...].”
Aprì il libro e sfogliò le prime pagine.
Ecco perché erano mesi che continuava a dire loro di tagliarsi una ciocca di capelli quando avevano mal di testa.
Ora che ci pensava lo aveva sempre sentito rimproverare Gomamon a riguardo; che non avesse avuto in mente di estendere quello studio ad un Digimon?
Non appena si accorse che stava sbirciando senza il suo permesso, Joe corse a togliere la tesi dalle mani della ragazza con possessività.
«Non leggere che porta male, battona!» fece riferimento a delle antiche credenze.
Dopo si voltò nuovamente verso i fornelli e lanciò uno sguardo al tavolo dove le due avevano consumato brioches e caffè.
«Perché non mi avete preparato la colazione?!»
Mimi sorseggiò il suo caffè senza degnarlo di uno sguardo.
«Noi non ti abbiamo mai preparato la colazione, Joe» disse poi con ovvietà, mentre quello si guardava intorno imbizzarrito.
Sora pensò che sembrava un toro pronto ad infilzare con le sue corna.
«Ma oggi mi laureo, stronze! Era il minimo che poteste fare!» sbottò, poi racimolò del caffè avanzato nella caffettiera e se lo versò in una tazza, mangiando in tutta velocità un muffin al cioccolato.
Mentre faceva colazione, ripeteva la tesi come una macchinetta, rischiando più volte di affogarsi.
Le due ragazze si lanciarono uno sguardo esasperato, pensando a perché di preciso avessero accettato di prendere casa con lui, tre anni prima. Si erano fatte abbindolare dalla parlantina del corvino che sosteneva di conoscere la proprietaria dell’appartamento e che aveva trovato quell’offerta che non potevano perdere.
In realtà, non è che avessero risparmiato molto, ma ogni qualvolta che tentavano di farglielo presente, Joe strepitava come un matto.
Odiava chi lo contraddiceva, e questo si era capito.
Sora fece una smorfia mentre lo udì ripetere provocando una lamentosa litania di sottofondo.
«Lascia perdere, sai già tutto» lo ammonì, ed era vero che fosse preparato, perché quel ragazzo aveva mille difetti, ma eccelleva nelle materie scolastiche.
Aveva passato tutte le materie con dei voti altissimi, anzi, si era perfino lamentato quando aveva ricevuto un ventinove in una materia a scelta che non faceva nemmeno parte del suo piano di studio. Insomma, era davvero un genio in quel campo, e per questo motivo si aspettavano che uscisse con il massimo dei voti da quella laurea.
Joe si era interrotto improvvisamente e la guardava con uno sguardo truce. Con fare minaccioso, le puntò contro un cucchiaio.
«Dillo che vuoi vedermi crollare in un momento del genere» e spostò il cucchiaio che usava come arma da Sora a Mimi «volete tutti vedermi fallire... Ma oggi è il mio giorno»
Si mise in piedi, sopraffatto da una potente scarica di adrenalina. Le due ragazze lo guardarono un tantino impaurite.
«Nessuno riuscirà a piegare il grande, il mitico, l’inimitabile Jyou Kido!»
Era come se in qualche modo volesse convincere sé stesso, perché sapevano che quella crisi isterica era dovuta al fatto che si sentisse agitato e avesse paura lui stesso di fallire.
Lasciò cadere il cucchiaio che fece un rumore sordo e si fiondò in bagno a finire di prepararsi, lasciando le due amiche da sole in cucina.
Mimi si appoggiò sopra il tavolo tenendosi la testa che le scoppiava. Non era salutare che le si urlasse contro di prima mattina, rendeva tutto ulteriormente stressante.
«Cristo, io non lo reggo più!» aveva commentato, riferendosi al fatto che la maturità di Joe fosse equivalente a quella di una mela acerba nonostante avesse appena compiuto ventisette anni.
Certo, a volte le aiutava e dava dei consigli, a detta sua, utilissimi, ma da quando era iniziato il conto alla rovescia per quella dannata laurea aveva sempre di più dato segni di squilibrio.
Sora aveva sospirato facendo gli stessi pensieri.
«Lascia che se ne vada, altrimenti non riusciamo a fare nulla con lui in giro»
Sentivano l’acqua scrosciare e il phon a tutto volume; chissà quanti capelli aveva lasciato in giro, dato che non si degnava di prendere in mano una scopa.
La castana si tenne ancora la testa, facendo passare qualche minuto di silenzio in cui fu invasa da pensieri malinconici che dal giorno precedente martellavano con forza dentro la sua mente.
Taichi era tornato.
Non riusciva a pensare ad altro dalla sera prima, per quanto si sforzasse di fare finta di niente e continuare ad andare avanti con la sua vita, la vita che da circa due anni aveva vissuto, non riusciva.
Si morse le labbra.
Era impossibile fare finta di niente, era impossibile portare avanti quella farsa e cercare di non dare importanza a qualcosa che aveva a cuore.
Non poteva fingere, era inutile continuare a mentire a sé stessa.
Sora si accorse che qualcosa in lei non andava. Aveva notato come il ritorno di Tai a Tokyo non le era stato indifferente e non era una stupida a pensare che non lo pensasse più.
«Va tutto bene, Mims?» le chiese apprensiva, mentre lei si risvegliava dai suoi pensieri e si sforzava di annuire.
«Sì, a parte il fracasso» rispose tentando di mantenere alta quella facciata, ma era tutto fuorché costruita, Mimi, e questo Sora lo sapeva.
«Non intendo questo» le disse facendo un sorrisino allusivo, mettendola come sempre alle strette.
Lei era brava a farle tirare fuori ciò che veramente pensava quando si trovava in difficoltà e Mimi riusciva a farlo con lei, riuscivano a compensarsi solo come due vere amiche sapevano fare.
Si sentì punta all’istante e per quanto volesse sotterrare la faccenda, il cuore aveva già preso a battere più veloce e i pensieri erano tornati a popolare la sua mente.
«Ah... beh, comunque sì» mormorò abbassando lo sguardo, perché sapeva che in fondo con lei non avrebbe retto quella recita.
Riusciva a spogliarsi con lei come con nessun altro faceva, riusciva a mettere a nudo i suoi sentimenti e le sue emozioni nonostante le venisse difficoltoso.
Era con Sora che si sentiva forte e sicura di sé.
«Non sono cieca» le aveva detto questa, osservandola in viso, piegando la testa.
Mimi aveva sospirato, senza ricambiare lo sguardo.
«Lo so»
E non avrebbe potuto dirle altro perché era consapevole che lo sapesse.
Glielo si poteva leggere in faccia, anzi, si stupiva di come non se ne fossero ancora accorti tutti i loro amici.
Quando lo aveva incontrato, quando ci aveva parlato dopo tanto tempo aveva sentito il cuore sprofondare, aveva sentito la terra mancare sotto i suoi piedi, e si stupiva di come ancora riuscisse a provare tutte quelle cose messe insieme.
Lei, che aveva pensato di non riuscire più a provare nulla, di essere prosciugata da tutte le sue emozioni.
Tai, lui, con un solo sguardo, con una sola parola era riuscito a renderle di nuovo vivide in lei.
La ramata le strinse una mano e finalmente Mimi alzò gli occhi castani su di lei che le fece un sorriso rassicurante.
«Andrà tutto bene»
Non sapeva se davvero sarebbe andata così, però forse a volte era meglio rifugiarsi in una splendida illusione.
Tai era l’unico ragazzo di cui si era innamorata.
E non era cambiato niente rispetto a quando aveva diciassette anni, assolutamente niente, perché per quanto loro fossero diversi, per quanto fossero cresciuti, per quanto avessero preso delle strade differenti, quello che provava non era variato, anzi, forse era maturato e cresciuto.
Le si inumidirono gli occhi.
«Sembra che il tempo non sia mai passato» disse in un soffio, pensando con nostalgia a quello che avevano trascorso insieme.
Loro due, stretti e innamorati quando tutto ancora era bello e la loro unica preoccupazione era stringersi un po’ di più per non perdersi.
Sora la guardò negli occhi, mostrandole determinazione.
«Non buttarti giù» le consigliò, ed era divertente il fatto che si facesse in quattro per aiutare la sua migliore amica quando lei era inguaiata fino al collo.
Si stupiva di quanto forte e altruista fosse la sua amica, la guardava con orgoglio e ammirazione, perché sapeva che con Matt le cose andavano male, ma nonostante tutto lei non mancava di esserci.
«Non lo farò» annuì Mimi, risoluta e giurò che avrebbe mantenuto la parola
«Tu, piuttosto, come sta andando con Matt?»
Era da un po’ di tempo che non glielo chiedeva, un po’ perché la situazione era statica, un po’ perché preferiva non trascinare giù in quel baratro di tristezza Sora che era sempre stata solare e allegra.
La ragazza si incupì, ripensando a quello che era successo.
«Lasciamo stare» aveva proferito, passandosi una mano sulla fronte.
Non aveva fatto parola con nessuno, nemmeno con lei, e adesso, trovandosi in quello stato di intimità, sentiva il bisogno di mettere a nudo la sua anima e raccontarle tutto.
Avrebbe voluto spiegare a Mimi ciò che provava per quel collega universitario che da anni conosceva e che non era mai andato via, che aveva sempre avuto un occhio di riguardo per lei, che era bello e gentile, che ballava insieme a lei quando andava a lezione di danza il pomeriggio.
Avrebbe voluto raccontarle di come le sensazioni che provava l’avessero completamente travolta senza che se ne rendesse conto, senza che potesse fare qualcosa per fermarle, e Matt con la sua assenza, con quel continuo chiudersi nel suo mondo interiore non aveva fatto altro che spingerla nel fondo di quegli abissi.
«Che cos’è successo?»
Adesso era Mimi a guardarla seriamente e forse era arrivata davvero l’ora di sfogarsi, era arrivata l’ora di confidarsi, era arrivata l’ora di raccontare ciò che l’attanagliava da un po’ di tempo a quella parte.
«Mimi, devo dirti una cosa» Era seria quando parlava e non poteva fare a meno di esserlo nonostante sentisse i battiti del suo cuore accelerare e il mal di pancia aumentare a dismisura.
I sensi di colpa la stavano divorando ancora e se non lo diceva adesso non avrebbe parlato mai più.
L’amica attese di ascoltare una confessione che non arrivò mai, perché Joe era rientrato in soggiorno facendo baccano e aveva fatto in modo che le due ragazze spostassero l’attenzione su di lui.
«Cazzo, sono le fottute nove!» aveva urlato, controllando l’ora sul suo orologio da sessantamila yen.
Le guardò con stizza, sedute in quelle sedie a raccontarsi chissà quali segreti, mentre da lì a non molto sarebbero dovute andare all’università per assistere alla sua laurea.
Erano delle gran belle egoiste, pensò.
«Andate a prepararvi, sfaticate!» le rimproverò, saltando da una gamba all’altra
«Io devo fuggire, mi attendono i superiori»
Si accorsero che aveva indossato una giacca scura con un parte del colletto dentro. Mimi non riuscì a reggere quella visione.
Se doveva festeggiare quel giorno così importante, che si desse un tono e si sistemasse per bene!
Gli si avvicinò di soppiatto, mentre quello indietreggiava automaticamente. Odiava quando qualcuno cercava di violare la distanza interpersonale, così diceva lui.
«Aspetta, Joe, fatti sistemare questa giacca!» lo redarguì, riuscendo ad afferrarlo appena in tempo.
Riuscì a mettere apposto quel colletto e dargli un’ultima controllata.
Il ragazzo diede un’altra occhiata all’orologio, poi le guardò per l’ennesima volta con fare minaccioso.
«Vi avverto, se non arrivate puntuali vi mozzo quei capelli di merda che vi ritrovate. Niente deve andare storto oggi»
Mimi gli diede uno spintone, mentre Sora incrociava le braccia,
«Sta’ calmo, però, non è bene partire nervosi»
Non capiva che se continuava a comportarsi in quel modo, avrebbe rovinato tutto.
Invece di tranquillizzarlo, il fatto che gli si venisse detto cosa fare lo rendeva ancora più agitato e nervoso.
Prese la ramata dalle spalle, tenendola stretta.
«Pensi che io non riesca a controllarmi?!» La ragazza lo fissava con la bocca aperta
«Pensi che io sia nervoso? Mi vedi nervoso, Sora?» mollò la presa mostrandole una mano che tremava, segno che confermava la loro tesi.
Lei gli mise una mano sulla spalla per cercare di calmarlo invano.
«Joe, ti prego, pensa ai sacrifici e agli anni di studio»
Era tutto inutile, perché quando il burino si innervosiva, niente riusciva a portarlo nuovamente sulla terra.
Si allontanò da loro e si avvicinò alla porta, facendo per uscire.
«So badare a me stesso, piccole stronzette, e oggi ve lo dimostrerò» disse poi, tornando indietro e facendo loro un sorriso che voleva essere rincuorante.
Poi adottò nuovamente uno sguardo minaccioso.
«Piuttosto voi, niente inciuci su quei coglioni di Taichi e Yamato! Andate subito a prepararvi!» puntò contro loro il dito, facendo intendere che qualsiasi discussione fosse in atto era bene che si chiudesse per lasciare spazio a qualcosa di prioritario.
Nonostante si comportasse come uno psicopatico il più delle volte, le due ragazze sapevano che si preoccupava per loro.
Mentre stava per uscire, si guardarono allarmate e lo richiamarono insieme.
«La TESI!» A quel richiamo, il ragazzo tornò indietro afferrando il suo gioiello e chiudendosi la porta alle spalle.
Una volta andato via, Sora e Mimi si lanciarono uno sguardo contenente mille parole.
«Sa badare a sé stesso, lo hai capito?» chiese sarcastica la più grande, mentre quella alzava le spalle.
«Lasciamo perdere»
Il silenzio che si era creato era assordante e ormai si era fatto davvero tardi per continuare la loro discussione.
Si alzarono dal tavolo nello stesso momento e raggiunsero le loro stanza per prepararsi.
Il momento della laurea era vicino.
 
 
 
 
*****
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il castano si chiuse il portone alle spalle e gettò uno sguardo davanti a sé.
Mancava un quarto alle dieci e a causa di sua sorella Hikari che aveva occupato il bagno per più di mezz’ora aveva ritardato.
Si aggiustò la giacca blu e la camicia bianca che portava sopra a dei pantaloni scuri. Aveva cercato di sistemare in modo decente i capelli, ma il fatto che andassero un po’ dove volessero delineava la sua personalità.
Vide Yamato che lo aspettava sopra un auto che poteva definirsi tutt’altro che nuova con la testa china sul cellulare, intento a fare chissà cosa.
Aprì la portiera e si sedette al suo fianco, catturando la sua attenzione.
Il biondo alzò lo sguardo e gli lanciò un’occhiata stufa perché aveva dovuto aspettarlo, e lui automaticamente gli rivolse un sorrisino di scuse.
Quando mise in moto per andare in direzione dell’università, si perse a guardare fuori dal finestrino.
Tokyo era veramente bellissima, gli era mancata come l’aria per tutti quei mesi.
Era un fiotto di colori e di insegne, era caotica, ma gli scaldava il cuore.
Sospirò e fece un sorriso malinconico, abbandonandosi sullo schienale che era un tantino scomodo.
Il suo migliore amico non poteva permettersi una macchina costosa, e sapeva per certo che Matt era troppo testardo e orgoglioso per poter elemosinare un solo yen a suo padre. Il fatto che fosse andato via di casa per vivere in quel monolocale faceva intendere la sua voglia di autonomia e il fatto di voler dimostrare di sapersi gestire da solo.
Eppure gli leggeva qualcosa dentro che gli faceva capire come in realtà non stesse così bene come faceva credere, gli faceva capire come tutto quello fosse solo una maschera per proteggere i suoi veri sentimenti.
Taichi strinse le labbra, mentre l’osservava di nascosto. Poteva notare una ruga preoccupata che si era formata sulla sua fronte.
Era un malessere tale che aveva ripercussioni anche sul suo fisico. Aveva il viso più magro e incarnato, i suoi occhi cerulei erano cupi e spenti.
Era sempre stato un ragazzo malinconico, ma temeva che tutto quello che gli stava succedendo stesse per soccomberlo definitivamente.
Quando si fermarono al semaforo per aspettare il verde, Yamato lanciò a sua volta uno sguardo a Taichi.
Il fatto che fosse tornato gli incuteva tanta forza e stabilità, ed era questo di cui aveva bisogno, qualcosa che per troppo tempo aveva fatto a meno.
La sua vita stava subendo una discesa, niente andava più come voleva. Tutti i suoi progetti, i suoi piani di vita erano andati in fumo.
Non riusciva più ad uscirne, si sentiva come intrappolato in un vortice che lo stritolava sempre di più e non sapeva se sarebbe mai riuscito a riprendersi da tutto quello.
L’assenza di Sora non faceva altro che aggravare la situazione, era come un nodo in gola che non andava via, una costante fitta allo stomaco con cui aveva imparato a convivere, ma che contribuiva a mandarlo alla deriva.
Tai lo fissava ancora di sottecchi, tuttavia non disse nulla.
Il biondo era così, parlava quando voleva farlo e lui sapeva bene che sarebbero arrivati ad un punto in cui non ce l’avrebbe fatta più a tenersi tutto dentro.
Quando la luce divenne verde, il ragazzo decise di metterlo al corrente di ciò che gli si prospettava.
«Mio padre insiste perché lo raggiunga a Shiodome» sputò fuori con voce roca, mentre voltava da una strada e proseguiva dritto.
Il castano continuava a guardarlo con un’espressione interrogativa.
«Vuole che entri a fare il cameraman» continuò, e Tai pensò che suo padre sicuramente voleva aiutarlo a trovare un lavoro perlomeno ben pagato, data la sua influenza negli ambienti televisivi dove faceva il consulente da molti anni.
«E tu?» chiese, interessato a sapere cosa aveva intenzione di fare.
Non avrebbe potuto continuare a vagare come un fantasma e sperare che qualcuno lo chiamasse da chissà dove. Non faceva altro che incrementare il suo malessere e la sua depressione.
Non che lui stesso fosse al sicuro, anzi era così precario da potersi ritrovare fuori da un momento all’altro.
Tai si morse un labbro.
Aveva così tanti dubbi e incertezze sul suo futuro che non facevano altro che schiaffargli in faccia come in realtà la scelta che aveva fatto non era poi così tanto sicura come pensava.
Matt, nel frattempo, aveva scosso la testa e aveva fatto una smorfia con le labbra.
«Cinque anni a studiare per il conservatorio, ho speso soldi e sangue lì dentro» ed era vero, non avrebbe mai potuto immaginare che tutto si potesse rivelare più difficile e tortuoso del previsto.
Credeva che una volta terminati gli studi avrebbe continuato con la musica e la band. Non era così presuntuoso da pensare che avrebbe trovato la strada spianata, ma non poteva mai immaginare di trovarsi solo, al centro del nulla.
Tai sospirò, preoccupato.
«E adesso che il gruppo è sciolto cosa farai?»
Era una domanda che tartassava la sua testa, e per quanto cercasse di trovare una risposta, continuava lentamente a sprofondare nel buio.
Scosse il capo, stringendo le labbra.
«Continuerò con i turni in quel bar di merda, e nel frattempo proverò a mandare curriculum» disse duro, provando per un attimo a convincersi che così avrebbe risolto qualcosa.
L’altro scosse di rimando la testa, pensando che non sarebbe stato così semplice.
«Ma guadagni una miseria!» sbottò contrariato, facendo in modo che si voltasse a guardarlo.
Il biondo strinse il volante fino a farsi diventare le nocche bianche, poi proclamò con sicurezza
«Non raggiungerò mio padre a Shiodome, non voglio fare il cameraman»
Tai lo guardava fisso, una smorfia sulle labbra, lo sguardo apprensivo.
Non capiva che rifiutando quell’opportunità non avrebbe guadagnato nulla di buono, avrebbe continuato a sperare in qualcosa che non sarebbe mai arrivata, avrebbe sempre di più contribuito al suo star male.
La stabilità che ricercava non sarebbe mai arrivata e lui sarebbe sempre di più crollato nel baratro.
Yamato tirò su con il naso e rallentò fino a fermarsi a causa di una coda.
Sapeva che Taichi lo diceva per il suo bene, che si preoccupava per lui e voleva vederlo sorridere, ma non sarebbe stato felice lì con suo padre.
Non sarebbe stato felice a lavorare per qualcosa che non lo appassionava, e forse stava sbagliando a lasciarsi scivolare dalle dita quell’occasione, ma preferiva continuare ad andare per la sua strada, a sacrificarsi per ciò che amava.
«Ho sempre amato la musica» mormorò d’un tratto, quasi fosse qualcosa di così segreto che nessuno poteva sapere
«Credo che sia la cosa in cui io riesca meglio» continuò con una punta amara, lanciando poi uno sguardo al suo migliore amico
«E’ un po’ come te con il calcio»
Rimise in moto, la strada sembrava un po’ più libera.
Erano entrambi così diversi, ma non si rendevano conto di quanto, invece, fossero più simili di quanto pensassero.
Entrambi correvano dietro a qualcosa che li appassionava, rischiando di perdere loro stessi, rischiando di veder crollare da un momento all’altro tutto ciò che avevano costruito in tutti quegli anni, rischiando di veder andare via le persone che amavano.
Questo era già successo, lo sapeva bene Taichi.
Lo sapeva bene che aveva dovuto dire addio a quello che era il suo mondo, la sua casa, la sua serenità per poter dare spazio a tutto quello.
Combatteva per garantirsi un futuro migliore, una stabilità economica, un appagamento personale; ma valeva veramente quando aveva lasciato il cuore lì a Tokyo?
Si sentiva come un estraneo.
«Non è sempre facile» si lasciò scappare, la voce ridotta in un sussurro.
Il biondo gli lanciò uno sguardo interrogativo, chiedendosi di cosa stesse parlando.
«A volte mi sembra di vivere una vita che non mi appartiene» gli confidò, passandosi una mano tra i capelli.
Era così, Tai, ed era questa una delle differenza tra loro due. Riusciva ad essere così spontaneo e sincero senza che nessuno glielo avesse chiesto, ma solo perché lo sentiva.
Riusciva ad essere sé stesso pienamente solo quando si trovava in compagnia di Yamato, per questo gli era mancato da morire, perché lui era il suo specchio.
Questi si voltò a guardarlo con le sopracciglia aggrottate e un’espressione stupita.
«Ma tu ami giocare a calcio! E’ la tua passione» cercò di riportarlo con i piedi per terra, sottolineando il fatto che lui avesse speso tutto per seguire quello che più gli piaceva fare.
E lo sapeva, Tai, e amava anche il fatto che Matt, nonostante fosse consapevole del fatto di quanto tempo, sacrifici, richiedesse seguire il sogno della propria vita, cercasse comunque di incoraggiarlo.
Fece un sorrisino amaro, guardando fuori dal finestrino il paesaggio che a mano a mano cambiava.
«Sì... sì, è la mia passione...» mormorò, e poteva sentire una nota malinconica e di rimpianto nella sua voce.
Matt lo guardava di sottecchi e si chiedeva cos’aveva che non andava.
Il suo migliore amico era sempre stato un ragazzo determinato e grintoso, una persona che sapeva il fatto suo e non aveva mai avuto dubbi riguardo ciò che voleva.
Giocava a calcio da quando era bambino e il fatto che si fosse dovuto trasferire a Kyoto faceva parte del prezzo che doveva pagare per raggiungere il suo obbiettivo.
Vedeva Taichi cambiato.
Da appena era tornato aveva avuto a che fare con un ragazzo che non era lui, era diventato più maturo, più serio e responsabile, nonostante fosse comunque lui ad essere il più espansivo dei due.
Gli faceva piacere che stesse crescendo, ma era Tai a dargli forza quando tentennava, e il fatto che stesse tentennando anche lui lo faceva sprofondare ancora di più.
Yamato sospirò, mentre fu costretto a fermarsi ancora a causa di una coda.
«Cos’hai?» gli rivolse quella domanda a bruciapelo, e solitamente era il castano a porlo di fronte ad un vicolo cieco dove non aveva scampo.
Riusciva a cavargli fuori le parole di bocca, e lui era capace di farlo con l’altro. Riuscivano a compensarsi in un modo loro che non aveva a che fare con il mondo esterno.
Questi si morse il labbro inferiore e continuò a guardare fuori dal finestrino.
«Niente» dissimulò, e non seppe nemmeno perché lo stesse facendo perché era consapevole che non l’avrebbe mai scampata con lui.
Matt non lo guardò nemmeno, continuò a controllare la strada di fronte a sé.
«Non mentirmi» disse solo, il tono di voce duro.
Era un rimprovero, lo sapeva, ma era così confuso che non aveva idea neppure da dove cominciare a raccontargli.
Avrebbe tanto voluto dirgli del fatto che non riusciva più ad andare avanti in quel modo, che gli allenamenti lo avevano stressato, che odiava avere a che fare con quell’arrogante del suo allenatore, che i suoi compagni di squadra erano così diversi da lui che si sentiva un pesce fuor d’acqua.
Gli mancava casa, gli mancava la sua famiglia che a quanto pareva aveva dei problemi di cui lui si trovava fuori e ignorava, gli mancava passare del tempo con sua sorella, con i suoi amici, con lui che era il suo migliore amico...
Rivoleva la vita di prima...
Forse era egoista a pensarlo.
Rivoleva i tempi in cui era felice e spensierato, in cui niente poteva scalfirlo, in cui si era innamorato per la prima volta e sentiva il cuore battere ad ogni singola emozione...
Si schiarì la voce e glielo disse.
«Sarò trasferito appena inizia il calciomercato estivo» si godette il silenzio che ne susseguì dopo, come fosse un una musica assordante.
Il traffico si sciolse poco a poco e riuscirono a circolare normalmente.
Il biondo si voltò a guardarlo con stupore.
«Davvero?! E dove?» era incredulo e poteva capirlo, ma non riusciva ad essere così entusiasta da quella notizia.
«Ad Osaka, in prima divisione» spiegò Tai, e una volta avrebbe veramente fatto i salti di gioia udendo una notizia del genere.
Sarebbe stato felice, avrebbe urlato contro il cielo tutta la sua gioia, lo avrebbe abbracciato e avrebbero festeggiato insieme.
«Cazzo, Tai, è magnifico!» esclamò, infatti, Matt, aspettandosi una reazione diversa da quella che il suo amico ebbe in quel momento.
Si limitò ad annuire e a stringersi di più sul sedile, puntando lo sguardo sopra i viali alberati e fioriti in cui erano appena entrati.
Erano arrivati nell’ampio giardino dell’università, e giravano alla ricerca di un parcheggio.
Il sole si era deciso ad uscire fuori e il cielo era così azzurro che faceva male agli occhi.
«Sì?» chiese retoricamente, chiedendosi se fosse davvero una buona notizia.
Il biondo lo guardò apprensivo.
«Non lo è?» chiese, mentre voltavano da una strada per raggiungere i parcheggi.
Tai sospirò pesantemente e questo fece allarmare ancora di più l’altro.
Una volta avrebbe pregato Dio affinché gli desse quell’opportunità.
Una volta era così inconsapevole che avrebbe venduto tutto per poter arrivare dov’era adesso.
Una volta era così diverso...
Adesso invece... Chi era diventato?
«Sì, forse sì» sussurrò, cercando di convincere sé stesso.
Non sapeva più cosa era giusto per lui.
Non sapeva più se valeva la pena.
Non sapeva più che cosa voleva.
Appena il biondo parcheggiò, si voltò verso di lui e lo prese da un braccio. I due amici si guardarono negli occhi e per qualche secondo non dissero una parola.
Matt era serio e poteva leggere in quel volto delicato tutta la sua premura.
«Se ti va di parlare lo sai che io sono qua» gli disse senza esitazioni, e Tai sentì tutto il bisogno di farlo.
Adesso che lui lo guardava fisso e si aspettava delle spiegazioni, sentiva più che mai il bisogno di sfogarsi.
Era arrivato ad un punto in cui dare voce ai suoi pensieri, ai suoi dubbi, alle sue incertezze lo avrebbero aiutato a star meglio.
«Non riesco più a reggere quell’ambiente di merda» confessò, abbassando lo sguardo.
Erano ancora in macchina, fermi nel parcheggio. Matt continuava a guardarlo seriamente, mentre lui alzava appena gli occhi.
«E’ come se mi mancasse l’aria» la voce gli tremò, ed era incredibile come gli venisse naturale raccontargli quello che provava.
Non aveva ancora detto a nessuno quello che sentiva, non aveva ancora tolto quella maschera di forza che possedeva.
Adesso, guardandolo negli occhi castani e profondi, poteva leggergli tutto il suo sconforto.
«Tai...» mormorò Matt sentendo improvvisamente la gola secca.
Era come se quella confessione gli avesse raggelato le viscere, non si aspettava minimamente che stesse cedendo in quel modo.
Lui si dimostrava sempre determinato e convinto delle sue scelte, lo era stato anche quando aveva chiuso la storia con Mimi, niente lo distoglieva dalle sue intenzioni.
Forse per la prima volta, un dubbio si era insinuato nella mente di Taichi.
Si sentì stringere a sua volta il braccio, e ancora senza parole lo fissò.
Era serio, sembrava fosse veramente combattuto e disperato. Riusciva a captarlo dalla forza con cui lo stringeva.
«Credevo che fossi stato sicuro quando un giorno avrei dovuto lasciare tutto» gli veniva naturale, adesso, confessare tutto quello che provava.
Guardava il biondo in maniera così profonda e appassionata, tanto che Matt se ne stupì.
Tai fece una breve pausa, poi riprese.
«Il fatto è che non lo sono» ammise con amarezza, soffocando una risatina che niente aveva di felice.
Scosse la testa, consapevole che quello che stava dicendo corrispondeva alla realtà.
«Non lo sono per niente» ripeté, continuando a guardarlo negli occhi azzurri che improvvisamente si fecero lucidi.
Si guardavano profondamente, ognuno con una diversa disperazione, ma che portava dritto lì.
Cosa ne sarebbe stato della loro vita?
Cosa ne sarebbe stato del loro futuro?
Adesso che non sapevano che fare, quale scelta compiere, dove andare cosa ne sarebbe stato di loro?
Tai mollò pian piano la presa nel suo braccio e Matt sospirò malinconicamente.
L’unica certezza, in quel momento, era lì, in quella macchina.
In quel momento sentirono che la loro unica certezza in mezzo a tutti quei dubbi e quella sofferenza era lì con loro.
L’uno era la certezza dell’altro, la loro amicizia, nonostante tutto, nonostante le difficoltà in cui li poneva la vita, li faceva stare bene.
Il castano voltò la testa verso l’altro e gli venne spontaneo regalargli un sorriso.
Perché nei momenti bui faceva sempre bene guardarsi e sorridere come se niente potesse fare loro del male.
Matt trattenne il fiato e infine ricambiò, liberandosi da tutta l’angoscia che aveva appena provato.
Per questo gli voleva bene, perché sfociava sempre tutto in un sorriso con lui.
Quando si resero conto che le dieci erano passate e che non erano ancora usciti dalla macchina, si apprestarono ad incamminarsi verso l’entrata dell’università.
Si guardarono intorno spaesati, ammirando la maestosità che quell’edificio trapelava. Non erano mai entrati dentro, meno che mai assistito ad una laurea. L’università appariva ai loro occhi sconosciuta, un po’ perché dopo aver terminato il liceo non avevano pensato che il loro futuro fosse dentro quelle mura.
C’erano tantissimi studenti che circolavano da una zona all’altra e a Tai quasi girò la testa vedendo tutte quelle persone occupare la sua visuale.
Il biondo, nel frattempo, si tastava le tasche dei pantaloni neri. Aveva una semplice maglia bianca che portava sotto una giacca dello stesso colore dei pantaloni.
Il suo modo di vestire era tetro e corrispondeva a quello che era il suo animo.
«Cazzo, ho lasciato a casa le chiavi!» imprecava, facendo uno sbuffo irritato.
Per fortuna lasciava sempre dentro il cruscotto una copia delle chiavi di casa da quando era rimasto chiuso fuori perché le aveva perse tornando dal lavoro.
Era stato costretto ad entrare dalla scala antincendio e forzare la veranda per entrare e per fortuna non aveva dovuto ripagare i danni.
«Dovresti darle a qualcuno» commentò Tai, facendogli intendere che in quel modo avrebbe avuto meno possibilità di dimenticarle.
Matt aveva fatto una smorfia.
«Il giorno in cui darò le mie chiavi a qualcuno...» lasciò la frase a mezz’aria, facendo percepire il fatto che affidarsi a qualcun altro avrebbe significato ammettere di aver bisogno di aiuto e che non aveva intenzione di esporsi così tanto.
Regalare le chiavi di un appartamento per lui equivaleva a dire che l’altra persona era così importante nella sua vita che avrebbe lasciato perfino aperto casa sua.
Adesso si sentiva così solo e disilluso che non avrebbe mai fatto un gesto del genere.
Non replicarono più, si misero in cammino verso un punto imprecisato, seguendo una massa di persone ben agghindate che, deducevano, cercavano l’aula giusta in cui si celebravano le lauree del giorno.
Quando li persero di vista a causa della vasta folla, si sentirono chiamare da una voce roca a loro familiare.
«Ehi, ragazzi, siamo qui!» Koushiro agitava la mano in  loro direzione, trovandosi in mezzo ad una mandria di persone che si accavallavano per entrare in aula dove la cerimonia ancora non era iniziata.
I due ragazzi si resero conto che il rosso non era da solo, ma si trovava in compagnia di Sora e Mimi che li guardavano arrivare da lontano e a loro volta si erano scambiate uno sguardo eloquente.
Erano veramente belle fasciate in quei morbidi vestitini primaverili. Nonostante un velo di imbarazzo calò tra di loro, non mancarono di salutarsi.
Sora portava i capelli ramato scuro sistemati in dei morbidi boccoli che le scendevano sulle spalle scoperte. Il suo corpo snello era avvolto in una tutina corta di un giallo tenue ricoperta da delle fantasie scure che mettevano in risalto il suo seno. Le scarpe erano di un nero lucido e un tacco più alto del solito, e anche la borsa che teneva sottobraccio era dello stesso colore.
Matt la fissava insistentemente sorpreso dal suo modo di vestirsi. La trovava così esageratamente bella e sexy che una fitta di gelosia gli attraversò il petto.
Sora era un fiore così bello e profumato che non avrebbe permesso a nessuno di avvicinarsi a lei nemmeno per guardarla.
Aveva così tanta paura che qualcuno la sgualcisse, aveva così tanta paura che qualcun altro potesse portargliela via, e adesso più che mai si rendeva conto di quanto fosse stato uno stupido ad averla esclusa per tutto quel tempo dalla sua vita.
Izzy aveva proposto loro di entrare e sistemarsi, e i ragazzi lo seguirono.
Tai era rimasto indietro e camminava lentamente. Non riusciva a non guardarla, era appena davanti a lui e gli veniva realmente difficile concentrarsi su qualcun'altra che non fosse lei.
Mimi aveva un tubino rosa pallido che le arrivava sopra le ginocchia e metteva in risalto il suo fisico meritevole. Si muoveva con grazia sopra le sue scarpe con il tacco intrecciate sul davanti che riprendevano i colori del vestito. Sulla spalla teneva una borsetta con delle rifiniture argentate.
I suoi lunghi capelli castani erano boccolati e setosi, e Tai si accorse come alla luce si notassero delle sfumature rosa probabilmente reduci dalle tinte precedenti.
Mimi era una ventata di fresco e gli era mancato da morire sentire la sua risata e ascoltare la sua voce.
Riusciva a coinvolgere chiunque con il suo carisma e il suo viso da bambina, e piano piano si rendeva conto di quanto vuota avesse reso la sua vita da quando si erano detti addio.
Riuscirono a trovare l’aula delle lauree. Era un’ampia sala allestita con grandi tende beige che stavano ferme sopra delle enormi vetrate che davano al di fuori.
I posti a sedere erano limitati e rivestiti da un vellutato tessuto rosso. In fondo alla sala c’erano seduti il presidente e i professori che facevano parte della commissione e che avrebbero dovuto giudicare i candidati.
Il castano si guardò intorno spaesato, e rimase stupito nel notare quanta gente era venuta ad assistere.
«Dio, che casino!» commentò, guardando stufato gruppi di persone che andavano avanti e indietro con in mano fotocamere, tutte agghindate perfettamente.
Si sentiva fuori luogo in mezzo a tutti quegli universitari e a quelle famiglie riunite. Tutti indossavano abiti eleganti, gli uomini portavano giacca e cravatta e le donne erano imbellettate in vestiti di ogni genere, corti o lunghi che erano.
«E’ sempre così il giorno delle lauree» spiegò Izzy, riferendosi al suo commento di prima, attirando l’attenzione su di sé.
Lui non aveva mai avuto molto gusto nel vestire, non seguiva un vero e proprio stile, anzi, alternava vestiti sobri e anonimi ad abiti stravaganti e colorati che non gli calzavano molto bene.
Quel giorno portava una giacca beige a quadretti rossi e neri, sotto una camicia bianca e dei semplici jeans chiari. La cosa che però era veramente divertente era il fatto che avesse un papillon nero sotto il collo della camicia.
Mimi trattenne un risolino, cercando di non farsi notare. Lei curava perfettamente il suo look nel vestire e conosceva bene ogni dettaglio della moda. Non poteva fare a meno di pensare come il suo amico avesse bisogno di rivoluzionare il suo armadio, ma nello stesso tempo tutto quello era da Izzy e gli voleva bene lo stesso.
«Pensa che i candidati oggi sono circa una ventina» stava continuando lui, dimostrandosi informato.
«Che cosa?!»
Tai lo guardò con occhi sbarrati, mentre Matt alzò gli occhi al cielo. Se i candidati erano così tanti chissà a che ora si sarebbero sbrigati, considerando il fatto che Joe sicuramente si trovava tra gli ultimi nell’elenco.
Il rosso fece una faccia rassegnata e alzò le spalle.
«Capita alle lauree di maggio» spiegò, e nel frattempo calò un silenzio strano.
Izzy aveva abbassato gli occhi neri al pavimento e gli altri non dissero più una parola.
Era come se ci fosse qualcosa che non andava in quel ragazzo, qualcosa che non lo rendeva sereno come lo era sempre stato.
Il castano lo fissava chiedendosi se ciò che aveva sentito il giorno primo fosse vero. Aveva davvero tanta voglia di parlargli, ma non sapeva cosa dirgli esattamente. Era stato via per troppo tempo, davvero troppo per potersi insinuare nella vita di tutti loro e cercare di capire cosa fosse successo come faceva una volta.
Una volta lui era il pilastro portante di quella compagnia, spendeva una parola per ognuno e faceva in modo che nessuno si scoraggiasse; eppure adesso si sentiva così debole e vuoto che non riusciva nemmeno a guarire lui stesso.
Non capiva chi diamine era diventato, e se lo chiedeva da così tanto tempo, forse da anni, da aver perfino dimenticato il motivo.
Il vociare di sottofondo copriva il silenzio che era calato tra di loro.
Tai alzò lo sguardo e lo puntò nuovamente su di Mimi che era intenta a guardarsi le scarpe.
Si chiedeva se anche lei, come lui, stesse sentendo tutto quello adesso.
Si chiedeva se anche lei, come lui, fosse così tanto destabilizzata da non sapere cosa fare, da non sapere come comportarsi.
Si ritrovava al centro di un ciclone talmente potente da rischiare di spezzarsi e volare via.
«Mio fratello è venuto?» aveva intanto chiesto Yamato, rivolgendosi a Koushiro.
Poteva notare il suo viso diventare più duro e la sua mascella irrigidirsi, e si chiese il perché tra il suo migliore amico e Takeru ci fossero tutte quelle divergenze.
Nonostante il più piccolo fosse cresciuto, Matt aveva mantenuto sempre quell’indole protettiva che infastidiva TK, forse perché credeva che il maggiore volesse imporre la sua volontà, ma sapeva che non era affatto così.
Matt si preoccupava per lui perché era suo fratello e lui lo capiva bene perché provava lo stesso per Kari.
Era premuroso, aveva paura che lui frequentasse brutti giri che potevano metterlo nei guai, voleva che si trovasse un lavoro e non fosse così superficiale.
Matt sapeva bene cosa significava compiere dei sacrifici, aveva studiato per anni al conservatorio e tuttora non aveva un futuro certo, e non voleva che suo fratello rimanesse con le mani in mano a pensare alle cose futili.
«L’ho salutato prima, ma se n’è andato avanti con Kari» spiegò il rosso, mentre Tai notò come Matt avesse distolto lo sguardo.
Lo sentì sospirare e non chiese più niente. Sapeva che TK non li aveva voluti aspettare per non parlargli e questo lo faceva star male anche se manteneva indosso quella maschera fredda e distaccata.
Lo conosceva troppo bene per cascarci, come il fatto che osservava Sora da appena si erano incontrati senza avere il coraggio di avvicinarsi e dirle qualcosa.
E lui aveva il coraggio di parlare a lei?
Una volta avrebbe colto la palla al balzo e si sarebbe fatto avanti senza indugiare, ma adesso si trovava come bloccato, intrappolato nella sua vigliaccheria che da un po’ faceva parte di lui.
Non era mai stato così.
Non aveva mai avuto paura a farsi avanti, a mettere in gioco perfino la sua faccia per esprimere ciò che pensava e provava; adesso Mimi era lì di fronte a lui, bella come mai lo era stata, e lui non riusciva a fare niente per avvicinarla a sé.
Alzò gli occhi castani su di lei, che si sentì osservata e distolse lo sguardo.
Era diventato così vigliacco da non riuscire nemmeno a guardarla in modo pulito.
Si sentiva sporco, si sentiva in colpa per tutto quello che le aveva fatto passare, e non riusciva a concepire il fatto che lei, così pura e limpida, potesse essere macchiata da lui.
Sora si accorse di quello scambio di sguardi e notò come la sua migliore amica si fosse irrigidita tutt’ad un tratto.
Spontaneamente, la tirò da un braccio facendola rinsavire.
«Andiamo di là, qui non ci sono posti» disse trascinandosi dietro la castana e i ragazzi la seguirono senza obbiettare.
Passarono velocemente da un lato all’altro e, riuscendo a scavalcare numerose persone, notarono proprio quattro poltrone rosse in mezzo alla penultima fila.
Matt alzò gli occhi al cielo, mentre Mimi sbuffò quando si resero conto che uno di loro sarebbe rimasto in piedi.
Izzy lanciò loro un’occhiata e decise di tirarsi indietro. Sapeva che avevano bisogno di stare un po’ insieme per discutere e sarebbe stato meglio lasciare loro quella priorità.
«Andate voi, io aspetto vicino la porta» se ne uscì facendo voltare tutti verso di lui, rivolgendogli delle occhiate stupite.
Tai lo guardò con uno sguardo interrogativo, e stette per aggiungere di non andarsene, che al massimo sarebbe stato lui in piedi. Non conosceva l’ambiente universitario, poteva benissimo fare a meno di assistere, ma Mimi lo precedette.
«Perché? Rimani con noi» la vide voltarsi e guardarlo con uno sguardo supplice, tanto che Koushiro s’imbarazzò.
Si passò una mano tra i capelli rossicci e negò con la testa.
«Frankie aveva detto che appena si liberava mi raggiungeva» spiegò, e il castano capì che sicuramente avrebbe aspettato a vuoto.
«Vado a vedere se arriva»
La causa del suo malessere era quella ragazza, gli stava poco a poco spegnendo il sorriso, stava risucchiando tutte le sue forze.
Nessuno ebbe da obbiettare, nemmeno Mimi parlò più. Il ragazzo li salutò e si allontanò, così che loro si sistemarono nei posti a sedere.
Sora entrò per prima e subito dopo la raggiunse Matt. Si sedettero vicini e non dissero nulla, si limitarono a guardare Mimi accomodarsi e Tai accanto a lei.
Il castano si morse un labbro, continuando a pensare a ciò che stava succedendo ad Izzy. Per dei secondi che parvero un’eternità nessuno di loro quattro disse qualcosa, solo d’un tratto decise di dare voce ai suoi pensieri.
«Quella ragazza gli crea problemi» affermò con tono duro e tutti si voltarono a guardarlo con espressione interrogativa.
«Perché dici così?» gli domandò subito Sora inquisitoria e lui diede un sospiro prima di riferire ufficialmente ciò che aveva saputo.
«Credo sia dovuto alla droga»
Si guardarono tutti sorpresi e preoccupati e la reazione di Mimi fu istantanea.
«Che cosa?!» esclamò ad alta voce, mentre lui le lanciava uno sguardo.
La ragazza si ammutolì e si sistemò nervosamente i capelli.
«Chi ti ha detto una cosa del genere?» chiese poi la ramata, sporgendosi un po’ per guardarlo.
Tai fece una faccia rassegnata e diede un sospiro.
«Ho sentito Joe che lo diceva a TK e Kari» confessò, mentre le ragazze continuavano ad essere sempre più sorprese e preoccupate.
Matt incrociò le braccia e gli lanciò uno sguardo scettico.
«Sei sicuro sia attendibile?» domandò, facendogli intendere che le cose che raccontava il loro amico non erano sempre veritiere, anzi tendeva ad esagerare per impressionare gli altri.
Era vero che Joe era poco credibile, ma il castano sentiva che era la verità.
«Penso proprio di sì» affermò serio e udì distrattamente il sospiro preoccupato di Mimi alla sua destra.
La ragazza si voltò a guardare il punto in cui Koushiro era sparito e il suo cuore si strinse in una morsa.
Non poteva lasciare che Izzy sprofondasse in quel modo. Non poteva permettere che si buttasse giù senza un minimo di sostegno, perché lo conosceva, era così riservato che non parlava con nessuno, e lei era consapevole del fatto che aveva tanto bisogno di aiuto per riprendersi.
«Povero Kou» aveva commentato Sora scotendo la testa con apprensione.
Lei non smise di guardare la direzione in cui se n’era andato.
Era uno dei suoi più grandi amici, anzi, era il suo amico più grande. C’era sempre stato per lei, le aveva sempre aperto quegli occhi da sognatrice, l’aveva sempre riportata con i piedi per terra.
Koushiro era da sempre stato contrario a lei in tutto e per tutto, ed era per questo che stava bene con lui, era per questo che per tutti quegli anni aveva trovato in lui una persona da cui imparare.
Gli avrebbe parlato, gli avrebbe fatto svuotare il sacco e lo avrebbe aiutato ad uscirne.
Era risoluta nel suo intento e Tai la guardò, immaginando a cosa stesse meditando. Lei e il rosso erano molto amici e sapeva che il suo animo era così puro e buono, che aveva un senso profondo per la giustizia e desiderava che le persone intorno a lei stessero bene.
L’ammirava davvero tanto per questo.
Lui non riusciva più ad essere d’aiuto a nessuno, nemmeno a sé stesso.
D’un tratto, il presidente della commissione prese la parola chiamando al microfono il nome del primo candidato e la seduta di laurea iniziò.
In sala calò il silenzio e il primo ragazzo che si sedette cominciò ad esporre l’argomento della sua tesi e le ricerche che aveva apportato.
Le persone davanti a loro si erano messe tutte in piedi per avere una migliore visuale, e quindi furono costretti ad imitarli. Cercarono di seguire l’intera discussione, sforzandosi di comprendere gli argomenti trattati, ma in realtà era molto difficile rimanere concentrati.
Ognuno di loro aveva in testa dei pensieri che li distraevano, e non era affatto semplice far finta di niente e focalizzarsi su delle discussioni delle quali poco importava.
Matt si voltò a guardare Sora con la coda dell’occhio. Era molto difficile per lui avvicinarsi e fare il primo passo, lo era sempre stato.
Lei sembrava così attenta a seguire la discussione, ma in realtà la sua vicinanza le toglieva il fiato e le faceva sentire le gambe molli.
Era molto difficile stare lì, retta in piedi accanto a lui, quando dentro di sé era consapevole che fosse successo qualcosa che aveva destabilizzato tutto.
Non poteva far finta di nulla, non poteva continuare ad andare avanti con la sua vita come se niente fosse, sarebbe stata meschina.
Sora era stata sempre una ragazza sincera e leale, ma adesso si sentiva sporca e infedele, specie quando sentì il braccio del biondo cingere la sua schiena.
Perse un battito per la sorpresa e d’un tratto sentì il cuore salire in gola.
Tentò di rimanere impassibile tra quelle braccia possenti che da tempo non la stringevano più, ma era tutto fuorché semplice.
Matt si era fatto coraggio e l’aveva abbracciata e dopo tutte quelle seghe mentali gli era venuto così spontaneo farlo.
Non era stato poi così difficile, adesso sentiva l’adrenalina scorrere nelle sue vene e il cuore era  più leggero dopo che si era lasciato andare.
Lei era paralizzata tra le sue braccia, ma lui sorrise e avvicinò le labbra al suo orecchio.
«Mettiti qui, si vede meglio» mormorò come se quella cosa avesse importanza, e lei sentì i brividi scorrere sotto la sua schiena.
Si morse il labbro inferiore sentendosi in difficoltà, ma quando sentì il tocco familiare di lui farsi più insistente cominciò a rilassarsi.
«Va bene, grazie» sussurrò a sua volta e rimasero in quel modo per un po’ di tempo.
La mente viaggiò indietro nel tempo, quando era così facile per loro stringersi e non mollarsi, quando era così spontaneo per loro cercarsi in un bacio o in un abbraccio.
Erano stati per troppo tempo lontani, così lontani che avevano perfino dimenticato quanto bene stavano stretti l’una tra le braccia dell’altro.
Sora sospirò e chiuse per un attimo gli occhi.
Aveva avuto tanto bisogno di quello che adesso quasi non ci credeva, non credeva fosse vero che lui era così vicino a lei. Aveva la testa appoggiata sopra il suo petto e riusciva ad udire i battiti accelerati del suo cuore e sorrise emozionata come fosse la prima volta.
Matt la guardava per timore che potesse staccarsi e si schiarì la voce per dire qualcosa.
«Lui è quello con la cravatta rossa?» chiese, notando Joe in prima fila, seduto insieme a tutti gli altri laureandi.
Sora si spostò un po’ e si mise sulle punte per guardare meglio il punto che aveva indicato e vide il loro amico che si passava velocemente una mano tra i capelli nervoso.
Le venne da sorridere.
«Sì, ha anche la camicia spiegazzata» sottolineò, pensando al fatto che non aveva voluto stirarla, sostenendo che le pieghe davano un fascino particolare all’interno del vestito.
Entrambi si misero a ridere, stando attenti a non alzare troppo la voce per non disturbare. Parlare del burino aveva appianato un po’ la tensione, ma nessuno di loro due aveva dimenticato la situazione in cui si trovavano.
Il biondo diede un sospiro e decise di riprendere il discorso del giorno prima. Sapeva che non era il luogo né il momento opportuno, ma sentiva un’irrefrenabile urgenza di parlare con lei al più presto.
«Se ti va, parliamo stasera» disse piano sfiorando il suo orecchio con le labbra, e Sora si sentì sprofondare tutt’ad un tratto.
Le emozioni che provava per lui si fusero ai sensi di colpa per ciò che era successo il giorno precedente, e d’un tratto un mal di pancia la pervase.
Non avrebbe voluto che succedesse... Dio, perché lo aveva fatto? Si era lasciata andare fin troppo con una persona che non era lui, e adesso Matt voleva parlare per chiarire le cose, non potendo immaginare che in realtà era lei che doveva sistemare tutto dentro sé stessa.
Nonostante ciò annuì stringendo le labbra.
«Sì, certo» mormorò con la voce roca, e nonostante questo avrebbe dovuto tranquillizzarla la mise ancora di più in agitazione.
Yamato captò la sua irrequietudine e piano allentò la stretta sui suoi fianchi.
Era così attratto da lei, la amava talmente tanto, ma aveva una grande paura che Sora non provasse più tutto quello per lui.
Aveva il timore più grande che lei lo stesse poco a poco dimenticando e lui era così stupido da lasciarglielo fare.
L’aveva data talmente tanto per scontata che adesso la sentiva distante e si rimproverava il fatto di non essere stato capace per tutto quel tempo di dimostrarle il suo amore.
Tai si era sporto a guardarli, chiedendosi come avevano fatto a ridursi in quel modo. Sperò che sarebbero riusciti almeno loro due a chiarire i loro malintesi, a mettere al primo posto l’amore che provano l’uno per l’altro.
Era così forte l’amore? Riusciva veramente a mettere da parte tutto con la sua forza?
Guardò per terra.
Era così disilluso, e adesso che anche il rapporto tra Matt e Sora vacillava, loro due che erano il suo punto fermo, le sue rocce, si sentiva davvero senza speranze.
Sentì Mimi muoversi accanto a lui e la osservò con la coda dell’occhio. Si era messa sulle punte per cercare di vedere meglio e quasi rischiò di finirgli addosso.
Si scontrarono e il castano le mise una mano sulla schiena di riflesso per non farla cadere. Lei, imbarazzata, si ridestò senza alzare lo sguardo.
«Non si vede niente» mormorò per giustificarsi, passandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Quel contatto le aveva fatto salire il cuore in gola e Tai si morse il labbro per cercare di calmarsi.
Si disse mentalmente di non fare lo sciocco e mostrarsi forte, perché si stava rivelando un vero vigliacco. Gli era perfino complicato voltarsi e guardarla negli occhi e di questo se ne accorse anche lei, che rimase delusa quando lui restò in silenzio.
Deglutì piano e alzò lo sguardo. Non doveva essere così idiota, e va bene che non era più abituato a sentire quella voce così vicino, però era la più bella e soave che avesse mai udito.
«Dovremmo spostarci» se ne uscì dopo secondi interminabili, e Mimi sospirò quasi sollevata.
Adesso sembrava come se non avessero mai smesso di parlarsi, sembrava così naturale voltarsi verso di lui e guardarlo, cercare i suoi occhi come faceva un tempo.
Vide Sora e Matt ancora abbracciati a fianco a loro, e le venne da sorridere.
Avrebbero dovuto dirgli di provare a spostarsi più avanti, ma non se la sentivano di destarli.
«Mi sembra che siano abbastanza impegnati» osservò la ragazza e finalmente entrambi si guardarono negli occhi.
Fecero un sorrisino spontaneo, e fu quasi un toccasana in quel momento. Per un attimo le tensioni si ruppero, i rancori si appianarono, e i sentimenti furono vivi come non mai.
«Già» fu d’accordo il ragazzo parlando con voce roca.
Era veramente difficile mettere Taichi in difficoltà, solo lei riusciva a fargli fare un passo indietro e rimpicciolire la sua avventatezza.
Era per quello che si era innamorato di lei, perché sapeva sempre come frenarlo e nello stesso tempo fare uscire il meglio di sé.
«Puoi metterti qui se vuoi» le disse offrendogli il suo posto dove c’era uno spiraglio in cui affacciarsi.
Era sempre stato gentile in quelle cose, anche quando stavano insieme aveva quei modi galanti che a lei allettavano e la facevano sentire speciale.
Fu sorpresa di quello, e spontaneamente i due si cambiarono di posto.
Adesso riusciva a vedere meglio, e tutto grazie a lui.
«Grazie» disse Mimi, toccandosi nuovamente i capelli, e lui sapeva che faceva sempre così quando era imbarazzata.
Ebbe voglia di aggiungere qualche altra cosa, ma non riuscì più ad aprir bocca.
Si limitò a guardarla di nascosto e lei fece lo stesso, quando spostava lo sguardo.
Si resero conto in quel momento di quanto si erano mancati a vicenda, di quanto quelle piccole azioni quotidiane erano importanti per loro.
Capirono più che mai che niente era svanito, che quello che provavano era ancora vivido in loro e bruciava più che mai.
Continuarono per un bel po’ di tempo a sorbirsi le discussioni degli studenti che sembravano non finire mai. Mancavano ancora cinque candidati per arrivare al turno di Joe, perciò decisero di alzarsi e sgranchirsi le gambe.
Molti avevano avuto la loro stessa idea, e si ritrovarono in mezzo ad una calca di persone. Si era creato un brusio di sottofondo, tant’è che uno dei professori intimò di fare silenzio. Mimi aveva sbuffato e si era stiracchiata le braccia, mentre Sora aveva tirato fuori il cellulare dalla borsa.
Notò che c’era un messaggio e lesse il nome del mittente con il cuore in gola. Con la coda dell’occhio, si assicurò che Matt fosse impegnato a parlare con Tai prima di aprirlo.
“Esci fuori, ho bisogno di parlarti”
Era Victor. Si guardò intorno con il cuore che aveva preso a battere più veloce.
E adesso come avrebbe fatto a raggiungerlo? Non poteva uscire fuori e incontrarlo davanti a tutti, davanti a Matt, sarebbe stato troppo azzardato.
E poi anche lui, in quel messaggio traspariva una vera e propria urgenza di vederla, e forse avrebbe fatto male a fare finta di niente.
Non era pulita in quella storia, e ignorandolo magari avrebbe potuto scatenare delle reazioni contrastanti, avrebbe potuto persino entrare in aula e cercarla personalmente.
Sentì una fitta lancinante allo stomaco, impaurita dalla situazione in cui si era cacciata. Si morse il labbro inferiore e gettò uno sguardo d’aiuto a Mimi, che però era all’oscuro di tutto.
Doveva uscirne, doveva fare in modo che quella storia si chiudesse là; e per questo motivo, l’unica persona che avrebbe potuto sistemare le cose era lei.
Solamente lei.
«Ciao, ragazzi!» fu distratta dal saluto caloroso di Hikari che avanzava verso di loro. Era veramente bella vestita in quel modo, stretta in un tubino bianco che le arrivava alle cosce con una parte velata che le fasciava le spalle. Ai piedi portava delle scarpe argentate e lucide con il tacco, una borsetta e i capelli lunghi erano lisci, lasciati liberi sulla schiena. Dietro di lei la seguiva Takeru, intento a guardare il suo cellulare.
Era stilosissimo con indosso quella lunga giacca nera e stropicciata, abbinata ai pantaloni dello stesso colore. Sotto portava una maglietta bianca con un disegno indistinguibile, al collo aveva fatto fare due giri ad una sciarpa di tessuto fino e in testa portava un capello nero, suo marchio da sempre.
Alzò appena gli occhi cerulei a guardarli e li salutò con un cenno. Notò con la coda dell’occhio Tai squadrare dalla testa ai piedi la sorella e una lieve ruga si formò sul suo volto quando incontrò lo sguardo di TK.
Matt non aveva detto una parola, limitandosi a salutare, nonostante si era fatto più rigido di fronte alla presenza del fratello.
«Dov’eravate?» chiese il castano rivolgendosi alla ragazza.
Effettivamente non li avevano visti per niente, anzi, non li avevano nemmeno voluti aspettare per andare all’università insieme.
Taichi continuava a fissare sua sorella con insistenza, e lei, gettando uno sguardo fugace al suo fidanzato, si apprestò a rispondere.
«Avanti, ma siamo dovuti rimanere in piedi» disse con un sorriso che niente aveva di sereno, e i sospetti del maggiore aumentarono ancora di più.
Yamato scosse la testa. Era come se quella ragazza stesse in qualche modo coprendo Takeru da qualcosa, e il fatto che quell’incosciente di suo fratello la stesse coinvolgendo gli faceva salire il sangue al cervello.
Guardò il suo migliore amico che ancora esaminava la sorella. Questa tentò di sviare il discorso, come al solito, sentendo l’atmosfera farsi pesante.
«Avete visto Izzy?» chiese guardandosi intorno, e nel frattempo Sora sentì il telefono dentro la sua borsa vibrare insistentemente.
Si voltò dall’altro lato e si rese conto che Victor la stava chiamando. Sentì il cuore accelerare di nuovo e decise di approfittarne di quel momento di chiacchiere.
Avrebbe fatto finta di uscire a fumare una sigaretta, pensò con il cuore in gola, così avrebbe potuto raggiungerlo e parlargli.
«E’ andato dalla sua ragazza» aveva, nel frattempo, risposto Mimi, e mentre continuavano a parlare si rivolse loro a bassa voce.
«Io esco un attimo» comunicò senza alzare la testa, poi voltò le spalle e si apprestò ad uscire dall’aula di corsa, sentendo il timore, l’adrenalina scorrere nelle sue vene.
Matt la seguì con gli occhi, chiedendosi dove stesse andando e perché fosse così agitata. Notò che Tai aveva fatto la stessa cosa, e non appena incrociò il suo sguardo, lui gli fece cenno di andare da lei. Il biondo scosse la testa e diede uno sbuffo.
Le due ragazze continuavano a parlare tra di loro, e TK stava in disparte preso a fare chissà cosa con il suo cellulare. Matt spostò nuovamente l’attenzione su di lui e sentì un moto di fastidio di fronte a quell’indifferenza che mostrava.
«Perché non mi hai chiamato?» gli domandò d’un tratto, non riuscendo a sopportare quel silenzio irritante.
Il più piccolo terminò di trafficare con il telefono, e dopo che lo ripose in tasca si degnò di alzare gli occhi azzurri su di lui.
Si guardavano in modo duro, e Matt si chiese il perché fossero arrivati a quel punto.
«Non avevo bisogno di chiamarti» rispose con ovvietà, senza premurarsi del fatto che avrebbe potuto ferirlo.
Yamato strinse un pugno, poi lo guardò duramente.
«Sarei venuto a prenderti» lo disse con un enfasi tale da fare girare le ragazze verso di loro.
Kari, preoccupata, si portò un dito laccato di rosa in bocca. Mimi alzò il capo con sguardo inquisitore.
Tai osservava i due con attenzione, pronto ad intervenire nel caso ce ne fosse stato bisogno.
Il biondino aveva scosso la testa con un sorrisino sarcastico, poi aveva alzato le sopracciglia.
«Sono già qui come vedi» aprì le braccia facendogli intendere che quello che stava dicendo era prettamente inutile, in quanto sapeva muoversi da solo senza il suo aiuto.
Matt non la prese bene. Continuò a stringere i pugni arrabbiato, pensando che suo fratello lo stava provocando di proposito, e che non valeva la pena continuare a preoccuparsi per lui. Tutta la premura, tutto l’affetto che gli dimostrava valevano meno di zero a quel punto, e non poteva continuare ad elemosinare le sue attenzioni in quel modo.
L’orgoglio ruggì in lui, e Tai quasi poté sentire i marchingegni del suo cervello lavorare. Dopo dei secondi di silenzio, senza nemmeno guardarlo in faccia, mormorò:
«Bene» e sotto gli sguardi attoniti di tutti, si portò le mani in tasca e si allontanò da loro, camminando lentamente verso un’altra direzione.
Kari e Mimi si guardarono preoccupate, mentre TK rimase lì, fermo, senza fare nulla. Il castano tentò di fermare il suo migliore amico, ma quello si era già confuso tra la folla, allora si voltò a guardare il biondino.
Forse non si rendeva veramente conto di quanto male faceva a Matt comportandosi in quel modo freddo e arrogante.
Forse non si rendeva veramente conto di quanto avesse fatto per lui in tutti quegli anni, di quanto gli volesse bene, di quanto avrebbe dato tutto per lui.
Strinse i denti, con una gran voglia di urlargli in faccia che era solo un immaturo del cazzo a comportarsi in quel modo, che se pensava di essere diventato adulto solo perché frequentava locali e discoteche o perché si fumava due canne, si sbagliava.
Non aveva capito niente, Takeru, e stava esagerando a trattare Yamato con quella sufficienza.
Bisognava tenersele strette le cose belle della vita, bisognava rendersi conto di chi si aveva al proprio fianco perché prima o poi sarebbero scappate via e avrebbero lasciato un vuoto inestimabile.
Lui ne sapeva qualcosa.
Riuscì a controllarsi e si trattene, limitandosi a lanciargli un’altra occhiata e a scuotere la testa. Si precipitò a cercare il suo migliore amico, lasciando Takeru e le ragazze sul posto, senza possibilità di replica.
Questi assottigliò gli occhi. Era ora che la smettessero quei due di sentirsi superiori a tutto, perché loro non capivano che mondo aveva dentro.
Erano loro a sbagliare, non lui.
Lui sapeva per cosa stava combattendo; mentre Taichi e Yamato avevano raccattato una serie di sbagli che adesso gli si stavano ritorcendo contro.
Avevano perso l’amore, avevano perso la strada della loro vita.
Ma cosa più importante, avevano perso sé stessi.
 









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Capitolo 6
*** Memorie ***







Sora era uscita fuori dall’aula senza guardarsi indietro, tentando di scorgere Victor in mezzo a quella marea di gente.
Il cuore pompava ancora velocemente, e dovevano sbrigarsi se non volevano essere intravisti da qualcuno. Fumava la sigaretta con nervosismo, tenendo la borsetta stretta al suo petto. La mano le tremava e stava cominciando a farlo per tutto il corpo, fino a quando non vide il ragazzo sbucare dietro delle persone.
Avanzava verso di lei, e Sora lanciò un sospiro per tentare di tranquillizzarsi, anche se era estremamente difficile. Lui era bellissimo, aveva una camicia grigia stropicciata che aveva lasciato un po’ aperta sul davanti, un paio di jeans aderenti che mettevano in risalto le sue gambe toniche e, dettaglio molto importante, portava gli occhiali da vista.
Sora ebbe un tuffo al cuore. Sicuramente si trovava in biblioteca a studiare, spesso ci andavano insieme, era stato il loro luogo di ritrovo durante le pause dalle lezioni.
Lui si era fermato di fronte a lei e la guardava in modo così profondo che credeva che avesse potuto scorgere tutti i suoi pensieri più reconditi.
Poteva leggergli in viso tutta la voglia, l’urgenza di vederla, e si sentì sprofondare quando capì cosa aveva scatenato.
«Sora» la chiamò piano lui, e un brivido percorse la schiena della ragazza che si fermò a guardare i suoi occhi grigi, limpidi e sinceri come il cielo.
Sentiva le gambe molli, ma doveva reagire.
«Victor» rispose, mentre il ragazzo si passava una mano tra i capelli chiari e dava un sospiro.
Erano entrambi senza parole dopo quello che era successo, e Sora non sapeva veramente cosa fare per mettere apposto le cose.
Ci furono dei secondi di silenzio e la ramata continuò a tirare dalla sua sigaretta per tentare di calmarsi.
«Ti ho cercata ieri sera, ma non mi hai risposto» osservò lui con una nota amara, forse in cuor suo era consapevole che sarebbe stato difficile arrivare a quel punto.
Lei si ricordò del messaggio e annuì.
«Sì, scusa, ma ero con i miei amici» gli fece intendere che non avrebbe potuto rispondere e destare troppi sospetti quel giorno.
Tentò di fargli capire com’era complicato per lei mantenere quella facciata dopo che si era lasciata andare con lui, che qualsiasi passo falso le sarebbe costato caro.
Anche in quel momento stava rischiando, pensò impaurita, guardandosi intorno, e dovevano fare presto a parlare, perché avrebbe potuto mettersi nei guai.
Victor, però, aveva assunto uno sguardo duro.
«C’era anche lui?» lo disse con una punta di disprezzo, riferendosi a Matt, al fatto che ancora fosse presente nella sua vita.
Soffriva di questo, perché sarebbe stato sempre al secondo posto nel cuore di Sora, e per lui non era più un passatempo, era qualcosa di grande, qualcosa di reale.
Lei aprì la bocca, senza aspettarsi il tono di astio con cui aveva proferito quelle parole.
Sì, Matt c’era, e non era mai andato via.
Era consapevole che il suo cuore era occupato da lui, e probabilmente lo sarebbe sempre stato, ma vacillava...
Adesso vacillava perché aveva riscoperto nel ragazzo che le stava di fronte qualcosa che per tutto quel tempo le era mancato, e nello stesso tempo soffriva, soffriva perché aveva combinato un casino.
Aveva lasciato spazio a diverse cose che avrebbe dovuto tenere lontano.
«Victor, non posso dilungarmi molto. Si laurea un mio amico» tentò di spiegare, sorvolando la domanda.
L’aveva messa ancora più in soggezione, la sigaretta era diventata già da tempo un lungo grumolo di cenere e la gettò ai suoi piedi.
Lui scosse la testa. Sora voleva andarsene al più presto, ma non aveva intenzione di lasciare le cose in sospeso.
Non aveva intenzione di tornare a casa e far finta di niente quando per lei sentiva dei sentimenti reali, vividi, che lo tormentavano.
«Dimmi che ieri per te ha avuto un senso» irruppe guardandola fissa negli occhi castani, spiazzandola più di quanto lei non lo fosse.
Ti prego, non dirmi così...
Non mettermi più in difficoltà di quanto già io lo sia.
Sentì i rumori e le voci farsi ovattati, distanti anni luce da lei. Il cuore aveva ripreso a battere come un tamburo, e la testa vorticò minacciosa.
«Victor...» provò a dissuaderlo, facendogli intendere che non potevano, che doveva smetterla, che lei era già impegnata.
Lui non demorse, si passò una mano sul viso in evidente confusione. Poi fu preso da un attacco improvviso, e coraggiosamente le confessò:
«Sono pazzo di te, Sora»
E lei lentamente continuò a sprofondare in quegli abissi senza possibilità di risalire in superficie.
I suoi occhi si spalancarono e lei credé di poter cadere per terra da un momento all’altro.
No, non poteva essere...
La sua testa si spaccò a metà, e invece di uscirne, si addentrò ancora più a fondo dentro quel mare oscuro che la trascinava sempre più giù, fino a soffocare.
Nel frattempo, non si accorse che Yamato si era appostato accanto alla vetrata che dava proprio al di fuori e stava assistendo alla scena. Non sentiva ciò che i due si stavano dicendo, ma il fatto che Sora fosse uscita per parlare con quello gli diede alla testa. Grugnì innervosito, mentre osservava i due discutere e si chiese chi potesse essere quel ragazzo e perché aveva cercato proprio lei.
I suoi sensi lo misero in allerta; era sempre stato molto geloso e possessivo nei suoi confronti, non riusciva nemmeno a sopportare che un'altra persona potesse avvicinarsi e parlare nel modo in cui quello lì stava facendo.
Si dimenticò della discussione appena avuta con TK, e si concentrò sui due.
Non gli piaceva il modo in cui quel ragazzo le parlava, odiava il modo in cui la guardava, niente gli andava giù.
Aveva voglia di uscire fuori e spaccare la faccia a quel coglione.
Voleva andare lì da lei e prendersela in braccio e portarla via con sé, al rifugio da ogni tipo di pericolo.
Tentò di calmarsi e non saltare a decisioni affrettate. Cercò di recuperare la parte razionale di sé che lo aveva sempre contraddistinto, ma era difficile tranquillizzarsi quando si trattava di Sora.
Nonostante tutto, nonostante sentisse una brutta sensazione attanagliargli lo stomaco, incrociò le braccia e se ne stette in silenzio ad osservarli.
Taichi lo raggiunse, intenzionato a dirgli qualcosa riguardo la discussione precedente, ma si bloccò non appena gli si presentò dinanzi quella scena.
Affiancò il suo migliore amico, e entrambi rimasero a guardare fuori dalla vetrata.
«Chi cazzo è quello?» chiese, facendo un cenno con il capo e assottigliando gli occhi, sentendo un moto di protezione nei confronti di Sora. 
Era sempre così, quando qualcuno provava a varcare i confini del suo territorio, diventava come un segugio.
Il senso di protezione e il bene che provava verso di Sora era grande, dopo sua madre e sua sorella la sua migliore amica aveva un posto speciale.
Una volta nel suo cuore anche lei aveva un peso, ma adesso le cose erano cambiate...
Ingoiò il boccone amaro, e si voltò ad aspettare una risposta da Matt, che nel frattempo aveva sospirato nervosamente.
«Non lo so» ammise, e Tai si chiese come facesse a starsene con le mani in mano, proprio lui che era talmente geloso da dilaniarsi l’anima.
Lo vide osservare la scena di fronte a loro, e rimase sorpreso nel notare la mancata reazione del biondo.
«Non ti avvicini?» chiese usando un tono ovvio, sottolineando il fatto che avrebbe dovuto farlo.
Una volta non avrebbe perso tempo a rimuginare nascosto com’era, una volta si sarebbe avvicinato a lei e avrebbe tastato la situazione, le avrebbe passato un braccio sulle spalle per rimarcarne il possesso.
Era sempre stato così, Yamato, e lui stesso ne era consapevole, lui stesso soffriva nel starsene in silenzio a non fare niente, lasciando Sora a parlare con una certa intimità insieme ad un tizio sconosciuto.
Adesso, però, era difficile, pensò, era così difficile che non sarebbe riuscito a irrompere nella discussione e fare quello che faceva una volta.
Il loro rapporto era cambiato, cambiava sempre di più, e si sentiva bloccato, paralizzato, come se fosse estraneo a tutto quello che lei faceva.
Strinse un pugno nervoso, perché avrebbe tanto voluto fare qualcosa, ma non ne era capace.
«Dio, Tai, smettila!» sbottò, riferendosi al fatto che l’amico tendesse a girare il dito nella piaga, provasse a imporgli sempre cosa dovesse fare
«E’ troppo complicato, cazzo» ammise, passandosi una mano tra i capelli biondi e socchiudendo gli occhi.
Era davvero troppo complicato, era così complicato che faceva male; faceva male restare lì in disparte mentre Sora andava avanti con la sua vita, conosceva altre persone, rimpiazzava quello che c’era stato tra di loro.
E lui non riusciva a fare altro che guardarla andare sempre un po’ più via da lui, a lasciarla andare avanti da sola, senza che lui ne prendesse parte.
Tai scosse la testa contrariato. Forse non si rendeva conto che in quel modo rischiava di perderla davvero.
Non avrebbe sopportato che loro due si allontanassero come era successo a lui.
Loro due erano i suoi amici più fidati, erano i suoi punti di riferimento, e vederli in quel modo, così distanti, faceva stare male anche lui.
Non capiva che doveva fare qualcosa.
«Per te che pensi solo a compiangerti» soffiò con una punta di acidità, e lo fece di proposito perché sapeva sempre dove puntare in Yamato.
Sapeva a memoria tutte le sue fragilità, conosceva ogni minima parte del suo essere da anticipare persino le sue mosse.
Questi si voltò a guardarlo male, e sentì qualcosa di caldo ribollirgli nelle vene.
Odiava quando faceva in quel modo, gli remava contro senza tener conto dei suoi limiti, perché delle volte Taichi era così pieno di sé da pretendere che anche gli altri facessero come lui.
Ma loro due erano così diversi, erano diversi come il giorno e la notte, e Matt non riusciva a farle tutte quelle cose che faceva lui.
S’irritò ancora di più quando lo guardò in faccia. Aveva sempre quell’espressione fiera, superiore, era sempre consapevole che quello che diceva era giusto.
Strinse un pugno, pervaso da una rabbia improvvisa.
«Perché non badi per te?» sibilò, e decise di sferrargli il contrattacco perché non era solito farsi mettere i piedi in testa da nessuno.
«Sei stato capace di lasciare la tua donna solo perché non stava alle tue regole!»
Fu così sonoro e crudele che Tai sentì qualcosa incrinarsi dentro di lui. Quella frase fu come un secchio d’acqua congelata, forse perché in qualche modo corrispondeva alla realtà.
Aveva lasciato Mimi perché lei non accettava la distanza, perché lo voleva solo per lei, perché lei non capiva quanto il calcio significasse per lui.
Era questo ciò che era trasparso, ma lui l’aveva amata veramente Mimi, lui non avrebbe mai voluto lasciarla, ma le circostanze della vita erano state così crudeli da averlo messo di fronte ad una scelta.
Deglutì ferito, mentre alzava gli occhi castani sull’altro. Si fissarono per qualche secondo, e non riusciva nemmeno ad odiarlo veramente anche se lo aveva voluto colpire di proposito, però la cicatrice era aperta e sanguinava ancora.
«Lo sai benissimo che non è stato così» mormorò, e Yamato lo sapeva benissimo ciò che Taichi aveva provato, quanto tutto quello per lui era stato importante.
Lo lasciò lì andandosene all’improvviso, e in quel momento il biondo aprì gli occhi e capì.
Quello che Tai diceva e faceva era per il suo bene, perché erano amici, erano legati nell’anima così talmente tanto che non avrebbe voluto che lui sprofondasse.
«Tai... Tai, cazzo!» gli urlò dietro chiamandolo, ma quello non si voltò e superò la gente, e allora lui corse in sua direzione.
E d’un tratto Sora scomparve, scomparvero le divergenze, scomparve tutto.
Non si accorse di niente quest’ultima, così presa a sentire ciò che l’altro aveva da dire, così coinvolta da quelle sensazioni, da quei brividi così intesi che la catturavano senza sosta.
Lui le aveva rivelato di provare qualcosa di profondo per lei e adesso si trovava di fronte ad un bivio enorme. Non sapeva che fare, non sapeva che dire, non sapeva se fosse giusto mantenere le distanze o dare manforte a tutto quello.
Si mordeva il labbro spaesata, confusa, vittima da tutte quelle emozioni che provava non appena incrociava gli occhi chiari del ragazzo.
Abbassò il capo, deglutendo lentamente, tentando di recuperare dal profondo del suo animo quel briciolo di ragione che le era rimasto.
Era molto difficile, perché era sempre stata una persona molto impulsiva, spontanea, sincera, non sapeva se sarebbe riuscita a mantenere integra quella facciata.
«Victor, per favore, non mettermi in difficoltà» aveva mormorato, pregandolo affinché non continuasse a parlare, affinché la smettesse di metterla di fronte a qualcosa da cui non sapeva come uscirne
«Ti prego... Ti giuro che stasera avremo modo di parlare, ma adesso non posso proprio» le tremava la voce mentre lo diceva, spaventata da tutta quella situazione, impaurita da ciò che Victor avrebbe potuto confessarle ancora, intimorita dalla reazione di Yamato semmai avrebbe scoperto qualcosa.
Il ragazzo tentò con tutte le sue forze di trattenersi, anche se faticava davvero tanto. Avrebbe voluto stare con lei e lasciare tutto quello che si portava dietro, perché era consapevole che quella relazione che Sora aveva non le faceva affatto bene, semmai la struggeva ancora di più.
Fece un sospiro, e la guardò con uno sguardo che trapelava urgenza di stare con lei, bisogno di viverla senza timore.
«Sei insieme ai tuoi amici, dove posso rintracciarti?» chiese con una punta di disperazione, e Sora rimuginò su cosa avrebbe dovuto fare, su dove avrebbe dovuto incontrarlo.
Dovevano chiarire e mettere apposto le cose al più presto, senza timore, perché non potevano portarsi dietro una cosa così grande.
Allora glielo disse senza indugi, perché tanto nascondersi avrebbe alterato ancora di più le cose e lei voleva sistemare tutto.
«Vieni a casa mia, il mio amico da una festa» era avventata a consigliargli di venire alla festa di laurea di Joe, era molto rischioso farlo entrare nella tela del ragno.
Era consapevole che avrebbe osato molto, ma in fondo il suo intento era discutere e sotterrare la questione, non avrebbe voluto portarsi dietro ancora per molto tempo quel fardello troppo pesante che la stava sopprimendo.
«Adesso devo andare» terminò la discussione girando i tacchi e tornando in aula, lasciandolo lì fuori che la guardava allontanarsi.
Varcò la soglia con il cuore in gola, evitando lo sguardo di Mimi che la interrogava su dove fosse andata.
Credeva di aver placato le acque, di star lentamente alleggerendo il peso che portava dentro di sé, ma non poteva sapere cosa avrebbe scatenato, come le sue azioni avrebbero comportato delle conseguenze catastrofiche.
Non seppe nemmeno dove stava andando, Taichi, precipitandosi fuori dall’aula con le mani in tasca e lo sguardo basso.
Le parole di Yamato lo avevano toccato nel profondo, anche se in cuor suo sapeva che quello che aveva detto corrispondeva alla realtà dei fatti.
Si fermò in un corridoio vuoto e puntò lo sguardo alla finestra. Era sempre stato un ragazzo impulsivo e a tratti irruento, forse era vero che non si rendeva conto di pretendere troppo dalla persone.
Aveva preteso troppo da lei, aveva preteso che lei non replicasse di fronte alla dura scelta che aveva fatto, le aveva tarpato le ali mettendola in una condizione in cui non avrebbe potuto obbiettare.
Si passò una mano sulla fronte. Matt aveva ragione a rinfacciargli quelle cose, perché anche lui esagerava con le parole. Il fatto era che non voleva che il suo migliore amico facesse la sua stessa fine.
Non voleva che Matt lasciasse andare via Sora a causa della sua testardaggine e di quel senso di malinconia che lo pervadeva.
Non voleva che Matt rimanesse da solo come lui.
Questi lo raggiunse con il fiatone e si bloccò dietro di lui. Guardava la sua schiena aspettandosi che si girasse, e Tai capì subito che lo aveva trovato.
Per dei secondi non dissero niente, persi nei loro pensieri. Il biondo aveva aggrottato la fronte con un’espressione dispiaciuta. Voleva dirgli qualcosa per scusarsi, ma sentiva sempre quella sensazione di soffocamento.
«Tengo molto a te e Sora» spezzò d’un tratto il silenzio il castano, lo sguardo fisso sul pavimento.
Matt sentì il cuore battere più forte, poi diede un sospiro di sollievo non appena lo udì parlare.
Riusciva a prendere in mano le redini di qualunque discussione o situazione anche al posto suo.
Era per questo che si compensavano.
«Lo so» disse in risposta, mentre Tai chiudeva gli occhi e ripensava a tutto quello che avevano passato durante il corso di quegli anni.
Doveva saperlo, Yamato, il bene che voleva a entrambi, quanto avesse faticato inizialmente ad accettarli insieme, quanto avesse dovuto scavare dentro sé stesso per capire ciò che realmente provava.
Viaggiò con la mente fino all’estate di tantissimi anni fa, quando non erano altro che dei ragazzini di quindici anni, inesperti, che per la prima volta si erano aperti ai sentimenti.
Non aveva preso bene la notizia che proprio Sora, che credeva di amare, perché a quell’età tutti i sentimenti sembravano grandi e dolorosi, si frequentasse con lui, il suo migliore amico.
Era stato un pugno allo stomaco così potente da aver quasi rischiato di vomitare tutto ciò che avevano mangiato a quel barbecue al parco, e si sentiva così male da poter crollare.
«Perché Sora?!» aveva urlato arrabbiato al biondo che lo aveva appena raggiunto. Si era nascosto in una radura dove si era allontanato non appena aveva scoperto della loro tresca.
Matt lo aveva guardato preoccupato, ma lui aveva continuato a dargli contro.
«Perché tra tutte proprio lei?» Non riusciva veramente a capire come avesse potuto fargli una cosa del genere. Era così disperato e umiliato che avrebbe voluto prenderlo a pugni e a calci per quanto si sentiva tradito.
«Cosa stai dicendo?» Matt era confuso, lo guardava senza capire, e lì, per la prima volta, sentì che forse si era sbagliato, che non poteva essere quello il suo migliore amico, che non poteva fare finta di non sapere ciò che aveva sempre provato per lei.
«Avresti potuto scegliere qualcun’altra, non proprio lei!» Si era messo in piedi e lo stava fronteggiando bellamente, smosso dai sentimenti che credeva di provare, perché si sa, a quell’età si difendevano a spada tratta.
«Ci sono un sacco di ragazze che ti vogliono, perché sei andato da Sora?!» e lo aveva spinto, perché proprio non riusciva a capire il motivo di quella scelta.
Non riusciva davvero a rendersi conto del perché proprio loro due avevano deciso di stare insieme a sua insaputa.
Il biondo lo aveva guardato male e aveva stretto i pugni in difesa dei suoi attacchi.
«Qual è il tuo problema?» gli aveva urlato di rimando, e Tai sentì nuovamente tutto il sangue salire al cervello, la disperazione, l’umiliazione di aver saputo una cosa del genere che lo feriva e non poco.
«Tu e lei siete il mio problema» Aveva ammesso, e si era chiesto perché non capiva che gli aveva fatto male, perché continuava a guardarlo in quel modo come se fosse un pazzo, perché non tentava di mettersi nei suoi panni.
Aveva sbagliato, Matt non era il suo migliore amico. Lo pensò veramente in quel momento di rabbia, si era passato una mano tra i capelli castani e scompigliati, e poi si era lasciato cadere per terra.
Sentiva gli occhi lucidi e un’irrefrenabile voglia di piangere, e forse lo avrebbe fatto se solo lui non si fosse abbassato alla sua altezza e non gli avesse detto quello.
«Sei innamorato di lei?»
Si era bloccato un attimo, perché fondamentalmente non sapeva cosa fosse quel sentimento. A volte credeva di sì, altre volte di no, andava e veniva, ma era qualcosa che lo spingeva a tirare fuori gli artigli per difenderlo, perché Sora era unica per lui, lei non si toccava, lei era speciale.
Non rispose, lasciò quella domanda pronunciata a mezz’aria, e allora Matt gli disse qualcosa che lo stupì.
«Se per te è un problema allora la lascerò stare» lo disse con una semplicità disarmante che riuscì a riportarlo sulla terra. Aveva spalancato la bocca e aveva alzato gli occhi su di lui che lo guardava seriamente.
«Se per te Sora è così importante non mi metterò in mezzo» aveva ripetuto e sentiva che gli stava dicendo la verità. Si erano guardati negli occhi e allora si rimangiò tutto, tutte quelle cose cattive che aveva pensato su di lui, il fatto che lui non fosse degno di essere il suo migliore amico.
Matt non avrebbe mai fatto qualcosa che avrebbe potuto farlo soffrire, e gli fu così grato che decise di non fare niente, di non ostacolarli, perché l’amicizia che il biondo gli aveva appena dimostrato faceva parte anche di lui.
Gli venne in mente quel ricordo di quando erano piccoli, il giorno in cui aveva scoperto che loro due si piacevano e che lui non faceva più parte dei giochi.
Nonostante gli avesse fatto male sapere tutto quello, era stato proprio quel giorno che aveva consolidato ancora di più la sua amicizia con Yamato, che gli aveva permesso di prendersi cura di Sora.
«Per questo mi incazzo quando fai finta di non capire» spiegò allora, mentre quello abbassava lo sguardo trafitto.
Forse era saltato alla mente anche a lui quel ricordo di tanti anni fa, e in fondo gliene doveva se aveva continuato a stare con lei anche dopo.
Sapeva quanto bene volesse a Sora e quanto tenesse alla loro amicizia, era per questo che si affannava a riportarlo nel binario giusto; lui, invece, pensava solo ad offenderlo e a dedurre che gli volesse imporre le cose.
«Mi dispiace, Tai» soffiò realmente pentito, perché credeva che l’altro non riusciva a capire come stava quando invece era proprio lui a non capirlo.
Il ragazzo finalmente si era voltato e lo aveva guardato dritto in faccia. Si era già dimenticato del perché avevano discusso, l’unica cosa che notava adesso era il suo malessere e voleva che ne uscisse.
«Stai male senza di lei. Perché continui a fare così?» lo mise di fronte alla realtà, sottolineando il fatto che il suo comportamento nei confronti della ragazza non faceva bene a nessuno dei due.
Matt abbassò lo sguardo. Aveva ragione a dire in quel modo, Tai aveva capito che il suo modo d’agire in realtà lo faceva soffrire ancora di più, perché lui voleva veramente stare con Sora, parlarle, chiarire e sistemare le cose, ma era bloccato.
Era bloccato perché dentro di sé cominciava a maturare un timore grande.
Aveva timore che avvicinandosi troppo a lei le avrebbe fatto del male.
Era un controsenso, ne era consapevole, ma la verità era che non riusciva, non riusciva proprio ad aprirsi.
Strinse le labbra e socchiuse gli occhi, prima di proferire:
«Perché ho una fottuta paura che lei non mi voglia più» diede voce ai suoi pensieri più profondi, nascosti, mentre il castano continuava a guardarlo con uno sguardo apprensivo e serio.
La verità era che aveva bisogno di stare con Sora perché dentro di sé era consapevole di amarla ancora; ma notava che qualcosa tra di loro era cambiato, si era spezzato, e non sapeva se sarebbe potuto tornare come una volta.
L’accumulo di tutti quegli anni di inerzia e silenzio avevano fatto sì che per lui diventasse difficile perfino parlarle.
Gli veniva difficile avvicinarsi e comportarsi come faceva tempo fa, nonostante avesse una disperata esigenza di averla accanto.
E quel bisogno vitale che aveva faceva nascere in lui una tremenda paura che i sentimenti della ragazza fossero cambiati e che nel suo cuore non aveva più la stessa importanza.
Taichi parve udire i suoi pensieri malinconici e disperati, tanto alzò la testa e lo guardò con una smorfia.
Sapeva ciò che stava pensando adesso, si sentiva inadeguato, si sentiva uno scalino sotto a tutto e per lui sarebbe risultato più semplice lasciar andare Sora piuttosto che affrontarla.
«E pensi che facendo così sistemerai le cose?» gli chiese retorico, alzando le sopracciglia e aprendo le braccia.
Non poteva dire di non essere arrabbiato con lui e i suoi complessi del cazzo, perché avrebbe mentito.
«Spiandola attraverso una cazzo di vetrata?» quasi gli venne da ridere per come si comportava. Lasciava che il tempo scorresse e aspettava che qualcosa accadesse per sistemare la situazione, quando non si rendeva conto che toccava a lui mettere nuovamente insieme i pezzi di quella relazione.
Lui poteva ancora farlo, lui doveva farlo.
Il biondo aveva alzato gli occhi azzurri che erano lucidi, e sentiva un gran senso di rammarico pervaderlo.
Tai era stato severo con lui, lo era sempre quando doveva aprirgli gli occhi, però non ce la faceva più, voleva essere appoggiato, voleva che qualcuno capisse il suo stato d’animo fino in fondo.
I suoi sogni era andati in fumo, i cinque anni di studi che aveva sacrificato al conservatorio erano svaniti nel nulla, suo fratello ce l’aveva con lui... e poi Sora che era distante, sempre più distante...
Chiuse gli occhi e si toccò la fronte, sentendola pulsare, e udì distrattamente l’altro che gli diceva qualche altra cosa.
«Fa’ qualcosa, Matt» aveva proferito per concludere il discorso, e stava per andare via e lasciarlo lì da solo a rimuginare sui suoi sbagli.
Ma lui adesso non aveva bisogno di restare da solo, voleva che Tai rimanesse perché glielo doveva dire in faccia quello che provava, quello che sentiva.
Perché solo provando a spiegargli quello che aveva dentro poteva in qualche modo appianare le ferite.
Lo prese da una mano e lo fece voltare verso di lui. Il castano non oppose resistenza, ma lo guardò con un sospiro.
Yamato strinse le labbra con gli occhi chiusi, un groppo in gola che premeva e reclamava delle lacrime che aveva trattenuto per mesi.
Li riaprì e lo guardò fisso, cercando di trasmettergli quello che veramente portava dentro.
«Tu sei l’unica persona con cui parlo, Tai» strinse la presa su di lui, mentre quello lo guardava stupito.
Lo vide portarsi l’altra mano al petto, stringendo forte la sua maglietta bianca.
«Ho come un blocco dentro che mi logora, proprio qua» la sua voce s’incrinò, e abbassò gli occhi per terra.
Gli stava confessando ciò che provava, quello che per tutto quel tempo aveva tenuto dentro di lui. Cercava di trasmettergli il dissidio interiore che lo spogliava da tutte le sue certezze, che lo faceva vacillare continuamente come se fosse in bilico.
Gli costava davvero tanto ammettere di aver bisogno di aiuto, di aver bisogno di qualcuno, perché il suo orgoglio era così forte da creare intorno a sé barriere invalicabili.
«Tu riesci a tirare fuori il meglio di me» gli confidò alzando gli occhi chiari, guardandolo di uno sguardo disperato, angosciato, e Tai si morse la lingua per aver dubitato di lui.
Adesso, in quel modo, gli sembrava così vulnerabile da potersi frantumare  in mille pezzi.
«Matt...» mormorò, la sua voce si spezzò e lo guardò con apprensione, sentendosi per un attimo incapace di continuare. Aveva le sopracciglia aggrottate e lo fissava senza dire niente, percependo il suo malessere e la difficoltà che aveva nell’esprimersi.
Il biondo aveva la bocca semiaperta e si passò lentamente la mano tra i capelli, scompigliandoli un po’. Si umettò le labbra e sentì gli occhi lucidi quando alzò lo sguardo e incontrò il suo.
«Sei mio fratello, sei il mio migliore amico, sei il mio braccio destro» era come se stesse elencando tutti i ruoli che ricopriva Taichi nella sua vita, e l’altro ebbe un tuffo al cuore per la profondità con cui stava parlando
«cazzo, sei tutto» aveva continuato con il fiato spezzato e si sentì stordito da tutte quelle parole importanti che gli aveva rivolto, perché nessuno dei due aveva mai avuto il coraggio di dire all’altro quello che realmente provava.
Quelle parole erano sempre state sottintese nella loro amicizia, e solo adesso Yamato era stato capace di dirle dopo anni, mentre lui non sapeva se mai ne fosse stato all’altezza.
Si diede dell’idiota, perché non si rendeva conto di essere troppo avventato e irruento, non si rendeva conto di ferire gli altri solamente per dimostrare di avere ragione.
Matt aveva bisogno di lui, aveva bisogno del suo appoggio, e non avrebbe dovuto remargli contro in quel modo senza capire le sue ragioni; doveva stargli accanto ed aiutarlo a riflettere, aiutarlo ad uscire pian piano da quel lungo tunnel in cui si era perso.
Istintivamente, si avvicinò e lo abbracciò, sentendo gli occhi lucidi, emozionato da tutto ciò che gli aveva detto, da tutto ciò che adesso sentiva e che riusciva a trasmettergli.
Matt chiuse gli occhi e lo strinse a sua volta, abbandonandosi in quell’abbraccio liberatorio dove riusciva a trovare rifugio dopo mesi di sofferenza.
Tai rafforzò la stretta mettendogli una mano dietro il capo.
La reazione che aveva avuto il biondo era come uno scusarsi di fronte ai suoi comportamenti, era un crollo psicologico reduce da un accumulo di sentimenti contrastanti, e doveva aiutarlo, perché solo con lui Matt stava bene.
Non riusciva a vedere oltre il suo naso, a volte, tanto da dare per scontato tutto e pretendere che le altre persone facessero a modo suo.
Si stupiva di quanto risultasse così superficiale; dava così poco peso ai sentimenti degli altri, vedeva solo quello che voleva vedere.
Il suo senso di protezione verso di Sora lo aveva accecato completamente, e sapeva che Yamato doveva fare qualcosa per sistemare tutto, ma colpirlo in maniera gratuita senza ascoltare le sue ragioni era stato da vigliacco.
Mentre rimaneva abbracciato a lui, il suo sguardo si perse nel vuoto.
Era andato perfino contro Matt per lei, perché quello che aveva sentito per Sora era stato forte e tuttora le voleva un bene così profondo e intimo che non poteva comparare con nessuno.
Lei era stata la prima ragazza che aveva fatto parte della sua vita, era stata la ragazza che gli aveva sempre aperto gli occhi, la ragazza che lo aveva rimproverato per il suo spirito troppo istintivo, la ragazza che lo aveva sempre aiutato anche quando non lo meritava.
Sora era riuscita a fargli capire quanto era importante aiutare gli altri, quanto era importante non dare mai niente per scontato, quanto era importante andare al di là dei pregiudizi e delle facciate.
Chiuse gli occhi e ripensò a quell’episodio di tanti anni fa.
Quando l’aveva vista arrivare non aveva retto il peso del suo sguardo, e aveva voltato le spalle per andare via, lontano da entrambi.
Lei però lo chiamava ad alta voce, e per quanto volesse fuggire da quel luogo, non riusciva a non ascoltarla, non riusciva ad ignorarla.
«Tai! Tai, per favore» lo chiamava, e si voltò a guardarla in viso, disperata per quello che era successo, gli occhi supplici che tentavano di trattenere le lacrime.
Aveva deglutito, perché quegli occhi per lui significavano tanto, avrebbe fatto di tutto per poterli guardare sempre.
Sora lo aveva raggiunto e gli aveva stretto il braccio. Non riusciva a non sentire le farfalle allo stomaco quando era accanto a lei, era più forte di lui.
Vedeva solo lei, era sempre stata solo lei, nessun’altra esisteva per lui.
«per favore, non rovinare tutto...» aveva continuato con il fiatone, pregandolo affinché non facesse altro, affinché lasciasse quell’amicizia intatta così com’era, non smuovesse niente perché non voleva perderlo.
Aveva stretto i pugni e chiuso gli occhi.
Non voleva sostituire Sora con nessuno, non voleva guardare nessun’altra così come guardava lei, non voleva stare insieme ad un’altra che non fosse lei.
Il cuore gli batteva più veloce, e forse era arrivato il momento di dirle tutto, di mettere a nudo quello che provava, quei sentimenti che erano sempre esistiti in lui da appena l’aveva conosciuta.
«Provo qualcosa per te, Sora» gli confessò d’un tratto, perché era sempre stato impulsivo, ed era giusto che lo sapesse, che capisse quanto stesse male quando la vedeva con Matt, che si rendesse conto di cosa lei significasse per lui.
La ramata aveva scosse la testa bruscamente con un’ espressione contrariata.
«Non è vero» gli disse, e lui la guardò aggrottando le sopracciglia «Tu non provi qualcosa per me, tu pensi di provarlo»
Si chiese come faceva a dire questo, su che basi proferiva quelle parole senza sapere cosa lui avesse dentro, quanto grandi fossero i sentimenti che provava.
Si sentì triste, umiliato ed arrabbiato. Arrabbiato con lei, arrabbiato con gli altri, arrabbiato con sé stesso. Perché lo contestava? Cosa poteva sapere lei di quello che aveva dentro?
«Perché dici questo?» le chiese in un soffio, non volendo utilizzò un tono disperato e lei aveva fatto un sospiro prima di guardarlo intensamente con quello sguardo amorevole che gli riservava sempre.
La vide allargare le braccia prima di spiegargli.
«Io ci sono sempre stata» ed era vero, lei c’era sempre stata nella sua vita, c’era sempre stata per lui, non aveva mai mancato di esserci.
«A volte è più comodo appoggiarsi a qualcuno più vicino a noi, perché abbiamo paura di avventurarci in qualcosa che non conosciamo» aveva continuato rivolgendogli un sorriso affettuoso, e lui deglutì sentendo un brivido percorrergli di traverso la schiena.
Era vero quello che gli aveva appena detto, lui l’aveva scelta, aveva scelto lei tra tutte, anzi, non esisteva nessun’altra nella sua visuale. E sì, sicuramente era più semplice per lui innamorarsi di lei che la conosceva così bene, che lo capiva ed era compatibile con lui, però... forse aveva ragione...
Aveva forzato un po’ tutto, aveva smosso dei sentimenti contrastanti dentro di lui che lo avevano portato a credere qualcosa che forse non corrispondeva alla realtà...
Notò Sora con la coda dell’occhio volgere lo sguardo al cielo.
«Io pure credevo di provare qualcosa per te e adesso ho capito cos’è» Era sciocco ed infantile, ma un sottile filo di speranza si accese in lui, anche se dentro il suo cuore stava piano piano prendendo consapevolezza.
La ragazza lo aveva guardato di nuovo, parlando in modo intimo e sincero.
«E’ quell’affetto così profondo che ha un nome» Sentì distrattamente i pezzi del suo cuore rompersi, e pregò affinché non lo liquidasse in quel modo, non dicesse quella frase.
«E’ amicizia, Tai» ma lei lo aveva appena proferito, e l’aria che il ragazzo aveva trattenuto fino a quel momento venne rilasciata d’un tratto.
Buffo come una semplice parola potesse ferire così tanto i sentimenti e l’orgoglio di una persona, eppure Taichi si sentiva così vuoto e prosciugato da chiedersi il motivo.
Perché loro due non potevano stare insieme? Perché Sora riusciva a razionalizzare così tanto da catalogarlo come un amico e basta?
Per lui tutto quello era di più, lei era qualcosa di più nella sua vita, e non voleva che fosse altrimenti.
Si sentì triste e amareggiato, quel rifiuto gli pesava dentro.
«Mi stai facendo del male» lo disse davvero ferito, perché odiava il modo in cui Sora lo contestava e in quel momento non capiva perché, era così cieco e sordo da non voler capire.
Lei allora gli aveva poggiato una mano sulla spalla e lo aveva scosso, parlando in quel modo così intenso e amorevole che più gli piaceva di lei, che più la contraddistingueva.
«Io ti sto facendo del bene» alzò lo sguardo sui suoi occhi castano chiaro che erano offuscati da un velo di lacrime, forse era la paura di perdere anche lui.
«perché incontrerai la persona che ti farà battere veramente il cuore, e magari sarà qualcuno che fino ad adesso non hai mai considerato»
Non era riuscito a comprendere fino in fondo ciò che voleva dire in quel momento, ma inconsciamente era stata proprio lei, proprio Sora ad aprirgli gli occhi e fargli vedere ciò che di bello c’era al di fuori.
Matt si mosse tra le sue braccia, e distrattamente lo vide staccarsi da lui. Aveva il volto cupo e arrossato, lo vide scacciare con violenza una lacrima e ridestarsi come solo lui sapeva fare.
Tai lo guardò e strinse le labbra.
Voleva che reagisse a quello stato catatonico in cui era piombato e andasse a chiarire con Sora. Dopo tutto quello che avevano passato insieme non potevano lasciarsi andare a delle incomprensioni caratteriali che li stavano allontanando sempre di più.
Desiderava con tutto il cuore che il suo migliore amico non commettesse il suo stesso dannato errore a cui non sapeva rimediare.
«Scusa se ti ho detto quelle cose su Mimi...» udì Yamato sussurrare quella frase e lui trattenne il fiato per qualche secondo.
Poteva anche scusarsi e lo apprezzava per quello, ma in cuor suo sapeva per certo che era la verità. Avevano un modo spesso troppo brusco nel dirsi le cose, a volte se le rinfacciavano, ma entrambi avevano ragione.
Sapevano a memoria il punto debole dell’altro, da sempre.
Taichi lasciò andare l’aria che aveva trattenuto. Volse lo sguardo verso una finestra che dava su un immenso prato verde e curato.
A che sarebbe servito crogiolarsi nella più egoista delle sofferenze quando non aveva fatto altro che evitare la soluzione al problema?
Forse... forse era diventato un vigliacco...
«Non importa» mormorò di rimando.
E si perse nuovamente a pensare al passato, a quel momento in cui i suoi occhi si erano aperti per la prima volta...
Dopo aver avuto quella discussione con Yamato ed aver ascoltato le incomprensibili parole che gli aveva rivolto Sora, aveva deciso di non tornare al pic-nic dagli altri. Aveva bisogno di rimanere da solo a rimuginare su qualcosa che neppure lui sapeva più.
Mimi si trovava in riva al lago e guardava attentamente una barca di fronte a sé. Mentre scendeva Taichi aveva sbuffato nel vederla occupare la sua stessa traiettoria. Non avevano un rapporto idilliaco, né tantomeno amichevole. Si erano ritrovati entrambi dentro lo stesso gruppo di Digiprescelti e avevano dovuto ben presto abituarsi alla convivenza, ma a differenza di Sora, quella ragazzina era petulante e vanitosa.
E il fatto che una ragazza poteva essere diversa da Sora lo mandava nel pallone. Non sapeva nemmeno come iniziare una discussione, ma si era ritrovato ad affiancarla e ad osservare la barca insieme a lei.
Mimi si voltò a guardarlo, e a dispetto di ciò che Tai aveva appena pensato, bastò un semplice sguardo complice per fare in modo che sciogliessero entrambi la fune che la teneva attraccata e a salirci su.
Remarono via portando dietro di loro uno strano senso di libertà, e per un po’ di tempo si godettero il sole sul volto e gli uccelli che svolazzavano sopra le loro teste.
Mimi si era alzata i capelli in una coda di cavallo, lasciando ricadere sul viso due piccole ciocche castane. Tai le rivolse uno sguardo di sottecchi, catturato da quel gesto.
«Ci stiamo allontanando un po’ troppo» la udì dire a un certo punto, mentre si era portata una mano sulla fronte per coprire gli occhi dal sole e osservare la distanza che avevano percorso.
Lui si era voltato a fare lo stesso.
«Preferisco così» rispose, rivolgendole per la prima volta parola in tutto quel lasso di tempo.
Lei lo aveva guardato dura per qualche secondo, ma poi aveva assunto una faccia eloquente.
«Stai male per Sora?» gli chiese a bruciapelo in una domanda che assomigliava tanto ad un’affermazione.
Taichi alzò gli occhi che aveva tenuto lontani dal suo viso senza ben sapere perché, e anche se gli sembrò strano, una fitta al cuore lo sorprese non appena la guardò.
Aprì la bocca senza dire nulla, ma poi si costrinse a rispondere.
«Te lo ha detto lei?» risultò un po’ brusco, ma gli uscì spontaneamente.
Mimi alzò le spalle guardando la superficie liscia del lago.
«Tra amiche ci diciamo tutto» ed era ovvio, come aveva fatto a non pensarci? Lo guardò nuovamente aggrottando le sopracciglia.
«E poi si nota dalla tua faccia» disse con sincerità, facendolo ammutolire.
Non capiva come mai proprio una ragazzina come Mimi, che aveva sempre ritenuto superficiale e chiassosa, si fosse accorta di come stava in quel momento – o di come pensava di stare- soltanto scrutandolo in volto.
«Che faccia ho?» chiese balbettando un po’.
Lei sospirò e strinse le labbra rosee.
«Sei triste. Non ti ho mai visto così triste»
Forse aveva ragione. Lui era sempre stato allegro come un fringuello e quello stato d’animo non gli si addiceva per niente. Avrebbe voluto tanto fare una battuta delle sue per stemperare la tensione, ma sentiva il petto carico di sensazioni contrastanti e aveva bisogno di farle uscire fuori.
Si sdraiò portandosi le braccia dietro la testa e chiuse gli occhi.
«Forse ha ragione» dichiarò dopo un po’ di tempo, riferendosi a Sora «Crediamo di provare qualcosa per le persone che abbiamo accanto, quando la verità è che ci viene comodo»
Mimi non aveva detto niente, ma lo stava ascoltando.
«A me fa comodo innamorarmi di Sora, voglio dire, la conosco da una vita, lei c’è sempre stata per me... però... forse non mi rendo conto che non è amore come penso... è amicizia. Solo amicizia» concluse.
La castana aveva lo sguardo perso nel vuoto e la sentì ripetere:
«Solo amicizia»
Tai aprì un occhio guardandola interrogativo, e si chiese a cosa stesse pensando. Era veramente carina, e da molto tempo a quella parte Koushiro si era preso una cotta per lei.
D’un tratto sentì l’esigenza di sapere se anche lei come lui pensasse a qualcuno, non sapeva perché, sentiva solo di volerlo sapere e basta.
Si mise a sedere.
«Anche Izzy ha una cotta per te» gli rivelò, e poi maledì mentalmente la sua impulsività, sentendosi in colpa per averle confidato un segreto di un amico.
Mimi aveva arricciato le labbra in un’espressione mista tra l’irritato e il dispiaciuto.
«Lo so» disse poi, e il ragazzo sospirò di sollievo.
Chissà se anche lei ricambiava...
«Tu che ne pensi?»
Non sapeva nemmeno perché gli importava così tanto... forse si stava lasciando prendere troppo da quei discorsi e stava perdendo il punto centrale.
Mimi lo guardò in maniera strana e potette giurare di vederla imbarazzarsi, ma non ci capiva molto di quelle cose.
«Penso che la vita sia troppo breve per... pensarci troppo» non capì bene a cosa si stava riferendo, sembrava più un divagare da parte sua «Ci fissiamo su delle persone quando magari abbiamo accanto qualcuno che non avevamo mai calcolato»
Taichi non era riuscito a distogliere lo sguardo da lei. Sembrava rapito da quello che stava dicendo e aveva probabilmente assunto una faccia da pesce lesso.
«O della quale abbiamo sempre avuto un’opinione sbagliata» disse a bassa voce, avendo chiaro improvvisamente il ritratto della ragazza che gli stava di fronte.
Mimi non era solo quello che aveva visto fino ad allora, o meglio quello che aveva voluto vedere perché offuscato dal pregiudizio; era sensibile e comprensiva, sveglia e intelligente come mai aveva pensato fosse.
«Sì, capita» la sentì rispondere per poi emettere una risata fresca e contagiosa.
Tai si morse il labbro inferiore, sentendo per la prima volta qualcosa di veramente strano. Qualcosa che lo aveva scosso dentro, ma in positivo, non nella più cupa delle rassegnazioni come era successo per tutto quel tempo con Sora.
Mimi era bella, bellissima, soprattutto dentro, e lo aveva appena scoperto sopra quella barca, dopo anni di sonno.
Aveva appena aperto gli occhi.
«Come fai?» le chiese d’un tratto.
La complicità tra di loro era aumentata a dismisura, e lei aveva piegato leggermente la testa d’un lato e lo aveva guardato in maniera strana.
«Come fai ad essere sempre così spensierata, così... pura?» continuò a chiederle.
La purezza era il suo simbolo e, nonostante tutto, poteva giurare di averle sempre invidiato quella caratteristica, le aveva sempre invidiato il modo di prendere le cose, un modo che poteva apparentemente apparire leggero e frivolo, ma che in realtà, aveva scoperto, era serio e profondo.
Lei lo guardò alzando un dito.
«Segreto» fece stuzzicandolo.
Taichi non aveva smesso di guardarla nemmeno per un secondo, e sentiva sempre di più di volersi avvicinare a quel viso candido e fine. Senza quasi rendersene conto, aveva accostato il volto a quello di lei, e ne ricordava ancora l’ espressione spaesata, prima di chiudere gli occhi e posare le labbra su quelle sue.
La baciò per la prima volta sentendo di volerlo davvero, sentendo una miriade di sensazioni positive, del tutto nuove, percorrergli il corpo.
Le aveva poggiato una mano sulla guancia e l’aveva attirata di più a sé, e si erano staccati da quel primo bacio impacciato seppur infuocato solamente perché interrotti dal dondolio della barca.
Tai tornò distrattamente alla realtà, mentre Mimi lo aveva guardato stupita, e poi aveva riso.
«E tu come fai ad essere sempre così coraggioso?» lo rimbeccò.
Lui l’attirò nuovamente verso di sé, sussurrando sulle sue labbra:
«Segreto»
 
E da quel momento in poi le sue ferite vennero ricucite all’istante, tutte le sue insicurezze scomparirono e, a mano a mano, Taichi Yagami conobbe cos’era veramente l’amore che pensava già di conoscere.
 
Si risvegliò lentamente da quel vortice di ricordi in cui si era perso, sentendo i suoi battiti accelerati e la gola secca.
Matt lo guardava e aveva udito distrattamente ciò che aveva detto.
«Importa, invece, perché non te lo meriti»
Non era così. Perché per quanto dolci erano i ricordi di lui e Mimi, non era riuscito a tenersela, anteponendo il suo egoismo, la sua sciocca professione che nemmeno più lo appassionava, il suo stupido orgoglio all’amore della sua vita.
«Me lo merito eccome» ringhiò duro con sé stesso.
Il biondo lo guardò tristemente e non riuscì a contraddirlo. Si sentiva esattamente come lui, vuoto e solo, inerme e rassegnato di fronte alla schiavitù dei sentimenti, di fronte all’incapacità di reagire per tenersi stretto la sua vita e la sua donna.
Rimasero per un altro po’ in silenzio in quel corridoio deserto, immersi nei loro pensieri soffocanti, fino a quando non udirono il nome di Joe venire chiamato al microfono.
«Lo hanno chiamato?» chiese Matt, risvegliandosi improvvisamente.
Tai annuì, sospirando.
«Sì, rientriamo» affermò, ed entrambi si diressero nuovamente dentro l’aula, facendosi largo tra le file per raggiungere i posti precedentemente occupati.
Mimi si rese conto della loro presenza e si limitò a lanciare un’occhiata fugace nella loro direzione. Poi si voltò verso Sora, accanto a lei. Sembrava stesse osservando attentamente i membri della commissione, ma la castana potette giurare che non si era voltata di proposito.
Joe si alzò dalla poltrona su cui era seduto barcollando un po’. Lo videro portarsi una mano alla cravatta, allentandola dal collo; probabilmente stava sudando freddo. Camminò in maniera sbilenca fino alla pedana rialzata dove si trovava la commissione, posizionando la sua tesi rilegata di rosso in bella vista come fosse un gioiello prezioso. Poi salì sul podio e sistemò il microfono con uno sguardo risoluto.
Tai fece una faccia strana non appena lo guardò bene. Aveva la camicia spiegazzata e dei ciuffi di capelli tesi. Lanciò uno sguardo a Matt e i due risero sommessamente.
Vennero interrotti dalla voce tuonante del presidente di commissione che presentava al pubblico l’operato del loro amico.
«Il candidato Kido Jyou presenta alla seduta di laurea in Medicina e Chirurgia una tesi dal titolo...»
Questi assunse una faccia da funerale non appena sentì chiamare il suo nome e lo videro muoversi in maniera nervosa sul posto. Sembrava stesse per avere un mancamento, ma non appena fu il suo turno di parlare, afferrò il microfono e cominciò ad esporre l’argomento con una sicurezza impeccabile.
La sua voce acuta risuonava per tutta l’aula. Tentarono di mantenere alto il livello di concentrazione per non perdersi dietro i concetti che il corvino stava spiegando, ma il tono lamentoso che Joe aveva assunto e i termini medici che l’argomento comprendeva fecero sì che le menti dei ragazzi si perdessero in un vuoto inevitabile.
Non appena sentirono nominare la parola “capelli”, Taichi non mancò di guardare Yamato con una smorfia, e questi ricambiò alzando le spalle. Le ragazze sembravano pendere dalle labbra del coinquilino senza interruzioni, ma erano sicuri che nemmeno loro ci stessero capendo molto.
Mimi, difatti, rivolse uno sguardo ai due di natura confusionaria e Tai ricambiò il sorrisino stremato che questa regalò loro.
Matt si sporse per vedere la reazione di Sora, ma la ramata aveva afferrato il cellulare e non si degnava di alzare la testa.
Strinse le labbra e si chiese che cosa avesse da guardare con così tanta attenzione proprio in quel momento importante.
Sentì un’altra fitta di gelosia percorrergli il petto, ricordando la figura di quel ragazzo che poco prima le aveva parlato con così tanta confidenza. Aveva voglia di andare vicino a lei e chiederle chi fosse e perché si erano appartati a discutere in quel modo fitto, ma nonostante il discorso con Tai e la sua pancia che gli imponeva impulsivamente di farlo, si rese conto che non era né il luogo né il momento.
Se voleva ricominciare ad avere un’empatia con lei era meglio che non si mostrasse geloso ed invadente come lo era un tempo, perché sapeva che quel lato del suo carattere era qualcosa che aveva sempre causato danni al loro rapporto di coppia.
Decise di concentrarsi su qualcos’altro, e notò suo fratello posizionato ai lati dell’aula che immortalava la discussione di Joe con un cellulare all’ultima moda.
Strinse le labbra e si chiese dove avesse trovato i soldi per comprarlo, ma poi gli tornò in testa come TK stesse svolgendo una vita frenetica all’insegna della pubblicità e dei locali, lavori che seppur per lui discutibili, gli permettevano di tirare avanti senza problemi.
I suoi pensieri altalenanti vennero interrotti improvvisamente da una domanda invasiva da parte di uno dei professori della commissione nei confronti di Joe, che era stato costretto ad arrestare il suo esposto per riflettere su come rispondere.
Lo vide agitarsi sul posto e schiarirsi la voce per poter replicare con il suo solito modo altezzoso, ma probabilmente contenente una risposta soddisfacente, e dopo quel colpo basso inaspettato nessuno lo bloccò più.
«Il burino si è arrabbiato» constatò Tai a bassa voce, e insieme continuarono ad osservare Joe colloquiare con una certa fretta, sicuramente indispettito e impaziente di terminare il più presto possibile.
La discussione durò in tutto un quarto d’ora scarso. Joe lanciò un sospiro di sollievo non appena il presidente disse che aveva concluso e i professori erano pronti a giudicare il suo operato. Scese dal podio e tornò a sedere con in volto un’espressione lugubre.
Non appena le sedute terminarono, tutti i candidati furono costretti ad alzarsi e posizionarsi di fronte alla commissione in maniera tale che venisse loro proclamato il proprio voto di laurea.
Videro il corvino seguire i suoi colleghi con ancora in volto quella faccia sconvolta, e Tai non potette fare a meno di sussurrare agli altri:
«Il solito secchione che si lamenta e poi prende il massimo»
Matt annuì con una smorfia. Le due ragazze, dal loro canto, si guardarono e pregarono Dio affinché tutto andasse per il meglio e quella seduta di laurea si concludesse in maniera tale da non dover sopportare ulteriori capricci da parte del loro coinquilino. Era da un anno a quella parte che avevano dovuto sorbire scenate e pianti isterici, e a parte tutto, sapevano che Joe lo meritava davvero.
La folla era in fermento e quasi non riuscirono più a vedere nulla.
«Con i poteri conferitimi dalla legge, proclamo il candidato Kido Jyou dottore in Medicina e Chirurgia con il voto di centodieci su centodieci e lode!»
Non appena udirono il suono di quella proclamazione, si guardarono tutti e quattro con un’espressione inaspettata. Poi adottarono una faccia giubilante e si unirono agli applausi scroscianti.
Sora e Mimi si abbracciarono spontaneamente, sentendosi molto vicine a quel contesto; per loro era un’emozione grande ascoltare quelle parole che presto o tardi avrebbero coinvolto anche loro. E poi si sentivano realmente felici per quell’impiastro di Joe, che adesso stringeva con un sorriso la mano a tutti i professori. Al turno di colui che lo aveva messo in difficoltà indugiò un attimo, ma poi gliela diede con superiorità.
Taichi lanciò uno sguardo a Yamato di natura sorniona e questi scosse la testa con un ghigno ironico.
Udirono TK lanciare un urlo di giubilo, tant’è che il corvino si voltò a salutarlo emozionato, poi tornò in fila e aspettarono la fine della proclamazione dei voti.
Quando la cerimonia si concluse, le persone attorno cominciarono a spostarsi da tutte le parti, urtando chiunque capitasse a tiro.
Mimi disse qualcosa riguardo l’aspettare l’amico fuori in giardino. Quella confusione non permetteva loro di raggiungerlo dove si era appartato con quello che supposero essere il professore molesto, e vennero quasi spinti fuori automaticamente dalla folla che svuotava l’aula.
«Che gli starà dicendo adesso?» chiese sofferente Sora a Mimi, mentre si trovava dietro di lei e la teneva da una spalla per non perderla durante il tragitto d’uscita.
Mimi sbuffò.
«Non lo so, ma spero non qualcosa di sconveniente. Lo sai quanto è orgoglioso e poi non vorrei...» continuò a parlare, ma la ramata non capì quello che le stava dicendo, e nel tentativo di farsi ripetere la frase sbatté contro la schiena di qualcuno.
Matt si voltò e la vide dietro di lui che cercava di farsi largo. Allora l’afferrò da una mano e fece in modo che passasse avanti. La tenne dai fianchi guidandola dove c’era spazio.
Sora sentì un’ondata di calore investirla e non disse nulla, immobilizzata dalla sua presenza così vicina e i suoi tocchi. Non appena riuscirono a sgusciare via in giardino, si liberò dalla sua presa e raggiunse Mimi.
Il ragazzo fece in tempo a guardarla in modo strano, ma lei non alzò più lo sguardo in sua direzione.
«Izzy dov’è?» chiese poi in tono tetro.
Tai si girò in varie direzioni prima di adocchiarlo e alzare il braccio per farsi vedere.
«Eccolo» disse, e osservò il rosso avanzare verso di loro.
Notarono fosse solo, e si chiesero tutti come mai la sua fidanzata non lo avesse raggiunto. Mimi strinse le labbra pensando a qualcosa di serio e di grave che stava toccando il loro amico da vicino.
Lui li guardò tutti con uno sguardo impacciato, lo videro abbassare e alzare gli occhi in maniera nervosa.
«Bravo, no?» domandò in maniera retorica.
La castana incrociò le braccia al petto e fu sul punto di chiedergli perché non era rimasto insieme a loro se Frankie non era venuta, ma venne interrotta da una voce a loro familiare.
Joe era appena uscito dal portone principale e portava indosso una lunga tunica nera e una corona d’alloro adagiata sulla fronte. Non appena li vide si rallegrò, e le due ragazze lasciarono perdere quello a cui stavano pensando e gli andarono incontro per abbracciarlo.
Lui spalancò le braccia e, forse per la prima volta, le strinse in modo sincero.
«Sei stato bravissimo!» esclamò Sora, raggiante.
«Congratulazioni!» la seguì a ruota Mimi, guardandolo bene in volto e sistemandogli la corona di alloro in testa.
Il ragazzo rise in maniera isterica ma liberatoria, poi si scontrò con le figure di Tai e Matt che si trovavano di fronte a lui.
Lasciò andare le due coinquiline e li guardò in maniera un tantino spaventata non appena li vide avvicinarsi, forse reduce da tutte le volte che i due ragazzi lo avevano schernito e malmenato da piccoli.
Tai se ne accorse e alzò le mani in segno di resa.
«Vieni, burino, fatti abbracciare» lo tranquillizzò.
Il biondo fece lo stesso.
«Vogliamo solo farti gli auguri» e lo abbracciarono a turno complimentandosi con lui, mentre Joe evitava di stare a contatto con loro per tanto tempo.
«Sì, ma non stringete troppo che ho la sciatica e ho parlato tutto il tempo con un orecchio tappato» se ne uscì tirandogli delle pacche leggere sulla schiena e allontanandosi quasi subito dalle loro strette.
I due si guardarono straniti, e ciò causò le risatine degli altri. Izzy si avvicinò e gli baciò le due guance.
«La parlantina non ti manca neanche in questi casi» commentò rassegnato, ammettendo poi:
«Sei stato bravissimo, comunque»
«Sei invidioso, cyber?» ghignò Joe, mentre si abbassava alla sua altezza per farsi baciare.
I due erano in continua lotta, o per meglio dire, Joe si divertiva a stuzzicare Koushiro non appena ne aveva il modo.
Il rosso allargò le braccia con in volto un’espressione stufata.
«Ma no, non incominciare!» lo troncò.
Prima che l’altro potesse replicare, furono destati dall’arrivo dei più piccoli del gruppo, i quali si fecero largo tra di essi e si piombarono a salutarlo e a fargli gli auguri. Hikari consegnò al ragazzo un enorme mazzo di fiori rilegato in della carta colorata e adornata con una retina rossa, e lui quasi si commosse non appena li prese tra le mani.
«Congratulazioni, Joe! Cento di questi giorni!» gli augurò, abbracciandolo con affetto.
Lui guardava ancora i fiori e gli altri potettero giurare di vedere delle lacrime in procinto di fuoriuscire dai suoi occhi scuri.
«Grazie, bella mia» la strinse in maniera protettiva.
Era da sempre affezionato a lei e Takeru, erano i suoi più grandi seguaci dai tempi di Digiworld. Adorava raccontare loro storie a volte esagerandone il contenuto per impressionarli perché sapeva che lo consideravano il loro “senpai” e lui, dal suo canto, li chiamava affettuosamente “i figlioli”.
«Ho sempre sognato un bouquet» lo udirono commentare, mentre si asciugava le lacrime, probabilmente lasciate cadere giù come sfogo di quella dura e intensa giornata.
TK gli diede il cinque, abbracciandolo.
«Hai spaccato il culo a tutti!» urlò senza curarsi di chi gli stava intorno.
Yamato si irrigidì sul posto, ma chiuse gli occhi costringendosi a fare finta di niente.
«Perfino io ho capito certe cose. D’ora in avanti andrò dal barbiere quando avrò mal di testa» continuò il biondino elettrizzato, e Joe rise facendo finta di non aver sentito quello che aveva appena detto.
Fosse stato in un altro momento avrebbe iniziato con una filippica riguardo la gente che si permetteva a deridere il suo lavoro, ma adesso era visibilmente emozionato e felice da lasciar perdere.
O forse perché aveva ancora l’orecchio tappato.
«Amico mio adorato» lo chiamò, mettendogli la mano libera sulla spalla «Lo sai che per me sei come un figlio» mormorò, mentre la voce gli si incrinava.
Gli altri mormorarono qualcosa. Matt aprì le braccia in segno di esagerazione, mentre Tai alzava un sopracciglio.
«Ma Joe, gli passi solo quattro anni!» commentò Mimi esasperata, ma divertita.
Questi alzò un dito per incominciare la sua solita ramanzina.
«Gesù anche a dodici anni...»
«...faceva miracoli, lo sappiamo» risposero i suoi amici all’unisono.
Il più grande li fissò dapprima indispettito, osservandoli ridere e prenderlo in giro, ma poi si sistemò gli occhiali neri sul naso.
«Imparate in fretta» osservò con un ghigno soddisfatto.
Era un giorno troppo importante per prendersela con loro come faceva sempre.
Appena smisero di scherzare, i parenti di Joe varcarono l’uscita e li raggiunsero eleganti ed entusiasti di poter congratularsi con il loro figlio diletto.
La madre di Joe portava i capelli scuri boccolati sulle spalle e gli occhiali da vista, aveva un tailleur con una gonna molto raffinata, mentre il dottor Kido, suo padre, mostrava in volto un’espressione indecifrabile e la teneva dal braccio. Accanto a loro c’erano due ragazzi che supposero essere Shin, il fratello maggiore, e un altro uomo di cui ignoravano la conoscenza.
Non appena Joe li scorse, una ruga di preoccupazione figurò sul suo viso scarno. Lo videro deglutire e stringere un pugno.
Prima che qualcuno della sua famiglia si accingesse ad aprire bocca, lui scattò in attacco portandosi teatralmente una mano sul volto.
«No, papà!» lo udirono esclamare, con una punta di frustrazione «Non dire niente! Lo so che sei deluso da me, che potevo fare ancora di più, che avrei potuto raggiungere la vetta più alta del monte e che ho fallito...»
L’uomo lo guardava allibito.
«Ma Joe, io non...» provò a ribattere.
Quello continuò a sproloquiare senza sentirlo.
«Anche se non sei fiero di me, anche se quel losco del professore ha cercato di farmi fallare, io ho dato il massimo di me stesso, papà!»
La cosa estremamente divertente in tutta quella faccenda era che nessuno dei suoi genitori si era permesso a lamentarsi con lui, né tantomeno a mostrare delusione per quella vittoria così importante.
«Figliolo, io non sono affatto-» provò nuovamente a spiegare suo padre, il quale venne ancora una volta interrotto bruscamente.
Nel frattempo, TK aveva fatto una risata acuta, Sora e Mimi si erano coperte il volto scotendo la testa e Tai e Matt si guardavano con le labbra strette in una risata forzatamente trattenuta.
Joe si voltò rivolgendosi a sua madre, che lo guardava con occhi benevoli e carichi di gioia e orgoglio. Si chiesero come fosse possibile che da una donna così calma e a modo ne fosse uscito un tizio poco raccomandabile come lui.
«Mamma, lo so che non sono il figlio che desideravate» si coprì nuovamente gli occhi inscenando un pianto di tristezza «lo so che mi avete concepito in una notte senza TV e ho mandato all’aria tutti i vostri piani...»
La donna cascò dalle nuvole.
«Cosa dici, tesoro?»
Joe continuò con la sua solfa immotivata.
«E so benissimo che preferite Shuu a me...» partorì quella frase come se stesse per morire in quel momento.
Gli lessero negli occhi una reale sofferenza della quale non trovavano un senso logico.
Taichi si rivolse agli altri.
«Chi diamine è Shuu?» domandò perplesso, capendoci ben poco da tutto quel discorso.
«Credo sia suo fratello maggiore» rispose Izzy, indicando con un cenno l’uomo che si grattava la testa.
Matt fece una faccia stupita.
«Ha un altro fratello e noi non lo sapevamo?!» esclamò basito, guardando il castano che alzava le spalle facendogli intendere che ne sapeva quanto lui.
Lo sproloquio isterico di Joe continuava.
«... e visto che ho avuto tutti contro, da sempre, mi sono fatto da solo le mie spalle e sono diventato più forte!»
Shin sospirò e allargò le braccia.
«Non essere drastico, Joe!» si azzardò a commentare, stufato da tutto quel teatrino cui suo fratello minore era solito mettere in piedi.
Ci furono dei secondi di silenzio nei quali temettero che il corvino potesse esplodere come una bomba ad orologeria. Lo videro guardare il fratello con una faccia tinta di diverse tonalità di rosso. Poi aprì la bocca, sputandogli contro tutto il risentimento che provava:
«Tu stai zitto, che sei la pecora nera della famiglia!» urlò inviperito, e con uno scatto lasciò malamente i fiori nelle mani di Koushiro alla sua sinistra e si avvicinò a fronteggiare Shin «Non hai mai creduto in me e hai cercato di mettermi sempre i bastoni tra le ruote!»
Sapevano come ben poco Joe tollerasse il fratello, e dalle sue parole era fuoriuscita una rabbia e un’umiliazione che si portava dentro da anni, probabilmente per il duro confronto a cui era stato abituato a soffrire fin da piccolo.
Shin era incredulo, ma nello stesso tempo infastidito da quei discorsi che ben poco filavano.
«Ma che diavolo stai dicendo-»
Joe lo afferrò dal bavero e gli urlò contro:
«Uno sfruttatore razzista, ecco cosa sei!»
Suo padre fu costretto a metter pace, separando i due fratelli e, soprattutto, sua madre andò a calmare il corvino che ancora guardava con risentimento l’altro e sibilava parole poco gentili.
La vita di Joe era un circo che lui addestrava caparbiamente e senza remore nell’aprirsi ad altre prospettive diverse dalla sua.
Le acque si calmarono e, finalmente, i genitori riuscirono a congratularsi come si deve. Sora e Mimi avanzarono a salutare educatamente i signori, con in volto un’espressione che trapelava scuse per quelle scenate fuori luogo.
La situazione si ribaltò completamente non appena nel lungo viale dell’università apparve in tutto il suo splendore ed eleganza, la donna che da sempre aveva fatto battere il duro cuore di Jyou Kido.
Luchia avanzava con in volto un’espressione fiera e austera, ben poco differente da come l’avevano conosciuta anni fa.
Camminava come fosse una regina, tenendo con le mani i lembi del lungo vestito blu notte che le fasciava il corpo tonico da ballerina. Lasciato morbido dalla vita in giù, nel busto l’abito lasciava intravedere le forme del suo seno coperto soltanto da dei ricami dello stesso colore. I capelli castani e lunghi erano legati in una coda perfettamente pettinata senza una sola ciocca fuori posto.
Joe cambiò sguardo non appena la vide, i suoi occhi s’illuminarono, e scacciò la mano premurosa della madre che tentava di sistemargli la cravatta.
Luchia attirò l’attenzione di tutti i presenti per quanto era bella.
Koushiro, che da sempre nutriva un’ammirazione per lei, spostò lo sguardo imbarazzato. Perfino Tai e Matt la fissarono interdetti, chiedendosi come facesse una donna del suo calibro ad essersi innamorata di quel burino.
«Salve a tutti» disse questa, squadrando uno per uno i presenti e soffermandosi sulla famiglia di Joe che la guardava come fosse una visione celestiale.
Questi si divincolò da sua madre che guardava la nuora con gli occhi sbarrati, e si precipitò ad affiancarla.
«Lei è la mia fidanzata da dieci anni ormai» la presentò «E’ una donna di classe, come vedete, e tra tutti ha scelto me» si vantò.
Luchia tendeva le mani a tutti, presentandosi con educazione.
«Piacere, signori. Lieta di fare la vostra conoscenza» diceva, estasiata.
Si chiesero come mai Joe avesse presentato Luchia per la prima volta ai genitori dopo dieci anni di relazione. Forse stentavano a credere alla sua parola di avere una ragazza, e in effetti, notando la differenza tra i due era lecito avere dubbi.
Joe si avvicinò a Shin, che osservava Luchia dalla testa ai piedi con la bocca aperta e senza sapere che dire.
«Hai visto che gnoccona?» gli sussurrò tirandogli una gomitata, con un ghigno sardonico e di rivincita impresso sulle labbra.
«Joe, abbiamo la vettura qui parcheggiata» lo informò questa.
Per vettura, Luchia intendeva la vecchia macchina gialla ereditata da Joe, cui suo nonno aveva premurosamente deciso di regalare al nipote per il suo venticinquesimo compleanno.
Taichi volse lo sguardo sull’auto logora e di vecchio stile, facendo una smorfia spontanea. Se aveva pensato che la macchina di seconda mano di Yamato fosse estremamente usata doveva ricredersi.
«Perfetto, allora andiamo» lo udirono rispondere.
I suoi parenti lo guardarono stupiti, perfino gli altri si interrogarono su dove volesse andare a quell’ora di pranzo.
«Vi saluto, gente» li liquidò, prendendo una mano di Luchia e guidandola fino a dove aveva parcheggiato l’automobile.
Lo osservarono salire dal lato passeggeri, mentre la donna si posizionava al volante, inforcando un paio di occhiali neri probabilmente firmati.
«Ma dove vai?» fu spontaneo urlare a Sora, sentendo la chiave girare.
«Torna indietro!» le fece eco Mimi, preoccupata.
L’amico non le ascoltò, indossò a sua volta un paio di occhiali da sole graduati, vecchio stile anche quelli, e poggiò un braccio sul finestrino.
«Mi godo la mia libertà» rispose solo.
Suo padre lo raggiunse a fatica, con sua madre dietro che lo chiamava.
«Joe, aspetta! Abbiamo prenotato il ristorante!» lo sentirono urlare da lontano.
Luchia, nel frattempo, eseguiva una sciolta retromarcia per uscire dal parcheggio.
Sua madre si portò una mano al petto preoccupata e agitata.
«Per l’amor del cielo, perché reagisce così?!»
Il ragazzo li salutò allegramente, mentre l’auto partiva facendo un rumore ingolfato, lasciando dietro una scia di fumo nero.
Le ragazze si tapparono il naso, e fecero appena in tempo ad alzare la testa e vedere Joe affacciato dal finestrino che dondolava tra due dita la sua corona d’alloro.
«Per voi, paperelle! Vi porterà fortuna!» e la lanciò in loro direzione.
Di riflesso, sia Sora che Mimi allungarono le mani e l’afferrarono al volo entrambe. Poi si guardarono con una faccia trafelata, sentendo le risate contagiose di Hikari e Takeru espandersi nell’aria.
Koushiro sospirava rassegnato ai comportamenti esagerati di Joe, mentre Taichi e Yamato guardavano la direzione in cui l’auto era sparita.
Il biondo aveva le braccia incrociate e un broncio indecifrabile in volto.
Il castano si passò una mano tra i capelli e spostò gli occhi verso Sora e Mimi che si erano precipitate dai genitori e dai fratelli di Joe, tentando di intrattenerli in qualche modo, sentendosi responsabili di quel trambusto creatosi.
Scosse la testa e un sorrisino increspò le sue labbra.
Jyou era matto da legare, o forse solo adrenalinico dopo un’intensa seduta di laurea che aveva portato lui i risultati tanto sperati.
Gettò uno sguardo a Mimi che teneva tra le mani la corona di alloro e conversava con Shin di qualcosa.
Sentiva che sarebbe stata una festa di laurea che difficilmente avrebbe dimenticato.
Non sapeva su che basi aveva partorito quel pensiero, sapeva soltanto che da quella mattina percepiva una sensazione strana che si espandeva dal suo petto e che, in un certo senso, lo metteva in allerta sul fatto che quell’atmosfera era soltanto la quiete prima della tempesta.









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Capitolo 7
*** Festa ***










Non appena tornarono a casa, Mimi tolse i tacchi vertiginosi che indossava e subito si fiondò sul divano di pelle con un sospiro. Era stanca di quella mattinata indaffarata e, a suo modo, carica di emozioni. Poggiò la testa sopra lo schienale e sentì lentamente le palpebre chiudersi.
Matt aveva accompagnato lei e Sora in macchina, e Tai lo aveva seguito. Il fatto che si fossero rivolti la parola le procurava un nodo allo stomaco che la stringeva sempre di più, come se avesse fame.
E in effetti, non avevano mangiato nulla, lei e Sora, così assente e persa nei suoi pensieri chissà per quale motivo.
Avrebbe voluto alzarsi da quel divano in cui si stava appisolando lentamente, ma gli occhi erano già chiusi e sentiva il sonno incombere sul suo corpo.
Udì in modo ovattato i passi della ramata che raggiungeva il corridoio e probabilmente si chiudeva in stanza.
Avrebbe dovuto parlare con lei, sì, avrebbe dovuto farlo. Dovevano parlare della laurea, dovevano parlare di quello che avevano provato... loro erano amiche...
Aprì la bocca e la sua testa pian piano ricadde su un lato.
L’immagine di Taichi offuscò la sua mente. Risentì la sua voce, la sua risata propagarsi nella sala.
Le sembrò fosse accanto a lei, e scioccamente, desiderò che lui l’abbracciasse.
Che stupida...
Vedeva Taichi dovunque, anche nei suoi sogni. Non era capace di distinguerli dalla realtà, si perdeva in essi come fossero l’unico appiglio per farla star bene.
Solo nei sogni lei e Tai erano felici insieme. Perché in quella realtà nessuno dei due aveva il coraggio di avvicinarsi all’altro, erano entrambi due vigliacchi, e lei era anche egoista a rimanere lì ferma senza fare nulla.
Una gelida egoista...
A pensare che Taichi... l’avrebbe presto raggiunta...
Quello stato di dormiveglia ben presto l’abbandonò, il pensiero di lui sfumò e improvvisamente tutto divenne buio.
 
Sora continuava a guardare fuori dal balcone. Era seduta sul letto e non era andata nemmeno a pranzare. Lo stomaco era serrato, non riusciva a ingurgitare neanche un bicchiere di succo di frutta.
Si era tolta di dosso la tutina e l’aveva riposta nell’armadio, rimanendo con indosso una vestaglia di pizzo. Stava seduta sul letto tenendo le mani strette al petto, con in volto un’espressione grave, spaventata, distrutta.
I pensieri si persero nel vuoto, tornando e ritornando lì, incessantemente, inesorabilmente.
Yamato...
Lo aveva tradito.
Sentì nuovamente le lacrime agli occhi.
Era una stupida, una sciocca traditrice, non meritava che lui la guardasse ancora, che lui stesse ancora con lei senza saperlo.
Si sentiva così in colpa che avrebbe voluto correre a dirglielo, urlargli che aveva dato un bacio ad un uomo che non era lui, che non ci aveva capito più niente, ma cosa peggiore di tutte, che non aveva voluto nient’altro che farlo in quel momento.
Le lacrime sgorgarono all’improvviso, e per un po’ di tempo si abbandonò silenziosamente a quel supplizio.
A quel pentimento che caratterizzava ogni condannato.
Aveva bisogno di parlare, di sfogarsi con qualcuno, forse con Mimi sarebbe stato giusto... Confidarle i suoi più intimi pensieri, sperare che la potesse capire, che non la giudicasse così come lei stava facendo in quel momento.
Scosse la testa.
Nonostante lo volesse, non riusciva a fare un passo. Si sentiva bloccata, prigioniera di sé stessa, di quella situazione che non sapeva come affrontare.
E quella festa imminente che Joe aveva organizzato per celebrare la sua laurea era qualcosa che non ci voleva.
Non voleva lanciarsi nella mischia, non se la sentiva, si sentiva troppo sporca per gioire e divertirsi. Avrebbe voluto rintanarsi in quella stanza per sempre, senza uscire e incontrare gli altri, incontrare Matt, parlare con lui, affrontarlo.
Si coricò sul letto tenendosi la pancia.
Voleva scomparire.
Scomparire per sempre...
 
Dopo chissà quanto tempo, aprì gli occhi. Il sole stava tramontando ed ebbe l’impressione di essersi dimenticata di fare qualcosa.
Afferrò a tentoni il cellulare e guardò l’orario.
Strabuzzò gli occhi, e scese dal letto di corsa con i capelli scompigliati. Spalancò la porta scorrevole del soggiorno e trovò Mimi ancora placidamente addormenta sul divano. Ebbe l’istinto di chiamarla a gran voce per fare in modo che si muovesse, ma si fermò a guardarla.
Aveva delle ciocche che le ricoprivano il viso.
Era bella e pura anche mentre dormiva.
Si avvicinò a lei e si sedette. Il suo istinto materno e protettivo prese il sopravvento, e invece di destarla con irruenza, le accarezzò un braccio.
Mimi aprì gli occhi a fatica. Guardò il volto dell’amica che la fissava con un sorriso, e le venne da ricambiare in maniera impacciata.
Sora era sempre bella e amorevole.
«Dobbiamo sbrigarci» le disse, mentre lei alzava lo sguardo all’orologio appeso al muro.
«Tra due ore arrivano le persone e dobbiamo sistemare tutto»
La ramata si mise in piedi e volse uno sguardo malinconico al balcone.
Non trovava la forza, ma era necessario cambiare stato d’animo se voleva essere pronta ad affrontare quella serata.
La castana si stiracchiò le braccia e sentì lo stomaco brontolare.
«Io non ho mangiato» constatò con un sorrisino, sentendo i crampi farsi più insistenti.
Sora incrociò le braccia, segno di rimprovero, ma poi si ricordò di aver fatto lo stesso. Allora lasciò il soggiorno ed entrò in cucina, prendendo una padella con l’intento di cucinare qualcosa al volo.
«Mangiamo» proclamò, estraendo delle uova dal frigo.
Mimi scese dal divano e la raggiunse, sedendosi su uno sgabello che dava al muretto dell’entrata, su cui a volte pranzavano velocemente appoggiandoci solo i piatti.
«Joe non si è ancora fatto vedere?» domandò stufata, con la testa appoggiata su una mano.
«Nemmeno l’ombra» Sora le diede la sua porzione e iniziarono entrambe a mangiare.
Evitava lo sguardo dell’amica, e Mimi sbadigliò, decidendo di chiederle cosa avesse da quella mattinata.
La ramata, però, l’anticipò sul tempo, quasi come avesse intuito la domanda che voleva farle e volesse sviarla.
«Odio il fatto che dobbiamo sistemare tutto noi, ogni volta. Perché non viene a dare una mano, quello scellerato?»
La castana si fece prendere dalla foga di controbattere a sfavore di Joe.
«Lo penso anch’io. Dobbiamo aprire noi ai fattorini che portano il cibo e dobbiamo andare a preparare quella dannata sangria!»
E continuarono a parlare male delle cattive abitudini del loro coinquilino, senza però rinunciare alla sistemazione della casa e alla buona riuscita della festa, perché, nonostante tutto, tenevano anche loro che Joe facesse bella figura.
Dopo aver mangiato al volo, cominciarono a pulire dov’era sporco e a spostare il divano e il tavolo in modo tale che in soggiorno si creasse più spazio.
Tirarono fuori le varie bottiglie di alcolici conservate accuratamente in frigorifero, le depositarono sul tavolo e si diedero da fare nella preparazione della sangria.
Tagliuzzarono la frutta più veloce che potettero, presero il vino e lo scolarono dentro un vecchio recipiente che avevano precedentemente lavato e conservato a tal proposito.
Mimi si asciugò la fronte, sentendo caldo. Sora si tagliò accidentalmente un dito con il coltello appuntito.
Dopo circa un’ora di preparativi, suonarono al campanello della porta.
Le due ragazze si guardarono speranzose, credendo fosse Joe di ritorno, ma non appena aprirono, si trovarono di fronte i fattorini del cibo che consegnavano le ordinazioni.
Rassegnate, sistemarono tutto sul tavolo allargato e sopra i vari mobiletti da dove avevano tolto i soprammobili e le cianfrusaglie lasciate in giro.
Dopodiché, resesi conto che mancava solo mezz’ora all’orario prestabilito, corsero a farsi una doccia e a sistemare trucco e capelli per come potevano.
Fecero appena in tempo a darsi l’ultima passata di rossetto prima che il campanello suonasse ancora. Corsero ad aprire, ormai convinte del fatto che Joe non sarebbe arrivato in tempo, e in effetti così fu. Per la mezz’ora seguente si apprestarono ad accogliere i vari invitati che portavano con loro regali o bottiglie di alcol come augurio.
I primi membri del gruppo a figurare furono Takeru e Hikari, belli e splendenti nella loro gioventù, la mano di uno stretto in quella dell’altra.
Entrambe li guardarono con uno sguardo malinconico, associando quella beatitudine che li avvolgeva alla felicità che loro aveva perso da tempo.
La più piccola salutò le ragazze con dei baci sulle guance e il biondino diede un buffetto a quella di Sora, per poi dirigersi in salotto a prepararsi un cocktail e a impostare la musica adeguata.
La ramata si morse il labbro guardando il ragazzo fiero e libertino, con un ghigno arrogante che gli increspava il viso.
Takeru era oggetto di apprensione per Yamato, lo era da sempre stato fin dai tempi di Digiworld. Era certa che per lui rappresentasse la persona per la quale avrebbe rischiato tutto, per la quale si sarebbe perfino gettato nel fuoco nel caso ce ne fosse stato il bisogno.
Matt probabilmente non avrebbe mai fatto niente di tutto ciò per lei.
Ne era consapevole, e si dava dell’ipocrita nel pensarlo e nel disperarsi per quella constatazione, perché lei non era affatto nella giusta posizione di poter provare rammarico.
 
Vergogna.
Era solo questo il sentimento che provava di sé stessa.
 
Mimi alzò gli occhi su di lei, e notò il suo viso oscurarsi improvvisamente, le sue labbra disegnate di rosso chiudersi in un broncio del quale non riconosceva la causa. Aggrottò la fronte e poi assunse un’espressione risoluta.
Questa volta le avrebbe chiesto, ne era sicura, si sarebbe fatta dire il motivo di quella disperazione.
Non poteva essere  egoista, doveva pensare anche al benessere della sua migliore amica, così come Sora faceva per lei.
«Va tutto bene?» le domandò di getto, risultando un tantino brusca.
La ramata si distolse dai suoi pensieri e la guardò con gli occhi nocciola lucidi.
Aveva l’occasione propizia per raccontarle tutto ciò che era successo, poteva parlarle a cuore aperto ritrovando una spalla su cui piangere e sfogarsi, perché fondamentalmente, Sora ne aveva bisogno più dell’aria in quel momento.
Ma stava così male, si sentiva così sporca dentro da non riuscire a spiaccicare una parola.
Afferrò il cellulare e lo guardò, aspettandosi con timore chissà cosa.
«Sì, Mims» rispose dopo un po’, sforzandosi di mantenere una facciata di distacco che in quel momento non le apparteneva.
La castana alzò un sopracciglio continuando a fissarla.
«Ti vedo strana» dichiarò, incrociando le braccia sotto il seno.
Ed era vero che era strana, anzi era molto strana a starsene lì in silenzio quando la festa era appena iniziata e lei non aveva neanche azzardato un sorriso.
Alzò lo sguardo su quello dell’amica, che la guardava ancora profondamente e in cerca di qualcosa.
Per paura che Mimi potesse scorgere tutto dentro i suoi occhi limpidi, decise di spezzare quel contatto al più presto.
«E’ solo un’impressione» concluse, sperando che la castana non insistesse più di tanto, e infatti così fece.
Il silenzio calò su di loro, mentre la musica rimbombava nelle loro orecchie e il vociare di sottofondo aveva preso posto alle parole.
Vennero scosse soltanto dall’ennesimo suono di campanello e, stufate, si prepararono a dare gli ulteriori onori di casa per qualcuno che avrebbe dovuto farlo al loro posto.
Mimi aprì la porta con un’espressione infastidita che la tradiva, preparandosi a recitare un sorriso e un saluto gioviale.
Strabuzzò gli occhi non appena si rese conto che chi avevano suonato alla porta non erano delle persone qualunque.
Si morse il labbro inferiore.
Taichi e Yamato si trovavano ritti nella soglia. Erano entrambi vestiti con delle giacche e delle camicie; semplici ma eleganti, portavano con sé un’aurea di imponenza e superiorità.
Erano alti e slanciati, belli come mai lo erano stati, e Mimi sentì lo stomaco agitarsi non appena gli occhi castani di Tai si posarono su di lei.
«Ciao» li salutò incerta, chiedendosi se non avesse balbettato come una sciocca.
I due ragazzi si lanciarono uno sguardo fugace, e potette giurare di vedere il castano nella sua stessa identica difficoltà prima che uno dei due rispondesse.
«Ehi» fece secco Matt, sforzando il volto in quello che doveva essere un sorriso, che subito dopo si tramutò nella sua solita espressione dura.
«Ciao» ripeté Tai, evitando di guardarla, e lei si rabbuiò pensando a come difficile fosse diventato per loro perfino salutarsi.
Eppure si erano rivolti parola, si erano guardati a vicenda, si erano perfino regalati un sorriso.
Adesso Taichi non la guardava e lei odiava il fatto che non lo facesse. Voleva che la guardasse e le parlasse, che le dicesse anche una stronzata, e per quanto la sua testa le suggeriva di fare lei il primo passo, il suo orgoglio ruggiva nel farla agire al contrario.
Si spostò dalla porta facendo intendere loro di seguirla.
Taichi rilasciò il fiato che aveva trattenuto nel vederla apparire all’improvviso, e cercò di distrarsi dal suo pensiero facendo vagare lo sguardo per l’intero appartamento che non aveva ancora mai visitato.
Il muro era tutto in pietra finta. Al lato si trovava lo stanzino dove tenevano le scarpe e altre cianfrusaglie, mentre percorrendo un corridoio, a destra, arrivavano alla cucina separata dall’entrata da un lungo muretto, da dove s’intravedeva un lungo bancone attaccato alle vetrate che davano al soggiorno. Proseguendo dritto il corridoio, invece, si arrivava ad una porta scorrevole che, supponeva, separava le stanze delle ragazze e di Joe e il bagno che avevano in comune dal resto.
Il salotto era abbastanza ampio, si entrava da una porta ad arco e conteneva un divano in pelle bianca che era stato spostato da un lato per fare più spazio, diversi mobiletti tra cui quello che reggeva la TV e il tavolo di legno pregiato che era stato attaccato al muro con le vetrate che separava il piccolo spazio cucina.
Il ragazzo rimase stupito dalla grandezza dell’appartamento oltre che dall’arredamento curato sul quale la mano femminile s’ intravedeva eccome.
La sua attenzione fu catturata da alcune persone che entravano e uscivano dall’ampio balcone che si estendeva per tutta la lunghezza della casa. Intravide persino delle tende a righe, in quanto, probabilmente, era un appartamento molto luminoso.
«Joe non è ancora arrivato» sentì dire a Mimi che si trovava avanti con Matt.
Alzò il sopracciglio, mentre la ragazza li conduceva dentro la cucina in cui si trovava Sora seduta su uno sgabello.
«E dov’è ancora?» udì la risposta energica del biondo.
«E’ andato a mangiare in un ristorante di lusso con i suoi e Luchia» fu la risposta che ne susseguì.
Yamato si voltò a guardarlo e i due si scambiarono un espressione perplessa. Dove diamine si era cacciato quel burino di Joe?
Si avvicinarono a Sora che era intenta a guardare il suo cellulare e, notò Tai, aveva sulla fronte una ruga nervosa. Strinse le labbra, e guardò con la coda dell’occhio il suo amico che si era irrigidito non appena l’aveva vista.
Lanciò un lungo sospiro, e si avvicinò a lei, facendola sussultare.
«Che fai?» le chiese all’orecchio, buttando l’occhio spontaneamente allo schermo del suo cellulare.
La ragazza trasalì.
Si voltò e la faccia familiare di Taichi le apparve all’improvviso, constatando da vicino come il suo migliore amico si fosse fatto crescere una leggera barba.
Il cuore le batté forte per lo spavento e si passò una ciocca di capelli mossi dietro l’orecchio.
«Oh, ciao, niente...» mormorò cercando di apparire evasiva, ma il castano non smise di fissarla in maniera inquisitoria.
Sora spostò lo sguardo su di Matt che si trovava affianco a lui e la guardava esitante.
Aprì leggermente la bocca.
Era troppo bello per essere vero, sembrava una di quelle rock star dannate, vestito di nero e con i capelli biondi che gli incorniciavano il viso angelico ma nello stesso tempo duro.
Sentì lo stomaco aggrovigliarsi.
«Ciao» la salutò semplicemente lui, e lei abbassò lo sguardo per poi sussurrare lo stesso flebile saluto.
Yamato continuò a guardarla, chiedendosi perché lo evitava in quel modo. Eppure erano rimasti d’accordo che avrebbero parlato, avrebbero provato a chiarire tutte le loro questioni in sospeso, perché arrivati a quel punto c’era da prendere una decisione.
Lei sembrava evitarlo di proposito e questo gli faceva male.
Mimi si fece largo passando davanti a Taichi, sfiorandolo involontariamente con il fondoschiena. Il ragazzo si distanziò togliendosi le mani dalla tasca.
Lei venne colta da un caldo imbarazzo e, per dissimulare, si portò all’orecchio il cellulare.
«Provo a chiamarlo. Sono arrivati quasi tutti» e si voltò in direzione dei fornelli facendo squillare il telefono.
Il castano non riuscì a fare a meno di rivolgere uno sguardo alle forme del suo corpo messe in risalto dal tubino rosa pallido.
Sentì il desiderio di stringerla farsi strada e, per contenere i bollenti spiriti, lanciò un lungo sospiro voltandosi a guardare la gente ridere e divertirsi dalla finestra che si affacciava sul salotto.
«Magari è rimasto nella statale con quel catorcio» commentò continuando a guardare in un’altra direzione.
Mimi strinse le labbra non appena lo udì rivolgersi a lei.
«Si ostina a prenderla» rispose a sua volta senza voltarsi.
Non riuscivano neanche a guardarsi negli occhi dopo anni di relazione; erano diventati due veri vigliacchi, egoisti, estranei.
Come avevano fatto?
La ragazza lanciò un sbuffo.
«Ecco, non risponde!» esclamò, non appena udì la voce della segreteria telefonica.
Poi si voltò, portandosi una mano su un fianco e guardando la schiena di Tai.
Matt s’innervosì, già provato da tutta quella situazione.
«Sempre il solito coglione» imprecò tra i denti «E’ la sua festa e lui non c’è»
E aveva ragione a dirlo.
Joe aveva involontariamente creato una situazione parecchio scomoda tra di loro. Non si era presentato prima onde evitare che venissero così strettamente a contatto, aveva messo su tutto quel teatrino nel quale loro non riuscivano affatto a recitare.
Era un gioco delle parti così estremamente duro e complicato che non sapevano se ne sarebbero mai usciti integri.
Il campanello suonò nuovamente, e Sora, che era rimasta in silenzio fino a quel momento, rizzò sullo sgabello e decise di andare ad aprire.
«Forse è lui. Vado io» disse sbrigativa, sperando con tutto il cuore che fosse veramente l’amico e non chi temeva potesse essere.
Aveva una strana sensazione in corpo.
Non sapeva perché, ma quando ne aveva una, di sensazione, si rivelava sempre esatta.
Matt ancora la guardava, sembrava la ispezionasse in modo clinico, tanto da darle l’impressione che avesse capito qualcosa.
Strinse la maniglia della porta.
E se fosse stato Victor?
Ebbe paura ad aprire.
Non poteva sopportare che si trovassero entrambi faccia a faccia, l’uno inconsapevole di ciò che era successo, l’altro speranzoso che lei prendesse una decisione.
Cominciò a tremare, e indugiò sulla porta.
Dio, perché gli aveva detto di venire lì?
Quanto era stata avventata ed incosciente... non si era resa conto che in quel modo era esposta a trecentosessanta gradi... lo avrebbe trascinato direttamente nella tela del ragno, e avrebbe trascinato lì anche lei.
Chiuse gli occhi e aprì.
Davanti a lei apparve Koushiro, e questo le permise di rilasciare l’aria che aveva trattenuto. Gli fece un sorriso di gratitudine che il rosso non capì. Poi guardò con maggiore attenzione che accanto all’amico c’era la sua fidanzata, Frajiko.
I biondi capelli erano lisci e corti, gli occhi azzurri erano come sempre trasparenti e brillanti. Il viso era scarno e con poco trucco; in compenso portava un vestito a spalline nero con delle stampe colorate che le fasciava il corpo e dei tacchi dello stesso colore. Era dimagrita molto e poteva vedere le ossa sporgenti della clavicola.
Li salutò entrambi, e abbracciò la ragazza che non vedeva da molto tempo.
Mimi e i ragazzi la raggiunsero e rimasero stupiti nel trovarla accanto al rosso. Credevano non si sarebbe presentata, e invece era lì che affiancava Izzy con un sorriso sghembo.
«Ciao, ragazzi» udirono biascicare a Koushiro.
Taichi e Yamato smisero di fissare la bionda e salutarono a loro volta, mentre Mimi mise su un sorriso accogliente e si sporse per abbracciarla calorosamente.
«Ciao a tutti. E’ tanto che non ci si vede» li salutò uno per uno Frankie, dando loro dei baci sulle guance.
«Come stai, cara?» le chiese Mimi, senza riuscire a nascondere una nota di apprensione.
Gli sguardi di tutti si posarono su Izzy, che era intento a sistemarsi la giacca a righe. Ognuno si chiese se Frankie fosse realmente uscita da quel tunnel nel quale si supponesse fosse caduta, e se la sua riabilitazione non stesse facendo cadere a pezzi Koushiro in un modo prima d’ora mai avvenuto.
«Sì, bene, grazie» la risposta della ragazza li riscosse improvvisamente dai loro pensieri.
Videro Frankie volgere lo sguardo verso il suo fidanzato e sorridergli, di un sorriso strano che sembrava trapelare eloquenza.
Izzy la guardò nervoso per un secondo e poi si schiarì la voce, rivolgendosi agli altri.
«Notizie di Joe?» chiese, dando uno sguardo in giro.
La casa era già abbastanza piena. Gli ospiti andavano avanti e indietro per il soggiorno, alcuni si erano già sistemati fuori del balcone.
Sora udì la risata di TK provenire da lì.
«Si è volatilizzato nel nulla. Abbiamo dovuto fare tutto noi» sospirò Mimi infastidita.
Izzy scosse la testa. Il più grande aveva una sorta di abitudine malsana nel credere che tutti gli altri fossero sempre a sua disposizione.
Non si rendeva conto di come apparisse antipatico e scorretto, specie con le ragazze, che per quanto si lamentavano di lui non avrebbero mai voluto che la festa di laurea sabotasse.
«Tipico suo» commentò, sospirando.
Si erano appostati in cucina, e per dei secondi nessuno disse più niente, intenti ad osservare le persone intorno a loro.
Il campanello suonò altre volte, e Sora, pur di non restare lì ferma a sentire lo sguardo di Yamato addosso, si premurò di fare gli onori.
«Viene sempre più gente» constatò tra i denti, mentre apriva la porta agli ennesimi ospiti che avevano portato delle bottiglie di prosecco come regalo.
Sorrise a tutti in maniera circostanziale, tentando di nascondere il suo fastidio.
«Accomodatevi, prego. Joe arriverà tra poco» aveva appena detto ad una coppia di ragazzi che la guardava come se fosse un alieno proveniente chissà da quale pianeta.
Subito dopo si voltò a guardare in modo esasperato Mimi che aveva le mani sui fianchi e scoteva la testa.
Dove diavolo si era cacciato Joe?
Matt osservò Sora sbuffare e sentì la rabbia salire fino alla punta dei capelli.
Non capiva perché lei e la castana si ostinassero, nonostante i capricci del coinquilino, - e quella scenata della mattina prima ne era la prova-, a tutelarlo in quel modo e a stare dietro ad ogni suo gesto eclatante, come se fossero due madri apprensive.
Non era affatto corretto come Joe si comportava con loro. Il fatto che condividessero un appartamento non gli dava il diritto di fare quel che voleva, anche se era il giorno della sua laurea e dovevano festeggiarlo.
«E’ indecente!» sbottò alzando la voce e facendo voltare tutti in sua direzione «Chiamatelo» ringhiò.
Sora ebbe l’istinto di rispondergli, ma sentì la gola secca, perciò la richiuse. Evitò nuovamente il suo sguardo in modo vigliacco, mentre Mimi parlava al suo posto.
«Ha il cavolo del telefono staccato!» esclamò, le braccia incrociate e lo sguardo che fulminava il biondo per averle rimproverate come se fosse colpa loro della poca affidabilità del corvino.
Yamato incrociò le braccia a sua volta e continuò a guardare la sua fidanzata.
Perché non si degnava neanche di alzare la testa?
Era stato così stronzo e irrispettoso da non meritarsi neanche una risposta ad una domanda?
Che Sora ce l’avesse con lui era palese, ma non capiva il motivo del quale sfuggiva perennemente al suo sguardo.
Tai prese la parola all’improvviso, tirando fuori il cellulare dalla tasca.
«Aspetta, provo io» con un dito scorse tra i nomi della rubrica con l’intento di trovare il numero giusto.
Mimi lo interruppe di getto, senza nemmeno esitare se farlo o meno.
«Ha cambiato numero» lo informò, sentendosi in imbarazzo poi quando vide lui alzare la testa per guardarla.
«Devi segnarlo» continuò affondando la faccia sul telefono per trovare il contatto.
Il castano si avvicinò a lei e passò qualche secondo imbarazzante durante il quale si impegnarono a memorizzare correttamente il numero di Joe.
Gli altri si mandarono delle occhiatine furtive nel vederli così vicini. Sembrava come se il tempo non fosse mai passato e loro due fossero ancora insieme racchiusi nella loro complicità e nella loro esigenza di tenersi vicini.
La castana alzò appena il volto per fissarlo, mentre lui terminava di salvare il contatto in rubrica.
Da vicino Taichi era ancora più bello.
Si era quasi dimenticata di quanto fosse diventato uomo, con quei lineamenti decisi ma nello stesso tempo delicati, quel suo sguardo profondo, i suoi capelli castani che seppur accorciati non ne volevano sapere di stare in ordine.
«C’è una così bell’aria d’amore da queste parti, non trovate?» irruppe Frankie, spostando sognante lo sguardo dai due a Sora e Matt.
Tai si sentì osservato, alzò lo sguardo e si passò una mano in testa per sciogliere l’imbarazzo. Mimi, dal suo canto, si allontanò di getto.
Sembrava uno scherzo di cattivo gusto.
Tre coppie che forse non erano più coppie, che si amavano, o forse non si amavano più...
 
Oppure semplicemente avevano solo dimenticato come si faceva.
  
«Per...perché non incominciamo a bere qualcosa?» propose Izzy per stemperare quell’atmosfera pesante.
La bionda cambiò espressione non appena udì quella domanda. Sembrava non aspettasse altro fin dall’inizio.
«Perfetto. Direi una sangria per scioglierci» disse improvvisamente interessata, e prendendo il rosso a braccetto, fece in modo che si allontanassero per raggiungere il tavolo delle bibite.
Li guardarono per un po’ di tempo senza aggiungere altro. Mimi si portò un dito laccato di rosa in bocca, pensando alle complicazioni che Koushiro probabilmente stava vivendo e le dispiacque molto per il suo amico.
Lo trovava in evidente difficoltà a gestire la situazione, e Frankie era ancora abbastanza sbandata, da come poteva notare.
Sospirò, pensando che aveva bisogno di ritrovare sé stesso, il ragazzo razionale e autoritario che era da sempre stato in tutti   quegli anni.
Adesso gli sembrava caduto in un limbo di oscurità dal quale non riusciva ad uscire; non riusciva a reagire a quei demoni intorno a lui.
Udì d’un tratto la voce di Taichi fare capolino da dietro di lei.
«Staccato» constatò, chiudendo subito dopo il cellulare e riponendolo dentro la tasca dei pantaloni.
Le ragazze sbuffarono nello stesso momento.
«Che coglione!» commentò Matt.
Sarebbero rimasti per tutta la sera loro quattro a non sapere che dire, che fare e come comportarsi.
Sora si strinse con le braccia, e abbassò lo sguardo sulle sue gambe nude, messe in evidenza dalla sua tutina corta.
Non appena rialzò lo sguardo incontrò nuovamente quello di Yamato che teneva il suo fermo su di lei. Il cuore prese a batterle forte e spostò gli occhi in direzione del corridoio, dove qualcuno era appena entrato.
«Sono arrivati Yolei e gli altri» fu lieta di annunciare per divagare.
Mimi salutò con una mano la ragazza, che li aveva appena adocchiati.
«Andiamo a salutarli» disse poi in modo perentorio.
Il biondo, però, alzò gli occhi al cielo stringendo un braccio di Tai.
«Ti prego, no!» lo supplicò «Io non vengo» annunciò duro, mentre quegli altri si avvicinavano.
La castana lo guardò male e incrociò le braccia.
«Oh, andiamo, non fare il maleducato!» esclamò, guardandolo con un cipiglio.
Dopo quasi quindici anni che si conoscevano voleva ben capire perché Yamato continuava a mostrarsi asociale e intollerante nei confronti delle altre persone, spesso perfino nei confronti dei suoi amici.
L’unico di cui non avrebbe mai fatto a meno era Taichi.
Lo vide restituirle uno sguardo irritato.
«Maleducato? Non hai visto che tipo è Daisuke?» la rimbeccò, facendole cenno verso il turbolento ragazzo che aveva già attirato l’attenzione della gente intorno con la sua voce alta e i suoi modi bruschi.
Mimi continuò, imperterrita.
«Dobbiamo solo salutarli!» esclamò.
Il biondo sembrava irremovibile, si era seduto su di uno sgabello e guardava stufato la direzione in cui si trovavano gli altri ragazzi.
Fece una smorfia verso la castana che ancora lo guardava sbieco.
Non capiva perché doveva essere sempre così fastidiosa e petulante quando ci si metteva, non era cambiata affatto di una virgola in tutti quegli anni, o almeno, così sembrava.
Voleva dare e ricevere la benevolenza di tutti, ma a lui mica tanto importava.
In quel periodo, soprattutto, meno gente vedeva, meglio era...
«Andiamo, Matt» sentì, però, fuoriuscire dalle labbra di Tai
«Non li vedo da molto tempo» constatò con un tono che non ammetteva possibilità di remore.
E in effetti, non vedevano gli amici di Takeru e Hikari da un bel po’ di mesi a quella parte.
Non erano esattamente dei tipi con cui andavano d’accordo. Era consapevole del fatto che fossero brave persone, li conoscevano anche abbastanza bene dopo le esperienze lontane che avevano condiviso insieme, ma appunto per quello, se potevano evitare di coinvolgerli era decisamente meglio.
Quel Daisuke, poi, sempre così fuori dai gangheri ed egocentrico, aveva preso una strada senz’altro discutibile, finendo complessivamente nell’alcol e in sostanze illegali.
Alzò gli occhi cerulei sopra il suo migliore amico che lo guardava fermo, di uno sguardo che lasciava trasparire l’impossibilità di rinunciare a quel saluto, nonostante nemmeno lui avesse tanta voglia di farlo.
Sospirò, e si mise in piedi, convinto.
A Mimi scappò un risolino per la lestezza con cui si era fatto persuadere da Taichi, mentre gli tirava una gomitata per prenderlo in giro, nello stesso modo in cui facevano anni fa.
«Tundra» gli mormorò, chiamandolo con quel nomignolo che gli aveva affibbiato e che sapeva lo facesse arrabbiare.
Matt, infatti, cominciò a risponderle per le rime e battibeccarono, passando avanti e lasciando gli altri due indietro.
Tai li guardò con un sorrisino. Avevano due caratteri troppo opposti, non sarebbero mai andati d’accordo quei due, e ancora dopo anni gli mettevano allegria quelle battute pungenti che si rifilavano.
Lanciò uno sguardo eloquente a Sora che si era messa in piedi e non lo ricambiava. Notò che era ancora intenta ad ispezionare il suo cellulare.
Si chiese che cosa avesse di così tanto importante da leggere per non emettere suono o parola da quando erano arrivati.
Aveva notato come lei e Yamato fossero rigidi, e lei sembrava nervosa e preoccupata per qualcosa. La conosceva bene dopo tanti anni, sapeva che quando la ramata evitava lo sguardo degli altri aveva qualcosa dentro che non andava.
Taichi si avvicinò e le passò un braccio sulle spalle, mentre lei, finalmente, lo guardava sorpresa.
Se c’era qualcosa che non andava in lei doveva dirglielo, parlare con lui, perché avrebbe cercato un modo per aiutarla.
Pendeva tanto dalle labbra della sua migliore amica, era come una specie di modello da seguire per lui, una figura femminile importante.
Non l’avrebbe mai lasciata in disparte, l’avrebbe sempre difesa, poco importava se Yamato rivendicava la sua parte.
Lui e Sora avevano un rapporto indissolubile, da sempre.
«Lo vuoi posare questo telefono?» gli chiese impaziente, facendo in modo che lei si ridestasse.
Beccata nel segno, assunse una faccia di scuse.
«Ehm, sì, scusa» biascicò, schiarendosi la voce «Lo lascio qui» disse poi, posando l’aggeggio sopra un cestino di vimini che si trovava sul muretto dell’entrata.
Lasciò perdere.
Non avrebbe più controllato che Victor le scrivesse.
Se non era venuto fino ad allora, voleva dire che non lo avrebbe fatto. Forse si era reso conto di quanto rischioso fosse presentarsi, e di quanto in difficoltà, soprattutto, l’avrebbe messa con la sua presenza.
Sospirò, sentendosi leggermente rassicurata.
Era meglio così.
Vide Yamato e Mimi salutare i ragazzi.
Era decisamente meglio così, con il braccio di Taichi che la proteggeva da mille minacce esterne.
Le venne spontaneo poggiare la testa sul suo petto, e il castano si accorse di come si fosse accoccolata su di lui, così la strinse ancora di più.
Daisuke li adocchiò e si avvicinò a loro con un sorriso smagliante. Aveva i capelli in disordine, tinti di amaranto da sempre, una camicia bianca cui aveva lasciato aperti dei bottoni per far intravedere il petto, delle bretelle bizzarre e dei pantaloni neri.
«Taichi Yagami!» esclamò, rallegrandosi nel vederlo.
Aveva da sempre rappresentato per lui un’icona da seguire, nel calcio ma anche nella vita.
Gli diede un cinque e un pugno come saluto. Tai lo fissò in modo critico, con un sorrisino sbieco impresso sulle labbra.
«E anche Yamato Ishida!» continuò l’altro, facendo la stessa cosa con il biondo.
Questi si limitò a dargli la mano, smontando il suo pavoneggiarsi. Daisuke, però, non si perse d’animo.
«Che piacere vedervi!» esclamò, e poi ispezionò le ragazze, soffermandosi sulle loro forme.
I due ragazzi se ne accorsero. Matt lo fissò in modo tagliente, per poi voltare il capo e vedere come Sora fosse ben stretta tra le braccia di Tai.
Aprì leggermente la bocca.
Non poteva essere geloso del suo migliore amico, specie in quella circostanza.
Ma il fatto che lei si fosse lasciata andare con Taichi e non con lui gli stringeva il cuore in una morsa...
Si oscurò in volto. Il castano non se ne accorse e si dedicò a parlare con l’altro.
«Come va, Davis?» gli aveva chiesto, chiamandolo con il soprannome con cui tutti lo additavano.
Quello assunse un’espressione fiera, pompando il petto. Nella parte scoperta dalla camicia poteva intravedere una collana che raffigurava un piccolo rosario.
«Bene, amico. Si lavora sempre. L’unica cosa brutta della mia vita è Miyako...» e si voltò alla ricerca dell’amica, che avanzò mollandogli un potente scappellotto sulla nuca.
Yolei aveva una lunga gonna a vita alta, dentro cui aveva inserito una maglietta blu trasparente con dei ricami. Era molto diversa dal maschiaccio logorroico che avevano conosciuto; adesso vestiva più femminile ed elegante.
Mimi corse ad abbracciarla, e le due ragazze si strinsero forte.
Andavano molto d’accordo fin dai tempi di Digiworld. La più piccola adorava la castana; una volta le aveva perfino confidato di averla tanto desiderata come sorella. Tutto ciò aveva sempre allettato Mimi, e il suo lato egocentrico era inevitabilmente ingigantito da quella spropositata ammirazione che Yolei nutriva nei suoi confronti.
«Mimi! Che bello vederti!» aveva urlato, abbracciandola e stritolandola tra le braccia.
Lei si staccò a tentoni e tenne ancora tra le sue mani quelle dell’altra.
«Tu come stai, cara?» domandò poi.
Miyako gettò uno sguardo al suo fidanzato, il quale si sporse per salutare tutti gli altri ragazzi con delle pacche sulla schiena.
«Benissimo. Io e Ken ci siamo trasferiti di casa» le confidò, strizzandole l’occhio «Le cose alla bottega vanno bene, meno male che Joe mi da una mano ogni tanto. Hawkmon non è molto contenta, ma a me sta bene» raccontò.
Il corvino spesso e volentieri andava ad aiutare Miyako alla bottega di famiglia dove lavorava, entrando in pieno contrasto con il suo Digimon partner che per differenze caratteriali lo poteva soffrire decisamente poco.
Il pennuto aveva il suo caratterino pungente e imperativo, cosa che andava oltremodo in contrasto con lo spirito di Jyou.
«Ecco Cody!» la violetta alzò il braccio per indirizzare il ragazzo verso la loro direzione.
Yamato lo guardò, pensando che probabilmente quel ragazzo era l’unico ad avere un minimo di compostezza e buon senso all’interno di quel gruppo di ragazzini.
Cody arrivò e salutò tutti, mostrandosi più alto dell’ultima volta e più sicuro di sé.
Daisuke gli lanciò un’occhiata torva, cominciando ad insultarlo come faceva di solito.
«Nano, vieni che ho bisogno!» gli ordinò urlandogli nelle orecchie.
Il più piccolo si spostò con una smorfia, e si sistemò i lembi delle maniche.
«Davis, datti un contegno almeno per questa sera. Non è nemmeno casa tua» gli sibilò, consapevole del fatto che avrebbe dovuto raccoglierlo e rianimarlo durante la serata.
Quello alzò le spalle.
«E’ casa di Kido! Non si offenderà mica il dottore!» lo sbeffeggiò, ridendo solo della sua stupida battuta.
Mimi alzò il sopracciglio chiaro.
«Guarda che è anche casa nostra» lo avvisò, nel caso se ne fosse dimenticato.
Che non si permettesse a rompere qualcosa o a vomitare sul balcone, con quell’indole spastica che aveva, altrimenti gliel’avrebbe detto lei!
Davis cambiò del tutto espressione non appena la castana gli rivolse la parola, e da lei fece ruotare lo sguardo verso Sora, che ancora si trovava abbracciata a Taichi.
«Ma voi siete due bellezze rare!» si passò una mano tra i capelli, adulandole, tentando di apparire suadente
«E manca ancora la terza» aggiunse eloquente.
Tai captò al volo di chi si trattava. Davis aveva fatto riferimento a sua sorella Kari, che non aveva ancora visto da appena era arrivato.
Aveva sempre avuto una cotta per lei, fin da bambini, e anche se il ragazzo si era addentrato in altre storielle di passaggio, quella sorta di predilezione non lo aveva ancora abbandonato.
Aggrottò le sopracciglia, in modo ironico.
«Sognala che poi ti svegli» lo troncò in netto, sentendo scioccamente un moto di gelosia.
Matt rise insieme a lui per la faccia da pesce lesso che Daisuke aveva assunto. Perfino Sora ridacchiò, contagiata dal movimento ritmico del petto del castano. Volse gli occhi nocciola verso Mimi per vedere la sua reazione, ma la trovò che la guardava di uno sguardo strano.
Non aveva niente da recriminare a Sora, lei era la sua migliore amica, forse era egoista a pensarlo, lo sapeva, ma vederla abbracciata in quel modo a lui...
Erano amici, ma in fondo sapeva quanto ci stesse ancora male per Tai, quanto soffrisse per quel distacco, quanto sentisse ancora vividi quei sentimenti che la legavano a lui.
Dio, forse era una stupida a pensare male, lo sapeva...
La ramata sciolse improvvisamente l’abbraccio con Taichi, come se avesse potuto sentire i suoi pensieri disperati.
Mimi, dal suo canto, spostò lo sguardo verso la porta che si era aperta da sola, o per meglio dire, era stata aperta da qualcuno.
Con un bel po’ di ore di ritardo, finalmente Jyou fece il suo ingresso nell’appartamento, trionfante. Luchia si trovava dietro di lui e si teneva il lungo abito blu, mentre avanzava con un portamento regale. Daisuke la guardava come fosse una dea greca, la lingua quasi gli penzolava di fuori.
Il corvino venne accolto da tutti, ricevendo auguri a destra e a manca, regali e bottiglie di vino e prosecco come dono.
Portandone due tra le mani, si avvicinò al gruppo con un sorriso a trentatre denti.
La cravatta rossa era slacciata e lasciata penzolare sul collo, la camicia bianca era sempre più stropicciata e fuori dai pantaloni. La giacca nera non sapevano che fine avesse fatto.
«Buonasera a tutti, amici miei!» si annunciò, alzando la voce affinché tutti gli invitati potessero sentirlo «Eccomi qui, il dottore è appena arrivato!» esclamò, ricevendo uno scroscio di applausi, a cui lui reagì con finta modestia.
Fece cenno a Luchia di porgergli i bicchieri. La donna alzò la testa e lo fulminò con lo sguardo, poi obbedì, passando dei calici anche ai ragazzi e a Sora e Mimi.
Joe riempì il suo con del prosecco, facendo cadere tutta la schiuma per terra.
«La festa può iniziare! Scatenatevi come bestie!» urlò, alzando il bicchiere per fare un brindisi a sé stesso e bevendo tutto ad un sorso.
Si affogò istantaneamente, facendo uscire del prosecco fuori dal naso.
Le ragazze lo guardavano torve, mentre si asciugava il volto con il braccio. Taichi e Yamato lo fissavano nauseati.
Si fece abbracciare da altre persone ricevendo ulteriori auguri e regali. Yolei gli diede due baci sulle guance stringendolo forte, e gli occhiali gli si spostarono da un lato.
«Dov’eri finito?» gli chiese bruscamente Sora, dopo che si ebbe liberato.
Aveva un cipiglio irritato, mentre Mimi lo fissava con le mani sui fianchi, pronta ad aggredirlo.
Il ragazzo non le badò, avvicinandosi al tavolo dove c’era da mangiare.
«I cazzi tuoi li hai lasciati dai monaci buddisti, Sorys?» chiese retorico, poi, mangiando una tartina.
La ramata aprì la bocca per parlare, e anche l’amica si stava avvicinando per redarguirlo.
Taichi, però, fu più svelto e si mise in mezzo.
«Rispondi per bene, burino. Hanno dovuto fare tutto senza di te» lo ammonì con un tono che non ammetteva repliche.
Joe spostò lo sguardo su Yamato che lo guardava a sua volta in modo tagliente, come volesse mollargli un pugno se solo avesse aperto bocca.
Il festeggiato lo fissò con gli occhi neri a fessure, sfidandolo. Poteva arrabbiarsi quanto voleva quel biondo scellerato, ma lui avrebbe comunque parlato con sincerità in ogni frangente.
«Schiave sono e schiave resteranno» commentò in modo maschilista e, dopo aver lanciato un’occhiata veloce ai due ragazzi,- Matt avrebbe reagito, se solo Tai non lo avesse bloccato- decise di allontanarsi dalla loro visuale onde evitare accapigliamenti.
Diceva le cose con sincerità, era vero, ma al suo bel faccino ci teneva.
Raggiunse Davis che aveva già incominciato a bere con foga, e gli posò una mano sulle spalle.
«Daisuke, fattelo dire, vedi di mantenerti e di non usufruire di quella cosa bianca che sappiamo noi» fece una faccia allusiva, poi lanciò uno sguardo in direzione del balcone da dove si intravedevano Koushiro e Frajiko che parlavano in modo fitto
«anche perché in questa festa ci sono già persone in via di disintossicazione»
Poi si bloccò, posseduto da un flash improvviso.
«A proposito, qualcuno levi quella margherita dal balcone, che ci tengo! Non vorrei che Frankie...» lasciò cadere la frase, facendo intendere qualcosa di affatto piacevole.
Il biondo si mollò dal castano e si avvicinò con una faccia che non lasciava presagire nulla di buono.
Doveva contenersi.
Contenersi, per la miseria, non poteva comportarsi in quel modo infantile e poco educato.
«Cosa stai insinuando, idiota?!» esclamò, livido in volto. Poi lanciò uno sguardo per premurarsi che chi di dovere non stesse ascoltando.
«Non parlare in questo modo davanti a Izzy!» lo avvertì tra i denti.
Quando scherzava su delle cose frivole poteva anche andare bene, ma quell’argomento era delicato per loro e soprattutto per Koushiro.
Sora e Mimi si lanciarono un’occhiata preoccupata.
Joe indietreggiò automaticamente, ma continuò ad assumere un atteggiamento spocchioso e strafottente.
«Calmo, che il cibernetico recepisce solo con il codice binario» la buttò lì, alzando le mani.
Il biondo guardò Taichi con rabbia. Questi fece pressione sulla sua clavicola per fargli intendere di calmarsi, che non era il caso di agitarsi in quel contesto.
Era pur sempre la festa di laurea di Joe e c’erano molte persone.
Yamato si calmò, ma non tolse l’espressione dura dal viso.
Davis, nel frattempo, continuava ad osservare Luchia come un maniaco. La donna se ne accorse e gli lanciò uno sguardo austero, che però non venne ben inteso.
Si avvicinò al fidanzato, che stava continuando a bere e conversare con dei suoi colleghi di università.
«Dì a questo ragazzino dalla chioma ribelle di smettere di fissarmi» ordinò secca, mentre Joe salutava i tizi e si voltava in direzione di questi.
Scosse la testa e si avvicinò all’orecchio della donna.
«E’ un cocainomane, Luchia» la informò, continuando a guardarlo con una ruga di timore «Non lo aizzare» la avvertì.
Luchia sbuffò pesantemente e incrociò le braccia, mentre Davis continuava a mangiarla con gli occhi e a passarsi la lingua sulle labbra come segno di provocazione.
Il corvino si voltò e adocchiò Cody che veniva verso di lui con l’intenzione di fargli gli auguri. Gli diede formalmente la mano e lo guadò di uno sguardo strano, con gli occhi spalancati e un’espressione apprensiva.
«Ciao-come-stai?» gli chiese, scandendo bene le parole come fosse un minorato mentale. Accompagnarono anche dei gesti con le mani e le braccia.
Il ragazzo lo guardò male e poi sospirò.
«Sì, Joe, perché mi parli così?» chiese stufato.
Quello non l’ascoltò, e parlò ancora all’orecchio della sua fidanzata.
«E’ un ragazzo disturbato» pettegolò, mentre Luchia alzava un sopracciglio e fissava il più piccolo con superiorità «Non sai cos’ha passato» continuò in un sussurro, mentre Cody lo guardava scettico.
Da sempre assumeva quel comportamento con lui, sostenendo che la sua infanzia turbolenta, segnata dalla morte del padre e dall’infanzia passata a casa con il nonno appassionato di kendo, lo avesse deviato mentalmente.
Non era affatto così, era solo uno dei suoi stupidi modi per prendere in giro gli altri.
«Capisce solo se scandisci le parole... Ti-senti-a-tuo-agio?» formulò nuovamente ad alta voce.
La donna non si scomodò dalla sua posizione.
«Se lo dici tu, caro» disse con sufficienza, per poi buttare giù a vetro il suo alcolico.













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Capitolo 8
*** Simboli ribaltati ***








I ragazzi decisero di spostarsi in salotto dove la musica imperversava e molte persone avevano iniziato a darci dentro con l’alcol e a ballare.
Joe si gettò tra la mischia, venendo osannato dai suoi colleghi e da altra gente che conosceva, i quali fecero brindisi in suo onore e gli cantarono una canzone riadattata.
Sora e Mimi andarono verso il tavolo delle bevande, decise a prepararsi un cocktail.
Erano stufate ed irritate dal comportamento del loro coinquilino, irrispettoso e come al solito fuori luogo. La castana versò del gin e della limonata dentro un bicchiere di plastica e aggiunse una cannuccia.
Dovevano smetterla di essere così consenzienti nei suoi confronti. Se non altro, facevano anche una figura del cavolo di fronte a Taichi e Yamato mostrandosi troppo accondiscendenti.
Lanciò uno sguardo proprio a questi che si tenevano a debita distanza da loro e conversavano in un angolo del soggiorno.
Sospirò, rattristandosi.
Perché non potevano avere un rapporto normale? Perché doveva aver paura perfino di rivolgergli una parola, intimorita da una sua possibile reazione...
Taichi sembrava impostato e sostenuto. Non sapeva nemmeno cosa stesse cercando, adesso, a sperare così in fondo che lui si avvicinasse a lei...
Vide Sora bere il suo cocktail, immersa nei suoi pensieri.
Era diventata così egoista da aver sentito della gelosia per lei; come aveva potuto?
Quei sentimenti la stavano logorando dentro e le stavano facendo perdere il nesso delle cose, l’importanza delle persone...
Si avvicinò a lei con un sorriso.
La ramata la fissò senza capire. Vide che le aveva fatto cenno in direzione di Yamato e sentì il gin scenderle di traverso.
Tossicchiò e tentò subito di ridestarsi.
Fosse matta, ma non si sarebbe avvicinata a lui... non riusciva, non poteva...
E poi, se solo avesse voluto, Matt avrebbe potuto fare lo stesso, se non lo faceva voleva dire che non gli importava così tanto.
Certo che era veramente ipocrita a pensare che lui avrebbe dovuto fare il primo passo...
Dopo quello che aveva combinato lei il fatto che Yamato non le si avvicinasse a parlare era solo una benedizione...
Dio, perché continuava a mentire a sé stessa?
Guardò Mimi e negò con la testa. L’altra la fissò con un una smorfia sulle labbra, ma poi la prese da un braccio e fece in modo che ballassero insieme.
Volteggiarono sinuosamente, pensando che, se non potevano avvicinarli, almeno avrebbero dovuto apparire spensierate, libere, donne.
L’alcolico cominciò a fare i suoi effetti e iniziarono a scambiarsi delle battutine divertenti, ridendo in modo forse un tantino esagerato, ma che sfogava tutto il malessere che si portavano dentro.
Taichi e Yamato le guardavano da lontano.
 
Erano tutto ciò che avevano voluto e che, forse, avevano perso...
 
Il castano strinse le labbra, chiudendo per un attimo gli occhi.
«Cosa vuoi?» chiese poi all’amico, facendo trasparire urgenza di assumere qualcosa di alcolico, o comunque, di inebriante in modo tale da poter disperdere i pensieri.
Doveva bere qualcosa, oppure sarebbe impazzito lì, su due piedi... neanche sapeva perché... o forse lo sapeva talmente bene da odiare ammetterlo.
Matt si tastò le tasche dei pantaloni e tirò fuori una sigaretta.
Sentiva il nervosismo piombare su di lui, avvolgerlo come un ciclone da cui non riusciva a uscirne vivo.
«Una sangria» borbottò.
Si guardarono di sottecchi, di uno sguardo rassegnato.
«Ci vuole» commentò il castano con un sospiro.
I due si spostarono da un lato, dirigendosi verso il tavolino dove era poggiato il recipiente che conteneva l’alcolico. Presero due bicchieri e se lo versarono cautamente con un mestolo. Videro il divano bianco vuoto e si accomodarono.
Bevvero i loro cocktail in silenzio, continuando a guardare le ragazze che adesso avevano smesso di muoversi e stavano vicino al separé della cucina a parlottare.
Tai non potette fare a meno di notare come Sora continuasse ad essere spenta e di malumore. Si guardava intorno nervosa, e la conosceva troppo bene per potere affermare che c’era sicuramente qualcosa che non andava.
«Cosa pensi che abbia Sora?» chiese all’amico, che smise di bere non appena la udì nominare.
Matt deglutì in difficoltà, e si spostò piano i capelli con la mano con la quale teneva ancora la sigaretta spenta.
Voleva saperlo anche lui cosa le passava per la testa.
Non riusciva a decifrarla, sembrava persa nel suo mondo, chiusa dietro una barriera invalicabile.
Cosa poteva dire, adesso, a Taichi?
«Sarà stanca» butto lì, ma non ci credeva neanche lui.
Il castano gli rivolse uno sguardo di rimprovero, mentre il biondo mangiucchiava in maniera maniacale la cannuccia.
Quella sua stasi ingiustificata gli faceva perdere la testa; odiava quando faceva in quel modo, non si smuoveva di un centimetro anteponendo le sue mere convinzioni e il suo sciocco orgoglio di fronte al bisogno di una persona a lui cara.
Sapeva che Yamato per lui avrebbe fatto di tutto, la cosa era reciproca, ma non capiva quell’ astenersi all’agire nei confronti di Sora.
Gli dava davvero fastidio.
«Certo che tu sei di un’intuizione...» lasciò la frase al caso, facendogli, però, recepire direttamente il messaggio.
L’altro sospirò, portandosi una mano sulla fronte.
Perché Taichi non capiva come diamine fosse difficile per lui fare quel passo?
Era il risultato di anni di parlare senza realmente comunicare.
Avevano un problema di fondo che mai avevano affrontato e adesso questo peso era diventato un vero e proprio macigno.
«Sto tirando a indovinare, Tai» tagliò, forse risultando un tantino gelido.
Questi finì la sua sangria e si sporse per posare il bicchiere vuoto su un mobiletto.
Si voltò e lo guardò negli occhi.
Da quelli non poteva scappare.
«Perché non le parli?» gli chiese per l’ennesima volta.
Era risoluto nel suo intento.
Se guadagnare il benessere di Sora significava andare contro Yamato lui l’avrebbe fatto, doveva metterselo in testa.
Tenne fisso lo sguardo, tant’è che il biondo distolse il suo, fulminato.
L’egoismo e la vigliaccheria avevano distrutto la sua storia.
Non voleva che distruggessero anche quella dei suoi amici più cari, perché sarebbe stato stupido se lui stesso lo avrebbe permesso.
«Lo farò dopo» mormorò infine l’amico, consapevole del fatto che, seppur tentasse di evitarlo, avrebbe dovuto farlo lo stesso.
Lui e Sora dovevano parlare.
Dovevano mettere un punto a tutta quella vicenda che stava risultando essere una battaglia a cuore aperto.
Lo sapeva, sì, ma non riusciva a muoversi...
Continuarono a guardare le ragazze senza dire nient’altro. Il loro volto si tinse di rimpianto, rimorso di qualcosa, compianto.
Taichi non smise di osservare Mimi che parlava e gesticolava.
Se solo avesse voluto, anche lui avrebbe potuto provare a sistemare le cose.
Faceva la ramanzina al biondo per proteggere lui stesso, perché sapeva bene che quello che consigliava di fare a Matt lui non avrebbe potuto farlo.
Però, perché?
Era diventato davvero un vigliacco?
Si morse il labbro.
«Sono... davvero belle» si lasciò sfuggire poi.
Yamato sembrò non aver sentito, e forse era meglio così, pensò Taichi. Era una constatazione ridicola, specie fatta da quella posizione in cui si trovavano.
Si passò una mano tra i capelli per sistemarli e udì l’altro rispondere:
«Già» con un tono che trapelava rammarico.
Gli venne da sorridere amaramente.
Che fine disonorevole che avevano fatto, loro due.
Credevano tanto di essere due giganti dal forte carattere e dalla distinta personalità, capaci di assoggettare gli altri e rigirare la situazione al loro volere.
Forse una volta erano realmente così, sicuri di loro stessi, con le spalle larghe, il carisma invidiabile.
Adesso... non riconosceva niente dei due ragazzi che erano stati.
Interruppe quella sfilza di pensieri un allegro Joe, il quale, senza preavviso, si infiltrò in mezzo ai due, e mise loro entrambe le braccia sulle spalle.
Quelli si lanciarono un’occhiata infastidita.
«Ragazzi, come sta andando?» chiese, facendo scorrere lo sguardo dall’uno all’altro.
Non fecero in tempo a rispondere, o probabilmente credevano non valesse nemmeno la pena farlo, che il maggiore prese nuovamente la parola.
«Ho ricevuto un orologio touch-screen!» esclamò, mollandoli e alzando il braccio per mettere in bella vista il polso.
L’orologio aveva il cinturino rosso e il quadrante era diverso da quello standard; era più grande e sembrava, per l’appunto, uno schermo touch.
Joe lo sfiorò con un dito.
«Chissà se riesco a collegarmi con la mail da qui» borbottò e si estraniò per qualche secondo, mentre gli altri due guardavano in un’altra direzione, stufati di essere stati interrotti.
«Gomamon mi ha mandato una cartolina di auguri!» urlò d’un tratto, probabilmente dopo essere riuscito a collegarsi alla sua casella di posta elettronica.
Il suo tono era allettato quanto stupito. Perfino i due ragazzi si voltarono a guardarlo.
Il volto estasiato si trasformò ben presto in indispettito e deluso.
«Si è sprecato quel mostro... Mai una volta che pensa al suo partner!» lo udirono imprecare, dopo aver letto il messaggio.
Finì di trafficare con l’orologio, e si rivolse nuovamente ai ragazzi che, nel frattempo, si erano serviti di un altro cocktail.
«Comunque, ci tengo alla buona riuscita di questa festa» disse, osservandoli sedere in modo sbieco «quindi vi prego di non litigare tra voi come al solito»
Tai e Matt si guardarono interrogativi.
Il fatto che si stesse premurando di avvertirli faceva intendere quanto fosse risoluto affinché non si creassero situazioni spiacevoli.
Ammettevano che, durante la loro adolescenza, erano stati due ragazzi un po’ turbolenti, ma adesso erano dotati di quel pizzico di raziocinio in più, nonostante avessero in testa idee ben differenti che li portavano inevitabilmente a discutere.
E poi, Joe era proprio l’ultimo a poter fare raccomandazioni; aveva sempre messo su teatrini studiati ad hoc per impressionare gli altri e se le cose non giravano nel verso che voleva lui non perdeva tempo a fare scenate isteriche.
«Non abbiamo intenzione» rispose Taichi, bevendo la sangria tutt’ad un sorso.
Ed era vero; checché potesse pensarlo, loro non avevano certo intenzione di creare scompiglio.
Quelli erano altri tempi.
Altri tempi e altre persone con le quali non si riflettevano più.
Joe li scrutò indagatore per un po’, fino a quando non mise su un sorriso di circostanza, quello che assumeva quando si stava preparando ad annunciare qualcosa che non avrebbe di certo fatto piacere.
«Ecco, perché vi volevo far salutare una persona che conoscete già» aveva assunto un tono mellifluo e li fissava con una certa dose di rammarico.
I due aggrottarono le sopracciglia, chiedendosi dove volesse andare a parare.
«E’ mio cugino Tolomeo» spiegò con ancora quella sfumatura melensa, guardandoli nervosamente, soffermandosi soprattutto su Tai.
Questi lanciò uno sguardo esterrefatto a Matt, il quale emise una risatina sarcastica.
Stava scherzando?
Che diamine di problemi aveva Joe? Dovevano essere veramente gravi se si era sprecato a dire una cosa del genere.
Tolomeo era un loro vecchio compagno del liceo con cui avevano avuto dei diverbi accesi in passato. Non aveva fatto altro che pedinare e provarci con Mimi quando era fidanzata con Tai, oltre al fatto di aver portato con sé un amico che aveva, a sua volta, importunato Sora.
Sapevano che erano passati anni e che era sciocco avercela per una questione di quando erano ragazzini, ma loro due erano così; quando veniva toccato loro qualcosa di importante non lo dimenticavano facilmente.
Il corvino si accorse dei loro sguardi e si affrettò ad aggiungere:
«So che tra di voi non scorre buon sangue, ma ha anche messo incinta a una, quindi non c’è pericolo» annunciò, alzandosi dal divano.
«Chi ha messo incinta?» chiese il biondo, stranito da quella notizia.
Questi fece una faccia stufata di dover dare informazioni.
«Una di Tottori. Devono sposarsi il mese prossimo» rispose distaccato, guardandosi attorno per adocchiare il cugino.
Era necessario che i tre si salutassero e firmassero un armistizio in caso di eventuali discordie che puzzavano di decennio.
La sua festa di laurea era qualcosa di agognato, una celebrazione che metteva in luce l’impegno, i sacrifici e il sudore di tutti quegli anni di studio. Il sol pensiero che qualcuno potesse farla saltare in aria gli faceva venire le lacrime agli occhi.
Per questo era previdente. Voleva che tutto andasse per il verso giusto, a costo di dover controllare personalmente le persone più quotate a guastarla.
Alzò una mano per chiamare il ragazzo, il quale subito si avvicinò a gran passi.
Tolomeo non era molto variato da come lo ricordavano. Aveva i capelli corti, non portava più quel caschetto ridicolo; in compenso inforcava ancora gli occhiali da vista e indossava una camicia con sopra disegnate delle palme, inserita dentro dei pantaloncini stretti da una cintura che portava il marchio in bella vista. Ai piedi, notarono con disgusto, aveva delle scarpe rosse.
Non appena li vide s’intirizzì, poi assunse la sua solita faccia sorniona e allungò una mano.
«Yamato. Taichi» disse secco, salutandoli.
Quest’ultimo la strinse di getto e vigorosamente. Dopo lo fissò con le sopracciglia aggrottate.
Era il solito tamarro spropositato.
Non era cambiato di una virgola.
«Come va la vita?» chiese, volgendo poi la mano al biondo.
«Bene» rispose lapidario questi, tenendo apposto la sua e finendo di bere tutt’ad un sorso la sangria.
Si sporse e posò il bicchiere sul tavolino, alzando gli occhi cerulei per guardarlo con sufficienza.
Tolomeo, però, spostò lo sguardo sul castano e fece un sorrisino.
«Tutto apposto, Taichi?» chiese in tono di scherno sopito «So che sei diventato un calciatore famoso a Kyoto» lo adulò.
Il ragazzo emise una risatina sarcastica.
«Non lo sapevo neanche io» rispose, spostando lo sguardo senza più degnarlo di attenzione.
Joe era sgattaiolato chissà dove, e aveva smollato loro quell’energumeno senza possibilità di replica. Credeva che si sarebbero scambiati un segno di pace rivolgendosi la parola dopo tanti anni, ma imponendo la presenza di Tolomeo non aveva fatto altro che affilare ancora di più i suoi nervi tesi.
«E’ passato molto tempo da quando abbiamo avuto quelle piccole scaramucce» rinvangò, sedendosi sul bracciolo del divano, guardandoli dall’alto in basso.
Tai aveva fatto una smorfia sentendolo.
«Adesso ho ingravidato una bella ragazza. Sono soddisfatto così» disse gonfiando il petto e portando una mano al cuore.
Nessuno dei due rispose. Si limitarono a guardare verso un’unica direzione, che era quella occupate dalle ragazze.
Tolomeo li vide e spostò gli occhi nella stessa, drizzando gli occhiali sul naso non appena scorse Mimi che rideva e ballava con grazia.
Un sorrisino increspò le sue labbra.
«A proposito, sul fatto che abbiamo superato le liti» proruppe, assottigliando gli occhi con fare sadico «Stai ancora con quella ragazza, Taichi?»
Nel sentirsi chiamato in causa, questi si voltò a guardarlo con astio.
Ancora la nominava?
Non gli era servita a niente la lezione?
Che poi perché si irritava così tanto... Era solo un tamarro cafone che abitava in un paesino di montagna e non aveva mai visto una donna in tutta la sua vita.
Lo aveva fatto apposta per provocarlo, lo notava dal suo ghigno divertito, ma non capiva perché lui stesso si ingelosiva così tanto se nominava lei...
 
O forse sì, lo capiva benissimo...
 
«Senza offesa, ma è proprio una venere di Botticelli!» lo udì esordire con un tono ammiccante, da prendere a pugni.
S’irrigidì e trattenne il fiato, mentre Yamato lo guardò duro, serrando la mascella.
Joe pensava che parlando avrebbero sotterrato i vecchi rancori, ma quel coglione non stava facendo altro che riesumarli.
Si sporse a posare il bicchiere vuoto, e mormorò all’orecchio del suo migliore amico:
«Andiamocene altrimenti gli meno un pugno» lo avvertì, e il biondo si mise in piedi per seguirlo, lasciando Tolomeo seduto da solo a ridere di loro.
Che sfigati, rigidi e gelosi di qualcuno che avevano perso, forse per sempre.
Il treno sarebbe passato una sola volta. Lui non era riuscito a prenderlo, ma, probabilmente, Taichi era sceso alla stazione sbagliata.
 
Non aveva nemmeno idea di ciò che aveva perso.
 
 
 
 
 
 
 
Si versarono un altro bicchiere e rimasero ritti in mezzo alla pista. La gente si muoveva tutt’intorno, ballando, bevendo e cantando.
Alcuni si abbracciavano e saltavano in preda alla foga, probabilmente ubriachi. Riuscirono a scorgere Daisuke tra questi spintonare le persone che aveva attorno, barcollando pericolosamente.
Taichi sospirò. Ci dava sempre dentro in un modo esagerato; probabilmente, il burino non aveva tutti i torti a voler tenere a bada certi soggetti come lui.
Davis era un tipo brusco ed esuberante. Quando beveva o peggio assumeva qualcosa diventava proteso alle risse. Per questo motivo, Yamato e gli altri loro amici non vedevano di buon occhio una sua abituale presenza.
Bevve ancora, lasciandosi per un attimo cullare dalla musica.
Cominciava a sentire caldo in mezzo a quella calca di gente; forse sarebbe stato meglio spostarsi. La sua attenzione fu catturata da un insolito via vai che si era formato nei pressi del balcone. C’erano persone mai viste prima che si attorniavano là fuori.
Pensò a degli imbucati, probabilmente amici di qualcuno; era solito nelle feste succedere, anche lui ogni tanto lo era stato.
La cosa che non gli andò giù del tutto fu quando uno di essi, in maniera sospetta, uscì fuori per poi rientrare dopo pochi minuti con qualcosa in mano che tutto gli sembrava fuorché un cellulare.
«Dove si sarà cacciato TK?» udì Matt domandare alla sua destra.
Assottigliò gli occhi castani e fece un veloce calcolo mentale.
Takeru aveva fatto delle allusioni strane il giorno prima al Vancouver; sembrava stesse conducendo dei giochi di cui lui e Yamato erano all’oscuro.
Sentiva che quella coda di persone che si apprestava a raggiungere il balcone non era casuale. Stava succedendo qualcosa lì, non era stupido.
Il biondino non si era fatto vedere per una serata, e ora che ci pensava nemmeno Hikari. Erano scomparsi, e lui non ci mise molto a fare due più due.
Posò il bicchiere sopra il mobile che sosteneva la TV.
«Andiamo a vedere» disse secco, facendo un cenno verso quella direzione.
L’amico lo guardò interrogativo, ma non emise protesta. Tirò fuori l’accendino con l’intento di fumare una sigaretta.
Rimase sbigottito non appena uscirono nell’ampio balcone. Una serie di persone occupava gli spazi come se aspettasse qualcosa; c’era chi tornava da un punto imprecisato e rientrava dentro senza dire una parola.
Alcune di esse parlavano tra di loro in maniera fitta. A Matt gli parve di riconoscere Frankie tra di loro, anche se non ne era sicuro.
«Che diamine sta succedendo qui?» chiese al castano, che guardava a sua volta con circospezione la zona.
Non aveva più dubbi su quello che stava facendo Takeru.
Aveva messo in ordine i tasselli, aveva dato un traduzione esclusiva alle sue parole vaghe, aveva inteso all’improvviso, gli era venuto in mente come un lapsus, ciò che stava accadendo intorno a loro.
Non fece in tempo a dirigersi verso il punto recondito dove, supponeva, fosse stanziato il fratello del suo migliore amico, che una voce familiare lo chiamò alle spalle.
«Fratellone! Aspettate, venite qui!» Kari si fece largo tra la folla con difficoltà, raggiungendo i due che la guardavano interrogativi.
Afferrò il castano dal braccio e tirò verso la sua direzione.
Tai oppose resistenza, fulminandola con lo sguardo. Uno sguardo che, giurò la ragazza, voleva dire soltanto una cosa.
Arrabbiatura.
Rimprovero.
Delusione.
«Kari, che sta succedendo?» lo sentì chiederle in un tono perentorio che non ammetteva di certo repliche.
La castana abbassò gli occhi, trafitta nel segno.
Suo fratello l’avrebbe scoperta in un secondo.
Lei non era brava a mentire, non lo era affatto. Era pura e luminosa come una stella, e Taichi avrebbe sicuramente letto nei meandri del suo cuore.
«Niente...» aveva sussurrato lei, lasciando la frase in sospeso.
Yamato aveva incontrato qualcuno che conosceva e si era voltato a parlare. Approfittandone di quel momento di distrazione da parte del biondo, Tai strinse sua sorella dalle spalle.
«Guardami negli occhi» le intimò, tenendo fissi i suoi sul suo viso.
Kari li alzò appena, ma non riuscì a reggere il peso di quelli del fratello.
Questi si passò una mano tra i capelli, sospirando. Poi gettò un altro sguardo languido all’amico, assicurandosi che non si accorgesse di niente.
Doveva mettere fine a quella situazione.
Lo doveva fare per salvare sua sorella da quel vortice in cui era caduta, lo doveva fare per mettere in pace il rapporto tra Yamato e Takeru.
«Vieni con me» la prese da una mano e si allontanarono, raggiungendo la fine del balcone dove nessuno circolava nei paraggi.
Udirono qualcuno che urlava, ma il castano non ci fece caso. Guardava la sorella con uno sguardo duro.
Voleva che gli dicesse la verità, voleva che la smettesse di nascondersi dietro il suo fidanzato e annegare sé stessa.
Lei era una ragazza splendida, aveva sempre creduto in lei e nel suo buon senso. Era qualcosa in cui si ancorava quando perdeva il proprio; e in quegli anni di buono era rimasto soltanto il suo tiro in porta.
«Hikari, non farmi arrabbiare» disse tra i denti, mentre questa poggiava le braccia sulla ringhiera
«Cosa sta combinando Takeru?»
Avrebbe dovuto dirglielo.
Non doveva mentirgli perché tanto lo avrebbe capito.
La vide stringere le labbra rosee.
«Niente, Tai, solo... business... affari...» mormorò guardando giù, evitando volutamente il suo sguardo severo.
Taichi scosse la testa non potendo fare a meno di fare un sorrisino sarcastico.
Adesso era economia quella che faceva girare?
A chi voleva prendere in giro, TK?
Forse non aveva affatto idea di come andava realmente la vita, se credeva che con quel suo modo di fare avrebbe avuto tutti ai suoi piedi.
«Sta spacciando, vero?» chiese a bruciapelo, senza perdersi in chiacchiere.
Kari non rispose, ma notò che si era irrigidita.
Taichi sentì per qualche secondo la terra mancargli da sotto i piedi. Il solo pensiero che sua sorella, la sua sorellina, così buona, gentile, luminosa, potesse trovarsi in mezzo a quei loschi affari lo impauriva, gli creava disgusto, gli impartiva una voglia matta di andare a spaccare la faccia a Takeru.
«Cosa c’entri tu in questo giro?!» urlò, scotendola da un braccio e facendola voltare bruscamente nella sua direzione.
Hikari lo fissò spaventata, le sopracciglia alzate, gli occhi liquidi.
Suo fratello non le aveva mai risposto in quel modo, con lei usava sempre un tono dolce e comprensivo, lei era la sua sorellina...
Ebbe timore di averlo deluso, sentì così paura tanto da prendere una sua mano e stringerla forte tra le sue, come se volesse aggrapparsi a lui per farsi salvare.
«Niente, fratellone, solo gli sto... accanto... ha bisogno di soldi... non è un drogato...» spiegò, mentre la voce le si rompeva e, inevitabilmente, le lacrime solcavano il suo viso candido e fine.
A lui gli si strinse il cuore nel vederla piangere in quel modo. Non avrebbe mai voluto vedere Kari star male, voleva solo che stesse bene e che non fosse costretta a coprire determinate cose che mettevano a repentaglio la sua stabilità.
«Perché lo stai coprendo?! Tu devi starne fuori, Kari!» continuò a dire categorico, arrabbiato, preoccupato.
Poi si passò una mano sulla fronte e gettò uno sguardo nella direzione in cui le persone si affollavano.
«Matt aveva ragione... E’ uscito fuori di testa. Adesso vado a dirgliene quattro» impulsivamente, ebbe una gran voglia di sorpassare tutte quelle persone, spingerle via da dove si era posizionato il biondino e mollargli un pugno così potente da farlo rivoltare per terra.
Fece per muoversi, ma la sorella lo bloccò da un braccio, tirandolo con tutte le sue forze verso di lei.
Le lacrime cadevano ancora sulle sue guance rosse, come un fiume in piena.
«No, Tai, aspetta... ti prego, non dire niente... non dirgli niente...» lo supplicò, la voce spezzata, gli occhi che lo supplicavano.
Il ragazzo si fermò ad osservarla con in volto un espressione sgomenta.
Come l’aveva ridotta?
Come aveva ridotto sua sorella, la luce dei suoi occhi, il faro della sua vita, l’unica sua certezza in una vita contornata di dubbi e illusioni...
Sentì la testa farsi pesante, forse per colpa dell’alcol che non era riuscito a metabolizzare.
Vederla piangere in quel modo gli fece lacrimare il cuore a sua volta.
Non avrebbe mai permesso che Hikari soffrisse.
Mai.
Mollò dolcemente la sua presa dal braccio.
«Se ti succede qualcosa, Hikari... io ti giuro che lo ammazzo» mormorò tra i denti, mentre gli occhi brillavano di un bagliore strano.
Lo avrebbe ammazzato.
Non aveva dubbi; non gliene importava se Takeru era il fratello di Yamato, se era solo un ragazzino incosciente...
Se solo avesse rovinato la vita di sua sorella lui lo avrebbe ammazzato.
La ragazza scosse la testa e tirò su con il naso, tentando di asciugare le guance con il polso.
«Lui è un bravo ragazzo... litiga con Matt solo perché non si capiscono...» sussurrò poi, unendo le mani e portandole al petto «vuole il suo bene, è solo ambizioso, vuole... vuole arrivare a fare qualcosa che ha sempre desiderato»
Si chiese se non stesse realmente delirando o se il suo amore per il biondino fosse così talmente forte da averle offuscato la vista e averle fatto perdere la ragione.
«Spacciando erba?!» sbottò, e Kari notò come qualcuno in lontananza si fosse voltato in loro direzione «Ti sembra il modo più giusto? E, soprattutto, pretendi che io stia tranquillo sapendo che tu ci sei nel mezzo?»
Lei abbassò nuovamente lo sguardo.
«Io non ci sono nel mezzo e neanche lui» mormorò, tentando di spiegare il loro punto di vista «TK fuma saltuariamente. E’ solo uno dei tanti mezzi per ottenere denaro... Sono solo persone che conosce, quelle...»
Tai non disse niente dopo aver udito quelle parole.
Non capiva cosa avesse per la testa. Una volta credeva di conoscerla così bene, sua sorella, ma adesso... si ritrovava catapultato di fronte ad una brusca realtà, una dura consapevolezza del fatto che fosse cresciuta, che si stesse avventurando in qualcosa che andava al di là dei suoi principi morali.
Si stava facendo assoggettare da Takeru, si stava facendo traviare, manipolare...
Non poteva crederci.
Una volta lei era così sicura, risoluta nelle sue scelte, convinta dei suoi ideali.
 
Che fine aveva fatto quella luce che aveva dentro di sé?
 
Si era spenta come un soffio ad una candela...
 
«Una volta brillavi così tanto di luce tua» constatò, usando un tono rammaricato, deluso «Adesso... sembri così spenta, sottomessa... Perché?»
Le porse quella domanda continuando a guardarla come se la stesse osservando realmente per la prima volta dopo tanto tempo.
E gli sembra strano trovarla in quel modo, mutata, trasformata in qualcuno che non era lei.
Hikari scosse la testa, poi poggiò le braccia sulla ringhiera, volgendo lo sguardo ai palazzi di fronte.
Le urla e la musica rimbombavano in strada. Le luci della palla di vetro riflettevano sulle tende.
«Tai, io... devo dirti una cosa» lo disse in tono talmente basso che il castano pensò se non lo avesse immaginato.
Rimase per qualche secondo a fissare la sua schiena fasciata dal vestito bianco, poi sospirò, e si avvicinò a lei. Mise le braccia sulla ringhiera anche lui e si voltò, pronto ad ascoltarla.
«Dimmi qualcosa che smentisca tutto quello che ho visto» soffiò in tono amareggiato.
A Kari le si strinse il cuore. Suo fratello era veramente preoccupato per lei, e lei doveva spiegargli, doveva rompere quel patto che aveva fatto e dire lui tutto quello che doveva sapere.
Fece un respiro profondo.
«Mamma e papà hanno un problema a casa» disse tutto ad un fiato, puntando su di lui gli occhi nocciola così simili a quelli suoi.
Questi, nell’udire menzionare i suoi genitori, s’irrigidì. Sentì all’improvviso la gola secca e il cuore battere forte. Non seppe nemmeno il motivo, ma i suoi sensi lo misero subito in allerta.
«Che tipo di problema?» domandò serio.
Notò con la coda dell’occhio la ragazza torturarsi le mani lisce e delicate, mentre all’improvviso, una folata di vento accarezzò i suoi capelli, spostandoli viso pallido.
«Ecco... Hai presente il proprietario dell’appartamento?» fece, spostando delle ciocche castano chiaro dal viso.
Taichi annuì quasi impercettibilmente.
Cosa diamine era successo?
Perché, soprattutto, glielo stava dicendo in quel momento?
«Beh, lui... ha ricevuto un’offerta convenevole da parte di un altro inquilino per comprarlo» spiegò, mentre la sua voce diventava a mano a mano più bassa, fino a trasformarsi in un sussurro.
Il maggiore alzò lo sguardo e la fissò. Aveva gli occhi sbarrati e una ruga di preoccupazione gli si era formata sulla fronte.
Non poteva essere... era tutto fuori dalla norma, fuori dai suoi pensieri...
Se era uno scherzo era bene che glielo dicesse subito.
«Cosa stai dicendo?» chiese incredulo, sperando dentro di sé che la castana si stesse beffando di lui.
Lo avrebbe meglio sopportato piuttosto che sapere quella greve verità.
Kari sospirò tristemente, volgendo lo sguardo velato al cielo.
«E’ così. Lo sai come questi tizi sono sciacalli in affari... Mamma e papà non posso permetterselo adesso. Ha posto la scadenza entro una settimana, se non la comprano ad un prezzo più alto del 20% saremo costretti ad abbandonare la casa» poi si voltò verso di lui, guardandolo con gli occhi traboccanti di lacrime
«La nostra casa, Tai» ripeté disperatamente.
Taichi udì distrattamente il cuore rompersi.
La bocca era semiaperta, arida, asciutta, senza possibilità di fiatare.
Non era possibile... non che non lo era...
 
“Yuuko, dobbiamo sbrigare quella faccenda”
 
“Il termine scade tra una settimana”
 
“Voglio stare un po’ con mio figlio”
 
 
Ecco a cosa si riferivano.
 
La casa... la loro casa era in vendita.
 
Si avvicinò alla sorella e, con uno slancio, l’abbracciò. La tenne stretta tra le sue braccia, mentre lei appoggiava la testa sul suo petto e gli stringeva la camicia.
Fece in modo che si sfogasse per un po’ di tempo, sentendo anche lui stesso le lacrime premere per poter uscire.
Kari tirò su con il naso, asciugandosi ancora una volta gli occhi impasticciati da quel poco di trucco che metteva.
«E’ per questo che io, in un certo senso» balbettò con la voce rotta «ho dato una mano a TK»
Tai negò con la testa, facendo per dire qualcosa. Lei lo interruppe.
«So che è un modo assolutamente sbagliato e fuori dalla mia etica, ma... Volevo prenderci qualcosa anch’io per aiutare mamma e papà» alzò la testa, mollandosi dal suo abbraccio ed acquisendo di nuovo sicurezza.
Il ragazzo la vide sfatta davanti a lui, i capelli arruffati, le guance rigate, il vestitino bianco macchiato di mascara.
Si appoggiò con le braccia alla balconata e si tenne la testa con le mani.
Gli stava scoppiando.
Lui stesso stava scoppiando, e per tante ragioni...
Tante, tantissime ragioni che lo stava scavalcando, lo stavano attirando sempre più giù, nell’abisso di quel mare di disperazione.
«Perché diamine non avete detto niente a me?» chiese, la voce attutita dalla pelle delle mani che gli stringevano il viso.
Hikari si morse il labbro inferiore.
«Perché volevano tenerti fuori, volevano escluderti a priori per non crearti disturbi. Sanno come sei stato impegnato negli ultimi anni» nell’udire quelle stupide spiegazioni, il ragazzo emise uno sbuffo esasperato.
Al diavolo il calcio, tutte le restrizioni, tutti i sacrifici... al diavolo quella merda di sport che lo aveva tenuto lontano da tutto, che lo aveva reso vigliacco, che lo aveva chiuso in sé stesso...
Non era più coinvolto negli affari della sua famiglia a causa di esso.
Gli stava rovinando la vita.
Lo stava allontanando da tutto.
«Stanno già guardando alcune case per affittarne una temporaneamente. Per questa ragione non hanno voluto coinvolgerti» finì di spiegare la ragazza.
Lui aveva alzato lo sguardo, portandosi una mano sul viso, pasticciandolo in maniera stanca ed esasperata.
«Non esiste... non esiste, cazzo...» aveva sussurrato, forse più a sé stesso che all’altra.
Kari lo guardò in maniera apprensiva e gli posò una mano sulla spalla, in segno di conforto. Il fratello alzò gli occhi e li puntò sui suoi.
«Non lasceremo mai la casa dove siamo cresciuti» lo udì affermare con tono determinato.
I suoi occhi brillarono nel buio e la sorella fu scossa da un brivido.
Li avrebbe aiutati. Non c’era nemmeno bisogno di fermarsi a pensare.
Avrebbe dato loro tutto quello di cui avevano bisogno.
Non gli importava di quello che avrebbero detto, lui lo avrebbe fatto.
«Fratellone, tu non devi fare niente, è solo...» provò a dissuaderlo Kari, percependo al volo i pensieri che gli si stavano affollando nella testa.
Quello la bloccò subito con una mano.
«Tu puoi gestire questioni illegali con il tuo fidanzato e io devo starmene con le mani in mano?!» sbottò nervoso, mentre lei si stringeva nelle spalle.
La rimproverò con lo sguardo, e lei abbassò il suo. Poi le prese il mento con due dita e fece in modo che tornasse a guardalo.
«Hikari, sono io l’adulto qui» soffiò netto «Tu bada bene a tenerti fuori da questo giro e a portare Takeru sul binario giusto» la ragazza era nuovamente sfuggita dai suoi occhi.
Lui la scosse.
«Promettimelo» disse, aspettando una sua reazione.
Lei non disse nulla per un paio di secondi, poi sospirò, si passò una ciocca dietro l’orecchio e asserì:
«Io... te lo prometto, Tai»
Nell’udire quelle parole, il ragazzo rilassò i nervi tesi del volto. L’osservò con affetto e l’attirò verso di sé, stringendola tra le braccia e dandole un bacio in testa.
Hikari si fece trasportare dal calore di quell’abbraccio fraterno e chiuse gli occhi.
Lui le accarezzò con le dita alcune ciocche setose.
Era successo tutto così di getto che non ci credeva ancora.
Sua sorella stava rischiando di spegnersi e lui doveva rianimarla, accendere nuovamente quella scintilla di luce che portava ancora dentro di sé.
Doveva fare in modo che quella fonte luminosa non abbandonasse mai la sua famiglia, i suoi affetti, la sua casa.
Strinse un pugno con l’altra mano.
Non lo avrebbe permesso.
Si sarebbe assunto lui la responsabilità, perché non era più un ragazzino.
Avrebbe protetto tutti, dal primo all’ultimo... a costo di non proteggere più sé stesso...
 
Dopo del tempo che sembrò quasi un’eternità, i due fratelli si staccarono.
Kari si asciugò il volto, ridestandosi, mentre Tai le fece cenno di tornare indietro. Raggiunsero Matt che si trovava da solo e aveva buttato giù un altro cocktail. Non appena li vide, gli venne da chiedere dove fossero andati, ma si bloccò.
Probabilmente avevano condiviso un momento intimo; d’altronde si volevano molto bene, erano due fratelli legati da un affetto incredibile.
Una volta anche lui e Takeru avevano un rapporto simile. Si capivano, si aiutavano a vicenda, si sarebbero difesi sempre e comunque.
Sospirò, lanciando uno sguardo in un punto lontano del balcone dove dei gruppi di persone si dirigevano.
Adesso si erano così talmente allontanati, si urlavano contro, non si capivano più, e questo a lui faceva male.
Avrebbe tanto voluto tornare ad essere quelli di sempre, ma era difficile, estremamente difficile.
Assottigliò gli occhi azzurri verso quella direzione.
«Non riesco a vedere... E’ TK quello nella sdraio lì fuori?» chiese ai due, in particolari a Kari, che si strinse tra le spalle e indietreggiò di riflesso sbattendo contro Tai.
Il biondo continuò ad osservare. Vedeva soltanto gente che si accalcava, che usciva e rientrava dal salotto, che ballava e rideva.
Suo fratello non si era fatto vedere per tutta la serata.
Aveva un brutta sensazione; non capiva se era l’alcol a fargli quel brutto effetto, o un presentimento fondato.
Si voltò nuovamente verso la castana in attesa di una risposta. Taichi, però, salvò la situazione avvicinandosi e prendendolo da un braccio.
«Non credo, sarà andato in bagno» gli disse per rassicurarlo, poi lanciò uno sguardo al suo bicchiere vuoto, lo prese in mano e lo buttò dentro un cestino «Stai bevendo troppa sangria, amico» constatò come se quell’allerta che sentiva era tutto frutto dell’alcolico che gli aveva alterato i sensi.
Lanciò uno sguardo eloquente a sua sorella, che tirò un respiro di sollievo, poi lo trascinò dentro.
Era meglio che non sapesse, almeno per quel momento.
Non era salutare per lui conoscere la verità, era già abbastanza destabilizzato per colpa della band, di Sora e di tutto il resto; doveva tenerlo lontano in qualche modo, almeno finché avrebbe potuto.
Yamato fu lì per lì pronto per replicare, ma Taichi lo interruppe nuovamente, alzando la mano verso qualcuno.
«Ecco Izzy» disse, guardando il rosso che s’incamminava verso la loro direzione.
Matt sospirò, passandosi una mano sulla fronte. Cominciava a sentire caldo e la testa gli girava.
«Ragazzi, com’è?» chiese Koushiro, fermandosi di fronte a loro.
Aveva dovuto alzare la voce per farsi sentire. La musica era talmente forte da rimbombare nella strada sottostante.
Il castano gli regalò un sorriso.
«Serata regolare» alzò le spalle, dando un’occhiata intorno alla ricerca di qualcuno del quale nemmeno lui sapeva dire.
Vedeva soltanto un ammasso di gente che non conosceva.
L’amico lanciò un’occhiata interrogativa al biondo che si tratteneva la testa.
«Apposto, Matt?» chiese, mentre questi annuiva meccanicamente.
Delle canzoni degli anni 90 risuonavano imperterrite per tutta la casa. Taichi ne riconobbe una e la canticchiò.
Spostò lo sguardo sopra il rosso che non aveva più detto una parola e rimuginò.
Perché era nuovamente solo?
La sua fidanzata non era al suo fianco, e lui sembrava talmente spento, mogio, circospetto...
Non sapeva se era una prerogativa di tutti, ormai, ma non riconosceva più il vecchio Koushiro Izumi in lui.
«Izzy, dov’è Frankie?» si armò di coraggio e glielo chiese.
Lo notò bloccarsi all’improvviso. Matt lo fissò di uno sguardo eloquente, probabilmente si chiedeva perché glielo avesse domandato così all’improvviso.
Tai sapeva che meno se ne parlava più sarebbe stato facile per Izzy fingere e andare avanti, ma non sapeva che gli prendeva.
Vedere i suoi amici, sua sorella star male innescava in lui un meccanismo di protezione involontaria.
«Oh, l’ho lasciata... in balcone, sta parlando...» balbettò il più piccolo, lanciando uno sguardo tetro nel punto in cui la bionda si trovava.
Tai e Matt lo imitarono, notando come Frankie stesse discutendo allegramente con un ragazzo che non conoscevano di persona, ma che avevano già visto in determinate faccende non propriamente legali.
Era uno del giro di spaccio, lo chiamavano per soprannome Big Doll.
«Quello?» chiese difatti Yamato con una faccia stupita.
Izzy abbassò lo sguardo, torturandosi le mani.
«E’ un amico suo» spiegò mostrando una sicurezza che subito sfumò lasciando spazio ad una nota insicura e disperata nella voce «Così lei dice... Non... non posso metterle dei paletti»
Sembrava perlopiù voler convincere sé stesso che Frankie stesse bene, che non avesse bisogno del suo aiuto, che avrebbe potuto gestire qualunque situazione.
I due ragazzi si fermarono entrambi a pensare.
Izzy era sempre stato un ragazzo saggio, riflessivo, dedito alla conoscenza e al sapere. La sua mente era brillante, aperta, piena di idee; adesso si era combinato a dover scendere a patti con sé stesso per mandare avanti quella situazione pesante in cui era caduto.
Tai strinse gli occhi.
Il fatto che lui amasse la sua ragazza non significava certo che doveva annullarsi, che doveva fare a meno della sua personalità, che doveva accettare in tutto e per tutto i comportamenti di lei inciampando per terra e facendosi distrattamente calpestare.
Lanciò un altro sguardo a Frankie che rideva in modo sguainato insieme al tizio.
«Amico, non potrai metterle dei paletti» incominciò cerando di mantenere il tatto, ma nello stesso tempo di dirgli quello che realmente pensava «ma ciò non significa che questa situazione debba ucciderti»
Izzy sussultò nell’udire quelle parole. Alzò la testa guardandolo come fosse stato scoperto, colpito, affondato; fece scorrere gli occhi dal castano a Matt, il quale lo fissava altrettanto duramente.
Voleva fuggire.
Taichi aveva ragione, non aveva scusanti. Il fatto era che non sapeva come uscirne. Aveva paura che tutto fosse andato nuovamente a rotoli.
Sapeva che stava sbagliando, ma preferiva fingere che tutto quello gli stesse bene in maniera tale da non perdere la persona a cui teneva di più al mondo.
Era già successo e gli era mancata l’aria...
Nervoso, strinse i pugni. Tentò di assumere un’espressione fintamente risoluta, ma era così talmente evidente il suo stato d’animo.
«E chi lo dice?!» esclamò, e poi riprese a balbettare «Non è assolutamente così... lei sta bene... io sto bene pure...» fece un profondo respiro
«E poi, basta freni inibitori, voglio prendermi il mio tempo in tutto... questo essere sempre... frenato, bloccato, non mi ha portato a niente»
Era un bravo attore.
Recitava con convinzione la sua parte, tentando di prendere per i fondelli chi gli stava di fronte, ignorando il particolare che erano delle persone che lo conoscevano molto bene, nel profondo.
Taichi gettò un’occhiata a Yamato, parlandogli con gli occhi. Il biondo negò appena con la testa, chiudendo i suoi.
Era meglio non insistere, gli stava cercando di comunicare l’amico. Probabilmente era meglio in quel modo, non girare il dito nella piaga, lasciare che il rosso gestisse la sua storia come meglio credeva.
Sarebbe stato più comodo, più giusto farsi gli affari suoi.
Non ce la faceva, però.
Sapeva che aveva bisogno di parlare con qualcuno, qualcuno da cui pendeva strettamente dalle labbra; una persona che, seppure diversa da lui, stimava, la considerava complementare.
Qualcuno da cui avrebbe potuto prendere spunto, che avrebbe ascoltato fino in fondo.
«Ti ha portato a crollare» sussurrò, ma nessuno lo sentì.
Volse la testa verso un’altra direzione, catturato da una risata che gli era familiare.
Il suo cuore perse involontariamente un battito.
Mimi era la persona giusta per poter parlare con Koushiro. Lo sapeva, era colei che poteva provare a farlo tornare sulla buona strada, a farlo ragionare usando i suoi modi eccentrici, seppur diretti.
Era la persona giusta, pensò.
 
Lo era sempre stata, anche per lui.
 
Questa lanciò un ultimo languido sguardo a Taichi, prima di voltarsi verso la sua migliore amica.
Sora stava bevendo un cocktail, l’ennesimo della serata; gliene aveva contati circa cinque e quello era il sesto. Non sapeva nemmeno come riuscisse a reggerlo tutto quell’alcol. Lei sentiva la testa girare già al terzo giro e aveva dovuto fermarsi un po’ per non sentire caldo.
La vide guardarsi intorno a destra e a manca, di uno sguardo che sembrava nervoso e inquieto. Non riusciva veramente a capire il motivo per il quale si comportasse in quel modo. Sembrava ispezionasse la zona, ogni singola persona che entrava dalla porta- e poteva giurare di averne visti molti di imbucati- come se stesse aspettando qualcuno; eppure Matt era dall’altro lato del soggiorno.
Arricciò le labbra e la destò, scotendola da un braccio.
«Si può sapere perché ti guardi intorno così nervosamente?» le chiese, forse un tantino troppo brusca «Perché non pensi a divertirti?» la rimbeccò.
La ramata la guardò spaesata per qualche secondo, come se fosse stata beccata in fallo. Abbassò gli occhi nocciola e bevve ancora dal suo alcolico.
«Beh, perché ho il mangiare sullo stomaco...» la udì dire, lasciando la frase a mezz’aria.
Mimi incrociò le braccia, guardandola di uno sguardo scettico.
Cercava di prenderla in giro, forse?
Lo aveva capito che c’era qualcosa che la turbava.
«Per un’ omelette appiccicosa?» domandò retorica con una faccia disgustata, alludendo alla veloce cena che avevano preparato.
Sora non rispose.
Era troppo complicato da spiegare, e per quanto volesse farlo, era consapevole del fatto che la sua amica non avrebbe mai capito.
Era in ansia, era irrequieta, aspettava l’arrivo di qualcuno che avrebbe potuto metterla nei guai. E la cosa più esilarante era che non solo aveva ceduto a lui come una stupida qualsiasi, ma gli aveva dato campo libero, gli aveva fatto intendere che avrebbe potuto raggiungerla per ricongiungersi a lei.
E lei non sapeva che fare. Non sapeva come diamine comportarsi.
Non aveva minimamente idea di come affrontare la situazione, di come riuscire a guardare negli occhi Yamato senza sentire il macigno dei sensi di colpa sopprimerla.
Continuò a bere, sperando che se non avesse più risposto forse la castana non le avrebbe più chiesto nulla.
Mimi, però, continuò.
«Non me la racconti giusta, Sory» disse, scrutandola indagatrice, in un tono che non lasciava scampo «Che ti passa per la testa?»
Quella rilasciò il fiato che stava trattenendo.
Non doveva guardarla negli occhi.
Non doveva assolutamente guardarla negli occhi, perché sentiva i suoi lucidi, pronti a scoppiare.
«Io... niente... sto bene, davvero» balbettò, incapace di fingere, ma, nello stesso tempo, decisa a non raccontarle nulla.
Non riusciva, diamine, non riusciva ad aprirsi, a lasciarsi andare...
Si sentiva così macchiata, fragile, scoperta...
 
Era una traditrice...
 
Sentì un groppo in gola e si voltò in direzione della cucina, tentando di tenere a freno quelle lacrime che probabilmente l’ebbrezza le stava provocando.
Mimi le lanciò uno sguardo, non sapendo che aggiungere.
Pensò che forse era solo stanca, che non era in vena di festeggiare e un po’ la capiva: avevano faticato molto quella giornata, senza che Joe contribuisse ad aiutarle.
Volse nuovamente lo sguardo in direzione di Tai e si accorse che il ragazzo la guardava già.
Sentì i battiti del suo cuore accelerare e, di getto, distolse lo sguardo.
Sora stava facendo l’asociale, la sciocca petulante che non voleva contribuire a divertirsi. Stava chiusa in sé stessa senza un motivo apparente, non aveva voglia di andare a parlare con Matt di chissà quali problemi avevano, e lei non aveva più intenzione di starle dietro.
«Perché non andiamo dai ragazzi, allora?» tentò per l’ultima volta «Non voglio starmene qui in disparte!»
Avevano passato tutta la prima parte della serata in quel modo, e poteva anche pensare che facesse i capricci, ma era stufa di stare da sola a crogiolarsi nell’alcol.
Una parte di sé, del suo cuore le sussurrò che lo stava facendo esclusivamente per raggiungere Taichi.
Non voleva privarsi della sua presenza per causa sua, non voleva starle più dietro e mandare all’ aria l’unica opportunità che aveva per stare vicino a lui dopo tanto tempo che non si vedevano.
Non voleva passare quella serata a levarle il moccio dal naso quando si rifiutava perfino di parlare con lei.
Lei tentò di scacciare quei pensieri invadenti, ma non negò quella verità.
«Vai tu, Mims. Io devo inviare un messaggio a... mia madre...» la sentì dire, in un tono strano, come se stesse piangendo.
Le fissò la schiena in attesa che si girasse, ma Sora indugiò.
«Tua madre?» ripeté perplessa.
Stava per aggiungere qualche altra cosa per contestarla, fino a che la ramata non si voltò con gli occhi lucidi e un sorriso tirato, che ben poco aveva di vero, sulle labbra.
«Sì, arrivo tra poco» le comunicò, e senza aspettare una sua risposta, lasciò il soggiorno ed entrò in cucina.
Mimi rimase per un po’ a guardarla dalla vetrata.
Le venne da seguirla, scuoterla dalle braccia e intimarle di parlare, dirle tutto, perché non poteva andare avanti in quel modo.
Per un secondo pensò di farlo davvero.
Poi spostò nuovamente lo sguardo in direzione dei ragazzi, e la presenza di Tai a pochi passi da lei la condizionò a tal punto da lasciar perdere Sora.
Che se ne stessa da sola.
Lei era stata per troppo tempo da sola.
Voleva guardare, sentire Taichi.
 
Si mosse automaticamente in direzione dei ragazzi.
Forse risultava un po’ egoista, forse avrebbe dovuto insistere di più con la sua amica; i sensi di colpa la catturarono e, prontamente, li sotterrò pensando che era meglio lasciare Sora da sola per un po’ di tempo, perché aveva bisogno di sbollire da sola qualunque cosa avesse.
Lei aveva bisogno di Taichi.
Voleva guardarlo negli occhi, lo voleva toccare, voleva bearsi di lui.
 
Era una lotta contro sé stessa, e sapeva di aver perso nell’esatto momento in cui si era resa conto di volerlo ancora con tutta la sua anima.
 
I sensi di colpa non abbandonavano la ramata, la quale, entrata in cucina lontana dal fracasso e dalle voci, cominciò a sentire la testa pesante e la stanza vorticare intorno a sé.
Si diresse verso la cesta dentro cui aveva lasciato il suo telefono, lo prese in mano in maniera quasi maniacale con l’intento di controllare se ci fossero chiamate o messaggi.
Non poteva, non poteva farlo...
Era troppo rivoltante, doveva far sì che Victor non venisse, che non mettesse piede in quella casa.
Aveva paura, troppa paura di poter rovinare tutto.
Le sue dita scrivevano frenetiche senza che lei riuscisse a controllarle.
 
“Ti prego, non venire. Ti spiegherò un’altra volta”
 
Inviò, in attesa di una risposta, speranzosa che il ragazzo lo leggesse e che capisse.
Non seppe per quanto tempo rimase in quella posizione, sentì solamente la testa cominciare a girare e i battiti del suo cuore aumentare a dismisura.
 
 
Mimi prese un respiro profondo e salutò i tre ragazzi con un sorriso.
Yamato le lanciò uno sguardo torvo, ancora indispettito dai battibecchi di prima, Koushiro ricambiò il saluto alzando una mano un tantino imbarazzato e Taichi rimase a fissarla come un ebete.
Non se l’aspettava che comparisse lì all’improvviso, credeva fosse ancora con Sora.
Chiuse la bocca che aveva aperto, bevendo il cocktail.
Non sapeva se l’alcol gli stesse smuovendo i bollenti spiriti, ma sentiva una sensazione strana che gli partiva dal basso ventre fino ad arrivare al petto.
Mimi era bellissima, sensuale in quel vestitino che le metteva in evidenza le curve.
Sospirò pesantemente.
Sembrava uno sciocco, un ragazzino alle prime armi, ma non riusciva a trattenersi nel pensare a quanto avrebbe voluto stringerla...
Quel dannato alcol gli aveva picchiato alla testa, non aveva dubbi.
Mimi si accorse del suo sguardo insistente, quasi famelico, e si voltò imbarazzata. Potette giurare di vederla arrossire, e si chiese se anche lei non sentisse le stesse sensazioni che sentiva lui.
Aveva voglia di dirle qualcosa, sì, adesso che si sentiva più disinibito e che lei era accanto a lui voleva avvicinarsi e sussurrarle qualcosa all’orecchio, ma aveva i piedi fissati al suolo, incollati, come se facesse parte del pavimento stesso.
Diamine, era così difficile... Sembrava come se gli togliesse il fiato e lo facesse sentire così talmente insicuro da non sapere nemmeno se era all’altezza di quello che stava facendo, se in quel vestito stava bene, se i suoi capelli non fossero troppo in disordine...
Riusciva a metterlo in difficoltà disagiante, perché lei era stupenda, fresca, vivace, tutto ciò di cui aveva bisogno...
Che stupido...
Diede un sorso del cocktail, e lanciò un sospiro basso.
Quel buzzurro di Tolomeo aveva ragione, nessun altra avrebbe potuto competere con Mimi, e non che non lo sapesse già, ma adesso dentro di sé sentiva quell’urgenza di stare con lei che pulsava e faceva a pugni con la sua testa.
Era come se qualcosa si fosse smosso dentro di lui, e gli metteva davanti l’evidenza che aveva da sempre volutamente ignorato per non crollare quando era lontano.
Lui la voleva.
La voleva più di quanto poteva immaginarsi.
Continuò a guardarla, fino a quando i suoi pensieri insistenti e peccaminosi vennero sciolti dall’arrivo di Joe.
Il corvino s’infiltrò in mezzo a loro, trascinando con sé uno stordito Davis che portava la camicia slacciata e le bretelle scese fino ai pantaloni. In volto era sfatto, e nonostante la presa di Joe, continuava a ballare, barcollando.
Matt fece una smorfia di disgusto.
«Ragazzi, tutto bene?» lo sentirono urlare per sovrastare la musica, tenendo con chissà quale famigerata forza il braccio del più piccolo. Poi li fissò uno ad uno «Ci sono state discussioni da queste parti?» chiese inquisitore.
Il biondo scosse la testa, sospirando in maniera esasperata.
«Perché dovrebbero, burino?» sbottò fulminandolo con gli occhi celesti.
Non capiva l’insistenza di questi nell’assicurarsi che tutto andasse bene; che diamine c’era che doveva andare storto?
Era tutto nella norma, anzi, se doveva essere sincero, si stava addirittura annoiando.
Quello si avvicinò ai ragazzi per farsi sentire meglio.
«Chiedevo, sapete, sto tenendo a bada Daisuke» fece un cenno verso il tinto che si era mollato dalla presa del maggiore e ora saltava e urlava in preda al delirio.
«Voglio evitare che si faccia di troppa polvere d’angelo per questa sera» confidò loro, portandosi una mano davanti alla bocca per non farsi udire dal diretto interessato «La ciarlatana dice che ne è uscito, ma io sono come San Tommaso: se non vedo non credo»
Tai e Matt si lanciarono un’occhiata sdegnata.
La ciarlatana per Joe doveva essere sicuramente Yolei. In primis non capivano quel suo continuo affibbiare nomignoli a tutti; chi si credeva di essere?
In secondo luogo, non concepivano il fatto che avesse la lingua troppo lunga quando si trattava di quelle cose. Erano questioni delicate, e per quanto non avesse torto a voler dare un’occhiata di riguardo a quello che combinava Daisuke, urlare ai quattro venti che il ragazzo aveva avuto dei precedenti con la droga lo rendeva estremamente indiscreto e insensibile.
Che pettegolo, irritante, esasperante...
Lo videro voltarsi a guardare Izzy, assumendo una faccia perfida e arricciando le labbra.
Era il suo bersaglio preferito perché era l’unico che, in genere, non rispondeva alle sue provocazioni. Koushiro era l’eterno pacifista, o almeno lo era prima di allora; adesso non riuscivano a decifrarlo, era perso, chiuso nel suo mondo grigio.
«Koushiro, stai pensando al giorno in cui ti laureerai finalmente?» lo insultò, soffocando una risatina di scherno.
Il rosso s’irrigidì e spostò gli occhi scuri sul maggiore.
«Vorresti emularmi? Il centodieci e lode lo otterrai solo nei tuoi sogni» continuò a dire, alzando la voce per far sì che Izzy lo sentisse bene «Lo sai che è da perdenti non essere mai abbastanza»
Si aggiustò la cravatta al collo con un gesto di superiorità. Il rosso continuava a guardarlo senza saper bene che dire, mentre Tai e Matt lo fulminavano con lo sguardo.
Il corvino non si fece intimorire.
«Non mi è mai piaciuto stare nel mezzo. Il mezzo è da mediocri» sibilò infine, dando il colpo di grazia all’amico.
Mimi emise un suono grave con la bocca. Izzy era rimasto interdetto, in volto un’espressione spaesata.
Tai lo fissò, leggendogli l’umiliazione in volto. Quelle parole lo avevano distrutto, lo avevano buttato giù ancora di più di quanto già non lo fosse.
Sembrava quasi una scena a rallenty.
Izzy sentì lo stomaco dolergli, mentre, distrattamente, udiva la voce ovattata, lontana, distante dei suoi amici che prendevano le sue difese.
«Ma che cazzo!» aveva imprecato il castano, guardando Joe come se lo vedesse per la prima volta.
Era diventato così cinico e freddo, pungente, insensibile...
Perché lo faceva?
Yamato aveva stretto i pugni e si era avvicinato a lui con una faccia minacciosa.
«Smettila, idiota!» gli urlò nero di rabbia.
Joe indietreggiò fino alle casse della musica che si trovavano su un mobile.
«Calmi, stavo solo scherzando...» si difese, guardando con timore dapprima Matt che aveva una faccia livida e poi Tai che lo fissava con disgusto.
Koushiro intervenne balbettando di lasciare perdere, che era tutto okay, ma sapevano per certo che le parole taglienti di Joe lo avevano colpito nel profondo.
Il suo volto, infatti, si oscurò e non disse più una parola per tutto il tempo.
Il biondo tentò di calmarsi, senza riuscire a togliersi di dosso l’espressione inferocita.
Ce l’aveva troppo con quel burino per tranquillizzarsi. Sapeva per certo che il loro amico stava soffrendo, e lui non aveva un minimo di tatto, un minimo di discrezione; si giustificava dicendo che il suo modo di fare era semplicemente ironico, ma quella lingua biforcuta spezzava le ossa il più delle volte, e non era affatto consapevole o, se lo era, se ne fregava altamente dei sentimenti altrui.
Lanciò uno sguardo a Taichi che si era versato un altro cocktail. Lo vide guardare con la coda dell’occhio Mimi la quale stava dicendo qualcosa per smorzare la tensione, qualcosa di cui onestamente non aveva premura, tanto la interruppe prontamente:
«Dov’è Sora?» chiese un po’ brusco.
Mimi si ammutolì per un istante, e lui sentì distrattamente i sensi di colpa non appena notò lo sguardo ammonitore che gli aveva rivolto il suo migliore amico.
«E’ andata a parlare al telefono con la madre» gli rispose secca la ragazza, guardandolo con stizza.
Matt fece una smorfia.
Perché cazzo si ostinava a starsene in disparte?!
Era una scusa, diamine, lo sapeva... sua madre non telefonava mai di sera, la conosceva da ormai più di dieci anni.
Si voltò a guardare la vetrata che dava sulla cucina, dietro cui vedeva delle persone muoversi e aprire il frigorifero.
Cominciava a sentire dentro di sé una strana sensazione, come un’emozione contrastante che non riusciva a spiegarsi.
Lui aveva delle sorta di sensazioni premonitrici che lo mettevano sempre in allerta quando qualcosa non andava o non sarebbe andata per il meglio.
Sospirò esasperato, stanco, deluso.
Sperò che quelle sensazioni negative fossero solamente legate all’alcol che le era salito al cervello o al fatto che quel burino di Joe lo avesse fatto arrabbiare già tre volte in una serata.
Nel frattempo, Koushiro aveva detto qualcosa che non avevano capito e si era allontanato. Lo videro che usciva fuori in balcone.
Mimi fissò il punto in cui era sparito con una certa apprensione e si portò una mano sulla bocca.
Si sentì in dovere di fare qualcosa, non poteva certo starsene lì, all’impiedi con le mani in mano.
Spostò lo sguardo verso Tai, che la guardava già in modo eloquente.
Inizialmente lei non captò cosa le volesse far intendere con quell’occhiata che le aveva rivolto, e di riflesso assunse una faccia interrogativa.
Il castano trasse un sospiro e si avvicinò appena a lei, abbassandosi all’altezza del suo orecchio.
«Ha bisogno... di parlare» le mormorò, stupendosi perfino lui stesso dell’audacia che aveva avuto.
La ragazza sentì i brividi percorrerle la schiena a quel contatto così vicino.
Era da tempo, così tanto tempo che non si trovavano ad una distanza così ravvicinata...
Non voleva illudersi, ma sentiva l’adrenalina in corpo, percepiva gli occhi di Taichi addosso come se la volessero spogliare da ogni solida barriera di protezione, come se la volessero avere vicina sempre di più...
Le aveva sfiorato l’orecchio con una semplicità disarmante, e lei sentiva che quel tocco non era altro che l’inizio della sua disfatta.
Si sarebbe rotta in mille pezzi, ma il cuore sarebbe rimasto integro a pompare.
Deglutì in difficoltà, sentendosi stordita. Poi annuì decisa, assumendo uno sguardo serio e mirato. Si allontanò da lì, facendosi largo tra le persone.
Il castano rimase a fissare il punto in cui era sparita.
Era l’unica che poteva far scattare qualcosa in testa a Koushiro. Era in grado di dargli forza come nessuno di loro sapeva fare; era certo che avrebbe usato le parole giuste, avrebbe scavato nella sua interiorità fino a riportarlo in piedi.
Erano così vicini... nonostante tutto, riuscivano a capirsi quasi senza parlare. Era qualcosa che aveva sempre amato del loro rapporto, la complicità, lo stare sempre sulla stessa cresta dell’onda.
Da un certo punto di vista lui e Mimi erano molto simili.
Due sciocchi orgogliosi che, nonostante tentassero di nasconderlo, non riuscivano a non cercarsi...
E doveva parlare.
Doveva dirle qualcosa, farle capire che non riusciva a smettere di pensare a lei nemmeno per un secondo da quando si erano rivisti, anzi, che diceva, da quando si erano lasciati.
Non era passato un giorno senza che non avesse sentito la sua mancanza.
Quello glielo doveva dire, doveva tentare di comunicarle tutto con la forza del suo sguardo e le sue parole, si sarebbe perfino spogliato del suo cuore e glielo avrebbe dato se era necessario…
Vide Matt avvicinarsi pericolosamente a Joe, strattonandolo dalla camicia. Il corvino lanciò un gridolino e si tenne da un braccio del biondo per non cadere.
«Vedi di smetterla di comportarti così, Joe!» gli aveva intimato, mollando bruscamente la presa senza che Tai dovesse intervenire.
Il ragazzo si aggiustò la cravatta, allentandola dal collo.
«Il fatto che tu non abbia peli sulla lingua non ti da il diritto di ferire le persone!» non era riuscito a trattenersi, Matt, e lo capiva perfettamente.
Joe esagerava sempre con i suoi comportamenti, e quella sera più che mai. Era recidivo, perseverava senza cognizione di causa. Era una macchinetta automatica, non si bloccava mai se non erano gli altri a porre un limite.
«Non ho mai ferito nessuno!» lo udì difendersi «Dico solo le cose come stanno» sibilò in tono sferzante, per poi aggiungere con scherno:
«Il fatto che tu sia il Digiprescelto dell’Amicizia non ti da il diritto, invece, di difendere l’indifendibile»
Il biondo scosse la testa con un sorriso ironico.
«Non c’entra un cazzo questo!» sbraitò subito dopo «Tu spari a zero senza curarti di chi può rimanerci male e questo mi da fastidio!»
Joe aveva in volto un’espressione di sfida, seppur aveva le mani aggrappate al mobiletto per poter fuggire via in caso di degenero.
«Non t’importa né dello stato d’animo dei tuoi amici, né di te stesso, soprattutto, di come passi agli occhi delle persone!» continuò il biondo.
Ed era vero. Il suo atteggiamento era spropositato, a volte fuori dal normale. Non si curava di chi gli stava intorno, dell’opinione che gli altri avevano di lui, di come fosse ampiamente esagerato nelle reazioni, nel prendersi gioco degli amici senza un briciolo di tatto.
Erano stufi. Stufi di quella sua sincerità fuori luogo, di quel suo modo di dire le cose senza soffermarsi a pensare se ne era veramente il caso.
Lui si rizzò, mollando la presa dal mobile. Assunse un’espressione indignata, corrucciata.
«Certo che mi importa di me stesso!» ribatté con enfasi «Non controllerei così tanto la situazione, altrimenti» allargò le braccia, riferendosi al fatto che era tutta la serata che si preoccupava che non ci fossero accapigliamenti in giro
«Voglio fare bella figura il giorno della mia laurea, perché ho sudato dieci anni per ottenere il massimo!» lo videro gesticolare, puntando un dito per terra.
Dopo lanciò uno sguardo d’astio verso la direzione in cui Izzy era sparito.
«Se Koushiro ha problemi che se li risolva al più presto, ma senza portare malumore in giro» fu categorico, facendo trasparire nel tono di voce una sfumatura di risentimento verso il rosso della quale non capirono l’origine.
Tai continuò a fissarlo, infastidito.
«Izzy non porta malumore» intervenne, anticipando Yamato che era pronto a ribattere
«Sei tu che lo tratti sempre con sufficienza»
Lo faceva un po’ con tutti, in realtà. Quando erano più ragazzini aveva quel modo di fare scherzoso e fuori dalle righe che a tratti risultava perfino piacevole. Era una persona con cui non ci si annoiava mai, e nonostante si comportasse il più delle volte come il giullare di corte, la sua trasparenza era una qualità che certamente gli riconoscevano.
Adesso però usava quell’arma a suo favore, ferendo le persone che gli stavano intorno, gli amici, che non meritavano affatto quel trattamento.
Era ora che si desse una regolata, era ora che la smettesse definitivamente.
Come a percepire i pensieri del castano, Joe intervenne con un cipiglio.
«Beh, io ho le mie ragioni» affermò con sicurezza, squadrandoli bene dalla testa ai piedi «Voi potete anche credere che io sia uno stronzo, ma pure io penso delle cose non belle di voi!»
Nell’udire quell’esclamazione, entrambi i ragazzi lo fissarono attenti.
Si chiesero per un attimo cos’era veramente quello che non andava in loro, perché, in fondo, avevano bisogno di qualcuno che glielo dicesse per aiutarli ad essere consapevoli dei loro limiti, per aiutarli a rivedere tutti gli errori che avevano commesso in quegli anni, per aiutarli ad essere due persone migliori.
Ma si trattava di Joe, e pensarono che lo diceva appositamente per voltare la ragione su di lui, nient’altro.
Il biondo incrociò le braccia, guardandolo con un sorrisino sarcastico.
«Ah sì? E che cosa pensi, avanti!» lo provocò, curioso di sentire la miriade di stronzate che si sarebbe inventato.
Il maggiore strinse i pugni. Dovevano saperlo che provocarlo che non era buono ai fini della sua salute. Lui non riusciva a essere diplomatico, era un vulcano esplosivo pronto ad eruttare. Era più forte di lui: le parole gli uscivano di bocca come se stesse vomitando un pranzo intero e la pressione gli saliva come una giostra facendogli cambiare colore.
«Penso che siete due coglioni per aver creato questa situazione con le ragazze!» urlò inviperito, rosso in volto.
Tai e Matt rimasero senza parole, fermi davanti a lui, non aspettandosi che li avrebbe colpiti proprio in quel punto.
«Voi pensate di essere fighi solo perché siete Taichi e Yamato e “oh mio Dio!” come sono forti questi due machi, questi due boss che digievolvono sempre per primi!» continuò, avvicinandosi a loro con le orbite di fuori «Ma non vi rendete conto di come a ventisei anni siate solo due ipocriti falliti! Falliti nel pensare, nell’agire, nell’amore, nel lavoro! In ogni minimo campo, voi fate cagare! Ca-ga-re!»
Era come se avesse sputato veleno sui loro volti.
Rosso di rabbia, fece per andarsene. Ma poi si rivoltò.
«Mmmh-ABBRACADABBRA!» gli urlò contro, con una mano aperta.
Ma che diamine faceva, adesso?
Era ubriaco?
I due spalancarono le orbite, interdetti.
Lo videro fare una smorfia quasi dispiaciuta, come se chissà che si aspettasse.
«Niente da fare, avete visto... Siete ancora due coglioni!» sputò fuori, indicandoli con una mano, sprezzante.
Distrattamente, lo videro lanciare loro un ultimo sguardo furioso per poi girare i tacchi e andarsene davvero, lasciandoli come due stoccafissi, due ebeti, due pesci lessi che erano stati appena infilzati con un amo di grandi dimensioni al cuore.
Taichi sbatté le palpebre più volte per ritornare alla realtà, mentre Yamato, una volta riprese le sue facoltà motorie, fece dei passi avanti per raggiungerlo e questa volta spingerlo al muro con un pugno.
Il castano lo strinse da dietro i fianchi. Era dura mantenere la calma in quel momento dato che i loro cuori battevano forte per l’umiliazione e la rabbia, ma non potevano farlo.
«Lascialo stare» mormorò all’altezza del suo orecchio, ma pieno di un rammarico che lo aveva pervaso all’improvviso.
Spostò lo sguardo tra la folla.
«Non gli rovineremo questo giorno così importante» concluse fermo, e il biondo si lasciò andare ad un sospiro, rilassando le spalle.
Si voltò a guardare il suo migliore amico così talmente vicino a lui, e con un solo e profondo sguardo si dissero tutto.
 
Aveva ragione.
Loro malgrado, non aveva nient’altro che ragione.






 

 

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Capitolo 9
*** Confronti ***








«Izzy!»
Mimi si fece largo tra le persone, spintonandone qualcuna. Si scusò di riflesso senza alzare lo sguardo. Uscì nel balcone, rimanendo qualche secondo ferma a guardarsi intorno, scavalcando con gli occhi la pila di gente che andava avanti e indietro occupando la visuale.
Dove era finito Koushiro? Era scappato via in quella direzione, ma c’erano così tante persone che non riusciva ad orientarsi su dove potesse essere andato a finire.
Fece per un po’ avanti e indietro, stizzita dal fatto che la urtassero e la guardassero come se fosse una matta.
Fece una smorfia e tentò di non curarsene.
Doveva trovarlo. Sapeva in cuor suo che il ragazzo era rimasto ferito dalle parole di Joe e soprattutto aveva captato già dal pomeriggio prima che c’era qualcosa che non andava in lui. Si era promessa di parlargli e doveva farlo, anche perché era quello che si aspettava Tai da lei.
Si bloccò per un attimo a pensare.
Era diventata così talmente dipendente e disperata da fare quello che il suo ex ragazzo voleva che lei facesse?
Solo per potere, in qualche modo, riaverlo vicino?
La castana strinse le labbra.
Quello non l’avrebbe portato vicino a lei, doveva farsene una ragione. Taichi l’aveva esortata a seguire Koushiro solo perché era il suo migliore amico, nient’altro. Doveva metterselo in testa che la loro storia era finita.
Il fatto che le avesse rivolto la parola o che la guardasse erano solamente delle sue impressioni; o magari aveva bevuto parecchio, sì, era questo il motivo per cui si era rivolto a lei, si sentiva più sciolto e non aveva nemmeno fatto caso alla persona che si era trovato davanti.
Sospirò d’un tratto triste.
Non sapeva che fare, non sapeva come comportarsi, e soprattutto, era davvero così disperata da pensare alla benevolenza di Tai nei suoi confronti quando in quel momento aveva una priorità maggiore.
Si bloccò, notando all’improvviso dei capelli rossi spuntare da dietro una delle sdraio in legno che tenevano in balcone.
Un sorrisino di vittoria apparve sulle sue labbra non appena si rese conto di aver trovato Izzy.
Si avvicinò di soppiatto, vedendo l’amico perso nei suoi pensieri, gli occhi chiusi. Senza esitare, si sedette accanto a lui, aspettando che si accorgesse della sua presenza. Koushiro aprì gli occhi e li sgranò non appena la vide vicino.
«Mimi... ehi, cosa ci fai a...» balbettò in difficoltà senza riuscire a terminare la frase. La castana piegò le labbra in un sorriso sornione, poi assunse una faccia seria.
Era ora di parlare chiaro.
«Ascoltami. Voglio dirti una cosa» disse scrutandolo in volto come a voler scovare ogni singola traccia della sua debolezza.
Izzy abbassò lo sguardo, e lei ne approfittò per stringergli un braccio e far sì che la guardasse ancora.
«Ricordi quando eravamo piccoli?» sospirò, in volto un’espressione sognante e divertita «Tu mi aprivi gli occhi in tante situazioni. E anche se a volte ti trattavo male, in realtà apprezzavo il fatto che tu lo facessi, perché ti ho sempre considerato saggio e maturo»
Ed era veramente in quel modo. Loro due fin da bambini, fin dai tempi in cui avevano condiviso insieme agli altri quell’avventura a Digiworld avevano sempre avuto quel rapporto speciale, seppur fossero talmente diversi.
Mimi insegnava a Koushiro ad essere più leggero, mentre Koushiro insegnava a Mimi a rimanere con i piedi per terra.
Il ragazzo diede un sospiro malinconico, e spostò inevitabilmente gli occhi.
«Non sono più quello di un tempo. E’ cambiato tutto...» sussurrò, lo sguardo velato da una grande sofferenza.
Lei non si perse d’animo e strinse ancora di più la presa al suo braccio.
«Può darsi» gli concesse, e lui quando si voltò notò gli occhi che le brillavano «Ma in te io rivedo ancora Koushiro Izumi. Il ragazzo con i capelli rossi malato di informatica che ci ha sempre salvato la pelle nei momenti più brutti»
E gli regalò uno sguardo eloquente insieme a un grande sorriso d’intesa. Izzy rimase stupito di fronte a quell’enfasi che l’amica gli aveva appena mostrato, tant’è che piegò le labbra anche lui in quello che risultò essere un ghigno.
«In effetti senza di me eravate già morti» scherzò, e Mimi emise una risata acuta, mollandogli una gomitata.
Aveva ragione su quello. Era sempre stato la mente del gruppo, il topo da biblioteca, colui il quale aveva quasi sempre messo insieme i puzzle più difficili per completare l’opera.
Era ora che tornasse ad esserlo.
«Esatto» affermò «Il fatto che tu sapessi razionalizzare tutto mi ha sempre affascinato» gli rivelò forse per la prima volta.
Koushiro quasi si sentì in imbarazzo. La vide seduta sulla sdraio, persa nei suoi pensieri come mai l’aveva vista.
«Avrei voluto farlo anch’io molte volte» la udì mormorare.
Mimi volse gli occhi verso il paesaggio di fronte a loro. Avrebbe voluto essere più decisiva in tante circostanze della sua vita, perfino in quel momento. Avrebbe voluto avere la fermezza di voltare pagina, la razionalità di pensare che tutto era ormai terminato, la maturità di seguire la sua strada.
Invece era sempre la solita, più cupa magari, ma sempre la solita sognatrice...
Vide con la coda dell’occhio che l’amico aveva abbassato la testa.
«Riprendi in mano la tua vita» gli disse a voce bassa, con tatto «Torna in te. Affronta Frankie e dille che così non va. Ti sei distrutto per lei e ci sta da un certo punto di vista, ma adesso basta» gli disse quelle cose alzando la testa, risoluta.
Non riusciva a non pensare alla sua situazione, perché in fondo non si sentiva così diversa da Koushiro. Anche lei doveva riprendere in mano la sua vita ed uscire fuori da quel tunnel di ricordi a cui si aggrappava.
Quelle parole servivano anche a lei.
In quel riflesso rivedeva anche lei.
«Non voglio perderla... è successo tempo fa... L’ho lasciata andare e lei si è completamente sbandata» le confidò Izzy con la voce spezzata.
Faceva fatica a raccontarsi in quel modo, ma nello stesso tempo si fidava della castana.
«E’ andata con compagnie discutibili. Ha avuto perfino un altro...» la voce gli si spezzò e Mimi socchiuse la bocca, consapevole del fatto che era la prima a cui l’aveva detto «Adesso non so che fare perché... sono consapevole che dovrei rialzarmi, ma ho paura che vedendomi meno predisposto lei scappi di nuovo via»
Non seppe se aveva versato qualche lacrima, lo udì solo tirare con il naso e voltarsi dall’altro lato.
Provò tanta tenerezza per lui. Non si meritava affatto niente di tutto quello. Un po’ lo capiva se tentava di tenersi stretto la persona che amava per paura che andasse via da lui.
Lei aveva sbagliato a lasciare andare Taichi e adesso si ritrovava sola con delle inutili speranze nel cuore.
Sentì anche lei le lacrime agli occhi.
Perché non si era stretta di più a lui e aveva lasciato andare una cosa così preziosa, così vitale...
Era tutta colpa sua; sì, era lei ad aver sbagliato, era stata lei a far pesare lui il fatto che fosse lontano e che mettesse il calcio al primo posto.
Era stata egoista.
Forse lo era anche adesso; a crogiolarsi nei suoi sensi di colpa senza fare nulla per cambiare le cose.
 
Che posso fare?, pensò triste, disperata.
In ogni cosa che aveva fatto ci aveva comunque messo il cuore, bene o male che era andata.
Aveva sempre rischiato tutto.
Ogni piccolo brandello di cuore.
 
«Rischia» disse dopo dei momenti di silenzio. La sua voce risultò gracchiante, e Izzy la guardò in modo strano.
«Mettici comunque il cuore. Falle capire che non la lascerai mai da sola, ma che deve riprendersi completamente per lei e per te» alzò lo sguardo e gli fece un sorriso allusivo, un po’ amaro
«Ne vale comunque la pena, Izzy. In qualunque modo vada» concluse.
Lui stette a rimuginare per un po’ di tempo. Le parole che gli aveva detto erano giuste, veritiere, lo sapeva: Mimi non riusciva a mentire, per quanto si sforzasse.
La conosceva bene, non diceva le cose così, tanto per dire. Le rivolse uno sguardo comprensivo.
«Parli per convincere me o te stessa?» le chiese poi in maniera eloquente.
Sapeva quanto probabilmente stesse pensando e ripensando a Taichi. Conosceva anche quel lato di lei, il lato che non riusciva a dire addio alle persone così tanto facilmente.
Mimi alzò lo sguardo con un’espressione trafitta.
«Io... parlo per te» borbottò, ma Koushiro scosse la testa.
C’era sempre qualcosa che li accomunava, che li avrebbe sempre accomunati. Perché erano così diversi, ma nello stesso tempo, così dannatamente simili.
Volse lo sguardo verso un punto e vide Frankie ridere e scherzare con delle persone.
Strinse gli occhi.
Mimi aveva ragione. Quello non era più lui, era solo l’ombra del ragazzo forte che era stato. Non avrebbe lasciato che l’ignoranza lo avrebbe battuto ancora una volta. Lui era un pozzo di conoscenza, una persona razionale che non aveva paura ad affrontare ciò che non sapeva.
E adesso sapeva cosa doveva fare.
«Grazie» disse alla ragazza regalandole uno sguardo nuovo, d’intesa «Ne avevo bisogno, davvero»
Mimi lo vide mettersi in piedi, aggiustarsi la giacca e guardare verso una direzione precisa.
«Adesso scusami, ma devo andare a parlare con Frankie» lo udì dire, e lo guardò andare via a testa alta, ad affrontare la sua più grande debolezza.
Non conoscere e non conoscersi.
La ragazza sorrise soddisfatta non appena lo vide interrompere la discussione prendendo la bionda dalla mano per poi scomparire chissà dove.
Spostò gli occhi verso destra e vide Joe tra la gente. Di riflesso, alzò un braccio per chiamarlo, ma il corvino, non appena incrociato il suo sguardo, la fulminò e gli regalò un gesto brusco di stizza.
Raggiunse la sdraio sopra cui era sistemata Luchia, il lungo abito blu le cadeva ai lati e tra le dita teneva una sigaretta sottile. Gli lanciò uno sguardo interrogativo che risultò comunque austero, vendendolo nervoso che tentava di sistemare i lembi della camicia spiegazzata.
Joe imprecò e, con un gesto irritato, si sedette ai bordi della sdraio.
«Cosa è successo, mio caro?» gli rivolse la domanda rilasciando il fumo dalle narici.
Il ragazzo si alzò nuovamente, andando avanti e indietro con le mani dietro la schiena.
Come si erano permessi?
Come avevano solo minimamente potuto pensare che dal basso della loro posizione potessero rimproverarlo in quel modo?
«Non ne parlare, Luchia! Non ne parlare!» esclamò con voce acuta, mentre alcuni degli invitati si voltavano a guardarlo.
La donna sospirò, facendo una faccia rassegnata. Adesso avrebbe incominciato a vomitare una sfilza di frasi senza fermarsi nemmeno a prendere aria.
Chiuse gli occhi e così avvenne.
«Quegli zotici impertinenti! Da quale diamine cella frigorifera li hanno scongelati?! Stavo così bene senza di loro!» lo udì lamentarsi, isolandosi per qualche secondo onde evitare che i suoi timpani delicati venissero frantumati da quelle urla disumane.
«Sono i tuoi amici, Joe» affermò dopo che ebbe finito, rilasciando il fumo con sensualità. Dei ragazzi passarono gettandole uno sguardo affascinato.
«Non dire cose di cui poi te ne penti» disse, consapevole del fatto che sarebbe probabilmente successo.
Ormai lo sapeva per esperienza. Il suo fidanzato era solito sparare un mucchio di chiacchiere come fossero proiettili, feriva chiunque si trovasse nella sua traiettoria senza possibilità di scanso; poi si pentiva e si crogiolava nei suoi rimorsi.
Quello scosse la testa come un folle.
«Io non me ne pento affatto!» urlò, alzando un dito. Poi lanciò un’occhiata piena di astio in direzione del soggiorno «Che tornassero a scimmiottare Cristiano Ronaldo e Kurt Cobain, che solo quello sanno fare, scimmiottare, perché io non li sopporto più, quei fottuti fasulli fanfaroni!»
Luchia gettò la sigaretta dal balcone con un gesto leggero, per poi portarsi le mani alla testa. Tastò le orecchie con i palmi.
Poi gli rivolse uno sguardo con gli occhi da cerbiatta che aveva un qualcosa di malizioso e, nello stesso tempo, indispettito.
«Lo dici per difendere le tue amiche?» gli chiese, punzecchiandolo. Il corvino, nel frattempo, si era seduto
«Vedi, in fondo, come tieni a loro e anche molto»
Continuò a fissarlo di uno sguardo strano, uno sguardo in cui Joe poteva giurare di vedere gelosia.
Sora e Mimi erano le sue migliori amiche, nonché le sue coinquiline da due anni, ormai. Non poteva permettere che per una debolezza d’animo rimanessero nuovamente incastrate tra le grinfie di quei due avvoltoi.
Le facevano sentire insicure e inadeguate. Lui aveva vissuto appieno tutte le loro crisi, seppur avesse tentato di sminuirle per non farle deprimere ancora di più; sapeva perfettamente quanto soffrivano per Taichi e Yamato, quanto la loro fosse una ferita aperta che aveva lasciato pian piano spazio ad una profonda cicatrice.
«Qualcuno deve pur prendersi cura di quelle papere provinciali» borbottò tra i denti, pensandole dentro disperate e indifese.
«Da sole combinano una miriade di cazzate!» constatò come dato di fatto.
Luchia incrociò le braccia, rivolgendogli uno sguardo altero. Aveva trentacinque anni e aveva da un pezzo superato l’età giusta. Sua madre glielo diceva sempre che era ora di sistemarsi e mettere su famiglia, e quel burino pensava alle problematiche inesistenti di quelle due ragazzine?!
«E alla tua fidanzata quando ci pensi?» lo rimbeccò, facendolo voltare con in viso un’espressione confusa.
«Sto aspettando da più di cinque anni...» lasciò cadere la frase su un discorso che Joe non afferrò immediatamente.
La sua faccia, infatti, mutò dall’interrogativo allo stizzito. Odiava quando quella donna parlava a rune. Lui era un tipo diretto, non gli andava di ascoltare indovinelli e risolverli. E poi, in quelle cose era più bravo quel cervellotico di Koushiro!
«Di che cosa diamine stai parlando, per le palme di Gerusalemme?!» sbottò, adoperando come al solito un tono esagerato.
La donna sospirò, voltandosi verso di lui con un gesto brusco. Lo guardò con uno sguardo eloquente, da cui Joe riuscì ad evincere ciò che tentava di comunicargli ancora prima che aprisse bocca.
«Avevi promesso di sposarmi, Joe» vide soltanto la sua bocca carnosa muoversi su e giù, isolata da tutto il resto del corpo.
La donna fece un ghigno.
«Sposami e tutti i tuoi problemi finiranno» concluse in tono ovvio.
Il ragazzo rimase paralizzato sul posto, fissandola con uno sguardo ebete. Per la prima volta non seppe che fare, che dire, come comportarsi. Sentì solamente che aveva bisogno di fuggire.
Era ancora giovane, si era appena laureato, doveva iniziare a lavorare in ospedale... Come poteva quella donna volerlo incastrare in quel modo?
Non era pronto, santo Cielo, aveva ancora bisogno dei suoi spazi, non voleva condividere il letto con quella sanguisuga decrepita; voleva continuare a fare tutte le cose da ragazzino, perché era ciò che ancora sentiva di essere.
Pensò gli stesse per venire un infarto, tanto si tastò stupidamente il braccio sinistro per constatare.
Luchia lo fissava impaziente, e lui non riuscì a fare altro che mettersi in piedi, sentendo le gambe molli.
«Joe...» lo richiamò lei, sospirando, immaginando da lì a poco la reazione.
Il ragazzo, infatti, si portò le mani alle orecchie.
«Non ti sento» lo udì dire, guardandolo andare su e giù a gran passi.
Luchia gli lanciò un’occhiata cinica, per poi afferrare un calice da dietro la sdraio e portalo alla bocca.
«Smettila, insomma. Sii maturo» lo redarguì.
Il ragazzo non mollò.
«Sono sordo!» esclamò, mandando avanti quella sceneggiata solo per svincolarsi «Questa dannata musica! I miei timpani sono fracassati! Qualcuno chiami un medico!»
La donna si portò un’altra sigaretta alle labbra, accendendola con un accendino a forma di rossetto.
«Sei tu il medico» soffiò.
Joe si fermò dal suo andare avanti e indietro.
«Io... porca vacca» imprecò tra i denti, cercando tra tutte quelle persone una celere via di fuga.
Notò con la coda dell’occhio Mimi che si era appena alzata dalla sdraio in cui era seduta, così lasciò Luchia da sola e si precipitò dall’amica.
La donna rilasciò il fumo, guardando il fidanzato correre con uno sguardo esasperato.
«Sempre la stessa storia» sbottò, stringendo tra le dita la sigaretta, quasi spezzandola in due.
Joe arrivò dinanzi a Mimi che lo guardò sorpresa, poi l’afferrò da un braccio, stringendolo con forza.
«A ballare!» urlò, trascinandola dietro di sé.
La ragazza sentì la presa troppo forte al suo braccio e tentò di opporre resistenza. Che gli prendeva? Prima le faceva un cenno irritato e poi le si gettava addosso in quel modo!
«Joe, mollami! Mi fai male!» si lamentò, tentando di divincolarsi dalla sua presa.
Il corvino usciva sempre fuori una forza da animale in quelle situazioni. La trascinò dentro, guardandosi intorno nervosamente.
«Dov’è Sora?!» le chiese, fulminandola da dietro gli occhiali rossi.
La castana non fece in tempo a rispondere, che da dietro la finestra che separava il soggiorno dalla cucina, videro spuntare i capelli ramati dell’ amica, seduta sugli sgabelli della penisola.
Joe si precipitò come una furia dalla ragazza, spalancando la porta e parandoglisi di fronte. A Sora venne quasi un accidente quando se lo trovò così vicino. Impaurita, trasalì in un gesto di difesa, come se si aspettasse che al suo posto ci fosse qualcun altro.
Poi la vide rilassare le spalle, ridendo in maniera decisamente poco sobria, ma che aveva un accenno di sollievo.
«A ballare, fedifraga!» le intimò quello, stringendo anche lei dal braccio.
Sora oppose resistenza.
«Joe, cosa diavolo...» provò a ribattere, ma il corvino non volle sentire scuse.
«A ballare, ho detto!» ripeté, e le due ragazze notarono un luccichio folle dentro i suoi occhi scuri.
Si guardarono stralunate, e Sora fece in tempo a lasciare il cellulare dentro la cesta di vimini prima che il coinquilino trascinasse lei e l’amica nell’altra sala senza possibilità di remore.
Le portò al centro del soggiorno dove le persone ballavano e si dimenavano su della musica tecnohouse molto rumorosa. Vedendole spaesate e con delle espressività di due orate, Joe si inviperì ulteriormente e le spinse con forza sopra i ragazzi.
Così avrebbero interagito un po’, per la miseria, era ora che parlassero e chiarissero!
Quelle paperelle dovevano riprendersi, lo faceva esclusivamente per il loro bene.
E che nessuno venisse a dirgli che era stronzo o antipatico, perché non era...
Vide improvvisamente Sora tra le braccia di Taichi che si teneva dalla sua giacca per non cadere e Mimi inciampare sui suoi tacchi a spillo e sbattere contro Yamato.
Il castano sorrise all’amica, mentre il biondo si levò di dosso con stizza la ragazza, la quale si sistemava il vestitino rosa con imbarazzo.
Joe si schiaffò cinque dita sulla faccia.
«Cazzo, ho sbagliato bersaglio!» disse tra i denti.
Non era mai stato bravo nemmeno con le freccette!, pensò, per poi individuare la figura imponente di Luchia comparire sulla soglia del balcone come fosse lo yeti.
Si amalgamò alla folla, arrivando a stento di fronte alla tv. Premette un tasto a caso dal telecomando e il volume della musica venne aumentato di grado, espandendosi dalle casse.
Ad un certo punto altra gente si riversò a ballare. Joe incitò i ragazzi ad unirsi, e tutti insieme incominciarono a muoversi a ritmo.
Sora e Mimi non capirono più niente, si avvicinarono l’una all’altra e ballarono strette, in un ballo sensuale. L’alcol stava dando ai suoi frutti. Le ragazze risero e trascinarono con loro anche Hikari, che era rientrata e le guardava in disparte con un sorriso affettuoso.
Joe cominciò a saltare come un matto, pervaso dall’eccitazione e l’adrenalina che gli scorreva come un fiume dentro le vene. Abbracciò con foga Tai e Matt facendoli barcollare per il peso ricevuto all’improvviso.
I due si guardarono stralunati, ma poi notarono tutti gli altri che si erano scatenati allo stesso modo.
TK si avvicinò loro facendosi spazio tra la folla. Aveva in mano una sigaretta troppo lunga per risultare tale. La passò al corvino che si mollò dai due ragazzi per afferrarla con entusiasmo e portarla alle labbra.
Inspirò un paio di volte e rilasciò il fumo facendo dei cerchietti in aria. Tossì ripetutamente, incapace di continuare, le lacrime agli occhi.
La porse a Taichi che lo fissava con un cipiglio.
Guardò le dita dell’amico reggere la canna e strinse le labbra. Ultimamente evitava perfino le sigarette, il suo allenatore glielo aveva severamente vietato per poter mantenere a lungo il fiato durante le corse. Aveva più volte fumato erba con il biondo da adolescenti, non era qualcosa che lo toccava moralmente, però sarebbe stato dare il via libera a Takeru e risultare incoerente rispetto ai rimproveri che aveva fatto a sua sorella.
Volse lo sguardo in direzione di questa che ballava scatenata insieme alle due amiche e strinse le sopracciglia.
Non sapeva se fosse la sangria ad agire al suo posto, ma stava diventando troppo frenato, troppo perfettino, e lui era tutto al di fuori di quello.
Al diavolo ciò che era giusto per una volta!
Tanto, ne aveva già sbagliate tante di cose...
Joe urlò qualcosa e lui afferrò di getto la canna, portandola alle labbra.
Erano le persone intorno a lui che non voleva che si facessero del male, che non voleva si macchiassero; lui non contava, lui si era sempre lanciato nel vuoto, e forse quella sera desiderava farlo di nuovo.
Aspirò un paio di volte, muovendosi a ritmo di musica. Vide TK e Davis ballare in modo strano, in una specie di shuffle dance.
Gli venne da ridere e sentì piegare la pancia in due. Le palpebre cominciarono a diventare pesanti, gli occhi lucidi e rossi, provava una sorta di sensazione di galleggiamento.
Non li ricordava così accentuati gli effetti...
Si sentiva così leggero adesso, libero, era perfino contento di essere lì, insieme ai suoi amici, di nuovo tutti insieme...
Quanto gli era mancato tutto quello... si sentiva rinascere... si sentiva così vivo...
Vide Yamato accanto a sé e gli fece cenno di avvicinarsi. Questi lo guardò interrogativo, mentre Tai mise la canna all’estremità della lingua, e lo afferrò dal volto.
Il biondo non replicò e si avvicinò con il viso, aspirando direttamente il fumo dalla bocca dell’amico.
Dopo un paio di aspirazioni, i due si guardarono con delle facce da ebeti e scoppiarono a ridere, più sciolti e rilassati.
Joe disse qualcosa in merito a quel gesto, ma non lo sentirono. Matt si prese la canna e la portò nuovamente alle labbra, continuando a fumare.
Per un po’ di tempo ballarono in quel modo, passandosi lo spinello fino a farlo arrivare al filtro.
Aspettarono per un po’ gli effetti della marijuana fino a quando l’estasi non salì loro al cervello. La musica li annebbiò, non capirono più niente se non che avevano una gran voglia di ridere.
Taichi si avvicinò a Yamato, quasi inciampando sui suoi piedi. Si tenne dall’amico mettendogli un braccio sulle spalle.
«Mi sono sballato» gli disse all’orecchio e ridacchiò stupidamente, mentre quello lo tratteneva e faceva lo stesso.
Continuarono a sbellicarsi, sentendo le lacrime agli occhi. Poi Tai abbracciò di slancio Matt, e questi lo strinse a sua volta.
Chiusero gli occhi.
Erano due stupidi, testoni, bugiardi con loro stessi e ipocriti se non ammettevano che tra le braccia dell’amico era il posto più sicuro in cui erano mai stati.
Il biondo accarezzò la testa dell’altro.
Erano da sempre predestinati l’uno all’altro, fin da Digiworld, lo sarebbero stati per sempre... quell’amicizia era così bella e ne avevano così tanto bisogno che veniva loro quasi da piangere...
Piangere per tutto.
Joe interruppe quel momento illuminandoli con un flash improvviso. I due si risvegliarono da quel torpore e tentarono di capire cos’era appena successo.
«Questa va su ogni social esistente!» lo videro trafficare con il cellulare e di colpo si scaraventarono su di lui per tentare di cavarglielo dalle mani, provocando le risate poco sobrie delle ragazze.
S’interruppero solo quando videro Izzy venire in loro direzione con la cannuccia di un cocktail in bocca e gli occhi socchiusi.
Lasciarono perdere il maggiore, e si avvicinarono chiamandolo a gran voce, sollevandolo in alto.
Risero tutti, abbracciandosi, saltando, ballando.
Formarono un cerchio in mezzo alla sala, trascinando anche gli altri.
Nonostante tutto, nonostante le difficoltà, le avversità, la sofferenza, la diversità, loro sarebbero rimasti uniti, sarebbero rimasti per sempre un gruppo.
Si guardarono tutti, come se fosse una scena a rallenty.
Avevano condiviso le cose più belle, ma anche quelle più brutte.
Ed erano ancora lì.
Nessuno voleva andare via.
Nessuno sarebbe andato via.
D’un tratto la canzone terminò e venne sostituita con una bachata latinoamericana. I ragazzi si dispersero, chi andò a servirsi un cocktail, chi come Matt si accese una sigaretta, chi sparì insieme alla fidanzata.
Al centro della sala comparve inaspettatamente la figura leggiadra e sinuosa di Luchia che, con sensualità, cominciò a muoversi e a mettere in mostra le sue curve prosperose. Joe la guardò e si rabbuiò per qualche secondo, poi strinse i denti e fece in modo che le persone si dislocassero per lasciare spazio alla donna.
«Spostatevi, bestie di satana!» imprecò, spingendone da dietro alcuni che erano intenti a fissarla.
«Lasciate che la vera danza parli!» presentò così la sua fidanzata, maestra di ballo, la quale cominciò a danzare con movimenti rapidi e ammaliatori.
Alcune ragazze provarono ad imitarla con scarsi risultati.
Taichi adocchiò Sora in disparte che si era versata un cocktail e aveva appena portato la cannuccia alla bocca. Si decise ad avvicinarsi, muovendosi a ritmo di musica. Le porse la mano e la ramata lo fissò con uno sguardo tutt’altro che lucido, in quella che doveva risultare un’espressione interrogativa.
Senza farci caso, porse il bicchiere a Mimi che guardava la scena con un cipiglio e si gettò tra le braccia del suo migliore amico.
Questa portò la cannuccia usata alla bocca e li guardò con disappunto.
L’altra, nel frattempo, si strinse al castano e gli diede le mani, cominciando a muoversi esibendosi in dei passi mirati. Tai cercò di starle dietro, sbagliando di tanto in tanto, ma, nel complesso, tenendo bene il passo.
«Quindi adesso sei diventata ballerina?» le chiese con un ghigno, mentre lei rideva in maniera acuta e gli dava uno spintone.
«Dai, scemo!» risero insieme, e il castano si cimentò nel fargli fare una giravolta, continuando subito dopo a tenere il ritmo dei passi.
Era così diversa dalla Sora che conosceva. Ammetteva che era cambiata molto da quando avevano terminato il liceo. Adesso era più donna, più curata, aveva i capelli un po’ più lunghi, ma negli occhi sempre quello sguardo amorevole e gentile.
Eppure scorgeva in lei qualcosa che non andava. Sapeva leggere il volto di Sora, riusciva a decifrare perfino la più piccola ruga che le si formava in volto; forse perché avevano passato così tanti anni insieme, forse perché era legato dentro a lei da qualcosa di forte, forse perché aveva imparato a concentrarsi un po’ di più sugli altri e meno su sé stesso.
Tentò di farla ridere.
«In effetti quando giocavi a calcio avevi un colpo di tacco, lo avevo capito già» fece il gesto di colpire una palla immaginaria con il destro, prendendola in giro, e la ramata si bloccò a guardarlo con una faccia divertita.
Poi si avventò su di lui e gli tirò degli scappellotti.
«Cretino!» quello cercò di non farsi colpire «Deficiente!» ma lo colpì sul braccio «Sei sempre il solito!» concluse, ridendo esageratamente.
Tai le bloccò le braccia e, per farla smettere, l’attirò verso di lui, facendo in modo che si scontrassero.
Forse perché era stordita dall’alcol, Sora si sentì leggermente in imbarazzo e spostò lo sguardo.
Mimi non aveva tolto loro gli occhi di dosso, e non potette fare a meno di stringere un po’ più forte il bicchiere che aveva tra le mani.
Perché facevano in quel modo?
Forse era tutta una sua impressione, ma perché loro potevano essere così vicini, mentre lei non riusciva neanche a rivolgere la parola a Tai senza aver paura di sbagliare...
Si sentiva sciocca, insicura e inadeguata di fronte a quella scena.
Voleva solo che la smettessero, e sapeva di essere un po’ ridicola perché era pienamente consapevole del fatto che fossero amici da tanto tempo, ma recepiva tutto in modo amplificato, i sentimenti contrastanti derivati da quello che ancora provava per Taichi non le permettevano di usare la ragione.
E questo perché era sicura che mai sarebbe riuscita a recuperare quel rapporto che tanto le mancava, e sapeva per certo che era stata colpa sua e del suo egoismo.
Sora non era come lei, era una persona gentile e amorevole, non stava lì ferma a farsi un sacco di seghe mentali sul suo ex ragazzo.
Non avrebbe provato quella gelosia egoista perché avrebbe voluto essere stretta lei in quel modo.
Si morse forte il labbro, sentendo gli occhi lucidi.
 
«Ma tu mi vuoi bene per questo» aveva continuato a dire quest’ultimo a Sora.
Quella sospirò, sentendo la testa galleggiare nello spazio.
«Ti sopporto da vent’anni... Sei troppo stressante...» borbottò con la guancia attutita dal suo petto. Poi sbadigliò, sentendo una stanchezza pesante pervaderla.
Non era vero, comunque, era l’amico migliore del mondo, era il suo appiglio nei momenti più bui.
Dal fronte femminile aveva Mimi, ma c’erano tante cose in cui le due ragazze erano diverse, mentre con Tai riusciva a leggersi dentro come fosse una specie di libro aperto.
«Mh, sì, ci sto credendo...» canzonò lui.
Tanto sapeva che a lei faceva più che piacere la sua vicinanza, che lo considerava un porto sicuro dove attraccare. E anche lui considerava lei il suo angolo di pace, un focolare in cui amava rifugiarsi per staccare un po’ da tutto.
Era per questo che non poteva fare a meno di preoccuparsi per lei. Matt aveva un altro modo di agire; magari non si rendeva subito conto se qualcosa non andava, oppure si faceva frenare dall’orgoglio in certe situazioni in cui un abbraccio o una parola sussurrata potevano valere più di cento discorsi.
Lei si staccò dalla sua presa e gli diede le spalle, lui le prese una mano, guidandola da un fianco. Continuarono a muoversi senza nemmeno più seguire il ritmo.
Tai adocchiò in lontananza il corvino ballare in maniera goffa e fuori tempo insieme a Luchia e si abbassò all’altezza suo orecchio.
«Joe ha sbroccato contro me e Matt» le riferì, non riuscendo a trattenere un sorriso.
Sora chiuse gli occhi facendosi cullare dalla musica.
Aveva sonno.
Aveva una così grande stanchezza fisica, ma soprattutto mentale...
«Ah sì?» chiese senza aprirli «Che vi ha detto?»
Tai si fermò.
«Che siamo due falliti. E poi ci ha fatto un incantesimo, ma non ha funzionato» disse e fu scosso da delle risatine che coinvolsero anche la ramata e ben presto, spinte dall’ebbrezza, divamparono fino a risultare rumorose e strascicanti.
La ragazza si portò una mano alla bocca, sentendo le lacrime traboccare per gli spasmi. Tai, invece, si tenne la pancia facendo una smorfia di dolore.
Sembravano divertirsi così tanto...
Mimi spostò lo sguardo e si rese conto di essere stata affiancata da qualcuno. Si voltò alla sua sinistra e vide Yamato ritto accanto a lei, che fissava la scena con in viso un’ espressione indecifrabile.
Sora riusciva a lasciarsi andare con Taichi in un modo leggero e così complice che mai le aveva visto fare con lui.
Rideva liberamente, scherzava e perfino ballava.
Con lui non provava tutta quella gioia, le portava solo scompiglio nella vita, tristezza e pesantezza. Con lui non c’era mai chiarezza, solo parole non dette o dette a metà; mentre con Tai riusciva ad essere pienamente sé stessa.
Forse uno come Taichi era la persona giusta per lei.
Se non sapesse che i due fossero amici e che questi non avesse ancora i suoi pensieri rivolti verso un’altra persona, li avrebbe visti veramente bene insieme...
Sentì lo stomaco aggrovigliarsi in una fitta di gelosia, tanto che abbassò il capo per guardare  proprio Mimi, la quale lo stava già fissando da un po’.
La castana, istintivamente, pensò di afferrare il biondo e irrompere anche loro nella pista come stavano facendo gli altri due, magari facendo provare le stesse sensazioni contrastanti che stavano percependo in quel momento loro stessi.
Poi rilassò le spalle e il suo raziocinio la bloccò.
Non sarebbe stata la stessa cosa. Matt non era il tipo che avrebbe ballato per tenerle il comodo, anzi, lo vedeva da sempre ostile a lei, forse perché erano così talmente diversi da non riuscire ad emulare il rapporto speciale che avevano Sora e Tai.
«Dammi una sigaretta» gli ordinò seccata, e infatti quello sbuffò tastandosi comunque la tasca dei pantaloni.
Gliela porse e lei gliela cavò dalle mani, decidendo di uscire fuori in balcone e smettere di crogiolarsi in quella visione.
Matt incrociò le braccia e si voltò per lanciarle uno sguardo interrogativo. Non sapeva che fumasse e sospettava che neanche lo sapesse fare bene, però aveva capito che quella situazione la stava infastidendo, e, ad essere sincero, era una sensazione che fomentava anche lui.
Ma non perché ce l’aveva con il suo migliore amico, ma perché sapeva che era incapace di fare lo stesso con Sora.
E sapeva per certo che Mimi si sentiva in quel modo perché desiderava avvicinarsi a Tai da tutta la serata, ma non ci riusciva.
Erano nella stessa barca, così diversi, ma uniti in quella lotta di sentimenti.
 
Tai continuò a parlarle dopo che si ridestarono dalle risate.
«Non ha torto, sai...» volse lo sguardo verso il balcone, dove Mimi si intravedeva «e poi che abbiamo fatto i coglioni con voi...» soffiò con una punta di amarezza.
La ramata sospirò, sentendo gli occhi acquosi.
«Nemmeno su questo ha torto» affermò sicura, sistemandosi la tutina spostata dalla parte delle spalline.
Il castano le fece fare una giravolta in modo da finire direttamente di fronte a lui.
La fissò in modo inquisitorio, tentando di scrutare sul suo viso qualcosa che potesse suggerirgli il motivo di quel turbamento che le vedeva impresso negli occhi.
«Tu stai bene?» le domandò apprensivo.
Non voleva porsi come una semplice domanda, e questo la ragazza lo aveva capito bene. Era più che altro un “so che hai qualcosa” celato dietro un punto interrogativo.
Sora si sforzò di sorridere, ingannando perfino sé stessa che tutto stesse andando liscio come l’olio.
Ma era più uno scivolare verso il fondo della bottiglia.
«Sì, non mi vedi?» chiese retorica, mostrandosi allegra e pervasa dall’alcol.
Tai scosse la testa.
«Adesso sei ubriaca, non conta» non aveva ancora abbandonato quel tono risoluto, ma nello stesso tempo preoccupato.
Sapeva che quando si metteva una cosa in testa non mollava facilmente.
Tentò di girarla a suo favore.
«Ma come, dici di conoscermi bene!» esclamò, fingendosi offesa.
Lui si fermò e fece in modo che smettesse di ballare anche lei. Sora non riuscì ad alzare gli occhi nocciola.
«Appunto non ci credo» era serio, quasi stentava a credere che poco prima avevano riso a crepapelle come due ebeti.
La ramata sospirò e incontrò i suoi di occhi. Erano fermi e indagatori. Se stava in quel modo impalata l’avrebbe scoperta, e non poteva di certo rivelare il suo stato d’animo al migliore amico di Yamato, si sarebbe messa nei guai da sola.
E poi adesso era un po’ più serena.
Victor aveva visualizzato il messaggio e avrebbe sicuramente capito che non doveva assolutamente farsi vedere quella sera.
Giurò che gli avrebbe quanto presto parlato, messo a posto le cose e spiegato quello che provava. Era giusto dimenticare tutto e tornare alla sua vita normale di sempre.
Non avrebbe più ceduto a un errore del genere, ne era sicura.
Matt non l’avrebbe mai saputo, sarebbe rimasto un segreto tenuto nascosto nei meandri del suo cuore. Sarebbe passato del tempo e lo avrebbe perfino dimenticato.
Doveva lasciarsi andare, annullare tutto dentro di sé, e per farlo aveva bisogno di sentirsi al sicuro, in modo che niente avrebbe potuto scalfirla.
Mise le braccia al collo dell’amico e lo strinse.
«Va tutto bene, Tai» ripeté, e questa volta suonò veramente convincente
«Se mi dai un abbraccio starò ancora meglio» disse in tono affettuoso, mollando tutto il peso sopra di lui.
Questi la trattenne e, vedendola rilassata in quel modo, distese l’espressione.
«Passerò sopra il fatto che tu mi abbia detto che sono stressante» l’abbracciò forte, accarezzandole la testa con una mano.
Sora sorrise contro la sua spalla.
«Scherzavo... sei l’amico più ciccioso e patatoso che ho» disse con una voce da bambina, facendolo ridacchiare.
Ci credeva. Se glielo diceva con quella spensieratezza, se glielo dimostrava con quell’abbraccio sincero credeva alla sua parola.
Anche perché lei non sapeva dire bugie.
E, soprattutto, era sicuro che mai avrebbe mentito a lui. Si capivano troppo per potersi sfuggire a vicenda.
«Anche tu, scema» rispose, alzando la testa e vedendo Matt in disparte con in viso un’espressione triste.
Strinse le sopracciglia e decise di agire.
Prese Sora dalle mani e eseguì ancora dei passi di danza, spostandosi verso sinistra. Calcolò la distanza e prese bene la mira, facendole fare una giravolta talmente veloce da farle perdere l’equilibrio.
La ragazza barcollò e sbatté contro il petto di qualcun altro, il quale la sostenne fermamente per evitare che cadesse. Alzò lo sguardo e notò che era finita proprio tra le braccia di Yamato, il quale la fissava a sua volta senza emettere parola.
I cuori dei due battevano allo stesso modo, e fu come se il tempo si fosse fermato proprio in quel momento.
Tai si allontanò con un ghigno soddisfatto, facendo un occhiolino eloquente all’amico. Questi lo guardò da sopra la testa di Sora con un’espressione preoccupata, ma poi assunse un atteggiamento serio e mirato, annuendo impercettibilmente.
Doveva farlo.
O adesso o mai più.
«Scusa... io non avevo visto...» mormorò sommessamente la ragazza ancora stretta contro di lui.
Non voleva andarsene da quel corpo caldo e tonico. Stava così bene stretta a lui, perché ne aveva fatto a meno per tutto quel tempo?
Una mano era appoggiata sul suo petto e lo sguardo lucido sfuggiva dal suo per paura.
Matt tentò di rilassare le spalle, ma aveva tutti i muscoli in tensione.
«Non ti preoccupare» soffiò, e gli uscì una voce roca, bassa, imbarazzata.
Era da così tanto tempo che non provava imbarazzo nello stare con lei. Era una situazione davvero delicata; entrambi si guardavano aspettandosi un passo dall’altro.
Sora era confusa e spaesata dalla sua presenza, e il biondo decise di spezzare quel silenzio.
«Dove sei stata?» le chiese, pensando subito dopo che probabilmente detto in quel modo avrebbe potuto suonare invasivo.
Non gli importava, voleva che sapesse che nonostante tutto lui la considerava la sua fidanzata e aveva premura di lei come da sempre in quegli anni.
La ramata strinse le labbra contornate dal rossetto rosso.
Doveva calmarsi o avrebbe alimentato degli interrogativi che non voleva alimentare di certo. Il fatto era che sentiva il suo sguardo inquisitore addosso e quegli occhi celesti la mettevano in soggezione.
«In cucina» rispose, tentando di essere il più possibile disinvolta.
Yamato sospirò, mentre una musica lenta si era sparsa, quasi come coincidenza, in tutta la sala. La strinse a sé maggiormente, e si mossero adagio.
«Ti va se parliamo?» le chiese a un certo punto all’orecchio, costretto dal fastidioso baccano che si era creato intorno.
Joe e Luchia stavano danzando abbracciati nel centro della soggiorno, e gli invitati battevano le mani e fischiavano maliziosamente.
Sora smise di fissarli e si concentrò sulla domanda di Matt.
Avrebbero dovuto parlare, certo, era da così tanto tempo che aspettava quel momento. Il fatto era che si sentiva così terribilmente sconvolta e ubriaca da non riuscire a reggere quella vicinanza.
Era stordita e sentiva il cuore batterle forte, sembrava quasi voler uscire via dalla gabbia toracica.
Matt si prese di coraggio e decise di lasciarsi andare.
Era ora che lo facesse. Taichi aveva pienamente ragione, anzi lo ringraziava per averli fatti scontrare. Adesso non poteva fuggire da quella situazione, aveva Sora attaccata a lui e doveva trovare la virilità di ammettere le sue colpe.
«Mi dispiace per tutto» le disse, prendendola dalle spalle e allontanandola leggermente da lui, quel tanto da poterla guardare in viso.
Lei lo fissò con gli occhi lucidi. Lui rilasciò nuovamente il fiato e si passò una mano tra i capelli, scompigliandoli un po’.
Era in difficoltà, come sempre d’altronde quando si trattava di mettere a nudo le proprie debolezze. Sora lo guardava e non voleva deluderla.
«Per come mi sono comportato in questi anni, per essere stato brusco, per i miei silenzi...» prese fiato dopo aver gettato fuori tutto quello che sentiva, che portava sulle spalle grevemente «io... non riuscivo a comunicare con te. Ti sentivo distante. E forse in realtà ero io ad esserlo» ammise, sentendo pian piano il macigno scomparire e rendere il suo corpo più leggero.
Avrebbe dovuto farlo prima. Se dire la verità, chiedere perdono valeva quella sensazione di libertà avrebbe dovuto farlo tempo prima.
Che sciocco orgoglioso, pauroso, stupido che era stato...
Sora lo guardava con le labbra socchiuse. Non riusciva a capacitarsi di ciò che le aveva appena detto.
Le aveva chiesto scusa per tutti quegli anni di lotte al silenzio e all’abitudine; delle cose che avevano spento il loro rapporto fino a farlo sgretolare in cenere.
Finalmente Yamato le stava parlando a cuore aperto, e lei, invece, lo aveva ripagato baciando un altro uomo.
Che incosciente, stupida, traditrice che era...
«Matt, io...» mormorò, sentendo impulsivamente la voglia di riferirgli tutto.
Il coraggio, però, le mancò presto, frenata dalla sua testa. Avrebbe combinato un danno irrimediabile, lo sapeva.
Seppur in quel momento quel segreto era duro come la roccia e pesava tanto da schiacciarla, doveva portarlo dentro di sé, custodirlo, per il bene della loro relazione.
Non lo avrebbe mai saputo... avrebbe parlato con Victor e avrebbe messo in chiaro le cose... sì, lo avrebbe fatto dopo... dopo...
«Tu sei l’unica persona che voglio, Sora» si sentì dire, stretta nuovamente nel suo abbraccio «Ti amo da sempre e ti amerò per sempre... voglio recuperare tutto con te» la guardò intensamente, tanto che la ragazza sentì le lacrime pizzicarle il bordo degli occhi.
Le aveva detto che l’amava dopo tanto tempo...
Era così vero, così sincero... voleva che mettessero a posto le cose e sì, lo voleva anche lei, lo voleva tanto anche lei da così tanto tempo...
Cos’avrebbe dovuto fare?
Era tutto così complicato, ma nello stesso tempo così infinitamente dolce e sentito...
Matt si sporse sul suo viso. Lei, interdetta, non capì più niente. Sentì la presa di lui sulla sua nuca e le labbra del ragazzo sulle sue.
Il biondo la stava baciando e lei, dapprima, rimase spaventata, scottata da quel contatto. Poi chiuse gli occhi e si lasciò andare, permettendo alla lingua del ragazzo di incontrare la sua e di riscoprirsi dopo tanto tempo.
Dopo aver conosciuto quella di un altro...
Strinse gli occhi, sentendosi pervasa da Matt. Lui approfondì quel bacio con trasporto, stringendole il viso con entrambe le mani.
La voleva.
Lo sentiva che la voleva, la desiderava talmente tanto...
Si staccò e la guardò con gli occhi azzurri liquidi che le trasmisero un amore puro, qualcosa che non era più riuscita a leggergli da tanto.
«Mi sei mancata» le sussurrò.
Sora sentì un colpo al cuore, e quasi potette udire i cocci rompersi uno per uno.
Come aveva potuto fargli quello?
«Anche tu...» rispose frastornata.
Vide solo lui che le sorrideva prima di prenderle il viso e baciarla di nuovo.
Cosa aveva combinato?
Era arrivata a fingere che tutto andasse bene, che niente fosse successo, ma sapeva che non era affatto così.
Si sarebbe persa in Yamato, avrebbe voluto stare in quella posizione per tutto il resto della sua vita se quello significava eludere ciò che era stato.
Ma non poteva scappare dalla realtà.
Essa era pronta a colpire, inesorabile, squarciarle il petto con forza fino a farla sanguinare.
Nel frattempo, però, non riusciva a fare a meno di staccarsi.
Tutto quello era il suo paradiso perduto che aveva smarrito e che adesso aveva ritrovato.
Tai li fissò con un sorriso sulle labbra. Li vide baciarsi e provò una gioia così profonda nel saperli uniti.
Portò il bicchiere alle labbra e bevve.
Forse era giunto anche per lui il momento di fare i conti con i suoi sentimenti. Non riusciva più a fingere, aveva bisogno di parlare e mettere a posto le cose dentro il suo cuore.
Si voltò verso il balcone e vide Mimi da sola.
Pensò che era il momento adatto, incoraggiato dalla riconciliazione dei suoi migliore amici.
Non era difficile. Non era difficile seguire il cuore, anche se lo aveva messo da parte per tanto tempo.
Doveva parlare, doveva farlo.
Se non lo faceva in quel momento che tutto sembrava minimamente a favore, forse non lo avrebbe fatto mai più.
Coraggio, gli serviva del coraggio...
Si decise a fare un passo verso di lei, quando qualcuno lo urtò involontariamente. Stufato, si voltò a vedere chi fosse, pensando a un dispetto da parte di Joe, quando vide un ragazzo sconosciuto andare in direzione di Mimi e afferrarla dalle braccia.
Aprì la bocca e rimase impietrito di fronte a quella scena.
Chi diavolo era quello, adesso?
Non gli sembrava una faccia conosciuta. Doveva essere qualcuno che conosceva solo lei, qualcuno del calibro della sfilza di ammiratori che aveva e che ci provavano incessantemente.
Li odiava, li odiava tutti.
Specie quello.
Non gli dava una buona impressione.
Sembrava fosse lì per farle qualcosa, non solo per farsi il bello e mostrare i muscoli.
La sua mente lavorò frenetica e sentì i battiti accelerati. Istintivamente, pensò di uscire anche lui e fare una scenata, togliere quelle mani da sopra il corpo di Mimi e portarsela dietro.
Trattenne il fiato e rimuginò.
Non poteva, non ne aveva il diritto.
Non aveva nessun diritto di irrompere e pararsi nel mezzo a dire poi chissà cosa, quando era una serata che non si decideva ad andare a parlarle.
Lui non era nessuno in quel momento, non faceva parte della sua vita, non ne faceva parte da un bel po’, e avrebbe fatto una figura di merda colossale ad andare lì come per rivendicare qualcosa che era sua.
Perché Mimi non era più sua, doveva metterselo in testa.
Con un sospiro, decise di cercare di mantenere la calma e avvicinarsi di più alla soglia del balcone per poter ascoltare, senza smettere si sentire vivo quel senso di allarme e protezione che l’arrivo di quel ragazzo gli aveva scaturito.
La ragazza si voltò di scatto e rimase stupita non appena si trovò davanti la figura di Shinichi. Era lui in carne ed ossa, che la tratteneva dalle braccia e non sembrava volerla mollare.
Presa alla sprovvista, fece cadere la sigaretta spenta dalla mano e lo guardò di uno sguardo misto tra l’incredulo e l’intimorito.
Come aveva fatto a trovarla? Perché era lì, in casa sua, senza preavviso?
Cielo, credeva di averlo liquidato con quella chiamata, mentre lui era lì...
Non voleva lui, non voleva che fosse Shinichi quello ad averla raggiunta.
Era qualcun altro che aspettava.
«Mimi» la chiamò puntando gli occhi azzurri su di lei.
La castana aprì la bocca senza sapere che dire.
Era così talmente spiazzata dalla sua presenza che non sapeva cosa dirgli e, soprattutto, sentiva quella presa troppo salda per i suoi gusti.
Perché non la lasciava?
Le dava fastidio anche solo sentire un altro tocco su di sé.
Sapeva bene quale voleva.
«Shinichi?» chiese scrutandolo con gli occhi spalancati «Che... che ci fai qui?» balbettò trafelata.
Lui diede un gran sospiro disperato.
«Mi ha aperto il tuo coinquilino» la informò, e Mimi pensò che Joe doveva essere ubriaco per averlo fatto. Non gli era mai stato troppo simpatico.
«Devo parlarti, per favore, ascoltami» la scosse dalle braccia, facendo trasparire un’urgenza che la lasciava interdetta.
Perché insisteva ancora?
Le dispiaceva pure giocare il ruolo della cattiva, non voleva certo che lui stesse ancora a pensare a lei, però pensava di essere stata chiara.
«Abbiamo già parlato, io...» tentò di liquidarlo, dando un’occhiata nei dintorni per cercare una via di fuga.
Il ragazzo non sembrava avere intenzione di mollarla e lei cominciava davvero ad essere in soggezione.
«Mimi, ascoltami!» Shinichi alzò la voce e la scosse un po’ troppo forte, tanto da farla barcollare.
Taichi, che stava sentendo, cacciò un sospiro infastidito da quella veemenza, rizzandosi sul posto.
Non doveva intervenire, doveva capire cosa stava succedendo e cosa quel tizio volesse da lei, doveva stare fermo...
Non importava se quello le aveva alzato la voce, non importava se la stava importunando stringendola, e lui conosceva Mimi, odiava quando si sfiorava una certa linea con il contatto fisico e sapeva che ne era infastidita.
Calmo, doveva stare calmo...
Tentò di mantenere tutta la sua forza di volontà per restare sulla soglia, di spalle, senza emettere suono.
«Devi ascoltarmi, perché io non posso sopportare di stare a casa sapendo che hai voluto chiudere con me!» lo udì esclamare, e alzò un sopracciglio interrogativo.
Mimi era stata insieme a quello lì?
Ci aveva avuto una storia oppure solo una semplice frequentazione?
Allora Joe diceva il vero il giorno prima al locale, non era una delle sue solite frottole.
Lo aveva fatto entrare nella sua vita come aveva fatto con lui, tempo fa.
Magari gli aveva fatto vedere il meglio e il peggio di sé, lo aveva portato a casa, nel suo letto, gli aveva dato tutto il bello della persona che era...
Si morse piano il labbro inferiore costringendosi ad ascoltare ancora, nonostante si sentiva improvvisamente pervaso da un inaspettato senso di gelosia.
Mimi aveva avuto tutto il diritto di frequentare qualcun altro.
Non era come lui, fissato con il passato e incapace di mettere un punto e vedere altre persone.
Però faceva male, porca puttana...
Un male cane che non gli permetteva di respirare al sol pensiero che lei potesse aver provato anche solo un minimo delle emozioni che avevano provato entrambi.
«Per cosa, poi? Non l’ho mica capito» udì continuare il tizio.
Shinichi aprì le braccia e Mimi abbassò lo sguardo sentendosi colpita.
«Hai parlato di testa e di nuvole, ma io non riesco a crederci! Quando stavamo insieme stavamo bene, non c’era niente che non andava, quindi perché hai voluto finirla?»
A sentire quelle parole, Tai smise di mordersi il labbro e fece una smorfia in maniera spontanea. Poi diede un’occhiata al suo bicchiere e bevve.
Quando stavano insieme, aveva detto... evidentemente non lo erano mai stai veramente se era bastato così poco per farli lasciare.
Un vero peccato, decisamente...
Gli venne da credere che forse Mimi pensava ancora a lui, ma non voleva avere la presunzione di insinuarlo.
Anche se era bello immaginare che anche lei non riuscisse a portare avanti una relazione a causa del suo pensiero invadente.
Perché era quello che era successo a lui.
Due anni con la porta chiusa a qualsiasi ragazza avesse mai cercato di avvicinarsi, e di occasioni ne aveva avute parecchie.
Ma niente, nessuna era riuscita ad aprirla.
Sentì questa bisbigliare qualcosa.
«Te l’ho detto, Shinichi... E’ complicato... troppo complicato...» ma cosa c’era di così complicato?
Se quel ragazzo le piaceva, qual era il motivo per cui lo aveva mollato?
Perché non lo diceva e basta?
Stava impazzendo, voleva capirlo, voleva sentirglielo dire...
La ragazza percepì i battiti del suo cuore accelerare. Shinichi la fissava con le orbite di fuori, desiderava una risposta più esauriente, ma lei non aveva intenzione di dargliela.
Era stato già difficile fare i conti con sé stessa, ammetterlo per prima; non avrebbe mai detto a lui di provare ancora qualcosa per una persona che non pensava a lei.
Per una persona che non aveva fatto niente per trattenerla.
Per una persona che non l’aveva cercata per quasi due anni.
Per una persona che tuttora non le rivolgeva la parola se non costretta.
Alzò lo sguardo per sbaglio e vide il ragazzo di fronte che la osservava livido in volto.
«Abbi almeno la decenza di dirmelo in faccia!» la rimproverò, e da un certo punto di vista nemmeno riusciva a dargli torto.
«Io ho dato tutto per te, forse troppo e non lo meritavi!» esclamò con passione.
Doveva tenerci veramente se le diceva una cosa del genere. Eppure, per quanto le dispiacesse, non riusciva a coglierne la logica.
Si erano frequentati per poco tempo, era matematicamente impossibile che Shinichi fosse preso così tanto da lei.
Adesso le sembrava solamente un modo per farla sentire in colpa.
«Ci vedevamo da soli due mesi, cosa volevi che ci fosse...» si lasciò sfuggire forse un tantino troppo cinica.
Lo vide assumere un’espressione spaesata per qualche secondo, e ne approfittò per cercare di dileguarsi dalla sua presa. Quello, però, la bloccò nuovamente, e Tai emise uno sbuffo irritato.
Perché non si rassegnava e la lasciava andare?
Perché era così fottutamente invadente?
Era lui che doveva esserci lì, non un tizio qualsiasi che tentava di avere qualche diritto su di lei quando non aveva nemmeno idea di come fosse essere amato da una persona come Mimi.
Lui lo sapeva, e dannazione, gli stava logorando l’anima il ricordarlo.
«Il problema non è la durata» disse, assumendo improvvisamente una faccia seria nella quale la castana lesse della malizia
«Il problema è che tu sei ancora innamorata del tuo ex, giusto? Non dire bugie, sii sincera con te stessa per una volta» la volle colpire appositamente e in maniera gratuita.
Mimi si sentì sprofondare di fronte a quell’affermazione.
Sembrava l’avesse letta nel pensiero, e sentire così ad alta voce qualcosa che teneva ben sotterrata dentro di sé la destabilizzò.
Tai aprì la bocca stupefatto.
Lei non aveva ancora risposto, ma sperò con tutto il cuore che gli desse una risposta positiva, che lo mandasse a quel paese senza tanti giri di parole.
Il cuore aveva cominciato a tamburellare, e d’un tratto provò una sensazione di inquietudine coglierlo.
Mimi non aveva ancora reagito. Aveva in volto un’espressione ferita e provò a farsi forza per non apparire debole di fronte a quelle accuse.
«Tu... tu non sai niente...» le uscì dalla bocca in un mormorio spezzato.
 
Come si era permesso a colpirla nel suo punto più vulnerabile?
 
Non riusciva a reagire, sembrava stesse per sciogliersi sul posto e forse sarebbe stato anche meglio che dover affrontare quel discorso.
 
Shinichi la guardò arrabbiato e indispettito. Decise di rincarare la dose, smosso dalla rabbia e dalla frustrazione.
«Lo ami ancora, dopo tutto quello che ti ha fatto passare!» esclamò, tentando di farla rinsavire da quel torpore.
Doveva svegliarsi, doveva capire a cosa stava andando incontro.
«Sei stata male per colpa sua, per colpa del suo egoismo! Pensaci, Mimi. Vuoi ancora andargli dietro?!» continuò, scotendola ancora dalle braccia e provocando in lei una tristezza infinita oltre che un senso di umiliazione.
Era vero... era sciocca ad esserne ancora innamorata...
Lo sapeva anche lei...
Una sciocca, stupida innamorata.
Taichi, nell’udire quelle parole proferite su di lui, tirò un profondo sospiro per mantenere ancora saldo il suo già precario autocontrollo. Fece un sorrisino sarcastico, pensando a quanta voglia aveva di andare a mollare un pugno in pieno viso a quel coglione che stava cercando di metterlo in cattiva luce davanti agli occhi di Mimi in modo da poterne risaltare.
Lui non sapeva niente, assolutamente niente di com’era stata la loro storia, di cosa avevano passato, di come si erano lasciati.
Lui non sapeva niente di quanto la loro storia fosse stata la cosa più bella che gli fosse capitata nella vita.
Lui non sapeva un cazzo dell’amore che li legava.
La castana alzò lo sguardo con un luccichio negli occhi.
Shinichi non conosceva Tai, non poteva sapere che tipo era.
Non avrebbe mai saputo cosa i due avevano provato insieme, come lui si era comportato con lei o come lei si era comportata con lui.
Avevano sbagliato, forse aveva ragione a reputarla una sciocca per essere ancora così dentro a quella storia, ma non gli avrebbe permesso di giudicare una persona che per lei era stata ed era importante.
Non aveva il diritto di giudicare lei e Tai.
Tutti, ma non lui.
«Non parlare male di Tai» disse ferma con le iridi che mandavano scintille «tu non lo conosci e non conosci nemmeno me» continuò, sentendo dentro di sé una rabbia divampare.
Questi rimase stupito per l’ardore con cui lo difese, mentre Shinichi emise una risatina bassa, di scherno.
«Non mi serve a niente conoscerlo» disse facendo una smorfia che designava indifferenza «Ho capito abbastanza di lui. Ha messo al primo posto la sua professione invece che te! Come fai a negarlo?!» continuò a pressarla psicologicamente.
La ragazza cominciò a tentennare e a sentire il peso di quelle constatazioni.
Erano delle cose che lei stessa gli aveva rivelato durante il corso della loro frequentazione, ma sentendole fuoriuscire dalla bocca del ragazzo facevano male.
Perché lei ne era consapevole.
Era consapevole che ormai era tutto finito... ogni cosa...
«Lui non è così» tentò nuovamente di difenderlo «Tu non sai niente...» ma la voce cominciò a spegnersi e insieme a quella le speranze.
Shinichi la fissò per qualche secondo. Poi decise di darle il colpo di grazia.
«Non ti ama, Mimi» lo riferì quasi con dolcezza. Lei lo guardò con gli occhi che incominciarono a farsi lucidi
«Non ti merita uno così. E’ venuto da te a parlarti dopo tutto questo tempo?» la sua era una domanda certamente retorica, perché sapeva già la risposta.
La ragazza abbassò lo sguardo e non rispose.
No, non le aveva parlato.
Non avevano mai parlato seriamente... probabilmente non lo avrebbero mai fatto, ma era ingiusto... era veramente ingiusto tutto quello...
«Perché è ovvio che non gli importa» soffiò infine, tagliente come la lama di un coltello.
Tai aprì la bocca, fissando il vuoto.
Come si era permesso?
Come poteva anche solo minimamente fare un’illazione del genere soltanto per ferirla?
Non sapeva niente, quel coglione, voleva colpirla nel suo punto più debole, ma lui era lì, era lì e non lo avrebbe permesso.
Lei era così fragile, bastava un soffio per farla crollare giù come un castello di cristallo, e a volte anche ingenua, perché aveva fatto sì che un tizio qualunque scavasse dentro i meandri delle sue debolezze per usarle contro di lei.
Mimi si sentì completamente distrutta. Cominciò a sentire le gambe diventare molli ed essere sul punto di cedere.
Certo che non gli importava, non gli era mai importato... sarebbe rimasta da sola per il resto della sua vita ad inseguire un amore perduto che mai avrebbe ritrovato...
Sentì le lacrime al bordo degli occhi.
Lo aveva fatto apposta per ferirla... le aveva detto tutte quelle cose per restituirle il male che gli aveva inferto...
Forse un po’ lo meritava.
Però non gliel’avrebbe data vinta, non sarebbe crollata di fronte a lui.
Alzò gli occhi castani e lo guardò con fervore.
«Questa conversazione è durata abbastanza per quanto mi riguarda. Lasciami andare» con un movimento brusco, si liberò dalla presa di Shinichi e lo lasciò lì fuori.
Le lacrime la colsero all’istante mentre abbandonava la sala, passando accanto a Taichi senza accorgersi della sua presenza.
Questi la guardò andare via e si convinse a farlo. Diede un ultimo sorso al suo alcolico e posò il bicchiere sopra il mobiletto.
Era ora di affrontarsi una volta per tutte.
Non l’avrebbe fatta scappare.
Quella volta sarebbe riuscita a raggiungerla.
Le sue gambe si mossero verso la stessa direzione in cui era sparita nel corridoio.
Il cuore batteva forte per la sbornia che gli era appena salita al cervello, ma era sicuro che non fosse solo per quello.
 
 
Sora e Matt erano ancora abbracciati. Non si dissero più niente se non qualche parola sussurrata con imbarazzo. Si erano limitati a godersi quella vicinanza reciproca dopo tanto tempo.
La ramata aveva la testa appoggiata sul suo petto, sentendo la presa ferrea del biondo su di lei.
Adesso che si erano baciati, che avevano trovato quello stato di pace le sembrava veramente sciocco aver dubitato per tutto il lasso di quel tempo della loro relazione.
Chiuse gli occhi, facendosi cullare dalla musica e dall’alcol che le inebriava la mente.
Sembrava la sciocca ragazzina di tanti anni fa, quando si era innamorata di lui e sentiva il cuore battere forte e le farfalle nello stomaco divorarlo...
Era una sensazione di piacere, di appagamento totale, anche se, nel profondo del suo cuore, sentiva che quello stato in cui si trovavano non era altro che uno stato di pace apparente.
Forse era ansiosa di natura, ma era più forte di lei controllare certe preoccupazioni...
D’un tratto, udì un fracasso provenire verso la loro destra. Alzò lo sguardo verso quella direzione e notò che anche Matt si era incuriosito.
Nel bel mezzo della sala, illuminati dalla palla di luce colorata, si trovava Takeru che inveiva contro Daisuke. Notò Hikari al lato che aveva una mano alla bocca, ma ci volle un po’ per capire cosa stesse succedendo.
Vide il biondino spingere con forza l’altro, allontanandolo dalla ragazza che li guardava timorosa. Avevano catturato l’attenzione delle persone attorno.
«Non la toccare!» lo sentirono urlare, e Matt s’irrigidì nel vedere il fratello reagire in quel modo «Vai a farti fottere, Daisuke!»
Questi aveva il volto strafatto e i capelli scompigliati. Probabilmente aveva cercato in qualche modo di avvicinarsi a Kari; magari era stato invasivo e TK si era innervosito.
Lo videro alzare le braccia in segno di difesa.
«Calmo, amico, non c’è bisogno di farti scoppiare la vena del collo!» esclamò quello con un sorrisino di scherno.
Yamato si staccò da Sora con una ruga di apprensione in volto non appena vide Takeru avanzare pericolosamente verso l’altro.
«Se ti avvicini di nuovo alla mia ragazza ti giuro su Dio che ti faccio riuscire la cocaina dal naso!» gli disse sferzante, minacciandolo in un modo che il fratello giurò mai gli aveva visto fare.
Davis indietreggiò, mentre lui fece un passo avanti per raggiungerli, ma venne subito preceduto da Joe che aveva visto tutto e si era premurato di intervenire.
«ALT!» li separò, guardandoli dall’alto in basso.
«Che sta succedendo qui?» vide il biondino ignorare la sua domanda e guardare Kari con uno sguardo indecifrabile, allora si rivolse al tinto amaranto che lo fissava e rideva.
«Daisuke, figlio delle bestie, ti avevo detto di starmi attaccato al deretano! Vieni qui!» gli urlò, poi lo afferrò da un braccio senza riscontrare una certa resistenza.
Lo trascinò con sé come fosse un sacco di patate, rivolgendosi alle persone che si erano avvicinate per constatare cosa fosse successo.
«Non è successo niente, ragazzi, continuate pure!» lo udirono esclamare con un sorriso di scuse, allontanandosi dal soggiorno con l’altro alle calcagna.
TK non fece passare un secondo in più, mise un braccio sulle spalle di Kari e la portò con sé fuori dal balcone.
Sora alzò lo sguardo verso Matt che fissava la direzione in cui era scomparso il fratello. Lo vide preoccupato e scosso da ciò a cui avevano assistito, così gli strinse un braccio per infondergli calore.
Aveva le sopracciglia contratte e sentiva di voler andare al più presto a parlare con TK di quello che gli stava succedendo.
Perché era diventato in quel modo? Perché era il riflesso di un ragazzo che non conosceva più?
Si voltò a guardare la ragazza e le fece uno sguardo allusivo.
«Scusami» le disse e decise di andare da lui e affrontarlo una volta per tutte.
Sapeva che avrebbe lasciato di nuovo Sora da sola, ma era così preoccupato da non riuscire più a evitarlo.
La ramata lo fissò andar via con un sospiro.
 
Sorpassò alcuni ragazzi che ridevano proprio sulla soglia del balcone e uscì fuori. Individuò suo fratello appartato in un angolo insieme ad Hikari. I due stavano parlando fitto fitto e si avvicinò per tentare di capire cosa stessero dicendo.
«Perché ti sei fatta avvicinare da quell’idiota?!» suo fratello era livido, lo captava dal suo tono di voce e dalla foga con cui stava stringendo la ragazza.
Questa fece una faccia spaesata.
«Si è avvicinato lui, io ti giuro che non ho fatto niente!» la udì difendersi, allargando le braccia per potersi spiegare.
Avanzò ancora di più fino ad arrivare dietro TK che ancora inveiva.
«Io non lo sopporto! Mi viene voglia di prenderlo a calci in faccia!» aveva esclamato, passandosi violentemente una mano tra i capelli biondi.
Notò che non portava il cappello. Rimase lì dietro con le braccia incrociate, fino a quando Kari si accorse di lui e fece una faccia stupefatta.
Decise allora di intervenire.
«Cosa diamine è successo?» chiese con un tono di voce duro, mentre il fratello si voltava e lo fissava interrogativo.
«Volevate prendervi a botte davanti a tutti?» forse fu un tantino troppo brusco, perché vide TK irrigidirsi di fronte alla sua presenza e fare una faccia irritata.
«Ci mancavi giusto tu a rompere il cazzo!» imprecò, e gli lesse il risentimento nel suo tono di voce.
Matt si infastidì e si avvicinò al ragazzo, stringendogli un braccio. Kari li guardava preoccupata e con gli occhi lucidi.
Adesso basta.
Doveva smetterla. Era ora che la finisse di avere quell’atteggiamento arrogante e strafottente. Era suo fratello maggiore, lo aveva sempre aiutato, aveva sempre creduto in lui... perché si comportava così?
Perché era così cambiato?
«Stai esagerando con me, Takeru» soffiò lapidario, vedendo per qualche secondo le difese dell’altro abbassarsi di fronte a quel gesto inaspettato.
«Non credere di potermi rispondere in questo modo perché non te lo permetto!» ringhiò, mollando la presa con ribrezzo.
Quello lo fissò incredulo e si portò spontaneamente una mano al braccio dove gli aveva fatto male.
Come si permetteva? Come si permetteva a fargli male in quel modo come fosse una persona qualunque?
Proprio a lui...
Matt lo fissava con disgusto.
«Guardati come sei combinato...» sibilò, riferendosi ai suoi capelli scompigliati, la sua giacca trasandata, i suoi occhi arrossati per colpa del fumo.
Poi lo vide assumere un’espressione di rammarico.
«Eri un ragazzo così in gamba... Mi fidavo di te!» esclamò con vigore, tentando di trasmettergli tutto il dolore che provava nel vederlo in quel modo.
TK strinse le labbra.
Lo capiva che non l’accettava, ma non gliene importava. Se pensava di potergli fare la morale solo perché aveva qualche anno in più cadeva male.
Aveva visto come si era ridotto alla sua età e preferiva fare quello che già faceva pur di non diventare come lui.
Sapeva che erano pensieri forti, sapeva che Yamato lo diceva perché ci teneva a lui, ma non riusciva a frenare quel risentimento nel vederlo in quel modo.
«Senti, a me di quello che pensi tu non importa» sputò fuori utilizzando un tono di sufficienza che colpì l’altro
«Sei l’ultimo che può farmi la morale. Guarda dentro te stesso una volta tanto e preoccupati meno degli altri»
Si avvicinò automaticamente verso di lui arrivando ad un palmo del suo viso.
Erano diventanti alti uguali... il suo fratellino... aveva dato così tanto per lui...
«Non sei migliore di me. Tu non sei migliore di nessuno» gli sussurrò con un tono ovvio che lasciava trasparire una certa soddisfazione nel constatarlo.
Il biondo sentì distrattamente un vuoto allo stomaco.
Erano arrivati veramente a tanto senza nemmeno accorgersene? Erano arrivati a combattere una guerra che mai avrebbe desiderato combattere solo per orgoglio di prevalere sull’altro...
Rivoleva indietro il suo fratellino...
Ne aveva bisogno più dell’aria.
«Mi stai deludendo così tanto, TK» soffiò disperato, e l’altro riuscì a leggergli la sincerità negli occhi.
Erano limpidi come i suoi; si somigliavano così tanto anche se era evidente quanto erano diversi.
Si voltò di spalle.
«Mai quanto tu hai deluso me» disse di rimando, per poi voltarsi con la testa e dargli un ultimo sguardo.
«Quello non si può comparare» udì il suo tono amareggiato e nello stesso tempo risoluto prima di vederlo afferrare Kari da una mano e andare via.
Non riuscì nemmeno a seguirlo. Sentì solo gli occhi lucidi, una voglia irrefrenabile di piangere, sfogarsi per tutto quello che aveva passato.
Si sentiva distrutto, svuotato da ogni singola emozione.
Suo fratello gli aveva dato il colpo di grazia e adesso non riusciva nemmeno a muoversi. Sembrava come una teca di vetro, che se solo un leggero colpo di vento l’avesse spostata si sarebbe frantumata in mille pezzi.
E la fine era vicina, molto vicina.
 






 

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Capitolo 10
*** Cenere ***








Mimi entrò in bagno con le lacrime agli occhi. Aprì il rubinetto del lavandino in modo brusco, sentendo dentro di sé l’umiliazione e la disperazione tenerla stretta.
Shinichi aveva voluto ferirla appositamente solo perché non ricambiava i suoi sentimenti, e lei adesso stava così male perché ne era consapevole.
Era consapevole di essere una sciocca, illusa, ragazzina che aspettava qualcosa che probabilmente non sarebbe accaduta mai... lo sapeva... certo che lo sapeva...
Si sentiva così dannatamente vuota e inutile nel constatare quanto ancora soffrisse per lui... era un dolore troppo forte, le partiva da dentro e la distruggeva...
La rendeva vulnerabile, incapace di reagire se non piangere lacrime amare.
Tirò sul con il naso mentre due lacrime le solcavano il viso. Strappò con forza della carta igienica per asciugarsi gli occhi.
Non voleva trovarsi in quello stato. Voleva tanto essere forte, indifferente a quelle dure parole che le erano state rivolte, ma come faceva?
Era la cosa che più in assoluto aveva paura di affrontare. E adesso che era stata messa di fronte alla realtà, questa tentava di stritolarla.
Mise le mani sotto l’acqua corrente e portò le dita al bordo degli occhi castani, tamponando leggermente per cercare di salvare il trucco.
Taichi la raggiunse e la vide impegnata a guardarsi allo specchio. Non si era nemmeno premurata di chiudere la porta, e pensò che era stato meglio così.
Non avrebbe sopportato un’altra scusa per rimandare quel momento.
Si sentiva agitato, nervoso; gli effetti dello spinello e di tutto l’alcol che aveva bevuto non facevano altro che amplificare quel suo senso di tensione.
Mimi non si era accorta di lui, non si rese conto nemmeno della porta che venne chiusa e della mandata di chiave che il ragazzo diede subito dopo.
Sarebbero stati soli.
Solo loro due, nessuno li avrebbe disturbati. Nessuno poteva interrompere quel momento tanto atteso.
Non lo avrebbe permesso a nessuno perché aveva aspettato per troppo tempo, due anni prima di fare i conti con i suoi sentimenti.
Non poteva più fingere. Adesso che aveva visto Mimi piangere e dimostrare che ancora teneva a lui doveva farlo...
Con un sospiro, il ragazzo si avvicinò lentamente a lei. La vide impegnata a piegare un fazzoletto bagnato e a portarlo in viso, troppo attenta a rendersi presentabile agli occhi della gente.
Come sempre.
Come sempre indossava una maschera che non le apparteneva.
Ma lui aveva imparato a conoscerla bene. La conosceva come le sue tasche. E lei conosceva lui.
Per questo non potevano più scappare da quello che provavano.
La guardò per un altro po’ fino a quando non decise di parlare.
«Era quello il manzo imbalsamato?» la domanda risuonò per tutto il bagno e Mimi s’interruppe improvvisamente da quello che stava facendo, spaventata, con gli occhi sgranati di fronte alla visione del ragazzo appoggiato contro il muro.
Gli dava fastidio... fremeva dalla gelosia nel pensare che lei avesse permesso che un altro giudicasse la loro storia.
Quella storia era solo loro e di nessun’altro.
Nessun’altro poteva valicare quelle barriere, solo loro due.
Tai la guardava con uno sguardo che non riusciva a decifrare, era lì dietro di lei, lo aveva visto dallo specchio, e il cuore aveva fatto un balzo fino alla gola per lo spavento e l’emozione.
Da quanto tempo era lì?
Come aveva fatto a non accorgersene? Probabilmente l’aveva vista piangere, e che figura ci aveva fatto... era nuovamente passata per la più debole, la più succube, e lei non voleva essere in quel modo.
Con un sospiro, tentò di ridestarsi, ma aveva lo stomaco in subbuglio.
«Non... non so di cosa tu stia parlando...» la voce le si rinchiuse in un sussurro, e odiò il suo tentennamento nel rispondere, il tremolio con cui disse quelle parole.
Doveva risultare convincente e invece era così spaesata nell’averlo trovato dietro di lei che non sapeva cosa fare, cosa dire, come comportarsi...
Tai strinse le labbra e fece un’espressione strana. Alzò le sopracciglia scetticamente, come a voler contestare quello che gli aveva appena risposto.
Non doveva mentire a lui, perché la scovava senza il bisogno di guardarla. Bastava solamente l’indecisione della sua voce a fargli decifrare il suo stato d’animo.
Certe cose rimanevano invariate per quanto avessero cercato di cambiarle.
«Eppure mi è sembrato abbastanza insistente» soffiò il castano con voluta eloquenza.
Non sapeva nemmeno perché le diceva quelle cose, forse avrebbe dovuto rivolgerle parole diverse dopo così tanto che non innescavano una discussione da soli, ma non ce la faceva.
Nella sua testa risuonavano le frasi di quel tizio che voleva trascinarla giù, macchiare la memoria del loro amore, gettare merda su di lui insinuando che non avesse un minimo di riguardo per lei.
Non era vero.
Lui stava fremendo per quanto la voleva.
Mimi rimase impietrita sul posto, non sapendo come controbattere.
Perché le diceva quelle cose? Forse aveva captato qualcosa del discorso con Shinichi, era per questo che le si rivolgeva con quelle frasi allusive...
Voleva farle sapere che lui era lì, anche quando credeva di essere da sola.
E, figurativamente, sapeva che era vero, perché la sua presenza non l’aveva mai abbandonata, era come la sua più dura ossessione, la sua pena più grande ma anche quella più dolce.
Strinse le sopracciglia.
«Cos’hai sentito?» chiese con una nota infastidita, stringendo il fazzoletto bagnato tra le dita.
Tai alzò le spalle facendo una smorfia con le labbra, poi la guardò con un’espressione carica di rammarico.
«Tutto» le rivelò, sapendo che non sarebbe servito a niente mentire.
Voleva che sapesse che aveva capito cosa c’era stato con quel ragazzo, che aveva udito le sue parole difensive nei suoi confronti, che era consapevole del fatto che lei fosse rimasta ferita dalle frasi appositamente taglienti che le erano state rivolte.
Voleva che sapesse che il petto gli bruciava dalla gelosia.
Voleva che sapesse tutto.
La castana boccheggiò, incredula, spaesata, colta in fallo.
Aveva sentito tutto.
Dio, aveva sentito tutto quello che Shinichi le aveva detto, il fatto che erano stati insieme, la sua decisione di aver voluto mettere un punto a quella frequentazione...
Taichi la fissava ancora, le braccia dietro la schiena, ancora contro il muro e lo vide mordersi il labbro in un gesto nervoso.
Lei deglutì, impaurita, denudata, l’orgoglio completamente fatto a pezzi.
Aveva sentito lei che aveva preso le sue difese con vigore dopo che per due anni non si erano più cercati, dopo che avevano chiuso la loro relazione... aveva capito quanto le parole di Shinichi l’avessero ferita più di una coltellata...
L’aveva scoperta.
Tentò di acquisire quella sicurezza ormai persa da un po’.
«Non... non è educato origliare» se ne uscì usando un tono che avrebbe voluto apparire redarguente, ma che alle orecchie dell’altro suonò come segno di evidente difficoltà.
Taichi si spostò dal muro e fece dei passi avanti.
Lei non ricambiava il suo sguardo, faceva finta di piegare quell’inutile fazzoletto tra le mani come se fosse una cosa di estrema importanza.
Tanto non avrebbe potuto sfuggirgli.
«Nemmeno non guardare negli occhi le persone» replicò lui beffardamente, avvicinandosi a lei, violando la distanza interpersonale che li separava.
Era come se la stesse provocando apposta, piccato, ingelosito, colpito.
Voleva che lo guardasse, così da essere entrambi fottuti.
Mimi alzò gli occhi di riflesso e quasi le venne un colpo quando se lo ritrovò così vicino. Lo scrutò in viso, si scrutarono entrambi dopo tanto tempo.
Non si guardavano in quel modo intenso negli occhi da due lunghi, lunghissimi anni e adesso sembravano volersi beare di quella visione che avevano dell’altro.
Lei pensò a quanto fosse bello, più bello di come era stato. I capelli più corti ma sempre sbarazzini, il volto espressivo, gli occhi castani che, seppur lucidi, la accarezzavano fermamente.
«Cosa vuoi, Tai?» le chiese tentando di scorgere la più piccola espressione sul suo volto che poteva anticiparle le sue intenzioni.
 
Voglio te.
 
Avrebbe desiderato dirglielo, sentì l’impulso di farlo, probabilmente spinto dallo stato alterato in cui si trovava.
Aveva una voglia spropositata di stringerla a sé.
Alzò leggermente la testa e sospirò.
«Parlarti» le disse, cercando di contenersi con tutte le sue forze.
Era questa la sua intenzione iniziale, ma non capiva se quell’atmosfera pesante in cui si trovavano o la sua condizione psichica lo stessero spingendo sempre di più a fare dell’altro.
Si sentiva attratto da lei come una calamita, e forse l’astinenza del non vederla, non toccarla, gli provocava delle sensazioni contrastanti, delle voglie irrefrenabili che faticava a controllare.
Era in bilico sul suo autocontrollo.
«Non abbiamo niente da dirci» udì rispondere da quelle labbra rosee, e si disse che probabilmente non aveva neanche tanto torto.
Tai si avvicinò ancora di più, mantenendo fisso il suo sguardo, mentre Mimi indietreggiò automaticamente, sentendosi nella più pericolosa delle trappole.
Dio mio... che stava succedendo?
Era vicino, troppo vicino...
«Ne sei sicura?» sussurrò lui, ma sembrava lo avesse detto di riflesso, troppo impegnato a guardarla come volesse leggerle dentro.
Catturarla.
E ci sarebbe riuscito, se solo non si fosse spostata.
«Non mi sembra il momento giusto questo» obbiettò e con un gesto fece per passargli avanti, ma lui l’afferrò dalle braccia e la bloccò contro il muro.
Lo fece con foga, ma senza farle male.
Solo voleva che non andasse via, che non scappasse. Voleva che stesse lì davanti a lui, solo loro due insieme e i loro respiri.
Quello della ragazza si fece più pesante. Il cuore batteva forte come un tamburo ed era stordita, incredula, eccitata.
«Hai paura di ferire il tuo ragazzo?» la provocò lui, guardandola di uno sguardo indispettito, cinico, quello che era solito rivolgerle quando era geloso.
E lo era, geloso. Era così geloso che avrebbe ammazzato quello stupido con le proprie mani se solo lo avesse visto un’altra volta con lei.
Aveva cercato di screditarlo ai suoi occhi, aveva cercato di prendersela, ma con scarsi risultati...
Mimi era sua.
Lui lo sapeva.
Lo sentiva.
Questa strinse le braccia che ancora la brandivano, e gli rivolse uno sguardo infuocato.
Le faceva quelle scenate dopo anni, si ingelosiva immotivatamente quando non si era premurato di rivolgerle la parola, quando l’aveva lasciata marcire nella più cupa delle sofferenze...
Era la prima volta che parlavano così da vicino da quando si erano lasciati, e lui pretendeva di avere il primato sulle sue scelte... non sapeva più niente di lei, non sapeva più niente della sua vita, quindi perché doveva immischiarsi in quel modo?
«Non è il mio ragazzo!» esclamò, spingendolo affinché si spostasse. Lo guardò con rabbia, risentimento, umiliazione per non aver ricambiato il suo amore quando avrebbe dovuto farlo.
«Cosa ti aspettavi, Taichi?» gli urlò in faccia, accecata dal peso della sofferenza che aveva dovuto subire.
«Dopo tutto questo tempo, ti aspettavi che non conoscessi nessuno?» continuò retorica, mentre lui abbozzava un sorrisino sulle labbra.
«Sono sicura che anche tu sei stato con qualcuna, quindi non venire a...»
Venne interrotta dal braccio di lui che rimase a mezz’aria e la rinchiuse nuovamente, appoggiando il pugno contro il muro.
Mimi spalancò gli occhi.
Lo vide scuotere la testa amaramente, con uno sguardo velato negli occhi.
«Non sono stato con nessuno» mormorò e sentì il suo respiro contro il volto. Vide che la guardava intensamente, come volesse spogliarla con lo sguardo.
Era bellissima, forse la ragazza più bella che avesse mai visto.
Il suo volto era fine e candido, i suoi occhi luminosi e sinceri... e il suo corpo... Dio, sentiva che sarebbe esploso se solo non si fosse avvicinato di più.
La voleva con tutto il suo cuore, sentiva le difese abbassarsi gradualmente, l’eccitazione per averla vicina prendere il sopravvento...
Al diavolo quella piccatezza, a lui che si era innervosito, perché quando la guardava negli occhi non riusciva a non pensare che era la persona più pura che avesse mai incontrato.
«Specie dopo averti vista adesso... Non credo riuscirò mai» le confidò facendola rimanere di stucco, senza parole, svuotata perfino da ogni singolo pensiero.
Si guardarono ancora, di uno sguardo che trapelava disperazione, desiderio.
Mimi lo vide farsi sempre più vicino.
Vicino, troppo vicino...
Vicino...
Al diavolo quel tizio, al diavolo tutto...
Tai le prese il mento con le mani e si avventò sulle sue labbra, senza lasciarle il tempo di dire qualcosa. Mimi strinse gli occhi e sentì la testa girare; pensò se non fosse tutto un sogno, ma quando la presa del ragazzo passò salda ai suoi fianchi, non ci pensò due volte a lasciarsi andare e gettare a sua volta le braccia al suo collo.
Schiuse le labbra e lo baciò con passione, sentendo la lingua del ragazzo lambire la sua con urgenza folle, quasi potesse scappare da un momento all’altro.
Le passò una mano dietro la nuca, stringendole i capelli castani. La ragazza sentì il suo corpo premere contro di lei e con una mano strinse il suo fianco per farlo aderire ancore di più a sé.
Se quello era il paradiso avrebbero dovuto dirglielo, perché sentiva di esserci finalmente arrivata...
L’odore, il sapore di Taichi dopo tanto tempo era la cosa più bella che le fosse mai capitato...
Si staccarono appena, solamente per mancanza d’aria. Si guardarono per qualche secondo, rossi in volto, il respiro affannato.
Era troppo presto per smettere...
Troppo bello per farlo finire.         
Tai si sporse per baciarla ancora e lei, stordita, lo strinse di nuovo a sé. Sentì la mano del ragazzo scendere sotto la sua schiena, fin troppo sotto, ed emise un mugolio spontaneo. Lui interruppe il contatto con le sue labbra e scese a baciarle il collo, mentre lei cacciò leggermente la testa all’indietro, gli occhi chiusi, completamente persa.
Lo voleva, lo voleva ancora, lo voleva di più...
Sentiva una strana sensazione, erano come delle scariche elettriche che partivano dal suo basso ventre e le facevano perdere il controllo, totalmente.
Sentì la presa al suo fondoschiena farsi più insistente, poi il ragazzo salì con le mani accarezzandole i fianchi, la schiena e poi sfiorarle il seno.
Credette di impazzire quando premette maggiormente sopra di lei e sentì la sua erezione contro il suo corpo.
Alzò gli occhi e lo vide ansimare davanti al suo viso, il fiato corto, il volto arrossato.
Aveva voglia di lei.
Dio, aveva una voglia spropositata di lei...
Mimi strinse la sua camicia con una mano.
Sentiva i rumori provenire da fuori ovattati e la testa galleggiare.
Non voleva pensare, voleva solo agire, voleva godersi quel momento.
Lanciò uno sguardo a Tai che ancora la guardava, e con un gesto delle braccia lo tolse di peso da sopra di lei e lo spinse contro il muro di fronte.
Si inginocchiò all’altezza del suo ventre e cominciò ad armeggiare con i suoi pantaloni, sentendosi stordita dall’alcol e dai sentimenti, così tanto da non riuscire a controllarsi.
Il castano fece una faccia sorpresa, eccitandosi ulteriormente non appena la vide abbassargli i pantaloni e i boxer.
Mimi accarezzò il suo membro eretto con una mano, pensando distrattamente a quanto tempo fosse passato. Lo accarezzò andando su e giù per un paio di volte, mentre Taichi stringeva le labbra per non emettere nessun suono rumoroso.
Era veramente difficile mantenersi.
Quando la ragazza si avvicinò e lo accolse in bocca, non riuscì a non lasciare andare un sospiro roco e di piacere. Mimi lo succhiava e andava su e giù, mentre con una mano continuava a tenere ferma l’estremità.
Le lanciò uno sguardo sconvolto, vedendo lei che aveva fatto lo stesso, gli occhi lucidi e pregni di desiderio.
«Ah... oh, Mimi...» sussurrò con la voce spezzata, e le mise una mano sulla testa, stringendole appena i capelli, facendo in modo che affondasse ancora contro il suo membro.
Mimi alzò un braccio e gli accarezzò l’inguine facendolo indietreggiare di più verso il muro.
Dio, sarebbe scoppiato, lo sapeva... era passato così tanto tempo... sarebbe venuto tra non molto se avesse continuato in quel modo e lui voleva di più...
Voleva di più, molto di più...
La bloccò, facendola staccare da lui. Con un gesto repentino la mise in piedi alzandola dalle braccia, poi la prese dai fianchi, caricandosela in braccio.
La castana gli si agguantò al collo baciandolo di un bacio umido, sentendo i suoi capelli di mezzo, mentre Tai la trascinava con foga verso una direzione.
Sentì la cintura del ragazzo strisciare per terra e tintinnare.
La posizionò sopra la lavatrice di peso, e nel movimento caddero un paio di cose che stavano appoggiate, facendo un rumore sordo.
«Tai...» lo chiamò con gli occhi chiusi, come fosse un’invocazione.
Lui non gli diede modo di parlare.
«Sssh...» le mormorò, baciandola ancora sulle labbra, reclamando la sua lingua.
Mimi aprì un braccio appoggiandosi al muro, mentre con l’altro teneva stretto Tai che era sceso a baciarle il collo. La sua mano si insinuò dentro il suo reggiseno e ben presto le abbassò le spalline del tubino fino a sotto le spalle per poterlo succhiare liberamente. Lei non riuscì a fare a meno di emettere un gemito, e d’un tratto sentì la mano di lui arrivare fin sotto il suo inguine.
Le spostò le mutandine e cominciò ad accarezzarla con le dita, continuando a baciarla dappertutto, mentre lei non potette fare a meno di ansimare.
Ne voleva ancora, ancora, non era mai abbastanza...
Dopo un po’ di tempo, Tai si allontanò leggermente e lei lo guardò preoccupata. Poi lo vide abbassarsi, alzarle ancora di più il vestitino fin sopra alla vita.
Dio, cosa stava succedendo...
Era così eccitata da non avere la cognizione.
Lo guardò sfatta, desiderosa, vedendo le mani del castano che le sfilavano le mutande e le lasciavano ricadere su di una gamba.
Poi con le mani le stringeva le cosce, allargandole, abbassandosi quel tanto da arrivare con il volto all’altezza del suo inguine. Mimi boccheggiò. Non appena sentì la sua lingua farsi strada dentro di lei, che le toccava quel punto, una scossa di cariche di piacere la pervasero.
Inarcò la schiena, gettando indietro la testa.
«Oh, Dio...» gemette, allargando di più le cosce, stringendo di riflesso i suoi capelli per poterlo sentire meglio.
La stava leccando, la stava assaporando come non aveva mai fatto.
Era qualcosa di così intimo, così sensuale, così eccitante... sentiva di volere la lingua di Taichi dentro di lei per sempre...
Per sempre...
La ragazza si strinse di più a lui con una gamba, stando attenta a non fargli male con il tacco della scarpa.
Era estasiata, eccitata, completamente senza difese.
Sentì la lingua di Tai leccarla con più decisione. Si mosse con il bacino, contraendosi per gli spasmi, mentre lui la leccava ed inseriva un dito, due dita, la stuzzicava facendole sentire un piacere così intenso da pensare di essere arrivata già al limite.
Il ragazzo, però, passò a baciarle l’interno cosce, fino ad alzare il capo e guardarla.
Mimi era sconvolta, i capelli scompigliati, il trucco ormai sbavato.
Era così attraente sfatta in quel modo, non ce la faceva, voleva prenderla subito.
Era passato troppo tempo, così tanto tempo che non importava né il luogo, né il momento.
Importava solo che fossero loro due, chiusi nella loro bolla, lontani dal mondo circostante.
Si alzò, e lei non perse tempo, si avventò a togliergli la giacca, a slacciargli la camicia, mentre lui si piegava e le baciava il seno nudo.
Lo vide prendere in mano il suo membro turgido, e quasi ebbe paura non appena capì quello che sarebbe successo, ma la sua mente si era soffermata su Taichi, solo su di lui, e ogni dubbio, ogni incertezza sfumò.
Sentì il suo pene che si appoggiava all’entrata, faceva leggermente fatica a insinuarsi e lo vide abbassarsi con la fronte contro la sua prima di penetrarla completamente con un’unica spinta.
Mimi lanciò un mugolio acuto non appena lo sentì dentro di sé e Tai emise un gemito virile di piacere.
Era calda e stretta, troppo stretta, ma pian piano cominciava ad abituarsi di nuovo alla sua presenza, ad accoglierlo come faceva una volta.
Era da tanto, troppo tempo che non era stata con qualcuno... aveva aspettato lui...
E lui si sentiva grato che lo avesse fatto.
Spinse in lei dapprima moderato per farla abituare, poi accelerò il ritmo. Mimi sentì la testa girare, le braccia intorno al collo dell’altro che lo tenevano stretto a sé.
Lui la stringeva dai fianchi, i pantaloni abbassati sotto le cosce, la cintura che ciondolava per terra.
Doveva contenersi, era troppo tempo che non provava quelle sensazioni, sarebbe venuto subito...
Mimi ansimava all’altezza del suo orecchio e quello non fece altro che incrementare la sua eccitazione.
Con un ringhio la penetrò più forte, facendola urlare, rivoltare la testa all’indietro.
Era così piena di lui... troppo... non avrebbe desiderato nient’altro...
Lo giurava...
Aprì gli occhi impastati e lo guardò fisso. Lui la guardava già, e in quello sguardo intenso lesse un sentimento così grande, un amore contenuto, ma troppo grande da tenerlo ancora a bada.
Si chinò sulle sue labbra e la baciò ancora con forza, mentre lei mugolava, persa in tutto il piacere che le stava donando.
Poi si staccò e la guardò ancora.
«Mi sei mancata...» le sussurrò con la voce spezzata, con un’intensità tale che le fece salire dei brividi su per la schiena.
Vide i suoi occhi lucidi e rimase impietrita dalla sincerità con cui glielo aveva detto. Non capì più niente, letteralmente, né riuscì ad aggiungere qualcosa. Aveva ripreso ad affondare in lei sempre più forte e, ansimando, strinse la sua schiena graffiandolo superficialmente.
Non voleva nient’altro dalla vita.
Nient’altro avrebbe avuto senso dopo quello.
Niente...
Proprio niente...
 
 
 
Sora lanciò uno sguardo a Yolei che si era avvicinata a salutarla e adesso stava uscendo dalla porta insieme a Ken. Le aveva detto di dover andar via perché il giorno dopo aveva da lavorare e, curiosa, lanciò un’occhiata all’orologio appeso sul muro per constatare che ora si fosse fatta.
Erano le due di notte appena scoccate, e ancora la festa era nel suo vivo.
Si avvicinò al tavolo dove c’erano gli alcolici e si versò un cocktail.
Ripensò ai baci con Matt e lanciò un sospiro.
Dov’era finito?
Era uscito fuori in balcone per parlare con suo fratello e non era più tornato da lei.
Bevve succhiando dalla cannuccia, sentendo la testa pesante.
Forse stava esagerando con l’alcol, ma non ne riusciva a fare a meno quella sera, l’aiutava a pensare poco.
Guardò le persone che ballavano intorno a sé. C’era chi andava via, ma la maggior parte erano tutte riversate sulla pista.
I suoi sensi erano così abbassati e le sue voglie amplificate da voler fermare quella musica e tutta quella gente. Fermarli come se il tempo potesse scomparire in modo tale che le si figurasse Yamato in mezzo a quella calca.
Aveva voglia di raggiungerlo e abbracciarlo, baciarlo ancora e poi stringerlo a sé... andare in camera sua e fare l’amore...
Chiuse appena gli occhi, trasportata dalle sensazioni ampliate che le procurava l’alcol, muovendosi lentamente a ritmo di una canzone.
D’un tratto, si sentì stringere da dietro le braccia e percepì una forza strattonarla. Si voltò aprendo gli occhi, aspettandosi che quelle mani che adesso la stavano stringendo appartenessero a Matt.
Sulle sue labbra s’increspò spontaneamente un sorrisino ebete, che però sfumò non appena si rese conto di chi aveva davanti.
 
Victor.
 
Spalancò gli occhi.
 
No, non poteva essere... non poteva essere possibile...
 
Strizzò bene gli occhi e constatò che era proprio lui. Aveva i capelli color del grano scompigliati, il volto trafelato, gli occhi che, fermi, erano puntati sui suoi.
Lei aprì la bocca, interdetta, mentre lui la strinse ancora di più.
«Eccoti» le disse, alzando la voce per farsi udire sopra il fracasso, poi lo vide assumere una faccia angosciata «Ti giuro, non riuscivo a non venire. E’ stato più forte di me!»
Sora percepì il cuore battere forte.
Le aveva visualizzato il messaggio... credeva non venisse... era così tranquilla, era così serena del fatto che non fosse venuto...
Aprì la bocca, cominciando a guardarsi freneticamente intorno.
«Victor, che ci fai qui?» gli chiese allarmata, guardandolo con uno sguardo impaurito.
Non poteva stare lì... aveva paura... doveva andarsene...
Che diavolo aveva combinato?
Tentò di sottrarsi dalla sua presa, barcollando un po’. Era stordita e la vista risultava a tratti appannata.
Il cuore le era salito in gola.
Non immaginava che avrebbe mai avuto timore in quel modo in tutta la sua vita.
Si sentiva tremare, voleva urlare, voleva scappare...
«Aspetta, Sora, lasciami spiegare!» esclamò lui, trattenendola saldamente dai polsi.
La ramata lasciò andare il bicchiere vuoto che rotolò per terra.
Victor la strattonò contro di sé e la fissò con uno sguardo risoluto.
Doveva allontanarsi, doveva andare via... Dio, perché era venuto...
Non stava capendo più niente, si trovava in un macabro limbo di sensazioni contrastanti, credeva di poter svenire.
«Non puoi stare qui!» alzò la voce, intimorita, sconvolta «Ti prego, devi andartene!» lo supplicò.
Victor rimase impietrito nel vederla in quel modo.
Opponeva resistenza, sembrava volesse urlare dalla paura. Continuava a guardarsi intorno con quegli occhi velati dall’alcol, lucidi, abbassati.
Scosse la testa, mettendole una mano dietro la schiena per attirarla maggiormente a sé.
«Come pretendi che me ne vada?» le sussurrò contro il viso, mentre con una mano le accarezzava il volto.
Sora rimase immobilizzata, completamente incapace di muoversi.
«Non ce la faccio a pensare a te qui» disse in tono duro.
La ragazza scosse la testa, risvegliandosi dal trance in cui era caduta.
Sarebbe successo qualcosa.
Se non andava via era sicura del fatto che sarebbe successo qualcosa di sconveniente.
Sentiva i battiti del suo cuore accelerati, un’ondata di caldo la pervase e continuò a guardarsi intorno come fosse impazzita.
«C’è il mio fidanzato!» esclamò gravemente, facendo leva verso di sé affinché potesse liberarsi.
Victor sembrava non avere intenzione di mollarla.
«Ti prego, te ne devi andare... ti scongiuro...» lo pregò, sentendosi d’un tratto stanca, senza forze.
Si fermò sul posto sentendo la testa girare.
Non ce la faceva... sarebbe crollata...
Socchiuse gli occhi, mentre l’altro la tirava dolcemente contro di sé dai polsi.
«Io sono innamorato di te, Sora» le confidò guardandola negli occhi castani traboccanti di lacrime.
Lacrime di disperazione, frustrazione, timore.
Lo guardò interdetta, la bocca semiaperta, incapace di rispondere a ciò che le aveva appena detto.
Era innamorato di lei...
 
Le aveva detto che si era innamorato di lei.
Non poteva essere...
 
Sentiva le voci distanti anni luce.
 
Colpita, affondata, sotterrata.
 
 
 
 
Colpito, affondato, sotterrato.
 
Era così che si sentiva in quel momento. Sentiva la testa vorticare e un forte senso di rabbia, tristezza, frustrazione sopprimerlo.
Tirò un sospiro, mentre si trovava lontano dal soggiorno, lontano dalla calca di persone che non smettevano di spingere, ballare, urlare.
Era lui che avrebbe voluto urlare.
Abbassò lo sguardo sulle scarpe, mentre ripensava a quello che era successo con suo fratello.
Takeru lo disprezzava.
Non lo stimava più, glielo aveva detto semplicemente, lo aveva ucciso con solo quelle quattro parole.
Scosse piano il capo, gli occhi lucidi, il peso di quelle frasi che gli rimbombavano in testa.
Mai sarebbe arrivato a presagirlo.
Mai in tutta la sua vita avrebbe potuto pensare che il rapporto con TK potesse vacillare in quel modo talmente brusco e straziante.
Mai avrebbe immaginato di non poter più contare sull’appoggio del suo fratellino.
Era accostato contro la cucina, accanto al muretto dell’entrata. Udiva la musica provenire dal salotto, le urla, il vociare.
Aveva bisogno di staccare. Non riusciva più a reggere quel chiasso, gli doleva la testa per colpa dell’alcol, del nervosismo, di tutto lo stress che aveva subito in quei mesi.
In quegli anni turbolenti.
Si portò una mano alla testa, stringendola.
Sarebbe scoppiato.
Si sentiva arrivato al limite...
Era sicuro che se solo la goccia fosse caduta male avrebbe fatto traboccare tutto il vaso.
«Daisuke, io ti giuro sopra il Crocifisso che non la passerai liscia!» udì esclamare dalla voce acuta e petulante di Joe.
Spostò appena lo sguardo e lo vide nella stessa traiettoria del piano cucina, accanto al frigorifero. Con un giornale sventolava Davis, il quale era letteralmente spalmato sopra una sedia, ubriaco e strafatto.
«Mi avevi promesso che non avresti fatto il bufalo inferocito per non farmi fare la figura degli zulù e poi vai ad aizzarmi Takeru! Proprio Takeru!» sentì ancora dire dal maggiore.
Chiuse gli occhi per dei secondi non appena sentì nominare il fratello.
Non avrebbero recuperato mai più il rapporto...
Era tutto perso...
Andato...
La voce stridula di Joe lo portò nuovamente alla realtà.
«Che cos’hai in testa, noci?!» inveiva contro Daisuke con in volto un’espressione inviperita, ma risoluta «Te le spacco subito subito nel caso!» fece un gesto lesto per fare intendere che lo avrebbe rimesso sulla buona strada a suon di mazzate.
Il ragazzo emise un suono gutturale dalla bocca, portandosi le mani sul capo.
«Non urlare, Joe, mi scoppia la testa...» borbottò facendo una brutta smorfia con il naso.
Questi, nel frattempo, aveva posato il giornale e prendeva uno strofinaccio da un cassetto. Lo vide avvicinarsi e pulire il volto del più piccolo con un’espressione disgustata.
«Quando la smetterai di sniffarti anche la colla sarà un giorno di prosperità... Vuoi un po’ d’acqua? Un succo al kiwi? Bevi qualcosa, bestia, altrimenti...» sentì aprire il frigorifero e le bottiglie tintinnare.
Matt si isolò nuovamente, udendo in sottofondo le voci ovattate dei due.
Aveva voglia di andare a casa.
Voleva lasciare quella festa e rintanarsi a letto, coprirsi da quel gelo che sentiva dentro di sé e dormire.
Dormire fino a dimenticare perfino chi fosse...
Alzò gli occhi cerulei e guardò apaticamente verso il soggiorno. Le vetrate del separé erano scorrevoli ed erano state lasciate aperte.
Per un po’ non pensò a nulla, fino a quando una visione strana gli apparse davanti.
Sora...
Era Sora quella ragazza che intravedeva dalla vetrata. Era voltata di spalle, ma la riconosceva; riconosceva nonostante le luci alterne la sua tutina gialla, i suoi capelli ramati e mossi che le arrivavano fin sulle spalle.
Era lei e non era sola.
Strizzò bene gli occhi.
C’era qualcuno lì con lei, qualcuno che aveva un aria familiare. La teneva dalle braccia e le parlava fitto, in tono confidenziale.
Cominciò a sentire dei gorgoglii provenire dal suo stomaco. Era come un segnale di emergenza, come se lo stesse mettendo in all’erta da qualcosa.
Riconobbe lo stesso ragazzo con cui l’aveva vista discutere la mattina prima, fuori dall’università. Era lo stesso che aveva visto, ne era sicuro.
Si raddrizzò tenendosi dal mobile della cucina, facendo una faccia interrogativa, le sopracciglia contratte.
Perché stavano parlando di nuovo?
Che ci faceva quello in casa loro?
Non gli risultava che fosse un conoscente di Joe. Doveva essere venuto appositamente per qualcosa, e il suo intuito gli suggeriva tempestivamente che la voleva proprio da lei.
Cominciò a sentire dei campanelli d’allarme invadere la sua testa non appena lo vide attirarla contro di lui.
Strinse la mascella e provò dei sentimenti contrastanti così forti, una sensazione così dannatamente pesante che gli procurò un peso allo stomaco.
Venne distratto dal suono di un cellulare, e forse fu un caso che i suoi occhi si spostarono automaticamente verso quella direzione. Notò che c’erano tre cellulari riposti sul muretto all’interno di un cestino di vimini, e riconobbe tra di essi quello di Sora.
L’idea che lo colse all’improvviso probabilmente era scorretta, ma sentiva i battiti del cuore accelerati e un senso di angoscia sopprimerlo.
Lanciò un altro sguardo al soggiorno, poi allungò la mano verso il telefonino. Lo prese e lo guardò per un po’.
Non avrebbe dovuto farlo.
Sapeva che non avrebbe dovuto farlo, sapeva già che gli sarebbe costato caro.
Sentiva delle profonde martellate al petto mentre lo sbloccava.
I suoi sensi lo avvertivano, aveva un presentimento talmente nefasto che gli veniva da vomitare.
Aprì le conversazioni e vide in cima una chat rinominata sotto il nome “Victor”.
Il cuore continuava a tamburellare.
Con un dito, subito aprì la foto del profilo. Era un ragazzo con i capelli biondo scuro, quasi castani, legati in una coda. Un sorriso smagliante, rideva verso l’obbiettivo.
Alzò gli occhi che bruciavano verso la direzione in cui ancora si trovavano e lo riconobbe.
Era lui.
Corrispondeva al profilo.
Strinse le labbra e premette sulla conversazione. Gli si aprirono numerosi messaggi, e scorrette su e giù, a casaccio, con la mano che gli tremava.
Udì lontanamente Joe che imprecava contro Daisuke per qualcosa.
Nemmeno riusciva a leggere tanto si sentiva offuscato, adrenalinico, sopraffatto da una serie di emozioni che lo stavano asfissiando.
Decise di calmarsi, prese un sospiro e lesse qualche messaggio a caso.
Parlavano di come stavano, come era andato l’esame, il tirocinio... tutte cose di cui lui e Sora non avevano mai discusso... avevano una certa confidenza... parlavano di quando si sarebbero rivisti... di andare a bere uno Spritz insieme...
Il cuore sembrava poter esplodere.
Scese ancora fino agli ultimi messaggi.
La mano gli tremò ancora di più.
 
 
“Non riesco a non sentirti... quel bacio per me ha significato più di quanto immagini...”
 
 
 
“Ti prego, non venire. Ti spiegherò un’altra volta”
VV
 
 
Alzò lo sguardo, gli occhi vitrei, i pezzi del suo cuore che si ruppero.
 
Li udì fracassarsi in mille cocci...
 
Il cellulare gli scivolò dalle mani.
Sentì un dolore immondo espandersi dal suo petto, delle fitte percorrergli il corpo. Un senso di nausea lo pervase, gli salì fino alla gola e pensò di dover rigettare tutto.
 
Tutto quello che aveva mangiato, tutto quello che aveva bevuto, tutto quello che aveva dentro.
 
Non era possibile...
 
Doveva essere un incubo, doveva essere tutta una finzione... non poteva crederci...
 
Era tutto un incubo...
 
Non era reale.
 
Rimase per dei secondi fermo, senza riuscire ad assimilare ciò che aveva appena letto. Si sentiva come in shock, si sentiva alienato dal suo corpo, estraneo a tutto quello che lo circondava.
I rumori erano distanti, ovattati, come se fossero fuori da una bolla.
 
Non ci poteva credere...
 
 
Sora...
 
 
La sua Sora...
 
 
Guardò ancora verso la vetrata da dove si intravedevano i due. Vide lui che ancora la tratteneva e, d’un tratto, realizzò.
Realizzò cos’era successo, cosa aveva appena scoperto e una sensazione estenuante gli si propagò dal petto.
Cominciò a sentire sentimenti contrastanti tutti insieme, una flotta di sensazioni negative che lo invadevano.
E il cuore...
 
Bum...
Bum...
Bum...
 
Poteva sentirlo così nitido, così vicino...
 
Strinse i pugni improvvisamente e in volto gli si disegnò un’espressione folle.
Poteva sentire la rabbia, il dolore, l’umiliazione, la vergogna tutte insieme, tutte nello stesso istante.
 
 
Sentì il vaso traboccare ed andare in frantumi...
 
Le sue gambe si mossero automaticamente verso l’uscita della cucina. Cominciò a non capire più niente, aveva solo in testa un pensiero fisso.
 
 
 
 
 
Voleva fargli del male.
Voleva toglierlo di mezzo.
 
 
Voleva ammazzarlo.
 
 
Nel viso era irriconoscibile, e sbatté forte la porta quando attraversò la soglia, attirando l’attenzione di Joe su di sé.
«Bevi piano che è più ghiacciata del Monte Fuji... cos-?» si bloccò da quello che stava facendo, il bicchiere pieno d’acqua in mano.
Vide Yamato uscire dalla cucina come una furia e, improvvisamente, collegò quanto stava succedendo.
Come se fosse una scena a rallenty, il maggiore gettò un urlo allarmato, stringendo forte il bicchiere tra le dita e spruzzando in faccia l’acqua a Daisuke.
«FERMATELO!» gridò con tutta la forza che aveva in corpo, chiudendo gli occhi e alzando la testa al cielo.
 
Matt era entrato nel soggiorno tenendo gli occhi fissi al suo bersaglio. Senza lasciar trasparire un segno di risentimento, spostò con forza le persone che lo intralciavano.
Sentiva la rabbia prenderlo dai capelli, la disperazione farlo suo.
Spostò da un lato un povero malcapitato che si era ritrovato per caso davanti il suo passaggio e poi, con un calcio, ribaltò il tavolino sopra il quale vi erano riposte le bottiglie di vetro e i bicchieri che si fracassarono di rimando.
Sora si voltò all’improvviso, spaventata, e lo vide andare contro di Victor con una luce negli occhi che non aveva mai visto prima. Aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono, perché Yamato lo aveva afferrato dal collo e lo aveva trascinato via.
Non appena la ragazza realizzò, si portò le mani alla bocca e lanciò un urlo.
Il biondo lo aveva inchiodato contro il muro, lo stringeva e lo fissava con il demonio impresso negli occhi.
«Figlio di puttana!» ringhiò, per poi lanciarlo con forza sopra il divano e prenderlo a pugni.
Le persone si scansarono impaurite, lasciando che si creasse un vuoto attorno a loro. Victor tentò di scrollarselo di dosso con scarsi risultati, mentre Matt lo prendeva dalla nuca e lo spingeva di nuovo contro il muro.
Sora, disperata e con le lacrime agli occhi, si avvicinò tentando di fermalo.
«No, Matt! Ti prego!» gridò, afferrandolo da un braccio «Ti prego! Lascialo stare!» la sua voce sfiorava l’isteria, il corpo tremava di paura.
Quello scansò la sua presa e si avventò nuovamente sull’altro, il quale, riuscendo per dei secondi a liberarsi, mise le braccia davanti e tentò di bloccarlo dal lanciarglisi addosso.
Matt venne spintonato all’indietro, e quella reazione lo fece adirare ancora di più. Gli si scaraventò addosso e lo colpì allo stomaco, mentre l’altro si attaccò alla sua schiena e riuscì a difendersi restituendogli un colpo.
Nel frattempo, Joe era entrato in soggiorno e aveva scavalcato le persone che, interdette, non sapevano che fare, impaurite dal modo cruento con cui si stavano pestando.
«Qualcuno lo fermi!» strillò con una voce acuta che sfiorava gli ultrasuoni «AIUTO!» si rivolse con gli occhi fuori dalle orbite verso dei suoi conoscenti
«Porca vacca zozza!» si portò le mani alla faccia disperato e incapace di fare qualcosa.
Non avrebbe mai potuto fermare Yamato da solo. Aveva una forza impressionante, mentre lui si rompeva come un grissino fresco.
Vide la figura di qualcuno che tentò di togliere Matt da sopra l’altro, ma non fu una buona idea, perché il biondo si infervorò ancora di più e, con un gesto repentino, spinse contro il divano anche quello.
Joe spalancò le orbite non appena lo vide scaraventare Victor contro un mobiletto e far cadere quello che c’era sopra, tra cui delle statuine di porcellana che gli aveva regalato sua nonna.
Si morse la lingua e lanciò un urlo disperato.
Sora era immobile, paralizzata a guardare la scena. Non riusciva a muovere un arto, era in stato di shock completo. Le lacrime le sgorgavano fuori come un fiume in piena e si spaventò a morte non appena Matt strinse ancora il collo dell’altro.
«Ti ammazzo!» udì dire al biondo in faccia al ragazzo, e sentì di poter crollare da un momento all’altro.
Il cuore le martellava al petto e il corpo era pervaso dagli spasmi.
«Mio Dio!» urlò, non appena lo vide bloccare Victor contro il mobile
«Lascialo stare! TI PREGO!» ma non venne ascoltata, anzi, quelle urla di difesa non fecero altro che incrementare nel biondo la voglia di fargli ancora di più del male.
Lo alzò dal mobile e lo spinse per terra.
Non appena videro quella scena, alcune persone cominciarono ad andare via.
Joe tentò di fermarle, saltando su un piede e l’altro, e cercando di pararsi di fronte per occultare la scena.
«Non sta succedendo niente, signore e signori, non preoccupatevi!» esclamava, tentando di mantenere un sorriso finto sul volto, mentre le persone lo guardavano intimorite e andavano via
«E’ solo una scenetta di intrattenimento!» continuava a saltellare costringendosi a ridere, ma quello che ne uscì fuori fu solamente un nitrito isterico.
Si voltò a fissare quello che stava succedendo e strinse i pugni. Poi si rivolse nuovamente ai suoi amici e colleghi.
«Continuate a ballare!» urlò in preda alla schizofrenia, afferrando a caso delle persone e spingendole da un lato
«Continuate!» corse verso varie direzioni, acciuffando un tizio che stava cercando di sgattaiolare fuori.
«CONTINUATE!» strillò tra i denti, esibendo un’ espressione imbizzarrita con un luccichio folle riflesso negli occhi.
Il malcapitato fece una faccia spaventata, e Joe lo spinse con forza disumana sopra una sdraio in balcone.
Si girò sentendo un fracasso provenire da dietro. Victor aveva delle ferite in viso e aveva il fiato corto, spezzato.
Quando il biondo fece per lanciarglisi ancora addosso, lo strinse dalle gambe e riuscì a spingerlo a sua volta contro il muro.
Matt aveva a suo volta il fiato pesante e il rivale ne approfittò di quel momento di debolezza per sferrargli un pugno di contrattacco.
Sora cacciò un altro urlo.
In quello stesso frangente, apparvero sulla soglia TK e Kari, attirati dal frastuono e dalla gente che si era riversata a guardare.
La castana spalancò gli occhi non appena vide quella scena, e si voltò verso il fidanzato che fissava con un cipiglio suo fratello scontrarsi con l’altro.
«Fa’ qualcosa!» lo supplicò la ragazza, tirandolo da un braccio «Per l’amor di Dio!» esclamò, portandosi una mano alla bocca.
Takeru continuò ad osservarli senza fare una piega. Hikari, sconvolta, lo strattonò con forza.
Perché si comportava in quel modo?
«E’ tuo fratello!» lo scosse, tentando di farlo agire.
Il biondino si tastò le tasche e tirò fuori una sigaretta.
Era ora che venisse a contatto con i suoi demoni.
Solo in quel modo avrebbe capito.
Se l’accese e fece un paio di tiri.
Victor era riuscito a primeggiare su Matt per un po’, fino a quando quello non oppose resistenza e lo bloccò dal busto, per poi prenderlo e trascinarlo sopra il mobile su cui era ritta la TV e le casse.
Joe corse subito a togliere la televisione da là sopra, urlando a più non posso parole di protesta.
Victor gli bloccò le mani che tenevano stretto il suo collo, cercando di fargli allentare la presa. Aveva la bocca piena di sangue.
«Non ti meriti una ragazza come lei» gli ringhiò con ribrezzo, mentre il sangue gli colava ai lati.
«Lasciala andare se ci tieni un minimo» continuò a dirgli, e quelle parole colpirono in pieno Yamato ancora di più di quanto avesse potuto fare un pugno in pieno viso.
Non aveva torto...
Stava dicendo il vero... era successo tutto quello perché non se la meritava...
Strinse di più la presa.
«Stai zitto, bastardo!» la voce gli si incrinò tra i denti e con una mano gli strinse forte i capelli e lo scaraventò per terra.
Joe lanciò uno sguardo a Sora che piangeva angosciata, e subito pensò a una soluzione. Le persone stavano andando via, e quelle che erano rimaste si facevano i fatti loro per non essere messe in mezzo.
Pensò e ripensò, e si portò all’improvviso una mano al capo, socchiudendo gli occhi.
Avrebbe fatto finta di svenire... così lo avrebbero soccorso e le cose si sarebbero risolte...
Fece per barcollare e gettarsi per terra, quando, improvvisamente, una lampadina si accese nel suo cervello.
«Porca puttana, TAICHI!» urlò con gli occhi fuori dalle orbite, chiedendosi dove fosse quell’idiota e perché non ci avesse pensato prima.
Solo Tai avrebbe potuto fermare Matt, ne era sicuro, era l’unico che poteva tenergli testa e farlo ragionare.
«Dove cazzo è Taichi?!» strillò nel panico, guardando da una parte all’altra della sala, uscendo fuori e correndo per il balcone.
Il castano non si trovava.
Non l’avrebbe mai immaginato, ma aveva un urgente bisogno di Taichi.
Ritornò dentro come una furia e sorpassò Matt e Victor che si stavano ancora picchiando a vicenda, aprì con foga la porta scorrevole del corridoio e si mise a urlare come uno squilibrato.
Dove era andato a finire?!
«TAICHI!» urlò a perdifiato, spalancando la porta della sua stanza e rimanendo di stucco non appena una scena disgustosa gli si presentò davanti.
Fece una faccia schifata, portandosi una mano alla bocca come se avesse potuto vomitare da un momento all’altro.
Koushiro e la sua fidanzata si trovavano in atteggiamenti intimi sopra il suo letto.
Il suo letto.
Il suo candido e immacolato letto.
Si sentì svenire.
Era tutto un complotto...
Dio, perché ce l’hai con me?, pensò disperato.
«Questa me la paghi, rosso mal pelo!» gli sbraitò contro, mentre Izzy e Frankie lo fissavano stralunati e senza veli, coperti solo dalle lenzuola.
Chiuse la porta con forza, arrabbiato, continuando a correre come un matto verso le altre stanze. Le spalancò entrambe, ma non vi trovò nessuno.
Provò la sua ultima spiaggia e si diresse verso il bagno, muovendo su e giù la maniglia con foga.
«Taichi!» urlò ancora, mentre si rese conto che la porta era serrata a chiave.
Fece una faccia di giubilo e pensò che forse l’amico era lì dentro. Doveva assolutamente farlo uscire da lì.
Cominciò a bussare imperterrito e a trascinare su e giù la maniglia.
 
Mimi aprì gli occhi che aveva tenuto chiusi fino a quel momento.
Tai era sopra di lei e spingeva ritmicamente, affondando in profondità, sempre di più, fino a farle sentire delle sensazioni di piacere intenso, delle sensazioni che pensava di non poter provare mai più.
Le braccia erano al suo collo, e con una mano gli stringeva i capelli.
Cominciava a sentire un piacere così talmente profondo da non capirci più niente.
Avrebbe voluto spingesse in eterno proprio lì, in quel punto che stava colpendo con vigore.
Cacciò la testa all’indietro e chiuse di nuovo gli occhi.
L’orgasmo la stava cogliendo, sentiva delle scariche di piacere che le partivano da dentro e raggiungevano il suo cervello.
Contrasse il bacino, stringendosi ancora di più a lui.
Lo sentiva, era vicino... le veniva voglia di urlare per quanto era bello...
Ansimò più forte, portando una mano sul sedere del castano affinché non smettesse.
Non doveva smettere... doveva continuare... doveva spingere.. c’era quasi...
Quasi...
Lanciò un urlo strozzato, lasciandosi andare all’orgasmo, sentendo come un’esplosione dentro di sé. Le gambe le tremarono, il respiro era corto e irregolare, il viso era stravolto e arrossato.
Tai si accorse quello che era successo, e quella visione lo indusse a spingere ancora più forte, eccitato.
Vederla venire lo aveva fatto impazzire...
Sentiva il suo membro pulsare, stava per arrivare anche lui, lo sentiva... Spinse ritmicamente, con colpi precisi e intensi.
Mimi gli accarezzò una guancia, e quel gesto lo fece letteralmente scoppiare.
Sentì un’ondata di piacere avvolgerlo, capì che l’orgasmo stava per cogliere anche lui, allora fece per spostarsi da sopra di lei.
La ragazza, però, lo strinse con le gambe contro il suo bacino trapelando sicurezza, e lui rimase per qualche secondo spaesato, prima di abbandonare i sensi e riversarsi completamente dentro di lei con un gemito liberatorio.
Mimi sentì un fiotto caldo pervaderla e tremò per il piacere.
Era venuto dentro di lei.
Non era mai successo prima di allora, nemmeno quando stavano insieme.
Il ragazzo alzò lo sguardo e la guardò con il respiro pesante, gli occhi che trapelavano stupore, soddisfazione, sentimento.
Piano abbassò il capo fino a farlo congiungere con la sua fronte.
Non ci poteva credere... avevano fatto l’amore... era stato così bello, così intenso, così soddisfacente da sentirsi stordito, confuso...
Era così bella in quel modo...
Mimi sospirò e socchiuse gli occhi. Sentì distrattamente delle urla provenire dal corridoio, ma nessuno dei due se ne curò.
Non ce la faceva più.
Lo voleva con tutta sé stessa...
Voleva lui e solo lui... adesso lo sapeva, lo sentiva sulla sua pelle, lo sentiva dentro il suo cuore...
«Ti amo, Tai» mormorò d’un tratto contro il suo viso.
Il ragazzo si bloccò non appena udì quelle parole. Fece un’espressione strana, stupita, come se non avesse sentito bene.
Lo amava?
Gli aveva detto che lo amava ancora?
Il cuore cominciò a martellargli nel petto, sentì di voler dire qualcosa, di volerle rispondere, ma la gola era secca.
Era spiazzato, interdetto, non sapeva cosa fare...
Glielo aveva detto così all’improvviso, spontaneamente, e adesso lo fissava con una luce speranzosa negli occhi che gli struggeva il cuore.
Quel silenzio venne squarciato improvvisamente da dei colpi insistenti alla porta.
«Taichi!» lo chiamava qualcuno di vagamente familiare
«Esci, TAICHI!» urlava, ma lui non sentiva.
Guardava la ragazza sotto di sé e non si capacitava di quello che aveva appena udito.
Lo amava...
Mimi lo amava...
I colpi s’intensificarono, e Mimi si morse il labbro intimorita vedendolo indugiare per così tanto tempo.
Forse era stata precipitosa, forse avrebbe dovuto aspettare... magari non se l’aspettava, non se la sentiva di dover ascoltare quelle parole così importanti...
Non appena il ragazzo fece per aprire bocca, un calcio colpì la porta.
«Taichi! Yamato sta pestando a sangue uno! ESCI DI LI’!» la voce isterica di Joe irruppe nelle loro orecchie e li riportò improvvisamente alla realtà, rompendo quell’idillio che si era creato.
Il castano spalancò gli occhi non appena sentì nominare l’amico. Alzò la testa allarmato, assimilando quello che era stato detto.
Udì dei rumori forti provenire dal soggiorno, e subito uscì da Mimi con un balzo. Si ripulì in fretta e si rialzò i pantaloni.
«Cazzo!» imprecò, mentre si abbottonava in maniera disuguale i bottoni.
Sentì la preoccupazione avvolgerlo, e Mimi, a sua volta, si rialzò le mutandine e tentava di abbassarsi il vestito con difficoltà.
Era successo qualcosa a Yamato, doveva correre...
Senza pensare ad altro, girò la chiave nella toppa e spalancò la porta, facendo fare un balzo a Joe all’indietro.
Quello lo guardò stralunato, accorgendosi poi della ragazza dietro, ma Tai aveva incominciato a correre verso il salotto e il maggiore si rimise in piedi, seguendolo.
 
Entrò di corsa e vide Matt scagliarsi contro un ragazzo che non conosceva, prenderlo dai capelli e spingerlo con la faccia contro il muro.
Spalancò gli occhi, intimorito, e subito scansò le persone per potersi avvicinare.
Che cos’era successo?
Perché faceva in quel modo?
Non riuscì a trovare delle risposte adatte ai suoi interrogativi perché il biondo si era avventato nuovamente contro l’altro, e fu costretto ad intervenire subito.
Gli si lanciò addosso e lo bloccò da dietro la schiena, stringendolo forte. Matt si sentì agguantare e mollò per qualche secondo la presa da Victor, sanguinante e senza forze.
«Matt!» urlò Tai, tentando di scansarlo dal ragazzo, nonostante opponesse resistenza.
«Che cazzo sta succedendo?!» gli chiese, senza essere ascoltato.
Il biondo cercò di togliere le mani dell’amico e per un po’ lottarono in quel modo. Tai lo tenne ben stretto, ma Matt fu più lesto, riuscì a liberarsi facendo barcollare il castano all’indietro, e si lanciò nuovamente come una furia contro Victor.
Gli tirò un calcio, facendolo accasciare per terra.
«Lascialo! » gridò Tai, e si lanciò nuovamente addosso per fermarlo. Lo strinse con le braccia imprigionando le sue, e il biondo non ce la fece più a muoversi.
Tentò ancora di liberarsi e, non riuscendoci, allungò una gamba per rifilare un altro calcio al malcapitato.
«Lascialo ho detto!» Il castano lo spinse contro il muro, facendo spostare le persone terrorizzante da quanto stava succedendo.
Il biondo non ne voleva sapere di cedere. Gli lesse negli occhi la furia, la rabbia, la frustrazione. Rimase interdetto di fronte a tutto quello che traspariva dallo sguardo.
«YAMATO!» lo scosse, e con una mano lo tenne dalla nuca, stringendogli i capelli per farlo rinsavire.
Matt fece una smorfia di dolore, allora lui ne approfittò per prenderlo dal volto con entrambe le mani.
«Guardami» gli intimò, ma quello aveva il volto arrossato, il fiato spezzato, e guardava verso la direzione di Victor con l’odio negli occhi «Guardami, Matt» lo scosse più forte, facendogli emettere un ringhio.
Provò ancora a mollarsi, ma Taichi fu più risoluto.
«GUARDAMI, CAZZO!» gli urlò in faccia, facendo congiungere la fronte a quella sua.
Matt spostò gli occhi velati dalla rabbia verso di lui, e Tai cercò di trasmettergli con la forza dei suoi calma e sicurezza.
Piano il ragazzo cominciò a respirare in modo più regolare, ipnotizzando dallo sguardo magnetico dell’amico, cominciando a calmarsi a mano a mano.
Victor era per terra dolorante e sanguinolento, e Sora accorse subito per vedere come stava. Si abbassò per terra e lo tenne da un braccio.
Matt spostò lo sguardo e la vide.
Quella scena gli provocò un dolore così atroce che non riuscì a reggere. Con una smorfia sofferente, tolse le mani dell’amico da sopra il suo volto, lanciando un urlo disperato.
Tai indietreggiò per la spinta. Lo vide d’un tratto sorpassare le persone e andare in direzione dell’uscita.
Si voltò a guardare ciò che era successo. C’era il tavolino ribaltato, le bottiglie in cocci di vetro, dei soprammobili rivoltati.
Vide quel ragazzo per terra e Sora vicino a lui che lo tratteneva. Aprì la bocca senza capire cosa fosse successo, mentre gli occhi pieni di lacrime della ragazza si posavano sopra i suoi.
Ebbe l’istinto di avvicinarsi a lei, per qualche secondo fu combattuto sul da farsi, ma poi sentì che doveva andare da Yamato, e allora si voltò e corse verso la direzione in cui era sparito.
Mimi sopraggiunse nello stesso frangente in cui il ragazzo scappò via. Lo vide uscire fuori dalla porta correndo.
Un senso di vuoto la colse.
Cambiò espressione non appena spostò lo sguardo e vide Sora accasciata per terra, chinata su un ragazzo sanguinante.
Spalancò gli occhi, spaventata, e si portò una mano alla bocca.
La ramata mise le mani sulle spalle di Victor per sorreggerlo, sentendo distrattamente i pezzi del cuore che volavano via.
«Mi dispiace...» sussurrò con un’espressione vacua, gli occhi all’infuori, le orecchie che oramai sembravano assordate.
Quello si portò una mano contro il naso e si ripulì il sangue con la manica. Alcune persone si avvicinarono per soccorrerlo. Lo misero in piedi e lo trascinarono verso la cucina.
Sora si rialzò automaticamente, guardando il vuoto.
 
Era stata tutta colpa sua...
 
Aveva causato un errore madornale che non poteva mai e poi mai essere messo apposto...
 
Aveva rovinato tutto...
 
Tutto...
Era in stato di shock, e piano si accasciò contro il muro, sentendo di poter scivolare rovinosamente per terra da un momento all’altro.
Mimi la notò e subito si lanciò in suo salvataggio, afferrandola prima che toccasse terra. Si accasciarono insieme, mentre l’amica la strinse tra le braccia.
 
Era tutto finito...
 
Tutto finito...
 
Le persone andavano via. Uscivano dalla porta sconvolte, scosse da tutto quello che era successo.
 
Era tutta colpa sua...
 
Joe le guardava con gli occhi sbarrati. Tentava di fermarle per non farle andare, biascicando scuse che non reggevano affatto.
 
Aveva rovinato tutto...
 
Non appena si rese conto che la festa era stata sabotata, si voltò ad esaminare in che stato era la casa. Era tutto ribaltato. Il tavolino, le sedie, l’alcol tutto per terra... la bomboniere e i soprammobili frantumati, i centrini scomparsi, il divano sporco di sangue...
Gli prese un colpo al cuore e cominciò ad urlare.
«FIGLI DEL DEMONIO!» si piegò in due dalla rabbia «BASTARDI! SODOMITI!» non appena lo udirono imprecare in quel modo, anche le ultime persone decisero di andarsene.
 «Avete rovinato la mia festa! Avete buttato all’aria tutto!» stringeva i pugni e si dimenava «Perché, perché devo meritarmi questo?!» ripensò alla sua laurea e a quello che aveva dovuto passare, ai sacrifici di una vita intera, allo studio, ai soldi.
Le lacrime spuntarono amare nel bordo dei suoi occhi. Lanciò uno sguardo assatanato in direzione di Sora tra le braccia di Mimi, la testa appoggiata sulla sua spalla, lo sguardo fisso senza vedere realmente.
«Questo puttanaio in casa mia!» la indicò, incolpandola con fervore e disprezzo «Questo disonore in casa mia il giorno della mia laurea!» si portò le mani ai capelli, strappandosi alcune ciocche «Sacrilegio disumano! IO VI MALEDICO!» continuò ad imprecare in piena crisi isterica.
Takeru chiuse gli occhi con un sospiro e voltò le spalle. Mentre le urla di Joe continuavano a propagarsi per la casa, uscì in balcone. Kari se ne accorse e lo seguì con il cuore che le usciva dal petto per lo sgomento.
Sora alzò appena gli occhi e li puntò sulla cucina. Sembrava una scena a rallenty. Victor era vicino ai fornelli, mentre qualcuno si stava premurando di medicarlo. Lo vide fare delle smorfie di dolore ad ogni tocco sul suo viso.
La ramata sentì le lacrime agli occhi. Incrociò il suo sguardo e i due si guardarono intensamente.
 
Era stata tutta colpa sua...
 
L'espressione di Victor era indecifrabile. Si guardarono per qualche secondo, poi il ragazzo scansò la mano di Cody e lasciò la cucina raggiungendo l’uscita.
La ragazza si sentì morire.
«Mi dispiace... mi dispiace tanto...» sussurrò addolorata, mentre le lacrime sgorgavano da sole e tracciavano delle linee sulle sue guance.
 
Sarebbe stato meglio morire piuttosto che vivere tutto quello.
 
Mimi la strinse forte a sé, chiudendo gli occhi in un’espressione angosciata, sentendo a sua volta le lacrime premere per uscire.
Le accarezzò la testa amorevolmente.
Joe si era gettato a terra e pestava con i pugni contro il pavimento.
«Cosa ho fatto di male per meritarmi tutto questo?!» ululava piangendo come un matto, la faccia per terra. Emise un lamento simile ad un nitrito.
«Sono un uomo di fede... un uomo puro e buono come il pane...» disse penosamente, mentre le ultime persone che si trovavano fuori dal balcone andavano via.
Lui alzò un braccio in direzione di quelle.
«Non andate via, vi prego!» le pregò, strisciando invano verso di loro «Non andate...» disse in un lamento acuto e spezzato, mentre il braccio ricadeva per terra.
Nel frattempo, Luchia rientrò dentro. Vide tutto quello che le si presentava dinnanzi senza sbattere ciglio, la solita faccia austera, lo sguardo altero.
Tra le dita teneva un lunga sigaretta. Fece un paio di tiri e sorpassò Joe che, prostrato per terra, singhiozzava.
Arrivò fino in cucina e vide dei tovaglioli ripieni di sangue e del ghiaccio squagliato. Il suo sguardo fu catturato da qualcosa che era per terra. Afferrò il cellulare e vide che lo schermo era ampiamente rigato.
Strinse le sopracciglia e si avvicinò a passi eleganti verso di Sora.
«Questo deve essere tuo» le disse piatta, porgendoglielo.
La ramata la guardò in pena. Allungò un braccio in maniera automatica e lo afferrò.
 
Capì tutto.
 
Lo strinse in una mano.
 
Era tutto finito.
 
Tutto...
 
La sua vita era finita...
 
Scoppiò a piangere disperata, mentre Luchia si allontanava lasciando dietro di sé una scia di cenere.
Mimi la strinse ancora più forte, sconvolta, e le lacrime colsero anche lei. Joe urlava ancora miserabilmente.
 
Erano colpiti, affondati, sotterrati.
 
Erano cenere.
 
Cenere che era appena volata via...
 
 
 
 
 
 
 
Taichi corse in direzione di Yamato. Con il respiro affannato tentò di stargli dietro, vedendolo correre a sua volta senza fermarsi.
Lo chiamò a squarciagola, ma quello non si fermò.
Lo vide sorpassare l’isolato e scagliarsi contro dei bidoni della spazzatura che si trovavano ai lati della strada. Lanciò dei calci così talmente forti da farli rotolare per terra, i rifiuti sparsi per la strada, le bottiglie in vetro fare rumore nell’impatto.
Lo sentì urlare e ribaltare tutto.
«Yamato!» lo chiamò, raggiungendolo «Fermati! FERMATI!» gridò, la voce amalgamata al rumore dei bidoni che si fracassavano.
Chiuse gli occhi dal fastidio, mentre Matt si fermava e respirava pesantemente. Vide il suo petto alzarsi e abbassarsi ritmicamente, il volto scuro, i capelli appiccicati alla faccia.
Emise un ringhio e si lasciò cadere sul marciapiede, sedendosi e portandosi le mani alla nuca.
Taichi lo sentì piangere e si avvicinò preoccupato.
 
Cosa diamine stava succedendo?
 
«Perché fai così?» gli domandò basito, guardandolo dall’alto.
Il biondo non rispose, continuò a piangere con le mani sul volto sanguinante, emettendo dei suoni sofferenti e disperati.
Tai strinse i pugni.
Doveva smetterla.
Doveva uscirne.
«Amico, non puoi continuare a reagire in questo modo, ti prego...» disse esasperato, tra i denti «ti fai del male così... questa gelosia è troppo!» esclamò in tono duro.
Doveva controllarsi, per diamine... diventava ingestibile, non riusciva a fermarlo nessuno...
Si tastò il polso che gli faceva male per la presa.
Matt non disse nulla. Lo vide scuotere la testa e continuare a tirare su con il naso.
Quella sua mancata reazione lo fece arrabbiare ulteriormente.
Si distruggeva da solo ed esasperava Sora in quel modo. Non era salutare. Era nocivo. Era terribilmente annientante.
Doveva smetterla...
Aveva fatto andare via tutti... aveva rovinato tutto...
 
Tutto.
 
«Rovini la vita a Sora!» sbottò, infervorato «Non puoi scaricare la rabbia contro le persone solo perché sei geloso!» lo vide abbassarsi e poggiare la testa sopra le braccia. Strinse ancora di più i pugni, adirato.
Non capiva niente.
Faceva sempre di testa sua e mandava all’aria tutto!
Era pericoloso, perdeva la ragione... non ce la faceva più a stargli dietro in quel modo...
«Non ne hai motivo!» lo redarguì di nuovo, ma ancora una volta non trovò reazione «Hai capito? E’ da stupidi! E’ da insicuri!» sembrava fosse piombato in un silenzio disperato e assordante e odiava quando faceva in quel modo.
«MATT!» lo richiamò brusco, tanto che la sua voce rimbombò per la strada.
Il biondo alzò all’improvviso il viso rigato dalle lacrime, il sangue che fuoriusciva dal labbro e lo fissò con uno sguardo martoriato, uno sguardo che conteneva rabbia, ma anche un’espressione spenta.
Come se fosse morto dentro.
«Mi ha tradito, Tai!» urlò, schiaffandogli in faccia ciò che era successo, ciò che aveva scoperto leggendo quei due soli messaggi.
 
Lo aveva tradito...
 
 
 
Sora lo aveva tradito...
 
 
 
Strinse i denti e le lacrime continuarono a sgorgare.
Il castano aprì la bocca, fermandosi.
«C-cosa?» biascicò incredulo, sentendo la voce tremare.
Il biondo lo guardò ancora e poi chinò nuovamente il capo.
Tai rimase interdetto, ritto davanti a lui. La mente lavorava frenetica e tentava di trovare un senso a ciò che aveva appena sentito.
 
Era stato tradito.
 
Era vero?
 
Matt era stato tradito da Sora...
 
Non era possibile, doveva esserci un errore... uno di quegli errori madornali che andavano corretti...
 
Gli occhi erano spalancati, il cuore gli batteva forte dentro il petto.
Udì ancora i singhiozzi dell’amico, e lentamente, cominciò ad assimilare.
«Dio mio, no...» mormorò sconvolto, realizzando che quello che gli aveva detto corrispondeva alla realtà.
Spontaneamente, si piegò all’altezza dell’altro e si sedette accanto a lui. Portò un braccio attorno alle sue spalle e lo attirò a sé, facendo scontrare le loro fronti.
«Mi ha tradito...» ripeté Yamato, disperato, non appena percepì la stretta dell’amico, sentendo di potersi lasciare andare a lui, sfogarsi, mostrarsi debole.
 
Il dolore lo stava straziando.
 
Lo aveva spezzato in due.
 
Tai guardava la strada senza vederla realmente, il pianto di Matt gli rimbombava nelle orecchie.
Era l’unico rumore che poteva udire intorno.
 
 
 
Erano distrutti.
 
 
Colpiti, affondati, sotterrati...
 
 
Nient’altro che cenere.







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Capitolo 11
*** Silenzio ***



Salve a tutti.
Prima di passare al capitolo, volevo semplicemente appellarmi alle persone che seguono la storia. Mi sento un po' insicura arrivata a questo punto; la mancanza dei vostri pareri, per quanto le letture persistano, mi scoraggiano. Arrivati ad una fase clou della narrazione mi piacerebbe sapere cosa ne pensiate, se quella cosa vi è piaciuta, se, al contrario, non siete stati proprio d'accordo. Non chiedo niente di così particolare, semplicemente la vostra sincera opinione in poche righe. Continuare a pubblicare come archivio personale mi va bene, io alla fin fine scrivo principalmente per me stessa, anzi; scrivere questa storia dopo tanto tempo che ero ferma mi ha davvero fatto star bene. Però pensare che questo non arrivi mi rende davvero insicura se continuare, penso di star sbagliando qualcosa se non vale la pena spendere un solo secondo per lasciare una piccola recensione. In mancanza di sostegno mi sento un po' scoraggiata e temo di avere difficoltà a continuare a postare. O perlomeno, potrei prendere ancora più tempo di adesso proprio perché non trovo qualcuno che sente la storia veramente. Confido che qualche lettore si faccia vivo. Ne avrei davvero bisogno.
Buona lettura!









Il silenzio della notte.
 
Notte che invadeva le strade, le vie, i palazzi, il cuore.
 
Notte che copriva tutto con il suo mantello di oscurità.
 
Notte fredda, crudele, solitaria, silenziosa.
 
Taichi alzò appena lo sguardo e lo volse verso l’altro.
Erano sdraiati entrambi sul letto del biondo, a casa sua. Avevano percorso la strada senza dire niente, troppo sconvolti, disperati, dannati.
Le loro certezze erano crollate d’un tratto, in un modo brusco, violento, sotterrandoli entrambi con le macerie.
Non sarebbero risaliti mai più.
Non avrebbero mai più rivisto la luce.
Sentì Yamato muoversi accanto a lui. Era voltato dall’altro lato, rannicchiato come un fardello.
Chiuse gli occhi per qualche secondo, udendo il silenzio regnare nella stanza.
Si era chiuso in sé stesso.
Tanti anni di fatica per farlo aprire, per farlo parlare, e adesso si era ammutolito, si era serrato all’interno del suo essere, non lasciando trapelare nemmeno uno spiraglio.
Tai sospirò, angosciato, triste.
Come avrebbe fatto a rimettere insieme i pezzi di Yamato?
Poteva vederli lì, sparsi per terra, inermi...
Si sentì in colpa per come si era comportato con lui. Lo aveva rimproverato, lo aveva giudicato senza dargli prima la possibilità di replica.
Forse non lo avrebbe capito mai Yamato...
Forse era colpa sua che voleva assoggettarlo, voleva imporgli il suo modo di fare ignorando la sua vera natura.
Lo sentì tirare su con il naso e lo guardò ancora. Allungò un braccio e gli toccò la spalla, sentendolo irrigidirsi non appena percepì quel contatto.
«Matt...» sussurrò nell’oscurità.
L’unica luce che intravedeva era quella che filtrava attraverso le tapparelle abbassate a metà.
Era tutto oscurità.
L’oscurità di una notte che non avrebbero mai dimenticato.
Lo strinse più forte.
«Ti va di parlare?» gli chiese con voce roca, sperando che si girasse in sua direzione.
Il silenzio lo aveva inglobato.
Lo aveva sotterrato, facendolo suo, in una sorta di tunnel angustiante.
Il biondo negò impercettibilmente con la testa.
Ormai faceva parte di lui.
Tai sospirò.
Come avrebbero fatto?
Sarebbe stata una lotta contro il vuoto. Lo avrebbe risucchiati, non avevano possibilità di salvezza.
Strinse le labbra.
Forse se solo lo avesse capito di più... se solo fosse stato più presente in quegli anni...
Lo avrebbe aiutato a non sprofondare.
Sentì i sensi di colpa attanagliare il suo petto.
Non lo aveva mai capito realmente.
Lo aveva lasciato lì, vittima del suo destino...
 
 
Avevano sempre avuto quel temperamento, loro due. Andavano d’accordo, erano amici, ma talvolta le loro idee entravano così in contrasto e i loro caratteri prendevano subito fuoco.
Si mischiavano così tanto da generare una tempesta talmente fitta da coinvolgere chiunque era intorno.
«Non puoi pretendere di avere sempre ragione!» aveva urlato il castano, stringendo i pugni contro l’amico.
Lo guardava come volesse fulminarlo, mentre l’altro aveva fatto una faccia disgustata, di sufficienza.
«Quello che vuole avere sempre ragione sei tu, Taichi» lo aveva rimbeccato «Io dico solo le cose come stanno» soffiò gelido.
Non riuscivano a capirsi. Erano un continuo scontro, una continua lotta a chi avrebbe prevalso.
«Guarda che il presuntuoso sei tu!» sbottò Tai con un tono ovvio «Non accetti opinioni diverse dalla tua»
Un continuo rinfacciarsi gli errori, un continuo puntare il dito su chi, secondo l’altro, sbagliava.
Erano fatti così.
Matt aveva incrociato le braccia e gli aveva rivolto uno sguardo cinico.
«Tu dici cazzate, non opinioni» sputò in tono sferzante.
Tai si sentì offeso.
«Ah, scusa, abbiamo di fronte il paroliere!» esclamò sarcastico.
«Sicuramente sono più equilibrato di te» affermò l’altro senza far trasparire nessuna emozione.
Il castano strinse di più i pugni.
Lo odiava quando faceva in quel modo!
«Ma dai, con questa faccia di cazzo...» sibilò provocandolo volutamente.
Matt non se lo fece ripetere due volte. Cedeva facilmente alle provocazioni, lo conosceva a memoria. Si avvicinò pronto a tirargli un pugno in viso.
Vennero interrotti dall’arrivo improvviso di Sora, che li fissava con in volto uno sguardo preoccupato ed esasperato.
«Che state facendo?!» urlò loro contro, afferrando entrambi dalle braccia «Siete sempre i soliti! Smettetela! Sono stufa delle vostre liti!» li redarguì.
Si voltarono a guardarla automaticamente. Aveva il potere di fermarli, di calmarli, li assoggettava con un solo cenno o parola.
Dopo qualche secondo in cui non dissero nulla, Matt le rivolse uno sguardo infervorato.
«Non prendertela solo con me!» esclamò duro, mentre Tai alzò la testa interrogativo «E’ Taichi che provoca, lo sai» continuò in tono ovvio.
Sora aveva aperto per un attimo la bocca, spaesata. Poi aveva stretto le mani al petto.
«Non lo so, Matt, tu salti subito in quarta!» lo rimbeccò facendo un sospiro «Lo sai che è fatto così, quindi non...»
Non le lasciò finire la frase che aveva preso ad urlarle contro.
«Non te lo difendere troppo!» aveva gridato, spiazzando entrambi.
Tai aggrottò le sopracciglia, invece Sora lo guardava intimorita.
«Una volta nella tua vita dà ragione a me!» continuò, rosso in viso, arrabbiato.
«Io do ragione a te, cosa stai...» la ragazza tentò di difendersi.
Matt non volle sentire altro.
«Taichi di qua, Taichi di là... E’ sempre Taichi!» si voltò a fissarla con disprezzo, mentre nel volto di lei si disegnava una ruga di sconforto.
«Mi hai rotto il cazzo!» lo sentì urlare, e lì non capì più niente.
Si avventò su di lui prendendolo dalla maglia. Gli occhi erano incendiati. Lo spinse contro il muro.
«Insultami, prendimi a botte, fai quello che vuoi con me, ma non prendertela con Sora» gli sibilò in volto, vedendo l’espressione spaesata dell’altro.
«Mi hai capito?» gli intimò.
Matt aveva lanciato un ultimo sguardo alla ragazza che a sua volta lo fissava con le lacrime agli occhi. Incapace di proferire altro, si mollò dalla presa dell’amico e andò via.
Tai guardò la direzione in cui era sparito con uno sguardo serio, poi si era avvicinato all’amica e le aveva circondato le spalle con un abbraccio.
 
 
Ed era vero.
Aveva sempre messo Sora al primo posto rispetto a lui. Lei era parte integrante della sua vita, aveva sempre fatto parte di lui, fin da quando era piccoli.
Era la prima bambina con cui aveva parlato, l’unica amica femmina che aveva avuto, la sua prima cotta infantile che non avrebbe mai dimenticato.
Sora era un punto fermo per lui, l’avrebbe protetta sempre, anche a costo di andare contro Yamato.
Sospirò pesantemente, sentendo il cuore che si sgretolava.
 
Dopo la discussione, aveva raggiunto il biondo a casa sua. Matt era rimasto stupito quando lo aveva visto entrare, soprattutto per il fatto che sembrava aver recuperato il buon senso.
Parlarono un po’ tra di loro, ammettendo di essere stati troppo precipitosi nell’essersi scontrati in quel modo. Poi il discorso verté su Sora, e Matt aveva abbassato lo sguardo colpevole.
Tai lo guardava appoggiato alla soglia del balcone con una sigaretta tra le dita.
«Non m’importa se sei geloso» proclamò, rilasciando il fumo dalla bocca.
Il biondo alzò lo sguardo e lo fissò tagliente.
«Io non sono geloso!» sbottò, sentendosi imbarazzato.
Tai gli lanciò uno sguardo scettico.
«E’ solo che... mi fa male quando non mi capisce...» lo udì rispondere con un filo di voce, mentre si scompigliava nervosamente i capelli.
Il castano scosse la testa facendo l’ultimo tiro e spegnendo la sigaretta sul posacenere.
«Per capirti ci vorrebbe scritta un’enciclopedia di dieci volumi» berciò.
Matt non rispose. Lo sentì sospirare con afflizione, lo sguardo puntato sul pavimento.
«Chiedile scusa» affermò poi lapidario dopo dei secondi di silenzio.
L’amico alzò lo sguardo su di lui e vi lesse fastidio mischiato con la frustrazione di dover essere rimproverato.
«Certo che lo farò, per chi mi hai preso?!» esclamò brusco.
Sapeva di aver sbagliato e che la ragazza, probabilmente, stava soffrendo per i suoi modi.
Tai chiuse gli occhi per un attimo.
«Se facessi del male a Sora non te lo perdonerei mai» soffiò, mentre l’altro lo guardava duro ma colpito.
Poi li riaprì e lo fronteggiò, seppur da lontano.
«Sei il mio migliore amico, Yamato, ma non me ne frega un cazzo quando si tratta di Sora» gli uscì dalla bocca semplicemente, come fosse ovvio.
Il biondo strinse le sopracciglia. Tai gli diede le spalle e volse lo sguardo verso il tramonto.
«Non starò mai dalla tua parte contro di lei» mormorò statuario.
Matt sentì come uno schiaffo raggelante in pieno viso. Lo vide voltarsi a guardarlo nuovamente.
«E’ bene che tu lo sappia» concluse.
Si guardarono per un altro po’ di tempo, poi il biondo annuì, consapevole che il posto che Sora occupava nel cuore di Taichi e viceversa era qualcosa che non avrebbe mai potuto spezzare e, da alcuni punti di vista, nemmeno equiparare.
 
 
Credeva che il bene che provava per lei non avrebbe mai potuto mettersi a paragone con quello che provava per Yamato.
Ne era così convinto, fino alla sera prima ne era convinto, quando le si era avvicinato a parlarle per assicurarsi che tutto andasse bene...
Gli aveva mentito.
Sora aveva mentito a lui.
Tutte le sue certezze crollarono.
Credeva che quel rapporto platonico che avessero fosse talmente forte da non ammettere le bugie, da non ammettere frasi non dette o dette a metà; lui si fidava così tanto di lei, lei era la sua certezza, una delle poche che aveva insieme alla sua famiglia.
Come aveva potuto condannare Matt in quel modo?
Dirgli tutte quelle cose, spingerlo verso di Sora, quando era lei ad essere marcia...
Sentì gli occhi lucidi e si arrabbiò con sé stesso.
Lei lo aveva sempre accecato in tutti quegli anni.
Non ci aveva capito niente quando aveva saputo che si frequentavano alle sue spalle, non ci aveva capito niente quando aveva scoperto che Yamato se l’era portata a letto ed era sparito, non ci aveva capito niente quando si era reso conto che tra di loro la storia non andava.
Era stato cieco.
Aveva così talmente sperato che la loro relazione andasse bene, quasi lo aveva imposto, solo per non doversi staccare da loro, solo per non doversi dividere dall’uno e dall’altra.
E invece quel suo egoismo lo aveva portato con i piedi per terra.
Sora aveva tradito Yamato e lui era rimasto lì, come un coglione che non aveva mai voluto credere alla realtà dei fatti.
Strinse le labbra triste, deluso.
La mano era ancora sul fianco di Matt e lo strinse un po’ di più.
«Lo sai che sono qui...» mormorò, mentre il tono di voce gli si incrinò.
Non riusciva a sopportarlo.
Gli dava pena, sconforto...
Rabbia...
Il biondo non rispose. Si limitò ad annuire piano con la testa dopo un po’ di tempo, tanto che Tai pensò se non lo avesse immaginato.
Con un gesto spontaneo, avvicinò ancora di più il suo corpo contro quello dell’amico in maniera tale da averlo più vicino.
Voleva solo che sapesse che c’era davvero.
Voleva solo che sapesse che se per tutto quel tempo lo aveva messo in dubbio, se non aveva creduto ai suoi buoni sentimenti, se lo aveva posto in secondo piano da quel momento in poi avrebbe fatto tutto il contrario.
 
Dopo un po’ di tempo, Taichi chiuse gli occhi, stanco e con la testa che gli doleva.
Fece un sonno agitato, popolato da strane presenze che si alternavano e gli facevano rivivere le scene che aveva vissuto poche ore prima.
Quando le prime luci del sole entrarono dalla finestra, aprì di nuovo gli occhi, incapace di continuare a tenerli chiusi.
Constatò se l’amico si fosse addormentato e, sentendo il suo respiro regolare, tirò un respiro di sollievo.
Dormendo avrebbe lenito un po’ della sua pena.
Tolse il braccio da sopra di lui e si spostò di posizione con la faccia rivolta al soffitto.
Lui però non riusciva a dormire.
Gli ronzava in testa tutto quello che era successo, e sentiva di dover fare qualcosa.
 
Doveva parlare.
 
Doveva capire.
 
Si alzò lentamente dal letto, stando ben attento a non svegliare il biondo. Si mise le scarpe e gli gettò un ultimo sguardo, prima di aprire la porta di casa e chiudersela dietro le spalle.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Silenzio.
 
 
La casa era dominata dal silenzio.
I resti della sera prima non erano stati ripuliti. Il tavolino era ancora rivolto per terra. Le carte, i bicchieri, le cicche di sigarette erano sparsi per le stanze.
Per terra c’era del sangue, aveva lasciato dei segni anche sul muro. Le sedie erano in disordine, la luce della kappa della cucina era stata lasciata aperta.
 
 
Silenzio.
 
 
Joe dormiva sopra il divano, le gambe divaricate, le braccia incrociate al petto. Aveva la bocca aperta e gli occhiali spostati di traverso.
Il suo russare squarciò il
 
silenzio.
 
 
 
 
 
Sora aprì gli occhi a fatica. Il sole filtrava attraverso le tende, gli uccelli avevano preso a cantare, il rumore delle automobili si riversava in strada.
Si portò una mano alla testa che le doleva, spostando apaticamente lo sguardo accanto a sé, dove Mimi dormiva placidamente, un suo braccio che la stringeva dai fianchi come se potesse scappare via.
Sospirò pesantemente, sentendo i primi spasmi di dolore coglierla. I ricordi delle ore precedenti la pervasero, e si sentì morire.
Cosa aveva combinato?
Tirò su con il naso.
Come aveva potuto pensare che non succedesse?
Aveva paura, aveva un senso di ansia sullo stomaco che non le permetteva di respirare.
Si sentì vuota, disperata, angosciata.
Le lacrime cominciarono a invadere i suoi occhi.
Era successo l’irreparabile... niente sarebbe stato più come prima... adesso avrebbe dovuto imparare a convivere con il peso di quello sbaglio sulle spalle...
Come avrebbe fatto?
Il solo pensiero le provocò una disperazione tale che le lacrime sgorgarono come un fiume in piena.
Singhiozzò senza riuscire a contenersi, mentre Mimi apriva gli occhi, disturbata dal rumore. La vide piangere e le si strinse il cuore.
Non voleva vederla soffrire...
Non voleva stesse male in quel modo... non riusciva a vederla persa in quell’oblio... lei che era sempre stata così forte, così genuina...
Le accarezzò i capelli.
«Sora...» mormorò dolcemente.
La ragazza scoppiò in un lamento ancora più forte, lasciando l’amica con gli occhi sbarrati per l’imponenza di quel pianto.
La strinse in un abbraccio, ma Sora tentò di staccarsi, disperata, i sensi di colpa che le suggerivano che non aveva bisogno di essere consolata.
Doveva soffrire, doveva pagare per il male che aveva inferto ad una persona che l’amava...
Doveva crogiolarsi nella più cupa delle disperazioni, nella più cruda delle colpe fino a quando di lei non sarebbe rimasto meno che niente.
Passarono alcuni minuti in cui Mimi la lasciò sfogare senza dire nulla.
Aveva bisogno di farlo, aveva bisogno di buttare fuori tutto quello che sentiva.
Pian piano, la ramata cominciò a calmarsi, asciugandosi gli occhi con il palmo delle mani. Lo sguardo si perse nella stanza, sentendo distrattamente il ticchettio dell’orologio che scandiva i minuti.
Con un gesto repentino si mise a sedere sul letto.
La castana le gettò uno sguardo preoccupata e, spontaneamente, le strinse delicatamente il braccio con una mano.
«Aspetta, dove vai?» le chiese, mentre l’altra si metteva le ciabatte ai piedi.
Non si voltò a guardarla, ma poté sentire il tono martoriato con cui le rispose.
«Devo andare in bagno» e si staccò dalla sua presa per poi trascinarsi a tentoni verso la porta ed aprirla.
Appena andò via, Mimi si lasciò andare in un sospiro triste.
Era successo un casino.
Non sapeva neanche come descrivere ciò che era accaduto poche ore prima. Era stato tutto così improvviso e inaspettato che ancora stentava a crederci.
Alzò le braccia sul cuscino.
Era stato un duro colpo per lei vedere la sua migliore amica accasciata in quel modo. Vederla crollare era stato bruttissimo, era come se le si fosse frantumato un enorme scoglio proprio sotto i piedi.
Non riusciva nemmeno a parlare, tanto era scioccata, aveva dovuto scuoterla più volte per incitarla a raccontarle l’accaduto.
Subito dopo era subentrato il pianto disperato, isterico, e Mimi non sapeva come fare. L’aveva portata in bagno, le aveva sciacquato il volto, e dopo del tempo che le era sembrato un’eternità, finalmente si era decisa a confessarle ciò che era successo.
Sora aveva tradito Yamato.
Si chiese come avesse fatto a non accorgersene, a non aver sospettato di nulla. Eppure pensava di conoscerla bene. Avrebbe dovuto cogliere dei segnali contrastanti.
Era così talmente egoista, concentrata su lei stessa da non rendersi più conto di quello che le succedeva intorno?
Sentì l’acqua del rubinetto aprirsi e sospirò ancora.
Era una situazione delicata. Non se la sentiva nemmeno di aggiungere niente di più alle parole di conforto che aveva cercato di sussurrarle la sera prima.
Spostò lo sguardo verso le tende.
Non poteva crederci che tutto quello era successo proprio nel momento in cui lei e Taichi si erano finalmente riuniti.
Una fitta percorse il suo cuore.
Avevano fatto l’amore.
Lei e Tai erano stati insieme dopo tanto tempo, ed era stata così felice, così talmente felice da non vederci più.
Gli aveva detto di amarlo...
Chiuse gli occhi, sentendosi imbarazzata.
Aveva fatto bene a farlo?
Lui non gli aveva neanche risposto, e capiva che la situazione aveva preso dei risvolti negativi tutt’ad un tratto, ma non riusciva a non sentirsi sporca, pessimista.
Si era aperta di nuovo a lui dopo tanto tempo, forse si era esposta più del necessario.
Tai era corso via da Matt, e ne apprezzava la lealtà, la solida amicizia che lo univa a lui come era solida quella che legava lei a Sora.
Però si aspettava un suo cenno, un qualcosa che le potesse fare capire che non si era dimenticato di quello che era successo, che non aveva sorvolato quello che lei gli aveva detto.
Per quanto tentasse di smetterla di fare quei pensieri che al contempo le sembravano inopportuni dato ciò che era successo, non riusciva a non pensare di essere la sola.
L’unica e sola che prova quell’amore malcelato e per troppo tempo contenuto.
Le palpebre si fecero sempre più pesanti e piombò in un sonno profondo.
 
 
 
 
 
 
Sora si chiuse la porta dietro le spalle.
Rimase per qualche secondo appoggiata su di essa, lo sguardo perso nel vuoto.
Non aveva la forza...
Non aveva nemmeno la forza di muoversi.
Si sentiva come svuotata, letteralmente vuota da ogni singola emozione se non la disperazione.
Strinse gli occhi umidi.
Piano, arrancò fino al lavandino, strisciando per terra le ciabatte. Sentì come un mancamento coglierla all’improvviso, tanto che fu costretta a tenersi per evitare di cadere.
Alzò lo sguardo sullo specchio e vide la sua immagine riflessa.
I capelli aggrovigliati, il trucco sbavato, il volto tumefatto e gli occhi pieni di lacrime.
Come si era ridotta?
Cominciò a piangere silenziosamente, mentre continuava a guardarsi non riconoscendo nulla della ragazza che era.
Era il fantasma di sé stessa.
Qualcuno che aveva occupato il suo posto da un po’ di tempo a quella parte.
Si faceva schifo, si faceva letteralmente pena...
Strinse le dita ai bordi del lavandino e il pianto s’intensificò. Sentiva le gambe cedere, la testa scoppiare.
 
Aveva rovinato tutto...
 
Con un gesto aveva distrutto la sua relazione, l’aveva buttata nel cesso senza riguardi, aveva mancato di rispetto all’unica persona che probabilmente non lo meritava...
 
Non sapeva amare.
 
Era questa la più rude delle verità.
Non aveva mai saputo amare, non aveva mai donato amore a chi le stava intorno... non era riuscita a trasmetterlo a Yamato, non era riuscita a portare rispetto a quello che lui provava...
Proprio lei...
Sembrava uno scherzo di cattivo gusto.
Lei aveva tradito, era stata infedele..
Proprio lei, la Digiprescelta dell’Amore...
Si accasciò piegandosi in avanti, le mani sul viso. Le lacrime la inondarono, mentre stringeva i denti e urlava dal dolore.
 
 
 
 
 
 
Il campanello suonò.
Il suono rimbombò per tutto il soggiorno. Joe aprì appena un occhio, disturbato da quel rumore molesto, una smorfia irritata dipinta sul viso.
Il sonno lo colse nuovamente e continuò a russare.
Dopo pochi secondi, il campanello suonò ancora. Joe aggrottò le sopracciglia.
Chi diamine era che rompeva le palle?
Pensò ad uno scherzo da parte del vicino di sopra con il quale non scorreva affatto buon sangue. Quell’idiota era fastidioso e petulante, quel Martin il pagliaccio, come era abituato a chiamarlo lui... se lo prendeva era fritto...
I suoni si fecero continui ed insistenti, e saltò sul divano impaurito, il cuore che gli batteva forte.
Santo cielo, gli sarebbe preso un infarto!
Si mise in piedi con un’espressione arrabbiata, gli occhiali ancora di traverso. Non si premurò neanche di mettersi le ciabatte, tanto camminò scalzo fino alla porta, calpestando i detriti sparsi per il pavimento.
Imprecò per aver messo il piede su qualcosa di appuntito.
Il campanello suonò ancora. Fece un’espressione assatanata e urlò. A gran passi si avvicinò alla porta e la spalancò con gli occhi fuori dalle orbite.
Lo avrebbe ucciso a quel farabutto che...
La sua espressione mutò e si trasformò in interrogativa.
Taichi si trovava ritto davanti a lui, in viso uno sguardo stanco di chi non aveva dormito affatto.
Doveva rompere i coglioni a lui che stava dormendo, allora?
Aveva indosso i vestiti della sera prima e sembrava fosse di fretta.
Aggrottò le sopracciglia con irritazione. Non aveva intenzione di far mettere piede in casa a quel tizio, assolutamente no, non dopo come la situazione si era rivoltata, non dopo come avevano sabotato la sua laurea.
«Cosa ci fai tu qui?!» sbottò, guardandolo dall’alto in basso come fosse un insetto altamente pericoloso.
Tai sospirò e fece un passo in avanti.
«Lasciami entrare» gli disse solo, tentando di liquidarlo.
Joe, però, fu più lesto. Lo afferrò da un braccio e lo costrinse ad indietreggiare. In volto aveva uno sguardo truce, come potesse ucciderlo da un momento all’altro.
«Non vi è bastato lo schifo di ieri sera?!» esclamò, mentre la sua voce acuta rimbombava sul pianerottolo.
Si preparò a ricoprirlo di insulti e rinfacciamenti, lo avrebbe cacciato fuori a calci nel deretano. Non sarebbero mai più entrati quegli stolti distruttori di case, li avrebbe spediti a casa loro in men che non si dica!
Aprì la bocca per parlare, ma il castano gli diede uno spintone facendolo barcollare all’indietro.
«Lasciami entrare, Joe!» gli urlò, riuscendo ad infiltrarsi.
Il maggiore lo fissò allarmato.
Che intenzione aveva?
Voleva creare scompiglio un’altra volta?
Quando avrebbe meritato un po’ di pace nella sua vita?
«Stupido calciatore bislacco!» gli gridò dietro, insultandolo «Che diamine vuoi dalla mia vita?!» lo raggiunse e tentò di afferrarlo nuovamente da un braccio.
«Esci subito! Sei all’interno di una proprietà privata!» tentò di spaventarlo mettendo di mezzo la legge.
L’altro non si fece intimorire. Strinse un pugno e lo guardò sprizzando scintille dagli occhi.
«Dov’è Sora?» chiese tenendo fisso lo sguardo, uno sguardo che fece raggelare il sangue nelle vene del burino.
Cosa voleva da lei?
Non avrebbe permesso che succedessero altre dispute, né tantomeno che quell’idiota le dicesse qualcosa di sconveniente...
Doveva passare sul suo corpo se solo pensava di poter raggiungere la camera della ramata.
Si avvicinò e lo tirò con forza, tentando di portarlo via da dove stava andando. Spinse più che potette, notando, però, che Taichi non si muoveva di un centimetro.
«Lascia stare quella paperella, non è il momento!» urlò inviperito, gli occhi sbarrati, una smorfia allarmata sul viso.
«Mi hai sentito, cespuglio di bacche?!» gridò infervorato, senza lasciare la presa dal suo braccio «Non è il momento!» ripeté allusivo.
Insospettita da quel rumore, Sora si trascinò fino al soggiorno. Guardò i due amici con uno sguardo apatico e vagamente interrogativo.
I due si voltarono a guardarla di rimando. Notò l’espressione sul volto di Taichi mutare improvvisamente, poi diede una brusca spinta a Joe che, preso alla sprovvista, quasi fece un capitombolo all’indietro.
Lo vide avanzare verso di lei, afferrarla saldamente dalle spalle e bloccarla contro il muro. Il cuore le salì fino alla gola, aprì la bocca spiazzata per quel gesto.
Udì distrattamente Joe urlare gravemente, le mani sul viso, forse spaventato.
Tai la fissava con uno sguardo serio, risoluto, uno sguardo che le mise soggezione.
Non l’aveva mai visto utilizzare quell’atteggiamento con lei.
Era sempre delicato, gentile, mentre adesso l’aveva spinta con forza e la guardava duro.
Un brivido le percorse la schiena.
Il ragazzo non smise di fissarla. La guardava negli occhi nocciola e sentiva lentamente il cuore sprofondare adesso che ce l’aveva davanti.
Come aveva potuto fare quello?
Lei che era così buona, così generosa... era un esempio per tutti loro... era cascata nella tela del ragno, aveva fatto del male a Matt...
La strinse più forte dalle spalle.
Aveva voglia di urlarle quanto era stata stupida, quanto adesso che la guardava in viso le sembrava di vedere un’altra.
Qualcuno che non era lei, non era Sora.
«Che cosa hai fatto?» soffiò in un tono basso ma che trapelava una punta di disperazione.
La ramata sentì i battiti accelerati e percepì subito le lacrime invadere nuovamente il bordo degli occhi.
Il modo in cui l’aveva detto le aveva toccato il cuore.
Era stato come una lama infilzata nello stomaco, una lama appuntita che la stava facendo sanguinare copiosamente.
Tai non aveva smesso di guardarla. Non riusciva a toglierle gli occhi di dosso. La guardava con pena, rammarico, rabbia.
Era come se la stesse vedendo per la prima volta.
Come se si fosse improvvisamente svegliato e si fosse reso conto solo in quel momento di chi avesse di fronte.
«Mi fidavo di te...» lo udì sussurrare e sentì un altro pezzo di cuore rompersi «eri l’unica persona di cui mi sarei fidato fino alla morte...» piano la voce gli si incrinò, e Sora chiuse gli occhi, angosciata.
Cercò con urgenza la sua mano, in una sorta di premonizione di qualcosa di irrimediabile.
«Tai, io...» provò a dire, ma l’altro scostò la presa. L’osservava  con una smorfia dipinta sul viso e lei si bloccò.
Era arrabbiato, era deluso, era così talmente serio in quel momento che aveva veramente timore.
Timore di avergli fatto del male.
Come aveva potuto fare del male a così tante persone?
«Mi avevi detto che andava tutto bene... che tu stavi bene... mi hai mentito, Sora!» esclamò scuotendola, guardandola con degli occhi che sembravano bruciare
«Hai mentito a me, a Matt, a te stessa» continuò con un tono fermo, struggente, così tanto che la ramata sentì gli occhi inumidirsi di lacrime.
Aveva mentito, era vero...
Era vero, gli aveva mentito... aveva mentito a Taichi, il suo migliore amico, una delle persone più importanti della sua vita...
Gli aveva detto che stava bene, che era tutto apposto, quando in realtà avrebbe voluto scappare via dalla disperazione.
Se solo glielo avesse detto lui l’avrebbe aiutata, forse l’avrebbe capita, mentre adesso... adesso la guardava con quel fuoco che bruciava dentro i suoi occhi e la lasciava spiazzata, incapace di fare nulla, assoggettata a lui.
Tai si passò una mano tra i capelli, gettandole un altro sguardo. Notò che aveva gli occhi rossi e colmi di lacrime.
Adesso piangeva?
Avrebbe dovuto pensarci prima... avrebbe dovuto pensare prima alle conseguenze delle sue azioni, a quanto male aveva inferto a Yamato...
Dio, non lo poteva sopportare...
Non poteva sopportare niente di tutto quello.
«Perché gli hai fatto una cosa del genere?!» sbottò, e voleva saperlo veramente.
Voleva essere a conoscenza dei motivi, del perché fosse andato insieme ad un altro, del perché avesse dovuto rompere in quel modo la loro relazione.
Il loro rapporto era così solido... loro erano diversi dagli altri, si amavano così tanto, si compensavano in tutto e per tutto...
Lui si era fatto da parte per loro, perché aveva dovuto causare quello?
Perché era stata così stupida?
«Taichi!» sentì Joe che lo chiamava arrabbiato, in un tono che significava che doveva darci un taglio.
Lui non lo ascoltò, e Sora nemmeno gli prestò attenzione.
Guardava il suo migliore amico negli occhi  e non riusciva a distogliere lo sguardo.
Non doveva guardarlo così... non doveva rivolgergli quello sguardo supplice... lui non riusciva a volerle male...
Ma sentiva un sentimento di rabbia nei suoi confronti, un rammarico così talmente grande che in quel momento avrebbe voluto fare tutto fuorché guardarla.
La prese di nuovo dalle spalle.
«Perché ti sei trasformata in quello che non sei?» la strinse forte, sentendosi angosciato
«Tu eri l’unica persona di cui ci fidavamo, avremmo fatto di tutto per te... lui avrebbe fatto di tutto per te...» si fermò per qualche istante, poi prese fiato
«Io avrei fatto di tutto per te!» aggiunse, facendola completamente crollare.
Cominciò a piangere, portandosi una mano alla bocca. Le lacrime scorrevano sulle sue guance e lei tentava di nasconderle, ma erano così evidenti, così disperate...
Tai l’aveva colpita in pieno.
Le aveva fatto capire che da quel momento in poi qualcosa era cambiato tra di loro, e l’aveva ferita, l’aveva fatta sentire in colpa come non lo era mai stata.
Non voleva che lui l’abbandonasse...
Aveva bisogno della sua amicizia.
Alzò lo sguardo e incontrò di nuovo il suo. Vide i suoi occhi velati e capì che si sentiva allo stesso modo anche lui.
Abbandonato.
Solo.
«Da quanto tempo va avanti questa storia?» gli chiese poi, dopo che la ebbe mollata. Lo disse in modo brusco, come ne fosse schifato, come gli facesse male perfino pronunciare quella semplice frase.
Sora tirò su con il naso, tentando di asciugarsi gli occhi.
«Io non... ti prego, Tai...» provò a contestare.
Il castano, però, le rivolse uno sguardo lapidario che la fece subito ammutolire.
«Dimmelo. Sii sincera questa volta» berciò, colpendola forse di proposito.
La ramata aprì la bocca, interdetta.
Aveva paura.
Aveva paura che se avesse detto come stavano le cose lui l’avrebbe abbandonata definitivamente, nello stesso modo in cui aveva fatto Yamato...
Avrebbe perso entrambi, e come avrebbe fatto?
Come avrebbe fatto a stare senza di loro?
Lo sguardo di Taichi era fermo e seppe che non poteva sfuggire.
«Io... è da un po’ di tempo che... lo conosco dal primo anno di università...» la voce gli tremò, spostò gli occhi verso un’altra direzione sentendo quelli del ragazzo troppo pesanti «ci frequentavamo... Non è mai successo nulla, te lo giuro... qualche giorno fa c’è stato un bacio...» confessò con il cuore in gola.
Ebbe paura ad alzare la testa.
Tai non le aveva tolto nemmeno per un secondo gli occhi di dosso.
Adesso sapeva tutto.
Era una storia che andava avanti da tempo... il bacio era stato solo l’ultimo dei problemi...
Perché non aveva avuto il coraggio di lasciare Matt se non lo amava più?
«Io non ti capisco...» soffiò interdetto, mentre lei alzava il capo e le lacrime prendevano di nuovo il sopravvento.
Non la riconosceva più.
Si era trasformata in un’altra che non era lei.
La Sora che conosceva non avrebbe mai fatto in quel modo... avrebbe affrontato tutto, avrebbe messo fin da subito le cose in chiaro...
Chi era adesso lei?
«Mi sentivo sola, abbandonata...» pianse, mettendogli una mano sul braccio, stringendolo «lui è stato sempre distante da me in questi anni... Avevo bisogno di qualcuno che si prendesse cura di me...» tentò di spiegarsi, ma che valeva giustificarsi adesso?
Taichi non riusciva neppure a guardarla.
Non riusciva più a starle davanti, voleva andare via...
Via.
«Ti prego, Tai...» lo invocò lei, trattenendolo dal braccio.
Il ragazzo si scansò in automatico, senza alzare gli occhi.
Non riusciva più a reggere.
Era arrivato al limite.
A che serviva più perdere tempo in chiacchiere, stupide spiegazioni... era finita... era finito tutto...
«Lasciami stare» affermò, in un tono che non sembrava voler ammettere repliche «Non riesco neanche a guardarti...» soffiò tra i denti con una punta di frustrazione.
Sora sentì una dopo l’altra le ultime sue certezze crollare.
 
Era finita...
 
Stava perdendo anche lui...
 
Lo strinse forte, si attaccò alla sua schiena, mentre Tai tentava di levarla. Lottarono per un po’ in quel modo.
La ramata piangeva, urlava, lo incitava a non lasciarla.
Era come una scena a rallenty.
Mimi giunse alla soglia, destata dalle urla e il pianto dell’amica, vedendo figurare davanti ai suoi occhi quella scena struggente.
Aprì la bocca e rimase confusa, chiedendosi cosa stesse succedendo, perché lui fosse venuto a casa loro, perché Sora stesse piangendo e cercasse di trattenerlo.
Tai, nel frattempo, era riuscito a staccarsi da lei. Si era voltato e l’aveva vista disperata, le braccia strette al petto.
Non avrebbe mai pensato di dover pronunciare quelle parole.
«Mi hai così deluso, Sora» disse, e poi scosse la testa amaramente «Sarei andato contro di lui per te... adesso mi sento uno stupido per averti creduto» la voce si affievolì.
 
Si sentiva uno stupido.
Si sentiva uno stupido per aver dipeso da lei, per non aver messo al primo posto Yamato quando era lui ad averne più bisogno.
Uno stupido anche per essere andato lì, a cercare nuovamente conferme, a cercare una verità che gli aveva fatto più male del previsto.
 
Si sentiva uno stupido...
 
Così stupido che non riusciva nemmeno più a guardarla negli occhi, voleva andare via da quella dannata casa...
Distolse lo sguardo senza aspettare una sua risposta. Apaticamente, spostò gli occhi verso la soglia del corridoio e il cuore gli si bloccò.
Deglutì, sentendo un’ondata di caldo travolgerlo.
 
Mimi...
 
Mimi era lì che lo osservava con in volto un’espressione confusa, interrogativa, ma nello stesso tempo piena di luce.
Si bloccò per qualche secondo a guardarla e la ragazza fece lo stesso.
Si fissarono entrambi con intensità, e per un po’ di tempo il pianto di Sora passò in secondo piano, sentendolo ovattato, distante anni luce.
 
Lei era lì... davanti a lui...
 
Gli vennero in mente i ricordi della sera prima, i loro baci, i loro tocchi, il modo in cui avevano fatto l’amore.
 
Mimi...
 
Gli aveva detto di amarlo...
 
Lei lo amava e lui non aveva detto nulla, troppo preso da quello che era successo, troppo sconvolto per darle peso.
 
Non lo meritava.
 
Che sciocco, stupido, insensibile che era stato.
In tutti quegli anni, lo era stato...
 
La ragazza lo fissava speranzosa, gli occhi castani intrisi dal sonno, ma ben fermi sul suo volto.
Era come se volessero comunicargli che aveva bisogno di lui, che doveva fermarsi lì a parlarle, che aveva un’urgenza immane di sentirlo vicino dopo quello che era successo tra di loro.
 
Taichi continuò a guardarla.
 
Voleva dirle qualcosa, qualsiasi cosa, sentiva l’esigenza di prenderla tra le braccia e dirle che non aveva dimenticato ciò che gli aveva confessato.
Voleva dirle che lui c’era, che era stato un cretino a non aver fatto nulla in quei due anni, ma che quello che avevano vissuto poche ore prima bastava per annullarli tutti.
Voleva farlo veramente, ma si sentiva un vigliacco, così vigliacco da non riuscire nemmeno  a salutarla...
Perché aveva paura, non sapeva bene da cosa, ma non si sentiva all’altezza di ciò che era successo, delle aspettative che lei aveva su di lui.
Lei probabilmente si aspettava che lui le dicesse qualcosa, ma lui era bloccato, un codardo, stritolato dagli eventi e da quel flusso di emozioni contrastanti che aveva sentito, che continuava a sentire.
Era sconvolto, inerme, dolorosamente perso.
Non ce la faceva...
La gola era secca, il cuore batteva delle dolorose martellate, e le urla disperate di Sora gli rimbombarono nelle orecchie costringendolo a distogliere bruscamente lo sguardo da lei.
Mimi lo guardò voltare le spalle e raggiungere a gran passi la porta.
 
Era come se stesse fuggendo.
Fuggendo da lei, da lui stesso, dai ricordi della notte passata.
 
Il cuore le si spezzò in mille pezzi rassegnati.
 
Non le aveva neanche rivolto la parola, non l’aveva nemmeno salutata...
Perché le aveva fatto quello?
Erano stati così bene, erano stati in paradiso dopo tanti mesi all’inferno.
 
Quindi aveva ragione, quello che era successo tra di loro non aveva avuto significato per lui, era stato solo un ritorno di fiamma di una notte per sfogare gli spiriti bollenti...
Era stata cieca e sciocca ad essersi lasciata andare, ad avergli detto di amarlo...
Perché era stata così debole?
Avrebbe dovuto aspettarsi il muro che si sarebbe erto la mattina dopo.
Lui non l’amava, era questa la verità, la più cruda e nuda verità che adesso le stava squarciando il petto.
 
Udì Sora urlare il suo nome, chiamarlo per tentare di farlo tornare indietro. Automaticamente, si avvicinò all’amica e la strinse forte, continuando a guardare distrutta il ragazzo che aveva varcato la soglia.
 
Era andato via.
 
Era andato di nuovo via...
 
Era andato via e probabilmente non sarebbe tornato mai più.
 
La ramata si accasciò tra le sue braccia e lei la strinse forte, accarezzandole la nuca. Rimase a fissare a lungo la direzione in cui Tai era sparito, troppo sconvolta per parlare, la delusione troppo grande per essere contenuta.
Dopo qualche secondo di interdizione, vide Joe stringere i pugni e i denti. Si precipitò sul pianerottolo, la porta era rimasta aperta.
Come si era permesso?
Come aveva osato entrare con quell’irruenza a casa loro e dire tutte quelle cose brutte a Sora?
Sentì i lamenti della ragazza sempre più forti e vide con la coda dell’occhio Mimi che tentava di farla riprendere.
Sentì la rabbia esplodergli in petto.
«Figlio delle puritane!» strillò, insultandolo, facendo rimbombare la voce per tutto il condominio «Fantoccio insensibile e megalomane! Ti pesto come i torroni se ti prendo!» sbraitò, mentre alcuni vicini aprivano la porta per vedere chi fosse quel pazzo che urlava
«Ti frullo l’ego come un frappè!» continuò, sentendo poi il portone principale sbattere.
Imprecò e chiuse la porta con un calcio.
Corse come un matto fino al balcone, scontrandosi contro una sdraio lasciata lì davanti e rischiando di cadere.
Gliel’avrebbe detto lui!
Quell’egocentrico, maleducato, leader dei moscerini, questo era...
Nessuno doveva permettersi ad insultare le sue paperelle, lui teneva tanto a loro, nonostante spesso si comportasse in modo molesto.
Non avrebbe permesso a nessuno di rovinare quei bei faccini con le lacrime.
Si affacciò come una furia.
«Fatti un bagno di umiltà, calciatore delle mie palle!» riprese ad urlare, e l’eco della sua voce risuonò tra i palazzi.
Non riusciva a trattenersi; quando si infervorava diventava scurrile e violento.
Perfino i vicini di fronte si affacciarono.
Tai, invece, non alzò la testa, continuò a camminare con le mani in tasca, svoltando da una strada a fianco.
Joe strinse i denti.
«Sì, bravo, svolta da quella via... la via per andare a fanculo!» strepitò, alzando un dito, gesticolando a più non posso.
Bastardo, infame, apocalittico presagio...
 
Sora era ancora stretta a Mimi, la testa appoggiata sul suo seno, gli occhi che piano le si chiudevano per il dolore e l’umiliazione.
 
Aveva perso tutto.
 
In quella battaglia di cicatrici, era lei ad aver avuto la peggio.
 
La castana la sostenne, preoccupata nel vederla crollare.
 
Era finita.
 
Era finito tutto in un baratro di oscurità... Si erano bruciate, volavano via come cenere...
 
In casa tornò a regnare il silenzio.
 
 
Vincitore ineluttabile.
 
 
 
 
 
Il silenzio regnava attorno a lui, s’insidiava dentro il suo cuore rendendolo ancora più arido e vulnerabile.
 
Yamato aprì gli occhi.
Li sentì gonfi e irritati, le ciglia dure, le guance gli pizzicavano per le lacrime che avevano lasciato delle leggere righe sulla sua pelle.
 
Silenzio, solo silenzio attorno a lui.
 
Guardò il soffitto per un tempo che sembrò un’eternità.
 
Silenzio... non riusciva ritrovare la sua voce, ad udire i rumori...
 
Era come un involucro vuoto.
 
Non sentiva più niente dentro di sé.
 
Si passò una mano sugli occhi e li pasticciò. La testa gli doleva così forte che gli fece emettere un sospiro di dolore.
 
Non avrebbe voluto svegliarsi.
Non avrebbe voluto vivere con quella sofferenza che sentiva addosso sulle spalle.
Voleva chiudere di nuovo gli occhi e non risvegliarsi mai più.
 
Li chiuse di nuovo.
 
Sarebbe morto...
 
Ecco, era la soluzione migliore. Evadere via da tutto quello che gli era successo, scappare lontano da quel male che gli si era infiltrato sulla pelle, dentro le ossa.
 
Perché non era morto?
 
Automaticamente, aprì di nuovo gli occhi cerulei, rossi e irritati.
 
Sarebbe stato fin troppo facile...
 
Voltò la testa alla sua destra e notò che Taichi non c’era.
Non riuscì a pensare ad altro, solo sentì l’esigenza di mettersi in piedi. Scese dal letto in maniera meccanica, alzandosi di peso, sentendo una stanchezza cronica prendere il sopravvento.
La testa gli girò e chiuse gli occhi.
 
Credeva di aver toccato l’apice del dolore quella notte appena passata, invece l’alba del giorno dopo era devastante.
 
Arrancò fino al bagno. Si tenne con le mani dal lavandino senza avere il coraggio di guardarsi allo specchio.
 
Si sarebbe fatto pena.
Non voleva compiangersi, non voleva farsi pena.
 
Voleva svuotare la mente più di quanto già non lo fosse, voleva lasciarla libera da ogni dolore, ogni tipo di sentimento contrastante.
 
Aprì il rubinetto sentendo la mano che tremava leggermente. Avvicinò entrambe all’acqua corrente e si sciacquò il viso.
 
Doveva resistere.
Per quanto dentro il suo petto sentiva una sensazione che lo logorava, doveva tentare di isolarsi, perdersi nel silenzio, chiudere ogni cosa fuori.
Si asciugò il volto.
 
Era difficile... sentiva un dolore atroce sprigionarsi dal cuore, lo stava asfissiando, aveva bisogno di liberarsene.
Strinse la tovaglia sul viso.
 
Non doveva lasciarsi andare.
 
Era tutto finito... sebbene sentiva di voler morire, sapeva che era tutto finito...
 
Ogni cosa.
 
Le sue gambe si mossero e lo fecero arrivare in cucina. La luce filtrava poco dalle finestre oscurate dai palazzi.
 
L’oscurità incombeva.
 
Come un automa, si avvicinò al frigorifero e guardò apaticamente cosa c’era dentro.
 
Non avrebbe ceduto.
Non avrebbe lasciato sprigionare niente.
 
Senza nemmeno pensarci, prese due, tre cose, le mise sulla cucina. Afferrò dei piatti, le bacchette, cominciò a preparare qualcosa della quale non sapeva nemmeno lui.
 
Doveva evadere, non doveva pensarci...
Era in bilico, così in bilico che un solo soffio di vento l’avrebbe fatto cadere giù.
 
Prese un uovo e lo ruppe involontariamente facendo troppa pressione. Il liquido appiccicoso gli scolò tra le dita e mise una mano sotto l’acqua per pulirsi.
 
Doveva trattenersi...
Doveva farlo.
 
Ruppe un altro uovo dentro una ciotola e prese le bacchette per amalgamarlo.
 
Quel pensiero insidioso tornava a tormentarlo, non riusciva a bloccarlo, a tenerlo fuori dalla sua testa.
Era così difficile liberarsi da quel senso di nausea che lo pervadeva.
Non riusciva a chiudere tutto fuori, non riusciva a negare a sé stesso quella realtà, era incapace di non pensare a quello che aveva fatto Sora...
 
Sora...
 
Strinse un pugno tenendo forte le bacchette tra le dita. I suoi pensieri vennero interrotti dal campanello che suonò.
Voltò la testa in direzione della porta e le sue gambe si mossero lentamente per andare ad aprire.
Il viso di Taichi gli figurò davanti.
 
Era trafelato, stanco, segnato da un dolore che vagamente gli ricordava il suo.
 
Distolse lo sguardo per evitare quello del suo migliore amico. Lo scrutava con apprensione, lo fissava quasi volesse spogliarlo da ogni sorta di difesa.
I suoi occhi erano fermi, attenti, e Matt li sentì addosso per tutto il tempo. Continuò a trafficare con il cibo senza saper bene quello che stava facendo, evitandolo volutamente.
 
Non riusciva a guardarlo, non voleva guardarlo...
Lo avrebbe spogliato, lo sapeva, lo avrebbe reso meno che niente.
 
Il castano continuava ad osservarlo e per un po’ non osò dire una parola.
Il biondo si era limitato a guardarlo di sfuggita e aveva subito eluso il suo sguardo.
Non smetteva di preparare la colazione come se realmente fosse interessato a farlo, come se se lo stesse imponendo forzatamente.
Tai diede un lungo sospiro. Aspettava una reazione che tardava ad arrivare. Sapeva che lo stava evitando di proposito e, per quanto cercasse di nasconderlo, poteva percepire quanto la sua psiche fosse sul filo di un rasoio.
«Matt...» lo chiamò in un sussurro.
Era appoggiato contro il frigorifero e continuava a guardarlo. Il biondo sentì il suo sguardo insistente perforarlo da corpo a corpo e strinse forte le bacchette tra le dita.
La gola era secca, arida, non riusciva neanche ad emettere suono.
 
Non voleva quel compianto, voleva solo sorvolare ogni tipo di discorso, voleva chiudere fuori da lui quella situazione, voleva evadere via da quell’incubo...
 
Taichi sembrò udire quei pensieri. Notò come si fosse apprestato a tagliare il cibo, segno di evidente nervosismo e tensione.
Socchiuse gli occhi, stanco.
Era dalla sera prima che non parlava, non aveva emesso più alcun suono per tutta la notte. Non lo guardava in faccia, lo evitava per non crollare di fronte al suo sguardo, ma lui lo sapeva che era in procinto di scoppiare.
Voleva che reagisse, voleva che dicesse qualcosa, seppur un pianto, un urlo, una parolaccia...
Yamato non doveva chiudersi in sé stesso, era troppo deleterio per lui.
Sarebbe morto lentamente.
«Parliamone» sbottò secco, tenendo gli occhi fissi su di lui.
Sembrava volessero incendiarlo.
Il biondo percepì dal suo tono di voce l’impossibilità di sfuggirgli, ma era proprio quello che intendeva fare.
Non avrebbe parlato.
Non avrebbe detto nulla... perché non riusciva a dire nulla... si sentiva disarmato, svuotato, devastato...
Non riusciva a guardare Taichi in faccia.
Gli occhi del suo migliore amico bruciavano, lui lo sapeva, lo sapeva che lo avrebbe fatto cedere, perché aveva una capacità straordinaria nel farlo...
Senza rendersi conto, cominciò a fare un rumore sordo con i piatti, fece tintinnare il coltello con il quale stava tagliuzzando qualcosa, spostò delle pentole a caso sui fornelli.
Il castano lo fissò interdetto.
Tentava di scappare via, tentava di eludere quel confronto, era nervoso e addolorato, lo percepiva.
«Non chiuderti in te stesso... ti prego, Matt...» lo supplicò sentendosi in pena per lui.
Questi continuò a non prestargli attenzione, e ciò fece irritare l’amico.
Non poteva finire in quel modo, non poteva ammutolirsi e tentare di far finta che non fosse successo niente.
Odiava vederlo così, odiava quel suo modo di fare così talmente introspettivo. Doveva reagire, dannazione, doveva buttare fuori tutto quello che provava...
Aggrottò le sopracciglia, risoluto.
Non gli sarebbe sfuggito.
Lo avrebbe fatto parlare, non lo avrebbe fatto rinchiudere nuovamente all’interno della sua prigione dorata.
Con un gesto improvviso, sbatté un pugno forte sul tavolo, facendo cascare il posacenere per terra. Il rumore fece bloccare il biondo da quello che stava facendo, sentendo i battiti del cuore accelerare per lo spavento.
«Reagisci!» urlò adirato, tentando di farlo rinsavire da quel torpore lugubre «Cazzo, fa’ qualcosa, qualunque cosa, ma reagisci!» sputò fuori come fosse veleno.
Gli occhi profondi di Tai non lo mollavano.
Era stato brusco, lo sapeva, ma era consapevole anche che era l’unico modo per farlo svegliare.
Sentiva a sua volta il petto alzarsi ed abbassarsi ritmicamente per la tensione.
Voleva che lo guardasse, voleva che gli parlasse... che facesse un cenno per fargli intendere che era vivo, che era ancora in grado di reagire...
Odiava vederlo in quel modo, lo odiava...
Matt posò le bacchette in modo apparentemente calmo. Si voltò verso di lui, e non appena Tai vide i suoi occhi sentì una fitta al cuore agguantarlo.
I suoi occhi azzurri erano arrossati, velati da un dolore enorme, pieni di una sofferenza che mai gli aveva visto impressa in quel volto angelico.
Era uno sguardo martoriato, distrutto. Tentava di mantenere le lacrime dallo sgorgare, ma nonostante ebbe pena di lui in quel momento, strinse un pugno e decise di continuare.
Glielo avrebbe detto.
Doveva saperlo, doveva esserne consapevole. Lo avrebbe aiutato a rigettare fuori tutto quello che provava.
«Sono andato da lei» mormorò in un tono dietro cui non riuscì a mascherare la durezza, la delusione «mi sono fatto dire come stanno le cose» continuò fermo, non lasciandosi impietosire dal suo sguardo.
Non appena udì quelle parole, Yamato chiuse gli occhi. Li strinse come se avesse timore di guardare quello che gli stava di fronte, e si sarebbe perfino tappato le orecchie se solo avesse avuto la forza di alzare le braccia.
Non voleva sentirlo... non voleva...
Voleva sparire, voleva scappare, voleva essere dovunque fuorché lì...
L’altro strinse le labbra e decise di rincarare la dose.
Doveva farlo.
Doveva reagire.
Doveva essere consapevole.
«Quello che è successo è stato solo il culmine» spiegò lapidario, facendo dei passi in avanti per risultare più vicino a lui.
Il biondo cominciò a sentire la testa scoppiare. Afferrò con entrambe le mani dei piatti senza muoversi dalla posizione in cui si trovava.
Tai era sempre più vicino e lo scrutava attento, lo sguardo duro, un luccichio strano impresso nel suo sguardo.
«questa storia va avanti da un po’» affermò, ricordando per filo e per segno le parole che gli aveva detto Sora.
Sentì un profondo rammarico coglierlo, sapeva che lo stava ferendo più di quanto già non lo fosse, ma era necessario, doveva farlo, non riusciva più a vederlo chiuso nel suo silenzio.
Vide il petto di Matt andare su e giù, il suo respiro farsi più pesante, le dita stringevano forte il bordo dei piatti.
«Le piace, è attratta...» continuò, forse un tantino crudele «la fa sentire bene» soffiò infine in un sussurro.
 
Reagisci, reagisci, cazzo...
 
Fu un attimo.
Yamato lasciò cadere i piatti per terra. I cocci si sparsero per tutto il pavimento e fecero un fracasso terribile. Taichi chiuse appena gli occhi, spostandosi per non calpestarli.
Quando li riaprì vide l’altro tremare, lo vide portarsi le braccia alla testa e urlare.  Urlò talmente forte, in un ringhio così disperato che quasi ne ebbe timore.
Lo vide improvvisamente sbattere le cose per terra, il cibo, le posate. Urlava in tono straziante, come se dentro fosse costernato da dei demoni che lo stavano possedendo.
Con il cuore che gli doleva si avvicinò a lui. Lo strinse da dietro la schiena, forte, come potesse perderlo da un momento all’altro.
Yamato si accasciò in due, disperato, le lacrime gli tranciavano le guance.
 
Era finito.
 
Era un uomo finito.
 
La sua vita era finita.
 
Suo fratello, la band, Sora... non gli era rimasto più niente...
 
Niente.
 
Taichi lo strinse ancora di più e poggiò la testa sopra la sua schiena. Sentì gli spasmi di dolore e i singhiozzi attraverso la sua pelle.
Chiuse gli occhi e rimasero in quel modo per del tempo che sembrò un’eternità.
 
Niente.
 
Non era rimasto che niente.
 
 
 
Solo un triste, crudele, nefasto silenzio.

















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Capitolo 12
*** Tempo ***









Il tempo scorreva inesorabilmente, trascinando via con sé gli eventi come se essi non fossero mai accaduti, ma lasciava dentro la pelle un solco profondo.

 
Il solco del tempo.
 
Scorreva, scandiva i minuti, le ore, lasciava dietro di sé una scia di ricordi.
 
Sora guardava la TV spenta, gli occhi vacui, l’espressione atterrita. Una sigaretta penzolava dalle sue dita, un grumolo di cenere si era formato all’estremità.
Si sporse sul tavolino e con un colpetto automatico la lasciò cadere dentro il posacenere, poi portò il filtro alle labbra aspirando nervosamente.
 
Tempo.
 
Più passava il tempo più lei aveva paura, aveva timore di essere rimasta da sola.
Più il tempo scorreva, più lei sentiva un dolore profondo all’altezza del petto, uno spasmo che la squarciava dentro, la faceva sanguinare.
 
Il tempo sapeva uccidere lentamente.
 
La mano le tremava mentre fumava quella sigaretta. Sentiva la testa pesante, i sensi di colpa le rimbombavano dentro, la voglia di urlare si faceva sempre più viva.
Il pensiero di ciò che aveva causato non la faceva dormire. Era un pensiero fisso che lo scandire dei minuti, delle ore, non riusciva a portare via con sé.
Strinse gli occhi.
 
Non poteva più emergere da quel profondo oceano di sofferenza. Era stata attirata giù senza possibilità di risalire.
Era impigliata alle reti della colpa, della vergogna, del bisogno di spiegarsi, e quella corda la tratteneva giù senza possibilità di emergere.
Sempre più giù.
 
Il telefono squillò tutt’ad un tratto, distogliendola bruscamente dai suoi pensieri disperati.
Lo schermo rigato si illuminò, si sporse appena per leggere il destinatario, e il cuore cominciò a batterle forte.
Sperò con tutta la sua anima che fosse Yamato, sperò così tanto e scioccamente che lui la stesse chiamando, che volesse parlarle...
Ma la delusione attraversò i suoi occhi non appena lesse un altro nome apparire nello schermo.
 
Victor.
 
La stava chiamando.
 
Lasciò il cellulare sul tavolino quasi scottata, intimorita che se solo avesse risposto a quella chiamata avrebbe causato nuovamente qualcosa di irreparabile.
 
Cosa voleva da lei?
Probabilmente voleva parlarle, dirle che ce l’aveva con lei perché il suo fidanzato lo aveva preso a botte, urlarle che era stata una stronza per essersi comportata in quel modo.
 
E lei lo sapeva di esserlo.
 
Le notifiche dei messaggi la indussero a spostare ancora lo sguardo, ma non volle controllare.
 
Non riusciva, aveva paura, aveva timore a leggere qualcosa che non avrebbe mai voluto leggere, aveva timore che facendolo avrebbe inferto un torto ancora più grande a Matt.
 
Si morse un’ unghia pensierosa, la sigaretta che penzolava ancora tra le dita.
 
Aveva bisogno di sentirlo.
Non poteva stare con le mani in mano a crogiolarsi in quel modo vigliacco.
Doveva chiamarlo, doveva parlare con lui, doveva dirgli che aveva sbagliato, che si scusava, che era stata una stupida...
 
Yamato...
 
Aveva bisogno di lui.
 
Afferrò impulsivamente il telefono e digitò dei numeri. Subito lo portò all’orecchio, sentendo gli squilli uno dopo l’altro.
Sperò che rispondesse, lo sperò con tutto il cuore.
Non sapeva nemmeno se era il reale caso di farlo, di chiamarlo, ma sentiva un’esigenza enorme.
 
Yamato...
 
Dopo numerosi squilli partì la segreteria telefonica. Sora imprecò e, nervosamente, ricompose il numero.
 
Sembrava un’ossessa...
 
Aveva le orbite di fuori e si mordeva il labbro.
 
Ti prego, rispondi...
 
Ma il telefono era staccato, probabilmente era stato lui a farlo. Disperata, lanciò il cellulare sopra il tavolino, emettendo uno strillo angosciato.
La evitava volutamente, probabilmente non voleva sentirla, né in quel momento, né l’avrebbe voluta sentire mai più.
Lo aveva perso.
Perso completamente.
Le lacrime cominciarono a scorrere sul suo viso.
 
Non poteva essere... non poteva essere che aveva perso tutto...
 
Aveva perso l’amore della sua vita.
Aveva perso il suo migliore amico.
Aveva perso tutto...
 
Con un gesto aveva distrutto tutto quello che aveva creato.
 
I ricordi volarono verso una giornata di fine aprile. Lei e Matt avevano appena fatto l’amore ed erano sdraiati sul suo letto, coperti da solo le lenzuola.
Lui le accarezzava il volto, le toccava i capelli, la guardava come se fosse la cosa più preziosa al mondo, tanto da farla imbarazzare sentendo su di sé quello sguardo insistente.
«Sei troppo bella» le aveva detto, e lei si sentì ancora di più impacciata.
Il cuore aveva preso a batterle forte e si reputava un tantino stupida ad emozionarsi per una semplice frase.
«Dai, smettila, scemo» lo aveva rimproverato con un sorriso.
Faceva sempre in quel modo, declinava i complimenti perché non sapeva come rispondere.
«E’ la verità» affermò il biondo.
Sora allargò le braccia e lo abbracciò. Avrebbe voluto sempre stare in quel modo con lui, si sarebbe persa in quel corpo forte e possente per tutta la vita.
«Mi dispiace se ti faccio quelle scenate» aveva detto lui mogio, riferendosi ad una sua scenata di gelosia per qualcosa «Non riesco a trattenermi il più delle volte»
La sua voce si spense e la ramata non potette fare a meno di allontanarsi leggermente da lui per guardarlo meglio in viso.
«Io mi fido di te» affermò sinceramente «E’ solo che ho paura di perderti. Per questo sbrocco in quel modo» le confidò tristemente.
Sapeva per certo quanto le facesse male quando reagiva in quel modo.
Sora aveva sospirato.
«Lo so, ma se ti fidi di me devi saperlo che non hai motivo» disse seria, tentando una volta per tutte di ficcargli in testa che non guardava nessuno oltre lui, che non amava nessuno se non lui.
Matt si era morso il labbro pensieroso. Per qualche secondo non avevano più detto niente, fino a quando lui non ruppe di nuovo il silenzio.
«E’ solo che ho paura che tu ti stanchi di me» mormorò.
La ragazza rimase spiazzata da tutte quelle rivelazioni che le stava facendo. Non era tipo da esporsi più di tanto se non era proprio costretto. Evidentemente, ne sentiva l’esigenza perché era un argomento che gli stava particolarmente a cuore.
«Ho paura che troverai qualcuno migliore di me perché sono consapevole di essere pesante, aggressivo, troppo duro per te...» si dannò, elencando tutti quelli che erano i suoi difetti.
Lei fu pronta ad intervenire.
«Io ti voglio così come sei» gli fece una carezza sul viso.
Ed era vero.
Matt sorrise lievemente, ma il suo sguardo era perso nel vuoto. Stava pensando a qualcosa che gli faceva veramente male, perché la sua espressione era dura e a tratti disperata.
«Non potrei mai sopportare se un giorno dovessi tradirmi...» mormorò, mentre lei sentì una fitta inspiegabile al cuore «non riuscirei più ad essere lo stesso... mi distrugge il solo pensiero...» la voce gli si spezzò, e la ramata non ci pensò due volte ad accoglierlo tra le sue braccia.
Matt aveva nascosto la testa nell’incavo del suo collo.
Non doveva dire sciocchezze. Le sue erano paranoie infondate, che mai si sarebbero adempiute, ne era sicura, nemmeno nei sogni.
«Non succederà mai» affermò.
Eppure non avrebbe mai potuto sapere che le cose sarebbero andate in un altro modo.
 
Continuò a piangere disperatamente, annebbiata dai sensi di colpa, dai pensieri tristi, dai ricordi che il tempo abbandonava dietro di sé.
Il rumore del suo pianto coprì quello della porta che si apriva.
Mimi era appena rincasata dopo aver fatto la spesa e trasportava due buste di medie dimensioni barcollando un po’ per il peso. Non si accorse di niente ed entrò direttamente in cucina, trafelata e con i capelli davanti agli occhi, posando le buste sopra il tavolo.
«Ehi, Sory» la chiamò poi, ignara, dopo aver riposto la roba congelata in freezer «ho trovato in offerta le... Sora!» si voltò all’improvviso con in mano un pacchetto, e rimase impietrita non appena quella scena le si figurò oltre le finestre della vetrata.
L’amica era seduta sul divano e un fiume di lacrime solcava il suo viso stanco e triste.
Strinse le labbra con un’espressione apprensiva.
Le venne da pensare perché si fosse cacciata in quella situazione, perché avesse dovuto agire in quel modo deleterio, perché avesse dovuto fare del male così tanto a lei stessa e a Matt.
Sospirò appena, e decise di varcare la soglia che la separava dal salotto. Si avvicinò a passi lenti e leggeri, mentre l’altra non la guardava.
Aveva il volto stravolto, le labbra semiaperte, gli occhi arrossati e ricolmi di lacrime.
Le dispiaceva così tanto, non la riconosceva più.
Voleva che reagisse, odiava vederla crollare in quel modo. Sora era da sempre stata la sua roccia, l’aveva aiutata in momenti difficili, in momenti in cui lei stessa pensava che mai ce l’avrebbe fatta.
 
E adesso, vedendola in quel modo, le si stringeva il cuore.
 
La sentì tirare su con il naso. Si avvicinò e si sedette accanto a lei. Per qualche secondo non disse niente, si limitò a fissarla.
Le dispiaceva, non sapeva come incominciare un discorso, aveva paura di dire qualcosa di troppo, magari ferirla ancora più di quanto già non lo fosse.
La sua attenzione fu catturata dal cellulare poggiato sul tavolino, lo schermo era illuminato e lei assottigliò gli occhi. Sembrava fosse aperto sul registro delle chiamate.
Sora emise un singhiozzò e Mimi si voltò subito in sua direzione.
Doveva cercare di distrarla.
Strinse tra le mani il sacchetto e glielo porse.
«Ho comprato le caramelle gommose, quelle che ci piacciono tanto» disse con un sorriso che cercò in tutti i modi di far apparire come vero e sincero.
«Guarda!» la esortò, muovendo il pacco delle caramelle di fronte al suo viso.
La ramata si limitò a lanciare un’occhiata apatica, per poi abbassare nuovamente lo sguardo. La castana arricciò le labbra di fronte a quella mancata reazione.
Aprì il pacco e infilò dentro una mano, afferrando un orsetto gommoso tra le dita. Lo porse all’amica.
«Dai, mangiane una» la incitò, muovendo la caramella di fronte alla sua bocca «Sono buonissime!» esclamò, facendo una faccia buffa per tentare di strapparle via una risata.
Sora, però, non fece una piega. Strinse i pugni che teneva serrati sulle gambe, e cominciò a tremare. Ben presto, calde lacrime la colsero nuovamente.
Mimi posò il dolcetto dentro il pacco e lo mise di lato. La vide piangere in maniera esasperata, e ebbe timore su cosa dirle.
Non l’aveva mai vista così devastata come in quei due dannati giorni.
Una sua mano si alzò automaticamente, e si fermò all’altezza dei suoi capelli, accarezzandoli.
«Ti prego, non fare così...» le sussurrò in pena per lei.
Continuò ad accarezzarle piano la testa, mentre la ramata si teneva stretta le braccia e tremava.
Mimi pensò tristemente ad un altro dei suoi sfoghi, e decise di lasciarla fare, fino a quando Sora non parlò.
«Non risponde alle chiamate...» balbettò con le lacrime che le scendevano fino alla bocca «ha chiuso il telefono...» raccontò all’amica in tono spezzato.
Poi alzò lo sguardo verso di lei, che la fissava interdetta. Vide i suoi occhi nocciola che le cercavano aiuto, che avevano bisogno di appoggio.
Era martoriata, debole, distrutta.
«Cosa faccio?» chiese in un sussurro disperato.
Mimi diede un gran sospiro.
Cosa avrebbe dovuto fare?
Non doveva far altro che stare ferma, immobile, ad aspettare che la tempesta passasse, ad attendere che Matt avesse voglia di parlarle.
Era stata avventata, lo aveva ferito, e adesso lui non voleva saperne di ascoltarla.
In cuor suo non riusciva a dare torto al biondo, soprattutto conoscendo la sua personalità orgogliosa e testarda.
Anche lei era in quel modo, per parlare con Tai le ci erano voluti due anni, d’altronde.
«Devo parlare con lui... devo spiegargli... devo...» Sora continuava a biascicare parole confuse, mentre i singhiozzi non le permettevano di terminare le frasi.
La castana decise di intervenire per spezzare quel corteo funebre.
Non doveva piangersi addosso, non sarebbe servito a niente.
Lei lo aveva scoperto a sue spese.
Poggiò le mani sulle sue.
«Sora, ascoltami, l’unica cosa che devi fare è dargli del tempo» proruppe sinceramente, guardandola fissa negli occhi, cercando di trasmetterle tutta la sicurezza e l’affetto che aveva.
La ramata aprì la bocca e la guardò a sua volta spaesata.
Tempo...
Non poteva, non riusciva... il tempo scorreva troppo lentamente, non ce l’avrebbe fatta...
L’ avrebbe uccisa.
«Ha bisogno del tempo per capire» continuò Mimi, convinta.
«Non chiamarlo più» affermò in un tono che non prevedeva repliche ulteriori.
La ramata non era di quell’avviso. Nell’udire quelle parole fuoriuscire dalla bocca dell’amica, provò un sensazione di sconforto tale da gettarla nel baratro.
Si agitò sul posto, scacciando via le mani da quelle dell’altra.
«Non posso stare così, devo vederlo...» si lamentava, scotendo la testa con fervore «Devo vederlo, Mimi...» la voce le si spezzò nuovamente, mentre con un’occhiata trasmetteva all’amica tutta la sua disperazione, la sua frustrazione per non poter fare nulla.
Questa le bloccò ancora le mani, e puntò con fermezza gli occhi sopra i suoi.
Doveva ascoltarla.
Non doveva chiamarlo, doveva dargli del tempo per assimilare. Più avrebbe tentato di mettersi in contatto con lui, più Matt l’avrebbe rifiutata.
Era ancora presto, troppo presto, le ferite sanguinavano vivamente, il dolore era ancora troppo grande per essere messo da parte.
«Non è il momento!» alzò un po’ la voce per costringere l’altra a fermarsi ad ascoltarla. La fissò in volto con la caparbietà che la contraddistingueva.
«Lo sai com’è fatto Matt. Non gli passa facilmente, specie una cosa del genere» la portò con i piedi per terra.
L’altra lanciò un profondo sospiro di afflizione.
«Devi aspettare, Sora, solo aspettare» affermò risoluta, convinta di quello che le aveva appena detto.
Non poteva fare altro.
Solo mettersi in un angolino ad attendere quello che sarebbe successo, la piega che da quel momento in poi avrebbe preso la sua relazione.
Aveva sbagliato, aveva ferito una persona che l’amava e tanto; perché per quanto Yamato e lei fossero talmente diversi da cozzare inevitabilmente, da alcuni punti di vista lo capiva, si rivedeva, e per quanto avesse commesso la sua porzione di errori in quella storia, sapeva che l’amore che provava per Sora era da sempre stato vero, reale, puro.
 
Yamato amava Sora in un modo nel quale Taichi, probabilmente, non avrebbe mai amato lei.
 
Quella constatazione le procurò un groppo alla gola.
Il silenzio calò sulle due ragazze. L’unico rumore che si udiva era la lancetta dell’orologio che scandiva il tempo.
Sora non disse nulla per qualche secondo, colpita, fino a quando non si staccò dalla sua presa e si mise in piedi. Mimi la vide raggiungere il corridoio e sparire, percependo un senso di rabbia e umiliazione in quel gesto.
Sospirò, e per un po’ si limitò a guardare anche lei la TV spenta.
 
Cosa avevano combinato tutti quanti...
 
Erano successe così tante cose, sembrava che il mondo, il loro mondo si fosse capovolto...
 
Loro non erano così.
 
Non erano mai stati così.
 
Si mise in piedi a sua volta e si portò svogliatamente verso la cucina. Aprì le buste e terminò di riporre dentro la credenza il resto della spesa.
 
Avevano sbagliato, avevano esagerato tutti.
 
Sembrava una sorta di lotta, una sorta di battaglia che imperversava tra di loro.
 
Si bloccò e strinse in mano le buste, stropicciandole, lo sguardo vitreo.
 
Aveva dato un consiglio a Sora, le aveva detto ciò che era giusto fare, ma lei?
 
Lei stessa cosa avrebbe dovuto fare?
 
Come avrebbe dovuto agire?
 
Lasciò la cucina e lentamente si avviò verso il bagno, superando la porta chiusa della stanza di Joe, il quale non usciva a parlare loro dal giorno prima.
Aprì piano la porta e si ficcò dentro.
 
Non sapeva dove andare, non sapeva che strada intraprendere. Dovunque andava, qualunque scelta prendeva, sembrava quella sbagliata.
 
Pronta ad inghiottirla e a non farla uscire più viva.
 
Spostò gli occhi verso la lavatrice e cominciò a mettere apposto alcune cose. Cacciò meccanicamente dei panni che si trovavano sopra dei cesti, e la sua attenzione fu catturata da qualcosa.
Era una giacca.
 
La afferrò, sentendo tra le dita il morbido tessuto di cotone. La sua mente fu invasa dai ricordi e collegò tutto.
 
Era la giacca di Taichi.
 
Era rimasta lì da quella sera, da quando loro due avevano fatto l’amore lì, proprio in quel punto...
Il punto in cui gli aveva detto di amarlo...
Dove non aveva ricevuto risposta e forse non l’avrebbe ricevuta mai.
 
Sentì le lacrime invadere i suoi occhi, mentre portava la giacca del ragazzo alle narici e annusava il profumo che ne era rimasto impregnato.
 
L’aveva lasciata di nuovo da sola.
 
Non l’avrebbe mai amata...
 
Gemette, martoriata.
 
Come aveva potuto anche solo per un momento pensare che fare l’amore avrebbe cancellato quei due anni?
 
Aveva davvero creduto che con un “ti amo” sarebbe riuscita ad arrivare al cuore di Taichi?
 
Voleva fargli pena?
 
Perché era quello che faceva a sé stessa, in quel momento.
 
Era stata così talmente sciocca e volubile, sconvolta perché Shinichi l’aveva ferita rivelandole quello che, in fondo, aveva sempre saputo.
 
Tai non pensava a lei.
 
Talmente debole da essersi lasciata andare, alzare tutti i suoi freni inibitori e ritrovarsi prigioniera dell’amore.
Lei... lei che era così libera da ogni forma di prigionia...
 
Lo era.
Quell’amore risultava essere una prigionia.
 
E adesso si ritrovava a stringere tra le mani quella giacca, scioccamente, come fosse l’unico appiglio con cui poteva sperare di liberarsi.
 
Con cui poteva sperare di riaverlo accanto, stringerlo, illudendosi che fosse lui.
 
Il sussurro di quel pensiero sprezzante ma così conforme alla realtà dei fatti le ferì il cuore più di quanto non lo fosse già.
 
Tai l’aveva solo desiderata.
 
Era stato così ubriaco da non averci capito più niente, come lei, prigionieri di quel bagno le cui pareti sembravano essere scolpite dal fuoco.
 
 
Strinse il capo al petto, sentendo il cuore battere forte.
 
Capiva come si sentiva Yamato in quel momento.
 
Capiva perfettamente come si sentiva dopo essere stato deluso dalla persona che amava.
 
E probabilmente nemmeno il tempo, nemmeno il suo scorrere avrebbe mai potuto guarire quelle ferite che portava dentro.
 
 
 
 
 
 
 
Taichi portò un biscotto in bocca. Lanciò uno sguardo a Yamato che si trovava seduto accanto a lui, lo sguardo fisso nel vuoto, perso nei suoi pensieri.
Stavano facendo colazione in silenzio, un silenzio che all’orecchie del castano risultava pesante, terribile da sopportare.
Fece un sospiro e bevve un po’ di the, senza togliere gli occhi di dosso all’amico.
Il giorno prima aveva fatto di tutto per far uscire fuori il dolore che aveva dentro; eppure, dopo uno sfogo straziante, il biondo era piombato nuovamente nella sua prigione silenziosa.
Sapeva che Matt non amava parlare delle cose che lo ferivano, anzi, non amava parlare in generale. Eppure, Tai pensava che era necessario, era qualcosa di cui aveva strettamente bisogno per reagire a tutta quella situazione.
Lo vide fermo, senza toccare cibo. Era scarno e pallido, le occhiaie erano accentuate al di sotto degli occhi. Aveva bisogno di mettere qualcosa sotto i denti o si sarebbe sentito male.
«Che buoni questi biscotti» commentò prendendone un altro, in maniera tale da attirare la sua attenzione.
«Di che marca sono?» chiese, fingendosi interessato.
Matt volse appena lo sguardo su di lui, poi lo spostò nuovamente senza rispondere.
Il castano sospirò, scuotendo la testa. Posò il biscotto sul tavolo e si concentrò sulla sua figura.
Sembrava uno zombie, aveva il volto provato, l’espressione dura e persa in chissà quali pensieri distruttivi.
«Bevi un po’ di the Olong» provò nuovamente, adocchiando la bottiglia quasi piena «Izzy dice che fa vedere i dinosauri» ridacchiò, tentando di strappargli un sorriso.
 
Niente.
 
Yamato non emise suono, non si mosse dalla posizione in cui si trovava.
Taichi si morse il labbro e fece una faccia preoccupata.
Era spento, svuotato, sembrava un involucro senza nulla dentro.
Non poteva ridursi in quel modo. Lo sapeva che stava male, che stava soffrendo, ma era troppo per lui, non sarebbe rimasto niente della persona che era.
Fece per dire qualcos’altro, quando fu interrotto dalla vibrazione del cellulare del biondo che si trovava sopra il tavolo.
Matt spostò gli occhi in direzione dello schermo e Tai non riuscì a fare a meno di sbirciare a sua volta.
 
Sora.
 
Lo stava chiamando.
 
Il castano alzò subito lo sguardo verso l’amico. Lo vide fare una smorfia sofferente con il viso, mentre con tutta la sua forza di volontà spostava gli occhi onde evitare di leggere quel nome a caratteri cubitali.
Quella sola chiamata gli aveva fatto battere forte il cuore, lo aveva riportato sulla via della vita.
 
Pensava di essere morto, ormai, invece non appena aveva letto il nome di Sora sul telefonino aveva sentito così tante sensazioni messe insieme che gli sembrava di essere appena stato messo al mondo.
 
Il cellulare continuò a vibrare, e lui si conficcò le unghie sul palmo della mano pur di non allungare il braccio e rispondere.
 
Non avrebbe risposto...
 
Doveva lasciarlo in pace, non voleva sentirla, non voleva più vederla...
 
Lo aveva distrutto.
 
Lei era l’artefice della sua distruzione, gli faceva male perfino sentire una stupida vibrazione e associarla a lei.
 
Sentì lo sguardo apprensivo di Tai perforarlo da corpo a corpo.
Il telefono tacque.
Tentò con tutte le sue forze di mantenere l’ autocontrollo, sentiva che stava sprofondando nuovamente.
Prima che qualcuno potesse dire qualcosa, il cellulare cominciò a vibrare nuovamente.
Aprì gli occhi che aveva socchiuso con un’espressione risoluta, smosso da una serie di sentimenti contrastanti.
La rabbia, l’umiliazione, la disperazione presero il sopravvento.
Afferrò il telefono e con un gesto di stizza lo chiuse, poi lo lanciò sul tavolo.
Il castano seguì la scena senza dire nulla. E per un paio di secondi decise di non intervenire, vedendolo portarsi una mano sugli occhi.
Non poteva continuare così.
Aveva bisogno di assimilare tutto, aveva bisogno di tempo, lo sapeva; ma in quel modo avrebbe solo peggiorato le cose con Sora e con sé stesso.
«Matt...» lo chiamò piano.
Quello non si voltò. Lo vide mordersi il labbro in maniera nervosa. Sembrava sul punto di crollare, e lui tese una mano fino al suo braccio, stringendolo.
Il biondo smise di fare quello che stava facendo e lo guardò a sua volta, in uno sguardo costernato.
Lo aveva destabilizzato, lo aveva nuovamente trascinato sul filo del rasoio, sulla linea sottile che lo separava dal crollare.
Lo fissò con determinazione negli occhi azzurri.
«Matt, ascoltami» dichiarò, stringendo la presa «Prenditi tutto il tempo che ti serve, ne hai il diritto. Però prima o poi la dovrai affrontare, Matt, non potrai...» le parole gli erano uscite spontaneamente, ma venne interrotto da un brusco gesto del biondo, il quale si liberò dalla sua presa.
Lo guardò con gli occhi che mandavano fiamme, ma nello stesso tempo sembravano pronti a traboccare di lacrime.
«Io non affronterò proprio nessuno!» esclamò, squarciando finalmente il silenzio che lo aveva caratterizzato per un tempo infinito.
Non avrebbe affrontato la persona che più gli aveva fatto male al mondo.
Non c’era stato niente che lo aveva fatto soffrire in quel modo, nessuno, nemmeno i suoi genitori quando avevano preso la decisione di separarsi ed era stato allontanato da suo fratello.
Sentì gli occhi inumidirsi.
Tai, però, non era dello stesso avviso.
«Dovrai farlo, dovrai parlarle!» tentò di ricondurlo con i piedi per terra, in quella realtà che, seppur dolorosa, corrispondeva al vero.
Non poteva ignorarla per sempre, aveva bisogno di confrontarsi con lei, capire il perché lo avesse fatto, provare a mettere insieme i pezzi del suo cuore.
Yamato scuoteva la testa con vigore, in un gesto che a Taichi sembrò isterico.
 
Stava uscendo fuori di sé.
 
Gli strinse nuovamente il braccio.
«Non puoi continuare a stare così, devi capire, dovrete parlarne prima o poi!» insistette, ma l’amico si spostò con malgarbo.
Lo guardò con un’espressione rabbiosa.
Non doveva dirgli ciò che fare.
Lo sapeva lui quello che era giusto.
«Non voglio parlare di niente!» sbottò, infervorato e frustrato. Poi abbassò il capo «Per me la questione è chiusa qui» pronunciò a voce bassa.
Tai non ci credette. Sapeva che l’amava comunque, che era ferito da Sora in maniera profonda, ma che dentro il suo cuore l’amore che provava per lei non era spento, anzi divampava come non mai.
Era solo orgoglioso, e lo capiva.
Lei gli aveva mancato di rispetto, aveva tradito la sua fiducia, aveva deluso anche lui stesso.
Però era consapevole del fatto che tutto succedeva per una ragione, e toccava proprio al biondo scoprire se ne era valsa la pena.
Sospirò malinconicamente.
«So che hai bisogno di tempo, ma meriti una spiegazione» soffiò, e lo vide indugiare con lo sguardo su di lui e sentirsi trafitto, tanto lo spostò da un’altra parte.
Non dissero più niente.
 
Le lancette dell’orologio scandivano i minuti.
 
Il tempo passava e loro erano ancora lì, senza che la pena li avesse lasciati andare.
 
Senza che uno spiraglio di luce s’intravedesse dalla finestra.
 
Luce...
 
Il castano controllò l’orario.
Fece una faccia stupita. Era tardi, erano passati due giorni che non aveva messo piede a casa. Non si era azzardato a lasciare il suo migliore amico da solo, ma era necessario tornare per qualche ora o sua madre si sarebbe preoccupata.
Le aveva lasciato un messaggio di avvertimento, ma era sicuro lo stesse aspettando per trascorrere un po’ di tempo con lui.
Fissò il biondo e strinse le sopracciglia.  Lo vide nuovamente perso nei suoi pensieri, e si chiese se fosse una buona idea lasciarlo da solo.
«Devo tornare a casa per qualche ora» annunciò, mentre l’altro non rispondeva «però poi in serata torno qui» si affrettò ad aggiungere per rassicurarlo.
Matt continuò a non dire nulla, così Tai, con un sospiro, si mise in piedi e lo raggiunse, parandosi di fronte.
Il biondo lo guardò interrogativo.
L’altro gli prese il mento tra le dita e fece in modo che alzasse la testa in sua direzione.
«Posso lasciarti qui da solo per un po’?» gli chiese allusivo.
Gli occhi dell’amico scrutavano a fondo i suoi e Matt si trovò ad annuire piano, in maniera automatica.
Tai rilasciò lentamente la presa.
«Mi raccomando» si rassicurò, non riuscendo a nascondere una nota di apprensione nella voce «Ci vediamo dopo» lo salutò dandogli un buffetto affettuoso sulla guancia.
Prese il suo telefono, il portafogli e le chiavi, poi gli lanciò un ultimo sguardo prima di aprire la porta di casa e chiudersela dietro le spalle.
Una volta fuori in pianerottolo emise un profondo sospiro.
 
Gli costava andarsene e lasciarlo lì, ma aveva bisogno di staccare anche lui per un po’, o sarebbe crollato uguale.
E non poteva permettersi di mostrarsi debole di fronte a Matt quando l’amico aveva bisogno di lui.
 
Indugiò per qualche secondo dietro la porta, tentando di udire qualche suono strano provenire da dentro, un singhiozzo, o un urlo.
Niente di tutto ciò accadde, e pensò che il biondo, probabilmente, era rimasto nella stessa posizione in cui lo aveva lasciato.
Si sistemò il colletto della camicia ormai spiegazzata e si accinse a scendere le scale.
Subito raggiunse la strada, e aspirò l’aria fresca di Tokyo.
Si mise in cammino con le mani in tasca, la camicia spiegazzata e alzata fino ai gomiti, il volto stanco e segnato.
Se solo qualcuno glielo avesse detto solamente qualche giorno fa non ci avrebbe creduto.
Gli sembrava tutto così surreale, così onirico quello che era successo, che si chiedeva se quella vita che adesso stava vivendo fosse vera o no.
Sospirò pesantemente, alzando lo sguardo verso le persone che andavano e venivano, le insegne grandi e colorate, i negozi adibiti.
Gli era mancato tutto quello, eppure per un secondo aveva pensato che sarebbe stato meglio non essere tornato.
 
Era diventato davvero un vigliacco?
 
Si era pentito di essere tornato quando tornare fino a pochi giorni fa era il suo desiderio più grande.
Voleva riavvolgere il nastro e cancellare tutto solo perché non era più capace di gestire nulla.
Non era capace di aiutare la sua famiglia, non era capace di badare a Hikari, non era capace di sostenere separatamente i suoi amici...
Aveva urlato contro di Sora, non era riuscito a far riprendere Yamato...
Non era stato capace di rispondere a Mimi, a quello che gli aveva detto.
 
Era un vigliacco.
 
Gli venne da piangere, ma per fortuna il pullman passò proprio in quel momento. Salì su, e si sedette.
 
Eppure si prendeva a carico i problemi di tutti.
 
Era solo lui ad essere incapace di gestire i suoi.
 
Non appena arrivò a casa, girò la chiave nella toppa, aspettandosi di trovare sua madre in salotto che lo aspettava.
Non trovò niente di ciò che si aspettava, e rimase deluso. Con un gesto automatico, si diresse verso camera sua e aprì l’armadio.
Scelse dei vestiti e si condusse in bagno. Si spogliò e si mise sotto la doccia, tentando di trovare conforto sotto il getto dell’acqua.
 
Niente avrebbe potuto confortarlo in quel momento.
 
Si sentiva come estraniato dal suo corpo.
Continuava a rivivere quei momenti, come se la sua mente fosse rimasta ancorata lì.
Poteva sentire la musica, le urla, i sospiri di piacere di Mimi...
 
Strinse gli occhi e si portò due mani al volto.
 
Che stupido, vigliacco, idiota...
 
Aveva fatto l’amore con lei e l’aveva lasciata da sola.
 
Mimi gli aveva confessato di amarlo ancora, e lui?
Lui era così vigliacco che aveva ringraziato a Dio che in quell’esatto momento Joe lo avesse chiamato.
 
Non sapeva cosa le avrebbe risposto. Non sapeva se quello che sarebbe uscito dalla sua bocca sarebbe stato sensato o piacevole da udire per lei.
 
E lui non voleva farle del male...
 
Fuggiva e basta per non fare del male a nessuno.
 
Si faceva così pena...
 
Una volta non era in quel modo, una volta avrebbe affrontato tutta la sua merda senza timore, niente lo avrebbe piegato, perché sapeva quello che voleva e non vedeva l’ora di dimostrarlo.
 
Adesso... adesso, però...
 
Non l’aveva nemmeno salutata, non l’aveva nemmeno degnata di uno sguardo quando era andato lì il giorno dopo.
Non una chiamata, non un messaggio.
Era stato così impegnato ad urlare contro Sora che non si era premurato di parlare con lei, nemmeno a farle un cenno con il capo.
E probabilmente l’aveva spaventata, si era mostrato come il solito stronzo autoritario quando lui non voleva mostrarsi così...
 
Ma era troppo vigliacco per dimostrare di essere un altro.
 
Quello di sempre.
 
Finì di lavarsi ed uscì dalla doccia, stringendosi una tovaglia alla vita. Si guardò allo specchio, i capelli bagnati, la barba incolta.
 
Si sentì in colpa per come si era comportato con Matt, con Sora, con Mimi...
 
Con tutti.
 
Sentiva di tenerli in pugno tutti, e una stretta più forte li avrebbe potuti schiacciare.
 
Si rivestì e decise di andare in cucina a prepararsi qualcosa da mangiare. Era quasi ora di pranzo.
Non appena entrò, notò una figura seduta di spalle sullo sgabello della penisola. Non appena udì i suoi passi si voltò a guardarlo, e il viso candido e preoccupato di sua sorella gli procurò una fitta al cuore.
«Fratellone» lo chiamò, portandosi le mani al petto.
Taichi fece il giro della penisola e le andò incontro.
«Kari» la chiamò di riflesso, e si sporse per darle un bacio sulla guancia.
Aveva la pelle morbida e profumata.
Si sedette di fianco a lei, mentre quella non smetteva di guardarlo di uno sguardo apprensivo e indagatore.
«Meno male che sei tornato!» la udì esclamare «Stavo così in pensiero» aggiunse allusiva.
Il castano si appoggiò con il gomito alla penisola e si tenne la testa con una mano.
«Tutto quel putiferio che è successo alla festa... ero così spaventata!» Kari continuò a parlare, facendo riferimento al fatto che Matt avesse preso a botte quel tizio e lei si era spaventata a morte, specie non vedendo tornare lui.
La conosceva bene, come le sue tasche la sua sorellina premurosa e gentile.
Gli sorrise.
«Va tutto bene, Kari» l’accarezzò con lo sguardo, nonostante la stanchezza impressa negli occhi non lo abbandonava.
Sarebbe salito in camera e avrebbe dormito per giorni.
La più piccola emise un sospiro, poi indugiò un po’ prima di chiedere:
«Non per Matt, è così?»
Tai la guardò negli occhi per qualche secondo. Aveva l’espressione seria, una ruga di preoccupazione le si era formata in fronte.
Il ragazzo sospirò, ma non riuscì a rispondere, perché lei aveva ripreso.
«Sora piangeva...» mormorò triste, e lui socchiuse gli occhi ripensando nuovamente a quelle scene «Volevo che TK intervenisse, ma... lo sai che i loro rapporti sono alterati ultimamente» disse alludendo alle tensione tra il biondino e Yamato.
«Io avevo capito che fosse successo qualcosa di grave» dichiarò poi.
Taichi fece una smorfia con le labbra, lo sguardo perso nel vuoto.
Si sentiva a pezzi.
In centinaia di pezzi.
C’erano così tante ragioni in mezzo...
«Sora... non si è comportata bene con Matt» sussurrò dopo secondi che sembrarono un’eternità, gli occhi ancora vacui.
Poi li spostò sopra la sorella che aspettava una spiegazione. Tentennò se dirle tutta la verità, forse era meglio eludere qualcosa, non voleva farla preoccupare ulteriormente.
Notò la sua espressione risoluta e pensò che non era più una bambina, era necessario metterla al corrente di tutto.
Cominciò a raccontare la vicenda per filo e per segno. Kari ascoltava con un’espressione stupefatta, ora basita. La vide portarsi una mano alla bocca non appena terminò.
«Non ci posso credere...» biascicò, e Taichi pensò che nemmeno lui ci poteva credere, eppure tutto corrispondeva ai fatti reali.
Stettero in silenzio per un po’ di tempo, interrotti solo dal ticchettio dell’orologio.
Gli unici rumori erano quelli delle auto che provenivano da fuori.
Sua sorella aveva lo sguardo basso e si guardava le ginocchia. Poi la vide alzare la testa con in volto un’espressione abbattuta.
«Vorrei solo che TK chiarisse con Matt, che gli stesse vicino in questo momento...» sussurrò triste, e poi la vide puntare i suoi occhi nocciola in direzione del balcone «lui è un bravo ragazzo, rispettoso, gentile...» la udì parlare del fidanzato con un tono strano, come se volesse elogiarlo per auto convincersi.
Tai aggrottò le sopracciglia.
Non aveva dimenticato la loro discussione, la sera della laurea. Takeru stava gestendo dei giri illeciti, e a lui non piaceva affatto la situazione in cui era coinvolto, né tantomeno il fatto che di mezzo ci fosse lei.
Strinse le labbra sentendo la rabbia partirgli dalle gambe e arrivare dritta fino alla punta dei capelli.
Il modo in cui Hikari fosse talmente dipendente da Takeru lo infastidiva. Sembrava avesse una concezione idealizzata del ragazzo, come se non riuscisse a vederne i difetti.
Era preoccupato, non voleva che fosse succube di lui, non voleva sentirla parlare con quel tono stucchevole.
Aveva avuto esperienza di rapporti insani, ed ecco dove erano arrivati...
«Perché te lo difendi così tanto?» chiese tra i denti «Sembri inebriata quando parli di lui! Che ti prende?» la squadrò dall’alto in basso come se la stesse vedendo per la prima volta.
Kari distolse lo sguardo.
«Io... so quanto vale» rispose poi, tentando di recuperare la fermezza nella sua voce «So che è un bravo ragazzo, che i suoi scopi sono buoni. Non agisce mai con cattiveria» aveva portato le braccia sulle ginocchia, e aveva parlato con talmente tanta sicurezza che il castano sentì il voltastomaco.
Il fatto che fosse così sicura di lui lo fece mandare in bestia, sentì un tormento tale da dargli gelosia e angoscia.
«Eppure continua a frequentare certi giri coinvolgendo anche te!» sbottò, guardandola di uno sguardo serio e redarguente.
Kari rimase dapprima colpita, poi strinse i pugni.
«Non sono mai stata coinvolta!» gli confessò, alzando il tono della voce. Suo fratello la fissò, alzando appena la testa.
Lei si portò una mano alle labbra.
«Lui... mi dava qualcosa di soldi... ma gliel’ho detto, l’ho ringraziato e gli ho detto che non ne ho più bisogno» gli raccontò, mentre lo guardava con gli occhi lucidi.
Il fratello aprì leggermente la bocca vedendola in quello stato. Piano il volto di Hikari venne pervaso da delle calde lacrime.
«Non voglio deluderti per nessuna ragione al mondo, fratellone» disse tra il pianto, spezzando definitivamente il già precario cuore di Taichi.
Vederla piangere era una di quelle torture medievali orrende, oltraggiose.
Si sentì in colpa, nuovamente, si sentì in colpa perché l’aveva accusata a priori, aveva dato per scontato che non avesse mantenuto la promessa fattagli, l’aveva giudicata male perché difendeva a spada tratta il suo amore solo perché era uno stupido fratello geloso.
Kari lo aveva fatto solo per tentare di aiutare i loro genitori che si trovavano nel bilico, e lui l’aveva fatta piangere...
Si rese conto di essere bravo a far piangere le persone.
Allungò una mano e toccò quella sua. Kari la strinse di rimando e lui si sporse di più per avvolgerla in un lungo abbraccio protettivo, mentre lei continuava a piangere, bagnandogli la maglietta.
 
Non voleva che quella luce si spegnesse del tutto.
 
L’aveva vista debole, fioca, come se fosse alla sua fine. Voleva solo che tornasse a splendere più luminosa e bella che mai.
 
L’allontanò leggermente da sé per poterla scrutare in viso. Kari tirò su con il naso e afferrò dei fazzoletti per asciugarsi.
Non dissero niente per una manciata di secondi.
Tai pensò al fatto che avrebbe dovuto scusarsi, ma evidentemente la ragazza lo aveva già, in cuor suo, perdonato, perché aveva alzato il volto e gli aveva rivolto un’espressione serena.
«Tu stai bene?» gli chiese poi, cambiando totalmente discorso «Non mi racconti niente?»
La vide riprendersi e tirò un sospiro.
Dire che stava bene era una bugia.
Pensò di nuovo a quello che era successo, il calcio, il tradimento di Sora, la confessione di Mimi...
Non stava bene, tentava solo di mantenere alta la facciata di persona forte, ma era crollata a Yamato quella maschera, dubitava che sarebbe riuscito a mantenerla lui per molto tempo.
«Non ho niente da raccontarti, sorellina» mentì in un sussurro.
E probabilmente lo fece con poca bravura, perché lei non aveva smesso di guardarlo interrogativa e inquisitoria.
Aveva paura che riuscisse a leggergli nel pensiero.
Quando erano piccoli lo facevano, pensavano entrambi di avere un potere speciale, ma lui ormai aveva perso anche quello...
«Non è vero» affermò, infatti, Kari con decisione «Lo so che c’è qualcosa che ti porti dentro, ma non vuoi dirmelo» poi lo scosse da un braccio, mentre lei apriva la bocca.
«Dai, dimmelo!» lo esortò, guardandolo di uno sguardo risoluto che gli ricordava tanto il suo.
Taichi sospirò.
Sì che c’era qualcosa che si portava dentro...
Non aveva smesso di pensarci fino a poco fa, solo che si sentiva terribilmente in colpa, sentiva la vergogna gravare pesantemente su di lui.
Non credeva di riuscire a rivelarlo a Kari, lei avrebbe potuto giudicarlo, pensare male di lui...
«Non... io...» La guardò ancora, e pensò che sua sorella non era come lui. Lo fissava con gli occhi luminosi e speranzosi.
Forse... avrebbe potuto lasciarsi andare per una volta...
Ne aveva bisogno.
Lo sentiva realmente dentro, il bisogno di sfogarsi.
«In effetti, io... E’ successa una cosa la sera della laurea» mormorò sinceramente, e Kari si rizzò sul posto, stando ben attenta a catturare ogni sua singola sfaccettatura.
«Un’ altra?» chiese, indagatrice.
Tai alzò gli occhi su di lei e poi li spostò, sentendosi un po’ in imbarazzo nel confessarle quello che stava per dirle.
Cosa avrebbe pensato di lui?
Non parlavano di quell’argomento da molto tempo, aveva paura come avrebbe potuto prenderla...
Avrebbe pensato che fosse un idiota, e in effetti lo era.
«Io e Mimi... insomma, siamo stati insieme» dopo l’indugio iniziale, ammise quello che era successo.
Scrutò in viso l’espressione della sorella mutare da interrogativo a stupefatto.
Ci credeva che era stupita, era stupito anche lui per la semplicità, la spontaneità, l’intimità di quello che era successo tra loro.
Erano passati due anni, ma niente era cambiato dentro il suo cuore.
Anzi, se possibile, era ancora più amplificato.
«Tu e Mimi?!» esclamò, sorpresa.
«Davvero dici? E... com’è stato?» chiese, udendo nella sua voce una punta di contentezza.
Forse pensava che le cose erano tornate apposto tra di loro, ma la verità era che aveva fatto il coglione, lo aveva sempre fatto in tutti quegli anni della loro relazione, e non sapeva come si sarebbe risolto tutto...
Avrebbe dovuto semplicemente parlare, non avrebbe dovuto farsi trascinare dal vortice di sentimenti contrastanti che lo avevano annebbiato non appena quel tizio si era messo in mezzo...
Non avrebbe dovuto nemmeno bere in quantità esagerate, né fumare quello spinello… E poi faceva la morale a TK…
Non aveva fatto altro che spingerlo in una situazione dalla quale apparentemente non c’era via d’uscita, se non quella di fare i conti con sé stesso.
«Bello, io...» ammise, e sì era stato bello, bellissimo, non poteva mai credere dopo due desertici anni di riuscire a provare ancora quelle sensazioni così forti.
Ripensò ancora quello che la ragazza gli aveva confidato, e si sentì morire.
«credo però di aver combinato un casino» affermò subito dopo, e Kari fece una faccia esasperata.
Lui alzò gli occhi con uno sguardo colpevole.
«Ha detto di amarmi» le rivelò, e la più piccola quasi saltò giù dalla sedia.
Si portò le mani alla bocca felice, emettendo uno strillo.
Lui si morse il labbro, sentendosi imbarazzato.
«Oddio!» la sentì esclamare, portandosi le mani alla bocca.
«E tu?» poi gli aveva rivolto uno sguardo indagatore.
Lui abbassò lo sguardo.
«Sono andato via» disse e vide le orbite di sua sorella quasi uscire di fuori «Aspetta, ho dovuto farlo! Joe mi chiamava, dovevo aiutare Matt» si affrettò ad aggiungere, per spiegare quell’inconveniente.
«Credo che lei ci sia rimasta male» constatò in tono flebile.
Kari incrociò le braccia, scuotendo la testa.
Ne avrebbe mai combinata una giusta?
Desiderava tanto che suo fratello e Mimi tornassero insieme, lo voleva da due anni, da quando il sorriso sincero di suo fratello si era spento.
«Ci credo! Non è stato affatto carino» commentò indispettita.
Il castano sbuffò, portandosi una mano tra i capelli.
«Già... Non so che fare» le confidò mogio, tenendosi la testa con una mano.
Si sentiva in trappola in tutti i sensi, non sapeva come uscirne, ogni volta che si avvicinava ad un cancello ne spuntavano altri cento da scavalcare.
La castana lo guardò determinata.
«Lei è ancora innamorata di te» ripeté, e lui sentì una fitta al cuore quando formulò quella frase «E tu? La ami ancora?» chiese poi, a bruciapelo.
Già...
E lui?
Era questo ciò che più gli premeva.
Sentiva delle sensazioni forti per lei, qualcosa che non pensava di poter provare ancora dopo tanto tempo e dopo come era terminata la loro storia, in maniera brusca e quasi a corto di spiegazioni.
Si era messo in testa di dimenticarla, archiviarla completamente dalla sua vita, che erano diversi, che erano due persone che volevano cose differenti.
Aveva provato ad odiarla, ma non ci era riuscito; anzi, non era riuscito a concludere niente con nessuna delle ragazze che aveva conosciuto, perché l’immagine del volto di Mimi non lo aveva mai abbandonato, lo aveva perseguitato per tutto quel tempo come fosse un fantasma.
E quando, le rare volte che si erano incontrati, la vedeva il cuore gli era sempre salito fino alla gola, aveva provato le stesse sensazioni che aveva sentito la prima volta che aveva capito di essere innamorato di lei.
Avevano fatto l’amore, era stata la cosa più bella che gli era capitata da quasi due anni a quella parte, lei gli aveva detto di amarlo...
Sentiva così tanto per lei, dei sentimenti così forti e travolgenti che lo spaventavano, lo confondevano, lo facevano rintanare dentro il suo guscio protettivo e vigliacco.
«Io... non lo so... sono confuso...» biascicò, scuotendo la testa.
Sua sorella gli rivolse un’espressione di chi la sapeva lunga.
«Beh, io cercherei la risposta nei fatti» disse in tono ovvio, facendogli intendere che se erano stati insieme dopo tanto tempo qualcosa doveva pur dire.
E aveva ragione, ma non poteva cancellare ciò che era stato.
Le difficoltà c’erano allora e avrebbero continuato ad esserci.
Non sarebbe cambiato tutto schioccando le dita, forse non sarebbe bastata nemmeno la volontà, perché il tempo l’avrebbe scolorita, li avrebbe fatti nuovamente mollare.
Lui era un vigliacco, cosa avrebbe potuto fare per cambiare le cose?
Cos’avrebbe potuto fare per sistemare tutto?
«Ma come potrebbe funzionare, Kari?» sbottò impulsivamente
«Ci siamo lasciati per la lontananza, cosa cambierebbe adesso?» sembravano più delle domande retoriche volte a sé stesso per auto convincersi.
«Il mio lavoro mi opprime, non trovo tempo per me, come potrei farlo per lei?» continuò, sentendo la tristezza pervaderlo al sol pensiero che tra pochi giorni sarebbe dovuto tornare da Akira e avrebbe detto di nuovo addio a tutto.
 
A lei...
 
Mimi...
 
L’unica ragazza della sua vita.
 
«E ha anche ragione, sono stato uno stupido a tagliarla fuori, e lei non se lo meritava...» si dannò, mentre la voce gli si spezzava.
La sorella lo vide tenersi la testa con le mani. Era davvero disperato, gli leggeva il pentimento negli occhi e l’impotenza nel tono di voce.
 
Non era così che doveva finire.
 
Se Taichi e Mimi si amavano ancora non era giusto che a causa della vigliaccheria e dell’egoismo mandassero all’aria tutto.
L’amore andava ben oltre questo; lei lo sapeva bene.
Qualsiasi cosa sarebbe successa, se si amavano davvero avrebbero trovato il modo di viversi ancora, con più voglia, con una maturità che prima non avevano.
 
Ne era certa.
 
«In due anni si cambia il modo di vedere le cose» proruppe d’un tratto e con decisione
«Mimi è una ragazza intelligente. Sono sicura che insieme troverete il modo, perché è ovvio. Voi due vi amate» lo guardò fisso e con una determinazione che sconvolse l’altro.
 
Si amavano...
 
Lui l’amava?
L’amava ancora anche lui?
 
Aveva così paura a trovare la risposta in fondo al suo cuore, perché era sicuro che sarebbe crollato, non avrebbe retto la disperazione di doversene andare via ancora una volta.
La guardò con un’espressione stupita, ma nello stesso tempo, dentro di sé, sentiva che quello che sua sorella gli aveva detto era la più semplice delle verità.
 
Lui e Mimi avevano rovinato tutto per dei capricci caratteriali, non erano stati sufficientemente tenaci nel mandare avanti la loro storia, nonostante il forte sentimento che accomunava entrambi.
 
Se ancora si amavano veramente, avrebbero fatto di tutto per stare insieme...
 
Eppure, lui si sentiva ancora radicato a quella seggiola, aveva paura di affrontarla, aveva timore di essere nuovamente coinvolto in quel turbine di sentimenti che lo avevano sempre trascinato e tuttora tentavano di staccarlo dalle sue radici.
 
Guardò ancora il volto sorridente di Hikari.
 
Sentiva di dover fare qualcosa, ma aveva paura che fosse troppo tardi, che avesse ancora una volta rovinato tutto con il suo dannato temperamento.
 
Perché lui, Taichi, era un vigliacco.
 
Non fece in tempo ad aggiungere nulla, che udirono la chiave girare nella toppa e il volto familiare di loro madre fece capolino.
Non appena li vide insieme sorrise con gioia, e posò la spesa sul tavolo. Subito andò loro incontro e si sporse per abbracciarli.
«I miei due bambini!» esclamò, dando a entrambi dei baci e guardandoli allegra «Cosa volete per pranzo? Vi cucino tutti i vostri piatti preferiti, potete incominciare già a leccarvi i baffi!» esclamò, avvicinandoli a sé mettendo loro le braccia al collo e facendo congiungere le guance.
I due vennero letteralmente travolti dall’entusiasmo della madre.
Kari fece appena in tempo a nascondere il fazzoletto con cui si era asciugata gli occhi, mentre Tai smise di tenersi la testa.
Si guardarono con un sorriso eloquente.
 
Un abbraccio di loro madre aveva il potere di farli rinascere, di lenire le loro ferite e, per un po’, dimenticarsi del resto del mondo.
 
Tra quelle braccia era come se il tempo non fosse mai passato.
 
 






 
 
 

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Capitolo 13
*** Il tempo di cambiare ***








Il fumo della sigaretta volò via attraverso la finestra.
Fece un altro tiro quasi subito. In mano aveva un matita, e scriveva qualcosa su di un foglio.
 
Era rinchiuso in una cappa di fumo e oscurità.
 
Posò la matita sul tavolo e afferrò la chitarra.
 
 
Tempo.
 
Doveva dimenticarsi del tempo.
Doveva fare in modo che rimanesse impresso su di un foglio bianco, in delle note imperfette, ma doveva allontanarlo da dentro di lui.
 
Cancellò una parola e la sostituì con un’altra.
 
Era quasi divertente.
Era ironico il fatto che riuscisse dare il meglio di sé quando stava male.
La sofferenza gli dava ispirazione, forse perché, in fondo, era sempre stato sofferente durante il corso della sua vita.
Fin da bambino, fin da quando sua madre aveva portato via suo fratello da lui. Fin da quando aveva dovuto sopportare di stare solo, ad abituarsi fino ad allora.
 
Solo lei era riuscita a fargli tornare il sorriso.
 
Nello stesso modo in cui glielo aveva tolto.
 
 
Falling out of love is hard
Falling for betrayal is worst
Broken trust and broken hearts
I know, I know
 
 
Strinse gli occhi.
Poi portò la sigaretta alla bocca e si concentrò sulla chitarra. Abbozzò degli accordi che gli sembravano più adatti in quel momento.
 
Un musica triste, malinconica.
La musica era il riflesso di ciò che aveva dentro, lo era sempre stata.
 
Nonostante tutto, lo faceva sentire meglio.
Anche se era solo per pochi secondi, riusciva a lenire superficialmente tutte le ferite che aveva addosso.
 
Si perse in quel componimento, non accorgendosi che la sigaretta fumava da sola. Un grumolo di cenere si era formato all’estremità.
 
Ma non importava.
Non gli importava di niente in quel momento.
Voleva solo perdersi in quelle note, in quelle parole che tartassavano la sua testa, che rispecchiavano quello che aveva dentro.
 
 
 
Tell them I was happy
And my heart is broken
All my scars are open
Tell them what I hoped would be
Impossible, impossible
Impossible, impossible
 
 
Perso.
 
Sempre di più.
 
Perso nei ricordi di un tempo passato che era finito, che non sarebbe mai più tornato, che lo aveva lasciato indietro, schiacciato, senza averlo nemmeno avvertito.
 
Il campanello suonò.
Aprì gli occhi, tornando al presente. Lentamente si tolse di dosso la chitarra e, nel gesto, la cenere cadde per terra.
 
Come lui.
 
Meccanicamente, si mosse in direzione della porta, pensando a Tai di ritorno. Non appena l’aprì, però, davanti a lui figurò tutt’altro.
Takeru gli stava di fronte, appoggiato alla soglia, gli occhi blu che lo scrutavano profondamente. Portava il suo solito cappello in testa, un’aria esitante, ma nello stesso tempo risoluta. In mano aveva qualcosa incartata dentro una carta gialla.
Rimase spiazzato nel vederlo.
Stava ritto con la mano ancora chiusa contro la maniglia e lo fissava stupito, confuso, anche un po’ allettato.
 
Suo fratello era lì.
 
Era venuto lì, a casa sua.
 
Takeru...
 
Dopo dei secondi che sembrarono ore, si fece finalmente da parte, spostandosi quel poco per farlo passare.
Il biondino afferrò il segnale e, con un sospiro, entrò in casa.
Si guardò intorno curioso, analizzando ogni cosa che lo circondava, la cucina, il divano, il tavolo con le sedie.
Fece scorrere un dito sulla superficie di legno, lanciando un’occhiata fugace al posacenere con le sigarette spente, il foglio in cui aveva scritto la sua canzone.
Lesse qualcosa di sfuggita, poi il suo sguardo fu catturata dalla chitarra lasciata incustodita contro la sedia.
Era l’unica cosa che gli dava pace, l’unica fonte di salvezza in cui si specchiava quando si sentiva perso.
Strinse a sé il pacco e con un gesto si voltò. Matt lo fissava interdetto davanti a lui. Poteva notare i suoi occhi azzurri lucidi e rossi, il suo volto tumefatto e triste.
Strinse le labbra.
Probabilmente si aspettava che dicesse qualcosa. Era andato a casa sua, e certamente non lo aveva fatto senza un motivo valido.
Non dopo come si erano lasciati, non dopo come si era comportato con lui.
Fece un gran respiro.
Non sapeva come iniziare, ma avrebbe trovato il modo.
«Sono venuto per farti vedere una cosa» mormorò dopo un po’. Tentennò per qualche secondo stringendo il pacco tra le mani, poi lo porse al fratello.
Yamato sciolse le braccia che aveva incrociato sotto il petto, e guardò interrogativo quello che gli stava porgendo.
Allungò una mano e lo prese, ispezionandolo per capire cosa fosse.
«Aprilo» lo esortò TK, e lui gli lanciò uno sguardo indecifrabile.
Non sapeva perché era venuto, né tantomeno perché gli aveva dato quell’oggetto misterioso. Il fatto, però, che gli leggesse quella sicurezza negli occhi lo incentivò ad obbedire, forse perché lui in quel momento si sentiva tutto fuorché sicuro.
Scartò con un gesto repentino la carta che avvolgeva l’oggetto e, con suo stupore, notò che dentro vi era riposto un libro.
Lo girò tra le mani osservandolo, cercando di capire di cosa si trattasse. Lo aprì, alla fine, mantenendo lo sguardo interrogativo mentre sfogliava quelle pagine.
Gradualmente, la sua espressione facciale mutò.
 
Era un libro che riguardava loro. Parlava della loro infanzia, la loro adolescenza, la loro avventura a Digiworld, la loro amicizia, le loro liti, tutta la loro vita incisa indelebilmente su delle pagine.
C’era un capitolo sopra ogni avvenimento, delle descrizioni su ognuno di loro, descrizioni minuziose, così dettagliate, che si stupì perfino di come avesse fatto a riportarle tutte lì.
 
Subito, lo chiuse di scatto e diede un’occhiata al titolo e all’autore.
 
Il tempo di cambiare
di
Takeru Takaishi
 
Alzò lo sguardo verso suo fratello, e vide che lui lo guardava già. Era impaziente, ma anche leggermente impaurito.
Matt non riuscì a dire nulla, solo non riusciva a smettere di guardarlo.
Il biondino rilassò le spalle e puntò gli occhi sul libro.
«Questo è quello che ho sempre desiderato fare nella vita» disse fermo, sicuro di quello che stava dicendo «Ho speso tutto questo tempo per cercare di realizzare il mio sogno» alzò gli occhi cerulei su quelli di Matt.
Questi era interdetto, la bocca semiaperta.
Era questo il suo sogno, scrivere.
Come aveva fatto a non capirlo?
Ricordò lentamente tutte le volte che lo aveva visto appuntare qualcosa su un taccuino da piccoli, le volte che arrivava a casa di loro madre e lo trovava intento a battere sul computer.
Tutti i tasselli vennero messi in ordine.
TK si avvicinò leggermente a lui.
«Ho sbagliato, è vero» proclamò, e il suono di quelle parole gli fece nuovamente alzare lo sguardo su di lui, leggendo nel suo la sincerità e il rispetto «Mi sono commissionato facendo lavori discutibili, ho trascinato anche Kari con me e questo probabilmente non me lo perdonerò mai» udì la sua voce ridursi in un sussurro, un pugno serrato «Ma l’ho fatto per una buona causa. L’ho fatto per non perdere la speranza, Matt» lo fissò con uno sguardo intenso, lucido, pronto a scoppiare.
Il fratello chiuse le labbra e assunse un’espressione indulgente.
Lo vide stringere entrambi i pugni.
«Avevo pensato di averla persa per un periodo, proprio io...» sussurrò con la voce spezzata, mentre gli occhi gli si erano inumiditi incredibilmente.
Alludeva a qualcosa che gli faceva male. Forse aveva commesso degli sbagli in passato, errori per cui si biasimava, ma che era stato costretto a compiere per portare a termine quello che desiderava di più al mondo.
«Invece ce l’ho fatta» si riprese, riuscendo a ricacciare indietro quelle lacrime amare «Il mio libro è stato pubblicato, sta andando benissimo, tutti vogliono conoscere la nostra storia... e ce ne ho altri in cantiere... non voglio smettere mai di farlo. E’ quello per cui sono nato» dichiarò risoluto, mentre un sorriso si increspava sulle sue labbra.
Spostò la sua attenzione verso il foglio dove era stata abbozzata la canzone e la chitarra adagiata contro la sedia.
«Come te con la musica» disse piano.
Yamato sentì una stretta lacerante al cuore non appena gli venne in mente dello scioglimento improvviso della band.
Anni di sacrifici gettati al vento, tutto perso in una folata, come se non fosse mai esistito.
Gli venne sistematico scuotere la testa, ma il fratello non se ne accorse. Si era fatto più vicino e lo guardava supplice.
«Io ti chiedo scusa, fratellone» lo udì dire, e rimase spiazzato dal fatto che glielo avesse detto «Perché sono stato così crudele con te...» il tono della sua voce si era nuovamente inclinato e Matt sentì un’ondata di tenerezza nei suoi confronti.
«odiavo il fatto che tu ti fossi buttato giù, fossi diventato un altro, non reagissi» gliele stava dicendo con una sincerità spiazzante tutte quelle cose e lui apprezzava il fatto che gli stesse finalmente parlando dopo tutto quel tempo.
«tu sei sempre stato il mio punto fermo, e quando ero sbandato credevo di poterti mettere da parte, finalmente, che non mi servivi più...» una lacrima solcò il suo viso all’improvviso «invece ho capito di avere un fottuto bisogno di te» confessò, mentre le lacrime lo coglievano.
Yamato sentì a sua volta un groppo alla gola e, di slancio, si avvicinò ad abbracciarlo. Lo strinse forte a sé come quando erano piccoli e lui aveva paura del buio, mentre Takeru si lasciava andare ad un pianto liberatorio e di biasimo verso sé stesso.
Aveva trattato male suo fratello, aveva giocato a fare l’arrogante presuntuoso, mentre non aveva ancora capito un cazzo di niente, di nessuno.
Non aveva capito quanto suo fratello avesse bisogno di lui, di quanto fosse un incosciente nei suoi confronti, di quanto soffrisse per come lo aveva trattato.
Il biondo aveva gli occhi chiusi.
Non gli importava più nulla di quello che era successo, quello che contava adesso era stringere il suo fratellino tra le braccia, bearsi di quel momento che mai avrebbe immaginato sarebbe capitato.
TK si staccò leggermente da lui per potergli parlare.
«Ti prometto che sarò un uomo migliore, mi iscriverò all’università e mi guadagnerò un titolo. Sarò molto di più di quello che sono stato fino ad adesso» disse tirando su con il naso, e a Matt venne da sorridere perché gli ricordava quando da piccoli combinava un pasticcio e piangeva disperato promettendogli che non avrebbe più fatto il cattivo.
«Tu vai bene così come sei» soffiò, e quella frase gli uscì su due piedi, spontaneamente.
Il biondino lo fissò grato, poi si lanciò nuovamente ad abbracciarlo.
 
Il perdono non era altro che la dimostrazione che l’amore, qualsiasi esso fosse, qualsiasi forma incarnasse, era più forte di ogni rabbia e ogni rancore.
 
Quando si staccarono e il più piccolo si ebbe ridestato, decise di intraprendere quella discussione.
Lo guardò apprensivo, notando come il suo aspetto fosse peggiorato. Aveva i neri sotto gli occhi, lo sguardo stanco e sofferente, sembrava un fantasma.
Doveva aver sofferto tanto, doveva averlo destabilizzato più di ogni altra cosa quello che gli era successo.
Lui lo sapeva, perché lo sentiva, riusciva a captare ogni sensazione provata da suo fratello, fin da quando erano piccoli.
«Hai parlato con lei?» gli chiese tentando di mantenersi discreto per non urtarlo.
Questi cambiò espressione di repente. Il suo viso sfumò diventando oscuro, lugubre, macchiato dal dolore.
«No» rispose secco, puntando lo sguardo in un’altra direzione.
Non voleva parlare di lei, gli straziava il cuore il solo nominarla...
Voleva solo disperdere i pensieri, non doverla pensare, non essere costretto a parlare con una persona che gli aveva fatto del male.
 
Nonostante quello che più desiderava era averla ancora accanto.
 
TK sospirò.
«Perché non ci parli?» chiese ancora.
Era più facile a dirlo che a farlo, senza dubbio.
Parlare con Sora significava mettersi nuovamente faccia a faccia con il dolore, e lui non ne poteva più di soffrire.
Non sarebbe riuscito a guardarla negli occhi, non sarebbe stato capace di sentire le sue giustificazioni, lui non le voleva, non voleva saperne più niente...
Perché se solo se la fosse trovata davanti sarebbe crollato definitivamente, lo sapeva, non sarebbe rimasto neanche l’ultimo brandello di lui.
Non rispose.
Il fratello lo fissava con uno sguardo apprensivo.
«Avevo capito che c’era qualcosa che non andava tra di voi» gli rivelò «E quello che non potevo sopportare era vederti fermo a non fare nulla»
Sentì il biondo emettere un gran sospiro, sfuggendo al suo sguardo. Gli strinse un braccio con una mano.
«E’ sempre stato necessario per te trovarti faccia a faccia con le tue debolezze» mormorò, e a sentire quelle parole alzò finalmente gli occhi su di lui.
Takeru parlava come se sapesse molto bene quello che stava dicendo. Le sue non erano illazioni, ma semplici costatazioni che provenivano da anni di conoscenza della sua persona.
«Per questo non ti ho fermato quella sera» soffiò infine, sentendosi un po’ in colpa, ma anche sicuro che ciò che stava dicendo corrispondeva alla verità.
Matt chiuse gli occhi.
Non voleva sentire più nulla di quella storia.
Voleva andare avanti e dimenticarsi di tutto ciò che era successo, chiedeva troppo?
Ogni parola di riferimento a quel dannato fatto lo distruggeva, voleva chiudere tutto fuori, voleva essere estraneo a tutto quel dolore...
«TK, ti prego... non ho voglia di parlarne...» sussurrò in un tono martoriato che gli uscì fuori spontaneamente.
Questi lo vide portarsi una mano alla fronte sofferente. Sapeva che gli faceva male rivangare, ma era necessario, strettamente necessario affinché lo superasse, andasse avanti, lo vincesse.
Solo in quel mondo avrebbe riacquistato la sua forza e la sua sicurezza. Non era fuggendo da un problema che sarebbe sparito.
E lui sapeva benissimo che era quello di cui Yamato aveva bisogno onde evitare di collassare definitivamente, per quanto masochista potesse sembrare.
«Devi affrontarlo» affermò «Anche se fa male, devi sbatterci contro, solo così sarai consapevole di quello che non andava tra di voi» disse semplicemente, e quello che aveva detto corrispondeva al vero, lo sapeva.
Era la stessa cosa che gli aveva detto Taichi, quello che, in cuor suo, sentiva giusto, qualcosa da cui non poteva scappare.
Ma non riusciva, era bloccato, chiuso, serrato in quelle quattro mura.
Non voleva parlare con lei, perché in fondo era consapevole del fatto che se Sora aveva fatto quello che aveva fatto era anche per colpa sua.
Anzi, forse era completamente colpa sua.
Sapeva che le cose tra di loro erano statiche da tempo, la loro relazione era su di un binario morto, e lui invece di fare qualcosa per recuperare tutto si era chiuso nella sua indifferenza, nel suo orgoglio, come stava facendo proprio in quel momento.
«Quello che non andava ero io!» esclamò d’un tratto, gli occhi cerulei accecati da qualcosa che sembrava tanto deplorazione
«Non le ho dimostrato attenzioni, non la cercavo, non c’ero mai per lei... per questo mi ha tradito...» la voce gli si incrinò, spegnendosi nell’ultima parola pronunciata.
 
Faceva male dirlo ad alta voce.
 
Faceva davvero male essere consapevole di tutta la sofferenza che probabilmente le aveva causato, e cominciò a sentire un biasimo profondo per sé stesso, iniziò a pensare che se ciò era successo era solo e unicamente per colpa sua.
 
Colpa sua...
 
Takeru lo vide guardare per terra con un’espressione disperata.
Non sarebbe finita così.
Lui lo sapeva che Yamato sarebbe presto rinsavito, che avrebbe presto affrontato quella situazione e avrebbe preso in mano le redini della sua vita.
«Beh sì, ma chi dice che il fine non giustifica i mezzi sbaglia» mormorò, avvicinandosi con la testa vicino a lui «Tu adesso hai capito cosa ti mancava. Forse quello che è successo farà bene ad entrambi»
Nell’udire quelle parole, Matt negò vigorosamente con la testa.
Non avrebbe fatto bene a niente e a nessuno.
Lui avrebbe portato per sempre sulle spalle il peso di quel tradimento, mentre Sora si sarebbe presto resa conto che non lo amava, anzi, probabilmente se n’era già resa conto da molto prima.
Strinse i pugni sopra le ginocchia.
La cosa migliore da fare per entrambi era non vedersi e non sentirsi più.
Lui lo sapeva, non sarebbe mai riuscito ad andare avanti, né tantomeno voleva essere un ripiego nella vita di Sora.
 
Lei stava meglio senza di lui.
 
Non dissero più niente per un po’ di tempo. Le lancette dei secondi dell’orologio erano l’unico rumore che li circondavano, oltre quello dei loro pensieri.
 
 
 
Era difficile, molto difficile.
 
Takeru non aveva smesso di guardare suo fratello.
 
Ma credeva in Matt, era sicuro che ce l’avrebbe fatta a superarla.
 
D’altronde, era lui che gli aveva imparato ad essere forte, era lui che l’aveva sempre protetto, era lui che gli aveva insegnato a perdonare.
 
Il campanello suonò.
Con la coda dell’occhio vide questi non fare una piega, ancora intento a fissare il pavimento.
Si alzò dalla sedia e andò a vedere chi era.
Tai apparve di fronte a lui, in mano una busta bianca che teneva all’altezza del viso e faceva penzolare.
«Ho comprato il sushi... ah, TK!» esclamò sorpreso, non appena si rese conto di chi aveva di fronte.
Subito lo vide guardare dietro di lui, probabilmente in cerca di Matt per assicurarsi in che condizioni si trovasse, se magari avessero nuovamente litigato.
«E’ tutto okay?» gli chiese a bassa voce preoccupato, vedendo il biondo seduto senza emettere un suono.
Il biondino annuì e decise di sciogliere la sua apprensione.
«Sono venuto a scusarmi» lo informò.
Il castano lo fissò indagatore per un po’ di tempo, tentando di capire se fosse la verità. Gli occhi azzurri di TK erano limpidi e sinceri, così scrollò le spalle e tirò un sospiro di sollievo.
«Bene» rispose, poi avanzò dentro, mentre l’altro chiudeva la porta alle spalle.
Posò la busta con il sushi comprato sul tavolo, poi diede un buffetto affettuoso a Matt sulla guancia, il quale, però, non reagì.
Tai strinse le labbra e si voltò verso l’altro.
Lo esaminò per un po’, pensando alla discussione che aveva avuto quella mattina con Kari.
 
Avrebbe dovuto fidarsi di lui?
 
Sua sorella lo aveva rassicurato che era un ragazzo per bene, che la trattava come meritava, che qualsiasi cosa aveva fatto lo aveva fatto per una giusta causa.
Sentiva che in qualche modo quelle parole rispecchiavano la realtà.
Lui conosceva Takeru, sapeva che non era affatto una cattiva persona, e il fatto che finalmente fosse andato a scusarsi con Yamato e gli fosse stato vicino era una esauriente dimostrazione.
«Rimani qui a cena?» gli chiese usando un tono pacato, anche se non aveva smesso di scrutarlo.
Quello sentì addosso lo sguardo, ma fece finta di niente. Puntò gli occhi su Matt che era ancora seduto.
«Se il mio fratellone vuole...» lasciò la frase a mezz’aria, cercando il suo permesso.
Il biondo alzò la testa e, con uno sguardo apatico e un’espressone statuaria, annuì leggermente.
Non appena ebbero quel segnale, i due si lanciarono un’altra occhiata eloquente prima di mobilitarsi per pulire il tavolo da quel grumolo di cenere e sigarette e apparecchiare.
Tai tirò fuori dalla busta le due confezioni del sushi che aveva comprato e le aprì.
Si sedettero e mangiarono.
Matt si limitò a prendere un po’ di pesce e a pasticciarlo con le bacchette, lo sguardo ancora perso nel vuoto.
Non riusciva a smettere di pensare e quello gli aveva chiuso lo stomaco.
Non riusciva più a mangiare da due giorni, era più forte di lui. Il solo portarsi il cibo alla bocca gli dava la sensazione che avrebbe potuto rigettare.
Giocò con le bacchette, catturando su di sé gli sguardi preoccupati di suo fratello e il suo migliore amico.
Taichi fece per dire qualcosa, ma Takeru lo precedette.
«Il salmone è gustoso. Dovresti provarlo» lo incitò, dopo averne mangiato un pezzo.
Il biondo non fece una piega, continuando muovere le bacchette in un gesto che adesso risultava nervoso.
Non riusciva.
Gli faceva senso il solo semplice gesto di portare il cibo alla bocca e masticarlo.
Chiuse appena gli occhi.
Non ce la faceva, non riusciva nemmeno a stare seduto... sentiva l’esigenza di andare via o sarebbe scoppiato lì davanti a loro...
Non voleva farsi vedere in quel modo, non più.
 
Odiava mostrarsi debole, lo odiava da morire.
 
Lasciò cadere le bacchette sul tavolo, e si alzò dalla sedia.
«Scusate...» biascicò in tono basso senza alzare lo sguardo. Voltò le spalle e tirò dritto verso la sua camera.
Tai e TK rimasero interdetti. Non ebbero la forza nemmeno di richiamarlo. Si limitarono a lanciarsi uno sguardo preoccupato e continuarono a mangiare.
 
 
Dopo aver terminato e sparecchiato, entrambi si diressero verso la stanza di Matt per vedere come stava.
Aprirono appena la porta e l’oscurità li pervase. L’unica luce proveniva dai lampioni e filtrava attraverso le tapparelle.
Yamato era coricato da un fianco e dava loro le spalle.
Non seppero cosa dire, pensarono fosse meglio non aggiungere altro in quel momento.
Matt aveva bisogno di stare un po’ da solo con sé stesso, a pensare, riflettere su cos’era giusto fare.
Non potevano forzarlo a fare qualcosa che non voleva, dovevano rispettare quel momento di sofferenza senza alterare ulteriormente il suo stato d’animo.
«Si chiude in sé stesso» constatò TK a bassa voce, osservando il fratello inerte sul letto.
Tai sospirò.
Era qualcosa contro cui aveva sempre dovuto lottare durante tutti quegli anni di amicizia.
Aveva dovuto lavorare tanto per farlo uscire fuori, per farlo essere sé stesso, eppure, in un attimo, tutti quegli sforzi erano risultati vani.
«Lo so» mormorò di rimando.
Non dissero niente per un paio di secondi, continuando a fissare l’altro sulla soglia della porta, non osando entrare.
In momenti come quelli si sentivano inermi, incapaci di fare qualcosa per poterlo aiutare.
Eppure loro erano due delle persone più importati della vita di Yamato, ma in quel momento si sentirono come perfetti estranei.
Takeru decise di prendere di nuovo la parola.
«Temo che per un po’ di tempo sarà così» fece, alzando lo sguardo verso il più grande in modo da fargli intendere che non avrebbero cavato un ragno dal buco stando lì.
L’altro fu d’accordo.
«Già. Lasciamolo riposare» e con un gesto repentino chiuse la porta della camera.
Camminarono fino alla cucina.
Il biondino si voltò e gli porse una sigaretta facendogli cenno di uscire fuori dal balcone.
Il castano l’accettò e se l’accesero.
Fuori c’era un venticello leggero. Tai guardò sotto per un po’, perdendosi a contemplare il paesaggio. Fece un paio di tiri e rilasciò il fumo, perdendosi a pensare a quanto dura fosse diventata quella situazione.
Matt non reagiva, si era chiuso nel suo mondo buio.
Non riusciva a sopportarla una cosa del genere, per quanto fosse consapevole che il biondo doveva avere tempo per assimilare e riprendersi.
Era più forte di lui, odiava vederlo in quel modo.
«Non sopporto vederlo star male» non riuscì a trattenersi nel dirlo, mentre rilasciava una boccata di fumo.
TK si voltò lentamente a guardarlo, le braccia appoggiate sopra la ringhiera.
«No, nemmeno io» rispose in tono triste.
Si ammutolirono.
In quei casi non sapevano cosa aggiungere, qualsiasi cosa avrebbero detto probabilmente sarebbe suonata stupida, o superflua.
Il biondino si voltò nuovamente verso l’altro. Lo scrutò per bene, osservandolo portarsi una mano tra i capelli disordinati.
Aveva sempre ammirato l’indole di Taichi, fin dai tempi di Digiworld.
Il modo in cui prendeva in mano le redini del gruppo, forse con un tantino di arroganza, ma sempre con determinazione e sicurezza glielo aveva sempre invidiato.
Il modo in cui si preoccupava per le persone che amava era toccante.
Era di natura leale e sincero, sapeva benissimo che quello che diceva ai suoi amici era esclusivamente perché teneva al loro bene.
«Sei un grande amico, Tai» sussurrò con tutta la semplicità del mondo, riferendosi a tutto quello che stava facendo nei confronti di suo fratello.
Il castano si sentì in leggero imbarazzo udendo quelle parole, e si scompigliò nuovamente i capelli in un familiare gesto di impaccio.
«Io... grazie» rispose, e notò come TK gli stesse sorridendo di rimando.
Era da molto tempo che non rimanevano da soli a parlare.
Takeru gli sembrava così cresciuto, e non solo fisicamente. Sembrava avesse capito parecchie cose, forse aveva sempre avuto questa capacità di leggere dentro le persone.
Non riuscì a smettere di osservarlo.
Era il fidanzato di sua sorella, era stato geloso di lui quando aveva scoperto che si erano messi insieme, seppur consapevole che mai l’avrebbe affidata a nessun’altro.
La sua natura protettiva gli faceva tuttora provare quella sorta di gelosia immotivata, che altro non era che la paura di dire addio a sua sorella, alla sua famiglia, ai suoi affetti.
TK si rese conto che stava pensando a qualcosa che lo riguardava.
Aveva sicuramente pensato male di lui.
Si era mostrato sfrontato, arrogante, capriccioso.
Aveva paura che in qualche modo potesse portargli via Hikari, lo sapeva, che potesse ferirla, che potesse trascinarla in strade sbagliate.
Lo capiva dal modo in cui lo guardava, lo ispezionava come volesse trovare qualcosa di marcio in lui, e Takeru non riusciva nemmeno a biasimarlo.
«Tai... volevo dirti che non farei mai del male a Kari» soffio d’un tratto e inaspettatamente, tanto che il castano aggrottò le sopracciglia non appena udì quelle parole, sentendosi colto in fallo.
Il biondino spense la sigaretta e lo fissò serio.
«Lei è la persona più importante per me» affermò, poi si tolse il cappello nero e si passò una mano tra i capelli, sistemandoli.
Tai pensò che lo aveva visto poche volte senza. Era la sua firma, l’accessorio che più lo caratterizzava.
«Piuttosto farei del male a me stesso per non ferire lei» continuò, stringendo un pugno, odiandosi per averla coinvolta in quei brutti giri.
Il maggiore emise un sospiro basso.
Avrebbe voluto chiedergli se ne era uscito completamente, se era entrato solo per racimolare qualche soldo, seppur immoralmente e illegalmente.
Non se la sentì di fargli la predica; lui quando era più piccolo aveva giocato a fare la testa di cazzo tante volte, non era nella posizione di poter fare la paternale a nessuno.
Solo, si preoccupava per sua sorella, sapeva fosse sensibile e docile, ma era anche consapevole dell’amore sincero che legava i due ragazzi fin dai tempi in cui erano bambini.
Per questo dentro di sé sentì che doveva fidarsi di Takeru.
«Mi prenderò sempre cura di Kari, sempre» disse questi guardandolo fisso negli occhi, facendogli una promessa che sapeva per certo avrebbe mantenuto.
 
Lo sapeva già.
 
Dentro di sé, lo aveva sempre saputo.
 
«Non ho mai avuto dubbi su di te» gli rivelò dando voce ai suoi pensieri.
Poi si voltò e gli sorrise. L’altro lo guardò dapprima stupefatto, dopo non potette fare a meno di sorridere anche lui.
«Grazie» gli rispose rassicurato.
Continuarono a guardare giù, mentre il buio della notte aveva ormai preso il sopravvento.
 
Il tempo passava, non si fermava mai, scorreva via come un fiume.
Ma una cosa era certa, non poteva mai cancellare la vera essenza di una persona.
 
Mai.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La televisione dava su un canale di poco conto. Gli unici rumori che si sentivano erano il tintinnio delle bacchette e dei coltelli sui piatti.
Stavano cenando in silenzio, senza che nessuno aprisse bocca.
Mimi gettò uno sguardo a Sora, seduta accanto a lei. Portava distrattamente il cibo alla bocca, persa nei suoi pensieri.
Con un sospiro, spostò gli occhi verso Joe che emetteva dei suoni fastidiosi con la lingua mentre mangiava, probabilmente facendolo di proposito per infastidirle.
Luchia si schiarì la voce per richiamare su di sé l’attenzione del fidanzato in modo tale che la smettesse, ma questi si limitò a lanciargli uno sguardo torvo.
Dopo che si sbrodolò con un albicocca, si mise in piedi senza degnarle di uno sguardo, poi si diresse a gran passi verso il corridoio, in direzione della sua camera.
Si sentì la porta sbattere forte.
Sora alzò lo sguardo e osservò il punto in cui l’amico era sparito, emettendo un sospiro triste.
Ce l’aveva con lei perché per colpa sua era successo tutto quel putiferio il giorno della sua festa di laurea, oltre al fatto che Tai, il giorno successivo, era venuto a casa come una furia e lo aveva disturbato ulteriormente.
Mimi lanciò uno sguardo allarmato a Luchia, ma la donna fece finta di non capire. Si alzò dalla sua postazione, ripiegando accuratamente e con grazia il tovagliolo che aveva adagiato sulle sue gambe per non sporcarsi.
«Buonanotte» disse loro altezzosamente, poi girò i tacchi e andò via nella stessa direzione in cui si era volatilizzato Joe.
Non appena le porte scorrevoli si chiusero, Mimi lanciò stizzita il tovagliolo sul tavolo e incrociò le braccia.
Non si erano premurati nemmeno di riporre i piatti dentro il lavello, avevano lasciato tutto lì come se era scritto da qualche parte che toccasse a loro sparecchiare e pulire tutto!
Lanciò uno sguardo alla ramata che era ancora scossa e aveva lo sguardo perso nel vuoto.
Non poteva lasciare certo a lei quella pila di piatti e stoviglie sporche. Era meglio che si desse subito da fare.
Con un gesto repentino, si mise in piedi e cominciò a sparecchiare. Poi indossò dei guanti rosa e iniziò a lavare.
Con la coda dell’occhio, vide Sora uscire fuori in balcone e sedersi su di una sdraio.
Probabilmente pensava ancora ed ossessivamente a quello che era successo.
Forse ce l’aveva con lei perché la mattina stessa le aveva decisamente proibito di chiamare Matt.
Beh, non era stata lei a volere quella situazione. Aveva creato tutto quel casino perché non aveva avuto il coraggio di ammettere che le cose tra lei e il suo fidanzato non andavano più bene e, piuttosto, le era venuto meglio abbandonarsi tra le braccia di un altro ragazzo.
Mimi cominciò a spostare le stoviglie in maniera celere.
Le dispiaceva fare certi pensieri, ma un po’ anche lei pensava che era stata vigliacca. Quella era una situazione molto delicata, non poteva certo pretendere che in quattro e quattr’otto Yamato sarebbe stato disposto ad affrontarla.
Nel frattempo, Sora aveva portato nuovamente il cellulare all’orecchio.
Non sapeva nemmeno perché lo stava facendo, ma sentiva l’esigenza di chiamarlo, provare per l’ennesima volta a vedere se le avesse risposto.
Il telefono era ancora staccato, e lei se lo aspettava.
Si portò una mano sulla fronte, triste e disperata.
Cosa avrebbe dovuto fare?
Non riusciva a stare in quel modo, avrebbe dovuto fare qualcosa, agire, perché quella sensazione di impotenza la stava uccidendo.
Avrebbe preferito discutere, urlare, sbattere qualcosa per terra, ma non lasciare che il tempo passasse senza poter fare nulla.
Rimase per qualche secondo in silenzio a pensare.
Dopo un po’ le venne in mente di chiamare Taichi. Forse lui le avrebbe risposto, magari era con Yamato e avrebbe almeno potuto dirgli come stava.
Cercò il numero in rubrica e fece partire la chiamata.
Squillò per un bel po’ di volte, fino a quando non partì automaticamente la segreteria telefonica.
Sospirò affranta e si portò un’unghia alla bocca.
Nemmeno Tai voleva parlare con lei.
L’aveva rimproverata duramente, in un modo che non si sarebbe mai aspettata, e aveva anche ragione, aveva sbagliato tutto...
Aveva fatto soffrire il suo migliore amico, e Sora lo sapeva che lui era sempre andato contro di Matt per lei, ma adesso, dopo quello che aveva causato, non era più sicura che avrebbero mai potuto recuperare il loro rapporto...
Le venne nuovamente da piangere per l’ennesima volta in quei due giorni, ma venne interrotta dall’arrivo di Mimi, la quale aveva terminato di lavare i piatti e la fissava indagatrice.
«Non dirmi che ci hai provato ancora?» le chiese in tono seccato, riferendosi al fatto che avesse tentato di telefonare di nascosto a Matt.
La ramata fu colta con le mani nel sacco. Abbassò lo sguardo per terra.
Aveva ragione, ma non riusciva.
Diamine, quell’attesa la stava logorando...
«Non ce la faccio a stare così...» mormorò, mentre la castana si sedeva sulla sdraio accanto «nemmeno Tai vuole parlare con me» constatò in un tono amaro e rammaricato. Poi puntò gli occhi verso il cielo.
«E forse ha ragione... Lui si è sempre fidato di me, mentre io gli ho mentito, ho fatto soffrire il suo migliore amico...» soffiò angosciata e piena di rimorsi.
Mimi l’osservò per un paio di secondi senza dire nulla.
Sapeva per certo che il posto che Sora aveva nel cuore di Tai non si poteva comparare con nessuno, e provava anche un po’ di stizza nel constatarlo.
Loro due erano sempre stati uniti, li aveva conosciuti così da quando avevano messo piede a Digiworld.
Era consapevole del fatto che Taichi avrebbe fatto di tutto per lei e che, probabilmente, se gli avessero chiesto in quel momento di scegliere tra loro due avrebbe scelto la sua amica.
«Anche tu sei la sua migliore amica» disse in un tono che suonò strano.
«Forse qualcosa in più» aggiunse senza riuscire a nascondere un pizzico di rancore.
Di certo non ce l’aveva con Sora, non poteva mai e poi mai avercela con lei.
Nemmeno sapeva di quello che era successo tra loro quella sera, e non poteva certo aspettarsi che per il suo stupido egoismo lei e Taichi smettessero di volersi così bene.
Però il fatto che lui l’avesse messa da parte in quel modo le bruciava così tanto da farle vedere il marcio ovunque.
Si sentiva così dannatamente umiliata e frustrata dal fatto che Tai non le avesse parlato, non l’avesse nemmeno cercata che desiderava quasi essere al posto di Sora solamente per occupare quel ruolo così importante nella sua vita.
La vide scuotere la testa.
«Adesso sono meno che niente, Mimi» mormorò, guardandola fissa negli occhi «Per entrambi» sottolineò, pensando a quanto fosse stato così semplice scivolare giù da quelle ancora di salvezza che l’avevano sempre tenuta ben piantata per terra, al sicuro.
L’amica alzò un braccio e lo mise sopra le sue braccia.
Poteva immaginare come si sentiva.
Rifiutata in una sola volta da due delle persone più importanti della sua vita, senza la possibilità di replica.
Non capiva cosa l’avesse spinta a compiere quel gesto.
Lei stessa credeva che, nonostante ci fossero degli evidenti problemi di fondo, la storia tra lei e Yamato non sarebbe mai finita in quel modo.
Non avrebbe mai potuto fare la fine che aveva fatto quella sua e di Taichi.
Eppure, Sora era stata con un altro, un'altra persona che non era Matt e che le aveva dato qualcosa in più.
Ma cosa?
«Dimmi la verità» disse d’un tratto, guardandola intensamente
«Cosa c’era con quel ragazzo?» le chiese a bruciapelo.
Sora aprì leggermente gli occhi. Non avevano parlato apertamente di quella situazione, anzi, Mimi non era neanche a conoscenza che Victor esistesse.
Era stata brava a fingere per tutto quel tempo, con tutti, dovevano dargli il premio per la migliore bugiarda traditrice dell’anno.
Sospirò piano, stringendo il telefono tra le mani.
Cosa c’era?
Non lo sapeva nemmeno lei di preciso; sapeva solo che non era stato qualcosa che era riuscita ad ignorare, era stato un trasporto forte e passionale, qualcosa che le era mancato da circa due anni a quella parte.
Victor le aveva dato quel qualcosa in più che Matt non era più riuscito a dargli, forse per orgoglio, forse per visioni di vita differenti, ma l’aveva travolta così talmente tanto da essersi lasciata andare.
«Io... sono un paio di anni che lo conosco» cominciò a raccontarle a cuore aperto «Lui è sempre stato gentile, abbiamo sempre avuto un bel rapporto... mi piaceva, era quello di cui avevo bisogno al momento» terminò guardandola negli occhi castani.
Mimi si morse il labbro inferiore, dapprima non sapendo che dire.
Quel ragazzo le piaceva, era questo il problema.
Non riusciva a capire se volesse a tutti i costi un confronto con Yamato per i sensi di colpa in maniera tale da ripulirsi la coscienza, o perché effettivamente lo amava.
«Perché non hai lasciato Matt?» le venne da chiedere.
Sora scosse la testa, sospirando.
Le era sfiorato minimamente il pensiero in quegli anni, ma aveva visto come Mimi era stata male per Tai dopo che avevano preso quella decisione, non voleva prendere anche lei decisione affrettate che avrebbero avuto dolorose ripercussioni.
«Non ho mai voluto lasciarlo» le confidò, poi strinse al cuore il telefono, facendo vagare lo sguardo nel vuoto.
«Non posso stare senza di lui» mormorò sinceramente.
Mimi lesse la disperazione in quelle parole.
Non sapeva che pensare, non sapeva come reputarla. Non sapeva se era un bene per lei reprimere totalmente quella passione che aveva nei confronti dell’altro ragazzo pur di salvare il suo rapporto con Matt per la sola paura.
Lo avrebbe solo fatto soffrire ancora di più, com’era già successo.
«Ma tu gli hai fatto più del male così!» le uscì, forse per la prima volta esplicitamente biasimante «Se non stavate bene avreste dovuto parlarne» aggiunse poi, premurandosi di constatare se l’avesse offesa.
Sora strinse ancora più forte il cellulare tra le mani.
«Lo so» sussurrò piano.
Mimi notò quel gesto nervoso e fece una faccia esasperata.
«Adesso non concluderai niente a chiamarlo, Sora» affermò, stroncando sul nascere ulteriori pensieri al riguardo.
«Lo so» ripeté l’altra, e si voltò a guardarla con gli occhi lucidi.
La castana sospirò triste.
Dio, non riusciva a vederla così, le faceva una tenerezza immensa... faceva piangere anche lei in quel modo...
«L’ho perso per sempre, Mimi» la udì mormorare, costatando a sé stessa quella probabile verità.
Non sapeva se fosse stato realmente così, era una situazione talmente complicata che non aveva realmente idea se tutto si sarebbe risolto.
Non riuscì nemmeno a negare a sé stessa il contrario.
Decise di abbracciarla e sussurrarle comunque delle parole di conforto.
«Sono sicura che sistemerete tutto... forse ci vorrà del tempo, ma ce la farete» le disse in tono dolce, mentre la ramata aveva posta la testa sulla sua spalla.
La udì tirare su con il naso, probabilmente tentando di frenare un imminente pianto.
Le sembrò tanto di rivedere sé stessa.
Aveva così sofferto per la fine della sua storia che Sora aveva sempre dovuto consolarla in quel modo, l’aveva dovuta abbracciare così come stava facendo lei, le aveva dovuto accarezzare i capelli nella stessa maniera, le aveva dovuto sussurrare parole incoraggianti in egual modo.
E nonostante stesse restituendo tutto ciò che l’amica le aveva dato, Mimi non riusciva a non sentirsi angosciata.
 
Taichi non l’aveva più chiamata, non aveva più pensato a lei, non aveva risposto quando gli aveva detto che lo amava.
Era triste, disperata, delusa.
Voleva urlare per quanto male quel rifiuto le aveva inferto.
 
Spostò leggermente Sora da sé per guardarla negli occhi, scossa dall’impeto di raccontarle tutto.
Avrebbe voluto dirle che avevano fatto l’amore insieme in un modo talmente profondo e passionale che mai se lo sarebbe scordato, avrebbe voluto dirle che gli aveva confidato di amarlo ancora, che non aveva mai smesso di amarlo in realtà, che Tai non aveva ricambiato i suoi sentimenti né in quel momento, né in quei giorni a seguire.
Avrebbe tanto voluto dirglielo, ma si sentì bloccata.
Non poteva, non ne era il caso, non era il suo momento.
 
Non era tempo per lei...
 
Con un sospiro, fece appoggiare di nuovo Sora contro la sua spalla e continuò ad accarezzarle i capelli, consapevole del fatto che era destinata a crogiolarsi nella sua silenziosa sofferenza.
 
Non ancora...
 
Pensò che di quel passo non lo sarebbe stato mai.
 
 






 
 
 

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Capitolo 14
*** Psicologia inversa ***








Era appena uscita dalla doccia e si era seduta sul divano.
I capelli erano raccolti in un turbante e una tovaglia bianca era rinchiusa attorno al suo corpo umido.
Non aveva fatto altro che pensare tutta la notte a Taichi e a tutto quello che era successo.
Quello stato di quiete apparente l’agitava come non mai, sapeva per certo che era solamente un anticipo alla tempesta.
 
Ed era dentro di lei che stava infuriando una tempesta, una sanguinosa lotta tra cuore e ragione, che imperversava senza confini, che non le permetteva di prendere una posizione.
 
Cosa avrebbe dovuto fare?
 
Non ci stava capendo più niente...
Era tutto così complicato, così dannatamente difficile che quasi preferiva che non fosse successo niente...
 
Afferrò il cellulare che era poggiato sopra il tavolino. Aprì le chat e scorrette con il dito fino a quella di Taichi.
Rimase a fissare per dei secondi la sua foto come una stupida, aspettandosi chissà che cosa, forse che improvvisamente la chat si illuminasse e le arrivasse una notifica da parte sua.
 
Niente.
 
Non la cercava, non la chiamava, non le mandava nemmeno un messaggio.
 
Perché lo hai fatto?
 
Sei stata una sciocca.
 
La sua coscienza la rimproverava duramente e Mimi sapeva che aveva ragione.
Non avrebbe dovuto esporsi, non avrebbe dovuto dirgli di amarlo, non avrebbe dovuto fare l’amore con lui.
Quello era il risultato.
Lui non la voleva, probabilmente l’aveva già dimenticata da un bel po’ di tempo; era stato con lei solamente per soddisfare le sue voglie.
Non voleva starci nuovamente con una che non lo aveva capito, che aveva cercato di tarpargli le ali e la libertà che aveva guadagnato in quegli anni.
 
Non voleva sicuramente stare con una ragazza egoista qual era.
 
Era stata colpa sua se le cose tra di loro avevano iniziato ad andare di male in peggio, perché non aveva accettato i compromessi che comportava quella relazione.
 
Era colpa sua e della sua dannata voglia di avere tutto e subito.
 
Era una ragazzina, una stupida ragazzina che non riusciva ad accettare il fatto che il ragazzo di cui era innamorata stava per iniziare una nuova vita lontano da lei.
Non aveva colpe lui, se non quella di aver inseguito il suo sogno fino a raggiungerlo.
Mentre le sue… erano così talmente grandi da potersi perdere all’interno.
 
 
Era la sera prima della partenza di Tai per Kyoto. Si erano tutti riuniti all’interno di un pub per brindare in suo onore ed augurargli una buona fortuna con la carriera che gli si prospettava.
Mimi non aveva voluto presentarsi, triste perché il suo fidanzato sarebbe andato lontano da lei, e questo non lo poteva affatto sopportare. Non poteva sopportare che per quello stupido calcio lei e Tai si sarebbero dovuti separare. Era così triste e frustrata che aveva deciso di starsene a casa, non se la sentiva di prendere parte a quei festeggiamenti. Sarebbero stati falsi e distruttivi per lei.
Aveva subito ricevuto una telefonata da parte di Sora.
«Mims, dai, vieni! Siamo tutti qui» aveva provato a convincerla, ma lei non aveva assolutamente intenzione di andare.
«No, non vengo, Sora» le aveva risposto con le lacrime agli occhi «Non mi sento bene» inventò una scusa scontata alla quale l’amica non credette.
«Tai ci è rimasto male. Voleva ci fossi anche tu» le aveva sussurrato, e Mimi aveva sentito una fitta al cuore e la tristezza aumentare a dismisura.
«Salutamelo» aveva detto in tutta risposta con la voce rotta.
«Mimi, smettila di fare la ragazzina! Gli fai del male così!»
Sora l’aveva rimproverata duramente, ma lei non sentiva ragioni. Non capiva quanto male poteva procurare a Taichi comportandosi in quel modo perché quell’atteggiamento era una difesa per non fare del male a sé stessa.
Quest’ultimo se l’era fatta passare al telefono a sua insaputa.
«Perché non sei venuta?» gli aveva chiesto, e aveva scorto una punta di delusione nel suo tono di voce.
Mimi chiuse gli occhi, tirando su con il naso.
«Non mi andava...» era la risposta più egoista del mondo, lo sapeva, ma non era riuscita a fare a meno di dargliela.
Tai aveva sospirato e si era passato una mano sulla fronte.
«Ce l’hai con me?» le aveva chiesto poi.
Avrebbe voluto rispondergli che ce l’aveva con lui perché la stava lasciando da sola, e lei aveva bisogno di stare con lui, non voleva andasse via...
Sentiva il cuore rompersi in mille pezzi.
«Devi partire per forza?» domandò con le lacrime che solcavano il suo viso.
«Mimi, lo sai che...» aveva provato a ribattere il ragazzo, ma come al solito lo aveva preceduto, tirando le sue conclusioni.
«Bene. Parti, allora. Buon viaggio» proclamò secca, pronta a mettere giù il telefono.
Era arrabbiata, delusa, frustrata.
Tai, però, l’aveva bloccata.
«Perché non capisci? E’ il mio sogno! E’ quello che voglio fare!» aveva esclamato, stringendo il telefonino di Sora tra le dita. Poi tentò di calmarsi e prendere fiato.
«Dovremmo stare separati per un po’, ma verrò appena sono libero. Sono solo poche ore di viaggio...» aveva provato a spiegarle per tranquillizzarla.
Mimi aveva il volto inondato di lacrime e la testa le doleva. Voleva urlargli contro che era uno stupido, che non l’amava se aveva deciso di prendere quella decisione, che lo stava odiando come non mai.
Sentiva un rancore dentro e una disperazione così forte da voler spaccare tutto.
«Non m’importa!» gli rispose in tono brusco.
Il castano era rimasto basito, amareggiato da come lei stava reagendo. Gli stava facendo pesare il fatto di dover fare quello che più amava al mondo, e lui non riusciva a capacitarsi di come fossero lontani anni luce in quel momento.
«Perché devi essere così egoista?!» aveva alzato la voce.
Lei aveva stretto forte il telefono, asciugandosi violentemente le lacrime con un gesto della mano.
«Sei tu quello egoista... E adesso ciao» lo aveva liquidato, stizzita, delusa.
«Aspet...» aveva provato a ribattere Tai, ma lei aveva messo giù senza voler sentire altro.
Aveva lanciato il cellulare sul letto e si era coricata, riversando tutte le sue lacrime. Non le importava se risultava egoista, se risultava immatura, lei non voleva che lui andasse via, non voleva che il calcio fosse più importante di lei, non voleva che tutto quello fosse vero...
 
 
Ritornò al presente e sentì anche in quel momento le lacrime pizzicare il bordo dei suoi occhi castani.
 
Egoista.
 
Era stata per colpa del suo egoismo se Tai aveva vissuto male la sera prima della partenza, se le cose tra di loro avevano incominciato ad incrinarsi.
Come aveva potuto pensare di vietargli di giocare a calcio?
Lo aveva fatto solo perché pretendeva che stesse con lei giorno e notte, senza contare quanto potesse farlo soffrire.
Una sciocca egoista.
Ecco cos’era stata.
E lo era anche in quel momento.
Perché sperava che lui avrebbe potuto fare un passo indietro e tornare lì da lei, quando ormai la vita di Taichi era lì a Kyoto.
Non aveva più niente a che fare con lei... ma lei... Dio, lei lo voleva, voleva provarle tutte per fargli cambiare idea, fargli intendere che forse poteva cambiare, che le cose erano diverse adesso che si era resa conto di quello che era stata e che ancora era.
 
Egoista.
 
Perché fino a quel momento non aveva smesso di pensare a sé stessa, continuava a mettere il suo benessere al di sopra di quello di Tai.
Non riusciva a sopportare il distacco, l’abbandono, la freddezza, voleva che lui tornasse indietro e le dicesse che ci aveva ripensato, che l’amava.
 
Ma se lui fosse solo bloccato perché lei non gli aveva permesso di vivere bene la vita che desiderava vivere?
E se lui non riuscisse più a considerarla parte della sua?
Come poteva pretendere che Tai facesse un passo verso di lei dopo tutto quello che era successo, dopo come lei stessa lo aveva trattato in passato.
Quel ricordo era più doloroso che mai, non faceva altro che sottolineare come dall’inizio lei fosse stata poco empatica, volta a sé stessa e a quello che a quell’età credeva fosse giusto, ma non era affatto come pensava.
Aveva iniziato una lunga lotta contro di Taichi quasi senza rendersene conto, una lotta che si era protratta per lungo tempo, che li aveva coinvolti e fatti scontrare duramente fino all’ultima cicatrice.
Aveva cercato più volte di farlo cedere, ricordava ancora l’espressione sconvolta e impotente di fronte ai suoi pianti isterici ogni volta che lui doveva partire, o quando gli chiudeva il telefono in faccia non appena l’avvertiva che quella settimana aveva una partita importante e non poteva tornare.
Provava ad includerla, le diceva di andare un po’ lei lì da lui, ma odiava Kyoto, lo aveva eliminato dai luoghi che conosceva perché era una città maledetta.
Lo aveva raggiunto poche volte e di malavoglia, era sempre lui a tornare da lei, perché Mimi era troppo capricciosa, troppo egoista da fare un passo verso di lui.
 
Lei era la principessa viziata, lui il cavaliere valoroso, che doveva esaudire ogni suo desiderio.
 
Si poteva essere più sciocchi di così?
 
Egoista.
 
Era l’unica parola che le risuonava in mente.
 
Le sue dita avevano preso a digitare a raffica delle frasi delle quali nemmeno lei era pienamente consapevole. Scrisse un testo lunghissimo, forse uno dei più lunghi che aveva mai scritto.
Fu sul punto di premere invio.
Non appena la scritta “online” apparve sotto il contatto di Taichi sentì il cuore battere forte.
Un pensiero forse illusorio le sfiorò la mente. Pensò che lui si era collegato per lei, per scriverle qualcosa a sua volta.
Attese, sentendo i battiti del suo cuore all’altezza del suo orecchio.
Non successe niente.
Strinse le labbra e il suo pollice si avvicinò allo schermo.
Doveva inviarlo lei?
Non sapeva che fare...
Non sapeva se mai le avrebbe risposto, se mai avrebbe voluto avere a che fare con lei da quel momento in poi...
Rimase per qualche secondo a riflettere fino a quando il ragazzo non si scollegò.
Vinta da un attacco di disperazione, lanciò il cellulare sul divano e si portò le mani alla testa.
Le lacrime cominciarono a sgorgare senza che lei potesse controllarle.
 
Lui non la voleva, doveva metterselo in testa.
Lo immaginava impegnato a parlare chissà con chi, forse non vedeva l’ora di trasferirsi in quella nuova squadra.
Sarebbe stato peggio, forse tutto peggio dell’ultima volta.
Era inutile provare a contattarlo, non doveva più esporsi...
Aveva già fatto abbastanza ed evidentemente non era bastato.
 
I suoi singhiozzi s’intensificarono, erano talmente forti che, d’un tratto, la porta scorrevole si spalancò e Sora apparve sulla soglia con un’espressione confusa impressa sul viso.
Era a sua volta appena uscita dalla doccia, e con una mano si teneva stretta la tovaglia intorno al corpo. Si avvicinò lentamente verso di lei, chiedendosi perché Mimi stesse piangendo in quel modo così disperato.
«Mims!» esclamò, guardandola preoccupata, ritta di fronte a lei.
La castana quasi ebbe un colpo non appena si sentì chiamare. Spalancò gli occhi e si bloccò, alzando lo sguardo verso l’amica.
Dannazione, l’aveva vista piangere!
Non voleva farsi trovare in quelle condizioni, lo aveva promesso fino alla sera prima... non poteva assolutamente farsi vedere da Sora, doveva preservarla dai suoi problemi perché non era affatto il momento per lei di mettersi dietro ai suoi piagnistei.
Tentò di asciugarsi le lacrime, voltandosi in un’altra direzione per non farsi vedere.
«Sora, non... mi dispiace... io non...» balbettò, provando a giustificarsi.
Le parole le morirono in gola perché le lacrime continuavano a scorrere sulle sue guance senza darle modo di continuare.
La ramata si sedette accanto a lei, guardandola con apprensione. Alzò un braccio e le accarezzò i capelli.
«Cos’è successo?» le chiese premurosa.
Doveva essere accaduto qualcosa di grave se Mimi singhiozzava in quel modo.
Sembrava stesse buttando giù tutte le lacrime che aveva trattenuto per tanto tempo in una lotta contro sé stessa e il suo orgoglio, e adesso quelle l’avevano vinta.
Lei tentò di ridestarsi, asciugandosi gli occhi con la tovaglia.
«Niente... non preoccuparti, veramente, non è successo niente...» continuò a ripetere, convinta che Sora si bevesse la balla e la lasciasse stare.
Questa, invece, scosse la testa contrariata e le strinse un braccio.
«Mimi, dimmi cos’è successo» proferì ferma, guardandola fissa negli occhi.
La castana si bloccò e cominciò a provare timore.
Aveva timore a parlargliene, pensava potesse giudicarla, credeva l’avesse biasimata per essersi lasciata così andare.
E poi non voleva angustiarla ulteriormente, sarebbe apparsa come la solita ragazza debole ed egocentrica che non dava il giusto peso ai sentimenti e al dolore delle altre persone perché li scavalcava con i propri.
 
Non voleva essere più così.
 
«Hai altro a cui pensare, non posso parlarti di me...» soffiò triste, e fece per alzarsi onde evitare di rimanere fin troppo ancorata a quel divano in sua compagnia.
Era sicura che non avrebbe retto per molto.
Sora diede un lungo sospiro non appena la vide mettersi in piedi.
Era vero che era successo l’impensabile e in quei giorni aveva altro a cui pensare, che probabilmente chi doveva piangere e disperarsi doveva essere lei e non l’amica; però era altrettanto vero che l’amicizia era un sorreggersi a vicenda, un confortarsi quando l’altro ne aveva bisogno a prescindere dai momenti dell’uno e dell’altro.
 
L’amicizia era un darsi conforto in ogni momento senza pensare a chi veniva prima o a chi veniva dopo.
 
Glielo aveva insegnato Matt, tanto tempo fa...
 
«Sei la mia migliore amica» irruppe, mentre lei si bloccava dall’andar via «Pensi davvero che non abbia tempo per te?» le pose quella domanda retorica alzando la testa e guardandola di uno sguardo risoluto che fece sentire ancora più amareggiata l’altra.
Era vero, comportandosi in quel modo metteva in discussione la benevolenza che Sora aveva nei suoi confronti.
Lo aveva già fatto prima, mossa da quel sentimento di rabbia e frustrazione solo perché lei non poteva più essere unica nella vita di Tai.
Con lo sguardo perso, fece un passo indietro e tornò a sedersi.
Nonostante volesse tenerla fuori dai suoi problemi per non dargliene il peso, la verità era che sentiva l’esigenza di raccontarlo.
 
Il suo tempo era arrivato, forse prima del previsto di quando se lo era imposto, ma aveva retto per troppo tempo.
In quella lotta era finalmente arrivata a crollare.
 
Sora sembrava convinta nel volerla ascoltare, e aveva bisogno almeno di dirle ciò che era successo solo per tentare di levarsi via di dosso quella sensazione di sporco.
Portò le mani sulle cosce e le chiuse a pugno.
«Non ho potuto dirtelo prima, ma...» prese un gran sospiro e la guardò negli occhi «alla festa è successo che... è successo che io e Tai abbiamo... lo abbiamo fatto» concluse un po’ balbettante.
Vide Sora spalancare le orbite di riflesso e quella reazione la fece piombare subito in uno stato di angoscia.
Per qualche secondo il silenzio regnò come sovrano, fino a che l’amica non reagì alla notizia.
«Mimi...» mormorò, captando nel suo tono di voce un nota di preoccupazione.
Lei lo sapeva quanto Tai fosse importante nella sua vita, non era mica cieca.
Era consapevole del fatto che lei ne era ancora innamorata ed era preoccupata che quello che fosse successo l’avrebbe fatta soffrire ancora di più di quanto lo aveva fatto oltre che illuso pesantemente.
Mimi cominciò a sentire un forte calore e lo sguardo che le rivolgeva Sora le trasmetteva irrequietezza.
Aveva bisogno di spiegarle.
«Sì, lo so che sono stata una stupida, sono stata una sciocca» disse, dura con sé stessa «Shinichi mi aveva detto delle cose brutte e lui credo che abbia sentito, mi ha vista piangere, io... non sapevo che fare, mi ha letteralmente bloccata e non ci ho capito più niente, Sora...» la sua voce si spense e le lacrime invasero nuovamente i suoi occhi.
Ecco, lo sapeva.
Adesso la sua amica l’avrebbe rimproverata, le avrebbe detto che era stata un’incosciente a concedersi così facilmente ad un ragazzo con il quale aveva interrotto una relazione molto prima, un ragazzo che non aveva fatto niente per lei, che era rimasto a Kyoto a farsi i fatti suoi, che aveva messo in primo luogo il lavoro...
Questo lo pensava anche lei, e si biasimava terribilmente per essere stata così debole.
I sentimenti l’avevano offuscata, le avevano fatto perdere la ragione. Erano talmente incontenibili da averla fatta cadere ancora una volta in trappola.
Si meritava di essere biasimata, lei probabilmente lo avrebbe fatto a qualcun altro al suo posto.
Lo meritava per essersi così illusa...
Sora inaspettatamente posò una mano sulla sua.
Non appena sentì quel tocco, Mimi alzò gli occhi lucidi su di lei e vide che la guardava serenamente. Il suo non era uno sguardo di rimprovero, né sembrava avere intenzione di rimproverarla in seguito.
«Ehi, tranquilla» le disse amorevolmente «Non devi giustificarti» aggiunse scotendo la testa con l’ombra di un sorrisino rassicurante.
La castana rimase interdetta.
Lo pensava davvero o era solo una frase detta lì, di circostanza?
Lei non riusciva affatto ad essere tranquilla, quella situazione la dilaniava, soprattutto per il fatto che si era dichiarata, gli aveva confessato apertamente quello che provava e questo adesso la rendeva più vulnerabile.
«Sì, perché... non ce l’ho fatta, gli ho detto che lo amo» le confidò, e Sora alzò la testa in un gesto stupito.
Mimi abbassò lo sguardo per terra con espressione colpevole.
«E’ la verità, non riuscivo più a mentire di essere andata avanti... era frustrante per me...» confessò tristemente.
Quella verità la distruggeva.
La consapevolezza di amare ancora una persona dopo tanto tempo, di non essere riuscita ad archiviarla, di esserne così dipendente la straziava.
La ramata la fissò con circospezione.
«E lui?» si azzardò a chiedere, cosciente che non era andata bene altrimenti non sarebbe stata in quel modo.
Mimi si torturò le mani.
Sentiva il cuore sgretolarsi in mille pezzi al solo pensiero... Era così difficile dirlo, era così difficile dare coscienza a sé stessa di quello.
Chiuse gli occhi.
«Niente. Non ha risposto. Joe lo ha chiamato per andare da Matt» soffiò con voce roca, rendendo l’amica partecipe di quella triste realtà.
Sora si morse il labbro inferiore.
Immaginava quanto fosse stato complicato per Mimi ammettere i suoi sentimenti dopo aver passato quasi due anni a tentare di nasconderli, spesso a negarli con la speranza di apparire più forte.
La capiva, capiva appieno il suo stato d’animo, la disperazione di non sapere cosa Taichi provasse per lei, il terrore del rifiuto, il biasimo per essersi comportata in maniera avventata, forse incosciente...
 
La capiva perché provava quelle sensazioni anche lei.
 
«Non mi ha nemmeno salutata» aggiunse questa dopo qualche secondo di silenzio, lo sguardo fisso nel vuoto «non mi ha nemmeno mandato un messaggio... mi sento una stupida...» la voce le s’incrinò e si portò le mani al viso.
«Non avrei dovuto fare niente, non avrei dovuto dirgli niente... sbaglio sempre tutto...» cominciò nuovamente a piangere, singhiozzando come una bambina.
La ramata si sporse e la strinse in un abbraccio, accarezzandole i capelli bagnati e spostandoli dal suo viso segnato.
«Hai fatto solo ciò che sentivi» mormorò, credendo veramente a quello che aveva detto.
Non riusciva a darle una colpa per quello che aveva fatto.
Si era aperta a Taichi, gli aveva detto di amarlo, forse aveva rischiato, ma non era assolutamente imputabile.
Era quello che provava, e Sora credeva che era meglio essere sinceri con sé stessi per poter vivere meglio.
I singhiozzi di Mimi s’intensificarono, e sul pianerottolo, un ragazzo con gli occhiali e i capelli corvini rimase con il braccio a mezz’aria dall’inserire la chiave dentro la toppa.
Strinse gli occhi e si avvicinò alla porta non appena udì dei lamenti provenire da dentro casa.
Cosa stava succedendo?
Joe attaccò un orecchio alla porta per captare con più chiarezza e fece una faccia indecifrabile non appena sentì la voce di Mimi rotta dal pianto e dalla disperazione.
«Avrei dovuto continuare a tenermelo dentro... ho sbagliato tutto!» esclamò, stringendosi di più al seno dell’amica.
Quella continuava a sussurrarle parole confortanti.
«No, credimi, hai fatto bene» tentò di suonare convincente per farla smettere di piangere «Hai fatto più che bene a dirgli ciò che provi» la consolò.
Il ragazzo strinse tra le mani la chiave, sentendo un’arrabbiatura non indifferente attraversargli il petto.
«Ma lui non ha risposto!» quasi urlò la castana, staccandosi dall’abbraccio dell’amica e guardandola in modo afflitto.
Sora sospirò.
Quello non voleva dire che non ricambiava i suoi sentimenti.
Lo aveva notato anche lei come Tai fosse inquieto quando Mimi si trovava vicino a lui, come la guardasse di nascosto, ma mantenesse quell’atteggiamento distaccato solo per non apparire ancora coinvolto.
Cercava di preservare sé stesso, di non mostrare quello che probabilmente ancora provava per lei in modo da non ossessionarsi troppo e poter continuare ad andare avanti con la sua vita.
Lui aveva fatto una scelta, e per quanto fosse dura quella vita frenetica e così controllata, tentava di mostrarsi convinto e appagato solo per mantenere la coerenza della sua decisione.
Ma Sora sapeva per certo che non stava bene, che parte di quel malessere era dovuto a quel repentino distacco che aveva dovuto soffrire da Mimi.
Se era successo quello tra di loro, era sicura che per l’amico aveva avuto importanza.
«Se lo conosco bene si sarà solo un po’ spaventato» non appena parlò, la castana alzò la testa a guardarla con interesse.
Sora distolse gli occhi e li volse in direzione del balcone.
Ricordò il modo brusco e arrabbiato con cui gli aveva parlato Tai e si rabbuiò.
Il suo migliore amico era in collera con lei per come si era comportata e non riusciva a dargli torto.
Gli mancava parlare con lui liberamente e senza finzioni... sembrava che tutto quello appartenesse ad una vita fa, perché quella che stava vivendo doveva essere una realtà parallela.
«Tai è fatto così. Ma torna sempre indietro, sempre...» le uscì dalla bocca cercando anche di convincere sé stessa che ben presto le cose con Tai si sarebbero chiarite.
Regalò a Mimi un sorriso, mentre quest’ultima la guardava angosciata.
Non fecero in tempo ad aggiungere altro che la porta principale si spalancò e Joe entrò in casa come una furia.
Le due ragazze si voltarono nello stesso istante, spaventate da un improvviso tonfo sordo. Nella foga, il corvino aveva sbattuto con una gamba e si era fatto male.
«Ho sentito tutto!» esclamò, squadrandole in maniera torva, poi lanciò un’imprecazione parecchio volgare per sfogare il dolore.
Lo udirono lamentarsi, e si ridestarono, tentando di coprirsi come potevano. Avevano dimenticato di trovarsi seminude in salotto con una sola tovaglia a coprirle.
Sora si coprì all’altezza del seno, mentre Mimi si alzò dal divano con l’intento di andar via.
Joe, però, non era del loro stesso avviso e, zoppicando, si avvicinò in loro direzione.
«Oh, non c’è bisogno che facciate le finte pudiche con me!» le riprese, alzando gli occhi al cielo.
«Dio ci ha creati nudi ed Eva era una battona» disse loro annoiato, come se fossero delle bambine poco sveglie. Poi lanciò le chiavi sul tavolino e si sedette in mezzo a loro, afferrando da una mano Mimi affinché tornasse al suo posto.
Questa lanciò allarmata uno sguardo a Sora da dietro la schiena del ragazzo, ricevendo un’occhiata di rimando.
Quello se ne accorse e incrociò le braccia, indispettito.
Era inutile che continuavano a guardarsi con quelle stupide espressioni da pesci lessi, come se fosse possibile anche solo pensare in quelle due testoline bacate di potergli nascondere qualcosa.
Era il loro coinquilino da un paio d’anni e i muri erano di cartapesta. Sentiva tutto anche se faceva finta di niente, era a conoscenza dei fatti accaduti e, cosa ancora più importante, le conosceva.
Conosceva Sora e Mimi da quando avevano undici anni, aveva subito i primi piagnistei d’amore da quando ne avevano quattordici, aveva fatto loro da amico, da spalla, da confidente quando più ne avevano bisogno, oltre che condannato a martire in quel particolare periodo del mese.
Si portò una mano alla testa, pensando a quante ne aveva dovute sopportare.
Luchia forse aveva ragione a dire che si preoccupava troppo per quelle papere provinciali, ma era più forte di lui. Nonostante fossero estremamente antipatiche e maestrine, sapeva per certo che da sole non riuscivano a cavarsela. Avevano bisogno di un aiuto, una spinta in più per capire e lui doveva dargliela, perché sentiva un forte senso di protezione nei loro confronti che per una volta avrebbe messo il suo sacro orgoglio da parte per avergli rovinato la festa di laurea.
La sua laurea... anni di sacrifici...
Strinse forte i pugni e quasi cambiò idea, ma poi le guardò in viso, confuse e disperate, e si ricordò il motivo per cui aveva deciso di darsi una tregua.
«Ho sentito anche quello che è successo ieri» disse dopo un po’, lanciando uno sguardo di traverso a Sora.
Questa si morse il labbro e abbassò gli occhi per terra.
Il corvino sospirò.
«Perché non me ne avete parlato?» chiese loro in tono accusatorio.
Il loro più grande difetto era quello di tenere le cose per sé senza cercare aiuto. Era per questo che si ritrovavano a non saper gestire le situazioni e a combinare danni a catena.
Mimi alzò la testa, accigliata.
«Ci tieni il muso da tre giorni!» esclamò con le braccia incrociate.
Ecco, in effetti era una buona motivazione... 
Joe si grattò la testa.
«Beh... inutili dettagli» borbottò, tentando di sviare, ritornando subito serio e arrabbiato «Avrei potuto aiutarvi! Invece di crogiolarvi in stupidi piagnistei infantili, avreste dovuto rivolgervi a me!» tentò di farle sentire in colpa, riuscendo a farle ammutolire e, probabilmente, rimuginare.
Sospirò e posò una mano sulle spalle di entrambe.
«Voi non avete niente da temere!» le scosse poi, utilizzando per la prima volta nei loro confronti un tono gioviale
«Siete giovani, belle, forse giusto un po’ rompiballe, e quando non vi allenate ritmicamente vi si affloscia il culo...»
«JOE!» lo ammonirono nello stesso momento le due ragazze.
Era sempre il solito...
Quello si ridestò, alzando le mani in segno di resa.
Si era un po’ fatto prendere la mano.
«Sì, dicevo... dovete fare ciò che sentite» continuò, poi le guardò di sottecchi e di uno sguardo infido.
Avrebbe utilizzato quel metodo.
Era un metodo efficace, avrebbe dato per certo frutti. Erano troppo vulnerabili, avrebbero abboccato come due balenottere, ne era sicuro.
Si trattava di un metodo di psicologia inversa che gli aveva insegnato una sua cara zia, sua zia Janna.
Le avrebbe fatte sentire in colpa in maniera così semplice da indurle nuovamente a sbagliare e sbattere con la testa.
Sarebbe stato un colpo così forte che avrebbe potuto buttare giù il muro di Berlino, se solo non fosse stato già fatto abbattere, si sarebbero fatte molto male, ma poi, finalmente, avrebbero capito.
«Non ha mai portato a niente di buono reprimere una voglia, Sora» voltò la testa in direzione della ramata, che lo fissò interrogativa.
«Pensa a chi fa il Ramadan» continuò con nonchalance, buttando a caso dei riferimenti religiosi come suo solito, in maniera tale da rendersi più credibile
«I musulmani almeno lo fanno per Allah. Tu, invece?» le chiese inquisitorio, tanto che i suoi occhi sembravano brillare di uno strano bagliore da dietro le lenti,
Sora aprì appena la bocca, non sapendo come ribattere.
Cosa voleva dire?
«Perché hai paura di Yamato?» le chiese con una voce melliflua «Ormai l’hai cornificato, che diamine te ne frega? Un colpo, due, tre, poco cambia a lui, ma cambia a te» si allontanò godendosi la reazione che stava avendo Sora in quel momento.
Era sconvolta, imbarazzata, colpita nel segno.
«Se pensi che quel fusto possa freddarti i bollenti spiriti, va’ da lui! Se ti invade la testa e ti manda in fiamme le cosce non lasciartelo scappare» concluse con una risatina diabolica, come se le avesse appena suggerito il consiglio più efficace del mondo.
Sora lo fissava senza riuscire a dire niente, sconvolta da quelle parole che, per quanto proferite in tono stucchevole, l’avevano colpita.
Spostò lo sguardo verso il vuoto e si immerse nei suoi pensieri.
Joe le lanciò un’ultima occhiata soddisfatto prima di rivolgersi alla castana.
«E tu... ti sei fatta una bella scopata, vero?» le domandò, tentando di apparire divertito dal fatto, ma continuando ad utilizzare quel tono mellifluo.
Mimi fece un gesto impacciato con la testa che aveva un qualcosa di rassegnato.
Joe tornò subito serio.
«Ma cosa cambia?» chiese senza voler attendere risposte «Credevi che con un’entrata e un’uscita in galleria sarebbe andato tutto apposto? La verità è che Taichi pensa più alle curve del suo pallone da calcio che alle tue» ammise fingendo di fare uno sforzo immane nel dirlo.
Vide l’amica guardarlo di uno sguardo ferito.
Non poteva dirle in quel modo...
«Ancora pensi di cercarlo?» lanciò uno sguardo al suo cellulare abbandonato sul tavolino. Mimi seguì con lo sguardo la direzione indicata, poi alzò la testa e incontrò gli occhi scuri di Joe.
«Archivialo dalla tua testa, Mimi. Lascialo morire lentamente e non pensare mai più di dargli un’altra possibilità» le disse come se la stesse in qualche modo ipnotizzando.
Per una manciata di secondi non aggiunse più niente, troppo impegnato a constatare se il metodo efficace di sua zia Janna funzionasse realmente.
Le due ragazze non avevano detto nulla, avevano lo sguardo perso nel vuoto e sembravano consapevolmente colpite.
Al che Joe decise di dare loro il colpo di grazia.
Si mise in piedi e le squadrò per bene.
«Oppure potreste fare al contrario» si rivolse nuovamente a Sora «Prostrarti ai piedi di Yamato implorando il suo perdono, senza magari riceverlo e, nel frattempo, continuare a pensare all’organo riproduttivo di un altro» e infine si voltò verso Mimi «e contattare Taichi perdendo l’ultima briciola di dignità dopo avergli fatto praticamente una spaccata in faccia e balbettato “t-t-t-t-i amo”. Che tenera! Bleah!» fece finta di ficcarsi due dita in gola e vomitare.
Poi alzò lo sguardo e le guardò seriamente.
«Pensateci!» le esortò «Qualunque scelta prendiate sarà sbagliata, ma tocca a voi scegliere di sbagliare. Solo così potrete capire» concluse in tono di chi la sapeva lunga, e poteva giurare di averci preso con quelle due.
Continuavano a stare in silenzio, i capelli raccolti in dei turbanti e i corpi fasciati in delle tovaglie bianche.
Doveva ammettere che erano proprio belle, il loro volto era fine e senza una macchia, le loro gambe erano perfettamente depilate e longilinee, i loro seni si intravedevano da dietro la fasciatura della tovaglia in un gioco di vedo non vedo che...
Diventò paonazzo non appena si rese conto del fatto che erano seminude davanti a lui.
«Che cazzo ci fate con le zinne di fuori?!» urlò indignato, mentre loro si guardavano allarmate «Andate subito a coprirvi, svergognate! False puritane!»
Si misero subito in piedi e si defilarono, obbedendo senza remore.
Joe fissò per un po’ di tempo la porta scorrevole che dava al corridoio, per poi abbandonarsi sul divano e tenersi il ginocchio dolorante.
 
Dovevano vederle gli altri le puttanate che era costretto a fare e a dire per rendere felici le sue paperelle del cuore...
 
 
 
 
 
 
Aveva ragione.
Joe aveva ragione, pienamente ragione.
Mimi si era chiusa la porta alle spalle e si era appoggiata contro, guardando di fronte a sé la finestra.
Perché stava perdendo tutto quel tempo? Perché aveva solo minimamente pensato che uno come Taichi, che l’aveva lasciata andare tempo fa, potesse volerla di nuovo?
Joe aveva ragione.
Lui non la voleva, non la meritava, pensava più al calcio che a lei.
Come era sempre stato.
Non l’avrebbe privata della sua dignità ancora una volta, del suo buon senso, della sua purezza.
Aveva già sbagliato per troppo tempo, non avrebbe continuato più.
Anche se ciò significava perderlo, perdere Tai che era l’amore della sua vita, non vederlo più, non sentirlo più...
Strinse il cellulare tra le dita, perdendosi in dei pensieri contrastanti.
Non poteva smettere di lottare, non adesso che aveva realmente capito di amarlo ancora, non dopo che si era nuovamente concessa a lui in tutti i sensi...
Però a Tai non importava, non gli era mai importato realmente...
Sentì nuovamente le lacrime agli occhi, ma si costrinse a farlo. Tirò fuori il telefono e andò giù nella rubrica, fino ad arrivare al contatto di Tai.
Bloccò in un gesto il suo numero, poi afferrò la giacca blu che il ragazzo aveva dimenticato in bagno e la gettò dentro un armadio.
Quello era il primo passo verso il suo star bene.
Dimenticarlo... archiviarlo... abbandonarlo...
 
Dimenticarsi perfino chi era e chi era stato.
 
 
 
 
 
Aveva ragione.
Joe aveva ragione, pienamente ragione.
Sora si trovava seduta sul suo letto, lo sguardo perso nel vuoto, i pensieri che le si accavallavano in mente.
Perché stava fingendo? 
Perché diamine fingeva che quello che aveva fatto per lei non avesse avuto una minima importanza, che il bacio con Victor fosse stato solamente un errore spropositato, che quello che provava era solo un abbaglio di pochi giorni?
Chiuse gli occhi, tentando di trattenere le lacrime.
Joe aveva ragione.
Si sentiva in colpa come non mai nei confronti di Matt, e forse era per quello che cercava in tutti i modi di ricevere il suo perdono, di avere una risposta alle sue chiamate, di allontanare con tutte le sue forze quello che realmente sentiva.
Matt probabilmente non l’avrebbe perdonata mai, anzi, ne era completamente convinta.
Non si sarebbe voltato indietro, lo conosceva. Lui era irremovibile nelle sue decisioni, specie se qualcuno gli faceva del male.
E Victor... non poteva essere liquidato così.
Non poteva fingere di non sentire qualcosa che l’attirava verso di lui solo per paura di perdere Yamato.
Yamato che non l’avrebbe più voluta...
Si prese di coraggio e aprì finalmente i messaggi che l’altro le aveva mandato in quei giorni.
 
Doveva scegliere chi amare davvero.
 







 
 

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Capitolo 15
*** Lotta ***








Era una lotta contro il dolore.
 
Era una lotta contro i suoi sentimenti, contro la realtà, contro sé stesso.
 
Matt si trovava seduto su una sedia, in mano una matita con la quale gettava giù delle parole su un foglio, la sua fedele chitarra appoggiata sulle gambe.
 
Dentro di sé infuriava una lotta senza eguali.
 
Il cuore e la ragione facevano a pugni fino a fargli sentire una pena che lo attanagliava crudelmente.
Aveva bisogno di una via d’evasione, una fuga a tutto quel dolore che stava sentendo.
Solo scrivendo, solo cantando, solo suonando riusciva a lenire per un po’ di tempo tutta la sofferenza che aveva dentro.
 
Bevve un po’ di birra e posò la bottiglia sul tavolo in maniera piuttosto brusca.
Delle gocce bagnarono la superficie del foglio su cui aveva scritto un testo lungo e a tratti scarabocchiato.
La testa cominciava a farsi pesante, ma non lo bloccò dal provare gli accordi di quella nuova canzone.
 
Era il risultato di quei giorni silenti, era il vomito di emozioni che non riusciva a trattenere dentro, altrimenti sarebbe scoppiato.
Aveva bisogno di buttare fuori quello che provava.
 
Per un po’ di tempo si perse a suonare, ad aggiustare delle note stonate, ad accompagnare quella musica con il suono della sua voce.
Una voce graffiata, malinconica, intrisa di un dolore che aveva da sempre abbracciato la sua vita.
Chiuse gli occhi.
Non sapeva che fare... come comportarsi...
Si sentiva estraniato, in un mondo parallelo nel quale era approdato improvvisamente dopo quella sera.
Sentiva che la sua vita stava lentamente cadendo a pezzi, e lui non riusciva a fare nulla per ricomporla.
 
Smise di suonare e prese in mano il suo telefonino.
Lo fissò per qualche secondo, riflettendo su come quel semplice oggetto rappresentasse il suo collegamento con la realtà esterna, una realtà che lui aveva smesso di conoscere e dalla quale stava fuggendo.
Lo strinse tra le dita, poi decise di aprirlo.
Avrebbe avvertito il datore del bar dove lavorava che non poteva andarci quella sera, si sarebbe inventato qualcosa, o più semplicemente, si sarebbe licenziato.
Perché no?
Non aveva senso continuare a lavorare per un misero stipendio che non gli permetteva di campare come doveva.
Non aveva più niente da perdere, in niente.
Non appena lo schermo s’ illuminò, fu investito da degli avvisi di chiamata.
Non volle nemmeno constatare a chi appartenessero, forse perché gli faceva troppo male o perché aveva troppa paura.
Il telefono cominciò ben presto a squillare.
Il biondo fu destato improvvisamente dal suo torpore e guardò il display con il cuore che aveva preso a battere più veloce.
Non seppe che pensare.
Non seppe se tirare un sospiro di sollievo per il fatto che chi lo chiamava fosse suo padre o se sentirsi triste del fatto che non fosse lei.
Era confuso, si trovava in una posizione in cui aveva bisogno di fuggire, ma da un lato non riusciva a fare a meno di pensare a dov’è che andava...
«Pronto?» disse con un sospiro non appena portò il cellulare all’orecchio.
Non sentiva suo padre da un paio di giorni.
Cos’aveva da dirgli proprio in quel momento?
Non era un tipo fin troppo presente, anzi, era molto spesso burbero e intransigente con lui e suo fratello.
O almeno da quando si era separato da sua madre, tanti anni fa... prima di allora, era una persona gioviale, qualcuno con il quale riusciva a parlare, essere sé stesso...
«Yamato, si può sapere perché hai il telefono staccato da due giorni?» arrivò subito la predica proprio come si aspettava
«Ho provato a chiamarti circa dieci volte!»
Dal tono di voce, Matt dedusse che si era realmente preoccupato.
In effetti, aveva tenuto il telefonino chiuso per tutto quel tempo, e aveva avuto le sue buone ragioni...
Spostò apaticamente gli occhi azzurri verso la cucina.
«Hai bisogno di qualcosa?» chiese poi in un tono di voce che risuonò brusco, sorvolando quello che il padre gli aveva appena fatto notare.
Hiroaki allontanò per dei secondi il telefono dall’orecchio.
«Smettila di utilizzare questo tono!» lo rimproverò «Mi sono preoccupato. Anche tua madre ha chiamato me per chiedermi che fine avessi fatto» aggiunse, calcando maggiormente su quell’ultima notizia.
Matt chiuse gli occhi.
Sua madre...
Adesso faceva finta di preoccuparsi per lui? Si degnava ad alzare il telefono e chiamare?
Ma dov’era stata in tutti quegli anni?
Lo aveva sempre trattato come fosse un estraneo, si rivolgeva a lui formalmente tanto da cambiare addirittura la mimica facciale, si premurava di chiamare solo e unicamente Takeru dimenticandosi del fatto che erano maggiorenni da un bel po’ di tempo e che non c’era più bisogno di mantenere quel gioco delle parti imposto loro dal giudice.
Poteva essere sua madre per davvero adesso, non solamente per mantenere la facciata del genitore lontano che ogni tanto chiedeva come stava e poi spariva...
Avrebbero potuto sistemare le cose con suo padre se tenevano così tanto ai loro figli, e invece avevano preferito mettere in mezzo gli avvocati e farsi una guerra che era rimasta nei loro cuori e li aveva cosparsi di odio e rancore.
«Senti, non m’interessa di quello che fa mia madre» disse secco «Cosa vuoi?» chiese poi sbrigativo, tagliente, come lo era sempre.
Oramai la maschera cui era stato costretto ad assumere fin da bambino aveva aderito perfettamente al suo volto.
Non riusciva più a toglierla, seppur volesse disfarsene.
L’uomo diede un sospiro.
Sapeva per certo che l’argomento della madre era spinoso per il figlio.
Nonostante loro due avessero messo da parte gli asti e le questioni legali per il bene di Yamato e Takeru, sapeva per certo che il più grande aveva sofferto la loro separazione maggiormente e che ancora non aveva smaltito il risentimento.
«Vorrei capire da chi ne hai preso...» borbottò, scotendo la testa con un gesto stanco.
La maggior parte delle volte, Matt era nervoso ed arrabbiato. Era come se portasse sulle spalle un fardello troppo pesante che non gli permetteva di sorridere e vivere con leggerezza.
Era diventato grande troppo presto, e la resa dei conti con la vita gli si era subito mostrata dinnanzi senza esclusioni di colpi.
«Beh, voglio che tu mi dia una risposta alla proposta che ti ho fatto» spiegò spiccio, e nell’udire quelle parole il ragazzo s’irrigidì.
«Mi raggiungi a Shiodome o no?» chiese Hiroaki dando voce a ciò che il figlio aveva supposto «Abbiamo bisogno di un sostituto e ne abbiamo bisogno entro la settimana prossima. Non posso continuare a rimandare o creerò del malcontento tra i colleghi» lo mise al corrente dell’urgenza della questione.
Yamato strinse con le dita la bottiglia di birra vuota.
Insisteva nuovamente a portarlo a lavorare con lui.
Non mollava il colpo, e lo capiva perfettamente, voleva che suo figlio si sistemasse, che avesse in un certo senso una stabilità che in quel momento gli mancava.
Avrebbe dovuto ringraziarlo, se dall’alto delle sue influenze poteva regalargli un posto di lavoro senza faticare. Probabilmente, chiunque avrebbe accettato al suo posto, ma lui non era d’accordo.
Yamato era orgoglioso, troppo orgoglioso per ammettere che suo padre aveva ragione, che aveva bisogno di quel posto, che quella vita non gli bastava più, che si trovava con l’acqua alla gola da fin troppo tempo...
Prese un profondo respiro.
«Papà, io non lavorerò alla Fuji TV» proclamò tra i denti, in una sentenza che non poteva essere contestata in nessun modo.
Il padre scosse la testa e si fece scappare un’imprecazione di fronte alla testardaggine del figlio.
«Ma perché non ci provi almeno!» esclamò irritato dal fatto che fosse categorico senza uno straccio di minima possibilità di remore.
«Cosa stai facendo adesso per guadagnarti da vivere? Non ti pagano abbastanza, mentre qui potrai avere un buon stipendio!» continuò a rimproverarlo, mentre Matt chiudeva gli occhi in un gesto di stanchezza fisica e mentale.
«Hai ventisei anni, devi mettere in ordine la tua vita!» di fronte a quell’ultima esclamazione, il ragazzo li riaprì di scatto, sentendo improvvisamente una rabbia divampare da tutto il suo petto.
Sapeva che suo padre aveva ragione, ma non doveva dirglielo, nessuno doveva dirgli niente, perché spettava a lui, spettava solo ed esclusivamente a lui prendere in mano la sua fottuta vita e fare qualcosa.
Non ce la faceva più, non ce la faceva più a sentirsi dire che non stava facendo nulla di quell’esistenza già prettamente vuota e inutile, e Sora lo aveva fottutamente tradito, e adesso ci mancava suo padre che sottolineava crudelmente il fatto che fosse un illuso.
Non ce la faceva più...
«Lo so quanti cazzo di anni ho!» urlò, mettendosi in piedi in un gesto repentino «Non devi dirmi tu ciò di cui ho bisogno!» sferrò un colpo al tavolo vicino alla bottiglia che per poco non cadde.
Era asfissiante vivere in quel modo...
Se la sua vita doveva essere un continuo rimembrare gli errori che aveva commesso durante, tanto valeva smettere di vivere...
Hiroaki si ammutolì per dei secondi non appena udì quella reazione.
«Io lo faccio per te, Matt» disse poi quando capì che si era calmato «Voglio che ti sistemi, che tu abbia una buona indipendenza economica»
Il ragazzo si portò una mano sul volto, ripensando allo studio di quegli anni al conservatorio, ai concerti con una band che ormai non esisteva più, a ciò per cui aveva impegnato tutto il suo tempo, sacrificando anche l’amore...
Adesso l’amore lo aveva abbandonato e a lui non restava niente, solo un sogno irrealizzato...
Suo padre aveva ragione, ne aveva sempre avuta, ma come faceva?
Avrebbe dovuto arrendersi a quella lotta che durava da quando era bambino.
«Lo so che non è quello per cui impegneresti la tua vita, ma è un buon modo per cominciare a guardare al futuro» aggiunse l’uomo, come se lo avesse appena letto nel pensiero.
Lui si sedette nuovamente, sentendo le gambe molli, come se fossero di gelatina.
La testa cominciava a vorticare e tutto, a poco a poco, iniziava a farsi sempre più confuso.
«Io non ci vengo...» farfugliò, il capo ancora chino, le mani tra i capelli a sostenerlo come potesse crollare da un momento all’altro sulla fredda superficie del tavolo.
Suo padre non demorse.
«Non puoi accontentarti» disse e quella frase lo colpì come un pugnale.
Era quello che stava facendo.
Lavorava in un bar per guadagnarsi da vivere, conscio che quel vivere era misero e non appagante, in attesa che una casa discografica lo contattasse, che uscisse un concorso pubblico per insegnare, eventi che probabilmente non si sarebbero mai verificati perché tutto gli remava contro.
«Hai bisogno di una sicurezza e stare lì a sperare che dal cielo piova una possibilità vale a dire sprecare altro tempo» continuò Hiroaki, persuasivo e sicuro di ciò che stava dicendo
«Fidati di me, Matt. Vieni a Shiodome» concluse fermo.
Passarono dei secondi in cui nessuno di loro aggiunse più niente.
Matt si crogiolò nel suo silenzio, rimuginando su cosa era giusto fare.
Era giusto continuare a sperare di realizzare il suo sogno, quello per il quale era nato, per il quale aveva studiato anni o intraprendere una strada che non gli piaceva affatto, ma che senza dubbio gli avrebbe dato la stabilità che da tempo cercava?
Sarebbe stato ammettere di aver bisogno di aiuto, e lui non voleva ammettere di sentirsi debole e finito.
In entrambi i casi si sarebbe accontentato; sia continuando a sperare di ricevere una qualche chiamata e, nel frattempo, lavorando in un bar da quattro soldi, da cui probabilmente lo avevano già licenziato per non essersi presentato, sia trasferendosi a Shiodome e fare il cameraman per suo padre.
Era così confuso... era talmente combattuto da non vederci più...
Hiroaki ruppe quel silenzio creatosi, percependo l’inquietudine e l’indecisione che regnava sul figlio e non gli permetteva di prendere una scelta in maniera lucida.
«Senti, facciamo così, pensaci fino a domani» gli concesse, decidendo di appianare la tensione.
«Però mi raccomando, fa’ la scelta giusta» sospirò infine apprensivo.
La chiamata terminò e Yamato piombò nuovamente nel suo stato di solitudine.
Era una situazione talmente complicata che non sapeva neanche da dove iniziare a pensare a ciò che doveva fare.
Tutto ciò che era successo in quei giorni con Sora gli faceva pensare che era meglio per lui evadere da Odaiba, abbandonare tutto, quella casa di merda, quel mezzo lavoro che aveva, la sua relazione che era naufragata nel bel mezzo di una tempesta.
Tutto ciò che gli era successo fino ad allora lo convinceva a lasciarsi alle spalle ogni cosa, prendere per buone le parole di suo padre e accettare quell’impiego lontano da lì, lontano da quel luogo che era sempre stato per lui fonte di sofferenza.
Si portò le mani alle tempie che pulsavano come non mai.
Che avrebbe dovuto fare?
Non lo sapeva nemmeno lui, tutto intorno a lui sembrava vorticare minaccioso, si sentiva terribilmente vulnerabile, appeso a un filo sottile...
«Porca puttana...» mormorò, sentendo il peso dell’indecisione sopprimerlo, i ricordi dei giorni addietro agguantarlo.
Non ce la faceva più... era arrivato al limite, al bordo del suo precipizio...
Le lacrime cominciarono a colargli senza possibilità di fermarle, e ben presto venne colto da una crisi.
Il petto si alzava e si abbassava ritmicamente, gli occhi erano serrati in un modo che quasi gli faceva male.
 
Era tutto nero.
 
Ed era colpa sua, era fottutamente colpa sua...
 
Sora lo aveva tradito e lui se l’era cercata, perché non l’aveva trattata come meritava di essere trattata, l’aveva messa in secondo piano in ogni cosa.
Ora ricordava... ora ricordava tutte le volte che lei gli aveva dato un indizio, una richiesta di aiuto affinché salvasse la loro storia.
 
Aveva rovinato tutto... ogni cosa...
 
Aveva distrutto la cosa più bella che aveva nella sua vita perché non era capace di donare amore, né amicizia, né tantomeno sicurezza.
 
Adesso ricordava tutto...
 
 
Si trovavano in macchina, rinchiusi forzatamente a causa di un violento temporale che si era scatenato da un momento all’altro.
Era in compagnia di Sora e i suoi amici del conservatorio lo tartassavano di chiamate affinché lo raggiungesse al pub per bere qualcosa insieme.
Il problema era che la ramata non era dello stesso avviso.
«Non ci vengo» aveva detto «C’è una burrasca, voglio tornare a casa!»
Matt aveva alzato gli occhi al cielo, infastidito da quella risposta.
«Senti, mi hanno chiamato per salutarli!» esclamò «Non li vedo da un sacco di tempo!»
Sora aveva incrociato le braccia, arrabbiata. Lo aveva guardato con gli occhi nocciola che sprigionavano fiamme.
«E me, allora? Da quanto non passiamo del tempo insieme?!» lo aveva incolpato duramente, e questo a lui non era per niente andato giù.
Se voleva farlo passare come quello assente non doveva nemmeno provarci...
«Sei sempre impegnata con lo studio!» ribatté, credendo fortemente a quello che diceva.
Lei scosse la testa contrariata e i toni si fecero sempre più accesi.
«Non sempre!» precisò «Sei tu che non hai voglia di stare con me!»
A Matt venne quasi da ridere. Adesso stava trovando una scusa per scaricare tutta la colpa su di lui? Era lei a non volere mai uscire, a non voler far nulla di quello che lui le proponeva, e infatti si era visto quella sera, si era messa a fare i capricci perché non voleva fargli vedere i suoi amici.
«Non darmi la colpa! Io se non vengo a casa tua è perché sono impegnato!»
Ed era vero.
Aveva gli impegni con la band e il conservatorio a cui stava per laurearsi. Se lei teneva tanto ai suoi studi universitari, allora anche lui ne aveva premura.
Sora si voltò a guardarlo con una faccia nera di rabbia.
«Torna ai tuoi impegni, allora» lo incitò sarcasticamente «Perché sei venuto a prendermi se sapevi di dover vedere i tuoi colleghi?»
Matt sentì a sua volta la rabbia invaderlo. Non voleva capire oppure lo faceva apposta per farlo sentire in colpa, per farlo sentire sbagliato nei suoi confronti, ma cascava male.
Non si sarebbe addossato tutta la colpa del loro poco tempo insieme solo perché dei colleghi di conservatorio lo avevano invitato a bere una birra e mangiare un panino.
«Io non lo sapevo! Ci senti?» la rimbeccò nella stessa maniera sarcastica «Non vuoi mai capire! Sembra ci sia proprio un rifiuto da parte tua!» l’aveva aggredita ad un certo punto, facendola ammutolire per il modo con il quale le si stava rivolgendo.
Non ci vide più e mise in moto la macchina, nonostante ancora fuori la pioggia cadesse a catinelle.
«Mi metti di cattivo umore! Mi fai innervosire!» continuava ad urlare il biondo, mentre guidava senza una meta «Se devi rompermi così le palle la prossima volta stattene a casa!»
A quell’esclamazione, seguì il rombo di un tuono.
Fu costretto a fermarsi a causa di una coda, mentre i tergicristalli lavavano via l’acqua piovana dal vetro. Sora non aveva detto nulla. Aveva il volto chino e si torturava le mani.
«Bene, puoi accompagnarmi già adesso» sibilò poi, senza neanche guardarlo in faccia.
Matt si voltò a guardarla male, innervosito ancora di più da quella risposta.
Voleva provocarlo? Non l’avrebbe avuta vinta lei, assolutamente...
Sterzò all’improvviso.
«Bene, lo faccio subito. Lo sai che non ci metto niente a farlo!» continuò a urlarle contro, mentre la ragazza, sorpresa dal gesto immediato e inaspettato, aveva alzato lo sguardo su di lui con le lacrime agli occhi.
«Tu accompagnami a casa e con me hai chiuso» soffiò lapidaria, arrabbiata.
I due continuarono a discutere girando per il quartiere, mentre la pioggia batteva sui vetri, i tuoni si sentivano in lontananza e i loro cuori cominciavano lentamente a sprofondare in un abisso senza risalita.
 
 
 
 
Era stata tutta colpa sua.
Non aveva saputo tenersi Sora, l’aveva volontariamente consegnata nelle braccia di un altro perché era stato così cieco, così sordo, così terribilmente mancante di tatto in tutti quegli anni da averla fatta allontanare da lui, da aver lentamente deteriorato il loro rapporto.
Adesso non rimaneva altro che dannarsi, sparire dalla faccia della terra, lasciarla andare perché era troppo il male che le aveva fatto.
Si mise in piedi e poggiò entrambe le mani sul tavolo, la testa china.
Anche se adesso era lui a star male per lei, perché lasciarla andare per lui significava rinunciare all’amore più grande che aveva ricevuto nella sua vita.
Un amore che, senza di lei, non avrebbe mai potuto ritrovare.
Una lacrima arrivò dritta sopra il foglio della canzone.
Lui lo vide e lo prese tra le mani, lesse qualche parola di sfuggita e, in un impeto, l’ appallottolò.
Era tutto finito.
Si trascinò fino al bagno, alzò lo sguardo e si specchiò.
Si faceva più schifo di quanto immaginava. Si faceva schifo perché sbagliava sempre i tempi, perché ammetteva troppo tardi le sue colpe, perché a causa del suo carattere di merda aveva perso tutto.
Voleva cancellare quell’immagine che adesso vedeva di sé stesso, voleva distruggerla per sempre.
Tirò un pugno contro il vetro dello specchio e lo ruppe. Urlò per il dolore quasi in contemporanea, tenendosi la mano ricoperta di sangue.
 
Avrebbe volentieri distrutto sé stesso fino a diventare irriconoscibile.
 
Tornò in cucina senza prestare attenzione al sangue che colava lungo tutto il pavimento, spalancò il frigo, poi una dispensa dove teneva degli alcolici.
Cominciò a bere senza fermarsi, sentendo dei sapori forti, pungenti, che gli bruciarono il palato.
 
Era perso, ormai.
Non aveva più senso continuare a vivere quando non aveva più una vita.
 
Quando ormai non aveva più nulla per cui lottare.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Si era asciugata i capelli e si era vestita subito dopo. Aveva afferrato il suo cellulare e lo aveva fissato per un po’ di tempo, chiedendosi se quello che stava per fare era la cosa giusta.
Le parole di Joe le tartassavano la testa ininterrottamente.
Per tutti quegli anni, Victor aveva fatto parte della sua vita, si era infilato senza far rumore quasi facendole credere che era stato lì da sempre, le aveva invaso la testa fino a farle desiderare di averlo ancora più vicino, fino a farle credere che era ciò di cui aveva realmente bisogno.
I problemi con Yamato l’avevano involontariamente spinta a cercare in lui un appiglio, un porto sicuro in cui rifugiarsi nei momenti di tempesta.
Il modo in cui Victor la coinvolgeva era gentile, allegro, comprensivo, qualcosa che Sora aveva sempre ricercato in un rapporto, qualcosa che da un paio d’anni a quella parte era andata a svanire con Matt.
I contrasti caratteriali, gli studi, i problemi lavorativi avevano accentuato sempre di più una lontananza fisica e mentale, che l’aveva inevitabilmente trascinata in altre braccia, le braccia del suo compagno di università.
Sora strinse il telefono tra le dita.
Non poteva negare di avere un gran trasporto fisico nei suoi confronti. Ogni volta che le parlava, che le sorrideva, che si avvicinava a lei per abbracciarla, sentiva un coinvolgimento tale da trasformarsi in bisogno di averlo.
Sospirò confusa.
Forse stava esagerando, ma era come se le parole che le aveva rivolto Joe avessero aperto in lei il vaso di Pandora, e tutte le sensazioni che provava nei confronti di Victor era saltate fuori a schiacciarla.
Si era sempre frenata per non mancare di rispetto a Matt, ma il trasporto era stato tale da aver ceduto, e forse era vero, doveva provarci ancora.
Yamato non la voleva più, era ovvio, e lei doveva in qualche modo mettere ordine nella sua vita, nella sua testa, nel suo cuore...
Si prese di coraggio e aprì i messaggi che il ragazzo gli aveva inviato in quei giorni e che non era riuscita a leggere per timore.
 
“Mi dispiace che sia finita così... perdonami se non ti ho ascoltato e sono venuto lo stesso...”
 
“Ti prego, perdonami”
 
Ma fu l’ultimo a toccarla particolarmente.
 
“Se non mi vuoi me ne farò una ragione, ma rispondimi, ti prego...”
 
Era vero, doveva rispondergli.
Non poteva ignorarlo come se niente fosse, far finta che non fosse successo niente. Erano passati quattro giorni e meritava un confronto.
Lo meritavano entrambi.
Decisa, fece partire la chiamata e attese. Si portò un dito in bocca nervosamente, mentre ad ogni squillo sentiva nitidamente corrispondere il battito del suo cuore.
Forse non le avrebbe risposto nemmeno... d’altronde, lo aveva ignorato per tutto quel tempo, come se la questione non fosse mai esistita, come se non c’entrasse affatto in tutta quella storia, quando in realtà lui c’entrava eccome, anzi, era stato uno dei punti scatenanti...
«Sora!» d’un tratto, lo udì rispondere proprio quando aveva perso le speranze, e sentire quella voce calda e preoccupata le procurò un nodo fastidioso alla gola.
Tentò di calmarsi anche se, inevitabilmente, il cuore aveva preso a battere più veloce.
«Victor, io...» mormorò e si bloccò subito, sentendo la gola secca, non sapendo come continuare.
Non aveva idea di come cominciare, si sentiva in difficoltà come non mai. Aveva paura di dire qualcosa di sbagliato come aveva già fatto e non voleva ferire più nessuno a causa della sua insicurezza.
Victor si accorse di quel suo tentennamento.
«Puoi parlare?» le chiese infatti cauto, accertandosi che nessuno la stesse intralciando.
Quell’allusione gettò nello sconforto Sora, facendole immediatamente pensare a Matt e a come avrebbe reagito se solo avesse saputo quello che stava per fare.
«Sì...» disse piano, per poi mordersi il labbro inferiore.
Matt sarebbe impazzito, non l’avrebbe mai più perdonata, si sarebbe perfino rifiutato di guardarla in faccia...
«Perdonami» sentì dire dall’altro con voce rotta «Ho rovinato tutto. Sono stato uno stupido ad averti messa nei guai in quel modo»
Il mea culpa di Victor la fece rinsavire e le fece stringere i denti.
Non era colpa di nessun’altro se non la sua... aveva trascinato entrambi in quel gioco pericoloso e non si era curata dei sentimenti di nessuno di loro...
Nemmeno dei suoi.
«Non è stata colpa tua» ribatté ferma «Sono stata io a non essermi resa conto di quello che stavo combinando»
La voce le si affievolì e la mente cominciò a viaggiare.
Non era stata capace di gestire la sua relazione, né tantomeno di mettere le cose in chiaro con un’altra persona, rovinando entrambe, distruggendo ciò che di buono ancora resisteva.
«Mi dispiace...» fu il commento malinconico di Victor, anche se, Sora poteva giurarlo, percepiva un filo di soddisfazione nel suo tono di voce.
Si lasciò andare in un sospiro.
Lo capiva, probabilmente pensava che ben le stava ad aver voluto giocare sporco senza prendere una posizione fino a quel momento.
Eppure, adesso era arrivato il momento di prenderla.
Anche se... come avrebbe reagito Matt?
Gli avrebbe fatto più male di quanto gliene aveva già inferto... non poteva farlo...
Però probabilmente lui non la voleva più, la odiava, la disprezzava già talmente tanto che quello non lo avrebbe colpito...
Non aveva niente da perdere se lo faceva...
Victor la richiamò e lei alzò la testa, risoluta.
«Se vuoi parliamo di persona» disse, e per qualche secondo non sentì alcun rumore provenire dall’altra parte.
Chiuse gli occhi.
Forse era stata avventata, forse non avrebbe dovuto dirglielo in quel modo... lo sapeva, doveva starsene nel suo a non farsi coinvolgere da certe esigenze...
Che stupida, era proprio una svitata...
«Certo» udì improvvisamente rispondere, e rilasciò tutto il fiato che aveva trattenuto.
Non appena chiuse il telefono cominciò nuovamente ad essere pervasa dalla paura.
 
Era la cosa giusta da fare?
Forse no, ma era quello di cui aveva bisogno in quel momento, perché il solo pensiero di Yamato la distruggeva.
 
Non poteva più tirarsi indietro.
 
 
 
 
Sgattaiolò fuori di casa e attese sotto il portone principale.
Si era vestita leggera, si era truccata un po’ per riprendere colorito al viso e nascondere le occhiaie insistenti.
Non sapeva perché, ma continuava a guardarsi indietro come se si aspettasse uscire qualcuno, come se fosse una ladra che stava scappando.
Guardò l’orologio con il cuore che non smetteva di battere forte.
Di cosa aveva timore?
In fondo non stava facendo nulla di male, stava solo andando a chiarire la situazione perché ne sentiva il bisogno.
E allora perché aveva quella sensazione angosciante addosso?
Lanciò un sospiro.
Non riusciva a smettere di essere paranoica, sentiva un peso allo stomaco che quasi la faceva piegare in due.
Era una lotta tra istinto e paura, e non sapeva chi avrebbe avuto la meglio.
Fu quasi sul punto di riaprire il portone e infilarsi nuovamente su per le scale, quando un clacson suonò e vide il volto di Victor spuntare dall’automobile.
Sora provò un senso di agitazione e non smise di fissarlo con uno sguardo vacuo per tutto il tempo che parcheggiò di fronte.
Lo vide scendere dalla macchina e avvicinarsi a lei, gli occhi grigi che la scrutavano profondamente come se avessero paura di farle del male.
La ramata rimase a guardarlo in silenzio, percependo solamente la sua presenza farsi sempre più vicina.
«Sora...» mormorò lui e, dopo un ultimo intenso sguardo, si sporse per abbracciarla.
Non appena la strinse, una sensazione di calore la pervase e chiuse gli occhi, la testa appoggiata sul suo petto.
Non ce la faceva in quel modo...
Era come se stesse liberando tutto quello che provava, un vomito di emozioni che aveva cercato sempre di trattenere.
Lui la baciò tra i capelli, mentre lei non potette fare a meno di annusare il profumo che era impregnato nei suoi vestiti.
Le faceva girare la testa... era buonissimo...
Dopo qualche secondo, Victor l’allontanò leggermente da sé e si guardarono negli occhi. Provò un brivido non appena notò le ferite e i lividi intorno agli occhi, agli zigomi, il sangue incrostato sotto il labbro.
Alzò spontaneamente una mano e lo sfiorò con pena.
Era stata lei a provocare ciò.
Come aveva potuto permettere che accadesse?
«Come stai?» le venne da chiedere, senza ancora distogliere lo sguardo dal suo volto tumefatto.
Il ragazzo la bloccò dalla mano e le sorrise.
«Adesso bene» rispose, e lei sentì una stretta allo stomaco.
Invece avrebbe dovuto odiarla per aver permesso che venisse malmenato, insultato pesantemente, solo perché lei, da vigliacca, non era stata capace di tenere a bada i suoi sentimenti.
Gli sorrise di rimando, ma era un sorriso senza luce, e lui lo notò.
«Tu come stai?» domandò preoccupato.
Aveva forse paura che Matt se la fosse presa anche con lei, magari le avesse urlato contro, l’avesse spinta, le avesse fatto del male, ma non era stato affatto così...
Lui non aveva nemmeno risposto alle sue chiamate, teneva il telefono staccato solo per non sentirla, l’aveva ormai esclusa dalla sua vita, archiviata, come se non fosse mai esistita.
Sentì le lacrime agli occhi.
Non la voleva più, non l’avrebbe voluta più...
«Male...» biascicò con voce rotta.
Victor sospirò e si premurò di aprire la portiera della sua auto per aiutarla a salire su.
Sembrava come svuotata da ogni sorta di linfa vitale.
Era lo scheletro di sé stessa.
Non smise di rivolgerle occhiate per tutto il tragitto, vedendola occupata a guardare fuori dal finestrino alla ricerca di chissà cosa.
O chi...
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia.
«Lui lo sa che sei qui?» azzardò a chiederle, vedendola destarsi improvvisamente come se si fosse appena scottata.
Aveva bisogno di saperlo, capire cos’era successo tra di loro, se Sora avrebbe compiuto finalmente una scelta.
La vide puntare lo sguardo sulle sue scarpe.
«No... non... non ci siamo sentiti» gli rivelò triste, ma lui non potette negare di aver provato una sensazione di sollievo e piacere insieme.
Non dissero niente per un po’, fino a quando Victor non le propose:
«Se vuoi andiamo a casa mia. Saremo indisturbati»
Sora si voltò a guardarlo. Gli occhi del ragazzo le infondevano sicurezza e lei non poteva fare altro che sentirsi attratta.
Si ritrovò ad annuire.
 
 
Non appena mise piede a casa di Victor, venne investita da un ambiente confortevole e caloroso. La prima cosa che le saltò all’occhio furono dei dipinti ad acqua appesi alle pareti.
Ricordò improvvisamente la passione del ragazzo verso il disegno, e fu allettata nell’ammirare la sua bravura.
La sua attenzione venne catturata da uno in particolare. Raffigurava una donna dal volto chino, i capelli le accarezzavano il viso come una tenda protettiva, gli occhi erano bassi e vaghi come se stesse sfuggendo da qualcosa.
I suoi sentimenti...
Si avvicinò automaticamente e lo toccò con un dito.
Non sapeva come mai, forse era un po’ egocentrica a pensarlo, ma era come se quella figura rappresentasse lei.
 
Lei che si trovava in lotta con sé stessa, che sfuggiva all’amore, quando l’amore era da sempre stato l’unica cosa che l’alimentava.
 
Victor la raggiunse e le si posizionò dietro. Non appena sentì la sua presenza, si voltò con fare impacciato, trovandosi stretta contro il suo petto.
Il cuor batteva come un tamburo, non capiva se era per l’adrenalina o per qualcos’altro.
Aveva bisogno di sperimentarlo.
Ne sentiva la completa esigenza...
«Volevo chiederti scusa... sono io che ti ho messo in mezzo...» disse con voce roca, pensando che fosse giusto dirglielo.
Con una mano accarezzò il suo petto.
«No, Sora, non dire così» la contestò lui, e piano le strinse le mani tra le proprie.
Si guardarono negli occhi.
Lui era così bello, aveva qualcosa di speciale, qualcosa che cercava da tanto tempo, forse da una vita...
«Sì, Victor» sussurrò, mentre lo osservava rapita, come se si trovasse fuori dal tempo e dallo spazio, beandosi di quell’immagine come fosse uno dei suoi dipinti
«E’ stata tutta colpa mia se ti ha picchiato» lo disse chiaramente.
Il ragazzo la strinse a sé e lei lo fece fare.
Sentiva una voglia irrefrenabile di stargli ancora più vicino, più di quanto già non lo fossero in quel momento.
Lui cambiò espressione per un secondo.
«Avrei potuto denunciarlo» affermò, riferendosi al fatto che era stato aggredito dall’altro, riportando anche diverse ferite.
Sora si agitò, improvvisamente distolta dal suo torpore, facendo a pugni con la realtà dei fatti.
Era vero, avrebbe potuto denunciare Matt per averlo picchiato.
Come aveva fatto a non pensarci al rischio che aveva corso?
Non poteva permettere che succedesse, non lo voleva, non voleva che Yamato subisse conseguenze penali...
«Oh no, ti prego, non lo denunciare!» lo strinse dalla maglia, gli occhi sbarrati, avvicinandosi ancora di più al suo viso.
Sembrava lo stesse implorando di non ucciderla.
Victor la fissò interdetto, vedendo i suoi occhi nocciola riempirsi di lacrime di paura.
L’accarezzò per tranquillizzarla.
«Non lo faccio solo per te» precisò, mentre lei ritornava a respirare regolarmente «Perché so quanto ci tieni» aggiunse, e dovette costargli molto.
Sora tirò un sospiro e abbassò il capo, ma lui la prese dal mento e la costrinse a ad alzare lo sguardo.
«Vuoi stare con lui, quindi?» si decise a domandarle a bruciapelo.
Lei si sentì sprofondare non appena udì quelle parole.
«Io...» balbettò, pronta ad eludere il discorso.
Victor, però, non era di quell’avviso.
«Sii sincera» soffiò caparbio.
La ramata si perse nei suoi pensieri, sentendo lentamente i pezzi del suo cuore staccarsi e volare via come cenere.
Non sapeva cosa fare... non sapeva cosa voleva, chi voleva, di cosa aveva bisogno realmente...
Si sentiva così confusa, intimorita, colpevole...
Sentiva delle sensazioni così vivide nei confronti di Victor, non poteva negarlo, non poteva nascondersi più dietro un dito.
Yamato non la voleva più, forse nemmeno l’amava, e lei non poteva fare nient’altro.
Cosa doveva fare?
Aveva paura, ma nello stesso tempo sentiva la voglia incontenibile di gettarsi a capofitto...
Lo strinse dalla maglia.
«Adesso no» sussurrò sinceramente, e quelle parole seppe che gli uscirono dal cuore.
Lui la guardò di uno sguardo indecifrabile. Non riuscì a capire cosa stava succedendo fino a quando non sentì un braccio cingerle la schiena e una mano accarezzarle la guancia.
In pochi secondi, le labbra dell’altro raggiunsero le sue, e Sora si ritrovò completamente in sua balìa, trascinata da un vortice di emozioni troppo forti dalle quali scappare.
Lo strinse dalla nuca e aderì maggiormente a lui per avere un contatto più intenso, e
per un po’ di tempo si isolò dal mondo, non pensò più a niente, solo a sé stessa, a quello che il suo cuore le dettava.
Non appena si staccarono sentì le gote andare in fiamme e una sensazione strana al bassoventre.
Victor era di fronte a sé e la stringeva ancora.
«Ti amo, Sora» lo udì sussurrare.
Quella confessione la turbò, aprì la bocca per dire qualcosa, ma non fece in tempo. Lui la prese nuovamente tra le braccia e la baciò ancora, famelico, come se non aspettasse altro da più di una vita.
La ragazza chiuse gli occhi, sentendosi pian piano trascinare fino al corridoio. Non capiva più dove si trovava, percepiva le gambe molli, la testa pesante, delle sensazioni contrastanti che la mettevano in allerta.
 
Cosa stava facendo?
 
Doveva permettere che succedesse?
 
Non appena Victor, a tentoni, aprì la porta di una stanza, ripensò a Matt, ripensò a tutto quello che avevano condiviso insieme, ripensò alla felicità di quei tempi.
 
Gli stava dicendo addio.
 







 

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Capitolo 16
*** Anime affini ***








Taichi immise la carta di credito dentro lo sportello automatico. Pigiò alcuni tasti e inserì il codice pin, poi attese.
Vide apparire il numero del saldo e strinse le labbra, poi ritirò la carta, posandola accuratamente dentro il portafogli.
Aveva parlato con sua sorella quella mattina. Si era informato riguardo la cifra che mancava ai loro genitori per poter acquistare la casa, e si era sempre di più convinto che lo doveva fare.
Era necessario.
Doveva essere lui ad aiutarli.
Era loro figlio maggiore, glielo doveva per tutto quello che avevano fatto per lui, per i loro figli, per tutti i sacrifici, il sudore e il sangue.
Taichi sentiva sulle spalle il peso di quella responsabilità. Ne sentiva il peso di tante altre, anzi, il più delle volte si prendeva a carico quelle che non gli convenivano, ma era fatto così.
Lasciò lo sportello e, con le mani in tasca, si mise in cammino.
Non aveva detto della sua decisione a Hikari, era sicuro che avrebbe fatto delle storie, ma lui non avrebbe mollato.
Avrebbe acquistato la loro casa, la casa della loro infanzia, la casa di tutta loro vita.
Se lo poteva permettere, aveva dei soldi di lato, un buon stipendio, e li avrebbe recuperati presto o tardi.
I suoi genitori faticavano per mandare avanti la famiglia, mentre sua sorella frequentava l’università e aveva altre spese. Toccava a lui prendersi cura di loro, adesso, e restituire con gli interessi tutto quello che gli avevano offerto.
Gli venne da sorridere, e pensò che avrebbe agito quando meno se lo aspettavano così da fare loro una sorpresa.
 
 
Non lo avrebbe fermato nessuno.
 
 
 
Sentì dentro il petto una sensazione strana, che lo caricò di una strana forza. Tirò fuori il cellulare e aprì uno dei contatti.
Era quello di Mimi.
Il cuore prese ad accelerare tutt’ad un tratto, pensando che avrebbe dovuto farlo.
Non faceva altro che aprire e riaprire quella chat da quella mattina, per poi scollegarsi vigliaccamente.
Ma adesso era tempo di farlo.
Anche un semplice saluto andava bene, per quanto riduttivo, non doveva mica iniziare con una solfa melensa, solo constatare se lei aveva intenzione di parlargli.
Si scompigliò i capelli, sentendosi in difficoltà.
Doveva almeno provarci.
Non era poi così difficile.
Si sentì pervaso da un senso di adrenalina, per quanto il cuore palpitava dall’ansia.
Scrisse qualcosa di getto, non controllò nemmeno se la frase avesse senso compiuto.
 
Volevo parlarti ma è successo un casino...
                                                                 
 
Inviò.
Apparve una spunta.
Sembrava non avesse neanche ricevuto il messaggio.
Forse non era nemmeno il numero giusto, d’altronde era plausibile che lo avesse cambiato e lui non ne fosse a conoscenza...
Sentì un senso di angoscia pervaderlo.
E se fosse stato troppo tardi?
E se lei lo avesse dimenticato, archiviato, abbandonato?
Quella lotta era durata per così tanto tempo...
I suoi pensieri vennero improvvisamente destati dal suono del cellulare.
Controllò il numero con il cuore in gola, aspettandosi chissà cosa, ma vide che era sconosciuto.
«Pronto?» rispose, sperando non chiamassero da uno di quei call center che gli propinavano ogni mese delle tariffe speciali.
Sentì un rumore dall’altro capo, poi una voce fece capolino, e urtò repentinamente il suo sistema nervoso.
«Yagami» era la voce di Akira, il suo allenatore.
Tai assunse un’espressione infastidita non appena si sentì chiamare da quell’uomo.
Cosa diavolo voleva da lui?
Non erano ancora terminati i suoi giorni di permesso, non voleva starlo a sentire. Aveva già i suoi bei grattacapi senza che si immischiasse anche lui.
Strinse automaticamente un pugno e si preparò ad ascoltare.
«Mi dispiace interrompere la tua vacanza, ma abbiamo avuto un incontro con il procuratore dell’Osaka» continuò, mentre Tai sbuffava di rimando.
«La trattativa si è conclusa prima del previsto e vogliono il tuo trasferimento immediato» lo informò atono, come fosse uno di quegli annunci che venivano fatti nelle stazioni ferroviarie.
Il ragazzo si fermò in mezzo al marciapiede.
Le parole di Akira gli rimbombarono in testa, si alienò dalla realtà, mentre l’uomo continuava a dire cose che non sentiva.
Se volevano il suo trasferimento immediato ad Osaka quello voleva dire che non poteva più rimanere a Tokyo.
Non ci poteva credere... quell’uomo era la sua rovina, gli stava distruggendo il benessere, lo stava facendo impazzire...
Aveva voglia di urlare.
Fermarsi lì, in mezzo quella strada e urlare.
«Che cosa?!» sbottò infatti «Mi aveva garantito una settimana!» rivendicò, citando l’accordo che avevano stretto solamente pochi giorni prima, alla fine del campionato stagionale.
Akira emise una risatina bassa, e quello lo fece adirare ancora di più.
«Andiamo, Yagami, non essere un ragazzino sentimentale!» lo prese in giro con il suo solito tono beffardo.
«Devi iniziare l’allenamento, ti vogliono in forma prima dell’inizio del campionato» tuonò serio, mentre il castano cominciava a sentire lentamente tutti i pezzi di sé sgretolarsi.
«La società non può sfigurare per colpa dei tuoi capricci» sibilò poi, colpendolo volontariamente.
Taichi scosse la testa, incredulo.
Non poteva essere che stava succedendo davvero...
Fino a poco prima il suo unico pensiero era quello di andare a sistemare una questione finanziaria familiare, e adesso doveva rientrare in quello stupido campo di calcio che lo stava logorando dentro più di quanto non lo fosse già.
Sentì l’aria mancare improvvisamente, e chiese a sé stesso se non stesse vivendo un incubo.
«Io non posso rientrare prima!» si oppose, poi si passò una mano sulla fronte ripensando a tutto quello che era successo in quei giorni, alle situazioni irrisolte che non poteva assolutamente lasciare.
«Ho dei problemi qui a casa, devo dilungarmi, devo...» biascicò in preda alla confusione, tentando di spiegare, anche se consapevolmente invano.
Akira, difatti, non lo lasciò terminare.
«Devi, devi!» ringhiò, facendogli il verso «Quello che devi realmente fare, Yagami, è ciò per cui hai sacrificato una vita» lo rimproverò, facendogli venire in mente tutti i sacrifici che aveva dovuto compiere in quegli anni, le mancanze, le privazioni.
Cosa ci aveva guadagnato, a parte i soldi?
Niente, proprio niente.
Solo un vuoto nel cuore...
«Domani devi tornare e anche in fretta» continuò a dire l’allenatore «E’ la mia ultima parola» concluse poi perentorio.
Tai chiuse gli occhi, li strinse più che potette. Sentiva il sangue ribollirgli nelle vene quasi volesse esplodere via come un vulcano.
Era furioso, frustrato, deluso da quella vita che aveva dovuto vivere, ma soprattutto deluso da sé stesso perché, ancora una volta, era bloccato.
Non riusciva a prendere una decisione, aveva timore di compiere una scelta azzardata.
Lui, che di coraggio una volta ne aveva da vendere, era diventato il più grande vigliacco del secolo.
Per la rabbia, sentì le lacrime pizzicargli il bordo degli occhi.
«Lei è un voltagabbana!» si ritrovò ad inveire contro quell’uomo che non l’aveva certamente aiutato a fortificarsi, ma solo strumentalizzato ai voleri della società.
Per Tai non era quello il valore del calcio.
Il calcio era stato tutto per lui, probabilmente ancora lo era, ma non corrispondeva a quello che intendeva quel bastardo.
«Quello che le interessa è solo il denaro! Non è la passione, non è la dedizione, è solo una questione di soldi!» sputò fuori, liberandosi da un macigno troppo pesante che lo aveva piegato in due dal dolore per fin troppo tempo.
Non sentì nulla per qualche secondo e tentò di calmarsi, riprendendo a respirare regolarmente, ma la risposta di Akira non tardò ad arrivare:
«Ben presto imparerai, caro Taichi, che è necessario improntare la vita su una questione di soldi se vuoi essere qualcuno»
Il castano strinse forte il telefono tra le dita.
Non erano dei fottuti soldi a dargli la felicità, ma la famiglia, l’amicizia, l’amore.
Tutte cose che aveva trascurato, e non poteva permettersi di farlo ancora, non sarebbe più stato Taichi, e lui aveva bisogno di tornare ad essere Taichi.
«Io voglio essere me stesso!» esclamò con fervore, talmente che alcune persone si voltarono a guardarlo.
Akira fu tagliente come non mai.
«Allora ti accontenti di così poco» lo udì dire con sufficienza, e gli sembrò come un eco lontano.
Sembrava fosse distante anni luce dal suo corpo, dalla sua mente, dalla sua coscienza...
«Mi aspetto il tuo rientro domani» disse fermo quello, ridestandolo.
«Buona serata da campione» lo prese in giro, infine, per poi interrompere la telefonata.
Lui rimase fermo, ritto sul posto con ancora il cellulare all’orecchio.
Si sentiva impotente, umiliato, svuotato da ogni singola emozione. Quella notizia lo aveva distrutto, lo aveva prosciugato più di quanto non lo fosse già.
Lentamente, ripose il telefonino in tasca e riprese a muoversi, accertandosi che le sue gambe riuscissero a svolgere la loro funzione.
Sarebbe dovuto tornare il giorno dopo, avrebbe dovuto lasciare nuovamente la sua famiglia, non avrebbe potuto dare loro i soldi per la casa, avrebbe dovuto abbandonare Matt proprio in quel momento che aveva bisogno di lui più di chiunque altro, avrebbe dovuto ignorare ancora una volta i sentimenti che invadevano il suo cuore.
Ebbe l’esigenza di sedersi, ma non c’erano panchine.
Il pensiero volò inevitabilmente verso di Mimi, e sentì un nodo allo stomaco così forte che quasi gli venne da vomitare.
Avrebbe dovuto lasciarla di nuovo, per l’ennesima volta sarebbe tornato senza di lei, senza i suoi abbracci, senza il suo profumo, senza la sua voce...
Una punizione più cattiva di quella non esisteva al mondo.
Non riusciva a stare senza di lei... forse, per la prima volta dopo tanto tempo, lo stava ammettendo a sé stesso.
Mimi era quello di cui aveva sempre avuto bisogno, ciò che gli era mancato in quegli anni, la spinta che lo faceva andare avanti.
Non poteva rinunciare a lei ancora una volta...
Doveva mollare tutto, doveva lasciare il calcio, Kyoto, l’Osaka, mandare a quel paese Akira e la squadra.
Doveva ricominciare, essere sé stesso, riappropriarsi di quella vita che gli era stata tolta, privata.
Ma come faceva?
Lui non ne aveva il coraggio.
Non aveva il coraggio di abbandonare tutto, non aveva il coraggio di rinunciare alla prima divisione, non aveva il coraggio di andare da Mimi dopo che l’aveva abbandonata e dirle che era ancora innamorato di lei.
A quel pensiero, volse lo sguardo verso il crepuscolo e si rese conto che era quasi calata la sera, così come in fondo al suo cuore.
Avrebbe nuovamente lasciato andare tutto per colpa della sua codardia, e questa volta ne era consapevole, sarebbe stato un prezzo ancora più alto da pagare.
Un prezzo che nemmeno tutti i soldi di Akira avrebbero potuto raggiungere.
Si diresse verso casa del suo migliore amico con ancora quei pensieri insistenti in testa, con ancora il contorno di tutti quei dubbi.
 
Era una lotta incessante, lo distruggeva, lo metteva di fronte ai suoi limiti, alle sue incertezze, alle sue paure.
E lui, Taichi, partiva in svantaggio, perché era già finito ancora prima di combattere.
 
 
 
 
 
 
 
Non appena mise piede sul pianerottolo udì una fastidiosa musica elettronica provenire proprio da dentro l’appartamento di Yamato.
Stranito, allungò il passo, tirando fuori la chiave che aveva preso in prestito per poter liberamente entrare e uscire da casa sua.
Non appena spalancò la porta, la visione che gli si parò davanti lo fece rimanere di stucco.
Intorno a lui c’era il caos; cicche di sigarette sparse per il tavolo e per terra, bottiglie di alcol rivoltate sul pavimento, la cenere dispersa dovunque.
Taichi rimase per qualche secondo sul ciglio della porta ad osservare le condizioni in cui si trovava la stanza.
Cosa stava succedendo?
La musica elettronica era sempre più insistente, così non ci pensò due volte prima di entrare e chiudersi la porta alle spalle, onde evitare di disturbare i condomini.
Fece dei passi avanti senza smettere di guardarsi intorno. Nell’aria c’era una cappa di fumo e un odore sgradevole che gli fece arricciare il naso.
Spostò una sedia che gli intralciava il cammino e la sua attenzione ricadde su un foglio che era rimasto inerte sul tavolo. Era appallottolato e sembrava ci fosse scritto qualcosa. Mosso dalla curiosità, lo srotolò e lesse.
Era sicuramente il testo di una canzone.
Una canzone che aveva scritto Matt, delle parole messe nero su bianco per sfogarsi e fare intendere com’è che si sentiva, quello che aveva provato, quelli che erano i suoi sentimenti.
Strinse il foglio tra le mani, spiegazzandolo ulteriormente.
Lo aveva stropicciato, ma non aveva avuto il coraggio di farlo a pezzetti e buttarlo.
Era come se stesse cercando di scappare dalle sue emozioni, era come una sorta di barriera protettiva dietro la quale si era imposto di nascondersi.
Ma Taichi sapeva per certo che non riusciva a liberarsi da quello che provava.
Aggrottò le sopracciglia e strinse un pugno.
Fece un passo indietro involontariamente e calpestò un coccio di vetro. Imprecò, poi abbassò gli occhi e notò delle gocce di sangue sparse per il pavimento. Formavano una scia che portava verso un’unica direzione.
Così alzò lo sguardo e lo vide.
Yamato era ritto in piedi, la camicia sbottonata fino a lasciare il petto completamente scoperto, i capelli scompigliati sul volto, i piedi scalzi.
Suonava la chitarra elettrica a tutto volume, emettendo accordi sconclusionati e volontariamente rumorosi.
Non sembrava essersi accorto della presenza di Taichi nella stanza, al che, quest’ultimo, si diresse verso di lui.
«Matt!» esclamò a voce alta, senza essere degnato di uno sguardo.
Il biondo continuava a schitarrare senza il minimo cenno di essersi accorto dell’amico o, semplicemente, non aveva intenzione di dargli retta.
Il castano lo fissò con in volto un’espressione infastidita, a tratti sdegnata.
Non poteva essere che si fosse ridotto in quel modo...
Non sembrava più lui, era l’ombra di sé stesso, un’ombra sbiadita del Yamato che conosceva.
Sembrava come se avesse perso la ragione.
«Come ti sei conciato?!» gli chiese ancora, avvinandosi di più.
Questi s’irrigidì non appena percepì la sua presenza dietro le spalle, poi chiuse gli occhi e continuò ad emettere stridii di chitarra sempre più intensi.
Tai fece una faccia innervosita, disturbato da quel suono grave.
Lo stava facendo di proposito.
Voleva evitarlo per fare in modo che se ne andasse e lo lasciasse lì, in mezzo a quello schifo, in balìa dei suoi demoni, ma non sapeva con chi aveva a che fare.
Con uno scatto, si avvicinò alla presa della corrente e staccò la spina con forza.
«MATT!» urlò, mentre il suono della chitarra cessava all’improvviso.
Lo vide bloccarsi di rimando, le dita a mezz’aria che andavano a chiudersi in dei pugni. Per dei secondi non successe niente, ma Tai non smise di fissare la sua schiena, aspettandosi un cenno, fino a che l’altro non si voltò a guardarlo.
«Che cazzo fai?!» lo udì inveire in sua direzione, notando gli occhi azzurri arrossati e pesanti, le occhiaie scure come contorno, i capelli biondi sporchi dal fumo e dall’alcol.
Tai sentì una fitta alla pancia non appena lo vide conciato in quel modo.
Sembrava fosse stato pestato da qualcuno, come se fosse rimasto vittima di un pestaggio irruento e faticasse a reggersi in piedi.
Provò un misto di rabbia e compassione.
«Svegli tutti così» gli fece notare tra i denti, senza smettere di osservarlo.
Era più forte di lui, non riusciva a fare a meno di guardarlo e chiedersi a quanto si era dovuto spingere oltre.
«Cosa ti salta in mente?» gli chiese duro, in un tono di rimprovero cui Matt era abituato a sentire da giorni, forse anni, ormai.
Chiuse gli occhi e non gli rispose.
Voleva che la smettesse di redarguirlo, voleva che, per una volta, cercasse di comprenderlo fino in fondo.
Era disperato, tradito, fallito... non riusciva a trovare il suo posto in quel fottuto mondo, si sentiva un pesce fuor d’acqua incapace di tornare a nuotare e, fanculo, lui in quel modo non faceva altro che ricordarglielo.
Allungò un braccio e afferrò una bottiglia. La portò alle labbra e cominciò a bere.
La testa gli doleva, il corpo gli doleva, ma soprattutto era il cuore a non volersi placare.
Tai si avvicinò e, repentinamente, gli tolse la bottiglia dalle mani.
«Smettila!» gli sibilò, gli occhi che mandavano scintille.
Era ridicolo, era così talmente volubile se pensava che continuare a comportarsi in quel modo infantile lo avrebbe aiutato a dimenticare.
Matt sentì la rabbia aumentare a dismisura non appena fu capace di metabolizzare quel gesto.
Si avvicinò a lui, tentando di riprendersi la bottiglia.
«Ridammela!» ringhiò, mentre l’altro la metteva dietro la schiena per non fargliela prendere.
Perché non lo lasciava fottutamente in pace, Taichi?
Cosa voleva da lui, perché andava lì con l’intenzione di dirgli ciò che doveva fare...
Era stufo di essere lui quello sbagliato tra i due.
Continuò a cercare di cavargli la bottiglia dalle mani, facendolo indietreggiare fino al tavolo. Il castano fu più lesto e la adagiò sopra, riuscendo a liberare entrambe le mani per sorreggerlo.
«Sei ubriaco!» sottolineò, trattenendolo dalle braccia per evitare che gli si spalmasse addosso.
Matt non demorse e continuò a spingerlo.
«Ridammi quella bottiglia!» esclamò arrabbiato, e per qualche secondo lottarono in quel modo, con l’amico che tentava di tenerlo fermo, mentre lui si agitava per levarsi la sua presa di dosso.
Non appena Tai rinchiuse una mano sulla sua, Matt si lasciò andare ad un’imprecazione di dolore.
Il castano lo lasciò di riflesso e subito si rese conto che aveva qualcosa sul dorso.
«Che hai fatto?» domandò apprensivo, prendendogli nuovamente la mano.
Il sangue era vivo sulla ferita aperta da dove riusciva a intravedere dei cocci di vetro infilzati dentro la carne.
Fece una smorfia, ma non riuscì a dire altro, perché il biondo la ritrasse, infastidito.
«Non sono cazzi tuoi!» gli urlò aggressivo, ad un palmo del suo viso, tant’è che potette sentire l’odore dell’alcol.
«Lasciami stare!» e lo spinse, facendolo quasi sbattere contro il tavolo.
Taichi non disse nulla, si limitò a guardarlo.
Si guardarono entrambi.
Perché faceva in quel modo?
Rifiutava ogni tipo di aiuto che provava a dargli, era estenuante.
Era terribilmente testardo e orgoglioso, preferiva precipitare nell’oscurità ignorando volutamente lo spiraglio di luce che stava provando ad offrirgli.
Voleva salvarlo da quell’oblio, voleva riuscire a metterlo nuovamente insieme, perché gli mancava da morire la persona che era.
Yamato si teneva la mano ferita.
Lo faceva solamente per levarsi dalle scatole un coglione come lui.
Aveva rovinato la permanenza di Taichi, lo aveva assillato con le sue fottute scenate, lo stava facendo anche in quel momento, e lo sapeva, lo sapeva che voleva solo salvarsi la faccia, rimarcare ancora una volta quella posizione da leader che tanto gravava sulle loro spalle.
Era venuto ancora una volta a vederlo crollare, beffarsi dei suoi fallimenti perché lui era un calciatore rinomato, mentre Matt non era stato capace di mantenere integra la sua band, né di cercarsi un lavoro decente.
Tai aveva scelto il lavoro all’amore, ma almeno lo aveva fatto con determinazione. Lui, invece, era riuscito a far stancare Sora, l’aveva spinta tra le braccia di un altro uomo, essendo incapace di decidere per una volta e per tutte ciò che era giusto fare per lui.
Ecco perché il suo migliore amico andava da lui, voleva spiattellargli in faccia quando facesse schifo, mentre, al contrario, dimostrare quanto lui era forte e indipendente.
Sentì distrattamente gli occhi inumidirsi, e non riuscì a trattenersi. Con un impeto, arrivò di fronte all’altro e lo scosse dalle spalle.
«Cosa fai sempre qui?!» diede adito ai suoi pensieri malsani, rivolgendoglisi in tono brusco, per poi fissarlo con uno sguardo adirato, ingelosito.
«Pensi che non possa cavarmela da solo?! Oppure pensi che possa fare qualche cazzata...» la voce gli si spense senza volerlo.
Tai lo guardò spiazzato. Lentamente, portò le mani sulle sue braccia.
«Sono qui per aiutarti» disse fermo, cercando di comunicargli con gli occhi quelle che erano realmente le sue intenzioni.
Matt, però, non lo guardava.
Aveva lo sguardo fisso per terra, come se volesse sfuggire dal peso di quello dell’altro.
Rimasero in silenzio per qualche secondo, fino a quando il castano non si sentì strattonare nuovamente.
«Io non ho bisogno di te!» esclamò il biondo, infervorato, gli occhi adesso che sprizzavano fuoco da tutte le parti.
Tai sentì una fitta al cuore nell’udire quelle parole.
Perché gli diceva in quel modo?
Credeva che fosse andato lì da lui solo per fargli la lezioncina in modo tale da farlo sentire una merda?
Non era la persona più adatta a farlo, perché moralmente era colui che aveva peccato più di tutti.
«Non ho bisogno che tu mi dimostri quanto sei buono, responsabile, il migliore di tutti...» l’altro continuava a scuoterlo, mentre da quelle frasi strascicanti ne evinceva disperazione, frustrazione per non riuscire a considerarsi alla pari.
Un senso di vuoto e inferiorità.
«Vattene via!» esclamò poi, ma con l’intento di dargli un altro spintone, inciampò sui suoi piedi e finì addosso all’amico.
Tai lo trattenne tra le sue braccia.
Non avrebbe mai voluto che Matt sentisse quelle sensazioni negative quando si trovavano insieme.
La loro amicizia era più forte di tutte le altre, era il sentimento più vero, più profondo che aveva condiviso in tutta la sua vita.
Era così leale e sincera che si chiedeva come facesse, anche soltanto per un secondo, a dubitarne.
«Matt... ti prego, smettila...» gli sussurrò costernato, mentre lo reggeva.
Questi si appoggiò per un po’ contro il suo petto, sentendo i battiti accelerati del suo cuore, e si bloccò.
Che impressione gli stava dando?
Stava apparendo come l’invidioso, il frustrato, colui che non riusciva a passare oltre a quella differenza caratteriale, a quel modo di fare così diverso, ma nello stesso tempo così simile.
Lo strinse dalle braccia.
Era arrivato perfino ad urlargli in faccia la sua frustrazione... era piombato in un marciume talmente tale da puzzare.
Si allontanò da lui e gli diede le spalle. Lentamente raggiunse un angolo della stanza e si sedette per terra, contro il muro.
Si portò le mani alla testa, sentendola pesante.
Sembrava tutto sconnesso, amplificato. Forse era l’alcol a fargli venire in mente quei pensieri, ma si sentiva così sfatto, così terribilmente abbattuto da voler scomparire dalla faccia della terra.
«Sono un coglione... un cazzo di coglione...» si dannò, mentre gli venivano in mente i flash di ciò che aveva causato.
Era per colpa sua se adesso si trovava in quella situazione dove non sembrava esserci un’uscita.
Era per colpa sua e dei suoi silenzi, delle sue mancanze, dei suoi pensieri fuori luogo, del suo essere poco risoluto...
Tai lo seguì con lo sguardo.
«Cosa-?» provò a dire, stupito, sentendolo farneticare delle parole sottovoce.
Lui non gli diede neanche il tempo di finire la domanda che sentì una rabbia improvvisa salirgli dai piedi e raggiungere la punta dei suoi capelli.
Lo fissò con gli occhi azzurri infuocati.
«Guardami negli occhi, cazzo, dimmelo!» gridò in sua direzione, lasciando l’altro senza parole «Dimmelo che sono un fallito, che ti faccio schifo!» continuò, mettendosi in piedi con difficoltà, fino a raggiungerlo lentamente.
«Perché è questo quello che pensi, Tai, lo so...» gli sussurrò non appena fu vicino al suo viso.
Quegli occhi trapelavano disperazione, una convinzione tale che il castano rimase lì, fermo, a non sapere cosa dire per paura di ferirlo.
Lo vedeva così vulnerabile, incapace di reagire.
Aveva timore di essere considerato un buona nulla e, soprattutto, aveva timore di essere giudicato male proprio da lui.
Alzò una mano e sfiorò il suo braccio.
«Io non penso affatto questo» disse sincero, accarezzandolo con uno sguardo d’affetto, uno sguardo che intendeva comunicare mille parole.
Matt si limitò a guardarlo distrattamente, per poi ripiombare nella sua inquietudine.
Lo vide stringersi i capelli con le dita fino a tirarli, gli occhi vacui, l’espressione folle.
«E’ colpa mia se Sora mi ha tradito...» lo sentì lamentarsi, per poi vederlo lasciarsi scivolare per terra «è solo colpa mia...» continuò come se fosse una fastidiosa litania.
Tai serrò gli occhi.
Adesso basta, era ora di finirla.
Non poteva sopportare più scene del genere, crolli del genere, parole del genere.
Yamato stava mandando a rotoli la sua vita, la stava letteralmente buttando nell’immondizia come se fosse un giocattolo rotto senza nemmeno provare ad aggiustarlo.
Si avvicinò a lui.
Ne aveva abbastanza di quei piagnistei.
Non avrebbe più permesso che si lasciasse andare in quel modo, a costo di litigare, a costo di farsi odiare da lui.
Gli mise una mano sulla spalla e lo strattonò con forza.
«Alzati, cazzo!» gli urlò, affondando con le unghie sulla sua pelle, facendolo voltare di scatto dal dolore.
Lo fissò con una rabbia inspiegabile, trattenuta per troppo tempo.
«Non ti riconosco più, alzati!» lo prese dalle ascelle e lo fece mettere in piedi, senza nemmeno troppi sforzi.
Yamato si ritrovò ritto dinnanzi a lui e Taichi lo fissò con disgusto.
«Tu non sei il mio migliore amico, non sei Matt!» gli puntò il dito contro fino a toccargli il petto.
L’altro si limitò ad aprire la bocca, spiazzato, ma non ebbe tempo di replicare perché Tai era un fiume in piena pronto a inondare.
«Dov’è quell’uomo forte e determinato? Dov’è quell’uomo che si faceva in quattro per le persone che ama... che non avrebbe mai mollato la musica... chi cazzo sei diventato, Matt?!» gli chiese, sibilandogli in faccia tutto il suo risentimento.
Questi non riuscì a proferire nulla, sconvolto dall’ardore con il quale l’amico aveva parlato.
Aveva ragione, non era più sé stesso.
Era diventato un’altra persona, e non aveva fatto altro che dimostrarlo con quegli stupidi comportamenti i quali avevano solamente peggiorato la situazione...
Guardò Tai che lo fissava a sua volta in maniera dura.
Però... perché non lo aiutava veramente?
Perché intendeva farlo soffrire ancora di più rinfacciandogli quanto avesse sbagliato, quanto stesse continuando a farlo, quanto fosse sciocco...
Non aveva bisogno di questo, aveva bisogno di tatto, di comprensione... perché doveva sempre sottolineare quello che non andava in lui?
Perché non badava per sé stesso?
«Vaffanculo!» fu un attimo e gli si scaraventò addosso, prendendolo dalle braccia e facendolo sbattere contro il tavolo.
Il posacenere rotolò per terra, facendo riversare tutte le cicche e sporcando il pavimento.
Tai tentò di trattenerlo, ma lui non ci vedeva più. Aveva incominciato a colpirlo, gli aveva sferrato un pugno in viso, e poi un altro ancora.
Il castano si dimenò e, nella foga, un paio di bottiglie si ruppero causando cocci di vetro dappertutto.
Cercò di non rispondere ai suoi colpi, nonostante gli avesse fatto male alla mascella. Riuscì con difficoltà a bloccargli le braccia, mentre Matt alzava gli occhi su di lui e lo guardava con uno sguardo indemoniato.
«Sai solo giudicare gli altri quando poi tu non riesci a guardare in faccia la verità!» gli urlò in viso cercando di liberarsi dalla sua stretta.
Voleva ferirlo, voleva fargli del male, voleva fargli provare un pezzetto della sofferenza che provava ogni volta lui nel doversi sentire sbagliato...
«Sei un codardo!» lo disse con tutta la forza che aveva in corpo.
Taichi socchiuse gli occhi.
Lo sapeva, di essere un codardo, da tanto tempo ormai.
Biasimava Yamato perché gli sembrava diverso da quello che era una volta, ma in realtà era lui stesso ad essere completamente cambiato.
Non aveva il coraggio di compiere una scelta, non aveva il coraggio di ammettere che aveva sbagliato, non aveva il coraggio di dichiarare i suoi sentimenti.
Era vero, era un codardo, e gli doleva talmente tanto quella consapevolezza.
In quell’attimo di distrazione, l’altro riuscì a divincolarsi e a spingerlo contro una sedia.
Tai lo guardò con fermezza.
Si stavano scontrando fisicamente dopo tanto, tantissimo tempo.
Era una lotta infinita, la loro.
Una lotta di caratteri forti, ma fragili nello stesso tempo, diversi per mille sfaccettature, simili per altrettanto altre.
La loro amicizia era sempre stata la colonna portante della loro vita, e lui lo sapeva per certo che avevano bisogno di affrontarsi per mettere a tacere i loro dubbi, le loro incertezze, le loro fissazioni.
Avevano l’uno bisogno dell’altro per capire.
Era sempre stato così; era un continuo amarsi, ma anche odiarsi, una continua affinità che sfociava nella più giusta e sana delle competizioni.
Si mise in piedi e gli sferrò un pugno in pieno volto.
Matt rimase fermo sul posto, poi si portò una mano allo zigomo. Non fece neanche in tempo ad alzare lo sguardo, che Tai lo afferrò dai capelli e lo sbatté contro il tavolo.
Caddero per terra altre cose che causarono un fracasso di sottofondo.
Lottarono per un po’ di tempo in quel modo, fino a quando il castano lo prese dalla maglia, avvicinando il viso al suo.
«Tu invece sei un piagnone del cazzo!» gli disse con ribrezzo, pensando a quante volte avrebbe voluto dirglielo, a quanto sicuramente lo avrebbe fatto star male, ma a quanto fosse necessario per lui saperlo, superarlo, crescere
«Pensi sempre a compiangerti, a fare la vittima, ma non è così che risolverai i tuoi problemi, non è così che migliorerai te stesso» glielo disse a raffica con un tono di voce mellifluo, come se gli stesse donando una benedizione.
Matt lo fissava con gli occhi sbarrati, il naso sanguinante.
Decise di sferrargli il colpo di grazia, quello per il quale nutriva una forte paura, un forte timore che corrispondesse alla realtà.
Lo strinse ancora di più dalla maglia.
Doveva capire.
«Mi fai schifo!» gli sibilò crudelmente sul suo viso, poi gli diede uno spintone e lo lasciò andare.
Si guardarono negli occhi.
Matt cominciò a sentire distrattamente le lacrime inondare i propri. Il cuore batteva forte per la foga e per l’umiliazione.
Faceva schifo a Taichi.
Il suo migliore amico lo disprezzava, lo odiava, era venuto da lui solo per assistere alla sua più clamorosa disfatta.
Strinse i pugni.
Gli aveva sussurrato che gli faceva schifo, a lui, dopo tutti gli anni passati insieme, dopo tutto quello che avevano condiviso, dopo il loro esserci, dopo il loro comprendersi, dopo che si erano giurati amicizia eterna, dopo tutti i loro litigi sfociati in segni di pace, dopo tutte le volte che lo aveva incoraggiato a essere sempre sé stesso...
Lo vide voltarsi, ma non riuscì a fargli fare un passo. Lo fece girare bruscamente verso di lui.
«Sei un pezzo di merda!» gli vomitò addosso con risentimento, mentre lo colpiva con un altro pugno.
Avevano sbagliato tutto, allora...
Non c’era nulla di quell’amicizia che era autentico, era da sempre stato tutto finto, tutto basato su delle persone che non erano loro.
Continuarono a colpirsi, ma Matt era una furia. Prese Tai dalle braccia e lo fece sbattere per terra.
«Non hai capito niente di me, Taichi, proprio niente!» lo incolpò con rabbia, frustrazione, guardandolo con uno sguardo velato, ricolmo di lacrime.
Lo odiava...
Era la persona che più odiava nella sua vita perché non lo capiva, perché non lo sosteneva, perché voleva dimostrare a tutti quanto fosse migliore di lui.
Lo odiava perché era la persona che mai sarebbe riuscito ad eguagliare.
Era il suo punto di forza, ma nello stesso tempo il suo più grande punto debole.
Si preparò nuovamente a scagliarsi contro di lui, quando lo vide alzare un braccio per fermarlo, negli occhi un’espressione che trapelava qualcosa che non era affatto rabbia o risentimento.
«Ho capito tutto, invece» lo sentì dire con fervore «Odio vederti così! Svegliati! Porca puttana, svegliati!» urlò con tutte le sue forze.
Era affetto, quello che gli vedeva impresso in viso.
Era un amore fraterno incontenibile, qualcosa che non si poteva comparare con niente al mondo.
Era un sentimento così puro, così vero, così dannatamente sincero che si chiedeva come avesse fatto a dubitarne.
Lo fissò con il pugno a mezz’aria senza riuscire ad emettere suono.
Tai lo guardava a sua volta con il petto che si alzava ed abbassava ritmicamente a causa dell’affanno.
Il volto era sanguinante, tumefatto, la maglia stropicciata e sporca.
 
Taichi...
 
Era il suo migliore amico, era la sua casa, era tutto per lui...
Era lui a non aver capito niente.
Tutto quello che aveva fatto, tutto quello che aveva detto era per aiutarlo, era per riuscire a tirarlo fuori da quella prigione oscura in cui si era rinchiuso.
Lo guardò ancora e si rese improvvisamente conto di ciò che era successo.
Non lo aveva nemmeno ringraziato, lo aveva solo incolpato di volerlo vedere finito, inerte, solo perché aveva provato invidia, solo perché era geloso della sua determinazione, del suo modo di fare, del suo modo di agire.
Che pena si faceva...
 
Come aveva fatto a dubitare dell’amicizia di Taichi?
 
Si portò improvvisamente le mani al volto. Piano, si avvicinò all’amico e si lasciò scivolare per terra, vicino a lui.
«Che cazzo ho fatto?» sussurrò incredulo, sconvolto, incapace di intendere a come fosse arrivato a quel punto.
Tai lo udì piangere e sospirò piano.
Aveva finalmente capito.
Stava lentamente razionalizzando tutto, e adesso quei pugni, quei calci, quelle ferite facevano meno male.
«Non piangere» gli mormorò, appoggiando la testa contro il muro e voltandosi a guardarlo.
Lo vide con la testa tra le mani che singhiozzava.
Sentì distrattamente i sensi di colpa invaderlo. Lo sapeva di essere stato fin troppo duro, aveva toccato dei punti sensibili per Yamato, lo aveva, in un certo senso, posto faccia a faccia con i demoni che invadevano la sua anima.
Forse poteva sembrare egoista, uno stronzo senza cuore per avergli urlato contro tutto quelle cose, ma lui sapeva il motivo per cui lo aveva fatto, sapeva benissimo che il suo migliore amico ne aveva bisogno, di combattere le sue più grandi debolezze.
E Taichi, che era da sempre stato il suo punto di forza, era l’unico che poteva aiutarlo nell’impresa.
«Non volevo...» biascicò ancora, il tono di voce che trapelava pentimento, una richiesta di perdono dopo una serie di nefandezze.
Il castano non fece passare neanche un secondo di pausa.
«Lo so» disse convinto, e quella fermezza fece sì che Matt alzasse il capo e lo guardasse.
I suoi occhi azzurri erano deturpati dalle lacrime, il volto fine era scuro e segnato.
Si chiedeva come facesse, adesso, a non dubitare di lui dopo come gli si era rivoltato contro.
Si fidava ancora di lui, lo notava da come lo fissava negli occhi, di uno sguardo buono, pieno di affetto, pieno di un sentimento così puro e inestimabile.
Sentì d’un tratto il calore della mano di Tai sulla sua.
«Sei il mio migliore amico, sei mio fratello, sei il mio braccio destro...» lo sentì elencare, come volesse rispondere alle sue domande insistenti
«sei tutto» concluse con un sorriso, e il biondo, lentamente, capì che non aveva fatto altro che citare le sue parole, quelle che gli aveva confidato il giorno della laurea di Joe, quando aveva avuto un crollo nervoso e si era, per l’ennesima volta, reso conto di quanto avesse bisogno di lui.
Sentì i battiti del suo cuore accelerare.
Era come se gli volesse far capire che tutto quello che provava era esattamente lo stesso di quello che provava lui.
«Tai...» mormorò emozionato, gli occhi nuovamente umidi.
Lo sguardo dell’amico lo accarezzava dolcemente e si sentì subito confortato, aiutato, capito.
Era come se avesse appena trovato il suo posto nel mondo, finalmente.
«Riprendi in mano la tua vita» gli disse serio «Sii l’uomo forte che eri. Rivoglio quel Matt» lo esortò con gli occhi castani che gli luccicavano, che lo invocavano affinché tornasse ad essere sé stesso.
«Ho bisogno di quel Matt» sottolineò, infine, con la risolutezza che lo caratterizzava.
Appoggiò la testa sulla sua spalla e quella vicinanza non fece altro che far piombare ulteriormente l’altro in un baratro di dolore e sensi di colpa.
Strinse gli occhi, tentando di frenare le lacrime di rabbia, sofferenza, abbandono.
E fu inevitabile pensare a Sora.
A quanto la loro storia fosse stata importante, a quanto lei fosse fondamentale per lui, a quanto ancora la amasse.
Ripensò al fatto che lei lo aveva tradito, era andata con un altro ragazzo che non era lui, altre labbra avevano toccato le sue, altre mani l’avevano accarezzata, e chissà che altro...
Alla sola ipotesi sentì un groppo alla gola così forte da non riuscire a reggere.
Le lacrime fuoriuscirono rapide, silenziose e crudeli, lo pervasero senza possibilità di difendersi.
Si sentiva così talmente debole, spiazzato, non sapeva più come avrebbe fatto per andare avanti...
Era così destabilizzato da non riuscire più a ragionare, la sua mente era come spenta, in balia della sofferenza.
Tai percepì il suo petto andare su e giù per i singhiozzi. Alzò la testa e lo vide in quelle condizioni.
Sentì una fitta al cuore per la tristezza.
Lo prese dal mento e lo fece voltare in sua direzione. Si fissarono senza dire nulla.
«D’accordo, ha sbagliato» pronunciò duramente, dandogli ragione, perché era lecito che lui stesse male per Sora, che si dannasse per averla persa
«ma è la tua vita che mandi per aria» aggiunse dopo, cercando di fargli capire che, nonostante tutto, lui doveva andare avanti, doveva vivere.
Si era dimenticato di farlo da troppo tempo, e adesso sembrava avesse paura.
Sembrava avesse paura di rimettersi nuovamente in piedi, ma era necessario, era necessario affinché l’oblio non lo inghiottisse.
Matt cambiò espressione, e il suo volto, ancora rinchiuso tra le dita dell’amico, si ammorbidì.
Gli occhi ricolmi di lacrime, arrossati per lo sforzo, sembravano adorarlo, come se non avessero visto nient’altro di più bello al mondo.
«Insegnami ad essere come te...» sussurrò poi, mentre Tai sbarrava i suoi, incredulo da quell’affermazione biascicata.
«Perché per quanto ci provi io non riesco... non riesco, Tai...» la sua voce si spense, e il castano non riuscì a fare altro che lasciare la presa dal suo viso.
Voleva essere come lui...
Gli aveva appena detto che era il suo modello, una persona che avrebbe voluto emulare per via del suo modo di essere, del suo modo di fare, della sua personalità.
Lo guardò ancora, stupito, spiazzato.
Non poteva sapere chi fosse diventato, quanto anche lui aveva da combattere con gli spettri del suo passato, quanto, in realtà, sembrasse forte agli occhi degli altri, ma fosse debole, pervaso da dubbi e incertezze.
Viveva da burattino, non era stato capace neppure di contestare Akira che pretendeva tornasse, era così talmente distante dalla realtà che perfino sua sorella e i suoi genitori lo avevano tagliato fuori dalle questioni familiari.
Non era stato capace di tenersi Mimi, l’aveva allontanata bruscamente dalla sua vita, e aveva mandato a quel paese perfino l’ultima possibilità di ritornare insieme.
Non era riuscito a dirle che l’amava, che ricambiava i suoi sentimenti, anzi, che non erano mai mutati nel tempo.
Si era ritirato così com’era venuto, richiudendosi in sé stesso per non dover affrontare la vita che rivoleva indietro.
«Io non sono così perfetto, Matt...» sussurrò in risposta ai suoi pensieri, sentendo allo stesso modo gli occhi inumidirsi di fronte alla constatazione dei suoi sbagli.
Un giorno, a diciassette anni, gli aveva detto di provare ad essere come lui.
Glielo aveva detto per incitarlo a prendere una posizione, più come una provocazione che altro.
Eppure, adesso, quello che Matt doveva fare era proprio essere diverso da lui. Perché, nonostante tutto, era riuscito a fare uscire fuori le sue debolezze, mentre lui, Taichi, continuava a fingere, continuava a fingere che tutto andasse bene, che lui fosse forte, che lui fosse il leader, che lui dovesse aiutare tutti, che lui bastasse per tutti...
«Lo sei per me» gli rivelò Matt inaspettatamente, e quella frase incrinò subito l’equilibrio già precario delle sue emozioni.
Si voltò a guardarlo senza fiato. Vide che gli sorrideva, i suoi occhi azzurri lo accarezzavano dolcemente e perse un battito.
Il suo sguardo vagò per il volto tumefatto dell’amico, i lineamenti sottili, le ciglia umide, le sue labbra, e non riuscì a trattenersi.
Scoppiò a piangere, forse per la prima volta realmente consapevole di ciò che era diventato, di ciò che aveva causato, di ciò che aveva perso.
Si portò una mano al viso.
Pianse perché, a pesare di tutto, Matt credeva in lui, voleva essere come lui perché lo riteneva fondamentale, mentre Tai non si reputava buono neanche per sé stesso.
Si era fatto trascinare con foga dalla marea, era arrivato a largo, lontano dalla riva, e adesso non sapeva più come tornare ad accarezzare la sabbia.
Pianse perché voleva tornare indietro e cancellare tutto, agire diversamente, non dare nulla per scontato.
 
Voleva tanto ritrovare il suo coraggio, quello che aveva miseramente perso e non si era più curato di cercare.
 
Piano il respiro tornò regolare, aprì di nuovo gli occhi e tirò su con il naso. Matt non aveva aggiunto più nulla, solo si trovava accanto a lui.
La sua attenzione fu catturata dalla sua mano ferita. Vide il sangue incrostato e dei piccoli cocci di vetro infilati dentro la carne.
Adagio, la prese tra le sue.
«Stupido...» lo rimproverò e, riacquisendo contegno, si mise in piedi, dirigendosi verso le dispense.
Il biondo non si oppose, si limitò a seguirlo con lo sguardo stanco, per poi vederlo tornare da lui, afferrargli la mano, rimuovere le scaglie di vetro con un ago e, subito dopo, tamponare la ferita con del cotone imbevuto per non fargli sentire dolore.
 
Erano un continuo prendersi cura dell’altro, un continuo esserci, un continuo scontrarsi per poi esserci ancora più forte.
Entrambi sapevano di essere legati indissolubilmente da un sentimento che superava perfino la semplice amicizia.
 
Era una lotta senza eguali, quella tra di loro, ma nello stesso tempo, non era altro che un sovrapporsi di anime affini, gemelle, che non si sarebbero mai dette addio.
 






 

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Capitolo 17
*** Bivio ***









Sembrava fosse arrivata.
 
Lenta, inesorabile, distruttiva.
 
La fine.
 
Un rombo di tuono squarciò il silenzio della notte.
Taichi si mosse nel letto, cercando di trovare una posizione adeguata. Gli faceva male il volto e aveva sicuramente un livido sul fianco destro.
Non riusciva a prendere sonno da un po’. Dentro di sé sentiva un’agitazione tale da costringerlo a tenere gli occhi ben aperti come due fari nella notte.
Voltò la testa e lanciò uno sguardo a Yamato, sdraiato accanto a lui. Era rivolto verso la sua direzione, teneva le palpebre chiuse, ma non era sicuro che dormisse.
Non sentiva il suo respiro regolare, anzi, poteva giurare di udire i suoi sospiri nell’oscurità.
Sembrava che quell’acquazzone che si era appena scatenato potesse inondarli completamente, bagnarli di insicurezze e disperazione.
Era come se stessero lentamente affogando dentro una pozzanghera e non riuscissero a risalire in superficie, seppur toccassero con i piedi la terra sottostante.
Erano loro stessi a non volersi salvare, come se arrivare alla fine fosse la loro unica meta, poco importava il modo.
 
L’importante era arrivarci.
 
Tai strinse le labbra.
Il pensiero dell’imminente partenza anticipata gli tartassava la mente. Le parole dure di Akira sembravano rimbombargli in testa, senza che riuscisse a scacciarle.
Che cosa doveva fare?
Ormai se lo chiedeva da tanto tempo, e non riusciva mai a trovare una risposta.
Doveva tornare per firmare il contratto di trasferimento, incontrare i membri della società dell’Osaka, allenarsi duramente per dimostrare che era stato un buon acquisto, il migliore che avrebbero potuto fare.
Da un lato sentiva che quella era la cosa più giusta per lui, l’ambizione più grande che, nonostante tutto, continuava ad avere.
Dall’altro, voleva solo scomparire.
Un altro tuono rombò e lui lanciò un’occhiata alla finestra, da dove sentiva il rumore dell’acqua picchiare contro le tapparelle semi abbassate.
Tornare a Kyoto significava riprendere la vita che aveva da quasi sette anni, una vita che, almeno da due, gli stava stretta, lo logorava, lo faceva sempre sentire sul filo del rasoio.
Era consapevole di non stare più bene in quell’ambiente, e sapeva per certo che adesso, passando in prima divisione, tutto si sarebbe amplificato.
Si toccò i capelli, continuando a pensare.
Sarebbe stato un suicidio vero e proprio quello che si stava accingendo a fare, ma d’altronde, lui aspettava di vedere la fine.
Qualunque essa fosse.
Sentì Matt muoversi nel letto.
Forse era giusto tornare, ma come avrebbe fatto a reggere, cosciente di tutto quello che stava lasciando dietro, come una scia?
I sensi di colpa cominciarono ad assalirlo.
Avrebbe lasciato da solo Yamato proprio in quel determinato momento della sua vita, rischiando di vederlo morire lentamente nella pozza di sangue provocata da lui stesso.
Come avrebbe fatto a mantenere la coscienza a posto?
Non riusciva a pensare che l’avrebbe dovuto lasciare da solo, senza nessuno, a lottare contro le sue debolezze.
Avrebbe voluto preservarlo da tutto, avrebbe voluto che niente di tutto quello gli fosse capitato.
Non sapeva che fare, non sapeva come affrontare quella situazione.
Tornare a Kyoto valeva a dire non riuscire a mettere in ordine niente della sua vita, significava lasciare ancora una volta in disordine i casini che la invadevano.
Avrebbe dovuto discutere seriamente con i suoi genitori per la faccenda dell’appartamento. Non era riuscito nemmeno a goderseli come doveva, troppo preso da quello che era successo.
Come avrebbe fatto a lasciare in sospeso quella questione?
Avrebbe vissuto con il timore che i suoi venissero sfrattati da un momento all’altro senza possibilità di aiutarli e quello gli procurava un nodo alla gola.
La pioggia continuava a picchiare incessantemente.
Prese il telefonino e controllò l’orario. Erano ancora le quattro di notte, e i suoi pensieri non avevano intenzione di attenuarsi.
Gli premeva così tanto prendere quella decisione. Sentiva che se non lo avesse fatto una volta per tutte sarebbe morto.
I sensi di colpa continuarono a bussare nella porta del suo cuore.
Il viso candido di Mimi si sovrappose prepotentemente a tutte le immagini che gli scorrevano in testa.
Sembrava fosse subentrata per renderlo ancora più insicuro e irrequieto.
Cominciò a ricordare perfettamente i tratti del suo volto, in modo vivido, come se fosse lì di fronte a lui.
I suoi occhi nocciola grandi e luminosi, il suo naso piccolo e un po’ all’insù, le sue labbra rosee, i suoi morbidi capelli castano chiaro cui sotto il sole splendevano di un sottotono rosa.
Risentì rimbombare nelle orecchie il suono acuto della sua risata.
Lei era bellissima, era diventata una donna straordinaria, lo percepiva, lo captava dalle sue movenze, da come parlava, dal fatto che gli avesse detto di amarlo ancora.
Come faceva ad amarlo ancora dopo come si era comportato?
L’aveva praticamente abbandonata, era come se si fosse dimenticato di lei, sia durante tutto quel periodo di tempo in cui si erano lasciati, sia in quei giorni.
Si portò una mano alla fronte, massaggiandola. Poi afferrò il telefono che si trovava sul comodino, di scatto. Lo aveva fatto un paio di volte durante quelle ore, ma non aveva ricevuto un segnale diverso di una mancata risposta.
Sospirò pesantemente e si passò una mano tra i capelli scompigliati.
Era sicuro di averle fatto del male, glielo aveva letto negli occhi l’ultima volta che l’aveva guardata, quando non era riuscito nemmeno a muovere un muscolo di fronte a quello sguardo inteso e speranzoso.
Aveva preferito voltarle le spalle, accantonandola come fosse un oggetto usato, ignorando di aver fatto l’amore insieme dopo tanto tempo.
Aveva sepolto la questione lì, come se non fosse importante, sotterrandola ancora una volta nei meandri del suo cuore, sopra un accumulo di macerie.
Era fuggito via dalle responsabilità, dalla realtà dei fatti, dai suoi veri sentimenti, e aveva corso lontano per così tanto tempo, pensando che mai quelli l’avrebbero raggiunto, mentre adesso li sentiva strattonarlo dalla maglia.
Doveva chiamarla.
Non gli aveva risposto, era sicuramente arrabbiata con lui e aveva ragione.
Doveva fare un passo.
Un passo vero.
Strinse forte gli occhi fino a sentire dolore alla fronte.
Non riusciva a voltarsi.
Era così combattuto ...
Per quanto volesse farlo, aveva paura, aveva il timore di non riuscire a gestire tutto quello, aveva la totale convinzione di non essere capace ad affrontare i suoi sentimenti.
Sbuffando, lanciò nuovamente il cellulare sul comodino, con sgarbo, e si voltò dall’altro lato.
Si sentiva rassegnato.
Afflitto.
Gettò uno sguardo al biondo accanto a lui, e vide che aveva aperto gli occhi. Li teneva vacui, persi in chissà quale universo.
Strinse le labbra.
«Sei sveglio?» gli chiese in un sussurro, la testa voltata appena in sua direzione.
Matt non rispose subito, e lui si chiese se non avesse intenzione di fingere che stesse dormendo per non sentirlo parlare.
Sarebbe stato tipico suo.
«Mh» lo udì sospirare dopo un po’, dandogli segno della sua presenza.
Tai rilasciò il fiato trattenuto.
Volse gli occhi al soffitto, le braccia sotto la testa e subito la mente si perse nuovamente nei pensieri. Assunse un’espressione corrucciata quando quel pensiero lo sfiorò.
«Senti, non te l’ho ancora detto, ma ha telefonato il mio allenatore» mormorò all’improvviso, decidendo finalmente di dirglielo.
La frase echeggiò nella stanza, quasi sovrapponendo i rumori del temporale.
Matt era sdraiato su un fianco e aveva lo sguardo perso nel vuoto. Non sembrava minimamente aver fatto un cenno al riguardo, ma Tai sapeva che aveva dato importanza a quello che aveva detto.
Lanciò un sospiro.
«Devo rientrare domani, anzi... già oggi» si corresse, rendendosi conto che erano le quattro passate del giorno dopo.
Si voltò a vedere la sua reazione, rendendosi conto che Matt si era limitato a fissarlo con gli occhi celesti lucidi e spenti.
Era come se fosse svuotato da ogni sorta di emozione, come se la luce che dapprima invadeva i suoi occhi lo avesse abbandonato, lasciando al suo posto riflessa l’oscurità.
Tai sentì un brivido percorrergli la schiena.
Lo avrebbe lasciato lì da solo a perdersi ancora di più nell’oblio, a soffrire senza la spalla di nessuno, senza che ci fosse lui a scuoterlo, a tirarlo su.
Non era sicuro di poterlo sopportare.
Spontaneamente, alzò un braccio e gli sfiorò la guancia con la mano. A quel tocco, l’amico socchiuse gli occhi.
«Non voglio lasciarti solo...» si lasciò scappare con sincerità, in un tono di voce mortificato, frustrato per non avere altra scelta.
O forse sì...
Matt scosse piano la testa.
Era abitudine.
Lo stare soli, era un’abitudine che si infiltrava nelle ossa, nelle vene, nel sangue.
Ci si abituava a star da soli senza neanche accorgersene, a tal punto che si rifiutava di accettare qualunque tipo di aiuto.
E lui lo era da sempre stato.
«Me la caverò» soffiò, e forse non era sua intenzione far trasparire la nota amara che captò Taichi.
I sensi di colpa lo inondarono nuovamente e, piano, tolse la mano dalla sua guancia, come se si fosse sporcato.
Guardò ancora il soffitto, riflettendo incessantemente sulla sua vita.
Come aveva fatto a non rendersi conto prima di essere diventato in quel modo?
Era sottostato al volere degli eventi, delle altre persone, si era piegato al fluire del tempo senza mai alzare un dito per cambiare le cose.
Non si era più voltato a guardare in faccia nessuno, e adesso che si trovava in bilico, sentiva che era arrivato il momento di farlo.
Adesso che era consapevole di quanto facesse schifo quell’esistenza vuota che aveva vissuto, ora che guardava bene gli occhi del suo migliore amico, che comprendeva le esigenze della sua famiglia, che soffriva per aver sputato addosso ai suoi sentimenti sentiva più che mai gravare il peso delle sue decisioni.
«Vorrei... vorrei non essere mai andato via» mormorò quasi senza rendersene conto, invaso dalla tristezza.
«Vorrei aver preso delle scelte diverse» ammise per la prima volta ad alta voce, tanto che l’altro aggrottò le sopracciglia per la sorpresa.
Aveva intuito che Taichi si portava dentro un pesante fardello legato al suo radicale cambio di vita, al suo aver dovuto tagliare i ponti con la sua relazione passata, ad essersi dovuto trasferire a cinquecento kilometri lontano da casa.
Lui lo sapeva già da un po’, adesso più che mai, che il suo migliore amico fingeva.
Si preoccupava per gli altri nonostante avesse cucito addosso il peso delle sue sofferenze dalle quali non riusciva a spogliarsi.
Eppure, non smetteva di ammirarlo per la forza d’animo che aveva mantenuto, per il semplice fatto che non crollava mai fino in fondo e, semmai quel fondo lo raggiungeva, si rimetteva in piedi subito, come un vero guerriero.
«Le tue scelte ti hanno portato ad essere quello che sei» gli disse, mentre l’altro si voltava a guardarlo, quasi non aspettandosi una risposta a quello sfogo improvviso e per niente intenzionale.
Strinse le labbra mentre si guardavano.
Non gliene aveva mai parlato apertamente, gli aveva solo fatto recepire qualcosa in quei giorni, in un modo del tutto confuso e delirante.
Aveva bisogno di farglielo capire, come realmente si sentiva.
Doveva tirarlo fuori.
«Appunto, io non voglio essere questo che sono» affermò, sicuro di quello che stava dicendo, come se ci avesse messo una vita per capirlo e adesso voleva in tutti i modi allontanare quella facciata da lui
«Sono diventato un vigliacco, Matt» sussurrò, duro con sé stesso, in un tono sferzante, che mai gli aveva sentito usare per descriversi.
Il biondo non disse niente, si limitò solamente ad ascoltarlo.
«Sono arrivato al punto di non riuscire a guardare in faccia le persone... io... io non ero così...» disse in un soffio, guardandolo negli occhi con un’espressione tormentata, affranta.
«Ti riferisci a Mimi?» gli chiese l’altro a bruciapelo, e quella domanda lo fece andare in tilt.
Percepì i battiti del suo cuore accelerare e la gola si seccò.
Cosa avrebbe dovuto dire?
Si faceva pena da solo per quello che era diventato...
Non aveva nemmeno il coraggio di prendere il telefono e far partire quella chiamata che tanto sentiva di dover fare, anzi, il fatto che non avesse ricevuto risposta a quel messaggio idiota lo rendeva ancora più insicuro se andare avanti.
Coglione e vigliacco.
Perché in fondo si sentiva confortato da tutto ciò.
Yamato socchiuse gli occhi e si lasciò scappare appena un sorriso.
Lui lo sapeva realmente com’era fatto.
Conosceva la vera essenza di Taichi da una vita, e se tante volte era arrivato a sentirsi inferiore era proprio per quello che lui aveva dentro, quello che era una sorta di peculiarità innata.
Il suo coraggio.
Una forza d’animo impiegabile, qualcosa che usciva fuori anche quando si sentiva perso, quando sentiva che la fine era arrivata.
«Quello che hai fatto in questi giorni per me, il modo in cui mi hai affrontato... non mi danno l’idea che tu sia veramente un vigliacco» mormorò serio, guardandolo intensamente negli occhi.
Gli sembrò quasi che per un momento i suoi avessero ripreso a brillare di una luce accecante, e provò subito un senso di pesantezza allo stomaco.
Rimase stupito da ciò che gli aveva detto, ma nello stesso tempo non aveva dubbi a riguardo.
Perché anche se non sembrava, anche se lo teneva nascosto, il modo in cui dimostrava di tenere agli altri era unico.
Anche se commetteva degli errori, lui rimediava sempre con una maggiore consapevolezza di ciò che era, di quello che era giusto fare, delle parole che era giusto dire.
E aveva sempre le parole adatte per lui, questo Taichi lo sapeva bene.
L’amicizia.
Era un valore che faceva parte di Matt da sempre, un sentimento in cui, nonostante la sua personalità difficile da gestire, da comprendere, da ammaestrare, credeva fortemente.
Lo guardò, racchiuso nel suo silenzio a pensare a qualcosa di facilmente prevedibile.
Cosa avrebbe dovuto fare?
Voleva che stesse bene, che smettesse di pensare di non essere abbastanza, che cominciasse ancora una volta a vivere...
E rimanendo lì da solo era sicuro che non sarebbe riuscito a farlo.
Gli venne in mente un’ idea improvvisa, come fosse rimasto abbagliato da un flash.
«Vieni con me!» quasi urlò e, mettendosi a sedere, lo scosse dalle spalle.
Il biondo lo fissò interrogativo, stupefatto dall’enfasi che ci aveva messo nell’emettere quell’esclamazione.
Per qualche secondo si fermò a pensare, ma subito la sua mente razionale lo ricondusse al presente.
«No...» si oppose, come se fosse qualcosa di categoricamente impossibile da compiere.
Nonostante ciò, era come se si aspettasse dell’altro per essere convinto, e infatti non tardò ad arrivare.
«Sì, vieni con me» continuò Tai, in un tono di voce serio, ma nello stesso tempo entusiasmato.
«Vieni con me al residence fino a quando non ti sentirai pronto a tornare» aggiunse, pensando in quel momento a com’era così semplice la soluzione.
Lo avrebbe accompagnato a Kyoto e poi ad Osaka, sarebbero stati per un po’ di tempo insieme al residence dove avrebbe alloggiato, nessuno dei due avrebbe mollato l’altro precipitare nel proprio inferno.
Si guardarono intensamente negli occhi.
Come aveva fatto a non pensarci prima?
Con Matt accanto non avrebbe pensato a niente, tutto sarebbe stato più semplice, si sarebbero sostenuti a vicenda e avrebbero, a poco a poco, superato le difficoltà che in quel momento sembravano loro delle montagne insormontabili.
Era la cosa giusta da fare, come aveva fatto a non pensarci prima...
La soluzione era lì, era sempre stata lì.
Vide che il biondo lo fissava ancora incerto, allora si lasciò andare in un sospiro e la sua espressione si ammorbidì.
Gli mise una mano dietro il collo e lo avvicinò leggermente a lui.
«Fanculo, siamo stati separati per troppo tempo!» esclamò con passione, tanto che strinse di più la stretta e le loro fronti si congiunsero.
Rimasero per qualche secondo fermi, in quel modo.
Il biondo continuava a guardarlo come se lo stesse vedendo per la prima volta, stupito da quella proposta inaspettata, ma consapevole che l’altro lo stesse facendo per aiutarlo, per aiutare entrambi ad uscire fuori da quella situazione tormentata.
Loro stavano bene solo quando erano insieme, respiravano solo quando l’altro era accanto.
Andare via con Taichi significava evadere da quella vita, magari temporaneamente, o magari in maniera stabile, perché no...
Avrebbe potuto cercarsi un lavoro lì ad Osaka, ricominciare tutto senza voltarsi indietro, ma con a fianco il suo migliore amico, e il sol pensiero lo rendeva allettato.
Però... suo padre attendeva una risposta da lui, lo aveva chiamato proprio per quello, per dargli un’opportunità, e lo avrebbe deluso in quel modo.
Suo padre gli stava offrendo un posto di lavoro sicuro, mentre seguire Tai valeva a dire dipendere nuovamente da qualcuno, non essere ancora soddisfatto economicamente, riempire di preoccupazioni una persona che aveva di per sé i suoi grandi impegni.
Continuò a guardarlo.
Non sapeva in quel momento quale fosse la cosa giusta da fare, si sentiva confuso, stranito, ma bastava guardare lo sguardo risoluto dell’altro per dargli forza, la sua espressione speranzosa per farlo commuovere, facendogli intendere quanto realmente Taichi tenesse a lui, quanta ricchezza d’animo possedesse.
Non sapeva in quel momento se realmente lo avrebbe seguito, ma quello gli bastava per andare avanti.
Sapere che lui non lo avrebbe abbandonato.
«Oh, Tai...» sussurrò con la voce spezzata dalla gratitudine e dall’affetto.
Allargò le braccia e lo abbracciò, stringendolo forte a sé come mai aveva fatto. L’altro chiuse gli occhi e lo strinse a sua volta, sentendo l’emozione prendere il sopravvento.
Nessuno dei due avrebbe lasciato solo l’altro, era questo ciò che importava, era la spinta che li faceva andare avanti, che dava loro forza, che non li faceva sentire soli.
Insieme avevano lottato contro i loro nemici più grandi, contro le loro più grandi paure, e li avevano sconfitti grazie al loro legame, alle loro mani strette, ai loro sguardi complici.
Si coricarono nuovamente, vicini, abbracciati, cercando di recuperare quel poco di sonno che rimaneva loro.
Ce l’avrebbero fatta anche quella volta, ce l’avrebbero fatta sempre.
 
Insieme, fino alla fine.
 
 
 
 
 
 
 
 
Tai aprì gli occhi, sentendosi stordito.
Aveva smesso da un pezzo di piovere, ma sentiva ancora le goccioline del tetto cadere sulla ringhiera del balcone.
Tolse il braccio da sopra il fianco di Matt, il quale gli dava le spalle.
Prese il cellulare per constatare l’orario. La luce dello schermo gli diede fastidio agli occhi, ma non appena si rese conto che era tardi, non perse altro tempo.
Si mise seduto e s’infilò le scarpe. Raccolse tutte le sue cose e poi diede uno sguardo al biondo che ancora dormiva.
Risalì con una gamba sul letto e gli posò una mano sulla spalla.
«Ehi...» sussurrò per svegliarlo.
Questi aprì gli occhi lentamente e lo guardò insonnolito.
Tai gli fece un sorriso.
«Vado a casa a sbrigare una cosa» lo informò, poi lanciò un’occhiata allusiva all’ armadio di fronte
«Appena torno fai la valigia e andiamo, okay?» e lo scosse leggermente per ottenere un suo consenso.
Matt si limitò ad annuire senza aggiungere altro.
Non appena il castano fu abbastanza convinto da quella risposta, aprì la porta della camera e andò via.
Il biondo udì la porta principale sbattere a causa del vento, e non potette fare a meno di lanciare un sospiro.
Si girò dall’altro lato del letto e si perse nei suoi pensieri.
 
 
Si ritrovava ancora una volta di fronte ad un bivio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La pioggia si era placata, lasciando spazio a delle nuvole grigie che invadevano il cielo. L’aria era umida e fresca, tanto che aveva dovuto subito chiudere la porta del balcone per evitare di rabbrividire.
Mimi tornò a sedersi al tavolo, portando alla bocca la sua tazza bollente di the verde. Intorno a lei, vi erano sparsi biscotti, cereali, brioches al cioccolato e alla crema per la colazione.
In quei giorni sentiva più che mai l’esigenza di mangiare, come se nel cibo trovasse un appiglio di conforto.
Volse lo sguardo verso la vetrata da dove s’intravedeva il cielo. Gli occhi castani erano malinconici e vagavano alla ricerca di qualcosa che non sapeva nemmeno lei.
Addentò un biscotto.
Sentiva freddo.
E non solo per il fatto che la temperatura era scesa di colpo a causa del temporale e lei indossava una semplice camicia da notte di lino che le lasciava le braccia e le gambe scoperte.
Sentiva del freddo dentro, nella pelle, nelle ossa.
Si sentiva vuota e abbandonata, lasciata marcire al suo destino senza che nessuno si curasse di lei.
La sua paura più grande era sempre stata quella di rimanere da sola, per questo amava circondarsi di cose e persone, solo per non sentire addosso il peso della solitudine.
Anche se quella solitudine beffarda l’aveva seguita come un’ombra da due anni a quella parte.
Aveva tentato di ricostruirsi una vita, aveva tentato di non cedervi, di sbarazzarsi di quel peso doloroso che non la lasciava nemmeno respirare.
Quasi credeva di avercela fatta, si era circondata di amici, persone come Shinichi con il quale aveva perfino tentato di costruire qualcosa.
Ma era stato tutto inutile.
La solitudine l’aveva assalita, e i ricordi dolorosi, strazianti l’avevano atterrita fin da subito, non appena aveva incontrato i suoi occhi.
Sospirò pesantemente, stringendo la tazza tra le mani.
Aveva sofferto senza di lui, si era improvvisamente resa conto di quanto si era sentita sola senza la sua presenza, senza il suo calore, senza tutto di lui.
E quella sua stupida convinzione di essere andata avanti era svanita così come era arrivata assurdamente, facendola scontrare faccia a faccia con la realtà e farle una volta per tutte capire quanto fosse ancora innamorata di lui.
Quanto ancora amasse Taichi.
Ammettendolo a sé stessa non aveva fatto altro che scatenare in lei la più sciocca delle idee che qualcosa poteva essere ricostruita.
Aveva pensato che quel sentimento ancora acceso, ancora vivo, continuasse a bruciare allo stesso modo in lui, che il modo in cui Tai aveva fatto l’amore con lei fosse una risposta a tutti i suoi dubbi.
Si portò una mano sulla fronte.
Non sapeva quanto era stata stupida, quanto era stata azzardata a pensare una sciocchezza simile, una cosa per niente scontata.
Quella volta aveva fatto male ad affidarsi alle sue sensazioni, alle sue percezioni. Era talmente offuscata da quell’amore da non essersi resa conto che ormai era unilaterale.
Forse lo era sempre stato, perché non riusciva a concepire come un sentimento così grande potesse essersi spento.
Non importava quanto tempo fosse passato, l’amore vero per lei era destinato a non avere mai una fine.
E il fatto che Taichi non l’amasse più le procurava un dolore inspiegabile al petto che non le permetteva di respirare.
Posò la tazza e si portò una mano alla bocca.
Non riusciva a capacitarsi di come aveva fatto ad essere così sciocca e vulnerabile allo stesso tempo.
Si era sopravvalutata, aveva creduto che sarebbe stata capace di uscire indenne da quell’incontro con lui dopo tanto tempo, ed invece, si era solo bruciata.
Come un colpo di grazia che aveva sancito la parola fine.
Un rombo di tuono in lontananza squarciò il silenzio, mentre il campanello della porta principale suonava e subito faceva in modo che si ridestasse dal torpore dei pensieri malsani.
Si voltò lentamente e fissò per qualche secondo il robusto pezzo di legno che la separava dall’esterno, chiedendosi chi potesse essere a quell’ora.
Erano a malapena le nove.
Con un sospiro, s’infilò le ciabattine e si trascinò ad aprire la porta.
La faccia trafelata di Koushiro apparve sull’uscio inaspettatamente. I suoi occhi scuri si alzarono sul suo viso stupefatto e l’espressione che adottò fu di automatico imbarazzo.
Izzy era sempre così con lei, da quando erano bambini gli leggeva in volto una sorta di timore a parlarle o anche solo a guardarla.
A volte aveva come la sensazione che il ragazzo sentisse per lei una qualche specie di riverenza a cui non riusciva ad attribuirne vero senso.
Eppure, anche Mimi sentiva di avere un legame speciale con Koushiro di cui non risaliva a data; forse la loro era semplicemente una complementarità di anime sorelle destinate fin dal loro primo incontro a Digiworld.
Lo fissò analizzandolo bene da cima a fondo. I suoi vestiti erano perennemente mal abbinati, ma notava con un pizzico di sollievo che le occhiaie in viso sembravano essere diminuite.
«Ehi, buongiorno!» trillò un po’ troppo forte per i gusti di Izzy che quasi sussultò spaventato.
La sua voce era rimbombata per tutto il pianerottolo e lui doveva ancora abituarsi a quei repentini sbalzi di tono da parte di Mimi.
Non perdeva mai occasione per urlargli nelle orecchie e prenderlo in giro, ma d’altronde, era l’unica con cui riusciva in qualche modo a parlare.
«Eh... B-buongiorno, sì» borbottò, sistemandosi il colletto della maglia, attirando le risatine della castana per essere così serioso.
Lo guardava con le braccia incrociate, appoggiata all’uscio della porta.
Gli occhi del rosso vagarono sul completino che indossava, chiedendosi se non avesse freddo a dormire con solo quella semplice camicetta da notte.
Tra l’altro era praticamente impossibile evitare che il suo sguardo ricadesse sulle sue curve, eppure stava cercando in tutti i modi di non soffermarsi per più di un secondo...
«Cos’hai, tutto rigido?» gli chiese lei, con un sorrisetto increspato sul viso di cui conosceva nettamente la natura.
Lo stava canzonando come al solito, ma lui doveva evitare di farsi sgamare.
I suoi occhi erano fissi sul tavolo che si intravedeva da dietro l’uscio. Riconobbe la roba per la colazione e tentò di concentrarsi su quella che sembrava una brioche alla crema.
Il suo stomaco brontolò di rimando.
«Niente, io... sono venuto p-per recuperare...» continuò a strizzare gli occhi pur di fissare la tavola imbandita, nonostante Mimi si fosse spostata e il tessuto si era mosso tra le sue cosce.
Adesso non sapeva nemmeno cosa diamine inventarsi per uscirne.
Era venuto con un intento, ma quasi aveva timore ad aprire bocca e dirlo a lei.
Magari la prossima volta avrebbe dovuto tentare di dare un’occhiata dallo spioncello per capire cosa stava indossando, prima di suonare.
«Per recuperare il... il...» continuò a blaterare mentre nel frattempo analizzava ogni più piccolo dettaglio della brioche in fondo, quasi senza sbattere le ciglia.
Poi il colpo di genio.
«Sì, per recuperare il papillon!» esclamò, alzando perfino un dito.
Mimi lo fissò scettica, facendo una smorfietta di disappunto.
Che ancora si ostinasse a celare le sue vere intenzioni, specie a lei, lo faceva apparire oltremodo buffo, ma anche un tantino ridicolo.
Sapeva che il suo vero intento non era quello di recuperare un vecchio papillon probabilmente preso in prestito dall’armadio di suo padre.
Continuò a fissarlo inquisitoria, fino a quando il rosso non spostò lentamente lo sguardo e i loro occhi si incrociarono.
Izzy deglutì e tentò ancora di appigliarsi ad una scusa.
«L’ho lasciato il giorno della festa. Sarà sicuramente in camera di Joe» spiegò, annuendo da solo e facendo per osservare con attenzione oltre la porta, come se in qualche modo potesse intravederlo da lì.
La ragazza sospirò.
Non ci credeva che si era fatto tutta quella strada probabilmente a piedi per andare a riprendersi un’inutile pezzo di stoffa a quell’ora del mattino.
C’era ovviamente un’altra motivazione, glielo leggeva in faccia.
«Izzy...» lo richiamò con un tono che trapelava esasperazione, ma anche una sorta di rimprovero a quella solfa che stava blaterando.
Lui si voltò nuovamente a guardarla, e gli occhi caddero sul suo seno senza riuscire a controllare il gesto.
Sentì di essere diventato paonazzo e non riuscì a trattenersi.
«Oh, d’accordo! Sono passato per chiedere una cosa a Sora!» urlò quasi, mentre i suoi occhi erano ancora incollati lì, in quel benedetto punto.
Mimi notò come fosse diventato quasi del colore dei capelli e tentò di trattenere una risata, ma era impossibile vedendolo in quel modo.
Si portò una mano alla bocca e con tutte le sue forse cercò di contenersi, mentre lui con un gesto repentino la spostava da un lato ed entrava in casa senza aspettare un invito, imbarazzato ed anche irritato.
Mentre Mimi fece per chiudere la porta lo sentì puntualizzare:
«Ma ti assicuro che la cosa del papillon è vera! E poi copriti, santo cielo!»
La castana lanciò un’occhiata al suo decolté e si rese conto di avere la camicia da notte leggermente spostata, allora si premurò a sistemarla, ridacchiando.
Non appena chiuse la porta d’ingresso si voltò per guardalo e lo trovò seduto al tavolo con un’espressione burbera in viso.
Guardava la brioche alla crema come se la volesse divorare, e pensò che era meglio dare a lui un po’ di calorie piuttosto che metterle lei sui fianchi.
«Dai, mangiala, lo so che la vuoi» lo rimbeccò, per poi sedersi di fronte a lui ed esibire un sorriso sornione.
Koushiro la guardò sorpreso che avesse indovinato i suoi pensieri, poi fece per dire qualcosa, ma il suo stomaco parlò per lui, brontolando funestamente.
Sospirò e con un gesto afferrò la brioche.
Mimi lo guardò mangiare continuando a sorridere.
Era proprio una sagoma di ragazzo, e non solo perché era naturalmente buffo e goffo, ma anche perché in qualche modo riusciva sempre ad emergere usando la sua piccatezza e la sua retorica impeccabile.
Ricordava tutte le volte in cui aveva zittito prontamente Tai e Matt durante una delle loro litigate da adolescenti e di come li aveva fatti rigare dritto con un solo semplice discorso e delle occhiati fulminanti.
Anche Joe, seppur più fumantino, non riusciva a sovrastare l’indole innata da pacifista di Izzy e le sue frasi steccanti.
Lo ricordava anche per la sua saggezza, ma non sapeva se era riuscito a recuperarla dopo averla completamente persa per strada.
Lo vide che aveva finito di mangiare. Si era persino scolato un bicchiere di succo al mirtillo che personalmente le faceva schifo, ma che Joe si ostinava a comprare perché sempre in offerta alla bottega lì vicino.
«Allora» lo rimbeccò Mimi d’un tratto, mentre lui sentiva puzza di domande e si versava dell’altro succo per tergiversare con il tempo
«Cosa dovevi chiedere a Sora che non puoi chiedere a me?» gli chiese canzonatoria, con le unghie picchiettava la superficie del tavolo scandendo i secondi di imbarazzo.
Ad Izzy scese di traverso il succo.
Cominciò a tossire, mentre lei aveva il viso appoggiato contro il palmo della mano e non smetteva di fissarlo allusivamente.
Se c’era uno dei fatti assodati, era che Mimi adorava mettere in difficoltà Koushiro.
Era scientificamente provato, pensava Izzy, che quella ragazza si divertisse a tendergli delle trappole celandole dietro delle semplici frasi apparentemente innocue.
«Ehm, no, non è come pensi...» borbottò, cercando di ignorare le sue risatine derisorie che alludevano a chissà quale favore lui volesse da Sora.
Aveva certamente uno scopo ben mirato quella sua visita, e in parte lo doveva anche a lei se si era fatto avanti dopo tanto tempo.
Tentò di ridestarsi e si raddrizzò sulla sedia, aggiustandosi il colletto della polo viola leggermente spiegazzata.
Doveva molto a Mimi, comunque, da quella sera alla festa. L’aver parlato con lei lo aveva aiutato a farsi forza e superare le sue paure, dei limiti che si era possibilmente ed esclusivamente imposto perché convinto di non essere capace a superarli.
Non aveva mai passato un periodo della sua vita in cui non aveva provato stima verso sé stesso. Era consapevole di quelle che erano le sue doti e le sue abilità, e ne era sempre andato fiero.
Eppure con l’avvento della condizione di salute di Frankie si era sentito così strettamente inadeguato da non riuscire a trovare la forza dentro di sé per cambiare le cose. Forse, si ritrovò a pensare, aveva solo bisogno che qualcuno con una grande forza interiore, qualcuno di così diverso, ma nello stesso tempo propriamente simile a lui lo smuovesse e lo risvegliasse da quel torpore.
Mimi ce l’aveva fatta con lui, ed Izzy le era grato.
Glielo sarebbe stato a vita.
Si schiarì di poco la voce.
«Insomma, so che lei sta facendo il tirocinio in una clinica specializzata e... volevo sapere delle informazioni riguardo la clinica di riabilitazione, sai... per Frankie» concluse, tentando di essere il più esaustivo possibile.
Per qualche secondo si sentì nettamente stupido ad essersi aperto in quel modo senza omettere nulla, tanto che chiuse spontaneamente entrambi gli occhi e ne aprì solo uno per spiare la reazione della ragazza di fronte a sé.
Mimi era nello stesso tempo meravigliata ed un po’ emozionata.
Non sapeva se la sua precaria condizione mentale le giocava degli scherzi, ma sentiva che Izzy aveva compiuto un piccolo passo avanti che risultava essere uno di quelli grandi e decisivi.
L’accettazione, poi la cura.
Dopo la cura, la rinascita.
Per entrambi.
«Sei riuscito a convincerla?» le chiese con un sorriso incoraggiante e radioso, allungando spontaneamente una mano verso di lui e stringendo la sua.
La pelle di Koushiro era fredda e secca, tanto che sentì l’istinto di riscaldarla con le sue lisce e calde.
Lui fissò le loro mani strette come se quel gesto fosse inusuale, ma nello stesso tempo necessario per incoraggiarlo ad andare avanti, e lo trovò così intimo che, superando l’impaccio, decise di racchiudere con l’altra mano libera quella della ragazza.
«Sì, abbiamo parlato tanto e lei è stata comprensiva» la sua bocca parlò per lui «Dice che lo farà per me, per noi, per la nostra storia» annunciò in tono quasi solenne e si vedeva che questa volta Frankie lo aveva detto con convinzione, non era una delle sue solite bugie perché Izzy ci credeva veramente.
Mimi sorrise, sentendo gli occhi distrattamente lucidi.
Forse era diventata estremamente romantica e si contraddiceva da sola perché non era mai stata un’amante di romanzi rosa o smancerie troppo eccessive; credeva solamente di essere felice per un amico.
O semplicemente, in cuor suo, sperava che quella felicità sarebbe toccata a lei, un giorno.
Con Taichi.
«Avevo solo bisogno di sbloccarmi» continuò Koushiro, mentre faceva un sorrisino timido e si grattava la testa.
Poi le rivolse uno sguardo in cui vi lesse della gratitudine e dell’affetto.
«E credo di avercela fatta. Anche grazie a te» le disse poi, e capì che ne era realmente convinto, non lo diceva solo perché si trovava di fronte a lei.
Mimi si sentì compiaciuta e pensò che era da un po’ di tempo che non si sentiva utile per qualcuno, specie con qualcuno dei suoi più cari amici.
Con Sora era stata assente per troppo tempo, troppo presa dalle sue cose.
Si era solo degnata di aprir bocca quando aveva qualcosa che l’affliggeva personalmente ed aveva bisogno di sfogarsi.
Era stata davvero egoista.
Aveva persino provato gelosia verso la sua migliore amica.
E tutto per chi?
Per colpa di Tai.
Sospirò. Sperò solamente che la ramata avesse capito e avesse perdonato quell’essere perennemente imperfetta che tanto si ostinava a coprire in perfezione.
«Ma va, io non ho fatto niente» rispose ad Izzy, pensando che non valeva prendersi il merito per qualcosa di cui aveva solamente fatto parte per breve tempo.
Lei era solo arrivata nel momento giusto e aveva scosso Koushiro nel modo giusto.
Era stato lui a trovare la forza dentro di sé, e lo ammirava per quello.
Avrebbe dovuto prendere esempio da lui, piuttosto che essere allettata da dei complimenti immeritati.
«Era tutto racchiuso in quel testone da scienziato!» esclamò poi, facendogli la linguaccia e premendo un dito sulla sua fronte.
Il rosso quasi sussultò spaventato, poi si rilassò lasciandosi andare ad una risata.
Risero insieme.
Subito dopo Mimi si portò una ciocca di capelli castani dietro l’orecchio, cambiò espressione e spostò lo sguardo pensierosa.
Izzy se ne accorse e l’osservò.
Sapeva che era una ragazza testarda ed orgogliosa, ma era spesso tutta un’apparenza che si ostinava a tenere rigidamente costruita intorno a sé.
Mimi era una ragazza sensibile ed assorbiva tutto ciò che le succedeva intorno.
Sapeva che la rottura con Taichi era una cicatrice ancora aperta, ed aveva perfino capito come anche per il castano quella storia non era del tutto chiusa.
Lui non sapeva niente dei loro trascorsi privati, poteva solo immaginarli perché conosceva bene entrambi ed aveva una chiara percezione di quello che tutti e due potevano potenzialmente avere bisogno.
Erano simili, e a causa di ciò tendevano entrambi a primeggiare.
Avevano solo bisogno di fermare quella guerra che stavano combattendo l’uno contro l’altro.
Non seppe se era il caso di intervenire, ma Mimi lo aveva fatto con lui, ed aveva usato solo semplici parole, ma buone.
E lo sapeva che bastava solo arrivare al momento giusto.
«Senti, Mimi, volevo anche dirti... perdonami se te lo dico...» s’introdusse, perché sapeva come fosse anche oltremodo permalosa, e voleva evitare di entrare nel suo privato a gamba tesa e ferirla.
La castana alzò la testa e lo fissò incuriosita.
Izzy si sentì un po’ sotto pressione e si allentò il colletto della maglia.
«Volevo dirti che mi piacerebbe se tu facessi lo stesso» affermò poi, guardandola seriamente e in un modo che Mimi conosceva bene.
Era tipo un rimprovero quello che il rosso le stava rivolgendo, e lei non aveva mica capito a cosa si riferisse.
O forse, lo poteva benissimo sospettare, ma sperava di sbagliarsi...
«In che senso?» gli pose quella domanda cercando di fare la finta tonta, ma forse risultò essere un tantino troppo brusca.
Non era altro che espressione del timore che si affrontasse quell’argomento.
Non riusciva a non pensare ad altro, e aveva paura di scoprire che per gli altri, per Koushiro stesso, lei aveva torto, aveva sbagliato tutto.
Perché già ne era consapevole.
Izzy la guardò con aria di chi la sapeva lunga.
«Con Tai» pronunciò quel nome fermamente, senza esitare.
La vide bloccarsi, mollare le sue mani e fare una smorfia, ma sapeva che stava solo fingendo di non essere particolarmente coinvolta; si vedeva lontano da un miglio come i suoi occhi esprimessero tutt’altro.
Il rosso sospirò.
Non sapeva se era perché si sentiva particolarmente in forma dopo tanto tempo, ma sentiva che era necessario che usasse delle frasi dirette per arrivare a Mimi.
Lei era abituata, spesso e volentieri, a girarci intorno alle cose, ma ciò di cui necessitava in quel momento era che qualcuno la scuotesse.
Come aveva fatto lei con lui.
Al momento giusto e con le parole giuste.
«Io lo so che siete ancora innamorati» sentì quelle parole che uscivano da sole dalla sua bocca e per l’ennesima volta in quel giorno fu lieto di aver acquistato nuovamente il suo temperamento.
Ne fu lieta e sorpresa anche Mimi, che alzò lo sguardo a fissarlo con le orbite leggermente spalancate.
Izzy non demorse.
«Non fare quella faccia» la redarguì «conosco entrambi, siete solo un tantino egoisti, codardi ed anche orgogliosi»
La colpì in pieno come un getto di acqua fredda.
Ebbe freddo sul serio e tentò di coprirsi con le braccia stupidamente.
L’amico la guardava ancora, e lei si trovava ad avere gli occhi vacui nel nulla e la mente che rimuginava, lavorava frenetica e risaliva a dei giorni addietro.
Quando lei e Taichi avevano fatto l’amore.
Forse aveva ragione a dire che era una codarda, egoista ed anche orgogliosa, lo ammetteva, ma non aveva ricevuto niente in cambio all’aprire il suo cuore di nuovo dopo mesi e mesi di silenzio.
Lui l’aveva abbandonata per l’ennesima volta senza curarsi dei suoi sentimenti, o perlomeno, senza aver avuto un briciolo di rispetto verso la loro storia passata.
Cosa si aspettava che facesse, adesso?
Mimi era stanca, esausta, non aveva più le forze necessarie per lottare.
Aveva fatto il possibile, e non riusciva ad immaginare di poter toccare il fondo oltre come aveva fatto quella volta.
Scosse la testa.
«Senti, io ci ho provato con lui, ma non è andata. Anzi, questa volta è andata peggio dell’ultima» rispose velocemente come per cercare di sotterrare la questione e zittire Koushiro che era in vena di scavare nei meandri della sua psiche.
Fece per aprire un qualsiasi altro discorso, ma l’altro fu più veloce.
«Sai qual è la cosa che non va bene tra te e Tai?» le chiese a bruciapelo, e lei rimase di stucco.
Si chiese quale fosse, perché forse non l’aveva capito nemmeno lei.
Per un attimo ebbe paura di sentire la risposta, ma poi fece cenno all’altro di continuare a parlare.
«Il fatto che siate entrambi egocentrici» rispose Izzy con un pizzico di ribrezzo.
Mimi si portò una mano alla testa, sospirando piano.
Niente di nuovo, insomma...
«Non vi siete mai fermati un attimo a pensare qual è realmente la cosa che desidera l’altro. Non l’avete mai fatto!» esclamò Izzy, alzando le mani, sottolineando una realtà che Mimi cercava di nascondere a sé stessa da tempo.
Non riuscì a dire niente.
«E’ stato proprio questo a farvi allontanare» dichiarò il rosso con cognizione, mentre lei aveva lo sguardo basso e gli occhi che piano cominciavano a diventare lucidi.
Non doveva scoppiare, doveva trattenersi ancora per un po’...
Izzy se ne accorse e si sporse per guardarla meglio e far in modo che anche lei lo guardasse.
Si vedeva che era ferita, ma era necessario che aprisse gli occhi e la smettesse di vivere in un modo tutto suo.
«Però il fatto che siete simili dovete trasformarlo in punto di forza, in comprensione. Come abbiamo fatto io e Frankie. Voi, invece, l’avete fatto diventare lo scoglio più grande della vostra relazione»
A Mimi scese una piccola lacrima. Subito si apprestò a tamponarla con il palmo delle dita.
Koushiro aveva pienamente ragione.
Era esattamente quello che pensava lei, ma che non aveva mai espresso ad alta voce.
Era per questo che si sentiva ferita nel profondo nel constatare come avessero rovinato tutto, come anche lei avesse distrutto tutto con l’unica persona che aveva mai realmente amato.
Izzy le prese di nuovo una mano.
«Se ce l’abbiamo fatta noi, potrete farcela anche voi» l’incoraggiò con un sorriso, e poi le diede dei buffi colpetti sulla spalla.
Mimi seguì il gesto con gli occhi e le venne da ridere forte tra le lacrime.
Le era mancato vederlo in quel modo, incoraggiare gli altri quando li vedeva crollare; Koushiro era la loro roccia, il loro appiglio nei momenti di sconforto, quando credevano di non potercela fare, lui era lì a motivarli tutti ad andare avanti.
Era la ruota motrice del gruppo, e senza di lui, nessuno di loro sarebbe riuscito a rialzarsi completamente.
Specie lei.
«Sono contenta che tu abbia recuperato la tua saggezza» gli confidò sentendosi realmente fiera di avere un amico come lui.
Koushiro non fece in tempo a dire nulla, perché la castana lo aveva tirato dalla mano con cui stringeva la sua, si era sporta sul tavolo e lo aveva abbracciato.
Lui arrossì come da indole, ma non mancò di alzare il braccio libero e poggiare la mano sui suoi capelli.
Le faceva così tenerezza il modo goffo con cui stava ricambiando il suo abbraccio.
Izzy aveva passato un periodo duro a causa dei problemi di droga di Frankie, forse il periodo peggiore della sua vita, e nemmeno poteva immaginare come ci si poteva sentire in quella situazione.
La sua sofferenza per Taichi era egoista al confronto, ma Koushiro non l’aveva trattata come se fosse una bambina esagerata, aveva rispettato il suo malessere e le aveva insegnato come bastava poco per superare i momenti bui.
Izzy le aveva fatto intendere che con un po’ di buona volontà le cose in un rapporto potevano sistemarsi se solo si arrotondavano un po’ gli angoli più spigolosi del carattere.
Era lei che doveva tanto a lui, non viceversa.
Joe aprì improvvisamente la porta scorrevole del soggiorno e rimase sulla soglia a guardarli.
Mimi si accorse subito della sua presenza e si staccò dall’amico. Questi fu destato dal rumore dietro le sue spalle e, a sua volta, si voltò.
Cadde il gelo nella stanza.
I due ragazzi si fissarono come volessero testarsi e per qualche secondo nessuno disse niente, ma lei riusciva a captare la tensione nei loro sguardi.
Non si parlavano dal giorno della festa di laurea, e come al solito si erano battibeccati per qualcosa; ma stavolta, da ciò che aveva capito, Joe ci era andato giù pesante, e non che fosse una novità, ma Izzy se l’era presa sul personale più delle altre volte.
Decise di non intervenire e lasciare che loro stessi facessero qualcosa o perlomeno si salutassero, nonostante nessuno accennasse ad aprir bocca.
Non tolse gli occhi da Joe, però, il quale sentì il suo sguardo severo addosso e con uno sbuffo raddrizzò le spalle e si fece avanti.
«Ciao, Koushiro» lo salutò, sforzandosi di utilizzare un tono mellifluo che non gli apparteneva affatto, ma di cui, anzi, si serviva solo per sbeffeggiarsi di qualcuno oppure sputare fuori una serie di semi cattiverie.
Il rosso, infatti, lo riconobbe e fece una smorfia di rimando.
Mimi pensò che non gli avrebbe nemmeno risposto, ma quello alzò la testa facendogli un cenno di saluto.
Il corvino diede un sospiro che aveva tutto tranne che rammarico. Sembrava piuttosto sottolineare il suo essere infastidito dall’averlo tra i piedi.
Pensò se non gli avrebbe urlato nelle orecchie che le buone maniere le aveva lasciate Dio, qualcosa inerente alla religione, ma non fu quello che successe.
«Possiamo parlare?» gli chiese inaspettatamente.
Quella domanda fu così strana che gettò entrambi nel panico.
Che stava succedendo?
Izzy aggrottò le sopracciglia e si voltò verso Mimi, lanciandole uno sguardo stupito.
Lo aveva chiesto sul serio?
La castana alzò le spalle come segno che non ne sapeva niente e portò alle labbra la tazza con il the verde ormai freddato.
«Visto che sono in casa tua...» gli diede quella risposta ovvia Izzy, utilizzando un tono distaccato che faceva intendere che non avrebbe potuto fare a meno di sorbirselo.
Joe gonfiò il petto e il suo viso si colorò per qualche secondo, segno che aveva una voglia matta di rispondergli e digliene quattro, ma probabilmente aveva fatto una specie di fioretto a qualche divinità e aveva una missione da compiere.
Così, alzò una mano, mosse le dita e le strinse a pugno per calmarsi.
«Mh» emise uno di quei suoni che era solito fare quando in tv passavano le modelle di Victoria’s Secret e non voleva ammettere che erano bellissime.
Poi si avvicinò di più all’amico che lo guardava in modo scettico.
«Io... beh, volevo dirti, riguardo l’altra sera che...» cominciò a farneticare, ma si vedeva lontano un miglio come si stesse sforzando a dire qualcosa di cui non era d’accordo, tanto che scoppiò come pronostico
«Beh, che è vero! Quello che io ho detto è vero!» esclamò non riuscendo a vincere le buone intenzioni di porsi con un certo garbo.
Izzy fece un gesto con la mano che significava “che ti avevo detto” verso di Mimi.
Joe era del tutto incapace a riconoscere le sue colpe.
Aveva una specie di handicap quando si trovava a ragionare su cosa era politicamente corretto o meno, per non parlare di quando si trattava dell’ammettere di avere torto!
Era un tipo testardo e spesso arrogante, delle volte diventava davvero  impossibile tenere un discorso decente con lui perché voleva averla vinta ad ogni costo, per questo Koushiro non aveva più intenzione di starlo a sentire.
Non sarebbe cambiato mai, non veramente.
«Grazie tante» affermò tagliente «Se sei venuto per rimarcare-»
Joe, però, non aveva realmente intenzione di aprire un’altra faida.
«No, aspetta!» lo bloccò, passandosi una mano sul volto.
O almeno, voleva tentare; poi con lui non si sapeva mai, non riusciva a tenersi a freno nemmeno legato da due incudini.
«Porca zozza... è così difficile per me...» mormorò sconsolato più a sé stesso che a chi lo stava ascoltando.
Aveva un vero problema a pesare le parole, e questo perché aveva il dono della sincerità, un sigillo impostogli da quando era stato a Digiworld, e se prima l’essere sincero lo aveva aiutato tante volte a farsi valere, o così almeno pensava lui, da un po’ di tempo a quella parte gli aveva recato solo palesi danni.
Aveva fatto del male a persone a cui voleva bene, e si era reso conto che, forse, nella vita era meglio essere un po’ più cauti ed omettere determinate cose che ferivano e basta.
Il fatto era che lui non era certo della pasta di quelle due fesse di Sora e Mimi che perdevano un sacco di tempo a fare sermoni l’una all’altra, e quando mai ne avevano fatte una giusta poi!
Lui amava gustarsi il sapore della sincerità, sapeva di vino vecchio di vent’anni e tre gocce di Chanel n° 5.
Fu destato dal suo torpore da Koushiro che gli rispose piccato.
«Prova ad urlarlo offensivamente, come fai sempre» lo rimbeccò, e gli si sgretolò addosso il muro della pazienza, altra sua virtù mancante.
Mimi soffocò un risolino e lui si gonfiò di rabbia.
Ci provava anche ad essere gentile, ma quel dannato cibernetico...
«No, aspetta che uso il linguaggio HTML così faccio collegare la tua testa rosso pomodoro ad internet!» gli sputò contro con sarcasmo, alludendo al fatto che non capiva un’acca che non aveva a che fare con i computer.
I soliti cliché, insomma.
Izzy sospirò e poi diede un’occhiata all’orologio. Si erano fatte le dieci ed era andato a casa loro con un intento ben preciso, non di certo per ascoltare le sue solite uscite del cavolo.
Si rivolse alla castana, ignorandolo.
«Mimi, se puoi gentilmente chiamare Sora...» le disse per tagliare corto la discussione, ma la ragazza non fece nemmeno in tempo ad alzarsi dalla sedia che il corvino s’intromise nuovamente.
«Lascia stare quell’emo sconsolato! Si starà tagliando le vene con la lametta dei peli» fece un gesto con una mano per rinviare a dopo la questione.
Caspita, allora aveva realmente qualcosa da dirgli, nonostante non riuscisse ad esprimersi in maniera diversa dallo starnazzare.
La castana si mise sull’attenti ed anche Koushiro lo guardò parecchio stralunato.
«E allora hai intenzione di dire qualcosa di sensato?» lo provocò.
Joe chiuse per una attimo gli occhi e invocò Dio affinché gli desse la forza giusta per controbattere con giudizio.
Koushiro che gli parlava di sensato con quella maglia, quei pantaloni e, soprattutto, quei capelli...
Ma d’altronde, se i ghiacciai si stavano sciogliendo… era un mondo tutto sottosopra...
«D’accordo» gli concesse, poi schiarì la voce e si preparò ad iniziare un discorso.
Mimi sgranocchiò un biscotto, coinvolta.
«Allora, Koushiro...» incominciò pacato, per poi iniziare a gesticolare nervosamente «quello che volevo dirti è che... insomma quella sera io ho... beh, quello che sto cercando di spiegare è... quello che non posso negare è che probabilmente quella sera io sarò stato un po’ bevuto a dirti...»
Come da copione scoppiò.
«No, non posso mentirti!» sbatté un pugno contro il tavolo, facendo spaventare Mimi che stava prendendo un altro biscotto.
Ritirò subito la mano.
«Sono cose che penso realmente!» urlò e dalla faccia sembrava un ossesso, le mani erano aperte e le muoveva davanti al viso.
Izzy fece per dire qualcosa.
«Però aspetta, il mio intento non era ferirti...» biascicò dopo tentando di tamponare, ma il rosso non gli diede modo di esprimersi perché gli rivolse uno sguardo omicida con gli occhi neri.
Stava scherzando?
Forse aveva dimenticato tutte le stronzate che gli aveva detto, una serie di cattiverie allucinanti che erano troppo pure per un soggetto trashomane come lui.
«Era complimentarti con me per essere... com’è che hai detto?» fece finta di non ricordarsi, interrogandolo, e Joe fece finta di pensarci.
«Forse... che sei un po’ indietro con gli studi, mi pare...»
«Che sono una persona mediocre? Che non prenderò mai una laurea? Che tu con le persone mediocri non ti ci mischi?»
«E’ che mi ricordavo che studiavi scienze della comunicazione...»
«Ti ricordo che io studio ingegneria informatica, sono un tutor retribuito e mi sono dovuto fermare per delle questioni personali e soprattutto delicate, questioni legate a Frankie di cui per quanto mi risulta hai anche sparlato e deriso»
Joe scrollò le spalle.
«Non l’ho tolta davvero quella margherita»
Izzy si interruppe e lo guardò in modo redarguente. Joe si zittì di rimando.
«Il mio percorso è stato brillante esattamente come il tuo» concluse con fierezza, con una luce negli occhi che Mimi colse e apprezzò.
Il suo sguardo teneva testa a quello di Joe, avrebbe potuto tenere testa a tutti, in realtà, perché Koushiro aveva carattere da vendere dietro la sua timidezza e il suo essere riservato.
E questo Joe lo sapeva, per questo lo stuzzicava in continuazione, perché era l’unico che non cedeva alle sue provocazioni, anzi, gliele restituiva di getto.
Il corvino, infatti, gli lanciò un’occhiataccia.
«Non c’è bisogno di fare il fanatico!» incrociò le braccia ed usò un tono petulante
«Io lo so benissimo che tu sei un asso di coppe, però avevo paura che confondessi la briscola!»
Il rosso fece una faccia esasperata e confusa.
«Ma come parli...» soffiò, stanco di sentirlo arrampicare sugli specchi e girare intorno al discorso senza arrivare al dunque.
Il maggiore imprecò e perse nuovamente la pazienza.
Quel maniaco ossessivo compulsivo di computer voleva proprio che parlasse, non c’era niente da fare, avrebbe dovuto spiegargli tutto...
E lui che pensava che fosse intelligente sul serio!
«Oh, insomma, Koushiro! Volevo solo spronarti, farti arrabbiare! Volevo che ti riprendessi da quel tuo stato di invertebrato!» sbottò, aprendo le braccia.
Izzy emise un suono indignato con la bocca.
«Invertebrato?» ripeté.
«Nel senso di privo di carattere e forza morale, mica che non hai la colonna vertebrale!»
Il rosso chiuse gli occhi per accusare il colpo e Mimi scosse la testa.
Ma faceva davvero?
«Io lo so che spesso utilizzo la mia sincerità per ferire» continuò Joe, che ancora più che parlare a loro sembrava fare un monologo con sé stesso.
Quasi come se stesse cercando di far riconoscere quelle cose al suo essere.
«E ammetto anche che, beh... che io possa esagerare un po’...» mormorò.
Izzy fece una faccia canzonatoria.
«Perché è un’arma a doppio taglio» lo provocò.
Joe si stava rendendo conto di come sparlare a vanvera solo per proclamarsi sincero danneggiava gli altri, ma anche sé stesso.
Se ne capacitava solo adesso dopo anni in cui si era comportato esattamente alla stessa maniera, e adesso che gli altri non accettavano più il suo modo di fare perché non risultava affatto essere divertente, aveva realizzato che era giusto darsi un contegno.
«No, è una sciabolata morbida, te lo giuro!» lo vide avanzare verso di lui con le mani giunte a preghiera.
Non sapeva cosa aspettarsi da lui, seriamente.
Lo vide guardarlo come se volesse supplicarlo, ma non sapeva fino a che punto avere fiducia, se era pentito sul serio o era un altro dei suoi teatrini giullareschi.
Joe capì che Izzy non gli credeva, allora decise di ammettere finalmente le sue colpe e pronunciare quelle fatidiche parole.
«Io ti chiedo scusa, Koushiro» dichiarò celebre «La sincerità deve essere maneggiata con cautela. Prometto che lo farò da oggi in poi»
Non seppe se il modo in cui l’aveva pronunciato o il modo in cui si teneva il petto con gli occhi chiusi, Mimi seppe solo che non appena Izzy incontrò il suo sguardo regalandole un’espressione scioccata non potette fare a meno di scoppiare a ridere.
 
Nessuno poteva crederci.
 
Era successo realmente?
 
Era una data da segnare nel calendario.
 
«Mi hai davvero chiesto scusa?» chiese il rosso con gli occhi spalancati.
Joe aprì un occhio per guardarlo.
Metteva in discussione la sua buona fede?
Non lo sapeva che provava quella frase da giorni di fronte allo specchio pur di dirla così bene com’era uscita?
«Perché, che c’è di strano?!» lo rimbeccò sulla difensiva, notando che anche la castana lo guardava con un’aria di scherno
Nessuno ci credeva.
«Io sono una persona umile, a differenza di voi tutti!» guardò con rabbia Mimi che non riusciva in nessun modo a trattenere le risate.
Izzy lo guardò scettico.
«Ma per favore, ci hai messo ventisette anni ad ammettere di aver sbagliato qualcosa!»
«Ognuno ha i suoi tempi, okay?!» sbottò Joe, cercando di giustificare il suo ritardo nell’avere una visione obbiettiva dei suoi errori.
Non capiva perché quel cibernetico non si prendeva le scuse e non la smettesse di uscirsene ogni volta con delle note stonate a piè di pagina.
Nemmeno la sua tesi ne aveva così tante!
S’infervorò.
«Lo vedi? Lo vedi come non riesco a comunicare con te, cibernetico che non sei altro?! Devo aprire l’Adsl, altrimenti non ti arrivano le informazioni in quella testa rosso pomodoro!»
Lo faceva proprio incazzare quel finto Einstein nano di merda...
Si frugò una tasca, mentre continuava ad inveire.
Se ne tornasse in mezzo ai computer ad ammazzarsi di porno, che tanto lo sapeva a cosa gli serviva la fibra, altro che tutor retribuito dei suoi stivali...
Nel frattempo, Izzy aveva tirato fuori il cellulare ed impostato la modalità live su Instagram, riprendendolo a sua insaputa.
Accettava le sue scuse tardive perché era troppo un bislacco per eliminarlo dalla sua vita e non avere un caso particolare su cui fare ricerche scientifiche, ma gliel’avrebbe fatta pagare in qualche modo.
«E comunque, ecco qua il tuo papillon ingiallito che hai lasciato sul mio letto! Ho dovuto lavare il materasso con la candeggina per colpa tua, maniaco, squilibrato... tu e quella piedi storti che-CHE CAZZO FAI, FILMI?!»
Izzy si alzò dalla sedia e si allontanò per non farsi acchiappare, mentre le risate di Mimi si sentivano da sottofondo a quella serie di insulti ed urla.
Si allontanò subito dal tavolo e si mise al riparo vicino alla porta scorrevole, pronta a fuggire.
«Tu sei un infame!» inveiva Joe, mentre cercava di afferrarlo senza successo.
Andava da un lato del tavolo e lui scappava dall’altro, andava dall’altro e lui scappava da...
Strinse i denti.
«GRRRR! IO TI SPEZZO LE-»
«Fermo, che ci faccio un milione di visualizzazioni con questo!» lo avvertì il rosso alzando un braccio, facendogli drizzare le orecchie.
Lo vide fermarsi di getto.
«Dove lo pubblichi?»
«Instagram»
«Quanti followers hai?»
«Parecchi»
«Aspetta, allora»
Tirò fuori uno specchietto e si sistemò i capelli e gli occhiali.
«Premi Rec»
E cominciò lo show.
«Tu vuoi solo infangarmi in realtà, Koushiro, vuoi prenderti giuoco di me! Io, anche se non sembra, ho sempre voluto essere amico tuo, ma non è possibile, non riesco, mi sei troppo ostile!» si dannava, alzando le mani al cielo con teatralità magistrale.
Poi la situazione cominciò a sfuggirgli di mano e afferrò i cuscini del divano, gettandoli addosso all’amico.
«Faccio bene a preferire TK a te, faccio bene!» si tolse una ciabatta e gliela lanciò a sua volta, rischiando di colpirlo.
«Oh, piano!»
Si era calato fin troppo nella parte.
Si tolse l’altra e si avvicinò, colpendolo più volte al braccio.
«Mi fai girare le nacchere!» diceva, scandendo sillaba per sillaba «Mi riempi il sangue di veleno, mi fai esplodere le palle come il Big Bang, mi fai-»
Mimi si chiuse la porta scorrevole alle spalle, scegliendo di abbandonare il campo di battaglia e lasciando che quei due si divertissero da soli.
Le era venuto il mal di testa.
Decise di recarsi in camera di Sora e svegliarla, non si era ancora fatta viva.
In realtà, non la vedeva dalla sera prima, era andata probabilmente a letto presto, per questo era strano che a quell’ora non fosse ancora in piedi.
Specie con quel fracasso.
SBAM.
Una ciabatta colpì la porta e lei sussultò dallo spavento.
Fece una smorfia e le venne da sorridere, pensando che Joe ed Izzy era un duo bucolico quando ci si mettevano.
Era contenta che avevano fatto pace; ci voleva una ventata di positività dopo tutto il grigiume di quei giorni.
Bussò in camera della ramata, ma questa non rispose, allora riprovò un’altra volta.
Fece una faccia interrogativa.
Perché non rispondeva?
Decise di aprire la porta senza attendere oltre ed entro di gettò.
«Sora...» la chiamò, ma spalancò le orbite non appena si rese conto che il letto era vuoto, intatto.
Strizzò gli occhi per constatare se vedeva bene.
Non era lì.
Sora non aveva passato la notte a casa.
Si avvicinò al letto e sfiorò la trapunta con un dito.
Era strano e perlopiù non aveva nemmeno avvertito, una roba non da lei.
Durante gli anni passati capitava che passasse la notte fuori a casa di Matt, ma adesso la situazione non era così talmente idilliaca da permetterselo.
Si sedette sul letto e gettò uno sguardo fuori dal balcone, sospirando, mentre il vociare ovattato dei due ragazzi era l’unico rumore a spezzare il silenzio della stanza.
 
Dov’era andata Sora?
 
Non aveva affatto un sensazione positiva.







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Capitolo 18
*** Casa nostra ***









Taichi uscì dalla banca dopo aver fatto la fila per più di mezz’ora.

Aveva contato male il tempo, credeva di riuscire a finire prima del previsto, eppure si erano già fatte le dieci e un quarto e ancora non era riuscito ad arrivare a casa.
Guardò il cellulare e serrò la mandibola, sperando di arrivare in tempo per l’appuntamento che era fissato per quella mattina.
Salì a bordo di un pullman e si strinse alla giacca, sentendo nella tasca interna il gruzzolo che aveva prelevato.
Guardò fuori e non riuscì a pensare ad altro se non arrivare a destinazione. Le strade erano affollate e temeva di giungere in ritardo.
Non appena scese dal mezzo che lo lasciò a cento metri dalla sua abitazione, si mise a correre senza badare ai passanti che di trovavano nella sua traiettoria.
Doveva farcela.
Aveva giurato a sé stesso che ce l’avrebbe dovuta fare e ce l’avrebbe fatta.
Sarebbe riuscito a giungere in tempo.

Una signora di mezz’età stava entrando proprio in quel momento, si fermò per darle educatamente il tempo di tirar fuori la chiave ed aprire, nonostante avesse voglia di farlo da sé per anticipare i tempi.
La donna infilò la chiave nella toppa ma non riuscì a spingere il portone che rimase chiuso, ci provò un paio di volte ed ogni secondo che passava Tai pensava che avrebbe fatto tardi.
Imprecò mentalmente.
Doveva farcela, dannazione.
Senza pensarci afferrò la chiave dalle mani della signora e girò verso destra, una spinta forte ed il portone si aprì.
Non si rese nemmeno conto che la signora si era spaventata dall’irruenza che aveva utilizzato, così non mancò di scusarsi e le tenne pure la porta per farla passare.
Era impulsivo delle volte, ma il tempo passava velocemente ed ogni minuto perso equivaleva arrivare alla fine.
Non poteva perdere, era come nel calcio, doveva battere gli avversari sul tempo e raggiungere il suo obbiettivo.
Corse nelle scale, superando cinque piani a piedi.
Per fortuna che quegli allenamenti stremanti lo avevano aiutato a rinforzare la sua resistenza e il suo fiato.
Ce l’aveva fatta, era arrivato alla porta di casa sua.
Una mandata di chiavi ed entrò di scatto, la porta sbatté e le persone all’interno si voltarono a guardarlo, interrogativi.
Sua madre e suo padre si trovavano seduti al tavolo con di fronte il proprietario della casa, il signor Robert Shinamoto, insieme ad un’altra persona vestita di tutto punto che stava ritta in piedi quasi fosse un suo body-guard.
«Fermi!» quasi urlò e sentì il cuore che gli saliva fin sopra alla gola.
Aveva il fiatone, ma puntò gli occhi verso di lui con un uno sguardo fermo e lanciò le chiavi sul muretto facendo oltremodo rumore.
Non sapeva perché l’aveva fatto, in realtà, ma sentiva una strana adrenalina in corpo, qualcosa che non provava da tanto tempo.
Non aveva idea di cosa fosse di preciso, sapeva solo che l’aveva già sentita altre volte in passato; semplicemente non ne ricordava più le sensazioni.
«Non firmate niente!» ordinò, mentre i suoi genitori lo guardavano come se fosse impazzito tutt’ad un tratto.
«Tai, cosa stai-» provò a dire Yuuko, sua madre, ma lui non le diede modo di proseguire oltre.
Si avvicinò al tavolo senza distogliere lo sguardo da Shinamoto, che lo fissava annoiato da dietro i suoi occhiali fini.
Tirò fuori dalla tasca interna della giacca di pelle un mazzo di banconote e lo poggiò sul tavolo facendo un rumore sordo.
L’uomo quasi sussultò.
Sua madre capì subito e guardo allarmata suo padre, il quale aveva in volto un’espressione interdetta ed aveva spalancato la bocca.
«Taichi, cosa diavolo stai facendo?!» lo rimproverò alzando gli occhi con lo stesso sguardo severo di quando lo sgridava da piccolo.
Il ragazzo si morse la guancia dall’interno.
Suo padre sembrava invecchiato di almeno dieci anni in più di quelli che aveva e sapeva per certo a cosa era dovuto tutto quel malessere.
I problemi con il lavoro erano subentrati da qualche anno e mantenere l’affitto era diventato pesante.
I suoi non avevano una condizione economica delle peggiori, ma non navigavano certo nell’oro, e la casa in cui era cresciuto da quando aveva iniziato le scuole elementari, dopo il trasferimento da Hikarigaoka, era sempre stato quell’acquisto che sognavano di fare da una vita.
Purtroppo non avevano un denaro tale da compararla nell’immediato senza mancare ai beni di prima necessità, e quello stronzo del proprietario se n’era uscito di punto in bianco con il volerla vendere al migliore acquirente.
Così i suoi si erano ritrovati in un paio di mesi con le spalle al muro e la possibilità di sfratto all’insegna della scadenza del contratto.
Era questo il motivo per il quale Tai era lì con quei soldi.
Voleva comprargliela lui quella casa, anche se ciò valeva a dire buttare via i suoi risparmi dopo anni di fatica.
«Questi sono i contanti» si rivolse a Shinamoto, ignorando la domanda di Susumu.
Il proprietario, nel frattempo, si era pulito gli occhiali e li aveva indossati nuovamente per vedere meglio.
Poi li tirò fuori dalla carta e li contò. Non appena terminò alzò lo sguardo verso il signore vestito con la giacca e la cravatta ed i due si scambiarono un tacita occhiata.
Taichi capì subito di cosa si stavano interrogando.
«Non ho potuto prelevare oltre, quindi ho qua un assegno» spiegò, tirando fuori dalla giacca della tuta un blocchetto.
Non appena i suoi genitori notarono che faceva sul serio, suo padre imprecò qualcosa, mentre sua madre gli strinse un braccio con una mano.
«No, non farlo!» lo pregò, e si voltò a guardarla notando come i suoi occhi nocciola così simili ai suoi erano lucidi.
Susumu tentò di riacquisire un certo contegno, e si sistemò il colletto della camicia.
«Siamo già arrivati ad una condizione con il signor Shinamoto» affermò, tentando di mostrare controllo e facendo un breve cenno con la mano in direzione dell’uomo.
«Ci permetterà di vivere qui per altri tre mesi» interrogò quello che annuì lentamente, senza togliere di dosso lo sguardo dal denaro «fino a che non faremo il trasloco ad Arakawa»
Non appena sentì nominare quel posto, Tai alzò la testa e sentì la pelle d’oca.
«Arakawa?» mormorò interdetto, come se non avesse sentito bene.
Suo padre non poteva star parlando sul serio.
Arakawa era il quartiere meno costoso di Tokyo, ma proprio per questo il luogo meno raccomandabile di tutta la città.
La poca ospitalità e la sporcizia erano immonde, per non parlare della gente che viveva, tutta affollata in delle case perlopiù popolari dove le crepe erano ben visibili dall’esterno.
«Lì c’è un appartamento di sessanta metri quadrati dove possiamo trasferirci ed abbiamo anche le condizioni necessarie per acquistarlo grazie ad un mutuo»
Susumu parlava mantenendo alta la sua dignità di padre di famiglia.
Non potevano acquistare il loro appartamento spazioso e luminoso in una zona centrale e praticata?
Beh, ne avrebbero acquistato un altro, non sarebbero rimasti per strada di certo; ma Tai sapeva che non sarebbe stato lo stesso.
Non sarebbe stata più casa sua, la casa in cui era diventato un ragazzo, in cui stava muovendo i suoi primi passi da uomo adulto.
Non voleva che si adeguassero ad un appartamento poco spazioso in una zona poco raccomandabile solo perché non accettavano di ricevere un aiuto da lui.
Era quello che avevano fatto per lui da una vita e lui glielo doveva.
Era il minimo che poteva fare per ringraziarli.
D'un tratto la porta del soggiorno si aprì e il viso dolce di sua sorella Hikari comparve sulla soglia.
Si votarono tutti a guardarla, perfino il signore impostato con la giacca.
Probabilmente attirata dal trambusto aveva abbandonato i libri in stanza per andare ad accertarsi di ciò che stava succedendo.
Fece una faccia stupita quando lo vide in casa, e subito lanciò uno sguardo ai soldi.
Capì subito e si avvicinò, affiancandolo.
Taichi si sentì più sicuro non appena il profumo di rose della sorella gli arrivò alle narici.
Le rivolse uno sguardo fermo e continuò.
«Questa è la casa dove sono cresciuto, dove io e mia sorella siamo cresciuti» affermò con crescente coraggio, e sentì che quella sensazione gli era così mancata durante tutto quel tempo.
Si sentiva come di aver ritrovato il luogo in cui apparteneva, e ne era orgoglioso, era una sensazione bellissima.
«Nessuno di voi si muoverà da qui. Nessuno richiederà un mutuo alla banca»
Yuuko lo strinse da un braccio e Tai poté contare le rughe di preoccupazione sul suo volto.
Sua madre aveva mantenuto quella fragile bellezza giovanile, ma il suo sguardo trapelava stanchezza e più la guardava attentamente più riusciva ad intravedere i segni del tempo segnare l'incavatura del suo viso.
«Tai, tesoro, questi soldi sono i tuoi, devi metterli di lato per una casa tutta tua. Il tuo futuro è più importante» gli disse, e lui si sentì piano sprofondare.
Il suo futuro?
Lui non sapeva nemmeno se avrebbe avuto un futuro roseo o se semplicemente avrebbe acconsentito che gli eventi lo trascinassero alla deriva.
Si trovava in un limbo di emozioni contrastanti che lo stavano spingendo sempre più all’interno del baratro.
«È questa casa mia» affermò convinto, poi il suo volto si oscurò «Ed il mio futuro non ha poi così tanta importanza...» mormorò quasi più a sé stesso che a qualcuno in particolare.
Si sentiva svuotato, con un perenne bisogno di fare qualcosa, agire in qualche modo per raggiungere un obbiettivo mancante.
Lui era fatto così, anche nel calcio, se non segnava si ritrovava a metà, si sentiva di non aver dato il meglio di sé.
Il fatto era che sentiva di non aver dato il meglio di sé nella sua vita da due anni a quella parte, nonostante segnasse ad ogni match.
«Cosa dici, Tai?» intervenne Susumu con enfasi «Noi non possiamo accettare una cosa del genere. Tu sei nostro figlio!»
Notò con la coda dell’occhio sua sorella portarsi una mano alla bocca, segno che era pensierosa.
Lui gli passò un braccio sulla spalla con fermezza.
«Adesso tocca a me darvi qualcosa in cambio» disse, poi ricambiò lo sguardo a Kari che sorrise emozionata.
Yuuko si coprì il viso con le lacrime agli occhi.
Susumu era combattuto, lo notava da come cercava di intervenire ma nello stesso tempo non riusciva a trovare le giuste parole per contestarlo.
Tai sapeva che stava facendo loro un grande regalo, ma che per amor di loro figlio non riuscivano ad accettare ad occhi chiusi.
Non volevano che investisse i suoi risparmi meritati in qualcosa che riguardava direttamente loro.
Un appartamento, un appartamento che sarebbe rimasto a loro senza che Taichi ne avesse uno per sé.
Eppure il castano sentiva che quei soldi erano di investimento comune perché quella casa era anche la sua, era stata la casa della sua infanzia, dove era diventato quel che era.
Ed anche se non sapeva bene chi era diventato, beh, era comunque cresciuto lì e non avrebbe immaginato altro posto in cui tornare e sentire quel calore.
Notò che Kari aveva nel volto fine un sorriso emozionato, e l'orgoglio con cui lo guardava era diverso da quello che aveva per anni mantenuto lui.
Un orgoglio egoista e codardo, un sentimento contrastante che sapeva bene che non gli apparteneva.
Lui era determinato e generoso, aveva vissuto sulla pelle esperienze più grandi di lui e aveva sconfitto mostri reali, non solo quelli interiori che adesso cercavano di tagliargli la gola.
A Digiworld aveva scoperto il suo vero io, aveva faticato così tanto, per questo doveva tentare di ritrovare sé stesso e venire fuori da quel mare oscuro da cui era stato risucchiato e in cui rischiava di annegare.
Shinamoto aveva in viso un'espressione annoiata e li fissava come se stesse assistendo ad un'opera tragicomica di poco conto.
Strinse i pugni, sentendo una rabbia crescente.
A lui non fregava mica un cazzo di ciò che valeva a dire tutto quello per loro, voleva solo riscuotere il maggior numero possibile di soldi.
I soldi... era sempre una fottuta questione di soldi...
«Come farai con il lavoro?»  gli chiese suo padre d'un tratto e un'ombra oscura attraversò il suo volto.
I soldi...
Pensò ad Akira e la sua risata sarcastica gli attraversò le orecchie.
Giocare a calcio era diventato come un macigno fastidioso che trascinava legato ai piedi e non gli permetteva di camminare.
Ogni passo che tentava di fare, in realtà, era solo uno sforzo immane che non gli permetteva di muoversi di un centimetro da dov'era.
Aveva così tanto bisogno di liberarsi di quel peso, ma aveva anche timore.
Aveva paura di trovarsi da solo, esposto, senza più qualcosa per cui impegnarsi, lottare.
Una volta avrebbe lottato per ciò in cui credeva ed amava, ma adesso...
Sospirò.
«Sarò in prima divisione... Non ve l'ho detto perché non sapevo se era quello che volevo, trasferirmi ad Osaka e stare lontano da tutto questo... Solo che adesso non vedo alternativa» spiegò mentre la voce si era ridotta ad un sussurro.
Vide di sfuggita i suoi genitori che lo guardavano preoccupati e sorpresi della notizia.
Non aveva ancora riferito loro della sua promozione, né del suo imminente trasferimento.
Gli ultimi eventi lo avevano trattenuto fuori dalle mura familiari più del dovuto, non aveva trascorso con loro il tempo necessario.
Aveva fatto passare quella settimana come se non fosse mai esistita, ma la verità era un'altra.
Credeva che non parlarne avrebbe lenito un po' quel senso di disagio che portava dentro, credeva che non affrontando la realtà dei fatti lo avrebbe aiutato a pensare che non stava succedendo davvero.
«È come un cazzo di buco nero che incombe su di me» volse lo sguardo verso la vetrata che dava al balcone, fissando con occhi vacui le tende color panna.
Yuuko emise un suono di sconforto, Susumu aveva una dura ruga dipinta in viso, mentre Hikari non aveva smesso di guardarlo fermamente.
«Taichi..» la udì sussurrare.
Sapeva che sua sorella credeva in lui, dipendeva da lui e dalle sue scelte.
Era sempre stato così.
Lui era la sua roccia e vederlo crollare equivaleva a dire distruggere le sue certezze, lasciandola scoperta e senza una protezione.
Allora lo avrebbe fatto per lei, avrebbe mantenuto quella corazza di determinazione per lei.
Avrebbe tentato di tener accesa quella luce in lei affinché continuasse a brillare.
Avrebbe scavato a fondo per ritrovare quel briciolo di coraggio che aveva perduto.
Per lui crollare in ginocchio equivaleva solo a dire vincere una partita dopo tanta fatica.
«Beh, non importa più» disse seccamente, cercando di archiviare perlomeno in testa e non nel cuore quella questione
«ho preso la mia scelta, ormai» annunciò, poi fu catturato dalla finta tosse che il proprietario emise per richiamare l'attenzione da quel quadretto familiare.
Lui strinse la mascella ed alzò le sopracciglia.
Si voltò in sua direzione.
«Quindi, se il signor Shinamoto volesse prendere quel fottuto assegno e levarsi dal cazzo, adesso, gliene sarei grato» usò un tono enfatico, forse arrogante, ma conclusivo.
Shinamoto aggrottò le sopracciglia e si raddrizzò sulla sedia stupito per essere stato improvvisamente chiamato in causa, mentre suo padre cercò di dire qualcosa che non ascoltò.
Era consapevole che ogni cosa era superflua a quel punto.
La decisione era stata presa e non c'erano obiezioni che tenevano.
Tai tenne lo sguardo sul proprietario fino a che questi alzò la testa verso il signore vestito in giacca e cravatta e per un po' li vide discutere tra di loro.
Non osò voltarsi verso i suoi genitori mentre avveniva quella discussione, tentò di mantenere il contatto visivo per non perdersi una singola scena.
Udì solo dei sussurri dietro di sé e la voce calma di sua sorella Hikari che diceva loro qualcosa, qualcosa per tranquillizzarli forse.
Poco dopo, Shinamoto e l'altro finirono di consultarsi.
Vide il damerino sedersi al posto dell'altro, afferrare una valigetta e tirare fuori dei fogli che appoggiò sul tavolo.
Adesso la sua figura gli era chiara.
Era il consulente di Shinamoto.
«Direi che se non ci sono ripensamenti possiamo firmare il contratto» parlò per la prima volta utilizzando un tono serio e profondo, poi alzò gli occhi su di lui.
«Vuole fare lei da acquirente, signor Yagami?»
Sentì il cuore accelerare.
Non appena si rese conto che era tutto vero e il consulente aveva con sé tutti i documenti, Yuuko inizia a piangere.
Susumu andò ad abbracciarla quasi subito e la strinse al suo petto.
Tai tentò di non scomporsi nonostante i singhiozzi emozionati di sua madre gli toccarono il cuore e sperò che la voce non gli si incrinasse di conseguenza.
Se la schiarì, volendo trapelare fermezza.
«Certamente» affermò.
Quello gli passò una penna stilografica e lui la prese tra le mani, sentendo il peso di quella responsabilità.
Stava per firmare il contratto di vendita di immobile.
Avrebbero acquistato la loro casa.
Nessuno disse niente nel momento in cui alzò il braccio con la penna pronto per firmare.
Fu solo Shinamoto ad interromperlo emettendo quel fastidioso colpo di tosse.
Tutti rivolsero l'attenzione su di lui, e Taichi ruotò i suoi occhi in modo sbieco.
«Non dimentichiamo che ci sono tutte le spese contrattuali da includere» precisò con un tono di voce estremamente pungente.
Il castano strinse la mascella, ma non demorse.
«Bene. Li prenderà dal mio conto» disse freddamente, ma prima ancora che la penna potesse toccare il foglio non si accorse dell'espressione contrariata dipinta sul volto di Hikari.
«NO!» la udirono esclamare.
Tai s'interruppe nuovamente e la fissò interdetto.
Lei gli lanciò uno sguardo fermo tentando di passargli mentalmente un messaggio, poi lasciò la cucina.
Yuuko e Susumu si guardarono preoccupati. Il consulente batté leggermente con le nocche sul tavolo.
Non conosceva per certo le intenzioni di Kari, ma sapeva che doveva fidarsi.
Nonostante il ticchettio insistente della lancetta dei secondi che gli ricordava di come il tempo passava e si avvicinava sempre di più alla fine, continuò a guardare la direzione in cui sua sorella era sparita.
La vide tornare poco dopo con in mano una busta contente dei soldi.
E subito capì le sue intenzioni.
«Garantisco io» la sentì dire dopo averla poggiata sul tavolo,- si stupì del fatto che l’aveva quasi lanciata- e quell'occhiata eloquente che gli rivolse dopo gli fece ricordare tutto.
Il luogo da cui quei soldi provenivano, il modo in cui erano arrivati nelle sue mani, la discussione che avevano avuto a riguardo non appena lo aveva scoperto.
Fece un sorrisino accarezzandosi la mandibola con una mano.
Aveva fatto tutto quello per arrivare a quel punto, per far sì che potesse dare una mano nel momento del bisogno.
E cosa importava della natura di quei soldi, se era immorale, di fronte alla ragione degli stessi?
Hikari sarebbe stata sempre migliore di lui perché aiutava le persone dal basso della sua umiltà, anche se non aveva niente.
Lo aveva sempre fatto, non aveva guardato in faccia il mezzo o le conseguenze delle azioni; agiva solo per bene e per amore dei suoi cari.
Era oltremodo più coraggiosa di lui.
Strinse gli occhi per un po', poi li riaprì e si rivolse ai due uomini che osservavano il malloppo quasi a chiedersi se fosse sicuro prenderli.
Lui fece una faccia canzonatoria.
«Li prendiate pure. Sono di... buona pianta» commentò, poi lanciò uno sguardo divertito alla ragazza che colse subito il riferimento ed insieme scoppiarono a ridere.
I loro genitori avevano ancora in volto un'espressione basita e si sussurravano parole che non riusciva a captare.
Prese nuovamente la penna e la portò al foglio, lasciando una firma svolazzante.
Gli era perfino uscita meglio di tutte le volte in cui aveva firmato la presenza in campo.
Si premurò inoltre di fare lo stesso con l’assegno scoperto.
Sentì un'ondata di soddisfazione coglierlo non appena terminò quelle azioni, si alzò dalla postazione e lasciò che venissero discusse le ultime trattative.
Non appena finirono Shinamoto e suo padre si strinsero la mano, poi fu la volta di sua madre, ancora sommariamente scossa da tutto quello che era successo.
Sarebbe stato da maleducati ignorare lui e il suo amico consulente da strapazzo, quindi non mancò di allungare il suo braccio e fare lo stesso.
Il sorrisino che ne susseguì non fu certamente di sincera simpatia, ma bastò per dimostrare come non erano riusciti a prendersi ciò che volevano grazie alla sua forza ed ostinazione.
 
Ecco chi era il vero Taichi; assomigliava molto a quell’esatta persona.
 
Non appena la porta venne chiusa susseguirono dei secondi di silenzio durante i quali le lancette dell’orologio scandivano ancora fastidiosamente il rintocco.
Ebbe quasi timore ad alzare la testa, ma appena lo fece vide sua madre andargli incontro con le braccia spalancate.
Gli si era gettata addosso e lo aveva abbracciato forte. I suoi capelli gli invadevano le narici e lui dovette spostare il viso stizzito per non starnutire.
Nonostante quello, la strinse a sua volta tra le braccia.
«Tesoro mio!» la udiva esclamare tra le lacrime, mentre bagnava la sua maglia «Non so come ringraziarti per quello che hai fatto per noi!»
Non aveva fatto nient’altro se non ciò che andava fatto fin dall’inizio.
«Non mi devi ringraziare, mamma» le disse, allontanandola un po’ perché la guardasse negli occhi.
Solo in questo modo non aveva reso vani tutti quegli anni trascorsi a Kyoto, lontano da tutto e da tutti; aveva fatto sì che i suoi sforzi avessero avuto un senso, perché ciò che aveva coltivato era stato investito per qualcosa della cui mai avrebbe potuto pensare meglio, di cui mai si sarebbe pentito.
Per la prima volta si sentì felice di aver giocato a calcio per tutti quegli anni.
Notò suo padre che lo guardava da dietro sua madre, ancora stretta piccola tra le sue braccia, e non poté fare a meno di reggere il suo sguardo algido.
Voleva forse rimproverarlo?
Dirgli che aveva sbagliato a non farsi gli affari propri, che era sempre il solito impulsivo e non sarebbe cambiato mai.
Susumu lo aveva sempre redarguito per quel modo di fare troppo turbolento e poco riflessivo, anche per il suo essere leggero e a tratti superficiale.
Gli diceva che doveva mettere giudizio in tutto ciò che faceva, per questo ebbe quasi timore che lo avrebbe definito irresponsabile.
D’altronde, nonostante il gesto onorevole, aveva dato via quasi tutti i suoi risparmi in un soffio senza curarsi delle conseguenze, quando aveva quasi ventisei anni e non viveva in una casa stabile; ma lui lo aveva fatto per una buona causa, la stessa causa per cui anche Kari si era gettata nell’oscurità dell’oblio per un po’ di tempo.
Per amore della sua famiglia.
Per tornare a brillare di luce.
Per ritrovare il coraggio di lottare.
Perché Taichi lo sapeva che aveva agito per questo e che quella era la scelta più giusta che avrebbe potuto prendere in mezzo ad un mare di sbagli, e suo padre lo sapeva pure.
A sorpresa, il suo volto serio si sciolse e lo sguardo che gli rivolse fu diverso.
Era pieno di affetto e devozione.
«Sono fiero dell’uomo che sei diventato, Taichi. Forte, orgoglioso, coraggioso» gli disse e seppe nel profondo che si riferiva a tante cose, non solo alla questione dell’appartamento.
Si riferiva a tutto il suo operato, alla sua crescita, ai risultati della sua carriera, al suo non essersi perso d’animo, mai.
Si sentì distrattamente un’ipocrita e non sapeva nemmeno bene perché.
Era come se stesse mentendo, quando in realtà aveva fatto tutto quello con trasparenza; eppure sentiva di non aver finito.
Di non aver acquisito appieno quel titolo.
«Sono fiero di te e anche di questo scricciolo» aveva continuato suo padre, e con un sorriso aveva attirato con un abbraccio sua figlia.
Sentì Kari ridere contenta e si estraniò per un po’ di tempo.
Non meritava quei baci, quegli abbracci, l’essere definito quasi un eroe.
La questione dei soldi era più semplice rispetto a quella dei suoi sentimenti; in quel caso si trovava ancora nel limbo dell’orizzonte degli eventi.
Dall’esterno sembrava non si muovesse, eppure lui precipitava dentro ad una velocità simile a quella della luce.
Si sarebbe distrutto, ridotto in cenere; anzi no, nelle più piccole delle particelle.
Osservò ancora la sua famiglia di fronte a sé.
Sua madre aveva abbracciato Susumu.
«Riavremo la nostra casa» sussurrava tra le lacrime di gioia.
Suo padre aveva appoggiato il mento sulla sua testa.
«Sì, Yuuko. La riavremo»
Strinse gli occhi.
Dov’era stato tutto quel tempo?
Vittima degli eventi in un orizzonte oscuro, mentre si era perso ogni momento, ogni attimo di felicità.
 
Sarebbe dovuto davvero andar via?
 
Sua sorella lo fissava da un po’ di tempo, si era accorta del suo sguardo vitreo. Lo toccò appena sfiorandogli un braccio e ruppe il suo flusso di pensieri.
I suoi occhi nocciola erano caldi e gentili.
«Devi andare, vero?» gli chiese ed il suo tono di voce era sereno, quasi un sussurro prima di addormentarsi.
Sentì distrattamente le lacrime agli occhi.
Sì, ma in quella casa avrebbe lasciato il vero Taichi.
Annuì senza riuscire a nascondere quel velo di tristezza.
«Vado, ma non davvero» e non seppe nemmeno se a rispondere fosse stata la sua bocca o il suo cuore.
Gli occhi della ragazza erano colmi di lacrime allo stesso modo, ma non mancò di sorridergli.
Quel suo caldo sorriso lo avrebbe portato con sé per le gelide notti d’inverno.
Si avvicinò e le accarezzò una guancia.
Forse avrebbe dovuto prevederlo che sarebbe arrivata la parola fine fin dall’inizio.
L’attirò a sé e l’abbraccio, mentre Hikari si lasciava andare a dei silenziosi singhiozzi.
I rintocchi dell’orologio erano insistenti.
 
Forse un giorno la fine non sarebbe mai giunta.
 
 
Parlò con i suoi genitori e gli raccontò tutto, della scadenza delle sue ferie, del suo trasferimento, della sua decisione.
Sapeva che sua madre non avrebbe preso bene il distacco, che era stato pochissimo tempo lì con loro; lo sapeva, ma non poteva più farci niente.
Suo padre lo appoggiò.
Fine.
Raggiunse la sua stanza, si fece una doccia veloce e si cambiò, indossando una tuta per sentirsi più comodo durante il viaggio sotto la giacchetta di pelle.
Raggruppò le poche cose che aveva portato e le rimise dentro il borsone.
Chiuse la cerniera sonoramente e chiuse anche gli occhi.
Gli veniva da piangere.
Andò verso la cucina e salutò un’ultima volta la sua famiglia, lasciando in quella casa la scia del suo profumo.
Scese le scale, non prese l’ascensore nemmeno quella volta.
Gli veniva da piangere.
Spalancò il portone principale e l’aria fredda invase il suo volto.
 
Gli veniva da piangere perché non era solo in quella casa che stava lasciando un pezzo di sé.
 
 
 
 








 
 

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Capitolo 19
*** Fine ***








Un rombò di tuono la svegliò.
Impaurita, si mosse appena sul letto sentendo freddo. Si rese subito conto di trovarsi in un ambiente estraneo da camera sua.
Il letto era diverso, era morbido e si adattava alla forma del corpo, mentre il cuscino era più sottile del suo.
Decisamente non aveva passato la notte a casa.
Era stata fuori, in camera di qualcuno, con qualcuno, e adesso che ci pensava tutto le tornava lentamente in mente...
Si voltò di scatto alzandosi appena, mentre il braccio che leggermente le stringeva un fianco scivolò sul materasso.
Il cuore le salì fino alla gola non appena vide Victor sdraiato alla sua destra, ma soprattutto, sentì l’aria mancarle completamente quando constatò che era per la maggior parte svestita.
Svestita su un letto che non era il suo e con una persona che non era Yamato.
Yamato...
Si portò il lenzuolo fino al petto e si mise seduta.
Si guardò intorno spaesata, cercando di ricostruire nella sua testa gli ultimi avvenimenti della sera precedente.
Lei e Victor si erano incontrati per parlare, era salita in auto con lui e si erano diretti a casa sua, dove avevano discusso o forse no... era come se la sua testa avesse rimosso i ricordi, era come se cercasse di oscurare le immagini e le sensazioni.
Eppure erano lì, i ricordi pian piano tornavano a percuoterla vividi e chiari, come se fossero tanti spilli che intendevano pungerla uno per volta.
Cominciò a boccheggiare, a fare dei respiri profondi, ma il suo cuore non accennava a calmarsi, era impazzito, dava delle profonde martellate che le infondevano dei sensi di colpa terribili.
Chiuse gli occhi e tentò di ricacciare via le lacrime.
Non aveva senso piangersi addosso dopo tutto quello.
Non poteva pensare che era stata guidata da qualcun altro che non fosse la sua coscienza fin sopra quel letto; non aveva fatto altro che assecondare i suoi istinti, le sue voglie, e fanculo, era tutta colpa sua.
Era colpa sua se aveva finito con il cedere tra le braccia di un altro ragazzo per ben due volte, e questa volta aveva fatto peggio... per quanto tentasse di scacciare via i ricordi non poteva fare a meno di sentire quei momenti intimi così autentici da udire il sussurro e gli ansimi ancora dentro le sue orecchie.
Sussultò e lasciò cadere il lenzuolo, rimanendo in reggiseno.
Si portò le mani al capo ed emise un lamento.
Aveva nuovamente sbagliato tutto, anche se non riusciva a pensare di non averne avuto bisogno fino ad allora.
Per quanto sentisse la testa andare in fiamme, non riusciva a condannarsi completamente, perché sarebbe stata un’ipocrita a dire che non l’aveva voluto.
Piano, udì dei leggeri movimenti provenire alla sua destra.
Strinse le labbra.
Sì, lo aveva voluto, ma adesso non riusciva a smettere di pensare che le era bastato.
Non riusciva a smettere di pensare a quanto avesse esagerato a lasciarsi andare in quel modo, in un letto che non fosse quello di sempre, poco importava cosa fosse successo.
Non avrebbe dovuto, perché se dopo averlo fatto il suo primo pensiero era rivolto a Matt e a come avrebbe voluto svegliarsi con il peso del suo corpo addosso, e avrebbe voluto sentire i suoi capelli sulla sua pelle, e il suo tocco, le sue labbra...
Dio, era uno strazio, voleva Matt su quel letto, voleva che il braccio che adesso la stava cingendo fosse il suo, e quei baci sul braccio appartenessero alla sua bocca.
Cosa aveva fatto?
Ormai era diventata brava a creare dei casini e a pentirsene subito dopo. Era maestra del latte versato e dei piagnistei conseguenti.
Ansimò disperata, sentendo tutto ciò come un supplizio infernale.
Voleva Matt, e non sapeva se dall’inferno avrebbe potuto scorgere mai più quell’angelo...
 
Nel frattempo, Victor non aveva smesso di passare le labbra sul suo braccio, e poi sul suo fianco fino a morderlo leggermente.
Sora sussultò e si strinse sul lenzuolo.
Il ragazzo si rese subito conto che c’era qualcosa che non andava. La vide piccola e tremante, tutta raccolta, gli occhi chiusi e nel viso un’espressione di disagio, sconforto, timore.
«Sora...» la richiamò piano, poi ricacciò indietro i pensieri negativi e si sporse per provare a baciarla sulle labbra.
La ramata, con un gesto spontaneo, ruotò la testa verso sinistra, tenendo gli occhi bassi, mentre lui la fissava senza saper bene che dire.
Lo aveva rifiutato e sapeva bene cosa significasse tutto quello.
Era la ragione per la quale aveva avuto gli incubi tutta la notte, nonostante avesse passato le ore più dolci e piacevoli della sua vita.
«Che succede?» le domandò preoccupato, come se non sapesse o si aspettasse una risposta a quell’interrogativo.
Sora era ancora voltata dall’altro lato, piano alzò gli occhi nocciola lucidi con sguardo inespressivo, troppo vacuo per far trapelare emozioni.
Si sentiva svuotata da ogni tipo di sentimento.
Adesso che si ritrovava con lui accanto, non riusciva a sentire altro se non un senso di disagio addosso, sulla pelle, nel cuore.
Eppure fino a qualche ora fa era stata così vicina a Victor da pensare di voler fondersi in un tutt’uno.
Non poteva essere così sfuggente, doveva almeno cercare di dissimulare quel malessere terribile che la stava opprimendo.
Gli occhi chiari del ragazzo la guardavano in cerca di un cenno o una parola, allora lei si schiarì la voce.
«N-niente...» mormorò, voltandosi appena.
Poi si portò una mano sui capelli spettinati, cercando di darsi una sistemata, tentando in tutti i modi di sfuggire al suo sguardo.
«Hai dormito male?» Victor provò nuovamente a cavarle le parole di bocca senza alcun risultato.
Lei non rispose, non volle.
Il ragazzo sospirò e decise di alzarsi e preparare la colazione così da lasciarla da sola a rimuginare senza risultare troppo insistente.
Si mise in piedi e si allontanò in cucina vestito solamente dai propri boxer.
Non appena lo sentì trafficare con le stoviglie e la macchinetta del caffè, Sora rilasciò tutta l’aria che aveva trattenuto fino ad allora.
Cosa diamine aveva fatto?
Come aveva fatto a finirci lì dentro, dentro quel letto?
Era stata così talmente abbagliata da aver perso la ragione ed aver spinto affinché succedesse?
Il volto di Matt continuava a fare capolino nei suoi pensieri, e sentiva una sensazione pesante allo stomaco, come se dovesse vomitare.
Cos’avrebbe pensato adesso di lei?
Non c’era più nessuna speranza di tornare insieme, perché aveva fallito la sua battaglia con l’amore, oramai.
Aveva tradito, gettato al vento quei sentimenti che aveva curato da anni non permettendo a nessuno di scalfirli.
Aveva mandato tutto all’aria, per cosa poi?
Volse uno sguardo in direzione di Victor, ma non ebbe il coraggio di tenerlo fermo per molto, così lo distolse velocemente.
Lui le aveva fatto provare delle sensazioni vivide, l’aveva fatta sentire speciale, l’aveva corteggiata per anni nascondendosi dietro l’amicizia universitaria, eppure, lei lo sapeva come stesse pian piano insidiandosi nei meandri del suo cuore e di come sarebbe stato decisivo nella resa dei conti dei suoi sentimenti.
La storia con Matt era già oltremodo sfracellata, ma Victor era stato un punto che ne aveva accelerato la fine.
Si sentiva rassegnata, persa nel suo malessere, nel suo dolore.
Ma la domanda era, voleva realmente mettere la parola fine?    
Il ragazzo si avvicinò a letto con un vassoio, sentiva distrattamente che le diceva qualcosa a riguardo delle brioches e dei biscotti.
Non aveva tanta fame, ma non voleva allarmarlo. Così, meccanicamente, prese una tazza e la portò alla bocca, bevendo un sorso di caffè che le restituì un po’ di forze dopo giorni di stremo.
Non proferì parola per tutta la durata del pasto, troppo occupata a rimuginare e, allo stesso tempo, troppo spaventata per voltarsi e dare a Victor uno sguardo di troppo che avrebbe potuto essere frainteso.
Questi, però, non era dello stesso avviso. Credeva che se non aveva intenzione di parlare o affrontare il discorso era meglio comportarsi come se niente fosse e riprendere da dove avevano lasciato.
Non voleva darle tempo di pensare, aveva timore che avrebbe potuto fare i conti con il suo cuore troppo presto, e lui voleva che restasse ancora un po’.
«Vieni qui» le sussurrò. Le tolse la tazza dalle mani e la posò via, senza distoglierle gli occhi di dosso, le mani la cercarono e l’abbracciarono.
Sora non riuscì ad opporsi e d’un tratto le labbra di Victor furono sulle sue.
Sentì la sua lingua che chiedeva un permesso, e allora, nonostante fosse titubante, glielo diede, schiudendo le labbra.
Il ragazzo fece in modo che si sdraiasse e subito le fu addosso, cominciando ad accarezzarla e a baciarla veracemente.
Le sua mani le toccavano le cosce e risalivano lungo la pancia, e ricadevano di nuovo su per i fianchi. Il tocco era gentile ma deciso; Sora cominciò a sentire caldo, chiuse gli occhi e si lasciò trasportare dalle sensazioni.
Victor passò a baciarle il collo, succhiando dei lembi di pelle e le mordicchiò, facendola ansimare profondamente.
Quando riaprì gli occhi lo vide che la guardava come per la ricerca di un permesso, così ricambiò quel tacito sguardo sentendo il fiato corto e la voglia farsi strada in lei.
Non appena il ragazzo le sfiorò le cosce subito le aprì e fece in modo che si incastrasse sopra di lei; riprese a baciarla e furono travolti dalla foga.
Non pensò a niente per dei secondi, chiudendo gli occhi e smarrendosi nel tocco dell’altro, mentre le fitte al ventre cominciavano ad essere forti e la sua pelle era diventata sensibile, scottata da ogni singolo bacio.
Victor spinse leggermente con il bacino e Sora percepì da sotto la stoffa dei boxer la sua erezione, la sentì proprio a contatto con quel punto e subito lo fermò.
Lo strinse dai capelli e fece in modo che smettesse di baciarla.
I due si guardarono per qualche secondo, tempo in cui erano udibili solo i battiti accelerati del suo cuore.
Le sue palpebre cominciarono a scendere da sole.
Dio, era...
Non lo sapeva nemmeno lei che era, ma aveva caldo e lo voleva...
Lo attirò verso di sé e lo baciò lei questa volta, le braccia attorno al suo collo e la testa impazzita.
Sì, era impazzita...
Era totalmente fuori di testa sapeva bene di esserlo, di aver mandato a monte tutto, di star facendo la sciocca incoerente, e stupida, solo perché era eccitata...
Eccitata da un ragazzo che aveva gli occhi buoni e la guardava come fosse l’unica al mondo, che la faceva ridere, che la faceva sentire importante, che la toccava e le faceva perdere la connessione con la realtà.
Quando aveva smesso di provare tutto questo con Yamato?
Victor continuava a baciarla, una sua mano si faceva strada lungo il suo corpo.
Non aveva mai smesso di provarlo, era solo il suo cuore ad essersi inaridito, disilluso, ad aver distrutto le barriere solide di quell’amore.
Perché gli eventi li avevano trascinati con foga verso la deriva, avevano demolito tutti i loro sogni più solidi.
Lei che voleva costruirsi una famiglia, Matt che voleva suonare con la band, diventare qualcuno, mostrarsi per quello che era...
Solo Sora conosceva il vero lato di Yamato, a parte Taichi.
Il pensiero del suo migliore amico proprio in quel momento la infastidì, e strinse gli occhi cominciando a perdere tutta la libido provata fino ad allora.
Loro lo conoscevano realmente, e sapevano i suoi desideri più nascosti, più profondi.
Sapevano quanto era vulnerabile, anche se non lasciava trasparire nemmeno un pezzo di quella che era la sua fragilità, perché si era reso forte con la vita, l’esperienze, il lavoro che tardava ad arrivare e adesso... adesso lei, Sora, che lo aveva tradito, lo aveva abbandonato così, su due piedi.
Victor allontanò le labbra dalle sue, abbassandosi e spostando l’attenzione su di un’altra zona del suo corpo.
Lei si trovava sdraiata supina, aveva aperto gli occhi e guardava il soffitto con sguardo vacuo, mentre i pensieri non l’abbandonavano.
La vita era stata dura con Matt, sembrava lo avesse messo da parte, non si fosse curata più di lui perché era stata egoista, così come i suoi genitori che si erano separati improvvisamente senza pensare al bene dei loro figli; così come lei, che aveva pensato di aver bisogno di aprire le gambe sotto il peso di un altro uomo piuttosto che andare da lui a parlargli, chiedergli perdono, spiegargli le sue motivazioni.
Sora chiuse gli occhi, le lacrime le colarono sulle guance.
Aveva preferito scappare e rifugiarsi lontano dai suoi sensi di colpa, lontana dal giudizio, ma non riusciva a scappare da sé stessa.
Non riusciva a togliersi dalla testa che tutto ciò era sbagliato, non era quello il letto su cui voleva sdraiarsi, non era per quel ragazzo che voleva svestirsi, non era Victor la persona per la quale provava amore.
Finalmente, l’amore...
Era da tanto tempo che l’aveva messo da parte, sotterrato dall’indifferenza.
L’esatto contrario dell’amore non era l’odio, ma il pensare che non valeva la pena quando sì che ne valeva, valeva tutta la vita tentare di amare.
D’un tratto aprì gli occhi e le labbra di Victor non furono più quelle di Victor, le braccia che la stringevano non furono quelle sue, il corpo caldo non gli apparteneva più, perché Yamato era diventato Victor, e lui, solo lui poteva prendere quel posto.
Era lui che la baciava, che la desiderava e lei lo voleva, oh sì, voleva fare l’amore con Matt, voleva ricominciare così come le aveva detto lui la sera della festa...
Aveva fatto ammenda delle sue colpe, le aveva detto di amarla ancora e sul serio, voleva che si lasciassero alle spalle quella brutta situazione e ricominciassero insieme, più forti che mai...
Mentre lei dentro di sé era macchiata da una colpa grande.
Lo aveva tradito nella testa, nelle labbra, e adesso nel corpo...
Immaginò Matt che la prendeva, che le faceva perdere la testa, che scendeva giù, oh Dio, che la toccava e la faceva venire...
Matt...
Voleva Matt, sopra di lei...
Voleva l’amore di Matt.
Non appena sentì Victor spostarle l’elastico delle mutandine aprì gli occhi. Con un gesto repentino richiuse le sue dita attorno al suo posto e lo bloccò.
«NO!» urlò sentendo il cuore battere forte per l’affanno e per il terrore.
Non voleva che la toccasse, non voleva che succedesse ancora.
Non riusciva ad andare avanti senza il peso nel cuore che urlava il nome di Yamato.
Lo spinse via forse un tantino bruscamente, mentre il ragazzo assunse un’espressione spaesata.
Lei amava Yamato, non ce la faceva più...
Non ce la faceva più a sentire il peso di un altro corpo sopra di lei.
Voleva Yamato.
Lei amava Yamato.
Si mise a sedere sul bordo del letto e si sistemò il reggiseno, coprendosi. Lo sguardo era basso, sfuggente, le guance erano colorate di rosso.
Si vergognava perfino ad essere là, ad essere in quella posizione, in quella situazione.
Come aveva fatto a finire in quel modo?
La spallina del reggiseno le cadde sulla spalle e subito la ritirò su. Diede un languido sguardo a Victor che l’osservava in attesa di una sua parola e sentì lo stomaco dolerle forte.
Si sentiva una stupida per aver causato tutto quello, per aver causato del male a tante persone, per aver ferito sé stessa, nell’orgoglio e nella dignità.
«Non ce la faccio, s-scusa...» biascicò e la voce le s’incrinò.
Si portò le mani al viso, coprendolo tutto, disperata.
Si vergognava come una ladra di essere lì, in casa di Victor, mezza nuda, avvolta tra le sue lenzuola...
Se ne vergognava perché aveva creduto di averne bisogno, mentre adesso aveva ricevuto una secchiata d’acqua gelata ed era stata catapultata alla realtà.
Lei non voleva tutto quello.
Non lo voleva affatto, si era solo illusa di aver bisogno di stimoli nuovi, aveva giocato a seguire i suoi istinti ed aveva fallito.
Perché Victor non era la persona che desiderava e quella che desiderava non l’avrebbe voluta più da quel momento in poi.
Mentre lei non poteva fare a meno di volere Matt.
Ansimò contro i palmi delle sue mani, piena di dolore, rabbia e rancore verso sé stessa, mentre sentiva la lieve stretta dell’altro sul suo braccio.
«Posso sapere che hai?» le aveva chiesto seriamente guardandola negli occhi con un’espressione che le fece ancora più male perché era di consapevolezza, ma allo stesso tempo di speranza affinché non si trattasse di quello.
Tolse le mani e rimase per un paio di secondi con lo sguardo perso nel vuoto. Fino a quando non sentì il tocco di Victor sulla sua guancia che andava a spostarle una ciocca di capelli di fronte al viso.
Sospirò a disagio e fece una faccia infastidita.
Non riusciva più a sentire quello che le stava dicendo, non voleva quelle mani su di sé ancora, voleva andare via da lì...
Stava fremendo perché non riusciva ad uscirne, e voleva alzarsi e lasciare tutto lì, correre via, andare da Matt...
Mentre Victor l’accarezzava il volto del biondo non lasciava i suoi pensieri.
Sapeva cosa doveva fare, e forse era quello che avrebbe dovuto fare da tanto tempo.
Non avrebbe dovuto lasciar passare tutto quel tempo, non avrebbe dovuto lasciare che tutto quello accadesse facendosi trasportare come dalla corrente di un fiume.
Si era svegliata troppo tardi ed adesso stava patendo le pene dell’inferno.
Avrebbe dovuto dire subito a Matt che aveva baciato un altro ragazzo, non avrebbe dovuto lasciare quel fottuto cellulare incustodito, avrebbe dovuto parlargli a cuore aperto e sperare che lui la perdonasse, non peggiorare le cose...
Aveva coinvolto troppe cose, troppe persone nel bel mezzo di una fottuta guerra che imperversava all’interno del suo cuore.
Non sapeva amare.
Non sapeva amare come pensava, perché adesso Matt non era lì con lei, e lei voleva andare da Matt, voleva dire a Matt che l’amava...
Tolse la mano dell’altro dal suo volto facendo finta di non vedere la sua espressione delusa.
«Non posso più farlo, Victor» sentì uscire dalla sua bocca, poi alzò lo sguardo con gli occhi lucidi, pieni di lacrime amare
«Non posso, ti prego, non ti avvicinare...» mormorò tremante ed impaurita, come se una semplice carezza potesse bruciarla e provocarle delle ferite.
Il ragazzo rimase per alcuni momenti in silenzio, poi sospirò profondamente.
«Hai già cambiato idea?» le chiese forse un tantino troppo pungente, ma sarebbe stato ipocrita da parte sua affermare che non gli facesse male.
Era preparato, ma non così tanto.
Non così tanto dopo che fino a qualche minuto fa era sotto di lui a stringerlo, ricambiare i suoi baci e gemere.
Sora lasciò cadere due calde lacrime che sapevano di tutto.
Di rimorso, di dannazione, di dispiacere.
Era dispiaciuta, non solo per tutto quello che aveva causato, per aver rovinato in un soffio la sua storia con Matt, ma perché era consapevole di star inferendo del male ad una persona come Victor che non lo meritava affatto.
Era un ragazzo buono, leale e generoso, l’aveva aiutata tanto e gli aveva permesso di entrare a gamba tesa nella sua vita, nella sua relazione... era colpa sua, non di Victor se aveva mandato tutto a monte, perché lui si era innamorato di lei e lei non aveva fatto nulla affinché non succedesse.
E adesso doveva prendere coraggio, affrontare sé stessa ed il suo cuore, e dirgli tutta la verità anche se sentiva un groppo in gola grande come un sasso.
«Non possiamo andare avanti. Io sto facendo una cazzata...» lo ammise per la prima volta ad alta voce e per un po’ la fece sentire meglio.
La faceva sentire come se non fosse ormai troppo tardi...
Il ragazzo, però, non la pensava allo stesso modo. Cominciò a sentire un senso di amarezza percorrergli il corpo, e ciò che voleva in quel momento era quello di ricondurla sulle sue azioni precedenti per farle intendere come non poteva aver finto fino a poco prima.
Forse voleva colpirla di proposito, ma voleva solo vendicarsi un po’ di tutta la sofferenza che stava sentendo...
«Una cazzata?» chiese retoricamente, emettendo una risatina
«Strano, fino a ieri la pensavi diversamente» terminò, tagliente.
Le immagini della serata trascorsa attanagliarono la testa di Sora, così tanto da farle chiudere gli occhi.
Non riusciva a toglierle dalla testa, la perseguitavano, e Victor aveva tutte le ragioni del mondo per prenderla in contropiede.
Era stata troppo avventata, troppo fuori di sé, non si riconosceva più, era come una versione degradata della Sora che pensava di essere.
E adesso... adesso non c’era modo affinché potesse tornare indietro a cancellare tutto quello che era stato, perché avrebbe pagato sulla pelle e sui sentimenti tutto quello che aveva fatto...
Si portò le mani alle tempie.
«Cazzo...» imprecò a bassa voce, nei guai con la sua coscienza.
Non poteva neanche pensare di poter correre da Matt ed invocare il suo perdono dopo ciò che aveva fatto fino a poco prima.
Sarebbe stata una bugiarda, non avrebbe guardato in faccia il peso della sua lealtà, non che fosse stata leale, ma non poteva nemmeno sperare che il biondo provasse anche solo a pensare di prendersi del tempo per perdonarla.
Victor la fissava ancora, poi vide che si portava anche lui una mano sulla fronte.
Voleva correre da Yamato, ma non avrebbe potuto mai più mettere le cose a posto, perché lei lo conosceva, sapeva quanto era orgoglioso; aver scoperto quel tradimento l’aveva fatto letteralmente sparire, era sicura che se solo si fosse avvicinata a tentare di parlargli le avrebbe chiuso la porta in faccia seduta stante.
Emise un suono martoriato.
Non c’era alcuna possibilità di tornare insieme a Matt...
 
Cosa aveva combinato?
 
Un rombo di tuono.
Udì il ragazzo al suo fianco prendere la parola d’un tratto.
«So a cosa stai pensando, anzi a chi» affermò con un tono di voce statico.
Lei si voltò, colpita di essere stata scoperta.
Non si aspettava che Victor avrebbe toccato l’argomento in quel modo brusco, ma in effetti era sciocco pensare che non avrebbe capito a cosa era dovuto quell’improvviso cambiamento.
Credeva che avrebbe dovuto andarci piano, ma forse Victor meritava di essere parlato a cuore aperto.
Glielo doveva, perché nonostante tutto non l’aveva forzata, non l’aveva minacciata di riferire tutto a Matt, non l’aveva denunciato dopo che lo aveva picchiato.
Meritava tutta la verità.
«Sì, penso a lui» rispose secca, senza preoccuparsi di come sarebbe suonata la sua voce.
Lui chiuse gli occhi e le sue labbra si piegarono in un sorrisino amaro.
«Lo sapevo...» sussurrò più a sé stesso che a lei.
Non dissero nulla.
L’unico rumore era quello di alcuni tuoni in lontananza che incutevano un certo timore che la fine fosse arrivata.
L’orologio segnava i minuti che trascorrevano, e Sora pensò che stava solo prendendo tempo perché aveva paura.
Aveva paura di uscire fuori da quella casa ed affrontare lo spettro del suo cuore.
Uno spettro che era lei stessa.
Fece un respiro profondo e si avvicinò di più a lui. Victor aveva ancora una mano che tratteneva il viso. Gli sfiorò delicatamente un braccio in modo da richiamare la sua attenzione.
«Guardami, per favore» lo esortò.
Non se lo fece ripetere due volte, nonostante il dolore al cuore si voltò a guardarla.
Sora emise un sospiro per infondersi coraggio, ma sapeva già che quelle parole le sarebbero uscite fuori da sole, senza che le controllasse.
Perché era consapevole di ciò che provava, era consapevole del suo amore, e lei parlava alle persone tramite l’amore.
«Io amo Matt» pronunciò quella frase come se stesse lenendo finalmente una ferita, come se dicendolo avrebbe potuto curare un male
«E ho fatto un errore. Ho sbagliato a fargli tutto questo» gli strinse ancora più forte il braccio «E ho sbagliato a mettere te in mezzo. Tu non meritavi di diventare il capro espiatorio della nostra storia»
Victor non riusciva neanche ad alzare lo sguardo su di lei, ad ogni parola tanto sentiva una sofferenza tale da togliergli il respiro.
Sora, però, insistette. Gli prese il volto e lo costrinse a guardarla.
«Tu meriti una persona che ti ami sul serio, interamente, non come me... non così,  a metà...» gli diede una carezza.
Si guardarono per un po’ e Sora sentì sullo stomaco l’amarezza di quell’addio.
Gli stava dicendo che era finita.
Victor lo sapeva, ma non voleva sentire delle frasi fatte.
«Risparmiatela...» disse tra i denti, ma ciò che ne trapelò fu soltanto un sussurro spezzato e disperato.
Lei non demorse.
Sentiva il cuore star facendo una parte enorme in quel momento.
Proprio come una volta.
«No, non lo farò» lo contestò, poi abbassò lo sguardo e ripensò ad un profumo, una risata, a degli avvenimenti passati, quando era libera di amare
«Per me l’amore ha sempre avuto un valore fondamentale nella mia vita»
Ripensò ai tempi a Digiworld, le notti insonni, la paura di non poter più tornare a casa, di perdere i suoi amici, di non ricevere indietro l’amore che lei sentiva, di non saperlo donare...
«Avevo perso tutto... adesso l’ho capito» alzò la testa e lo guardò con uno sguardo sereno e limpido
«Adesso so cosa devo fare» concluse.
Doveva andare da Matt e dirgli che lo amava.
Doveva andare da lui e dirgli che gli dispiaceva, che lo aveva fatto perché non ci aveva creduto abbastanza, e che si pentiva, che voleva ricominciare da dove avevano lasciato...
Doveva riaccogliere l’amore tra le sue braccia, nel suo cuore.
«Certo che lo sai» le fece subito eco Victor.
Lo vide massaggiarsi la fronte in segno di stanchezza, poi si voltò a guardarla.
Quello sguardo, quegli occhi grigi erano feriti, ma fermi, consapevoli, e trasparivano un senso di protezione.
Era come se non la stesse condannando, solo aveva provato a colpirla per non crollare da solo, ma la verità era che non aveva pensato solo un secondo che potesse andare diversamente.
«Quando ti ho baciata sapevo che la tua storia era in crisi, ma che nonostante tutto tu lo amavi ancora» le rivelò, poi si fermò e diede un’altra risatina
«Ho sempre saputo di non essere abbastanza per te, che non avrei mai potuto superare lui»
La ramata aprì per un secondo la bocca, sorpresa nel sentire quella confessione.
«E allora... allora perché l’hai fatto? Se lo sapevi, perché ci hai provato comunque?»
Il ragazzo alzò le spalle guardando un punto senza vederlo realmente.
Per lo stesso motivo per cui lei voleva tentare di ricostruire la sua storia, ma forse non lo sapeva ancora.
«Perché vale sempre la pena. Anche se sai come andrà a finire, per lo meno potrai dire “io ci ho provato”» proferì in tono sicuro, e quelle parole la spezzarono.
Victor ci aveva provato con lei nonostante sapesse che non aveva mai smesso di amare un altro e che ne avrebbe certamente rimesso solo per tentare di poter cambiare qualcosa e dimostrare che non aveva timore ad affrontare il suo cuore.
E lei?
Voleva correre da Yamato, era vero, ma aveva una paura fottuta che lui l’avrebbe rifiutata senza nemmeno darle modo di spiegarsi.
Sapeva che ogni spiegazione era superflua in quei casi, però era il punto debole della loro relazione, quello di aver smesso di parlare...
Se Matt la rifiutava voleva dire che non era destino continuare a stare insieme e che tutto quello era successo solamente per condurli ad una fine.
E lei voleva solo stare bene, alla fine.
«So che è quello che hai fatto anche tu con me» continuò l’altro, distogliendola dai suoi pensieri «per questo non riesco a non dirti che è giusto che tu segua il tuo amore»
Sora lo fissò senza fiato.
Davvero lo pensava?
Che stronza che era stata...
Infliggere anche a lui tutto quel male quando avrebbe potuto evitarlo... ma lui l’aveva capita, aveva capito che aveva bisogno di provarci, comprendere se tutto quello era reale, se poteva contrastare quello che realmente sentiva dentro.
Lo aveva sentito, lo aveva vissuto, e adesso aveva capito.
«Victor...» soffiò toccata nel profondo dalla compostezza e dalla benevolenza che, nonostante non meritasse, quel ragazzo le stava riservando.
«Va’ da lui» l’esortò poi, ma senza avere la piena forza di alzare lo sguardo sui suoi occhi nocciola
«Io... io me ne farò un ragione se ciò vale a dire renderti felice»
Si sentì colpita, schiaffeggiata nell’anima.
Victor era innamorato di lei e le stava dicendo addio.
Stava accettando di lasciarla andare perché non lo ricambiava.
Le stava dicendo di raggiungere la persona che amava davvero, piuttosto che tentare di convincerla a rimanere o ad usare ciò che avevano fatto contro di lei.
I suoi occhi si riempirono di lacrime di affetto.
Era triste allo stesso tempo, perché sapeva che stava lasciando dietro di sé un ragazzo speciale, intelligente, che la rispettava, che non voleva farle del male.
In quel momento non si sentì sollevata, si sentì nuovamente sconfitta.
Stava lasciando Victor che l’amava per andare da Matt di cui non sapeva più niente... non sapeva se l’avrebbe perdonata, se sarebbe funzionata di nuovo, se il peso di tutto quello che era successo avrebbe ucciso da subito i buoni propositi di ricominciare tutto d’accapo.
Si sentiva in colpa, si sentiva macchiata di una colpa troppo grande per affrontarla.
«Lui non mi vuole più...» non seppe nemmeno perché l’avesse proferito, perché avesse detto quella frase proprio alla persona che stava lasciando come volesse in qualche modo ottenere una rassicurazione.
Era ridicola a pensare di poter ricercare del conforto proprio in lui, specie durante quel momento.
Quello, però, scosse la testa e finalmente la guardò.
«Io... sono sicuro che lui ti abbia solo lasciato scegliere di essere te stessa» glielo disse facendo un po’ di fatica, ma lei capì che diceva il vero.
Rimase senza parole per un po’.
Con quello intendeva dirle che Matt l’aveva solo lasciata libera di scegliere?
Aveva fatto in modo che non si annullasse per compiacere il suo volere, l’aveva lasciata libera di capire cosa aveva bisogno senza limitarsi, e se ciò valeva a dire ricercare la felicità in un altro, beh, allora l’avrebbe lasciata fare.
Forse... forse era anche questo il motivo se non si era reso reperibile, voleva che non si facesse condizionare da lui e si facesse guidare solamente dai sensi di colpa o di dovere nei suoi confronti.
Matt non avrebbe accettato che tornasse in ginocchio da lui solo perché era giusto chiedere scusa, mentre dentro di lei non ci sarebbe stato niente di sistemato.
L’aveva lasciata agire secondo il suo istinto, il volere dei suoi sentimenti; ma nonostante tutto, lui era sempre là, ad aspettare lei perché forse... forse Matt l’amava ancora...
Aveva paura a constatarlo, aveva un’enorme paura che non fosse affatto così, ma la frase di Victor le diede un motivo in più per sperare.
Matt forse l’aveva solo lasciata libera di essere sé stessa, chi voleva essere, di sceglier qualcun altro che non fosse lui anche se ciò valeva a dire non scegliere lui.
Ma nonostante tutto era lì, che l’aspettava.
Era quello l’amore.
Si avvicinò a Victor e gli passò una mano sulla guancia, ne sfiorò i lividi e lo vide sussultare leggermente.
«Victor...» mormorò emozionata, sinceramente toccata dalle parole che le aveva rivolto sebbene lei lo avesse scaricato.
Lo vide socchiudere gli occhi, l’espressione sofferente.
«Mi dispiace...» glielo disse con il cuore e Sora lo sapeva che lo stava facendo proprio con quello e, per quanto valeva, aveva un senso.
Comunicava attraverso il suo cuore.
Lo aveva sempre fatto, era quello che sapeva più fare, trasmettere amore anche nei momenti più bui.
Lui capì, le prese la mano e gliela strinse.
«Anche a me, Take» la chiamò con quel nomignolo che le riservava da anni, e a lei scappò un lieve sorriso.
 
Doveva tornare a sapere amare.
Amare davvero.
 
Presto, si premurò di recuperare il resto dei suoi vestiti e cominciò ad indossarli. Si abbottonò la camicetta ed alzò la zip dei jeans. Poi indossò le scarpe, si passò i capelli dietro le orecchie, cercando il suo cellulare.
Lo trovò dietro l’abatjour sul comodino, lo afferrò e lo mise in borsa. Afferrò la sua giacca di pelle e la borsa, pronta ad andar via.
Si voltò verso l’altro e lo vide seduto sul bordo del letto, in silenzio, la schiena rivolta in sua direzione.
Non riusciva a vedere il suo viso, ma immaginava lo avesse contratto. I capelli le ricaddero sul volto e lei li riportò dietro le orecchie.
«Io... Grazie di tutto» le uscì fuori, ma non seppe se aveva fatto bene a dirlo.
Non voleva aggiungere nient’altro che potesse farlo soffrire, voleva solo sgusciare via da quell’appartamento e ritrovare la sua pace interiore.
Il ragazzo non rispose, si limitò ad annuire chiudendo gli occhi, come per gustarsi gli ultimi istanti del suono della sua voce.
Sora posò una mano sulla maniglia della porta, rivolgendogli un ultimo sguardo. Indugiò ancora un po’, come se sentisse il dovere di dire altro, aggiungere qualche altra cosa per spiegarsi meglio.
Aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono, così la richiuse ed assunse un’espressione seria.
Victor era già provato ed abbattuto; inoltre sapeva bene che aveva capito come si sentiva, perciò non avrebbe aggiunto più niente.
Sarebbe andata via da quella casa e dalla sua vita, lentamente, scivolando via senza quasi salutare per non far rumore.
Sospirò, e spalancò la porta, diede un’ultima occhiata mentre la richiudeva e lui era lì, seduto, non si era mosso di un centimetro.
Lasciò dentro quella casa quello che era stata, ciò che l’aveva fatta sentire diversa e che l’aveva ricondotta sui suoi passi.
Scese le scale e si ritrovò davanti al portone principale.
Con un profondo respiro, lo aprì.
Fuori il tempo era nuvoloso e cominciava a tirare un po’ di venticello. Si mise il giubbotto sulle spalle e si strinse alle braccia.
Cominciò a camminare sul marciapiede.
Aveva abbandonato la perdizione di una Sora triste ed abbattuta, frustrata dal non ricevere ciò che voleva dalla vita, dalla sua storia d’amore; tentata da una persona che l’aveva illusa di poter provare delle sensazioni diverse da quelle che era abituata a sentire.
Tutto ciò, nonostante tutto, nonostante le lacrime, le era servito.
Le era servito a star bene con sé stessa.
Anche se ciò valeva a dire ritrovarsi da sola, sperduta, senza nessuno da cui andare.
Tuonava ancora.
Non sapeva dove sarebbe andata. Poco prima aveva una voglia matta di correre da Yamato, ma adesso...
Era come se avesse eliminato via tutte le forze.
Come se fosse prosciugata, sbiadita, alienata in uno stato catatonico di pensieri.
Qualsiasi scelta avrebbe fatto desiderava solamente una cosa da quella storia: che stesse bene, che fosse felice.
 
E forse quello non lo avrebbe mai saputo se non fosse arrivata alla fine.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Un rombo di tuono.
Yamato alzò il viso verso l’orologio affisso sul muro di fronte a sé. Le lancette dei secondi scandivano lo scorrere inesorabile del tempo, e ad ogni rintocco sentiva la fine giungere, vicina, sempre più vicina.
Aveva il viso pallido e scarno, gli occhi rossi, lo sguardo fisso in un punto imprecisato, immerso nei suoi pensieri.
Si era messo in piedi dopo non molto che Tai era andato via ed era andato a farsi una doccia, non riusciva più a rimanere sdraiato sul letto; sentiva una sensazione pesante allo stomaco, come se dovesse vomitare. Inoltre aveva un dolore acuto al fianco dopo quello scontro fisico che non gli permetteva di rimanere per molto tempo nella stessa posizione.
Chiuse qualche secondo gli occhi, stringendo forte la tazza doveva aveva versato del caffelatte che aveva solo sorseggiato.
La sua mente era in subbuglio così come il suo cuore.
Si sentiva svuotato, come se non fosse rimasto meno che niente dentro di lui.
Aveva sofferto così tanto che adesso i suoi occhi erano asciutti, secchi, volevano lacrimare ma non era rimasta più alcuna lacrima da piangere.
Guardò di nuovo l’orologio, erano le undici e quindici e Tai non era ancora tornato.
Gli aveva promesso che sarebbe passato a prenderlo per portarlo con sé a Kyoto, avrebbe vissuto con lui al residence dove alloggiava con gli altri compagni.
Lo avrebbe fatto per lui, solo ed unicamente affinché stesse meglio, affinché si estraniasse da tutto quello che gli era capitato durante quegli ultimi giorni.
Era come se fossero passate settimane tanto quella pena gli era sembrata infinita.
Aveva lasciato che il dolore attanagliasse il suo corpo, che lo distogliesse completamente dalla realtà. Si era trascurato, si era lasciato letteralmente morire su un letto lasciando che la vita al di fuori scorresse... non era andato a lavorare al bar, aveva evaso le chiamate del responsabile che probabilmente lo aveva licenziato seduta stante.
Poco male, odiava quel fottuto lavoro, odiava tutto di quella vita; i soldi che aveva guadagnato gli erano serviti per arrivare con le stringhe a fine mese.
Il ricordo dei suoi tempi al conservatorio gli riaffiorarono in mente, e si perse per un po’ di tempo nel piacere dei giorni passati a studiare, a suonare la chitarra, ad uscire insieme ai suoi colleghi di studi.
Ricordò con piacere la supplenza di un anno che aveva sperimentato subito dopo la sua laurea, il contatto con gli studenti e l’ambiente di insegnamento che lo aveva reso felice e fiero di ciò che aveva conseguito.
Aveva reso i suoi sforzi sensati e aggradanti; poi il contratto era terminato e da allora era iniziato il declino, il buio, la fine di lui.
Strinse forte le labbra.
Adesso si vedeva lì, fermo, di fronte ad un bivio.
Taichi voleva che andasse con lui, che lo seguisse per potergli stare vicino, mentre suo padre gli aveva offerto un posto di lavoro alla Fuji TV, dove grazie alla sua influenza lo avrebbe raccomandato, avrebbe scavalcato tutti i curriculum di chi aveva studiato seriamente per quella professione solo perché figlio di un cameraman influente.
A lui non fregava un cazzo di quella professione, e cosa ancora più importante non intendeva essere riconosciuto come il figlio di papà raccomandato.
Lui voleva occupare un posto di lavoro con le sue sole forze, con i propri sforzi, con sudore; non avrebbe voluto togliere un’opportunità a chi veramente voleva essere qualcuno in quel settore.
Se lo avessero fatto a lui avrebbe gridato all’ingiustizia.
Si portò due dita ad entrambe le tempie, il viso contratto in un’espressione di fastidio fisico ed interiore.
Non era giusto, già, ma non riusciva a trovare una soluzione migliore a quella situazione di merda in cui si trovava da tempo.
E poi... sarebbe dovuto scappare via da lì.
Avrebbe dovuto lasciare dietro di sé quella scia di dolore e lacrime che lo avevano distrutto, che non gli avevano più fatto vedere la luce del sole; voleva rinascere via da quella merda di casupola di quaranta metri quadrati, lontano dalla band disgregata che aveva lasciato in lui il segno amaro dell’illusione, via da quell’infame colpo al cuore che Sora gli aveva inferto.
Il solo pensare al suo nome gli procurava delle fitte che quasi lo piegavano in due.
Avrebbe dovuto correre via da lì, fuggire, rifugiarsi da qualcuno perché era stanco, era fottutamente stanco di stare lì da solo.
Tai aveva ragione, aveva bisogno di evadere, aveva bisogno di abbandonare anche per un po’ di tempo quella dannata vita.
Lui si preoccupava di come stava dal primo giorno che era tornato a Tokyo, non lo aveva lasciato neanche un attimo da solo, seppure meritasse di ricevere una porta sbattuta sul muso per l’indisponenza con cui si era porto.
Aveva quell’atteggiamento da mercenario del cazzo che lo aveva condotto solo alla rovina, voleva mostrarsi forte in maniera che niente potesse scalfire la maschera di ferro che si era costruito da solo, ma in realtà gli era crollata anche quella.
E si era ridotta in mille pezzettini, gli era caduta addosso e lo aveva lasciato senza più alcuna copertura.
Si sentiva solo e vulnerabile, così talmente esposto agli attacchi esterni; solo Taichi lo aveva protetto da tutto quello.
Non lo aveva forzato a fare nulla, solo era stato lì, era rimasto lì, in casa sua, sul suo letto a vegliare su di lui come se gli fosse dovuto, ma non gli era dovuto un cazzo.
Avrebbe potuto benissimo lasciarlo da solo a piagnucolare sulle scelte di merda che aveva preso, sulla vita azzardata che si era creato intorno, perché l’avrebbe capito e se lo sarebbe meritato.
Lui stesso si sarebbe lasciato marcire nel suo stesso sangue, in quella fossa stretta e buia che si era scavato.
Mentre Tai no, non l’aveva fatto; lo aveva affrontato, al costo di rimetterci dei lividi, lo aveva messo con le spalle contro al muro e aveva fatto sì che aprisse gli occhi, che non si lasciasse morire.
E lui, cosa aveva fatto in cambio?
Lo aveva picchiato, gli aveva riversato addosso tutto il suo odio, la sua frustrazione per non essere uguale a lui, coraggioso, libero, con una carriera alle spalle.
Taichi sarebbe stato sempre migliore di lui, in tutto.
E si vergognava così talmente tanto per aver provato quel sentimento di astio nei suoi confronti da volersi sbattere la testa contro il muro.
Strinse un pugno, arrabbiato con sé stesso, mentre le immagini dei ricordi appartenenti ai giorni precedenti lo invadevano.
Era stato così ingrato nei confronti del suo migliore amico, non meritava quella benevolenza che gli stava dando, perché aveva dissacrato quell’amicizia, era stato il primo ad averci buttato merda, trascinandolo contro il muro ogni volta che qualcosa non andava solo per il semplice gusto di dargli il ben servito, di vederlo sottomesso a lui, al suo volere.
Lui non sarebbe mai stato un leader, non avrebbe mai preso il posto di Tai.
Eppure aveva giurato di esserci stato messo allo stesso piano tante volte proprio da Tai stesso.
Lui lo aveva innalzato al suo stesso livello, non lo aveva mai lasciato indietro perché loro due erano una cosa sola, non c’era Yamato senza Taichi, e di conseguenza non esisteva Taichi senza Yamato.
Quella fottuta lotta che stava mandando avanti non era altro che il suo senso di frustrazione che graffiava per averla vinta, per dimostrare a sé stesso che era più coraggioso di Tai, più responsabile di Tai, più capace di Tai.
Ma non lo era.
Non aveva eccelso in niente che Tai non avesse fatto meglio.
E tutto perché il suo migliore amico sapeva andare oltre un pugno chiuso, una testa china, un voler star da solo.
L’empatia che aveva Taichi non l’avrebbe mai guadagnata, la determinazione di non veder soffiare via i propri sogni, le proprie speranze, la schiettezza con cui prendeva parola erano tutte qualità che lui non possedeva.
Yamato era solo un masochista, rinchiuso nella sua solitudine, nella sua commiserazione, nel suo rancore.
Taichi, no.
Taichi guardava sempre avanti, a testa alta, e non lasciava mai dietro chi amava.
Non aveva smesso di volere il suo bene sacrificando i suoi giorni liberi solo perché non aveva voluto reagire ad un cazzo di tradimento, rinchiudendosi nell’alcol, nel fumo e nell’orgoglio, imbevendosi fino all’ultima goccia ed annegandovi.
Tutto quello perché?, gli veniva da chiedersi.
Perché loro due erano una squadra, avevano combattuto insieme, si erano buttati giù insieme, ma si erano anche rialzati a vicenda, spalla a spalla.
La sua vita non aveva senso senza quella di Tai al suo fianco e anche lui lo sapeva bene, perché tutto quel tempo separati non aveva fatto altro che accentuare la loro disperazione e i loro errori.
Tai voleva che lo seguisse, e non avrebbe potuto affrontarlo apertamente negandogli quella volontà, perché avrebbe insistito e l’avrebbe convinto, come sempre.
E lui non voleva affatto rovinare la sua permanenza lì, non voleva ingrigire i suoi giorni con la sua presenza.
D’un tratto la mente volò a quella sera di sei anni fa.
 
Tai era immerso nei suoi pensieri rivolto verso la vetrata del pub che dava alla strada.
Erano tutti riuniti lì a festeggiare la sua ammissione nella squadra, il giorno prima della sua partenza per Kyoto; era tutti lì a bere e mangiare, gli avevano perfino regalato una torta in suo onore.
Lo aveva visto staccarsi da quel coro di auguri e portarsi lì di fronte l’uscita, pensieroso, come se avesse intenzione di andar via, di fuggire il prima possibile.
Matt lo fissava seduto al tavolo con una ruga di preoccupazione in volto. Sapeva perché stava in quel modo, era per colpa di Mimi che non si era presentata e lui ci era rimasto male.
Voleva condividere quella sera di addio con la ragazza che amava, ma purtroppo Mimi si era comportata come al solito infantilmente, sbattendo i piedi per terra perché non era stata ascoltata.
Il biondo aveva sospirato, poi aveva posato il suo boccale di birra sul tavolo e lo aveva raggiunto.
Lo aveva osservato per un paio di secondi senza dire nulla, notando come nel suo viso avesse dipinto un’espressione seria, rigida, esattamente come tutte le volte in cui si sentiva sconfortato.
Non voleva che avesse un brutto ricordo la sera prima della sua partenza. Voleva che portasse con sé delle buone sensazioni, non di tristezza.
In un gesto spontaneo, aprì le braccia e lo abbracciò da dietro.
Tai rimase interdetto per un po’ quando sentì quella stretta, poi riconobbe lui e sorrise lievemente.
«Ehi...» gli sussurrò, posando una mano sopra le sue che erano strette al suo ventre.
Matt gli sfiorò spalla con le labbra, poi vi appoggiò sopra il mento.
«Come ti senti?» gli chiese dopo un po’.
Tai lanciò un’altra occhiata fuori dal vetro con gli occhi pesanti.
«Confuso» gli confidò.
Era vero, lo percepiva. L’assenza di Mimi lo aveva abbattuto totalmente, se prima era lieto di festeggiare insieme a tutti i loro amici adesso sentiva il suo urgente bisogno di fuggire via da lì.
Ma non si sarebbe mosso, perché sapeva bene che l’orgoglio lo frenava.
Quello sarebbe stato solo l’inizio di una lunga serie; non avrebbe raggiunto Mimi per parlare quella volta e sarebbe stato l’inizio di tutte le altre volte mancate.
Tai però non poteva saperlo, nonostante Matt lo avesse appena predetto.
Rimuginava sul da farsi e cominciava a sentirsi spaesato, confuso di fronte a tutto ciò che avrebbe dovuto affrontare. Una nuova vita, un nuovo inizio, una carriera brillante su cui affidarsi.
No, non poteva indietreggiare per i capricci di Mimi.
Se non c’era lei a rendere quella serata piacevole allora ci sarebbe stato lui, il suo migliore amico.
Gli sarebbe mancato da morire...
Lo strinse più forte.
«Sarà dura» commentò riferendosi a tutto quello.
Tai aveva appena increspato le labbra in un sorrisino amaro e malinconico, solo che lui non l’aveva visto.
«Spero non tanto» si augurò, lanciando un sospiro carico di rammarico.
Poi lentamente si mosse e Matt allentò la stretta affinché si voltasse. Erano di fronte, faccia a faccia, quasi della stessa altezza, diversi nell’aspetto fisico, ma non sapevano che si guardavano dello stesso sguardo.
Il biondo strinse le labbra mentre lo fissava in silenzio, non riuscendo a non sentire dentro di sé il cuore battere forte per la tristezza di doverlo salutare.
Non voleva separarsi da Tai, non poteva, era l’altra sua metà.
Non voleva essere sentimentale, ma credeva così tanto nella loro amicizia...
Il castano aveva sicuramente pensato a qualcosa di simile perché non appena sentì gli occhi farsi lucidi tentò di sdrammatizzare ed emise una risata.
«Non mi guardare così, testina» lo redarguì affettuosamente chiamandolo come erano soliti insultarsi.
La sua voce s’incrinò un po’.
«Mi fai piangere, sennò» soffiò mentre la sua voce si spegneva e tentava in tutti i modi di trattenere le lacrime alzando gli occhi al tetto.
Matt fece altrettanto e rilasciò una risata bassa, poi tirò su con il naso.
Meno male che quei momenti tra di loro erano solo loro e basta.
Tai era forte, sicuramente più forte di lui, ed il fatto che fosse sull’orlo delle lacrime era dovuto a tante cose, ma lo apprezzava per mostrarsi così vulnerabile.
Gli regalò un sorriso e i suoi occhi celesti brillarono sotto le fioche luci del pub.
«Fai il bravo» lo raccomandò.
«Io faccio sempre il bravo» gli rispose lui con un’espressione di superiorità.
Poi scoppiarono entrambi a ridere. Quando terminarono, la tristezza ritornò ed attanagliò entrambi nuovamente.
Era come se stessero separando una sola persona, come se tutti e due dovessero fare a meno di una metà del loro corpo. Era così che appariva quel distacco dopo anni che avevano camminato l’uno a fianco all’altro.
Matt si sporse e lo abbracciò di getto. L’altro dapprima rimase fermo, immobile, chiudendo gli occhi; poi alzò le braccia e lo strinse forte.
«Mi mancherai, Tai...» glielo disse sinceramente.
Lui aveva pensato che gli sarebbe mancato allo stesso modo, forse anche di più, perché a Kyoto sarebbe stato solo senza conoscere nessuno e qualsiasi altra conoscenza sapeva che non avrebbe mai potuto eguagliare quello che c’era tra di loro, il rapporto con gli altri ragazzi...
«Torno presto, scemo» lo prese in giro tentando di smorzare la situazione, ma la verità era che aveva una gran voglia di urlare.
Si sentiva già perdutamente solo.
Matt lo scosse un po’, risvegliandolo dal torpore.
«Non me ne frega, mi mancherai lo stesso» proferì duro.
Non importava se appariva troppo sdolcinato.
Tai sorrise e gli strinse leggermente i capelli.
«Anche tu, Matt»
Rimasero per un po’ in quel modo, in silenzio, fino a quando non si staccarono nello stesso momento.
Si guardarono in modo complice e si diedero un cinque.
«We slay!» esclamò Tai citando sicuramente qualcosa.
Entrambi risero.
E Matt capì che anche se li avrebbero separati cinquecento kilometri, sarebbero rimasti sempre uniti nel cuore e nella mente, perché nessuno avrebbe potuto interrompere quel rapporto così solido, così ferreo, nessuno, nemmeno la lontananza, perché loro erano Taichi e Yamato ed avevano combattuto una miriade di battaglie insieme, prima di allora.
E coloro che avevano battuto i nemici insieme erano desinati a rimanere insieme.
 
 
Quel ricordò gli aveva attraversato la mente e lo aveva fatto perdere.
Taichi... il pensiero di Taichi lo tartassava perché non voleva trascinarlo nel baratro insieme a lui, non più, non aveva intenzione di rovinare ancora la sua vita allegra, piena di colori.
Taichi era l’unica ragione per cui credeva ancora nell’amicizia.
 
E lui era Yamato Ishida e l’amicizia per lui era tutto.
 
Si alzò di scatto, andò in stanza e recupererò la valigia da sopra l’armadio. Cominciò a prendere una serie di vestiti ed infilarli dentro, un po’ a casaccio.
Poi fece lo stesso con la roba intima, e i calzini, le scarpe, quante cose più possibili potevano entrarci dentro, li ficcò tutti lì.
Chiuse la cerniera.
Recuperò le sigarette, l’accendino, le mise dentro la giacca di pelle nera. Prese il telefono e chiamò qualcuno, poi mandò un messaggio a suo fratello per lasciargli la macchina.
Aveva preso la sua scelta.
Si infilò il giubbotto e si legò gli anfibi. Poi si tastò le tasche in cerca della chiave che come al solito non trovò.
Si guardò intorno fino a quando non la vide sopra il comodino.
L’afferrò e subito un’idea gli sfiorò la mente.
Guardò l’orologio.
Doveva sbrigarsi.
Aprì un cassetto dove teneva una serie di pentagrammi e dei fogli. Erano tutti scarabocchiati, così si accontentò di strappare l’ultima pagina di un’agenda.
Scrisse qualcosa.
 
Afferrò la valigia e percorse l’entrata della cucina. Spense tutte le luci dall’impianto. Volse lo sguardo e vide la sua chitarra appoggiata sopra il divano.
L’avrebbe lasciata lì, non aveva senso portarla con sé.
Fece per chiudere la porta, ma non ci riuscì.
Rientrò e la prese, caricandosela in spalla.
 
Era arrivata la fine.
 
Scese le scale ed arrivò di fronte al portone principale.
Non vedeva la luce da tanto tempo, gli sembrava fosse passata un’eternità.
Un clacson suonò, le foglie degli alberi si muovevano per il vento.
Non aveva nessun dubbio, voleva ricominciare.
Ricominciare davvero.
 
 
E cosa ancora più importante, in mezzo a tutto quello, nemmeno per una volta il viso di Sora aveva attraversato la sua mente.
 
 








 

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Capitolo 20
*** O forse no ***



Tai strinse in spalla il borsone ed allungò il passo, attraversando la strada. Guardava l’orologio mentre camminava, sperando che non fosse troppo tardi.
Aveva perso il primo pullman disponibile per raggiungere il quartiere dove abitava Matt, e l’autobus per Kyoto sarebbe partito tra soli quaranta minuti.
Era in ritardo, doveva muoversi.
Cominciò a sorpassare le persone che si trovavano nella sua traiettoria. Il peso del borsone lo ingombrava e lo faceva muovere goffamente.
Pensò di lasciarlo sulla soglia del marciapiede, si fermò perfino intenzionato, ma poi ci ripensò quasi subito. Qualcuno ci avrebbe sicuramente messo le mani.
Sospirò, cominciò a correre, sperando che Matt fosse già pronto.
Svoltò l’angolo e si ritrovo di fronte casa sua.
Il portone principale era aperto, il postino stava recapitando delle lettere infilandole dentro le apposite cassette che si trovavano al lato.
Non salutò nemmeno, si precipitò su per le scale.
Arrivato di fronte la porta dell’appartamento del biondo, lasciò finalmente cadere per terra il borsone.
Aveva il fiato corto, ma non si fermò a riprendersi, suonò il campanello di corsa.
Non rispose nessuno.
Sospirò e alzò gli occhi al cielo.
Erano in fottuto ritardo...
Risuonò un’altra volta, poi ancora, ma niente.
«Cazzo...» imprecò a bassa voce, poi rimase per qualche secondo fermo, le mani sui fianchi, insicuro sul da farsi.
Perché non gli apriva la porta?
Credeva che facendo in quel modo si sarebbe stancato a suonare e sarebbe andato via senza di lui?
Era questo ciò che voleva Yamato?
Beh, non l’avrebbe avuta vinta.
Prese a suonare ossessivamente, nonostante nessuno si palesasse e il tempo scorreva lento e infame.
Cominciò ad agitarsi ed imprecare.
Poi gli venne l’idea di chiamarlo al cellulare. Lo tirò fuori dalla tasca e fece partire il contatto.
La persona da lei chiamata non è al momento raggiungibile...
«Diavolo, Matt...» mise giù, sentendo in corpo una sensazione spiacevole, di allerta, come se avrebbe dovuto fare qualcosa.
E se si fosse sentito male? E se avesse tirato un altro fottuto pugno ad uno specchio, magari stavolta al vetro della finestra; si sarebbe dissanguato tutto e lui non era lì.
Cazzo, non era lì a vedere cosa stava combinando, a capire se stava bene...
Lo aveva lasciato fuori.
Non veniva ad aprirgli nonostante gli avesse raccomandato di stare lì ad aspettarlo perché sarebbero andati via insieme.
Ne sarebbero usciti insieme, fianco a fianco, come sempre.
Perché non voleva ascoltarlo?
Cominciò a tirare dei pugni alla porta, arrabbiato.
«Matt! Apri! APRI!» urlò e la sua voce rimbombò per tutto il pianerottolo.
Era così dannatamente incazzato con lui che voleva mettere giù quel pezzo di legno. Amava chiudersi in sé stesso ed annegare nel suo dolore senza capire che c’erano persone come lui, c’era lui lì, a cui avrebbe dovuto appoggiarsi.
Non avrebbe dovuto lasciarsi soffocare da quel mare oscuro, avrebbe dovuto ascoltarlo, avrebbe dovuto lasciargli il tempo di tornare, aveva corso per arrivare in tempo perché gli aveva promesso che lo avrebbe trascinato via da quello schifo.
Perché non lo lasciava entrare nel suo cuore?
Diede un altro pugno forte alla porta, facendosi anche un po’ male.
Emise un urlo di frustrazione.
Si portò il pugno alla bocca, poggiò le labbra sulle nocche, chiudendo gli occhi per il dolore.
Fottuto stronzo, sei uno stronzo, Matt...
Credevo che non avresti mai dubitato di me, della nostra amicizia, del nostro legame, di noi...
E poi fu tutta una sequenza di azioni compulsive.
Andò avanti e indietro, riprese il telefono, suonò nuovamente.
Vaffanculo, Matt...
Si portò le mani al viso, si alzò i capelli dalla fronte.
Vuoi lasciarmi fuori...
Vuoi lasciarmi fuori quando hai bisogno di me, e io pure ho bisogno di te.
Rimase fermo, una mano sulla bocca, a pensare.
Avrebbe dovuto andarsene. Non aveva senso continuare ad attendere una persona che non voleva vederlo.
Matt non gli avrebbe mai aperto quella porta, aveva fatto la sua scelta, e la sua scelta rispecchiava il voler stare chiuso in casa a nascondersi dal mondo esterno.
Si sentì deluso, colpito alle spalle.
Non era valso a niente tutto ciò che aveva fatto per lui in quei giorni, per lui non aveva significato nulla il fatto che lo avrebbe portato con sé a Kyoto per provare a dargli un’opportunità di rinascita.
Voleva annegare nel suo dolore, o forse, non voleva mischiarsi con la sua merda, perché era così; Taichi distruggeva tutto ciò che toccava, dissipava il terreno su cui camminava.
Voleva tagliarlo fuori perché lo aveva maltrattato, gli aveva urlato delle cose contro che lo avevano ferito e sapeva com’era fatto Matt.
Ci rimuginava a fondo sulle cose, e le parole avevano un peso su di lui.
Le serrava dentro e le trasformava in rancore.
Si strinse il volto, sofferente.
Era stata nuovamente colpa sua, gli aveva dato il colpo finale, aveva giocato con il suo equilibrio precario, non aveva rispettato i suoi spazi e i suoi tempi.
Il tempo continua a scorrere, sentì di essere arrivato alla fine.
Doveva andarsene, avrebbe dovuto abbandonare tutto...
Fece per farlo, quando il suo sguardo ricadde per terra dove c’era lo zerbino. Incastrato al lato c’era qualcosa, non capiva bene cosa fosse, ma aveva le sembianze di una piccola busta.
Subito allungò una mano e la prese tra le mani. Sentì che conteneva qualcosa di solido all’interno.
La voltò e lesse su scritto il suo nome.


TAI


Era la calligrafia di Matt.
Non perse tempo, si precipitò ad aprire la busta, rischiando perfino di strappare il foglio che c’era all’interno.
Era un foglio a quadretti ripiegato a quattro, lo aprì e vide una chiave attaccata all’estremità con dello scotch.
Quella chiave... era quella di casa sua.
La staccò e subito si precipitò ad aprire la porta. Faticò un po’, la serratura era vecchia, ma riuscì grazie ad una secca spinta.
«MATT!» chiamò, ma nuovamente nessuno rispose.
Dentro era come se non fosse successo nulla. Tutto si trovava al suo posto, c’era solo un odore strano, come di fumo rimasto impregnato nelle pareti.
Le uniche due stanze, camera sua e il bagno era aperte, spalancate, riusciva ad intravedere benissimo che erano vuote.
Fece avanti ed indietro per il soggiorno, tentò di trovare un indizio riconducibile alla sua presenza.
Forse era solamente uscito?
Magari era andato solamente a prendere una boccata d’aria, non usciva da cinque giorni, ne aveva bisogno per riprendersi.
Forse era andato solo al supermercato, sì... poteva essere, cazzo, perché doveva essere per forza successo qualcosa di grave?
Forse era per questo che gli aveva lasciato la chiave, per aprire ed aspettarlo, magari adesso arrivava, magari avrebbe...
D’un tratto ricordò qualcosa.
 
Il giorno in cui lascerò la mia chiave a qualcuno...”
 
Non perse tempo, si precipitò in camera sua ed aprì l’armadio.
Le ante erano vuote, vi erano soli pochi vecchi vestiti rimasti sul fondo. Fece lo stesso con il comodino, spalancò impulsivamente i cassetti, poi si recò in bagno ed aprì il mobiletto dove non trovò traccia nemmeno di un misero dopobarba.
I suoi dubbi cominciarono a prendere piede, si fecero pian piano vividi, reali.
Matt era andato via.
Aveva preso la sua roba ed era partito.
Ritornò in cucina, gli occhi vacui, la bocca semiaperta.
Era andato via... ma dove?
Perché non lo aveva aspettato? Perché non era partito insieme a lui?
E adesso come avrebbe fatto senza di Matt?
Senza guardarlo negli occhi e salutarlo... e adesso lui doveva partire lo stesso, doveva andarsene di nuovo da solo, senza nessuno che gli facesse compagnia...
Si era illuso che avrebbe potuto ricominciare tutto d’accapo, ma ciò non sarebbe successo, perché non era riuscito a cambiare la storia.
Di nuovo da solo, Taichi.
«Dove cazzo è...» sussurrò sconvolto, esausto da tutto ciò che era successo.
Guardava il vuoto e sentiva gli occhi lucidi, inerme, incapace di far nulla.
In tutto quel frangente, però, non si rese conto di non aver nemmeno per una volta mollato il bigliettino dalla mano.
Lentamente, gli gettò un’occhiata. Lo voltò e vide che c’era scritto qualcosa.
 
 
Those who slay together,
  stay together
 
 
Lentamente cominciò a capire tutto.
La sua testa collegò ogni cosa, la frase, il bigliettino, la chiave che gli aveva lasciato.
Era stato lui stesso a proferire quelle parole la sera prima della sua partenza per Kyoto, in quel pub, quando credevano che la lontananza avrebbe potuto separarli.
Avevano combattuto nemici ben peggiori della lontananza, e ne erano usciti inermi, vincitori, avevano abbattuto tutto.
Sarebbero rimasti comunque insieme, la loro amicizia era un legame imprescindibile, non avrebbe subito attacchi esterni, perché loro avevano già lottato insieme contro di quelli più e più volte.
Erano destinati a restare insieme, uniti, come un tutt’uno.
Era questo quello che voleva comunicargli Matt.
Gli aveva lasciato la copia della chiave di casa sua perché la custodisse, la tenesse sempre con sé, come segno di fiducia, come simbolo di lealtà.
Erano l’uno la casa dell’altro, se si perdeva l’uno allora ci sarebbe stato l’altro e l’avrebbe ricondotto al sicuro perché ad entrambi apparteneva la salvezza dell’altro.
Matt non si fidava abbastanza di nessuna persona al punto tale da lasciargli aperta la porta di casa sua; tranne di lui.
Si fidava solo di lui tra tutti.
Lasciò scivolare una lacrima, finalmente, dopo giorni di resistenza, dopo giorni in cui le emozioni lo avevano stritolato.
E poi un’altra ancora.
Stava piangendo per tutto.
Piangeva perché era come se il terreno sotto i suoi piedi si fosse staccato a causa di tutte i salti, le spinte che aveva provocato.
Si sentiva inerme, così piccolo ed insicuro, mentre il tempo scorreva e lui era lì, a sentirsi uno stupido per aver pensato di avere il controllo su tutto.
Non aveva il controllo sulla sua vita, non lo aveva del suo cuore, non lo aveva delle scelte degli altri...
Credeva che sarebbe riuscito ad evitare ogni fottuto dispiacere alle persone che amava, si era erto ad eroe, il protettore dei deboli, ma era risultato lui debole.
Perché non era riuscito ad evitare tutto quello.
Yamato stava andando da suo padre, aveva deciso di non seguire lui per non recargli altro danno, aveva scelto di ricominciare senza mettere apposto niente.
Un lavoro che non avrebbe amato senza aver affrontato la donna che ancora amava.
Gli venne quasi da ridere amaramente.
Sembrava persino divertente da quel punto di vista, perché si trovava decisamente sulla stessa barca.
Adottò un’espressione risoluta.
Solo che, a differenza sua, Yamato non lo meritava, non meritava affatto tutto ciò.
Portò la chiave alle labbra, tamburellandola appena.
Poi in un gesto repentino depositò il foglio a quadretti in tasca e sgusciò via da quella casa.
Afferrò il borsone che era rimasto sulla soglia della porta e corse via per le scale.
Avrebbe avuto soltanto mezz’ora di tempo per raggiungere la giusta banchina da dove sarebbe partito l’autobus diretto a Kyoto.
Cominciò ad accelerare il passo, pensando che sicuramente non ce l’avrebbe fatta, ma valeva la pena tentare.
Si diede uno sguardo intorno.
L’auto di Matt era ancora parcheggiata lì davanti, quello significava che stava raggiungendo la stazione più vicina. Doveva almeno tentare di fermarlo, o perlomeno, dargli un motivo in più per pensarci e non gettare tutto al vento.
Tirò fuori il cellulare e lo portò nuovamente all’orecchio.
Forse era stupido azzardare con l’ennesimo gesto eroico, era da veri egocentrici, ma doveva farlo.
Non poteva sopravvivere sei mesi lontano, trasferirsi ad Osaka senza aver perlomeno provato a fare qualcosa.
Attese che qualcuno rispondesse dall’altro capo.
 
 
 
 
Sora aveva ormai percorso più di un chilometro dall’appartamento.
Ogni tanto si voltava a guardare indietro, come se qualcuno avesse potuto seguirla, ma non c’era altro che una serie di passanti frettolosi che si accingevano a tornare a casa in previsione del temporale che si sarebbe scatenato da lì a poco.
Il vento che soffiava e faceva spostare le foglie degli alberi le dava l’impressione di qualcuno che la chiamava, così si strinse alla giacca e si premurò a sbrigarsi.
Qualche gocciolina cominciava già a cadere giù.
Sarebbe tornata a casa propria. Mimi le aveva mandato un paio di messaggi, avrebbe dovuto tornare per tranquillizzarla.
Non era dell’umore adatto di fare nulla, sentiva la testa ed il corpo pesante; forse più dai sensi di colpa che dalla stanchezza.
Voleva solo andare a farsi una doccia, sgrassare di dosso quella sensazione di sporco che sentiva fuori e dentro.
Stava scappando, lo sapeva.
Si sentiva così piccola ed insignificante, lì che correva via da qualcosa che aveva consumato coscientemente.
Si faceva pena per aver ceduto.
Gli occhi presero ad inumidirsi ancora, ma raddrizzò le spalle, si strinse il colletto della giacca alla gola e continuò a camminare.
Aveva appena imboccato un viale alberato, una foglia le arrivò addosso. La prese in mano e l’esaminò, lugubre.
Il vento l’aveva appena spazzata via, proprio come gli eventi avevano fatto con lei.
E adesso era lì, a farsi trascinare da esso senza avere una meta ben precisa.
Voleva andare a casa, ma qual era la sua vera casa?
Aveva perso la cognizione, aveva perso dentro di sé qualsiasi contatto con la realtà; sembrava come se si fosse appena svegliata da un lungo sonno e non riuscisse a mantenere il contatto con il mondo della veglia, aveva bisogno di qualcuno che la trascinasse via da quello stato sonnambulo.
D’un tratto il suo telefono cominciò a vibrare e squillare dentro la sua borsa.
Sora sussultò e si fermò dei secondi per tirarlo fuori.
Lesse il contatto e il suo cuore ebbe un guizzo.
Era Taichi.
Non si sarebbe mai aspettata di ricevere una sua telefonata dopo quello che le aveva detto, dopo come si erano affrontati il giorno dopo della festa.
Le aveva espresso tutta la sua delusione per essersi comportata in quel modo, e lo capiva, lo capiva benissimo.
Era sempre stato dalla sua parte, aveva tante volte contestato Matt per lei, era perfino arrivato a discutere con il suo migliore amico per causa sua, perché la proteggeva, le voleva bene, stava con lei a prescindere.
Ma non quella volta.
Quella volta aveva sbagliato lei, e Tai non poteva più stare dalla sua parte perché aveva vissuto il dolore di Matt, mentre lei gli aveva perfino mentito, gli aveva fatto credere che non stava succedendo niente quando invece stava accadendo tutto.
Se solo si fosse aperta a lui, se solo lo avesse ascoltato quando l’aveva esortata a parlargli... magari le cose sarebbero andate in maniera diversa...
Preso fiato e portò il cellulare all’orecchio.
«Tai...» rispose lievemente, mentre il fruscio del vento si faceva insistente.
Il castano diede un sospiro di sollievo non appena sentì la sua voce.
Non avrebbe sopportato di non sentire nemmeno lei.
Poco prima della fine.
«Sora, dove sei?» le chiese trafelato, mentre camminava velocemente per arrivare a svoltare l’angolo.
La ramata fece una faccia interrogativa non appena lo udì così frettoloso, come se avesse urgenza di dire o fare qualcosa.
Si guardò intorno tentando di rilevare degli indizi riconoscibili. Era appena uscita fuori dal viale, rimase lì ferma, e si rese conto di trovarsi in adiacenza del locale in cui si erano riuniti tutti all’inizio di quella settimana.
«Io... sono in strada, vicino al Vancouver» rispose, stringendosi ancora di più alla giacca.
Cominciava a fare freddo e le nuvole erano nere.
Tai percorreva il marciapiede ed era in procinto di svoltare l’angolo. Si rese subito conto di trovarsi nella strada giusta.
Alzò lo sguardo e lesse il nome della via.
«Ad Huiji Dori?» chiese, poi il locale si volatilizzò alla sua destra, ne riconobbe le vetrate e i divanetti rossi.
La sua mente lo riportò al giorno in cui era arrivato lì.
Gli passarono in testa una serie di immagini, loro che ridevano, che parlavano, che scherzavano ignari, inconsapevoli di quello che sarebbe successo da lì a breve.
Di come tutto sarebbe finito.
E adesso eccolo lì, nuovamente di fronte a quel locale poco prima della sua partenza; il tempo era passato troppo velocemente.
Li aveva resi vulnerabili.
«Ehm, sì, credo sì...» soffiò Sora, distogliendolo dai rimugini.
Non era completamente sicura se la locazione era corretta. Non percorreva quelle strade di solito, abitava tre isolati più avanti.
Si guardò intorno compulsivamente, cercando di cogliere qualsiasi segnale da ogni dove, ma non vedeva nulla.
Anche Tai era fermo sul ciglio della strada, il borsone gli era ricaduto per terra.
«Non ti vedo. Da che parte?» cominciò a muoversi verso destra, guardò oltre le macchine, poi fece lo stesso verso sinistra.
Lo avrebbero preso per matto.
La ragazza capì che si trovavano nelle vicinanze, allora decise di allontanarsi dal viale alberato e raggiungere il ciglio anche lei.
Una macchina le tagliò la strada diretta alla pompa di benzina a lato. Emise uno strillo, spaventata, portandosi una mano al petto.
Poi deglutì e tentò di ripristinarsi.
«Vicino al benzinaio» gli diede un altro indizio, mentre proseguiva diritto.
Tai capì subito e si recò dalla direzione opposta.
«sulla destra, all’uscita del viale alberato, sul... Ecco» Sora s’interruppe perché lo aveva visto, finalmente.
Il castano la fissò con il fiato corto dalla strada parallela senza dire nulla, solo tolse il telefono dall’orecchio.
Lei unì le mani al seno, lo sguardo velato, i capelli che le ricadevano sul viso.
Tai ripose il telefono in tasca, poi recuperò il borsone, lo mise in spalla e, senza smettere di guardarla, si accinse ad attraversare la strada.
Per fortuna era lì, per fortuna l’aveva trovata.
Non si chiese nemmeno perché fosse in giro a quell’ora, solo aveva il cuore in gola per la paura di non riuscire a fare in tempo a parlarle.
Non poteva perdonarsi di andar via senza aver prima parlato con Sora.
La raggiunse e furono uno davanti all’altro.
La ramata lo fissava titubante, in volto aveva un’espressione spaesata, quasi spaurita, il viso gonfio come se avesse pianto da poco.
La esaminò involontariamente e, nonostante non potesse negare la sua bellezza, il suo essere come al solito in ordine, con il suo profumo di rose riconoscibile tra tanti, le vedeva in viso qualcosa di differente, di estraneo.
Come se avesse subito una metamorfosi dentro di sé.
Sora non smetteva di guardarlo negli occhi, come ipnotizzata.
«Taichi...» sussurrò, poi vide che i suoi occhi nocciola si inumidirono.
Loro due non litigavano mai, solo si sfottevano affettuosamente; era sempre stata lei a rimproverarlo, a strigliarlo quando aveva commesso uno sbaglio.
Però quegli errori erano sempre stati riparabili, erano figli dei banchi di scuola e dell’immaturità che, nel tempo, era sfumata.
Quella volta era stato Tai ad alzare la voce con lei, ad affrontarla come mai aveva fatto, e questo l’aveva resa insicura, l’aveva resa incapace di reagire, perché aveva paura di averlo deluso così tanto da non riuscire a risanare il loro rapporto.
Aveva paura di averlo perso.
E lei non sapeva cos’avrebbe fatto senza l’amicizia di Taichi.
Sarebbe stata persa, sola e persa, un po’ come lo era adesso; ma adesso lui era lì di fronte a lei, e nonostante la sua imponenza la intimorisse, si sentiva al sicuro.
Perché lui le dava sicurezza con un solo sguardo.
Tai dovette pensare la stessa cosa, perché si passò un mano tra i capelli castani un po’ spettinati, e alzò lievemente gli occhi al cielo, sospirando.
Vedendola in quel modo gli stringeva il cuore.
Non riusciva ad essere indifferente a Sora, al suo stato d’animo, perché era uno dei legami più solidi che condizionava la sua vita.
Era come se avesse donato una piccola parte di sé a lei il giorno in cui si erano conosciuti, e lei lo aveva continuato a custodire amorevolmente.
Non perse tempo, frugò nella tasca dei pantaloni e tirò fuori la chiave che Matt gli aveva lasciato.
Lei la guardò senza capire.
«Sta andando via» proferì, secco.
Non c’era nemmeno bisogno che specificasse il soggetto; Sora aveva capito dal tono di voce, dallo sguardo serio nei suoi occhi nocciola, dalle rughe di preoccupazione sulla sua fronte.
Yamato stava andando via.
Cominciò a sentire il cuore battere forte, una sensazione di calore, come se stesse per perdere i sensi tutt’ad un tratto.
La testa le girò e le sembrò di trovarsi su una barca in un mare agitato.
Si isolò per dei secondi, gli occhi sgranati che fissavano il vuoto.
Tai notò la mancata reazione, allora strinse la mascella ed insistette.
«Sta andando a Shiodome, da suo padre» la informò duramente, così da ottenere la sua attenzione.
Lei alzò gli occhi rossi a guardarlo, stordita.
Non ne sapeva niente, non aveva mai parlato con lei della remota possibilità di raggiungere suo padre agli studi televisivi.
Non pensava potesse mai e poi mai prendere in considerazione un’opportunità del genere, e invece, a quanto pareva, aveva deciso di andarci.
Distolse subito lo sguardo, vergognandosi dello stato in cui si trovava.
Non sapeva più niente di lui, di quello che intendeva fare, delle sue scelte... era diventato nettamente un estraneo, non avevano più parlato di loro, non avevano più discusso di quella che sarebbe stata la loro vita.
Adesso lui stava andando via e lo aveva saputo da Taichi... poteva esserci cosa più triste di quella?
«Gli avevo detto di venire con me al residence, ma ha fatto la valigia e se n’è andato» continuò il castano, abbassando leggermente la testa per incontrare il suo sguardo.
Sora si sentiva così a disagio da voler sotterrarsi. Lo eluse.
Era tutta colpa sua se Matt era andato via... lo aveva fatto perché non riusciva a reggere la situazione in cui lo aveva gettato, il tradimento che gli aveva inferto proprio dritto alle costole, come fosse un nemico qualunque.
Stava andando via per evitarla, per far sì che i suoi giorni tornassero ad essere luminosi: rimanere ad Odaiba equivaleva a dire vivere con i demoni di quella vita spettarle, dover sopportare giorno dopo giorno il dolore che lei gli aveva inferto.
Era sicura che stava fuggendo da lei per non doverla affrontare, ma soprattutto perché credeva che quella era la cosa più giusta da fare.
Lasciarla libera di essere chi voleva; poco importava se ciò implicava perdere lui, dire addio alla loro storia d’amore, lasciarsi soffrire come un cane, da solo, senza nessuno che si prendesse cura di lui.
Si portò una mano alla bocca.
«Cosa ho fatto...» mormorò spaesata, pronta a crollare sulle sue gambe cedevoli.
Tutto intorno a sé sembrava vorticare minacciosamente, e il vento contribuiva a smuovere ciò che c’era intorno a loro.
Le foglie si alzavano dai rami e volavano per aria.
Le veniva da accasciarsi per terra per quanto si sentiva persa in quell’oblio. Era come se sentisse il suo essere alienato dal corpo.
Non c’era altro che la teneva ancorata lì.
Credeva di poter essere spazzata via all’istante e nessuno avrebbe potuto salvarla.
Era destinata a vagare senza meta fino a cadere improvvisamente in un covo di serpi, pronte a morderla.
Rinvenne solo quando sentì la mano forte di Tai che le si posava sulla spalla.
La guardava risoluto e in quello sguardo riconosceva il ragazzo di sempre, quello che non aveva mai smesso di dar loro dei motivi in più per lottare e non mollare.
Sembrava risplendesse di una luce completamente nuova, che non gli vedeva impressa sul viso da molto tempo.
Sembrava Taichi.
«Sora, ascoltami... se vuoi salvare la vostra relazione devi fare qualcosa, adesso» affermò senza un’apparente possibilità di replica.
La ragazza cominciò ad agitarsi, sentendo il cuore martellare sordamente.
Non poteva fare nulla, adesso, era senza luce, confinata in una sensazione di intorpidimento e paura.
Non poteva andare da lui, non sapeva come affrontarlo, si sentiva piccola e confusa... si sentiva macchiata nella coscienza ed era sicura che qualsiasi tipo di spiegazione avrebbe dato, lui non l’avrebbe capita.
Era imperdonabile...
«Prima che prenda il treno» la riscosse l’amico «Va’ da lui, fermalo, dagli le tue spiegazioni, ma fermalo»
Tai era serio, era seriamente convinto che avrebbe dovuto farlo.
Lui conosceva bene Matt, probabilmente più di lei, sapeva di cosa aveva bisogno, dei tempi che necessitava, delle parole che gli servivano sentire.
Se diceva in quel modo, se l’esortava in quel modo accalorato valeva a dire che avrebbe dovuto davvero muoversi.
Però... però non poteva...
Non poteva andare da lui a tentare di convincerlo a rimanere quando aveva preso la sua decisione, lo sapeva, lui era irremovibile.
Ci rimuginava molto sulle cose, ma quando giungeva ad una conclusione allora era tale; non avrebbe avuto possibilità di farlo tornare indietro.
E pure se riuscisse ad attirare la sua attenzione, lei non sapeva che dire...
Non sapeva come porsi, come cercare di farsi perdonare...
Si sentiva così talmente piccola, vuota, indecente.
Taichi la vide portarsi le mani al viso, coprendolo tutto. Cominciò a tirare su con il naso e ad annaspare, tanto da farlo preoccupare.
«Lui non mi vorrà più...» la udì borbottare disperatamente.
Aprì la bocca e poi la richiuse.
Non era d’accordo su quello.
Sapeva più di tutti di quanto Yamato fosse innamorato di lei, e nonostante tutta quella merda, non aveva smesso di pensare un attimo alla possibilità che lui potesse perdonarla.
Matt era un tipo duro, imperativo, era schematico e non lasciava passarne una a chi intendeva approfittarsi di lui.
Però aveva un debole: le persone che amava.
Quando si trattava di loro aveva sempre un momento in cui cedeva e dava loro modo di spiegarsi, di avvicinarsi a lui.
Era quello che aveva bisogno, l’affetto, l’amore, qualcuno che gli dicesse che non l’avrebbe lasciato solo nemmeno nel peggior momento della sua vita.
E sebbene credesse che Sora avrebbe dovuto faticare, si fidava pienamente del fatto che lei potesse riuscirci perché aveva quella capacità di arrivare alle persone come nessun’altro poteva.
Le tolse le mani dal volto.
«Non è vero» la redarguì, poi le tolse dal volto una ciocca di capelli rimasta attaccata sulla guancia a causa delle lacrime.
«Sei sempre stata brava a far parlare il tuo cuore» le disse poi.
Lei si portò una mano al petto e fece vagare lo sguardo sulla strada.
Una volta era brava, sì... ricordava anche lei quei tempi dolci quando riusciva ad arrivare dritta al cuore di chi le stava davanti proprio perché parlava con il suo.
Lo aveva fatto con Tai a suo tempo quando le aveva confessato di avere una cotta per lei, lo aveva fatto con Mimi per esortarla a non mollare gli studi, lo aveva fatto con Joe dopo ogni litigio con qualcuno di loro...
Non riusciva più a farlo adesso, perché il suo cuore era stretto, attorcigliato a delle spine che lo infilzavano e lo facevano sanguinare.
Aveva tradito per primo il suo cuore quando aveva smesso di parlare con Matt, quando aveva rimandato i loro incontri perché riteneva quelle serate tutte uguali, monotone, dove il divano di casa le sembrava stretto; aveva tradito in primis sé stessa quando era caduta in quello stato di inerzia più totale, dove si accontentava di mandare avanti la sua relazione solo perché stavano insieme da tempo.
Eppure, era sicura che Yamato l’avrebbe capita se solo gliene avesse parlato a suo tempo, avrebbero potuto realmente discuterne e tentare di sistemare le cose tra loro, solo tra loro; invece no, non l’aveva fatto, aveva avuto paura di mettere le dita dentro quel fuoco per timore di scottarsi.
Aveva preferito degradare la loro storia lentamente, e infliggergli il colpo di grazia senza guardarlo negli occhi.
Perché sapeva che se lo avesse guardato negli occhi si sarebbe sentita sporca.
Ripensò alla serata passata a casa di Victor ed ebbe un fremito.
«Lui... lui non mi vorrà più dopo oggi...» rivelò a Tai, gli occhi ancora fissi, fermi sul ciglio della strada, senza che la vedesse realmente.
Non avrebbe mai potuto volerla ancora dopo ciò che era successo, perché l’aveva voluto lei, e per quanto avrebbe potuto tentare di parlargli e dargli tutte le giustificazioni possibili, sarebbe rimasta per sempre macchiata.
Seppur le concedesse di vederla e parlargli, non l’avrebbe mai potuta perdonare.
Quello lo sapeva già, per questo si sentiva già sconfitta in partenza.
Tai la fissò per un po’ senza dire niente.
Subito gli passarono in mente una serie di immagini a cui non riuscì, non volle dare luogo perché troppo pesanti da sopportare.
Se parlava in quel modo significava che qualcosa era successo, dell’altro.
Non sapeva cosa, non sapeva fino a che punto, non sapeva niente, ma solo lo immaginava dal modo in cui Sora lo aveva proferito in maniera colpevole.
Si passò una mano sulla fronte.
Cominciò a sentirsi scomodo dopo quella sorta di dichiarazione, come se in qualche modo stesse assistendo ad un misfatto che non stava denunciando.
La consapevolezza che Sora fosse andata oltre con quel tipo lo infastidiva, perché sentiva ancora di più il peso gravare sulle spalle di Matt e lui, in un certo senso, ne stava diventando complice.
Quello non lo aveva affatto calcolato, aveva sottovalutato il modo di agire di Sora, credendola capace di non muoversi oltre alcuni segnati passi.
Invece Sora lo aveva fatto, probabilmente non aveva pensato a quanto avrebbe potuto appesantire ancora di più le cose, aveva seguito il suo istinto; eppure sapeva che lei imparava da ogni tipo di esperienza che le capitava a tiro, sia positiva che negativa, lei ne faceva tesoro e la trasformava in forza.
Quindi che importava, arrivati a quel punto.
Non aveva più importanza quello che aveva fatto se non perché lo aveva fatto.
Lo aveva fatto perché credeva di poter star bene in quel modo, ma glielo leggeva in viso il fatto che ancora amasse Matt, che probabilmente non aveva mai smesso di amarlo, nonostante potesse essere stata a letto con un altro.
Sospirò sentendo della collera per tutta quella situazione, ma tentò di calmarsi.
Lui non era nessuno per dire agli altri ciò che era giusto o sbagliato; poteva solo aiutarli a rimettersi in piedi dopo una brutta caduta.
E voleva che Matt tornasse a stare bene dopo quella ferita.
E sapeva anche che la felicità del biondo risiedeva in Sora, solo ed unicamente in lei, quindi poteva anche andare contro tutti i suoi principi morali del cazzo ma doveva fare in modo che la ramata raggiungesse quella stazione e lo fermasse.
«Senti, non importa... qualsiasi cosa... Vai!» lo disse scuotendo la testa, come per liberarsi dai pensieri contrastanti, e incatenò i suoi occhi a quelli di Sora.
Lei rilasciò tutto il fiato che aveva trattenuto fino ad allora.
Taichi non l’aveva giudicata, continuava ad esortarla a raggiungere Yamato, non aveva pensato male di lei quando aveva lasciato trapelare ciò che era successo...
Credeva l’avrebbe disprezzata, eppure, nonostante fosse evidente il suo sforzo nell’ingoiare quella situazione, era ancora lì, con la mano sulla sua spalla a spronarla affinché non mollasse con Matt, affinché lo raggiungesse e gli parlasse.
Forse avrebbe dovuto realmente farlo.
Perché se Tai insisteva così tanto forse era la cosa giusta da fare, cercava solo di trasmettergli del coraggio.
Un valore di cui lui ne era portatore.
Il suo sguardo si perse ancora e la sua mente viaggiò.
Non poteva lasciare che Matt andasse via senza che avessero perlomeno parlato.
Gli doveva delle spiegazioni, anche se sapeva che tutto faceva acqua, ma sentiva che doveva farlo in nome della loro storia, di tutti quegli anni che avevano passato insieme, per rispetto di tutti quei momenti in cui l’uno c’era stato per l’altro.
In nome del loro amore.
Lei lo amava ancora, era una consapevolezza vivida dentro di sé, e dopo aver toccato il fondo in quel modo sapeva che non avrebbe potuto andare oltre.
Il suo cuore batté forte.
Era come se fosse ritornato a pompare.
«Io lo amo» mormorò quasi senza accorgersene, lasciando Tai leggermente stupito dal modo in cui lo aveva proferito.
Lo aveva detto come se non potesse farci nulla, come se fosse il destino che lo avesse designato a lei e a nessun’altro oltre lei.
Era come se fosse arrivata alla sentenza, il cuore aveva già deciso al suo posto.
Il castano espirò una grande quantità d’aria, poi la rilasciò.
Era arrivato il momento.
Si avvicinò e le strinse il mento con una mano in modo che lei lo guardasse.
«Se credi ancora nell’amore, Sora, come una volta... ti prego, non lasciarlo andare via per sempre» sussurrò in tono deciso e toccante, tanto che le lacrime che prima aveva tentato di nascondere con le sue mani.
Pianse.
Credeva nell’amore... sì, ci credeva ancora, non aveva mai smesso di crederci.
Per lei l’amore era Matt.
Voleva Matt...
Amava Matt.
Vederla in quel modo così indifeso gli toccò il cuore. Ricordò il modo duro con cui l’aveva trattata.
Nonostante tutto quello che era successo, Sora non lo meritava.
Non meritava qualcuno che la rimproverasse o le dicesse che non era giusto quello che aveva fatto; era in grado di capirlo da sola, glielo leggeva in viso che era convinta, sicura di voler affrontare ciò che aveva evitato per paura.
Era stato troppo rude a trattarla in quel modo, ingrato, letteralmente uno stupido.
Non avrebbe dovuto usare quel tono di merda con lei, nonostante si fosse sentito deluso da ciò che aveva fatto a Matt.
Lui credeva che Sora non fosse come loro, che fosse diversa, migliore.
L’aveva innalzata a modello, e si era visto improvvisamente crollare quella figura che aveva di lei.
L’attirò a sé e l’abbracciò, appoggiando il mento sulla sua testa.
La verità era che crollavano tutti lentamente, si sgretolavano come un castello di sabbia alla prima ondata.
Nessuno era immune dalla lotta dei sentimenti; portavano tutti delle cicatrici di battaglia.
«Mi dispiace se ti ho detto quelle cose...» sussurrò riferendosi al loro scontro, e la udì tirare su con il naso.
Le lacrime le scendevano sulle guance e bagnavano la maglia di lui. Sicuramente l’avrebbe trovata sporca di mascara.
Non avrebbe mai smesso di credere in Sora, mai.
Lui lo sapeva che era fatta di amore.
«Non volevo ferirti... io... non voglio ferire nessuno...» continuò a dire flebilmente, mentre le accarezzava con entrambe le mani i capelli ramati.
I riferimenti erano larghi, lo sapevano entrambi.
Tai lo sapeva che le sue azioni erano solo frutto della sua avventatezza, ma anche del fatto che non riusciva a controllare le sue emozioni.
Quando quelle uscivano fuori si rendeva incontrollabile, commetteva danni di cui faticava a trovare un rimedio, o quasi.
Era bravo a consolare gli altri, ad incoraggiarli di compiere la scelta giusta, di non tradire il proprio cuore; ma quando toccava a lui diventava il più codardo dei codardi perché non ce la faceva proprio ad essere uno specchio dei suoi sentimenti.
Sora si staccò da lui e lo guardò ancora, vedendolo pensieroso.
Lei lo sapeva che stava tutto chiuso lì, in quel petto, il coraggio di Taichi.
Poteva sentirlo ruggire dentro insieme al suo orgoglio, ma lo sentiva graffiare più forte che mai, pronto a vincere quella battaglia ed uscire fuori.
Gli doveva molto per quello che gli aveva detto, per essere tornato da lei a farla riflettere quando sentiva di star vagando in giro senza più un senso.
Avrebbe mollato certamente tutto senza di lui.
Tai infondeva coraggio ed animo alle persone; solo chi ne possedeva tanto avrebbe potuto farlo in quel modo sottile e determinato.
«Non smetterò mai di ringraziarti» gli disse stringendogli le mani, negli occhi un luccichio di devozione, di affetto.
Sembrava una fiamma che bruciava, ardeva a dismisura.
Tai non riuscì a ricambiare per molto quello sguardo, tanto lo distolse con un sorrisino, sentendo di essere quasi arrivato al limite.
Era carico di emozioni e sapeva che presto o tardi sarebbero tutte scoppiate via.
Evitando il suo sguardo per non piangere di fronte a lei, le diede un piccolo bacio sui capelli, poi la strinse ancora.
Quello era un segno di pace.
Era finita, tutta quella lotta era finita.
Tirò su con il naso, mentre Sora faceva un sorriso commosso.
Cercava di salvare gli altri ma forse aveva bisogno solo di qualcuno che salvasse lui.
Tai questo lo sapeva, perciò non si trattenne oltre in quella posizione.
Non voleva crollare, non in quel momento perché Sora doveva andare, mentre lui... Non sapeva cosa lo aspettava, là fuori.
Era tardi, i minuti scorrevano velocemente; avrebbe dovuto prendere l’autobus tra meno di mezz’ora ed ancora non era pienamente convinto a ritornare.
Era come se stesse indugiando di proposito lì perché non voleva andar via.
Sora lo capì, capì a cos’era dovuto tutto quel rimugino.
«Adesso va’. Stazione di Ariake. Corri!» si sentì sollecitare, e lei annuì con la bocca semiaperta, mentre la sua mano gli sfiorava la guancia come per accertarsi che l’avrebbe rivisto un’altra volta.
Poi le ricadde fino a stringere la sua mano.
Era così bello, una persona meravigliosa.
Si guardarono e Sora si morse il labbro.
Era giunta l’ora della fine.
Ma non poteva lasciare che quella arrivasse lasciando altre due anime a marcire da sole, vittime dell’incoscienza e dello scorrere del tempo.
Doveva finire bene.
Mentre si salutarono, Tai fece per lasciare andarle la mano e andare dalla direzione opposta, ma lei non la mollò.
Si voltò a guardarla interrogativo, lei invece lo guardò fermo, gli occhi che brillavano ancora di quella luce nuova.
Erano così, con le mani intrecciate, a mezz’aria.
Sora conosceva la forza di Taichi, ma ne sapeva riconoscere anche la debolezza, il dolore, il tormento.
Quella prova riguardava anche lui, non solo lei.
Avrebbe provato a parlare come tanto piaceva a lui, usando il cuore, e lo avrebbe colpito in pieno.
«Se solo tu volessi potresti fare lo stesso con Mimi» affermò, e lui fu schiaffeggiato dall’invito alla realtà che gli diede.
Il nome di Mimi lo destabilizzò, lentamente cominciò a sentire i rumori ovattati.
Non poteva crederci...
Poteva una persona sentire tutte quelle sensazioni insieme?
Lo avrebbero abbattuto.
Credeva che non sentire il suo nome ad alta voce lo avrebbe aiutato a fingere che non fosse così presente in lui, e che magari sarebbe potuto andare via facendo finta di niente, come se quella settimana non fosse mai esistita.
Era veramente ridicolo, e questo Sora lo sapeva, perché lo aveva fatto di proposito.
Avrebbe dovuto immaginarlo che non lo avrebbe lasciato andar via senza che non avesse intercesso per conto dei suoi sentimenti.
Glielo doveva, d’altronde.
Lei lanciò un’occhiata allusiva al suo borsone, sapeva stesse per ripartire a breve, poi gli strinse più forte la mano.
«C’è sempre tempo per un atto di coraggio» la sentì dire, e lui la guardò senza dire nulla, incapace di aggiungere qualcosa di sensato.
Gli aveva appena detto che qualsiasi cosa veniva dopo il cuore, e lui doveva esserne consapevole dato che si prodigava per incitare gli altri a compiere dei gesti eclatanti e si ergeva a paladino ed eroe.
Voleva salvare le altre persone, ma non si curava di sé stesso, perché l’unica volta in cui aveva messo il suo ego al primo posto aveva perso la parte più importante di sé.
E Sora glielo stava dicendo: abbi coraggio, cazzo.
Proprio tu che ce l’hai dentro.
Ma che doveva fare?
Non appena andò via a passò svelto, lui rimase fermo sul posto per un paio di secondi a pensare.
Mimi...
Il volto di Mimi occupava i suoi pensieri, non era mai andato via davvero.
Da due lunghi anni.
Lo ammetteva, adesso.
Poteva fingere e mentire con gli altri, ma non con sé stesso.
Non si accorse di aver preso nuovamente in mano la chiave di Matt e di averla portata alle labbra, sfiorandola, come se potesse dargli forza, come se potesse aiutarlo in qualche modo a pensare.
Un atto di coraggio...
Se chiudeva gli occhi poteva benissimo immaginare quale sarebbe stato.
S’incamminò. Aveva solo venti minuti a disposizione, ma gli pesavano sulle spalle come se stesse trasportando l’intero cielo.
 



Arrivò alla banchina da dove partivano i bus. Non c’era quasi nessun’altro oltre lui, così riuscì a sedersi. Posò il borsone per terra, emettendo un tonfo sordo.

Alzò lo sguardo e volse gli occhi alle nuvole da dove non riusciva più ad intravedere una sola porzione di cielo.
Sembrava che oltre al suo cuore l’oscurità avesse abbracciato tutto intorno sé, come se fosse esattamente il riflesso della sua anima.
Lanciò un gran sospiro, continuando ad aver davanti la figura di Mimi che gli sorrideva e gli parlava.
Non sapeva bene cosa gli stesse dicendo, vedeva solo la sua bocca muoversi.
Chiuse gli occhi e si perse nei ricordi.
Erano così dolci e felici, sapevano di gioia e dolore insieme.
Il giorno in cui si erano baciati su quella barca al lago, il giorno in cui lei era tornata dagli Stati Uniti e si era reso conto che gli era mancata e che si era innamorato di lei, il giorno in cui si erano messi insieme, il giorno in cui avevano fatto l’amore per la prima volta.
Ricordi felici ma lontani, lontanissimi, che lo tormentavano senza lasciargli scampo. Gli attanagliavano il cuore e non poteva pensare che non avrebbe mai più potuto riviverli sulla sua pelle.
Aveva lasciato che lei andasse via, svanisse dalla sua vita come se la pioggia l’avesse cancellata in un soffio; eppure quello che sentiva dentro continuava a bruciare.
Adesso se n’era reso conto, e non che prima non sapesse quanto diavolo gli mancasse la presenza di Mimi nella sua vita vuota, circondata da ciechi abbellimenti, ma adesso cominciava a pesare gravemente come un macigno.
Stava andando via senza nemmeno salutarla, senza nemmeno averla guardata negli occhi e averle detto che gli dispiaceva.
Gli dispiaceva per come si era comportato dopo che erano stati insieme, dopo che lei si era aperta con lui.
Mimi gli aveva detto che l’amava.
Dopo anni non aveva avuto paura di dichiaragli i suoi sentimenti con una spontaneità che non si sarebbe mai aspettata.
Lei lo amava, glielo aveva detto; quindi perché aveva paura a tornare indietro?
Mancavano dieci minuti all’arrivo del bus e lui era lì, seduto ad una cazzo di banchina per tornare a Kyoto quando avrebbe voluto essere da tutt’altra parte.
Il suo cuore gli suggeriva di andare da tutt’altra parte, ma le sue gambe erano bloccate, ben affisse al terreno come pali.
Le parole di Sora gli tartassavano la testa, la martellavano e non riusciva a pensare che non avessero ragione.
Era lì, fermo, ma non avrebbe dovuto essere lì.
Un atto di coraggio...
Tentò di eliminare via quei pensieri e di distrarsi, tirò fuori il cellulare e scorse la bacheca su Instagram.
Vide che Koushiro aveva pubblicato una diretta poco prima, così, senza pensarci, l’aprì.
C’era Joe in primo piano che sbraitava, la telecamera si muoveva e le riprese non era ferme su un unico obbiettivo.
I due si insultavano a vicenda, vide dei cuscini volare e la risata di Izzy fare capolino
Venne da ridere anche a lui.
Erano proprio due stupidi...
Quando le riprese si stabilizzarono, lentamente si rese conto del luogo in cui si trovavano ed un brivido percorse la schiena.
Quella casa la conosceva, era casa di Joe, di Sora e di...
Non appena Izzy spostò appena la telecamera intravide lei, Mimi che rideva e correva via dall’inquadratura con i capelli castani al vento fino a chiudersi alle spalle la porta scorrevole.
Un cuscino la colpì subito dopo facendo un tonfo.
Il cuore di Taichi perse un battito e poi prese a battere forte non appena la vide inquadrata seppur per pochi secondi.
Non poteva essere, sembrava quasi un segno...
Chiuse d’un tratto il cellulare e lo strinse tra le mani.
Sembrava un segno del destino, il fatto che volesse evitare con tutte le sue forze il volto di Mimi e quello gli appariva dovunque, perfino in un video.
Incominciava a delirare, sicuramente.
Il destino non esisteva, esistevano le scelte; e lui la sua l’aveva compiuta tempo fa.
La stava ricompiendo quel giorno, decidendo di andare via.
Non poteva guardarsi indietro, lui non lo faceva mai.
Si morse il labbro inferiore, chiudendo gli occhi e facendosi male.
Ma cosa ne sapeva di quello che faceva di solito?
Non era più la persona di prima.
Il vero Taichi era una persona che probabilmente non gli apparteneva più e che non avrebbe più avuto speranza di recuperare.
Il vero Taichi avrebbe combattuto contro tutti pur di ottenere tutto quello che voleva, e per tutto intendeva proprio tutto.
Lui stava scappando, stava lasciando lì i fantasmi del suo passato che erano adesso più che mai il suo presente e dei quali probabilmente non sarebbe riuscito a liberarsi in futuro.
Il vero Taichi avrebbe avuto il coraggio di prendere una posizione in quella fottuta storia, non sarebbe rimasto lì seduto con le mani in mano ad obbedire agli ordini di qualcuno al di sopra di lui che voleva solamente arricchirsi alle sue spalle.
Il calcio...
Voleva ancora giocare a calcio?
Doveva disperatamente trovare una risposta a quella domanda, ma non c’era più tempo, era appena arrivato l’autobus, ed insieme ad esso, la fine era giunta.
Automaticamente si mise in piedi, il borsone in spalla e si avvicinò.
Un atto di coraggio...
Se lo tolse dalla spalla e lo sistemò dentro il bagagliaio.
Si fermò a pensare per dei secondi, volse lo sguardo al cielo e prontamente una goccia di pioggia gli bagnò il viso. Poi un’altra e un’altra ancora.
Ripensò alla sua ultima partita in campo prima di tornare.
Lui amava la pioggia, amava sentirla, amava che lo bagnasse come se potesse purificarlo da tutti gli errori che aveva compiuto.
Potesse lavare via ogni senso di colpa e di fallo che aveva fatto, poteva farlo rinascere in persona migliore.
Il telefonino squillò, ruotò gli occhi appena per leggere il nome di Akira sul display.
Chiuse gli occhi con un’espressione contorta, alzò nuovamente il viso al cielo.
Non voleva... non voleva più...
Non voleva tornare a giocare a calcio, dannazione...
Non la voleva più quella vita.
Non voleva scegliere di perdere.
Non voleva essere un perdente.
Aprì gli occhi risoluto.
Era quella la sua risposta, l’aveva trovata, finalmente.
Voleva essere Taichi e basta; solo Taichi.
Qualcosa si mosse dentro di sé, si agitò e lo risvegliò da quel brutto stato catatonico.
Non poteva lasciare che succedesse di nuovo.
Lui era Taichi Yagami e doveva compiere quell’atto di coraggio.
Qualcuno lo chiamò, sollecitandolo a salire, ma lui si era voltato in direzione opposta a quella del bus e guardava oltre l’orizzonte.
Era finita.
In uno scatto cominciò a correre via, non si voltò, non guardò mai più indietro.
Sentì solo la pioggia che picchiava contro il suo viso ma era così piacevole che gli venne da sorridere.
 
Era la fine di tutto.
 
 

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Capitolo 21
*** Pioggia ***


 

 

 

 

 

Mimi si trovava con la testa china sui libri a tentare di riprendere a studiare da dove aveva lasciato in quei giorni. 

L’esame si avvicinava e non era ancora stata capace di rifinire al meglio quella progettazione. Eppure la parte teorica l’aveva studiata bene, solo quella pratica la stava mandando in confusione. 

Non riusciva a rifinire il suo modello, quegli schizzi le sembravano sagome senza alcun senso gettate lì solo per macchiare un foglio. 

Strinse forte la matita. 

Non riusciva per niente al mondo a togliersi dalla testa tutto ciò che era successo durante quegli ultimi giorni, non era capace di cancellare neppure un briciolo di quelli che erano i ricordi, le immagini, le sensazioni. 

Izzy e Joe erano andati via da poco. Le avevano detto che avrebbero pranzato in un ristorante per festeggiare. 

Cosa ci fosse da festeggiare non lo capiva, anzi lo capiva, ma non aveva intenzione di unirsi a loro. 

Il suo umore era secco, spento. Per quanto si sforzasse di riuscire a rimanere lucida ed ancorata alla realtà dei fatti, ebbene, non ne era capace. 

Perché il pensiero di Taichi la tartassava giorno e notte e non poteva farci nulla. 

Non poteva farci nulla se lo amava ancora ed era rinchiusa in quelle quattro mura a piangersi addosso perché era tutto finito; e quella volta peggio della precedente. 

Lui non sarebbe mai più tornato indietro da lei e lo capiva; aveva provato a tarpargli le ali, aveva tentato di riportarlo indietro solo perché lo voleva accanto a sé come presenza fissa, senza pensare alle conseguenze che quelle pretese avrebbero avuto nella sua vita. 

Che avevano alla fine avuto sul loro rapporto. 

Era stata tutta colpa sua se quella storia era giunta alla fine. 

Non aveva fatto altro che pensare a sé stessa, a come stava, a come avrebbe voluto essere al primo posto nella vita del castano quasi sentendosi in competizione con il calcio, la sua passione, il suo lavoro. 

Poteva essere più sfigata ed egoista di così? 

Sicuramente non avrebbe potuto toccare un vertice peggiore di quello. 

Non si rese conto di aver spinto troppo duramente con la punta della matita e quella si spezzò, sporcando una porzione di foglio. 

Prese subito la gomma ma ciò che ne uscì fuori fu solo una macchia più grande, così sbuffò e lasciò perdere. 

Si mise in piedi, portandosi alla finestra. Spostò leggermente le tende e diede uno sguardo al paesaggio circostante. 

Fuori cominciava a piovere, poteva vedere e sentire le goccioline che picchiettavano contro il vetro.  

Sembrava che perfino il tempo rispecchiasse ciò che aveva nel cuore. 

Sentì le lacrime salirle al bordo degli occhi, così deglutì e aspettò che quel momento buio passasse. 

Ne era abituata ormai, a perdersi nei pensieri e subire l’influenza del tempo.  

Sora diceva che era meteoropatica o qualcosa del genere... 

Sora.. Dov’era andata a finire?  

Mancava dalla sera prima e non era ancora tornata a casa. Non le rispondeva al telefono e cominciava a preoccuparsi sul serio. 

E se le fosse successo qualcosa? 

E lei era lì a guardare la gente frettolosa di andare a casa sotto quelle nubi scure.  

Era lì ferma che come al solito non riusciva a non pensare a Taichi. 

Chiuse gli occhi con un sospiro e lasciò cadere la tenda, coprendo la finestra. 

Doveva mettersi l’anima in pace, forse. 

Se lui non era tornato indietro a parlarle ciò significava solamente una cosa: che il suo sentimento era unilaterale, non era affatto ricambiato come aveva pensato per un secondo la sera della laurea di Joe. 

Aveva creduto che Tai provasse lo stesso, eppure tutto quello non era andato minimamente oltre, non aveva avuto proseguo. 

Ma sapeva il motivo, d’altronde.  

Era colpa sua. 

Era arrivata a quella consapevolezza forse un po’ troppo tardi ma era tutta lì. 

La colpa non era altri che sua, aveva spinto affinché la loro relazione si degradasse, aveva reso i giorni in cui stavano insieme a distanza un inferno, aveva fatto sì che Tai scappasse via da lei e non si voltasse più. 

Probabilmente non gli era indifferente fisicamente, ma i sentimenti in lui erano palesemente cambiati.  

Era andato avanti, si era gettato tutto alle spalle e lo capiva. 

Nessuno avrebbe voluto stare con una persona così egoista ed egocentrica come lei. 

Non pensava ad altri che a sé stessa e a come sarebbe stata; era arrivata a pesare addirittura il suo dolore con quello degli altri, credendo di meritarlo meno. 

Lei lo meritava tutto, lo meritava perfino più di Sora. 

Non aveva tradito fisicamente Tai ma lo aveva fatto soffrire giornalmente chiedendogli di rinunciare alla sua vita. 

Nemmeno Sora aveva sbagliato così pesantemente. 

Avrebbe dovuto mostrare comprensione e sostegno, avrebbe dovuto trovare una soluzione efficace senza rischiare di perderlo completamente. 

E invece aveva gettato tutto al vento solamente per una sua questione di orgoglio. 

Poco importava se gli aveva detto di amarlo ancora; lui non l’aveva perdonata e, d’altronde, non poteva fidarsi di una persona che diceva di amarlo quando non l’aveva mai fatto nel modo giusto. 

Erano solo altre parole al vento. 

Si voltò e la sua attenzione fu catturata dall’armadio al lato; d’un tratto le sue gambe si mossero da sole. 

Arrivò lì di fronte e lo aprì. Tirò fuori qualcosa che non le apparteneva ma che sentiva comunque sua. 

Era una giacca blu scuro di un tessuto liscio e primaverile. Continuò ad accarezzarla per un po’, persa nei pensieri. 

Era la giacca che Tai aveva lasciato lì la sera della festa. 

La portò alle narici e ne inspirò ancora una volta il profumo, come se fosse una maniaca compulsiva.  

Poi ebbe un’idea. 

Non l’avrebbe vista nessuno, d’altronde, se lo avesse fatto solo per qualche secondo. 

Si portò di fronte allo specchio, si fissò incerta per un po’; poi infilò la giacca sopra la sua camicia da notte di lino. 

Le stava grande di circa tre volte, ma quel dettaglio non la disturbò affatto. Sembrava ai suoi occhi fatta apposta per lei. 

Perché apparteneva a Taichi, e sapeva di appartenere a lui anche lei stessa. 

Si guardò per un po’ allo specchio, squadrandosi dall’alto in basso e facendo un paio di moine. 

Si strinse con le braccia la petto come se in quel modo avesse potuto abbracciarlo. 

 

Almeno in quel modo era come se lo stesse salutando, era come se gli stesse dicendo finalmente addio. 

 

 

 

 

Taichi correva a perdifiato da più di dieci minuti. 

La pioggia cominciava a farsi più fitta e batteva sulla sua testa. I capelli erano umidi ed aveva anche messo un piede dentro una pozzanghera. 

Imprecò, poi attraversò la strada. Si fermò di colpo trattenendosi da un palo della luce per prendere un po’ di fiato. 

Cazzo, cominciava a perdere l’orientamento... 

Non doveva mollare. 

Tirò fuori il telefono e scrisse qualcosa, attese ed inviò il messaggio. 

Respirò pesantemente ed alzò gli occhi al cielo. 

Non gli rispondeva.  

Dannazione, non gli appariva il suo ultimo accesso, nemmeno la sua foto del profilo... 

Si accarezzò il mente con fare nervoso. 

Sperò che non fosse ormai troppo tardi... 

Le goccioline cominciarono a cadere sullo schermo. 

Trovò riparo sotto un balcone e senza demordere portò il cellulare all’orecchio facendo partire la chiamata. 

Non squillava.  

Si perse a pensare, mentre toglieva lentamente il cellulare dall’orecchio. 

Non poteva mettersi in contatto con lei.  

Capì finalmente perché non aveva mai ricevuto risposta al testo precedente, perché la spunta era solo una, perché non poteva vedere nulla di lei. 

Mimi aveva bloccato il suo numero; non poteva chiamarla, non poteva mandarle messaggi, o meglio li avrebbe potuti mandare ma lei non li avrebbe mai ricevuti. 

Aveva tagliato ogni contatto telefonico con lui e forse quello era un segno. 

Era già troppo tardi. 

Si passò una mano tra i capelli castani umidi, sentendo il cuore che gli rimbombava nel petto. 

Doveva aspettarselo, l’aveva trattata di merda, le aveva mancato di rispetto nel modo più assoluto. 

Non solo negli ultimi giorni, lo aveva fatto da sempre, da quando aveva scelto di vivere lontano da lei e poi senza di lei. 

Strinse gli occhi con espressione corrucciata; poi li riaprì. 

Sentiva in petto una sensazione di adrenalina pura. 

Non avrebbe mollato quella volta, l’avrebbe raggiunta lo stesso, avrebbe fatto in modo di trovarla e le avrebbe detto che aveva sbagliato. 

E che era innamorato di lei. 

Quella consapevolezza arse dentro di lui e gli diede la forza. 

L’amava, cazzo, l’amava... 

Si lasciò andare ad una risata divertita ed amara allo stesso tempo, una risata che aveva il sapore della verità. 

Ripose il cellulare sulla tasca e riprese a correre. 

 

Non era ancora finita. 

 

 

 

Mimi sussultò spaventata non appena udì un rombo di tuono che la destò bruscamente dal suo ammirarsi allo specchio. 

Subito si precipitò a chiudere la porta del balcone che il vento aveva fatto sbattere e, voltandosi sulla destra, vide sparsi per terra tutti i suoi fogli da disegno. 

Andò a raccoglierli dando ancora un ultimo sguardo agli schizzi, poi lanciò un’altra occhiata alla sua immagine riflessa. 

Quella giacca aveva qualcosa che le piaceva e non si riferiva solamente al profumo che era rimasto impregnato. 

Ancora rimasta per terra, si rialzò posando i fogli sulla scrivania e si avvicinò nuovamente allo specchio. 

Si osservò e fece dei giri lenti su sé stessa, studiandosi. 

Avrebbe potuto prenderne ispirazione, certo. 

Poteva inserire quella giacca come uno dei pezzi mancati alla sua collezione; come aveva fatto a non pensarci prima? 

L’accostamento kimono-giacca di tessuto liscio maschile era una combinazione mai vista che spezzava le regole della tradizione e dava un tocco più moderno e modaiolo al costume. 

Perché le sembrava così ovvio? 

Era l’ultimo abbinamento da inserire, e ora che ci pensava, poteva anche aggiungerci una bella cintura in vita, e magari alzare le maniche fino ai gomiti... 

Eseguì quelle azioni allo specchio e si ispezionò per un po’ di tempo. 

Non sapeva come mai, ma si sentiva stranamente quieta e la malinconia era quasi svanita come se l’avesse trascinata via il vento. 

Si tolse la cintura dalla vita e la gettò sul letto, poi si portò i capelli dietro le orecchie e rimase a pensare. 

Forse era destino. 

Tutto ciò che era successo era solamente frutto del destino che non riteneva fattibile tornare indietro e forzare una situazione probabilmente satura da molto tempo. 

Doveva accettarlo e trovare pace dentro sé stessa perché aveva provato un bel po’ di sentimenti contrastanti che l’avevano cambiata in tutti quegli anni. 

Era abituata ad accettare tutto ciò che il destino le poneva davanti al suo cammino e ne aveva fatto dei fallimenti la sua più grande forza. 

Tutto quello non era un fallimento, si disse. 

Non era un fallimento se tra lei e Tai non era andata come sperava; era probabilmente soltanto ciò di cui aveva bisogno. 

Aggrottò le sopracciglia con una nuova consapevolezza, con un nuovo stato d’animo. 

Avrebbe accettato tutto ciò che le sarebbe capitato davanti, da quel momento in poi, avrebbe fatto meno domande e gridato poco alle ingiustizie. 

Tutto aveva un senso, anche il fatto che lui non era tornato indietro, anche se a quel “ti amo” detto ci aveva creduto solo lei. 

Era stata una stupida ad essersi fatta trascinare da quella sorta di realtà soggettiva ed esasperata, non si riconosceva più. 

Se l’era presa con molte persone meno che con sé stessa: adesso aveva capito e lo accettava pienamente. 

E Taichi... Lanciò uno sguardo al suo cellulare rimasto incustodito sopra il comodino.  

Andò a recuperarlo e liberò il suo numero dalla lista dei contatti bloccati.  

Era stata una sciocca ad aver compiuto un atto del genere, infantile ed egoista, se ne vergognava da sola. 

Tai non aveva colpe se non quella di averla cambiata, ma in meglio.  

Perché aver capito di averlo perso le aveva fatto venire in mente di quanta necessità aveva di alzarsi e lottare veramente per chi amava. 

Strinse il cellulare tra le mani, alzò appena la testa e chiuse gli occhi, assaporando la calma che le infondeva il picchiettio della pioggia contro il vetro. 

Le era mancata quella sensazione. 

Lei era Mimi Tachikawa e voleva vivere per sempre in quel sentimento di purezza. 

Non seppe nemmeno quanto rimase in quella posizione, ferma ad ascoltare il rumore sordo delle gocce e assaggiare il gusto della serenità. 

Era serena, sembrava strano, ma lo era in fondo al cuore. 

Si sentiva in pace con sé stessa e con il mondo; le sembrava quasi di sognare. 

Un sogno in cui fluttuava sopra la città, addormentata dal candore della pioggia, come se fosse dentro una bolla. 

Si sentiva finalmente purificata. 

 

Tai correva tra la pioggia che gli bagnava il viso, i capelli, gli inzuppava i calzini e le scarpe avevano superato una pozzanghera profonda. 

Una larga macchia bagnò la tuta, ma non se ne curò, continuò a correre fino a che l’appartamento non gli si palesò davanti. 

Il cuore gli era salito in gola dall’affanno e l’adrenalina, così tanto da non perdere neanche il tempo di portarsi sotto al portone e suonare al citofono. 

Non smise di correre, alzò lo sguardo verso la finestra da dove delle tende verdi filtravano l’ombra di una sagoma e, nemmeno sicuro se fosse lei, cominciò ad urlare. 

 

«Mimi! MIMI!»  

 

La ragazza aprì gli occhi di scatto. 

Non seppe se era solamente la sua immaginazione che le giocava brutti scherzi o se realmente qualcuno là fuori la stava chiamando. 

Cercò di concentrarsi nuovamente sulla sua meditazione, un tantino infastidita dall’essere stata bruscamente richiamata al presente ed aver lasciato la sua bolla purificante, ma quella voce si fece insistente. 

E la riconobbe. 

Sussultò e spalancò gli occhi nocciola. 

Non poteva crederci... quella voce apparteneva proprio a lui... 

Era Taichi, quella voce era di Taichi. 

Subito si precipitò di fronte alla finestra e scostò la tenda per guardare giù. La pioggia si era infittita, ma sotto, proprio adiacente al suo piano c’era lui. 

Poggiò la mano sul vetro in un’azione spontanea, come se in quel modo potesse toccarlo e raggiungerlo. 

La sua espressione era stupita e il respiro le si era mozzato. 

Tai era lì. 

Vide il ragazzo che alzava lo sguardo e finalmente la guardava, si guardarono negli occhi per un paio di secondi senza che nessuno facesse alcun cenno o urlasse qualcosa. 

Tai aveva il fiato corto e la guardava di uno sguardo che avrebbe potuto penetrarla per quanto era profondo e lei aprì la finestra in un gesto repentino. 

La pioggia scrosciava rumorosa e le gambe del ragazzo cedettero per lo sforzo, così si inginocchiò per terra e sentì l’acqua che gli bagnava il volto e gli entrava perfino in bocca, ma non ricacciò gli occhi da lei. 

Mimi si portò una mano sulle labbra, colpita. 

Sentiva distrattamente il cuore che le martellava in petto, la testa le girò improvvisamente e un’enorme senso di calore la pervase. 

Taichi... era tornato indietro... non era una visione, si trovava proprio lì a guardarla mentre si bagnava sotto di lei, mentre la guardava di uno sguardo supplice ma nello stesso tempo fermo e che le chiedeva solo una cosa. 

 

Di dargli un’opportunità. 

 

La pioggia continuava a battere, lei si risvegliò da quel trance e chiuse di colpo la finestra, dandole le spalle. 

Fu colta da un’improvvisa adrenalina e corse fuori dalla stanza senza prendere nulla, con solo la giacca sopra la camicia da notte e le infradito ai piedi. 

Il cuore sembrava volesse uscirle via fuori dalla gabbia toracica ed una sensazione di pura gioia le scivolò lungo tutta la schiena. 

 

Avrebbe messo la parola fine. 

 

Tai si abbandonò ad un sospiro incerto quando la vide chiudere la finestra e scomparire dentro. 

Strinse i pugni sopra le cosce, ancora inginocchiato sulla terra. Aveva i pantaloni macchiati di fango, ma non gliene importava niente. 

Con ancora il fiato corto volse nuovamente gli occhi verso il punto in cui l’aveva vista apparire poco prima, e il cuore gli si riempì di speranza. 

Chiuse appena gli occhi. 

Se non fosse scesa sarebbe stata la punizione perfetta alla sua codardia e al suo essere prettamente menefreghista. 

L’aveva ferita, e sapeva quanto male faceva ad essere trattati in quel modo dalla persona che si amava, ed era consapevole anche quanto lei fosse orgogliosa e dignitosa. 

Stava rischiando tutto, e se Mimi non fosse scesa a perdonarlo lo avrebbe accettato, avrebbe considerato quell’atto di coraggio come il ritorno al suo vero io. 

Gli avrebbe dato un insegnamento con i fiocchi che lo avrebbe aiutato a crescere, certo, ne era sicuro...  

Strinse ancora più forte i pugni. 

Solo che adesso aveva timore di ricevere un no, sentiva il cuore che batteva forte e la speranza mischiata con l’ansia di non vederla arrivare lo stava divorando. 

«Ti prego...» sussurrò, senza sapere bene a chi fosse rivolta quell’invocazione. 

Voleva solo avere l’opportunità di guardarla in viso almeno un’ultima volta e dirle tutto quello che non le aveva detto prima. 

Voleva ricominciare ad essere migliore e voleva ricominciare da lei. 

Ti prego... 

Non appena intravide la luce da dentro il portone si mise automaticamente in piedi e si sentì pervaso da un lungo fremito di eccitazione. 

Socchiuse la bocca e d’un tratto il portone venne aperto. 

Mimi lo aveva spalancato ed era apparsa sulla soglia, si era guardata intorno e finalmente i suoi occhi avevano incontrato quelli di Taichi. 

Si sentì come alienato dalla realtà, i suoni gli arrivarono alle orecchie ovattati, e fu come se il tempo si fosse fermato. 

Non seppe cosa successe e come, ma captò che era qualcosa dettato non dalla sua ragione, perché le gambe gli si erano appena mosse da sole e andavano incontro verso di lei che aveva sceso il dosso dell’ingresso. 

La vedeva sempre più vicina. 

I suoi capelli castano chiaro si muovevano in entrambe le direzioni e subito non appena si mise sotto la pioggia le gocce la bagnarono, scesero sul suo volto fine, chiaro, senza l’ombra di un’imperfezione e raggiunsero l’entrata delle sue labbra. 

Tai non capì più niente, era come se tutto scorresse a rallentatore e, d’un tratto, le sue braccia si erano spalancate e quelle di Mimi avevano fatto lo stesso aggrappandosi al suo collo. 

Subito la strinse dalla vita e i due si unirono in un abbraccio puro e spontaneo. 

Fuori non udivano nemmeno il rumore di una sola goccia sull’asfalto, solo il cuore dell’uno e dell’altro che si fondevano all’unisono e avevano un unico canto. 

Il ragazzo la alzò da terra e quando la fece volteggiare percepirono di nuovo quella sensazione di rallentamento. 

Come se quel momento fosse destinato a durare per sempre. 

I capelli di Mimi fluttuarono sotto la pioggia come una cascata scintillante di riflessi rosa mentre Tai gemette contro il suo collo annusando il suo odore di viole. 

Un sogno ad occhi aperti... 

Quando i piedi della ragazza toccarono terra fu come risvegliarsi bruscamente e sentire in viso delle gocce fredde che la torturavano. 

Quella bolla di sinopsi si era spezzata e adesso si ritrovavano entrambi in silenzio, l’uno di fronte all’altro a guardarsi mentre il temporale imperversava. 

Entrambi si osservavano aspettandosi qualcosa. 

Tai deglutì e si scostò dal volto delle ciocche bagnate che gli davano fastidio e gli intralciavano la visuale.  

Non che con quella pioggia fitta riuscisse a vedere bene, ma voleva godersi la visione di Mimi appieno. 

Era come se non la vedesse da tempo, era quasi come se si fosse dimenticato dei suoi contorni e delle sue sfaccettature. 

«Mimi...» sussurrò quasi senza rendersene conto, per poi bloccarsi in ovvia difficoltà senza sapere come continuare. 

Lei continuava a guardarlo di uno sguardo inquisitore, o forse era solo la sua impressione a farglielo credere; si sentiva agitato e qualsiasi parola gli veniva in mente non si azzardava a dirla perché aveva paura risultasse sbagliata. 

Mimi era in attesa di qualcosa e sapeva per certo che avrebbe dovuto iniziare perlomeno con il darle delle spiegazioni; solo che sembrava avesse perso completamente l’uso della proprietà di linguaggio, sembrava che qualsiasi spiegazione avesse intenzione di dare non stava a galla. 

Si era reso conto di come non teneva qualsiasi altra motivazione al di fuori della sua vigliaccheria e del suo essere orgoglioso ed infantile. 

Ciò che avrebbe detto agli occhi di Mimi sarebbe risultato puramente senza senso. 

Il suo sguardo ricadde sul vestiario che portava e non potette fare a meno di lanciare un’occhiata alla camicia rosa antico in lino che le copriva il corpo, ma che forse per un puro caso del destino o a causa della corsa, era scivolata lasciando trasparire un gioco di vedo non vedo proprio sulla zona del seno. 

Si morse le labbra e non smise di scrutarla, ritenendola bellissima ed attraente sotto l’affluenza di quella terribile pioggia che li stava bagnando fino al midollo. 

Poi si rese conto che la giacca a cui si stringeva con le braccia, infreddolita, non era esattamente della sua misura ed aveva un’aria vagamente familiare. 

«Questa... è la mia?» le chiese incerto, non riusciva mica a vedere bene sotto quella burrasca e tra l’altro aveva sempre avuto dei problemi con il riconoscere i tessuti. 

Eppure poteva giurare che lo fosse, d’altronde non le pareva di aver tenuto qualcosa indosso la sera in cui erano andati via bruscamente dalla festa e il fatto che ce l’avesse lei aveva anche senso. 

Si erano spogliati, quella sera, l’uno aveva svestito l’altro e aveva goduto del suo corpo caldo. 

I vestiti erano stati di troppo, erano stati scagliati via ritenuti i soli nemici che ancora li tenevano lontano dall’altro. 

Gli venne da sorridere, ma Mimi si sentì terribilmente in imbarazzo. 

Si rese conto improvvisamente di essere scesa giù con quella giacca addosso che aveva conservato come un gioiello dentro l’armadio e di cui aveva odorato ogni singolo centimetro di stoffa solamente affinché il profumo rimasto impregnato potesse riportarla a lui. 

Avrebbe dovuto evitare di farsi scovare così debole e sconvolta, così talmente attaccata a lui da aver indossato la sua giacca, aver sfilato di fronte allo specchio e aver perfino avuto ispirazione per i suoi disegni. 

Si mostrava debole e dipendente, e per quanto volesse la presenza di Taichi lì di fronte non era intenzionata a dargli quell’impressione. 

Con un gesto se la tolse di dosso lasciando che l’acqua bagnasse le sue spalle nude. 

Tai fece un’espressione sorpresa. 

«Sì, io... sono scesa giù apposta per portartela» biascicò con gli occhi che però non lo guardavano perché consapevole di aver appena detto una bugia. 

Gliela porse. 

«Ecco... ecco, tieni» disse, continuando ad eludere il suo sguardo. 

Il castano vide la sua mano tesa a mezz’aria, il suo corpo che veniva bagnato dalla pioggia e il tremolio che ne subentrò subito dopo. 

Scosse la testa, la prese in mano e l’aprì in un gesto repentino. 

«No!» esclamò, poi gliela rimise sulle spalle «No, rimettitela. Fa freddo»  

Mimi aveva le braccia giunte e lo guardava ancora di quello sguardo tra il sorpreso e l’impaziente. Non osò contestare il suo gesto, anzi, in fondo al suo cuore sentì un guizzo che la fece sentire più speranzosa che mai. 

Non sapeva bene cosa si aspettasse da lui, ma erano lì, l’uno di fronte all’altro con un tempo in burrasca e quello qualcosa doveva pur significare. 

Solo, non aveva intenzione di aprire bocca se non prima lo faceva Tai; perché aveva giurato a sé stessa di accogliere qualsiasi evento il destino aveva in serbo per lei e se quello era un ultimo modo per dirsi addio, beh, avrebbe dovuto accettarlo. 

Ma Taichi sembrava risoluto nel dirle qualcosa, quindi non gli diede altro che modo di prendere la parola. 

Questo successe e all’improvviso. 

«Stavo andando via» lo udì dirle in un tono secco che la ferì, forse perché tra tutto avrebbe voluto sentire che invece sarebbe rimasto ancora per un altro po’. 

«Oh...» si lasciò scappare, delusa, senza nemmeno preoccuparsi di darlo a vedere. 

La speranza che le si era accesa dentro poco prima si stava già lentamente spegnendo e cominciò a sentire davvero freddo ma dentro le ossa e non era così sicura che fosse per colpa della pioggia che batteva. 

Il fatto che fosse tornato a salutarla, forse, era proprio la spiegazione. 

Un addio. 

«Stavo... però adesso... non lo so...» mormorò Tai forse più a sé stesso che a qualcun altro proprio per dare una spiegazione logica al fatto che avesse imbarcato il borsone e fosse scappato via lasciando che l’autobus partisse senza di lui. 

Mimi aveva il viso basso, così lui le prese delicatamente il mento in un gesto spontaneo e fece in modo che alzasse gli occhi su quelli suoi. 

Non seppe come mai, ma gli venne da ridere.  

Sapeva che era così terribilmente fuori luogo, ma ciò che aveva fatto, l’avventatezza con cui aveva lasciato che quella coincidenza partisse dopo tutta quella fatica per non perderla nel momento in cui aveva visto lei ridere in una fottuta live di Koushiro gli aveva fatto venire in mente solo una cosa. 

Mimi lo guardò ridere e non capì il perché. 

Si sentì in imbarazzo e provò una certa indignazione a vederlo in quel modo, che le sfiorava il viso e si prendeva gioco di lei. 

Forse le faceva pena, vederla conciata in quel modo? 

Aveva assunto un’espressione irritata e Tai se ne accorse, così cercò di contenersi per non darle un’idea sbagliata. 

«Cazzo... scusa, ma mi sento uno stupido...» biascicò con ancora le risate che traboccavano tra una parola e l’altra. 

Era come se l’adrenalina gli si fosse sciolta tutt’ad un tratto e quello era uno sfogo curativo bello e buono. 

Diede infatti un gran sospiro. 

«Ti senti uno stupido ad essere qui?» lo interruppe lei, tagliente. 

Probabilmente si sentiva un’idiota perché si era reso conto che stava perdendo tempo quando avrebbe dovuto essere in partenza per Kyoto. 

Non che non lo capisse, ma che almeno provasse a non renderlo così esplicito... 

Lui si premurò ad intervenire per spiegarsi meglio. 

«No, non ad essere qui!» poi si diede un’occhiata intorno vedendosi in mezzo ad un temporale ritti uno di fronte all’altra proprio su una strada facilmente percorribile dalle auto che per uno strano gioco del caso avevano rinunciato a passare 

«Anche se... fa freddo e ci stiamo bagnando...» aggiunse sottolineando la situazione ironica in cui si trovavano. 

Niente importava in quel momento e quello ne era la dimostrazione. 

Mimi non colse l’ironia, anzi si accigliò ancora di più. 

«E allora perché?» gli si rivolse bruscamente, cancellando per un attimo dal suo viso quell’espressione giocosa. 

Tai strinse le labbra per un po’, sentendosi con le spalle al muro. 

Gli occhi della ragazza erano lucidi, fermi, lo guardavano ed attendevano una risposta che aveva un enorme peso nei loro destini. 

Lui doveva delle scuse a Mimi, doveva far sì che capisse quanto realmente si fosse pentito ad averla lasciata lì da sola e proprio per questo aveva mandato praticamente a fanculo tutto nel momento esatto in cui si era reso conto che non poteva più stare senza di lei. 

«Perché... perché avrei dovuto farlo molto tempo prima, ma l’ho fatto solo adesso» le confessò con ardore e talmente tanta sincerità da lasciarla spiazzata. 

Lei lo guardò con gli occhi leggermente sbarrati.  

Cosa intendeva dire con quello? 

«Ti ho scritto un messaggio» le rivelò, poi si scompigliò i capelli.  

Lei aggrottò le sopracciglia.  

Quando lo aveva fatto? 

Tai sentì i suoi occhi indagatori e si sentì ancora più stupido. Uscirsene che le aveva mandato un messaggio di merda quando era totalmente sparito. 

Come un vigliacco. 

«Non mi risulta che tu l’abbia fatto» commentò lei secca, piccata dal fatto che se ne uscisse con quella frase come se potesse avere il primato di pretendere qualcosa. 

Un messaggio... Quando? 

Non le era mai arrivato niente del genere... 

A meno che... 

«Hai fatto bene a bloccare il mio numero. Almeno sono venuto fin qui» le tolse le parole di bocca e lei si sentì in completo imbarazzo. 

I battiti del cuore accelerarono improvvisamente e spostò lo sguardo. Non riuscì nemmeno a rivelargli che, in realtà, lo aveva sbloccato perché aveva deciso di mettersi in pace con sé stessa e i suoi sentimenti. 

Il castano deglutì e diede un sospiro. 

«So che sei arrabbiata con me» continuò scuotendo la testa e facendo un sorrisino mesto. 

Mimi non disse nulla, non riuscì ad aggiungere niente nonostante probabilmente lui si aspettava che lo facesse. 

Aveva lo sguardo perso nel vuoto e con le braccia si stringeva per darsi calore.  

Tai non seppe a cosa stesse pensando, solo attese dei secondi per darle modo di dire qualcosa, confermare quello che aveva appena detto o magari dirgli che non era vero, che magari lo aveva perdonato. 

La ragazza continuò a non dire nulla e il cuore del castano crollò miseramente, deluso, nonostante dentro di sé se lo aspettasse. 

Mimi probabilmente aveva già preso una decisione e quella non lo includeva. 

Era lui il cretino a non aver avuto il coraggio di prenderla fino ad allora; aveva lasciato che il tempo scorresse e che tutto sbiadisse. 

Era troppo tardi, aveva seguito il suo cuore, il suo istinto quando ormai tutto si era disgregato, e non riusciva nemmeno a biasimarla. 

Un altro tuono squarciò il rumore della pioggia. 

Anche se Mimi non aveva intenzione di perdonarlo, perlomeno lui avrebbe dovuto parlarle e dare valore a quello che provava. 

Non si sarebbe più tirato indietro perché ne valeva la pena. 

Valeva la pena essere lì di fronte a lei inzuppato fino al midollo, poco importava se si fosse beccato una bronchite; credeva che valesse la pena fino in fondo, e se valeva la pena lui si sarebbe giocato perfino il più minuscolo frammento di cuore. 

Senza controllare i suoi movimenti, fece un passo in avanti e posò le mani dietro la sua nuca, stringendo leggermente i suoi capelli bagnati. 

Lei alzò lo sguardo su di lui, spiazzata. 

«Hai tutte le ragioni del mondo ad essere arrabbiata con me» le disse duro con sé stesso, poi ripensò alla persona che era stata per tutto quel tempo e sospirò 

«Sono sparito come un cazzo di codardo, ti ho lasciata lì senza dirti una parola, ma solo perché...» si bloccò ancora, Mimi si mosse nella sua stretta e sembrava si stesse per mettere a piangere. 

Lui non demorse e la trattenne. 

«Perché non ho avuto il coraggio, lo ammetto» dichiarò, sentendo ogni sua minuscola briciola di orgoglio rompersi e crollare come creta. 

Socchiuse appena gli occhi, assaporò quelle parole appena pronunciate come una liberazione, una rinascita. 

Credeva fosse stato peggio, mettere di lato l’orgoglio. 

«Mi sento uno stupido ad averti lasciata e a non aver fatto niente durante questi anni» gli disse sinceramente e gli occhi nocciola di Mimi non avevano smesso per un attimo di fissare i suoi. 

Probabilmente non si fidava, voleva capire se diceva il vero o meno. 

Ma era fottutamente la realtà dei fatti, era tutto quello a cui era arrivato dopo due anni da solo, senza l’unica persona che lo faceva stare bene, che lo rendeva migliore, la cui sola sua assenza lo aveva trasformato in un automa. 

Stupido era dire poco, era stato un coglione. 

E gliel’avrebbe anche sottolineato se Mimi avesse voluto, avrebbe fatto di tutto per dimostrarle quanto fosse pentito di quello che aveva fatto, anzi di quello che non aveva fatto. 

«Poi ti ho vista e non ci ho capito più niente... Però avevo paura a tornare indietro perché ormai avevo rovinato tutto» le rivelò quello che aveva provato non appena l’aveva vista il giorno dell’aperitivo. 

Aver avuto modo di starle vicino gli aveva procurato un effetto inaspettato, che gli aveva cambiato tutte le carte in tavola. 

La sua presenza, la sua voce, il suo sorriso, tutto di lei gli avevano fatto riaffiorare in mente quello che aveva perso, quello che non faceva più parte della sua vita e che gli mancava fottutamente. 

Non era riuscito a tenere a bada i suoi sentimenti perché non erano mai spariti, ma il senso di colpa e il non sapere bene come affrontare, come giustificare la sua assenza lo avevano fatto chiudere in sé stesso. 

Lo avevano fatto fuggire. 

Ma Taichi non fuggiva mai, non era abituato a lasciare dietro ciò che lo riguardava. 

Solo che adesso non sapeva se bastava, perché lo sguardo enigmatico di Mimi lo metteva in soggezione, non sapeva cosa pensava, cosa gli avrebbe detto. 

La sua presa si allentò e rimase con il fiato sospeso, fino a quando lei non diede un sospiro e strinse il suo braccio con le dita fini. 

I suoi occhi parvero brillare di uno sguardo fermo e di una sicurezza tale da fargli venire i brividi su per la schiena. 

«Non sei stato l’unico ad aver rovinato tutto» soffiò reduce di una consapevolezza nuova, qualcosa che derivava da una lunga riflessione personale. 

L’esame di coscienza che aveva fatto su di sé le era servito ad arrivare a quella constatazione che per due anni aveva evitato volutamente. 

«E’ stata colpa di entrambi. Perché entrambi abbiamo pensato solo a noi stessi, Tai» lo proferì in tono ovvio e con un sorrisino accennato che si sposava bene con i suoi occhi illuminati di un bagliore nuovo. 

Il castano aspirò dell’aria e trattenne il fiato, speranzoso. 

Lei continuò in tono soave. 

«Io ho pensato che tu dovevi stare qui, perché io volevo che tu stessi qui, senza pensare al fatto che avevi davanti il sogno della tua vita e che per colpa del mio egoismo io lo stavo rovinando» ammise serenamente, come se quella verità stesse in qualche modo lenendo una vecchia ferita che portava dentro e che adesso lasciava spazio ad una larga cicatrice. 

Era stato un duro processo, quello di elaborare che larga parte della colpa era dovuta al suo modo di approcciarsi alle difficoltà. 

Non era riuscita a digerirlo del tutto fino a poco tempo prima, proprio alcuni minuti prima che lui era andato a cercarla.  

Si sentiva in pace con sé stessa, adesso. Era come se avesse imparato a valutarsi e migliorarsi, era come se avesse visto di fronte a sé una fiamma di pura redenzione. 

Tai la vide sorridere in un misto tra amarezza e compianto, così non riuscì a trattenersi. Le sue mani passarono a stringerle le guance e fare in modo che i suoi occhi si incastrassero perfettamente con i propri. 

«Io voglio stare qui» affermò seriamente e con ardore, al punto tale da rompere la bolla di commiserazione a cui Mimi stava facendo testo 

«Non me ne voglio più andare, te lo giuro, voglio stare qui, con te...» continuò a sussurrare quelle parole come se fossero una preghiera e lui la stesse recitando con devozione di fronte ad un altare. 

Non voleva che lei pensasse di avere il torto maggiore in quella storia, perché quello spettava a lui e solo a lui.  

Mimi era stata capricciosa perché lo desiderava semplicemente con sé, si era fatta trascinare dal turbine di un’età in cui il distacco faceva male perché si aveva paura di non essere abbastanza da soli; ma Taichi, al contrario, aveva messo al primo posto un lavoro di cui si era illuso potesse renderlo ancora più forte e ci era voluto tutto quel tempo affinché capisse che essere forti non significa essere da soli. 

Si prese di coraggio e lo disse. 

«Non voglio tornare a giocare a calcio mai più» affermò con la sensazione di star facendo la cosa migliore, finalmente la cosa giusta. 

Era una scelta che veniva dal profondo del suo cuore, dai voleri più reconditi del suo essere a cui non aveva mai dato adito per paura di mostrarsi debole. 

Sospirò languidamente e poi incollò gli occhi castani sul suo viso. 

«Non voglio svegliarmi la mattina da solo e pensare che l’unica persona con cui vorrei essere è lontana cinquecento kilometri da me» si liberò del peso che teneva dentro e fu terapeutico. 

Aver dato voce a quello che realmente provava lo aveva fatto sentire invincibile, tutt’altro che debole o incoerente. 

Mimi gli strinse una mano che ancora le teneva il volto. 

«No, Tai...» mormorò, tentando di riportarlo indietro da quella decisione. 

Non era la cosa giusta, era solo una scelta dovuta dalla disperazione di aver perso una persona importante; ma lei non voleva, non desiderava ripercorrere lo stesso errore del passato. 

Non voleva manipolare la mente di Taichi e fare in modo che si convincesse che tornare alla vita di cinque anni prima era la cosa migliore per lui. 

Lei lo conosceva, lo sapeva quanto tutto quello gli stava costando, e anche se sembrava risoluto, era a conoscenza di quanto il calcio fosse importante per lui nonostante la fatica e la solitudine. 

Diceva in quel modo perché era esasperato, perché era stato per troppo tempo da solo a reggere il peso di una vita crocifiggente; lei stessa lo aveva vissuto nella sua pelle quando aveva per un attimo pensato di abbandonare l’università. 

Tai non avrebbe dovuto lasciare il calcio, avrebbe dovuto continuare ad andare avanti con la sua strada, ma con delle consapevolezze diverse e magari, perché no, in compagnia di qualcuno che lo facesse stare bene. 

Lui continuò a parlarle deciso, mentre la pioggia ancora batteva incessantemente. 

«Sì, invece» la contestò, poi prese un gran respiro «Credevo che il calcio mi facesse sentire vivo, invece sei tu» glielo disse così, semplicemente, come se la conoscenza della verità dietro quelle parole fosse sempre stata lì. 

Mimi boccheggiò non appena lo udì proferire quella frase rivelatrice e non potette fare a meno di sentire gli occhi inumidirsi. 

La spontaneità con cui parlava era sempre stato il suo punto debole; Taichi sapeva parlare in ambo i lati. 

Sapeva arrivare dritto al cuore, ma sapeva anche ferire. 

E lei ne era così terribilmente affascinata, era talmente dipendente dal modo in cui il castano riusciva sempre a scuoterla dentro. 

Si morse il labbro e abbassò lo sguardo per terra, incapace di reggere quel contatto visivo per molto. 

Sarebbe scoppiata a piangere all’istante, e lei cercava sempre di mantenere contegno anche se era decisamente poco brava. 

Tai smise di stringerla e si portò una mano sulla fronte ripensando a ciò che era successo nelle ultime ore. 

Sembrava fosse stato un film, gli veniva persino da ridere per il modo avventato in cui aveva preso delle decisioni e di come si riconoscesse a pieno in quello. 

«L’autobus è partito e a me non me ne fotte un cazzo, capisci?» chiese retoricamente più a sé stesso che alla ragazza, usando un tono pregno di adrenalina e di consapevolezza. 

Ripensò al suo borsone abbandonato dentro il porta bagagli e scoppiò a ridere da solo in una risata spinta che aveva un che di liberatorio e di isterico. 

Mimi alzò la testa preoccupata, ma lui le aveva passato una mano tra i capelli bagnati, spostandoglieli dal volto. 

«Perché volevo venire qui da te e non me ne voglio andare più» riacquisì la sua sicurezza e continuò ad accarezzarle i capelli, guardandola di uno sguardo pieno di sentimento e lei lo riconobbe. 

Lo riconobbe quello sguardo, quello con il quale la guardava sempre. 

Era uno sguardo di amore. 

Deglutì in difficoltà e si strinse ancora di più alla giacca. 

«Tai, sei in promozione. Pensa a ciò che diranno se non ti presenti...» tentò di essere più razionale possibile per riportarlo con i piedi per terra. 

Non le piaceva il modo drasticamente impulsivo in cui stava agendo; lo vedeva labile e deleterio. 

Aveva paura che non avrebbe funzionato nemmeno quella volta se avessero fatto totalmente il contrario dell’ultima. 

Lo vide assumere una faccia sarcastica. 

«Non m’importa» dichiarò, poi mise una mano dentro la tasca dei jeans tirando fuori il cellulare che vibrava «Akira? Che vada a fanculo!» allargò le braccia, poi spense lo schermo. 

Si voltò a guardarla nuovamente. 

«Io voglio essere libero, voglio essere il vero Taichi» lo disse in un modo che le ricordò tanto i tempi in cui erano a Digiworld e tutti loro pendevano dalle sue labbra nonostante il più delle volte non aveva la vaga idea da dove iniziare. 

Si fidavano sempre di lui, e anche lei si fidava di lui. 

Le venne da sorridere e si sentì in imbarazzo. 

«E cosa farebbe adesso il vero Taichi?» lo provocò giocosamente, volendo scatenare un sua reazione immediata. 

Non sapeva di che tipo, solo voleva che abboccasse come quando erano piccoli. 

Sia mai che qualcuno lo provocasse, sarebbe uscito fuori il leone che c’era in lui. 

Difatti lui la guardò senza fiato, poi l’attirò a sé dalla nuca e la baciò.  

Fu un bacio passionale, ma tutt’altro che lento. Era uno di quei baci da far girare la testa per l’intensità e la foga, era uno di quei baci che anticipavano sempre qualcos’altro, e lei si sentì distrattamente sollevata da terra a viaggiare per mondi lontani, verso direzioni che non conosceva. 

La lingua di Tai era in costante ricerca della sua, la sua bocca era calda e sapeva di coscienza e verità ritrovate, di parole che avevano tardato a dire ma che avevano un gusto nuovo, un gusto migliore quando proferite. 

Mimi si aggrappò alla sua schiena e lui l’abbracciò completamente, la coprì in tutta la sua altezza e possanza, quasi non sentì più le goccioline di pioggia picchiare sul suo viso. 

Era un bacio di ritrovo, un bacio che sapeva di voglia di ricominciare e di scuse, di voglia di non lasciarsi più, di non sbagliare mai più. 

La castana stringeva la sua maglia da sotto la giacca e lui non le stava dando tregua, la baciava come se gli era stato permesso solo una volta nella vita. 

Mimi si lasciò scappare un gemito contro la sua bocca, così Tai le strinse di più i capelli bagnati e lentamente sciolse quell’abbraccio. 

La baciava ancora con le mani intrecciate dietro i suoi capelli, il viso abbassato all’altezza di quello suo, e non avrebbe interrotto quel momento se non fosse perché l’ossigeno cominciava a venire meno. 

Quando si allontanò dalla sua bocca non le mollò la nuca, la guardò con le labbra gonfie, rossa in viso e spettinata. 

Era bellissima, la voleva da impazzire, più di quanto aveva pensato fino a quel momento di volerla. 

Lei era scossa e stupefatta dal modo intenso in cui si erano baciati, così tanto che avrebbe voluto baciarlo ancora. 

Avvicinò le sue labbra a quelle di Tai per sentirle nuovamente, le palpebre cominciarono a chiudersi, ma questi l’interruppe. 

«Ti amo» lo udì dire come fosse una voce proveniente dall’esterno di una bolla. 

Si sentì accarezzare il volto con delicatezza, con parsimonia, con una cura maniacale nel non farle del male. 

Alzò appena la testa con la bocca socchiusa e gli occhi che cercavano quelli suoi. 

Lo aveva detto davvero? 

«Ti amo tanto, Mimi» ripeté lui in un sussurro come a risposta di quel dubbio. 

Era come se sapesse leggerle la mente. 

Chiuse gli occhi a godersi l’effetto che quelle parole avevano su di lei. 

Vita e paradiso insieme. 

Rimasero a mezz’aria a guardarsi, stretti l’uno a l’altra.  

La pioggia le picchiava prepotentemente il volto, mentre Tai le asciugava dal viso tutte le goccioline e la guardava ancora in quel modo indescrivibile. 

Mimi portò una mano sulla sua guancia e lo accarezzò, poi congiunsero le fronti in un gesto di intima complicità. 

Quanto tempo era dovuto passare prima che si potessero stringere in quel modo? 

Sembrava trascorsa un’eternità, un’eternità sconosciuta dove avevano entrambi lottato per vivere o morire. 

La castana gli diede un’ultima carezza sentendo al tatto una barbetta leggermente incolta, poi scese giù fino al collo liscio e morbido. 

La bellezza di Tai era sempre stata particolare; non era eterea ed imperiosa come quella di Matt, era più trasandata, ogni suo lineamento sembrava suggerire mascolinità e sicurezza.  

I suoi occhi erano sempre gli stessi, buoni, che sembravano comunicare al solo sguardo, sembravano possedere il potere di leggere i meandri della mente altrui. 

La pioggia imperversava, ma loro non si spostarono da lì. 

Sembrava che l’uno attendesse un gesto dell’altro, e quando Tai allentò la presa da Mimi questa sentì più freddo del dovuto. 

Il calore che gli donava lui era intenso e protettivo, non avrebbe voluto staccarsi mai da quella presa salda e decisa. 

Il castano, però, non interruppe il contatto visivo e lo vide in leggera difficoltà, come in attesa di formulare delle parole che non riuscivano a prendere la forma giusta. 

Poi sospirò pesantemente e diede voce ai suoi pensieri. 

«Potrai perdonarmi per tutte le cazzate che ho fatto?» lo sentì chiederle in tono lugubre e rassegnato. 

Era il suo mea culpa, riconoscere di aver sbagliato delle cose. 

E lo apprezzava per non aver sotterrato la questione subito dopo averla conquistata con un bacio e degli abbracci; sembrava realmente voler mettere un punto definitivo a quella storia, voler scavare fino in fondo di ogni loro punto debole per renderlo forte e non avere più strascichi. 

Voleva tornassero ad essere forti, più forti di prima. 

E quasi le fece tenerezza, guardandolo con il suo immancabile ciuffo di capelli castani piegato dalla pioggia che gli scendeva in viso e la sua espressione esitante, come se avesse timore di conoscere la risposta. 

A Mimi venne da sorridere amorevolmente, mentre il cuore batteva forte di fronte all’ennesima constatazione. 

Quegli anni senza di lui, quei giorni in cui erano stati lontani le erano serviti a cesellare il suo di mea culpa dietro una lunga serie di riflessioni pragmatiche.  

Così glielo disse. 

«Solo se mi prometti che non mollerai il calcio» soffiò in modo del tutto inaspettato, tanto che l’altro aprì la bocca dallo stupore. 

Lo aveva detto davvero? 

Credeva fosse quello il più grande problema per lei, lo scoglio contro il quale erano affondati e annegati; credeva che dare voce in capitolo alla sua inconfessata voglia di abbandonare il calcio potesse servire a sistemare le cose con lei. 

Distruggere il problema dalla radice. 

«Cosa?» chiese confuso e con fervore, quasi volesse premurarsi di aver sentito bene. 

Non voleva pensare che lo facesse per accontentarlo o che, ancora peggio, non le importava veramente; se per lei era lo stesso averlo lontano allora valeva a dire che non ci teneva più ad averlo tra i piedi, magari era una scusa per mandarlo gentilmente a quel paese. 

Sentì il cuore sprofondare a quella sensazione. 

Lui voleva tornare a Tokyo per stare con lei; tornare a giocare a calcio sapendo di non poterla vedere per mesi lo distruggeva dentro. 

Supponendo che sarebbe tornato a Kyoto e poi trasferito ad Osaka significava perderla ancora di vista, rimanere lontani a condurre due vite prettamente separate in cui lui avrebbe dovuto raccogliere il suo sudore e limitare la sua vita sociale e di conseguenza privata a causa degli allenamenti e delle partite. 

Avrebbe giocato in serie A, e questo non poteva dire che non contava nulla per lui, il suo cuore era pieno di orgoglio se pensava di aver fatto così tanta strada fino ad allora, ma non era la stessa cosa condurre una carriera senza avere lei al suo fianco. 

Il calcio non alimentava più la sua felicità come si era illuso perché aveva constatato che aveva da sempre cercato nel posto sbagliato. 

Mimi gli strinse le guance e fece in modo che i loro occhi s’incastrassero. 

Tai provò timore a quello sguardo e una serie di interrogativi inondarono la sua testa rendendogli perfino difficile respirare. 

«Non sei solo tu ad aver capito i tuoi errori» gli disse dando una risposta a tutti i suoi dubbi «L’ho fatto anche io. E non permetterò che tu rinunci nuovamente a qualcosa per me» i suoi occhi parvero brillare di sicurezza e determinazione. 

Era da tanto tempo che non le vedeva impresso quello sguardo risoluto nel viso limpido e l’effetto che gli provocò fu incredibile. 

Una morsa attanagliò il suo stomaco e sentì le gambe pronte a cedere sulla strada fangosa sotto di lui. 

Tentò di ridestarsi e prendere fiato, la guardò nuovamente negli occhi e lei non aveva smesso di fissarlo in quel modo. 

Fidati di me, pareva volessero dirgli. 

Mimi sembrava pienamente convinta di quello che aveva detto, sembrava sapesse benissimo dove stava andando a parare. 

Ma lui non poteva cedere in quel modo, perché non valeva lasciare che lei lo proteggesse, che lei si sacrificasse per lui. 

Doveva essere lui a rinunciare a qualcosa per lei, voleva che fosse lui stesso a dimostrarle che era cambiato, che era maturato e che l’amava. 

Le strinse il viso di rimando. 

«Ma io voglio farlo, Mimi» disse tra i denti, sicuro «Voglio stare qui con te ed avere una vita normale. Quella che avremmo dovuto avere insieme, tempo fa» 

Si sentì meglio, si sentì decisamente libero e forte non appena aveva proferito quelle frasi che esprimevano i suoi desideri più disperati. 

Taichi non era niente senza di lei. 

Non era che un manichino messo lì ad eseguire degli ordini a comando, lasciando che la sua vita scorresse nuovamente e che non attingesse nemmeno ad un attimo di vera felicità. 

Non voleva tornarci, non lo voleva fare senza di lei. 

Senza di lei non avrebbe più agito da quel momento in poi. 

Questa mollò la presa dalle sue guance e strinse le dita intorno a quelle del ragazzo, facendo in modo che, lentamente, smettesse anche lui di stringerla. 

Tai fece un’espressione interrogativa e guardò in basso, dove le loro mani si stringevano ancora e con più fervore.   

Poi spostò di nuovo lo sguardo sul suo viso e vide che sorrideva serena e comprensiva. 

«L’avremo» la sentì dire, e sentì un brivido lungo tutta la schiena al suono di quel verbo pronunciato con convinzione. 

«Tu andrai a giocare ad Osaka ed io ti raggiungerò. Finirò gli studi, mi manca davvero poco, e non dovremo rinunciare più a niente di ciò che amiamo fare» 

Non sapeva che ordine stesse seguendo, stava semplicemente parlando per via libera, come se le parole non avessero un copione, le uscivano semplicemente dal più profondo del suo cuore. 

«Sarà una buona occasione per entrambi, ma staremo insieme, non dovremo separarci mai più. Saremo noi stessi, saremo migliori» aveva fatto sì che le loro dita si intrecciassero a mezz’aria mentre lo guardava con una purezza tale da sconvolgere tutti i suoi equilibri già precari. 

Il cuore di Tai batteva forte, sembrava un tamburo. 

«E io ti prometto che farò di tutto purché questo accada!» esclamò con veemenza e lo guardò di uno sguardo candido ed innamorato. 

Quello sguardo gli ricordò tanto il motivo per cui si era innamorato di lei a diciassette anni, del perché si era innamorato della sua purezza d’animo, della sua empatia, del suo modo di vedere il mondo a colori. 

Mimi accentuava i colori della vita di Tai. 

Mimi dava alla sua oramai schematizzata esistenza un motivo in più per credere in sé stesso e in ciò che amava fare. 

Lei aveva il potere di riportarlo nella giusta via quando si perdeva, lo impregnava di ottimismo e profumo di vita, di libertà. 

Mimi era la purezza fatta a persona e lui lo sapeva di non poter fare a meno della sua cascata di limpidezza ed esuberanza. 

Il suono di quelle parole lo avevano reso inerme e frastornato, quasi come se fosse lontano anni luce dalla realtà, quasi come se non si trovasse davvero sotto la pioggia che batteva ininterrottamente sopra le loro teste. 

Si ritrovava all’interno di una bolla ovattata dentro la quale sentiva i rumori lontani. 

Mimi lo voleva seguire, glielo aveva appena riferito. 

Non voleva che mollasse il calcio, voleva che ritrovasse fede e passione nel suo lavoro, voleva che non perdesse speranza nel sogno della sua infanzia, della sua adolescenza, della sua vita. 

Non voleva commettere gli stessi errori del passato, voleva fare per due. 

Voleva dare adito ad entrambi. 

Voleva che nessuno di loro due si ritrovasse felice a metà, perciò era pronta a stendere un velo di amnesia nei loro sbagli più grandi e ricominciare d’accapo nel modo in cui sia Tai che Mimi meritavano. 

Insieme. 

Non seppe che dire per un po’ di tempo, tanto aveva lo sguardo perso nel vuoto e la bocca semiaperta. 

La ragazza cominciò a sentirsi a disagio, le parole che aveva proferito le incominciarono a sembrare un tantino fuori luogo ed azzardate. 

Forse lui non aveva intenzione di fare un passo del genere, non dopo tutto quello a cui erano andati incontro. 

Era ancora troppo presto per parlare di trasferimenti; un conto era vedersi ogni tanto e vivere a Tokyo in delle case separate, un altro era iniziare una nuova vita insieme, prendere casa, convivere... 

Si sentiva una sciocca, adesso, ad aver dato voce a quelle decisioni ottimistiche. 

Abbassò lo sguardo mesta, sentendo un groppo fastidioso alla gola. 

Era comprensibile se lui non voleva, d’altronde avevano appena fatto un passo dopo due anni in cui nessuno di loro aveva provato a farsi avanti. 

Poteva pensare che era folle a volere una cosa del genere, come al solito... 

Pensò di tamponare l’impatto. 

«Sempre... sempre se tu lo vorrai, altrimenti-»  

Ma Tai non le aveva dato nemmeno modo di terminare perché si era sporto e l’aveva baciata appassionatamente, emozionato. 

Mollò le sue mani e le portò dietro la sua schiena, circondandola con un abbraccio. 

Con un gesto repentino l’alzò da terra, mentre la sua lingua lambiva la propria e non le dava modo di scappare, imprigionata per sempre in quell’amore straripante. 

Certo che lo voglio, riusciva solo a pensare. 

La mise giù ma solo un attimo per poterla prendere in braccio e farla volteggiare come se fosse una principessa, nell’esatto modo in cui l’aveva fatto a Digiworld. 

Nell’esatta maniera in cui l’aveva fatta sentire importante. 

Nell’esatto modo in cui avrebbe voluto tenerla stretta a sé per sempre. 

Mimi rise divertita ed emozionata, le braccia agguantate al suo collo, il viso pieno di gocce di acqua che la facevano assomigliare ad una ninfea. 

Tai la guardò e s’innamorò ancora, con una mano fece aderire le loro fronti. 

«Tu sei pazza» le sussurrò contro la sua bocca con il fiato spezzato, i sensi completamente catturati dalla sua bellezza. 

Mimi emise di nuovo una risata e lui la spense baciandola. 

Insieme in quel modo, non contava più nient’altro. 

Non contava nemmeno il tempo che era passato se era servito a farli tornare di nuovo tra le braccia dell’altro. 

La ragazza si staccò da lui, guardandolo con sfida. 

«Guarda chi mi sta baciando sotto una burrasca!» lo canzonò guardandosi intorno e non vedendo altro che fitte gocce d’acqua ad appannarle la vista. 

Tai gettò un’occhiata e fu come se per la prima volta si fosse realmente accorto del luogo in cui si trovavano. 

I due si lanciarono uno sguardo complice e scoppiarono entrambi a ridere, quasi come se fossero ubriachi di vino, per poi baciarsi ancora. 

I tuoni squarciarono il rumore del battito della pioggia, e questa aumentò di grado. 

Una macchina si accinse a percorrere a tutta velocità il vialetto. 

Tai la notò, e prese a correre con lei ancora in braccio per evitare che li schizzasse.  

Non riuscirono a schivare totalmente l’ondata così si lasciarono andare di nuovo alle risate, mentre si dirigevano verso il portone di casa. 

 

La fine era arrivata e loro ci erano arrivati insieme. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bene, eccoci dopo tantissimo tempo!  

Cominciamo il nuovo anno con il botto, come si suol dire.  

Capitolo davvero importante per Mimi e Taichi. Come andrà a finire il resto? La storia sta quasi giungendo al termine, finalmente, pertanto vi chiedo con tutta l’umiltà del mondo un vostro parere, voi che leggete, perché ci siete, vi vedo e mi fa tanto piacere che nonostante tutto e dopo tantissimi anni ancora vi ritrovo a leggere una mia storia sui Digimon, la più lunga in assoluto che abbia mai scritto e ci tengo davvero tanto. Ho continuato ad aggiornare anche per un archivio personale, ho altri brevi racconti in cantiere che ho già scritto e che mi piacerebbe pubblicare, anche se il lasso di tempo è precedente a questo. Semplicemente, vorrei sapere che ci siete leggendo anche voi. A presto.  

Rose 

 

 

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Capitolo 22
*** Stazione ***









Aveva smesso di piovere ma le gocce scivolavano ancora contro il vetro del taxi che la stava scortando verso la stazione di Ariake.

Seduta sui sedili posteriori guardava oltre il finestrino, la gamba che tremolava nervosamente, le mani racchiuse una dentro l’altra a torturarsi come se potesse lenire in qualche modo l’ansia e la paura che in quel momento la sovrastava.
Avevano imboccato un po’ di traffico, era l’ora di punta e la gente si apprestava a tornare a pranzare dal lavoro.
Guardò con una ruga di preoccupazione l’orologio, poi si infilzò le unghie sulla carne del palmo.
Dovevano muoversi, o non ce l’avrebbe mai fatta.
Non poteva permettere che Yamato prendesse quel treno, non poteva assolutamente fare in modo che lasciasse scivolare tra le dita quell’unica occasione che aveva di parlargli.
Il tassista disse qualcosa ma non l’ascoltò, troppo presa a fissare fuori il paesaggio lugubre e nuvoloso.
Si sentiva così agitata che sarebbe potuta scoppiare a piangere senza neanche accorgersene. Lo stomaco sembrava gli si stesse aggrovigliando in una morsa che le faceva provare pena e timore, mentre il cuore non ne voleva sapere di calmarsi.
Strinse i pugni sopra le ginocchia e guardò ancora fuori.
Non doveva mancare molto, bisognava svoltare dalla via secondaria e raggiungere l’imbocco della stazione ferroviaria.
L’avvicinarsi della destinazione la rendeva spaventosamente inquieta ma nello stesso tempo sentiva crescere dentro di sé una totale voglia di scendere dall’auto e correre via.
Doveva andare da Matt, doveva parlargli, doveva dirgli tutto quello che provava.
Doveva perlomeno cercare di dimostragli che non aveva mai smesso di crederci, seppur gli aveva inferto un male terribile.
Lo aveva inferto anche a sé stessa, soprattutto a sé stessa.
Infliggere del male a sé stessa non era altro che la conseguenza di aver ferito Matt.
Lei lo sapeva ormai, era consapevole dentro di sé di non voler altro in quella vita.
Forse perché, come diceva qualcuno, si capisce di amare qualcuno solo sull’orlo della perdita, ed era questo quello che le stava succedendo.
Stava perdendo Matt.
Lo stava perdendo completamente, non aveva né la forza né il controllo su di lui, lo aveva lasciato andare tanto tempo fa e adesso non sapeva se avrebbe mai potuto farlo ritornare indietro.
Strinse le labbra e sentì un senso di angoscia torturarla.
Gli era scivolato via dalle dita come se fosse dell’acqua proprio nel momento in cui aveva maggiormente sete.
La metafora della sua vita era estremamente ironica e pungente.
Si ritrovava da sola e senza amore, proprio lei che aveva la predilezione per le piccole cose e l’amor proprio, l’amore verso gli altri, la premura, la bontà.
Proprio lei che era la detentrice di un valore così grande lo aveva confuso con un sorta di istinto primordiale dietro il quale si era nascosta vigliaccamente.
Le parole di Taichi le riaffiorarono in mente e si stupì di come riuscisse così bene a ricordarle, a rielaborare le sfumature del suo tono di voce, a rimarcare i contorni del suo viso.
Lui si fidava di lei, non le aveva mai realmente voltato le spalle seppure aveva avuto paura che lo avesse fatto e, in quel caso, lo avrebbe perfino capito.
Tai si fidava della persona che era, lo aveva sempre fatto e quello che gli aveva detto era vero.
Sora sapeva arrivare dritta al cuore delle persone, possedeva una forza che in pochi avevano in quel mondo.
Era stata scelta in passato da entità maggiori proprio per quello.
L’amore.
L’auto si fermò ad un parcheggio e la voce del tassista la distolse dai suoi pensieri.
«Arrivati a destinazione» lo sentì dire, e con un sospirò subito si apprestò ad aprire la borsa per prendere i soldi.
Pagò la corsa e aprì lo sportello del taxi, uscendo fuori e sentendo sul viso un vento freddo che le fece venire la pelle d’oca.
Di fronte a sé si ergeva imponente la stazione ferroviaria di Ariake.
Un brivido le percorse la schiena e i capelli si sollevarono guidati da un colpo di vento alle sue spalle.
Si strinse infreddolita alla giacca e sentì il taxi che eseguiva una manovra e sgommava via, lasciandola lì da sola.
Per un attimo ebbe l’istinto di voltarsi e chiamare a gran voce il tassista affinché tornasse indietro e la riportasse a casa.
Aveva una paura folle che quel viaggio non le sarebbe servito a nient’altro se non ad annegare ancora di più nel suo dolore e nei suoi rimorsi.
Si sentiva sconfitta in partenza, come se stesse osando un passo troppo lungo per il quale non disponeva la forza.
Ma poi la voce di Tai le ritornò in mente.
Lei poteva farlo perché aveva tutta la forza necessaria.
Non c’era nessun altro meglio di lei che avrebbe potuto tentare di salvare gli ultimi pezzi di un amore perito.
Assunse un’espressione sicura e a gran passi si accinse a salire le scale senza avere nessun’altro ripensamento.
La struttura era grande ed affollata e lei non aveva idea da dove iniziare. Non era una stazione che frequentava, né tantomeno conosceva gli orari delle partenze.
Si fece largo tra le persone urtandone qualcuna.
Doveva trovare un tabellone con le informazioni, altrimenti non avrebbe avuto possibilità di conoscere la sua sorte.
Corse fino a quando non sentì la voce meccanica dell’altoparlante annunciare qualcosa e si fermò di scatto, poi alzò lo sguardo e vide palesarsi il tabellone.
Il treno per Shiodome.
Doveva esserci un treno diretto a Shiodome, si disse, perché non appariva nel led...
Aspettò che la lista scorresse le molteplici partenze tutte accomunate dalla stesso orario ma dal numero diverso dei binari.
Quasi aveva perso la speranza, quando a caratteri cubitali l’informazione sul treno in partenza per Shiodome comparì di fronte a sé.
Ore 12:34, binario 5.
Doveva essere proprio quello che Matt attendeva.
Il suo volto si illuminò di luce e in uno scatto cominciò a correre verso destra in direzione dei sottopassaggi.
Non sapeva bene dove andare, ma le sue gambe avevano preso a muoversi da sole, come se qualcosa di invisibile le guidasse.
D’un tratto udì nuovamente la voce dell’altoparlante annunciare qualcosa.

Il treno diretto a Tokyo 8642356 è in arrivo al binario 5, vi preghiamo di non oltrepassare la linea gialla. The train directed to Tokyo 8642356 has just arrived to-

Era il treno.
Era sicuramente quello, doveva muoversi, doveva andare...
Cominciò a salire le scale come una forsennata, urtando una signora che aveva una borsa della spesa piena di frutta.
Un paio di arance ruzzolarono via e la vecchia si lamentò, imprecando qualcosa. Lei continuò a salire, ma poi si fermò.
Chiuse gli occhi.
Non poteva essere così scortese, dannazione.
Con un sospiro, tornò indietro e recupererò tutte le arance rotolate alla fine delle scale. Le riportò indietro e le rimise dentro la busta di pezza.
«Mi scusi tanto, signora» borbottò, mentre quella gliela scippava di mano e andava via senza nemmeno dirle un grazie.
Rimase come un’intontita con le mani ancora a mezz’aria, ma poi si rese conto che doveva sbrigarsi.
Prese a salire le scale di corsa, superò qualcuno fermo a controllare la borsa, ma altre persone che avevano difficoltà a salire la valigia le sbarrarono la strada.
Respirava affannosamente e la testa le girava.
Cazzo, non ce l’avrebbe fatta...
Sarebbe rimasta bloccata lì dentro...
Dovevano muoversi.
Doveva muoversi.
Con uno scatto, spostò di lato qualcuno che le sembrava un turista e prese a salire le ultime scale che la separavano dall’aria aperta.
Intravide i binari e il cuore cominciò a batterle forte.
Non udiva il treno però, dov’era il treno, non sentiva il rumore dello stridio delle rotaie sui binari...
E poi lo udì.
Ma non era lì al binario di fronte, era a quello dell’altra banchina.
E stava partendo.
Il cuore le salì fino alla gola, si diede un rapido sguardo intorno ma non vide nessuna faccia familiare, solo un via vai di gente, qualcuno seduto che leggeva il giornale.
Poi si rese conto.
Il binario non era il 5, ma il 4.
Aveva sbagliato, aveva preso il sottopassaggio sbagliato.
Il treno si era messo in marcia e stava partendo, così lei gemette e cominciò stupidamente a correre per la banchina, ma subito quello prese velocità e sparì.
Respirando affannosamente rimase a guardare la direzione in cui era sparito.
Le gambe le cedettero da sole e si lasciò scivolare per terra, stanca.
Il volto basso, si guardava le ginocchia, i pugni chiusi.
Non ce l’aveva fatta...
Era partito.
Non era riuscita a fermarlo, non era riuscita a parlargli, non era riuscita nemmeno a guardarlo negli occhi e salutarlo...
Il fiato era spezzato, gli occhi avevano preso ad inumidirsi.
Aveva di nuovo sbagliato tutto.
Alzò lentamente lo sguardo, alcune persone avevano preso a fissarla. Probabilmente si chiedevano che ci facesse lì, appostata per terra, sconvolta.
Tentò con tutte le sue forze di frenare le lacrime, stava per scoppiare, ma non voleva destare ulteriore attenzione.
Non ce l’aveva fatta.
Gli occhi nocciola si posarono apaticamente alla banchina di fronte e d’un tratto vide qualcosa.
Qualcuno, che aveva un’aria familiare se ne stava seduto su una panchetta, vestito di nero, i capelli biondi che gli ricadevano in viso, una valigia al lato. Se ne stava seduto con le gambe aperte, le mani unite a pugno.
Il viso era basso, nascosto, guardava per terra e sembrava perso nei suoi pensieri.
Un piccolo, minuscolo filo di speranza si riaccese in lei.
Lo avrebbe riconosciuto tra mille.

Era lui, era Yamato.

Non pensò più a niente, non riuscì ad elaborare qualsiasi altro pensiero o constatazione, solo si mise lentamente in piedi senza levargli gli occhi di dosso come per paura di perderlo di vista o che potesse saltare via su un treno spuntato all’improvviso.
Si strinse le mani al petto, poi gli diede un ultimo sguardo titubante e corse via al sottopassaggio.

Non era ancora finita.






Yamato aveva il viso chino sui suoi stivali stringati in pelle nera, i pensieri gli affollavano la testa e non riusciva a liberarsene neanche per un secondo.
Qualcuno avrebbe pensato che amasse crogiolarsi nel suo dolore, che era una di quelle persone masochiste che trovavano una sorta di piacere perverso nel combinare cose o situazioni che le facessero stare male; ebbene, forse i fatti stavano in quel modo.
Era così devoto a quella sofferenza che quasi si chiedeva com’era stato vivere per tutto quel tempo senza aver sentito quel dolore lancinante all’altezza del cuore.
Si trovava ad un passo dalla fine, lì da solo, perduto in un oceano scuro che tanto gli ricordava una di quelle volte in cui si erano persi a Digiworld.
Si erano smarriti così tante volte in quel luogo, e non parlava di smarrimento fisico; aveva dovuto fare talmente tanti conti con sé stesso che non credeva di poterne essere realmente pronto, non dopo la separazione repentina dei suoi genitori, non dopo che gli era stato portato via suo fratello ingiustamente.
La vita era stata dura con lui sin da bambino, però poi aveva scoperto il suo vero io.
Era successo tutto lì, su quell’isola strana e sconosciuta, in quel luogo così talmente lontano dove la realtà era distorta e tutto gli pareva ormai un sogno lontano.
Ma era stato vero, era stato autentico, reale, così come quello che era successo in quei giorni, così come la pena che lo avvolgeva, lo attanagliava senza via di fuga.
Alzò la testa e guardò il binario di fronte a sé; facce sconosciute e valigie troppo grandi sfilavano per la banchina, ognuno di esse aveva una storia con sé.
Magari almeno una di quelle persone provava lo stesso di quello che provava lui, era stata tradita allo stesso modo e stava tentando di fuggire dal suo passato, rifarsi una vita che potesse eliminare gli sbagli, i fallimenti di quella precedente, trovare una scorciatoia che potesse aiutarla a farla star bene con sé stessa.
Volse lo sguardo alla chitarra appoggiata contro il sedile, ben riposta dentro la sua custodia scura.
Ormai era tutto finito.
Si sentiva all’orlo del precipizio, al limite del baratro, e avrebbe dovuto saltare.
Si passò una mano tra i capelli biondi, lunghi e spettinati come mai lo erano stati. Non si era mai sentito così talmente in disordine come prima di allora.
Socchiuse leggermente gli occhi, mentre un pensiero lo sfiorava.
Cozzava con la sua scelta, ma proveniva dai profondi e tormentati desideri del suo cuore, della sua anima.
Avrebbe voluto sentire quella voce ancora una volta, avrebbe voluto vedere quel viso ancora una volta, avrebbe voluto che qualcuno provasse a fermarlo.






Sora salì di corsa le scale del sottopassaggio, stando ben attenta ad evitare che qualcuno la intralciasse nuovamente.
Non poteva più tardare o se ne sarebbe pentita per sempre.
Non appena la luce toccò i suoi occhi li socchiuse sentendo dolore alla testa, si portò una mano per coprirli e guardare oltre le persone che si accalcavano sulla banchina.
La panchetta su dove si trovava Matt non doveva essere tanto lontana.
Cominciò a camminare a gran passi fino a farsi largo e raggiungere il centro del binario 5, proprio dove lo aveva adocchiato poco prima.
Infatti, lo vide spuntare all’improvviso, ancora seduto da solo, non era cambiato nulla se non la sua posizione.
Non aveva più lo sguardo basso, era rivolto verso destra a guardare chissà cosa, mentre le sue mani erano giunte.
La tipica espressione di quando Yamato era sovrappensiero, di quando c’era qualcosa che non andava in lui, qualcosa che lo rendeva inquieto e nervoso.
Si fermò a distanza e deglutì, mentre sentiva il cuore battere forte per l’ansia e, allo stesso tempo, l’adrenalina che la spingeva nel buttarsi a capofitto, a sciogliere quei nodi di titubanza che ancora la stringevano.
Il momento era arrivato, non poteva più tirarsi indietro.
Non voleva più farlo.
Si portò una mano alla bocca, aspirò una grande quantità d’aria per darsi forza e s’incamminò verso di lui.
Le gambe sembravano muoversi da sole, non avevano tregua, così come i battiti accelerati del suo cuore.
Il petto pareva esploderle, e mentre avanzava di passo la sua mente la martellava di domande e pensieri scomodi.
Era giusto quello che stava facendo?
Presentarsi lì a parlargli era un po’ come forzare la mano, e lei sapeva quanto Matt odiasse chi provava ad imporgli qualcosa.
Non era sicura che avrebbe voluto parlarle, anzi, prevedeva una reazione interamente negativa e si vedeva già lì, gettata a piangere nella speranza di riuscire a dargli delle giustificazioni lecite.
Si fermò e rimuginò.
Lei non si sarebbe giustificata, non poteva farlo.
Non aveva poi così tante giustificazioni, solo quello che era il suo punto di vista e dubitava altamente potesse essere condivisibile da Matt.
Sapeva anche come il ragazzo disprezzasse chi tentava di arrampicarsi sugli specchi, lui era schietto, sincero, a volte persino affilato.
Non avrebbe provocato pena in lui, non si sarebbe piegata a recitare una parte fittizia dove invocava perdono e reclamava pentimento.
Lei avrebbe parlato chiaro, e a parlare sarebbe stato il suo cuore.
Solo e solamente il suo cuore.
Perché lei era Sora Takenouchi e ci credeva ancora nell’amore.
Perciò si sarebbe presa il rischio che ne comportava.
Continuò a camminare con un’espressione altera in volto.
Arrivò di fronte alla panchina, finalmente, ma lui non dava cenno di essersi accorto della sua presenza. Stava ancora lì, seduto con le gambe aperte, le mani giunte e il viso angelico che non le rivolgeva uno sguardo.
Fece caso che aveva con sé solo una valigia di taglia media, non sembrava avesse portato molto dietro, ma fu lieta di notare la sua chitarra elettrica spuntare da dietro il sedile.
Le faceva credere che non tutto era poi così perduto.
Si fece coraggio ripensando alle parole di Tai e sentì un calore al petto.
«Matt» lo chiamò flebilmente ma con decisione, mentre una folata di vento le scompigliava i capelli e una ciocca ramata le sfiorava il volto.
Ad udire il suono di quella voce, questi s’irrigidì.
Non si voltò subito, solo aggrottò le sopracciglia fissando vacuamente l’asfalto, mentre i suoi sensi lo allertavano e la saliva si prosciugava.
Yamato alzò lentamente la testa e incastrò gli occhi celesti sopra i suoi nocciola. Non riuscì a nascondere un’espressione di stupore non appena la vide lì, ritta davanti a lui che lo guardava di uno sguardo esitante ma nello stesso tempo fermo.
Sembrava apparsa lì come se fosse un angelo di annunciazione, e non riusciva a fare a meno di perdersi nella bellezza gentile del suo viso candido.
Sembrava fosse lì affinché si beasse della sua immagine luminosa dopo tanto tempo in cui aveva vagato nel buio della notte.
Socchiuse la bocca senza riuscire ad emettere suono.
Perché era lì?
Come aveva fatto a trovarlo?
Non riusciva a pensare decentemente e con un minimo di raziocinio, solo aveva male agli occhi come se prolungare lo sguardo su di lei lo stesse abbagliando.
Il cuore aveva incominciato a battere furiosamente, lo sentiva in modo distratto nelle orecchie, e una serie di pensieri facevano a pugni lottando dentro la sua testa.
Una parte di sé, una piccola parte di sé sotterrata in fondo al suo cuore, aveva appena acceso un barlume di speranza che tentava di sovrastare a tutti i costi.
«Che... che ci fai qui?» chiese balbettando appena, sentendo un groppo in gola difficile da mandare giù.
Sembrava come se non avesse mai imparato a parlare tanto la bocca era asciutta e non dava cenni di ripresa.
Era una domanda lecita, dopotutto.
Perché si trovava lì di fronte a lui?
Ci vedeva bene o era solo una visione impartita da quello stato di sonnambulismo in cui si era imprigionato da giorni e dal quale non riusciva a risvegliarsi completamente?
Eppure l’averla vista apparire così all’improvviso gli aveva regalato un guizzo, qualcosa gli era smossa dentro e gli aveva fatto intendere come non fosse ancora tutto finito.
Non era ancora morto completamente se riusciva ancora a provare tutte quelle sensazioni contrastanti e profondamente intense.
Sora lo guardava fisso, non aveva smesso di osservarlo in un modo che gli sembrava inquisitore, come se stesse cercando in lui la parte più debole su cui appigliarsi.
Non sapeva cosa voleva da lui, ma non avrebbe mostrato quel lato.
Non lo avrebbe mostrato a nessuno, mai più.
La vide sospirare flebilmente.
«Ho saputo che partivi» gli rispose con pochi giri di parole, quasi come se gli avesse appena rivelato un segreto.
Non riusciva a distogliere lo sguardo da lei, la fissava completamente incapace di aggiungere altro.
Lo stupore era talmente grande da non riuscire ad avere una reazione, specialmente perché l’apparizione di Sora era qualcosa che aveva desiderato segretamente.
Lei era lì.
Sora era lì, e lui non riusciva a capacitarsi di come il momento di affrontarla era arrivato senza che quasi se ne fosse accorto.
E adesso aveva paura, provava timore anche solo ad attendere che lei aprisse bocca e parlasse di quello che era successo.
Non voleva, non aveva la forza giusta per sopportare un’ulteriore tribolazione.
Era così abituato a tenersi tutto dentro da rifiutare di dar voce ai suoi pensieri, ai suoi problemi, alle sue sofferenze.
Era un meccanismo di difesa vecchio come le rovine di un tempio.
Sora non aveva smesso di guardarlo in quella maniera indecifrabile.
Sembrava volesse scovare tutte le sue più grandi debolezze, e questo lo irritava, perché sapeva già di combattere una battaglia persa contro di lei.
«Posso sedermi?» la udì chiedergli, e lui sentì un fremito al sol pensiero di poter provare una sorta di riavvicinamento di qualunque tipo.
Non era pronto, si sentiva spodestato dal suo trono di fermezza.
Sarebbe potuto crollare per terra da un momento all’altro come un re caduto.
Negò con la testa senza smettere di guardarla, in un gesto che alla ramata sembrò di totale arresa dietro quella voglia di difendersi ancora.
Riusciva ancora a capirlo, a leggerlo dentro come aveva sempre fatto.
Non demorse, con in volto un’espressione dura si piegò e si sedette accanto a lui ignorandone il divieto ed invadendo le sue narici di un profumo di rose e spezie.
Matt trattenne il fiato e si voltò da un’altra parte.
Non riusciva a reggere il peso della sua presenza in modo talmente ravvicinato; lo destabilizzava, il cuore infuriava una lotta contro il suo sterno, una sensazione di calore non gli lasciava modo di respirare, si sentiva totalmente alienato dal totale controllo di sé.
Odiava quella sensazione, ma ne aveva anche fottutamente bisogno.
Era una lotta tra cuore e ragione.
La ramata lo guardò piegando la testa.
Si aspettava una reazione schiva del genere, a dire il vero era il minimo di ciò che poteva immaginarsi. Il fatto che Matt fosse ancora lì, seppur si rifiutasse di guardarla, valeva a dire che non era poi così infastidito dalla sua presenza, o perlomeno, aveva segretamente voglia di farla parlare.
Forse si aspettava da lei delle scuse, ma non era sua intenzione cominciare a petularlo di asciutti piagnistei.
Doveva parlare, doveva spiegarsi.
Non aveva altro modo per poter sperare di sistemare le cose.
Stettero per qualche secondo in silenzio, e Matt sentiva il suo sguardo trapassarlo da corpo a corpo, non aveva smesso di mantenere quell’aria inquisitrice che lo metteva in difficoltà al solo pensiero.
Poi sentì la sua mano stringergli il braccio d’un tratto.
«Andrai da tuo padre?» gli chiese sporgendosi ancora di più con la testa per poterlo guardare in volto, e lui sussultò visibilmente a quel contatto inaspettato, quasi come se si fosse bruciato.
Non rispose, solo si divincolò dalla sua presa in una reazione difensiva e portò la sua mano lontano, incrociando le braccia in modo che non ci potesse essere alcun altro tipo di contatto tra loro.
La ramata ci rimase male a quello scatto brusco. Rimase con il braccio a mezz’aria e l’espressione ferita impressa sul viso, ma non si fece intimorire.
Era arrivata fin lì, non poteva mollare.
Aveva preventivato tutto ciò, sarebbe stato arduo, molto arduo, ma era sicura che se non tornava indietro sui suoi passi se ne sarebbe pentita amaramente.
Non doveva farsi assoggettare dalle sue reazioni, né dai sensi di colpa.
Sapeva ciò che andava fatto.
«So che andrai da tuo padre» soffiò ferma «E’ stato Tai a dirmelo. Era così preoccupato per te»
Matt la udì distrattamente, ma alzò appena gli occhi non appena udì quel nome.
Aveva letto il suo biglietto, aveva trovato la chiave, aveva capito tutto senza realmente bisogno di parlare.
Come sempre.
Quando si trattava di Sora il suo migliore amico sembrava come inebriato da qualcosa che non riusciva totalmente a capire, sfiorava l’amicizia e il sentimento platonico, doveva esserne geloso, o forse...
Forse Tai si fidava semplicemente di lei, nonostante tutto.
E di lui?
Taichi si fidava di lui più che di sé stesso, glielo aveva dimostrato in quei giorni più che mai e lui gli doveva molto.
Molto più che la sua amicizia.
Gli doveva la vita.
Lei non aveva smesso di guardarlo aspettando che si voltasse.
«Anche io ero preoccupata per te» la sentì dire e, d’un tratto, lo scosse dai suoi pensieri rivolti altrove.
Assimilò bene le parole che aveva proferito.
Preoccupata per lui...
Preoccupata per lui dopo non essersi minimamente resa conto di ciò che gli stava infliggendo dietro le spalle.
Non riusciva a crederci nemmeno volendo.
Assunse un sorrisino sarcastico ed emise un suono con la bocca, poi si passò una mano sul viso in segno di stanchezza.
Per quanto avesse in fondo al suo cuore sperato di rivederla almeno per l’ultima volta, sentiva quelle parole fittizie e arrampicatrici.
Non sapeva se tutto ciò fosse dovuto alla delusione o al crollo nervoso che aveva sofferto giorni prima, solo faceva fatica anche solo ad udire qualcosa che volesse essere rappacificatrice o semplicemente esplicativa.
Era come se il suo cervello la rifiutasse, il suo stomaco la rigettasse perché ormai troppo pieno di bile amara.
«Se solo mi dessi l’opportunità di parlare, io potrei provare a spiegarti tutto» la sentì dire e gli venne il voltastomaco al pensiero di dover ascoltare mere spiegazioni e giustificazioni senza fondo.
La ragazza lo vide assumere un’espressione di disgusto e di sofferenza da sotto le dita che ancora coprivano il suo volto e strinse le labbra.
«Potrei... provare a dirti perché l’ho fatto» aggiunse melliflua «Potrei provare a darti un motivo giusto, un motivo valido e giustificante, magari pietoso»
C’era una ragione per la quale stava dicendo quelle cose.
Erano delle semplici frasi retoriche che non volevano semplicemente girare il dito in modo tale che Matt sentisse il vomito al solo udirle.
L’espressione risoluta di Sora presagiva di sapere ciò che stava facendo.
Il ragazzo non si era mosso da quella posizione, sembrava distaccato dalla realtà, e lei si sporse ancora di più per fare in modo che lo ascoltasse interamente.
«Potrei provare a dirti che non volevo farlo affatto, che magari è stato lui...» si bloccò come se le fosse appena balenata in mente quell’idea.
Matt strinse più forte le dita sul viso graffiandosi la pelle.
Cominciò a sentire una raffica di rabbia nel sentirla parlare in quel modo come se lo stesse prendendo in giro.
Non intendeva stare ad ascoltare i suoi monologhi che sembravano farsi beffe di lui, poteva anche andarsene a quel paese.
«che si è gettato addosso e io l’ho respinto, ma mentirei» concluse e lo sconcertò.
Ammetteva di aver fatto tutto quello che aveva fatto perché lo voleva?
Il cuore gli batteva forte e ogni martellata era un dolore al petto.
Voleva stare con quello e veniva a sbatterglielo in faccia, aveva proprio un bel coraggio a farlo...
Aveva voglia di sputarle contro le peggiori accuse, dirle che era una stronza egoista a pensare di poterlo raggiungere mentre stava partendo per dimenticare il male che lei gli aveva provocato solo per rimarcargli di essere stato con un altro perché lo aveva voluto.
Non voleva lasciarlo in pace, voleva tormentarlo fino alla fine, non permettendogli di lasciare quel posto con perlomeno l’ultimo piatto ricordo.
Sentì un forte impulso di reagire malamente.
«E allora che farai?» sbottò, alzando la testa dalle mani e voltandosi a guardarla in un modo che a Sora fece venire i brividi.
Aveva le mani giunte, la guardava come se volesse traforare la sua anima con quegli occhi cerulei che le sembravano un cielo limpido in mezzo a quella tempesta.
Limpidi, ma vuoti, distrutti, senza un barlume di gioia.
Sembrava come se si fossero svuotati della loro bellezza, della loro vitalità, della loro giovinezza.
Non si lasciò intimorire da quel modo brusco con il quale le si era rivolto, lo aveva previsto, aveva messo tutto quello in conto ancora prima di aver deciso di farsi trovare lì.
Ne aveva avuto paura, a dire la verità, aveva avuto il cieco timore che lui la rigettasse, ma doveva prendersi quel rischio se ciò valeva a dire avere la minima possibilità di sistemare le cose.
«Ti dirò la verità» affermò in tono calmo, poi spostò lo sguardo malinconicamente «Ti parlerò, come facevo una volta» gli spiegò.
Riuscì a percepire velatamente il rimorso di non averlo fatto per tutto quel tempo.
Anche lui provò un forte senso di rammarico nel constatare quanto una volta tra di loro fosse tutto diverso.
La loro storia era qualcosa di meraviglioso, riuscivano ad essere la parte mancante dell’altro perché si capivano, si sostenevano.
I loro litigi non erano altro che delle bazzecole innocue che non servivano altro che a completare il quadro.
Non avrebbe mai potuto immaginare che, un giorno, sarebbero arrivati a quel punto di non ritorno.
Sora l’osservò con le mani in tasca, tutto il suo corpo sedeva voltato verso la direzione opposta così da non dover interagire con il suo sguardo. Ma lei lo sapeva di averlo colpito, di aver premuto un tasto dolente che comprendeva entrambi.
«Il silenzio ha rovinato tutto ciò che avevamo per troppo tempo, Matt» sussurrò con gli occhi lucidi, colmi di tristezza e di rassegnazione.
Non riuscì a vederlo, ma anche quelli del biondo si erano inumiditi. Guardava un punto fisso della banchina e non riusciva a biascicare alcuna parola.
Aveva ragione, lo aveva fatto.
Li aveva resi schiavi fino ad annientarli con la sua vittoria.
Si era preso tutto ciò che di bello c’era tra di loro.
«Non potrei lasciare che lo faccia anche adesso» sentì dirle con determinazione, quasi come se stesse lottando contro un nemico immaginario.
Un nemico con cui lui stesso combatteva da una vita.
Lei sospirò con nostalgia e sapeva che non aveva smesso nemmeno per un secondo di guardarlo nonostante il suo linguaggio del corpo fosse completamente ostile.
Era una delle qualità che amava più di lei, la determinazione, la dedizione in tutto quello che faceva.
La stava amando anche in quel momento.
«Sapevamo comunicare, riuscivamo ad incastrarci perfettamente nonostante provenissimo da due mondi diversi. Parlare con te era ciò che di più interessante e affascinante io facessi» ammise con gli occhi che le brillavano.
Poteva percepire l’orgoglio con cui aveva proferito quelle parole.
Sentì le sue dita fredde rinchiudersi intorno al suo polso lasciato libero dalla giacca e si irrigidì, ma non gli dispiacque.
La mano di Sora era fredda, ma riusciva sempre a donargli calore.
Quel tocco gli fece da guida, non riuscì a fare a meno di voltarsi lentamente e incontrare le sue iridi nocciola, calde e gentili, che s’illuminarono di un leggero bagliore non appena si accorsero che la stava guardando anche lui.
«Non mi sono innamorata di te semplicemente per il tuo aspetto, ma per quello che hai dentro, per tutte le sfumature che hai dentro di te, quelle di luce e sì, anche quelle di buio» la sua voce s’incrinò, e lui sentì una fitta al cuore.
Il suo carattere era anche il suo lato oscuro, di quello ne era consapevole.
Aveva provocato i peggiori danni per colpa del suo temperamento silenzioso, sempre sulla difensiva e pieno di diffidenza.
Aveva costruito intorno a sé come una solida muraglia di ghiaccio dietro la quale si celava il suo cuore e solo in poche persone erano riusciti a scioglierla.
Sora.
Taichi.
Suo fratello.
Ma nessuno di loro meritava di avere a che fare con una persona del genere.
Una persona come lui che causava malumore, scontento, che rovinava ogni cosa intorno a sé per colpa del suo orgoglio, della sua perenne insofferenza.
Sora si premurò di aggiungere qualcosa.
«Siamo tutti luce e buio» osservò, dando una risposta ai suoi rimugini e alle sue colpevolezze rispetto agli altri.
Avevano tutti sbagliato, avevano tutti commesso degli errori che andavano al di là di quello che erano, di quello che avevano dovuto passare per diventare ciò che erano diventati.
Loro tutti avevano fallito.
La vide sorridere mesta.
«Io ho dovuto perdermi per ritrovare la mia luce, come tutti... lo abbiamo dovuto fare tutti, Matt» disse alzando gli occhi che erano colmi di lacrime.
Ebbe un tuffo al cuore quando la vide così vulnerabile, ma nello stesso tempo non le aveva mai vista impressa tanta forza in volto.
«Perché non saremmo stati noi, altrimenti» sferzò duramente, mentre una lacrima bagnava la sua guancia liscia.
Lui spostò lo sguardo e pensò a tutti loro.
Era vero, avevano sbagliato tutti, erano diventati l’esatto opposto di quello che erano stati, di ciò che avevano cercato, di quello che maggiormente li caratterizzava.
«Siamo sempre stati sottoposti a delle prove per ritrovare noi stessi, per capirci appieno... Ricordi a Digiworld?» si asciugò con una mano la lacrima e tirò su con il naso, in volto una luce nuova piena di speranza e di malinconia.
Matt arricciò le labbra e fece vagare la mente e i ricordi.
Se ricordava i tempi di Digiworld?
Certo che li ricordava, erano lì ben impressi nella sua memoria e non sarebbero mai più usciti di lì, li conteneva come in uno scrigno segreto perché, nonostante avevano dovuto faticare, soffrire, sentire la paura sulla pelle, loro erano cresciuti, erano diventati loro stessi grazie a quell’esperienza.
Non sarebbero arrivati fino a quel punto senza quelle falle che avevano dovuto sopportare, tutti quei compiti, quelle prove.
E ciò che era successo loro in quei giorni non era poi così tanto differente.
Taichi agiva comportandosi vigliaccamente.
Koushiro aveva perso la sua saggezza e la sua moralità.
Mimi era diventata fredda ed egoista.
Takeru aveva perso la sua speranza rischiando di infrangere i suoi sogni.
Hikari si era spenta diventando l’ombra di sé stessa.
Jyou usava la sua schiettezza per ferire gli altri.
Sora aveva tradito la persona che amava.
E lui, Yamato, non aveva più creduto in quelle persone.
I suoi amici.
Gli veniva da ridere tristemente.
Tutto quello non si era dimostrato altro che una prova ad ostacoli, nuovamente erano stati catapultati in qualcosa più grande di loro, a lottare contro dei demoni che intendevano distruggerli.
Gli altri forse avevano trovato la loro luce, ma lui non lo aveva ancora fatto completamente.
La sentì muoversi vicino, non sapeva come aveva quasi annullato lo spazio che li distanziava sulla panchina, adesso poteva percepire una gamba che sfiorava la sua.
«Credevo di non sapere amare... L’ho pensato anche stavolta» gli rivelò, lasciandolo di stucco, immobile a quella rivelazione.
«E questa volta è stato peggio perché ha coinvolto te» gli strinse ancora il braccio e sentì come se poteva spezzarsi da un momento all’altro.
Sentì gli occhi lucidi, ebbe una gran voglia di scoppiare, urlare, piangere.
Di certo tradire la persona che diceva di amare poteva essere un buon escamotage per pensare di poter imparare a farlo...
Non seppe da dove quel pensiero proveniva, solo sentì una gran rabbia nel petto.
Lui lo sapeva quello che era successo a Sora, sapeva che la sfida più importante per una come lei sarebbe stata quella di sfidare i suoi sentimenti, ma udirlo con le proprie orecchie lo gettava nel tormento, ancora.
Socchiuse gli occhi, tentando di non esplodere.
«Questa è stata la prova più grande per me» continuò alzando gli occhi al cielo che aveva placato la sua furia e si distendeva lentamente in delle nuvole chiare.
Poi abbassò lo sguardo e lo puntò su di lui.
«Credere di non poterti amare più come una volta, come quando eravamo dei ragazzini» ad ogni parola che diceva, lui sentiva il petto che si alzava ed abbassava ritmicamente e il dolore che lo attanagliava in una morsa.
Sora insistette avvicinandosi ancora di più al suo viso.
«come quando siamo stati insieme per la prima volta e io ho creduto veramente all’amore»
Lei non capiva.
Non capiva che rimarcando una cosa del genere lo faceva sentire ancora più male?
Sottolineando il fatto che si fosse innamorata di lui per la prima e forse unica volta lo distruggeva, lo disperava ancora di più perché non riusciva a capacitarsi di come erano potuti arrivare a qualcosa del genere.
Di come lei fosse potuta arrivare a tanto.
Come poteva parlargli in quel modo appassionato se fino a poco prima i suoi pensieri erano rivolti ad un altro?
Se fino a non molto tempo prima il suo corpo era probabilmente stato di proprietà di un’altra persona?
Si sentiva preso in giro, si sentiva ferito nel profondo dell’anima, e non gli importava se Sora aveva dovuto intraprendere quella sfida personale per capire certe cose, lo aveva ferito.
E lo stava facendo ancora parlandogli di amore.
«Hai finito?» sbottò rude, voltando esclusivamente il viso da dietro le mani giunte.
Quello sguardo la stravolse, la rese meno che niente, distruggendo tutti i propositi che si era fissata in mente.
Si sentì a disagio, si sentì una stupida ad essere lì e provare a parlare a cuore aperto ad una persona che sembrava non avere intenzione di ascoltare.
Strinse i denti e non smise di tenere alto lo sguardo sui suoi occhi azzurri che la guardavano con rancore, ma anche rassegnazione.
La loro storia era finita, chiusa, archiviata, e lei aveva dato il colpo di grazia.
Avrebbe dovuto gettare la spugna?
Sarebbe stata la strada più semplice, lasciarlo andare via senza prostrarsi oltre, rendersi ridicola di fronte a lui e a sé stessa.
Ma lei non voleva rassegnarsi, non voleva chiuderla lì, lasciarlo partire senza tentare di fare il possibile.
Nessuno di loro due lo aveva fatto davvero, e non sarebbe servito a niente lasciarsi senza avere la consapevolezza di aver fatto tutto quello che si poteva fare.
Tolse la mano dal suo braccio e lo fissò perentoria.
«Per quanto ancora credi che dovremmo evitarci?» chiese brusca, mentre lui tirava fuori una sigaretta dalla tasca dei jeans e se l’accendeva senza dare minimo cenno di averla udita.
«Un’ora, una settimana, due mesi? Tutta la vita?» chiese retorica, aprendo le braccia in segno di esasperazione.
A cosa sarebbe servito archiviare ancora una volta tutto in quel modo quando lei lo sapeva, era sicura che una volta andati via non avrebbero smesso di pensarci?
Credeva davvero che tutto poteva risolversi usando nuovamente l’indifferenza?
Quella che li aveva trascinati alla deriva?
Non poteva permettere che succedesse ancora, e se lui per ovvie ragioni tentava di mantenersi distaccato, allora ci avrebbe pensato lei.
Avrebbe resistito, avrebbe insistito.
Gli afferrò il mento e fece in modo che la guardasse.
«E’ stato questo il nostro errore più grande» sussurrò ad un palmo del suo viso, facendogli tremare il cuore.
Lo sguardo del biondo ricadde sulle sue labbra e dovette lottare contro sé stesso duramente per non cedere a quella persuasione.
Rialzò di nuovo gli occhi celesti terribilmente tristi, apatici, rossi di sofferenza.
Un errore che avrebbero pagato entrambi.
Lui rinunciando a lei, mentre lei perdendo lui.
Rilasciò il fumo dalla bocca, senza premurarsi se lo avesse fatto proprio contro la sua faccia.
Sora socchiuse solo leggermente gli occhi, ma poi li riaprì continuando a tenere fisso lo sguardo su quello suo.
«Stai perdendo il tuo tempo qui, Sora... Non è quello che realmente vuoi, lo sappiamo entrambi» mormorò dopo un tempo che parve infinito.
Matt lo sapeva che lei ne aveva abbastanza di come si era comportato per anni.
Aveva cercato di salvare più volte la sua indole ossessiva e masochista, ma la verità era che non ci era riuscita, alla fine, perché lui aveva continuato a farsi del male senza guardare in faccia nessuno, nemmeno una come lei.
Non si era sentita veramente amata per tutti quegli anni perché lui non era stato capace di amare sé stesso.
Era consapevole del fatto che Sora si fosse stufata di un tipo problematico come lui e avesse cercato conforto, protezione, un luogo ameno in qualcun altro che avrebbe potuto regalargli una vita più serena, magari anche stabile.
Yamato non aveva fatto altro che ridursi ad uno scheletro e lei non meritava di stargli ancora dietro, di perdere i tempi della sua giovinezza a cercare di capire una persona invalicabile come lui.
Avrebbe dovuto rinascere, senza tornare indietro sui suoi passi perché si sentiva in colpa di averlo abbandonato.
Faceva male, ma probabilmente se lo meritava.
Abbassò lo sguardo mollandosi dalla sua presa, in volto un compianto che teneva stretto da molto tempo.
Forse la cosa giusta era che Sora andasse avanti con la sua vita senza voltarsi.
Avrebbe accettato una cosa del genere se significava vederla serena, felice, senza il peso logorante che quella relazione aveva causato in lei.
Lo sapeva anche lui che non era ciò di cui aveva bisogno.
La ramata si mise improvvisamente in piedi.
Quel suo modo di reagire non faceva altro che trascinarlo sempre di più a fondo.
Quel compianto, quel modo di vittimizzare sé stesso era così tedioso e fastidioso, non lo portava da nessuna parte se non a fondo del baratro.
Doveva smettere di cercare sempre scuse per allontanare le persone, specie lei.
Ne aveva abbastanza.
«Hai ragione!» esclamò con enfasi, tanto che delle persone che stavano passando lì davanti le lanciarono delle occhiate.
Matt la guardò interrogativo, la mano con la sigaretta stretta tra le dita che stava a mezz’aria.
«Non è quello che voglio, questo non è quello che voglio!» continuò indicando il terreno come segno della loro condizione instabile
«Perché io voglio arrivarti dritto al cuore sul serio! Voglio rompere quelle fottute barriere che hai innalzato intorno a te, Matt!»
Non riusciva a smettere di fissarla, era come se ad ogni parola lo incatenasse sempre di più nelle profondità del suo sguardo.
«La nostra storia, il lavoro, la band... tutto quello che volevi, tutto quello che ti è successo!» la udì esclamare con forza, con rabbia e frustrazione, come se stesse ricercando dentro di sé un motivo valido a tutto quello.
«Mi hai tagliato fuori, ma io ero lì, ero parte di tutto quello, non potevi pensare che io non c’entrassi niente!»
Spostò gli occhi e tossicchiò appena. La cenere cadeva indisturbata dalla sigaretta lasciata al vento che penzolava tra le dita.
Era vero, l’aveva esclusa quasi totalmente dalla sua vita.
Aveva fatto in modo che lei non varcasse più quelle barriere difensive.
Aveva pensato che non bastava più, che nessuno di loro bastava più per lui, che quella vita non meritasse di essere vissuta.
Sora continuò ancora, combattiva.
«Non potevi pensare che io fossi un’estranea perché noi abbiamo sempre lavorato insieme, come una squadra. Io, tu... e Tai»
Sentire il nome del castano lo scosse e gli fece venire in mente le immagini in cui lo aveva picchiato e si diede del pezzo di merda.
Il ragazzo prescelto dell’amicizia che aveva dubitato del suo migliore amico.
Doveva essere stato folle, o solo uno stronzo... perché nonostante tutto Tai era ancora dalla sua parte, e quello non poteva fare altro che farlo sentire ancora più in colpa per ciò che aveva fatto.
Si tamponò leggermente il naso con il dorso della mano, tirando su.
«Io e te... Io e te ci vivevamo sulla pelle, Matt. E sono stata così male quando abbiamo smesso»
Sora continuava a parlare di loro con quella passione che lo dilaniava.
«I problemi dell’uno diventavano dell’altro perché da soli siamo un problema per noi stessi, lo siamo sempre stati»
Probabilmente stare da solo accentuava il suo malessere, questo lo aveva vissuto chiaramente sulla sua pelle.
Tai, Sora, i suoi amici, erano tutti persone di cui aveva bisogno e che aveva per anni tagliato fuori dal suo privato.
Le parole che gli rivolgeva erano cariche di significato, erano veritiere e illustravano chiaramente il quadro della sua situazione psicologica.
Lei lo conosceva nel profondo, non riusciva a mentirle, era l’unica persona con la quale permetteva a sé stesso di essere debole, il che significava aprirsi.
Lasciarla entrare nella parte più profonda della sua anima.
Ma ammesso e concesso che lui avrebbe potuto prendere quelle parole per buone, considerarle una dimostrazione che tutto ciò che stava facendo era sbagliato, lasciarsi andare al bisogno che, nonostante tutto, aveva di lei, ciò non cambiava una cosa, non poteva cambiarla.
Che Sora era stata con un altro.
Sentì una fitta lacerante al petto, volle quasi urlare.
Poteva provare a lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare, poteva tentare ad uscire fuori da quel suo guscio protettivo e magari cambiare atteggiamento, il modo di prendere la vita, ma non riusciva a fare finta che quello non fosse successo.
Lo avviliva e lo rendeva meno che niente.
Gettò la sigaretta per terra e rilasciò il fumo con lentezza estenuante.
Sora l’osservò, lo vide in procinto di prendere la parola e il suo petto palpitò.
Lui si portò le mani dentro le tasche e incollò gli occhi sopra i suoi.
Inquisitori.
Famelici.
«Sei andata a letto con lui?» le chiese a bruciapelo, facendole sentire i battiti del cuore talmente accelerati che sembravano rimbombarle dentro un orecchio.
Si sentì vigliaccamente colpevole e non riuscì a trattenere il suo sguardo per molto.
Aprì la bocca, ma non ne uscì suono, era come se fosse diventata improvvisamente arida, completamente prosciugata dalla saliva.
La richiuse, indugiando, mentre un raffica di immagini le riaffioravano in mente.
Matt non aveva smesso di guardarla, seriamente.
«Ci sei andata?» ripeté, in un tono che risultò tagliente e le arrivò dritto come un pugno in pieno viso.
Alzò nuovamente lo sguardo e gli occhi celesti del ragazzo la perforavano.
Ricordò le ore prima, la sera prima quando era stata a casa di Victor, quando era salita su e si erano baciati, si erano diretti verso la camera da letto e non aveva potuto fare a meno di abbandonarsi ai suoi tocchi.
Non poteva negare di averlo voluto, lo aveva ricercato, aveva sbattuto la testa contro il muro proprio come diceva Joe.
Ne aveva bisogno, doveva capire.
Adesso che lui le aveva posto quella domanda si sentiva scomoda, a disagio, sapeva che qualsiasi risposta gli avrebbe dato lo avrebbe ferito ulteriormente, per questo non intendeva dargliela.
Non voleva che lui pensasse che era tornata indietro solo perché si era pentita delle sue azioni, perché non era solo quello.
Lei lo aveva fatto affinché non continuasse a vivere tormentata da quello che poteva essere senza viverlo.
Non poteva dire di essere pentita; o meglio, provava rammarico, un forte senso di colpa per aver inferto una ferita al cuore di Yamato, ma lo avrebbe ferito ancora di più continuando a stare con lui come stavano da un paio d’anni a quella parte, passivamente, senza provare vere emozioni se non inerzia.
Se non fosse successo tutto quello, lei non avrebbe capito.
«Non sono qui per parlare di lui...» mormorò, e in fondo era vero.
Victor non c’entrava veramente con loro, era stato solo una sorta di strumento che era servito a sistemare le carte del suo cuore una volta per tutte.
Era stato il meccanismo che aveva innescato una bomba già ben piazzata.
Adesso tutto ciò riguardava loro, solo ed esclusivamente loro e quello che era stata la loro relazione, quello che non andava e che avrebbero potuto sistemare.
O almeno, era questo a cui disperatamente tentava di aggrapparsi con le unghie, era questo quello che credeva importasse davvero.
Ma forse era solo una sorta di tentativo di fuga da ciò che era successo, e fino a poco prima, una sorta di lavarsi di dosso la colpa per non dover affrontare la sua coscienza che era dura e severa.
E aveva gli occhi di Matt.
Questi scosse piano la testa, poi si mise in piedi e la fronteggiò.
Poteva leggergli in viso la frustrazione, la rabbia, la sofferenza che la consapevolezza di ciò che era successo gli provocava.
«Sei qui per parlare di lui, cazzo!» lo sentì urlare a ridosso del suo viso, tanto da farla indietreggiare, intimorita
«Sei qui perché mi stai dicendo che ti sentivi un cazzo di problema e sei andata a scopare con un altro!» l’accusò, e lo vide assumere un colorito acceso, la vena sul collo divenne più evidente e lei temette per quello che sarebbe potuto succedere.
«Non sei stata solo tu ad aver sofferto, io morivo per te»
Gli occhi del ragazzo sprizzavano scintille, sembravano volerla schiaffeggiare.
Come poteva dirgli che quello non c’entrava niente dopo che lo aveva tradito ripetutamente?
Come diavolo poteva pretendere di non parlare di quella storia, quando se non fosse stato per quel fottuto messaggio letto per caso avrebbe probabilmente continuato a farsela a sua insaputa...
Sentì la testa girargli ed ebbe come un calo di pressione.
Lei se ne accorse e si preoccupò.
«Matt...» mormorò allungando una mano, tentando stupidamente di afferrarlo.
Come poteva pensare che quello non l’avrebbe più toccato?
Gli stava chiedendo di morire definitivamente.
Alzò la testa su di lei con uno sguardo carico di risentimento, di sarcasmo e il cuore che tirava delle dolorose martellate.
«Mi parli di amore! Dopo che mi hai distrutto il cuore! Mi parli di amore...» la sua voce s’incrinò e si spense improvvisamente.
Sembrava una grande presa per i fondelli...
Tutta la sua cazzo di vita.
Sentì le gambe cedere e fu costretto a trascinarsi nuovamente contro la panchina, lasciandosi cadere a peso morto.
Le mani arrancarono subito al suo viso, coprendolo.
Sora lo sentì annaspare e fu assalita dallo sconforto, i sensi di colpa che la trafiggevano come lame.
Vederlo in quel modo inerme, sconvolto, come se non avesse una via di fuga dalla sofferenza le stritolò il cuore.
Era stata lei a causargli del male e non poteva perdonarsi per quello.
Non aveva mai visto Yamato in quello stato, debole ed esposto, talmente rassegnato dalla vita come in quel momento.
Era vero, gli aveva distrutto il cuore, ma era la sola a poter rimettere insieme i pezzi.
Fece alcuni passi e si parò di fronte a lui, poi si abbassò quel tanto per arrivare alla stessa altezza del suo viso.
«Sono qui perché voglio sistemare quello che avremmo dovuto sistemare anni fa» parlò con sicurezza, cercando il suo viso che però era ancora coperto dalle mani
«Ecco perché. Perché se ancora qualcosa si può sistemare io sono qui a farlo. Non mi tiro indietro, non scelgo la via più semplice»
Poi sospirò.
«Avrei potuto farlo perché era tutta lì»
Al chiaro riferimento a Victor, udì Matt gemere con rabbia, le dita che stringevano le ciocche bionde con forza.
«Cazzo...» lo sentì lamentarsi tra i denti.
Stava lottando con tutte le sue forze pur di non cedere.
La ramata avvicinò una mano e strinse il suo polso, cercando di toglierle dal viso e fare in modo che la guardasse.
«Avrei potuto perché lui mi ama, voleva che stessimo insieme e io avrei voluto evitare di essere qui!» esclamò, facendo leva sui polsi tirando.
Gli stava dicendo che quel coglione si era innamorato di lei e che avrebbe potuto essere lì con lui invece di stare lì a pregarlo...
La testa era dentro un frullatore di emozioni contrastanti.
Perché non lo lasciava in pace?
Perché non evitava di sbattergli in faccia quelle merdate?
Si divertiva a vederlo crollare...
Si dimenò dalla sua presa bruscamente.
«Lasciami! Cazzo, lasciami!» alzò la voce, non volendo le diede una spinta che la fece quasi cadere all’indietro.
I suoi occhi erano rossi e pronti a scoppiare, infatti non appena incrociò lo sguardo titubante di Sora le lacrime presero il sopravvento.
Le vide scorrere sulle sue guance, inondarle percorrendo i lineamenti fini e delicati.
Venne da piangere anche a lei, ma si trattenne, si rialzò appena e gli strinse le mani.
Lui la guardò in pena, si sentì in colpa per averla allontanata con enfasi ed averla fatta arrivare con il sedere per terra.
La guardava come se non riuscisse a vedere altro, come se la visione di lei equivalesse ad una medicina che aspettava per star meglio.
Lui lo sapeva, in fondo al suo cuore, che Sora era l’unica persona che avrebbe potuto risanarlo, l’unica persona di cui aveva bisogno per rinascere.
Quegli anni spiritualmente lontano da lei lo avevano fatto perdere in strade buie dove si era perso e da cui non aveva mai più trovato una via d’uscita.
Lo sapeva, seppur con riluttanza, che anche se fosse partito a breve, il suo cuore, la sua mente non si sarebbero mai ripresi.
Sora era il suo dolore, ma anche la sua cura.
«Vattene, Sora... ti prego...» la scongiurò spogliato da qualsiasi forza vitale.
Tentava di allontanarla per principio, dentro di sé infuriava una lotta pericolosa tra ciò che credeva giusto fare e ciò che desiderava davvero.
Non sapeva se sarebbe mai stato così lucido da prendere una decisione.
«Non me ne vado» affermò lei, seria «Io starò qui perché te lo devo dire. Te lo devo dire prima che tu vada via, che non posso cancellare quello che ho fatto perché sentivo di doverlo fare, mi bruciava dentro!»
Poi si portò una mano sul viso, disperata lo tratteneva come fosse un peso enorme.
«Non potevo lasciare che mi rendesse cenere! Sì, ho reso cenere te, ma sono pronta a diventarlo anche io ma per te, con te»
Quelle parole lo stavano uccidendo come non mai, ma riconosceva quel tono di voce, stava dicendo la verità.
Non era mai stata così sincera come allora, e non sapeva se doveva apprezzare il gesto di non nascondersi dietro futili menzogne che non avrebbero fatto altro che deturpare ancora di più la loro relazione, o chinarsi a lato e vomitare.
Le lacrime avevano ormai invaso le sue guance senza sosta, senza ritegno, si sentiva così stupido ad essere lì a farsi vedere in quello stato, ma proprio non riusciva a placarsi.
Perdere Sora equivaleva a dire non avere più una casa, significava perdere tutto ciò che di bello aveva in quella merda di vita.
A cosa valeva allontanarla definitivamente per salvare il suo orgoglio quando lo sapeva benissimo che in realtà era stato lui ad aver sbagliato tutto con lei, dall’inizio, era stato lui ad averla spinta tra le braccia di un altro tizio, era stato lui e sempre lui ad aver smesso di darle valore, lentamente; e Sora meritava qualcuno che la valorizzasse ogni giorno, non un fantoccio depresso a cui fare da balia.
Anche adesso, continuava a commiserarsi, a piangere, ma non era capace di fare un passo verso di lei, lei che non aveva avuto timore a tornare indietro sui suoi passi pur consapevole di trovare una porta blindata; ci stava mettendo la faccia, il cuore, era pronta a rischiare tutto, mentre lui non aveva avuto le palle nemmeno di affrontarla e parlare di tutti i problemi che lo affliggevano.
L’aveva tagliata fuori completamente, aveva ragione, l’aveva trattata come un’estranea, l’aveva lasciata da sola con un ragazzo assente, sempre occupato con le sue cose, con una band che non aveva mai funzionato, con delle persone differenti dai suoi amici di sempre con le quali credeva di poter essere diverso; un ragazzo a cui non poteva appigliarsi durante i momenti di sconforto, durante le preoccupazioni dovute agli esami, durante dei momenti in cui avrebbe voluto voltarsi e trovare la persona che amava accanto a lei.
Credeva davvero che ad averlo tradito era stata Sora?
Solo perché non lo aveva fatto fisicamente non scagionava il male che le aveva procurato durante quegli ultimi anni.
Era stato lui a procurarle l’arma, e questo non riusciva a perdonarlo a sé stesso più di quanto non riusciva a perdonare lei.
Non riusciva a smettere di piangere, i singhiozzi lo avevano vinto, per quanto tentasse di fare meno rumore possibile era difficile trattenere i sensi di colpa che lo mettevano di fronte ad una realtà ineluttabile.
Era stato lui ad aver tradito Sora.
Questa si avvicinò e gli prese il volto tra le mani, tentando di asciugargli le lacrime.
«Guardami» gli aveva sussurrato.
Piano spostò gli occhi vitrei e tristi sopra i suoi e lei gli rivolse un sorrisino mesto, ma che aveva un qualcosa che lo confortava.
«Non passerei un giorno della mia vita senza rischiare la mia felicità con te» poi fece un lungo sospiro chiudendo gli occhi.
Forse andava contro sé stessa, i suoi ideali, tutto ciò che in quel momento serviva; ma era convinta, voleva riaverlo, voleva ricominciare d’accapo, e se Matt aveva bisogno di prendersi del tempo che includeva anche… conoscere qualcun altro, renderle pan per focaccia affinché fossero in qualche modo pari, beh... era probabilmente immorale, ma glielo avrebbe concesso.
Avrebbe fatto di tutto per tornare con lui.
«anche se questo vorrà dire pagarne le conseguenze... anche se questo vorrà dire... ripagarmi con la stessa moneta» la voce le s’incrinò e spostò lo sguardo.
Avrebbe potuto benissimo accettare di tornare insieme a lei, ma non superare del tutto quello che aveva fatto, quindi questo lo avrebbe potuto spingere a compiere un tradimento a sua volta, magari...
Erano pensieri che le circolavano in testa da un po’, per i quali aveva paura a ricominciare tutto di nuovo, ma doveva assumersi quella responsabilità e quel rischio.
Se ciò serviva a Matt per metabolizzare, perdonarla definitivamente lei lo avrebbe in cuor suo accettato.
Questi, nel frattempo, si era bloccato non appena aveva udito quelle parole.
Credeva che vendicarsi lo avrebbe aiutato a stare meglio?
Come fosse una partita di rivincita dopo la sconfitta?
Lui non voleva vendicarsi su di lei, anche perché era chiaro quello che provava...
Alzò lo sguardo e la guardò fisso con gli occhi umidi dal pianto.
Le lacrime si erano fermate.
«Io non voglio nessun’altro» mormorò in tono lieve e indifeso, inaspettatamente sincero, una dichiarazione che arrivò alla ragazza come un pugno allo stomaco di felicità.
Le sue labbra si piegarono in un sorriso, e con una mano gli accarezzò la guancia.
Piano gli prese il volto e fece in modo che le loro fronti si unissero.
Gli occhi erano dentro gli occhi.
«Non ti chiedo di perdonarmi» sussurrò lei, ad un palmo del suo viso.
«E allora cosa?» gli chiese lui di rimando.
«Di conoscerci ancora» fu la risposta che ne susseguì.
Riscoprirsi, ricapirsi, riamarsi.
Nessuno parlò per un po’ di tempo.
I secondi passavano lenti ed inesorabili scandendo il tempo della fine, ma erano come racchiusi in un universo a sé stante, in un luogo sconosciuto agli altri che apparteneva solo a loro.
Bastava poco e loro labbra si sarebbero sfiorate, e in quel caso Matt non sarebbe riuscito a fare niente pur di evitarlo.
L’intensità di quel momento era così struggente da non avere le forze di interromperla, anzi, si sarebbe fatto trascinare piacevolmente alla deriva.
Tra le sue labbra, il suo sorriso, lei.
Gli occhi si socchiusero automaticamente, il cuore batteva forte.
Forse avrebbe dovuto lasciarsi andare, solo un pochino... solo quel tanto che gli avrebbe permesso di vivere per un po’, di nuovo.
L’annuncio del treno improvvisamente lo fece tornare sulla terra.
Entrambi ascoltarono e un velo di tristezza colse entrambi.
La fine.
Matt spostò lo sguardo per terra e i pensieri gli si accavallarono uno dopo l’altro.
Aveva bisogno di ricominciare.
«Hai ragione» disse d’un tratto.
Sora alzò gli occhi nocciola intinti di trepidante attesa, speranza.
Lui voltò il viso verso di lei e la guardò neutro.
«Sono un problema. Io sono il problema. Tutto questo è successo per causa mia» le parole gli scivolarono fuori dalla bocca senza che le controllasse.
La ragazza aprì la sua senza che, al contrario, ne uscisse nessun un suono.
L’espressione con cui la guardava era segnata, ma allo stesso tempo dura, come se non potesse farci niente.
Era la sua sentenza, la sua condanna a morte.
Sembrava quasi sollevato.
«Matt, non-» provò a stringergli il braccio, ma lui si scostò.
«Non conoscermi oltre, Sora» si abbassò a prendere la chitarra e se la mise in spalla. Gli occhi con cui la guardava erano rossi e rassegnati.
«Sono una mina vagante, distruggo tutto quello che tocco… Non voglio distruggere anche te» soffiò con un sorrisino amaro.
La ramata gemette, guardandolo con gli occhi sbarrati, mentre il treno arrivava e lui si metteva in piedi, stringendo con una mano la sacca dove teneva la chitarra e afferrando la valigia con l’altra.
Ancora piegata sulle sue gambe, lo vide pronto ad andare.
Spostò gli occhi pieni di lacrime e lo guardò in pena, incapace di muoversi, mentre il treno frenava lentamente sul binario e si fermava.
Stava andando via, la stava lasciando lì.
Non poteva succedere, non doveva.
Non poteva lasciarla lì a convivere con il rimorso, il dolore di averlo perso, la possibilità perduta di ricominciare tutto d’accapo, tutto per bene, di essere nuovamente quello che erano stati, quando erano giovani, felici, colmi d’amore...
Non poteva, lei lo amava, non poteva lasciarlo...
Si mise subito in piedi e gli si parò dinanzi, lo afferrò dalle braccia e lo bloccò.
«Aspetta, Matt! Non andare!» esclamò disperata, il vento che aveva ripreso a soffiare e che le scompigliava i capelli ramati.
Lui si scansò, lei lo afferrò di nuovo, lo strinse dai fianchi.
«Non puoi andare senza risolvere niente dentro di te!»
Era una lotta.
Lei lo tratteneva, lui la scostava.
Non poteva lasciarla lì, non poteva vivere con quel peso greve che pesava sulle spalle di entrambi, con quel fuoco che bruciava e non li lasciava stare, non li faceva vivere, non era quello che il destino aveva scritto per loro, non era quello che doveva succedere...
«Pensi che sia la cosa giusta? Pensi che sia quello che realmente vuoi?» gli urlava in viso, tentando di farlo ragionare, di fargli capire che non era la soluzione a tutto ciò.
Fuggire senza affrontarla, senza combattere contro i demoni che li avevano tenuti prigionieri per anni, che li avevano distrutti.
Seguiva il suo orgoglio, ma fosse mai stato l’orgoglio ad aver reso felice le persone.
Il biondo l’aveva guardata appena.
Non era quello che voleva, ma non poteva fare altrimenti.
Darle anche solo una mera possibilità equivaleva a dire farle ancora del male, fare del male a sé stesso perché lui lo sapeva, non sarebbe mai riuscito ad andare avanti.
Non avrebbe mai potuto guardarla negli occhi, toccarla, senza pensare a tutto quello che era successo, al fatto che lei ormai non era più sua.
«Non importa più quello che realmente voglio...» rispose in un sussurro, ripensando a quanto avesse cercato di realizzare i suoi sogni, ad essere un’altra persona, ma non ci era riuscito.
Lui non era quel tipo di persona che riusciva a rialzarsi, lui era destinato a crollare miseramente, morto, con i corvi che volavano attorno al suo cadavere.
Lui era destinato alla fine.
Sora spalancò gli occhi, si sentì inerme, vuota per alcuni secondi.
Avrebbe dovuto lasciarlo andare, era la cosa più giusta.
Doveva permettergli di andar via e tentare una nuova vita lontano, via da lei, dalla loro storia ormai tossica, dalle sue brutte abitudini, da quella cazzo di casa che lo aveva inglobato tra le sue pareti strette.
Doveva rinascere, ma non con lei.
Se lo amava doveva lasciarlo andare.
Lentamente le sue dita mollarono la presa sul suo polso.
Ma lei lo amava davvero e non contava ciò che era giusto, contava l’amore.
Amore che condividevano entrambi e che era sicura che anche lui provasse ancora per lei, perché lei li conosceva quegli occhi cerulei, lei conosceva l’anima di Matt.
Loro due si completavano, dovevano stare insieme.
Lui doveva realizzare il suo vero sogno, non uno imposto da un altro, non un lavoro che gli raccomandava suo padre, non un mondo che non gli apparteneva.
Con uno scatto repentino, salì sopra la panchina e lo afferrò da dietro, circondandolo dalle spalle.
Lo strinse forte e lui fu costretto a lasciare la chitarra.
Aveva le labbra all’altezza del suo orecchio e lo abbracciava, lo stringeva come se non avesse intenzione di mollarlo mai più.
Matt chiuse gli occhi e si sentì inerme.
«Certo che importa, stupido! Importa eccome perché è la tua vita!» la sentì esclamare appassionatamente e lo toccò.
Ricordò le parole che gli aveva detto Tai il giorno prima, dopo che si erano presi a botte, dopo che gli aveva afferrato il mento e lo aveva costretto a guardarlo per rimproverarlo, dargli forza.
Era la sua vita e l’avrebbe mandata per aria.
Sentì le braccia di Sora che lo stringevano più forte.
«Perché rinchiudersi in un mondo fittizio piuttosto che costruirne uno reale? Ci sono io qui con te» la voce con cui parlava sembrava accarezzarlo placida e gli sembrò di potersi fare cullare docilmente.
Si sarebbe lasciato andare tra le sue braccia senza esitazione se solo avesse seguito quello che realmente voleva...
Ma a che prezzo da pagare?
Affidarsi di nuovo a lei, ricominciare a credere nella musica con la speranza che prima o poi le cose sarebbero cambiate e la band sarebbe andata alla grande, avrebbe trovato il lavoro della sua vita, ma avere sempre e costantemente nel petto quel fardello grande che proprio non riusciva a trasportare.
Però andando via sarebbe stato lasciarsi schiacciare da solo, mentre in quel modo, con lei, poteva essere un’occasione di ritrovare davvero sé stesso...
Fuggire via non era la soluzione, non avrebbe raggiunto suo padre agli studi e magicamente sarebbe diventato felice, a quello non ci credeva affatto, anzi piuttosto gli veniva da impiccarsi per quanto odiava quello che stava facendo...
Chiuse gli occhi, il volto leggermente rivolto verso il cielo.
Era combattuto.
Non sapeva cosa lo avrebbe ucciso di più, se restare o andare via...
O meglio, forse lo sapeva, ma non riusciva a sopportarlo, lo faceva sentire debole.
Sora era ancora dietro di lui sopra la panca e lo stringeva, lo stringeva.
«Io sono qui con te e non c’è altro posto in cui vorrei stare, amore mio...»
Fu come lo chiamò che spezzò dentro di sé gli ormai labili equilibri.
Il petto cominciò nuovamente a farsi pesante e le lacrime invasero i suoi occhi ancora, come se non se ne fossero mai andate.
Amore mio...
Non lo chiamava così da tanto tempo, da una vita, forse.
Troppo tardi per dirlo, quei tempi erano lontani...
Cominciò lentamente a piegarsi verso il basso, lei lo trattenne.
«Lascerai che l’unica occasione di rinascere dalla cenere rimanga solo cenere?» gli chiese con voce di velluto contro il suo orecchio.
Sentì i brividi sulla pelle a quella domanda retorica, una domanda forse un po’ poetica, l’avrebbe certamente trovata all’interno di un libro di poemi, ma non era altro che giusta in quel momento.
Cenere.
Descriveva perfettamente quello che era in quel momento.
Cenere da sempre, per lei, senza di lei...
Gli spasmi erano incontrollabili per cercare di trattenere quel pianto.
Così debole, versato, fragilmente incontrollabile.
«E lascerai che il vento la trascini via per sempre?»
Trascinato via come cenere che cadeva da una sigaretta, come cenere di un falò, come cenere di un cadavere cremato.
Il suo.
Avrebbe lasciato che quel vento fastidioso che gli invadeva gli occhi e non gli permetteva quasi di aprirli lo avrebbe spazzato via, lo avrebbe cancellato, fatto disperdere in granelli insignificanti?
Emise un singhiozzo che non riuscì ad evitare.
Non poteva, non doveva, era la sua vita, nonostante tutto...
Se ne sarebbe pentito, si sarebbe rovinato…
Una lacrima bagnò il suo collo, e dopo un’altra, un’altra ancora. Si fermò a trattenere il respiro alzando al testa, e si rese conto che anche Sora adesso stava piangendo.
«Per quanto vale questo... perdonami, ti prego... io non potrei vivere sapendo che tu non farai più parte della mia vita» balbettava tra un singhiozzo e l’altro, la sincerità, la purezza del suo amore che trapelava copiosamente e tristemente.
Gli si strinse il cuore.
«Perché tu sei tutta la mia vita, e io non potrei esistere altrimenti»
Il ragazzo alzò piano un bracciò e sfiorò la sua mano che gli stringeva il petto.
Fu spontaneo.
«Perché per quanto vale questo, Matt... non andare via con la consapevolezza che saremmo potuti essere chi meritavamo di essere, insieme»
Ci furono dei secondi in cui nessuno di loro parlò, solo si udì il rumore dei singulti.
Poi lui non ce la fece più, si sciolse dalla sua presa e si voltò piano.
Si guardarono, lei con gli occhi gonfi e lui con un’ espressione addolcita, quasi amorevole.
Sora si beò della sua visione, gli spostò i capelli biondi dal viso umido e gli fece una carezza.
«E perché ti faccio pena tutto questo?» le chiese lui dopo, avendo perfino paura di udirne la risposta.
La gente si affrettava a salire sul treno trascinando con sé valigie, borse e li sorpassava come se non si trovavano lì, come se non esistevano.
E forse era così, loro non esistevano per nessun’altro se non per loro stessi.
Sora sorrise lievemente con amore.
«No, è perché ti amo. Io ti amo» ripeté con enfasi per poi abbassarsi quel poco affinché le proprie labbra toccassero quelle dell’altro.
Matt non riuscì nemmeno ad opporre un minimo di falsa resistenza, tanto aprì le braccia e le portò dietro la sua nuca, stringendole i capelli.
Si baciarono con intensità, non lasciarono che neppure una porzione di aria potesse infiltrarsi tra di loro e separarli.
Le mani si cercavano, entrambi si stringevano, si volevano come se non si fossero mai lasciati, come se il posto in cui si trovavano era sempre stato quello a cui appartenevano da sempre.
Quel bacio aveva una sapore nuovo, era diverso da tutti quelli che si erano dati prima di allora, li univa in un turbine di sensazioni ed emozioni intense, da far girare la testa e far perdere il respiro.
Era da così tanto tempo che lo avevano desiderato.
Non era passato giorno senza che non lo avessero voluto davvero.
Sembrava di essere rinati...
Quando si staccarono le loro fronti si toccarono, i loro sguardi erano atterriti, le loro labbra rosse e i cuori battevano all’unisono.
Sora alzò lo sguardo per prima e, premurosamente, gli accarezzò i capelli vedendolo in quel modo, sfatto, perso, totalmente arreso.
E sarebbe stato tutto perfetto se lui non l’avesse guardata di uno sguardo strano e non avesse aggiunto poco dopo:
«Mi dispiace...» un sussurro strano, come se fosse stato proferito da un altro che non fosse lui.
Confusamente, lo vide scostarsi dalla presa delle sue mani, abbassarsi da un lato e afferrare la chitarra abbandonata per terra.
Era talmente atterrita, sconvolta, che non riusciva a dire nulla.
Non poteva essere...
«Ti prego...» lo pregò debolmente, ma lui non la guardava più, aveva smesso ormai.
Aveva preso la valigia e si stava per incamminare verso il treno.
«Mi dispiace, non ce la faccio...» sussurrò e sembrava davvero deciso, così l’osservò muovere le gambe e voltarle la schiena.
Sora era ancora sopra la panchina e lo vide allontanarsi a gran passi.
«Matt!» lo chiamò ad alta voce.
Era talmente scioccata che credeva di poter barcollare e cadere per terra.
Stava andando via...
Andava via, non era riuscito a trattenerlo...
Scese dalla panchina e tentò di avvicinarsi, ma una folla di persone la travolse, la spintonò di qua e di là, le porte stavano per chiudersi e tutti si affrettavano.
«MATT!» urlò con voce spezzata.
Nessuno le rispose.
Non lo vedeva più, era scomparso...
Aveva preso quel treno, alla fine, non era servito a niente.
Piano si ritrovò da sola, le gambe che sembravano fatte di burro pronto a sciogliersi.
Non era servito a niente se non a lasciare entrambi con il cuore spezzato.
Era sconvolta, voltata verso una direzione opposta, aveva le mani sulla testa, mentre sentiva le porte del treno che si chiudevano e i rumori delle ruote sui binari che ingranavano la marcia di partenza.
Era andato via...
Era sola, quella volta per sempre.
Non ci era riuscita, non era riuscita ad amare, non era riuscita a far parlare il suo cuore, non era riuscita a farlo parlare a Matt...
Afferrò il cellulare, fece partire un contatto, nessuno rispose, poi ne fece partire un altro ancora.
Non stava capendo più nulla, solo era stravolta.
Confusa, stravolta...
Qualcuno rispose.
«Mimi... sono io... no, è tutto apposto... Sì, va bene, solo... solo è andato via...» la voce le s’incrinò e scoppiò a piangere.
Disperata, lasciò che lo sconforto l’avvolgesse, la schiacciasse, la rendesse ridicola e supplice, talmente sconvolta da voler lasciarsi crollare giù per terra.
Era racchiusa nel suo delirio, parlava al telefono, troppo stravolta per curarsi di ciò che succedeva intorno a lei, delle persone, degli annunci, dei treni che arrivavano.
Non si accorse nemmeno di alcuni passi dietro di lei.
«Ho provato a fermarlo, ci ho provato, ho detto... gli ho detto quello che...» piangeva forte
«E’ andato via, sì, cazzo... sì, lui non vuole, è andato-»
Una mano l’afferrò dalle spalle, la fece voltare di scatto e spalancò gli occhi spaventata per il modo in cui era stata strattonata.
Poi si rese conto di chi era.
«...via» mormorò stupita, mentre cominciò a non capire più niente. Il cuore gli salì in gola, gliela stava per sfondare e venire giù dalla bocca.
Era Matt.
Era lui, era tornato indietro.
L’aveva afferrata e l’aveva stretta, baciandola appassionatamente, in un modo così verace che le tolse ogni minima possibilità di pensiero razionale.
Lei alzò le braccia, non si chiese nemmeno perché era successo, solamente lasciò scivolare il cellulare per terra rompendolo definitivamente.
Non trovarono tregua, solo si baciavano come non sapessero fare altro nella vita, non udirono più nulla, non pensarono.
Matt l’abbracciò forte, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo, le strinse i capelli mentre lei singhiozzava contro il suo petto.
Poi si staccarono, si guardarono e si baciarono ancora, senza mai mollarsi.
Alla fine il sole uscì, s’ intravide tra le nuvole grigie, l’illuminò con il suo timido e tiepido raggio.
E si concentrarono sull’amore, lasciando semplicemente andare il resto.






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Capitolo 23
*** Casa ***








«Sora? Sora, ci sei?
Sora
Altrove, nello stesso momento, Mimi si trovava ritta di fronte alla finestra di camera sua, il telefono all’orecchio con cui un attimo prima stava parlando con la sua amica che l’aveva chiamata inaspettatamente sconvolta.
Non ci aveva capito molto, aveva solo menzionato Matt, pareva si fossero incontrati ma non sembrava che tutto fosse andato per il meglio.
Ad un certo punto aveva sentito un tonfo sordo, delle interferenze, come dei fruscii, dei rumori metallici; poi d’un tratto il nulla, non l’aveva udita più.
La chiamò altre volte ma niente, il telefono sembrava muto.
«Che diamine! Ha riattaccato!» esclamò poi, guardando il cellulare con stizza ma anche con un cipiglio di apprensione.
Si portò una mano sul fianco e con l’altra si tenne la fronte, pensierosa.
Cos’era capitato?
Non ci stava capendo più nulla, né di quello che stava succedendo a Sora, né di quello che era successo a lei poco fa.
Era tutto un curioso macello di sentimenti da cui era difficile uscirne.
Aveva il cervello talmente in pappa da non essersi minimamente accorta di trovarsi senza niente addosso, il seno libero, nessuna ombra di uno dei suoi reggiseni di pizzo; portava solo le mutandine.
E stava lì ritta, impalata, di fronte alla finestra.
Doveva essersi ammattita, o forse era completamente coinvolta da qualcosa di più grande di lei da nemmeno curarsene, in fondo.
Dei passi di piedi nudi si avvicinarono e, senza avvertirla, qualcuno la strinse da dietro, sentì il contatto con il caldo del suo corpo.
Chiuse gli occhi, mentre piano si sentiva baciare il collo e non riuscì a fare a meno di lasciarsi cullare dai brividi, ansimando piano.
Quelle labbra calde risalirono fin sopra la sua guancia, tracciandone dei contorni umidi.
«Non penso abbia riattaccato» soffiò Taichi tra un bacio morbido e l’altro, mentre continuava a stringerla a sé facendo dondolare entrambi leggermente.
Mimi aprì gli occhi e nascose un sorriso di gioia, poi assunse un’espressione di sfida, come tutte le volte in cui parlavano.
Loro erano fatti così, si prendevano in giro, si sfidavano, erano un botta e risposta continuo, amavano stuzzicarsi perché sapevano che l’altro era instancabile; d’altronde, l’ indole egocentrica li accomunava.
Non era cambiato nulla dall’ultima volta.
La loro complicità era quella di sempre, anzi sembrava triplicata.
«E tu che ne sai?» lo rimbeccò lei, dandogli una piccola gomitata tra le costole.
Il castano emise un lamento e rise tenendosi la parte colpita. Lei lo fissava con le braccia conserte e l’espressione altera ma divertita.
«Io so sempre tutto» rispose in modo enigmatico, dandosi delle arie.
La castana gli lanciò un’occhiata scettica, poi si voltò e riportò il cellulare all’orecchio provando a richiamare la ramata.
Tai alzò gli occhi al cielo, la bloccò dai fianchi e tentò di cavarle il telefono di mano. Mimi cacciò un urlo e lottarono per un po’ in quel modo, fino a quando il ragazzo la ebbe vinta.
Lei si voltò con i capelli scompigliati. Lo guardò interrogativa e un po’ irritata.
Perché insisteva affinché non avesse notizie di Sora?
Eppure era la migliore amica di entrambi!
«Perché non mi lasci riprovare? E se sta male?» obiettò.
Lui, nel frattempo, aveva posato il telefono con la custodia rosa di brillanti sulla scrivania, poi si era voltato a guardarla alzando le sopracciglia scure.
«Starà bene quasi quanto noi, non preoccuparti» la tranquillizzò, vedendola stupita sul posto, gli occhi castani che ancora lo esaminavano dubbiosi.
Tai le regalò un sorriso che aveva qualcosa di convincente.
Sapeva cosa stava dicendo, doveva fidarsi.
Non aveva mai avuto troppi dubbi a riguardo, era convinto che tutto si stava risolvendo per il meglio.
Mimi scrollò le spalle, poi lo continuò a fissare con un ghigno che aveva qualcosa di palesemente malizioso.
La vide avvicinarsi piano, i suoi occhi ricaddero sul suo seno nudo.
Si alzò sulle punte e si avvicinò al suo viso, sfiorandogli la guancia con un dito.
«Hai detto bene... quasi» mormorò sulle sue labbra, quel tanto da dargli modo di attirarla a sé e baciarla.
Si baciarono coprendo le risate, mentre giocavano ad un gioco di lingue che si rincorrevano e lottavano in cerca di un attimo di paradiso.
Perduto, ma ritrovato.
Si lasciarono con uno schiocco e si guardarono per un po’ negli occhi assuefatti, persi in un mondo tutto loro che di bello non aveva poco, aveva troppo .
I contorni, le sfaccettature, il modo in cui si stringevano.
Tai ruppe quel contatto avventandosi su di lei e afferrandola da dietro la schiena. Con un braccio le coprì tutto il seno.
«Non lo sai che da sotto si vede tutto?» la rimproverò giocosamente, mentre aveva il capo chino su di lei.
Mimi lo fissava a mezz’aria, gli occhi che le brillavano.
Vero, se n’ era completamente dimenticata, ormai.
«Bugiardo!» lo apostrofò, prendendolo in giro.
C’era comunque la tenda che copriva la visuale.
Tai la fissò con un cipiglio spostando leggermente la testa come per dire “ah sì?”, ma lei incollò nuovamente le labbra a quelle sue.
Così il ragazzo non resistette, la fece voltare mentre la prendeva in braccio. Senza staccarsi da lei la trascinò di peso proprio sul davanzale della finestra, mentre lei si appoggiava con la schiena nuda sentendo la stoffa della tenda farle il solletico.
Certo che erano proprio due stupidi...
Si baciarono e poi unirono le fronti ridendo, i nasi che si sfioravano.
Come avevano potuto solo minimamente pensare di stare lontani per tutto quel tempo quando loro due erano semplicemente fatti l’uno per l’altra?
Come avevano potuto solo minimamente pensare che si sarebbero mai saziati in tutta la loro vita?
Tai continuava a baciarle il collo, lo mordicchiava, mentre lei si teneva stretta dalle sue spalle e gettava la testa all’indietro, ansimando.
Non credeva che sarebbe mai più stata capace di fare a meno di tutto quello.
In due ore avevano riempito tutto il vuoto lasciato in due anni e adesso non lo avrebbero mai più svuotato di nuovo.
«Hai... hai parlato con il tuo allenatore?» gli chiese improvvisamente tra un bacio e l’altro.
Tai emise un leggero lamento mentre scendeva a baciarle il seno.
«Nh... ti prego, non nominarmelo in un momento del genere...» pigolò sofferente.
Pensare ad Akira in quel momento spegneva tutta la libido...
Mimi ridacchiò e gli diede un buffetto in testa.
«Scemo, dico sul serio» poi lo afferrò dal viso e fece in modo che si fermasse
«Glielo hai detto?»
Il ragazzo la guardò negli occhi, notando un cenno di preoccupazione nel suo sguardo limpido che gli fece scrollare le spalle.
Aveva chiuso il cellulare al fine di non essere reperibile, non avrebbe avuto problemi da ora in avanti.
Nessun’altro allenatore o chi fosse avrebbe avuto il comando della sua vita.
Era finita, quella volta per sempre.
«Che ti importa?» domandò con un sorrisino ironico «Ormai ho preso la mia decisione. Se mi vogliono davvero me lo lasceranno fare»
Ed era vero, se lo volevano sul serio in squadra ad Osaka allora avrebbero rispettato i suoi tempi, nessuno gli avrebbe imposto di tornare prima degli accordi, nessuno stronzo come Akira si sarebbe mai più permesso di riempirgli la vita di obblighi e incertezze che avevano fatto di lui un burattino.
Avrebbe ricominciato a vivere per sé stesso, non per accontentare qualcuno.
Per sé stesso e per Mimi.
Lei sarebbe andata con lui, lo avrebbe seguito e avrebbero dato inizio ad un sogno che per troppo tempo avevano smesso di ritenere importante.
«E poi non posso andare via proprio adesso...» mormorò maliziosamente contro le sue labbra.
Lei rise e lui la baciò ancora, ma Mimi si staccò dopo poco guardandolo ancora di quello sguardo apprensivo.
«E se ti puniranno per questo?» tentò di farlo ragionare, magari c’era qualcosa che non aveva calcolato, a cui non aveva pensato a causa di tutti quegli eventi...
Non avrebbe voluto che Taichi perdesse un’occasione come quella per colpa di una resistenza nella quale c’entrava anche lei.
Non sapeva bene come funzionava nel mondo del calcio, ma in prima divisione le regole dovevano essere più rigide, non poteva trasgredirle in quel modo!
«Dovresti andarci subito!» esclamò ansiosa, scuotendolo leggermente dalle spalle affinché si rendesse conto.
Ma lui si limitò a sorridere di un sorriso strano, pieno di luce e, nello stesso tempo, di qualcosa che assomigliava tanto a quel sentimento che tutto aveva a che fare con l’amore.
«La mia punizione è stata quella di stare due anni senza di te. In tal caso, sarà la mia ricompensa» lo sentì dire con una sincerità tale che la spiazzò, le fece salire il cuore in gola per l’emozione.
A Tai non importava realmente più del destino della sua carriera, a lui importava solamente di averla vicino, e basta, non c’era più nulla che avrebbe anteposto ai sentimenti e al bisogno che aveva di lei.
Le stampò un altro bacio che non le diede tempo di pensare e poi un altro, un altro ancora.
Quel calore era così forte che avrebbe potuto bruciare.
Il modo in cui la stringeva, e la baciava, la guardava tra un bacio e l’altro le faceva sentire vivo il desiderio che aveva di lei.
Le venne da ridere per la felicità.
«E se diranno che è colpa mia che ti distraggo troppo dal lavoro?» lo provocò.
Tai gli lanciò uno sguardo intenso, famelico.
«Gli dirò che hanno ragione»
Poi si guardarono e scoppiarono di nuovo a ridere in quel modo rumoroso, esagerato, a tratti infantile, come se avessero appena tracannato una bottiglia di vino rosso.
Mimi sentì le palpebre che si abbassavano e vide il volto Tai sempre più vicino, impresse nella sua mente la forma delle sue labbra prima di sentirle sulle proprie.
Poteva avvertire sulla sua pelle la passione che li travolgeva nel suo abbraccio, non dava loro modo di respirare, nemmeno di formulare un pensiero utile se non quello di abbandonarsi a quel trasporto.
Mimi gemette ancora, totalmente scossa, terribilmente indifesa tra le braccia del ragazzo che amava, che aveva sempre amato, e al quale doveva tutto, tutto quello che era diventata, quello che sarebbe diventata ancora.
Si abbandonava a lui come se non esistesse ragione per starne fuori, come se Taichi era la parte mancante di sé alla quale doveva necessariamente incastrarsi.
«Tai… portami via con te...» sussurrò tra gli ansimi, lambendo il suo collo, mentre gli provocava dei brividi lungo la schiena.
Lui ansimò di rimando.
Non l’avrebbe lasciata mai più lì da sola, non avrebbe più commesso gli sbagli di un ragazzino accecato da qualcosa per cui aveva perso di vista tutto ciò che era importante pur di conseguire dei risultati che avrebbero sanato il suo ego e la sua ambizione.
Avrebbe lottato per avere entrambi nella sua vita, l’amore e la passione, due fattori che si equilibravano perfettamente, cui senza l’altro erano incompleti.
Mimi era la parte mancante nella sua vita, l’altra metà di sé, l’unica persona che aveva mai amato e che lo rendeva quello che era, il suo vero io, colui che aveva lasciato addormentato per troppo tempo dentro un cassetto.
E che adesso si era risvegliato coraggiosamente.
«Ti porterò via con me, te lo prometto...» le rispose, poi la prese in braccio facendo incastrare le sue gambe dietro la schiena.
L’allontanò dalla finestra la cui tenda si era ormai spostata e qualcuno aveva probabilmente goduto dello spettacolo, e fece alcuni passi.
Mimi gli mordicchiò il lobo dell’orecchio.
«Partiamo già adesso» disse imperativa con gli occhi che le brillavano.
Tai si fermò e la contemplò con un accenno di ammirazione.
Poi la fece cadere sul letto, trascinandosi a sua volta.
«Agli ordini, principessa» le rispose provocante ma giocoso, citando il modo in cui la usava chiamare anni e anni prima, quando era rimasto incantato da lei esattamente allo stesso modo in cui lo era adesso.
Mimi rise mentre lui era sopra e cominciava a baciarla, sfiorandole il collo, mordendole il seno, fino a scendere giù, sempre più giù.
Gli strinse i capelli e chiuse gli occhi.

Il loro viaggio era appena iniziato.






La porta di casa si aprì, sbattendo contro la solita porzione di muro dove già si era formato un buco per tutte le volte che era stato colpito.
Le persiane erano semiaperte, nell’aria c’era il solito odore di muschio ormai rimasto impregnato tra le pareti.
Qualcuno tentò di aprire la luce a tentoni, ma la lampadina emise solo uno stridio debole che segnava la sua fine.
Yamato grugnì appena senza staccare le labbra da quelle di Sora, con difficoltà lasciò cadere per terra la sacca contenente la chitarra e la valigia rimase immobile all’entrata con la maniglia per aria.
L’agguantò dai fianchi e rotolarono verso destra dove c’era la cucina.
La ramata sentì scivolare la borsa dalla spalla, ma non riuscì a fare nient’altro se non a ricambiare la veracità di quei baci.
Si appigliò alla cucina facendo cadere delle mele dal cestino, poi alzò la mano per trattenersi dal pomello della credenza.
Matt le baciava il collo, le lasciava dei segni visibili, la sua lingua la leccava e le mordeva la mascella.
Ansimò, si torse su sé stessa e, nel muoversi, aprì lo stipetto dove dei biscotti in bilico caddero e s’inserirono tra di loro.
Udì Matt ridacchiare contro il suo collo, e venne da sorridere anche a lei.
Non lo vedeva né sentiva ridere da così tanto tempo, ormai.
Non sapeva nemmeno lei quello che stava succedendo, solo era tutto così talmente eccitante che non voleva nemmeno fermarsi a chiedersi se sarebbe durato.
Si sentì trascinare contro il tavolo. Matt le aprì le gambe e si insinuò continuando a baciarla, mentre lei ricacciava la testa indietro e lo teneva stretto dalla nuca.
Aveva dimenticato com’era provare tutto quelle sensazioni meravigliose.
Sembrava come se ci fosse un fuoco ad ardere le sue cosce, un fuoco che non si placava e la bruciava dentro e fuori.
Il biondo la bloccò dai capelli e fece congiungere le loro fronti. Ansimarono entrambi l’uno contro il volto dell’altro, fino a quando Sora non si leccò le labbra e lui lanciò un grugnito.
Presero a spogliarsi velocemente, si tolsero le rispettive giacche, poi toccò alle maglie. Lui gliela alzò fino al collo e lasciò libero il suo seno, le scese con forza il reggiseno e si avventò ai suoi capezzoli, succhiandoli, lambendone i contorni con la lingua, e poi succhiandoli ancora.
Sora lanciò un gemito rumoroso e si attaccò al suo collo, gli strinse i capelli.
Dopo le tolse la maglia completamente, la lanciò da qualche parte, mentre lei si slacciava il reggiseno, gli prendeva il mento e tornava a baciarlo.
Matt la stringeva forte, sentiva che la voleva interamente, e anche lei desiderava così tanto ogni minima parte del suo corpo.
Si staccò e lo liberò dalla maglia, segnò una traiettoria di baci direttamente sul suo petto fino a scendere alla sua pancia, mordendola e facendogli il solletico.
Scese dal tavolo e cominciò ad armeggiare con la cintura dei suoi pantaloni, poi alzò gli occhi nocciola e lo guardò negli occhi famelica, pronta a farlo suo.
Lui le portò una ciocca ramata dietro l’orecchio in un gesto di premura, mentre lei gli scendeva di colpo i pantaloni, poi le mutande.
Si abbassò all’altezza del suo ventre e prese in mano la sua erezione, muovendola per un po’ su e giù, dopo segnò i contorni con la sua lingua, tracciandone tutta la lunghezza come se fosse un disegno da realizzare.
Matt le strinse i capelli eccitato, lei alzò gli occhi a guardarlo e, senza attendere oltre, se lo portò in bocca.
Il gemito roco che ne uscì fu talmente gratificante da farle aumentare il ritmo, succhiò con maggior vigore, lo portò in fondo, dentro fino a quanto poteva.
La saliva le scendeva dai bordi ma non se ne curò.
Succhiava e ogni tanto raschiava con i denti, mentre lui le aveva alzato i capelli con una mano, non si perdeva la visione di lei e di quel pompino così intenso.
Lei sapeva tutti i segreti del suo corpo, era a conoscenza di tutti i punti che lo facevano godere, sapeva a memoria dove toccarlo, come stimolarlo per fargli perdere la testa, e lui non era affatto da meno: riusciva a possederla in un modo rude, selvaggio, ma allo stesso tempo così talmente protettivo che la lasciava inerme al suo volere.
La fermò e, d’un tratto, la tirò su. La fece sedere sul tavolo, a sua volta gli tolse via i pantaloni sfilandoli con furia, la denudò delle mutandine.
Le aprì le gambe e la fece sdraiare.
Scese fino alle sue parti intime e la leccò, la bacio, le succhiò il clitoride fino a farla urlare dal piacere. Inseriva la lingua in maniera ritmica e la penetrava, la vezzeggiava in un modo così profondo che le fece riversare la testa sul tavolo colpendolo, completamente piegata, disarmata.
Gli strinse i capelli, lo spinse ancora più in fondo nelle sue cavità.
Stava per venire, stava perdendo il controllo, aveva perso ogni minima parte di ragione.
«Matt... Oh, Matt!» urlò strozzatamente.
Inarcò la schiena, pronta a sentire l’orgasmo che si faceva strada in lei, ma Matt si fermò, tolse la bocca e la lasciò lì, tremante e piena di umori che grondavano.
Lei lo guardò toccarsi la bocca, ansimante ed eccitata.
Non poteva lasciarla in quel modo.
Le rivolse uno sguardo con gli occhi azzurri che brillavano, allora non capì più niente, si alzò dal tavolo e si precipitò da lui, lo fece indietreggiare contro la cucina e si abbassò a prendere di nuovo in bocca il suo membro.
Il biondo non riuscì a dire nulla, solo alzò la testa e gemette incontrollatamente.
Bastava poco, le sarebbe venuto in faccia, in gola, sul seno, l’avrebbe marchiata a fuoco, lo voleva così tanto.
Lei lo faceva dannare, ma lo faceva volare in paradiso un attimo dopo.
Solo che voleva di più, voleva Sora interamente, la voleva per il suo modo di essere, per la sua bellezza, per la sua caparbietà, per la sua dolcezza.
L’amava così tanto e in modo incancellabile.
La scostò rudemente dalle spalle, lei lo fissò titubante, ma lui la fece alzare e la spinse sul tavolo di schiena.
Non aspettò nemmeno il tempo di dire qualcosa che afferrò il suo membro e la penetrò da dietro, così come stava.
Sora emise un gemito sorpreso non appena si sentì violata e ad ogni spinta che lui dava perdeva la testa, si sconnetteva dal mondo, pronta a farsi cullare dalla sensazioni di fuoco.
Si attaccò al tavolo e lasciò che la scopasse. Gli ansimi risuonavano per tutta la casa, le sue urla di piacere e di dolore erano come una musica piacevole da sentire.
Si incastravano perfettamente, non lasciavano spazio a nient’altro.
Erano solo loro due a godere del privilegio di quella passione incommensurabile, di un sentimento d’amore che strabordava per quanto era ricco.
«Oh, ti prego!» esclamò senza un senso, appoggiandosi con un braccio all’altra sponda del tavolo che cigolava.
Matt spingeva e le afferrava i capelli, e poi spingeva e la toccava in un punto sensibile, si abbassava al suo viso, le metteva una mano sulla bocca, le leccava il collo, l’orecchio.
Sora chiuse gli occhi , stordita, confusa, ma pronta a morirne.
E poi ruotò nuovamente posizione, si sedette su una sedia, se la portò addosso e la fece sedere sopra di lui, in lui.
Sora spinse andando su e giù, attaccata al suo collo, gli morse la spalle, mentre lui baciava il suo seno, lo risucchiava avidamente lasciandole dei succhiotti rossi.
Congiunse le fronti stringendole la nuca.
«Sora...» sussurrò contro le sue labbra, guardandola di uno sguardo velato dall’eccitazione.
Lei gli strinse forte i capelli facendogli male.
«Sto venendo... non fermarti... non fermarti!» lo invocò urlando, preparandosi a sentire il piacere esplodere dentro di sé.
Matt strinse le labbra e un pensiero gli passò per la mente.
Qualcun altro aveva goduto di lei allo stesso modo in cui lo stava facendo lui?
L’aveva presa, strattonata, amata come faceva lui?
Si fermò, e lanciò un ringhio.
Non riusciva a pensare di aver lasciato Sora nelle mani di qualcuno che l’aveva contaminata con il suo tocco...
Lo faceva morire, lo distruggeva.
La spostò bruscamente da lui e si mise in piedi.
La ragazza lo fissò con il cuore che batteva forte, sfatta, i capelli attaccati al viso, piena di segni e di eccitazione interrotta.
Il biondo alzò gli occhi in uno sguardo livido che le provocò un brivido su per la schiena. Non appena provò a dire qualcosa, ecco che si vide spingere contro il tavolo ancora, da dietro, in maniera sottomessa.
«Ti ha fatto urlare così, eh?» gli sibilò nell’orecchio, sferzante, ma sofferente
«Hai pregato anche lui in questo modo?»
Le stringeva la nuca, ma lei riuscì a fare un respiro profondo.
Avrebbe dovuto dirglielo...
Sentì le sue dita che si insinuavano dentro la sua vagina e la stuzzicavano e non riuscì a pensare lucidamente.
Doveva sapere qual era la realtà dei fatti, quella realtà per la quale era successo tutto quello.
«No...» mormorò in un gemito.
Matt si bloccò, stupito.
Non l’aveva fatto?
Non aveva scopato con quel pezzo di merda?
«No?» domandò con il fiato sospeso, togliendo lentamente le dita grondanti.
Il cuore gli batteva forte ed attendeva una risposta. Lei si voltò lentamente e incastrò gli occhi sopra i suoi in modo lascivo, poi salì sul tavolo spalancando le gambe di fronte a lui.
Matt respirò piano e con attesa.
Lo avrebbe ucciso in quel modo.
La vide che cominciava a toccarsi da sola, gemendo, riversando la testa all’indietro e sentì il fiato spezzarsi, emise una smorfia eccitata, il pene ancora più duro.
Ti prego...
E Sora incastrò gli occhi sopra i suoi.
«Non ci sono mai andata a letto. Nessuno potrà mai avermi così» disse con voce bassa e provocante, mentre continuava a sfiorare la sua entrata.
Matt chiuse gli occhi.
«Nessuno tranne te»
Li riaprì e la guardò con le lacrime traboccanti.
Lentamente si avvicinò, s’insinuò tra le sue cosce e lei piano si sdraiò. Si guardarono senza dire più nulla, lui entrò di nuovo dentro di lei ma fu dolce, la baciò con consapevolezza, con voglia di ritrovare la pace.
Aumentò le spinte mentre Sora si inarcava e spingeva a sua volta verso di lui, avevano lo stesso ritmo, volevano entrambi di più, volevano perdersi nei meandri dell’altro e non avere più via d’uscita.
Era finita.
Tutta quell’agonia non avrebbe più trovato luogo su cui adagiarsi.
Vennero insieme.
Yamato si lasciò cadere su di lei, l’abbracciò, la strinse, non voleva lasciarla andare mai più. Le lacrime silenziose avevano ormai bagnato il suo petto, non c’era modo affinché potesse contenere quell’amore così grande.
Sora gli accarezzò i capelli, stringendolo, il volto rivolto al soffitto.

Era finita, ma non era realmente finita.

Iniziava.







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Capitolo 24
*** Epilogo ***













L’aria primaverile s’infiltrava attraverso gli ampi balconi della sala lasciati aperti per arieggiare. Il polline vagava poggiandosi sui davanzali, ogni tanto qualche farfalla faceva capolino poggiandosi su una delle grandi piante situate all’esterno.

La sala da cerimonia era vasta, dai toni bianchi e grigi, ritagliata da colonne simil-corinzie.
I tavoli e le sedie erano immacolati, dei fiocchi lasciati pendere nel bel mezzo delle fodere di lino.
Sopra i tavoli troneggiavano dei vasi lunghi di cristallo da dove spuntavano mazzi di fiori colorati. Dai tetti discendevano grandi lucernari decorati con pietre scintillanti.
Al fondo della sala, rialzato da un piccolo soppalco, si intravedeva il lungo tavolo degli sposi, dove ai lati torreggiavano due grandi piante che fuoriuscivano da longilinei vasi ad imbuto rivestiti da un manto bianco pieno di ricami. Dietro, uno specchio quadrato a cornice che rifletteva lo strano candelabro riposto nel bel mezzo del tavolo nunziale.
Mimi si guardò intorno circospetta ed esibì un sorrisino scettico.
Quella sala era oltremodo elegante e sofisticata per accogliere i celebrativi del matrimonio di Joe.
Non immaginava che la scelta fosse toccata ad un tipo come lui: non aveva un gusto degno di potersi ritenere buono, d’altronde.
Le pietanze principali erano state servite e la gente si riversava in sala conversando e godendosi la musica.
I parenti di Luchia erano tantissimi, alcuni avevano indosso costumi indiani tipici da cerimonia, altri invece portavano delle pellicce e dei colbacchi. Qualcuno di loro aveva in volto espressioni strane, come se fosse in allerta di qualcosa.
Mimi pensò che probabilmente era dovuto alla poca conoscenza di quei luoghi, ma non ne era così sicura.
Camminò per un po’ in cerca di qualcuno, si sporse per vedere meglio oltre un tizio che aveva lunghi capelli grigi ed una barba, il quale si girò e la guardo di sbieco. Lei sorrise a mo’ di scuse.
Poi si defilò stando ben attenta a non calpestare nulla di sconveniente con i suoi tacchi neri lucidi di dodici centimetri che non erano propriamente facili da camminare.
Il vestito era un tubino in velluto color vinaccio che le fasciava strettamente il corpo e le arrivava un po’ più sotto alle ginocchia. Il seno era rialzato grazie a delle coppe che si spalancavano nel mezzo a forma di una V e uno spacco meritevole si apriva al lato di una coscia.
Decisamente non il vestito più comodo da indossare, lo ammetteva, ma lo aveva disegnato lei su misura in occasione del matrimonio. Lavorava come una delle modelliste per una casa di moda medio conosciuta in Giappone, la Ashida.
Taichi era un giocatore di serie A, ormai, uno degli attaccanti più forti che avesse mai visto, e non che lei ci capisse molto di calcio. Non aveva mancato alla promessa di portarla con sé dopo la fine dei suoi studi, e si erano stabiliti dapprima in una casa in affitto, poi avevano deciso di comprare un appartamento proprio che lei stessa aveva arredato da cima a fondo.
Era contenta del suo buon gusto e del suo lavoro; quasi quanto era soddisfatta della sua vita amorosa.
L’unica cosa che le sfuggiva di mano, però, era riuscire a trovare chi cercava.
Passò vicino ad un gruppo di persone che riconobbe essere Joe in tenuta da sposo che conversava allegramente con Takeru e Hikari. Aveva i pantaloni dello smoking che gli sfilavano le cosce più di quanto non le avesse già, la camicia bianca era stata risvoltata fino ai gomiti, della giacca nessuna traccia, mentre i capelli erano gellati all’indietro tanto da farlo assomigliare al damerino che sapeva bene non fosse.
Lo vedeva gesticolare animatamente e parlare di qualcosa che non riusciva a captare, così, mossa dalla curiosità, si avvicinò per origliare.
«E quanti anni ha questo bastardo?» lo sentì chiedere in tono diffidente.
Aggrottò le sopracciglia, interrogativa.
«Ma Joe, è un cucciolo. Avrà sì e no due mesi» fu la precisa risposta di Kari.
Mimi lanciò un’occhiata alla ragazza. Si era fatta crescere i capelli castani e li portava legati in una treccia a spiga di pesce che le scendeva morbidamente sulla spalla destra.
Il vestito che indossava era lungo, rosa e a carattere floreale. Stava veramente bene, sembrava una donna nuova, diversa dalla ragazzina che conosceva.
Insegnava ad una scuola materna di Odaiba e, da quello che raccontava a lei e Tai, era la più amata di tutte.
«Poi è un dobermann di razza» sentì dire a TK che soffocò una risata.
Si sporse meglio e notò che in braccio aveva un cucciolo di cane dal pelo nero e marrone.
Lo avevano comprato da poco e lo portavano dovunque dentro il trasportino. Erano davvero due tipi amorevoli entrambi, non mancavano di un impegno.
TK aveva smesso di fare il ragazzaccio subito dopo la pubblicazione del suo libro. Era andato a ruba, c’erano così tante persone curiose di sapere la loro storia per filo e per segno che aveva dovuto scrivere il seguito. Da che ne sapeva, si era iscritto all’università specializzandosi in Editoria, proprio un cammino di cui si presagivano pochi prospetti.
Comunque il look era rimasto invariato; il suo solito cappello, grigio per l’occasione, gli si adagiava in testa sopra i capelli biondi, la giacca larga era lasciata aperta e lasciava intravedere una camicia sbottonata senza ombra di una cravatta. I pantaloni neri erano stati infilati dentro degli anfibi e gli cadevano sbarazzini provocando delle bombature ai lati.
«Ah sì? Ha origini inglesi?» sentì dire a Joe, che guardava il cane addormentato con titubanza.
Kari ridacchiò.
«Perché un cane dovrebbe avere una nazionalità?»
«Che ne so, ha detto man!» rispose prontamente quello, e i due scoppiarono a ridere.
Anche Mimi scosse la testa divertita.
«Lo abbiamo preso appena nato, comunque» spiegava TK.
Gli occhi di Joe s’illuminarono da dietro gli occhiali scuri.
«Lo avete adottato?!»
«In un certo senso» rispose Kari, ma era dubbiosa.
Probabilmente non voleva contraddirlo troppo, d’altronde era sempre il solito permaloso.
«E le pratiche sono state lunghe? Dicono che ci vogliano mesi e mesi...» lasciò cadere la frase con un sospiro rassegnato. Chissà se era un segno di rammarico destinato a Luchia che aveva un pancione tondo da sotto l’abito da sposa. D’altronde era stata una gravidanza scoperta al quinto mese, che si sapesse.
Kari e TK si guardarono allusivi e scoppiarono a ridere. Joe li guardava con le sopracciglia alzate.
Che avevano da ridere?
«Ma Joe, è solo un cane!» lo contraddisse Kari tra una risata e l’altra.
Come poteva pensare che servissero le stesse pratiche legali di quando si adottava un bambino?
Lo sposo fece spallucce.
«E quindi? Anche Koushiro è stato adottato! A voi sembra umano quello lì?» sibilò sardonico da dietro un mano, indicando proprio questi in lontananza che si dirigeva in loro direzione insieme a Frajiko.
Questa aveva un vestito azzurro lungo, dei pois neri che si estendevano per tutta la lunghezza. In vita una cintura che la fasciava e le creava una bombatura in petto. I capelli biondi erano raccolti in un’acconciatura a chignon, ma aveva lasciato due piccole ciocche di fronte al viso.
Il suo volto era splendente, stava bene, non aveva più quella scarnatura malaticcia. Si era ripresa totalmente, aveva portato avanti la riabilitazione e le sedute psicologiche.
Izzy aveva a sua volta il viso sereno, i capelli erano stati lasciati crescere leggermente sul ciuffo davanti. Lavorava in un’azienda di sicurezza informatica tra le più conosciute del Giappone. Il suo stile era quello di sempre, non ne aveva molto da vendere, ma non sarebbe stato sé stesso senza quella giacca color azzurro pastello con le righe verticali.
«Hai fatto il mio nome, per caso?» intervenne con uno sguardo critico.
Joe si voltò dapprima spaesato trovandoselo lì dietro, poi assunse un’espressione pungente.
«Sì, spiegavo ai ragazzi di quella volta che hai scoperto che ti hanno adottato e hai pianto per una giornata intera tirando pugni contro il muro. Ricordi?»
Izzy non fece una piega, solo alzò le estremità della bocca in un ghigno.
«Tragico, sì, come il giorno in cui ti sei rotto la testa cadendo dal monopattino»
TK e Kari scoppiarono a ridere e anche Frankie si portò una mano alla bocca nascondendo un sorriso.
Mimi riuscì a vedere i pugni di Joe che si chiudevano di rabbia.
«Era il monopattino truccato di Shin! E Taichi e Yamato avevano anche manomesso i freni! Quei due hanno il cervelletto» ribatté.
«Che tecnicamente abbiamo tutti, Joe»
Il corvino alzò gli occhi al cielo.
«Lo so già che siete un branco di mentecatti. Non c’è bisogno di ricordarmi che frequento una banda di gente inutile per l’umanità!»
TK lo fissò con un sorriso sarcastico.
«Solo perché tu curi la gente con i cerotti» lo rimbeccò.
Joe gli lanciò uno sguardo truce e incrociò le braccia.
«In quell’università da hipster non ve lo insegnano che la pratica medica discende dal sapere di Dio?»
Eccolo là che si dava un sacco di arie, non era affatto cambiato.
Lavorava in uno degli ospedali più rinomati di Tokyo e aveva perfino ricevuto numerose offerte di spostamenti, ma, ignorava il motivo, non si era mai spostato di lì.
Izzy scosse la testa.
«Joe ha ancora la mentalità da basso medioevo» lo prese in giro.
Questi strinse gli occhi lanciandogli un’occhiata sprezzante.
«Infatti fosse per me ti avrei legato ad un palo e messo al rogo seduta stante. Quei capelli rossi sono chiaramente un segno del male!» alzò gli occhi a fissarli con ripugnanza
«Poi dei tuoi resti ne avremmo fatto delle frittole»
Izzy si tastò piano le orecchie, lanciando uno sguardo a Frankie che ricambiò con un sorriso impacciato.
«L’unico segno del male che vedo qui è il tuo tono di voce da sirena da nebbia»
Li udì ridere e non riuscì a trattenere una risatina anche lei.
Nel frattempo, una signora pomposa vestita con un lungo vestito rosso si era avvicinata e aveva messo una mano sulla spalla di Joe. Questi si voltò e fece una faccia allarmata, poi si allontanò mentre questa gli indicava qualcosa con i gesti. Poi andò via.
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo mormorando qualcosa che sembravano tanto delle maledizioni, poi si rivoltò verso gli altri.
«Posso offrirvi il punch indiano preparato da mia suocera?» si avvicinò ad un tavolo dove c’era un grande contenitore di vetro pieno di una strana essenza rosa.
«Con piacere, grazie. Di cosa sa?» chiese Frankie allegra.
Joe si voltava e distribuiva i bicchieri.
«Oh» si fermò a pensare «Hai presente la candeggina?»
«Sì?»
Vide Izzy bere.
«Uguale, con un sofisticato gusto di Tavernello»
Il rosso spalancò gli occhi e sputò.
TK si precipitò a togliere il bicchiere dalle mani della sua ragazza.
«Posalo, Kari! Ti verrà la gastrite!»
Frankie si avvicinò ad Izzy aiutandolo a pulirsi, così i due si allontanarono. Joe aveva lanciato loro un sorrisino soddisfatto.
Poi lo vide pensieroso.
«Mia suocera è una tipa strana. Ha un sacco di pacchetti in celofan sparsi per la casa. Suppongo per acchiappare le larve, con quel giardino immenso se ne vedono a bizzeffe»
I due più piccoli avevano alzato le sopracciglia ed assunto una faccia scettica. Persino Mimi emise un suono sarcastico.
«Una volta ha cucinato una melma verde e l’ha spacciata per un timballo ai carciofi patè» lo vide che guardava un punto imprecisato della sala come se si stesse spremendo le meningi
«C’erano delle strane foglioline come condimento. Non so perché ho avuto un attacco isterico di risa e sono svenuto. Devo aver subito un calo di pressione, d’altronde era la prima volta che mangiavo da lei. Sarà stata l’agitazione»
Archiviò tutto con un’alzata di spalle.
TK aveva guardato Kari con uno sguardo allusivo. Forse c’era qualcosa che esattamente non quadrava.
«Che lavoro fa tua suocera?»
Lui rimase ancora lì fermo, rimuginante.
«Boh, dice Luchia che ha un serra, ma non ho ben capito. A me sembrava di averla vista a quel programma italiano di merda. Avete presente?»
Quelli negarono con la testa.
«Quello dove vanno degli incapaci suonati e fanno cose stupide spacciandole per talenti. Chi diamine se ne frega di un troglodita che sa saltare su un alluce facendo capriole per aria?» s’infervorò.
TK annuì con uno sguardo che trapelava scherno ma che appariva comprensivo.
«Non serve a niente nella vita»
Joe si voltò ad indicarlo.
«Appunto!» gli diede ragione, poi si perse nuovamente a raccontare «Fatto sta che non parla se non da sola. Sospetto comunichi con gli dei della religione politeista a cui crede. Tsk. Merdate!» commentò sprezzante.
Il solito fanatico religioso che disprezzava le altre religioni. Che poi non si era mai ben capito come mai fosse finito proprio a professare la fede cattolica, non era affatto un culto contemplato dalle loro parti.
«Ci parla perfino in codice al telefono» aggiunse in tono criptico.
Kari sorrise falsamente. Joe rimase fermo per un paio di secondi, ancora pensieroso. C’erano delle cose che non quadravano, in realtà, ma non poteva compiere lo stesso peccato di San Tommaso.
Cambiò discorso.
«Comunque, sono contento che hai smesso di spacciare» si rivolse a TK «Non avrei voluto al mio matrimonio uno perseguibile per legge»
Il biondino strinse le labbra cercando di trattenere le risate.
«No, hai ragione» fu la risposta accondiscendente di Kari.
Uno dei tanti parenti chiamò Mimi e si fermò a salutarla. Per un paio di minuti li perse di vista, ma si rivoltò ad origliare non appena fu da sola.
«La vita ha preso delle pieghe inaspettate, amici. Veramente inaspettate» sentì dire al corvino.
«Chi l’avrebbe mai detto che uno dal quoziente intellettivo superiore alla media, destinato a diventare uno dei primi assistenti medici dell’ Agenzia Spaziale Giapponese con uno stipendio netto di 586.825 yen al mese avrebbe dovuto rifiutare l’incarico perché...» strinse forte il lungo bicchiere in cristallo «perché una stronza subdola e patetica si è fatta mettere incinta con l’inganno e ha fatto giurare di sposarla di fronte alla tomba del padre scoperto appartenere ad uno degli alti ranghi della D-Company»
TK e Kari strabuzzarono gli occhi. Mimi spalancò la bocca.
Diceva davvero?
Joe aveva in volto uno sguardo livido. I suoi occhi scuri erano rossi e sembravano poter lanciare fiamme. Si voltò verso i due ragazzi che lo fissavano ancora sconcertati dalla rivelazione appena fatta.
Le sue labbra si piegarono in un improvviso sorriso mellifluo.
«Ovviamente non sto parlando di me! Vi pare che io sia uno che cede ai ricatti così...» scosse la testa quasi indignato di come si era potuto minimamente sfiorare il pensiero. Poi lanciò uno sguardo intorno in maniera titubante
«Io mi sono sposato per amore!» esclamò e lanciò una risata che apparì un nitrito isterico e rassegnato.
Poi bevve dal suo bicchiere in un sorso, facendo una smorfia.
«Il Tavernello era scaduto da più di due mesi, mi sa» commentò tossendo con un occhio chiuso.
Takeru lo fissava non del tutto convinto.
«E comunque, un parente spastico di Luchia ha portato del rum centenario dal Guatemala e dei sigari cubani firmati Montecristo» Joe cambiò discorso come se non avesse detto assolutamente nulla
«Mi sono fatto il segno della croce, saranno stati probabilmente benedetti sul monte Sinai. Certo, non ricordavo fosse a Cuba... Non so se fidarmi, però, una volta l’ho visto dividere lo zucchero a strisce. Però forse se lo mette tutto nel caffè. Eccolo, è quello che sta parlando a Daisuke»
I due si girarono e videro questi che prendeva qualcosa dalle mani di uno tizio in sedia a rotelle vestito tutto di bianco.
«Ci tengo perché è paraplegico, sapete. Dio dice di aiutare i poveri e bisognosi»
Kari aveva guardato TK allarmata, mentre questi si grattava la testa.
«E dove sono?» si riferì ai sigari e al rum.
«Li ho dovuti nascondere. Ti pare che li lasciavo in bella vista sul tavolo dei regali con quei primati di tuo fratello e Taichi? Mi prendi per un ignorante così!» si agitò.
La castana gli fece un sorrisino incoraggiante e gli strinse il braccio.
«Stai tranquillo, Joe. Oggi andrà tutto per il meglio»
Lo sposo si fermò a pensare. L’ultima volta che qualcuno aveva detto una cosa del genere era successo un putiferio madornale. Ma ormai erano passati due anni, aveva imparato a sotterrare tutto dentro.
Non poteva esserci qualcosa che sarebbe andato storto, oramai.
Sarebbe stato un matrimonio tranquillo e godevole.
«Ne sono sicuro anche io» cinguettò felice, poi li prese entrambi a braccetto e parlò con circospezione
«E comunque non le troveranno, le ho messe proprio sotto la...»
Nel frattempo, Yamato passò vicino a loro e si voltò ad ascoltarli. Aggrottò le sopracciglia e fece una smorfietta divertita ma di base scettica.
Poi fece un cenno ai suoi compagni di band che erano rimasti agli strumenti e questi annuirono, mettendo una musica casuale per intrattenere gli invitati fino al suo ritorno.
Erano stati incaricati di esibirsi per tutta la durata dei festeggiamenti, e in effetti non era riuscito a mangiare quasi niente, aveva solo bevuto del vino per caricarsi.
Non sapeva se il genere che suonavano loro era ben apprezzato dai parenti di Luchia, sembravano tutte delle persone strane e a tratti con la puzza sotto il naso. Fatto sta che Joe non aveva perso tempo ad insistere di fargli da sottospecie di intrattenitore dopo aver scoperto che il gruppo stava andando alla grande e facevano un bel po’ di concerti nelle aree metropolitane di tutto il Giappone.
L’attesa gli aveva portato grandi sorprese e tutto il tempo che aveva aspettato e penato alla fine non era stato niente in confronto ai risultati che aveva raggiunto.
Oltre ad aver trovato un manager che li aveva scovati da un paio di video rilasciati sul web e che li aveva rivoluzionati, aveva superato un concorso pubblico acquisendo la cattedra di chitarra elettrica al conservatorio di Tokyo.
Ad averlo persuaso e sostenuto c’era stata lei. Non osava nemmeno immaginare come si sarebbe ridotto se avesse scelto di intraprendere un’altra vita.
Si sistemò il completo scuro e fece un paio di passi.
Doveva cercarla, aveva bisogno di stare un po’ in sua compagnia dato che non aveva potuto rivolgerle delle attenzioni durante tutto il resto dei celebrativi.
I parenti di Joe, soprattutto una delle sue zie, non smetteva di battere su tavoli, piatti e bicchieri urlando di volere una serie di cover improbabili che non si sarebbero mai sognati di esibire.
Erano dannatamente inopportuni e pedanti. Capiva da che ramo della famiglia discendeva Joe.
Fece un altro paio di passi e si scontrò con qualcuno che andava nella direzione opposta.
«Oh!»
«Che-»
Mimi alzò gli occhi e lo fissò bieca. Lui, a sua volta, non mancò di lanciarle uno sguardo stizzito.
Di solito non concludevano mai un discorso senza battibeccare, loro due. Lui non piaceva a lei perché era troppo musone, lei non piaceva a lui perché era troppo invasiva.
Fecero per andare ognuno in una direzione, ma scelsero la stessa un paio di volte ritrovandosi sempre uno di fronte all’altro.
Matt grugnì, mentre Mimi sbuffò infastidita.
«Levati dai piedi!» esclamò.
«Levati tu dai piedi!» rispose l’altro, e presero a spingersi.
Lui riuscì a bloccarla.
«Hai visto Sora?» le chiese poi.
«No, sto andando a cercarla» fu la risposta di lei.
«Anche io» disse Matt tra i denti.
I due si guardarono con sfida.
«Ci vado io. Sarà in bagno, non sei autorizzato ad entrare!» esclamò Mimi, incrociando le braccia.
Il biondo la fissò con un sorriso di scherno.
«Perché? Pensi che mi scandalizzerei?»
La castana alzò le sopracciglia, squadrandolo critica. Sembrava un tronco di legno, ecco cosa.
«Tu no, da bravo ameba, ma le altre invitate sì» lo rimbeccò.
Matt cominciò ad infastidirsi. Se voleva essere fastidiosa come una zanzara ci stava riuscendo.
«Te lo dicono mai abbastanza di essere antipatica?» grugnì.
Mimi fece finta di pensarci.
«No, veramente tu sei il primo. Ma te ne intendi solo di musica» gli sorrise falsamente.
Matt si avventò a stringerle le braccia e tentare nuovamente di cacciarla.
«Spostati!»
Lei opponeva resistenza, spingendolo.
«Non puoi lasciare vuoto il pianobar! Ci vado io, ho detto!»
Lottarono ancora. Mimi alzò una gamba pronta a colpirlo con i suoi tacchi a spillo. Matt la schivò, e fece per darle dei colpetti, ma lei si era messa in posizione di combattimento e glieli parava tutti.
«Vattene, tundra!» lo apostrofò, mentre gli dava uno spintone dritto al petto.
Matt si sentì toccato dall’appellativo cui era solita prenderlo in giro anni prima.
«Ancora?!» le chiese stizzito.
Provò a metterle una mano tra i capelli per spettinarglieli, ma fu lei che scompigliò i suoi.
Si mise a ridere vedendo la sua faccia basita e lui che si premurava a sistemarli.
Poi qualcuno dei suoi compagni di band lo chiamò. Dovevano sicuramente ritornare ad esibirsi con la seconda parte dei pezzi dell’album.
Matt sospirò e Mimi gli lanciò un ghigno sardonico.
«Che peccato, devi andare!» disse sarcasticamente, poi si avvicinò dicendo da dietro una mano:
«Non dirlo a nessuno che hai perso»
Alluse al fatto che non era riuscito a sorpassarla, e voltò i tacchi andandosene via con il sorriso stampato in volto, che il biondo fece di rimando mentre la guardava andare via, scuotendo la testa.
Non era vero che si detestavano, avevano imparato a volersi bene davvero.
Ma era estremamente importante che l’altro ne restasse all’oscuro.

Da fuori le voci si sentivano ovattate, era tutto un brusio di gente che chiacchierava, qualcuno rideva, qualcun altro urlava cose che non riusciva a captare.
Provvide a sistemarsi il vestitino nero che le arrivava a metà coscia, delle frange le ricadevano all’estremità e si aprivano anche dalle spalline ricoperte di perline bianche che le adornavano perfino la vita creando un gioco di luci. Lo scollo era a V ed era profondo, si apriva fino alla parte bassa del seno.
Sora sospirò ed attese.
Forse avrebbe dovuto dirlo a qualcuno, ma non ci era riuscita. Aveva un po’ di paura a farsi vedere in un momento del genere, era come se qualcosa dentro di sé le suggerisse di scoprirlo da sola.
Quanto tempo era passato? Le sembrava un’eternità. Controllò il cellulare. Erano passati solo due minuti.
Tentò di respirare. Chiuse gli occhi e pensò a qualcosa.
Pensò al suo lavoro, a quanto era soddisfatta di quello che stava facendo. Lavorava in un centro di psicologia clinica e riabilitativa a Tokyo. L’avevano assunta dopo aver fatto del tirocinio per un po’ di tempo ed amava quello che faceva, la faceva sentire utile, stare a contatto con tutta quelle gente la rendeva consapevole come era estremamente importante non sottovalutare i problemi delle persone.
Era stata anche lei a seguire Frankie nell’ultimo periodo riabilitativo.
Guardò di nuovo il telefono. Era ora di guardare.
Lo fece. Poi alzò lo sguardo, indecifrabile.
Sentì improvvisamente un rumore di tacchi fare capolino dalla porta principale, e subito la voce di Mimi la ridestò dai suoi pensieri.
«Sora, sei qui?» la udì chiedere.
Il cuore cominciò a batterle forte. Sentì dei colpi alla porta della sua cabina.
«Ehi, Sora!» esclamò dato che non le aveva risposto.
Lei sussultò per il rumore.
«S-sì?» balbettò.
Mimi sospirò di sollievo per averla trovata ed incrociò le braccia.
«Ah, meno male! Cominciavo a credere che qualcuno della famiglia di Luchia ti avesse venduta al contrabbando!» scherzò.
Sora non disse nulla, limitandosi a fissare un punto sul muro di piastrelle lucide che riflettevano la sua immagine distorta.
Mimi alzò un sopracciglio.
«Allora, pensi di stare per molto là dentro?» la incitò, seccatamente.
La ramata sospirò.
«No, adesso esco» soffiò, e con uno scatto ripose tutto dentro la borsetta.
Non appena fece scattare la serratura le due amiche si guardarono. Mimi la fissò a lungo, cercando di analizzare se stesse bene. Aveva in faccia qualcosa di diverso.
«E’ tutto apposto?» le chiese, un tantino preoccupata.
Sora annuì automaticamente, ma si sentiva stordita. Mimi allora l’afferrò da un braccio e fece per trascinarla via, fuori dal bagno.
«Bene, allora rientriamo in sala. Il tuo fidanzato cominciava ad avere le paranoie, sai»
Non appena venne fatto riferimento a Matt, la ragazza sentì il cuore salirle in gola.
«Diventa sempre più suscettibile quando deve suonare. Forse ha l’ansia da prestazione. Spero non a letto» La castana fece una faccia maliziosamente allusiva e si mise a ridere.
Quelle risate rimbombavano in testa alla ramata come potessero martellargliela. Non riuscì nemmeno ad ascoltare quello che le aveva detto dopo, tanto si fermò impulsivamente e fece resistenza al braccio.
Mimi se ne accorse e si voltò interrogativa.
«Che c’è?» le chiese spiccia.
Quella la guardò negli occhi con uno sguardo lucido e serio.
«Devo dirti una cosa» mormorò.
Mimi alzò gli occhi al cielo, sospirando. Mai una volta che la gente non avesse da dire qualcosa, insomma, non potevano essere tutti meno logorroici?
E poi lo dicevano a lei...
«Non potresti dirmela dopo? Tra poco Luchia lancerà il bouquet» disse in tono infantile, svelando anche il motivo dietro quella premura di cercarla.
Voleva essere tra le file delle invitate. Non sapeva perché, ci teneva a compiere quelle tradizioni, lo aveva sempre fatto ai matrimoni da piccola. Una volta ne aveva perfino acchiappato uno, solo che aveva dieci anni. Certo, poi aveva incontrato Tai a Digiworld, ma...
Sora la destò dai suoi pensieri.
«Mimi...» mormorò e le mostrò qualcosa.
L’amica abbassò piano la testa con il broncio e guardò. Subito la sua espressione stufata si spense e alzò gli occhi castani su quelli nocciola dell’altra.

Beveva un bicchiere di vino e guardava Matt e gli altri della band esibirsi.
Quella musica era davvero forte, non aveva niente a che vedere con i pezzi che erano soliti suonare anni fa. Si vedeva che avevano fatto un salto di qualità incredibile ed era davvero contento per il suo migliore amico. Lo osservò cantare con un sorriso e bevve un sorso.
Afferrò il cellulare e lesse un messaggio.
Qualcuno gli scriveva se era andato tutto bene e di fare gli auguri a Joe.
Fece un sorrisino e rispose.
D’un tratto arrivò Mimi e lui fece appena in tempo a posare il telefono nella tasca del suo completo blu. Si voltò con un sorrisino allarmato, ma lei non ci fece caso, per fortuna, e si avventò al suo orecchio per dirgli qualcosa. Subito lui si voltò in direzione di Matt che aveva appena terminato il pezzo e tutti gli battevano le mani. Non riuscì a smettere di fissarlo fino a quando non lo vide che veniva in sua direzione e spostò lo sguardo.
Il biondo si avvicinò e Tai si accinse a cambiare subito espressione.
«Complimenti, testina. Siete una bomba!» esclamò dandogli una pacca sulla spalla.
Matt diede un sospiro, gli prese il bicchiere dalle mani e si scolò il vino.
«Sì, guarda che gente che c’è. Non posso mettermi a suonare il rock-metal, questi preferiscono la musica hindi» commentò lanciando sguardi di traverso agli invitati.
Tai fece lo stesso e notò che tanti altri sembravano avere etnie diverse dalla famiglia indiana da cui proveniva Luchia.
Scrollò le spalle.
«Suonagli un pezzo della Bollywood dance» scherzò.
Matt spalancò gli occhi.
«Espatrio!» commentò rabbrividendo e si misero a ridere.
Il castano alzò gli occhi e la sua vista fu catturata dalla figura di Sora che raggiungeva uno dei balconi. Strinse gli occhi e posò un braccio intorno alle spalle di Matt.
«Comunque, se vuoi riposarti approfittane adesso. Ho la sensazione che più tardi ci sarà il casino» gli lanciò un’occhiata complice e i due ghignarono nello stesso momento.
«Era quello che stavo cercando di fare prima che la tua ragazza mi mettesse il bastone tra le ruote» sputò con risentimento, ma sorrideva.
Tai scosse la testa divertito e poi gli indicò una direzione.
«Sembra abbia trovato Sora, però»
Matt si voltò a guardarla e s’illuminò, poi tornò a fissare il suo migliore amico metabolizzando le parole che aveva appena detto.
Aveva ragione, l’aveva trovata. Doveva andare da lei.
Tai gli diede una pacca e lo vide che si allontanava, disperdendosi tra gli altri invitati. Continuò a guardare il punto in cui Sora si trovava intenta a guardare fuori. Non era uscita sul balcone, era semplicemente in piedi, ritta a guardare il paesaggio.
Come se si fosse sentita osservata, questa si voltò e i loro occhi s’incrociarono. Tai piegò le labbra in un sorriso guardandola con affetto. Non seppe perché, ma sentì gli occhi lucidi.
O forse sì, lo sapeva bene perché.

Sora ricambiò quel lungo sguardo e non riuscì a fare a meno di sorridere anche lei.
Forse lo davano per scontato a volte, ma gli occhi riuscivano a comunicare il bene che si voleva ad una persona in maniera più forte delle parole.
Matt arrivò silenziosamente e la cinse da dietro con le braccia, distogliendola improvvisamente. Lei riconobbe subito la stretta del biondo e si morse piano il labbro.
«Finalmente sei qui» sospirò lui in tono liberatorio, mentre la stringeva e affondava la testa sui suoi capelli socchiudendo gli occhi.
Sora sorrise amorevolmente.
«Ero in bagno, scusa» disse, accarezzandogli con le dita una mano.
Lui le scostò i capelli mossi da un lato e si accinse a dargli dei leggeri baci sul collo.
«Ho bisogno del tuo sguardo di supporto, lo sai» lamentò.
Prima dei concerti era d’obbligo ricevere le sue parole di incoraggiamento, e spesso, quando cantava, si ritrovava a voltare lo sguardo alla ricerca del volto gentile di lei per sentirsi sicuro.
Sora lo guardava sempre in un modo che gli dava carica. La sua espressione non era mai cinica, né tantomeno si prendeva gioco di lui. Quando per lei qualcosa non andava bene glielo diceva con calma e lo faceva sempre ragionare.
«Ma state andando benissimo! Te lo avranno detto tutti!» esclamò spegnendo subito quell’insicurezza.
Lui si fermò dal baciarla.
«Sì, ma a me importa solo di quello che dici tu» ammise e continuò a risalire con le labbra sul suo collo.
Sora sospirò e guardò al di là del balcone, puntando lo sguardo sul largo giardino.
Ripensò d’un tratto a quello che avevano dovuto passare quasi due anni e mezzo prima, quando tutto stava per andare a rotoli. Matt aveva dovuto faticare tanto per aprirsi e per riprendersi completamente. C’erano stati dei momenti in cui avevano creduto di non poterci riuscire. Lui aveva avuto timore di non essere più abbastanza, ci pensava e ripensava, ogni tanto tendeva ad isolarsi. Ma avevano parlato, da quel giorno in poi. Seppur con le difficoltà, non avevano mai più smesso di confidarsi a cuore aperto e quello li aveva salvati e li aveva portati dove erano adesso, integri e innamorati.
«Matt...» sospirò lei, chiamandolo piano.
Il biondo era a sua volta pensieroso, il mento sopra la sua testa.
«Mh?»
Sora decise di dirglielo. Non c’era alcun motivo affinché aspettasse, lo doveva sapere.
«Prima ero in bagno per un motivo» ammise.
Lui sorrise tra i suoi capelli.
«Un motivo fisiologico?» la prese in giro.
Ridacchiarono entrambi, poi Sora si bloccò d’un tratto e i suoi occhi luccicarono, ma si dispersero nel vuoto.
«Più o meno, sì. Ecco, pensavo al fatto se potesse cambiare qualcosa tra di noi» disse in un modo un tantino criptico che mise sull’attenti Matt.
Che era successo? Perché gli diceva quelle cose?
«Cosa dovrebbe cambiare?» chiese, irrigidendosi un poco.
Non avrebbe voluto cambiare niente della vita che stava conducendo adesso. Ci aveva messo così’ tanto per costruire qualcosa di solido ed era soddisfatto, finalmente. Specie la storia con lei andava a gonfie vele, avevano ricostruito tutto ciò che entrambi avevano distrutto ripartendo da zero.
«Non lo so, forse la percezione. Magari è ancora troppo presto» continuò a parlare in quel modo enigmatico e riflessivo.
Non capiva cosa volesse dire con l’essere ancora troppo presto.
«Stiamo insieme da più di dieci anni. Dovremmo essere in ritardo» lo disse in tono forse un tantino brusco.
Non voleva risponderle male, ma aveva timore che potesse uscirsene con qualcosa che non andava, non capiva dove volesse andare a parare.
Sora alzò lo sguardo verso di lui, quasi come a cogliere la palla al balzo.
«Ecco, appunto... Ce l’ho» disse.
Il biondo era sempre più confuso.
«Che cosa?»
Sora sospirò profondamente. Non doveva più usare giri di parole, doveva essere diretta. Anche perché sentiva il cuore in gola per l’emozione.
«Sono incinta» gli confessò in un sussurro.
Il silenzio che ne proseguì fece in modo che trattenesse il fiato sospeso.
Matt aveva spalancato gli occhi e poi aggrottato le sopracciglia con espressione stupefatta, ma non aveva ancora detto nulla.
Sora chiuse gli occhi e aspettò che assimilasse la notizia, e con lui anche lei. Dicendolo ad alta voce la rendeva consapevole che fosse vero.
D’un tratto, lui la prese dalle braccia e la fece voltare verso di lui.
«Stai scherzando?» gli chiese.
Lei sorrise.
«In effetti è primo aprile, ma no»
L’espressione di Matt era a metà tra lo sconvolto e l’emozionato. Non sapeva come reagire, piano piano la sua testa cominciava ad assimilare completamente la veridicità di quella notizia.
Sora capì che non riusciva a crederci, così tentò di aiutarlo aprendo la sua borsetta.
«Guarda, ho fatto il test poco fa. Mi dice anche da quanto» fece vedere lo stick avvolto nella carta da cui si riusciva ad intravedere la piccola scritta che indicava quando era avvenuto il concepimento.
Tre settimane prima.
Sora era incinta esattamente da tre settimane.
«Non ci posso credere...» biascicò il ragazzo alzando lo sguardo su di lei.
Si sentiva morire.
«Sei... felice?» gli chiese la ramata, mordendosi il labbro.
Aveva paura che essendo del tutto inaspettato e fuori dal programma poteva non renderli felici davvero. Diventare genitori così giovani non sarebbe stata una passeggiata. Aveva timore che poteva cambiarli, non dare loro modo di godersi la vita realmente.
Ma Matt distrusse quei pensieri negativi.
«Felice?» chiese retorico e lei aveva aggrottato appena le sopracciglia.
Non fece in tempo a formulare un pensiero che la risposta del ragazzo arrivò, la prese e la baciò appassionatamente, stringendola forte.
«Ti amo da morire» le sussurrò gemendo con la testa nell’incavo del suo collo.
Sora chiuse gli occhi e sentì le lacrime di gioia che la pervadevano.
«Anche io. Ti amo tanto» si aggrappò con le braccia alla sua schiena e lo strinse a sua volta.
Lui le afferrò il volto e la baciò di nuovo.
Si chiese come aveva fatto anche solo per un momento a chiedersi se sarebbero stati davvero felici.

Si erano distratti solo un attimo quando d’un tratto Sen si era voltato e aveva notato una signora anziana che si avvicinava di soppiatto in direzione del mixer.
Spalancò gli occhi e si alzò da dov’era seduto rischiando di travasare tutto il drink sulla giacca.
«Ehi, la vecchia sta toccando!» esclamò allarmato.
L’anziana signora non dava cenni di aver udito, anzi ininterrotta armeggiava con fili fino a staccare quello principale che spense la musica.
Yakamochi la indicò.
«Qualcuno la fermi!» chiese, ma nessuno dei parenti strambi della sposa sembrava curarsene.
Avevano tutti degli sguardi inquisitori e alteri.
L’altro compagno di band tentò di avvicinarsi ma la vecchia si voltò di scatto puntandogli contro un bastone e facendolo indietreggiare con le mani aperte in segno di resa.
I due rimasero in quel modo mentre l’anziana li guardava di sottecchi e si chinava di nuovo a trafficare con le manopole e i fili del microfono, inserendo a caso dei suoni amplificati per poi provocare un forte effetto larsen a causa del quale furono tutti costretti a tapparsi le orecchie.
Joe corse subito a sistemare la situazione.
«Aspetta, nonna, potresti prendere la corrente!» esclamò, afferrandola dalle braccia e cercando di allontanarla piano dalla postazione
«Lascia che muoiano fulminati questi truzzi della dark polo gang!» li apostrofò.
La vecchia si fermò e si scostò dalla presa del corvino, mettendosi subito ad eseguire gesti arrabbiati con le mani e le braccia. Alzò il bastone e colpì Joe negli stinchi.
Quello emise un urletto poco virile.
«Che cosa cerchi di dirmi?!» sbottò esasperato «Ho un pezzo di lattuga tra i denti?» parlò con la bocca aperta toccandosi un molare
«Ho la cravatta messa male?» prese in mano i lembi della cravatta lasciata aperta penzolante dai due lati
«Ho i capelli rasati da un lato? Cosa?!»
La nonnina lo guardava con le braccia incrociate come se fosse un matto da legare.
Subito Luchia si alzò dal tavolo degli sposi con uno sbuffo irritato e cominciò a camminare elegantemente verso suo marito.
«Jyou!» lo ammonì, e quello si voltò a guardarla stralunato.
Il vestito da sposa lungo, davvero lungo, e aveva una scollatura profondissima che tagliava il busto a metà e tratteneva il seno con delle coppe arcuate. L’abito aveva delle rifiniture ad onde di un tessuto che si sovrapponeva a quello della gonna e che partiva dalla fine della scollatura e andava ad allargarsi sui fianchi. I capelli erano pettinati in una strana e bombata acconciatura, si era tagliata la frangetta e aveva degli orecchini ed una collana ricchi in diamanti davvero appariscenti.
Joe non riuscì a fare a meno di posare lo sguardo sulla sua pancia rotonda. Aveva mantenuto una forma fisica perfetta, nonostante tutto, era sempre alta e slanciata e nemmeno sembrava incinta, a vederla bene.
Forse non lo era davvero, era solo una pancera e lo aveva preso in giro per tutto quel tempo, o magari la pancia era scarsa perché era di... Di quanto era incinta? Cinque mesi? No, forse sei..
Aveva in mano una sigaretta racchiusa in un bocchino che faceva tanto anni Trenta e la esibiva tra le dita come fosse un trofeo.
«Daadee ma vuole che venga messo il ballo tradizionale per il lancio del bouquet!» lo rimproverò.
Suo marito alzò gli occhi al cielo.
«E non sa parlare daddala?» storpiò il nome «Che ne sapevo io, credevo volesse rubare la chitarra a Matt!» spiegò indicando la chitarra elettrica del biondo lasciata incustodita.
Poi si rivolse agli altri due musicisti, mentre lei attendeva lì in piedi impaziente battendo un piede con i tacchi a spillo.
«Mettete la musica tradizionale che dice mia moglie» ordinò a bassa voce e fece per andarsene.
Sen si bloccò mentre sistemava il basso.
«Joe, noi non abbiamo la minima idea di come suonarla!» si lamentò preoccupato.
Quello emise un grugnito stizzito e si rivoltò.
«Mettetela da youtube, santo cielo! Avrei dovuto chiamare una band più capace!» sbraitò.
I due ragazzi si guardarono allarmati e andarono subito al computer a cercare qualcosa.
Il corvino sorrise a tutti i parenti di Luchia che lo fissavano sbieco, soprattutto sua nonna. Si allontanò tentando di risultare convincente su quello che stava facendo, ma doveva andare a cercare il frontman di quella band del cavolo, cioè Yamato, e trascinarlo di forza a salvargli il sedere con un’improvvisazione.
Il fatto era che non si vedeva in giro.
Allungò il passo quasi scivolando su qualcosa di bagnato per terra e improvvisamente qualcuno gli diede uno sberletto sull’orecchio.
Era suo fratello Shin. Lo odiava.
«Ehi, Joe! Simpatica tua suocera!» esclamò indicando con la testa la donna che aveva ancora l’aria circospetta e indossava un velo che nascondeva metà viso.
«Mi ha offerto del punch fatto in casa»
Lui non gli diede nemmeno ascolto.
«Sì, sì» fece un cenno con la mano per liquidarlo.
Che si affogasse con quel punch schifoso!
Shin lo trattenne ancora.
«Mi ha anche detto che sono affascinante!» si vantò.
Joe fece un’espressione adirata ma tentò di mantenere la calma.
«Non mette le lentine giuste» si limito a dire e cambiò direzione affinché si levasse davanti e non gli intralciasse la strada. Aveva intravisto i capelli biondo paglia di Matt e doveva trascinarlo al pianobar.
Shin, però, gli si parò di nuovo davanti.
«Ora che ti sei sposato e stai per diventare padre posso dirti che ho sempre creduto in te?» gli rivelò in tono serio e mellifluo, mentre lo stringeva da un braccio.
Joe alzò gli occhi a guardarlo basito.
«Davvero?» mormorò sentendo i lucciconi agli occhi.
Shin gli sorrise e gli posò una mano sulla spalla.
Non poteva crederci che stava succedendo, suo fratello gli aveva appena fatto un complimento, questo voleva dire che in fondo teneva a lui...
Lo sapeva, era sempre stato troppo avventato a criticarlo e a pensare che era uno sporco sfruttatore razzista. Shin aveva un cuore, mentre lui, Joe, aveva sempre cercato di distruggerglielo.
«No, ovviamente. Era solo per farti fermare» rise e gli tirò un pacca potente sulla spalla che lo fece barcollare.
Joe si guardò intorno e si rese conto di essere proprio al centro della sala, mentre tutti gli altri invitati si erano spostati e sistemati ai lati formando un cerchio.
Assunse una faccia inorridita.
«Che diamine sta succedendo, per i Dieci Comandamenti!?» chiese impaurito.
Alcuni parenti russi di Luchia avevano delle facce che sembrava volessero ammazzarlo. Che poi non capiva, quanti aprenti aveva nel mondo quella lì?
Indiana ma con una madre mezzo italiana, una serie di parenti mischiati tra etnie indiane, russe, belga e cubane. Non ci capiva una mazza, dove diamine era capitato?
Sua suocera si avvicinò e gli mise addosso un specie di turbante rosso ornato di fiori e uno scialle. Si guardò inorridito, mentre si voltava e vedeva Luchia indossare un Mangtikka sulla fronte e un velo rosso che le arrivava fino ai piedi.
«Ma io... Io non posso!» esclamò intimorito, mentre qualcuno gli alzava le braccia e lo vestiva di altri fronzoli «State facendo un errore, non sono io a dover ballare!»
Luchia si voltò a fulminarlo con lo sguardo da sotto il velo. Sembrava un’odalisca assassina. Gli avrebbe fatto tagliare la testa come Salomè e lui avrebbe fatto la fine di Giovanni il Battista, lo sentiva...
Si fece il segno della croce di corsa.
«Gli sposi devono aprire le danze e gli altri commensali tengono il passo» gli spiegò come se fosse ovvio.
Poi aprì le braccia e un paio di sue cugine si adoperarono per infilarle degli anelli e dei bracciali.
«Non lo hai mai studiato questo?» lo guardò poi, arcigna.
Joe alzò lo sguardo e vide uno che lo spazzolava con uno spolverino da barba facendogli entrare le setole dentro al naso. Un altro dei parenti russi si avvicinava e gli metteva in bocca una bottiglia di whiskey facendoglielo scendere giù forzatamente. Tossì sentendosi affogare.
Altri due tizi gli toglievano le scarpe e gliene rifilavano un paio appuntite a barca. Le guardò inorridito, poi uno degli zii vichinghi gli lanciò uno scappellotto e lo spinse di nuovo al centro della sala.
«Forse nel libro di anatomia 3 avevo letto qualcosa, sai...» riferì sarcastico, mentre lei gli lanciava un semplice e breve sguardo sprezzante.
«Parlo del corso pre-matrimoniale che abbiamo fatto» spiegò come se fosse un bambino poco sveglio.
Joe imprecò tra i denti.
«Lo so che nei tuoi studi terapeutici non viene fatto accenno all’arte della sacra danza indiana» si beffò di lui mentre si metteva in posizione con le braccia al cielo.
Il corvino strabuzzò gli occhi.
Stava scherzando quella vacca, non era così?
Si prendeva giuoco del suo mestiere, uno tra i più prestigiosi e utili al mondo, quando lei metteva i piedi uno dietro l’altro, ondeggiava con le braccia come un polpo e sapeva cucinare solo pollo al curry.
«Terapeutici?» ripeté schifato, mentre fissava un punto imprecisato, sconvolto da quell’affermazione.
Ma aveva idea in cosa consisteva l’arte medica? Credeva fosse tutta salti e movimenti volgari di bacino come faceva lei in quella scuola di danza per esibizionisti?
Chi glielo aveva fatto fare quel giorno di dieci anni prima a chiamarla per intrattenerli con le sue danze? Era una stupida grigliata organizzata a quella papera di Mimi, che non solo gli aveva fregato la barca ma non lo aveva neanche ringraziato, che bisogno aveva di chiamare una danzatrice del ventre indiana?
Potevano giocare a tappo per intrattenersi da soli.
Quel giorno si era incasinato la vita, e non solo perché si era innamorato ignorantemente di lei, ma perché adesso quella voleva prendere il comando della sua persona.
Di lui, di Jyou Kido.
«Perché non ho adottato anche io un cane invece di imprenare questa figlia dei bislacchi...» mormorò tra i denti, gettando uno sguardo invidioso e pieno di rimpianto verso il dobermann di TK e Kari.
Luchia lo incenerì con gli occhi scuri.
«Cosa hai detto?» sibilò minacciosa a denti stretti.
Lui sussultò, poi deglutì, spaventato.
E menava duro, tra l’altro. Meglio non farla adirare. Non perché si spaventasse, che fosse chiaro... solo, era per dimostrare maturità.
«Che ho voglia di ballare questa musica da matti!» esclamò, esibendo un sorriso a trenta denti.
La donna alzò un sopracciglio, scettica.
«Bene, allora seguimi» e schioccò le dita affinché partisse la musica.
Cominciò a muoversi in una strana danza fatta da saltelli e battiti di mano. Joe era in evidente difficoltà, e non riusciva ad emulare un passo decente, solo zompava da un piede all’altro come se fosse stato morso da una tarantola, non beccava il tempo e rischiò pure di fare un ruzzolone.
Qualcuno rise, alcuni dei parenti scellerati di sua moglie. Grugnì, arrabbiato.
Doveva essere deriso da un gruppo di sciocchi pellerossa oltraggiosi! Lui, uno dei medici migliori di Tokyo!
Voleva farli fuori tutti, pensò mentre eseguiva dei movimenti circolari con le mani come se stesse svitando una lampadina.
Sua madre e suo padre lo fissavano con dei sorrisini preoccupati. Shin rideva come una iena opportunista e carogna, qual era. Lì accanto, però, notò qualcuno che attirò la sua attenzione. Sua suocera si era tolta il velo che le copriva metà volto e aveva scostato i lunghi capelli castani, lanciandogli uno sguardo e una risata che gli fece venire i brividi.
Aveva già visto quella faccia, aveva capito chi era, l’aveva riconosciuta, finalmente!
Era lei, dannazione, era lei!
«Adesso ricordo chi è! Sabrina Ferilli!» la indicò sembrando un ossesso, mentre alcuni si voltavano a guardare il punto da lui indicato.
La donna lo udì, si rimise il velo e si infiltrò tra la folla.
Joe allungò una mano.
«Sabrina!» urlò.
Ma proprio in quel momento tutta la gente si riversò a ballare e gli coprirono la visuale. Sua suocera era scomparsa e lui guardava ancora con occhi sgranati il punto in cui si trovava prima.
Qualcuno lo strattono da un braccio e lui si voltò pronto a sbottare.
«Forza, bello di zia, è come fare zumba!»
Era sua zia Janna che batteva le mani e saltava come un elefante accalorato. Fece una smorfia inorridita, ma non riuscì a sgattaiolare via da quella calca perché questa lo aveva trascinato a ballare con lei.
«’Nnaggia, oh» imprecò tra i denti, mentre batteva le mani con un sorriso finto.
Tutte a lui capitavano! Però meglio reagire con filosofia, proprio come stava facendo.. Ci teneva alla buona riuscita delle cose, e non amava fare figure troppo umilianti. Perciò, nonostante si sentisse uno stupido dentro, doveva adeguarsi a tutto e continuare a fingere di starsi divertendo da matti ad un matrimonio multietnico imposto, sfoggiando proprio quel luminoso sorriso che avrebbe fatto invidia perfino ad un cielo stellato.


Tai ne approfittò di quella confusione per sgattaiolare via dalla mischia. Il cellulare gli vibrò nuovamente e diede una veloce occhiata al messaggio che ne susseguì. Fece un sorriso e lo ripose di nuovo in tasca, poi si disperse senza farsi notare.
Sora e Matt, nel frattempo, camminavano tenendosi mano nella mano. Il biondo si era chinato per darle un bacio a fior di labbra e la ragazza aveva sorriso, felice.
D’un tratto si resero conto di quello che stava succedendo intorno a loro e si avvicinarono alla calca di gente che ballava e si dimenava nel bel mezzo della sala.
Matt si stranì.
«Ma chi è che sta suonando? Non mi dirai che sono...»
Lanciarono entrambi uno sguardo verso la postazione del pianobar e videro Sen, Masaru e Yakamochi che si impegnavano a suonare con alcuni parenti di Luchia.
La musica hindi era stata sostituita da delle canzoni russe suonate da una sorta di balalaika cui un signore barbuto era intento a schitarrare.
Nel centro Luchia e Joe saltellavano e si muovevano a ritmo della Kalinka.
Sora scoppiò a ridere fino a sentire le lacrime agli occhi. Il cagnolino di TK e Kari saltò giù dalle braccia di questa e prese a gironzolare intorno allo sposo cercando di mordergli i pantaloni.
Il corvino tentò di scrollarselo di dosso.
«Kalinkakalinkaa-Pussa via, sciò, mi stai facendo sbagliare!» esclamò, pestando i piedi per spaventarlo.
TK era subito corso a recuperarlo.
Matt fece un’espressione buffa aggrottando le sopracciglia e guardò la ramata, basito. Lei lo tirò per un braccio.
«Dai, andiamo anche noi!» lo esortò, divertita.
Lui, però, intravide Luchia che andava a recuperare il suo mazzo di fiori e oppose resistenza.
«No, aspetta!» esclamò.
La ramata lo guardò sospettosa. Allora lui la strinse da dietro con le braccia e fece in modo che si posizionassero in un punto tra le persone da dove potevano aver ben chiara la visuale.
«Aspetta» ripeté in un sussurro al suo orecchio, suonando convincente.
Sora allora guardò avanti aspettandosi qualcosa.

Mimi si muoveva a ritmo saltellando da un piede all’altro, poi faceva delle giravolte veloci attaccandosi al braccio di Yolei che era euforica e riprendeva tutto con un cellulare sorretto da un lungo bastone che registrava ampiamente a 180 gradi.
Non riusciva quasi più a respirare. I balli erano cambiati repentinamente da una canzone tradizionale all’altra, e tutte erano movimentate e prevedevano saltelli.
La ragazza con i capelli viola urlava e si dimenava, e lei fece lo stesso sentendo in testa la pesantezza del vino rosso. Mosse di qua e là i capelli castani per l’occasione acconciati in delle onde perfette, e si spettinò tutta, poi scoppiò a ridere, mentre Yolei urlava cose come un’ossessa continuando a girare il video.
La ragazza sentì la testa girare e dovette fermarsi un attimo, alzandosi i capelli per aria e sventolandosi con le mani.
Ma dov’era Tai? Lo aveva perso di vista, eppure gli era sembrato di averlo visto andare via poco fa in maniera furtiva... Che non le stesse nascondendo qualcosa?
Prese a ridere sguaiatamente quando Yolei urlò parole russe inesistenti, fino a quando le luci in sala non si abbassarono.
Si guardò intorno spaesata.
Gli invitati smisero di ballare e Luchia si erse da sopra un piedistallo. Si era tolta via gli altri costumi tradizionali e manteneva il semplice abito bianco.
Esibì il grande bouquet.
«Mettetevi in linea orizzontale, donne! Se c’è qualche uomo che avanzi pure» esclamò e suo marito la prese in parola mettendosi in prima fila.
«Non tu, stoccafisso!» lo riprese e Joe imprecò tra i denti, andandosene.
Mimi si sentì spinta in avanti da una pila di ragazze che si accalcavano per accaparrarsi il posto migliore.
Subito spalancò gli occhi e si rese conto di quello che sarebbe successo. La sposa avrebbe lanciato il suo bouquet. Non seppe come mai ma sentì il cuore batterle forte.
Forse era ubriaca, o il lancio del mazzo le procurava sempre una forte che emozione. Non sapeva nemmeno il perché; era ridicolo, d’altronde.
«Arriva il lancio! Uno, due, e...»
Mimi si aspettò che dicesse tre, ma Luchia non parlò oltre. Si fermò, scese dal piedistallo e si voltò a guardarla. Stava guardando proprio lei, ne era sicura.
Le si avvicinò e le diede il mazzo di fiori in mano, poi si allontanò con un sorriso enigmatico.
Perché lo aveva fatto? Non ci stava capendo più niente... Le luci erano soffuse, la musica suonava una melodia lenta e dolce, e tutti gli invitati si erano spostati da un lato. Si guardò intorno e, stupita, si rese conto di essere rimasta da sola al centro della sala.
Faceva parte del ballo? Forse doveva dare il mazzo ad un’altra invitata e non lo sapeva... Diamine, ci stava facendo una figura pessima...
Inaspettatamente, vide Taichi arrivare da un punto imprecisato, farsi largo da dietro un paio di persone e camminare verso la sua direzione.
Sentì il cuore che cominciava a salirle fino alla gola.
Lo guardò con un’espressione stupefatta, mentre lui manteneva in volto un’aria misteriosa. Furono uno davanti all’altro.
«Oddio, che succede?» gli chiese preoccupata, mentre gli occhi erano appannati e si sentiva stordita.
Nel frattempo, Joe aveva spalancato le orbite non appena si era reso conto di quello che stava succedendo.
«Ma quello è...» provò ad urlare, ma Luchia gli pestò prontamente un piede con lo spillo del tacco.
«Chiudi quel becco da uccello tuki tuki!» lo redarguì e lui si tenne il piede dolorante emettendo uno strillo di dolore acuto.
Sora cominciò già a sentire le lacrime agli occhi e si portò una mano alla bocca, mentre Matt la stringeva ancora di più con un sorriso.
Mimi guardava Tai ancora stupita e un tantino allarmata. Non capiva bene cosa stesse succedendo, o meglio, laddove il suo cervello tentasse di formulare un pensiero razionale, lei stessa si dava della sciocca.
Il castano si passò una mano tra i capelli e si decise a parlare.
«So che mi stavi cercando perché volevi trascinarmi a ballare, infatti l’ho fatto apposta a nascondermi» le rivelò con una risatina che voleva apparire divertita, ma che in realtà faceva trapelare tutta la sua agitazione.
Joe grugnì dopo essersi rialzato.
«E hai fatto bene...» commentò con rammarico.
La castana lo fissava come se non fosse sicura che quello stesse accadendo realmente e che lui fosse Taichi.
Questi si rese conto che era un po’ a disagio e tentò di sdrammatizzare.
«Anche perché se fossi rimasto probabilmente mi sarei messo a ballare anche io sul serio e avremmo fatto casino come al solito. Quindi me ne sarei dimenticato»
Mimi sciolse finalmente le spalle e si mise a ridere, tenendosi il viso con la mano libera.
Aveva più che ragione. Si comportavano da scemi quando erano insieme.
Tai si schiarì la voce e divenne più serio. Puntò gli occhi su quelli di lei e vide che erano pervasi da uno strano bagliore.
«Per questo ho pensato che non c’era momento migliore di questo. Inaugurare quello che sto per fare proprio adesso» lo vide mettersi una mano in tasca e prendere qualcosa «è di buon auspicio»
Sentì il cuore che batteva distrattamente come fosse alienata. In sala era calato il silenzio più assoluto.
Tai tirò fuori una scatolina di velluto rosso e la rigirò nelle mani come se stesse pensando a qualcosa. Poi alzò lo sguardo con un sorriso rassegnato.
«Deve esserlo, perché se mi dirai di no dovrei riciclarlo a Joe e Luchia come regalo»
Il nominato in questione alzò le spalle.
«Taccagno...» sibilò.
Mimi cominciò a mettere lentamente insieme i pezzi del puzzle. Gli occhi le si riempirono di lacrime.
Non appena lo vide inginocchiarsi pensò di poter cascare per terra tanto sentiva le gambe di gelatina e il vino non migliorava a stabilizzare la sua condizione.
«Forse è un po’ imbarazzante» commentò il castano con una smorfia mentre dava un’occhiata a tutte le persone che li stavano osservando. Poi guardò di nuovo lei, risoluto.
«Ma noi siamo così, lo sai, amore. Siamo egocentrici, ci piace essere al centro dell’attenzione. Non abbiamo misure, o tutto o niente»
Era assolutamente vero. Loro due erano fatti in quel modo, si assomigliavano molto. Erravano insieme, si perdonavano insieme, si amavano in maniera imperfetta ma straordinariamente intensa.
Le scesero due lacrime che non riuscì a trattenere.
«Già» mormorò.
Tai socchiuse gli occhi e prese un gran respiro. Poi aprì la scatolina e la portò di fronte a lei.
Joe cominciò a sentire intorno a sé singulti di gente che si emozionava e fece una smorfia, percependo dei conati di disgusto pervaderlo. Poi Tai parlò di nuovo.
«Quindi credo sia arrivato il momento dopo così tanti anni, dopo esserci persi e poi ritrovati con una consapevolezza diversa, cioè quella di voler stare insieme per sempre... credo sia arrivato il momento di renderlo concreto» fece una pausa in cui Mimi pensò di star sognando.
Ma era tutto reale, perché lui pronunciò quella domanda.
«Mi vuoi sposare?»
Il silenzio era assordante e le lacrime si erano fermate. Aveva portato entrambe le mani al viso, lasciando cadere il mazzo per terra e aveva abbassato la testa. Non ci poteva credere che glielo aveva proposto in quel modo, davanti a tutti...
Non sapeva che dire, non sapeva cosa fare. Si sentiva bloccata come se fosse scolpita nella pietra.
Tai la fissava attendendo una risposta e cominciò a sentire l’ansia assalirlo. Quello sguardo non riusciva a decifrarlo, sembrava ci stesse pensando, sembrava sconvolta, ma Mimi non era una che di solito ci pensava troppo, quindi il fatto che stesse ritardando a rispondergli era...
Non riuscì a finire il pensiero che subito quella lo interruppe.
«Sì… certo» alzò il viso guardandolo con un sorriso «Certo che lo voglio, certo!»
E subito gli fu addosso abbracciandolo e baciandolo. Lui non riuscì a trattenere il peso ricevuto all’improvviso e perse l’equilibrio facendo cascare entrambi per terra.
Ci fu uno scroscio di applausi, di urla e di fischi.
Mimi non aveva smesso di baciarlo, lo baciava dovunque e le lacrime le sgorgavano come un fiume in piena, ma rideva, continuava a ridere incessantemente.
«Non pensavo avessi mai potuto farlo!» esclamò, sollevando appena la testa mentre erano ancora sdraiati per terra e lei era sopra di lui.
«Mi sottovaluti» ghignò il ragazzo, poi si drizzò con il busto e si mise a sedere.
Staccò l’anello dalla scatola e subito le afferrò l’anulare della mano sinistra, infilandole l’anello. Mimi alzò la mano e osservò i diamanti che brillavano.
Si guardarono e risero felici. Mimi si avvicinò e gli prese il viso, avvicinandolo al proprio.
«Ti amo immensamente» mormorò sulle sue labbra.
Lui sorrise.
«Anche io, non hai idea di quanto ti amo» gli uscì spontaneamente.
E lei subito gli fu di nuovo addosso continuando a baciarlo, sdraiati l’uno sopra l’altro. Dopo staccò a malapena le labbra da quelle sue e lo guardò ancora incredula.
«Gli altri lo sapevano?» chiese, dando una veloce occhiata al resto degli invitati.
Tai la teneva stretta dai fianchi, la testa appoggiata contro il pavimento.
«Matt, ovviamente. E Luchia, mi ha retto il gioco con il bouquet. Pensa che anche Harumi sapeva tutto, gli chiedevo consigli» le rivelò.
Harumi era il suo allenatore dell’Osaka. Lo apprezzava, lo incoraggiava, avevano costruito un rapporto di amicizia che mai avrebbe pensato si potesse costruire davvero dopo quello che gli era successo in passato.
Mimi spalancò gli occhi.
«No va be!»
«Sì, prima era lì che mi mandava messaggi chiedendomi “allora l’hai fatto, non l’hai fatto?”» gli raccontò.
I due risero e continuarono a baciarsi isolandosi dal resto che perse improvvisamente di importanza.
Joe li guardava con invidia e irritazione. Quell’indegno di Taichi aveva dovuto organizzare tutta quella piazzata solamente per rubargli la scena e togliere tutta l’attenzione da lui!
Come se non bastasse quella vacca grassa di sua moglie piangeva senza ritegno.
«Cazzo ti piangi? Non è altro che una corbelleria!» la guardò schifato.
Quella alzò gli occhi rossi e lo strozzò con lo sguardo.
«Taci, Joe. Sono gli ormoni» biascicò con la voce incrinata, soffiandosi il naso.
Baggianate, pensò Joe. Poi sentì un pesò sulla sua spalla e qualcuno che lo agguantava pesantemente da un braccio. Rabbrividì vedendo sua zia Janna che piangeva allo stesso modo.
«Zia, ti prego! Rispettiamo un po’ di spazio interpersonale, avanti!» esclamò tentando di allontanarla stomacato.
Quella si pulì il naso con un fazzoletto di stoffa facendo parecchio rumore.
«E’ che mi manca Tolomeo! Adesso che è in Costa Rica con quella ragazza e i suoi dieci figli mi manca tanto e tu me lo ricordi!» si lamentò tra le lacrime.
Joe fece una smorfia sentendo di essere in procinto di vomitare. Si scostò dalla presa di sua zia e andò al centro della sala dove i due promessi sposi erano ancora in terra a fare le zozzerie.
Si accigliò e si avvicinò, picchiettando la spalla di uno di loro.
«Scusate!» si annunciò con voce melliflua, le mani giunte, un’espressione gentile.
Mimi e Tai smisero di baciarsi e si voltarono a guardarlo.
Lui mantenne un tono zuccheroso, gli zigomi rialzati in un sorriso asimmetrico.
«Non solo mi avete rubato la scena, ma sembrereste in procinto di accoppiarvi nel bel mezzo della mia sala da cerimonia. Potreste, che ne so, ALZARVI DA QUEL CAZZO DI PAVIMENTO E DARVI UN CONTEGNO?!» strepitò come un matto.
I due non se lo fecero ripetere, si misero subito all’ impiedi e sgattaiolarono via.
Joe sospirò pesantemente in quello che sembrava un ringhio esasperato. Si passò una mano tra i capelli ma subito fece una faccia schifata. Aveva esagerato con il gel.
Alzò le braccia al cielo e con uno sbuffo si fece largo tra la folla camminando senza una meta ben precisa.
Aveva bisogno d’aria dopo quelle figure insabbianti.
In successione alle canzoni tradizionali era toccato ai balli di gruppo e, sinceramente, quello non lo poteva sopportare.
Vedere Luchia e sua zia Janna che ballavano zumba era uno spettacolo raccapricciante. Doveva dileguarsi nell’immediato altrimenti avrebbero sicuramente incastrato anche lui.
Uscì fuori dalla mischia di persone e, d’un tratto, uno strano odore gli fece rizzare le narici. Era un odore strano, come di pollo arrosto, e proveniva perpendicolare ai bagni.
Rimase con gli occhi sbarrati a pensare e fece due più due.
A meno che qualcuno non stesse facendo un barbecue dentro un cesso, quella puzza apparteneva a qualcosa di vagamente familiare...
La sua mano si avvicinava lentamente alla maniglia della porta.
Ce l’aveva in pugno.
Improvvisamente qualcuno lo chiamò al microfono. Era Matt. Strinse i pugni e imprecò.
«E aspetta, non vedi che sto per aprire una dannata porta?!» sbraitò.
Perché non lo lasciavano mai in pace? Per diana, la privacy era una sconosciuta per quegli individui!
Si voltò di nuovo verso la porta e posò la mano sopra la maniglia.
«Non avevi detto che dovevamo fare quella cosa?» lo destò il biondo, e subito la lampadina del suo cervello si accese.
Si voltò con un sorriso elettrizzato.
«Arrivo!» urlò e si dimenticò della porta e di quello che stava facendo.
Superò velocemente le persone che gli intralciavano la strada spingendole con sgarbo ed arrivò davanti al mixer dove Matt e gli altri componenti della band lo attendevano.
Izzy e TK avevano un bicchiere in mano e li raggiunsero.
«Che intendi fare?» chiese il rosso scettico, vedendolo saltellare gioiosamente come un bambino a Natale.
«Sicuramente una cosa più sensata di tutta la tua esistenza, Koushiro» fu la frettolosa risposta che ne susseguì.
Quello alzò un sopracciglio scuro e lanciò uno sguardo interrogativo a Takeru che sorrideva divertito mentre lo osservava trafficare. Muoveva cose di qua e di là, afferrando fili e spostandoli senza nemmeno sapere cosa stesse facendo; solo era così fomentato da non vederci più.
Matt lo afferrò da un polso stritolandolo e fece in modo che posasse subito uno degli amplificatori che stava maneggiando.
«Non mi dire che vorresti cantare?» chiese poi TK non appena lo vide trasferire la sua attenzione verso un microfono rimasto incustodito su un’asta.
Joe si voltò a guardarlo con gli occhi che gli brillavano da dietro gli occhiali scuri.
«Lo faremo tutti! Canteremo un pezzo scritto da me e arrangiato da Yamato. Certo, l’emozione delle parole supera di gran lunga la banalità dell’arrangiamento, ma...» spiegò con enfasi, poi si distrasse e puntò lo sguardo sul cane del biondino che scodinzolava sotto di loro.
«A proposito, il bastardo come si chiama? Ferdi? » chiese pensieroso.
Ci avrebbe scommesso un’anca che si chiamava Ferdi. Suonava così bene per inventare delle scuse.
Il più piccolo lo prese in braccio accarezzandolo, poi fece un sorrisino.
«Ehm, in realtà lo abbiamo chiamato Kido» rispose tentennando.
Joe rimase pensieroso ancora per qualche secondo, poi rinsavì non appena collegò.
«Come me?!»
«Beh...»
«Perché non lo avete chiamato Matt come la bestiaccia di tuo fratello?!» lanciò per aria degli spartiti.
La persona in questione strabuzzò gli occhi arrabbiato, prendendolo dalla nuca e facendo in modo che si piegasse per terra a raccogliere i fogli che aveva gettato.
«Vedi di darti una mossa e smettila di sparare cavolate, burino!» ruggì, poi lo lasciò dandogli una spinta. Sentì la mano sporca di gel e con una smorfia disgustata la pulì sopra la sua camicia bianca piena di pieghe. Della giacca ancora nemmeno l’ombra.
Quello si rialzò e posò gli spartiti stizzito sopra una tastiera. Poi si sistemò gli occhiali che gli pendevano da un lato e si portò le mani sui fianchi facendogli il verso.
«Burino è ormai passato di moda! Sii più originale dopo vent’anni. Potresti chiamarmi, che ne so, grossolano? Picaro? Sobillatore?»
Izzy aveva un’espressione scettica.
«Burino renderà sempre il concetto di quello che sei. Solo che sposato» e bevve dal suo bicchiere.
Joe ebbe un luccichio folle negli occhi non appena lo udì parlare, così si precipitò dal batterista che aveva appena alzato in aria le bacchette, sfilandogliele dalle mani.
Poi con un urlo imbizzarrito si voltò in sua direzione pronto a colpirlo.
«Grrrr! Ti cavo gli occhi! Vieni qua! VIENI QUA!» strepitava dimenandosi, mentre TK lo bloccava dai fianchi e Kido aveva incominciato ad abbaiare ai suoi piedi, mordendogli di nuovo i pantaloni.
Quella lite ebbe vita breve perché Matt schioccò stufato le dita e partirono a suonare. La musica si espanse per tutta la sala, e Joe cambiò espressione nell’immediato, scavalcando il piano bar e posizionandosi in bella vista per l’esibizione.
Tai e Mimi si fecero largo tra la folla, incuriositi. Erano entrambi in disordine e avevano le labbra rosse. Matt notò il suo migliore amico e gli fece cenno di avvicinarsi con un dito. Questo non se lo fece ripetere due volte e lo raggiunse posizionandosi accanto a lui. Gli sorrise entusiasta e Matt gli passò un braccio sulle spalle, poi gli passò un microfono ed iniziò a cantare i primi versi leggendo il testo dal monitor.
«Mugendai na yume no ato no nanimo nai yo no naka ja...»
Gli altri si avvicinarono a loro volta. Izzy posò il bicchiere e trascinò Frankie dalla mano che emise uno strillo eccitato. TK fece cenno a Kari e questa lasciò il cagnolino alla zia Janna, raggiungendolo. Mimi e Sora si presero per mano e corsero a posizionarsi dal lato sinistro.
Joe diede a fatica un aiuto a Luchia ed entrambi si issarono sopra il tavolo nunziale, ballando.
Tutti cantarono un pezzo di canzone a turno, storpiando un po’ il ritmo, ma divertendosi da morire.
Matt suonava la chitarra elettrica in contemporanea e Tai ormai ci aveva preso gusto a cantare. Voltarono la testa l’uno verso l’altro, si avvicinarono con la fronte e risero entrambi. I diamanti dell’anello di Mimi luccicavano mentre alzava in aria le mani unite di lei e Sora. Kari volteggiava leggiadra dal lato opposto.
D’un tratto Joe sparì sotto le gonne di Luchia e ne uscì fuori con una giarrettiera blu in bocca.
Tutti scoppiarono a ridere e lui la fece girare tra le dita saltellando con i piedi.
Izzy chiamò qualcuno per farsi prestare qualcosa, poi si staccò dalla mandria portando Frankie con sé. Posizionò il cellulare sul bastone lungo e fece in modo che l’inquadratura prendesse tutti.
«Guardate qua!» esclamò.
I ragazzi si voltarono e TK fece in tempo a lanciare per aria il suo cappello grigio che venne immortalato nella foto appena scattata.

Andava tutto bene.
























«AAAAAAAAARRRGH!»

















Si voltarono tutti verso la fonte di quell’urlo. Luchia si trovava ferma, piegata su sé stessa che si teneva la pancia rotonda con in volto un’espressione sofferente.
La canzone era appena finita.
«Oddio, che ha?» chiese Mimi, spaventata.
L’espressione della donna non presagiva nulla di buono. Lentamente videro che si accasciava sopra il tavolo quasi avesse perso i sensi.
Kari gettò uno strillo.
«Sta male!»
Joe, che dapprima era rimasto lì fermo come un ebete, subito si precipitò a trattenerla da sotto le ascelle, mentre lei si aggrappava con una mano al suo braccio per non scivolare.
Il corvino aveva in volto una ruga di apprensione che gli divideva in due la fronte.
«Hai esagerato con le cozze?» gli chiedeva allarmato, mentre lei continuava a lamentarsi e gli faceva cenno di tenergli il vestito.
Lui la fece adagiare sul tavolo a gambe aperte e subito iniziava a spostare l’ampio abito di qua e di là.
«Te l’avevo detto che non dovevi mangiartele con il panino alla Nutella!» la rimproverò.
Alcuni fecero un’espressione stralunata, mentre la donna alzava la testa e lo guardava con un occhio aperto e uno chiuso e grugniva un po’ per il dolore, un po’ per l’ira.
Joe mollò subito la sua mano e le alzò entrambe in segno di difesa.
«Eh la peppa! Non ti preoccupare, mica è gente che giudica» e fece cenno verso tutti gli altre che facevano da spettatori da sotto, preoccupati ma interrogativi.
Luchi strinse forte i denti e aprì anche l’altro occhio, puntandolo su di lui in maniera truce.
«Joe» chiamò.
«Eh?»
Si contorse per il dolore.
«Si sono rotte le acque» annunciò poi, non appena riuscì a respirare.
Subito un mormorio si alzò dalla sala, qualcuno emise un gridolino eccitato, la madre di Joe si portò una mano al petto e sua zia Janna cominciò a battere le mani.
Sora, Mimi e Kari si avvicinarono a parlottare mentre mandavano loro occhiatine. Il batterista diede un colpo al piatto per scaricare la tensione.
Il ragazzo non capì.
Di che acque parlava?
Sbatté le palpebre, perplesso.
«Eh… e non si possono riparare? Dobbiamo chiamare l’idraulico?»
Insomma, gli dicesse ciò che doveva essere fatto e via, quante storie. C’era bisogno di fare tutto quel teatrino inutile che nemmeno Heidi quando voleva tornare tra i monti...
Luchia gettò un altro grugnito e gli strinse il braccio, affondando le lunghe unghie rifinite in gel dentro la sua carne e facendolo abbassare alla sua altezza.
«Vuol dire che ho le contrazioni, emerito idiota!» sbottò con voce altisonante.
Calò il silenzio. Poi d’un tratto un mormorio, e un altro ancora. Tutti si mossero di qua e di là cominciando ad adoperarsi, sua madre tirò fuori un telefono.
«Chiamo l’ambulanza!» comunicò, emozionata.
Joe continuava a guardarla come se avesse parlato greco antico.
«Che… che significa... non capisco...» biascicava in shock, mentre le ragazze aiutavano Luchia a scendere giù dal tavolo con non poca difficoltà.
Matt scosse la testa mentre riponeva la chitarra elettrica dentro la custodia, mentre Tai alzava le braccia e le faceva ricascare sulle cosce emettendo un rumore in segno di esasperazione.
«Sta per nascere tuo figlio!» lo illuminò.
Joe, rimasto sopra il tavolo, lo fissò spaventato.
«Figlio?» borbottò con gli occhi fuori dalle orbite.
Si voltò a guardare Luchia tutta raccolta su sé stessa che veniva adagiata su delle sedie. Le avevano appoggiato le gambe e la sventolavano come un sultano.
No, non poteva essere, non lo aveva calcolato... Lui credeva che sarebbe successo in un tempo futuro e lontano, non di certo quel giorno. Doveva esserci un errore, ne era sicuro. Magari sua moglie aveva esagerato con il cibo, d’altronde mangiava come una balena e ruttava come un camionista. Non poteva essere che un mini lui fosse pronto ad essere lanciato fuori dalle interiora di quella donna!
Non si sentiva pronto ad affrontare tutto quello, non riusciva ad immaginarsi intricato in notti insonni a cambiare pannolini puzzolenti ed essere schizzato di latte bollente sul volto.
Aveva bisogno della sua vita, bastava già lui ad essere un tirapiedi, non voleva averne un altro in casa e poi andare a fare il turno in ospedale alle cinque di mattina!
Subito scese dal tavolo con un balzo e si precipitò da Luchia, che aveva le gambe aperte, il vestito alzato fino al ventre e teneva strette le mani di qualcuno.
L’afferrò dalle spalle e fece in modo che lo guardasse.
«Luchia, gioia della mia vita, cuore del mio cuore, io ti giuro che farò di tutto perché tu stia bene!» esclamò celebre, mentre lei urlava per il dolore delle contrazioni.
Doveva tentare la sua ultima carta, quella poteva perfino sputarlo dalla bocca!
Fece finta di accarezzarle la testa con amore, ma si abbassò fino al suo orecchio di soppiatto.
«Sei ancora in tempo, dimmelo. Dimmi, è veramente mio figlio?» le sussurrò tra i denti, mentre quella ruggiva con il sudore che le scendeva dalla fronte.
Lo guardò sconvolta, ma lui continuò a darle colpetti sulla testa.
«Puoi dirmi la verità, non mi arrabbio. Dimmi se non lo è, coraggio, avanti, ti giuro che sarò molto diplomatico...» continuava ancora a dire tutt’ad un fiato.
Quella strinse i denti.
«Certo che è tuo figlio! Di chi dovrebbe essere, sennò?!» urlò.
Lui le prese una mano tra le sue e l’accarezzò, facendole cenno di tacere dolcemente altrimenti avrebbe sentito più dolore.
Poi si riabbassò con una speranza impressa negli occhi.
«Quel nero della scuola di danza, quel Carlos!» tentò.
«E’ gay!» sbottò lei.
Joe rimase di stucco e fece cadere lentamente la sua mano.
Allora era proprio vero, stava per diventare padre.
Si allontanò camminando all’indietro lasciandola ansimare e urlare. Una mano sopra il suo petto come segno che stava iniziando a sentirsi male. Sbatté contro qualcuno.
«Coraggio, Joe! E’ questione di tempo ormai!» era suo fratello Shin che gli alzava il pollice, entusiasta.
Sentì la rabbia rizzare i capelli neroblu.
«E’ questione di tempo prima che ti uccida definitivamente, flagello di Dio!» ululò imbizzarrito, sentendo il corpo iniziare a tremare.
Cominciò a correre, cominciò a vedere tutto distorto. Dio, si sarebbe sentito male... Non sapeva dove stava andando, non sapeva nemmeno se esisteva realmente...
«Non è possibile! Credevo mancasse ancora del tempo! Deve esserci una telecamera nascosta!» sbraitava preso dal panico. Poi metteva a soqquadro i tavoli, lanciava le posate, prendeva le bacchette di Sen e le spezzava in un colpo netto con un forza immane, spalancava le tende e guardava negli angoli per constatare se tutto ciò fosse una candid in camera.
E correva di nuovo, urlava, si toccava i capelli sporcandoli di gel.
Improvvisamente s’ imbatté contro i suoi amici che lo fissavano come se fosse matto. Lui si portò le mani al volto rielaborando fedelmente l’urlo di Munch.
«Non ero pronto nemmeno a sposarmi!» confessò con le lacrime agli occhi
«Nessuno di voi ha notato che balbettavo mentre leggevo le promesse? Volevo fuggire in Kazakhistan! Non sono pronto per diventare padre!» ammise in un pianto disperato.
Il cane di TK abbaiava imperterrito e questo cercava di farlo stare buono, ma aveva addirittura preso a ringhiargli contro considerandolo un pericolo da sopprimere.
«E te ne rendi conto dopo nove mesi?» fu la domanda sarcastica che gli fece Izzy.
Volle rispondere con sgarbo che aveva calcolato male usando il calendario Maya, ma Luchia gettò un acuto così forte che furono costretti a tapparsi le orecchie.
Joe aveva il panico che scorreva da dietro gli occhiali.
«Santo cielo, sembra un cavallo che ha le coliche! Qualcuno l’aiuti!» cominciò a correre di nuovo, invocando nomi di gente che non corrispondevano a quelli reali
«Ilir! Saluan! Moujhu! Chiamate un medico! Chiamate un’ambulanza!»
A quell’urlo tutti si voltarono a guardarlo, perfino Luchia. Lui cominciò a barcollare lentamente.
«Cazzo, sono io, s-sì… O-okay, allora so quello che devo fare...» tentò di fermarsi, si passò due dita sulle meningi per poter pensare.
Fece un respiro profondo.
«E-ecco, allora... b-bisogna cominciare con la pressione, q-qualcuno porti il misuratore...» biascicava, cominciando a vedere confuso, i colori che lentamente si scolorivano e i suoni che si spegnevano.
Girò più volte su sé stesso per tentare di rimanere in piedi.
«P-poi bisogna a-aprire la b-b-bocca della p-p-paziente e infilarle il... il termo… il termometro, p-possibilmente non uno della C-chicco... bisogna misurarle la... la...»
«LA?» gli chiesero.
Lui chiuse gli occhi e fece una smorfia irritata.
«La... La... oh, cazzo vuoi, ci sono troppe cose da ricordare! Lasciami pensare... la... N-non mi sento la faccia, è normale?»
Lo videro che faceva un altro giro di 360 gradi e lasciava cadere le braccia sui fianchi. Li guardò. Loro guardarono lui.
Sorrise sghembo.
«Io non sono normale» ammise con una risatina isterica.
Poi alzò gli occhi al cielo, gli occhi diventarono bianchi, le palpebre si chiusero e cadde per terra, svenuto.
Silenzio.
Tai e Matt si lanciarono uno sguardo. Izzy rise. TK gli scattò una foto.
Si avvicinarono e lo tolsero da lì, facendolo strisciare per terra, mentre Kido continuava ad aggrapparsi ai pantaloni del vestito, riuscendo perfino a strappargli un lembo di stoffa.






L’ambulanza era ferma, parcheggiata di fronte il ristorante.
Subito la porta centrale si aprì e ne uscirono di corsa degli infermieri che trascinavano una barella sopra cui giaceva Joe, privo di sensi, un braccio che penzolava da un lato.
Dietro di loro, Luchia alzava i lembi del vestito in maniera tale che non strofinasse per terra ed avanzava imperiosamente senza farsi toccare da nessuno.
Alcuni di loro uscirono e guardarono la scena dall’ampio affaccio. Il sole stava tramontando e il cielo cominciava a tingersi di un meraviglioso rosso.
Le porte dell’ambulanza vennero spalancate e Luchia salì a bordo senza battere ciglio, sedendosi e guardando tutti con un’espressione altera.
Si chiesero come riuscisse ad essere così tranquilla in un momento del genere. Stava andando a partorire e non batteva ciglio, al contrario di Joe che, paradossalmente, era quello che aveva subito più danni psicologici, oltre che fisici. Aveva un bernoccolo sulla fronte e gli occhiali gli si erano spezzati proprio nel mezzo dell’asta. Della madre della sposa nemmeno l’ombra.
Tai arrivò proprio in quel momento e affiancò Matt, porgendogli un bicchiere. Questi non fu sorpreso, lo afferrò e continuò a guardare la barella che stava per essere imbarcata.
«Li hai trovati?» chiese solo.
Il castano afferrò un pacco dalla tasca destra e gli fece cenno di prendere qualcosa. Il biondo abbassò la mano e sfilò un sigaro, portandoselo alla bocca.
Tai bevve un sorso di rum.
«Proprio dove avevi sentito dire» disse.
Matt alzò le labbra in un sorrisino.
Joe, nel frattempo, rinvenne, aprendo lentamente gli occhi. Alzò leggermente la testa e li vide proprio lì davanti, così fece una faccia disperata, alzò appena un braccio, indicandoli.
Il suo rum cubano e i suoi sigari guatemaltechi! Quei bastardi! Quei figli del demonio!
Volle urlare, ma le forze gli mancarono e perse di nuovo i sensi. Le porte dell’ambulanza vennero sbattute e venne acceso il motore.
I due ragazzi alzarono una mano in segno di saluto con un ghigno ironico.
«E’ proprio un burino» commentò Tai.
Matt annuì, rilasciando il fumo. Poi si lanciarono un’occhiata e scoppiarono a ridere.
Nel frattempo udirono il rumore di una sirena e videro un’automobile della polizia che arrivava sgommando. Subito parcheggiò di fronte e ne uscirono fuori dei poliziotti in divisa che entravano di corsa.
I due si scambiarono uno sguardo sconcertato.
«Non ho davvero idea di cosa stia succedendo oggi» proferì Matt in tono confuso.
Tai fece un gesto con le sopracciglia come segno che aveva ragione.
«Forse dovremmo continuare ad ignorarlo e goderci questo» disse poi facendo tentennare il rum e lanciando uno sguardo a Sora e Mimi che si trovavano dietro di loro, un po’ più distanti.
L’amico fece lo stesso, poi si voltò di nuovo a guardarlo con un sorriso radioso.
«Hai ragione. Facciamo un brindisi» propose e subito alzarono i bicchieri.
Tai tirò un sospiro rilasciando tutta l’aria che aveva trattenuto per troppo tempo, come segno di pace interiore. E Matt aveva una luce diversa sul viso, era cambiato.
Entrambi erano felici, rigenerati, due persone nuove.
Si augurava per loro tutto quello che di bello poteva augurarsi.
«A noi. Un augurio per una vita migliore» disse, guardando fisso negli occhi il suo migliore amico che annuì concordante.
«All’arrivo di una nuova» continuò, e si voltarono entrambi verso Sora, che sorrise amabilmente e portò una mano sul suo ventre.
«E alla promessa di “per sempre”»
Mimi rispose al loro sguardo con un cipiglio curioso. Poi si voltarono e incastrarono nuovamente gli occhi su quelli dell’altro.
Tai si morse il labbro inferiore come se fosse emozionato.
«Festeggiamo quelli che siamo, quelli che saremo, festeggiamo noi che non abbiamo mollato, che siamo ancora qui, uniti inesorabilmente» concluse poi.
Lo sguardo di Matt si fece velato.
«Mi fai sciogliere, dannazione...» mormorò sentendo le lacrime che premevano per uscire.
Il castano ridacchiò.
«Lo so» soffiò, poi abbassò la testa.
«Mi sciolgo anch’io» ammise sentendo di star cedendo a sua volta lentamente, come se tutto il peso di quegli anni stesse finalmente andando via e li liberava dall’angoscia, dalla paura di non essere abbastanza, dalla solitudine con cui avevano dovuto lottare per sopravvivere.
Batterono i bicchieri, si guardarono ancora e bevvero.
Stava incominciando, questa volta davvero.
Volsero lo sguardo verso il tramonto e sorrisero.
Il cane di TK e Kari apparve improvvisamente trascinando qualcosa in bocca. Diede un morso e corse via, palesando per terra la piccola miniatura di Joe che avrebbe dovuto figurare in cima alla torta nunziale. Non aveva più la testa.
Vedendo quella scena cominciarono a ridacchiare in maniera compulsiva, mentre le lacrime premevano ancora per scendere, la vista era appannata e la faccia sembrava andare a fuoco.
Si guardarono interrogativi e allarmati, le risatine che fuoriuscivano senza controllo e non si placavano, poi gettarono uno sguardo ai sigari.
Con un’ occhiatina sorpresa, alzarono le spalle decidendo di non farsi domande neanche in quel caso.
Sora e Mimi erano ancora dietro di loro abbracciate, viso contro viso, mentre il sole era tramontato e lasciava come scia il battito emozionato dei loro cuori.

Andava tutto bene davvero.









Fine.












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